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Emigrazione e Fuga di Cervelli - 150 anni di storia

Convegno FILITALIA 150 Anni di Unità d’Italia e Fuga dei Cervelli 28 agosto 2011 CAMPOMARINO Intervento dr. prof. Mina Cappussi I giovani laureati molisani che partono, alla ricerca di un lavoro nel resto d’Italia, in Europa e nel mondo, aumentano sempre più. Hanno una laurea in tasca, Master e Specializzazioni, e una valigia in mano. Spesso a partire sono i giovani laureati più brillanti, che riescono a trovare opportunità di crescita e d’impiego laddove in regione sarebbero rimasti senza occupazione. L’allontanamento di un tale “capitale” umano qualificato dal Molise – ha sottolineato Muccio - non facilita certo la ripresa e riduce la domanda di lavoro. Così, in un circolo vizioso tragico, tutto ciò provoca ulteriori allontanamenti. E’ il cane che si morde la coda. L'espressione "fuga dei cervelli" (brain drain) indica l'emigrazione verso paesi stranieri di persone di talento o alta specializzazione professionale. Il fenomeno rischia di rallentare il progresso culturale, tecnologico ed economico dei Paesi dai quali avviene la fuga. Il fatto che giovani neolaureati e neodottorati vadano a lavorare in università e centri di ricerca di altre nazioni è fisiologico, al giorno d'oggi, perché connaturato alla forte globalizzazione attuale della ricerca. I grandi centri di ricerca attirano persone brillanti provenienti da tutto il mondo. Di per sé questo è un fattore di arricchimento culturale e professionale, perché la ricerca non conosce frontiere. Il problema nasce quando il saldo tra gli studiosi che lasciano un paese e quelli che vi ritornano o vi si trasferiscono è negativo. In 4 anni, dal 1996 al 1999, hanno lasciato il Paese 12 000 laureati, in media 3 000 all’anno. Secondo una recente ricerca dell'Icom, solo riguardo ai proventi da brevetto, l'Italia avrebbe perso circa 4 miliardi di euro negli ultimi 20 anni. ESILIATI SCONTENTI Il 10 % dei ricercatori del Lazio, secondo la Filas, ha scelto di lavorare in altri Paesi. Stati Uniti, Gran Bretagna e Germania le mete preferite. L’esodo non si ferma. Uno dei primi e dei più famosi, quello che ha fatto in un certo senso da apripista, è stato Riccardo Giacconi. Premio Nobel per la Fisica 2002 e “cervello in fuga” dall’Italia nel 1954. Nato a Genova, si è laureato a Milano ma è solo negli Stati Uniti che ha avuto la possibilità di lavorare e raggiungere risultati giudicati di assoluta eccellenza dalla Reale Accademia delle Scienze di Stoccolma che gli ha attribuito l’ambito riconoscimento. A partire dagli anni Novanta, c’è stato un vero e proprio esodo dei ricercatori italiani all’estero. La media nazionale di dispersione all’estero dei cervelli formatisi nelle nostre università è pari all’8% del totale: (quando vengono pagati) i dottori guadagnano una cifra compresa tra gli 800 e i 1.200 euro nel Lazio, 700 la media nazionale. Il vero limite, però, sembra essere rappresentato dall’età: i nostri universitari ottengono la borsa di dottori di ricerca troppo tardi, all’età di 34 anni. In Europa, però, si trovano poi a fronteggiare la concorrenza di altri ricercatori, ma con dieci anni in meno. La disparità è in qualche modo dovuta al sistema delle università pubbliche italiane, carrozzoni lenti e fuori dal tempo. E così tantissimi chimici, fisici e astronomi che si sono formati in Italia e vorrebbero rimanerci, alla fine scelgono di andare all’estero. Qualcuno in Italia ci lascia il cuore e gli affetti, la maggior parte alla fine neppure quelli. Però si cerca di fare “sistema”. Il caso del PIB A Boston esiste un gruppo di italiani speciali. Sono i Professionisti Italiani di Boston, 400 soci che, forti della loro italianità, fanno rete per promuovere le varie professionalità rappresentate. Si chiamano Pib e hanno un sito interessante e aggiornato. Obiettivo è quello di aggregare professionisti italiani dell’area di Boston, facilitare collaborazioni tra di essi, favorire i contatti tra professionisti in Italia e colleghi italiani e stranieri in loco, organizzare eventi culturali interessanti per la comunità italiana, ma aperti anche alla partecipazione internazionale; insomma, promuovere l’italianità a 360°. Un gruppo che nel giro di soli due anni è diventato il punto di riferimento per i giovani connazionali che scelgono le sponde del Charles River come punto di partenza per il loro curriculum negli States, e non solo. Sono professionisti, imprenditori, ricercatori. I requisiti per far parte del team sono la cittadinanza italiana, la residenza nell’area di Boston e la padronanza della lingua italiana. Sono professionisti, in genere specializzati in Italia, trasferitisi qui per occupare posizioni lavorative di rilievo oppure per specializzarsi in una delle prestigiose università bostoniane. Insomma, i famosi cervelli in fuga, che però non hanno alcuna intenzione di fuggire dalla propria cultura, dalle proprie radici. Una novità interessante nel panorama associativo, questo del PIB, perché si pone a cavallo tra i sodalizi di italo-americani che magari non parlano più nemmeno l’italiano e i primi pionieri. Nelle case di questi professionisti si parla e si mangia italiano, e per quelli che mettono su famiglia, sono in atto iniziative per far incontrare i bambini del gruppo, per mantenere sempre viva l’identità italiana. Ai Pib è riservata, naturalmente, una voce del Primo Dizionario dell’Emigrazione Italiana, che in autunno sarà presentato al Ministero per gli Affari Esteri a Roma. I Pib mantengono ancora molti contatti con l’Italia, con gli amici e le famiglie L’esperienza americana, al di là di quanto durerà, è destinata a finire perché hanno deciso fin da subito che, a un certo punto, torneranno a casa». Ma la fuga dei cervelli è, in realtà, una emigrazione con un diverso nome, è l’EMIGRAZIONE DEL TERZO MILLENNIO. La piccola stazione, gli asini, i cavalli, i muli, scendevano lentamente Le Strette carichi delle valigie di cartone, con tanti giovani emigranti, in partenza per "l'altro mondo'', come si diceva in paese. Intorno al fuoco i lamenti diventavano urli, contro il convoglio che, crudele, rapiva i giovani, avventurieri per bisogno''. Così Eliodoro Pirone, nel suo libro di racconti "Grano e Gramigna", descrive la prima emigrazione dal Molise, l'esodo massiccio e disperato dei giovani che fuggivano da una terra avara, inseguendo sogni di un futuro migliore. Che forse non ci sarebbe mai stato; ma, comunque, essi dovevano partire poiché, come sostiene Amir Klink, "il naufragio peggiore è quello di chi non ha mai lasciato il porto ". Questo quadro angoscioso del distacco, dello straziante dolore di chi resta e di chi parte, è ritratto dal poeta isernino Sabino D'Acunto. In "Elegia molisana", che entusiasmò anche Salvatore Quasimodo, D'Acunto osservava: "Non si piangono morti, qui, ma vivi! / Uomini vanno col fardello carico / di stracci e di illusione chissà dove. / Partono all'alba, come i condannati¼". Andavano via fuggendo "dai giorni sempre uguali / circondati di neve e di silenzio ", lasciandosi alle spalle "donne che hanno il petto dissanguato / dalla fame dei figli ". Certo è che anche per il Molise, come scriveva Giuseppe Prezzolini, " l'emigrazione è stata una enorme tragedia, con anni di fame, di sforzi, di incertezza e di morte ". Era l'epoca, quella, in cui il Molise era ricco di braccia ma poverissimo di risorse; per cui l'unica valvola di sfogo, era di tentare l'avventura dell'espatrio; e tutti i paesi del Molise, chi più e chi meno, contribuirono nel tempo, con il flusso emorragico dei loro giovani, ad alimentare l'esercito degli emigranti che presero le vie del mondo. “Pettoranello del Molise – scrive Michele Pirone - i cui abitanti, un tempo oltre 2000, si sono stabiliti a Princeton nel New Jersey; mentre in paese ne sono rimasti meno di 300. Per non parlare del Canada. A Montréal gli immigrati di origine molisana superano le 200.000. Sommando i molisani residenti a Montréal, a quelli di Toronto e di Vancouver, si otterrà un numero di persone pari a quelle dell'intero Molise. Se poi si aggiungano i molisani che vivono negli Stati Uniti, in Argentina, in Germania, in Francia, in Svizzera e negli altri paesi di immigrazione, si avranno "cinque o sei Molise" sparsi nel mondo. V. LOMB Fra la fine del Settecento ed i primi decenni dopo l’Unità una profonda trasformazione investe l’assetto socio-economico e territoriale di tutta l’Italia meridionale Lo squilibrio e la crisi dell’Italia meridionale, trovano radici nelle particolari condizioni dell’agricoltura. L’attività agricola prevalente nel Molise era la cerealicoltura, quasi una monocultura, nonostante le bassissime rese dei terreni, in gran parte inadatti, e la mancanza, quasi completa, di rotazioni agrarie. Le rese per ettaro, tra le più basse del Meridione, e l’eccessiva pressione demografica sulla terra annullavano i già scarsi utili dei contadini affittuari, ma soprattutto dei braccianti. In particolare nelle zone montuose, sia i contadini affittuari sia i piccoli proprietari non riuscivano nemmeno a ricavarci il minimo di sussistenza. Durante l’intero secolo XIX, la popolazione europea ed italiana conosce una delle più consistenti variazioni demografiche verificatesi fino ad allora. In Italia, il fenomeno di incremento demografico risulta più evidente nelle regioni meridionali rispetto a quelle settentrionali e, verso la fine del secolo, più marcato nelle città rispetto alle campagne. Una delle prime conseguenze dell’aumento della popolazione, soprattutto meridionale, congiuntamente alle varie problematiche, fu proprio il fenomeno dell’emigrazione. Fra le varie cause a cui si addebita l’origine dei flussi emigratori dalle diverse aree geografiche, “quella che ricorre sovente è costituita dal perdurante squilibrio tra popolazione e risorse disponibili. Ciò in aggiunta all’emigrazione interprovinciale, di tipo prevalentemente stagionale, da sempre presente in regione: ad esempio, a fine Settecento è di circa 30 mila lavoratori annui Per una giusta valutazione del fenomeno demografico si tenga presente che la popolazione del Molise passa dai 304.434 abitanti del 1814 ai 355.168 del 1861, fino ai 364.208 del 1871. Il fenomeno migratorio che ha coinvolto l’Italia ed il Molise durante gli ultimi due secoli è stato uno dei più formidabili e duraturi eventi di sconvolgimento e riassetto della società italiana sia per gli aspetti sociali sia per quelli economici e culturali. L’emigrazione, rappresentò “uno dei fenomeni più importanti e complessi della storia economica e sociale del nostro paese. Per circa un secolo dopo l’Unità d’Italia gli espatri verso l’estero hanno costituito la soluzione più esasperata ed immediata ai problemi. Il Molise, già dopo l’Unità d’Italia, ma soprattutto a partire dagli ultimi decenni del secolo XIX, è stato investito poderosamente dal fenomeno. nel 1888, Francesco Saverio Nitti, avverte che “le province che dànno maggior numero di emigrati per paesi non europei sono: Potenza che nel 1886 n’ebbe 10.642, Salerno 7.824, Campobasso 6.847”. Nel 1892, la provincia di Campobasso è fra “le province d’Italia, che hanno dato, e dànno, tuttavia un più grande contingente all’emigrazione per paesi fuori l’Europa”, insieme a quella di “Potenza, Cosenza, Salerno, province appartenenti tutte al Mezzogiorno. Fra il 1905 ed il 1925 emigrano circa 160.000 molisani e ne rientrano circa 57.000, si sposta quasi un terzo della popolazione del Molise. In questo periodo il flusso ha avuto caratteristiche diverse: una prima fase, fino al primo dopoguerra, connotata dall’emigrazione di manodopera generica; una seconda fase, già a partire dal 1920, che fa registrare la partenza di operai specializzati. Il costo pagato “evitò la paurosa crisi economica che sarebbe scoppiata qualora la popolazione della regione, senza la valvola dell’emigrazione, avesse raggiunto le 600 mila unità” Il fenomeno incise sull’assetto sociale molisano, si ridusse la classe dei medi proprietari, grazie alla pressione della massa di fittavoli e braccianti che, disponendo di risparmi cercarono di acquisire appezzamenti di terreno: nasceva la categoria dei coltivatori diretti. Annota Eugenio Cirese, l’emigrazione “toglieva braccia ai campi, riempiva le casse postali di lire che facevano aggio sull’oro e permetteva il compiersi di una rivoluzione fondamentale nella storia del Mezzogiorno: il passaggio della piccola e media proprietà dal galantuomo al contadino. Il trapasso dell’assetto silvo-pastorale si ha con gli interventi di disboscamento, giustificati nell’inersse dell’agricoltura. Durante il Ventennio fascista l’emigrazione cessò quasi del tutto. Ma è meglio dire che mutarono tante cose. La nascita di una identità nazionale si deve al fenomeno migratorio. La forte notorietà della cultura italiana del periodo rinascimentale tra le classi sociali colte di vari paesi stranieri permetteva infatti l’identificazione nazionale dell’italiano ancor prima che si realizzasse l’unificazione politica del nostro paese. Per gli emigranti, invece, la prima rappresentazione di sè coincideva spesso con il confine municipale del proprio paese d’origine, rimandava poi ai confini della regione di appartenenza e solo in ultima istanza chiamava in causa le più astratte frontiere dello Stato-Nazione. Con l’affermazione della società di massa, ancor più degli avvenimenti politici e diplomatici che esaltavano la potenza italiana, le radici delle comunità immigrate furono cementare attorno ai miti che si affermavano nelle popolari manifestazioni agonistiche e nel mondo dello spettacolo. Proprio la forte propaganda promossa con le varie manifestazioni al’estero e soprattutto la proliferazione delle epiche imprese di quegli eroi nazionali che si andavano ad aggiungere ad altri idoli dello spettacolo di straordinaria notorietà, da Rodolfo Valentino a Primo Carnera, offrivano agli immigrati uno strumento di autorappresentazione quotidiana e una forma di gratificazione nel sentirsi italiano.  L’esperienza fascista mutò l’intervento dello Stato nei confronti dell’emigrazione. Le iniziative intraprese dal regime puntarono a cancellare l’ “infamia” dell’emigrazione e dello spopolamento nazionale attraverso un mutamento di tipo semantico, ancor prima che giuridico, della normativa adottata. Sul piano lessicale al poco decoroso emigrante del passato fu sostituito il più accettabile italiano all’estero; mentre su quello istituzionale il Commissariato generale dell’emigrazione fu soppiantato da una Direzione generale degli italiani all’estero Nel quadro postbellico le esigenze della ricostruzione e la correlata ripresa di una legislazione internazionale liberistica cambiarono nuovamente le precedenti direttive delle politiche migratorie. Anche per far fronte all’accesa conflittualità esplosa nell’Italia del dopo guerra, i primi governi democristiani favorirono la ripresa degli espatri, stipulando diversi trattati economici con alcuni Stati. Tra il 1973 e 1975 si concluse la lunga storia dell’esodo nazionale. Ma in tutti questi anni, un secolo e mezzo di esodi, in linea con quanto stava succedendo in Italia, moltissime piccole comunità della regione registrano un progressivo calo di popolazione che dai primi anni Novanta diventa sempre più sensibile. Il costante ridursi dei residenti è l’effetto più eclatante del flusso migratorio. Un possibile spiegazione è nella tesi di Gino Massullo. Lo studioso sostiene che i comuni “più fortemente e più precocemente coinvolti nell’emigrazione transoceanica” furono quelli che, meno vicini alle vie di comunicazione, non avevano conosciuto tradizionalmente le migrazioni stagionali (per pastorizia, mestieri e lavoro agricoli) che da una parte rappresentavano una abitudine “culturale” allo spostamento, anche come forma di investimento, dall’altra costituivano sia attività lavorative di integrazione del reddito, sia un canale di dolce ammortizzamento di squilibri socio-economici. Una particolare relazione è quella esistente fra fenomeno migratorio e mondo bandistico musicale molisano e nazionale, investigato dal Direttore delal Biblioteca Albino, Vincenzo Lombardi. I gruppi musicali in gran parte sono composti da artigiani per i quali la pratica bandistica, ma anche quella mandolinistica, è complementare all’attività lavorativa principale ed è praticata principalmente in occasione di ricorrenze festive o in periodi dell’anno meno impegnativi. Tale pratica da una parte è mezzo di distinzione sociale e culturale rispetto alle fasce popolari, dall’altra rappresenta un importante canale di integrazione del reddito. L’attività bandistica, per chi possedeva la tecnica di uno strumento musicale adatto, rappresentava l’ultima forma per procurarsi un introito economico, o anche semplicemente alimentare, per la sopravvivenza, prima di decidere per l’emigrazione. Tale pratica è tanto importante da incidere almeno sui seguenti aspetti. Da una parte, costituendo l’ultimo baluardo economico prima di decidere la partenza, aiuta a resistere al forte flusso migratorio che investe il Molise nell’ultimo ventennio dell’800 e contribuisce ad evitare, o almeno a rinviare, l’espatrio. Dall’altra, una volta arrivati nella nuova terra, rappresenta una attività di sostentamento e, spesso, come testimoniano le istituzioni dei molti gruppi musicali negli USA, in Venezuela ed in Argentina, uno strumento di affermazione; non di rado diventa anche un importante canale di integrazione nella società ospite. Federico Orlando, in uno storico ma ancora valido saggio dedicato all’emigrazione molisana, sottolinea come la Prima guerra mondiale abbia provocato una flessione, ma non l’arresto, nel flusso migratorio che “scompare invece quasi del tutto dal 1931 al 1945 per le note leggi restrittive e per la Seconda guerra. Nel giro di un ventennio (1905-1925) si ebbero nel Molise 159.464 espatri contro 56.865 rimpatri. Si può dire quindi che in venti anni la popolazione molisana si sia trasferita oltre Atlantico”. In realtà durante il periodo fascista l’emigrazione non scomparve, ma assunse altre forme. Certo i provvedimenti restrittivi adottati dagli USA, la crisi del 1929, le leggi “rurali” del regime condizionarono fortemente i movimenti di popolazione, tanto che nei primissimi anni trenta si può riscontrare un aumento di popolazione. La popolazione molisana guarda con interesse all’impresa bellica etiopica: Fra il 1936 ed il 1938, 600.000 italiani chiesero di partire verso l’Africa Orientale come operai per i lavori di opere pubbliche: di questi 4.000 erano molisani; solo 555 richieste furono accolte. Delle 2.996 richieste molisane di arruolamento, furono accolte solo 1.309. A questi espatri vanno aggiunti i quantitativamente minori spostamenti verso i cantieri della capitale, ma anche verso la Germania e l’Albania. Subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale il flusso dell’emigrazione riprese e – come a fine Ottocento – ripartì dall’Alto Molise per poi estendersi all’intera regione. Fra le mete scelte Australia, Brasile, Canada, Argentina, Venezuela, Uruguay e, in Europa, Belgio, Inghilterra, Germania. NORDONE PARDINI Si calcola che a Toronto siano arrivati circa 400.000 italiani, 200.000 a Montreal, 40.000 a Vancouver, e quantità minori in altre città........Le comunità italiane in terra canadese hanno eccelso in tutti i campi, e non è esagerato affermare che le “virtù” italiane quali la laboriosità, l’inventiva, la perspicacia, la tenacia, il desiderio di emulare ed eccellere, il senso religioso dell’esistenza, la visione ottimistica della vita, sono state di grande valore per la società multiculturale canadese, hanno portato per il mondo il tricolore con la sua storia, la sua cultura, la sua religione Ho incontrato un Connazionale (di Michele Pirone) Ho incontrato un connazionale, molto anziano, mi ha detto: « Io sono grato al Canada che mi ha offerto una vita migliore: il frigorifero e l'automobile, una casa di legno ben riscaldata. Al mio paese, nel Molise povero di un tempo, la casupola nella quale abitavo da ragazzo, di pietra viva, era gelida, malgrado il fuoco che scoppiettava nel camino ».  Eppure, il mio paese è quello. Sognavo di tornarvi, un giorno, per viverci l'ultimo scorcio di vita; ma non mi è concesso.  Spero ora di riuscirvi, da morto, per riposare per sempre in quel piccolo cimitero di campagna.  Perché è quello il mio paese. È lì che sono nato, sono lì le mie radici » I MOLISANI A ROMA Una colonia di circa 200 profumieri romani originari di Sant'Elena Sannita, paese ridotto oggi a 250 residenti. Erano tutti ex arrotini (grazie alle fabbriche di coltelli di Frosolone) e, muniti della mola, per anni hanno girovagato per le città del centro e del sud Italia. BUSSO E CASALCIPRANO A BEDFORD A partire dal maggio 1951 due interi paesi, in particolare Busso, ma anche Casalciprano, si trasferirono letteralmente a Bedford, England, a Nord di Londra, sede della LONDON BRICK COMPANY, al centro della ricostruzione post bellica grazie alla produzione di mattoni con i depositi locali di argilla. Oggi un cittadino di Busso, Fiorentino Manocchio è VICESINDACO di un comune vicino, nella Contea del Bedfordshire. Solo per fare un nome, Arturo Giovannitti: un’eccezione nell’emigrazione del tempo, un ragazzo colto, passato per quel Mario Pagano che sfornava il fior fiore della borghesia molisana… Arriviamo ai NOSTRI GIORNI La fuga dei ricercatori italiani all'estero ha un costo, un costo molto alto. Ha provato a calcolarlo l'Icom, Istituto per la Competitività, in un'indagine commissionata dalla Fondazione Lilly, che promuove la ricerca medica, e dalla Fondazione Cariplo: negli ultimi 20 anni l'Italia ha perso quasi 4 miliardi di euro. La cifra corrisponde a quanto ricavato dal deposito di 155 domande di brevetto, dei quali "l'inventore principale è nella lista dei top 20 italiani all'estero". Certo, si potrebbe obiettare, questi brevetti sono frutto, oltre che del genio italico, di équipe ben strutturate. Probabilmente se questi preziosi cervelli fossero rimasti in Italia, non avrebbero brevettato un bel niente. E però se invece in Italia fossero stati adeguatamente sostenuti, il nostro Paese sarebbe stato più ricco. Secondo l'Icom, che ha presentato la ricerca oggi al Senato, in media ogni cervello in fuga può valere fino a 148 milioni di euro. Insomma, il cervello quando fugge è più produttivo, probabilmente perché viene messo nelle condizioni migliori. La ricerca non è solo in teoria uno dei motori dello sviluppo di ogni sistema Paese, ma è anche in pratica un grande investimento. Secondo lo studio, il 35% dei 500 migliori ricercatori italiani nei principali settori di ricerca ha abbandonato il Paese. Ma se si considerano i primi 100, ad essersene andato è addirittura la metà.  La ricerca scientifica italiana risulta cmq essere superiore alla media dei principali Paesi europei, nonostante il più basso numero di ricercatori: l'Italia infatti si posiziona al terzo posto (2,28%), dopo l'Inghilterra (3,27%) ed il Canada (2,44%). Dopo di noi ci sono, in ordine, gli Stati Uniti (2,06%), la Francia (1,67%) la Germania (1,62%) e il Giappone (0,41%)". Napoleone Ferrara, catanese, via dall'Italia dal 1988. Ferrara ha recentemente ottenuto il prestigioso premio internazionale Lasker Award per i suoi studi, che si sono svolti negli Stati Uniti, su un farmaco che blocca la perdita della vista nei pazienti "con degenerazione maculare senile umida, patologia che in passato conduceva alla cecità totale". "Se Ferrara fosse rimasto in Italia, con il frutto delle sue ricerche e dei suoi brevetti avrebbe potuto ricostruire da zero la sua università".  Ma forse, se fosse rimasto in Italia, i suoi brevetti non avrebbero mai visto la luce. "Negli Usa - ha ammesso Ferrara - c'è un investimento enorme nella ricerca, miliardi di dollari. C'è un'organizzazione che facilita la ricerca, penso che il resto del mondo dovrebbe prendere esempio da questo modello". La Fondazione Lilly per es ha assegnato una borsa di studio di 360.000 euro a una giovane ricercatrice italiana, l'oncologa Tiziana Vavalà: la somma servirà a finanziare le ricerche della studiosa per i prossimi quattro anni. CONTRO LA FUGA DI CERVELLI LO STATO CORRE AI RIPARI CON GLI INCENTIVI FISCALI POLITICHE DI RIENTRO. Nel 2001 è stato varato, dall’allora ministro dell’Università Ortensio Zecchino, il primo programma per il rientro dei cervelli, che disciplinava l'incentivazione alla stipula di contratti da parte delle università con studiosi ed esperti stranieri o italiani stabilmente impegnati in attività didattica e scientifica all’estero da almeno un triennio. Le università si dovevano impegnare a fornire adeguate strutture di accoglienza e supporto all’attività del titolare del contratto, inoltre, si dovevano impegnare a cofinanziare per il 10% i costi del programma di ricerca proposto. Il trattamento economico del titolare del contratto rimaneva a carico del Ministero. I giornali italiani diedero la notizia di questo programma, denominato brain buster o acchiappa cervelli, con straordinario entusiasmo: Meno entusiasmo è stato invece manifestato da scienziati e ricercatori che hanno fatto notare che: «gli incentivi stanziati per il ritorno dei cervelli, un paio di centinaia di miliardi, equivalgono a quanto può investire una società di serie A per acquistare due giocatori polverizzati fra tutte le università italiane, restano appena 50 milioni per ciascun progetto di ricerca. Il programma è stato portato avanti e nel Decreto Ministeriale del 2003, sono state previste delle riduzioni fiscali per agevolare il rientro dei cervelli fuggiti. Gli effetti di questo programma sono stati abbastanza deludenti: sarebbero rientrati in Italia 466 cervelli (di cui circa 300 italiani). Poichè ricercatori italiani all’estero sono tra i 40 e i 50 mila, il programma di rientro ha fatto tornare non più dell’1% dei ricercatori italiani all’estero. La misura “Incentivi fiscali per il rientro dei lavoratori in Italia” presentata da Enrico Letta (Pd) e Stefano Saglia (Pdl)  utilizza attualmente la leva fiscale – per un ammontare complessivo di  200.000 euro – sotto forma di minore imponibilità del reddito, per incentivare i cittadini comunitari under 40, con residenza all’estero da almeno 2 anni, a tornare in Italia per intraprendere un’attività d’impresa o di lavoro autonomo o per essere assunti come dipendenti. La misura vale per un triennio, cioè, dalla sua entrata in vigore  fino al 31 dicembre 2013. Possono beneficiarne: I cittadini comunitari under 40 laureati che abbiano avuto un contratto di lavoro dipendente all’estero per almeno 2 anni continuativi; I cittadini comunitari under 40 che abbiano svolto studi all’estero per almeno 2 anni, acquisendo una laurea o una specializzazione post lauream. In entrambi i casi coloro che ritornano hanno l’onere di trasferire domicilio in Italia entro 3 mesi dal rientro e, perderanno il beneficio se cambiano la residenza o il domicilio fuori dall’Italia prima di 5 anni dalla data della prima fruizione del beneficio Incentivi anche per i datori di lavoro che assumono i ‘cervelli’ che vogliono fare rientro, a condizione che ”li impieghino come lavoratori dipendenti in una struttura produttiva ubicata nelle aree” ex Obiettivo uno”. La Regione Molise,  ha approvato l’ordine del giorno “master back” con lo scopo di promuovere il reinserimento nel mercato del lavoro dei giovani molisani che hanno usufruito delle borse di studio per frequentare master e stage professionalizzanti. Non basta. Occorre puntare tutto sul turismo, sull’agroalimentare e sulla valorizzazione delle potenzialità ambientali, naturali, paesaggistiche, trazioni ed enogastronomia. Per far questo dobbiamo dimenticare i termovalorizzatori e le centrali nucleari di scelte scellerate. Riallacciando i rapporti con le comunità molisane all’estero, un milione di figli sparsi per il mondo, uno sviluppo eco-compatibile ed eco-sostenibile, ci salverà dalla dipartita e offrirà lavoro qualificato ai nostri giovani. Mina Cappussi PAGE 1