Coltivare
Parole
LINGUE LOCALI
ED ETNOBOTANICA
a cura di Aline Pons
Atti del Convegno del 24 Settembre 2016
Scuola Latina di Pomaretto
Dicembre 2017
Ass. Amici della Scuola Latina
Pomaretto
ISBN 978-88-942090-1-3
GIORNATA
DELLE
LINGUE MINORITARIE 2016
Coltivare
Parole
LINGUE LOCALI
ED ETNOBOTANICA
a cura di Aline Pons
Atti del Convegno del 24 settembre 2016
Scuola Latina di Pomaretto
Relatori
Tullio Telmon, Alexis Bétemps, Paolo Varese, Aline Pons, Giada Bellia, Pier Andrea Martina.
Note biografiche
Tullio TELMON (Solero, 1943), laureatosi in Lettere presso l’Università di Torino nel 1966,
è stato dapprima funzionario scientifico all’Università di Amsterdam (1967-1968), poi
professore all’Accademia di belle arti di Amsterdam (1969-1972). Rientrato in Italia, ha
lavorato all’Ateneo torinese, prima come borsista (1972-1976), poi come contrattista (19761980) e ricercatore (1980-1987). È stato poi professore associato presso l’Università
“Gabriele D’Annunzio” di Chieti, dove ha diretto l’Istituto di glottologia (1988-1994). Dal
1994 è stato professore ordinario presso l’Università di Torino, dove ha insegnato
Dialettologia e Dialettologia italiana. Dal 2017 è professore emerito. Ha fondato e diretto,
insieme a Sabina Canobbio, l’Atlante Linguistico ed Etnografico del Piemonte occidentale
(ALEPO).
Alexis BÉTEMPS (Saint-Christophe, 1944) è laureato in lingue moderne. Linguista ed
etnografo, è stato per più di trent’anni presidente del Centre d’Etudes francoprovençales di
Saint-Nicolas, in Valle d’Aosta. Direttore emerito del BREL (Bureau Régional pour
l’Ethnologie et la Linguistique) è autore di libri, saggi e articoli sulle problematiche
linguistiche valdostane e alpine e sulle tradizioni popolari delle alpi occidentali. Nel 2011 ha
ricevuto il premio Rigoni Stern per la saggistica con il libro “La vita negli alpeggi valdostani
nella prima metà del novecento”.
Paolo VARESE (Torino, 1960) è residente a Luserna San Giovanni (TO); si è laureato in
Scienze naturali all’Università di Nizza Sophia-Antipolis, precedentemente diplomato di
livello BTSF (Brevet Technicien Supérieur Forestier) presso l’ ENGREF di Nancy. Ha
lavorato dapprima come ricercatore contrattuale in Francia (Luberon, Gap, Corsica), poi
per quindici anni presso l’Istituto per le Piante da Legno e l’Ambiente di Torino - IPLA,
in seguito come dipendente di una società privata francese, prima a Marsiglia e poi a Lione,
con cui ha partecipato anche a programmi di cooperazione in Libano; attualmente si occupa
di studio e gestione degli ambienti naturali, in particolare in ambito forestale, fluviale e
prativo; conservazione della biodiversità; riqualificazione fluviale; agro-forestry. Ha all’attivo
una trentina di pubblicazioni.
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Aline PONS (Pinerolo, 1986) vive a Pomaretto. Ha conseguito un dottorato di ricerca in
Scienze del Linguaggio e della Comunicazione presso l’Università degli Studi di Torino,
con una tesi sul lessico geografico nelle Alpi Cozie. Membro della Società di Studi Valdesi e
del Centro Studi Confronti e Migrazioni, da ottobre 2012 lavora nella redazione
dell’ALEPO (Atlante Linguistico Etnografico del Piemonte Occidentale) e dal 2010 si
occupa dello Sportello Linguistico Occitano presso la Scuola Latina di Pomaretto.
Giada BELLIA (Wittlich, Germania, 1990), è cresciuta e vissuta a Pinerolo, si è laureata in
Tecniche Erboristiche alla Facoltà di Farmacia presso l'Università di Torino, con una tesi in
etnobotanica alpina, disciplina nella quale si sta specializzando a Parigi. Dal 2013 collabora
al progetto Coltivare Parole, per promuovere la diffusione e la conoscenza sugli utilizzi delle
erbe locali.
Pier Andrea MARTINA (Pinerolo, 1989) è dottorando in filologia romanza presso le
università di Torino e di Paris-Sorbonne, dove conduce una tesi in letteratura francese
medievale. Insegna materie letterarie nella scuola superiore; collabora con l’IRHT di Parigi
al catalogo dei manoscritti francesi e occitani della Biblioteca Apostolica Vaticana. È uno
dei ricercatori del progetto Coltivare Parole.
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Indice
Introduzione
Aline Pons
7
Le piante nell’Atlante Linguistico ed Etnografico del Piemonte Occidentale
(ALEPO): alcuni esempi
Tullio Telmon
9
Lo sa il fiore che cos’è l’amore
Alexis Bétemps
29
I prati non sono solo erba: riflessioni per le valli del Pinerolese
Paolo Varese
41
Coltivare Parole. Un racconto del progetto
Aline Pons
59
Coltivare Parole: metodi, risultati e curiosità di un’inchiesta etnobotanica
Giada Bellia
65
Qualche etimologia di fitonimi raccolti nel Piemonte occidentale
Pier Andrea Martina
85
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6 | Scuola Latina di Pomaretto
Introduzione
Aline Pons
Dopo una rassegna quasi decennale di convegni1, l’Associazione Amici della Scuola Latina
ha deciso di incentrare i lavori della giornata delle lingue minoritarie del 2016 sulla
presentazione del progetto Coltivare Parole, che ha tenuto impegnati i suoi sportelli
linguistici per diversi anni. Non si è tuttavia voluto rinunciare neanche in questo caso al
proficuo scambio di conoscenze fra l’ambiente accademico e la ricerca locale che ha
caratterizzato l’intero corso di questi incontri: il convegno è dunque stato strutturato, così
come questo volume che ne raccoglie gli atti, in due parti, l’una di carattere più generale e
in qualche misura preliminare, l’altra dedicata in modo più specifico all’illustrazione dei
risultati ottenuti con il progetto Coltivare Parole.
La prima sessione raccoglie alcuni interventi rappresentativi dei diversi filoni di studio nei
quali il progetto si inserisce: la geolinguistica, l’etnografia e la botanica.
Più nel dettaglio, il contributo di Tullio Telmon introduce lettori e lettrici allo studio delle
carte linguistiche, strumento indispensabile per lo studio della variazione dialettale nello
spazio. Tullio Telmon ci offre un magistrale assaggio di lettura di alcune carte dell’Atlante
Linguistico ed Etnografico del Piemonte Occidentale (ALEPO) che, oltre ad essere la fonte
principale di documentazione sulle parlate occitane cisalpine (sebbene in larga parte ancora
inedito), è anche un punto di riferimento nella valorizzazione di quelli che i linguisti
chiamano “etnotesti”, trascrizioni fedeli di brani dialettali estrapolati da conversazioni libere
che, se vengono registrati e trascritti, sono un utilissimo complemento alla carta linguistica
per spiegare a tutto tondo il concetto che viene indagato.
1
I temi trattati sono stati: nel 2007 “Tutela e promozione delle lingue minoritarie attraverso i linguaggi
dell'arte”, nel 2008 “Lingua, identità ed espressione artistica”, nel 2009 “1999-2009: Dieci anni di tutela delle
lingue minoritarie”, nel 2010 “Letteratura per una lingua, lingua per una letteratura”, nel 2011
“Plurilinguismo e lingue minoritarie”, nel 2012 “Nomi Propri e luoghi in comune – Toponomastica tra
leggende e territorio”, nel 2013 “Piante, animali e altre meraviglie – il patouà racconta un mondo”, nel 2014
“Dal FOLK al POP. La musica occitana fra tradizione e nuovi generi” e infine nel 2015 “Vitalità, morte e
miracoli dell’occitano”.
Aline Pons
Se da un lato a guidare la realizzazione di Coltivare Parole è stata l’esperienza degli Atlanti
linguistici in generale e dell’ALEPO in particolare, dall’altro si è cercato di rendere
programmatica questa raccolta di etnotesti, affiancando sistematicamente alle domande
linguistiche a una serie di domande etnobotaniche, volte a indagare gli usi popolari delle
piante. Questo connubio fra etnologia e linguistica risale ai primi anni dopo la nascita degli
atlanti linguistici, ed è alla base del lavoro di diversi centri di ricerca: un modello in questo
senso è il Centre d’Etudes René Willien, con sede a Saint Nicolas, in Valle d’Aosta. Lo
storico presidente di questo Centro, Alexis Bétemps, nel suo contributo ci da una prova di
come studiare insieme etnologia e dialettologia, anche nel campo della fitonimia, aggiunga
molto allo studio linguistico.
La prima sessione si chiude con un contributo di taglio più botanico, nel quale Paolo
Varese ci introduce al progetto Pratiq, nell’ambito del quale ha studiato la composizione
botanica e la produttività foraggera dei prati da fieno nelle valli Chisone, Germanasca e
Pellice e nel Pinerolese.
La seconda sessione comprende tre interventi di presentazione di Coltivare Parole: il primo
ne racconta la nascita e l’evoluzione; il secondo, firmato da Giada Bellia, ne evidenzia alcuni
risultati di ordine etnobotanico e il terzo, redatto da Pier Andrea Martina, approfondisce le
vicende etimologiche di alcuni fitonimi particolarmente interessanti.
8 | Scuola Latina di Pomaretto
Le piante nell’Atlante Linguistico ed Etnografico del Piemonte Occidentale
(ALEPO): alcuni esempi
Tullio Telmon
0. Premessa
Dividerò in due parti questa mia conversazione: nella prima parte, cercherò di dare alcune
spiegazioni su che cosa sia l’ALEPO, sulle specificità linguistiche che caratterizzano il
settore delle Alpi che va dalle Alpi Marittime alle Graie, e infine su alcuni termini
specialistici della ricerca linguistica, il cui uso, malgrado lo sforzo di essere quanto più
semplice e chiaro possibile, si renderà probabilmente inevitabile nel corso della
chiacchierata. Prego perciò i molti che riascolteranno cose note di avere pazienza e di non
risentirsene.
L’Atlante Linguistico ed Etnografico del Piemonte Occidentale, ALEPO, citato anche
nell’Introduzione a questi Atti, è ormai giunto alla pubblicazione di un migliaio di carte
linguistiche, nei volumi dedicati al mondo vegetale (flora spontanea, alberi e arbusti, funghi
e licheni) e al mondo animale (fauna selvatica, caccia e pesca).
1.1 Di che cosa si occupa l’ALEPO
Quello che vedete circolettato nella Carta 1 che segue è all’incirca il territorio delle Alpi che
interessa noi, il versante occidentale delle Alpi Marittime, Cozie e Graie, le cui creste
segnano il confine politico tra l’Italia e la Francia, dal Mediterraneo fino alla valle d’Aosta.
È interessante questo angolo del mondo romanzo, perché potremmo definirlo come
“fittamente romanizzato” per una ragione molto semplice: attorno a questa catena alpina si
aggrappano, si abbarbicano lingue diverse, e più precisamente quelle lingue, quel latino che
è stato imparato da popolazioni che avevano come lingua materna degli idiomi liguri,
gallici, celto-liguri.
Tullio Telmon
Carta 1. L’estensione delle lingue neolatine in Europa
Le popolazioni alpine aventi lingue di sostrato che definiremo, per semplificare,
prevalentemente celtiche, furono esposte, nei secoli che vanno dal secondo avanti Cristo al
terzo dopo Cristo, ad una lenta e progressiva latinizzazione. Nei secoli successivi alla
latinizzazione, allorché l’influenza di Roma andò gradualmente indebolendosi,
incominciarono a crearsi numerosi nuovi centri di irradiazione, legati all’importanza
(economica, politica, culturale) che vennero assumendo ruoli di modellazione linguistica, la
cui espansione fu naturalmente connessa con i mutamenti politici, con gli assetti variabili
delle unità territoriali, con il mutare dei poli e degli itinerari commerciali, con l’espandersi
della nuova religione cristiana e del suo organizzarsi in diocesi. Parigi, Narbona, Lione (ma
anche, per quanto concerne il versante orientale dell’ampio territorio celtico, Milano,
Aquileia e più tardi anche Torino) hanno nel corso dei secoli contribuito a forgiare un
galloromanzo, come viene chiamato generalmente l’insieme delle parlate neolatine di
sostrato celtico, fortemente sfaccettato. In estrema sintesi, si può dire che le diverse facce
del galloromanzo sono costituite dalle tre grandi famiglie linguistiche della Francia, la
Lingua d’Oil, che comprende anche il francese dell’Île-de-France, la Lingua d’Oc,
denominazione nella quale confluiscono tutte le parlate della parte meridionale della
Francia, e il francoprovenzale, che include le parlate di un più piccolo territorio nel sud-est
dell’esagono francese.
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Le piante dell’ALEPO
Per quel che riguarda il Piemonte occidentale, cui fa riferimento l’intitolazione dell’Atlante,
vediamo che il confine, del tutto fittizio ovviamente, tra francoprovenzale e provenzale corre
a metà circa della valle di Susa. La cosa non è priva di significato. La parte centrale della
valle di Susa si trova a essere una specie di crogiuolo linguistico in cui, come si può vedere
dalla Carta 2, il galloromanzo-francoprovenzale, quello del nord, il galloromanzooccitanico, quello del sud, il galloromanzo-galloitalico, quello dell’est, corrispondente
all’insieme delle parlate pedemontane, vengono a incontrarsi.
Carta 2. L’incontro di francoprovenzale, provenzale e galloitalico in Piemonte
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Tullio Telmon
Tutto questo territorio è stato fortemente interessato dal lavoro dei ricercatori, dei
linguisti, dei dialettologi. I quali, dando seguito alla felice intuizione di Jules Gilliéron che
nel primo decennio del secolo scorso, nel suo ALF (Atlas Linguistique de la France) mise a
confronto, mostrandole distribuite su un supporto cartografico, le diverse denominazioni di
oggetti, concetti, azioni, ecc., hanno, in tempi e modi diversi, realizzato nuovi atlanti
linguistici servendosi di materiali e di dati raccolti direttamente sul terreno, dalla viva voce
dei parlanti. Sono nati così, per quello che riguarda il territorio che abbiamo cerchiato nella
prima carta,
- l’ALEPO, Atlante Linguistico ed Etnografico del Piemonte Occidentale, che interessa
le parlate francoprovenzali, provenzali alpine, pedemontane e liguro-alpine dei settori
occidentali delle province di Torino e di Cuneo;
- l’APV, Atlas des Patois Valdôtains, che è una creazione in certo qual modo gemella
dell’ALEPO, perché le due sono state concepite all’incirca nelle stesse circostanze, da
parte di Comitati scientifici in larga parte coincidenti e con strumenti e metodologie di
raccolta analoghi. La differenza più importante sta nel fatto che le parlate
rappresentate nell’APV sono tutte di tipo francoprovenzale;
- l’ALJA, Atlas Linguistique et ethnographique du Jura et des Alpes du Nord, è opera
di Jean Baptiste Martin e di Gaston Tuaillon. Esso ricopre i territori della Savoia,
dell’Alta Savoia, di una parte della Franca Contea, di una parte della Borgogna, del
Lionese e di una parte del Delfinato; come per l’APV, tutte le parlate che vi sono
rappresentate appartengono al dominio francoprovenzale;
- l’ALP, Atlas Linguistique et ethnographique de la Provence, opera di Jean Claude
Bouvier e Claude Martel, è, come dice il nome, l’atlante della Provenza e le parlate di cui
sulle sue carte vengono trascritti i materiali linguistici sono ovviamente di tipo
provenzale.
Componendo, come dei tasselli di un unico mosaico, i territori dei quattro atlanti regionali
sopraccitati, possiamo avere la garanzia di una copertura di documentazione linguistica e
geografica notevole.
Per ritornare all’ALEPO, ci concentriamo oggi sul volume dedicato al Mondo Vegetale, che
è diviso in tre moduli diversi: “alberi e arbusti”, “piante erbacee” e “funghi e licheni”. Un
quarto volumetto contiene poi gli indici.
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Le piante dell’ALEPO
1.2 Un po’ di terminologia
Quando si parla di insiemi di nomi (di piante, di erbe, o di animali, di luoghi, di esseri
umani, ecc.), si usa una terminologia che ha la caratteristica di terminare in –onimo: si
parla, ad esempio, di coronimi per indicare i nomi di una regione (dal gr. chôros “terreno,
regione” + onimo (a sua volta, dal gr. ónymos, derivato di ónyma, variante dialettale di ónoma
“nome”); di oronimi per catalogare i nomi delle montagne (gr. óros “monte”); di anemonimi
per i nomi dei venti (gr. ánemos “vento”), idronimi per i nomi dei corsi d’acqua (gr. hydor
“acqua”), ecc.. Come risulta evidente dagli esempi riportati qui sopra, per creare parole
appartenenti a questa categoria si prendono in generale due componenti, entrambi
possibilmente di base greca per non creare degli ibridi. Quella degli –onimi si può
considerare una classe aperta, perché qualsiasi categoria di referenti può ricevere il proprio
termine. In particolare noi parleremo qui soprattutto di fitonimi, vale a dire di nomi di
piante. Diamo rapidamente alcune definizioni:
Fitonimo (gr. phytón “pianta”), nome comune di pianta. Mazza di tamburo o cucumella
sono dei fitonimi; se però vogliamo essere più precisi, trattandosi di denominazione di
fungo, possiamo parlare di miconimi (gr. mykes “fungo”).
Fitotoponimo è una creazione più interessante, perché riguarda quei toponimi, vale a dire
nomi di luogo, che sono creati a partire dal nome di una pianta. Quando io dico, per
esempio, “Pomaretto”, faccio uso di un fitotoponimo, ricavato a sua volta da un fitonimo di
tipo pommier “melo” con l’aggiunta del suffisso collettivo latino –ETUM (più probabile che
non il diminutivo –etto).
Lessema è sinonimo di parola; ci può essere utile sapere che ci possono essere lessemi
semplici, come abete, o lessemi composti (detti anche sintagmatici o polirematici), come
mazza di tamburo.
Referente è l’oggetto o il concetto che viene rappresentato da una parola: l’oggetto che sto
tenendo in mano in questo momento è la realtà alla quale rinvia la parola microfono, parola
che io posso considerare come un insieme di suoni (foni) articolati in rapida successione.
Quando parlo di suoni che compongono una parola, questa parola può anche non avere
nessun significato: se, per esempio, pronuncio la parola suripano, si tratta di una parola che
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Tullio Telmon
in italiano non esiste, ma potrebbe anche esistere, perché risponde a tutti i requisiti che si
richiedono per comporre, in italiano, una parola fonologicamente accettabile. Data questa
parola, siamo allora di fronte al caso di un significante (la successione dei suoni che
compongono una parola, considerati dal punto di vista puramente fisico), privo di
significato. Parlando dei lessemi di una certa lingua, non si prendono ovviamente in conto
le parole prive di significato, o di referenti, ma soltanto quelle che rispondono
perfettamente al triangolo referente (oggetto) – significante (forma fonica) – significato
(valore semantico).
Avvicinandoci ulteriormente al tema di oggi, posso aggiungere che mi servirò spesso della
parola lessotipo o tipo lessicale: se questo oggetto, oltre che micròfono, potesse, da parte di
qualche parlante l’italiano, essere chiamato anche *microfòno, (o se, come del resto sarebbe
corretto parlando francese, fosse chiamato [mikʀoˈfɔn]), le parole [miˈkrɔfono],
*[mikroˈfɔno] e [mikʀoˈfɔn] sarebbero forme diverse (significanti diversi), aventi lo stesso
significato. Più precisamente, si tratterà di parole leggermente diverse nella loro forma,
riconducibili però a uno stesso tipo di formazione originaria (non come, poniamo, nel caso
di it. spugnola e fr. morille, parole nettamente diverse aventi entrambe, come significato,
quello del “fungo denominato scientificamente Morchilla esculenta”): parleremo dunque di
tipo lessicale (ad es., <microfono>, che sussume tutte le possibilità di variazione realizzate
all’interno di uno stesso gruppo di significanti formalmente affini tra loro. In altre parole,
le forme [mikʀoˈfɔn], [miˈkrɔfono], [mikroˈfɔno] appartengono tutte allo stesso lessotipo
<microfono>, mentre [spuˈɲɔla] e le sue eventuali varianti fonetiche e [moˈʀij], anch’essa
con le sue relative varianti fonetiche, appartengono a due diversi tipi lessicali (o lessotipi).
Etimo: per etimo si intende, in generale, la forma alla quale, tenendo conto dei mutamenti
intervenuti, si fa risalire una certa parola. Per esempio, dato il termine microfono, l’etimo
sarà il greco mikrós, “piccolo” e phoné, “suono”. In generale si parla di etimi vicini e di etimi
risalenti. Se io prendo per esempio la parola dettaglio, dovrò osservare che essa entra
nell’italiano per il tramite del francese: i miei professori più avvertiti mi dicevano sempre
“usa piuttosto particolare, che è parola italianissima, invece di dettaglio che è un
francesismo”. In realtà, il francesismo è poi entrato nell’italiano a pieno titolo e lo possiamo
usare tranquillamente; ma siamo consapevoli che il suo etimo prossimo è per l’appunto il
francese détail, mentre l’etimo “lontano” risale al latino DE + lat. tardo TALIARE.
14 | Scuola Latina di Pomaretto
Le piante dell’ALEPO
Una cosa diversa dall’etimo è la motivazione. Se riprendiamo per esempio il fitotoponimo
Pomaretto, possiamo affermare che una cosa è l’etimo, che è POMARIUM più il suffisso –
ETUM, mentre un’altra cosa è la motivazione: Pomaretto si chiama così presumibilmente
per la stessa ragione per cui Frassineto si chiama Frassineto, vale a dire a causa dell’esistenza,
al momento della fissazione del toponimo, di una quantità di meli (o di frassini nel caso di
Frassineto) tale da far indurre a designare in questo modo la località.
2. Alcuni spunti
Veniamo finalmente alla parte meno pedante, passando in rassegna alcuni esempi che mi
paiono interessanti. Ne riporto quattro.
2.1 Garibuia e Margherita
Il CANTHARELLUS CIBARIUS è quel fungo che molti conoscono come gallinaccio, cantarello,
finferlo. Nella maggior parte delle parlate del Piemonte (e non soltanto), è conosciuto come
garìtola. L’etimo di quest’ultima forma è abbastanza trasparente: siamo infatti in presenza di
una formazione con un suffisso –ULUS/-ULA, diminutivo, e con una prima parte, GARIT-.
Tanto è vero che, secondo il dizionario Pons/Genre, proprio garitto, priva di suffisso, è la
denominazione in uso in val Germanasca. Non è d’accordo il Baret (2005), che annota la
forma garitoulo: probabilmente, in questo caso i due dizionari non si riferiscono
esattamente alle stesse località. Ma l’interesse della garìtola non consiste tanto, in questo
caso, nella variazione delle forme attestate in Val Germanasca; quello che ci interessa, da
linguisti, è sapere da dove proviene questa denominazione. Come dicevo, la seconda parte
della parola ha un valore diminutivo, mentre la prima parte è attribuita da quanti si sono
occupati dell’etimologia di garitula, al lat. AGARICUM (a sua volta dal gr. agarikón, dal
popolo degli Agari), con metaplasmo di genere, spostamento dell’accento dalla [a] alla [i]
(conseguenza dell’aggiunta suffissale) e caduta della vocale iniziale, scambiata probabilmente
per la vocale dell’articolo la. Da GARICA, con dissimilazione della [k] che diventa [t],
otteniamo dunque la nostra garita. Una trafila etimologica, direi, quasi esemplare. Però
all’ovvietà dell’etimologia si contrappongono alcuni fatti un po’ strani: in alcune località
della Valle di Susa, e più precisamente dell’Alta Valle di Susa, di garìtole non ce ne sono, né
di cantarelli, finferli, gallinacci. Non esiste proprio la specie. Esiste invece qualche cosa che
potrebbe apparire curioso agli occhi di chi non abbia un po’ di pratica negli studi di
onomasiologia in generale, e di onomasiologia legata ai fitonimi in particolare.
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Tullio Telmon
Carta 3. Il gallinaccio nell’ALEPO
16 | Scuola Latina di Pomaretto
Le piante dell’ALEPO
Il fatto apparentemente curioso è che troviamo delle denominazioni apparentate con quelle
delle garitole, affibbiate però ad una serie di funghi diversi, principalmente al cardarello
(Pleurotus eryngii), un fungo che assomiglia molto al prataiolo, e che in Alta Valle di Susa
cresce soltanto ad altissime quote, sopra i 1800 m.
In numerose parlate dell’Alta Valle di Susa, il cardarello viene denominato gariboùllo (con
l’accento nuovamente spostato, questa volta per l’influsso dell’accentazione francese). Non
soltanto, ma se andiamo a Bardonecchia gariboullë è la denominazione generica di qualsiasi
fungo. “Ho mangiato funghi” si dirà “ho mangiato dë gariboulla”. La fonetica di questo
appellativo conduce immediatamente a pensare a Garibuia, che è quel personaggio mitico
dei racconti popolari, un po’ sciocco e sempliciotto, che metteva il portafoglio nella tasca di
qualcun altro per non essere derubato, o che si buttava nel mare per non far bagnare dalla
pioggia il vestito nuovo, e cose di questo genere. Si dice infatti “furbo come Garibuia”. Non
sarebbe allora da stupirsi che proprio questo nome proprio, e l’insieme burlesco delle
storielle popolari ad esso legate, abbiano esercitato una forma di attrazione paronimica e
condotto così a rimotivare una denominazione come garìtola/garitùlla/garibùlla, del tutto
opaca sia nell’etimo sia nella motivazione. A rafforzare l’accostamento paronimico con il
personaggio di Garibuia, sarà poi intervenuto il fatto che nel XIX secolo anche la letteratura
“colta” francese si è impadronita della figura di Gribouille, attestata fin dal Sermon des Foulx
del 15481, giocando sul significato di “scarabocchio”, che il sostantivo gribouille aveva nel
frattempo assunto nella lingua francese. Gribouille è a sua volta il deverbale di gribouiller,
prestito, come ci dice il Trésor de la langue française, dall’olandese kriebelen “fourmiller,
démanger, griffonner”, con sostituzione del suffisso –ouiller più espressivo in francese del
suffisso –eler. La popolarità di scrittrici come George Sand, autrice de L’histoire du véritable
Gribouille (1850) che trasforma Gribouille in un ragazzino molto sveglio e molto buono
d’animo, o come la Contessa di Ségur, autrice nel 1862 del romanzo La Soeur de Gribouille,
dove invece il personaggio risponde alle caratteristiche di dabbenaggine e di semplicioneria
che gli attribuiva (e continua ad attribuirgli) la tradizione popolare, avrà certamente
contribuito a rafforzare la fissazione dell’antroponimo nel mondo di cultura francese, cui
l’Alta Valle di Susa, anche dopo Utrecht, continuò ad appartenere per tutto il XIX secolo..
1
“Toute femme fillant quenoille Est plus sotte que n’est Gribouille”: cfr. Tresor de la langue française
informatisé (http://atilf.atilf.fr/tlf.htm).
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Tullio Telmon
Non dimentichiamo, infatti, che uno dei più potenti stimoli per il mutamento linguistico è
proprio quella che viene chiamata la paronimia, o la paretimologia, che è quel fenomeno
per cui, data una parola di cui non si riesce più a riconoscere la motivazione (e cosa meglio
di garìtola, in cui l’AGARICUM è un ricordo talmente lontano da essere del tutto offuscato e
opacizzato) subentra, da parte dei parlanti, l’attitudine a creare, a sostituire questa
denominazione con qualcosa di ben più conosciuto, anche a costo di perdere ogni affinità
con il referente. È così che garìtoula, per esempio, può diventare garìboula, e poi gariboùllo
o gariboulò, come in certi patois in cui si verifica la progressione dell’accento. Starà poi allo
studioso stabilire se continuare ad attribuire le nuove forme allo stesso lessotipo, o se non
debbano intervenire anche criteri semantici, come quando, in Alta Valle di Susa, la
gariboùllo può diventare o genericamente un “fungo” (a Bardonecchia), o un “cardarello” (a
Bardonecchia stessa, Chiomonte e Sestrière), o addirittura una “spugnola”, (Morchella
esculenta), a Giaglione, Mattie, Chianocco e Susa. Di fronte all’esplosione semantica delle
forme paronimiche che si richiamano a Garibuia/Gribouille, troviamo che il significato delle
forme di tipo garìtola, quelle cioè che hanno percorso la normale trafila fonetica, tende
invece a restringersi: in tutte le località in cui sono attestate, quali che siano le loro
particolari variazioni fonetiche, esse indicano tutte il CANTHARELLUS CIBARIUS. Non si
trova nessuna parlata in cui questo lessotipo assuma un significato diverso. Esattamente il
contrario di ciò che avviene per le denominazioni della Mazza di tamburo, che
commenteremo oltre (cfr. Carta 4).
Non prima di avere spiegato le ragioni di quella Margherita che ho apposto come titolo di
questo paragrafo. A Carema, Susa, Pramollo, Perrero e Villar Pellice il cantarello viene
chiamato margherita. Come già Garibuia, anche Margherita è un antroponimo, un nome
proprio di persona. Quale sarà la ragione per cui in queste località (fra le quali annoveriamo
tutti i punti delle Valli Valdesi in cui l’ALEPO ha condotto delle inchieste) il cantarello si
chiama margherita? Nella ricerca di motivazioni, la fantasia può correre in modo sfrenato,
come in genere avviene; può darsi che fra le tante giustificazioni che possono affacciarsi alla
mente ci sia anche quella giusta, ma necessariamente la maggioranza non lo è. Così, per
Margherita una prima reazione mentale può condurre a pensare ad Ascanio e Margherita, per
fare una citazione letteraria localmente pregnante (è il titolo di un bel romanzo di Marina
Jarre) ma sicuramente fuori bersaglio per la totale mancanza di attinenza, oltre che per
motivi cronologici2; può anche essere riferito al senso etimologico della parola margherita,
2
Il fungo era infatti chiamato margherita ben prima della pubblicazione (1990) del romanzo storico della Jarre.
18 | Scuola Latina di Pomaretto
Le piante dell’ALEPO
ovvero la perla, per intendere che si tratta della perla dei funghi, ma sembra un po’
stravagante… La realtà è molto più banale e, se vogliamo, deludente: margherita non è altro
che un’ulteriore corruzione di questo stesso AGARICUM iniziale: come garitto, anche
margaritto è il risultato di GARICA/GARITA. La differenza, rispetto alle forme di tipo
garitto/garìtulo, sta nel fatto che, non altrimenti che per la gariboullo, i parlanti hanno ad un
certo punto sentito il bisogno (una parte non piccola la gioca una intrinseca attitudine
ludica e burlesca dei parlanti quando si tratta di riflessione linguistica) di rimotivare il
lessema, privo di ogni trasparenza. Ne è uscita una Margherita, che, esattamente come
Garibuia, non ha ovviamente nulla a che fare con il nostro fungo.
2.2 La cuccuma
Passiamo ora alle denominazioni della mazza di tamburo. Anche qui le cose sono strane, ma
sembra di poter vedere nella carta dell’ALEPO un percorso esattamente contrario a quello
descritto per garitola. Il termine garitola ha un unico significato dappertutto; diverso è il
caso della cuccumella. Anche in questo caso, la base etimologica è banale, CUCUMA, che è
una parola della medio-tarda latinità, la cui prima attestazione è in Petronio.
Ho provato a tradurre un po’ in cifre ciò che si può rilevare dalla carta n. 18 dell’ALEPO
I,III e dalle altre carte in cui sono riscontrabili forme risalenti al lessotipo <cuccum(ell)a> e
ne ho ricavato la tabella che segue, per realizzare la quale ho disposto sull’asse orizzontale
(vedi la prima riga) i numeri delle carte ALEPO in cui sono riscontrabili delle forme di tipo
<cuccum(ell)a>, ed ho invece elencato verticalmente, con numerazione in corsivo, i punti
dell’ALEPO in cui tali forme sono state riscontrate. La legenda è la seguente:
a) titoli delle carte: 1 fungo; 5 fungo lamellare; 6 fungo epifita a forma di lingua; 8
fungo velenoso; 13 ovolo buono; 16 ovolo malefico; 18 mazza di tamburo; 24
prugnolo; 28 gallinaccio; 32 prataiolo; 38 coprino; 41 lattario volemo; 43 lattario
buono; 45 colombina rossa; 66 lingua di bue; 68 agarico bianco; 76 vescia.
b) Numeri dei punti: 014 Rocca Canavese; 022 Boves; 023 Piasco; 025 Pamparato; 120
Ribordone; 210 Chialamberto; 230 Lemie; 320 Giaglione; 330 Mattie; 340
Chianocco; 350 Susa (San Giuliano); 360 Condove (Prato Bottrile); 370 Coazze;
380 Bardonecchia (Millaures); 410 Pramollo; 420 Sestrière (Borgata); 430 Perrero
(San Martino); 440 Villar Pellice; 510 Oncino; 520 Bellino; 530 Sampeyre; 620
Cartignano; 630 Monterosso Grana (Coumboscuro); 720 Aisone; 810 Entracque;
920 Frabosa Soprana; 930 Briga Alta (Upega).
Coltivare Parole | 19
Tullio Telmon
Carta 4. La mazza di tamburo nell’ALEPO
20 | Scuola Latina di Pomaretto
Le piante dell’ALEPO
Tavola 1. I 17 diversi funghi designati nell’ALEPO da forme risalenti al tipo <cuccuma>
1
5
6
8
13
16
18
24
28
32
38
41
43
45
66
68
76
520
520
014
022
025
023
023
025
025
023
025
025
120
120
210
210
210
210
230
320
330
340
340
350
360
360
360
370
380
380
410
420
430
440
440
510
520
520
510
520
530
620
630
630
630
620
620
630
630
720
810
810
810
810
810
810
810
810
820
910
920
920
930
Coltivare Parole | 21
Tullio Telmon
La lettura di questa tabella è molto interessante: notiamo anzitutto che nella colonna 18,
alla voce “mazza di tamburo”, sono ben 23 i punti in cui è attestato il tipo <cuc(c)umella>
per la designazione della mazza di tamburo. Desta però una ancor maggiore attenzione la
constatazione che vi è un’altra colonna, quella derivante dalla carta 38 cuprino comato, un
fungo di dimensioni leggermente inferiori a quelle della macrolepiota (può raggiungere al
massimo i 20 cm di altezza), di colore bianco finché, invecchiando, si fa nero come
l’inchiostro, che a sua volta interessa un discreto numero di località. Il cuprino ha in
comune con la mazza di tamburo il fatto che, proprio come quella, nel suo primo sviluppo
forma una specie di batacchio che poi si apre e diventa simile a un ombrello. E non è un
caso che, dopo la mazza di tamburo, sia questo il fungo per il quale la denominazione
cucumella ricorre con maggior frequenza (Chianocco, Condove, Chiomonte, Villar Pellice,
…). In ben nove punti la cucumella non è dunque più (o non è più soltanto) la mazza di
tamburo ma il cuprino, molto affine dal punto di vista della forma, diversissimo dal punto di
vista del sapore, che – fintanto che è edule - è decisamente migliore di quello della mazza
di tamburo. Ma la lettura più interessante è forse quella semasiologica, quella cioè che ci
consente di sapere quanti diversi significati può assumere (o meglio, a quanti diversi
referenti può connettersi) il significante-tipo <cuc(c)umella>. Se infatti, scorrendo
verticalmente la colonna, scopriamo in quanti e in quali punti il lessotipo significa “mazza
di tamburo”, leggendo orizzontalmente la tabella scopriamo che questo può indicare 15
diversi funghi (comprendendo anche valori generici come “fungo”, o “fungo velenoso”,
ecc.). A 520 Sampeyre, per esempio, la denominazione è attribuita contemporaneamente
alla mazza di tamburo, al fungo inteso genericamente (quello che a Bardonecchia era
chiamato gariboullo), al fungo velenoso e ancora ad altri funghi, come l’agarico buono e la
vescia (che, pur priva di gambo, avrà evidentemente in comune la rotondità). A Entracque,
la lettura orizzontale permette di contare fino a otto funghi diversi denominati tutti
cuccumella; a Bellino e a Monterosso Grana ne individua cinque. Da questo possiamo
dedurre che questa cuccumella, questa piccola cuccuma, è sulla strada per diventare, non
diversamente da quel che era accaduto per la gariboullo a Bardonecchia, la denominazione
generica per il fungo. E infatti, se noi consultiamo lou Saber3, vediamo che effettivamente, a
Bellino, la denominazione generica del fungo può essere sia boulé, che è un evidente
piemontesismo, sia, per l’appunto, cucamèllo, termine che indica il fungo generico e anche,
3
Cfr. Lou Saber in Bibliografia.
22 | Scuola Latina di Pomaretto
Le piante dell’ALEPO
con la specificazione cucamèllo quë tubo, “c. che fuma”, la vescia, che, schiacciata quando la
maturazione è molto avanzata, lascia fuoruscire la sua gleba, diventata pulverulenta. Sempre
a Bellino, la Cucamèllo jaouno è un altro fungo ancora, e così via: per designare un fungo
particolare, il termine ha bisogno di essere accompagnato da una determinazione; dunque, è
sulla via per diventare una denominazione generica, esattamente come la gariboullë a
Bardonecchia.
2.3 Marmottiere e mulattiere
Passiamo a un altro esempio, non meno interessante. Una larga parte delle parlate del
Piemonte occidentale possiede due parole, marmottiera e mulattiera, per le quali occorre
distinguere fra un significato trasparente e un significato opaco, da scoprire quasi come in
filigrana. Il significato trasparente del tipo <marmottiera> (localmente marmoutèra o forme
variamente differenziate foneticamente) è quello di “luogo popolato da marmotte”: banale,
elementare, evidente. <mulattiera> è a sua volta una strada (o meglio, un largo sentiero o
un itinerario) o comunque un luogo di passaggio dei muli. Le due parole hanno anche dato
luogo a dei toponimi: le carte dell’IGM ci mostrano la presenza di pendii denominati
Marmottiera un po’ dappertutto. Se ci fermiamo al significato trasparente, alla domanda
“perché si chiama marmottiera quella montagna?”, possiamo facilmente rispondere “perché
ci sono tante marmotte”. Altrettanto numerose sono anche le cime denominate Mulattiera.
Per analogia, alla domanda “perché si chiama mulattiera?” verrebbe fatto di rispondere
“perché ci passano i muli”.
Invece marmottiera è sì la denominazione di un luogo popolato da marmotte, ma non dalle
marmotte animali, bensì dalle marmotte vegetali. Esiste infatti una pianta, una Rosacea
chiamata pruno di Briançon (nome scientifico
PRUNUS BRIGANTIACA), la cui
4
denominazione è, appunto, marmotto , nelle parlate provenzali alpine dell’Alta Valle di
Susa. Produce delle piccole prugne, prive di gusto, anzi persino un po’ allappanti, ma molto
importanti, fino agli anni ’50 dello scorso secolo, nell’economia della zona di Briançon,
perché dal nocciolo, anzi più precisamente dalla minuscola mandorla contenuta dentro il
nocciolo di questi frutti, si ricavava, per spremitura, un pregiatissimo olio utilizzato sia per
l’alimentazione sia per l’illuminazione. Dunque, la Marmottera è non già un luogo popolato
da marmotte, ma una sorta di pruneto; là dove si è voluto creare un toponimo con il
significato di “luogo popolato di marmotte (roditori)” troviamo spesso, per contro,
4
Nelle parlate più meridionali, sia del Piemonte sia della Provenza, la denominazione è invece afàtou, o sim.
Coltivare Parole | 23
Tullio Telmon
denominazioni di tipo <dormiouza>: la parola è infatti una delle denominazioni con cui
sono chiamate le marmotte/animali in talune parlate provenzali alpine.
Per quanto riguarda la mulattiera, dobbiamo far osservare che un ulteriore zoonimo è
impiegato o piuttosto era impiegato fino a non molto tempo fa (ormai è quasi dovunque
sostituito da marmotto) nei patois delle alte vallate occitane cisalpine per designare la
marmotta/animale. Si tratta di <muret>, la cui etimologia è dibattuta, anche se pare a me 5
ampiamente accettabile quella di lat. MUREM “topo” + suff. dim. –ITTU). Per spiegare però
la ragione per la quale nelle alte vallate del Piemonte occidentale, se riferito a cime o a
pendii il toponimo Mulattiera va motivato con le marmotte e non con i muli, occorre
inserire una piccolissima nota di fonetica storica: bisogna sapere, infatti, che in
numerosissime parlate (tanto provenzali alpine quanto francoprovenzali) della Valle di Susa
le consonanti laterali latine [l] e [r] sono sottoposte, specie se in posizione intervocalica, ad
un processo di convergenza, di avanzamento e di spirantizzazione, tendendo così a divenire
delle fricative interdentali. Il <muret> è quasi dovunque realizzato come [myˈ∂et] (dove [∂]
rappresenta appunto questa fricativa). Poiché, come si è detto, questo fenomeno interessa
sia la vibrante [r] sia la laterale [l], è facile immaginare che i topografi che, chiedendo il
nome di una certa montagna, sentivano pronunciare qualche cosa come [my∂aˈtje:∂a],
rendessero poi tale denominazione, nelle carte italiane, con Mulattiera. Gli incaricati dei
rilevamenti topografici erano infatti italiani e parlavano presumibilmente solo italiano e,
magari, qualche dialetto italoromanzo. Mentre un [myˈlet] poteva accostarsi al loro muletto,
e perciò al mulo, un [my’∂et] non poteva certo rimandarli alla marmotta. E se anche
avessero trasposto il toponimo dialettale in un it. *Murattiera, il toponimo ricavato avrebbe
continuato ad essere del tutto opaco. D’altro canto, anche ammesso che fossero stati in
grado di conoscere il vero significato di [my∂aˈtje:∂a], anche la traduzione italiana in
*Marmottiera6, accettando il significato e sacrificando il significante, non sarebbe
comunque stata soddisfacente. Resta il fatto che è difficile pensare che i muli passassero per
le cime; i muli passavano piuttosto per le vere mulattiere, sentieri che attraversavano i colli,
non le vette. Mentre la maggior parte delle nostre Mulattiere indica proprio delle punte o,
in alternativa, dei pendii che conducono verso la cima di una montagna. E sono popolate da
marmotte, non da muli.
5
Cfr. Telmon (2003) e Telmon (2006).
In realtà, tale toponimo esiste, nelle carte IGM della Valle di Susa. È però molto probabile che si tratti di un
toponimo fornito da parlanti nei cui patois si era già verificato la sostituzione di [myˈ∂et] con [marˈmotto].
6
24 | Scuola Latina di Pomaretto
Le piante dell’ALEPO
2.4 Le contraddizioni dei lariceti
Anche l’ultimo esempio che porterò qui è legato allo sterminato campo della fitotoponimia.
Una delle piante che hanno maggiormente contribuito alla formazione di fitotoponimi è
senza dubbio il larice (Larix decidua o Larix europaea): sull’intero arco delle Alpi, troviamo
toponimi che ad essa si rifanno, a partire da Ovest, dove i toponimi traggono origine per lo
più dalla base *MALICEM/*MELICEM (pensiamo ad es. a Malzat, frazione di Ghigo di Prali)
oppure, sulle Alpi Graie, dalla base *BRENGA/BRENVA (celebre il Ghiacciaio della Brenva, su
Courmayeur7), per arrivare fino alle Dolomiti e alle Alpi orientali dove al
*MALICEM/*MELICEM sono già subentrate le forme originate dal lat. LARICEM (citiamo ad
es. i numerosi Larsec delle Dolomiti, tra i quali spicca la Cima di Larsec (2.891 m), nel
gruppo del Catinaccio). Le ragioni per le quali proprio questa pianta ha così intensamente
sollecitato la creatività toponomastica sono facili da intuire: l’attività denominativa era
infatti spesso strettamente legata alla funzionalità economica delle conoscenze o alle
tassonomie botaniche delle comunità alpine: i montanari davano la massima importanza
soprattutto agli alberi utili per la costruzione di case o per il riscaldamento o per la
costruzione di mobili e di attrezzi, e alle erbe o piante buone per il fieno, velenose,
medicinali, infestanti. Quanto al larice, poi, non soltanto viene ancora oggi considerato il
più adatto per la travatura delle case, ma è apprezzatissimo anche per la produzione, a
partire dalla sua resina, della trementina, nonché per la “manne de Briançon”, come viene
chiamata popolarmente quella specie di escrezione che, sotto forma di goccioline quasi
impercettibili, cade appunto dalle foglie dei larici: in modo particolarmente intenso, a
quanto si dice, proprio nella zona di Briançon. Il fenomeno è conosciuto anche dal punto di
vista scientifico: lo zucchero che è contenuto nella manna di Briançon è detto infatti
“melezitosio”, e pare che il responsabile della formazione di questa manna, e per
conseguenza del fenomeno della “pioggia di manna”, sia un insetto parassita del larice,
chiamato Cinara laricis.
In Alta Valle di Susa, Melezet ([meŕeˈze]) è il nome di una delle frazioni di Bardonecchia8.
Il toponimo è trasparentissimo: è un derivato, con il suffisso in –ETUM, della base
7
Per farsi un’idea della grande produttività di questa base nella microtoponomastica valdostana, basti
consultare uno qualsiasi dei bei volumi prodotti dal progetto “Enquête toponymique en Vallée d’Aoste”. Per
citarne uno scelto a caso, troviamo ad es., nel volume Arnad Top. (Bassa Valle), (pp. 47-48) i seguenti
fitotoponimi: La Brènga (due volte), La Brènga Ròssa, La Brènga Sètse, Le Brèngue de Rossignout, Le
Brenguereé, Le Brenguét.
8
Cfr. Di Maio (2001); Telmon (2001).
Coltivare Parole | 25
Tullio Telmon
*MALICEM/*MELICEM “larice” che ha dato luogo anche al fr. mélèze. Dunque: [meŕeˈze] =
lariceto.
Tutto sarebbe molto semplice e lineare, se non fosse per il piccolo particolare che la
denominazione del larice nella parlata del Melezet, così come in quasi tutte le parlate
dell’Alta Valle di Susa e del Brianzonese, non ha nulla a che fare con *MELICEM. In
quest’area, corrispondente all’incirca con gli antichi Escarton delfinatesi di Briançon e di
Oulx, la denominazione del larice non è *[meˈŕɛze] o *[ˈmɛŕze], come pure ci si potrebbe
aspettare partendo dal toponimo del paese, ma [bleˈtuŋ]. E sono infatti numerosi, in questa
stessa zona, i toponimi di tipo Bletonney, Bletonnet, formati esattamente come Melezet e
come, altrove, Larzèi e simili o Brenguereé e simili. E l’appellativo più frequente per
“lariceto”, nel patois del Melezet è, a sua volta, bletounìë.
Ora, sia il bletoun sia il mélèze sono denominazioni prelatine del larice. Il primo, però, è
ristretto in un’area che comprende le parlate provenzali dell’Alta Valle di Susa e quelle del
Brianzonese9, mentre il secondo non soltanto ha un areale assai più vasto, ma ha fornito la
materia prima linguistica per consentire un prestito a lingue di assai più largo prestigio,
quale il francese e quale il piemontese. Le possibilità sono perciò, in questo caso, due: o il
bletoun si è imposto in un momento successivo (ma sempre molto antico), soppiantando il
precedente mélèze rimasto soltanto nella toponomastica; oppure il toponimo di Melezet è
nato (o è stato rimodellato) come formazione “dotta”, estranea al proprio ambiente
linguistico, in omaggio alla lingua della cultura, che era il francese. Ma, e qui viene
l’ulteriore complicazione del problema, il termine mélèze si affaccia nella lingua francese
soltanto nel 1552, come attestano Dauzat, Dubois e Mitterand (1988)10, come prestito
acquisito a partire proprio dalle parlate delfinatesi. E nel 1552, Melezet esisteva già da un
pezzo…
9
Il tipo <bletoun> è attestato anche in Val Germanasca, attigua sia all’Alta Valle di Susa sia alla valle
brianzonese di Abries (cfr. Pons/Genre 1997, p. 38), con il significato specifico di «giovane pianta di larice;
blëtounâ, blëtouné, s.f. lariceto di giovani piante»: significato molto coerente con quello che si suole attribuire
alla radice BLET- “germoglio giovane sorto alla base del tronco o dal ceppo dell'albero tagliato”. Non se ne
trova più traccia nel dizionario di Angrogna (Sappé 2012) né, tanto meno, in quelli di area cuneese.
10
Si noti che, in Rabelais, la pianta viene chiamata melze. La trafila del passaggio dall’antico delfinatese (dove
è attestato fin dal 1313) al francese, e la data della prima attestazione in questa lingua, sono confermate dal
TLF informatisé, s. v. mélèze. Quanto al piemontese malëzzo, cfr. REP. In quest’ultima opera si afferma però
che, nel piemontese, la voce proverrebbe dal francese. Io credo invece che anche le parlate pedemontane, come
il francese stesso, l’abbiano ricevuta prima dalle parlate provenzali e francoprovenzali alpine, e che il suo
accoglimento nel francese abbia soltanto consolidato la sua integrazione nel lessico pedemontano.
26 | Scuola Latina di Pomaretto
Le piante dell’ALEPO
Personalmente, sarei propenso a credere che in Alta Valle di Susa soltanto nel Medioevo
bletoun sia sopravvenuto a ricoprire un precedente strato di mɛŕze, penetrando come
prestito proveniente da Briançon, dove probabilmente, accanto al melze attestato anche da
Rabelais nel Tiers Livre come parola improntata dagli “Alpinois”, occupava un ruolo
semanticamente specializzato proprio per designare il larice “da manna”.
Tavola 2. Schema delle denominazioni (proto)tipiche del larice (Larix decidua) ad Ovest e ad
Est della catena alpina
Francese: mélèze [meˈlɛz]
Italiano: larice [ˈlariʧe]
FP W
[meˈlɛz]/[ˈbrɛnʤi, -ɡa]
FP E
[ˈbrɛnva, -ʤa]/[maˈløzːu]
OC W
[ˈmɛlze]/[bleˈtuŋ]
OC E
[bleˈtuŋ]/ [ˈmɛrze]
galloitalico
pedemontano
[maˈløzːu]
galloitalico ligure
[ˈarzu]
Bibliografia
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Occidentale. Il mondo vegetale. Alberi e arbusti, Priuli & Verlucca, Pavone Canavese 2005.
ALEPO I-ii - S. Canobbio, T. Telmon (dir.), Atlante linguistico ed Etnografico del Piemonte
Occidentale. Il mondo vegetale. Erbacee, Priuli & Verlucca, Pavone Canavese 2007.
ALEPO I-iii - S. Canobbio, T. Telmon (dir.), Atlante linguistico ed Etnografico del Piemonte
Occidentale. Il mondo vegetale. Funghi e licheni, Priuli & Verlucca, Pavone Canavese 2004.
ALEPO I - S. Canobbio, T. Telmon (dir.), Atlante linguistico ed Etnografico del Piemonte
Occidentale. Il mondo vegetale. Indice dei tipi lessicali e altre modalità di consultazione, Priuli &
Verlucca, Pavone Canavese 2008.
ALF – J. Gilliéron, Atlas Linguistique de la France, Parigi, Champion 1902-1912.
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Tullio Telmon
ALJA – J.B. Martin, G. Tuaillon, Atlas Linguistique et Ethnographique du Jura et des Alpes du
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CNRS 1975-1983 e 2016.
APV – S. Favre, G. Raimondi (resp.), Atlas des Patois valdôtains, in redazione ad Aosta,
presso il Bureau régional pour l’Ethnographie et la Linguistique.
Arnad Top. – I. Cunéaz, N. Joly (préparation et coordination, révision des textes) (2009),
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Bordet e N. Joly.
BARET (2005) – G. Baret, Disiounari dâ patouà dë la Val San Martin. Dizionario della
parlata occitanica provenzale alpina della Val Germanasca. Introduzione di Claudio Tron,
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Sappé, J.L. (2012), Lou Courousèt e la furmìa. Piccolo dizionario delle parlate occitane della
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TELMON (2001) – T. Telmon, Presentazione, in DI MAIO (2001), pp. 7-9.
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in onore di Alexis Bétemps, Aosta, pp. 153-160.
TELMON (2006) - Ancora marmotte, in “Quaderni di semantica” XXVII, 1-2, pp. 421-434.
TLF informatisé - Trésor de la langue française informatisé (http://atilf.atilf.fr/tlf.htm).
28 | Scuola Latina di Pomaretto
Lo sa il fiore che cos’è l’amore
Alexis Bétemps
L’uso simbolico delle piante è antico e generalizzato in tutte le culture o quasi 1. «I fiori e le
piante sono sempre stati presenti nelle feste popolari religiose e civili, perché esprimono,
meglio di quanto sapremmo fare noi, i sentimenti di gioia, di amore o di tristezza del
nostro cuore»2. E non solo esprimono, ma rivelano anche il carattere di chi li porta. Nel
Canavese, alle porte della Valle d’Aosta, si dice in piemontese: «Fiore in testa, donna
onesta; fiore in bocca, donna sporca; fiore al petto, donna di rispetto»3. Ma i fiori non
hanno dovunque la stessa importanza e, soprattutto, lo stesso simbolismo. Inoltre, le piante
simboliche non sono necessariamente le stesse dappertutto e le credenze popolari, sovente,
andavano oltre il simbolismo attribuendo poteri speciali alle piante: per scongiurare pericoli
o per invocare aiuto, per esorcizzare il passato o predire il futuro, per conoscere i battiti dei
cuori altrui o per favorire gli slanci del proprio. Tali credenze erano frequenti in Valle
d’Aosta come, in genere, in tutte le società contadine (e non solo). Specie vegetali
particolari erano utilizzate: intrecciate, riunite in mazzettini, appese a una parete o nascoste
in una parte del corpo, fresche o accuratamente seccate all’ombra, raccolte in un giorno
speciale o benedette in chiesa, intere o solo parti di esse.
Come già detto, molti di questi usi non sono dunque peculiari della Valle d’Aosta ma son
diffusi, con differenze più o meno accentuate, anche nelle zone vicine; alcuni possono essere
addirittura internazionali, europei. È il caso, per esempio, della margherita sfogliata: le
giovani adolescenti valdostane sfogliavano la margherita, e così pure gli adolescenti maschi,
anche se se ne vergognavano un po’ e non lo riconoscevano … Era per accertare la qualità e
1
Sembra che le culture africane, antecedenti alla cristianizzazione e all’islamizzazione, non attribuiscano
significati particolari ai fiori e non ne facciano un uso simbolico. Il fiore sarebbe, per loro, semplicemente la
promessa del frutto (cfr. Goudy, J. (1994), La culture des fleurs, Paris, Éditions du Seuil).
2
Duc-Teppex, J. (1899), «La Fête-Dieu», in Le Mont-Blanc. Journal politique, administratif et agricole de la
Vallée d'Aoste (2 giugno 1899).
3
«Fiour an teta, fumna unesta; fiur an buca, fumna sporca; fiur ant lo stome, fumna de respet» (da una
testimonianza di Ilda Dalle di Donnas, intervistata da Alexis Bétemps, luglio 2011).
Alexis Bétemps
la profondità del sentimento della persona amata o anche solamente ambita: «mi ama un
po’, tanto, teneramente, appassionatamente, alla follia, finché morte non ci separi, per
niente … »4. Con formule più o meno simili, questa usanza conosce una vastissima area di
diffusione ed è praticamente impossibile, oltre che inutile, individuarne il luogo di origine.
Altre giovani ispezionavano i prati in cerca del quadrifoglio, noto portafortuna. Fortuna per
tutte le cose, e anche per l’amore. C’erano ragazze particolarmente dotate che ne scovavano
sempre, altre che non riuscivano a vederne uno. Ma non si saprebbe dire quali hanno poi
avuto più fortuna nella vita … A Cogne, le ragazze che trovavano un quadrifoglio, «lo
infilavano subito nella giarrettiera: avrebbero sposato un uomo dallo stesso nome del primo
ragazzo che incontravano»5. A Nendaz, nel Vallese svizzero, il quadrifoglio non era
considerato un portafortuna come a Cogne, ma era utilizzato dalle ragazze come strumento
divinatorio: «infilato nella calza, sotto il tallone sinistro, avrebbe permesso alla ragazza di
vedere in sogno, la notte seguente, il futuro sposo»6. È la stessa usanza con sfumature
diverse. Il quadrifoglio, soprattutto se rinvenuto per caso la vigilia di San Giovanni in
estate, veniva fatto seccare e conservato tra le pagine di un libro, talora persino nel
Messalino, accanto a una viola del pensiero o a un edelweiss. Tale pratica è, probabilmente,
relativamente recente e di origine cittadina.
All’alpeggio, le ragazze valdostane cercavano delle risposte interrogando il fiore dell’amore
per eccellenza, bello, fragile, profumato e ambiguo, come il sentimento che rappresenta: la
nigritella7.
«La nigritella è per gli alpigiani un fiore fatidico, ed essi chiedono al bizzarro intreccio delle
sue radici, quali sono i segreti pensieri delle persone amate» 8. «Si estirpava un fiore e se le
sue radici, a forma di due piccole mani, erano incrociate, significava che si era amati e che il
4
«Me lame an mia, bièn, avouéi tandresse, avouéi pachón, comme eun foou, tanque a la mor, rèn di tot … ».
Concours Cerlogne, Scuola elementare di Gimillian, in CEFP, a cura di (1987), Le mariage, Musumeci
Editore, Quart (Valle d’Aosta): «Se vegnèn a trouvè èn triolet de quatro foillelou beuttèn veutcho a la
tsalatéire et mayèn pouéite un que l’avè lou mémo non dou prèmié ommo que rencontrèn».
6
Schüle, R.-C. (2011), Les vouivres dans le ciel de Nendaz, Baden und Jetzt. In Valle d’Aosta, per vedere « le
sembianze » del futuro sposo non ancora apparso all’orizzonte, le ragazze, alla vigilia dell’Epifania, esponevano
la notte sul davanzale una scodella d’acqua. Il gelo notturno avrebbe disegnato sul ghiaccio i caratteri fisici del
promesso sposo o qualche particolare del suo mestiere. Certo, era tutto da interpretare … Se l’acqua non
gelava era un pessimo segnale, ma all’epoca gli inverni erano piuttosto rigidi e puntuali …
7
Si tratta dell’orchidea vanigliata (Nigritella nigra) e come per tutte le orchidee la sua relazione con la
sessualità umana è generalizzata nelle Alpi. D’altronde il suo nome deriva da ORCHIS, in greco testicolo.
8
Savi-Lopez, M. (1886), Le Valli di Lanzo, Torino, Libreria Editrice Brero.
5
30 | Scuola Latina di Pomaretto
Lo sa il fiore cos’è l’amore
matrimonio era prossimo; in caso contrario, bisognava aspettarsi un tradimento, un
abbandono o, peggio ancora, una vita coniugale infelice»9.
Figura 1. Nigritella in Valgrisenche. Foto di Alexis Bétemps
In Valle d’Aosta, la credenza è già attestata verso la fine del XIX secolo ed è sicuramente
molto più antica «È un ingrediente per innumerevoli filtri d’amore, è portata come amuleto
dagli amanti, uomini e donne, ed è spesso grazie ad essa che unioni ritenute impossibili si
realizzano con la fortuna ed il trasporto degli amori violenti e appassionati. È il rimedio
quasi certo per gli scapoli e le signorine oramai trentenni. Non è più necessario fare ricorso
alla chiromanzia, né alla negromanzia e neppure alla cartomanzia. Non ci saranno più cuori
ribelli né suicidi d’amore disperati. Abbiate sempre con voi questo piccolo fiore … » 10. La
convinzione che la nigritella sia il fiore degli innamorati è attestata anche altrove nelle Alpi
e, in modo particolare, nel Tirolo11.
9
Aa. Vv. (1996), Le mariage, Esposizione alla Maison de Mosse.
«Elle rentre dans les philtres amoureux, est portée comme amulette par les amants des deux sexes et l’on
voit souvent grâce à elle, des unions, que l’on croyait impossibles, se nouer avec toutes les chances et tous les
transports d’amours violents et passionnés. C’est là un spécifique assuré presque, par les vieux célibataires et
pour les demoiselles qui ont franchi la trentaine. Plus besoin de chiromancie, ni de nécromancie, ni de
cartomancies, plus de cœurs rebelles, plus de désespoirs ni de suicides amoureux! Ayez toujours sur vous une
petite racine de cette fleur…» Muphuoril-el-Jiser., pseudonimo di uno scanzonato giovane Vuillermin di
Brusson, Directeur et gérant del Courrier des eaux, settimanale rabelaisiano, come lo definisce il suo direttore,
di cui però conosciamo solo questo numero del 19 luglio 1874 (informazione fornita da Jean Voulaz).
11
Polia, M. (2007), Vótornéntse, profilo di una cultura alpina, Quart (Valle d’Aosta), Musumeci Editore.
10
Coltivare Parole | 31
Alexis Bétemps
Nel Biellese, sarebbe piuttosto il fiore dell’amicizia. Si può preparare un decotto con le sue
doppie radici e servirlo: se le radici sono intrecciate, porteranno la concordia, se sono
divergenti, la discordia12. Ma la radice della nigritella è anche afrodisiaca, la mandragora dei
poveri: «Era un eccitante. Si faceva seccare e si mischiava al caffè. Così dicevano i vecchi, io
non ho mai provato … »13. Evidentemente! Ma la nigritella è anche tante altre cose. È il
doppio e l’opposto nello stesso momento. Simbolizza la felicità e la disperazione, il bene e il
male, la mano di Dio e la zampa del diavolo, il maschile e il femminile, l’uomo e la donna
… E non soltanto!
Figura 2. Le radici della nigritella. Foto Alexis Bétemps
12
Sella, A. (1992), Flora popolare biellese, nomi dialettali, tradizioni e usi locali, Edizioni dell’Orso,
Alessandria.
13
« L’ie eun eccitante. Se beuttae sètchì pi se beuttae deun lo café. Mé n’i jamì prooù. Diaon le vioù » Isabel
Pina (Testimonianza di) di Saint-Christophe, intervistata da Alexis Bétemps il 28-10-2011.
32 | Scuola Latina di Pomaretto
Lo sa il fiore cos’è l’amore
Tante sono le credenze legate al suo nome come tanti sono i suoi nomi. Anche solo nella
piccola Valle d’Aosta: in alta valle, è chiamata tsancón, fionda, breunetta, tanetta, manetta,
fleur de l’euntsantemèn. I nomi stessi sono già indicativi: i primi due, tsancón e fionda, sono
di interpretazione oscura e dunque di probabile origine antica; breunetta, tanetta, si
riferiscono al suo colore, il bruno rossiccio; manetta, indica la sua forma di piccola mano e
fleur de l’euntsantemèn la introduce nell’universo magico che è il suo. Nella media e bassa
valle la si chiama con dei nomi completamente diversi: fiour de la cayà a Estoul (Brusson),
calleretta a Champorcher, caillera a Pilaz (Fontainemore), caïrà a They (Lillianes), caillà a
Perloz, fiour de la broha14 à Donnas, fleur de l’éprémoù15 a Nus16, che significano
sostanzialmente “fiore del caglio”. Tutti nomi che sottolineano la sua stretta relazione col
mondo dell’alpe. Il suo ruolo mitico è dunque profondamente legato all’alpeggio. Infatti, la
nigritella gode di un’altra bizzarra fama che conferma e evidenzia la sua ambiguità: in alcune
parrocchie valdostane, si ritiene che essa impedisca al latte di rapprendersi e che perciò sia
temuta dai pastori; in altre, si pensa esattamente il contrario, che cioè non solo favorisca la
coagulazione del latte, ma gli conferisca anche il suo profumo vanigliato … In Savoia, la
nigritella è temuta dai casari: basta sfregarla sulla caldaia perché la pasta del formaggio vada
a male: «Portarne con sé in una casa d’alpeggio indica pertanto cattive intenzioni e si può
essere trattato come un malfattore»17. Questo suo potere contraddittorio, in particolare in
Valle d’Aosta dove le due credenze opposte convivono, trova la sua spiegazione mitica a
Valtournenche, nella variante locale della leggenda dell’Uomo selvatico. Si pensa che questo
fiore abbia invertito i suoi poteri in seguito alla maledizione dell’Uomo selvatico che, che
dopo aver insegnato agli uomini come si fa il formaggio usando la nigritella come caglio,
deluso dalla loro ingratitudine, li ha puniti trasformando la nigritella in fiore che impedisce
al latte di coagularsi, e dunque di diventare formaggio 18. Pare anche che il fiore avesse un
altro potere che l’Uomo Selvatico non ha mai voluto rivelare agli uomini: quello di ottenere
14
Brossa o breussa negli altri patois valdostani. Materia grassa estratta dal siero del latte dopo aver fatto la
fontina. Era un alimento apprezzato e poteva essere usata per la fabbricazione di un burro di seconda qualità.
15
Siero residuo che fuoriesce dalla spremitura della pasta di formaggio fresco.
16
Per i nomi dei fiori in francoprovenzale vedere Lavoyer, I. (1994), Glossologie et flore des Alpes, Aosta,
Imprimerie Valdôtaine.
17
Chabert, A. (1895), De l’emploi populaire des plantes sauvages en Savoie, Chambéry, Imprimerie Nouvelle.
Comunque, anche in Savoia la tradizione non sembra essere univoca: la donna-selvaggia dell’alpeggio di
Mévonne, in Alta-Savoia, sembra attribuire il potere di far rapprendere il latte al timo serpillo.
18
Polia, M. (2007), Votornéntse. Profilo di una cultura alpina, Quart (Valle d’Aosta), Musumeci Editore.
Coltivare Parole | 33
Alexis Bétemps
lo zucchero dalla recuite, il latticello, l’ultimo, che avanzava dopo la preparazione del sérac19.
E non è finita: si attribuiva alla nigritella anche il potere di “camminare”: «Papà diceva che
la nigritella si sposta: la sua mano bianca diventa nera, la nera muore e, un pochino più
lontano, un’altra bianca si forma. È così che si sposta»20. Una mano dopo l’altra. Alla fine
del XIX secolo, molti naturalisti chiamavano ancora viaggiatrici le orchidee delle diverse
specie: «Tutte queste piante camminano, in effetti, le più piccole possono appena percorrere
la distanza di un metro in cinquant’anni, mentre le più grandi, in appena vent’anni, possono
forse percorrere lo stesso cammino». Ma stiamo tranquilli, l’autore anonimo dell’articolo
che si firma “Un amico della flora”, aggiunge: «Tuttavia non bisogna credere che per questo
tali piante rappresentino una transizione tra il regno vegetale e il regno animale»21. Lo
sospettavamo …
Uno dei più bei regali che un giovane poteva fare a una ragazza era un mazzo di violette.
Accadeva sovente il giorno della salita all’alpeggio, tra San Bernardo e San Pietro. «I nostri
montanari, come una boccata d’aria fresca, sono ritornati dall’alpeggio, portando rami in cui
sono inseriti grandi mazzetti di violette»22. Alla prima stazione d’alpeggio, sui duemila metri
d’altitudine, vi erano posti in cui i prati erano ricoperti di violette. Allora si tagliava un
ramo di ontano, lungo una trentina di centimetri, e si incideva. Si raccoglievano mazzolini
di violette che si infilavano nella fenditura, alternativamente con la testa in su e la testa in
giù, affinché le corolle coprissero bene gli steli. Infine, con uno spago, si legava l’estremità
dove c’era la fenditura per bloccare i fiori. Occorrevano due orette per formare un mazzo
magnifico, ornato di violette che coprivano quasi interamente il legno (Figura 3).
Per conservarlo bello fresco e profumato. In attesa di poterlo offrire, si immergeva nella
vasca della fontana e talvolta capitava di vederne parecchi galleggiare come piccoli battelli
nuziali. E quando, finalmente, il sogno si realizzava e gli sposi andavano in chiesa a
sanzionare il loro progetto, le amiche della sposa fiorivano la porta della casa paterna e il
primo tratto di strada che la giovane avrebbe percorso per raggiungere la chiesa.
19
Abry, Ch./Joïsten, A./Abry-Défayet, D. (1997), Croyances techniques. À propos d’un puzzle ergoétiologique entre les Alpes et la Scandinavie, in Chemins d’histoire alpine, Annecy, Associations des amis de
Roger Devos.
20
« Pappa diae que salla planta, la fionda, se tramoue. La man blantse veun nèye latra nèye crape, a coté
eun’atra blantse se forme. Se tramoue paèi » Boch Marco (Testimonianza di) di Saint-Christophe, intervistato
da Alexis Bétemps il 4-11-2011.
21
Le Duché d’Aoste del 31 gennaio 1894.
22
La Vallée d’Aoste di Parigi del 21 giugno 1924.
34 | Scuola Latina di Pomaretto
Lo sa il fiore cos’è l’amore
Figura 3. Bouquet di violette in costruzione. Foto Alexis Bétemps
Utilizzavano fiori selvatici, ma anche fiori del giardino o fiori di carta, quando la stagione lo
imponeva. Non si andava di certo in città a comperare dei fiori freschi! A Verrayes, si ornava
il percorso verso la chiesa con rametti di ginepro, pianta particolarmente prolifica 23. Ma in
genere: «Non si usavano tanto i fiori. Alla sposa si offrivano garofani, più raramente rose,
gladioli o margherite»24. E il mazzo offerto restava in chiesa ad addobbare l’altare o era
posto sulla tomba di un parente stretto della coppia da poco deceduto. Il Valle d’Aosta,
c’era l’usanza di visitare il cimitero e soffermarsi presso le tombe dei parenti subito dopo la
cerimonia nuziale. «La mia nonna li ha lasciati in chiesa. Si mettevano i fiori sul tavolo
quando si mangiava, poi si portavano in chiesa o al cimitero, sulla tomba dei parenti. Mia
23
Denabian, S. (2008), «Yuniperus communis, il ginepro», in Petit almanach de chez nous, Verrayes,
Association Culturelle Chanoine Pierre-Louis Vescoz.
24
Concours Cerlogne, Scuola elementare di Vert (Donnas), 1987.
Coltivare Parole | 35
Alexis Bétemps
madre ha portato il più bel cestino sulla tomba del nonno; ha lasciato gli altri fiori in
chiesa. Erano margherite e gladioli bianchi»25.
Figura 4. Matrimonio a Oyace. Foto di Alexis Bétemps
Il bouquet della sposa è una tradizione relativamente recente in Valle d’Aosta: «Un tempo,
le spose non avevano il bouquet, ma un grazioso cestino con fiori o petali. Nel 1925, si
vedono le prime spose vestite di bianco e con un bouquet26, non necessariamente di fiori
freschi: «A Étroubles, la sposa portava un bouquet bianco fatto di fiori di tela e, sotto,
c’erano dei nastri che pendevano. All’uscita di chiesa o alla fine del pranzo, la sposa staccava
un nastro per volta e lo offriva alle amiche. Quella che riceveva il nastro più lungo sarebbe
stata la prima a sposarsi. C’erano anche spose che gettavano questi nastri in aria: l’amica che
25
Concours Cerlogne, Scuola elementare di Donnas (Vert), in CEFP, a cura di (1987), Le mariage, Quart
(Valle d’Aosta), Musumeci Editore.
26
Concours Cerlogne, Scuola elementare di Perloz, in CEFP, a cura di (1987), Le mariage, Quart (Valle
d’Aosta), Musumeci Editore.
36 | Scuola Latina di Pomaretto
Lo sa il fiore cos’è l’amore
per prima afferrava un nastro si sarebbe sposata entro l’anno»27. Secondo Van Gennep, il
bouquet della sposa è una tradizione cittadina28. A Gaby, si conserva il ricordo di un’antica
tradizione: dounor lou bousquèt, offrire il bouquet. Il corteo che seguiva gli sposi doveva
essere formato di coppie. Poteva capitare che una ragazza senza cavaliere «offrisse il bouquet
a un ragazzo che le piaceva. In principio, questi doveva accompagnarla nel corteo. Il rifiuto
era considerato un affronto gravissimo»29.
L’edelweiss, ai giorni nostri, un po’ dappertutto nelle Alpi, simbolizza la montagna, l’alta
quota, i luoghi scoscesi e il pericolo. Ma è anche il fiore dell’amore tenace che non s’arrende
mai, neppure davanti alla morte. Si racconta di una giovane sposa che, non vedendo
ritornare il marito, va alla sua ricerca e lo trova morto ai piedi di una parete. In ginocchio
davanti a lui, si scioglie in lacrime dalle quali nascono, dopo giorni di pianto ininterrotto, le
prime stelle alpine. Nonostante sia sanzionato da una leggenda, questo ruolo simbolico
dell’edelweiss è recente e si è formato solo verso la fine del XIX secolo, con l’espansione del
turismo alpino: «Questo povero fiorellino visse a lungo ignorato nelle eterne solitudini dei
gioghi scoscesi; ma in questi ultimi tempi, grazie al successo dell’alpinismo che non lascia
più regioni inesplorate, è stato visto, ammirato, ricercato con ardore … »30. La moda degli
edelweiss trionfa nel periodo tra le due guerre: «Già a luglio, i nostri concittadini hanno
avuto la sorpresa di vedere in mazzi o, a guisa di coccarde all’occhiello o al copricapo, questi
ricordi tra i più caratteristici delle alte Alpi. Un’auto attraversava recentemente la nostra
città ornata da due magnifici fasci di edelweiss freschi e scelti»31. A Nendaz, nel Vallese,
nella prima metà del XIX secolo «questo fiore non è mai stato menzionato nelle veglie e
ancor meno si sono riferite prodezze e imprudenze commesse per procurarselo. Ho
incontrato un solo abitante di Nendaz che portava l’edelweiss al cappello e ne ho visti in
due famiglie infilati nella cornice di una foto»32. Quest’infatuazione per la stella alpina ha
dunque, probabilmente, un’origine cittadina. Quand’ero bambino, negli anni 1950, i
lavoratori dell’alpe ne portavano sovente due o tre al cappello, fissati al nastro che circonda
il feltro, diventato molle per il vento e la pioggia dei ghiacciai. Ma ho sempre avuto
27
Concours Cerlogne, Scuola elementare di Étroubles, in CEFP, a cura di (1987), Le mariage, Quart (Valle
d’Aosta), Musumeci Editore.
28
Van Gennep, A. (1949), Le folklore français, Paris, Edizioni Picard.
29
Stévenin, Y. (1997), Gens du Gaby, les mentalités, Aosta, Tipografia Valdostana.
30
Tibaldi Tancredi in L’edelweiss, L’écho du Val d’Aoste N. 64 dell’11 agosto 1879.
31
La Vallée d’Aoste di Parigi del 9 agosto 1924.
32
Schüle, R.-C. (2011), Les vouivres dans le ciel de Nendaz, Baden und Jetzt.
Coltivare Parole | 37
Alexis Bétemps
l’impressione che lo facessero per non essere da meno dei pochi alpinisti di passaggio o dei
rari turisti. Quanto a me, prendevo gli edelweiss e con un bel pugno li appiattivo sul tavolo,
li facevo seccare tra due fogli di giornale sotto un peso e li tenevo nei miei libri. Li offrivo,
in inverno, a scuola in città, ai compagni, preferibilmente alle ragazze.
Figura 5. Edelweiss. Foto di Alexis Bétemps.
Con l’edelweiss, ci siamo un po’ allontanati dalla civiltà agropastorale alpina che è alla base
del mio intervento per attingere ad una tradizione borghese, figlia del turismo montano
nascente, piuttosto estranea alla montagna. Almeno agli inizi. Con la mandragora entriamo
nell’immaginario della borghesia della città di Aosta alla fine del XX secolo. È dai tempi
della Bibbia che il fantasma della mandragora alimenta l’immaginario erotico dell’uomo. La
Bibbia ne parla e ne parlano pure Plinio e Columella. Il medioevo ne fa un ingrediente per
filtri magici e Machiavelli la sceglie per il titolo di una sua fortunatissima commedia. È
assunta ad una tale notorietà che molti, ancor oggi, pensano che sia un fiore immaginario.
Invece esiste, è una pianta mediterranea, una solanacea (ahimè!), si chiama Mandragora
38 | Scuola Latina di Pomaretto
Lo sa il fiore cos’è l’amore
officinarum e ha alimentato un vivace dibattito sui battaglieri giornali valdostani della fin de
siècle.
Figura 6. La voce mandragora nel dizionario Larousse du XXe siècle, 1928.
«Si trova la mandragora in Valle d’Aosta?» è stata la domanda che un incauto giornalista ha
posto scatenando un acceso dibattito fra le élites locali, fra conservatori e liberali, fra laici ed
eminenti membri del clero. Il dibattito sulla mandragora vede tra i suoi protagonisti uno
Coltivare Parole | 39
Alexis Bétemps
dei fondatori della Société de la Flore, P.-J. Écharlod e intellettuali del calibro di Tancredi
Tibaldi, Pacifique Trèves, Édouard Duc, l’avvocato Louis Christillin, il canonico Georges
Carrel, il medico Charles-Antoine Boggioz, il Padre Favre di Ayas, cordigliere, botanico, e
Jean-Jacques Christillin, lo stimato autore dei Racconti della valle del Lys. Agli illustri
personaggi citati bisogna aggiungere il fondatore dell’Académie Saint-Anselme, JeanBaptiste Gal, nonché, una generazione dopo, il botanico Lino Vaccari, e gli abati Férina e
Henry. Sarà lo stesso abbé Joseph-Marie Henry a concludere il dibattito nel 1909 con uno
studio esaustivo, basato su note del Gal. Henry enumera undici attestazioni della presenza
della mandragora in Valle d’Aosta, nessuna delle quali veramente documentata. E conclude:
« La Mandragora è stata trovata o segnalata da tale o tale autore, in tale e tale luogo; ma
oggi, quelli che sono andati a cercarla in quei luoghi, non la trovano più. A buon diritto,
dobbiamo considerare queste ricerche sulla mandragora come l’ultimo omaggio reso alle
proprietà meravigliose che si attribuivano un tempo a questa pianta, proprietà di cui la
scienza, da tempo, ha fatto giustizia»33.
Che la giustizia viva, ma che ci lasci almeno ancora qualche spazio per sognare.
33
Henry, J.-M (1920), «Recherches de Monsieur le Prieur J.-B. Gal sur la Mandragore en Vallée d’Aoste», in
Bulletin de la Flore Valdôtaine, N. 5, Aosta.
40 | Scuola Latina di Pomaretto
I prati non sono solo erba.
Riflessioni sulla praticoltura per le valli del Pinerolese
Paolo Varese
Introduzione
Può un botanico, un agronomo o un agricoltore vedere in un prato altro di diverso dall’erba
o dalle specie vegetali? Un genetista altro di diverso da geni o cromosomi? Un allevatore
altro di diverso da del foraggio? Può un artista vedere in questi ambienti altro di diverso da
colori, forme o aspetti sensoriali? Può un appassionato di lingue locali vedere altro oltre la
parola che rappresenta una pianta, un attrezzo o una pratica legata alla coltura materiale di
un territorio o di una comunità?
Questa è la scommessa alla base del presente contributo: guardare con occhi multipli.
Parlare di prati significa innanzitutto suscitare immagini ed emozioni. Queste possono
essere molto diverse a seconda delle persone a cui ci si rivolge; un grande osservatore degli
uomini e della natura quale fu Jean Giono (1885-1970) fa parlare il protagonista nel poema
Que ma joie demeure, in viaggio tra le non lontane praterie dell’Alta Provenza, in questo
modo:
La méthode, il la connaissait comme pas un: un pré, c’est de l’herbe. La fleur ne sert
à rien. Ce qui compte, c’est ce qui est entre la fleur et la racine. Aux bestiaux, la fleur
ne fait rien. Et qui sait, s’était-il dit? Qu’est-ce que vous en savez, vous autres (vous
autres, c’étaient les ancêtres, les pères et les grands-pères et tous ceux qui avaient créé
des prés et des pâturages avant ce printemps-ci). Qu’est-ce que vous en connaissez de
la bête? Et si, des fois, cette fleur –se disait-il tout seul au milieu de la nuit– si cette
fleur donnait du poil, ou donnait de l’œil, ou donnait de la dent, ou de la corne, ou
du sabot, ou qui sait quoi de beau sur la bête? Qu’est-ce que vous en savez? Ainsi, en
pleine nuit, il discuta longtemps avec l’ombre des ancêtres. Le bord de son sommeil
fut tout illuminé de bœufs et de vaches à la peau de feu, de moutons, de chevaux et
Paolo Varese
de chèvres à la beauté extraordinaire. Maintenant, du haut de son cheval, il voyait ses
larges prés écumeux. La petite éclaire, la grande éclaire, la pâquerette, l’herbe d’or, la
drave et la cardamine étalaient leurs fleurs. Il traversa les prés et l’odeur de miel
monta autour de lui à mesure que le cheval froissait les herbes avec ses jambes1.
Figura 1. Bruegel il Vecchio, raffigurazione della fienagione durante il XVI secolo
Come il protagonista del racconto di Giono, anche noi siamo portati a vedere in un
ambiente naturale varie componenti, con diverse scale d’approccio, più o meno filtrate dalla
nostra sensibilità, dal nostro vissuto e, ben inteso, dalle emozioni del momento. Ed è per
questo che, in un progetto finanziato dalla Compagnia di San Paolo nell’ambito del bando
“Torino e le Alpi”2 si sono organizzati più incontri per parlare di prati tra tecnici,
agricoltori, ricercatori, studenti, amministratori e semplici appassionati, ognuno con il
1
Giono, J. (1935), Que ma joie demeure, Paris, Editions Grasset.
Varese, P. (2017), «Progetto Pratiq (Praticoltura per un Territorio Incrementato di Qualità)», in
Supplemento a Dislivelli.eu, https://goo.gl/B2l6Ko; Varese, P. (2016), «Pratiq: un progetto sulla praticoltura
nelle valli del Pinerolese», in La Beidana, 87, pp. 67-82.
2
42 | Scuola Latina di Pomaretto
I prati non sono solo erba
proprio approccio e la propria modalità di lettura: a questi incontri non hanno partecipato
folle oceaniche, essendo l’argomento una sorta di oggetto di nicchia, ma persone spesso
molto motivate che hanno provato a condividere, tra il 2015 e il 2016, questo caleidoscopio
di esperienze.
Figura 2. Giovanni Segantini, Die Heurnte (la raccolta del fieno)
Prati e immaginario
L’immaginario di ognuno è dunque legato alla vita e alle esperienze che ha condotto: la
praticoltura nell’immaginario collettivo delle Valli Valdesi è ad esempio legata, nella grande
Coltivare Parole | 43
Paolo Varese
maggioranza dei casi e in particolare per alcune generazioni, alla fienagione, ai covoni e ai
mucchi di fieno sparsi nel paesaggio montano e collinare (rispettivamente fnìe e
macheiroùn), ai prati ben curati, al lavoro spesso faticoso dell’agricoltura di montagna,
all’odore di cumarina, quella fragrante sostanza che si sprigiona dal fieno al sole.
Anche nella storia dell’arte, in particolare nella pittura, i prati sono spesso considerati e
raffigurati da molti artisti principalmente nei termini di lavoro ed effetto del lavoro umano,
e nelle opere di diversi artisti le varie componenti vegetali sono rappresentate come un
insieme quasi indistinto. Così sembrerebbe essere per Bruegel il Vecchio (1525-1569), o più
recentemente per i macchiaioli come Silvestro Lega (1826-1895) e Giovanni Fattori (18251908) nell’Italia appenninica, o per Giovanni Giacometti (1868-1933) e Giovanni Segantini
(1858-1899) nell’ambito alpino o come per Julien Dupré (1851-1910) e Francis Picabia
(1879-1953), pittori d’oltralpe (Figure 1 e 2).
Figura 3. Vincent Van Gogh, Farfalle in un prato.
44 | Scuola Latina di Pomaretto
I prati non sono solo erba
Per Vincent Van Gogh (1853-1890) in “Farfalle su un prato” oppure Felice Casorati (18831963) nel dipinto “Sognando di melograni”, i prati sono invece rappresentati anche come
luogo per lo svago, il riposo e la contemplazione: in questi autori le specie vegetali
diventano un soggetto autonomo, assumono il carattere di herbes folles o di elemento
decorativo, indipendenti dal lavoro e dalle attenzioni dell’uomo (Figure 3 e 4).
Figura 4. Felice Casorati, Sognando di melograni.
Coltivare Parole | 45
Paolo Varese
Così siamo in fondo anche noi nelle nostre rappresentazioni, a volte antropocentriche, a
volte permeate di naturalismo e spiritualismo, a volte molto astratte o al contrario molto
concrete, con l’occhio fissato sul dettaglio oppure con l’occhio vagante e perso
nell’approccio olistico della natura che ci circonda. Partendo dai nostri territori, i prati ci
rimandano in molti casi ai ricordi di ieri, alle tradizioni, ad un buon tempo che fu, non più
confermato nella modernità: oggi siamo in genere confrontati a problematiche differenti e
in fondo il prato rappresenta in qualche modo un passato che non c’è più: come non
pensare alle montagne verdi e ai prati della via Gluck, di note canzoni di qualche decennio fa.
Dobbiamo quindi reinventarci un immaginario sui prati che si fondi anche sulla
contemporaneità, per una progettualità condivisa sul futuro nostro e su quello delle nuove
generazioni.
Figura 5. Praterie di narcisi, Les Avants di Montreux (CH), cartolina storica.
Una lunga storia ricca di saperi: cultura persa o recuperabile?
Per guardare avanti, non possiamo ignorare quanto il passato, da più o meno recente a
remoto, ci ha proposto: un patrimonio inestimabile di cultura materiale sulla praticoltura e
46 | Scuola Latina di Pomaretto
I prati non sono solo erba
la fienagione, che rischia di scomparire con le persone e con gli oggetti, ormai da museo,
spesso ritenuti non più adeguati ai tempi e all’economia attuale. Testimonianze e ricerche
d’archivio ci permettono di evidenziare dati, fatti e informazioni di tipo storico-territoriale
ed etnografico: scopriamo oggi zone impervie sfalciate un tempo a mano con il dahl o la
mëssoira, ascoltiamo di tecniche diverse nello sfalcio, nella battitura del ferro delle falci sulla
martléura, nel trasporto del fieno verso valle, ecc. Prendiamo dal recente passato due esempi
che sembrano legati ad una memoria oramai antica: lo sfalcio e la fienagione manuale e i
ricordi delle fioriture dei prati.
Figura 6. Praterie di narcisi sopra Montreux (CH), cartolina storica.
Il recupero dello sfalcio a mano, visto da alcuni come inutile nostalgia, faticosa e antimoderna, da altri come oscurantismo tecnologico, sembra invece riapparire all’orizzonte
come un elemento di valore: non si tratta certo di ri-sostituire i trattori e le attrezzature
che la tecnologia ci offre oggi, ma di affiancare questa pratica per la rifinitura della gestione
dei prati o di riconsiderarla per la ripresa dello sfalcio in zone di difficile accesso per la
meccanizzazione; un po’ come un barbiere affianca ai rasoi e alle macchinette taglia-capelli
elettriche, il rasoio tradizionale e vari tipi di forbici per un lavoro ben curato. E il valore
Coltivare Parole | 47
Paolo Varese
aggiunto dello sfalcio manuale non sta certo solo nel poco foraggio che se ne ricava, ma in
diversi benefici ambientali, paesaggistici e funzionali che oggi usiamo chiamare “servizi
ecosistemici” e che vari enti cominciano a considerare, e talora anche a pagare, in particolare
nel territorio montano3. In parallelo, data la difficile meccanizzazione e il costo elevato di
certe apparecchiature (ad esempio le mini-rotoimballatrici per macchine monoasse),
vengono oggi proposti dalla ricerca prototipi tecnologicamente avanzati di presse manuali
da fieno, concepiti a partire dall’osservazione e dal miglioramento di vecchie presse
tradizionali in legno, ferro e cordame.
Figura 7. Praterie di narcisi a Pragelato (TO), cartolina degli anni ’50.
E veniamo ora alle fioriture dei prati: quanti ricordi nostalgici sulle belle fioriture dei prati
che un tempo esistevano e che oggi non esistono quasi più... Fenomeno autentico o
3
Si vedano ad es. le recenti tesi di laurea (con relative bibliografie) sui Servizi Ecosistemici dei prati, svolte per
le valli del Pinerolese da Diego Benedetto, Cecilia Monari e Oliver Crini nell’ambito del Corso di Laurea
“Economia dell’Ambiente, della Cultura e del Territorio”, presso l’Università degli Studi di Torino.
48 | Scuola Latina di Pomaretto
I prati non sono solo erba
offuscamento collettivo della memoria dovuta alla idealizzazione del passato? Fenomeno
assolutamente autentico, sia per la rarefazione dei prati a causa dell’avanzata del bosco (in
collina e montagna) e dell’urbanizzazione (in pianura e fondovalle), sia per la loro
trasformazione floristica, in buona parte legata all’abbandono dello sfalcio periodico,
all’eccesso di concimazioni (in particolare in pianura e nei settori di facile accesso) e alla
sostituzione dello sfalcio con il pascolamento primaverile-estivo.
Figura 8. Praterie di narcisi presso il monte Linzone (BG), fotografia attuale.
Nei ricordi delle persone almeno cinquantenni e di quelle più avanzate nell’età il periodo
della Pentecoste era ad esempio segnato dai prati fioriti di diverse zone montane (da
Pragelato, a Prali, al vallone di Massello ai versanti dell’alta Val Pellice ed in varie altre parti
delle Alpi occcidentali) in particolare dalle fioriture del narciso bianco dei poeti (Narcissus
poeticus subsp. radiiflorus), che, non per nulla, porta in val Chisone e Germanasca il nome
di pancouto e in val Pellice di pancouta (lett. “pentecoste”). Oggi questo spettacolo è
limitato a ridotti settori delle valli indagate; foto e cartoline antiche ci testimoniano invece
situazioni pre-esistenti di grande impatto visivo e paesaggistico (cfr. Figure 5, 6 e 7 scattate
attorno al lago Lemano in Svizzera e in alta val Chisone); altrove, invece, il fenomeno è
attestato ancora attualmente (cfr. Figura 8, scattata nelle Alpi Orobiche). Si noti come il
narciso bianco interessi poco per il pascolo (dove anzi da fresco risulta tossico), mentre nel
Coltivare Parole | 49
Paolo Varese
fieno la sua presenza risulta molto diluita dal momento che le foglie seccano e scompaiono
quasi al momento dello sfalcio (che viene effettuato più tardivamente della fioritura).
Ebbene è proprio l’attività dello sfalcio che ha permesso la conservazione di questo
spettacolo della natura, attività che nel territorio dell’Aubrac nel Massiccio Centrale
permette ancora oggi l’ esistenza di una piccola economia basata sulla raccolta “dolce” del
solo fiore del narciso per l’industria profumiera: questa avviene con speciali macchine a
pettine, leggere, trainate a mano per la raccolta. E mentre a Pragelato la “neve di maggio”
(nome riferito alla estesa fioritura dei narcisi) è un ricordo di pochi ed è vista con una certa
indifferenza per il suo aspetto un po’ démodé, questo landmark di successo fa altrove da
traino a livello di turismo locale: nella zona di Montreux e Chateau d’Oex (CH) si
organizzano escursioni a pagamento per visitare le praterie a narcisi rimanenti (anche lì la
pianta è in forte regressione...) e un festival al quale accorrono turisti da varie parti del
mondo, in una sorta di appuntamento turistico d’élite. Si approfitta dunque di quei servizi,
in termini tecnici Cultural services, legati al valore estetico e al valore ricreativo dei prati.
Concorsi sulle Prairies fleuries sono indetti dai parchi francesi, gare e festival di sfalcio si
svolgono un po’ in tutta Europa, premi per i prati da sfalcio meglio gestiti vengono
assegnati in diversi territori alpini, tra cui il Parco Regionale dell’Adamello. Questo
permette una riappropriazione anche simbolica degli spazi prativi del territorio, suscitando
pure una sorta di orgoglio locale a conservare al meglio questi ambienti. A livello turistico
nelle vallate piemontesi tuttalpiù si punta sui balconi e le fioriere per attrarre il turismo
(concorso “Comuni fioriti”) e a un generico ed impalpabile senso del verde o della natura
incontaminata. Questo accade in un momento storico in cui nei territori di pianura prevale
un’agricoltura sempre più intensiva ed in zona di montagna un generale abbandono
colturale.
Idee e tecnologie nuove per l’agricoltura di montagna
Ma al territorio montano è preclusa l’innovazione tecnologica in agricoltura? No di certo,
anzi, occorre evitare di vivere di sola nostalgia e di introflettersi sulla sola tradizione, ma
ricercare anche parole ed idee nuove da comunicare, rinnovando alcune pratiche
tradizionali. Dal momento che, come suole dirsi, ogni tradizione è una innovazione che ha
avuto successo, la vera innovazione sta soprattutto nelle menti e nelle idee.
50 | Scuola Latina di Pomaretto
I prati non sono solo erba
E come dice Gustav Mahler (musicista: 1860-1911) «la tradizione è custodia del fuoco, non
adorazione della cenere»; mentre il già citato Jean Giono (scrittore: 1895-1970) ci ricorda
che «les sentiers battus n’offrent guère de richesse, les autres en sont pleins».
La prima rivoluzione delle idee è quanto più o meno afferma Michelangelo Pistoletto4,
artista contemporaneo, nella sua teoria del Terzo Paradiso, in cui occorre saper coniugare
sapientemente natura ed artefatto.
La storia umana è al terzo stadio. Il primo era il paradiso naturale, di quando eravamo
dentro alla mela. Con il morso della mela siamo usciti dalla natura e passati al secondo
stadio, il paradiso artificiale, che ormai divora la mela, cioè devasta l'intera natura. Adesso
dobbiamo lavorare tutti per passare al terzo stadio, quello in cui si realizza la cucitura del
mondo artificiale con il mondo naturale. Il Terzo Paradiso nel quale la scienza e la tecnica
anziché allontanarci dalla natura ci aiutano a salvare la natura stessa e con essa l'intera
umanità.
Occorre in poche parole arrivare ad affiancare gli elementi tradizionali con nuove
conoscenze e nuove opportunità, in un quadro di lavoro che integri, e non contrapponga,
economia ed ecologia.
Già si è detto in parte dell’approccio dei “servizi ecosistemici”, ovvero dei benefici multipli
forniti dagli ecosistemi al genere umano: a questo sarà dedicato il prossimo paragrafo. Vi è
poi anche l’innovazione tecnologica, che non è da trascurare. Girando per le fiere sulla
meccanizzazione agricola in Piemonte si rimane meravigliati dal gran numero di macchinari,
spesso costosissimi, dedicati all’agricoltura di pianura: lì è il core businness delle aziende
meccaniche e dell’agro-industria e tranne in pochi casi per l’agricoltura di montagna
sembrerebbe esserci “poca trippa per gatti”. Spesso si è contrapposto questo eccesso di
tecnologia dell’agricoltura di pianura alla falce e rastrello, al mulo (sempre
rispettabilissimo...) e ai prodotti poveri dell’agricoltura di montagna, figli dell’agricoltura di
sussistenza. Nulla di più sbagliato, esiste uno spazio di progettazione e realizzazione
tecnologica denominato “tecnologie intermedie”, altrimenti dette “tecnologie appropriate”,
che viene ad esempio sviluppato presso il Politecnico di Torino da ricercatori come Walter
Franco: si citavano in precedenza i rinnovati modelli di presse da fieno e da paglia, ma è
4
Pistoletto, M. (2007), Il terzo Paradiso, Venezia, Marsilio Editori.
Coltivare Parole | 51
Paolo Varese
anche il caso delle piccole mietitrebbie portatili (magari con batterie al litio) e della
tradizione di piccola industria a carattere quasi artigianale della Falci di Dronero-CN (falci
ed attrezzature per lo sfalcio e il taglio) o di altre aziende più piccole. Chissà poi se vi sarà
uno sviluppo dell’agricoltura di precisione anche per il territorio montano...
Figura 9. Vecchio cartello arrugginito degli anni ’60 e ’70 (Massello, TO)
In altri contesti alpini salta all’occhio l’elevata presenza di piccoli trattori da montagna (tipo
Terratrac) e falciatrici monoasse adatte a sfalciare su elevate pendenze, come nei territori
della montagna elvetica ed austriaca, come pure la presenza di strutture specializzate per
accogliere ed essiccare fieno sciolto (foin ventilé) che viene poi distribuito al bestiame con
apposite mini-gru a scorrimento nella parte superiore della struttura.
Si tratta di una montagna più ricca, con più agevolazioni o semplicemente più organizzata,
aperta alle innovazioni e solidale? Una montagna forse più capace di fare sistema e di
superare così individualismo e particolarismo? Non è questo il luogo per entrare in dibattiti
di politica economica, ma due parole in tal direzione sono necessarie. Non è più oggi il
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I prati non sono solo erba
tempo della strategie difensive per il “mondo dei vinti”, del solo arroccamento identitario e
delle generiche dichiarazioni di principio il cui simbolo sono i vecchi cartelli su cui è scritto
«Turisti, i prati sono la vita del montanaro, rispettateli», oggi in gran parte arrugginiti
(Figura 9).
Figura 10. Prati con funzione di protezione delle falde idriche (comune di Roure, TO)
Oggi è più che mai tempo di cambiamenti di strategia. Le diverse funzionalità dei prati da
sfalcio e delle altre superfici erbacee devono indurci ad approcci differenziati, zona per zona
e caso per caso. È dunque necessario poter disporre di strumenti normativi e finanziari
flessibili verso le nuove domande, superando quei settori stagni tipici dell’agricoltura
industriale o sovvenzionata di questi ultimi decenni.
Coltivare Parole | 53
Paolo Varese
Nuovi ruoli, funzioni e servizi dei prati da sfalcio
Se quindi un prato non è solo erba vediamo quali possono essere alcuni di questi nuovi
prodotti e servizi da affiancare al classico prodotto del foraggio, che resta tuttavia ancora
oggi il motore principale dell’economia zootecnica montana. Nel periodo dell’economia di
sussistenza il prato era una superficie da cui dipendevano la sopravvivenza dei vari capi di
bestiame in possesso di una famiglia e della famiglia stessa, residente in prossimità o più a
valle. Più recentemente al foraggio verde e al fieno e ad alcune specie vegetali usate per
l’alimentazione umana e la cura (fitoalimurgia) hanno cominciato ad affiancarsi altri
prodotti: i prati vengono oggi in vari paesi rivalutati per la loro produzione di polline e
miele nell’apicoltura, come sorgente di semi (il fiorume, altrimenti denominato a seconda
dei luoghi, purs, poussa, brouisa, ecc) ed altro ancora.
Tali superfici vegetali, se ben gestite, presentano inoltre un ruolo antierosivo utile alla
conservazione del suolo, alla protezione delle falde idriche (Figura 10), allo stoccaggio del
carbonio e alla conservazione della biodiversità e del paesaggio, tutti servizi che un tempo
non erano riconosciuti dalla collettività. In ambito rurale si ridacchia spesso su queste
funzioni apprezzate, si dice, soprattutto dai cittadini e da qualche “neo-rurale” (in Francia
ironicamente definiti, con sfumature diverse, bobo o baba-cool5); le vecchie generazioni
ovviamente e comprensibilmente hanno legato la loro vita all’erba dei questi prati e
considerano con sospetto queste nuove attitudini. Non si tratta di disconoscere il ruolo,
ancora oggi prevalente e determinante per la conservazione della maggioranza di queste
superfici, di produzione foraggera, ma di cominciare a considerare che possono essere
integrati e valorizzati anche economicamente da funzioni e prodotti differenti, soprattutto
dove questo ruolo trainante della zootecnia montana è in crisi (aree prative marginali, prati
magri, antichi fourest abbandonati, ecc). Luogo chiave di questo nuovo riconoscimento per i
prati saranno dunque le aree marginali, dove non si falcia più o al massimo si pascola in
modo andante queste superfici non facilmente meccanizzabili. Occorre riprendere a falciare
5
Bobo è l’acronimo di bourgeois-bohème, sorta di radical-chic, con cui vengono identificati i benestanti che
provengono dalle città (sono ad es. spesso di origine parigina), in genere con idee di sinistra o ecologiste;
baba-cool sono invece i vecchi e nuovi “figli dei fiori” che si sono insediati in aree rurali storiche, come le
Cevennes o il Luberon, fin dai primi anni ‘70, e conducono una vita appartata, spesso vivendo alla giornata
oppure intraprendendo alcune attività agricole (tipicamente l’apicoltura, il piccolo artigianato e la produzione
di tomini di capra).
54 | Scuola Latina di Pomaretto
I prati non sono solo erba
dappertutto e a qualunque costo, come si faceva a fine ‘800? No, non è possibile, la
montagna è cambiata sia a livello di paesaggio naturale che di demografia; un tempo non
c’era molta scelta, quello che si faceva lo si faceva per necessità, la biodiversità era ad
esempio un concetto sconosciuto, i mezzi tecnici o tecnologici erano limitati, spesso si agiva
in un certo modo perché si è sempre fatto così ed anche il tempo aveva un altro valore.
Oggi occorre definire quegli ambiti in cui le potenzialità, umane e naturali, sono più
favorevoli e dare ad essi la priorità: per facilitare le decisioni un esempio può essere quello
presentato nella Figura 11, uno schema logico che permette di indirizzare possibili scelte in
contesti marginali diversi.
Figura 11. Schema di supporto alle decisioni per la gestione di aree in abbandono (da
Varese, 2017)
Coltivare Parole | 55
Paolo Varese
Nuovi sguardi ed antiche parole
In conclusione occorrerà trovare anche nuove parole per far passare una comunicazione che
a volte si presenta asfittica, settoriale e corporativa. Come oggi è problematico parlare di
ërcort (fieno settembrino) o di anoulh (erba tagliata un anno su due in certi prati marginali,
sempre in val Germanasca) ad un turista urbanizzato, ad un burocrate regionale oppure ad
un accademico eco-integralista, altrettanto presenta un’alta probabilità di reciproca
incomprensione il parlare ad un montanaro di “carbon footprint” (impronta di carbonio) o
di “allegato II e IV della Direttiva Habitat” (la direttiva europea che norma la conservazione
di alcuni habitat naturali nelle aree Natura 2000, tra cui vari tipi di prati e pascoli).
Figura 12. Il fen mënù può presentare varie specie di graminacee a seconda del territorio
considerato.
56 | Scuola Latina di Pomaretto
I prati non sono solo erba
Solo ciò che ha un significato chiaro e condiviso permette una comunicazione
soddisfacente. Uno sforzo di divulgazione tra gli addetti ai lavori sulle “parole tradizionali”
legate alle antiche pratiche agricole deve andare di pari passo alla condivisione di senso con
chi abita la montagna di quella “nuove parole” che oggi risuonano nelle aule universitarie e
negli alti uffici amministrativi: queste ultime vanno, per così dire, de-burocratizzate e deaccademizzate. Sempre a proposito di parole, altro aspetto è quello delle ineluttabili
ambiguità nomenclaturali delle specie vegetali che popolano i nostri popolamenti erbacei:
anche qui occorre, con pazienza, ascolto reciproco ed un briciolo di creatività, condividere le
osservazioni, evitando atteggiamenti professorali e stimolando la reciproca curiosità. Infatti
è noto come le denominazioni dialettali siano assai onnicomprensive a livello tassonomico e
che termini come fen mënù (fieno minuto: possono essere diverse specie graminoidi: Figura
12), baucho (specie diverse del genere Brachypodium in contesti geografici differenti) o lësca
(carici, di diverse specie, in genere poco appetiti dal bestiame) si prestino a notevoli
ambiguità. Allo stesso tempo è possibile accettare come il termine olina possa rappresentare
in contesti diversi specie diverse del genere Festuca che neanche molti specialisti a volte
riescono ad identificare con una precisione assoluta al di fuori dal loro laboratorio. Se poi
non sembra esistere un nome in patouà o in piemontese per specie come Holcus lanatus,
Poa trivialis o Koeleria pyramidata, pazienza, il pastoralista e il botanico con il pastore o
l’agricoltore potranno chiamarle con un nome di fantasia purché coniato e concordato
assieme: forse che i nomi volgari delle piante non sono nati in questo modo?
Importante sarà infine anche chiamare le buone pratiche gestionali in un modo condiviso e
ragionato: anziché l’onnipresente e ambiguo “fare pulizia” si dovranno trovare parole
appropriate per tecniche particolari come lo “sfalcio di déprimage”, l’“eradicazione selettiva”
delle specie alloctone, il “diradamento silvo-pastorale” o il “pascolamento a rotazione”.
Come le parole, molte delle innovazioni odierne hanno infatti radici molto antiche.
Ringraziamenti
Si ringraziano i sig.ri Raimondo Genre, Dario Tron, Enzo Negrin e Giovanni Manavella per
la collaborazione alla ricerca delle informazioni sui nomi dialettali presenti in questo
articolo.
Coltivare Parole | 57
Paolo Varese
58 | Scuola Latina di Pomaretto
Coltivare Parole
Un racconto del progetto
Aline Pons
Le pagine che seguono contengono il racconto della nascita e dell’evoluzione del progetto
Coltivare Parole, i cui risultati sono illustrati nei contributi di Giada Bellia e Pier Andrea
Martina, in questo volume; un po’ come avviene per le autobiografie, la narrazione dello
sviluppo di un’idea non può essere oggettiva: quella che vi propongo di seguito è dunque la
semplice testimonianza di un percorso di ricerca.
Il blog
L’idea di Coltivare Parole è nata da una collaborazione fra lo sportello linguistico della
Scuola Latina e quello della Valaddo. Insieme a Luca De Villa Palù, allora sportellista (e in
seguito presidente) della Valaddo, nella primavera del 2012, discutevamo della necessità che
gli sportelli si facessero promotori di qualche iniziativa che, compatibilmente con la
modalità di “lavoro d’ufficio” facesse uscire l’occitano dai soliti canali di diffusione. Forse
ispirati dal fatto che si stava cenando, e che si era alle prese con i primi, goffi tentativi di
avviare la coltivazione di un orto domestico, abbiamo pensato che potesse servire un luogo
che facilitasse il passaggio di saperi agricoli dalle generazioni precedenti alla nostra. Siccome
di siti di agricoltura è pieno il web, e siccome il nostro interesse principale restava quello
della lingua locale, abbiamo pensato di conciliare le due cose, cercando di raccogliere e
tramandare non solo le pratiche agricole più adatte alla coltivazione in montagna, ma anche
le parole, più o meno settoriali, con cui le persone della valle descrivevano questi
procedimenti. Così, dopo aver passato un mese a raccogliere materiale, importunando
famigliari, amici e conoscenti, abbiamo lanciato un rudimentale blog, nel quale
settimanalmente condividevamo brevi articoli (nel patouà dei testimoni) sulla coltivazione di
singoli ortaggi.
Aline Pons
In questa fase, credo di poter dire che la prima reale novità, rispetto al lavoro di sportello
che avevamo portato avanti fino a quel punto, fosse l’esplosione della (micro)varietà
linguistica: il fatto di trascrivere interviste registrate dalla viva voce dei parlanti (invece di
tradurre testi dall’italiano, o di comporne nella nostra varietà) ha fatto sì che presto il blog
si popolasse di testi che rispecchiavano le diverse parlate delle valli: se per la val Germanasca
la distinzione fra i patouà dei diversi paesi è piuttosto fine, la differenza con i testi della val
Chisone (che erano a loro volta molto differenziati fra loro) era perspicua a tutti.
Il sito
Il relativo successo del blog ha convinto le due associazioni che gestiscono gli sportelli,
all’inizio del 2013, a fare un investimento (con fondi propri) per rendere il nostro
rudimentale spazio virtuale un vero sito, in grado di supportare audio, video, immagini. In
questa seconda fase, l’inserimento del video e dell’audio ci hanno permesso di amplificare
ulteriormente la quantità di informazioni sulle singole varietà (che a questo punto erano
fruibili direttamente, non soltanto attraverso la mediazione della trascrizione). Inoltre, il
nuovo sito permetteva di offrire, per ogni articolo, anche la traduzione in italiano e in
francese: all’inizio, dovendo scegliere, ci eravamo limitati a offrire dei piccoli glossari patouà
– italiano che aiutassero i lettori a capire gli articoli, scritti interamente in occitano.
Un momento piuttosto determinante nella breve storia del progetto è stato l’arrivo alla
Scuola Latina di Giada Bellia. Giada stava facendo una tesi di etnobotanica sulle valli
Chisone e Germanasca, e navigando su internet era incappata nel sito di coltivareparole.it,
giudicandolo interessante per le sue ricerche. Ben presto, Giada ha accettato di collaborare
con gli sportelli, fornendoci una serie di articoli (tratti dalla sua tesi di laurea) sugli usi
medicinali e alimentari della flora spontanea, argomento che, fino a quel punto, non aveva
trovato spazio nel sito.
Sempre a mio modo di vedere, il punto di forza di questa fase del progetto è stato il
coinvolgimento di quasi cinquanta persone, che sono state intervistate a più riprese per
raccogliere le testimonianze orali che sono alla base del centinaio di articoli, spesso brevi,
che sono stati pubblicati in tre anni di attività. Questa esperienza ha riscosso un certo
successo di pubblico (da aprile 2013 a luglio 2016 15.764 utenti hanno visitato 35.258
pagine sul sito, con una permanenza media di 1: 28 minuti per sessione; il canale Youtube,
60 | Scuola Latina di Pomaretto
Un racconto del progetto
che conta 80 iscritti e ha raggiunto al 19/09/2016 le 77.908 visualizzazioni di video 1),
successo che ha convinto l’Associazione Amici della Scuola Latina di Pomaretto a
promuoverne un ampliamento, che andasse nella direzione dell’allargamento della rete
d’inchiesta (nella prima fase, le persone intervistate erano tutte originarie delle sole valli
Chisone e Germanasca) e di un maggior rigore metodologico.
Il progetto dell’atlante online
L’obiettivo principale dell’ampliamento del progetto era valorizzare l’esperienza iniziale,
rendendo più strutturale il confronto fra le diverse varietà, e provando a studiare l’eventuale
mutamento delle pratiche agricole in funzione dell’altitudine e della conformazione del
paesaggio. Così l’Associazione Amici della Scuola Latina ha presentato alla Fondazione
CRT il progetto per un piccolo atlante linguistico delle valli valdesi e della pianura
pinerolese, che mantenesse il connubio fra variazione dialettale e variazione etnobotanica,
contando sul patrocinio non soltanto (ça va sans dire) della Valaddo, ma anche della
Fondazione Centro Culturale Valdese, di Radio Beckwith Evangelica e del Dipartimento di
Studi Umanistici dell’Università di Torino. Quest’ultima relazione, in particolare, ha
contribuito a rafforzare le basi scientifiche del progetto, grazie alla supervisione di Matteo
Rivoira e di Alessandro Vitale Brovarone e alla collaborazione con Pier Andrea Martina,
dottorando in francesistica, con un’ottima competenza nei dialetti piemontesi dell’area
indagata.
La ricerca alla base del progetto “Coltivare Parole – Raccolta e semina di saperi agricoli
nelle lingue locali” ha visto la conduzione di una campagna d’inchiesta in venti località delle
Valli Valdesi e della pianura Pinerolese2: si sono voluti indagare, dalla viva voce dei parlanti,
il lessico e le pratiche legate alla coltivazione di specie orticole e all’uso e alla raccolta di
piante spontanee. Le interviste, condotte da Giada Bellia e Pier Andrea Martina, hanno
coinvolto almeno una persona per ognuna delle località indagate, sebbene spesso si sia reso
necessario ricorrere a più fonti.
1
Alla data di edizione del presente contributo (novembre 2017), gli iscritti al canale Youtube sono saliti a 119,
e le visualizzazioni a 105.841.
2
Le inchieste sono state concluse nei comuni di: Pragelato, Fenestrelle, Roure (Bourcet), Prali, Perrero (San
Martino), Pramollo, Villar Perosa, Prarostino, Bobbio Pellice, Luserna San Giovanni, Rorà, Bibiana, Cavour,
Barge, Cumiana, Piossasco, Vigone, Piscina, Cartignano; sono invece ancora in corso i rilievi nel comune di
San Pietro Val Lemina.
Coltivare Parole | 61
Aline Pons
Le inchieste interessano sia comuni montani, di parlata occitana, sia comuni planiziali, di
parlata piemontese, individuati in un’area piuttosto circoscritta: l’auspicio è che i dati
raccolti da Coltivare Parole, elicitati con una fitta rete di punti d’inchiesta (rispetto alle
esperienze atlantistiche che già insistono su questo territorio3), contribuiranno a fare luce
sulle dinamiche linguistiche e culturali in un ambito territoriale dove di incontrano (e si
scontrano) varietà linguistiche piuttosto distanti, aggiungendo materiale per lo studio
dell’area di contatto fra occitano e piemontese e valutando al contempo l’azione di
livellamento dovuta alla diffusione dell’italiano. Inoltre sarà possibile studiare come
cambiano le pratiche agricole (i periodi di semina, ma anche le modalità di conservazione e
l’alternanza delle colture) con il passaggio dalla pianura alla montagna e nel corso del
tempo: a ogni pianta è infatti stata dedicata una scheda che raccoglie le testimonianze
(georeferenziate) su uso e coltivazione/raccolta, insieme ad alcune nozioni botaniche di
base; questa, collegata con una mappa dei termini dialettali in uso nella zona per nominare
la specie, permette di intravedere l’importanza economica, ma anche sociale e simbolica di
ogni erba o ortaggio nella cultura locale. Rispetto alle fasi precedenti del progetto, in
questo caso l’auspicio è quello che questi dati, una volta che saranno resi interamente
disponibili sul sito, possano servire non soltanto (come è stato finora) alle persone
interessate a orti, erbe e lingue locali, ma anche alla comunità scientifica. Per garantire
questo doppio binario di diffusione, abbiamo scelto da un lato di mantenere la grafia
ortografica in uso presso i nostri sportelli (la concordata) per l’occitano alpino, affiancandola
alla grafia che Arturo Genre aveva predisposto per l’ATPM a partire dalla proposta di Bruno
Villata per il piemontese, dall’altro di inserire nelle carte linguistiche la trascrizione in IPA,
più facilmente consultabile da parte di un pubblico di specialisti.
Il lavoro da fare per completare il caricamento delle oltre centotrenta schede è ancora
parecchio (attualmente sul sito ne trovate una quarantina), così come le migliorie che si
possono apportare al materiale pubblicato, ma credo di poter concludere questa breve
presentazione della storia del progetto sottilineandone un punto di forza meramente pratico
(d’altronde, questo sottolineare gli aspetti pratici è stato il mio ruolo principale in questi
anni di lavoro): avendo una qualche esperienza di cantieri atlantistici, mi sembra che in
questo caso si sia riusciti a mantenere un’accettabile rapporto fra la qualità del materiale
3
Per un’illustrazione degli studi e delle opere atlantistiche che coinvolgono il territorio che ci interessa,
rimando a PONS, A. (2017), «Coltivare parole. Un piccolo atlante fitonimico del Pinerolese e delle Valli
Valdesi», in Bollettino dell’Atlante Linguistico Italiano, n. 40.
62 | Scuola Latina di Pomaretto
Un racconto del progetto
raccolto e pubblicato e il tempo e i costi che questa ricerca ha comportato. Questo è stato
possibile grazie alla passione delle persone che hanno collaborato al progetto, che hanno
lavorato, credo di poterlo dire, spinti da una autentica vocazione, e non (solo) dal modesto
compenso che hanno ricevuto.
Ringraziamenti
Vorrei ringraziare Giada Bellia per avermi spinta, con il suo entusiasmo (e con il suo
candore) a presentare questo progetto alla Fondazione CRT; Pier Andrea Martina, per
essersi appassionato al progetto al punto che talvolta ho dovuto dissuaderlo
dall’immergersi troppo a fondo nelle ricerche che lo entusiasmavano, per poter concludere
in modo uniforme il lavoro; Marco Magnano, il nostro webmaster, per l’intelligenza con
cui ha capito esattamente di cosa avevamo bisogno e ce l’ha realizzato nel miglior modo
possibile; tra le altre cose, dobbiamo ringraziarlo anche per aver coinvolto nel lavoro
Leonora Camusso, autrice delle illustrazioni; Francesca Richard, che da oltre un anno si
occupa dello Sportello della Scuola Latina, per il lavoro meticoloso, l’impegno e la
dedizione con cui ha imparato a scrivere e a dare dignità alla sua lingua madre.
Non posso elencare qui tutte le persone che, a titolo volontario, ci hanno aiutati nel
portare avanti questo progetto, ma un sincero ringraziamento deve andare ancora a Matteo
Rivoira, per il sostegno scientifico, i preziosi consigli e la pazienza con cui ha ascoltato le
nostre difficoltà; da ultimo vorrei spendere una speciale parola di ringraziamento per chi
ha accettato di farsi intervistare da noi: senza di loro/voi, le nostre ricerche e i nostri
progetti di tutela perderebbero quell’attaccamento alla realtà territoriale, quello spessore
umano che, dal mio punto di vista, è la loro principale ragion d’essere. Grazie.
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Aline Pons
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Coltivare Parole: metodi, risultati e curiosità di un’inchiesta etnobotanica
Giada Bellia
Prima di entrare nel vivo del contributo, occorre dare una breve definizione al concetto: il
termine “etnobotanica” (ethnobotany), inteso a definire la disciplina come una scienza, fu
coniato nel 1895 dal botanico tassonomista statunitense J. W. Harshberger per definire
«l’uso delle piante dalle popolazioni autoctone e originarie di una certa zona»1.
Possiamo quindi definirla come una scienza che, da un lato, si occupa di studiare le
tradizioni popolari legate alle diverse modalità di utilizzo delle specie vegetali e, dall’altro, si
occupa di censire, raccogliere, interpretare ed elaborare l’insieme delle informazioni che
costituiscono la cultura popolare tramandata per lo più oralmente.
In particolare l’etnobotanica si occupa di approfondire e studiare gli usi popolari delle specie
vegetali nel campo fitoterapico, fitoalimurgico, veterinario, artigianale e ritualistico (solo
per citarne alcuni). Questo fa sì che la materia entri in stretta connessione con le scienze
naturali, pur mantenendo una forte relazione anche con discipline umanistiche come
l’antropologia, la linguistica e la sociologia.
Questa sua natura interdisciplinare risulta uno strumento utile per una più profonda lettura
e comprensione del territorio, in quanto consente di studiare un medesimo aspetto da
diverse prospettive, attingendo da differenti approcci scientifici e umanistici, permettendo
così di evidenziare peculiarità culturali, storiche, naturali e sociali importanti per ricostruire
il background delle popolazioni prese in esame.
Gli scopi principali della ricerca etnobotanica sono perciò la raccolta e il censimento di
queste tradizioni, al fine di conservarle come patrimonio ecologico culturale, e di mettere
tale sapere al servizio della comunità.
1
FRANCHI, G.G. (2009), «Introduzione all’etnobotanica», in Punto Effe, n. 3, pp. 46-48 [disponibile online:
http://www.puntoeffe.it/archivio/rivista/2009/03/46-47-48%20spazioverde.pdf].
Giada Bellia
Per quanto riguarda l’Italia, dagli anni ‘50 fino ad oggi sono stati realizzati circa 150 studi
etnobotanici, con un rinnovato impulso a partire dagli anni ‘70. Stando ai dati riportati dal
C.E.T (Centro Etnobotanico Toscano) i lavori scientifici di carattere etnobotanico realizzati
tra gli anni 70 e il 2006 evidenziano l’impiego di 1.492 specie vegetali (pari a circa il 20%
della flora italiana) suddivise per vari settori d’uso.
I lavori di ricerca relativi al Piemonte non sono molti e la maggior parte di questi risalgono
alla fine degli anni ‘70: l’unico lavoro inerente alla nostra zona d’inchiesta risale al 1984, ed
è l’articolo Flora popolare nelle valli Chisone e Germanasca di Pierangelo e Rosanna
Carmiello Lomagno2.
Metodologia di ricerca
Per condurre un’inchiesta etnobotanica, dapprima si definisce e si caratterizza l’area
geografica di ricerca; dopodiché si passa al rilevamento su campo dei saperi locali. Nel caso
che presento in questo contributo, i dati raccolti sono il risultato di un’indagine sul campo
svolta nell’arco di un anno, approssimativamente dall’estate del 2015 all’estate del 2016.
Per la raccolta dei dati è stato usato un tipo di intervista “semi-strutturato”, basato cioè su
una scaletta di domande preimpostate, che lasciassero però l’informatore libero di fare delle
digressioni o di aggiungere delle informazioni non specificatamente richieste. Questa
metodologia ha permesso agli informatori di ripercorrere liberamente i ricordi legati all’uso
delle piante e, non raramente, di esulare anche dall’argomento, per riproporre frammenti e
aneddoti della vita quotidiana di un tempo, che hanno contribuito a ricostruire il contesto
sociale e culturale entro cui vanno a collocarsi i saperi relativi alle erbe. Tutte le interviste
sono state registrate con un registratore, per poi essere trascritte all’interno di un database.
Gli informatori sono stati scelti tra la popolazione dell’area d’indagine seguendo il criterio
della residenza da più generazioni nel territorio oggetto di studio (o almeno da un tempo
sufficientemente lungo per aver acquisito le tradizioni locali), dell’esperienza diretta con le
pratiche indagate e della competenza attiva del dialetto locale (le persone individuate hanno
come lingua madre il piemontese o l’occitano nella varietà locale). Sono state scelte 20
località d’inchiesta, ripartite tra le valli Chisone, Germanasca e Pellice, la cintura
2
CARAMIELLO LOMAGNO, P./CARAMIELLO LOMAGNO, R. (1984), «Fitoterapia popolare nelle Valli Chisone
e Germanasca», in Annali Facoltà Scienze Agrarie Università di Torino, XIII, pp. 259-298.
66 | Scuola Latina di Pomaretto
L’inchiesta etnobotanica
pedemontana e la prima fascia di pianura, nelle quali sono stati intervistati un totale di 24
informatori, all’incirca metà uomini e metà donne, con un’età compresa fra i 50 e i 90 anni.
Infine le informazioni raccolte sono state organizzate, analizzate ed elaborate in un database
linguistico e uno etnobotanico. La sovrapposizione di dati analoghi, ovvero quando una
stessa specie e gli usi relativi a questa, sono riferiti da molti informatori, riflette
l’importanza di quella conoscenza nella cultura locale e riduce il margine di errore
riguardante la sua veridicità. Per contro, è da rivolgere particolare attenzione a quelle piante
o utilizzi citati da uno o pochi informatori in quanto il dato può riflettere una conoscenza
etnobotanica importante, oggi in via di scomparsa.
Durante l’indagine, sono state raccolte informazioni riguardo gli usi tradizionali delle specie
locali spontanee usate a scopo medicinale e alimentare; tra queste sono state raccolte
informazioni anche riguardo specie semi-spontanee, ovvero che includono individui nati
spontaneamente a partire da vecchie colture come borragine, camomilla e calendula. Altri
dati sono invece stati raccolti sulle pratiche agricole relative agli orti.
L’indagine ha raccolto materiali riguardo a:
- 86 piante spontanee (tra alimentari e medicinali)
- 33 ortaggi
-
14 fra alberi e arbusti
Piante spontanee ad uso alimentare e/o medicinale
Le specie usate a scopo alimentare sono risultate moltissime. La maggior parte delle erbe
venivano (e vengono) raccolte all’inizio della primavera, appena cominciava a sciogliersi la
neve ed era ancora troppo presto per poter disporre delle verdure dell’orto. Per quanto
riguarda i punti d’inchiesta nelle valli, il largo utilizzo e l’estesa conoscenza di moltissime
erbe è da ricondurre al fatto che, nei secoli, per fronteggiare le rigide condizioni della vita
montanara (associate a periodi storici particolarmente difficili), si è sviluppato il sapere sul
mondo naturale circostante. Questo sapere ha permesso di incrementare le risorse di cibo,
integrandole con la raccolta di erbe spontanee, che vantano una lunga tradizione di utilizzo
come alimenti sostitutivi.
Coltivare Parole | 67
Giada Bellia
Figura 1. Borrago officinalis
Tra le piante più utilizzate in tal senso troviamo la borragine (Borrago officinalis), di cui si
usavano foglie e fiori mettendole in frittata o nella minestra; lo spinacio selvatico
(Chenopodium bonus-henricus), che veniva cucinato in padella come sostitutivo degli spinaci
(essendo peraltro molto più ricco in sali minerali); i giovani getti del luppolo (Humulus
lupulus), passati in padella e mangiati con l’uovo sodo; il polipodio (Polypodium vulgare),
che è una piccola felce chiamata anche “liquirizia di montagna”, di cui i bambini sovente
succhiavano la radice come un dolce (questa veniva usata anche come ingrediente
3
aggiuntivo della “birra di ginepro” ). Tra gli usi più comuni delle piante spontanee in
campo alimentare abbiamo la preparazione di minestroni d’erbe, cucinati lungo tutto il
periodo primaverile (quando non c’era ancora disponibilità di verdura); questi venivano
considerati come depurativi primaverili, probabilmente per la presenza di molte erbe con
tale proprietà (vitamine, sali minerali, polifenoli) come l’ortica (Urtica dioica), il tarassaco
3
PONS, A. (2012) «La biëero dë gënëbbre», in La Beidana, 74, pp. 88-92.
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L’inchiesta etnobotanica
(Taraxacum officinalis), la barba di becco (Tragopogon pratensis), la silene (Silene vulgaris), lo
spinacio selvatico (Chenopodium bonus-henricus), l’acetosa (Rumex acetosa) e molte altre.
Oltre che le prime foglie e i giovani getti, nelle minestre e nelle insalate si potevano anche
aggiungere infiorescenze di diverso tipo, dalle margheritine (Bellis perennis), alle violette
(Viola tricolor), alle primule (Primula veris e vulgaris).
Figura 2. Chenopodium bonus-henricus
Era molto comune sia in Val Chisone sia in Val Germanasca la produzione della “birra di
ginepro”, una bevanda a base di bacche di ginepro, preparata con 5 o 6 limoni, un po’ di
vino rosso o bianco e zucchero. A seconda della ricetta famigliare potevano essere aggiunti
altri ingredienti, come la liquirizia di montagna (Polypodium vulgare), la radice di angelica
(Angelica sylvestris) e fiori di sambuco (Sambucus nigra). Il tutto veniva fatto fermentare in
una damigiana per qualche giorno e se ne otteneva una bevanda dissetante, frizzante e
rinfrescante.
Coltivare Parole | 69
Giada Bellia
Grande era anche la produzione di marmellate con frutti selvatici, considerate
“medicamentose”: quelle ai mirtilli (Vaccinum myrtillus) venivano usate come anti-diarroico
e per i problemi intestinali in generale: si diceva infatti avessero la funzione di ripristinare il
normale transito intestinale. Quella al sambuco (Sambucus nigra) era invece considerata un
depurativo e fluidificante del sangue e per questo andava assunta in piccole dosi.
La maggior parte delle piante spontanee venivano raccolte per la cura e la prevenzione delle
malattie delle vie respiratorie, particolarmente frequenti a causa del rigido clima invernale
che doveva fronteggiare la popolazione. Altre piante erano largamente impiegate come
rimedi ad azione depurativa e digestiva, la loro azione era dunque rivolta prevalentemente
all’apparato gastro-intestinale. Infatti, all’annunciarsi della primavera o all’inizio del periodo
autunnale, c’era la consuetudine, soprattutto da parte degli anziani, di “depurarsi” dalle
tossine accumulate durante l’inverno o in previsione di questo. Per indicare l’azione delle
erbe impiegate a tale scopo, gli informatori usano spesso i termini “depurare” o “rinfrescare”
per intendere un’azione di drenaggio ed eliminazione delle tossine circolanti nel nostro
organismo o accumulate durante la stagione fredda.
I rimedi tradizionali sono semplici e di facile esecuzione: vi è una netta prevalenza della
somministrazione per via orale dei rimedi, per cui i tipi di preparazione più adoperati sono
infusi e decotti, anche se nella concezione popolare questi spesso non vengono distinti.
Molto diffuso era anche l’uso terapeutico esterno; le parti vegetali venivano applicate
direttamente sulla parte lesa, veniva impiegata soprattutto la pianta fresca, talvolta pestata
con del lardo, per farne impacchi e cataplasmi, oppure molto diffusi erano anche gli oleoliti,
i macerati e gli unguenti. Dato lo stile di vita incentrato sul lavoro fisico, era molto facile
che, camminando e lavorando su terreni sconnessi o maneggiando coltelli, falci e attrezzi
vari, si arrivasse a fine giornata con ammaccature, lividi e tagli. In questi casi era molto
comune applicare sulla cute lesa impacchi di varie piante fresche, raccolte sul momento e
pestate con del lardo rancido (probabilmente per veicolare meglio l’azione delle sostanze
attive) a formare un impiastro, che poi veniva tenuto sulla zona dolente anche per più
giorni.
Le parti più adoperate a scopo medicinale sono risultate le sommità fiorite, seguite da foglie
e parti sotterranee.
Per i dolori articolari o muscolari, affezioni molto comuni tra i contadini, non mancava mai
nelle case l’olio o la tintura di arnica (Arnica montana): venivano raccolti i capolini prima
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L’inchiesta etnobotanica
che fossero sbocciati del tutto e poi messi nell’olio (oppure nell’alcool o nella grappa) e
lasciati al sole per una ventina di giorni; in seguito la tintura veniva filtrata e riposta in un
luogo fresco. A Bobbio Pellice veniva usata la pianta fresca mettendola come impacco sulle
contusioni; a Bourcet si pensava che sfregare un fiore di arnica su una puntura di ape o di
vespa servisse ad alleviare il dolore. Sempre a Bourcet si raccoglievano i capolini per
venderli: si facevano seccare nella grangia per il grano, quindi si mettevano nei sacchi in
attesa del passaggio di un negoziante di Fenestrelle che faceva il giro da tutte le famiglie: gli
uomini avrebbero poi portato tutti i sacchi acquistati a valle, sulle slitte. A Prarostino non
si usava perché si credeva facesse andar via la pelle. In pianura non si conosceva o, in caso
contrario, la si comprava.
Figura 3. Arnica montana
Coltivare Parole | 71
Giada Bellia
Soprattutto per lividi ed ematomi si usava l’assenzio (Artemisia absinthium): oltre alle
proprietà digestive, stomachiche e anche febbrifughe (per la presenza di steroli ad attività
antipiretica), questo era largamente utilizzato come vermifugo per i bambini. L’assenzio
veniva assunto per via orale come decotto o tisana e lo si dava anche alle mucche e ai conigli
per problemi di indigestione. La pianta veniva usata fresca, pestato con del lardo rancido,
per fare degli impacchi per le slogature, per le contusioni o per le botte. A Bobbio Pellice,
Cavour e Piscina l’assenzio fresco, pestato nel mortaio fino a creare una pastella, serviva per
far spurgare gli ematomi e si diceva che, a dosi elevate, potesse essere abortivo. Sia a Bobbio
Pellice sia a Fenestrelle si utilizzava per profumare le stalle (facendo l’îtubbë, le fumigazioni)
dopo che si era tolto il letame: si prendeva la brace dalla stufa, e su questa venivano deposti
dei rametti di assenzio, rosmarino e ginepro, in modo da diffondere un buon profumo e
depurare l’ambiente. Per il suo gusto molto amaro, a Bourcet, gli uomini ne tenevano un
rametto in bocca quando non potevano fumare: invece a Perrero e Prarostino, era
sconsigliato darlo a uomini e bestie: dicevano che facesse andare fuori di testa.
Figura 4. Equisetum arvense
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L’inchiesta etnobotanica
L’equiseto (Equisetum arvense) veniva applicato fresco o dopo decozione, mediante impacco,
sulle parti irritate o bruciate, grazie alle sue proprietà remineralizzanti. Inoltre veniva usato
come diuretico e depurativo: pare infatti che la pianta aumenti la diuresi senza diminuire la
quantità di sali minerali; inoltre la notevole quantità di silicio presente nell’equiseto aiuta a
rinforzare le ossa e a mantenere l’elasticità dei vasi sanguigni e dei tessuti, migliorando la
circolazione. La tisana rappresenta la forma migliore di assunzione, perché il silicio
contenuto nella pianta è organo-solubile. È una pianta infestante, che cresce su terreni acidi
e umidi, vegeta soprattutto al fondo dei campi ed è molto difficile da sradicare, perché ha la
radice che corre sottoterra. A Prarostino veniva raccolta nel periodo di settembre, quando
era già bella alta: si faceva seccare e poi si consumava in tisana. L’infuso veniva bevuto per le
sue proprietà depurative e diuretiche, oppure veniva usato per fare dei pediluvi, nel caso di
talloniti o dolori ai piedi. A Bobbio Pellice veniva anche usata come “spugna abrasiva”
perché ricca di silice.
Il lichene islandico (Cetraria islandica) è molto utile in caso di affezioni bronchiali, tosse
grassa e catarro perché contiene delle sostanze emollienti, come la lichenina, che alleviano
le infiammazioni dell’apparato respiratorio, sono espettoranti e donano sollievo nella tosse.
Presenta anche piccole quantità di acido usnico, una sostanza con proprietà antibiotiche,
attivo contro batteri e alcuni funghi, molto utile nel placare le infiammazioni. Nella zona di
Pragelato veniva raccolto verso settembre/ottobre e lo si trovava solo su alcune cortecce,
soprattutto quelle dei larici. Secondo le testimonianze di Prali e Perrero invece, lo si trova
sulle rocce o in mezzo alle pietre, in zone dove la vegetazione è nulla o molto rara. A
Pramollo e Prarostino lo si andava a raccogliere nelle zone del Grand Truc, sulla costa di
Laz Arâ, fino ad arrivare alla Conca Cialancia. Quando lo si raccoglie è già allo stato secco,
ma veniva lasciato seccare ulteriormente in sacchi di iuta o all’aperto. Si utilizzava in tisana
o se ne faceva un decotto, lasciando bollire il lichene nell’acqua almeno un’ora, prima di
buttare la prima acqua di cottura: per togliere un po’ del sapore amaro, è infatti necessario
portarlo a ebollizione una seconda volta, dopo la prima cottura. Poi si poteva aggiungere
miele, zucchero, della mela cotta per i bambini oppure, a Pragelato, la resina dei pini e dei
larici (plegguë).
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Giada Bellia
Figura 5. Cetraria islandica
Della malva (Malva sylvestris) venivano utilizzate le foglie e i fiori: le prime servivano
soprattutto a scopo alimentare, in minestra e o nelle frittate, mentre i secondi venivano fatti
seccare e utilizzati durante l’inverno come infuso, ma anche sotto forma di impacchi per la
pelle, come pediluvi e per lavaggi intimi. La malva viene usata in particolar modo come
emolliente e per alleviare le infiammazioni. Ad esempio a Vigone si usa farla bollire in acqua
e poi prenderne un bicchiere al mattino a digiuno, come antinfiammatorio. A Prali alle
donne partorienti si facevano fare dei bagni nell’acqua di malva per favorire la dilatazione
(inoltre la pianta serviva come calmante); a Prarostino si usava dare un beverone di malva,
segale e acqua bollita alle mucche che avevano appena partorito per favorire la montata
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L’inchiesta etnobotanica
lattea. La malva era anche considerata ottima per le infiammazioni del cavo orale: a
Pragelato si curavano gli ascessi ai denti con impacchi di malva mentre a Luserna S.
Giovanni, per le infiammazioni delle gengive, si prendeva un infuso di malva e fiori di
borragine. Infine si diceva che la malva avesse effetti positivi per la cura delle emorroidi.
Figura 6. Malva sylvestris
Coltivare Parole | 75
Giada Bellia
Ortaggi
In passato, l’orto era fondamentale per la sussistenza delle società rurali, nelle quali spesso
non si poteva contare su entrate fisse in denaro: le persone traevano dall’orto il necessario
per sfamarsi e, nei casi di eccedenza, vendevano i lor prodotti per guadagnare qualche soldo.
La maggior parte degli informatori dichiara di aver ereditato le conoscenze e le pratiche
legate all’orto dai genitori e dai nonni seguendoli, sin da bambini, nelle varie fasi di
lavorazione. In genere un tempo era la donna a occuparsi dell’orto nel poco tempo che
riusciva a ritagliarsi dalle altre faccende domestiche e dal lavoro nei campi. La semina, la
pulizia dalle erbacce, l’irrigazione e la raccolta delle verdure erano compiti affidati
prevalentemente alle donne, aiutate dai bambini, ai quali erano affidati piccoli compiti
specifici, come raccogliere e pulire le patate. L’uomo si occupava soprattutto della
concimazione e dell’aratura del terreno, oltre che della falciatura del fieno e dei campi di
cereali.
In pianura, le prime fasi di preparazione della terra cominciavano già in autunno e, se il
clima non era troppo umido o freddo, si tentava anche qualche semina invernale. A
Piossasco la lavorazione dell’orto cominciava in autunno con la preparazione dei tarò: dei
mucchi di terra e letame, rivolti a sud, sui quali si seminavano insalate, rape e ravanelli che
venivano consumati durante l’inverno. Quella stessa terra veniva poi sparsa sul terreno
vangato successivamente in primavera, e fungeva da concime assieme al letame.
Normalmente si vangava la terra a mano o, se il terreno era ampio, si arava con l’aiuto di
mucche o di asini, e si concimava con letame di vacca. A Luserna si usava il letame di
coniglio perché si diceva che fungesse anche da pacciamatura e che riducesse lo sviluppo
delle erbacce. La terra veniva lasciata a riposo durante l’inverno per poi cominciare a
coltivarla in primavera.
In montagna, al contrario, la stagione era molto più corta tanto che gli anziani di Prali
dicevano che in montagna si avevano «eut mê d’uvèrn e cattre d’ënfèrn», ovvero otto mesi
d’inverno e quattro d’“inferno”, alludendo al clima che impone di svolgere in pochi mesi
tutti i lavori, dalla preparazione del terreno, alla semina, alla raccolta: sovente, i primi lavori
non si cominciavano prima di aprile o maggio. Inoltre, al contrario di quanto avviene in
pianura, i terreni in montagna sono pressoché sempre in pendenza, per cui il primo
compito da svolgere, soprattutto per la preparazione dei campi, era quello di riportare la
terra da valle a monte, con l’aiuto di una gerla.
76 | Scuola Latina di Pomaretto
L’inchiesta etnobotanica
Una volta preparata e concimata la terra, si poteva procedere con la semina. Questa si
effettuava a file o a spaglio. Per la semina a file, a Rorà si faceva un solchetto in cui si
spargeva un po’ di letame. È una tecnica utile soprattutto quando si utilizzano sementi
molto piccole come gli spinaci e l’insalata, per i quali la semina a spaglio rischierebbe di
deporre i semi troppo fittamente. La “semina a spaglio” consiste infatti nel gettare il seme,
spargendolo per il campo, per poi ripicchettarlo con una zappa al fine di sotterrarlo
completamente.
Un altro fattore che i contadini tenevano ampiamente in considerazione era il ruolo della
luna e delle sue fasi nelle varie attività agricole, in particolare nelle attività di semina, di
potatura e di taglio della legna da ardere (ma anche per l’uccisione del maiale, a Prali). Si
diceva che tutto ciò che doveva “uscire dalla terra” andava piantato con la “luna vecchia”
(calante), mentre ciò che “rimaneva sotto terra” si poteva piantare con la “luna nuova”
(crescente).
Una differenza fondamentale dal passato a oggi è legata alle sementi. Un tempo si
privilegiava l’autoproduzione dei semi da un anno all’altro, selezionandoli dalle piante più
rigogliose. A Prali si conservavano e si riproducevano le sementi soprattutto di fave, fagioli,
piselli e cipolle, ma anche di orzo, grano e grano saraceno. Talvolta, per far germogliare il
seme più velocemente, a febbraio si preparavano dei quadretti di terreno (a Vigone) o delle
cassette o delle latte di terra (Cavour) con i semi dentro, e si mettevano vicino alla stufa o
nelle stalle. In seguito, a partire dal mese di marzo, si mettevano in terra.
Oggigiorno, la maggior parte degli informatori si sono convertiti all’acquisto delle sementi e
dei piantini da vivaio, considerandolo un metodo più rapido per la coltivazione, che lascia
l’orto più ordinato e che ha permesso l’introduzione di nuove specie che un tempo non era
possibile coltivare, come il finocchio a Pramollo. Ma tutti convengono sul fatto che la
qualità degli ortaggi autoprodotti è nettamente migliore: le piante domestiche sarebbero
infatti più resistenti a malattie e parassiti. Alcuni informatori perciò continuano ad
autoprodursi le sementi di alcuni ortaggi, come le insalate, gli zucchini (a Luserna), le
carote, la rucola e le costine (Pramollo).
Fra le piante coltivate, un ruolo di prim’ordine spetta alla patata (Solanum tuberosum): le
più grandi servivano per la cucina, le più piccole si davano ai maiali e le mezzane si
mettevano in cantina in un mucchio separato o in una madia e servivano come seme per
l’anno dopo. Le cantine erano molto fresche e, a seconda della stagione, era necessario
portare le patate da seme in locali più caldi, in modo che il calore le facesse germogliare. In
Coltivare Parole | 77
Giada Bellia
valle, quando ci si spostava per trascorrere l’estate in alta montagna, veniva scavata una fossa
in mezzo al campo e la si riempiva della quantità di patate necessaria fino alla raccolta
successiva. Quindi la si ricopriva con della paglia, con delle assi brutte e con la terra perché
non gelassero. La fossa doveva avere una certa profondità in modo che le arvicole non le
mangiassero. Le patate erano la base della cena: si mangiavano lesse, in insalata con l’uovo
sodo e il dente di leone tagliato fine. Oppure ancora con la toma, l’aioli (aglio, rosso d’uovo
e olio) o con le lumache.
Figura 7. Solanum tuberosum
Per fare l’esempio di alcuni piatti tipici, a Pragelato si cucinava la glor ëd gratuzà (alle patate
grattugiate si aggiunge un soffritto di cipolla e lardo, si mescola il tutto aggiungendo un po’
di latte e un uovo e poi si inforna) e la glor a talhon (patate a pezzi, senza soffritto ma con
solo latte e uova, in forno con un po’ di burro); sempre con le patate si facevano le calhétta,
una sorta di gnocchi di patate grattugiate (ben scolate, in modo da mondarle dalla fecola),
con soffritto, olio e poca farina per legare. Per farle cuocere, si formano delle pallottoline
78 | Scuola Latina di Pomaretto
L’inchiesta etnobotanica
con l’impasto di patate crude grattugiate, che si passano nella farina e si cuociono in una
pentola nell’acqua bollente per mezz’ora, tre quarti d’ora. Un’altra ricetta prevede di far
bollire le patate, schiacciarle con sale, uovo e farina; si facevano passare nella farina e poi si
bollivano. Erano piatti soprattutto per la festa, per la domenica. A Pramollo la patata viene
usata per fare la minestra “Parmentier”, con porro e parmigiano; a Piossasco si potevano
anche fare al latte: una volta fatte fritte si mettevano nel latte, sul fuoco, con uno spicchio
d’aglio che faceva come una crema.
La patata era anche utilizzata a scopo terapeutico: per esempio se si aveva bruciore agli
occhi, o in caso di ustioni, si coprivano gli occhi o le bruciature con fette di patate (o con
una patata grattugiata); infatti, l’amido del tubero ha un effetto lenitivo.
Figura 8. Brassica oleracea. Foto di Daniele Bertin.
In cucina, sono numerose anche le preparazioni a base di cavolo (Brassica oleracea); a
Fenestrelle veniva addirittura usato per completare la cottura delle caldarroste: le castagne,
tolte dal fuoco prima di essere completamente cotte, venivano avvolte nelle foglie di cavolo.
Queste, mantenendo il calore e l’umidità, permettendo alle caldarroste di completare la
cottura rimanendo morbide. Inoltre, le foglie di cavolo venivano usate anche a scopo
Coltivare Parole | 79
Giada Bellia
terapeutico per calmare e togliere le infiammazioni; queste avrebbero il potere di “togliere
l’acqua” dalle “giunture” e dalle ginocchia. Le foglie venivano pestate fresche o dopo essere
state leggermente scaldate, quindi si applicavano come cataplasmi o impacchi sulla parte
dolente. A Fenestrelle, per conservarli, i cavoli venivano appesi a testa in giù in cantina,
mentre a Carignano si mettevano in una buca scavata nella terra e si ricoprivano con il
terreno smosso.
Le rape (Brassica rapa subsp. Rapa) si conservavano scavando una buca nell’orto, oppure
sotto il raspo dell’uva, in cantina, che le faceva diventare violacee e un po’ acidule. Quasi
ovunque, la rapa viene utilizzata anche per preparare uno sciroppo: vengono prese crude,
pelate, tagliate a fette, spolverate di zucchero (che penetra nella rapa) e sistemate in modo
che ci sia un po’ di pendenza, così da permettere al brodo che si forma di raccogliersi nello
stesso punto. Questo sciroppo ha proprietà emolliente, calma la tosse, il mal di gola e serve
per la raucedine. A Vigone si usava anche per gli animali: si dava il brodo di rapa alle
mucche quando non ruminavano e ai conigli quando non digerivano.
Le carote (Daucus carota) si conservano in cantina, con le patate, in sacchi bucati appesi,
oppure disposte a file e poi coperte di sabbia, che trattiene l’umidità. A Pragelato la sabbia
si raccoglieva nel Chisone, perché era molto secca a differenza di quella comunemente usata
dai muratori.
Alberi e arbusti
Dalla pianura alla montagna, non possiamo dimenticare di citare un altro elemento
fondamentale del mondo vegetale: l’albero, estremamente utile per gli abitanti del mondo
rurale. Gli alberi (e qualche arbusto), come le piante spontanee, assolvevano a innumerevoli
funzioni nella vita quotidiana, oltre ovviamente a fornire legna da ardere e da costruzione.
Si prediligeva il legno di frassino (Fraxinus excelsior) per la realizzazione di manici e attrezzi
agricoli, grazie alla sua robustezza, paragonabile a quella dei rami di salice. Questi, grazie
anche alla loro flessibilità, si prestavano a legare le fascine di legno e le viti, ma anche per
essere intrecciati a formare delle ceste, delle cavannhe e delle cabasse (gerle). Il salice (Salix
alba, S. fragilis, S. viminalis) non era molto diffuso nelle aree d’inchiesta: in alta valle,
infatti, si tendeva a coltivarlo, mentre in pianura ne esistevano svariate specie spontanee, il
che rendeva il suo impiego molto più vario ed esteso. Nelle località di montagna si
80 | Scuola Latina di Pomaretto
L’inchiesta etnobotanica
impiegava soprattutto il legno di larice (Larix decidua) per la costruzione di assi e travi per
le balconate e le travature dei tetti; inoltre si tratta di un ottimo legno da ardere.
Ma l’utilità dell’albero non si esauriva in ambito artigianale: ad alcune parti delle piante era
infatti attribuita un’azione terapeutica. Ad esempio le bacche di ginepro (Juniperus
communis) e di rosa canina (Rosa canina) venivano raccolte in autunno e fatte seccare, per
poi essere consumate in tisane, soprattutto durante l’inverno, per alleviare tosse e
raffreddore. Nella maggior parte delle località montane si utilizzavano anche varie parti del
larice contro i malesseri invernali: ad esempio le pigne e i giovani getti primaverili venivano
mischiati con lo zucchero per ricavarne uno sciroppo contro la tosse. La resina (chiamata
pleggue a Pragelato) poteva essere usata sia come cicatrizzante per tagli e screpolature, sia
disciolta in acqua bollente, contro la tosse e il catarro.
Figura 9. Bosco di Larix decidua. Foto di Aline Pons.
Coltivare Parole | 81
Giada Bellia
Anche le foglie potevano costituire un rimedio terapeutico. Per esempio, le foglie del noce
(Juglans regia) avevano disparate forme d’applicazione: a Luserna venivano poste come
impacchi per le articolazioni dolorose; a Perrero si aggiungevano all’acqua bollente per
preparare pediluvi in caso di geloni; a Piscina, in caso di mal di denti, si avvolgeva un
impacco di foglie di noce al braccio opposto rispetto al lato dolente della bocca.
Infine alcune parti, come fiori e frutti, venivano consumate come alimenti supplementari,
come contorno dei pasti principali, o costituivano delle alternative sfiziose ai dolci. Un po’
dappertutto si raccoglievano fiori di sambuco (Sambucus nigra), che venivano imbevuti nella
pastella per ottenere delle frittelle dolci. I gherigli macinati e pressati della noce venivano
spremuti per farne l’olio e a Perrero: lo scarto che rimaneva veniva usato come condimento
nell’insalata.
Una breve panoramica per mostrare come l’eterogenea applicazione dell’albero e delle sue
varie componenti nei contesti di primaria necessità, dalla costruzione, all’aspetto
nutrizionale e medicamentoso, lo rendano complementare agli impieghi delle piante
spontanee commestibili e medicinali e agli ortaggi e dunque indispensabile per il
sostentamento degli abitanti di pianura come di montagna.
Conclusioni
Negli ultimi quarant’anni anni si è assistito a un notevole decremento delle conoscenze
relative al mondo agricolo e a un progressivo abbandono della pratica di raccolta di specie
spontanee in tutta l’area d’inchiesta.
Infatti, a partire dagli anni ‘60, l’economia è radicalmente mutata, in pianura come in
altura. Come riportano le testimonianze degli informatori, in pianura i sistemi a “ciclo
chiuso” che caratterizzavano la vita in cascina, dove tutto il necessario (dal cibo, agli attrezzi,
ai vestiti) veniva autoprodotto, sono stati rapidamente soppiantati dall’avvento
dell’agroindustria e della chimica, con l’introduzione delle grandi estensioni di monocolture
(in particolare di mais), che ha visto il rapido abbandono di pratiche agricole e di colture
tradizionali, come la vigna, la canapa e i bachi da seta. Inoltre, lo sviluppo di pratiche
agricole più sofisticate e il largo utilizzo di fertilizzanti chimici e pesticidi, ha ridotto la
presenza di svariate piante spontanee commestibili e medicinali, contribuendo alla riduzione
della biodiversità vegetale.
82 | Scuola Latina di Pomaretto
L’inchiesta etnobotanica
In montagna, l’impatto maggiore è stato determinato dal massiccio spopolamento di
borgate e paesi di alta valle e dall’abbandono delle attività agricole e pastorali a favore delle
nascenti attività industriali nelle basse valli e nel Torinese. Questo ha contribuito alla
concentrazione della popolazione nei centri abitati del medio-fondo valle, dove risulta più
difficile l’approvvigionamento delle erbe mangerecce e medicinali, che come conseguenza
più immediata ha portato l’abbandono e la perdita di tutto il bagaglio di saperi ad esse
collegato.
Inoltre l’ampliarsi del commercio e l’aumentato benessere economico hanno introdotto
nella dieta della popolazione frutti e ortaggi esotici e gustosi, oltre ad un consumo maggiore
di carne, che hanno reso marginale o superfluo l’approvvigionamento di erbe spontanee e la
necessità di autoprodursi i propri ortaggi.
Per concludere si può avanzare una piccola riflessione, alla luce di quanto scritto, sul ruolo
dell’etnobotanica nell’esplorazione dell’universo dei saperi locali tradizionali. Uno dei
vantaggi legati alla disciplina è che essa può costituire un’importante chiave di lettura
“rivelatrice” dell’ossimoro natura-cultura e selvaggio-domestico4. Essa può dunque divenire
un’utile strumento di dialogo per svelare le dinamiche delle relazioni tra l’uomo e le
rappresentazioni e le pratiche legate al mondo vegetale, ma anche tra gli uomini stessi, ossia
la comprensione di una data società può passare attraverso la comprensione preliminare
delle interazioni uomo-pianta. Mobilizzare l’etnobotanica, tra le diverse etnoscienze5, può
costituire uno strumento per ricostruire e cambiare punto di vista, un approccio e uno
strumento metodologico per affrontare diversi tipi di questioni, come le trasformazioni di
una società nel corso del tempo, i conflitti in materia di gestione e organizzazione del
territorio ma anche la comprensione di una data cultura e i suoi sistemi di rappresentazione
4
Per un approfondimento, si legga almeno DESCOLA, P. (2010), « Diversité des natures, diversité des
cultures », Bayards Editions, Montrouge.
5
L’etnoscienza è quella disciplina che studia l'organizzazione delle conoscenze nelle diverse culture.
Dall’etnoscienza nascono diverse sub-discipline quali l’etnobotanica. Per una bibliografia essenziale e/o relativa
alle Valli Valdesi si vedano AVONDO, G.V./ LAURENTI, P. (1996), Malattia e salute. Medicina popolare e
ufficiale nelle valli del Pinerolese tra Ottocento e Novecento, Torino, Priuli&Verlucca; GUARRERA, P.M. (2006),
Usi e Tradizione della flora italiana. Medicina popolare ed etnobotanica, Roma, Aracne Editrice; MARTIN, G.J.
(2007), Ethnobotany. A methods manual, London/New York, Earthscan; PIERONI, A./GIUSTI, M.E. (2009)
«Alpine ethnobotany in Italy: traditional knowledge of gastronomic and medicinal plants among the Occitans
of the upper Varaita valley, Piedmont», in Journal of Ethnobiology and Ethnomedicine, 5, p. 32.
Coltivare Parole | 83
Giada Bellia
e di interazione con l’ambiente circostante. Questi aspetti hanno la funzione primaria di
poterci mostrare come le diverse “modalità d’uso della natura” possono essere interpretati
come uno specchio di un dato momento di una data società. Le immagini che ne risultano
forniscono dei reperti particolarmente utili al nostro tempo, dove la questione della
relazione all’ambiente, inteso come luogo del divenire dell’umanità, ma anche come spazio
creatore di culture e saperi, acquista ogni giorno più d’importanza. L’etnobotanica vuole e
può dunque aiutarci ad una costruzione moderna della nostra relazione alla natura.
84 | Scuola Latina di Pomaretto
Qualche etimologia di fitonimi raccolti nel Piemonte occidentale
Piero Andrea Martina
Lo storico della lingua Gian Luigi Beccaria apre il suo libro I nomi del mondo con una nota
pessimistica (anche se il libro non lo è) e riferendosi al lessico zoologico soprattutto scrive
di come «l’agonia e la morte delle cose cammini di pari passo con l’oblio del nome che le
designa» (BECCARIA 1995: 3 e ss.). Immagini di malattia, di guerre, di morte sono tutt’altro
che infrequenti nel lessico della linguistica; e d’altro canto, i grandi maestri della disciplina
in questi termini si sono espressi, basti il caso di Benvenuto Terracini (1957). L’immagine è
bella, efficace e serve perfettamente a descrivere l’oggetto di studio, la realtà linguistica, un
poco meno la realtà che i nomi designano (le cose non sempre agonizzano e muoiono). Essa
comporta anche un’implicita presa di posizione verso un atteggiamento soggiacente, pur se
accantonato, a certa indagine linguistica, quello della raccolta, conservazione e spiegazione
di forme desuete o rare. Senza attardarsi su questo spirito leggermente autunnale di
riesumazione di cadaveri linguistici, andrà comunque riconosciuto il ruolo positivo che tale
atteggiamento ha ancora in molte ricerche. Rincuorandoci del fatto che alcune parole
scompaiono ma non tutti gli oggetti che esse denominano lo fanno, cercherò di formulare
alcune proposte etimologiche a forme raccolte durante la ricerca di Coltivareparole58.
Verbasco Tasso-barbasso
Tra i nomi del Verbasco raccolti con il progetto Coltivareparole59, le forme di Fenestrelle,
Roure, Prali, Perrero e Pramollo possono riconoscersi nel tipo ‘coda di volpe’, che disegna
58
Sul progetto Coltivare Parole si veda la presentazione di Aline Pons in questo volume. Le forme sono qui
riportate rispettando le due grafie differenti (una per i punti di parlata occitana, una per quelli di parlata
piemontese) scelte in seno al progetto.
59
Nelle località di parlata occitana: Pragelato: lavasó(n); Fenestrelle: couvoùëlp; Roure: couà-voulp; Prali:
couvoùëlp; Perrero: counvolp; Pramollo: coumvoùëlp; Rorà: fiou d’ nëvioun; Bobbio Pellice: lëvioum. In quelle di
parlata piemontese (grafia ATPM): Villar Perosa: cua d’ vulp (con la precisazione: «così la chiamano in
Pier Andrea Martina
l’area di diffusione piuttosto compatta nelle valli Chisone e Germanasca; il nome è
conosciuto anche dall’informatore di Villar Perosa, che precisa essere non del proprio paese
ma genericamente «di montagna». Il tipo è largamente diffuso (cf. ad es. AIS 626 Verbasco,
punto 152 Pramollo; ALEPO I-II-232 Verbasco tasso-barbasso) e fa evidente riferimento
all’infiorescenza gialla della pianta; si dovrà prestare attenzione al fatto che la coda della
volpe è un oggetto con una propria identità, anche culturale, autonoma rispetto all’animale
(VAN DEN ABEELE in stampa).
Accanto a questo tipo, a Rorà è raccolta la forma fioû d’ nëvioun, che si accosta alle forme
lëvioum (Bobbio), lüviun (Barge). La forma trova conforto in analoghe piemontesi e
lombarde (le due carte sopra citate bastano a disegnare un’area di diffusione vasta e
compatta).
Le forme nëvioun, lëvioum, lüviun derivano da una base AVEDŌNE attestata dai glossari
«UERUASCUM... id est AUEDONE» (cit. in BERTOLDI 1933: 332), assai più evidente in forme
come fyúr d avyúƞ (grafia semplificata), attestata dall’AIS a 270 Cozzo (PV, nella Lomellina
occidentale); la forma con laterale iniziale è l’esito della concrezione dell’articolo. Seguendo
Bertoldi, la voce sarebbe uno dei pochi termini gallici (ma forse invece ligure, pregallico)
attestati, anche se tardivamente. Per questa pianta, l’unica forma che resiste a questo tipo di
spiegazione è quella raccolta a Barge, con iniziale lü- per cui si può pensare ad un incrocio o
ad un accostamento con la base LUP-, di incerta origine, ma forse la stessa che ritroviamo,
tra le denominazioni del luppolo, nelle forme lüvertin60 opposta a rovertin, revertígol...
montagna»); Bibiana: erba d’ san Per; Barge: lüviun («c’è chi lo chiama così, sü da lì»). Nelle altre località non
abbiamo registrato una risposta.
60
La discussione sui nomi del luppolo (Humulus lupulus) rimane aperta, nonostante le puntualizzazioni di
ZAMBONI in PELLEGRINI-ZAMBONI 1974: 47-56 e ZAMBONI 1981: 49; cf. da ultimo la voce nel REP. Pur
come soluzione provvisoria, e accogliendo il *REVOLUTICEU- / REVOLUTICULU di Zamboni, proporrei di
recuperare della vecchia idea di SALVIONI 1900, con l’aggiunta di SALVIONI 1902: 29 (*LUPURTICA,
LUPURTICEU-, contro cui già BERTOLDI 1928, con rinvii) una base LŪP-, e quindi in questo senso anche
eventualmente LUPUS, non tanto l’animale ma il ‘luppolo’, il cui etimo rimane oscuro. A questo proposito, cf.
la sintesi del DELI, s.v.: «Lat. tardo e mediev. lŭpulu(m), attest., prima che in Mettheus Silvaticus (sec.
XIII), in un glossario dei secc. X-XI. È un der. di lŭpus, un omofono di lupus ‘lupo’, ma molto prob. di altro
sign. e di altra orig.». La quantità breve della u tonica di lupulum e lupus andrà interpretata anche attraverso
l’alternanza tra forme LŬPUS (attestata) e *LŪPUS (presupposta dalle forme volgari) per indicare il ‘lupo’. A
margine noto che il DELI non ipotizza un avvicinamento, pure possibile, tra “luppolo” da un lato e “lupino”
(«...ma sostantivato già in Catone, per indicare la ‘pianta’, che divora», s.v.) e “lupa” («‘carie del tronco e dei
rami dell’olivo’» DELI, s.v.) dall’altro.
86 | Scuola Latina di Pomaretto
Qualche etimologia di fitonimi
All’etimo
ILLU(M) AVEDONE(M)
andranno ricondotte anche forme come ɛrba du leuŋ
(raccolta a Chianocco dall’ALEPO, cit.), fjur d leuŋ / liuŋ (Condove, Coazze, ibid.)61, dove
in lëviun (più che lüviun), risemantizzato, è sentito ‘leone’; probabilmente una “forma
ponte” può essere riconosciuta in kúa d leúƞ di Bruzolo (AIS, p.to 142), inspiegabile per la
morfologia del fiore ma comprensibile in quanto tipo di passaggio tra la ‘coda di volpe’ e il
reinterpretato ‘(fiore di) leone’.
Dalla genzianella all’acetosella
Dalle code di volpi e leoni ai cuculi.
Per la genzianella sono frequenti in tutta Italia i tipi ‘calze del cuculo’, ‘braghe del cuculo’
(cf. PENZIG 1924: s.v.), spiegati normalmente (PELLEGRINI-ZAMBONI 1982, per esempio)
con l’accostamento alla zampa calzata dell’uccello; caratteristica che sarebbe ravvisata nel
fiore, chiuso o appena aperto, della genzianella, anche se credo che nella motivazione possa
aver giocato un ruolo il colore tendente all’azzurro del piumaggio del maschio. In ogni caso
a Roure, Pramollo e Prarostino il nome è semplicemente ‘cucù / cùcu’, “cuculo” 62, che offre
il destro ad alcune considerazioni di carattere più generale.
Senza includere nell’analisi gli altri tipi riscontrati, sembra che si oppongano due sottotipi,
che esemplificano due differenti tipologie denominative: da un lato un sintagma complesso
costituito da due nomi (nome con un determinante che aiuta a identificarlo), cioè capo di
abbigliamento + animale; dall’altro l’animale soltanto. Per cui ci si potrebbe chiedere se il
fiore, la pianta, richiami le braghe o il cuculo, se cioè siano le braghe o il cuculo ad essere
l’elemento forte, saldo della denominazione. La difficoltà nel dare una risposta è aumentata
dal fatto che i casi di fitonimi con ‘cuculo’, proprio per la straordinaria presenza dell’animale
nella fitonimia (se ricorre sempre, non è indizio di identificazione), non sono dei più
semplici63.
61
CAMISOLA (1854) registra «erba d’ luvion, erba d’ lion» come forme per il Verbasco. Ringrazio Alberto Ghia
della segnalazione.
62
Pragelato dzensanél; Fenestrelle gensanëtta; Roure coucuc; Prali braio d’ cucuc; Perrero braia d’ cucuc;
Pramollo cucuc; Prarostino coucouc; Rora peiroulèt; Villar Perosa cause dël cucù; Bobbio Pellice pîrourèt;
Bibiana giansanin; Barge e Vigone gensianéla.
63
Nell’analisi dei fitonimi si è tenuto conto delle denominazioni del cuculo nell’area, sulla base di ALEPO
III-I-97 Cuculo.
Coltivare Parole | 87
Pier Andrea Martina
Un’altra erba “del cuculo” è l’acetosella, Oxalis acetosella, i cui nomi spesso si
sovrappongono a quelli dell’acetosa, Rumex acetosa, pur nella grande diversità delle due
piante. Si riassumono le denominazioni raccolte, per osservare il costituirsi di microaree di
diffusione delle stesse.
Per l’acetosa (cf. ALEPO, I-II-191):
- l’area piemontese costituita da Barge, Cavour, Cumiana, Villar Perosa è concorde nella
nominazione galüciu, tipo ‘galluccio’ che è un altro nome non infrequente per diverse
specie: qui la ragione sottesa al nome potrebbe essere il fiore dell’acetosa che richiamerebbe
la cresta del gallo (così anche il REP: s.v.);
- l’area occitana attesta un altro tipo, nelle forme sitoura a Bobbio, eisioula a Rorà, azioula a
Luserna, che scende fino a Bibiana arzioula (che conosce però pure galüciu, èrba brüsca),
Prarostino zhoure, Perrero asìtoula, con il sottotipo Pramollo e Roure asuitta, Prali asouitto.
Tutte queste forme sembrano derivare da una base ACĬDŬLA, con evidente riferimento al
gusto della pianta.
Per l’acetosella (per cui cf. ALEPO, I-II-179) si ha sovrapposizione delle nominazioni di
acetosa e acetosella a Perrero, Rorà, Bobbio, Bibiana. Molti informatori non la riconoscono
o non ne ricordano il nome (Barge: «l’è n trafuièt»). Interessanti le risposte di alta Val
Chisone e Germanasca: ad es. Prali offre il tipo èrbo dâ cucuc, ‘erba del cuculo’,
denominazione già in PONS-GENRE 1997. Allargando lo sguardo oltre i confini delle Valli
Valdesi, repertori e atlanti attestano per l’acetosella in località pedemontane di parlata
provenzale, francoprovenzale, piemontese, ma pure della Lombardia, del Veneto e del
Friuli, i tipi ‘pane del cuculo’, ‘erba del cuculo’ (PENZIG, s.v., AIS 628; cf. pure AIS 627
Acetosa), in qualche caso forse anche su spinta di forme galloromanze d’Oltralpe, o del
francese pain du coucou.
Dall’osservazione dei tipi si apprende che la sovrapposizione delle due piante nella fitonimia
non è infrequente, e se pure in una medesima località esse vengono distinte, i tipi lessicali
che si ritrovano sono sempre gli stessi. Senza attenzione alla loro distribuzione, ne elenco i
principali: ‘erba / pane cucco /del cuculo’, ‘bruschetta’ ‘erba brusca’ e per antifrasi ‘erba
dolce’, ‘pane e vino’, ‘pan del cielo’ (cui forse andrà legato il tipo ‘erba del signore’, che qui
lascio da parte). Zamboni (1981: 57) lega molti di questi al «mondo infantile, perché
88 | Scuola Latina di Pomaretto
Qualche etimologia di fitonimi
oggetto di giochi o ricercate in quanto buone a mangiarsi»64; si potrebbe aggiungere, per
tipi come ‘pane e latte’65, la motivazione dello scherzo: “assaggia, che è buona!”.
Sicuramente da porsi accanto a questi ultimi tipi, e apparentemente molto vicino al tipo di
Prali, è quello di Fenestrelle pan d’ uzuèl: confortati dalla denominazione di Prali e dai
nomi raccolti nel Nord Italia, si potrebbe essere portati a tutta prima a interpretare il tipo
come ‘pane d’uccello’66, confortati dalla forma pan d’ûzèl attestata da PONS-GENRE 1997 per
la poa alpina e l’acetosella. Forme simili sono raccolte dall’ALEPO a Novalesa e Giaglione67.
Il tipo pone tuttavia altri problemi: in ‘erba del cuculo’, potrebbe sembrare che ciò che più
definisce l’acetosella sia il pur generico ‘erba’ e non ‘cuculo’; già nel tipo ‘pane del cuculo’ ci
accorgiamo che è ‘cuculo’ l’elemento forte. Il tipo ‘pane d’uccello’ riporterebbe nel dubbio le
nostre certezze, facendo volare via il cuculo in favore di un generico uccello, di cui l’erba
sarebbe pane.
Uno sguardo al lessico fitonimico popolare ci aiuta: ‘pane’ è un elemento ricorrente in
questa lingua speciale per indicare una proprietà della pianta. Zamboni (1981: 43) ricorda
che «il primo, grande impulso [motivazionale denominativo] deriva dalle qualità pratiche
della pianta, che può essere utile (medicinale od officinale, commestibile, foraggera, ecc.) o
inutile, se non addirittura nociva».
La spiegazione che propongo per pan d’uzuèl è più semplice. Allargando lo sguardo, il nome
francese dell’acetosa è oseille, tipo compatto che si ritrova in tutte le regioni alpine
d’Oltralpe, pur con altre forme presenti a macchia di leopardo, per cedere solo nelle Alpi
Marittime di fronte a ‘agretta’ (cf. ALF, 954 Oseille). L’etimo è problematico: oseille è stato
spiegato (dal FEW, ad es.) come un incontro tra ACIDULA, che abbiamo visto essere
produttivo, e OXALIDE (oxalis, oxalidis), che ritroviamo nel nome scientifico dell’acetosella,
64
«è per es. il caso dell’‘acetosa’ (Rumex acetosa L.) e dell’‘acetosella’ (Oxalis acetosella L.), che accanto al
nome risalente ad acidula [i breve, u breve], REW 104, cfr. ven. sett. (agord.) zédola, mostrano diffusamente
pan e vin, pan e lat, pan e mei: i ragazzi amano infatti succhiarne le foglie e il fusto, di gusto acidulo» ibid.
65
Lo stesso tipo ‘pane e latte’ (insieme con ‘pane e cacio’) è utilizzato per denominare la donnola, ed è stato
messo in relazione con (testimoniati) rituali propiziatori: cf. Rohlfs (1931), Bambeck (1984), Alinei (1986),
Caprini (2015). Difficile definire i termini di questo possibile rapporto.
66
La difficoltà fonetica ([wɛ] o [we] / [e] o [ɛ]) si potrebbe accantonare date le forme dittongate valsusine: si
vedano ALEPO III-I-53 Uccello, località di Novalesa, Giaglione, Mattie, Chianocco, Susa.
67
Rispettivamente paŋ d yzwel e paŋ d ɛizwel, entrambi interpretati ‘pane degli uccelli’ nei materiali di lettura
della carta e spiegati in quanto «dal tipo pane (del) cuculo ha probabilmente avuto origine il tipo pane degli
uccelli».
Coltivare Parole | 89
Pier Andrea Martina
e che è grecismo: oxalís ‘vino acido’. Alessio (1950: 191) metteva in discussione l’etimo,
riportando oseille a un oxýs greco (‘acido, acre’), ma, sulla scorta di denominazioni latine
medievali oxygalla, oxigilla, ponendo alla base un OXYGALA ‘latte acido’. In realtà si può
anche supporre che le due forme mediolatine attestate siano retroformazioni di tipo dotto
da una forma popolare. Poco importa qui se partiamo da ACIDULA + OXALIS, da OXIGALA o
da un semplice ACIDULA (cui credo sia da aggiungersi comunque ACETULA, che è alla base
del nome italiano e che viene foneticamente a confondersi con ACIDULA): è in ogni caso
riconosciuta l’unità del tipo galloromanzo (‘francese’ con le sue realizzazioni provenzali), cui
Alessio riconduce le denominazioni riprodotte da Penzig per Oulx (oseglie) e San Remo
(oseju). Per comodità definisco questo tipo ‘oseille’.
A quest’ultimo mi pare si possa legare anche il tipo che provvisoriamente era stato definito
‘pan d’uccello’, dove quindi gli uccelli non c’entrano niente: al nome di tipo ‘oseille’,
evidentemente linguisticamente opaco (anche se derivante da ACIDULA), si giustappone un
‘pane di’. Il nome potrebbe poi effettivamente esser stato reinterpretato come ‘pane
d’uccello’, probabilmente sotto la spinta del vicino ‘pane del cuculo’. Senza andar troppo
oltre, sempre a questo tipo si potrebbe legare quello che abbiamo definito, e che è da
intendersi, come ‘pane del cielo’. Un nome naturalmente deve trovare le proprie ragioni, e
per imporsi e per continuare la sua vita: il fatto che ‘pane del cielo’ sia supportato da ‘pane e
vino’ e ‘pane del signore’ può essere una di queste, ma quale delle denominazioni preceda è
ben difficile dire. Ad ogni modo mi pare sia plausibile riconoscere dietro i ‘pani del cielo’ e i
‘pani d’uccello’ la nostra base.
È questo un caso interessante anche dal punto di vista geolinguistico, che mostra quale
possa essere l’interesse di una ricerca come quella condotta. Un’inchiesta a maglie fitte può
andare a scovare forme che, in certi casi, possono ridefinire le aree di diffusione di una base
lessicale e permette, a volte, di individuare “forme ponte” effettivamente usate68.
68
Si vedano ad esempio le forme raccolte a Pragelato e Fenestrelle per il mirtillo: laz aieddra e laz eidra. Esse
sono riconducibili alle denominazioni areza, azera e simili, il cui etimo è stato oggetto di discussioni. Il LEI
(76 ss.), seguito dal REP (73-4), propone una derivazione dal *ALISA con slittamento semantico da ontano a
mirtillo (che sarebbe a sua volta da una base indeuropea * EL- ‘ontano, olmo, ginepro’). La forma di
Fenestrelle pare invece ridare peso all’ipotesi di BERTOLDI 1924-5, che riconosceva una derivazione da ATRA,
che ha il pregio di unire le denominazioni piemontesi a quelle d’Oltralpe (prov. airo, fr. airelle) e soprattutto
di agganciare il nome non alla pianta ma al frutto, nero appunto. Sul mirtillo si veda soprattutto CUGNOMANTOVANI 2010, nello specifico sulla base ATER: 168; sul prelatino *alisa: 170-171; da quest’ultima, in linea
con i dizionari etimologici, le autrici fanno derivare il piemontese arëza.
90 | Scuola Latina di Pomaretto
Qualche etimologia di fitonimi
Non sono in grado di liberare i cuculi dalla gabbia fitonimica. È ben difficile dire che ‘pan
del cuculo’ tenga dietro a ‘pan d’uccello’, dal momento che pare proprio il tipo cuculo,
legato alle acetosa/acetosella ma anche ad altre piante, a indirizzare il riconoscimento nel
tipo ‘oseille’ di un uccello. Quanto al ‘cielo’, non è così facile a dirsi.
Ci sarà chi riconoscerà nel cuculo un animale totemico (erbe dei cuculi si trovano in tutta
l’area europea, dalla Polonia alla Francia). In altri tempi dietro al ‘cuculo’ così ricorrente nel
nome di fiori si sarebbe riconosciuta una base, magari alpina, comunque un elemento di
sostrato che aggalla qua e là in diversi nomi e che viene reinterpretata sulla base del nome
dell’uccello. Entrambe le ipotesi sarebbero di comodo, rinunciando a un’effettiva
spiegazione.
Iperico
I nomi dell’iperico raccolti sono quasi tutti noti e poco problematici. La maggior parte è
riconducibile ad alcuni tipi lessicali, accomunati da una medesima motivazione che fa
riferimento una caratteristica della foglia, traforata: ‘millepertugi’ (in Val Pellice), che è il
tipo attestato, con alcuni sottotipi, in tutta la Francia (con poche eccezioni), ‘traforella’
(nelle valli Chisone e Germanasca, ma anche a Bibiana e a San Giovanni come seconda
forma); una motivazione che sta alla base anche del nome scientifico e di molte
denominazioni in lingue europee (si veda per l’italiano PENZIG 1924: 237-238).
Solo a Fenestrelle l’informatore dà il nome il nome matagon, forma di cui non ho trovato
paralleli tra le denominazioni repertoriate della pianta. Nonostante la diversità botanica, un
parallelo si potrebbe registrare con la denominazione del giglio martagone, matagoun,
(ALEPO, I-ii-155); per questa pianta ricorrono (Ingria, Lemie) denominazioni del tipo
‘erba di san Giovanni’, per cui una sovrapposizione con le denominazioni dell’iperico non
pare azzardata, pur rimanendo oscure le possibili ragioni.
Alcuni matagon / matagoun esistono in area provenzale. Per il Tresor dou Félibrige (MISTRAL
1878: s.v.) «matagot, matagoun» è il «chat sorcier, chat qui enrichit ceux qui prennent soin
de lui, selon une croyance populaire; follet, lutin», con alcuni esempi di uso. Sfogliando il
FEW si ritrovano alcune forme simili, anche se ricondotte a basi lessicali diverse (v.
mandragoras, VI/1, 158):
Nfr. martagon m. “mandragore” (1610), hbret. herbem atagon RTrP 7, 158, berr. herbe matago,
martigo, montago, Allier herbe de matagon, blim. Dord. motogò, land. môdagò Mt; centr. herbe
Coltivare Parole | 91
Pier Andrea Martina
matagon “rossolis”, matagon, herbe matagot, matagot Allier herbe au matagot, matagot, Figeac
erbo del matago; Cher matagon “orobanche”; Brive matago “ophioglossum vulgatum” RlFl 11,
86. RlFl 8, 12,3, 164; 2, 198.
Il francese conosce un matagot nel senso di «homme excentrique, original, souvent
grotesque» (TLF, s.v.); per il TLF il termine sarebbe un’invenzione di Rabelais, «peut-être
de magot1 “sorte de singe” et “homme laid” par rapprochement entre les gestes des moines
prêcheurs et ceux des singes», pur aggiungendo l’opinione contraria del FEW (VI: 382b) e
il fatto che «il est à noter également que dans certains parlers région. matagot peut désigner
la mandragore [...] et «un lutin, un esprit follet, un être imaginaire», con rimando a FEW,
VI: 523b.
Sempre il FEW (XXI: Inconnus, 468, aliment) attesta a Nizza un matagoun «aliment
grossier et lourd» quello che noi diremmo un ‘mattone’ «pièce d'étoffe mal cousue, formant
épaisseur sur la pièce principale». Questo secondo senso, si può considerare una definizione
più vasta del grumo che si forma quando chi rammenda non è particolarmente abile nel suo
lavoro.
È ancora il FEW a lemmatizzare, sotto mattus ‘niedergeschlagen’, ‘treurig’ (‘triste, abbattuto’),
ma anche ‘feucht’ (‘umido’), che sta alla base dell’antico e mediofrancese mat ‘abattu, vaincu’,
‘accablé’, ‘sombre’, il guascone matocan “uccisore di cani” (che sarà però forse da matar +
69
CANEM ), e forme simili a quelle che abbiamo già trovato: erbo di motogò “mandragola”,
matagó “lutin”, matagot “êtres immaginaires”.
Il problema maggiore qui mi pare sia nella base MAT- su cui si hanno poche certezze.
Incerti sono gli etimi di matto ‘folle’, ma pure di mattone (cf. DEI e DELI, s.v.). L’unico
matto sicuro parrebbe lo scacco matto, che è schietto arabismo, passato con il gioco in
Europa (e che generalmente non si pone in parallelo con la nostra base; cf. PELLEGRINI
1972: 96). Etimologia italiana e francese hanno proceduto sempre su binari paralleli, e così
non ci sono nei dizionari dei ponti tra il lat. med. mattus alla base del nostro matto, e il
mattus col senso di ‘triste, abbattuto’ ma anche ‘umido’, scelto come base dal FEW. Se si
chiamano in causa i mattoni è per il mediofrancese matte ‘latte cagliato’, e simili; ma anche
la forma maton, già attestata nel Centro e poi produttiva nel Nord soprattutto e nell’Est
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Su matar, cf. la voce nel DCELC (290b-293b).
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Qualche etimologia di fitonimi
della Francia, nel senso di ‘massa di latte cagliato’, e di ‘grumo di latte’. A Varennes e in
altre zone maton è una sorta di torta o pane di forma rotonda, di noci; ma che ha anche
varianti col fromage blanc.
Avvicinare il nome dell’iperico di Fenestrelle e del giglio martagone alle denominazioni
della mandragola da un lato, dal gatto/spiritello magico dall’altra può aver senso; un
parallelo si può forse trovare nelle denominazioni dell’iperico del tipo ‘fugademoni’
‘(s)cacciadiavolo’, ‘cacciademoni’ (attestate rispettivamente da PENZIG 1924 in Piemonte,
Liguria, Abruzzo: 238-239). Il legame può essere quello offerto dalle proprietà curative
dell’iperico (nei materiali etnobotanici raccolti durante le inchieste si trovano: «trafurela
mai desbela», «trafourello set mal a i pello»). Oppure, parallelamente e più sottilmente, dalle
proprietà antidepressive della pianta stessa.
Conclusioni
I problemi che si sono affrontati attraverso questi pochi casi sono soltanto alcuni esempi, e
non dei più difficili, degli ostacoli che pone la ricerca etimologica in ambito fitonimico.
L’individuazione di basi etimologiche che legano tipi lessicali anche molto diversi è
naturalmente importante non soltanto per se stessa, ma perché offre spunti interessanti per
indagini sugli aspetti motivazionali, ai quali si può risalire anche attraverso le raccolte di
etnotesti.
Tra gli esempi proposti sono interessanti i casi di risemantizzazione di basi ormai non più
riconosciute. D’altra parte questi lessici impongono anche una grande cautela nell’adoperare
altre categorie e concetti della linguistica, su tutti quelli di trasparenza e opacità di un
termine. Infine, anche distinzioni troppo meccaniche tra forme di etimo dotto e semidotto
e forme «tipicamente descrittive, e quindi trasparenti» (Calleri, in BECCARIA 2004, s.v.
Fitonimo) non sono così pacifiche quando nella base etimologica viene riconosciuto un
elemento descrittivo peretimologico che la rispiega e ne garantisce la fortuna.
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96 | Scuola Latina di Pomaretto
Volume realizzato dall’Associazione Amici della Scuola Latina di Pomaretto
nell’ambito delle attività di tutela e promozione delle lingue minoritarie.
2017
Ass. Amici della Scuola Latina
ISBN 978-88-942090-1-3