Saggi
GIUSEPPE ALLEGRI
ROBERTO CICCARELLI
IL QUINTO STATO
Perché il lavoro indipendente
è il nostro futuro.
Precari, autonomi, free lance
per una nuova società
© 2013 Adriano Salani Editore s.u.r.l. – Milano
ISBN: 978-88-6220-285-5
In copertina: Eu remix
Art Direction: ushadesign
Redazione e impaginazione: Emiliano Mallamaci
Ponte alle Grazie è un marchio
di Adriano Salani Editore s.u.r.l.
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IL QUINTO STATO
Well the highway is alive tonight
But nobody’s kiddin’ nobody about where it goes
I’m sitting down here in the campfire light
Searchin’ for the ghost of Tom Joad
L’autostrada è viva stasera
ma nessuno si illude su dove vada a finire.
Sto qui seduto alla luce del falò
e cerco il fantasma di Tom Joad
BRUCE SPRINGSTEEN, The Ghost Of Tom Joad
Artieri e operai di Pausula! Proseguite con altrettanta
alacrità l’opera intrapresa: stringetevi tra voi e sarete
forti, e l’opera vostra sarà dai venturi benedetta.
Atto costitutivo della Società Operaia di Mutuo
Soccorso di Corridonia, 1863
Sì, solo che… anche il gaucho più indipendente di
questo mondo alla fine si vende.
THOMAS PYNCHON, L’arcobaleno della gravità
Introduzione
Atto di creazione
Giambattista Piranesi, architetto veneziano, membro onorario della Società degli Antiquari di Londra, socio dell’Accademia di san Luca, cavaliere dello Speron d’oro, figlio di
Roma, morì il 9 novembre 1778, accudito dalla famiglia.
Dopo avere rifiutato le cure mediche, dettò queste parole e
chiese di leggere Tito Livio, di rivedere i suoi disegni, le sue
acqueforti, i suoi rami incisi. I suoi figli Francesco e Pietro
sarebbero emigrati nel 1799 a Parigi dopo avere partecipato
attivamente ai moti rivoluzionari italiani della Repubblica romana. Attorno a quel letto erano radunate due generazioni.
La prima era quella della pittura e dell’architettura veneta,
di cui Piranesi fu uno dei massimi rappresentanti. La seconda
era quella illuminista, e rivoluzionaria, che provò ad assaltare
il cielo sull’onda della Rivoluzione francese e del triennio delle
repubbliche giacobine in Italia. Padre e figli ebbero un destino comune: furono nomadi in Italia e in Europa, in cerca
di un ingaggio da parte di un mecenate, fuggendo da quei monarchi (o dal papa) che avevano riconosciuto la loro insubordinazione a difesa dell’indipendenza della propria arte e per
creare un regime politico repubblicano, laico e democratico.
A Venezia, come a Verona, nacquero artisti di fama mondiale che da Vienna a Mosca, da Roma a Madrid fino a Lon-
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ATTO DI CREAZIONE
dra e al Nord Europa allietarono le vedute e gli affreschi dei
grandi palazzi imperiali, di mercanti e di borghesi. Tiepolo,
Tiziano e Canaletto, insieme a Bellotto, erano all’avanguardia sul mercato europeo dell’arte, mentre in patria erano
precari sottopagati e sfruttati; molto spesso lavoravano gratuitamente e alcuni di loro furono costretti ad abbandonare
Venezia poiché committenti o mecenati non rispettavano i
tempi di pagamento, lasciandoli così nella miseria più nera,
in attesa che l’ufficiale giudiziario bussasse alla porta.
Piranesi rappresenta l’intelligenza più irrequieta della rivolta contro l’opportunismo dei committenti i quali, pur
tenendo in grande considerazione i valori artistici assoluti,
rifiutavano di pagarli. Il «figlio di Roma» – perché a Roma,
diversamente che nell’odiata Venezia, il suo talento era stato
riconosciuto (e pagato) – pochi mesi prima di morire, nel
marzo 1778, scrisse una lettera a una sorella: «Esule da Venezia, sua patria, per non aver potuto ottenere nemmeno
un impieguccio… non vi farà mai più ritorno tanto più che
questa città, quantunque adorna di magnificentissimi edifici
e dipinti, non era teatro capace a dar pascolo alla sublimità
dei suoi grandiosi concepimenti, come lo era Roma, e le altre
città dell’Italia meridionale».
A Roma, delle sue opere «il Santo Padre ne faceva a quando
a quando acquisto per regalarle ai Principi che visitavano
Roma, pagando 200 scudi per copia». Aveva fatto fortuna, sessantamila scudi da investire nella sua officina e in un museo
personale. Nella «santa città», il valore della creazione, e del
lavoro della sua impresa, andava difeso contro «quelli che farsi
dovrebbero Mecenati e sottrarla [l’architettura] all’arbitrio di
coloro, che i tesori posseggono, e che vi fanno credere di potere a loro talento disporre delle operazioni della medesima».
Per Piranesi, innovatore concettuale e artigiano intagliatore, l’architettura doveva avere un carattere civile e
funzionale. E l’unico modo di pensare e agire era quello
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pragmatico: «spiegare con disegni le proprie idee». Parlava
dell’«arte di disegnare non solo le mie invenzioni, ma di intagliarle ancora nel rame». Nel repertorio di questa corrispondenza, emerge uno spirito costituente. Piranesi condivideva
le passioni di una civiltà mai sopita. La sua resistenza incarnava lo spirito della grande e popolare rivolta che avrebbe
terrorizzato il potere europeo per tutto il secolo successivo.
La sua attitudine alla creazione, come alla ricerca di un lavoro indipendente, ancora oggi indica una via per sfuggire al
destino di miseria riservato alla gran parte della popolazione
attiva nel nostro continente, in particolare nell’Europa meridionale. La rivendicazione di Piranesi è giunta intatta sino ai
nostri giorni. La richiesta di un congruo compenso da parte
dell’artista è la stessa che avanzano i lavoratori indipendenti
contemporanei. Essere pagati in maniera equa, e nei tempi
prestabiliti, è la rivendicazione di chi vuole veder rispettata,
tutelata e garantita la propria operosità.
Nel risentimento del grande architetto, così come nel modello di vita di chi oggi svolge una lavoro autonomo, precario o intermittente, si rispecchia la condizione del Quinto
Stato. Parliamo di una forma di vita dove ritroviamo le esperienze degli attori della commedia dell’arte che transitavano
dall’Italia alla Francia; dei librai e stampatori che diffondevano il libero pensiero; degli artigiani o lavoranti – quindi
non solo grandi artisti o filosofi – che emigravano in Europa
oppure cambiavano città, impiego e committenti in Italia.
Questa condizione viene sempre raffigurata come il lato
oscuro della povertà, dell’esclusione e dell’abbandono. Lo
è stata, e lo è senz’altro oggi. Essa traduce tuttavia anche
un’altra possibilità: proteggere e affermare l’autonomia nel
lavoro e nella società da parte dei non garantiti e di chi conduce una vita indipendente.
Nella penombra rumorosa delle officine, tra il piombo e
gli inchiostri, nel silenzioso sfruttamento delle botteghe e
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ATTO DI CREAZIONE
nella persecuzione degli indipendenti trattati come disoccupati o vagabondi, devianti o lazzaroni, sono state molte
le generazioni determinate a scatenare il conflitto per il riconoscimento personale, per la negoziazione del valore di
una prestazione o per la libertà della propria esistenza, ancor prima che della propria attività. La battaglia è ancora in
corso. Restiamo in ascolto del suo rumore sordo nell’Europa
dell’austerità.
Vogliamo esplorare le concrete strategie per dare un nome,
un presente e soprattutto un futuro alla condizione comune
del Quinto Stato. Il Quinto Stato è l’espressione della forzalavoro del futuro: il lavoro indipendente. Questa attività non
può essere descritta ricorrendo solo alle categorie generiche
di «crisi del ceto medio» oppure di «precariato» che dominano il dibattito politico, mediatico e accademico in particolare quando si parla della crisi del lavoro e della disoccupazione di massa. Il lavoro indipendente rappresenta il minimo
comune denominatore tra condizioni professionali e status
sociali profondamente divergenti. Esso è la forma di vita
operosa in cui si ritrovano tutte le attività autonome, «atipiche» o «non standard», in una parola «precarie», l’autoimpresa come la piccola impresa che popolano in maniera
prevalente il mondo del lavoro oggi. Partiamo dall’idea che
questo patchwork sia il risultato di una forte precarizzazione
delle tutele e dei diritti che oggi è degenerato in un processo
di proletarizzazione ai danni di posizioni lavorative e classi
sociali diverse. Questa è la condizione del Quinto Stato dove
risuona ciò che più ci accomuna: la povertà, la miseria e la
certezza che le generazioni future vivranno come i lavoratori
intermittenti o precari del Medioevo o della prima modernità. Nel momento di massima offensiva contro il Quinto
Stato, emerge tuttavia una potenzialità discreta, ma sempre
INTRODUZIONE
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attuale, quella che spinge a governare la propria autonomia,
difenderla e tutelarla dall’aggressione permanente a cui è sottoposta. Si tratta di una disperata ricerca dell’emancipazione
e dell’uguaglianza, dettata dalla consapevolezza che nella
condizione del Quinto Stato sono racchiusi tutti i presupposti di un presente e un futuro migliore per l’intera società.
La prima parte del libro spiega che cos’è il Quinto Stato: lo
stato di apolidia in patria in cui vivono almeno otto milioni
di italiani che svolgono un lavoro autonomo, precario, sottopagato, in nero, un’attività dell’economia informale che sta
emergendo con forza nella crisi. Il Quinto Stato è anche una
posizione extraterritoriale all’interno di un Paese, poiché include i migranti e coloro che sono nati in Italia o in Europa da
genitori che non hanno la cittadinanza italiana, la cosiddetta
«seconda generazione». Queste persone lavorano, in maggioranza, come gli italiani, sono cioè lavoratori indipendenti:
piccoli imprenditori, precari, lavoratori informali, titolari di
partite IVA. Non è riconosciuta loro la cittadinanza, e quindi
sono doppiamente penalizzati. Riteniamo che queste esclusioni non siano riconducibili solo alla povertà o alla disoccupazione, ma rimandino a una generale trasformazione della
cittadinanza che è fonte di inquietudine per i dominanti.
Nella seconda parte, affronteremo il problema dal punto
di vista storico, mostrando come le politiche europee di austerità abbiano imposto, tra l’altro, un modo di pensare e vivere il presente ispirato al conflitto tra il protestantesimo dei
paesi dell’Europa del Nord e il cattolicesimo controriformista e lassista dei paesi dell’Europa del Sud. Questo conflitto
geo-culturale non è nuovo nella storia europea, così come
non è nuova la tentazione di imporre ai poveri o agli esclusi
gli imperativi morali del risparmio, del sacrificio e della moderazione nei momenti più acuti di una crisi economica.
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ATTO DI CREAZIONE
Inedito è invece il tentativo di spiegare questo conflitto dal
punto di vista dei subalterni, a partire cioè dalla loro ricerca
di autonomia e libertà. Per questa ragione abbiamo ripercorso a contropelo la storia europea tra l’ultimo scorcio del
Seicento e l’inizio del XX secolo, evocando, col disincanto
del tono minore, l’epica pamphlettistica di Sieyès, e ritrovando invece nel Quinto Stato contemporaneo le tracce, gli
enunciati e le pratiche del lavoro artigiano, indipendente e
del «Quarto Stato», il proletariato moderno. Non sorprenderà scoprire che oggi la stessa lotta per l’autonomia è ancora attiva e costituisce la premessa di un’alternativa al regime mentale, culturale e politico dell’austerità.
Nella terza parte del libro, racconteremo le strategie adottate dal Quinto Stato per rispondere all’impoverimento,
all’insicurezza e al terrore del fallimento individuale e collettivo. Migliaia di persone sono oggi impegnate nella definizione di un orizzonte di vita in comune, dove i lavoratori
indipendenti si autorganizzano, rigenerano le antiche radici
del mutualismo operaio sette-ottocentesco con nuove declinazioni, ispirate all’idea di un concreto welfare universale.
Esamineremo anche le premesse necessarie all’avvio di una
politica basata sul riconoscimento dell’attività e dell’operosità dei singoli che si cimentano nell’economia collaborativa.
Riscopriremo così la tradizione politica dell’auto-governo
dei territori e delle istituzioni di prossimità contro le rendite di posizione corporative, economiche, politiche, sindacali. Queste sono solo alcune delle manifestazioni di ciò che
definiamo «diritto di città» del Quinto Stato. Tale diritto si
esprime attraverso istituzioni, consorzi, coalizioni, patti, leghe e nuovi sindacati che danno corpo all’organizzazione del
Quinto Stato negli spazi politici esistenti. Non inventiamo
nulla, raccontiamo solo quello che abbiamo potuto osservare in Italia, in Europa o negli Stati Uniti, raccogliendo i
desideri di persone impegnate in una marcia controcorrente.
INTRODUZIONE
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Per chi cerca un’alternativa alla miseria indotta dalle politiche della crisi, questa attitudine pragmatica e ideale rispetto
alla vita è un’occasione. Metteremo in luce, infine, una visione alternativa delle istituzioni europee, nell’affermazione
di nuove dimensioni politiche e territoriali del Quinto Stato.
Parliamo di un’Europa delle città contro l’Europa intergovernativa, un’Europa dei diritti fondamentali delle persone
contro l’Europa dei trattati economici degli stati nazionali.
In questo libro, non ci soffermiamo soltanto sul cupo realismo dei fatti; ci apriamo anche alle promesse del futuro.
All’inizio, il protagonista è un apolide angosciato dalla distanza che lo separa dal mondo. Egli è il prodotto ideale del
neoliberismo, un soggetto che possiede il proprio «capitale»
e contratta un lavoro con un committente. In seguito a un
processo di proletarizzazione, questo soggetto si è ritrovato a
dover resistere all’offensiva del mercato e dello Stato. A ciò si
è aggiunta la crisi di quello stesso modo di produzione che ha
reso apolide il Quinto Stato, estraniandolo dalle vecchie appartenenze, dalle convenzioni e dal rifugio sicuro della convivenza tradizionale. Nella seconda parte del libro, l’apolide
scopre le storie che già in passato, e in momenti forse ancora
più difficili di quello attuale, videro i suoi simili impadronirsi
delle virtù dell’associazionismo che avrebbero reso i deboli
più forti. A questo punto egli capisce di essere già alla ricerca
di uno spazio di libertà in cui desidera porsi come uguale agli
altri. Il suo bene più prezioso è la mobilità tra gli stati, come
tra i lavori e le professioni; è l’unica risorsa capace di sottrarlo
alla distruzione provocata dalla crisi.
Al termine del libro, l’apolide inizia a valutare la possibilità di dotarsi di diritti e persino di una costituzione che non
dipenda dallo Stato in cui vive, bensì dalla cooperazione con
i propri simili. Abbiamo pensato a un romanzo in formazione
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ATTO DI CREAZIONE
che può anche non avere un lieto fine. Ciò che conta è il percorso, non le attese salvifiche che gli autori potrebbero attribuire, anche inconsapevolmente, ai loro protagonisti. Questo gioco difficile ci ha portato, da un lato, a identificarci con
le persone di cui raccontiamo le idee e i progetti, dall’altro
lato a distanziarcene. È inevitabile che ciò accada perché noi
stessi condividiamo la condizione del Quinto Stato.
Nella scelta di questo protagonista, non ci siamo rivolti
all’anarchico incoronato, l’Eliogabalo di Antonin Artaud1 o di
Alberto Arbasino.2 E nemmeno al ribelle al quale il filosofo
francese Michel Onfray ha dedicato un trattato.3 Non pensiamo all’oscuro Maldoror, alter ego letterario di quell’Isidore
Ducasse, conte de Lautréamont, abituale frequentatore dei
circoli giovanili anarchici parigini pochi mesi prima della Comune.4 Raccontiamo invece la vicenda, sempre aperta a nuove
evenienze, di donne e uomini qualunque, che hanno deciso
di federare le proprie esistenze. La nostra ipotesi è che il loro
modello di vita sia ispirato all’esempio di Diogene il Cinico.5
Al cinismo è sempre stato attribuito un pregiudizio verso
gli altri e una cattiva predisposizione dell’animo. Il pensiero
cinico, preso alla sua radice e riletto adeguatamente, prospetta invece una politica che potrebbe tornare molto utile
per interpretare la figura dell’apolide contemporaneo. Il
cinico, infatti, è apolide per natura, conduce una vita scandalosa rispetto alle regole e agli imperativi morali della sua
comunità di riferimento. Mostra ai propri simili la strada per
creare un’altra comunità più giusta e più libera e la percorre
insieme a loro. Davanti al grande pericolo che minaccia tutti
egli abbaia, desta scandalo ma, allo stesso tempo, esercita la
più grande generosità verso tutte le forme di vita esistenti sul
pianeta. Il suo crudo umorismo è l’arte attraverso la quale
dimostra la possibilità di una vita vera.
È nostra convinzione che questa attitudine caratterizzi la
realtà di molte persone ancora oggi e trovi un’adeguata rap-
INTRODUZIONE
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presentanza nella condizione del Quinto Stato. L’umorismo
del cinico, la sua generosità, la durezza con la quale egli risponde alle difficoltà della vita le abbiamo incontrate spesso
nelle nostre peregrinazioni. Davanti alla violenza quotidiana
si può reagire in tanti modi. L’estraniazione, la sottrazione,
la divergenza sono tra questi, soprattutto quando sono accompagnate dalla contemporanea ricerca di un piano diverso
dove incontrare i propri simili. La doppia capacità di resistere alle tensioni prodotte dalla realtà e di prospettare nuove
relazioni appartiene a un antico modello di vita politica e filosofica, il cinismo appunto. Tale modello è tornato a farsi sentire nella solidarietà operaia e nella vita militante tra il XIX e
il XX secolo.6 Oggi la resistenza, l’organizzazione e la creazione di nuovi legami sono le principali attitudini del Quinto
Stato, riunite in quella che qui definiamo una vita operosa.
Vogliamo rendere giustizia alla vita operosa di milioni di
persone. Sono persone che condividono un ethos, che non è
una morale né un’ideologia, bensì una capacità di abitare il
mondo e di renderlo ospitale, per sé, per gli altri e per tutti
quelli che verranno. Questo ethos permette di considerare
il Quinto Stato non come una sfera in sé, una classe schiacciata dalla povertà diffusa, ma come un’attitudine generosa (magnanima, direbbe Aristotele) verso la propria vita
e quella altrui. Non è facile descriverla in un Paese come il
nostro dominato dal risentimento e dalla paura. Per farlo abbiamo scelto di convogliare le risorse della storia, dell’analisi
linguistica e politica, della sociologia, della letteratura e dare
corpo a un processo invisibile, ma che si fa sentire ovunque.
I filosofi hanno definito tale processo «strategia di soggettivazione».7 Parlano di un’operazione simbolica che separa una comunità dalla sua identità acquisita, permette ai
singoli di sottrarsi ai ruoli esistenti impegnandosi nella tra-
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ATTO DI CREAZIONE
sformazione di sé. Anche per questa ragione abbiamo scelto
come protagonista della nostra storia l’apolide, una figura
che resta nel mezzo di una trasformazione, è distante dalle
vecchie identità e protende verso le nuove. È la condizione
in cui molte persone si ritrovano oggi: quella di chi si sottrae
all’identificazione con la società dominante e prospetta l’apertura a una vita diversa. Senza contare che l’apolide è l’incarnazione della divisione permanente tra l’autorità e il territorio, lo Stato e la cittadinanza, i poteri e i diritti; e quindi
rappresenta la politica attuale.
Leggendo la storia del mutualismo e del cooperativismo
operaio apprendiamo un’altra caratteristica del Quinto
Stato. Una volta che i suoi apolidi sono riuniti nello stesso
luogo, si distribuiscono tra loro le cose da fare. Maturano
la capacità collettiva di creare qualcosa in comune. In più
iniziano a riconoscersi, apprendono a vivere in un universo
sensibile e linguistico, condividono l’esigenza di un’emancipazione collettiva. Si associano, federano le loro pratiche e
competenze. Capiscono che non è il caso di passare la vita a
pagare i debiti contratti dagli altri, che è sempre meglio creare qualcosa da soli o collettivamente. L’apolide è padrone
di niente e non è schiavo di nessuno.
Chi conosce un Paese come l’Italia sa che questo atteggiamento è molto diffuso. Interpreta il modo di fare del lavoro
indipendente rispetto allo Stato o alle autorità di ogni tipo,
rifiutando però la retorica individualista che ha ammorbato
l’ultimo trentennio. Quante volte abbiamo ascoltato che è
meglio essere autonomi, piuttosto che dipendere da un padrone, da un maestro o da un burocrate? Il Quinto Stato
rappresenta una possibile estensione politica di questo atteggiamento. In un Paese dove tutti pretendono di dirigere
gli altri, è preferibile mettersi insieme e iniziare ad autogo-
INTRODUZIONE
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vernarsi. Come si può infatti aspirare a governare la società
senza prima dimostrare la capacità di governare sé stessi, i
territori o le città dove si vive? La nostra inchiesta sul Quinto
Stato vuole rispondere a questa domanda che ha spostato la
politica dal «chi», cioè il soggetto che agisce una trasformazione, al «dove» e al «quando», vale a dire i luoghi e i tempi
in cui si costruisce insieme tale trasformazione. Non raccontiamo la metafisica di un soggetto politico, ma la storia di
una creazione comune, persa e ritrovata ogni giorno, con le
persone che amiamo e con tutte le altre che non abbiamo
dimenticato.
Per tutte queste ragioni il Quinto Stato è un atto di creazione.
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Parte prima
CHE COS’È IL QUINTO STATO?
Capitolo primo
Apolidi
Il Quinto Stato è l’universale condizione di apolidia in patria in cui vivono almeno otto milioni di italiani ai quali non
sono riconosciuti i diritti sociali fondamentali. La stessa condizione interessa almeno cinque milioni di cittadini stranieri
che inoltre subiscono l’esclusione dai diritti di cittadinanza a
causa della loro extra-territorialità in uno Stato.
Il Quinto Stato è una condizione incarnata in una popolazione fluttuante, composta da lavoratrici e lavoratori
indipendenti, precari, poveri al lavoro, lavoratori qualificati e mobili, sottoposti a una flessibilità permanente. La
loro cittadinanza non è misurabile a partire dal possesso di
un contratto di lavoro, né dall’appartenenza per nascita al
territorio di uno Stato-nazione poiché per questi soggetti si
presuppone l’avvenuta separazione tra la cittadinanza e l’attività professionale, l’identità di classe, la comunità politica e
lo Stato. Oggi sono stranieri o barbari tanto i nativi italiani,
quanto i migranti. Entrambi appartengono alla comunità dei
senza comunità. La loro è una cittadinanza senza Stato, poiché lo Stato non riconosce loro la cittadinanza.
In questo mondo, non basta lavorare per essere riconosciuti come lavoratori. E non basta affermare di essere cittadini di uno Stato per essere riconosciuti titolari dei diritti
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I. CHE COS’È IL QUINTO STATO?
sociali, previdenziali, civili. La cittadinanza è stata limitata al
possesso di un bene residuale, intermittente, e sempre meno
retribuito: il contratto di lavoro. Anche quando ha la fortuna
di possederlo, il cittadino-lavoratore viene sezionato in una
lunga serie di identità parziali.
Si parla, ad esempio, di lavoratori precari, atipici, parasubordinati o con partita IVA i quali, pur potendo dimostrare
di partecipare alla politeia, restano cittadini dimezzati perché
non godono di un contratto di subordinazione e a tempo indeterminato. Altrettanto complicata è la condizione di chi vive
nell’emisfero dell’impresa, oggi travolta della crisi economica
iniziata nel 2008. È proprio la zona grigia tra il lavoro e l’impresa a costituire uno dei tratti caratteristici del Quinto Stato.
Esistono milioni di persone che hanno un impiego non
contrattualizzato o che svolgono un’attività imprenditoriale
in modo non tradizionale. Sono indipendenti che lavorano
a intermittenza, su commissione, oppure con un contratto a
termine. Si occupano di un’azienda, ma possono anche far
parte del consiglio di amministrazione di una cooperativa o
aver aperto una partita IVA e lavorare per sé. La compresenza in una persona di più identità lavorative, così come la
mobilità tra i lavori o le professioni, o l’alternanza tra periodi
di occupazione e disoccupazione, sono ulteriori caratteristiche distintive del Quinto Stato.
Questa condizione è stata sanzionata dal patto sociale
che oggi si è dissolto. In Italia è cittadino chi possiede un
contratto di lavoro, oppure è un imprenditore, è maschio,
bianco, capofamiglia, proprietario di una casa e in buona
salute. Esercita un’attività regolata dalla rappresentanza sindacale, oppure lavora nella pubblica amministrazione. Non
conta tanto la sua storia, la sua l’esperienza, le sue competenze, le sue relazioni, quanto il suo radicamento nella corporazione degli industriali, in un corpo sociale tutelato da
un ordine professionale, o dalla rappresentanza sindacale,
1. APOLIDI
23
da una lobby, da un gruppo di pressione, senza contare il vasto assortimento di poteri sociali informali che sopravvivono
in un Paese costituito da mille repubbliche legali e illegali.
Il Quinto Stato non ha diritti né tutele certe, li acquista o le
perde nello smercio quotidiano delle committenze, dei contratti, degli incarichi o dei favori.
Sta emergendo una nuova figura sociale, quella dell’apolide integrato, che paga le tasse, vota, esprime la sua opinione in piazza, ma non esce mai dalla zona grigia tra lavoro
e non lavoro. Questo apolide è il rompicapo della cittadinanza contemporanea. È il prodotto di un sistema in cui
l’istituzione statuale della cittadinanza è diventata un bene
residuale perché si è affermato un nuovo tipo di governo,
quello della governance, o della tecnocrazia, cioè lo statalismo senza Stato dell’Unione Europea o degli stati che la
compongono.1 Questa organizzazione della politica a livello
sovranazionale ha da tempo svuotato di efficacia i poteri
delle rappresentanze parlamentari, oltre che quelli dei cosiddetti «corpi intermedi»: cioè i sindacati, i partiti e le associazioni di categoria.
L’apolide non si ritrova nelle rappresentanze parlamentari, sindacali o imprenditoriali esistenti. Galleggia nello
spazio vuoto creato dalla scomparsa dell’equilibrio secolare tra la cittadinanza e lo Stato, tra la politica e il comando
(ciò che i latini chiamavano imperium), tra la sovranità degli
stati e le autorità internazionali che governano la loro vita
(la BCE, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, la «Troika» che vigila sulla crisi degli stati europei, ad
esempio). L’apolide non può sedersi allo stesso tavolo degli
stati che hanno perduto la sovranità. Difficilmente può influire sulle decisioni di chi sta più in alto e condiziona tutti i
livelli del potere politico.
Il Quinto Stato è il risultato della divergenza tra un’autorità che non comanda e un potere che non governa. Risiede
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I. CHE COS’È IL QUINTO STATO?
in uno Stato dove sopravvivono le antiche funzioni del controllo e della sanzione, ma non le prerogative che hanno garantito la mobilità sociale, l’emancipazione di una quota crescente di persone, in alcuni casi l’indipendenza economica
e la tutela dei diritti fondamentali. La sua partecipazione
alla politeia è compromessa perché sempre meno persone in
futuro riusciranno a lavorare ottenendo in cambio una parvenza di emancipazione, guadagnando un reddito da un’attività legalmente riconosciuta.
Questa situazione non aprirà la strada a un ritorno puro
e semplice delle forme autarchiche, comunitarie o totalitarie, ma occuperà a lungo il nostro orizzonte, mettendo seriamente in pericolo la vita democratica. Ciò che però la crisi
non rende necessario, né favorisce, non lo impedisce neppure fatalmente. La condizione negativa del Quinto Stato fa
anzi emergere, in maniera ancora più urgente, la possibilità
di un riscatto.
Capitolo secondo
Lavoro indipendente
Il Quinto Stato è una condizione sociale che si è radicata nel lavoro indipendente, si è affermata nelle vecchie
e nelle nuove professioni (dagli avvocati agli architetti, dai
ricercatori ai consulenti, ai grafici o agli esperti di marketing in rete), e in tutte le attività non subordinate, precarie
e intermittenti. In esso potrebbe rispecchiarsi chi conduce
un’auto-impresa o esercita il lavoro autonomo nell’ambito
delle relazioni organizzative e dei beni immateriali, i precari
della pubblica amministrazione, dei servizi, della cultura e
informazione, del commercio, della logistica o dell’industria
manifatturiera. Ci sono anche gli stagisti, gli apprendisti, i
tirocinanti, molti dei quali sono diplomati o laureati. C’è chi
lavora nelle cooperative, con la partita IVA o con uno dei
quarantasei contratti «atipici» esistenti in Italia.
Svolgono un lavoro indipendente molti di coloro che
sono nati dopo il 1970, chi ha iniziato a lavorare dopo il
1996, l’anno in cui è entrata in vigore la riforma previdenziale Dini che ha istituito la gestione separata dell’INPS, alla
quale nel 2011 erano iscritti all’incirca 1,8 milioni tra lavoratori autonomi e collaboratori. A questa cifra andrebbe
aggiunta quella dei 4,5 milioni di piccole e piccolissime
imprese con al massimo tre dipendenti. Un dato che rivela
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I. CHE COS’È IL QUINTO STATO?
come il lavoro indipendente in Italia sia capace di produrre
occupazione in proprio, erogando prestazioni rivolte anche
a piccoli e medi imprenditori. Questi numeri attestano ciò
che distingue il sistema industriale italiano da quello degli
altri paesi dell’Unione Europea.
Nel lavoro indipendente, rientrano dunque sia coloro che
svolgono prestazioni per conto terzi, cioè forniscono servizi o consulenze al privato o al pubblico mediante partita
IVA, sia gli imprenditori che operano nelle microimprese,
i liberi professionisti che assumono altre partite IVA o dipendenti. Parliamo di un mondo che rappresenta il ventitré
per cento dell’occupazione complessiva in Italia contro una
media europea del quattordici per cento. Solo in Grecia e
in Turchia il lavoro indipendente presenta numeri più alti.
Questa esplosione in Italia è stata generata dalla debolezza
dell’economia industriale manifatturiera e tecnologicamente
avanzata, ma è anche il risultato di uno straordinario sviluppo delle attività in proprio avvenuto a partire dagli anni
Settanta del XX secolo.1 Se poi conteggiamo anche i lavoratori a termine, intermittenti o precari, cioè i lavoratori non
subordinati in modo standard che operano con un contratto
a termine, quelli «atipici», allora la percentuale del lavoro
indipendente supera, seppure in alcuni casi esso sia eterodiretto, un terzo della forza-lavoro attiva in Italia (il totale era
di diciassette milioni nel 2010).2
In questo enorme aggregato di status professionali, posizioni di mercato, ispirazioni ideologiche distanti, emerge
almeno un tratto comune: la necessità di proteggere l’autonomia personale e quella del proprio lavoro secondo gradazioni e sfumature diverse. Questo dato è determinante
per evitare che si consideri il lavoro indipendente come un
rimedio alla disoccupazione oppure alla mancanza di posti
nell’ambito delle attività salariate. In quarant’anni, il lavoro
indipendente ha costruito il suo mondo, conquistando l’im-
2. LAVORO INDIPENDENTE
27
magine di soggetto produttivo. Contro uno Stato che non
garantisce i servizi o le tutele minime i lavoratori autonomi
di «prima generazione», cioè i commercianti, i ristoratori, le
piccole aziende della manifattura oltre che gli addetti ai servizi privati come idraulici o falegnami, hanno eluso o evaso
le tasse. I grandi evasori, e il capitalismo finanziario, hanno
sottratto alle casse dello Stato italiano risorse ben più ingenti, ma non si può nascondere che questo specifico settore
del lavoro autonomo e della piccola impresa abbia rappresentato fino agli anni Duemila il vincitore relativo della transizione italiana a un’economia terziaria.
Sarebbe tuttavia un errore (purtroppo compiuto ancora
da molti in Italia) considerare tutto il lavoro indipendente
come un mondo di malfattori ed evasori delle tasse. Tra l’altro, in esso è cresciuto in maniera esponenziale il peso di una
tipologia del lavoro autonomo, detto anche di «seconda generazione», che rappresenta il settore trainante dell’economia dei servizi e della produzione immateriale. Questi ultimi
lavoratori non sono certamente assimilabili, dal punto di vista economico e sociale, ai commercianti o ai piccoli imprenditori, soprattutto perché sono obbligati a emettere fatture
che il privato e il pubblico «onorano» soltanto diversi mesi
dopo l’erogazione della prestazione e quindi non hanno neanche la possibilità di evadere le tasse o lavorare al nero. Eppure sono stati ugualmente penalizzati. In tempi di rigore, lo
Stato italiano ha aumentato il peso della tassazione su tutto il
lavoro. Si parla, a ragione, delle vessazioni a cui è sottoposto
il lavoro dipendente, ma quasi mai ci si sofferma su quello
indipendente. Le conseguenze sono state pesanti, anche perché in questo caso al controllo fiscale più intensivo, e al progressivo aumento delle aliquote previdenziali, non è seguita
una maggiore inclusione nel welfare.
La crisi ha dunque agito in profondità sia sul fronte del
lavoro subordinato sia su quello indipendente. Per questo
28
I. CHE COS’È IL QUINTO STATO?
non si potrà mai più accettare la retorica dei «non garantiti»
contro i «garantiti»: la cittadella assediata delle forme del
lavoro standard incontra il mare aperto del lavoro indipendente dentro una feroce trasformazione capitalistica che non
risparmia nessuno. In Italia la «crisi» ha bruciato almeno un
milione di posti fissi, i quali non potranno mai più essere recuperati. E ha imposto la chiusura di decine di migliaia di
esercizi commerciali, costringendo alla disoccupazione o al
lavoro nero moltissimi autonomi con partita IVA. Il precariato si è moltiplicato nel privato come nel pubblico, spesso
sprofondando nell’orrore esistenziale e sociale del lavoro
gratuito. Ciò non toglie che il lavoro indipendente, o meglio
l’attitudine a operare in proprio o in autonomia, su commessa o a progetto, resterà in futuro la condizione necessaria
per condurre un’attività retribuita. Finché si continueranno
a effettuare spending review sul bilancio dello Stato, finché
sarà mantenuto il blocco delle assunzioni nella pubblica amministrazione, e persisterà la crisi produttiva e di identità
della grande impresa capitalistica, il lavoro indipendente
costituirà un’alternativa e una risorsa vitale. A condizione,
però, di essere tutelato e riconosciuto come elemento centrale della cittadinanza, cioè come parte determinante del
Quinto Stato, anziché come prodotto di un atteggiamento
predatorio o interessato rispetto alla cosa pubblica. A noi
il lavoro indipendente interessa per le sue caratteristiche
strutturali e per la sua capacità, non maggioritaria ma culturalmente significativa, di dimostrare che il suo «fare da sé»
è la premessa per una nuova autonomia nel lavoro e nella
società: un’autonomia che riesce a coniugare indipendenza
individuale e cooperazione sociale.
Gli elementi per procedere in questa direzione non mancano. Per comprenderli è necessario partire da un’analisi più
accurata della pluristratificazione del lavoro indipendente.
Esso si colloca in una posizione trasversale, e sempre mo-
2. LAVORO INDIPENDENTE
29
bile, tra un’appartenenza di classe e una di ceto. Oggi l’esercizio di un lavoro autonomo, intermittente e la stessa attività
auto-imprenditoriale rivelano una distanza, o asincronia,
tra la classe sociale di provenienza e lo status di cui la professione esercitata dovrebbe essere l’espressione. Ad esempio, può essere indipendente sia il datore di lavoro o committente con la partita IVA, sia il suo «prestatore d’opera»
che lavora con lo stesso strumento. Il primo può avere un
reddito più che rispettabile, da classe media o da imprenditore, il secondo può guadagnare anche meno di un qualsiasi
salariato. Si lavora così sia negli studi professionali che negli esercizi commerciali, nei centri estetici oppure tra avvocati, senza contare le piccole o piccolissime imprese che si
occupano di distribuzione o servizi. Da qui deriva un’altra
delle caratteristiche del Quinto Stato: l’impossibilità di individuare in esso un ceto sociale prevalente attraverso il quale
definire la sua posizione rispetto a gruppi sociali più riconoscibili: l’operaio, l’impiegato o il grande imprenditore.
Tra chi esercita un lavoro indipendente si rilevano almeno
due tipi di differenze di classe. C’è quella classica legata al
reddito, e alla proprietà, tra prestatore d’opera e datore di
lavoro e poi quella, più sottile, relativa al riconoscimento sociale di uno status connesso all’istruzione e alla conoscenza.
Molto spesso, il datore di lavoro ha un grado di istruzione
inferiore a quello dei suoi lavoratori con partita IVA o con
contratti a termine e di collaborazione. Questa è stata una
costante in tutta la storia recente del lavoro indipendente
in Italia, al punto che ancora oggi, soprattutto nelle piccole
e piccolissime imprese, anche quelle operanti nell’ambito
della conoscenza o dei servizi immateriali, i lavoratori possono vantare preparazione e competenze superiori ai manager e ai proprietari dell’attività.
Nel 2010, il trentasette per cento degli occupati italiani
classificati come «manager» aveva tutt’al più la scuola
30
I. CHE COS’È IL QUINTO STATO?
dell’obbligo, contro il diciannove per cento della media europea. In Germania, con una consistenza del settore manifatturiero simile alla nostra, i manager con livello di studi
analogo arrivano al sette per cento.3 Questa situazione incide pesantemente sul lavoro indipendente dove confluisce
gran parte degli elementi delle nuove generazioni che hanno
studiato e si sono specializzate. Questi giovani vengono assunti per oltre l’ottanta per cento con contratti a termine o
esercitano la propria attività tramite la partita IVA, entrando
così in contatto con una struttura produttiva, quella del nostro Paese, condizionata dal nanismo delle imprese, da un
deludente tasso di innovazione tecnologica, oltre che dall’arretratezza della pubblica amministrazione e dal bassissimo
numero dei laureati e dei lavoratori specializzati. Caratteristiche che hanno plasmato il lavoro indipendente in questi
anni, inserendolo in un conflitto di classe sempre più basato
sul possesso di saperi il cui valore non viene riconosciuto
come dovrebbe.
Le lotte di classe in corso nel lavoro indipendente, quelle
legate al reddito e al sapere, hanno aumentato a dismisura
la distanza tra l’appartenenza sociale e quella di ceto, ribaltando i tradizionali posizionamenti. In molti casi, infatti, gli
indipendenti con un reddito familiare da ceto medio e una
preparazione universitaria occupano il posto dei subalterni,
oppure sono vessati e finiscono per essere del tutto esclusi
dal godimento di un lavoro propriamente detto. Senza contare la maggioranza di coloro che provengono da uno strato
sociale più modesto, non possono contare su una rete di relazioni o su una preparazione qualificata e pertanto vivono
una condizione ancora peggiore di esclusione e impoverimento. La sottoccupazione, il precariato, il lavoro gratuito
e il sistematico disconoscimento delle competenze professionali è la condizione prevalente sia nel settore del professionismo autonomo che in quello più largo del lavoro inter-
2. LAVORO INDIPENDENTE
31
mittente, precario, delle collaborazioni a progetto, tanto nel
pubblico quanto nel privato.
Il dumping salariale, e la reale difficoltà a svolgere un’attività lavorativa in Italia, sono alcuni degli effetti della lotta
di classe in corso dentro il lavoro indipendente tra datori e
lavoratori, tra rentier e new comers, tra ricchi e poveri, tra indipendenti forti e affluenti e intermittenti deboli e a rischio
di esclusione sociale. Questa situazione ha ridotto le possibilità di identificarsi in un ceto, quello della piccola borghesia ad esempio, oppure nell’appartenenza corporativa a una
professione, moltiplicando in tal modo le divisioni di classe
tra individui che esercitano lo stesso lavoro e provengono da
universi di valori e legami apparentemente simili ma in realtà sideralmente distanti. A sei anni dal suo inizio, la crisi
ha cambiato profondamente, e in maniera irreversibile, il lavoro indipendente e la sua definizione.
Questa novità si è affermata sia per motivi congiunturali
legati a una crisi profonda dell’economia, sia per una trasformazione strutturale del lavoro in corso da almeno una
generazione. I confini accertati del lavoro indipendente si
sono diluiti al punto da investire settori anche molto diversi
dal lavoro autonomo o dalla piccola impresa propriamente
detti: ci riferiamo ad esempio, al precariato.
Caso unico nell’Occidente capitalistico, la legislazione
italiana sul lavoro, con la complicità di un’intera classe imprenditoriale, ha creato un esercito di lavoratori precari che
potrà essere regolarizzato con grandi difficoltà. Questa popolazione di lavoratori poveri, soggetti al turn-over selvaggio di un sistema burocratico e imprenditoriale interessato
principalmente al risparmio sul costo del lavoro, ha stabilizzato una zona grigia di posizioni lavorative e produttive che
oscillano tra il lavoro autonomo e quello eterodiretto, tra la
32
I. CHE COS’È IL QUINTO STATO?
subordinazione esclusiva e la flessibilità discrezionale, tra
l’intermittenza retributiva e quella lavorativa. Sono a tutti gli
effetti dipendenti di un’impresa, o di un’amministrazione,
ma questo status non verrà mai riconosciuto loro perché
sono anche «precari», vale a dire lavoratori intermittenti, indipendenti o stagionali, assumibili o licenziabili a seconda
delle esigenze congiunturali, la disponibilità di fondi statali
o europei, la buona volontà di un burocrate o di un sindacato di prolungare un contratto.
È necessario distinguere questo precariato dai lavoratori autonomi a partita IVA afferenti alla gestione separata
dell’INPS (282.000 su 1,8 milioni di iscritti nel 2011). Questi
ultimi svolgono infatti un’attività autonoma «pura»: offrono
sul mercato le loro competenze, trovano un committente e
trattano da pari a pari l’incarico e il compenso, praticano la
concorrenza. I punti di contatto tra queste estremità sono
tuttavia così numerosi da provocare cortocircuiti impressionanti. Sempre più precari vengono inquadrati con la partita
IVA e pertanto trattati come lavoratori autonomi. Sempre
più lavoratori con partita IVA svolgono a tutti gli effetti
mansioni da dipendenti.
Solo nella televisione di Stato italiana, la Rai, esistono almeno duemila lavoratori autonomi che potrebbero essere
inquadrati indifferentemente nella categoria dei «precari» e
in quella dei «professionisti» con partita IVA. La confusione
è arrivata a un punto tale da costringere il governo Monti a
inserire una regola apposita nella riforma Fornero, approvata nel giugno 2012, per sanzionare l’abuso delle «false partite IVA». L’attuazione del provvedimento è stata tuttavia
posticipata al giugno 2014 da una circolare del Ministero del
Lavoro, a seguito di una decisa opera di lobbying da parte
degli ordini professionali e delle aziende, oltre che degli apparati dello Stato, che non intendono rinunciare all’uso di
questa forza-lavoro senza pieni diritti e a basso costo.
2. LAVORO INDIPENDENTE
33
Senza contare che è lo stesso Stato italiano ad avere usufruito per vent’anni dei risparmi derivanti dalla precarietà di
massa. Qualche esempio può essere utile per comprendere
le dimensioni di questo fenomeno. Nel 2011 i precari della
scuola erano oltre trecentomila (su quasi un milione di dipendenti).4 Nello stesso anno, la Ragioneria Generale dello
Stato ha censito 35.193 precari (su 682.477 dipendenti) nella
sanità pubblica. Complessivamente, nel 2011 i precari nella
pubblica amministrazione che lavoravano nei servizi pubblici, sociali e per gli enti locali erano 514.814.
A questi bisogna aggiungere tutti coloro che sono impiegati, con i contratti più vari, da cooperative o aziende che dipendono integralmente dai finanziamenti stanziati dagli enti
locali o da altri enti pubblici. Non sono dunque lavoratori
alle dipendenze dirette dello Stato, ma la loro sopravvivenza
è strettamente legata all’intervento statale. Buona parte di
queste persone lavora con partita IVA o con un contratto di
collaborazione stipulato con un soggetto terzo (una cooperativa, ad esempio), che riceve un appalto o un subappalto
da una delle articolazioni centrali o periferiche dello Stato.
Nei fatti sono dipendenti mascherati di un datore di lavoro
con il quale non entreranno mai in contatto, perché sono pagati da un suo mandatario.
Questa complessa architettura dimostra che lo Stato italiano, il più grande sfruttatore mondiale di lavoro precario,
quindi a minor costo (previdenziale e fiscale) per il datore di
lavoro, si è organizzato come un’impresa postfordista. Il vertice di questa organizzazione – che può essere rappresentata
come una fisarmonica che si gonfia o si sgonfia in funzione
delle esigenze della produzione o dei fondi nazionali o europei a disposizione, oltre che dei vincoli clientelari che impongono ricatti occupazionali – non saprà mai cosa accade alla
base della piramide. E viceversa: la base ignora chi dirige al
vertice. Questo sistema altamente sofisticato è dominato
34
I. CHE COS’È IL QUINTO STATO?
dall’imperativo categorico dell’industria italiana: risparmiare
sul costo del lavoro. La pubblica amministrazione esercita tale
principio dalla fine degli anni Novanta del XX secolo, quando
la sostituzione dei pensionati con nuovi impiegati è stata sostanzialmente bloccata a favore dell’implementazione del lavoro precario. Con la crisi del 2008, che ha spinto i governi ad
adottare brutali politiche di riduzione della spesa pubblica, si
è cominciato a espellere massicciamente il lavoro precario e i
dipendenti dai comparti dello Stato.
I dati dell’ARAN, l’agenzia che rappresenta la pubblica
amministrazione nella contrattazione collettiva nazionale, parlano chiaro. I dipendenti pubblici sono passati da
3.627.139 a 3.396.810 tra il 2006 e il 2011, con una diminuzione di 232.000 unità, 161.000 solo nella scuola. Contrariamente a una delle leggende diffuse dai sostenitori dello
«Stato minimo», questi numeri dimostrano che l’Italia è
sotto la media OCSE per numero di occupati nella pubblica
amministrazione. Sono meno di quelli francesi, e lo si può
capire, considerate le tradizioni dei vicini d’Oltralpe. Ma,
sorpresa, l’Italia si classifica sotto i paesi presi a modello dai
sostenitori del neoliberismo scatenato: gli Stati Uniti e la patria dell’Iron Lady Margaret Thatcher. Sotto di noi ci sono
solo i «PIGS» Spagna e Portogallo, seguiti dalla Germania.
Questa tendenza continuerà nei prossimi anni con un calo
del 2,3 per cento degli impiegati. Per la Ragioneria Generale
dello Stato il risparmio sugli stipendi è stato notevole: nel
2011 la spesa è calata dell’1,6 per cento rispetto all’anno precedente, 170 miliardi. Nel 2012 essa è ulteriormente calata a
165,36 miliardi di euro.
Il precariato nel settore pubblico è solo una piccola parte
del Quinto Stato emerso dopo lo scioglimento del ghiacciaio
del lavoro salariato. I lavoratori con un contratto a termine
in Italia sono oltre tre milioni. Nel 2012 guadagnavano 836
euro netti al mese, la media tra i 927 euro per gli uomini e i
2. LAVORO INDIPENDENTE
35
759 euro per le donne. Solo il quindici per cento di loro è
laureato, quasi uno su due ha un diploma di scuola media
superiore, mentre il restante trentanove per cento ha concluso il percorso di studi con il conseguimento della licenza
media. Gli «atipici» che lavoravano nel 2012 erano 436.842
nel commercio, 414.672 nei servizi alle imprese, 337.379 in
alberghi e ristoranti.
Mezzo milione nel pubblico impiego, più di tre milioni
di precari nel privato, quasi due milioni di iscritti alla gestione separata dell’INPS, senza contare coloro che vivono
e lavorano nella «zona grigia» tra un’occupazione precaria e
una autonoma o di auto-impresa, tra il precariato e il lavoro
informale: queste persone vivono in una condizione diversa
dal puro e semplice «disagio occupazionale». Non sono
chiaramente tutte disoccupate, anche se sono in molte ormai
a ritrovarsi in questa situazione. Non tutte possono essere
trattate da «precari», anche se conducono una vita condizionata dall’intermittenza del reddito. Non rientrano nemmeno nella categoria della «piccola impresa» o del lavoro
autonomo propriamente detto, anche se in molti casi sono
abituate a cambiare lavoro, spesso a inventarselo. L’insieme
di questi esempi non può essere ricondotto all’unità di un
soggetto riconoscibile.
Si può tuttavia sostenere che in Italia esistono almeno
otto milioni di persone che condividono la medesima condizione, quella del Quinto Stato, risultato dell’estensione
massiccia delle caratteristiche strutturali del lavoro indipendente (definito dal legislatore «non standard» o «atipico»)
a quello tradizionalmente subordinato e dipendente, anche
quest’ultimo sempre meno garantito. Il Quinto Stato vive
come un apolide in patria a cui viene riconosciuto il diritto
di lavorare, ma puntualmente alle peggiori condizioni disponibili e senza diritti. Inutile attendere che esso in futuro ottenga un migliore inquadramento e maggiori tutele da parte
36
I. CHE COS’È IL QUINTO STATO?
di una classe imprenditoriale o di una burocrazia statale che,
per ragioni diverse, trovano conveniente mantenere lo status
quo. Anzi, con la crisi attuale, queste compagini hanno rafforzato i presupposti della sua marginalizzazione. Considerata la sua consistenza numerica, così come la sua centralità
produttiva, non si può escludere che la nascita del Quinto
Stato sia il risultato del più generale riassetto strutturale che
ha investito il mondo del lavoro anche in Italia.
Abituati, come siamo stati da almeno un secolo, a ragionare sul lavoro salariato, non ci siamo accorti che oggi il lavoro indipendente è diventato la condizione prevalente della
vita operosa, anche per chi ancora non ne fa parte, ma sente le
tradizionali sicurezze sbriciolarsi sotto i colpi di una trasformazione capitalistica epocale. Parlare di Quinto Stato significa porsi all’altezza di una novità storica che stentiamo ancora
a riconoscere come risorsa per il presente e per il futuro.
Capitolo terzo
Un movimento, non uno Stato
Il Quinto Stato è in realtà un movimento, non uno Stato, che
oggi vive in una bolla temporale: il suo movimento sembra ridursi alla continua fluttuazione tra un’illusione retrospettiva
e un’apertura sulle potenzialità del futuro. I precari, gli autonomi, gli indipendenti non sono rappresentati ai tavoli dove
si contrattano gli accordi aziendali o politici, negli spazi pubblici o riservati dove si decidono i confini del patto sociale.
Sono invisibili agli occhi dei sindacati o della rappresentanza
parlamentare. La loro identità sembra essere evaporata, insieme alla capacità di far sentire la propria voce attraverso
canali indipendenti. Continuano a essere confusi con figure
supplenti, veri e propri sostituti simbolici che travisano la
loro condizione, che è poi quella generale della società. I discorsi ufficiali riducono questo movimento del Quinto Stato
a un campo semantico che oscilla tra il concetto di «povero» e
quello di parassita, di plebe o di muta umana. Il Quinto Stato
è iscritto nel campo dell’esclusione e dello stigma sociale.
Questo è l’esito di una lunga vicenda, sconosciuta ai più,
che possiamo ricostruire attraverso l’uso che in passato è stato
fatto del concetto di «Quinto Stato». Uno scrittore come Ferdinando Camon l’ha assimilato al mondo contadino in un
romanzo, Il quinto stato, pubblicato nel 1970 con una pre-
38
I. CHE COS’È IL QUINTO STATO?
fazione di Pier Paolo Pasolini. Non poteva essere altrimenti,
visto che in quegli anni, con i suoi film e poesie, lo scrittore
veneto si appellava all’archetipo millenario del mondo contadino opponendolo alla «modernità» del neocapitalismo. Camon, di origini padovane, dedica il primo romanzo «della pianura» «al mio popolo contadino che non [ha] mai raccontato
se stesso, la propria storia, gli spietati eroismi e la millenaria
rassegnazione»1 e descrive il Triveneto come un’oasi del Terzo
Mondo «immobile e morente nel cuore di una delle nazione
europee in più vorticosa trasformazione».
Per Camon, il Quinto Stato sarebbe costituito da un popolo che non conosce la lingua della propria nazione, fermo
al culto dei morti, allo spiritismo, al feticismo, alla presenza
dei diavoli, a un cattolicesimo che sfocia nel paganesimo. Con
l’espressione Quinto Stato l’autore veneto alludeva a uno dei
caratteri «nazionali» più frequentati: quello dell’italiano proletario, contadino, industrioso e creativo, vittima e protagonista della divisione tra città e campagna. Questo «contadino»
viveva in un isolamento distante secoli dal processo di modernizzazione in atto nelle città del Nord o del Sud. Così inteso,
il Quinto Stato sarebbe l’espressione di una «vita eterna», il
carattere intramontabile di un mondo fuori dalla storia.
Quarantré anni dopo, il Censis ha descritto la popolazione italiana alle prese con la crisi negli stessi termini: chissà
se al fondatore e attuale presidente del Censis, Giuseppe De
Rita, è capitato recentemente di rileggere il romanzo di Camon. In un rapporto del 2013 che descrive le conseguenze
della crisi sulla vita della popolazione, a giudizio dell’istituto
di ricerca l’unico elemento che resiste nella catastrofe generalizzata delle istituzioni e dei valori è lo «scheletro contadino» degli italiani. Lo dimostrerebbe la loro attitudine al risparmio, al ritorno alla morale e al senso della famiglia dopo
la sbornia del capitalismo consumistico e dell’anarchia dei
desideri.2 Più prosaicamente, questo ritorno ai valori fon-
3. UN MOVIMENTO, NON UNO STATO
39
danti della «comunità nazionale» è dettato dal ruolo di ammortizzatore sociale svolto dalla famiglia a favore dei figli o
dei parenti precari e disoccupati che ricevono sostegni di varia natura in un Paese dove non esiste un welfare moderno a
tutela di chi ha perso il lavoro e, venti anni dopo, si è ancora
alla ricerca di quella «Magna Charta delle attività immateriali, saltuarie, servili».3 Invece di pretendere la riforma radicale dello Stato sociale, introducendo ad esempio un reddito
garantito e incondizionato (l’Italia, insieme a Grecia e Ungheria, è l’unico Paese europeo a non prevederlo nemmeno
nella forma minimalistica di un welfare-to-work), la sociologia s’inalbera richiamando categorie metafisiche.4
La persistenza di uno «scheletro contadino» nella storia
contemporanea è una deriva letteraria dell’analisi sociologica
in tempi di crisi e trasformazione come il nostro, e com’era
anche quello in cui uscì il romanzo di Camon. Secondo Pasolini, negli anni Settanta era in corso un «genocidio» delle
tradizioni, delle lingue e della storia del mondo contadino,
non solo di quello italiano. Quel «genocidio» ha lasciato sul
campo un’eredità ingombrante sotto forma di un ricordo remoto, uno scheletro, un residuo, o meglio di una «restanza»,
come scrive il Censis. Insomma la memoria dei morti condiziona l’esistenza dei vivi nel ritorno dell’identico.
La necessità di tornare a modelli del passato per spiegare
il presente non è nuova, anche se ha conosciuto tentativi più
riusciti di quello attuale, come il ricorso alla storia romana
durante la Rivoluzione francese. Attraverso la ripetizione
del passato di solito si cerca di dare una forma a un futuro
imprevedibile, prodotto di una radicale discontinuità storica. Il Quinto Stato non è certamente il mondo contadino
e non risponde a un particolare carattere nazionale. Questo
è il primo dato che rende la nostra condizione inquietante
agli occhi degli esperti, come delle istituzioni. Le scaturigini
dell’attuale situazione potrebbero risalire al 1970, usando
40
I. CHE COS’È IL QUINTO STATO?
la data di pubblicazione del romanzo di Camon come uno
spartiacque. Da quel momento, nel Quinto Stato si è manifestato un movimento generale della società capitalistica che
non risponde ad alcun modello predeterminato, non segue
una teleologia storica e non può essere descritto nemmeno
con la ripetizione di paradigmi del passato.
Questo movimento ha una natura per così dire autopoietica, provvede cioè da solo a elaborare forme e contenuti, imponendoli nella lotta tra le rappresentazioni sociali.
Questa auto-poiesi è appena all’inizio, ha formulato le prime
ipotesi di espressione, si è scontrata con i modelli precedenti, talvolta ne ha acquisito alcuni elementi, altre volte li
ha trasformati o rimossi. Per comprenderla è necessario rintracciarne la lunga durata, e le sue manifestazioni puntuali,
senza però dimenticare che essa non risponde alla conquista
di un ordinamento sociale o giuridico (uno Stato appunto),
ma si esprime attraverso un conflitto, una lotta, contro le
strutture acquisite. Sta qui l’estrema debolezza del Quinto
Stato, un movimento che non ha forma o contenuto determinati, ma attraversa le classi e i ceti esistenti. Per questa
ragione si presta a essere identificato con i modelli sociali
precedenti, come il mondo contadino. Il Quinto Stato è una
contraddizione esplosiva.
Per essere precisi, i contadini appartengono al «Quarto
Stato». Non si può tuttavia escludere che il Quinto Stato abbia attraversato la storia, e le tradizioni, del mondo contadino, mantenendo le proprie specificità per poi emanciparsi
definitivamente. La storia recente del Veneto lo dimostra. Il
Quinto Stato di Camon può essere considerato l’antefatto,
anche se il romanzo non coglie la trasformazione che si sarebbe rivelata da lì a poco. Episodi simili sono accaduti in
regioni come le Marche, l’Umbria o l’Emilia Romagna, la
Puglia, ad esempio. Il decennio successivo alla pubblicazione di questo romanzo è stato caratterizzato dall’afferma-
3. UN MOVIMENTO, NON UNO STATO
41
zione del Quinto Stato che può essere descritta nei termini
di una «vera, enorme, radicale rivoluzione antropologica»,
la seconda avvenuta in Italia dopo quella del neo-capitalismo alla metà degli anni Cinquanta nell’ambito dell’industria e del lavoro salariato.5
Questa «rivoluzione» ha creato una nuova identità che
non è solo «televisiva», «neo-capitalistica», «consumistica»
per usare ancora il linguaggio di Pasolini. Essa si è certamente emancipata dall’arretratezza di un mondo che non
aveva ancora conosciuto il capitalismo e non può essere considerata solo come l’imposizione di un carattere omogeneo
ai danni di soggetti passivi. I protagonisti del Quinto Stato
non hanno nulla da spartire con l’immobilismo millenario
raccontato da Camon o da Pasolini e nemmeno con la vicenda delle rivoluzioni contadine vittoriose in Russia e in
Cina, ma perdenti in Germania nella prima modernità.6
Parliamo invece di una condizione completamente diversa la cui storia è appena all’inizio. Essa ha avuto la capacità di diventare protagonista di un’ipermodernizzazione brutale che ha portato a una ricchezza diffusa, anche
se profondamente diseguale. Il protagonista è un soggetto
che presenta caratteristiche differenti da quelle indicate da
Camon. Questo soggetto è riuscito a scatenare una nuova
forma di conflitto nei luoghi della produzione, così come nel
rapporto tra il mondo contadino e la nuova realtà sociale.
La sua vicenda si inserisce nel percorso delle lotte operaie
e proletarie iniziate nel 1959 e proseguite fino alla fine degli
anni Settanta.7
Il biennio ’68-’69, così come il 1977, è centrale nella storia
del lavoro indipendente. In quegli anni esplosero la rivolta
studentesca e quella operaia, mentre venivano conquistati
lo statuto dei lavoratori e una serie non trascurabile di diritti
civili e sociali.8 Dentro e intorno al Quinto Stato contadino
dal quale fugge Ferdinando Camon c’è la radicale trasfor-
42
I. CHE COS’È IL QUINTO STATO?
mazione del tessuto sociale italiano, che fa da contraltare
all’innovazione economica nel tardo capitalismo maturo e
nell’industria pesante italiana, nel passaggio verso il postfordismo e l’affermazione di quella «Terza Italia» di nuova
industrializzazione (Nord-Est, Marche, Toscana, Umbria ed
Emilia-Romagna), rispetto alle altre due «Italie» della grande
industria fordista del triangolo Torino-Genova-Milano e del
Meridione, costretto tra burocrazia para-pubblica e sovvenzioni statali, con la Cassa del Mezzogiorno istituita nel 1950.
E, nello stesso scorcio degli anni Sessanta-Settanta del Novecento, le grandi città diventano il serbatoio del precariato
metropolitano, del lavoro nella società dello spettacolo e del
suo indotto (comunicazione, informazione, istruzione, pubblicità, grafica, pubbliche relazioni, assistenza alla persona).9
I contadini, i proletari, gli operai di ritorno dall’emigrazione
nelle fabbriche tedesche, maturarono la vocazione al lavoro
indipendente. Iniziarono ad associarsi per creare piccole o
piccolissime imprese. Le aspirazioni legate fino a quel momento al lavoro salariato si trasferirono al lavoro indipendente. Questa è stata la spinta decisiva che ha portato alla
formazione di un nuovo territorio, la metropoli «LombardoVeneta», costituita da un’infinita sequenza di capannoni e di
imprese familiari, alta flessibilità, produzione artigianale e industriale, micro-imprese sparse nelle filiere corte del capitalismo molecolare, distretti industriali che avrebbero superato
le crisi del modello fordista, maturando la vocazione all’export. Dopo la caduta del Muro di Berlino, gli indipendenti si
sono spinti verso l’Europa dell’Est e l’Asia.10
Pasolini non ebbe il tempo di comprendere la natura di
questo processo, mentre Camon ha descritto gli albori di
questa «Terza Italia»11 dove il lavoro indipendente si emancipava dal capitalismo fordista e dalla grande impresa manifatturiera, dalla povertà e dall’economia del baratto del
mondo contadino. Oggi il Quinto Stato appare agli occhi
3. UN MOVIMENTO, NON UNO STATO
43
della comunità nazionale come un amalgama di interessi
proprietari, speculativi e persino razzisti dei piccoli imprenditori o dei loro dipendenti che lavorano nell’immensa regione dei distretti industriali che si estende dal Piemonte alla
Romania. Così inteso, il Quinto Stato è ben lontano dal riuscire a riscuotere simpatia o solidarietà.
Le sue manifestazioni non sono tuttavia riducibili solo alla
«Terza Italia». L’origine di questa storia non corrisponde alla
fine di un mondo, ma indica l’esistenza di una condizione che
si è affermata lentamente, e non senza contraddizioni, fuori
dalla cultura costituzionale, da quella operaia o sindacale
della sinistra, così come da quella repubblicana che si è riconosciuta nello Stato centrale. Questa è la discontinuità in
cui viviamo ancora oggi. Nello Stato unitario, non si è mai
data l’affermazione consapevole di una forma di convivenza,
economica e sociale, diversa da quella della borghesia o della
classe operaia, ambedue spinte verso il loro «divenire ceto
medio». Il lavoro indipendente indica la presenza di una novità che si è imposta rovesciando le antiche gerarchie o istituendo un rapporto originale tra modelli sociali e modelli di
sviluppo. Piuttosto che identificare il Quinto Stato con i contadini, oppure con altre figure «minori» della storia nazionale, bisogna considerare come il lavoro indipendente abbia
trasformato i rapporti di classe consolidati, insieme alle loro
infinite variazioni e articolazioni.
Il quinto stato è il titolo di un altro libro scritto nel 1960,
quindi dieci anni prima del romanzo di Camon, da Salvatore
Valitutti, prestigioso giurista liberale, già membro dell’Istituto di Cultura Fascista dal 1933, poi vicepresidente dell’Opera Montessori e ministro dell’Istruzione nel 1979. Questo
libro allarga lo spettro della nostra osservazione al mondo
della formazione, e in particolare ai giovani e alla loro ca-
44
I. CHE COS’È IL QUINTO STATO?
pacità di auto-affermazione, elementi utili ad allontanare il
Quinto Stato dall’identità economicistica o bucolica al quale
è stato consegnato. Valitutti considera il Quinto Stato come
l’alternativa al corporativismo dei sindacati, alla rappresentanza parlamentare e un antidoto contro il deperimento
della politica. Esso sarebbe la manifestazione del «divenire
della società» e di una lotta per il diritto non riconosciuta
dalle classi sociali esistenti che si governano come «microorganismi». Per Valitutti, il Quinto Stato è l’avversario dello
Stato, inteso come ordinamento giuridico e politico, ma è
anche l’antagonista del Quarto Stato. Le sue rivendicazioni
non raccolgono consenso tra i partiti e i sindacati che anzi
molto spesso le combattono.
In questa descrizione si ritrovano tutti i caratteri sociali
che hanno dato vita alla Terza Italia, ma è indubbio che essi
ritornino anche nella realtà contemporanea. L’attenzione di
Valitutti va ai giovani, agli studenti e ai «senza lavoro, che
appartengono alla società in movimento, quelli che sono alla
ricerca del loro lavoro» in una società corporativa. Il Quinto
Stato non è identificabile con l’insieme dei disoccupati e dei
sotto-occupati, ma con il movimento di chi: « dal non lavoro
vuole passare al lavoro, o da un tipo di lavoro ad un altro tipo
di lavoro, entra a far parte idealmente, per questa sua volontà, del quinto stato». Dinanzi al Quarto Stato degli operai
e dei contadini e al Terzo Stato della borghesia, Valitutti delineava un Quinto Stato «costituito da coloro che non avendo
nessun lavoro certo e definito, erano e sono fuori di ogni organizzazione sindacale, statale o burocratica».
I giovani sospesi tra un non più e un non ancora incarnano per Valitutti la condizione di un Quinto Stato che non
può essere incasellata in una determinata categoria sociale,
né in un lavoro. «La gioventù è il grande vivaio del quinto
stato» e, cosa ancora più importante, questa condizione attraversa tutti i ceti sociali e le categorie consolidate del la-
3. UN MOVIMENTO, NON UNO STATO
45
voro. Dunque, più che ridurlo a una figura sociale determinata, Valitutti delinea la funzione politica del Quinto Stato:
rinnovare di continuo la società, la propria condizione. «Il
quinto stato è lo stato del mutamento e del progresso»,
scrive Valitutti, «perché è lo stato di tutti coloro che non
hanno una condizione stabile. Esso raccoglie le forze della
trasformazione e del movimento in lotta contro l’inerzia
delle posizioni costituite».
Questa rappresentazione fluida, simile a un potere costituente o insurrezionale che ricorda Sorel e la sua idea di
sindacalismo rivoluzionario, suscita alcune perplessità. Non
solo perché costituisce ancora l’argomentazione principale
della destra e dei neoliberisti che si scagliano contro il corporativismo dei sindacati, la burocrazia e il familismo di una società ermeticamente chiusa, ma anche perché rappresenta l’espediente retorico prescelto dagli imprenditori che vogliono
«ringiovanire» il Paese, aprirlo alla concorrenza, con l’evidente intento di risparmiare sul costo del lavoro e danneggiare i più giovani e i meno garantiti. Valitutti ha intuito una
delle cause della crisi italiana, cioè un ordinamento giuridico
fondato sul lavoratore dipendente e sul grande imprenditore,
ma vede la soluzione nella meritocrazia che premia i giovani
efficienti nella competizione con i vecchi improduttivi. Così
facendo, egli identifica il Quinto Stato con l’emergere delle
nuove generazioni che chiedono una maggiore mobilità sociale e il riconoscimento dei meriti individuali.
Valitutti fa un discorso capitalistico. Il giurista era affascinato dagli Stati Uniti di cui apprezzava la mobilità sociale e
«l’abbondanza di opportunità offerte al quinto stato». Sono
gli stessi argomenti che tornano all’inizio del XXI secolo.
L’evocazione del sogno di società meritocratica è comprensibile in una società clientelare, corporativa, corrotta come
la nostra. Parlare di «meritocrazia», di «giovani» contro
«anziani», di «non garantiti» contro garantiti è diventata la
46
I. CHE COS’È IL QUINTO STATO?
norma del discorso sulla società e sul lavoro, dalla Confindustria ai sindacati fino ai governi di ogni colore. L’impotenza dei sindacati ad auto-riformarsi, la scomparsa politica
e culturale della sinistra e l’affermarsi delle ricette neoliberiste basate su una visione aziendalistica della società, hanno
rafforzato questa visione. Ciò che dev’essere premiato è il
merito individuale dei «giovani» che si candidano a ricoprire una posizione sociale superiore a quella dei genitori,
entrando così a far parte del ceto medio.
La versione di Camon, il Quinto Stato è il mondo contadino, o quella di Valitutti, il Quinto Stato sono i «giovani»,
colgono solo alcuni tratti di un fenomeno generale. La prima
si rifugia in un mondo immobile e impotente, la seconda si
affida all’idea di una lotta senza speranza tra gli individui che
finisce per confermare i rapporti di forza esistenti. La stessa
vicenda della «Terza Italia» descrive un Quinto Stato padronale, localistico e autoritario. Queste prospettive hanno tuttavia mostrato una doppia novità: il Quinto Stato è disorganizzato ed è alla ricerca di un’organizzazione, senza la quale è indifeso. Quando invece riesce a dotarsi di un’organizzazione, e
conquista una forma e una capacità di auto-rappresentazione,
allora esso si pone come un movimento sociale estraneo alle
corporazioni professionali, sindacali, come alla mediazione
dei partiti politici. Le sue scelte politiche sono senz’altro deludenti, ma bisogna considerare un altro aspetto: il Quinto
Stato, almeno nelle sue parti emerse fino ad oggi, ha una concezione utilitaristica della politica, appoggia chi fa i suoi interessi, com’è costume ormai in Occidente. Non si è mai posto il
problema della lotta politica in quanto tale: ha delegato tutto
ai politici e ha fallito. Ciò non toglie però che abbia rilevato
l’inadeguatezza della politica ad affrontare i suoi problemi e a
comprendere la novità storica che esso rappresenta.
Siamo convinti che nel Quinto Stato siano presenti altri
principi costitutivi, ispirati all’autorganizzazione e a una tra-
3. UN MOVIMENTO, NON UNO STATO
47
dizione storica spesso soffocata nella Terza Italia: il municipalismo civico e repubblicano, dell’associazionismo e del
mutualismo. Entrambi questi elementi stanno riemergendo
come alternativa alla crisi della politica rappresentativa
come di quella «dal basso» dei movimenti.
Capitolo quarto
Ceto medio
Garantiti o intraprendenti, moderatamente benestanti, riconosciuti come cittadini laboriosi in quanto appartenenti
a categorie sociali definite, si è creduto che i lavoratori indipendenti, i piccoli imprenditori, gli impiegati pubblici
condividessero lo stessa identità del ceto medio. Nell’immaginario sociologico, politico e sindacale, il ceto medio è
ancora oggi rappresentato da laureati con una professione
e da proprietari di ceto borghese che compongono un vasto
insieme di categorie sociali produttive, dai contorni sfumati,
e che esercitano un ruolo nello Stato, nel commercio, nell’industria o in una libera professione.
L’idea del «ceto medio» è talmente polimorfa da avere
raccolto gli operai, o almeno la loro componente più specializzata e garantita, collocandoli sullo stesso piano della borghesia industriale. L’aspirazione a far parte al «ceto medio»
è stata così potente da assorbire progressivamente anche la
sfera un tempo considerata alternativa, quella del proletariato
moderno, del movimento operaio. Anch’essa è stata neutralizzata nella categoria di «ceto medio». Oggi questa aspirazione
non è scomparsa, ma la realtà in cui vive una buona parte dei
suoi presunti referenti smentisce la rappresentazione di un
ceto medio tanto numeroso e differenziato, quanto omoge-
50
I. CHE COS’È IL QUINTO STATO?
neo e organico. Non intendiamo affatto escludere l’esistenza
di persone che vivono del proprio lavoro nei settori indicati;
neghiamo semplicemente l’esistenza di una condizione definibile come «ceto medio» capace di descrivere il processo di
proletarizzazione e di impoverimento in atto, prima tappa di
una lunga deriva verso l’anomia sociale.
Quando si evoca la «crisi del ceto medio», si allude all’evaporazione dei confini tra le classi sociali avvenuta negli anni
in cui il ceto medio tradizionale ha perso la sua centralità politica a favore di un’opulenta upper middle class che vive di
rendita: capitalisti e grandi professionisti, ceti politici e burocrazie di Stato che vengono definiti «casta» dalla retorica
dominante. Dall’inizio della cosiddetta «Seconda Repubblica», nel 1992-93, il sistema produttivo basato sulla prevalenza dell’industria manifatturiera e l’emergenza dei distretti
industriali è stato disarticolato e liquidato dalla delocalizzazione delle imprese, dalla fine del progetto dello Stato-imprenditore, dalla finanziarizzazione dell’economia. La crisi
attuale ha liquidato i vecchi ceti produttivi, insieme all’ultima
generazione di imprenditori.1 Questo processo ha creato
una lower middle class, che ha rappresentato nel corso di un
ventennio la maggioranza dei lavoratori autonomi e precari,
piccoli imprenditori falliti o in crisi, studenti, giovani o meno
giovani prestatori d’opera occasionali. Questa «bassa classe
di mezzo» si è però estesa al punto da perdere l’identità precedente – vera o presunta che fosse – finendo per assomigliare oggi a un nuovo proletariato, ciò che noi definiamo
«Quinto Stato». In essa rientrano categorie del lavoro dipendente, come del lavoro salariato. L’incongruenza tra l’appartenenza di ceto e quella di classe, una delle caratteristiche del
lavoro indipendente, è diventata la condizione comune della
maggioranza della popolazione attiva. La categoria di «ceto
medio» ha perso la sua utilità, epistemologica e politica, e riacquista un senso solo quando designa i liberi professionisti.
4. CETO MEDIO
51
Lo ha confermato il Great British Class Survey, una rilevazione statistica condotta in Gran Bretagna su 161.000
persone e curato nel 2013 dalla London School of Economics e dall’Università di Manchester, e pubblicato anche
dalla BBC.2 La tesi dei ricercatori è la seguente: il ceto medio non esiste, ma esistono sei strati sociali: la classe media
«affermata», quella «tecnica», i nuovi lavoratori affluenti, gli
emergenti lavoratori nei servizi, la classe lavoratrice tradizionale e il precariato. Quest’ultimo viene considerato addirittura al di sotto del «proletariato» classico e indica una fascia
della popolazione priva di «capitale economico» e «sociale».
Da fenomeno socio-economico, il «precariato» («precariat»
secondo il neologismo inglese coniato da Guy Standing)3 è
diventato una categoria sociale codificata anche nel Regno
Unito.
Anche questa classificazione smentisce l’esistenza di una
posizione mediana tra le classi sociali dove le differenze convergono fino al riconoscimento di un’unica identità. Essa tuttavia soffre di un’eccessiva rigidità. Designa solo un precariato
che precipita verso l’indigenza assoluta, non il processo di
proletarizzazione che ha investito tutti i soggetti che un tempo
componevano il ceto medio. Il «precariato», che l’analisi confina in una categoria sociale, è in realtà il processo che ieri ha
creato la lower middle class e oggi ha dato vita al Quinto Stato.
Chi ritiene che oggi sia in crisi il ceto medio come entità
autosufficiente è prigioniero della sindrome dello specchietto retrovisore. Guarda al presente con gli occhi rivolti
al «Terzo Stato» dell’abate Sieyès, un nome che richiama la
Rivoluzione francese e ha condizionato l’intera tradizione costituzionale moderna, oltre che l’equilibrio tra i poteri sociali
nel capitalismo. Queste considerazioni vengono formulate a
partire da una visione malinconica della società, interessata
a evocare modelli ideali di ritorno all’ordine. La convinzione
di appartenere al «Terzo Stato», o a qualche suo erede, ha as-
52
I. CHE COS’È IL QUINTO STATO?
sicurato alla classe borghese, e alle sue derivazioni, il primato
nella rappresentanza democratica, come nell’analisi sociologica. Nel secondo dopoguerra, tale convinzione ha giustificato l’idea per cui la nostra società sia stata il risultato di una
progressiva, e inarrestabile, «borghesizzazione» delle sfere
sociali esistenti. Il ceto medio sarebbe una formazione sociale
aperta verso l’alto e verso il basso, e ciò gli garantisce l’eternità attraverso il ricambio fornito da nuovi ceti impiegatizi e
neo-imprenditoriali.
Un’analisi più sensibile alle trasformazioni sociali e produttive ha chiarito che il Mittelstand di Max Weber, il ceto
di mezzo garante quasi metafisico dell’equilibrio di una società che si sviluppa in maniera organica e non conflittuale, è
un’astrazione politica che ha condizionato gli intimi convincimenti dei suoi stessi membri. La crisi attuale ha fatto scoprire una dura realtà al «ceto medio»: solo pochi individui
appartengono a un «ceto», in prevalenza ereditato dal nucleo familiare d’origine o da rendite finanziarie. La maggioranza è invece composta da individui «disaffiliati» che non
appartengono a un ceto o una classe predeterminata, anche
se aspirano legittimamente a conquistare, o a riconquistare,
una posizione sociale.
Oggi assistiamo al paradosso di una società costruita sui
valori del ceto medio e che tuttavia indirizza ingiunzioni
contraddittorie ai propri componenti. Da un lato, impone
di comportarsi da imprenditori di sé stessi, dall’altro nega
a questa «impresa» di agire liberamente sul mercato. Una
volta compreso questo scacco e digerita l’umiliazione, nel
«ceto medio» cresce la frustrazione. L’indignazione arriva
quando scopre che l’emancipazione è vincolata al possesso
di un reddito che non tutti possono accumulare, a un patrimonio di rapporti personali o familiari che solo in pochi
4. CETO MEDIO
53
possiedono. I meriti individuali o la carriera professionale
contano poco, sebbene la società sia ben disposta ad accettarli. Questa tragicommedia del credersi «Terzo Stato» in
ascesa, mentre in realtà si è solo dei parvenu, continua a generare equivoci. Si pensa di vivere in un mondo popolato
da milioni di capitalisti tascabili, mentre l’unica moneta comune è rappresentata dalla povertà generale.
Nel frattempo, è stata smentita anche un’altra idea relativa al ceto medio: quella per cui basti il possesso di un’istruzione, anche qualificata, per garantirsi la priorità nella
selezione sociale.
L’idea di Quinto Stato deriva dalla consapevolezza di condividere una condizione di povertà con milioni di altri esseri
umani che lavorano. Per questa ragione essa è il risultato
dell’impossibilità di identificare il lavoro indipendente, cioè
il campo in cui si annidano le nuove povertà, con una classe
o con un ceto sociale preciso, tantomeno con un «ceto medio». Il Quinto Stato si esprime attraverso mescolanze tra situazioni sociali opposte e culture del lavoro divergenti. Condividere una condizione comune permette di riconoscere il
conflitto ricorrente tra il paternalismo del «padroncino» di
una piccola impresa e chi tra i suoi dipendenti è alla ricerca
di un’autonomia nel lavoro. Questo conflitto ricorre anche
nella pubblica amministrazione, dove sono presenti numerosi «professionisti dipendenti», giovani e meno giovani, precari o consulenti, spesso soggetti allo spoil system della politica. Ed è presente in ogni di rapporto di lavoro precario nel
quale entrano a contatto le differenze generazionali tra chi è
garantito e chi non lo è.4
La composizione sociale del Quinto Stato induce a un’altra illusione ottica. La sua progressiva affermazione tra le
pieghe dell’economia dei servizi, o nei bastioni della burocrazia statale, ha generato l’impressione che il datore di lavoro e il lavoratore condividano il medesimo orizzonte di
54
I. CHE COS’È IL QUINTO STATO?
valori. La possibilità di un lavoratore indipendente di ricoprire entrambi i ruoli nel corso della vita ha alimentato questa credenza. Oggi, invece, il conflitto tra datore di lavoro
e lavoratore autonomo è più violento che mai. Ai giovani
professionisti, agli apprendisti, ai tirocinanti, agli stagisti, ai
lavoratori a termine viene negata una retribuzione dignitosa.
Moltissimi lavorano gratis, sperando in un futuro migliore.
I giovani avvocati che aspettano sulle scale dei tribunali di
Napoli o Milano i migranti che hanno bisogno di rinnovare il
permesso di soggiorno, e guadagnano quindici euro per ogni
pratica, non vivono una condizione molto diversa dall’operaio in cassa integrazione oppure del muratore disoccupato
che lavora come piastrellista o falegname freelance. Nella
stessa condizione si trovano, ad esempio, i giornalisti precari
che guadagnano quattro euro ad articolo. Pensare che questi «giovani» avvocati, e i proprietari o soci degli studi legali
per cui lavorano, così come i giornalisti freelance e i loro direttori appartengano al medesimo «ceto medio» è con tutta
evidenza un’assurdità. I primi sono «liberi professionisti», i
secondi sono i loro schiavi.
Padroni e schiavi non sono affatto uguali, ma in Italia
questa considerazione viene sottovalutata a favore di rappresentazioni più neutrali e pacificate. Si preferisce parlare del
«popolo delle partite IVA».5 Visto che lavorano nello stesso
modo, cioè con una prestazione d’opera intellettuale o di un
servizio mediante la partita IVA e senza vincolo di subordinazione nei confronti di un committente, allora si pensa che il
datore di lavoro e il lavoratore condividano una comunità di
destini. Sembra proprio che chi possiede una partita IVA appartenga a un blocco sociale. Una tesi confortata dalla quantità strabiliante di partite IVA che in Italia hanno superato gli
otto milioni e comprendono categorie come i commercianti,
i benzinai, gli edicolanti, i ristoratori, ma anche avvocati d’affari, artisti e imprenditori.
4. CETO MEDIO
55
Questa rappresentazione riduce l’aspirazione del Quinto
Stato al possesso di una particolare forma contrattuale la cui
specificità sta nel distinguere tra ditte individuali e società.
In un mondo dove il lavoro è un bene sempre più scarso,
e l’occupazione duratura è una condizione rarefatta, questa
immagine della partita IVA ha tuttavia fatto il suo tempo.
Oggi essa rappresenta una possibile via d’uscita dalla disoccupazione, non la promessa di un arricchimento personale.
La partita IVA viene considerata come una delle tante forme
di prestazioni lavorative a disposizione per sfuggire al precariato e all’inoccupazione diffusa.
Alla fine del 2012, per la prima volta, le partita IVA aperte
nelle attività professionali, scientifiche e tecniche dai «giovani» tra i venticinque e i trentaquattro anni hanno superato
quelle aperte nel settore tradizionale, cioè il commercio e
l’artigianato. Anche i cosiddetti «esodati» ricorrono a questo tipo di prestazione. Questa è la realtà degli ex lavoratori
dipendenti che hanno accettato un piano di ristrutturazione
dell’impresa nella certezza di ricevere la pensione al massimo
entro due anni e si sono di colpo ritrovati senza salario e
senza pensione a causa della riforma previdenziale che porta
il nome dell’ex ministro del Lavoro, Elsa Fornero. Nulla di
più lontano dal «popolo delle partita IVA», un’avanguardia
a cui è stata attribuita la presunzione di rappresentare l’innovazione e l’eccellenza in un Paese dove vengono riconosciuti solo i diritti dei dipendenti o dei grandi imprenditori.
Per valorizzare la condizione del Quinto Stato, che pure è
caratterizzata dal ricorso alla partita IVA, è necessario adottare un approccio diverso: tutti dovrebbero essere messi in
grado di scegliere, o negoziare, la forma contrattuale, associativa, d’impresa utile per esprimere e tutelare l’autonomia e i
risultati della propria attività. Partita IVA, ritenuta d’acconto,
lo stesso contratto da lavoro dipendente dovrebbero tornare a
essere considerati semplici strumenti, e non fini in sé, per af-
56
I. CHE COS’È IL QUINTO STATO?
fermare ciò che più conta in una società: la vita operosa delle
persone e il valore del loro lavoro e dei loro progetti.
Ridurre invece la vita al raggiungimento di un contratto,
all’esibizione di una scrittura giuridica o al possesso di uno
status individuale non serve a delineare le sue potenzialità, né
a liberarla da una situazione che confonde la condizione reale di una persona con la sua posizione giuridica. Sta qui la
differenza tra la mentalità del «ceto medio» e l’attitudine alla
cooperazione del Quinto Stato: la prima consiste nel raggiungimento di uno status che permette a un individuo di distinguersi da un altro; la seconda consiste nella ricerca di un
affrancamento dal lavoro alienato, dalla subordinazione, oppure dall’impiego sotto padrone, cercando di tutelare e valorizzare la propria attività attraverso la collaborazione con i simili, vicini o lontani. Questa attitudine alla cooperazione contrasta con l’individualismo prevalente nel ceto medio, come in
alcuni settori dello stesso Quinto Stato, e in particolare con
quella che Dario Banfi e Sergio Bologna hanno definito l’«ideologia del professionalismo»: la manifestazione dell’individualismo nel mondo delle libere professioni e nel precariato.6
Il Quinto Stato condivide la necessità di creare, difendere
ed estendere la propria autonomia nel lavoro e nella società.
Anche se gravemente compromessa dalla crisi, è innegabile
che questa sia la ricerca che accomuna l’artigiano all’operaio, il lavoratore immateriale cognitivo all’addetto ai servizi,
il libero professionista all’esecutore di mansioni, lo studente
al piccolo imprenditore tradizionale. Se poi si fa largo la
consapevolezza per cui l’autonomia può essere tutelata più
efficacemente ricorrendo alla cooperazione con chi condivide la medesima condizione di esclusione, oppure lo stesso
progetto, allora si può dire che il Quinto Stato riesce a interpretare al meglio la propria condizione.
4. CETO MEDIO
57
La presa di coscienza di essere Quinto Stato, e non solo
lavoratori indipendenti, autonomi o precari, non è tuttavia un processo lineare, né definitivo. Si tratta invece di
un processo aleatorio, soggetto alle infinite variazioni delle
contingenze. Resta tuttavia la possibilità che questo passo
del gambero della coscienza collettiva arrivi, in maniera
circostanziata, alla definizione di una certezza: che non si
possono difendere le rendite di posizione quando le corporazioni, la famiglia o le lobby non vogliono, o non possono, difenderle. Da qui può nascere l’esigenza di agire in
maniera diversa, seguendo sentieri mai battuti, correndo il
rischio di restare soli, pur di iniziare un cammino politico
più ampio a garanzia di chi soffre a causa dell’inadeguatezza delle precedenti appartenenze. Solo in questo modo
si può rendere virtuosa la generale apolidia in cui versa il
Quinto Stato. Che non scomparirà, ma che chiede di essere
messa all’opera, in tutti i suoi aspetti. Maturare la coscienza
di essere Quinto Stato rappresenta un passaggio essenziale
in questa direzione.
Tale possibilità non è alla portata del ceto medio, cioè del
soggetto considerato dalla politica di centrodestra o di centrosinistra, dal secondo dopoguerra ad oggi, come il pilastro
del moderatismo e il garante della mediazione sociale. Oggi
esistono molte ragioni per attribuirla invece al Quinto Stato:
una condizione che viene considerata come un elemento di
instabilità sociale e politica.
Capitolo quinto
Topi nel formaggio
«Topi nel formaggio», «individui servili» e «culturalmente
rozzi», protagonisti di «pratiche non di rado sgradevoli e
perfino ripugnanti della nostra vita pubblica». Sono alcune
delle espressioni usate negli anni Settanta da Paolo Sylos
Labini a proposito della crescita esponenziale del lavoro indipendente che non rientrava nel modello produttivo della
grande fabbrica, in quello del lavoro salariato e, in generale, del lavoro dipendente o nella burocrazia.1 Il giudizio
di Sylos Labini traduceva un’ostilità dichiarata rispetto al
«lavoro indipendente», strana congerie di opposti che già
quarant’anni fa rappresentava l’anomia sociale crescente del
lavoro in un mondo popolato da arrampicatori e imprenditori senza scrupoli.
L’immaginario collettivo è stato colpito dalla definizione
«topo nel formaggio». I sindacati e i partiti di sinistra hanno
creduto nell’ipotesi che tutti i lavoratori indipendenti fossero
evasori fiscali, cittadini non interessati al bene comune, bensì
intenti a divorare – come i topi nel formaggio – la ricchezza
accumulata da chi lavora con un contratto a tempo indeterminato, paga il fisco, dimostrando un senso dello Stato che
invece gli indipendenti non possiedono. Il giudizio sociologico si è trasformato in un pregiudizio sociale che ha trovato
60
I. CHE COS’È IL QUINTO STATO?
conferma nella lotta degli indipendenti contro l’oppressione
fiscale. L’aumento di tasse e contributi, senza ricevere alcun
servizio in cambio, è stato interpretato come una punizione
comminata a un sospetto. Prima di essere cittadini, gli indipendenti cercano la via più breve per godere di una ricchezza
accumulata dagli altri. La ricchezza da loro prodotta viene
sequestrata dallo Stato e usata per scopi che nulla hanno a
che vedere con la tutela o la garanzia di queste persone. Un
circolo vizioso che, più di altri, indica la trasformazione dello
Stato in un predatore e del predatore in un soggetto che crea
disuguaglianze tra cittadini che svolgono lavori diversi, anche
se spesso condividono la stessa condizione sociale.
Molti ignorano che la maggior parte di questi lavoratori
emettono una fattura per essere pagati e non possono evadere le tasse. Si dirà che ci sono tanti altri modi per eludere il
fisco. È vero, ma nemmeno questa osservazione coglie la realtà del lavoro indipendente. Su quella fattura, reale o falsificata, il lavoratore paga anche i contributi per la sua pensione
e quelli per la sua assicurazione contro la malattia. In cambio
però non ottiene prestazioni. Questa situazione rivela un problema enorme di giustizia sociale e di equità fiscale che oggi
riguarda almeno un terzo della forza-lavoro attiva in Italia.
Per comprendere questa situazione, conviene tornare
all’esempio della Gestione separata dell’INPS. Nel 2011, 1,8
milioni di iscritti hanno versato circa 5,8 miliardi di euro in
contributi, raggranellando compensi per trentuno miliardi
di euro su cui hanno pagato le tasse.2 Il «tesoretto» accumulato dall’INPS nel solo 2011 ammonterebbe dunque a
circa sette miliardi di euro. Di questa cifra imponente solo
una minima parte andrà alle pensioni di queste persone una
volta che avranno terminato la loro carriera lavorativa. Una
porzione di questo «tesoretto» oggi finanzia le casse previdenziali in perdita, ad esempio quella dei dirigenti o la cassa
integrazione in deroga per i dipendenti disoccupati.3
5. TOPI NEL FORMAGGIO
61
Gli indipendenti finanziano il welfare, ma non hanno
diritto alle tutele sociali in caso di malattia, maternità, infortunio. In più, dall’inizio della crisi, sono stati in 208.000
a ritrovarsi disoccupati. La «truffa» della Gestione separata
raggiunge qui il suo apice: non solo questi lavoratori pagano
la pensione o gli ammortizzatori agli altri, ma non hanno diritto a beneficiare di un sussidio quando sono loro a perdere
l’impiego. Questa condizione non riguarda più solo i giovani,
gli under ventinove, ma anche persone che hanno tra i quaranta e i cinquant’anni. In questa stessa situazione, si trovano
i giovani e meno giovani aderenti alle casse previdenziali professionali, nonché la maggioranza degli oltre tre milioni di
precari che non godranno di una pensione dignitosa al termine della loro carriera. Tutto ciò accadrà a partire dal 2040,
quando andrà in pensione il primo contingente di lavoratori
che ha iniziato a operare dopo la riforma Dini del 1996.
Questo è il paradosso insanabile creato da un welfare impazzito. Si garantisce la sopravvivenza a una parte bisognosa
della popolazione con i soldi accumulati da quella a cui non
vengono riconosciuti i diritti sociali. Vengono erogate pensioni, otto milioni delle quali sono inferiori ai mille euro, alla
popolazione anziana e non si pensa a quella che dovrebbe
terminare la propria carriera lavorativa tra venti o trent’anni
con un contributo inferiore agli attuali quattrocento euro.
Senza contare che allora ci saranno altri giovani che guadagneranno ancora meno, in un circolo vizioso che non sembra avere fine. Si tratta della premessa di una guerra tra le
generazioni alimentata dallo Stato e implementata dalle attuali politiche del rigore di bilancio.
Tra il 1996 e il 2013, gli iscritti alla Gestione separata hanno
inoltre subito un aumento della contribuzione sul reddito,
passata da un dieci per cento iniziale all’attuale ventotto per
62
I. CHE COS’È IL QUINTO STATO?
cento, che arriverà al trentatré per cento nel 2018, una quota
pari a quella versata da un lavoratore dipendente. Con la differenza che, nel caso degli indipendenti, la spesa è a carico
del singolo e non anche del datore di lavoro. L’aumento dei
contributi è stato giustificato con la necessità di garantire l’assistenza alle stesse persone che fino a ora sono state costrette
a pagare senza ricevere in cambio alcuna forma di tutela. Se
poi consideriamo che il loro reddito medio sfiora la soglia di
povertà (il 44,6 per cento non supera i quindicimila euro annui e il ventitré per cento percepisce meno di diecimila euro)4
è allora possibile percepire la drammaticità della situazione.
Il presidente dell’INPS Antonio Mastrapasqua si è soffermato sulla previsione di un futuro poco rassicurante per
i lavoratori indipendenti. Ha detto che preferisce tacere,
perché altrimenti si scatenerebbe un «sommovimento sociale». L’irresponsabilità di questo esponente della «classe
dirigente», e di molti altri come lui, non impedirà presto o
tardi lo scatenamento della rivolta. È un esito inevitabile, già
oggi ampiamente riscontrabile tra chi viene usato come un
bancomat e tassato come un’impresa. Gli autonomi a partita
IVA individuale pagano infatti l’IRAP come se fossero una
piccola impresa. Un’altra confusione generata dal fatto che
entrambi sono l’espressione del lavoro indipendente, ma
rappresentano due situazione opposte.
Il paradosso del topo nel formaggio arriva al punto che,
da un lato, si chiede di tassare di più gli individui per garantirgli un futuro previdenziale, e dall’altro lato si chiede
di detassare le imprese affinché assumano gli stessi individui che pagheranno sempre più tasse e contributi. La pensano allo stesso modo tutti i governi che dicono di tenere
alla crescita dell’occupazione, mentre è ormai chiaro che, se
una simile crescita ci sarà, essa avverrà sgravando le singole
partite IVA o i precari del peso dei contributi, imponendo
una condivisione dei costi del lavoro con i datori di lavoro.
5. TOPI NEL FORMAGGIO
63
È il meccanismo su cui si fonda la contrattazione collettiva
dalla quale sono esclusi gli indipendenti. Il lavoratore e il datore di lavoro condividono in parti proporzionali i costi per
l’assicurazione, la malattia e la pensione. Senza contare che
un’equa regolazione del lavoro indipendente potrebbe anche permettere di contribuire al finanziamento di un fondo
per il reddito minimo e il welfare socio-sanitario a cui affidarsi nei periodi di non lavoro, formazione e riqualificazione
professionale, come avviene per gli ammortizzatori sociali a
disposizione del lavoro dipendente.
Questa proposta, insieme a quella della riforma generale
di tutti gli ammortizzatori sociali, potrà essere realizzata solo
a condizione di una radicale riforma dell’INPS e dell’intero
ordinamento del lavoro e della previdenza in Italia. Allo
stato attuale, questa è una speranza remota, considerato
anche l’enorme potere concentrato nelle mani dell’INPS e
l’impatto negativo creato dalle riforme già avvenute in questi
campi. Tutto rischia di restare immutato in attesa del futuro
che ci aspetta. Nella memoria collettiva, non esiste il ricordo
di una vita in età avanzata senza pensioni né tutele. Restano
comunque in pochissimi oggi a sapere con certezza che nel
2040 almeno un terzo della popolazione attiva in Italia tornerà a vivere come nel XVII o XVIII secolo.
Capitolo sesto
Insalata indigesta
Troppo deboli, o impegnati nelle loro attività, raramente gli
indipendenti sono riusciti a dare forma a una condizione
diversa da quella del topo nel formaggio. L’eterogeneità del
Quinto Stato non permette facilmente di creare una rappresentazione alternativa. Inoltre, i piccoli e medi imprenditori,
i lavoratori autonomi o precari non hanno la stessa idea di
rappresentanza degli interessi, e opposti sono i modi per
farli pesare. Per i primi vale l’attività di lobbying, per gli altri
vale la negoziazione contrattuale. Anche tra autonomi e precari non esiste un consenso sulle forme di negoziazione. Per
i primi vige la contrattazione individuale, mentre i secondi
si affidano ai sindacati o tutt’al più ai movimenti sociali. Per
altri ancora è valida la prospettiva della rivolta urbana. Insomma, tutto il contrario di un soggetto sociale coerente,
come la «borghesia» o la «classe operaia», che agisce forte
del peso della sua autorevolezza. In mancanza di rivendicazione efficaci, e di soggetti facilmente riconoscibili, le richieste del lavoro indipendente sono state intese come il risvolto
di una tendenza opportunistica e interessata rispetto alla
parte «buona» della società.
La destra e la sinistra si sono a lungo confrontate con questo problema. Politicamente, il lavoro indipendente è stato
66
I. CHE COS’È IL QUINTO STATO?
identificato con le ambizioni della piccola impresa e con
la protesta contro lo Stato centrale predatore, mettendo al
centro la questione fiscale. Le istanze della destra leghista,
e poi berlusconiana, lo hanno spinto ad assumere l’identità dell’impresa, del piccolo commerciante riottoso, del
proprietario che rivendica l’egoismo sociale e il sentimento
xenofobo. È la storia della «rivoluzione» dell’Italia del
Nord-est, poi diventata autobiografia leghista e berlusconiana della nazione. In seguito, c’è stato anche il tentativo
di inquadrare il lavoro indipendente nella «classe creativa»,
quella dei lavoratori culturali o dei servizi, un blocco sociale
neoborghese considerato tiepidamente «democratico».
Il «veltronismo», cioè l’opzione pseudo-culturale animata
dalla sin troppo lunga stagione politica di Walter Veltroni,
ha cercato di rappresentarlo nelle metropoli, rivolgendosi in
particolare al lavoro indipendente che si è sviluppato nelle
reti dell’economia dei grandi eventi culturali. Nel gioco vorticoso delle rappresentazioni sociali, il Quinto Stato è stato
raffigurato come un blocco «liberal-democratico» di individui, costituito da professionisti all’ultima moda. Nulla di più
falso, perché l’economia dei grandi eventi culturali (fiere,
concerti, esposizioni, forum, convegni, gare sportive) continua a organizzare le sue produzioni ricorrendo in maniera
massiccia al lavoro precario, sottopagato e al nero.
La politica berlusconian-leghista e quella «veltroniana»
hanno creduto di rivolgersi al «ceto medio», mentre invece
parlavano della nuova formazione sociale del Quinto Stato.
Ne hanno colto solo gli aspetti parziali, quelli che più si confacevano alla politica dei loro interessi, ma non hanno compreso che si trattava di un insieme sociale. Pur consapevoli di
trovarsi davanti a una novità politica di primo piano, Berlusconi e Veltroni hanno mantenuto la credenza nel ceto medio
e l’hanno rimpastata usando la modellistica ideologica più
conveniente. Nel primo caso, si sono volute assecondare le
6. INSALATA INDIGESTA
67
idiosincrasie dei ceti proprietari che si ribellano all’oppressione fiscale e al bene comune. Così facendo, Berlusconi è
riuscito nell’impresa di valorizzare questa rappresentazione
del ceto medio. Il suo rivale – come altri comprimari che si
sono avvicendati alla guida del Partito Democratico – sono
riusciti a evocare una poetica dei buoni sentimenti. Nessuno
è riuscito a rappresentare correttamente una composizione
sociale che nel frattempo è radicalmente cambiata.
Questa trasformazione ha comportato una serie di nuovi
equivoci. La «sinistra» tradizionale, quella sindacale in primo
luogo, si è sentita profondamente irritata dagli aspetti più
fatui e inconsistenti del «veltronismo», contrapponendogli
la nitidezza del ritratto sociale tramandata dalla mitologia
della «classe operaia» o della burocrazia statale. La «destra»
ha continuato a vedere solo le figure del piccolo o medio
imprenditore, o delle partite IVA «affluenti», quelle con un
reddito e uno status da «liberi professionisti», una visione
ispirata alla concezione proprietaria della vita. E le ha contrapposte ai «comunisti» interessati solo a penalizzare la loro
ricerca del successo personale e a predicare l’uguaglianza. Il
conflitto tra queste retoriche ha avuto un solo risultato: l’esclusione del Quinto Stato dalla cornice della politica italiana, sebbene tutti abbiano continuato a parlarne per anni.
Nel 2013 è sembrato che il Movimento 5 stelle del comico
Beppe Grillo potesse dare una forma all’«insalata indigesta» del Quinto Stato, mescolanza di generi e di qualità, di
popolo e plebe, ma anche di classi e aspirazioni sociali. Alle
elezioni politiche del febbraio 2013, Grillo ha conquistato il
venticinque per cento dei consensi e per qualche settimana
è sembrato accreditare questa tesi. Alle elezioni amministrative di tre mesi dopo, la sua bolla elettorale sembra essere
stata ridimensionata a un «normale» voto di protesta.
68
I. CHE COS’È IL QUINTO STATO?
Se Bossi è stato uno straordinario imprenditore politico capace di fondare un partito – la Lega Lombarda – che si rivolgeva al piccolo produttore della Pedemontana e alle partite
IVA qualunque, Grillo ha fondato la sua impresa sul Quinto
Stato che vive nelle città piccole e grandi, detiene risorse immateriali in termini di tempo, istruzione e competenze.1 Non
c’è contraddizione tra la sua monarchia virtuale e l’evocazione
della democrazia diretta rappresentata dal suo movimento.
Parodiando la «monarchia repubblicana» gaullista descritta
da Maurice Duverger, si può dire che il grillismo incarna una
democrazia monarchica virtuale, mentre Berlusconi incarnava una democrazia monarchica televisiva.
In Italia oggi esistono due movimenti che offrono una
rappresentanza agli interessi plebei incarnandoli nella persona, e nel carisma, di un Capo. Berlusconi si è candidato a
esprimere con il suo corpo mutante i desideri inconfessabili
della plebe. Grillo esprime l’opzione opposta: è il popolo
stesso a riportare ordine tra le proprie fila. Il Capo si fa portavoce («megafono») di questo progetto e s’impegna a sbrogliare il groviglio degli interessi plebei, la crassa ignoranza,
il vizio, la frode, la corruzione che Berlusconi ha portato al
potere. Questo atteggiamento apparentemente tollerante
non esclude il disprezzo dei precari, cioè verso coloro che lo
hanno votato.
I reiterati attacchi di Grillo contro gli italiani che non lo
votano, oppure contro i giornalisti precari che scriverebbero
notizie false per guadagnare dieci euro in più al pezzo, mentre invece fanno semplicemente il loro lavoro e rivelano notizie indigeste al suo movimento, conferma la tragedia di un
amore impossibile. Che usi la rete, o la televisione, la richiesta del Capo al «suo» popolo è sempre la stessa: amami senza
condizioni. Come Gerone, Dionigi di Siracusa, Periandro
di Corinto o Berlusconi, Grillo vorrebbe trattare i sudditi
come amici onorati e non come bambini obbedienti. Ma sa
6. INSALATA INDIGESTA
69
che questo è impossibile. Il consenso popolare è un sorriso
nel buio. Gli amici di oggi saranno i persecutori di domani.
La tirannia può soddisfare l’eros autoritario del Capo, ma
per lui l’amore del popolo non sarà mai sufficiente.
Tirannello televisivo, oppure reuccio smanettone, Berlusconi e Grillo rappresentano le due istanze della democrazia italiana: la prima porta l’anarchia dei desideri al potere,
la seconda impone il ritorno a una comunità dei destini che
uniscono un popolo. Questa, fino a oggi, è stata la politica
del Quinto Stato: tutte le forme della politica contemporanea sono il risultato della commistione tra il comunitarismo
e l’individualismo, il leaderismo e la democrazia diretta.
Fino a oggi questa è stata la cifra di tutte le proposte politiche, di destra e di sinistra: da Vendola a Berlusconi fino alle
propaggini estreme della sinistra testimoniale, il cui ultimo
tentativo di esistenza ha mescolato l’ideal-tipo dell’homo juridicus (Di Pietro, e il «magistrato dei due mondi» Antonio
Ingroia) con l’aspirazione a riportare ordine nelle leggi, nelle
pulsioni, nell’economia, nelle istituzioni, nella società.
Il populismo grillino è senz’altro il fenomeno più interessante degli ultimi tempi, perché viene sostenuto dai precari
e dai freelance del lavoro della conoscenza che cercano un
modo per ribellarsi al loro destino di nuovi proletari. Questa impressione è stata confortata dalla messa in scena di
un conflitto contro una società fondata sulla cooptazione,
sulla corruzione, sul corporativismo, sul familismo paternalista. Grillo ha contrapposto questa «società degli esclusi»
a quella degli «integrati». Per lui la politica italiana sarebbe
divisa in due fronti: i «cittadini di serie B», precari, poveri,
piccoli imprenditori in crisi, lavoratori autonomi, e i «cittadini di serie A», vale a dire i grandi imprenditori, le burocrazie sindacali, i lavoratori dipendenti e i pensionati. Questa
rappresentazione coglie senz’altro la passione dominante
nella società, ormai ferita dal risentimento e dalla rabbia, ma
70
I. CHE COS’È IL QUINTO STATO?
non offre una soluzione politica reale davanti al muro insuperabile dello Stato e del mercato.
A Grillo non interessa digerire l’insalata del Quinto Stato,
si limita a evocare una «comunità» ideale nella quale tutto
un giorno tornerà in ordine, i singoli troveranno il giusto riconoscimento del proprio lavoro, e il merito di avere speso
una vita a cercare di ottenere quel poco che possiedono. Potrebbe essere una strategia redditizia dal punto di vista elettorale in un Paese dove i nuovi assunti sono per l’ottanta per
cento precari, e anche uno spazzino viene visto come membro della «Casta» in quanto dipendente pubblico. La scommessa del suo movimento sta nel rappresentare una velleitaria vocazione anti-sistema, senza per questo elaborare le
coordinate minime di una politica capace di rimediare al
fallimento della vecchia coalizione tra knowledge workers,
piccoli imprenditori e destra leghista-berlusconiana.
Il grillismo non è interessato a una proposta costituente
o alla ricerca di una forma comune della vita politica, ma
all’amministrazione di un sistema in crisi nei termini più
equi possibili. È un movimento consolatorio, non di rottura.
Come altre opposizioni testimoniali, si limita a fotografare
lo stato della crisi e la sua insuperabilità. Centra l’obiettivo
della protesta, fomenta le passioni tristi del rancore e del risentimento, non nomina però le pratiche di una vita degna
che non siano quelle di un ritorno a una comunità originaria, depurata dai vizi della politica e dalla violenza del capitalismo. A Grillo neanche interessa questa opzione: fa già da
decenni quello che vuole, per di più coccolato dal consenso
che solo i comici o i santoni possono ottenere in vita.
In questa cornice, è sufficiente che l’individuo ritrovi un
protagonismo nell’illusione della partecipazione senza filtri
al reality messo in scena dal leader contro il mondo cattivo
delle caste della politica, dell’impresa, dello Stato. In una
democrazia che funziona come la rete, verrà ristabilita la
6. INSALATA INDIGESTA
71
concorrenza tra le idee e gli individui. Al vertice della narrazione più postmoderna che ci sia, ecco ritornare la favola
della «mano invisibile» di Adam Smith che alloca le risorse
e le informazioni nel migliore dei modi. Ieri era il mercato a
ricoprire il ruolo di Dio; oggi Grillo si è candidato a rendere
l’Italia una democrazia «meritevole» e «affidabile».
Non si può tuttavia non registrare come esso abbia dimostrato che il sistema politico basato sul bipolarismo tra due
grandi aggregati eterogenei (il PD e il PDL) sia così fragile
che basta una suggestione via web ispirata da un ex comico
a metterlo in pericolo. L’anomalia grillina è stata subito ridimensionata, anche per i limiti evidenti della sua proposta politica, ma la sua novità non può passare inosservata. Essa ha
cercato di individuare una forma politica alternativa al bipolarismo, fondata sul Quinto Stato e non sui tradizionali soggetti di riferimento della politica italiana. Il suo limite è stato
quello di interpretare il Quinto Stato come un blocco sociale
incentrato ancora sul ceto medio.
Questo tentativo è fallito perché non è riuscito a sviluppare l’aspetto costituente del Quinto Stato, cioè l’autonomia
che i singoli raggiungono attraverso la cooperazione con gli
altri. Di questo aspetto Grillo ha restituito solo il lato acrimonioso, quello della precarietà e dell’esclusione, senza capire che per portare la luce nella notte non basta evocare la
democrazia diretta attraverso un referendum permanente
online. I partiti maggiori hanno avuto gioco facile nel liquidare la sua discontinuità ricorrendo al governo di «larga coalizione», una forma della politica che teorizza apertamente
l’inutilità del voto popolare e il distacco della democrazia
dalla sua legittimazione. Le larghe coalizioni in Italia sono
tuttavia soluzioni di fortuna, che allungheranno la crisi e
peggioreranno le sue ragioni strutturali. Una delle quali è
72
I. CHE COS’È IL QUINTO STATO?
senz’altro una politica che non conosce la composizione sociale e professionale del Quinto Stato, né comprende il fatto
che il lavoro indipendente è il futuro della forza-lavoro, non
un’eccezione temporanea alla regola dominante.
Capitolo settimo
Una società di lavoratori senza posto fisso
Il Quinto Stato viene considerato come l’espressione del
lavoro intellettuale o del lavoro della conoscenza.1 Esso sarebbe la manifestazione di un ceto separato, di una «classe
creativa» o di una tecnocrazia cosmopolita capace di dirigere l’automazione della produzione, inventare stili di vita
o nuovi linguaggi, distinguendosi dalle altre classi sociali.
Questa è una tentazione ricorrente nei paesi a capitalismo
avanzato sin dagli anni Sessanta. Lo si evince anche dal significativo pamphlet Il quinto stato scritto da Wolfgang
Kraus nel 1966.2 Kraus sostiene che le professioni intellettuali sono state decisive per la formazione del Quinto Stato.
Ciò è avvenuto perché il tempo libero è diventato redditizio, la televisione generalista condiziona la vita delle famiglie, mentre la cultura è diventata una vera e propria attività
economica. Da specialista nelle lettere, nella giurisprudenza
o nella filosofia, esperto nell’interpretazione dei testi antichi
o moderni, l’«intellettuale» si è trasformato in fornitore di
servizi e contenuti, creatore di slogan per la pubblicità o di
immagini per la società dello spettacolo. Questo passaggio è
stato altamente significativo nella storia dell’intellettuale europeo tradizionale. In Italia lo ha raccontato Luciano Bianciardi nel suo Lavoro culturale, e in L’integrazione, e poi in
74
I. CHE COS’È IL QUINTO STATO?
La vita agra il poeta e saggista Franco Fortini non è stato da
meno. Kraus rilevò la stessa tendenza in Germania prima del
Sessantotto.
Kraus descrive questi intellettuali come gli eredi dei
chierici vaganti, pronti a incrociare vagabondi, bohémiens,
ribelli, perdigiorno, gammler, rivoluzionari a tempo perso.
Ciò che accomuna queste ricostruzioni è l’idea che il Quinto
Stato sia l’avanguardia di uno «strato culturale estremamente vasto» che contiene diverse posizioni sociali economicamente disomogenee, in una «società integrata senza
classi». In realtà il Quinto Stato è più numeroso, e più definito, di quanto immagina Kraus. Ma è interessante soffermarsi sulla sua tesi, in quanto essa anticipa l’emergere di
una figura professionale che ha nutrito il neoliberismo sin
dalla sua esplosione nel 1979, quando venne eletta Margaret
Thatcher. Kraus traccia il profilo di un lavoratore elastico,
sempre disponibile alle richieste dei suoi committenti, un
soggetto che vive per lavorare, ma dovrebbe farlo con piacere visto che svolge un’attività creativa, professionale, ben
retribuita. La «classe» degli intellettuali di Kraus indicava
semplicemente una classe di manager cosmopoliti, appartenenti a un ceto medio ricco e poliglotta assunto dalle multinazionali, nelle industrie dell’high-tech o dell’intrattenimento, che condivide poco o nulla con la condizione materiale della maggioranza del lavoro indipendente. È lo stesso
profilo che nel 2002 ha ispirato la «classe creativa» di Richard Florida,3 salvo poi scoprire che tale «creatività» oggi è
solo un’altra faccia dell’auto-sfruttamento, delle prestazioni
gratuite o sottopagate, oltre che dell’alienazione, del lavoro
autonomo contemporaneo.
Nel 1997 Andrea Fumagalli e Sergio Bologna hanno definito in maniera più corretta il Quinto Stato del lavoro della
conoscenza parlando di «lavoro autonomo di seconda generazione».4 A differenza della «prima generazione» quella
7. UNA SOCIETÀ DI LAVORATORI SENZA POSTO FISSO
75
degli artigiani, dei commercianti o dei liberi professionisti,
questa tipologia del lavoro autonomo non rientra in un’organizzazione di categoria, in un ordine professionale. È dunque apolide, ma non necessariamente si comporta come un
«vagabondo» o un «anarchico». Questo lavoro è basato sulla
conoscenza e sull’esercizio di competenze acquisite sul mercato, ma è soprattutto l’espressione di una trasformazione
generale che ha investito tanto il lavoro quanto l’impresa a
partire dalla fine degli anni Settanta, quando il lavoro indipendente iniziava a diffondersi nei distretti industriali, dal
calzaturiero alla logistica e alla manifattura, nell’industria dei
servizi e nell’economia del divertimento, del terziario, delle
professioni come della cooperazione e dell’associazionismo.
Negli ultimi anni, si è iniziato a parlare di un lavoro autonomo di «terza generazione». Questa definizione indica
l’esodo forzato verso il lavoro indipendente da parte dei dipendenti o di coloro che sono stabilmente precari. Si diventa
lavoratori autonomi, o freelance, a causa della distruzione
dei posti di lavoro operata dalla crisi, ma anche per la situazione di ristagno del terziario avanzato, il postfordismo, di
cui queste figure sono il prodotto. Nel primo decennio del
XXI secolo, il valore della produzione industriale tradizionale è diminuito in tutti i paesi europei del dieci per cento,
mentre nei servizi è cresciuto del 7,8 per cento. A trainarlo è
stata la crescita delle attività di intermediazione finanziaria e
creditizia e dei servizi alle imprese: +10,5 per cento.
In Italia, il terziario avanzato dove si è collocato il nuovo
lavoro autonomo è cresciuto in maniera inadeguata: +3,5
per cento contro il +6,4 per cento in Francia, il +11,2 per
cento in Spagna, o il +12,2 per cento in Germania.5 Anche
per questo le condizioni di lavoro dei freelance e dei lavoratori autonomi sono drasticamente peggiorate. Ciò non ha
tuttavia cancellato una modalità del lavoro che rompe l’ultimo legame tra il lavoratore e la sua appartenenza nazio-
76
I. CHE COS’È IL QUINTO STATO?
nale. Il lavoro indipendente agisce infatti a livello globale,
proprio come aveva a suo tempo intuito Kraus. Non è solo il
caso dei grandi manager o degli avvocati d’affari, ma anche
l’esperienza delle traduttrici, dei ricercatori e di tutti coloro
che si muovono al di là delle frontiere degli stati di nascita
alla ricerca di un impiego o di una vita diversa.
Lo stesso fenomeno della «fuga dei cervelli», che ha alimentato il vittimismo nazionale italiano negli ultimi anni,
è il risultato di questa ricerca dell’indipendenza al di là, e
contro, la crisi occupazionale. Le sue dimensioni minimali
(all’incirca cinquantamila persone all’anno) rientrano nella
media della mobilità internazionale del lavoro indipendente
dei paesi OCSE. Come abbiamo dimostrato altrove,6 e contrariamente a un senso comune consolidato, questo fenomeno riguarda tutte le categorie del lavoro, e in particolare
i diplomati, non i laureati. La «fuga» è infatti l’espressione
della volontà di difendere le proprie competenze, e di metterle all’opera, in un contesto più rispettoso dei diritti sociali
e civili, oltre che su un mercato che assicuri maggiori riconoscimenti ai singoli. Una delle peculiarità del lavoro indipendente è la crescente osmosi tra locale e globale che porta il
lavoratore a muoversi, con notevoli difficoltà, tra le frontiere
degli stati, ad andare all’estero e a tornare a casa come fanno
gli studenti o i professionisti, i precari in cerca di occupazione o gli stessi migranti che, per motivi economici, culturali o politici, scelgono di cambiare Paese.
Una delle maggiori difficoltà del nostro tempo è riconoscere
che il lavoro non sarà più sedentario. L’affermazione del lavoro indipendente spinge a muoversi, a cambiare vita più
volte, e questo produce traumi difficili da gestire. Ciò non è
dovuto al fatto che i singoli si sottraggono a questa prospettiva di nomadismo. Crediamo invece che non siano ancora
7. UNA SOCIETÀ DI LAVORATORI SENZA POSTO FISSO
77
supportati da una cultura che abbia elaborato la discontinuità. La scuola, l’università, i sindacati sono ancora prigionieri
dell’idea per cui il nomadismo sia una condizione degenerata del lavoro sedentario, oppure una condizione purgatoriale che troverà presto o tardi una pacificazione nell’assunzione a tempo indeterminato. Questa cultura non ha gli
strumenti per riconoscere, e valorizzare, il nuovo rapporto
del divenire rispetto all’essere, della differenza rispetto all’identità, del molteplice rispetto alla ripetizione dell’identico
di cui è portatore il lavoro indipendente. Non è in grado di
cogliere nemmeno il significato profondo delle previsioni
dell’OCSE sugli esiti della crisi.
La crescita economica, se e quando tornerà, non produrrà nuova occupazione stabile (jobless recovery). La maggioranza della forza-lavoro attiva si troverà coinvolta in questa nuova realtà entro il 2020. Su questa valutazione convergono anche una serie di osservatori internazionali come l’organizzazione mondiale del lavoro (ILO). Senza contare che
l’attuale recessione ha bruciato dal 2008 un milione di posti
di lavoro e continuerà a farlo ancora a lungo. In Europa, la
disoccupazione è aumentata dal 7,6 per cento all’11,4 per
cento. Nel 2013 in Italia ha superato la quota del 12 per
cento, con 1,2 milioni di persone che hanno perso il posto
di lavoro dall’inizio della crisi. In Europa, su 25 milioni di
disoccupati, 6,5 milioni di persone non riusciranno mai più
a trovare un impiego. L’uscita dalla crisi, se e quando ci sarà,
lascerà sul campo lavoratori non «riconvertibili». L’unica
speranza di guadagnare, e di vivere, che avranno queste persone sarà offerta dal lavoro indipendente.
Nel 2012 gli «inattivi» (cioè gli «scoraggiati» che non cercano più lavoro, i disoccupati cronici) erano circa 2,9 milioni, più dei disoccupati in senso stretto (circa 2,7 milioni).7
La previsione è che aumenteranno ancora nei prossimi anni.
Non solo dunque i posti di lavoro calano drasticamente, e
78
I. CHE COS’È IL QUINTO STATO?
non verranno mai più recuperati, non solo cresce il numero
di chi non cerca più un impiego (o meglio non cerca più un
impiego regolarmente pagato), ma esiste sempre meno lavoro retribuito regolarmente e dignitosamente. Secondo una
previsione avventurosa della CGIL, qualora l’Italia intercettasse una qualche crescita economica tra il 2014 e il 2015, ci
vorrebbero tredici anni per ritornare al livello del PIL del
2007 e solo nel 2076 verrebbero recuperati i posti di lavoro
persi dall’inizio della crisi nel 2008.8 Questi studi sono spesso
esercizi di scuola, ma rendono l’idea delle conseguenze della
recessione in atto. È ormai chiaro che si sta affermando una
società di lavoratori senza posto (fisso).
Tale prospettiva non risponde alle caratteristiche di una
società automatizzata che fa a meno del lavoro manuale sostituendolo con quello delle macchine, o con il lavoro «intellettuale» come hanno sostenuto Kraus o Florida. Queste
analisi del Quinto Stato non potevano prevedere che il XXI
secolo sarebbe stato il secolo del lavoro indipendente, e
forse non potevano immaginare che gli intellettuali, come gli
operai, sarebbero diventati lavoratori senza posto fisso. La
crisi ha distrutto il lavoro salariato, ma non in direzione di
una sua abolizione, come si auspicava quarant’anni fa, bensì
moltiplicando le occasioni di lavoro servile.
Esiste un altro elemento imprevisto che è maturato con
l’avanzare della crisi. Aldo Bonomi lo considera un’opportunità per la vita ricca di stimoli, e non solo di delusioni, condotta dai knowledge workers metropolitani.9 Nella solitudine sociale creata dall’esercizio della loro professione, non
emergono veri riferimenti collettivi. Ciò non toglie che siano
presenti numerose occasioni di vita in comune, anche imprevedibili rispetto alla mentalità consolidata. Bonomi parla
di un «programma coalizionale», o meglio di un desiderio
maturato alla luce delle oggettive difficoltà di sopravvivenza
materiale che impediscono di proseguire un’attività a lungo
7. UNA SOCIETÀ DI LAVORATORI SENZA POSTO FISSO
79
coltivata. E infatti tra questi lavoratori si torna a parlare di
«mutualismo», di «solidarietà» e di fare «fronte comune».10
Queste istanze, che sono allo stato nascente e restano
altamente incerte e discontinue, traducono tuttavia una
realtà sconosciuta agli «intellettuali» e ai lavoratori della
conoscenza del Novecento: quella di riconoscersi innanzitutto come «lavoratori», quindi come soggetti capaci di
ammettere la possibilità di «coalizzarsi» con altre categorie
del lavoro indipendente o salariato. Ciò potrebbe accadere
a partire da istanze universali, anche connesse a rivendicazioni riguardanti un provvedimento legislativo o un evento
specifico che investe la collocazione occupazionale. Bonomi
segnala la possibilità di coalizioni «accompagnate» dalle
istituzioni e anche dalle piccole imprese interessate a incorporare elementi di innovazione. Questo triplice incontro
tra lavoratori della conoscenza, istituzioni e piccole imprese
rivela come quella del Quinto Stato sia una «questione sociale» che non interroga solo la transizione del capitalismo,
ma anche lo spazio della vita in comune: la città e i territori.
Frustrazione. Senso di colpa. Rabbia. Umiliazione. Passioni
dolorose che colpiscono la vita e il futuro dei figli della «borghesia», come di quelli delle «classi subalterne». Entrambe
queste classi sono sprofondate nella palude del lavoro precario. A questo esito hanno collaborato anche le piccole e
medie imprese (PMI) italiane, impegnate a tagliare sul costo
del lavoro per aumentare la produttività. Bassi salari e paghe
da fame in cambio di uno sfruttamento intensivo e limitato
nel tempo. Questa è la regola imposta a chi vive nella galassia dell’inoccupazione generalizzata. Ma alle PMI non basta. Le aziende lamentano una mancanza di disponibilità da
parte dei laureati a ricoprire mansioni umili, e scaricano le
responsabilità del fallimento del sistema su chi ha speso anni
80
I. CHE COS’È IL QUINTO STATO?
a studiare. «Paghiamo la licealizzazione della nostra società»
ha detto il presidente di Confartigianato Giorgio Guerrini
quando ha denunciato che quarantacinquemila posti tra i
mestieri artigiani «ad alta intensità manuale» sono rimasti
vacanti per mancanza di candidati. Stesso discorso quando
si è scoperto che i profili più ricercati tra i «giovani» nel
2011 sono i cuochi, camerieri e altre professioni dei servizi
turistici (+23,4 per cento).
La falsità di questo assunto può essere dimostrata citando
una manciata di notizie. Nel febbraio 2013, ad esempio,
1700 candidati si sono presentati a un concorso per un posto a tempo determinato da operatore ecologico nei Comuni
di Venezia, Iesolo e Portogruaro. Tra di loro c’erano operai
over cinquanta, ma la maggioranza era costituita da giovani
neolaureati disoccupati provenienti dall’intera regione. Sempre in Veneto, nel 2012, quindicimila persone, per la maggior parte giovani, hanno lavorato da uno a cinque giorni
nell’arco di un anno, soprattutto nel campo dei cosiddetti
«lavori umili», quelli che secondo ministri e presidenti nessuno intende accettare. Una situazione creata dalle imprese:
delle centonovantamila assunzioni nel 2012, solo il sette per
cento è costituito da laureati. A Venezia un posto da netturbino, anche precario, resta un lavoro appetibile perché è tutelato da un contratto nazionale e non espone al rischio di un
contratto capestro.11
È consigliabile dunque non cedere allo sport nazionale
del vittimismo e cercare di fornire una valutazione equilibrata. Questi sono solo alcuni degli effetti di una società
di lavoratori senza posto fisso che subiscono un processo di
proletarizzazione. Tale processo ha investito il mondo dell’istruzione e ha rotto il rapporto tra l’apprendimento e la sua
finalizzazione produttiva, tra il valore di un sapere trasmesso
e quello sviluppato sul luogo di lavoro. Il «capitale umano»
(o sociale) accumulato dal singolo durante un corso di studi,
7. UNA SOCIETÀ DI LAVORATORI SENZA POSTO FISSO
81
come quello trasmesso dalla famiglia o dalla classe di appartenenza, non ha più valore se non è determinato dalla domanda di una prestazione occasionale. Nessuna istituzione,
procedura o certificazione può garantire oggi tale valore. In
queste condizioni, è impossibile mantenere lo stesso status
professionale e cognitivo per tutta la vita. Per il singolo è in
gioco il valore stesso della sua vita, non solo quello acquisito
durante gli studi o nelle esperienze di lavoro.
La crisi continuerà a distruggere i posti di lavoro, mortificare o annientare le esperienze dei lavoratori, ma non può
cancellare l’attitudine alla vita operosa da parte del lavoro
indipendente che rappresenterà ben presto la maggioranza
della popolazione attiva. È il motivo per cui il lavoro indipendente dev’essere difeso contro il rischio dell’inoccupazione e dell’obsolescenza dei saperi acquisiti. Per farlo è
necessario valorizzare la determinazione personale del lavoratore indipendente a preservarli o ad acquisirne di nuovi.
Questo però non può restare un impegno individuale, limitato alla congiuntura economica o alla volontà dei singoli,
ma deve diventare una cultura condivisa. È prevedibile che
la crisi finirà per corrompere la determinazione individuale
a favore di una disillusione generalizzata.
Ciò non elimina l’esigenza di elaborare una cultura sociale
fondata sull’indipendenza del singolo e sul riconoscimento
dell’autonomia collettiva. Per questa ragione il Quinto Stato
non può essere una condizione limitata a una singola categoria del lavoro indipendente, o del non lavoro, e tanto meno
a un contratto di lavoro o a una prestazione lavorativa. Bisogna avere il coraggio di riconoscere la condizione del Quinto
Stato in sé, quella cioè di una società che non dispone di alcuna identità da far valere, di alcun legame d’appartenenza
da far riconoscere, salvo l’indipendenza nel lavoro e l’autonomia dei singoli nella società.
Capitolo ottavo
W i NEET!
Ai lavoratori indipendenti – soprattutto ai più giovani – è
stata assegnata un’identità che oscilla tra quella più antica e
tradizionale della «classe pericolosa», del povero, del parassita, e quella più moderna del «NEET» (Not in Education,
Employment or Training), cioè la condizione in cui vivrebbero 2,2 milioni di ragazzi che non studiano né lavorano, i
giovani «sfiduciati» che non trovano un’occupazione. Non
studio, non lavoro, non guardo la tv, non vado al cinema, non
faccio sport cantavano i CCCP-Fedeli alla Linea in anticipo
di trent’anni.
Il ritorno ossessivo di questa categoria nel dibattito sulla
disoccupazione giovanile si spiega con l’emergere di una
zona grigia tra la sfiducia e l’inoccupazione, tra il precariato
e il lavoro autonomo, tra l’intermittenza e il lavoro nero, cioè
la realtà del lavoro contemporaneo che accomuna i giovani ai
meno giovani. È difficile immaginare l’esistenza di persone
che abbiano smesso di agire, cioè di «studiare e lavorare».
Ancora più difficile è misurare economicamente la perdita
di valore causata dalla loro presunta inattività, come invece
ha fatto il ministro del Lavoro Enrico Giovannini secondo
il quale la perdita sarebbe pari addirittura a venticinque miliardi di euro all’anno. Al di là di queste irrealistiche previ-
84
I. CHE COS’È IL QUINTO STATO?
sioni, è probabile che i «NEET» rientrino nel vasto mondo
dell’economia del lavoro sommerso, percepiscano un reddito
sul quale non pagano le tasse, svolgano attività non tutelate,
sottopagate e in nero, guadagnando lo stretto necessario per
sopravvivere. Assimilando questa categoria all’economia
sommersa, si comprendono meglio anche le previsioni sulle
perdite economiche. L’economia sommersa in Italia è infatti
una realtà che supera senz’altro i venticinque miliardi di euro
attribuiti da Giovannini ai soli «NEET».
Ciò non toglie che il concetto di NEET traduca la percezione di una realtà non solo economica. Esso allude all’eterogeneità indescrivibile che molti si ostinano a considerare
estranea alla cittadella del lavoro subordinato, mentre invece
ne rappresenta il cuore. Questo acronimo raccoglie classi
d’età distanti: quelle tra i quindici e i trentaquattro anni,
ma può essere esteso anche alla condizione di chi ha cinquant’anni e più. Insomma, è un indicatore linguistico attraverso il quale la condizione del Quinto Stato viene sovrapposta all’archetipo ottocentesco della povertà, alle patologie
adolescenziali, oppure all’opportunismo sociale. NEET è
un altro modo per segnalare l’attuale situazione del Quinto
Stato, risultato di una combinazione tra scarse opportunità,
redditi bassi, flessibilità massima, costi contributivi elevati e
welfare assente che caratterizza il lavoro indipendente e in
particolare la condizione delle giovani donne. In Italia, il
sessanta per cento delle diplomate lavora come dipendente
con un contratto a termine, svolge un lavoro a progetto o
un’attività occasionale da commessa, hostess, ricercatrice,
pony express, barista. Questa realtà – attiva, disperata e precaria – viene sistematicamente occultata, o rimossa, dall’idea
per cui al NEET corrisponda una passività fatale.
Il termine NEET allude inoltre alla condizione dei mendicanti. In Italia, questa parola è stata usata inizialmente per
compatire i giovani, e per definire la loro condizione sfug-
8. W I NEET!
85
gente di disoccupati, precari o inoccupati. Quando l’ex ministro del Welfare Elsa Fornero lo ha collegato al concetto di
«choosy», il suo significato è cambiato. Nella breve e infame
storia di questa espressione, che si è diffusa con divertenti
parodie sui social network e negli striscioni esposti dagli studenti nelle manifestazioni tra il 2011 e il 2012, si è capito che
per la «classe dirigente» i ragazzi italiani diplomati o laureati
sarebbero «schizzinosi» o «viziatelli» perché non accettano
qualsiasi tipo di lavoro pur di guadagnare ed essere indipendenti dalla famiglia. L’ex ministro, e professore ordinario in
materia di welfare e pensioni, ha però abusato della sua conoscenza della lingua inglese. Purtroppo non si è resa conto
dell’esistenza di un proverbio che recita: beggars can’t be
choosers, cioè i mendicanti non possono fare gli schizzinosi,
proprio come a suo avviso dovrebbero fare i giovani italiani
con il lavoro. A nessuno piace essere trattato da mendicante.
E infatti il motto ministeriale ha prodotto una rivolta.
Più che un invito, l’esponente di un governo non proprio memorabile come quello «tecnico» di Mario Monti ha
richiamato un’antica verità della cultura conservatrice di
matrice aristocratica: non importa il lavoro che si sceglie, è
importante che i giovani, i subalterni o i lavoratori indipendenti sappiano che quel lavoro è un’elemosina che bisogna
accettare. Con quell’aria un po’ schizzinosa da Maria Antonietta, il conservatore ha sempre l’atteggiamento di chi
vuole dare le brioche al popolo. E il popolo non può rifiutarle perché altrimenti Maria Antonietta si offende. Questa
curiosa psicologia è basata su un meccanismo che proietta
sui «poveri» le idiosincrasie dei ricchi che hanno tutto l’interesse a ribaltare, e a nascondere, i rapporti di forza esistenti
nella società.
I fuoricorso all’università sono «costi sociali» intollerabili
per la comunità nazionale. Questa è un’altra tesi dell’ex ministro dell’Istruzione Francesco Profumo, già rettore del Po-
86
I. CHE COS’È IL QUINTO STATO?
litecnico di Torino, la stessa città dove lavora l’ex ministro del
Welfare Elsa Fornero. Il rapporto tra l’alto ruolo accademico
ricoperto da entrambi e l’appartenenza alla stessa classe sociale può essere utile per spiegare la ragione di tanto disprezzo
verso gli studenti a cui fanno lezione. I fuori corso sarebbero
«sfigati» secondo l’originale dizione usata dal romano Michel
Martone, professore ordinario in diritto del lavoro e vice di
Elsa Fornero al ministero del Welfare. Non vale la pena soffermarsi ancora su questo, o su altri gustosi personaggi che popolano le fila dei docenti destinati a inconcludenti esperienze
di governo.1 Dai loro lapsus, o da quelli di altri luminari come
Tommaso Padoa Schioppa, l’importatore in Italia del famoso
«bamboccioni», emerge tuttavia la mentalità paternalista e intollerante del conservatorismo politico che ci governa. La sua
regola d’oro è la seguente: chi non lavora, o lavora precariamente, è colpevole della propria condizione di povertà. Deve
dimostrare di sapersi elevare al rango della decenza sociale: se
non ci riesce, è colpa sua, non della società.
In tutto il mondo, le politiche neoliberiste ragionano sillabando lo stesso alfabeto del disprezzo. Non importa se le
ricerche ufficiali, come quelle del consorzio interuniversitario Almalaurea in Italia, abbiano sbugiardato questi pregiudizi, dimostrando come i giovani tra i quindici e i ventinove
anni, diplomati o laureati, siano al contrario tra i più attivi,
flessibili e intraprendenti in Europa, proprio come li vuole il
neoliberismo; nonché i più disoccupati (oltre il quaranta per
cento tra i quindicenni e i ventiquattrenni) dopo i coetanei
spagnoli e greci.2
L’enfasi spesa per stigmatizzare i NEET si spiega con un
malinteso senso della pedagogia, oltre che del proprio ruolo
di governanti. Essa traduce anche un disagio degli «adulti»
rispetto alla scelta – mai confessata apertamente dai NEET,
ma in ogni caso trasparente – di resistere a un lavoro umiliante, sempre meno pagato e inutile.3 Quando il lavoro fa
8. W I NEET!
87
schifo, e non paga, meglio allora non lavorare. Se anche la
scuola fa schifo, meglio non studiare. È una reazione estrema
praticata da molte figure sociali in tutto il mondo. In Giappone, ad esempio, ci sono gli okimori (bamboccioni), coloro
che restano in famiglia da disoccupati perché non vogliono
penare alla ricerca di un lavoro in un Paese dove la stagflazione dura da decenni. La variante clinica di questa situazione è incarnata dall’hikikomori, una sindrome depressiva
che porta gli adolescenti alla letargia, all’isolamento totale e
a comunicare solo via Internet.
L’hikikomori esemplifica la volontà di sottrarsi al gioco al
massacro della societa capitalistica. Per Franco Berardi Bifo,
questa è la «tendenza principale della ricerca di autonomia,
nel mondo presente».4 Figure molto simili si ritrovano negli
Stati Uniti, dove emerge un altro aspetto del rifiuto: la volontà degli adolescenti o dei precari trentenni di restare nel
«mezzo», tra una condizione insondabile di afasia o rifiuto, e
il desiderio di non far nulla per partecipare alla concorrenza
sul mercato degli «adulti». Sono i betwixt (between), o «boasting», persone a cui è stata addirittura dedicata una famosa
serie tv. In Germania, questa condizione è stata definita Nesthocker, in Brasile Paitrocínio, in Argentina «No se va más».
La crisi ha aumentato a dismisura il numero di queste
persone. Con la crescita della disoccupazione di massa, e in
particolare di quella giovanile, al loro destino è legato il futuro di molti governi che iniziano a temere il fallimento delle
politiche di reinserimento lavorativo. Se infatti l’ostinata, e
insondabile, resistenza dei NEET facesse crollare questo castello di carte? È un gioco sottile, e tragico, basato sul conflitto tra la convinzione di chi governa di fare il bene della
nazione e la determinazione dei NEET a resistere contro chi
li vuole far sentire peggio. Ma ciò che indigna i dominanti è
la capacità di sottrarsi al loro comando. Non sarà forse che
questi adolescenti ormai maturi stiano affermando una di-
88
I. CHE COS’È IL QUINTO STATO?
versa attitudine alla vita, ad esempio quella di scegliere quale
lavoro fare, se accettare un impiego oppure rifiutarlo? È un
atteggiamento intollerabile in un mondo dove l’imperativo è
muoversi, darsi da fare, non stare con le mani in mano, guadagnando anche per un giorno in condizione disumane.
La resistenza dei giovani NEET riporta alla luce alcuni tratti
di una figura storica nella società capitalistica tra il XIX e il
XX secolo: il proletaroide. Per Sergio Bologna sta qui l’origine dell’inquietudine provocata dai giovani disoccupati
o inoccupati e, più in generale, dai freelance, dai lavoratori
nomadi, precari o indipendenti, insomma da chi non ha un
lavoro salariato a tempo indeterminato.5 Già nella Repubblica di Weimar, per Emil Lederer,6 Hans Speier,7 Werner
Sombart e tanti altri, il «proletaroide» rappresentava il lavoro
autonomo come prossimo alla soglia di povertà, in bilico tra
precariato e disoccupazione. Questi grandi studiosi ritenevano che il lavoro indipendente fosse destinato a essere riassorbito nella classe operaia della grande industria, oppure nel
ceto medio impiegatizio statale. Il lavoro autonomo era ancora incentrato sull’attività agricola, sul piccolo commercio,
sull’artigianato e il lavoro di cura (il «coadiuvante familiare»).
Nell’analisi della composizione tecnica di questa fascia amplissima di lavoratori (che superavano i cinque milioni, arrivando per alcuni persino a venti milioni), i «proletaroidi»
erano considerati una massa senza indipendenza economica,
sprovvista di un’identità sociale e professionale, come anche
di una coscienza di classe. Il «proletaroide» era il prodotto
della commistione tra un vecchio ceto medio corporativo
e quello nuovo degli impiegati e della classe operaia di mestiere. Anche lui viveva nella zona grigia tra il ceto medio e
il precariato. Possedeva un mezzo di produzione (un aratro,
un terreno, una bottega, una vettura) e, in molti casi, era ca-
8. W I NEET!
89
pace di assumere dipendenti, garzoni, assistenti. Come oggi
in Italia, anche a Weimar non era facile riconoscere la duplicità dei ruoli ricoperti dal lavoratore autonomo: titolare di
un’impresa, ma anche lavoratore salariato. Il proletaroide era
fuori dalla produzione industriale manifatturiera e allo stesso
tempo era al servizio della classe dominante, quella borghese.
Aveva un mestiere, e dunque non apparteneva all’esercito di
riserva del sottoproletariato, ma allo stesso tempo viveva sospeso tra un «non più» e un «non ancora». Proprio come i
lavoratori indipendenti o i NEET oggi. Una condizione difficilmente comprensibile per una civiltà costruita sul lavoro
salariato e sulla netta distinzione tra l’impresa e gli operai, tra
il lavoro intellettuale e quello esecutivo.
Ad avere attirato il disprezzo della sinistra socialdemocratica verso il proletaroide è stata la l’incertezza politica
delle sue convinzioni. In Le lotte di classe in Francia dal 1848
al 1850, Marx aveva messo in guardia dal pericolo rappresentato dai proletaroidi, dai commercianti o dagli artigiani
senza mestiere, dai disoccupati e dai giovani teppisti delle
milizie che spararono contro il popolo e gli operai in cambio della promessa di una paga miserabile. Sembra incredibile, ma si dice che a Weimar i proletaroidi riuscirono a fare
ancora peggio. Assicurarono una parte del consenso al nazismo. Nasce da qui la diffidenza quasi antropologica della
sinistra rispetto a chi non appartiene alla classe operaia o al
ceto medio. In realtà, il nazismo era altrettanto popolare tra
gli operai e il ceto medio, mentre alcuni giovani proletaroidi
parteciparono alla prima resistenza anti-nazista in fabbrica.8
Le cose sono dunque più complesse della storia che ci è
stata tramandata. Qui basti spiegare come i NEET oggi rappresentino molto più dei giovani compatiti o insultati da
qualche ministro e molto meno del male radicale nella storia. La loro condizione rifiuta l’idea che per vivere bisogna
lavorare. Essa indica invece la possibilità di una vita diversa.
90
I. CHE COS’È IL QUINTO STATO?
Il fatto che i NEET siano assimilabili ai proletaroidi, vale a
dire al grado zero del Quinto Stato, significa che condividono almeno una caratteristica del lavoro indipendente: la
difesa dell’autonomia personale ad ogni costo. Un’autonomia che rimanda a sua volta al desiderio di essere padrone
della propria vita, senza vincoli con le istituzioni o al comando di un padrone. Il proletaroide è l’utopia negativa del
Quinto Stato: scegliere quale lavoro fare, la dignità di affermare una libertà nel lavoro e nel non lavoro.
Capitolo nono
Diversamente occupate
La posizione del Quinto Stato un tempo era occupata esclusivamente dal lavoro domestico delle donne, fenomeno rimasto
invisibile fino all’ascesa del femminismo e alla trasformazione
postfordista della produzione capitalistica. Questa situazione
è stata raccontata in Il quarto stato, il quadro di Pellizza da
Volpedo del 1902, oltre che in buona parte dell’iconografia
sul movimento operaio prodotta in Europa negli stessi anni.
Nella prima fila dei contadini che avanzano verso la casa del
padrone in piazza Malaspina, a Volpedo in Piemonte, spunta
una donna che regge un bambino tra le braccia.
La singolarità dell’azione della donna rappresentata da Pellizza allude alla sua solitudine rispetto alla classe lavoratrice
che procede compatta, mentre lei segue una traiettoria indipendente. Arriva nel corteo dall’esterno, si unisce ad esso. Al
termine della manifestazione, si separerà dagli uomini che torneranno nei campi o nelle officine, mentre lei riprenderà ad
accudire il bambino o a preparare la cena per il marito. La
donna incarna il Quinto Stato, una condizione singolare che
attraversa quella del Quarto Stato che nel quadro di Pellizza
viene rappresentato come un tutto omogeneo e maschile.
Questa potrebbe essere una delle storie raccontate in un
quadro ispirato all’umanesimo socialista, capace di ricono-
92
I. CHE COS’È IL QUINTO STATO?
scere la dignità della donna come persona, ma non ancora la
sua libertà dal destino assegnatole dalla società patriarcale:
svolgere una serie di attività non retribuite (lavoro di cura,
gestione della casa, dedizione alla famiglia), «naturali» come
la procreazione, alle quali la donna è stata tradizionalmente
destinata da tutte le società, non solo da quella del lavoro
salariato. Pellizza denunciava anche un altro aspetto della
condizione femminile, il suo sfruttamento selvaggio nelle
fabbriche e nei campi. Sempre nel 1902, la legge 242 cercò
di regolare questi abusi con esiti a dir poco contestabili: alle
puerpere veniva risparmiata la schiavitù di lavorare fino a
quindici ore al giorno, ma si disponeva che tornassero al lavoro dopo il periodo di maternità e allattamento.1
Il Quinto Stato è un concetto ricorrente sin dall’unità d’Italia. Tra i primi ad averlo usato, il deputato socialista Salvatore Morelli. Per lui il Quinto Stato esprimeva la necessità
dell’emancipazione delle donne dal punto di vista intellettuale, lavorativo e sociale. Lo stesso concetto oggi permette
di sottolineare come la mobilità e la polivalenza, la multiattività e l’impegno che non ha confini di tempo e dedizione nel
lavoro femminile siano diventate le caratteristiche strutturali
del lavoro indipendente. Le attività dei precari, come degli
autonomi, rispecchiano molto spesso la logica sacrificale
che è un portato culturale del lavoro femminile sin dai tempi
di Morelli o di Pellizza. Nel frattempo, il lavoro affettivo,
di cura, così come tutte le attività legate alla sfera della riproduzione sociale, ha conquistato un ruolo di primo piano
nella nostra società anche se continua a non figurare tra le
attività produttive, o al limite a essere considerato un’operazione marginale degna solo di una ricompensa simbolica.
A questo proposito si parla di «domesticazione» (domestication) del lavoro. Se il Quarto Stato distingueva lo spazio
del lavoro (la fabbrica, l’ufficio) dalla vita privata del lavoratore, il Quinto Stato fa l’opposto: la distinzione tra vita
9. DIVERSAMENTE OCCUPATE
93
privata e produttiva sfuma progressivamente e mette la vita
al lavoro in modo permanente e indiscriminato. Non esiste
più un orario di lavoro perché il lavoratore indipendente è
sempre al lavoro. Ogni istante del suo ciclo vitale può essere
utile per ottenere un guadagno, un contatto, una prospettiva, una commissione o un nuovo contratto, oppure per curare gli affetti o crescere i figli.
Il passaggio dal Quarto al Quinto Stato non dev’essere
inteso come una successione meramente cronologica, bensì
come un processo puntuale che avviene su differenti piani
e permette la coesistenza di diverse condizioni nella stessa
forma di vita operosa. Essa dovrebbe essere valorizzata in
base alle relazioni, ancora prima che all’appartenenza professionale. Questo avviene solo in via formale, perché, nell’economia postfordista, al lavoro delle relazioni non sono
quasi mai riconosciuti un reddito dignitoso, una tutela sociale o una garanzia istituzionale. Questo enorme dispendio
di energia da parte dei singoli non prevede nemmeno una
restituzione simbolica se non quella ottenuta nella negoziazione privata con il committente, pubblico o privato.
Questa situazione è particolarmente sentita nei settori principali del «terziario avanzato» (istruzione, sanità, assistenza),
lì dove oggi si concentra la parte più qualificata del lavoro
femminile, e ricorre anche in molti altri settori produttivi.
Si parla di «femminilizzazione del lavoro» perché i lavoratori nomadi, precari, autonomi si ritrovano nella condizione
in cui le donne operano nelle società più tradizionali, compresa quella del lavoro salariato.2 La femminilizzazione non
ha cambiato affatto la condizione materiale delle donne.
Sono loro a essere maggiormente colpite dalla crisi, insieme
ai più giovani. Il tasso dell’occupazione femminile regolare
non raggiunge in Italia il cinquanta per cento ed è di dodici
94
I. CHE COS’È IL QUINTO STATO?
punti percentuali sotto la media UE, mentre al Sud è addirittura di ventuno punti inferiore.
Tanto più dunque il lavoro indipendente si fa adattativo
e oblativo, risponde cioè alle caratteristiche storicamente
attribuite o imposte al lavoro femminile, tanto meno esso è
valorizzato. Il caso per eccellenza è il ricorso al volontariato
nel lavoro sui social media (blog, Twitter o Facebook), alle
attività degli stagisti o dei tirocinanti da parte delle aziende.
Non parliamo di un’eccezione relegata a un genere o a
un’età anagrafica, ma della regola nella produzione culturale, nei servizi, nel lavoro affettivo, o di cura, valida per tutti
coloro che sono impegnati in questi settori. Il lavoro gratuito, e la coazione ad accettarlo in mille forme diverse, oggi
purtroppo costituisce una costante.
Il Quinto Stato non è solo il risultato di uno sviluppo storico che ha generalizzato quanto di peggio ha prodotto il lavoro salariato. Il fatto che sia stato identificato da più di un
secolo nella condizione delle donne, e che oggi esprima le
principali caratteristiche del lavoro indipendente, rivela un
altro aspetto del processo in corso: ciò che conta non è il lavoro inteso come prestazione esclusiva a favore di un datore
di lavoro, ma l’esperienza di un’attività, la singolarità dei vissuti dei lavoratori, la capacità di rivendicarli, il virtuosismo
nelle relazioni, l’autonomia individuale. Anche se raramente
ciò viene ammesso, salvo nei casi in cui queste caratteristiche
tornino utili all’immagine di un’azienda o per una campagna
pubblicitaria, questa è un’altra caratteristica che accomuna
il lavoro delle donne a tutto il lavoro indipendente.
Ne è consapevole una branca del marketing aziendale, il
diversity management, che valorizza la «diversità» del personale gay o lesbico, il «valore aggiunto» rappresentato dalle
donne, dalle persone «diversamente abili», talvolta anche dai
migranti, per rendere più accattivante il logo di un’impresa o
di un’opera di volontariato. Le qualità di una persona, il suo
9. DIVERSAMENTE OCCUPATE
95
orientamento sessuale, le sue esperienze personali e competenze di lavoro accumulate sono determinazioni della vita
dei lavoratori indipendenti. Vengono considerate «capitale
umano», cioè una misura astratta e calcolabile per stabilire il
valore di un lavoro e quindi quello di una persona. Vendere la
propria singolarità, sottolineare quanto la differenza sia redditizia e convenga tanto a chi lavora quanto a chi investe, questo
è il dispositivo in cui vivono gli indipendenti.
La loro singolarità torna utile al capitale, e potrebbe riuscire persino a essere remunerata. In realtà essa è una caratteristica strutturale, e inalienabile, del lavoro indipendente.
È una facoltà del singolo, ma è anche il risultato delle sue
molteplici attività, oltre a essere l’espressione di una condizione comune. Essa non resta in silenzio, ma si manifesta nell’essere diversamente occupate3 delle donne, come
di tutti gli indipendenti. Il buon senso democratico esibito
nelle campagne promozionali sulle «pari opportunità» tollera l’esistenza di una simile «diversità» nell’occupazione in
quanto eccezione rispetto a una regola del lavoro rappresentata solo ed esclusivamente dal cittadino bianco, maschio e
dipendente. Questa eccezione sta tuttavia diventando una
costante nel mondo del lavoro, sebbene si tenda ancora a
ricondurla a una «normalità» che ormai non ha alcun rapporto con la realtà.
Il giuslavorista Pietro Ichino ha definito enfaticamente
questa situazione come l’«apartheid» dei non garantiti – i precari – rispetto ai «garantiti», cioè i lavoratori con posto fisso a
tempo indeterminato. Il suo slancio rischia però di promuovere l’abolizione della tipicità del lavoro a favore della «flessibilità» di tutte le tipologie occupazionali. Insomma, per rimediare alla precarietà tutti dovrebbero diventare più precari,
rischiando così di allargare il perimetro dell’«apartheid» che
si vorrebbe abolire.4 Il problema del mercato del lavoro in Italia non è più la sua bipartizione tra garantiti e non garantiti,
96
I. CHE COS’È IL QUINTO STATO?
bensì la sua frammentazione in innumerevoli contratti e prestazioni che non sono più riconducibili a una «tipicità», come
ritengono i sindacati, né alla tutela individuale del singolo lavoratore in base al contratto posseduto.
Bisogna invece individuare una nuova forma universalistica di protezione che non imponga la misura astratta di un
contratto unico alla forza lavoro, né una differenziazione incontrollabile tra le tipologie e le prestazioni lavorative. Il reddito di base è senz’altro una di queste soluzioni, e molte altre
misure garantiste potrebbero seguirlo, a condizione di non
introdurre un nuovo obbligo che costringa il singolo ad accettare un lavoro qualsiasi, una formazione o una riqualificazione
professionale in cambio di un sussidio. Lì dove è accaduto,
come in Germania con la legge Hartz IV, lo Stato ha guadagnato un nuovo strumento di ricatto su un esercito di precari,
sottopagati e schiavi di un workfare moralistico e padronale.5
Immaginiamo, invece, un sistema che accetti l’idea per
cui ogni attività operosa sia l’espressione di una singolarità
umana non riproducibile. Questo è uno dei portati più significativi delle lotte delle donne: è necessario valorizzare
quanto di più virtuoso esiste oggi nel lavoro, le potenzialità
di ciascuno, in altre parole la condizione universale operosa degli esseri umani che non può essere limitata alla mera
esecuzione di una mansione lavorativa, come accadeva nel
Quarto Stato, o al possesso di uno specifico contratto di lavoro, come invece accade nell’epoca della precarietà.
La condizione del Quinto Stato non può essere circoscritta all’appartenenza a un ordine o albo professionale, a
un ceto professionale-manageriale, oppure a una classe di
esperti o di imprenditori. Il Quinto Stato è l’espressione
di una condizione presente tanto nel lavoro operaio, intellettuale, artigiano o creativo, quanto in altre appartenenze
di genere o sessuali, familiari o individuali. Per questo il
Quinto Stato non può essere considerato l’evoluzione sto-
9. DIVERSAMENTE OCCUPATE
97
rica di un’identità come il movimento operaio, bensì il divenire dell’esperienza dei singoli che oggi condividono la
stessa condizione.6 Una donna, un uomo, un gay o una lesbica, un migrante oppure un italiano, un operaio o un impiegato, una lavoratrice autonoma o precaria, sono l’espressione di una vita attiva che percorre condizioni lavorative o
produttive, scelte individuali, status o appartenenze a classi
sociali diverse. Il suo obiettivo è tutelare e promuovere l’autonomia dei singoli e dei molti.
Dall’esperienza delle donne apprendiamo che il Quinto
Stato ha attraversato – in maniera a volte tacita, altre volte
esplosiva – tutti gli stati precedenti. Esso ha segnato irreversibilmente le attività operose degli esseri umani spinti a scegliere
la strada dell’autogoverno o dell’autogestione per resistere
all’esclusione provocata ieri dalla società del lavoro salariato,
e oggi dalla società dell’austerità. Questa consapevolezza non
basta a fermare i conflitti tra i membri del Quinto Stato, né a
far maturare la coscienza di una condizione comune. Ieri come
oggi le donne vengono escluse, penalizzate, umiliate, e con
loro tutti i soggetti della differenza sessuale e chi non possiede
uno status stabile o riconoscibile nel lavoro e nella società.
Il Quinto Stato si emanciperà da questa condizione di minorità quando comprenderà che un’ingiustizia fatta a uno/a
è un’ingiustizia fatta a tutti.
Capitolo decimo
Senza leggi, casa o fratria
Femminista cosmopolita e socialista radicale, Flora Tristan
ha denunciato la condizione di paria, di fuori casta, di intoccabile cui erano destinate le donne del Quinto Stato. Figlia
di un nobile peruviano di origini spagnole, visse in povertà
estrema per quarantuno anni tra il 1803 e il 1844. A quattro
anni rimase orfana del padre. In Francia, poiché il matrimonio dei suoi genitori non era stato legalmente riconosciuto,
Flora fu considerata una figlia illegittima e per questo bandita dalla società. Dopo aver lavorato come operaia colorista, si imbarcò per il Perù alla ricerca dell’eredità paterna.
Voleva conquistarsi una rendita che le avrebbe permesso
di vivere in modo indipendente, fuori dall’indigenza, senza
più essere sottomessa al marito violento, il quale un giorno
avrebbe tentato di ucciderla. Peregrinazioni di una paria
(1834) è il racconto del viaggio di un apolide senza legge,
casa o fratria alla scoperta di sé stessa.
Ritornata in Europa, entrando nei meandri di Londra,
Flora scrisse un altro libro intitolato Passeggiate londinesi
(1840) dove apprendiamo un ulteriore movimento dell’apolide. Non è più quello che dall’interno si proietta verso i continenti, bensì quello che si sviluppa nelle pieghe della società
salariale da cui le donne erano escluse. La lotta femminista
100
I. CHE COS’È IL QUINTO STATO?
agli albori del Quarto Stato è un movimento dentro il movimento. Flora ha declinato il proprio essere apolide, cioè il
non avere una parte nella società dei «senza parte», muovendosi tra i continenti e le metropoli con l’obiettivo di federare
le classi operaie, conquistare autonomia individuale, giustizia sociale e felicità collettiva. Così ha incarnato il ruolo del
Quinto Stato, il cui movimento produce nuovi rapporti e
trasformazioni sociali. Dalla storia di Flora Tristan emerge
un’altra caratteristica del Quinto Stato. Oggi questa condizione riguarda gli stranieri che vivono e operano in Italia
(o in qualsiasi altra nazione occidentale a capitalismo avanzato), i figli nati nel Paese di residenza dei genitori immigrati
(le cosiddette «seconde» o «terze» generazioni).
La contraddizione investe i lavoratori indipendenti, i precari, le partite IVA e tutte le altre forme del lavoro impoverito o declassato che abbiamo descritto. Parlare di Quinto
Stato significa affrontare la condizione generale di una cittadinanza che esclude e include allo stesso momento. Se da
un lato questa cittadinanza esclude i cittadini dalla partecipazione o dalla tutela dei diritti fondamentali, dall’altra lato
essa presenta ampi margini di trasformazione. Del resto questo è il senso del Quinto Stato: vivere in un mondo dove la
cittadinanza dev’essere ancora conquistata e adoperarsi per
includere chi non risponde alla regola d’oro del patto sociale
dominante che privilegia lo status del cittadino-lavoratore a
tempo indeterminato.
Parliamo di una condizione che comprende la singolarità
della posizione delle donne, così come di tutti i soggetti della
differenza (trans)sessuale o omosessuale, storicamente consegnati a identità giuridiche, sociali o politiche altamente incerte e non assimilabili alla status del cittadino lavoratore. Il
Quinto Stato esprime la singolarità universale della vita operosa di tutte queste persone, al di là della loro appartenenza
a una professione, a un ceto, a una classe, a un genere o a un
10. SENZA LEGGI, CASA O FRATRIA
101
sesso. Una vita operosa e nomade, ma che è alla ricerca di
una casa. Non vuole essere tollerata come un ospite, perché
è sempre pronta a ripartire e andare altrove. Ciò che desidera è rendere abitabile un mondo inospitale e più giusta la
propria esistenza.
In questo modo, l’apolidia riscontrata nelle trasformazioni del lavoro contemporaneo assume un significato universale e rimanda a una domanda diffusa, cioè al «diritto ad
avere diritti».1 Una domanda che, per sua natura, non può
essere limitata alla conquista di uno status professionale o di
ceto, e nemmeno a un’identità di classe specifica. Essa indica
invece l’emergenza della condizione di chi non partecipa al
grande gioco della società, non ha parte o ruoli tra chi vuole
far contare solo la propria rendita di posizione. La condizione senza leggi, casa o fratria, rimanda a quella del barbaro
o dello straniero esclusi dal governo della polis sin dal tempo
di Omero. In realtà, questa genericità è la stessa che ha caratterizzato le rivendicazioni sociali in epoca moderna, a cominciare dal «Quarto Stato», i contadini e le classi operaie.2
Anche i proletari furono nomadi, come la famiglia Joad nella
migrazione verso la California raccontata da John Steinbeck
in Furore. E tuttavia hanno preteso di governare il proprio
destino. Questo non significa che il «Quarto Stato» sia riuscito a eliminare il dispositivo inclusivo-escludente che oggi
penalizza anche il Quinto Stato. Questo dispositivo garantisce da sempre il funzionamento della cittadinanza. Una politica che non si rassegna cerca costantemente di allargare, e
modificare geneticamente, questi limiti imposti.
Così facendo i «senza parte» riuscirono a conquistare il diritto a una casa e a porsi come rappresentanti dei diritti della
parte esclusa dalla società. Così dovrebbe fare oggi il Quinto
Stato che vive la condizione dello straniero bandito, sia nel
102
I. CHE COS’È IL QUINTO STATO?
caso in cui sia effettivamente uno straniero, sia nel caso in
cui possieda la nazionalità del Paese in cui risiede, ma è stato
espropriato dei mezzi per godere della sua cittadinanza. Residente in un territorio, il Quinto Stato non ha una terra. Non
fa parte dello Stato, eppure ne è parte integrante. Cerca un
asilo lì dove è nato, ma nasce in un mondo dove non troverà
mai una casa. Questi apolidi hanno il terrore di diventare
paria in una società dove le caste non permettono alcun movimento, mentre si moltiplicano i bandi che colpiscono chi
tradisce un disagio, evoca una soluzione alla povertà, non si
rassegna a essere considerato un cittadino dimezzato.3
Sono i migranti che lavorano in Europa o negli Stati Uniti,
e i loro figli, a incarnare la condizione del Quinto Stato. Ricordiamo solo i moti nelle banlieues francesi dell’autunno
2005. I giovani che parteciparono a questi tumulti erano
francesi di seconda o terza generazione, ma furono marchiati
dalle loro origini «straniere», addirittura affiliati al terrorismo dell’«Islam radicale». E a nulla valse l’opportunistico
appello dell’allora presidente francese Jacques Chirac, che
in modo paternalista si rivolse ai «giovani dei quartieri difficili, che qualunque siano le loro origini, sono tutti le figlie e i
figli della Repubblica». Era il fallimento del modello sociale
francese e quei ragazzi avevano tutti i titoli per affermare i
loro diritti sociali negati; eppure, quando provarono a denunciare – anche in maniera violenta – la propria esclusione,
furono banditi dalla comunità civile.4
Anche gli europei «precari» sperimentano la medesima
condizione di diniego. Il bando emesso contro gli «stranieri»
delle banlieues è lo stesso che colpisce coloro che lavorano
in maniera indipendente o intermittente, finendo per essere
confinati in una sorta di «banditismo sociale»: sono «banditi» dalla società e vengono rappresentati come «banditi»
che evadono le tasse. Come i migranti, e i loro figli, si trascinano di generazione in generazione una «doppia colpa»,
10. SENZA LEGGI, CASA O FRATRIA
103
quella cioè di avere lasciato il Paese d’origine e di non trovare cittadinanza in quello di arrivo, così anche i nativi precari sperimentano la stessa condizione di padre in figlio.5
Una volta immigrati, lo si resta per sempre.6 E precari saranno anche i figli dei figli che hanno la «colpa originaria» di
non essere mai entrati nella cittadella del lavoro dipendente,
sempre meno garantito e tutelato. Il bando del Quinto Stato
risponde a una cittadinanza europea costruita sul regime
dell’esclusione: quella di classe, di ceto e di razza.7
Il Quinto Stato è la negazione di questo regime.
Capitolo undicesimo
Il potere comune
Apolide è il Quinto Stato che non rientra nella categoria di
«popolo», né di ceto medio, di classe operaia o di imprenditore di sé stesso. Questo è il nome della vita attiva nei settori
del lavoro e dell’impresa, nelle pratiche della cittadinanza
diffusa, nel desiderio di consorzi umani all’altezza della pluralità di appartenenze relazionali, sociali, lavorative, nazionali irriducibili a qualsiasi misura standard della rappresentanza politica – il popolo, il partito, il sindacato, il territorio,
il cittadino, il lavoro salariato.
Il Quinto Stato è il risultato, e la premessa, della reinvenzione delle forme della relazione, dell’associazione o di federazioni che rappresentano le espressioni istituzionali irriducibili a quella dell’Uno sovrano, del pubblico statale o del
privato mercantile. Nel suo nome, il Quinto Stato porta il
desiderio di un’altra città, liberata dai vincoli corporativi e
comunitari, la necessità di affermarsi oltre i limiti della cittadinanza esistente. Ma il Quinto Stato è nulla in un sistema
dove la maggioranza e l’opposizione sono d’accordo almeno
su un elemento: chiudere il sistema all’espressione di una
forma di vita alternativa.
Il peggiore crimine compiuto dal Quinto Stato è quello
di essere una comunità che non ha bisogno di Dio padre, né
106
I. CHE COS’È IL QUINTO STATO?
di una santissima trinità che rimette i peccati, e non riconosce un’autorità agli esperti né ai capi del populismo. Inoltre,
non vuole essere ridotta all’individuo egoista, triste e senza
speranza di felicità: l’uomo democratico. Questa estraneità è
insopportabile tanto per la destra quanto per il centro o per
la sinistra. Le forze politiche costituite hanno l’abitudine di
sussumere le potenzialità del Quinto Stato nella gabbia della
«società civile», per di più interpretata in modo mortificante
e sterile, come spazio di produzione di luoghi comuni per
persone benpensanti, oppure come agone a disposizione degli istinti neopopulisti.
Per la sinistra, la società civile è quella che si muove nella
lotta contro la mafia o contro la «Casta», giuste rivendicazioni che offrono un’accezione ancor più ristretta di società
civile: non più quella borghese legata al reddito e alla produttività materiale del singolo, ma alla rivendicazione del
cittadino democratico rispetto alla legalità anziché alla giustizia. Di fatto, la «società civile» a cui si rivolge la politica
ufficiale non contempla gli elementi costitutivi e le contraddizioni del Quinto Stato.
Su questo magma indifferenziato le classi dominanti proiettano le proprie idiosincrasie, paure, attese o delusioni. E
tuttavia anche questo è il prodotto dell’assenza di un’autorappresentazione del Quinto Stato. Pensare infatti che una
simile forza, strategicamente posizionata al centro della produzione dell’immaginario collettivo, si lasci strumentalizzare
da agenti estranei è un’ingenuità. Ma questa è un’altra delle
sue contraddizioni: così impegnato a fornire le rappresentazioni per gli altri, il Quinto Stato solo raramente si è dotato
di un’autorappresentazione. E oggi ne paga le conseguenze.
Per questa ragione la società civile resta lo strumento meno
dispendioso per nominare l’irrappresentabile e non soffermarsi sugli aspetti disgustosi presenti nella realtà. I dominanti
vedono la possibilità di confermare le differenze di nascita, di
11. IL POTERE COMUNE
107
condizione, di educazione o di occupazione dentro la «società
civile». I dominati, invece, le accettano sperando che almeno
questo serva a modificare anche minimamente gli equilibri acquisiti, premiando il singolo e non la massa.
Il Quinto Stato vuole essere uguale agli altri. In questa esigenza di uguaglianza, esso esplicita la richiesta di continuare
a operare secondo i suoi bisogni e le sue potenzialità. Questa uguaglianza è anche operativa, produttiva di relazioni, e
non solo di merci: allude a consorzi di nuova cittadinanza.
Sotto forma di cooperazione sociale, l’uguaglianza perde la
sua finzione di diritto universale, e acquista il profilo di una
potenza inquietante per la democrazia in cui viviamo.
È Jacques Rancière ad averne spiegato la ragione:
I furbi e i furbastri potranno sempre dire che l’uguaglianza è
soltanto il dolce sogno angelico degli imbecilli e delle anime
pie. Sfortunatamente per loro, però, essa è una realtà incessante e attestata ovunque. Non c’è servizio che si possa stabilire, senza che il padrone o il maestro debba parlare, «da
pari a pari» con colui che comanda o che istruisce. La società inegualitaria può funzionare solo grazie a una moltitudine di relazioni egualitarie. È questo intrico fra uguaglianza
e disuguaglianza che lo scandalo democratico mette in luce
per farne il fondamento di un potere comune».1
Il Quinto Stato è la condizione del potere comune.
Parte seconda
UNA STORIA A CONTROPELO
Capitolo dodicesimo
La congiura dei ricchi
Volgiamoci all’Inghilterra delle guerre civili del Seicento.
Spostiamoci tra il 1790 e il 1830 a Londra, o a Parigi, dove
arriviamo al Secondo Impero. Affacciamoci sui moti di Palermo del 1773 o su quelli di Bologna del 1790, sconfinando
nelle Repubbliche «giacobine» in Italia. Avanziamo fin al
1848 europeo e proiettiamoci nella Comune di Parigi del
1871. Torniamo a osservare questi eventi per comprendere
il desiderio di governare il proprio destino che sarà espresso
da enormi masse anche a Roma e a Londra nel 2011, a Istanbul e Ankara nel 2013, oppure nel Brasile posto sotto i riflettori della Confederation Cup. Sappiamo che nel mezzo c’è
stato Occupy Wall Street negli Stati Uniti.
Oggi le rivolte urbane, le pratiche non violente, i nuovi linguaggi dell’insurrezione, le occupazioni delle piazze, le sperimentazioni artistiche o gli happening sono gli epicentri di una
mobilitazione sotterranea contro la speculazione finanziaria
e l’autoritarismo di governi che impiegano imponenti risorse
per sanare i debiti delle banche, foraggiare grandi opere inutili, oppure grandi eventi che non alleviano in alcun modo le
condizioni di precarietà della popolazione. Forme, e argomentazioni, che rievocano la lotta contro la congiura dei ricchi, come la definì Thomas More nel XVI secolo.
112
II. UNA STORIA A CONTROPELO
In questo girovagare, non scatteremo foto-cartoline delle
insurrezioni più emblematiche della storia. Ripercorreremo
invece le pratiche di resistenza e di associazione delle classi
povere e operose, spesso unite alla «feccia» urbanizzata
nell’istintiva rivolta contro l’oppressione, l’esproprio del valore del lavoro, la disoccupazione o la miseria. In altri momenti, questa congestione sociale si è alleata con i membri
delle tradizionali corporazioni artigiane e operaie. Alla base
di simili coalizioni, che si ripresentano nel tempo, anche al
variare delle contingenze politiche e dei conflitti, riteniamo
che esista un’attitudine, o capacità pratica, che abbiamo definito Quinto Stato.
Tale persistenza non deriva da un’identità storica tramandata di generazione in generazione oppure da una classe sociale sulla quale non tramonta mai il sole. La rivolta, l’insurrezione, gli eventi connessi a una rivoluzione, non sono solo
il frutto di aggregazioni improvvisate, formatesi a partire da
un bisogno o in nome di una vertenza specifica. Queste sono
le condizioni di partenza affinché un evento politico crei una
discontinuità radicale. L’evento in questione dev’essere però
considerato come lo snodo di una tessitura di rapporti, linguaggi e azioni assai radicato, e non sempre visibile.
L’insurrezione vuole tagliare la testa del sovrano e creare
un regime orizzontale della democrazia assoluta. Può riuscirci, o meno, ma ciò che più conta è l’effetto che essa produce sulla vita quotidiana di milioni di persone che condividono la povertà e l’umiliazione del lavoro precario o gratuito. Per questa ragione le insurrezioni sono il risultato della
difesa dell’autonomia da parte degli indipendenti, dei non
affiliati, delle classi povere e di quelle operose.
Tra le prerogative del lavoro indipendente non c’è solo la
possibilità di mettere liberamente la propria opera al servizio degli altri, oppure la capacità di creare relazioni spontanee tra competenze e abilità differenti. C’è anche la neces-
12. LA CONGIURA DEI RICCHI
113
sità di mettere in comune una condizione di indebitamento
o di miseria, trasformando l’oppressione dei ricchi contro
i poveri, dei padroni contro gli schiavi, nella solidarietà tra
i simili in nome dell’uguaglianza universale. Oggi questo è
tanto più vero se si osserva ciò che accade dall’Asia all’America Latina, dagli Stati Uniti fino alla Vecchia Europa, dove
la maggioranza dei salariati, degli indipendenti, dei migranti
o degli studenti lavorano non per ripagare con gli interessi
i debiti contratti personalmente, bensì il debito pubblico
(«debito sovrano») contratto dai rispettivi stati con i creditori internazionali. Ieri, come oggi, questo dato trova conferma nella corrispondenza tra le rivolte politiche e le recessioni, le crisi alimentari oppure il fallimento di uno Stato o di
un sistema bancario.
Si spiega così la riemersione di una pratica solidaristica,
quella della mutualizzazione dei debiti e dei costi della miseria e della disoccupazione, che ha avuto un grande richiamo
nel XIX secolo in Europa. Questa pratica garantisce l’autonomia, cioè la libera disposizione di sé stessi che precede la
formulazione giuridica del lavoro salariato, autonomo o precario. Il conflitto politico della nostra epoca si rivolge contro
la codificazione giuridica dei rapporti di lavori da parte dello
Stato come dei possessori di liquidità (banche, capitalisti,
rentiers di ogni tipo) che cercano di incatenare, addestrare,
riformulare l’autonomia nel lavoro e nella società. Anche il
movimento operaio ai suoi albori dichiarava di voler proteggere l’unico bene in suo possesso: l’autonomia delle persone.
Tutto inizia dall’autonomia, prosegue con la battaglia per
la sua difesa, riprende con un nuovo tentativo di subordinazione del lavoro indipendente o di quello subordinato.1 Non
parliamo solo di una facoltà astratta a disposizione di tutti,
bensì di un’attività che ha bisogno di un costante impegno
per affermarsi o per essere difesa dall’operaio di mestiere o
professionale, quanto dall’autonomo che fa il sarto, l’arti-
114
II. UNA STORIA A CONTROPELO
giano, il piccolo imprenditore o il commerciante, ma anche
dall’insegnante o dall’infermiere. L’autonomia è un’attività
che riguarda tutti i soggetti operosi, indipendentemente dal
contenuto della loro opera e dalla tipologia del loro contratto di lavoro. L’autonomia diventa concreta, storicamente
accertabile, e politicamente significativa, quando è il risultato di un’azione deliberata sia a livello individuale che a livello collettivo.
Passare a contropelo la storia del Quinto Stato significa
esplorare un continente dove le gerarchie tra datore di lavoro e lavoratore, tra chi è libero e proprietario e chi è subordinato e vende la propria forza-lavoro, rischiano costantemente di essere sovvertite. Il passare indifferentemente da
una condizione all’altra rappresenta una delle principali caratteristiche del Quinto Stato, nota ancora prima della modernità, e contro di essa il capitale ha condotto una guerra
senza quartiere. L’ambizione di diventare padroni (come
anche datori di lavoro) di sé stessi viene giudicata una bestemmia se a nutrirla è il povero, il modesto lavorante di bottega, oppure l’irregolare senza arte né parte. Non avrebbero
le competenze, la razionalità, la personalità per aspirare a
tanto. E infatti nessuna autorità intende legittimare una simile pretesa. Tuttavia, è proprio questa la sfida che ha mosso
imponenti masse e creato alleanze tra poveri, indipendenti,
operai specializzati, borghesi.
Il Quinto Stato è dunque il risultato di coalizioni che si mescolano, evaporano e tornano ad aggregarsi. Non è un blocco
sociale monolitico, ma il risultato dell’intreccio tra un evento
politico e il bisogno di associarsi agli altri per condividere una
situazione insostenibile per i singoli. Un’altra delle sue caratteristiche è quella di addensarsi in consorzi di cittadinanza irregolari, eretici, imprevedibili. Molto spesso, infatti, quando
la corrente rifluisce, lascia sul terreno istituzioni, pratiche e
abitudini, la capacità di riconoscersi, un linguaggio, saperi e
12. LA CONGIURA DEI RICCHI
115
conoscenze utili per ingaggiare una battaglia che non ha bisogno delle armi, bensì della creatività e del virtuosismo.
Nella prima parte di questo libro, abbiamo raccontato
l’emersione della «Terza Italia», forma culturale e produttiva molto problematica della costituzione del Quinto Stato.
Considerata la situazione attuale, è probabile che sia in corso
un processo di aggregazione altrettanto imprevisto, rispetto
alla costituzione globale del capitalismo del debito e della finanza; un processo basato sulla condivisione, sulla cooperazione, e su forme di reciproco aiuto e di vero e proprio mutualismo com’è già accaduto nell’Ottocento. La forma in cui
questa aggregazione si potrà dare è quella dei consorzi di cittadinanza. A differenza della «Terza Italia», tali consorzi si
fondano sulle tradizioni della solidarietà e dell’uguaglianza
che racconteremo in questa seconda parte.
L’emergenza dei consorzi di cittadinanza tra gli esclusi
dal patto sociale rappresenta una costante nei conflitti sociali moderni. In questi processi non esiste linearità, e in
origine c’è sempre una molteplicità di identità, di soggetti
e di comportamenti. Lo stesso Edward P. Thompson, che
consideriamo un punto di riferimento nella storia del movimento operaio, ha precisato che all’origine di questa costituzione non esisteva una sola classe operaia, ma una pluralità di «classi operaie», o meglio di attitudini differenti alla
vita operosa, che, riconoscendo la loro condizione comune,
hanno dato vita a una serie di pratiche mutualistiche e cooperative che per più di un secolo avrebbe costituito una gigantesca accumulazione di forza politica e sociale utile per
contrastare la violenza dello sviluppo capitalistico.2 Nulla, in
questi processi, garantisce il lieto fine, un paradiso in terra,
la soluzione definitiva dei conflitti. Molto spesso, anzi, essi
complicano ancora di più una situazione di partenza non
certo facile. Ma questo è scontato. Meno scontato è invece
intuire la loro tendenza di fondo e cercare di svilupparla al
116
II. UNA STORIA A CONTROPELO
massimo della sua potenza. Il Quinto Stato rappresenta questa tendenza, perché è ben radicato in una storia, rimossa ma
sempre presente, di una costituzione che ritorna arricchita
ogni volta da nuove caratteristiche.
Inoltriamoci allora alla scoperta di questa storia insieme a
Balzac.3 Poi incontriamo, sul far della sera, Restif de la Bretonne, «il gufo filosofo e spettatore», camminatore solitario
nella folla delle notti parigine prerivoluzionarie.4 Ci uniamo
ai tumulti degli spazzini. Parigi appare sull’orlo dell’insurrezione che tiene insieme vita, arte e pratiche alla ricerca di
libertà. Avanza il licantropo Petrus Borel, insieme al poeta
folle e sublime Gérard de Nerval, quindi Charles Baudelaire
il dandy, poi il giovane ribelle Arthur Rimbaud. È l’irrequieta urbanizzazione del «mito di Parigi», attraversata da
cantori, confusi tra lavoratori erranti, scrocconi, malviventi,
intellettuali e inoperose moltitudini, perché «non c’è una società parigina, non ci sono parigini, Parigi non è altro che un
accampamento di nomadi».5
Noi siamo dalla parte del diavolo. E a quel tempo, a Parigi, il diavolo era dalla parte dei contadini appena arrivati
in città, delle corporazioni degli artigiani, degli operai e dei
piccoli produttori, pronti alla rivolta contro la congiura dei
ricchi, di quelle operose classi pericolose.6 Questa è la lunga
tradizione del mob cittadino; essa risale a Robin Hood in
lotta contro gli usurai e i padroni della terra. Oggi torna a
parlare ai piccoli proprietari, agli indipendenti, al ceto medio impoverito, ai precari e ai nuovi poveri. Un tempo si
appoggiava alle filosofie di liberazione dalla sovranità di Re,
Dio e nobili.7 Da sempre e ancora oggi predica la lotta contro l’oppressione fiscale dei ricchi.8
Ieri come oggi, la vita della metropoli non ha mai avuto
quartieri eleganti, né modi gentili nel porgere l’esistenza. A
12. LA CONGIURA DEI RICCHI
117
Roma, Napoli, Palermo, Parigi, Vienna, Istanbul ci sono ancora mercati all’aperto, teatri, piazze e tuguri che fiancheggiano i palazzi del potere. Ritroviamo in questi spazi il cuore
pulsante dell’amore e dell’odio, della rivolta e della restaurazione. Sediamoci a un tavolo di osteria. Ecco radunarsi attorno a noi diverse epoche del lavoro, dell’indipendenza e del
rifiuto della congiura dei ricchi. Come d’incanto, è il Quinto
Stato a radunarsi con la sua memoria. C’è l’artigiano e la creativa, il lavoratore manuale e la piccola commerciante, il parolaio indipendente e il pragmatico traffichino. Questa eterogeneità è la galassia da cui è scaturita anche la società salariale e il
moderno proletariato industriale. Ed è la stessa da cui emerge
oggi il lavoro immateriale che confluisce nel Quinto Stato.
Questa è la storia europea che vogliamo raccontare. Che sia
dunque questa libertà condivisa, un’indipendenza dallo sfruttamento per l’autotutela dei lavoratori e delle cittadinanze, a
guidarci nel viaggio che ci resta da compiere.
Contro la congiura dei ricchi non andremo alla ricerca di
una Gerusalemme, per giunta troppo spesso rimandata.9 Ci
faremo invece agire da un impulso. Ci muoviamo, perché
non c’è altro che sentire di vivere. Per ribollire sempre di
nuovo, dal basso, là dove cominciamo tutti insieme a essere
in carne e ossa. Con la ricreazione della storia, della nostra
storia, andiamo alla ricerca di ciò che procede incalzando,
perché è in noi da quando siamo e finché saremo. Di questo
impulso noi riceviamo solo le conseguenze irrequiete di una
vita che sfuma nell’immediato e nelle intermittenze.
Sbagliando, errando ancora, per quanto esausti possiamo
essere, la sete del nuovo si fa sempre sentire, anche se non dice
ancora il suo nome.
Capitolo tredicesimo
«Che i soci siano illimitati»
«Che i soci siano illimitati». È la prima «clausola direttiva»
della London Corresponding Society, citata dal segretario
fondatore Thomas Hardy in una lettera del marzo 1792 alla
consorella di Sheffield.1 Sì, perché le società operaie, popolari o di mutuo soccorso si sono sempre chiamate fra loro
come fossero sorelle nella stessa famiglia umana. E tuttavia
nel marzo di quell’anno al tavolo della società sedevano solo
nove uomini dabbene, sobri e laboriosi. Erano giacobini,
espressioni del pluricentenario radicalismo londinese della
classe operaia e dei ceti popolari.
Dopo avere cenato con pane, formaggio e birra scura,
caricato la pipa e scambiato alcune parole riguardo alla durezza dei tempi, in particolare il costo dei generi alimentari,
i soci iniziarono a discutere della riforma elettorale, il tema
per cui erano convenuti. Di mestiere facevano i calzolai (ma
la società comprendeva anche maestri coltellinai, sarti, lavoranti e piccoli imprenditori), e la loro era una delle corporazioni del lavoro autonomo più combattive d’Europa,
protagonista per cinquant’anni dei tentativi più ambiziosi di
auto-organizzazione, A quei tempi, la condizione di chi operava in proprio, a giornata, a corvée per un mastro, era del
tutto simile a quella del lavoratore autonomo a partita IVA
120
II. UNA STORIA A CONTROPELO
di oggi, il cosiddetto contribuente «minimo» o «marginale»,
o della lavoratrice precaria che magari è anche socia di una
cooperativa o di una SRL.
Come altre società popolari in Inghilterra, o club in Francia, la London Corresponding Society aveva drizzato le antenne in direzione dei caffeucci, delle taverne, dei lupanari e
delle chiesuole «dissenzienti» tra Piccadilly, lo Strand e Fleet
Street, dove i campagnoli cercavano di guadagnarsi i gradi
da cittadino come lavoranti autodidatti. Tutti bevevano birra
gomito a gomito con il tipografo, gran signore orgoglioso
della sua impresa, l’incisore, l’avvocatino o l’emigrante intellettuale. C’era anche Thomas Paine, potente sobillatore della
terra, dei proletari e dei cittadini in Europa e negli Stati Uniti.
A questo tavolo un giorno siederà Karl Marx.
La London Corresponding Society era il punto di riferimento delle più antiche società operaie a est e a sud del
Tamigi, gli scaricatori e barcaioli di Wapping, i tessitori di
Spitalfields, i dissidenti di Southwark. Come tutte le società
popolari sarà perseguitata, i suoi membri saranno oggetto
di spionaggio e tradimenti. Il fallimento della rivolta giacobina della flotta reale inglese, il «grande ammutinamento»
del 1797, porterà la società alla rovina, ma il suo nome rimarrà scolpito nella memoria, anche di Melville, che in Billy
Budd chiamerà Rights of Man la nave mercantile dove lavora
il protagonista, in ricordo di Thomas Paine e di quell’epico
ammutinamento.2 E allora i soci illimitati scelsero l’anonimato, dando corso a una lunga tradizione di società segrete,
dedite all’azione diretta, camuffata, tragica.
L’illimitatezza dell’affiliazione portò in seno alla società
simpatizzanti repubblicani, lealisti nazionali e le relative
contraddizioni. Un’eterogeneità ricorrente e dannosa sia
nella tradizione radical-operaia che in quella repubblicanamazziniana, oltre che in quella anarchica. Ciò che non tramontò mai fu però il metodo dell’autogoverno basato sulle
13. «CHE I SOCI SIANO ILLIMITATI»
121
cariche elettive, la loro turnazione, l’autofinanziamento
come il rimborso delle spese dei soci che lavoravano per la
collettività. Era fondamentale per evitare la formazione di
professionisti della rappresentanza, stipendiati per diventare
nuovi burocrati. E poi si pensò a un’altra pratica: l’auto-tassazione e la redistribuzione mutualistica dei fondi in caso di
malattia, decesso o funerale degli associati.
Nella taverna The Bell si usavano le parole del Rights of
Man di Thomas Paine. Parole che erano bestemmie contro
Dio: «Quando il ricco saccheggia dei suoi diritti il povero»,
scandivano gli uomini, «il povero ne prende esempio per saccheggiare delle sue proprietà il ricco». Era l’idea, veramente
sovversiva a quel tempo, che i diritti sociali non fossero emanazione del diritto di proprietà e che, più concretamente,
tutti quelli al governo – il Re, l’aristocrazia – fossero parassiti
che avevano estorto al popolo il diritto ad autogovernarsi.
Era una rivendicazione ambivalente. Quegli operai di
mestiere, precari e lavoranti, commercianti e piccoli imprenditori giungevano a una teoria anarchica in nome di un diritto naturale che risaliva – si diceva – alla notte dei tempi,
quando i Sassoni arrivarono in Inghilterra. Un proposito
dietro al quale spunta l’idea liberista per cui l’abbattimento
di un governo serva a potenziare il laissez-faire del libero
mercato. Nutrire il risentimento della «moltitudine porcina»
– così Burke definì l’agitazione perpetua del mob londinese
negli anni della Rivoluzione francese – può alimentare dal
basso gli istinti animali del capitalismo. È anche vero che gli
stessi operai costruirono un’immensa cattedrale a difesa dei
diritti degli uomini, delle donne, dei lavoratori. Fu eretta a
salvaguardia di chi vendeva la propria forza-lavoro, non di
chi l’acquistava. In cattedrali come quella regnava una comunanza tra gli umili, gli industriosi e i solidali che avrebbe
terrorizzato per quasi un secolo e mezzo il Re, la Chiesa e il
Capitale.
122
II. UNA STORIA A CONTROPELO
Al tavolo della London Corresponding Society sedeva
l’indomito Thomas Hardy. Grazie a lui la società operaia riviveva uno spirito diabolico. Come nel Seicento, anche per
Hardy gli uomini erano uniti da un diritto fondamentale: il
diritto dell’uguaglianza, che precede il diritto di proprietà e
la divisione tra le classi. La «bassa forza» può comandare il
mondo e ha la libertà di allearsi con chi finanzia l’impresa,
fa gli affari. Un’unione terrificante, indecente, contro natura. «Tutto quello che possediamo» scrisse il conservatore
Wyvill «sarebbe alla mercé della canaglia iraconda, senza
legge e senza lavoro».3
La tradizione radicale anglosassone contribuì alla nascita
del giacobinismo, e in seguito del comunismo eretico, con i
famosi dibattiti del New Model Army a Putney, sobborgo di
Londra, dove in tre giorni, a cavallo tra l’ottobre e il novembre
del 1647 – nel pieno della guerra civile e prima della Repubblica – si confrontarono gli Indipendenti del nascente Terzo
Stato di Oliver Cromwell e di suo genero Henry Ireton con i
Livellatori di John Lilburne e William Walwyn, orgogliosi lavoratori indipendenti e piccoli proprietari e produttori.
Uno dei rappresentanti dei Livellatori, il colonnello
Rainsborough, riassunse in poche parole la storia di queste
rivendicazioni, che sarebbero state proiettate dalla metà del
Seicento nel cuore della Rivoluzione francese:
Io penso veramente che l’uomo più povero d’Inghilterra ha
una vita da vivere quanto il più grande; e perciò, signore,
credo sia chiaro che ogni uomo il quale ha da vivere sotto
un governo debba prima col suo consenso accettare quel governo; e ritengo che l’uomo più povero in Inghilterra non sia
affatto tenuto, a rigore, a obbedire a quel governo che egli
non ha avuto alcuna voce nel creare.
Discutere sempre la legittimità di un governo – di qualsiasi governo – a governare. Questa è l’eresia a cui aspirava
13. «CHE I SOCI SIANO ILLIMITATI»
123
anche Thomas Paine, e con lui tutti i radicali europei e americani: far coincidere rivendicazioni politiche ed economiche. E, in nome di questa coincidenza, giungere a sfidare
anche il dettato costituzionale, ponendosi su di un terreno
costituente. Su questa base egli provò, inutilmente, a unire
i riformatori moderati e gli aristocratici con le minoranze
di radicali e la grande massa di operai manifatturieri e professionisti, lavoranti e mastri artigiani, cioè coloro che non
potevano accettare passivamente l’esistenza della miseria,
come durante il Medioevo, né ripiegare sulla mentalità dei
proprietari recintatori, per i quali la disoccupazione era causata dall’indole oziosa degli abili al lavoro.4
Questa idea politica resiste nell’Ottocento e si riflette
nell’organizzazione del mutualismo. La terra fertile dove
germoglia questa esperienza in Europa sono le moltitudini
di produttori indipendenti, artigiani e mastri, creatori di
gilde e associazioni, operai e sindacati nascenti decisi a farla
finita con le vecchie vessazioni, povertà ed esclusioni e al
contempo indisponibili a subirne di nuove. La strada scelta
è quella dell’auto-organizzazione a partire dal sostrato delle
società popolari, dei club, dell’associazionismo diffuso in
tutto il continente. Il radicalismo pragmatico dei Livellatori,
dei giacobini francesi e inglesi, presente anche nell’idealismo
totalizzante delle utopie saint-simoniane e fourieriste, diede
voce ai piccoli agricoltori, tessitori in proprio, indipendenti
dalle corporazioni, ciabattini o spazzacamini, agli operai di
mestiere, ai piccoli imprenditori, a precari di ogni genere.
Che i soci siano illimitati: è l’aspirazione a estendere
l’auto-organizzazione mutualistica e la cooperazione tra individui egoisti all’intera società, dotandola di regole e istituzioni democratiche differenti da quelle che vincolano tra
di loro i fedeli di una chiesa, ma anche estranee al nascente
Stato liberale. Per il Quinto Stato vale il seguente assunto:
i diritti sociali sono fondati sulla «proprietà del proprio la-
124
II. UNA STORIA A CONTROPELO
voro», sulla garanzia dell’indipendenza dell’individuo e
sull’autodeterminazione della propria esistenza.5 Avere la disponibilità di decidere del proprio presente e futuro, in ogni
momento. Questa è la condizione di autonomia e libertà che
rivendicavano i Livellatori, a partire dalla consapevolezza di
essere produttori indipendenti.
Oggi sono i quintari a rivendicare questo diritto comune
a un altro modo di possedere.
Capitolo quattordicesimo
«Agiamo tutti all’unisono»
Inventori, artieri, impostori, avventurieri, falsari, alchimisti, ciarlatani, saltimbanchi, guaritori, ambulanti, ladri, sodomiti, usurai, birri, eretici «nemichi di Dio che biveno el
sangue de li poveri uomini». Piero Camporesi colloca questa
torma umana già nella Bologna del 1666 in un apologo sui
venditori di sterco di gallina. Nell’anno I della Rivoluzione
francese essa si ripresentò non invitata alle porte della Convenzione. Erano gli spettri del limbo, braccianti, infermi e
indigenti, gli esclusi dalla società dei tre Ordini. L.-P. Dufourny de Villiers scrisse un Cahier de doléance il 25 aprile
del 1789 dedicandolo al «Quarto Stato», «l’ordine sacro dei
disgraziati», dei lavoratori giornalieri poveri, degli infermi,
degli indigenti.1 Quello sul «quarto ordine» è un pamphlet
assai meno noto dell’opuscolo dell’abate Sieyès sul Terzo
Stato, cioè la borghesia. Rivela la condizione delle moltitudini «costrette dalla miseria a donare tutto il loro tempo, le
loro forze e la loro salute per un salario a mala pena sufficiente per il loro nutrimento». Queste moltitudini bussarono alla porta, ma la Convenzione rifiutò di ascoltarle.
L’assemblea nazionale del Terzo Stato fondò la propria legittimazione sull’esclusione del proletariato moderno, i non
garantiti da nessun ordine sociale, le miriadi di lavoratori e
126
II. UNA STORIA A CONTROPELO
lavoratrici dei più disparati settori e territori, senza rappresentanza, sempre isolati nella propria miseria, spesso invisibili anche a sé stessi. Troppo oscena era la loro presenza per
essere accolta nel nuovo ordine borghese. Nel Cahier di de
Villiers c’è una domanda attuale. Perché una classe immensa
di giornalieri, salariati, persone non garantite e non assunte in
modo tradizionale, non può eleggere rappresentanti diretti,
affermare il diritto all’esistenza? L’Ordre Sacré des Infortunés,
il Quarto Stato che non possiede nulla, dovrebbe essere il
primo ordine, e invece è l’ultimo. Agli occhi della società non
esiste. Il Quarto Stato non sarà contemplato tra gli Stati generali: invisibile, inesistente, escluso. E così sarà fino alla primavera del 1871, quella della Comune di Parigi,2 quando gli
apolidi esclusi dalla società di provenienza e dal patto sociale
vigente decisero di fare da sé. E si autorganizzarono. Furono
sconfitti in una carneficina, e banditi persino dalla memoria
della nazione.
La tradizione sanculotta – il Cahier ne costituisce una delle
prime manifestazioni – aveva a cuore l’affermazione di una società di piccoli produttori indipendenti, autonomi e virtuosi.
I «decreti di ventoso» del febbraio-marzo 1794 stabilirono il
sequestro dei beni dei sospetti, per distribuirli gratuitamente
agli indigenti del Quarto Stato. Nel maggio successivo, venne
introdotta un’indennità annuale per i bisognosi: una sorta
di reddito di base ante litteram, che lo stesso Thomas Paine
rivendicherà nell’Agrarian Justice del 1797. Misure che non
ebbero alcuna applicazione pratica, disperse nel Terrore delle
lotte tra fazioni in cui precipitò la rivoluzione verso il Termidoro. Con il Quarto Stato a pagare le conseguenze della miseria economica e sociale, prodotto della sua invisibilità politica
e istituzionale.3
La rappresentanza del Quarto Stato restò disabitata per
decenni. Ma l’assenza di una mediazione tra le moltitudini e
lo Stato spinse ad aguzzare l’ingegno. Le classi operaie ma-
14. «AGIAMO TUTTI ALL’UNISONO»
127
turarono un imperativo morale e iniziarono a creare regole
di comportamento, disciplina, abitudini utili a proteggersi e
garantirsi a vicenda, cercando di non danneggiare i propri
simili. Dovevano far durare la propria vita più di un soffio,
offrendo alle donne e agli uomini l’occasione di migliorare la
propria esistenza. Era un bisogno che partiva dalle esigenze
minimali della vita. Gli apolidi iniziarono a circolare liberamente tra una città e l’altra.
Questa è la storia del girovago, nomade apprendista, Jacques-Louis Ménétra, antesignano del Quinto Stato, vetraio
nato a Parigi sul finire degli anni Trenta del Settecento. Filosofo, scrittore, biografo, come Jean-Jacques Rousseau,
esiliato in Europa, Ménétra raccolse le sue confessioni nel
Journal de ma vie: «autobiografia di uomo del popolo».4 Irrequieto in un’epoca di gesta singolari, giovane avviato sulle
orme del padre vetraio, Ménétra compieva il classico Tour de
France, il viaggio di formazione di ogni apprendista, prima di
fare ritorno a casa, pronto a preparare la rivoluzione.
Orfano di madre, figlio di un uomo violento e sregolato,
Ménétra sproloquia sull’infanzia terribile al Pont Neuf. Il
suo mestiere era quello appreso in bottega. Iniziò una formazione professionale itinerante nelle diverse botteghe e atelier
di vetraio dalle coste atlantiche a quelle mediterranee, passando per il centro, sempre in cerca di un lavoro migliore.
Picaro come molti lavoranti del vetro, visse tra la Repubblica
di Venezia e la monarchia di Francia, nemiche giurate nella
fabbricazione del vetro di Murano, partecipando alle guerre
di spionaggio che questi regimi si facevano per conquistare
i brevetti necessari a vincere la concorrenza. Ménétra non
smise mai di cercare l’indipendenza. Diventato adulto, sarebbe stato pronto a godersi la vita, consapevole di dover lavorare per vivere, non vivere per lavorare.5
128
II. UNA STORIA A CONTROPELO
Quella di Jacques-Louis Ménétra è una figura ricorrente
nella storia europea, anche se le storiografie dominanti lo
hanno considerato un soggetto anomalo. Non era inquadrabile nel Quarto Stato e non era nemmeno ritenuto capace di
raccogliere l’eredità dell’ordine precedente. Questo vetraio
è un classico apolide, che svolge il suo lavoro in bilico tra
il proto-operaio di bottega e il piccolo imprenditore. È un
professionista che conosce il mestiere, ma la società lo tratta
da apprendista itinerante e girovago. Appresa l’arte nella
bottega familiare, nelle sue peregrinazioni cerca di vendere
al cliente la propria sapienza. Jacques-Louis si sente un cittadino di Parigi, di origini plebee, senza antenati e blasoni,
in sprezzo all’ordine cetuale, e rivendica l’appartenenza alla
classe degli artigiani. È un apolide ambizioso, cerca di fondare la propria città, col passo lungo che scavalca valli e attraversa contrade. Ménétra traccia linee e cerchia perimetri.
Come tutti gli apolidi, anche lui coniuga il suo essere cittadino del mondo con l’orgoglio di possedere un mestiere. È la
sintesi che troverà ospitalità nell’etica del movimento operaio.
Un’etica che permette di ribellarsi ai mastri vetrai proprietari di bottega e alle vecchie corporazioni. Ménétra propone
uno scambio ai suoi datori di lavoro: accetta le regole del lavoro a bottega, in cambio chiede ospitalità, vitto, alloggio. E
poi riparte. Una strategia praticata spesso a quel tempo. Fu
repressa dalle autorità che erano interessate a stabilizzare la
manodopera. Le corporazioni volevano mantenere la disciplina, l’obbedienza alla gerarchia. Ménétra, e quelli come lui,
erano la negazione vivente di questa politica. Sulla loro strada
trovarono la complicità di una comunità basata sulla regola
conviviale che orienta la vita dei lavoranti nomadi.6
Il contrasto tra la legge dei viandanti e quella del loro
gruppo professionale ha nutrito a lungo il conflitto di classe.
Da un lato c’è l’affermazione, o la difesa, della propria indipendenza, dall’altra c’è l’obbligo al rispetto delle regole di
14. «AGIAMO TUTTI ALL’UNISONO»
129
una corporazione, del contratto, della volontà del datore di
lavoro. Questo conflitto non ha risparmiato gli operai i quali,
una volta incastrati alla catena di montaggio, all’esecuzione
di una qualsiasi mansione ripetitiva, hanno sempre cercato di
guadagnarsi un’autonomia, difendendo spazi minimali, praticando scioperi, boicottaggi, spesso affermando potentemente
il rifiuto del lavoro. In fondo, è questo il conflitto che si svolge
ancora oggi in tutte le forme del lavoro indipendente.
Ménétra venne esiliato dalla polizia. Fu messo in quarantena a lavorare ai vetri del castello e delle scuderie di Versailles, sotto il controllo del mastro vetraio e delle guardie del
re. Aveva sobillato la sedizione tra i colleghi, ricorrendo alla
naturale propensione all’ingiuria, alla bravata, al disprezzo,
all’insolenza contro i nobili, i padroni e i mastri. Non era
dunque solo un provocatore. Dietro di lui c’era una insofferenza diffusa che spingeva alla rivolta, covava una rivoluzione. Ménétra conosceva questa propensione dell’autorganizzazione dei mestieri e dei lavori quando decise di entrare
nell’associazione di lavoranti che lo avrebbe protetto durante
le sue peregrinazioni. Accettò il battesimo e i doveri dei «Lavoranti erranti o divoranti», i compagnonnages grazie ai quali
avrebbe trovato impiego e sostegno. Ribelle a ogni regola,
Ménétra accolse tuttavia la regola di questa comunità, rispettandone gli obblighi, condividendo i suoi tempi di vita.
Le corporazioni tradizionali delle arti e dei mestieri furono
spazzate via dalla rivoluzione. Le associazioni come quella
di Ménétra riuscirono a sopravvivere, anche grazie al loro
statuto informale che le rendeva simili a comunità spirituali,
forme di appartenenza ideale e non certo ordini professionali fondati su un codice deontologico. Alla fine del XVIII
secolo, queste comunità hanno sperimentato pratiche di
socializzazione ispirate al terzo principio della Rivoluzione
130
II. UNA STORIA A CONTROPELO
francese, quello della fratellanza. La fratellanza si sperimenta contro il lavoro subordinato e nella condivisione sostenuta sin dalla giovinezza e protratta come stile di vita e
atteggiamento esistenziale. Si vive nelle locande, si fa festa,
si imparano le canzoni. Sono tutti momenti di un’economia
del dono che viene strutturata a partire dalla convivialità.
Queste pratiche sono state definite un «potlatch fraterno».7
Robert Darnton invita a leggere Ménétra alla luce di Rabelais:
Ci può aiutare a capire la terza componente della triade dei
sans-culottes, quella che oggi ci appare più estranea: la fratellanza. Ménétra non ha imparato la fratellanza dai libri, ma
bevendo e andando a puttane con i compagnons durante
il suo Tour de France. Il suo modo di intendere la fratellanza poteva essere violento e crudele, ma durante la prova
suprema del 1793-1794 essa tenne unita la gente non solo
nello sforzo comune di riempire la pancia e difendere la Repubblica, ma di preservare un modo di vivere».8
La convivialità era dunque il risultato di pratiche quotidiane improntate a libertà, autotutela collettiva, comunanza
di spazi, ideali, cibo, passioni, felicità. Forme di vita che rivendicavano l’insubordinazione contro il vecchio sistema
cetuale e l’ordine borghese nascente in nome di una «morale della fedeltà a sé stessi nella libertà» e dell’aspirazione
all’emancipazione collettiva: «Amici, oggi siamo tutti compagnons e agiamo tutti all’unisono».
Nelle taverne, osterie, cafè e bar dove il loisir incontra il devoir dei compagnons, Ménétra giocherà a dama con Jean-Jacques Rousseau. Ciascuno perso e poi ritrovatosi nei comuni
pensieri e nell’azione da libero cittadino di una repubblica,
quella dell’indipendenza individuale e della felicità collettiva.
Capitolo quindicesimo
Cospiratori dell’uguaglianza
Lo spirito dell’associazione è il vento che ha spezzato gli ordini cetuali dell’Ancien Régime in Europa. Partì impetuoso
nella primavera del 1796. La chiamarono «cospirazione per
l’eguaglianza» contro il Direttorio del regime termidoriano,
quello che voleva «farla finita con le Rivoluzioni» e affamava
la popolazione. «Gracchus» Babeuf guidò la congiura, anticipazione del movimento socialista. Babeuf affermava l’urgenza dell’autogoverno della libera «comunità dei lavori e
dei godimenti». Un programma politico che venne diffuso
in tutto il continente da Filippo Buonarroti, autore del pamphlet La Conspiration pour l’égalité (1796) e sodale di Babeuf nella congiura insieme a Sylvain Maréchal. Erano tutti
agitatori sans-culottes parigini, vivevano sotto il Direttorio,
nella moltitudine di sfruttati, vecchi e nuovi lavoranti, indigenti, poveri disoccupati.1
Come Ménétra, anche loro evocavano una comunità
dei lavori e dei godimenti. L’uso del plurale non è casuale.
Siamo alle origini del movimento socialista, quando si faceva
molta attenzione a sfuggire alla visione monista del lavoro,
e del lavoratore. Eresia dell’eresia, il lavoro veniva addirittura associato ai «godimenti». Il godimento è la negazione
del regime del lavoro, ma si può godere anche di un lavoro
132
II. UNA STORIA A CONTROPELO
scelto in base a una preferenza personale, rispettando i propri tempi di vita a garanzia di una comunità che ama la vita.
Per quindici secoli sei vissuto in schiavitù, e quindi infelice.
Da sei anni respiri a fatica, nell’attesa dell’indipendenza,
della felicità e dell’eguaglianza. […] Dichiariamo di non
poter più sopportare che la stragrande maggioranza degli
uomini lavori e sudi al servizio e per il piacere dell’estrema
minoranza.
Sono alcune delle proclamazioni del Manifeste des Egaux.
Insieme a quella dell’abolizione della proprietà privata,
inaugurano la presa di parola collettiva del lavoro vivo contro le strutture parassitarie del potere. La citazione che apre
il manifesto è di Condorcet: «Uguaglianza di fatto, scopo
ultimo dell’arte sociale». Per ribellarsi alla schiavitù, all’indigenza, bisogna aspirare alla felicità dell’eguaglianza e
dell’indipendenza. Questo manifesto circolò in Francia, poi
in Inghilterra, e anche in Corsica, quindi a Bruxelles e Milano, tra le società segrete dei Filadelfi, quella dei Sublimi
Maestri Perfetti e la Carboneria francese. La cultura radicale
del giacobinismo coniugava innovazione istituzionale, istruzione pubblica e princìpi di giustizia. Questi principi arrivarono a Napoli nel triennio giacobino. Buonarroti cavalcò
quest’onda europea per diffondere l’associazionismo operaio, repubblicano, democratico, segreto e libertario.
Nel 1794, prima della congiura e dopo l’occupazione da
parte delle truppe rivoluzionarie francesi, Buonarroti ricoprì
il ruolo di commissario rivoluzionario a Oneglia e provvide
all’istruzione pubblica della popolazione, insieme ai napoletani Carlo Lauberg e Michele De Tommaso, protagonisti
della Repubblica napoletana del 1799. Vollero applicare l’idea di Condorcet: «le leggi pronunciano l’eguaglianza nei
diritti; ma soltanto l’istruzione può renderla reale».2 Istruzione, non educazione; pubblica, non nazionale. È la dimen-
15. COSPIRATORI DELL’UGUAGLIANZA
133
sione di un agire singolare e condiviso, in cui gli individui
contribuiscono alla creazione di uno spazio pubblico, non
statale, nel quale viene garantita l’autonomia personale e
nuove pratiche collettive volte a sperimentare condizioni
di benessere. Perché l’istruzione pubblica estende la conoscenza e libera l’umanità dalle sue catene.
Fu l’urgenza di abolire i privilegi, eliminare gli abusi, diffondere l’istruzione a guidare Eleonora de Fonseca Pimentel e
la Repubblica napoletana. Un tentativo generoso, ma isolato,
durato pochi mesi, travolto dalla crociata sanfedista capeggiata dal cardinale Ruffo, la cui sanguinaria vittoria avrebbe
negato a Napoli la possibilità di partecipare agli eventi della
modernità europea.3 La repressione, durata più di una generazione, non ammorbidì la resistenza delle società segrete,
delle cospirazioni create da minoranze di volenterosi idealisti
e senza popolo che avevano un solo pensiero, agire in nome
del popolo, vivere per risollevare le masse degli indigenti, dei
servi della gleba, dei salariati alla giornata diffondendo l’istruzione pubblica e lo spirito dell’associazionismo. Franco Venturi ha spiegato mirabilmente quanto l’illuminismo italiano
abbia predicato una politica progressiva elitaria, alimentata
da un moderatismo politico e religioso poco tollerante verso
i programmi elaborati dai riformisti in tutti i settori della società, dell’amministrazione o dei saperi.4 Questo illuminismo
non era interessato al popolo, ma solo a formare una nazione.
Ma l’idea di una nazione senza popolo era una contraddizione
intollerabile per i rivoluzionari che avevano respirato il vento
della cospirazione degli uguali. La rivoluzione non riuscì tuttavia a superare una simile contraddizione; i carnefici ne approfittarono e rinchiusero a vita i cospiratori nelle prigioni, o
li fucilarono mentre i moti risorgimentali erano in piano svolgimento, un massacro rimosso che grida ancora oggi vendetta.
Più di una traccia sopravvisse in Italia all’uragano della
violenza contro-rivoluzionaria. Le parole iniziarono a circo-
134
II. UNA STORIA A CONTROPELO
lare, convincendo i rappresentanti del lavoro artigiano e dei
mestieri più tradizionali. Lo spirito di associazione assumeva
il significato di «una scissione dal resto della società, di una
consapevolezza della propria forza autonoma, di un programma di lotta sul terreno democratico e repubblicano».5
Negli anni Trenta dell’Ottocento, al termine della sua battaglia che non fu vittoriosa, Buonarroti pubblicò il primo e
unico numero di un giornale: l’Associé. Sollecitava le classi
operaie a diventare protagoniste di un miglioramento durevole e quasi illimitato della vita.6 Traspare una potenza inaudita in queste parole, troppo poco conosciute. C’è la volontà
di parlare a tutte le classi dei lavoratori, facendo leva sulla
loro capacità di intrapresa. Buonarroti, in esilio a Bruxelles
e tra i pochi superstiti della Rivoluzione francese, proponeva
una sintesi inaudita per i suoi contemporanei. Voleva coniugare indipendenza, eguaglianza e felicità, e si raccomandava
affinché questa rivendicazione fosse diffusa in tutta Europa.
In principio era lo spirito di associazione, da cui discendeva
il seguente problema: come convincere persone abituate alla
competizione, alla guerra di tutti contro tutti per la conquista
del pane, a collaborare? In altre parole, come può l’indipendenza, che è un bene sacro per l’individuo, essere tutelata con
l’aiuto degli altri, e non con il ricorso agli inganni e alle furbizie? È la domanda che attraversò l’intero «Settecento riformatore». E fu anche l’ossessione di Thomas Jefferson, alle prese
con la Dichiarazione di Indipendenza del 1775, come nel suo
soggiorno parigino del 1789, e sarà l’ossessione di Saint-Just,
nel suo rivendicare nuove istituzioni contro la sovranità della
legge. Con il linguaggio dell’epoca, entrambi si domandavano
come conciliare «felicità privata e felicità pubblica».7
Trovarono una soluzione. Visto che non era il caso di negare l’una o l’altra, ma di cercare un nuovo equilibrio, pro-
15. COSPIRATORI DELL’UGUAGLIANZA
135
posero una sintesi: «felicità pubblica» e «bonheur public»
devono essere intese come il benessere collettivo di una comunità. L’ideale rivoluzionario cerca di superare la divisione
fra privato e pubblico in una forma di comunanza che si
appoggia sulla fraternità ed esclude l’introduzione di criteri
economicisti. Sarà così nella rivoluzione borghese del 1848
in Francia, allorché l’ideale repubblicano verrà proclamato
solo per essere messo immediatamente in discussione.
Lo spirito di associazione e la fratellanza universale corrispondono a un desiderio di riconoscimento tra gli eguali in
un mondo dove vigono rapporti di classe talmente sproporzionati da mettere a rischio la sopravvivenza dei più deboli.
Al tempo del dilagare della filosofia e delle società operaie
ispirate al verbo saint-simoniano in Francia, il desiderio di
fratellanza fu tradotto nella pretesa eliminazione di questi
rapporti e nella spinta alla fusione dei lavoratori nel Tutto
dell’umanità pacificata. Il Quarto Stato si presentava come
una massa di disperati alla ricerca di un lavoro. L’obiettivo
dei credenti in Saint-Simon era diffondere l’amore cristiano,
garantendo carità e assistenza ai più deboli.8
Intenzioni non molto diverse nutriva il socialismo utopista e liberale di Owen in Inghilterra, con una differenza:
in questo caso, il socialismo era finanziato da un capitalista
compassionevole, filantropo educato al rispetto del comandamento evangelico. In Francia questo ruolo lo avrebbe
svolto lo Stato, al quale i socialisti attribuirono il compito
di guarire l’umanità dalla povertà, aprendo agli esclusi le
porte di una comunità rinnovata dall’amore. Quella larva
dell’umanità del Quarto Stato avrebbe potuto trovare una
consolazione nella familiarità di una fratellanza universale.
Nel 1848 il socialismo era l’idea di un’autorità che imponesse una disciplina all’anarchia del popolo, ne correggesse
i vizi, insegnasse a lavorare proficuamente, a risparmiare, a
redimersi. Era, insomma, tutto il contrario della libertà delle
136
II. UNA STORIA A CONTROPELO
persone e dell’autonomia collettiva che il socialismo medesimo avrebbe dovuto promuovere. Lo stesso Marx annotò
il modo in cui nel 1848 il proletariato parigino si sdilinquiva
nella magnanima ebbrezza di una fraternità che consegnava
il «popolo» alla peggiore delle schiavitù.9
La contraddizione tra interesse personale e interesse collettivo, tra l’individuo e lo Stato, segnerà le sorti del socialismo. Essa interroga la natura stessa dell’uguaglianza: è possibile distinguere l’autonomia dall’eterodirezione? E quando
si è tutti uguali, questa uguaglianza rispetta sempre l’individuo? Oppure si è uguali, e liberi, fino a quando una maggioranza non decide diversamente? Piuttosto che scorgervi
un’antinomia – qual è a tutti gli effetti un amore fraterno che
si trasforma in odio tra nemici (si veda la vicenda di Caino
e Abele) – l’uguaglianza viene considerata dai cospiratori
sette-ottocenteschi come un sinonimo di solidarietà. La solidarietà non cancella le differenze tra gli individui, ma le potenzia. Individua un problema comune nel presente rispetto
al quale gli uni e gli altri si riconoscono uguali, non un’appartenenza ideale o una filiazione ancestrale che può far volgere l’amore assoluto in violenza distruttiva.
Furono queste le ragioni per cui, a partire dalla rivoluzione del 1848, emerse in Europa una nuova parola, la solidarietà, con la quale si cercò di sostituire la fraternità:
Fratellanza significa sollecitudine morale all’oblazione
dall’alto verso il basso tra diseguali in nome di una comune
appartenenza: fratelli in quanto figli di dio, fratelli in quanto
figli della patria. Era la parola della carità cristiana e della
filantropia massonica. La solidarietà operaia segna una rottura: esprime un sentimento morale e una disposizione pratica che unisce orizzontalmente gli eguali: uno per tutti, tutti
per uno. È la presa di coscienza della necessità dell’agire
cooperativo da parte di coloro che posseggono soltanto la
forza del numero. La solidarietà ha suscitato e animato la
15. COSPIRATORI DELL’UGUAGLIANZA
137
grande e ricchissima fioritura dell’associazionismo nell’Europa della seconda metà dell’Ottocento».10
Il passaggio dall’invocazione di un’identità genetica (la fratellanza) a una pratica attiva e impersonale (la solidarietà) non
risolse tuttavia la contraddizione. Anzi la complicò alimentando nelle associazioni operaie i conflitti tra chi perseguiva
unicamente i propri interessi e chi invece aveva a cuore quelli
collettivi. Avere un lavoro stabile, così come la possibilità di
rendere virtuosa la propria precarietà, restavano opzioni lasciate al caso. Chi era meritevole di un posto di lavoro se le
competenze di un lavoratore valevano sul mercato quanto il
biglietto di una lotteria? Per trovare un lavoro contano le competenze oppure le raccomandazioni, in particolare quando la
disoccupazione è alta e non c’è pietà per nessuno? Sono domande che aumentano il sospetto, l’invidia, persino l’odio tra
i lavoratori disoccupati o impoveriti. Su questa base, ad esempio, esplosero conflitti durissimi contro la presunzione borghese dei cesellatori e l’avidità contadina dei muratori giunti a
Parigi per trovare una compensazione alla miseria.
Oggi, come ieri, è difficile mantenere una coesione tra soggetti abituati a fare da sé anche quando comprendono che
bisogna essere tutti per uno e uno per tutti. Ciò non toglie
che sia utile restare insieme, poter contare su una comunità,
soprattutto quando è necessario cercare tutele contro la precarietà, procurarsi un pasto alla sera, mantenere una famiglia, o si è poveri e soli. La solidarietà nasce dal bisogno di
proteggersi da un mercato instabile e da istituzioni che non
fanno gli interessi dei lavoratori. È preferibile allora essere in
tanti per andare controcorrente, creare un’unione che non
sia imposta dall’alto, sapendo che le armi usate dai «lavoranti
erranti» contro i padroni sono le stesse impiegate per difen-
138
II. UNA STORIA A CONTROPELO
dersi dalla concorrenza dei propri simili. Non basta evocare
i principi astratti della nazione, o del popolo, per soddisfare
questa ricerca quotidiana. Il socialismo radicale di Buonarroti, così come il proto-comunismo di Babeuf o di Blanqui, si
posero questo problema e tentarono di superarlo.
Sebbene non cancelli l’invidia o l’opportunismo, lo spirito di associazione è preferibile perché conviene. Vivere-incomune significa allontanarsi dalla miseria o dall’esclusione
dovuta alla perdita del lavoro. La solidarietà rende gli operai simili ai borghesi ma, allo stesso tempo, li differenzia una
volta per tutte. Nasce cioè dal bisogno di godere della loro
stessa libertà, anche se si tratta di una libertà completamente
diversa: non si basa infatti sull’egoismo e lo sfruttamento
della libertà altrui.
Babeuf, Buonarroti e Blanqui lo avevano capito mentre
incrociavano i destini delle lotte repubblicane e delle prime
coalizioni operaie dagli anni Trenta in poi. Era possibile
unire il Quarto Stato con le associazioni dei lavoratori che
lottavano per una Repubblica amica del popolo e dei diritti
dell’uomo, per citare due delle società segrete nelle quali
militarono. Tra di loro emergeva l’urgenza di una «giustizia economica, dinanzi al contrasto tra la crescente povertà
d’Europa e l’ideale dell’uguaglianza».11
Capitolo sedicesimo
Il cenobita, il filadelfo e il quintario
«Lasciati insultare nelle strade, vero lazzarone libero come
l’aria. Vai! Ogni strumento è un pugnale che uccide la libertà, dei nostri beni il più caro!». Nel 1831 Louis Gabriel
Gauny, falegname, dedicò questi versi a Louis-Marie Ponty,
la cui infanzia fu ribelle a ogni disciplina scolastica, mentre adolescente completava le tappe del proprio apprendistato. A Ponty, questo poeta di strada suggerì di rovesciare
il tempo del giorno, quello dell’alienazione, con il sogno
letterario che liberava la notte. Cenciaiolo, poi bottinaio,
svuotacessi, per il trentacinquenne Gauny non esisteva servitù più umiliante di quella che corrompe la notte dell’anima con l’obbligo di un lavoro salariato. E sollecitava il suo
giovane amico a fuggire l’umiliazione del lavoro salariato,
cambiando con frequenza l’atelier dove farsi regolarmente
sfruttare. Perché il lazzarone ha comunque bisogno dello
«strumento» della servitù, in quanto essa è la condizione
fondamentale senza la quale il proletario non possiede l’indipendenza.1
Gauny è il prototipo del quintario, del lavoratore autonomo, il lavorante di giornata. Durante una faticosa bohème
si rifugiò nella propria anima, macerò il suo corpo immolandolo allo spirito letterario, mentre veniva assunto a ore per
140
II. UNA STORIA A CONTROPELO
costruire pavimenti nelle case dei borghesi. Rimase per tutta
la vita senza padroni, sorveglianti o colleghi. Si mortificò per
darsi slancio. Questo cottimista era un parente stretto dei
padri del deserto: anacoreti, fuggitivi con una taglia sulla testa, discepoli delle visioni di una vita vera.
Lavorava da solo, guadagnandosi la libertà. La concorrenza era dura e lui la pagò cara. Gauny fu l’apostolo di
una filosofia cinica, quella della vita scandalosa di Diogene,
ed ebbe il merito di incarnare l’indocilità ragionata di centinaia di migliaia di operai nomadi espulsi dalle fabbriche,
una muta umana di giornalieri che lavoravano ai torni per
diciotto ore al giorno, beatificati dai filantropi che vedevano
nel lavoro a domicilio, in quello nei falansteri, l’unità perduta del lavoro e dell’ordine familiare.
Gauny predicava l’arte di restare con sé stessi. Unico
bene la propria libertà, quella di fuggire dalla fabbrica del
padrone senza finire in una bottega, dove avrebbe ritrovato
il calore umano perduto condannandosi però alla schiavitù.
Il falegname sapeva di non essere libero, cioè di non possedere il suo tempo e determinare il modo in cui avrebbe
potuto lavorare. Decise allora di trasformare la propria vita
in un esempio. Costruì la leggenda della propria libertà attraverso la poesia, raccontando il suo girovagare tra un mestiere e l’altro a caccia di un ingaggio migliore per allontanarsi dalla fatica bestiale e dall’umiliazione dei padroni che
cercavano di sfruttarlo a poco prezzo.
Con la sua vita scandalosa denunciava l’insicurezza economica, e la totale assenza di diritti, per chi operava nelle sue
condizioni. Ma rivendicava anche la libertà di non appartenere a nessuno. Il suo bagaglio era leggero, non possedeva
nulla, tranne gli strumenti della sua arte di falegname. Per
lui la proprietà non consisteva nel possesso di un oggetto,
oppure del denaro, ma nel rapporto con il proprio tempo. Il
lavoratore indipendente decide di vendere una prestazione
16. IL CENOBITA, IL FILADELFO E IL QUINTARIO
141
perché ha il controllo sul proprio tempo. È lui a decidere sui
tempi della vita, non chi lo paga con il salario.
Gauny diceva di essere un cenobita. Come tutti gli operai
che gravitavano nei circoli utopistici, coltivava le medicine
alternative, l’omeopatia e il magnetismo, era un fanatico del
lavoro libero, che opponeva alla febbre del lavoro salariato,
sotto padrone, sottopagato, gratuito. Il deserto è lo spazio
infinito che non può essere occupato dallo sfruttamento, né
esaurito dalle possibilità a disposizione di una vita di stenti.
La ribellione contro l’incubo di una vecchiaia reclusa in
un ospizio, falciata dalla malattia, lo portò a liberarsi dell’illusione che un lavoro produca la ricchezza di un uomo. E tuttavia bisogna vivere, lavorare, quindi farsi sfruttare. Gauny
affrontò questo problema ricorrente nelle teorie dell’emancipazione dal lavoro continuando a operare con gli ingaggi, a
corvée, a prestazione. Proprio come un lavoratore autonomo
dei nostri tempi, un idraulico o un piastrellista a domicilio.
Bisogna però considerare che, allora come oggi, il rifiuto del
lavoro salariato, o alle dipendenze di un mastro, era inconcepibile. Semplicemente perché la pretesa di lavorare in autonomia, secondo i tempi e i modi stabiliti dal singolo, e non
dal padrone, era e resterà sempre un’eresia.
Gauny fece fronte a questa situazione proponendo una
filosofia cinica. Simulava l’obbedienza, e faceva i propri
interessi. Ancora di più, mostrava questa strada ai suoi simili, invitandoli a squarciare il velo della finzione del lavoro
salariato. Il lavoro è libero, diceva, e questa verità lo esponeva agli insulti e alla ripulsa collettiva. Ma Gauny teneva il
punto: sul lavoro, e nella società, non può – non deve – esistere una gerarchia che condanna a morte chi cerca di sopravvivere in cambio di un reddito. Bisogna, anzi, trasformare questa situazione affinché l’illusione si faccia trasparente a sé stessa. Il lavoratore non obbedisce a un patto. È
lui a proporlo a un padrone. Da pari a pari: il lavoratore è
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II. UNA STORIA A CONTROPELO
padrone del proprio tempo, il padrone è padrone dei mezzi
di produzione. Tra loro non c’è altra differenza. C’è quindi
l’aspirazione a rivendicare un’uguaglianza sostanziale. Che
scandalo questa verità.
Davanti a sé il nomade ha il deserto, lo spazio delle possibilità. Gauny sollecita a percorrerlo a tappe forzate e predica
una disciplina inflessibile: il risparmio, virtù del proletariato,
deve essere assoluto. Ogni centesimo deve essere messo da
parte, pronto all’uso quando si decide di abbandonare il posto di lavoro, mandare al diavolo i patti. Nessun pentimento,
nessuna scusa: tutto serve per la propria indipendenza. Questo è l’aspetto più difficile da accettare nella vita del cenobita. Perché, risparmiando sulla miseria, l’operaio muore
di stenti. E il plusvalore del suo lavoro gli viene comunque
sottratto. C’è la famiglia, i figli da mantenere, a cui non si
può togliere il pane. Il lavoro salariato è sedentario anche
per questa ragione, mentre Gauny indica la strada del nomadismo. Come si conciliano questi due aspetti sicuramente
opposti nella sua poetica della libertà?
Gauny esorta a seguire il proprio esempio nei suoi scritti
deliranti, frutto del sogno nella notte inquieta, risvolto ideale del giorno passato in catene. E lo fa consapevole che
esiste per i salariati una via segreta all’insubordinazione sul
lavoro. Dev’essere chiaro al padrone che è la manodopera
che fa andare avanti la sua impresa, che impone i tempi alla
produzione, e non il contrario. La sua idea è che il lavoro è
sempre pronto a sfuggire alle costrizioni, quando le costrizioni impongono il salasso della vita. Prima viene l’autonomia, e il suo rispetto, poi il lavoro alle condizioni di chi paga.
Questo voleva rappresentare Gauny avendo passato la
vita a cambiare lavoro, girando tra monti e vallate, portandosi nella sacca i propri risparmi. Nel suo bilancio la voce
più importante era quella relativa alle scarpe. La sua economia cenobitica, trasposizione moderna della regola di vita
16. IL CENOBITA, IL FILADELFO E IL QUINTARIO
143
dei Pitagorici, è una scienza dei mezzi per governare la vita
dei ribelli. Così facendo, il cenobita rovescia la virtù del risparmio, quella che accomuna il capitalista e il suo servo. Al
servo i risparmi sono necessari per vivere. Al capitalista per
sfruttare chi lavora per lui.
Il cinismo di cui si fa forte il popolo di camminanti che
sfugge al lavoro salariato, ma non disprezza l’industria personale, non conduce al pregiudizio verso l’Altro, e non è
nemmeno la dimostrazione della crudeltà di una guerra di
tutti contro tutti. Gauny teorizza invece la figura gemella
del cenobita, che trova un solido riscontro nell’aspirazione
originaria del kynicos, colui che conduce una vita cinica in
quanto vita vera in un mondo di illusioni.2
Emerge così l’immagine del «filadelfo», da philein, amare,
e adelphos, fratello o sorella. Amare i fratelli di viaggio, traduzione del cosmopolitismo del cinismo greco. Nell’apolidia, o inclassificabilità di questi lavoratori nomadi, espatriati
e migranti, inadatti alla produzione industriale, ma non superflui alla stessa, si riscontra il desiderio di costruire un’altra città dove esprimere l’amore per l’umanità sorella. Nelle
sue peregrinazioni, Gauny esercita l’arte del filadelfo, colui
che incontra tutte le forme dell’umanità e predica l’amore
universale. Egli può affermare in tal modo la verità della
propria vita. Gauny filadelfo, come Filippo Buonarroti: irriducibili all’ordine esistente, promotori di una vita pratica
alternativa, di un affetto nell’esecuzione delle proprie mansioni di produttori.
L’insidia per i camminanti è il vino bevuto nelle osterie di
passaggio. Hanno lasciato la schiavitù del lavoro salariato,
possono cadere nell’alcolismo. La scimmia del vino è un altro modalità dell’autosfruttamento. Dopo avere rifiutato il
patto con il padrone, egli non può accettarne un altro con le
proprie debolezze. Gauny rifiuta il vino, come le altre tentazioni. L’alcolismo è una piaga per il lavoro operaio. È la
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II. UNA STORIA A CONTROPELO
fonte delle violenze domestiche, contro le donne e i figli. In
tutta la tradizione del movimento operaio, come del femminismo, si è condotta una battaglia moralizzatrice contro
l’ubriachezza maschile. Il cammino ascendente del cenobita
non può tollerare di cadere in questo vizio. Alla taverna si
rifiuta il vino, e così si risparmia. Mai cedere al bicchiere,
anche per non dare soddisfazione ai nemici borghesi o capitalisti che rimproverano alle stirpi dei non affiliati di essere
vagabondi, perversi o criminali perché assecondano le proprie debolezze e l’innata vocazione alla nullafacenza.
L’indipendente ingaggia una battaglia contro il suo doppio: l’ubriacone. Questo doppio, in realtà, agli occhi di
Gauny è solo l’immagine che gli altri hanno di lui. Gauny
non si fa intimorire. È disposto a rimanere incompreso, perché preferisce assecondare il suo desiderio di verità. Una verità che coincide con la liberazione dagli stereotipi, con l’esperienza delle passioni fino ad affrontare l’insopportabile.
Quella del filadelfo è un’economia politica alternativa
a quella ispirata alla morale economica del liberalismo. La
vita esemplare di Gauny, sempre a rischio di terminare in
un sanatorio, oppure in una prigione, cerca di spingere tale
modello al punto da rovesciare l’immagine del lavoratore salariato. Il suo trascorrere instancabile tra incarichi e lavori,
posizioni che oscillano da quella del reietto a quella gargantuesca del beone, coincidono con una forma di razionalità
operosa. Il punto, infatti, non è semplicemente ribellarsi
contro l’alienazione del lavoro, bensì affermare un’operosità
infinitamente più ampia di ciò che è riconoscibile nel lavoro.
Quella del cinico è una vita passata a costruire legami. La
sua vita non è solo la rinuncia praticata dal cenobita, perché
essa è anche spesa a costruire legami d’amore. Non si tratta di
un amore carnale, né di un amore cristiano presuntuoso e rispondente a un comandamento. Il filadelfo ama i propri fratelli di un amore impersonale, con una benevolenza o genero-
16. IL CENOBITA, IL FILADELFO E IL QUINTARIO
145
sità universali. Questo amore indica un’intima appartenenza
che va al di là dell’essere membri di una stessa comunità. Si
appartiene alla stessa umanità, questo indica il philein che coltiva il filadelfo. Gauny ci permette di scoprire un altro tratto
dell’uguaglianza che abbiamo, fino a questo momento, interpretato come solidarietà. Questo amore intellettuale per il proprio simile è una caratteristica ricorrente nell’etica aristotelica,
come nella tradizione greco-latina assorbita dal cristianesimo.
Risale al passo evangelico in cui Gesù chiede a Pietro
«phileis me»? Qui philein significa «appartenere». Gesù
chiede: Pietro, tu appartieni alla comunità universale, coltivi
un legame più ampio dell’amore sensuale, individuale, incarnato? Gauny fa la stessa cosa con gli avventori delle taverne,
con i compagni di viaggio e di lavoro. Solo questo amore ci
rende più forti dell’obbligo al lavoro per sopravvivere in un
mondo di stenti e umiliazioni. Chi si ama appartiene a un’umanità immensamente più forte. L’amore serve ad accumulare le forze comuni. Nell’incontro tra due o più persone avviene una stabilizzazione della forza. Più si pratica una vita
secondo le regole dei filadelfi, più questa forza aumenta.
Nella storia politica del XIX secolo, questa idea di amore
assume tratti più chiaramente materialistici. La spiritualità
diventa mondana, taglia la testa al Re, l’amore intellettuale
non viene rivolto a Dio (come accade in Aristotele, ripreso
felicemente dai cristiani), bensì agli uomini, alla loro unione,
alla forza che ne deriva. L’amore diventa il conatus di Spinoza, la ricerca della forza immensa dell’unione dei molti e
l’affetto per la singolarità di ciascuno. In Spinoza, l’amore
intellettuale di Dio è in realtà la potenza assoluta dell’unione
dei molti. Una forza da amare sulla terra, tra di noi, solo per
noi e anche dentro lo stesso individuo. Perché noi stessi
siamo composti di mille individui, voci, storie.
Questa è la cornice intellettuale in cui si muove Gauny.
Queste idee erano già presenti tra i giacobini francesi, e tro-
146
II. UNA STORIA A CONTROPELO
varono rappresentanza persino in una società segreta, i Filadelfi appunto, nati nell’esercito a opera di alcuni ufficiali
democratici contrari al cesarismo di Bonaparte. Lo stesso
Buonarroti conobbe personalmente l’esperienza di questa
società segreta. Al suo movimento dei «Sublimi Maestri Perfetti» partecipò la società degli Adelfi. Insieme coordinarono
i moti italiani del 1821 in Piemonte. Il proliferare di queste
società segrete in tutta Europa, nate a seguito della diaspora
del giacobinismo, dimostra come l’esempio di Gauny non
fosse isolato. Si può dire anzi che il suo tentativo fosse ben
noto ai contemporanei.
I filadelfi, come tutti i cospiratori dell’uguaglianza, avevano il compito di dimostrare che gli umili, gli oppressi, i lavoratori possiedono una razionalità politica diversa da quella
dei nobili, dei capitalisti e dei borghesi. Una razionalità che
si libera dall’odio degli schiavi insorti contro gli oppressori e
costruisce una comunità universale, un «nuovo mondo» sulla
terra, con gli umani distanti e inconciliabili, ma uguali. Che
l’origine del Quarto Stato risalga ai lavoratori indipendenti,
alla storia delle società segrete, a un generale e irrefrenabile
desiderio di affrancamento dalla schiavitù e dalla miseria del
passato cetuale, non deve stupire. Tali origini derivano da
una mescolanza tra spiritualità politica di matrice materialistica e difesa dell’autonomia delle persone. Alla base della
stessa idea di comunismo esiste questo legame tra l’esercizio
di un amore intellettuale, inteso nel suo significato di virtù
spinozista, e la pratica di una solidarietà necessaria per affermare la forza collettiva di una moltitudine.
Gauny ha svolto il ruolo del quintario. Il suo girovagare
si spiega con la ricerca di una rivoluzione, proprio nel momento in cui manca la rivoluzione. Migliaia di persone, esuli,
apolidi, scomunicati e ricercati come lui circolavano in Europa a quel tempo. Non era la prima volta, non sarà l’ultima.
La mobilità tra i confini degli stati era una regola praticata
16. IL CENOBITA, IL FILADELFO E IL QUINTARIO
147
da secoli dagli attori della commedia dell’arte,3 poi dai militanti politici o sindacali, dai letterati e dagli artigiani, mestieranti o apprendisti. Il Quinto Stato sta nel movimento permanente alla ricerca di un popolo a venire, di un socialismo
e della sua giustizia, al di là delle frontiere e in barba alle
divisioni sociali o le gerarchie tra i mestieri. L’impersonalità,
l’anonimato, la segretezza erano la regola delle cospirazioni.
Criteri adottati per motivi di sicurezza, ma anche per qualcosa di più profondo. L’apolide non ha nome o una storia. Li
conquista quando arriva nella terra dove chiama il popolo,
invoca la classe, costruisce un movimento.4
Come poeti hanno vissuto i quintari. Sono stati giudicati
pazzi, sregolati, visionari. Lo furono, ma non per motivi clinici. La loro ostinazione era più forte del pericolo dell’arresto
o della prigione. Il quintario è una figura che emerge da un
romanzo di Melville, da un racconto di Kafka, dalla tragedia
di Edipo: partecipa al rito dei fratelli che si rallegrano della
buona novella della morte del padre, sono pronti a inventare
un mondo che non è più diviso tra un alto e un basso, e che
non sarà più quello delle famiglie, delle etnie, delle nazioni
unite dal riferimento al significante principale, all’immagine
paterna. Il nuovo mondo è un arcipelago, dove ci si muove
viaggiando tra i continenti, o anche restando fermi nella
lotta in un’officina. È cambiata enormemente la percezione
dell’essere al mondo: non siamo più soli, siamo parte di un
popolo di uguali. Ognuno di noi parla e invoca un popolo a
venire di cui già siamo parte. Mai come in questo momento
la letteratura e l’arte hanno dato un contributo all’opera di
anticipazione del futuro nelle miserie del presente.5
Questa storia è iscritta nella vita delle persone che hanno
agito come Gauny o Buonarroti. Tra loro c’è Flora Tristan,
ancora lei, cospiratrice dell’uguaglianza, con in corpo le pal-
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II. UNA STORIA A CONTROPELO
lottole sparatele dal marito André Chazal. Questa madre,
operaia, cassiera, colorista, donna di servizio e dama di compagnia, viaggiava in Europa e invocava il popolo a venire. Lo
vide in un’«unione universale degli operai e delle operaie», lo
scrisse nel libro l’Union ouvrière (1843) e coinvolse i protagonisti della scena letteraria e artistica del suo tempo: Eugene
Sue e George Sand.6 Sua figlia Aline Marie sarà la madre del
pittore Paul Gauguin, un altro irregolare visionario nella storia dell’arte, come a voler mettere in pratica il ruolo sociale
dell’artista affermato anche dalla nonna Flora.7 La stessa
spinta che nell’Inghilterra vittoriana muove William Morris,
poeta, romanziere, artista e critico d’arte in lotta per affermare
il lavoro – salariato o meno che sia – come attività creativa,
libera, indipendente: altrimenti si tratta di schiavitù al lavoro.
Così i quintari sono stati al centro della politica, dell’arte
e della cultura, per tutto il secolo. Le loro proposte non
erano ispirate alla teologia messianica: non stiamo parlando
di profeti malinconici che credono nell’oltre-storia. Queste
persone vivono nella storia, e conducono una seria valutazione delle forze in campo. Flora si rivolgeva alle coalizioni
operaie esistenti. Chiamava all’unità un popolo presente, ma
disunito, ferito dallo sfruttamento, dove le donne venivano
uccise dalla fatica e dai propri compagni, così come aveva rischiato di morire lei stessa. In questo popolo a venire che invochiamo, disse Flora, non esiste cambiamento possibile se
prima non si rovescia l’idea che la donna è serva, proprietà
del marito, oggetto passivo di una riflessione dei maschi per
i maschi. Flora Tristan incontrava fratelli e sorelle delle mille
coalizioni operaie, per combattere lo sfruttamento, creare
spazi sociali, palazzi, case, teatri, laboratori e officine di mutua assistenza, dove le bambine e i bambini potessero studiare, gli anziani essere assistiti, tutti imparare a condividere
tempi, competenze, passioni, esperienze: per la felicità individuale e collettiva.
16. IL CENOBITA, IL FILADELFO E IL QUINTARIO
149
Perché la solitudine dei quintari è dolorosa, ma anche
molto popolata. Non appartengono a niente e a nessuno, invocano il popolo a venire, tessono il filo di un legame, non
si stancano mai di parlare dell’unione. Attorno a loro tutto
un popolo chiede di nascere. Insieme al filadelfo, e al suo
fratello gemello cenobita, costruiscono una storia collettiva.
Vogliono dimostrare che la morale di chi lavora non è quella
del capitale. Chi presta la propria opera, vende il proprio
lavoro, così come chi aspira ad averne uno, ma anche nessuno, non può condividere la morale esigente del capitalista,
quella dello sforzo senza fine dell’accumulazione, del tempo
economizzato, del godimento differito del capitale.
Capitolo diciassettesimo
Una sola, grande, unione
L’Europa percorsa dalle correnti dell’autorganizzazione è
stata testimone di mescolanze sorprendenti tra una religione
collettiva, la coscienza delle classi, l’esodo dalle corporazioni
e le pratiche della condivisione. Su queste basi sono nate le
prime istituzioni mutualistiche, filantropiche, assistenziali
che si trasformarono in coalizioni della resistenza attiva delle
classi lavoratrici. Queste coalizioni furono represse dalla legge
Le Chapelier del 1791 e dal successivo Code Pénal, ma troveranno cittadinanza negli stati liberali europei nel XIX secolo,
per poi essere soppresse durante la dittatura nazi-fascista.
Alle istituzioni mutualistiche hanno fatto ricorso gli stati,
specialmente durante le crisi economiche, i periodi di disoccupazione di massa e i sommovimenti sociali. Nel 1848 in
Francia fu proposta l’istituzione degli ateliers nationaux, gigantesche concentrazioni di lavoro operaio sul modello suggerito da Louis Blanc, il quale formulò questa idea nel 1839
nel suo L’organisation du travail, uno dei libri di riferimento
del socialismo di Stato alla francese.1 Era un modo per neutralizzare la «potenza dei giovani repubblicani ed operai
armati che faranno cadere due monarchie e un impero»,2
radunandosi in forze sin dalla rivolta dei tessili (i «canut»)
a Lione nel 1831 e poi nel 1834, per arrivare all’effimera ri-
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II. UNA STORIA A CONTROPELO
voluzione del 1848, quando venne istituita la commissione
del popolo ai giardini del Luxembourg. Blanc aveva pensato
gli atelier sociaux come vere e proprie cooperative di produzione, finanziate dallo Stato, capaci di sostituirsi all’impresa
privata, con un’autonoma capacità di intrapresa e di organizzazione da parte dei lavoratori. Questa idea ha fondato il
movimento cooperativo, nutrendo l’aspirazione a coniugare
il potere dei lavoratori sulla produzione con quello politico,
i soviet nella versione di Lenin.
La realtà degli atelier era molto più modesta e generò una
serie di equivoci degni di una commedia spagnola. Era legata
principalmente all’esigenza di aiutare i lavoratori colpiti dalla
disoccupazione. Tuttavia, gli stessi disoccupati, una volta assunti, si ribellavano alla disciplina imposta dai capi, cioè dagli operai più anziani, funzionari dello Stato oppure membri
delle cooperative.3 La vita infelice degli atelier si spiega perché ai loro membri vennero imposti lavori di pubblica utilità,
dallo scavo dei canali alla riparazione delle strade.
Gli operai erano organizzati militarmente in squadre, brigate e compagnie. Le donne e gli uomini venivano messi davanti a una scelta: morire di stenti, da disoccupati, o ricevere
una paga miserabile da parte dello Stato. Quello francese è
stato un tentativo, sabotato dagli stessi operai, di organizzare la miseria come fecero gli inglesi con le Workhouses, le
case di lavoro, istituite nel 1834 per rinchiudervi i poveri.
Per lungo tempo la propaganda liberista ha spacciato questi
luoghi come unico esempio di socialismo realizzabile.
Marx racconta il conflitto che oppose i lavoratori indipendenti al sottoproletariato in queste istituzioni create dallo
Stato. Fu una guerra fratricida. Erano ladri, delinquenti, vagabondi, gens sans feu et sans aveu, «che non perdono mai
il carattere dei lazzaroni» scrive Marx, gli stessi che Gauny
aveva incontrato sulle sue strade. Tutti furono reclutati per
sparare contro il proletariato in rivolta a Parigi nel 1848. Al
17. UNA SOLA, GRANDE, UNIONE
153
comando di questa armata di straccioni, il governo nominò
gli ufficiali dell’esercito regolare. Alcuni furono scelti tra i
giovani figli dei borghesi. Furono reclutati giovani sottoproletari, lavoranti di bottega, soggetti dall’incerto mestiere,
lavoranti di giornata e tutta la teppaglia parigina insieme a
quella giunta dalle campagne. La reazione aveva organizzato
un esercito potente da schierare contro gli operai.
Mentre Blanc arringava le folle al Luxembourg, auspicando che l’autonomia operaia si organizzasse in un governo,
l’eterogeneità delle condizioni che componevano lo «Stato»
del Quarto Stato si irrigidiva al punto da implodere. Parigi
era una città dove Blanqui, il capo dell’insurrezione operaia,
aveva a disposizione un esercito di duecentomila persone armate. Quella operaia era una classe di mestieri, la cui maggioranza era composta da quarantamila pantalonai, e poi sarti,
artigiani, carpentieri, stampatori, insomma lavoratori autonomi che svolgevano un’attività salariata, vivendo una condizione sospesa tra i poli della servitù e dell’autonomia.
Fu un massacro. L’odio di Marx per il sottoproletariato
nasce da questa vicenda, che egli non mancò di raccontare.
Pur di mangiare, i poveri uccidono i propri simili, ma faranno la stessa fine. Questa frattura sanguinosa, e irrimediabile, non permise a Marx di soffermarsi sull’elemento costitutivo del conflitto, com’è stato chiarito successivamente.4
Ciò che ha spinto le persone ad accettare di lavorare in
luoghi tanto squallidi, così come a farsi reclutare per combattere contro gli operai di mestiere organizzati, non è stato
solo il bisogno. In condizioni disperate conviene comunque
farsi assumere, ma poi inizia la lotta per difendere la propria
autonomia. La breve, e infelice, vicenda degli ateliers nationaux fu segnata da boicottaggi di massa che costrinsero le
autorità a chiudere queste sentine della violenza.
A Marx, come a Pierre-Joseph Proudhon, nella sua critica radicale della proprietà e dello Stato, non sfuggì tuttavia
154
II. UNA STORIA A CONTROPELO
un altro elemento. Con gli ateliers nationaux, lo Stato voleva
neutralizzare le potenzialità della solidarietà operaia che in
quegli anni iniziava a dotarsi di nuovi strumenti di autogoverno. Imporre dall’alto lo stare insieme, i tempi di produzione, la creazione delle reti di distribuzione dei prodotti fu
un fallimento. I socialisti pensavano di creare un’alternativa
al mercato, imponendo la vocazione dello Stato al dirigismo
in economia.
In realtà cancellavano l’autonomia operaia che si organizzava in cooperative, si inseriva sul mercato ma senza dipendere
dalla sua organizzazione. A Parigi gli operai organizzati nelle
tipografie o nelle sartorie si opposero al dirigismo di Stato.
Loro preferivano sperimentare il federalismo tra autonomie,
creando statuti alternativi a quelli proprietari. Volevano governare la propria forza-lavoro creando nuove figure giuridiche dell’autogestione. Iniziarono a lottare contro i socialisti
che li accusavano di essere piccoli imprenditori opportunisti.
Per questi ultimi, la proprietà era solo una, ed era quella dello
Stato. Per gli operai, invece, la proprietà era sociale.
Gli operai erano tutti «comproprietari» dell’impresa. La
difendevano dal mercato e dallo Stato, tracciando una strada
alternativa alla «democrazia industriale» per come l’abbiamo
conosciuta fino a oggi. Nella loro idea di «costituzione sociale» dell’impresa, formulavano un diritto economico a partire dalla democrazia politica e non dal mercato e dall’unico
soggetto riconosciuto dalla legge, cioè l’imprenditore borghese. Così facendo, non intendevano nemmeno consegnarsi
agli imprenditori di Stato poiché volevano istituire «una proprietà mutualistica e federativa» basata su un’«accomandita
del lavoro per il lavoro o mutualità universale».5
Erano i primi passi di un embrione di organizzazione sociale: il diritto economico fonda la costituzione sociale capace di rimettere in discussione i rapporti proprietari e gli
assetti istituzionali attraverso l’autogoverno dei lavoratori.
17. UNA SOLA, GRANDE, UNIONE
155
L’obiettivo è mettere in comunicazione virtuosa autogoverno, mutualismo federativo, cooperazione sociale, forme
di autogestione territoriale, autonomia individuale e collettiva, a partire dai Faubourg, dove oscuri protagonisti animavano le lotte delle cittadinanze operose.6 Gli operai parigini
intuirono l’esistenza di un nuovo costituzionalismo capace
di fare a meno anche della rappresentanza politica e sindacale, soprattutto rifiutando l’ottica caritatevole fondata sulla
compassione.7 Questa fu la principale fonte di ispirazione
delle pratiche insorgenti della Comune di Parigi nella primavera del 1871, dove furono sperimentati l’autogoverno
cittadino e la gestione comune delle ricchezze da parte del
«lavoro libero e associato»: forma politica dell’emancipazione economica del lavoro, esperienza pratica di controllo
e autogestione operaia, che incrocia una nuova idea di città
con l’affermazione di gioiose espressioni di vita collettiva, in
grado di tenere insieme il diritto alla felicità di collettività in
festa e una differente scansione dei tempi di vita e di lavoro.
Ci fu il caso del «Decreto sulla requisizione delle fabbriche chiuse» adottato il 16 aprile 1871 per riaprire le fabbriche abbandonate dagli imprenditori in fuga da Parigi. Il soggetto giuridico riconosciuto era «l’associazione cooperativa
degli operai occupati in queste stesse fabbriche».8 L’esito
della Comune fu tragico, e tuttavia essa «non ha avuto come
conseguenza la distruzione del gruppo dominante e dei suoi
politicanti, ma ha distrutto qualcosa di più importante: la subordinazione politica operaia e proletaria».9
Gli operai insorti in Europa compresero che la subordinazione si combatte creando autonomia. Un’idea che si diffuse nel corso del XIX secolo, e fino agli anni Venti in Italia,
nutrendo la storia del mutualismo e del movimento cooperativo, a partire dalle lotte per le terre, tra i contadini, fino alle
forme del lavoro nelle nascenti metropoli europee. Questa
corrente sotterranea attraversa più di un secolo e scopre che
156
II. UNA STORIA A CONTROPELO
l’autonomia si esprime in maniera duplice: come rivolta contro l’ingerenza dello Stato e del Capitale, tanto nella gestione
di un’impresa, quanto nella tutela dei diritti di chi ci lavora;
e come costruzione di spazi pubblici o occasioni politiche
dove la cooperazione tra i molti non sia riducibile alla concentrazione delle povertà in una Workhouse.
Nel XIX secolo, l’autonomia si esprimeva nei sodalizi
mutualistici, da non confondere con le semplici «mutue»
a sostegno della carità o della beneficenza. Nei sodalizi si
incontravano società operaie, associazioni di maestri e insegnanti, militari, medici, chirurghi, farmacisti, veterinari,
contadini, avvocati, ingegneri, architetti, impiegati comunali
e sacerdoti. In Italia, come in Inghilterra, Francia o Germania, le società operaie erano associazioni cumulative che
raggruppavano lavoratori con professionalità e condizioni
diverse, lavoratori dipendenti e indipendenti, anche piccoli
imprenditori e associazioni professionali. E poi c’erano le associazioni locali: società di un comune, borgata o quartiere.
In Italia, restava netta la differenza tra sodalizi urbani e rurali. Forte era la contaminazione tra massoneria, libero pensiero e correnti democratiche, repubblicane, socialiste: Bakunin a Napoli insieme con Cafiero e Malatesta, senza Dio,
né padroni, il sindacalismo federalista delle origini.10 Inoltre
c’era la distinzione tra i sodalizi mazziniani e gli altri democratici e moderati. Nel tempo, molti si trasformarono nelle
società di miglioramento o di resistenza. C’erano i cattolici incoraggiati dall’enciclica Rerum novarum a percorrere la strada
dell’associazionismo mutualistico. Le tensioni erano enormi,
tanto che alla fine il movimento si spaccò in base a una divisione confessionale tra le società di mutuo soccorso laiche e
socialiste e quelle cattoliche.
La funzione generale delle società di mutuo soccorso la
delineò l’ispettore generale del credito e della previdenza
Vincenzo Magaldi nel 1904:
17. UNA SOLA, GRANDE, UNIONE
157
associazioni formate di più persone che si obbligano di versare in una cassa comune e periodicamente contribuzioni
fisse destinate a sovvenire quei soci che vengono per caso
colpiti da una disgraziata evenienza della vita: e questa è la
definizione più comune delle società di mutuo soccorso, secondo quasi tutti gli scrittori di economia sociale.11
Finché durò la schiavitù delle classi laboriose non poteva
esistere che l’associazione legale, forzata e mostruosa. Vigeva un sistema autoritario e paternalistico nei confronti dei
beneficiati, che non affermava i principi di eguaglianza e parità tra i soci, a partire dall’equa distribuzione dei vantaggi,
primo concetto della moderna associazione mutualistica. In
maniera tardiva, la svolta si realizzò anche in Italia con il riconoscimento del diritto di riunirsi che fu esteso a quello di
associarsi liberamente, sancito dall’articolo 32 dello Statuto
Albertino, il quale affidò allo Stato la possibilità di regolare
l’attività di queste associazioni con apposite leggi. Ne nacque un conflitto destinato a segnare la storia dell’associazionismo mutualistico. La libertà concessa venne intesa dai sodalizi come autonomia, nel senso di una completa indipendenza dallo Stato e dal mercato.
Il mutualismo interessava senz’altro i poteri pubblici perché era considerato uno strumento utile per la gestione della
povertà economica. La disciplina che aiutava a diffondere il
senso della legalità e l’auspicio di un moderatismo nelle passioni politiche erano salutati positivamente dalle istituzioni
dello Stato liberale. Veniva colto un aspetto importante del
mutualismo: la mediazione sociale. Ma il moderatismo liberale, e cattolico, consideravano la mediazione solo rispetto
allo Stato, e non al conflitto di classe o al governo del territorio e della città, terreni dove l’estensione del mutualismo,
come delle case del popolo, fu considerevole in tutta Europa.
158
II. UNA STORIA A CONTROPELO
Con l’ascesa elettorale dei partiti socialisti, le mutualità permisero la generalizzazione dei conflitti di classe al di fuori delle
fabbriche, portando al contempo nelle fabbriche le istanze di
civilizzazione presenti nella società. Per questa ragione, molte
società di mutuo soccorso furono chiuse d’autorità.
In Francia, dalle paludi centralistiche della Terza Repubblica di fine Ottocento emerse un movimento di consiglieri
municipali socialisti. Insieme sperimentarono il «socialismo
municipale». Nel 1892 nacque una Fédération des conseilleurs municipaux socialistes de France che raggruppava alcune amministrazioni locali socialiste, a partire da quella
costituitasi intorno a Edouard Vaillant, ex comunardo e ammiratore di Blanqui, dapprima consigliere comunale nel XX
arrondissement parigino, quindi parlamentare socialista.12
Questa nuova forma di municipalismo cercava di tenere insieme le conquiste del mutualismo con la sperimentazione di
nuove tutele a sostegno dei lavoratori. E promuoveva la loro
cooperazione, l’impresa collettiva. Nacquero le prime Borse
per il lavoro, furono organizzati i servizi pubblici territoriali,
e poi forme di assistenza tra municipi. In questo contesto, si
organizzarono movimenti dei consumatori al quale parteciperanno i movimenti sindacali. Venne ripensato il problema
abitativo, perché proprio l’aumento del costo degli affitti fu
una delle cause della Comune di Parigi.13
Erano tentativi ibridi di costituire nuovi rapporti istituzionali, dosando pratiche cooperative e mutualistiche dei
movimenti sociali protagonisti delle lotte repubblicane. L’idea era quella di organizzare questo incontro, creando nuovi
habitus nei gruppi e nei singoli, così come negli spazi a disposizione delle amministrazioni locali. Grazie a questa intuizione nacquero le case del popolo e le camere del lavoro.
Le prime vennero adottate dai partiti socialisti, e poi da
quelli comunisti, le seconde dai nascenti sindacati. Il socialismo municipale organizzava la solidarietà mutualistica e
17. UNA SOLA, GRANDE, UNIONE
159
la tutela dei diritti dei lavoratori. Entrambe potevano esprimersi nello stesso luogo, insieme alla fondamentale esigenza
della socializzazione tra classi sociali diverse. Ciò che è più
importante è che in queste sperimentazioni emergeva una
razionalità politica estranea a quella liberale, come a quella
capitalistica, e le sue principali caratteristiche erano già presenti nei sodalizi mutualistici settecenteschi.
Non bisogna dimenticare che il mutualismo cooperativo
permise a operai, artigiani e contadini di fondare le società di
mutuo soccorso, le leghe di resistenza, le camere del lavoro
per garantirsi l’istruzione, le tutele sociali, l’assistenza sanitaria e i fondi contro la disoccupazione. In Italia c’erano 6700
mutue (800.000 soci effettivi). In Inghilterra c’erano oltre
24.000 società (oltre 4 milioni di soci), in Francia (6200 per
842.000 soci). Nonostante quest’opera di regolarizzazione di
società che da tempo agivano sul terreno dell’assicurazione,
della previdenza e del sostegno, allo Stato continuarono a
sfuggirne altrettante. Le società temevano un disciplinamento
e una neutralizzazione della loro opera che germogliava in
virtù della richiesta di autonomia.
A loro favore non giovava la frammentazione crescente
di insediamenti che non racimolavano fondi sufficienti a
garantirsi la sopravvivenza. L’assenza di uno Stato sociale,
poi lentamente introdotto a partire dai primi anni del XX
secolo sull’esempio tedesco, non rallentò la crescita di queste società che, anzi, ampliarono la gamma degli interventi:
erogazione di un sussidio in caso di malattia, invalidità, della
morte o del funerale di un socio, un reddito in caso di disoccupazione involontaria e sostegno in caso di sciopero prolungato nelle fabbriche. E poi assistenza nell’organizzazione
delle cooperative, nell’affitto delle macchine per avviare
un’impresa autogestita, il prestito ai soci per l’affitto.
I sodalizi prospettavano ai soci una serie di servizi che unirono una parte della classe intellettuale, in particolare i ma-
160
II. UNA STORIA A CONTROPELO
estri di scuola, figure che si andavano formando nello stesso
periodo, alle famiglie operaie: l’istruzione di base e la formazione professionale, e poi la lettura, l’acquisto di alimenti –
come i gruppi di acquisto contemporanei –, le materie prime
per il lavoro agricolo e artigiano, persino la dote per le figlie
in predicato di matrimonio. Era l’invenzione di una nuova
società che organizzava il contatto tra i diversi attraverso l’associazione, promuoveva il protagonismo femminile nella trasmissione dei saperi, nel lavoro di cura e nell’organizzazione
politica oltre che nell’assistenza e nell’autotutela.
Le differenze di classe, o quelle ideologiche, erano messe
in secondo piano. Per iscriversi a un’associazione di mutuo
soccorso non occorreva una fede comune, né condividere
un patrimonio. Venivano condivisi un certo numero di impegni ispirati a una necessità comune, quella della tutela,
o meglio dell’autotutela da perseguire mediante la solidarietà. Nascevano così comunità che concepivano l’autonomia come esercizio attivo e quotidiano della solidarietà e
dell’autosufficienza.
Ciò che distingueva l’associazionismo mutualistico dall’assistenza statale, dalla beneficenza o dalla carità era la libera previdenza.14 I soci pagavano contributi periodici fissi, ricevendo
in cambio i servizi. Ciò permise di creare un habitus condiviso, ispirato alla solidarietà dei soci che, a differenza di quella
praticata nelle organizzazioni massoniche, mirava a estendersi
alla società, al ricambio o all’integrazione dei soci, all’attività
pubblica di formazione e sostegno, alla diffusione della cultura dell’autonomia dallo Stato e della persona. Il pagamento
della quota periodica poteva rappresentare una discriminazione ai danni dei poveri, dei lavoratori non qualificati e comunque non inseriti in una rete comunitaria o professionale,
dei disoccupati non aderenti alla società. Questo è sempre
stato un limite del mutualismo. E tuttavia il pagamento della
quota costituiva l’elemento caratterizzante del contratto che
17. UNA SOLA, GRANDE, UNIONE
161
legava gli affiliati a una società, garantendo a tutti gli stessi diritti: eleggibilità, diritto di voto, sussidi temporali.15
L’autonomia è una condizione che si otteneva in base a
una scelta e a comportamenti coerenti, ma anche con il consenso. Tutto l’universo del mutuo soccorso era proteso a fornire un’immagine rispettabile e rassicurante dei sodalizi che
faceva leva sulla funzione moralizzatrice esercitata direttamente, e non imposta dall’alto. Le norme che regolamentavano l’ammissione, il controllo del comportamento dei soci,
le severe regole per l’espulsione denotavano quanto tale
preoccupazione fosse viva. Le condizioni per l’ammissione
riguardavano età, salute, condotta morale per cui generalmente ci si affida alla garanzia dei soci presentatori o all’autorevolezza dei singoli nella loro comunità di provenienza. Il
controllo dei comportamenti era manifesto quando si trattava di sussidiare le malattie, mentre i comportamenti rissosi, l’ubriachezza o il malcostume venivano sanzionati. Tra
le cause più frequenti di espulsione c’erano la morosità nel
pagamento delle quote, le truffe, il furto, l’attentato ai costumi e i mille raggiri frequentemente denunciati tra i soci.
L’autocontrollo delle comunità degenerava talvolta in un
eccesso moralizzatore oppure in un abuso dell’autonomia.
Difficile mantenere un equilibrio in una comunità che veniva
spesso limitata dalla contraddizione tra due fattori costituenti:
la moralità pubblica dei soci e l’autonomia dei singoli, la necessità di una sicurezza sociale e il desiderio di mantenersi
autonomi rispetto agli altri. L’intera vicenda del mutualismo,
così come dell’associazionismo operaio, avrebbe risentito di
questo conflitto e qualcuno pensò di averlo risolto siglando
un patto tra i singoli, i sindacati o le loro categorie professionali e lo Stato. Il contratto tra i diversi, tipico della stagione
del primo mutualismo, diventò un contratto tra le organizzazioni dei corpi intermedi e lo Stato, relegando il ruolo del singolo alla sua posizione sociale rispetto all’assistenza pubblica.
162
II. UNA STORIA A CONTROPELO
Si tratta solo di un paravento usato per nascondere la realtà di
ogni associazione: il singolo non intende dipendere dagli altri.
E spesso gli altri non rispondono alle esigenze del singolo. La
soluzione, mai permanente, al conflitto consiste nell’affrontare insieme un problema comune.
Questo modo di intendere la vita politica, e non solo l’associazionismo, è stato relegato ai margini rispetto alla solidarietà universale garantita dallo Stato durante il XX secolo. Il
vincolo statale, con la sua promessa di universalismo, e di tutela sindacale, ha sostituito l’idea dell’autonomia con quella
della rappresentanza. O meglio, l’autonomia esisteva solo
in virtù della sua capacità di farsi rappresentare in un corpo
autonomo dello Stato: un sindacato, un’assicurazione, un
partito, un’associazione professionale. Oggi la prima radice
dell’autogoverno torna a germogliare quando la crisi fiscale
dello Stato, l’austerità, la burocratizzazione dei sindacati
hanno trasformato l’orizzonte della nostra vita. Il Quinto
Stato procede incalzando in un viaggio di scoperta, commozione, comprensione di una forza.
Il 9 giugno 2013, all’entrata della Società operaia di mutuo soccorso di Corridonia, in provincia di Macerata, una di
quelle che hanno mantenuto nei primi centocinquant’anni
di vita il profilo dell’autonomia sociale, accompagnata dall’idea della libera provvidenza dei soci, c’era una scritta in
grande risalente al 1863:
Artieri e operai di Pausula! Proseguite con altrettanta alacrità l’opera intrapresa: stringetevi tra voi e sarete forti, e l’opera vostra sarà dai venturi benedetta.
Noi venturi la benediciamo, perché questa forza è la nostra stessa forza. Oggi, come ieri, noi siamo una sola, grande,
unione.
Parte terza
IL DIRITTO ALLA CITTÀ
Capitolo diciottesimo
Ritorno al futuro
Lo spirito degli anni Novanta sta tornando. Non quelli del
XX secolo, che Joseph Stiglitz ha definito gli «anni ruggenti» della bolla finanziaria, bensì gli anni Novanta del secolo precedente, l’Ottocento. In una crisi che ha riportato il
livello delle diseguaglianze indietro di centocinquant’anni,1
viene riscoperta una modalità di resistenza e di associazione
tra lavoratori e cittadini denominata mutualismo.
È dal secondo dopoguerra che la sinistra e i sindacati considerano il mutualismo come un residuo del passato, cioè dai
tempi in cui le pratiche di cooperazione e di reciproco aiuto
che caratterizzavano il mutualismo confluirono in un sistema
di assicurazione sociale finanziato dallo Stato, il quale avrebbe
garantito per decenni ai lavoratori il diritto alla pensione, il
sussidio di disoccupazione, l’istruzione o l’assistenza sanitaria
pubblica. Il sindacato diventò quindi una delle «cinghie di trasmissione» tra i partiti della sinistra organizzata (socialista e in
seguito comunista) e le masse. Le società di mutuo soccorso,
le leghe operaie di resistenza, le camere del lavoro e le case del
popolo, insieme alle cooperative di produzione e lavoro, gli
istituti di credito cooperativo, i circoli ricreativi, le società di
istruzione professionale, le scuole e le università popolari, persero la loro carica antagonista diventando superflui.
166
III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ
Questa rottura avvenne, dopo decenni di storia, in seguito
alla svolta «marxista tedesca» impressa da Filippo Turati al
Partito Socialista e osteggiata da Osvaldo Gnocchi-Viani, fondatore delle camere del lavoro, della Società Umanitaria di
Milano, delle università popolari e in generale del sindacalismo italiano.2 Mazziniano, repubblicano, socialista-proudhoniano, Gnocchi-Viani era immerso nell’effervescente clima
politico-culturale del secondo Ottocento. La sua idea di mutualismo nasceva dalla sintesi tra le prime leghe e associazioni
operaie e le tendenze anarchiche e repubblicane, le società segrete e le affiliazioni massoniche. Questa mescolanza era lontana dalla cultura della sinistra, e in particolare della Seconda
Internazionale che aveva consumato da tempo la separazione
tra socialisti e anarchici. I socialisti coltivavano una visione
dello Stato di matrice hegeliana. Per loro il partito avrebbe
dovuto svolgere un ruolo di direzione dello Stato in funzione
anti-borghese e anti-capitalista, accentrando le funzioni decisionali in una visione organica e gerarchica della società. Per
gli anarchici, invece, lo Stato doveva essere abbattuto a favore
dell’autogestione delle comunità e dell’associazione tra i lavoratori. Ne seguì una cesura netta, e non certo amichevole,
tra filosofie e organizzazioni politiche. La vita quotidiana del
movimento operaio era tuttavia improntata a un pragmatismo
di fondo che temperava le polemiche tra appartenenze e filiazioni ideologiche opposte. Lo conferma anche la centralità
acquisita da parte di un personaggio come Gnocchi-Viani
nella costruzione del sindacato e del mutualismo in Italia. L’anarchismo ispirò la sua critica del socialismo di Stato, cioè del
ruolo del sindacato come «cinghia di trasmissione» tra partito, società e luoghi di lavoro. Dal socialismo trasse invece la
sua idea di organizzazione dello Stato a partire dallo sviluppo
dell’autonomia dei singoli.
Il soggetto di riferimento di questa proposta non era soltanto il lavoratore salariato o il contadino. Gnocchi-Viani si
18. RITORNO AL FUTURO
167
confrontava con la pluralità del lavoro indipendente, dagli
artigiani ai professionisti, ossia con classi e ceti diversi che si
riconoscevano nella cultura del mutualismo. Questa prospettiva fu sconfitta politicamente e il suo animatore dimenticato.
Il movimento operaio perse l’originario pluralismo ideologico che aveva promosso una serie di alleanze sociali trasversali. Su queste basi, all’inizio del Novecento, nascevano
le burocrazie sindacali che oggi esercitano il monopolio della
rappresentanza e della mediazione contrattuale. L’aspirazione a un «socialismo di Stato» portò con sé il moderatismo
politico, la concertazione del conflitto tra operai e Capitale,
la burocratizzazione dei partiti e dei sindacati. L’autonomia
che Gnocchi-Viani intendeva garantire al movimento venne
confinata nel sepolcro del capitalismo di Stato. Il sindacato
divenne un’articolazione dell’apparato amministrativo statale. Ai cittadini fu proposto uno scambio tra sicurezza sociale e autonomia. Il patto fu accettato e con esso anche l’idea
che il lavoro salariato fosse il referente politico privilegiato
dell’intervento pubblico.
Il mutualismo ha una doppia radice. La prima è la cooperazione tra i lavoratori; la seconda è l’aiuto reciproco nella
società. Quest’ultima, una volta affermatasi la contrattazione
nazionale tra datori di lavoro e lavoratori, ha trovato asilo nel
volontariato. Nella lenta, ma inesorabile, trasformazione dello
Stato sociale in Stato assistenzialistico, il volontariato è stato a
sua volta assorbito dall’assistenza caritatevole ai poveri e agli
esclusi. La solidarietà è diventata una pratica confessionale oppure è stata privatizzata nel «fare da sé», il cosiddetto self-help.
In una società di cittadini che pagano i servizi essenziali, come
quella liberista, la solidarietà degli altri si acquista sul mercato
come il cibo o un’automobile. È il capitalismo compassionevole della Compagnia delle Opere oppure di pochi, ma molto
solvibili, imprenditori della sanità a essere solidale con i clienti
che pagano per una tac o per farsi curare un cancro.
168
III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ
Milioni di persone hanno creduto di poter sopravvivere
alla crisi finanziaria dello Stato sociale, esplosa già nella metà
degli anni Sessanta, supplendo con le risorse economiche
personali all’assenza del diritto alla cura, all’assistenza o alla
tutela dei lavoratori disoccupati o precari. Per molto tempo
questa soluzione è sembrata plausibile. Oggi quelle stesse
persone hanno capito che il rimedio alla povertà e alla crisi
non verrà né dallo Stato né dal mercato. Questa consapevolezza emerge in maniera puntuale nelle attività dei gruppi
di acquisto solidale (GAS), nell’uso delle monete complementari per il baratto di beni e servizi, nel commercio equo
e solidale, nelle campagne per una finanza etica, nella cooperazione tra lavoratori in spazi condivisi (coworking), nella
riscoperta del lavoro artigiano (makers) o nell’autogestione
diffusa nelle città grandi e piccole.
Queste sperimentazioni dimostrano che il mutualismo non
è una forma di carità rivolta agli esclusi o ai poveri che improvviserebbero uno Stato sociale in miniatura illudendosi
di sopperire con l’autogestione della miseria all’assenza dello
sguardo vigile e universale di un benigno Leviatano. E non
è nemmeno l’espressione di principi economici alternativi a
quelli capitalistici. Il mutualismo è al contrario un modo di vivere nel capitalismo finanziario, in una società di indebitati,
attraverso il recupero dell’associazionismo sociale e professionale, il lavoro di prossimità, la ricerca di nuove forme di convivenza tra persone anche di nazionalità differenti.
Il mutualismo è una pratica dell’autonomia individuale e
collettiva che inquieta tanto la destra, perché si oppone allo
Stato e al mercato, quanto la sinistra, perché non accetta le
regole della rappresentanza corporativa e pretende di intervenire nella politica senza la mediazione esclusiva dei partiti o dei sindacati esistenti. Desidera trasformare la vita e i
luoghi dove si lavora, mantenendo un’intima estraneità a un
mondo ostile.
18. RITORNO AL FUTURO
169
Incivilire l’estraneità e preservare la differenza significa
proteggere la propria autonomia dal mercato, le rendite di
posizioni, le appartenenze, e, allo stesso tempo, cercare di
intervenire tanto nella politica quanto nell’economia. Per essere all’altezza di questo compito dovremmo riappropriarci
delle pratiche di autogoverno, sottraendoci alla morsa della
passività o della disillusione. Affinché si possa parlare di
mutualismo occorre riscoprire il senso collettivo del «noi»,
senza rassegnarsi al lutto di un «Io» separato dal mondo.
L’autonomia di cui parliamo non si riduce al «fare da sé» di
chi se lo può permettere economicamente, ma è ciò che si
apprende operando e vivendo insieme agli altri.
Per questa ragione non si tratta di rinunciare al welfare,
ma di rovesciarne l’impostazione statalistica, burocratica e
familistica, partendo dall’autonomia delle persone. Non si
tratta nemmeno di rifiutare l’intrapresa individuale o la progettualità economica, ma di svincolarle entrambe da un mercato fondato sull’espropriazione sistematica della ricchezza
e sulla diseguaglianza epocale tra i redditi. Ancor prima di
formulare proposte concrete, è necessario realizzare una
cultura che valorizzi l’autonomia e con essa una forma di
vita capace di coltivarla. Si tratta di un motivo ulteriore per
ripercorrere la storia del mutualismo. Per farlo occorre tuttavia cambiare referente sociale e tornare a quello a cui si
rivolgeva Gnocchi-Viani mentre costruiva le camere del
lavoro. Oltre alle figure del salariato e del grande imprenditore, sulle quali è basata la rappresentanza nello Stato sociale, riscopriamo la figura del lavoro indipendente.
Capitolo diciannovesimo
Mutualismo
Nel 2011 un rapporto del Parlamento Europeo ha calcolato
che le mutue del Vecchio continente raccolgono 180 miliardi
di contributi, impiegano 350.000 persone e garantiscono coperture sociali e sanitarie di tipo complementare. In alcuni
casi, gestiscono ospedali e farmacie. In Italia, le società di
mutuo soccorso sono oltre 1500, aderiscono alla Federazione
Italiana Mutualità Integrativa Volontaria (FIMIV), fondata
nel 1900, e operano in prevalenza nel Centro-nord. Una delle
più antiche è la Cesare Pozzo, con circa 90.000 soci e 270.000
assistiti, specializzata nell’intervento socio-sanitario.
L’adesione a questo sistema è volontaria. Il versamento
di una quota associativa permette il riconoscimento di un
sussidio per malattia, invalidità o decesso, e spinge il socio a
partecipare alle assemblee in cui si discutono i bilanci, si definiscono le prestazioni da erogare, si eleggono gli organismi
dirigenti. Fino alla fine degli anni Novanta del XX secolo,
il mutualismo è stato un fenomeno circoscritto. Gran parte
delle società di mutuo soccorso sopravvivevano a sé stesse
dopo la creazione dello Stato sociale, i grandi sindacati e i
partiti di massa. Da quando la spesa sanitaria delle famiglie è
iniziata a crescere, mentre lo Stato non riesce più a garantire
prestazioni efficienti e si ritira dalla gestione del welfare, la
172
III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ
mutualità si ripropone come soggetto non profit. Il suo è un
intervento integrativo, non sostitutivo, di quello pubblico.
Dal 2008 due decreti, varati dai governi Prodi e Berlusconi, hanno autorizzato l’istituzione dei Fondi Sanitari Integrativi, attuando la riforma sanitaria del 1999. Nell’ultimo
quinquennio, sono nate oltre cento società di mutuo soccorso. Un accordo tra FIMIV e Confcooperative ha disposto
che la mutualità sia finanziata dalle banche di credito cooperativo operanti in tutto il territorio nazionale, dalla Lombardia alla Puglia. Un altro fronte di sviluppo è quella dei contratti nazionali. Sono almeno cinquanta i rinnovi che prevedono forme di mutualità. Ci sono fondi che interessano gli
operatori del commercio, i chimici o i metalmeccanici. Per
tutte le categorie del lavoro dipendente che aderiscono a un
fondo mutualistico aziendale la deducibilità fiscale dell’assistenza integrativa è del cento per cento.
La situazione è ben diversa per gli 1,8 milioni di iscritti alla
Gestione separata dell’INPS e per gli oltre 3 milioni di precari in Italia. Per questi soggetti, che in gran parte non partecipano alla contrattazione collettiva e sono privi di tutele
per la maternità, infortuni o malattie professionali, il mutualismo può diventare una risorsa vitale. Chi decide di aderire
a un fondo mutualistico ha però diritto solo alla detraibilità
del diciannove per cento della quota associativa. Il rischio
più prossimo è quello di una frattura sociale sull’equità dei
livelli di tutela. Non si è ancora trovato il modo per estendere
i benefici delle coperture complementari a chi non svolge un
lavoro dipendente. I problemi non si risolvono da soli e le
persone si stanno organizzando secondo una logica di welfare territoriale, integrando le funzioni statali delle ASL con
quelle del mutualismo rivolto ai dipendenti come ai precari.
In Italia i precari o gli autonomi che non hanno tutele devono preoccuparsi dei costi inerenti alla propria salute. Il mutualismo ha enormi potenzialità in questo campo, ma viene
19. MUTUALISMO
173
frenato dalla mancanza di coesione sociale, e anche dalla
scarsa conoscenza di queste nuove opportunità. Il problema
resta quello di riempire il vuoto che sta lasciando lo Stato: al
cittadino viene detto semplicemente di arrangiarsi, e di pagare
quando ha bisogno. Davanti a noi c’è solo un rapporto di mercato con aziende private che mirano unicamente al profitto.
L’assicurazione tende a sostituire lo Stato, salvo poi scaricare
sullo stesso i costi degli interventi più delicati. Nel privato ci
sono strutture che lavorano bene, ma, guarda caso, spesso non
sono dotate di un pronto soccorso, di una sala rianimazione,
di reparti dedicati ai malati di AIDS o alle lunghe degenze.
Ciò non significa che lo Stato debba abdicare al suo ruolo
di garante dei diritti fondamentali delle persone. Il mutualismo permette infatti una gestione sociale dei rischi per la
salute che il welfare assistenzialistico non riesce più ad assicurare, in particolare agli autonomi e ai precari. Alla base
c’è un gruppo che si autorganizza, crea una struttura che risponde alle proprie esigenze. Chi si associa non verrà mai
espulso e avrà sempre il diritto alle cure. Se i costi per una
malattia sono notevoli, la mutualità continuerà ad assisterlo
comunque. Le persone sono soci, non clienti.
L’aumento di cinque miliardi di euro del costo dei ticket
realizzato tra il 2011 e il 2012, insieme al piano di rientro
dal debito sanitario che entro il 2015 imporrà alle regioni
tagli da trenta miliardi, sta spingendo un numero crescente
di cittadini a ricorrere alla sanità privata. In questo scenario
desolante, la sanità privata ha oggettivamente enormi spazi
di crescita. Il mutualismo può essere un rimedio, certo non
definitivo, utile a sottrarre le persone al tragico destino che
altrimenti le attende.
Il primo novembre 2011, il sindacato dei traduttori editoriali
STRADE, affiliato alla SLC-CGIL, ha stipulato con Insieme
174
III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ
Salute la convenzione «Elisabetta Sandri», allo scopo di offrire tutele economiche ai traduttori freelance. Un esperimento necessario, visto che non è prevista alcuna assistenza
per i traduttori editoriali che lavorano in regime di diritto
d’autore. Il fondo si sta allargando ad altre associazioni.
Fino ad oggi hanno aderito l’associazione dei traduttori e
interpreti ANITI, la rete dei redattori precari (Rerepre), l’associazione dei consulenti del terziario avanzato (ATCA), l’Associazione Nazionale Archeologi (ANA) e quella dei dialoghisti
cine-televisivi (AIDAC). La convenzione garantisce un assegno di gravidanza, il cui valore è raddoppiato per quella a rischio, il rimborso dell’ottanta per cento per tutti i ticket, oltre
che un sostegno in caso di perdita dell’autosufficienza o di malattia di un parente. La quota annuale è di 246 euro e, diversamente dal lavoro dipendente, è interamente a carico del socio.
L’esistenza dei fondi integrativi ha creato una nuova disparità tra dipendenti e autonomi, alla quale si dovrebbe porre
rimedio inserendo la mutualità nella contrattazione nazionale:
devono essere i datori di lavoro a pagare, anche per periodi
brevi, una parte delle spese per la tutela degli indipendenti,
proprio come accade nel mondo del lavoro subordinato. Afferma Fabio Galimberti di STRADE: «La nostra scelta è caduta sul mutuo soccorso per convenienza economica. Le assicurazioni sanitarie impongono premi insostenibili per una
categoria a basso reddito come la nostra. La filosofia di fondo
esclude il criterio del profitto e prevede l’obbligo di non ripartire tra i soci eventuali avanzi di cassa, ma di erogarli a beneficio della mutua come accade nelle associazioni senza scopo di
lucro. Il mutualismo è facilmente applicabile alle partite IVA
in Gestione separata INPS e per tutte le categorie che hanno
problemi di continuità lavorativa. Un’altra sfida sarà quella di
estendere l’adesione ai singoli».
Il progetto intende raccogliere duemila iscritti, soglia oltre la quale è possibile creare un fondo autonomo capace di
19. MUTUALISMO
175
autogestire le prestazioni e gli investimenti a favore dei soci.
Le mutue non chiedono una busta paga per l’iscrizione, ma
la dichiarata volontà della persona di aderire all’iniziativa,
impegnandosi nel suo sviluppo e nell’allargamento della
base degli aderenti. Moltiplicare questi fondi, proponendoli
a tutti gli indipendenti, favorendone la partecipazione con
misure e sostegni economici: questo potrebbe essere l’antefatto per nuove forme di tutela gestite direttamente dai cittadini. Non sarà forse la soluzione alla crisi della sanità pubblica, o a quella del welfare, ma certamente è uno strumento
per promuovere un diverso orientamento da parte di uomini, e donne, «a una dimensione», passivi, risentiti, abituati
a essere assistiti e non a governarsi da sé o insieme agli altri.
Obiettivo fino a oggi perseguito apparentemente solo dal neoliberismo che confida nei «mercati». La storia del mutualismo indica invece il metodo per decolonizzare la vita dall’idea che l’impresa sia l’unica ispiratrice della cittadinanza
attiva. Altrimenti la condizione degli autonomi, e delle loro
famiglie, come quella dei nuovi e dei vecchi working poors,
sarà destinata sicuramente a peggiorare. Aggiunge un’altra
esponente di STRADE, Elena Doria, membro del consiglio
di amministrazione di «Insieme Salute»: «Il sistema previdenziale e quello assistenziale garantisce solo una parte del
mondo del lavoro e rischia di esplodere. Anzi quello dell’assistenza è un sistema già a pezzi. Scenari di guerra sociale,
non certo rassicuranti a dire la verità. Purtroppo è così, gli
indipendenti devono attrezzarsi, o per loro non ci sarà salvezza. Noi vogliamo andare controcorrente. In tempi in cui
l’alternativa sembra essere quella tra uno Stato sempre più
centralizzato e burocratico e un privato sempre più costoso,
noi partiamo da una democrazia basata su un sistema reticolare e il controllo dal basso da parte dei soci di una mutua».
La legge di stabilità 2012 ha modificato la legge costitutiva delle società di mutuo soccorso risalente al 1886. Con
176
III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ
questo atto è stato risolto il problema centenario della personalità giuridica di queste società, stabilendo la loro legittimità ad affiancare le strutture pubbliche, in particolare
quelle che erogano servizi sanitari, l’assistenza familiare e il
sostegno per i soci malati che perdono il lavoro.
L’Associazione Italiana delle Società di Mutuo Soccorso,
l’AISMS, che raccoglie decine di società nelle Marche, ha
ritenuto inadeguata la decisione di restringere le attività di
mutuo soccorso alla sanità integrativa e alla prevenzione sanitaria. Questa limitazione, contenuta nell’articolo 23 del provvedimento di riforma, inibisce la gestione del patrimonio
immobiliare storico a disposizione delle mutualità esistenti e
non permette di reinvestire a favore dei soci i proventi derivanti dagli affitti dei locali, o dalla gestione dei teatri, cinema,
bar, festival e in generale dalle attività economiche e culturali
prodotte. Per rendere sostenibili queste attività, senza rinunciare al consolidamento della presenza del mutuo soccorso
sul mercato della sanità integrativa, l’AISMS chiede allo
Stato una serie di agevolazioni fiscali.
Queste agevolazioni sono necessarie anche per permettere
l’adesione alle mutue da parte di chi, a causa della crisi, non è
in grado nemmeno di versare poche centinaia di euro all’anno.
È il problema secolare del mutuo soccorso, sin dalla nascita
della London Corresponding Society: i lavoratori impoveriti,
e i cittadini che vivono nella zona grigia tra la disoccupazione
e il precariato, non possono fare fronte neppure alle spese che
darebbero loro accesso alla solidarietà. Il destino del Quinto
Stato non sarà certo molto diverso da quello dei suoi antenati.
Il mutualismo si è affermato rendendo credibile, e autorevole,
l’idea che tra i soci non devono esistere differenze di classe. E,
quando esistono, la comunità dei soci si adopera per stemperarle o integrarle nelle attività della mutua.
La riforma dello statuto delle società di mutuo soccorso
non sembra autorizzare l’esercizio della funzione positiva del
19. MUTUALISMO
177
mutualismo: il reinvestimento dei proventi dell’attività mutualistica in nuovi progetti di sviluppo o nell’acquisto di attrezzature e servizi. È necessario affiancare la resistenza delle
coalizioni di «combattimento» del Quinto Stato alla capacità
di autogoverno derivante dall’associazione tra lavoratori e
cittadini. Se così non fosse, verrebbero negate le possibilità
insite nell’autoimpresa, in particolare quella di avviare piccole economie di scala fondate sull’autogestione, sostenute
dai circuiti del microcredito, dall’economia cooperativa o
dall’«imprenditoria sociale». Si tratta di pratiche che, in realtà, sono già diffuse, ma che potrebbero essere generalizzate.
Capitolo ventesimo
Coop capitalism
Il capitalismo collaborativo (coop capitalism) è fondato sulla
giustizia e la responsabilità sociale, l’equilibrio dei poteri e
l’equa distribuzione delle risorse tra uomini e donne, tra paesi grandi e piccoli.1 Questa forma di collaborazione, votata
al profitto e sorta dalla cooperazione creativa tra i lavoratori
della conoscenza nelle piccole e medie imprese high-tech
della Silicon Valley in California, è sostenuta da una rete sociale che condivide le risorse e beneficia dell’intervento del
sistema bancario.
L’ipotesi è ancora ben lontana dall’essere realizzata su ampia scala, ma occorre considerarla attentamente in quanto
essa raccoglie l’eco profonda nel mondo della cooperazione,
nelle economie della condivisione o nel commercio equo e
solidale. Il capitalismo collaborativo si fonda su un approccio olistico che restituisce una visione d’insieme omogenea
di un mondo in cui imperversa la disoccupazione e il differenziale di reddito tra lavoratori e manager è abissale. Esso
invoca i valori della comunità e della comunicazione allo
scopo di moralizzare l’economia, e allude alla solidarietà in
un contesto in cui domina l’etica penitenziale dell’austerità.
Il capitalismo collaborativo offre però una soluzione parziale alle diseguaglianze. Non vuole, né può, risolverle alla
180
III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ
radice, modificando i rapporti di forza di cui sono la manifestazione, ma cerca di riconciliare la solidarietà e la competizione tra le persone in modo tale che un giorno tornino a essere complementari. Ai singoli restituisce il senso della partecipazione alla vita di una comunità; all’impresa il ruolo di
collante sociale in un mondo ferito dal potere della finanza.
Il coop capitalism attribuisce una grande importanza alla
creatività degli individui. Le loro motivazioni, il desiderio di
partecipare a un’impresa comune e il bisogno di riconoscersi
nei bisogni di una comunità di riferimento sono gli ingredienti del successo di un’economia basata sulle relazioni tra
le persone. Un’azienda che mira a occupare una posizione di
rilievo in tale ambito deve interpretare questa domanda, aiutarla a crescere, non piegarla alla ricerca dei propri interessi.
L’incontro tra la creatività dell’individuo e lo sviluppo di
un’impresa costituisce la cifra del successo nei settori avanzati della sperimentazione tecnologica. Apple, Facebook e
Google sono ritenuti ancora oggi i campioni di questa moralizzazione dell’economia pienamente finanziarizzata.
A questo esito mirano anche il riciclo (freecycle) e il job
sharing, soluzioni che permettono a precari e impiegati che
altrimenti verrebbero licenziati di lavorare meno ore su una
medesima attività. Poi c’è il commercio dei marchi eticamente
responsabili (impegnati nelle lotte a difesa dell’ambiente
o della bio-diversità o nel sostegno all’infanzia nei paesi «in
via di sviluppo»), che ha raggiunto dimensioni considerevoli
nel mondo anglosassone. Non mancano riferimenti all’open
source con le sue storie-simbolo, Linux e Apache in testa. Insomma, il coop capitalism è la versione economica del motto di
Barack Obama «Yes we can» e con questo allude a un vincolo:
l’autorità politica deve perseguire il benessere della comunità
e non più gli interessi dei manager alla Bernard Madoff.
Ridimensionare i guadagni dei manager proporzionandoli
a quelli dei loro dipendenti; stabilire che il capitalismo è fon-
20. COOP CAPITALISM
181
dato sulle regole e sul rispetto della persona, non sull’esproprio sistematico delle ricchezze degli stati, sulla devastazione
della terra o delle foreste, sui prodotti finanziari tossici come
i derivati o i mutui subprime: chi non potrebbe essere d’accordo con il programma del capitalismo collaborativo? Esso
incontra infatti il favore di quelle stesse banche che hanno
prodotto la crisi finanziaria americana e oggi godono di ottima salute, mentre le borse di tutto il mondo sono tornate a
produrre profitti. Ciò che non convince in questo progetto di
moralizzazione dell’economia è l’idea che la crisi sia stata generata dalla malafede dei manager che, da soli, hanno pervertito la natura del capitalismo. Basterebbe dunque che questi
esecutori della volontà del capitale finanziario maturassero
un’altra visione della vita per riavviare un motore ingolfato,
imponendo il rispetto dei diritti fondamentali della persona
sopra gli interessi predatori dell’homo oeconomicus.2
Più che le soluzioni alla crisi proposte dal capitalismo
collaborativo, a noi interessa comprendere quali sono i suoi
punti di contatto con il postfordismo. Per entrambi, la principale ricchezza prodotta da un’impresa è costituita dalle relazioni tra i consumatori, i clienti, gli operai o i funzionari
addetti alla produzione. Questa sinergia coinvolge il territorio dove opera l’impresa, richiede la partecipazione dei cittadini e delle istituzioni a supporto dei suoi obiettivi. In questa cornice, il successo di un’impresa equivale al successo di
un’intera comunità. Tutti devono collaborare per conquistarsi una porzione di benessere. Per tale ragione si parla di
un’«economia sociale emergente»,3 fondata sui sistemi diffusi sul territorio a sostegno della domanda e a garanzia di
una produzione che coinvolga la popolazione e non solo il
circuito tradizionale composto dagli operatori, dai fornitori
e dai clienti di un’azienda.
L’emersione di questo modello economico non è dovuta a
strutture centralizzate, come la fabbrica fordista che vincola
182
III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ
la vita di un territorio ai suoi ritmi. Il capitalismo collaborativo cerca costantemente l’interazione tra i manager, i lavoratori, nonché gli stessi consumatori. Il cittadino non è più
visto come un fruitore passivo del consumo di merci, bensì
come il «creatore dei propri diritti» e curatore dei gusti e
degli interessi utili a un’azienda per sviluppare la sua offerta.
Il motore dell’economia sociale emergente è il consenso. Per
ottenerlo, tanto le istituzioni quanto le aziende ricorrono a
un complesso sistema di enti certificatori che valutano i risultati ottenuti, la qualità dei prodotti presenti sul mercato,
l’equità delle «performance» che legittimano quotidianamente la necessità della collaborazione da parte dei cittadini.
Davanti ai risultati, comprovati da una valutazione «oggettiva» da parte di un ente terzo, le imprese e le istituzioni cercano di ottenere così una giustificazione per il loro operato.
In questa idea di collaborazione, il consenso non deriva
solo dalla relazione contrattuale tra un datore di lavoro e
il lavoratore, né da quella utilitaristica tra cliente e venditore. Nella support economy – così è stato definito da James
Maxmin e Shoshana Zuboff il modello di relazioni tra il cittadino «creatore dei propri diritti» e l’impresa o lo Stato4 –
il consenso deriva dal grado di partecipazione dell’individuo
a un’economia terziaria dove vige la personalizzazione dei
servizi nella cura della persona o nella crescita del «capitale
umano» e culturale. Gli ambiti di applicazione di questo
modello sono i più disparati: c’è la sanità, l’istruzione, la formazione, l’accesso alle informazioni, il controllo della produzione e delle decisioni amministrative o economiche attraverso le tecniche del benchmarking, dell’accountability e degli
audit pubblici. L’attore principale è il cittadino che si impegna
personalmente nella verifica del funzionamento dei servizi,
controlla l’operato degli altri usando i criteri «oggettivi» stabiliti dagli enti certificatori (l’Invalsi per la scuola, l’Anvur per la
ricerca scientifica e universitaria, ad esempio), oppure evoca
20. COOP CAPITALISM
183
l’intervento delle commissioni speciali per tagliare gli «sprechi» e rendere più efficiente e virtuosa la spesa pubblica. Da
soggetto disciplinato dalle «istituzioni totali» dello Stato (la
scuola, l’esercito, la sanità pubblica), il cittadino è diventato
un soggetto responsabile che opera nell’interesse della comunità, in nome del benessere collettivo e individuale.5 L’utopia
neoliberale predica l’ideale, a dire la verità ugualmente terrificante, che il cittadino sostituisca lo Stato esercitando il controllo su di sé e sugli altri usando i criteri «oggettivi» forniti
dagli enti certificatori della qualità di un servizio o di un prodotto. Il tutto per soddisfare il bene comune.
Il mutualismo sembra rientrare pienamente nel capitalismo collaborativo: valorizza l’autonomia delle persone, la
loro capacità di autorganizzazione a beneficio di una comunità, l’esigenza di autogestire le reti relazionali più adatte a
stimolare la partecipazione della cittadinanza al benessere
generale. Sollecita infine la partecipazione e il consenso rispetto alle iniziative pubbliche. Sarebbe persino disponibile
il soggetto capace di mobilitare questi sentimenti civili in
un’economia che intenda mantenere una finalità sociale nei
suoi investimenti: il conglomerato imprenditoriale rappresentato dalla Lega delle Cooperative in Italia, un’esperienza
studiata dagli economisti vicini all’ex presidente degli Stati
Uniti Bill Clinton – come Robert Reich o Joseph Stiglitz – o
dalla stessa Noreena Hertz, invitata a parlare in Italia del capitalismo cooperativo.
Il 7 agosto 2012, la Lega Coop Emilia Romagna ha lanciato
il progetto della «mutua dei cittadini». Questo gigante della
cooperazione ha annunciato la creazione, entro quattro
anni, di una mutua rivolta ai «precari» che non hanno un’assicurazione contro la malattia o un sussidio per la maternità.
L’obiettivo è raggiungere quattro milioni di soci. I fondi
184
III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ
imponenti così raccolti potrebbero finanziare un’economia
collaborativa di primo piano sul mercato del cosiddetto «secondo welfare», consolidando un nuovo ramo d’impresa da
parte di un colosso specializzato nell’edilizia e nella grande
distribuzione, con significative partecipazioni nel mondo
bancario e assicurativo, oltre che nel mercato dei servizi alla
persona e agli enti locali.
Per il mondo della cooperazione, un’industria che oggi
produce miliardi di euro di fatturato impiegando persone
che vengono spesso costrette a lavorare in condizioni di
precarietà, camuffate da soci lavoratori, il successo di questa iniziativa sarebbe un colpo di immagine. Tra l’altro allontanerebbe l’amaro calice rappresentato dai casi Unipol e
Monte dei Paschi di Siena, che hanno dimostrato la sua non
estraneità alle speculazioni finanziarie dei derivati o la sua
commistione con la politica.
Per Lega Coop il mutualismo rappresenta un’opzione
concreta e molto redditizia per rispondere al crescente disagio del Quinto Stato. Gli strumenti sono quelli dell’autogestione. Si propone la creazione di un fondo sanitario, il reinvestimento degli utili a favore dei soci di una mutua, la garanzia di una copertura sanitaria minima ai membri precari
o disoccupati di una famiglia. In questo modo, il coop capitalism italiano raggiungerebbe l’obiettivo di fondo di ogni
economia sociale: trasformare l’azione imprenditoriale in
un’azione volta al benessere collettivo. Il successo della sua
impresa deriverebbe dal consenso ottenuto soddisfacendo la
richiesta dei diritti fondamentali da parte delle persone.
In attesa di verificare la realizzazione di un simile progetto,
cerchiamo di capire se l’alterità che abbiamo individuato nel
mutualismo è capace di resistere a questo tentativo di sussunzione. In un contesto dove lo Stato sociale cede quote significative alle imprese del terzo settore che operano nel campo della
sussidiarietà sociale, è possibile ipotizzare che il mutualismo si
20. COOP CAPITALISM
185
traduca in un’azione sociale non riducibile a un’iniziativa imprenditoriale? Noi riteniamo di sì, anche perché quest’ultima
non può soddisfare il bisogno di partecipazione espresso dal
Quinto Stato, né tanto meno garantirgli una rappresentanza o
una tutela in un mondo che lo esclude sistematicamente.
Consideriamo il caso in cui l’impresa sia posseduta dai suoi
stessi lavoratori. Sia cioè una cooperativa dotata di una mutualità per i soci e di un piano di finanziamento per il sostegno o la creazione dei progetti proposti dai suoi affiliati.
Ipotizziamo che quest’opera di finanziamento sia sostenuta
da importanti agevolazioni fiscali, politiche di microcredito
e anche da venture capital etici, garantiti da banche o da fondazioni che hanno eliminato dalle loro politiche di credito i
derivati e le pratiche tossiche del capitalismo finanziario. E
supponiamo, infine, che questa impresa cooperativa, basata
sulla proprietà mutualistica e federativa tra lavoratori, cittadini, migranti e imprenditori, possa anche essere globalizzata
partecipando a reti di imprese cooperative simili in paesi diversi, autofinanziando le prestazioni dei soci, ricorrendo ad
alleanze per sostenerne i progetti. È quanto sta accadendo
negli Stati Uniti. Lo racconta Sarah Horowitz, fondatrice nel
1995 del più grande sindacato di freelance al mondo, la Freelancers Union, con oltre duecentomila iscritti:
È fondamentale apprendere le lezioni delle cooperative
dell’Ottocento e potenziare gli scopi sociali delle imprese
per costruire un ponte tra il profitto e il bene comune. Negli
anni venti dell’Ottocento, un nascente movimento mutualistico iniziò a svilupparsi tra i lavoratori in America, fondato
sul crescente potere dell’economia cooperativa e sulle organizzazioni collettive. […] Le cooperative erano profondamente innestate nella fabbrica americana. Nel 1752, il padre
186
III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ
fondatore (e volontario pompiere) Ben Franklin inaugurò
la prima compagnia mutualistica di assicurazione della nazione, la Philadelphia Contributionship, che è ancora oggi
attiva. Il processo proseguì per tutto il secolo successivo creando cooperative tra i minatori, i calzolai, e le lavoratrici a
maglia. Qualunque cosa i lavoratori potevano unire alla propria impresa, lo unirono.6
Secondo la National Cooperative Business Association,
due milioni di persone lavorano nelle trentamila cooperative
esistenti negli Stati Uniti.7 A questo bisogna aggiungere la diffusione delle pratiche di autofinanziamento, tipiche del mutualismo, sulle piattaforme in rete. Kickstarter,8 ad esempio, è
una piattaforma di crowdfunding attraverso la quale cittadini
comuni hanno raccolto, nel 2011, cento milioni di dollari per
finanziare ventisettemila opere musicali, film e progetti artistici o di design. La diffusione delle pratiche mutualistiche
ha investito anche il settore più propriamente commerciale:
il progetto Etsy,9 sempre nel 2011, ha finanziato con oltre
quattrocento milioni di dollari il mercato dell’abbigliamento
vintage.
Questo processo avviene anche nel campo socio-sanitario
dove la Freelancers Union ha creato una compagnia assicurativa, la Freelance Insurance, che mette a disposizione dei
membri del sindacato prestazioni sanitarie e piani pensionistici. Al suo interno, i soci possono scambiarsi prestazioni a
partire dalle proprie competenze, ad esempio usufruendo di
cure dentistiche a prezzo calmierato. Possono avvalersi delle
competenze degli avvocati o dei commercialisti, anch’essi
soci, oppure partecipare a progetti o bandi creativi di ogni
tipo. Tutti sono legati dall’appartenenza allo stesso sindacato
che, su base mutualistica, provvede a tutelare la loro salute,
la previdenza o a negoziare condizioni di lavoro migliori.
La Freelancers Union beneficia del piano federale che
ha investito nel 2012 circa seicento milioni di dollari in otto
20. COOP CAPITALISM
187
stati per l’avviamento di imprese start-up, società mutualistiche nell’assistenza sanitaria. Questo sindacato, che continua a godere dei finanziamenti delle fondazioni private a
scopo sociale, sostiene le cooperative nate a New York, nel
New Jersey e nell’Oregon. Il successo di questo modello ha
permesso a Sarah Horowitz di entrare nel board della Federal Reserve di New York nel gennaio 2013. La Freelancers
Union è gemellata in Italia con l’Associazione dei Consulenti
del Terziario Avanzato (ACTA).
Il mondo del sindacalismo americano è senz’altro diverso
da quello italiano. Tuttavia esso offre alcuni spunti alla nostra
ricerca, visto che – sia pure con risorse, istituzioni finanziarie non profit e fondazioni bancarie che seguono regole totalmente diverse – in Italia registriamo le stesse ambivalenze
presenti nell’economia collaborativa statunitense. In entrambi i casi, emerge la possibilità di un superamento dello
Stato e del mercato, fino a oggi considerati gli unici guardiani
del bene comune. Sono le persone, e la loro capacità di associarsi e di lavorare insieme, a creare le condizioni affinché il
bene comune possa essere tutelato ed esteso con modalità indipendenti sia dallo Stato che dal mercato. Su questo aspetto
c’è una convergenza con le teorie e le pratiche dei beni comuni che si sono diffuse in Italia da qualche anno.10
Certo, in casi come quello della Lega Coop Emilia Romagna, il mutualismo potrebbe essere sussunto nel processo
di accumulazione. In altri, potrebbe invece rappresentare
il motore di un’economia che mira alla promozione del singolo e della sua esigenza di «creare diritti». Il suo principio
costitutivo non è però strumentale, bensì espansivo, pienamente installato nella vita sociale. Il mutualismo tende ad
associare le attività della vita operosa utili a sostenere e a sviluppare un’impresa collettiva, non gli imponenti processi di
privatizzazione e di finanziarizzazione in corso. Per questo è
potenzialmente illimitato e libera l’azione sociale dal legame
188
III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ
esclusivo con gli scopi dell’impresa o dalla richiesta di disciplinare la partecipazione da parte dello Stato.
Il mutualismo ha un senso quando considera l’autonomia
sociale e professionale come un fine in sé. Questa idea di
autonomia è presente anche nel coop capitalism di Noreena
Hertz o nella support economy di James Maxmin e Shoshana
Zuboff, sebbene resti vincolato al fare impresa. Nel mutualismo si esprime invece l’autonomia dei singoli e il loro desiderio, o necessità, di associarsi liberamente mettendosi al
servizio di un obiettivo comune: promuovere il lavoro indipendente come forza-lavoro del futuro e rafforzare il Quinto
Stato come condizione prevalente della cittadinanza.
Ciò che differenzia il mutualismo dal capitalismo collaborativo è inoltre l’idea di «servizio». Quella di mettersi al servizio di un obiettivo comune non è una regola deontologica,
come avviene nel lavoro autonomo professionale, oppure
l’indirizzo che un manager particolarmente sensibile propone alla sua azienda. L’associazione, la cooperazione, l’aiuto reciproco non sono assimilabili a questi scopi, in quanto
il Quinto Stato è indotto a perseguirli nell’interesse generale,
compreso il proprio.
Capitolo ventunesimo
Ecosistemi
La politica della disintermediazione è una delle principali esigenze del Quinto Stato. Essa si esprime nella ricerca di circuiti
economici alternativi e nell’accorciamento delle filiere che dal
produttore portano al consumatore saltando i passaggi degli
intermediari che sottraggono valore al lavoro. È ciò che accade nell’agricoltura, nella produzione musicale, nella formazione o nella selezione delle posizioni lavorative. E ancora nel
settore del credito, dove si stanno affermando sistemi di pagamento come PayPal Here, le monete complementari adottate
in città e regioni come Nantes (Nanto), la Sicilia (Sicanex) o la
Sardegna (Sardex). Nel mondo dell’editoria italiana, si moltiplicano da anni le ipotesi di distribuzione indipendente dai
quattro colossi del settore (Messaggerie, PDE, Mondadori e
RCS) che si possono attuare ripristinando il rapporto diretto
con le librerie, i lettori, le biblioteche, come suggerisce l’Osservatorio degli Editori Indipendenti (ODEI).1 In fondo si
tratta della stessa esigenza che anima la lotta contro la burocrazia statale o la partitocrazia.
Un’altra pratica di disintermediazione è il coworking. Il
termine è stato coniato nel 1999 da Bernie DeKoven – programmatore informatico, inventore di giochi e apprezzato
umorista di San Francisco – per indicare la collaborazione a
190
III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ
distanza tra gli specialisti di Internet. Sempre a San Francisco, ma nel 2005, Brad Neuberg, un ingegnere indipendente
specializzato in tecnologie web, usò lo stesso termine per descrivere uno spazio fisico. La sua proposta era indirizzata a
quei liberi professionisti desiderosi di stabilire il loro ufficio all’interno di uno spazio comune in cui poter beneficiare
della cooperazione tra figure affini, pur mantenendo la gestione autonoma della propria attività. Sorsero così le prime
«Hat factory». Da allora, e in brevissimo tempo, quello del
lavoro in spazi condivisi è diventato un fenomeno globale.
Nel 2012 sono stati censiti 1100 spazi di coworking in
tutto il mondo, l’80 per cento dei quali sono gestiti da privati, il 13 per cento da organizzazioni non profit, e il resto
da istituzioni governative o enti locali. Avviare un’attività di
coworking negli Stati Uniti costa 58.000 dollari, poco più di
46.000 euro in Europa. Da un sondaggio condotto dalla rivista specializzata online Deskmag, risulta che il crowdfounding, a dispetto della sua popolarità, non garantisce una raccolta di fondi capace di sostenere l’avvio di questo genere
di attività. Molto spesso sono i soci a racimolare il capitale
iniziale, usando fondi di progetti comunitari, finanziamenti
locali, piccoli capitali ottenuti da attività precedenti.
In Italia, dal 2008 gli spazi di coworking si distinguono
tra «generalisti» e «selettivi», mentre continuano a nascere
nuove tipologie indipendenti. Per esempio, c’è la rete internazionale Cowo, importata a Milano dal pubblicitario Massimo Carraro in un loft a Lambrate,2 e attualmente presente
in quaranta città con cinquantanove sedi attive. «Cowo» è
una comunità di coworkers «generalista»: un pacchetto di
regole e buone pratiche che vengono trasferite ai gruppi che
vogliono aprire sui territori una sede con questo marchio.
Una volta aperta una sede, i freelance firmano un contratto
in cui si impegnano a versare duecento euro per una postazione (spese incluse); in tal modo – grazie alla vicinanza
21. ECOSISTEMI
191
fisica o alla prossimità professionale – si spera nella formazione di filiere tra lavoratori impegnati su progetti comuni.
Ci sono poi gli spazi «selettivi» che afferiscono a un’altra rete internazionale: «The Hub»,3 che sta aprendo sedi da
Milano a Siracusa. In questo caso, la rete è orientata su un
tema specifico, quello dell’innovazione sociale (una delle linee guida dell’attuale programma quadro dell’Unione Europea) e della creazione o supporto dell’impresa sociale. Infine
ci sono le esperienze non classificabili come generaliste o selettive, ma che possono presentare entrambe le caratteristiche. Da Palermo (Re Federico cowork)4 ad Alessandria (Lab
121)5 passando per Torino (ToolBox: Torino Office Lab &
Coworking),6 fino a Roma (SPQwoRk),7 sempre più spesso
sono gruppi di lavoratori indipendenti di varie professioni
(organizzatori di eventi culturali, informatici, architetti,
pubblicitari e altre figure del lavoro della conoscenza) ad associarsi in maniera autonoma all’interno di spazi dedicati al
coworking. Nei casi menzionati, prima ancora di stabilire un
set di regole e di buone pratiche, i lavoratori trascorrono un
periodo preliminare di alcuni mesi dedicato alla reciproca
conoscenza e alla formazione della comunità che in seguito
usufruirà dei servizi e delle occasioni create dalla convivenza
e dalla cooperazione.
Il coworking rischia di essere riassorbito dalla retorica
sull’autoimprenditoria dei lavoratori autonomi e in particolare dei giovani «tecno-creativi» che avviano start up e
non si rassegnano alla disoccupazione. Questo ottimismo di
maniera8 riduce le potenzialità del lavoro indipendente, e
la finalità delle sue attività innovative, alla dimensione della
microimpresa individuale e non si interroga sulla possibilità
di creare un sistema integrato di pratiche amministrative e
politiche industriali capaci di sostenere la passione dei singoli. Lo «startupperoe» è il protagonista immaginario di
un’economia cognitiva che si afferma nel momento più cri-
192
III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ
tico del terziario avanzato, nell’incertezza dei fondi pubblici
e capitali privati a sostegno dell’avviamento di queste imprese. Pochi, giovani, eroi contro il mostro della burocrazia
e i tentacoli di una società insensibile all’innovazione tecnoscientifica: questa ricostruzione coglie solo parzialmente il
senso della cooperazione tra lavoratori nomadi in ambienti
comuni (il coworking, appunto).
La cooperazione è una risposta obbligata per chi non
vuole solo sopravvivere, ma affermare un istinto di libertà. I
coworkers, come del resto molti altri indipendenti, si soffermano spesso sulla propria solitudine. La scelta di associarsi
ad altri colleghi, o a lavoratori con specializzazioni diverse,
deriva dalla necessità di tutelarsi dall’ostilità dello Stato e del
mercato. Da soli si rischia di essere schiacciati, insieme si riesce a resistere e a trovare una soluzione al conflitto con i committenti che non pagano, oppure tra i gruppi che si autorganizzano e il complicato sistema degli appalti e dei subappalti
che governa il mercato delle commesse espropriando il valore del lavoro.
L’associazione tra lavoratori indipendenti caratterizza anche il fenomeno emergente dei «makers», i nuovi artigiani
digitali che producono stampanti 3D in grado di fabbricare
oggetti solidi concepiti da piattaforme open-source. I luoghi
dove si radunano i makers, da San Francisco a Parigi fino
a Torino o a Firenze, si chiamano «FabLab».9 Secondo l’ex
capo redattore di Wired Chris Anderson, profeta entusiasta
delle rivoluzioni tecnologiche nel capitalismo neoliberista, i
makers guiderebbero la nuova rivoluzione post-industriale
dopo quella di Apple o di Google.10 Uno dei casi più significativi è quello di Arduino, una piattaforma di prototipazione elettronica open-source programmabile, con cui è possibile creare circuiti di applicazioni in ambito di robotica e
automazione. È stato creato da un team che frequentava un
bar omonimo, che a sua volta prende il nome da Arduino, re
21. ECOSISTEMI
193
d’Italia nell’anno Mille nella città di Ivrea, la sede dell’Olivetti. La piattaforma è stata creata per artisti, designer, ingegneri, architetti ed esperti di software interessati a create oggetti o ambienti interattivi. I laboratori per la costruzione di
Arduino sono stati ospitati fino al 2012 nei locali del cowork
ToolBox a Torino.11
I makers rivendicano il principio del Do It Yourself, il faida-te elettronico e informatico, attraverso la condivisione di
macchine, kit di fabbricazione e idee in spazi comuni, proprio come accade tra i coworkers. L’obiettivo è personalizzare la produzione degli oggetti in base ai gusti o le necessità dei clienti. Questo genere di produzione non risponde
alla logica industriale della replicabilità infinita la quale reca
con sé una rapida obsolescenza dei prodotti. Al contrario,
sottrae alla fabbrica tradizionale il monopolio della realizzazione degli oggetti, garantendo la possibilità di produrli in
ogni quartiere, casa, scuola, ospedale, oppure in uno spazio
urbano riqualificato. Secondo Anderson, non è tanto la proprietà dei mezzi di produzione a essere decisiva, quanto la
loro collocazione sul territorio. In questo modo, i makers ritengono di potersi affrancare dall’impresa capitalistica per
costituire nuove linee produttive sia nell’Occidente deindustrializzato sia nei paesi emergenti.12 Le comunità dei makers
rappresentano una specifica evoluzione del movimento dei
coworkers. Il coworking può essere, tra l’altro, l’incubatore
di un FabLab, e dischiudere sentieri di sperimentazione
imprevedibili, tra artigianato high-tech e officine comunitarie. Ciò che sicuramente accomuna queste esperienze è il
metodo di lavoro improntato alla condivisione e praticato
al di fuori dei luoghi classici della produzione della conoscenza, come le università o gli spin-off dei parchi scientifici
e tecnologici esistenti. Questi progetti nascono dallo scambio tra le competenze espulse o non riconosciute dal mercato e dallo Stato. Considerata l’eterogeneità delle attività,
194
III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ
e l’informalità dei processi di costituzione di questi gruppi,
è opportuno usare il termine coworking nella sua accezione
più ampia di common work, cioè di lavoro-in-comune, con
riferimento alla cooperazione tra gli uguali a prescindere dai
luoghi o dalle modalità specifiche in cui essa avviene.
L’Unione Europea e poi numerosi enti locali tra cui Torino
o Milano con l’Expo 2015 hanno lanciato il progetto della
«smart city», la città «intelligente» o «digitale», e come in tutte
le economie della condivisione (sharing economies) il processo
è ambivalente. L’obiettivo è rendere le città «eco-compatibili»,
diffondere il Wi-Fi libero negli spazi pubblici, costruire edifici
autosufficienti dal punto di vista energetico e sistemi che permettano alle città di snellire il traffico con i trasporti alternativi
(car e bike sharing).
Il coworking, insieme al co-housing, rientra in questa strategia di governance che promuove le «giovani imprese» diffondendo postazioni di lavoro flessibili a prezzi economici.
L’approccio collaborativo al lavoro, in un ambiente urbano
accessibile al lavoratore nomade, permette di promuovere la
«coopetition», cioé la «competizione collaborativa» tra individui e piccoli gruppi associati.13 L’aggregazione «dal basso»
dei professionisti, insieme alla crescita della coesione tra i
gruppi e i committenti, permetterebbe di creare più opportunità di lavoro, mobilitando risorse e valori sul territorio
gestito dalle istituzioni pubbliche. Queste ultime non svolgerebbero più il ruolo dell’imprenditore-pianificatore, come
accadeva all’epoca dello sviluppo fordista che ha devastato
intere regioni con politiche industriali altamente inquinanti,
ma quello di facilitatrici dell’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro nella prospettiva di uno sviluppo sostenibile.
Le autorità pubbliche si candidano così a governare il
conflitto tra gli indipendenti e i loro committenti, ma ri-
21. ECOSISTEMI
195
schiano di tornare a svolgere il ruolo di mediatrici per favorire il divenire impresa della cittadinanza senza investire
pressoché nulla nella formazione o nella tutela di coloro che
vengono sconfitti nell’auspicata «competizione collaborativa». L’autoformazione, il telelavoro, il mutualismo e anche
il lavoro volontario diventerebbero gli alibi per evadere la
responsabilità di garantire un welfare.
Non è escluso che il progetto di smart city possa conquistare un consenso nella cittadinanza che chiede di rivitalizzare i luoghi abbandonati delle città e promuovere la partecipazione. Riadattarli a un uso produttivo e associativo è
in fondo un altro esempio di capitalismo cooperativo. Ma,
ancora una volta, bisogna comprendere quali sono i rapporti
tra lo Stato, il mercato e la cooperazione di stampo mutualistico del Quinto Stato. Perché in un Paese come l’Italia
dove vige l’idea che il privato sostituisce il pubblico, e dove
gli individui devono imparare a fare da sé perché è inutile
pretendere un intervento dalle istituzioni, il ruolo di intermediazione svolto dallo Stato – in tutte le sue articolazioni
– nelle smart cities equivale alla delega alla politica e alle sue
clientele, come alle lobby imprenditoriali, di condizionare
un mercato dove nulla avviene naturalmente.
Il coworking, come tutte le forme di cooperazione nel lavoro
e nell’impresa, esiste solo a condizione di praticare un’effettiva disintermediazione tra la domanda e l’offerta di lavoro.
In questo caso, si può parlare di «filiera corta» perché tra
l’ideazione di un progetto e la sua realizzazione si eliminano
tutti gli intermediari, stabilendo un canale di comunicazione
diretta tra gli ideatori di un progetto, i clienti, il territorio
e la cittadinanza. Il rifiuto degli intermediari, cioè delle burocrazie statali e di quelle di partito oppure del capitalismo
che estorce il valore dal lavoro dei produttori mentre distri-
196
III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ
buisce i loro prodotti, allude alla necessità di estendere il
controllo sull’intero ciclo produttivo.
Il coworking potrebbe diventare la forma generale dell’autogoverno dei lavoratori indipendenti perché è adattabile a
molti settori della produzione, da quella immateriale e culturale, a quella agricola e dei beni di consumo. Le pratiche
della filiera corta permettono di associare le aree produttive
segmentate dal mercato o dalla politica secondo le necessità
e le risorse dell’autogoverno dei produttori e dei consumatori, contro gli interessi della grande distribuzione, dei monopolisti, degli stakeholders della politica o del mondo della
cooperazione. Sui medesimi principi si incardina il discorso
del commercio equo e solidale, dell’agricoltura biologica,
del consumo etico e responsabile, come di tutte le pratiche
che si prefiggono di redistribuire il valore sociale di un lavoro o di una produzione.14
L’attrazione che il coworking esercita in Italia sui lavoratori
indipendenti potrebbe derivare persino da una suggestione
gramsciana, quella dell’«operaio produttore», colui che ambiva a controllare l’intero processo della fabbrica fordista. La
stessa aspirazione, declinata da Gramsci nella teoria dei consigli di fabbrica e nell’idea delle «casematte» da creare e diffondere nel tessuto della società industriale, torna oggi d’attualità, soprattutto se ci si sofferma a considerare la novità
storica dinnanzi alla quale siamo posti: la fabbrica, lo Stato e
il mercato non sono più capaci di incanalare e dirigere l’operosità e la creatività umana secondo lo schema di una produzione centralizzata e guidata da un soggetto unico, monodimensionale, accentratore delle reti e degli indotti produttivi.
Il coworking si afferma nelle economie sociali emergenti tipiche del postfordismo, dove la produzione non è più vincolata
a un territorio, segmentata in parti connesse tra loro da un
capitalista monopolista. Esso mira anzi a valorizzare quelle
competenze che permettono agli individui di controllare le
21. ECOSISTEMI
197
singole articolazioni della produzione. Ciò che Gramsci ambiva a creare nella sua epoca è oggi realizzabile mediante il
superamento dell’intermediazione politica.
Quanto detto non elimina l’esigenza di stabilire sul territorio regole, procedure e pratiche per facilitare l’aggregazione spontanea, come quella programmatica, di filiere produttive e di associazioni di scopo al servizio della persona
o della cittadinanza. Se il discorso sull’innovazione sociale
e sulle economie della condivisione ha un futuro, esso non
può discendere da un ordine impartito dallo Stato o dagli
enti locali, e nemmeno dalle imprese in perenne ricerca di
spin-off. Non è dunque un caso se la maggioranza dei coworkers facciano riferimento ad associazioni non profit anziché
a enti locali. Così la pensa Mico Rao, tra i responsabili insieme a Stefania Burra del cowork Lab 121 di Alessandria:
«Le persone della community vogliono partecipare alla definizione di un progetto comune e non amano vederselo
calare dall’alto. Il cowork è l’opposto dell’organizzazione
classica dell’impresa o della politica: bisogna fare presa sulla
coscienza del coworker, aprirsi alla casualità degli incontri e
definire insieme un percorso comune. Non bisogna andare
alla ricerca di professionalità generiche: l’architetto, il pubblicitario, l’organizzatore di eventi, ma delle singole competenze, e delle storie individuali che entrano in risonanza con
quelle degli altri quando si inizia un percorso comune».
La novità di questo fenomeno, hanno scritto Dario Banfi e
Sergio Bologna,15 sta nel desiderio di creare una comunità,
facilitando un rapporto tra i lavoratori e il territorio; conciliare i tempi di vita, per esempio la maternità, e quelli del lavoro; difendere le competenze acquisite durante un corso di
studi universitario o di specializzazione che spesso vengono
cancellate da un mercato saturo oppure ristretto dalle ren-
198
III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ
dite di posizione e dal corporativismo; adattare le modalità
d’uso dello spazio alla domanda o alle filiere produttive presenti sul territorio, oppure alle competenze del gruppo che
si costituisce in un ambiente di coworking.
Bisogna inoltre segnalare che la crescita del coworking avviene contemporaneamente al fallimento delle riforme del
lavoro, dal «pacchetto Treu» sino alla «Fornero», per riconfigurare il collocamento e la selezione del lavoro. Il rapporto
Plus pubblicato nel 2012 dall’ISFOL16 indica che, dal 2008
al 2010, solo il 3,9 per cento dei giovani tra i ventiquattro e
i trentacinque anni ha trovato lavoro grazie a un centro per
l’impiego (mentre il 2,4 per cento con le agenzie interinali).
Non funziona nemmeno il canale «istituzionale»: grazie ai
sindacati e alle organizzazioni datoriali hanno ottenuto un
impiego solo lo 0,5 per cento degli intervistati, contro il 17,3
per cento di chi ci è riuscito mediante autocandidatura, cioè
inviando un curriculum.
Il coworking rappresenta inoltre un modello alternativo al
lavoratore che si fa da sé, colui che per avviare una nuova attività o procurarsi un impiego usa tutti i canali messi a disposizione dal legislatore, salvo poi, davanti al fallimento della via
istituzionale, ricorrere al network parentale, politico o professionale (il 32 per cento dei giovani intervistati ha iniziato a lavorare così). In maggioranza, sono i diplomati e i laureati che
non dispongono dei giusti contatti, a rivolgersi alle strutture
di «intermediazione» tra domanda e offerta di lavoro, sebbene siano coscienti che lì quel lavoro non lo troveranno mai.
Anche perché i centri per l’impiego, o le agenzie interinali,
non ottemperano agli obblighi assegnati loro dalle riforme.
Nella deregolamentazione del lavoro, il coworking (come
le start-up, le cooperative, le piattaforme online, le fabbriche
occupate e riadattate alle esigenze della nuova produzione
e del mutualismo,17 i mercati alternativi) costituisce una risposta al fallimento delle mediazioni istituzionali e una pro-
21. ECOSISTEMI
199
posta per inventarne di nuove. Centrale è il discorso sulla
costruzione di un «movimento» che si prefigga di dare luogo
a esperienze di convivenza socio-professionale e, almeno in
via potenziale, a una coalizione sociale tra lavoratori e cittadini. Nell’autoimpresa postfordista questi obiettivi si sovrappongono perché la crisi ha incrinato l’individualismo
competitivo tra i lavoratori autonomi, precari o freelance. Il
«movimento» dei coworkers o dei makers dovrebbe tendere
alla ricerca di una comunità aperta, fondata sulla condivisione di principi e pratiche cooperative e mutualistiche.
Il coworking si regge sulla cessione del tempo, e dei saperi,
da parte di professionisti già formati a lavoratori più giovani
e meno garantiti. Continua Mico Rao: «I nostri soci mettono
a disposizione della comunità i loro saperi attraverso corsi
di formazione; abbiamo attivato consulenze gratuite di commercialisti, avvocati, ma anche accordi con gruppi di acquisto e convenzioni sanitarie o assistenziali. Ogni membro del
cowork si sente responsabile del territorio e della politica».
In un Paese dove vige la dismissione programmatica
dell’istruzione pubblica, e riemergono preoccupanti fenomeni di analfabetismo di ritorno oltre che di deprofessionalizzazione dovuti alla precarietà, la pratica dell’autoformazione nell’ambito del coworking è fondamentale. Essa
potrebbe coinvolgere tutte le attività basate sullo scambio
di competenze, dall’arte alla musica, dall’artigianato ai servizi alla persona. Come il mutualismo delle origini, anche
il nuovo mutualismo si fonda sulla vita operosa e si consolida nello scambio tra chi possiede una serie di competenze
professionali e chi è alla ricerca di formazione o di aggiornamento. Oggi il mutualismo potrebbe inoltre costituire un
canale di comunicazione e apprendimento del tutto estraneo
ai circuiti della formazione gestiti dagli enti regionali, pro-
200
III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ
vinciali, o ministeriali, che – al pari delle agenzie interinali
e dei centri per l’impiego – hanno fallito la loro missione di
addestramento e collocazione della forza-lavoro. La cooperazione tra i nomadi del lavoro indipendente potrebbe garantire agli studenti medi e universitari un adeguato livello
di autoformazione e di qualificazione professionale. La pratica della banca del tempo, e della condivisione di prestazioni e servizi tra i soci, consentirebbe a questi soggetti di
apprendere e applicare i saperi che nella scuola e nell’università o non sono più insegnati e, se lo sono, rispondono
alla logica unidimensionale della professionalizzazione a
breve o brevissimo termine. Saperi astratti che svaniscono,
o restano inutilizzati, su un mercato che, quando ne ha bisogno, è costretto a imporre ai neolaureati corsi di formazioni
più specifici. Anche su questo terreno, il mutualismo non sostituisce, né mira soltanto a integrare l’offerta di un welfare
ormai inesistente, ma lo trasforma a partire dalle esigenze
delle persone, mettendole nella condizione di soddisfare la
loro richiesta di diritti fondamentali.
Gli ambienti di corworking sono per la maggioranza «business-oriented». È ciò che affermano Michele Magnani e Nicolò Perugini del cowork Multiversum di Firenze: «Il cowork
deve essere un’attività sostenibile in sé, e non deve dipendere da finanziamenti esterni rispetto alla sua attività». Se è
autonomo, il lavoro in condivisione deve essere sostenibile
economicamente, cioè deve produrre un reddito, poiché anche la condivisione ha un costo, Si tratta di un problema che
dovettero già affrontare le cooperative operaie formatesi in
Francia a cavallo della rivoluzione del 1848 e che oggi può
essere riformulato nel seguente modo: come si può esercitare il mutualismo senza trasformarsi in una delle tante imprese sociali diffuse nel terzo settore, o vivere di stenti come
capita alle associazioni non profit condizionate dai tempi di
pagamento degli enti pubblici?
21. ECOSISTEMI
201
Una delle possibili soluzioni è offerta dal caso di Seats2meet, un cowork olandese con sessantuno sedi e quindicimila utenti, ispirato al modello di The District al Cairo o
del «League» a Tokyo.18 In queste reti vengono combinate
le attività non profit con quelle a scopo di lucro, come l’affitto delle postazioni o delle sale riunioni per imprese o altri
soggetti. Il proposito del cofondatore Ronald van den Hoff
è trasformare il vecchio modello di coworking, un «circolo
chiuso» tra poche decine di freelance, in una rete globale
dotata di una moneta virtuale e di un sistema di accreditamento dei servizi valido sia per gli spazi di coworking tra loro
connessi, sia per altre tipologie di ambienti come i musei, i
teatri o gli ospedali.19 È chiaro che tanto più numerosi sono
i soggetti interconnessi, tante più risorse si riescono ad accumulare. Ma questa idea implica una dimensione ulteriore:
al di là della professione, della tipologia contrattuale o del
luogo di lavoro, i singoli possono associarsi e incontrarsi
nello spazio virtuale della collaborazione e condividere un’economia. Un teatro a Amsterdam, un cowork a Palermo, un
ospedale a Madrid si troverebbero connessi in una rete di
condivisione di progetti, attività redditizie, servizi.
Non diversamente dalle cooperative, i cowork aspirano a
diventare colossi che producono servizi, multinazionali del
marketing che affittano scrivanie a freelance? Oppure nel
loro quotidiano sviluppo, e ricerca di autofinanziamento,
saranno capaci di costruire ecosistemi economici e istituzionali fondati sulle relazioni tra persone che non svolgono necessariamente lo stesso lavoro, né condividono la medesima
posizione professionale?
Questa alternativa, generata dalle forme fluide dell’associazione tra i lavoratori della conoscenza, lascia intendere
che il coworking, come buona parte delle pratiche del nuovo
mutualismo, sia difficilmente riducibile alla forma giuridica
di un’associazione e a quella di una cooperativa, forme nelle
202
III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ
quali si è incarnato per lungo tempo il mutualismo di prima
generazione. Il dibattito è aperto anche tra i coworkers, ma
alcune idee sono chiare.
Questi soggetti istituiscono ecosistemi al cui sviluppo possono contribuire anche gli enti locali, le imprese, le associazioni o le cooperative esistenti sui territori, e che offrono uno
spazio reale o virtuale sia ai lavoratori indipendenti, sia a chi
non è imprenditore di sé stesso, o freelance, ma un singolo
– lavoratore o meno – che ha un progetto, cerca un’inclusione sociale, desidera esprimersi in uno spazio che gli viene
altrimenti negato. La connessione di più ecosistemi, attivi in
diverse regioni o anche nazioni, potrebbe dare vita a piattaforme aperte a soggetti che operano su scale differenti: dalle
reti d’impresa alle associazione culturali, dai singoli lavoratori ai sindacati, o altri soggetti privati, istituzionali o pubblici. Gli obiettivi di queste piattaforme, non assimilabili ai
«cartelli tra imprese», rappresenterebbero l’evoluzione su
scala globale delle pratiche mutualistiche del Quinto Stato.
Queste piattaforme potrebbero essere infine regolate mediante bilanci sociali e partecipati, redatti da ogni singolo
cowork considerato come snodo di una rete interconnessa.
Ciò permetterebbe di misurare e pubblicizzare l’impatto
sociale di queste attività sul territorio, affinché ottengano il
giusto riconoscimento da parte delle imprese, delle amministrazioni come delle autorità europee, anche in termini di
finanziamento.
Quelle del mutualismo socio-sanitario, della condivisione o
della cooperazione sul lavoro, della costruzione delle filiere
corte sono tutte pratiche che intendono sottrarre l’attività
operosa alle rendite parassitarie dell’economia della conoscenza, al capitalismo finanziario, alla burocrazia statale o
dei partiti. Restano però esercizi limitati ad alcune nicchie
21. ECOSISTEMI
203
del Quinto Stato, e molto spesso si sviluppano nella zona
grigia tra l’attività volontaria o solidaristica e quella microimprenditoriale, cercando di fare sistema in un mondo che
privilegia i percettori di rendita, il grande capitale, anche
quando è migrato nei paradisi fiscali, la speculazione immobiliare o i rentier del consenso politico. In sé dimostrano una
produttività alternativa rispetto a quella più propriamente
capitalistica che mira all’espropriazione delle poche risorse
disponibili, ma restano comunque incardinate in una società
dove l’utilità di un’azione sociale è vincolata ai criteri della
redditività immediata o alle esigenze corporative.
Occorre perciò transitare dall’esercizio dell’autogestione,
limitato a un’aspirazione etica o alla sopravvivenza economica, all’idea di autodeterminazione e quindi di autogoverno. Quello della transizione da un modello governato dal
capitalismo predatorio a un sistema basato sulla cooperazione e l’uso della ricchezza sociale per lo sviluppo di nuovi
rapporti di produzione è uno dei problemi classici affrontati da Marx e da Lenin, come anche dalle culture socialiste
dell’autogestione, ad esempio in Jugoslavia e nei cosiddetti
«paesi non allineati». Fu questo, tra l’altro, l’obiettivo della
critica di Herbert Marcuse al socialismo e al capitalismo nel
suo Uomo a una dimensione, un libro che diventò il punto
di riferimento per i movimenti e gli intellettuali jugoslavi
che denunciavano le contraddizioni del comunismo di Tito.
Queste posizioni furono ostacolate in ogni modo dalle classi
dirigenti delle repubbliche che componevano la Jugoslavia.
Il potere dell’autogestione sancito dalla Costituzione venne
eroso a favore di quello delle classi dirigenti nazionalistiche,
avviando così la dinamica autodistruttiva che ha annientato
la federazione nella guerra degli anni Novanta.20
Dopo la caduta del Muro di Berlino, e il fallimento delle
ipotesi socialiste e comuniste, le questioni sopra elencate
riemergono sotto forma di un auspicio a una vita eco-com-
204
III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ
patibile, oppure nella chiave antagonista di un anticapitalismo radicale ma minoritario. Non si tratta di riproporre oggi
esperienze di comunismo di mercato come quello jugoslavo
e tanto meno di comunismo di Stato come quello stalinista. Una tale pretesa sarebbe grottesca. Il nostro problema
è diverso: viviamo in una fase di transizione, forse verso un
mondo peggiore di quello attuale, ma c’è anche la possibilità che la direzione intrapresa dia origine a rapporti sociali
completamente inediti. E che i piccoli esempi della condivisione e del mutualismo che sono l’argomento di questo libro
ci possano aiutare a dare una forma al nostro futuro.
A più di vent’anni dalla fine della Guerra fredda, e a dieci
dall’inizio della crisi verticale del capitalismo finanziario e
del neoliberismo, viviamo nella transizione da una società a
capitalismo avanzato basato sulla manifattura e sullo Stato
sociale del lavoratore salariato o dipendente a una società
basata sull’indebitamento e la finanziarizzazione dell’esistenza. Immaginare, e realizzare, nuovi ecosistemi alimentati
dalle pratiche mutualistiche e dalla condivisione significa incamminarsi verso una soluzione di segno opposto. Laddove
ciò non è ancora possibile, ossia nella maggioranza dei territori sottoposti all’impero dell’austerità, si può comunque discutere e sperimentare l’applicazione di dispositivi istituzionali (gli ecosistemi), o di partecipazione e di potere diretto
insieme a pratiche comuni solidaristiche e politiche.
Tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, questa
tendenza è stata intuita dai movimenti ecologisti. Anche in
questo caso non si tratta di scegliere tra l’una o l’altra ipotesi,
ma mostrare come sul medio-lungo periodo si sia ormai consolidato un indirizzo che riguarda la gestione dei territori, la
creazione di livelli istituzionali di autogoverno, spazi e momenti di decisione collettiva e condivisa, oltre che politiche
pubbliche sensibili a criteri ecologici e di giustizia sociale. Era
questa l’utopia concreta del filosofo francese André Gorz:
21. ECOSISTEMI
205
Gli strumenti high-tech esistenti o in corso di sviluppo, generalmente comparabili a delle periferiche di computer,
puntano verso un avvenire in cui praticamente tutto il necessario e il desiderabile potranno essere prodotti da laboratori cooperativi o comunitari; in cui le attività di produzione
potranno essere combinate con l’apprendimento e l’insegnamento, con la sperimentazione e la ricerca, con la creazione di nuovi gusti, profumi e materiali, con l’invenzione di
nuove forme e tecniche agricole, costruttive, mediche, etc.
I laboratori comunitari di autoproduzione saranno interconnessi su scala globale, potranno scambiare o mettere in
comune le rispettive esperienze, invenzioni, idee, scoperte.21
L’obiettivo di questa politica è ripensare territori, società,
istituzioni, produzione, oltre che la distribuzione della ricchezza, in un’ottica di relazioni federative, a rete, aperte alla
condivisione culturale e all’innovazione sociale. Il punto di
partenza di questa transizione verso una nuova forma di civiltà è chiaro ai soggetti che stiamo raccontando. Per usare
ancora le parole di Gorz, consapevoli del consenso che riscuotono anche in Italia: «l’impiego è una specie in via di
estinzione». Questo è il corollario che si affianca all’utopia
a tratti naïf dei makers digitali, nel loro divenire terminali di
un sistema di produzione che aspira al superamento della dicotomia marxiana tra capitale fisso e capitale variabile, tra
lavoro morto e lavoro vivo. Questa è la realtà del moderno
lavoro indipendente che vive la condizione del Quinto Stato.
Si tratta di decidere se abbandonare questi esempi alla transizione verso una società di disoccupati e indebitati oppure
rivendicarli quali testimonianze della capacità dei lavoratori
senza posto fisso da tutelare di elevarsi a principali artefici di
una nuova forma di socialità e di produzione.
La società del capitalismo cognitivo, oggi presa in ostaggio dalle politiche dell’austerità e del rigore finanziario delle
élites europee, non è la stessa che i teorici del comunismo o
206
III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ
del socialismo avevano sotto gli occhi mentre si interrogavano sul problema della transizione. La loro era una società
che usciva dalla guerra, che doveva riprendere la direzione di
un’accumulazione capitalistica basata sull’industria pesante e
manifatturiera, cercando di mettere al lavoro le classi sociali
fino ad allora escluse dallo sviluppo economico. La nostra
società è caratterizzata in tutt’altro modo. Così la descriveva
Gorz: «Oggi esistono molte più competenze, talenti e creatività di quanto l’economia capitalistica ne possa utilizzare:
questa eccedenza di risorse umane non può diventare produttiva se non in un’economia in cui la creazione di ricchezza
non sia sottomessa ai criteri della redditività».
Quello dell’uso, dell’impiego e della valorizzazione di
competenze eccedenti rispetto alla capacità di sfruttamento
del capitalismo e dello Stato è il problema fondamentale che
il Quinto Stato deve affrontare ogni giorno. Nessuna politica
dell’austerità, come del resto nemmeno quell’ideologia ormai
superata che elogiava retoricamente le potenzialità insite in una
«società della conoscenza», è in grado di impiegare questa eccedenza per creare una nuova accumulazione. In questo vuoto
di potere, e di reale capacità di sfruttamento, il Quinto Stato
potrebbe diventare l’artefice collettivo di un uso più razionale
delle risorse a disposizione e di quelle che potrebbero essere
procacciate in futuro. L’eccedenza di cui parla Gorz è una potenzialità a disposizione di chi vive e lavora nella nostra società,
non la prerogativa di chi possiede le macchine, una rendita, un
terreno oppure un’impresa di qualsiasi genere. Questo vuoto è
politicamente disabitato, ma è popolato da milioni di persone
che aspirano a definirlo secondo le possibilità che imparano
a riconoscere, giorno dopo giorno, a partire dalle loro attività
operose, dai limiti e dalle contraddizioni esistenti.
Gorz concludeva così il suo ragionamento: «Non dico
che queste trasformazioni radicali si realizzeranno. Dico solo
che, per la prima volta, possiamo volere che si realizzino».
Capitolo ventiduesimo
Community organizing
Nell’area metropolitana di Los Angeles, il sindacato radicale
Service Employees International Union (SEIU) lanciò nel
1990 la campagna Justice for Janitors, finalizzata al riconoscimento dei diritti sindacali degli addetti ai servizi di pulizia (per la maggior parte immigrati). La campagna, che permise di sindacalizzare sessantamila lavoratori e lavoratrici e
di firmare centinaia di contratti territoriali nell’area metropolitana, diede origine a iniziative gemelle in tutti gli Stati
Uniti. Questo modello di coalizione sindacale tra migranti
a maggioranza messicana e lavoratori «indigeni» oggi viene
considerato il prototipo del «sindacalismo a base multipla»
che dovrebbe utilizzare la solidarietà mutualistica presente
negli ambiti della vita quotidiana come leva per rafforzare la
coesione rivendicativa nei luoghi di lavoro.1
La questione è tornata a farsi attuale negli Stati Uniti dopo
il grande sciopero dei lavoratori migranti del 2006, i quali per
un giorno hanno bloccato New York e Chicago semplicemente astenendosi dalle loro attività. Queste nuove forme di
azione sindacale crescono in forza e complessità quando devono misurarsi con il territorio di una città e non con un luogo
di lavoro circoscritto, come la fabbrica tradizionale, o con la
trattativa contrattuale di una singola categoria. Organizzare
208
III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ
uno sciopero, condurre una vertenza o vincere una campagna
sindacale significa pensare a un altro modo di vivere la città.
Per un sindacato tradizionale, o per quelli di nuova generazione, questo progetto può funzionare a condizione che vi sia
un numero crescente di blocchi sociali coalizzati.2
Non essendo più possibile fare assegnamento sulle identità
di classe, o professionali, tipiche del lavoro salariato, e tanto
meno sul vecchio sindacato centralizzato e burocratico, il
territorio metropolitano emerge come protagonista di azioni
sindacali che sono al contempo atti di cittadinanza. Negli
scioperi del 1990, come in quelli del 2006, di pari passo con
l’incremento degli iscritti alle organizzazioni coinvolte seguì il
consolidamento di una coalizione che andava ben oltre i suoi
referenti diretti, coinvolgendo l’industria dei servizi e i lavoratori dell’indotto. Negli USA, la portata generale di queste
esperienze metropolitane permise di unire le comunità dei
migranti ai nativi americani in un solo community organizing.
Il community organizing è un metodo di concertazione sociale che mobilita coloro che sono insediati, e lavorano, su uno
o più territori. È un’azione di contro-potere fondata sui diritti
universali della persona, e non più solo ed esclusivamente sul
legittimo diritto al lavoro. Il rovesciamento è netto rispetto
all’idea di contrattazione sindacale che vige nel lavoro salariato o dipendente: è la persona, e i suoi diritti, a rappresentare l’istanza universale in cui si riconoscono i soggetti apolidi
e frammentati che vivono nella comunità meticcia, multiculturale e transnazionale delle metropoli contemporanee.
L’organizzazione delle comunità, il loro tradursi in coalizioni mobili e in divenire, è un elemento che ritroviamo in
molte lotte civili per la difesa del territorio e dei beni comuni
in Italia, dalla resistenza alle grandi opere – No TAV – alle
proteste contro le discariche a Napoli. Questa energia non è
stata ancora convogliata sul tema specifico della tutela dei diritti del lavoro, ma il metodo da seguire resta sempre lo stesso.
22. COMMUNITY ORGANIZING
209
Per Saul Alinsky, uno dei più grandi organizzatori di scioperi, e iniziative di contro-potere in ambito metropolitano,
del XX secolo, nonché innovatore della tradizione radicale
del sindacalismo americano, l’obiettivo era consolidare l’alleanza politica tra lavoratori manuali e precari con i «colletti
bianchi».3 Formulata nel 1946, questa tesi continua ancora
oggi a influenzare la strategia dei movimenti civili e le politiche di prossimità dei movimenti urbani.4
Nel metodo Alinsky vige il principio della diffusione del
potere sociale, non della sua concentrazione verticale. Questo
è un fattore determinante affinché si prospetti un diverso sviluppo dell’attuale sindacalismo, come anche della sua rappresentanza nel lavoro salariato. Sul territorio, la cooperazione
fra individui non segue più le filiere precostituite della solidarietà classista e operaia tra uguali ed esclusi, ma si dirige verso
le forme della solidarietà civile tra diversi e diseguali. Si tratta
dello stesso contesto in cui opera il coop capitalism, con la sua
idea che l’impresa deve soddisfare il benessere delle persone e
riscuotere il consenso delle comunità territoriali.
Nel community organizing emerge la necessità di rappresentare la vita operosa dei cittadini residenti, a prescindere
dal fatto che possiedano o meno la cittadinanza del Paese in
cui lavorano. Nella crisi del sindacalismo americano, come
oggi di quello italiano, Alinsky delineava un duplice indirizzo strategico: che il sindacato includesse individui provenienti dalle comunità locali, molto spesso cittadini non
statunitensi, ma anche che cambiasse radicalmente forma
incarnandosi nelle pratiche di autogoverno urbane, come in
quelle della cooperazione sul lavoro. Il teorico radicale americano coglieva così l’autentica natura del mutualismo: promuovere l’illimitatezza dell’associazione per raggiungere un
fine comune su un territorio.
210
III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ
Obiettivo del community organizing è creare punti di ritrovo,
organizzativi, culturali o professionali sui territori. Il medesimo obiettivo animava il movimento operaio ai suoi albori.
Con questo spirito il sindacato dovrebbe aprire oggi le sue
strutture territoriali ai lavoratori indipendenti e ai cittadini.
La stessa cosa dovrebbe avvenire nei contesti popolati dagli
attivisti sociali, dagli artisti, dai sindacati di base, dai movimenti e dall’associazionismo culturale. Sono in molti in Italia ad attendere un big bang culturale capace di modificare
i saldi principi delle identità predeterminate e i confini dei
rispettivi campi di intervento.
Pino Ferraris ha sottolineato l’importanza delle camere del
lavoro, e delle case del popolo, nell’organizzazione dei grandi
scioperi operai del «biennio rosso» a Torino tra il 1919 e il
1921. La capacità di stabilire un ponte tra la fabbrica occupata e la collettività fu decisiva nel consolidamento del potere
sociale dei consigli operai sulla città assediata dall’esercito.
Tale funzione connettiva tra lavoratori e disoccupati, precari
e sotto-occupati, operai e cittadini è ancora più importante
oggi nel Quinto Stato perché, come scrive Ferraris, questa
è la risposta che nasce là dove massima è la frammentazione,
la complicazione, l’incertezza dei profili professionali e delle
identità dei lavoratori. Essa si è rivelata come lo strumento
più efficace per mettere insieme ciò che è diviso, per ricomporre ciò che le trasformazioni economiche e tecnologiche
scompongono. La combinazione tra mestiere e territorio,
tra «affini» per lavoro e «vicini» per residenza non solo servì
per aggregare, ma ebbe un significato più profondo, cioè
quello di tenere uniti ambiti di lavoro e ambiti di vita, aiutando a vedere il lavoratore in carne ed ossa non solo come
un produttore ma come persona immersa nella completezza
della sua vita e dei suoi bisogni.5
I principi dell’illimitatezza dell’associazione, quelli della
cooperazione tra lavoratori e della condivisione mutualistica
22. COMMUNITY ORGANIZING
211
tra cittadini residenti, svincolano l’azione sociale dallo spazio
fisico, dischiudendo la dimensione virtuale delle comunità
in rete. In entrambi i casi, oggi è possibile proporre una convergenza dell’eterogeneo e del multiforme. Ieri convivevano
l’operaio stabile e professionale e il lavoratore stagionale, il
bracciante che faceva l’edile e la lavorante a domicilio. Oggi
possono agire insieme il professionista con partita IVA e la
badante, lo studente fuorisede e la casalinga impegnata in
un comitato di quartiere, il volontario e la piccola impresa
high-tech, il cittadino migrante che lavora in una fabbrica e
quello che ha aperto un esercizio commerciale. Alla nascita
del nuovo sindacato possono contribuire anche le piattaforme di crowdsourcing, mediante appelli lanciati in rete per
finanziare campagne contro il lavoro precario o sottopagato
o di sostegno a comitati di agitazione o di occupazione. Queste e altre tipologie di intrecci sono ormai alla portata di tutti
coloro che praticano l’autorganizzazione delle comunità.
Sono ancora in pochi a sapere che alla base di movimenti
come Occupy Wall Street vi è una consuetudine con le pratiche di community organizing da parte, tra gli altri, di insegnanti o educatori (per esempio Justin Wedes) inseriti da
lungo tempo nelle reti sociali cittadine e nazionali.6 Lo stesso
vale per Occupy Gezi a Istanbul. All’origine di questo straripante fenomeno che ha messo in seria difficoltà il governo
autoritario di Erdogan vi è infatti la battaglia dei comitati civici della metropoli turca a difesa del parco Gezi, nei pressi
di piazza Taksim, dalla speculazione immobiliare che sta divorando Istanbul. Un community organizer può essere anche
il leader di una comunità locale, oppure un religioso, come
l’Imam di Lione che organizza incontri settimanali di educazione civica rivolti ai giovani musulmani immigrati o residenti nelle periferie della città.7
Il community organizing si è dunque affermato su scala
mondiale. Esso affonda le sue radici nella tradizione del sin-
212
III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ
dacalismo rivoluzionario, e in particolare nelle vicende dei
lavoratori nomadi che, in Europa come negli Stati Uniti,
transitavano da una città all’altra alla ricerca di un ingaggio.
L’esperienza americana, insieme a quella francese, ha radicato il community organizing tra le comunità locali, in particolare nei ghetti, nei quartieri periferici e nelle banlieues.
Il community organizing non è solo una pratica civile, ma un
esercizio di costruzione della cittadinanza sociale che mira
all’unione degli umili, degli apolidi, dei professionisti e degli esperti, al servizio di uno scopo universale: l’integrazione,
l’opposizione alle politiche speculative urbane, la lotta per i
diritti dei non garantiti e dei non organizzati.
Il Movimento di Comunità, avviato da Adriano Olivetti con
la creazione dei Centri comunitari del Canavese nel 1949,
può essere considerato un altro esempio di community organizing. Improntato a criteri di giustizia sociale ed economica,
fu condizionato dal paternalismo del fondatore e dalla sua
visione organicista della comunità. Olivetti aveva bandito il
conflitto all’interno del suo movimento, mentre un’idea di
socialismo cristiano si stemperava nella percezione irenica
di una piccola patria. Al centro di questa utopia comunitaria c’era invece la fabbrica tecnologica (l’Olivetti appunto,
prima multinazionale italiana a produrre un personal computer nel 1964, il «Programma 101») e una visione dell’impresa
che miscelava efficienza taylorista e partecipazione diretta
degli operai alla produzione. Esperienze che hanno nutrito
alcune opere letterarie dei collaboratori di Olivetti: Ottiero
Ottieri con Donnarumma all’assalto (1959) e Paolo Volponi
con Memoriale (1962), per ricordare i più importanti.
Quando l’industriale di Ivrea provò a sottoporre la sua
proposta alla politica nazionale, e in particolare al PSIUP
dove ricopriva la carica di responsabile dell’urbanistica e
22. COMMUNITY ORGANIZING
213
dell’edilizia,8 fu pressoché ignorato. Le grandi speranze
della liberazione si erano già spente nel 1946, mentre lo
«Stato dei partiti» si andava configurando come il monopolista della politica. In compenso, Olivetti trovò un interlocutore in Massimo Severo Giannini, uno dei più grandi giuristi
italiani del Novecento e militante socialista. L’idea olivettiana di autogoverno trovò un’analogia con le strutture e le
procedure amministrative studiate dal giurista. Fuori dallo
Stato dei partiti, dal catto-comunismo, dall’asservimento
alle élites locali o nazionali o alla malavita, veniva formulata
una proposta che combinava autodeterminazione individuale e collettiva e scommetteva sulla fondazione di nuove
istituzioni per la partecipazione. Su queste basi Olivetti costruì nei vent’anni successivi un movimento che aprì sedi a
Treviso, Mestre, Potenza, Matera, Palermo, Roma e Milano.9
Voleva dimostrare che la politica di base poteva essere praticata tanto dagli imprenditori quanto dagli operai, al fine di
trasformare i territori e la qualità della vita.
Questo tentativo venne presto dimenticato, lasciando
rimpianti e una nostalgia tuttora diffusa, ma il suo modello
di organizzazione delle comunità è ritornato attuale dopo la
fine della Prima Repubblica e dei suoi partiti di massa, l’implosione del modello della grande fabbrica e dei distretti
d’impresa. Al centro di questa costruzione oggi non può
esserci la fabbrica alla cui razionalità civile e progressiva il
territorio deve conformarsi, ma la coalizione sociale su basi
democratiche tra classi e ceti diversi che era l’ingrediente
principale dell’utopia «comunitaria» olivettiana.
Questo è il quadro interclassista e interprofessionale, in
una parola di cittadinanza, nel quale si sta sviluppando il
community organizing nelle metropoli, come nei movimenti
territoriali. A differenza dell’utopia olivettiana, oggi il valore
fondante di queste comunità è l’impegno a indicare una razionalità alternativa nel governo dei territori e dell’economia.
214
III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ
Le coalizioni sociali del Quinto Stato nascono dall’occupazione, dal riuso o dalla riqualificazione degli immobili, dalla
reinvenzione delle vecchie camere del lavoro, dalle esperienze di coworking, dall’occupazione di un teatro o di un cinema, dalla creazione di reti dell’innovazione sociale o dalle
lotte delle associazioni che difendono un territorio.
In questa cornice, si può immaginare che un community
organizer proponga l’istituzione di una mutua, una campagna di crowdfunding, chieda ai membri di una coalizione di
investire le risorse accantonate in una o più reti di solidarietà
mutualistica e di finanziare la cassa per la disoccupazione
o per i periodi di non lavoro, una per gli infortuni, oppure
progetti a supporto della convivenza o della formazione.
Questo modello di autogestione delle risorse dal basso potrebbe favorire lo sviluppo e l’innovazione dei territori, dei
quartieri, delle città.
Il fare coalizione non può essere ridotto a un sistema di
consultazione delle popolazioni locali in merito a una variante urbanistica, all’uso dei fondi comunali o alla riqualificazione di un parco. Queste iniziative funzionano quando
assumono un carattere vincolante per tutti i livelli dell’amministrazione ed esprimono un potere collegiale delle cittadinanze coinvolte. Ciò sarà tanto più vero se le forme tradizionali di aggregazione tra cittadini, come i comitati civici o le
assemblee di quartiere, verranno accompagnate da istituzioni
derivanti dalla libera associazione tra lavoratori indipendenti.
Il community organizing serve a imporre una volontà
popolare dal basso e a facilitare l’adesione dei singoli e dei
gruppi a una rete di alleanze la più ampia possibile, non ad
alimentare il consenso delle forze politiche. Non è il prodotto della mediazione tra le istanze insorgenti della società
civile e la buona volontà degli eletti o dell’amministrazione.
Il community organizing pratica l’integrazione tra i singoli
dispersi su uno o più territori e promuove l’idea del con-
22. COMMUNITY ORGANIZING
215
flitto. Non bisogna tuttavia sottovalutare l’eventualità che il
conflitto possa esplodere anche tra i componenti di una coalizione. Senza contare che nelle nostre città esistono pratiche
come le occupazioni, e molte persone non sono disposte a
partecipare ad atti conflittuali.
Nei luoghi dove il nostro organizzatore svolge la sua attività possono coesistere condizioni giuridiche inconciliabili.
In questi casi, egli promuove la possibilità della collaborazione tra uno spazio occupato e uno «normale», sapendo
che per il primo è difficile partecipare a un bando nazionale
o europeo per ottenere un finanziamento, ad esempio. Ancora più delicate sono le situazioni che vedono protagoniste
le persone immigrate. Capita spesso di scontrarsi con il razzismo diffuso contro queste ultime, oppure che i differenti
interessi delle parti in causa entrino in conflitto impedendo
la definizione di un progetto condiviso.
Queste difficoltà non dovrebbero tuttavia scoraggiare la
ricerca della collaborazione. Anzi, l’eterogeneità di partenza
di una coalizione, tipica della società del Quinto Stato, può
costituire l’elemento virtuoso che ci spinge a iniziare un percorso o a immaginare un esperimento. Non importa allora la
formula giuridica che consentirebbe agli spazi di diventare
operativi, così come non dovrebbero essere determinanti
né lo status giuridico di una persona né la sua condizione
lavorativa. Nell’azione quotidiana di una coalizione, ci sarà
sempre la possibilità di stabilire sinergie tra spazi occupati,
in concessione, di proprietà o in affitto, così come è ormai diventata una regola l’agire di concerto tra persone che hanno
situazioni professionali diverse o sono precarie o disoccupate. Ciò che è davvero determinante è la qualità e le aspirazioni degli individui associati che animano tali esperimenti.
Il community organizer cerca un accordo tra le parti rispetto
a un obiettivo comune. La realizzazione di un microsistema
sociale, in cui confluiscono pratiche differenti volte a ripro-
216
III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ
durre la solidarietà attiva, è una ricchezza per tutti e può tornare utile in ogni momento.
Il punto più critico per chi fa community organizing è il
tempo. La buona volontà non basta, soprattutto in un’epoca di crisi dove il lavoro manca e la disperazione offusca
gli obiettivi di una coalizione. È da escludere che lo Stato
assuma assistenti sociali, né che altre realtà organizzate sul
territorio (come la Chiesa) mettano a disposizione educatori
professionisti o volontari. Il community organizing resta una
pratica informale che funziona quando le comunità di riferimento si muovono in autonomia e riescono a gestire i conflitti, contando sull’effetto moltiplicatore dell’esempio di chi
già lavora in maniera cooperativa.
Non sempre questo accade, anche perché quasi mai le
società si trovano in una fase «insorgente» e talvolta rinunciano persino a resistere. Occorre affrontare questo nodo
sulla scorta delle esperienze accumulate nel mondo del lavoro indipendente. Pur nei loro limiti, le economie collaborative affrontano giornalmente il problema della passività,
dell’opportunismo o della rinuncia da parte degli associati.
Ciò non toglie che i cowork o i fablab, così come le occupazioni e l’associazionismo diffuso, siano comunque il risultato
della determinazione di chi non vuole limitare la sua partecipazione all’intervento nel forum di un blog anche influente,
né vota una compagine parlamentare per ritirarsi nel sonno
dei giusti e degli incompresi nei cinque anni successivi.
L’ambito in cui essere immediatamente protagonisti è il
lavoro. Nella ricerca di un impiego, così come nella costruzione di spazi da destinare alla realizzazione di un progetto,
diventa subito chiara l’esigenza di allargare le proprie relazioni. In questo senso il community organizing è una pratica
di vitale importanza per chi opera nelle economie della condivisione. Spesso, infatti, le reti professionali non bastano a
soddisfare una domanda o a sviluppare le potenzialità insite
22. COMMUNITY ORGANIZING
217
in una determinata attività. È diffusa l’esigenza di portare
nella società questo lavoro organizzativo. In questi casi il
tempo impiegato corrisponde a quello dedicato alla creazione di reti, spazi e opere con persone che svolgono altre
professioni o gestiscono iniziative utili per l’attività di chi gestisce un cowork oppure ha un’idea imprenditoriale.
Il futuro delle coalizioni sociali non dipende dalla militanza politica, o dal senso civico di un volontario, ma dal
bisogno di svolgere al meglio il proprio lavoro oltre che
dalla convenienza di poter contare su una cospicua rete di
contatti. Questa è la ragione per cui i lavoratori della conoscenza, della cultura o della produzione immateriale occupano una posizione cruciale all’interno Quinto Stato.10
Un punto a favore della battaglia culturale del movimento
del community organizing è la capacità di produrre diritto e
di includere la cittadinanza nei processi partecipativi. Questo potere emerge nell’esperienze di occupazione di teatri,
cinema, atelier, o spazi culturali in Italia. In una città come
Roma, che annovera sperimentazioni simili con l’Angelo
Mai11 o il Nuovo Cinema Palazzo,12 il teatro Valle ha assunto
in due anni di occupazione (giugno 2011) l’aspetto di un’«esperienza di legalità costituente».13
In collaborazione con migliaia di soci che hanno aderito
e finanziato con un capitale iniziale di duecentocinquantamila euro la fondazione «Teatro Valle bene Comune», gli
occupanti hanno redatto uno statuto che stabilisce: la pienezza della sovranità assembleare che elabora decisioni con
il metodo del consenso, e non con quello della maggioranza;
la turnarietà delle cariche sociali (cioè il direttore artistico,
come il comitato dei garanti) e l’applicazione del principio
di collegialità esteso a ogni carica; l’azionariato diffuso, il
crowdfounding e l’utilizzo delle risorse pubbliche; e, infine, la
218
III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ
creazione di un fondo contro la disoccupazione, un altro per
i progetti, nell’ottica dell’autogoverno e della federazione tra
istituzioni autogestite.
Questi accorgimenti sono ancorati al dettato costituzionale, e in particolare all’articolo 43 che stabilisce la gestione
partecipata dei beni comuni da parte dei lavoratori e degli
utenti. Potrebbero essere applicati alla scuola, alle biblioteche, agli ospedali perché garantiscono la proprietà sociale su
beni inalienabili, rendendoli accessibili a tutti. Questa idea
ha ispirato artisti e lavoratori della cultura a Palermo, a Catania e Messina, a Napoli, a Milano, a Pisa o a Venezia.14
Sono esperienze nate anche per dare una risposta a un fenomeno che sembrava irreversibile. La deindustrializzazione, e la
crisi fiscale dello Stato, hanno provocato l’abbandono di migliaia di fabbriche ed edifici pubblici, mentre la speculazione
immobiliare, di comune accordo con gli enti locali, ha continuato a costruire abitazioni che restano sfitte o invendute. Le
occupazioni degli spazi abbandonati, molti dei quali vengono
privatizzati o concessi a canone agevolato alle imprese, hanno
infuso nuova linfa alla teoria degli usi civici, cioè al diritto
d’uso che spetta alle comunità dei residenti interessati alla riqualificazione, all’impiego sociale e produttivo di questi beni.
Oggi si parla di «usi civici metropolitani». Con questa definizione non si allude a un pascolo, un bosco o una valle, come
nell’antica teoria dei beni comuni, ma all’uso dei beni sottratti
alla speculazione immobiliare nell’interesse della cittadinanza.
Su questi spazi vige molto spesso il principio dell’inalienabilità
della proprietà privata. A esso viene contrapposto l’interesse
generale, che si manifesta nel recupero di una produzione
culturale, da gestire in maniera democratica, nella diffusione
della formazione professionale o nel diritto a godere di uno
spettacolo o di un’attività artistica a costi popolari.
I teatri occupati praticano un diritto collettivo e informale
evocato da tempo nelle metropoli contemporanee. Si tratta
22. COMMUNITY ORGANIZING
219
di un diritto fondamentale, inalienabile e imprescrittibile,
non soggetto a commercio né a negoziazione. Come tale
dovrebbe essere anche esercitato dagli amministratori che
intendono contrastare la desertificazione culturale o l’emergenza abitativa che affligge tutte le principali città italiane.
A questo diritto si è richiamata una sentenza della Corte
di Cassazione del 2009, che ha stabilito la legittimità della
scelta di quegli amministratori che hanno requisito decine
di appartamenti sfitti per assegnarle alle famiglie in cerca di
casa. Quello alla requisizione è un altro diritto propugnato
da chi oggi pratica gli usi civici metropolitani.
Questa particolare categoria di uso civico trova legittimazione in una sentenza del Tribunale civile di Roma a proposito dell’occupazione del Cinema Palazzo a San Lorenzo
(aprile 2011). L’immobile era destinato a ospitare un casinò
ed è stato occupato per evitare lo stravolgimento della vita
del quartiere oltre che la sua definitiva mercificazione. Il tribunale ha riconosciuto agli occupanti il ruolo di «possessori
qualificati di un bene» in base all’articolo 1170 del Codice
civile. Su queste basi è stata formulata anche la suggestione
di una «Libera Repubblica di San Lorenzo».15
La generalizzazione di questi risultati è auspicabile per la
definizione del community organizing. Il tratto comune delle
iniziative menzionate è dato dall’opera di alcuni soggetti che
svolgono il ruolo di «organizzatori di comunità», come nel
caso degli attivisti romani del teatro Valle o del Cinema Palazzo oppure quelli dei movimenti per il diritto all’abitare,
che hanno costituito un nuovo diritto, e una nuova «legalità», mettendoli a disposizione di chi ne ha bisogno.
L’affermazione di questo diritto implica il rovesciamento
del metodo tradizionale di affidamento degli spazi in vista
della realizzazione di un progetto. Di solito l’affidamento
avviene attraverso una graduatoria o un bando, concordato
dall’amministrazione con le associazioni più influenti in un
220
III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ
settore, anche in virtù della vicinanza, della collusione o
della corruzione dei dirigenti della prima e degli esponenti
delle seconde. In questi casi assistiamo invece a un atto politico, la cui utilità generale viene riconosciuta dalla legge
come dalla collettività. Si afferma così un’autonoma capacità di creare diritto e di autogovernarsi in base alle regole
stabilite da chi si impossessa di un bene e sceglie di coinvolgere la cittadinanza nell’uso dello stesso. Anche la pratica
dell’occupazione cambia di segno quando chi si assume la
responsabilità, e la fatica, di condurla la trasforma in un momento di produzione di statuti e regolamenti, in altre parole
di diritto e di norme di condotta che non servono solo all’autogestione dello spazio in sé, ma anche alla diffusione di un
potere collegiale che soddisfa un’utilità generale.
Nel Quinto Stato sta emergendo un diritto non statale, che nasce dall’elaborazione dell’intelligenza diffusa e
giunge alla definizione di un potere basato sulla proprietà
collettiva.16
Queste sono le premesse per parlare di un regime politico
che non è presente nella Costituzione italiana, ma viene esercitato ovunque, in maniera slegata, altre volte coordinata,
quasi sempre episodica. È il regime dell’autogoverno che
può essere generalizzato a partire dalle città in fermento e
utilizzato sia come risposta alla crisi, sia come opzione rispondente alle pulsioni autonomistiche del Quinto Stato.
Non si tratta solo di auspicare una possibilità astratta, ma
di praticare immediatamente una potenzialità che si esprime
ovunque nelle rivolte urbane come nel sapiente ricorso ai saperi di chi lotta per i beni comuni. Questo è possibile nei
teatri o nelle fabbriche occupate, ma non è difficile immaginare l’autogoverno delle scuole, degli ospedali, delle università e di tutti gli ambiti della vita associata e produttiva.
22. COMMUNITY ORGANIZING
221
Il luogo dove coltivare l’autogoverno è la città. La leva
che permette ai suoi abitanti di desiderare l’autogoverno,
o di riconoscerne la necessità, è il community organizing. In
questo modo, si definiscono le linee di sviluppo delle coalizioni sociali. Queste coalizioni sono reti associative temporanee e in divenire, non l’espressione di un «blocco storico».
Rispetto all’originale concetto di Antonio Gramsci – che per
blocco storico intendeva l’unità-base per la costruzione di
una sintesi tra gli opposti (i governanti e i governati) mediata
dagli «intellettuali» e dal partito di massa17–, il Quinto Stato
non sarà mai un soggetto monolitico e monoclasse unificato
dall’«ideologia» del proletariato industriale. Ciò appare con
evidenza nelle sue punte culturali più avanzate, nella sua
composizione sociale e nel ruolo degli «intellettuali» che
non sono organici più a nulla, se non forse a sé stessi, alle
loro corporazioni universitarie o ai salottini mainstream.
È altrettanto chiaro che la creazione di coalizioni, peraltro
attraversate da rivalità e individualismo che finiscono per isolare gli esponenti più attivi del Quinto Stato, non basta a consolidare una battaglia o a generalizzare una conquista. L’estrema
fluidità dell’associazionismo nella politica postdemocratica
non permette di affrontare di petto la debolezza politica del
Quinto Stato. In molti casi, il community organizing si risolve
in un lodevole volontarismo, oppure in una dispendiosa attività di intervento microfisico nella vita di quartiere. Insomma,
è l’altra faccia della delega alla politica di professione.
Dove si fonda allora la capacità di creare diritto, costruire nuove istituzioni e parlare agli interessi generali della
cittadinanza da parte del Quinto Stato? E qual è il motore
che permette a un nucleo qualificato di lavoratori culturali
e attivisti politici di conquistare un’egemonia, sia pure momentanea, nell’oceano della comunicazione ventiquattr’ore
su ventiquattro? La risposta a queste domande non può che
essere provvisoria, e dev’essere considerata una soluzione del
222
III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ
tutto ipotetica. Crediamo che il passaggio dall’autogestione
all’autodeterminazione avvenga quando le coalizioni si trasformano in consorzi di cittadinanza.
Questa idea di consorzio dev’essere distinta da quella di
consorzio amministrativo come da quella di consorzio commerciale che possono dotarsi di una personalità giuridica
pubblica o privata. Il consorzio di cittadinanza è un patto tra
persone, basato sul mutuo aiuto destinato a durare nel tempo
secondo la regola della reciproca obbligazione (obligatio in solidum). La sua origine risale al mutualismo, alle leghe e ai consigli operai. Il suo obiettivo è distinguersi dalle associazioni
corporative e dagli ordini professionali, in quanto soddisfa
l’interesse generale della cittadinanza, non quello dell’assemblea dove prevale la maggioranza degli interessi rappresentati.
I consorzi di cittadinanza non hanno finalità di lucro, ma uno
scopo politico: redistribuire il potere, i beni e le risorse in una
società di indebitati, dominata dalla speculazione finanziaria.
In questi consorzi, potrebbero confluire le coalizioni di
combattimento contro la precarietà, la malattia, o la mancanza di sicurezza previdenziale, così come quelle che si formano nelle città a difesa di un bene comune, nell’occupazione delle case o per la gestione del patrimonio pubblico.
In essi potrebbero trovare ospitalità anche le esperienze del
nuovo sindacalismo tra precari o migranti, senza escludere
la possibilità dell’adesione da parte degli ecosistemi del lavoro in condivisione o dell’innovazione sociale.
La forma consortile prevede una struttura basata su
un’assemblea, la turnarietà delle cariche affidate ai soci, e tra
i suoi compiti c’è la valorizzazione della pluralità dei soggetti
istituzionali e l’associazione tra le persone. Ha un carattere
volontario, e non coattivo, con una personalità giuridica che
non discende dal diritto commerciale come accade anche
per i consorzi tra le cooperative, bensì dall’articolo 43 della
Costituzione. Al di là dell’infrastruttura giuridica, che poco
22. COMMUNITY ORGANIZING
223
conta in questo caso, una simile formazione può aspirare a
un contro-potere reale nelle città e nei territori.
Più che il centralismo democratico, nei consorzi di cittadinanza vige la federazione tra istanze singolari. Più che
essere un blocco storico, il Quinto Stato dimostra la capacità di formare flussi consapevoli di decisione democratica
su tutti gli aspetti della vita. In questi casi, la mediazione
non verrebbe condotta da un’istanza trascendentale come il
partito, o gli intellettuali, bensì da una struttura aperta che
risponde a un controllo dal basso e si esprime attraverso
un’autonoma capacità di creare diritto e un potere comune.
Capitolo ventitreesimo
Il diritto alla città
Friedrich Engels intuì il concetto di urbanismo studiando la
pianta di Manchester.1 C’era una logica nell’apparente follia
che aveva mescolato costruzioni sbilenche con le villette a
schiera, affollando con sistematica ferocia persone, professioni e attività negli spazi della produzione giorno e notte.
Questa città era stata progettata per diventare una trappola
per topi. Giunto il momento dell’esplosione, quella muta
operosa sarebbe stata decimata dall’inquinamento dell’aria,
delle acque e degli spazi abitati.2 Come ogni città dove la vita
pulsa e trascorre, Manchester si è ribellata. Ci è voluto più di
un secolo affinché ciò avvenisse, quando nel 1976 iniziavano
a chiudere le fabbriche, la disoccupazione schizzava alle
stelle, l’eroina diventava la compagna di vita dei giovani proletari. Poi è arrivato un sussulto, le parole si sono accordate
alla musica. Era nata una visione.
La band si chiamava Joy Division, prodotto del sarcasmo
del front man Ian Curtis, proletario ventenne che al mattino
lavorava come assistente sociale e di notte spandeva la sua
voce misteriosa nella città spettrale. Frutto dell’incrocio tra
una visione malinconica tipica del romanticismo ottocentesco e l’estetica new wave, i Joy Division aggiunsero la loro
voce alla rivolta assoluta del post-punk contro il capitalismo,
226
III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ
la monarchia inglese, la città del dolore e della morte. Produssero solo due dischi, mirabili: Unknown Pleasures (1979)
e Closer, uscito un mese dopo il suicidio di Ian Curtis, avvenuto nella notte del 18 maggio 1980.
Intorno a questa disperata poesia nacque una comunità di
artisti, musicisti, grafici, reporter musicali, performer e creativi di tutte le razze. Era la Factory Records che produsse
i New Order, formazione nata dalle ceneri dei Joy Division.
C’erano le copertine realizzate da Peter Saville, che resteranno nella storia della grafica, e la produzione di Martin
Hannett, che metteva in risalto i bassi e la batteria. Manchester era il cuore della rivolta contro il capitalismo industriale
e il mainstream musicale. Ad alimentarla erano i figli delle
classi popolari, quelli degli immigrati di più generazioni, non,
come a lungo si è creduto, la neo-borghesia che avrebbe sussunto la loro spinta, imponendo una visione post-fordista di
questa città.Il fulcro del movimento dei quintari di Manchester era Tony Wilson, community organizer e agitatore situazionista nell’Inghilterra degli anni Sessanta. Con i proventi
della Factory Records nel 1982 aprì un locale che sarebbe divenuto celebre, Fac 51 Haçienda. Era una struttura circolare,
un tempio della musica elettronica in cui negli anni Ottanta
e Novanta si suonava acid house. Sul palco si alternavano gli
Smiths, i Chemical Brothers, gli Einstürzende Neubauten.
Tony Wilson aveva un progetto di città tratto dal Formulario
per un nuovo urbanismo di Gilles Ivain (pseudonimo di Ivan
Chtcheglov), scritto nei primi anni Cinquanta per l’Internazionale Lettrista e ripubblicato nel primo numero della rivista
Internazionale Situazionista (1958).
«Nelle città ci annoiamo, non c’è più il tempio del sole»,
scriveva Gilles Ivain, che lanciò lo slogan: «Bisogna costruire l’haçienda». Era questo il sogno di Tony Wilson quando,
dopo quasi trent’anni, la costruì a Manchester, città da lui
ribattezzata Madchester. Wilson voleva organizzare «la più
23. IL DIRITTO ALLA CITTÀ
227
grande festa del XIX secolo»,3 evocazione della Comune di
Parigi in salsa situazionista. Nella città più cupa d’Europa,
risultato della speculazione immobiliare e delle cartolarizzazioni finanziarie, il Quinto Stato iniziava così a riconfigurare
gli spazi e attirava a sé i lontani eredi delle provocazioni delle
avanguardie artistiche.
La prima manifestazione di questa «rivoluzione urbana»
era la festa continua che occupava i luoghi abbandonati
della città con i rave e i nuovi spazi di socializzazione come
l’Haçienda: 24 Hours Party People, questo è il titolo del film
che Michael Winterbottom ha dedicato nel 2002 alla Manchester di quegli anni. Il 14 luglio 1989 proprio lì morì la
sedicenne Clare Leighton dopo aver assunto una dose di
ecstasy, uno dei primi casi in un club inglese. Partì il gioco
al massacro tra repressione e depressione. The Haçienda diventò il terreno di scontro tra le forze dell’ordine e gli avventori della festa permanente fino alla sua definitiva chiusura
nel 1997. In seguito sarebbe stata trasformata in un complesso di appartamenti in affitto: la speculazione sarebbe
piombata come un avvoltoio sulle ceneri delle sperimentazioni dei quintari.
Contro l’urbanismo delirante delle «città spazzatura» – i
mostruosi aggregati descritti da Rem Koolhaas4 e cresciuti
anche nelle città deindustrializzate –, i movimenti politici
urbani hanno realizzato quella «festa del popolo» che Lenin
ravvisò nella Comune di Parigi. Tony Wilson conobbe questo
fermento rivoluzionario nel Sessantotto parigino e nei primi
anni Settanta lo vide espandersi nella Berlino che per un periodo ospitò David Bowie e Lou Reed. Anche nella capitale
tedesca della Guerra fredda si stava formando uno strano
proletariato al quale la sinistra avrebbe negato il riconoscimento di avanguardia politica e culturale. Subito dopo la caduta del Muro, il Quinto Stato occupò enormi fabbriche abbandonate come Tacheles riconvertendole nell’haçienda va-
228
III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ
gheggiata dai situazionisti. Così il geografo e urbanista David
Harvey ha descritto l’emersione di uno «strano proletariato»:
La maggior parte del suo lavoro è sempre stato temporaneo, insicuro, itinerante e precario. Molto spesso sfonda il
confine tra la produzione e la riproduzione. Nuove forme
di organizzazione sono assolutamente necessarie per questa
forza-lavoro che produce e, cosa ancora più importante, riproduce la città.5
Questa è il tratto che unisce gli artigiani e i lavoranti della
Comune di Parigi ai Joy Division di Manchester e alle occupazioni della Berlino post-Guerra fredda. Negli anni Ottanta, il Quinto Stato si sviluppa parallelamente all’investimento di capitale nelle attività dei servizi e nel terziario, e
alla crescita della percentuale di plusvalore investito nella
trasformazione urbanistica delle città. Nel Quinto Stato non
ci sono solo lavoratori della cultura o dell’arte, ma anche
gli addetti alla logistica o i venditori di strada immigrati, e
non sorprende scoprire l’esistenza di questa composizione
anche nelle remote città della Bolivia e dell’America Latina
all’inizio del XXI secolo. I clandestini dei rave, i protagonisti
dei riot contro i centri del consumo, gli occupanti delle case
fanno tutti parte di una forza lavoro refrattaria all’impiego,
sotto-occupata, ma avanzata nei consumi e negli stili di vita,
conflittuale oltremodo e capace di bloccare i flussi delle
merci e della costruzione degli eventi nelle città trasformate
in lazzaretti per i nuovi poveri, piovre urbanistiche che allargano i loro tentacoli fino a oscurare l’orizzonte.
Questi movimenti non sono riconducibili alla sfera ufficiale della «politica», né rientrano nei canoni del movimento
operaio. Non esprimono le potenzialità di un soggetto «rivoluzionario», né anticapitalista, o almeno non lo fanno in
partenza. Lo possono diventare perché costretti dalla speculazione urbana che sfratta interi quartieri, proibisce l’uso dei
23. IL DIRITTO ALLA CITTÀ
229
club o delle fabbriche in disuso per produrre musica o organizzare feste, nega il diritto a risiedere in una città restringendo gli spazi di libertà ed espropriando gli strumenti necessari alla sopravvivenza. Il Quinto Stato è il risultato della
negazione della cittadinanza a chi desidera abitare una città.
Ma è anche il risultato della fine della città, del suo progetto
di sviluppo razionale soppiantato dalle varianti postmoderne che fanno sfoggio di monumenti dedicati al nulla e di
piroette che sfidano la legge di gravità.
Oggi migliaia di sfrattati, precari, indigenti si fanno largo
e puntano verso i centri storici, persino quelli rimodellati
nella tonalità dell’illuminazione ocra dai piani Urban degli
anni Novanta. Hanno sconfitto i teorici che riconfigurarono
lo spazio urbano per una neoborghesia che non esiste più.
Il ciclo economico che pensavano di dominare è durato
troppo poco. Nel frattempo quei neoborghesi che aspiravano ad affittare appartamenti a prezzi stellari sono scomparsi o forse sono passati tra le file di chi occupa. Ovunque
si torna a parlare di «autogestione urbana».6 È la rivoluzione
contro la speculazione edilizia e la rendita fondiaria in cui
noi ci riprenderemo The Haçienda.
Il diritto alla città non rivendica la città così com’è oggi, ma
mira a realizzare una rivoluzione urbana che la sovverta a
partire dai luoghi abbandonati e reinventi nuovi strumenti
giuridici e amministrativi.7 Questo rapporto con la città non
è estraneo alla storia del mutualismo. Il mutualismo è infatti
l’espressione della cultura del municipalismo europeo, e in
particolare di quello repubblicano e civile italiano. Questa
pratica è ispirata al servizio (officium) che le comunità svolgevano a beneficio dell’intera cittadinanza. Rispetto alla sua
prima configurazione nel diritto romano, basato sul dovere
di assumere cariche pubbliche al servizio di una comunità
230
III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ
cittadina (munia capere) che imponeva a tutti – anche ai non
romani – il pagamento dei tributi e il servizio militare, la pratica del mutualismo emerge come «il senso del diritto e della
dignità civile», come scrisse Carlo Cattaneo nel 1858.8
Per questo teorico del federalismo e attivista dei moti insurrezionali di Milano «la città è l’unico principio per cui
possano i trenta secoli delle istorie italiane ridursi a esposizione evidente e continua». Questa è la tradizione secolare
che ha dato origine al mutualismo e al suo progetto riconfigurare la città sui bisogni dei lavoratori e dei cittadini nelle
società di mutuo soccorso. Quando parliamo di municipalità, e la mettiamo in relazione con l’esigenza di costruire
spazi (case del popolo, camere del lavoro, municipi autogestiti, proprietà sociali condivise), alludiamo alla dimensione
mutualistica cittadina che è stata la culla della storia italiana:
Senza questo filo ideale la memoria si smarrisce nel labirinto
delle conquiste, delle fazioni, delle guerre civili e nell’assidua composizione e scomposizione degli stati; la ragione
non può veder lume in una rapida alternativa di potenza e
debolezza, di virtù e corruttela, di senno e imbecillità, d’eleganza e barbarie, d’opulenza e desolazione; e l’animo ricade
contristato e oppresso dal sentimento d’una tetra fatalità.
Questa tradizione appartiene al «risorto incivilimento
italiano»9 diffuso nei municipi tra il X e il XII secolo. Max
Weber ha segnalato come esso abbia influenzato le classi
mercantili che fondarono in Olanda e in Germania le prime
città-Stato. Allora le città elaborarono un metodo di autogoverno contro l’Impero e le vessazioni fiscali a cui sottoponeva i sudditi. Su questo piano riscontriamo oggi una serie
di analogie con l’epoca della formazione delle municipalità
in tutta Europa. Con una differenza sostanziale: al posto
delle classi borghesi si trova il Quinto Stato. Il riferimento
al mutualismo, e quindi alla tradizione civile e repubblicana
23. IL DIRITTO ALLA CITTÀ
231
del municipalismo italiano, dà corpo e sostanza a un diritto
alla città rivendicato negli Stati Uniti come in America Latina, o nei paesi europei.
Ieri, come oggi, il diritto alla città è l’espressione di un
processo di costituzione civile distinto e antagonista rispetto
alle storie nazionali, sia quella costituzionale sia quella dell’identità culturale dello Stato-nazione, che può trovare vasti
campi di applicazione su scala continentale. Le aggregazioni,
favorite dal nuovo senso del diritto e della dignità civile, non
avvengono su base identitaria, ma a partire dal riconoscimento di un interesse comune alla protezione collettiva contro l’assetto economico e politico dell’austerità o della speculazione finanziaria e immobiliare. Questo è l’elemento che
accomuna, spingendole a costruire reti di relazioni, realtà
disseminate ed eterogenee che possono prefiggersi obiettivi
tra loro molto distanti, ma che si riferiscono tutte a valori di
carattere solidaristico, repubblicano, civile.
Il diritto alla città permette di configurare un modello di
autogoverno basato sulle municipalità e non solo sugli enti
locali. Per municipalità intendiamo lo spazio-tempo primario del conflitto tra i guardiani della città e gli apolidi che
osano esprimere una visione alternativa della politica. Parliamo di reti plastiche tra gruppi e imprese, tra movimenti
e nuove istituzioni nei territori e tra territori, anche lontani,
ma collegati in maniera continua, al di là del perimetro delle
città governate da un sindaco o quelli più ampi amministrati
da un presidente della regione. Questa è l’idea del divenire
contro la fissità indotta dalla governance europea che mobilita enormi capitali per finanziare mega-opere pubbliche
come le reti infrastrutturali, oppure le banche, le quali, a
loro volta, si rifiutano di erogare il credito ai territori. La
municipalità non è il soggetto di un’azione amministrativa,
ma una pratica diffusa del fare in comune. Essa traccia nuovi
ecosistemi istituzionali, mentre al suo interno cerca di supe-
232
III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ
rare la divisione tra i cittadini «di secondo livello» – gli apolidi del lavoro indipendente e i migranti di tutte le generazioni – e i «cittadini». Entrambi sono residenti e, in quanto
tali, hanno diritto a godere dei diritti civili e sociali del territorio prescelto. Ma solo i primi, gli espulsi dalla città del lavoro salariato, mostrano la strada del buon governo.
Questa impresa sfugge totalmente alla politica incardinata
sullo Stato-nazione, così come a quella basata sulla negoziazione tra lo Stato e le parti sociali (imprenditori-sindacati),
cioè sul «patto tra i produttori». Per avvicinarsi alla principale novità della politica contemporanea non basta nemmeno che ci si accontenti di creare patti territoriali, come se
il territorio fosse l’istanza autentica o concreta che rimedi
all’astrattezza della tecnocrazia europea. Le pratiche del
commoning, cioè dei beni comuni, quelle che derivano dal
community organizing, dal nuovo mutualismo e dalle economie della condivisione, sono tracce di un processo che
mira alla costituzionalizzazione delle sfere sociali fino a oggi
escluse dalla decisione politica.
Le pratiche descritte mostrano una tendenza nata negli
interstizi di una società prosciugata dallo Stato e dal Capitale, propongono un esperimento fino a ora riservato all’iniziativa autonoma delle imprese multinazionali: un «costituzionalismo senza Stato», dunque uno o più ecosistemi
istituzionali basati sulla co-progettazione e sull’autogoverno
che si moltiplicheranno man mano che la crisi continuerà a
devastare l’Europa. Non crediamo che queste siano esclusivamente pratiche di resistenza, ma che abbiano un valore
costituente che oltrepassi i territori. Per fare questo occorre
una pervasiva riforma interna agli stati, insieme alla revisione dei trattati europei. Non si tratta semplicemente di
un nostro auspicio, bensì di una realtà imposta dai fatti. Ci
23. IL DIRITTO ALLA CITTÀ
233
troviamo nel pieno di un processo costituente europeo dagli esiti ancora ignoti, dominato dalle fallimentari proposte
dell’austerità. Il 2014 è un ulteriore anno costituente nella
tensione tra Eurozona e Unione Europea, con l’elezione
dell’Europarlamento, la formazione della nuova Commissione europea e i semestri «mediterranei» di presidenza del
Consiglio europeo, guidati dalla Grecia e dall’Italia, paesi
sempre in bilico sull’orlo di una crisi di Eurolandia.
È all’ordine del giorno l’ipotesi di avviare il processo di
revisione dei trattati, anche tenendo conto che la Croazia è
diventata il ventottesimo Stato membro dell’Unione Europea e che un ulteriore processo di allargamento non potrà
avvenire prima del 2020. Secondo l’europarlamentare Andrew Duff, «il processo di emendamento dei trattati avrà
inizio con una Convenzione che aprirà probabilmente nel
febbraio 2015, continuerà con una Conferenza intergovernativa nel 2016 e si concluderà con le ratifiche dei ventotto
stati membri dell’Unione, secondo i propri requisiti costituzionali, nel 2017».10
In questa ulteriore crisi trasformativa del vecchio continente a nessuno conviene ripetere i fallimenti passati e quelli
attuali. Riscoprire il senso originario della municipalità,
oggi, significa predisporsi a un’unione politica continentale,
che non sia solo l’esito di un ritrovato equilibrio tra i soggetti tradizionali, parlamenti, governi, stati, e non va ricondotta agli imperativi del pareggio del bilancio o del taglio
del debito sovrano. I prossimi anni vedranno le cittadinanze
attive continuare a organizzarsi con la pretesa di contare sia
nei processi di governance sia nelle procedure decisionali
nell’ambito delle politiche pubbliche locali. A queste istanze
non basterà un supplemento d’anima; sarà invece necessario
rivendicare processi di democratizzazione, apertura, trasparenza e controllo dal basso dei meccanismi politici di decisione a livello nazionale ed europeo.
234
III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ
Per queste ragioni non bisogna rinunciare all’orizzonte
continentale, al contrario lo si dovrebbe rilanciare in una prospettiva federale. Si vuole trasformare il Consiglio dell’Unione
Europea nella Camera degli Stati. È stata auspicata una «parlamentarizzazione» della forma di governo dell’Unione Europea con l’elezione diretta del presidente della Commissione.
Allora si costituiscano le reti tra città, territori, spazi transfrontalieri e si realizzi l’ipotesi di un’Europa delle città e delle
autonomie come reali motori di processi parziali di federalizzazione infracontinentale. Se così fosse, le municipalità che si
organizzano sui territori europei riuscirebbero a influire sulle
deliberazioni dei parlamenti nazionali e di quello europeo.
La scommessa è sul federalismo come processo di frammentazione, controllo ed esercizio dal basso dei poteri, guidato dalla connessione tra sussidiarietà sociale e istituzionale
improntata a criteri di equità sociale, redistribuzione delle
ricchezze, perequazione economica. L’Europa delle città
in rete è il motore dell’Europa Felix a venire. È preferibile
all’Europa delle «macro-regioni» Catalogna, Provenza, Baviera, Lombardia, sostenuta dalla vecchia retorica anni Ottanta, prontamente ripresa nella paccottiglia etno-razzista del
leghismo declinante nel Nord Italia. La nuova Europa riparte
da un federalismo ricco di pesi e contrappesi, di autonomie
sociali e nuove istituzioni, una miscela inedita tra solidarietà,
autodeterminazione e condivisione che introduca finalmente
l’idea del contro-potere.
Si dirà che per fare tutto questo occorre una forza politica di
cui oggi non c’è traccia. Questa considerazione è fonte permanente di equivoci. Per avere una forza politica, bisogna
dotarsi di argomenti politici costituenti sui quali nessuna
formazione partitica può contare oggi. Esigerla dalle compagini politiche che hanno auspicato quella che Étienne Bali-
23. IL DIRITTO ALLA CITTÀ
235
bar ha definito la «rivoluzione dall’alto» dell’austerità è inutile, oltre che pericoloso.11 Abbandoniamo questi impostori
alla loro agonia e mettiamoci al lavoro per cogliere una tendenza. Per farlo avremo bisogno di generosi alleati. Insieme
condurremo una battaglia culturale che potrà durare anche
tutta la nostra vita. Sappiamo che non ci sarà tregua per chi
vuole mostrare che l’alternativa esiste e che bisogna sfuggire
allo sguardo di Medusa. Il generale disincanto indotto dai
governi delle «larghe intese», l’assopimento indotto dagli
psicofarmaci dei tecnici al governo, la loro depressione alimentata dai megafoni dell’opinione pubblica sono un’arma
mortale. Ripeteranno instancabilmente che il conflitto, il
mutualismo, l’autogoverno sono armi spuntate davanti agli
stati, alla Troika o agli austeri monetaristi che hanno in mano
il potere sul continente. Crediamo che siano altrettanto forti
i contropoteri nascenti, le vaste coalizioni e i tumulti contro
le congiure dei ricchi. Lo spazio continentale resta il luogo
dove imporre soluzioni fiscalmente espansive alla crisi che
vadano in direzione di un miglioramento netto e complessivo delle condizioni educative, lavorative, sociali della generazione precaria.12
Nello scontro che si prepara, il Quinto Stato è l’unica alternativa possibile.
Note
Introduzione. Atto di creazione
1. A. Artaud, Eliogabalo, o l’anarchico incoronato, Adelphi, Milano, 1991.
2. A. Arbasino, Super Eliogabalo, Adelphi, Milano, 1978.
3. M. Onfray, La politica del ribelle. Trattato di resistenza e insubordinazione, Fazi, Roma, 2008.
4. I. Ducasse conte di Lautréamont, I canti di Maldoror. Poesie.
Lettere, a cura di I. Margoni, Einaudi, Torino, 1989. Cfr. anche
R. Vaneigem, Isidore Ducasse e il Conte di Lautréamont nelle
poesie, Edizioni l’Affranchi, Salorino (CH), 1991, M. Blanchot,
Lautréamont e Sade, SE, Milano, 2003 e G. Bachelard, Lautréamont, a cura di F. Fimiani, Jaca book, Milano, 2009.
5. Cfr. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Laterza, Roma-Bari,
2001.
6. È la tesi di M. Foucault, Le gouvernement de soi et des autres,
Cours au Collège de France, 1982-1983, Gallimard-Seuil, Paris,
2008.
7. Cfr. J. Rancière, La méthode de l’égalité, entretien avec L. Jeanpierre et Dork Zabunyan, Bayard, Paris, 2012, p. 212.
238
NOTE
1. Apolidi
1. Cfr. É. Balibar, La cittadinanza, Bollati Boringhieri, Torino,
2012.
2. Lavoro indipendente
1. Cfr. C. Ranci, Il lavoro indipendente nella struttura sociale ed
economica nel nostro paese, in Id., Partita Iva. Il lavoro autonomo nella crisi italiana, Il Mulino, Bologna, 2012, pp. 41 e sgg.
2. Ci sono oltre undici milioni di lavoratori tra industria e servizi,
3,3 nel pubblico, un milione nelle costruzioni – buona parte dei
quali lavora con le stesse modalità degli indipendenti; il resto
nei servizi di cura alla persona.
3. Cfr. R. Ciccarelli, «Occorre investire sull,a conoscenza e sulla formazione dei lavoratori», intervista a Andrea Cammelli (Consorzio interuniversitario Almalaurea), in Roars, 8 luglio 2013, http://
www.roars.it/online/andrea-cammelli-occorre-investire-sulla-cono
scenza-e-sulla-formazione-dei-lavoratori/.
4. Cfr. ARAN, Rapporto semestrale sulle retribuzioni dei dipendenti pubblici, 9 aprile 2013, http://www.aranagenzia.it/attachments/article/5105/Rapporto%20Semestrale%202-2012.pdf.
3. Un movimento, non uno Stato
1. F. Camon, Il quinto stato, Garzanti, Milano, 1970, poi ripubblicato in Id., Romanzi della pianura. Il quinto stato. La vita eterna,
Garzanti, Milano, 1988. Le citazioni sono tratte dalla Prefazione, titolata Vent’anni dopo, p. 7.
2. Censis, 46° Rapporto sulla situazione sociale del Paese/2012.
3. Così M. Bascetta, G. Bronzini, Lo Statuto che non c’è, in Luogo
Comune, anno III, n. 4, giugno 1993, pp. 50-59.
4. Cfr. G. Allegri, La nuova grande trasformazione: il reddito garantito al di là del lavoro, in Basic Income Network Italia (a cura
di), Reddito per tutti. Un’utopia concreta per l’era globale, manifestolibri, Roma, 2009, pp. 58-71; G. Bronzini, Il reddito di
239
cittadinanza. Una proposta per l’Italia e per l’Europa, Edizioni
Gruppo Abele, Torino, 2011.
5. Cfr. G. Fofi, Introduzione a L. Bianciardi, L’integrazione, Bompiani, Milano, 1993, p. VII; non a caso Fofi prende le date di
pubblicazione de Il lavoro culturale (1957) e de La vita agra
(1962) di Luciano Bianciardi.
6. B. Moore jr., Le origini sociali della dittatura e della democrazia.
Proprietari e contadini nella formazione del mondo moderno, a
cura di D. Settembrini, con una nuova introduzione di L. Gallino, Edizioni di Comunità, Torino, 1998, p. 510.
7. Presentazione in Aa.Vv., Operai e stato, Feltrinelli, Milano, 1972,
p. 11.
8. L. Ferrajoli, La cultura giuridica nell’Italia del Novecento, Laterza, Roma-Bari, 1999, p. 63.
9. Per dirla con C. Offe, Lo Stato nel capitalismo maturo, Etas libri,
Milano, 1977; A. Bagnasco, Tre Italie. La problematica territoriale
dello sviluppo italiano, Il Mulino, Bologna, 1977. Sul postfordismo in prima battuta: A. Zanini, U. Fadini, Lessico postfordista.
Dizionario di idee della mutazione, Feltrinelli, Milano, 2001.
10. Il ciclo dei romanzi di Massimo Carlotto sull’Alligatore sono
particolarmente utili per raccontare questa imponente trasformazione del Veneto. Segnaliamo anche Ciao amore ciao e Nord Est.
11. Cfr. A. Bagnasco, Tre Italie, cit. e G. Beccatini, Distretti industriali e Made in Italy. Le basi socioculturali del nostro sviluppo.
Bollati Boringhieri, Torino, 1998.
NOTE
4. Ceto medio
1. Cfr. S. Bologna, L’undicesima tesi, in Ceti medi senza futuro?
Scritti, appunti sul lavoro e altro, Derive Approdi, Roma, 2007,
pp. 71 e sgg. Per la descrizione della «lower middle class», cfr.
A.J. Mayer, The lower middle class as historical problem, in The
Journal of Modern History, vol. 47, n. 3, 1975, pp. 409-436. Cfr.
A. Bagnasco, Società fuori squadra, Il Mulino, Bologna, 2003.
2. Great British Class Survey, sul sito della BBC: https://ssl.bbc.
co.uk/labuk/experiments/class. Cfr. S. Lyall, A new kind of class
struggle, in International Herald Tribune, 5 aprile 2013, p. 2.
240
NOTE
3. Cfr. G. Standing, Precari. La nuova classe esplosiva, Il Mulino,
Bologna, 2012.
4. Cfr. F. Parziale, Il professionista dipendente, Bonanno editore,
Napoli, 2008.
5. Cfr. D. Di Vico, I piccoli. La pancia del paese, Marsilio, Venezia,
2010.
6. Cfr. D. Banfi, S. Bologna, Vite da freelance, Feltrinelli, Milano
2011, in particolare il cap. II.
5. Topi nel formaggio
1. Cfr. P. Sylos-Labini, Saggio sulle classi sociali, Laterza, RomaBari, 1998. Cfr. A. Bagnasco, a cura di, Ceto medio. Perché e
come occuparsene, Il Mulino, Bologna, 2008; Cfr. S. Bologna, Il
nodo del lavoro autonomo, una recensione al libro di C. Ranci,
Partite Iva. Il lavoro autonomo nella crisi italiana, cit., ma che è
in realtà un lungo saggio leggibile sul sito www.lib21.org.
2. Cfr. Associazione XX maggio, Alta partecipazione, suggerimenti
al governo dal punto di vista dei giovani, dei lavoratori atipici, dei
professionisti, http://www.tutelareilavori.it/website/alta-partecipazione.
3. Cfr. ACTA, Manifesto dei lavoratori autonomi di seconda generazione, 2011, p. 22, http://www.scribd.com/doc/39877285/
Manifesto-dei-lavoratori-autonomi-di-seconda-generazione.
4. Cfr. IRES-CGIL, Professionisti, a quali condizioni, a cura di D.
Di Nunzio, G. Ferrucci, S. Leonardi, 03, 2011.
6. Insalata indigesta
1. Cfr C. Formenti, Grillo e il quinto stato, 20 dicembre 2012, in Alfabeta2, http://www.alfabeta2.it/2012/12/20/grillo-e-il-quintostato/; cfr. G. Santoro, Un grillo qualunque. Il movimento 5 stelle
e il populismo digitale nella crisi dei partiti italiani, Castevelcchi,
Roma, 2012. Cfr. R. Ciccarelli, Grillo sulle macerie dei movimenti,
intervista a Wu Ming, in il manifesto, 1 marzo 2013.
NOTE
241
7. Una società di lavoratori senza posto fisso
1. È il caso dell’omonima mailing list chiusa nel 2005 da Carlo
Formenti, che è tornato a riflettere su questa idea nel volume
Cybersoviet, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2008. Ed è il
caso dell’Associazione dei Consulenti del Terziario Avanzato
(ACTA) che dal 2004 ha realizzato anche una serie di eventi
pubblici, e di performance teatrali, dedicati al «Quinto Stato»,
cioè ai lavoratori della conoscenza a partita IVA non iscritti agli
ordini professionali.
2. W. Kraus, Il quinto stato, De Donato editore, Bari, 1968.
3. Cfr. R. Florida, L’ascesa della nuova classe creativa. Stile di vita,
valori e professioni, Mondadori, Milano, 2003.
4. Cfr. S. Bologna, A. Fumagalli (a cura di), Il lavoro autonomo di
seconda generazione. Scenari del postfordismo in Italia, Feltrinelli, Milano, 1997, in particolare S. Bologna, Dieci tesi per la
definizione di uno statuto del lavoro autonomo», ivi, pp. 13-42.
5. Cfr. Censis, La società italiana al 2011, 45° Rapporto sulla situazione sociale del Paese, capitolo VI.
6. Cfr. R. Ciccarelli, Il partito della fuga dei cervelli colpisce ancora, su
http://furiacervelli.blogspot.it/2012/12/il-partito-della-fuga-deicervelli.html; Id., Il cervello in fuga sarà il tuo, su: http://storify.
com/furiacervelli/brain-drain.; R. Ciccarelli, G. Allegri, La furia
dei cervelli, cit.
7. ISTAT, Anno 2012, disoccupati, inattivi, sottoccupati. Indicatori
complementari al tasso di disoccupazione, Bollettino 11 aprile
2013.
8. CGIL, La ripresa dell’anno dopo. Serve un Piano del Lavoro per
la crescita e l’occupazione, 2 giugno 2013.
9. Cfr. A. Bonomi, Capitalismo in-finito, Einaudi, Torino, 2013, p.
183.
10. Cfr. IRES-CGIL, Rete redattori precari e STRADE, Editoria invisibile, Chi sono i lavoratori precari che operano nel settore dell’editoria?, maggio 2013, http://editoriainvisibile.netsons.org/?page_
id=135; Cfr. Inchiesta Biblit sulle tariffe per le traduzioni in regime di diritto d’autore, a cura di M. Rullo, maggio 2013, http://
issuu.com/biblit/docs/inchiesta_biblit_tariffe_2011. Cfr. R. Cic-
242
NOTE
carelli, Non solo Casta: i precari dell’editoria, pubblicato su Micromega, http://temi.repubblica.it/micromega-online/non-solocasta-i-precari-dell’editoria/, e Bibliocartina, Editoria invisibile:
vivere per lavorare nell’editoria a qualunque costo?, http://www.
bibliocartina.it/editoria-invisibile-vivere-per-lavorare-nelleditoria-a-qualunque-costo-parte-i/.
11. Laureati e over 40 in corsa per fare i netturbini, in la Repubblica,
12 aprile 2013, p.10.
8. W i NEET!
1. Cfr. G. Allegri, R. Ciccarelli, Michel Martone, ritratto del Vice
Ministro che smentì Pietro Ichino, http://furiacervelli.blogspot.
it/2011/11/michel-martone-vince-pietro-ichino.html e R. Ciccarelli, Michel Martone, il verbale del concorso perfetto, http://
furiacervelli.blogspot.it/2012/01/michel-martone-il-verbale-delconcorso.html.
2. Cfr. R. Ciccarelli, Altro che «choosy», i laureati italiani sono figli
della bolla formativa, in Roars, 13 giugno 2013, http://www.roars.
it/online/altro-che-choosy-i-laureati-sono-figli-di-una-bolla-for
mativa/.
3. Cfr. S. Bologna, W i Neet, in il manifesto, 25 maggio 2013, ora
pubblicato sul blog http://furiacervelli.blogspot.it/2013/05/wi-neet.html.
4. Cfr. Hikikomori of the world unite, http://article.gmane.org/
gmane.culture.internet.rekombinant/2984.
5. Cfr. S. Bologna, Per un’antropologia del lavoratore autonomo, in
S. Bologna, A. Fumagalli (a cura di), Il lavoro autonomo di seconda generazione, cit., pp. 81-132.
6. Cfr. E. Lederer, Die Gesellschaft der Unselbständigen. Zum sozialpsychischen Habitus der Gegenwart, in Kapitalismus, Klassenstruktur und Probleme der Demokratie in Deutschland 19101940, Ausgewählte Aufsätze mit einem Beitrag von Hans Speier
und einer Bibliographie von Bernd Uhlmannsieck, (a cura di) J.
Kocka, Vandenhoeck § Ruprecht, Göttingen, 1979, pp. 14-32.
Id., Die ökonomische und soziale Bedeutung des Taylorsystems,
ivi, pp. 83-96. Per uno sguardo complessivo sulla sociologia del
NOTE
243
lavoro a Weimar, cfr. M. Salvati, Da Berlino a New York. Crisi
della classe media e futuro della democrazia nelle scienze sociali
degli Anni Trenta, Cappelli, Bologna, 1989.
7. Cfr. H. Speier, Die Angestellten vor dem Nationalsozialismus.
Ein Beitrag zum Verständnis der deutschen Sozialstruktur 19181933, Vandenhoeck § Ruprecht, Göttingen, 1977.
8. Cfr. K.-H. Roth, L’altro movimento operaio, Feltrinelli, Milano,
1976.
9. Diversamente occupate
1. Cfr. I. Alesso, Il Quinto Stato. Storie di donne, leggi e conquiste.
Dalla tutela alla democrazia paritaria, Milano, Franco Angeli,
2012, pp. 22-33.
2. Cfr. C. Morini, Per amore o per forza. Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo, Ombre Corte, Verona, 2011.
3. Si veda il blog: http://diversamenteoccupate.blogspot.it
4. Cfr. P. Ichino, Inchiesta sul lavoro. Perché non dobbiamo avere
paura di una grande riforma, Mondadori, Milano, 2011, pp. 95-96.
5. Cfr. M. Lazzarato, L’uomo indebitato, Derive Approdi, Roma,
2011, cap. I.
6. Cfr. il dibattito sulla rivista Critica Marxista, n.1 e 2-3 del 2012
con contributi, tra gli altri, di Mario Sai, Francesca Re David,
Eleonora Forenza e Antonia Tommasini.
10. Senza leggi, casa o fratria
1. Cfr. S. Rodotà, Il diritto ad avere diritti, Laterza, Roma-Bari,
2013, riprendendo la celebre frase di Hannah Arendt.
2. Cfr. J. Rancière, Il disaccordo, Meltemi, Roma, 2007; L. Chevalier, Classi lavoratrici e classi pericolose. Parigi nella rivoluzione
industriale, Laterza, Roma-Bari, 1976.
3. Cfr. L. Wacquant, Parias urbains. Ghetto, banlieues, Etat, La
Découverte, Paris, 2006.
4. R. Castel, La discrimination négative : Citoyens ou indigènes?
Seuil, Paris, 2007; G. Allegri, I fuochi «delle figlie e dei figli della
244
NOTE
République», dicembre 2005, http://www.centroriformastato.
it/crs/Testi/banlieues/allegri.html.
5. Cfr. A. Sayad, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato
alle sofferenze dell’immigrato, Raffaello Cortina Editore, Milano
2002; cfr. Id. L’immigrazione o i paradossi dell’alterità. L’illusione
del provvisorio, Ombre Corte, Verona, 2008.
6. Cfr. E. Ribert, Liberté, égalité, carte d’identité. Les jeunes issus de
l’immigration et l’appartenance nationale, La Découverte, Paris,
2006, cap. 5.
7. Cfr. É. Balibar, Uprisings in the banlieues, in Lignes, n. 21, novembre 2006; Id., Droit de cité, PUF, Paris, 1998. Cfr. R. Ciccarelli, Alle frontiere dell’apartheid, intervista a É. Balibar, in il
manifesto, 22 novembre 2005, p. 12.
11. Il potere comune
1. J. Rancière, La haine de la démocratie, La fabrique éditions, Paris, 2005, p. 59. Preferiamo citare dall’originale francese e non
dall’edizione italiana in cui il titolo del volume è stato tradotto,
in maniera sintomatica, con «L’odio per la democrazia».
12. La congiura dei ricchi
1. Cfr. R. Ciccarelli, G. Allegri, La furia dei cervelli, cit., p. 35.
2. E.P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, Il Saggiatore, Milano, 1968.
3. E. Ilardi, Il senso della posizione. Romanzo, media e metropoli da
Balzac a Ballard, Meltemi, Roma, 2005.
4. R. de la Bretonne, Le notti di Parigi o lo spettatore notturno, a
cura di A.M. Scaiola, Prefazione di G. Macchia, Editori Riuniti,
1996.
5. Così viene descritta Parigi alla metà del XIX secolo: T.J. Clark,
Immagine del popolo. Gustave Courbet e la rivoluzione del ’48,
Einaudi, Torino, 1978, spec. pp. 140-142.
6. L. Chevalier, Classi lavoratrici e classi pericolose. Parigi nella rivoluzione industriale, Laterza, Roma-Bari, 1976.
NOTE
245
7. E.J. Hobsbawm, I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, Einaudi, Torino, 1980; Id., I banditi. Il banditismo sociale nell’età
moderna, Einaudi, Torino, 1971. C.B. Macpherson, Libertà e
proprietà alle origini del pensiero borghese. La teoria dell’individualismo possessivo da Hobbes a Locke, prefazione di A. Negri,
ISEDI, Milano, 1973.
8. R. Rotelli, P.A. Schiera (a cura di), Lo Stato moderno. Volume 3.
Accentramento e rivolte, Il Mulino, Bologna, 1977; H. Kamen,
Il secolo di ferro. 1550/1660, Laterza, Roma-Bari, 1985.
9. Come titola l’importante libro di V. Foa, La Gerusalemme rimandata. Domande di oggi agli inglesi di ieri, Rosenberg & Sellier, Milano, 1985.
13. «Che i soci siano illimitati»
1. Cfr. E.P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in
Inghilterra, cit., p. 19.
2. E. Larkin, Thomas Paine and the Literature of Revolution, Cambridge University Press, 2005.
3. Cit. in G.D.H. Cole, Storia del movimento operaio inglese, Bonetti, Milano,1965, vol. I, p. 55.
4. K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino, 2010.
5. C.B. Macpherson, Libertà e proprietà alle origini del pensiero
borghese., cit., p. 179.
14. «Agiamo tutti all’unisono»
1. Cfr. L.-P. Dufourny de Villiers, Cahiers du quatrième ordre, celui
des pauvres journaliers, des infirmes, des indigents, etc., l’ordre
sacré des infortunés ; ou correspondance philanthropique entre
les infortunés, les hommes sensibles, et les etats-généraux. n. 1,
Paris, 25 Avril 1789, ripubblicato da Edhis, Paris, 1967.
2. Come osserva A. Badiou (La Comune di Parigi. Una dichiarazione politica sulla politica, trad. it di A. Moscati, Cronopio, Napoli, 2004, p. 62), sarà l’insurrezione del 18 marzo 1871, «l’evento», che porterà a «un’esistenza politica, provvisoriamente
massima, gli operai inesistenti il giorno prima».
246
NOTE
3. R. Korngold, Robespierre e il quarto stato, trad. it. di F. Papa,
Einaudi, Torino, 1947.
4. D. Roche (a cura di), Così parlò Ménétra, trad. it. di L. Bianchi,
prefazione di B. Craveri, Garzanti, Milano, 1992.
5. Cfr. Prefazione di B. Craveri, in D. Roche (a cura di), Così parlò
Ménétra, cit., p. 10.
6. Ivi, p. 317.
7. Ivi, p. 326.
8. R. Darnton, Working-Class Casanova, in The New York Review
of Books, Jun 28, 1984, vol. 31, n. 11, pp. 32-37.
15. Cospiratori dell’uguaglianza
1. F. Buonarroti, Analyse de la doctrine de Babeuf, in Ph. Buonarroti, Conspiration pour l’Egalité dite de Babeuf, 1828, riportata
in A. Salsano (a cura di), Antologia del pensiero socialista. I precursori, Laterza, Roma-Bari, 1979, spec. p. 13 e sgg.
2. J.-A.C. de Condorcet, Elogio dell’istruzione pubblica, trad. it. di
G. Jacoviello, introduzione di M. Bascetta, manifestolibri, 2002,
p. 39.
3. Per riprendere R. La Capria, Letteratura e libertà. Conversazioni
con Emanuele Trevi, Quiritta, Roma, 2002, p. 12 e soprattutto
L’armonia perduta, Mondadori, Milano, 1986, con pagine indimenticabili che dal 1647 di Masaniello giungono alla sanguinosa
repressione della Repubblica napoletana del 1799. Eleonora de
Fonseca Pimentel, protagonista della Repubblica napoletana,
con il brutale ritorno dei Borboni finirà impiccata in piazza Mercato il 20 agosto 1799 (sulla sua figura cfr. E. Striano, Il resto di
niente, Rizzoli, Milano, 1986); è stata la principale «cronista»,
animatrice e promotrice del Monitore napoletano, quest’ultimo
voce e anima della Repubblica napoletana: cfr. Il monitore napoletano, a cura di M. Battaglini, Alfredo Guida Editore, Napoli,
1999.
4. Cfr. F. Venturi, Settecento riformatore, I-V voll., Einaudi, Torino, 1970-90.
5. A. Galante Garrone, Filippo Buonarroti e i rivoluzionari dell’Ottocento (1828-1837), Einaudi, Torino, 1972, spec. pp. 286 e sgg.
NOTE
247
6. Cfr. A. Saitta, Filippo Buonarroti. Contributi alla storia della sua
vita e del suo pensiero, vol. I, Edizioni di Storia e Letteratura,
Roma, 1950, p. 134.
7. Così il titolo della traduzione italiana di Shifting Involvements.
Private Interest and Public Action, di A.O. Hirschman, Felicità
privata e felicità pubblica, Il Mulino, Bologna, 2003. Su Thomas
Jefferson, M. Barbato, Thomas Jefferson o della felicità, Sellerio,
Palermo, 1999, in cui è tradotta anche la Autobiografia di Jefferson (pp. 93 e sgg.). M. Abensour, Lire Saint-Just, in A.-L. de
Saint-Just, Œuvres complètes, Gallimard, Paris, 2004.
8. Cfr. J. Rancière, La nuit des prolétaires, Fayard, Paris, 1981.
9. Cfr. K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, Editori Riuniti, Roma, 1962.
10. P. Ferraris, Cittadinanza e mutualismo, in Una città, n. 132, ottobre 2005.
11. V.L. Parrington, Storia della cultura americana. I. Il pensiero coloniale 1620-1800, ed. it. a cura di R. Giammacco, Einaudi, Torino,
1969, spec. pp. 417 e sgg. Cfr. anche G.M. Bravo (a cura di), Il socialismo prima di Marx, Editori Riuniti, Roma, 1973, pp. 23 e sgg.
sul rapporto tra associazioni repubblicane, socialiste e operaie.
16. Il cenobita, il filadelfo e il quintario
1. Cfr. J. Rancière, Louis Gabriel Gauny – Le Philosophe plébéien,
éditions Presses universitaires de Vincennes/La Découverte,
Paris, 1983.
2. Per la genealogia del lavoro indipendente come vita cinica, cfr.
R. Ciccarelli, La vita indipendente. Sul contratto intimo e altre
schiavitù del lavoro della conoscenza, in Aa.Vv., Dire, fare, pensare il presente, Quodlibet, Macerata 2011, pp. 39-67; cfr. R.
Ciccarelli, G. Allegri, La furia dei cervelli, cit., cap. VII.
3. Cfr. S. Ferrone, Attori mercanti corsari. La commedia dell’Arte
in Europa tra Cinque e Seicento, Einaudi, Torino, 2011.
4. Per il concetto di «popolo a venire», cfr. G. Deleuze, Critica e
clinica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1997, p.17; cfr. anche Id., Immagine-tempo, Ubu libri, Milano, 1985.
248
NOTE
5. Cfr. C. Dumoulié, Letteratura e filosofia, Armando editore, Milano, 2009, pp. 250 e sgg.
6. Il diario del Tour di Flora Tristan è stato pubblicato postumo:
F. Tristan, Le Tour de France. Journal 1843-1844, François Maspero/La Découverte, Paris, 1980, 2 voll. F. Tristan, Femminismo e socialismo: l’unione operaia, a cura di S. Bordini, Guaraldi, Firenze, 1976. Sull’attualità di Flora Tristan si veda, di
recente, M. Onfray, Politiche della felicità. Controstoria della
filosofia V, Ponte alle Grazie, Milano, 2012, pp. 19 e sgg. Su
Flora Tristan, in lettura incrociata con la vita di suo nipote Paul
Gauguin, c’è il bel romanzo di M. Vargas Llosa, Il paradiso è
altrove, Einaudi, Torino, 2003.
7. J.-L. Puech, La vie et l’œuvre de Flora Tristan 1803-1844, Librairie Marcel Rivière, Paris, 1925, pp. 394 e sgg.
17. Una sola, grande unione
1. Cfr. L. Blanc, L’organisation du travail, V edizione rivista e corretta dall’autore, 1847.
2. A. Badiou, La Comune di Parigi, cit., p. 33.
3. Cfr. J. Rancière, La nuit des prolétaires, cit., pp. 336 e sgg.
4. Cfr. Ibidem.
5. Così G. Gurvitch, La nascita dell’idea di «diritto economico» e di
«democrazia industriale» in Proudhon, cit. in R. Supek, Socialismo e autogestione, La Pietra, Milano, 1978, pp. 74-77.
6. R. Dreyfus, Vies des hommes obscurs. Alexandre Weill, ou le
prophète du Faubourg Saint-Honoré: 1811-1899, Cahiers de la
quinzaine, Paris, 1908.
7. Su questo crinale delle vicende francesi e non solo si vedano molti
degli scritti di Pierre Rosanvallon, dal classico L’État en France
de 1789 à nos jours, Éditions du Seuil, Paris, 1990, al recente La
Société des égaux, Le Seuil, 2011, passando per gli scritti sull’autogestione (1976) e La nouvelle question sociale. Repenser l’Étatprovidence, Le Éditions du Seuil, Paris, 1995. Sul rapporto tra
Stato e società in Francia cfr. il classico lavoro di P. Legendre,
Stato e società in Francia, Edizioni di Comunità, Milano, 1978.
NOTE
249
8. Documento pubblicato in R. Supek, Socialismo e autogestione,
cit., p. 85.
9. A. Badiou, La Comune di Parigi, cit., p. 65.
10. M. Novarino, Tra squadra e compasso e Sol dell’avvenire. Influenze massoniche sulla nascita del socialismo italiano, Università popola di Torino Editore, Torino, 2013. D. Guérin, Né Dio,
né padrone, Jaca Book, Milano, 1971.
11. Cfr. R. Allio, Società di mutuo soccorso in Piemonte 1850-1880,
Deputazione subalpina di storia patria, Torino, 1980.
12. P. Dogliani, Un laboratorio di socialismo municipale. La Francia
(1870-1920), Franco Angeli, Milano, pp. 44 e sgg.
13. Ivi, pp. 223 e sgg.
14. Cfr. D. Marucco, Il mutuo soccorso fra tradizione corporativa
e cultura solidaristica, in Cent’anni di solidarietà. Le società di
mutuo soccorso piemontesi dalle origini, Torino, 1989, vol. I, pp.
61 e sgg.
15. Per la descrizione del funzionamento, oltre che della storia e
dello spirito del mutualismo italiano, cfr. D. Marucco, Teoria
e pratica dell’autonomia nel mutualismo dell’Ottocento, Parole
Chiave, Roma, 1991, pp. 45-61.
18. Ritorno al futuro
1. Cfr. P. Rosanvallon, La société des egaux, Seuil, Paris, 2011; J.
Stiglitz, Il prezzo della diseguaglianza. Come la società divisa di
oggi minaccia il nostro futuro, Einaudi, Torino, 2013; A. Baranes, Finanza per indignati, Ponte alle Grazie, Milano, 2012;
L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, intervista a
cura di P. Borgna, Laterza, Roma-Bari, 2012. Per un quadro
esaustivo di tutti gli aspetti della crisi globale, e italiana in particolare, cfr. Rapporto sui diritti globali 2013, a cura di S. Segio,
Ediesse, Roma, 2013.
2. O. Gnocchi-Viani, Dieci anni di Camere del lavoro e altri scritti
sul sindacato italiano. 1889-1899, con un saggio introduttivo di
P. Ferraris, Ediesse, Roma, 1995. Su Osvaldo Gnocchi-Viani
(1837-1917) si veda M. Novarino, Tra squadra e compasso e Sol
250
NOTE
dell’avvenire. Influenze massoniche sulla nascita del socialismo
italiano, cit.
20. Coop capitalism
1. Cfr. N. Hertz, A post-luxe era needs co-op capitalism, su http://www.
wired.co.uk/magazine/archive/2012/04/ideas-bank/noreena-hertz.
2. D. Cohen, Homo economicus, prophète (égaré) des temps nouveaux, Albin Michel, Paris, 2012.
3. Cfr. R. Murray J. Caulier Grice, G. Mulgan, Il libro bianco
dell’innovazione sociale, a cura di A. Giordano, A. Arvidsson,
scaricabile da http://www.societing.org/wp-content/uploads/
Open-Book.pdf.
4. www.thesupporteconomy.com.
5. Cfr. N. Rose, Politiche della vita, Einaudi, Torino, 2010.
6. S. Horowitz, The Dream of the 1890s: Why Old Mutualism Is Making a New Comeback, in The Atlantic, 13 marzo 2012, http://
www.theatlantic.com/business/archive/2012/03/the-dream-ofthe-1890s-why-old-mutualism-is-making-a-new-comeback/254175/.
Per un profilo di Sarah Horowitz e della Freelancers Union, cfr.
R. Ciccarelli, G. Allegri, La furia dei cervelli, cit.
7. http://www.ncba.coop/ncba/about-co-ops.
8. http://www.kickstarter.com.
9. http://www.etsy.com/about?ref=ft_about.
10. Cfr. U. Mattei, Manifesto per i beni comuni, Laterza, Roma-Bari,
2011 e S. Rodotà, Il diritto ad avere diritti, cit. Cfr. M.R. Marella
(a cura di), Oltre il pubblico e il privato, Ombre Corte, Verona,
2012 e S. Chignola (a cura di), Il diritto del comune. Crisi della
sovranità, proprietà e nuovi poteri costituenti, Ombre Corte, Verona, 2012. Cfr. S. Settis, Azione popolare, Einaudi, Torino, 2013.
21. Ecosistemi
1. Il manifesto ODEI: http://odei.altervista.org/wp/odei-il-manifesto/.
2. http://coworkingproject.com/.
NOTE
251
3. http://www.the-hub.net/; a Roma: http://www.hubroma.net/; a
Milano: https://milan.the-hub.net/; in Sicilia: http://thehubsicilia.net/.
4. http://www.coworkingpalermo.net/.
5. http://www.lab121.org/.
6. http://www.toolboxoffice.it/.
7. http://www.spqwork.com/index.html.
8. Cfr. Alessandro Gazoia (Jumpinshark), Ho vent’anni. Non lascerò dire a nessuno che sono uno startupper, su http://jumpinshark.blogspot.it/2012/03/ho-ventanni-non-lascero-direnessuno.html. Cfr. Leonardo Bianchi (Blicero), Giovani e lavoro: basta lamentarsi. Andate a zappare, su http://www.valigiablu.it/giovani-e-lavoro-basta-lamentarsi-andate-a-zappare/.
9. FabLab Firenze: http://fablabfirenze.org e FabLab Torino:
www.fablabtorino.org
10. Cfr. C. Anderson, Makers. Il ritorno dei produttori, Rizzoli, Milano, 2013. Cfr. R. De Luna, Cambiamo tutto! La rivoluzione
degli innovatori, Laterza, Roma-Bari, 2013. Si veda anche T. Ingold, Making. Anthropology, archaeology, art and architecture,
Routledge, Abingdon, 2013.
11. Si veda http://blog.makezine.com/arduino/ e http://www.arduino.cc.
12. Il movimento dei makers si sta diffondendo anche in Francia:
cfr. F. Joignot, Fabrique-moi un mouton, Culture&Idées, in Le
Monde, 6 aprile 2013, pp. 1, 4-5.
13. Si veda lo slideshare di Massimo Carraro, Cowo Network,
Ecomondo, Rimini, 9 novembre 2011, http://www.slideshare.
net/coworkingcowo/smartcities-cowo
14. Cfr. i siti www.democraziakmzero.it e www.comune.info.it.
15. D. Banfi, S. Bologna, Vite da freelance, cit.
16. Cfr. Indagine Plus-il mondo del lavoro tra forma e sostanza –
terza annualità, a cura di E. Mandrone, D. Radicchia, ISFOL,
Roma, 2012.
17. Come OfficineZero (OZ), ex fabbrica-officina delle ferrovie italiane nel quartiere Portonaccio a Roma, occupata dai lavoratori
messi in cassa integrazione dal privato che ha rilevato l’azienda,
insieme ai freelance e al precariato del lavoro della conoscenza.
252
NOTE
Il progetto di OfficineZero prevede la creazione di un ambiente
di coworking finalizzato alla ripresa delle attività della fabbrica
nell’ambito del riuso e del riciclo degli elettrodomestici usati. A
Milano esiste l’esperienza della Ri-Maflow, dove i lavoratori cassintegrati si sono costituiti in una cooperativa che ha scelto di dedicarsi alle finalità di mutuo soccorso tra i lavoratori. Il loro sito è
http://www.rimaflow.it. Molte altre esperienze simili esistono in
Grecia o in Spagna e in alcuni casi l’autogestione riguarda anche
ospedali dismessi dai tagli e dalle spending review.
18. http://www.seats2meet.com.
19. Maria Grusauskas, The Future of Coworking is Free and Augmented, http://www.shareable.net/blog/the-future-of-coworking-is-free-and-augmented.
20. D. Suvin A tractate on self-management and dis/alienation in
S.F.R. Yugoslavia (1945-74), inedito. Ringraziamo l’autore per
averci dato la possibilità di consultare questo testo.
21. A. Gorz, L’uscita dal capitalismo è già cominciata, in Id., Ecologica, Jaca Book, Milano, 2009, p. 42. Cfr. U. Fadini, Il futuro incerto. Soggetti e istituzioni nella metamorfosi del contemporaneo,
Ombre Corte, Verona, 2013, pp. 30 e sgg.
22. Community organizing
1. Cfr. A. Coppola, Lezioni americane. Ovvero come rilanciare il
sindacato facendone un movimento sociale, in Giovani non più
disposti a tutto – CGIL, Organizzare i non organizzati. Idee ed
esperienze per il sindacato che verrà, Supplemento al n. 12/2013
di Rassegna Sindacale, Roma, 2013, pp. 17-24.
2. Cfr. B. Fletcher, F. Gapasin, Solidarity Divided: The Crisis in Organized Labor and a New Path Toward Social Justice, University
of California Press, Berkeley, 2008, p.174.
3. Cfr. S. Alinsky, Rules for Radicals, Vintage Books, New York, 1989.
4. Cfr. A. Gorz, Miserie del presente, ricchezza del possibile, manifestolibri, Roma, 1998; A. Touraine, La société post-industrielle,
Denoël, Paris, 1969; Id., Critica della modernità, Il Saggiatore,
Milano, 1993. Cfr. M. Castells, The City and the Grassroots: A
Cross-cultural Theory of Urban Social Movements, University of
NOTE
253
California Press, Berkeley, 1983; Id., L’Età dell’informazione.
Economia, società, cultura, Università Bocconi Editore, Milano,
2001.
5. P. Ferraris, intervista a G. Saporetti, in Una città, cit.
6. www.justinwedes.com.
7. Cfr. J. Donzelot, La france des cités: le chantier de la citoyenneté,
Fayard, Parigi, 2013; Id. (con C. Mével e A. Wyvekens), Faire
société. La politique de la ville aux Etats-Unis et en France, Seuil,
Paris, 2004.
8. Cfr. A. Buratti, Adriano Olivetti e L’ordine politico delle Comunità: un progetto scomodo in cerca di interlocutori, in A. Buratti e
M. Fioravanti (a cura di), Costituenti ombra. Altri luoghi e altre
figure della cultura politica italiana (1943-1948), Carocci, Roma,
2010, pp. 98-109.
9. A. Olivetti, Il cammino della comunità, Movimento di Comunità, Ivrea, 1956, pp. 21-22.
10. Negli anni Novanta, si cercò di ripensare l’esperienza delle camere del lavoro nel postfordismo in Immaterial Works of the
World, Che te lo dico a fare?, in DeriveApprodi, n. 18, 1999, pp.
28 e sgg. Cfr. M. Bascetta, G. Bronzini, Lo Statuto che non c’è, in
Luogo Comune, anno III, n. 4, giugno 1993, pp. 50-59. Per il richiamo alla tradizione Wobblies degli Industrial Workers of the
World, cfr. B. Cartosio (a cura di), Wobbly! L’Industrial Workers
of the World e il suo tempo, Shake Edizioni Underground, Milano, 2007; cfr. W. D. Haywood, Big Bill. L’autobiografia di un
rivoluzionario americano fondatore degli IWW, prefazione di B.
Cartosio, manifestolibri, Roma, 2004.
11. www.angelomai.org.
12. www.nuovocinemapalazzo.it.
13. www.teatrovalleoccupato.it.
14. Per consultare lo Statuto della Fondazione «Teatro Valle bene
comune»: http://www.teatrovalleoccupato.it/statutopartecipato.
Questa scrittura ha ispirato, tra l’altro, anche il Regolamento
d’uso civico dell’Ex Asilo Filangieri di Napoli, consultabile su:
https://labalena.wordpress.com/2012/12/17/regolamento-duso
-civico-dellex-asilo-filangieri-prima-stesura/. Una discussione si-
254
NOTE
mile si svolge nell’atelier Macao di Milano: http://www.macao.
mi.it/post/27554305721/linee-programmatiche-di-intervento-ediscussione.
15. Sul progetto della «Libera Repubblica di San Lorenzo», il sito
www.liberarepubblicadisanlorenzo.it.
16. Cfr. S. Rodotà, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata
e i beni comuni (2013). Cfr. M.R. Marella, Il principio della funzione sociale della proprietà e le spinte anti-proprietarie dell’oggi,
in G. Alpa e V. Roppo (a cura di), La vocazione civile del giurista, Saggi dedicati a Stefano Rodotà, Laterza, 2013.
17. Cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino, 1975,
n. 4, paragrafo 15, p. 437.
23. Il diritto alla città
1. Cfr. F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra nel
1844, Lotta Comunista, Roma, 2011.
2. H. Lefebvre, Il marxismo e la città, Gabriele Mazzotta editore,
Milano, 1973, p. 26.
3. Internationale situationniste, n. 12, settembre 1969, Paris:
http://www.nelvento.net/1871/is.php.
4. Cfr. R. Koolhaas, Junkspace, Quodlibet, Macerata, 2006.
5. D. Harvey, Rebel cities. From the right to the cities to the urban
revolution, Verso, London-New York, 2012, pp. 112. Cfr. Id., Il
capitalismo contro il diritto alla città, Ombre Corte, Verona, 2012,
pp. 68 e sgg. Fondamentale è il riferimento ai saggi di Henri Lefebvre, Le Droit a la Ville, Anthropos, Parigi, 1968, sulla Comune
di Parigi, Id., La Proclamation de la Commune, Gallimard, Parigi,
1965, e Id., La rivoluzione urbana, Armando editore, Roma, 1973.
6. S. Ganassi Agger, Autogestione urbana: l’urbanistica per una
nuova società, Dedalo libri, Bari, 1977. Si veda anche D. Gentili, Topografie politiche. Spazio urbano, cittadinanza, confini in
W. Benjamin e J. Derrida, Quodlibet, Macerata, 2009. Si vedano
inoltre le esperienze milanesi dei «city makers»: http://www.
temporiuso.org/, http://www.impossibleliving.com/ e il Laboratorio di arte urbana Stalker/Osservatorio Nomade: http://
www.osservatorionomade.net/tarkowsky/tarko.html.
NOTE
255
7. Per una definizione di «diritto alla città» cfr. É. Balibar, Droit
de cité, PUF, Paris, 1998. Si veda anche J-B. Auby, Droit de la
ville. Du fonctionnement juridique des villes au droit à la Ville,
LexisNexis, Paris, 2013.
8. C. Cattaneo, La città considerata come principio ideale delle
istorie italiane: http://www.biblio.liuc.it/opere_cattaneo/CarloCattaneo005.pdf.
9. G. Romagnosi, Dell’indice e dei fattori dell’incivilimento, con
esempio del suo risorgimento in Italia, in Id., Scritti filosofici, vol.
II, Storia, civiltà, progresso, a cura di S. Moravia, Casa Editrice
Ceschina, Milano, 1974, spec. pp. 238 e sgg.
10. A. Duff, A Fundamental Law of the European Union, in Social
Europe Journal, 10 January 2013: http://www.social-europe.
eu/2013/01/a-fundamental-law-of-the-european-union/.
11. Cfr. É. Balibar, Una sovranità chiamata debito, in il manifesto,
25 novembre 2011, pp. 1-14.
12. Cfr. A. Foti, Teoria e prassi del precariato secondo un precario,
http://www.milanox.eu/teoria-e-prassi-del-precariato-secondoun-precario/, 20 giugno 2013 e P. Van Parijs, The Euro-Dividend,
in Social Europe Journal, 3 luglio 2013, http://www.social-europe.
eu/2013/07/the-euro-dividend/. J. Habermas, Democracy, Solidarity and the European Crisis, Lecture delivered by Professor Jürgen Habermas on 26 April 2013 in Leuven: http://www.kuleuven.
be/communicatie/evenementen/evenementen/jurgen-habermas/
democracy-solidarity-and-the-european-crisis, si inserisce nel
dibattito sul futuro dell’Europa che lo stesso Habermas ha intrapreso in polemica con le posizioni sovraniste di Wolfgang Streeck.
Indice
Introduzione. Atto di creazione
p.
7
Parte prima. CHE COS’È IL QUINTO STATO?
1. Apolidi
2. Lavoro indipendente
3. Un movimento, non uno Stato
4. Ceto medio
5. Topi nel formaggio
6. Insalata indigesta
7. Una società di lavoratori senza posto fisso
8. W i NEET!
9. Diversamente occupate
10. Senza leggi, casa o fratria
11. Il potere comune
p. 21
p. 25
p. 37
p. 49
p. 59
p. 65
p. 73
p. 83
p. 91
p. 99
p. 105
Parte seconda. UNA STORIA A CONTROPELO
12. La congiura dei ricchi
13. «Che i soci siano illimitati»
14. «Agiamo tutti all’unisono»
15. Cospiratori dell’uguaglianza
16. Il cenobita, il filadelfo e il quintario
17. Una sola, grande, unione
p. 111
p. 119
p. 125
p. 131
p. 139
p. 151
Parte terza. IL DIRITTO ALLA CITTÀ
18. Ritorno al futuro
19. Mutualismo
20. Coop capitalism
21. Ecosistemi
22. Community organizing
23. Il diritto alla città
p. 165
p. 171
p. 179
p. 189
p. 207
p. 225
Note
p. 237
Finito di stampare
nel mese di settembre 2013
per conto di Adriano Salani Editore s.u.r.l.
da Grafica Veneta S.p.A., Trebaseleghe (PD)
Printed in Italy