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Narrare il contagio

2021, Medical Humanities & Medicina Narrativa

In considering the Covid-19 pandemic as a narrative, this article aims to focus on the discursive modalities that guided the story of the pandemic situation in the Italian context, with particular attention to the rhetorical and thematic structure. Subsequently, the essay focuses on two specific texts: Nel contagio (2020) by Paolo Giordano and Giuseppe Genn a’s Reality (2020), to identify, on a sty- listic-rhetorical level, the persistence of specific cognitive frames – first of all the personification of the viral agent – that make the story of the pandemic a real apocalyptic narrative.

Medical Humanities & Medicina Narrativa ISBN 979-12-5994-251-7 ISSN 2724-3281 DOI 10.53136/97912599425179 pp. 151-160 (luglio 2021) Narrare il contagio DIEGO SALVADORI* RIASSUNTO: Nel considerare la pandemia da Covid-19 quale narrazione, il presente contributo intende focalizzarsi sulle modalità discorsive che hanno guidato il racconto della pandemia in ambito italiano relativamente alla prima ondata, con particolare attenzione all’assetto retorico e tematico. Successivamente, l’articolo si focalizza su due testi specifici: Nel contagio di Paolo Giordano e Reality di Giuseppe Genna, al fine di individuare, a livello stilistico-retorico, la persistenza di specifici frames cognitivi – primo fra tutti la personificazione dell’agente virale – tali da rendere il racconto della pandemia una vera e propria scrittura dell’apocalisse. PAROLE trauma. CHIAVE: Covid-19, Giuseppe Genna, Paolo Giordano, ABSTRACT: In considering the Covid-19 pandemic as a narrative, this article aims to focus on the discursive modalities that guided the story of the pandemic situation in the Italian context, with particular attention to the rhetorical and thematic structure. Subsequently, the essay focuses on two specific texts: Nel contagio (2020) by Paolo Giordano and Giuseppe Genn a’s Reality (2020), to identify, on a stylistic-rhetorical level, the persistence of specific cognitive frames – first of all the personification of the viral agent – that make the story of the pandemic a real apocalyptic narrative. KEY–WORDS: Covid-19, Giuseppe Genna, Paolo Giordano, trauma. * Università degli Studi di Firenze, Dipartimento di Formazione, Lingue, Intercultura, Letterature e Psicologia – FORLILPSI. 151 152 Diego Salvadori 1. La scrittura preveggente In un articolo apparso sul Corriere della Sera il 19 novembre del 2000, dal titolo La mucca pazza e la ragione, Claudio Magris scriveva che “forse la letteratura è in crisi perché la realtà si è fatta così grottesca e surreale da far impallidire le fantasie più ardite, che risultano banali rispetto a ciò che accade veramente. La storia della mucca pazza” – seguitava l’autore – “potrebbe averla inventata la feroce immaginazione di Swift” (Magris 2000), per poi concludere con un’affermazione che ha tristemente trovato conferma in quella che, da ormai un anno a questa parte, è divenuta la quotidianità di ogni individuo: “oggi, l’idea di un nuovo tipo di raffreddore che possa fare milioni di vittime come la spagnola è un’ipotesi comicamente fantascientifica, ma la mucca pazza non lo era meno, quando non la si conosceva” (Magris 2000). Sono asserzioni che non solo riportano alla mente il pensum lanciato dello storico Michel Vovelle, secondo cui gli scrittori, al pari degli elettroscopi, captano i futuri possibili quasi per chiaroveggenza, ma soprattutto chiamano in causa l’imprescindibile osmosi tra racconto del fictum e narratività del factum, laddove quest’ultimo – ovverosia il suo potenziale affabulatorio – pone quest’ultimo sotto l’ombrello di quella che Stefano Calabrese ha definito quale “narratività perfusa e sottile irradiata da un sistema di comunicazioni globali la cui forza di penetrazione interstiziale è senza pari nell’intera storia dell’uomo” (Calabrese 2012, p.1)20. D’altronde, già Marshal McLuhan aveva ribadito come l’azione principale dei media fosse quella di far accadere le cose piuttosto che darne notizia, il che ci autorizza a considerare il Covid-19 alla stregua di una narrazione mediale e mediata, e di conseguenza ai frames cognitivi adottati dai vari media in quello che è stato il racconto della prima ondata in ambito italiano: una vera e propria sottonarrazione apocalittica (Giungato 2020, p. 112). Volendoci soffermare sulla prima questione, possiamo distinguere, relativamente a quella che è stata la prima ondata, tre fasi narrative specifiche (Giungato 2020, pp. 100-102). La prima – caratterizzata da una lieve reazione emotiva – va dal 31 gennaio al 21 febbraio 2020, ovverosia in quel range temporale in cui si assiste a una penetrazione 20 Per una ricognizione sulle ‘pandemie letterariè si rimanda cfr. anche Calabrese, Conti 2021. Narrare il contagio […] 153 lenta dei discorsi mediatici riguardanti il virus costellata da versioni discordanti, scenari possibili e teorie del complotto. La seconda fase – dalla fine di febbraio a inizio marzo 2020 – vede il racconto del Coronavirus sovrastare ogni altra narrazione mediatica concomitante: è a tale altezza che, secondo Giungato, si assiste alla proliferazione di una nube semantica (Giungato 2020, p. 100) in base a cui l’azione del virus innesca, a un tempo, le re-azioni dell’autorità e dei media, mentre dall’altro getta la società in uno shock collettivo da ricondurre a uno “stato d’ansia sistemico, latente” (Giungato 2020, p. 100) e che ha influenzato, modulato e propagato determinate narrazioni del fenomeno. Se l’ambiente si è fatto spazio della contaminazione – confermando una volta per tutte che la purezza è l’inganno della nostra mente – l’agente xenobiotico – e cioè il virus – è andato incontro a un vero e proprio processo di ipercodifica: mediato per strategie retoricoformali che inevitabilmente hanno sfruttato due temi specifici (contagio e apocalisse) quali ‘depositi’ cui attingere, dei veri e propri “archivi dell’immaginario” (Domenichelli 2017, p. 83): non a caso, Pierre Brunel ricollegava il concetto di ‘tem a’ alla radice del greco títhemi, ragion per cui “ce dépôt est vivant, irrigué. Par souci de clarté, nous définirons le thème comme sujet de préoccupation ou d’intérêt général pour l’homme” (Brunel, Pichoit, Rousseau 1983, p. 122). E arriviamo, infine, alla terza fase: al 9 marzo 2020 in cui l’Italia diviene interamente zona rossa. A tale altezza, il sistema dei media sortisce un duplice effetto: da un lato, si assiste all’iperproduzione dei contenuti; dall’altro, la con-fusione tra spazio pubblico e privato (Giungato 2020, p. 22) vede quest’ultimo entrare nell’immaterialità del cyberspazio. Dall’inizio del lockdown, e fino alla fase 2, si è assistito a un’ipertrofia costante di narrazioni, purtuttavia riunite sotto l’egida di specifici frames cognitivi, tali da conferire – secondo l’assunto di Erving Goffmann – un’organizzazione agli eventi e parimenti significato all’esperienza soggettiva (Goffmann 2001). A questo, però, dovremmo aggiungere la natura traumatica del Covid-19, che non solo ha sancito un momento di discontinuità irreversibile nella vita di ognuno, ma ha smascherato altresì una carenza a livello narrativo-discorsivo, nel senso che l’individuo non ha saputo elaborare e rendere dicibile il trauma, dal momento che il Covid-19 “non si lascia ricondurre a niente di già noto se non per una approssimazione difettosa” (Ronchi 2020). 154 Diego Salvadori È possibile, tuttavia, segmentare la narrazione mediale del Coronavirus in frames specifici (Boni 2020), che nella macro-cornice dello straniamento (da intendersi quale rottura cognitiva in senso brechtiano) include a sua volta tre coppie oppositive di micro-frames. Si va dal binomio contaminazione-colpa (Boni 2020, p. 3), laddove la prima scardina un sistema ordinato – sia esso biologico, sociale e culturale – e spinge la società a ripensare i propri confini, mentre la seconda vede l’applicazione di veri e propri rituali di blaming, laddove la colpevolizzazione si accompagna a un ritorno del rimosso (peste, influenza spagnola, AIDS) e al contempo crea un limes separatore tra puro/impuro, ordine/caos, sano/malato. Segue la coppia invisibilitàesclusione (Boni 2020, p. 5), con un chiaro rimando all’altrove da cui il virus proviene e – in chiave squisitamente imagologica – alla retorica della purezza culturale dell’Occidente. Nello specifico, l’invisibilità dell’agente xenobiotico legittima la metafora della guerra e rende il virus nemico, facendo ricorso a quel bellicismo linguistico della scienza medica su cui già si era soffermata Susan Sontag nel suo Illness as a Metaphor (1978). D’altro canto, com’ebbe modo di rilevare a suo tempo Paul Ricoeur, la metafora rivela “il potere che il linguaggio ha di creare un senso attraverso accostamenti inediti” (Ricoeur 2013, p. 59): un potere che, nel caso della retorica bellica, si fa pernicioso proprio perché la si fa divisiva e allarga il divario tra gli inclusi e gli esclusi21. In uno dei racconti di Memorie dalla quarantena – raccolti in seguito a un concorso letterario indetto dalle biblioteche civiche di Padova – si legge: Da più di un mese siamo in guerra con un nemico microscopico, praticamente invisibile e sembra incredibile come un esserino così piccino piccino riesca dar fastidio e a spaventare a morte miliardi di persone che stentavano e tuttora stentano a credere che possa far tanto male ed esser così letale. Contro di lui impotenti sono eserciti, navi, aerei, carri armati e cannoni: le uniche armi 21 A tal proposito, si vedano le considerazioni del collettivo Wu Ming circa la carica evocativa, e al tempo stesso inverante, della retorica bellica: “In tempo di guerra, chi esprime delle critiche sulla condotta dei generali è un disertore, chi non si allinea al pensiero dominante è un traditore o un disfattista, e come tale viene trattato. In tempo di guerra, si accetta più facilmente la censura, l’esercito per le strade, la restrizione delle libertà, il controllo sociale. In tempo di guerra si è tutti al fronte, tutti sottoposti alla legge marziale, tutte e tutti con l’elmetto in testa. A forza di evocare metaforicamente la guerra, ecco che la guerra arriva davvero” (in Milesi 2020). Narrare il contagio […] 155 che possano sconfiggerlo sono la scienza e la ragione e, per chi crede, la religione. Per giorni si sono visti comportamenti irrazionali e superficiali, come correre a far tonnellate si spesa ai supermercati o andare in luoghi affollati come bar, movide e ristoranti per mostrare che noi non abbiamo paura, noi ce ne freghiamo, noi non ci crediamo… Poi, però, con l’incalzare del microscopico e superpotente esserino si è capito che impari era la sfida e la guerra da combattere… (La Moglie 2020, p. 277) Ma il gioco metaforico legittima altresì una rimozione delle disuguaglianze sociali che in questo modo vanno a costituire tutta una serie di narrazioni mutilate: dagli homeless, ai malati psichiatrici; dai disabili, a coloro che hanno vissuto e stanno vivendo la pandemia in totale solitudine (Pedroni 2020, p. 37). È, insomma, la narrazione di uno scontro, ribadita a livello linguistico dalla ricorsività lessicale dei lemmi guerra, nemico, combattere, eroi, o locuzioni quali in prima linea (Mangone 2020, p. 6). L’ultima coppia di micro-frames è infine costituita dalla diade (im)mobilità-accelerazione (Boni 2020, p. 7): muoversi espone al contagio, motivo per il cui corpo deve essere contenuto e – in una prospettiva foucaultiana – sorvegliato, financo a farsi ricettacolo e vettore di trasmissione; di contro, l’accelerazione è quella dettata dai tempi liquidi e a banda larga del cyberspazio. Un connubio poi esplicitato recentemente da Alessandro Baricco in uno dei 33 frammenti di Quel che stavamo cercando: È venuto a galla una sorta di igienismo digitale – l’idea che i devices possano essere usati per ridurre al minimo l’esposizione dei corpi al pericolo della contaminazione, di qualsiasi contaminazione […]. La rimozione dei corpi che porta con sé è velenosa. D’altronde, in tutta la figura mitica della Pandemia prende forma un urlo pedante, che va anche al di là dei fantasmi digitali: tutto in quella figura urla che ci tocchiamo troppo22, che stiamo fisicamente troppo allo scoperto, che mescoliamo in maniera orrenda miasmi liquidi particelle, che siamo sporchi. Quando invece bisognerebbe coltivare l’arte delle distanze, riportare gli scambi a nuclei circoscritti e ben rodati, continuare a lavarsi le mani come Lady Macbeth. Un immane bisogno collettivo di pulizia, forse di espiazione. Una spaventosa ondata di puritanesimo. Neanche venato di qualche inflessione moralistica o religiosa. Peggio: un semplice, amorale, istinto animale. Bestie impazzite. (Baricco 2021) 22 Corsivo mio. 156 Diego Salvadori 2. Apocalisse in atto Nel passare dalla narrazione mediale a quella propriamente letteraria, potremmo guardare a due opere specifiche, cronologicamente a monte e a valle della prima ondata: Nel contagio di Paolo Giordano, pubblicato il 26 marzo 2020 (e quindi a poche settimane dall’inizio del lockdown); e Reality di Giuseppe Genna, che ha visto invece la luce nel pieno della Fase 3. Due testi sostanzialmente diverse e difficilmente ascrivibili a un genere specifico: il primo è un saggio, un instant book laddove il protagonista si pone faccia a faccia con la pervasività del virus; il secondo, per contra, si addentra in una Milano blindata, nella Wuhan d’Europa, per indagare, così si legge nella quarta di copertina, “i giorni della pestilenza” (Genna 2020). Emerge da subito, a livello di frame analysis, la personificazione del virus e il suo divenire nemico, che in Giordano demolisce, con chiari rimandi alla prima legge dell’ecologia secondo cui everything is connected to everything else (Commoner 1971, p. 16)23, il regime della separatezza: L’epidemia di Coronavirus si candida a essere l’emergenza sanitaria più importante della nostra epoca. Non la prima, non l’ultima e forse nemmeno la più raccapricciante. È probabile che al suo termine non avrà prodotto più vittime di molte altre, ma a tre mesi dalla sua comparsa si è già guadagnata un primato: Sars-Cov-2 è il primo virus nuovo a manifestarsi così velocemente su scala globale. Altri molto simili, come il suo predecessore Sars-Cov, sono stati sbaragliati in fretta. Altri ancora, come HIV, hanno tramato nell’ombra per anni. Sars-Cov-2 è stato più audace. E la sua sfacciataggine ci svela qualcosa che prima sapevamo ma faticavamo a misurare: la molteplicità di livelli che ci collegano gli uni agli altri, ovunque, nonché la complessità del mondo che abitiamo, delle sue logiche sociali, politiche, economiche, ma anche interpersonali e psichiche. (Giordano 2020, p. 37) 23 Cfr. anche Giordano 2020, p. 19: “Se non abbiamo anticorpi contro Cov-2, ne abbiamo contro tutto ciò che ci sconcerta. Vogliamo sempre conoscere le date d’inizio e di scadenza delle cose. Siamo abituati a imporre il nostro tempo alla natura, non viceversa. Quindi esigo che il contagio finisca fra una settimana, che si torni alla normalità. Lo esigo sperandolo. Ma nel contagio abbiamo bisogno di sapere cosa è lecito sperare. Perché non è detto che augurarsi il meglio coincida con l’augurarselo nel modo giusto. Aspettare l’impossibile, o anche solo l’altamente improbabile, ci espone a una delusione ripetuta. Il difetto del pensiero magico, in una crisi come questa, non è tanto di essere falso, quanto di condurci dritti verso l’angoscia.” Narrare il contagio […] 157 Da qui il ripensamento dei confini a cui facevamo riferimento poc’anzi, a sua volta ascrivibile agli effetti del frame della contaminazione: Quindi l’epidemia ci incoraggia a pensarci come appartenenti a una collettività. Ci obbliga a uno sforzo di fantasia che in un regime normale non siamo abituati a compiere: vederci inestricabilmente connessi agli altri e tenere in conto la loro presenza nelle nostre scelte individuali. Nel contagio siamo un organismo unico. Nel contagio torniamo a essere una comunità. (Giordano 2020, p. 37) In una logica dell’iperconnessione totale – di per sé stessa già preconizzata dal titolo24 – il contagio diviene misura di tutte le cose. La contaminazione è cifra del reale e, parimenti, alimenta un’ansia millenaristica: “non ho paura di ammalarmi”, scrive Giordano, ma “di scoprire che l’impalcatura della civiltà che conosco è un castello di carte. Ho paura dell’azzeramento” (Giordano 2020, p. 18). Un aspetto, questo, che ci conduce alle pagine del libro di Giuseppe Genna, in cui il focus del soggetto narrante indulge a più riprese su un’apocalisse in atto e parimenti intensificata: Nel buio si intuisce il crescendo delle sirene. Le ambulanze qui non sfrecciano. Bergamo non è Milano, ma le insiste addosso, come un linfonodo intaccato e gonfio. Il dirigente sanitario si era arrischiato a sostenere la tesi che le due città avrebbero vissuto lo stesso dramma, slittando parallele nei tempi: insostenibile sul breve la tragedia bergamasca, un’apocalisse di rilevanza mondiale; più vasto in termini assoluti di morti il dramma milanese, più a lungo, con l’innalzamento delle curve di contagiati e morti che sarebbero emerse alla distanza. Il risultato sarebbe stato identico: salme da smaltire, con la terra dei cimiteri che non riesce ad accoglierle, forni crematori intasati, i portantini a sollevare i feretri nel vuoto dei campisanti vuoti, le campane a morto attutite dalle salme stipate nelle chiese, i presidi igienici da rispettare sui corpi infetti, zincando le bare, sanificandone le superfici all’interno degli spazi templari. (Genna 2020, p. 244) È l’invisibilità del virus (“Il virus invisibile induce il collasso visibile”, Genna 2020, p. 174) a nutrire le descrizioni apocalittiche del libro, con toni inevitabilmente leopardiani: 24 La preposizione articolata nel, non a caso, suggerisce la natura soverchiante e immersiva dell’esperienza del contagio. 158 Diego Salvadori La crisi ecologica pare dimenticata, la catastrofe futura è mutata nell’apocalisse del presente. L’aria è radioattiva di virus, l’ambiente non è più da salvare. L’ambiente non salva più. L’ambiente è il figlio di puttana, un capriccio della morte, un elemento selenico e antagonista, il cardiogramma piatto di una natura acuta perché insidiosa, subdola, del tutto inorganica. (Genna 2020, p. 174) Si assiste a uno svuotamento di senso dell’imago naturae, senza contare le filiazioni stilistiche da uno dei testi fondativi dell’ecologia contemporanea, ossia Silent Spring (1962) di Rachel Carson. Ma è soprattutto il rovesciamento del paradigma apocalittico a farsi preponderante: di un armageddon che nel passaggio dall’immaginazione alla realtà innesca in un vero e proprio trauma da inveramento. Prosegue Genna: Non pensavamo che l’apocalisse fosse irreale così, silenziosa così e tanto veloce e tanto lenta: non erano dunque le grandi esplosioni termonucleari che avevamo immaginato da bambini… Non c’è più progresso, non c’è più regresso. (Genna 2020, p. 330) Ha scritto Frank Kermode, nel Senso della fine, che “l’Apocalisse non è altro che un armonico impasto di immagini – immagini del passato e immagini del futuro” (Kermode 1972, p. 7), che tuttavia si annullano nel passo appena citato e non trovano conferme nella realtà in corso, a riprova della natura traumatica della pandemia da Covid-19, la quale ha impedito al soggetto di dotarsi degli strumenti discorsivi adatti renderla comunicabile. L’apocalisse pandemica è sì rivelazione – perché smaschera e demolisce, lo abbiamo visto in Giordano, il regime della separatezza – ma ugualmente rimane muta ed inattingibile per l’invisibilità stessa del virus che rende inutile e inapplicabile alla realtà quell’impasto d’immagini a cui faceva riferimento Kermode. Un’apocalisse in cui la progressione temporale si altera (“non c’è più progresso, non c’è più regresso”, Genna 2020, p. 330) e il tempo cronologico e circolare cede il passo a una temporalità di tipo cairologico, che lentamente si svuota di senso e finisce, senza alcun fine. E torna allora alla memoria uno dei passi più intensi da I Demoni, di Fedor Dostoevskij, che Genna inserisce, a mo’ di criptocitazione, in uno dei capitoli più intensi del suo libro: Narrare il contagio […] 159 – Ai nostri tempi è un po’ difficile, – rispose, pure senz’ironia alcuna, Nikolàj Vsévolodovič, lentamente e come se meditasse. – Nell’Apocalisse un angelo giura che non ci sarà più il tempo. – Lo so. Quel che è detto là è verissimo, è chiaro e preciso. Quando ogni uomo avrà raggiunto la felicità, il tempo non ci sarà più, perché non ce ne sarà bisogno. È un pensiero molto giusto. – E dove lo ficcheranno? – Non lo ficcheranno in nessun posto. Il tempo non è un oggetto, ma un’idea. Si estinguerà nella mente.” (Dostoevskij 2011, p. 480). Riferimenti bibliografici BARICCO A., Quel che stavamo cercando. 33 frammenti, Feltrinelli, Milano 2021. BONI F., Frammenti di un discorso virale. Le cornici del Coronavirus, «Mediascapes Journal» 15/2020, pp. 1.-12. BRUNEL P., PICHOIS C., A-M. 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