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Il Quinto stato

2013, Il Quinto Stato

Il Quinto Stato si inserisce in un dibattito più che secolare. Questa condizione non è identificabile nel «precariato» considerato equivalente a uno «strato sociale» che si aggiunge a quelli già definiti del clero, borghesia, lavoratori e rendita. Il «quinto stato» non raccoglie giovani precari, partite Iva e immigrati. È difficile che soggetti così eterogenei condividano in maggioranza l’appartenenza a un gruppo («strato sociale») prodotto dalla mancanza di un contratto di lavoro subordinato (il «precariato»). In realtà, il precariato attraversa tanto il terzo stato della borghesia, quanto il quarto stato dei lavoratori. Tra gli immigrati possono esistere lavoratori a tempo indeterminato e persone che accedono molto difficilmente a un lavoro, sia pure precario. È anche difficile definire il lavoro autonomo delle partite Iva proletarizzate negli stessi termini del lavoro dei precari privi di un contratto di lavoro. Svolgendo attività diverse, i freelance non hanno un contratto di lavoro. Non perché non gli sia riconosciuto, ma perché hanno la partita Iva. È SENZ’ALTRO POSSIBILE immaginare che un precario diventi autonomo, e viceversa, senza trascurare la possibilità che la stessa persona possa svolgere lavori di tipologie diverse allo stesso tempo, nel corso della sua vita. Ma se restiamo alla divisione del lavoro attuale è difficile che un lavoratore autonomo possa identificarsi in un contratto di lavoro che non lo riguarda, né preoccuparsi del fatto che non lo possiede. Semmai può maledire una società costruita, almeno idealmente, su un modello di cittadinanza che lo esclude perché non rientra tra i formalmente «garantiti». C’è anche il rischio di considerare tutti gli autonomi come «false partite Iva», lavoratori subordinati mascherati da partita Iva. La questione esiste ma, va detto una volta per tutte, anche a sinistra, che questo non è il problema principale del lavoro autonomo non imprenditoriale. Parliamo dei bassi compensi, di un sistema previdenziale vergognoso, dell’inesistenza di garanzie e di un welfare, dei problemi della formazione o dell’accesso alle professioni. Una volta affrontati si capirebbe come il problema del reddito, della previdenza e delle tutele universali della persona, siano comuni a tutti, al di là del lavoro svolto. Il problema dell’identificazione del quinto stato, e della confusione con uno dei suoi aspetti, non è nuovo. È emerso nel 1960 quando Salvatore Valitutti identificò il quinto stato in una categoria della stratificazione sociale: i giovani. Ferdinando Camon scrisse un romanzo omonimo sui contadini, mentre nel 1968 Wolfgang Kraus lo identificò con i lavoratori dei servizi del terziario avanzato. Poi fu il turno dei lavoratori della conoscenza (il «cognitariato») e dei freelance a partita Iva. Non è certo escluso che questi gruppi facciano parte del quinto stato. Il punto è che, insieme ad altri, condividono una condizione socio-politica della forza lavoro non riducibile al possesso di un contratto di lavoro, né all’appartenenza a un ceto o a una nazionalità. Il punto di vista va dunque rovesciato: il quinto stato non è la condizione degli esclusi da un contratto sociale ricavato su un modello di cittadinanza che ha attribuito la primazia al lavoro salariato dei nativi in uno Stato. Il quinto stato è invece l’attestazione della crisi irreversibile di questo modello che impedisce di pensare l’esistenza di strati sociali compatti e uniformi come la «borghesia» o i «lavoratori». Sempre che siano mai stati tali. IL QUINTO STATO, dunque, è la forma assunta dalla crisi dagli stati precedenti, non è un altro gruppo che si aggiunge alla piramide sociale esistente. Questa condizione attraversa le categorie, ma non è assimilabile a uno dei loro strati. È incollocabile nelle gerarchie, anche se è presente tra le loro parti. Accomuna i cittadini apolidi in patria e gli stranieri extraterritoriali in uno Stato. Insieme formano la comunità dei senza comunità, quella che possiede solo la sua forza lavoro: la facoltà di creare tutti i valori d’uso della vita, prima ancora del capitale. Parlare oggi di quinto stato significa riscoprire una storia del concetto di «classe». La genealogia realizzata già nel 2011 nella Furia dei cervelli, e nel 2013 nel Quinto stato (e la ricerca continua), può riservare sorprese a chi, marxianamente, ha seguito il consiglio dello storico inglese Edward Thompson il quale, in Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, scrisse: «la classe operaia è plurale». All’origine si parla di classi operaie. Oggi, più che mai, parlare di quinto stato significa evidenziare la molteplicità della forza lavoro e la sua irriducibilità alle categorie del lavoro produttivo del capitale. Questa storia inizia con l’epica rivolta delle «classi pericolose» contro le servitù del capitalismo industriale. Erano i lavoratori salariati e indipendenti, insubordinati al lavoro sotto padrone, che non si rassegnavano alla vita della borghesia emergente e immaginavano il mondo alla rovescia, come già fecero i movimenti rivoluzionari del Seicento inglese, gli irriducibili della Rivoluzione francese e dei proletari dell’Ottocento raccontati da Jacques Rancière nel libro La nuit des prolétaires. Questa è la storia dell’altro movimento operaio raccontata da Karl-Heinz Roth, e da Sergio Bologna. Non va dimenticato che il quinto stato è stato associato all’emancipazione delle donne e alla lotta contro il patriarcato, la violenza maschile e il capitalismo già nel 1880. Lo scrisse il deputato socialista Salvatore Morelli che anticipò, con i suoi strumenti, la potenza dei movimenti femministi. Il quinto stato è una categoria della liberazione dove il lavoro non è anteposto ai conflitti sulla razza, il sesso o l’ambiente. Usarla significa prospettare un «divenire co-rivoluzionario» (David Harvey) dei differenti soggetti dell’oppressione. SULLA STRADA di questa rivoluzione delle mentalità sono già avviati i femminismi intersezionali, l’ecologia politica, il marxismo. Ciò che a questo dibattito può dare la ricerca sul quinto stato è l’idea che la storia della «classe» non è il prodotto della condivisione della precarietà, non è la somma delle categorie del lavoro subordinato atipico o la conseguenza del possesso di un contratto di lavoro. La «classe» emerge quando la forza lavoro conquista un’autonomia politica dalla divisione del lavoro e dai rapporti di potere che dividono la società in governati e governanti, proprietari e non proprietari. Può non riuscirci, com’è evidente al momento, ma ciò non toglie che il problema di chi lavora e non lavora non è quello di chiedere di integrarsi in un mondo dove non ha spazio, ma quello di rovesciare questo mondo in cui viviamo in esilio. Da cosa? Dalla vita.

Saggi GIUSEPPE ALLEGRI ROBERTO CICCARELLI IL QUINTO STATO Perché il lavoro indipendente è il nostro futuro. Precari, autonomi, free lance per una nuova società © 2013 Adriano Salani Editore s.u.r.l. – Milano ISBN: 978-88-6220-285-5 In copertina: Eu remix Art Direction: ushadesign Redazione e impaginazione: Emiliano Mallamaci Ponte alle Grazie è un marchio di Adriano Salani Editore s.u.r.l. Gruppo editoriale Mauri Spagnol Il nostro indirizzo Internet è www.ponteallegrazie.it Seguici su Facebook e su Twitter (@ponteallegrazie) Per essere informato sulle novità del Gruppo editoriale Mauri Spagnol visita: www.illibraio.it www.infinitestorie.it IL QUINTO STATO Well the highway is alive tonight But nobody’s kiddin’ nobody about where it goes I’m sitting down here in the campfire light Searchin’ for the ghost of Tom Joad L’autostrada è viva stasera ma nessuno si illude su dove vada a finire. Sto qui seduto alla luce del falò e cerco il fantasma di Tom Joad BRUCE SPRINGSTEEN, The Ghost Of Tom Joad Artieri e operai di Pausula! Proseguite con altrettanta alacrità l’opera intrapresa: stringetevi tra voi e sarete forti, e l’opera vostra sarà dai venturi benedetta. Atto costitutivo della Società Operaia di Mutuo Soccorso di Corridonia, 1863 Sì, solo che… anche il gaucho più indipendente di questo mondo alla fine si vende. THOMAS PYNCHON, L’arcobaleno della gravità Introduzione Atto di creazione Giambattista Piranesi, architetto veneziano, membro onorario della Società degli Antiquari di Londra, socio dell’Accademia di san Luca, cavaliere dello Speron d’oro, figlio di Roma, morì il 9 novembre 1778, accudito dalla famiglia. Dopo avere rifiutato le cure mediche, dettò queste parole e chiese di leggere Tito Livio, di rivedere i suoi disegni, le sue acqueforti, i suoi rami incisi. I suoi figli Francesco e Pietro sarebbero emigrati nel 1799 a Parigi dopo avere partecipato attivamente ai moti rivoluzionari italiani della Repubblica romana. Attorno a quel letto erano radunate due generazioni. La prima era quella della pittura e dell’architettura veneta, di cui Piranesi fu uno dei massimi rappresentanti. La seconda era quella illuminista, e rivoluzionaria, che provò ad assaltare il cielo sull’onda della Rivoluzione francese e del triennio delle repubbliche giacobine in Italia. Padre e figli ebbero un destino comune: furono nomadi in Italia e in Europa, in cerca di un ingaggio da parte di un mecenate, fuggendo da quei monarchi (o dal papa) che avevano riconosciuto la loro insubordinazione a difesa dell’indipendenza della propria arte e per creare un regime politico repubblicano, laico e democratico. A Venezia, come a Verona, nacquero artisti di fama mondiale che da Vienna a Mosca, da Roma a Madrid fino a Lon- 8 ATTO DI CREAZIONE dra e al Nord Europa allietarono le vedute e gli affreschi dei grandi palazzi imperiali, di mercanti e di borghesi. Tiepolo, Tiziano e Canaletto, insieme a Bellotto, erano all’avanguardia sul mercato europeo dell’arte, mentre in patria erano precari sottopagati e sfruttati; molto spesso lavoravano gratuitamente e alcuni di loro furono costretti ad abbandonare Venezia poiché committenti o mecenati non rispettavano i tempi di pagamento, lasciandoli così nella miseria più nera, in attesa che l’ufficiale giudiziario bussasse alla porta. Piranesi rappresenta l’intelligenza più irrequieta della rivolta contro l’opportunismo dei committenti i quali, pur tenendo in grande considerazione i valori artistici assoluti, rifiutavano di pagarli. Il «figlio di Roma» – perché a Roma, diversamente che nell’odiata Venezia, il suo talento era stato riconosciuto (e pagato) – pochi mesi prima di morire, nel marzo 1778, scrisse una lettera a una sorella: «Esule da Venezia, sua patria, per non aver potuto ottenere nemmeno un impieguccio… non vi farà mai più ritorno tanto più che questa città, quantunque adorna di magnificentissimi edifici e dipinti, non era teatro capace a dar pascolo alla sublimità dei suoi grandiosi concepimenti, come lo era Roma, e le altre città dell’Italia meridionale». A Roma, delle sue opere «il Santo Padre ne faceva a quando a quando acquisto per regalarle ai Principi che visitavano Roma, pagando 200 scudi per copia». Aveva fatto fortuna, sessantamila scudi da investire nella sua officina e in un museo personale. Nella «santa città», il valore della creazione, e del lavoro della sua impresa, andava difeso contro «quelli che farsi dovrebbero Mecenati e sottrarla [l’architettura] all’arbitrio di coloro, che i tesori posseggono, e che vi fanno credere di potere a loro talento disporre delle operazioni della medesima». Per Piranesi, innovatore concettuale e artigiano intagliatore, l’architettura doveva avere un carattere civile e funzionale. E l’unico modo di pensare e agire era quello INTRODUZIONE 9 pragmatico: «spiegare con disegni le proprie idee». Parlava dell’«arte di disegnare non solo le mie invenzioni, ma di intagliarle ancora nel rame». Nel repertorio di questa corrispondenza, emerge uno spirito costituente. Piranesi condivideva le passioni di una civiltà mai sopita. La sua resistenza incarnava lo spirito della grande e popolare rivolta che avrebbe terrorizzato il potere europeo per tutto il secolo successivo. La sua attitudine alla creazione, come alla ricerca di un lavoro indipendente, ancora oggi indica una via per sfuggire al destino di miseria riservato alla gran parte della popolazione attiva nel nostro continente, in particolare nell’Europa meridionale. La rivendicazione di Piranesi è giunta intatta sino ai nostri giorni. La richiesta di un congruo compenso da parte dell’artista è la stessa che avanzano i lavoratori indipendenti contemporanei. Essere pagati in maniera equa, e nei tempi prestabiliti, è la rivendicazione di chi vuole veder rispettata, tutelata e garantita la propria operosità. Nel risentimento del grande architetto, così come nel modello di vita di chi oggi svolge una lavoro autonomo, precario o intermittente, si rispecchia la condizione del Quinto Stato. Parliamo di una forma di vita dove ritroviamo le esperienze degli attori della commedia dell’arte che transitavano dall’Italia alla Francia; dei librai e stampatori che diffondevano il libero pensiero; degli artigiani o lavoranti – quindi non solo grandi artisti o filosofi – che emigravano in Europa oppure cambiavano città, impiego e committenti in Italia. Questa condizione viene sempre raffigurata come il lato oscuro della povertà, dell’esclusione e dell’abbandono. Lo è stata, e lo è senz’altro oggi. Essa traduce tuttavia anche un’altra possibilità: proteggere e affermare l’autonomia nel lavoro e nella società da parte dei non garantiti e di chi conduce una vita indipendente. Nella penombra rumorosa delle officine, tra il piombo e gli inchiostri, nel silenzioso sfruttamento delle botteghe e 10 ATTO DI CREAZIONE nella persecuzione degli indipendenti trattati come disoccupati o vagabondi, devianti o lazzaroni, sono state molte le generazioni determinate a scatenare il conflitto per il riconoscimento personale, per la negoziazione del valore di una prestazione o per la libertà della propria esistenza, ancor prima che della propria attività. La battaglia è ancora in corso. Restiamo in ascolto del suo rumore sordo nell’Europa dell’austerità. Vogliamo esplorare le concrete strategie per dare un nome, un presente e soprattutto un futuro alla condizione comune del Quinto Stato. Il Quinto Stato è l’espressione della forzalavoro del futuro: il lavoro indipendente. Questa attività non può essere descritta ricorrendo solo alle categorie generiche di «crisi del ceto medio» oppure di «precariato» che dominano il dibattito politico, mediatico e accademico in particolare quando si parla della crisi del lavoro e della disoccupazione di massa. Il lavoro indipendente rappresenta il minimo comune denominatore tra condizioni professionali e status sociali profondamente divergenti. Esso è la forma di vita operosa in cui si ritrovano tutte le attività autonome, «atipiche» o «non standard», in una parola «precarie», l’autoimpresa come la piccola impresa che popolano in maniera prevalente il mondo del lavoro oggi. Partiamo dall’idea che questo patchwork sia il risultato di una forte precarizzazione delle tutele e dei diritti che oggi è degenerato in un processo di proletarizzazione ai danni di posizioni lavorative e classi sociali diverse. Questa è la condizione del Quinto Stato dove risuona ciò che più ci accomuna: la povertà, la miseria e la certezza che le generazioni future vivranno come i lavoratori intermittenti o precari del Medioevo o della prima modernità. Nel momento di massima offensiva contro il Quinto Stato, emerge tuttavia una potenzialità discreta, ma sempre INTRODUZIONE 11 attuale, quella che spinge a governare la propria autonomia, difenderla e tutelarla dall’aggressione permanente a cui è sottoposta. Si tratta di una disperata ricerca dell’emancipazione e dell’uguaglianza, dettata dalla consapevolezza che nella condizione del Quinto Stato sono racchiusi tutti i presupposti di un presente e un futuro migliore per l’intera società. La prima parte del libro spiega che cos’è il Quinto Stato: lo stato di apolidia in patria in cui vivono almeno otto milioni di italiani che svolgono un lavoro autonomo, precario, sottopagato, in nero, un’attività dell’economia informale che sta emergendo con forza nella crisi. Il Quinto Stato è anche una posizione extraterritoriale all’interno di un Paese, poiché include i migranti e coloro che sono nati in Italia o in Europa da genitori che non hanno la cittadinanza italiana, la cosiddetta «seconda generazione». Queste persone lavorano, in maggioranza, come gli italiani, sono cioè lavoratori indipendenti: piccoli imprenditori, precari, lavoratori informali, titolari di partite IVA. Non è riconosciuta loro la cittadinanza, e quindi sono doppiamente penalizzati. Riteniamo che queste esclusioni non siano riconducibili solo alla povertà o alla disoccupazione, ma rimandino a una generale trasformazione della cittadinanza che è fonte di inquietudine per i dominanti. Nella seconda parte, affronteremo il problema dal punto di vista storico, mostrando come le politiche europee di austerità abbiano imposto, tra l’altro, un modo di pensare e vivere il presente ispirato al conflitto tra il protestantesimo dei paesi dell’Europa del Nord e il cattolicesimo controriformista e lassista dei paesi dell’Europa del Sud. Questo conflitto geo-culturale non è nuovo nella storia europea, così come non è nuova la tentazione di imporre ai poveri o agli esclusi gli imperativi morali del risparmio, del sacrificio e della moderazione nei momenti più acuti di una crisi economica. 12 ATTO DI CREAZIONE Inedito è invece il tentativo di spiegare questo conflitto dal punto di vista dei subalterni, a partire cioè dalla loro ricerca di autonomia e libertà. Per questa ragione abbiamo ripercorso a contropelo la storia europea tra l’ultimo scorcio del Seicento e l’inizio del XX secolo, evocando, col disincanto del tono minore, l’epica pamphlettistica di Sieyès, e ritrovando invece nel Quinto Stato contemporaneo le tracce, gli enunciati e le pratiche del lavoro artigiano, indipendente e del «Quarto Stato», il proletariato moderno. Non sorprenderà scoprire che oggi la stessa lotta per l’autonomia è ancora attiva e costituisce la premessa di un’alternativa al regime mentale, culturale e politico dell’austerità. Nella terza parte del libro, racconteremo le strategie adottate dal Quinto Stato per rispondere all’impoverimento, all’insicurezza e al terrore del fallimento individuale e collettivo. Migliaia di persone sono oggi impegnate nella definizione di un orizzonte di vita in comune, dove i lavoratori indipendenti si autorganizzano, rigenerano le antiche radici del mutualismo operaio sette-ottocentesco con nuove declinazioni, ispirate all’idea di un concreto welfare universale. Esamineremo anche le premesse necessarie all’avvio di una politica basata sul riconoscimento dell’attività e dell’operosità dei singoli che si cimentano nell’economia collaborativa. Riscopriremo così la tradizione politica dell’auto-governo dei territori e delle istituzioni di prossimità contro le rendite di posizione corporative, economiche, politiche, sindacali. Queste sono solo alcune delle manifestazioni di ciò che definiamo «diritto di città» del Quinto Stato. Tale diritto si esprime attraverso istituzioni, consorzi, coalizioni, patti, leghe e nuovi sindacati che danno corpo all’organizzazione del Quinto Stato negli spazi politici esistenti. Non inventiamo nulla, raccontiamo solo quello che abbiamo potuto osservare in Italia, in Europa o negli Stati Uniti, raccogliendo i desideri di persone impegnate in una marcia controcorrente. INTRODUZIONE 13 Per chi cerca un’alternativa alla miseria indotta dalle politiche della crisi, questa attitudine pragmatica e ideale rispetto alla vita è un’occasione. Metteremo in luce, infine, una visione alternativa delle istituzioni europee, nell’affermazione di nuove dimensioni politiche e territoriali del Quinto Stato. Parliamo di un’Europa delle città contro l’Europa intergovernativa, un’Europa dei diritti fondamentali delle persone contro l’Europa dei trattati economici degli stati nazionali. In questo libro, non ci soffermiamo soltanto sul cupo realismo dei fatti; ci apriamo anche alle promesse del futuro. All’inizio, il protagonista è un apolide angosciato dalla distanza che lo separa dal mondo. Egli è il prodotto ideale del neoliberismo, un soggetto che possiede il proprio «capitale» e contratta un lavoro con un committente. In seguito a un processo di proletarizzazione, questo soggetto si è ritrovato a dover resistere all’offensiva del mercato e dello Stato. A ciò si è aggiunta la crisi di quello stesso modo di produzione che ha reso apolide il Quinto Stato, estraniandolo dalle vecchie appartenenze, dalle convenzioni e dal rifugio sicuro della convivenza tradizionale. Nella seconda parte del libro, l’apolide scopre le storie che già in passato, e in momenti forse ancora più difficili di quello attuale, videro i suoi simili impadronirsi delle virtù dell’associazionismo che avrebbero reso i deboli più forti. A questo punto egli capisce di essere già alla ricerca di uno spazio di libertà in cui desidera porsi come uguale agli altri. Il suo bene più prezioso è la mobilità tra gli stati, come tra i lavori e le professioni; è l’unica risorsa capace di sottrarlo alla distruzione provocata dalla crisi. Al termine del libro, l’apolide inizia a valutare la possibilità di dotarsi di diritti e persino di una costituzione che non dipenda dallo Stato in cui vive, bensì dalla cooperazione con i propri simili. Abbiamo pensato a un romanzo in formazione 14 ATTO DI CREAZIONE che può anche non avere un lieto fine. Ciò che conta è il percorso, non le attese salvifiche che gli autori potrebbero attribuire, anche inconsapevolmente, ai loro protagonisti. Questo gioco difficile ci ha portato, da un lato, a identificarci con le persone di cui raccontiamo le idee e i progetti, dall’altro lato a distanziarcene. È inevitabile che ciò accada perché noi stessi condividiamo la condizione del Quinto Stato. Nella scelta di questo protagonista, non ci siamo rivolti all’anarchico incoronato, l’Eliogabalo di Antonin Artaud1 o di Alberto Arbasino.2 E nemmeno al ribelle al quale il filosofo francese Michel Onfray ha dedicato un trattato.3 Non pensiamo all’oscuro Maldoror, alter ego letterario di quell’Isidore Ducasse, conte de Lautréamont, abituale frequentatore dei circoli giovanili anarchici parigini pochi mesi prima della Comune.4 Raccontiamo invece la vicenda, sempre aperta a nuove evenienze, di donne e uomini qualunque, che hanno deciso di federare le proprie esistenze. La nostra ipotesi è che il loro modello di vita sia ispirato all’esempio di Diogene il Cinico.5 Al cinismo è sempre stato attribuito un pregiudizio verso gli altri e una cattiva predisposizione dell’animo. Il pensiero cinico, preso alla sua radice e riletto adeguatamente, prospetta invece una politica che potrebbe tornare molto utile per interpretare la figura dell’apolide contemporaneo. Il cinico, infatti, è apolide per natura, conduce una vita scandalosa rispetto alle regole e agli imperativi morali della sua comunità di riferimento. Mostra ai propri simili la strada per creare un’altra comunità più giusta e più libera e la percorre insieme a loro. Davanti al grande pericolo che minaccia tutti egli abbaia, desta scandalo ma, allo stesso tempo, esercita la più grande generosità verso tutte le forme di vita esistenti sul pianeta. Il suo crudo umorismo è l’arte attraverso la quale dimostra la possibilità di una vita vera. È nostra convinzione che questa attitudine caratterizzi la realtà di molte persone ancora oggi e trovi un’adeguata rap- INTRODUZIONE 15 presentanza nella condizione del Quinto Stato. L’umorismo del cinico, la sua generosità, la durezza con la quale egli risponde alle difficoltà della vita le abbiamo incontrate spesso nelle nostre peregrinazioni. Davanti alla violenza quotidiana si può reagire in tanti modi. L’estraniazione, la sottrazione, la divergenza sono tra questi, soprattutto quando sono accompagnate dalla contemporanea ricerca di un piano diverso dove incontrare i propri simili. La doppia capacità di resistere alle tensioni prodotte dalla realtà e di prospettare nuove relazioni appartiene a un antico modello di vita politica e filosofica, il cinismo appunto. Tale modello è tornato a farsi sentire nella solidarietà operaia e nella vita militante tra il XIX e il XX secolo.6 Oggi la resistenza, l’organizzazione e la creazione di nuovi legami sono le principali attitudini del Quinto Stato, riunite in quella che qui definiamo una vita operosa. Vogliamo rendere giustizia alla vita operosa di milioni di persone. Sono persone che condividono un ethos, che non è una morale né un’ideologia, bensì una capacità di abitare il mondo e di renderlo ospitale, per sé, per gli altri e per tutti quelli che verranno. Questo ethos permette di considerare il Quinto Stato non come una sfera in sé, una classe schiacciata dalla povertà diffusa, ma come un’attitudine generosa (magnanima, direbbe Aristotele) verso la propria vita e quella altrui. Non è facile descriverla in un Paese come il nostro dominato dal risentimento e dalla paura. Per farlo abbiamo scelto di convogliare le risorse della storia, dell’analisi linguistica e politica, della sociologia, della letteratura e dare corpo a un processo invisibile, ma che si fa sentire ovunque. I filosofi hanno definito tale processo «strategia di soggettivazione».7 Parlano di un’operazione simbolica che separa una comunità dalla sua identità acquisita, permette ai singoli di sottrarsi ai ruoli esistenti impegnandosi nella tra- 16 ATTO DI CREAZIONE sformazione di sé. Anche per questa ragione abbiamo scelto come protagonista della nostra storia l’apolide, una figura che resta nel mezzo di una trasformazione, è distante dalle vecchie identità e protende verso le nuove. È la condizione in cui molte persone si ritrovano oggi: quella di chi si sottrae all’identificazione con la società dominante e prospetta l’apertura a una vita diversa. Senza contare che l’apolide è l’incarnazione della divisione permanente tra l’autorità e il territorio, lo Stato e la cittadinanza, i poteri e i diritti; e quindi rappresenta la politica attuale. Leggendo la storia del mutualismo e del cooperativismo operaio apprendiamo un’altra caratteristica del Quinto Stato. Una volta che i suoi apolidi sono riuniti nello stesso luogo, si distribuiscono tra loro le cose da fare. Maturano la capacità collettiva di creare qualcosa in comune. In più iniziano a riconoscersi, apprendono a vivere in un universo sensibile e linguistico, condividono l’esigenza di un’emancipazione collettiva. Si associano, federano le loro pratiche e competenze. Capiscono che non è il caso di passare la vita a pagare i debiti contratti dagli altri, che è sempre meglio creare qualcosa da soli o collettivamente. L’apolide è padrone di niente e non è schiavo di nessuno. Chi conosce un Paese come l’Italia sa che questo atteggiamento è molto diffuso. Interpreta il modo di fare del lavoro indipendente rispetto allo Stato o alle autorità di ogni tipo, rifiutando però la retorica individualista che ha ammorbato l’ultimo trentennio. Quante volte abbiamo ascoltato che è meglio essere autonomi, piuttosto che dipendere da un padrone, da un maestro o da un burocrate? Il Quinto Stato rappresenta una possibile estensione politica di questo atteggiamento. In un Paese dove tutti pretendono di dirigere gli altri, è preferibile mettersi insieme e iniziare ad autogo- INTRODUZIONE 17 vernarsi. Come si può infatti aspirare a governare la società senza prima dimostrare la capacità di governare sé stessi, i territori o le città dove si vive? La nostra inchiesta sul Quinto Stato vuole rispondere a questa domanda che ha spostato la politica dal «chi», cioè il soggetto che agisce una trasformazione, al «dove» e al «quando», vale a dire i luoghi e i tempi in cui si costruisce insieme tale trasformazione. Non raccontiamo la metafisica di un soggetto politico, ma la storia di una creazione comune, persa e ritrovata ogni giorno, con le persone che amiamo e con tutte le altre che non abbiamo dimenticato. Per tutte queste ragioni il Quinto Stato è un atto di creazione. Segui il blog furiacervelli.blogspot.com Parte prima CHE COS’È IL QUINTO STATO? Capitolo primo Apolidi Il Quinto Stato è l’universale condizione di apolidia in patria in cui vivono almeno otto milioni di italiani ai quali non sono riconosciuti i diritti sociali fondamentali. La stessa condizione interessa almeno cinque milioni di cittadini stranieri che inoltre subiscono l’esclusione dai diritti di cittadinanza a causa della loro extra-territorialità in uno Stato. Il Quinto Stato è una condizione incarnata in una popolazione fluttuante, composta da lavoratrici e lavoratori indipendenti, precari, poveri al lavoro, lavoratori qualificati e mobili, sottoposti a una flessibilità permanente. La loro cittadinanza non è misurabile a partire dal possesso di un contratto di lavoro, né dall’appartenenza per nascita al territorio di uno Stato-nazione poiché per questi soggetti si presuppone l’avvenuta separazione tra la cittadinanza e l’attività professionale, l’identità di classe, la comunità politica e lo Stato. Oggi sono stranieri o barbari tanto i nativi italiani, quanto i migranti. Entrambi appartengono alla comunità dei senza comunità. La loro è una cittadinanza senza Stato, poiché lo Stato non riconosce loro la cittadinanza. In questo mondo, non basta lavorare per essere riconosciuti come lavoratori. E non basta affermare di essere cittadini di uno Stato per essere riconosciuti titolari dei diritti 22 I. CHE COS’È IL QUINTO STATO? sociali, previdenziali, civili. La cittadinanza è stata limitata al possesso di un bene residuale, intermittente, e sempre meno retribuito: il contratto di lavoro. Anche quando ha la fortuna di possederlo, il cittadino-lavoratore viene sezionato in una lunga serie di identità parziali. Si parla, ad esempio, di lavoratori precari, atipici, parasubordinati o con partita IVA i quali, pur potendo dimostrare di partecipare alla politeia, restano cittadini dimezzati perché non godono di un contratto di subordinazione e a tempo indeterminato. Altrettanto complicata è la condizione di chi vive nell’emisfero dell’impresa, oggi travolta della crisi economica iniziata nel 2008. È proprio la zona grigia tra il lavoro e l’impresa a costituire uno dei tratti caratteristici del Quinto Stato. Esistono milioni di persone che hanno un impiego non contrattualizzato o che svolgono un’attività imprenditoriale in modo non tradizionale. Sono indipendenti che lavorano a intermittenza, su commissione, oppure con un contratto a termine. Si occupano di un’azienda, ma possono anche far parte del consiglio di amministrazione di una cooperativa o aver aperto una partita IVA e lavorare per sé. La compresenza in una persona di più identità lavorative, così come la mobilità tra i lavori o le professioni, o l’alternanza tra periodi di occupazione e disoccupazione, sono ulteriori caratteristiche distintive del Quinto Stato. Questa condizione è stata sanzionata dal patto sociale che oggi si è dissolto. In Italia è cittadino chi possiede un contratto di lavoro, oppure è un imprenditore, è maschio, bianco, capofamiglia, proprietario di una casa e in buona salute. Esercita un’attività regolata dalla rappresentanza sindacale, oppure lavora nella pubblica amministrazione. Non conta tanto la sua storia, la sua l’esperienza, le sue competenze, le sue relazioni, quanto il suo radicamento nella corporazione degli industriali, in un corpo sociale tutelato da un ordine professionale, o dalla rappresentanza sindacale, 1. APOLIDI 23 da una lobby, da un gruppo di pressione, senza contare il vasto assortimento di poteri sociali informali che sopravvivono in un Paese costituito da mille repubbliche legali e illegali. Il Quinto Stato non ha diritti né tutele certe, li acquista o le perde nello smercio quotidiano delle committenze, dei contratti, degli incarichi o dei favori. Sta emergendo una nuova figura sociale, quella dell’apolide integrato, che paga le tasse, vota, esprime la sua opinione in piazza, ma non esce mai dalla zona grigia tra lavoro e non lavoro. Questo apolide è il rompicapo della cittadinanza contemporanea. È il prodotto di un sistema in cui l’istituzione statuale della cittadinanza è diventata un bene residuale perché si è affermato un nuovo tipo di governo, quello della governance, o della tecnocrazia, cioè lo statalismo senza Stato dell’Unione Europea o degli stati che la compongono.1 Questa organizzazione della politica a livello sovranazionale ha da tempo svuotato di efficacia i poteri delle rappresentanze parlamentari, oltre che quelli dei cosiddetti «corpi intermedi»: cioè i sindacati, i partiti e le associazioni di categoria. L’apolide non si ritrova nelle rappresentanze parlamentari, sindacali o imprenditoriali esistenti. Galleggia nello spazio vuoto creato dalla scomparsa dell’equilibrio secolare tra la cittadinanza e lo Stato, tra la politica e il comando (ciò che i latini chiamavano imperium), tra la sovranità degli stati e le autorità internazionali che governano la loro vita (la BCE, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, la «Troika» che vigila sulla crisi degli stati europei, ad esempio). L’apolide non può sedersi allo stesso tavolo degli stati che hanno perduto la sovranità. Difficilmente può influire sulle decisioni di chi sta più in alto e condiziona tutti i livelli del potere politico. Il Quinto Stato è il risultato della divergenza tra un’autorità che non comanda e un potere che non governa. Risiede 24 I. CHE COS’È IL QUINTO STATO? in uno Stato dove sopravvivono le antiche funzioni del controllo e della sanzione, ma non le prerogative che hanno garantito la mobilità sociale, l’emancipazione di una quota crescente di persone, in alcuni casi l’indipendenza economica e la tutela dei diritti fondamentali. La sua partecipazione alla politeia è compromessa perché sempre meno persone in futuro riusciranno a lavorare ottenendo in cambio una parvenza di emancipazione, guadagnando un reddito da un’attività legalmente riconosciuta. Questa situazione non aprirà la strada a un ritorno puro e semplice delle forme autarchiche, comunitarie o totalitarie, ma occuperà a lungo il nostro orizzonte, mettendo seriamente in pericolo la vita democratica. Ciò che però la crisi non rende necessario, né favorisce, non lo impedisce neppure fatalmente. La condizione negativa del Quinto Stato fa anzi emergere, in maniera ancora più urgente, la possibilità di un riscatto. Capitolo secondo Lavoro indipendente Il Quinto Stato è una condizione sociale che si è radicata nel lavoro indipendente, si è affermata nelle vecchie e nelle nuove professioni (dagli avvocati agli architetti, dai ricercatori ai consulenti, ai grafici o agli esperti di marketing in rete), e in tutte le attività non subordinate, precarie e intermittenti. In esso potrebbe rispecchiarsi chi conduce un’auto-impresa o esercita il lavoro autonomo nell’ambito delle relazioni organizzative e dei beni immateriali, i precari della pubblica amministrazione, dei servizi, della cultura e informazione, del commercio, della logistica o dell’industria manifatturiera. Ci sono anche gli stagisti, gli apprendisti, i tirocinanti, molti dei quali sono diplomati o laureati. C’è chi lavora nelle cooperative, con la partita IVA o con uno dei quarantasei contratti «atipici» esistenti in Italia. Svolgono un lavoro indipendente molti di coloro che sono nati dopo il 1970, chi ha iniziato a lavorare dopo il 1996, l’anno in cui è entrata in vigore la riforma previdenziale Dini che ha istituito la gestione separata dell’INPS, alla quale nel 2011 erano iscritti all’incirca 1,8 milioni tra lavoratori autonomi e collaboratori. A questa cifra andrebbe aggiunta quella dei 4,5 milioni di piccole e piccolissime imprese con al massimo tre dipendenti. Un dato che rivela 26 I. CHE COS’È IL QUINTO STATO? come il lavoro indipendente in Italia sia capace di produrre occupazione in proprio, erogando prestazioni rivolte anche a piccoli e medi imprenditori. Questi numeri attestano ciò che distingue il sistema industriale italiano da quello degli altri paesi dell’Unione Europea. Nel lavoro indipendente, rientrano dunque sia coloro che svolgono prestazioni per conto terzi, cioè forniscono servizi o consulenze al privato o al pubblico mediante partita IVA, sia gli imprenditori che operano nelle microimprese, i liberi professionisti che assumono altre partite IVA o dipendenti. Parliamo di un mondo che rappresenta il ventitré per cento dell’occupazione complessiva in Italia contro una media europea del quattordici per cento. Solo in Grecia e in Turchia il lavoro indipendente presenta numeri più alti. Questa esplosione in Italia è stata generata dalla debolezza dell’economia industriale manifatturiera e tecnologicamente avanzata, ma è anche il risultato di uno straordinario sviluppo delle attività in proprio avvenuto a partire dagli anni Settanta del XX secolo.1 Se poi conteggiamo anche i lavoratori a termine, intermittenti o precari, cioè i lavoratori non subordinati in modo standard che operano con un contratto a termine, quelli «atipici», allora la percentuale del lavoro indipendente supera, seppure in alcuni casi esso sia eterodiretto, un terzo della forza-lavoro attiva in Italia (il totale era di diciassette milioni nel 2010).2 In questo enorme aggregato di status professionali, posizioni di mercato, ispirazioni ideologiche distanti, emerge almeno un tratto comune: la necessità di proteggere l’autonomia personale e quella del proprio lavoro secondo gradazioni e sfumature diverse. Questo dato è determinante per evitare che si consideri il lavoro indipendente come un rimedio alla disoccupazione oppure alla mancanza di posti nell’ambito delle attività salariate. In quarant’anni, il lavoro indipendente ha costruito il suo mondo, conquistando l’im- 2. LAVORO INDIPENDENTE 27 magine di soggetto produttivo. Contro uno Stato che non garantisce i servizi o le tutele minime i lavoratori autonomi di «prima generazione», cioè i commercianti, i ristoratori, le piccole aziende della manifattura oltre che gli addetti ai servizi privati come idraulici o falegnami, hanno eluso o evaso le tasse. I grandi evasori, e il capitalismo finanziario, hanno sottratto alle casse dello Stato italiano risorse ben più ingenti, ma non si può nascondere che questo specifico settore del lavoro autonomo e della piccola impresa abbia rappresentato fino agli anni Duemila il vincitore relativo della transizione italiana a un’economia terziaria. Sarebbe tuttavia un errore (purtroppo compiuto ancora da molti in Italia) considerare tutto il lavoro indipendente come un mondo di malfattori ed evasori delle tasse. Tra l’altro, in esso è cresciuto in maniera esponenziale il peso di una tipologia del lavoro autonomo, detto anche di «seconda generazione», che rappresenta il settore trainante dell’economia dei servizi e della produzione immateriale. Questi ultimi lavoratori non sono certamente assimilabili, dal punto di vista economico e sociale, ai commercianti o ai piccoli imprenditori, soprattutto perché sono obbligati a emettere fatture che il privato e il pubblico «onorano» soltanto diversi mesi dopo l’erogazione della prestazione e quindi non hanno neanche la possibilità di evadere le tasse o lavorare al nero. Eppure sono stati ugualmente penalizzati. In tempi di rigore, lo Stato italiano ha aumentato il peso della tassazione su tutto il lavoro. Si parla, a ragione, delle vessazioni a cui è sottoposto il lavoro dipendente, ma quasi mai ci si sofferma su quello indipendente. Le conseguenze sono state pesanti, anche perché in questo caso al controllo fiscale più intensivo, e al progressivo aumento delle aliquote previdenziali, non è seguita una maggiore inclusione nel welfare. La crisi ha dunque agito in profondità sia sul fronte del lavoro subordinato sia su quello indipendente. Per questo 28 I. CHE COS’È IL QUINTO STATO? non si potrà mai più accettare la retorica dei «non garantiti» contro i «garantiti»: la cittadella assediata delle forme del lavoro standard incontra il mare aperto del lavoro indipendente dentro una feroce trasformazione capitalistica che non risparmia nessuno. In Italia la «crisi» ha bruciato almeno un milione di posti fissi, i quali non potranno mai più essere recuperati. E ha imposto la chiusura di decine di migliaia di esercizi commerciali, costringendo alla disoccupazione o al lavoro nero moltissimi autonomi con partita IVA. Il precariato si è moltiplicato nel privato come nel pubblico, spesso sprofondando nell’orrore esistenziale e sociale del lavoro gratuito. Ciò non toglie che il lavoro indipendente, o meglio l’attitudine a operare in proprio o in autonomia, su commessa o a progetto, resterà in futuro la condizione necessaria per condurre un’attività retribuita. Finché si continueranno a effettuare spending review sul bilancio dello Stato, finché sarà mantenuto il blocco delle assunzioni nella pubblica amministrazione, e persisterà la crisi produttiva e di identità della grande impresa capitalistica, il lavoro indipendente costituirà un’alternativa e una risorsa vitale. A condizione, però, di essere tutelato e riconosciuto come elemento centrale della cittadinanza, cioè come parte determinante del Quinto Stato, anziché come prodotto di un atteggiamento predatorio o interessato rispetto alla cosa pubblica. A noi il lavoro indipendente interessa per le sue caratteristiche strutturali e per la sua capacità, non maggioritaria ma culturalmente significativa, di dimostrare che il suo «fare da sé» è la premessa per una nuova autonomia nel lavoro e nella società: un’autonomia che riesce a coniugare indipendenza individuale e cooperazione sociale. Gli elementi per procedere in questa direzione non mancano. Per comprenderli è necessario partire da un’analisi più accurata della pluristratificazione del lavoro indipendente. Esso si colloca in una posizione trasversale, e sempre mo- 2. LAVORO INDIPENDENTE 29 bile, tra un’appartenenza di classe e una di ceto. Oggi l’esercizio di un lavoro autonomo, intermittente e la stessa attività auto-imprenditoriale rivelano una distanza, o asincronia, tra la classe sociale di provenienza e lo status di cui la professione esercitata dovrebbe essere l’espressione. Ad esempio, può essere indipendente sia il datore di lavoro o committente con la partita IVA, sia il suo «prestatore d’opera» che lavora con lo stesso strumento. Il primo può avere un reddito più che rispettabile, da classe media o da imprenditore, il secondo può guadagnare anche meno di un qualsiasi salariato. Si lavora così sia negli studi professionali che negli esercizi commerciali, nei centri estetici oppure tra avvocati, senza contare le piccole o piccolissime imprese che si occupano di distribuzione o servizi. Da qui deriva un’altra delle caratteristiche del Quinto Stato: l’impossibilità di individuare in esso un ceto sociale prevalente attraverso il quale definire la sua posizione rispetto a gruppi sociali più riconoscibili: l’operaio, l’impiegato o il grande imprenditore. Tra chi esercita un lavoro indipendente si rilevano almeno due tipi di differenze di classe. C’è quella classica legata al reddito, e alla proprietà, tra prestatore d’opera e datore di lavoro e poi quella, più sottile, relativa al riconoscimento sociale di uno status connesso all’istruzione e alla conoscenza. Molto spesso, il datore di lavoro ha un grado di istruzione inferiore a quello dei suoi lavoratori con partita IVA o con contratti a termine e di collaborazione. Questa è stata una costante in tutta la storia recente del lavoro indipendente in Italia, al punto che ancora oggi, soprattutto nelle piccole e piccolissime imprese, anche quelle operanti nell’ambito della conoscenza o dei servizi immateriali, i lavoratori possono vantare preparazione e competenze superiori ai manager e ai proprietari dell’attività. Nel 2010, il trentasette per cento degli occupati italiani classificati come «manager» aveva tutt’al più la scuola 30 I. CHE COS’È IL QUINTO STATO? dell’obbligo, contro il diciannove per cento della media europea. In Germania, con una consistenza del settore manifatturiero simile alla nostra, i manager con livello di studi analogo arrivano al sette per cento.3 Questa situazione incide pesantemente sul lavoro indipendente dove confluisce gran parte degli elementi delle nuove generazioni che hanno studiato e si sono specializzate. Questi giovani vengono assunti per oltre l’ottanta per cento con contratti a termine o esercitano la propria attività tramite la partita IVA, entrando così in contatto con una struttura produttiva, quella del nostro Paese, condizionata dal nanismo delle imprese, da un deludente tasso di innovazione tecnologica, oltre che dall’arretratezza della pubblica amministrazione e dal bassissimo numero dei laureati e dei lavoratori specializzati. Caratteristiche che hanno plasmato il lavoro indipendente in questi anni, inserendolo in un conflitto di classe sempre più basato sul possesso di saperi il cui valore non viene riconosciuto come dovrebbe. Le lotte di classe in corso nel lavoro indipendente, quelle legate al reddito e al sapere, hanno aumentato a dismisura la distanza tra l’appartenenza sociale e quella di ceto, ribaltando i tradizionali posizionamenti. In molti casi, infatti, gli indipendenti con un reddito familiare da ceto medio e una preparazione universitaria occupano il posto dei subalterni, oppure sono vessati e finiscono per essere del tutto esclusi dal godimento di un lavoro propriamente detto. Senza contare la maggioranza di coloro che provengono da uno strato sociale più modesto, non possono contare su una rete di relazioni o su una preparazione qualificata e pertanto vivono una condizione ancora peggiore di esclusione e impoverimento. La sottoccupazione, il precariato, il lavoro gratuito e il sistematico disconoscimento delle competenze professionali è la condizione prevalente sia nel settore del professionismo autonomo che in quello più largo del lavoro inter- 2. LAVORO INDIPENDENTE 31 mittente, precario, delle collaborazioni a progetto, tanto nel pubblico quanto nel privato. Il dumping salariale, e la reale difficoltà a svolgere un’attività lavorativa in Italia, sono alcuni degli effetti della lotta di classe in corso dentro il lavoro indipendente tra datori e lavoratori, tra rentier e new comers, tra ricchi e poveri, tra indipendenti forti e affluenti e intermittenti deboli e a rischio di esclusione sociale. Questa situazione ha ridotto le possibilità di identificarsi in un ceto, quello della piccola borghesia ad esempio, oppure nell’appartenenza corporativa a una professione, moltiplicando in tal modo le divisioni di classe tra individui che esercitano lo stesso lavoro e provengono da universi di valori e legami apparentemente simili ma in realtà sideralmente distanti. A sei anni dal suo inizio, la crisi ha cambiato profondamente, e in maniera irreversibile, il lavoro indipendente e la sua definizione. Questa novità si è affermata sia per motivi congiunturali legati a una crisi profonda dell’economia, sia per una trasformazione strutturale del lavoro in corso da almeno una generazione. I confini accertati del lavoro indipendente si sono diluiti al punto da investire settori anche molto diversi dal lavoro autonomo o dalla piccola impresa propriamente detti: ci riferiamo ad esempio, al precariato. Caso unico nell’Occidente capitalistico, la legislazione italiana sul lavoro, con la complicità di un’intera classe imprenditoriale, ha creato un esercito di lavoratori precari che potrà essere regolarizzato con grandi difficoltà. Questa popolazione di lavoratori poveri, soggetti al turn-over selvaggio di un sistema burocratico e imprenditoriale interessato principalmente al risparmio sul costo del lavoro, ha stabilizzato una zona grigia di posizioni lavorative e produttive che oscillano tra il lavoro autonomo e quello eterodiretto, tra la 32 I. CHE COS’È IL QUINTO STATO? subordinazione esclusiva e la flessibilità discrezionale, tra l’intermittenza retributiva e quella lavorativa. Sono a tutti gli effetti dipendenti di un’impresa, o di un’amministrazione, ma questo status non verrà mai riconosciuto loro perché sono anche «precari», vale a dire lavoratori intermittenti, indipendenti o stagionali, assumibili o licenziabili a seconda delle esigenze congiunturali, la disponibilità di fondi statali o europei, la buona volontà di un burocrate o di un sindacato di prolungare un contratto. È necessario distinguere questo precariato dai lavoratori autonomi a partita IVA afferenti alla gestione separata dell’INPS (282.000 su 1,8 milioni di iscritti nel 2011). Questi ultimi svolgono infatti un’attività autonoma «pura»: offrono sul mercato le loro competenze, trovano un committente e trattano da pari a pari l’incarico e il compenso, praticano la concorrenza. I punti di contatto tra queste estremità sono tuttavia così numerosi da provocare cortocircuiti impressionanti. Sempre più precari vengono inquadrati con la partita IVA e pertanto trattati come lavoratori autonomi. Sempre più lavoratori con partita IVA svolgono a tutti gli effetti mansioni da dipendenti. Solo nella televisione di Stato italiana, la Rai, esistono almeno duemila lavoratori autonomi che potrebbero essere inquadrati indifferentemente nella categoria dei «precari» e in quella dei «professionisti» con partita IVA. La confusione è arrivata a un punto tale da costringere il governo Monti a inserire una regola apposita nella riforma Fornero, approvata nel giugno 2012, per sanzionare l’abuso delle «false partite IVA». L’attuazione del provvedimento è stata tuttavia posticipata al giugno 2014 da una circolare del Ministero del Lavoro, a seguito di una decisa opera di lobbying da parte degli ordini professionali e delle aziende, oltre che degli apparati dello Stato, che non intendono rinunciare all’uso di questa forza-lavoro senza pieni diritti e a basso costo. 2. LAVORO INDIPENDENTE 33 Senza contare che è lo stesso Stato italiano ad avere usufruito per vent’anni dei risparmi derivanti dalla precarietà di massa. Qualche esempio può essere utile per comprendere le dimensioni di questo fenomeno. Nel 2011 i precari della scuola erano oltre trecentomila (su quasi un milione di dipendenti).4 Nello stesso anno, la Ragioneria Generale dello Stato ha censito 35.193 precari (su 682.477 dipendenti) nella sanità pubblica. Complessivamente, nel 2011 i precari nella pubblica amministrazione che lavoravano nei servizi pubblici, sociali e per gli enti locali erano 514.814. A questi bisogna aggiungere tutti coloro che sono impiegati, con i contratti più vari, da cooperative o aziende che dipendono integralmente dai finanziamenti stanziati dagli enti locali o da altri enti pubblici. Non sono dunque lavoratori alle dipendenze dirette dello Stato, ma la loro sopravvivenza è strettamente legata all’intervento statale. Buona parte di queste persone lavora con partita IVA o con un contratto di collaborazione stipulato con un soggetto terzo (una cooperativa, ad esempio), che riceve un appalto o un subappalto da una delle articolazioni centrali o periferiche dello Stato. Nei fatti sono dipendenti mascherati di un datore di lavoro con il quale non entreranno mai in contatto, perché sono pagati da un suo mandatario. Questa complessa architettura dimostra che lo Stato italiano, il più grande sfruttatore mondiale di lavoro precario, quindi a minor costo (previdenziale e fiscale) per il datore di lavoro, si è organizzato come un’impresa postfordista. Il vertice di questa organizzazione – che può essere rappresentata come una fisarmonica che si gonfia o si sgonfia in funzione delle esigenze della produzione o dei fondi nazionali o europei a disposizione, oltre che dei vincoli clientelari che impongono ricatti occupazionali – non saprà mai cosa accade alla base della piramide. E viceversa: la base ignora chi dirige al vertice. Questo sistema altamente sofisticato è dominato 34 I. CHE COS’È IL QUINTO STATO? dall’imperativo categorico dell’industria italiana: risparmiare sul costo del lavoro. La pubblica amministrazione esercita tale principio dalla fine degli anni Novanta del XX secolo, quando la sostituzione dei pensionati con nuovi impiegati è stata sostanzialmente bloccata a favore dell’implementazione del lavoro precario. Con la crisi del 2008, che ha spinto i governi ad adottare brutali politiche di riduzione della spesa pubblica, si è cominciato a espellere massicciamente il lavoro precario e i dipendenti dai comparti dello Stato. I dati dell’ARAN, l’agenzia che rappresenta la pubblica amministrazione nella contrattazione collettiva nazionale, parlano chiaro. I dipendenti pubblici sono passati da 3.627.139 a 3.396.810 tra il 2006 e il 2011, con una diminuzione di 232.000 unità, 161.000 solo nella scuola. Contrariamente a una delle leggende diffuse dai sostenitori dello «Stato minimo», questi numeri dimostrano che l’Italia è sotto la media OCSE per numero di occupati nella pubblica amministrazione. Sono meno di quelli francesi, e lo si può capire, considerate le tradizioni dei vicini d’Oltralpe. Ma, sorpresa, l’Italia si classifica sotto i paesi presi a modello dai sostenitori del neoliberismo scatenato: gli Stati Uniti e la patria dell’Iron Lady Margaret Thatcher. Sotto di noi ci sono solo i «PIGS» Spagna e Portogallo, seguiti dalla Germania. Questa tendenza continuerà nei prossimi anni con un calo del 2,3 per cento degli impiegati. Per la Ragioneria Generale dello Stato il risparmio sugli stipendi è stato notevole: nel 2011 la spesa è calata dell’1,6 per cento rispetto all’anno precedente, 170 miliardi. Nel 2012 essa è ulteriormente calata a 165,36 miliardi di euro. Il precariato nel settore pubblico è solo una piccola parte del Quinto Stato emerso dopo lo scioglimento del ghiacciaio del lavoro salariato. I lavoratori con un contratto a termine in Italia sono oltre tre milioni. Nel 2012 guadagnavano 836 euro netti al mese, la media tra i 927 euro per gli uomini e i 2. LAVORO INDIPENDENTE 35 759 euro per le donne. Solo il quindici per cento di loro è laureato, quasi uno su due ha un diploma di scuola media superiore, mentre il restante trentanove per cento ha concluso il percorso di studi con il conseguimento della licenza media. Gli «atipici» che lavoravano nel 2012 erano 436.842 nel commercio, 414.672 nei servizi alle imprese, 337.379 in alberghi e ristoranti. Mezzo milione nel pubblico impiego, più di tre milioni di precari nel privato, quasi due milioni di iscritti alla gestione separata dell’INPS, senza contare coloro che vivono e lavorano nella «zona grigia» tra un’occupazione precaria e una autonoma o di auto-impresa, tra il precariato e il lavoro informale: queste persone vivono in una condizione diversa dal puro e semplice «disagio occupazionale». Non sono chiaramente tutte disoccupate, anche se sono in molte ormai a ritrovarsi in questa situazione. Non tutte possono essere trattate da «precari», anche se conducono una vita condizionata dall’intermittenza del reddito. Non rientrano nemmeno nella categoria della «piccola impresa» o del lavoro autonomo propriamente detto, anche se in molti casi sono abituate a cambiare lavoro, spesso a inventarselo. L’insieme di questi esempi non può essere ricondotto all’unità di un soggetto riconoscibile. Si può tuttavia sostenere che in Italia esistono almeno otto milioni di persone che condividono la medesima condizione, quella del Quinto Stato, risultato dell’estensione massiccia delle caratteristiche strutturali del lavoro indipendente (definito dal legislatore «non standard» o «atipico») a quello tradizionalmente subordinato e dipendente, anche quest’ultimo sempre meno garantito. Il Quinto Stato vive come un apolide in patria a cui viene riconosciuto il diritto di lavorare, ma puntualmente alle peggiori condizioni disponibili e senza diritti. Inutile attendere che esso in futuro ottenga un migliore inquadramento e maggiori tutele da parte 36 I. CHE COS’È IL QUINTO STATO? di una classe imprenditoriale o di una burocrazia statale che, per ragioni diverse, trovano conveniente mantenere lo status quo. Anzi, con la crisi attuale, queste compagini hanno rafforzato i presupposti della sua marginalizzazione. Considerata la sua consistenza numerica, così come la sua centralità produttiva, non si può escludere che la nascita del Quinto Stato sia il risultato del più generale riassetto strutturale che ha investito il mondo del lavoro anche in Italia. Abituati, come siamo stati da almeno un secolo, a ragionare sul lavoro salariato, non ci siamo accorti che oggi il lavoro indipendente è diventato la condizione prevalente della vita operosa, anche per chi ancora non ne fa parte, ma sente le tradizionali sicurezze sbriciolarsi sotto i colpi di una trasformazione capitalistica epocale. Parlare di Quinto Stato significa porsi all’altezza di una novità storica che stentiamo ancora a riconoscere come risorsa per il presente e per il futuro. Capitolo terzo Un movimento, non uno Stato Il Quinto Stato è in realtà un movimento, non uno Stato, che oggi vive in una bolla temporale: il suo movimento sembra ridursi alla continua fluttuazione tra un’illusione retrospettiva e un’apertura sulle potenzialità del futuro. I precari, gli autonomi, gli indipendenti non sono rappresentati ai tavoli dove si contrattano gli accordi aziendali o politici, negli spazi pubblici o riservati dove si decidono i confini del patto sociale. Sono invisibili agli occhi dei sindacati o della rappresentanza parlamentare. La loro identità sembra essere evaporata, insieme alla capacità di far sentire la propria voce attraverso canali indipendenti. Continuano a essere confusi con figure supplenti, veri e propri sostituti simbolici che travisano la loro condizione, che è poi quella generale della società. I discorsi ufficiali riducono questo movimento del Quinto Stato a un campo semantico che oscilla tra il concetto di «povero» e quello di parassita, di plebe o di muta umana. Il Quinto Stato è iscritto nel campo dell’esclusione e dello stigma sociale. Questo è l’esito di una lunga vicenda, sconosciuta ai più, che possiamo ricostruire attraverso l’uso che in passato è stato fatto del concetto di «Quinto Stato». Uno scrittore come Ferdinando Camon l’ha assimilato al mondo contadino in un romanzo, Il quinto stato, pubblicato nel 1970 con una pre- 38 I. CHE COS’È IL QUINTO STATO? fazione di Pier Paolo Pasolini. Non poteva essere altrimenti, visto che in quegli anni, con i suoi film e poesie, lo scrittore veneto si appellava all’archetipo millenario del mondo contadino opponendolo alla «modernità» del neocapitalismo. Camon, di origini padovane, dedica il primo romanzo «della pianura» «al mio popolo contadino che non [ha] mai raccontato se stesso, la propria storia, gli spietati eroismi e la millenaria rassegnazione»1 e descrive il Triveneto come un’oasi del Terzo Mondo «immobile e morente nel cuore di una delle nazione europee in più vorticosa trasformazione». Per Camon, il Quinto Stato sarebbe costituito da un popolo che non conosce la lingua della propria nazione, fermo al culto dei morti, allo spiritismo, al feticismo, alla presenza dei diavoli, a un cattolicesimo che sfocia nel paganesimo. Con l’espressione Quinto Stato l’autore veneto alludeva a uno dei caratteri «nazionali» più frequentati: quello dell’italiano proletario, contadino, industrioso e creativo, vittima e protagonista della divisione tra città e campagna. Questo «contadino» viveva in un isolamento distante secoli dal processo di modernizzazione in atto nelle città del Nord o del Sud. Così inteso, il Quinto Stato sarebbe l’espressione di una «vita eterna», il carattere intramontabile di un mondo fuori dalla storia. Quarantré anni dopo, il Censis ha descritto la popolazione italiana alle prese con la crisi negli stessi termini: chissà se al fondatore e attuale presidente del Censis, Giuseppe De Rita, è capitato recentemente di rileggere il romanzo di Camon. In un rapporto del 2013 che descrive le conseguenze della crisi sulla vita della popolazione, a giudizio dell’istituto di ricerca l’unico elemento che resiste nella catastrofe generalizzata delle istituzioni e dei valori è lo «scheletro contadino» degli italiani. Lo dimostrerebbe la loro attitudine al risparmio, al ritorno alla morale e al senso della famiglia dopo la sbornia del capitalismo consumistico e dell’anarchia dei desideri.2 Più prosaicamente, questo ritorno ai valori fon- 3. UN MOVIMENTO, NON UNO STATO 39 danti della «comunità nazionale» è dettato dal ruolo di ammortizzatore sociale svolto dalla famiglia a favore dei figli o dei parenti precari e disoccupati che ricevono sostegni di varia natura in un Paese dove non esiste un welfare moderno a tutela di chi ha perso il lavoro e, venti anni dopo, si è ancora alla ricerca di quella «Magna Charta delle attività immateriali, saltuarie, servili».3 Invece di pretendere la riforma radicale dello Stato sociale, introducendo ad esempio un reddito garantito e incondizionato (l’Italia, insieme a Grecia e Ungheria, è l’unico Paese europeo a non prevederlo nemmeno nella forma minimalistica di un welfare-to-work), la sociologia s’inalbera richiamando categorie metafisiche.4 La persistenza di uno «scheletro contadino» nella storia contemporanea è una deriva letteraria dell’analisi sociologica in tempi di crisi e trasformazione come il nostro, e com’era anche quello in cui uscì il romanzo di Camon. Secondo Pasolini, negli anni Settanta era in corso un «genocidio» delle tradizioni, delle lingue e della storia del mondo contadino, non solo di quello italiano. Quel «genocidio» ha lasciato sul campo un’eredità ingombrante sotto forma di un ricordo remoto, uno scheletro, un residuo, o meglio di una «restanza», come scrive il Censis. Insomma la memoria dei morti condiziona l’esistenza dei vivi nel ritorno dell’identico. La necessità di tornare a modelli del passato per spiegare il presente non è nuova, anche se ha conosciuto tentativi più riusciti di quello attuale, come il ricorso alla storia romana durante la Rivoluzione francese. Attraverso la ripetizione del passato di solito si cerca di dare una forma a un futuro imprevedibile, prodotto di una radicale discontinuità storica. Il Quinto Stato non è certamente il mondo contadino e non risponde a un particolare carattere nazionale. Questo è il primo dato che rende la nostra condizione inquietante agli occhi degli esperti, come delle istituzioni. Le scaturigini dell’attuale situazione potrebbero risalire al 1970, usando 40 I. CHE COS’È IL QUINTO STATO? la data di pubblicazione del romanzo di Camon come uno spartiacque. Da quel momento, nel Quinto Stato si è manifestato un movimento generale della società capitalistica che non risponde ad alcun modello predeterminato, non segue una teleologia storica e non può essere descritto nemmeno con la ripetizione di paradigmi del passato. Questo movimento ha una natura per così dire autopoietica, provvede cioè da solo a elaborare forme e contenuti, imponendoli nella lotta tra le rappresentazioni sociali. Questa auto-poiesi è appena all’inizio, ha formulato le prime ipotesi di espressione, si è scontrata con i modelli precedenti, talvolta ne ha acquisito alcuni elementi, altre volte li ha trasformati o rimossi. Per comprenderla è necessario rintracciarne la lunga durata, e le sue manifestazioni puntuali, senza però dimenticare che essa non risponde alla conquista di un ordinamento sociale o giuridico (uno Stato appunto), ma si esprime attraverso un conflitto, una lotta, contro le strutture acquisite. Sta qui l’estrema debolezza del Quinto Stato, un movimento che non ha forma o contenuto determinati, ma attraversa le classi e i ceti esistenti. Per questa ragione si presta a essere identificato con i modelli sociali precedenti, come il mondo contadino. Il Quinto Stato è una contraddizione esplosiva. Per essere precisi, i contadini appartengono al «Quarto Stato». Non si può tuttavia escludere che il Quinto Stato abbia attraversato la storia, e le tradizioni, del mondo contadino, mantenendo le proprie specificità per poi emanciparsi definitivamente. La storia recente del Veneto lo dimostra. Il Quinto Stato di Camon può essere considerato l’antefatto, anche se il romanzo non coglie la trasformazione che si sarebbe rivelata da lì a poco. Episodi simili sono accaduti in regioni come le Marche, l’Umbria o l’Emilia Romagna, la Puglia, ad esempio. Il decennio successivo alla pubblicazione di questo romanzo è stato caratterizzato dall’afferma- 3. UN MOVIMENTO, NON UNO STATO 41 zione del Quinto Stato che può essere descritta nei termini di una «vera, enorme, radicale rivoluzione antropologica», la seconda avvenuta in Italia dopo quella del neo-capitalismo alla metà degli anni Cinquanta nell’ambito dell’industria e del lavoro salariato.5 Questa «rivoluzione» ha creato una nuova identità che non è solo «televisiva», «neo-capitalistica», «consumistica» per usare ancora il linguaggio di Pasolini. Essa si è certamente emancipata dall’arretratezza di un mondo che non aveva ancora conosciuto il capitalismo e non può essere considerata solo come l’imposizione di un carattere omogeneo ai danni di soggetti passivi. I protagonisti del Quinto Stato non hanno nulla da spartire con l’immobilismo millenario raccontato da Camon o da Pasolini e nemmeno con la vicenda delle rivoluzioni contadine vittoriose in Russia e in Cina, ma perdenti in Germania nella prima modernità.6 Parliamo invece di una condizione completamente diversa la cui storia è appena all’inizio. Essa ha avuto la capacità di diventare protagonista di un’ipermodernizzazione brutale che ha portato a una ricchezza diffusa, anche se profondamente diseguale. Il protagonista è un soggetto che presenta caratteristiche differenti da quelle indicate da Camon. Questo soggetto è riuscito a scatenare una nuova forma di conflitto nei luoghi della produzione, così come nel rapporto tra il mondo contadino e la nuova realtà sociale. La sua vicenda si inserisce nel percorso delle lotte operaie e proletarie iniziate nel 1959 e proseguite fino alla fine degli anni Settanta.7 Il biennio ’68-’69, così come il 1977, è centrale nella storia del lavoro indipendente. In quegli anni esplosero la rivolta studentesca e quella operaia, mentre venivano conquistati lo statuto dei lavoratori e una serie non trascurabile di diritti civili e sociali.8 Dentro e intorno al Quinto Stato contadino dal quale fugge Ferdinando Camon c’è la radicale trasfor- 42 I. CHE COS’È IL QUINTO STATO? mazione del tessuto sociale italiano, che fa da contraltare all’innovazione economica nel tardo capitalismo maturo e nell’industria pesante italiana, nel passaggio verso il postfordismo e l’affermazione di quella «Terza Italia» di nuova industrializzazione (Nord-Est, Marche, Toscana, Umbria ed Emilia-Romagna), rispetto alle altre due «Italie» della grande industria fordista del triangolo Torino-Genova-Milano e del Meridione, costretto tra burocrazia para-pubblica e sovvenzioni statali, con la Cassa del Mezzogiorno istituita nel 1950. E, nello stesso scorcio degli anni Sessanta-Settanta del Novecento, le grandi città diventano il serbatoio del precariato metropolitano, del lavoro nella società dello spettacolo e del suo indotto (comunicazione, informazione, istruzione, pubblicità, grafica, pubbliche relazioni, assistenza alla persona).9 I contadini, i proletari, gli operai di ritorno dall’emigrazione nelle fabbriche tedesche, maturarono la vocazione al lavoro indipendente. Iniziarono ad associarsi per creare piccole o piccolissime imprese. Le aspirazioni legate fino a quel momento al lavoro salariato si trasferirono al lavoro indipendente. Questa è stata la spinta decisiva che ha portato alla formazione di un nuovo territorio, la metropoli «LombardoVeneta», costituita da un’infinita sequenza di capannoni e di imprese familiari, alta flessibilità, produzione artigianale e industriale, micro-imprese sparse nelle filiere corte del capitalismo molecolare, distretti industriali che avrebbero superato le crisi del modello fordista, maturando la vocazione all’export. Dopo la caduta del Muro di Berlino, gli indipendenti si sono spinti verso l’Europa dell’Est e l’Asia.10 Pasolini non ebbe il tempo di comprendere la natura di questo processo, mentre Camon ha descritto gli albori di questa «Terza Italia»11 dove il lavoro indipendente si emancipava dal capitalismo fordista e dalla grande impresa manifatturiera, dalla povertà e dall’economia del baratto del mondo contadino. Oggi il Quinto Stato appare agli occhi 3. UN MOVIMENTO, NON UNO STATO 43 della comunità nazionale come un amalgama di interessi proprietari, speculativi e persino razzisti dei piccoli imprenditori o dei loro dipendenti che lavorano nell’immensa regione dei distretti industriali che si estende dal Piemonte alla Romania. Così inteso, il Quinto Stato è ben lontano dal riuscire a riscuotere simpatia o solidarietà. Le sue manifestazioni non sono tuttavia riducibili solo alla «Terza Italia». L’origine di questa storia non corrisponde alla fine di un mondo, ma indica l’esistenza di una condizione che si è affermata lentamente, e non senza contraddizioni, fuori dalla cultura costituzionale, da quella operaia o sindacale della sinistra, così come da quella repubblicana che si è riconosciuta nello Stato centrale. Questa è la discontinuità in cui viviamo ancora oggi. Nello Stato unitario, non si è mai data l’affermazione consapevole di una forma di convivenza, economica e sociale, diversa da quella della borghesia o della classe operaia, ambedue spinte verso il loro «divenire ceto medio». Il lavoro indipendente indica la presenza di una novità che si è imposta rovesciando le antiche gerarchie o istituendo un rapporto originale tra modelli sociali e modelli di sviluppo. Piuttosto che identificare il Quinto Stato con i contadini, oppure con altre figure «minori» della storia nazionale, bisogna considerare come il lavoro indipendente abbia trasformato i rapporti di classe consolidati, insieme alle loro infinite variazioni e articolazioni. Il quinto stato è il titolo di un altro libro scritto nel 1960, quindi dieci anni prima del romanzo di Camon, da Salvatore Valitutti, prestigioso giurista liberale, già membro dell’Istituto di Cultura Fascista dal 1933, poi vicepresidente dell’Opera Montessori e ministro dell’Istruzione nel 1979. Questo libro allarga lo spettro della nostra osservazione al mondo della formazione, e in particolare ai giovani e alla loro ca- 44 I. CHE COS’È IL QUINTO STATO? pacità di auto-affermazione, elementi utili ad allontanare il Quinto Stato dall’identità economicistica o bucolica al quale è stato consegnato. Valitutti considera il Quinto Stato come l’alternativa al corporativismo dei sindacati, alla rappresentanza parlamentare e un antidoto contro il deperimento della politica. Esso sarebbe la manifestazione del «divenire della società» e di una lotta per il diritto non riconosciuta dalle classi sociali esistenti che si governano come «microorganismi». Per Valitutti, il Quinto Stato è l’avversario dello Stato, inteso come ordinamento giuridico e politico, ma è anche l’antagonista del Quarto Stato. Le sue rivendicazioni non raccolgono consenso tra i partiti e i sindacati che anzi molto spesso le combattono. In questa descrizione si ritrovano tutti i caratteri sociali che hanno dato vita alla Terza Italia, ma è indubbio che essi ritornino anche nella realtà contemporanea. L’attenzione di Valitutti va ai giovani, agli studenti e ai «senza lavoro, che appartengono alla società in movimento, quelli che sono alla ricerca del loro lavoro» in una società corporativa. Il Quinto Stato non è identificabile con l’insieme dei disoccupati e dei sotto-occupati, ma con il movimento di chi: « dal non lavoro vuole passare al lavoro, o da un tipo di lavoro ad un altro tipo di lavoro, entra a far parte idealmente, per questa sua volontà, del quinto stato». Dinanzi al Quarto Stato degli operai e dei contadini e al Terzo Stato della borghesia, Valitutti delineava un Quinto Stato «costituito da coloro che non avendo nessun lavoro certo e definito, erano e sono fuori di ogni organizzazione sindacale, statale o burocratica». I giovani sospesi tra un non più e un non ancora incarnano per Valitutti la condizione di un Quinto Stato che non può essere incasellata in una determinata categoria sociale, né in un lavoro. «La gioventù è il grande vivaio del quinto stato» e, cosa ancora più importante, questa condizione attraversa tutti i ceti sociali e le categorie consolidate del la- 3. UN MOVIMENTO, NON UNO STATO 45 voro. Dunque, più che ridurlo a una figura sociale determinata, Valitutti delinea la funzione politica del Quinto Stato: rinnovare di continuo la società, la propria condizione. «Il quinto stato è lo stato del mutamento e del progresso», scrive Valitutti, «perché è lo stato di tutti coloro che non hanno una condizione stabile. Esso raccoglie le forze della trasformazione e del movimento in lotta contro l’inerzia delle posizioni costituite». Questa rappresentazione fluida, simile a un potere costituente o insurrezionale che ricorda Sorel e la sua idea di sindacalismo rivoluzionario, suscita alcune perplessità. Non solo perché costituisce ancora l’argomentazione principale della destra e dei neoliberisti che si scagliano contro il corporativismo dei sindacati, la burocrazia e il familismo di una società ermeticamente chiusa, ma anche perché rappresenta l’espediente retorico prescelto dagli imprenditori che vogliono «ringiovanire» il Paese, aprirlo alla concorrenza, con l’evidente intento di risparmiare sul costo del lavoro e danneggiare i più giovani e i meno garantiti. Valitutti ha intuito una delle cause della crisi italiana, cioè un ordinamento giuridico fondato sul lavoratore dipendente e sul grande imprenditore, ma vede la soluzione nella meritocrazia che premia i giovani efficienti nella competizione con i vecchi improduttivi. Così facendo, egli identifica il Quinto Stato con l’emergere delle nuove generazioni che chiedono una maggiore mobilità sociale e il riconoscimento dei meriti individuali. Valitutti fa un discorso capitalistico. Il giurista era affascinato dagli Stati Uniti di cui apprezzava la mobilità sociale e «l’abbondanza di opportunità offerte al quinto stato». Sono gli stessi argomenti che tornano all’inizio del XXI secolo. L’evocazione del sogno di società meritocratica è comprensibile in una società clientelare, corporativa, corrotta come la nostra. Parlare di «meritocrazia», di «giovani» contro «anziani», di «non garantiti» contro garantiti è diventata la 46 I. CHE COS’È IL QUINTO STATO? norma del discorso sulla società e sul lavoro, dalla Confindustria ai sindacati fino ai governi di ogni colore. L’impotenza dei sindacati ad auto-riformarsi, la scomparsa politica e culturale della sinistra e l’affermarsi delle ricette neoliberiste basate su una visione aziendalistica della società, hanno rafforzato questa visione. Ciò che dev’essere premiato è il merito individuale dei «giovani» che si candidano a ricoprire una posizione sociale superiore a quella dei genitori, entrando così a far parte del ceto medio. La versione di Camon, il Quinto Stato è il mondo contadino, o quella di Valitutti, il Quinto Stato sono i «giovani», colgono solo alcuni tratti di un fenomeno generale. La prima si rifugia in un mondo immobile e impotente, la seconda si affida all’idea di una lotta senza speranza tra gli individui che finisce per confermare i rapporti di forza esistenti. La stessa vicenda della «Terza Italia» descrive un Quinto Stato padronale, localistico e autoritario. Queste prospettive hanno tuttavia mostrato una doppia novità: il Quinto Stato è disorganizzato ed è alla ricerca di un’organizzazione, senza la quale è indifeso. Quando invece riesce a dotarsi di un’organizzazione, e conquista una forma e una capacità di auto-rappresentazione, allora esso si pone come un movimento sociale estraneo alle corporazioni professionali, sindacali, come alla mediazione dei partiti politici. Le sue scelte politiche sono senz’altro deludenti, ma bisogna considerare un altro aspetto: il Quinto Stato, almeno nelle sue parti emerse fino ad oggi, ha una concezione utilitaristica della politica, appoggia chi fa i suoi interessi, com’è costume ormai in Occidente. Non si è mai posto il problema della lotta politica in quanto tale: ha delegato tutto ai politici e ha fallito. Ciò non toglie però che abbia rilevato l’inadeguatezza della politica ad affrontare i suoi problemi e a comprendere la novità storica che esso rappresenta. Siamo convinti che nel Quinto Stato siano presenti altri principi costitutivi, ispirati all’autorganizzazione e a una tra- 3. UN MOVIMENTO, NON UNO STATO 47 dizione storica spesso soffocata nella Terza Italia: il municipalismo civico e repubblicano, dell’associazionismo e del mutualismo. Entrambi questi elementi stanno riemergendo come alternativa alla crisi della politica rappresentativa come di quella «dal basso» dei movimenti. Capitolo quarto Ceto medio Garantiti o intraprendenti, moderatamente benestanti, riconosciuti come cittadini laboriosi in quanto appartenenti a categorie sociali definite, si è creduto che i lavoratori indipendenti, i piccoli imprenditori, gli impiegati pubblici condividessero lo stessa identità del ceto medio. Nell’immaginario sociologico, politico e sindacale, il ceto medio è ancora oggi rappresentato da laureati con una professione e da proprietari di ceto borghese che compongono un vasto insieme di categorie sociali produttive, dai contorni sfumati, e che esercitano un ruolo nello Stato, nel commercio, nell’industria o in una libera professione. L’idea del «ceto medio» è talmente polimorfa da avere raccolto gli operai, o almeno la loro componente più specializzata e garantita, collocandoli sullo stesso piano della borghesia industriale. L’aspirazione a far parte al «ceto medio» è stata così potente da assorbire progressivamente anche la sfera un tempo considerata alternativa, quella del proletariato moderno, del movimento operaio. Anch’essa è stata neutralizzata nella categoria di «ceto medio». Oggi questa aspirazione non è scomparsa, ma la realtà in cui vive una buona parte dei suoi presunti referenti smentisce la rappresentazione di un ceto medio tanto numeroso e differenziato, quanto omoge- 50 I. CHE COS’È IL QUINTO STATO? neo e organico. Non intendiamo affatto escludere l’esistenza di persone che vivono del proprio lavoro nei settori indicati; neghiamo semplicemente l’esistenza di una condizione definibile come «ceto medio» capace di descrivere il processo di proletarizzazione e di impoverimento in atto, prima tappa di una lunga deriva verso l’anomia sociale. Quando si evoca la «crisi del ceto medio», si allude all’evaporazione dei confini tra le classi sociali avvenuta negli anni in cui il ceto medio tradizionale ha perso la sua centralità politica a favore di un’opulenta upper middle class che vive di rendita: capitalisti e grandi professionisti, ceti politici e burocrazie di Stato che vengono definiti «casta» dalla retorica dominante. Dall’inizio della cosiddetta «Seconda Repubblica», nel 1992-93, il sistema produttivo basato sulla prevalenza dell’industria manifatturiera e l’emergenza dei distretti industriali è stato disarticolato e liquidato dalla delocalizzazione delle imprese, dalla fine del progetto dello Stato-imprenditore, dalla finanziarizzazione dell’economia. La crisi attuale ha liquidato i vecchi ceti produttivi, insieme all’ultima generazione di imprenditori.1 Questo processo ha creato una lower middle class, che ha rappresentato nel corso di un ventennio la maggioranza dei lavoratori autonomi e precari, piccoli imprenditori falliti o in crisi, studenti, giovani o meno giovani prestatori d’opera occasionali. Questa «bassa classe di mezzo» si è però estesa al punto da perdere l’identità precedente – vera o presunta che fosse – finendo per assomigliare oggi a un nuovo proletariato, ciò che noi definiamo «Quinto Stato». In essa rientrano categorie del lavoro dipendente, come del lavoro salariato. L’incongruenza tra l’appartenenza di ceto e quella di classe, una delle caratteristiche del lavoro indipendente, è diventata la condizione comune della maggioranza della popolazione attiva. La categoria di «ceto medio» ha perso la sua utilità, epistemologica e politica, e riacquista un senso solo quando designa i liberi professionisti. 4. CETO MEDIO 51 Lo ha confermato il Great British Class Survey, una rilevazione statistica condotta in Gran Bretagna su 161.000 persone e curato nel 2013 dalla London School of Economics e dall’Università di Manchester, e pubblicato anche dalla BBC.2 La tesi dei ricercatori è la seguente: il ceto medio non esiste, ma esistono sei strati sociali: la classe media «affermata», quella «tecnica», i nuovi lavoratori affluenti, gli emergenti lavoratori nei servizi, la classe lavoratrice tradizionale e il precariato. Quest’ultimo viene considerato addirittura al di sotto del «proletariato» classico e indica una fascia della popolazione priva di «capitale economico» e «sociale». Da fenomeno socio-economico, il «precariato» («precariat» secondo il neologismo inglese coniato da Guy Standing)3 è diventato una categoria sociale codificata anche nel Regno Unito. Anche questa classificazione smentisce l’esistenza di una posizione mediana tra le classi sociali dove le differenze convergono fino al riconoscimento di un’unica identità. Essa tuttavia soffre di un’eccessiva rigidità. Designa solo un precariato che precipita verso l’indigenza assoluta, non il processo di proletarizzazione che ha investito tutti i soggetti che un tempo componevano il ceto medio. Il «precariato», che l’analisi confina in una categoria sociale, è in realtà il processo che ieri ha creato la lower middle class e oggi ha dato vita al Quinto Stato. Chi ritiene che oggi sia in crisi il ceto medio come entità autosufficiente è prigioniero della sindrome dello specchietto retrovisore. Guarda al presente con gli occhi rivolti al «Terzo Stato» dell’abate Sieyès, un nome che richiama la Rivoluzione francese e ha condizionato l’intera tradizione costituzionale moderna, oltre che l’equilibrio tra i poteri sociali nel capitalismo. Queste considerazioni vengono formulate a partire da una visione malinconica della società, interessata a evocare modelli ideali di ritorno all’ordine. La convinzione di appartenere al «Terzo Stato», o a qualche suo erede, ha as- 52 I. CHE COS’È IL QUINTO STATO? sicurato alla classe borghese, e alle sue derivazioni, il primato nella rappresentanza democratica, come nell’analisi sociologica. Nel secondo dopoguerra, tale convinzione ha giustificato l’idea per cui la nostra società sia stata il risultato di una progressiva, e inarrestabile, «borghesizzazione» delle sfere sociali esistenti. Il ceto medio sarebbe una formazione sociale aperta verso l’alto e verso il basso, e ciò gli garantisce l’eternità attraverso il ricambio fornito da nuovi ceti impiegatizi e neo-imprenditoriali. Un’analisi più sensibile alle trasformazioni sociali e produttive ha chiarito che il Mittelstand di Max Weber, il ceto di mezzo garante quasi metafisico dell’equilibrio di una società che si sviluppa in maniera organica e non conflittuale, è un’astrazione politica che ha condizionato gli intimi convincimenti dei suoi stessi membri. La crisi attuale ha fatto scoprire una dura realtà al «ceto medio»: solo pochi individui appartengono a un «ceto», in prevalenza ereditato dal nucleo familiare d’origine o da rendite finanziarie. La maggioranza è invece composta da individui «disaffiliati» che non appartengono a un ceto o una classe predeterminata, anche se aspirano legittimamente a conquistare, o a riconquistare, una posizione sociale. Oggi assistiamo al paradosso di una società costruita sui valori del ceto medio e che tuttavia indirizza ingiunzioni contraddittorie ai propri componenti. Da un lato, impone di comportarsi da imprenditori di sé stessi, dall’altro nega a questa «impresa» di agire liberamente sul mercato. Una volta compreso questo scacco e digerita l’umiliazione, nel «ceto medio» cresce la frustrazione. L’indignazione arriva quando scopre che l’emancipazione è vincolata al possesso di un reddito che non tutti possono accumulare, a un patrimonio di rapporti personali o familiari che solo in pochi 4. CETO MEDIO 53 possiedono. I meriti individuali o la carriera professionale contano poco, sebbene la società sia ben disposta ad accettarli. Questa tragicommedia del credersi «Terzo Stato» in ascesa, mentre in realtà si è solo dei parvenu, continua a generare equivoci. Si pensa di vivere in un mondo popolato da milioni di capitalisti tascabili, mentre l’unica moneta comune è rappresentata dalla povertà generale. Nel frattempo, è stata smentita anche un’altra idea relativa al ceto medio: quella per cui basti il possesso di un’istruzione, anche qualificata, per garantirsi la priorità nella selezione sociale. L’idea di Quinto Stato deriva dalla consapevolezza di condividere una condizione di povertà con milioni di altri esseri umani che lavorano. Per questa ragione essa è il risultato dell’impossibilità di identificare il lavoro indipendente, cioè il campo in cui si annidano le nuove povertà, con una classe o con un ceto sociale preciso, tantomeno con un «ceto medio». Il Quinto Stato si esprime attraverso mescolanze tra situazioni sociali opposte e culture del lavoro divergenti. Condividere una condizione comune permette di riconoscere il conflitto ricorrente tra il paternalismo del «padroncino» di una piccola impresa e chi tra i suoi dipendenti è alla ricerca di un’autonomia nel lavoro. Questo conflitto ricorre anche nella pubblica amministrazione, dove sono presenti numerosi «professionisti dipendenti», giovani e meno giovani, precari o consulenti, spesso soggetti allo spoil system della politica. Ed è presente in ogni di rapporto di lavoro precario nel quale entrano a contatto le differenze generazionali tra chi è garantito e chi non lo è.4 La composizione sociale del Quinto Stato induce a un’altra illusione ottica. La sua progressiva affermazione tra le pieghe dell’economia dei servizi, o nei bastioni della burocrazia statale, ha generato l’impressione che il datore di lavoro e il lavoratore condividano il medesimo orizzonte di 54 I. CHE COS’È IL QUINTO STATO? valori. La possibilità di un lavoratore indipendente di ricoprire entrambi i ruoli nel corso della vita ha alimentato questa credenza. Oggi, invece, il conflitto tra datore di lavoro e lavoratore autonomo è più violento che mai. Ai giovani professionisti, agli apprendisti, ai tirocinanti, agli stagisti, ai lavoratori a termine viene negata una retribuzione dignitosa. Moltissimi lavorano gratis, sperando in un futuro migliore. I giovani avvocati che aspettano sulle scale dei tribunali di Napoli o Milano i migranti che hanno bisogno di rinnovare il permesso di soggiorno, e guadagnano quindici euro per ogni pratica, non vivono una condizione molto diversa dall’operaio in cassa integrazione oppure del muratore disoccupato che lavora come piastrellista o falegname freelance. Nella stessa condizione si trovano, ad esempio, i giornalisti precari che guadagnano quattro euro ad articolo. Pensare che questi «giovani» avvocati, e i proprietari o soci degli studi legali per cui lavorano, così come i giornalisti freelance e i loro direttori appartengano al medesimo «ceto medio» è con tutta evidenza un’assurdità. I primi sono «liberi professionisti», i secondi sono i loro schiavi. Padroni e schiavi non sono affatto uguali, ma in Italia questa considerazione viene sottovalutata a favore di rappresentazioni più neutrali e pacificate. Si preferisce parlare del «popolo delle partite IVA».5 Visto che lavorano nello stesso modo, cioè con una prestazione d’opera intellettuale o di un servizio mediante la partita IVA e senza vincolo di subordinazione nei confronti di un committente, allora si pensa che il datore di lavoro e il lavoratore condividano una comunità di destini. Sembra proprio che chi possiede una partita IVA appartenga a un blocco sociale. Una tesi confortata dalla quantità strabiliante di partite IVA che in Italia hanno superato gli otto milioni e comprendono categorie come i commercianti, i benzinai, gli edicolanti, i ristoratori, ma anche avvocati d’affari, artisti e imprenditori. 4. CETO MEDIO 55 Questa rappresentazione riduce l’aspirazione del Quinto Stato al possesso di una particolare forma contrattuale la cui specificità sta nel distinguere tra ditte individuali e società. In un mondo dove il lavoro è un bene sempre più scarso, e l’occupazione duratura è una condizione rarefatta, questa immagine della partita IVA ha tuttavia fatto il suo tempo. Oggi essa rappresenta una possibile via d’uscita dalla disoccupazione, non la promessa di un arricchimento personale. La partita IVA viene considerata come una delle tante forme di prestazioni lavorative a disposizione per sfuggire al precariato e all’inoccupazione diffusa. Alla fine del 2012, per la prima volta, le partita IVA aperte nelle attività professionali, scientifiche e tecniche dai «giovani» tra i venticinque e i trentaquattro anni hanno superato quelle aperte nel settore tradizionale, cioè il commercio e l’artigianato. Anche i cosiddetti «esodati» ricorrono a questo tipo di prestazione. Questa è la realtà degli ex lavoratori dipendenti che hanno accettato un piano di ristrutturazione dell’impresa nella certezza di ricevere la pensione al massimo entro due anni e si sono di colpo ritrovati senza salario e senza pensione a causa della riforma previdenziale che porta il nome dell’ex ministro del Lavoro, Elsa Fornero. Nulla di più lontano dal «popolo delle partita IVA», un’avanguardia a cui è stata attribuita la presunzione di rappresentare l’innovazione e l’eccellenza in un Paese dove vengono riconosciuti solo i diritti dei dipendenti o dei grandi imprenditori. Per valorizzare la condizione del Quinto Stato, che pure è caratterizzata dal ricorso alla partita IVA, è necessario adottare un approccio diverso: tutti dovrebbero essere messi in grado di scegliere, o negoziare, la forma contrattuale, associativa, d’impresa utile per esprimere e tutelare l’autonomia e i risultati della propria attività. Partita IVA, ritenuta d’acconto, lo stesso contratto da lavoro dipendente dovrebbero tornare a essere considerati semplici strumenti, e non fini in sé, per af- 56 I. CHE COS’È IL QUINTO STATO? fermare ciò che più conta in una società: la vita operosa delle persone e il valore del loro lavoro e dei loro progetti. Ridurre invece la vita al raggiungimento di un contratto, all’esibizione di una scrittura giuridica o al possesso di uno status individuale non serve a delineare le sue potenzialità, né a liberarla da una situazione che confonde la condizione reale di una persona con la sua posizione giuridica. Sta qui la differenza tra la mentalità del «ceto medio» e l’attitudine alla cooperazione del Quinto Stato: la prima consiste nel raggiungimento di uno status che permette a un individuo di distinguersi da un altro; la seconda consiste nella ricerca di un affrancamento dal lavoro alienato, dalla subordinazione, oppure dall’impiego sotto padrone, cercando di tutelare e valorizzare la propria attività attraverso la collaborazione con i simili, vicini o lontani. Questa attitudine alla cooperazione contrasta con l’individualismo prevalente nel ceto medio, come in alcuni settori dello stesso Quinto Stato, e in particolare con quella che Dario Banfi e Sergio Bologna hanno definito l’«ideologia del professionalismo»: la manifestazione dell’individualismo nel mondo delle libere professioni e nel precariato.6 Il Quinto Stato condivide la necessità di creare, difendere ed estendere la propria autonomia nel lavoro e nella società. Anche se gravemente compromessa dalla crisi, è innegabile che questa sia la ricerca che accomuna l’artigiano all’operaio, il lavoratore immateriale cognitivo all’addetto ai servizi, il libero professionista all’esecutore di mansioni, lo studente al piccolo imprenditore tradizionale. Se poi si fa largo la consapevolezza per cui l’autonomia può essere tutelata più efficacemente ricorrendo alla cooperazione con chi condivide la medesima condizione di esclusione, oppure lo stesso progetto, allora si può dire che il Quinto Stato riesce a interpretare al meglio la propria condizione. 4. CETO MEDIO 57 La presa di coscienza di essere Quinto Stato, e non solo lavoratori indipendenti, autonomi o precari, non è tuttavia un processo lineare, né definitivo. Si tratta invece di un processo aleatorio, soggetto alle infinite variazioni delle contingenze. Resta tuttavia la possibilità che questo passo del gambero della coscienza collettiva arrivi, in maniera circostanziata, alla definizione di una certezza: che non si possono difendere le rendite di posizione quando le corporazioni, la famiglia o le lobby non vogliono, o non possono, difenderle. Da qui può nascere l’esigenza di agire in maniera diversa, seguendo sentieri mai battuti, correndo il rischio di restare soli, pur di iniziare un cammino politico più ampio a garanzia di chi soffre a causa dell’inadeguatezza delle precedenti appartenenze. Solo in questo modo si può rendere virtuosa la generale apolidia in cui versa il Quinto Stato. Che non scomparirà, ma che chiede di essere messa all’opera, in tutti i suoi aspetti. Maturare la coscienza di essere Quinto Stato rappresenta un passaggio essenziale in questa direzione. Tale possibilità non è alla portata del ceto medio, cioè del soggetto considerato dalla politica di centrodestra o di centrosinistra, dal secondo dopoguerra ad oggi, come il pilastro del moderatismo e il garante della mediazione sociale. Oggi esistono molte ragioni per attribuirla invece al Quinto Stato: una condizione che viene considerata come un elemento di instabilità sociale e politica. Capitolo quinto Topi nel formaggio «Topi nel formaggio», «individui servili» e «culturalmente rozzi», protagonisti di «pratiche non di rado sgradevoli e perfino ripugnanti della nostra vita pubblica». Sono alcune delle espressioni usate negli anni Settanta da Paolo Sylos Labini a proposito della crescita esponenziale del lavoro indipendente che non rientrava nel modello produttivo della grande fabbrica, in quello del lavoro salariato e, in generale, del lavoro dipendente o nella burocrazia.1 Il giudizio di Sylos Labini traduceva un’ostilità dichiarata rispetto al «lavoro indipendente», strana congerie di opposti che già quarant’anni fa rappresentava l’anomia sociale crescente del lavoro in un mondo popolato da arrampicatori e imprenditori senza scrupoli. L’immaginario collettivo è stato colpito dalla definizione «topo nel formaggio». I sindacati e i partiti di sinistra hanno creduto nell’ipotesi che tutti i lavoratori indipendenti fossero evasori fiscali, cittadini non interessati al bene comune, bensì intenti a divorare – come i topi nel formaggio – la ricchezza accumulata da chi lavora con un contratto a tempo indeterminato, paga il fisco, dimostrando un senso dello Stato che invece gli indipendenti non possiedono. Il giudizio sociologico si è trasformato in un pregiudizio sociale che ha trovato 60 I. CHE COS’È IL QUINTO STATO? conferma nella lotta degli indipendenti contro l’oppressione fiscale. L’aumento di tasse e contributi, senza ricevere alcun servizio in cambio, è stato interpretato come una punizione comminata a un sospetto. Prima di essere cittadini, gli indipendenti cercano la via più breve per godere di una ricchezza accumulata dagli altri. La ricchezza da loro prodotta viene sequestrata dallo Stato e usata per scopi che nulla hanno a che vedere con la tutela o la garanzia di queste persone. Un circolo vizioso che, più di altri, indica la trasformazione dello Stato in un predatore e del predatore in un soggetto che crea disuguaglianze tra cittadini che svolgono lavori diversi, anche se spesso condividono la stessa condizione sociale. Molti ignorano che la maggior parte di questi lavoratori emettono una fattura per essere pagati e non possono evadere le tasse. Si dirà che ci sono tanti altri modi per eludere il fisco. È vero, ma nemmeno questa osservazione coglie la realtà del lavoro indipendente. Su quella fattura, reale o falsificata, il lavoratore paga anche i contributi per la sua pensione e quelli per la sua assicurazione contro la malattia. In cambio però non ottiene prestazioni. Questa situazione rivela un problema enorme di giustizia sociale e di equità fiscale che oggi riguarda almeno un terzo della forza-lavoro attiva in Italia. Per comprendere questa situazione, conviene tornare all’esempio della Gestione separata dell’INPS. Nel 2011, 1,8 milioni di iscritti hanno versato circa 5,8 miliardi di euro in contributi, raggranellando compensi per trentuno miliardi di euro su cui hanno pagato le tasse.2 Il «tesoretto» accumulato dall’INPS nel solo 2011 ammonterebbe dunque a circa sette miliardi di euro. Di questa cifra imponente solo una minima parte andrà alle pensioni di queste persone una volta che avranno terminato la loro carriera lavorativa. Una porzione di questo «tesoretto» oggi finanzia le casse previdenziali in perdita, ad esempio quella dei dirigenti o la cassa integrazione in deroga per i dipendenti disoccupati.3 5. TOPI NEL FORMAGGIO 61 Gli indipendenti finanziano il welfare, ma non hanno diritto alle tutele sociali in caso di malattia, maternità, infortunio. In più, dall’inizio della crisi, sono stati in 208.000 a ritrovarsi disoccupati. La «truffa» della Gestione separata raggiunge qui il suo apice: non solo questi lavoratori pagano la pensione o gli ammortizzatori agli altri, ma non hanno diritto a beneficiare di un sussidio quando sono loro a perdere l’impiego. Questa condizione non riguarda più solo i giovani, gli under ventinove, ma anche persone che hanno tra i quaranta e i cinquant’anni. In questa stessa situazione, si trovano i giovani e meno giovani aderenti alle casse previdenziali professionali, nonché la maggioranza degli oltre tre milioni di precari che non godranno di una pensione dignitosa al termine della loro carriera. Tutto ciò accadrà a partire dal 2040, quando andrà in pensione il primo contingente di lavoratori che ha iniziato a operare dopo la riforma Dini del 1996. Questo è il paradosso insanabile creato da un welfare impazzito. Si garantisce la sopravvivenza a una parte bisognosa della popolazione con i soldi accumulati da quella a cui non vengono riconosciuti i diritti sociali. Vengono erogate pensioni, otto milioni delle quali sono inferiori ai mille euro, alla popolazione anziana e non si pensa a quella che dovrebbe terminare la propria carriera lavorativa tra venti o trent’anni con un contributo inferiore agli attuali quattrocento euro. Senza contare che allora ci saranno altri giovani che guadagneranno ancora meno, in un circolo vizioso che non sembra avere fine. Si tratta della premessa di una guerra tra le generazioni alimentata dallo Stato e implementata dalle attuali politiche del rigore di bilancio. Tra il 1996 e il 2013, gli iscritti alla Gestione separata hanno inoltre subito un aumento della contribuzione sul reddito, passata da un dieci per cento iniziale all’attuale ventotto per 62 I. CHE COS’È IL QUINTO STATO? cento, che arriverà al trentatré per cento nel 2018, una quota pari a quella versata da un lavoratore dipendente. Con la differenza che, nel caso degli indipendenti, la spesa è a carico del singolo e non anche del datore di lavoro. L’aumento dei contributi è stato giustificato con la necessità di garantire l’assistenza alle stesse persone che fino a ora sono state costrette a pagare senza ricevere in cambio alcuna forma di tutela. Se poi consideriamo che il loro reddito medio sfiora la soglia di povertà (il 44,6 per cento non supera i quindicimila euro annui e il ventitré per cento percepisce meno di diecimila euro)4 è allora possibile percepire la drammaticità della situazione. Il presidente dell’INPS Antonio Mastrapasqua si è soffermato sulla previsione di un futuro poco rassicurante per i lavoratori indipendenti. Ha detto che preferisce tacere, perché altrimenti si scatenerebbe un «sommovimento sociale». L’irresponsabilità di questo esponente della «classe dirigente», e di molti altri come lui, non impedirà presto o tardi lo scatenamento della rivolta. È un esito inevitabile, già oggi ampiamente riscontrabile tra chi viene usato come un bancomat e tassato come un’impresa. Gli autonomi a partita IVA individuale pagano infatti l’IRAP come se fossero una piccola impresa. Un’altra confusione generata dal fatto che entrambi sono l’espressione del lavoro indipendente, ma rappresentano due situazione opposte. Il paradosso del topo nel formaggio arriva al punto che, da un lato, si chiede di tassare di più gli individui per garantirgli un futuro previdenziale, e dall’altro lato si chiede di detassare le imprese affinché assumano gli stessi individui che pagheranno sempre più tasse e contributi. La pensano allo stesso modo tutti i governi che dicono di tenere alla crescita dell’occupazione, mentre è ormai chiaro che, se una simile crescita ci sarà, essa avverrà sgravando le singole partite IVA o i precari del peso dei contributi, imponendo una condivisione dei costi del lavoro con i datori di lavoro. 5. TOPI NEL FORMAGGIO 63 È il meccanismo su cui si fonda la contrattazione collettiva dalla quale sono esclusi gli indipendenti. Il lavoratore e il datore di lavoro condividono in parti proporzionali i costi per l’assicurazione, la malattia e la pensione. Senza contare che un’equa regolazione del lavoro indipendente potrebbe anche permettere di contribuire al finanziamento di un fondo per il reddito minimo e il welfare socio-sanitario a cui affidarsi nei periodi di non lavoro, formazione e riqualificazione professionale, come avviene per gli ammortizzatori sociali a disposizione del lavoro dipendente. Questa proposta, insieme a quella della riforma generale di tutti gli ammortizzatori sociali, potrà essere realizzata solo a condizione di una radicale riforma dell’INPS e dell’intero ordinamento del lavoro e della previdenza in Italia. Allo stato attuale, questa è una speranza remota, considerato anche l’enorme potere concentrato nelle mani dell’INPS e l’impatto negativo creato dalle riforme già avvenute in questi campi. Tutto rischia di restare immutato in attesa del futuro che ci aspetta. Nella memoria collettiva, non esiste il ricordo di una vita in età avanzata senza pensioni né tutele. Restano comunque in pochissimi oggi a sapere con certezza che nel 2040 almeno un terzo della popolazione attiva in Italia tornerà a vivere come nel XVII o XVIII secolo. Capitolo sesto Insalata indigesta Troppo deboli, o impegnati nelle loro attività, raramente gli indipendenti sono riusciti a dare forma a una condizione diversa da quella del topo nel formaggio. L’eterogeneità del Quinto Stato non permette facilmente di creare una rappresentazione alternativa. Inoltre, i piccoli e medi imprenditori, i lavoratori autonomi o precari non hanno la stessa idea di rappresentanza degli interessi, e opposti sono i modi per farli pesare. Per i primi vale l’attività di lobbying, per gli altri vale la negoziazione contrattuale. Anche tra autonomi e precari non esiste un consenso sulle forme di negoziazione. Per i primi vige la contrattazione individuale, mentre i secondi si affidano ai sindacati o tutt’al più ai movimenti sociali. Per altri ancora è valida la prospettiva della rivolta urbana. Insomma, tutto il contrario di un soggetto sociale coerente, come la «borghesia» o la «classe operaia», che agisce forte del peso della sua autorevolezza. In mancanza di rivendicazione efficaci, e di soggetti facilmente riconoscibili, le richieste del lavoro indipendente sono state intese come il risvolto di una tendenza opportunistica e interessata rispetto alla parte «buona» della società. La destra e la sinistra si sono a lungo confrontate con questo problema. Politicamente, il lavoro indipendente è stato 66 I. CHE COS’È IL QUINTO STATO? identificato con le ambizioni della piccola impresa e con la protesta contro lo Stato centrale predatore, mettendo al centro la questione fiscale. Le istanze della destra leghista, e poi berlusconiana, lo hanno spinto ad assumere l’identità dell’impresa, del piccolo commerciante riottoso, del proprietario che rivendica l’egoismo sociale e il sentimento xenofobo. È la storia della «rivoluzione» dell’Italia del Nord-est, poi diventata autobiografia leghista e berlusconiana della nazione. In seguito, c’è stato anche il tentativo di inquadrare il lavoro indipendente nella «classe creativa», quella dei lavoratori culturali o dei servizi, un blocco sociale neoborghese considerato tiepidamente «democratico». Il «veltronismo», cioè l’opzione pseudo-culturale animata dalla sin troppo lunga stagione politica di Walter Veltroni, ha cercato di rappresentarlo nelle metropoli, rivolgendosi in particolare al lavoro indipendente che si è sviluppato nelle reti dell’economia dei grandi eventi culturali. Nel gioco vorticoso delle rappresentazioni sociali, il Quinto Stato è stato raffigurato come un blocco «liberal-democratico» di individui, costituito da professionisti all’ultima moda. Nulla di più falso, perché l’economia dei grandi eventi culturali (fiere, concerti, esposizioni, forum, convegni, gare sportive) continua a organizzare le sue produzioni ricorrendo in maniera massiccia al lavoro precario, sottopagato e al nero. La politica berlusconian-leghista e quella «veltroniana» hanno creduto di rivolgersi al «ceto medio», mentre invece parlavano della nuova formazione sociale del Quinto Stato. Ne hanno colto solo gli aspetti parziali, quelli che più si confacevano alla politica dei loro interessi, ma non hanno compreso che si trattava di un insieme sociale. Pur consapevoli di trovarsi davanti a una novità politica di primo piano, Berlusconi e Veltroni hanno mantenuto la credenza nel ceto medio e l’hanno rimpastata usando la modellistica ideologica più conveniente. Nel primo caso, si sono volute assecondare le 6. INSALATA INDIGESTA 67 idiosincrasie dei ceti proprietari che si ribellano all’oppressione fiscale e al bene comune. Così facendo, Berlusconi è riuscito nell’impresa di valorizzare questa rappresentazione del ceto medio. Il suo rivale – come altri comprimari che si sono avvicendati alla guida del Partito Democratico – sono riusciti a evocare una poetica dei buoni sentimenti. Nessuno è riuscito a rappresentare correttamente una composizione sociale che nel frattempo è radicalmente cambiata. Questa trasformazione ha comportato una serie di nuovi equivoci. La «sinistra» tradizionale, quella sindacale in primo luogo, si è sentita profondamente irritata dagli aspetti più fatui e inconsistenti del «veltronismo», contrapponendogli la nitidezza del ritratto sociale tramandata dalla mitologia della «classe operaia» o della burocrazia statale. La «destra» ha continuato a vedere solo le figure del piccolo o medio imprenditore, o delle partite IVA «affluenti», quelle con un reddito e uno status da «liberi professionisti», una visione ispirata alla concezione proprietaria della vita. E le ha contrapposte ai «comunisti» interessati solo a penalizzare la loro ricerca del successo personale e a predicare l’uguaglianza. Il conflitto tra queste retoriche ha avuto un solo risultato: l’esclusione del Quinto Stato dalla cornice della politica italiana, sebbene tutti abbiano continuato a parlarne per anni. Nel 2013 è sembrato che il Movimento 5 stelle del comico Beppe Grillo potesse dare una forma all’«insalata indigesta» del Quinto Stato, mescolanza di generi e di qualità, di popolo e plebe, ma anche di classi e aspirazioni sociali. Alle elezioni politiche del febbraio 2013, Grillo ha conquistato il venticinque per cento dei consensi e per qualche settimana è sembrato accreditare questa tesi. Alle elezioni amministrative di tre mesi dopo, la sua bolla elettorale sembra essere stata ridimensionata a un «normale» voto di protesta. 68 I. CHE COS’È IL QUINTO STATO? Se Bossi è stato uno straordinario imprenditore politico capace di fondare un partito – la Lega Lombarda – che si rivolgeva al piccolo produttore della Pedemontana e alle partite IVA qualunque, Grillo ha fondato la sua impresa sul Quinto Stato che vive nelle città piccole e grandi, detiene risorse immateriali in termini di tempo, istruzione e competenze.1 Non c’è contraddizione tra la sua monarchia virtuale e l’evocazione della democrazia diretta rappresentata dal suo movimento. Parodiando la «monarchia repubblicana» gaullista descritta da Maurice Duverger, si può dire che il grillismo incarna una democrazia monarchica virtuale, mentre Berlusconi incarnava una democrazia monarchica televisiva. In Italia oggi esistono due movimenti che offrono una rappresentanza agli interessi plebei incarnandoli nella persona, e nel carisma, di un Capo. Berlusconi si è candidato a esprimere con il suo corpo mutante i desideri inconfessabili della plebe. Grillo esprime l’opzione opposta: è il popolo stesso a riportare ordine tra le proprie fila. Il Capo si fa portavoce («megafono») di questo progetto e s’impegna a sbrogliare il groviglio degli interessi plebei, la crassa ignoranza, il vizio, la frode, la corruzione che Berlusconi ha portato al potere. Questo atteggiamento apparentemente tollerante non esclude il disprezzo dei precari, cioè verso coloro che lo hanno votato. I reiterati attacchi di Grillo contro gli italiani che non lo votano, oppure contro i giornalisti precari che scriverebbero notizie false per guadagnare dieci euro in più al pezzo, mentre invece fanno semplicemente il loro lavoro e rivelano notizie indigeste al suo movimento, conferma la tragedia di un amore impossibile. Che usi la rete, o la televisione, la richiesta del Capo al «suo» popolo è sempre la stessa: amami senza condizioni. Come Gerone, Dionigi di Siracusa, Periandro di Corinto o Berlusconi, Grillo vorrebbe trattare i sudditi come amici onorati e non come bambini obbedienti. Ma sa 6. INSALATA INDIGESTA 69 che questo è impossibile. Il consenso popolare è un sorriso nel buio. Gli amici di oggi saranno i persecutori di domani. La tirannia può soddisfare l’eros autoritario del Capo, ma per lui l’amore del popolo non sarà mai sufficiente. Tirannello televisivo, oppure reuccio smanettone, Berlusconi e Grillo rappresentano le due istanze della democrazia italiana: la prima porta l’anarchia dei desideri al potere, la seconda impone il ritorno a una comunità dei destini che uniscono un popolo. Questa, fino a oggi, è stata la politica del Quinto Stato: tutte le forme della politica contemporanea sono il risultato della commistione tra il comunitarismo e l’individualismo, il leaderismo e la democrazia diretta. Fino a oggi questa è stata la cifra di tutte le proposte politiche, di destra e di sinistra: da Vendola a Berlusconi fino alle propaggini estreme della sinistra testimoniale, il cui ultimo tentativo di esistenza ha mescolato l’ideal-tipo dell’homo juridicus (Di Pietro, e il «magistrato dei due mondi» Antonio Ingroia) con l’aspirazione a riportare ordine nelle leggi, nelle pulsioni, nell’economia, nelle istituzioni, nella società. Il populismo grillino è senz’altro il fenomeno più interessante degli ultimi tempi, perché viene sostenuto dai precari e dai freelance del lavoro della conoscenza che cercano un modo per ribellarsi al loro destino di nuovi proletari. Questa impressione è stata confortata dalla messa in scena di un conflitto contro una società fondata sulla cooptazione, sulla corruzione, sul corporativismo, sul familismo paternalista. Grillo ha contrapposto questa «società degli esclusi» a quella degli «integrati». Per lui la politica italiana sarebbe divisa in due fronti: i «cittadini di serie B», precari, poveri, piccoli imprenditori in crisi, lavoratori autonomi, e i «cittadini di serie A», vale a dire i grandi imprenditori, le burocrazie sindacali, i lavoratori dipendenti e i pensionati. Questa rappresentazione coglie senz’altro la passione dominante nella società, ormai ferita dal risentimento e dalla rabbia, ma 70 I. CHE COS’È IL QUINTO STATO? non offre una soluzione politica reale davanti al muro insuperabile dello Stato e del mercato. A Grillo non interessa digerire l’insalata del Quinto Stato, si limita a evocare una «comunità» ideale nella quale tutto un giorno tornerà in ordine, i singoli troveranno il giusto riconoscimento del proprio lavoro, e il merito di avere speso una vita a cercare di ottenere quel poco che possiedono. Potrebbe essere una strategia redditizia dal punto di vista elettorale in un Paese dove i nuovi assunti sono per l’ottanta per cento precari, e anche uno spazzino viene visto come membro della «Casta» in quanto dipendente pubblico. La scommessa del suo movimento sta nel rappresentare una velleitaria vocazione anti-sistema, senza per questo elaborare le coordinate minime di una politica capace di rimediare al fallimento della vecchia coalizione tra knowledge workers, piccoli imprenditori e destra leghista-berlusconiana. Il grillismo non è interessato a una proposta costituente o alla ricerca di una forma comune della vita politica, ma all’amministrazione di un sistema in crisi nei termini più equi possibili. È un movimento consolatorio, non di rottura. Come altre opposizioni testimoniali, si limita a fotografare lo stato della crisi e la sua insuperabilità. Centra l’obiettivo della protesta, fomenta le passioni tristi del rancore e del risentimento, non nomina però le pratiche di una vita degna che non siano quelle di un ritorno a una comunità originaria, depurata dai vizi della politica e dalla violenza del capitalismo. A Grillo neanche interessa questa opzione: fa già da decenni quello che vuole, per di più coccolato dal consenso che solo i comici o i santoni possono ottenere in vita. In questa cornice, è sufficiente che l’individuo ritrovi un protagonismo nell’illusione della partecipazione senza filtri al reality messo in scena dal leader contro il mondo cattivo delle caste della politica, dell’impresa, dello Stato. In una democrazia che funziona come la rete, verrà ristabilita la 6. INSALATA INDIGESTA 71 concorrenza tra le idee e gli individui. Al vertice della narrazione più postmoderna che ci sia, ecco ritornare la favola della «mano invisibile» di Adam Smith che alloca le risorse e le informazioni nel migliore dei modi. Ieri era il mercato a ricoprire il ruolo di Dio; oggi Grillo si è candidato a rendere l’Italia una democrazia «meritevole» e «affidabile». Non si può tuttavia non registrare come esso abbia dimostrato che il sistema politico basato sul bipolarismo tra due grandi aggregati eterogenei (il PD e il PDL) sia così fragile che basta una suggestione via web ispirata da un ex comico a metterlo in pericolo. L’anomalia grillina è stata subito ridimensionata, anche per i limiti evidenti della sua proposta politica, ma la sua novità non può passare inosservata. Essa ha cercato di individuare una forma politica alternativa al bipolarismo, fondata sul Quinto Stato e non sui tradizionali soggetti di riferimento della politica italiana. Il suo limite è stato quello di interpretare il Quinto Stato come un blocco sociale incentrato ancora sul ceto medio. Questo tentativo è fallito perché non è riuscito a sviluppare l’aspetto costituente del Quinto Stato, cioè l’autonomia che i singoli raggiungono attraverso la cooperazione con gli altri. Di questo aspetto Grillo ha restituito solo il lato acrimonioso, quello della precarietà e dell’esclusione, senza capire che per portare la luce nella notte non basta evocare la democrazia diretta attraverso un referendum permanente online. I partiti maggiori hanno avuto gioco facile nel liquidare la sua discontinuità ricorrendo al governo di «larga coalizione», una forma della politica che teorizza apertamente l’inutilità del voto popolare e il distacco della democrazia dalla sua legittimazione. Le larghe coalizioni in Italia sono tuttavia soluzioni di fortuna, che allungheranno la crisi e peggioreranno le sue ragioni strutturali. Una delle quali è 72 I. CHE COS’È IL QUINTO STATO? senz’altro una politica che non conosce la composizione sociale e professionale del Quinto Stato, né comprende il fatto che il lavoro indipendente è il futuro della forza-lavoro, non un’eccezione temporanea alla regola dominante. Capitolo settimo Una società di lavoratori senza posto fisso Il Quinto Stato viene considerato come l’espressione del lavoro intellettuale o del lavoro della conoscenza.1 Esso sarebbe la manifestazione di un ceto separato, di una «classe creativa» o di una tecnocrazia cosmopolita capace di dirigere l’automazione della produzione, inventare stili di vita o nuovi linguaggi, distinguendosi dalle altre classi sociali. Questa è una tentazione ricorrente nei paesi a capitalismo avanzato sin dagli anni Sessanta. Lo si evince anche dal significativo pamphlet Il quinto stato scritto da Wolfgang Kraus nel 1966.2 Kraus sostiene che le professioni intellettuali sono state decisive per la formazione del Quinto Stato. Ciò è avvenuto perché il tempo libero è diventato redditizio, la televisione generalista condiziona la vita delle famiglie, mentre la cultura è diventata una vera e propria attività economica. Da specialista nelle lettere, nella giurisprudenza o nella filosofia, esperto nell’interpretazione dei testi antichi o moderni, l’«intellettuale» si è trasformato in fornitore di servizi e contenuti, creatore di slogan per la pubblicità o di immagini per la società dello spettacolo. Questo passaggio è stato altamente significativo nella storia dell’intellettuale europeo tradizionale. In Italia lo ha raccontato Luciano Bianciardi nel suo Lavoro culturale, e in L’integrazione, e poi in 74 I. CHE COS’È IL QUINTO STATO? La vita agra il poeta e saggista Franco Fortini non è stato da meno. Kraus rilevò la stessa tendenza in Germania prima del Sessantotto. Kraus descrive questi intellettuali come gli eredi dei chierici vaganti, pronti a incrociare vagabondi, bohémiens, ribelli, perdigiorno, gammler, rivoluzionari a tempo perso. Ciò che accomuna queste ricostruzioni è l’idea che il Quinto Stato sia l’avanguardia di uno «strato culturale estremamente vasto» che contiene diverse posizioni sociali economicamente disomogenee, in una «società integrata senza classi». In realtà il Quinto Stato è più numeroso, e più definito, di quanto immagina Kraus. Ma è interessante soffermarsi sulla sua tesi, in quanto essa anticipa l’emergere di una figura professionale che ha nutrito il neoliberismo sin dalla sua esplosione nel 1979, quando venne eletta Margaret Thatcher. Kraus traccia il profilo di un lavoratore elastico, sempre disponibile alle richieste dei suoi committenti, un soggetto che vive per lavorare, ma dovrebbe farlo con piacere visto che svolge un’attività creativa, professionale, ben retribuita. La «classe» degli intellettuali di Kraus indicava semplicemente una classe di manager cosmopoliti, appartenenti a un ceto medio ricco e poliglotta assunto dalle multinazionali, nelle industrie dell’high-tech o dell’intrattenimento, che condivide poco o nulla con la condizione materiale della maggioranza del lavoro indipendente. È lo stesso profilo che nel 2002 ha ispirato la «classe creativa» di Richard Florida,3 salvo poi scoprire che tale «creatività» oggi è solo un’altra faccia dell’auto-sfruttamento, delle prestazioni gratuite o sottopagate, oltre che dell’alienazione, del lavoro autonomo contemporaneo. Nel 1997 Andrea Fumagalli e Sergio Bologna hanno definito in maniera più corretta il Quinto Stato del lavoro della conoscenza parlando di «lavoro autonomo di seconda generazione».4 A differenza della «prima generazione» quella 7. UNA SOCIETÀ DI LAVORATORI SENZA POSTO FISSO 75 degli artigiani, dei commercianti o dei liberi professionisti, questa tipologia del lavoro autonomo non rientra in un’organizzazione di categoria, in un ordine professionale. È dunque apolide, ma non necessariamente si comporta come un «vagabondo» o un «anarchico». Questo lavoro è basato sulla conoscenza e sull’esercizio di competenze acquisite sul mercato, ma è soprattutto l’espressione di una trasformazione generale che ha investito tanto il lavoro quanto l’impresa a partire dalla fine degli anni Settanta, quando il lavoro indipendente iniziava a diffondersi nei distretti industriali, dal calzaturiero alla logistica e alla manifattura, nell’industria dei servizi e nell’economia del divertimento, del terziario, delle professioni come della cooperazione e dell’associazionismo. Negli ultimi anni, si è iniziato a parlare di un lavoro autonomo di «terza generazione». Questa definizione indica l’esodo forzato verso il lavoro indipendente da parte dei dipendenti o di coloro che sono stabilmente precari. Si diventa lavoratori autonomi, o freelance, a causa della distruzione dei posti di lavoro operata dalla crisi, ma anche per la situazione di ristagno del terziario avanzato, il postfordismo, di cui queste figure sono il prodotto. Nel primo decennio del XXI secolo, il valore della produzione industriale tradizionale è diminuito in tutti i paesi europei del dieci per cento, mentre nei servizi è cresciuto del 7,8 per cento. A trainarlo è stata la crescita delle attività di intermediazione finanziaria e creditizia e dei servizi alle imprese: +10,5 per cento. In Italia, il terziario avanzato dove si è collocato il nuovo lavoro autonomo è cresciuto in maniera inadeguata: +3,5 per cento contro il +6,4 per cento in Francia, il +11,2 per cento in Spagna, o il +12,2 per cento in Germania.5 Anche per questo le condizioni di lavoro dei freelance e dei lavoratori autonomi sono drasticamente peggiorate. Ciò non ha tuttavia cancellato una modalità del lavoro che rompe l’ultimo legame tra il lavoratore e la sua appartenenza nazio- 76 I. CHE COS’È IL QUINTO STATO? nale. Il lavoro indipendente agisce infatti a livello globale, proprio come aveva a suo tempo intuito Kraus. Non è solo il caso dei grandi manager o degli avvocati d’affari, ma anche l’esperienza delle traduttrici, dei ricercatori e di tutti coloro che si muovono al di là delle frontiere degli stati di nascita alla ricerca di un impiego o di una vita diversa. Lo stesso fenomeno della «fuga dei cervelli», che ha alimentato il vittimismo nazionale italiano negli ultimi anni, è il risultato di questa ricerca dell’indipendenza al di là, e contro, la crisi occupazionale. Le sue dimensioni minimali (all’incirca cinquantamila persone all’anno) rientrano nella media della mobilità internazionale del lavoro indipendente dei paesi OCSE. Come abbiamo dimostrato altrove,6 e contrariamente a un senso comune consolidato, questo fenomeno riguarda tutte le categorie del lavoro, e in particolare i diplomati, non i laureati. La «fuga» è infatti l’espressione della volontà di difendere le proprie competenze, e di metterle all’opera, in un contesto più rispettoso dei diritti sociali e civili, oltre che su un mercato che assicuri maggiori riconoscimenti ai singoli. Una delle peculiarità del lavoro indipendente è la crescente osmosi tra locale e globale che porta il lavoratore a muoversi, con notevoli difficoltà, tra le frontiere degli stati, ad andare all’estero e a tornare a casa come fanno gli studenti o i professionisti, i precari in cerca di occupazione o gli stessi migranti che, per motivi economici, culturali o politici, scelgono di cambiare Paese. Una delle maggiori difficoltà del nostro tempo è riconoscere che il lavoro non sarà più sedentario. L’affermazione del lavoro indipendente spinge a muoversi, a cambiare vita più volte, e questo produce traumi difficili da gestire. Ciò non è dovuto al fatto che i singoli si sottraggono a questa prospettiva di nomadismo. Crediamo invece che non siano ancora 7. UNA SOCIETÀ DI LAVORATORI SENZA POSTO FISSO 77 supportati da una cultura che abbia elaborato la discontinuità. La scuola, l’università, i sindacati sono ancora prigionieri dell’idea per cui il nomadismo sia una condizione degenerata del lavoro sedentario, oppure una condizione purgatoriale che troverà presto o tardi una pacificazione nell’assunzione a tempo indeterminato. Questa cultura non ha gli strumenti per riconoscere, e valorizzare, il nuovo rapporto del divenire rispetto all’essere, della differenza rispetto all’identità, del molteplice rispetto alla ripetizione dell’identico di cui è portatore il lavoro indipendente. Non è in grado di cogliere nemmeno il significato profondo delle previsioni dell’OCSE sugli esiti della crisi. La crescita economica, se e quando tornerà, non produrrà nuova occupazione stabile (jobless recovery). La maggioranza della forza-lavoro attiva si troverà coinvolta in questa nuova realtà entro il 2020. Su questa valutazione convergono anche una serie di osservatori internazionali come l’organizzazione mondiale del lavoro (ILO). Senza contare che l’attuale recessione ha bruciato dal 2008 un milione di posti di lavoro e continuerà a farlo ancora a lungo. In Europa, la disoccupazione è aumentata dal 7,6 per cento all’11,4 per cento. Nel 2013 in Italia ha superato la quota del 12 per cento, con 1,2 milioni di persone che hanno perso il posto di lavoro dall’inizio della crisi. In Europa, su 25 milioni di disoccupati, 6,5 milioni di persone non riusciranno mai più a trovare un impiego. L’uscita dalla crisi, se e quando ci sarà, lascerà sul campo lavoratori non «riconvertibili». L’unica speranza di guadagnare, e di vivere, che avranno queste persone sarà offerta dal lavoro indipendente. Nel 2012 gli «inattivi» (cioè gli «scoraggiati» che non cercano più lavoro, i disoccupati cronici) erano circa 2,9 milioni, più dei disoccupati in senso stretto (circa 2,7 milioni).7 La previsione è che aumenteranno ancora nei prossimi anni. Non solo dunque i posti di lavoro calano drasticamente, e 78 I. CHE COS’È IL QUINTO STATO? non verranno mai più recuperati, non solo cresce il numero di chi non cerca più un impiego (o meglio non cerca più un impiego regolarmente pagato), ma esiste sempre meno lavoro retribuito regolarmente e dignitosamente. Secondo una previsione avventurosa della CGIL, qualora l’Italia intercettasse una qualche crescita economica tra il 2014 e il 2015, ci vorrebbero tredici anni per ritornare al livello del PIL del 2007 e solo nel 2076 verrebbero recuperati i posti di lavoro persi dall’inizio della crisi nel 2008.8 Questi studi sono spesso esercizi di scuola, ma rendono l’idea delle conseguenze della recessione in atto. È ormai chiaro che si sta affermando una società di lavoratori senza posto (fisso). Tale prospettiva non risponde alle caratteristiche di una società automatizzata che fa a meno del lavoro manuale sostituendolo con quello delle macchine, o con il lavoro «intellettuale» come hanno sostenuto Kraus o Florida. Queste analisi del Quinto Stato non potevano prevedere che il XXI secolo sarebbe stato il secolo del lavoro indipendente, e forse non potevano immaginare che gli intellettuali, come gli operai, sarebbero diventati lavoratori senza posto fisso. La crisi ha distrutto il lavoro salariato, ma non in direzione di una sua abolizione, come si auspicava quarant’anni fa, bensì moltiplicando le occasioni di lavoro servile. Esiste un altro elemento imprevisto che è maturato con l’avanzare della crisi. Aldo Bonomi lo considera un’opportunità per la vita ricca di stimoli, e non solo di delusioni, condotta dai knowledge workers metropolitani.9 Nella solitudine sociale creata dall’esercizio della loro professione, non emergono veri riferimenti collettivi. Ciò non toglie che siano presenti numerose occasioni di vita in comune, anche imprevedibili rispetto alla mentalità consolidata. Bonomi parla di un «programma coalizionale», o meglio di un desiderio maturato alla luce delle oggettive difficoltà di sopravvivenza materiale che impediscono di proseguire un’attività a lungo 7. UNA SOCIETÀ DI LAVORATORI SENZA POSTO FISSO 79 coltivata. E infatti tra questi lavoratori si torna a parlare di «mutualismo», di «solidarietà» e di fare «fronte comune».10 Queste istanze, che sono allo stato nascente e restano altamente incerte e discontinue, traducono tuttavia una realtà sconosciuta agli «intellettuali» e ai lavoratori della conoscenza del Novecento: quella di riconoscersi innanzitutto come «lavoratori», quindi come soggetti capaci di ammettere la possibilità di «coalizzarsi» con altre categorie del lavoro indipendente o salariato. Ciò potrebbe accadere a partire da istanze universali, anche connesse a rivendicazioni riguardanti un provvedimento legislativo o un evento specifico che investe la collocazione occupazionale. Bonomi segnala la possibilità di coalizioni «accompagnate» dalle istituzioni e anche dalle piccole imprese interessate a incorporare elementi di innovazione. Questo triplice incontro tra lavoratori della conoscenza, istituzioni e piccole imprese rivela come quella del Quinto Stato sia una «questione sociale» che non interroga solo la transizione del capitalismo, ma anche lo spazio della vita in comune: la città e i territori. Frustrazione. Senso di colpa. Rabbia. Umiliazione. Passioni dolorose che colpiscono la vita e il futuro dei figli della «borghesia», come di quelli delle «classi subalterne». Entrambe queste classi sono sprofondate nella palude del lavoro precario. A questo esito hanno collaborato anche le piccole e medie imprese (PMI) italiane, impegnate a tagliare sul costo del lavoro per aumentare la produttività. Bassi salari e paghe da fame in cambio di uno sfruttamento intensivo e limitato nel tempo. Questa è la regola imposta a chi vive nella galassia dell’inoccupazione generalizzata. Ma alle PMI non basta. Le aziende lamentano una mancanza di disponibilità da parte dei laureati a ricoprire mansioni umili, e scaricano le responsabilità del fallimento del sistema su chi ha speso anni 80 I. CHE COS’È IL QUINTO STATO? a studiare. «Paghiamo la licealizzazione della nostra società» ha detto il presidente di Confartigianato Giorgio Guerrini quando ha denunciato che quarantacinquemila posti tra i mestieri artigiani «ad alta intensità manuale» sono rimasti vacanti per mancanza di candidati. Stesso discorso quando si è scoperto che i profili più ricercati tra i «giovani» nel 2011 sono i cuochi, camerieri e altre professioni dei servizi turistici (+23,4 per cento). La falsità di questo assunto può essere dimostrata citando una manciata di notizie. Nel febbraio 2013, ad esempio, 1700 candidati si sono presentati a un concorso per un posto a tempo determinato da operatore ecologico nei Comuni di Venezia, Iesolo e Portogruaro. Tra di loro c’erano operai over cinquanta, ma la maggioranza era costituita da giovani neolaureati disoccupati provenienti dall’intera regione. Sempre in Veneto, nel 2012, quindicimila persone, per la maggior parte giovani, hanno lavorato da uno a cinque giorni nell’arco di un anno, soprattutto nel campo dei cosiddetti «lavori umili», quelli che secondo ministri e presidenti nessuno intende accettare. Una situazione creata dalle imprese: delle centonovantamila assunzioni nel 2012, solo il sette per cento è costituito da laureati. A Venezia un posto da netturbino, anche precario, resta un lavoro appetibile perché è tutelato da un contratto nazionale e non espone al rischio di un contratto capestro.11 È consigliabile dunque non cedere allo sport nazionale del vittimismo e cercare di fornire una valutazione equilibrata. Questi sono solo alcuni degli effetti di una società di lavoratori senza posto fisso che subiscono un processo di proletarizzazione. Tale processo ha investito il mondo dell’istruzione e ha rotto il rapporto tra l’apprendimento e la sua finalizzazione produttiva, tra il valore di un sapere trasmesso e quello sviluppato sul luogo di lavoro. Il «capitale umano» (o sociale) accumulato dal singolo durante un corso di studi, 7. UNA SOCIETÀ DI LAVORATORI SENZA POSTO FISSO 81 come quello trasmesso dalla famiglia o dalla classe di appartenenza, non ha più valore se non è determinato dalla domanda di una prestazione occasionale. Nessuna istituzione, procedura o certificazione può garantire oggi tale valore. In queste condizioni, è impossibile mantenere lo stesso status professionale e cognitivo per tutta la vita. Per il singolo è in gioco il valore stesso della sua vita, non solo quello acquisito durante gli studi o nelle esperienze di lavoro. La crisi continuerà a distruggere i posti di lavoro, mortificare o annientare le esperienze dei lavoratori, ma non può cancellare l’attitudine alla vita operosa da parte del lavoro indipendente che rappresenterà ben presto la maggioranza della popolazione attiva. È il motivo per cui il lavoro indipendente dev’essere difeso contro il rischio dell’inoccupazione e dell’obsolescenza dei saperi acquisiti. Per farlo è necessario valorizzare la determinazione personale del lavoratore indipendente a preservarli o ad acquisirne di nuovi. Questo però non può restare un impegno individuale, limitato alla congiuntura economica o alla volontà dei singoli, ma deve diventare una cultura condivisa. È prevedibile che la crisi finirà per corrompere la determinazione individuale a favore di una disillusione generalizzata. Ciò non elimina l’esigenza di elaborare una cultura sociale fondata sull’indipendenza del singolo e sul riconoscimento dell’autonomia collettiva. Per questa ragione il Quinto Stato non può essere una condizione limitata a una singola categoria del lavoro indipendente, o del non lavoro, e tanto meno a un contratto di lavoro o a una prestazione lavorativa. Bisogna avere il coraggio di riconoscere la condizione del Quinto Stato in sé, quella cioè di una società che non dispone di alcuna identità da far valere, di alcun legame d’appartenenza da far riconoscere, salvo l’indipendenza nel lavoro e l’autonomia dei singoli nella società. Capitolo ottavo W i NEET! Ai lavoratori indipendenti – soprattutto ai più giovani – è stata assegnata un’identità che oscilla tra quella più antica e tradizionale della «classe pericolosa», del povero, del parassita, e quella più moderna del «NEET» (Not in Education, Employment or Training), cioè la condizione in cui vivrebbero 2,2 milioni di ragazzi che non studiano né lavorano, i giovani «sfiduciati» che non trovano un’occupazione. Non studio, non lavoro, non guardo la tv, non vado al cinema, non faccio sport cantavano i CCCP-Fedeli alla Linea in anticipo di trent’anni. Il ritorno ossessivo di questa categoria nel dibattito sulla disoccupazione giovanile si spiega con l’emergere di una zona grigia tra la sfiducia e l’inoccupazione, tra il precariato e il lavoro autonomo, tra l’intermittenza e il lavoro nero, cioè la realtà del lavoro contemporaneo che accomuna i giovani ai meno giovani. È difficile immaginare l’esistenza di persone che abbiano smesso di agire, cioè di «studiare e lavorare». Ancora più difficile è misurare economicamente la perdita di valore causata dalla loro presunta inattività, come invece ha fatto il ministro del Lavoro Enrico Giovannini secondo il quale la perdita sarebbe pari addirittura a venticinque miliardi di euro all’anno. Al di là di queste irrealistiche previ- 84 I. CHE COS’È IL QUINTO STATO? sioni, è probabile che i «NEET» rientrino nel vasto mondo dell’economia del lavoro sommerso, percepiscano un reddito sul quale non pagano le tasse, svolgano attività non tutelate, sottopagate e in nero, guadagnando lo stretto necessario per sopravvivere. Assimilando questa categoria all’economia sommersa, si comprendono meglio anche le previsioni sulle perdite economiche. L’economia sommersa in Italia è infatti una realtà che supera senz’altro i venticinque miliardi di euro attribuiti da Giovannini ai soli «NEET». Ciò non toglie che il concetto di NEET traduca la percezione di una realtà non solo economica. Esso allude all’eterogeneità indescrivibile che molti si ostinano a considerare estranea alla cittadella del lavoro subordinato, mentre invece ne rappresenta il cuore. Questo acronimo raccoglie classi d’età distanti: quelle tra i quindici e i trentaquattro anni, ma può essere esteso anche alla condizione di chi ha cinquant’anni e più. Insomma, è un indicatore linguistico attraverso il quale la condizione del Quinto Stato viene sovrapposta all’archetipo ottocentesco della povertà, alle patologie adolescenziali, oppure all’opportunismo sociale. NEET è un altro modo per segnalare l’attuale situazione del Quinto Stato, risultato di una combinazione tra scarse opportunità, redditi bassi, flessibilità massima, costi contributivi elevati e welfare assente che caratterizza il lavoro indipendente e in particolare la condizione delle giovani donne. In Italia, il sessanta per cento delle diplomate lavora come dipendente con un contratto a termine, svolge un lavoro a progetto o un’attività occasionale da commessa, hostess, ricercatrice, pony express, barista. Questa realtà – attiva, disperata e precaria – viene sistematicamente occultata, o rimossa, dall’idea per cui al NEET corrisponda una passività fatale. Il termine NEET allude inoltre alla condizione dei mendicanti. In Italia, questa parola è stata usata inizialmente per compatire i giovani, e per definire la loro condizione sfug- 8. W I NEET! 85 gente di disoccupati, precari o inoccupati. Quando l’ex ministro del Welfare Elsa Fornero lo ha collegato al concetto di «choosy», il suo significato è cambiato. Nella breve e infame storia di questa espressione, che si è diffusa con divertenti parodie sui social network e negli striscioni esposti dagli studenti nelle manifestazioni tra il 2011 e il 2012, si è capito che per la «classe dirigente» i ragazzi italiani diplomati o laureati sarebbero «schizzinosi» o «viziatelli» perché non accettano qualsiasi tipo di lavoro pur di guadagnare ed essere indipendenti dalla famiglia. L’ex ministro, e professore ordinario in materia di welfare e pensioni, ha però abusato della sua conoscenza della lingua inglese. Purtroppo non si è resa conto dell’esistenza di un proverbio che recita: beggars can’t be choosers, cioè i mendicanti non possono fare gli schizzinosi, proprio come a suo avviso dovrebbero fare i giovani italiani con il lavoro. A nessuno piace essere trattato da mendicante. E infatti il motto ministeriale ha prodotto una rivolta. Più che un invito, l’esponente di un governo non proprio memorabile come quello «tecnico» di Mario Monti ha richiamato un’antica verità della cultura conservatrice di matrice aristocratica: non importa il lavoro che si sceglie, è importante che i giovani, i subalterni o i lavoratori indipendenti sappiano che quel lavoro è un’elemosina che bisogna accettare. Con quell’aria un po’ schizzinosa da Maria Antonietta, il conservatore ha sempre l’atteggiamento di chi vuole dare le brioche al popolo. E il popolo non può rifiutarle perché altrimenti Maria Antonietta si offende. Questa curiosa psicologia è basata su un meccanismo che proietta sui «poveri» le idiosincrasie dei ricchi che hanno tutto l’interesse a ribaltare, e a nascondere, i rapporti di forza esistenti nella società. I fuoricorso all’università sono «costi sociali» intollerabili per la comunità nazionale. Questa è un’altra tesi dell’ex ministro dell’Istruzione Francesco Profumo, già rettore del Po- 86 I. CHE COS’È IL QUINTO STATO? litecnico di Torino, la stessa città dove lavora l’ex ministro del Welfare Elsa Fornero. Il rapporto tra l’alto ruolo accademico ricoperto da entrambi e l’appartenenza alla stessa classe sociale può essere utile per spiegare la ragione di tanto disprezzo verso gli studenti a cui fanno lezione. I fuori corso sarebbero «sfigati» secondo l’originale dizione usata dal romano Michel Martone, professore ordinario in diritto del lavoro e vice di Elsa Fornero al ministero del Welfare. Non vale la pena soffermarsi ancora su questo, o su altri gustosi personaggi che popolano le fila dei docenti destinati a inconcludenti esperienze di governo.1 Dai loro lapsus, o da quelli di altri luminari come Tommaso Padoa Schioppa, l’importatore in Italia del famoso «bamboccioni», emerge tuttavia la mentalità paternalista e intollerante del conservatorismo politico che ci governa. La sua regola d’oro è la seguente: chi non lavora, o lavora precariamente, è colpevole della propria condizione di povertà. Deve dimostrare di sapersi elevare al rango della decenza sociale: se non ci riesce, è colpa sua, non della società. In tutto il mondo, le politiche neoliberiste ragionano sillabando lo stesso alfabeto del disprezzo. Non importa se le ricerche ufficiali, come quelle del consorzio interuniversitario Almalaurea in Italia, abbiano sbugiardato questi pregiudizi, dimostrando come i giovani tra i quindici e i ventinove anni, diplomati o laureati, siano al contrario tra i più attivi, flessibili e intraprendenti in Europa, proprio come li vuole il neoliberismo; nonché i più disoccupati (oltre il quaranta per cento tra i quindicenni e i ventiquattrenni) dopo i coetanei spagnoli e greci.2 L’enfasi spesa per stigmatizzare i NEET si spiega con un malinteso senso della pedagogia, oltre che del proprio ruolo di governanti. Essa traduce anche un disagio degli «adulti» rispetto alla scelta – mai confessata apertamente dai NEET, ma in ogni caso trasparente – di resistere a un lavoro umiliante, sempre meno pagato e inutile.3 Quando il lavoro fa 8. W I NEET! 87 schifo, e non paga, meglio allora non lavorare. Se anche la scuola fa schifo, meglio non studiare. È una reazione estrema praticata da molte figure sociali in tutto il mondo. In Giappone, ad esempio, ci sono gli okimori (bamboccioni), coloro che restano in famiglia da disoccupati perché non vogliono penare alla ricerca di un lavoro in un Paese dove la stagflazione dura da decenni. La variante clinica di questa situazione è incarnata dall’hikikomori, una sindrome depressiva che porta gli adolescenti alla letargia, all’isolamento totale e a comunicare solo via Internet. L’hikikomori esemplifica la volontà di sottrarsi al gioco al massacro della societa capitalistica. Per Franco Berardi Bifo, questa è la «tendenza principale della ricerca di autonomia, nel mondo presente».4 Figure molto simili si ritrovano negli Stati Uniti, dove emerge un altro aspetto del rifiuto: la volontà degli adolescenti o dei precari trentenni di restare nel «mezzo», tra una condizione insondabile di afasia o rifiuto, e il desiderio di non far nulla per partecipare alla concorrenza sul mercato degli «adulti». Sono i betwixt (between), o «boasting», persone a cui è stata addirittura dedicata una famosa serie tv. In Germania, questa condizione è stata definita Nesthocker, in Brasile Paitrocínio, in Argentina «No se va más». La crisi ha aumentato a dismisura il numero di queste persone. Con la crescita della disoccupazione di massa, e in particolare di quella giovanile, al loro destino è legato il futuro di molti governi che iniziano a temere il fallimento delle politiche di reinserimento lavorativo. Se infatti l’ostinata, e insondabile, resistenza dei NEET facesse crollare questo castello di carte? È un gioco sottile, e tragico, basato sul conflitto tra la convinzione di chi governa di fare il bene della nazione e la determinazione dei NEET a resistere contro chi li vuole far sentire peggio. Ma ciò che indigna i dominanti è la capacità di sottrarsi al loro comando. Non sarà forse che questi adolescenti ormai maturi stiano affermando una di- 88 I. CHE COS’È IL QUINTO STATO? versa attitudine alla vita, ad esempio quella di scegliere quale lavoro fare, se accettare un impiego oppure rifiutarlo? È un atteggiamento intollerabile in un mondo dove l’imperativo è muoversi, darsi da fare, non stare con le mani in mano, guadagnando anche per un giorno in condizione disumane. La resistenza dei giovani NEET riporta alla luce alcuni tratti di una figura storica nella società capitalistica tra il XIX e il XX secolo: il proletaroide. Per Sergio Bologna sta qui l’origine dell’inquietudine provocata dai giovani disoccupati o inoccupati e, più in generale, dai freelance, dai lavoratori nomadi, precari o indipendenti, insomma da chi non ha un lavoro salariato a tempo indeterminato.5 Già nella Repubblica di Weimar, per Emil Lederer,6 Hans Speier,7 Werner Sombart e tanti altri, il «proletaroide» rappresentava il lavoro autonomo come prossimo alla soglia di povertà, in bilico tra precariato e disoccupazione. Questi grandi studiosi ritenevano che il lavoro indipendente fosse destinato a essere riassorbito nella classe operaia della grande industria, oppure nel ceto medio impiegatizio statale. Il lavoro autonomo era ancora incentrato sull’attività agricola, sul piccolo commercio, sull’artigianato e il lavoro di cura (il «coadiuvante familiare»). Nell’analisi della composizione tecnica di questa fascia amplissima di lavoratori (che superavano i cinque milioni, arrivando per alcuni persino a venti milioni), i «proletaroidi» erano considerati una massa senza indipendenza economica, sprovvista di un’identità sociale e professionale, come anche di una coscienza di classe. Il «proletaroide» era il prodotto della commistione tra un vecchio ceto medio corporativo e quello nuovo degli impiegati e della classe operaia di mestiere. Anche lui viveva nella zona grigia tra il ceto medio e il precariato. Possedeva un mezzo di produzione (un aratro, un terreno, una bottega, una vettura) e, in molti casi, era ca- 8. W I NEET! 89 pace di assumere dipendenti, garzoni, assistenti. Come oggi in Italia, anche a Weimar non era facile riconoscere la duplicità dei ruoli ricoperti dal lavoratore autonomo: titolare di un’impresa, ma anche lavoratore salariato. Il proletaroide era fuori dalla produzione industriale manifatturiera e allo stesso tempo era al servizio della classe dominante, quella borghese. Aveva un mestiere, e dunque non apparteneva all’esercito di riserva del sottoproletariato, ma allo stesso tempo viveva sospeso tra un «non più» e un «non ancora». Proprio come i lavoratori indipendenti o i NEET oggi. Una condizione difficilmente comprensibile per una civiltà costruita sul lavoro salariato e sulla netta distinzione tra l’impresa e gli operai, tra il lavoro intellettuale e quello esecutivo. Ad avere attirato il disprezzo della sinistra socialdemocratica verso il proletaroide è stata la l’incertezza politica delle sue convinzioni. In Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, Marx aveva messo in guardia dal pericolo rappresentato dai proletaroidi, dai commercianti o dagli artigiani senza mestiere, dai disoccupati e dai giovani teppisti delle milizie che spararono contro il popolo e gli operai in cambio della promessa di una paga miserabile. Sembra incredibile, ma si dice che a Weimar i proletaroidi riuscirono a fare ancora peggio. Assicurarono una parte del consenso al nazismo. Nasce da qui la diffidenza quasi antropologica della sinistra rispetto a chi non appartiene alla classe operaia o al ceto medio. In realtà, il nazismo era altrettanto popolare tra gli operai e il ceto medio, mentre alcuni giovani proletaroidi parteciparono alla prima resistenza anti-nazista in fabbrica.8 Le cose sono dunque più complesse della storia che ci è stata tramandata. Qui basti spiegare come i NEET oggi rappresentino molto più dei giovani compatiti o insultati da qualche ministro e molto meno del male radicale nella storia. La loro condizione rifiuta l’idea che per vivere bisogna lavorare. Essa indica invece la possibilità di una vita diversa. 90 I. CHE COS’È IL QUINTO STATO? Il fatto che i NEET siano assimilabili ai proletaroidi, vale a dire al grado zero del Quinto Stato, significa che condividono almeno una caratteristica del lavoro indipendente: la difesa dell’autonomia personale ad ogni costo. Un’autonomia che rimanda a sua volta al desiderio di essere padrone della propria vita, senza vincoli con le istituzioni o al comando di un padrone. Il proletaroide è l’utopia negativa del Quinto Stato: scegliere quale lavoro fare, la dignità di affermare una libertà nel lavoro e nel non lavoro. Capitolo nono Diversamente occupate La posizione del Quinto Stato un tempo era occupata esclusivamente dal lavoro domestico delle donne, fenomeno rimasto invisibile fino all’ascesa del femminismo e alla trasformazione postfordista della produzione capitalistica. Questa situazione è stata raccontata in Il quarto stato, il quadro di Pellizza da Volpedo del 1902, oltre che in buona parte dell’iconografia sul movimento operaio prodotta in Europa negli stessi anni. Nella prima fila dei contadini che avanzano verso la casa del padrone in piazza Malaspina, a Volpedo in Piemonte, spunta una donna che regge un bambino tra le braccia. La singolarità dell’azione della donna rappresentata da Pellizza allude alla sua solitudine rispetto alla classe lavoratrice che procede compatta, mentre lei segue una traiettoria indipendente. Arriva nel corteo dall’esterno, si unisce ad esso. Al termine della manifestazione, si separerà dagli uomini che torneranno nei campi o nelle officine, mentre lei riprenderà ad accudire il bambino o a preparare la cena per il marito. La donna incarna il Quinto Stato, una condizione singolare che attraversa quella del Quarto Stato che nel quadro di Pellizza viene rappresentato come un tutto omogeneo e maschile. Questa potrebbe essere una delle storie raccontate in un quadro ispirato all’umanesimo socialista, capace di ricono- 92 I. CHE COS’È IL QUINTO STATO? scere la dignità della donna come persona, ma non ancora la sua libertà dal destino assegnatole dalla società patriarcale: svolgere una serie di attività non retribuite (lavoro di cura, gestione della casa, dedizione alla famiglia), «naturali» come la procreazione, alle quali la donna è stata tradizionalmente destinata da tutte le società, non solo da quella del lavoro salariato. Pellizza denunciava anche un altro aspetto della condizione femminile, il suo sfruttamento selvaggio nelle fabbriche e nei campi. Sempre nel 1902, la legge 242 cercò di regolare questi abusi con esiti a dir poco contestabili: alle puerpere veniva risparmiata la schiavitù di lavorare fino a quindici ore al giorno, ma si disponeva che tornassero al lavoro dopo il periodo di maternità e allattamento.1 Il Quinto Stato è un concetto ricorrente sin dall’unità d’Italia. Tra i primi ad averlo usato, il deputato socialista Salvatore Morelli. Per lui il Quinto Stato esprimeva la necessità dell’emancipazione delle donne dal punto di vista intellettuale, lavorativo e sociale. Lo stesso concetto oggi permette di sottolineare come la mobilità e la polivalenza, la multiattività e l’impegno che non ha confini di tempo e dedizione nel lavoro femminile siano diventate le caratteristiche strutturali del lavoro indipendente. Le attività dei precari, come degli autonomi, rispecchiano molto spesso la logica sacrificale che è un portato culturale del lavoro femminile sin dai tempi di Morelli o di Pellizza. Nel frattempo, il lavoro affettivo, di cura, così come tutte le attività legate alla sfera della riproduzione sociale, ha conquistato un ruolo di primo piano nella nostra società anche se continua a non figurare tra le attività produttive, o al limite a essere considerato un’operazione marginale degna solo di una ricompensa simbolica. A questo proposito si parla di «domesticazione» (domestication) del lavoro. Se il Quarto Stato distingueva lo spazio del lavoro (la fabbrica, l’ufficio) dalla vita privata del lavoratore, il Quinto Stato fa l’opposto: la distinzione tra vita 9. DIVERSAMENTE OCCUPATE 93 privata e produttiva sfuma progressivamente e mette la vita al lavoro in modo permanente e indiscriminato. Non esiste più un orario di lavoro perché il lavoratore indipendente è sempre al lavoro. Ogni istante del suo ciclo vitale può essere utile per ottenere un guadagno, un contatto, una prospettiva, una commissione o un nuovo contratto, oppure per curare gli affetti o crescere i figli. Il passaggio dal Quarto al Quinto Stato non dev’essere inteso come una successione meramente cronologica, bensì come un processo puntuale che avviene su differenti piani e permette la coesistenza di diverse condizioni nella stessa forma di vita operosa. Essa dovrebbe essere valorizzata in base alle relazioni, ancora prima che all’appartenenza professionale. Questo avviene solo in via formale, perché, nell’economia postfordista, al lavoro delle relazioni non sono quasi mai riconosciuti un reddito dignitoso, una tutela sociale o una garanzia istituzionale. Questo enorme dispendio di energia da parte dei singoli non prevede nemmeno una restituzione simbolica se non quella ottenuta nella negoziazione privata con il committente, pubblico o privato. Questa situazione è particolarmente sentita nei settori principali del «terziario avanzato» (istruzione, sanità, assistenza), lì dove oggi si concentra la parte più qualificata del lavoro femminile, e ricorre anche in molti altri settori produttivi. Si parla di «femminilizzazione del lavoro» perché i lavoratori nomadi, precari, autonomi si ritrovano nella condizione in cui le donne operano nelle società più tradizionali, compresa quella del lavoro salariato.2 La femminilizzazione non ha cambiato affatto la condizione materiale delle donne. Sono loro a essere maggiormente colpite dalla crisi, insieme ai più giovani. Il tasso dell’occupazione femminile regolare non raggiunge in Italia il cinquanta per cento ed è di dodici 94 I. CHE COS’È IL QUINTO STATO? punti percentuali sotto la media UE, mentre al Sud è addirittura di ventuno punti inferiore. Tanto più dunque il lavoro indipendente si fa adattativo e oblativo, risponde cioè alle caratteristiche storicamente attribuite o imposte al lavoro femminile, tanto meno esso è valorizzato. Il caso per eccellenza è il ricorso al volontariato nel lavoro sui social media (blog, Twitter o Facebook), alle attività degli stagisti o dei tirocinanti da parte delle aziende. Non parliamo di un’eccezione relegata a un genere o a un’età anagrafica, ma della regola nella produzione culturale, nei servizi, nel lavoro affettivo, o di cura, valida per tutti coloro che sono impegnati in questi settori. Il lavoro gratuito, e la coazione ad accettarlo in mille forme diverse, oggi purtroppo costituisce una costante. Il Quinto Stato non è solo il risultato di uno sviluppo storico che ha generalizzato quanto di peggio ha prodotto il lavoro salariato. Il fatto che sia stato identificato da più di un secolo nella condizione delle donne, e che oggi esprima le principali caratteristiche del lavoro indipendente, rivela un altro aspetto del processo in corso: ciò che conta non è il lavoro inteso come prestazione esclusiva a favore di un datore di lavoro, ma l’esperienza di un’attività, la singolarità dei vissuti dei lavoratori, la capacità di rivendicarli, il virtuosismo nelle relazioni, l’autonomia individuale. Anche se raramente ciò viene ammesso, salvo nei casi in cui queste caratteristiche tornino utili all’immagine di un’azienda o per una campagna pubblicitaria, questa è un’altra caratteristica che accomuna il lavoro delle donne a tutto il lavoro indipendente. Ne è consapevole una branca del marketing aziendale, il diversity management, che valorizza la «diversità» del personale gay o lesbico, il «valore aggiunto» rappresentato dalle donne, dalle persone «diversamente abili», talvolta anche dai migranti, per rendere più accattivante il logo di un’impresa o di un’opera di volontariato. Le qualità di una persona, il suo 9. DIVERSAMENTE OCCUPATE 95 orientamento sessuale, le sue esperienze personali e competenze di lavoro accumulate sono determinazioni della vita dei lavoratori indipendenti. Vengono considerate «capitale umano», cioè una misura astratta e calcolabile per stabilire il valore di un lavoro e quindi quello di una persona. Vendere la propria singolarità, sottolineare quanto la differenza sia redditizia e convenga tanto a chi lavora quanto a chi investe, questo è il dispositivo in cui vivono gli indipendenti. La loro singolarità torna utile al capitale, e potrebbe riuscire persino a essere remunerata. In realtà essa è una caratteristica strutturale, e inalienabile, del lavoro indipendente. È una facoltà del singolo, ma è anche il risultato delle sue molteplici attività, oltre a essere l’espressione di una condizione comune. Essa non resta in silenzio, ma si manifesta nell’essere diversamente occupate3 delle donne, come di tutti gli indipendenti. Il buon senso democratico esibito nelle campagne promozionali sulle «pari opportunità» tollera l’esistenza di una simile «diversità» nell’occupazione in quanto eccezione rispetto a una regola del lavoro rappresentata solo ed esclusivamente dal cittadino bianco, maschio e dipendente. Questa eccezione sta tuttavia diventando una costante nel mondo del lavoro, sebbene si tenda ancora a ricondurla a una «normalità» che ormai non ha alcun rapporto con la realtà. Il giuslavorista Pietro Ichino ha definito enfaticamente questa situazione come l’«apartheid» dei non garantiti – i precari – rispetto ai «garantiti», cioè i lavoratori con posto fisso a tempo indeterminato. Il suo slancio rischia però di promuovere l’abolizione della tipicità del lavoro a favore della «flessibilità» di tutte le tipologie occupazionali. Insomma, per rimediare alla precarietà tutti dovrebbero diventare più precari, rischiando così di allargare il perimetro dell’«apartheid» che si vorrebbe abolire.4 Il problema del mercato del lavoro in Italia non è più la sua bipartizione tra garantiti e non garantiti, 96 I. CHE COS’È IL QUINTO STATO? bensì la sua frammentazione in innumerevoli contratti e prestazioni che non sono più riconducibili a una «tipicità», come ritengono i sindacati, né alla tutela individuale del singolo lavoratore in base al contratto posseduto. Bisogna invece individuare una nuova forma universalistica di protezione che non imponga la misura astratta di un contratto unico alla forza lavoro, né una differenziazione incontrollabile tra le tipologie e le prestazioni lavorative. Il reddito di base è senz’altro una di queste soluzioni, e molte altre misure garantiste potrebbero seguirlo, a condizione di non introdurre un nuovo obbligo che costringa il singolo ad accettare un lavoro qualsiasi, una formazione o una riqualificazione professionale in cambio di un sussidio. Lì dove è accaduto, come in Germania con la legge Hartz IV, lo Stato ha guadagnato un nuovo strumento di ricatto su un esercito di precari, sottopagati e schiavi di un workfare moralistico e padronale.5 Immaginiamo, invece, un sistema che accetti l’idea per cui ogni attività operosa sia l’espressione di una singolarità umana non riproducibile. Questo è uno dei portati più significativi delle lotte delle donne: è necessario valorizzare quanto di più virtuoso esiste oggi nel lavoro, le potenzialità di ciascuno, in altre parole la condizione universale operosa degli esseri umani che non può essere limitata alla mera esecuzione di una mansione lavorativa, come accadeva nel Quarto Stato, o al possesso di uno specifico contratto di lavoro, come invece accade nell’epoca della precarietà. La condizione del Quinto Stato non può essere circoscritta all’appartenenza a un ordine o albo professionale, a un ceto professionale-manageriale, oppure a una classe di esperti o di imprenditori. Il Quinto Stato è l’espressione di una condizione presente tanto nel lavoro operaio, intellettuale, artigiano o creativo, quanto in altre appartenenze di genere o sessuali, familiari o individuali. Per questo il Quinto Stato non può essere considerato l’evoluzione sto- 9. DIVERSAMENTE OCCUPATE 97 rica di un’identità come il movimento operaio, bensì il divenire dell’esperienza dei singoli che oggi condividono la stessa condizione.6 Una donna, un uomo, un gay o una lesbica, un migrante oppure un italiano, un operaio o un impiegato, una lavoratrice autonoma o precaria, sono l’espressione di una vita attiva che percorre condizioni lavorative o produttive, scelte individuali, status o appartenenze a classi sociali diverse. Il suo obiettivo è tutelare e promuovere l’autonomia dei singoli e dei molti. Dall’esperienza delle donne apprendiamo che il Quinto Stato ha attraversato – in maniera a volte tacita, altre volte esplosiva – tutti gli stati precedenti. Esso ha segnato irreversibilmente le attività operose degli esseri umani spinti a scegliere la strada dell’autogoverno o dell’autogestione per resistere all’esclusione provocata ieri dalla società del lavoro salariato, e oggi dalla società dell’austerità. Questa consapevolezza non basta a fermare i conflitti tra i membri del Quinto Stato, né a far maturare la coscienza di una condizione comune. Ieri come oggi le donne vengono escluse, penalizzate, umiliate, e con loro tutti i soggetti della differenza sessuale e chi non possiede uno status stabile o riconoscibile nel lavoro e nella società. Il Quinto Stato si emanciperà da questa condizione di minorità quando comprenderà che un’ingiustizia fatta a uno/a è un’ingiustizia fatta a tutti. Capitolo decimo Senza leggi, casa o fratria Femminista cosmopolita e socialista radicale, Flora Tristan ha denunciato la condizione di paria, di fuori casta, di intoccabile cui erano destinate le donne del Quinto Stato. Figlia di un nobile peruviano di origini spagnole, visse in povertà estrema per quarantuno anni tra il 1803 e il 1844. A quattro anni rimase orfana del padre. In Francia, poiché il matrimonio dei suoi genitori non era stato legalmente riconosciuto, Flora fu considerata una figlia illegittima e per questo bandita dalla società. Dopo aver lavorato come operaia colorista, si imbarcò per il Perù alla ricerca dell’eredità paterna. Voleva conquistarsi una rendita che le avrebbe permesso di vivere in modo indipendente, fuori dall’indigenza, senza più essere sottomessa al marito violento, il quale un giorno avrebbe tentato di ucciderla. Peregrinazioni di una paria (1834) è il racconto del viaggio di un apolide senza legge, casa o fratria alla scoperta di sé stessa. Ritornata in Europa, entrando nei meandri di Londra, Flora scrisse un altro libro intitolato Passeggiate londinesi (1840) dove apprendiamo un ulteriore movimento dell’apolide. Non è più quello che dall’interno si proietta verso i continenti, bensì quello che si sviluppa nelle pieghe della società salariale da cui le donne erano escluse. La lotta femminista 100 I. CHE COS’È IL QUINTO STATO? agli albori del Quarto Stato è un movimento dentro il movimento. Flora ha declinato il proprio essere apolide, cioè il non avere una parte nella società dei «senza parte», muovendosi tra i continenti e le metropoli con l’obiettivo di federare le classi operaie, conquistare autonomia individuale, giustizia sociale e felicità collettiva. Così ha incarnato il ruolo del Quinto Stato, il cui movimento produce nuovi rapporti e trasformazioni sociali. Dalla storia di Flora Tristan emerge un’altra caratteristica del Quinto Stato. Oggi questa condizione riguarda gli stranieri che vivono e operano in Italia (o in qualsiasi altra nazione occidentale a capitalismo avanzato), i figli nati nel Paese di residenza dei genitori immigrati (le cosiddette «seconde» o «terze» generazioni). La contraddizione investe i lavoratori indipendenti, i precari, le partite IVA e tutte le altre forme del lavoro impoverito o declassato che abbiamo descritto. Parlare di Quinto Stato significa affrontare la condizione generale di una cittadinanza che esclude e include allo stesso momento. Se da un lato questa cittadinanza esclude i cittadini dalla partecipazione o dalla tutela dei diritti fondamentali, dall’altra lato essa presenta ampi margini di trasformazione. Del resto questo è il senso del Quinto Stato: vivere in un mondo dove la cittadinanza dev’essere ancora conquistata e adoperarsi per includere chi non risponde alla regola d’oro del patto sociale dominante che privilegia lo status del cittadino-lavoratore a tempo indeterminato. Parliamo di una condizione che comprende la singolarità della posizione delle donne, così come di tutti i soggetti della differenza (trans)sessuale o omosessuale, storicamente consegnati a identità giuridiche, sociali o politiche altamente incerte e non assimilabili alla status del cittadino lavoratore. Il Quinto Stato esprime la singolarità universale della vita operosa di tutte queste persone, al di là della loro appartenenza a una professione, a un ceto, a una classe, a un genere o a un 10. SENZA LEGGI, CASA O FRATRIA 101 sesso. Una vita operosa e nomade, ma che è alla ricerca di una casa. Non vuole essere tollerata come un ospite, perché è sempre pronta a ripartire e andare altrove. Ciò che desidera è rendere abitabile un mondo inospitale e più giusta la propria esistenza. In questo modo, l’apolidia riscontrata nelle trasformazioni del lavoro contemporaneo assume un significato universale e rimanda a una domanda diffusa, cioè al «diritto ad avere diritti».1 Una domanda che, per sua natura, non può essere limitata alla conquista di uno status professionale o di ceto, e nemmeno a un’identità di classe specifica. Essa indica invece l’emergenza della condizione di chi non partecipa al grande gioco della società, non ha parte o ruoli tra chi vuole far contare solo la propria rendita di posizione. La condizione senza leggi, casa o fratria, rimanda a quella del barbaro o dello straniero esclusi dal governo della polis sin dal tempo di Omero. In realtà, questa genericità è la stessa che ha caratterizzato le rivendicazioni sociali in epoca moderna, a cominciare dal «Quarto Stato», i contadini e le classi operaie.2 Anche i proletari furono nomadi, come la famiglia Joad nella migrazione verso la California raccontata da John Steinbeck in Furore. E tuttavia hanno preteso di governare il proprio destino. Questo non significa che il «Quarto Stato» sia riuscito a eliminare il dispositivo inclusivo-escludente che oggi penalizza anche il Quinto Stato. Questo dispositivo garantisce da sempre il funzionamento della cittadinanza. Una politica che non si rassegna cerca costantemente di allargare, e modificare geneticamente, questi limiti imposti. Così facendo i «senza parte» riuscirono a conquistare il diritto a una casa e a porsi come rappresentanti dei diritti della parte esclusa dalla società. Così dovrebbe fare oggi il Quinto Stato che vive la condizione dello straniero bandito, sia nel 102 I. CHE COS’È IL QUINTO STATO? caso in cui sia effettivamente uno straniero, sia nel caso in cui possieda la nazionalità del Paese in cui risiede, ma è stato espropriato dei mezzi per godere della sua cittadinanza. Residente in un territorio, il Quinto Stato non ha una terra. Non fa parte dello Stato, eppure ne è parte integrante. Cerca un asilo lì dove è nato, ma nasce in un mondo dove non troverà mai una casa. Questi apolidi hanno il terrore di diventare paria in una società dove le caste non permettono alcun movimento, mentre si moltiplicano i bandi che colpiscono chi tradisce un disagio, evoca una soluzione alla povertà, non si rassegna a essere considerato un cittadino dimezzato.3 Sono i migranti che lavorano in Europa o negli Stati Uniti, e i loro figli, a incarnare la condizione del Quinto Stato. Ricordiamo solo i moti nelle banlieues francesi dell’autunno 2005. I giovani che parteciparono a questi tumulti erano francesi di seconda o terza generazione, ma furono marchiati dalle loro origini «straniere», addirittura affiliati al terrorismo dell’«Islam radicale». E a nulla valse l’opportunistico appello dell’allora presidente francese Jacques Chirac, che in modo paternalista si rivolse ai «giovani dei quartieri difficili, che qualunque siano le loro origini, sono tutti le figlie e i figli della Repubblica». Era il fallimento del modello sociale francese e quei ragazzi avevano tutti i titoli per affermare i loro diritti sociali negati; eppure, quando provarono a denunciare – anche in maniera violenta – la propria esclusione, furono banditi dalla comunità civile.4 Anche gli europei «precari» sperimentano la medesima condizione di diniego. Il bando emesso contro gli «stranieri» delle banlieues è lo stesso che colpisce coloro che lavorano in maniera indipendente o intermittente, finendo per essere confinati in una sorta di «banditismo sociale»: sono «banditi» dalla società e vengono rappresentati come «banditi» che evadono le tasse. Come i migranti, e i loro figli, si trascinano di generazione in generazione una «doppia colpa», 10. SENZA LEGGI, CASA O FRATRIA 103 quella cioè di avere lasciato il Paese d’origine e di non trovare cittadinanza in quello di arrivo, così anche i nativi precari sperimentano la stessa condizione di padre in figlio.5 Una volta immigrati, lo si resta per sempre.6 E precari saranno anche i figli dei figli che hanno la «colpa originaria» di non essere mai entrati nella cittadella del lavoro dipendente, sempre meno garantito e tutelato. Il bando del Quinto Stato risponde a una cittadinanza europea costruita sul regime dell’esclusione: quella di classe, di ceto e di razza.7 Il Quinto Stato è la negazione di questo regime. Capitolo undicesimo Il potere comune Apolide è il Quinto Stato che non rientra nella categoria di «popolo», né di ceto medio, di classe operaia o di imprenditore di sé stesso. Questo è il nome della vita attiva nei settori del lavoro e dell’impresa, nelle pratiche della cittadinanza diffusa, nel desiderio di consorzi umani all’altezza della pluralità di appartenenze relazionali, sociali, lavorative, nazionali irriducibili a qualsiasi misura standard della rappresentanza politica – il popolo, il partito, il sindacato, il territorio, il cittadino, il lavoro salariato. Il Quinto Stato è il risultato, e la premessa, della reinvenzione delle forme della relazione, dell’associazione o di federazioni che rappresentano le espressioni istituzionali irriducibili a quella dell’Uno sovrano, del pubblico statale o del privato mercantile. Nel suo nome, il Quinto Stato porta il desiderio di un’altra città, liberata dai vincoli corporativi e comunitari, la necessità di affermarsi oltre i limiti della cittadinanza esistente. Ma il Quinto Stato è nulla in un sistema dove la maggioranza e l’opposizione sono d’accordo almeno su un elemento: chiudere il sistema all’espressione di una forma di vita alternativa. Il peggiore crimine compiuto dal Quinto Stato è quello di essere una comunità che non ha bisogno di Dio padre, né 106 I. CHE COS’È IL QUINTO STATO? di una santissima trinità che rimette i peccati, e non riconosce un’autorità agli esperti né ai capi del populismo. Inoltre, non vuole essere ridotta all’individuo egoista, triste e senza speranza di felicità: l’uomo democratico. Questa estraneità è insopportabile tanto per la destra quanto per il centro o per la sinistra. Le forze politiche costituite hanno l’abitudine di sussumere le potenzialità del Quinto Stato nella gabbia della «società civile», per di più interpretata in modo mortificante e sterile, come spazio di produzione di luoghi comuni per persone benpensanti, oppure come agone a disposizione degli istinti neopopulisti. Per la sinistra, la società civile è quella che si muove nella lotta contro la mafia o contro la «Casta», giuste rivendicazioni che offrono un’accezione ancor più ristretta di società civile: non più quella borghese legata al reddito e alla produttività materiale del singolo, ma alla rivendicazione del cittadino democratico rispetto alla legalità anziché alla giustizia. Di fatto, la «società civile» a cui si rivolge la politica ufficiale non contempla gli elementi costitutivi e le contraddizioni del Quinto Stato. Su questo magma indifferenziato le classi dominanti proiettano le proprie idiosincrasie, paure, attese o delusioni. E tuttavia anche questo è il prodotto dell’assenza di un’autorappresentazione del Quinto Stato. Pensare infatti che una simile forza, strategicamente posizionata al centro della produzione dell’immaginario collettivo, si lasci strumentalizzare da agenti estranei è un’ingenuità. Ma questa è un’altra delle sue contraddizioni: così impegnato a fornire le rappresentazioni per gli altri, il Quinto Stato solo raramente si è dotato di un’autorappresentazione. E oggi ne paga le conseguenze. Per questa ragione la società civile resta lo strumento meno dispendioso per nominare l’irrappresentabile e non soffermarsi sugli aspetti disgustosi presenti nella realtà. I dominanti vedono la possibilità di confermare le differenze di nascita, di 11. IL POTERE COMUNE 107 condizione, di educazione o di occupazione dentro la «società civile». I dominati, invece, le accettano sperando che almeno questo serva a modificare anche minimamente gli equilibri acquisiti, premiando il singolo e non la massa. Il Quinto Stato vuole essere uguale agli altri. In questa esigenza di uguaglianza, esso esplicita la richiesta di continuare a operare secondo i suoi bisogni e le sue potenzialità. Questa uguaglianza è anche operativa, produttiva di relazioni, e non solo di merci: allude a consorzi di nuova cittadinanza. Sotto forma di cooperazione sociale, l’uguaglianza perde la sua finzione di diritto universale, e acquista il profilo di una potenza inquietante per la democrazia in cui viviamo. È Jacques Rancière ad averne spiegato la ragione: I furbi e i furbastri potranno sempre dire che l’uguaglianza è soltanto il dolce sogno angelico degli imbecilli e delle anime pie. Sfortunatamente per loro, però, essa è una realtà incessante e attestata ovunque. Non c’è servizio che si possa stabilire, senza che il padrone o il maestro debba parlare, «da pari a pari» con colui che comanda o che istruisce. La società inegualitaria può funzionare solo grazie a una moltitudine di relazioni egualitarie. È questo intrico fra uguaglianza e disuguaglianza che lo scandalo democratico mette in luce per farne il fondamento di un potere comune».1 Il Quinto Stato è la condizione del potere comune. Parte seconda UNA STORIA A CONTROPELO Capitolo dodicesimo La congiura dei ricchi Volgiamoci all’Inghilterra delle guerre civili del Seicento. Spostiamoci tra il 1790 e il 1830 a Londra, o a Parigi, dove arriviamo al Secondo Impero. Affacciamoci sui moti di Palermo del 1773 o su quelli di Bologna del 1790, sconfinando nelle Repubbliche «giacobine» in Italia. Avanziamo fin al 1848 europeo e proiettiamoci nella Comune di Parigi del 1871. Torniamo a osservare questi eventi per comprendere il desiderio di governare il proprio destino che sarà espresso da enormi masse anche a Roma e a Londra nel 2011, a Istanbul e Ankara nel 2013, oppure nel Brasile posto sotto i riflettori della Confederation Cup. Sappiamo che nel mezzo c’è stato Occupy Wall Street negli Stati Uniti. Oggi le rivolte urbane, le pratiche non violente, i nuovi linguaggi dell’insurrezione, le occupazioni delle piazze, le sperimentazioni artistiche o gli happening sono gli epicentri di una mobilitazione sotterranea contro la speculazione finanziaria e l’autoritarismo di governi che impiegano imponenti risorse per sanare i debiti delle banche, foraggiare grandi opere inutili, oppure grandi eventi che non alleviano in alcun modo le condizioni di precarietà della popolazione. Forme, e argomentazioni, che rievocano la lotta contro la congiura dei ricchi, come la definì Thomas More nel XVI secolo. 112 II. UNA STORIA A CONTROPELO In questo girovagare, non scatteremo foto-cartoline delle insurrezioni più emblematiche della storia. Ripercorreremo invece le pratiche di resistenza e di associazione delle classi povere e operose, spesso unite alla «feccia» urbanizzata nell’istintiva rivolta contro l’oppressione, l’esproprio del valore del lavoro, la disoccupazione o la miseria. In altri momenti, questa congestione sociale si è alleata con i membri delle tradizionali corporazioni artigiane e operaie. Alla base di simili coalizioni, che si ripresentano nel tempo, anche al variare delle contingenze politiche e dei conflitti, riteniamo che esista un’attitudine, o capacità pratica, che abbiamo definito Quinto Stato. Tale persistenza non deriva da un’identità storica tramandata di generazione in generazione oppure da una classe sociale sulla quale non tramonta mai il sole. La rivolta, l’insurrezione, gli eventi connessi a una rivoluzione, non sono solo il frutto di aggregazioni improvvisate, formatesi a partire da un bisogno o in nome di una vertenza specifica. Queste sono le condizioni di partenza affinché un evento politico crei una discontinuità radicale. L’evento in questione dev’essere però considerato come lo snodo di una tessitura di rapporti, linguaggi e azioni assai radicato, e non sempre visibile. L’insurrezione vuole tagliare la testa del sovrano e creare un regime orizzontale della democrazia assoluta. Può riuscirci, o meno, ma ciò che più conta è l’effetto che essa produce sulla vita quotidiana di milioni di persone che condividono la povertà e l’umiliazione del lavoro precario o gratuito. Per questa ragione le insurrezioni sono il risultato della difesa dell’autonomia da parte degli indipendenti, dei non affiliati, delle classi povere e di quelle operose. Tra le prerogative del lavoro indipendente non c’è solo la possibilità di mettere liberamente la propria opera al servizio degli altri, oppure la capacità di creare relazioni spontanee tra competenze e abilità differenti. C’è anche la neces- 12. LA CONGIURA DEI RICCHI 113 sità di mettere in comune una condizione di indebitamento o di miseria, trasformando l’oppressione dei ricchi contro i poveri, dei padroni contro gli schiavi, nella solidarietà tra i simili in nome dell’uguaglianza universale. Oggi questo è tanto più vero se si osserva ciò che accade dall’Asia all’America Latina, dagli Stati Uniti fino alla Vecchia Europa, dove la maggioranza dei salariati, degli indipendenti, dei migranti o degli studenti lavorano non per ripagare con gli interessi i debiti contratti personalmente, bensì il debito pubblico («debito sovrano») contratto dai rispettivi stati con i creditori internazionali. Ieri, come oggi, questo dato trova conferma nella corrispondenza tra le rivolte politiche e le recessioni, le crisi alimentari oppure il fallimento di uno Stato o di un sistema bancario. Si spiega così la riemersione di una pratica solidaristica, quella della mutualizzazione dei debiti e dei costi della miseria e della disoccupazione, che ha avuto un grande richiamo nel XIX secolo in Europa. Questa pratica garantisce l’autonomia, cioè la libera disposizione di sé stessi che precede la formulazione giuridica del lavoro salariato, autonomo o precario. Il conflitto politico della nostra epoca si rivolge contro la codificazione giuridica dei rapporti di lavori da parte dello Stato come dei possessori di liquidità (banche, capitalisti, rentiers di ogni tipo) che cercano di incatenare, addestrare, riformulare l’autonomia nel lavoro e nella società. Anche il movimento operaio ai suoi albori dichiarava di voler proteggere l’unico bene in suo possesso: l’autonomia delle persone. Tutto inizia dall’autonomia, prosegue con la battaglia per la sua difesa, riprende con un nuovo tentativo di subordinazione del lavoro indipendente o di quello subordinato.1 Non parliamo solo di una facoltà astratta a disposizione di tutti, bensì di un’attività che ha bisogno di un costante impegno per affermarsi o per essere difesa dall’operaio di mestiere o professionale, quanto dall’autonomo che fa il sarto, l’arti- 114 II. UNA STORIA A CONTROPELO giano, il piccolo imprenditore o il commerciante, ma anche dall’insegnante o dall’infermiere. L’autonomia è un’attività che riguarda tutti i soggetti operosi, indipendentemente dal contenuto della loro opera e dalla tipologia del loro contratto di lavoro. L’autonomia diventa concreta, storicamente accertabile, e politicamente significativa, quando è il risultato di un’azione deliberata sia a livello individuale che a livello collettivo. Passare a contropelo la storia del Quinto Stato significa esplorare un continente dove le gerarchie tra datore di lavoro e lavoratore, tra chi è libero e proprietario e chi è subordinato e vende la propria forza-lavoro, rischiano costantemente di essere sovvertite. Il passare indifferentemente da una condizione all’altra rappresenta una delle principali caratteristiche del Quinto Stato, nota ancora prima della modernità, e contro di essa il capitale ha condotto una guerra senza quartiere. L’ambizione di diventare padroni (come anche datori di lavoro) di sé stessi viene giudicata una bestemmia se a nutrirla è il povero, il modesto lavorante di bottega, oppure l’irregolare senza arte né parte. Non avrebbero le competenze, la razionalità, la personalità per aspirare a tanto. E infatti nessuna autorità intende legittimare una simile pretesa. Tuttavia, è proprio questa la sfida che ha mosso imponenti masse e creato alleanze tra poveri, indipendenti, operai specializzati, borghesi. Il Quinto Stato è dunque il risultato di coalizioni che si mescolano, evaporano e tornano ad aggregarsi. Non è un blocco sociale monolitico, ma il risultato dell’intreccio tra un evento politico e il bisogno di associarsi agli altri per condividere una situazione insostenibile per i singoli. Un’altra delle sue caratteristiche è quella di addensarsi in consorzi di cittadinanza irregolari, eretici, imprevedibili. Molto spesso, infatti, quando la corrente rifluisce, lascia sul terreno istituzioni, pratiche e abitudini, la capacità di riconoscersi, un linguaggio, saperi e 12. LA CONGIURA DEI RICCHI 115 conoscenze utili per ingaggiare una battaglia che non ha bisogno delle armi, bensì della creatività e del virtuosismo. Nella prima parte di questo libro, abbiamo raccontato l’emersione della «Terza Italia», forma culturale e produttiva molto problematica della costituzione del Quinto Stato. Considerata la situazione attuale, è probabile che sia in corso un processo di aggregazione altrettanto imprevisto, rispetto alla costituzione globale del capitalismo del debito e della finanza; un processo basato sulla condivisione, sulla cooperazione, e su forme di reciproco aiuto e di vero e proprio mutualismo com’è già accaduto nell’Ottocento. La forma in cui questa aggregazione si potrà dare è quella dei consorzi di cittadinanza. A differenza della «Terza Italia», tali consorzi si fondano sulle tradizioni della solidarietà e dell’uguaglianza che racconteremo in questa seconda parte. L’emergenza dei consorzi di cittadinanza tra gli esclusi dal patto sociale rappresenta una costante nei conflitti sociali moderni. In questi processi non esiste linearità, e in origine c’è sempre una molteplicità di identità, di soggetti e di comportamenti. Lo stesso Edward P. Thompson, che consideriamo un punto di riferimento nella storia del movimento operaio, ha precisato che all’origine di questa costituzione non esisteva una sola classe operaia, ma una pluralità di «classi operaie», o meglio di attitudini differenti alla vita operosa, che, riconoscendo la loro condizione comune, hanno dato vita a una serie di pratiche mutualistiche e cooperative che per più di un secolo avrebbe costituito una gigantesca accumulazione di forza politica e sociale utile per contrastare la violenza dello sviluppo capitalistico.2 Nulla, in questi processi, garantisce il lieto fine, un paradiso in terra, la soluzione definitiva dei conflitti. Molto spesso, anzi, essi complicano ancora di più una situazione di partenza non certo facile. Ma questo è scontato. Meno scontato è invece intuire la loro tendenza di fondo e cercare di svilupparla al 116 II. UNA STORIA A CONTROPELO massimo della sua potenza. Il Quinto Stato rappresenta questa tendenza, perché è ben radicato in una storia, rimossa ma sempre presente, di una costituzione che ritorna arricchita ogni volta da nuove caratteristiche. Inoltriamoci allora alla scoperta di questa storia insieme a Balzac.3 Poi incontriamo, sul far della sera, Restif de la Bretonne, «il gufo filosofo e spettatore», camminatore solitario nella folla delle notti parigine prerivoluzionarie.4 Ci uniamo ai tumulti degli spazzini. Parigi appare sull’orlo dell’insurrezione che tiene insieme vita, arte e pratiche alla ricerca di libertà. Avanza il licantropo Petrus Borel, insieme al poeta folle e sublime Gérard de Nerval, quindi Charles Baudelaire il dandy, poi il giovane ribelle Arthur Rimbaud. È l’irrequieta urbanizzazione del «mito di Parigi», attraversata da cantori, confusi tra lavoratori erranti, scrocconi, malviventi, intellettuali e inoperose moltitudini, perché «non c’è una società parigina, non ci sono parigini, Parigi non è altro che un accampamento di nomadi».5 Noi siamo dalla parte del diavolo. E a quel tempo, a Parigi, il diavolo era dalla parte dei contadini appena arrivati in città, delle corporazioni degli artigiani, degli operai e dei piccoli produttori, pronti alla rivolta contro la congiura dei ricchi, di quelle operose classi pericolose.6 Questa è la lunga tradizione del mob cittadino; essa risale a Robin Hood in lotta contro gli usurai e i padroni della terra. Oggi torna a parlare ai piccoli proprietari, agli indipendenti, al ceto medio impoverito, ai precari e ai nuovi poveri. Un tempo si appoggiava alle filosofie di liberazione dalla sovranità di Re, Dio e nobili.7 Da sempre e ancora oggi predica la lotta contro l’oppressione fiscale dei ricchi.8 Ieri come oggi, la vita della metropoli non ha mai avuto quartieri eleganti, né modi gentili nel porgere l’esistenza. A 12. LA CONGIURA DEI RICCHI 117 Roma, Napoli, Palermo, Parigi, Vienna, Istanbul ci sono ancora mercati all’aperto, teatri, piazze e tuguri che fiancheggiano i palazzi del potere. Ritroviamo in questi spazi il cuore pulsante dell’amore e dell’odio, della rivolta e della restaurazione. Sediamoci a un tavolo di osteria. Ecco radunarsi attorno a noi diverse epoche del lavoro, dell’indipendenza e del rifiuto della congiura dei ricchi. Come d’incanto, è il Quinto Stato a radunarsi con la sua memoria. C’è l’artigiano e la creativa, il lavoratore manuale e la piccola commerciante, il parolaio indipendente e il pragmatico traffichino. Questa eterogeneità è la galassia da cui è scaturita anche la società salariale e il moderno proletariato industriale. Ed è la stessa da cui emerge oggi il lavoro immateriale che confluisce nel Quinto Stato. Questa è la storia europea che vogliamo raccontare. Che sia dunque questa libertà condivisa, un’indipendenza dallo sfruttamento per l’autotutela dei lavoratori e delle cittadinanze, a guidarci nel viaggio che ci resta da compiere. Contro la congiura dei ricchi non andremo alla ricerca di una Gerusalemme, per giunta troppo spesso rimandata.9 Ci faremo invece agire da un impulso. Ci muoviamo, perché non c’è altro che sentire di vivere. Per ribollire sempre di nuovo, dal basso, là dove cominciamo tutti insieme a essere in carne e ossa. Con la ricreazione della storia, della nostra storia, andiamo alla ricerca di ciò che procede incalzando, perché è in noi da quando siamo e finché saremo. Di questo impulso noi riceviamo solo le conseguenze irrequiete di una vita che sfuma nell’immediato e nelle intermittenze. Sbagliando, errando ancora, per quanto esausti possiamo essere, la sete del nuovo si fa sempre sentire, anche se non dice ancora il suo nome. Capitolo tredicesimo «Che i soci siano illimitati» «Che i soci siano illimitati». È la prima «clausola direttiva» della London Corresponding Society, citata dal segretario fondatore Thomas Hardy in una lettera del marzo 1792 alla consorella di Sheffield.1 Sì, perché le società operaie, popolari o di mutuo soccorso si sono sempre chiamate fra loro come fossero sorelle nella stessa famiglia umana. E tuttavia nel marzo di quell’anno al tavolo della società sedevano solo nove uomini dabbene, sobri e laboriosi. Erano giacobini, espressioni del pluricentenario radicalismo londinese della classe operaia e dei ceti popolari. Dopo avere cenato con pane, formaggio e birra scura, caricato la pipa e scambiato alcune parole riguardo alla durezza dei tempi, in particolare il costo dei generi alimentari, i soci iniziarono a discutere della riforma elettorale, il tema per cui erano convenuti. Di mestiere facevano i calzolai (ma la società comprendeva anche maestri coltellinai, sarti, lavoranti e piccoli imprenditori), e la loro era una delle corporazioni del lavoro autonomo più combattive d’Europa, protagonista per cinquant’anni dei tentativi più ambiziosi di auto-organizzazione, A quei tempi, la condizione di chi operava in proprio, a giornata, a corvée per un mastro, era del tutto simile a quella del lavoratore autonomo a partita IVA 120 II. UNA STORIA A CONTROPELO di oggi, il cosiddetto contribuente «minimo» o «marginale», o della lavoratrice precaria che magari è anche socia di una cooperativa o di una SRL. Come altre società popolari in Inghilterra, o club in Francia, la London Corresponding Society aveva drizzato le antenne in direzione dei caffeucci, delle taverne, dei lupanari e delle chiesuole «dissenzienti» tra Piccadilly, lo Strand e Fleet Street, dove i campagnoli cercavano di guadagnarsi i gradi da cittadino come lavoranti autodidatti. Tutti bevevano birra gomito a gomito con il tipografo, gran signore orgoglioso della sua impresa, l’incisore, l’avvocatino o l’emigrante intellettuale. C’era anche Thomas Paine, potente sobillatore della terra, dei proletari e dei cittadini in Europa e negli Stati Uniti. A questo tavolo un giorno siederà Karl Marx. La London Corresponding Society era il punto di riferimento delle più antiche società operaie a est e a sud del Tamigi, gli scaricatori e barcaioli di Wapping, i tessitori di Spitalfields, i dissidenti di Southwark. Come tutte le società popolari sarà perseguitata, i suoi membri saranno oggetto di spionaggio e tradimenti. Il fallimento della rivolta giacobina della flotta reale inglese, il «grande ammutinamento» del 1797, porterà la società alla rovina, ma il suo nome rimarrà scolpito nella memoria, anche di Melville, che in Billy Budd chiamerà Rights of Man la nave mercantile dove lavora il protagonista, in ricordo di Thomas Paine e di quell’epico ammutinamento.2 E allora i soci illimitati scelsero l’anonimato, dando corso a una lunga tradizione di società segrete, dedite all’azione diretta, camuffata, tragica. L’illimitatezza dell’affiliazione portò in seno alla società simpatizzanti repubblicani, lealisti nazionali e le relative contraddizioni. Un’eterogeneità ricorrente e dannosa sia nella tradizione radical-operaia che in quella repubblicanamazziniana, oltre che in quella anarchica. Ciò che non tramontò mai fu però il metodo dell’autogoverno basato sulle 13. «CHE I SOCI SIANO ILLIMITATI» 121 cariche elettive, la loro turnazione, l’autofinanziamento come il rimborso delle spese dei soci che lavoravano per la collettività. Era fondamentale per evitare la formazione di professionisti della rappresentanza, stipendiati per diventare nuovi burocrati. E poi si pensò a un’altra pratica: l’auto-tassazione e la redistribuzione mutualistica dei fondi in caso di malattia, decesso o funerale degli associati. Nella taverna The Bell si usavano le parole del Rights of Man di Thomas Paine. Parole che erano bestemmie contro Dio: «Quando il ricco saccheggia dei suoi diritti il povero», scandivano gli uomini, «il povero ne prende esempio per saccheggiare delle sue proprietà il ricco». Era l’idea, veramente sovversiva a quel tempo, che i diritti sociali non fossero emanazione del diritto di proprietà e che, più concretamente, tutti quelli al governo – il Re, l’aristocrazia – fossero parassiti che avevano estorto al popolo il diritto ad autogovernarsi. Era una rivendicazione ambivalente. Quegli operai di mestiere, precari e lavoranti, commercianti e piccoli imprenditori giungevano a una teoria anarchica in nome di un diritto naturale che risaliva – si diceva – alla notte dei tempi, quando i Sassoni arrivarono in Inghilterra. Un proposito dietro al quale spunta l’idea liberista per cui l’abbattimento di un governo serva a potenziare il laissez-faire del libero mercato. Nutrire il risentimento della «moltitudine porcina» – così Burke definì l’agitazione perpetua del mob londinese negli anni della Rivoluzione francese – può alimentare dal basso gli istinti animali del capitalismo. È anche vero che gli stessi operai costruirono un’immensa cattedrale a difesa dei diritti degli uomini, delle donne, dei lavoratori. Fu eretta a salvaguardia di chi vendeva la propria forza-lavoro, non di chi l’acquistava. In cattedrali come quella regnava una comunanza tra gli umili, gli industriosi e i solidali che avrebbe terrorizzato per quasi un secolo e mezzo il Re, la Chiesa e il Capitale. 122 II. UNA STORIA A CONTROPELO Al tavolo della London Corresponding Society sedeva l’indomito Thomas Hardy. Grazie a lui la società operaia riviveva uno spirito diabolico. Come nel Seicento, anche per Hardy gli uomini erano uniti da un diritto fondamentale: il diritto dell’uguaglianza, che precede il diritto di proprietà e la divisione tra le classi. La «bassa forza» può comandare il mondo e ha la libertà di allearsi con chi finanzia l’impresa, fa gli affari. Un’unione terrificante, indecente, contro natura. «Tutto quello che possediamo» scrisse il conservatore Wyvill «sarebbe alla mercé della canaglia iraconda, senza legge e senza lavoro».3 La tradizione radicale anglosassone contribuì alla nascita del giacobinismo, e in seguito del comunismo eretico, con i famosi dibattiti del New Model Army a Putney, sobborgo di Londra, dove in tre giorni, a cavallo tra l’ottobre e il novembre del 1647 – nel pieno della guerra civile e prima della Repubblica – si confrontarono gli Indipendenti del nascente Terzo Stato di Oliver Cromwell e di suo genero Henry Ireton con i Livellatori di John Lilburne e William Walwyn, orgogliosi lavoratori indipendenti e piccoli proprietari e produttori. Uno dei rappresentanti dei Livellatori, il colonnello Rainsborough, riassunse in poche parole la storia di queste rivendicazioni, che sarebbero state proiettate dalla metà del Seicento nel cuore della Rivoluzione francese: Io penso veramente che l’uomo più povero d’Inghilterra ha una vita da vivere quanto il più grande; e perciò, signore, credo sia chiaro che ogni uomo il quale ha da vivere sotto un governo debba prima col suo consenso accettare quel governo; e ritengo che l’uomo più povero in Inghilterra non sia affatto tenuto, a rigore, a obbedire a quel governo che egli non ha avuto alcuna voce nel creare. Discutere sempre la legittimità di un governo – di qualsiasi governo – a governare. Questa è l’eresia a cui aspirava 13. «CHE I SOCI SIANO ILLIMITATI» 123 anche Thomas Paine, e con lui tutti i radicali europei e americani: far coincidere rivendicazioni politiche ed economiche. E, in nome di questa coincidenza, giungere a sfidare anche il dettato costituzionale, ponendosi su di un terreno costituente. Su questa base egli provò, inutilmente, a unire i riformatori moderati e gli aristocratici con le minoranze di radicali e la grande massa di operai manifatturieri e professionisti, lavoranti e mastri artigiani, cioè coloro che non potevano accettare passivamente l’esistenza della miseria, come durante il Medioevo, né ripiegare sulla mentalità dei proprietari recintatori, per i quali la disoccupazione era causata dall’indole oziosa degli abili al lavoro.4 Questa idea politica resiste nell’Ottocento e si riflette nell’organizzazione del mutualismo. La terra fertile dove germoglia questa esperienza in Europa sono le moltitudini di produttori indipendenti, artigiani e mastri, creatori di gilde e associazioni, operai e sindacati nascenti decisi a farla finita con le vecchie vessazioni, povertà ed esclusioni e al contempo indisponibili a subirne di nuove. La strada scelta è quella dell’auto-organizzazione a partire dal sostrato delle società popolari, dei club, dell’associazionismo diffuso in tutto il continente. Il radicalismo pragmatico dei Livellatori, dei giacobini francesi e inglesi, presente anche nell’idealismo totalizzante delle utopie saint-simoniane e fourieriste, diede voce ai piccoli agricoltori, tessitori in proprio, indipendenti dalle corporazioni, ciabattini o spazzacamini, agli operai di mestiere, ai piccoli imprenditori, a precari di ogni genere. Che i soci siano illimitati: è l’aspirazione a estendere l’auto-organizzazione mutualistica e la cooperazione tra individui egoisti all’intera società, dotandola di regole e istituzioni democratiche differenti da quelle che vincolano tra di loro i fedeli di una chiesa, ma anche estranee al nascente Stato liberale. Per il Quinto Stato vale il seguente assunto: i diritti sociali sono fondati sulla «proprietà del proprio la- 124 II. UNA STORIA A CONTROPELO voro», sulla garanzia dell’indipendenza dell’individuo e sull’autodeterminazione della propria esistenza.5 Avere la disponibilità di decidere del proprio presente e futuro, in ogni momento. Questa è la condizione di autonomia e libertà che rivendicavano i Livellatori, a partire dalla consapevolezza di essere produttori indipendenti. Oggi sono i quintari a rivendicare questo diritto comune a un altro modo di possedere. Capitolo quattordicesimo «Agiamo tutti all’unisono» Inventori, artieri, impostori, avventurieri, falsari, alchimisti, ciarlatani, saltimbanchi, guaritori, ambulanti, ladri, sodomiti, usurai, birri, eretici «nemichi di Dio che biveno el sangue de li poveri uomini». Piero Camporesi colloca questa torma umana già nella Bologna del 1666 in un apologo sui venditori di sterco di gallina. Nell’anno I della Rivoluzione francese essa si ripresentò non invitata alle porte della Convenzione. Erano gli spettri del limbo, braccianti, infermi e indigenti, gli esclusi dalla società dei tre Ordini. L.-P. Dufourny de Villiers scrisse un Cahier de doléance il 25 aprile del 1789 dedicandolo al «Quarto Stato», «l’ordine sacro dei disgraziati», dei lavoratori giornalieri poveri, degli infermi, degli indigenti.1 Quello sul «quarto ordine» è un pamphlet assai meno noto dell’opuscolo dell’abate Sieyès sul Terzo Stato, cioè la borghesia. Rivela la condizione delle moltitudini «costrette dalla miseria a donare tutto il loro tempo, le loro forze e la loro salute per un salario a mala pena sufficiente per il loro nutrimento». Queste moltitudini bussarono alla porta, ma la Convenzione rifiutò di ascoltarle. L’assemblea nazionale del Terzo Stato fondò la propria legittimazione sull’esclusione del proletariato moderno, i non garantiti da nessun ordine sociale, le miriadi di lavoratori e 126 II. UNA STORIA A CONTROPELO lavoratrici dei più disparati settori e territori, senza rappresentanza, sempre isolati nella propria miseria, spesso invisibili anche a sé stessi. Troppo oscena era la loro presenza per essere accolta nel nuovo ordine borghese. Nel Cahier di de Villiers c’è una domanda attuale. Perché una classe immensa di giornalieri, salariati, persone non garantite e non assunte in modo tradizionale, non può eleggere rappresentanti diretti, affermare il diritto all’esistenza? L’Ordre Sacré des Infortunés, il Quarto Stato che non possiede nulla, dovrebbe essere il primo ordine, e invece è l’ultimo. Agli occhi della società non esiste. Il Quarto Stato non sarà contemplato tra gli Stati generali: invisibile, inesistente, escluso. E così sarà fino alla primavera del 1871, quella della Comune di Parigi,2 quando gli apolidi esclusi dalla società di provenienza e dal patto sociale vigente decisero di fare da sé. E si autorganizzarono. Furono sconfitti in una carneficina, e banditi persino dalla memoria della nazione. La tradizione sanculotta – il Cahier ne costituisce una delle prime manifestazioni – aveva a cuore l’affermazione di una società di piccoli produttori indipendenti, autonomi e virtuosi. I «decreti di ventoso» del febbraio-marzo 1794 stabilirono il sequestro dei beni dei sospetti, per distribuirli gratuitamente agli indigenti del Quarto Stato. Nel maggio successivo, venne introdotta un’indennità annuale per i bisognosi: una sorta di reddito di base ante litteram, che lo stesso Thomas Paine rivendicherà nell’Agrarian Justice del 1797. Misure che non ebbero alcuna applicazione pratica, disperse nel Terrore delle lotte tra fazioni in cui precipitò la rivoluzione verso il Termidoro. Con il Quarto Stato a pagare le conseguenze della miseria economica e sociale, prodotto della sua invisibilità politica e istituzionale.3 La rappresentanza del Quarto Stato restò disabitata per decenni. Ma l’assenza di una mediazione tra le moltitudini e lo Stato spinse ad aguzzare l’ingegno. Le classi operaie ma- 14. «AGIAMO TUTTI ALL’UNISONO» 127 turarono un imperativo morale e iniziarono a creare regole di comportamento, disciplina, abitudini utili a proteggersi e garantirsi a vicenda, cercando di non danneggiare i propri simili. Dovevano far durare la propria vita più di un soffio, offrendo alle donne e agli uomini l’occasione di migliorare la propria esistenza. Era un bisogno che partiva dalle esigenze minimali della vita. Gli apolidi iniziarono a circolare liberamente tra una città e l’altra. Questa è la storia del girovago, nomade apprendista, Jacques-Louis Ménétra, antesignano del Quinto Stato, vetraio nato a Parigi sul finire degli anni Trenta del Settecento. Filosofo, scrittore, biografo, come Jean-Jacques Rousseau, esiliato in Europa, Ménétra raccolse le sue confessioni nel Journal de ma vie: «autobiografia di uomo del popolo».4 Irrequieto in un’epoca di gesta singolari, giovane avviato sulle orme del padre vetraio, Ménétra compieva il classico Tour de France, il viaggio di formazione di ogni apprendista, prima di fare ritorno a casa, pronto a preparare la rivoluzione. Orfano di madre, figlio di un uomo violento e sregolato, Ménétra sproloquia sull’infanzia terribile al Pont Neuf. Il suo mestiere era quello appreso in bottega. Iniziò una formazione professionale itinerante nelle diverse botteghe e atelier di vetraio dalle coste atlantiche a quelle mediterranee, passando per il centro, sempre in cerca di un lavoro migliore. Picaro come molti lavoranti del vetro, visse tra la Repubblica di Venezia e la monarchia di Francia, nemiche giurate nella fabbricazione del vetro di Murano, partecipando alle guerre di spionaggio che questi regimi si facevano per conquistare i brevetti necessari a vincere la concorrenza. Ménétra non smise mai di cercare l’indipendenza. Diventato adulto, sarebbe stato pronto a godersi la vita, consapevole di dover lavorare per vivere, non vivere per lavorare.5 128 II. UNA STORIA A CONTROPELO Quella di Jacques-Louis Ménétra è una figura ricorrente nella storia europea, anche se le storiografie dominanti lo hanno considerato un soggetto anomalo. Non era inquadrabile nel Quarto Stato e non era nemmeno ritenuto capace di raccogliere l’eredità dell’ordine precedente. Questo vetraio è un classico apolide, che svolge il suo lavoro in bilico tra il proto-operaio di bottega e il piccolo imprenditore. È un professionista che conosce il mestiere, ma la società lo tratta da apprendista itinerante e girovago. Appresa l’arte nella bottega familiare, nelle sue peregrinazioni cerca di vendere al cliente la propria sapienza. Jacques-Louis si sente un cittadino di Parigi, di origini plebee, senza antenati e blasoni, in sprezzo all’ordine cetuale, e rivendica l’appartenenza alla classe degli artigiani. È un apolide ambizioso, cerca di fondare la propria città, col passo lungo che scavalca valli e attraversa contrade. Ménétra traccia linee e cerchia perimetri. Come tutti gli apolidi, anche lui coniuga il suo essere cittadino del mondo con l’orgoglio di possedere un mestiere. È la sintesi che troverà ospitalità nell’etica del movimento operaio. Un’etica che permette di ribellarsi ai mastri vetrai proprietari di bottega e alle vecchie corporazioni. Ménétra propone uno scambio ai suoi datori di lavoro: accetta le regole del lavoro a bottega, in cambio chiede ospitalità, vitto, alloggio. E poi riparte. Una strategia praticata spesso a quel tempo. Fu repressa dalle autorità che erano interessate a stabilizzare la manodopera. Le corporazioni volevano mantenere la disciplina, l’obbedienza alla gerarchia. Ménétra, e quelli come lui, erano la negazione vivente di questa politica. Sulla loro strada trovarono la complicità di una comunità basata sulla regola conviviale che orienta la vita dei lavoranti nomadi.6 Il contrasto tra la legge dei viandanti e quella del loro gruppo professionale ha nutrito a lungo il conflitto di classe. Da un lato c’è l’affermazione, o la difesa, della propria indipendenza, dall’altra c’è l’obbligo al rispetto delle regole di 14. «AGIAMO TUTTI ALL’UNISONO» 129 una corporazione, del contratto, della volontà del datore di lavoro. Questo conflitto non ha risparmiato gli operai i quali, una volta incastrati alla catena di montaggio, all’esecuzione di una qualsiasi mansione ripetitiva, hanno sempre cercato di guadagnarsi un’autonomia, difendendo spazi minimali, praticando scioperi, boicottaggi, spesso affermando potentemente il rifiuto del lavoro. In fondo, è questo il conflitto che si svolge ancora oggi in tutte le forme del lavoro indipendente. Ménétra venne esiliato dalla polizia. Fu messo in quarantena a lavorare ai vetri del castello e delle scuderie di Versailles, sotto il controllo del mastro vetraio e delle guardie del re. Aveva sobillato la sedizione tra i colleghi, ricorrendo alla naturale propensione all’ingiuria, alla bravata, al disprezzo, all’insolenza contro i nobili, i padroni e i mastri. Non era dunque solo un provocatore. Dietro di lui c’era una insofferenza diffusa che spingeva alla rivolta, covava una rivoluzione. Ménétra conosceva questa propensione dell’autorganizzazione dei mestieri e dei lavori quando decise di entrare nell’associazione di lavoranti che lo avrebbe protetto durante le sue peregrinazioni. Accettò il battesimo e i doveri dei «Lavoranti erranti o divoranti», i compagnonnages grazie ai quali avrebbe trovato impiego e sostegno. Ribelle a ogni regola, Ménétra accolse tuttavia la regola di questa comunità, rispettandone gli obblighi, condividendo i suoi tempi di vita. Le corporazioni tradizionali delle arti e dei mestieri furono spazzate via dalla rivoluzione. Le associazioni come quella di Ménétra riuscirono a sopravvivere, anche grazie al loro statuto informale che le rendeva simili a comunità spirituali, forme di appartenenza ideale e non certo ordini professionali fondati su un codice deontologico. Alla fine del XVIII secolo, queste comunità hanno sperimentato pratiche di socializzazione ispirate al terzo principio della Rivoluzione 130 II. UNA STORIA A CONTROPELO francese, quello della fratellanza. La fratellanza si sperimenta contro il lavoro subordinato e nella condivisione sostenuta sin dalla giovinezza e protratta come stile di vita e atteggiamento esistenziale. Si vive nelle locande, si fa festa, si imparano le canzoni. Sono tutti momenti di un’economia del dono che viene strutturata a partire dalla convivialità. Queste pratiche sono state definite un «potlatch fraterno».7 Robert Darnton invita a leggere Ménétra alla luce di Rabelais: Ci può aiutare a capire la terza componente della triade dei sans-culottes, quella che oggi ci appare più estranea: la fratellanza. Ménétra non ha imparato la fratellanza dai libri, ma bevendo e andando a puttane con i compagnons durante il suo Tour de France. Il suo modo di intendere la fratellanza poteva essere violento e crudele, ma durante la prova suprema del 1793-1794 essa tenne unita la gente non solo nello sforzo comune di riempire la pancia e difendere la Repubblica, ma di preservare un modo di vivere».8 La convivialità era dunque il risultato di pratiche quotidiane improntate a libertà, autotutela collettiva, comunanza di spazi, ideali, cibo, passioni, felicità. Forme di vita che rivendicavano l’insubordinazione contro il vecchio sistema cetuale e l’ordine borghese nascente in nome di una «morale della fedeltà a sé stessi nella libertà» e dell’aspirazione all’emancipazione collettiva: «Amici, oggi siamo tutti compagnons e agiamo tutti all’unisono». Nelle taverne, osterie, cafè e bar dove il loisir incontra il devoir dei compagnons, Ménétra giocherà a dama con Jean-Jacques Rousseau. Ciascuno perso e poi ritrovatosi nei comuni pensieri e nell’azione da libero cittadino di una repubblica, quella dell’indipendenza individuale e della felicità collettiva. Capitolo quindicesimo Cospiratori dell’uguaglianza Lo spirito dell’associazione è il vento che ha spezzato gli ordini cetuali dell’Ancien Régime in Europa. Partì impetuoso nella primavera del 1796. La chiamarono «cospirazione per l’eguaglianza» contro il Direttorio del regime termidoriano, quello che voleva «farla finita con le Rivoluzioni» e affamava la popolazione. «Gracchus» Babeuf guidò la congiura, anticipazione del movimento socialista. Babeuf affermava l’urgenza dell’autogoverno della libera «comunità dei lavori e dei godimenti». Un programma politico che venne diffuso in tutto il continente da Filippo Buonarroti, autore del pamphlet La Conspiration pour l’égalité (1796) e sodale di Babeuf nella congiura insieme a Sylvain Maréchal. Erano tutti agitatori sans-culottes parigini, vivevano sotto il Direttorio, nella moltitudine di sfruttati, vecchi e nuovi lavoranti, indigenti, poveri disoccupati.1 Come Ménétra, anche loro evocavano una comunità dei lavori e dei godimenti. L’uso del plurale non è casuale. Siamo alle origini del movimento socialista, quando si faceva molta attenzione a sfuggire alla visione monista del lavoro, e del lavoratore. Eresia dell’eresia, il lavoro veniva addirittura associato ai «godimenti». Il godimento è la negazione del regime del lavoro, ma si può godere anche di un lavoro 132 II. UNA STORIA A CONTROPELO scelto in base a una preferenza personale, rispettando i propri tempi di vita a garanzia di una comunità che ama la vita. Per quindici secoli sei vissuto in schiavitù, e quindi infelice. Da sei anni respiri a fatica, nell’attesa dell’indipendenza, della felicità e dell’eguaglianza. […] Dichiariamo di non poter più sopportare che la stragrande maggioranza degli uomini lavori e sudi al servizio e per il piacere dell’estrema minoranza. Sono alcune delle proclamazioni del Manifeste des Egaux. Insieme a quella dell’abolizione della proprietà privata, inaugurano la presa di parola collettiva del lavoro vivo contro le strutture parassitarie del potere. La citazione che apre il manifesto è di Condorcet: «Uguaglianza di fatto, scopo ultimo dell’arte sociale». Per ribellarsi alla schiavitù, all’indigenza, bisogna aspirare alla felicità dell’eguaglianza e dell’indipendenza. Questo manifesto circolò in Francia, poi in Inghilterra, e anche in Corsica, quindi a Bruxelles e Milano, tra le società segrete dei Filadelfi, quella dei Sublimi Maestri Perfetti e la Carboneria francese. La cultura radicale del giacobinismo coniugava innovazione istituzionale, istruzione pubblica e princìpi di giustizia. Questi principi arrivarono a Napoli nel triennio giacobino. Buonarroti cavalcò quest’onda europea per diffondere l’associazionismo operaio, repubblicano, democratico, segreto e libertario. Nel 1794, prima della congiura e dopo l’occupazione da parte delle truppe rivoluzionarie francesi, Buonarroti ricoprì il ruolo di commissario rivoluzionario a Oneglia e provvide all’istruzione pubblica della popolazione, insieme ai napoletani Carlo Lauberg e Michele De Tommaso, protagonisti della Repubblica napoletana del 1799. Vollero applicare l’idea di Condorcet: «le leggi pronunciano l’eguaglianza nei diritti; ma soltanto l’istruzione può renderla reale».2 Istruzione, non educazione; pubblica, non nazionale. È la dimen- 15. COSPIRATORI DELL’UGUAGLIANZA 133 sione di un agire singolare e condiviso, in cui gli individui contribuiscono alla creazione di uno spazio pubblico, non statale, nel quale viene garantita l’autonomia personale e nuove pratiche collettive volte a sperimentare condizioni di benessere. Perché l’istruzione pubblica estende la conoscenza e libera l’umanità dalle sue catene. Fu l’urgenza di abolire i privilegi, eliminare gli abusi, diffondere l’istruzione a guidare Eleonora de Fonseca Pimentel e la Repubblica napoletana. Un tentativo generoso, ma isolato, durato pochi mesi, travolto dalla crociata sanfedista capeggiata dal cardinale Ruffo, la cui sanguinaria vittoria avrebbe negato a Napoli la possibilità di partecipare agli eventi della modernità europea.3 La repressione, durata più di una generazione, non ammorbidì la resistenza delle società segrete, delle cospirazioni create da minoranze di volenterosi idealisti e senza popolo che avevano un solo pensiero, agire in nome del popolo, vivere per risollevare le masse degli indigenti, dei servi della gleba, dei salariati alla giornata diffondendo l’istruzione pubblica e lo spirito dell’associazionismo. Franco Venturi ha spiegato mirabilmente quanto l’illuminismo italiano abbia predicato una politica progressiva elitaria, alimentata da un moderatismo politico e religioso poco tollerante verso i programmi elaborati dai riformisti in tutti i settori della società, dell’amministrazione o dei saperi.4 Questo illuminismo non era interessato al popolo, ma solo a formare una nazione. Ma l’idea di una nazione senza popolo era una contraddizione intollerabile per i rivoluzionari che avevano respirato il vento della cospirazione degli uguali. La rivoluzione non riuscì tuttavia a superare una simile contraddizione; i carnefici ne approfittarono e rinchiusero a vita i cospiratori nelle prigioni, o li fucilarono mentre i moti risorgimentali erano in piano svolgimento, un massacro rimosso che grida ancora oggi vendetta. Più di una traccia sopravvisse in Italia all’uragano della violenza contro-rivoluzionaria. Le parole iniziarono a circo- 134 II. UNA STORIA A CONTROPELO lare, convincendo i rappresentanti del lavoro artigiano e dei mestieri più tradizionali. Lo spirito di associazione assumeva il significato di «una scissione dal resto della società, di una consapevolezza della propria forza autonoma, di un programma di lotta sul terreno democratico e repubblicano».5 Negli anni Trenta dell’Ottocento, al termine della sua battaglia che non fu vittoriosa, Buonarroti pubblicò il primo e unico numero di un giornale: l’Associé. Sollecitava le classi operaie a diventare protagoniste di un miglioramento durevole e quasi illimitato della vita.6 Traspare una potenza inaudita in queste parole, troppo poco conosciute. C’è la volontà di parlare a tutte le classi dei lavoratori, facendo leva sulla loro capacità di intrapresa. Buonarroti, in esilio a Bruxelles e tra i pochi superstiti della Rivoluzione francese, proponeva una sintesi inaudita per i suoi contemporanei. Voleva coniugare indipendenza, eguaglianza e felicità, e si raccomandava affinché questa rivendicazione fosse diffusa in tutta Europa. In principio era lo spirito di associazione, da cui discendeva il seguente problema: come convincere persone abituate alla competizione, alla guerra di tutti contro tutti per la conquista del pane, a collaborare? In altre parole, come può l’indipendenza, che è un bene sacro per l’individuo, essere tutelata con l’aiuto degli altri, e non con il ricorso agli inganni e alle furbizie? È la domanda che attraversò l’intero «Settecento riformatore». E fu anche l’ossessione di Thomas Jefferson, alle prese con la Dichiarazione di Indipendenza del 1775, come nel suo soggiorno parigino del 1789, e sarà l’ossessione di Saint-Just, nel suo rivendicare nuove istituzioni contro la sovranità della legge. Con il linguaggio dell’epoca, entrambi si domandavano come conciliare «felicità privata e felicità pubblica».7 Trovarono una soluzione. Visto che non era il caso di negare l’una o l’altra, ma di cercare un nuovo equilibrio, pro- 15. COSPIRATORI DELL’UGUAGLIANZA 135 posero una sintesi: «felicità pubblica» e «bonheur public» devono essere intese come il benessere collettivo di una comunità. L’ideale rivoluzionario cerca di superare la divisione fra privato e pubblico in una forma di comunanza che si appoggia sulla fraternità ed esclude l’introduzione di criteri economicisti. Sarà così nella rivoluzione borghese del 1848 in Francia, allorché l’ideale repubblicano verrà proclamato solo per essere messo immediatamente in discussione. Lo spirito di associazione e la fratellanza universale corrispondono a un desiderio di riconoscimento tra gli eguali in un mondo dove vigono rapporti di classe talmente sproporzionati da mettere a rischio la sopravvivenza dei più deboli. Al tempo del dilagare della filosofia e delle società operaie ispirate al verbo saint-simoniano in Francia, il desiderio di fratellanza fu tradotto nella pretesa eliminazione di questi rapporti e nella spinta alla fusione dei lavoratori nel Tutto dell’umanità pacificata. Il Quarto Stato si presentava come una massa di disperati alla ricerca di un lavoro. L’obiettivo dei credenti in Saint-Simon era diffondere l’amore cristiano, garantendo carità e assistenza ai più deboli.8 Intenzioni non molto diverse nutriva il socialismo utopista e liberale di Owen in Inghilterra, con una differenza: in questo caso, il socialismo era finanziato da un capitalista compassionevole, filantropo educato al rispetto del comandamento evangelico. In Francia questo ruolo lo avrebbe svolto lo Stato, al quale i socialisti attribuirono il compito di guarire l’umanità dalla povertà, aprendo agli esclusi le porte di una comunità rinnovata dall’amore. Quella larva dell’umanità del Quarto Stato avrebbe potuto trovare una consolazione nella familiarità di una fratellanza universale. Nel 1848 il socialismo era l’idea di un’autorità che imponesse una disciplina all’anarchia del popolo, ne correggesse i vizi, insegnasse a lavorare proficuamente, a risparmiare, a redimersi. Era, insomma, tutto il contrario della libertà delle 136 II. UNA STORIA A CONTROPELO persone e dell’autonomia collettiva che il socialismo medesimo avrebbe dovuto promuovere. Lo stesso Marx annotò il modo in cui nel 1848 il proletariato parigino si sdilinquiva nella magnanima ebbrezza di una fraternità che consegnava il «popolo» alla peggiore delle schiavitù.9 La contraddizione tra interesse personale e interesse collettivo, tra l’individuo e lo Stato, segnerà le sorti del socialismo. Essa interroga la natura stessa dell’uguaglianza: è possibile distinguere l’autonomia dall’eterodirezione? E quando si è tutti uguali, questa uguaglianza rispetta sempre l’individuo? Oppure si è uguali, e liberi, fino a quando una maggioranza non decide diversamente? Piuttosto che scorgervi un’antinomia – qual è a tutti gli effetti un amore fraterno che si trasforma in odio tra nemici (si veda la vicenda di Caino e Abele) – l’uguaglianza viene considerata dai cospiratori sette-ottocenteschi come un sinonimo di solidarietà. La solidarietà non cancella le differenze tra gli individui, ma le potenzia. Individua un problema comune nel presente rispetto al quale gli uni e gli altri si riconoscono uguali, non un’appartenenza ideale o una filiazione ancestrale che può far volgere l’amore assoluto in violenza distruttiva. Furono queste le ragioni per cui, a partire dalla rivoluzione del 1848, emerse in Europa una nuova parola, la solidarietà, con la quale si cercò di sostituire la fraternità: Fratellanza significa sollecitudine morale all’oblazione dall’alto verso il basso tra diseguali in nome di una comune appartenenza: fratelli in quanto figli di dio, fratelli in quanto figli della patria. Era la parola della carità cristiana e della filantropia massonica. La solidarietà operaia segna una rottura: esprime un sentimento morale e una disposizione pratica che unisce orizzontalmente gli eguali: uno per tutti, tutti per uno. È la presa di coscienza della necessità dell’agire cooperativo da parte di coloro che posseggono soltanto la forza del numero. La solidarietà ha suscitato e animato la 15. COSPIRATORI DELL’UGUAGLIANZA 137 grande e ricchissima fioritura dell’associazionismo nell’Europa della seconda metà dell’Ottocento».10 Il passaggio dall’invocazione di un’identità genetica (la fratellanza) a una pratica attiva e impersonale (la solidarietà) non risolse tuttavia la contraddizione. Anzi la complicò alimentando nelle associazioni operaie i conflitti tra chi perseguiva unicamente i propri interessi e chi invece aveva a cuore quelli collettivi. Avere un lavoro stabile, così come la possibilità di rendere virtuosa la propria precarietà, restavano opzioni lasciate al caso. Chi era meritevole di un posto di lavoro se le competenze di un lavoratore valevano sul mercato quanto il biglietto di una lotteria? Per trovare un lavoro contano le competenze oppure le raccomandazioni, in particolare quando la disoccupazione è alta e non c’è pietà per nessuno? Sono domande che aumentano il sospetto, l’invidia, persino l’odio tra i lavoratori disoccupati o impoveriti. Su questa base, ad esempio, esplosero conflitti durissimi contro la presunzione borghese dei cesellatori e l’avidità contadina dei muratori giunti a Parigi per trovare una compensazione alla miseria. Oggi, come ieri, è difficile mantenere una coesione tra soggetti abituati a fare da sé anche quando comprendono che bisogna essere tutti per uno e uno per tutti. Ciò non toglie che sia utile restare insieme, poter contare su una comunità, soprattutto quando è necessario cercare tutele contro la precarietà, procurarsi un pasto alla sera, mantenere una famiglia, o si è poveri e soli. La solidarietà nasce dal bisogno di proteggersi da un mercato instabile e da istituzioni che non fanno gli interessi dei lavoratori. È preferibile allora essere in tanti per andare controcorrente, creare un’unione che non sia imposta dall’alto, sapendo che le armi usate dai «lavoranti erranti» contro i padroni sono le stesse impiegate per difen- 138 II. UNA STORIA A CONTROPELO dersi dalla concorrenza dei propri simili. Non basta evocare i principi astratti della nazione, o del popolo, per soddisfare questa ricerca quotidiana. Il socialismo radicale di Buonarroti, così come il proto-comunismo di Babeuf o di Blanqui, si posero questo problema e tentarono di superarlo. Sebbene non cancelli l’invidia o l’opportunismo, lo spirito di associazione è preferibile perché conviene. Vivere-incomune significa allontanarsi dalla miseria o dall’esclusione dovuta alla perdita del lavoro. La solidarietà rende gli operai simili ai borghesi ma, allo stesso tempo, li differenzia una volta per tutte. Nasce cioè dal bisogno di godere della loro stessa libertà, anche se si tratta di una libertà completamente diversa: non si basa infatti sull’egoismo e lo sfruttamento della libertà altrui. Babeuf, Buonarroti e Blanqui lo avevano capito mentre incrociavano i destini delle lotte repubblicane e delle prime coalizioni operaie dagli anni Trenta in poi. Era possibile unire il Quarto Stato con le associazioni dei lavoratori che lottavano per una Repubblica amica del popolo e dei diritti dell’uomo, per citare due delle società segrete nelle quali militarono. Tra di loro emergeva l’urgenza di una «giustizia economica, dinanzi al contrasto tra la crescente povertà d’Europa e l’ideale dell’uguaglianza».11 Capitolo sedicesimo Il cenobita, il filadelfo e il quintario «Lasciati insultare nelle strade, vero lazzarone libero come l’aria. Vai! Ogni strumento è un pugnale che uccide la libertà, dei nostri beni il più caro!». Nel 1831 Louis Gabriel Gauny, falegname, dedicò questi versi a Louis-Marie Ponty, la cui infanzia fu ribelle a ogni disciplina scolastica, mentre adolescente completava le tappe del proprio apprendistato. A Ponty, questo poeta di strada suggerì di rovesciare il tempo del giorno, quello dell’alienazione, con il sogno letterario che liberava la notte. Cenciaiolo, poi bottinaio, svuotacessi, per il trentacinquenne Gauny non esisteva servitù più umiliante di quella che corrompe la notte dell’anima con l’obbligo di un lavoro salariato. E sollecitava il suo giovane amico a fuggire l’umiliazione del lavoro salariato, cambiando con frequenza l’atelier dove farsi regolarmente sfruttare. Perché il lazzarone ha comunque bisogno dello «strumento» della servitù, in quanto essa è la condizione fondamentale senza la quale il proletario non possiede l’indipendenza.1 Gauny è il prototipo del quintario, del lavoratore autonomo, il lavorante di giornata. Durante una faticosa bohème si rifugiò nella propria anima, macerò il suo corpo immolandolo allo spirito letterario, mentre veniva assunto a ore per 140 II. UNA STORIA A CONTROPELO costruire pavimenti nelle case dei borghesi. Rimase per tutta la vita senza padroni, sorveglianti o colleghi. Si mortificò per darsi slancio. Questo cottimista era un parente stretto dei padri del deserto: anacoreti, fuggitivi con una taglia sulla testa, discepoli delle visioni di una vita vera. Lavorava da solo, guadagnandosi la libertà. La concorrenza era dura e lui la pagò cara. Gauny fu l’apostolo di una filosofia cinica, quella della vita scandalosa di Diogene, ed ebbe il merito di incarnare l’indocilità ragionata di centinaia di migliaia di operai nomadi espulsi dalle fabbriche, una muta umana di giornalieri che lavoravano ai torni per diciotto ore al giorno, beatificati dai filantropi che vedevano nel lavoro a domicilio, in quello nei falansteri, l’unità perduta del lavoro e dell’ordine familiare. Gauny predicava l’arte di restare con sé stessi. Unico bene la propria libertà, quella di fuggire dalla fabbrica del padrone senza finire in una bottega, dove avrebbe ritrovato il calore umano perduto condannandosi però alla schiavitù. Il falegname sapeva di non essere libero, cioè di non possedere il suo tempo e determinare il modo in cui avrebbe potuto lavorare. Decise allora di trasformare la propria vita in un esempio. Costruì la leggenda della propria libertà attraverso la poesia, raccontando il suo girovagare tra un mestiere e l’altro a caccia di un ingaggio migliore per allontanarsi dalla fatica bestiale e dall’umiliazione dei padroni che cercavano di sfruttarlo a poco prezzo. Con la sua vita scandalosa denunciava l’insicurezza economica, e la totale assenza di diritti, per chi operava nelle sue condizioni. Ma rivendicava anche la libertà di non appartenere a nessuno. Il suo bagaglio era leggero, non possedeva nulla, tranne gli strumenti della sua arte di falegname. Per lui la proprietà non consisteva nel possesso di un oggetto, oppure del denaro, ma nel rapporto con il proprio tempo. Il lavoratore indipendente decide di vendere una prestazione 16. IL CENOBITA, IL FILADELFO E IL QUINTARIO 141 perché ha il controllo sul proprio tempo. È lui a decidere sui tempi della vita, non chi lo paga con il salario. Gauny diceva di essere un cenobita. Come tutti gli operai che gravitavano nei circoli utopistici, coltivava le medicine alternative, l’omeopatia e il magnetismo, era un fanatico del lavoro libero, che opponeva alla febbre del lavoro salariato, sotto padrone, sottopagato, gratuito. Il deserto è lo spazio infinito che non può essere occupato dallo sfruttamento, né esaurito dalle possibilità a disposizione di una vita di stenti. La ribellione contro l’incubo di una vecchiaia reclusa in un ospizio, falciata dalla malattia, lo portò a liberarsi dell’illusione che un lavoro produca la ricchezza di un uomo. E tuttavia bisogna vivere, lavorare, quindi farsi sfruttare. Gauny affrontò questo problema ricorrente nelle teorie dell’emancipazione dal lavoro continuando a operare con gli ingaggi, a corvée, a prestazione. Proprio come un lavoratore autonomo dei nostri tempi, un idraulico o un piastrellista a domicilio. Bisogna però considerare che, allora come oggi, il rifiuto del lavoro salariato, o alle dipendenze di un mastro, era inconcepibile. Semplicemente perché la pretesa di lavorare in autonomia, secondo i tempi e i modi stabiliti dal singolo, e non dal padrone, era e resterà sempre un’eresia. Gauny fece fronte a questa situazione proponendo una filosofia cinica. Simulava l’obbedienza, e faceva i propri interessi. Ancora di più, mostrava questa strada ai suoi simili, invitandoli a squarciare il velo della finzione del lavoro salariato. Il lavoro è libero, diceva, e questa verità lo esponeva agli insulti e alla ripulsa collettiva. Ma Gauny teneva il punto: sul lavoro, e nella società, non può – non deve – esistere una gerarchia che condanna a morte chi cerca di sopravvivere in cambio di un reddito. Bisogna, anzi, trasformare questa situazione affinché l’illusione si faccia trasparente a sé stessa. Il lavoratore non obbedisce a un patto. È lui a proporlo a un padrone. Da pari a pari: il lavoratore è 142 II. UNA STORIA A CONTROPELO padrone del proprio tempo, il padrone è padrone dei mezzi di produzione. Tra loro non c’è altra differenza. C’è quindi l’aspirazione a rivendicare un’uguaglianza sostanziale. Che scandalo questa verità. Davanti a sé il nomade ha il deserto, lo spazio delle possibilità. Gauny sollecita a percorrerlo a tappe forzate e predica una disciplina inflessibile: il risparmio, virtù del proletariato, deve essere assoluto. Ogni centesimo deve essere messo da parte, pronto all’uso quando si decide di abbandonare il posto di lavoro, mandare al diavolo i patti. Nessun pentimento, nessuna scusa: tutto serve per la propria indipendenza. Questo è l’aspetto più difficile da accettare nella vita del cenobita. Perché, risparmiando sulla miseria, l’operaio muore di stenti. E il plusvalore del suo lavoro gli viene comunque sottratto. C’è la famiglia, i figli da mantenere, a cui non si può togliere il pane. Il lavoro salariato è sedentario anche per questa ragione, mentre Gauny indica la strada del nomadismo. Come si conciliano questi due aspetti sicuramente opposti nella sua poetica della libertà? Gauny esorta a seguire il proprio esempio nei suoi scritti deliranti, frutto del sogno nella notte inquieta, risvolto ideale del giorno passato in catene. E lo fa consapevole che esiste per i salariati una via segreta all’insubordinazione sul lavoro. Dev’essere chiaro al padrone che è la manodopera che fa andare avanti la sua impresa, che impone i tempi alla produzione, e non il contrario. La sua idea è che il lavoro è sempre pronto a sfuggire alle costrizioni, quando le costrizioni impongono il salasso della vita. Prima viene l’autonomia, e il suo rispetto, poi il lavoro alle condizioni di chi paga. Questo voleva rappresentare Gauny avendo passato la vita a cambiare lavoro, girando tra monti e vallate, portandosi nella sacca i propri risparmi. Nel suo bilancio la voce più importante era quella relativa alle scarpe. La sua economia cenobitica, trasposizione moderna della regola di vita 16. IL CENOBITA, IL FILADELFO E IL QUINTARIO 143 dei Pitagorici, è una scienza dei mezzi per governare la vita dei ribelli. Così facendo, il cenobita rovescia la virtù del risparmio, quella che accomuna il capitalista e il suo servo. Al servo i risparmi sono necessari per vivere. Al capitalista per sfruttare chi lavora per lui. Il cinismo di cui si fa forte il popolo di camminanti che sfugge al lavoro salariato, ma non disprezza l’industria personale, non conduce al pregiudizio verso l’Altro, e non è nemmeno la dimostrazione della crudeltà di una guerra di tutti contro tutti. Gauny teorizza invece la figura gemella del cenobita, che trova un solido riscontro nell’aspirazione originaria del kynicos, colui che conduce una vita cinica in quanto vita vera in un mondo di illusioni.2 Emerge così l’immagine del «filadelfo», da philein, amare, e adelphos, fratello o sorella. Amare i fratelli di viaggio, traduzione del cosmopolitismo del cinismo greco. Nell’apolidia, o inclassificabilità di questi lavoratori nomadi, espatriati e migranti, inadatti alla produzione industriale, ma non superflui alla stessa, si riscontra il desiderio di costruire un’altra città dove esprimere l’amore per l’umanità sorella. Nelle sue peregrinazioni, Gauny esercita l’arte del filadelfo, colui che incontra tutte le forme dell’umanità e predica l’amore universale. Egli può affermare in tal modo la verità della propria vita. Gauny filadelfo, come Filippo Buonarroti: irriducibili all’ordine esistente, promotori di una vita pratica alternativa, di un affetto nell’esecuzione delle proprie mansioni di produttori. L’insidia per i camminanti è il vino bevuto nelle osterie di passaggio. Hanno lasciato la schiavitù del lavoro salariato, possono cadere nell’alcolismo. La scimmia del vino è un altro modalità dell’autosfruttamento. Dopo avere rifiutato il patto con il padrone, egli non può accettarne un altro con le proprie debolezze. Gauny rifiuta il vino, come le altre tentazioni. L’alcolismo è una piaga per il lavoro operaio. È la 144 II. UNA STORIA A CONTROPELO fonte delle violenze domestiche, contro le donne e i figli. In tutta la tradizione del movimento operaio, come del femminismo, si è condotta una battaglia moralizzatrice contro l’ubriachezza maschile. Il cammino ascendente del cenobita non può tollerare di cadere in questo vizio. Alla taverna si rifiuta il vino, e così si risparmia. Mai cedere al bicchiere, anche per non dare soddisfazione ai nemici borghesi o capitalisti che rimproverano alle stirpi dei non affiliati di essere vagabondi, perversi o criminali perché assecondano le proprie debolezze e l’innata vocazione alla nullafacenza. L’indipendente ingaggia una battaglia contro il suo doppio: l’ubriacone. Questo doppio, in realtà, agli occhi di Gauny è solo l’immagine che gli altri hanno di lui. Gauny non si fa intimorire. È disposto a rimanere incompreso, perché preferisce assecondare il suo desiderio di verità. Una verità che coincide con la liberazione dagli stereotipi, con l’esperienza delle passioni fino ad affrontare l’insopportabile. Quella del filadelfo è un’economia politica alternativa a quella ispirata alla morale economica del liberalismo. La vita esemplare di Gauny, sempre a rischio di terminare in un sanatorio, oppure in una prigione, cerca di spingere tale modello al punto da rovesciare l’immagine del lavoratore salariato. Il suo trascorrere instancabile tra incarichi e lavori, posizioni che oscillano da quella del reietto a quella gargantuesca del beone, coincidono con una forma di razionalità operosa. Il punto, infatti, non è semplicemente ribellarsi contro l’alienazione del lavoro, bensì affermare un’operosità infinitamente più ampia di ciò che è riconoscibile nel lavoro. Quella del cinico è una vita passata a costruire legami. La sua vita non è solo la rinuncia praticata dal cenobita, perché essa è anche spesa a costruire legami d’amore. Non si tratta di un amore carnale, né di un amore cristiano presuntuoso e rispondente a un comandamento. Il filadelfo ama i propri fratelli di un amore impersonale, con una benevolenza o genero- 16. IL CENOBITA, IL FILADELFO E IL QUINTARIO 145 sità universali. Questo amore indica un’intima appartenenza che va al di là dell’essere membri di una stessa comunità. Si appartiene alla stessa umanità, questo indica il philein che coltiva il filadelfo. Gauny ci permette di scoprire un altro tratto dell’uguaglianza che abbiamo, fino a questo momento, interpretato come solidarietà. Questo amore intellettuale per il proprio simile è una caratteristica ricorrente nell’etica aristotelica, come nella tradizione greco-latina assorbita dal cristianesimo. Risale al passo evangelico in cui Gesù chiede a Pietro «phileis me»? Qui philein significa «appartenere». Gesù chiede: Pietro, tu appartieni alla comunità universale, coltivi un legame più ampio dell’amore sensuale, individuale, incarnato? Gauny fa la stessa cosa con gli avventori delle taverne, con i compagni di viaggio e di lavoro. Solo questo amore ci rende più forti dell’obbligo al lavoro per sopravvivere in un mondo di stenti e umiliazioni. Chi si ama appartiene a un’umanità immensamente più forte. L’amore serve ad accumulare le forze comuni. Nell’incontro tra due o più persone avviene una stabilizzazione della forza. Più si pratica una vita secondo le regole dei filadelfi, più questa forza aumenta. Nella storia politica del XIX secolo, questa idea di amore assume tratti più chiaramente materialistici. La spiritualità diventa mondana, taglia la testa al Re, l’amore intellettuale non viene rivolto a Dio (come accade in Aristotele, ripreso felicemente dai cristiani), bensì agli uomini, alla loro unione, alla forza che ne deriva. L’amore diventa il conatus di Spinoza, la ricerca della forza immensa dell’unione dei molti e l’affetto per la singolarità di ciascuno. In Spinoza, l’amore intellettuale di Dio è in realtà la potenza assoluta dell’unione dei molti. Una forza da amare sulla terra, tra di noi, solo per noi e anche dentro lo stesso individuo. Perché noi stessi siamo composti di mille individui, voci, storie. Questa è la cornice intellettuale in cui si muove Gauny. Queste idee erano già presenti tra i giacobini francesi, e tro- 146 II. UNA STORIA A CONTROPELO varono rappresentanza persino in una società segreta, i Filadelfi appunto, nati nell’esercito a opera di alcuni ufficiali democratici contrari al cesarismo di Bonaparte. Lo stesso Buonarroti conobbe personalmente l’esperienza di questa società segreta. Al suo movimento dei «Sublimi Maestri Perfetti» partecipò la società degli Adelfi. Insieme coordinarono i moti italiani del 1821 in Piemonte. Il proliferare di queste società segrete in tutta Europa, nate a seguito della diaspora del giacobinismo, dimostra come l’esempio di Gauny non fosse isolato. Si può dire anzi che il suo tentativo fosse ben noto ai contemporanei. I filadelfi, come tutti i cospiratori dell’uguaglianza, avevano il compito di dimostrare che gli umili, gli oppressi, i lavoratori possiedono una razionalità politica diversa da quella dei nobili, dei capitalisti e dei borghesi. Una razionalità che si libera dall’odio degli schiavi insorti contro gli oppressori e costruisce una comunità universale, un «nuovo mondo» sulla terra, con gli umani distanti e inconciliabili, ma uguali. Che l’origine del Quarto Stato risalga ai lavoratori indipendenti, alla storia delle società segrete, a un generale e irrefrenabile desiderio di affrancamento dalla schiavitù e dalla miseria del passato cetuale, non deve stupire. Tali origini derivano da una mescolanza tra spiritualità politica di matrice materialistica e difesa dell’autonomia delle persone. Alla base della stessa idea di comunismo esiste questo legame tra l’esercizio di un amore intellettuale, inteso nel suo significato di virtù spinozista, e la pratica di una solidarietà necessaria per affermare la forza collettiva di una moltitudine. Gauny ha svolto il ruolo del quintario. Il suo girovagare si spiega con la ricerca di una rivoluzione, proprio nel momento in cui manca la rivoluzione. Migliaia di persone, esuli, apolidi, scomunicati e ricercati come lui circolavano in Europa a quel tempo. Non era la prima volta, non sarà l’ultima. La mobilità tra i confini degli stati era una regola praticata 16. IL CENOBITA, IL FILADELFO E IL QUINTARIO 147 da secoli dagli attori della commedia dell’arte,3 poi dai militanti politici o sindacali, dai letterati e dagli artigiani, mestieranti o apprendisti. Il Quinto Stato sta nel movimento permanente alla ricerca di un popolo a venire, di un socialismo e della sua giustizia, al di là delle frontiere e in barba alle divisioni sociali o le gerarchie tra i mestieri. L’impersonalità, l’anonimato, la segretezza erano la regola delle cospirazioni. Criteri adottati per motivi di sicurezza, ma anche per qualcosa di più profondo. L’apolide non ha nome o una storia. Li conquista quando arriva nella terra dove chiama il popolo, invoca la classe, costruisce un movimento.4 Come poeti hanno vissuto i quintari. Sono stati giudicati pazzi, sregolati, visionari. Lo furono, ma non per motivi clinici. La loro ostinazione era più forte del pericolo dell’arresto o della prigione. Il quintario è una figura che emerge da un romanzo di Melville, da un racconto di Kafka, dalla tragedia di Edipo: partecipa al rito dei fratelli che si rallegrano della buona novella della morte del padre, sono pronti a inventare un mondo che non è più diviso tra un alto e un basso, e che non sarà più quello delle famiglie, delle etnie, delle nazioni unite dal riferimento al significante principale, all’immagine paterna. Il nuovo mondo è un arcipelago, dove ci si muove viaggiando tra i continenti, o anche restando fermi nella lotta in un’officina. È cambiata enormemente la percezione dell’essere al mondo: non siamo più soli, siamo parte di un popolo di uguali. Ognuno di noi parla e invoca un popolo a venire di cui già siamo parte. Mai come in questo momento la letteratura e l’arte hanno dato un contributo all’opera di anticipazione del futuro nelle miserie del presente.5 Questa storia è iscritta nella vita delle persone che hanno agito come Gauny o Buonarroti. Tra loro c’è Flora Tristan, ancora lei, cospiratrice dell’uguaglianza, con in corpo le pal- 148 II. UNA STORIA A CONTROPELO lottole sparatele dal marito André Chazal. Questa madre, operaia, cassiera, colorista, donna di servizio e dama di compagnia, viaggiava in Europa e invocava il popolo a venire. Lo vide in un’«unione universale degli operai e delle operaie», lo scrisse nel libro l’Union ouvrière (1843) e coinvolse i protagonisti della scena letteraria e artistica del suo tempo: Eugene Sue e George Sand.6 Sua figlia Aline Marie sarà la madre del pittore Paul Gauguin, un altro irregolare visionario nella storia dell’arte, come a voler mettere in pratica il ruolo sociale dell’artista affermato anche dalla nonna Flora.7 La stessa spinta che nell’Inghilterra vittoriana muove William Morris, poeta, romanziere, artista e critico d’arte in lotta per affermare il lavoro – salariato o meno che sia – come attività creativa, libera, indipendente: altrimenti si tratta di schiavitù al lavoro. Così i quintari sono stati al centro della politica, dell’arte e della cultura, per tutto il secolo. Le loro proposte non erano ispirate alla teologia messianica: non stiamo parlando di profeti malinconici che credono nell’oltre-storia. Queste persone vivono nella storia, e conducono una seria valutazione delle forze in campo. Flora si rivolgeva alle coalizioni operaie esistenti. Chiamava all’unità un popolo presente, ma disunito, ferito dallo sfruttamento, dove le donne venivano uccise dalla fatica e dai propri compagni, così come aveva rischiato di morire lei stessa. In questo popolo a venire che invochiamo, disse Flora, non esiste cambiamento possibile se prima non si rovescia l’idea che la donna è serva, proprietà del marito, oggetto passivo di una riflessione dei maschi per i maschi. Flora Tristan incontrava fratelli e sorelle delle mille coalizioni operaie, per combattere lo sfruttamento, creare spazi sociali, palazzi, case, teatri, laboratori e officine di mutua assistenza, dove le bambine e i bambini potessero studiare, gli anziani essere assistiti, tutti imparare a condividere tempi, competenze, passioni, esperienze: per la felicità individuale e collettiva. 16. IL CENOBITA, IL FILADELFO E IL QUINTARIO 149 Perché la solitudine dei quintari è dolorosa, ma anche molto popolata. Non appartengono a niente e a nessuno, invocano il popolo a venire, tessono il filo di un legame, non si stancano mai di parlare dell’unione. Attorno a loro tutto un popolo chiede di nascere. Insieme al filadelfo, e al suo fratello gemello cenobita, costruiscono una storia collettiva. Vogliono dimostrare che la morale di chi lavora non è quella del capitale. Chi presta la propria opera, vende il proprio lavoro, così come chi aspira ad averne uno, ma anche nessuno, non può condividere la morale esigente del capitalista, quella dello sforzo senza fine dell’accumulazione, del tempo economizzato, del godimento differito del capitale. Capitolo diciassettesimo Una sola, grande, unione L’Europa percorsa dalle correnti dell’autorganizzazione è stata testimone di mescolanze sorprendenti tra una religione collettiva, la coscienza delle classi, l’esodo dalle corporazioni e le pratiche della condivisione. Su queste basi sono nate le prime istituzioni mutualistiche, filantropiche, assistenziali che si trasformarono in coalizioni della resistenza attiva delle classi lavoratrici. Queste coalizioni furono represse dalla legge Le Chapelier del 1791 e dal successivo Code Pénal, ma troveranno cittadinanza negli stati liberali europei nel XIX secolo, per poi essere soppresse durante la dittatura nazi-fascista. Alle istituzioni mutualistiche hanno fatto ricorso gli stati, specialmente durante le crisi economiche, i periodi di disoccupazione di massa e i sommovimenti sociali. Nel 1848 in Francia fu proposta l’istituzione degli ateliers nationaux, gigantesche concentrazioni di lavoro operaio sul modello suggerito da Louis Blanc, il quale formulò questa idea nel 1839 nel suo L’organisation du travail, uno dei libri di riferimento del socialismo di Stato alla francese.1 Era un modo per neutralizzare la «potenza dei giovani repubblicani ed operai armati che faranno cadere due monarchie e un impero»,2 radunandosi in forze sin dalla rivolta dei tessili (i «canut») a Lione nel 1831 e poi nel 1834, per arrivare all’effimera ri- 152 II. UNA STORIA A CONTROPELO voluzione del 1848, quando venne istituita la commissione del popolo ai giardini del Luxembourg. Blanc aveva pensato gli atelier sociaux come vere e proprie cooperative di produzione, finanziate dallo Stato, capaci di sostituirsi all’impresa privata, con un’autonoma capacità di intrapresa e di organizzazione da parte dei lavoratori. Questa idea ha fondato il movimento cooperativo, nutrendo l’aspirazione a coniugare il potere dei lavoratori sulla produzione con quello politico, i soviet nella versione di Lenin. La realtà degli atelier era molto più modesta e generò una serie di equivoci degni di una commedia spagnola. Era legata principalmente all’esigenza di aiutare i lavoratori colpiti dalla disoccupazione. Tuttavia, gli stessi disoccupati, una volta assunti, si ribellavano alla disciplina imposta dai capi, cioè dagli operai più anziani, funzionari dello Stato oppure membri delle cooperative.3 La vita infelice degli atelier si spiega perché ai loro membri vennero imposti lavori di pubblica utilità, dallo scavo dei canali alla riparazione delle strade. Gli operai erano organizzati militarmente in squadre, brigate e compagnie. Le donne e gli uomini venivano messi davanti a una scelta: morire di stenti, da disoccupati, o ricevere una paga miserabile da parte dello Stato. Quello francese è stato un tentativo, sabotato dagli stessi operai, di organizzare la miseria come fecero gli inglesi con le Workhouses, le case di lavoro, istituite nel 1834 per rinchiudervi i poveri. Per lungo tempo la propaganda liberista ha spacciato questi luoghi come unico esempio di socialismo realizzabile. Marx racconta il conflitto che oppose i lavoratori indipendenti al sottoproletariato in queste istituzioni create dallo Stato. Fu una guerra fratricida. Erano ladri, delinquenti, vagabondi, gens sans feu et sans aveu, «che non perdono mai il carattere dei lazzaroni» scrive Marx, gli stessi che Gauny aveva incontrato sulle sue strade. Tutti furono reclutati per sparare contro il proletariato in rivolta a Parigi nel 1848. Al 17. UNA SOLA, GRANDE, UNIONE 153 comando di questa armata di straccioni, il governo nominò gli ufficiali dell’esercito regolare. Alcuni furono scelti tra i giovani figli dei borghesi. Furono reclutati giovani sottoproletari, lavoranti di bottega, soggetti dall’incerto mestiere, lavoranti di giornata e tutta la teppaglia parigina insieme a quella giunta dalle campagne. La reazione aveva organizzato un esercito potente da schierare contro gli operai. Mentre Blanc arringava le folle al Luxembourg, auspicando che l’autonomia operaia si organizzasse in un governo, l’eterogeneità delle condizioni che componevano lo «Stato» del Quarto Stato si irrigidiva al punto da implodere. Parigi era una città dove Blanqui, il capo dell’insurrezione operaia, aveva a disposizione un esercito di duecentomila persone armate. Quella operaia era una classe di mestieri, la cui maggioranza era composta da quarantamila pantalonai, e poi sarti, artigiani, carpentieri, stampatori, insomma lavoratori autonomi che svolgevano un’attività salariata, vivendo una condizione sospesa tra i poli della servitù e dell’autonomia. Fu un massacro. L’odio di Marx per il sottoproletariato nasce da questa vicenda, che egli non mancò di raccontare. Pur di mangiare, i poveri uccidono i propri simili, ma faranno la stessa fine. Questa frattura sanguinosa, e irrimediabile, non permise a Marx di soffermarsi sull’elemento costitutivo del conflitto, com’è stato chiarito successivamente.4 Ciò che ha spinto le persone ad accettare di lavorare in luoghi tanto squallidi, così come a farsi reclutare per combattere contro gli operai di mestiere organizzati, non è stato solo il bisogno. In condizioni disperate conviene comunque farsi assumere, ma poi inizia la lotta per difendere la propria autonomia. La breve, e infelice, vicenda degli ateliers nationaux fu segnata da boicottaggi di massa che costrinsero le autorità a chiudere queste sentine della violenza. A Marx, come a Pierre-Joseph Proudhon, nella sua critica radicale della proprietà e dello Stato, non sfuggì tuttavia 154 II. UNA STORIA A CONTROPELO un altro elemento. Con gli ateliers nationaux, lo Stato voleva neutralizzare le potenzialità della solidarietà operaia che in quegli anni iniziava a dotarsi di nuovi strumenti di autogoverno. Imporre dall’alto lo stare insieme, i tempi di produzione, la creazione delle reti di distribuzione dei prodotti fu un fallimento. I socialisti pensavano di creare un’alternativa al mercato, imponendo la vocazione dello Stato al dirigismo in economia. In realtà cancellavano l’autonomia operaia che si organizzava in cooperative, si inseriva sul mercato ma senza dipendere dalla sua organizzazione. A Parigi gli operai organizzati nelle tipografie o nelle sartorie si opposero al dirigismo di Stato. Loro preferivano sperimentare il federalismo tra autonomie, creando statuti alternativi a quelli proprietari. Volevano governare la propria forza-lavoro creando nuove figure giuridiche dell’autogestione. Iniziarono a lottare contro i socialisti che li accusavano di essere piccoli imprenditori opportunisti. Per questi ultimi, la proprietà era solo una, ed era quella dello Stato. Per gli operai, invece, la proprietà era sociale. Gli operai erano tutti «comproprietari» dell’impresa. La difendevano dal mercato e dallo Stato, tracciando una strada alternativa alla «democrazia industriale» per come l’abbiamo conosciuta fino a oggi. Nella loro idea di «costituzione sociale» dell’impresa, formulavano un diritto economico a partire dalla democrazia politica e non dal mercato e dall’unico soggetto riconosciuto dalla legge, cioè l’imprenditore borghese. Così facendo, non intendevano nemmeno consegnarsi agli imprenditori di Stato poiché volevano istituire «una proprietà mutualistica e federativa» basata su un’«accomandita del lavoro per il lavoro o mutualità universale».5 Erano i primi passi di un embrione di organizzazione sociale: il diritto economico fonda la costituzione sociale capace di rimettere in discussione i rapporti proprietari e gli assetti istituzionali attraverso l’autogoverno dei lavoratori. 17. UNA SOLA, GRANDE, UNIONE 155 L’obiettivo è mettere in comunicazione virtuosa autogoverno, mutualismo federativo, cooperazione sociale, forme di autogestione territoriale, autonomia individuale e collettiva, a partire dai Faubourg, dove oscuri protagonisti animavano le lotte delle cittadinanze operose.6 Gli operai parigini intuirono l’esistenza di un nuovo costituzionalismo capace di fare a meno anche della rappresentanza politica e sindacale, soprattutto rifiutando l’ottica caritatevole fondata sulla compassione.7 Questa fu la principale fonte di ispirazione delle pratiche insorgenti della Comune di Parigi nella primavera del 1871, dove furono sperimentati l’autogoverno cittadino e la gestione comune delle ricchezze da parte del «lavoro libero e associato»: forma politica dell’emancipazione economica del lavoro, esperienza pratica di controllo e autogestione operaia, che incrocia una nuova idea di città con l’affermazione di gioiose espressioni di vita collettiva, in grado di tenere insieme il diritto alla felicità di collettività in festa e una differente scansione dei tempi di vita e di lavoro. Ci fu il caso del «Decreto sulla requisizione delle fabbriche chiuse» adottato il 16 aprile 1871 per riaprire le fabbriche abbandonate dagli imprenditori in fuga da Parigi. Il soggetto giuridico riconosciuto era «l’associazione cooperativa degli operai occupati in queste stesse fabbriche».8 L’esito della Comune fu tragico, e tuttavia essa «non ha avuto come conseguenza la distruzione del gruppo dominante e dei suoi politicanti, ma ha distrutto qualcosa di più importante: la subordinazione politica operaia e proletaria».9 Gli operai insorti in Europa compresero che la subordinazione si combatte creando autonomia. Un’idea che si diffuse nel corso del XIX secolo, e fino agli anni Venti in Italia, nutrendo la storia del mutualismo e del movimento cooperativo, a partire dalle lotte per le terre, tra i contadini, fino alle forme del lavoro nelle nascenti metropoli europee. Questa corrente sotterranea attraversa più di un secolo e scopre che 156 II. UNA STORIA A CONTROPELO l’autonomia si esprime in maniera duplice: come rivolta contro l’ingerenza dello Stato e del Capitale, tanto nella gestione di un’impresa, quanto nella tutela dei diritti di chi ci lavora; e come costruzione di spazi pubblici o occasioni politiche dove la cooperazione tra i molti non sia riducibile alla concentrazione delle povertà in una Workhouse. Nel XIX secolo, l’autonomia si esprimeva nei sodalizi mutualistici, da non confondere con le semplici «mutue» a sostegno della carità o della beneficenza. Nei sodalizi si incontravano società operaie, associazioni di maestri e insegnanti, militari, medici, chirurghi, farmacisti, veterinari, contadini, avvocati, ingegneri, architetti, impiegati comunali e sacerdoti. In Italia, come in Inghilterra, Francia o Germania, le società operaie erano associazioni cumulative che raggruppavano lavoratori con professionalità e condizioni diverse, lavoratori dipendenti e indipendenti, anche piccoli imprenditori e associazioni professionali. E poi c’erano le associazioni locali: società di un comune, borgata o quartiere. In Italia, restava netta la differenza tra sodalizi urbani e rurali. Forte era la contaminazione tra massoneria, libero pensiero e correnti democratiche, repubblicane, socialiste: Bakunin a Napoli insieme con Cafiero e Malatesta, senza Dio, né padroni, il sindacalismo federalista delle origini.10 Inoltre c’era la distinzione tra i sodalizi mazziniani e gli altri democratici e moderati. Nel tempo, molti si trasformarono nelle società di miglioramento o di resistenza. C’erano i cattolici incoraggiati dall’enciclica Rerum novarum a percorrere la strada dell’associazionismo mutualistico. Le tensioni erano enormi, tanto che alla fine il movimento si spaccò in base a una divisione confessionale tra le società di mutuo soccorso laiche e socialiste e quelle cattoliche. La funzione generale delle società di mutuo soccorso la delineò l’ispettore generale del credito e della previdenza Vincenzo Magaldi nel 1904: 17. UNA SOLA, GRANDE, UNIONE 157 associazioni formate di più persone che si obbligano di versare in una cassa comune e periodicamente contribuzioni fisse destinate a sovvenire quei soci che vengono per caso colpiti da una disgraziata evenienza della vita: e questa è la definizione più comune delle società di mutuo soccorso, secondo quasi tutti gli scrittori di economia sociale.11 Finché durò la schiavitù delle classi laboriose non poteva esistere che l’associazione legale, forzata e mostruosa. Vigeva un sistema autoritario e paternalistico nei confronti dei beneficiati, che non affermava i principi di eguaglianza e parità tra i soci, a partire dall’equa distribuzione dei vantaggi, primo concetto della moderna associazione mutualistica. In maniera tardiva, la svolta si realizzò anche in Italia con il riconoscimento del diritto di riunirsi che fu esteso a quello di associarsi liberamente, sancito dall’articolo 32 dello Statuto Albertino, il quale affidò allo Stato la possibilità di regolare l’attività di queste associazioni con apposite leggi. Ne nacque un conflitto destinato a segnare la storia dell’associazionismo mutualistico. La libertà concessa venne intesa dai sodalizi come autonomia, nel senso di una completa indipendenza dallo Stato e dal mercato. Il mutualismo interessava senz’altro i poteri pubblici perché era considerato uno strumento utile per la gestione della povertà economica. La disciplina che aiutava a diffondere il senso della legalità e l’auspicio di un moderatismo nelle passioni politiche erano salutati positivamente dalle istituzioni dello Stato liberale. Veniva colto un aspetto importante del mutualismo: la mediazione sociale. Ma il moderatismo liberale, e cattolico, consideravano la mediazione solo rispetto allo Stato, e non al conflitto di classe o al governo del territorio e della città, terreni dove l’estensione del mutualismo, come delle case del popolo, fu considerevole in tutta Europa. 158 II. UNA STORIA A CONTROPELO Con l’ascesa elettorale dei partiti socialisti, le mutualità permisero la generalizzazione dei conflitti di classe al di fuori delle fabbriche, portando al contempo nelle fabbriche le istanze di civilizzazione presenti nella società. Per questa ragione, molte società di mutuo soccorso furono chiuse d’autorità. In Francia, dalle paludi centralistiche della Terza Repubblica di fine Ottocento emerse un movimento di consiglieri municipali socialisti. Insieme sperimentarono il «socialismo municipale». Nel 1892 nacque una Fédération des conseilleurs municipaux socialistes de France che raggruppava alcune amministrazioni locali socialiste, a partire da quella costituitasi intorno a Edouard Vaillant, ex comunardo e ammiratore di Blanqui, dapprima consigliere comunale nel XX arrondissement parigino, quindi parlamentare socialista.12 Questa nuova forma di municipalismo cercava di tenere insieme le conquiste del mutualismo con la sperimentazione di nuove tutele a sostegno dei lavoratori. E promuoveva la loro cooperazione, l’impresa collettiva. Nacquero le prime Borse per il lavoro, furono organizzati i servizi pubblici territoriali, e poi forme di assistenza tra municipi. In questo contesto, si organizzarono movimenti dei consumatori al quale parteciperanno i movimenti sindacali. Venne ripensato il problema abitativo, perché proprio l’aumento del costo degli affitti fu una delle cause della Comune di Parigi.13 Erano tentativi ibridi di costituire nuovi rapporti istituzionali, dosando pratiche cooperative e mutualistiche dei movimenti sociali protagonisti delle lotte repubblicane. L’idea era quella di organizzare questo incontro, creando nuovi habitus nei gruppi e nei singoli, così come negli spazi a disposizione delle amministrazioni locali. Grazie a questa intuizione nacquero le case del popolo e le camere del lavoro. Le prime vennero adottate dai partiti socialisti, e poi da quelli comunisti, le seconde dai nascenti sindacati. Il socialismo municipale organizzava la solidarietà mutualistica e 17. UNA SOLA, GRANDE, UNIONE 159 la tutela dei diritti dei lavoratori. Entrambe potevano esprimersi nello stesso luogo, insieme alla fondamentale esigenza della socializzazione tra classi sociali diverse. Ciò che è più importante è che in queste sperimentazioni emergeva una razionalità politica estranea a quella liberale, come a quella capitalistica, e le sue principali caratteristiche erano già presenti nei sodalizi mutualistici settecenteschi. Non bisogna dimenticare che il mutualismo cooperativo permise a operai, artigiani e contadini di fondare le società di mutuo soccorso, le leghe di resistenza, le camere del lavoro per garantirsi l’istruzione, le tutele sociali, l’assistenza sanitaria e i fondi contro la disoccupazione. In Italia c’erano 6700 mutue (800.000 soci effettivi). In Inghilterra c’erano oltre 24.000 società (oltre 4 milioni di soci), in Francia (6200 per 842.000 soci). Nonostante quest’opera di regolarizzazione di società che da tempo agivano sul terreno dell’assicurazione, della previdenza e del sostegno, allo Stato continuarono a sfuggirne altrettante. Le società temevano un disciplinamento e una neutralizzazione della loro opera che germogliava in virtù della richiesta di autonomia. A loro favore non giovava la frammentazione crescente di insediamenti che non racimolavano fondi sufficienti a garantirsi la sopravvivenza. L’assenza di uno Stato sociale, poi lentamente introdotto a partire dai primi anni del XX secolo sull’esempio tedesco, non rallentò la crescita di queste società che, anzi, ampliarono la gamma degli interventi: erogazione di un sussidio in caso di malattia, invalidità, della morte o del funerale di un socio, un reddito in caso di disoccupazione involontaria e sostegno in caso di sciopero prolungato nelle fabbriche. E poi assistenza nell’organizzazione delle cooperative, nell’affitto delle macchine per avviare un’impresa autogestita, il prestito ai soci per l’affitto. I sodalizi prospettavano ai soci una serie di servizi che unirono una parte della classe intellettuale, in particolare i ma- 160 II. UNA STORIA A CONTROPELO estri di scuola, figure che si andavano formando nello stesso periodo, alle famiglie operaie: l’istruzione di base e la formazione professionale, e poi la lettura, l’acquisto di alimenti – come i gruppi di acquisto contemporanei –, le materie prime per il lavoro agricolo e artigiano, persino la dote per le figlie in predicato di matrimonio. Era l’invenzione di una nuova società che organizzava il contatto tra i diversi attraverso l’associazione, promuoveva il protagonismo femminile nella trasmissione dei saperi, nel lavoro di cura e nell’organizzazione politica oltre che nell’assistenza e nell’autotutela. Le differenze di classe, o quelle ideologiche, erano messe in secondo piano. Per iscriversi a un’associazione di mutuo soccorso non occorreva una fede comune, né condividere un patrimonio. Venivano condivisi un certo numero di impegni ispirati a una necessità comune, quella della tutela, o meglio dell’autotutela da perseguire mediante la solidarietà. Nascevano così comunità che concepivano l’autonomia come esercizio attivo e quotidiano della solidarietà e dell’autosufficienza. Ciò che distingueva l’associazionismo mutualistico dall’assistenza statale, dalla beneficenza o dalla carità era la libera previdenza.14 I soci pagavano contributi periodici fissi, ricevendo in cambio i servizi. Ciò permise di creare un habitus condiviso, ispirato alla solidarietà dei soci che, a differenza di quella praticata nelle organizzazioni massoniche, mirava a estendersi alla società, al ricambio o all’integrazione dei soci, all’attività pubblica di formazione e sostegno, alla diffusione della cultura dell’autonomia dallo Stato e della persona. Il pagamento della quota periodica poteva rappresentare una discriminazione ai danni dei poveri, dei lavoratori non qualificati e comunque non inseriti in una rete comunitaria o professionale, dei disoccupati non aderenti alla società. Questo è sempre stato un limite del mutualismo. E tuttavia il pagamento della quota costituiva l’elemento caratterizzante del contratto che 17. UNA SOLA, GRANDE, UNIONE 161 legava gli affiliati a una società, garantendo a tutti gli stessi diritti: eleggibilità, diritto di voto, sussidi temporali.15 L’autonomia è una condizione che si otteneva in base a una scelta e a comportamenti coerenti, ma anche con il consenso. Tutto l’universo del mutuo soccorso era proteso a fornire un’immagine rispettabile e rassicurante dei sodalizi che faceva leva sulla funzione moralizzatrice esercitata direttamente, e non imposta dall’alto. Le norme che regolamentavano l’ammissione, il controllo del comportamento dei soci, le severe regole per l’espulsione denotavano quanto tale preoccupazione fosse viva. Le condizioni per l’ammissione riguardavano età, salute, condotta morale per cui generalmente ci si affida alla garanzia dei soci presentatori o all’autorevolezza dei singoli nella loro comunità di provenienza. Il controllo dei comportamenti era manifesto quando si trattava di sussidiare le malattie, mentre i comportamenti rissosi, l’ubriachezza o il malcostume venivano sanzionati. Tra le cause più frequenti di espulsione c’erano la morosità nel pagamento delle quote, le truffe, il furto, l’attentato ai costumi e i mille raggiri frequentemente denunciati tra i soci. L’autocontrollo delle comunità degenerava talvolta in un eccesso moralizzatore oppure in un abuso dell’autonomia. Difficile mantenere un equilibrio in una comunità che veniva spesso limitata dalla contraddizione tra due fattori costituenti: la moralità pubblica dei soci e l’autonomia dei singoli, la necessità di una sicurezza sociale e il desiderio di mantenersi autonomi rispetto agli altri. L’intera vicenda del mutualismo, così come dell’associazionismo operaio, avrebbe risentito di questo conflitto e qualcuno pensò di averlo risolto siglando un patto tra i singoli, i sindacati o le loro categorie professionali e lo Stato. Il contratto tra i diversi, tipico della stagione del primo mutualismo, diventò un contratto tra le organizzazioni dei corpi intermedi e lo Stato, relegando il ruolo del singolo alla sua posizione sociale rispetto all’assistenza pubblica. 162 II. UNA STORIA A CONTROPELO Si tratta solo di un paravento usato per nascondere la realtà di ogni associazione: il singolo non intende dipendere dagli altri. E spesso gli altri non rispondono alle esigenze del singolo. La soluzione, mai permanente, al conflitto consiste nell’affrontare insieme un problema comune. Questo modo di intendere la vita politica, e non solo l’associazionismo, è stato relegato ai margini rispetto alla solidarietà universale garantita dallo Stato durante il XX secolo. Il vincolo statale, con la sua promessa di universalismo, e di tutela sindacale, ha sostituito l’idea dell’autonomia con quella della rappresentanza. O meglio, l’autonomia esisteva solo in virtù della sua capacità di farsi rappresentare in un corpo autonomo dello Stato: un sindacato, un’assicurazione, un partito, un’associazione professionale. Oggi la prima radice dell’autogoverno torna a germogliare quando la crisi fiscale dello Stato, l’austerità, la burocratizzazione dei sindacati hanno trasformato l’orizzonte della nostra vita. Il Quinto Stato procede incalzando in un viaggio di scoperta, commozione, comprensione di una forza. Il 9 giugno 2013, all’entrata della Società operaia di mutuo soccorso di Corridonia, in provincia di Macerata, una di quelle che hanno mantenuto nei primi centocinquant’anni di vita il profilo dell’autonomia sociale, accompagnata dall’idea della libera provvidenza dei soci, c’era una scritta in grande risalente al 1863: Artieri e operai di Pausula! Proseguite con altrettanta alacrità l’opera intrapresa: stringetevi tra voi e sarete forti, e l’opera vostra sarà dai venturi benedetta. Noi venturi la benediciamo, perché questa forza è la nostra stessa forza. Oggi, come ieri, noi siamo una sola, grande, unione. Parte terza IL DIRITTO ALLA CITTÀ Capitolo diciottesimo Ritorno al futuro Lo spirito degli anni Novanta sta tornando. Non quelli del XX secolo, che Joseph Stiglitz ha definito gli «anni ruggenti» della bolla finanziaria, bensì gli anni Novanta del secolo precedente, l’Ottocento. In una crisi che ha riportato il livello delle diseguaglianze indietro di centocinquant’anni,1 viene riscoperta una modalità di resistenza e di associazione tra lavoratori e cittadini denominata mutualismo. È dal secondo dopoguerra che la sinistra e i sindacati considerano il mutualismo come un residuo del passato, cioè dai tempi in cui le pratiche di cooperazione e di reciproco aiuto che caratterizzavano il mutualismo confluirono in un sistema di assicurazione sociale finanziato dallo Stato, il quale avrebbe garantito per decenni ai lavoratori il diritto alla pensione, il sussidio di disoccupazione, l’istruzione o l’assistenza sanitaria pubblica. Il sindacato diventò quindi una delle «cinghie di trasmissione» tra i partiti della sinistra organizzata (socialista e in seguito comunista) e le masse. Le società di mutuo soccorso, le leghe operaie di resistenza, le camere del lavoro e le case del popolo, insieme alle cooperative di produzione e lavoro, gli istituti di credito cooperativo, i circoli ricreativi, le società di istruzione professionale, le scuole e le università popolari, persero la loro carica antagonista diventando superflui. 166 III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ Questa rottura avvenne, dopo decenni di storia, in seguito alla svolta «marxista tedesca» impressa da Filippo Turati al Partito Socialista e osteggiata da Osvaldo Gnocchi-Viani, fondatore delle camere del lavoro, della Società Umanitaria di Milano, delle università popolari e in generale del sindacalismo italiano.2 Mazziniano, repubblicano, socialista-proudhoniano, Gnocchi-Viani era immerso nell’effervescente clima politico-culturale del secondo Ottocento. La sua idea di mutualismo nasceva dalla sintesi tra le prime leghe e associazioni operaie e le tendenze anarchiche e repubblicane, le società segrete e le affiliazioni massoniche. Questa mescolanza era lontana dalla cultura della sinistra, e in particolare della Seconda Internazionale che aveva consumato da tempo la separazione tra socialisti e anarchici. I socialisti coltivavano una visione dello Stato di matrice hegeliana. Per loro il partito avrebbe dovuto svolgere un ruolo di direzione dello Stato in funzione anti-borghese e anti-capitalista, accentrando le funzioni decisionali in una visione organica e gerarchica della società. Per gli anarchici, invece, lo Stato doveva essere abbattuto a favore dell’autogestione delle comunità e dell’associazione tra i lavoratori. Ne seguì una cesura netta, e non certo amichevole, tra filosofie e organizzazioni politiche. La vita quotidiana del movimento operaio era tuttavia improntata a un pragmatismo di fondo che temperava le polemiche tra appartenenze e filiazioni ideologiche opposte. Lo conferma anche la centralità acquisita da parte di un personaggio come Gnocchi-Viani nella costruzione del sindacato e del mutualismo in Italia. L’anarchismo ispirò la sua critica del socialismo di Stato, cioè del ruolo del sindacato come «cinghia di trasmissione» tra partito, società e luoghi di lavoro. Dal socialismo trasse invece la sua idea di organizzazione dello Stato a partire dallo sviluppo dell’autonomia dei singoli. Il soggetto di riferimento di questa proposta non era soltanto il lavoratore salariato o il contadino. Gnocchi-Viani si 18. RITORNO AL FUTURO 167 confrontava con la pluralità del lavoro indipendente, dagli artigiani ai professionisti, ossia con classi e ceti diversi che si riconoscevano nella cultura del mutualismo. Questa prospettiva fu sconfitta politicamente e il suo animatore dimenticato. Il movimento operaio perse l’originario pluralismo ideologico che aveva promosso una serie di alleanze sociali trasversali. Su queste basi, all’inizio del Novecento, nascevano le burocrazie sindacali che oggi esercitano il monopolio della rappresentanza e della mediazione contrattuale. L’aspirazione a un «socialismo di Stato» portò con sé il moderatismo politico, la concertazione del conflitto tra operai e Capitale, la burocratizzazione dei partiti e dei sindacati. L’autonomia che Gnocchi-Viani intendeva garantire al movimento venne confinata nel sepolcro del capitalismo di Stato. Il sindacato divenne un’articolazione dell’apparato amministrativo statale. Ai cittadini fu proposto uno scambio tra sicurezza sociale e autonomia. Il patto fu accettato e con esso anche l’idea che il lavoro salariato fosse il referente politico privilegiato dell’intervento pubblico. Il mutualismo ha una doppia radice. La prima è la cooperazione tra i lavoratori; la seconda è l’aiuto reciproco nella società. Quest’ultima, una volta affermatasi la contrattazione nazionale tra datori di lavoro e lavoratori, ha trovato asilo nel volontariato. Nella lenta, ma inesorabile, trasformazione dello Stato sociale in Stato assistenzialistico, il volontariato è stato a sua volta assorbito dall’assistenza caritatevole ai poveri e agli esclusi. La solidarietà è diventata una pratica confessionale oppure è stata privatizzata nel «fare da sé», il cosiddetto self-help. In una società di cittadini che pagano i servizi essenziali, come quella liberista, la solidarietà degli altri si acquista sul mercato come il cibo o un’automobile. È il capitalismo compassionevole della Compagnia delle Opere oppure di pochi, ma molto solvibili, imprenditori della sanità a essere solidale con i clienti che pagano per una tac o per farsi curare un cancro. 168 III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ Milioni di persone hanno creduto di poter sopravvivere alla crisi finanziaria dello Stato sociale, esplosa già nella metà degli anni Sessanta, supplendo con le risorse economiche personali all’assenza del diritto alla cura, all’assistenza o alla tutela dei lavoratori disoccupati o precari. Per molto tempo questa soluzione è sembrata plausibile. Oggi quelle stesse persone hanno capito che il rimedio alla povertà e alla crisi non verrà né dallo Stato né dal mercato. Questa consapevolezza emerge in maniera puntuale nelle attività dei gruppi di acquisto solidale (GAS), nell’uso delle monete complementari per il baratto di beni e servizi, nel commercio equo e solidale, nelle campagne per una finanza etica, nella cooperazione tra lavoratori in spazi condivisi (coworking), nella riscoperta del lavoro artigiano (makers) o nell’autogestione diffusa nelle città grandi e piccole. Queste sperimentazioni dimostrano che il mutualismo non è una forma di carità rivolta agli esclusi o ai poveri che improvviserebbero uno Stato sociale in miniatura illudendosi di sopperire con l’autogestione della miseria all’assenza dello sguardo vigile e universale di un benigno Leviatano. E non è nemmeno l’espressione di principi economici alternativi a quelli capitalistici. Il mutualismo è al contrario un modo di vivere nel capitalismo finanziario, in una società di indebitati, attraverso il recupero dell’associazionismo sociale e professionale, il lavoro di prossimità, la ricerca di nuove forme di convivenza tra persone anche di nazionalità differenti. Il mutualismo è una pratica dell’autonomia individuale e collettiva che inquieta tanto la destra, perché si oppone allo Stato e al mercato, quanto la sinistra, perché non accetta le regole della rappresentanza corporativa e pretende di intervenire nella politica senza la mediazione esclusiva dei partiti o dei sindacati esistenti. Desidera trasformare la vita e i luoghi dove si lavora, mantenendo un’intima estraneità a un mondo ostile. 18. RITORNO AL FUTURO 169 Incivilire l’estraneità e preservare la differenza significa proteggere la propria autonomia dal mercato, le rendite di posizioni, le appartenenze, e, allo stesso tempo, cercare di intervenire tanto nella politica quanto nell’economia. Per essere all’altezza di questo compito dovremmo riappropriarci delle pratiche di autogoverno, sottraendoci alla morsa della passività o della disillusione. Affinché si possa parlare di mutualismo occorre riscoprire il senso collettivo del «noi», senza rassegnarsi al lutto di un «Io» separato dal mondo. L’autonomia di cui parliamo non si riduce al «fare da sé» di chi se lo può permettere economicamente, ma è ciò che si apprende operando e vivendo insieme agli altri. Per questa ragione non si tratta di rinunciare al welfare, ma di rovesciarne l’impostazione statalistica, burocratica e familistica, partendo dall’autonomia delle persone. Non si tratta nemmeno di rifiutare l’intrapresa individuale o la progettualità economica, ma di svincolarle entrambe da un mercato fondato sull’espropriazione sistematica della ricchezza e sulla diseguaglianza epocale tra i redditi. Ancor prima di formulare proposte concrete, è necessario realizzare una cultura che valorizzi l’autonomia e con essa una forma di vita capace di coltivarla. Si tratta di un motivo ulteriore per ripercorrere la storia del mutualismo. Per farlo occorre tuttavia cambiare referente sociale e tornare a quello a cui si rivolgeva Gnocchi-Viani mentre costruiva le camere del lavoro. Oltre alle figure del salariato e del grande imprenditore, sulle quali è basata la rappresentanza nello Stato sociale, riscopriamo la figura del lavoro indipendente. Capitolo diciannovesimo Mutualismo Nel 2011 un rapporto del Parlamento Europeo ha calcolato che le mutue del Vecchio continente raccolgono 180 miliardi di contributi, impiegano 350.000 persone e garantiscono coperture sociali e sanitarie di tipo complementare. In alcuni casi, gestiscono ospedali e farmacie. In Italia, le società di mutuo soccorso sono oltre 1500, aderiscono alla Federazione Italiana Mutualità Integrativa Volontaria (FIMIV), fondata nel 1900, e operano in prevalenza nel Centro-nord. Una delle più antiche è la Cesare Pozzo, con circa 90.000 soci e 270.000 assistiti, specializzata nell’intervento socio-sanitario. L’adesione a questo sistema è volontaria. Il versamento di una quota associativa permette il riconoscimento di un sussidio per malattia, invalidità o decesso, e spinge il socio a partecipare alle assemblee in cui si discutono i bilanci, si definiscono le prestazioni da erogare, si eleggono gli organismi dirigenti. Fino alla fine degli anni Novanta del XX secolo, il mutualismo è stato un fenomeno circoscritto. Gran parte delle società di mutuo soccorso sopravvivevano a sé stesse dopo la creazione dello Stato sociale, i grandi sindacati e i partiti di massa. Da quando la spesa sanitaria delle famiglie è iniziata a crescere, mentre lo Stato non riesce più a garantire prestazioni efficienti e si ritira dalla gestione del welfare, la 172 III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ mutualità si ripropone come soggetto non profit. Il suo è un intervento integrativo, non sostitutivo, di quello pubblico. Dal 2008 due decreti, varati dai governi Prodi e Berlusconi, hanno autorizzato l’istituzione dei Fondi Sanitari Integrativi, attuando la riforma sanitaria del 1999. Nell’ultimo quinquennio, sono nate oltre cento società di mutuo soccorso. Un accordo tra FIMIV e Confcooperative ha disposto che la mutualità sia finanziata dalle banche di credito cooperativo operanti in tutto il territorio nazionale, dalla Lombardia alla Puglia. Un altro fronte di sviluppo è quella dei contratti nazionali. Sono almeno cinquanta i rinnovi che prevedono forme di mutualità. Ci sono fondi che interessano gli operatori del commercio, i chimici o i metalmeccanici. Per tutte le categorie del lavoro dipendente che aderiscono a un fondo mutualistico aziendale la deducibilità fiscale dell’assistenza integrativa è del cento per cento. La situazione è ben diversa per gli 1,8 milioni di iscritti alla Gestione separata dell’INPS e per gli oltre 3 milioni di precari in Italia. Per questi soggetti, che in gran parte non partecipano alla contrattazione collettiva e sono privi di tutele per la maternità, infortuni o malattie professionali, il mutualismo può diventare una risorsa vitale. Chi decide di aderire a un fondo mutualistico ha però diritto solo alla detraibilità del diciannove per cento della quota associativa. Il rischio più prossimo è quello di una frattura sociale sull’equità dei livelli di tutela. Non si è ancora trovato il modo per estendere i benefici delle coperture complementari a chi non svolge un lavoro dipendente. I problemi non si risolvono da soli e le persone si stanno organizzando secondo una logica di welfare territoriale, integrando le funzioni statali delle ASL con quelle del mutualismo rivolto ai dipendenti come ai precari. In Italia i precari o gli autonomi che non hanno tutele devono preoccuparsi dei costi inerenti alla propria salute. Il mutualismo ha enormi potenzialità in questo campo, ma viene 19. MUTUALISMO 173 frenato dalla mancanza di coesione sociale, e anche dalla scarsa conoscenza di queste nuove opportunità. Il problema resta quello di riempire il vuoto che sta lasciando lo Stato: al cittadino viene detto semplicemente di arrangiarsi, e di pagare quando ha bisogno. Davanti a noi c’è solo un rapporto di mercato con aziende private che mirano unicamente al profitto. L’assicurazione tende a sostituire lo Stato, salvo poi scaricare sullo stesso i costi degli interventi più delicati. Nel privato ci sono strutture che lavorano bene, ma, guarda caso, spesso non sono dotate di un pronto soccorso, di una sala rianimazione, di reparti dedicati ai malati di AIDS o alle lunghe degenze. Ciò non significa che lo Stato debba abdicare al suo ruolo di garante dei diritti fondamentali delle persone. Il mutualismo permette infatti una gestione sociale dei rischi per la salute che il welfare assistenzialistico non riesce più ad assicurare, in particolare agli autonomi e ai precari. Alla base c’è un gruppo che si autorganizza, crea una struttura che risponde alle proprie esigenze. Chi si associa non verrà mai espulso e avrà sempre il diritto alle cure. Se i costi per una malattia sono notevoli, la mutualità continuerà ad assisterlo comunque. Le persone sono soci, non clienti. L’aumento di cinque miliardi di euro del costo dei ticket realizzato tra il 2011 e il 2012, insieme al piano di rientro dal debito sanitario che entro il 2015 imporrà alle regioni tagli da trenta miliardi, sta spingendo un numero crescente di cittadini a ricorrere alla sanità privata. In questo scenario desolante, la sanità privata ha oggettivamente enormi spazi di crescita. Il mutualismo può essere un rimedio, certo non definitivo, utile a sottrarre le persone al tragico destino che altrimenti le attende. Il primo novembre 2011, il sindacato dei traduttori editoriali STRADE, affiliato alla SLC-CGIL, ha stipulato con Insieme 174 III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ Salute la convenzione «Elisabetta Sandri», allo scopo di offrire tutele economiche ai traduttori freelance. Un esperimento necessario, visto che non è prevista alcuna assistenza per i traduttori editoriali che lavorano in regime di diritto d’autore. Il fondo si sta allargando ad altre associazioni. Fino ad oggi hanno aderito l’associazione dei traduttori e interpreti ANITI, la rete dei redattori precari (Rerepre), l’associazione dei consulenti del terziario avanzato (ATCA), l’Associazione Nazionale Archeologi (ANA) e quella dei dialoghisti cine-televisivi (AIDAC). La convenzione garantisce un assegno di gravidanza, il cui valore è raddoppiato per quella a rischio, il rimborso dell’ottanta per cento per tutti i ticket, oltre che un sostegno in caso di perdita dell’autosufficienza o di malattia di un parente. La quota annuale è di 246 euro e, diversamente dal lavoro dipendente, è interamente a carico del socio. L’esistenza dei fondi integrativi ha creato una nuova disparità tra dipendenti e autonomi, alla quale si dovrebbe porre rimedio inserendo la mutualità nella contrattazione nazionale: devono essere i datori di lavoro a pagare, anche per periodi brevi, una parte delle spese per la tutela degli indipendenti, proprio come accade nel mondo del lavoro subordinato. Afferma Fabio Galimberti di STRADE: «La nostra scelta è caduta sul mutuo soccorso per convenienza economica. Le assicurazioni sanitarie impongono premi insostenibili per una categoria a basso reddito come la nostra. La filosofia di fondo esclude il criterio del profitto e prevede l’obbligo di non ripartire tra i soci eventuali avanzi di cassa, ma di erogarli a beneficio della mutua come accade nelle associazioni senza scopo di lucro. Il mutualismo è facilmente applicabile alle partite IVA in Gestione separata INPS e per tutte le categorie che hanno problemi di continuità lavorativa. Un’altra sfida sarà quella di estendere l’adesione ai singoli». Il progetto intende raccogliere duemila iscritti, soglia oltre la quale è possibile creare un fondo autonomo capace di 19. MUTUALISMO 175 autogestire le prestazioni e gli investimenti a favore dei soci. Le mutue non chiedono una busta paga per l’iscrizione, ma la dichiarata volontà della persona di aderire all’iniziativa, impegnandosi nel suo sviluppo e nell’allargamento della base degli aderenti. Moltiplicare questi fondi, proponendoli a tutti gli indipendenti, favorendone la partecipazione con misure e sostegni economici: questo potrebbe essere l’antefatto per nuove forme di tutela gestite direttamente dai cittadini. Non sarà forse la soluzione alla crisi della sanità pubblica, o a quella del welfare, ma certamente è uno strumento per promuovere un diverso orientamento da parte di uomini, e donne, «a una dimensione», passivi, risentiti, abituati a essere assistiti e non a governarsi da sé o insieme agli altri. Obiettivo fino a oggi perseguito apparentemente solo dal neoliberismo che confida nei «mercati». La storia del mutualismo indica invece il metodo per decolonizzare la vita dall’idea che l’impresa sia l’unica ispiratrice della cittadinanza attiva. Altrimenti la condizione degli autonomi, e delle loro famiglie, come quella dei nuovi e dei vecchi working poors, sarà destinata sicuramente a peggiorare. Aggiunge un’altra esponente di STRADE, Elena Doria, membro del consiglio di amministrazione di «Insieme Salute»: «Il sistema previdenziale e quello assistenziale garantisce solo una parte del mondo del lavoro e rischia di esplodere. Anzi quello dell’assistenza è un sistema già a pezzi. Scenari di guerra sociale, non certo rassicuranti a dire la verità. Purtroppo è così, gli indipendenti devono attrezzarsi, o per loro non ci sarà salvezza. Noi vogliamo andare controcorrente. In tempi in cui l’alternativa sembra essere quella tra uno Stato sempre più centralizzato e burocratico e un privato sempre più costoso, noi partiamo da una democrazia basata su un sistema reticolare e il controllo dal basso da parte dei soci di una mutua». La legge di stabilità 2012 ha modificato la legge costitutiva delle società di mutuo soccorso risalente al 1886. Con 176 III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ questo atto è stato risolto il problema centenario della personalità giuridica di queste società, stabilendo la loro legittimità ad affiancare le strutture pubbliche, in particolare quelle che erogano servizi sanitari, l’assistenza familiare e il sostegno per i soci malati che perdono il lavoro. L’Associazione Italiana delle Società di Mutuo Soccorso, l’AISMS, che raccoglie decine di società nelle Marche, ha ritenuto inadeguata la decisione di restringere le attività di mutuo soccorso alla sanità integrativa e alla prevenzione sanitaria. Questa limitazione, contenuta nell’articolo 23 del provvedimento di riforma, inibisce la gestione del patrimonio immobiliare storico a disposizione delle mutualità esistenti e non permette di reinvestire a favore dei soci i proventi derivanti dagli affitti dei locali, o dalla gestione dei teatri, cinema, bar, festival e in generale dalle attività economiche e culturali prodotte. Per rendere sostenibili queste attività, senza rinunciare al consolidamento della presenza del mutuo soccorso sul mercato della sanità integrativa, l’AISMS chiede allo Stato una serie di agevolazioni fiscali. Queste agevolazioni sono necessarie anche per permettere l’adesione alle mutue da parte di chi, a causa della crisi, non è in grado nemmeno di versare poche centinaia di euro all’anno. È il problema secolare del mutuo soccorso, sin dalla nascita della London Corresponding Society: i lavoratori impoveriti, e i cittadini che vivono nella zona grigia tra la disoccupazione e il precariato, non possono fare fronte neppure alle spese che darebbero loro accesso alla solidarietà. Il destino del Quinto Stato non sarà certo molto diverso da quello dei suoi antenati. Il mutualismo si è affermato rendendo credibile, e autorevole, l’idea che tra i soci non devono esistere differenze di classe. E, quando esistono, la comunità dei soci si adopera per stemperarle o integrarle nelle attività della mutua. La riforma dello statuto delle società di mutuo soccorso non sembra autorizzare l’esercizio della funzione positiva del 19. MUTUALISMO 177 mutualismo: il reinvestimento dei proventi dell’attività mutualistica in nuovi progetti di sviluppo o nell’acquisto di attrezzature e servizi. È necessario affiancare la resistenza delle coalizioni di «combattimento» del Quinto Stato alla capacità di autogoverno derivante dall’associazione tra lavoratori e cittadini. Se così non fosse, verrebbero negate le possibilità insite nell’autoimpresa, in particolare quella di avviare piccole economie di scala fondate sull’autogestione, sostenute dai circuiti del microcredito, dall’economia cooperativa o dall’«imprenditoria sociale». Si tratta di pratiche che, in realtà, sono già diffuse, ma che potrebbero essere generalizzate. Capitolo ventesimo Coop capitalism Il capitalismo collaborativo (coop capitalism) è fondato sulla giustizia e la responsabilità sociale, l’equilibrio dei poteri e l’equa distribuzione delle risorse tra uomini e donne, tra paesi grandi e piccoli.1 Questa forma di collaborazione, votata al profitto e sorta dalla cooperazione creativa tra i lavoratori della conoscenza nelle piccole e medie imprese high-tech della Silicon Valley in California, è sostenuta da una rete sociale che condivide le risorse e beneficia dell’intervento del sistema bancario. L’ipotesi è ancora ben lontana dall’essere realizzata su ampia scala, ma occorre considerarla attentamente in quanto essa raccoglie l’eco profonda nel mondo della cooperazione, nelle economie della condivisione o nel commercio equo e solidale. Il capitalismo collaborativo si fonda su un approccio olistico che restituisce una visione d’insieme omogenea di un mondo in cui imperversa la disoccupazione e il differenziale di reddito tra lavoratori e manager è abissale. Esso invoca i valori della comunità e della comunicazione allo scopo di moralizzare l’economia, e allude alla solidarietà in un contesto in cui domina l’etica penitenziale dell’austerità. Il capitalismo collaborativo offre però una soluzione parziale alle diseguaglianze. Non vuole, né può, risolverle alla 180 III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ radice, modificando i rapporti di forza di cui sono la manifestazione, ma cerca di riconciliare la solidarietà e la competizione tra le persone in modo tale che un giorno tornino a essere complementari. Ai singoli restituisce il senso della partecipazione alla vita di una comunità; all’impresa il ruolo di collante sociale in un mondo ferito dal potere della finanza. Il coop capitalism attribuisce una grande importanza alla creatività degli individui. Le loro motivazioni, il desiderio di partecipare a un’impresa comune e il bisogno di riconoscersi nei bisogni di una comunità di riferimento sono gli ingredienti del successo di un’economia basata sulle relazioni tra le persone. Un’azienda che mira a occupare una posizione di rilievo in tale ambito deve interpretare questa domanda, aiutarla a crescere, non piegarla alla ricerca dei propri interessi. L’incontro tra la creatività dell’individuo e lo sviluppo di un’impresa costituisce la cifra del successo nei settori avanzati della sperimentazione tecnologica. Apple, Facebook e Google sono ritenuti ancora oggi i campioni di questa moralizzazione dell’economia pienamente finanziarizzata. A questo esito mirano anche il riciclo (freecycle) e il job sharing, soluzioni che permettono a precari e impiegati che altrimenti verrebbero licenziati di lavorare meno ore su una medesima attività. Poi c’è il commercio dei marchi eticamente responsabili (impegnati nelle lotte a difesa dell’ambiente o della bio-diversità o nel sostegno all’infanzia nei paesi «in via di sviluppo»), che ha raggiunto dimensioni considerevoli nel mondo anglosassone. Non mancano riferimenti all’open source con le sue storie-simbolo, Linux e Apache in testa. Insomma, il coop capitalism è la versione economica del motto di Barack Obama «Yes we can» e con questo allude a un vincolo: l’autorità politica deve perseguire il benessere della comunità e non più gli interessi dei manager alla Bernard Madoff. Ridimensionare i guadagni dei manager proporzionandoli a quelli dei loro dipendenti; stabilire che il capitalismo è fon- 20. COOP CAPITALISM 181 dato sulle regole e sul rispetto della persona, non sull’esproprio sistematico delle ricchezze degli stati, sulla devastazione della terra o delle foreste, sui prodotti finanziari tossici come i derivati o i mutui subprime: chi non potrebbe essere d’accordo con il programma del capitalismo collaborativo? Esso incontra infatti il favore di quelle stesse banche che hanno prodotto la crisi finanziaria americana e oggi godono di ottima salute, mentre le borse di tutto il mondo sono tornate a produrre profitti. Ciò che non convince in questo progetto di moralizzazione dell’economia è l’idea che la crisi sia stata generata dalla malafede dei manager che, da soli, hanno pervertito la natura del capitalismo. Basterebbe dunque che questi esecutori della volontà del capitale finanziario maturassero un’altra visione della vita per riavviare un motore ingolfato, imponendo il rispetto dei diritti fondamentali della persona sopra gli interessi predatori dell’homo oeconomicus.2 Più che le soluzioni alla crisi proposte dal capitalismo collaborativo, a noi interessa comprendere quali sono i suoi punti di contatto con il postfordismo. Per entrambi, la principale ricchezza prodotta da un’impresa è costituita dalle relazioni tra i consumatori, i clienti, gli operai o i funzionari addetti alla produzione. Questa sinergia coinvolge il territorio dove opera l’impresa, richiede la partecipazione dei cittadini e delle istituzioni a supporto dei suoi obiettivi. In questa cornice, il successo di un’impresa equivale al successo di un’intera comunità. Tutti devono collaborare per conquistarsi una porzione di benessere. Per tale ragione si parla di un’«economia sociale emergente»,3 fondata sui sistemi diffusi sul territorio a sostegno della domanda e a garanzia di una produzione che coinvolga la popolazione e non solo il circuito tradizionale composto dagli operatori, dai fornitori e dai clienti di un’azienda. L’emersione di questo modello economico non è dovuta a strutture centralizzate, come la fabbrica fordista che vincola 182 III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ la vita di un territorio ai suoi ritmi. Il capitalismo collaborativo cerca costantemente l’interazione tra i manager, i lavoratori, nonché gli stessi consumatori. Il cittadino non è più visto come un fruitore passivo del consumo di merci, bensì come il «creatore dei propri diritti» e curatore dei gusti e degli interessi utili a un’azienda per sviluppare la sua offerta. Il motore dell’economia sociale emergente è il consenso. Per ottenerlo, tanto le istituzioni quanto le aziende ricorrono a un complesso sistema di enti certificatori che valutano i risultati ottenuti, la qualità dei prodotti presenti sul mercato, l’equità delle «performance» che legittimano quotidianamente la necessità della collaborazione da parte dei cittadini. Davanti ai risultati, comprovati da una valutazione «oggettiva» da parte di un ente terzo, le imprese e le istituzioni cercano di ottenere così una giustificazione per il loro operato. In questa idea di collaborazione, il consenso non deriva solo dalla relazione contrattuale tra un datore di lavoro e il lavoratore, né da quella utilitaristica tra cliente e venditore. Nella support economy – così è stato definito da James Maxmin e Shoshana Zuboff il modello di relazioni tra il cittadino «creatore dei propri diritti» e l’impresa o lo Stato4 – il consenso deriva dal grado di partecipazione dell’individuo a un’economia terziaria dove vige la personalizzazione dei servizi nella cura della persona o nella crescita del «capitale umano» e culturale. Gli ambiti di applicazione di questo modello sono i più disparati: c’è la sanità, l’istruzione, la formazione, l’accesso alle informazioni, il controllo della produzione e delle decisioni amministrative o economiche attraverso le tecniche del benchmarking, dell’accountability e degli audit pubblici. L’attore principale è il cittadino che si impegna personalmente nella verifica del funzionamento dei servizi, controlla l’operato degli altri usando i criteri «oggettivi» stabiliti dagli enti certificatori (l’Invalsi per la scuola, l’Anvur per la ricerca scientifica e universitaria, ad esempio), oppure evoca 20. COOP CAPITALISM 183 l’intervento delle commissioni speciali per tagliare gli «sprechi» e rendere più efficiente e virtuosa la spesa pubblica. Da soggetto disciplinato dalle «istituzioni totali» dello Stato (la scuola, l’esercito, la sanità pubblica), il cittadino è diventato un soggetto responsabile che opera nell’interesse della comunità, in nome del benessere collettivo e individuale.5 L’utopia neoliberale predica l’ideale, a dire la verità ugualmente terrificante, che il cittadino sostituisca lo Stato esercitando il controllo su di sé e sugli altri usando i criteri «oggettivi» forniti dagli enti certificatori della qualità di un servizio o di un prodotto. Il tutto per soddisfare il bene comune. Il mutualismo sembra rientrare pienamente nel capitalismo collaborativo: valorizza l’autonomia delle persone, la loro capacità di autorganizzazione a beneficio di una comunità, l’esigenza di autogestire le reti relazionali più adatte a stimolare la partecipazione della cittadinanza al benessere generale. Sollecita infine la partecipazione e il consenso rispetto alle iniziative pubbliche. Sarebbe persino disponibile il soggetto capace di mobilitare questi sentimenti civili in un’economia che intenda mantenere una finalità sociale nei suoi investimenti: il conglomerato imprenditoriale rappresentato dalla Lega delle Cooperative in Italia, un’esperienza studiata dagli economisti vicini all’ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton – come Robert Reich o Joseph Stiglitz – o dalla stessa Noreena Hertz, invitata a parlare in Italia del capitalismo cooperativo. Il 7 agosto 2012, la Lega Coop Emilia Romagna ha lanciato il progetto della «mutua dei cittadini». Questo gigante della cooperazione ha annunciato la creazione, entro quattro anni, di una mutua rivolta ai «precari» che non hanno un’assicurazione contro la malattia o un sussidio per la maternità. L’obiettivo è raggiungere quattro milioni di soci. I fondi 184 III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ imponenti così raccolti potrebbero finanziare un’economia collaborativa di primo piano sul mercato del cosiddetto «secondo welfare», consolidando un nuovo ramo d’impresa da parte di un colosso specializzato nell’edilizia e nella grande distribuzione, con significative partecipazioni nel mondo bancario e assicurativo, oltre che nel mercato dei servizi alla persona e agli enti locali. Per il mondo della cooperazione, un’industria che oggi produce miliardi di euro di fatturato impiegando persone che vengono spesso costrette a lavorare in condizioni di precarietà, camuffate da soci lavoratori, il successo di questa iniziativa sarebbe un colpo di immagine. Tra l’altro allontanerebbe l’amaro calice rappresentato dai casi Unipol e Monte dei Paschi di Siena, che hanno dimostrato la sua non estraneità alle speculazioni finanziarie dei derivati o la sua commistione con la politica. Per Lega Coop il mutualismo rappresenta un’opzione concreta e molto redditizia per rispondere al crescente disagio del Quinto Stato. Gli strumenti sono quelli dell’autogestione. Si propone la creazione di un fondo sanitario, il reinvestimento degli utili a favore dei soci di una mutua, la garanzia di una copertura sanitaria minima ai membri precari o disoccupati di una famiglia. In questo modo, il coop capitalism italiano raggiungerebbe l’obiettivo di fondo di ogni economia sociale: trasformare l’azione imprenditoriale in un’azione volta al benessere collettivo. Il successo della sua impresa deriverebbe dal consenso ottenuto soddisfacendo la richiesta dei diritti fondamentali da parte delle persone. In attesa di verificare la realizzazione di un simile progetto, cerchiamo di capire se l’alterità che abbiamo individuato nel mutualismo è capace di resistere a questo tentativo di sussunzione. In un contesto dove lo Stato sociale cede quote significative alle imprese del terzo settore che operano nel campo della sussidiarietà sociale, è possibile ipotizzare che il mutualismo si 20. COOP CAPITALISM 185 traduca in un’azione sociale non riducibile a un’iniziativa imprenditoriale? Noi riteniamo di sì, anche perché quest’ultima non può soddisfare il bisogno di partecipazione espresso dal Quinto Stato, né tanto meno garantirgli una rappresentanza o una tutela in un mondo che lo esclude sistematicamente. Consideriamo il caso in cui l’impresa sia posseduta dai suoi stessi lavoratori. Sia cioè una cooperativa dotata di una mutualità per i soci e di un piano di finanziamento per il sostegno o la creazione dei progetti proposti dai suoi affiliati. Ipotizziamo che quest’opera di finanziamento sia sostenuta da importanti agevolazioni fiscali, politiche di microcredito e anche da venture capital etici, garantiti da banche o da fondazioni che hanno eliminato dalle loro politiche di credito i derivati e le pratiche tossiche del capitalismo finanziario. E supponiamo, infine, che questa impresa cooperativa, basata sulla proprietà mutualistica e federativa tra lavoratori, cittadini, migranti e imprenditori, possa anche essere globalizzata partecipando a reti di imprese cooperative simili in paesi diversi, autofinanziando le prestazioni dei soci, ricorrendo ad alleanze per sostenerne i progetti. È quanto sta accadendo negli Stati Uniti. Lo racconta Sarah Horowitz, fondatrice nel 1995 del più grande sindacato di freelance al mondo, la Freelancers Union, con oltre duecentomila iscritti: È fondamentale apprendere le lezioni delle cooperative dell’Ottocento e potenziare gli scopi sociali delle imprese per costruire un ponte tra il profitto e il bene comune. Negli anni venti dell’Ottocento, un nascente movimento mutualistico iniziò a svilupparsi tra i lavoratori in America, fondato sul crescente potere dell’economia cooperativa e sulle organizzazioni collettive. […] Le cooperative erano profondamente innestate nella fabbrica americana. Nel 1752, il padre 186 III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ fondatore (e volontario pompiere) Ben Franklin inaugurò la prima compagnia mutualistica di assicurazione della nazione, la Philadelphia Contributionship, che è ancora oggi attiva. Il processo proseguì per tutto il secolo successivo creando cooperative tra i minatori, i calzolai, e le lavoratrici a maglia. Qualunque cosa i lavoratori potevano unire alla propria impresa, lo unirono.6 Secondo la National Cooperative Business Association, due milioni di persone lavorano nelle trentamila cooperative esistenti negli Stati Uniti.7 A questo bisogna aggiungere la diffusione delle pratiche di autofinanziamento, tipiche del mutualismo, sulle piattaforme in rete. Kickstarter,8 ad esempio, è una piattaforma di crowdfunding attraverso la quale cittadini comuni hanno raccolto, nel 2011, cento milioni di dollari per finanziare ventisettemila opere musicali, film e progetti artistici o di design. La diffusione delle pratiche mutualistiche ha investito anche il settore più propriamente commerciale: il progetto Etsy,9 sempre nel 2011, ha finanziato con oltre quattrocento milioni di dollari il mercato dell’abbigliamento vintage. Questo processo avviene anche nel campo socio-sanitario dove la Freelancers Union ha creato una compagnia assicurativa, la Freelance Insurance, che mette a disposizione dei membri del sindacato prestazioni sanitarie e piani pensionistici. Al suo interno, i soci possono scambiarsi prestazioni a partire dalle proprie competenze, ad esempio usufruendo di cure dentistiche a prezzo calmierato. Possono avvalersi delle competenze degli avvocati o dei commercialisti, anch’essi soci, oppure partecipare a progetti o bandi creativi di ogni tipo. Tutti sono legati dall’appartenenza allo stesso sindacato che, su base mutualistica, provvede a tutelare la loro salute, la previdenza o a negoziare condizioni di lavoro migliori. La Freelancers Union beneficia del piano federale che ha investito nel 2012 circa seicento milioni di dollari in otto 20. COOP CAPITALISM 187 stati per l’avviamento di imprese start-up, società mutualistiche nell’assistenza sanitaria. Questo sindacato, che continua a godere dei finanziamenti delle fondazioni private a scopo sociale, sostiene le cooperative nate a New York, nel New Jersey e nell’Oregon. Il successo di questo modello ha permesso a Sarah Horowitz di entrare nel board della Federal Reserve di New York nel gennaio 2013. La Freelancers Union è gemellata in Italia con l’Associazione dei Consulenti del Terziario Avanzato (ACTA). Il mondo del sindacalismo americano è senz’altro diverso da quello italiano. Tuttavia esso offre alcuni spunti alla nostra ricerca, visto che – sia pure con risorse, istituzioni finanziarie non profit e fondazioni bancarie che seguono regole totalmente diverse – in Italia registriamo le stesse ambivalenze presenti nell’economia collaborativa statunitense. In entrambi i casi, emerge la possibilità di un superamento dello Stato e del mercato, fino a oggi considerati gli unici guardiani del bene comune. Sono le persone, e la loro capacità di associarsi e di lavorare insieme, a creare le condizioni affinché il bene comune possa essere tutelato ed esteso con modalità indipendenti sia dallo Stato che dal mercato. Su questo aspetto c’è una convergenza con le teorie e le pratiche dei beni comuni che si sono diffuse in Italia da qualche anno.10 Certo, in casi come quello della Lega Coop Emilia Romagna, il mutualismo potrebbe essere sussunto nel processo di accumulazione. In altri, potrebbe invece rappresentare il motore di un’economia che mira alla promozione del singolo e della sua esigenza di «creare diritti». Il suo principio costitutivo non è però strumentale, bensì espansivo, pienamente installato nella vita sociale. Il mutualismo tende ad associare le attività della vita operosa utili a sostenere e a sviluppare un’impresa collettiva, non gli imponenti processi di privatizzazione e di finanziarizzazione in corso. Per questo è potenzialmente illimitato e libera l’azione sociale dal legame 188 III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ esclusivo con gli scopi dell’impresa o dalla richiesta di disciplinare la partecipazione da parte dello Stato. Il mutualismo ha un senso quando considera l’autonomia sociale e professionale come un fine in sé. Questa idea di autonomia è presente anche nel coop capitalism di Noreena Hertz o nella support economy di James Maxmin e Shoshana Zuboff, sebbene resti vincolato al fare impresa. Nel mutualismo si esprime invece l’autonomia dei singoli e il loro desiderio, o necessità, di associarsi liberamente mettendosi al servizio di un obiettivo comune: promuovere il lavoro indipendente come forza-lavoro del futuro e rafforzare il Quinto Stato come condizione prevalente della cittadinanza. Ciò che differenzia il mutualismo dal capitalismo collaborativo è inoltre l’idea di «servizio». Quella di mettersi al servizio di un obiettivo comune non è una regola deontologica, come avviene nel lavoro autonomo professionale, oppure l’indirizzo che un manager particolarmente sensibile propone alla sua azienda. L’associazione, la cooperazione, l’aiuto reciproco non sono assimilabili a questi scopi, in quanto il Quinto Stato è indotto a perseguirli nell’interesse generale, compreso il proprio. Capitolo ventunesimo Ecosistemi La politica della disintermediazione è una delle principali esigenze del Quinto Stato. Essa si esprime nella ricerca di circuiti economici alternativi e nell’accorciamento delle filiere che dal produttore portano al consumatore saltando i passaggi degli intermediari che sottraggono valore al lavoro. È ciò che accade nell’agricoltura, nella produzione musicale, nella formazione o nella selezione delle posizioni lavorative. E ancora nel settore del credito, dove si stanno affermando sistemi di pagamento come PayPal Here, le monete complementari adottate in città e regioni come Nantes (Nanto), la Sicilia (Sicanex) o la Sardegna (Sardex). Nel mondo dell’editoria italiana, si moltiplicano da anni le ipotesi di distribuzione indipendente dai quattro colossi del settore (Messaggerie, PDE, Mondadori e RCS) che si possono attuare ripristinando il rapporto diretto con le librerie, i lettori, le biblioteche, come suggerisce l’Osservatorio degli Editori Indipendenti (ODEI).1 In fondo si tratta della stessa esigenza che anima la lotta contro la burocrazia statale o la partitocrazia. Un’altra pratica di disintermediazione è il coworking. Il termine è stato coniato nel 1999 da Bernie DeKoven – programmatore informatico, inventore di giochi e apprezzato umorista di San Francisco – per indicare la collaborazione a 190 III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ distanza tra gli specialisti di Internet. Sempre a San Francisco, ma nel 2005, Brad Neuberg, un ingegnere indipendente specializzato in tecnologie web, usò lo stesso termine per descrivere uno spazio fisico. La sua proposta era indirizzata a quei liberi professionisti desiderosi di stabilire il loro ufficio all’interno di uno spazio comune in cui poter beneficiare della cooperazione tra figure affini, pur mantenendo la gestione autonoma della propria attività. Sorsero così le prime «Hat factory». Da allora, e in brevissimo tempo, quello del lavoro in spazi condivisi è diventato un fenomeno globale. Nel 2012 sono stati censiti 1100 spazi di coworking in tutto il mondo, l’80 per cento dei quali sono gestiti da privati, il 13 per cento da organizzazioni non profit, e il resto da istituzioni governative o enti locali. Avviare un’attività di coworking negli Stati Uniti costa 58.000 dollari, poco più di 46.000 euro in Europa. Da un sondaggio condotto dalla rivista specializzata online Deskmag, risulta che il crowdfounding, a dispetto della sua popolarità, non garantisce una raccolta di fondi capace di sostenere l’avvio di questo genere di attività. Molto spesso sono i soci a racimolare il capitale iniziale, usando fondi di progetti comunitari, finanziamenti locali, piccoli capitali ottenuti da attività precedenti. In Italia, dal 2008 gli spazi di coworking si distinguono tra «generalisti» e «selettivi», mentre continuano a nascere nuove tipologie indipendenti. Per esempio, c’è la rete internazionale Cowo, importata a Milano dal pubblicitario Massimo Carraro in un loft a Lambrate,2 e attualmente presente in quaranta città con cinquantanove sedi attive. «Cowo» è una comunità di coworkers «generalista»: un pacchetto di regole e buone pratiche che vengono trasferite ai gruppi che vogliono aprire sui territori una sede con questo marchio. Una volta aperta una sede, i freelance firmano un contratto in cui si impegnano a versare duecento euro per una postazione (spese incluse); in tal modo – grazie alla vicinanza 21. ECOSISTEMI 191 fisica o alla prossimità professionale – si spera nella formazione di filiere tra lavoratori impegnati su progetti comuni. Ci sono poi gli spazi «selettivi» che afferiscono a un’altra rete internazionale: «The Hub»,3 che sta aprendo sedi da Milano a Siracusa. In questo caso, la rete è orientata su un tema specifico, quello dell’innovazione sociale (una delle linee guida dell’attuale programma quadro dell’Unione Europea) e della creazione o supporto dell’impresa sociale. Infine ci sono le esperienze non classificabili come generaliste o selettive, ma che possono presentare entrambe le caratteristiche. Da Palermo (Re Federico cowork)4 ad Alessandria (Lab 121)5 passando per Torino (ToolBox: Torino Office Lab & Coworking),6 fino a Roma (SPQwoRk),7 sempre più spesso sono gruppi di lavoratori indipendenti di varie professioni (organizzatori di eventi culturali, informatici, architetti, pubblicitari e altre figure del lavoro della conoscenza) ad associarsi in maniera autonoma all’interno di spazi dedicati al coworking. Nei casi menzionati, prima ancora di stabilire un set di regole e di buone pratiche, i lavoratori trascorrono un periodo preliminare di alcuni mesi dedicato alla reciproca conoscenza e alla formazione della comunità che in seguito usufruirà dei servizi e delle occasioni create dalla convivenza e dalla cooperazione. Il coworking rischia di essere riassorbito dalla retorica sull’autoimprenditoria dei lavoratori autonomi e in particolare dei giovani «tecno-creativi» che avviano start up e non si rassegnano alla disoccupazione. Questo ottimismo di maniera8 riduce le potenzialità del lavoro indipendente, e la finalità delle sue attività innovative, alla dimensione della microimpresa individuale e non si interroga sulla possibilità di creare un sistema integrato di pratiche amministrative e politiche industriali capaci di sostenere la passione dei singoli. Lo «startupperoe» è il protagonista immaginario di un’economia cognitiva che si afferma nel momento più cri- 192 III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ tico del terziario avanzato, nell’incertezza dei fondi pubblici e capitali privati a sostegno dell’avviamento di queste imprese. Pochi, giovani, eroi contro il mostro della burocrazia e i tentacoli di una società insensibile all’innovazione tecnoscientifica: questa ricostruzione coglie solo parzialmente il senso della cooperazione tra lavoratori nomadi in ambienti comuni (il coworking, appunto). La cooperazione è una risposta obbligata per chi non vuole solo sopravvivere, ma affermare un istinto di libertà. I coworkers, come del resto molti altri indipendenti, si soffermano spesso sulla propria solitudine. La scelta di associarsi ad altri colleghi, o a lavoratori con specializzazioni diverse, deriva dalla necessità di tutelarsi dall’ostilità dello Stato e del mercato. Da soli si rischia di essere schiacciati, insieme si riesce a resistere e a trovare una soluzione al conflitto con i committenti che non pagano, oppure tra i gruppi che si autorganizzano e il complicato sistema degli appalti e dei subappalti che governa il mercato delle commesse espropriando il valore del lavoro. L’associazione tra lavoratori indipendenti caratterizza anche il fenomeno emergente dei «makers», i nuovi artigiani digitali che producono stampanti 3D in grado di fabbricare oggetti solidi concepiti da piattaforme open-source. I luoghi dove si radunano i makers, da San Francisco a Parigi fino a Torino o a Firenze, si chiamano «FabLab».9 Secondo l’ex capo redattore di Wired Chris Anderson, profeta entusiasta delle rivoluzioni tecnologiche nel capitalismo neoliberista, i makers guiderebbero la nuova rivoluzione post-industriale dopo quella di Apple o di Google.10 Uno dei casi più significativi è quello di Arduino, una piattaforma di prototipazione elettronica open-source programmabile, con cui è possibile creare circuiti di applicazioni in ambito di robotica e automazione. È stato creato da un team che frequentava un bar omonimo, che a sua volta prende il nome da Arduino, re 21. ECOSISTEMI 193 d’Italia nell’anno Mille nella città di Ivrea, la sede dell’Olivetti. La piattaforma è stata creata per artisti, designer, ingegneri, architetti ed esperti di software interessati a create oggetti o ambienti interattivi. I laboratori per la costruzione di Arduino sono stati ospitati fino al 2012 nei locali del cowork ToolBox a Torino.11 I makers rivendicano il principio del Do It Yourself, il faida-te elettronico e informatico, attraverso la condivisione di macchine, kit di fabbricazione e idee in spazi comuni, proprio come accade tra i coworkers. L’obiettivo è personalizzare la produzione degli oggetti in base ai gusti o le necessità dei clienti. Questo genere di produzione non risponde alla logica industriale della replicabilità infinita la quale reca con sé una rapida obsolescenza dei prodotti. Al contrario, sottrae alla fabbrica tradizionale il monopolio della realizzazione degli oggetti, garantendo la possibilità di produrli in ogni quartiere, casa, scuola, ospedale, oppure in uno spazio urbano riqualificato. Secondo Anderson, non è tanto la proprietà dei mezzi di produzione a essere decisiva, quanto la loro collocazione sul territorio. In questo modo, i makers ritengono di potersi affrancare dall’impresa capitalistica per costituire nuove linee produttive sia nell’Occidente deindustrializzato sia nei paesi emergenti.12 Le comunità dei makers rappresentano una specifica evoluzione del movimento dei coworkers. Il coworking può essere, tra l’altro, l’incubatore di un FabLab, e dischiudere sentieri di sperimentazione imprevedibili, tra artigianato high-tech e officine comunitarie. Ciò che sicuramente accomuna queste esperienze è il metodo di lavoro improntato alla condivisione e praticato al di fuori dei luoghi classici della produzione della conoscenza, come le università o gli spin-off dei parchi scientifici e tecnologici esistenti. Questi progetti nascono dallo scambio tra le competenze espulse o non riconosciute dal mercato e dallo Stato. Considerata l’eterogeneità delle attività, 194 III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ e l’informalità dei processi di costituzione di questi gruppi, è opportuno usare il termine coworking nella sua accezione più ampia di common work, cioè di lavoro-in-comune, con riferimento alla cooperazione tra gli uguali a prescindere dai luoghi o dalle modalità specifiche in cui essa avviene. L’Unione Europea e poi numerosi enti locali tra cui Torino o Milano con l’Expo 2015 hanno lanciato il progetto della «smart city», la città «intelligente» o «digitale», e come in tutte le economie della condivisione (sharing economies) il processo è ambivalente. L’obiettivo è rendere le città «eco-compatibili», diffondere il Wi-Fi libero negli spazi pubblici, costruire edifici autosufficienti dal punto di vista energetico e sistemi che permettano alle città di snellire il traffico con i trasporti alternativi (car e bike sharing). Il coworking, insieme al co-housing, rientra in questa strategia di governance che promuove le «giovani imprese» diffondendo postazioni di lavoro flessibili a prezzi economici. L’approccio collaborativo al lavoro, in un ambiente urbano accessibile al lavoratore nomade, permette di promuovere la «coopetition», cioé la «competizione collaborativa» tra individui e piccoli gruppi associati.13 L’aggregazione «dal basso» dei professionisti, insieme alla crescita della coesione tra i gruppi e i committenti, permetterebbe di creare più opportunità di lavoro, mobilitando risorse e valori sul territorio gestito dalle istituzioni pubbliche. Queste ultime non svolgerebbero più il ruolo dell’imprenditore-pianificatore, come accadeva all’epoca dello sviluppo fordista che ha devastato intere regioni con politiche industriali altamente inquinanti, ma quello di facilitatrici dell’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro nella prospettiva di uno sviluppo sostenibile. Le autorità pubbliche si candidano così a governare il conflitto tra gli indipendenti e i loro committenti, ma ri- 21. ECOSISTEMI 195 schiano di tornare a svolgere il ruolo di mediatrici per favorire il divenire impresa della cittadinanza senza investire pressoché nulla nella formazione o nella tutela di coloro che vengono sconfitti nell’auspicata «competizione collaborativa». L’autoformazione, il telelavoro, il mutualismo e anche il lavoro volontario diventerebbero gli alibi per evadere la responsabilità di garantire un welfare. Non è escluso che il progetto di smart city possa conquistare un consenso nella cittadinanza che chiede di rivitalizzare i luoghi abbandonati delle città e promuovere la partecipazione. Riadattarli a un uso produttivo e associativo è in fondo un altro esempio di capitalismo cooperativo. Ma, ancora una volta, bisogna comprendere quali sono i rapporti tra lo Stato, il mercato e la cooperazione di stampo mutualistico del Quinto Stato. Perché in un Paese come l’Italia dove vige l’idea che il privato sostituisce il pubblico, e dove gli individui devono imparare a fare da sé perché è inutile pretendere un intervento dalle istituzioni, il ruolo di intermediazione svolto dallo Stato – in tutte le sue articolazioni – nelle smart cities equivale alla delega alla politica e alle sue clientele, come alle lobby imprenditoriali, di condizionare un mercato dove nulla avviene naturalmente. Il coworking, come tutte le forme di cooperazione nel lavoro e nell’impresa, esiste solo a condizione di praticare un’effettiva disintermediazione tra la domanda e l’offerta di lavoro. In questo caso, si può parlare di «filiera corta» perché tra l’ideazione di un progetto e la sua realizzazione si eliminano tutti gli intermediari, stabilendo un canale di comunicazione diretta tra gli ideatori di un progetto, i clienti, il territorio e la cittadinanza. Il rifiuto degli intermediari, cioè delle burocrazie statali e di quelle di partito oppure del capitalismo che estorce il valore dal lavoro dei produttori mentre distri- 196 III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ buisce i loro prodotti, allude alla necessità di estendere il controllo sull’intero ciclo produttivo. Il coworking potrebbe diventare la forma generale dell’autogoverno dei lavoratori indipendenti perché è adattabile a molti settori della produzione, da quella immateriale e culturale, a quella agricola e dei beni di consumo. Le pratiche della filiera corta permettono di associare le aree produttive segmentate dal mercato o dalla politica secondo le necessità e le risorse dell’autogoverno dei produttori e dei consumatori, contro gli interessi della grande distribuzione, dei monopolisti, degli stakeholders della politica o del mondo della cooperazione. Sui medesimi principi si incardina il discorso del commercio equo e solidale, dell’agricoltura biologica, del consumo etico e responsabile, come di tutte le pratiche che si prefiggono di redistribuire il valore sociale di un lavoro o di una produzione.14 L’attrazione che il coworking esercita in Italia sui lavoratori indipendenti potrebbe derivare persino da una suggestione gramsciana, quella dell’«operaio produttore», colui che ambiva a controllare l’intero processo della fabbrica fordista. La stessa aspirazione, declinata da Gramsci nella teoria dei consigli di fabbrica e nell’idea delle «casematte» da creare e diffondere nel tessuto della società industriale, torna oggi d’attualità, soprattutto se ci si sofferma a considerare la novità storica dinnanzi alla quale siamo posti: la fabbrica, lo Stato e il mercato non sono più capaci di incanalare e dirigere l’operosità e la creatività umana secondo lo schema di una produzione centralizzata e guidata da un soggetto unico, monodimensionale, accentratore delle reti e degli indotti produttivi. Il coworking si afferma nelle economie sociali emergenti tipiche del postfordismo, dove la produzione non è più vincolata a un territorio, segmentata in parti connesse tra loro da un capitalista monopolista. Esso mira anzi a valorizzare quelle competenze che permettono agli individui di controllare le 21. ECOSISTEMI 197 singole articolazioni della produzione. Ciò che Gramsci ambiva a creare nella sua epoca è oggi realizzabile mediante il superamento dell’intermediazione politica. Quanto detto non elimina l’esigenza di stabilire sul territorio regole, procedure e pratiche per facilitare l’aggregazione spontanea, come quella programmatica, di filiere produttive e di associazioni di scopo al servizio della persona o della cittadinanza. Se il discorso sull’innovazione sociale e sulle economie della condivisione ha un futuro, esso non può discendere da un ordine impartito dallo Stato o dagli enti locali, e nemmeno dalle imprese in perenne ricerca di spin-off. Non è dunque un caso se la maggioranza dei coworkers facciano riferimento ad associazioni non profit anziché a enti locali. Così la pensa Mico Rao, tra i responsabili insieme a Stefania Burra del cowork Lab 121 di Alessandria: «Le persone della community vogliono partecipare alla definizione di un progetto comune e non amano vederselo calare dall’alto. Il cowork è l’opposto dell’organizzazione classica dell’impresa o della politica: bisogna fare presa sulla coscienza del coworker, aprirsi alla casualità degli incontri e definire insieme un percorso comune. Non bisogna andare alla ricerca di professionalità generiche: l’architetto, il pubblicitario, l’organizzatore di eventi, ma delle singole competenze, e delle storie individuali che entrano in risonanza con quelle degli altri quando si inizia un percorso comune». La novità di questo fenomeno, hanno scritto Dario Banfi e Sergio Bologna,15 sta nel desiderio di creare una comunità, facilitando un rapporto tra i lavoratori e il territorio; conciliare i tempi di vita, per esempio la maternità, e quelli del lavoro; difendere le competenze acquisite durante un corso di studi universitario o di specializzazione che spesso vengono cancellate da un mercato saturo oppure ristretto dalle ren- 198 III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ dite di posizione e dal corporativismo; adattare le modalità d’uso dello spazio alla domanda o alle filiere produttive presenti sul territorio, oppure alle competenze del gruppo che si costituisce in un ambiente di coworking. Bisogna inoltre segnalare che la crescita del coworking avviene contemporaneamente al fallimento delle riforme del lavoro, dal «pacchetto Treu» sino alla «Fornero», per riconfigurare il collocamento e la selezione del lavoro. Il rapporto Plus pubblicato nel 2012 dall’ISFOL16 indica che, dal 2008 al 2010, solo il 3,9 per cento dei giovani tra i ventiquattro e i trentacinque anni ha trovato lavoro grazie a un centro per l’impiego (mentre il 2,4 per cento con le agenzie interinali). Non funziona nemmeno il canale «istituzionale»: grazie ai sindacati e alle organizzazioni datoriali hanno ottenuto un impiego solo lo 0,5 per cento degli intervistati, contro il 17,3 per cento di chi ci è riuscito mediante autocandidatura, cioè inviando un curriculum. Il coworking rappresenta inoltre un modello alternativo al lavoratore che si fa da sé, colui che per avviare una nuova attività o procurarsi un impiego usa tutti i canali messi a disposizione dal legislatore, salvo poi, davanti al fallimento della via istituzionale, ricorrere al network parentale, politico o professionale (il 32 per cento dei giovani intervistati ha iniziato a lavorare così). In maggioranza, sono i diplomati e i laureati che non dispongono dei giusti contatti, a rivolgersi alle strutture di «intermediazione» tra domanda e offerta di lavoro, sebbene siano coscienti che lì quel lavoro non lo troveranno mai. Anche perché i centri per l’impiego, o le agenzie interinali, non ottemperano agli obblighi assegnati loro dalle riforme. Nella deregolamentazione del lavoro, il coworking (come le start-up, le cooperative, le piattaforme online, le fabbriche occupate e riadattate alle esigenze della nuova produzione e del mutualismo,17 i mercati alternativi) costituisce una risposta al fallimento delle mediazioni istituzionali e una pro- 21. ECOSISTEMI 199 posta per inventarne di nuove. Centrale è il discorso sulla costruzione di un «movimento» che si prefigga di dare luogo a esperienze di convivenza socio-professionale e, almeno in via potenziale, a una coalizione sociale tra lavoratori e cittadini. Nell’autoimpresa postfordista questi obiettivi si sovrappongono perché la crisi ha incrinato l’individualismo competitivo tra i lavoratori autonomi, precari o freelance. Il «movimento» dei coworkers o dei makers dovrebbe tendere alla ricerca di una comunità aperta, fondata sulla condivisione di principi e pratiche cooperative e mutualistiche. Il coworking si regge sulla cessione del tempo, e dei saperi, da parte di professionisti già formati a lavoratori più giovani e meno garantiti. Continua Mico Rao: «I nostri soci mettono a disposizione della comunità i loro saperi attraverso corsi di formazione; abbiamo attivato consulenze gratuite di commercialisti, avvocati, ma anche accordi con gruppi di acquisto e convenzioni sanitarie o assistenziali. Ogni membro del cowork si sente responsabile del territorio e della politica». In un Paese dove vige la dismissione programmatica dell’istruzione pubblica, e riemergono preoccupanti fenomeni di analfabetismo di ritorno oltre che di deprofessionalizzazione dovuti alla precarietà, la pratica dell’autoformazione nell’ambito del coworking è fondamentale. Essa potrebbe coinvolgere tutte le attività basate sullo scambio di competenze, dall’arte alla musica, dall’artigianato ai servizi alla persona. Come il mutualismo delle origini, anche il nuovo mutualismo si fonda sulla vita operosa e si consolida nello scambio tra chi possiede una serie di competenze professionali e chi è alla ricerca di formazione o di aggiornamento. Oggi il mutualismo potrebbe inoltre costituire un canale di comunicazione e apprendimento del tutto estraneo ai circuiti della formazione gestiti dagli enti regionali, pro- 200 III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ vinciali, o ministeriali, che – al pari delle agenzie interinali e dei centri per l’impiego – hanno fallito la loro missione di addestramento e collocazione della forza-lavoro. La cooperazione tra i nomadi del lavoro indipendente potrebbe garantire agli studenti medi e universitari un adeguato livello di autoformazione e di qualificazione professionale. La pratica della banca del tempo, e della condivisione di prestazioni e servizi tra i soci, consentirebbe a questi soggetti di apprendere e applicare i saperi che nella scuola e nell’università o non sono più insegnati e, se lo sono, rispondono alla logica unidimensionale della professionalizzazione a breve o brevissimo termine. Saperi astratti che svaniscono, o restano inutilizzati, su un mercato che, quando ne ha bisogno, è costretto a imporre ai neolaureati corsi di formazioni più specifici. Anche su questo terreno, il mutualismo non sostituisce, né mira soltanto a integrare l’offerta di un welfare ormai inesistente, ma lo trasforma a partire dalle esigenze delle persone, mettendole nella condizione di soddisfare la loro richiesta di diritti fondamentali. Gli ambienti di corworking sono per la maggioranza «business-oriented». È ciò che affermano Michele Magnani e Nicolò Perugini del cowork Multiversum di Firenze: «Il cowork deve essere un’attività sostenibile in sé, e non deve dipendere da finanziamenti esterni rispetto alla sua attività». Se è autonomo, il lavoro in condivisione deve essere sostenibile economicamente, cioè deve produrre un reddito, poiché anche la condivisione ha un costo, Si tratta di un problema che dovettero già affrontare le cooperative operaie formatesi in Francia a cavallo della rivoluzione del 1848 e che oggi può essere riformulato nel seguente modo: come si può esercitare il mutualismo senza trasformarsi in una delle tante imprese sociali diffuse nel terzo settore, o vivere di stenti come capita alle associazioni non profit condizionate dai tempi di pagamento degli enti pubblici? 21. ECOSISTEMI 201 Una delle possibili soluzioni è offerta dal caso di Seats2meet, un cowork olandese con sessantuno sedi e quindicimila utenti, ispirato al modello di The District al Cairo o del «League» a Tokyo.18 In queste reti vengono combinate le attività non profit con quelle a scopo di lucro, come l’affitto delle postazioni o delle sale riunioni per imprese o altri soggetti. Il proposito del cofondatore Ronald van den Hoff è trasformare il vecchio modello di coworking, un «circolo chiuso» tra poche decine di freelance, in una rete globale dotata di una moneta virtuale e di un sistema di accreditamento dei servizi valido sia per gli spazi di coworking tra loro connessi, sia per altre tipologie di ambienti come i musei, i teatri o gli ospedali.19 È chiaro che tanto più numerosi sono i soggetti interconnessi, tante più risorse si riescono ad accumulare. Ma questa idea implica una dimensione ulteriore: al di là della professione, della tipologia contrattuale o del luogo di lavoro, i singoli possono associarsi e incontrarsi nello spazio virtuale della collaborazione e condividere un’economia. Un teatro a Amsterdam, un cowork a Palermo, un ospedale a Madrid si troverebbero connessi in una rete di condivisione di progetti, attività redditizie, servizi. Non diversamente dalle cooperative, i cowork aspirano a diventare colossi che producono servizi, multinazionali del marketing che affittano scrivanie a freelance? Oppure nel loro quotidiano sviluppo, e ricerca di autofinanziamento, saranno capaci di costruire ecosistemi economici e istituzionali fondati sulle relazioni tra persone che non svolgono necessariamente lo stesso lavoro, né condividono la medesima posizione professionale? Questa alternativa, generata dalle forme fluide dell’associazione tra i lavoratori della conoscenza, lascia intendere che il coworking, come buona parte delle pratiche del nuovo mutualismo, sia difficilmente riducibile alla forma giuridica di un’associazione e a quella di una cooperativa, forme nelle 202 III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ quali si è incarnato per lungo tempo il mutualismo di prima generazione. Il dibattito è aperto anche tra i coworkers, ma alcune idee sono chiare. Questi soggetti istituiscono ecosistemi al cui sviluppo possono contribuire anche gli enti locali, le imprese, le associazioni o le cooperative esistenti sui territori, e che offrono uno spazio reale o virtuale sia ai lavoratori indipendenti, sia a chi non è imprenditore di sé stesso, o freelance, ma un singolo – lavoratore o meno – che ha un progetto, cerca un’inclusione sociale, desidera esprimersi in uno spazio che gli viene altrimenti negato. La connessione di più ecosistemi, attivi in diverse regioni o anche nazioni, potrebbe dare vita a piattaforme aperte a soggetti che operano su scale differenti: dalle reti d’impresa alle associazione culturali, dai singoli lavoratori ai sindacati, o altri soggetti privati, istituzionali o pubblici. Gli obiettivi di queste piattaforme, non assimilabili ai «cartelli tra imprese», rappresenterebbero l’evoluzione su scala globale delle pratiche mutualistiche del Quinto Stato. Queste piattaforme potrebbero essere infine regolate mediante bilanci sociali e partecipati, redatti da ogni singolo cowork considerato come snodo di una rete interconnessa. Ciò permetterebbe di misurare e pubblicizzare l’impatto sociale di queste attività sul territorio, affinché ottengano il giusto riconoscimento da parte delle imprese, delle amministrazioni come delle autorità europee, anche in termini di finanziamento. Quelle del mutualismo socio-sanitario, della condivisione o della cooperazione sul lavoro, della costruzione delle filiere corte sono tutte pratiche che intendono sottrarre l’attività operosa alle rendite parassitarie dell’economia della conoscenza, al capitalismo finanziario, alla burocrazia statale o dei partiti. Restano però esercizi limitati ad alcune nicchie 21. ECOSISTEMI 203 del Quinto Stato, e molto spesso si sviluppano nella zona grigia tra l’attività volontaria o solidaristica e quella microimprenditoriale, cercando di fare sistema in un mondo che privilegia i percettori di rendita, il grande capitale, anche quando è migrato nei paradisi fiscali, la speculazione immobiliare o i rentier del consenso politico. In sé dimostrano una produttività alternativa rispetto a quella più propriamente capitalistica che mira all’espropriazione delle poche risorse disponibili, ma restano comunque incardinate in una società dove l’utilità di un’azione sociale è vincolata ai criteri della redditività immediata o alle esigenze corporative. Occorre perciò transitare dall’esercizio dell’autogestione, limitato a un’aspirazione etica o alla sopravvivenza economica, all’idea di autodeterminazione e quindi di autogoverno. Quello della transizione da un modello governato dal capitalismo predatorio a un sistema basato sulla cooperazione e l’uso della ricchezza sociale per lo sviluppo di nuovi rapporti di produzione è uno dei problemi classici affrontati da Marx e da Lenin, come anche dalle culture socialiste dell’autogestione, ad esempio in Jugoslavia e nei cosiddetti «paesi non allineati». Fu questo, tra l’altro, l’obiettivo della critica di Herbert Marcuse al socialismo e al capitalismo nel suo Uomo a una dimensione, un libro che diventò il punto di riferimento per i movimenti e gli intellettuali jugoslavi che denunciavano le contraddizioni del comunismo di Tito. Queste posizioni furono ostacolate in ogni modo dalle classi dirigenti delle repubbliche che componevano la Jugoslavia. Il potere dell’autogestione sancito dalla Costituzione venne eroso a favore di quello delle classi dirigenti nazionalistiche, avviando così la dinamica autodistruttiva che ha annientato la federazione nella guerra degli anni Novanta.20 Dopo la caduta del Muro di Berlino, e il fallimento delle ipotesi socialiste e comuniste, le questioni sopra elencate riemergono sotto forma di un auspicio a una vita eco-com- 204 III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ patibile, oppure nella chiave antagonista di un anticapitalismo radicale ma minoritario. Non si tratta di riproporre oggi esperienze di comunismo di mercato come quello jugoslavo e tanto meno di comunismo di Stato come quello stalinista. Una tale pretesa sarebbe grottesca. Il nostro problema è diverso: viviamo in una fase di transizione, forse verso un mondo peggiore di quello attuale, ma c’è anche la possibilità che la direzione intrapresa dia origine a rapporti sociali completamente inediti. E che i piccoli esempi della condivisione e del mutualismo che sono l’argomento di questo libro ci possano aiutare a dare una forma al nostro futuro. A più di vent’anni dalla fine della Guerra fredda, e a dieci dall’inizio della crisi verticale del capitalismo finanziario e del neoliberismo, viviamo nella transizione da una società a capitalismo avanzato basato sulla manifattura e sullo Stato sociale del lavoratore salariato o dipendente a una società basata sull’indebitamento e la finanziarizzazione dell’esistenza. Immaginare, e realizzare, nuovi ecosistemi alimentati dalle pratiche mutualistiche e dalla condivisione significa incamminarsi verso una soluzione di segno opposto. Laddove ciò non è ancora possibile, ossia nella maggioranza dei territori sottoposti all’impero dell’austerità, si può comunque discutere e sperimentare l’applicazione di dispositivi istituzionali (gli ecosistemi), o di partecipazione e di potere diretto insieme a pratiche comuni solidaristiche e politiche. Tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, questa tendenza è stata intuita dai movimenti ecologisti. Anche in questo caso non si tratta di scegliere tra l’una o l’altra ipotesi, ma mostrare come sul medio-lungo periodo si sia ormai consolidato un indirizzo che riguarda la gestione dei territori, la creazione di livelli istituzionali di autogoverno, spazi e momenti di decisione collettiva e condivisa, oltre che politiche pubbliche sensibili a criteri ecologici e di giustizia sociale. Era questa l’utopia concreta del filosofo francese André Gorz: 21. ECOSISTEMI 205 Gli strumenti high-tech esistenti o in corso di sviluppo, generalmente comparabili a delle periferiche di computer, puntano verso un avvenire in cui praticamente tutto il necessario e il desiderabile potranno essere prodotti da laboratori cooperativi o comunitari; in cui le attività di produzione potranno essere combinate con l’apprendimento e l’insegnamento, con la sperimentazione e la ricerca, con la creazione di nuovi gusti, profumi e materiali, con l’invenzione di nuove forme e tecniche agricole, costruttive, mediche, etc. I laboratori comunitari di autoproduzione saranno interconnessi su scala globale, potranno scambiare o mettere in comune le rispettive esperienze, invenzioni, idee, scoperte.21 L’obiettivo di questa politica è ripensare territori, società, istituzioni, produzione, oltre che la distribuzione della ricchezza, in un’ottica di relazioni federative, a rete, aperte alla condivisione culturale e all’innovazione sociale. Il punto di partenza di questa transizione verso una nuova forma di civiltà è chiaro ai soggetti che stiamo raccontando. Per usare ancora le parole di Gorz, consapevoli del consenso che riscuotono anche in Italia: «l’impiego è una specie in via di estinzione». Questo è il corollario che si affianca all’utopia a tratti naïf dei makers digitali, nel loro divenire terminali di un sistema di produzione che aspira al superamento della dicotomia marxiana tra capitale fisso e capitale variabile, tra lavoro morto e lavoro vivo. Questa è la realtà del moderno lavoro indipendente che vive la condizione del Quinto Stato. Si tratta di decidere se abbandonare questi esempi alla transizione verso una società di disoccupati e indebitati oppure rivendicarli quali testimonianze della capacità dei lavoratori senza posto fisso da tutelare di elevarsi a principali artefici di una nuova forma di socialità e di produzione. La società del capitalismo cognitivo, oggi presa in ostaggio dalle politiche dell’austerità e del rigore finanziario delle élites europee, non è la stessa che i teorici del comunismo o 206 III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ del socialismo avevano sotto gli occhi mentre si interrogavano sul problema della transizione. La loro era una società che usciva dalla guerra, che doveva riprendere la direzione di un’accumulazione capitalistica basata sull’industria pesante e manifatturiera, cercando di mettere al lavoro le classi sociali fino ad allora escluse dallo sviluppo economico. La nostra società è caratterizzata in tutt’altro modo. Così la descriveva Gorz: «Oggi esistono molte più competenze, talenti e creatività di quanto l’economia capitalistica ne possa utilizzare: questa eccedenza di risorse umane non può diventare produttiva se non in un’economia in cui la creazione di ricchezza non sia sottomessa ai criteri della redditività». Quello dell’uso, dell’impiego e della valorizzazione di competenze eccedenti rispetto alla capacità di sfruttamento del capitalismo e dello Stato è il problema fondamentale che il Quinto Stato deve affrontare ogni giorno. Nessuna politica dell’austerità, come del resto nemmeno quell’ideologia ormai superata che elogiava retoricamente le potenzialità insite in una «società della conoscenza», è in grado di impiegare questa eccedenza per creare una nuova accumulazione. In questo vuoto di potere, e di reale capacità di sfruttamento, il Quinto Stato potrebbe diventare l’artefice collettivo di un uso più razionale delle risorse a disposizione e di quelle che potrebbero essere procacciate in futuro. L’eccedenza di cui parla Gorz è una potenzialità a disposizione di chi vive e lavora nella nostra società, non la prerogativa di chi possiede le macchine, una rendita, un terreno oppure un’impresa di qualsiasi genere. Questo vuoto è politicamente disabitato, ma è popolato da milioni di persone che aspirano a definirlo secondo le possibilità che imparano a riconoscere, giorno dopo giorno, a partire dalle loro attività operose, dai limiti e dalle contraddizioni esistenti. Gorz concludeva così il suo ragionamento: «Non dico che queste trasformazioni radicali si realizzeranno. Dico solo che, per la prima volta, possiamo volere che si realizzino». Capitolo ventiduesimo Community organizing Nell’area metropolitana di Los Angeles, il sindacato radicale Service Employees International Union (SEIU) lanciò nel 1990 la campagna Justice for Janitors, finalizzata al riconoscimento dei diritti sindacali degli addetti ai servizi di pulizia (per la maggior parte immigrati). La campagna, che permise di sindacalizzare sessantamila lavoratori e lavoratrici e di firmare centinaia di contratti territoriali nell’area metropolitana, diede origine a iniziative gemelle in tutti gli Stati Uniti. Questo modello di coalizione sindacale tra migranti a maggioranza messicana e lavoratori «indigeni» oggi viene considerato il prototipo del «sindacalismo a base multipla» che dovrebbe utilizzare la solidarietà mutualistica presente negli ambiti della vita quotidiana come leva per rafforzare la coesione rivendicativa nei luoghi di lavoro.1 La questione è tornata a farsi attuale negli Stati Uniti dopo il grande sciopero dei lavoratori migranti del 2006, i quali per un giorno hanno bloccato New York e Chicago semplicemente astenendosi dalle loro attività. Queste nuove forme di azione sindacale crescono in forza e complessità quando devono misurarsi con il territorio di una città e non con un luogo di lavoro circoscritto, come la fabbrica tradizionale, o con la trattativa contrattuale di una singola categoria. Organizzare 208 III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ uno sciopero, condurre una vertenza o vincere una campagna sindacale significa pensare a un altro modo di vivere la città. Per un sindacato tradizionale, o per quelli di nuova generazione, questo progetto può funzionare a condizione che vi sia un numero crescente di blocchi sociali coalizzati.2 Non essendo più possibile fare assegnamento sulle identità di classe, o professionali, tipiche del lavoro salariato, e tanto meno sul vecchio sindacato centralizzato e burocratico, il territorio metropolitano emerge come protagonista di azioni sindacali che sono al contempo atti di cittadinanza. Negli scioperi del 1990, come in quelli del 2006, di pari passo con l’incremento degli iscritti alle organizzazioni coinvolte seguì il consolidamento di una coalizione che andava ben oltre i suoi referenti diretti, coinvolgendo l’industria dei servizi e i lavoratori dell’indotto. Negli USA, la portata generale di queste esperienze metropolitane permise di unire le comunità dei migranti ai nativi americani in un solo community organizing. Il community organizing è un metodo di concertazione sociale che mobilita coloro che sono insediati, e lavorano, su uno o più territori. È un’azione di contro-potere fondata sui diritti universali della persona, e non più solo ed esclusivamente sul legittimo diritto al lavoro. Il rovesciamento è netto rispetto all’idea di contrattazione sindacale che vige nel lavoro salariato o dipendente: è la persona, e i suoi diritti, a rappresentare l’istanza universale in cui si riconoscono i soggetti apolidi e frammentati che vivono nella comunità meticcia, multiculturale e transnazionale delle metropoli contemporanee. L’organizzazione delle comunità, il loro tradursi in coalizioni mobili e in divenire, è un elemento che ritroviamo in molte lotte civili per la difesa del territorio e dei beni comuni in Italia, dalla resistenza alle grandi opere – No TAV – alle proteste contro le discariche a Napoli. Questa energia non è stata ancora convogliata sul tema specifico della tutela dei diritti del lavoro, ma il metodo da seguire resta sempre lo stesso. 22. COMMUNITY ORGANIZING 209 Per Saul Alinsky, uno dei più grandi organizzatori di scioperi, e iniziative di contro-potere in ambito metropolitano, del XX secolo, nonché innovatore della tradizione radicale del sindacalismo americano, l’obiettivo era consolidare l’alleanza politica tra lavoratori manuali e precari con i «colletti bianchi».3 Formulata nel 1946, questa tesi continua ancora oggi a influenzare la strategia dei movimenti civili e le politiche di prossimità dei movimenti urbani.4 Nel metodo Alinsky vige il principio della diffusione del potere sociale, non della sua concentrazione verticale. Questo è un fattore determinante affinché si prospetti un diverso sviluppo dell’attuale sindacalismo, come anche della sua rappresentanza nel lavoro salariato. Sul territorio, la cooperazione fra individui non segue più le filiere precostituite della solidarietà classista e operaia tra uguali ed esclusi, ma si dirige verso le forme della solidarietà civile tra diversi e diseguali. Si tratta dello stesso contesto in cui opera il coop capitalism, con la sua idea che l’impresa deve soddisfare il benessere delle persone e riscuotere il consenso delle comunità territoriali. Nel community organizing emerge la necessità di rappresentare la vita operosa dei cittadini residenti, a prescindere dal fatto che possiedano o meno la cittadinanza del Paese in cui lavorano. Nella crisi del sindacalismo americano, come oggi di quello italiano, Alinsky delineava un duplice indirizzo strategico: che il sindacato includesse individui provenienti dalle comunità locali, molto spesso cittadini non statunitensi, ma anche che cambiasse radicalmente forma incarnandosi nelle pratiche di autogoverno urbane, come in quelle della cooperazione sul lavoro. Il teorico radicale americano coglieva così l’autentica natura del mutualismo: promuovere l’illimitatezza dell’associazione per raggiungere un fine comune su un territorio. 210 III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ Obiettivo del community organizing è creare punti di ritrovo, organizzativi, culturali o professionali sui territori. Il medesimo obiettivo animava il movimento operaio ai suoi albori. Con questo spirito il sindacato dovrebbe aprire oggi le sue strutture territoriali ai lavoratori indipendenti e ai cittadini. La stessa cosa dovrebbe avvenire nei contesti popolati dagli attivisti sociali, dagli artisti, dai sindacati di base, dai movimenti e dall’associazionismo culturale. Sono in molti in Italia ad attendere un big bang culturale capace di modificare i saldi principi delle identità predeterminate e i confini dei rispettivi campi di intervento. Pino Ferraris ha sottolineato l’importanza delle camere del lavoro, e delle case del popolo, nell’organizzazione dei grandi scioperi operai del «biennio rosso» a Torino tra il 1919 e il 1921. La capacità di stabilire un ponte tra la fabbrica occupata e la collettività fu decisiva nel consolidamento del potere sociale dei consigli operai sulla città assediata dall’esercito. Tale funzione connettiva tra lavoratori e disoccupati, precari e sotto-occupati, operai e cittadini è ancora più importante oggi nel Quinto Stato perché, come scrive Ferraris, questa è la risposta che nasce là dove massima è la frammentazione, la complicazione, l’incertezza dei profili professionali e delle identità dei lavoratori. Essa si è rivelata come lo strumento più efficace per mettere insieme ciò che è diviso, per ricomporre ciò che le trasformazioni economiche e tecnologiche scompongono. La combinazione tra mestiere e territorio, tra «affini» per lavoro e «vicini» per residenza non solo servì per aggregare, ma ebbe un significato più profondo, cioè quello di tenere uniti ambiti di lavoro e ambiti di vita, aiutando a vedere il lavoratore in carne ed ossa non solo come un produttore ma come persona immersa nella completezza della sua vita e dei suoi bisogni.5 I principi dell’illimitatezza dell’associazione, quelli della cooperazione tra lavoratori e della condivisione mutualistica 22. COMMUNITY ORGANIZING 211 tra cittadini residenti, svincolano l’azione sociale dallo spazio fisico, dischiudendo la dimensione virtuale delle comunità in rete. In entrambi i casi, oggi è possibile proporre una convergenza dell’eterogeneo e del multiforme. Ieri convivevano l’operaio stabile e professionale e il lavoratore stagionale, il bracciante che faceva l’edile e la lavorante a domicilio. Oggi possono agire insieme il professionista con partita IVA e la badante, lo studente fuorisede e la casalinga impegnata in un comitato di quartiere, il volontario e la piccola impresa high-tech, il cittadino migrante che lavora in una fabbrica e quello che ha aperto un esercizio commerciale. Alla nascita del nuovo sindacato possono contribuire anche le piattaforme di crowdsourcing, mediante appelli lanciati in rete per finanziare campagne contro il lavoro precario o sottopagato o di sostegno a comitati di agitazione o di occupazione. Queste e altre tipologie di intrecci sono ormai alla portata di tutti coloro che praticano l’autorganizzazione delle comunità. Sono ancora in pochi a sapere che alla base di movimenti come Occupy Wall Street vi è una consuetudine con le pratiche di community organizing da parte, tra gli altri, di insegnanti o educatori (per esempio Justin Wedes) inseriti da lungo tempo nelle reti sociali cittadine e nazionali.6 Lo stesso vale per Occupy Gezi a Istanbul. All’origine di questo straripante fenomeno che ha messo in seria difficoltà il governo autoritario di Erdogan vi è infatti la battaglia dei comitati civici della metropoli turca a difesa del parco Gezi, nei pressi di piazza Taksim, dalla speculazione immobiliare che sta divorando Istanbul. Un community organizer può essere anche il leader di una comunità locale, oppure un religioso, come l’Imam di Lione che organizza incontri settimanali di educazione civica rivolti ai giovani musulmani immigrati o residenti nelle periferie della città.7 Il community organizing si è dunque affermato su scala mondiale. Esso affonda le sue radici nella tradizione del sin- 212 III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ dacalismo rivoluzionario, e in particolare nelle vicende dei lavoratori nomadi che, in Europa come negli Stati Uniti, transitavano da una città all’altra alla ricerca di un ingaggio. L’esperienza americana, insieme a quella francese, ha radicato il community organizing tra le comunità locali, in particolare nei ghetti, nei quartieri periferici e nelle banlieues. Il community organizing non è solo una pratica civile, ma un esercizio di costruzione della cittadinanza sociale che mira all’unione degli umili, degli apolidi, dei professionisti e degli esperti, al servizio di uno scopo universale: l’integrazione, l’opposizione alle politiche speculative urbane, la lotta per i diritti dei non garantiti e dei non organizzati. Il Movimento di Comunità, avviato da Adriano Olivetti con la creazione dei Centri comunitari del Canavese nel 1949, può essere considerato un altro esempio di community organizing. Improntato a criteri di giustizia sociale ed economica, fu condizionato dal paternalismo del fondatore e dalla sua visione organicista della comunità. Olivetti aveva bandito il conflitto all’interno del suo movimento, mentre un’idea di socialismo cristiano si stemperava nella percezione irenica di una piccola patria. Al centro di questa utopia comunitaria c’era invece la fabbrica tecnologica (l’Olivetti appunto, prima multinazionale italiana a produrre un personal computer nel 1964, il «Programma 101») e una visione dell’impresa che miscelava efficienza taylorista e partecipazione diretta degli operai alla produzione. Esperienze che hanno nutrito alcune opere letterarie dei collaboratori di Olivetti: Ottiero Ottieri con Donnarumma all’assalto (1959) e Paolo Volponi con Memoriale (1962), per ricordare i più importanti. Quando l’industriale di Ivrea provò a sottoporre la sua proposta alla politica nazionale, e in particolare al PSIUP dove ricopriva la carica di responsabile dell’urbanistica e 22. COMMUNITY ORGANIZING 213 dell’edilizia,8 fu pressoché ignorato. Le grandi speranze della liberazione si erano già spente nel 1946, mentre lo «Stato dei partiti» si andava configurando come il monopolista della politica. In compenso, Olivetti trovò un interlocutore in Massimo Severo Giannini, uno dei più grandi giuristi italiani del Novecento e militante socialista. L’idea olivettiana di autogoverno trovò un’analogia con le strutture e le procedure amministrative studiate dal giurista. Fuori dallo Stato dei partiti, dal catto-comunismo, dall’asservimento alle élites locali o nazionali o alla malavita, veniva formulata una proposta che combinava autodeterminazione individuale e collettiva e scommetteva sulla fondazione di nuove istituzioni per la partecipazione. Su queste basi Olivetti costruì nei vent’anni successivi un movimento che aprì sedi a Treviso, Mestre, Potenza, Matera, Palermo, Roma e Milano.9 Voleva dimostrare che la politica di base poteva essere praticata tanto dagli imprenditori quanto dagli operai, al fine di trasformare i territori e la qualità della vita. Questo tentativo venne presto dimenticato, lasciando rimpianti e una nostalgia tuttora diffusa, ma il suo modello di organizzazione delle comunità è ritornato attuale dopo la fine della Prima Repubblica e dei suoi partiti di massa, l’implosione del modello della grande fabbrica e dei distretti d’impresa. Al centro di questa costruzione oggi non può esserci la fabbrica alla cui razionalità civile e progressiva il territorio deve conformarsi, ma la coalizione sociale su basi democratiche tra classi e ceti diversi che era l’ingrediente principale dell’utopia «comunitaria» olivettiana. Questo è il quadro interclassista e interprofessionale, in una parola di cittadinanza, nel quale si sta sviluppando il community organizing nelle metropoli, come nei movimenti territoriali. A differenza dell’utopia olivettiana, oggi il valore fondante di queste comunità è l’impegno a indicare una razionalità alternativa nel governo dei territori e dell’economia. 214 III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ Le coalizioni sociali del Quinto Stato nascono dall’occupazione, dal riuso o dalla riqualificazione degli immobili, dalla reinvenzione delle vecchie camere del lavoro, dalle esperienze di coworking, dall’occupazione di un teatro o di un cinema, dalla creazione di reti dell’innovazione sociale o dalle lotte delle associazioni che difendono un territorio. In questa cornice, si può immaginare che un community organizer proponga l’istituzione di una mutua, una campagna di crowdfunding, chieda ai membri di una coalizione di investire le risorse accantonate in una o più reti di solidarietà mutualistica e di finanziare la cassa per la disoccupazione o per i periodi di non lavoro, una per gli infortuni, oppure progetti a supporto della convivenza o della formazione. Questo modello di autogestione delle risorse dal basso potrebbe favorire lo sviluppo e l’innovazione dei territori, dei quartieri, delle città. Il fare coalizione non può essere ridotto a un sistema di consultazione delle popolazioni locali in merito a una variante urbanistica, all’uso dei fondi comunali o alla riqualificazione di un parco. Queste iniziative funzionano quando assumono un carattere vincolante per tutti i livelli dell’amministrazione ed esprimono un potere collegiale delle cittadinanze coinvolte. Ciò sarà tanto più vero se le forme tradizionali di aggregazione tra cittadini, come i comitati civici o le assemblee di quartiere, verranno accompagnate da istituzioni derivanti dalla libera associazione tra lavoratori indipendenti. Il community organizing serve a imporre una volontà popolare dal basso e a facilitare l’adesione dei singoli e dei gruppi a una rete di alleanze la più ampia possibile, non ad alimentare il consenso delle forze politiche. Non è il prodotto della mediazione tra le istanze insorgenti della società civile e la buona volontà degli eletti o dell’amministrazione. Il community organizing pratica l’integrazione tra i singoli dispersi su uno o più territori e promuove l’idea del con- 22. COMMUNITY ORGANIZING 215 flitto. Non bisogna tuttavia sottovalutare l’eventualità che il conflitto possa esplodere anche tra i componenti di una coalizione. Senza contare che nelle nostre città esistono pratiche come le occupazioni, e molte persone non sono disposte a partecipare ad atti conflittuali. Nei luoghi dove il nostro organizzatore svolge la sua attività possono coesistere condizioni giuridiche inconciliabili. In questi casi, egli promuove la possibilità della collaborazione tra uno spazio occupato e uno «normale», sapendo che per il primo è difficile partecipare a un bando nazionale o europeo per ottenere un finanziamento, ad esempio. Ancora più delicate sono le situazioni che vedono protagoniste le persone immigrate. Capita spesso di scontrarsi con il razzismo diffuso contro queste ultime, oppure che i differenti interessi delle parti in causa entrino in conflitto impedendo la definizione di un progetto condiviso. Queste difficoltà non dovrebbero tuttavia scoraggiare la ricerca della collaborazione. Anzi, l’eterogeneità di partenza di una coalizione, tipica della società del Quinto Stato, può costituire l’elemento virtuoso che ci spinge a iniziare un percorso o a immaginare un esperimento. Non importa allora la formula giuridica che consentirebbe agli spazi di diventare operativi, così come non dovrebbero essere determinanti né lo status giuridico di una persona né la sua condizione lavorativa. Nell’azione quotidiana di una coalizione, ci sarà sempre la possibilità di stabilire sinergie tra spazi occupati, in concessione, di proprietà o in affitto, così come è ormai diventata una regola l’agire di concerto tra persone che hanno situazioni professionali diverse o sono precarie o disoccupate. Ciò che è davvero determinante è la qualità e le aspirazioni degli individui associati che animano tali esperimenti. Il community organizer cerca un accordo tra le parti rispetto a un obiettivo comune. La realizzazione di un microsistema sociale, in cui confluiscono pratiche differenti volte a ripro- 216 III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ durre la solidarietà attiva, è una ricchezza per tutti e può tornare utile in ogni momento. Il punto più critico per chi fa community organizing è il tempo. La buona volontà non basta, soprattutto in un’epoca di crisi dove il lavoro manca e la disperazione offusca gli obiettivi di una coalizione. È da escludere che lo Stato assuma assistenti sociali, né che altre realtà organizzate sul territorio (come la Chiesa) mettano a disposizione educatori professionisti o volontari. Il community organizing resta una pratica informale che funziona quando le comunità di riferimento si muovono in autonomia e riescono a gestire i conflitti, contando sull’effetto moltiplicatore dell’esempio di chi già lavora in maniera cooperativa. Non sempre questo accade, anche perché quasi mai le società si trovano in una fase «insorgente» e talvolta rinunciano persino a resistere. Occorre affrontare questo nodo sulla scorta delle esperienze accumulate nel mondo del lavoro indipendente. Pur nei loro limiti, le economie collaborative affrontano giornalmente il problema della passività, dell’opportunismo o della rinuncia da parte degli associati. Ciò non toglie che i cowork o i fablab, così come le occupazioni e l’associazionismo diffuso, siano comunque il risultato della determinazione di chi non vuole limitare la sua partecipazione all’intervento nel forum di un blog anche influente, né vota una compagine parlamentare per ritirarsi nel sonno dei giusti e degli incompresi nei cinque anni successivi. L’ambito in cui essere immediatamente protagonisti è il lavoro. Nella ricerca di un impiego, così come nella costruzione di spazi da destinare alla realizzazione di un progetto, diventa subito chiara l’esigenza di allargare le proprie relazioni. In questo senso il community organizing è una pratica di vitale importanza per chi opera nelle economie della condivisione. Spesso, infatti, le reti professionali non bastano a soddisfare una domanda o a sviluppare le potenzialità insite 22. COMMUNITY ORGANIZING 217 in una determinata attività. È diffusa l’esigenza di portare nella società questo lavoro organizzativo. In questi casi il tempo impiegato corrisponde a quello dedicato alla creazione di reti, spazi e opere con persone che svolgono altre professioni o gestiscono iniziative utili per l’attività di chi gestisce un cowork oppure ha un’idea imprenditoriale. Il futuro delle coalizioni sociali non dipende dalla militanza politica, o dal senso civico di un volontario, ma dal bisogno di svolgere al meglio il proprio lavoro oltre che dalla convenienza di poter contare su una cospicua rete di contatti. Questa è la ragione per cui i lavoratori della conoscenza, della cultura o della produzione immateriale occupano una posizione cruciale all’interno Quinto Stato.10 Un punto a favore della battaglia culturale del movimento del community organizing è la capacità di produrre diritto e di includere la cittadinanza nei processi partecipativi. Questo potere emerge nell’esperienze di occupazione di teatri, cinema, atelier, o spazi culturali in Italia. In una città come Roma, che annovera sperimentazioni simili con l’Angelo Mai11 o il Nuovo Cinema Palazzo,12 il teatro Valle ha assunto in due anni di occupazione (giugno 2011) l’aspetto di un’«esperienza di legalità costituente».13 In collaborazione con migliaia di soci che hanno aderito e finanziato con un capitale iniziale di duecentocinquantamila euro la fondazione «Teatro Valle bene Comune», gli occupanti hanno redatto uno statuto che stabilisce: la pienezza della sovranità assembleare che elabora decisioni con il metodo del consenso, e non con quello della maggioranza; la turnarietà delle cariche sociali (cioè il direttore artistico, come il comitato dei garanti) e l’applicazione del principio di collegialità esteso a ogni carica; l’azionariato diffuso, il crowdfounding e l’utilizzo delle risorse pubbliche; e, infine, la 218 III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ creazione di un fondo contro la disoccupazione, un altro per i progetti, nell’ottica dell’autogoverno e della federazione tra istituzioni autogestite. Questi accorgimenti sono ancorati al dettato costituzionale, e in particolare all’articolo 43 che stabilisce la gestione partecipata dei beni comuni da parte dei lavoratori e degli utenti. Potrebbero essere applicati alla scuola, alle biblioteche, agli ospedali perché garantiscono la proprietà sociale su beni inalienabili, rendendoli accessibili a tutti. Questa idea ha ispirato artisti e lavoratori della cultura a Palermo, a Catania e Messina, a Napoli, a Milano, a Pisa o a Venezia.14 Sono esperienze nate anche per dare una risposta a un fenomeno che sembrava irreversibile. La deindustrializzazione, e la crisi fiscale dello Stato, hanno provocato l’abbandono di migliaia di fabbriche ed edifici pubblici, mentre la speculazione immobiliare, di comune accordo con gli enti locali, ha continuato a costruire abitazioni che restano sfitte o invendute. Le occupazioni degli spazi abbandonati, molti dei quali vengono privatizzati o concessi a canone agevolato alle imprese, hanno infuso nuova linfa alla teoria degli usi civici, cioè al diritto d’uso che spetta alle comunità dei residenti interessati alla riqualificazione, all’impiego sociale e produttivo di questi beni. Oggi si parla di «usi civici metropolitani». Con questa definizione non si allude a un pascolo, un bosco o una valle, come nell’antica teoria dei beni comuni, ma all’uso dei beni sottratti alla speculazione immobiliare nell’interesse della cittadinanza. Su questi spazi vige molto spesso il principio dell’inalienabilità della proprietà privata. A esso viene contrapposto l’interesse generale, che si manifesta nel recupero di una produzione culturale, da gestire in maniera democratica, nella diffusione della formazione professionale o nel diritto a godere di uno spettacolo o di un’attività artistica a costi popolari. I teatri occupati praticano un diritto collettivo e informale evocato da tempo nelle metropoli contemporanee. Si tratta 22. COMMUNITY ORGANIZING 219 di un diritto fondamentale, inalienabile e imprescrittibile, non soggetto a commercio né a negoziazione. Come tale dovrebbe essere anche esercitato dagli amministratori che intendono contrastare la desertificazione culturale o l’emergenza abitativa che affligge tutte le principali città italiane. A questo diritto si è richiamata una sentenza della Corte di Cassazione del 2009, che ha stabilito la legittimità della scelta di quegli amministratori che hanno requisito decine di appartamenti sfitti per assegnarle alle famiglie in cerca di casa. Quello alla requisizione è un altro diritto propugnato da chi oggi pratica gli usi civici metropolitani. Questa particolare categoria di uso civico trova legittimazione in una sentenza del Tribunale civile di Roma a proposito dell’occupazione del Cinema Palazzo a San Lorenzo (aprile 2011). L’immobile era destinato a ospitare un casinò ed è stato occupato per evitare lo stravolgimento della vita del quartiere oltre che la sua definitiva mercificazione. Il tribunale ha riconosciuto agli occupanti il ruolo di «possessori qualificati di un bene» in base all’articolo 1170 del Codice civile. Su queste basi è stata formulata anche la suggestione di una «Libera Repubblica di San Lorenzo».15 La generalizzazione di questi risultati è auspicabile per la definizione del community organizing. Il tratto comune delle iniziative menzionate è dato dall’opera di alcuni soggetti che svolgono il ruolo di «organizzatori di comunità», come nel caso degli attivisti romani del teatro Valle o del Cinema Palazzo oppure quelli dei movimenti per il diritto all’abitare, che hanno costituito un nuovo diritto, e una nuova «legalità», mettendoli a disposizione di chi ne ha bisogno. L’affermazione di questo diritto implica il rovesciamento del metodo tradizionale di affidamento degli spazi in vista della realizzazione di un progetto. Di solito l’affidamento avviene attraverso una graduatoria o un bando, concordato dall’amministrazione con le associazioni più influenti in un 220 III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ settore, anche in virtù della vicinanza, della collusione o della corruzione dei dirigenti della prima e degli esponenti delle seconde. In questi casi assistiamo invece a un atto politico, la cui utilità generale viene riconosciuta dalla legge come dalla collettività. Si afferma così un’autonoma capacità di creare diritto e di autogovernarsi in base alle regole stabilite da chi si impossessa di un bene e sceglie di coinvolgere la cittadinanza nell’uso dello stesso. Anche la pratica dell’occupazione cambia di segno quando chi si assume la responsabilità, e la fatica, di condurla la trasforma in un momento di produzione di statuti e regolamenti, in altre parole di diritto e di norme di condotta che non servono solo all’autogestione dello spazio in sé, ma anche alla diffusione di un potere collegiale che soddisfa un’utilità generale. Nel Quinto Stato sta emergendo un diritto non statale, che nasce dall’elaborazione dell’intelligenza diffusa e giunge alla definizione di un potere basato sulla proprietà collettiva.16 Queste sono le premesse per parlare di un regime politico che non è presente nella Costituzione italiana, ma viene esercitato ovunque, in maniera slegata, altre volte coordinata, quasi sempre episodica. È il regime dell’autogoverno che può essere generalizzato a partire dalle città in fermento e utilizzato sia come risposta alla crisi, sia come opzione rispondente alle pulsioni autonomistiche del Quinto Stato. Non si tratta solo di auspicare una possibilità astratta, ma di praticare immediatamente una potenzialità che si esprime ovunque nelle rivolte urbane come nel sapiente ricorso ai saperi di chi lotta per i beni comuni. Questo è possibile nei teatri o nelle fabbriche occupate, ma non è difficile immaginare l’autogoverno delle scuole, degli ospedali, delle università e di tutti gli ambiti della vita associata e produttiva. 22. COMMUNITY ORGANIZING 221 Il luogo dove coltivare l’autogoverno è la città. La leva che permette ai suoi abitanti di desiderare l’autogoverno, o di riconoscerne la necessità, è il community organizing. In questo modo, si definiscono le linee di sviluppo delle coalizioni sociali. Queste coalizioni sono reti associative temporanee e in divenire, non l’espressione di un «blocco storico». Rispetto all’originale concetto di Antonio Gramsci – che per blocco storico intendeva l’unità-base per la costruzione di una sintesi tra gli opposti (i governanti e i governati) mediata dagli «intellettuali» e dal partito di massa17–, il Quinto Stato non sarà mai un soggetto monolitico e monoclasse unificato dall’«ideologia» del proletariato industriale. Ciò appare con evidenza nelle sue punte culturali più avanzate, nella sua composizione sociale e nel ruolo degli «intellettuali» che non sono organici più a nulla, se non forse a sé stessi, alle loro corporazioni universitarie o ai salottini mainstream. È altrettanto chiaro che la creazione di coalizioni, peraltro attraversate da rivalità e individualismo che finiscono per isolare gli esponenti più attivi del Quinto Stato, non basta a consolidare una battaglia o a generalizzare una conquista. L’estrema fluidità dell’associazionismo nella politica postdemocratica non permette di affrontare di petto la debolezza politica del Quinto Stato. In molti casi, il community organizing si risolve in un lodevole volontarismo, oppure in una dispendiosa attività di intervento microfisico nella vita di quartiere. Insomma, è l’altra faccia della delega alla politica di professione. Dove si fonda allora la capacità di creare diritto, costruire nuove istituzioni e parlare agli interessi generali della cittadinanza da parte del Quinto Stato? E qual è il motore che permette a un nucleo qualificato di lavoratori culturali e attivisti politici di conquistare un’egemonia, sia pure momentanea, nell’oceano della comunicazione ventiquattr’ore su ventiquattro? La risposta a queste domande non può che essere provvisoria, e dev’essere considerata una soluzione del 222 III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ tutto ipotetica. Crediamo che il passaggio dall’autogestione all’autodeterminazione avvenga quando le coalizioni si trasformano in consorzi di cittadinanza. Questa idea di consorzio dev’essere distinta da quella di consorzio amministrativo come da quella di consorzio commerciale che possono dotarsi di una personalità giuridica pubblica o privata. Il consorzio di cittadinanza è un patto tra persone, basato sul mutuo aiuto destinato a durare nel tempo secondo la regola della reciproca obbligazione (obligatio in solidum). La sua origine risale al mutualismo, alle leghe e ai consigli operai. Il suo obiettivo è distinguersi dalle associazioni corporative e dagli ordini professionali, in quanto soddisfa l’interesse generale della cittadinanza, non quello dell’assemblea dove prevale la maggioranza degli interessi rappresentati. I consorzi di cittadinanza non hanno finalità di lucro, ma uno scopo politico: redistribuire il potere, i beni e le risorse in una società di indebitati, dominata dalla speculazione finanziaria. In questi consorzi, potrebbero confluire le coalizioni di combattimento contro la precarietà, la malattia, o la mancanza di sicurezza previdenziale, così come quelle che si formano nelle città a difesa di un bene comune, nell’occupazione delle case o per la gestione del patrimonio pubblico. In essi potrebbero trovare ospitalità anche le esperienze del nuovo sindacalismo tra precari o migranti, senza escludere la possibilità dell’adesione da parte degli ecosistemi del lavoro in condivisione o dell’innovazione sociale. La forma consortile prevede una struttura basata su un’assemblea, la turnarietà delle cariche affidate ai soci, e tra i suoi compiti c’è la valorizzazione della pluralità dei soggetti istituzionali e l’associazione tra le persone. Ha un carattere volontario, e non coattivo, con una personalità giuridica che non discende dal diritto commerciale come accade anche per i consorzi tra le cooperative, bensì dall’articolo 43 della Costituzione. Al di là dell’infrastruttura giuridica, che poco 22. COMMUNITY ORGANIZING 223 conta in questo caso, una simile formazione può aspirare a un contro-potere reale nelle città e nei territori. Più che il centralismo democratico, nei consorzi di cittadinanza vige la federazione tra istanze singolari. Più che essere un blocco storico, il Quinto Stato dimostra la capacità di formare flussi consapevoli di decisione democratica su tutti gli aspetti della vita. In questi casi, la mediazione non verrebbe condotta da un’istanza trascendentale come il partito, o gli intellettuali, bensì da una struttura aperta che risponde a un controllo dal basso e si esprime attraverso un’autonoma capacità di creare diritto e un potere comune. Capitolo ventitreesimo Il diritto alla città Friedrich Engels intuì il concetto di urbanismo studiando la pianta di Manchester.1 C’era una logica nell’apparente follia che aveva mescolato costruzioni sbilenche con le villette a schiera, affollando con sistematica ferocia persone, professioni e attività negli spazi della produzione giorno e notte. Questa città era stata progettata per diventare una trappola per topi. Giunto il momento dell’esplosione, quella muta operosa sarebbe stata decimata dall’inquinamento dell’aria, delle acque e degli spazi abitati.2 Come ogni città dove la vita pulsa e trascorre, Manchester si è ribellata. Ci è voluto più di un secolo affinché ciò avvenisse, quando nel 1976 iniziavano a chiudere le fabbriche, la disoccupazione schizzava alle stelle, l’eroina diventava la compagna di vita dei giovani proletari. Poi è arrivato un sussulto, le parole si sono accordate alla musica. Era nata una visione. La band si chiamava Joy Division, prodotto del sarcasmo del front man Ian Curtis, proletario ventenne che al mattino lavorava come assistente sociale e di notte spandeva la sua voce misteriosa nella città spettrale. Frutto dell’incrocio tra una visione malinconica tipica del romanticismo ottocentesco e l’estetica new wave, i Joy Division aggiunsero la loro voce alla rivolta assoluta del post-punk contro il capitalismo, 226 III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ la monarchia inglese, la città del dolore e della morte. Produssero solo due dischi, mirabili: Unknown Pleasures (1979) e Closer, uscito un mese dopo il suicidio di Ian Curtis, avvenuto nella notte del 18 maggio 1980. Intorno a questa disperata poesia nacque una comunità di artisti, musicisti, grafici, reporter musicali, performer e creativi di tutte le razze. Era la Factory Records che produsse i New Order, formazione nata dalle ceneri dei Joy Division. C’erano le copertine realizzate da Peter Saville, che resteranno nella storia della grafica, e la produzione di Martin Hannett, che metteva in risalto i bassi e la batteria. Manchester era il cuore della rivolta contro il capitalismo industriale e il mainstream musicale. Ad alimentarla erano i figli delle classi popolari, quelli degli immigrati di più generazioni, non, come a lungo si è creduto, la neo-borghesia che avrebbe sussunto la loro spinta, imponendo una visione post-fordista di questa città.Il fulcro del movimento dei quintari di Manchester era Tony Wilson, community organizer e agitatore situazionista nell’Inghilterra degli anni Sessanta. Con i proventi della Factory Records nel 1982 aprì un locale che sarebbe divenuto celebre, Fac 51 Haçienda. Era una struttura circolare, un tempio della musica elettronica in cui negli anni Ottanta e Novanta si suonava acid house. Sul palco si alternavano gli Smiths, i Chemical Brothers, gli Einstürzende Neubauten. Tony Wilson aveva un progetto di città tratto dal Formulario per un nuovo urbanismo di Gilles Ivain (pseudonimo di Ivan Chtcheglov), scritto nei primi anni Cinquanta per l’Internazionale Lettrista e ripubblicato nel primo numero della rivista Internazionale Situazionista (1958). «Nelle città ci annoiamo, non c’è più il tempio del sole», scriveva Gilles Ivain, che lanciò lo slogan: «Bisogna costruire l’haçienda». Era questo il sogno di Tony Wilson quando, dopo quasi trent’anni, la costruì a Manchester, città da lui ribattezzata Madchester. Wilson voleva organizzare «la più 23. IL DIRITTO ALLA CITTÀ 227 grande festa del XIX secolo»,3 evocazione della Comune di Parigi in salsa situazionista. Nella città più cupa d’Europa, risultato della speculazione immobiliare e delle cartolarizzazioni finanziarie, il Quinto Stato iniziava così a riconfigurare gli spazi e attirava a sé i lontani eredi delle provocazioni delle avanguardie artistiche. La prima manifestazione di questa «rivoluzione urbana» era la festa continua che occupava i luoghi abbandonati della città con i rave e i nuovi spazi di socializzazione come l’Haçienda: 24 Hours Party People, questo è il titolo del film che Michael Winterbottom ha dedicato nel 2002 alla Manchester di quegli anni. Il 14 luglio 1989 proprio lì morì la sedicenne Clare Leighton dopo aver assunto una dose di ecstasy, uno dei primi casi in un club inglese. Partì il gioco al massacro tra repressione e depressione. The Haçienda diventò il terreno di scontro tra le forze dell’ordine e gli avventori della festa permanente fino alla sua definitiva chiusura nel 1997. In seguito sarebbe stata trasformata in un complesso di appartamenti in affitto: la speculazione sarebbe piombata come un avvoltoio sulle ceneri delle sperimentazioni dei quintari. Contro l’urbanismo delirante delle «città spazzatura» – i mostruosi aggregati descritti da Rem Koolhaas4 e cresciuti anche nelle città deindustrializzate –, i movimenti politici urbani hanno realizzato quella «festa del popolo» che Lenin ravvisò nella Comune di Parigi. Tony Wilson conobbe questo fermento rivoluzionario nel Sessantotto parigino e nei primi anni Settanta lo vide espandersi nella Berlino che per un periodo ospitò David Bowie e Lou Reed. Anche nella capitale tedesca della Guerra fredda si stava formando uno strano proletariato al quale la sinistra avrebbe negato il riconoscimento di avanguardia politica e culturale. Subito dopo la caduta del Muro, il Quinto Stato occupò enormi fabbriche abbandonate come Tacheles riconvertendole nell’haçienda va- 228 III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ gheggiata dai situazionisti. Così il geografo e urbanista David Harvey ha descritto l’emersione di uno «strano proletariato»: La maggior parte del suo lavoro è sempre stato temporaneo, insicuro, itinerante e precario. Molto spesso sfonda il confine tra la produzione e la riproduzione. Nuove forme di organizzazione sono assolutamente necessarie per questa forza-lavoro che produce e, cosa ancora più importante, riproduce la città.5 Questa è il tratto che unisce gli artigiani e i lavoranti della Comune di Parigi ai Joy Division di Manchester e alle occupazioni della Berlino post-Guerra fredda. Negli anni Ottanta, il Quinto Stato si sviluppa parallelamente all’investimento di capitale nelle attività dei servizi e nel terziario, e alla crescita della percentuale di plusvalore investito nella trasformazione urbanistica delle città. Nel Quinto Stato non ci sono solo lavoratori della cultura o dell’arte, ma anche gli addetti alla logistica o i venditori di strada immigrati, e non sorprende scoprire l’esistenza di questa composizione anche nelle remote città della Bolivia e dell’America Latina all’inizio del XXI secolo. I clandestini dei rave, i protagonisti dei riot contro i centri del consumo, gli occupanti delle case fanno tutti parte di una forza lavoro refrattaria all’impiego, sotto-occupata, ma avanzata nei consumi e negli stili di vita, conflittuale oltremodo e capace di bloccare i flussi delle merci e della costruzione degli eventi nelle città trasformate in lazzaretti per i nuovi poveri, piovre urbanistiche che allargano i loro tentacoli fino a oscurare l’orizzonte. Questi movimenti non sono riconducibili alla sfera ufficiale della «politica», né rientrano nei canoni del movimento operaio. Non esprimono le potenzialità di un soggetto «rivoluzionario», né anticapitalista, o almeno non lo fanno in partenza. Lo possono diventare perché costretti dalla speculazione urbana che sfratta interi quartieri, proibisce l’uso dei 23. IL DIRITTO ALLA CITTÀ 229 club o delle fabbriche in disuso per produrre musica o organizzare feste, nega il diritto a risiedere in una città restringendo gli spazi di libertà ed espropriando gli strumenti necessari alla sopravvivenza. Il Quinto Stato è il risultato della negazione della cittadinanza a chi desidera abitare una città. Ma è anche il risultato della fine della città, del suo progetto di sviluppo razionale soppiantato dalle varianti postmoderne che fanno sfoggio di monumenti dedicati al nulla e di piroette che sfidano la legge di gravità. Oggi migliaia di sfrattati, precari, indigenti si fanno largo e puntano verso i centri storici, persino quelli rimodellati nella tonalità dell’illuminazione ocra dai piani Urban degli anni Novanta. Hanno sconfitto i teorici che riconfigurarono lo spazio urbano per una neoborghesia che non esiste più. Il ciclo economico che pensavano di dominare è durato troppo poco. Nel frattempo quei neoborghesi che aspiravano ad affittare appartamenti a prezzi stellari sono scomparsi o forse sono passati tra le file di chi occupa. Ovunque si torna a parlare di «autogestione urbana».6 È la rivoluzione contro la speculazione edilizia e la rendita fondiaria in cui noi ci riprenderemo The Haçienda. Il diritto alla città non rivendica la città così com’è oggi, ma mira a realizzare una rivoluzione urbana che la sovverta a partire dai luoghi abbandonati e reinventi nuovi strumenti giuridici e amministrativi.7 Questo rapporto con la città non è estraneo alla storia del mutualismo. Il mutualismo è infatti l’espressione della cultura del municipalismo europeo, e in particolare di quello repubblicano e civile italiano. Questa pratica è ispirata al servizio (officium) che le comunità svolgevano a beneficio dell’intera cittadinanza. Rispetto alla sua prima configurazione nel diritto romano, basato sul dovere di assumere cariche pubbliche al servizio di una comunità 230 III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ cittadina (munia capere) che imponeva a tutti – anche ai non romani – il pagamento dei tributi e il servizio militare, la pratica del mutualismo emerge come «il senso del diritto e della dignità civile», come scrisse Carlo Cattaneo nel 1858.8 Per questo teorico del federalismo e attivista dei moti insurrezionali di Milano «la città è l’unico principio per cui possano i trenta secoli delle istorie italiane ridursi a esposizione evidente e continua». Questa è la tradizione secolare che ha dato origine al mutualismo e al suo progetto riconfigurare la città sui bisogni dei lavoratori e dei cittadini nelle società di mutuo soccorso. Quando parliamo di municipalità, e la mettiamo in relazione con l’esigenza di costruire spazi (case del popolo, camere del lavoro, municipi autogestiti, proprietà sociali condivise), alludiamo alla dimensione mutualistica cittadina che è stata la culla della storia italiana: Senza questo filo ideale la memoria si smarrisce nel labirinto delle conquiste, delle fazioni, delle guerre civili e nell’assidua composizione e scomposizione degli stati; la ragione non può veder lume in una rapida alternativa di potenza e debolezza, di virtù e corruttela, di senno e imbecillità, d’eleganza e barbarie, d’opulenza e desolazione; e l’animo ricade contristato e oppresso dal sentimento d’una tetra fatalità. Questa tradizione appartiene al «risorto incivilimento italiano»9 diffuso nei municipi tra il X e il XII secolo. Max Weber ha segnalato come esso abbia influenzato le classi mercantili che fondarono in Olanda e in Germania le prime città-Stato. Allora le città elaborarono un metodo di autogoverno contro l’Impero e le vessazioni fiscali a cui sottoponeva i sudditi. Su questo piano riscontriamo oggi una serie di analogie con l’epoca della formazione delle municipalità in tutta Europa. Con una differenza sostanziale: al posto delle classi borghesi si trova il Quinto Stato. Il riferimento al mutualismo, e quindi alla tradizione civile e repubblicana 23. IL DIRITTO ALLA CITTÀ 231 del municipalismo italiano, dà corpo e sostanza a un diritto alla città rivendicato negli Stati Uniti come in America Latina, o nei paesi europei. Ieri, come oggi, il diritto alla città è l’espressione di un processo di costituzione civile distinto e antagonista rispetto alle storie nazionali, sia quella costituzionale sia quella dell’identità culturale dello Stato-nazione, che può trovare vasti campi di applicazione su scala continentale. Le aggregazioni, favorite dal nuovo senso del diritto e della dignità civile, non avvengono su base identitaria, ma a partire dal riconoscimento di un interesse comune alla protezione collettiva contro l’assetto economico e politico dell’austerità o della speculazione finanziaria e immobiliare. Questo è l’elemento che accomuna, spingendole a costruire reti di relazioni, realtà disseminate ed eterogenee che possono prefiggersi obiettivi tra loro molto distanti, ma che si riferiscono tutte a valori di carattere solidaristico, repubblicano, civile. Il diritto alla città permette di configurare un modello di autogoverno basato sulle municipalità e non solo sugli enti locali. Per municipalità intendiamo lo spazio-tempo primario del conflitto tra i guardiani della città e gli apolidi che osano esprimere una visione alternativa della politica. Parliamo di reti plastiche tra gruppi e imprese, tra movimenti e nuove istituzioni nei territori e tra territori, anche lontani, ma collegati in maniera continua, al di là del perimetro delle città governate da un sindaco o quelli più ampi amministrati da un presidente della regione. Questa è l’idea del divenire contro la fissità indotta dalla governance europea che mobilita enormi capitali per finanziare mega-opere pubbliche come le reti infrastrutturali, oppure le banche, le quali, a loro volta, si rifiutano di erogare il credito ai territori. La municipalità non è il soggetto di un’azione amministrativa, ma una pratica diffusa del fare in comune. Essa traccia nuovi ecosistemi istituzionali, mentre al suo interno cerca di supe- 232 III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ rare la divisione tra i cittadini «di secondo livello» – gli apolidi del lavoro indipendente e i migranti di tutte le generazioni – e i «cittadini». Entrambi sono residenti e, in quanto tali, hanno diritto a godere dei diritti civili e sociali del territorio prescelto. Ma solo i primi, gli espulsi dalla città del lavoro salariato, mostrano la strada del buon governo. Questa impresa sfugge totalmente alla politica incardinata sullo Stato-nazione, così come a quella basata sulla negoziazione tra lo Stato e le parti sociali (imprenditori-sindacati), cioè sul «patto tra i produttori». Per avvicinarsi alla principale novità della politica contemporanea non basta nemmeno che ci si accontenti di creare patti territoriali, come se il territorio fosse l’istanza autentica o concreta che rimedi all’astrattezza della tecnocrazia europea. Le pratiche del commoning, cioè dei beni comuni, quelle che derivano dal community organizing, dal nuovo mutualismo e dalle economie della condivisione, sono tracce di un processo che mira alla costituzionalizzazione delle sfere sociali fino a oggi escluse dalla decisione politica. Le pratiche descritte mostrano una tendenza nata negli interstizi di una società prosciugata dallo Stato e dal Capitale, propongono un esperimento fino a ora riservato all’iniziativa autonoma delle imprese multinazionali: un «costituzionalismo senza Stato», dunque uno o più ecosistemi istituzionali basati sulla co-progettazione e sull’autogoverno che si moltiplicheranno man mano che la crisi continuerà a devastare l’Europa. Non crediamo che queste siano esclusivamente pratiche di resistenza, ma che abbiano un valore costituente che oltrepassi i territori. Per fare questo occorre una pervasiva riforma interna agli stati, insieme alla revisione dei trattati europei. Non si tratta semplicemente di un nostro auspicio, bensì di una realtà imposta dai fatti. Ci 23. IL DIRITTO ALLA CITTÀ 233 troviamo nel pieno di un processo costituente europeo dagli esiti ancora ignoti, dominato dalle fallimentari proposte dell’austerità. Il 2014 è un ulteriore anno costituente nella tensione tra Eurozona e Unione Europea, con l’elezione dell’Europarlamento, la formazione della nuova Commissione europea e i semestri «mediterranei» di presidenza del Consiglio europeo, guidati dalla Grecia e dall’Italia, paesi sempre in bilico sull’orlo di una crisi di Eurolandia. È all’ordine del giorno l’ipotesi di avviare il processo di revisione dei trattati, anche tenendo conto che la Croazia è diventata il ventottesimo Stato membro dell’Unione Europea e che un ulteriore processo di allargamento non potrà avvenire prima del 2020. Secondo l’europarlamentare Andrew Duff, «il processo di emendamento dei trattati avrà inizio con una Convenzione che aprirà probabilmente nel febbraio 2015, continuerà con una Conferenza intergovernativa nel 2016 e si concluderà con le ratifiche dei ventotto stati membri dell’Unione, secondo i propri requisiti costituzionali, nel 2017».10 In questa ulteriore crisi trasformativa del vecchio continente a nessuno conviene ripetere i fallimenti passati e quelli attuali. Riscoprire il senso originario della municipalità, oggi, significa predisporsi a un’unione politica continentale, che non sia solo l’esito di un ritrovato equilibrio tra i soggetti tradizionali, parlamenti, governi, stati, e non va ricondotta agli imperativi del pareggio del bilancio o del taglio del debito sovrano. I prossimi anni vedranno le cittadinanze attive continuare a organizzarsi con la pretesa di contare sia nei processi di governance sia nelle procedure decisionali nell’ambito delle politiche pubbliche locali. A queste istanze non basterà un supplemento d’anima; sarà invece necessario rivendicare processi di democratizzazione, apertura, trasparenza e controllo dal basso dei meccanismi politici di decisione a livello nazionale ed europeo. 234 III. IL DIRITTO ALLA CITTÀ Per queste ragioni non bisogna rinunciare all’orizzonte continentale, al contrario lo si dovrebbe rilanciare in una prospettiva federale. Si vuole trasformare il Consiglio dell’Unione Europea nella Camera degli Stati. È stata auspicata una «parlamentarizzazione» della forma di governo dell’Unione Europea con l’elezione diretta del presidente della Commissione. Allora si costituiscano le reti tra città, territori, spazi transfrontalieri e si realizzi l’ipotesi di un’Europa delle città e delle autonomie come reali motori di processi parziali di federalizzazione infracontinentale. Se così fosse, le municipalità che si organizzano sui territori europei riuscirebbero a influire sulle deliberazioni dei parlamenti nazionali e di quello europeo. La scommessa è sul federalismo come processo di frammentazione, controllo ed esercizio dal basso dei poteri, guidato dalla connessione tra sussidiarietà sociale e istituzionale improntata a criteri di equità sociale, redistribuzione delle ricchezze, perequazione economica. L’Europa delle città in rete è il motore dell’Europa Felix a venire. È preferibile all’Europa delle «macro-regioni» Catalogna, Provenza, Baviera, Lombardia, sostenuta dalla vecchia retorica anni Ottanta, prontamente ripresa nella paccottiglia etno-razzista del leghismo declinante nel Nord Italia. La nuova Europa riparte da un federalismo ricco di pesi e contrappesi, di autonomie sociali e nuove istituzioni, una miscela inedita tra solidarietà, autodeterminazione e condivisione che introduca finalmente l’idea del contro-potere. Si dirà che per fare tutto questo occorre una forza politica di cui oggi non c’è traccia. Questa considerazione è fonte permanente di equivoci. Per avere una forza politica, bisogna dotarsi di argomenti politici costituenti sui quali nessuna formazione partitica può contare oggi. Esigerla dalle compagini politiche che hanno auspicato quella che Étienne Bali- 23. IL DIRITTO ALLA CITTÀ 235 bar ha definito la «rivoluzione dall’alto» dell’austerità è inutile, oltre che pericoloso.11 Abbandoniamo questi impostori alla loro agonia e mettiamoci al lavoro per cogliere una tendenza. Per farlo avremo bisogno di generosi alleati. Insieme condurremo una battaglia culturale che potrà durare anche tutta la nostra vita. Sappiamo che non ci sarà tregua per chi vuole mostrare che l’alternativa esiste e che bisogna sfuggire allo sguardo di Medusa. Il generale disincanto indotto dai governi delle «larghe intese», l’assopimento indotto dagli psicofarmaci dei tecnici al governo, la loro depressione alimentata dai megafoni dell’opinione pubblica sono un’arma mortale. Ripeteranno instancabilmente che il conflitto, il mutualismo, l’autogoverno sono armi spuntate davanti agli stati, alla Troika o agli austeri monetaristi che hanno in mano il potere sul continente. Crediamo che siano altrettanto forti i contropoteri nascenti, le vaste coalizioni e i tumulti contro le congiure dei ricchi. Lo spazio continentale resta il luogo dove imporre soluzioni fiscalmente espansive alla crisi che vadano in direzione di un miglioramento netto e complessivo delle condizioni educative, lavorative, sociali della generazione precaria.12 Nello scontro che si prepara, il Quinto Stato è l’unica alternativa possibile. Note Introduzione. Atto di creazione 1. A. Artaud, Eliogabalo, o l’anarchico incoronato, Adelphi, Milano, 1991. 2. A. Arbasino, Super Eliogabalo, Adelphi, Milano, 1978. 3. M. Onfray, La politica del ribelle. Trattato di resistenza e insubordinazione, Fazi, Roma, 2008. 4. I. Ducasse conte di Lautréamont, I canti di Maldoror. Poesie. Lettere, a cura di I. Margoni, Einaudi, Torino, 1989. Cfr. anche R. Vaneigem, Isidore Ducasse e il Conte di Lautréamont nelle poesie, Edizioni l’Affranchi, Salorino (CH), 1991, M. Blanchot, Lautréamont e Sade, SE, Milano, 2003 e G. Bachelard, Lautréamont, a cura di F. Fimiani, Jaca book, Milano, 2009. 5. Cfr. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Laterza, Roma-Bari, 2001. 6. È la tesi di M. Foucault, Le gouvernement de soi et des autres, Cours au Collège de France, 1982-1983, Gallimard-Seuil, Paris, 2008. 7. Cfr. J. Rancière, La méthode de l’égalité, entretien avec L. Jeanpierre et Dork Zabunyan, Bayard, Paris, 2012, p. 212. 238 NOTE 1. Apolidi 1. Cfr. É. Balibar, La cittadinanza, Bollati Boringhieri, Torino, 2012. 2. Lavoro indipendente 1. Cfr. C. Ranci, Il lavoro indipendente nella struttura sociale ed economica nel nostro paese, in Id., Partita Iva. Il lavoro autonomo nella crisi italiana, Il Mulino, Bologna, 2012, pp. 41 e sgg. 2. Ci sono oltre undici milioni di lavoratori tra industria e servizi, 3,3 nel pubblico, un milione nelle costruzioni – buona parte dei quali lavora con le stesse modalità degli indipendenti; il resto nei servizi di cura alla persona. 3. Cfr. R. Ciccarelli, «Occorre investire sull,a conoscenza e sulla formazione dei lavoratori», intervista a Andrea Cammelli (Consorzio interuniversitario Almalaurea), in Roars, 8 luglio 2013, http:// www.roars.it/online/andrea-cammelli-occorre-investire-sulla-cono scenza-e-sulla-formazione-dei-lavoratori/. 4. Cfr. ARAN, Rapporto semestrale sulle retribuzioni dei dipendenti pubblici, 9 aprile 2013, http://www.aranagenzia.it/attachments/article/5105/Rapporto%20Semestrale%202-2012.pdf. 3. Un movimento, non uno Stato 1. F. Camon, Il quinto stato, Garzanti, Milano, 1970, poi ripubblicato in Id., Romanzi della pianura. Il quinto stato. La vita eterna, Garzanti, Milano, 1988. Le citazioni sono tratte dalla Prefazione, titolata Vent’anni dopo, p. 7. 2. Censis, 46° Rapporto sulla situazione sociale del Paese/2012. 3. Così M. Bascetta, G. Bronzini, Lo Statuto che non c’è, in Luogo Comune, anno III, n. 4, giugno 1993, pp. 50-59. 4. Cfr. G. Allegri, La nuova grande trasformazione: il reddito garantito al di là del lavoro, in Basic Income Network Italia (a cura di), Reddito per tutti. Un’utopia concreta per l’era globale, manifestolibri, Roma, 2009, pp. 58-71; G. Bronzini, Il reddito di 239 cittadinanza. Una proposta per l’Italia e per l’Europa, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2011. 5. Cfr. G. Fofi, Introduzione a L. Bianciardi, L’integrazione, Bompiani, Milano, 1993, p. VII; non a caso Fofi prende le date di pubblicazione de Il lavoro culturale (1957) e de La vita agra (1962) di Luciano Bianciardi. 6. B. Moore jr., Le origini sociali della dittatura e della democrazia. Proprietari e contadini nella formazione del mondo moderno, a cura di D. Settembrini, con una nuova introduzione di L. Gallino, Edizioni di Comunità, Torino, 1998, p. 510. 7. Presentazione in Aa.Vv., Operai e stato, Feltrinelli, Milano, 1972, p. 11. 8. L. Ferrajoli, La cultura giuridica nell’Italia del Novecento, Laterza, Roma-Bari, 1999, p. 63. 9. Per dirla con C. Offe, Lo Stato nel capitalismo maturo, Etas libri, Milano, 1977; A. Bagnasco, Tre Italie. La problematica territoriale dello sviluppo italiano, Il Mulino, Bologna, 1977. Sul postfordismo in prima battuta: A. Zanini, U. Fadini, Lessico postfordista. Dizionario di idee della mutazione, Feltrinelli, Milano, 2001. 10. Il ciclo dei romanzi di Massimo Carlotto sull’Alligatore sono particolarmente utili per raccontare questa imponente trasformazione del Veneto. Segnaliamo anche Ciao amore ciao e Nord Est. 11. Cfr. A. Bagnasco, Tre Italie, cit. e G. Beccatini, Distretti industriali e Made in Italy. Le basi socioculturali del nostro sviluppo. Bollati Boringhieri, Torino, 1998. NOTE 4. Ceto medio 1. Cfr. S. Bologna, L’undicesima tesi, in Ceti medi senza futuro? Scritti, appunti sul lavoro e altro, Derive Approdi, Roma, 2007, pp. 71 e sgg. Per la descrizione della «lower middle class», cfr. A.J. Mayer, The lower middle class as historical problem, in The Journal of Modern History, vol. 47, n. 3, 1975, pp. 409-436. Cfr. A. Bagnasco, Società fuori squadra, Il Mulino, Bologna, 2003. 2. Great British Class Survey, sul sito della BBC: https://ssl.bbc. co.uk/labuk/experiments/class. Cfr. S. Lyall, A new kind of class struggle, in International Herald Tribune, 5 aprile 2013, p. 2. 240 NOTE 3. Cfr. G. Standing, Precari. La nuova classe esplosiva, Il Mulino, Bologna, 2012. 4. Cfr. F. Parziale, Il professionista dipendente, Bonanno editore, Napoli, 2008. 5. Cfr. D. Di Vico, I piccoli. La pancia del paese, Marsilio, Venezia, 2010. 6. Cfr. D. Banfi, S. Bologna, Vite da freelance, Feltrinelli, Milano 2011, in particolare il cap. II. 5. Topi nel formaggio 1. Cfr. P. Sylos-Labini, Saggio sulle classi sociali, Laterza, RomaBari, 1998. Cfr. A. Bagnasco, a cura di, Ceto medio. Perché e come occuparsene, Il Mulino, Bologna, 2008; Cfr. S. Bologna, Il nodo del lavoro autonomo, una recensione al libro di C. Ranci, Partite Iva. Il lavoro autonomo nella crisi italiana, cit., ma che è in realtà un lungo saggio leggibile sul sito www.lib21.org. 2. Cfr. Associazione XX maggio, Alta partecipazione, suggerimenti al governo dal punto di vista dei giovani, dei lavoratori atipici, dei professionisti, http://www.tutelareilavori.it/website/alta-partecipazione. 3. Cfr. ACTA, Manifesto dei lavoratori autonomi di seconda generazione, 2011, p. 22, http://www.scribd.com/doc/39877285/ Manifesto-dei-lavoratori-autonomi-di-seconda-generazione. 4. Cfr. IRES-CGIL, Professionisti, a quali condizioni, a cura di D. Di Nunzio, G. Ferrucci, S. Leonardi, 03, 2011. 6. Insalata indigesta 1. Cfr C. Formenti, Grillo e il quinto stato, 20 dicembre 2012, in Alfabeta2, http://www.alfabeta2.it/2012/12/20/grillo-e-il-quintostato/; cfr. G. Santoro, Un grillo qualunque. Il movimento 5 stelle e il populismo digitale nella crisi dei partiti italiani, Castevelcchi, Roma, 2012. Cfr. R. Ciccarelli, Grillo sulle macerie dei movimenti, intervista a Wu Ming, in il manifesto, 1 marzo 2013. NOTE 241 7. Una società di lavoratori senza posto fisso 1. È il caso dell’omonima mailing list chiusa nel 2005 da Carlo Formenti, che è tornato a riflettere su questa idea nel volume Cybersoviet, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2008. Ed è il caso dell’Associazione dei Consulenti del Terziario Avanzato (ACTA) che dal 2004 ha realizzato anche una serie di eventi pubblici, e di performance teatrali, dedicati al «Quinto Stato», cioè ai lavoratori della conoscenza a partita IVA non iscritti agli ordini professionali. 2. W. Kraus, Il quinto stato, De Donato editore, Bari, 1968. 3. Cfr. R. Florida, L’ascesa della nuova classe creativa. Stile di vita, valori e professioni, Mondadori, Milano, 2003. 4. Cfr. S. Bologna, A. Fumagalli (a cura di), Il lavoro autonomo di seconda generazione. Scenari del postfordismo in Italia, Feltrinelli, Milano, 1997, in particolare S. Bologna, Dieci tesi per la definizione di uno statuto del lavoro autonomo», ivi, pp. 13-42. 5. Cfr. Censis, La società italiana al 2011, 45° Rapporto sulla situazione sociale del Paese, capitolo VI. 6. Cfr. R. Ciccarelli, Il partito della fuga dei cervelli colpisce ancora, su http://furiacervelli.blogspot.it/2012/12/il-partito-della-fuga-deicervelli.html; Id., Il cervello in fuga sarà il tuo, su: http://storify. com/furiacervelli/brain-drain.; R. Ciccarelli, G. Allegri, La furia dei cervelli, cit. 7. ISTAT, Anno 2012, disoccupati, inattivi, sottoccupati. Indicatori complementari al tasso di disoccupazione, Bollettino 11 aprile 2013. 8. CGIL, La ripresa dell’anno dopo. Serve un Piano del Lavoro per la crescita e l’occupazione, 2 giugno 2013. 9. Cfr. A. Bonomi, Capitalismo in-finito, Einaudi, Torino, 2013, p. 183. 10. Cfr. IRES-CGIL, Rete redattori precari e STRADE, Editoria invisibile, Chi sono i lavoratori precari che operano nel settore dell’editoria?, maggio 2013, http://editoriainvisibile.netsons.org/?page_ id=135; Cfr. Inchiesta Biblit sulle tariffe per le traduzioni in regime di diritto d’autore, a cura di M. Rullo, maggio 2013, http:// issuu.com/biblit/docs/inchiesta_biblit_tariffe_2011. Cfr. R. Cic- 242 NOTE carelli, Non solo Casta: i precari dell’editoria, pubblicato su Micromega, http://temi.repubblica.it/micromega-online/non-solocasta-i-precari-dell’editoria/, e Bibliocartina, Editoria invisibile: vivere per lavorare nell’editoria a qualunque costo?, http://www. bibliocartina.it/editoria-invisibile-vivere-per-lavorare-nelleditoria-a-qualunque-costo-parte-i/. 11. Laureati e over 40 in corsa per fare i netturbini, in la Repubblica, 12 aprile 2013, p.10. 8. W i NEET! 1. Cfr. G. Allegri, R. Ciccarelli, Michel Martone, ritratto del Vice Ministro che smentì Pietro Ichino, http://furiacervelli.blogspot. it/2011/11/michel-martone-vince-pietro-ichino.html e R. Ciccarelli, Michel Martone, il verbale del concorso perfetto, http:// furiacervelli.blogspot.it/2012/01/michel-martone-il-verbale-delconcorso.html. 2. Cfr. R. Ciccarelli, Altro che «choosy», i laureati italiani sono figli della bolla formativa, in Roars, 13 giugno 2013, http://www.roars. it/online/altro-che-choosy-i-laureati-sono-figli-di-una-bolla-for mativa/. 3. Cfr. S. Bologna, W i Neet, in il manifesto, 25 maggio 2013, ora pubblicato sul blog http://furiacervelli.blogspot.it/2013/05/wi-neet.html. 4. Cfr. Hikikomori of the world unite, http://article.gmane.org/ gmane.culture.internet.rekombinant/2984. 5. Cfr. S. Bologna, Per un’antropologia del lavoratore autonomo, in S. Bologna, A. Fumagalli (a cura di), Il lavoro autonomo di seconda generazione, cit., pp. 81-132. 6. Cfr. E. Lederer, Die Gesellschaft der Unselbständigen. Zum sozialpsychischen Habitus der Gegenwart, in Kapitalismus, Klassenstruktur und Probleme der Demokratie in Deutschland 19101940, Ausgewählte Aufsätze mit einem Beitrag von Hans Speier und einer Bibliographie von Bernd Uhlmannsieck, (a cura di) J. Kocka, Vandenhoeck § Ruprecht, Göttingen, 1979, pp. 14-32. Id., Die ökonomische und soziale Bedeutung des Taylorsystems, ivi, pp. 83-96. Per uno sguardo complessivo sulla sociologia del NOTE 243 lavoro a Weimar, cfr. M. Salvati, Da Berlino a New York. Crisi della classe media e futuro della democrazia nelle scienze sociali degli Anni Trenta, Cappelli, Bologna, 1989. 7. Cfr. H. Speier, Die Angestellten vor dem Nationalsozialismus. Ein Beitrag zum Verständnis der deutschen Sozialstruktur 19181933, Vandenhoeck § Ruprecht, Göttingen, 1977. 8. Cfr. K.-H. Roth, L’altro movimento operaio, Feltrinelli, Milano, 1976. 9. Diversamente occupate 1. Cfr. I. Alesso, Il Quinto Stato. Storie di donne, leggi e conquiste. Dalla tutela alla democrazia paritaria, Milano, Franco Angeli, 2012, pp. 22-33. 2. Cfr. C. Morini, Per amore o per forza. Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo, Ombre Corte, Verona, 2011. 3. Si veda il blog: http://diversamenteoccupate.blogspot.it 4. Cfr. P. Ichino, Inchiesta sul lavoro. Perché non dobbiamo avere paura di una grande riforma, Mondadori, Milano, 2011, pp. 95-96. 5. Cfr. M. Lazzarato, L’uomo indebitato, Derive Approdi, Roma, 2011, cap. I. 6. Cfr. il dibattito sulla rivista Critica Marxista, n.1 e 2-3 del 2012 con contributi, tra gli altri, di Mario Sai, Francesca Re David, Eleonora Forenza e Antonia Tommasini. 10. Senza leggi, casa o fratria 1. Cfr. S. Rodotà, Il diritto ad avere diritti, Laterza, Roma-Bari, 2013, riprendendo la celebre frase di Hannah Arendt. 2. Cfr. J. Rancière, Il disaccordo, Meltemi, Roma, 2007; L. Chevalier, Classi lavoratrici e classi pericolose. Parigi nella rivoluzione industriale, Laterza, Roma-Bari, 1976. 3. Cfr. L. Wacquant, Parias urbains. Ghetto, banlieues, Etat, La Découverte, Paris, 2006. 4. R. Castel, La discrimination négative : Citoyens ou indigènes? Seuil, Paris, 2007; G. Allegri, I fuochi «delle figlie e dei figli della 244 NOTE République», dicembre 2005, http://www.centroriformastato. it/crs/Testi/banlieues/allegri.html. 5. Cfr. A. Sayad, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Raffaello Cortina Editore, Milano 2002; cfr. Id. L’immigrazione o i paradossi dell’alterità. L’illusione del provvisorio, Ombre Corte, Verona, 2008. 6. Cfr. E. Ribert, Liberté, égalité, carte d’identité. Les jeunes issus de l’immigration et l’appartenance nationale, La Découverte, Paris, 2006, cap. 5. 7. Cfr. É. Balibar, Uprisings in the banlieues, in Lignes, n. 21, novembre 2006; Id., Droit de cité, PUF, Paris, 1998. Cfr. R. Ciccarelli, Alle frontiere dell’apartheid, intervista a É. Balibar, in il manifesto, 22 novembre 2005, p. 12. 11. Il potere comune 1. J. Rancière, La haine de la démocratie, La fabrique éditions, Paris, 2005, p. 59. Preferiamo citare dall’originale francese e non dall’edizione italiana in cui il titolo del volume è stato tradotto, in maniera sintomatica, con «L’odio per la democrazia». 12. La congiura dei ricchi 1. Cfr. R. Ciccarelli, G. Allegri, La furia dei cervelli, cit., p. 35. 2. E.P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, Il Saggiatore, Milano, 1968. 3. E. Ilardi, Il senso della posizione. Romanzo, media e metropoli da Balzac a Ballard, Meltemi, Roma, 2005. 4. R. de la Bretonne, Le notti di Parigi o lo spettatore notturno, a cura di A.M. Scaiola, Prefazione di G. Macchia, Editori Riuniti, 1996. 5. Così viene descritta Parigi alla metà del XIX secolo: T.J. Clark, Immagine del popolo. Gustave Courbet e la rivoluzione del ’48, Einaudi, Torino, 1978, spec. pp. 140-142. 6. L. Chevalier, Classi lavoratrici e classi pericolose. Parigi nella rivoluzione industriale, Laterza, Roma-Bari, 1976. NOTE 245 7. E.J. Hobsbawm, I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, Einaudi, Torino, 1980; Id., I banditi. Il banditismo sociale nell’età moderna, Einaudi, Torino, 1971. C.B. Macpherson, Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese. La teoria dell’individualismo possessivo da Hobbes a Locke, prefazione di A. Negri, ISEDI, Milano, 1973. 8. R. Rotelli, P.A. Schiera (a cura di), Lo Stato moderno. Volume 3. Accentramento e rivolte, Il Mulino, Bologna, 1977; H. Kamen, Il secolo di ferro. 1550/1660, Laterza, Roma-Bari, 1985. 9. Come titola l’importante libro di V. Foa, La Gerusalemme rimandata. Domande di oggi agli inglesi di ieri, Rosenberg & Sellier, Milano, 1985. 13. «Che i soci siano illimitati» 1. Cfr. E.P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, cit., p. 19. 2. E. Larkin, Thomas Paine and the Literature of Revolution, Cambridge University Press, 2005. 3. Cit. in G.D.H. Cole, Storia del movimento operaio inglese, Bonetti, Milano,1965, vol. I, p. 55. 4. K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino, 2010. 5. C.B. Macpherson, Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese., cit., p. 179. 14. «Agiamo tutti all’unisono» 1. Cfr. L.-P. Dufourny de Villiers, Cahiers du quatrième ordre, celui des pauvres journaliers, des infirmes, des indigents, etc., l’ordre sacré des infortunés ; ou correspondance philanthropique entre les infortunés, les hommes sensibles, et les etats-généraux. n. 1, Paris, 25 Avril 1789, ripubblicato da Edhis, Paris, 1967. 2. Come osserva A. Badiou (La Comune di Parigi. Una dichiarazione politica sulla politica, trad. it di A. Moscati, Cronopio, Napoli, 2004, p. 62), sarà l’insurrezione del 18 marzo 1871, «l’evento», che porterà a «un’esistenza politica, provvisoriamente massima, gli operai inesistenti il giorno prima». 246 NOTE 3. R. Korngold, Robespierre e il quarto stato, trad. it. di F. Papa, Einaudi, Torino, 1947. 4. D. Roche (a cura di), Così parlò Ménétra, trad. it. di L. Bianchi, prefazione di B. Craveri, Garzanti, Milano, 1992. 5. Cfr. Prefazione di B. Craveri, in D. Roche (a cura di), Così parlò Ménétra, cit., p. 10. 6. Ivi, p. 317. 7. Ivi, p. 326. 8. R. Darnton, Working-Class Casanova, in The New York Review of Books, Jun 28, 1984, vol. 31, n. 11, pp. 32-37. 15. Cospiratori dell’uguaglianza 1. F. Buonarroti, Analyse de la doctrine de Babeuf, in Ph. Buonarroti, Conspiration pour l’Egalité dite de Babeuf, 1828, riportata in A. Salsano (a cura di), Antologia del pensiero socialista. I precursori, Laterza, Roma-Bari, 1979, spec. p. 13 e sgg. 2. J.-A.C. de Condorcet, Elogio dell’istruzione pubblica, trad. it. di G. Jacoviello, introduzione di M. Bascetta, manifestolibri, 2002, p. 39. 3. Per riprendere R. La Capria, Letteratura e libertà. Conversazioni con Emanuele Trevi, Quiritta, Roma, 2002, p. 12 e soprattutto L’armonia perduta, Mondadori, Milano, 1986, con pagine indimenticabili che dal 1647 di Masaniello giungono alla sanguinosa repressione della Repubblica napoletana del 1799. Eleonora de Fonseca Pimentel, protagonista della Repubblica napoletana, con il brutale ritorno dei Borboni finirà impiccata in piazza Mercato il 20 agosto 1799 (sulla sua figura cfr. E. Striano, Il resto di niente, Rizzoli, Milano, 1986); è stata la principale «cronista», animatrice e promotrice del Monitore napoletano, quest’ultimo voce e anima della Repubblica napoletana: cfr. Il monitore napoletano, a cura di M. Battaglini, Alfredo Guida Editore, Napoli, 1999. 4. Cfr. F. Venturi, Settecento riformatore, I-V voll., Einaudi, Torino, 1970-90. 5. A. Galante Garrone, Filippo Buonarroti e i rivoluzionari dell’Ottocento (1828-1837), Einaudi, Torino, 1972, spec. pp. 286 e sgg. NOTE 247 6. Cfr. A. Saitta, Filippo Buonarroti. Contributi alla storia della sua vita e del suo pensiero, vol. I, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 1950, p. 134. 7. Così il titolo della traduzione italiana di Shifting Involvements. Private Interest and Public Action, di A.O. Hirschman, Felicità privata e felicità pubblica, Il Mulino, Bologna, 2003. Su Thomas Jefferson, M. Barbato, Thomas Jefferson o della felicità, Sellerio, Palermo, 1999, in cui è tradotta anche la Autobiografia di Jefferson (pp. 93 e sgg.). M. Abensour, Lire Saint-Just, in A.-L. de Saint-Just, Œuvres complètes, Gallimard, Paris, 2004. 8. Cfr. J. Rancière, La nuit des prolétaires, Fayard, Paris, 1981. 9. Cfr. K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, Editori Riuniti, Roma, 1962. 10. P. Ferraris, Cittadinanza e mutualismo, in Una città, n. 132, ottobre 2005. 11. V.L. Parrington, Storia della cultura americana. I. Il pensiero coloniale 1620-1800, ed. it. a cura di R. Giammacco, Einaudi, Torino, 1969, spec. pp. 417 e sgg. Cfr. anche G.M. Bravo (a cura di), Il socialismo prima di Marx, Editori Riuniti, Roma, 1973, pp. 23 e sgg. sul rapporto tra associazioni repubblicane, socialiste e operaie. 16. Il cenobita, il filadelfo e il quintario 1. Cfr. J. Rancière, Louis Gabriel Gauny – Le Philosophe plébéien, éditions Presses universitaires de Vincennes/La Découverte, Paris, 1983. 2. Per la genealogia del lavoro indipendente come vita cinica, cfr. R. Ciccarelli, La vita indipendente. Sul contratto intimo e altre schiavitù del lavoro della conoscenza, in Aa.Vv., Dire, fare, pensare il presente, Quodlibet, Macerata 2011, pp. 39-67; cfr. R. Ciccarelli, G. Allegri, La furia dei cervelli, cit., cap. VII. 3. Cfr. S. Ferrone, Attori mercanti corsari. La commedia dell’Arte in Europa tra Cinque e Seicento, Einaudi, Torino, 2011. 4. Per il concetto di «popolo a venire», cfr. G. Deleuze, Critica e clinica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1997, p.17; cfr. anche Id., Immagine-tempo, Ubu libri, Milano, 1985. 248 NOTE 5. Cfr. C. Dumoulié, Letteratura e filosofia, Armando editore, Milano, 2009, pp. 250 e sgg. 6. Il diario del Tour di Flora Tristan è stato pubblicato postumo: F. Tristan, Le Tour de France. Journal 1843-1844, François Maspero/La Découverte, Paris, 1980, 2 voll. F. Tristan, Femminismo e socialismo: l’unione operaia, a cura di S. Bordini, Guaraldi, Firenze, 1976. Sull’attualità di Flora Tristan si veda, di recente, M. Onfray, Politiche della felicità. Controstoria della filosofia V, Ponte alle Grazie, Milano, 2012, pp. 19 e sgg. Su Flora Tristan, in lettura incrociata con la vita di suo nipote Paul Gauguin, c’è il bel romanzo di M. Vargas Llosa, Il paradiso è altrove, Einaudi, Torino, 2003. 7. J.-L. Puech, La vie et l’œuvre de Flora Tristan 1803-1844, Librairie Marcel Rivière, Paris, 1925, pp. 394 e sgg. 17. Una sola, grande unione 1. Cfr. L. Blanc, L’organisation du travail, V edizione rivista e corretta dall’autore, 1847. 2. A. Badiou, La Comune di Parigi, cit., p. 33. 3. Cfr. J. Rancière, La nuit des prolétaires, cit., pp. 336 e sgg. 4. Cfr. Ibidem. 5. Così G. Gurvitch, La nascita dell’idea di «diritto economico» e di «democrazia industriale» in Proudhon, cit. in R. Supek, Socialismo e autogestione, La Pietra, Milano, 1978, pp. 74-77. 6. R. Dreyfus, Vies des hommes obscurs. Alexandre Weill, ou le prophète du Faubourg Saint-Honoré: 1811-1899, Cahiers de la quinzaine, Paris, 1908. 7. Su questo crinale delle vicende francesi e non solo si vedano molti degli scritti di Pierre Rosanvallon, dal classico L’État en France de 1789 à nos jours, Éditions du Seuil, Paris, 1990, al recente La Société des égaux, Le Seuil, 2011, passando per gli scritti sull’autogestione (1976) e La nouvelle question sociale. Repenser l’Étatprovidence, Le Éditions du Seuil, Paris, 1995. Sul rapporto tra Stato e società in Francia cfr. il classico lavoro di P. Legendre, Stato e società in Francia, Edizioni di Comunità, Milano, 1978. NOTE 249 8. Documento pubblicato in R. Supek, Socialismo e autogestione, cit., p. 85. 9. A. Badiou, La Comune di Parigi, cit., p. 65. 10. M. Novarino, Tra squadra e compasso e Sol dell’avvenire. Influenze massoniche sulla nascita del socialismo italiano, Università popola di Torino Editore, Torino, 2013. D. Guérin, Né Dio, né padrone, Jaca Book, Milano, 1971. 11. Cfr. R. Allio, Società di mutuo soccorso in Piemonte 1850-1880, Deputazione subalpina di storia patria, Torino, 1980. 12. P. Dogliani, Un laboratorio di socialismo municipale. La Francia (1870-1920), Franco Angeli, Milano, pp. 44 e sgg. 13. Ivi, pp. 223 e sgg. 14. Cfr. D. Marucco, Il mutuo soccorso fra tradizione corporativa e cultura solidaristica, in Cent’anni di solidarietà. Le società di mutuo soccorso piemontesi dalle origini, Torino, 1989, vol. I, pp. 61 e sgg. 15. Per la descrizione del funzionamento, oltre che della storia e dello spirito del mutualismo italiano, cfr. D. Marucco, Teoria e pratica dell’autonomia nel mutualismo dell’Ottocento, Parole Chiave, Roma, 1991, pp. 45-61. 18. Ritorno al futuro 1. Cfr. P. Rosanvallon, La société des egaux, Seuil, Paris, 2011; J. Stiglitz, Il prezzo della diseguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro, Einaudi, Torino, 2013; A. Baranes, Finanza per indignati, Ponte alle Grazie, Milano, 2012; L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, intervista a cura di P. Borgna, Laterza, Roma-Bari, 2012. Per un quadro esaustivo di tutti gli aspetti della crisi globale, e italiana in particolare, cfr. Rapporto sui diritti globali 2013, a cura di S. Segio, Ediesse, Roma, 2013. 2. O. Gnocchi-Viani, Dieci anni di Camere del lavoro e altri scritti sul sindacato italiano. 1889-1899, con un saggio introduttivo di P. Ferraris, Ediesse, Roma, 1995. Su Osvaldo Gnocchi-Viani (1837-1917) si veda M. Novarino, Tra squadra e compasso e Sol 250 NOTE dell’avvenire. Influenze massoniche sulla nascita del socialismo italiano, cit. 20. Coop capitalism 1. Cfr. N. Hertz, A post-luxe era needs co-op capitalism, su http://www. wired.co.uk/magazine/archive/2012/04/ideas-bank/noreena-hertz. 2. D. Cohen, Homo economicus, prophète (égaré) des temps nouveaux, Albin Michel, Paris, 2012. 3. Cfr. R. Murray J. Caulier Grice, G. Mulgan, Il libro bianco dell’innovazione sociale, a cura di A. Giordano, A. Arvidsson, scaricabile da http://www.societing.org/wp-content/uploads/ Open-Book.pdf. 4. www.thesupporteconomy.com. 5. Cfr. N. Rose, Politiche della vita, Einaudi, Torino, 2010. 6. S. Horowitz, The Dream of the 1890s: Why Old Mutualism Is Making a New Comeback, in The Atlantic, 13 marzo 2012, http:// www.theatlantic.com/business/archive/2012/03/the-dream-ofthe-1890s-why-old-mutualism-is-making-a-new-comeback/254175/. Per un profilo di Sarah Horowitz e della Freelancers Union, cfr. R. Ciccarelli, G. Allegri, La furia dei cervelli, cit. 7. http://www.ncba.coop/ncba/about-co-ops. 8. http://www.kickstarter.com. 9. http://www.etsy.com/about?ref=ft_about. 10. Cfr. U. Mattei, Manifesto per i beni comuni, Laterza, Roma-Bari, 2011 e S. Rodotà, Il diritto ad avere diritti, cit. Cfr. M.R. Marella (a cura di), Oltre il pubblico e il privato, Ombre Corte, Verona, 2012 e S. Chignola (a cura di), Il diritto del comune. Crisi della sovranità, proprietà e nuovi poteri costituenti, Ombre Corte, Verona, 2012. Cfr. S. Settis, Azione popolare, Einaudi, Torino, 2013. 21. Ecosistemi 1. Il manifesto ODEI: http://odei.altervista.org/wp/odei-il-manifesto/. 2. http://coworkingproject.com/. NOTE 251 3. http://www.the-hub.net/; a Roma: http://www.hubroma.net/; a Milano: https://milan.the-hub.net/; in Sicilia: http://thehubsicilia.net/. 4. http://www.coworkingpalermo.net/. 5. http://www.lab121.org/. 6. http://www.toolboxoffice.it/. 7. http://www.spqwork.com/index.html. 8. Cfr. Alessandro Gazoia (Jumpinshark), Ho vent’anni. Non lascerò dire a nessuno che sono uno startupper, su http://jumpinshark.blogspot.it/2012/03/ho-ventanni-non-lascero-direnessuno.html. Cfr. Leonardo Bianchi (Blicero), Giovani e lavoro: basta lamentarsi. Andate a zappare, su http://www.valigiablu.it/giovani-e-lavoro-basta-lamentarsi-andate-a-zappare/. 9. FabLab Firenze: http://fablabfirenze.org e FabLab Torino: www.fablabtorino.org 10. Cfr. C. Anderson, Makers. Il ritorno dei produttori, Rizzoli, Milano, 2013. Cfr. R. De Luna, Cambiamo tutto! La rivoluzione degli innovatori, Laterza, Roma-Bari, 2013. Si veda anche T. Ingold, Making. Anthropology, archaeology, art and architecture, Routledge, Abingdon, 2013. 11. Si veda http://blog.makezine.com/arduino/ e http://www.arduino.cc. 12. Il movimento dei makers si sta diffondendo anche in Francia: cfr. F. Joignot, Fabrique-moi un mouton, Culture&Idées, in Le Monde, 6 aprile 2013, pp. 1, 4-5. 13. Si veda lo slideshare di Massimo Carraro, Cowo Network, Ecomondo, Rimini, 9 novembre 2011, http://www.slideshare. net/coworkingcowo/smartcities-cowo 14. Cfr. i siti www.democraziakmzero.it e www.comune.info.it. 15. D. Banfi, S. Bologna, Vite da freelance, cit. 16. Cfr. Indagine Plus-il mondo del lavoro tra forma e sostanza – terza annualità, a cura di E. Mandrone, D. Radicchia, ISFOL, Roma, 2012. 17. Come OfficineZero (OZ), ex fabbrica-officina delle ferrovie italiane nel quartiere Portonaccio a Roma, occupata dai lavoratori messi in cassa integrazione dal privato che ha rilevato l’azienda, insieme ai freelance e al precariato del lavoro della conoscenza. 252 NOTE Il progetto di OfficineZero prevede la creazione di un ambiente di coworking finalizzato alla ripresa delle attività della fabbrica nell’ambito del riuso e del riciclo degli elettrodomestici usati. A Milano esiste l’esperienza della Ri-Maflow, dove i lavoratori cassintegrati si sono costituiti in una cooperativa che ha scelto di dedicarsi alle finalità di mutuo soccorso tra i lavoratori. Il loro sito è http://www.rimaflow.it. Molte altre esperienze simili esistono in Grecia o in Spagna e in alcuni casi l’autogestione riguarda anche ospedali dismessi dai tagli e dalle spending review. 18. http://www.seats2meet.com. 19. Maria Grusauskas, The Future of Coworking is Free and Augmented, http://www.shareable.net/blog/the-future-of-coworking-is-free-and-augmented. 20. D. Suvin A tractate on self-management and dis/alienation in S.F.R. Yugoslavia (1945-74), inedito. Ringraziamo l’autore per averci dato la possibilità di consultare questo testo. 21. A. Gorz, L’uscita dal capitalismo è già cominciata, in Id., Ecologica, Jaca Book, Milano, 2009, p. 42. Cfr. U. Fadini, Il futuro incerto. Soggetti e istituzioni nella metamorfosi del contemporaneo, Ombre Corte, Verona, 2013, pp. 30 e sgg. 22. Community organizing 1. Cfr. A. Coppola, Lezioni americane. Ovvero come rilanciare il sindacato facendone un movimento sociale, in Giovani non più disposti a tutto – CGIL, Organizzare i non organizzati. Idee ed esperienze per il sindacato che verrà, Supplemento al n. 12/2013 di Rassegna Sindacale, Roma, 2013, pp. 17-24. 2. Cfr. B. Fletcher, F. Gapasin, Solidarity Divided: The Crisis in Organized Labor and a New Path Toward Social Justice, University of California Press, Berkeley, 2008, p.174. 3. Cfr. S. Alinsky, Rules for Radicals, Vintage Books, New York, 1989. 4. Cfr. A. Gorz, Miserie del presente, ricchezza del possibile, manifestolibri, Roma, 1998; A. Touraine, La société post-industrielle, Denoël, Paris, 1969; Id., Critica della modernità, Il Saggiatore, Milano, 1993. Cfr. M. Castells, The City and the Grassroots: A Cross-cultural Theory of Urban Social Movements, University of NOTE 253 California Press, Berkeley, 1983; Id., L’Età dell’informazione. Economia, società, cultura, Università Bocconi Editore, Milano, 2001. 5. P. Ferraris, intervista a G. Saporetti, in Una città, cit. 6. www.justinwedes.com. 7. Cfr. J. Donzelot, La france des cités: le chantier de la citoyenneté, Fayard, Parigi, 2013; Id. (con C. Mével e A. Wyvekens), Faire société. La politique de la ville aux Etats-Unis et en France, Seuil, Paris, 2004. 8. Cfr. A. Buratti, Adriano Olivetti e L’ordine politico delle Comunità: un progetto scomodo in cerca di interlocutori, in A. Buratti e M. Fioravanti (a cura di), Costituenti ombra. Altri luoghi e altre figure della cultura politica italiana (1943-1948), Carocci, Roma, 2010, pp. 98-109. 9. A. Olivetti, Il cammino della comunità, Movimento di Comunità, Ivrea, 1956, pp. 21-22. 10. Negli anni Novanta, si cercò di ripensare l’esperienza delle camere del lavoro nel postfordismo in Immaterial Works of the World, Che te lo dico a fare?, in DeriveApprodi, n. 18, 1999, pp. 28 e sgg. Cfr. M. Bascetta, G. Bronzini, Lo Statuto che non c’è, in Luogo Comune, anno III, n. 4, giugno 1993, pp. 50-59. Per il richiamo alla tradizione Wobblies degli Industrial Workers of the World, cfr. B. Cartosio (a cura di), Wobbly! L’Industrial Workers of the World e il suo tempo, Shake Edizioni Underground, Milano, 2007; cfr. W. D. Haywood, Big Bill. L’autobiografia di un rivoluzionario americano fondatore degli IWW, prefazione di B. Cartosio, manifestolibri, Roma, 2004. 11. www.angelomai.org. 12. www.nuovocinemapalazzo.it. 13. www.teatrovalleoccupato.it. 14. Per consultare lo Statuto della Fondazione «Teatro Valle bene comune»: http://www.teatrovalleoccupato.it/statutopartecipato. Questa scrittura ha ispirato, tra l’altro, anche il Regolamento d’uso civico dell’Ex Asilo Filangieri di Napoli, consultabile su: https://labalena.wordpress.com/2012/12/17/regolamento-duso -civico-dellex-asilo-filangieri-prima-stesura/. Una discussione si- 254 NOTE mile si svolge nell’atelier Macao di Milano: http://www.macao. mi.it/post/27554305721/linee-programmatiche-di-intervento-ediscussione. 15. Sul progetto della «Libera Repubblica di San Lorenzo», il sito www.liberarepubblicadisanlorenzo.it. 16. Cfr. S. Rodotà, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata e i beni comuni (2013). Cfr. M.R. Marella, Il principio della funzione sociale della proprietà e le spinte anti-proprietarie dell’oggi, in G. Alpa e V. Roppo (a cura di), La vocazione civile del giurista, Saggi dedicati a Stefano Rodotà, Laterza, 2013. 17. Cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino, 1975, n. 4, paragrafo 15, p. 437. 23. Il diritto alla città 1. Cfr. F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra nel 1844, Lotta Comunista, Roma, 2011. 2. H. Lefebvre, Il marxismo e la città, Gabriele Mazzotta editore, Milano, 1973, p. 26. 3. Internationale situationniste, n. 12, settembre 1969, Paris: http://www.nelvento.net/1871/is.php. 4. Cfr. R. Koolhaas, Junkspace, Quodlibet, Macerata, 2006. 5. D. Harvey, Rebel cities. From the right to the cities to the urban revolution, Verso, London-New York, 2012, pp. 112. Cfr. Id., Il capitalismo contro il diritto alla città, Ombre Corte, Verona, 2012, pp. 68 e sgg. Fondamentale è il riferimento ai saggi di Henri Lefebvre, Le Droit a la Ville, Anthropos, Parigi, 1968, sulla Comune di Parigi, Id., La Proclamation de la Commune, Gallimard, Parigi, 1965, e Id., La rivoluzione urbana, Armando editore, Roma, 1973. 6. S. Ganassi Agger, Autogestione urbana: l’urbanistica per una nuova società, Dedalo libri, Bari, 1977. Si veda anche D. Gentili, Topografie politiche. Spazio urbano, cittadinanza, confini in W. Benjamin e J. Derrida, Quodlibet, Macerata, 2009. Si vedano inoltre le esperienze milanesi dei «city makers»: http://www. temporiuso.org/, http://www.impossibleliving.com/ e il Laboratorio di arte urbana Stalker/Osservatorio Nomade: http:// www.osservatorionomade.net/tarkowsky/tarko.html. NOTE 255 7. Per una definizione di «diritto alla città» cfr. É. Balibar, Droit de cité, PUF, Paris, 1998. Si veda anche J-B. Auby, Droit de la ville. Du fonctionnement juridique des villes au droit à la Ville, LexisNexis, Paris, 2013. 8. C. Cattaneo, La città considerata come principio ideale delle istorie italiane: http://www.biblio.liuc.it/opere_cattaneo/CarloCattaneo005.pdf. 9. G. Romagnosi, Dell’indice e dei fattori dell’incivilimento, con esempio del suo risorgimento in Italia, in Id., Scritti filosofici, vol. II, Storia, civiltà, progresso, a cura di S. Moravia, Casa Editrice Ceschina, Milano, 1974, spec. pp. 238 e sgg. 10. A. Duff, A Fundamental Law of the European Union, in Social Europe Journal, 10 January 2013: http://www.social-europe. eu/2013/01/a-fundamental-law-of-the-european-union/. 11. Cfr. É. Balibar, Una sovranità chiamata debito, in il manifesto, 25 novembre 2011, pp. 1-14. 12. Cfr. A. Foti, Teoria e prassi del precariato secondo un precario, http://www.milanox.eu/teoria-e-prassi-del-precariato-secondoun-precario/, 20 giugno 2013 e P. Van Parijs, The Euro-Dividend, in Social Europe Journal, 3 luglio 2013, http://www.social-europe. eu/2013/07/the-euro-dividend/. J. Habermas, Democracy, Solidarity and the European Crisis, Lecture delivered by Professor Jürgen Habermas on 26 April 2013 in Leuven: http://www.kuleuven. be/communicatie/evenementen/evenementen/jurgen-habermas/ democracy-solidarity-and-the-european-crisis, si inserisce nel dibattito sul futuro dell’Europa che lo stesso Habermas ha intrapreso in polemica con le posizioni sovraniste di Wolfgang Streeck. Indice Introduzione. Atto di creazione p. 7 Parte prima. CHE COS’È IL QUINTO STATO? 1. Apolidi 2. Lavoro indipendente 3. Un movimento, non uno Stato 4. Ceto medio 5. Topi nel formaggio 6. Insalata indigesta 7. Una società di lavoratori senza posto fisso 8. W i NEET! 9. Diversamente occupate 10. Senza leggi, casa o fratria 11. Il potere comune p. 21 p. 25 p. 37 p. 49 p. 59 p. 65 p. 73 p. 83 p. 91 p. 99 p. 105 Parte seconda. UNA STORIA A CONTROPELO 12. La congiura dei ricchi 13. «Che i soci siano illimitati» 14. «Agiamo tutti all’unisono» 15. Cospiratori dell’uguaglianza 16. Il cenobita, il filadelfo e il quintario 17. Una sola, grande, unione p. 111 p. 119 p. 125 p. 131 p. 139 p. 151 Parte terza. IL DIRITTO ALLA CITTÀ 18. Ritorno al futuro 19. Mutualismo 20. Coop capitalism 21. Ecosistemi 22. Community organizing 23. Il diritto alla città p. 165 p. 171 p. 179 p. 189 p. 207 p. 225 Note p. 237 Finito di stampare nel mese di settembre 2013 per conto di Adriano Salani Editore s.u.r.l. da Grafica Veneta S.p.A., Trebaseleghe (PD) Printed in Italy