Pietro DaLena - Paola CarnevaLe
Alessandro Di Muro - Francesco La Manna
MEZZOGIORNO RURALE
Olio, vino e cereali nel Medioevo
a cura di Pietro Dalena
Mario aDDa eDitore
4
ISBN 9788880828839
© Copyright 2010
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Impaginazione: Sabina Coratelli
Immagine di copertina:
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La vite e iL vino*
Alessandro Di Muro
Fornire un quadro esautivo sulla coltivazione della vite e sugli aspetti
legati alla produzione del vino nel Mezzogiorno medievale continentale è
impresa ardua. Una prima dificoltà deriva dall’assenza di studi in numero
congruo sull’argomento a carattere perlomeno regionale: tra i pochi non si
può non ricordare il lavoro di Mario Del Treppo su Amali medievale, i saggi
di Raffaele Licinio e qualche paragrafo del volume di Jean-Marie Martin sulla Puglia medievale o rilessioni in articoli di Pierre Toubert sulla Campania
settentrionale1. Alcune parti dell’opera di Augusto Lizier forniscono informazioni ancora oggi preziose per chiunque voglia intraprendere uno studio sui
problemi legati alla coltivazione della vite in età prenormanna, mentre i saggi
di Giovanni Cherubini e Giovanni Vitolo costituiscono studi di partenza ineludibili per le problematiche legate al commercio del vino nel Mezzogiorno
bassomedievale2. Tuttavia manca ancora per la regione meridionale un lavoro
* Mi è gradito ringraziare il professor Pietro Dalena per l’impulso a intraprendere questa
ricerca e per i numerosi suggerimenti, i consigli, le indicazioni e le discussioni che sono alla
base di tanta parte del presente lavoro.
1
M. Del Treppo, Amali: una città del Mezzogiorno nei secoli IX-XIV, in M. Del Treppo,
A. Leone, Amali medioevale, Napoli 1977, pp. 24 ss.; R. Licinio, Uomini e terre nella Puglia medievale. Dagli Svevi agli Aragonesi, Bari 20092, in part. pp. 67-81; J.-M. Martin,
La Pouille du VIe au. Xlle siècle, Rome 1993; P. Toubert, Paesaggi rurali e tecniche di
produzione nell’Italia meridionale della seconda metà del XII secolo, ora in Id., Dalla terra
ai castelli. Paesaggio, agricoltura e poteri nell’Italia medievale, Torino 1995, pp. 316-341.
2
A. Lizier, L’economia rurale dell’eta prenormanna nell’Italia meridionale meridionale
(Studi su documenti editi dei secoli IX- XI), Palermo 1907; g. Cherubini, I prodotti della terra: olio e vino, in Terra e uomini nel Mezzogiorno normanno-svevo, Atti delle settime giornate normanno-sveve, Bari 1987, pp. 187-234; G. Vitolo, Produzione e commercio del vino
nel Mezzogiorno medievale, in “Rassegna Storica Salernitana”, V, 1, 1988, pp. 65-75. Una
bella sintesi sulla vitivinicoltura italiana con ampi accenni al Mezzogiorno in A. Cortonesi,
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Alessandro Di Muro
complessivo sul ciclo del vino, dall’impianto della vite alla produzione della
bevanda e alla sua circolazione, che copra il lungo arco cronologico medievale, a differenza della ioritura di studi sull’argomento che caratterizza la
produzione storiograica, anche recentissima, relativa all’Italia centro-settentrionale3. Se una dificoltà oggettiva risiede nella vastità del Mezzogiorno
e nella peculiarità dei diversi territori che lo compongono, un impedimento
consiste anche nella malagevolezza di contestualizzare l’argomento all’interno di un discorso più complesso che comprenda le forme e le dinamiche del
popolamento e del paesaggio agrario, senza trascurare gli aspetti legati alla
mentalità. Del resto, come ha lucidamente affermato Massimo Montanari,
“parlare di vino non si può senza parlare di molte altre cose che rimandono
all’economia e alle forme produttive, ai rapporti di proprietà, all’organizzazione sociale, al diritto come nucleo di ordinamento e di interpretazione della
realtà”4, così come della vite, argomenti di studio privilegiati, dunque, che si
collocano al punto di giunzione tra una serie di problematiche storiograiche
di grande interesse.
Nella consapevolezza dell’impossibilità che questo lavoro possa colmare una tale lacuna, ci si propone di fornire una prima panoramica su alcune
tra le tante questioni legate al problema della vite e del vino nel Mezzogiorno
medievale.
Agricoltura e tecniche nell’Italia medievale. I cereali, la vite, l’olivo, in A. Cortonesi, G. Pasquali, G. Piccinni, Uomini e campagne nell’Italia medievale, Roma-Bari 2002, pp. 217-240.
3
Per una sintesi degli studi ino agli anni ’90 del secolo scorso si veda A. I. Pini, Il Medioevo
nel bicchiere, la vite e il vino nella medievistica italiana degli ultimi decenni, “Quaderni
medievali”, 29, 1990, pp. 6-38. Due recenti convegni hanno avuto come argomento speciico
il vino, La vite e il vino. Storia e diritto (secoli XI-XIX), a cura di M. Passano, A. Mattone,
F. Mele, P. F. Simbula, Roma 2000 e La civiltà del vino. Fonti, temi e produzioni vitivinicole
dal Medioevo al Novecento (Atti del convegno, Monticelli Brusati-Antica Fratta, 5-6 ottobre
2001), a cura di G. Archetti, Brescia 2003. Risulta abbastanza indicativo come anche nel bel
volume curato da Gabriele Archetti sulla civiltà del vino nel Medioevo manchi un contributo
speciico relativo all’Italia meridionale. Numerosi contributi sulla vite e il vino in Olio e vino
nell’alto medioevo, Settimane del CISAM LIV (Spoleto, 20-26 aprile 2006), Spoleto 2007.
4
M. Montanari, Dalla parte dei laboratores, in Medievistica italiana e storia agraria. Risultati e prospettive di una stagione storiograica, Atti del Convegno, Montalcino, 12-14
dicembre 1997, Bologna 2001, pp. 7 ss.
La vite e il vino
1.
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La viticoltura tra tardo antico e alto Medioevo
È quasi superluo ricordare come la coltivazione della vite venga naturalmente associata alle terre del Mezzogiorno, almeno sin dall’arrivo dei primi
coloni ellenici che le indicarono con l’eloquente nome di Enotria. Ovviamente questa considerazione non è suficiente a stabilire una presunta vocazione
vitivinicola generalizzata e persistente per le terre del Sud, che, come è noto,
si caratterizzano per profonde diversità di microclimi, qualità pedologiche,
condizioni geomorfologiche. Nel trattare dunque un argomento di questo tipo
sarebbe opportuno innanzitutto procedere indicando zona per zona le caratteristiche altimetriche, climatiche, edaiche per fornire gli elementi di base sui
quali valutare la compatibilità o meno della coltura con il tipo di ambiente.
Neppure si può dimenticare l’impatto che sulle vicende della coltura ebbero
fattori quali spopolamento, guerre, abbandoni e distruzioni legate ad eventi naturali o, in positivo, crescita della popolazione, riattivazione di mercati
a lunga distanza5, tutto ciò analizzato, naturalmente, in ambiti quantomeno
microregionali, senza dimenticare l’indispensabilità della bevanda per la celebrazione della liturgia eucaristica e, dunque, la necessità di impiantare viti
un po’ dappertutto. Si tratta di variabili che rendono, come ben si comprende,
ancor più complesso uno studio di questo tipo e che, dato il carattere limitato
di questa trattazione, saranno in alcuni casi appena lambite.
Una sintesi eficace delle vicende relative all’agricoltura del Mezzogiorno d’Italia nel periodo di transizione tra l’età tardo antica e l’alto Medioevo
risulta dificilmente formulabile, in primo luogo a causa dello stato delle fonti
documentarie ma anche per la natura stessa della regione meridionale, dove
le vicende rurali risultano sempre dificilmente riconducibili ad un quadro
unitario. Se una crisi profonda del sistema agrario del Mezzogiorno si può
cogliere a partire dal III secolo, con esiti disastrosi per alcune aree già nel IV
secolo6, le numerose indagini archeologiche incentrate sul periodo di transizione tra la tarda antichità e l’alto Medioevo (secoli V-VII) condotte, seppur
a macchia di leopoardo, nell’ultimo decennio, evidenziano come crisi, abbandoni, resistenze, riprese, trasformazioni, continuità e fratture variassero,
Cherubini, I prodotti della terra, cit., pp. 188-189.
Si consideri solo la cancellazione dai ruoli dell’imposta fondiaria di ben 130.000 ettari di
terreni coltivati in Campania, pari a un decimo dell’intera supericie della regione in quegli
anni, evidentemente perché ormai improduttivi. Si veda a tal proposito le lucide considerazioni di G. Galasso, Mezzogiorno medievale e moderno, Torino 1975, p. 64.
5
6
136
Alessandro Di Muro
per quanto riguarda l’insediamento rurale, nella qualità e nella consistenza da
territorio a territorio, articolandosi talvolta in un medesimo ambito territoriale
in sviluppi spesso complessi con variazioni signiicative nell’arco di pochi
decenni7. Tutto ciò in una cornice strutturale costituita da un sistema economico quale quello tardoromano in profonda crisi, dove lo Stato si conigurava
quale percettore e distributore quasi esclusivo delle risorse, sostanzialmente
attraverso lo strumento dell’imposta fondiaria, proponendosi come artiiciale
propulsore della domanda. Uno Stato in grado, tramite tale meccanismo, di
mantenere attive le reti del commercio attraverso un complesso sistema di
infrastrutture funzionali al trasporto delle merci, anche delle merci veicolate
da mercanti privati ma sempre lungo le vie dell’annona: di qui, ad esempio, la
progressiva scomparsa di anfore da trasporto africane in Occidente a partire
dal V secolo in connessione alla perdita dell’Africa settentrionale, da sempre
area economica complementare al Mezzogiorno, e alla dissoluzione progressiva del sistema di trasporto annonario8. Risulta evidente come una tale situazione dovesse avere conseguenze condizionanti anche per la vicenda della
coltivazione vite e della produzione e circolazione del vino nel Mezzogiorno.
Regione particolarmente vocata alla viticoltura alla ine dell’età antica
fu certamente l’odierna Calabria. Nella Expositio totius mundi (metà del IV
secolo) il Bruzio è ricordato per l’abbondanza dell’ottimo vino che vi si produceva9, caratteristica che sembra essersi conservata nei primi decenni del VI
secolo. Ancora intorno al 530 Cassiodoro poteva infatti celebrare le copiose
produzioni vinarie degli opulenti vigneti nelle terre di Reggio e tra le colline
di Squillace dove si realizzano ricche vendemmie10. Qui si produceva un vino
delizioso, denominato palmetianum forse per la dolcezza che ricordava il liquore di palma, un vino che Cassiodoro richiedeva per la mensa dei sovrani
ostrogoti in una epistola indirizzata al cancellarius Lucaniae et Bruttiorum,
magniicandone le virtù, a suo dire riconosciute universalmente, paragonan7
Un’ottima sintesi in G. Volpe, Villaggi e insediamento sparso in Italia meridionale tra tardoantico e altomedioevo: alcune note, in Dopo la ine delle ville: le campagne dal VI al IX
secolo, a cura di G. P. Brogiolo, A. Chavarria Arnau, M. Valenti, Mantova 2005, pp. 221-243.
8
C. Wickham, Framing the Early Middle Ages. Europe and the Mediterranean, 400-800,
Oxford 2005, pp. 58 ss.
9
Expositio totius mundi et gentium, a cura di J. Rougé [Sources Chrétiennes, 124], Paris
1966, p.190.
10
Cassiodoro, Variae, ed. Th. Mommsen, MGH, Auctores Antiquissimi, Hannover-Leipzig
1894, VIII/31, XII/14, p. 371; ivi, XII/15, pp. 372-373.
La vite e il vino
137
dolo al famoso vino di Gaza11. Del palmentianum si ritrova un cenno qualche
decennio più tardi in un’epistola di Gregorio Magno12. Al di là dei ben noti
intenti celebrativi che talvolta caratterizzano gli scritti cassiodorei, si può ben
argomentare che in questi anni sussistesse una certa produttività delle vigne
bruzie e che i vini della regione risultassero molto apprezzati, alimentando
anche correnti di mercato ino almeno al VII secolo13.
Tuttavia la situazione riscontrabile in Calabria sembra costituire una felice eccezione nel contesto meridionale dell’epoca. Le produzioni campane,
ad esempio, decantate da agronomi e poeti nell’antichità, sembrano progressivamente eclissarsi nella documentazione tardoantica. Se infatti ancora nel
IV secolo i vini campani di qualità raggiungevano i iorenti mercati orientali
e nell’Expositio totius mundi la regione è ricordata come il “cellarium regnanti Romae”, a partire dal V secolo il silenzio delle fonti scritte e i rarissimi
rinvenimenti di contenitori da trasporto vinario campani a Roma, il mercato
per eccellenza dei prodotti della regione, lasciano trapelare una signiicativa
contrazione delle produzioni, si deve ritenere ormai appena suficienti alle
esigenze locali14. A questa situazione non può essere estranea la ben nota cancellazione dai ruoli iscali di 130.000 ettari di coltivi in età teodosiana15.
I lunghi decenni del conlitto goto-bizantino, con le devastazioni e gli
abbandoni dei campi coltivati che rieccheggiano nelle cronache, dovettero
inluire negativamente anche sulla consistenza delle superici vitate del Mezzogiorno, sebbene le conseguenze non furono dappertutto le medesime, così
come la pressione iscale bizantina seguita alla riconquista e lo spopolamento
connesso alla pandemia di peste che devastò tutta l’Italia a partire dalla metà
del VI secolo, senza dimenticare la parte che ebbe il collasso patrimoniale e
politico di ampi settori della classe senatoria, altro portato del lungo scontro16.
Ivi, XII/12, p. 369.
Gregorii I Papae, Registrum Epistularum., ed. P. Ewald, L. Hartman MGH, Epistulae,
Berolini 19572, I, 64.
13
Si veda a tal proposito infra, la parte dedicata al commercio.
14
Rarissimi diventano infatti i rinvenimenti di contenitori vinari a Roma, principale mercato
del vino campano. Si veda E. Savino, Campania tardoantica, Bari 2005, pp. 57-60.
15
Per la quale si veda supra, nota 6.
16
Sulle condizioni dell’Italia meridionale alla ine della guerra goto-bizantina si vedano ad
es. E. Zanini, Le Italie bizantine, Bari 1998. Per una rilettura delle conseguenze del conlitto
sulle strutture economico-insediative nel Mezzogiorno G. Noyé, Villes, économie et société
dans la province de Bruttium-Lucanie du IVe au VIle siècle in La storia dell’alto medioevo
italiano (VI-X secolo) alla luce dell’archeologia (Convegno Internazionale, Siena 1992),
11
12
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Alessandro Di Muro
La conquista longobarda, prima di Benevento nel 571 e, nel volgere di
un secolo, di gran parte dell’Italia meridionale, determinò una profonda frattura nell’assetto istituzionale ed economico di un Mezzogiorno già in profonda crisi strutturale, imprimendo un’accelerazione decisiva ai fenomeni di
dissoluzione del sistema socio-economico tardoantico.
Per quanto riguarda la coltura della vite, una seppur tenue traccia documentaria di una certa resistenza sussiste a partire dalla ine del VI secolo.
Una produzione di vino non trascurabile doveva ancora caratterizzare
limitate aree della Campania rimasta bizantina negli anni ’90 del VI secolo;
così sembra evincersi infatti da una lettera di Gregorio Magno in cui si fa
riferimento a vino prodotto nell’isola di Procida che giungeva al castello di
Miseno17. Intorno al 670 il vescovo di Napoli Agnello, ediicò nella città tirrenica una basilica dedicata al martire Gennaro, dotandola di una diaconia con
celle per i monaci; ad essa dovevano annualmente essere assegnate alimonias
per 210 moggi di grano e 210 hornae di vino provenienti dai beni dell’episcopio18. Si tratta tuttavia di indizi poco signiicativi che sembrano rappresentare
piuttosto un’eccezione in un quadro di generale contrazione.
I segnali di un seppur limitato incremento della produzione si iniziano
a cogliere nella Campania bizantina a partire dai primi decenni dell’VIII secolo. In questi anni si rinvengono, infatti, attestazioni di produzione di vino
nelle isole del golfo di Napoli e di una certa circolazione della bevanda; ciò
pare dedursi da una notizia, ritenuta attendibile, relativa ai tempi di papa Gregorio II (719-729) secondo cui il ponteice avrebbe dato in afitto l’isola di
Capri al console napoletano Teodoro, in cambio di un canone annuo di 109
solidi d’oro e 100 megarici di vino19, indizio anche di una ripresa dei trafici
verso Roma.
a cura di R. Francovich, G. Noyè, Firenze 1994. Sul ruolo della peste da ultimo M. Mc
Cormick, The origins of European Economy. Communications and Commerce AD 300–900,
Cambridge 2001, pp. 114 ss. Per le diverse conseguenze del conlitto si veda ad es. Savino,
Campania tardoantica, cit., pp. 205 ss.
17
MGH, Ep., II, IX, 53, a. 598.
18
Iohannis Diaconi, Chronicon episcoporum sanctae neapolitanae ecclesiae, ed. B. Capasso,
Monumenta ad neapolitani ducatus historiam pertinentia, riedizione a cura di R. Pilone, Salerno 20082, I, p. 282. Un’urna equivale a circa 13 litri; si veda C. Salvati, Misure e pesi nella
documentazione storia dell’Italia del Mezzogiorno, Napoli 1970, p. 13.
19
Liber Censuum Romanae Ecclesiae, a cura di P. fabre, L. Duchesne, Paris 1905, I, p. 352;
Regesti dei documenti dell’Italia meridionale. 570-899, a cura di J.-M. Martin, E. Cuozzo, S.
Gasparri, M. Villani, Roma 2002, pp. 148, 243.
La vite e il vino
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Nelle regioni per lo più interne soggette al dominio longobardo, le indagini archeologiche suggeriscono, nel quasi assoluto silenzio delle fonti
d’archivio, come, dalla metà del VII secolo, a fronte di una disarticolazione
irreversibile di molti centri urbani, dopo una prima fase in cui prevalse una
strategia di rapina, i Longobardi iniziassero a mostrare interesse per la ricolonizzazione delle terre attraverso la costituzione di una nuova, benché ancora
embrionale, rete di insediamenti rurali, almeno in alcune aree del Mezzogiorno20. Ed è in questo scenario aurorale in cui le campagne iniziano a rigenerarsi
dopo un lungo periodo di disfacimento degli antichi quadri produttivi che le
pur rare testimonianze documentarie sulla presenza di vigneti assumono un
preciso signiicato rivelatore di una espansione.
Le prime carte d’archivio che ricordano vigne nel Ducato di Benevento
risalgono agli inizi dell’VIII secolo, dunque coincidono con la documentazione
più antica conservata relativamente ai documenti longobardi dell’Italia meridionale e con le attestazioni dei coninanti territori campani bizantini. Nel 719
Iubiniano e la moglie, con il consenso del duca di Benevento Romualdo II,
donano al monastero dei Santi Maria e Pietro nei pressi di Alife (CE), tra le
altre cose, alcune vigne21. L’anno successivo il duca Romualdo concede al suo
vestararius Urso una famiglia di servi con i loro beni nel territorio di Greci in
Irpinia e tra i possedimenti sono ricordate delle vigne22. Nel 722 e nel 723 lo
stesso duca concede all’abate Zaccaria di Benevento un casale a Quinto Decimo, oggi nei pressi di Mirabella Eclano (AV), con vineas23 e le sostanze che
appartennero al defunto Toto Transpadanus nel sobborgo benevetano di San
Valentino, tra cui alcune vigne24. Tra i possedimenti che lo stesso Romualdo
nel 724 conferma all’abbazia di Santa Soia di Ponticello, presso Benevento,
si ricordano dei vigneti nelle vicinanze del torrente Lauro, nei pressi di Lesina
nell’odierna Capitanata25. Nel 743 il duca Gisulfo II conferma l’oblazione fatta
Per il Sannio e la Campania si veda A. Di Muro, Il castello, la curtis e il santuario: trasformazioni del paesaggio e dinamiche del potere tra tarda Antichità e alto Medioevo nel
territorio di Olevano sul Tusciano, in Paesaggi e Insediamenti rurali in Italia meridionale,
Bari, 2006, pp. 551-566; Id., Economia e mercato nel Mezzogiorno longobardo (secc. VIIIIX), Salerno 2009, pp. 23 ss. Per la Puglia si veda Volpe, Villaggi, cit., pp. 230-234.
21
CSS, II, pp. 458-459.
22
Ivi, pp. 480-481.
23
Ivi, I, pp. 369-370.
24
Ivi, II, pp. 454-455. Vigne a San Valentino sono ricordate anche in un diploma di Arechi II
del 774, ivi, p. 313.
25
Ivi, II, pp. 426-428.
20
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da un tale Sarracenus alla chiesa di San Cassiano da questi fondata nel territorio di Alife e tra la substantia offerta si fa riferimento a vigne26.
Intorno alla metà dell’VIII secolo vigne sono ricordate nel territorio di
Conza (Av)27, a Ponte Lapideo nei pressi di Scafati (Sa)28, ancora nei pressi
di Benevento29 e di Alife30, nella località Selece, forse in Terra di Lavoro31 e a
Monte Calvo nel Sannio32.
È interessante notare come le prime attestazioni di vigneti nel Mezzogiorno longobardo riguardino territori per tutto il Medioevo e ancora oggi a
forte vocazione vinicola.
A partire dagli anni ’60 dell’VIII secolo la documentazione si fa meno
frammentaria grazie soprattutto alle carte conservate, a partire da quegli anni,
presso gli archivi dei grandi monasteri longobardi quali Santa Soia di Benevento, Montecassino, San Vincenzo al Volturno e, in seguito, la Santissima
Trinità di Cava.
L’analisi della documentazione sembra attestare una svolta decisiva nella vicenda della coltivazione della vite in molte aree del Mezzogiorno.
Notizia della presenza di vigneti tra il Sannio molisano e la Marsica si
rivengono sin dall’VIII secolo, nel diploma con il quale Gisulfo I dona una
serie di cenobi e chiese a San Vincenzo al Volturno (689-706), si fa riferimento alla basilica di Santa Maria in Cinque Miglia nel Sulmonese; tra i
possedimenti della chiesa vi sono vigneti33. Già il Federici avvertiva come
il diploma fosse in realtà una falsiicazione dell’XI secolo, costruita tuttavia
su fondamenti storici34. Del resto già nella vita dei fondatori del cenobio, redatta da Ambrogio Autperto nella seconda metà dell’VIII, si fa riferimento a
prodotti verosimilmente locali, tra questi il vino, che un misterioso visitatore,
26
E. Gattola, Historia Abbatiae Cassinensis, Venetiis 1733, I, p. 27. Il documento, riportato
nel Registro di Pietro diacono, è sospetto di falsiicazione.
27
CSS, I, pp. 373-374, a. 743.
28
Ivi, II, pp. 452-453, a. 744.
29
Ivi, p. 440, a. 745, vigne appartenenti al casarius Fuscolo; ivi, II, pp. 450-451, a. 751, terre
appartenute a Atroaldo. Ivi, II, pp. 498-499, a. 757.
30
E. Cuozzo, J.-M. Martin, Documents inédits ou peu connus des archives du Mont-Cassin
(VIIIe-Xe siècle), in “MEFRM”, 103, 1991, 2, a. 745, vigneti ad Ailano, tra i iumi Volturno
e Lete. Vigna a Prata (oggi Prata Sannita, Ce), ivi, 3, a. 764.
31
CSS, II, pp. 522-523, a. 749. La proposta di identiicazione del sito nei pressi di Villa Literno (Ce) in Regesti dei documenti, cit., p. 821, s.v. Silice.
32
CV, I, pp. 321-324. a. 769 ma con riferimento ad anni precedenti.
33
Ivi, p. 135, a. 689-706.
34
Ivi, p. 133, n. 2.
La vite e il vino
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un angelo secondo l’agiografo, avrebbe portato ai tre appena giunti in quelle
terre inospitali e inselvatichite35. Nella Marsica si ricordano vigneti nel 78536.
e nella zona di Valva nel 78737. Vigne sono ricordate a Larino nel 77438, e nel
non lontano territorio di Termoli inotrno all’83039.
Nella media-alta valle del Volturno vigne sono menzionate a Telese intorno all’anno 80040, e nell’80641. Una vigna è ricordata in una carta dell’802
a Vico Bonille nell’alifano, nei pressi del cenobio di Santa Maria in Cigla tra
il Lete e il Volturno42.
Vigneti sono documentati in alcune curtes nei pressi di Benevento in una
donazione di un tale Leone a Montecassino del 77143, e nello stesso anno a
Lucerola44, nel 774 ancora a San Valentino sul Calore45, nel 784 a Ponte piano ancora sul Calore46 e l’anno successivo ancora nei pressi di Ponte piano
a Venticano (Bn)47. Nell’813 sono attestate vigne a Foglianise nell’area del
Taburno48. Nell’833 si rinvengono vigneti anche nella regione irpina a Montemarano, sulle coste del Monte Terminio,49 e in una carta dell’807 a Trevico
50
nel territorio di Conza (Av) nell’810 e nell’83551.
Passando all’area capuana, nel 774 Arechi II offre vigneti e oliveti in
loco Stephaniscli, nei pressi di Sessa Aurunca (Ce), al cenobio beneventano
di Santa Soia, lo stesso principe nel 778 dona al monastero di San Vincenzo
al Volturno alcuni beni tra i quali vigne in Vico qui dicitur ad Sanctum Tammarum52, San Tammaro (Ce) tra Capua e l’agro aversano.Vigne sono attestate
Ivi, p. 113.
CMC, p. 50.
37
CV, I, pp. 204-211, 4 vigne.
38
CSS, I, 46, pp. 321-322.
39
CMC, p. 181.
40
CV, I, pp. 249-251.
41
Ivi, pp. 271-272.
42
Cuozzo, Martin, Documents inédits, cit., 10.
43
E. Gattola, Ad Historiam Abbatiae Casinensis Accessiones, Venetiis 1734, I, pp. 11-12.
44
Martin et alii, Regesti, cit., p. 198, 353.
45
CSS, I; 31, p. 313.
46
Martin et alii, Regesti, cit., p. 244, 475.
47
Ivi, p. 246, 477.
48
Cuozzo, Martin, Documents inédits, cit., 16.
49
CV, I, pp. 296-297
50
In Bico, Cuozzo, Martin, Documents inédits, cit., 14.
51
Cuozzo, Martin, Documents inédits, cit., 15. Gattola, Accessiones, cit., I, pp. 35-36.
52
CV, I, pp. 192-193.
35
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Alessandro Di Muro
nell’803 anche nei villaggi di Assanu e Nifio, presso Capua53, nell’812 nel
territorio di Cancia, presso il Monte Massico54, ancora nell’area del Massico,
in loco Fauciano, nell’87455, a Vicopalazzo (Ce) nel 799 o nell’81456. La documentazione d’archivio menziona ancora viti nell’area di Capua nell’825 e
nell’85257. Vigne sono attestate nell’816 nel territorio di Caiazzo nell’841, a
Maddaloni58 e nel territorio di Teano nell’84959.
Nella piana del Sele a partire dal 799 sono attestate vigne nella località Laneum tra i iumi Tusciano e Sele, nei pressi di Eboli (Sa)60. Nell’801
nell’803, nell’848 e nell’849 la coltivazione della vite è ricordata nell’agro
nocerino61, nell’824, nell’843 e nell’844 a Nocera62; nell’838 nel territorio di
Cava de’ Tirreni63, e nell’852 a Siano (Sa)64. Vigne nei pressi di Salerno sono
ricordate nell’818, nell’837, nell’84165 e un terreno con arbustum vitatum
nell’84866.
Nella Campania rimasta bizantina alcune vigne sono documentate nel
territorio di Gaeta nell’83167 mentre la prima attestazione nell’area di Amali
risale all’86068.
Nella regione apula vigne sono menzionate in una donazione del 774 a
Siponto (Fg)69. e nel Subappennino dauno settentrionale, lungo il Fortore70.
In un diploma di Grimoaldo III dell’813 si menzionano vigneti a Virisiano,
probabilmente nei pressi di Ascoli Satriano (Fg)71.Vigneti sono ricordati a CaIvi, pp. 265-266.
Ivi, p. 268.
55
Ivi, p. 341.
56
Ivi, pp. 274-275.
57
Gattola, Accessiones, cit., I, 31. Cuozzo, Martin, Documents inédits, cit., 16, 27, Anghiena (Ce).
58
Gattola, Accessiones, cit., pp. 28-29. CSS, II, pp. 538-539.
59
Gattola, Accessiones, cit., I, p. 36.
60
CDC, I, pp. 2-3.
61
Ivi, 4, p. 4. Ivi, p. 6; ivi, pp. 35-36; ivi, pp. 39-40. Nei documenti si speciica che si tratta di
terre coltivate secondo la tecnica della vite maritata.
62
CDC, I; p. 15; ivi, pp. 26-27; ivi, pp. 27-28.
63
Ivi, pp. 189-190.
64
Ivi, pp. 42-43.
65
Ivi, p. 8, CDC, I, pp.18-19; Muratori, Antiquitates, III, 77-78.
66
Ivi, p. 34.
67
CDCaj, I, 3.
68
CDA, II, pp. 293-294.
69
CSS, I; 53, p. 328.
70
Ivi, I, 6, p. 295.
71
CSS, II, pp. 525. Si veda anche ivi, I, 28, p. 311, n. 7.
53
54
La vite e il vino
143
nosa (Ba) nel 797 e nell’82372, presso Lucera nell’81773, nell’84774 tra Lesina
e Lucera nell’84675.
Nell’anno 803, Iohannes, ilius quondam bone memorie Pandonis, qui
nunc sum habitator intus civitate Vari, Canosinis inibus, dona ai monasteri di San Benedetto di Montecassino e San Vincenzo al Volturno tutte i
suoi possedimenti in Canosinis inibus, et in inibus Acerentinis, quam et in
Tarantinis,vel in Orietanis inibus, idest casis infra ipsis civitatibus, et de foris casalibus, casis, vineis, territoriis, campis, silvis, aquis, arboribus, pomis
fructiferis atque infructiferis76.
Vigneti nei pressi di Taranto si rinvengono in un documento dell’807 in
Ortiano77. Nell’809 un tale Aliperto dona a Montecassino alcuni suoi possedimenti tra cui vigne a Conversano78. Vigne nell’area di Trani sono ricordate
nell’84379. Vigne sono attestate inine in Lucania e a Matera80 nella donazione
di Arechi II a Santa Soia del 774.
I documenti redatti tra la seconda metà del IX secolo e l’inizio del X
secolo, seppur meno numerosi, confermano la presenza di vigneti un po’ dappertutto nelle attuali regioni della Campania81, dell’Abruzzo e del Molise82,
della Puglia83 e della Basilicata84.
Dall’analisi dei documenti inizia a prendere forma in maniera sempre
CV, I, pp. 279-280. CMC, I, 19, pp. 63-64.
CV, I, p. 267, a. 817, in vico, qui vocatur Molezano, Lucerine inibus.
74
Ivi, p. 307, in Terenciano, Lucerinis inibus.
75
Leccisotti, Benedectina, 3, p. 214, n. II.
76
CV, I, pp.260-261.
77
Cuozzo, Martin, Documents inédits, cit., 14.
78
Martin et alii, Regesti, cit., 542, p. 279.
79
Ivi, cit., 689, p. 350.
80
Ivi, I, 11, p. 299.
81
Per la foria di Salerno ad es. CDC, I, pp. 48-49, a. 855; per le numerose attestazioni di
vigneti in quest’area A. Di Muro, Mezzogiorno longobardo. Insediamenti, economia e istituzioni tra Salerno e il Sele (secc. VII-XI), Bari 2008, p. 47. Vigne nell’area del Ducato di
Gaeta, ad es. CDCaj, I, 11, a. 862, vicino Traetto, nel capuano, CV, III, pp. 146-148, a. 899;
nel territorio di Amali nell’875 e nell’883, Martin et alii, Regesti, cit., 892, p. 433 e ivi, 1048,
p. 497; nel gastaldato di Conza CDB, VIII, 1, a. 897.
82
Lungo il iume Mellarinum (tra Molise e Campania) CV, II, pp. 10-11, a. 894. Nel chietino,
Cuozzo, Martin, Documents inédits, cit., n. 31, a. 867 e nel territorio di Penne dove sono
ricordate ben 116 viti in un terreno, Martin et alii, Regesti, cit. p. 649, S 169, a. 878.
83
CMC, I, pp. 70-71 (vigne nel canosino); T. Leccisotti, Le colonie Cassinesi in Capitanata.
I. Lesina (sec. VIII-XI), Cassino. 1937 p. 46, intorno all’889 (vigne nei pressi di Lesina).
84
Nel gastaldato di Acerenza, CV, II, pp. 12-14, a. 884.
72
73
144
Alessandro Di Muro
più consistente il dato dell’ubiquità geograica della vigna che sarà una caratteristica peculiare di tutto il Medioevo meridionale. L’analisi fornisce infatti
una prima mappa della distribuzione della coltura della vite per ambiti regionali e subregionali tra VIII e IX secolo. Da questa si può facilmente osservare
come vigne fossero coltivate un po’ dappertutto, dai terreni nei pressi del
mare, come ad esempio a Lesina, alle zone montuose dell’Appennino, come
nel caso di Trevico (1100 m s.l.m.).
La forte ripresa della viticoltutra che si coglie dalle fonti d’archivio a
partire dalla seconda metà dell’VIII secolo, costituisce il rilesso di un consistente incremento demograico che trova nella rinascita dei centri urbani
uno degli indicatori più evidenti e, allo stesso tempo, per l’area longobarda,
l’effetto di sistemi innovativi di gestione del grande dominio fondiario, con
l’adozione di modalità produttive più razionali di stampo curtense come strumento di amministrazione e controllo della terra, in particolare con l’integrazione del dominicum e del massaricium, crescita che pone le radici nel già
ricordato interesse da parte delle elites guerriero-fondiarie per la produttività
delle campagne a partire dal VII secolo85.
Uno dei segni più rilevanti di una crescita economica diffusa, connessa
all’espansione della vigna è individuabile nella geograia sociale del possesso
che manifesta come non solo gli aristocratici e gli enti religiosi ma anche piccoli e medi allodieri detenessero vigneti sin dal IX secolo, come testimoniano
molti documenti di area salernitana86 e carte relative al Sannio, alla Campania
settentrionale e alla Puglia87.
Un problema fondamentale che si pone a chi voglia indagare le vicende della vite nel Mezzogiorno meridionale medievale è costituito dal tipo di
tecnica di coltivazione adottato. In generale per l’Italia nell’alto Medioevo
sembra quasi generalizzato l’abbandono dell’antica tecnica dell’arbustum
vitatum, l’arbustum gallicum di tradizione etrusca poi romana, in particolare nelle regioni centrosettentrionali, progressivamente sostituito dall’uso
Si veda a tal proposito Di Muro, Economia e mercato nel Mezzogiorno longobardo, cit.,
pp. 25 ss. con bibliograia.
86
Ad es. CDC, I, pp. 2-3 (Eboli); CDC, I, 4, p. 4. Ivi, p. 6; ivi, pp. 35-36; ivi, pp. 39-40 (agro
nocerino), CDC, I, p. 8, CDC, I, pp.18-19 (colline di Salerno), CDC, I, pp. 189-190 (Cava).
87
Si vedano ad es. Cuozzo, Martin, Documents inédits, cit., 10; CV, I, pp. 271-272 (campagne di Alife); CV, I; pp. 265-266 (agro di Capua); CV, I, p. 267 (Lucera).
85
La vite e il vino
145
di appoggiare la vite ad un sostegno morto, secondo la tradizione greca88.
Nel Mezzogiorno la questione appare più complessa. Per i secoli VIII
-IX risulta dificile indicare nelle varie aree subregionali tecniche di coltivazione speciiche; i numerosi documenti che, come si è visto, attestano la diffusione della vite un po’ dappertutto nel Mezzogiorno, non sempre precisano
la natura dei vigneti. Nell’agro nocerino, in Campania, l’arbustum vitatum, la
tecnica della vite maritata all’albero, la cosiddetta alberata, è decisamente dominante, anzi, dalla documentazione del IX secolo la vite anadendrite risulta
la sola tecnica di coltivazione viticola utilizzata in quelle terre89.
Nelle campagne appena a sud di Salerno un terreno coltivato con arbustum vitatum è attestato già nell’84890. Arbusta vitata nell’area capuana sono
ricordati in due documenti dell’825 e dell’85291. Una terra coltivata ad arbustum vitatum è menzionata nell’845 nei pressi di Benevento92. Sembrerebbe
che il termine generico vinea nasconda in molti documenti dell’VIII e IX
secolo la presenza di altri tipi di tecniche di coltivazione (a sostegno morto o
ad alberello). Ciò sembra potersi dedurre dall’attestazione in una medesima
area di arbusta vitata e vinea negli stessi anni, ad esempio nelle campagne di
Salerno e nella Terra di Lavoro, quest’ultima una delle aree dove oggi la vite
maritata all’albero è più diffusa.
In conclusione sembra potersi affermare che la diffusione dell’alberata
tra VIII e IX secolo fosse alquanto limitata, se non in isole territoriali dove
tale tecnica imperava quali l’agro nocerino. La coltivazione a pergola è invece attestata per la prima volta in un documento del 912 relativo ad una terra
cum pergola et cetrario et alii arboribus, all’interno della città di Salerno nel
quartiere Orto Magno93.
I. Pini, Vite e olivo nell’alto Medioevo, in L’ambiente vegetale nell’Alto Medioevo, Settimane del CISAM XXXVII, Spoleto 1990, pp. 340-342.
89
CDC, I; 4, p. 4. Ivi, p. 6; ivi, pp. 35-36; ivi, pp. 39-40; ivi, I; p. 15; CDC, I, pp. 26-27; CDC,
I, pp. 27-28. (si tratta dei documenti citati sopra relativamente all’area di Nocera).
90
CDC, I, p. 34.
91
Gattola, Accessiones, cit., I, 31. Cuozzo, Martin, Documents inédits, cit., 27, Anghiena
(Ce).
92
CDC, I; pp. 44-45, in Rotalo, località tra Beneveto e Ceppaloni, si veda CDV, I, p. 112.
93
CDC, I, pp. 167-168.
88
146
2.
Alessandro Di Muro
La viticoltura nei secoli X-XIII
A partire dalla metà del IX secolo le guerre intestine tra i longobardi
e l’inasprimento dei conlitti legato alla devastante presenza degli agareni,
conseguirono un forte arretramento delle coltivazioni, in particolare in alcune
aree del Mezzogiorno longobardo. Accanto a questi accadimenti, fenomeni
più propriamente strutturali incisero sull’andamento dell’espansione agraria.
Dopo la grande crescita economica del periodo che va grosso modo dal 750
all’840, la seconda metà del IX secolo segnò l’accentuazione della crisi della
grande azienda curtense nelle terre longobarde. Tale crisi, in gran parte collegata al declino della servitù di massa, ebbe tra le conseguenze la necessità
di frazionare la riserva signorile, nel quadro di una forte crescita demograica
rilevabile a partire dalla metà del X secolo dopo i lunghi conlitti che segnarono la seconda metà del IX secolo e i primi decenni del successivo. Vi fu
pertanto la necessità di rimodulare i rapporti tra grandi possessori e rustici.
Furono questi fattori che giocarono un ruolo importantissimo nella genesi dei
nuovi quadri territoriali-insediativi e di un rinnovato paesaggio agrario, come
risulta evidente nella dinamica del passaggio, in territorio longobardo, dalla
curtis al castello, dove la concessione del terreno ai coloni diventa il nuovo
elemento basilare del proitto signorile e lo strumento della nuova grande
crescita dell’antropizzazione delle campagne nel X secolo, nel quadro della
costruzione di un habitat rurale più razionale, in cui l’accentramento viene
a costituire il fattore caratterizzante di un processo di cristallizzazione degli
assetti rurali che si può dire concluso nel XII secolo e che costituirà l’impalcatura insediativa pressoché deinitiva delle campagne meridionali nei secoli
a seguire94.
Nel corso del X secolo si colgono evidenti segnali di crescita economica
e di incremento demograico anche nelle terre ritornate sotto il dominio bizantino a partire dalla seconda metà del IX secolo, con testimonianze di disboscamenti e boniiche, anche grazie all’opera di quelli che il Guillou indicò
come “monaci dissodatori”95.
La ripresa agraria di questi secoli ebbe naturalmente conseguenze poPer una sintesi abbastanza recente di tali fenomeni si veda J.-M. Martin Città e campagna:
economia e società, in Storia del Mezzogiorno, a cura di G. Galasso, R. Romeo, Napoli 1990
III, pp. 282 ss. Nuove considerazioni sull’argomento in Di Muro, Economia e mercato, cit.,
pp. 26 ss.
95
A. Guillou, Aspetti della civiltà bizantina in Italia, Bari 1976, p. 271.
94
La vite e il vino
147
sitive sulla coltura della vite, in forza anche della diffusione dei contratti ad
pastenandum e ad laborandum a partire dai primi decenni del X secolo, in
particolare, come si vedrà, per le favorevoli condizioni che tali forme contrattuali garantivano ai coloni. Tale circostanza permette di seguire l’espansione
della vite soprattutto per alcune aree del Mezzogiorno96, e, allo stesso tempo,
consente di osservare le conseguenze che i lunghi conlitti ebbero nelle diverse aree subregionali, in particolare nei territori longobardi, ma fornisce anche
utili suggestioni circa le dinamiche del popolamento, grazie all’osservazione
dell’andamento di uno degli indicatori antropici più eficaci, in ragione della
sua diffusione, quale appunto è la vite. È appena il caso di ricordare la differenza tra le due tipologie contrattuali sopra menzionate: mentre il pastinato
ha come obbiettivo l’introduzione di nuove colture in una terra solitamente incolta, la traditio ad laborandum è tesa esclusivamente a migliorare la
produzione delle colture già esistenti97. Tali contratti risultano, come è noto,
particolarmente minuziosi nell’indicare consuetudini, rapporti tra possessore
e colono, tecniche di coltivazione, oltre a fornire preziose notizie sull’armamentario a disposizione del colono, consentendo di individuare le afinità e le
differenze tra le diverse aree regionali e subregionali del Mezzogiorno.
Con il decimo secolo si assiste un po’ ovunque ad una forte avanzata della coltivazione della vite, conseguenza di una rilevante crescita demograica
di cui si hanno numerosi indicatori.
Di seguito si cercherà di fornire una panoramica sulle vicende della viticoltura meridionale tra la metà del X e gli inizi del XIII secolo. A tale scopo
una suddivisione per aree regionali e subregionali diventa ineludibile a ragione di una serie evidente di fattori, riassumibili nella varietà delle strutture
economiche, politiche, culturali e degli assetti pedologici delle diverse aree
che formano il Mezzogiorno98.
In particolarmente, come si vedrà, in Campania e nel Sannio. Tali tipi di contratto sono documentati tuttavia già dagli ultimi decenni del IX secolo, si veda, CDC; I; pp. 128-129, a. 884.
97
Si veda a tal proposito ad es. Lizier, L’economia rurale, cit., pp. 80-86; Del Treppo, Amali,
cit., pp. 24-25.
98
Evidentemente un’analisi di questo tipo risulta condizionata dalla già ricordata carenza di
studi più o meno speciici a carattere locale.
96
148
Alessandro Di Muro
2.1 Pianura e colline salernitane
L’analisi delle attestazioni della coltivazione della vite nel territorio immediatamente ad est di Salerno (l’area tra i iumi Irno e Fuorni) ne indica la
netta prevalenza sulle altre produzioni agrarie tra il IX e l’XI secolo. In generale su un totale di 109 documenti in cui sono rammentate coltivazioni, in
ben 90 casi ritorna il termine vinea o arbustum vitatum99. Appare signiicativo
come il primo documento pervenutoci che menzioni il territorio tra Salerno
e il Fuorni, un contratto di compravendita dell’837, testimoni, si è visto, la
presenza di due terre del locus Felline in cui sono impiantati vigneti100. Nel
corso del IX secolo la vigna si manifesta già come coltura preponderante nel
territorio101; in particolare la sua presenza appare predominante tra le colline
di Giovi, poco distanti dal nucleo urbano, dove si rinviene la metà delle attestazioni complessive102. Nella seconda metà del X secolo si assiste ad una
forte avanzata della vite che si ritrova in tutte le contrade della forìa salernitana, con una particolare rilevanza nei pressi dell’Irno e nel locus Felline.
Le attestazioni della vite appaiono stabilizzarsi nell’XI secolo, quando ormai
vigne risultano iorire in tutte le contrade tra Salerno e il Fuorni.
Una così macroscopica presenza della vite ne suggerisce il ruolo fondamentale all’interno dell’economia e del paesaggio agrario nelle terre tra
Salerno e il Fuorni.
Il cospicuo numero di documenti permette di gettare luce sulle tecniche viticole adottate nelle campagne salernitane tra X e XI secolo. Per prima
cosa bisogna sottolineare come in questa parte della Longobardia minore non
pare esservi stata preferenza sul tipo di allevamento da adottare, risultando
ugualmente attestato l’uso della tecnica a sostegno vivo accanto alla tecnica
a sostegno morto103. Le due tecniche di piantumazione sono infatti riportate
Per il problema della coltivazione della vite e del paesaggio agrario nelle terre ad est di
Salerno tra i secoli VIII e XI si rimanda a Di Muro, Mezzogiorno longobardo, cit., pp. 31-63.
100
M. Galante, La datazione dei documenti del Codex Diplomaticus Cavensis. Appendice:
edizione degli inediti, Salerno 1980, pp. 159-160.
101
Su 14 documenti la vite è ricordata in ben 10 casi. Si veda Di Muro, Mezzogiorno longobardo, cit., pp. 33 ss.
102
CDC, I, pp. 18-19, a. 837; ivi, pp. 52-53 a. 855; ivi, pp. 54-55, a. 856; ivi, pp. 59-60, a.
857; ivi, p. 93, a. 871; ivi, pp. 95-96, a. 872.
103
A differenza di quanto accade nell’Italia settentrionale dove, si è detto, sembra scomparire
la tecnica dell’arbustum gallicum di tradizione gallo-romana a vantaggio della coltivazione a
sostegno morto e a potatura corta; cfr. I. Pini, Vite e olivo nell’alto Medioevo, in L’ambiente
99
La vite e il vino
149
con la medesima frequenza nei patti agrari e nei negozi di compravendita e
addirittura convivono su di uno stesso fondo, come emerge ad esempio in una
traditio ad pastenadum del 1005 in cui si chiede al pastinatore di impiantare
arbustum et binea104 in una terra del locus Forino. La persistenza della tecnica
del sostegno morto accanto all’alberata nelle colline appena ad est di Salerno
è ancora ben attestata nel XII secolo: tra i tanti esempi possibili si riporta un
diploma del 1127 in cui il duca normanno Guglielmo I offre all’arcivescovo
salernitano Romualdo Guarna integras terras cum vineis et arbustis et viridariis et vacuis nobis pertinentibus foris hanc predictam Salernitanam civitates
in locis Locubia et Felline et ubi Pratum et Cerbaricia dicitura luvio scilicet
Locubia usque rivum maris que videlicet terre dicuntur Pastene et Arbusta
domnica105.
Le carte sono prodighe di informazioni sulle modalità con le quali dovranno effettuarsi gli impianti dei vigneti e su come bisogna provvedere alla
loro salvaguardia. Molto minuzioso nella descrizione delle operazioni da
compiere per la cura e la protezione di una vigna risulta un contratto del
965106 in cui due fratelli consegnano ad laborandum a Corbus liber homo una
binea che si trova in prossimità delle mura, foris porta rotense. Insediatosi
sulla terra, Corbo dovrà vinea temporibus suis lavorare, potare, propaginare,
ligare, zappare et eas custodire et salba facere et bindemiare. I concedenti
dovranno costruire una casa nella quale Corbo abiterà per poter meglio ipsa
vinea […] custodire; lo stesso inine è obbligato a circo in giro terra ipsa
cum vinea et vacuum ex omni parte cludere, ut ibidem animalem maiorinum
intrare non possat.
Allontanandosi dalle terre più prossime alla città la situazione non cambia. Nel 1022 Maione abate dell’Eigenkloster salernitano di San Massimo,
fondato dal principe Guaiferio, consegna ad Angelo una terra in loco Mairano nella quale il colono si impegna ad abitare e lavorare arbustum et ubi
minus abuerit arbores et vites planctemus et propagines tragamus, […] et
vegetale nell’alto Medioevo, Settimana del CISAM XXXVII, Spoleto, 1990, pp. 349-350.
Nella documentazione del Mezzogiorno con arbustum o arbustum vitatum si indica la presenza di un albero che funge da sostegno vivo, con vinea l’uso del sostegno morto.
104
CDC, IV, p. 43. Che per arbustum si intenda arbustum vitatum si deduce da altri contratti
in cui si richiede l’impianto di arbusta e la corresponsione di canoni in vino come nel locus
Uliaria nel 1007, CDC, IV, p. 89.
105
Il documento è riportato in Paesano, Memorie per servire alla storia della chiesa salernitana, Napoli, 1846-1857, II, pp. 73-75.
106
CDC, II, p. 26.
150
Alessandro Di Muro
cludamus illut et clusum illut abeamus107. Ancora, nel 1003 l’abbate Dumnello della chiesa salernitana di Santa Maria de domno concede una pecia de
terra cum binea et pomis nel locus Liciniano al prete Madelmo, il quale dovrà
per annum apto tempore scolciare [sarchiare], et ubi meruerit, vites plantare
et surgere et inpalare ad palos vonos issicio et ligare et zappare et circoitum
cludere108.
I documenti analizzati offrono lo spunto per alcune considerazioni sulle
tecniche di coltivazione della vite, indicazioni, come si vedrà, valide anche
per altre aree della Campania.
Ogni anno il colono, nella stagione opportuna, provvede ad ampliare il
vigneto tramite la propaggine, richiesta questa quasi sempre presente nei contratti salernitani. Si tratta di un tipo di propagazione vegetativa della vite che
avviene, negli impianti a sostegno morto, per mezzo dell’interro parziale di
uno o più tralci della pianta madre, dalla quale il tralcio non viene separato
immediatamente in modo che la crescita delle radici avvenga mentre esso
riceve ancora nutrimento dalla vite da cui proviene. Il tipo di tutore che viene
associato al vitigno è, nell’ultimo documento analizzato, un palo di legno ben
inisso nel terreno (palos vonos issicio), ma altre volte è la canna a sostenere la vite, insieme agli stessi pali, come attesta una carta del 1061 in cui al
concessionario di una terra è fatto obbligo di inpalare incannare ligare bona
sicut decet la vigna109. È molto probabile che la pianta venga legata al tutore
tramite i rami dei salici, il cui legno poteva tornare utile anche per i pali110, resistenti e lessibili, come ancora poteva capitare di osservare nelle campagne
del salernitano ino a qualche anno addietro; induce a pensare così la frequente associazione della vite al salice, oltre alle canne, che afiora dai contratti111.
L’altro modo in cui si coltivava la vite, si è già detto, viene ricordato
dalle fonti col nome di arbustum vitatum. Si tratta dell’alberata campana,
CDC, V, p. 53.
CDC, IV, p. 30.
109
Galante, La datazione dei documenti, cit., a. 1061, p. 292. La terra si trova a Salicto nelle
vicinanze di Salerno.
110
Da un documento relativo a un fondo nel territorio di Vietri si desume chiaramente che
pali per le vigne si ricavavano anche da quercia e licine. Galante, La datazione dei documenti,
cit., p. 294, a. 1061.
111
L’associazione vigna canna e\o salice in CDC, I, p. 18, a. 837 (in due fondi distinti ma
contigui e di uno stesso possessore a Giovi); ivi, p. 19 a. 837 (come il precedente, a Felline);
ivi, p. 59, a. 856 (a Giovi); Cassese 1950, p. 18 a. 929 (nei pressi dell’Irno); CDC, I, p. 256
a. 957 (vicino all’Irno)
107
108
La vite e il vino
151
ancora oggi in uso in alcune aree della Campania settentrionale. Dificile dire
con quali alberi venisse maritata la vite in questi anni. Nella tradizione campana la vite arbustata è costituita dall’associazione all’olmo ed ancora oggi
il paesaggio di molte campagne tra Aversa e Caserta è caratterizzato da tale
associazione, ma un documento del 1022112 riguardante l’afidamento di una
terra a est di Salerno, fornisce una preziosa quanto rara notizia su come si
creava l’arbusto vitato: il concessionario potrà spurgare le querce qui ibi sunt
et iactare ibi vites de bono vitineo et pro arbustum illas semper ibi aberet. La
prima operazione da compiere è dunque la potatura (spurgare) della quercia
sulla quale in seguito si impianta (iactare) la vite, secondo un metodo ancora
raccomandato nel nostro secolo per l’impianto di viti maritate agli arbusti113.
È probabile che in questo periodo la vite venisse maritata ad altri alberi, ma le
fonti salernitane non forniscono altre notizie.
Ancora un altro modo per coltivare la vita era la pergula114, per la quale
viene esplicitamente vietata l’associazione all’arbusto vitato115, forse per la
necessità di tenere distante il pergolato dagli alberi che potevano impedire in
qualche modo l’ottimale esposizione al sole. Alcune volte nelle traditiones
ad laborandum si trovano indicazioni più generiche quali vinea lavorare et
cultare ma il fatto che in questi casi siano riservate alla sola vigna ne attesta
in ogni caso l’interesse preponderante da parte del concedente116.
Non è facile stabilire a quali altre colture venisse di preferenza associata
la vite; dalla documentazione emerge come pressoché ogni prodotto agricolo
venisse coltivato nel medesimo podere insieme alle viti.
Dalle traditiones ad laborandum si ricava come il concessionario versasse in genere la metà di quanto la vigna produceva al concedente117, di solito
vino ma in alcuni casi uva probabilmente da consumare a tavola118. La grande
CDC, V, p. 56.
Cfr. Enciclopedia Italiana, vol. XXXV, s.v. Vite, p. 581.
114
CDC, IV, p. 131, a. 1009, qui si prescrive che in altum facere su una via commune che
divide due poderi. Si veda anche, V, p. 53 a. 1022.
115
Ivi, p. 54, et ipsa pergula donec ibi fuerit et non ibi facerimus arbores vitatos.
116
In un documento del 995 ad esempio accanto alla vigna si ricordano in uno stesso appezzamento di terra altre colture ma solo per la prima ci si premura esplicitamente afinché il
concessionario la coltivi, CDC, III, p. 29.
117
Ad esempio CDC, II, p. 94 a. 975; CDC, IV, p. 89, a. 1007; CDC, VI, p. 133, a. 1040. Solo
in un caso Dauferio abate di Santa Maria de domno richiede per la traditio di una terra nel
locus Liciniano la corresponsione dei 3\5 del vino prodotto, CDC, V, p. 107, a. 1025.
118
Ad es. Lirino, CDC, V, p. 174, a. 1029.
112
113
152
Alessandro Di Muro
espansione della vite non doveva iniciare la qualità del prodotto, come si deduce dalle esplicite richieste di impiantare vites de bono vitineo che in genere
si rinvengono nei contratti119.
La grande espansione della vigna in quest’area è legata, come si è già
accennato, alla diffusione del contratto ad pastenandum. Il primo documento
di questa natura conservato per quest’area, fornisce già in nuce gli elementi
qualiicanti che contraddistingueranno questa tipologia contrattuale nel Salernitano, sono ben oltre il termine dell’esperienza politica longobarda in Italia
meridionale. Nel 957 i fratelli Potone ed Alfano concedono a Giovanni una
terra bacua nei pressi dell’Irno afinché egli impianti, dove sarà possibile,
vinea de bono vitineo per un periodo di 9 anni; durante questi anni i frutti
saranno esclusivo appannaggio del pastinatore. Trascorso il periodo stabilito
Giovanni e i suoi eredi ipsa vinea plena nobis faciant salba… et ipsa terra
cum vinea plena inter nos dibidamus, nos tollamus medietatem et ille et eius
heredes tollat exinde medietatem… et quantum de ipsa terra non potuerit
ille pastinare vinea ipso bacuum rebertar ad nostram potestatem, si procede
cioè alla spartizione della terra, esclusa la parte del fondo in cui non è stata
impiantata la vigna120.
Una traditio ad pastenandum di qualche anno più tarda indica in maniera
più precisa gli accordi tra concedente e concessionario. Sasso qui fuit ex genere Francorum e che tiene ad evidenziare la sua condizione di liver homo,
riceve una terra bacua da Mari e Amato a Felline nella quale dovrà impiantare una vigna; per 11 anni vi abiterà e attenderà alla cura della vigna ed ogni
fruges et vinum rimarrà a lui ino a quando, concluso il periodo stabilito, il
podere pastenato sarà diviso a metà, con la clausola che qualora il pigiatoio e
l’abitazione dovessero rientrare nella parte scelta dai concedenti, Sasso abbia
il diritto di smontarli e portarli nella sua pecia121.
Dall’analisi dei due contratti emerge come differisca il periodo di concessione della terra per l’impianto della coltura, vincolato essenzialmente alla
consuetudo loci, come è esplicitamente indicato in un documento del 1005122,
variazione probabilmente dovuta alla differente natura pedologica dei terreni
(il terreno nei pressi dell’Irno è maggiormente irriguo). Inoltre si può notare
Si veda tra i tanti un contratto ad pastinandum riguardante una terra in loco Verinianum in
cui si richiede di impiantare vites de bono vitineo, CDC, IV, p. 143 a. 1003
120
CDC, I, p. 256.
121
CDC, II, p. 22, a. 965.
122
CDC, IV, p. 43.
119
La vite e il vino
153
come essi partecipino congiuntamente della natura esplicitamente dichiarata
del pastinato e della parzionaria, circostanza che dipende dalla volontà del
concedente e non costituisce una regola nella contrattualistica salernitana123.
Diversa dai casi inora esaminati risulta la situazione nei poderi afidati ad pastenandum da San Massimo; nelle terre gestite dall’importante chiesa privata
fondata dal principe Guaiferiointorno all’868, non si rinviene in alcun caso
l’associazione della parzionaria al pastinato124. Nei contratti degli abbati della
chiesa salernitana di San Massimo però, a fronte della mancata assegnazione
di parte della terra messa a coltura, si concede la possibilità al colono di continuare a risiedere, una volta terminato il periodo della pastinatio, sul podere
ino a quando vorrà in cambio della corresponsione di un canone sensibilmente minore rispetto alle consuetudini correnti125.
Un sistema analogo sembra essere perseguito dall’altra fondazione principesca salernitana, Santa Maria de domno, nelle cui terre, come in quelle di
San Massimo, non è contemplata l’assegnazione ad pastenandum in partem
senza, peraltro, la concessione di canoni più bassi al termine della pastenatio126. Traditiones ad pastenandum di tale tipo si rinvengono anche ad Ogliara
nel 1027 e nel 1028127. La tipologia mista pastinato-parzionaria si coglie nei
patti istituiti tra la cappella palatina salernitana di San Pietro e Paolo e i pastinatori a Brignano nel 1003128, a Ogliara nel 1007129 e nell’unico documento
conservato relativo ad un contratto ad pastenandum concesso dalla Chiesa
salernitana nell’area in esame130.
Talora avveniva che il pastinatore non riuscisse a portare a termine l’opera intrapresa a causa di una calamità; accade così ad esempio nel 1009 quando
Giovanni e i fratelli Grimoaldo e Bono si recarono dall’abbate della cappella
123
Stessa situazione si riscontra in questi anni ad Amali, cfr. Del Treppo, Amali, cit., pp.
26-27.
124
Si vedano i contratti CDC, IV, pp. 43-45, a. 1005; ivi, pp. 51-52 a. 1005; CDC, V, pp. 5354, a. 1022; CDC, VI, pp. 133-134, a. 1040. Per San Massimo, B. Ruggiero, Principi, nobiltà
e Chiesa nel Mezzogiorno longobardo. L’esempio di San Massimo di Salerno, Napoli 1973.
125
Per i canoni si veda più avanti.
126
CDC, V, p. 107, a. 1025, terra nel locus Licianianus.
127
Ivi, p. 128; p. 145. Si tratta di concessioni fatte da due nobili salernitani, la prima per un
periodo non precisato amodo et omni tempore, per cui potrebbe trattarsi di un contratto vita
natural durante, e la seconda per 12 anni; al termine della messa a coltura i pastinatori dovranno corrispondere ai possessori la metà dei prodotti delle terre.
128
CDC, IV, p. 143 (inserto).
129
Ivi, p. 89.
130
CDC, III, p. 100, a. 1000, a Montena.
154
Alessandro Di Muro
palatii salernitana, Pietro, narrandogli come non avessero potuto completare la
pastinatio di alcune terre loro afidate nel 1003 presso il Grancano, pro inumdatio aquarum que ibi suprabondavit et dragonavit (irruppe entro i conini del
podere). Avevano, a causa di quella avversità, perduto magna pars di quanto
in allora erano riusciti a mettere a coltura e non gli rimaneva altro da fare che
andare dall’abbate pregandolo ut misericordiam facere eorum. Pietro, viscera
pietatis permotus, acconsentì alle richieste degli sventurati concedendogli di
nuovo le terre alle stesse condizioni del 1003131. Altre volte i pastinatori non
riescono a completare l’incarico loro afidato. Singolare sembra la vicenda di
una terra bacua de loco Felline in monte qui dicitur Vetrano che nel 975 Mari
e suo nipote Amato concedono a Sasso per 11 anni afinché vi impianti una
vigna132, ma che nel 979 viene tradita a Costantino e Pietro per lo stesso ine133;
nel 1003 un documento svela che i due “nuovi” concessionari non hanno ancora completato la messa a coltura della terra, per cui l’erede di Mari, insieme ad
Amato, decide di risolvere la questione con un accordo che prevede l’assegnazione di un terzo della terra a Costantino e Pietro134. Il fatto che dopo 30 anni la
terra non fosse stata ancora completamente messa a coltura è probabilmente da
ricondurre alla natura del territorio, in quella zona forse non adatto all’impianto della vite, motivo che doveva aver spinto Sasso ad abbandonare l’impresa
dopo quattro anni. Nei due casi esposti (gli unici documentati in cui non viene
portato a buon ine l’accordo) la facoltà di riconfermare la terra o di afidarla
ad un altro pastinatore è del proprietario, a differenza di quanto evidenziato
dal Del Treppo per gli stessi anni in costiera amalitana dove si hanno esempi
di concessionari che non potendo o non volendo portare avanti la coltivazione,
cedono, dietro censo, il podere ad altri coloni e non al concedente135.
Il possessore non interviene in maniera sensibile nell’organizzazione del
fondo; in genere il concessionario può strutturare il podere come meglio ritiene136 in quanto la preoccupazione più urgente del possessore pare risiedere
per lo più nell’esazione dei prodotti o, come si è visto, nell’indicare al colono
i modi di curare alcune colture, in particolare la vite.
CDC, IV, p. 144.
CDC, II, p. 94.
133
Ivi, p. 128.
134
CDC, IV, p. 18.
135
Del Treppo, Amali, cit., p. 30.
136
Non riporto esempi perché tale dato è riscontrabile immediatamente pressoché in tutti i
contratti agrari citati, nella iterazione di espressioni quali quantum potuerit pastenare… et
omnis utilitatem ibidem liceat facere… faciat exinde que ei placuerit etc.
131
132
La vite e il vino
155
L’acqua è un elemento essenziale per la gestione e il miglioramento delle
produzioni, così sorgono spesso dispute per il possesso dei canali attraverso i
quali si irrigano le terre delle curtes. Nel 994 ad esempio gli abbati dei cenobi
salernitani di San Lorenzo e di San Massimo sono gli attori di un giudicato
per il possesso di un aquarium che portava dal ribus Faustini l’acqua a due
corti contigue dei monasteri, a super berolasi, appena fuori le mura di Salerno137. Dopo l’esposizione dei termini del problema si perviene ad un accordo:
l’acqua continuerà ad afluire alla curtis di San Massimo attraverso un canale,
una diramazione del principale, e San Lorenzo, nei cui possedimenti passa
l’aquarium, porrà un suo canale nei pressi del primo per i bisogni della sua
curtis. Qualora vi fossero dei danni all’aquarium l’abate di San Massimo ha
la potestà di entrare nella corte di San Lorenzo per effettuare le riparazioni
necessarie. In un documento del 1005138 l’aquarium in questione è deinito
antiquum, dunque si trattava probabilmente di un acquedotto romano, e si
deinisce come viene ripartita l’acqua che attraverso esso giunge alla curtis di
San Lorenzo: metà sarà addotta per le necessità delle terre dell’episcopio, un
quarto andrà alla curtis di San Lorenzo, l’altro quarto alla curtis di San Massimo. Si tratta di un elaborato sistema di canalizzazioni, che ha come asse un
collettore principale, l’aquarium, dal quale si diramano i canali minori, e dal
quale, come si esplicita nel documento, è possibile collegare altri adduttori
idrici139. Quando non ci sono né canali né pozzi si può attingere alla fontana
della terra coninante che appartiene al concedente, come capita ad esempio
in una traditio del 979 riguardante un podere con vigne a Felline140 o nel 995
a Giovi141. La situazione colturale doveva presentare signiicative differenze
da contrada a contrada ino alla metà del X secolo, periodo in cui si rinvengono esclusivamente compravendite donazioni e giudicati; in particolare tali
differenze sono marcate quando si va a considerare le zone più prossime alla
città e i loca compresi tra Giovi e il Fuorni. L’analisi delle attestazioni delle
CDC, III, pp. 14-16.
CDC, IV, p. 59 e ss.
139
Et pars predicti monasterii [San Lorenzo] poneret ibidem iusta ipsum canalem alium
suum canalem semper pars partium canalis ipsi ibidem abendum et ipsa aqua per ipsi canali
discurreret, et quanta aqua discurserit per ipsum canalem sancti maximi et quanta aqua
discurserit per ipsum canalem predicti monasterii, tota discurreret per aquario, unde consuetudo fuit, usque in ipsa curte predicti monasterii ubi ipsa ecclesia sancti sebastiani est.
CDC, III, p. 15.
140
CDC, II, p. 128.
141
CDC, III, p. 29.
137
138
156
Alessandro Di Muro
colture mostra già lungo tutto il IX secolo una forte presenza di vigne e alberi
da frutto tra le mura sud orientali di Salerno e il Locubia mentre oltre questo
torrente e nella pianura del Grancano solo con la comparsa dei contratti ad
pastenandum, nella seconda metà del X secolo, si rinvengono menzioni di
colture. È probabile che queste ultime aree fossero caratterizzate, avanti la
metà del X secolo, accanto a zone del tutto incolte142, da una forte presenza di
seminativi, coltivati forse in quelle terre bacibe nelle quali si rinvengono le
vigne impiantate dai pastinatori a partire dalla seconda metà del X secolo143.
Con la comparsa del pastinato si assiste ad una intensa trasformazione del
paesaggio agrario, in particolare nelle aree tra il Locubia e il Fuorni dove un
gran numero di terre vacue iniziano a coprirsi di vigne.
L’introduzione della vite pare essere, tra il 951 e il 1000, la preoccupazione principale da parte dei concedenti nelle campagne salernitane: i sei
contratti ad pastenandum relativi a tale periodo ricordano tutti la presenza di
viti o di arbusta vitata144, cui talora si accompagnano alberi da frutto, canneti e saliceti. La medesima sollecitudine per l’impianto di colture viticole
si riscontra tra il 1001 e il 1050: anche in questo periodo l’immissione della
vite viene prevista in ogni contratto ad pastenandum pervenuto145, ma sembra
calare piuttosto sensibilmente l’incidenza percentuale di tale coltura sul totale
delle coltivazioni introdotte nello stesso periodo rispetto al periodo precedente. Se infatti tra il 951 e il 1000 la vigna costituiva il 37% di tutte le colture
che si richiede di impiantare nei documenti analizzati, tra il 1001 e il 1050
scende al 23% mentre gli alberi da frutto mantengono la medesima incidenza
percentuale (19%) e si impiantano, seppur di rado, colture quali castagni e
olivi prima assenti. In particolare tra il 1001 e il 1050 le aree più lontane dal
centro risultano interessate da impianti di nuove vigne mentre per le contrade
più prossime alla città non si rinvengono attestazioni di pastinati146.
Come ad esempio quella terra silbosa da dissodare (roncare) a Mairano nel 1020 (CDC, V,
p. 32) o quella terra cum silvis et bacibum da pastenare a Montena nel 1000 (CDC, III, p. 100).
143
Le terre afidate ai pastinatori tra il Locubia e il Fuorni risultano quasi tutte vacue o bacibe.
144
CDC, I, p. 257 a. 957; CDC, II, p. 94, a. 975; ivi, p. 128, a. 979; ivi, p. 22, a. 965; CDC, V,
p. 33, a. 972 (inserto); CDC, III, p. 100, a. 1000.
145
Si tratta di dodici contratti CDC, IV, p. 43, a. 1005; ivi, p. 51, a. 1005; ivi, p. 89, a. 1007;
ivi, p. 143, a. 1003 (inserto); ivi, p. 131, a. 1009; CDC, V, p. 53, a. 1022; ivi, p. 127, a. 1027;
ivi, p. 145, a. 1028; ivi, p. 107, a. 1025; CDC, VI, p. 133., a. 1040; ivi, p. 228, a. 1043; CDC,
VII, p.234, a. 1039 (inserto).
146
Si veda a tal proposito le tabelle e i graici pubblicati in Di Muro, Mezzogiorno longobardo, cit., pp. 55-57.
142
La vite e il vino
157
2.2 La pianura del Sele-Tusciano
Al centro della vasta pianura litoranea che si estende tra Salerno e Agropoli vi sono le fertili terre ebolitane comprese tra i iumi Tusciano e Sele, dove,
a partire dall’XI secolo l’abbazia della Santissima Trinità di Cava, detiene
vasti domini147. Polo amministrativo dei possedimenti cavensi in queste terre
è la chiesa San Mattia de Tusciano, prima Eigenkirche fondata dal principe
Guaimario IV di Salerno, poi priorato. Nel 1053 Mirandus abbas e presbyter
di San Mattia per comando (per iussionem) del principe di Salerno Gisulfo II,
afida a Consilio diaconus… presbyter de locum Tusciano un fondo di circa 6
ettari (200 passi di lunghezza e 80 di larghezza) della chiesa, in parte ad pastenandum. Consilio dovrà in primo luogo chiudere la terra afidatagli poi costruirvi all’interno una domus dove risiederà per i dodici anni stabiliti e potrà
chiamarvi uomini a lavorare. La parte della terra da colonizzare sarà coltivata
con arbusta vitata, vinea pomis et salices e portata alla produttività in 12 anni
sicut de tantos annos locus ipse meruerit. Ogni anno il concessionario dovrà
potare, propagginare, impalare, arare e legare cum boni pali la vigna e l’arbustum. Mirando manderà un missus ad aire (al tempo della mietitura) e ad
vindimie (alla vendemmia). Questi taglierà insieme a Consilio i salici rationabiliter per legare la vigna. Quando il missus verrà ad aire aiuterà Consilio
nelle operazioni di mietitura e portati i cereali all’aia saranno divisi in ragione
di 2/3 al concessionario e 1/3 alla chiesa. Lo stesso avverrà per il vinum portato al palmentum. Terminati i 12 anni Consilio lascerà il fondo. Così l’orto
costituisce una zona franca dove il colono agisce a suo piacimento, mentre la
vigna è il luogo dove egli è soggetto ai più scrupolosi dettami del concedente
ai quali deve minuziosamente attendere: il primo è dunque importante per
il colono, la seconda per entrambi. Dal documento emerge anche l’utilizzo
indifferenziato delle due tecniche di coltivazione della vite, situazione che in
queste terre risulta documentata ino al pieno XII secolo148.
La pianura del Tusciano e i primi rilievi collinari alle sue spalle erano
caratterizzati tra X e XI secolo da produzioni molto varie: a prevalere, ac-
Si veda A. Di Muro, La piana del Sele in età normanno-sveva, Bari 2005.
Si veda Pennacchini, Pergamene, pp. 73, 79, per la località Monte sulle colline di Eboli,
a. 1164; nella Piana un arbusto vitato è ricordato ancora nel 1189, AC, XLI, 99. Per la compresenza delle due tecniche di coltivazione A. Di Muro, La piana del Sele in età normannosveva, Bari 2005.
147
148
158
Alessandro Di Muro
canto alla vigna149, è il grano150, ma non mancano alberi fruttiferi di vario
genere151, ichi152, oliveti153 e anche castagni di pianura154. La documentazione
offre l’immagine di un territorio meridionale del Tusciano intorno alla metà
dell’XI secolo caratterizzato da vaste zone ormai agrarizzate costituite da un
mosaico di fondi afidati in gran parte a coltivatori attraverso contratti ad laborandum155. Di una certa rilevanza appare un atto di afidamento riguardante
la chiesa di San Nicola di Mercatello, nei pressi della foce del Sele: gli Eigenkirchenherren, membri di un’importante famiglia comitale salernitana, si
impegnano ad impiantare nelle terre che circondano la chiesa ben mille bites,
che il presbitero afidatario dovrà sorvegliare156. Si ha l’impressione che la
prima spinta colonizzatrice nell’area tra il Tusciano e il Sele si sia esaurita tra
la ine del X secolo e i primi decenni del successivo, con la costruzione di un
paesaggio agrario vario, in un contesto economico in cui lo sfruttamento delle
paludi e delle ampie foreste planiziarie assumeva un ruolo di grande rilevanza157. In questo senso spinge a credere anche lo scarso numero di contratti
149
CDC, II, p. 212, a. 977 (terre tra il Tusciano e il Laneo); M. Galante, Nuove pergamene del
monastero femminile di S. Giorgio di Salerno. I (993-1256), Altavilla Silentina 1984, pp. 5-9
(oltre il Tusciano), a. 1020; CDC, V, p. 244, a. 1033 (sulla sponda sinistra del iume); CDC,
VI, pp. 37-38, a. 1035 (vicino Sant’Arcangelo); CDC, VI, pp. 111-113, a. 1039 (ad est del
Tusciano); CDC, VII, p. 96, a. 1049 (nei pressi di Vallemonio); CDC, VII, pp. 203-205, a.
1053 (vicino San Mattia); CDC, VII, pp. 258-260, a. 1054 (ad est del Tusciano).
150
CDC, II, pp. 138-139, a. 980 (al di qua del Tusciano, vicino al iume); CDC, III, p. 86,
a. 998; CDC, IV, pp. 9-10, a. 1002 (in loco Pinu); Galante, Nuove pergamene, cit., pp. 5-9
(oltre il Tusciano) a. 1020; CDC, V, pp. 65-66, a. 1023 (ad est del Tusciano); CDC, VII, pp.
111-113, a. 1039 (sulla riva sinistra del iume); CDC, VII, pp. 203-205, a. 1053 (vicino San
Mattia); L. E. Pennacchini, Pergamene Salernitane (1008-1704), Salerno 1941, pp. 48-50, a.
1081, (Vallemonium).
151
Galante, Nuove pergamene, cit., pp. 5-9, a. 1020; CDC, V, p. 244, a. 1033 (sulla sponda
sinistra del iume); CDC, VI, pp. 111-113, a. 1039 (ad est del Tusciano); CDC, VII, pp. 203205, a. 1053 (vicino San Mattia).
152
CDC, VI, pp. 111-113, a. 1039 (ad est del Tusciano).
153
CDC, VII, P. 96, pp. 100-101, a. 1049 (Tra Vallemonio e Tusciano), due terra cum olibeto
distinte.
154
Galante, Nuove pergamene, cit., pp. 5-9, a. 1020; CDC, VI, pp. 111-113, a. 1039 (ad est
del Tusciano); CDC, VII, pp. 258-260, a. 1054 (ad est del Tusciano).
155
Si veda ad es. CDC, VII, pp. 258-260, a. 1054 in cui si fa riferimento a ben 6 fondi tra loro
coninanti afidate a 5 concessionari diversi.
156
CDC, V; pp. 170-172, a. 1029.
157
L’ultimo documento in cui si parla esplicitamente di dissodare una terra (roncare) è una traditio “mista” in cui, accanto al compito di seminare un campo, si domanda al concessionario
di dissodare una selva ista parte et erga ipso lubio Tusciano, CDC, II, pp. 138-139, a. 980.
La vite e il vino
159
ad pastenandum rispetto alle traditiones ad laborandum che si rinviene nei
primi decenni dell’XI secolo158. La forte crescita demograica del XII secolo
che si materializza nella presenza nelle terre tra il Tusciano e il Sele di ben
nove villaggi aperti (casales) e nell’espansione urbanistica di Eboli anche al
di là delle mura, indirizzerà l’agrarizzazione della pianura Tusciano in una
direzione prettamente cerealicola, con l’espianto delle vigne e degli alberi da
frutto159. I ritmi di questa trasformazione si possono cogliere agevolmente da
un’analisi delle percentuali delle colture deducibile dalla documentazione. Le
attestazioni di coltivi divisi in tre macroperiodi di 50 anni mostra le variazioni del paesaggio agrario nella piana di Battipaglia. Negli anni tra il 1085 e il
1150 emerge un sostanziale equilibrio nell’attestazione delle coltivazioni: se
i fruttiferi nel complesso raggiungono il 33% del totale, le colture cerealicole
rappresentano il 28%, mentre la vite incide per il 19%. Molto meno frequente
la citazione di oliveti (6%), forse talvolta considerati come alberi (10%) o
fruttiferi160.
Si tratta di un sistema in cui le colture arbustive prevalgono nettamente
sui seminativi nudi. Indubbiamente la presenza dei numerosi corsi d’acqua
che attraversavano la piana161, opportunamente sfruttati, i ricchi terreni calcarei e il clima mite dovevano favorire il successo delle colture arbustive. In
ogni caso appare evidente come questo paesaggio della Piana costituisca il
frutto della grande spinta colonizzatrice prodotta tra la seconda metà del X
e gli inizi dell’XI dal lavoro di concessionari di appezzamenti attraverso lo
Tra il 998 e il 1054 sono attestati 5 contratti ad laborandum (CDC, III, p. 86, a. 998; CDC,
IV, pp. 9-10, a. 1002; CDC, V, pp. 65-66, a. 1023; CDC, VI, pp. 111-113 [due terre concesse
ad laborandum ed una ad pastenandum]; CDC, VII, pp. 203-205 [una parte della terra andrà
pastenata]. C’è inine la già ricordata donazione del 1054 in cui si ricordano 6 fondi contermini concessi ad laborandum, CDC, VII, pp. 258-259.) a fronte di due ad pastenandum (CDC,
V, pp. 244-245, a. 1033; CDC, VI, pp. 111-113 [due terre concesse ad laborandum ed una ad
pastenandum]). Si veda Di Muro, Mezzogiorno longobardo, cit.
159
Per quanto segue si rimanda a A. Di Muro, La piana del Sele in età normanno-sveva, Bari
2005, pp. 89-129, con tabelle e graici.
160
Ad esempio in una concessione nel locus Tuscianus del 1132 un tale Glorioso afida al
chierico Amato una terra con arbusto, vacuo e alberi afinché vi pianti viti ed alberi fruttiferi; il concessionario dovrà versare annualmente come corresponsione parte delle colture
impiantate ossia grano, ichi, noci olive e altri frutti dopo averli essiccati (DTC, XXXII, 42).
Da questo documento si evince dunque come nei fruttiferi rientrassero spesso anche gli alberi
di ulivo.
161
Per un quadro della situazione idrograica medievale nella piana tra il Tusciano e il Sele Di
Muro, Mezzogiorno longobardo, cit. pp. 161 ss., e Id., La piana del Sele, cit.
158
160
Alessandro Di Muro
strumento del pastinato162. Il quadro muta radicalmente nella seconda metà
del XII secolo. Se si osservano i dati relativi alle produzioni agrarie tra il 1151
e il 1200 balza immediatamente agli occhi l’aumento impressionante delle
colture cerealicole (in massima parte grano e orzo): da un incidenza percentuale pari al 28% sul totale delle attestazioni si passa al 58%, più del doppio,
con un sensibile incremento a partire dagli anni ’70 del XII secolo163; il settore
che risentì maggiormente di questo incremento furono i fruttiferi che risultano crollare al di sotto del 10% delle attestazioni. Paradigmatico di questo
paesaggio oramai dominato da distese biondeggianti di grano è un documento
del 1188 con il quale l’abate di Cava Benincasa concede al viceconte Urso,
sette terre nel territorio del casale Tusciano: di queste una è coltivata ad arbusto vitato, le altre sei sono terre laboratoriae164. Il contrasto con quanto visto
per la prima metà del XII secolo appare evidente. La tendenza già individuata
nel periodo 1151-1200 si rafforza negli anni tra il 1201 e il 1250. In quest’arco cronologico le attestazioni delle colture cerealicole giungono al 74% del
totale, mentre scompaiono del tutto i vigneti e gli oliveti, con i fruttiferi che si
attestano al 12% delle colture menzionate nei documenti.
Del tutto diversa la situazione delle colture nelle immediate vicinanze
delle mura di Eboli, il cuore politico ed economico della Piana: qui la documentazione testimonia una presenza esclusiva di vigne accanto ad orti e
frutteti165. Anche sui colli intorno ad Eboli si nota una netta prevalenza di
colture arbustive. Sul colle Moreno, ad est del borgo, la coltura dominante
il paesaggio per tutto il periodo considerato è l’olivo che raggiunge il 78%
delle attestazioni tra il 1201 e il 1250166, seguito dalla la vite (22% nello stesso
periodo)167, mentre del tutto assenti risultano le colture cerealicole. Anche
Di Muro, Mezzogiorno longobardo, cit., pp. 230 ss.
Se si considera il periodo 1175-1200 le attestazioni di terre coltivate a cereali raggiungono
il 70% delle attestazioni totali.
164
DTC, XLI, 99.
165
Si veda ad es. DTC, XV, 10 (orto fuori dalla porta della Terra); C. Carlone, Documenti per
la storia di Eboli (799-1264), Salerno 1998, 257, a. 1172 (orto nel sobborgo Santa Trinità);
ivi, 308, a. 1181, (orto e fruttiferi nella località Pendino); ivi, 371 a. 1189 (vigna nel quartiere
di San Bartolomeo, loc. Francavilla).
166
CDV, VI, pp. 197-199, a. 1173; Carlone, Documenti per la storia di Eboli, cit., 374, a.
1189: ivi, 407, a. 1192; ivi, 454, 1196; ivi, 483, a. 1203; ivi, 518, a. 1212; ivi, 520, a. 1212;
ivi, 521, a. 1212; ivi, 523, a. 1212.
167
Ivi, 407, a. 1192; ivi, 429, a. 1193; ivi, 486, a. 1203; ivi, 507, a. 1210; ivi, 520, a. 1212;
ivi, 523, a. 1212.
162
163
La vite e il vino
161
nella località Sant’Andrea, colle a N-E dell’abitato di Eboli, si nota una predominanza delle colture arbustive con una presenza marginale dei cereali,
ridotti nella prima metà del XIII secolo ad appena il 12% delle menzioni
documentarie. Una situazione in parte analoga si riscontra sulle basse colline
immediatamente ad ovest di Eboli nella contrada di Grataglie. Qui le prime
attestazioni risalenti al XII secolo ricordano terre laboratorie accanto a fruttiferi, ma dagli inizi del XIII secolo le terre coltivate a cereali scompaiono per
lasciare posto a vigneti e oliveti
In deinitiva al termine di una trasformazione iniziata nei primi decenni
del XII secolo alla metà del XIII secolo il paesaggio agrario di Eboli trapassa da un modello di strutturazione agraria policolturale indifferenziata a una
forma di organizzazione estremamente razionale, declinata in aree produttive
diversiicate e compatte, integrate da ampie porzioni di territorio lasciate incolte (pascoli, boschi), che prevede la scomparsa del vigneto, degli ortivi e
dei frutteti quanto più ci si allontana dal borgo, oramai civitas demaniale, o
dalle immediate vicinanze dei casalia168.
2.3 L’agro Nocerino-sarnese
Si è già visto come la coltura della vite, in particolare dell’arbustum vitatum, fosse notevolmente diffusa nei ferili terreni vulcanici dell’agro nocerino
sin dal IX secolo. Anche qui, come nell’area salernitana, i numerosi documenti disponibili, conservati per lo più presso l’archivio cavense, permettono
di indagare in maniera approfondita la vicenda della coltivazione della vite tra
i secoli X e XI. In ogni caso qui, a differenza di Salerno, non sembra potersi
cogliere una frattura evidente nell’evoluzione del paesaggio agrario; certo
non mancano contratti ad pastenandum nei quali si richiede di impiantare
viti, ma molto spesso questi vanno ad integrare colture viticole già presenti.
Così ad esempio nel 953 un tale Maraldo detiene ad laborandum e ad pastenandum due pezzi di terra a Nocera appartenenti alla chiesa salernitana di
San Massimo; nel primo appezzamento il colono deve provvedere afinché
l’arbustum ivi piantato dia i suoi frutti; annualmente al tempo della vendemmia il concessionario dividerà il vino prodotto con la chiesa salernitana. Per
quanto riguarda il secondo appezzamento, Maraldo dovrà ibi pastenare per
168
Si veda in generale Di Muro, La piana del Sele, cit.
162
Alessandro Di Muro
ipsi arbores vites et propaginare et facias ibi arbusto vitatum, sicut locus
ipso meruerit; quando anche questo impianto sarà a regime dovrà dividere a
mezzo il vino prodotto con il concedente169. Nel 959 la stessa chiesa concede
una curtis nei pressi di Angri: anche qui arbusta vitata sono già presenti170.
Negli ultimi anni del X secolo sembra che la viticoltura dell’area nocerina sia
in fase avanzata, si potrebbe dire quasi completata: così in un documento di
locazione del 996 si precisa che delle tre terre afidate due sono già interessate
dalla presenza di arbusta vitata, nella terza invece tale coltura dovrà essere
impiantata171. Agli inizi dell’XI secolo le richieste di colonizzare terreni con
arbusta vitata sembrano scomparire nell’area di Nocera, mentre molto più
numerosi appaiono gli afidamenti di fondi dove già sussistono piantagioni di
questo tipo172, situazione che si fa più evidente tra gli anni 20 e gli anni ’70
dell’XI secolo173.
I coloni potevano contare su impianti di irrigazione artiiciali per coltivare i fondi loro assegnati: le strutture di adduzione idrica si avvalevano di
sistemi di piccole cataratte, clusae, che permettevano il deluire delle acque
all’occorrenza174.
A Salerno l’avanzata della vite nella seconda metà del X è chiaramente
connessa alla crescita urbana ben documentata dalle fonti scritte175, avanzata
che in principio si materializzò nella riconquista agraria dei territori periurbaCDC, I, pp. 236-237.
CDC, I, pp. 263-264. Altri esempi, ivi, pp. 267-268, a. 960;
171
CDC, III, pp. 54-55. Si veda anche ivi, III, pp. 65-66 a. 997, relativa a Nocera dove la
chiesa salernitana di San Massimo afida un appezzamento in cui impoiantare arbusta vitata,
le cui terre circostanti sono tutte già coltivate.
172
Si veda ad es. CDC, IV, pp. 5-6, a. 1002; ivi, pp. 14-15, a. 1002; ivi, pp. 21-23, a. 1003;
ivi, pp. 23-24, a. 1003; ivi, pp. 28-29, a. 1003; ivi, pp. 45-46, a. 1004; ivi, pp. 48-49, a. 1004;
ivi, pp. 128-129, a. 1009; ivi, pp. 218-219, a. 1013; ivi, pp. 286-287, a. 1018. Esempi di afidamenti ad pastenandum, CDC, IV, pp. 67-68, a. 1006; ivi, pp. 141-142, a. 1009. Bisogna
sottolineare come spesso in questi afidamenti si richieda anche l’impiantod di altri arbusta
vitata da afiancare a quelli già esistenti.
173
Si vedano ad esempio CDC, VI, pp, 35-36, a. 1021; ivi, pp. 175-176, a. 1029; ivi, pp. 236237, a. 1033; CDC, VI, pp. 42-44, a. 1035; ivi, pp. 55-56, a. 1036; ivi, pp. 108-109, a. 1039;
ivi, pp. 203-204, a. 1042; CDC, VII, pp. 176-177, a. 1052; ivi, pp. 265-266, a. 1054; CDC,
VIII, p. 8, a. 1057; ivi, pp. 179-180, a. 1061; ivi, pp. 281-282, a. 1062; ivi, pp. 314-315, a.
1064; CDV, I, 73, a. 1072.
174
Si veda ad es. CDC, II, p 15, a. 963, ipsa sortione mea de ipsa clusa de ipsa aqua, relativa
ad un fondo presso San Marzano sul Sarno (Sa).
175
Per la crescita urbana di Salerno nel X secolo si veda Delogu, Mito, cit., pp. 118 ss. e Di
Muro, Mezzogiorno longobardo, cit., pp. 138 ss.
169
170
La vite e il vino
163
ni già colonizzati tra la ine dell’VIII e la metà del IX secolo poi devastati dai
numerosi attacchi subiti dalla città tra la ine del IX e la metà del X secolo,
con un’ulteriore espansione, si è detto, tra la ine del X secolo e i primi decenni del successivo. Nell’area nocerina probabilmente tali incursioni furono
meno rilevanti per cui non vi fu necessità di una intensa ricolonizzazione
e anche la crescita demograica del X secolo dovette essere più contenuta
rispetto a Salerno, pertanto non si hanno testimonianze così numerose di pastinati in questo periodo.
Alcuni documenti della seconda metà del XII secolo sembrano suggerire
per le campagne di Nocera una nuova fase di espansione della viticoltura,
sempre con la tecnica dell’arbusto vitato176. A differenza delle terre di Salerno
nell’agro nocerino tra X e XII secolo continua a predominare incontrastata
l’alberata.
Anche nell’area di Sarno prevale la medesima tecnica di coltivazione
dell’arbusto vitato e grossomodo gli stessi obblighi per i concessionari. Nel
987 due rappresentati del ceto comitale salernitano afidano ad pastenandum
una loro terra a San Valentino Torio, non, lontano da Sarno, a due coltivatori
del luogo177; questi per dieci anni dovranno pastenare harboribus et vitis, et
faceret ibidem pastinum bonum cultum et surtum et operatum, sicut locus ipse
meruerit178.
2.4 La costiera amalitana
Per la vicenda del paesaggio agrario medievale in Costiera amalitana rimane punto fondamentale di partenza il già ricordato saggio su Amali di Mario Del Treppo del 1977. In esso lo studioso rilevava come l’impianto delle
viti abbia segnato la prima grande trasformazione delle campagne amalitane:
la diffusione del contratto ad pastenandum fu lo strumento attraverso il quale,
nel corso dell’XI secolo, le colline amalitane, ino ad allora carattarizzate
per lo più da incolto e seminativi nudi, si ricoprirono di vigneti. Nonostante
la progressiva introduzione del castagneto, a partire dalla seconda metà del
XII secolo, la vigna ino al XIII secolo rimase sostanzialmente predominante,
CDV, IV, 361, a. 1157; CDV, VI, 523, a. 1171; CDV, IX, 892, a. 1192.
CDC, II, pp. 245-247.
178
Nel XII secolo sussiste la stessa situazione, si veda ad es. CDV, VI, 592, a. 1176; CDV,
IX, 893, a. 1192.
176
177
164
Alessandro Di Muro
ino a quando l’avvento di nuove colture pregiate quali roseti e soprattutto
agrumeti, provvide a conferire un aspetto rinnovato al paesaggio amalitano179. Amato di Montecassino sottolinea l’importanza della viticoltura per gli
Amalitani narrando l’episodio relativo all’assedio di Gisulfo II quando il sovrano minacciò di estirpare i iorenti vigneti appena fuori le mura della città
costiera180. Anche Beniamino di Tudela, nella veloce descrizione dei luoghi,
si sofferma sulla ricchezza di vigneti e oliveti che circondano la città181.
La viticoltura dell’area amalitana si caratterizza sin dalle più antiche testimonianze per la tecnica di coltivazione a pergola, già incontrata in alcuni
documenti salernitani182. Come è noto, tale sistema di coltivazione consiste nel
realizzare alti montanti di legno collegati da salici, in modo che la vegetazione formi una sorta di sofitto verde da cui i grappoli pendono verso il basso. I
documenti di afidamento dei vigneti sono, come al solito, generosi di informazioni sul modo in cui si coltivava la vigna e sui rapporti tra possessori e coloni.
L’esempio che segue può assumersi a paradigma delle consuetudini amalitane.
Alla metà del XII secolo la badessa del monastero amalitano di San Lorenzo
afidava alcuni beni del cenobio a Tramonti: il colono si impegnava ad impiantare viti vonem […] et armare illos […] in pergulis cum omni nostro expendio183. Per il primo anno la legna per armare la vigna sarà fornita dalla badessa
ma il concessionario dovrà zappare et cultare e far sì che la terra sia bona et
plena de viti. Al tempo della vendemmia il colono avvertirà la badessa che invierà delle monache a vigilare sui lavori: queste saranno nutrite dal colono e vigileranno sui lavori ino all’imbottamento del vino la cui parte spettante alla badessa egli avrà cura di trasportare ino al monastero. La consuetudine di fornire
il materiale per armare le vigne è già attestata nel X secolo. Nel 993 Leone II,
arcivescovo di Amali, aveva assegnato a Pietro presbitero di Sorrento la chiesa
Del Treppo, Amali, cit., pp. 23-35.
Amato di Montecassino, Storia de’ Normanni di Amato di Montecassino volgarizzata in
antico francese, ed. V. De Bartholomaeis, Roma 1935, p. 340.
181
Binyamin da Tudela, Itinerario (Sefer massa’ ot), trad. di G. Busi, Rimini 1988, p. 22.
182
Non manca tuttavia la possibilità, in alcuni rari casi, di utilizzare in alternativa la tecnica
del sostegno morto basso, CDA, p. 375.
183
CP, I, p. 18. Altri esempi, CP, I, p. 49, a. 1036, qui il concessionario dovrà trasportare il
vino prodotto usque ad mare. CP. I, p. 219, a. 1132, in questo afidamento di vigne il concedente si impegna a fornire per il primo anno al coltivatore la legna. CP, I, p. 239, a. 1145 una
vigna armata in pergule. CP, I, p. 313, il pastinatore dovrà riempire il fondo di viti ed armare
eos totum in altum ad pergule.
179
180
La vite e il vino
165
di San Sebastiano in Pigellula, nei pressi di Amali184. Tra le altre cose il presbitero era tenuto ad ampliare ogni anno la vigna della chiesa con cento pezzi di
legna forniti dalla Curia, 50 furcas e 50 catares, probabilmente i pali terminanti
a coda di rondine (furcas) sui quali si poggiavano gli elementi orizzontali (i catares?) a formare la scacchiera del pergolato185. Ciò che colpisce nella traditio è
l’attenzione dell’arcivescovo per la cura della vigna, forse anche più pressante
della preoccupazione per l’uficio legato alla cura d’anime, al quale si fa un
breve cenno dopo aver elencato i lavori da compiere annualmente per ampliare
la vigna. L’attenzione dei concedenti per i lavori che i concessionari erano tenuti a relizzare nella vigna emerge chiara nei contratti agrari medievali amalitani: in un documento si speciica che la vigna andrà potata e zappata almeno 2
volte l’anno, pena il decadimento dell’accordo186. I poderi vitati amalitani erano spesso forniti di impianti di irrigazione davvero eficaci: già nel 964 un tale
Giovanni offriva alla chiesa del dominus Sergio iglio di Urso comite l’acqua
che scorreva nella sua vigna afinché potesse portarla (ipsa aqua tollere et portare) dove ritenesse più opportuno cum cabulis infictiles187, attraverso condutture forse ittili, diramazioni idriche che servivano fondi contermini o anche più
distanti, utilissime per la produttività di quelle terre. La strutturazione del fondo
si completava spesso con la presenza di ediici in muratura, palmenti, vasche,
cisterne e altre attrezzature, tutte
fornite dai concedenti188. Dunque
una ripartizione degli oneri abbastanza equa nell’impianto delle viti
amalitane: al possessore del fondo
spetta la fornitura dei materiali necessari, l’investimento preliminare
in attrezzature e strumenti, ai coloni
la cura della vigna, la vigilanza, le
operazioni di vendemmia e spesso il Fig. 1. Impianto a pergola su terrazzamenti in
Costiera amalitana
trasporto del vino prodotto.
CP, I., p. 20.
In un documento del 1132 si speciica che per armare la vigna saranno necessarie ligna,
kanne et salici, CP. I, p. 219.
186
CP, II, pp. 434-436, a. 1209.
187
CP, I, p. 80.
188
Le vigne amalitane risultano quasi sempre fornite di palmentum, labellum, e cisterne per
l’irrigazione, infra.
184
185
166
Alessandro Di Muro
Gli spazi limitati da destinare alle colture agrarie nella costiera amalitana, dovettero condizionare la scelta dell’allevamento a pergola, perlomeno dagli inzi del XII secolo quando, esplicitamente pressocché in ogni contratto di
afidamento, si precisa che bisognerà coltivare la vigna in pergola, molto spesso precisando in altum189: in questo modo infatti si poteva sfruttare al meglio
il ristretto spazio disponibile, coltivando altri frutti al di sotto del pergolato190.
La vigna e tutte le attività ad essa connesse si caratterizzano, dunque, nella costiera amalitana per una marcata tendenza alla ricerca della razionalizzazione. Questa direzione intrapresa dai possessori amalitani è già percepibile
nel X secolo, ma in progresso di tempo si fa più riconoscibile. In alcune aree
tale orientamento si può cogliere con chiarezza, ad esempio nell’aspetto dei
vigneti; a Ponte Primaro, località di Maiori, la forma delle vigne risulta nel
X secolo irregolare191; alla metà dell’XI secolo i vigneti assumono un aspetto più regolare, formando talvolta dei rettangoli192, inchè tra la ine dell’XI
e i primi anni del XII, vigneti perfettamente quadrati segnano il paesaggio
agrario della contrada193. Una ricerca evidente, dunque, di razionalizzazione
degli spazi, in un momento peraltro di forte crescita demograica, in vista di
uno sfruttamento ottimale delle aree utilizzabili grazie anche a tecniche di
irrigazione molto eficaci: così nel 1091 anche l’arcivescovo di Amali riceve
una concessione per lo sfruttamento delle acque di un iume nei pressi della
città ad irrigandos vineas et ortos ecclesiae vestrae194. Tutto ciò comportava
notevoli investimenti da parte dei possessori, inserendosi in un contesto più
generale fortemente connotato da una profonda ricerca di ottimizzazione della produzione agraria195.
Oltre ai documenti citati supra, si veda CP, II, p. 438, a. 1209.
In un afidamento del 1145 (CP, I, p. 239) in cui si stabilisce di impiantare pergule in un
fondo da ine in inem, da una parte all’altra, il censo viene issato nella consueta metà del
vino et fructum per tempore suo; in un altro documento del 1177 (CP, I; p. 313) in cui si
richiede di riempire il fondo di pergole (inpleatis eos de vitis de bono vindemio et armetis
eos in altum ad pergule) la corresponsione avverrà in vino e fructora. Entrambi gli esempi
provano che al di sotto delle pergole venisse coltivato altro.
191
Si veda ad es. CP, I, pp. 42-43, a. 957.
192
Ad es. CP, I, p. 7, a. 1044.
193
CP, I, pp. 134-136, a. 1089, la vigna misura 3 passi per lato. CP, I, pp. 158-159, a. 1102; la
vigna misura 3 passi meno due palmi per ogni lato.
194
Documento riportato in M. Camera, Memorie storico-diplomatiche dell’antica città e Ducato di Amali, Salerno, 1881, I, 287.
195
Per la metodica costruzione di un paesaggio agrario quanto più rispondente alle esigenze, anche
commerciali, della popolazione si rimanda ancora a Del Treppo, Amali, cit., in part. pp. 17-39.
189
190
La vite e il vino
167
La limitatezza degli spazi coltivabili disponibili, la cura e gli investimenti per la loro prosperità fecero dei fondi coltivati a pergola una fonte di
ricchezza non irrilevante per gli amalitani: alcuni documenti lasciano intravedere come quasi ogni spazio disponibile venisse sfruttato, così se anche la
via pubblica di Pigellula nel 1169 risultava coperta de supra cum vinea196,
vigne erano coltivate presso la spiaggia (arena maris) di Maiori almeno ino
al 1194197. Non sorprende pertanto che, quando nel 1271 Carlo I d’Angiò
decise di armare alcune navi da guerra ad Amali e in altre località della Costiera, ordinasse al protontino del centro tirrenico di minacciare la dirutionem
domorum e l’extirpationem vinearum, qualora i locali avessero riiutato di
imbarcarsi198. E una tale minaccia doveva risultare persuasiva anche per una
popolazione forse poco propensa a mettersi per mare al servizio del sovrano,
se si valuta l’alto costo che raggiungevano le vigne nel XIII secolo in Costiera amalitana199. L’alta redditività della vite ad Amali, anche nei confronti
di colture ritenute più remunerative, sembra eficacemente dimostrata da un
documento del 1273 in cui la badessa Purpura del cenobio amalitano di San
Lorenzo concede in afidamento una vineam cum oliveto silva et terra vacua
appena fuori Amali: qui l’interesse del concessionario sembra focalizzarsi
piuttosto sulla vigna mentre l’oliveto pare quasi accessorio, già nell’eloquente speciicazione della natura del fondo dove la vineam occupa il posto preminente200. Se la badessa lo avesse ritenuto opportuno (e remunerativo) avrebbe
potuto far estirpare la vigna e aumentare il numero degli alberi di olivo ma
evidentemente bastava al cenobio la produzione olearia proveniente dai non
lontani possedimenti olevanesi201. La vicina vigna risultava più utile alle esigenze del cenobio, in una strategia in cui appariva vantaggioso mantenere le
vigne nel territorio e detenere oliveti in territori vicini dove tale coltura aveva
costi di acquisizione minori.
Se, come sottolineava Mario Del Treppo, gli ultimi secoli del Medioevo
videro nella Costiera amalitana l’affermazione dei preziosi agrumeti, la colCP, I, pp. 269-272, a. 1102.
CP, II, pp. 375-377.
198
La notizia in Del Treppo, Amali, cit., p. 22.
199
Si consideri che nel 1261 una vigna a Maiori arrivava a costare anche 47 once d’oro, CP,
II, pp. 640-642. Si ricorda che un’oncia d’oro corrispondeva a trenta tarì d’oro. Grossomodo negli stessi anni (1258) con 30 once d’oro si potevano acquistare tre botteghe nel piano
dell’arsenale amalitano (planum de ipsa Arsina), CP, II, p. 628.
200
CP, II, pp. 645-647.
201
A questo proposito si veda in questo volume il saggio di Pietro Dalena supra.
196
197
168
Alessandro Di Muro
tivazione della vite non perse mai la sua rilevanza, anche economica: così nel
XV secolo l’umanista Bartolomeo Facio nel descrivere con ammirazione il
tratto di costa riservava alle viti il primo posto tra i coltivi che ne segnavano
l’ameno paesaggio202.
2.5 Il territorio di Napoli
Altra area dove la cospicua presenza di contratti di afidamento a partire
dal X secolo consente di recuperare preziose informazioni sulla diffusione
della vite, sulle modalità di coltivazione della vigna e sui rapporti tra possessori e coloni, è costituita dal territorio di Napoli.
Nelle terre napoletane l’alberata sembra la tecnica più consueta nella
coltivazione della vite: arbusta vitata sono documentati a Pozzuoli203, Paternum nei pressi di Napoli204, Pomigliano205, Tertium (forse Terzigno, contrada di Napoli)206, Cicciano207, Castellammare di Stabia208, Calbetitianum209,
nella contesa Liburia210, Planuria (Pianura)211, Marano212, Milianum213, Canineum214, Billanova215, Melito216, Secondigliano217, Cambranum218, Panecoculum, oggi Villaricca, e il monte di Posillipo219. Di gran lunga minori sono le
attestazioni sicure di vigneti coltivati con la tecnica del sostegno basso: la riSi veda il passo riportato in Del Treppo, Amali, cit., p. 23.
Ad es. RNAM, CXLVI, pp. 206-208, a. 971. Ivi, CCCVIII, pp. 119-120, a. 1017.
204
RNAM, CCCX, pp. 125-127, a. 1019.
205
RNAM., LXXXVI, pp. 78-80, a. 960; ivi, CCCXLII, pp. 245-247, a. 1028; ivi,
CCCCLXXXVII, pp. 225-227, a. 1097.
206
Ivi, CCCCLXXV, pp. 196-199, a. 1094.
207
RNAM, LV, pp. 10-11, a 950.
208
CDC, I; pp. 180-181, a. 931. RNAM, DXXXIX, pp. 351-353, a. 1112, arvustata in altum
in pergule, una tenica che si potrebbe deinire “mista”.
209
RNAM, LX, pp. 21-22, a. 951.
210
RNAM, LXXVII, pp. 57-58, a. 957.
211
RNAM, XCIV, pp. 94-96, a. 961.
212
RNAM; IC, pp. 105-106, a. 963.
213
RNAM, CXCII, pp. 26-27, a. 982.
214
RNAM; CCXXVII, pp. 117-118, a. 992.
215
RNAM, CCLI, pp. 170-171, a. 997.
216
RNAM, DXL, pp. 352-353, a. 1113.
217
RNAM, DXLVIII, pp. 370-373, a. 1113.
218
RNAM, DXII, pp. 283-285, a. 1105.
219
RNAM, XLVIII, pp. 230-232, XI sec.
202
203
La vite e il vino
169
toviamo nel territorio stabiense220, nella massa plagiense, probabilmente alla
foce del iume Sarno221 e in palmense inibus (Palma Campania)222.
Come si vede la prevalenza dell’arbusto è netta mentre la pergola, diffusissima, si è visto, nella vicina costiera amalitana, è del tutto assente. La vite
doveva in alcuni casi maritarsi con olmi, come sembra potersi dedurre da un
documento del 966 relativo ad una compravendita di un fondo nelle campagne napoletane223.
L’area vesuviana fu una delle zone di più rinomata produzione vinicola
sin dall’antichità, area, come si vedrà, dalla quale afluivano a Roma ino
almeno al XVI secolo alcuni tra i vini più ricercati in assoluto. Dalla documentazione disponibile sembra che qui nel Medioevo prevalesse la tecnica
dell’alberata: in un documento del 982 la chiesa di Santa Maria del Vesuvio
afida una terra arbustata: i coloni dovranno pastenare bitis et arbori seu
alia. pomifera fructifera con l’ausilio di buoi (cum bobi et ad manu dirigenter
apto tempore) e al tempo della vendemmia provvedere ai lavori di raccolta
e alla viniicazione224. In quest’ultimo caso, nel fondo è già impiantata una
coltivazione alberata e i concessionari dovranno solo incrementare tale coltura. La scelta pressoché esclusiva dell’arbusto vitato per la coltura della vite
lungo le pendici del Vesuvio è confermata da un documento del 1015 in cui
si deinisce una disputa tra l’arciepiscopio napoletano e il cenobio di Santa
Maria del Vesuvio per il possesso di ampi territori: nel descrivere le colture
presenti sul monte si ricordano terras arbustatas, […] arvoribus fructiferis
vel infructiferis […] cerquetis et castaneis et insertetis, ma non vineae225.
A partire dal 1023 si iniziano ad avere nei documenti ad pastinandum quelle che sembrerebbero attestazioni di viti a sostegno morto da impiantare (caucuminas et vites ibidem omni annuo ponere et plantare)226, testimonianza che di
certo non costituisce l’indizio di una tendenza generalizzata, anzi probabilmente
è destinata a rimanere un’apax, se nel 1025 nell’afidamento di una terra si preRNAM, XXXIII, pp. 117-119, a. 939.
RNAM, XXXIV, pp. 120-124; ivi, XCV, pp. 97-98, a. 962. Per l’identiicazione Martin,
Guerre, p. 200, n. 15.
222
RNAM, CCLXXIV, pp. 27-28, a. 1005.
223
RNAM, CXXI, pp. 153-154.
224
RNAM, CXCI, pp. 24-25. Nello stesso anno è attestata nella zona un’altra terra arbustata,
ivi, CXCII, pp. 26-27, a. 982. Si veda anche ivi, CCXCVI; pp. 86-88, a. 1016. Ivi, CCCXV,
a. 1020, pp. 10-12.
225
RNAM, CCXCII, pp. 75-78.
226
RNAM, CCCXXV, pp. 175-177.
220
221
170
Alessandro Di Muro
scriveva ancora l’impianto di arbusto insieme ad olivi227 e arbusta vitata sono
ancora ricordati in due documenti del 1048 insieme ad oliveti228, nè si rinvengono attestazioni certe di sostegni bassi nella documentazione medievale seriore.
La contrattualistica del X secolo si articola qui, come altrove, in una serie di prescizioni e accordi tra possessore del fondo e conduttore abbastanza
codiicati. Ad esempio in un documento del 982229, un contratto ad pastenandum, si indica il tipo di coltura che sarà impiantato sulla metà di un podere alle
falde del Vesuvio, in questo caso, bitis et arbori, la piantata, con l’aggiunta di
alia pomifera fructifera, tali vero ordine ut ipsa medietatem ut supra diximus
pastenare deveamus vene ut expedit ut pareat vene pastenatum. L’onere dei
lavori necessari alla coltivazione sarà a totale carico dei pastinatori, i quali
opereranno cum bobi et ad manu, così come le intere operazioni di vendemmia. Il vino prodotto verrà diviso equamente tra le parti. Più dettagliato appare un afidamento ad meliorandum del 996, concernente un fondo nelle campagne napoletane, nella contrada San Pietro ad paternum230: anche in questo
caso i concessionari sono tenuti ai lavori di miglioria, con l’ausilio dei propri
buoi (cum vobes nostros), anche avvalendosi di manodopera esterna, purché
siano essi a provvedere alla retribuzione. Così i vignaioli, per la propagazione della vite, dovranno avere cura di caucumminas et vites seu fructoras ubi
necessum fuerit omni annuo ibidem ponendi et plantandi seu potandi et propaginandi et albaciandi. Afinché l’operazione di miglioramento del fondo
sortisca un buon esito i possessori concedono ogni attrezzatura issa necessaria, ovvero una pischina et puteum et susceptorium suum oltre alla casa super
se cooperta cum palea dove la famiglia dovrà risiedere. Il vino prodotto sarà
diviso per metà. Tale tipologia contrattuale rimarrà inalterata almeno ino ai
primi decenni del XII secolo231, quando iniziano a comparire in maniera signiicativa i primi censi in denaro per l’afidamento delle vigne232 o formule che
prevedono un censo misto in natura e in denaro233.
RNAM, CCCXXVII, pp. 180-181.
RNAM, CCCLXXXVIII, pp. 320-322. Ivi, CCCXC, pp. 325-327.
229
RNAM, CXCI, pp.24-25.
230
RNAM, CCXLI, pp. 145-148.
231
Condizioni analoghe, con il medesimo formulario, si ritrovano nella contrattualistica
dell’XI secolo e almeno per parte del XII, ad es. RNAM CCLXXI, pp. 20-22, a. 1003; ivi,
CCLXXXIV, pp. 51-53, a. 1011; ivi, CCCCLXXV, pp. 196-199, a. 1094; ivi, DXXXIII, a.
1109, pp. 333-335.
232
Ad es. RNAM, DXLVIII, pp. 370-372, a. 1113.
233
RNAM, DXL, pp. 352-355, a. 1112
227
228
La vite e il vino
171
In un altro documento di pastinato del 977 relativo all’impianto di una
vite maritata, si precisa che i conduttori non dovranno portare vino ai possessori per i primi tre anni ino a quando obumbraverit ipse pastinus memorata
terra, gli alberi farano ombra, ovvero solo quando i tralci si siano diffusamente propagati da un albero all’altro attraverso i rami234.
L’impianto di viti maritate si conigurava in alcuni casi come una vera
e propria impresa di colonizzazione agraria dalla quale, si deve supporre, il
concessionario del podere si attendesse ritorni proporzionati alle risorse profuse: sembra questo il caso di una terra nel Napoletano concessa nel 1127 da
un certo Aldemo a un tale Bartolomeo celentano si impegnava ad impiantarvi,
nell’arco di due anni, centum arbores et centum vites, versando al possessore
per dieci anni la metà di quanto avrebbe prodotto in cereali oltre a 4 solidi
di denari e de uvis unam tinam, come segno ricognitivo 235. Probabilmente le
grandi quantità di vino prodotte e poi presumibilmente smerciate, andavano a
compensare il lavoro, che dificilmente Bartolomeo avrebbe potuto realizzare
da solo, e il censo corrisposto236.
Anche nell’area di Aversa, zona di produzione di vini di qualità già apprezzati nel corso del Medioevo237, sin dall’XI sembra prevalere l’allevamenti
a vite maritata: nel 1061 la badessa normanna, Riccarda, del cenobio di San
Biagio di Aversa afida ad un tale Giovanni di Giugliano una terra in parte
già coltivata ad arbustu, afinchè espanda tale coltura all’intero fondo. Il censo verrà corrisposto solo quando la produzione dell’arbustu andrà a regime
(surrexit ad faciendam coina de uva quindecim): da allora il concessionario
tratterrò un terzo del vino mentre al monastero andranno le rimanenti due
parti. Inine si stabilisce che il frutto delle viti maritate già impiantate saranno
sempre esclusivamente appannaggio del cenobio238.
Nel napoletano frequente risulta la coltivazione di vigneti e oliveti nello
RNAM, CLXVI, a. 977.
RNAM, DXCVII, pp. 100-101.
236
Non si hanno dati quantitativi sul vino prodotto da un arbusto vitato, ma alcune indicazioni
lasciano supporre una resa molto elevata, si veda ad es. il Livro de Arautos del 1416 in cui
l’anonimo autore, nel descrivere le foreste di alberate della Terra di Lavoro e la stranezza di
quel tipo di allevamento della vite conclude così: “res incredula ad audiendum dicere quantitatem vini que crescit supra una arborem solam”, Livro de Arautos, a cura di A. Augusto
Nascimento, Lisboa 1977, p. 269. Si veda anche infra.
237
Si veda infra, paragrafo dedicato al commercio.
238
CDNA, pp. 388-389. Altre attestazioni di alberi vitati, ivi, pp. 392-393, a. 1056; ivi, pp.
63-64, a. 1134; Regesto di Sant’Angelo in Formis, pp. 14-15, a. 1092-1101.
234
235
172
Alessandro Di Muro
stesso fondo239, ma troviamo anche l’associazione della vite ad altre colture,
estensive, ortive e industriali, almeno ino al XII secolo240, come nel caso
testimoniato in un documento del 982 relativo ad una clusuria de terra in
una contrada al conine tra il principato longobardo di Salerno e il ducato di
Napoli (locus Terrium) che il cenobio napoletano di San Gregorio concede
at lavorandum et pastenandum a un tale Giovanni di Nocera: questi dovrà
coltivare, insieme all’arbustum, cereali (triticum e mileum), legumi (fasioli),
ortaggi quali folia, et cepullas, et seas, et stivalium, et cucurbitas (insalata,
cipolle, sesamo, ortaggi estivi e zucche)241. Tali associazioni multiple di colture erano facilitate dai mirabili sistemi di irrigazione utilizzati nei fondi: la
ricorrenza, a partire dal X secolo, in decine di documenti di canali, pischinae,
pozzi, cisterne, strumenti costosi, frutto di saperi pratici tradizionali, è indice
di un grande sforzo per il miglioramento delle strutture produttive rurali.
Le pischine dei documenti costituivano dei veri e propri bacini di raccolta idrica in muratura in cui l’acqua poteva giungere attraverso canali di
adduzione, insersicas o aquillatoriis nei documenti242, oppure veniva riempita trasportandola da altri luoghi con carri, probabilmente nei periodi di siccità243. L’acqua, quando necessitava, veniva fatta deluire lungo
il podere attraverso uno o più canali che in genere servivano più fondi244.
Altre volte i canali risultano collegati direttamente ad un corso d’acqua245.
Sistemi d’irrigazione articolati, adottati per il miglioramento dei fondi
e, dunque, della produttività, frutto degli investimenti dei possessori e del lavoro dei coltivatori, quel connubio che darà il via a quella grande espansione
delle campagne che, per usare un’espressione di Mario Del Treppo, “desta
l’ammirazione dello storico”246.
Esempi già nel X secolo in RNAM, LV, pp. 10-11, a. 950. Ivi, CXXXVI, pp. 183-184, a. 970.
Ad es. RNAM, DXL, pp. 352-355, a. 1112.
241
CDC, II, pp. 163-164.
242
Tragaricum RNAM CCLVI, pp. 180-183, a. 997. Accuccioras in RNAM, CCCLXVII, pp.
269-273, a. 1036 (Ischia).
243
RNAM CCLVI, pp. 180-183, a. 997.
244
RNAM, CCXLI, pp. 145-148, a. 996 (ad sanctum Petrum, nelle campagne di Napoli).
Ivi, CCLVI, pp. 180-183, a. 997 (Marano di Napoli). Ivi, CCCVIII, pp. 119-121 (nei pressi
di Pozzuoli); ivi, CCCXLII, pp. 215-217, a. 1028 (Pomigliano d’Arco, Na); RNAM, CCCLXVII, pp. 269-273, a. 1036 (Ischia).
245
RNAM, DLVI, pp. 461-462, a. 1119.
246
Del Treppo, Amali, cit. Per la coltivazione della vite nel territorio napoletano si veda
anche A. Feniello, Aspetti e problemi dell’agricoltura napoletana nel tardo Medioevo, in
“Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo”, 109/2, 2007, in part. pp. 91-95.
239
240
La vite e il vino
173
2.6 L’area del medio-alto Volturno
Le terre e, in particolare per quanto riguarda il nostro discorso, i vigneti
che, tra la seconda metà e la ine del secolo IX, dovettero subire le maggiori
devastazioni e i più frequenti abbandoni in seguito alle razzie agarene e ai
conlitti tra i Longobardi, furono probabilmente quelle dell’area del medioalto Volturno e del Sannio molisano.
Il trasferimento di popolazione, in particolare dalla Marsica, che si evidenzia in queste aree dai contratti e dalle testimonianze cronachistiche, induce a ritenere che l’abbandono e lo spopolamento fosse stato particolarmente
intenso tra la ine del IX secolo e i primi decenni del X, tanto che il cronista
vulturnense nel descrivere il territorio di Alife e riferendosi all’operato virtuoso dell’abate Leone nel 950, affermava: “adhunc autem locus iste bestis
et avibus latibula prebens, hominibus omnino vacabat”247. Di qui l’obbligo
di reimpiantare viti, colture che necessitano della presenza costante dell’uomo, che si rinviene nella contrattualistica. Nel 958 l’abate Paolo concesse ad
alcuni uomini 4 appezzamenti di terreno ad Alife e a Prata Sannita (Ce) que
excolere minime valemus, come si evidenzia signiicativamente nel contratto,
per impiantarvi vigne248. Nel 976 lo stesso abate consegnava le medesime
terre di Prata, accresciute da altri terreni, con la chiesa di Santa Maria, a un
consorzio di coloni249. Costoro avrebbero costruito lì le proprie abitazioni,
avrebbero piantato viti e restaurato la chiesa di Santa Maria, nella quale si
sarebbe dovuto istituire un sacerdote per le celebrazioni liturgiche. I coloni
avrebbero dovuto, inoltre, vinee ibidem pastinare250. In tal modo si veniva a
costituire a Prata un piccolo nucleo abitato aperto, gravitante attorno ad una
chiesa, con una propria vita sociale, in grado di eleggersi un sacerdote (liceat
illi… facere ibidem ordinem sacerdotalem), con ampi ambiti di autonomia.
Rilevante appare la presenza di coloni provenienti da Valva, nei pressi di
Sulmona, una delle enclaves vulturnensi più antiche e importanti251. Si tratta
di gruppi che dovevano caratterizzarsi per una spiccata cultura colonizzatrice,
247
CV, II, p. 85. Si veda M. Del Treppo, Terra Sancti Vincencii, Napoli 1968; C. Wickham,
Il problema dell’incastellamento nell’Italia centrale: l’esempio di San Vincenzo al Volturno,
Firenze 1985 e da ultimo Di Muro, Territorio e società, cit.
248
CV, II, pp. 190-193.
249
Ivi, p. 194.
250
Ivi, pp. 194-195.
251
Si veda Del Treppo, Terra, cit., pp. 27-30, 55-59.
174
Alessandro Di Muro
chiamati dagli abati a ripopolare, a partire dalla metà del X secolo, i possedimenti di San Vincenzo in particolare nei contermini territori del Venafrano e
nell’Iserniese252. Secondo la testimonianza del cronista vulturnense Giovanni, questi coloni di Valva erano ex famulis Sancti Vincencii253, quindi servi
del monastero, la cui condizione appare oggettivamente soddisfacente, ormai
omologati pienamente ai liberi libellari.
La documentazione di San Vincenzo al Volturno rivela chiaramente a
partire dalla metà del X secolo un forte impulso alla ricolonizzazione degli
antichi possedimenti da parte degli abati, in particolare del nucleo compatto
di territori che costituiva la Terra Sancti Vincencii254. Un posto privilegiato
nelle strategie di ricolonizzazione di queste terre è riservato, si è detto, al
reimpianto di viti, rigorosamente allevate basse. In un documento del 945 il
cenobio afida ad alcuni coloni terre da coltivare nei pressi del castello di San
Vincenzo, in cui essi dovranno risiedere255; i concessionari sono tenuti a tenere, laborare, et ad cultum perducere de ipsis terris suprascripti nostri monasterii, que sunt per circuitum de subtus predicto castello quantas laborare
potuerint, et vinee que ibi sunt inculte quantas potuerint ad cultum perducere.
Nel 950 l’abate Leone concede, libellario ordine, le terre della chiesa di Santa
Maria ad Olivetum, nei pressi di Venafro, ad alcuni coltivatori in cambio della
decima dei prodotti. L’unica eccezione è fatta per il vino che sarà corrisposto nella misura della metà del prodotto, solo dopo dieci anni dall’impianto
delle viti che i coloni dovranno ibi… pastinare256. Qualche anno più tardi, nel
962, al tempo dell’abate Paolo, il cenobio vulturnense afida ad un gruppo
di uomini nativi de inibus Francia, alcune terre ad ipsa Causa, nei pressi di
Montaquila (Is); questi hanno l’obbligo, tra le altre cose di vineas pastinare et
laborare iusta racione257. Nel 965 l’abate Paolo concede terre del monastero
nei pressi del cenobio ad un gruppo di coloni ad cultum perducerent; anche
qui i coloni dovranno vineas pastinare, et vindemiare258.
Negli anni ’70 del X secolo l’operazione di ridisposizione di viti nella
Terra di San Vincenzo doveva essere già a buon punto, nonostante la scarsezIvi, p. 56.
CV, II, p. 42.
254
Si veda Del Treppo, Terra, cit., pp. 32 ss.
255
CV, II, pp. 61-63. Sul legame tra incastellamento e impianto di vigneti si veda infra.
256
CV, II, pp. 71-73.
257
Ivi, pp. 121-122.
258
Ivi, pp. 123-124.
252
253
La vite e il vino
175
za di abitanti, come si desume da un documento del 973 in cui una vigna posta
non longe ab ipso monasterio, viene afidata ad un tal Domenico proveniente
dal castello di San Pietro in Trita nella Marsica259, area che invece doveva
conoscere un piccolo boom demograico, come sembra emergere dalle numerose famiglie che l’abbandonano per coltivare le terre dell’alto Volturno260.
Anche nelle terre alifane il nuovo slancio alla colonizzazione sembra
aver dato i suoi frutti almeno a partire dagli anni ’80 del X secolo; nel 983
il preposito del monastero di San Salvatore di Alife concede ad laborandum
due vigneti e una terra seminativa in località Sant’Angelo: il vino prodotto
sarà diviso secondo la consuetudine e dovrà essere trasportato presso la domus che il monastero possedeva in quel luogo261.
2.7 Sannio beneventano e Irpinia
A differenza delle terre del medio-alto Volturno l’area beneventana dovette subire in maniera meno traumatica le conseguenze dei lunghi conlitti
o, forse più verosimilmente, qui la ripresa fu più celere in quanto non si veriicarono i diffusi fenomeni di spopolamento che caratterizzarono la regione
limitrofa. Così, ad esempio, i possedimenti vulturnensi presso Tocco Caudio
appaiono già ben strutturati nel 950 quando al giudice Milone furono concessi
a livello vineis et terris, campis et silvis, pratis et aspris, cultum et incultum262. Per quanto riguarda le tecniche di coltivazione utilizzate, nel Sannio
beneventano e in Irpinia la documentazione mostra un certo equilibrio tra la
coltivazione della vite a sostegno morto e l’alberata. Nel 988 due fratelli ricevono in afidamento decennale dal diacono Audelassi una vigna nella località
Collina, tra Avellino e Benevento; i due fratelli dovranno attendere ai consueti lavori necessari alla vigna e saranno inoltre tenuti ogni anno a ibidem
mittere quinquaginta pali boni robostei sive de cerri per ampliare la vigna263.
Vinea sono attestate anche a Ponte Piano, nei pressi di Benevento264, e a RoIvi, pp. 119-121.
Wickham, Il problema dell’incastellamento, cit., in part. pp. 27 ss.
261
Le più antiche carte del Capitolo della Cattedrale di Benevento (668-1200), a cura di A.
Ciaralli, V. De Donato, V. Matera, Roma 2002, pp. 69-71.
262
CV, II, pp. 87-88.
263
Le più antiche carte del Capitolo della Cattedrale di Benevento, cit., pp. 75-77.
264
Si veda CSS, pp. 577-579, a. 1045 vigne a ponte Piano.
259
260
176
Alessandro Di Muro
seto, sempre nelle campagne della
città265. La cronaca di Falcone sembra confermare nel XII secolo l’utilizzo esclusivo del sostegno morto
nei vigneti circostanti Benevento266.
Con la tecnica del sostegno
morto era possibile sfruttare in alcuni casi i terreni con altre colture,
così nel 1030 il chierico Paolo, custode della chiesa dei Santi Filippo Fig. 2. Benevento, chiostro di Santa Soia, cae Giacomo di Benevento, concede- pitello (XII sec.). La raccolta dell’uva su viti
va a due fratelli, una terra sita lun- coltivate con la tecnica a sostegno morto
go il iume Serretella, perché nello
spazio di sette anni provvedessero a piantarvi una vigna ed eventualmente un
saliceto e un viridiario tra i ilari delle viti267. Tale situazione risulta documentata anche nella non lontana Summonte (Av) dove nel 1184, nell’afidare un
fondo, il preposto del monastero di Montevergine prevede la possibilità che
tra i ilari della vigna si semini grano268. L’organizzazione in ilari ordinati
consentiva dunque uno sfruttamento più intensivo delle strisce di terra comprese tra essi.
La presenza di arbusti vitati è ben documentata nella zona di Montesarchio, nella valle Caudina a partire dall’XI secolo. Come le viti a sostegno
morto, anche le alberate erano organizzate in ilari ordinati, in ilatu, come
si speciica in una concessione del cenobio beneventano di San Modesto del
1169269. Nel 1056 l’arciprete della Chiesa beneventana Bartolomeo concedeva ad un abitante di Montesarchio, Giovanni de Falco, un terreno dell’episcopio nella medesima località, con l’obbligo di centos arbores vitatas ponere
Le più antiche carte del Capitolo di Benevento, cit., p. 305, a. 1183. Roseto doveva costituire un’area particolarmente vocata alla viticoltura: Falcone, infatti ricorda come nel 1133
il cardinale Crescenzio avesse escogitato di rovinare i vigneti dei beneventani “in loco ubi
dicitur Rosetum” per costringerli ad uscire dalla città, Falcone, Chronicon Beneventanum, a
cura di E. D’Angelo, Firenze 1998, p 162. Si veda anche infra.
266
Il cronista beneventano quando riporta distruzioni di vigneti nelle campagne di Benevento
fa riferimento esclusivamente a vineae, infra.
267
CDV, I, 33.
268
CDV, VII, 749.
269
Le più antiche carte dell’abbazia di San Modesto in Benevento (secoli VIII-XIII), a cura di
F. Bartolini, Roma 1950; p. 32. Altra terra arbustata nella valle ivi, pp. 28-31, a. 1145.
265
La vite e il vino
177
nell’arco di soli due anni270. Si tratta di un’impresa davvero notevole, possibile da realizzare solo nel caso il concessionario avesse avuto a disposizione
cospicua manodopera e che, dunque, fosse una sorta di imprenditore, come
pare potersi evincere anche dal censo annuo che Giovanni dovrà versare, consistente in dodici tarì.
Anche nell’area di Monteforte Irpino sembra prevalere l’arbusto vita271
to . Nei pressi di Avellino la coltivazione della vite sembra avvenire con
l’ausilio di entrambe le tecniche: in un documento del 1152 relativo ad alcuni
fondi non lontano dalle mura del centro irpino, si fa riferimento ad arbusta e a
vinea272, stessa situazione documentata nel 1175 a Baiano273 e a Mercogliano
nel 1198274.
A differenza di altre aree, qui, come nel Sannio molisano, risultano alquanto rari gli indizi di sistemi di canalizzazione idrica per la coltivazione; tra
i pochi casi documentati nel 1045 il principe Atenolfo consente ad un colono
una serie di fossati, probabimente per far deluire acqua nel suo campo275.
Nella gran parte dei casi documentati, l’acqua viene trasportata dal colono al
proprio fondo attraversando altri terreni276 o recandosi presso un vicino ruscello277, presso un pozzo comune278, oppure utilizzando l’acqua che fuoriesce
da un mulino279 o, ancora, incamminandosi verso una fontana280.
2.8 La Campania settentrionale
La documentazione dei secoli X e XI relativa all’area che va grosso modo
dal iume Liri al Volturno mostra la presenza diffusa della vite281, sebbene la
Le più antiche carte del Capitolo della Cattedrale di Benevento, cit., pp. 221-222.
CDV, III, 316, a. 1153.
272
CDV, III, 306.
273
CDV, VI, 580.
274
CDV, XI; 1045.
275
CDV, I, 51, Campo Nepetaro, contrada di Benevento.
276
CDV, I, 48, a. 1041, nei pressi di Benevento.
277
CDV, I, 86, a. 1092, loc. Balneo nei pressi di Avellino.
278
CDV, II, 106, a. 1103.
279
CDV, II, 274, a. 1143, nei pressi di Montemarano (AV).
280
CDV, VI, 581, a. 1175.
281
Ad es. CV, II, pp. 127-132, a. 962, territorio di Teano. Gattola, Historia, cit., I, 87, a. 984,
comitato di Caiazzo. Si veda anche infra.
270
271
178
Alessandro Di Muro
rarità di contratti di locazione non permetta di seguire in maniera soddisfacente la progressione della coltivazione.
I contratti di afidamento di terre di San Vincenzo al Volturno mostrano,
a partire dalla seconda metà del X secolo, una tendenza degli amministratori
del cenobio a impiantare alberate nei terreni di loro proprietà afidati a coloni,
in particolare nelle terre tra il Liri e il medio Volturno.
Nel 973 l’abate Paolo di San Vincenzo al Volturno concede a livello per
29 anni alcuni terreni nella città vecchia di Teano282; nel primo appezzamento
coesistono viti coltivate a sostegno morto e alberate (prima vero pecia de
terra, ubi predicta ecclesia constructa est, et vinee modo plantate, et arbusta
posita insimul coniunctum)283. Tuttavia nella parte non coltivata del primo
appezzamento i coloni dovranno impantare arbusta vitata: debeant arbustare
integra superius dicta indicata prima pecia de terra, iuxta racionem, et arbores ipse vitare de vites arbustie, excepto ipsa predicta curte. et amodo usque
in decem anni completi debeant adsignare ad partem isti nostri monasterii
integram dicta prima pecia de terra arbustata racionabiliter, et arbores ipsis
vitatis, excepto ipsa predicta curte, cum ipsis arbores in ipse vinee levaverint,
licenciam et potestatem abeant incidere, eciam in antea vinum, quod de ipsum arbustum Deus annualiter dederit, et frugium de subter dividere debeant
cum partem isti nostri monasterii, ut supra diximus, de ipso vino dare debeant
ad partem isti nostri monasterii284.
Un interessante documento del 978 mostra come nelle aree in cui era
presente la vigna a sostegno morto, in questo caso l’area di Carinola, zona
di produzione dell’antico falernum285, nei pressi di Capua, l’abbazia vulturnense richiedesse l’impianto dell’alberata286. Il livello di 29 anni prevede infatti che in una parte delle terre afidate si impiantino viti maritate: debeas
suprascripta prima pecia, et secunda, et tercia arbustare, iuxta racionem,
per unumquemque modium de terra ponat quattuor arbores, et tempore suo
debeas arboribus ipsis cultare, et ramare, et vitare, et vitis ipse potare, et
propaginare, et zappare, sic et amodo et usque in decerti anni si[n]t tote ipse
suprascripte tres pecie de terra arbustate, ut sint arboribus ipsis et viti bene
CV, II, pp. 204-210.
Ivi, p. 205
284
Ivi, p. 209.
285
Si veda ad es. G. Guadagno, I vini della Campania dai Romani alle soglie del Terzo Millennio, in “Rivista storica del Sannio”, IV, 8, 1997, p. 246.
286
CV, II, pp. 197-199.
282
283
La vite e il vino
179
apprehensi; et amodo in decem anni expleti, vinum que exinde fecerit, sue
habeant potestati, unde ad pars predicti monasterii nullam sortem aut partem
dare debeatis. a completi iam dicti decem anni et usque in predictum constitutum vinum, quem exinde fecerit per singulos annos, dividant ipsos cum pars
predicti monasterii equaliter in palmento suo ipse qui supra Leo, et Iohannes,
vel eorum heredes, tollat exinde inclitam medietatem, et ad pars predicti monasterii dent reliquam medietatem. Il concedente è come al solito estremamente preciso sui lavori che si dovranno compiere ma anche sul numero di
arbusti che si dovranno impiantare, quattro per ogni modium di terra; in dieci
anni il nuovo impianto dovrà andare a regime, dopo di che il vino sarà diviso
equamente tra loro. Si tratta tuttavia di una vera riconversione di tecniche di
coltivazione della vite in quanto su quelle terre al momento dell’afidamento
sussitono viti a sostegno morto, infatti: ipse vinee, que sunt infra predictos inis, debeas ille laborare et cultare usque dum surgat ipsi arbores, que ibidem
posuerint; et dum apprehendunt ipsi arbores, potestatem habeant cappellare
ipse vinee exinde, et revocare ipse terre adarbustare. Le viti a sostegno morto
rimarranno produttive ino all’impianto e all’entrata a regime degli arbusta,
dopo di che potranno essere divelte (cappellare).
Ancora a Carinola, nel 980 San Vincenzo al Volturno afida tres peciis de
terris per 29 anni287. I concessionari debeat arboribus ipsis ramare, et cultare,
et bitare, et zappare iusta racionem; et ubi necesse fuerit in predictis terris
ponere arboribus et vites, quomodo debeat predictas terras arbustare, iusta racionem sicut meruerit; con l’accordo che ipsis arboribus, que ipsis qui
supra germani ibidem posuerit, vinum quem exinde fecerit amodo et usque
in decem annis expleti sue illos abeant potestati, unde nobis nec ad pars
iam dicti monasterii nullam sortem aut partem dare debeas, da completi iam
dicti.X.em anni et usque in predictum constitutum, vinum, quem exinde fecerit
dividamus ipsos inter nobis equaliter ibi in palmento.
La tradizione locale prevedeva certamente l’utilizzo di pioppi per l’arbusto, se ne ha una riprova in un documento del 987 in cui l’abate di Montecassino concede in eniteusi a due coloni un terreno nella Liburia longobarda per
29 anni288. I concessionari, che abiteranno presso il fondo, dovranno annualiter tempore suo ponere pluppos et bites. Dunque le vite saranno maritate ai
pioppi, secondo una consuetudine che in quest’area rimontava almeno all’età
repubblicana. Per quanto riguarda gli altri arbusta vitata impiantati sul pode287
288
Ivi, pp. 200-203.
RNAM, CCVIII.
180
Alessandro Di Muro
re, i coltivatori avranno l’obbligo di disramare et bites potare et propaginare,
ovvero tagliare i rami, potare le viti e propaginarle. Il vino sarà, come consuetudine, diviso equamente e verrà trasportato dai coloni presso il cenobio
di San Benedetto di Capua.
Nel territorio capuano emerge sin dalle carte del X secolo la netta preponderanza dell’arbusto vitato; in un documento del 976 una traditio ad pastenandum prevede l’impianto, nella località Restuliani vicino Capua, su un
terreno già in parte coltivato ad arbusto di ulteriori arbori et viti. I coloni
hanno obbligo di risiedere sul fondo e cotruiranno la casa su un moggio di
terra: questo terreno costituisce un’isola esente da richiesta di censi e tutto
ciò che in esso si produrrà sarà ad uso esclusivo del conduttore; per quanto
riguarda l’impianto viticolo, il vino prodotto sarà diviso a metà tra i contraenti289. Le carte del XIII secolo confermano la diffusione capillare dell’arbusto
nell’area290. Anche nell’agro nolano, area tradizionale di conine tra Longobardi e Napoletani, l’arbusto sembra prevalere, come nel XII secolo a Castel
Cicala291, a Cimitile292 e ad Avella293.
Bisogna supporre che nella Campania settentrionale ragioni pratiche
portassero tra X e XI secolo alla riconversione dei vigneti bassi in alberate:
maggiore insolazione, raccolti più cospicui grazie allo sviluppo verticale delle viti, possibilità di sfruttare il terreno con altre colture, come sembra evincersi dai due contratti di Carinola dove si accenna alle operazioni di semina e
mietuira e a corresponsioni in grano, oltre al vino.
Se l’alberata doveva risultare predominante a partire dalla ine del X
secolo, nel paesaggio vitivinicolo della Terra di Lavoro non mancavano tuttavia aree dove la coltivazione a sostegno morto permaneva, in particolare in
alcune isole territoriali nelle zone settentrionali della regione, come ad esempio nel castello di Sujo sul inire dell’XI secolo294 o nelle terre di Pontecorvo,
come si evince da un capitolo del locale statuto del XII secolo in cui si fa riferimento a palos vinearum295. Nelle terre di San Germano (Cassino) vi erano
Pergamene di Capua, pp. 4-7.
Si veda ad es. ivi, pp. 143-145, a. 1241. In questa locazione il censo richiesto è in moneta,
segno di una commercializzazione del vino.
291
RNAM, DXIV, pp. 286-288, a. 1104.
292
RNAM, DXXXIII, pp. 333-335, a. 1109.
293
CDV, III, 255, a. 1139.
294
Nell’Usus di Sujo si fa infatti riferimento alle vineis nel territorio, edizione in L. Fabiani,
La terra di San Benedetto, Montecassino 1968, I, p. 423, a. 1079.
295
Ivi, p. 455.
289
290
La vite e il vino
181
invece sia viti maritate che coltivate
a sostegno morto296.
Una riprova del trionfo della vite maritata in gran parte della
Campania settentrionale e dei beneici collegati all’adozione di tale
tecnica, si ricava dalla descrizione
che fa uno scrittore portoghese degli inizi del XV secolo della Terra di
Lavoro: egli poteva affermare che
“in maiori parte illius crescunt vina
supras altas arbores que laborantur
et mondantur per quemlibet annum,
et ordinantur per terras et videtur ad
respiciendum esse unum nemus; et
terre non dimittuntur laborari inter
dictas arbores et portare bona blaFig. 3. Rabano Mauro cassinese (inizi XI
da et alia seminationem que collisec.), raccolta dell’uva su un arbustum vitatum. Sotto la vite una scena di mietitura. La gitur duabus vicibus per annum; in
scena rappresenta eficacemente un esempio maiori parte pro mundando dictas
classico di coltura promiscua costituita da arbores et scindendo dictas vineas
vite alberata e cereali.
oportet habere ita longiores scalas
de ita extranea actione quod videretur res incredula ad audiendum dicere quantitatem vini que crescit supra una
arborem solam”297.
La descrizione ci fornisce una suggestiva immagine dei boschi di viti che
ricoprivano nel Medioevo buona parte della ubertosa Terra di Lavoro e della
spettacolare vendemmia che vi si realizzava. La grande abbondanza di uva
che poteva fornire, “res incredula ad audiendum”, un solo albero, permetteva
di sfruttare per altre coltivazioni i terreni di quella fertilissima regione; così si
comprende come nel su menzionato documento del 978 relativo alle terre di
Carinola, si ritenessero suficienti 4 arbusta in un moggio di terra per avere
una produzione soddisfacente di vino. E la copiosa produzione di uva fornita
dall’arbusto vitato è confermata da documenti di altre aree della Campania,
come ad esempio un podere ricordato in un documento del 1167 presso l’at296
297
Ivi, II, p. 222.
Livro de Arautos, cit., Lisboa 1977, p. 269.
182
Alessandro Di Muro
tuale Cava de’ Tirreni (Sa) dove vi è la coltura unius arbusti afidato ad laborandum in cambio della corresponsione di metà del vino298, fatto che denota
evidentemente un’abbondante resa.
2.9 La Puglia
Per la Puglia si dispone di un numero notevolmente minore di documenti
di afidamento di vigne rispetto alla Campania, pertanto risulta più dificile
ricostruire la trama dei rapporti tra possessori e coloni concessionari e le tecniche utilizzate299. In Puglia prevale nettamente la coltivazione con viti basse
ordinate per ilari, coltivate spesso in particelle regolari delimitate da muretti300, ma non mancano impianti a sostegno morto mentre non sembra sussistano alberate301. Jean Marie Martin, come già Raffaele Licinio, nota come
in Puglia la coltivazione della vite sia generalizzata: dalle alture del Subappennino dauno ai terreni paludosi alle Murge le vigne sono attestate un po’
dappertutto. Tuttavia lo studioso francese sottolinea come le differenti aree
subregionali pugliesi presentino caratteri diversi per quanto attiene alla diffusione della coltivazione. Nella Puglia settentrionale, in particolare nell’area
del Tavoliere, si assiste a partire dalla ine del X secolo, ad una lenta affermazione della vigna che tuttavia, secondo Martin, “n’occupe pas une grande
place”302, in particolare se si considera la preponderanza della cerealicoltura
e dell’allevamento, attività dificilmente compatibili con grandi estensioni di
vigneti303. Tale affermazione andrebbe forse rivista alla luce di alcune testimonianze documentarie dalle quali si registra una produzione di vino che oltrepassa l’autoconsumo e che consente di alimentare lussi di commercio anAC, XXXIII, 78.
Si vedano le considerazioni in B. Andreolli, Contratti agrari e trasformazione dell’ambiente, in Uomo e ambiente nel Mezzogiorno normanno-svevo, Atti delle VIII giornate normanno-sveve, Bari 1989, pp. 114 ss.
300
J.-M. Martin, La Pouille du Ve au Xlle siècle, Rome 1993, pp. 360-361.
301
Licinio, Uomini e terre nella Puglia medievale, cit., pp. 67 ss. L’autore sostiene che nel
Medioevo in Puglia fosse praticata la tecnica anadendrite (ivi, p. 68), ma la documentazione
e gli stessi esempi riportati dal Licinio permettono di constatare esclusivamente la compresenza di alberi e viti su medesimi fondi.
302
Martin, La Pouille, p. 361.
303
Si veda a tal proposito R. Licinio, Masserie, Massari e Carestie da Federico II alla Dogana delle Pecore, Bari 1998.
298
299
La vite e il vino
183
che locale. Per la Capitanata disponiamo, ad esempio, del celebre documento
del 1116 redatto dall’abate Atenolfo di San Pietro a Torremaggiore nel quale
si registrano le consuetudini degli abitanti del castellum Sancti Severini, oggi
San Severo (Fg), soggetto alla signoria dell’abate, da cui emerge un interessante ruolo della vite nell’economia del castello le cui produzioni andavano
ad alimentare anche un piccolo circuito commerciale304. Anche per il secolo
successivo non bisogna sottostimare il ruolo della vite nella composizione del
paesaggio agrario medievale di quell’area.
Il documento che meglio illustra, per l’età sveva, la diffusione della coltura della vite in queste terre è il Quaternus excadenciarum in cui si descrivono beni e redditi pertinenti al Demanio della Corona in Capitanata fatto
redigere da Federico II nel 1249305. L’interesse maggiore del documento, per
quel che riguarda questa analisi, è forse nella localizzazione e registrazione
minuziosa delle rendite attese da questi beni. Il territorio di Troia costituisce
una delle zone in cui la vite risulta molto diffusa: qui sono attestate 16 vigne,
in 7 delle quali sono ricordati ulivi, su un totale di 51 particelle coltivate, di
cui 30 tenute a cereali306. Il rapporto rispetto alle colture cerealicole è circa di
1 a 2, ma in relazione alle altre coltivazioni il dato è abbastanza signiicativo
del ruolo della viticoltura in questa parte della Capitanata.
Se per alcuni insediamenti come Villanova307 o Gibbiza (Ielsi)308 la prevalenza della cerealicoltura, almeno nelle terre oggetto della ricognizione,
risulta netta, numerose vigne sono ricordate a Cerignola309 e ad Alberona310
mentre vigne non mancavano a Lesina nei pressi dei laghi costieri311 e, ai
piedi del Gargano, a Vieste312. Un’area particolarmente vocata alla viticoltura
doveva essere quella tra Civitate, nelle cui campagne sono registrati 26 vigneSi veda infra, il paragrafo dedicato al commercio.
Si veda la recente edizione di Giuseppe de Troia, Foggia e la Capitanata nel Quaternus
excadenciarum di Federico II di Svevia, Fasano 1994.
306
Quaternus excadenciarum, cit., pp. 95-119.
307
Ivi, pp. 333-337.
308
Ivi, pp. 249.251; le prestazioni d’opera e i censi dovuti alla Curia dagli abitanti di questa
terra riguardano esclusivamente lavori collegati alla cerealicoltura o censi ricognitivi che
denotano una sviluppata economia della selva, come si deduce dalle corresponsioni in parti
di maiale, ivi, pp. 247-251.
309
Quaternus excadenciarum, cit., p. 139. Qui sono ricordate 4 vigne, tutte associate ad ulivi,
e 5 campi a cereali.
310
Ivi, p. 233, 6 vigne.
311
Ivi, pp. 315-321, 8 vigne.
312
Ivi, pp. 309-311, 4 vigneti.
304
305
184
Alessandro Di Muro
ti313, e Casale Novo dove ben 38 appezzamenti risultano coltivati a vigneto314.
Ma l’area territoriale dove la vite si manifesta quale coltura di gran lunga
prevalente è costituita dalle terre che lambiscono le mura di Foggia. Il Quaternus annota 33 terre coltivate a cereali a fronte di 37 vigneti, concentrati per
lo più nel sobborgo di Bassano (ben 26 vigneti)315.
I proventi previsti dalle vigne sono per lo più computati in natura e la
loro registrazione consente di stabilire quanto vino si presumeva venisse prodotto nei vigneti del demanio. Naturalmente le vigne avevano dimensioni, e
quindi rese, diverse per cui se 3 vigne congiunte a Bassano potevano produrre
in un anno ben 75 salme di vino, un’altra vigna nello stesso luogo ne produceva solo una316. Più uniformi relativamente alle dimensioni appaiono le vigne
di Troia, dove la resa prevista si attesta generalmente tra le 6 e le 4 salme317.
Altre volte i redditi attesi sono quantiicati in denaro, ed è questa una caratteristica eclusiva del circondario di Foggia e di Civitate318, circostanza che
lascia scorgere una commercializzazione del vino prodotto in queste zone.
Nel valutare questi dati è opportuno, evidentemente, tenere ben presente
la particolare tipologia della fonte utilizzata e considerare come la viticoltura
risultasse molto più praticata tra gli allodieri per la ricordata generalizzata
tendenza al consumo di vino, circostanza che non consente di trarre conclusioni troppo generali, soprattutto se tendenti a valutazioni pessimistiche, sulla
diffusione della vite nella Capitanata del XIII secolo.
Alcuni indizi lasciano pensare che il Quaternus possa essere ritenuto uno
specchio abbastanza fedele della composizione del paesaggio agrario della
Capitanata nel XIII secolo, perlomeno nei casi in cui l’inventario del 1249
registra numerosi poderi all’interno di una circoscrizione. Conferma di ciò
pare potersi desumere per le campagne di Foggia da un documento di qualche
decennio precedente. Nel 1191 il cenobio di San Lorenzo di Aversa concedeva in afitto 10 petias vinearum nella località Bassano (in vocabulo Bassani)
ad un tale Guerrierus e a sua nipote Nerbona; queste vigne coninano con
Ivi, pp. 389-402.
Ivi, pp. 363-387.
315
Altre 3 sono localizzate ad Arpi; ivi, pp. 159-211.
316
Ivi, rispettivamente p. 205 e p. 209.
317
Si veda supra. Un’eccezione è rappresentata da una vigna che produce 10 salme, ivi, pp.
113-114.
318
Nelle campagne di Foggia ben 13 vigne forniscono ciascuna un reddito di un’oncia (o più)
d’oro (ivi, pp. 159, 161, 165, 193, 195), altre 1 tarì, ivi, p. 207. A Civitate i proventi sono
compresi tra uno e 15 tarì (ivi, pp. 389-395).
313
314
La vite e il vino
185
altre vigne di Nerbona e di altri allodieri (secus vineas Ferimanni et vineas
dicte Nerbone). Come censo i concessionari dovranno versare annualmente
la decima dei prodotti e 1/3 d’oncia aurea319. Si tratta dunque di una porzione
compatta di territorio allevato a vigneto (10 vigne contermini coninanti con
altre vigne di proprietà di Nerbona), per il quale si richiedono censi in moneta, circostanza che lascia supporre un ricavo di redditi dalla commercializzazione del vino prodotto da parte dei locatari, dei veri e propri imprenditori che
alle proprie vigne ne aggiungono altre detenute in afitto, a conferma della vocazione vitivinicola di Bassano già emergente dal Quaternus federiciano320.
Altro territorio per il quale le registrazioni di vigneti nel Quaternus risultano numerose è, si è visto, quello di Troia321. La città della Capitanata appare
sin dalla sua fondazione ricca di vigneti: già nella Vita di San Secondino scritta intorno al 1060, il monaco cassinese Guaiferio descrivendo l’ameno paesaggio che circondava Troia ne ricordava i rigogliosi, bassi (humiles) vigneti,
coltivati con ogni probabilità secondo l’allevamento ad alberello322 e sin dal
primo documento attribuito al territorio troiano, datato al 1019, si hanno notizie di vigneti323. La precisazione di Guaiferio sulle viti humiles, coltivata
secondo la tecnica ad alberello o a sostegno morto, come interpetrò correttamente Michele Fuiano, fornisce una notizia preziosa sulle modalità dell’allevamento della vite in quelle terre. Il Fuiano ipotizzò si potesse trattare di
un’innovazione bizantina o della persistenza di antiche tradizioni locali risalenti alla colonizzazione greca.324. In realtà l’allevamento basso è ricordato, si
è visto, nella documentazione lucerina sin dal IX secolo325 e la circostanza che
molti dei primi abitanti di Troia provenissero da Ariano Irpino, un’area dove
la vite bassa era molto diffusa326, può lasciare ipotizzare che i nuovi abitanti
dell’area avessero semplicemente applicato le proprie tradizioni agrarie al
nuovo contesto territoriale.
CDNA, pp. 270-271.
Viti a Bassano sono già ricordate nel IX secolo Fuiano, Economia rurale, cit., p. 53.
321
La folta presenza di vigneti nelle terre di Troia nel XIII secolo è confermata dai documenti
editi da J.-M. Martin in CDP, XXI, ad es. pp. 395-396, a. 1225, pp. 399-400, a. 1227; pp.
404-405, a. 1230; pp. 409-410, a. 1233.
322
Guaiferio, Vita Sancti Secundini, edita in Ughelli-Coleti, Italia Sacra, X, Venezia 1767,
c. 1337.
323
F. Trinchera, Syllabus graecarum membranarum, Napoli 1865, pp. 18-19.
324
Fuiano, Economia rurale, cit., p. 45.
325
Supra.
326
Supra.
319
320
186
Alessandro Di Muro
Passando alla Terra di Bari i vigneti appaiono piuttosto rari nei dintorni
della città, sebbene documentati tra XI e XII secolo327: qui predomina nettamente l’olivicoltura328. L’area dove la viticoltura sembra praticata in maniera
più intensiva pare potersi individuare nel territorio di Spinazzola, dove in età
angioina è documentata una vigna della Corona329, e, soprattutto, di Trani
e Corato: qui la precoce specializzazione di terreni a vigna e la vicinanza
del rilevante porto inducono ad ipotizzare una coltivazione in funzione di un
consumo non esclusivamente locale330. Per Trani notizie riportate dal Libro
Rosso della città, attestano abbondanti produzioni vinicole nel XIII secolo,
frutto delle numerose vigne “quibus habundat” e che costituiscono alla metà
del ’200 “maiorem partem suorum proventum”331.
Un’altra area di forte diffusione del vigneto pare essere stata quella
gravitante intorno Conversano, zona di buona produzione olearia. Per queste terre disponiamo di numerosi contratti di locazione fondiaria, tra cui un
precoce contratto ad pastinandum del 905, caso abbastanza raro, si è detto,
per la Puglia. Mi sembra signiicativo a questo proposito, sottolineare come
l’inluenza longobarda sia rimasta qui tenacemente operante, anche dopo la
riconquista bizantina della ine del IX secolo, come aveva eficacemente indicato Michele Fuiano332, circostanza che mi sembra vada a avvalorare l’ipotesi
di Bruno Andreolli, secondo il quale lo sviluppo di modalità gestionali della
terra fondate sulla locazione fondiaria sarebbe il portato di una cultura agraria
di stampo curtense che il Mezzogiorno longobardo conobbe in maniera abbastanza diffusa a differenza delle terre bizantine333. Nel documento del 905
327
Romualdo ricorda le vigne che circondavano la città nel 1133, Romualdo Salernitano,
Chronicon, in R.I.S. VII, a cura di C.A. Garui, Bologna 1935, p. 206.
328
Si veda in questo stesso volume il saggio di Pietro Dalena, supra. Per la terra di Bari si
veda anche R. Licinio, Elementi dell’economia agraria del territorio nel basso Medioevo, in
Società, cultura, economia nella Puglia medievale, a cura di V. L’Abbate, Bari 1985, pp. 33 ss.
329
RA, XXIX, p. 74, a. 1287.
330
Martin, La Pouille, cit., p. 359.
331
A. Prologo (a cura di), Libro rosso della città di Trani, Trani 1877, n. III, p. 4, a. 1251.
Anche per il 1269 si ricorda che gli abitanti di Trani prosperano in virtù delle loro vigne, n.
III, p. 4.
332
Ancora in documenti conversanesi del 938, del 991, del 994 e del 1053, facendo riferimento alla legislazione longobarda si ricordava il “gloriosissimo re Liutprando”, M. Fuiano,
Economia rurale e società in Puglia nel Medioevo, Napoli 1978, pp.18-19.
333
Andreolli, Contratti agrari, cit., p. 132. Secondo lo studioso tali modalità sarebbero giunte
nel Mezzogiorno longobardo iltrate dalle grandi abbazie di Montecassino e San Vincenzo
al Volturno. A mio parere una cultura curtense in Italia meridionale longobarda sussisteva
La vite e il vino
187
il concedente, Castelmanno, afida una terra, già in parte pastinata a vigneto
dai conduttori, Lupo e Amelfrido: in sei anni questi dovranno completare
l’impianto iniziato, e in otto anni dovranno procedere alla colonizzazione
dell’intero podere, ripartendo equamente il frutto tra gli attori: Castelmanno
si recherà al tempo della vendemmia a ritirare quanto gli spetta: l’accenno
alla divisione delle piante al termine del pastinato sembra celare una pastinatio in partem334.
Dall’analisi dei documenti riportati nel diplomatico di Conversano, si
ricava chiaramente come queste terre collinari ai piedi delle Murge, a partire
già dal X secolo, si caratterizzino per una forte presenza di vigne335 e sin dalle
prime attestazioni documentarie si riscontra nel territorio di Conversano una
notevole diffusione di impianti di irrigazione realizzati attraverso ingegnosi
sistemi di estrazione delle acque dai pozzi che poi, attraverso condotte, giungevano alle colture336. Nel corso del XIII secolo si assiste ad un incremento
della coltivazione della vite, allevata secondo la tecnica del sostegno morto:
nel 1278, ad esempio, si provvedeva ad impiantare 2 vineas in un clausum
deserto337; mentre nel 1270 il giudice Manfredi vendeva un grosso vigneto
con 46 ordines vinearum338. Sul inire del secolo l’olivicoltura sembra crescere nelle attestazioni339, ma si constata nel contempo una buona tenuta della
coltura della vite340. Così nel XIV secolo sussistevano 10 vigne ducali a Turi
che nell’agosto del 1334 furono devastate da una terribile grandinata; tale
evento ebbe nefaste conseguenze anche sugli impianti vicini, tanto che per
quell’anno se ne potè ricavare nullus redditus341. La presenza nella zona di
una taverna che smerciava grossi quantitativi di vino testimonia la ragguardevole produttività delle vigne conversanesi nel tardomedioevo342.
In questo stesso periodo troviamo numerosi vigneti appartenenti all’ora prescindere dall’azione di “ponte” col mondo carolingio attribuibile ai due grandi cenobi
meridionali, Di Muro, Economia e mercato, cit., pp. 21 ss.
334
CDP, XX., n.2, pp. 5-6. Si veda anche Fuiano, Economia rurale e società, cit., pp. 31-32.
335
Fuiano, Economia rurale e società, cit., pp. 26-32.
336
Lizier, L’economia rurale, cit., p. 7, n. 8. Fuiano, Economia rurale e società, cit., p. 33,
n. 68.
337
CDB, XVII, p. 38.
338
Ivi, p. 19.
339
Oliveti sono attestati ad es. in CDB, XVII., p. 80, a. 1294; p. 89, a. 1294; p. 96, a. 1296;
340
Ivi, p. 103, a. 1298; p. 105, a. 1299.
341
CDB, XVII, p. 170.
342
Ivi, pp. 157-159, a. 1326; si veda anche infra.
188
Alessandro Di Muro
dine dei Giovanniti nell’area barlettana dai quali provengono cospicue rendite343. A conferma della grande produttività dei vigneti di Barletta sovviene
una carta del 1294 dove si dichiara che il reddito dei barlettani per la maggior
parte in vino consistant344. Mi sembra signiicativo, nel caso di Barletta, che
nei tre contratti di afidamento conservati, due prevedano l’impianto di vigne345. Anche le campagne di Brindisi dovevano caratterizzarsi per una certa
produttività di vino, sui cui redditi gravava la decima riscossa in età angioina
dall’arcivescovo di Brindisi346, come anche il territorio di Massafra dove nel
1270 è documentata una vigna regia. Nella relazione inanziaria del secreto di
Puglia al sovrano relativamente a quell’anno, si ricorda la gestione virtuosa
delle vigne di Massafra, Brindisi, Trani e Venosa, oggetto delle attenzioni del
funzionario che aveva lì inviato vignaioli a eseguire i lavori necessari alla
prosperità degli impianti347.
In ogni caso un dato indicativo sulla produttività vinaria della Puglia,
e dunque sull’incidenza delle viti nel paesaggio agrario, mi sembra si possa
cogliere da un documento del 1289 con il quale Carlo II ordinava al secreto
di Puglia di procurargli 1000 salme di vino per la Domus Militie Templi348.
2.10 La Calabria
Anche per la Calabria si dispone di numerose testimonianze sulla diffusione della coltura della vite nel Medioevo. Vigne sono infatti documentate,
oltre che nei pressi dei centri urbani349, un po’ dappertutto dal reggino al
crotonese alla valle del Crati ino alle aree montuose tra il Pollino e il Sirino. Sin dall’XI secolo sono menzionate vigne nella piana di Gioia Tauro,
dove il cenobio di San Nicodemo da Kellarana possedeva vigneti, uno dei
M. Salerno, K. Toomaspoeg, L’inchiesta pontiicia del 1373 sugli Ospedalieri di San Giovanni di Gerusalemme nel Mezzogiorno d’Italia, Bari 2008, p. 90.
344
CDB, X, p. 263.
345
CDB, VIII, 219-220, a. 1220. Si veda anche Andreolli, Contratti agrari, cit., p. 13.
346
RA, XI, p.. 129, a. 1273.
347
RA, VI, p. 361, aa. 1270-1271; i vignaioli avevanoprovveduto a potare, zappare, scalciare,
bruciare i tralci secchi e boniicare le vigne improduttive (alluminaverunt vineas desertas).
Si veda anche Licinio, Uomini e terre, cit., p. 76.
348
RA, XXXV, p. 108, a. 1289.
349
Infra.
343
La vite e il vino
189
quali arrivava a contenere ben 4000 ceppe di viti350. Estesi vigneti possedeva anche la Chiesa di Reggio; nel brébion della cattedrale si ricordano, sin
dalla metà dell’XI secolo, vigneti molto estesi, alcuni di nuovo impianto:
sono qui documentate infatti vigne con oltre 1200 viti, mentre nel XII si
hanno attestazioni di vigneti posseduti da liberi allodieri con 750 viti351. La
valle del Tacina nel Crotonese sembra costituire un territorio a forte vocazione viticola sin dal XII secolo, in particolare i poderi di Mesoraca, dove il
monastero di Sant’Angelo in Frigillo sembra perseguire agli inizi del XIII
secolo un’attenta politica di acquisizione fondiaria tendente a creare vigneti
compatti352. Non lontano, nei pressi di Squillace, si hanno testimonianze di
vigne con 750 ceppi di viti353. Anche nella valle del Crati, dove sin dall’XI
secolo si hanno numerose attestazioni di viti, emerge l’abbazia cistercense di
Santa Maria della Sambucina quale detentrice di un gran numero di vigneti,
in particolare tra Luzzi e Cosenza354; numerose sono le vinee ricordate nel
A. Guillou, Saint-Nicodème de Kellarana, Città del Vaticano 1968, doc. 1, a. 1023.
A. Guillou, Le brèbion de la metropole byzantine de Règion, Città del Vaticano 1974 p.
184 (1000)e p. 186 (1200).
352
Si vedano ad es. i documenti in A. Pratesi, Carte latine di abbazie calabresi provenienti
dall’archivio Aldobrandini, Città del Vaticano 1958, p. 91, a. 1188 (Scala nei pressi di Mesoraca); ivi, p. 161, a. 1201 (pressi Rocca Bernarda); ivi, p. 266, a. 1217 (vigna circondata da
altre vigne a Mesoraca); ivi, p. 270, a. 1218 (vigna a Mesoraca) ivi, p. 349, a. 1226 (pressi
di Petilia Policastro?); ivi, p. 361 (Petilia Policastro); ivi, p. 365, a. 1230 (vigne a Belcastro);
ivi, p. 377, a. 1233 (Petilia Policastro); ivi, p. 438 a. 1265 (Mesoraca).
353
Pratesi, Carte latine, cit., p. 423, a. 1251.
354
Per le testimonianze di vigneti nelle terre intorno Cosenza dalle fonti cronachistiche si
veda ad es. Goffredo Malaterra, De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae comitis et
Roberti Guiscardi Ducis fratris eius, ed. E. Pontieri, Bologna 1925-1928, IV, p. 49 relativamente all’anno 1090. I documenti d’archivio riportano numerose attestazioni di vigne, si
veda ad es. Pratesi, Carte latine, cit., p. 19, a. 1100; ivi, p. 41, a. 1145 (Luzzi); ivi, pp. 45-47,
a. 1152 (in pertinencis de Mercurio, nei pressi di Orsomarso); ivi, p. 127 a. 1198 (Luzzi);
ivi, p. 129 a. 1198 (Luzzi); ivi, p. 142, a. 1199 (pressi di Luzzi); ivi, p. 185, a. 1202 (pressi di
Cosenza); ivi, p. 193, a. 1204 (pressi di Cosenza); ivi, p. 232, a. 1209 (pressi di Luzzi); ivi,
p. 258, a. 1216 (pressi di Cosenza); ivi, p. 294, a. 1221 (vigna con un palmento nei pressi di
San Marco); ivi, p. 390, a. 1237 (pressi di Cosenza); ivi, p. 411 a. 1242 (Luzzi). Vigneti si ricordano nella platea di Luca Campano a Figline Vigliaturo, a Lappano, a Piretum, a Cosenza
etc., si veda J.-M. Martin, La platea dell’arcivescovo Luca di Cosenza: Regime della terra e
struttura dei rapporti socio-economici in età normanna e sveva, in Il sistema feudale nella
Calabria medievale, Castrovillari 2009, pp. 57-58.
350
351
190
Alessandro Di Muro
territorio di Bisignano nel XIII secolo355 e di Castrovillari negli stessi anni356
mentre già durante i primi decenni dell’XI secolo sono attestati vigneti
nei territori degli attuali comuni di Santa Domenica Talao e Orsomarso357.
Le enormi quantità di vino esportate dalla Calabria a partire dal XIV
secolo358 costituiscono il rilesso più convincente dell’espansione dei vigneti
nella regione alla ine del Medioevo.
Le pur numerose attestazioni di vigne in Calabria a partire dall’XI secolo, se da un lato permottono di indicare signiicativamente anche qui al
passaggio del Millennio una sensibile espansione delle superici vignate, non
consentono di indicare con sicurezza il tipo di allevamento della vite adottato
nella regione o nelle diverse aree subregionali. Secondo Jean Marie Martin,
nella Calabria meridionale la vite si coltivava sia in associazione ad arbusti
che bassa359 ma la documentazione non fa chiarezza su questo punto. Per la
Calabria centro settentrionale la ricorrenza del termine vinea nella totalità
dei documenti del tempo consente di indicare la tradizione della coltivazione
della vite a sostegno morto come dominante, se non proprio esclusiva. Un
documento del XIII secolo in cui si obbligano gli angariari della Chiesa cosentina che coltivano i vigneti ecclesiastici a portare ogni anno 20 pali per le
viti, conferma quanto ipotizzato360.
Le platee calabresi del XIII secolo permettono di gettare un po’ di luce
sui rapporti tra i possessori di vigneti e i coltivatori. In un contratto di pastinatio in partem del 1217 si fa obbligo al concessionario di piantare in un
fondo nei pressi di Cosenza vigna e alberi361. Per i primi cinque anni il colono
non dovrà corrispondere censo, evidentemente perché la vigna non è ancora a
pieno regime produttivo, ma a partire dal sesto dovrà portare al concedente un
terzo del vino mosto prodotto. Trascorsi sette anni dalla stipula del contratto
il fondo così messo a coltura sarà diviso tra le parti. In questi anni il colono
P. De Leo, Un feudo vescovile nel Mezzogiorno svevo.La platea di Rufino vescovo di
Bisignano, Roma 1984, pp. 71-73, 79-83, 86-87, 173.
356
F. Burgarella, A. Guillou, Castrovillari nei documenti greci del Medioevo, Castrovillari
2000, 2, pp. 111-113, a. 1205; 4, pp. 127-128, a. 1222; 5, pp. 134-136, a. 1245; 8, pp. 162164, a. 1254, 310 viti.
357
Guillou, Aspetti, cit., p. 337. Si veda anche Cherubini, I prodotti, cit., p. 216.
358
Per questo aspetto si veda infra.
359
J.-M. Martin, Città e campagna: economia e società (secc. VI-XIII), in Storia del Mezzogiorno a cura di G. Galasso-R. Romeo, III, Napoli 1990, p. 320.
360
Documento riportato in Martin, La platea dell’arcivescovo Luca di Cosenza, cit., p.60.
361
Ivi, p. 58.
355
La vite e il vino
191
avrà dovuto inoltre provevdere a costruire due palmenta, uno nella parte che
terrà per sé l’altro nell’area che verrà restituita al possessore. Come si vede, si
tratta di una tipologia di contratto che abbiamo già incontrato altrove a partire
dal X secolo. La novità che si manifesta in questo documento si può indicare
nella costruzione di due palmenti e nella durata più breve del contratto, di
solito issata nelle aree campane a dieci anni.
Un aspetto singolare legato alla grande diffusione della vite in Calabria e
ai saperi pratici accumulati dai contadini calabresi relativamente alla cura della vigna, emerge da alcuni interessanti documenti conservati presso l’Archivio di Stato di Palermo e studiati da Henri Bresc e Genevieve Bresc Bautier.
Le carte palermitane testimoniano un consistente lusso, in particolare nel
’300, di vignaioli professionisti dalla Calabria alla Sicilia occidentale, veri e
propri protagonisti di imprese colonizzatrici in un territorio dove latifondo e
coltura estensiva cerealicola avevano respinto in una posizione di rischiosa
marginalità i vigneti. Ai vignaioli calabresi si richiedeva di piantare le viti,
mondarle, roncare, propagginare e realizzare i sostegni, dietro consistenti
compensi in moneta e in natura362. Si tratta di un fenomeno di emigrazione di
viticultori che non sembra trovare confronti nelle altre aree del Mezzogiorno
medievale.
3.
Insediamenti e coltura della vite (secc. X-XIII)
3.1 Vigneti e castelli
Si è già detto come il castello, nel senso di borgo murato, diventi tra X e
XII secolo, inisieme al casale, ovvero il villaggio aperto, il fulcro della riorganizzazione delle campagne del Mezzogiorno. Risulta pertanto interessante
veriicare il ruolo della coltura della vite nella grande stagione dell’incastellamento meridionale, generatore, come è noto, di rinnovati paesaggi rurali.
Erchemperto colloca tra l’879 e l’881 la creazione del castellum di Calvi,
vero antesignano dei castelli di popolamento che si moltiplicheranno nelle
362
G. Bresc-Bautier, H. Bresc, Rilessi dell’attività economica calabrese nella documentazione siciliana, in Mestieri, lavori e professioni nella Calabria medievale: tecniche organizzazione e linguaggi, Atti dell’VIII Congresso storico calabrese, Soveria Mannelli 1993, p. 235.
Interessante tra le altre cose la testimonianza dell’utilizzo della tecnica a sostegno morto da
parte di questi viticultori, evidentemente tradizionalmente adottata nelle aree di provenienza.
192
Alessandro Di Muro
campagne del Mezzogiorno a partire dalla metà del X secolo. Il contesto è
rappresentato dai conlitti che seguirono la spartizione della Contea di Capua
dell’879. All’indomani di questo evento Atenolfo, che più tardi diverrà conte di Capua e principe di Benevento, prese a fortiicare un castello a Calvi,
strategicamente posto lungo la via latina tra Teano Capua, e a causa di ciò,
come informa Erchemperto contemporaneo degli accadimenti, fu catturato
dal signore di Capua, il cugino Pandonolfo363. Circa due anni più tardi Pandonolfo decise di elevare fortiicazioni presso Calvi ma non gli fu possibile perché lo stesso Atenolfo (evidentemente liberato) e suo fratello Landone
con i loro armati gli si opposero vigorosamente. Il cronista collega il successo della resistenza dei igli di Landonolfo all’azione di Landone che, subito
dopo la cattura del fratello, “Calvense castrum, propter quod captum est idem
Atenulfus, cum suis coepit haediicare. Pars autem nobilium parata erat ad
praelium, et pars vulgi vallis et parietibus construebat, sicque consumatus est.
Post biennium ferme ignum consumptum, ab eodem Landone reparatum est
memoratum castrum, quo abiens cum universis suis et casis datis per singulos
concives oppidi de ministerio suo, et vasis vinariis, victualium quoque vinum,
omni vigilantia desudans ad pristinum statum dictum oppidum erexit”364. Nella distribuzione di abitazioni e vettovaglie emerge la centralità del vino e dei
vasa vinaria, indice dell’importanza che ad essi si attribuiva nella costituzione di un agglomerato antropico anche in una circostanza critica come questa.
L’esempio dei due maggiori protagonisti dell’incastellamento del Mezzogiorno tra i secoli X e XI, San Vincenzo al Volturno e Montecassino, può
essere considerato signiicativo del rapporto che lega la costituzione di un
borgo murato alla coltura della vite.
I documenti di incastellamento di San Vincenzo al Volturno risultano
particolarmente precisi nell’indicare le colture essenziali collegate all’elevazione di un borgo murato. Nel 972 il preposito volturnense Leone concede alcune terre a Sant’Angelo (oggi Colli al Volturno, Is) e a Vantra (oggi
Fornelli, IS), nei pressi del monastero, ad un gruppo di uomini afinché le
coltivino e costruiscano case e un castello, all’interno del quale dovranno
risiedere. Tra le prescrizioni ricordate vi è l’impianto di vigne e la quantità
di vino che si dovrà corrispondre al cenobio ogni anno in ragione delle case
abitate: de vineis vero, quas ibi fecerint, per singulas vindemias debeant dare
Erchemperto, Historia Langobardorum Beneventum degencium, ed. G. Pertz, in MGH.,
ss. rr. LL., c. 40, p. 254; c. 44, p. 255.
364
Ibidem.
363
La vite e il vino
193
singulas tractorias vinum mundum ante missum nostrum pisatum modia duo
<per> singulas casas assigne[n]t ad ipsum missum nostri monasterii, in ipso
suprascripto castello, in quo habitant per singulos annos365. Nel 988 l’abate
Roffredo concede le medesime terre di Colli, accresciute da altri territori limitroi, a quaranta uomini, alcuni dei quali già presenti nel castello ivi ediicato,
con canoni analoghi a quelli richiesti nel documento del 972, con la richiesta
di vinee pastinandum, et omnes boni arbori ibidem plantandum, et case ibidem hediicandum, circostanza che fa ipotizzare una espansione agraria nel
territorio dopo l’incastellamento di 16 anni prima. Ancora una volta l’impianto della vite è il segnale di una crescita366.
Nel 973 un gruppo di famiglie riceve terre ai conini orientali della Terra
Sancti Vincencii, nel Vadu Traspadini non lontano da Isernia367: I concessionari dovranno erigere un castello ubi illi voluerint e all’interno costruire case,
realizzare aie e orti e habitare ibi cum familiis et animaliis; dovranno inoltre
vinea sibi pastinandi. Il vino che sarà prodotto, mundum, ad ogni vendemmia
dovrà essere ante missum nostrum pisatum e consegnato nella misura di modia duo per ogni vigna coltivata.
Nel 982368 l’abate Giovanni II consegna a livello tutte le terre del cenobio
in loco qui nominatur Scappelli (oggi Scapoli, Is) a un consorzio di famiglie
afinché le coltivino et vinee pastinare, et conciare tempore suo. Dovranno
costruire case all’interno del castello dove abiteranno e per singulas quoque
casas quante fuerint, mensuratum ad ipsum modium, quod consuetudo est
mensurare in predicto loco, de predictis vineis, quod inde fecerint, per singulas, unam tractoriam de vino iustam dare debeant, quantas vineas abuerint,
per singulas vindemias vinum mundum ante missum nostrum pisatum modia
duo. Tre anni più tardi l’abate Roffredo assegna alcune terre a sei uomini nei
pressi del castello di Vaccareccia, vicino Scapoli; i nuovi castellani si impeganno a dissodare alcune terre e a vinee pastinare, impiantare nuove vigne369.
Singolarmente in questo afidamento mancano richieste di corresponsione di
vino, caso unico tra quelli esaminati.
Nel 989 si ha notizia della fondazione di un altro castello, Cerro, nella Terra Sancti Vincencii; alla costruzione del castello sono chiamati 15 uomini, tra i
CV, II, pp. 117-119.
Ivi, pp. 302-304.
367
Ivi, pp. 114-117, a. 973.
368
Ivi, pp. 239-241.
369
CV, II, pp. 305-307, a. 985.
365
366
194
Alessandro Di Muro
quali uno proveniente da Teano: costoro debeant ibidem vinee pastinare quante
potuerint, et ipse conciare, et vindemiare; et ubi eorum aptum fuerint,debeant
ibidem facere castellum, et ibidem casa facere, et habitare, vel residere cum
familiis et animaliis suis370. Dopo tre anni i concessionari dovranno corrispondere un censo di un modium di vino per ogni casa. Grossomodo le medesime
richieste sono indicate per l’assegnazione di terreni poco distanti da Cerro nel
995, sempre nella Terra Sancti Vincencii: qui però non sarà elevato un castello, come ha opportunamente notato Chris Wickham, ma sorgerà un villaggio
aperto e i suoi abitanti dovranno dissodare le terre circostanti371; tra le richieste
dell’abate vi è quella di vineam pastinare e ubi habueritis super iusta tractoria
de vino, detis in pars predicti nostri monasterii duo modia de vina ad modium
iustum.
La vigna risulta dunque un elemento indispensabile nella ricostruzione
del paesaggio agrario della Terra Sancti Vincencii del X secolo, sia che questo
trovi il proprio fulcro insediativo in borghi murati sia che risulti imperniato
su villaggi aperti.
Le carte di incastellamento del cenobio di Montecassino confermano la
presenza diffusa dei vigneti in connessione alla fondazione di un castrum di
popolamento. La carta di fondazione del primo castello di popolamento della
Terra Sancti Benedicti, Sant’Angelo in Theodice, redatta ai tempi dell’abate
Aligerno (metà del X secolo), prevedeva un livello collettivo in cui ogni famiglia di coloni riceveva un lotto di terra su cui avrebbe costruito la propria
abitazione all’interno della cinta muraria e un altro podere fuori dalle mura,
da destinarsi alle varie colture. Oltre all’obbligo-diritto di residenza con le
proprie famigli e i commenditi, i concessionari dovevano partecipare alla
costruzione del castello ed erano tenuti a versare i 2/5 del vino prodotto372,
circostanza che rivela la presenza e il ruolo delle delle vigne nei poderi coltivati. Nel 1190 l’abate Roffredo emanava un privilegio per gli abitanti del
castello in cui, tra le altre cose, si assicurava la protezione del vino da essi
prodotto373.
Ivi, pp. 310-313.
CV, II, pp. 308-311, Wickham, Il problema dell’incastellamento, cit., p.32.
372
Si veda l’edizione di Luigi Tosti, Storia della Badia di Montecassino, Napoli 1842, I, app.
XIV, pp. 334-338.
373
Vinum quod habetis in vestris vasis a nostris ministris vobis non auferatur, il privilegio è
riportato in Fabiani, La terra di San Benedetto, cit., I, p. 431.
370
371
La vite e il vino
195
Più in generale i vigneti sono presenti pressocché in ogni insediamento
accentrato ricadente nella Terra Sancti Benedicti. Ad esempio, nelle già ricordate consuetudini del castello di Sujo registrate nel 1079 sono rimarcati i
diritti degli abitanti sulle vigne nel territorio374. Inine gli Statuta dell’abate
Tommaso redatti tra il 1285 e il 1288 con i loro numerosi riferimenti all’uva
e al vino forniscono un ulteriore elemento caratterizzante l’importanza della
vite nella vicenda degli insediamenti accentrati della Terra Sancti Benedicti375.
3.2 Vigneti e città
Se le città maggiori del Mezzogiorno come Napoli, Salerno, Capua, Gaeta, Amali, Benevento, Venosa, Lucera, Trani, Bari, Taranto, Cosenza, Reggio, si caratterizzano, potremmo dire sin dalle prime attestazioni documentarie per la presenza consistente di vigneti appena fuori le mura, anche i centri
minori risultano circondati da vigneti. Valicate le mura si scorge un paesaggio caratterizzato dagli impianti viticoli un po’ dappertutto, così ad esempio
a Teano376, Calvi377, Aquino378, Caiazzo379, Castel Cicala380, Ariano Irpino381,
Ascoli Satriano382, Tufo383, Eboli384, presso i nuovi centri dell’Apulia quali
Troia385o Foggia386, in Lucania Potenza387 o, in Calabria, Scalea388, Gerace389
e Oppido390. Se nel 1045 il conte longobardo di Larino Tasselgardo, concedendo all’abate di Santa Maria delle Tremiti la città abbandonata di Gaudia
Ivi, pp. 423.
Ivi, pp. 456-457 (I, IV), 460-461, (XXIV, XXV).
376
CV, II, pp. 204 –210.
377
Erchemperto, Historia, cit., c. 40, p. 254; c. 44, p. 255.
378
Amato di Montecassino, Storia, cit., pp. 193, 265.
379
Gattola, Accessiones, cit., pp. 28-29.
380
Ad es. CDV, I, 93.
381
Ad es. CDV, XI, 1008.
382
Fuiano, Economia rurale, cit., p. 55.
383
Falcone, Chronicon, cit., p. 44, a. 1119.
384
Per le colline di Eboli si veda Di Muro, La piana del Sele, cit., pp. 93-101.
385
Fuiano, Economia rurale, cit., p. 85.
386
Per il ruolo della viticoltura nel suburbio di Foggia, in particolare nel XIII secolo, si veda infra.
387
Idrisi, Il libro di Ruggero, trad. di U. Rizzitano, Palermo 1994, p. 112.
388
Goffredo Malaterra, De rebus gestis, cit., I, p. 20.
389
Ivi, II, p. 28. Anche Idrisi ne ricorda i vigneti, Idrisi, Il libro di Ruggero, cit., p. 70.
390
Bartolomeo di Neocastro, Historia sicula, a cura di G. Paladino, Bologna 1921-1922, p. 66.
374
375
196
Alessandro Di Muro
presso la foce del Fortore, prevedeva che nei dintorni i nuovi abitanti vi impiantassero vigne391, allo stesso modo nel 1232, quando Federico II volle ricostruire la città di Altamura, dopo aver deinito le modalità di ricostituzione del
territorium civitatis, stabilì che chiunque avesse voluto insediarsi nella nuova
città avrebbe potuto costruire una casa e coltivare la terra, dietro pagamento
di un canone al isco in orzo e grano e avrebbe, inoltre, potuto impiantare
vigneti, corrispondendo annualmente un certo quantitativo di mosto per ogni
vigna quinquagenale392. E l’importanza di tali impianti per le città emerge dalle numerose testimonianze di distruzione da parte degli eserciti che di volta
in volta pongono assedio alle mura: l’ampia rassegna su tale aspetto prodotta
da Giovanni Cherubini esprime con eficacia quasi la sistematicità delle estirpazioni delle viti al ine di piegare le resistenze delle popolazioni e illumina
sul rilievo che i vigneti ricoprivano nelle società urbane del Mezzogioro medievale393. Gli stessi metodi dissuasivi sono utilizzati talvolta dai nobili per
piegare le resistenze delle popolazioni locali ed usurparne i diritti: così nel
1307 i maggiorenti di Corneto rovinano e distruggono le vigne e i campi degli inermi coloni locali394. Si è già visto sopra come Carlo I d’Angiò nel 1271
considerasse mezzo di persuasione eficace la minaccia di estirpazione delle
vigne qualora i marinai amalitani non fossero stati disposti ad imbarcarsi
sulle sue navi da guerra. E in effetti lo spettro di vedere le campagne urbane
spoglie di viti, e dunque la prospettiva di non produrre vino per alcuni anni,
doveva costituire una preoccupazione ben comprensibile per gli abitanti delle
città medievali395.
L’esempio di Benevento è forse, in quest’ottica, il meglio documentato
e tra i più signiicativi. Le dettagliate notizie fornite da Falcone, intrecciate
e ampliate, per i decenni successivi, con i dati desumibili dalla documentazione d’archivio, consentono di ricostruire l’ordito che collega la vicenda dei
391
Codice diplomatico del monastero benedettino di Santa Maria di Tremiti (1005-1237), a
cura di A. Petrucci, II, Roma 1960, 35.
392
CDB XII, pp. 5-6, a. 1241. Si veda anche V. Tirelli, La Universitas hominum Altamure
dalla sua costituzione alla morte di Roberto d’Angiò, in “Archivio storico Pugliese”, IX,
1956, pp. 51-144.
393
Un elenco in Cherubini, I prodotti della terra, cit., p. 195, n. 54.
394
R. Caggese, Roberto d’Angiò ei suoi tempi, Firenze 1922, I, p. 67.
395
La vigna ha infatti bisogno di alcuni anni per entrare a pieno regime produttivo, dunque
non poter viniicare per lunghi periodi signiicava un gravissimo danno in primo luogo economico data l’indispensabilità del vino nelle abitudini alimentari, e non solo, del Medioevo,
si veda infra.
La vite e il vino
197
vigneti beneventani e gli assedi subiti dalla città tra i secoli XII e XIII. Negli
episodi che videro il principe di Capua Roberto e i signori normanni dei centri
beneventani contrapposti al bellicoso connestabile di Benevento Landolfo di
Greca tra il 1113 e il 1114, le più eficaci ritorsioni contro la città sannita si
concretizzarono nel taglio dei vigneti circostanti396.
Già in questo frangente si fa coincidere, nel racconto di Falcone, una
condizione di grave pericolo per la città con la distruzione delle vigne e, in
seconda battuta, con la cattura di alcuni beneventani: tali eventi provocano
infatti lo sdegno dei beneventani (“invidiae gladio compulsi”) che inviarono
messi al ponteice afinché esponessero la gravità della situazione397.
L’assedio di Ruggero II nel 1132 ebbe un impatto catastroico sulle coltivazioni nei dintorni di Benevento, in particolare sui vigneti. Ruggero fece
campo nei pressi del ponte Valentino, snodo viario strategico nello scacchiere delle comunicazioni della regione, e di qui diresse le operazioni di razzia e saccheggio nei dintorni. Falcone narra con stile accorato le devastanti
incursioni compiute dalle schiere del sovrano: “Qualem, lector, si adesses,
luctum Beneventanorum audires et miratus lugeres, quoniam quidem civitas, securitate a rege accepta, iugiter ad possessiones eorum et vineas, quia
vindemiarum tempus inerat, sine timoris aliqua dubietate exibat!”398 La vendemmia è il periodo prescelto per tali azioni, che si completano più tardi con
la devastazione di tutte le vigne dei beneventani ad opera del conestabile di
Montefusco399. Ma le testimonianze più eloquenti sul ruolo occupato dalla
coltivazione della vite nell’ecomia beneventana, mi sembra si possano cogliere negli accadimenti narrati dal cronista per l’anno 1133. In quell’anno il
cardinale Crescenzio, sostenitore di Ruggero, suggerì al sovrano che “vinae
omnes Beneventanorum et possessiones incenderentur, excogitans terrorem
Beneventanae civitati inducere, et sic civitatem sub nefandi regis imperio subiugare”. Il re, probabilmente nell’estate di quello stesso anno, mise in atto lo
scellerato consiglio e distrusse tutti i vigneti. Ancora una volta il grido di dolore di Falcone riproduce eficacemente lo stato d’animo dei cittadini di Benevento, costretti ad assistere inermi dagli spalti delle mura alla loro rovina,
tuttavia fermi nel proposito di non piegarsi al dispotismo di Ruggero: “LecFalcone, Chronicon, cit, p. 12, a. 1113, 6.1, gli aggressori “vineae circum astantes inciderentur”.
397
Ivi, p. 12, a. 1114, I.2.
398
Ivi, p. 142.
399
Ivi, p. 146.
396
198
Alessandro Di Muro
tor quidem, si adesses, turbatus expavesceres de tanta vinearum incisione et
combustione possessionum! Vindemias dimisimus et predicti regis nefandi
petitionibus ullo modo favere noluimus”400. La vendemmia perduta è percepita come la più grave delle sciagure che il sovrano possa scatenare sulla città,
una catastrofe che può rivelarsi esiziale; circostanza, questa, ben presente ai
nemici di Benevento, in particolare al cardinale Crescenzio, il quale, sempre
nel 1133, ordì un piano per catturare il valoroso conestabile beneventano Rolpotone e prendere la città. Il prelato stabilì infatti che il giorno di Sant’Andrea alcuni cavalieri fossero andati ad eradicare i vigneti delle campagne di
Roseto: “Incisionem illam cum cives Beneventani vidissent, ad defendandas
vineas suas exire pugnaturi deberent”. Probabilmente i beneventani avevano
provveduto a rimpiantare i vigneti pochi mesi prima almeno in parte devastati
da Ruggero, pertanto non avrebbero potuto esimersi dal difenderli, anche a
costo di perdere la città stessa, consentendo a Crescenzio di attuare la sua
trappola che prevedeva una contemporanea sollevazione armata di alcuni dissidenti all’interno di Benevento. Solo la mancata coordinazione di questi con
Crescenzio provocò il fallimento del progetto, ma la dettagliata illustrazione
da parte del cronista rivela l’eficacia dell’idea, incentrata sulla consapevolezza che la difesa dei vigneti costituisse per i beneventani una questione di vita
o di morte: secondo Falcone solo l’intervento divino potè vaniicare l’astuto
piano del cardinale401. Quando poi si stabilì una pace tra Ruggero e Benevento
fu l’avversario di turno, il signore di Fragneto Raone, a devastare nel 1138 i
vigneti della città, provocando la reazione immediata del sovrano402.
Le osservazioni del cronista sulle ripercussioni di tali eventi devastanti
sul paesaggio agrario beneventano si focalizzano, dunque, particolarmente
sulla sorte dei vigneti, evidente segno del ruolo direi imprescindibile di essi
nel contesto socio-economico di Benevento. Se dopo desolazioni così profonde e destrutturanti era necessario ricostituire l’assetto dei coltivi, la rete
delle colture pazientemente ripristinata rimaneva fragilissima e su tale precaria orditura incombeva inesorabile la minaccia di una prossima distruzione
collegata alle travagliate vicende politiche dei tempi.
Altri eventi disastrosi per la città sannita, ancor più delle aggressioni di
400
Ivi, p. 158. “Lector quidem, si adesses, turbatus expavesceres de tanta vinearum incisione
et combustione possessionum! Vindemias dimisimus et predicti regis nefandi petitionibus
ullo modo favere noluimus”.
401
Ivi, pp. 162, 164.
402
Ivi, p. 208.
La vite e il vino
199
Ruggero, furono gli assedi di Federico II nel 1240-1241 e del 1249, quando
l’imperatore attaccò Benevento distruggendola in parte. Quest’ultimo accadimento comportò una notevole impresa di ricostruzione urbana, afidata dal
ponteice Innocenzo IV all’arcivescovo Romano Capodiferro403, ma un’analoga, impegnativa, ricostruzione si rese necessaria anche nelle campagne
della città. Bruno Andreolli ha indicato come molti coltivi rimanessero abbandonati per decenni e che l’opera di ristrutturazione durasse ino agli inizi
del XIV secolo, rilevando come su 43 documenti dell’archivio del monastero beneventano di San Modesto, ben 31 riguardino contratti di afidamento esplicitamente indirizzati al recupero delle terre abbandonate ex generali
depopulatione Beneventi, come si annota in una locazione del 1269404. Se è
lecito supporre che, almeno in parte, i nuovi impianti si possano collocare in
un quadro più generale di incremento demograico, nondimeno si deve sottostimare il ruolo di queste locazioni nella ricostruzione del tessuto agrario
dopo le rovine federiciane.
Non sembra, in conclusione, possano sussistere dubbi sulla circostanza
che le colline di Benevento almeno dal XII secolo, ma, si è visto, nel solco di
una tradizione molto più antica, si conigurino aree a forte vocazione viticola,
quasi monocolturali, con produzioni, come si vedrà, destinate ad alimentare
considerevoli lussi di mercato: di qui le azioni distruttive degli eserciti assedianti contro i vigneti, talmente importanti per le popolazioni locali da spingerle allo scontro impari in campo aperto, circostanza che ne testimonia, si è
detto, il ruolo vitale405. Più in generale si può sottolineare come l’esistenza di
aree di coltivazione vocazionale con produzioni speciiche rivolte al mercato,
e dunque la costruzione dei paesaggi rurali in funzione di questo, sia precedente la creazione del regno con l’uniicazione del Mezzogiorno.
Ciò che si è detto per la coltivazione delle vigne per Benevento può riproporsi con l’espansione cerealicola nella Piana del Sele: anche qui nei primi
30 anni del XII secolo si assiste, lo si è visto, ad una riconversione delle colture con la grande crescita dei cereali, in funzione di un mercato, quello della
vicina Salerno, dove grano si commerciava almeno dal X secolo. Nello stesso
periodo sulle colline di Salerno la coltura della vite diventa di gran lunga
Si veda a tal proposito M. Rotili, Benevento, in Itinerari e centri urbani nel Mezzogiorno
normanno-svevo, Atti delle decime giornate normanno-sveve, Bari 1993, p. 307
404
Le più antiche carte dell’abbazia di San Modesto, cit., p. 146. In generale si veda Andreolli, Contratti agrari, cit., p. 118.
405
Per il commercio di vino nel beneventano si veda infra.
403
200
Alessandro Di Muro
predominante, con la scomparsa delle altre colture, anche qui probabilmente
sotto la spinta della crescente domanda di vino, come appare dall’emergere di mercanti di vino salernitani nella documentazione coeva406. Piana del
Sele e colline salernitane si conigurano così a partire dai primi decenni del
XII secolo come aree di produzione agricola quasi monocolturali, e tra loro
complementari, frutto di scelte precise legate alla crescente richiesta proveniente dai mercati. Esempi simili potrebbero riproporsi per la Terra di Lavoro
e molti altri ambiti subregionali. L’isitituzione del Regnum Siciliae favorì tali
tendenze accelerandole e inserendole, come si vedrà, in una prospettiva di
mercato più ampia.
4.
La produzione del vino
4.1 La vendemmia
Il carattere pervasivo della coltura della vite risulta, si è visto, ben testimoniato sin dall’alto Medioevo, almeno in alcune aree del Mezzogiorno. La
partecipazione di massa, addirittura di un intero corpo sociale cittadino, alla
vendemmia è testimoniato sin dall’alto Medioevo. Nell’autunno dell’884 l’infuriare dei conlitti tra i longobardi di Capua e i napoletani di Atanasio II conosce una svolta: il vescovo-duca di Napoli concede una tregua ma l’offerta
nasconde un tranello: “Tunc callide pace facta cum Capuanis, mox quando
vindemia legitur, cum esset Capua valide aflicta et a foris depopulata, omnes
certatim egressi sunt, tam primores quam et mediocres, ad vindemiandum. Ille
[Atanasio] vero, sugerente hoc vel maxime Guaiferio Colossense, ex abditis
Grecos Neapolites una cum theatralibus viris, et depredavit totam Capuam,
apprehensis in ea multis et prestantissimis viris peculiisque non modicis”407. Il
passo di Erchemperto mostra come Capua al tempo della vendemmia risultasse
vuota e sguarnita in quanto gli abitanti appartenenti a tutte le classi sociali, maggiorenti, piccoli proprietari, coloni, ecclesiastici, si trovavano nelle campagne
circostanti impeganti nelle operazioni di raccolta e pigiatura delle uve, secondo
una consuetudine attestata anche nei contratti campani di afidamento di vigne.
Se si può ritenere che i lavori di impianto della vite avvenissero un po’
dappertutto a marzo, come ricorda ad esempio Bonvesin da la Riva nel De
406
407
Si veda infra il capitolo sul commercio.
Erchemperto Historia, cit., c. 56.
La vite e il vino
201
controversia mensium e come si deduce da alcune iconograie meridionali408, la
documentazione scritta, i calendari scolpiti e dipinti del Mezzogiorno medievale indicano in settembre l’inizio della vendemmia, ma le operazioni di raccolta
si principiavano quando l’uva era giunta a giusta maturazione (apto tempore,
nei documenti) e questo naturalmente avveniva in tempi diversi da zona a zona,
anche in relazione alle condizioni meteorologiche che avevano caratterizzato la
stagione estiva409. Altre volte le tradizioni locali imponevano un ritardo rispetto
alle date canoniche, probabilmente per realizzare un vino più dolce, come è
testimoniato per l’area della Terra di Lavoro all’inizio del XV secolo410. Una
tale consuetudine è ricordata ancora nel XVI secolo nella Lettera sulla qualità
dei vini di Sante Lancerio per l’area
stabiana, “dove non si può vendemmiare insino a S. Francesco che così
è statuto antico”411.
Nell’intervallo di tempo tra i
lavori di propagazione e la raccolta
poteva accadere che il terreno in cui
era impiantata la vigna producesse
altri tipi di frutti, non solo derivanti,
laddove attuata, dalla pratica della
coltura promiscua, ma anche frutti
spontanei quali gli asparagi o il luppolo, i cui tempi di raccolta erano
nel basso Medioevo regolati da apposite norme emanate dalle Universitates, come si evince ad esempio
dalle consuetudini di Sala Consili- Fig. 4. Otranto, mosaico della cattedrale, il
mese di marzo
na del 1378412.
408
Così si esprime nel componimento Marzo: “Planto novas vites, ut det nova vinea vinum”, G.
Orlandi, Letteratura e politica nei Carmina de mensibus, in Felix olim lombardia. Studi di Storia Padana in onore di G. Martini, Milano 1978 p. 152, v. 50. Marzo è tradizionalmente il mese
in cui si riprendono i lavori agricoli dopo la pausa invernale anche nel Mezzogiorno come testimonia la rafigurazione di tale mese nel celebre mosaico di Otranto, circondato da viti (ig. 4).
409
Così si esprime, ad esempio, un vignaiolo di Terlizzi: in exitu mensis septembris, vel si
ante vindimiavero, CDB, III, 225, a. 1232.
410
Si veda Livro de Arautos, cit., p. 269.
411
Sante Lancerio, Lettera sulla qualità dei vini, in G. B. Jori, Il vino, Milano, s.d (ma 1959), p. 148.
412
Se ne veda l’edizione curata da P. De Leo, Gli Statuta di Sala del 1378, Salerno 2009, p.
202
Alessandro Di Muro
Apto tempore, dunque, i coloni erano tenuti a chiamare i padroni per
avvertirli (faciatis nobis scire, la formula ricorrente) afinché potessero partecipare e seguire tutti i lavori concernenti la vendemmia, controllando che non
si commettessero frodi. Il menzionato episodio narrato da Erchemperto lascia intendere come al tempo della
vendemmia vi fosse un’afluenza di
massa nei vigneti, tanto da spopolare nella seconda metà del IX secolo,
una città importante come Capua
anche in tempi dificili. Grandi possessori, coloni, servi, operai si riversavano nelle campagne medievali
ad attendere alle operazioni dalle
quali proveniva il frutto della vite.
Fig. 5. Rabano Mauro cassinese (inizi XI seCome si è visto, i padroni dei colo). Nella scena di sinistra raccolta dell’uva
fondi, quando non potevano pre- su vite allevata ad alberello, nella scena di
senziare, inviavano i propri messi a destra potatura di un albero forse in funzione
vigilare sulle operazioni della ven- dell’impianto della vite (spurgatio).
demmia nelle terre date in afidamento. Talvolta l’inviato era solo uno, altre volte venivano mandati contemporaneamente due missi, uno addetto a vigliare sulle operazioni di raccolta
dell’uva, l’altro per sovrintendere alla pigiatura e alla torchiatura, unum at
campum et alium at palmentum, come è riportato in alcuni contratti di area
napoletana413
La raccolta avveniva mediante l’utilizzo di un falcetto o di un coltello,
come mostrano alcune miniature del Rabano Mauro cassinese dell’XI secolo (ig. 5), il coevo Exultet pisano (ig.8), di produzione capuana, e il mosaico pavimentale della cattedrale di Otranto (XII sec., ig. 6), oppure a mano,
come si può osservare nel capitello del chiostro di Santa Soia relativo al
mese di settembre (ig. 4). Le miniature dell’XI secolo ci informano anche
su altri particolari relativi alle modalità con le quali si effettuavano tali ope30, c. 12.
413
Si veda ad es. RNAM, I, CCXLI, anno. 996 pp. 145-148; ivi, II, CCLXXI, a. 1003, pp.
20-22, dove si speciica esplicitamente che il colono dovrà duas personas vestras nutrire...I,
unum at campum et unum at palmentum sicut meruerit et ud iustum fuerit. Ivi, II, CCLXXXIV, anno 1011, pp. 51-53. Ivi, II, CCLXXXVI, a. 1012, pp.57-60. Ivi, II, CCCXLII, a. 1028,
pp. 215-217.
La vite e il vino
203
razioni: i vignaioli si arrampicavano sugli alberi, nel caso dell’allevamento anadendrite. Una volta
recisi, i grappoli venivano poggiati
in canestri di vimini intrecciati e
trasportati al palmentum, o a spalla dai vignaioli, come si osserva in
un capitello di Santa Soia (ig. 7),
o a dorso d’asino su grandi ceste,
come si evince dalla già ricordata
illustrazione dell’Exultet conservato a Pisa.
La raccolta dell’uva era effettuata dai coloni, su cui gravava, in
Fig. 6. Otranto, mosaico della cattedrale,
genere esclusivamente, l’onere del
Agosto
lavoro. In area napoletana talora
questi erano coadiuvati da operai,
che, da quanto si può dedurre dalla documentazione, a partire dal X secolo
erano salariati (pargiati)414. La loro retribuzione era di solito divisa tra le due
parti. Agli operai inoltre veniva riconosciuta una parte del vitto, consistente
spesso in lardo e vino, riprova della virtù nutritiva che si attribuiva alla bevanda a tutti i livelli415.
Altrove in Campania e in Molise sembra dedursi dalla documentazione
che i coloni dovessero di norma provvedere da soli alla raccolta, sempre sotto
lo sguardo attento del messo, che doveva da costoro essere nutrito secundum
suam possivilitatem. Quest’ultima prescrizione risulta tuttavia assente negli
afidamenti vulturnensi di area molisana. La contrattualistica di San Vincenzo prevede infatti l’ospitalità dei messi a carico dei coloni, ad esempio nei
possedimenti campani di Teano e Carinola416, ma non nelle terre del Sannio
molisano. Una serie di motivazioni possono essere alla base di questa scelta.
Una ragione può inidividuarsi nella circostanza che i censi in vino erano qui
stabiliti non in proporzione al raccolto (metà, un terzo) ma su criteri di canoni
Ad es. RNAM, LXXXVIII, pp. 83-84, a. 960: ivi, CCCLVII, pp. 247-248, a. 1033.
Per le capacità nutritive riconosciute al vino nella trattatistica medievale, in particolare nel
Mezzogiorno, si veda infra.
416
Ad es. CV, II, p. 199, p. 210.
414
415
204
Alessandro Di Muro
issi417 per cui non vi era bisogno di sorveglianza. Tale richiesta inusuale era forse collegata al
fatto che la produzione delle terre
molisane vulturnensi non doveva
essere quantitativamente e qualitativamente molto rilevante418, per
cui non vi si poneva troppa cura, a
differenza di aree a vocazione vinicola come Teano o Carinola dove le Fig. 7. Benevento, chiostro di Santa Soia
operazioni erano invece seguite con (XII secolo), il mese di settembre, trasporto
dell’uva
maggiore attenzione.
Gran parte dell’uva prodotta si trasformava in vino, anche se, come si
vedrà, parte della produzione di uva veniva consumata fresca oppure secca.
Alcuni documenti di area amalitana attestano come in queste terre l’uva,
una volta giunta presso il palmento, venisse diraspata (appiczoliare o piczoliare) prima delle operazioni di pigiatura, e in taluni casi lavata419. Si tratta di
un’interessante testimonianza di una notevole rafinatezza tecnica, in quanto
il raspo, se pigiato o torchiato insieme agli acini, può rendere il gusto del
vino acre e astringente: la più avanzata trattatistica rinascimentale indicherà
la spicciolatura come pratica necessaria afinché si possa ottenere il vino migliore420.
Nei casi in cui le operazioni di raccolta e di premitura avvenivano contemporaneamente, come accadeva sicuramente nei casi in cui sono attestati
due missi, mentre si procedeva con la raccolta si iniziava a pigiare le uve nelle
vasche. In ogni caso, una volta stoccata l’uva nei pressi del palmentum si poteva dare inizio al rito della trasformazione in vino.
417
Ad es. dieci salme in CV, II, p. 241, o un moggio “come gli altri uomini che lavorano le
nostre terre” ivi, p. 312.
418
Su questo aspetto doveva inluire l’altitudine e la natura del terreno argilloso-sabbioso di
buona parte dell’odierno Molise.
419
CP, I, CLXIII, p. 314 a. 1177: quando venitis ad vindemiando […] faciatis nobis scire et
vindemietis et pisetis ipse uve et appizolietis et labetis.
420
Così si esprimeva l’agronomo Tanaglia alla ine del XV secolo nel suo De Agricoltura
“D’aver dolci vini el tempo trovato hai – Cogliendo asciutto; e se fai spicciolare, – Del sapor che dà el raspo el priverai”; citazione in J. Gaulin, Tipologia e qualità dei vini in alcuni
trattati di agronomia italiana (sec. XIV-XVII), in Dalla vite al vino. Fonti e problemi della
vitivinicoltura italiana medievale, a. c. di A. J. Grieco, J.-L. Gaulin, Bologna 1994, p. 79.
La vite e il vino
205
4.2 Palmenti e strumenti di viniicazione
Pressoché tutti i contratti agrari di area meridionale fanno riferimento al
palmentum come al luogo presso il quale si procedeva alla divisione del prodotto, dunque il luogo in cui avveniva almeno la prima fase della viniicazione. Ma cosa era il palmentum? Una prima dificoltà terminologica scaturiente
dall’analisi delle fonti riguarda il modo in cui nel Mezzogiorno medievale
veniva denominato il torchio. Generalmente si è indicato con palmentum la
macchina per pressare l’uva421 o il luogo in cui questa veniva conservata, ma,
a ben vedere, il vocabolo sembra connotarsi di una più articolata complessità,
si direbbe di un’ambiguità lessicale. Se in molte aree del Mezzogiorno ino
ai primi decenni dello scorso secolo con il termine “palmento” si intendeva
il locale in cui si conservavano il torchio, la vasca per la pigiatura e gli altri
attrezzi legati alla viniicazione422, tale signiicato non è trasponibile meccanicamente al Medioevo. Documenti di area irpina, ad esempio, indicano
chiaramente che il palmentum doveva essere custodito in un piccolo ediicio,
spesso costruito in materiale ligneo423. In altre aree sono menzionati insieme
una serie di strumenti necessari alla trasformazione del vino, come, ad esempio, in un contratto amalitano del 1089 relativo alla vendita di un tenimento,
all’interno del quale vi sono cammere due fabrite solarate cum ipsa buctaria
et due palmenta et dua labella424, dove in ogni cammera fabrita vi era un
palmentum e un labellum. Un altro esempio cui si può far riferimento riguarda una traditio del 1059 della stessa area dove si menzionano in una casa in
muratura un palmento et labellum et una buctem425: se il termine palmento
avesse indicato l’ediicio con le attrezzature sarebbe stato inutile far riferimento al labello (vasca, probabilmente il pigiatoio o, meno probabilmente, il
contenitore in muratura per l’acqua necessaria ai lavori della vendemmia426)
e alla botte. In area napoletana e nel salernitano il termine labellum non è
attestato e il palmentum si trova spesso associato al subsceptorium, strumento
421
Si veda ad es. J.-M. Martin, Le travail agricole: rythmes, corvées, outillage, in Terra e
uomini nel mezzogiorno normanno-svevo, Atti delle settime giornate normanno-sveve, Bari
1987, pp. 128, 143.
422
Anche Augusto Lizier ritiene che il palmentum sia un ediicio, L’economia rurale, cit., p. 6.
423
Si veda ad es. CV, VI, 607, a. 1176, relativo ad un afidamento di un terreno a Summonte (AV).
424
CP, I, pp. 148-150.
425
CP, I, p. 93. Si veda anche CV, I, pp 144-147, a. 1097.
426
Secondo gli editori del Codice Perris si trattaerebbe del contenitore in cui si raccoglieva il
mosto che fuoriusciva dal palmento, si veda CP, 1/V, p. 1461, s.v. Labellum.
206
Alessandro Di Muro
ricordato talvolta anche nella documentazione salernitana427. Anche in questi
casi tali strumenti sono posti insieme in un locale, come si evince da un documento napoletano del 1094: ipsu palmentum vestrum et iamdictum subscetorium suum tiburium facere et abere debeam at meum expendium428. Il termine
susceptorium è assente nel dizionario del du Cange e gli editori del Codex
diplomaticus cavensis lo interpretarono come receptaculum, ipotesi etimologicamente corretta, tuttavia generica. L’attestazione di subsceptoria fabrita
rende poco probabile che tali recipienti possano identiicarsi con i contenitori
nei quali si raccoglieva il mosto proveniente dalla pigiatura o dalla torchiatura
per la fermentazione, in quanto non risulta che nel Medioevo la fermentazione avvenisse in vasche in muratura. L’associazione al palmentum e il fatto che
spesso fosse realizzato in muratura fanno ipotizzare che con subsceptorium o
suscitorium si indicasse il pigiatoio o la vasca posta al di sotto del palmento
dove si raccoglieva il mosto appena prodotto429: un documento di area salernitana del 1013 sembra avvalorare tale interpretazione: nell’afidamento di un
terreno ad Apusmonte (Roccapiemonte in provincia di Salerno) si speciica
che all’interno del podere vi è un palmentum bonum cum suscitorio suo in
quo per partes per annum mitdant hube, quod vindemiaberit de ipsa rebus430.
La precisazione che le uve dovessero essere poste nel suscitorio e nel palmentum sembrerebbe evidenziare la loro funzione complementare collegata alla
produzione del mosto.
Altre volte il palmentum è associato alla pila. In un documento redatto a
Nocera dell’844 (il primo, a mia conoscenza, in cui si menzioni un palmentum
nei documenti altomedioevali meridionali), viene venduta una casa con palmentum et pila431. Tale associazione ritorna in documenti relativi ai territori di
Ascoli Satriano432 e di Corato, in Puglia, dove in un documento di vendita del
1180 viene ceduta la medietatem de uno palmento et pila433. Mi sembra molto
427
Ad es. CDC, I; p. 58, a. 856 metiu palmentu et medio susceturio. RNAM CXXI, a. 966, p.
153, palmentum fabritum et de susceptorium suum.
428
RNAM, CCCCLXXV, 475, pp. 196-199.
429
Tale sistema della doppia vasca disposta su livelli diversi è documentata ad es. nel Lazio,
A. Cortonesi, La coltivazione della vite nel Medioevo. Discorso introduttivo, in La civiltà del
vino, cit., p. 9. Una testimonianza materiale dell’utilizzo di un tale sistema nel Mezzogiorno
è ad Albano di Lucania, ig. 9.
430
CDC, IV, p. 229.
431
CDC, I, p. 27.
432
CDV, I, 69, 1078; ivi, I, 120, a. 1110.
433
CDB; IX, p. 73.
La vite e il vino
207
probabile che in questi casi il termine pila sia da intendere nell’accezione,
già documentata nel latino classico, di vasca, tinozza, nella quale avveniva la
pigiatura mentre nel palmentum si dovrebbe scorgere il torchio.
Se le considerazioni riportate sopra sono giuste, si potrebbe indicare nel
labellum, nel subsceptorium e nella pila dei documenti la vasca, spesso in
muratura, come si deduce anche dalle fonti iconograiche (ig. 8), dove avveniva la pigiatura delle uve434. Soccorre a questa interpretazione un
documento di area salernitana del
1012 in cui il colono dichiara che
ipse hube tote pisemus et per ipsa
palmenta signula aqua iusta ratione mittamus, et omnis vinum quam
de ipsa rebus exierit, tam mundum
quam peciolum, per medietatem illut dividamus435, evidenziando due
operazioni distinte nella produzione del vino, la pigiatura (pisemus),
in questo caso realizzata evidentemente con i piedi, e la successiva
premitura compiuta nei palmenta
con aggiunta d’acqua: da queste
operazioni si avrà il vino, sia munFig. 8. Exultet di Pisa, la vendemmia (da Ca- dum che peciolum (il vinello).
vallo), si noti la vasca in muratura e il vaso in
Da quanto visto sembrerebbe
cui si raccoglie il mosto
che con palmentum si possa intendere il torchio, e probabilmente nei
casi esaminati sopra ciò corrisponde al vero, ma da altri documenti sembrerebbe emergere un altro signiicato collegato al palmentum. Un documento
napoletano del 1012 nel deinire gli obblighi del concessionario di un vigneto
precisa che hubas exinde palmentum memoratum ad casa vestras adducere
et calcare debeatis436: l’uva, dunque sarà pigiata con i piedi nel palmento.
L’operazione di pigiatura (ad calcandum ipse ube) collegata al palmento si
434
Subsceptorium o susceptorium evidentemente derivante da suscipio, raccolgo o sostengo,
potrebbe aver assunto il signiicato di struttura che raccoglie l’uva.
435
CDC, IV, DCLV, p. 201.
436
RNAM, CCLXXXVI, pp. 57-60.
208
Alessandro Di Muro
ritrova in un documento della stessa area qualche anno più tardi (1019)437. È
interessante sottolineare come nei casi in cui l’uva viene pigiata nel palmento
non si faccia riferimento al susceptorium. Si potrebbe pertanto giungere alla
conclusione che il palmento costituisse la vasca dove l’uva veniva pigiata, ma
le numerose attestazioni di mezzi vini, che potevano ottenersi solo attraverso
pressione esercitata da torchi (anche rudimentali) sulla vinaccia cui si aggiungeva acqua438 e l’utilizzo di verbi quali pisare (pressare) nei contesti della viniicazione439 eliminano ogni possibile dubbio sull’utilizzo dei torchi anche nelle vigne afidate ai contadini
e sulla loro identiicazione, in quei
casi, con i palmenta440. Il palmentum, dunque, nei documenti esaminati poteva indicare a secondo dei
casi sia la vasca della pigiatura che
il torchio o, molto spesso, la vasca
nella quale si compivano entrambe Fig. 9. Palmento ad Albano di Lucania. Si noti
le operazioni441: il contesto ci aiuta il sistema della doppia vasca disposta su due
talvolta a comprendere quando si livelli, la maggiore utilizzata per la pigiatura,
la minore per la raccolta del mosto.
trattava dell’uno o dell’altro.
RNAM, CCCX, pp. 125-127.
Si veda ad es. G. Pasquali, Tecniche e impianti di lavorazione dell’olio e del vino, in Olio
e vino nell’alto medioevo, cit., p. 422. Si veda anche infra. Anche nel documento del 1012
riportato sopra si afferma che bisognerà mettere acqua nei palmenta, evidentemente per ricavare il vinello.
439
Si veda ad es. CP, XXXV, p. 48, a. 1036 (area amalitana). RNAM DXXXIX, a. 1112, pp.
351-352 nos et nostris heredibus vindemiare et pisare debeamus ipse ube (area napoletana).
Si veda anche infra. Bisogna tuttavia sottolineare come il verbo pisare presenti nei nostri
documenti una certa ambiguità lessicale, utilizzato a volte per indicare la pigiatura con i
piedi, supra.
440
Riserve sulla diffusione dei torchi nelle campagne medievali sembra avanzare Gaulin,
Tipologia e qualità dei vini, cit., pp. 69-70. Di parere diverso Pasquali, Tecniche e impianti,
cit., pp. 411 ss.
441
Si spiegherebbe così anche la frase contenuta in un documento salernitano del 1038 in cui
si stabilisce che il vinum mundum, il mosto, per equaliter inter nobis dibidere debeamus at
palmentum legitimu calcatum ante omine nostru, et ipsa peciola tollere debeatis (CDC, VI,
p.85): l’accenno al vinello (peciola) che si otteneva dalla torchiatura delle uve con aggiunta
di acqua (infra) lascia supporre che il palmentum fosse utilizzato per entrambe le funzioni,.
Si veda anche infra.
437
438
La vite e il vino
209
La problematicità nell’individuare esattamente questi tipi di strumenti si
riscontra anche nelle fonti dell’Italia centrosettentrionale. Jean-Louis Gaulin,
riferendosi all’opera dell’agronomo Piero de’ Crescenzi, rimarcava nel 1994
la dificoltà di deinire il signiicato di torcular: si trattava del torchio o del
locale dove avveniva la viniicazione?442 L’anibologia del termine ricorre,
seppur riguardo alla funzione, anche nei lessici medievali in cui si registrano termini relativi agli strumenti della viniicazione443. Il cosiddetto Papias
Vocabulista dell’XI secolo, individua nel torcular uno strumento dove “uvae
vel oleum calcentur atque extorte exprimantur”, insieme pigiatoio e torchio,
oltre che strumento per la produzione dell’olio e del vino. Uguccione da
Pisa alla ine del XII secolo deinisce più esattamente “Torcular, scilicet ubi
uve premuntur et calcantur” restringendone la funzione alla produzione del vino ma confermando
di fatto la doppia funzione, così
come emerge anche dal Catholicon
di Giovanni Balbi (seconda metà
del XIII secolo)444. L’insistere dei
lessicograi sull’ambivalenza dello strumento indica chiaramente la
possibilità che il torcular potesse
adempiere alle due fasi della produzione del mosto, la pigiatura e la
torchiatura, come si è sottolineato
in alcuni casi anche per i palmenta
meridionali.
Si può, in conclusione, affermare che il palmentum delle fonti
medievali meridionali fosse, perlomeno a livello lessicale, l’equivaFig. 10. Benevento, chiostro di Santa Soia, lente del classico torcular ripropoSettembre, la pigiatura dell’uva
sto nelle fonti medievali centrosetGaulin, Tipologia e qualità dei vini, cit., p. 69, n. 28.
A questo proposito disponiamo dell’esaustivo saggio di Bruno Andreolli, La terminologia
vitivinicola, in Dalla vite al vino, cit., pp.16-37.
444
“Torcular ubi uve premuntur et calcantur”. Le citazioni sono tratte da Andreolli, La terminologia vitivinicola, cit., p. 26.
442
443
210
Alessandro Di Muro
tentrionali, talvolta con la medesima ambivalenza funzionale445.
Il podere era fornito di solito degli strumenti necessari alle
operazioni per la produzione del
mosto; queste si compivano, si è
accennato, in un locale coperto, in
muratura, spesso sottostante la casa
colonica446, o in legno 447, alcune
volte in grotte (ig. 11)448.
Fig. 11. Palmento in muratura con vasca di
Qui era posta la vasca e talvolta raccolta realizzato in grotta nell’insediamento
il torchio e conservati gli altri stru- rupestre di Casabona (Kr)
menti per la viniicazione449. Spesso
annesso a questo locale ve ne era un altro, il buctarum, dove si riponevano le
botti450. Alcuni documenti ci mostrano vigneti forniti di strutture di servizio
molto articolate, come nel caso di una vigna a Fonti, in costiera amalitana nei
pressi di Cetara, dove sono ricordati un balneum… palmentum et labellum qui
est a supra ipsum buttarum, et cum ipsum furnum qui est iuxta ipsa cammara451: il palmentum et labellum qui, si speciica, est fabritus si trovavano ante
ipsa casa de subtus ipsa cammara.
445
Si deve pensare che l’oggetto che produceva la pressione sulla vinaccia (una grossa pietra,
nei casi più soisticati una vite) fosse mobile per cui la sua rimozione o la sua presenza faceva
dello strumento a seconda delle necessità una semplice vasca per la pigiatura o un torchio per
la spremitura della vinaccia.
446
Alcuni esempi CDC, I, a. 907 p. 157, nei pressi di Nocera pecia, in quo casis et palmenta
dua abet fabrita. CDC, II, p. 247, a. 987, cammara fabrita ad Ogliara presso Maiori in costiera amalitana. Inserisci esempi RNAM per l’area napoletana.
447
Nell’area salernitana CDC, V, p. 107, a. 1025, unum applictum de ipsa casa, quod ibi
fecerint, clusum cohopertum bonum, et cum ipsum palmentum fabritum salbum et de super
copertum, et cum ipsa organea, quam ibi abuerimus, salba et studiata. CDC, VII, a. 1054, p.
247 et palmentum, quod ibi est, abeant copertum.
448
In area napoletana, ad esempio, RNAM CLXIX, a. 978, pp. 256-257, e in area pugliese, Il
chartularium del monastero di San Benedetto di Conversano, cit., p. 83, a. 1020. Per le attività di viniicazione nei casali rupestri della Puglia si veda P. Dalena, Da Matera a Casalrotto.
Civiltà delle grotte e popolamento rupestre (secc. X-XV), Galatina 1990, pp. 26 ss.
449
Vinea… cum ipsa cammara fravita et palmentum et lavellum ividem habentem; CDC, II, p.
247, a. 987 nei pressi di Amali. Palmentum et labellum fabritum ipsius ecclesie, omni tempore conciatum abeamus bonum et de super copertum, CDC, VI, pp. 177-178, a. 1042, Nocera.
450
Ad es. CP, I, a. 1036, XXXV, p. 48.
451
CDC, IV, pp. 157-158, a. 1009.
La vite e il vino
211
Dalle vasche e dal torchio si ricavava il mosto, chiamato indifferentemente vinum, mustum e vinum mustum nei documeti dei secoli X-XII.
La prima operazione che si effettuava era la pigiatura: da qui si ricavava
il mosto puro452. I documenti campani, si è visto, a partire dal X secolo denominano le vasche dove si raccoglieva l’uva per la pigiatura, susceptorium453
oppure labellu454. Da alcune fonti iconograiche dell’XI e del XII secolo riusciamo a farci un’idea di come fossero le vasche medievali. La loro forma
era quadrangolare, dovevano essere forse di legno ma non mancavano quelle
in muratura, come si vede chiaramente nell’Exultet pisano (ig. 8) o come si
esplicita in alcuni documenti455. Dall’iconograia si evince che al loro interno
lavorasse un operatore, circostanza confermata dal celebre trattato trecentesco
di Pietro de’ Crescenzi456. Il mosto
fuoriusciva da un’apertura collegata a un piccolo condotto posto sul
fronte della vasca e veniva raccolto in un contenitore che, dalle fonti
iconograiche, sembrerebbe essere realizzato in ceramica (ig. 8) o,
come già ricordato, in una piccola
vasca in muratura sottostante. Nel
mosaico di Otranto la rafigurazione
del mese di settembre mostra un pigiatore a piedi nudi che si aiuta con
delle pertiche, gli ammostatoi (ig.
12): tali rudimentali strumenti serviFig. 12. Mosaico della cattedrale di Otranto, vano a velocizzare le operazioni457.
Settembre
452
Per la terminologia e le tecniche di produzione in Italia centro-settentrionale si vedano i
fondamentali lavori di Gianfranco Pasquali, Il mosto, la vinaccia, il torchio pp. 39-58 e Tecniche e impianti di lavorazione, pp. 405 ss.
453
Ad es. CDC, I, p. 58, a. 858; RNAM CXXI, a. 966, pp. 153-154; RNAM CCXLI, a. 996,
pp. 145 ss.una cum pischina et puteum et susceptorium suum et cum casa super se cooperta
cum palea.
454
Vedi nota succesiva.
455
Ad es. CDC, III, p. 33; CDC, IV, pp. 157-158, a. 1009. CDC, VI, pp. 177-178, a. 1042, Nocera.
456
“Ideoque melius est quod super tinam ponatur cratis, […] quod stet unus calcator”, Crescenzi, Trattato, cit., pp. 313-314. Si veda Gaulin, Tipologia e qualità dei vini, cit., p. 69.
457
Per la funzione degli ammostatoi si veda Cortonesi, La coltivazione della vite nel Medioevo, cit., p. 11.
212
Alessandro Di Muro
Dopo la pigiatura rimaneva un denso strato di bucce pigiate ma che contenevano ancora buone quantità di liquidi nella polpa residua. La vinaccia, peciola, pixiola o vinaccia nei documenti, veniva passata al torchio, dove si estraeva
altro mosto, il vino di torchio, meno pregiato ma ancora di buona qualità.
Artigiani specializzati risultano addetti alla riparazione dei torchi in
muratura; in un documento di afidamento di vigneti del 1018 a Pozzuoli si
stabilisce che qualora il torchio dovesse dovesse subire dei danni verrà un
magistrum qui ipsum palmentum conciaberis, la retribuzione del quale sarà a
carico del possessore del terreno458.
In effetti il torchio poteva caratterizzarsi per una certa complessità strutturale: non esistono testimonianze molto articolate nella documentazione
medievale sulla composizione dei palmenta, ma, come ha ben evidenziato Gianfranco Pasquali per l’Italia centro settentrionale, doveva trattarsi di
strumenti talora complessi, costituiti spesso da argani, alberi, talvolta viti,
canali459. Probabilmente una testimonianza di una macchina di tale tipo nel
Mezzogiorno si rinviene in un documento del 1024 in cui, nel descivere una
serie di possedimenti, l’abate del monastero di San Benedetto di Polignano
ricorda quattro vigne cum palimento et pila et mangnano et grutta460, dove nel
mangnano si può indicare il mangano necessario alla premitura meccanica
delle uve. Altre volte si utilizzavano torchi più rudimentali, la cui eficacia
consisteva nell’utilizzo, si è visto, di una grossa pietra che fungeva da elemento di pressione sulla vinaccia461. Una traccia di questa complessità si può
RNAM, CCCVII, pp. 119-121.
Pasquali, Tecniche e impianti di lavorazione, cit., pp. 411-418.
460
Il Chartularium del monastero di San Benedetto di Conversano, cit., pp. 74-75.
461
Ancora ino ai primi decenni del XX secolo nel Mezzogiorno presso le cantine delle
abitazioni contadine la viniicazione avveniva nel palmiento, una vasca in muratura, nella
quale dapprima si provvedeva alla pigiatura con i piedi, quindi alla torchiatura che avveniva attraverso la pressione di tavole di legno disposte in maniera ortogonale sugli strati
della vinaccia, pressione esercitata dall’azione di un grosso masso campaniforme ad esse
collegato attraverso un palo e un sistema di corde. Una descrizione di tale operazione è
stata raccolta ad Ischia, A. D’Ambra, A. Monaco, M. Di Salvo, Storia del vino d’Ischia,
Ischia 2006, pp. 118-120. Io stesso ho potuto registrare una testimonianza analoga sulle
modalità di viniicazione nelle campagne di Olevano sul Tusciano (SA). Qui sono conservate ancora in alcune abitazioni dei casali di Salitto vasche in muratura e pietre torce,
come sono denominate ad Ischia, o pisaturi (i massi campaniformi di cui sopra). Nel villaggio medievale abbandonato di Caprarizzo è ancora visibile un palmento del medesimo
tipo in quel che rimane delle cantine di un palatium del XIII secolo. Per Caprarizzo e per
il palatium in questione si rimanda a A. Di Muro, Insediamenti abbandonati nel territorio
458
459
La vite e il vino
213
forse rinvenire nella frase et palmentum cum paraturia sua in un documento
salernitano del 1049462, dove le paraturia potrebbero essere gli elementi costitutivi del torchio. L’imposizione di un peso sulla vinaccia (probabilmente
una grossa pietra) sembra potersi evincere, si è accennato, da alcuni documenti in cui si fa riferimento ad uve che bisogna pisare 463, dal verbo pinsare
(o pisare), macinare464, sebbene questo stesso verbo sia usato nei documenti
anche nell’accezione funzionalmente analoga di pigiare.
In ogni caso la cura di tale strumento non poteva essere afidata di norma a semplici vignaioli. Risalta a questo proposito la differenza con il mulino alla cui riparazione provvedeva quell’artigiano-imprenditore che era il
mugnaio, conseguenza della relativamente scarsa specializzazione tecnica
del vignaiolo, semplice contadino che si occupa anche della vigna. Forse da
questa considerazione derivava anche la premura e le numerose indicazioni
dei concedenti che si sono evidenziate negli atti di afidamento di vigne nei
secoli X e XI. Qualche volta però, già sul inire del X secolo abbiamo notizie
di concessionari che costruiscono palmenti; così nel 995 a Montoro (Av) si fa
obbligo all’afidatario di un vigneto di ibidem in ipsa curte fabricare ad petre
et calce unum palmentum bonum nel giro di un anno465.
Le attestazioni si fanno numericamente più consistenti a partire dal XII
secolo. Ad esempio nel 1184 l’abbazia di Montevergine afidava ad un colono un vigneto in Irpinia con l’impegno da parte di questi di costruire un
palmento ed una capanna, dove raccogliere e fare il vino ed il vinello, con
l’obbligo di corrispondere le metà sia del vino che del vinello al cenobio466.
Signiicativamente tali richieste risultano documentate con maggior frequenza a partire dalla seconda metà del XII secolo quando la crescente comdi Olevano sul Tusciano. Il caso di Caprarizzo, “Rassegna Storica Salernitana”, XXI, 1,
2004, pp. 9-24.
462
CDC, VII, p. 117, p. 118, a. 1049.
463
CP, I, XXXV, p. 50, a. 1036, vos et vestri heredes vindemietis et pisetis et imbuctetis. Si
vedano, anche CP, I, XVI, p. 18 (prima metà XII secolo). CP, I, CXXIV, p. 219, a. 1132.
464
Mi sembra interessante notare come ino a qualche decennio addietro in alcune comunità
rurali della Campania si indicasse con pisaturo anche il grosso elemento lapideo campaniforme utilizzato per pressare la vinaccia in alcuni torchi tradizionali. Per i torchi si veda anche
Ditchield, La culture matérielle, cit.
465
CDC, III, p. 32.
466
CDV, VII, 749. Si veda anche CDV, VI, a. 1175, 581. Ivi, VI, 607, a. 1176 costruzione di
tre capanne rispettivamente per il torchio, la custodia delle castagne e per il ricovero delle
pecore.
214
Alessandro Di Muro
mercializzazione del vino conseguì una specializzazione anche nel campo
della produzione vinicola467. La presenza del torchio, anche in ragione dei
costi di gestione, doveva risultare un valore aggiunto di notevole rilevanza
nel fondo e dunque i concessionari erano tenuti, sin dal X secolo, alla corresponsione di un censo speciico per il suo utilizzo, il palmentatico, che a
partire dal X secolo, si conigura come una gallina o un pollo da offrire al
padrone del fondo a Pasqua o Natale468, segno che sottolineava naturalmente
anche una condizione di dipendenza.
Uno degli aspetti sociali più notevoli legati all’utilizzo del palmento, è la
sua divisibilità, la frantumazione dei diritti collegati al suo utilizzo469, caratteristiche che, come notò già Pierre Toubert, ne fanno uno dei pochi strumenti
di condivisione nella coltura della vigna, “terreno d’elezione dell’individualismo agrario mediterraneo”470.
4.3 Metodi di viniicazione
Una volta prodotto, il mosto veniva raccolto nei contenitori, i vasa vinaria ricordati da Erchemperto nell’episodio di Calvi; a quel punto iniziava la
viniicazione471.
Come è noto i metodi di viniicazione sono essenzialmente due: in bianco e in rosso. La viniicazione in rosso si differenzia da quella in bianco per il
fatto che le parti solide vengono lasciate macerare con il mosto: più tempo le
bucce degli acini vengono lasciate in fermentazione con il mosto, maggiore
sarà l’intensità del colore rosso. Come è stato notato, anche il colore del vino
Per il commercio del vino infra.
Ad es. RNAM, CCCXV, pp. 10-12, a. 1020 (agro napoletano). CDC, V, p. 236, a. 1033
(area di Nocera); CDC, VI, p. 53. a. 1035 (forìa di Salerno). CP, I, p. 239, a. 1145 (Costiera
amalitana) CDV, CCCCXXV, a. 1163 (agro nolano).
469
Gli esempi sono numerosissimi, tra i più precoci RNAM, CLXIX, pp. 256-257, a. 978.
470
P. Toubert, Dalla terra ai castelli. Paesaggio agrario e poteri nell’Italia medievale, Torino
1995, p. 333.
471
Per la fermentazione tumultuosa è possibile che il mosto venisse versato nei tina della documentazione (tina sono ricordati, ad esempio nelle carte salernitane dell’XI secolo, CDC, V, p. 175,
a. 1029; CDC, VII, 1047, p. 34, tina maiore una et una minore: CDC, VIII, p. 38, a. 1058; CDC,
VIII, p. 209, a. 1063, tinas tres pro vindemiare). I tini infatti permettevano una minima areazione necessaria in questa fase alla buona riuscita del prodotto, a differenza delle botti e dei barili.
467
468
La vite e il vino
215
costituisce nel Medioevo un forte elemento di distinzione sociale472. Molti
elementi deducibili dai contratti stipulati in particolare in area campana tra i
secoli X e XII sembrerebbero indicare che in questo periodo la viniicazione
avvenisse per i potenti soprattutto in bianco. Le prescrizioni, in grande maggioranza, secondo cui il vino mosto appena spremuto dovesse essere portato
presso le cantine padronali e la circostanza che in alcuni casi si richiedesse
esplicitamente la separazione tra mosto e parti solide prima della divisione
del vino (tota ipsa peciola iuxto et legitimo ordine pisata et rebellata super
nos tollere debeamus ante sortem, come recitano alcuni documenti napoletani473), e dunque l’impossibilità che mosto e bucce venissero a contatto, costituiscono espliciti testimoni in questo senso.
Alcuni documenti, tuttavia, lasciano trasparire una produzione, non è
possibile affermare in che misura realmente minoritaria, in rosso anche per le
classi più agiate: la richiesta fatta al concessionario di conservare presso di sé
il mosto del signore nelle botti in genere per tre giorni474 induce a questa conclusione in quanto ancora oggi si consiglia di tenere vinaccia e mosto insieme
per tre-quattro giorni nella fase della fermentazione tumultuosa, al ine di
ottenere un vino di colore rosso non molto intenso. Mi sembra di grande interesse notare come i trattatisti tardorinascimentali, a partire da Agostino Gallo,
lodassero più degli altri i vini color rubino, ottenuti con una fermentazione di
tre-quattro giorni, ino a giungere a Giuseppe Falcone che all’inizio del XVII
secolo affermava che: “I signori […], voglion vin rosso, chiaro, simile al colore del rubino, […] che bolla se non da 3 a 4 giorni”475.
Si rimanda ad es. al saggio dei Antonio Ivan Pini, Il vino del ricco e il vino del povero, in
La civiltà del vino, cit., pp. 585-598.
473
Si vedano ad es. RNAM, CXCI, a. 982, pp. 24-25; ivi, CCCXCIII, a. 1051, pp. 4-6: Ipsa
vero peciola iusto ordine pisatum seu reballatum vos supertollere debeatis ante sortem tantummodo per ipsam peciola que vos supertollitis dare nobis debeatis ante sortem una orna de
ipso vino mundo ivi, DCIV; a. 1128, p. 116: et quod vinum mundum ibidem deus dederit per
medium. illut dividamus at palmentum vos tollatis inde medietatem et nos reliqua medietate.
ipsum vero piciolum iusto ordine sit bene pisatum seu revallatum. nos supertollere debeamus
inde sortem.
474
Si veda a d es., nell’area napoletana, RNAM, CLIII, pp. 221-223, a. 973; ivi, CCLXXVI, a.
1006, pp. 31-33; ivi, CCCXII, a. 1020, pp. 125-129; ivi, CCCCLXII, a. 1093, pp. 157-159; ivi,
DXII, pp. 283-285, a. 1105. In un caso si fa richiesta di conservare il vino per quattro giorni
RNAM LXXXVI, a. 960, p. 79, e in un altro per otto giorni, RNAM, LXXXVIII, p. 84, a. 960.
Si tratta in massima parte di vini che andranno poi consegnati alle cantine di monasteri o di
membri dell’aristocrazia napoletana, dunque di rappresentanti dei ceti più elevati della società.
475
Si veda Gaulin, Tipologia e qualità dei vini, cit., pp. 81-82.
472
216
Alessandro Di Muro
Il vino dei coloni, doveva essere, almeno in parte, un vino rosso. Si è
visto come in genere al contadino spettasse una quantità compresa tra la metà
e i due terzi del mosto puro, a proposito del quale non è dato sapere a che
metodo di viniicazione fosse sottoposto. Spesso, le corresponsioni in vino
richieste riguardano speciicatamente solo il vino mundum476, ossia il mosto
di pigiatura, ma talvolta si fa richiesta anche del mistum o mixtum, o aquaticum477, il vinello, ricavato dalla vinaccia torchiata che veniva fatta fermentare
con aggiunta d’acqua, spesso presa dai pozzi478 o forse anche dalle pischine
per l’irrigazione e per abbeverarsi annesse al fondo479. Pertanto il concedente
lasciava spesso questo mezzo vino alle cantine del colono che ben volentieri
doveva utilizzarlo per i propri usi. Diversa appare la situazione in area napoletana dove le richieste di censo per la vigna riguardano nella gran parte dei
casi esplicitamente la saccapanna, termine ancora oggi usato per indicare il
mezzo vino480: alla realizzazione di questa bevanda era preposto il colono che,
come recita una documento del 1094 doveva aqua ponere in ipsa vinaccia pro
ipsa saccapanna faciendum481.
Alla luce di quanto visto si può affermare che, almeno tra X e XII secolo, il vino bianco venisse maggiormente apprezzato dai ceti più elevati del
Mezzogiorno meridionale mentre i contadini preferissero i rossi, secondo
una tradizione ben attestata in età romana. A tal proposito basti ricordare
come Amato di Montecassino lodasse la capacità di adattamento di Sichelgaita, costretta a bere acqua, lei abituata a libare vino chiaro e puro alla
mensa di suo padre, il principe di Salerno Guaimario IV482. In questo caso
Ad es. CDC, I, p. 188, a. 927. CDC, II, p. 163, a. 982; CDV, I, LIII, a. 1048; CV, II, p. 116.
CV, III, p. 61.
478
RNAM, CCCLXXVI, pp. 292-294, a. 1042 (puteum aque vibe). RNAM, doc. A LV, s.d.
(metà XII sec.) vendemmiare in memoratum palmentum et aqua aurire de memoratum puteum. quantum vobis necessum fuerit.
479
Pischina dalla quiale è possibile attingere acqua da bere in RNAM, CCCX, a. 1019, pp.
126-127: de iamdicta pischina vestra:absque omni contrarietate mea et de meis propriis
heredibus: et quandoque ibidem lavoraveris licentiam abeas inde tollere at vibere quantum
eis necessum fueris.
480
Si veda ad es. RNAM, LXXXVIII, a. 960, p. 84; ivi, CXXV, a. 968, pp. 162-163; ivi,
CLIII, pp. 221-223, a. 973; ivi, CCXLI; a. 996, p. 148; CCLXIII, a. 1001, pp. 3-4; CCXCIV,
a. 1016, pp. 81-82; ivi, CCCCXIV, a. 1071, pp. 49-50; ivi, CCCCLXIX, a. 1093, pp. 182184; ivi, DXII, a. 1105, pp. 283-285; ivi, DXL, a. 1112, p. 353. In rarissimi contratti il vinello
rimane ai coltivatori, RNAM, CCCXV, a. 1020, pp. 140-142.
481
RNAM, CCCCLXXV, pp. 196-199.
482
“Més est de merveillier de la noble moillier soe [di Roberto il Guiscardo], quar en la
476
477
La vite e il vino
217
si avrebbe una situazione analoga a quella ben delineata per l’Italia centrosettentrionale in particolare dagli studi di Gianfranco Pasquali483. Tuttavia
bisogna ancora sottolineare come anche i contadini potessero disporre di
vini bianchi e che l’apprezzamento per i rossi e i rosati, testimoniato anche
nei trattati medici del Meridione del XII secolo, lasci intravedere una realtà
più complessa, dove la dolcezza del chiaro rimane la caratteristica qualitativamente eminente ma dove i sapori caldi e decisi del rosso non sono affatto
disdegnati484.
4.4 La conservazione e il trasporto
Dopo la fermentazione tumultuosa il vino veniva messo a riposare nelle
botti . Per evitare che il vino degenerasse era importante che le botti fossero
ben pulite, e la contrattualistica mostra come i padroni dei vigneti fossero
estremamente attenti che i coloni concessionari provvedessero alle operazioni
necessarie: così in un contratto salernitano del 1039 relativo all’afidamento
di una vigna nei pressi del iume Tusciano, si fa espressamente obbligo ai
coloni ubi ipso vinum inde tulerimus, ipsa bucte illis a presentis sfeczare et
labare bona, sicut meruerit; et quando boluerimus, ibidem pergamus pro requirendum ipsa rebus, si bona esse laborata486.
Nei documenti amalitani si rimarca come i coloni concessionari prima
di imbottare il vino debbano lavare e stringere le botti del padrone del fondo
con nuovi cerchi e stoppa che egli doveva provvedere a fornire487, mentre in
un documento napoletano si precisa che le botti dopo essere state lavate si
dovranno spandere et siccare et temponiare quomodo meruerit488, circostanza
485
maison de son pere, c’est de lo prince Gaymere, avoit use de boire vin peure et clare, coment
pooit boire aigue”: Amato di Montecassino, Storia de’ Normanni, cit., p. 279. Il passo è probabilmente interpolato, ma costituisce pur sempre un testimone della preferenza per i vini
chiari da parte dei ceti eminenti meridionali.
483
Da ultimo Pasquali, Tecniche e impianti di lavorazione, cit., pp. 419-423, con bibliograia.
484
Infra.
485
La terminologia per indicare i contenitrori vinari nella documentazione meridionale è
molto varia buctes, barriles, dolia, vegetes, organea.
486
CDC, VI, p. 112.
487
Ad es. CP, I, p. 239, a. 1145.
488
B. Capasso, Monumenta ad neapolitani Ducatus historiam pertinentia, riedizione a cura
di R. Pilone, Salerno 2008, II, 1, p. 372, a. 1077.
218
Alessandro Di Muro
che informa anche sulla consuetudine di smontare ogni anno le botti per una
migliore pulizia e per evitare che i cerchi si corrompessero.
Il vino messo nelle botti veniva spesso conservato in ambienti appositi, i
buctaria489 o cirvinaria490; di lì a qualche mese sarebbe comparso sulle tavole:
il ciclo era così completo.
La contrattualistica prevedeva diverse opzioni relativamente al trasporto
e alla conservazione del vino spettante al possessore del fondo. Molto spesso
il mosto appena travasato veniva, si è visto, portato dal colono presso le cantine del signore, altre volte era il possessore a dover provvedere al trasporto, più
raramente il vino rimaneva nella botte del proprietario presente nel vigneto.
I cenobi più prestigiosi e i membri dell’aristocrazia avevano cellaria nelle aree in cui il loro dominio fondiario era più concentrato; qui i coloni erano
tenuti a trasportare con i propri mezzi il vino dovuto. A questo proposito mi
sembra esemplare il caso della Hauskirche salernitana di San Massimo e dei
suoi possedimenti nocerini. Il cellarium di San Massimo a Nocera come luogo
di stoccaggio dei censi in vino spettanti a San Massimo è attestato dal 962 491.
Nel 982 si speciica che il colono dovrà trasportare il vino dovuto cum
carros et vobes et organea sua usque ad ipsi pariti de nuceria ad ipso cellarium, ubi habuerimus organea reposita ad ipso vinum recipiendum492. Nel
1035 un concessionario di terre di San Massimo a Nocera dichiara che porterà il vino dovuto alla chiesa salernitana per plaiu uius Nucerie da lu mercatu
in subtus, ubi paratus fuit cellarium ipsius ecclesie493, signiicativamente nei
pressi del mercato. La grande accumulazione di vino che doveva realizzarsi
nel cellarium nocerino ne faceva certamente un luogo di richiamo per quanti
frequentavano il mercato locale.
Vedi supra.
CDC, IV, p. 157, a. 1009, divisione di una terra a Fonti nei pressi di Cetara, una cum predicto buttaru et ipsa cirvinara. Nel Du Cange cervinaria corrisponde a cella vinaria.
491
CDC, II, CCXV p. 6.
492
CDC, II, pp. 144-145.
493
CDC, VI, p. 45. Il monastero salernitano di San Massimo possedeva terre a Pucciano sin
dall’872 quando un tale Rattipertus donò integras terras meas cum arbustis bitatis et insetetum et castanietum, quas abeo in suprascripto locum nucerie ubi proprius puctianu bocatur,
CDC, I, LXXII, p. 95. Non lontano, a San Valentino Torio (Sa), vi era anche il cellarium di
una famiglia comitale salernitana, dove veniva custodito il vino proveniente dai loro possedimenti in zona, CDC, II, p. 246, a. 987.
489
490
La vite e il vino
5.
219
Il commercio del vino
I riscontri documentari sul commercio di vino nell’alto Medioevo sono
rarissimi; ciò non deve far ritenere, tuttavia, che tali negozi fossero in quel
periodo del tutto assenti.
Una pur lebile corrente di trafici che collegava le coste tirreniche a
Roma è ben testimoniata dai rinvenimenti archeologici ino almeno al VII secolo. L’individuazione di un tipo contenitore vinario del VII secolo prodotto
nel Bruzio, l’odierna Calabria, e rinvenuto negli scavi della Crypta Balbi a
Roma, consente di individuare una direttrice dei trafici ancora operante tra
le due regioni, dove l’approvvigionamento del vino calabrese costituiva una
voce ancora attiva negli scambi interregionali494. Si tratta, come è noto, di
antichi lussi commerciali che riguardavano un prodotto, il vino del Bruzio,
particolarmente apprezzato nella tarda antichità, del quale, si è visto, Cassiodoro aveva tessuto le lodi e che aveva nella Roma del VI secolo una meta privilegiata, come si evince dai dati provenienti dalle indagini archeologiche495.
Qualche altro accenno alla circolazione dei vini si ha, come si è visto, nel
VII secolo per il territorio di Napoli496. Che il vino continuasse a luire dalle
campagne alle rarefatte città longobarde dei primi secoli dell’alto Medioevo
è ampiamente verosimile, ma una conferma documentaria della circolazione
della bevenda connessa ad un qualche sistema di prelievo iscale, e dunque
in un contesto teoricamente anche di mercato, si rinviene solo in un diploma
dell’821, dunque in un epoca in cui i segnali del risveglio urbano sono ben
avvertibili, diploma con il quale il principe longobardo Sicone esonerò il monastero beneventano di Santa Soia dal pagamento del portaticum sul vino,
sul grano vel omnia alimonia aut quamlibet rebus dare debetis nostris portarariis in civitatem has Beneventanas497.
Per rinvenire altre tracce certe di commercio del vino bisogna attendere
gli anni ’30 del IX secolo. Un capitolo, del Pactum Sicardi (a. 836) del quale
si conserva purtroppo solo il titolo, Ut invitus non detur precium atterciatores
pro tritico aut vino, lascia trasparire come nella contesa Liburia dei tertiato494
L. Saguì, Roma, i centri privilegiati e la lunga durata della tarda antichità, in “Archeologia medievale”, XXIX, 2002, pp. 32-33.
495
G. Fiaccadori, Calabria tardoantica, in S. Settis ( a cura di), Storia della Calabria antica.
Età italica e romana, Roma-Reggio Calabria, 1994, p. 734.
496
Si veda supra cap. 1, testo relativo alla nota 17.
497
CSS, I, p. 379.
220
Alessandro Di Muro
res (l’area del Clanio appena a nord di Napoli) sussistesse a quest’epoca un
mercato del vino prodotto in quelle fertili terre498.
Secondo quanto narra l’anonimo Salernitano del X secolo, sul mercato
della Taranto ancora longobarda dell’839, si potevano trovare vini prelibati e
altre bevande. Quella città, non ancora oppressa dai Saraceni, come annota il
cronista, era ricchissima: Amalitani e Salernitani giunti nella citta jonica per
liberare Siconolfo utilizzarono gli “optima bina” e cibi acquistati su quella
piazza per rendere i carcerieri di Siconolfo ebbri e completamente sazi: giunti
a quel punto si racconta che dicessero “siamo presi dal sonno, anzi già dormiamo” ma i Salernitani, che avevano avuto cura di riempire i propri calici con
acqua e dunque erano ben svegli, li invitarono a bere ancora di quell’ottimo
vino e i carcerieri, già intontiti, presero i bicchieri colmi e li tracannarono ino
al fondo, cadendo a terra addormentati499. Lo stratagemma ebbe buon ine e Siconolfo, liberato, fu proclamato princeps gentis Langobardorum: iniziava così
la rovinosa guerra civile che portò alla divisione del Principato di Benevento.
A partire dalla ine del X secolo si assiste ad un rilevante movimento di
vino dalla Sicilia occidentale. Anche qui è l’archeologia a soccorrere la carenza delle fonti scritte. Un particolare tipo di anfora vinaria prodotta nell’area
palermitana si rinviene in numerose
località della Campania, della Toscana e della Liguria. In Campania
la datazione delle anfore alla seconda metà del X secolo è stata resa
possibile dall’associazione nelle
stratigraie della Grotta dell’Angelo ad Olevano sul Tusciano, dei reperti (circa 300 frammenti ceramici
pertinenti ad almeno 15 anforacei)
con follari dell’imperatore Romano
I (ig. 13); lo stesso tipo di anfora è Fig. 13. Collo di anfora vinaria di produzione siciliana (seconda metà X sec.) rinvenuta
stato rinvenuto a Napoli e in altre nella grotta di San Michele ad Olevano sul
aree del Salernitano500.
Tusciano (SA)
Pactum Sicardi. Praeceptum promissionis iuratum sive capitulare, ed. in J.-M. Martin,
Guerre, accords et frontières en Italie méridionale pendant l’haute Moyen Âge. Pacta de
Liburia, Divisio principatus Beneventani et autres actes, Roma 2005, p. 198, c. 30.
499
Chronicon salernitanum, cit., pp. 76-77.
500
Una prima segnalazione dei numerosi rinvenimenti nella Grotta di Olevano sul Tusciano
498
La vite e il vino
221
La produzione di vini costituiva dunque un’attività commerciale non irrilevante, si può presumere, per la Sicilia occidentale, circostanza che getta
luce sulla questione delle vigne isolane in età islamica501 e sulla possibilità
che la prescrizione coranica ostile al vino non fosse integralmente rispettata
nell’isola. Alle luce di questi rinvenimenti sembra che anche in Sicilia, come
per l’Egitto fatimida a partire dalla ine del X secolo502, non vi fosse un divieto assoluto per la produzione della bevanda e che, anzi, la qualità del vino
risultasse molto apprezzata tanto da alimentare lussi di mercato. L’apprezzamento per i vini siciliani era forse legato alla dolcezza del prodotto, collegata
alla natura vulcanica dei terreni e al clima.
Non sappiamo, invece, cosa si trasportasse in quegli anforacei altomedievali di produzione campana rinvenuti in Liguria503: si trattava con ogni
probabilità di liquidi e, tenuto conto della scarsa produzione di olio in quei secoli, si può ipotizzare contenessero vino. In ogni caso si deve presumere, alla
luce dei dati disponibili. che il vino circolante sui mercati tra IX e X secolo
fosse limitato per lo più a particolari produzioni di pregio, per cui l’incidenza
sull’economia di mercato doveva essere minima: il vino prodotto serviva per
lo più all’autoconsumo, sebbene i sistemi di accumulazione e centralizzazione dei prodotti agrari come quelli documentati per il Mezzogiorno longobardo sin dalla ine dell’VIII secolo, dovessero produrre eccedenza vinarie
che di certo potevano alimentare piccoli circuiti commerciali locali, come
del resto sembra potersi evincere dal ricordato passo del Pactum Sicardi, anche in connessione con la crescita di alcuni importanti centri quali Salerno,
Benevento, Napoli Amali e la nuova Capua sul Volturno504. Non sappiamo
in A. Di Muro, F. La Manna, Scavi presso la Grotta di San Michele ad Olevano sul TuscianoSeconda relazione preliminare, in “Archeologia medievale”, XXIII, 2006, pp. 373-396. Per
i rinvenimenti napoletani P. Arthur, Naples, from Roman Town to City-state: An Archaeological Perspective, Archaeological Monographs of the British School at Rome, 12, London
2002. Per la distribuzione di questo tipo di anfora da trasporto prima dei rinvenimenti olevanesi C. Ardizzone, Le anfore recuperate sopra le volte del palazzo della Zisa e la produzione
di ceramica comune a Palermo tra la ine dell’XI e il XII secolo, in “Mélanges de l’Ecole
Francaise de Rome, Moyen Age”, 111, 1999, 1, pp. 7-50.
501
Per l’arretramento della coltura della vite in Sicilia in connessione alla conquista islamica
si veda ad es. M. Amari, Storia dei Musulmani di Sicilia, a cura di C. A. Nallino, Catania
1933, II, p. 510. Per il problema si veda anche Cherubini, I prodotti della terra, cit., p. 194.
502
Per l’Egitto S. D. Gotein, A mediterranean society, Berkeley 1967, I, pp. 122-123.
503
C. Varaldo, La ceramica altomedievale in Liguria (secoli VIII-X), in La ceramica altomedievale in Italia, a cura di S. Patitucci Uggeri, Firenze 2004, p. 143.
504
Per questo sistema si veda Di Muro, Economia e mercato, cit.
222
Alessandro Di Muro
cosa accadde di tali circuiti tra la seconda metà del IX e gli inizi del X secolo. Ne troviamo rarissime tracce nella documentazione a partire dai primi
decenni di questo secolo. Un documento del 932 fornisce interssanti elementi
per ipotizzare l’esistenza nel salernitano di un mercato interno di vino nel
X secolo: in quell’anno infatti un tale Ioannelgario di Atrani, nei pressi di
Amali, dà in prestito a un certo Mangelnardo sedici tarì d’oro richiedendo
come interesse annuo cinque salme di vino proveniente dai suoi possedimenti
di Giovi nei pressi di Salerno505. La circostanza fa comprendere come il vino
potesse essere in qualche modo valutato in moneta ed equiparato ad essa.
Circa un secolo più tardi, nel 1037, tale consuetudine era ancora operante nel
salernitano: in quell’anno un certo Leone prestò a Disigio quattro tarì con il
patto che quest’ultimo dovesse restituirglieli entro due anni et pro prode de
ipsi tari deant nobis per omnis annum de vindemie in rebus sua dare michi
una sauma de vinum bonum in locum uliaria, ovvero come interesse dovesse
corrispondergli una salma di vino al tempo della vendemmia ad Ogliara nei
pressi di Salerno506.
Un documento di area napoletana fornisce una delle testimonianze più
chiare dell’esistenza di commercio di vino nel X secolo. Nel 988 il cenobio di
San Pietro at Media (Meta di Sorrento) aveva venduto una victura de vino de
Sirrento ricavandone 17 solidi aurei507. Il documento consente di argomentare
l’esistenza, perlomeno nel napoletano, ma la situazione doveva essere abbastanza generalizzata, di strutture di commercio di vini collegate a istituti monastici, centri di grande accumulazione a ragione dei rilevanti domini fondiari,
circostanza che permetteva la realizzazione di surplus. L’indicazione della provenienza del vino esitato (Sorrento) non sembra casuale e sta ad indicare forse
il particolare pregio del prodotto, molto apprezzato anche nei secoli successivi
come testimonia un’annotazione di Bartolomeo Facio, umanista alla corte di
Alfonso il Magnanimo, che ricorda Sorrento per i “vini suavissimi atque omnis
pomorum copia”508, un vino peraltro che alla metà del IX secolo Giovanni, diacono della chiesa romana, faceva bere al Faraone nella celebre Coena Cypriani509.
Testimonianze di commerci di vino provengono per questi anni anche
dalla Calabria. San Nilo per riscattare alcuni suoi confratelli rapiti dai saraCDC, I, CLII, p. 195. Galante, La datazione dei documenti, cit., p. 164.
CDC, VI, CMCXVI, p. 71.
507
RNAM, CCXII, pp. 86-88.
508
Del Treppo, Amali, cit., pp. 23-24.
509
Si veda l’edizione in MGH, Poetae, IV, 2, pp. 886.
505
506
La vite e il vino
223
ceni vendette grano e vino ino a ricavarne le 100 monete auree necessarie
alla loro liberazione510, notizia che ci informa sulle possibilità dei cenobi di
accumulare surplus anche notevoli.
La carenza delle fonti in relazione alla commercializzazione del vino
permane in epoca normanna511, quando la crescita demograica in atto portò
indubbiamente a una maggiore richiesta della bevanda. I dati che potrebbero
fornire l’indice più attendibile sul ruolo della produzione del vino in vista del
mercato sono costituiti in primo luogo dalla consistenza della domanda interna e, dunque, dei consumi. Questi erano inevitabilmente inluenzati, oltre che
dalle distruzioni collegate alle già ricordate guerre, dalle carestie o dalle annate favorevoli che di volta in volta condizionavano le produzioni e dunque la
possibilità di realizzare eccedenze. Qualche informazione a questo proposito
si può ricavare dalle compilazioni annalistiche e dalle cronache, dove talvolta
si annotano in relazione alle annate i rilessi che queste avevano sui prezzi
al consumo. Ad esempio gli annalisti cassinesi ricordano come nel 1192, a
causa delle carestia, il prezzo del vino, come quello del frumento e dell’olio,
toccò a San Germano livelli elevatissimi512, così come doveva essere accaduto a Benevento in quell’anno 1108 quando vi fu una straordinaria sterilitas
vini513, mentre, al contrario, la singolare abbondanza del 1124 aveva provocato nella stessa città un crollo dei prezzi che Falcone beneventano ancora
ricordava con stupore qualche decennio più tardi514. Possiamo presumere che
anche prima del XII secolo le annate di cattivi raccolti avessero provocato un
aumento dei prezzi e, al contrario, annate prospere una diminuzione. Gli Annales beneventani e, in maniera minore, gli Annales cavenses ci forniscono,
a partire dai primi anni dell’XI secolo, informazioni precise sulle frequenti
carestie che vaniicavano spesso il lavoro dei contadini. La siccità che per tre
mesi funestò le terre del Mezzogiorno nel 1006 e il gelo e la “magna nix” che
laggellò il Sannio e l’Irpinia nel 1009 dovettero di certo avere conseguenze
negative sulle vendemmie515. Più manifestamente siamo informati della “vini
Vita di S. Nilo, Acta SS.,Oct.. VI, pp. 324-325, par. 70-71.
Cherubini, I prodotti della terra, cit., pp. 196-198.
512
Annales cassinenses MGH, SS, XIX, p. 316. Secondo l’annalista una salma di vino veniva
venduta al prezzo di un’oncia d’oro.
513
Falcone, Chronicon, cit., p. 5.
514
Ivi, p. 82: “Hoc anno, tanta fuit fertilitas vini quod, nobis et multis aliis videntibus, centum
saumae pro triginta denariis vendebantur”.
515
Annales Beneventani, MGH, SSRRLLII, p. 177.
510
511
224
Alessandro Di Muro
parcitas” del 1019 cui seguì nel 1029 una “magna fames”516. Uno degli anni
più duri da questo punto di vista fu probabilmente il 1048: nell’avanzare della
conquista normanna, l’annalista beneventano annota come vi fu in quell’anno
una gravissima carestia che colpì “cum multa desolacione” uomini e animali
“pre siccitate et frigore”517. Altre volte, ma molto più di rado, sono le annate
eccezionali ad attirare l’attenzione degli annalisti beneventani, come a partire dal 1084 quando vi fu una “vini habundantia” che si protrasse per sette
anni518. Tuttavia l’annalista cavese informa della grande fame che colpì il
Mezzogiorno nel 1085519.
Non sappiamo quali furono le conseguenze delle abbondanti nevicate e del freddo che colpì la regione appenninica nel 1094; di sicuro la
calda esate del 1096 ebbe come conseguenza che le “vites cum uvibus
arescerent”520. I venti gelati che sferzarono tutto il Mezzogiorno nell’inverno del 1182 oltre a provocare la morte di molti uomini e bestie, desolarono la vegetazione, distruggendo piante e ortaggi “ad radices”. Tale
evento conseguì un quinquennio di carestie che costrinsero molti uomini
a nutrirsi di erbe selvatiche 521. In questo quadro generale eventi peculiari condizionavano le produzioni; così i pregiati vigneti che prosperavano alle falde del Vesuvio avevano nelle imprevedibili attività del vulcano, dal quale peraltro traevano rigoglio, un’inquietante minaccia che tra
X e XII secolo si concretizzò più volte: annota l’annalista cavese che nel
1138 il “mons Besubius magnum eructavit incendium”, cui seguì polvere di tanta densità che ottenebrò il cielo giungendo ino in Calabria e
per trenta giorni appena si alzava il vento la cenere ricopriva la terra522.
Un’eco delle conseguenze disastrose di questo evento si ha in un documento di qualche anno più tardo riguardante l’area di Somma Vesuviana, area
di grande produzione vinicola. Il priore dei monasteri di San Pietro di Scafati
e di San Lorenzo di Somma redasse nel 1157 un inventario relativo alle rendite dei due cenobi e nel ricordare i possedimenti alle pendici del vulcano ne
argomentava le ragioni dei censi dovuti, adducendo le testimonianze dei veIvi, p. 178.
Ivi, p. 179. Nel 1079 una lastra di ghiaccio ricoprì il iume Calore tanto che “desuper
homines calciati transierent” e nel 1080 a causa del caldo “fontes siccati sunt”, ivi, p. 181.
518
Ivi, p. 182.
519
Annales cavenses, MGH, SSRRLLII, p. 190.
520
Annales Beneventani, cit., p. 183.
521
Annales Cassinenses, cit., pp. 312-313
522
Annales cavenses, cit., p. 192.
516
517
La vite e il vino
225
teres nostri i quali affermano che così era stabilito antequam mons Besuvius
eructaret MCXXXVIII523, per cui, ritornate le terre a pieno regime produttivo
dopo vent’anni, doveva farsi riferimento a quelle consuetudini.
Testimonianze dirette del commercio e della circolazione locale e interregionale del vino si colgono in maniera più soddisfacente a partire dall’XI
secolo. Notizie del commercio di vini si rinvengono nelle maggiori città del
Mezzogiorno. I grandi centri infatti dovevano costituire sbocchi naturali per
le produzioni vinicole del Mezzogioirno in ragione, evidentemente, della
maggiore concentrazione demica ma anche della domanda socialmente differenziata di vino, già rilevabile peraltro, si è visto, nel IX secolo524.
Salerno già nell’XI secolo si caratterizzava come centro di grande produzione vinicola, evidentemente destinata anche all’importante piazza di quella
città525.
Per Benevento è stata già ricordata la testimonianza di Falcone sul commercio di vino. Tale commercio nella città sannita, le cui campagne, come si è
visto, appaiono caratterizzarsi sin dal XII secolo per una decisa vocazione vitivinicola, sembra connotarsi come attività non marginale. Appare signiicativo a questo proposito che uno dei pochi documenti meridionali del XII secolo
in cui si accenna chiaramente alla vendita di vino sia stato redatto proprio a
Benevento. Nel 1152 un tale Simeone pattuisce di acquistare dall’abate della
chiesa di San Paolo di Benevento una certa quantità di mosto sub tali pacto
ut, postquam aliquantulum purum esset ut vendi posset, deberet eum salvare
ipse Simeon ab inde ad octos dies, cum inde eum prephatum abbas summoneret. Se Simeone non avesse adempiuto a tale accordo l’abate sarebbe stato
libero di non versare i 12 romanati promessi come dote per la moglie526. Il
documento riveste un certo interesse anche perché testimonia la consuetudine
di acquistare mosto (purum) che in seguito veniva viniicato: in otto giorni la
fermentazione è compiuta e la bevanda potrà essere venduta.
Un altro indizio di una produzione vinicola per il mercato a Benevento
si può scorgere in un diploma del ponteice Alessandro III del 1179 in cui si
assegna all’arcivescovo emerito di Benevento, Lombardo, una serie di cespiti
tra cui sessanta salme di vino (purum) ogni anno: l’ammontare complessivo
Regesto di S. Angelo in Formis, a cura di M. Inguanez, Montecassino 1925, p. 138.
Si considerino gli optima bina ricordati sulla piazza di Taranto.
525
La città infatti, secondo il cronista, “frugibus, arboribus vinoque redundat”: Guillaume de
Pouille, La geste de Robert Guiscard, ed. M. Mathieu, Palermo 1961, p. 190.
526
De Donato, Le più antiche carte, cit., pp. 213-215.
523
524
226
Alessandro Di Muro
di tali cespiti giunge alla somma annua di 24 once d’oro527, considerando che
la misura di una salma può essere valutata in circa 2,6 ettolitri528 spettavano al
prelato circa 156 ettolitri di vino ogni anno, parte dei quali dovevano essere
necessariamente esitati. In questo scenario di interesse per la commercializzazione del vino si colloca il privilegio di Ruggero II del novembre 1137 in
cui il sovrano, paciicato con la città sannita, concesse ai beneventani signiicativamente l’esenzione dal pagamento, tra le altre cose, del dazio sul vino529.
Oltre che nelle città il vino veniva venduto anche nei piccoli centri. In
un documento del 1068 relativo all’area salernitana si fa riferimento alla corresponsione in vino da versare nella misura di sei salme calcolate secondo la
laguenam vinditoria ipsius loci530. Il documento attesta la presenza in alcune
contrade un’unità di misura speciica corrispondente alla capacità di un contenitore (in questo caso laguenam, un anforaceo) per la vendita del vino e,
dunque, come sussistesse un controllo per evitare truffe ma anche per avere
riscontri di natura iscale, chiaro indice di una richiesta diffusa. Detto sopra
del vino venduto a San Germano, nel privilegio rilasciato dall’abbazia cassinese agli abitanti di Pontecorvo nel 1190 si fa riferimento alla facoltà di
questi di vendere vino531. Vino veniva venduto nel 1116 anche nel castello di
San Severo (Fg) e il suo commercio era soggetto al plateatico532. Altro centro
in cui è attestata una produzione di vino rivolta anche al mercato di vino è
Montefusco (Av) in Irpinia, qui un tale Romualdo riconosce al genero una
dote di 30 romanati, cifra che però non può corrispondergli immediatamente
per intero, per cui si riserva di versargli 20 romanati in coincidenza con la
vendita del vino533. Romualdo doveva essere un commerciante di vino se la
sua disponibilità a saldare la somma non trascurabile di 20 romanati è posta
in relazione al periodo di vendita del vino.
Secondo André Guillou il vino prodotto tra Oppido e la valle del Lao, al
Ivi, a. 1179, pp. 285-287.
Secondo il Salvati una salma di vino a Napoli equivale a 6 barili ed un barile corrisponde
a ca. 43,5 litri, dunque una salma risulta pari a 2,6 ettolitri, medesimo valore rilevato anche a
Benevento. Salvati, Misure e pesi, cit., pp. 24, 28, 42.
529
Il documento è trascritto nella Cronaca di Falcone, Falcone, Chronicon, cit., pp. 198-200.
Qualche mese prima alcuni feudatari normanni della zona avevano giurato di eliminare i dazi
sulle vigne dei beneventani, ivi, p. 194, si veda anche supra.
530
CDC, IX, p. 202.
531
Statuto edito in Fabiani, La terra di San Benedetto, cit., I, pp. 428-429, rubrica XIX.
532
RNAM, DLXIV.
533
CDV, 805, a. 1188.
527
528
La vite e il vino
227
conine calabro-lucano, alimentava lussi di commercio già nella prima metà
dell’XI secolo534. Più in generale la richiesta di censi in denaro per la locazione
delle vigne, che in alcune aree del Mezzogiorno si fa sempre più frequente a
partire dal XII secolo, sembra rivelatrice di una forma di investimento in vista
della commercializzazione del vino prodotto, in particolare quando le somme
versate risultano consistenti. Per le campagne nei dintorni di Salerno, ad esempio, sono conservati nell’archivio della SS.ma Trinità di Cava una decina di
contratti stipulati tra il 1174 e il 1189 dove si stabilisce una locazione in denaro
per vigneti, con censi che variano tra 1 e 2 once d’oro535. Tra questi, due documenti appaiono particolarmente interessanti. Il primo contratto è del 1188; il
cenobio cavense afitta per 11 anni un vigneto tra le colline ad est di Salerno,
per il censo annuo di 1 oncia, al magister medico Iohannes detto Silvaticus
per sé e per il magistro Benedicto socio suo, circostanza che potrebbe indicare
l’esistenza di una piccola società con lo scopo di vendere il vino, almeno in parte proveniente dal vigneto locato536. L’anno successivo un altro vigneto viene
concesso nella stessa area a un tale Matteo mercatante per un’oncia e mezzo537:
La professione di Matteo sembra lasciare pochi dubbi sul motivo dell’investimento. La domanda di vino proveniente dalle città, in questo caso Salerno,
probabilmente il centro più importante del Mezzogiorno continentale nel XII
secolo538, doveva stimolare la formazione di mercanti interessati a investire nei
vigneti circostanti da dove ricavare almeno parte della bevanda richiesta. Per gli
stessi anni si ha testimonianza di mercanti beneventani possessori di vigneti539.
Meno numerose risultano le testimonianze di esportazioni di vini meridionali ino a tutto il XII secolo. Uno dei maggiori problemi legati al commercio internazionale dei vini in questo periodo è legato ovviamente alle dificoltà di trasporto. Come ha lucidamente evidenziato Antonio Ivan Pini, il vino
era già di per sé una merce di peso notevole, resa ancor più ingombrante dai
contenitori necessari per il trasporto, pertanto il trasferimento per le spesso
scomode vie di terra costituiva impresa problematica. D’altro canto lo stivagGuillou, Aspetti, cit., pp. 325, 339.
Si veda ad es. AC, XXXIV, 86, a. 1174; AC, XXXV, 4, a. 1175; XLII, 4, a. 1188; XLII, 13,
a. 1189; XLII, 36, a. 1189; XLII, 47, a. 1189.
536
AC, XLII, 4, 1188. Si tratta probabilmente di un antenato del celebre medico del XIII
secolo Matteo Silvatico.
537
AC, XLII, 47, a. 1189.
538
Si veda ad es. B. Figliuolo, Salerno, in Itinerari e centri urbani nel Mezzogiorno normanno-svevo, Atti delle decime giornate normanno-sveve, Bari 1993, in part. pp. 216 ss.
539
Si veda Le più antiche carte del capitolo della Cattedrale di Benevento, cit., p. 303, a. 1183.
534
535
228
Alessandro Di Muro
gio limitato delle navi dell’epoca, unito alle ulteriori dificoltà di trasferire
il prodotto dai porti di sbarco ai consumatori inali e alle perequazioni dei
prodotti nelle tariffe per i trasporti marittimi, ne doveva rendere il costo altissimo, limitandone di fatto la circolazione a ristrette élites540. Di qui la parte
ancora marginale che il vino, anche la sola produzione di qualità, svolgeva nei
commerci mediterranei.
Per i commmerci internazionali di vino in questo periodo è necessario
aggrapparsi ad indizi più che addurre prove certe. Giovanni Cherubini ha
richiamato l’attenzione su una notizia contenuta negli Annali Genovesi per
l’anno 1166 relativa ad una consuetudine per la quale napoletani, amalitani
e tutti gli abitanti del Principato “ab antiquitus” dovevano offrire ai genovesi
due barili di vino quando si recavano in Sardegna per procurarsi sale. Lo
studioso ha sottolineato come sia probabile che dietro tale consuetudine si
celasse anche un commercio di vino da parte dei mercanti campani lungo
le rotte tirreniche541. Lo stesso Cherubini ritiene ampiamente possibile che i
mercanti di vino occidentali operanti sulla piazza di Alessandria nel XII secolo, in particolare i mercanti amalitani e campani in genere, trattassero anche
vini provenienti dalle loro terre542. E così si può supporre con ragionevolezza
che i mercanti amalitani, gaetani e salernitani, che appaiono avere frequenti
rapporti con l’Africa settentrionale nel XII secolo543, portassero in quelle terre
anche i pregiati vini che si producevano nelle loro contrade.
Si tratta di dati frammentari, ancora quantitativamente insoddisfacenti,
spesso di dificile interpretazione, ma indicativi di una società in cui, nel contesto di un’espansione demograica e di una parallela crescente complessità
delle strutture economiche rispetto ai secoli precedenti, il vino diventa sempre più prodotto richiesto dai mercati, sia interni che esterni, dunque oggetto
di una domanda sempre più articolata. Possiamo indicare proprio nella circolazione del vino in ambito locale e sovraregionale uno di quei preziosi rilevatori della complessità del mercato, per la sua natura di articolo che si pone a
metà strada tra i beni di lusso e i beni di consumo primario544.
Pini, Il vino del ricco il vino del povero, cit., pp. 588-589.
Cherubini, I prodotti della terra, cit., p. 211.
542
Ivi, p. 210.
543
Si veda ad es. G. Galasso, Le città campane nell’alto medioevo, ora, in Id. Mezzogiorno
medievale e moderno, Torino 1975, p. 116.
544
Per questa tipologia di produzioni si veda C. Wickham, Framing the Early Middle Ages.
Europe and the Mediterranean 400-800, Oxford 2005, pp. 696-697.
540
541
La vite e il vino
229
Ed è proprio in questo periodo che iniziano a comparire nella documentazione le denominazioni di alcuni tra i vini meridionali che avranno maggior
fortuna sui mercati euromediterranei nei secoli successivi ino a tutta l’età
moderna.
Sarà oppotuno a questo punto soffermarsi su questi vini, innanzitutto
il celebre vino greco, un vino che alla ine del Medioevo, esportato in molte terre straniere, veniva celebrato come “uno bonorum vinorum in mundo
existencium”545. La prima attestazione documentaria, a mia conoscenza, del
vino greco si rintraccia in una carta del 1010; in questo documento il cenobio
napoletano dei Santi Marcellino e Pietro afida una terra nelle campagne napoletane: il concessionario dovrà corrispondere la metà del vino prodotto, un
vino greco a quanto si deduce dalla possibilità che viene concessa al conduttore del fondo di in vinaccia vini greci aquam ponere […] pro saccapanna546.
Un documento del 1017 ricorda ancora il vino greco; nel concedere un podere
in afidamento nell’area di Pozzuoli, il possessore chiariica che il vino prodotto sarà diviso in parti uguali ad eccezione del vino greco che riserva per
sé: in cambio i coloni avranno uguale quantità dell’altro vino mosto prodotto
nella vigna547.
Già da questa precoce testimonianza emerge il particolare pregio del vino
greco che, evidentemente in virtù di questo, verrà interamente corrisposto al
concedente. Le prime attestazioni in nostro possesso, risalenti all’XI secolo,
delimitano l’area di produzione del greco alle terre del ducato bizantino di
Napoli548, mentre nei secoli successivi lo si ritroverà, come vedremo, in altre
aree del Mezzogiorno e addirittura in altre regioni d’Italia. Spesso il vino greco nei documenti medievali è contrapposto al vino latino, considerato, come
vedremo, di minor pregio. Già il grande storico della vinicoltura Federigo
Melis aveva indicato nel greco un vino dolce, ad alta gradazione alcolica e
bianco549, e la documentazione esaminata conferma quanto affermato dallo
Livro de Arautos, cit., p. 269.
Capasso, Monumenta, cit., 336, p. 241.
547
RNAM, CCCVIII, pp. 119-121. La circostanza che il vino, come si speciica nel documento, dovesse essere trasportato sulla riva del mare (ego et heredes meis vobis posterisque vestris exinde illut trahere debeamus usque at illa plagia de obserara gratis) può far ipotizzare
che potesse essere commercializzato.
548
RNAM, CCCXIII, a. 1020, pp. 133-136, campagne di Napoli; ivi, CCCLVII a. 1033, pp.
247-248, campagne di Pozzuoli; Capasso, Monumenta, 494, pp. 348-349, a. 1063 una terra
nel castrum distructum et dicitur Lucullano vicino Napoli.
549
F. Melis, Produzione e commercio dei vini italiani (con particolare rifermimento alla To545
546
230
Alessandro Di Muro
studioso550: già da un documento del 1012 se ne deduce la viniicazione in
bianco, in quanto il greco mosto appena pigiato dovrà essere immediatamente
inviato, si speciica nella carta, alle cantine padronali, dunque non lasciato a
macerare con le bucce551. La viniicazione in bianco trova conferma, 400 anni
più tardi, nel Livro de Araudos (a. 1416), dove si dice espressamente che il
vino greco, “depostque tempus puriicatum, illud venit clarum”552.
Un’altra questione dibattuta riguarda la denominazione di questo vino,
la cui origine risulta tuttora controversa. Federigo Melis confessava di non
essere in grado di indicarne il tipo di vitigno, le tecniche di coltivazione e
l’origine della denominazione553. Anche Giovanni Cherubini sottolinea la dificoltà di chiarire cosa si intendesse esattamente per vino greco554. Il ilologo
tedesco Thomas Hohnerlein-Buchinger, nel suo studio sul sublessico vitivinicolo, fornisce una spiegazione legando la denominazione alla produzione
in quell’area territoriale già nota come Magna Graecia e, dunque, a vitigni
lì impiantati sin dal V secolo a.C.555 In un recente articolo Giuseppe Guadagno sembra collegare, seppur con una certa cautela, la differenziazione vino
greco-vino latino alla diversa tecnica di coltivazione adottatta: la vite anadendrite sarebbe stato il tipo di allevamento proprio della “vite latina” la vite
appoggiata a sostegno morto della “vite greca”; di qui deriverebbero i due tipi
di vino556. Inine Antonio Ivan Pini individua la ragione della denominazione
nell’area di produzione, ovvero in quei territori rimasti per secoli bizantini,
ino alla conquista normanna, in particolare la Calabria centromeridionale e
l’area napoletana557.
L’ipotesi dello Hohnerlein-Buchinger sembra da rigettare, come ha ben
rilevato Antonio Ivan Pini, sia per l’assenza di testimonianze romane a riguardo di un vino greco sia per l’improbabile circostanza che un vitigno abbia poscana) nei secoli XIII-XVIII, in Id., I vini italiani, cit., p. 22.
550
Bisogna però aggiungere che il greco poteva anche essere viniicato in rosso, come si
coglie sin dalla prima attestazione del 1010, supra.
551
RNAM, CCCVIII, pp. 119-121.
552
Livro de Arautos, cit., p. 269
553
Melis, Produzione e commercio dei vini italiani, in Id., I vini italiani, cit., p. 22.
554
Cherubini, I prodotti della terra, cit., p. 206.
555
T. Hohnerlein-Buchinger, Per un sublessico vitivinicolo. La storia materiale di alcuni
nomi di viti e di vini italiani, Tubinga 1996.
556
G. Guadagno, I vini della Campania dai romani alle soglie del Terzo Millennio, in “Rivista
Storica del Sannio”, 3 s., IV, 2, a. 1997, pp. 251-252.
557
Pini, Il vino del ricco e il vino del povero, cit., pp. 590-592.
La vite e il vino
231
tuto conservare le proprie caratteristiche dall’età preromana all’alto Medioevo558. La spiegazione di Giuseppe Guadagno sembra trovare seri ostacoli nella documentazione: nell’area di Napoli, infatti, si rinvengono poderi coltivati
a vite maritata dai quali si ricava vino greco sin dall’XI secolo559, così come
ad Aversa560; o lungo le coste del Vesuvio, area di produzione per eccellenza,
come si vedrà, del vino greco, dove la vite è allevata pressoché esclusivamente con sostegni vivi561. Testimonianza di alberi vitati vitibus grecis si hanno
nell’agro nolano, in casalis Brussianis, nel 1279562. Inine nel 1416 l’autore
del Livro de Arautos, soffermandosi sul paesaggio della Terra di Lavoro, descriveva questo quasi come una selva di alberate dalle quali si produce il vino
greco563. Anche il collegamento, ipotizzato dal Pini, dell’aggettivazione “greco” alla esclusiva provenienza da aree genericamente di tradizione bizantina
appare discutibile. La circostanza che già dall’XI secolo, si è detto, si qualiichi nel ducato di Napoli un particolare vino come “greco” lascia chiaramente intendere come nella medesima area si producessero altri tipi di vini con
denominazioni diverse e, soprattutto, il fatto che fossero i locali di tradizione
bizantina ad usare tale aggettivo, e non consumatori “non greci”, pare rendere
dificilmente accettabile tale spiegazione; inoltre documenti del XIII secolo
ricordano nell’area napoletana sia vini greci che latini: basti qui richiamare
una disposizione della Curia angioina del 1272 in cui si ordina di riporre in
Castel Capuano il vino tam greco quam latino prodotto tra le colline del demanio circostante Napoli564. Il greco si trova anche in aree di non ininterrotta
tradizione bizantina, come nell’appena ricordato casale Brussiani, oggi Brusciano, posto nei pressi di quello che fu la frontiera, seppur si debba pensare
ad una frontiera poco stabile, tra il territorio napoletano e il ducato-principato
longobardo di Benevento e poi di Capua, o di lunga tradizione longobarda
come Lauro, Striano565 e Scafati566. Vino greco si produceva forse anche a
Ivi, p. 591.
Ad es. RNAM, CCCVIII, p. 118, a.1017, RA, XXII, p. 99, a. 1279, dove si fa riferimento
ad un podere cum arboribus vitatis de vitibus grecis in loco Lanzaro in territorio Neapolis.
560
Vino greco prodotto nelle campagne di Aversa, CDNA, pp. 166-167, a. 1172. Per la tradizione della vite maritata nell’agro aversano sin dall’XI secolo si veda supra.
561
Si veda supra.
562
RA, XXIII, p. 18, a. 1279.
563
Livro de Arautos, p. 269.
564
RA, IX, p. 63.
565
RA, XIV, p. 7, a. 1275.
566
Vino greco e latino da Scafati è ricordato nelle Lictere Passus in un lasciapassare del 1467,
558
559
232
Alessandro Di Muro
Salerno nel XIII secolo567. Il già menzionato Livro de Arautos del XV secolo
riferisce, inine, che tra le “multe species vinorum specialitate” prodotte dalle
alberate di un territorio già longobardo, come era in parte la Terra di Lavoro,
il vino che risulta “forcius et notabile […] vocatur grecum”568.
Da quanto si può dedurre dalla documentazione mi sembra si possa affermare che il vino greco fosse il frutto di un vitigno ben determinato dal
quale derivava il nome, di una peculiare varietà, la vitis graeca attestata dai
documenti, per quel che si deduce dalle fonti allevata su sostegno alberato,
pregiata al punto che i possessori sin dall’XI secolo appaiono ben attenti a
riservarsene la produzione, la cui area di produzione in origine, e per molto
tempo esclusivamente, coincise con le campagne intorno Napoli.
Più arduo risulta tentare di istituire la discendenza della vite “greca” da
qualche antico vitigno. Da una serie di indizi se ne potrebbe ipotizzare una
scaturigine dalle pregiate ceppagne del gruppo delle aminee. Queste infatti erano molto diffuse in età romana lungo il litorale tra Sorrento, Napoli e
Pozzuoli569, aree dalle quali provengono le prime attestazioni del vino greco;
come la vite greca, l’aminea era anadendrite570 e dalle, seppur sommarie, descrizioni ampelograiche dei georgoili tardoromani riprese nelle Geoponica
del X secolo, sappiamo essere simile ad alcune varietà coltivate nella parte
orientale dell’impero571, viti “greche”, per l’appunto. Potrebbe essere tuttavia errato supporre che vi sia stata una sorta di cristallizzazione del vitigno,
giunto inalterato dall’antichità al pieno Medioevo. Piuttosto si può ipotizzare
che le viti greche medievali fossero il frutto di qualche innesto sull’antica
ceppagna aminea.
Di vitigni particolarmente pregiati abbiamo per il Mezzogiorno meridionale almeno un’altra precoce testimonianza, il marcangellu. La prima attestasi veda l’edizione in P. Dalena, Passi, porti e dogane marittime dagli angioini agli aragonesi.
Le Lictere passus (1458-1469), Bari 2007, p. 193.
567
CDS, III, p. 261, a. 1294.
568
Livro de Arautos, cit., p. 269. Sulla presenza di vino greco in Calabria si veda infra.
569
Si veda Guadagno, I vini della Campania, cit., p. 246.
570
Che le aminee fossero generalmente maritate ad albero si deduce dalle considerazioni
di una serie di autori riportati nella raccolta agronomica nota come Geoponica, realizzata
probabilmente nel X secolo a Bisanzio, si veda l’edizione latina di Jano Cornario, Cassii Dionysii Uticensis de agricultura libri XX, desyderati diu et falso hactenus Constantino Caes.
adscripti, Lugduni 1543, pp. 82, 106-107.
571
Ad esempio la Drosallus coltivata in Bitinia descritta dall’agronomo Florentinus, Geoponica, cit., p. 106.
La vite e il vino
233
zione di questo vitigno si rinviene in una charta collationis del 980 relativa
ad una chiesa di Vietri (SA) e ai relativi beneici: questi saranno tutti appannaggio del presbitero cui è afidata la chiesa, soltanto gli Eigenkirchenherren
si riservano la binea betere que est marcangellu nei pressi dell’ediicio572.
Nel 1085 l’abate della chiesa salernitana di Santa Maria de Domno concede
un podere con castagneto e arbusta vitata vicino Salerno, menzionando la
presenza di un vitineum quod dicitur Markancellu; il contratto speciica che
l’intera produzione ricavata dal marcangello (totum vinum quod inde exierit)
dovrà essere consegnata al missus della chiesa, mentre i concessionari prenderanno una quantità pari del vino comune, prodotto dagli altri vitigni (de
ipso alio vino comune alium tantum quantum ipsum markancellum fuerit)573.
La clausola richiama signiicativamente una modalità di divisione del vino
prodotto da vitigni diversi, stabilita in funzione della qualità, che ricorre in
contratti napoletani coevi in presenza della vite “greca”574. Dunque, come il
greco, il marcangello è un vitigno particolare, dal quale si produce il vino
omonimo considerato di qualità superiore rispetto ad altri vini prodotti nelle
medesime vigne.
In età sveva le testimonianze del commercio di vino si fanno più consistenti: basti considerare la disposizione contenuta nelle Costituzioni di Meli
contro la vendita di vino annacquato fatto passare per vino puro575 o la testimonianza di Riccardo di San Germano il quale annota come il commercio del
vino trovasse speciica trattazione nelle disposizioni federiciane576. Chiaramente l’interesse in sede legislativa comprova la grande diffusione del commercio di vino nelle terre del regno e la documentazione d’archivio ne fornisce dimostrazione577. Tra i numerosi esempi possibili, limitandoci ai trasporti
via mare, ricordiamo l’introduzione tra le altre cose di vino e olio nel porto di
Palermo dalle terre continentali del Regno nel 1200578 e, relativamente a tratte
più brevi, la notizia del vino che enti ecclesistici e notabili di Sorrento inviavano al mercato di Amali, da lungo tempo, come si precisa in un documento
CDC, II, p. 146.
DTC, XIV, 44.
574
Supra.
575
HB, IV, 1, p. 154.
576
Riccardo di San Germano, Chronica, ed. C. A. Garui, R.I.S.2, VII, 2, Bologna 1936-1938,
pp. 180, 183
577
Per quest’ultimo aspetto si veda Cherubini, I prodotti della terra, in part. pp. 211 ss.
578
HB, I, p. 56. Cherubini, I prodotti della terra, cit., p. 204.
572
573
234
Alessandro Di Muro
del 1223579, un vino, quello di Sorrento, che già riscuoteva un certo successo
commerciale, si è visto, almeno dal X secolo580.
Secondo Federigo Melis la rivoluzione dei trasporti connessa alla cosiddetta “rottura dei noli” nella seconda parte del XIV secolo fece dei vini meridionali articoli apprezzati e richiesti pressocché dappertutto in Europa, dando
il via alla commercializzazione di massa dei vini581, ma sembra possibile anticipare la grande espansione del consumo dei vini meridionali in Europa e nel
bacino del Mediterraneo almeno alla metà del XIII secolo.
A partire proprio dal XIII secolo si fanno sempre più itte le notizie sulla
circolazione dei vini meridionali al di fuori del regno: basti qui ricordare il
noto episodio della nave federiciana Mezzo Mondo che, con il legato imperiale a bordo, carica di mercanzie trasportava, tra le altre cose, grandi quantità
di vino ad Alessandria d’Egitto nel 1243582, percorrendo rotte che dall’VIII
secolo connettevano il Mezzogiorno al mondo islamico583, e le notizie del
1254 e del 1257 di navi amalitane che trasportavano vino calabrese in Tunisia e vino greco di Castellammare in Sardegna584. La notizia della nave Mezzo
Mondo lascia intravedere, inoltre, come già in età federiciana sussistessero
modalità di commercializzazione del vino da parte della Corona, circostanza
questa ben attestata in età angioina.
Naturalmente vigneti non mancavano nelle aziende agricole imperiali e
per le loro rese Federico dimostra a più riprese un’attenzione particolare. Un
documento della cancelleria federiciana a riguardo di alcune vigne a Somma
Vesuviana conferma quanto si va proponendo: nel 1239 l’imperatore scriveva
al castellano di Somma perché aveva saputo che gli arbusta del demanio non
colitur oportune per cui Curia nostra dampnum incurrit. Pertanto ordinava di
vigilare afinché le alberate fossero ben coltivate e se ne ricavassero i proventi
opportuni585, proventi che evidentemente derivavano dalla vendita del vino
prodotto. L’anno successivo il sovrano si lamentava per le condizioni delle
vigne di Messina, dalle quali non tanta vini quantitas provenit nobis quanta
deberet et posset ex illarum proventibus provenire in quanto ci si aspettava
HB, II, p. 381.
Supra.
581
Melis, Produzione e commercio dei vini italiani, cit., pp. 9 ss. L’opinione dello studioso è
accettata da Giovanni Cherubini, I prodotti della terra, cit., p. 206.
582
M. Amari, Biblioteca arabo sicula, Torino, Roma 1880-1889, I, p. 523.
583
Si veda da ultimo A. Di Muro, Economia e mercato, cit.
584
M. Camera, Memorie, cit., I, pp. 433-435. Cherubini, I prodotti della terra, cit., p. 212.
585
HB, V, 1, p. 432.
579
580
La vite e il vino
235
che potessero provenire da queste 400 salme di vino ogni anno (più di 1000
ettolitri) oltre quelle che allora si producevano586. Medesima preoccupazione
si esprimeva nello stesso anno per alcune vigne in Terra di Lavoro (de domibus et vineis curie reparandis et excolendis) che apparivano in stato d’abbandono587. L’interesse dell’imperatore per l’implementazione della produzione
di vino si può cogliere anche nelle Novae Constitutiones, in particolare nella
Constitutio sive encyclica super massariis curiae procurandis et provide regendis, in cui si afferma la necessità dell’impianto nelle masserie imperiali
vineis, olivis et aliis arboribus fructiferis in aptis locis588.
Sull’abbrivio della crescita delle produzioni e dei consumi, evidente già
alla metà del XII secolo, ma che affondava robuste radici almeno nel X, l’età
angioina coincise con l’affermazione decisa del vino meridionale nel contesto euromediterraneo e di Napoli come centro di stoccaggio della gran parte
dei vini destinati ai mercati esteri. Grazie alla documentazione disponibile è
possibile tracciare sinteticamente l’evoluzione del grande lusso di vini del
Mezzogiorno che tra i secoli XIII e XIV si riversò sui paesi che si affacciano
sul Mediterraneo e sul resto d’Europa.
Sono note le testimonianze di navi cariche di vino che da Palermo si
recavano a Tunisi (1287) o che da Siracusa giungevano a Malta (1283) e da
Napoli e Amali, porto di imbarco delle produzioni sorrentine già in età sveva,
vino greco perveniva al porto di Pisa589. Nel 1268 sono attestate due navi che
trasportano vini nel Lazio: la prima per conto di due mercanti genovesi dovevano condurre 120 butticellas vini dal porto di Napoli a Cornetum ac deinde
Viterbum, la seconda per conto di Henricus de Cathalano doveva extrahere
dalla città tirrenica 120 dolia di vino per condurli alla Curiam Romanam590.
Nel 1283 il mercante lucchese Vermiletto della società dei Baccursi salpava
dal porto di Napoli con una nave che trasportava 120 vegetes di preziosissimo
vino cotto; nello stesso anno la medesima società si faceva mediatrice della
Corona per il trasporto di vino e altri prodotti che dovevano giungerere al caHB, V, 1, pp. 666-667.
HB, V, pp. 961 ss.
588
HB, IV, 1, p. 215.
589
Cherubini, I prodotti della terra, cit., p. 212.
590
RA, II, pp. 40-41. Ancora alla metà del XV secolo i soli vini cui era permessa l’importazione a Viterbo erano i greci napoletani, malvasia e vernaccia della Liguria; si veda Cortonesi, La coltivazione della vite nel Medioevo, cit., p. 14.
586
587
236
Alessandro Di Muro
stello di Malta dalla Puglia591. Il numero ricorrente di 120 contenitori disposti
nelle navi commerciali, lascia pensare che alla ine del XIII secolo lo stivaggio non consentisse di regola un carico maggiore, tenenendo conto che altre
mercanzie dovevano essere caricate nelle navi.
Da Brindisi partì nel 1268 o nel 1269 una nave nella cui stiva erano caricate 85 vegetes che, sequestrate ad un tale Aroldo insieme alla stessa nave, furono vendute a San Giovanni d’Acri per oltre 45 once d’oro. La nave stivava
altre 258 vegetes di vino oneratas in eadem navi ad naulum, caricate da altri
mercanti, per un totale di 2000 hl circa, il cui trasporto fruttò alla Curia oltre
64 once d’oro592. La terida Sanctus Franciscus dell’armatore catalano Pietro
de Sancto Paulo partiva nel 1276 dal porto di Castellammare di Stabia con un
carico di vino e di olio diretta in Sardegna593. Per gli stessi anni disponiamo di
un interessante documento che illustra minuziosamente il carico di una nave
ormeggiata nel porto di Napoli in attesa di salpare per Tunisi. Il Sanctus Nicolaus, così si chiamava l’imbarcazione (buciunavis), dell’armatore Stefano
Quaranta stivava al suo interno 23 carratis di vino greco di Gentile Mocia,
3 carratis et carratello uno sempre di vino greco di Giovanni sorrentino,
ancora 3 carratis di vino greco di Benuto Sannuto, mentre Giovanni Venerio
e Roberto Tepolo avevano imbarcato rispettivamente 2 carri di vino greco e
2 carri di vino greco e latino, insieme a una certa quantità di vetro lavorato,
frutta e zolfo594. In totale la stiva del San Nicola conteneva circa 343 ettolitri
di vino greco595, un carico modesto se lo si confronta con quanto trasportato,
ad esempio, dalla nave di Aroldo. Bisogna tuttavia tener conto della diversa
qualità del vino e di quella che si potrebbe deinire la “specializzazione enologica” del carico di Aroldo.
Nel 1290 si ha notizia di un attacco di pirati pisani a due navi di mercanti
napoletani dirette in Sardegna: tra le merci che furono sottratte vi erano de
vino greco vegetes XXXIII valentes unc. XLIX596.
Sulla base dei prezzi riportati dai documenti citati, possiamo farci un’idea
dei costi e delle variazioni in funzione della distanza e della qualità. Gli 85
RA, XXVII, p. 312; ivi, p. 429. Per l’alto costo del vino cotto si veda infra.
RA, VI, p. 351. Vitolo, Il vino nel Mezzogiorno medievale, cit., pp. 71-72.
593
RA, XIV, pp. 40-41.
594
RA, XIII, p. 75, a. 1275.
595
La quantità è ricavata dalle indicazioni di C. Salvati, Misure e pesi nella documentazione
storica dell’Italia del Mezzogiorno, Napoli 1970, secondo il quale un carro corrisponde a
10,40 hl.
596
RA XXXV, p. 199.
591
592
La vite e il vino
237
contenitori di vino generico vedute ad Acri fruttarono nel 1269 alla Corona,
si è detto, oltre 45 once d’oro, dunque poco più di mezza oncia a botte, mentre le 33 botti di vino greco destinate ai mercati di Sardegna furono stimate
per un valore pari a 49 once, circa un’oncia e mezzo a botte, praticamente il
triplo del prezzo pagato per il vino venduto ad Acri 20 anni prima. Da quanto
visto sembra potersi dedurre che il prezzo del vino variasse naturalmente in
funzione della qualità, mentre la distanza non doveva incidere in maniera
decisiva sui costi: solo così si spiega la differenza di prezzo tra il vino greco
trasportato nella relativamente vicina Sardegna e del generico vino esitato
sulla piazza di Acri in Terrasanta597.
Le notizie tratte dalla Pratica della mercatura di Balducci Pegolotti
(1310-1340) hanno consentito a Giovanni Cherubini di tracciare un vivace
affresco dei trafici vinari nel Mediterraneo che avevano come punto di partenza il Mezzogiorno: dal porto di Napoli vini greci giungevano a Cipro, alla
Tana (oggi Azov alla foce del Don), a Bisanzio, a Firenze, Pisa e Genova, vini
greci e latini pugliesi si vendevano a Cipro mentre vini calabresi si poteva-
Fig. 14. La circolazione del vino proveniente dal porto di Napoli secondo Balducci Pegolotti
597
A titolo di esempio si può ricordare che nel 1274 Carlo I d’Angiò stabilì che un barile di
vino dovesse essere venduto per 3 tarì (RA, XII, p. 45). Si deve sempre tener conto della
variazione dei prezzi collegati alle annate.
238
Alessandro Di Muro
no trovare sulla piazza di Costantinopoli e, forse, di Tunisi. La documentata
equivalenza della misura del contenitore da trasporto vinario napoletano, la
botte di mena, ne indica la circolazione e, probabilmente la preminenza, sui
mercati di Parigi, Acri, Tunisi, Altoluogo in Asia minore, Rodi e Maiorca598.
I vini circolavano naturalmente anche all’interno del regno, dove trasporto
su carro e someggiatura appaiono le modalità più consuete per le spedizioni.
La malagevole raggiungibilità di tante contrade nelle aree interne e la disarticolazione di un sistema viario precario come quello meridionale alla ine del
XIII secolo599, faceva in alcuni casi di asini e muli dei vettori privilegiati ancor
più dei carri. Lo stesso Carlo I d’Angiò, ad esempio, nel 1268 richiedeva che
gli si inviasse vinum de Potentia ad Curiam a dorso d’asino, come si speciica600. Quando la viabilità e l’orograia lo permettevano il trasporto su carro
risultava di gran lunga preferito, così nel 1273 lo stesso Carlo I ordinava che
si recapitasse una certa quantità di vino a Manfredonia curribus oportunis601.
Il sovrano emerge come il maggior acquirente di vini: le sue richieste
fanno giungere vino da ogni angolo del regno alla sua corte o presso i suoi
uficiali, con ogni mezzo. Le partite di vino più cospicue venivano richieste in occasione di eventi particolarmente importanti, quando gli apparati dei
banchetti dovevano manifestare la potenza del sovrano nelle modalità più
sfarzose. Di seguito si riportano alcuni esempi relativi al regno di Carlo I.
Nel settembre del 1273, quando si trattò di organizzare il matrimonio della
iglia del sovrano, Beatrice, con Filippo di Courtney, iglio dell’ex imperatore
di Costantinopoli Baldovino, che si sarebbero celebrate a Foggia, il sovrano mise in moto l’imponente macchina burocratica del regno, ordinando che
fosse condotto nella città della Capitanata vino da tutta la Puglia, insieme,
tra le altre cose, a ben 40000 scutellae dalle fornaci di Alife e a 1500 maiali
dalla Basilicata e dal Principato602. Quando poi l’augusto genero fu ospite del
sovrano, probabilmente presso la domus di Lagopesole, il sovrano ordinò 200
salme di vino da Meli, 100 da Venosa e 50 da Rapolla603. Sappiamo inoltre
Cherubini, I prodotti della terra, cit., pp. 207-208. Notizie di vini greci e latini imbarcati
a Napoli e diretti in Libia si hanno in un lettera della compagnia Datini del 1385, Melis, La
grande deluenza, cit., p. 101.
599
Sul sistema viario in età sveva e angioina P. Dalena, Dagli itinera ai percorsi. Viaggiare
nel Medioevo, Bari 2003.
600
RA, II, pp. 159-160.
601
RA, X, p. 24.
602
RA, X, p. 271.
603
RA, XXII, a. 1279, p. 143.
598
La vite e il vino
239
che quando in estate il sovrano si recava con la sua corte a Lagopesole, nelle
cantine erano già predisposte 400 botti provenienti dai vigneti di Meli604.
Occasione speciale, anche se meno mondana, fu la venuta a Napoli della piccola Caterina nipote del re e iglia di Filippo di Courtney: per la principessa
e il seguito composto viii personarum cum ea morantium, furono ordinate
16 salme di vino del Principato per soddisfarne la sete degli ospiti nel mese
di dicembre del 1279605. Per l’adventus di Carlo I a Roma nel 1276 si ordinò
che si facessero pervenire all’Urbe ben 600 salme di vino latino che doveva
scorrere sulle tavole apprestate per l’occasione con il companatico di 3000
galline e 1200 maiali, oltre ad altre vettovaglie606.
Il vino rosso, al contrario di quanto in genere si sostiene per il Medioevo,
doveva essere particolarmente apprezzato alla mensa del sovrano: nel 1276
Carlo I ordinò che si acquistasse bono vino rubeo a Meli, Rapolla, Potenza
e Nocera pro ore nostro e pro uso Hospitii nostri per un totale di ben 1200
salme, a conferma della stima che l’angioino aveva per i vini di Basilicata. Il
vino doveva essere acquistato presso quei centri per i prezzi correnti607.
Preposto alla’amministrazione della residenza del sovrano era il magister hospicii che coordinava, tra le altre cose, le attività dei responsabili delle
attività connesse alla cucina (panectaria, butticularia, coquina)608. Le cantine della corte angioina erano amministrate dal buttilierius o bucticularius, il
bottigliere, igura assimilabile al panecterius609. A quanto pare non solo il re
disponeva di un bottigliere personale ma anche altre igure di rango eminente
nella corte610. Probabilmente spettava loro il compito di approviggionarsene e
selezionare i vini da servirsi alla mensa del sovrano, come appare chiaro nei
secoli successivi.
604
Si vedano i documenti della cancelleria angioina riportati in G. Fortunato, Il castello di
Lagopesole, Trani 1902, pp. 182-183.
605
RA, XXIII, a. 1279, p. 18.
606
RA, XIII, p. 167.
607
RA, XIII, p. 111, a. 1276. Per quanto riguarda il commercio del vino di Meli abbiamo
notizia di un ordinanza del vescovo della città, Saraceno, che nel 1307 proibì ai cittadini di
vendere il proprio vino ino a quando non si fosse venduto tutto il vino dell’episcopio, circostanza che, insieme ad altre prevaricazioni del presule, indusse i melitani a ricorrere presso
il sovrano, Caggese, Roberto, cit., p. 68.
608
Tale organizzazione si evince ad es. da RA, XXXI, a. 1306, pp. 126-128.
609
Il vino del sovrano era conservato in un’apposita buttillaria, RA, XXXI, a. 1306, p. 158.
610
Così ad es. si ha attestazione di un Symonecto bucticulario domine principisse, RA, XXXI,
a. 1306, p. 128.
240
Alessandro Di Muro
Se nelle piazze delle città non mancava mai vino, e gli stessi sovrani se
ne rifornivano, i mercati dei piccoli centri erano allo stesso modo vivacizzati
dall’arrivo del frutto della vite. Tra i tanti esempi possibili si rimanda alle numerose norme relative alla vendita del vino riportate negli Statuti del XIII secolo di vari castelli della terra Sancti Benedicti611. Da un documento del 1319
sappiamo che nel piccolo villaggio di Vico sul Gargano (Fg) ogni anno le eccedenze di vino andavano ad alimentare i mercati dei centri vicini612. Persino
i privati erano autorizzati a vendere piccole quantità di vino nelle loro case e
ciò avveniva tanto nelle città quanto nei piccoli centri. Gli statuti di Siracusa
della seconda metà del XIII secolo consentivano ai cittadini di vendere vino
in domibus propriis, ubi habitaverint et morentur613. Nel territorio di Sala
Consilina (Sa) nel XIV secolo si ha notizia della consuetudine dei coltivatori
(massari) di vendere vino nelle proprie dimore (vinum vendentes proprium
in domibus suis), con l’obbligo di utilizzare le iustas mensuras stabilite dagli
statuti locali al cui controllo erano preposti i baiuli614. La circostanza che norme sulle modalità di vendita del vino entrassero negli statuti delle Universitates signiica l’importanza, anche ai ini iscali, della regolamentazione di una
pratica che doveva essere molto diffusa. I numerosi dazi municipali dei primi
decenni del XIV secolo testimoniano lo smercio dei vini che avveniva sulle
piazze di tanti centri grandi e piccoli del Mezzogiorno, alimentando economie in espansione e le casse del isco: dazi doganali e tributi sulla produzione
di vino sono attestati per questi anni a Sulmona (1323), Ortona (1320), Amali
(1308), Positano (1321), Aversa (1306), Andria (1307), Alessano (1339), Troia (1338)615. E gli esempi potrebbero moltiplicarsi a riprova della espansione
Ad esempio per Pontecorvo, norme sulla vendita di vino sono issate nello statuto del
XIII secolo, Fabiani, La terra di San Benedetto, cit., pp. 454-455, capp. 9, 13, 15; per San
Germano, ivi, p. 461, XXV, De fructibus et vino et carnibus non vendendis sine licentia catapanorum, p. 460, XXIV, Quod nullus possit vendere victualia, vinum, oleum ac ceram sine
mensuris siglillatis signo et merco curie. Le consuetudini di San Germano del 1273 relative
ai diritti di plateatico detenuti dal cellario cassinense, stabiliscono che ogni venditore o compratore paghi 2 grana per ogni salma di vino e ½ per ogni barile, ivi, p. 448.
612
Caggese, Roberto, cit., I, p. 501.
613
V. La Mantia, Notizie su le consuetudini della città di Sicilia, in “Archivio storico siciliano”, VII, 1881, pp. 347.
614
Si vedano le consuetudini di Sala del 1378 pubblicate da Pietro De Leo, Gli Statuta di Sala
del 1378, Salerno 2009, p. 47, c. 60 e p. 46, c. 56.
615
Si veda a tal proposito Caggese, Roberto, cit., I, pp. 420-433. Si deve presumere che situazioni analoghe fossero riscontrabili un po’ dappertutto nel Regno. Bisogna ricordare come
esistessero forti differenze da luogo a luogo relativamente al peso delle imposte legate alla
611
La vite e il vino
241
della pratica di commercializzazione del vino il cui acquisto in questi anni
appare dilatato in maniera capillare a tutti i livelli della società.
Punto di smercio importante del vino era la taverna. Gli aspetti polifunzionali di tale struttura sono ben noti: ostello, luogo di ristoro, osteria, o
semplice stamberga dove passare del tempo davanti ad una brocca di vino
insieme ad amici o sconosciuti avventori, ma, a quel che emerge dalle fonti,
l’elemento uniicante era costituito dalla possibilità di trovarvi vino, uno dei
pochi svaghi che il mondo medievale offriva all’uomo comune. La taverna
era spesso ubicata lungo le vie di maggiore percorrenza, ai margini di boschi
ma anche nelle città, presso i luoghi più frequentati616.
Per Bari disponiamo di un interessante documento del 1124 con il quale
si afida una astationem, una taverna, ad Ursone di Amali. La taverna si trovava nel cuore della città in vicinio ecclesie sancti nicolai, una delle mete di
pellegrinaggio più frequentate dell’Occidente cristiano nel XII secolo, dove
l’afluenza era resa ancor più consistente dalle folle di pellegrini che si recavano in Terrasanta partendo dai porti pugliesi. Nello stabilire le condizioni
dell’afidamento triennale (in realtà si tratta di un rinnovo in quanto il concessionario, come si precisa nel documento, l’aveva detenuta usque modo) i
proprietari consentono che licentiam habeatis vos ibi binum vendere et regere
vos ibi cum omni utilitate vestra. Dunque la vendita del vino costituisce il
principale “servizio” offerto dal locale, evidentemento la fonte maggiore del
reddito, insieme forse all’ospitalità. E di certo la ricordata posizione strategica della taverna doveva produrre importanti introiti per Ursone, come si
evince anche dal prezzo della locazione, sebbene la cifra esorbitante riportata
dagli editori del documento, ben 40000 romanati (quadraginta milla) andreb-
compravendita del vino: nel 1308 ad Amali, ad esempio, il dazio sul vino sia greco che latino
era di due grani a barile, mentre a Troia di Capitanata nel 1338 l’introito derivante dal commercio del vino greco era pari a un grana per barile, ivi, p. 423, 433, circostanza ben spiegata
dal Caggese che evidenziò come in alcune università, quale ad esempio Troia, si preferisse
gravare più sui redditi da lavoro che sulle merci, ivi, p. 433. Sulla forte crescita economica
del Mezzogiorno ai tempi di Roberto d’Angiò si veda ad es. G. Galasso, Il Regno di Napoli,
in Storia d’Italia, a cura di Id., Torino 1993, XV, 1, p. 497.
616
Per la taverna nel Mezzogiorno medievale si veda in generale R. Licinio, Ostelli e masserie, in Strumenti, tempi e luoghi di comunicazione nel Mezzogiorno normanno-svevo, Atti
delle XI giornate normanno-sveve, Bari, 26-29 ottobre 1993, Bari 1995, pp. 301-321. Si veda
anche Dalena, Dagli itinera ai percorsi, cit., pp. 143 ss.
242
Alessandro Di Muro
be meglio veriicata617; in ogni caso è verosimile che dalla gestione di un
esercizio di questo tipo, in particolare quando si trovava nelle vicinanze di un
santuario quale quello nicolaiano a Bari, meta di pellegrinaggi da tutta la Cristianità, si dovessero preventivare ricavi consistenti: se non doveva mancare
qui l’offerta di ospitalità, il vino doveva costituire l’attrattiva principale se nel
documento di afidamento ad esso si fa speciico riferimento.
Una situazione analoga doveva caratterizzare le taverne di Cassino, poste
lungo la principale arteria di collegamento tra il Mezzogiorno e il resto d’Italia
nel Medioevo, la via latina. Dagli statuti di Montecassino del XIII secolo sappiamo che il mercato del vino nella Terra Sancti Benedicti era regolato da uficiali dell’archicenobio e il tabernarius non poteva venderne se prima non fosse
stato apprezzato dai catapani locali618. Non sappiamo se jullari e sonatores o
le stesse prostitute che attraversavano in quei medesimi anni il Liri servendosi
delle scafe dell’archicenoibio potessero esercitare nelle taverne di Cassino la
propria arte, ma di certo uno svago che potevano trovare i viandanti, proibito
perentoriamente l’utilizzo dei dadi (atczardos), era costituito dal gioco ad vinum619. Al terzo rintocco delle campane il tabernarius doveva serrare le porte:
all’interno della taverna rimanevano solo la sua famiglia e gli hospites620.
Anche monasteri minori gestivano rilevanti quantitativi di vino tanto da
possedere taverne dove tale bevanda si smerciava: di grande interesse è, a
questo proposito, la taverna di Castellana (BA), posta nella piazza del borgo,
di proprietà del monastero di San Benedetto di Conversano, attestata a partire
dal 1312621. Nel 1326 un tale Corrasio di Castellana aveva acquistato presso
questa taberna un grosso quantitativo di pregiato vino chiaro, ben 53 salme,
probabilmente per rivenderlo, per la cifra di 9 once e 15 tarì, che però non
617
RNAM, DLXXXVIII, a. 1124, pp. 80-81. Si consideri che il ducale d’argento pesante circa
2,50 grammi battuto a Brindisi da Ruggiero II nel 1140 equivaleva a 1/8 di un solido romanato (E. Martinori, La moneta - Vocabolario generale, Roma, Istituto italiano di numismatica,
1915). Probabilmente si trattava di 40 romanati, come si può dedurre dalla penale in caso di
rottura del contratto da parte dei proprietari stabilita in 20 solidi aurei. Si consideri che con
6 romanati nel XII secolo a Benevento si acquistava un cavallo, Le più antiche carte della
cattedrale, cit., pp. 223-225, a. 1157.
618
Fabiani, La terra di San Benedetto, I, cit., p. 467, LV.
619
Ivi, p. 451, 467, LIX. Nelle taverne di Cassino si poteva trovare anche carne, ivi, p. 464,
XLIII.
620
Ivi, p. 467, LVI.
621
CDB, XVII, p. 141. Taberna predicti monasteri que est in platea ipsius loci Castellani,
CDB, XVII, p. 157, a. 1326.
La vite e il vino
243
riuscì a pagare e pertanto fu costretto ad ipotecare tutti i suoi beni622. Taverne
si trovavano anche nelle più rinomate località termali del tempo quali i celebri bagni puteolani ai Campi Flegrei vicino Napoli: qui a Tripergole Carlo
I d’Angiò aveva autorizzato che sussistessero taverne nei pressi dei bagni
termali “per la comodità di quanti li frequentano”623.
Questi lussi di vino all’interno e all’esterno dei conini del regno signiicavano naturalmente grande circolazione di moneta e grossi introiti per il isco: l’esazione dei dazi che avveniva al transito attraverso la itta rete di passi
distesa sul territorio e nelle dogane dei porti624, dovevano costituire proventi
non marginali per le casse del sovrano, dei baroni e delle Universitates.
Il ruolo rivestito dal commercio del vino per le inanze del regno si può
percepire con immediatezza da una vicenda ricostruibile attraverso due documenti della cancelleria di Carlo II d’Angiò. Il sovrano proponendosi di
rimodernare il porto di Napoli in forme più adatte alle rinnovate necessità
del tempo, ma non potendo far afidamento sulle inanze pubbliche a causa
del dissesto dell’erario provocato dalla Guerra del Vespro, impose nel 1302
la riscossione per cinque anni di un tarì d’oro per ogni botte di vino greco e
latino che trahitur quocumque per mare da pagarsi a quolibet extrahente. Il
volume di affari collegato al vino greco e latino che si imbarcava in quel porto
doveva essere così consistente da attendersi ogni anno dalla nuova gabella
introiti per almeno 200 once d’oro625, per cui si stimava che si caricassero annualmente circa 6000 vegetes di vino greco e latino626. Signiicativa del danno
che l’economia napoletana avrebbe ricevuto dall’applicazione di tale decreto
del sovrano è la reazione che si ebbe all’indomani della promulgazione, materializzatasi in un reclamo da parte della cittadinanza in cui si rimarcava l’iniquità della decisione, istanza che fu accolta da Carlo II il quale ritornò sul suo
proposito eliminando il pesante dazio, sostituendolo con l’imposizione di 10
grana per oncia su alcune merci transitanti per la dogana di Napoli627. A questo proposito, è stato tramandato un rendiconto relativo alle entrate e alle spese per la realizzazione dei lavori idraulici del nuovo porto dal gennaio 1305 al
CDB, XVII, pp. 157-159,
RA, I, p. 35, a. 1266-1267. Si veda anche Licinio, Ostelli e masserie, cit., p. 309.
624
Per il sistema di esazioni lungo le vie e nei porti Dalena, Passi, porti e dogane, cit.
625
Il documento è riportato in M. Camera, Annali delle due Sicilie. Dall’origine e fondazione
della Monarchia ino a tutto il regno dell’augusto sovrano Carlo III borbone, Napoli 1881,
II, pp. 91-92.
626
Come è noto 1 oncia corrisponde a trenta tarì, per cui 200 once equivalgono a 6000 tarì.
627
Camera, Annali, cit., p. 92, a. 1306.
622
623
244
Alessandro Di Muro
gennaio 1306. Per l’esazione dei diritti sull’esportazione di botti di vino greco
e latino da parte di cives exteros si raggiunse la cifra davvero ragguardevole
di 600 once: un tale Matteo de Eusebio versò 28 tarì per il trasporto da Napoli
a Sorrento di una partita di vini greci e latini, altre 525 once provenivano da
qualibet vegete vini628. Cifre dunque molto più alte di quelle stimate 4 anni
avanti da Carlo II, rilesso di una circolazione sempre più sostenuta di vino a
Napoli agli inizi del ’300.
Il iume di vino greco che si riversò nel golfo di Napoli in seguito al nubifragio-maremoto del 1343 fornisce un’immagine vivida dei quantitativi che
si accumulavano nei magazzini della darsena per poi raggiungere i porti delle
maggiori città commerciali del Mediterraneo629. Ma vino greco non partiva
solo dal porto di Napoli. Altro scalo privilegiato per l’estrazione di vini greci
e latini fu tra XIII e XV secolo il porto di Castellammare di Stabia e il volume
d’affari legato a tale attività doveva essere ben consistente se il sovrano nel
1306, per accelerare i tempi della realizzazione del porto di Napoli, stabilì
che i proventi dei dazi riscossi per l’esportazoione del vino da Castellammare
dovessero essere interamente utilizzati per tale opera630.
La Corona emerge dalla documentazione nella duplice veste di acquirente principale e di mercante di vino: nel 1268 si ha notizia, ad esempio,
della nave regia Santa Cecilia attrezzata per il trasporto extra Regnum di olio
e vino, ubicumque melius expedire videret, preterquam apud Pisas et terras
Paliologi, i nemici del momento631. Le stesse vigne regie producevano vino
che si vendeva a cura dei magistri massari anche localmente632. In un rescritto
del 1278 Carlo I sollecita il portolano di Principato e Terra di Lavoro a vendere ciò che resta del vino latino conservato presso le cantine della Curia di
Caserta633.
Il re diventava, dunque, per effetto della forte richiesta di vino che giunIvi, pp. 92-93.
Il danno apportato dalla distruzione di nocciole e vino greco fu quantiicato in 40000 once
d’oro. La notizia, riportata da Giovanni Villani, è stata richiamata da Cherubini, I prodotti
della terra, cit., pp. 205-206.
630
Il dazio consisteva in due tarì per botte sia per il vino greco ce per il latino. Si veda Caggese, Roberto, cit., p. 86. L’analogo dazio esatto per i due vini di diversa qualità attesta come
in questo periodo non fosse invalsa ancora una discriminazione delle tariffe a ragione della
qualità dei prodotti.
631
RA, VI, p. 351. Vitolo, Il vino nel Mezzogiorno medievale, cit., p. 71.
632
Si veda ad es. RA, XXVII, 1, p. 198, vigne di Altamura.
633
RA, XVIII, pp. 144, 294.
628
629
La vite e il vino
245
geva sia dall’esterno che dall’interno del regno, un imprenditore anch’egli
del frutto della vite, con ogni probabilità il primo del regno per volume di
affari634, a ragione anche dei suoi vasti possedimenti dove non disdegnava di
intraprendere azioni di implementazione della viticoltura, come si coglie, ad
esempio, da un documento del 1273 nel quale Carlo I d’Angiò ordinava di
impiantare viti di iano nelle tenute regie di Manfredonia635. Importare nelle terre d’Apulia un vitigno campano famoso già in età sveva636, signiicava
avviare un’iniziativa forse dal successo incerto ma che dimostra ancora una
volta lo spirito imprenditoriale che animava i re angioini.
Gli interventi dei sovrani angioini in materia di regolamentazione dei
prezzi al commercio del vino, derivanti da una preoccupazione per le ricadute che le variazioni potevano avere sulle economie cittadine, risultano non
infrequenti. Uno degli episodi meglio documentati riguarda la “Guerra del
vino”, come è stata eficacemente denominata da Giovanni Vitolo, che scoppiò a Salerno nel 1294. La vicenda ebbe inizio da un privilegio di Carlo II in
favore degli enti ecclesiastici e dei magnati di Salerno che di fatto limitava la
vendita sulla piazza salernitana ai soli vini provenienti dalle campagne della
città, in gran parte da questi controllati, escludendo i vini forestieri. Questi
ultimi, in particolare quelli provenienti dal vicino territorio di Mercato Sanseverino, erano di peggiore qualità rispetto ai pregiati vini salernitani, ma
più apprezzati dal popolo in quanto meno costosi. I vinaioli di Mercato Sanseverino tentarono di contrabbandare un carico di propri vini nella città, ma
l’operazione fu scoperta e il vino sequestrato. La contessa Teodora, signora di
Mercato Sanseverino, come ritorsione risarcitoria per i suoi sudditi, fece depredare un’ingente quantitativo di vino greco, con ogni probabilità prodotto
nelle colline salernitane, conservato nella cantina del nobile salernitano Riccardo de Ruggiero, il quale si appellò al sovrano afinché gli fosse restituito
il maltolto637.
Da questo episodio si deduce il ruolo delle èlites cittadine nel commercio
634
Sull’attività di “mercanti” dei sovrani angioini si veda il lucido giudizio di Romolo Caggese, secondo il quale non vi fu in Italia “più autentico mercante dei Re Angioini”, Caggese,
Roberto, cit., I, p. 506.
635
RA, VI, p. 56. Altri 15 vigneti furono impiantati a Manfredonia nel 1280, Licinio, Uomini
e terre, cit., p. 146, n. 35.
636
Nel 1240 Federico II ne aveva fatto espressa richiesta, HB, V, pp. 861 ss., si veda anche
infra. La Curia angioina nel XIII secolo detiene a Castellammare di Stabia estesi vigneti dove
si produce vinum ianum et latinum.
637
L’episodio è ricostruito in Vitolo, Il vino nel Mezzogiorno medievale, cit., pp. 67-68.
246
Alessandro Di Muro
locale di vino, talmente rilevante da provocare l’intervento “protezionista”
del sovrano a danno sostanzialmente della popolazione costretta ad acquistare
un tipo di vino più costoso.
Un episodio in parte analogo è documentato per Messina. Carlo I nel
1273, considerando che la maggior fonte di reddito proveniva alla città dal
vino e che l’introduzione di vino forestiero avrebbe avuto gravi conseguenze
su tali entrate, emanò un privilegio in cui si stabiliva che nessuno ad civitatem ipsam vinum aliunde deferre presumat638. Anche qui, dunque, un decreto
che, sebbene giustiicato dalla preoccupazione per i redditi della cittadinanza, doveva andare nella direzione di sostenere le inanze di nobili e grandi
ecclesiastici messinesi, presumibilmente i maggiori possessori di vigneti, i
quali, liberi da prodotti concorrenziali esterni sul mercato cittadino, potevano
mantenere inalterati i prezzi del loro vino, a discapito di quelle fasce più deboli della popolazione urbana non in grado di produrne e pertanto costrette a
pagare prezzi più alti per procurarsene639. Non diversamente va considerata la
situazione di Trani dove prima Manfredi (1251) poi Carlo I (1269) vietarono
l’importazione di vini forestieri, giustiicandola con la grande abbondanza di
vigne nel territorio640.
In alcuni casi sono le stesse comunità locali a istituire una sorta di embargo nei confronti dei vini non locali. Così nel 1313 l’Universitas di Ascoli chiese a Roberto d’Angiò la ratiica di un proprio provvedimento teso a
proibire le importazioni di vino in città per proteggere viticoltori e mercanti
locali, presentandolo sotto forma di “dazio” in quanto avrebbe conseguito una
maggiore pressione iscale sui produttori. Il sovrano tuttavia riiutò non potendo tale provvedimento essere catalogato come una tassa e perché avrebbe
danneggiato le Università vicine641.
Altre volte però i sovrani intervenivano a favore delle classi meno agiate.
Così quando fu nominato il nuovo magister massarius di Terra di Bari nel
1283, Carlo I si premurò di ricordargli che il suo predecessore aveva venduto
il vino proveniente dalle vigne della regia massaria di Altamura ad un prezzo
RA IX, p. 287.
Già nel XII secolo si hanno notizie di commercianti di vino (vinitorii) a Messina, si veda
M. G. Militi, Strutture urbane e vita cittadina a Messina in età sveva, in Città e vita cittadina
nei paesi dell’area mediterranea. Secoli XI-XV, Atti del Convegno Internazionale in onore di
Salvatore Tramontana, a cura di B. Saitta, Roma 2006, pp. 132-133, n. 23.
640
Libro rosso di Trani, cit., nn. III e IV, p. 4.
641
Caggese, Roberto, cit., p. 414.
638
639
La vite e il vino
247
più alto di quello in vigore (ultra satis quam vinum illud comuniter venderetur), procurando danno alla popolazione642.
Altri esempi di interventi contro l’introduzione nelle città di merci forestiere sono documentati per questo periodo in Abruzzo e Basilicata, testimonianza della rilevanza e della delicatezza dei meccanismi di controllo della
produzione e del commercio del vino nel Mezzogiorno tra i secoli XIII e XIV.
Come ha ben rilevato Giovanni Vitolo si tratta del frutto di “una situazione di
disagio provocato dalla sovrapproduzione” reso ancor più insostenibile dalla
dificoltà di realizzare molti vini ad alta gradazione alcolica e dunque in grado
poter essere conservati a lungo643. Ma la sovrapproduzione, come si è visto,
conseguì anche un dinamico movimento d’esportazione di vini, in particolare
di quelli più robusti, in connessione alla crescita della domanda proveniente
dalle città sempre più affollate.
Crescita demograica e ricchezza sempre più diffusa furono i fattori che
innescarono il processo di diffusione dei vini meridionali un po’ dappertutto
in Europa.
Gran parte delle ragioni del successo dei vini meridionali è collegato,
ancor prima della discriminazione delle tariffe di trasporto delle merci in
funzione del valore dei beni644, alla politica marinara degli angioini che si
materializzò in numerose iniziative indirizzate a rinnovare i vecchi approdi
del Mezzogiorno. Se il caso di Napoli resta il più eclatante, molti altri porti
conobbero un sostanziale rinnovamento strutturale in questi anni. Già in età
sveva alcuni porti avevano sperimentato signiicativi interventi da parte della
Corona attraverso opere di completamento e ampliamento di arsenali mentre
per altri vi erano state operazioni di radicale ristrutturazione, circostanza che,
insieme alla riduzione delle tariffe doganali (1239-1240), aveva dato notevole
impulso alla navigazione commerciale nel Mezzogiorno645.
Molto più incisiva fu la politica marittima promossa da Carlo I d’Angiò
e dai suoi immediati successori, declinata in una complessa attività di rinnovamento delle strutture portuali con numerosi interventi di rifacimento delle
vecchie e spesso fatiscenti strutture lignee degli approdi sostituite da opere in
pietra, e in investimenti nella costituzione di una lotta insieme mercantile e
RA, XXVII, 1, p. 198.
Si veda Vitolo, Il vino nel Mezzogiorno medievale, cit., p. 70.
644
Pratica invalsa nella seconda parte del XIV secolo, si veda Melis, La grande deluenza,
cit., pp. 98 ss.
645
Se ne veda l’elenco in Dalena, Passi, porti e dogane, cit., p. 81.
642
643
248
Alessandro Di Muro
militare, tanto da far apparire la marineria napoletana per alcuni aspetti paragonabile, se non superiore, a quella di Venezia, indiscussa dominatrice del Mediterraneo di quell’epoca646. La ricaduta sul progresso delle attività economiche
e, di rilesso, sulle entrate della Corona che ci si attendeva dal rinnovamento
delle strutture portuali del Mezzogiorno, si può cogliere eficacemente, come
ha sottolineato Pietro Dalena, “dalle parole con cui Carlo I sollecita l’ammodernamento del porto di Manfredonia. “Credentes quod si portus Manfridonie,
dudum inceptus compleatur et periciatur […] proventus et redditus jurium iscalium augmentetur”647. Le tariffe doganali relative ad alcune città marittime in
età angioina attestano come tali sbocchi rappresentassero il volano della crescita economica anche per i centri costieri minori del Mezzogiorno648.
Le rinnovate vie del mare consentivano ai mercanti trasporti più agevoli
e a minor costo, anche nell’ottica delle esazioni doganali: dell’opportunità
offerta dall’apertura dei nuovi corridoi commerciali marittimi approittarono
i produttori di vino delle aree più remote e peggio collegate ai grandi centri
di accumulazione e consumo del regno ino ad allora marginalizzati, in primo
luogo i Calabresi.
I tanti approdi calabresi che compaiono nella documentazione tra XII e
XIII secolo, in particolare lungo la costa tirrenica tra Scalea e Reggio, costituivano un’eficace rete di strutture adatte al piccolo cabotaggio e in alcuni
casi rappresentavano importanti scali di collegamento con il porto di Napoli.
Piccole strutture, spesso poco più che approdi naturali, i porti della riviera
tirrenica calabrese si trovavano lungo alcune delle più antiche rotte che collegavano il Lazio, e soprattutto le città costiere campane, alla Sicilia e al Mediterraneo orientale, praticamente mai abbandonate neppure nei primi secoli
dell’alto Medioevo649. Così, per quanto attiene al vino, quando la domanda si
646
Ivi, per quest’ultimo giudizio, M. Del Treppo, La marineria napoletana nel Medioevo:
porti, navi, equipaggi, in La fabbrica delle navi. Storia della cantieristica nel Mezzogiorno
d’Italia, a cura di A. Fratta, Napoli 1990, pp. 31-46.
647
Dalena, Passi, porti e dogane, cit., p. 93. Sulla marineria angioina si veda anche Del Treppo, La marineria napoletana nel Medioevo, cit., pp. 31-46.
648
Si pensi ad esempio ai dazi di Ortona del 1323, porto già rilevante nel XII secolo (si veda
a tal proposito Dalena, Passi, porti e dogane, cit., p. 80), dove tra le merci esportate soggette
a imposizione di dazio è ricordato il vino in ragione di due grani per ogni oncia di valore,
Caggese, Roberto, cit., I, p. 421.
649
Tra i più rilevanti si ricordano Scalea, Cetraro, Amantea, Tropea e Nicotera. Per i porti
calabresi nel Medioevo si veda Dalena, Passi, porti e dogane, cit., pp. 94-96.
La vite e il vino
249
fece via via crescente, i mercanti che frequentavano quelle rotte iniziarono a
considerare conveniente caricare il robusto vino calabrese e gli stessi piccoli
armatori locali dovettero trarre vantaggio dal trasporto dei vini locali lungo
le deirettrici del piccolo cabotaggio. Detto della precoce attestazione dell’approdo di una nave amalitana sulle coste tirreniche calabresi per imbarcare
un carico di vino da trasportare a Tunisi, è signiicativo che già nella prima
metà del XIII secolo il barile di Amantea costituisse la misura del vino donato annualmente dall’imperatore all’arcivescovo di Palermo650. Un documento
pisano del 1278 attesta che vino di Scalea era venduto nel 1278 a Tunisi651.
Nel 1279 Carlo I scriveva al maestro portolano di Calabria pro emendo vino
mictendo apud Acon pro usu gentis nostre. Dalla Calabria dunque veniva inviato il vino che serviva alla guarnigione angioina di Acri652. Una partita di
14 quartare di vino di Cosenza, non si sa dove diretta, è ricordata nei registri
della cancelleria angioina nel 1283653.
Si è visto come dalla Pratica della mercatura Francesco di Balducci
Pegolotti si possa già postulare nei primi decenni del XIV secolo la presenza
di vini calabresi sulle sponde meridionali e orientali del Mediterraneo, ma è
dalla ine del XIV secolo che ha inizio quella che Federigo Melis deinì in un
celebre saggio “la grande deluenza del vino calabrese” e che conobbe un’ulteriore espansione nel XV secolo654. In particolare fu Tropea il porto dal quale
migliaia di barili di vino prendevano la via di porti di primo piano nell’orizzonte mercantile dell’epoca quali porto di Pisa, Genova, Arles, Barcellona,
Valenza, Maiorca, Londra e Bruges da dove deluivano verso l’interno655.
Spesso il terminale delle produzioni calabresi fu il porto di Napoli, l’imbarco
per il vino di maggior rilievo di tutto il Mediterraneo medievale, dove conluivano carichi di vino da tutto il Mezzogiorno per poi essere smistati verso
le destinazioni più diverse, europee e mediterranee656, ma anche nel vivace
650
Cherubini, I prodotti della terra, cit., p. 204. Il barile di Amantea è ricordato ancora come
misura di vino da fornire agli scuterii nel 1280, RA, XXIV, p. 120.
651
Cherubini, I prodotti della terra, cit., p. 209.
652
RA, XXIII, p. 99.
653
RA, XXVII, p. 401.
654
Melis, La grande deluenza di vino calabrese attraverso Tropea nel Tre-Quattrocento, in
Id., I vini italiani, con introduzione di Ch. Higounet, a cura di A. Affortunati Parrini, Firenze
1984, pp. 97-104.
655
Ivi, pp. 99, 101.
656
M. Del Treppo, I mercanti catalani e l’espansione della Corona d’Aragona nel secolo XV,
Napoli 1972, p. 199. Vitolo, Il vino nel Mezzogiorno medievale, cit., p. 73.
250
Alessandro Di Muro
porto di Palermo si riversavano copiosi in quegli anni i vini di Calabria657.
In particolare gli studi del Melis hanno messo in evidenza come a Firenze,
dove giungeva attraverso Pisa, il vino calabrese conoscesse un successo straordinario, tanto da risultare tra i vini più costosi in assoluto, dunque tra i più
pregiati, presenti sulla piazza658. Luoghi di produzione di tali vini erano Santa
Severina, San Niceto (Sancto Noceto) e Fiumefreddo, ma come sottolinea il
Melis, la produzione doveva interessare anche le zone nelle vicinanze di Tropea659. Altri porti da dove si imbarcava vino, questa volta in direzione della
Sicilia occidentale, erano Cetrara, Scalea, Paola, Fuscaldo, Bivona Nicotera,
Beldedere e anche Reggio, mentre “porti di parola” ovvero i luoghi dai quali
si organizzavano i trafici, erano Tropea, Cirella e Scalea660.
Il porto di Napoli costituiva il
collettore principale di molti vini
del Regno. Il caso del vino calabrese è di certo il più eclatante, in particolare per gli sviluppi che il suo
commercio ebbe in età tardoangioina e aragonese, ma non mancano
altre testimonianze di vini prodotti
in regioni periferiche che conobbero a partire dal XIV secolo una
certa diffusione, in crescita nel XV
secolo, come ad esempio i vini del
Cilento, del cui commercio conosciamo interessanti aspetti grazie ad Fig. 15. Rotte dei vini imbarcati a Tropea
(secc. XIV-XV)
un lavoro di Mario Del Treppo661.
657
L’archivio di Stato di Palermo conserva almeno 33 contratti del XIV secolo per il trasporto
di vino calabrese nella città, Bresc-Bautier, Bresc, Rilessi dell’attività economica, cit., pp.
233-234.
658
Melis, La grande deluenza, cit., p. 100.
659
Ibidem.
660
Bresc-Bautier, Bresc, Rilessi dell’attività economica, cit., pp. 233-234.
661
M. Del Treppo, Marinai e vassalli: ritratti di uomini di mare napoletani, in “Rassegna
Storica Salernitana”, n.s., 4, 1985, pp. 9-24. Si veda anche Vitolo, Il vino nel Mezzogiorno
medievale, cit., pp. 68-69. Nei secoli XIV e XV vini imbarcati a Pisciotta e Camerota giungevano al porto di Palermo, Bresc-Bautier, Bresc, Rilessi dell’attività economica, cit., p. 234.
La vite e il vino
251
5.1 Quali vini?
Alla ine del Medioevo i vini meridionali si affermano dunque stabilmente sui mercati internazionali e l’apprezzamento per essi appare generalizzato.
Converrà a questo punto ritornare sulla questione dei vini prodotti nel
Mezzogiorno tardomedievale. Si dispone a questo proposito di un importante
documento, la Lettera di Sante Lancerio, bottigliere di papa Paolo III, che,
sebbene composta nel XVI secolo, può servire da guida per indagare retrospettivamente la geograia dei vini meridionali, sia di pregio che di fruizione diffusa, e da qui partire per cercare di individuarne le aree di origine, la
diffusione dei vitigni, la qualità e le caratteristiche. Il documento, risalente
al 1553, offre infatti un panorama completo delle produzioni vinicole che
giungevano ai mercati di Roma, con l’indicazione delle qualità, dei luoghi di
produzione e, talvolta con interessanti notazioni ampelograiche. Per quanto
riguarda i vini meridionali, mi sembra indicativo notare come questi costituissero la maggioranza, almeno nella varietà delle denominazioni (circa il
40%), dei prodotti vinicoli commercializzati a Roma provenienti dall’Italia e
dal resto d’Europa, segno evidente della loro rilevanza sui mercati ancora in
età tardo rinascimentale662.
L’interesse della Lettera del Lancerio risiede in particolare nella circostanza che molti dei vini ricordati siano già attestati nel Medioevo ma spesso risultino dificilmente collocabili in un preciso ambito geograico, né se
ne conoscono le caratteristiche. Prendiamo il caso del “vino greco”, probabilmente il “principe” dei vini meridionali medievali, in parte già discusso.
Dalla lettera di Lancerio lo si trova diffuso esclusivamente nell’area napoletana, con un’attestazione signiicativa a San Gimignano in Toscana. Il bottigliere pontiicio ricorda 5 “greci” campani (Somma, Posileco vicino Somma,
Ischia, Torre, Nola). Tali vini si differenziano per qualità, struttura, sapore,
gradazione di colore (anche se tutti sono chiari), e il Lancerio ne fornisce preSi è qui utilizzata la trascrizione della lettera riportata in Jori, Il vino, cit., pp. 135-157. Dei
51 vini schedati da Sante Lancerio 21 provengono dal Mezzogiorno continentale. La maggior
parte di questi (17) provengono dalla Campania. La Campania, e in particolare l’area napoletana, dovette diventare in età tardomedievale la maggior fornitrice in assoluto di vini per
i mercati di Roma, così ancora nel 1517 Teoilo Folengo poteva affermare: “Certo qui non
mancava quel vino che fa Somma Vesuviana strizzando i racemi: Somma, onore di Napoli,
ma per la grande Roma causa di bagordi. Vedova e nuda questa montagna, ma produce un
vino, il greco, che fa andare di traverso per strada ogni brigata” (Teoilo Folengo, Il Baldo,
Reggio Emilia 20042, p. 30).
662
252
Alessandro Di Muro
cisa descrizione. Il migliore è considerato il greco di Somma Vesuviana che
nella sua “perfettione” era di colore dorato e profumato: Paolo III “usava di
continuo beverne ad ogni pasto, per una e per due volte, quando era nella sua
perfettione et ancora ne voleva nelli suoi viaggi. Sì perché tale vino non pate
il travaglio, sì perché ne voleva per bagnarsi gli occhi ogni mattina et anco
per bagnarsi le parti virili, ma voleva che fosse di 6 o 8 anni, che era più perfetto”. Un uso singolare quest’ultimo, ma che ne attesta le virtù terapeutiche
accanto all’apprezzamento enologico663. I peggiori greci invece sono considerati quelli di Torre del Greco, ai piedi del Vesuvio, un vino “da famiglie e da
fornaciari” del quale il ponteice signiicativamente “non volle mai bere”, e
il greco di Nola, che “non è una buona bevanda” in quanto “matroso, grasso,
opilativo”. Vini discreti invece sono considerati i greci di Posilico, nell’area
vesuviana, e di Ischia, “un dilicato bere a tutto pasto”, gradito a Paolo III664.
La documentazione dei secoli X-XV secolo restituisce una geograia della produzione grossomodo analoga. Le carte d’archivio indicano nell’area
napoletana le uniche attestazioni ino al XIII secolo665, per poi diffondersi al
più nelle zone limitrofe, l’intera Terra di Lavoro, probabilmente alcune aree
del salernitano e, forse, talune contrade pugliesi666. Possiamo dunque ipotizzare che il vitigno, in origine allevato esclusivamente nell’area napoletana,
sia stato impiantato nel corso del Medioevo nelle terre limitrofe, pertanto
in ambienti climatici e pedologici in parte analoghi ai terreni vulcanici napoletani, ma anche in terre più distanti quali la Puglia, permanendo la deno663
Anche Tommaso Campanella riteneva che lavarsi con il vino allontasse la possibilità di
contrarre “morbo venereo”, infra.
664
Lancerio, Lettera sulla qualità, cit., pp. 136-137.
665
Anche le isole del golfo di Napoli producevano abbondante vino greco Saba Malaspina
nel descrivere l’isola d’Ischia la dice “est potissime vino graeco feconda”: Saba Malaspina,
Istoria, cit., X, 15. Probabilmente da altre zone della Campania tradizionali produttrici di
greco quali la costiera sorrentina e Aversa, tali vini non giungevano a Roma.
666
Per i vini greci della Puglia si vedano supra le notizie dedotte da Balducci Pegolotti e Licinio, Uomini e terre, cit., p. 79; Cherubini, I prodotti della terra, cit., p. 222. Secondo Cherubini e Licinio i vini pugliesi medievali si distinguevano piuttosto per la quantità che per la
qualità della produzione. La richiesta che ne fa Carlo I d’Angiò in occasione delle nozze della
iglia Beatrice con Filippo di Costantinopoli (si veda supra) porterebbe tuttavia ad attenuare
questo giudizio. Vino greco, non sappiamo se locale, si vendeva a Troia nel 1338, Caggese,
Roberto, cit., p. 433. In ogni caso l’esistenza di un vino greco pugliese appare piuttosto dubbia in quanto a mia conoscenza non esistono testimonianze documentarie esplicite di una tale
produzione in queste terre
La vite e il vino
253
minazione e, forse, una buona qualità del prodotto667. Possiamo indicare in
questo una fondamentale differenza con le modalità di indicare i vini rispetto
all’antichità romana: qui a prevalere, come spiega chiaramente Plinio nella
sua Naturalis Historia, erano “la regione e il tipo di terreno, non la qualità
dell’uva” perché, chiarisce l’autore, “una stessa vite dà risultati diversi secondo i luoghi”668. Così da uno stesso vitigno coltivato in aree contigue nascevano
due vini diversi: è il caso del Falernum e dello Statanum, la cui differente denominazione derivava unicamente dall’essere prodotti in vigneti che, sebbene
initimi, ricadevano in due distinte circoscrizioni amministrative669. Un’altra
considerazione discende da quanto si è detto, ovvero la diffusione del pregiato vitigno, che si colloca al XIII secolo; questa potrebbe costituire l’esito di
un’accorta politica da parte dei produttori di vino, in particolare della Corona,
come si è visto anche per il iano a Manfredonia, tesa a migliorare le qualità
della produzione, in connessione alla crescita documentata della domanda di
tali vini sui mercati extraregnicoli proprio in quegli anni. Vitigni che producevano vini già di un certo successo come quelli pugliesi, dall’innesto di viti
alloctone potevano ottenere quel valore aggiunto, costituito dalla dolcezza,
dalla gradazione alcolica più alta e, dunque, dalla maggiore tenuta del vino.
Un problema riguarda la supposta esistenza di un vino “greco” calabrese.
Si tratta di un’opinione piuttosto diffusa tra gli studiosi, formatasi sulla scorta
dei lavori del Melis: in realtà la documentazione d’archivio non ricorda in
maniera esplicita vini greci calabresi e il grande storico dell’economia ne
dedusse l’esistenza unicamente dal “considerevole aflusso di vini calabresi
nei tre porti del Golfo partenopeo”, ossia Napoli, Castellammare e Torre del
Greco, porti dai quali, si è detto, partivano i vini greci670. Gli stessi documenti
667
Resta da spiegare perché l’unica regione meridionale in cui nel Medioevo sia attestata
produzione di vino greco al di fuori della Campania sia la Puglia. Mi sembra plausibile che
vitigni di greco potessero essere stati impiantati nelle masserie federiciane o angioine a ragione della ricerca di proitto dalle vigne.
668
Plinio, Natur. Hist., XIV, 70.
669
Entrambi provenivano dal medesimo vitigno e i terreni contigui in cui venivano coltivati
partecipavano delle stesse caratteristiche edaiche e pedologiche, si veda ad es. G. Guadagno,
Produzione vinicola falerna e campana tra Antichità e età di Mezzo, in “Rivista storica del
Sannio”, III, 7, 1996, pp. 46-73.
670
“Questo considerevole aflusso di vino calabrese nei tre porti del Golfo partenopeo autorizza a ritenere che, in qualche misura, i vini esportati dai porti stessi sotto la generica denominazione di ‘vini grechi’ (cioè senza indicazione dell’origine) fossero, appunto, di parziale
provenienza calabrese e di sovente per la via tropeana”: Melis, La grande deluenza, cit., p. 99.
254
Alessandro Di Muro
riportati da Federigo Melis fanno sempre riferimento in maniera generica ai
vini di Calabria, al più si indicano i vini rossi di Santa Severina, i bianchi di
Fiumefreddo o le vernacciole di San Niceto. In una lettera della compagnia
Datini riportata dallo studioso, in cui si ha notizia del naufragio di una nave
catalana carica di vini greci partita da Napoli, nessun accenno è fatto alla Calabria671. Va pertanto respinta, a mio parere, l’ipotesi del Melis che vedeva nei
generici vini greci e latini imbarcati in gran quantità nel porto di Napoli tra la
ine del ’300 e l’inizio del ’400, almeno in parte produzioni calabresi. Lo stesso Sante Lancerio non ricorda vini greci di Calabria nella sua dettagliatissima
Lettera. Il bottigliere pontiicio risulta peraltro ben informato sui vini prodotti in Calabria, molti dei quali accomuna sotto la generica denominazione
“calabresi”, includendo tra questi anche vini prodotti nel Cilento. I luoghi di
origine di questi vini sono indicati in Castellabate, Acciaioli (Acciaroli), San
Giovanni a Pino (a Piro), Bianco, Orsomarso e Scalea. Su questi il Lancerio
non intende soffermarsi più di tanto, in quanto, a suo giudizio, di inima qualità: “tutti sono vini da famiglia”, adatti a servi e non a signori, così come il
vino di Pisciotta, nel Cilento672. Si tratta di vini che, si è visto, circolavano già
nel tardo medioevo e, da quanto si apprende dal Lancerio, dovevano caratterizzarsi per una scarsa qualità, destinati dunque ai ceti bassi delle comunità
cittadine. La “lunga durata” della loro circolazione lungo le rotte tirreniche
costituisce un’ulteriore testimonianza di una diffusa domanda di vini di bassa
qualità che alcuni prodotti della Calabria e del Cilento andavano a soddisfare,
dunque di una specializzazione e differenziazione delle produzioni all’interno
degli stessi ambiti territoriali in funzione di un’utenza socialmente diversiicata. Così se nelle campagne tra Scalea e Orsomarso si realizzava un vino
riservato ai ceti popolari, nelle non lontane vigne di Cirella si produceva un
vino che nel XVI secolo giungeva alla mensa del ponteice, un vino che a
giudizio del Lancerio “non ha bevanda pari”673 ma che probabilmente già nel
tardo Medioevo rientrava tra quei vini calabresi di eccellenza di cui si è detto,
venduti a caro prezzo sulla piazza di Firenze. Altri vini di Calabria di buona
qualità sono considerati dal Lancerio il vino del Ciragio (Cirò), che “raro ne
viene a Roma perché Don Pedro di Toledo, già Vicerè di Napoli, se li faceva
condurre nelle sue cantine per sua bevanda, dove che gli altri Vicerè hanno
Ivi, p. 101.
Lancerio, Della qualità dei vini, cit., p. 145. Solo per il vino di Scalea il giudizio risulta
più benevolo “ancora che se li faccia un poco di conserva di cotto”.
673
Ivi, p. 138. Il bianco latino cui si riferisce era prodotto a Torre del Greco.
671
672
La vite e il vino
255
pigliato tale costume”674 e il vino di Paola prodotto nell’omonima località
tirrenica e a San Niceto, un vino rosso e dolce, molto alcolico, che “procede
dalla Vernaccia”675, sicuramente da identiicare con quei vernaccioli di San
Niceto ricordati in una lettera scritta da Bruges dalla Compagnia iorentina di
Diamante e Altobianco degli Alberti della ine del XIV secolo676.
Un altro problema riguarda i vini genericamente ricordati come “latini”
nella documentazione medievale: anche qui la lettera di Sante Lancerio risulta particolarmente chiariicatrice. Il Lancerio afferma che marinai e mercanti
denominano “latini” tutti i vini “eccetto Greco, Moscatello, Mangiaguerra,
Corso e Razzese”677. Di qui la genericità terminologica che si è riscontarta nella gran parte della documentazione medievale esaminata, dove la più
diffusa distinzione tra i vini è costituita dalla denominazione “vino greco” e
“vino latino”. In questa categoria dunque doveva rientrare nel Medioevo la
gran parte dei vini prodotti nel Mezzogiorno, in particolare in Campania. Per
quanto riguarda il latino si trattava di un vino in genere rosso se per schiarirlo
si doveva necessariamente ricorrere a metodi quali la “tacchia”, ovvero a trucioli di nocciolo lasciati a riposare nella bevanda, come ricorda il Lancerio:
in questo caso prendeva il nome di “latino bianco” evidentemente per distinguerlo dai latini “naturali”678.
Al contrario del vino greco, il cosidetto latino doveva caratterizzarsi per
una qualità piuttosto scadente, se così nel XIII secolo si esprimeva Cecco
Angiolieri: “E non vorria se non greco e vernaccia, / ché mi fa maggior noia
il vin latino / che la mia donna, quand’ella mi caccia”679.
Sante Lancerio, riferendosi al vino latino lo deiniva “picciolo e grosso”,
dunque di bassa qualità e gradazione, vino per nulla apprezzato dal papa che
“per conto alcuno non voleva bere”680.
Altri vini che giungevano a Roma nel XVI secolo e risultavano molto
apprezzati da Paolo III erano quelli prodotti nei vigneti salernitani. Si trattava
di vini sia rossi che chiari (“ciregiuoli”), quest’ultimo tipo “è una sorte di vino
molto dilicato e ricercato, tanto il verno quanto la state, da Prencipi e da Prelati.
Ivi, pp. 144-145.
Ivi, pp. 143-144.
676
Il documento, del 1399, è riportato in Melis, La grande deluenza, cit., p. 102.
677
Lancerio, Della qualità dei vini, cit., p. 141.
678
Ibidem: “non si fanno mai chiari, senza aiuto della Tacchia”. Per i metodi di schiarimento
dei vini nel Medioevo si veda infra.
679
Cecco Angiolieri, Rime, LXV.
680
Lancerio, Della qualità dei vini, cit., p. 141
674
675
256
Alessandro Di Muro
[…] Il bianco vuole essere crudo, grande [invecchiato] e odorifero et più scarico di colore che sia possibile. Di tali vini S.S. beveva volentieri”681. Insieme a
questi si vendevano a Roma anche i vini di Mercato San Severino, di più bassa
qualità, sia bianchi che rossi “del medesimo sapore e colore del Salerno, ma più
crudi, et la state sono ottimi”, tuttavia considerati “vini da huomini che le feste
giuocano alla Piastrella, et poi corrono volentieri alla Taverna per la Foglietta”,
dunque per popolani682. Nel XVI secolo, dunque, è ancora documentato per
questi vini quella netta differenza qualitativa (che comportava naturalmente
costi diversi) che alla ine del XIII secolo aveva scatenato la ricordata “guerra
del vino” a Salerno, per cui si deve supporre che le caratteristiche di queste
bevande descritte dal Lancerio dovessero in qualche modo richiamare quelle
connotanti i vini medievali prodotti in quelle terre. Già in quegli anni il vino
di Salerno veniva esportato, come si deduce da un documento della cancelleria
angioina del 1273 in cui il sovrano concedeva ai mercanti del Principato di Salerno la facoltà di onerari in vassellis eorum in partibus… Principatus ipsius et
de una terra ad aliam deferri vino, olio e altre merci683.
Che il vino di Salerno si caratterizzasse per una certa qualità si può dedurre già dalla documentazione di XI e XII secolo. Così già per gli anni intorno al Mille si ha l’attestazione, si è visto, del pregiato Marcangello, forse il
Mangiaguerra ricordato dal Lancerio come prodotto ad Angri e a Castellammare, un vino “dolce assai et molto carico di colore, rispetto alla vendemmia
tarda che si usa in cotali luoghi, dove non si può vendemmiare insino a S.
Francesco che così è statuto antico”; tuttavia “sono vini da hosti e da imbriaconi. Alcuni non sono di quella grandezza [alta gradazione alcolica] et di quel
colore, et Cortigiani et Prelati ne potriano bere, ma sono generalmente vini di
cortigiane per incitare la lussuria”; naturalmente “di tale vino S.S. non beveva
mai”684. Nel XV secolo, inine, vini salernitani si ritrovano sulla mensa di re
Ferrante e di alcuni cardinali romani685.
Ivi, p. 148.
Ivi, pp. 148-149.
683
RA, XI, p. 120.
684
Ivi, p. 148. Il Mangiaguerra è ricordato nel 1517 ne Il Baldo di Teoilo Folengo, Reggio
Emilia 20042, p. 30: “Certo qui non mancava quel vino che fa Somma Vesuviana strizzando
i racemi: Somma, onore di Napoli, ma per la grande Roma causa di bagordi. Vedova e nuda
questa montagna, ma produce un vino, il greco, che fa andare di traverso per strada ogni
brigata. E insieme il vino mangiaguerra, e la vernaccia di Volta e quello di cui si vanta la
bresciana Cellatica”.
685
A. Sinno, Commercio e industrie nel Salernitano dal XIII ai primordi del XIX secolo,
681
682
La vite e il vino
257
Anche un altro vino campano ricordato dal Lancerio come prodotto tra
Sorrento e Vico Equense, il Mazzacane o Massaquano, si ritrova nella documentazione tardomedievale686. Sia bianco che rosso “è un dilicato bere […]
ancora che sia piccolo [di bassa gradazione alcolica], ha odore, colore, sapore
et, se non fosse che alcuni mutano di colore, non saria pari bevanda la state”687.
Ancora dalla Campania, “dalla montagna di Somma dove si fa il buon
greco” proveniva il rosso Aglianico, ancora oggi tra i più apprezzati vini del
Mezzogiorno, un vino che nella sua “perfettione vuole essere odorifero, di
poco colore et pastoso”, un vino che Paolo III beveva volentieri688. Vino,
l’aglianico, per il quale non si hanno attestazioni durante il Medioevo così
come il Fistignano o Sistignano, un rosso prodotto ai piedi della montagna
di Somma, talmente pregevole che persino il ponteice faceva fatica a procurasene “perché i Vicerè lo vogliono per loro”. Di questo vino il Lancerio ci
informa che trae la denominazione dal vitigno, coltivato evidentemento nella
località omonima, coltivato secondo la tecnica della vite maritata689. Altri vini
di Somma che allietavano la mensa di Paolo III erano il Lagrima, un vino
rosato così denominato “perché alla vendemmia colgono l’uva rossa, et la
mettono nel Palmeto, ovvero Zina, ovvero alla Romana, Vasca. Et quando è
piena, cavano, innanzi che l’uva sia bene pigiata, il vino che può uscire, et lo
imbottano. Et questo domandono Lagrima, perché nel vendemmiare, quanto
l’uva è ben matura sempre geme”690. Dunque non il vitigno ma una tecnica
particolare dà il nome ad un vino tuttora apprezzato sulla cui denominazione circolano ancora molte leggende. Di un altro vino, il Coda di Cavallo, il
Lancerio ci dice veniva prodotto nei dintorni di Nola, un buon vino dolce che
“non ha pari bevenda il Verno” e che deriva il nome dal “racemolo, ovvero
Rampazzo, come una coda di Cavallo”, vino quest’ultimo ancora oggi prodotto ad Ischia691. Altri vini meridionali di cui abbiamo testimonianza nel Medioevo non sono ricordati dal Lancerio. Eppure si tratta di vini di qualità che
avranno una fortuna ininterrotta nei secoli a venire, giungendo, almeno nella
Salerno 1954, II, 154.
686
Una vegeti vini machacani quam conducere facere intendit a civitate Vici ad civitatem
Neapolis, in Lictere Passus, ed. P. Dalena, Passi, porti e dogane, cit., p. 205.
687
Lancerio, Della qualità dei vini, cit., p. 143.
688
Ivi, p. 149.
689
Ivi, p. 150. Potrebbe trattarsi di Striano, zona di produzione di vini greci sin dal XIII secolo, si veda supra.
690
Ivi, p. 151.
691
Ivi, p. 145.
258
Alessandro Di Muro
denominazione, ino ai nostri giorni. Vini particolarmente ricercati accanto al
greco, erano il grecisco, il iano e il galloppo signiicativamente richiesti da
Federico II in occasione del Colloquium generale di Foggia del 1240 dove furono presentate le Novae Constitutiones692. Si tratta di vini ancora tra i più apprezzati della produzione meridionale: detto del greco, il iano sembra potersi
facilmente identiicare con il vino prodotto ancora oggi dall’omonimo vitigno
a buccia bianca coltivato in particolare nei terreni sciolti di origine vulcanica
vesuviani e dell’Avellinese, mentre nel galloppo è possibile scorgere l’odiero gaglioppo prodotto nella Calabria jonica693, anche se il galloppo del XIII
secolo proveniva dai ricchi vigneti di Messina. Così appare strano che anche
i vini di Tropea non siano ricordati nella Lettera del Lancerio; piuttosto che
postularne un rapido declino è possibile ipotizzare che alcune produzioni,
che non potevano essere illimitate, dovessero essere dirette verso determinati
mercati così come testimonia lo stesso Lancerio per le produzioni di Cirò e
Sestignano di cui i vicerè di Napoli facevano incetta, o si può ipotizzare che
i vini che nel secolo precedente venivano imbarcati a Tropea avessero ormai
acquisito una rinomanza che consentiva di indicarli con i luoghi di provenieneza, i numerosi vini calabresi ricordati sopra.
Allo stesso modo mancano menzioni dei vini rossi di Basilicata molto
apprezzati, si è visto, alla corte di Carlo I. Si deve notare come nel ’500 alcuni
tra i vini calabresi, così richiesti a partire dal XIII secolo, risultassero, come
afferma Lancerio, i peggiori in assoluto, adatti a fruitori di bassa condizione,
circostanza che ne certiica, si è detto, nondimeno una certa deluenza.
Mi sembra si possa in conclusione affermare che la discreta varietà dei
vini che si riscontra a partire dal XIII secolo costituisca il rilesso di una domanda articolata che ormai, come si è visto, proveniva da tutti gli strati della
società, sia nelle terre del Mezzogiorno sia nei paesi extraregnicoli, frutto di
un consumo ormai divenuto di massa, collegato in particolare allo sviluppo
dei centri urbani: emerge netta la differenza tra una situazione precedente dove
692
L’imperatore richiese il 28 marzo de vino greco saumas iii, de vino grecisco saumas iii,
de vino iano saumas iii (HB, V, pp. 861 ss.), mentre sin dal 21 gennaio 1240 aveva ordinato
che gli si inviassero centum barrilia de bono vino de galloppo per la sua corte da Messina a
Napoli da dove sarebbero stati trasportati a Foggia (HB, V, p. 685).
693
Per l’identiicazione del galloppo con il gaglioppo calabrese, S. Tramontana, Giochi, feste
e spettacoli nel Mezzogiorno normanno e svevo, in Uomo e ambiente, cit., p. 326. Coltivazioni di vitigni iano sono attestate nelle vigne regie Castellammare di Stabia nel 1274 RA,
XI, p. 304, mentre nel 1273 Carlo d’Angiò fece impiantare 16.000 ceppi di viti di iano nella
vigna reale di Manfredonia (RA, VI, p. 56).
La vite e il vino
259
la produzione per l’autoconsumo era generalizzata e pertanto non richiedeva
la coltivazione di vitigni particolari, se non in rari casi. Neppure la profonda
crisi della metà del XIV secolo signiicò il declino della circolazione e dell’apprezzamento per i vini meridionali, indice dell’ormai radicata e diffusa cultura
vinicola del Mezzogiorno e della tenuta delle sue strutture di mercato694.
6.
Il vino nella trattatistica: tra medicina e cucina
L’apprezzamento delle virtù del vino è dunque unanime nella società del
Mezzogiorno medievale, virtù tanto numerose, per dirla con l’enciclopedista del XIII secolo Bartolomeo Anglico, “che se Bacco vivesse non potrebbe
descriverle tutte ino alla ine e tesserne tutte le lodi, poiché tra tutti i liquidi
degli alberi e delle erbe il vino detiene la supremazia”695. E le elencazioni più
sistematiche delle prerogative del vino negli autori del Mezzogiorno medievale si rinvengono nella trattatistica.
Così i isiatri, in particolare gli autori della Scuola medica salernitana,
anche sulla scorta dei medici dell’Antichità, esaltano le virtù terapeutiche
e dietetiche del vino. Il trattato più celebre del Scuola, il Flos medicinae, il
cui nucleo originario fu composto tra XI e XII secolo, dedica ampio spazio
all’utilizzo e ai pregi del vino. Nel capitolo dedicato alle bevande (“De
potu”) si suggerisce di iniziare il pasto con un bel bicchiere di vino, una
sorta di aperitivo (“Ut vites poenam de potibus incipe coenam”), e si sconsiglia decisamente l’assunzione dell’acqua (“Absit ab humano pectore potus aquae”) che raggela lo stomaco696, indicando naturalmente il vino quale
bevanda per eccellenza (“Omnis homo, primum perposcit nobile vinum,
Inde quod deterius pagina sacra docet”). L’autore passa poi ad una sommaria classiicazione dei vini da un punto di vista nutritivo, evidenziando
come più nutrienti siano i dolci chiari (“Sunt nutritiva plus dulcia candida
vina”) mentre eccedere con il rosso può generare fastidiosi inconvenienti
(“Si vinum rubeum nimium quandoque bibatur, Venter stipatur, vox limpida
Per la “grande crisi” della metà del XIV secolo si veda ad es. Galasso, Il regno di Napoli,
cit., pp. 821 ss.
695
La citazione è riportata in Y. Trappe, Sulle tracce del gusto. Storia e cultura del vino nel
Medioevo, Roma-Bari 2006, p. 28.
696
Flos medicinae Scholae Salerni in Collectio Salernitana, a cura di S. De Renzi, ristampa
anastatica con una premessa di A. Garzya, Napoli 2001, I, p. 445, § 5.
694
260
Alessandro Di Muro
turbiicatur”). Bisogna inine guardarsi dal vino mescolato con acqua: se
tale operazione non sarà eseguita sapientemente potrà provocare addirittura
la lebbra (“Vinum lymphatum generat lepram cito potum, Convenit ergo
illud non sumere ni bene mixtum”). L’autore conclude il capitolo con un
consiglio:
“Si vis perfecte, si vis te vivere recte
Disce parum bibere, sis procul a Venere”.
Ma se una sera si dovesse esagerare, ecco pronto il rimedio:
“Si tibi serotina noceat potatio vini,
Hora matutina rebibas et erit medicina”
terapia che resiste ancora oggi come luogo comune non di rado frequentato.
Il paragrafo successivo (“Melius vinum”) è una descrizione del vino ideale. Il vino migliore, si afferma, genera anche gli umori migliori, dunque sarà
opportuno fare attenzione nella scelta: se è troppo scuro rende pigri, pertanto
deve essere chiaro, invecchiato, maturo e delicato, ben mescolato, appena
spillato e bevuto con moderazione697. Come un moderno sommelier il nostro
autore ricorda che i vini si riconoscono dal profumo, dal sapore, dalla lucentezza, dal colore e conclude con la regola aurea delle cinque F:
“Si bona vina cupis quinque F plaudentur in illis:
Fortia, formosa, fragrantia, frigida, fusca”
Bisogna invece guardarsi da alcuni vini spumanti:
“Vinum spumosum nisi deluat est vitiosum”
Quelli buoni si riconoscono da una precisa caratteristica, degli altri è
meglio guardarsene:
“Spuma boni vini in medio est in margine pravi”.
697
“Gignit et humores melius vinum meliores;
Si fuerit nigrum corpus reddet tibi pigrum.
Vinum sit clarum, vetus, subtile, maturum,
At bene lymphatum, saliens, moderamine sumptum”.
La vite e il vino
261
Nell’elenco dei cibi nutrienti non possono mancare inine i “vina rubentia” e tra i molto nutrienti i “dulcia vina”; tra questi “sunt nutritiva plus dulcia
candida vina”, i vini chiari, il cui apprezzamento da parte dei ceti elevati è già
stato segnalato.
Il pericolo dell’ubriachezza è però sempre in agguato:
“Et mox post escam dormire, nimisque moveri,
Ista gravare solent auditum, ebrietasque”698.
Oltre all’udito il troppo vino è nocivo anche alla vista699 ed è causa di
mal di testa700.
Un posto marginale nell’opera è riservato anche agli altri derivati
dell’uva, il mosto innanzitutto:
“Provocat urinam mustum, cito solvit et inlat;
Hepatis enfraxin splenis generat, lapidemque”701
e all’aceto, che ha effetti nefasti:
“Infrigidat modicum, sed plus dessiccat acetum;
Emaciatque, melancholiam dat, sperma minorat,
Siccos infestet, nervos et pinguia siccat”702.
Ma è il frutto della vite ad assumere i tratti quasi del rimedio sovrano,
anche in cucina, puriicatore ad esempio dei cibi indigesti. La carne di maiale senza l’aggiunta di vino sarebbe peggiore della carne di pecora, ma “si
tribuis vina, tunc est cibus et medicina”. Chi dice bene dell’anguilla, recita il
Regimen sanitatis di Salerno, è mentitore, può testimoniarlo chi non ignora
la medicina. Il saggio non può approvare né l’anguilla né il formaggio che
non siano accompagnati da più bicchieri di vino: “Non nocet anguilla vino
si mergitur illa”703. Anche per l’uovo vale un discorso analogo: “Singula post
Ivi, p. 488, art. 4.
Ivi, p. 488, art. 7
700
Ivi, p. 463, § 26
701
Ivi, p. 452, § 6.
702
Ivi, p. 453, § 9.
703
Ivi, p. 456, § 7.
698
699
262
Alessandro Di Muro
ova, pocula sume nova”704. La frutta si sposa perfettamente al vino e la rende
migliore. Così ad esempio la pesca con il mosto è un toccasana, come l’uva
fresca con le noci mentre l’uva passa non giova alla milza ma ai bronchi e ai
reni705. Anche la pera senza vino è veleno, pertanto “adde pyro potum”. Mescolato alle erbe il vino ha numerosi poteri terapeutici. Il vino sciolto con il
cerefoglio calma i dolori, con il puleggio purga della bile nera706, insieme alla
crusca guarisce le ferite707. Contro il mal di mare prima di imbarcarsi sarà opportuno bere una coppa di vino mescolato ad assenzio708. Il seme di inocchio
“cum vino sumptum veneris movet actus”709 a differenza dell’aceto che rende
tristi e “sperma minorat”710. Al tempo della peste:
“Devita coitum, inirmos balnea, fructus;
Sit cibus autem tuus bonus, et vinum tibi potus;
Illud sit vinum puroque lumine mixtum”711.
Le virtù terapeutiche del vino nel Mezzogiorno meridionale, anche sulla
base dell’autorità dello Studium salernitano, travalicano gli orizzonti cronologici medievali e giungono all’età moderna. L’opinione di Tommaso Campanella in proposito, agli inizi del XVII secolo, è di grande interesse: nella
sua Città del Sole gli abitanti non bevono molto vino ma “morbo venereo non
può allignare, perché si lavano spesso li corpi con vino ed ogli aromatici”712.
Un altro trattato della celebre scuola mostra una competenza diremmo
enologica dell’autore ancora più marcata; si tratta del De lore dietarum, opera anonima composta nell’ambito della Scuola medica salernitana intorno al
Ivi, p. 452, § 1.
“Persica cum musto vobis datur ordine iusto
Sumere. Sic est mos nucibus sociando racemos”.
Passa nocet spleni, tussi valet est bona reni…” (ivi, p. 460, § 6).
706
Ivi, p. 463, § 26: “Cum vino potum lateris sedare dolorem”; ivi, p. 468, § 66: “Cum vino
choleram nigram potata repellit”.
707
Ivi, p. 465, § 37
708
Ivi, p. 461, § 3.
709
Ivi, p. 464, § 35.
710
Ivi, p. 453, § 9.
711
Ivi, p. 500, cap. XIV.
712
Tommaso Campanella, La Città del Sole, in Opere di Bruno e Campanella, Milano-Napoli
1956, pp. 1071-1116.
704
705
La vite e il vino
263
XII secolo e già attribuita a Costantino Africano713. Il breve trattato fu redatto
sulla scia del ben più articolato precedente costantiniano Particulares. Il De
lore già dal titolo indica, come è stato notato, una precisa scelta dell’autore
che presenta ai suoi lettori una selezione dei cibi e delle loro qualità e, nella
sostanza, una speciica dimensione territoriale attestata dal repertorio delle
voci incluse nel trattato, tutte riducibili all’orizzonte meridionale, a differenza
ad es. delle Particulares. L’ancoraggio ad una speciica realtà territoriale, ad
un repertorio di cibi e bevande che esclude ogni esotismo, costituisce un importante strumento per la conoscenza delle abitudini alimentari di quest’area
nel pieno Medioevo. Così nelle indicazioni dietetiche dell’anonimo autore
si possono rinvenire sia le radici della preparazione di tante pietanze ancora oggi presenti nella tradizione gastronomica del Mezzogiorno, quanto veriicare le differenze con altre culture alimentari della Penisola. Per quanto
riguarda il vino numerose sono le indicazioni che denotano una particolare
competenza dell’autore. Nel lungo capitolo dedicato alla bevanda l’anonimo
isiatra inizia con l’illustrare le qualità dei vini in base all’invecchiamento
e secondo il colore714. Il miglior vino, da un punto di vista medico, è quello
mezzano, ossia dai due ai quattro anni (“mediocre a duobus annis ad IIIIor”),
in quanto caldo in secondo grado, secondo la scala di valori sulla quale sono
distribuite le sostanze alimentari all’interno della teoria ippocratico-galenica
dei 4 umori, poiché: “vinum quanto calidius tanto siccius et quanto minus
ca(lidum) est tanto magis humidum est”, dunque posto in un punto di equilibrio tra i vini novelli, umidi (caldi in primo grado) e i vini vecchi, caldi che
trapassano i sette anni (caldi in quarto grado) e pertanto portatori di quegli
squilibri umorali da cui scaturiscono le malattie. Oltre all’aspetto medico, la
classiicazione dell’anonimo costituisce un’utile testimonianza sulle possibilità di conservazione del vino per diversi anni nel Medioevo.
L’autore conosce due tipi fondamentali di viniicazione, “aliud album,
aliud nigrum”, ovvero in bianco e in rosso. Da questi si ottongono i vini
“aureum, rubeum et glaucum et et[iam] roseum. Item aureum et citrinum et
palmeum et subalbidum”. Passa poi alla descrizione delle caratteristiche dei
diversi vini: il bianco è dolce, delicato e leggero, il nero aspro, terrigno e
corposo, il rosso forte in odore e sapore e intermedio tra il nero e il bianco in
quanto a consistenza.
713
De lore dietarum. Un trattatello medievale salernitano, ed. a cura di P. Cantalupo, Annali
Cilentani, 2, 1992.
714
Ivi, c. 102, pp. 22-23.
264
Alessandro Di Muro
Come nel Regimen sanitatis Salerni anche nel De lore dietarum si indicano numerose qualità del vino, con l’avvertimento che “ad misuram bibatur”. Bevuto moderatamente, infatti, il vino regola gli umori che sovrintendono all’equilibrio dell’organismo umano: “naturalem calorem confortat
et augmentat, co(leram) r(ubeam) expellit cum sudore et urina, co(leram)
nigram calefaciens et humectans temperat, solida, dura atque sicca membra
ex labore et fatigatione nimia humectat, defectionem tollit egrotis et vires
reducit, corpora pinguescit, virtutem et appetitum confortat, inlationem et
ventositatem dissolvit. Sed neglecta rationali circumscriptione si bibatur, vel
usque ad ebrietatem, generat mentis turbationem, stulticiam, apoplexiam, epilepsiam, paralisim, tremorem, spasmum et similia. Vene enin et ventriculi
cerebri replentur et calor naturalis extinguitur”715.
Non tutti i vini sono uguali; essi si caratterizzano e si differenziano per
caratteristiche peculiari. Il vino bianco quando è corposo nutre poco, quando
invece è leggero risulta diuretico, ha la capacità di calmare il dolore di testa e
risulta di giovamento ai nervi e alle membra. Il “vinum nigrum” risulta in genere troppo corposo ed è dunque dificile da digerire e genera sangue denso.
Tuttavia è consigliabile ai giovani, in particolare se assunto come una sorta
di aperitivo, in quanto preso prima dei pasti fornisce energia e un nutrimento
analogo a quello proveniente dalla carne di maiale716. Ma il vino che l’anonimo trattatista sembra apprezzare di più è il rosso: “Vinum ruffum laudabilius
est ad temperandum et adiungendum sanguinem et confortandum calorem
naturalem, si in colore, odore et tempore mediocritas perpendatur”, un buon
vino rosso invecchiato tra i due e i quattro anni, il vino mezzano cui aveva
già accenato, è dunque da preferirsi agli altri, al “subrufum”, il rossiccio, ad
esempio, che, corposo e profumato, come speciica il nostro autore, nutre
male ma genera buon sangue, o il “vinum citrinum”, il gialliccio, che nutre
poco e se vecchio provoca ebrietà. Una certa difidenza si nota per i vini forti
che, se bevuti di mattino, possono risultare nocivi, per cui sarà opportuno
715
Ivi, p. 22: “Il vino, bevuto moderatamente come sopra dicemmo, conforta ed aumenta il
calore naturale, espelle la bile gialla col sudore e l’urina, riscaldando ed inumidendo modera
la bile nera, ammorbidisce le membra irrigidite, indurite e secche per la fatica e l’eccessiva
stanchezza, toglie la spossatezza e ridona le forze ai malati, ingrassa i corpi, rinforza l’energia
e l’appetito, elimina la dilatazione e la latulenza. Ma, qualora si beva trascurando un ragionevole limite oppure ino all’ebrietà, genera turbamento della mente, stoltezza, apoplessia,
epilessia, paralisi, tremore, spasmo e simili. Infatti le vene ed i ventricoli del cervello si riempiono e si spegne il calore naturale”. Ivi, p. 39.
716
Ivi, cap. 102, p. 22.
La vite e il vino
265
allungarli con acqua e pane. Alcuni passaggi sul vino fanno emergere la perizia dell’anonimo riguardo ai processi di viniicazione, quando ad esempio
si esprime sul vino rosato, il “vinum roseum”, che, quando prodotto da uva
rossa, risulta di sapore migliore717; come è noto il rosato si ottiene infatti dalla
viniicazione di uve rosse, avendo cura di lasciare le vinacce in macerazione
per un periodo molto breve, in modo da conferire un colore delicato, con un
metodo a metà strada tra la viniicazione in rosso e quella in bianco, ma non è
escluso che qualche viniicatore cercasse di ottenerlo attraverso le due qualità
di uva, metodo ancora oggi talvolta seguito.
Oltre ai vini naturali il Medioevo meridionale conosce una notevole
gamma di vini speziati o speciali, come si direbbe oggi, che dovevano essere
particolarmente apprezzati sulle tavole del tempo per la loro dolcezza e di
cui l’anonimo trattatista compila un interessante elenco718: il celebre vino di
miele, il mulsum dei romani, il vino cotto, il vino dei signori, antieconomico
e di gusto forte719, spesso presente nella contrattualistica meridionale nelle
richieste di corresponsione720, il “vinum de uvis passis”, antenato del passito,
per la cui produzione l’uva viene posta ad appassire, appunto, per una quindicina di giorni al sole rovente. Nell’elenco si ritrovano altri “vini”, diremmo
meglio bevande alcoliche, meno usuali quali il “vinum de icubus”, forse il
vino cotto di ichi ancora oggi prodotto nel Mezzogiorno, senza l’ausilio del
mosto, molto denso e dal sapore dolce, o il vino di datteri, l’antico vino di
palma, ottenuto dalla fermentazione della linfa estratta dalla palma da datteri,
frutto abbastanza diffuso nel Mezzogiorno normanno, per concludere con il
pessimo vino d’orzo, forse la poco consueta, a queste latitudini, birra, che
genera cattive esalazioni e umori, costipa il fegato e la milza, crea calcoli nei
reni e si digerisce male721.
Il De lore contribuisce a relativizzare due luoghi comuni intorno al vino
medievale: la sua limitata conservabilità, su cui di recente la più avvertita
storiograia ha espresso perplessità, e, soprattutto, il supposto maggior gradimento per i vini bianchi. L’anonimo sembra infatti uscire dalla consueta
Ivi, cap. 102, p. 22.
Ivi, cap. 102, p. 23
719
Gaulin, Tipologia e qualità dei vini, cit., pp. 72 ss.
720
Si veda ad es. CP, CXXIII, pp. 217-218, a. 1131, documento relativo ad un vigneto nei
pressi di Amali in cui si fa richiesta di butticellum unum de vino cocto.
721
Greci e romani, in particolare Tacito, nell’antichità usavano denominare la birra con il
termine dispregiativo di vino d’orzo.
717
718
266
Alessandro Di Muro
esaltazione dei vini chiari presente nella trattatistica medievale e oggi comunemente accettata dagli studiosi come universale preferenza del bere vino nel
Medioevo ai livelli socialmente più elevati, ma, come si è visto, in maniera
equilibrata sembra apprezzare allo stesso modo i rossi e i chiari, mostrando
semmai una certa propensione per i rosati.
L’altra faccia del bere, quella meno attraente, nel Mezzogiorno medievale è costituita dall’acqua, bevanda accettabile solo quando proviene dalle
sorgenti, come avverte l’anonimo del De lore722, sempre da evitarsi secondo
il Regimen sanitatis Salerni:
“Potus aquae sumtus it edenti valde nocivus:
infrigidat stomachum, cibum nititur fore crudum”723.
Il vino in ogni caso emerge come rimedio sovrano per la potabilità pressoché di qualunque liquido: persino l’acqua salata può essere bevuta avendo
l’accortezza di bollirla e poi mescolarla con dell’ottimo vino, così come l’acqua torbida se mescolata con vino dolce724.
L’universalità di utilizzo del prodotto dell’uva nel Medioevo trova una signiicativa conferma nella gastronomia: un interessante quanto raro ricettario,
il Liber de Coquina ubi diuersitates ciborum docentur, composto nell’ambito
della corte meridionale tra la metà del XIII e gli inizi del XIV secolo, svela
gli innumerevoli utilizzi di vino, aceto e mosto, alla mensa del sovrano in una
cucina complessa, come quella tardomedievale, che ama i forti contrasti di
sapore e l’agrodolce725.
Gli spinaci, ad esempio, si possono condire con lardo, cipolle, spezie e
De Flore, cit., cap. 103, p. 22.
Flos medicinae, cit., art. 5, § 5, p. 452.
724
De Flore, cit., capp. 105-106, pp. 23-24.
725
Liber de coquina ubi diuersitates ciborum docentur ed. M. Mulon, Deux traités inédits
d’art culinaire médiéval, “Bulletin philologique et historique (jusqu’à 1610) du Comité des
Travaux historiques et scientiiques”, Année 1968: Actes du 93e Congrès national des Sociétés savantes tenu à Tours. Volume I: Les problèmes de l’alimentation. Paris 1971, pp.
369-435. La studiosa in questo saggio fornisce anche un’edizione del Tractatus de modo
preparandi et condiendi omnia cibaria, pp. 380-395. Entrambi gli scritti vengono attribuiti
ad epoca angioina. Una recente rilettura dei due trattati di Anna Martellotti riconduce ad
collocazione cronologica ad età federiciana. Secondo la studiosa sia il Liber de Coquina che
il Tractatus sarebbero frutto della cultura gastronomica della corte dell’imperatore (A. Martellotti, I ricettari di Federico II. Dal “Meridionale” al “Liber de Coquina”, Milano 2005).
722
723
La vite e il vino
267
aceto726. Per realizzare la galantina di carni lessate, queste dovranno essere
stemperare con l’aceto dopo la cottura727. Gamberi e aragoste non possono
essere opportunamente degustati senza aceto728. Ma il condimento per eccellenza, insieme all’olio, è il vino; un po’ di vino bianco darà aroma alle fave
fritte729, si otterrà così un ottimo accompagnamento per pesci grassi come il
tonno. La ricetta per l’ottimo brodo saraceno prevede l’uso di vino e uva passa di vitigno greco: “pro brodio sarraceno, accipe capones assatos et icatella
eorum cum speciebus et pane assato tere bene, distemperando cum bono uino
et succis agris. Tunc frange membratim dictos capones et cum predictis mite
ad bulliendum in olla, suppositis dactilis, uuis grecis siccis, amigdalis integris
mondatis et lardo suficienti. Colora sicut placet”730. Anche la preparazione
delle uova sbattute richiede vino731. Un piatto soisticato come la gru non può
essere realizzato senza “bono vino”, necessario per stemperare la pregiata
carne732, così come nella salamoia indispensabile alla salsa di condimento
per i polli arrostiti (“salsa pro pullis assatis”) o alla “salsa pro columbis”733. Il
vino e il mosto insieme sono utilizzati per dare un gusto agrodolce alle pietanze: così nella ricetta per la gru arrostita il procedimento prevede di stemperare “cum bono uino et parum aceti. Et postea, ponas ibi parum de musto
cocto ut it acrum uel dulce”, mosto utilizzato anche per condire le carni del
Liber de coquina, cit., c. 11, p. 398.
Ivi, c. II, 41, p. 407.
728
Ivi, c. IV, 20, 22 p. 415: “De gamaris: gamaros uiuos pone in aqua bulliente cum sale et
comede cum agresta uel aceto”. “De langustis: de langustis fac sicut de gamaris. Et si habeas
oua, distemperentur in salsa sua cum aceto uel uiridi iure”.
729
Ivi, c. I, 37, p. 401: “Et cum fuerint bene cocte et ducte cum cocleari, custodias bene a
fumo et distempera cum aqua frigida aut cum uino albo in parua quantitate et frangantur
bene”.
730
Ivi, c. II, p. 402.
731
Ivi, c. III, 18, p. 413. “De ouis tribulatis: alio modo iunt oua quae tribulata dicuntur
quando batuta cum de uino, ponantur cum aliqua pinguedine in patella ad frissandum; et
mouentur semper cum cocleari. Et dicuntur mollia et tribulata. Ponitur in scutella cum sale
superposito”.
732
Ivi, c. II, 26, p. 405: “De grua: gruam bene lotam et parum bullitam in olla larga pone in
ueru. Et assetur, non tamen ad plenum. Deinde, habeas cepam,incisam ad modum taxillorum,
satis suffrissam cum lardone. Et colora cum safrano distemperato cum bono uino, ita quod
sit ad suficientiam. Et, additis bonis speciebus, ibi carnes predicti gruis frustratim truncatas
facias bullire in eodem, usque ad decoctionem. Deinde, accipe lescam panis aliquantulum
assatam et molliicatam in predicto sapore. Postea,ordina predictum panem per solaria in
cissorio, et da comedere”.
733
Ivi, c. II, 33, p. 406; II, 34, p. 406.
726
727
268
Alessandro Di Muro
pavone arrosto734. Il vino è un ottimo ingrediente per rendere più delicate le
carni della selvaggina: infatti “si de siluestribus animalibus uelis pastillum
facere uel assare, carnes larda sicut scis et balnea in uino. Postea,cum magna
habundancia puluis specierum sparge desuper”735, ma anche per le elaborate
indulgias (salsicce?) di maiale: “ad faciendas indulgias, accipe carnes costarum porci incisas, ita quod in quolibet frustro remaneat una costa, et pone in
fulfugine de bono uino et semine feniculi. Et dimite stare per 4 dies. Postea,
accipe budellam amplam et mitas dictas carnes in illis quodlibet frustrum in
uno budello. Et ponas ad fumum”736. Un ottimo metodo per la conservazione
dei cibi è la gelatina, così anche una pietanza molto delicata come il pesce
può essere eficacemente conservata con questo accorgimento, ricordandosi
di bollire prima il tutto nel vino e nell’aceto: “ad galantinam piscium, accipe bonum uinum et parum de aceto spumando. Simul bulliantur; et cum
bullierint, piscis grossus frustratim incisus fuerit cum scamis: cum eisdem
ibi coquatur. Qui, cum decoctus fuerit, extrahatur, et uinum quod remanebit
bulliat tantum quod solum remaneat iiia pars. Deinde apponas safranum et
alias bonas species puluerizatas cum foliis lauri. Postea, recipe piscem et a
scamis monda. Aliqui tamen predictas scamas cum predicto uino distemperatas in mortario fortiter terunt et in stamina collant. Quam colaturam cum alio
uino addunt, ut magis possit conglutinari. Et quando ista galantina est infrigidata, intus pone frustra piscium et dimitas stare per unam diem uel noctem
uel amplius quousque conglutinatum sit totum. Et sic, piscis multum potest
conseruari”737. Vino è necessario anche per la scapece di pesce, la scapeta o
scabetiam piscium come la chiama il trattatista738, il pasticcio di lampreda739,
Ivi, II, 35, p. 407; ivi, 36, p. 407.
Ivi, II, 43, p. 408.
736
Ivi, 51, p. 409.
737
Ivi, IV, 1, p. 414.
738
Ivi, IV, 2, p, 414: “De scapeta piscium: ad scabetiam, recipe piscem bene lotum, sicut decet,
et cum oleo habundanti frige. Postmodum infrigidatur. Deinde,cepas incisas per transuersum
frige in oleo remanenti. Postea, habeas uuas siccas, zenula et pruna, et frige cum cepis predictis simul, et oleum superluum tollatur. Accipe ettiam electas species et safranum: tere bene
simul cum amigdalis mondatis et distempera cum uino et aceto moderato posito, ne sit nimis
acrum. Tunc misce simul cum aliis. Et loco amigdalarum, potes ponere micam panis in uino
madefactam et postea trittam. Postea, pone super ignem quousque bulliat et statim depone.
Et cum piscis in cissorio concauo ordinatus fuerit, saporem predictam sparge desuper. Quod
si uolueris ipsum acrum dulce facere, ponas mustum coctum uel zucaram competenter”.
739
Ivi, IV, 5, p. 414: “De lampreda in pastillo: copum de lampreda grossa siue pastillum,
quod idem est: accipe lampredam bene lotam fricatam cum sale et non incidatur alico modo.
734
735
La vite e il vino
269
l’orata740. Per realizzare un brodo con le prelibate alici del Tirreno si utilizza
invece il pregiato vino greco, signiicativamente l’unico tra i vini ad essere
ricordato con la sua speciica denominazione nei trattati meridionali: “De allectibus uel sardellis in brodio:de brodio pro allectibus uel sardellis: bullias
uinum grecum cum pipere, croco et zuccara. Et allectia uel sardelle bulliantur
parum cum dicto uino, addito parum de oleo”741.
Il vino entra anche nelle ricette per i dolci, quali la salsa camelina, una
sorta di sciroppo di cannella742.
Accanto al vino, all’aceto e al mosto anche l’uva passa risulta utilizzata
nel ricettario angioino: oltre che nel brodo saraceno, l’uva di vitigno greco
passa si rinviene nei “cibis compositis”743, nel pollo fritto744 e nella già ricordata scapece di pesce.
Ma lo scritto meridionale dove si tratta l’argomento vino con maggior
competenza è certamente il Tractatus de modo preparandi et condiendi omnia cibaria, anche questa un’operetta realizzata tra la metà del XIII secolo e
l’inizio del successivo nell’ambiente della corte745.
L’anonimo autore del Tractatus, un rappresentante esemplare di quei
“cuochi galenici”, per dirla con Massimo Montanari, che caratterizzano gran
parte del Medioevo gastronomico746, nell’esporre le virtù delle bevande (de
potu), esordisce con un’affermazione che lascia pochi dubbi sul posto che
In quolibet foramine capitis, pone uinum, garioilum et,facto copo de dicta pasta, ponatur ibi
dicta lampreda sana, ad modum circuli, cum croco et speciebus trittis. Et intus, ponatur aqua
rosacea. Postea, pone coopertorium de eadem pasta et in superiori parte; colora ipsum cum
croco et mite ad coquendum”.
740
Ivi, IV, 9. p. 415: “De aurata: recipe auratam, facias perbulliri. Postea, accipe bonum uinum, mel, langolos exscorticatos et mondatos et cinamomum. Pone ad bulliendum in aqua.
Et quam cito bullierit, tolle ab igne et extrahe de aqua predictos pisces. Iterum, pone ad bulliendum in predicto uino decoctionis”.
741
Ivi, IV, 12, p. 415.
742
Ivi, II, 60, p. 411: “Pro salsa camelina, recipe canelam, amigdalas cum corio in mortario
trittas et allea simul distemperata cum agresta et uino. Et si amigdalas habere non poteris,
pone crustam panis”.
743
Ivi, V, 4, p. 417:
744
Ivi, II, 20, p. 403: “Elixa pullos. Postea, frige cum lardo et cepis et speciebus
cum safrano trittis et distemperatis cum brodio in quo elixata sunt; colentur et ponantur cum
pullis. Et pone etiam prunas crudas, uuas passas, amigdalas mondatas, daxtilos, zucaram”.
745
Tractatus de modo preparandi et condiendi omnia cibaria, cit., pp. 380-395.
746
Per queste igure di medici-gastronomi si veda A. Capatti, M. Montanari, La cucina italiana. Storia di una cultura, Roma-Bari 1999, pp. 145-149.
270
Alessandro Di Muro
riserva al vino tra queste: “Set de uino primo de potu tanquam meliori ac
digniori sermo noster sumat exordium, quoniam ipsum uniuersis potibus
preferendum est. Spiritum enim, membra corroborat, cibaria digerit, complexiones malas alterat, aufert tristitias et dolores, et hominem reddit hylarem et iocundum”. Il vino costituisce dunque una panacea per i mali del corpo e dello spirito a patto che, si affretta a precisare, non sarà andato a male
(“corruptum”) e “cum moderamine sumptum”, pertanto bisognerà fare molta
attenzione acché il vino non si corrompa; ma se ciò dovesse avvenire il trattatista suggerisce una serie di rimedi “ut ad statum pristinum reducatur”747.
E i rimedi risultano precisi ed eficaci, degni di un esperto enotecnico. Ad
esempio è importante la prevenzione che si attua con la pulizia dei contenitori nei quali il mosto fermenta, preoccupazione, si è visto, ben presente
ai padroni dei vigneti meridionali. Per tali operazioni l’anonimo suggerisce
di prendere “cortices querci, et folia lauri et bachas, et origanum, et calamentum, et bulliant in aqua” con questa si lavi all’interno il tino con molta
attenzione, dopo di che si può versare il vino.
Un altro metodo consiste nel mettere nel contenitore “manum plenam de
pampinis uuarum, et ciphum plenum de cineribus uitis, uidelicet de fecibus
uini factis, que in puluerem reddacta”748. L’utilizzo di cenere permette una
buona disinfettazione, di grande importanza per la riuscita di un vino non corruptum. Aggiungere dell’incenso chiaro rotondo al vino può avere l’effetto di
preservarlo dalla degenerazione.
Alcune volte il vino può essere già in fase di alterazione dopo il versamento nei contenitori a causa di una imperfetta proilassi (“uitio uasis”); sarà
opportuno in questo caso intervenire prontamente, ponendo cortecce e radici
nel contenitore749. Anche il vino già da tempo andato a male può essere recuperato versandolo nella vasca al tempo della vendemmia “bene cum pedibus
cuncalcando; post in torculari exprime, et habebit ipsum bonum et ab omni
uitio emendatum”750.
Altre indicazioni concernono il modo afinché il vino conservi un sapore
Tractatus de modo preparandi et condiendi omnia cibaria, cit., p. 381.
Ivi, p. 381, 1.
749
Ivi, p. 382, 7.
750
Ivi, p. 382, 11. Numerosi risultano nella documentazione medievale le testimonianze di
vino andato a male: si veda ad esempio RA, pp. 101-103, a. 1273 relativamente al vino custodito nella fortezza di Corfù.
747
748
La vite e il vino
271
gradevole e non intorbidisca751 o che rimanga dolce, caratteristica questa molto apprezzata, si è detto, sulle tavole medievali752.
La dificoltà di ottenere vini molto chiari, che dovevano risultare ancora molto ricercati nel XIII secolo, portava ad utilizzare tecniche di chiariicazione753; il nostro autore è esperto conoscitore di tecniche ancora oggi in
uso quali il collaggio, consistente nel mescolare al vino una certa quantità
di albume, le cui sostanze proteiche reagiscono e tendono ad aggregarsi con
le impurità del vino cosicché il conglomerato precipiti e possa essere in tal
modo eliminato754.
I suggerimenti dell’autore relativi al modo di trattare il vino si allargano
anche al campo del commercio. Per vendere meglio il vino ( “ut uinum sit
uendibile magis”) si consiglia una piccola soisticazione consistente nel mescolare il vino con una certa quantità di zafferano, miele e farina di grano755,
tale miscuglio conferirà corpo e dolcezza al vino.
Come l’anonimo del De lore dietarum, l’autore del Tractatus riserva
un ampio spazio ai suggerimenti sulla realizzazione dei vini speziati: oltre al
mulsum si ricordano vini speziati con la salvia e col garofano, secondo procedimenti che saranno suggeriti qualche decennio più tardi anche da Pietro de’
Crescenzi per far acquisire sapore e virtù alla bevanda756.
Si può affermare che nel Mezzogiorno i vini speziati ottenessero un certo
favore, a differenza di quanto sembra accadere in generale per l’Italia centrosettentrionale, dove l’utilizzo delle spezie trova poco spazio nella letteratura
agronomica, spesso quale rimedio per recuperare vini non buoni757.
751
Ivi, p. 381, 2. Vt uinum semper reseruatur clarum et boni saporis ut ante, perforabis ipsam
tunellam iuxta feces ad altitudinem unius palme.
752
Tractatus, cit., p. 381, 4: “Ad hoc ut uinum semper sit dulce, tempore uindemiarum, quando mustum nouum fuerit preparatum, extrahas quartam partem ipsius musti; postea impleas
ipsam tunellam moto alio bono nouo”.
753
Per l’Italia centro settentrionale del Tardo Medioevo si veda Gaulin, Tipologia e qualità
dei vini, cit., p. 78.
754
Tractatus, cit., p. 381, 3: “Ad clariicandum uinum turbidum, accipe duas uncias spice
nardi, et uncias duas de pomis puluerizatis, et.XI. albumina ouorum,et manum plenam salis
communis; insimul incorpora, et in tunellam pone bene mouendo cum uirgulis”.
755
Ivi, p. 382, 12 : “Accipe pondus.VII. denarios de croco ytalico, et quartarium unum mellis despumati, et manum plenam de farina tritici; distempera com uino bono, et in tunellam
mitte, in mouendo bene insimul cum fecibus”.
756
Pietro de’ Crescenzi, Trattato dell’Agricoltura, Milano 1805, 1, p. 312.
757
Gaulin, Tipologia e qualità dei vini, cit., p. 79
272
Alessandro Di Muro
Conclusioni
Attraverso lo studio della coltivazione della vite e della produzione del
vino emerge sin dall’alto Medioevo un mondo rurale meridionale, perlomeno
alcune aree di questo, estremamente dinamico, dove il connubio tra la fatica
diuturna dei coltivatori nei vigneti e gli investimenti dei possessori crea un
paesaggio agrario in continua trasformazione in cui la vite costituisce spesso
l’elemento predominante. Un paesaggio sospeso tra fenomeni strutturali di
lunga durata e fragilità intrinseca del tipo di coltivazione, la vite appunto,
coltura arbustiva di facile impianto che si adatta pressoché ad ogni situazione
pedologica del Mezzogiorno, ma, allo stesso modo, facile vittima delle circostanze: eserciti, siccità, nevicate, grandinate, piogge eccessive, ne possono
segnare irrimediabilmente il destino; sarà allora necessario ricominciare con
pazienza daccapo. Da questo punto di vista si può considerare la vite coltura antropica per eccellenza, forse anche più dell’olivo. Essa, infatti, senza
le cure assidue dell’uomo trapassa da simbolo antonomastico di prosperità
irrimediabilmente nella categoria della desolazione: di qui le tante vineae
disertae che si incrociano percorrendo la documentazione medievale. Così
Giovanni di Berardo nel descrivere la condizione idilliaca di pace e loridezza
delle popolazioni meridionali avanti le devastazioni agarene del IX secolo,
non trovò immagine più adatta della vita che il contadino conduceva nel suo
podere “sub icu et vite”758: le rovine perpetrate dai saraceni e l’insicurezza
conseguente sospinsero il colono lontano dai suoi vigneti ormai distrutti, rinserrandolo nei cupi castelli che ai suoi tempi il cronista vedeva dominare dalle sommità delle alture il paesaggio agrario circostante. Una coltura, quella
della vite, pienamente mediterranea che di questo fragile spazio sembra rilettere le caratteristiche più peculiari, in particolare il costante lavoro dell’uomo
necessario a sostenerne i mirabili ma estremamente delicati paesaggi agrari,
pronti a disfarsi alla prima disattenzione. Ma a differenza delle spesso ingrate
terre che si affacciano sul Mediterraneo, la vite dona generosa abbondanti
raccolti a chi ne cura con dedizione la vicenda.
L’ostinazione dei contadini meridionali e dei signori delle terre nel coltivare la vite e produrre il vino pressoché dappertutto, anche dove le condizioni
pedoclimatiche lo avrebbero sconsigliato, costituisce il rilesso più immedia758
Chronicon Casauriense autore Johanne Berardi ed. L. A. Muratori Rerum Italicarum
Scriptores, Milano 1726, tomo II p. 797. L’espressione proverbiale di derivazione biblica si
rinviene già nella documentazione meridionale del IX secolo, CDC, I, p. 140, a. 899.
La vite e il vino
273
to dell’indispensabilità della bevanda nella quale si mescolavano ritualità sacralizzate, necessità alimentari, credenze terapeutiche, possibilità di evasione
da una quotidianità spesso carica di affanni, che, insieme all’incerta potabilità
di tanta acqua medievale, ne facevano prodotto universalmente ricercato. Una
domanda diffusa che sale da tutti i livelli della società e che si allarga alle
aree extraregnicole con impressionante progressione nei secoli inali del Medioevo, contribuendo in maniera non irrilevante allo sviluppo dell’economia
meridionale. E si tratta di una produzione spesso di qualità che caratterizza
ampie zone del Regno. Se la Campania appare per tutto il Medioevo la regione dove si sperimentano e si adottano le più svariate tecniche della viticoltura, la qualità della produzione enologica sembra trovare, a partire dal XIII
secolo, aree di particolare elezione nella Calabria tirrenica, in Basilicata e in
Puglia, oltre che nella stessa Campania, con l’attuazione di una politica di differenziazione dell’offerta che ben presto conquistò il mercato internazionale,
principalmente, ma non esclusivamente, per il tramite dei mercanti forestieri, nell’ambito peculiare di quel rapporto di “scambio ineguale”, richiamato
anche di recente da Giuseppe Galasso, che, se posiziona il Mezzogiorno nel
contesto del vasto mercato euromediterraneo in un ruolo di sostanziale subalternità rispetto alle trionfanti città dell’Italia centro-settentrionale del tempo,
tuttavia non signiica necessariamente arretratezza nè tantomeno povertà759.
Così nel Mezzogiorno medievale tra avanzate di vigneti e devastazioni cicliche, produzioni di massa e consumi elitari, precetti dietetici e disagi
esistenziali, rumori di taverna e fasti di corte, si perpetuò incessante quel
miracolo, eficacemente descritto da Gregorio Magno: “Aqua semel in vinum permutatam videntes cuncti mirati sunt: cotidie humor terrae in radicem
vitis attractus per botrum in vinum vertitur et nemo miratur”760, il miracolo
discreto dell’acqua che attraverso le radici della vite si trasforma in vino. Ma,
nota Massimo Montanari, “in questo miracolo anche l’uomo ha la sua parte”
e, chiosando, cita Agostino “Uva pendet in vitibus et oliva in arboribus […]
et nec uva vinum est, nec oliva oleum, ante pressuram”761, concetto mirabilmente sintetizzato in quel “frutto della vite e del lavoro dell’uomo” della
preghiera eucaristica.
G. Galasso, Medioevo euro-mediterraneo e Mezzogiorno d’Italia. Da Giustiniano a Federico II, Roma-Bari 2009, pp. 17 ss.
760
Moralia in Job, 6, 15, 22-24.
761
M. Montanari, Olio e vino, due indicatori culturali, in Olio e vino nell’alto Medioevo, cit.,
p. 47.
759
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Il lavoro dell’uomo, indispensabile per realizzare la bevanda mediterranea per eccellenza che, come avvertivano anche i isiatri salernitani, l’eccesso
può tramutare repentinamente da eficace pozione galenica e propulsore di
creatività a letale veleno, un lavoro premuroso, spesso duro, qualche volta
infruttuoso, dal tralcio alla mensa.