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Saggio sul metodo di Strauss nelle lezioni sul Simposio

2021, Il metodo di Strauss

This is the introductory essay to the Italian translation of Leo Strauss's lectures on Plato's Symposium

Leo Strauss Sul Simposio di Platone a cura di Seth Benardete edizione italiana a cura di Alessandra Fussi Traduzione dall’inglese di Guido Frilli Edizioni ETS www.edizioniets.com Traduzione di Guido Frilli Edizione originale: Leo Strauss, On Plato’s Symposium, 2001 Pubblicato su licenza di The University of Chicago Press, Chicago, Illinois, U.S.A. © 2001 by The University of Chicago. All rights reserved. © Copyright 2021 Edizioni ETS Palazzo Roncioni - Lungarno Mediceo, 16, I-56127 Pisa info@edizioniets.com www.edizioniets.com Distribuzione Messaggerie Libri SPA Sede legale: via G. Verdi 8 - 20090 Assago (MI) Promozione PDE PROMOZIONE SRL via Zago 2/2 - 40128 Bologna ISBN 978-884676098-2 ISSN 2532-3806 Il metodo di Strauss «Un grande maestro miniaturista europeo e un altro grande miniaturista camminavano su un prato europeo e parlavano di maestria e arte. Di fronte a loro si parò una foresta. Quello più abile disse all’altro: “Disegnare con metodi nuovi significa avere una maestria tale che, una volta disegnato un albero di questa foresta, un appassionato che guardi il disegno venga qui e possa distinguere quell’albero in mezzo agli altri”. Io, il povero disegno di albero che vedete, ringrazio Iddio per non essere stato disegnato con una simile mentalità. Non perché abbia paura che se fossi stato disegnato con i metodi europei tutti i cani di Istanbul, credendomi vero, mi avrebbero pisciato sopra. Ma perché io non voglio essere un vero albero ma il suo significato»1. 1. Il linguaggio I Greci erano «superficiali – per profondità»2. Secondo questa celebre affermazione di Nietzsche l’attaccamento all’apparenza, alle pieghe del reale, e quindi alla vita nella sua molteplicità e concretezza sensibile non sono sintomo di immaturità, bensì rivelano una consapevole fedeltà ai fenomeni che rimase ineguagliata in epoche successive. Credo si possa sostenere che un aspetto fondamentale del pensiero di Strauss, che ha contribuito a farne sia uno studioso molto frainteso sia uno straordinario interprete di Platone, è che egli abbia fatto sua questa intuizione nietzschiana rendendola attuale nella sua pratica interpretativa e nel suo personale modo di pensare non solo sugli antichi ma con loro. Strauss rifugge dal linguaggio tecnico, in cui vede spesso espressa la tendenza a schematizzare e a rendere scientificamente misurabili i fenomeni del vivere comune senza che siano ben compresi i concetti su cui un tale atteggiamento si fonda. Usa parole quotidiane ed esempi accessibili a chiunque, e tuttavia non è affatto uno scrittore di facile comprensione. Rimane aderente alla superficie dei dialoghi 1 O. Pamuk, Il mio nome è rosso, Torino 1998. Questa osservazione si trova ripetuta sia nella prefazione alla seconda edizione di Die fröhliche Wissenschaft (trad. it. F. Masini, La gaia scienza, Milano p. 19), sia in Nietzsche contra Wagner (trad. it. F. Masini, Nietzsche contra Wagner, p. 237). 2 vi Sul Simposio di Platone platonici in un modo che può a prima vista sembrare inspiegabilmente ossessionato da dettagli secondari, cosicché la sua scrittura a volte finisce per nascondere le linee argomentative che la muovono proprio per via dell’estrema aderenza al testo. Leggendo La città e l’uomo3, alcuni lettori non si sono accorti che mentre sembrava semplicemente riassumere certi passi della Repubblica Strauss ne stava in realtà ricostruendo l’argomentazione in modo completamente innovativo; o che a volte l’argomentazione vera e propria non si trovava nel corpo del testo, ma nella lista delle citazioni platoniche sobriamente confinate a piè di pagina. Il Leo Strauss Center presso l’Università di Chicago ha reso progressivamente disponibile la consultazione online dei dattiloscritti ricavati dalle registrazioni effettuate durante i corsi, e ne ha permesso la pubblicazione a stampa. Gli studenti di Strauss (e i loro allievi) hanno avuto accesso già da molti anni ai dattiloscritti ricavati dai corsi, ma che questi documenti siano stati diffusi al di fuori di una cerchia ristretta è un fatto di grande importanza. Benché le lezioni sul Simposio che traduciamo ora in italiano siano uscite già vent’anni fa grazie a Benardete, la loro pubblicazione non contribuì allora in maniera sostanziale alla diffusione del pensiero di Strauss fra gli studiosi di filosofia antica, per una serie di polemiche del tutto estrinseche rispetto al contenuto effettivo del suo insegnamento4. Ora che sull’interesse per Strauss hanno meno influenza questioni ideologiche di varia natura, è diventato evidente a molti che avere a disposizione i testi delle lezioni è veramente utile, sia a chi studia Platone sia a chi è interessato a capire Strauss. Ciò non perché egli abbia rivelato ai suoi studenti delle verità che nasconde altrove (come hanno inteso in maniera semplicistica alcuni interpreti), ma perché le lezioni permettono di entrare in una sorta di laboratorio di pensiero in cui il dialogo con diversi pensatori si presenta in fieri. Nel corso sul Simposio Strauss parla a studenti che non si peritano di fare notare contraddizioni o aspetti non convincenti nel ragionamento. Spesso chiarisce punti che ritiene di avere lasciato oscuri, riprende da capo argomentazioni che trova insoddisfacenti, spiega ripetutamente il motivo di certe scelte interpretative o metodiche, così come si avventura in suddivisioni e cataloghi che a volta tornano utili e in altri casi sono invece lasciati cadere. Per esempio: chi è un buon bevitore e chi non lo è fra i presenti; chi è amante e chi amato; chi dei partecipanti al banchetto appare anche nel Protagora; in quali sottosezioni si può 3 L. Strauss, The City and Man, Chicago 1964; trad. it. di I. La Scala, La città e l’uomo: saggi su Aristotele, Platone, Tucidide, a cura di C. Altini, Genova-Milano 2010. 4 Non mi soffermerò qui sulle polemiche che nel mondo anglosassone hanno deviato l’attenzione di molti antichisti dall’interpretazione straussiana dei dialoghi platonici. Si trattava di accuse basate su fraintendimenti grossolani, che purtroppo hanno continuato a circolare per anni, influenzando anche la lettura che ne è stata data da alcuni commentatori italiani. Mi sono occupata delle critiche nel mondo anglosassone in A. Fussi, “Le lezioni di Strauss sul Simposio di Platone: breve storia di una lettura mancata”, in Verifiche XXXVII, Ottobre-Dicembre 2008, pp. 395-431; per la discussione di alcune posizioni critiche nell’ambito degli studi di filosofia antica in Italia, cfr. A. Fussi, La città nell’anima, Pisa 2011. Rimando a questo libro anche per la discussione approfondita dei temi che sviluppo qui. Il metodo di Strauss vii dividere il discorso di Socrate, etc. Una delle suddivisioni più interessanti è quella che riguarda i genitori di Eros. Strauss prende nota di quale fra i partecipanti che tengono un discorso su Eros sostiene che è antico e non ha genitori; chi afferma che ha genitori ed è giovane; chi duplica Eros e i suoi genitori, chi non nomina genitori, chi attribuisce le sue caratteristiche a due genitori ma poi a ben vedere modifica la sua tesi, etc. Come vedremo, questa questione è tutt’altro che peregrina, ed ha un ruolo importante nella sua interpretazione. Il linguaggio di Strauss, benché privo di tecnicismi, non è facile da tradurre. Ad esempio, può sfuggire che un sua osservazione criptica sia in realtà la conclusione tratta dal confronto fra il risultato della suddivisione che sta operando e una suddivisione vista precedentemente. Inoltre, l’inglese in cui si esprime è molto buono ma non perfetto, e a volte non è chiaro se la scelta di certi termini sia intenzionale o derivi dall’assonanza con termini tedeschi che non sono interamente sovrapponibili. Come nota Benardete nella sua premessa, fra l’altro, in diversi casi il testo è interrotto per cambi di nastro a cui non supplisce alcuna trascrizione5. Da un lato dunque le lezioni rendono il metodo di Strauss decisamente più accessibile di quanto non avvenga nei testi pubblicati. Dall’altro può accadere che le riflessioni sui diversi discorsi assumano un carattere labirintico. In queste pagine mi soffermerò brevemente su alcuni punti che considero cruciali per orientare la lettura anche di coloro che non hanno familiarità con le riflessioni di Strauss sugli antichi. Segnalerò non solo i criteri interpretativi che Strauss adotta nella lettura di Platone, ma anche perché metta in relazione questo dialogo con altri, e che cosa soprattutto consideri importante nella sua complessa drammaturgia. 2. Perché leggere Platone, e come leggerlo? Nella sua lezione introduttiva, Strauss sente di dovere giustificare la scelta del Simposio come testo su cui concentrarsi in un corso intitolato “Plato’s Political Philosophy”. Si tratta in effetti di una scelta a tutta prima bizzarra: ammesso e non concesso che si sia d’accordo sul fatto che studiare Platone sia essenziale per degli studenti di filosofia politica (o se non altro più urgente che non, per esempio, concentrarsi su Machiavelli o Hobbes), perché non privilegiare la Repubblica o le Leggi, dialoghi in cui la questione politica è esplicitamente posta al centro della riflessione filosofica? 5 In alcuni rari casi risulta probabile, perché contraddittorio con quanto ripetutamente affermato, che a Strauss capiti di dire una cosa pensandone un’altra (che ad esempio usi un pronome in maniera inappropriata, o confonda due nomi simili), come può accadere nelle comunicazioni orali in cui una persona parla a lungo riguardo a temi che richiedono molta concentrazione. Tuttavia, seguendo l’uso di Benardete e degli altri studiosi che hanno curato la pubblicazione dei diversi corsi, non si sono apportate correzioni al testo, lasciando ai lettori il compito di decidere come leggere certe asserzioni. viii Sul Simposio di Platone Se si consulta la lista delle trascrizioni dei corsi tenuti da Strauss nel corso del suo insegnamento universitario, si può vedere che in effetti egli ha tenuto due volte sia il corso sulla Repubblica, sia quello sulle Leggi, ma ha anche tenuto corsi sull’Apologia di Socrate e il Critone, sul Gorgia (su cui ha fatto lezione per ben tre volte: nel 1957, nel 1963, e nel 1973), sull’Eutidemo, sul Menone, sul Protagora, sul Simposio. In questi ultimi dialoghi il tema non è la giustizia politica, o la relazione fra la giustizia politica e la giustizia dell’individuo, e nemmeno il rapporto fra il logos e la legge. Tuttavia c’è un filo rosso che li percorre tutti, e che si potrebbe sintetizzare nel problema eminentemente politico del rapporto fra retorica (o sofistica) e filosofia. In che modo il filosofo può difendere se stesso di fronte alla città (o ai padri, ai poeti, ai retori, agli indovini che danno di volta in volta voce alla città) dall’accusa di inventare nuove divinità e di corrompere i giovani? Esiste un’alternativa per rispondere alla città che non sia la retorica volgare (di cui l’Eutidemo offre un esempio quasi farsesco), una retorica che sia all’altezza della filosofia? Si potrebbe dire che la risposta è sotto gli occhi di tutti: i dialoghi platonici incarnano, grazie alla forma letteraria che viene data alla riflessione filosofica, l’apice della retorica filosofica così come la intende Socrate nel Fedro (Phaedr., 271c-272b). Da un lato offrono un’alternativa credibile alla sterilità di Socrate, che né scrive alcunché, né propriamente si difende quando è costretto a farlo nel processo che gli è stato intentato, ma anzi sembra provocare la città a condannarlo; dall’altro, possono in qualche modo competere con i poeti, e in particolare con chi, come Aristofane (l’antico accusatore di Socrate; Apol., 18b-e), ambisce a presentare una prospettiva sulla vita umana e sulla natura della politica alternativa a quella filosofica e dall’impatto assai maggiore. Come si ricorderà, nell’Apologia Socrate afferma che le commedie possono muovere gli animi e formare le opinioni dei cittadini prima che essi se ne rendano conto, da ragazzini (Apol., 18c). La pratica della filosofia socratica, per contro, coinvolge necessariamente poche persone che argomentano fra loro e difficilmente può muovere le folle. I dialoghi platonici mediano fra queste due posizioni presentando la filosofia in forma poetica. Essi affrontano la questione del rapporto fra politica e filosofia da prospettive diverse, e uno dei compiti che esplicitamente affronta Strauss nella sua analisi è quello di lasciare emergere in ciascuno non solo il problema centrale e la sua articolazione, ma anche ciò che è solo accennato o lasciato in ombra e che invece viene in primo piano altrove. Una premessa importante di questa operazione è che sia possibile, dal punto di vista letterario, trattare i dialoghi come se formassero un kosmos, un mondo ordinato. Questa ipotesi ci allontana dalle tre alternative interpretative che possiamo considerare a noi più familiari. Molto schematicamente, la prima alternativa è quella espressa originariamente da Schleiermacher, secondo cui nei dialoghi forma e contenuto sono armonizzati in modo tale da presentare la filosofia platonica compiutamente come un sistema teorico. La seconda posizione, Il metodo di Strauss ix che attualmente è anche la più diffusa e presenta al suo interno alcune variazioni, sostiene che i dialoghi testimonino di un’evoluzione progressiva del pensiero di Platone, che passa attraverso stadi diversi, dalla fase aporetica della gioventù, in cui è ancora seguace di Socrate, fino alla vecchiaia delle Leggi, del Timeo e del Crizia. La terza prospettiva interpretativa ha avuto origine nella cosiddetta scuola di Tübingen ed è stata ripresa in Italia da Giovanni Reale. Sommariamente, sostiene che per via delle molte contraddizioni fra un dialogo e l’altro e dell’assenza di trattazioni esaustive riguardo a questioni centrali come quella del Bene e della partecipazione del molteplice all’idea, i dialoghi sono inadeguati a esporre un sistema filosofico, e ipotizza che essi abbiano agli occhi di Platone solo una funzione propedeutica, e siano diretti a un pubblico vasto. Egli avrebbe invece comunicato oralmente, all’interno dell’Accademia e a pochi iniziati, le sue dottrine fondamentali, che hanno quindi natura esoterica. Strauss da un certo punto di vista riprende Schleiermacher, ma non per l’idea che Platone presenti nei dialoghi una teoria sistematica, bensì per la tesi che il pensiero di Platone sia espresso interamente nei dialoghi in forma letteraria. A differenza di Schleiermacher, però, egli non considera l’insegnamento platonico come una teoria sistematica, bensì come un’indagine zetetica. Da questo punto di vista il suo metodo ha qualche affinità con quello esemplificato da certi studiosi della scuola di Tübingen. Entrambi i metodi invitano a prestare attenzione alle contraddizioni interne, all’assenza di teorie espressamente presentate come tali da chi dovrebbe essere portavoce di Platone, alla reticenza nel discutere le Forme e il Bene. Tuttavia, anziché inferire da questi problemi che Platone deve aver rivelato altrove le sue più alte verità, Strauss va in direzione opposta rispetto alla scuola di Tübingen, e ne deduce che la filosofia platonica rimane socratica e aporetica dall’inizio alla fine del suo percorso. La sua tesi è che i dialoghi esprimano una ricerca che funziona secondo il principio che «per le domande importanti, le domande siano più chiare delle risposte» (infra, p. 10). Questo è anche il senso che egli attribuisce al suo modo di fare filosofia, e in realtà credo di non esagerare sostenendo che quando prova interesse per un filosofo finisce sempre per rinvenire in lui lo stesso nucleo anti-dogmatico e zetetico che ritrova in Platone. Strauss individua nell’insieme dei dialoghi una straordinaria ricchezza di rimandi. Poiché cerca di concentrarsi su somiglianze, differenze, contrasti e sovrapposizioni nelle diverse variazioni drammatiche, la cronologia della scrittura platonica non è particolarmente rilevante per la sua indagine. La produzione dei dialoghi platonici è certamente legata alla biografia dell’autore, ma il riferimento biografico a cui si può far risalire la scrittura platonica di un certo dialogo può non avere alcuna rilevanza per la cronologia interna alle sue narrazioni. Per esempio, Socrate può apparire più giovane in un dialogo relativamente tardo (ad esempio nel Parmenide) di quanto non appaia in un dialogo giovanile, e questo è ciò che interessa a Strauss, non se Platone fosse giovane o vecchio quando li scrisse. x Sul Simposio di Platone Dal punto di vista letterario ogni dettaglio ha potenzialmente un senso: «Questa imitazione tuttavia è artistica, perché, in certa maniera, è una falsificazione della vita. Una mera riproduzione del vissuto non sarebbe artistica. Il principio di questa imitazione artistica è la negazione del caso – ogni cosa è necessaria. E possiamo dire che il dialogo platonico nel suo insieme si fonda su questa nobile illusione, sulla nobile menzogna che ogni cosa nel dialogo sia necessaria» (infra, p. 115)6. Se nella vita quotidiana qualcuno arriva inaspettatamente alla conferenza già conclusa di un famoso collega, la cosa può accadere intenzionalmente o per caso; se ad arrivare a festa finita è il personaggio di un dialogo, e ci troviamo nell’incipit, e si tratta di Socrate mentre il personaggio famoso è Gorgia, non siamo autorizzati a ignorare questo dato, perché un incipit siffatto è stato scelto così dal suo autore, e deve essere stato scelto così per un motivo preciso (Gorg., 447a-b). Quell’apparizione a sorpresa può rimandare ad altro, e pensandoci si può scoprire che, nel mito che conclude il dialogo, per decisione di Zeus ad arrivare inaspettata è la morte, e ciò fa sì che anime improvvisamente spogliate delle maschere della retorica possono incontrare un giudice equo, così come Gorgia, all’inizio del dialogo ha incontrato Socrate che non vuole ascoltare un lungo discorso ma discutere con lui7. Strauss sostanzialmente parte dal presupposto che noi non abbiamo accesso ai pensieri di Platone al di fuori della forma letteraria in cui lui li ha espressi. Di conseguenza, se in un certo dialogo Socrate è presente e in un altro non c’è più, la cosa da fare a suo avviso non è presupporre di sapere più di quello che effettivamente sappiamo, perché noi possiamo solo fare congetture sul fatto che Platone si sia allontanato da Socrate, su quali influenze abbia ricevuto da altri pensatori, e su cosa possa avere avuto un influsso su un certo dialogo. Se la tesi contenuta in un dialogo contraddice una tesi su uno stesso argomento contenuta in un altro dialogo, non necessariamente ne segue che o Platone pecca di incoerenza (e quindi va corretto) o deve essere passato a un nuovo stadio della sua teoria. Strauss preferisce innanzitutto chiedersi se la situazione drammatica del primo dialogo differisca in modo significativo da quella del secondo, e se possa essere proprio la diversa situazione drammatica e la sua relazione col tema trattato a illuminare i motivi per cui uno stesso personaggio dice cose diverse a persone diverse. Dal momento che da nessuna parte nei dialoghi Platone parla in prima persona, l’interpretazione non può mai essere disgiunta dall’attenzione 6 Cfr. infra, p. 11: «In un dialogo platonico non c’è nulla di superfluo, né di privo di significato. Socrate, nel Fedro, paragona la buona scrittura, la scrittura perfetta, a un essere vivente nel quale ogni parte, per quanto piccola, svolge una funzione necessaria alla vita e all’attività dell’intero. Il dialogo platonico ha una funzione – e la sua funzione è quella di farci capire. E il dialogo è paragonabile a un organismo nella misura in cui ogni parte di esso svolge il suo preciso ruolo nel farci capire». Strauss fa spesso riferimento a questo passo del Fedro (264c) nei suoi saggi e nelle sue lezioni sui dialoghi platonici. 7 Nelle sue lezioni Strauss insiste sull’incipit del Gorgia. Per una interpretazione che connette l’incipit col mito finale, cfr. A. Fussi, Retorica e potere. Una lettura del Gorgia di Platone, Pisa 2006. Il metodo di Strauss xi agli aspetti retorici. Nei dialoghi non troviamo voci disincarnate, ma persone che da una loro particolare prospettiva cercano di persuadere i loro interlocutori, e, quando c’è un pubblico, di portarlo dalla propria parte (e da ciò per altro segue l’indicazione straussiana di prestare sempre attenzione, in quanto interpreti, alla eventuale presenza di un pubblico durante uno scambio dialogico fra due personaggi, perché il significato della scena potrebbe chiarirsi solo ipotizzando che uno o entrambi i personaggi stiano usando le parole che dicono al loro interlocutore per indirizzare un messaggio al pubblico degli ascoltatori – un’indicazione particolarmente utile per il Gorgia). 3. Non una sola caverna, né un solo prigioniero Come è noto, Strauss conosceva Heidegger ed era stato molto colpito dalle sue lezioni. In molti modi la sua riflessione filosofica si può leggere come un tentativo di superare lo storicismo radicale del filosofo tedesco, e si possono rinvenire tracce di questa urgenza teorica anche nell’introduzione alle lezioni sul Simposio. Nelle lezioni che Heidegger tenne nel 1924 a Marburgo sull’Etica Nicomachea e la Retorica aristoteliche egli tradusse il termine aristotelico diathesis (disposizione)8 con Befindlichkeit, sentirsi situato, e usò questo termine per caratterizzare il fatto che ci si trova sempre a vivere in un mondo che ci riguarda, che ci solleva o ci incupisce (interpreta così le determinazioni del piacere e del dolore, dello hedu e del luperon), e rispetto a cui dunque ci sentiamo sempre in qualche modo affettivamente coinvolti9. Il concetto di Befindlichkeit, che troverà un posto centrale in Essere e Tempo, non appare fra quelli che Strauss esplicitamente utilizza nella sua interpretazione di Platone, ma si può ipotizzare che ritorni trasfigurato nella sua insistenza sul fatto che i dialoghi ci presentano sempre discussioni filosofiche 8 Nelle Categorie (8b) Aristotele precisa che ci sono due tipi di disposizioni, la diathesis e la hexis. Quest’ultima ha il carattere di abitudine o di disposizione stabile (sono forme di hexis ad esempio le virtù etiche e le forme di conoscenza più radicate, che difficilmente si scacciano dalla mente ). Diathesis invece è una disposizione instabile, come il caldo e il freddo, una malattia, etc. Qui Heidegger intende che nel piacere e nel dolore, così come nella paura e in altri stati emotivi «ci si sente», «ci si trova ad essere» in qualche modo, cioè si è esposti in un certo modo al mondo. 9 «Alle lezioni – tenute dalle sette alle otto del mattino – parteciparono, oltre ai “trascrittori” eccellenti (Walter Bröcker, Fritz Schalk, Gerhard Nebel, Helene Weiss, Jacob Klein) anche alcuni tra i più celebri allievi di Heidegger presenti a Marburgo, Hans-Georg Gadamer, Hannah Arendt, Hans Jonas, Leo Strauss, Joachim Ritter, Karl Löwith, tutti autori sulla cui opera la figura di Aristotele – probabilmente proprio per via di Heidegger – lasciò un segno profondo» (M. Heidegger, Grundbegriffe der Aristotelischen Philosophie, Frankfurt am Main 2002, trad. it. Concetti fondamentali della filosofia aristotelica, edizione italiana a cura di G. Gurisatti, Milano 2017, Avvertenza del curatore dell’edizione italiana, p.15). Strauss stesso parla del grande impatto che ebbe su di lui ascoltare le lezioni di Heidegger nel 1922 a Friburgo (L. Strauss, “A Giving of Accounts”, with J. Klein, The College, XXII, n. 1, 1970, pp. 1-5), ma non nomina le lezioni del 1924. Esistono eccellenti studi sulle riflessioni di Strauss su Heidegger (si veda fra gli altri R. Velkley, Heidegger, Strauss, and the Premises of Philosophy. On Original Forgetting, Chicago 2011), ma a mia conoscenza non sulla rilevanza di queste lezioni. xii Sul Simposio di Platone situate, con personaggi che discutono a partire dalle loro specifiche preoccupazioni. La filosofia non è mai puro theorein. Essa mantiene nei dialoghi il colore della situazione da cui nasce; ma non è neppure riducibile a una prospettiva fra le altre, nutrita di preoccupazioni e desideri locali, o schiava del proprio tempo, come si suol dire. Se l’aspetto che avvicina la visione di Strauss a quella di Heidegger è l’elemento situato della nascita della riflessione, ciò che la unisce a Platone è che la situazione da cui nasce la filosofia debba essere descritta nei minimi dettagli per poter essere trascesa. Si veda ad esempio l’inizio della seconda lezione sul discorso di Pausania: «Il punto di partenza per la comprensione della scienza sarebbe, con un’espressione oggi usata molto frequentemente, la situazione dell’uomo. Si potrebbe dire che è questo il tema iniziale di ogni dialogo platonico. In quanto esperita, la situazione umana è, ovviamente, esperienza di individui in situazioni individuali. Nel caso di Platone, si tratta quasi sempre della situazione di Socrate. L’individuo filosofo Socrate con questi e questi tratti somatici, con il suo carattere, come cittadino ateniese e così via, trascende – nella misura in cui è filosofo – la sua situazione individuale» (infra, p. 77). Esiste un luogo platonico classico per esprimere l’aspetto situato della nascita della riflessione: il mito della caverna. Nella prima lezione del corso su Gorgia che Strauss tenne nel 1957, egli afferma che la filosofia ha inizio con la presa di coscienza di vivere in una caverna. Perlopiù non ci rendiamo conto della natura artificiale e derivata delle opinioni sulle basi delle quali conduciamo la nostra vita, per cui è necessario che qualcuno ci porti a vedere l’inconsistenza di certe immagini, ci spinga a verificarne la saldezza. Questo è il compito che viene attribuito a Socrate nei dialoghi: l’unica forma di liberazione è nel domandare. Da ciò segue che i dialoghi platonici non si prefiggono di insegnare una particolare teoria, ma, semmai, di insegnare a filosofare, e, poiché l’attività filosofica è una forma di eros, la liberazione dalla caverna implica sempre anche un riorientarsi del desiderio. I dialoghi mostrano come è possibile rendersi conto di essere in una data caverna (e Strauss intende la caverna non come la condizione ontologica degli uomini in generale, ma come la condizione etica e politica in cui ci si trova di volta in volta gettati) e invitano i lettori a un’analoga consapevolezza. Non esiste una sola caverna ma molte, nel senso che ci sono molti modi in cui società diverse legano i loro cittadini alle opinioni stabilite, così come sono molti i caratteri delle persone che incontrano la filosofia: «C’è un’infinita varietà di modi di slegare gli uomini, e per questo Platone non può presentare questa liberazione dalle catene pienamente nei dialoghi, perché l’infinito non può essere compreso. Tuttavia l’infinita varietà di esseri umani e di situazioni umane può, fortunatamente, ridursi a un certo numero di tipi. Dunque questo slegare gli esseri umani può essere presentato in un numero piuttosto limitato di dialoghi. In ogni dialogo ci sono esseri umani individuali, che hanno cioè nomi propri e peculiarità proprie – possono essere calvi, grassi, e avere tutte le altre qualità. In altre parole, non troviamo un tale che viene chiamato A o B, come li chiamò Hobbes quando scrisse un dialogo: si rivolgono l’uno all’altro dicendo “Caro A” e “Caro B”. No, Il metodo di Strauss xiii non è questa la strada presa da Platone — sono esseri umani reali. Quindi in ogni dialogo si trovano individui che hanno un nome, e che vivono qui o là. E tuttavia quegli esseri umani sono stati selezionati in vista del loro carattere tipico»10. Ad un certo punto nelle lezioni sul Simposio Strauss nota come nel Parmenide (130e) un Socrate giovane sia rimproverato proprio perché a causa della sua giovinezza disprezza le cose umili (infra, p. 212). L’ironia riguardo a Hobbes indica proprio la necessità che la filosofia non rifugga dal particolare: deve descriverlo e nominarlo. Tuttavia si potrebbe obiettare che l’attenzione ai dettagli che permette a Platone di ritrarre essere umani reali possa essere una zavorra che non permette di sollevarsi al di sopra della loro infinita varietà. La risposta di Strauss nel passo citato sopra è che gli individui che troviamo nei dialoghi hanno un nome proprio, vivono in un certo posto e dicono certe cose, ma «sono stati selezionati in vista del loro carattere tipico». Per comprendere questa asserzione è bene ricordare la visione della retorica filosofica descritta da Socrate nel Fedro (270c-272a): il vero retore oltre a conoscere le cose di cui parla (l’oggetto del discorso) deve conoscere le anime. Con questo Socrate intende che si debba conoscere l’anima in generale nel suo rapporto col tutto, l’anima umana nella sua tripartizione, e che sia poi necessario chiedersi quali discorsi siano più o meno persuasivi per un certo tipo di interlocutore a seconda della parte dell’anima da cui costui appare governato. Tenendo presenti queste cose, il buon retore deve essere in grado di capire con acuta sensibilità quando è opportuno parlare e quando tacere, e cioè saper cogliere il momento opportuno per applicare alla situazione concreta tutto ciò che ha studiato sull’anima in generale e sui tipi particolari di carattere che discendono dalla tripartizione, dall’educazione e dalle esperienze. Se possono esserci modi infiniti per liberare gli uomini dalle catene, non è necessario scrivere infinite opere per descrivere i modi più significativi in cui ciò può realizzarsi, perché i dialoghi possono permettere di leggere negli scambi fra individui il manifestarsi di alcune situazioni tipiche. Compito dell’interprete è dunque interrogare i testi in modo da poter far emergere dapprima ciò che è tipico, e poi i modi possibili per interpretarlo. Ciò implica che se risulta evidente che il personaggio di un certo dialogo è governato dall’animosità, si capirà anche che ciò che per lo più lo muove sarà il desiderio di vincere e di ottenere riconoscimento; si potrà immaginare che un simile individuo sarà incline a vergognarsi per certe cose, a essere oltraggioso con certe persone, che gli piacerà fare pensare ad altri che è coraggioso, che leggerà le situazioni in cui si trova e le azioni altrui prevalentemente dal punto di vista della sua preoccupazione fondamentale per la fama e per la vittoria. Nell’ottavo e nono libro della Repubblica abbiamo alcuni esempi di cosa possa 10 Traduzione mia da: L. Strauss, Plato’s Gorgias (1957), Session 1: January 3, 1957 (http://leostrausstranscripts.uchicago.edu/navigate/1/2/?byte=44148). Come nota Devin Stauffer, curatore di queste lezioni, il riferimento ironico di Strauss è al Behemoth di Hobbes. xiv Sul Simposio di Platone voler dire che sulla base della tripartizione si possono immaginare diversi tipi di uomini e diversi tipi di costituzioni (e quindi diverse caverne). Vediamo che un individuo governato da desideri appetitivi può essere incline a soddisfarli immediatamente (è il caso dell’individuo democratico, o, in modo ancora più estremo, dell’individuo tirannico) o invece, come accade per l’individuo oligarchico, reprimerne alcuni in vista della ricchezza, seguendo un calcolo accurato di ciò che di volta in volta appare utile. L’individuo oligarchico presenta la situazione paradossale di qualcuno che, avendo come principio quello di soddisfare gli appetiti, non ne soddisfa praticamente nessuno per poterli soddisfare tutti. È tirchio, vive una vita morigeratissima, ma favorisce una cultura dello sperpero all’esterno, e cerca di fare denaro in tutti i modi che può (Resp., 553d-555a). Chi invece è governato dall’animosità ha come fine principale il riconoscimento, la vittoria e gli onori. Anche in questo caso, posto il fine del thumos, si possono individuare modi diversi in cui esso può prendere forma in un carattere o in una forma di governo. Il tipo di individuo su cui si sofferma Socrate nell’ottavo libro è il timocratico. Questi, più portato alla guerra che alla pace, valorizza gli inganni e l’astuzia della guerra (Resp., 548a-b). Come l’individuo oligarchico, anche lui è costretto a reprimere certi appetiti, ma il motivo per cui lo fa non è la ricchezza, bensì il fatto che se certe sue attività venissero alla luce danneggerebbero la sua reputazione. Poiché però reprime i suoi impulsi con violenza e non perché sia intimamente persuaso della loro bassezza, vive una vita da ipocrita quando alla fine li soddisfa comunque, ma di nascosto. Comincia ad accumulare ricchezze che ripone in luoghi segreti, sfoga in luoghi nascosti certi desideri sessuali, ma continua a mostrare in pubblico la faccia dell’onore. Costui considererà se stesso degno di governare grazie ai suoi successi in guerra, e poiché sarà ambizioso di onori e proverà piacere nel mostrarsi superiore, si comporterà in maniera cortese con le persone che riconosce come sue pari, mentre avrà un atteggiamento altezzoso con chi gli è socialmente inferiore, e in particolare maltratterà gli schiavi (Resp., 549a). La tripartizione dell’anima nel Simposio non è (ancora) formalizzata, mentre viene discussa in dettaglio nella Repubblica e nel Fedro. Strauss non dà per scontato che la teoria della tripartizione in quanto tale sia già presente nel Simposio, ma non esclude nemmeno che i principi motivazionali che in quei dialoghi sono attribuiti alle tre parti dell’anima possano essere in qualche modo visibili anche nel Simposio. Dunque, sottolinea gli aspetti che nella descrizione dei personaggi rivelano ciò a cui questi attribuiscono valore, a cominciare dal modo in cui essi parlano gli uni con gli altri, o con i loro servitori. Anche se non li cita esplicitamente, è ovvio che Strauss non dimentica mai dettagli come quello del comportamento dell’individuo timocratico con gli schiavi nell’VIII libro della Repubblica, e presta sempre attenzione, nei dialoghi, al comportamento dei personaggi con coloro che si trovano in una situazione socialmente inferiore o comunque svantaggiata. Il metodo di Strauss xv Interpretati così, i diversi encomi di eros non sono semplicemente discorsi che potrebbero essere enunciati da chiunque, ma mostrano in filigrana il carattere, i desideri fondamentali e dunque anche il tipo incarnato dai vari interlocutori di Socrate. Per riflettere sulla natura di eros, è necessario risalire la corrente dei discorsi, mettendo a nudo la forma particolare di eros da cui ogni encomio ha origine (e ciò vale non solo dal punto di vista della tripartizione, ma anche, ad esempio, dal punto di vista dell’orientamento di ciascuno dei simposiasti riguardo all’eros sessuale: un discorso fatto dal punto di vista di chi ama sarà diverso dal discorso di chi in una coppia prende il ruolo dell’amato, o di chi è talmente inesperto dell’amore che deve venirne informato da una sacerdotessa). Se ora, alla luce di tali considerazioni, si legge l’interpretazione che Strauss offre del personaggio di Alcibiade, è chiaro che, con grande maestria, egli vede nel suo comportamento e nelle sue parole tratti di un’animosità a tal punto esasperata da non permettergli di vedere il mondo se non alla luce del piacere di prevalere sugli altri e del timore di soccombere. Alcibiade è descritto come qualcuno che dalla caverna non potrà mai uscire. Per esempio, Strauss nota che, sentendosi umiliato da Socrate, egli prova un grande sollievo quando va in guerra e, lui a cavallo e Socrate a piedi, può permettersi di rincuorarlo (Symp., 220e-221c1): «La conoscenza socratica, quale fosse il suo oggetto, Alcibiade non l’ha mai scoperto. Alcibiade aveva subito l’effetto della bruttezza di Socrate e del suo simulato erotismo. Aveva altrettanto subito l’effetto dei suoi commoventi discorsi. Poi, intravede che c’è qualcosa d’altro, e cerca di scoprirlo. Non ci riesce mai. Al contrario, la storia si conclude con una grande umiliazione per Alcibiade. […] Come esce dalla condizione di umiliazione provocata, da un lato, dai discorsi di Socrate, e dall’altro, da quella strana notte da lui passata con Socrate? […] La guerra è il grande salvatore. In guerra, egli scopre che può essere superiore a Socrate. È a cavallo, e consola il semplice fante Socrate. Ciò gli restituisce la sua autostima» (infra, p. 255; cfr. p. 262). Se Alcibiade è una persona mossa primariamente dal senso del proprio onore e dal desiderio di prevalere anche su Socrate, diventa necessario leggere anche tutto ciò che lui dice di Socrate alla luce del suo carattere. Certo Alcibiade non mente, né si sbaglia sui fatti. Chiede a Socrate di interromperlo se per caso dice qualcosa di falso, ma, come nota Strauss, «Socrate non corregge mai Alcibiade, su nessun punto. Socrate giunge persino ad affermare, alla fine: sei sobrio. Non c’è alcuna ubriachezza che ti abbia impedito di dire qualcosa di sbagliato» (infra, p. 266)11. E tuttavia bisogna chiedersi in che senso ciò che Alcibiade dice può essere vero, e dunque ricalcolare tutto, come farebbe un fisico, tenendo conto dell’effetto di distorsione provocato dal suo carattere. È necessario capire come il desiderio che lo muove generi una sorta di rifrazione in ciò che percepisce, similmente a ciò che accade alla percezione di oggetti nell’acqua, che appaiono piegati anziché dritti (Resp. X, 602c, dove, si ricordi, Socrate usa l’esempio di una illusione percettiva 11 Questo è uno dei casi in cui si è deciso di non correggere il testo, ma è evidente che c’è una svista linguistica. Strauss intende dire che secondo Socrate non c’è ubriachezza che abbia potuto spingere Alcibiade a dire qualcosa di sbagliato. xvi Sul Simposio di Platone per riferirsi alla distorsione affettiva indotta dalla poesia tragica). Inoltre, Strauss avverte i suoi studenti che Alcibiade si esprime per similitudini (il Sileno, Marsia, etc.; cfr. infra, p. 249; 250), e anch’esse vanno lette con attenzione. Nella sua interpretazione, dunque, Strauss tiene presente sia la particolare situazione emotiva di Alcibiade, sia come quel tipo particolare di carattere faccia venire in primo piano certi comportamenti di Socrate e non altri (ad esempio, le sue vittorie, l’atteggiamento presuntamente sprezzante riguardo ai suoi commilitoni in guerra, l’apparente interesse per i ragazzi belli che nasconde un reale disprezzo, la sua hubris, il fatto che lo fa vergognare, etc.). Nella prospettiva di Alcibiade anche l’interesse di Socrate per la verità è subordinato al desiderio di vittoria (quindi esprime un desiderio di potere). In altre parole, Alcibiade rivela molte cose, ma non se ne può capire l’importanza senza capire in primo luogo quanto di se stesso e delle sue fondamentali ossessioni egli ritrovi in Socrate. 4. Platone zetetico Ora, ci si potrebbe chiedere perché, alla fin fine, sia rilevante occuparsi delle ossessioni di Alcibiade e degli altri partecipanti al Simposio: in che modo usciamo anche solo parzialmente dalla caverna in cui ci troviamo prestando attenzione a cose come queste? La risposta non è semplice. Potremmo, sinteticamente, fare riferimento a due questioni. La prima è quella della politica filosofica, la seconda riguarda i fondamenti filosofici della politica. Questo dialogo non solo ci permette di riflettere sul modo in cui la filosofia può difendere se stessa retoricamente o politicamente, ma anche, e più fondamentalmente, ci invita a vedere che la filosofia, a partire dal contrasto fra amore del proprio e amore del bello, può riflettere sui fondamenti stessi della politica. In questo senso il Simposio è complementare alla Repubblica. In quel dialogo, infatti, la città giusta sorge dal desiderio di salvaguardare ciò che è proprio: ci si specializza in un’attività che serve anche ad altri perché innanzitutto si desiderano soddisfare bisogni che nascono dal proprio corpo; si allarga oltremisura la città per soddisfare i propri desideri superflui; con l’emergere della classe dei guerrieri ci si dedica alla difesa del proprio territorio, distinto da quello di altri. Ad un certo punto la città cerca di innalzarsi oltre il proprio grazie alla comunanza delle donne (una regola che vuole limitare i danni prodotti dall’eros rivolto a un individuo specifico), alla comunanza dei figli (una regola che impedisce l’identificazione con la propria progenie e la parzialità che ne segue), e al governo dei filosofi (che devono vigilare che il principio della comunanza dei beni venga rispettato)12. Tuttavia, l’eros rimane sullo sfondo, non 12 «È necessario comprendere perché il comunismo sia limitato alla classe superiore o quale sia l’ostacolo naturale al comunismo. Il corpo, e solo il corpo, è ciò che per natura è privato o proprio di ogni uomo (cfr. 464d; Leggi, 739c). Il comunismo più completo implicherebbe dunque un’assoluta astrazione dal corpo. [...] I bisogni o i desideri del corpo inducono gli uomini a estendere il più possibile la sfera privata, Il metodo di Strauss xvii è mai esplicitamente tematizzato, se non di sfuggita e spesso negativamente. Se si parla dei desideri che portano a riunirsi in una città, si nominano la fame, la sete, il bisogno di coprirsi, ma non il desiderio di procreazione (infra, p. 16). Cefalo, citando Sofocle, definisce l’eros «un padrone rabbioso e intrattabile» (Resp., 329c); la città giusta alla fin fine fallisce per colpa di eros (il numero perfetto che determina quando devono avere luogo gli accoppiamenti non viene rispettato e «le persone generano figli quando non dovrebbero»; Resp., 546a); nel libro IX eros viene addirittura identificato col tiranno (infra, p. 15). La complementarietà rispetto alla Repubblica deriva dal fatto che nel Simposio l’eros emerge come un fenomeno naturale che fonda sia il desiderio del proprio, da cui poi derivano la città e le limitazioni stesse che essa impone sull’amore, sia il desiderio di bello e di conoscenza, da cui hanno origine rispettivamente la poesia e la filosofia. Se dunque nella Repubblica la questione della giustizia impone di limitare da vari punti di vista le forme fondamentali dell’eros, nel Simposio tali limitazioni non sono necessarie. La questione della politica filosofica e quella dei fondamenti della politica in questo dialogo finiscono per essere intrecciate. Come sostiene in maniera illuminante Benardete nella sua premessa (infra, p. 3), ogni ragionamento sull’amore è fatto sullo sfondo della questione politica che costituisce la cornice del dialogo. Alcibiade aveva procurato scandalo nell’episodio della mutilazione delle Erme, assieme ad altri presenti alla festa di Agatone, come Fedro ed Erissimaco. Sullo sfondo della narrazione del Simposio dunque c’è la questione dell’empietà, del mancato ossequio agli dei, e della riabilitazione di qualcuno che era stato molto vicino a Socrate. Simbolicamente, ciò rimanda al processo intentato a Socrate e al rapporto fra filosofia e politica. Oltra alla presenza di Alcibiade al banchetto organizzato da Agatone la questione dell’empietà si pone anche rispetto al tema stesso degli encomi pronunciati al Simposio. Eros è un Dio. Come si comportano i simposiasti riguardo a questo fatto? Strauss legge il Simposio mettendolo in relazione, oltre che con la Repubblica, con altri dialoghi che gli sono in qualche modo complementari dal punto di vista drammatico e tematico. Per esempio, nota fin dall’inizio che, con l’eccezione di Aristofane, tutti i personaggi del Simposio che fanno un encomio di eros appaiono anche nel Protagora come seguaci dei sofisti. La conseguenza che trae da questa informazione è che ci si possa aspettare che tali personaggi abbiano opinioni poco convenzionali, e, a casa di amici, di notte, dopo un banchetto e in la sfera di ciò che è proprio di ciascuno. Questa potentissima tendenza viene combattuta con l’educazione musicale che genera moderazione, vale a dire con un addestramento severo dell’anima di cui sembra essere capace solo una minoranza degli uomini. Tuttavia, questa sorta di educazione non estirpa il desiderio naturale di ciascuno per il possesso di cose (e di esseri umani) propri: i guerrieri non accetterebbero il comunismo assoluto se non fossero sottomessi ai filosofi. Diventa dunque chiaro che la tendenza a possedere in proprio viene combattuta, in ultima istanza, solo dalla filosofia attraverso la ricerca della verità che, in quanto tale, non può essere possesso privato di nessuno»; L. Strauss, La città e l’uomo, cit., p. 185 (ho lievemente modificato la traduzione italiana). xviii Sul Simposio di Platone un’atmosfera poco sobria, che possano esprimersi con una inusuale franchezza riguardo a questioni per cui i sofisti a cui sono legati hanno incontrato varie forme di persecuzione. Ecco perché Strauss presta attenzione al rapporto che ciascun oratore istituisce fra Eros e gli dèi venerati dalla città. Si chiede se chi parla tratti Eros come un dio dell’Olimpo, se gli attribuisca genitori, o se lo consideri invece una forza della natura o un principio sovrapponibile al concetto di anima o in qualche altro modo lontano dalla tradizionale religione ateniese. La risposta a cui perviene è che Socrate effettivamente manca di rispetto al dio (e, scopriamo, non è il solo a fare ciò durante questo incontro notturno). Socrate inizialmente afferma che Eros non è neppure un dio ma un demone, e poi finisce per trattarlo come una forza della natura, identificandolo sostanzialmente con un principio ingenerato. Dunque, dal punto di vista della preoccupazione di Strauss per la questione teologico-politica, la rivelazione del Simposio è che alla fin fine gli accusatori di Socrate avevano ragione sulla sua empietà: non nel senso che a Socrate interessasse inventare nuovi dèi, ma nel senso che per lui fosse più importante interrogarsi correttamente sul divino di quanto non fosse onorarlo secondo le regole della città. Il risultato è che la religione olimpica è sostituita da un lato dalla natura e dai suoi principi, e dall’altro dalle idee. Tuttavia Strauss non si ferma qui, perché, facendo delle osservazioni su cui non si sofferma ma che sono di notevole interesse, sottolinea la vaghezza con cui viene affermata la trascendenza dell’idea della bellezza e suggerisce che non vengono offerte ragioni sufficienti per affermarne la sussistenza ontologica. Brevemente, l’argomentazione si può ricostruire in questo modo. Nella sua interpretazione del discorso di Aristofane Strauss aveva notato che dal fatto che eros sia desiderio di completezza non segue che la completezza degli esseri sferici, una volta perduta, sia riconquistabile. Una volta dimezzati, gli esseri che hanno ricevuto nuova forma per volere di Zeus desiderano, contro il volere degli dei, di tornare alla loro natura originaria. Tuttavia, una volta tagliate, le metà acquistano vita propria, hanno una storia, delle esperienze, e soprattutto hanno un corpo che, manomesso e rigirato nel volto, nella pelle e negli organi sessuali, non potrebbe più permettere loro di ricongiungersi con la propria metà, anche qualora potessero ritrovarla. La storia di Aristofane, comica nell’apparenza ma tragica nella sostanza, racconta di un desiderio che è per sua stessa natura irrealizzabile. Eros nasce fondamentalmente come una rivolta al nomos imposto dagli dei, ma non ha alcuna speranza di realizzare il suo fine e deve quindi piegarsi, civilizzarsi, per così dire, seguendo le vie di volta in volta imposte dal nomos. Quello a cui Aristofane dà voce è eros come amore di ciò che è proprio (originariamente la propria metà, ma in seguito tutto ciò che si può identificare come simile alla propria metà e quindi a se stessi). Questa forma dell’eros verrà riassorbita nel discorso di Diotima come espressione del desiderio di immortalità, e cioè come desiderio di superare attraverso forme diverse di riproduzione di sé la continua Il metodo di Strauss xix perdita di se stessi che il tempo impone alla natura finita, sia essa degli uomini, degli animali, delle piante, o di tutto il mondo organico (Symp., 207d-e; Diotima si sofferma qui sui capelli, il sangue, le ossa, le cose umili da cui il giovane Socrate, sbagliando, rifuggiva). Dal punto di vista dell’amore che gli uomini possono sentire gli uni per gli altri si può sostenere ragionevolmente che l’interpretazione offerta da Aristofane, benché più profonda di quelle di coloro che l’hanno preceduto, rimanga insoddisfacente. Non pensiamo che qualcuno ci possa completare perché lo amiamo, ma lo amiamo perché ci completa, e sentiamo che ci completa perché lo riteniamo buono per noi o perché nella sua bellezza vediamo rilucere qualcosa di buono (ed è in effetti questa l’obiezione che Diotima solleva al discorso di Aristofane; Symp., 205d-206a). Strauss inizialmente sembra ritenere fondata la risposta di Diotima ad Aristofane. Alla fine però si chiede se non sia possibile sollevare rispetto alla sua spiegazione del rapporto fra l’eros e la bellezza lo stesso tipo di obiezione che Diotima ha sollevato rispetto al desiderio di completezza. Il fatto che l’eros ci porti al bello, e che attraverso l’ascesa dal bello sensibile a unità sempre più ampie e astratte ci spinga a desiderare la contemplazione di una bellezza assoluta e sottratta al tempo, è qualcosa che può dare senso alla nostra vita. E tuttavia, cosa ci garantisce che il desiderio di contemplare l’idea della bellezza non sia altrettanto illusorio del desiderio di completezza? «Come sappiamo che questo bello, che si rivelerà essere il bello stesso, è? Se comprendiamo il significato di eros, vediamo che eros implica che esista una cosa come il bello in sé. Ma non è questa forse un’illusione? Potrebbe eros, nel suo significato più profondo – ovvero come tendente verso il bello in sé – non essere un’illusione? Pensate al mito di Aristofane, in cui troviamo una descrizione del più profondo significato di eros. Tale più profondo significato si rivela un’illusione: l’unione a cui aspira è impossibile. Ora, il desiderio dell’anima non è necessariamente l’autorità e il criterio dei pensieri veri, come dice un interprete moderno? Vale a dire, se eros è il più profondo desiderio della nostra anima diretta verso qualcosa, questo qualcosa deve essere» (infra, p. 224). La domanda con cui si conclude questo passo da un certo punto di vista è retorica: chiaramente dal fatto che desideriamo qualcosa non possiamo dedurre che esiste. Ma non possiamo neppure concluderne che, perché la desideriamo, essa deve per forza avere la natura di un’illusione. Se da un lato dunque Strauss è relativamente sicuro che gli dei sono presentati nel Simposio come una creazione dei poeti (deriva questa tesi dalla sua interpretazione del discorso di Agatone), non è certo che anche le idee, che li sostituiscono, debbano avere lo stesso carattere illusorio. La questione non è risolta, e rimane come un problema, nella cui formulazione è impossibile non percepire una eco nietzscheana: «Pensate a una statua, come quella della Vittoria: ogni giovane greco aveva con essa familiarità – egli capiva, in certo modo, cos’è un’idea. Avete davanti la Vittoria. Ma questa non è la vittoria di Maratona o di Salamina, o qualunque altra. Né quella in questo tempio è la stessa statua che si trova in un altro tempio, e tuttavia tutte alludono alla stessa cosa. La Vittoria è xx Sul Simposio di Platone una cosa autosussistente che diviene visibile, per esempio, in una statua; ma non è identica alla statua. Questo è, in termini psicologici, il più semplice accesso alle idee. Quindi, possiamo dire, le idee prendono il posto degli dèi; e anche questo in ultima analisi è vero. La questione critica che sorge, e non necessariamente come critica a Platone, è questa: le idee, per come sono ordinariamente presentate da Platone, non sono a loro volta dei prodotti dell’eros per la bellezza, come lo sono gli dèi?» (infra, pp. 225-26). Certamente, per come Strauss legge il discorso di Diotima, esso offre una versione poetica dell’esperienza filosofica. Le idee, il fondamento ultimo dell’eros filosofico, rimangono nel Simposio una domanda aperta e non mi pare che Strauss abbia individuato altrove in Platone la soluzione di questo problema. Peraltro, se, come ho sostenuto qui, Platone è per Strauss il modello zetetico con cui identifica la sua stessa pratica filosofica, egli non solo non crede che una soluzione definitiva sia disponibile in Platone, ma non pensa neppure che la filosofia non possa sussistere senza una risposta certa.