Leo Strauss
Sul Simposio
di Platone
a cura di
Seth Benardete
edizione italiana a cura di
Alessandra Fussi
Traduzione dall’inglese di
Guido Frilli
Edizioni ETS
www.edizioniets.com
Traduzione di Guido Frilli
Edizione originale:
Leo Strauss, On Plato’s Symposium, 2001
Pubblicato su licenza di The University of Chicago Press, Chicago, Illinois, U.S.A.
© 2001 by The University of Chicago. All rights reserved.
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ISBN 978-884676098-2
ISSN 2532-3806
Il metodo di Strauss
«Un grande maestro miniaturista europeo e un altro
grande miniaturista camminavano su un prato europeo e
parlavano di maestria e arte. Di fronte a loro si parò una
foresta. Quello più abile disse all’altro: “Disegnare con metodi
nuovi significa avere una maestria tale che, una volta disegnato un albero di questa foresta, un appassionato che guardi
il disegno venga qui e possa distinguere quell’albero in mezzo
agli altri”. Io, il povero disegno di albero che vedete, ringrazio
Iddio per non essere stato disegnato con una simile mentalità. Non perché abbia paura che se fossi stato disegnato con i
metodi europei tutti i cani di Istanbul, credendomi vero, mi
avrebbero pisciato sopra. Ma perché io non voglio essere un
vero albero ma il suo significato»1.
1. Il linguaggio
I Greci erano «superficiali – per profondità»2. Secondo questa celebre affermazione di Nietzsche l’attaccamento all’apparenza, alle pieghe del reale, e quindi alla
vita nella sua molteplicità e concretezza sensibile non sono sintomo di immaturità, bensì rivelano una consapevole fedeltà ai fenomeni che rimase ineguagliata
in epoche successive. Credo si possa sostenere che un aspetto fondamentale del
pensiero di Strauss, che ha contribuito a farne sia uno studioso molto frainteso
sia uno straordinario interprete di Platone, è che egli abbia fatto sua questa intuizione nietzschiana rendendola attuale nella sua pratica interpretativa e nel suo
personale modo di pensare non solo sugli antichi ma con loro.
Strauss rifugge dal linguaggio tecnico, in cui vede spesso espressa la tendenza a
schematizzare e a rendere scientificamente misurabili i fenomeni del vivere comune senza che siano ben compresi i concetti su cui un tale atteggiamento si fonda.
Usa parole quotidiane ed esempi accessibili a chiunque, e tuttavia non è affatto
uno scrittore di facile comprensione. Rimane aderente alla superficie dei dialoghi
1
O. Pamuk, Il mio nome è rosso, Torino 1998.
Questa osservazione si trova ripetuta sia nella prefazione alla seconda edizione di Die fröhliche
Wissenschaft (trad. it. F. Masini, La gaia scienza, Milano p. 19), sia in Nietzsche contra Wagner (trad. it. F.
Masini, Nietzsche contra Wagner, p. 237).
2
vi
Sul Simposio di Platone
platonici in un modo che può a prima vista sembrare inspiegabilmente ossessionato da dettagli secondari, cosicché la sua scrittura a volte finisce per nascondere
le linee argomentative che la muovono proprio per via dell’estrema aderenza al
testo. Leggendo La città e l’uomo3, alcuni lettori non si sono accorti che mentre
sembrava semplicemente riassumere certi passi della Repubblica Strauss ne stava
in realtà ricostruendo l’argomentazione in modo completamente innovativo; o
che a volte l’argomentazione vera e propria non si trovava nel corpo del testo, ma
nella lista delle citazioni platoniche sobriamente confinate a piè di pagina.
Il Leo Strauss Center presso l’Università di Chicago ha reso progressivamente
disponibile la consultazione online dei dattiloscritti ricavati dalle registrazioni effettuate durante i corsi, e ne ha permesso la pubblicazione a stampa. Gli studenti
di Strauss (e i loro allievi) hanno avuto accesso già da molti anni ai dattiloscritti
ricavati dai corsi, ma che questi documenti siano stati diffusi al di fuori di una
cerchia ristretta è un fatto di grande importanza.
Benché le lezioni sul Simposio che traduciamo ora in italiano siano uscite già
vent’anni fa grazie a Benardete, la loro pubblicazione non contribuì allora in maniera sostanziale alla diffusione del pensiero di Strauss fra gli studiosi di filosofia antica, per una serie di polemiche del tutto estrinseche rispetto al contenuto
effettivo del suo insegnamento4. Ora che sull’interesse per Strauss hanno meno
influenza questioni ideologiche di varia natura, è diventato evidente a molti che
avere a disposizione i testi delle lezioni è veramente utile, sia a chi studia Platone
sia a chi è interessato a capire Strauss. Ciò non perché egli abbia rivelato ai suoi
studenti delle verità che nasconde altrove (come hanno inteso in maniera semplicistica alcuni interpreti), ma perché le lezioni permettono di entrare in una
sorta di laboratorio di pensiero in cui il dialogo con diversi pensatori si presenta
in fieri. Nel corso sul Simposio Strauss parla a studenti che non si peritano di
fare notare contraddizioni o aspetti non convincenti nel ragionamento. Spesso
chiarisce punti che ritiene di avere lasciato oscuri, riprende da capo argomentazioni che trova insoddisfacenti, spiega ripetutamente il motivo di certe scelte
interpretative o metodiche, così come si avventura in suddivisioni e cataloghi che
a volta tornano utili e in altri casi sono invece lasciati cadere. Per esempio: chi è
un buon bevitore e chi non lo è fra i presenti; chi è amante e chi amato; chi dei
partecipanti al banchetto appare anche nel Protagora; in quali sottosezioni si può
3
L. Strauss, The City and Man, Chicago 1964; trad. it. di I. La Scala, La città e l’uomo: saggi su Aristotele, Platone, Tucidide, a cura di C. Altini, Genova-Milano 2010.
4
Non mi soffermerò qui sulle polemiche che nel mondo anglosassone hanno deviato l’attenzione di
molti antichisti dall’interpretazione straussiana dei dialoghi platonici. Si trattava di accuse basate su fraintendimenti grossolani, che purtroppo hanno continuato a circolare per anni, influenzando anche la lettura
che ne è stata data da alcuni commentatori italiani. Mi sono occupata delle critiche nel mondo anglosassone in A. Fussi, “Le lezioni di Strauss sul Simposio di Platone: breve storia di una lettura mancata”, in Verifiche
XXXVII, Ottobre-Dicembre 2008, pp. 395-431; per la discussione di alcune posizioni critiche nell’ambito
degli studi di filosofia antica in Italia, cfr. A. Fussi, La città nell’anima, Pisa 2011. Rimando a questo libro
anche per la discussione approfondita dei temi che sviluppo qui.
Il metodo di Strauss
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dividere il discorso di Socrate, etc. Una delle suddivisioni più interessanti è quella
che riguarda i genitori di Eros. Strauss prende nota di quale fra i partecipanti che
tengono un discorso su Eros sostiene che è antico e non ha genitori; chi afferma
che ha genitori ed è giovane; chi duplica Eros e i suoi genitori, chi non nomina
genitori, chi attribuisce le sue caratteristiche a due genitori ma poi a ben vedere
modifica la sua tesi, etc. Come vedremo, questa questione è tutt’altro che peregrina, ed ha un ruolo importante nella sua interpretazione.
Il linguaggio di Strauss, benché privo di tecnicismi, non è facile da tradurre.
Ad esempio, può sfuggire che un sua osservazione criptica sia in realtà la conclusione tratta dal confronto fra il risultato della suddivisione che sta operando e una
suddivisione vista precedentemente. Inoltre, l’inglese in cui si esprime è molto
buono ma non perfetto, e a volte non è chiaro se la scelta di certi termini sia intenzionale o derivi dall’assonanza con termini tedeschi che non sono interamente
sovrapponibili. Come nota Benardete nella sua premessa, fra l’altro, in diversi
casi il testo è interrotto per cambi di nastro a cui non supplisce alcuna trascrizione5. Da un lato dunque le lezioni rendono il metodo di Strauss decisamente più
accessibile di quanto non avvenga nei testi pubblicati. Dall’altro può accadere che
le riflessioni sui diversi discorsi assumano un carattere labirintico.
In queste pagine mi soffermerò brevemente su alcuni punti che considero cruciali per orientare la lettura anche di coloro che non hanno familiarità con le
riflessioni di Strauss sugli antichi. Segnalerò non solo i criteri interpretativi che
Strauss adotta nella lettura di Platone, ma anche perché metta in relazione questo
dialogo con altri, e che cosa soprattutto consideri importante nella sua complessa
drammaturgia.
2. Perché leggere Platone, e come leggerlo?
Nella sua lezione introduttiva, Strauss sente di dovere giustificare la scelta del
Simposio come testo su cui concentrarsi in un corso intitolato “Plato’s Political
Philosophy”. Si tratta in effetti di una scelta a tutta prima bizzarra: ammesso e
non concesso che si sia d’accordo sul fatto che studiare Platone sia essenziale per
degli studenti di filosofia politica (o se non altro più urgente che non, per esempio, concentrarsi su Machiavelli o Hobbes), perché non privilegiare la Repubblica
o le Leggi, dialoghi in cui la questione politica è esplicitamente posta al centro
della riflessione filosofica?
5
In alcuni rari casi risulta probabile, perché contraddittorio con quanto ripetutamente affermato, che
a Strauss capiti di dire una cosa pensandone un’altra (che ad esempio usi un pronome in maniera inappropriata, o confonda due nomi simili), come può accadere nelle comunicazioni orali in cui una persona parla
a lungo riguardo a temi che richiedono molta concentrazione. Tuttavia, seguendo l’uso di Benardete e degli
altri studiosi che hanno curato la pubblicazione dei diversi corsi, non si sono apportate correzioni al testo,
lasciando ai lettori il compito di decidere come leggere certe asserzioni.
viii
Sul Simposio di Platone
Se si consulta la lista delle trascrizioni dei corsi tenuti da Strauss nel corso del
suo insegnamento universitario, si può vedere che in effetti egli ha tenuto due
volte sia il corso sulla Repubblica, sia quello sulle Leggi, ma ha anche tenuto corsi
sull’Apologia di Socrate e il Critone, sul Gorgia (su cui ha fatto lezione per ben tre
volte: nel 1957, nel 1963, e nel 1973), sull’Eutidemo, sul Menone, sul Protagora, sul
Simposio. In questi ultimi dialoghi il tema non è la giustizia politica, o la relazione
fra la giustizia politica e la giustizia dell’individuo, e nemmeno il rapporto fra il
logos e la legge. Tuttavia c’è un filo rosso che li percorre tutti, e che si potrebbe sintetizzare nel problema eminentemente politico del rapporto fra retorica (o sofistica) e filosofia. In che modo il filosofo può difendere se stesso di fronte alla città (o
ai padri, ai poeti, ai retori, agli indovini che danno di volta in volta voce alla città)
dall’accusa di inventare nuove divinità e di corrompere i giovani? Esiste un’alternativa per rispondere alla città che non sia la retorica volgare (di cui l’Eutidemo
offre un esempio quasi farsesco), una retorica che sia all’altezza della filosofia?
Si potrebbe dire che la risposta è sotto gli occhi di tutti: i dialoghi platonici
incarnano, grazie alla forma letteraria che viene data alla riflessione filosofica,
l’apice della retorica filosofica così come la intende Socrate nel Fedro (Phaedr.,
271c-272b). Da un lato offrono un’alternativa credibile alla sterilità di Socrate,
che né scrive alcunché, né propriamente si difende quando è costretto a farlo nel
processo che gli è stato intentato, ma anzi sembra provocare la città a condannarlo; dall’altro, possono in qualche modo competere con i poeti, e in particolare
con chi, come Aristofane (l’antico accusatore di Socrate; Apol., 18b-e), ambisce
a presentare una prospettiva sulla vita umana e sulla natura della politica alternativa a quella filosofica e dall’impatto assai maggiore. Come si ricorderà, nell’Apologia Socrate afferma che le commedie possono muovere gli animi e formare
le opinioni dei cittadini prima che essi se ne rendano conto, da ragazzini (Apol.,
18c). La pratica della filosofia socratica, per contro, coinvolge necessariamente
poche persone che argomentano fra loro e difficilmente può muovere le folle. I
dialoghi platonici mediano fra queste due posizioni presentando la filosofia in
forma poetica.
Essi affrontano la questione del rapporto fra politica e filosofia da prospettive
diverse, e uno dei compiti che esplicitamente affronta Strauss nella sua analisi
è quello di lasciare emergere in ciascuno non solo il problema centrale e la sua
articolazione, ma anche ciò che è solo accennato o lasciato in ombra e che invece
viene in primo piano altrove.
Una premessa importante di questa operazione è che sia possibile, dal punto
di vista letterario, trattare i dialoghi come se formassero un kosmos, un mondo ordinato. Questa ipotesi ci allontana dalle tre alternative interpretative che
possiamo considerare a noi più familiari. Molto schematicamente, la prima alternativa è quella espressa originariamente da Schleiermacher, secondo cui nei
dialoghi forma e contenuto sono armonizzati in modo tale da presentare la filosofia platonica compiutamente come un sistema teorico. La seconda posizione,
Il metodo di Strauss
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che attualmente è anche la più diffusa e presenta al suo interno alcune variazioni,
sostiene che i dialoghi testimonino di un’evoluzione progressiva del pensiero di
Platone, che passa attraverso stadi diversi, dalla fase aporetica della gioventù, in
cui è ancora seguace di Socrate, fino alla vecchiaia delle Leggi, del Timeo e del
Crizia. La terza prospettiva interpretativa ha avuto origine nella cosiddetta scuola
di Tübingen ed è stata ripresa in Italia da Giovanni Reale. Sommariamente, sostiene che per via delle molte contraddizioni fra un dialogo e l’altro e dell’assenza
di trattazioni esaustive riguardo a questioni centrali come quella del Bene e della
partecipazione del molteplice all’idea, i dialoghi sono inadeguati a esporre un
sistema filosofico, e ipotizza che essi abbiano agli occhi di Platone solo una funzione propedeutica, e siano diretti a un pubblico vasto. Egli avrebbe invece comunicato oralmente, all’interno dell’Accademia e a pochi iniziati, le sue dottrine
fondamentali, che hanno quindi natura esoterica.
Strauss da un certo punto di vista riprende Schleiermacher, ma non per l’idea
che Platone presenti nei dialoghi una teoria sistematica, bensì per la tesi che il
pensiero di Platone sia espresso interamente nei dialoghi in forma letteraria. A
differenza di Schleiermacher, però, egli non considera l’insegnamento platonico
come una teoria sistematica, bensì come un’indagine zetetica. Da questo punto di
vista il suo metodo ha qualche affinità con quello esemplificato da certi studiosi
della scuola di Tübingen. Entrambi i metodi invitano a prestare attenzione alle
contraddizioni interne, all’assenza di teorie espressamente presentate come tali
da chi dovrebbe essere portavoce di Platone, alla reticenza nel discutere le Forme
e il Bene. Tuttavia, anziché inferire da questi problemi che Platone deve aver
rivelato altrove le sue più alte verità, Strauss va in direzione opposta rispetto alla
scuola di Tübingen, e ne deduce che la filosofia platonica rimane socratica e aporetica dall’inizio alla fine del suo percorso. La sua tesi è che i dialoghi esprimano
una ricerca che funziona secondo il principio che «per le domande importanti,
le domande siano più chiare delle risposte» (infra, p. 10). Questo è anche il senso
che egli attribuisce al suo modo di fare filosofia, e in realtà credo di non esagerare
sostenendo che quando prova interesse per un filosofo finisce sempre per rinvenire in lui lo stesso nucleo anti-dogmatico e zetetico che ritrova in Platone.
Strauss individua nell’insieme dei dialoghi una straordinaria ricchezza di rimandi. Poiché cerca di concentrarsi su somiglianze, differenze, contrasti e sovrapposizioni nelle diverse variazioni drammatiche, la cronologia della scrittura
platonica non è particolarmente rilevante per la sua indagine. La produzione dei
dialoghi platonici è certamente legata alla biografia dell’autore, ma il riferimento biografico a cui si può far risalire la scrittura platonica di un certo dialogo
può non avere alcuna rilevanza per la cronologia interna alle sue narrazioni. Per
esempio, Socrate può apparire più giovane in un dialogo relativamente tardo (ad
esempio nel Parmenide) di quanto non appaia in un dialogo giovanile, e questo
è ciò che interessa a Strauss, non se Platone fosse giovane o vecchio quando li
scrisse.
x
Sul Simposio di Platone
Dal punto di vista letterario ogni dettaglio ha potenzialmente un senso:
«Questa imitazione tuttavia è artistica, perché, in certa maniera, è una falsificazione della
vita. Una mera riproduzione del vissuto non sarebbe artistica. Il principio di questa imitazione
artistica è la negazione del caso – ogni cosa è necessaria. E possiamo dire che il dialogo platonico nel suo insieme si fonda su questa nobile illusione, sulla nobile menzogna che ogni cosa nel
dialogo sia necessaria» (infra, p. 115)6.
Se nella vita quotidiana qualcuno arriva inaspettatamente alla conferenza
già conclusa di un famoso collega, la cosa può accadere intenzionalmente o per
caso; se ad arrivare a festa finita è il personaggio di un dialogo, e ci troviamo nell’incipit, e si tratta di Socrate mentre il personaggio famoso è Gorgia, non siamo
autorizzati a ignorare questo dato, perché un incipit siffatto è stato scelto così dal
suo autore, e deve essere stato scelto così per un motivo preciso (Gorg., 447a-b).
Quell’apparizione a sorpresa può rimandare ad altro, e pensandoci si può scoprire che, nel mito che conclude il dialogo, per decisione di Zeus ad arrivare inaspettata è la morte, e ciò fa sì che anime improvvisamente spogliate delle maschere
della retorica possono incontrare un giudice equo, così come Gorgia, all’inizio
del dialogo ha incontrato Socrate che non vuole ascoltare un lungo discorso ma
discutere con lui7.
Strauss sostanzialmente parte dal presupposto che noi non abbiamo accesso
ai pensieri di Platone al di fuori della forma letteraria in cui lui li ha espressi.
Di conseguenza, se in un certo dialogo Socrate è presente e in un altro non c’è
più, la cosa da fare a suo avviso non è presupporre di sapere più di quello che
effettivamente sappiamo, perché noi possiamo solo fare congetture sul fatto che
Platone si sia allontanato da Socrate, su quali influenze abbia ricevuto da altri
pensatori, e su cosa possa avere avuto un influsso su un certo dialogo. Se la tesi
contenuta in un dialogo contraddice una tesi su uno stesso argomento contenuta
in un altro dialogo, non necessariamente ne segue che o Platone pecca di incoerenza (e quindi va corretto) o deve essere passato a un nuovo stadio della sua
teoria. Strauss preferisce innanzitutto chiedersi se la situazione drammatica del
primo dialogo differisca in modo significativo da quella del secondo, e se possa essere proprio la diversa situazione drammatica e la sua relazione col tema
trattato a illuminare i motivi per cui uno stesso personaggio dice cose diverse a
persone diverse. Dal momento che da nessuna parte nei dialoghi Platone parla
in prima persona, l’interpretazione non può mai essere disgiunta dall’attenzione
6
Cfr. infra, p. 11: «In un dialogo platonico non c’è nulla di superfluo, né di privo di significato. Socrate, nel Fedro, paragona la buona scrittura, la scrittura perfetta, a un essere vivente nel quale ogni parte, per
quanto piccola, svolge una funzione necessaria alla vita e all’attività dell’intero. Il dialogo platonico ha una
funzione – e la sua funzione è quella di farci capire. E il dialogo è paragonabile a un organismo nella misura
in cui ogni parte di esso svolge il suo preciso ruolo nel farci capire». Strauss fa spesso riferimento a questo
passo del Fedro (264c) nei suoi saggi e nelle sue lezioni sui dialoghi platonici.
7
Nelle sue lezioni Strauss insiste sull’incipit del Gorgia. Per una interpretazione che connette l’incipit
col mito finale, cfr. A. Fussi, Retorica e potere. Una lettura del Gorgia di Platone, Pisa 2006.
Il metodo di Strauss
xi
agli aspetti retorici. Nei dialoghi non troviamo voci disincarnate, ma persone che
da una loro particolare prospettiva cercano di persuadere i loro interlocutori, e,
quando c’è un pubblico, di portarlo dalla propria parte (e da ciò per altro segue
l’indicazione straussiana di prestare sempre attenzione, in quanto interpreti, alla
eventuale presenza di un pubblico durante uno scambio dialogico fra due personaggi, perché il significato della scena potrebbe chiarirsi solo ipotizzando che uno
o entrambi i personaggi stiano usando le parole che dicono al loro interlocutore
per indirizzare un messaggio al pubblico degli ascoltatori – un’indicazione particolarmente utile per il Gorgia).
3. Non una sola caverna, né un solo prigioniero
Come è noto, Strauss conosceva Heidegger ed era stato molto colpito dalle sue
lezioni. In molti modi la sua riflessione filosofica si può leggere come un tentativo di superare lo storicismo radicale del filosofo tedesco, e si possono rinvenire
tracce di questa urgenza teorica anche nell’introduzione alle lezioni sul Simposio.
Nelle lezioni che Heidegger tenne nel 1924 a Marburgo sull’Etica Nicomachea e la
Retorica aristoteliche egli tradusse il termine aristotelico diathesis (disposizione)8
con Befindlichkeit, sentirsi situato, e usò questo termine per caratterizzare il fatto
che ci si trova sempre a vivere in un mondo che ci riguarda, che ci solleva o ci
incupisce (interpreta così le determinazioni del piacere e del dolore, dello hedu e
del luperon), e rispetto a cui dunque ci sentiamo sempre in qualche modo affettivamente coinvolti9. Il concetto di Befindlichkeit, che troverà un posto centrale
in Essere e Tempo, non appare fra quelli che Strauss esplicitamente utilizza nella
sua interpretazione di Platone, ma si può ipotizzare che ritorni trasfigurato nella
sua insistenza sul fatto che i dialoghi ci presentano sempre discussioni filosofiche
8
Nelle Categorie (8b) Aristotele precisa che ci sono due tipi di disposizioni, la diathesis e la hexis.
Quest’ultima ha il carattere di abitudine o di disposizione stabile (sono forme di hexis ad esempio le virtù
etiche e le forme di conoscenza più radicate, che difficilmente si scacciano dalla mente ). Diathesis invece è
una disposizione instabile, come il caldo e il freddo, una malattia, etc. Qui Heidegger intende che nel piacere e nel dolore, così come nella paura e in altri stati emotivi «ci si sente», «ci si trova ad essere» in qualche
modo, cioè si è esposti in un certo modo al mondo.
9
«Alle lezioni – tenute dalle sette alle otto del mattino – parteciparono, oltre ai “trascrittori” eccellenti (Walter Bröcker, Fritz Schalk, Gerhard Nebel, Helene Weiss, Jacob Klein) anche alcuni tra i più celebri
allievi di Heidegger presenti a Marburgo, Hans-Georg Gadamer, Hannah Arendt, Hans Jonas, Leo Strauss,
Joachim Ritter, Karl Löwith, tutti autori sulla cui opera la figura di Aristotele – probabilmente proprio per
via di Heidegger – lasciò un segno profondo» (M. Heidegger, Grundbegriffe der Aristotelischen Philosophie,
Frankfurt am Main 2002, trad. it. Concetti fondamentali della filosofia aristotelica, edizione italiana a cura
di G. Gurisatti, Milano 2017, Avvertenza del curatore dell’edizione italiana, p.15). Strauss stesso parla del
grande impatto che ebbe su di lui ascoltare le lezioni di Heidegger nel 1922 a Friburgo (L. Strauss, “A Giving of Accounts”, with J. Klein, The College, XXII, n. 1, 1970, pp. 1-5), ma non nomina le lezioni del 1924.
Esistono eccellenti studi sulle riflessioni di Strauss su Heidegger (si veda fra gli altri R. Velkley, Heidegger,
Strauss, and the Premises of Philosophy. On Original Forgetting, Chicago 2011), ma a mia conoscenza non
sulla rilevanza di queste lezioni.
xii
Sul Simposio di Platone
situate, con personaggi che discutono a partire dalle loro specifiche preoccupazioni. La filosofia non è mai puro theorein. Essa mantiene nei dialoghi il colore
della situazione da cui nasce; ma non è neppure riducibile a una prospettiva fra
le altre, nutrita di preoccupazioni e desideri locali, o schiava del proprio tempo,
come si suol dire. Se l’aspetto che avvicina la visione di Strauss a quella di Heidegger è l’elemento situato della nascita della riflessione, ciò che la unisce a Platone è
che la situazione da cui nasce la filosofia debba essere descritta nei minimi dettagli per poter essere trascesa. Si veda ad esempio l’inizio della seconda lezione sul
discorso di Pausania:
«Il punto di partenza per la comprensione della scienza sarebbe, con un’espressione oggi
usata molto frequentemente, la situazione dell’uomo. Si potrebbe dire che è questo il tema iniziale di ogni dialogo platonico. In quanto esperita, la situazione umana è, ovviamente, esperienza di individui in situazioni individuali. Nel caso di Platone, si tratta quasi sempre della
situazione di Socrate. L’individuo filosofo Socrate con questi e questi tratti somatici, con il suo
carattere, come cittadino ateniese e così via, trascende – nella misura in cui è filosofo – la sua
situazione individuale» (infra, p. 77).
Esiste un luogo platonico classico per esprimere l’aspetto situato della nascita
della riflessione: il mito della caverna. Nella prima lezione del corso su Gorgia
che Strauss tenne nel 1957, egli afferma che la filosofia ha inizio con la presa di
coscienza di vivere in una caverna. Perlopiù non ci rendiamo conto della natura
artificiale e derivata delle opinioni sulle basi delle quali conduciamo la nostra vita,
per cui è necessario che qualcuno ci porti a vedere l’inconsistenza di certe immagini, ci spinga a verificarne la saldezza. Questo è il compito che viene attribuito a
Socrate nei dialoghi: l’unica forma di liberazione è nel domandare. Da ciò segue
che i dialoghi platonici non si prefiggono di insegnare una particolare teoria, ma,
semmai, di insegnare a filosofare, e, poiché l’attività filosofica è una forma di eros,
la liberazione dalla caverna implica sempre anche un riorientarsi del desiderio. I
dialoghi mostrano come è possibile rendersi conto di essere in una data caverna
(e Strauss intende la caverna non come la condizione ontologica degli uomini in
generale, ma come la condizione etica e politica in cui ci si trova di volta in volta
gettati) e invitano i lettori a un’analoga consapevolezza. Non esiste una sola caverna ma molte, nel senso che ci sono molti modi in cui società diverse legano i
loro cittadini alle opinioni stabilite, così come sono molti i caratteri delle persone
che incontrano la filosofia:
«C’è un’infinita varietà di modi di slegare gli uomini, e per questo Platone non può presentare questa liberazione dalle catene pienamente nei dialoghi, perché l’infinito non può essere
compreso. Tuttavia l’infinita varietà di esseri umani e di situazioni umane può, fortunatamente,
ridursi a un certo numero di tipi. Dunque questo slegare gli esseri umani può essere presentato
in un numero piuttosto limitato di dialoghi. In ogni dialogo ci sono esseri umani individuali,
che hanno cioè nomi propri e peculiarità proprie – possono essere calvi, grassi, e avere tutte le
altre qualità. In altre parole, non troviamo un tale che viene chiamato A o B, come li chiamò
Hobbes quando scrisse un dialogo: si rivolgono l’uno all’altro dicendo “Caro A” e “Caro B”. No,
Il metodo di Strauss
xiii
non è questa la strada presa da Platone — sono esseri umani reali. Quindi in ogni dialogo si
trovano individui che hanno un nome, e che vivono qui o là. E tuttavia quegli esseri umani sono
stati selezionati in vista del loro carattere tipico»10.
Ad un certo punto nelle lezioni sul Simposio Strauss nota come nel Parmenide
(130e) un Socrate giovane sia rimproverato proprio perché a causa della sua giovinezza disprezza le cose umili (infra, p. 212). L’ironia riguardo a Hobbes indica
proprio la necessità che la filosofia non rifugga dal particolare: deve descriverlo e
nominarlo. Tuttavia si potrebbe obiettare che l’attenzione ai dettagli che permette
a Platone di ritrarre essere umani reali possa essere una zavorra che non permette
di sollevarsi al di sopra della loro infinita varietà. La risposta di Strauss nel passo
citato sopra è che gli individui che troviamo nei dialoghi hanno un nome proprio,
vivono in un certo posto e dicono certe cose, ma «sono stati selezionati in vista
del loro carattere tipico». Per comprendere questa asserzione è bene ricordare la
visione della retorica filosofica descritta da Socrate nel Fedro (270c-272a): il vero
retore oltre a conoscere le cose di cui parla (l’oggetto del discorso) deve conoscere
le anime. Con questo Socrate intende che si debba conoscere l’anima in generale
nel suo rapporto col tutto, l’anima umana nella sua tripartizione, e che sia poi
necessario chiedersi quali discorsi siano più o meno persuasivi per un certo tipo
di interlocutore a seconda della parte dell’anima da cui costui appare governato.
Tenendo presenti queste cose, il buon retore deve essere in grado di capire con
acuta sensibilità quando è opportuno parlare e quando tacere, e cioè saper cogliere il momento opportuno per applicare alla situazione concreta tutto ciò che ha
studiato sull’anima in generale e sui tipi particolari di carattere che discendono
dalla tripartizione, dall’educazione e dalle esperienze.
Se possono esserci modi infiniti per liberare gli uomini dalle catene, non è
necessario scrivere infinite opere per descrivere i modi più significativi in cui
ciò può realizzarsi, perché i dialoghi possono permettere di leggere negli scambi
fra individui il manifestarsi di alcune situazioni tipiche. Compito dell’interprete
è dunque interrogare i testi in modo da poter far emergere dapprima ciò che è
tipico, e poi i modi possibili per interpretarlo. Ciò implica che se risulta evidente
che il personaggio di un certo dialogo è governato dall’animosità, si capirà anche
che ciò che per lo più lo muove sarà il desiderio di vincere e di ottenere riconoscimento; si potrà immaginare che un simile individuo sarà incline a vergognarsi
per certe cose, a essere oltraggioso con certe persone, che gli piacerà fare pensare
ad altri che è coraggioso, che leggerà le situazioni in cui si trova e le azioni altrui
prevalentemente dal punto di vista della sua preoccupazione fondamentale per la
fama e per la vittoria.
Nell’ottavo e nono libro della Repubblica abbiamo alcuni esempi di cosa possa
10
Traduzione mia da: L. Strauss, Plato’s Gorgias (1957), Session 1: January 3, 1957 (http://leostrausstranscripts.uchicago.edu/navigate/1/2/?byte=44148). Come nota Devin Stauffer, curatore di queste
lezioni, il riferimento ironico di Strauss è al Behemoth di Hobbes.
xiv
Sul Simposio di Platone
voler dire che sulla base della tripartizione si possono immaginare diversi tipi di
uomini e diversi tipi di costituzioni (e quindi diverse caverne). Vediamo che un
individuo governato da desideri appetitivi può essere incline a soddisfarli immediatamente (è il caso dell’individuo democratico, o, in modo ancora più estremo,
dell’individuo tirannico) o invece, come accade per l’individuo oligarchico, reprimerne alcuni in vista della ricchezza, seguendo un calcolo accurato di ciò che
di volta in volta appare utile. L’individuo oligarchico presenta la situazione paradossale di qualcuno che, avendo come principio quello di soddisfare gli appetiti,
non ne soddisfa praticamente nessuno per poterli soddisfare tutti. È tirchio, vive
una vita morigeratissima, ma favorisce una cultura dello sperpero all’esterno, e
cerca di fare denaro in tutti i modi che può (Resp., 553d-555a).
Chi invece è governato dall’animosità ha come fine principale il riconoscimento, la vittoria e gli onori. Anche in questo caso, posto il fine del thumos, si possono
individuare modi diversi in cui esso può prendere forma in un carattere o in una
forma di governo. Il tipo di individuo su cui si sofferma Socrate nell’ottavo libro
è il timocratico. Questi, più portato alla guerra che alla pace, valorizza gli inganni
e l’astuzia della guerra (Resp., 548a-b). Come l’individuo oligarchico, anche lui è
costretto a reprimere certi appetiti, ma il motivo per cui lo fa non è la ricchezza,
bensì il fatto che se certe sue attività venissero alla luce danneggerebbero la sua
reputazione. Poiché però reprime i suoi impulsi con violenza e non perché sia
intimamente persuaso della loro bassezza, vive una vita da ipocrita quando alla
fine li soddisfa comunque, ma di nascosto. Comincia ad accumulare ricchezze
che ripone in luoghi segreti, sfoga in luoghi nascosti certi desideri sessuali, ma
continua a mostrare in pubblico la faccia dell’onore. Costui considererà se stesso
degno di governare grazie ai suoi successi in guerra, e poiché sarà ambizioso di
onori e proverà piacere nel mostrarsi superiore, si comporterà in maniera cortese
con le persone che riconosce come sue pari, mentre avrà un atteggiamento altezzoso con chi gli è socialmente inferiore, e in particolare maltratterà gli schiavi
(Resp., 549a).
La tripartizione dell’anima nel Simposio non è (ancora) formalizzata, mentre
viene discussa in dettaglio nella Repubblica e nel Fedro. Strauss non dà per scontato che la teoria della tripartizione in quanto tale sia già presente nel Simposio,
ma non esclude nemmeno che i principi motivazionali che in quei dialoghi sono
attribuiti alle tre parti dell’anima possano essere in qualche modo visibili anche
nel Simposio. Dunque, sottolinea gli aspetti che nella descrizione dei personaggi
rivelano ciò a cui questi attribuiscono valore, a cominciare dal modo in cui essi
parlano gli uni con gli altri, o con i loro servitori. Anche se non li cita esplicitamente, è ovvio che Strauss non dimentica mai dettagli come quello del comportamento dell’individuo timocratico con gli schiavi nell’VIII libro della Repubblica,
e presta sempre attenzione, nei dialoghi, al comportamento dei personaggi con
coloro che si trovano in una situazione socialmente inferiore o comunque svantaggiata.
Il metodo di Strauss
xv
Interpretati così, i diversi encomi di eros non sono semplicemente discorsi che
potrebbero essere enunciati da chiunque, ma mostrano in filigrana il carattere,
i desideri fondamentali e dunque anche il tipo incarnato dai vari interlocutori
di Socrate. Per riflettere sulla natura di eros, è necessario risalire la corrente dei
discorsi, mettendo a nudo la forma particolare di eros da cui ogni encomio ha
origine (e ciò vale non solo dal punto di vista della tripartizione, ma anche, ad
esempio, dal punto di vista dell’orientamento di ciascuno dei simposiasti riguardo all’eros sessuale: un discorso fatto dal punto di vista di chi ama sarà diverso
dal discorso di chi in una coppia prende il ruolo dell’amato, o di chi è talmente
inesperto dell’amore che deve venirne informato da una sacerdotessa).
Se ora, alla luce di tali considerazioni, si legge l’interpretazione che Strauss offre del personaggio di Alcibiade, è chiaro che, con grande maestria, egli vede nel
suo comportamento e nelle sue parole tratti di un’animosità a tal punto esasperata da non permettergli di vedere il mondo se non alla luce del piacere di prevalere
sugli altri e del timore di soccombere. Alcibiade è descritto come qualcuno che
dalla caverna non potrà mai uscire. Per esempio, Strauss nota che, sentendosi
umiliato da Socrate, egli prova un grande sollievo quando va in guerra e, lui a
cavallo e Socrate a piedi, può permettersi di rincuorarlo (Symp., 220e-221c1):
«La conoscenza socratica, quale fosse il suo oggetto, Alcibiade non l’ha mai scoperto. Alcibiade aveva subito l’effetto della bruttezza di Socrate e del suo simulato erotismo. Aveva altrettanto subito l’effetto dei suoi commoventi discorsi. Poi, intravede che c’è qualcosa d’altro, e cerca
di scoprirlo. Non ci riesce mai. Al contrario, la storia si conclude con una grande umiliazione
per Alcibiade. […] Come esce dalla condizione di umiliazione provocata, da un lato, dai discorsi di Socrate, e dall’altro, da quella strana notte da lui passata con Socrate? […] La guerra è il
grande salvatore. In guerra, egli scopre che può essere superiore a Socrate. È a cavallo, e consola
il semplice fante Socrate. Ciò gli restituisce la sua autostima» (infra, p. 255; cfr. p. 262).
Se Alcibiade è una persona mossa primariamente dal senso del proprio onore e
dal desiderio di prevalere anche su Socrate, diventa necessario leggere anche tutto
ciò che lui dice di Socrate alla luce del suo carattere. Certo Alcibiade non mente,
né si sbaglia sui fatti. Chiede a Socrate di interromperlo se per caso dice qualcosa
di falso, ma, come nota Strauss, «Socrate non corregge mai Alcibiade, su nessun
punto. Socrate giunge persino ad affermare, alla fine: sei sobrio. Non c’è alcuna
ubriachezza che ti abbia impedito di dire qualcosa di sbagliato» (infra, p. 266)11.
E tuttavia bisogna chiedersi in che senso ciò che Alcibiade dice può essere vero,
e dunque ricalcolare tutto, come farebbe un fisico, tenendo conto dell’effetto di
distorsione provocato dal suo carattere. È necessario capire come il desiderio che
lo muove generi una sorta di rifrazione in ciò che percepisce, similmente a ciò che
accade alla percezione di oggetti nell’acqua, che appaiono piegati anziché dritti
(Resp. X, 602c, dove, si ricordi, Socrate usa l’esempio di una illusione percettiva
11
Questo è uno dei casi in cui si è deciso di non correggere il testo, ma è evidente che c’è una svista linguistica. Strauss intende dire che secondo Socrate non c’è ubriachezza che abbia potuto spingere Alcibiade
a dire qualcosa di sbagliato.
xvi
Sul Simposio di Platone
per riferirsi alla distorsione affettiva indotta dalla poesia tragica). Inoltre, Strauss
avverte i suoi studenti che Alcibiade si esprime per similitudini (il Sileno, Marsia,
etc.; cfr. infra, p. 249; 250), e anch’esse vanno lette con attenzione.
Nella sua interpretazione, dunque, Strauss tiene presente sia la particolare situazione emotiva di Alcibiade, sia come quel tipo particolare di carattere faccia
venire in primo piano certi comportamenti di Socrate e non altri (ad esempio,
le sue vittorie, l’atteggiamento presuntamente sprezzante riguardo ai suoi commilitoni in guerra, l’apparente interesse per i ragazzi belli che nasconde un reale
disprezzo, la sua hubris, il fatto che lo fa vergognare, etc.). Nella prospettiva di
Alcibiade anche l’interesse di Socrate per la verità è subordinato al desiderio di
vittoria (quindi esprime un desiderio di potere). In altre parole, Alcibiade rivela
molte cose, ma non se ne può capire l’importanza senza capire in primo luogo
quanto di se stesso e delle sue fondamentali ossessioni egli ritrovi in Socrate.
4. Platone zetetico
Ora, ci si potrebbe chiedere perché, alla fin fine, sia rilevante occuparsi delle
ossessioni di Alcibiade e degli altri partecipanti al Simposio: in che modo usciamo
anche solo parzialmente dalla caverna in cui ci troviamo prestando attenzione a
cose come queste? La risposta non è semplice. Potremmo, sinteticamente, fare
riferimento a due questioni. La prima è quella della politica filosofica, la seconda
riguarda i fondamenti filosofici della politica. Questo dialogo non solo ci permette di riflettere sul modo in cui la filosofia può difendere se stessa retoricamente o
politicamente, ma anche, e più fondamentalmente, ci invita a vedere che la filosofia, a partire dal contrasto fra amore del proprio e amore del bello, può riflettere
sui fondamenti stessi della politica. In questo senso il Simposio è complementare
alla Repubblica. In quel dialogo, infatti, la città giusta sorge dal desiderio di salvaguardare ciò che è proprio: ci si specializza in un’attività che serve anche ad altri perché innanzitutto si desiderano soddisfare bisogni che nascono dal proprio
corpo; si allarga oltremisura la città per soddisfare i propri desideri superflui; con
l’emergere della classe dei guerrieri ci si dedica alla difesa del proprio territorio,
distinto da quello di altri. Ad un certo punto la città cerca di innalzarsi oltre il
proprio grazie alla comunanza delle donne (una regola che vuole limitare i danni
prodotti dall’eros rivolto a un individuo specifico), alla comunanza dei figli (una
regola che impedisce l’identificazione con la propria progenie e la parzialità che
ne segue), e al governo dei filosofi (che devono vigilare che il principio della comunanza dei beni venga rispettato)12. Tuttavia, l’eros rimane sullo sfondo, non
12
«È necessario comprendere perché il comunismo sia limitato alla classe superiore o quale sia
l’ostacolo naturale al comunismo. Il corpo, e solo il corpo, è ciò che per natura è privato o proprio di ogni
uomo (cfr. 464d; Leggi, 739c). Il comunismo più completo implicherebbe dunque un’assoluta astrazione dal
corpo. [...] I bisogni o i desideri del corpo inducono gli uomini a estendere il più possibile la sfera privata,
Il metodo di Strauss
xvii
è mai esplicitamente tematizzato, se non di sfuggita e spesso negativamente. Se
si parla dei desideri che portano a riunirsi in una città, si nominano la fame, la
sete, il bisogno di coprirsi, ma non il desiderio di procreazione (infra, p. 16). Cefalo, citando Sofocle, definisce l’eros «un padrone rabbioso e intrattabile» (Resp.,
329c); la città giusta alla fin fine fallisce per colpa di eros (il numero perfetto che
determina quando devono avere luogo gli accoppiamenti non viene rispettato
e «le persone generano figli quando non dovrebbero»; Resp., 546a); nel libro IX
eros viene addirittura identificato col tiranno (infra, p. 15).
La complementarietà rispetto alla Repubblica deriva dal fatto che nel Simposio
l’eros emerge come un fenomeno naturale che fonda sia il desiderio del proprio,
da cui poi derivano la città e le limitazioni stesse che essa impone sull’amore, sia il
desiderio di bello e di conoscenza, da cui hanno origine rispettivamente la poesia
e la filosofia. Se dunque nella Repubblica la questione della giustizia impone di
limitare da vari punti di vista le forme fondamentali dell’eros, nel Simposio tali
limitazioni non sono necessarie.
La questione della politica filosofica e quella dei fondamenti della politica in
questo dialogo finiscono per essere intrecciate. Come sostiene in maniera illuminante Benardete nella sua premessa (infra, p. 3), ogni ragionamento sull’amore
è fatto sullo sfondo della questione politica che costituisce la cornice del dialogo.
Alcibiade aveva procurato scandalo nell’episodio della mutilazione delle Erme,
assieme ad altri presenti alla festa di Agatone, come Fedro ed Erissimaco. Sullo
sfondo della narrazione del Simposio dunque c’è la questione dell’empietà, del
mancato ossequio agli dei, e della riabilitazione di qualcuno che era stato molto
vicino a Socrate. Simbolicamente, ciò rimanda al processo intentato a Socrate e
al rapporto fra filosofia e politica. Oltra alla presenza di Alcibiade al banchetto
organizzato da Agatone la questione dell’empietà si pone anche rispetto al tema
stesso degli encomi pronunciati al Simposio. Eros è un Dio. Come si comportano
i simposiasti riguardo a questo fatto?
Strauss legge il Simposio mettendolo in relazione, oltre che con la Repubblica, con altri dialoghi che gli sono in qualche modo complementari dal punto di
vista drammatico e tematico. Per esempio, nota fin dall’inizio che, con l’eccezione di Aristofane, tutti i personaggi del Simposio che fanno un encomio di eros
appaiono anche nel Protagora come seguaci dei sofisti. La conseguenza che trae
da questa informazione è che ci si possa aspettare che tali personaggi abbiano
opinioni poco convenzionali, e, a casa di amici, di notte, dopo un banchetto e in
la sfera di ciò che è proprio di ciascuno. Questa potentissima tendenza viene combattuta con l’educazione
musicale che genera moderazione, vale a dire con un addestramento severo dell’anima di cui sembra essere
capace solo una minoranza degli uomini. Tuttavia, questa sorta di educazione non estirpa il desiderio
naturale di ciascuno per il possesso di cose (e di esseri umani) propri: i guerrieri non accetterebbero il
comunismo assoluto se non fossero sottomessi ai filosofi. Diventa dunque chiaro che la tendenza a
possedere in proprio viene combattuta, in ultima istanza, solo dalla filosofia attraverso la ricerca della verità che, in quanto tale, non può essere possesso privato di nessuno»; L. Strauss, La città e l’uomo, cit., p. 185
(ho lievemente modificato la traduzione italiana).
xviii
Sul Simposio di Platone
un’atmosfera poco sobria, che possano esprimersi con una inusuale franchezza
riguardo a questioni per cui i sofisti a cui sono legati hanno incontrato varie forme di persecuzione.
Ecco perché Strauss presta attenzione al rapporto che ciascun oratore istituisce fra Eros e gli dèi venerati dalla città. Si chiede se chi parla tratti Eros come
un dio dell’Olimpo, se gli attribuisca genitori, o se lo consideri invece una forza
della natura o un principio sovrapponibile al concetto di anima o in qualche altro
modo lontano dalla tradizionale religione ateniese. La risposta a cui perviene è
che Socrate effettivamente manca di rispetto al dio (e, scopriamo, non è il solo
a fare ciò durante questo incontro notturno). Socrate inizialmente afferma che
Eros non è neppure un dio ma un demone, e poi finisce per trattarlo come una
forza della natura, identificandolo sostanzialmente con un principio ingenerato. Dunque, dal punto di vista della preoccupazione di Strauss per la questione
teologico-politica, la rivelazione del Simposio è che alla fin fine gli accusatori di
Socrate avevano ragione sulla sua empietà: non nel senso che a Socrate interessasse inventare nuovi dèi, ma nel senso che per lui fosse più importante interrogarsi
correttamente sul divino di quanto non fosse onorarlo secondo le regole della
città. Il risultato è che la religione olimpica è sostituita da un lato dalla natura e
dai suoi principi, e dall’altro dalle idee.
Tuttavia Strauss non si ferma qui, perché, facendo delle osservazioni su cui
non si sofferma ma che sono di notevole interesse, sottolinea la vaghezza con
cui viene affermata la trascendenza dell’idea della bellezza e suggerisce che non
vengono offerte ragioni sufficienti per affermarne la sussistenza ontologica. Brevemente, l’argomentazione si può ricostruire in questo modo. Nella sua interpretazione del discorso di Aristofane Strauss aveva notato che dal fatto che eros
sia desiderio di completezza non segue che la completezza degli esseri sferici,
una volta perduta, sia riconquistabile. Una volta dimezzati, gli esseri che hanno
ricevuto nuova forma per volere di Zeus desiderano, contro il volere degli dei, di
tornare alla loro natura originaria. Tuttavia, una volta tagliate, le metà acquistano
vita propria, hanno una storia, delle esperienze, e soprattutto hanno un corpo
che, manomesso e rigirato nel volto, nella pelle e negli organi sessuali, non potrebbe più permettere loro di ricongiungersi con la propria metà, anche qualora
potessero ritrovarla. La storia di Aristofane, comica nell’apparenza ma tragica
nella sostanza, racconta di un desiderio che è per sua stessa natura irrealizzabile.
Eros nasce fondamentalmente come una rivolta al nomos imposto dagli dei, ma
non ha alcuna speranza di realizzare il suo fine e deve quindi piegarsi, civilizzarsi, per così dire, seguendo le vie di volta in volta imposte dal nomos. Quello a
cui Aristofane dà voce è eros come amore di ciò che è proprio (originariamente
la propria metà, ma in seguito tutto ciò che si può identificare come simile alla
propria metà e quindi a se stessi). Questa forma dell’eros verrà riassorbita nel
discorso di Diotima come espressione del desiderio di immortalità, e cioè come
desiderio di superare attraverso forme diverse di riproduzione di sé la continua
Il metodo di Strauss
xix
perdita di se stessi che il tempo impone alla natura finita, sia essa degli uomini,
degli animali, delle piante, o di tutto il mondo organico (Symp., 207d-e; Diotima
si sofferma qui sui capelli, il sangue, le ossa, le cose umili da cui il giovane Socrate,
sbagliando, rifuggiva).
Dal punto di vista dell’amore che gli uomini possono sentire gli uni per gli
altri si può sostenere ragionevolmente che l’interpretazione offerta da Aristofane,
benché più profonda di quelle di coloro che l’hanno preceduto, rimanga insoddisfacente. Non pensiamo che qualcuno ci possa completare perché lo amiamo, ma
lo amiamo perché ci completa, e sentiamo che ci completa perché lo riteniamo
buono per noi o perché nella sua bellezza vediamo rilucere qualcosa di buono (ed
è in effetti questa l’obiezione che Diotima solleva al discorso di Aristofane; Symp.,
205d-206a). Strauss inizialmente sembra ritenere fondata la risposta di Diotima
ad Aristofane. Alla fine però si chiede se non sia possibile sollevare rispetto alla
sua spiegazione del rapporto fra l’eros e la bellezza lo stesso tipo di obiezione che
Diotima ha sollevato rispetto al desiderio di completezza. Il fatto che l’eros ci
porti al bello, e che attraverso l’ascesa dal bello sensibile a unità sempre più ampie
e astratte ci spinga a desiderare la contemplazione di una bellezza assoluta e sottratta al tempo, è qualcosa che può dare senso alla nostra vita. E tuttavia, cosa ci
garantisce che il desiderio di contemplare l’idea della bellezza non sia altrettanto
illusorio del desiderio di completezza?
«Come sappiamo che questo bello, che si rivelerà essere il bello stesso, è? Se comprendiamo
il significato di eros, vediamo che eros implica che esista una cosa come il bello in sé. Ma non
è questa forse un’illusione? Potrebbe eros, nel suo significato più profondo – ovvero come tendente verso il bello in sé – non essere un’illusione? Pensate al mito di Aristofane, in cui troviamo una descrizione del più profondo significato di eros. Tale più profondo significato si rivela
un’illusione: l’unione a cui aspira è impossibile. Ora, il desiderio dell’anima non è necessariamente l’autorità e il criterio dei pensieri veri, come dice un interprete moderno? Vale a dire, se
eros è il più profondo desiderio della nostra anima diretta verso qualcosa, questo qualcosa deve
essere» (infra, p. 224).
La domanda con cui si conclude questo passo da un certo punto di vista è
retorica: chiaramente dal fatto che desideriamo qualcosa non possiamo dedurre
che esiste. Ma non possiamo neppure concluderne che, perché la desideriamo,
essa deve per forza avere la natura di un’illusione. Se da un lato dunque Strauss è
relativamente sicuro che gli dei sono presentati nel Simposio come una creazione
dei poeti (deriva questa tesi dalla sua interpretazione del discorso di Agatone),
non è certo che anche le idee, che li sostituiscono, debbano avere lo stesso carattere illusorio. La questione non è risolta, e rimane come un problema, nella cui
formulazione è impossibile non percepire una eco nietzscheana:
«Pensate a una statua, come quella della Vittoria: ogni giovane greco aveva con essa
familiarità – egli capiva, in certo modo, cos’è un’idea. Avete davanti la Vittoria. Ma questa non è
la vittoria di Maratona o di Salamina, o qualunque altra. Né quella in questo tempio è la stessa
statua che si trova in un altro tempio, e tuttavia tutte alludono alla stessa cosa. La Vittoria è
xx
Sul Simposio di Platone
una cosa autosussistente che diviene visibile, per esempio, in una statua; ma non è identica alla
statua. Questo è, in termini psicologici, il più semplice accesso alle idee. Quindi, possiamo dire,
le idee prendono il posto degli dèi; e anche questo in ultima analisi è vero. La questione critica
che sorge, e non necessariamente come critica a Platone, è questa: le idee, per come sono ordinariamente presentate da Platone, non sono a loro volta dei prodotti dell’eros per la bellezza,
come lo sono gli dèi?» (infra, pp. 225-26).
Certamente, per come Strauss legge il discorso di Diotima, esso offre una versione poetica dell’esperienza filosofica. Le idee, il fondamento ultimo dell’eros filosofico, rimangono nel Simposio una domanda aperta e non mi pare che Strauss
abbia individuato altrove in Platone la soluzione di questo problema. Peraltro, se,
come ho sostenuto qui, Platone è per Strauss il modello zetetico con cui identifica
la sua stessa pratica filosofica, egli non solo non crede che una soluzione definitiva sia disponibile in Platone, ma non pensa neppure che la filosofia non possa
sussistere senza una risposta certa.