© Logoi.ph – Journal of Philosophy – ISSN 2420-9775
N. VII, 18, 2021 – An ABC of Citizenship
Valerio Bernardi, Lia De Marco, Gianluca Gatti
‘Pensare’ uno sviluppo sostenibile.
Alcune riflessioni a margine dell’Agenda-ONU 20301.
Single blind reviewed article. September 29, 2021; Accepted: October 28, 2021
Abstract The article points out some aspects of the Sustainable Development Goals for 2030 of UN. After a
general examination of the 17 points the first part is dedicated to classify some aspects and to underline how
there are clear definitions, but non so clear proposals. The second part of the essay lingers on the first of the
goal No poverty and it discusses the proposals of some thinkers of the economical sciences like Stiglitz and
Duflo. The third part discusses the concept of Anthropocene and the relation between nature and culture and
the sustainable development.
L’articolo mette in evidenza alcuni aspetti degli obiettivi per lo sviluppo sostenibile dell’ONU (la cosiddetta
Agenda 2030). Dopo una serie di considerazioni generali, la prima parte dell’articolo è dedicata a
sottolineare come ci siano chiare definizioni, ma non altrettanto chiare proposte. La seconda parte del saggi
si sofferma sul primo obiettivo (Sconfiggere la povertà) e discute la idee di alcuni pensatori delle scienze
economiche come Stiglitz e Duflo. La terza parte discute il concetto di Antropocene, la relazione
natura/cultura e lo sviluppo sostenibile.
Keywords: Sustainable Development, Goals 2030, Education, Poverty, Anthropocene, Nature/Culture
Parole chiave: Obiettivi sviluppo sostenibile, Obiettivi Agenda 2030, Educazione, povertà, antropocene
***
1. Agenda 2030 e sviluppo sostenibile: tra definizioni e contraddizioni
La sostenibilità è un concetto dinamico, in quanto le relazioni tra sistema ecologico e
sistema antropico possono essere influenzate dallo scenario tecnologico. Sotto il profilo
operativo, l’assunzione di tale paradigma implica l’adozione di un sistema di valutazione di
interventi, progetti e sistemi economici. Nelle scienze ambientali ed economiche, indica la
condizione di uno sviluppo in grado di assicurare «il soddisfacimento dei bisogni della
generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di
realizzare i propri».
Il concetto è stato introdotto nel corso della prima conferenza ONU sull’ambiente nel
1972, anche se soltanto nel 1987, con la pubblicazione del cosiddetto rapporto Brundtland
(Our common future), venne definito con chiarezza l’obiettivo dello sviluppo sostenibile
che, dopo la conferenza ONU su ambiente e sviluppo del 1992, è divenuto il nuovo
paradigma dello sviluppo stesso.
L’espressione ‘sviluppo sostenibile’ è una contraddizione in termini. Come suggerisce
Serge Latouche, si tratta al tempo stesso di un pleonasmo a livello della definizione e di un
ossimoro al livello del contenuto. Lo sviluppo, infatti, è inteso come figlio di una crescita
All’interno dell’Abbecedario della cittadinanza organizzato dalla Società filosofia italiana sezione di Bari – per
la cui descrizione rimandiamo all’articolo Il racconto di una prima esperienza di ‘Abbecedario della
cittadinanza’, tra Università, Scuola e Territorio, contenuto in questo stesso numero di “Logoi” – i tre Autori,
tutti membri attivi della Sezione barese, hanno tenuto queste relazioni (dialogo a tre voci) il 27 maggio 2021,
presso il “Liceo Bianchi-Dottula” (di Bari), grazie all’organizzazione attiva della prof. Lia De Marco (referente SFI
presso quel Liceo). V. Bernardi e G. Gatti sono anche PhD, oltre che docenti liceali, e tutti e tre gli autori hanno al
loro attivo diversi contributi di carattere sia didattico che teoretico.
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illimitata, però questa diventa sostenibile solo se viene limitata per rispettare i vincoli posti
dalla natura. La contraddizione tra economia ed ecologia appunto resta irrisolta. Per
sciogliere il nodo non bastano rimedi tecnici, occorre che siano ripensati il modello di
economia e la forma della convivenza sociale. In tale ottica, si propone un’idea integrale di
sostenibilità da correlare con quella di democrazia. Un’economia è davvero sostenibile
quando sostiene equamente l’umanità intera e tutela gli equilibri naturali.
1.1. I 17 goal dell’Agenda 2030
L’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile è un programma d’azione per le persone, il
pianeta e la prosperità. Sottoscritta il 25 settembre 2015 dai governi dei 193 Paesi membri
delle Nazioni Unite, e approvata dall’Assemblea Generale dell’ONU, l’Agenda è costituita
da 17 Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile – Sustainable Development Goals, SDGs –
inquadrati all’interno di un programma d’azione più vasto costituito da 169 target o
traguardi, ad essi associati, da raggiungere in ambito ambientale, economico, sociale e
istituzionale entro il 2030.
Questo programma non risolve tutti i problemi, ma rappresenta una buona base
comune da cui partire per costruire un mondo diverso e dare a tutti la possibilità di vivere
in un mondo sostenibile dal punto di vista ambientale, sociale, economico.
Importante risulta una preliminare ricognizione dei 17 goals
1. Porre fine alla povertà
in tutte le sue forme.
Ad oggi sono ancora molte le persone che vivono con
meno di 1,25 dollari al giorno; un fenomeno ingiusto
per la dignità di qualsiasi essere umano che può
giungere al termine con la cooperazione tra Paesi e
l’implementazione di sistemi e misure sociali di
protezione per tutti.
2. Azzerare la fame,
realizzare la sicurezza
alimentare, migliorare la
nutrizione e promuovere
l’agricoltura sostenibile.
Ognuno di noi ha diritto ad avere cibo sufficiente per
tutto l’anno: un concetto elementare ma ancora
trascurato. Tuttavia lo si può affermare, ad esempio,
con sistemi di coltivazione e produzione di cibo
sostenibili e mantenendo intatto l’ecosistema e la
diversità di semi e di piante da coltivare.
3. Garantire le
condizioni di salute e il
benessere per tutti a
tutte le età.
Monito basilare è la riduzione del tasso mondiale di
mortalità materna e impedire la morte di neonati e di
bambini sotto i 5 anni per cause prevenibili. In che
modo? Ad esempio, assicurando l’assistenza
sanitaria per tutti e supportando la ricerca e sviluppo
di vaccini e medicine per malattie trasmissibili o
meno.
4. Offrire un’educazione
di qualità, inclusiva e
paritaria e promuovere
le opportunità di
apprendimento durante
la vita per tutti.
L’istruzione può davvero garantire ai giovani un
futuro migliore. Un passo in avanti è fare in modo
che tutti, uomini e donne, possano leggere e scrivere,
eliminando ogni forma di discriminazione di genere
e promuovendo un accesso paritario a tutti i livelli di
educazione accompagnato da un’elevata qualità degli
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insegnanti.
5. Realizzare
l’uguaglianza di genere e
migliorare le condizioni
di vita delle donne.
Ancora oggi vengono perseguite discriminazioni
verso il genere femminile: sradicare ogni forma di
violenza contro le donne nella sfera privata e
pubblica, così come il loro sfruttamento sessuale è
fondamentale.
6. Garantire la
disponibilità e la
gestione sostenibile di
acqua e condizioni
igieniche per tutti.
L’acqua è fonte di vita ed è necessario che questa sia
accessibile a chiunque. Un’affermazione che sprona a
garantire entro il 2030 l’accesso universale all'acqua
pulita e potabile, e a garantire adeguate condizioni
igieniche con particolare attenzione alle persone più
vulnerabili.
7. Assicurare l’accesso
all'energia pulita, a buon
mercato e sostenibile per
tutti.
Ad oggi, i sistemi energetici sono elemento
fondamentale per la vita quotidiana di tutti noi: per
questo una tappa importante è quella di renderli
accessibili a tutti.
8. Promuovere una
crescita economica
duratura, inclusiva e
sostenibile, la piena e
produttiva occupazione e
un lavoro decoroso per
tutti.
Il lavoro ci dà la possibilità di vivere la nostra vita
dignitosamente: sostenere la crescita economica e
raggiungere alti livelli di produttività possono
aiutare la nostra sopravvivenza.
9. Costruire
infrastrutture resistenti,
promuovere
l’industrializzazione
sostenibile e inclusiva e
favorire l’innovazione.
Sia le infrastrutture che l’industria sono importanti
per supportare l’intero sviluppo economico e il
nostro benessere divenendo sostenibili ed affidabili
con lo sviluppo tecnologico e la ricerca.
10. Riduzione delle
disuguaglianze tra i
Paesi.
Ogni Paese dovrebbe avere pari opportunità e
diritti a livello economico e globale: per questo è
necessario che sia raggiunta e sostenuta la crescita
del reddito interno. Per andare in questa direzione
urge che entro il 2030 vengano promosse politiche
fiscali, salariali, di protezione che assicurino
gradualmente una maggiore uguaglianza tra la
popolazione.
11. Rendere le città e le
comunità sicure,
inclusive, resistenti e
sostenibili.
L’ambiente che ci
circonda può
influire
drasticamente sulle nostre abitudini e stili di vita.
Per questo il miglioramento in ottica sostenibile dei
nostri spazi vitali è un obiettivo imprescindibile
entro il 2030.
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12. Garantire modelli di
consumo e produzione
sostenibili.
Il nostro pianeta ha bisogno di essere rispettato e
salvaguardato: in quest’ottica entro il 2030 è
importante ridurre gli sprechi e le sostanze chimiche
rilasciate
soprattutto
dalle
grandi
aziende
multinazionali tramite politiche sostenibili e
improntate sul riciclaggio dei prodotti.
13. Fare un’azione
urgente per combattere
il cambiamento climatico
e il suo impatto.
I cambiamenti climatici sono all’ordine del giorno e
balzano agli occhi di tutti: una situazione che non
può più essere ignorata e che deve essere affrontata
entro il 2030 con politiche e strategie globali
sostenibili in modo da arginare i rischi ambientali e
gli effettivi disastri naturali.
14. Salvaguardare gli
oceani, i mari e le risorse
marine per un loro
sviluppo sostenibile.
La conservazione e lo sfruttamento sostenibile degli
oceani, dei mari e di tutte quelle risorse al loro
interno sono importanti per la nostra vita: la
riduzione dell’inquinamento marino, così come una
gestione sostenibile dell’ecosistema e una protezione
dell’ambiente subacqueo sono obiettivi necessari per
salvaguardare la nostra salute.
15. Proteggere,
ristabilire e promuovere
l’uso sostenibile degli
ecosistemi terrestri, la
gestione sostenibile delle
foreste, combattere la
desertificazione, fermare
e rovesciare la
degradazione del
territorio e arrestare la
perdita della
biodiversità.
Preservare il nostro pianeta è un compito affidato a
tutti noi e per questo motivo è necessario che entro il
2030 si persegua un’azione congiunta per
proteggere, ristabilire e promuovere l’impiego
sostenibile dell’ecosistema terrestre.
16. Promuovere società
pacifiche e inclusive per
lo sviluppo sostenibile,
garantire a tutti l’accesso
alla giustizia, realizzare
istituzioni effettive,
responsabili e inclusive a
tutti i livelli.
Un futuro migliore per ognuno di noi è possibile, ma
solo in caso di una riduzione drastica di violenza e
mortalità: una visione che oggi sembra lontana, ma
tuttavia fattibile con la realizzazione entro il 2030 di
società pacifiche, l’accesso alla giustizia per tutti e
l’esistenza di istituzioni responsabili.
17. Rinforzare i
significati dell’attuazione
e rivitalizzare le
collaborazioni globali
per lo sviluppo
sostenibile.
L’attuazione dell’Agenda richiede un forte
coinvolgimento di tutte le componenti della società,
dalle imprese al settore pubblico, dalla società civile
alle istituzioni filantropiche, dalle università e centri
di ricerca agli operatori dell’informazione e della
cultura.
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Tutti i paesi sono chiamati a contribuire allo sforzo di portare il mondo su un sentiero
sostenibile, senza più distinzione tra paesi sviluppati, emergenti e in via di sviluppo: ciò
significa che ogni paese deve impegnarsi a definire una propria strategia di sviluppo
sostenibile che consenta di raggiungere gli obiettivi dell’Agenda 2030.
Gli obiettivi fissati per lo sviluppo sostenibile hanno una validità globale, riguardano e
coinvolgono tutti i Paesi e le componenti della società, dalle imprese private al settore
pubblico, dalla società civile agli operatori dell’informazione e cultura.
1.2. I punti della questione
Quali sono i punti fondamentali della questione? Possiamo raggruppare i 17 obiettivi
dell’Agenda 2030 in tre punti da problematizzare?
Di sicuro, il primo punto della questione può concentrarsi sulla tematica della
sostenibilità economica e sociale, nel cui ambito possiamo far ricadere il goal 1 (sconfiggere
la povertà), il gol 2 (sconfiggere la fame), il goal 8 (lavoro dignitoso e crescita economica),
il goal 9 (imprese innovazione infrastrutture), il goal 10 (ridurre le disuguaglianze) e,
infine, il goal 12 (consumi e produzioni responsabili). Il secondo punto della questione non
può non occuparsi del tema della sostenibilità ambientale, che coinvolge il goal 6 (acqua
pulita e servizi igienico-sanitari), il goal 7 (energia pura e accessibile), il goal 11 (città e
comunità sostenibili), il goal 13 (lotta contro il cambiamento climatico), il goal 14 (vita
sott'acqua) e il goal 15 (vita sulla terra). Il terzo punto della questione riguarda la
sostenibilità dei diritti e delle idee, che coinvolge il goal 3 (salute e benessere), il goal 4
(istruzione di qualità), il goal 5 (parità di genere), il goal 16 (pace giustizia istituzioni
solide) e il goal 17 (partnership per gli obiettivi).
1.2.1. La sostenibilità economica e sociale
Nello specifico della sostenibilità economica e sociale, può risultare di grande aiuto la
riflessione offerta da Ritzer in La McDonaldizzazione della produzione2, che a tal
proposito descrive «un modello che molte aziende, ma anche diverse istituzioni sociali
come le scuole, le università o le chiese, hanno fatto proprio punto e in questo senso più
ampio che tale fenomeno ci interessa».3
Continuando questo tipo di riflessione, Ritzer si concentra sul concetto innovativo di
presumption, che risulta essere la combinazione di production e consumption, cioè di
produzione e di consumo in modo da dar vita ad un’azione combinata di consumo al
servizio del produttore. McDonald’s si propone in questi termini come paradigma sociale
ed economico secondo regole auree: 1. l’efficienza come ottimizzazione e semplificazione
del processo produttivo e di servizio; 2. la calcolabilità in quanto in queste catene
produttive la quantità è più importante della qualità; 3. la prevedibilità degli ambienti, dei
comportamenti e dei prodotti che si ripetono quasi ossessivamente uguali; 4. il controllo
delle macchine nel ciclo produttivo. Si offre, quindi, un modello in cui il consumatore (suo
malgrado e spesso in maniera ingenuamente ignara) produce oltre a consumare,
permettendo al produttore di risparmiare sul sistema produttivo e di trasformare il suo
sistema in un modello assolutamente esportabile e trasferibile.
Tale sbilanciamento a vantaggio del produttore (e pertanto a discapito del
consumatore) dilata i termini della questione e della problematizzazione. Sorge, insomma,
2
3
G. Ritzer, La McDonaldizzazione della produzione, Castelvecchi, Roma, 2018.
Ivi, p. 15.
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il dubbio che l’economia della crescita possa risultare in realtà deficitaria o comunque non
sostenibile. Se ragioniamo di sostenibilità economica e sociale, allora è chiaro che lo
sviluppo sostenibile non può essere presentato come ideologia della globalizzazione,
perché in questo risulterebbe già fallimentare in partenza.
Serge Latouche ha tanto da insegnarci con le sue “8 R” per rivalutare, riconcettualizzare,
ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare la realtà. Ad ogni
modo, è altrettanto vero che può risultare difficile, se non addirittura assurdo o
impossibile, uscire dall’economia, sempre se però per essa si intende la solita economia
capitalistica. In tal caso, potrebbe prefigurarsi il rischio di una banalizzazione della
questione al fine di concepire la decrescita felice come regressione ad una estrema sobrietà
che non avrebbe alcuna giustificazione.
Se ‘economia’ equivale a culto della crescita, uscire dall’economia significa dire addio a tale culto,
riorientando il lavoro e le attività sociali secondo i criteri dell’armonia, della giustizia, della pace. Inoltre si
tratta di uscire dall’economia come sfera separata che perde il suo contatto con il resto della vita umana.4
Ecco che allora questa società della decrescita felice, della sobrietà volontaria, basata
sull’accettazione consapevole e ragionata dei propri limiti, risulta un vero e proprio
rimedio alla barbarie: «se non riusciamo a costruire una società di decrescita, di sobrietà
volontaria, basata sull’auto limitazione, andremo davvero incontro alla barbarie» 5
continua sempre mezzi termini Latouche.
La società della crescita è una società delle disuguaglianze. [...] Una società di decrescita continua ad
essere qualcosa da inventare, ma si inventa sempre in base a quello che si conosce, per cui sarebbe una
società più frugale, ma anche più convivenziale. In fondo tutte le società umane sono state società frugali,
più o meno convivenziali. [...] Si pongono le condizioni per scoprire l’unica economia fedele al suo
significato, custodito nell’etimologia. Se òikos è la casa comune a tutta l'umanità e alla natura, se nòmos è
la legge che scaturisce dalla giustizia, allora l'autentica economia è la condizione in cui la giustizia
presiede all’organizzazione della casa comune.6
L’urgenza di un ‘cambio di paradigma’, di un’inversione di tendenza rispetto al modello
dominante della crescita basato sulla produzione esorbitante di merci e sul loro rapido
consumo invita, dunque, ad una messa in discussione delle principali istituzioni socioeconomiche, al fine di renderle compatibili con la sostenibilità ecologica, un rapporto
armonico uomo-natura, la giustizia sociale e l’autogoverno dei territori, restituendo una
possibilità di futuro a una civiltà che potrebbe implodere.
Se si ritiene che la spina dorsale della civiltà occidentale risieda nella produzione
materiale di beni e nella massimizzazione del profitto secondo il modello di economia di
mercato, parlare di decrescita significa immaginare non solo un nuovo tipo di economia,
ma anche un nuovo tipo di società, per non dimenticare che il kósmos è la casa comune
dell’umanità.
1.2.2. La sostenibilità ambientale
La sostenibilità ambientale pone una questione etica di fondo: l’uomo non esiste per
servire l’economia, ma viceversa quale riflesso di una innata necessità di armonia tra gli
uomini e tra gli uomini e la natura.
S. Latouche, Decrescita o barbarie, Castelvecchi, Roma, 2018, p. 15.
Ivi , p. 21.
6 Ivi, p. 16.
4
5
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È solo liberandoci dal credo fondamentalista nei mercati, concentrandoci su una
distinzione tra fini e mezzi, rendendoci conto che inseguire il proprio interesse non è
sufficiente al conseguimento del benessere collettivo, che saremo in grado di raggiungere
una migliore armonia fra uomo e uomo e fra uomo e natura.
Gli esempi più ovvi sono quelli che hanno a che fare con l’esternalità. [...] E non c'è una esternalità più
importante di quella associata con le emissioni di carbonio che inducono il riscaldamento globale. Il
nostro pianeta viene messo in pericolo. I ricchi Paesi del Nord sono in larga misura i responsabili per
l’aumentata concentrazione dei gas che creano l’effetto serra nell’atmosfera – il consumo dei carburanti
fossili è stato al centro del loro successo economico – ma le conseguenze vengono subite a dismisura da
coloro che invece vivono nelle regioni tropicali. In prevalenza Paesi che sono di gran lunga molto più
poveri.7
La nostra sottomissione all’ideologia di mercato non ci dovrebbe assolvere dalla
responsabilità di sforzarci per raggiungere tali obiettivi, perché è nella natura del bene
comune che ogni singolo cittadino abbia il diritto a prenderne parte.
La paura e la responsabilità di fronte alla realtà come un “tutto” sono al centro
dell’opera più conosciuta di Hans Jonas, Il principio responsabilità (1979). Quest'opera, di
è dedicata ai delicati problemi etici e sociali sollevati dall’applicazione incessante della
tecnologia in tutti gli aspetti della vita.
Il punto di partenza dell’autore è che il fare dell’uomo è oggi in grado di distruggere
l’essere del mondo.
Si prenda ad esempio, quale prima e maggiore trasformazione del quadro tradizionale, la vulnerabilità
critica della natura davanti all’intervento tecnico dell’uomo - una vulnerabilità insospettata prima che
cominciasse a manifestarsi in danni irrevocabili. Tale scoperta, il cui brivido portò all’idea e alla nascita
dell’ecologia, modifica per intero la concezione che abbiamo di noi stessi in quanto fattore causale nel più
vasto sistema delle cose [...]. Un oggetto di ordine completamente nuovo, nientemeno che l’intera biosfera
del pianeta, è stato aggiunto al novero delle cose per cui dobbiamo essere responsabili, in quanto su di
esso abbiamo potere e che oggetto di sconvolgente grandezza, davanti al quale tutti gli oggetti dell’agire
umano appaiono irrilevanti! La natura come responsabilità umana è certamente una novità sulla quale la
teoria etica deve riflettere. 8
Un nuovo imperativo categorico, ancora di grande attualità, si staglia dinanzi a noi:
«Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la sopravvivenza
della vita umana sulla terra».9
1.2.3. La sostenibilità dei diritti e delle idee
L’Agenda sancisce che gli SDGs (Sustainable Development Goals) puntano a realizzare i
diritti umani di tutti e sottolinea le responsabilità di tutti gli Stati a rispettare, proteggere e
promuovere i diritti umani e le libertà fondamentali per tutti, senza distinzione di razza,
colore, sesso, lingua, religione, opinioni politiche o di altro genere, origine nazionale o
sociale, proprietà, nascita, disabilità o altro status. Occorre partire dai diritti quale
paradigma culturale, perché essi esistono e vanno riconosciuti a tutti a prescindere dai
mutamenti della società e dalle risorse disponibili.
J. Stiglitz, Un’economia per l’uomo, Castelvecchi, Roma 2016, p. 26.
H. Jonas, Il principio responsabilità, Einaudi, Torino 2009, p. 10.
9 Ivi, p. 15.
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Innanzitutto è inequivocabilmente positivo che uno degli aspetti positivi della globalizzazione sia stato la
globalizzazione delle idee. Una delle idee più significative è l’idea di diritto umano. Credo che la
globalizzazione abbia dato forza alle idee e abbia esteso la nozione di responsabilità per l’attuazione e
l’implementazione dei diritti umani.10
Lo scopo dello sviluppo è la realizzazione del potenziale di vita delle persone, per dare
forma ad una vita significativa e all’altezza della dignità umana, così come proposta e
dimostrata da Martha Nussbaum. Il suo capability approach indica la strada verso la
valorizzazione del potenziale umano attraverso i seguenti punti: 1. Vita; 2. Salute fisica; 3.
Integrità fisica; 4. Sensi, immaginazione e pensiero; 5. Sentimenti; 6. Ragion pratica; 7.
Appartenenza; 8. Altre specie; 9. Gioco; 10. Controllo del proprio ambiente (politico e
materiale).
Si propone, pertanto che un approccio alle capacità personali, una visione orientata
all’esterno che cerca di determinare quali principi di base, e conseguentemente quali
adeguate misure, possano dare luogo a una vita umana dignitosa. Tali principi sono reali
opportunità basate su circostanze sociali e personali: la giustizia richiede la ricerca, da
parte di tutti i cittadini, di una soglia minima di questi dieci principi.
La prospettiva appare persuasiva del fatto che l’uomo sia fatto per conoscere, che l’unico
ideale sia quello della conoscenza, ma si tratta di una conoscenza sviluppata nel tempo che
conduce al sapere progressivamente. Quindi si tratta di una verità relativa, costruita per
gradi e verificabile in grado di valorizzare i talenti umani e rispettare le dignità personali.
È il sogno di ogni cultura. Diventa dunque un imperativo considerare ogni individuo concreto come la
realizzazione, seppure parziale, dell’uomo generico. L’ideale illuminista è ben riassunto dall’espressione di
Sartre: Tout homme est tout l’homme [Ciascun uomo è tutto l’Uomo)].11
Se consacreremo tutte le nostre forze alle diverse forme dell’educazione, forse
raggiungeremo un maggiore benessere e soprattutto realizzeremo l’opportunità di parlare
di un uomo ‘planetario’, indipendentemente dalle sue origini e dal suo essere culturale. In
quest’ottica si radica la lungimirante convinzione: «che l’unica utopia in grado di farsi
valere oggi sia quella dell’educazione per tutti. A questo punto di vista, bisognerebbe
attuare una vera e propria rivoluzione. […] Più l’educazione aumenta, più l’economia
funziona».12
2. Obiettivo 1. ‘Zero povertà’: una lotta continua, una crisi permanente
L’Obiettivo 1 dell’Agenda ONU 2030 per lo Sviluppo sostenibile intende porre fine ad
ogni forma di povertà nel mondo e invita tutti i 193 Paesi membri ad orientare le loro
politiche pubbliche in vista del raggiungimento dei seguenti traguardi di medio e lungo
periodo:
1. Porre fine ad ogni forma di povertà nel mondo 1.1 Entro il 2030, sradicare la povertà estrema per tutte
le persone in tutto il mondo, attualmente misurata sulla base di coloro che vivono con meno di $ 1,25 al
giorno 1.2 Entro il 2030, ridurre almeno della metà la quota di uomini, donne e bambini di tutte le età che
vivono in povertà in tutte le sue forme, secondo le definizioni nazionali 1.3 Implementare a livello
nazionale adeguati sistemi di protezione sociale e misure di sicurezza per tutti, compresi i livelli più bassi,
ed entro il 2030 raggiungere una notevole copertura delle persone povere e vulnerabile 1.4 Entro il 2030,
J. Stiglitz, Un’economia per l’uomo, Castelvecchi, Roma, 2016, p. 42.
M. Augé, Prendere tempo. Un’utopia dell’educazione, Castelvecchi, Roma, 2016, p. 34.
12 Ivi, p. 9.
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assicurare che tutti gli uomini e le donne, in particolare i più poveri e vulnerabili, abbiano uguali diritti
alle risorse economiche, insieme all'accesso ai servizi di base, proprietà privata, controllo su terreni e altre
forme di proprietà, eredità, risorse naturali, nuove tecnologie appropriate e servizi finanziari, tra cui la
microfinanza 1.5 Entro il 2030, rinforzare la resilienza dei poveri e di coloro che si trovano in situazioni di
vulnerabilità e ridurre la loro esposizione e vulnerabilità ad eventi climatici estremi, catastrofi e shock
economici, sociali e ambientali 1.a Garantire una adeguata mobilitazione di risorse da diverse fonti, anche
attraverso la cooperazione allo sviluppo, al fine di fornire mezzi adeguati e affidabili per i paesi in via di
sviluppo, in particolare i paesi meno sviluppati, attuando programmi e politiche per porre fine alla
povertà in tutte le sue forme 1.b Creare solidi sistemi di politiche a livello nazionale, regionale e
internazionale, basati su strategie di sviluppo a favore dei poveri e sensibili alle differenze di genere, per
sostenere investimenti accelerati nelle azioni di lotta alla povertà 13.
Nel perseguire tale ambizioso ideale, il Documento delle Nazioni Unite offre una
definizione multifattoriale del concetto di povertà, affermando che tale fenomeno non si
qualifica soltanto nei termini di una «mancanza di guadagno e di risorse per assicurarsi da
vivere in maniera sostenibile», ma che esso si esprime anche attraverso una serie di
‘manifestazioni’ sul piano sanitario, sociale, politico, economico, giuridico: «La fame e la
malnutrizione; L’accesso limitato all’istruzione e agli altri servizi di base; La
discriminazione e l’esclusione sociale; La mancanza di partecipazione nei processi
decisionali». Tale definizione della nozione di povertà appare in linea con la definizione a
largo spettro datene dall’economista e filosofo indiano Amartya Sen 14.
Nel campo delle scienze economiche e sociali si è ormai ampiamente consolidata la
distinzione tra due principali tipologie e forme di povertà. Esiste, infatti, da un lato una
cosiddetta ‘povertà assoluta’ o ‘estrema’ determinata dall’impossibilità per una persona o
per un gruppo sociale di soddisfare i bisogni primari della vita quotidiana e di accedere ai
beni e ai servizi essenziali e necessari per garantire la sopravvivenza umana. Dall’altro, è
possibile individuare soglie di ‘povertà relativa’, quantificabili dagli Enti pubblici e privati
di ricerca e dagli Istituti nazionali e internazionali di Statistica nei termini di una capacità
di spesa individuale o familiare inferiore agli standard reddituali medi di un determinato
Paese. Pertanto, coloro che vivono in una condizione di ‘povertà relativa’, a differenza dei
primi, riescono a soddisfare i bisogni fisiologici primari, ma non hanno accesso a tutte le
opportunità e i servizi offerti in un Paese15.
Nel 2015, anno della stipula dell’Agenda ONU 2030, prima che il mondo piombasse
nella crisi pandemica da Covid-19, gli estensori del Documento segnalavano il trend
positivo registratosi nella lotta alla povertà assoluta. Nel quindicennio 1990-2015 si è
13 ONU, Agenda 2030 per lo Sviluppo sostenibile, 25 settembre 2015, New York p. 15. Il testo dell’Agenda
ONU 2030 per lo Sviluppo sostenibile è consultabile in traduzione italiana e in formato pdf al seguente link:
https://www.google.com/search?client=firefox-b-d&q=agenda+onu+2030+pdf
14 A. Sen, Lo sviluppo è libertà, Mondadori, Milano 2000 : «La povertà è la privazione delle capacità
elementari, della libertà di sviluppare i propri talenti, dell’istruzione, della sanità e dei servizi essenziali».
15 Dal Rapporto Istat SDGs del 9 agosto 2021 sugli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, noti come SDGs
(Sustainable Development Goals) emerge con chiarezza l’impatto della crisi pandemica da Covid-19 sulle
fasce sociali più deboli della popolazione italiana, ma più in generale nell’acuirsi delle manifestazioni
multifattoriali della nozione di povertà: «Nel complesso, nel 2020 è aumentata l’incidenza della povertà
assoluta; è cresciuta la quota di persone che ha rinunciato a una visita medica pur avendone bisogno (9,6% a
fronte del 6,3% del 2019) e almeno la metà ha motivato la rinuncia adducendo il Covid; è aumentata anche la
quota di donne che si sono rivolte al 1522, il numero verde anti-violenza; il Pil italiano è diminuito (-8,9%)
più della media europea, mentre la diminuzione del reddito disponibile delle famiglie (-2,8%) è stata
contenuta dalle misure di emergenza adottate; nell’anno scolastico 2020/21 sono peggiorate le competenze
in Italiano e Matematica degli studenti che hanno concluso la scuola secondaria, sia di primo sia di secondo
grado». Il Rapporto Istat SDGs 2021 è consultabile in formato pdf al seguente link:
https://www.istat.it/it/archivio/260839
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assistito, infatti, ad una riduzione di più della metà degli indici di povertà estrema nelle
diverse aree del mondo, tenuto conto che, secondo i dati forniti dalla Banca Mondiale,
ancora nell’anno 2005 corca 1,4 miliardi di persone vivevano con meno di 1 dollaro al
giorno16.
Nonostante i notevoli progressi compiuti a livello mondiale nel contrasto alle forme più
estreme di povertà, (una lotta peraltro destinata a non avere mai tregua!), occorre
sottolineare il ‘circolo vizioso’ disuguaglianza/povertà che si è venuto ad instaurare nello
stesso quindicennio preso in considerazione dall’Agenda ONU 2030. Come osserva
acutamente Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia nel 2001, «la disuguaglianza è
causa, nonché conseguenza, del fallimento del sistema politico e contribuisce all’instabilità
del nostro sistema economico, il quale a sua volta contribuisce ad aumentare la
disuguaglianza, in un circolo vizioso che è come una spirale discendente in cui siamo
caduti»17. L’aumento esponenziale della disuguaglianza produce una serie di costi in
ambito non soltanto strettamente economico (crescita più lenta, un PIL inferiore,
inefficienza dei sevizi pubblici), ma anche nel più ampio contesto politico (pulsioni
autoritarie e spinte oligarchiche, indebolimento delle garanzie democratiche,
ridotto
senso di giustizia e di equità) e sociale (alta disoccupazione e impoverimento dei ceti
medi; aumento della povertà in termini relativi e assoluti) e nondimeno in termini
psicologici (precarietà esistenziale e depressione).
Uno
studioso
attento
ai
processi
di
convergenza
e
divergenza
nella produzione di disuguaglianze, come l’economista francese Thomas Piketty, ha
evidenziato che la dinamica della distribuzione delle ricchezze si muove su fenomeni molto
complessi, multifattoriali e di lunga durata, motori sia di convergenza che di divergenza e
che, di conseguenza, non esistono meccanismi naturali o automatici in grado di controllare
le tendenze destabilizzanti che innescano la disuguaglianza. Sul versante della
convergenza, rileva Piketty nel saggio Le Capital au XXIe siècle (2013),18 il principale
fattore decisivo di riduzione e compressione delle disuguaglianze e di convergenza è legato
ai processi di diffusione delle conoscenze e di investimento nell’istruzione, nella ricerca e
nella formazione, Sul versante della divergenza, invece, il processo di accumulazione e
concentrazione dei patrimoni può costituire un effetto particolarmente destabilizzante in
un mondo caratterizzato da una crescita debole e da un rendimento elevato del capitale
soprattutto di tipo speculativo e finanziario.
In sintonia con tale prospettiva di ricerca si può collocare il pensiero filosofico di John
Rawls, il quale è convinto che il fenomeno articolato e complesso della produzione delle
disuguaglianze si configuri come un fattore congiunturale politicamente contrastabile. Nel
testo che lo ha reso celebre a livello accademico, A theory of Justice (1971), Rawls19 ritiene
che le dinamiche equilibratrici dell’intervento pubblico in economia e le scelte eticopolitiche dei governanti possono contrastare l’aumento delle disuguaglianze, all’interno di
forme statali nazionali e organizzazioni internazionali di tipo liberale e socialdemocratico.
ONU, cit., p. 5: «Allo stesso tempo, la nostra è un’epoca di grandi opportunità. Sono stati compiuti
progressi significativi nel far fronte alle sfide per lo sviluppo. Nelle generazioni passate, decine di migliaia di
persone sono uscite da una povertà estrema. L’accesso all’istruzione è notevolmente aumentato sia per i
ragazzi che per le ragazze. La diffusione dei mezzi di comunicazione e d’informazione di massa e
l’interconnessione globale permettono di accelerare il progresso dell’uomo, di colmare il divario digitale e di
sviluppare società basate sulla conoscenza, così come lo consentono le scoperte scientifiche e tecnologiche
anche in settori tanto diversi fra loro quali medicina ed energia».
17 Stiglitz (2012), Prefazione a Il prezzo della disuguaglianza, Einaudi, Torino, 2013.
18 T. Piketty, Il Capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano, 2014
19 J. Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano, 1982.
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Al fine di evitare la tendenza alla polarizzazione e alla semplificazione del dibattito
pubblico e scientifico in materia di contrasto alle disuguaglianze e alla povertà nel mondo,
l’economista francese Esther Duflo e il collega indiano (nonché coniuge) Abhijit Banerjee,
premio Nobel nel 2019, hanno provato ad elaborare e implementare un approccio di
‘sperimentazione creativa’, concentrandosi in particolare sulla lotta alle diverse forme di
povertà assoluta. I due studiosi prendono le distanze da due opposti orientamenti teorici e
di politica economica: la matrice neokeynesiana e quella monetarista20.
Nel primo caso si tratta della visone ‘ottimistica’ proposta da Jeffrey Sachs nel suo The
End of Poverty: Economic Possibilities for Our Time.21 A giudizio del neokeynesiano
Sachs, la povertà può essere sconfitta nel giro di venti anni se i paesi ricchi decidono in
accordo di investire massicciamente in sostegni finanziari ai paesi poveri. Questi ultimi,
infatti, sono prigionieri di della cosiddetta «trappola della povertà» dovuta alle
interconnessioni sfavorevoli tra fattori climatici, svantaggi geografici e malattie. Nel
secondo caso il bersaglio polemico di riferimento da parte della coppia Duflo-Banerjee è
William Easterly, autore del testo The White Man’s Burden (2006).22 In antitesi alle tesi di
Sachs, Easterly sostiene che gli aiuti economici non risolvono il problema della povertà, ma
al contrario gli effetti negativi (corruzione, sprechi, inefficienze) di tali politiche pubbliche
sono maggiori di quelli positivi. La tutela e la promozione delle libertà fondamentali, le
istituzioni democratiche e il mercato sono gli unici fattori di crescita e di sradicamento del
fenomeno della povertà.
Nella prospettiva di Duflo e Banerjee il problema dello sradicamento della povertà
appare come una questione troppo generica e astratta. Nessuno, infatti, detiene purtroppo
il segreto della ‘fine della povertà’. A partire da tale realistica consapevolezza, si fa strada
negli studi teorici e nelle pratiche di ricerca dei due autori l’idea che la lotta alla povertà sia
da inquadrare piuttosto come una ‘risposta sperimentale’ per tentativi ed errori ad una
‘crisi permanente’23. L’interrogativo pragmatico e più sensato che lo scienziato sociale è
chiamato a porsi quando si trova ad operare in contesti territoriali segnati da condizioni di
disagio diffuso e povertà estrema è il seguente: «Quali strategie economiche e sociali si
possono mettere in campo nei contesti territoriali specifici per rendere
sopportabile/sostenibile la vita di coloro che vivono con meno di un dollaro al mese?».
Di particolare interesse, tra i diversi progetti di sperimentazione creativa promossi dal
Laboratorio d’azione (J-Pal), è risultato quello relativo alla problematica dell’uso dei
fertilizzanti in Kenya. Anche su questo terreno si è nuovamente riprodotta la divaricazione
tra i fautori dei sussidi ai paesi in via di sviluppo che spingono per l’acquisto di fertilizzanti
in agricoltura a costi calmierati o gratuiti (in linea con l’approccio neokeynesiano di J.
Sachs) e i contrari ai sussidi, i quali affermano che se i fertilizzanti fossero redditizi i
Duflo, Lottare contro la povertà, Laterza, Bari-Roma 2021. pp. 5-13. I coniugi Duflo e Banerjee non si
sono limitati ad offrire un contributo teorico di notevole rilevo nel panorama degli studi economico-sociali,
ma hanno dato vita al Laboratorio d’azione contro la povertà Abdul Latif Jameel (J-Pal), una rete di
ricercatori specializzati nell’applicazione del metodo della sperimentazione creativa e impegnati in progetti
sociali di contrasto alle forme di povertà assoluta in oltre venti Paesi.
21 J. Sachs, The End of Poverty: Economic Possibilities for Our Time, Penguin Press, London; tr. it., La fine
della povertà: come i paesi ricchi potrebbero eliminare definitivamente la miseria dal pianeta, Mondadori,
Milano 2005.
22 W. Easterly, I disastri dell’uomo bianco: perché gli aiuti dell’Occidente al resto del mondo hanno fatto più
male che bene, Mondadori, Milano 2007
23 Se concepita nei termini non dello ‘scienziato puro’, ma del ‘tecnico qualificato’ (una sorta di idraulico), la
figura dell’economista può esercitare un ruolo e una funzione decisivi per costruire una ‘economia
modestamente normativa’ e favorire i processi di innovazione sociale. Cfr. Duflo, cit., p. 13.
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contadini già li utilizzerebbero (il modello antropologico sottostante è quello neoliberista
dello homo oeconomicus in grado di compiere scelte pienamente razionali e informate).
Le ricerche sperimentali condotte sul campo in Kenya da Duflo, Kremer e Robinson
hanno seguito le seguenti fasi operative e hanno mostrato i seguenti risultati:
1. In sinergia tra ONG e contadini locali, sono state avviate sperimentazioni dell’uso
dei fertilizzanti su piccole strisce di terreno della loro azienda agricola, in modo da
confrontare i risultati con quelli di un’altra piccola striscia vicina;
2. Gli esperimenti ripetuti più anni e in luoghi differenti mostrano che in media i
fertilizzanti sono molto produttivi se ben utilizzati e i contadini campionati lo hanno
compreso;
3. Tuttavia la scelta dei contadini coinvolti nella sperimentazione non ha prodotto
innovazione sociale diffusa perché essi non hanno trasmesso e comunicato ai vicini e agli
amici questa pratica agricola;
4. Gli usi e costumi dei contadini di questa regione non prevedono infatti scambi
frequenti tra loro (fattore sociale/culturale ostativo più di quello economico);
5. In altri casi i contadini preferivano rimandare al futuro l’acquisto dei fertilizzanti
per mancanza di liquidità (fattore economico più ostativo più di quello sociale/culturale)24.
Come si può evincere da questa sintetica esposizione della metodologia di lavoro di
Duflo e del suo team di ricercatori, la valutazione d’impatto e del processo insita
nell’approccio della ‘sperimentazione creativa’ consente di analizzare e comprendere con
rigore scientifico le ragioni per le quali un programma di contrasto alla povertà funziona o
non funziona in un dato contesto territoriale.
3. Antropocene e ansia. Alcune riflessioni sugli obiettivi per lo sviluppo
sostenibile delle Nazioni Unite
Posto questo, ci spostiamo a vedere alcune riflessioni che faranno leva su alcuni concetti
presi soprattutto dalla riflessione dell’antropologia culturale degli ultimi decenni e
cercheranno di mettere in relazione il problema del fondamentale nesso tra uomo/natura
con quanto “proposto” dall’Agenda 2030 proposta qualche anno fa dalle Nazioni Unite.
Nella opinio communis il rapporto uomo/natura è stato adulterato e gerarchizzato, in
favore dell’uomo e a danno della natura, nell’Occidente, dove, con l’avvento
dell’industrializzazione e del radicale cambiamento che vi è stato nel rapporto con il
mondo, mediato sempre più dalle macchine, ci sarebbe stata una sorta di alienazione
umana dalla natura, vista sempre come un ente ostile da sfruttare ed a cui non si
restituisce nulla. Il racconto, che appare in gran parte convincente, ha sollevato alcuni
dubbi soprattutto da coloro che, nel corso del XX secolo, si sono occupati del rapporto che
tutte le civiltà hanno avuto con il mondo circostante. 25
Se è vero che il disastro climatico e, con tutta probabilità, anche l’attuale pandemia sono
dovuti in parte alla scarsa tutela che il mondo ha avuto negli due secoli di sfruttamento
senza alcun riguarda, è anche vero, d’altra parte, che viviamo nell’epoca dell’Antropocene
(il periodo in cui la vita della terra è stata caratterizzata dalla presenza umana) da almeno
diverse centinaia di migliaia di anni. E’ quindi nostro compito se l’uomo, prima della
grande trasformazione, non abbia avuto un modo diverso di confrontarsi con il mondo
Cfr. Duflo, cit., pp. 40-55.
Il racconto che risulta efficace ed è stato ripetuto da diversi autori ha una sua versione positiva in K.
Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino, 2010.
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naturale che lo abbia portato ad un atteggiamento che fosse più attento alla preservazione
dell’ambiente.
Scorrendo gli studi antropologici del XX e XXI secolo potremmo dire che ci troviamo di
fronte a tre diversi atteggiamenti individuati dagli studiosi (andando ovviamente per
larghe schematizzazioni): da una parte vi sono coloro che hanno individuato nel rapporto
natura/cultura delle popolazioni che sono state oggetto di studio etnologico, una sorta di
mito del buon selvaggio riproposto, dall’altro vi sono stati coloro che hanno visto nel
rapporto uomo natura sempre un criterio di sfruttamento e, in ultimo, soprattutto negli
ultimi decenni (direbbe Remotti, sulla “scia” di Greta Thunberg) quelli che hanno guardato
alle popolazioni non occidentali (ma anche alle radici del nostro stesso mondo) cercando
delle alternative allo sfruttamento capitalistico.
Passando in rassegna questi tre diversi modelli potremmo attribuire il primo al pensiero
di C. Lévi-Strauss,26 il secondo al determinismo geografico-antropologico dello studioso
americano J. Diamond e l’ultimo a pensatori come Francesco Remotti e Bruno Latour.27
Lévi-Strauss ha basato il suo paradigma essenzialmente su una rilettura in chiave
contemporanea del pensiero di Rousseau.28 Per il pensatore francese il rapporto tra natura
e cultura che ha sempre come scopo (analogamente a quello che succede in Occidente)
quello della sopravvivenza del genere umano, nelle popolazioni dell’Amazzonia da lui
studiate (Bororo, Caduveo e le altre) mostra un maggiore e più autentico contatto con il
mondo, visto talvolta anche come ostile, ma sempre guardato come un luogo da abitare e
in cui bisogna usufruire al meglio di quello che viene offerto, cercando, allo stesso tempo,
di ‘ingraziarsi’ la natura e, eventualmente di controllarla attraverso una sua classificazione.
La Natura è il luogo dove l’uomo abita e, sostanzialmente, benché il rapporto sia più
autentico, l’interazione umana è sempre la stessa. Per questo motivo, negli scritti del
pensatore francese, troviamo, talvolta, una sorta di nostalgia del rapporto “primitivo” che
appare però più statico e meno dinamico.
A partire dagli anni 1990, invece, il geografo Jared Diamond29 ha sviluppato una idea
per certi versi opposta a quella della “saudade” levi-straussiana. Lo studioso americano ha
iniziato il suo percorso di ricerca chiedendosi quali fossero i motivi della supremazia
occidentale, riconosciuta anche dalle altre civiltà. La ricerca di Diamond ha sottolineato
che le civiltà si sono sempre sviluppate anche sulla base di una serie di determinismi
naturali che l’essere umano non potrebbe mai travalicare. Nella sua seconda opera
sull’argomento, intitolata Collasso, cerca di mostrare che sono proprio questi i limiti che
portano l’umanità ad estinguersi. Scritti in un’epoca in cui l’emergenza ecologica era già un
dato di fatto e la proposta di modelli di sviluppo “alternativi” già un dato di fatto, le opere
di Diamond cercano di dare indicazioni su come evitare di arrivare al disastro tenendo
conto che questo giunge se non le civiltà umane non tengono in debito conto l’ambiente in
cui vivono. Se il determinismo di Diamond può essere discutibile e la sua idea di
ineluttabilità di sfruttamento della Natura da parte dell’uomo depone a favore di un certo
26 Tra i numerosi testi di C. Lévi-Strauss si fa qui riferimento in particolare a Tristi tropici, Il Saggiatore,
Milano, 2015.
27 Il riferimento a Bruno Latour è basato sul suo saggio La sfida di Gaia. Il nuovo regime climatico, Meltemi,
Roma, 2020.
28 Sul legame tra Rousseau e Lévi-Strauss cfr. Elogio dell’antropologia, in Antropologia strutturale, Il
Saggiatore, Milano, 2015, pp. 5-25.
29 Di Jared Diamond si fa riferimento in particolare a Armi, acciaio e malattie, Einaudi, Torino, 2015 e
Collasso, Einaudi, Torino, 2014. Il primo testo fa riferimento ai motivi della superiorità dell’Occidente, il
secondo, invece, parla di come diverse società prima della nostra sono state vittime di catastrofi ecologiche.
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catastrofismo, le sue esemplificazioni appaiono convincenti e portano a giuste riflessioni
che, forse, però, rimangono carenti proprio nella parte propositiva.
Negli ultimi decenni, invece, la riflessione antropologica, rispetto ai grandi esempi che
abbiamo fatto dei pensatori del XX secolo, ha avuto il merito di cercare nel rapporto
natura/cultura degli esempi non necessariamente catastrofici ma che potessero
considerarsi virtuosi. E’ il caso degli ultimi saggi di Francesco Remotti.30 Remotti, in realtà
insieme ad Adriano Favole e Marco Aime, ha cercato nel suo ultimo testo (Il mondo che
avrete) di ipotizzare modelli alternativi di sviluppo, partendo dalle analisi di quanto
accaduto nella storia di alcune civiltà che erano da quella occidentale. Facendo riferimento
al testo biblico ha mostrato come, nell’Antico Israele, il tempo del riposo, dello stare fermi,
del blocco dell’evoluzione dello sviluppo che permettesse alla natura di riprendersi, fosse
stabilito dalla Torah. Questo riposo (questa pausa) si ritrova anche in alcune delle
popolazioni studiate da Remotti in Africa e dimostra come un rapporto con la natura possa
avere declinazioni del tutto diverse da quelle importate dall’Occidente e possa
eventualmente portare ad un mondo diverso.
Tutti e tre i modelli qui proposti hanno però delle caratteristiche comuni molto precise
su cui vale la pena soffermarsi prima di andare avanti: in primo luogo si concorda che la
presenza dell’uomo e del suo rapporto con la Natura è un dato imprescindibile e che non
appartiene al solo modello occidentale, ma è un dato dell’umanità; in secondo luogo, però,
questo rapporto si può declinare in modo diverso, proprio guardando ad esempi che non
hanno messo al primo posto lo sfruttamento incondizionato dell0a Natura; in terzo luogo, i
modelli proposti vanno al di là dell’economicismo con cui l’Occidente ha spesso regolato i
suoi problemi con lo sviluppo della civiltà.
Partendo da questa ottica abbiamo deciso di tornare ad analizzare gli obiettivi
dell’Agenda 2030. Non entrando nei particolari ed in quelli che possono essere alcune delle
priorità (che, peraltro, sono qui affrontate con maggiore attenzione da Gianluca Gatti e da
Lia De Marco), sugli obiettivi enunciati dall’Onu, vanno fatto una serie di osservazioni.
In primo luogo, l’ambizione degli stessi e la loro attuabilità. Come spesso accaduto già
più volte ai documenti delle Nazioni Unite, molti dei 17 obiettivi appaiono estremamente
ambiziosi e difficilmente attuabili? Quanto, ad esempio, nei prossimi 9 anni, sarà
realmente possibile sconfiggere la povertà in tutto il mondo? Quanto la pandemia ha
rallentato l’attuazione degli obiettivi o quanto li può accelerare? Sono tutte domande a cui
sicuramente non possiamo dare risposte ma che sono quesiti leciti proprio per
comprendere come intendere la proposta globale fatta dalle Nazioni Unite.
Le critiche ai 17 obiettivi sono state molteplici e sono state di diverso tipo. Nel nostro
contributo, dopo aver riflettuto proprio sul rapporto che l’umanità deve avere con
l’ambiente che lo circonda, vogliamo comprendere come possiamo pensare “criticamente”
ai 17 obiettivi che l’ONU per i 2030.
Una prima considerazione, proprio partendo da quanto abbiamo sostenuto sinora è
l’eccessivo approccio ‘economicista’ del documento. Dei 17 obiettivi enunciati ben 7 sono
obiettivi di tipo economico ed almeno un altro paio sono strettamente correlati. Benché si
parli sempre anche di benessere e di altro, rimane un'impronta chiara in cui il dato dello
sviluppo è onnipresente. Ci si chiede se l’umanità, guardando ad altri aspetti della vita
sociale, e pensando in maniera ‘differente’ alla vita non possa avere altre maniere di
sviluppare questi obiettivi che portano maggior valore alla vita sociale e relazionale tra gli
F. Remotti, Sospensione, accecamento, Antropocene, in M. Aime, A. Favole, F. Remotti, Il mondo che
avrete, UTET, Torino, 2020, pp. 14-43.
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uomini ed oltre gli uomini. Il pensiero filosofico (e non solo) negli ultimi decenni ha
cercato di pensare anche in maniera extraeconomica proprio per superare la dimensione
del rapporto del profitto e cercare soluzioni alternative. A nostro parere, questo rimane,
uno dei maggiori nei di questo documento. Se si vede l’apertura del sito in inglese dei
sustainable developments goals l’immagine è quella di un lavoratore di colore in un
cantiere. E’ chiaro che chi ha pensato la propagazione continui a pensare che lo sviluppo
sostenibile passi per un ulteriore sviluppo (quanto consapevole ed ecologico?) delle
infrastrutture nel mondo emergente. Il rischio, pertanto, è quello di riproporre un modello
di sviluppo simile a quello dell’Occidente, mitigato da un certo interesse per i problemi
ambientali.
Un secondo aspetto che emerge dal documento e che è per certi versi emerge da alcune
obiezioni che sono state fatte da alcuni pensatori del mondo anglosassone. I 17 obiettivi
sembrano mettere in secondo piano la questione dei diritti.31 Come sappiamo le Nazioni
Unite, almeno nelle sue origini e con tutti i limiti di un’organizzazione dalle chiare
impronte eurocentriche aveva messo al centro del suo operato il rispetto dei diritti umani.
A parte il richiamo a pace e giustizia nel sedicesimo obiettivo, ci pare che quanto affermato
non pari del nesso che ci possa essere tra giustizia e immaginario democratico. Come si
raggiungerebbero obiettivi di equità senza un adeguato richiamo a istituzioni che non siano
solo forti ma che diventino i veri veicoli di valori di giustizia ed equità. Se la Dichiarazione
del 1949 poteva sembrare velleitaria ed ambiziosa oltre che eccessivamente eurocentrica, i
17 obiettivi di oggi sembrano essere distanti dall’affermazione dei valori democratici che
dovrebbero essere la risultante di un mix di diritti individuali, sociali e politici. In questo
documento benché alcuni diritti vengano chiaramente enunciati, ne mancano altri che
sembrano essere stati dimenticati da un organismo che ha una sua dialettica interna e che
non ha, al momento, questi valori necessariamente tra le sue priorità.
Un’ultima considerazione va fatta sulla questione climatica. Gli obiettivi per lo sviluppo
sostenibile mettono la questione ecologica tra le tante da affrontare senza darle una reale
priorità (le azioni sul clima sono solo al tredicesimo posto tra gli obiettivi) e citandola non
sempre in maniera chiara. Di fronte alla chiara emergenza ecologica che affligge il pianeta,
pur rendendoci conto che tali priorità per l’Occidente potrebbero sembrare di secondaria
importanza rispetto alla povertà ed alla fame nel mondo emergente, rimane una priorità
che non si deve ignorare e su cui occorrerebbe una riflessione assolutamente adeguata ed
uno spazio non secondario come quello che apparirebbe ad una lettura superficiale del
documento.
Nonostante queste critiche che rimangono e permangono questo non significa che
l’Agenda 2030 non debba essere considerato un punto di partenza anche per la riflessione
filosofica e debba essere tralasciato, ritenendolo solo un testo velleitario e realmente privo
di contenuti reali. Allo stesso tempo, come spesso succede alla filosofia, essa si deve
assumere il compito di riflessione critica che guarda al futuro dell’umanità con la volontà
di cambiarlo ma senza farsi rinchiudere in una ‘gabbia d’acciaio’.
Il riferimento in particolare è all’articolo di J. Kuosmanen, Repackaging Human Rights: on the
Justification and the Function of the Right of Development, in “Journal of Global Ethics, 11/3, 2015, pp. 303320.
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