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Coltivare Parole. Lingue locali ed etnobotanica

2017

Coltivare Parole LINGUE LOCALI ED ETNOBOTANICA a cura di Aline Pons Atti del Convegno del 24 Settembre 2016 Scuola Latina di Pomaretto Dicembre 2017 Ass. Amici della Scuola Latina Pomaretto ISBN 978-88-942090-1-3 GIORNATA DELLE LINGUE MINORITARIE 2016 Coltivare Parole LINGUE LOCALI ED ETNOBOTANICA a cura di Aline Pons Atti del Convegno del 24 settembre 2016 Scuola Latina di Pomaretto Relatori Tullio Telmon, Alexis Bétemps, Paolo Varese, Aline Pons, Giada Bellia, Pier Andrea Martina. Note biografiche Tullio TELMON (Solero, 1943), laureatosi in Lettere presso l’Università di Torino nel 1966, è stato dapprima funzionario scientifico all’Università di Amsterdam (1967-1968), poi professore all’Accademia di belle arti di Amsterdam (1969-1972). Rientrato in Italia, ha lavorato all’Ateneo torinese, prima come borsista (1972-1976), poi come contrattista (19761980) e ricercatore (1980-1987). È stato poi professore associato presso l’Università “Gabriele D’Annunzio” di Chieti, dove ha diretto l’Istituto di glottologia (1988-1994). Dal 1994 è stato professore ordinario presso l’Università di Torino, dove ha insegnato Dialettologia e Dialettologia italiana. Dal 2017 è professore emerito. Ha fondato e diretto, insieme a Sabina Canobbio, l’Atlante Linguistico ed Etnografico del Piemonte occidentale (ALEPO). Alexis BÉTEMPS (Saint-Christophe, 1944) è laureato in lingue moderne. Linguista ed etnografo, è stato per più di trent’anni presidente del Centre d’Etudes francoprovençales di Saint-Nicolas, in Valle d’Aosta. Direttore emerito del BREL (Bureau Régional pour l’Ethnologie et la Linguistique) è autore di libri, saggi e articoli sulle problematiche linguistiche valdostane e alpine e sulle tradizioni popolari delle alpi occidentali. Nel 2011 ha ricevuto il premio Rigoni Stern per la saggistica con il libro “La vita negli alpeggi valdostani nella prima metà del novecento”. Paolo VARESE (Torino, 1960) è residente a Luserna San Giovanni (TO); si è laureato in Scienze naturali all’Università di Nizza Sophia-Antipolis, precedentemente diplomato di livello BTSF (Brevet Technicien Supérieur Forestier) presso l’ ENGREF di Nancy. Ha lavorato dapprima come ricercatore contrattuale in Francia (Luberon, Gap, Corsica), poi per quindici anni presso l’Istituto per le Piante da Legno e l’Ambiente di Torino - IPLA, in seguito come dipendente di una società privata francese, prima a Marsiglia e poi a Lione, con cui ha partecipato anche a programmi di cooperazione in Libano; attualmente si occupa di studio e gestione degli ambienti naturali, in particolare in ambito forestale, fluviale e prativo; conservazione della biodiversità; riqualificazione fluviale; agro-forestry. Ha all’attivo una trentina di pubblicazioni. Coltivare Parole | 3 Aline PONS (Pinerolo, 1986) vive a Pomaretto. Ha conseguito un dottorato di ricerca in Scienze del Linguaggio e della Comunicazione presso l’Università degli Studi di Torino, con una tesi sul lessico geografico nelle Alpi Cozie. Membro della Società di Studi Valdesi e del Centro Studi Confronti e Migrazioni, da ottobre 2012 lavora nella redazione dell’ALEPO (Atlante Linguistico Etnografico del Piemonte Occidentale) e dal 2010 si occupa dello Sportello Linguistico Occitano presso la Scuola Latina di Pomaretto. Giada BELLIA (Wittlich, Germania, 1990), è cresciuta e vissuta a Pinerolo, si è laureata in Tecniche Erboristiche alla Facoltà di Farmacia presso l'Università di Torino, con una tesi in etnobotanica alpina, disciplina nella quale si sta specializzando a Parigi. Dal 2013 collabora al progetto Coltivare Parole, per promuovere la diffusione e la conoscenza sugli utilizzi delle erbe locali. Pier Andrea MARTINA (Pinerolo, 1989) è dottorando in filologia romanza presso le università di Torino e di Paris-Sorbonne, dove conduce una tesi in letteratura francese medievale. Insegna materie letterarie nella scuola superiore; collabora con l’IRHT di Parigi al catalogo dei manoscritti francesi e occitani della Biblioteca Apostolica Vaticana. È uno dei ricercatori del progetto Coltivare Parole. 4 | Scuola Latina di Pomaretto Indice Introduzione Aline Pons 7 Le piante nell’Atlante Linguistico ed Etnografico del Piemonte Occidentale (ALEPO): alcuni esempi Tullio Telmon 9 Lo sa il fiore che cos’è l’amore Alexis Bétemps 29 I prati non sono solo erba: riflessioni per le valli del Pinerolese Paolo Varese 41 Coltivare Parole. Un racconto del progetto Aline Pons 59 Coltivare Parole: metodi, risultati e curiosità di un’inchiesta etnobotanica Giada Bellia 65 Qualche etimologia di fitonimi raccolti nel Piemonte occidentale Pier Andrea Martina 85 Coltivare Parole | 5 6 | Scuola Latina di Pomaretto Introduzione Aline Pons Dopo una rassegna quasi decennale di convegni1, l’Associazione Amici della Scuola Latina ha deciso di incentrare i lavori della giornata delle lingue minoritarie del 2016 sulla presentazione del progetto Coltivare Parole, che ha tenuto impegnati i suoi sportelli linguistici per diversi anni. Non si è tuttavia voluto rinunciare neanche in questo caso al proficuo scambio di conoscenze fra l’ambiente accademico e la ricerca locale che ha caratterizzato l’intero corso di questi incontri: il convegno è dunque stato strutturato, così come questo volume che ne raccoglie gli atti, in due parti, l’una di carattere più generale e in qualche misura preliminare, l’altra dedicata in modo più specifico all’illustrazione dei risultati ottenuti con il progetto Coltivare Parole. La prima sessione raccoglie alcuni interventi rappresentativi dei diversi filoni di studio nei quali il progetto si inserisce: la geolinguistica, l’etnografia e la botanica. Più nel dettaglio, il contributo di Tullio Telmon introduce lettori e lettrici allo studio delle carte linguistiche, strumento indispensabile per lo studio della variazione dialettale nello spazio. Tullio Telmon ci offre un magistrale assaggio di lettura di alcune carte dell’Atlante Linguistico ed Etnografico del Piemonte Occidentale (ALEPO) che, oltre ad essere la fonte principale di documentazione sulle parlate occitane cisalpine (sebbene in larga parte ancora inedito), è anche un punto di riferimento nella valorizzazione di quelli che i linguisti chiamano “etnotesti”, trascrizioni fedeli di brani dialettali estrapolati da conversazioni libere che, se vengono registrati e trascritti, sono un utilissimo complemento alla carta linguistica per spiegare a tutto tondo il concetto che viene indagato. 1 I temi trattati sono stati: nel 2007 “Tutela e promozione delle lingue minoritarie attraverso i linguaggi dell'arte”, nel 2008 “Lingua, identità ed espressione artistica”, nel 2009 “1999-2009: Dieci anni di tutela delle lingue minoritarie”, nel 2010 “Letteratura per una lingua, lingua per una letteratura”, nel 2011 “Plurilinguismo e lingue minoritarie”, nel 2012 “Nomi Propri e luoghi in comune – Toponomastica tra leggende e territorio”, nel 2013 “Piante, animali e altre meraviglie – il patouà racconta un mondo”, nel 2014 “Dal FOLK al POP. La musica occitana fra tradizione e nuovi generi” e infine nel 2015 “Vitalità, morte e miracoli dell’occitano”. Aline Pons Se da un lato a guidare la realizzazione di Coltivare Parole è stata l’esperienza degli Atlanti linguistici in generale e dell’ALEPO in particolare, dall’altro si è cercato di rendere programmatica questa raccolta di etnotesti, affiancando sistematicamente alle domande linguistiche a una serie di domande etnobotaniche, volte a indagare gli usi popolari delle piante. Questo connubio fra etnologia e linguistica risale ai primi anni dopo la nascita degli atlanti linguistici, ed è alla base del lavoro di diversi centri di ricerca: un modello in questo senso è il Centre d’Etudes René Willien, con sede a Saint Nicolas, in Valle d’Aosta. Lo storico presidente di questo Centro, Alexis Bétemps, nel suo contributo ci da una prova di come studiare insieme etnologia e dialettologia, anche nel campo della fitonimia, aggiunga molto allo studio linguistico. La prima sessione si chiude con un contributo di taglio più botanico, nel quale Paolo Varese ci introduce al progetto Pratiq, nell’ambito del quale ha studiato la composizione botanica e la produttività foraggera dei prati da fieno nelle valli Chisone, Germanasca e Pellice e nel Pinerolese. La seconda sessione comprende tre interventi di presentazione di Coltivare Parole: il primo ne racconta la nascita e l’evoluzione; il secondo, firmato da Giada Bellia, ne evidenzia alcuni risultati di ordine etnobotanico e il terzo, redatto da Pier Andrea Martina, approfondisce le vicende etimologiche di alcuni fitonimi particolarmente interessanti. 8 | Scuola Latina di Pomaretto Le piante nell’Atlante Linguistico ed Etnografico del Piemonte Occidentale (ALEPO): alcuni esempi Tullio Telmon 0. Premessa Dividerò in due parti questa mia conversazione: nella prima parte, cercherò di dare alcune spiegazioni su che cosa sia l’ALEPO, sulle specificità linguistiche che caratterizzano il settore delle Alpi che va dalle Alpi Marittime alle Graie, e infine su alcuni termini specialistici della ricerca linguistica, il cui uso, malgrado lo sforzo di essere quanto più semplice e chiaro possibile, si renderà probabilmente inevitabile nel corso della chiacchierata. Prego perciò i molti che riascolteranno cose note di avere pazienza e di non risentirsene. L’Atlante Linguistico ed Etnografico del Piemonte Occidentale, ALEPO, citato anche nell’Introduzione a questi Atti, è ormai giunto alla pubblicazione di un migliaio di carte linguistiche, nei volumi dedicati al mondo vegetale (flora spontanea, alberi e arbusti, funghi e licheni) e al mondo animale (fauna selvatica, caccia e pesca). 1.1 Di che cosa si occupa l’ALEPO Quello che vedete circolettato nella Carta 1 che segue è all’incirca il territorio delle Alpi che interessa noi, il versante occidentale delle Alpi Marittime, Cozie e Graie, le cui creste segnano il confine politico tra l’Italia e la Francia, dal Mediterraneo fino alla valle d’Aosta. È interessante questo angolo del mondo romanzo, perché potremmo definirlo come “fittamente romanizzato” per una ragione molto semplice: attorno a questa catena alpina si aggrappano, si abbarbicano lingue diverse, e più precisamente quelle lingue, quel latino che è stato imparato da popolazioni che avevano come lingua materna degli idiomi liguri, gallici, celto-liguri. Tullio Telmon Carta 1. L’estensione delle lingue neolatine in Europa Le popolazioni alpine aventi lingue di sostrato che definiremo, per semplificare, prevalentemente celtiche, furono esposte, nei secoli che vanno dal secondo avanti Cristo al terzo dopo Cristo, ad una lenta e progressiva latinizzazione. Nei secoli successivi alla latinizzazione, allorché l’influenza di Roma andò gradualmente indebolendosi, incominciarono a crearsi numerosi nuovi centri di irradiazione, legati all’importanza (economica, politica, culturale) che vennero assumendo ruoli di modellazione linguistica, la cui espansione fu naturalmente connessa con i mutamenti politici, con gli assetti variabili delle unità territoriali, con il mutare dei poli e degli itinerari commerciali, con l’espandersi della nuova religione cristiana e del suo organizzarsi in diocesi. Parigi, Narbona, Lione (ma anche, per quanto concerne il versante orientale dell’ampio territorio celtico, Milano, Aquileia e più tardi anche Torino) hanno nel corso dei secoli contribuito a forgiare un galloromanzo, come viene chiamato generalmente l’insieme delle parlate neolatine di sostrato celtico, fortemente sfaccettato. In estrema sintesi, si può dire che le diverse facce del galloromanzo sono costituite dalle tre grandi famiglie linguistiche della Francia, la Lingua d’Oil, che comprende anche il francese dell’Île-de-France, la Lingua d’Oc, denominazione nella quale confluiscono tutte le parlate della parte meridionale della Francia, e il francoprovenzale, che include le parlate di un più piccolo territorio nel sud-est dell’esagono francese. 10 | Scuola Latina di Pomaretto Le piante dell’ALEPO Per quel che riguarda il Piemonte occidentale, cui fa riferimento l’intitolazione dell’Atlante, vediamo che il confine, del tutto fittizio ovviamente, tra francoprovenzale e provenzale corre a metà circa della valle di Susa. La cosa non è priva di significato. La parte centrale della valle di Susa si trova a essere una specie di crogiuolo linguistico in cui, come si può vedere dalla Carta 2, il galloromanzo-francoprovenzale, quello del nord, il galloromanzooccitanico, quello del sud, il galloromanzo-galloitalico, quello dell’est, corrispondente all’insieme delle parlate pedemontane, vengono a incontrarsi. Carta 2. L’incontro di francoprovenzale, provenzale e galloitalico in Piemonte Coltivare Parole | 11 Tullio Telmon Tutto questo territorio è stato fortemente interessato dal lavoro dei ricercatori, dei linguisti, dei dialettologi. I quali, dando seguito alla felice intuizione di Jules Gilliéron che nel primo decennio del secolo scorso, nel suo ALF (Atlas Linguistique de la France) mise a confronto, mostrandole distribuite su un supporto cartografico, le diverse denominazioni di oggetti, concetti, azioni, ecc., hanno, in tempi e modi diversi, realizzato nuovi atlanti linguistici servendosi di materiali e di dati raccolti direttamente sul terreno, dalla viva voce dei parlanti. Sono nati così, per quello che riguarda il territorio che abbiamo cerchiato nella prima carta, - l’ALEPO, Atlante Linguistico ed Etnografico del Piemonte Occidentale, che interessa le parlate francoprovenzali, provenzali alpine, pedemontane e liguro-alpine dei settori occidentali delle province di Torino e di Cuneo; - l’APV, Atlas des Patois Valdôtains, che è una creazione in certo qual modo gemella dell’ALEPO, perché le due sono state concepite all’incirca nelle stesse circostanze, da parte di Comitati scientifici in larga parte coincidenti e con strumenti e metodologie di raccolta analoghi. La differenza più importante sta nel fatto che le parlate rappresentate nell’APV sono tutte di tipo francoprovenzale; - l’ALJA, Atlas Linguistique et ethnographique du Jura et des Alpes du Nord, è opera di Jean Baptiste Martin e di Gaston Tuaillon. Esso ricopre i territori della Savoia, dell’Alta Savoia, di una parte della Franca Contea, di una parte della Borgogna, del Lionese e di una parte del Delfinato; come per l’APV, tutte le parlate che vi sono rappresentate appartengono al dominio francoprovenzale; - l’ALP, Atlas Linguistique et ethnographique de la Provence, opera di Jean Claude Bouvier e Claude Martel, è, come dice il nome, l’atlante della Provenza e le parlate di cui sulle sue carte vengono trascritti i materiali linguistici sono ovviamente di tipo provenzale. Componendo, come dei tasselli di un unico mosaico, i territori dei quattro atlanti regionali sopraccitati, possiamo avere la garanzia di una copertura di documentazione linguistica e geografica notevole. Per ritornare all’ALEPO, ci concentriamo oggi sul volume dedicato al Mondo Vegetale, che è diviso in tre moduli diversi: “alberi e arbusti”, “piante erbacee” e “funghi e licheni”. Un quarto volumetto contiene poi gli indici. 12 | Scuola Latina di Pomaretto Le piante dell’ALEPO 1.2 Un po’ di terminologia Quando si parla di insiemi di nomi (di piante, di erbe, o di animali, di luoghi, di esseri umani, ecc.), si usa una terminologia che ha la caratteristica di terminare in –onimo: si parla, ad esempio, di coronimi per indicare i nomi di una regione (dal gr. chôros “terreno, regione” + onimo (a sua volta, dal gr. ónymos, derivato di ónyma, variante dialettale di ónoma “nome”); di oronimi per catalogare i nomi delle montagne (gr. óros “monte”); di anemonimi per i nomi dei venti (gr. ánemos “vento”), idronimi per i nomi dei corsi d’acqua (gr. hydor “acqua”), ecc.. Come risulta evidente dagli esempi riportati qui sopra, per creare parole appartenenti a questa categoria si prendono in generale due componenti, entrambi possibilmente di base greca per non creare degli ibridi. Quella degli –onimi si può considerare una classe aperta, perché qualsiasi categoria di referenti può ricevere il proprio termine. In particolare noi parleremo qui soprattutto di fitonimi, vale a dire di nomi di piante. Diamo rapidamente alcune definizioni: Fitonimo (gr. phytón “pianta”), nome comune di pianta. Mazza di tamburo o cucumella sono dei fitonimi; se però vogliamo essere più precisi, trattandosi di denominazione di fungo, possiamo parlare di miconimi (gr. mykes “fungo”). Fitotoponimo è una creazione più interessante, perché riguarda quei toponimi, vale a dire nomi di luogo, che sono creati a partire dal nome di una pianta. Quando io dico, per esempio, “Pomaretto”, faccio uso di un fitotoponimo, ricavato a sua volta da un fitonimo di tipo pommier “melo” con l’aggiunta del suffisso collettivo latino –ETUM (più probabile che non il diminutivo –etto). Lessema è sinonimo di parola; ci può essere utile sapere che ci possono essere lessemi semplici, come abete, o lessemi composti (detti anche sintagmatici o polirematici), come mazza di tamburo. Referente è l’oggetto o il concetto che viene rappresentato da una parola: l’oggetto che sto tenendo in mano in questo momento è la realtà alla quale rinvia la parola microfono, parola che io posso considerare come un insieme di suoni (foni) articolati in rapida successione. Quando parlo di suoni che compongono una parola, questa parola può anche non avere nessun significato: se, per esempio, pronuncio la parola suripano, si tratta di una parola che Coltivare Parole | 13 Tullio Telmon in italiano non esiste, ma potrebbe anche esistere, perché risponde a tutti i requisiti che si richiedono per comporre, in italiano, una parola fonologicamente accettabile. Data questa parola, siamo allora di fronte al caso di un significante (la successione dei suoni che compongono una parola, considerati dal punto di vista puramente fisico), privo di significato. Parlando dei lessemi di una certa lingua, non si prendono ovviamente in conto le parole prive di significato, o di referenti, ma soltanto quelle che rispondono perfettamente al triangolo referente (oggetto) – significante (forma fonica) – significato (valore semantico). Avvicinandoci ulteriormente al tema di oggi, posso aggiungere che mi servirò spesso della parola lessotipo o tipo lessicale: se questo oggetto, oltre che micròfono, potesse, da parte di qualche parlante l’italiano, essere chiamato anche *microfòno, (o se, come del resto sarebbe corretto parlando francese, fosse chiamato [mikʀoˈfɔn]), le parole [miˈkrɔfono], *[mikroˈfɔno] e [mikʀoˈfɔn] sarebbero forme diverse (significanti diversi), aventi lo stesso significato. Più precisamente, si tratterà di parole leggermente diverse nella loro forma, riconducibili però a uno stesso tipo di formazione originaria (non come, poniamo, nel caso di it. spugnola e fr. morille, parole nettamente diverse aventi entrambe, come significato, quello del “fungo denominato scientificamente Morchilla esculenta”): parleremo dunque di tipo lessicale (ad es., <microfono>, che sussume tutte le possibilità di variazione realizzate all’interno di uno stesso gruppo di significanti formalmente affini tra loro. In altre parole, le forme [mikʀoˈfɔn], [miˈkrɔfono], [mikroˈfɔno] appartengono tutte allo stesso lessotipo <microfono>, mentre [spuˈɲɔla] e le sue eventuali varianti fonetiche e [moˈʀij], anch’essa con le sue relative varianti fonetiche, appartengono a due diversi tipi lessicali (o lessotipi). Etimo: per etimo si intende, in generale, la forma alla quale, tenendo conto dei mutamenti intervenuti, si fa risalire una certa parola. Per esempio, dato il termine microfono, l’etimo sarà il greco mikrós, “piccolo” e phoné, “suono”. In generale si parla di etimi vicini e di etimi risalenti. Se io prendo per esempio la parola dettaglio, dovrò osservare che essa entra nell’italiano per il tramite del francese: i miei professori più avvertiti mi dicevano sempre “usa piuttosto particolare, che è parola italianissima, invece di dettaglio che è un francesismo”. In realtà, il francesismo è poi entrato nell’italiano a pieno titolo e lo possiamo usare tranquillamente; ma siamo consapevoli che il suo etimo prossimo è per l’appunto il francese détail, mentre l’etimo “lontano” risale al latino DE + lat. tardo TALIARE. 14 | Scuola Latina di Pomaretto Le piante dell’ALEPO Una cosa diversa dall’etimo è la motivazione. Se riprendiamo per esempio il fitotoponimo Pomaretto, possiamo affermare che una cosa è l’etimo, che è POMARIUM più il suffisso – ETUM, mentre un’altra cosa è la motivazione: Pomaretto si chiama così presumibilmente per la stessa ragione per cui Frassineto si chiama Frassineto, vale a dire a causa dell’esistenza, al momento della fissazione del toponimo, di una quantità di meli (o di frassini nel caso di Frassineto) tale da far indurre a designare in questo modo la località. 2. Alcuni spunti Veniamo finalmente alla parte meno pedante, passando in rassegna alcuni esempi che mi paiono interessanti. Ne riporto quattro. 2.1 Garibuia e Margherita Il CANTHARELLUS CIBARIUS è quel fungo che molti conoscono come gallinaccio, cantarello, finferlo. Nella maggior parte delle parlate del Piemonte (e non soltanto), è conosciuto come garìtola. L’etimo di quest’ultima forma è abbastanza trasparente: siamo infatti in presenza di una formazione con un suffisso –ULUS/-ULA, diminutivo, e con una prima parte, GARIT-. Tanto è vero che, secondo il dizionario Pons/Genre, proprio garitto, priva di suffisso, è la denominazione in uso in val Germanasca. Non è d’accordo il Baret (2005), che annota la forma garitoulo: probabilmente, in questo caso i due dizionari non si riferiscono esattamente alle stesse località. Ma l’interesse della garìtola non consiste tanto, in questo caso, nella variazione delle forme attestate in Val Germanasca; quello che ci interessa, da linguisti, è sapere da dove proviene questa denominazione. Come dicevo, la seconda parte della parola ha un valore diminutivo, mentre la prima parte è attribuita da quanti si sono occupati dell’etimologia di garitula, al lat. AGARICUM (a sua volta dal gr. agarikón, dal popolo degli Agari), con metaplasmo di genere, spostamento dell’accento dalla [a] alla [i] (conseguenza dell’aggiunta suffissale) e caduta della vocale iniziale, scambiata probabilmente per la vocale dell’articolo la. Da GARICA, con dissimilazione della [k] che diventa [t], otteniamo dunque la nostra garita. Una trafila etimologica, direi, quasi esemplare. Però all’ovvietà dell’etimologia si contrappongono alcuni fatti un po’ strani: in alcune località della Valle di Susa, e più precisamente dell’Alta Valle di Susa, di garìtole non ce ne sono, né di cantarelli, finferli, gallinacci. Non esiste proprio la specie. Esiste invece qualche cosa che potrebbe apparire curioso agli occhi di chi non abbia un po’ di pratica negli studi di onomasiologia in generale, e di onomasiologia legata ai fitonimi in particolare. Coltivare Parole | 15 Tullio Telmon Carta 3. Il gallinaccio nell’ALEPO 16 | Scuola Latina di Pomaretto Le piante dell’ALEPO Il fatto apparentemente curioso è che troviamo delle denominazioni apparentate con quelle delle garitole, affibbiate però ad una serie di funghi diversi, principalmente al cardarello (Pleurotus eryngii), un fungo che assomiglia molto al prataiolo, e che in Alta Valle di Susa cresce soltanto ad altissime quote, sopra i 1800 m. In numerose parlate dell’Alta Valle di Susa, il cardarello viene denominato gariboùllo (con l’accento nuovamente spostato, questa volta per l’influsso dell’accentazione francese). Non soltanto, ma se andiamo a Bardonecchia gariboullë è la denominazione generica di qualsiasi fungo. “Ho mangiato funghi” si dirà “ho mangiato dë gariboulla”. La fonetica di questo appellativo conduce immediatamente a pensare a Garibuia, che è quel personaggio mitico dei racconti popolari, un po’ sciocco e sempliciotto, che metteva il portafoglio nella tasca di qualcun altro per non essere derubato, o che si buttava nel mare per non far bagnare dalla pioggia il vestito nuovo, e cose di questo genere. Si dice infatti “furbo come Garibuia”. Non sarebbe allora da stupirsi che proprio questo nome proprio, e l’insieme burlesco delle storielle popolari ad esso legate, abbiano esercitato una forma di attrazione paronimica e condotto così a rimotivare una denominazione come garìtola/garitùlla/garibùlla, del tutto opaca sia nell’etimo sia nella motivazione. A rafforzare l’accostamento paronimico con il personaggio di Garibuia, sarà poi intervenuto il fatto che nel XIX secolo anche la letteratura “colta” francese si è impadronita della figura di Gribouille, attestata fin dal Sermon des Foulx del 15481, giocando sul significato di “scarabocchio”, che il sostantivo gribouille aveva nel frattempo assunto nella lingua francese. Gribouille è a sua volta il deverbale di gribouiller, prestito, come ci dice il Trésor de la langue française, dall’olandese kriebelen “fourmiller, démanger, griffonner”, con sostituzione del suffisso –ouiller più espressivo in francese del suffisso –eler. La popolarità di scrittrici come George Sand, autrice de L’histoire du véritable Gribouille (1850) che trasforma Gribouille in un ragazzino molto sveglio e molto buono d’animo, o come la Contessa di Ségur, autrice nel 1862 del romanzo La Soeur de Gribouille, dove invece il personaggio risponde alle caratteristiche di dabbenaggine e di semplicioneria che gli attribuiva (e continua ad attribuirgli) la tradizione popolare, avrà certamente contribuito a rafforzare la fissazione dell’antroponimo nel mondo di cultura francese, cui l’Alta Valle di Susa, anche dopo Utrecht, continuò ad appartenere per tutto il XIX secolo.. 1 “Toute femme fillant quenoille Est plus sotte que n’est Gribouille”: cfr. Tresor de la langue française informatisé (http://atilf.atilf.fr/tlf.htm). Coltivare Parole | 17 Tullio Telmon Non dimentichiamo, infatti, che uno dei più potenti stimoli per il mutamento linguistico è proprio quella che viene chiamata la paronimia, o la paretimologia, che è quel fenomeno per cui, data una parola di cui non si riesce più a riconoscere la motivazione (e cosa meglio di garìtola, in cui l’AGARICUM è un ricordo talmente lontano da essere del tutto offuscato e opacizzato) subentra, da parte dei parlanti, l’attitudine a creare, a sostituire questa denominazione con qualcosa di ben più conosciuto, anche a costo di perdere ogni affinità con il referente. È così che garìtoula, per esempio, può diventare garìboula, e poi gariboùllo o gariboulò, come in certi patois in cui si verifica la progressione dell’accento. Starà poi allo studioso stabilire se continuare ad attribuire le nuove forme allo stesso lessotipo, o se non debbano intervenire anche criteri semantici, come quando, in Alta Valle di Susa, la gariboùllo può diventare o genericamente un “fungo” (a Bardonecchia), o un “cardarello” (a Bardonecchia stessa, Chiomonte e Sestrière), o addirittura una “spugnola”, (Morchella esculenta), a Giaglione, Mattie, Chianocco e Susa. Di fronte all’esplosione semantica delle forme paronimiche che si richiamano a Garibuia/Gribouille, troviamo che il significato delle forme di tipo garìtola, quelle cioè che hanno percorso la normale trafila fonetica, tende invece a restringersi: in tutte le località in cui sono attestate, quali che siano le loro particolari variazioni fonetiche, esse indicano tutte il CANTHARELLUS CIBARIUS. Non si trova nessuna parlata in cui questo lessotipo assuma un significato diverso. Esattamente il contrario di ciò che avviene per le denominazioni della Mazza di tamburo, che commenteremo oltre (cfr. Carta 4). Non prima di avere spiegato le ragioni di quella Margherita che ho apposto come titolo di questo paragrafo. A Carema, Susa, Pramollo, Perrero e Villar Pellice il cantarello viene chiamato margherita. Come già Garibuia, anche Margherita è un antroponimo, un nome proprio di persona. Quale sarà la ragione per cui in queste località (fra le quali annoveriamo tutti i punti delle Valli Valdesi in cui l’ALEPO ha condotto delle inchieste) il cantarello si chiama margherita? Nella ricerca di motivazioni, la fantasia può correre in modo sfrenato, come in genere avviene; può darsi che fra le tante giustificazioni che possono affacciarsi alla mente ci sia anche quella giusta, ma necessariamente la maggioranza non lo è. Così, per Margherita una prima reazione mentale può condurre a pensare ad Ascanio e Margherita, per fare una citazione letteraria localmente pregnante (è il titolo di un bel romanzo di Marina Jarre) ma sicuramente fuori bersaglio per la totale mancanza di attinenza, oltre che per motivi cronologici2; può anche essere riferito al senso etimologico della parola margherita, 2 Il fungo era infatti chiamato margherita ben prima della pubblicazione (1990) del romanzo storico della Jarre. 18 | Scuola Latina di Pomaretto Le piante dell’ALEPO ovvero la perla, per intendere che si tratta della perla dei funghi, ma sembra un po’ stravagante… La realtà è molto più banale e, se vogliamo, deludente: margherita non è altro che un’ulteriore corruzione di questo stesso AGARICUM iniziale: come garitto, anche margaritto è il risultato di GARICA/GARITA. La differenza, rispetto alle forme di tipo garitto/garìtulo, sta nel fatto che, non altrimenti che per la gariboullo, i parlanti hanno ad un certo punto sentito il bisogno (una parte non piccola la gioca una intrinseca attitudine ludica e burlesca dei parlanti quando si tratta di riflessione linguistica) di rimotivare il lessema, privo di ogni trasparenza. Ne è uscita una Margherita, che, esattamente come Garibuia, non ha ovviamente nulla a che fare con il nostro fungo. 2.2 La cuccuma Passiamo ora alle denominazioni della mazza di tamburo. Anche qui le cose sono strane, ma sembra di poter vedere nella carta dell’ALEPO un percorso esattamente contrario a quello descritto per garitola. Il termine garitola ha un unico significato dappertutto; diverso è il caso della cuccumella. Anche in questo caso, la base etimologica è banale, CUCUMA, che è una parola della medio-tarda latinità, la cui prima attestazione è in Petronio. Ho provato a tradurre un po’ in cifre ciò che si può rilevare dalla carta n. 18 dell’ALEPO I,III e dalle altre carte in cui sono riscontrabili forme risalenti al lessotipo <cuccum(ell)a> e ne ho ricavato la tabella che segue, per realizzare la quale ho disposto sull’asse orizzontale (vedi la prima riga) i numeri delle carte ALEPO in cui sono riscontrabili delle forme di tipo <cuccum(ell)a>, ed ho invece elencato verticalmente, con numerazione in corsivo, i punti dell’ALEPO in cui tali forme sono state riscontrate. La legenda è la seguente: a) titoli delle carte: 1 fungo; 5 fungo lamellare; 6 fungo epifita a forma di lingua; 8 fungo velenoso; 13 ovolo buono; 16 ovolo malefico; 18 mazza di tamburo; 24 prugnolo; 28 gallinaccio; 32 prataiolo; 38 coprino; 41 lattario volemo; 43 lattario buono; 45 colombina rossa; 66 lingua di bue; 68 agarico bianco; 76 vescia. b) Numeri dei punti: 014 Rocca Canavese; 022 Boves; 023 Piasco; 025 Pamparato; 120 Ribordone; 210 Chialamberto; 230 Lemie; 320 Giaglione; 330 Mattie; 340 Chianocco; 350 Susa (San Giuliano); 360 Condove (Prato Bottrile); 370 Coazze; 380 Bardonecchia (Millaures); 410 Pramollo; 420 Sestrière (Borgata); 430 Perrero (San Martino); 440 Villar Pellice; 510 Oncino; 520 Bellino; 530 Sampeyre; 620 Cartignano; 630 Monterosso Grana (Coumboscuro); 720 Aisone; 810 Entracque; 920 Frabosa Soprana; 930 Briga Alta (Upega). Coltivare Parole | 19 Tullio Telmon Carta 4. La mazza di tamburo nell’ALEPO 20 | Scuola Latina di Pomaretto Le piante dell’ALEPO Tavola 1. I 17 diversi funghi designati nell’ALEPO da forme risalenti al tipo <cuccuma> 1 5 6 8 13 16 18 24 28 32 38 41 43 45 66 68 76 520 520 014 022 025 023 023 025 025 023 025 025 120 120 210 210 210 210 230 320 330 340 340 350 360 360 360 370 380 380 410 420 430 440 440 510 520 520 510 520 530 620 630 630 630 620 620 630 630 720 810 810 810 810 810 810 810 810 820 910 920 920 930 Coltivare Parole | 21 Tullio Telmon La lettura di questa tabella è molto interessante: notiamo anzitutto che nella colonna 18, alla voce “mazza di tamburo”, sono ben 23 i punti in cui è attestato il tipo <cuc(c)umella> per la designazione della mazza di tamburo. Desta però una ancor maggiore attenzione la constatazione che vi è un’altra colonna, quella derivante dalla carta 38 cuprino comato, un fungo di dimensioni leggermente inferiori a quelle della macrolepiota (può raggiungere al massimo i 20 cm di altezza), di colore bianco finché, invecchiando, si fa nero come l’inchiostro, che a sua volta interessa un discreto numero di località. Il cuprino ha in comune con la mazza di tamburo il fatto che, proprio come quella, nel suo primo sviluppo forma una specie di batacchio che poi si apre e diventa simile a un ombrello. E non è un caso che, dopo la mazza di tamburo, sia questo il fungo per il quale la denominazione cucumella ricorre con maggior frequenza (Chianocco, Condove, Chiomonte, Villar Pellice, …). In ben nove punti la cucumella non è dunque più (o non è più soltanto) la mazza di tamburo ma il cuprino, molto affine dal punto di vista della forma, diversissimo dal punto di vista del sapore, che – fintanto che è edule - è decisamente migliore di quello della mazza di tamburo. Ma la lettura più interessante è forse quella semasiologica, quella cioè che ci consente di sapere quanti diversi significati può assumere (o meglio, a quanti diversi referenti può connettersi) il significante-tipo <cuc(c)umella>. Se infatti, scorrendo verticalmente la colonna, scopriamo in quanti e in quali punti il lessotipo significa “mazza di tamburo”, leggendo orizzontalmente la tabella scopriamo che questo può indicare 15 diversi funghi (comprendendo anche valori generici come “fungo”, o “fungo velenoso”, ecc.). A 520 Sampeyre, per esempio, la denominazione è attribuita contemporaneamente alla mazza di tamburo, al fungo inteso genericamente (quello che a Bardonecchia era chiamato gariboullo), al fungo velenoso e ancora ad altri funghi, come l’agarico buono e la vescia (che, pur priva di gambo, avrà evidentemente in comune la rotondità). A Entracque, la lettura orizzontale permette di contare fino a otto funghi diversi denominati tutti cuccumella; a Bellino e a Monterosso Grana ne individua cinque. Da questo possiamo dedurre che questa cuccumella, questa piccola cuccuma, è sulla strada per diventare, non diversamente da quel che era accaduto per la gariboullo a Bardonecchia, la denominazione generica per il fungo. E infatti, se noi consultiamo lou Saber3, vediamo che effettivamente, a Bellino, la denominazione generica del fungo può essere sia boulé, che è un evidente piemontesismo, sia, per l’appunto, cucamèllo, termine che indica il fungo generico e anche, 3 Cfr. Lou Saber in Bibliografia. 22 | Scuola Latina di Pomaretto Le piante dell’ALEPO con la specificazione cucamèllo quë tubo, “c. che fuma”, la vescia, che, schiacciata quando la maturazione è molto avanzata, lascia fuoruscire la sua gleba, diventata pulverulenta. Sempre a Bellino, la Cucamèllo jaouno è un altro fungo ancora, e così via: per designare un fungo particolare, il termine ha bisogno di essere accompagnato da una determinazione; dunque, è sulla via per diventare una denominazione generica, esattamente come la gariboullë a Bardonecchia. 2.3 Marmottiere e mulattiere Passiamo a un altro esempio, non meno interessante. Una larga parte delle parlate del Piemonte occidentale possiede due parole, marmottiera e mulattiera, per le quali occorre distinguere fra un significato trasparente e un significato opaco, da scoprire quasi come in filigrana. Il significato trasparente del tipo <marmottiera> (localmente marmoutèra o forme variamente differenziate foneticamente) è quello di “luogo popolato da marmotte”: banale, elementare, evidente. <mulattiera> è a sua volta una strada (o meglio, un largo sentiero o un itinerario) o comunque un luogo di passaggio dei muli. Le due parole hanno anche dato luogo a dei toponimi: le carte dell’IGM ci mostrano la presenza di pendii denominati Marmottiera un po’ dappertutto. Se ci fermiamo al significato trasparente, alla domanda “perché si chiama marmottiera quella montagna?”, possiamo facilmente rispondere “perché ci sono tante marmotte”. Altrettanto numerose sono anche le cime denominate Mulattiera. Per analogia, alla domanda “perché si chiama mulattiera?” verrebbe fatto di rispondere “perché ci passano i muli”. Invece marmottiera è sì la denominazione di un luogo popolato da marmotte, ma non dalle marmotte animali, bensì dalle marmotte vegetali. Esiste infatti una pianta, una Rosacea chiamata pruno di Briançon (nome scientifico PRUNUS BRIGANTIACA), la cui 4 denominazione è, appunto, marmotto , nelle parlate provenzali alpine dell’Alta Valle di Susa. Produce delle piccole prugne, prive di gusto, anzi persino un po’ allappanti, ma molto importanti, fino agli anni ’50 dello scorso secolo, nell’economia della zona di Briançon, perché dal nocciolo, anzi più precisamente dalla minuscola mandorla contenuta dentro il nocciolo di questi frutti, si ricavava, per spremitura, un pregiatissimo olio utilizzato sia per l’alimentazione sia per l’illuminazione. Dunque, la Marmottera è non già un luogo popolato da marmotte, ma una sorta di pruneto; là dove si è voluto creare un toponimo con il significato di “luogo popolato di marmotte (roditori)” troviamo spesso, per contro, 4 Nelle parlate più meridionali, sia del Piemonte sia della Provenza, la denominazione è invece afàtou, o sim. Coltivare Parole | 23 Tullio Telmon denominazioni di tipo <dormiouza>: la parola è infatti una delle denominazioni con cui sono chiamate le marmotte/animali in talune parlate provenzali alpine. Per quanto riguarda la mulattiera, dobbiamo far osservare che un ulteriore zoonimo è impiegato o piuttosto era impiegato fino a non molto tempo fa (ormai è quasi dovunque sostituito da marmotto) nei patois delle alte vallate occitane cisalpine per designare la marmotta/animale. Si tratta di <muret>, la cui etimologia è dibattuta, anche se pare a me 5 ampiamente accettabile quella di lat. MUREM “topo” + suff. dim. –ITTU). Per spiegare però la ragione per la quale nelle alte vallate del Piemonte occidentale, se riferito a cime o a pendii il toponimo Mulattiera va motivato con le marmotte e non con i muli, occorre inserire una piccolissima nota di fonetica storica: bisogna sapere, infatti, che in numerosissime parlate (tanto provenzali alpine quanto francoprovenzali) della Valle di Susa le consonanti laterali latine [l] e [r] sono sottoposte, specie se in posizione intervocalica, ad un processo di convergenza, di avanzamento e di spirantizzazione, tendendo così a divenire delle fricative interdentali. Il <muret> è quasi dovunque realizzato come [myˈ∂et] (dove [∂] rappresenta appunto questa fricativa). Poiché, come si è detto, questo fenomeno interessa sia la vibrante [r] sia la laterale [l], è facile immaginare che i topografi che, chiedendo il nome di una certa montagna, sentivano pronunciare qualche cosa come [my∂aˈtje:∂a], rendessero poi tale denominazione, nelle carte italiane, con Mulattiera. Gli incaricati dei rilevamenti topografici erano infatti italiani e parlavano presumibilmente solo italiano e, magari, qualche dialetto italoromanzo. Mentre un [myˈlet] poteva accostarsi al loro muletto, e perciò al mulo, un [my’∂et] non poteva certo rimandarli alla marmotta. E se anche avessero trasposto il toponimo dialettale in un it. *Murattiera, il toponimo ricavato avrebbe continuato ad essere del tutto opaco. D’altro canto, anche ammesso che fossero stati in grado di conoscere il vero significato di [my∂aˈtje:∂a], anche la traduzione italiana in *Marmottiera6, accettando il significato e sacrificando il significante, non sarebbe comunque stata soddisfacente. Resta il fatto che è difficile pensare che i muli passassero per le cime; i muli passavano piuttosto per le vere mulattiere, sentieri che attraversavano i colli, non le vette. Mentre la maggior parte delle nostre Mulattiere indica proprio delle punte o, in alternativa, dei pendii che conducono verso la cima di una montagna. E sono popolate da marmotte, non da muli. 5 Cfr. Telmon (2003) e Telmon (2006). In realtà, tale toponimo esiste, nelle carte IGM della Valle di Susa. È però molto probabile che si tratti di un toponimo fornito da parlanti nei cui patois si era già verificato la sostituzione di [myˈ∂et] con [marˈmotto]. 6 24 | Scuola Latina di Pomaretto Le piante dell’ALEPO 2.4 Le contraddizioni dei lariceti Anche l’ultimo esempio che porterò qui è legato allo sterminato campo della fitotoponimia. Una delle piante che hanno maggiormente contribuito alla formazione di fitotoponimi è senza dubbio il larice (Larix decidua o Larix europaea): sull’intero arco delle Alpi, troviamo toponimi che ad essa si rifanno, a partire da Ovest, dove i toponimi traggono origine per lo più dalla base *MALICEM/*MELICEM (pensiamo ad es. a Malzat, frazione di Ghigo di Prali) oppure, sulle Alpi Graie, dalla base *BRENGA/BRENVA (celebre il Ghiacciaio della Brenva, su Courmayeur7), per arrivare fino alle Dolomiti e alle Alpi orientali dove al *MALICEM/*MELICEM sono già subentrate le forme originate dal lat. LARICEM (citiamo ad es. i numerosi Larsec delle Dolomiti, tra i quali spicca la Cima di Larsec (2.891 m), nel gruppo del Catinaccio). Le ragioni per le quali proprio questa pianta ha così intensamente sollecitato la creatività toponomastica sono facili da intuire: l’attività denominativa era infatti spesso strettamente legata alla funzionalità economica delle conoscenze o alle tassonomie botaniche delle comunità alpine: i montanari davano la massima importanza soprattutto agli alberi utili per la costruzione di case o per il riscaldamento o per la costruzione di mobili e di attrezzi, e alle erbe o piante buone per il fieno, velenose, medicinali, infestanti. Quanto al larice, poi, non soltanto viene ancora oggi considerato il più adatto per la travatura delle case, ma è apprezzatissimo anche per la produzione, a partire dalla sua resina, della trementina, nonché per la “manne de Briançon”, come viene chiamata popolarmente quella specie di escrezione che, sotto forma di goccioline quasi impercettibili, cade appunto dalle foglie dei larici: in modo particolarmente intenso, a quanto si dice, proprio nella zona di Briançon. Il fenomeno è conosciuto anche dal punto di vista scientifico: lo zucchero che è contenuto nella manna di Briançon è detto infatti “melezitosio”, e pare che il responsabile della formazione di questa manna, e per conseguenza del fenomeno della “pioggia di manna”, sia un insetto parassita del larice, chiamato Cinara laricis. In Alta Valle di Susa, Melezet ([meŕeˈze]) è il nome di una delle frazioni di Bardonecchia8. Il toponimo è trasparentissimo: è un derivato, con il suffisso in –ETUM, della base 7 Per farsi un’idea della grande produttività di questa base nella microtoponomastica valdostana, basti consultare uno qualsiasi dei bei volumi prodotti dal progetto “Enquête toponymique en Vallée d’Aoste”. Per citarne uno scelto a caso, troviamo ad es., nel volume Arnad Top. (Bassa Valle), (pp. 47-48) i seguenti fitotoponimi: La Brènga (due volte), La Brènga Ròssa, La Brènga Sètse, Le Brèngue de Rossignout, Le Brenguereé, Le Brenguét. 8 Cfr. Di Maio (2001); Telmon (2001). Coltivare Parole | 25 Tullio Telmon *MALICEM/*MELICEM “larice” che ha dato luogo anche al fr. mélèze. Dunque: [meŕeˈze] = lariceto. Tutto sarebbe molto semplice e lineare, se non fosse per il piccolo particolare che la denominazione del larice nella parlata del Melezet, così come in quasi tutte le parlate dell’Alta Valle di Susa e del Brianzonese, non ha nulla a che fare con *MELICEM. In quest’area, corrispondente all’incirca con gli antichi Escarton delfinatesi di Briançon e di Oulx, la denominazione del larice non è *[meˈŕɛze] o *[ˈmɛŕze], come pure ci si potrebbe aspettare partendo dal toponimo del paese, ma [bleˈtuŋ]. E sono infatti numerosi, in questa stessa zona, i toponimi di tipo Bletonney, Bletonnet, formati esattamente come Melezet e come, altrove, Larzèi e simili o Brenguereé e simili. E l’appellativo più frequente per “lariceto”, nel patois del Melezet è, a sua volta, bletounìë. Ora, sia il bletoun sia il mélèze sono denominazioni prelatine del larice. Il primo, però, è ristretto in un’area che comprende le parlate provenzali dell’Alta Valle di Susa e quelle del Brianzonese9, mentre il secondo non soltanto ha un areale assai più vasto, ma ha fornito la materia prima linguistica per consentire un prestito a lingue di assai più largo prestigio, quale il francese e quale il piemontese. Le possibilità sono perciò, in questo caso, due: o il bletoun si è imposto in un momento successivo (ma sempre molto antico), soppiantando il precedente mélèze rimasto soltanto nella toponomastica; oppure il toponimo di Melezet è nato (o è stato rimodellato) come formazione “dotta”, estranea al proprio ambiente linguistico, in omaggio alla lingua della cultura, che era il francese. Ma, e qui viene l’ulteriore complicazione del problema, il termine mélèze si affaccia nella lingua francese soltanto nel 1552, come attestano Dauzat, Dubois e Mitterand (1988)10, come prestito acquisito a partire proprio dalle parlate delfinatesi. E nel 1552, Melezet esisteva già da un pezzo… 9 Il tipo <bletoun> è attestato anche in Val Germanasca, attigua sia all’Alta Valle di Susa sia alla valle brianzonese di Abries (cfr. Pons/Genre 1997, p. 38), con il significato specifico di «giovane pianta di larice; blëtounâ, blëtouné, s.f. lariceto di giovani piante»: significato molto coerente con quello che si suole attribuire alla radice BLET- “germoglio giovane sorto alla base del tronco o dal ceppo dell'albero tagliato”. Non se ne trova più traccia nel dizionario di Angrogna (Sappé 2012) né, tanto meno, in quelli di area cuneese. 10 Si noti che, in Rabelais, la pianta viene chiamata melze. La trafila del passaggio dall’antico delfinatese (dove è attestato fin dal 1313) al francese, e la data della prima attestazione in questa lingua, sono confermate dal TLF informatisé, s. v. mélèze. Quanto al piemontese malëzzo, cfr. REP. In quest’ultima opera si afferma però che, nel piemontese, la voce proverrebbe dal francese. Io credo invece che anche le parlate pedemontane, come il francese stesso, l’abbiano ricevuta prima dalle parlate provenzali e francoprovenzali alpine, e che il suo accoglimento nel francese abbia soltanto consolidato la sua integrazione nel lessico pedemontano. 26 | Scuola Latina di Pomaretto Le piante dell’ALEPO Personalmente, sarei propenso a credere che in Alta Valle di Susa soltanto nel Medioevo bletoun sia sopravvenuto a ricoprire un precedente strato di mɛŕze, penetrando come prestito proveniente da Briançon, dove probabilmente, accanto al melze attestato anche da Rabelais nel Tiers Livre come parola improntata dagli “Alpinois”, occupava un ruolo semanticamente specializzato proprio per designare il larice “da manna”. Tavola 2. Schema delle denominazioni (proto)tipiche del larice (Larix decidua) ad Ovest e ad Est della catena alpina Francese: mélèze [meˈlɛz] Italiano: larice [ˈlariʧe] FP W [meˈlɛz]/[ˈbrɛnʤi, -ɡa] FP E [ˈbrɛnva, -ʤa]/[maˈløzːu] OC W [ˈmɛlze]/[bleˈtuŋ] OC E [bleˈtuŋ]/ [ˈmɛrze] galloitalico pedemontano [maˈløzːu] galloitalico ligure [ˈarzu] Bibliografia ALEPO I-i – S. Canobbio, T. Telmon (dir.), Atlante linguistico ed Etnografico del Piemonte Occidentale. Il mondo vegetale. Alberi e arbusti, Priuli & Verlucca, Pavone Canavese 2005. ALEPO I-ii - S. Canobbio, T. Telmon (dir.), Atlante linguistico ed Etnografico del Piemonte Occidentale. Il mondo vegetale. Erbacee, Priuli & Verlucca, Pavone Canavese 2007. ALEPO I-iii - S. Canobbio, T. Telmon (dir.), Atlante linguistico ed Etnografico del Piemonte Occidentale. Il mondo vegetale. Funghi e licheni, Priuli & Verlucca, Pavone Canavese 2004. ALEPO I - S. Canobbio, T. Telmon (dir.), Atlante linguistico ed Etnografico del Piemonte Occidentale. Il mondo vegetale. Indice dei tipi lessicali e altre modalità di consultazione, Priuli & Verlucca, Pavone Canavese 2008. ALF – J. Gilliéron, Atlas Linguistique de la France, Parigi, Champion 1902-1912. Coltivare Parole | 27 Tullio Telmon ALJA – J.B. Martin, G. Tuaillon, Atlas Linguistique et Ethnographique du Jura et des Alpes du Nord, Parigi, CNRS 1971-1978. ALP, - J. C. Bouvier, C. Martel, Atlas Linguistique et ethnographique de la Provence, Parigi, CNRS 1975-1983 e 2016. APV – S. Favre, G. Raimondi (resp.), Atlas des Patois valdôtains, in redazione ad Aosta, presso il Bureau régional pour l’Ethnographie et la Linguistique. Arnad Top. – I. Cunéaz, N. Joly (préparation et coordination, révision des textes) (2009), Arnad. Toponymie, Aosta, Région Autonome Vallée d’Aoste. Inchiesta orale condotta da P. Bordet e N. Joly. BARET (2005) – G. Baret, Disiounari dâ patouà dë la Val San Martin. Dizionario della parlata occitanica provenzale alpina della Val Germanasca. Introduzione di Claudio Tron, Pinerolo, Alzani Editore. DAUZAT/DUBOIS/MITTERAND (1988) - A. Dauzat, J. Dubois, H. Mitterand, Nouveau dictionnaire étymologique, Parigi, Larousse. DI MAIO (2001) – M. Di Maio, Guida dei toponimi di Melezet, Les Arnauds, Valle Stretta, Pinerolo, Alzani. Lou Saber – G. Bernard (1996), Lou Saber. Dizionario enciclopedico dell’occitano di Blins, Venasca, ed. Ousitanio Vivo. PONS/GENRE – T. Pons, A. Genre (1997), Dizionario del dialetto occitano della Val Germanasca, Alessandria, Ed. dell'Orso. REP – A. Cornagliotti (dir.) (2015), Repertorio etimologico piemontese, Torino, Centro Studi Piemontesi. Sappé, J.L. (2012), Lou Courousèt e la furmìa. Piccolo dizionario delle parlate occitane della val D’Angrogna, Saluzzo, Fusta Editore. TELMON (2001) – T. Telmon, Presentazione, in DI MAIO (2001), pp. 7-9. TELMON (2003) - T. Telmon, Sull’etimo di marmotta, in AA.VV. Colligere et Tradere. Studi in onore di Alexis Bétemps, Aosta, pp. 153-160. TELMON (2006) - Ancora marmotte, in “Quaderni di semantica” XXVII, 1-2, pp. 421-434. TLF informatisé - Trésor de la langue française informatisé (http://atilf.atilf.fr/tlf.htm). 28 | Scuola Latina di Pomaretto Lo sa il fiore che cos’è l’amore Alexis Bétemps L’uso simbolico delle piante è antico e generalizzato in tutte le culture o quasi 1. «I fiori e le piante sono sempre stati presenti nelle feste popolari religiose e civili, perché esprimono, meglio di quanto sapremmo fare noi, i sentimenti di gioia, di amore o di tristezza del nostro cuore»2. E non solo esprimono, ma rivelano anche il carattere di chi li porta. Nel Canavese, alle porte della Valle d’Aosta, si dice in piemontese: «Fiore in testa, donna onesta; fiore in bocca, donna sporca; fiore al petto, donna di rispetto»3. Ma i fiori non hanno dovunque la stessa importanza e, soprattutto, lo stesso simbolismo. Inoltre, le piante simboliche non sono necessariamente le stesse dappertutto e le credenze popolari, sovente, andavano oltre il simbolismo attribuendo poteri speciali alle piante: per scongiurare pericoli o per invocare aiuto, per esorcizzare il passato o predire il futuro, per conoscere i battiti dei cuori altrui o per favorire gli slanci del proprio. Tali credenze erano frequenti in Valle d’Aosta come, in genere, in tutte le società contadine (e non solo). Specie vegetali particolari erano utilizzate: intrecciate, riunite in mazzettini, appese a una parete o nascoste in una parte del corpo, fresche o accuratamente seccate all’ombra, raccolte in un giorno speciale o benedette in chiesa, intere o solo parti di esse. Come già detto, molti di questi usi non sono dunque peculiari della Valle d’Aosta ma son diffusi, con differenze più o meno accentuate, anche nelle zone vicine; alcuni possono essere addirittura internazionali, europei. È il caso, per esempio, della margherita sfogliata: le giovani adolescenti valdostane sfogliavano la margherita, e così pure gli adolescenti maschi, anche se se ne vergognavano un po’ e non lo riconoscevano … Era per accertare la qualità e 1 Sembra che le culture africane, antecedenti alla cristianizzazione e all’islamizzazione, non attribuiscano significati particolari ai fiori e non ne facciano un uso simbolico. Il fiore sarebbe, per loro, semplicemente la promessa del frutto (cfr. Goudy, J. (1994), La culture des fleurs, Paris, Éditions du Seuil). 2 Duc-Teppex, J. (1899), «La Fête-Dieu», in Le Mont-Blanc. Journal politique, administratif et agricole de la Vallée d'Aoste (2 giugno 1899). 3 «Fiour an teta, fumna unesta; fiur an buca, fumna sporca; fiur ant lo stome, fumna de respet» (da una testimonianza di Ilda Dalle di Donnas, intervistata da Alexis Bétemps, luglio 2011). Alexis Bétemps la profondità del sentimento della persona amata o anche solamente ambita: «mi ama un po’, tanto, teneramente, appassionatamente, alla follia, finché morte non ci separi, per niente … »4. Con formule più o meno simili, questa usanza conosce una vastissima area di diffusione ed è praticamente impossibile, oltre che inutile, individuarne il luogo di origine. Altre giovani ispezionavano i prati in cerca del quadrifoglio, noto portafortuna. Fortuna per tutte le cose, e anche per l’amore. C’erano ragazze particolarmente dotate che ne scovavano sempre, altre che non riuscivano a vederne uno. Ma non si saprebbe dire quali hanno poi avuto più fortuna nella vita … A Cogne, le ragazze che trovavano un quadrifoglio, «lo infilavano subito nella giarrettiera: avrebbero sposato un uomo dallo stesso nome del primo ragazzo che incontravano»5. A Nendaz, nel Vallese svizzero, il quadrifoglio non era considerato un portafortuna come a Cogne, ma era utilizzato dalle ragazze come strumento divinatorio: «infilato nella calza, sotto il tallone sinistro, avrebbe permesso alla ragazza di vedere in sogno, la notte seguente, il futuro sposo»6. È la stessa usanza con sfumature diverse. Il quadrifoglio, soprattutto se rinvenuto per caso la vigilia di San Giovanni in estate, veniva fatto seccare e conservato tra le pagine di un libro, talora persino nel Messalino, accanto a una viola del pensiero o a un edelweiss. Tale pratica è, probabilmente, relativamente recente e di origine cittadina. All’alpeggio, le ragazze valdostane cercavano delle risposte interrogando il fiore dell’amore per eccellenza, bello, fragile, profumato e ambiguo, come il sentimento che rappresenta: la nigritella7. «La nigritella è per gli alpigiani un fiore fatidico, ed essi chiedono al bizzarro intreccio delle sue radici, quali sono i segreti pensieri delle persone amate» 8. «Si estirpava un fiore e se le sue radici, a forma di due piccole mani, erano incrociate, significava che si era amati e che il 4 «Me lame an mia, bièn, avouéi tandresse, avouéi pachón, comme eun foou, tanque a la mor, rèn di tot … ». Concours Cerlogne, Scuola elementare di Gimillian, in CEFP, a cura di (1987), Le mariage, Musumeci Editore, Quart (Valle d’Aosta): «Se vegnèn a trouvè èn triolet de quatro foillelou beuttèn veutcho a la tsalatéire et mayèn pouéite un que l’avè lou mémo non dou prèmié ommo que rencontrèn». 6 Schüle, R.-C. (2011), Les vouivres dans le ciel de Nendaz, Baden und Jetzt. In Valle d’Aosta, per vedere « le sembianze » del futuro sposo non ancora apparso all’orizzonte, le ragazze, alla vigilia dell’Epifania, esponevano la notte sul davanzale una scodella d’acqua. Il gelo notturno avrebbe disegnato sul ghiaccio i caratteri fisici del promesso sposo o qualche particolare del suo mestiere. Certo, era tutto da interpretare … Se l’acqua non gelava era un pessimo segnale, ma all’epoca gli inverni erano piuttosto rigidi e puntuali … 7 Si tratta dell’orchidea vanigliata (Nigritella nigra) e come per tutte le orchidee la sua relazione con la sessualità umana è generalizzata nelle Alpi. D’altronde il suo nome deriva da ORCHIS, in greco testicolo. 8 Savi-Lopez, M. (1886), Le Valli di Lanzo, Torino, Libreria Editrice Brero. 5 30 | Scuola Latina di Pomaretto Lo sa il fiore cos’è l’amore matrimonio era prossimo; in caso contrario, bisognava aspettarsi un tradimento, un abbandono o, peggio ancora, una vita coniugale infelice»9. Figura 1. Nigritella in Valgrisenche. Foto di Alexis Bétemps In Valle d’Aosta, la credenza è già attestata verso la fine del XIX secolo ed è sicuramente molto più antica «È un ingrediente per innumerevoli filtri d’amore, è portata come amuleto dagli amanti, uomini e donne, ed è spesso grazie ad essa che unioni ritenute impossibili si realizzano con la fortuna ed il trasporto degli amori violenti e appassionati. È il rimedio quasi certo per gli scapoli e le signorine oramai trentenni. Non è più necessario fare ricorso alla chiromanzia, né alla negromanzia e neppure alla cartomanzia. Non ci saranno più cuori ribelli né suicidi d’amore disperati. Abbiate sempre con voi questo piccolo fiore … » 10. La convinzione che la nigritella sia il fiore degli innamorati è attestata anche altrove nelle Alpi e, in modo particolare, nel Tirolo11. 9 Aa. Vv. (1996), Le mariage, Esposizione alla Maison de Mosse. «Elle rentre dans les philtres amoureux, est portée comme amulette par les amants des deux sexes et l’on voit souvent grâce à elle, des unions, que l’on croyait impossibles, se nouer avec toutes les chances et tous les transports d’amours violents et passionnés. C’est là un spécifique assuré presque, par les vieux célibataires et pour les demoiselles qui ont franchi la trentaine. Plus besoin de chiromancie, ni de nécromancie, ni de cartomancies, plus de cœurs rebelles, plus de désespoirs ni de suicides amoureux! Ayez toujours sur vous une petite racine de cette fleur…» Muphuoril-el-Jiser., pseudonimo di uno scanzonato giovane Vuillermin di Brusson, Directeur et gérant del Courrier des eaux, settimanale rabelaisiano, come lo definisce il suo direttore, di cui però conosciamo solo questo numero del 19 luglio 1874 (informazione fornita da Jean Voulaz). 11 Polia, M. (2007), Vótornéntse, profilo di una cultura alpina, Quart (Valle d’Aosta), Musumeci Editore. 10 Coltivare Parole | 31 Alexis Bétemps Nel Biellese, sarebbe piuttosto il fiore dell’amicizia. Si può preparare un decotto con le sue doppie radici e servirlo: se le radici sono intrecciate, porteranno la concordia, se sono divergenti, la discordia12. Ma la radice della nigritella è anche afrodisiaca, la mandragora dei poveri: «Era un eccitante. Si faceva seccare e si mischiava al caffè. Così dicevano i vecchi, io non ho mai provato … »13. Evidentemente! Ma la nigritella è anche tante altre cose. È il doppio e l’opposto nello stesso momento. Simbolizza la felicità e la disperazione, il bene e il male, la mano di Dio e la zampa del diavolo, il maschile e il femminile, l’uomo e la donna … E non soltanto! Figura 2. Le radici della nigritella. Foto Alexis Bétemps 12 Sella, A. (1992), Flora popolare biellese, nomi dialettali, tradizioni e usi locali, Edizioni dell’Orso, Alessandria. 13 « L’ie eun eccitante. Se beuttae sètchì pi se beuttae deun lo café. Mé n’i jamì prooù. Diaon le vioù » Isabel Pina (Testimonianza di) di Saint-Christophe, intervistata da Alexis Bétemps il 28-10-2011. 32 | Scuola Latina di Pomaretto Lo sa il fiore cos’è l’amore Tante sono le credenze legate al suo nome come tanti sono i suoi nomi. Anche solo nella piccola Valle d’Aosta: in alta valle, è chiamata tsancón, fionda, breunetta, tanetta, manetta, fleur de l’euntsantemèn. I nomi stessi sono già indicativi: i primi due, tsancón e fionda, sono di interpretazione oscura e dunque di probabile origine antica; breunetta, tanetta, si riferiscono al suo colore, il bruno rossiccio; manetta, indica la sua forma di piccola mano e fleur de l’euntsantemèn la introduce nell’universo magico che è il suo. Nella media e bassa valle la si chiama con dei nomi completamente diversi: fiour de la cayà a Estoul (Brusson), calleretta a Champorcher, caillera a Pilaz (Fontainemore), caïrà a They (Lillianes), caillà a Perloz, fiour de la broha14 à Donnas, fleur de l’éprémoù15 a Nus16, che significano sostanzialmente “fiore del caglio”. Tutti nomi che sottolineano la sua stretta relazione col mondo dell’alpe. Il suo ruolo mitico è dunque profondamente legato all’alpeggio. Infatti, la nigritella gode di un’altra bizzarra fama che conferma e evidenzia la sua ambiguità: in alcune parrocchie valdostane, si ritiene che essa impedisca al latte di rapprendersi e che perciò sia temuta dai pastori; in altre, si pensa esattamente il contrario, che cioè non solo favorisca la coagulazione del latte, ma gli conferisca anche il suo profumo vanigliato … In Savoia, la nigritella è temuta dai casari: basta sfregarla sulla caldaia perché la pasta del formaggio vada a male: «Portarne con sé in una casa d’alpeggio indica pertanto cattive intenzioni e si può essere trattato come un malfattore»17. Questo suo potere contraddittorio, in particolare in Valle d’Aosta dove le due credenze opposte convivono, trova la sua spiegazione mitica a Valtournenche, nella variante locale della leggenda dell’Uomo selvatico. Si pensa che questo fiore abbia invertito i suoi poteri in seguito alla maledizione dell’Uomo selvatico che, che dopo aver insegnato agli uomini come si fa il formaggio usando la nigritella come caglio, deluso dalla loro ingratitudine, li ha puniti trasformando la nigritella in fiore che impedisce al latte di coagularsi, e dunque di diventare formaggio 18. Pare anche che il fiore avesse un altro potere che l’Uomo Selvatico non ha mai voluto rivelare agli uomini: quello di ottenere 14 Brossa o breussa negli altri patois valdostani. Materia grassa estratta dal siero del latte dopo aver fatto la fontina. Era un alimento apprezzato e poteva essere usata per la fabbricazione di un burro di seconda qualità. 15 Siero residuo che fuoriesce dalla spremitura della pasta di formaggio fresco. 16 Per i nomi dei fiori in francoprovenzale vedere Lavoyer, I. (1994), Glossologie et flore des Alpes, Aosta, Imprimerie Valdôtaine. 17 Chabert, A. (1895), De l’emploi populaire des plantes sauvages en Savoie, Chambéry, Imprimerie Nouvelle. Comunque, anche in Savoia la tradizione non sembra essere univoca: la donna-selvaggia dell’alpeggio di Mévonne, in Alta-Savoia, sembra attribuire il potere di far rapprendere il latte al timo serpillo. 18 Polia, M. (2007), Votornéntse. Profilo di una cultura alpina, Quart (Valle d’Aosta), Musumeci Editore. Coltivare Parole | 33 Alexis Bétemps lo zucchero dalla recuite, il latticello, l’ultimo, che avanzava dopo la preparazione del sérac19. E non è finita: si attribuiva alla nigritella anche il potere di “camminare”: «Papà diceva che la nigritella si sposta: la sua mano bianca diventa nera, la nera muore e, un pochino più lontano, un’altra bianca si forma. È così che si sposta»20. Una mano dopo l’altra. Alla fine del XIX secolo, molti naturalisti chiamavano ancora viaggiatrici le orchidee delle diverse specie: «Tutte queste piante camminano, in effetti, le più piccole possono appena percorrere la distanza di un metro in cinquant’anni, mentre le più grandi, in appena vent’anni, possono forse percorrere lo stesso cammino». Ma stiamo tranquilli, l’autore anonimo dell’articolo che si firma “Un amico della flora”, aggiunge: «Tuttavia non bisogna credere che per questo tali piante rappresentino una transizione tra il regno vegetale e il regno animale»21. Lo sospettavamo … Uno dei più bei regali che un giovane poteva fare a una ragazza era un mazzo di violette. Accadeva sovente il giorno della salita all’alpeggio, tra San Bernardo e San Pietro. «I nostri montanari, come una boccata d’aria fresca, sono ritornati dall’alpeggio, portando rami in cui sono inseriti grandi mazzetti di violette»22. Alla prima stazione d’alpeggio, sui duemila metri d’altitudine, vi erano posti in cui i prati erano ricoperti di violette. Allora si tagliava un ramo di ontano, lungo una trentina di centimetri, e si incideva. Si raccoglievano mazzolini di violette che si infilavano nella fenditura, alternativamente con la testa in su e la testa in giù, affinché le corolle coprissero bene gli steli. Infine, con uno spago, si legava l’estremità dove c’era la fenditura per bloccare i fiori. Occorrevano due orette per formare un mazzo magnifico, ornato di violette che coprivano quasi interamente il legno (Figura 3). Per conservarlo bello fresco e profumato. In attesa di poterlo offrire, si immergeva nella vasca della fontana e talvolta capitava di vederne parecchi galleggiare come piccoli battelli nuziali. E quando, finalmente, il sogno si realizzava e gli sposi andavano in chiesa a sanzionare il loro progetto, le amiche della sposa fiorivano la porta della casa paterna e il primo tratto di strada che la giovane avrebbe percorso per raggiungere la chiesa. 19 Abry, Ch./Joïsten, A./Abry-Défayet, D. (1997), Croyances techniques. À propos d’un puzzle ergoétiologique entre les Alpes et la Scandinavie, in Chemins d’histoire alpine, Annecy, Associations des amis de Roger Devos. 20 « Pappa diae que salla planta, la fionda, se tramoue. La man blantse veun nèye latra nèye crape, a coté eun’atra blantse se forme. Se tramoue paèi » Boch Marco (Testimonianza di) di Saint-Christophe, intervistato da Alexis Bétemps il 4-11-2011. 21 Le Duché d’Aoste del 31 gennaio 1894. 22 La Vallée d’Aoste di Parigi del 21 giugno 1924. 34 | Scuola Latina di Pomaretto Lo sa il fiore cos’è l’amore Figura 3. Bouquet di violette in costruzione. Foto Alexis Bétemps Utilizzavano fiori selvatici, ma anche fiori del giardino o fiori di carta, quando la stagione lo imponeva. Non si andava di certo in città a comperare dei fiori freschi! A Verrayes, si ornava il percorso verso la chiesa con rametti di ginepro, pianta particolarmente prolifica 23. Ma in genere: «Non si usavano tanto i fiori. Alla sposa si offrivano garofani, più raramente rose, gladioli o margherite»24. E il mazzo offerto restava in chiesa ad addobbare l’altare o era posto sulla tomba di un parente stretto della coppia da poco deceduto. Il Valle d’Aosta, c’era l’usanza di visitare il cimitero e soffermarsi presso le tombe dei parenti subito dopo la cerimonia nuziale. «La mia nonna li ha lasciati in chiesa. Si mettevano i fiori sul tavolo quando si mangiava, poi si portavano in chiesa o al cimitero, sulla tomba dei parenti. Mia 23 Denabian, S. (2008), «Yuniperus communis, il ginepro», in Petit almanach de chez nous, Verrayes, Association Culturelle Chanoine Pierre-Louis Vescoz. 24 Concours Cerlogne, Scuola elementare di Vert (Donnas), 1987. Coltivare Parole | 35 Alexis Bétemps madre ha portato il più bel cestino sulla tomba del nonno; ha lasciato gli altri fiori in chiesa. Erano margherite e gladioli bianchi»25. Figura 4. Matrimonio a Oyace. Foto di Alexis Bétemps Il bouquet della sposa è una tradizione relativamente recente in Valle d’Aosta: «Un tempo, le spose non avevano il bouquet, ma un grazioso cestino con fiori o petali. Nel 1925, si vedono le prime spose vestite di bianco e con un bouquet26, non necessariamente di fiori freschi: «A Étroubles, la sposa portava un bouquet bianco fatto di fiori di tela e, sotto, c’erano dei nastri che pendevano. All’uscita di chiesa o alla fine del pranzo, la sposa staccava un nastro per volta e lo offriva alle amiche. Quella che riceveva il nastro più lungo sarebbe stata la prima a sposarsi. C’erano anche spose che gettavano questi nastri in aria: l’amica che 25 Concours Cerlogne, Scuola elementare di Donnas (Vert), in CEFP, a cura di (1987), Le mariage, Quart (Valle d’Aosta), Musumeci Editore. 26 Concours Cerlogne, Scuola elementare di Perloz, in CEFP, a cura di (1987), Le mariage, Quart (Valle d’Aosta), Musumeci Editore. 36 | Scuola Latina di Pomaretto Lo sa il fiore cos’è l’amore per prima afferrava un nastro si sarebbe sposata entro l’anno»27. Secondo Van Gennep, il bouquet della sposa è una tradizione cittadina28. A Gaby, si conserva il ricordo di un’antica tradizione: dounor lou bousquèt, offrire il bouquet. Il corteo che seguiva gli sposi doveva essere formato di coppie. Poteva capitare che una ragazza senza cavaliere «offrisse il bouquet a un ragazzo che le piaceva. In principio, questi doveva accompagnarla nel corteo. Il rifiuto era considerato un affronto gravissimo»29. L’edelweiss, ai giorni nostri, un po’ dappertutto nelle Alpi, simbolizza la montagna, l’alta quota, i luoghi scoscesi e il pericolo. Ma è anche il fiore dell’amore tenace che non s’arrende mai, neppure davanti alla morte. Si racconta di una giovane sposa che, non vedendo ritornare il marito, va alla sua ricerca e lo trova morto ai piedi di una parete. In ginocchio davanti a lui, si scioglie in lacrime dalle quali nascono, dopo giorni di pianto ininterrotto, le prime stelle alpine. Nonostante sia sanzionato da una leggenda, questo ruolo simbolico dell’edelweiss è recente e si è formato solo verso la fine del XIX secolo, con l’espansione del turismo alpino: «Questo povero fiorellino visse a lungo ignorato nelle eterne solitudini dei gioghi scoscesi; ma in questi ultimi tempi, grazie al successo dell’alpinismo che non lascia più regioni inesplorate, è stato visto, ammirato, ricercato con ardore … »30. La moda degli edelweiss trionfa nel periodo tra le due guerre: «Già a luglio, i nostri concittadini hanno avuto la sorpresa di vedere in mazzi o, a guisa di coccarde all’occhiello o al copricapo, questi ricordi tra i più caratteristici delle alte Alpi. Un’auto attraversava recentemente la nostra città ornata da due magnifici fasci di edelweiss freschi e scelti»31. A Nendaz, nel Vallese, nella prima metà del XIX secolo «questo fiore non è mai stato menzionato nelle veglie e ancor meno si sono riferite prodezze e imprudenze commesse per procurarselo. Ho incontrato un solo abitante di Nendaz che portava l’edelweiss al cappello e ne ho visti in due famiglie infilati nella cornice di una foto»32. Quest’infatuazione per la stella alpina ha dunque, probabilmente, un’origine cittadina. Quand’ero bambino, negli anni 1950, i lavoratori dell’alpe ne portavano sovente due o tre al cappello, fissati al nastro che circonda il feltro, diventato molle per il vento e la pioggia dei ghiacciai. Ma ho sempre avuto 27 Concours Cerlogne, Scuola elementare di Étroubles, in CEFP, a cura di (1987), Le mariage, Quart (Valle d’Aosta), Musumeci Editore. 28 Van Gennep, A. (1949), Le folklore français, Paris, Edizioni Picard. 29 Stévenin, Y. (1997), Gens du Gaby, les mentalités, Aosta, Tipografia Valdostana. 30 Tibaldi Tancredi in L’edelweiss, L’écho du Val d’Aoste N. 64 dell’11 agosto 1879. 31 La Vallée d’Aoste di Parigi del 9 agosto 1924. 32 Schüle, R.-C. (2011), Les vouivres dans le ciel de Nendaz, Baden und Jetzt. Coltivare Parole | 37 Alexis Bétemps l’impressione che lo facessero per non essere da meno dei pochi alpinisti di passaggio o dei rari turisti. Quanto a me, prendevo gli edelweiss e con un bel pugno li appiattivo sul tavolo, li facevo seccare tra due fogli di giornale sotto un peso e li tenevo nei miei libri. Li offrivo, in inverno, a scuola in città, ai compagni, preferibilmente alle ragazze. Figura 5. Edelweiss. Foto di Alexis Bétemps. Con l’edelweiss, ci siamo un po’ allontanati dalla civiltà agropastorale alpina che è alla base del mio intervento per attingere ad una tradizione borghese, figlia del turismo montano nascente, piuttosto estranea alla montagna. Almeno agli inizi. Con la mandragora entriamo nell’immaginario della borghesia della città di Aosta alla fine del XX secolo. È dai tempi della Bibbia che il fantasma della mandragora alimenta l’immaginario erotico dell’uomo. La Bibbia ne parla e ne parlano pure Plinio e Columella. Il medioevo ne fa un ingrediente per filtri magici e Machiavelli la sceglie per il titolo di una sua fortunatissima commedia. È assunta ad una tale notorietà che molti, ancor oggi, pensano che sia un fiore immaginario. Invece esiste, è una pianta mediterranea, una solanacea (ahimè!), si chiama Mandragora 38 | Scuola Latina di Pomaretto Lo sa il fiore cos’è l’amore officinarum e ha alimentato un vivace dibattito sui battaglieri giornali valdostani della fin de siècle. Figura 6. La voce mandragora nel dizionario Larousse du XXe siècle, 1928. «Si trova la mandragora in Valle d’Aosta?» è stata la domanda che un incauto giornalista ha posto scatenando un acceso dibattito fra le élites locali, fra conservatori e liberali, fra laici ed eminenti membri del clero. Il dibattito sulla mandragora vede tra i suoi protagonisti uno Coltivare Parole | 39 Alexis Bétemps dei fondatori della Société de la Flore, P.-J. Écharlod e intellettuali del calibro di Tancredi Tibaldi, Pacifique Trèves, Édouard Duc, l’avvocato Louis Christillin, il canonico Georges Carrel, il medico Charles-Antoine Boggioz, il Padre Favre di Ayas, cordigliere, botanico, e Jean-Jacques Christillin, lo stimato autore dei Racconti della valle del Lys. Agli illustri personaggi citati bisogna aggiungere il fondatore dell’Académie Saint-Anselme, JeanBaptiste Gal, nonché, una generazione dopo, il botanico Lino Vaccari, e gli abati Férina e Henry. Sarà lo stesso abbé Joseph-Marie Henry a concludere il dibattito nel 1909 con uno studio esaustivo, basato su note del Gal. Henry enumera undici attestazioni della presenza della mandragora in Valle d’Aosta, nessuna delle quali veramente documentata. E conclude: « La Mandragora è stata trovata o segnalata da tale o tale autore, in tale e tale luogo; ma oggi, quelli che sono andati a cercarla in quei luoghi, non la trovano più. A buon diritto, dobbiamo considerare queste ricerche sulla mandragora come l’ultimo omaggio reso alle proprietà meravigliose che si attribuivano un tempo a questa pianta, proprietà di cui la scienza, da tempo, ha fatto giustizia»33. Che la giustizia viva, ma che ci lasci almeno ancora qualche spazio per sognare. 33 Henry, J.-M (1920), «Recherches de Monsieur le Prieur J.-B. Gal sur la Mandragore en Vallée d’Aoste», in Bulletin de la Flore Valdôtaine, N. 5, Aosta. 40 | Scuola Latina di Pomaretto I prati non sono solo erba. Riflessioni sulla praticoltura per le valli del Pinerolese Paolo Varese Introduzione Può un botanico, un agronomo o un agricoltore vedere in un prato altro di diverso dall’erba o dalle specie vegetali? Un genetista altro di diverso da geni o cromosomi? Un allevatore altro di diverso da del foraggio? Può un artista vedere in questi ambienti altro di diverso da colori, forme o aspetti sensoriali? Può un appassionato di lingue locali vedere altro oltre la parola che rappresenta una pianta, un attrezzo o una pratica legata alla coltura materiale di un territorio o di una comunità? Questa è la scommessa alla base del presente contributo: guardare con occhi multipli. Parlare di prati significa innanzitutto suscitare immagini ed emozioni. Queste possono essere molto diverse a seconda delle persone a cui ci si rivolge; un grande osservatore degli uomini e della natura quale fu Jean Giono (1885-1970) fa parlare il protagonista nel poema Que ma joie demeure, in viaggio tra le non lontane praterie dell’Alta Provenza, in questo modo: La méthode, il la connaissait comme pas un: un pré, c’est de l’herbe. La fleur ne sert à rien. Ce qui compte, c’est ce qui est entre la fleur et la racine. Aux bestiaux, la fleur ne fait rien. Et qui sait, s’était-il dit? Qu’est-ce que vous en savez, vous autres (vous autres, c’étaient les ancêtres, les pères et les grands-pères et tous ceux qui avaient créé des prés et des pâturages avant ce printemps-ci). Qu’est-ce que vous en connaissez de la bête? Et si, des fois, cette fleur –se disait-il tout seul au milieu de la nuit– si cette fleur donnait du poil, ou donnait de l’œil, ou donnait de la dent, ou de la corne, ou du sabot, ou qui sait quoi de beau sur la bête? Qu’est-ce que vous en savez? Ainsi, en pleine nuit, il discuta longtemps avec l’ombre des ancêtres. Le bord de son sommeil fut tout illuminé de bœufs et de vaches à la peau de feu, de moutons, de chevaux et Paolo Varese de chèvres à la beauté extraordinaire. Maintenant, du haut de son cheval, il voyait ses larges prés écumeux. La petite éclaire, la grande éclaire, la pâquerette, l’herbe d’or, la drave et la cardamine étalaient leurs fleurs. Il traversa les prés et l’odeur de miel monta autour de lui à mesure que le cheval froissait les herbes avec ses jambes1. Figura 1. Bruegel il Vecchio, raffigurazione della fienagione durante il XVI secolo Come il protagonista del racconto di Giono, anche noi siamo portati a vedere in un ambiente naturale varie componenti, con diverse scale d’approccio, più o meno filtrate dalla nostra sensibilità, dal nostro vissuto e, ben inteso, dalle emozioni del momento. Ed è per questo che, in un progetto finanziato dalla Compagnia di San Paolo nell’ambito del bando “Torino e le Alpi”2 si sono organizzati più incontri per parlare di prati tra tecnici, agricoltori, ricercatori, studenti, amministratori e semplici appassionati, ognuno con il 1 Giono, J. (1935), Que ma joie demeure, Paris, Editions Grasset. Varese, P. (2017), «Progetto Pratiq (Praticoltura per un Territorio Incrementato di Qualità)», in Supplemento a Dislivelli.eu, https://goo.gl/B2l6Ko; Varese, P. (2016), «Pratiq: un progetto sulla praticoltura nelle valli del Pinerolese», in La Beidana, 87, pp. 67-82. 2 42 | Scuola Latina di Pomaretto I prati non sono solo erba proprio approccio e la propria modalità di lettura: a questi incontri non hanno partecipato folle oceaniche, essendo l’argomento una sorta di oggetto di nicchia, ma persone spesso molto motivate che hanno provato a condividere, tra il 2015 e il 2016, questo caleidoscopio di esperienze. Figura 2. Giovanni Segantini, Die Heurnte (la raccolta del fieno) Prati e immaginario L’immaginario di ognuno è dunque legato alla vita e alle esperienze che ha condotto: la praticoltura nell’immaginario collettivo delle Valli Valdesi è ad esempio legata, nella grande Coltivare Parole | 43 Paolo Varese maggioranza dei casi e in particolare per alcune generazioni, alla fienagione, ai covoni e ai mucchi di fieno sparsi nel paesaggio montano e collinare (rispettivamente fnìe e macheiroùn), ai prati ben curati, al lavoro spesso faticoso dell’agricoltura di montagna, all’odore di cumarina, quella fragrante sostanza che si sprigiona dal fieno al sole. Anche nella storia dell’arte, in particolare nella pittura, i prati sono spesso considerati e raffigurati da molti artisti principalmente nei termini di lavoro ed effetto del lavoro umano, e nelle opere di diversi artisti le varie componenti vegetali sono rappresentate come un insieme quasi indistinto. Così sembrerebbe essere per Bruegel il Vecchio (1525-1569), o più recentemente per i macchiaioli come Silvestro Lega (1826-1895) e Giovanni Fattori (18251908) nell’Italia appenninica, o per Giovanni Giacometti (1868-1933) e Giovanni Segantini (1858-1899) nell’ambito alpino o come per Julien Dupré (1851-1910) e Francis Picabia (1879-1953), pittori d’oltralpe (Figure 1 e 2). Figura 3. Vincent Van Gogh, Farfalle in un prato. 44 | Scuola Latina di Pomaretto I prati non sono solo erba Per Vincent Van Gogh (1853-1890) in “Farfalle su un prato” oppure Felice Casorati (18831963) nel dipinto “Sognando di melograni”, i prati sono invece rappresentati anche come luogo per lo svago, il riposo e la contemplazione: in questi autori le specie vegetali diventano un soggetto autonomo, assumono il carattere di herbes folles o di elemento decorativo, indipendenti dal lavoro e dalle attenzioni dell’uomo (Figure 3 e 4). Figura 4. Felice Casorati, Sognando di melograni. Coltivare Parole | 45 Paolo Varese Così siamo in fondo anche noi nelle nostre rappresentazioni, a volte antropocentriche, a volte permeate di naturalismo e spiritualismo, a volte molto astratte o al contrario molto concrete, con l’occhio fissato sul dettaglio oppure con l’occhio vagante e perso nell’approccio olistico della natura che ci circonda. Partendo dai nostri territori, i prati ci rimandano in molti casi ai ricordi di ieri, alle tradizioni, ad un buon tempo che fu, non più confermato nella modernità: oggi siamo in genere confrontati a problematiche differenti e in fondo il prato rappresenta in qualche modo un passato che non c’è più: come non pensare alle montagne verdi e ai prati della via Gluck, di note canzoni di qualche decennio fa. Dobbiamo quindi reinventarci un immaginario sui prati che si fondi anche sulla contemporaneità, per una progettualità condivisa sul futuro nostro e su quello delle nuove generazioni. Figura 5. Praterie di narcisi, Les Avants di Montreux (CH), cartolina storica. Una lunga storia ricca di saperi: cultura persa o recuperabile? Per guardare avanti, non possiamo ignorare quanto il passato, da più o meno recente a remoto, ci ha proposto: un patrimonio inestimabile di cultura materiale sulla praticoltura e 46 | Scuola Latina di Pomaretto I prati non sono solo erba la fienagione, che rischia di scomparire con le persone e con gli oggetti, ormai da museo, spesso ritenuti non più adeguati ai tempi e all’economia attuale. Testimonianze e ricerche d’archivio ci permettono di evidenziare dati, fatti e informazioni di tipo storico-territoriale ed etnografico: scopriamo oggi zone impervie sfalciate un tempo a mano con il dahl o la mëssoira, ascoltiamo di tecniche diverse nello sfalcio, nella battitura del ferro delle falci sulla martléura, nel trasporto del fieno verso valle, ecc. Prendiamo dal recente passato due esempi che sembrano legati ad una memoria oramai antica: lo sfalcio e la fienagione manuale e i ricordi delle fioriture dei prati. Figura 6. Praterie di narcisi sopra Montreux (CH), cartolina storica. Il recupero dello sfalcio a mano, visto da alcuni come inutile nostalgia, faticosa e antimoderna, da altri come oscurantismo tecnologico, sembra invece riapparire all’orizzonte come un elemento di valore: non si tratta certo di ri-sostituire i trattori e le attrezzature che la tecnologia ci offre oggi, ma di affiancare questa pratica per la rifinitura della gestione dei prati o di riconsiderarla per la ripresa dello sfalcio in zone di difficile accesso per la meccanizzazione; un po’ come un barbiere affianca ai rasoi e alle macchinette taglia-capelli elettriche, il rasoio tradizionale e vari tipi di forbici per un lavoro ben curato. E il valore Coltivare Parole | 47 Paolo Varese aggiunto dello sfalcio manuale non sta certo solo nel poco foraggio che se ne ricava, ma in diversi benefici ambientali, paesaggistici e funzionali che oggi usiamo chiamare “servizi ecosistemici” e che vari enti cominciano a considerare, e talora anche a pagare, in particolare nel territorio montano3. In parallelo, data la difficile meccanizzazione e il costo elevato di certe apparecchiature (ad esempio le mini-rotoimballatrici per macchine monoasse), vengono oggi proposti dalla ricerca prototipi tecnologicamente avanzati di presse manuali da fieno, concepiti a partire dall’osservazione e dal miglioramento di vecchie presse tradizionali in legno, ferro e cordame. Figura 7. Praterie di narcisi a Pragelato (TO), cartolina degli anni ’50. E veniamo ora alle fioriture dei prati: quanti ricordi nostalgici sulle belle fioriture dei prati che un tempo esistevano e che oggi non esistono quasi più... Fenomeno autentico o 3 Si vedano ad es. le recenti tesi di laurea (con relative bibliografie) sui Servizi Ecosistemici dei prati, svolte per le valli del Pinerolese da Diego Benedetto, Cecilia Monari e Oliver Crini nell’ambito del Corso di Laurea “Economia dell’Ambiente, della Cultura e del Territorio”, presso l’Università degli Studi di Torino. 48 | Scuola Latina di Pomaretto I prati non sono solo erba offuscamento collettivo della memoria dovuta alla idealizzazione del passato? Fenomeno assolutamente autentico, sia per la rarefazione dei prati a causa dell’avanzata del bosco (in collina e montagna) e dell’urbanizzazione (in pianura e fondovalle), sia per la loro trasformazione floristica, in buona parte legata all’abbandono dello sfalcio periodico, all’eccesso di concimazioni (in particolare in pianura e nei settori di facile accesso) e alla sostituzione dello sfalcio con il pascolamento primaverile-estivo. Figura 8. Praterie di narcisi presso il monte Linzone (BG), fotografia attuale. Nei ricordi delle persone almeno cinquantenni e di quelle più avanzate nell’età il periodo della Pentecoste era ad esempio segnato dai prati fioriti di diverse zone montane (da Pragelato, a Prali, al vallone di Massello ai versanti dell’alta Val Pellice ed in varie altre parti delle Alpi occcidentali) in particolare dalle fioriture del narciso bianco dei poeti (Narcissus poeticus subsp. radiiflorus), che, non per nulla, porta in val Chisone e Germanasca il nome di pancouto e in val Pellice di pancouta (lett. “pentecoste”). Oggi questo spettacolo è limitato a ridotti settori delle valli indagate; foto e cartoline antiche ci testimoniano invece situazioni pre-esistenti di grande impatto visivo e paesaggistico (cfr. Figure 5, 6 e 7 scattate attorno al lago Lemano in Svizzera e in alta val Chisone); altrove, invece, il fenomeno è attestato ancora attualmente (cfr. Figura 8, scattata nelle Alpi Orobiche). Si noti come il narciso bianco interessi poco per il pascolo (dove anzi da fresco risulta tossico), mentre nel Coltivare Parole | 49 Paolo Varese fieno la sua presenza risulta molto diluita dal momento che le foglie seccano e scompaiono quasi al momento dello sfalcio (che viene effettuato più tardivamente della fioritura). Ebbene è proprio l’attività dello sfalcio che ha permesso la conservazione di questo spettacolo della natura, attività che nel territorio dell’Aubrac nel Massiccio Centrale permette ancora oggi l’ esistenza di una piccola economia basata sulla raccolta “dolce” del solo fiore del narciso per l’industria profumiera: questa avviene con speciali macchine a pettine, leggere, trainate a mano per la raccolta. E mentre a Pragelato la “neve di maggio” (nome riferito alla estesa fioritura dei narcisi) è un ricordo di pochi ed è vista con una certa indifferenza per il suo aspetto un po’ démodé, questo landmark di successo fa altrove da traino a livello di turismo locale: nella zona di Montreux e Chateau d’Oex (CH) si organizzano escursioni a pagamento per visitare le praterie a narcisi rimanenti (anche lì la pianta è in forte regressione...) e un festival al quale accorrono turisti da varie parti del mondo, in una sorta di appuntamento turistico d’élite. Si approfitta dunque di quei servizi, in termini tecnici Cultural services, legati al valore estetico e al valore ricreativo dei prati. Concorsi sulle Prairies fleuries sono indetti dai parchi francesi, gare e festival di sfalcio si svolgono un po’ in tutta Europa, premi per i prati da sfalcio meglio gestiti vengono assegnati in diversi territori alpini, tra cui il Parco Regionale dell’Adamello. Questo permette una riappropriazione anche simbolica degli spazi prativi del territorio, suscitando pure una sorta di orgoglio locale a conservare al meglio questi ambienti. A livello turistico nelle vallate piemontesi tuttalpiù si punta sui balconi e le fioriere per attrarre il turismo (concorso “Comuni fioriti”) e a un generico ed impalpabile senso del verde o della natura incontaminata. Questo accade in un momento storico in cui nei territori di pianura prevale un’agricoltura sempre più intensiva ed in zona di montagna un generale abbandono colturale. Idee e tecnologie nuove per l’agricoltura di montagna Ma al territorio montano è preclusa l’innovazione tecnologica in agricoltura? No di certo, anzi, occorre evitare di vivere di sola nostalgia e di introflettersi sulla sola tradizione, ma ricercare anche parole ed idee nuove da comunicare, rinnovando alcune pratiche tradizionali. Dal momento che, come suole dirsi, ogni tradizione è una innovazione che ha avuto successo, la vera innovazione sta soprattutto nelle menti e nelle idee. 50 | Scuola Latina di Pomaretto I prati non sono solo erba E come dice Gustav Mahler (musicista: 1860-1911) «la tradizione è custodia del fuoco, non adorazione della cenere»; mentre il già citato Jean Giono (scrittore: 1895-1970) ci ricorda che «les sentiers battus n’offrent guère de richesse, les autres en sont pleins». La prima rivoluzione delle idee è quanto più o meno afferma Michelangelo Pistoletto4, artista contemporaneo, nella sua teoria del Terzo Paradiso, in cui occorre saper coniugare sapientemente natura ed artefatto. La storia umana è al terzo stadio. Il primo era il paradiso naturale, di quando eravamo dentro alla mela. Con il morso della mela siamo usciti dalla natura e passati al secondo stadio, il paradiso artificiale, che ormai divora la mela, cioè devasta l'intera natura. Adesso dobbiamo lavorare tutti per passare al terzo stadio, quello in cui si realizza la cucitura del mondo artificiale con il mondo naturale. Il Terzo Paradiso nel quale la scienza e la tecnica anziché allontanarci dalla natura ci aiutano a salvare la natura stessa e con essa l'intera umanità. Occorre in poche parole arrivare ad affiancare gli elementi tradizionali con nuove conoscenze e nuove opportunità, in un quadro di lavoro che integri, e non contrapponga, economia ed ecologia. Già si è detto in parte dell’approccio dei “servizi ecosistemici”, ovvero dei benefici multipli forniti dagli ecosistemi al genere umano: a questo sarà dedicato il prossimo paragrafo. Vi è poi anche l’innovazione tecnologica, che non è da trascurare. Girando per le fiere sulla meccanizzazione agricola in Piemonte si rimane meravigliati dal gran numero di macchinari, spesso costosissimi, dedicati all’agricoltura di pianura: lì è il core businness delle aziende meccaniche e dell’agro-industria e tranne in pochi casi per l’agricoltura di montagna sembrerebbe esserci “poca trippa per gatti”. Spesso si è contrapposto questo eccesso di tecnologia dell’agricoltura di pianura alla falce e rastrello, al mulo (sempre rispettabilissimo...) e ai prodotti poveri dell’agricoltura di montagna, figli dell’agricoltura di sussistenza. Nulla di più sbagliato, esiste uno spazio di progettazione e realizzazione tecnologica denominato “tecnologie intermedie”, altrimenti dette “tecnologie appropriate”, che viene ad esempio sviluppato presso il Politecnico di Torino da ricercatori come Walter Franco: si citavano in precedenza i rinnovati modelli di presse da fieno e da paglia, ma è 4 Pistoletto, M. (2007), Il terzo Paradiso, Venezia, Marsilio Editori. Coltivare Parole | 51 Paolo Varese anche il caso delle piccole mietitrebbie portatili (magari con batterie al litio) e della tradizione di piccola industria a carattere quasi artigianale della Falci di Dronero-CN (falci ed attrezzature per lo sfalcio e il taglio) o di altre aziende più piccole. Chissà poi se vi sarà uno sviluppo dell’agricoltura di precisione anche per il territorio montano... Figura 9. Vecchio cartello arrugginito degli anni ’60 e ’70 (Massello, TO) In altri contesti alpini salta all’occhio l’elevata presenza di piccoli trattori da montagna (tipo Terratrac) e falciatrici monoasse adatte a sfalciare su elevate pendenze, come nei territori della montagna elvetica ed austriaca, come pure la presenza di strutture specializzate per accogliere ed essiccare fieno sciolto (foin ventilé) che viene poi distribuito al bestiame con apposite mini-gru a scorrimento nella parte superiore della struttura. Si tratta di una montagna più ricca, con più agevolazioni o semplicemente più organizzata, aperta alle innovazioni e solidale? Una montagna forse più capace di fare sistema e di superare così individualismo e particolarismo? Non è questo il luogo per entrare in dibattiti di politica economica, ma due parole in tal direzione sono necessarie. Non è più oggi il 52 | Scuola Latina di Pomaretto I prati non sono solo erba tempo della strategie difensive per il “mondo dei vinti”, del solo arroccamento identitario e delle generiche dichiarazioni di principio il cui simbolo sono i vecchi cartelli su cui è scritto «Turisti, i prati sono la vita del montanaro, rispettateli», oggi in gran parte arrugginiti (Figura 9). Figura 10. Prati con funzione di protezione delle falde idriche (comune di Roure, TO) Oggi è più che mai tempo di cambiamenti di strategia. Le diverse funzionalità dei prati da sfalcio e delle altre superfici erbacee devono indurci ad approcci differenziati, zona per zona e caso per caso. È dunque necessario poter disporre di strumenti normativi e finanziari flessibili verso le nuove domande, superando quei settori stagni tipici dell’agricoltura industriale o sovvenzionata di questi ultimi decenni. Coltivare Parole | 53 Paolo Varese Nuovi ruoli, funzioni e servizi dei prati da sfalcio Se quindi un prato non è solo erba vediamo quali possono essere alcuni di questi nuovi prodotti e servizi da affiancare al classico prodotto del foraggio, che resta tuttavia ancora oggi il motore principale dell’economia zootecnica montana. Nel periodo dell’economia di sussistenza il prato era una superficie da cui dipendevano la sopravvivenza dei vari capi di bestiame in possesso di una famiglia e della famiglia stessa, residente in prossimità o più a valle. Più recentemente al foraggio verde e al fieno e ad alcune specie vegetali usate per l’alimentazione umana e la cura (fitoalimurgia) hanno cominciato ad affiancarsi altri prodotti: i prati vengono oggi in vari paesi rivalutati per la loro produzione di polline e miele nell’apicoltura, come sorgente di semi (il fiorume, altrimenti denominato a seconda dei luoghi, purs, poussa, brouisa, ecc) ed altro ancora. Tali superfici vegetali, se ben gestite, presentano inoltre un ruolo antierosivo utile alla conservazione del suolo, alla protezione delle falde idriche (Figura 10), allo stoccaggio del carbonio e alla conservazione della biodiversità e del paesaggio, tutti servizi che un tempo non erano riconosciuti dalla collettività. In ambito rurale si ridacchia spesso su queste funzioni apprezzate, si dice, soprattutto dai cittadini e da qualche “neo-rurale” (in Francia ironicamente definiti, con sfumature diverse, bobo o baba-cool5); le vecchie generazioni ovviamente e comprensibilmente hanno legato la loro vita all’erba dei questi prati e considerano con sospetto queste nuove attitudini. Non si tratta di disconoscere il ruolo, ancora oggi prevalente e determinante per la conservazione della maggioranza di queste superfici, di produzione foraggera, ma di cominciare a considerare che possono essere integrati e valorizzati anche economicamente da funzioni e prodotti differenti, soprattutto dove questo ruolo trainante della zootecnia montana è in crisi (aree prative marginali, prati magri, antichi fourest abbandonati, ecc). Luogo chiave di questo nuovo riconoscimento per i prati saranno dunque le aree marginali, dove non si falcia più o al massimo si pascola in modo andante queste superfici non facilmente meccanizzabili. Occorre riprendere a falciare 5 Bobo è l’acronimo di bourgeois-bohème, sorta di radical-chic, con cui vengono identificati i benestanti che provengono dalle città (sono ad es. spesso di origine parigina), in genere con idee di sinistra o ecologiste; baba-cool sono invece i vecchi e nuovi “figli dei fiori” che si sono insediati in aree rurali storiche, come le Cevennes o il Luberon, fin dai primi anni ‘70, e conducono una vita appartata, spesso vivendo alla giornata oppure intraprendendo alcune attività agricole (tipicamente l’apicoltura, il piccolo artigianato e la produzione di tomini di capra). 54 | Scuola Latina di Pomaretto I prati non sono solo erba dappertutto e a qualunque costo, come si faceva a fine ‘800? No, non è possibile, la montagna è cambiata sia a livello di paesaggio naturale che di demografia; un tempo non c’era molta scelta, quello che si faceva lo si faceva per necessità, la biodiversità era ad esempio un concetto sconosciuto, i mezzi tecnici o tecnologici erano limitati, spesso si agiva in un certo modo perché si è sempre fatto così ed anche il tempo aveva un altro valore. Oggi occorre definire quegli ambiti in cui le potenzialità, umane e naturali, sono più favorevoli e dare ad essi la priorità: per facilitare le decisioni un esempio può essere quello presentato nella Figura 11, uno schema logico che permette di indirizzare possibili scelte in contesti marginali diversi. Figura 11. Schema di supporto alle decisioni per la gestione di aree in abbandono (da Varese, 2017) Coltivare Parole | 55 Paolo Varese Nuovi sguardi ed antiche parole In conclusione occorrerà trovare anche nuove parole per far passare una comunicazione che a volte si presenta asfittica, settoriale e corporativa. Come oggi è problematico parlare di ërcort (fieno settembrino) o di anoulh (erba tagliata un anno su due in certi prati marginali, sempre in val Germanasca) ad un turista urbanizzato, ad un burocrate regionale oppure ad un accademico eco-integralista, altrettanto presenta un’alta probabilità di reciproca incomprensione il parlare ad un montanaro di “carbon footprint” (impronta di carbonio) o di “allegato II e IV della Direttiva Habitat” (la direttiva europea che norma la conservazione di alcuni habitat naturali nelle aree Natura 2000, tra cui vari tipi di prati e pascoli). Figura 12. Il fen mënù può presentare varie specie di graminacee a seconda del territorio considerato. 56 | Scuola Latina di Pomaretto I prati non sono solo erba Solo ciò che ha un significato chiaro e condiviso permette una comunicazione soddisfacente. Uno sforzo di divulgazione tra gli addetti ai lavori sulle “parole tradizionali” legate alle antiche pratiche agricole deve andare di pari passo alla condivisione di senso con chi abita la montagna di quella “nuove parole” che oggi risuonano nelle aule universitarie e negli alti uffici amministrativi: queste ultime vanno, per così dire, de-burocratizzate e deaccademizzate. Sempre a proposito di parole, altro aspetto è quello delle ineluttabili ambiguità nomenclaturali delle specie vegetali che popolano i nostri popolamenti erbacei: anche qui occorre, con pazienza, ascolto reciproco ed un briciolo di creatività, condividere le osservazioni, evitando atteggiamenti professorali e stimolando la reciproca curiosità. Infatti è noto come le denominazioni dialettali siano assai onnicomprensive a livello tassonomico e che termini come fen mënù (fieno minuto: possono essere diverse specie graminoidi: Figura 12), baucho (specie diverse del genere Brachypodium in contesti geografici differenti) o lësca (carici, di diverse specie, in genere poco appetiti dal bestiame) si prestino a notevoli ambiguità. Allo stesso tempo è possibile accettare come il termine olina possa rappresentare in contesti diversi specie diverse del genere Festuca che neanche molti specialisti a volte riescono ad identificare con una precisione assoluta al di fuori dal loro laboratorio. Se poi non sembra esistere un nome in patouà o in piemontese per specie come Holcus lanatus, Poa trivialis o Koeleria pyramidata, pazienza, il pastoralista e il botanico con il pastore o l’agricoltore potranno chiamarle con un nome di fantasia purché coniato e concordato assieme: forse che i nomi volgari delle piante non sono nati in questo modo? Importante sarà infine anche chiamare le buone pratiche gestionali in un modo condiviso e ragionato: anziché l’onnipresente e ambiguo “fare pulizia” si dovranno trovare parole appropriate per tecniche particolari come lo “sfalcio di déprimage”, l’“eradicazione selettiva” delle specie alloctone, il “diradamento silvo-pastorale” o il “pascolamento a rotazione”. Come le parole, molte delle innovazioni odierne hanno infatti radici molto antiche. Ringraziamenti Si ringraziano i sig.ri Raimondo Genre, Dario Tron, Enzo Negrin e Giovanni Manavella per la collaborazione alla ricerca delle informazioni sui nomi dialettali presenti in questo articolo. Coltivare Parole | 57 Paolo Varese 58 | Scuola Latina di Pomaretto Coltivare Parole Un racconto del progetto Aline Pons Le pagine che seguono contengono il racconto della nascita e dell’evoluzione del progetto Coltivare Parole, i cui risultati sono illustrati nei contributi di Giada Bellia e Pier Andrea Martina, in questo volume; un po’ come avviene per le autobiografie, la narrazione dello sviluppo di un’idea non può essere oggettiva: quella che vi propongo di seguito è dunque la semplice testimonianza di un percorso di ricerca. Il blog L’idea di Coltivare Parole è nata da una collaborazione fra lo sportello linguistico della Scuola Latina e quello della Valaddo. Insieme a Luca De Villa Palù, allora sportellista (e in seguito presidente) della Valaddo, nella primavera del 2012, discutevamo della necessità che gli sportelli si facessero promotori di qualche iniziativa che, compatibilmente con la modalità di “lavoro d’ufficio” facesse uscire l’occitano dai soliti canali di diffusione. Forse ispirati dal fatto che si stava cenando, e che si era alle prese con i primi, goffi tentativi di avviare la coltivazione di un orto domestico, abbiamo pensato che potesse servire un luogo che facilitasse il passaggio di saperi agricoli dalle generazioni precedenti alla nostra. Siccome di siti di agricoltura è pieno il web, e siccome il nostro interesse principale restava quello della lingua locale, abbiamo pensato di conciliare le due cose, cercando di raccogliere e tramandare non solo le pratiche agricole più adatte alla coltivazione in montagna, ma anche le parole, più o meno settoriali, con cui le persone della valle descrivevano questi procedimenti. Così, dopo aver passato un mese a raccogliere materiale, importunando famigliari, amici e conoscenti, abbiamo lanciato un rudimentale blog, nel quale settimanalmente condividevamo brevi articoli (nel patouà dei testimoni) sulla coltivazione di singoli ortaggi. Aline Pons In questa fase, credo di poter dire che la prima reale novità, rispetto al lavoro di sportello che avevamo portato avanti fino a quel punto, fosse l’esplosione della (micro)varietà linguistica: il fatto di trascrivere interviste registrate dalla viva voce dei parlanti (invece di tradurre testi dall’italiano, o di comporne nella nostra varietà) ha fatto sì che presto il blog si popolasse di testi che rispecchiavano le diverse parlate delle valli: se per la val Germanasca la distinzione fra i patouà dei diversi paesi è piuttosto fine, la differenza con i testi della val Chisone (che erano a loro volta molto differenziati fra loro) era perspicua a tutti. Il sito Il relativo successo del blog ha convinto le due associazioni che gestiscono gli sportelli, all’inizio del 2013, a fare un investimento (con fondi propri) per rendere il nostro rudimentale spazio virtuale un vero sito, in grado di supportare audio, video, immagini. In questa seconda fase, l’inserimento del video e dell’audio ci hanno permesso di amplificare ulteriormente la quantità di informazioni sulle singole varietà (che a questo punto erano fruibili direttamente, non soltanto attraverso la mediazione della trascrizione). Inoltre, il nuovo sito permetteva di offrire, per ogni articolo, anche la traduzione in italiano e in francese: all’inizio, dovendo scegliere, ci eravamo limitati a offrire dei piccoli glossari patouà – italiano che aiutassero i lettori a capire gli articoli, scritti interamente in occitano. Un momento piuttosto determinante nella breve storia del progetto è stato l’arrivo alla Scuola Latina di Giada Bellia. Giada stava facendo una tesi di etnobotanica sulle valli Chisone e Germanasca, e navigando su internet era incappata nel sito di coltivareparole.it, giudicandolo interessante per le sue ricerche. Ben presto, Giada ha accettato di collaborare con gli sportelli, fornendoci una serie di articoli (tratti dalla sua tesi di laurea) sugli usi medicinali e alimentari della flora spontanea, argomento che, fino a quel punto, non aveva trovato spazio nel sito. Sempre a mio modo di vedere, il punto di forza di questa fase del progetto è stato il coinvolgimento di quasi cinquanta persone, che sono state intervistate a più riprese per raccogliere le testimonianze orali che sono alla base del centinaio di articoli, spesso brevi, che sono stati pubblicati in tre anni di attività. Questa esperienza ha riscosso un certo successo di pubblico (da aprile 2013 a luglio 2016 15.764 utenti hanno visitato 35.258 pagine sul sito, con una permanenza media di 1: 28 minuti per sessione; il canale Youtube, 60 | Scuola Latina di Pomaretto Un racconto del progetto che conta 80 iscritti e ha raggiunto al 19/09/2016 le 77.908 visualizzazioni di video 1), successo che ha convinto l’Associazione Amici della Scuola Latina di Pomaretto a promuoverne un ampliamento, che andasse nella direzione dell’allargamento della rete d’inchiesta (nella prima fase, le persone intervistate erano tutte originarie delle sole valli Chisone e Germanasca) e di un maggior rigore metodologico. Il progetto dell’atlante online L’obiettivo principale dell’ampliamento del progetto era valorizzare l’esperienza iniziale, rendendo più strutturale il confronto fra le diverse varietà, e provando a studiare l’eventuale mutamento delle pratiche agricole in funzione dell’altitudine e della conformazione del paesaggio. Così l’Associazione Amici della Scuola Latina ha presentato alla Fondazione CRT il progetto per un piccolo atlante linguistico delle valli valdesi e della pianura pinerolese, che mantenesse il connubio fra variazione dialettale e variazione etnobotanica, contando sul patrocinio non soltanto (ça va sans dire) della Valaddo, ma anche della Fondazione Centro Culturale Valdese, di Radio Beckwith Evangelica e del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Torino. Quest’ultima relazione, in particolare, ha contribuito a rafforzare le basi scientifiche del progetto, grazie alla supervisione di Matteo Rivoira e di Alessandro Vitale Brovarone e alla collaborazione con Pier Andrea Martina, dottorando in francesistica, con un’ottima competenza nei dialetti piemontesi dell’area indagata. La ricerca alla base del progetto “Coltivare Parole – Raccolta e semina di saperi agricoli nelle lingue locali” ha visto la conduzione di una campagna d’inchiesta in venti località delle Valli Valdesi e della pianura Pinerolese2: si sono voluti indagare, dalla viva voce dei parlanti, il lessico e le pratiche legate alla coltivazione di specie orticole e all’uso e alla raccolta di piante spontanee. Le interviste, condotte da Giada Bellia e Pier Andrea Martina, hanno coinvolto almeno una persona per ognuna delle località indagate, sebbene spesso si sia reso necessario ricorrere a più fonti. 1 Alla data di edizione del presente contributo (novembre 2017), gli iscritti al canale Youtube sono saliti a 119, e le visualizzazioni a 105.841. 2 Le inchieste sono state concluse nei comuni di: Pragelato, Fenestrelle, Roure (Bourcet), Prali, Perrero (San Martino), Pramollo, Villar Perosa, Prarostino, Bobbio Pellice, Luserna San Giovanni, Rorà, Bibiana, Cavour, Barge, Cumiana, Piossasco, Vigone, Piscina, Cartignano; sono invece ancora in corso i rilievi nel comune di San Pietro Val Lemina. Coltivare Parole | 61 Aline Pons Le inchieste interessano sia comuni montani, di parlata occitana, sia comuni planiziali, di parlata piemontese, individuati in un’area piuttosto circoscritta: l’auspicio è che i dati raccolti da Coltivare Parole, elicitati con una fitta rete di punti d’inchiesta (rispetto alle esperienze atlantistiche che già insistono su questo territorio3), contribuiranno a fare luce sulle dinamiche linguistiche e culturali in un ambito territoriale dove di incontrano (e si scontrano) varietà linguistiche piuttosto distanti, aggiungendo materiale per lo studio dell’area di contatto fra occitano e piemontese e valutando al contempo l’azione di livellamento dovuta alla diffusione dell’italiano. Inoltre sarà possibile studiare come cambiano le pratiche agricole (i periodi di semina, ma anche le modalità di conservazione e l’alternanza delle colture) con il passaggio dalla pianura alla montagna e nel corso del tempo: a ogni pianta è infatti stata dedicata una scheda che raccoglie le testimonianze (georeferenziate) su uso e coltivazione/raccolta, insieme ad alcune nozioni botaniche di base; questa, collegata con una mappa dei termini dialettali in uso nella zona per nominare la specie, permette di intravedere l’importanza economica, ma anche sociale e simbolica di ogni erba o ortaggio nella cultura locale. Rispetto alle fasi precedenti del progetto, in questo caso l’auspicio è quello che questi dati, una volta che saranno resi interamente disponibili sul sito, possano servire non soltanto (come è stato finora) alle persone interessate a orti, erbe e lingue locali, ma anche alla comunità scientifica. Per garantire questo doppio binario di diffusione, abbiamo scelto da un lato di mantenere la grafia ortografica in uso presso i nostri sportelli (la concordata) per l’occitano alpino, affiancandola alla grafia che Arturo Genre aveva predisposto per l’ATPM a partire dalla proposta di Bruno Villata per il piemontese, dall’altro di inserire nelle carte linguistiche la trascrizione in IPA, più facilmente consultabile da parte di un pubblico di specialisti. Il lavoro da fare per completare il caricamento delle oltre centotrenta schede è ancora parecchio (attualmente sul sito ne trovate una quarantina), così come le migliorie che si possono apportare al materiale pubblicato, ma credo di poter concludere questa breve presentazione della storia del progetto sottilineandone un punto di forza meramente pratico (d’altronde, questo sottolineare gli aspetti pratici è stato il mio ruolo principale in questi anni di lavoro): avendo una qualche esperienza di cantieri atlantistici, mi sembra che in questo caso si sia riusciti a mantenere un’accettabile rapporto fra la qualità del materiale 3 Per un’illustrazione degli studi e delle opere atlantistiche che coinvolgono il territorio che ci interessa, rimando a PONS, A. (2017), «Coltivare parole. Un piccolo atlante fitonimico del Pinerolese e delle Valli Valdesi», in Bollettino dell’Atlante Linguistico Italiano, n. 40. 62 | Scuola Latina di Pomaretto Un racconto del progetto raccolto e pubblicato e il tempo e i costi che questa ricerca ha comportato. Questo è stato possibile grazie alla passione delle persone che hanno collaborato al progetto, che hanno lavorato, credo di poterlo dire, spinti da una autentica vocazione, e non (solo) dal modesto compenso che hanno ricevuto. Ringraziamenti Vorrei ringraziare Giada Bellia per avermi spinta, con il suo entusiasmo (e con il suo candore) a presentare questo progetto alla Fondazione CRT; Pier Andrea Martina, per essersi appassionato al progetto al punto che talvolta ho dovuto dissuaderlo dall’immergersi troppo a fondo nelle ricerche che lo entusiasmavano, per poter concludere in modo uniforme il lavoro; Marco Magnano, il nostro webmaster, per l’intelligenza con cui ha capito esattamente di cosa avevamo bisogno e ce l’ha realizzato nel miglior modo possibile; tra le altre cose, dobbiamo ringraziarlo anche per aver coinvolto nel lavoro Leonora Camusso, autrice delle illustrazioni; Francesca Richard, che da oltre un anno si occupa dello Sportello della Scuola Latina, per il lavoro meticoloso, l’impegno e la dedizione con cui ha imparato a scrivere e a dare dignità alla sua lingua madre. Non posso elencare qui tutte le persone che, a titolo volontario, ci hanno aiutati nel portare avanti questo progetto, ma un sincero ringraziamento deve andare ancora a Matteo Rivoira, per il sostegno scientifico, i preziosi consigli e la pazienza con cui ha ascoltato le nostre difficoltà; da ultimo vorrei spendere una speciale parola di ringraziamento per chi ha accettato di farsi intervistare da noi: senza di loro/voi, le nostre ricerche e i nostri progetti di tutela perderebbero quell’attaccamento alla realtà territoriale, quello spessore umano che, dal mio punto di vista, è la loro principale ragion d’essere. Grazie. Coltivare Parole | 63 Aline Pons 64 | Scuola Latina di Pomaretto Coltivare Parole: metodi, risultati e curiosità di un’inchiesta etnobotanica Giada Bellia Prima di entrare nel vivo del contributo, occorre dare una breve definizione al concetto: il termine “etnobotanica” (ethnobotany), inteso a definire la disciplina come una scienza, fu coniato nel 1895 dal botanico tassonomista statunitense J. W. Harshberger per definire «l’uso delle piante dalle popolazioni autoctone e originarie di una certa zona»1. Possiamo quindi definirla come una scienza che, da un lato, si occupa di studiare le tradizioni popolari legate alle diverse modalità di utilizzo delle specie vegetali e, dall’altro, si occupa di censire, raccogliere, interpretare ed elaborare l’insieme delle informazioni che costituiscono la cultura popolare tramandata per lo più oralmente. In particolare l’etnobotanica si occupa di approfondire e studiare gli usi popolari delle specie vegetali nel campo fitoterapico, fitoalimurgico, veterinario, artigianale e ritualistico (solo per citarne alcuni). Questo fa sì che la materia entri in stretta connessione con le scienze naturali, pur mantenendo una forte relazione anche con discipline umanistiche come l’antropologia, la linguistica e la sociologia. Questa sua natura interdisciplinare risulta uno strumento utile per una più profonda lettura e comprensione del territorio, in quanto consente di studiare un medesimo aspetto da diverse prospettive, attingendo da differenti approcci scientifici e umanistici, permettendo così di evidenziare peculiarità culturali, storiche, naturali e sociali importanti per ricostruire il background delle popolazioni prese in esame. Gli scopi principali della ricerca etnobotanica sono perciò la raccolta e il censimento di queste tradizioni, al fine di conservarle come patrimonio ecologico culturale, e di mettere tale sapere al servizio della comunità. 1 FRANCHI, G.G. (2009), «Introduzione all’etnobotanica», in Punto Effe, n. 3, pp. 46-48 [disponibile online: http://www.puntoeffe.it/archivio/rivista/2009/03/46-47-48%20spazioverde.pdf]. Giada Bellia Per quanto riguarda l’Italia, dagli anni ‘50 fino ad oggi sono stati realizzati circa 150 studi etnobotanici, con un rinnovato impulso a partire dagli anni ‘70. Stando ai dati riportati dal C.E.T (Centro Etnobotanico Toscano) i lavori scientifici di carattere etnobotanico realizzati tra gli anni 70 e il 2006 evidenziano l’impiego di 1.492 specie vegetali (pari a circa il 20% della flora italiana) suddivise per vari settori d’uso. I lavori di ricerca relativi al Piemonte non sono molti e la maggior parte di questi risalgono alla fine degli anni ‘70: l’unico lavoro inerente alla nostra zona d’inchiesta risale al 1984, ed è l’articolo Flora popolare nelle valli Chisone e Germanasca di Pierangelo e Rosanna Carmiello Lomagno2. Metodologia di ricerca Per condurre un’inchiesta etnobotanica, dapprima si definisce e si caratterizza l’area geografica di ricerca; dopodiché si passa al rilevamento su campo dei saperi locali. Nel caso che presento in questo contributo, i dati raccolti sono il risultato di un’indagine sul campo svolta nell’arco di un anno, approssimativamente dall’estate del 2015 all’estate del 2016. Per la raccolta dei dati è stato usato un tipo di intervista “semi-strutturato”, basato cioè su una scaletta di domande preimpostate, che lasciassero però l’informatore libero di fare delle digressioni o di aggiungere delle informazioni non specificatamente richieste. Questa metodologia ha permesso agli informatori di ripercorrere liberamente i ricordi legati all’uso delle piante e, non raramente, di esulare anche dall’argomento, per riproporre frammenti e aneddoti della vita quotidiana di un tempo, che hanno contribuito a ricostruire il contesto sociale e culturale entro cui vanno a collocarsi i saperi relativi alle erbe. Tutte le interviste sono state registrate con un registratore, per poi essere trascritte all’interno di un database. Gli informatori sono stati scelti tra la popolazione dell’area d’indagine seguendo il criterio della residenza da più generazioni nel territorio oggetto di studio (o almeno da un tempo sufficientemente lungo per aver acquisito le tradizioni locali), dell’esperienza diretta con le pratiche indagate e della competenza attiva del dialetto locale (le persone individuate hanno come lingua madre il piemontese o l’occitano nella varietà locale). Sono state scelte 20 località d’inchiesta, ripartite tra le valli Chisone, Germanasca e Pellice, la cintura 2 CARAMIELLO LOMAGNO, P./CARAMIELLO LOMAGNO, R. (1984), «Fitoterapia popolare nelle Valli Chisone e Germanasca», in Annali Facoltà Scienze Agrarie Università di Torino, XIII, pp. 259-298. 66 | Scuola Latina di Pomaretto L’inchiesta etnobotanica pedemontana e la prima fascia di pianura, nelle quali sono stati intervistati un totale di 24 informatori, all’incirca metà uomini e metà donne, con un’età compresa fra i 50 e i 90 anni. Infine le informazioni raccolte sono state organizzate, analizzate ed elaborate in un database linguistico e uno etnobotanico. La sovrapposizione di dati analoghi, ovvero quando una stessa specie e gli usi relativi a questa, sono riferiti da molti informatori, riflette l’importanza di quella conoscenza nella cultura locale e riduce il margine di errore riguardante la sua veridicità. Per contro, è da rivolgere particolare attenzione a quelle piante o utilizzi citati da uno o pochi informatori in quanto il dato può riflettere una conoscenza etnobotanica importante, oggi in via di scomparsa. Durante l’indagine, sono state raccolte informazioni riguardo gli usi tradizionali delle specie locali spontanee usate a scopo medicinale e alimentare; tra queste sono state raccolte informazioni anche riguardo specie semi-spontanee, ovvero che includono individui nati spontaneamente a partire da vecchie colture come borragine, camomilla e calendula. Altri dati sono invece stati raccolti sulle pratiche agricole relative agli orti. L’indagine ha raccolto materiali riguardo a: - 86 piante spontanee (tra alimentari e medicinali) - 33 ortaggi - 14 fra alberi e arbusti Piante spontanee ad uso alimentare e/o medicinale Le specie usate a scopo alimentare sono risultate moltissime. La maggior parte delle erbe venivano (e vengono) raccolte all’inizio della primavera, appena cominciava a sciogliersi la neve ed era ancora troppo presto per poter disporre delle verdure dell’orto. Per quanto riguarda i punti d’inchiesta nelle valli, il largo utilizzo e l’estesa conoscenza di moltissime erbe è da ricondurre al fatto che, nei secoli, per fronteggiare le rigide condizioni della vita montanara (associate a periodi storici particolarmente difficili), si è sviluppato il sapere sul mondo naturale circostante. Questo sapere ha permesso di incrementare le risorse di cibo, integrandole con la raccolta di erbe spontanee, che vantano una lunga tradizione di utilizzo come alimenti sostitutivi. Coltivare Parole | 67 Giada Bellia Figura 1. Borrago officinalis Tra le piante più utilizzate in tal senso troviamo la borragine (Borrago officinalis), di cui si usavano foglie e fiori mettendole in frittata o nella minestra; lo spinacio selvatico (Chenopodium bonus-henricus), che veniva cucinato in padella come sostitutivo degli spinaci (essendo peraltro molto più ricco in sali minerali); i giovani getti del luppolo (Humulus lupulus), passati in padella e mangiati con l’uovo sodo; il polipodio (Polypodium vulgare), che è una piccola felce chiamata anche “liquirizia di montagna”, di cui i bambini sovente succhiavano la radice come un dolce (questa veniva usata anche come ingrediente 3 aggiuntivo della “birra di ginepro” ). Tra gli usi più comuni delle piante spontanee in campo alimentare abbiamo la preparazione di minestroni d’erbe, cucinati lungo tutto il periodo primaverile (quando non c’era ancora disponibilità di verdura); questi venivano considerati come depurativi primaverili, probabilmente per la presenza di molte erbe con tale proprietà (vitamine, sali minerali, polifenoli) come l’ortica (Urtica dioica), il tarassaco 3 PONS, A. (2012) «La biëero dë gënëbbre», in La Beidana, 74, pp. 88-92. 68 | Scuola Latina di Pomaretto L’inchiesta etnobotanica (Taraxacum officinalis), la barba di becco (Tragopogon pratensis), la silene (Silene vulgaris), lo spinacio selvatico (Chenopodium bonus-henricus), l’acetosa (Rumex acetosa) e molte altre. Oltre che le prime foglie e i giovani getti, nelle minestre e nelle insalate si potevano anche aggiungere infiorescenze di diverso tipo, dalle margheritine (Bellis perennis), alle violette (Viola tricolor), alle primule (Primula veris e vulgaris). Figura 2. Chenopodium bonus-henricus Era molto comune sia in Val Chisone sia in Val Germanasca la produzione della “birra di ginepro”, una bevanda a base di bacche di ginepro, preparata con 5 o 6 limoni, un po’ di vino rosso o bianco e zucchero. A seconda della ricetta famigliare potevano essere aggiunti altri ingredienti, come la liquirizia di montagna (Polypodium vulgare), la radice di angelica (Angelica sylvestris) e fiori di sambuco (Sambucus nigra). Il tutto veniva fatto fermentare in una damigiana per qualche giorno e se ne otteneva una bevanda dissetante, frizzante e rinfrescante. Coltivare Parole | 69 Giada Bellia Grande era anche la produzione di marmellate con frutti selvatici, considerate “medicamentose”: quelle ai mirtilli (Vaccinum myrtillus) venivano usate come anti-diarroico e per i problemi intestinali in generale: si diceva infatti avessero la funzione di ripristinare il normale transito intestinale. Quella al sambuco (Sambucus nigra) era invece considerata un depurativo e fluidificante del sangue e per questo andava assunta in piccole dosi. La maggior parte delle piante spontanee venivano raccolte per la cura e la prevenzione delle malattie delle vie respiratorie, particolarmente frequenti a causa del rigido clima invernale che doveva fronteggiare la popolazione. Altre piante erano largamente impiegate come rimedi ad azione depurativa e digestiva, la loro azione era dunque rivolta prevalentemente all’apparato gastro-intestinale. Infatti, all’annunciarsi della primavera o all’inizio del periodo autunnale, c’era la consuetudine, soprattutto da parte degli anziani, di “depurarsi” dalle tossine accumulate durante l’inverno o in previsione di questo. Per indicare l’azione delle erbe impiegate a tale scopo, gli informatori usano spesso i termini “depurare” o “rinfrescare” per intendere un’azione di drenaggio ed eliminazione delle tossine circolanti nel nostro organismo o accumulate durante la stagione fredda. I rimedi tradizionali sono semplici e di facile esecuzione: vi è una netta prevalenza della somministrazione per via orale dei rimedi, per cui i tipi di preparazione più adoperati sono infusi e decotti, anche se nella concezione popolare questi spesso non vengono distinti. Molto diffuso era anche l’uso terapeutico esterno; le parti vegetali venivano applicate direttamente sulla parte lesa, veniva impiegata soprattutto la pianta fresca, talvolta pestata con del lardo, per farne impacchi e cataplasmi, oppure molto diffusi erano anche gli oleoliti, i macerati e gli unguenti. Dato lo stile di vita incentrato sul lavoro fisico, era molto facile che, camminando e lavorando su terreni sconnessi o maneggiando coltelli, falci e attrezzi vari, si arrivasse a fine giornata con ammaccature, lividi e tagli. In questi casi era molto comune applicare sulla cute lesa impacchi di varie piante fresche, raccolte sul momento e pestate con del lardo rancido (probabilmente per veicolare meglio l’azione delle sostanze attive) a formare un impiastro, che poi veniva tenuto sulla zona dolente anche per più giorni. Le parti più adoperate a scopo medicinale sono risultate le sommità fiorite, seguite da foglie e parti sotterranee. Per i dolori articolari o muscolari, affezioni molto comuni tra i contadini, non mancava mai nelle case l’olio o la tintura di arnica (Arnica montana): venivano raccolti i capolini prima 70 | Scuola Latina di Pomaretto L’inchiesta etnobotanica che fossero sbocciati del tutto e poi messi nell’olio (oppure nell’alcool o nella grappa) e lasciati al sole per una ventina di giorni; in seguito la tintura veniva filtrata e riposta in un luogo fresco. A Bobbio Pellice veniva usata la pianta fresca mettendola come impacco sulle contusioni; a Bourcet si pensava che sfregare un fiore di arnica su una puntura di ape o di vespa servisse ad alleviare il dolore. Sempre a Bourcet si raccoglievano i capolini per venderli: si facevano seccare nella grangia per il grano, quindi si mettevano nei sacchi in attesa del passaggio di un negoziante di Fenestrelle che faceva il giro da tutte le famiglie: gli uomini avrebbero poi portato tutti i sacchi acquistati a valle, sulle slitte. A Prarostino non si usava perché si credeva facesse andar via la pelle. In pianura non si conosceva o, in caso contrario, la si comprava. Figura 3. Arnica montana Coltivare Parole | 71 Giada Bellia Soprattutto per lividi ed ematomi si usava l’assenzio (Artemisia absinthium): oltre alle proprietà digestive, stomachiche e anche febbrifughe (per la presenza di steroli ad attività antipiretica), questo era largamente utilizzato come vermifugo per i bambini. L’assenzio veniva assunto per via orale come decotto o tisana e lo si dava anche alle mucche e ai conigli per problemi di indigestione. La pianta veniva usata fresca, pestato con del lardo rancido, per fare degli impacchi per le slogature, per le contusioni o per le botte. A Bobbio Pellice, Cavour e Piscina l’assenzio fresco, pestato nel mortaio fino a creare una pastella, serviva per far spurgare gli ematomi e si diceva che, a dosi elevate, potesse essere abortivo. Sia a Bobbio Pellice sia a Fenestrelle si utilizzava per profumare le stalle (facendo l’îtubbë, le fumigazioni) dopo che si era tolto il letame: si prendeva la brace dalla stufa, e su questa venivano deposti dei rametti di assenzio, rosmarino e ginepro, in modo da diffondere un buon profumo e depurare l’ambiente. Per il suo gusto molto amaro, a Bourcet, gli uomini ne tenevano un rametto in bocca quando non potevano fumare: invece a Perrero e Prarostino, era sconsigliato darlo a uomini e bestie: dicevano che facesse andare fuori di testa. Figura 4. Equisetum arvense 72 | Scuola Latina di Pomaretto L’inchiesta etnobotanica L’equiseto (Equisetum arvense) veniva applicato fresco o dopo decozione, mediante impacco, sulle parti irritate o bruciate, grazie alle sue proprietà remineralizzanti. Inoltre veniva usato come diuretico e depurativo: pare infatti che la pianta aumenti la diuresi senza diminuire la quantità di sali minerali; inoltre la notevole quantità di silicio presente nell’equiseto aiuta a rinforzare le ossa e a mantenere l’elasticità dei vasi sanguigni e dei tessuti, migliorando la circolazione. La tisana rappresenta la forma migliore di assunzione, perché il silicio contenuto nella pianta è organo-solubile. È una pianta infestante, che cresce su terreni acidi e umidi, vegeta soprattutto al fondo dei campi ed è molto difficile da sradicare, perché ha la radice che corre sottoterra. A Prarostino veniva raccolta nel periodo di settembre, quando era già bella alta: si faceva seccare e poi si consumava in tisana. L’infuso veniva bevuto per le sue proprietà depurative e diuretiche, oppure veniva usato per fare dei pediluvi, nel caso di talloniti o dolori ai piedi. A Bobbio Pellice veniva anche usata come “spugna abrasiva” perché ricca di silice. Il lichene islandico (Cetraria islandica) è molto utile in caso di affezioni bronchiali, tosse grassa e catarro perché contiene delle sostanze emollienti, come la lichenina, che alleviano le infiammazioni dell’apparato respiratorio, sono espettoranti e donano sollievo nella tosse. Presenta anche piccole quantità di acido usnico, una sostanza con proprietà antibiotiche, attivo contro batteri e alcuni funghi, molto utile nel placare le infiammazioni. Nella zona di Pragelato veniva raccolto verso settembre/ottobre e lo si trovava solo su alcune cortecce, soprattutto quelle dei larici. Secondo le testimonianze di Prali e Perrero invece, lo si trova sulle rocce o in mezzo alle pietre, in zone dove la vegetazione è nulla o molto rara. A Pramollo e Prarostino lo si andava a raccogliere nelle zone del Grand Truc, sulla costa di Laz Arâ, fino ad arrivare alla Conca Cialancia. Quando lo si raccoglie è già allo stato secco, ma veniva lasciato seccare ulteriormente in sacchi di iuta o all’aperto. Si utilizzava in tisana o se ne faceva un decotto, lasciando bollire il lichene nell’acqua almeno un’ora, prima di buttare la prima acqua di cottura: per togliere un po’ del sapore amaro, è infatti necessario portarlo a ebollizione una seconda volta, dopo la prima cottura. Poi si poteva aggiungere miele, zucchero, della mela cotta per i bambini oppure, a Pragelato, la resina dei pini e dei larici (plegguë). Coltivare Parole | 73 Giada Bellia Figura 5. Cetraria islandica Della malva (Malva sylvestris) venivano utilizzate le foglie e i fiori: le prime servivano soprattutto a scopo alimentare, in minestra e o nelle frittate, mentre i secondi venivano fatti seccare e utilizzati durante l’inverno come infuso, ma anche sotto forma di impacchi per la pelle, come pediluvi e per lavaggi intimi. La malva viene usata in particolar modo come emolliente e per alleviare le infiammazioni. Ad esempio a Vigone si usa farla bollire in acqua e poi prenderne un bicchiere al mattino a digiuno, come antinfiammatorio. A Prali alle donne partorienti si facevano fare dei bagni nell’acqua di malva per favorire la dilatazione (inoltre la pianta serviva come calmante); a Prarostino si usava dare un beverone di malva, segale e acqua bollita alle mucche che avevano appena partorito per favorire la montata 74 | Scuola Latina di Pomaretto L’inchiesta etnobotanica lattea. La malva era anche considerata ottima per le infiammazioni del cavo orale: a Pragelato si curavano gli ascessi ai denti con impacchi di malva mentre a Luserna S. Giovanni, per le infiammazioni delle gengive, si prendeva un infuso di malva e fiori di borragine. Infine si diceva che la malva avesse effetti positivi per la cura delle emorroidi. Figura 6. Malva sylvestris Coltivare Parole | 75 Giada Bellia Ortaggi In passato, l’orto era fondamentale per la sussistenza delle società rurali, nelle quali spesso non si poteva contare su entrate fisse in denaro: le persone traevano dall’orto il necessario per sfamarsi e, nei casi di eccedenza, vendevano i lor prodotti per guadagnare qualche soldo. La maggior parte degli informatori dichiara di aver ereditato le conoscenze e le pratiche legate all’orto dai genitori e dai nonni seguendoli, sin da bambini, nelle varie fasi di lavorazione. In genere un tempo era la donna a occuparsi dell’orto nel poco tempo che riusciva a ritagliarsi dalle altre faccende domestiche e dal lavoro nei campi. La semina, la pulizia dalle erbacce, l’irrigazione e la raccolta delle verdure erano compiti affidati prevalentemente alle donne, aiutate dai bambini, ai quali erano affidati piccoli compiti specifici, come raccogliere e pulire le patate. L’uomo si occupava soprattutto della concimazione e dell’aratura del terreno, oltre che della falciatura del fieno e dei campi di cereali. In pianura, le prime fasi di preparazione della terra cominciavano già in autunno e, se il clima non era troppo umido o freddo, si tentava anche qualche semina invernale. A Piossasco la lavorazione dell’orto cominciava in autunno con la preparazione dei tarò: dei mucchi di terra e letame, rivolti a sud, sui quali si seminavano insalate, rape e ravanelli che venivano consumati durante l’inverno. Quella stessa terra veniva poi sparsa sul terreno vangato successivamente in primavera, e fungeva da concime assieme al letame. Normalmente si vangava la terra a mano o, se il terreno era ampio, si arava con l’aiuto di mucche o di asini, e si concimava con letame di vacca. A Luserna si usava il letame di coniglio perché si diceva che fungesse anche da pacciamatura e che riducesse lo sviluppo delle erbacce. La terra veniva lasciata a riposo durante l’inverno per poi cominciare a coltivarla in primavera. In montagna, al contrario, la stagione era molto più corta tanto che gli anziani di Prali dicevano che in montagna si avevano «eut mê d’uvèrn e cattre d’ënfèrn», ovvero otto mesi d’inverno e quattro d’“inferno”, alludendo al clima che impone di svolgere in pochi mesi tutti i lavori, dalla preparazione del terreno, alla semina, alla raccolta: sovente, i primi lavori non si cominciavano prima di aprile o maggio. Inoltre, al contrario di quanto avviene in pianura, i terreni in montagna sono pressoché sempre in pendenza, per cui il primo compito da svolgere, soprattutto per la preparazione dei campi, era quello di riportare la terra da valle a monte, con l’aiuto di una gerla. 76 | Scuola Latina di Pomaretto L’inchiesta etnobotanica Una volta preparata e concimata la terra, si poteva procedere con la semina. Questa si effettuava a file o a spaglio. Per la semina a file, a Rorà si faceva un solchetto in cui si spargeva un po’ di letame. È una tecnica utile soprattutto quando si utilizzano sementi molto piccole come gli spinaci e l’insalata, per i quali la semina a spaglio rischierebbe di deporre i semi troppo fittamente. La “semina a spaglio” consiste infatti nel gettare il seme, spargendolo per il campo, per poi ripicchettarlo con una zappa al fine di sotterrarlo completamente. Un altro fattore che i contadini tenevano ampiamente in considerazione era il ruolo della luna e delle sue fasi nelle varie attività agricole, in particolare nelle attività di semina, di potatura e di taglio della legna da ardere (ma anche per l’uccisione del maiale, a Prali). Si diceva che tutto ciò che doveva “uscire dalla terra” andava piantato con la “luna vecchia” (calante), mentre ciò che “rimaneva sotto terra” si poteva piantare con la “luna nuova” (crescente). Una differenza fondamentale dal passato a oggi è legata alle sementi. Un tempo si privilegiava l’autoproduzione dei semi da un anno all’altro, selezionandoli dalle piante più rigogliose. A Prali si conservavano e si riproducevano le sementi soprattutto di fave, fagioli, piselli e cipolle, ma anche di orzo, grano e grano saraceno. Talvolta, per far germogliare il seme più velocemente, a febbraio si preparavano dei quadretti di terreno (a Vigone) o delle cassette o delle latte di terra (Cavour) con i semi dentro, e si mettevano vicino alla stufa o nelle stalle. In seguito, a partire dal mese di marzo, si mettevano in terra. Oggigiorno, la maggior parte degli informatori si sono convertiti all’acquisto delle sementi e dei piantini da vivaio, considerandolo un metodo più rapido per la coltivazione, che lascia l’orto più ordinato e che ha permesso l’introduzione di nuove specie che un tempo non era possibile coltivare, come il finocchio a Pramollo. Ma tutti convengono sul fatto che la qualità degli ortaggi autoprodotti è nettamente migliore: le piante domestiche sarebbero infatti più resistenti a malattie e parassiti. Alcuni informatori perciò continuano ad autoprodursi le sementi di alcuni ortaggi, come le insalate, gli zucchini (a Luserna), le carote, la rucola e le costine (Pramollo). Fra le piante coltivate, un ruolo di prim’ordine spetta alla patata (Solanum tuberosum): le più grandi servivano per la cucina, le più piccole si davano ai maiali e le mezzane si mettevano in cantina in un mucchio separato o in una madia e servivano come seme per l’anno dopo. Le cantine erano molto fresche e, a seconda della stagione, era necessario portare le patate da seme in locali più caldi, in modo che il calore le facesse germogliare. In Coltivare Parole | 77 Giada Bellia valle, quando ci si spostava per trascorrere l’estate in alta montagna, veniva scavata una fossa in mezzo al campo e la si riempiva della quantità di patate necessaria fino alla raccolta successiva. Quindi la si ricopriva con della paglia, con delle assi brutte e con la terra perché non gelassero. La fossa doveva avere una certa profondità in modo che le arvicole non le mangiassero. Le patate erano la base della cena: si mangiavano lesse, in insalata con l’uovo sodo e il dente di leone tagliato fine. Oppure ancora con la toma, l’aioli (aglio, rosso d’uovo e olio) o con le lumache. Figura 7. Solanum tuberosum Per fare l’esempio di alcuni piatti tipici, a Pragelato si cucinava la glor ëd gratuzà (alle patate grattugiate si aggiunge un soffritto di cipolla e lardo, si mescola il tutto aggiungendo un po’ di latte e un uovo e poi si inforna) e la glor a talhon (patate a pezzi, senza soffritto ma con solo latte e uova, in forno con un po’ di burro); sempre con le patate si facevano le calhétta, una sorta di gnocchi di patate grattugiate (ben scolate, in modo da mondarle dalla fecola), con soffritto, olio e poca farina per legare. Per farle cuocere, si formano delle pallottoline 78 | Scuola Latina di Pomaretto L’inchiesta etnobotanica con l’impasto di patate crude grattugiate, che si passano nella farina e si cuociono in una pentola nell’acqua bollente per mezz’ora, tre quarti d’ora. Un’altra ricetta prevede di far bollire le patate, schiacciarle con sale, uovo e farina; si facevano passare nella farina e poi si bollivano. Erano piatti soprattutto per la festa, per la domenica. A Pramollo la patata viene usata per fare la minestra “Parmentier”, con porro e parmigiano; a Piossasco si potevano anche fare al latte: una volta fatte fritte si mettevano nel latte, sul fuoco, con uno spicchio d’aglio che faceva come una crema. La patata era anche utilizzata a scopo terapeutico: per esempio se si aveva bruciore agli occhi, o in caso di ustioni, si coprivano gli occhi o le bruciature con fette di patate (o con una patata grattugiata); infatti, l’amido del tubero ha un effetto lenitivo. Figura 8. Brassica oleracea. Foto di Daniele Bertin. In cucina, sono numerose anche le preparazioni a base di cavolo (Brassica oleracea); a Fenestrelle veniva addirittura usato per completare la cottura delle caldarroste: le castagne, tolte dal fuoco prima di essere completamente cotte, venivano avvolte nelle foglie di cavolo. Queste, mantenendo il calore e l’umidità, permettendo alle caldarroste di completare la cottura rimanendo morbide. Inoltre, le foglie di cavolo venivano usate anche a scopo Coltivare Parole | 79 Giada Bellia terapeutico per calmare e togliere le infiammazioni; queste avrebbero il potere di “togliere l’acqua” dalle “giunture” e dalle ginocchia. Le foglie venivano pestate fresche o dopo essere state leggermente scaldate, quindi si applicavano come cataplasmi o impacchi sulla parte dolente. A Fenestrelle, per conservarli, i cavoli venivano appesi a testa in giù in cantina, mentre a Carignano si mettevano in una buca scavata nella terra e si ricoprivano con il terreno smosso. Le rape (Brassica rapa subsp. Rapa) si conservavano scavando una buca nell’orto, oppure sotto il raspo dell’uva, in cantina, che le faceva diventare violacee e un po’ acidule. Quasi ovunque, la rapa viene utilizzata anche per preparare uno sciroppo: vengono prese crude, pelate, tagliate a fette, spolverate di zucchero (che penetra nella rapa) e sistemate in modo che ci sia un po’ di pendenza, così da permettere al brodo che si forma di raccogliersi nello stesso punto. Questo sciroppo ha proprietà emolliente, calma la tosse, il mal di gola e serve per la raucedine. A Vigone si usava anche per gli animali: si dava il brodo di rapa alle mucche quando non ruminavano e ai conigli quando non digerivano. Le carote (Daucus carota) si conservano in cantina, con le patate, in sacchi bucati appesi, oppure disposte a file e poi coperte di sabbia, che trattiene l’umidità. A Pragelato la sabbia si raccoglieva nel Chisone, perché era molto secca a differenza di quella comunemente usata dai muratori. Alberi e arbusti Dalla pianura alla montagna, non possiamo dimenticare di citare un altro elemento fondamentale del mondo vegetale: l’albero, estremamente utile per gli abitanti del mondo rurale. Gli alberi (e qualche arbusto), come le piante spontanee, assolvevano a innumerevoli funzioni nella vita quotidiana, oltre ovviamente a fornire legna da ardere e da costruzione. Si prediligeva il legno di frassino (Fraxinus excelsior) per la realizzazione di manici e attrezzi agricoli, grazie alla sua robustezza, paragonabile a quella dei rami di salice. Questi, grazie anche alla loro flessibilità, si prestavano a legare le fascine di legno e le viti, ma anche per essere intrecciati a formare delle ceste, delle cavannhe e delle cabasse (gerle). Il salice (Salix alba, S. fragilis, S. viminalis) non era molto diffuso nelle aree d’inchiesta: in alta valle, infatti, si tendeva a coltivarlo, mentre in pianura ne esistevano svariate specie spontanee, il che rendeva il suo impiego molto più vario ed esteso. Nelle località di montagna si 80 | Scuola Latina di Pomaretto L’inchiesta etnobotanica impiegava soprattutto il legno di larice (Larix decidua) per la costruzione di assi e travi per le balconate e le travature dei tetti; inoltre si tratta di un ottimo legno da ardere. Ma l’utilità dell’albero non si esauriva in ambito artigianale: ad alcune parti delle piante era infatti attribuita un’azione terapeutica. Ad esempio le bacche di ginepro (Juniperus communis) e di rosa canina (Rosa canina) venivano raccolte in autunno e fatte seccare, per poi essere consumate in tisane, soprattutto durante l’inverno, per alleviare tosse e raffreddore. Nella maggior parte delle località montane si utilizzavano anche varie parti del larice contro i malesseri invernali: ad esempio le pigne e i giovani getti primaverili venivano mischiati con lo zucchero per ricavarne uno sciroppo contro la tosse. La resina (chiamata pleggue a Pragelato) poteva essere usata sia come cicatrizzante per tagli e screpolature, sia disciolta in acqua bollente, contro la tosse e il catarro. Figura 9. Bosco di Larix decidua. Foto di Aline Pons. Coltivare Parole | 81 Giada Bellia Anche le foglie potevano costituire un rimedio terapeutico. Per esempio, le foglie del noce (Juglans regia) avevano disparate forme d’applicazione: a Luserna venivano poste come impacchi per le articolazioni dolorose; a Perrero si aggiungevano all’acqua bollente per preparare pediluvi in caso di geloni; a Piscina, in caso di mal di denti, si avvolgeva un impacco di foglie di noce al braccio opposto rispetto al lato dolente della bocca. Infine alcune parti, come fiori e frutti, venivano consumate come alimenti supplementari, come contorno dei pasti principali, o costituivano delle alternative sfiziose ai dolci. Un po’ dappertutto si raccoglievano fiori di sambuco (Sambucus nigra), che venivano imbevuti nella pastella per ottenere delle frittelle dolci. I gherigli macinati e pressati della noce venivano spremuti per farne l’olio e a Perrero: lo scarto che rimaneva veniva usato come condimento nell’insalata. Una breve panoramica per mostrare come l’eterogenea applicazione dell’albero e delle sue varie componenti nei contesti di primaria necessità, dalla costruzione, all’aspetto nutrizionale e medicamentoso, lo rendano complementare agli impieghi delle piante spontanee commestibili e medicinali e agli ortaggi e dunque indispensabile per il sostentamento degli abitanti di pianura come di montagna. Conclusioni Negli ultimi quarant’anni anni si è assistito a un notevole decremento delle conoscenze relative al mondo agricolo e a un progressivo abbandono della pratica di raccolta di specie spontanee in tutta l’area d’inchiesta. Infatti, a partire dagli anni ‘60, l’economia è radicalmente mutata, in pianura come in altura. Come riportano le testimonianze degli informatori, in pianura i sistemi a “ciclo chiuso” che caratterizzavano la vita in cascina, dove tutto il necessario (dal cibo, agli attrezzi, ai vestiti) veniva autoprodotto, sono stati rapidamente soppiantati dall’avvento dell’agroindustria e della chimica, con l’introduzione delle grandi estensioni di monocolture (in particolare di mais), che ha visto il rapido abbandono di pratiche agricole e di colture tradizionali, come la vigna, la canapa e i bachi da seta. Inoltre, lo sviluppo di pratiche agricole più sofisticate e il largo utilizzo di fertilizzanti chimici e pesticidi, ha ridotto la presenza di svariate piante spontanee commestibili e medicinali, contribuendo alla riduzione della biodiversità vegetale. 82 | Scuola Latina di Pomaretto L’inchiesta etnobotanica In montagna, l’impatto maggiore è stato determinato dal massiccio spopolamento di borgate e paesi di alta valle e dall’abbandono delle attività agricole e pastorali a favore delle nascenti attività industriali nelle basse valli e nel Torinese. Questo ha contribuito alla concentrazione della popolazione nei centri abitati del medio-fondo valle, dove risulta più difficile l’approvvigionamento delle erbe mangerecce e medicinali, che come conseguenza più immediata ha portato l’abbandono e la perdita di tutto il bagaglio di saperi ad esse collegato. Inoltre l’ampliarsi del commercio e l’aumentato benessere economico hanno introdotto nella dieta della popolazione frutti e ortaggi esotici e gustosi, oltre ad un consumo maggiore di carne, che hanno reso marginale o superfluo l’approvvigionamento di erbe spontanee e la necessità di autoprodursi i propri ortaggi. Per concludere si può avanzare una piccola riflessione, alla luce di quanto scritto, sul ruolo dell’etnobotanica nell’esplorazione dell’universo dei saperi locali tradizionali. Uno dei vantaggi legati alla disciplina è che essa può costituire un’importante chiave di lettura “rivelatrice” dell’ossimoro natura-cultura e selvaggio-domestico4. Essa può dunque divenire un’utile strumento di dialogo per svelare le dinamiche delle relazioni tra l’uomo e le rappresentazioni e le pratiche legate al mondo vegetale, ma anche tra gli uomini stessi, ossia la comprensione di una data società può passare attraverso la comprensione preliminare delle interazioni uomo-pianta. Mobilizzare l’etnobotanica, tra le diverse etnoscienze5, può costituire uno strumento per ricostruire e cambiare punto di vista, un approccio e uno strumento metodologico per affrontare diversi tipi di questioni, come le trasformazioni di una società nel corso del tempo, i conflitti in materia di gestione e organizzazione del territorio ma anche la comprensione di una data cultura e i suoi sistemi di rappresentazione 4 Per un approfondimento, si legga almeno DESCOLA, P. (2010), « Diversité des natures, diversité des cultures », Bayards Editions, Montrouge. 5 L’etnoscienza è quella disciplina che studia l'organizzazione delle conoscenze nelle diverse culture. Dall’etnoscienza nascono diverse sub-discipline quali l’etnobotanica. Per una bibliografia essenziale e/o relativa alle Valli Valdesi si vedano AVONDO, G.V./ LAURENTI, P. (1996), Malattia e salute. Medicina popolare e ufficiale nelle valli del Pinerolese tra Ottocento e Novecento, Torino, Priuli&Verlucca; GUARRERA, P.M. (2006), Usi e Tradizione della flora italiana. Medicina popolare ed etnobotanica, Roma, Aracne Editrice; MARTIN, G.J. (2007), Ethnobotany. A methods manual, London/New York, Earthscan; PIERONI, A./GIUSTI, M.E. (2009) «Alpine ethnobotany in Italy: traditional knowledge of gastronomic and medicinal plants among the Occitans of the upper Varaita valley, Piedmont», in Journal of Ethnobiology and Ethnomedicine, 5, p. 32. Coltivare Parole | 83 Giada Bellia e di interazione con l’ambiente circostante. Questi aspetti hanno la funzione primaria di poterci mostrare come le diverse “modalità d’uso della natura” possono essere interpretati come uno specchio di un dato momento di una data società. Le immagini che ne risultano forniscono dei reperti particolarmente utili al nostro tempo, dove la questione della relazione all’ambiente, inteso come luogo del divenire dell’umanità, ma anche come spazio creatore di culture e saperi, acquista ogni giorno più d’importanza. L’etnobotanica vuole e può dunque aiutarci ad una costruzione moderna della nostra relazione alla natura. 84 | Scuola Latina di Pomaretto Qualche etimologia di fitonimi raccolti nel Piemonte occidentale Piero Andrea Martina Lo storico della lingua Gian Luigi Beccaria apre il suo libro I nomi del mondo con una nota pessimistica (anche se il libro non lo è) e riferendosi al lessico zoologico soprattutto scrive di come «l’agonia e la morte delle cose cammini di pari passo con l’oblio del nome che le designa» (BECCARIA 1995: 3 e ss.). Immagini di malattia, di guerre, di morte sono tutt’altro che infrequenti nel lessico della linguistica; e d’altro canto, i grandi maestri della disciplina in questi termini si sono espressi, basti il caso di Benvenuto Terracini (1957). L’immagine è bella, efficace e serve perfettamente a descrivere l’oggetto di studio, la realtà linguistica, un poco meno la realtà che i nomi designano (le cose non sempre agonizzano e muoiono). Essa comporta anche un’implicita presa di posizione verso un atteggiamento soggiacente, pur se accantonato, a certa indagine linguistica, quello della raccolta, conservazione e spiegazione di forme desuete o rare. Senza attardarsi su questo spirito leggermente autunnale di riesumazione di cadaveri linguistici, andrà comunque riconosciuto il ruolo positivo che tale atteggiamento ha ancora in molte ricerche. Rincuorandoci del fatto che alcune parole scompaiono ma non tutti gli oggetti che esse denominano lo fanno, cercherò di formulare alcune proposte etimologiche a forme raccolte durante la ricerca di Coltivareparole58. Verbasco Tasso-barbasso Tra i nomi del Verbasco raccolti con il progetto Coltivareparole59, le forme di Fenestrelle, Roure, Prali, Perrero e Pramollo possono riconoscersi nel tipo ‘coda di volpe’, che disegna 58 Sul progetto Coltivare Parole si veda la presentazione di Aline Pons in questo volume. Le forme sono qui riportate rispettando le due grafie differenti (una per i punti di parlata occitana, una per quelli di parlata piemontese) scelte in seno al progetto. 59 Nelle località di parlata occitana: Pragelato: lavasó(n); Fenestrelle: couvoùëlp; Roure: couà-voulp; Prali: couvoùëlp; Perrero: counvolp; Pramollo: coumvoùëlp; Rorà: fiou d’ nëvioun; Bobbio Pellice: lëvioum. In quelle di parlata piemontese (grafia ATPM): Villar Perosa: cua d’ vulp (con la precisazione: «così la chiamano in Pier Andrea Martina l’area di diffusione piuttosto compatta nelle valli Chisone e Germanasca; il nome è conosciuto anche dall’informatore di Villar Perosa, che precisa essere non del proprio paese ma genericamente «di montagna». Il tipo è largamente diffuso (cf. ad es. AIS 626 Verbasco, punto 152 Pramollo; ALEPO I-II-232 Verbasco tasso-barbasso) e fa evidente riferimento all’infiorescenza gialla della pianta; si dovrà prestare attenzione al fatto che la coda della volpe è un oggetto con una propria identità, anche culturale, autonoma rispetto all’animale (VAN DEN ABEELE in stampa). Accanto a questo tipo, a Rorà è raccolta la forma fioû d’ nëvioun, che si accosta alle forme lëvioum (Bobbio), lüviun (Barge). La forma trova conforto in analoghe piemontesi e lombarde (le due carte sopra citate bastano a disegnare un’area di diffusione vasta e compatta). Le forme nëvioun, lëvioum, lüviun derivano da una base AVEDŌNE attestata dai glossari «UERUASCUM... id est AUEDONE» (cit. in BERTOLDI 1933: 332), assai più evidente in forme come fyúr d avyúƞ (grafia semplificata), attestata dall’AIS a 270 Cozzo (PV, nella Lomellina occidentale); la forma con laterale iniziale è l’esito della concrezione dell’articolo. Seguendo Bertoldi, la voce sarebbe uno dei pochi termini gallici (ma forse invece ligure, pregallico) attestati, anche se tardivamente. Per questa pianta, l’unica forma che resiste a questo tipo di spiegazione è quella raccolta a Barge, con iniziale lü- per cui si può pensare ad un incrocio o ad un accostamento con la base LUP-, di incerta origine, ma forse la stessa che ritroviamo, tra le denominazioni del luppolo, nelle forme lüvertin60 opposta a rovertin, revertígol... montagna»); Bibiana: erba d’ san Per; Barge: lüviun («c’è chi lo chiama così, sü da lì»). Nelle altre località non abbiamo registrato una risposta. 60 La discussione sui nomi del luppolo (Humulus lupulus) rimane aperta, nonostante le puntualizzazioni di ZAMBONI in PELLEGRINI-ZAMBONI 1974: 47-56 e ZAMBONI 1981: 49; cf. da ultimo la voce nel REP. Pur come soluzione provvisoria, e accogliendo il *REVOLUTICEU- / REVOLUTICULU di Zamboni, proporrei di recuperare della vecchia idea di SALVIONI 1900, con l’aggiunta di SALVIONI 1902: 29 (*LUPURTICA, LUPURTICEU-, contro cui già BERTOLDI 1928, con rinvii) una base LŪP-, e quindi in questo senso anche eventualmente LUPUS, non tanto l’animale ma il ‘luppolo’, il cui etimo rimane oscuro. A questo proposito, cf. la sintesi del DELI, s.v.: «Lat. tardo e mediev. lŭpulu(m), attest., prima che in Mettheus Silvaticus (sec. XIII), in un glossario dei secc. X-XI. È un der. di lŭpus, un omofono di lupus ‘lupo’, ma molto prob. di altro sign. e di altra orig.». La quantità breve della u tonica di lupulum e lupus andrà interpretata anche attraverso l’alternanza tra forme LŬPUS (attestata) e *LŪPUS (presupposta dalle forme volgari) per indicare il ‘lupo’. A margine noto che il DELI non ipotizza un avvicinamento, pure possibile, tra “luppolo” da un lato e “lupino” («...ma sostantivato già in Catone, per indicare la ‘pianta’, che divora», s.v.) e “lupa” («‘carie del tronco e dei rami dell’olivo’» DELI, s.v.) dall’altro. 86 | Scuola Latina di Pomaretto Qualche etimologia di fitonimi All’etimo ILLU(M) AVEDONE(M) andranno ricondotte anche forme come ɛrba du leuŋ (raccolta a Chianocco dall’ALEPO, cit.), fjur d leuŋ / liuŋ (Condove, Coazze, ibid.)61, dove in lëviun (più che lüviun), risemantizzato, è sentito ‘leone’; probabilmente una “forma ponte” può essere riconosciuta in kúa d leúƞ di Bruzolo (AIS, p.to 142), inspiegabile per la morfologia del fiore ma comprensibile in quanto tipo di passaggio tra la ‘coda di volpe’ e il reinterpretato ‘(fiore di) leone’. Dalla genzianella all’acetosella Dalle code di volpi e leoni ai cuculi. Per la genzianella sono frequenti in tutta Italia i tipi ‘calze del cuculo’, ‘braghe del cuculo’ (cf. PENZIG 1924: s.v.), spiegati normalmente (PELLEGRINI-ZAMBONI 1982, per esempio) con l’accostamento alla zampa calzata dell’uccello; caratteristica che sarebbe ravvisata nel fiore, chiuso o appena aperto, della genzianella, anche se credo che nella motivazione possa aver giocato un ruolo il colore tendente all’azzurro del piumaggio del maschio. In ogni caso a Roure, Pramollo e Prarostino il nome è semplicemente ‘cucù / cùcu’, “cuculo” 62, che offre il destro ad alcune considerazioni di carattere più generale. Senza includere nell’analisi gli altri tipi riscontrati, sembra che si oppongano due sottotipi, che esemplificano due differenti tipologie denominative: da un lato un sintagma complesso costituito da due nomi (nome con un determinante che aiuta a identificarlo), cioè capo di abbigliamento + animale; dall’altro l’animale soltanto. Per cui ci si potrebbe chiedere se il fiore, la pianta, richiami le braghe o il cuculo, se cioè siano le braghe o il cuculo ad essere l’elemento forte, saldo della denominazione. La difficoltà nel dare una risposta è aumentata dal fatto che i casi di fitonimi con ‘cuculo’, proprio per la straordinaria presenza dell’animale nella fitonimia (se ricorre sempre, non è indizio di identificazione), non sono dei più semplici63. 61 CAMISOLA (1854) registra «erba d’ luvion, erba d’ lion» come forme per il Verbasco. Ringrazio Alberto Ghia della segnalazione. 62 Pragelato dzensanél; Fenestrelle gensanëtta; Roure coucuc; Prali braio d’ cucuc; Perrero braia d’ cucuc; Pramollo cucuc; Prarostino coucouc; Rora peiroulèt; Villar Perosa cause dël cucù; Bobbio Pellice pîrourèt; Bibiana giansanin; Barge e Vigone gensianéla. 63 Nell’analisi dei fitonimi si è tenuto conto delle denominazioni del cuculo nell’area, sulla base di ALEPO III-I-97 Cuculo. Coltivare Parole | 87 Pier Andrea Martina Un’altra erba “del cuculo” è l’acetosella, Oxalis acetosella, i cui nomi spesso si sovrappongono a quelli dell’acetosa, Rumex acetosa, pur nella grande diversità delle due piante. Si riassumono le denominazioni raccolte, per osservare il costituirsi di microaree di diffusione delle stesse. Per l’acetosa (cf. ALEPO, I-II-191): - l’area piemontese costituita da Barge, Cavour, Cumiana, Villar Perosa è concorde nella nominazione galüciu, tipo ‘galluccio’ che è un altro nome non infrequente per diverse specie: qui la ragione sottesa al nome potrebbe essere il fiore dell’acetosa che richiamerebbe la cresta del gallo (così anche il REP: s.v.); - l’area occitana attesta un altro tipo, nelle forme sitoura a Bobbio, eisioula a Rorà, azioula a Luserna, che scende fino a Bibiana arzioula (che conosce però pure galüciu, èrba brüsca), Prarostino zhoure, Perrero asìtoula, con il sottotipo Pramollo e Roure asuitta, Prali asouitto. Tutte queste forme sembrano derivare da una base ACĬDŬLA, con evidente riferimento al gusto della pianta. Per l’acetosella (per cui cf. ALEPO, I-II-179) si ha sovrapposizione delle nominazioni di acetosa e acetosella a Perrero, Rorà, Bobbio, Bibiana. Molti informatori non la riconoscono o non ne ricordano il nome (Barge: «l’è n trafuièt»). Interessanti le risposte di alta Val Chisone e Germanasca: ad es. Prali offre il tipo èrbo dâ cucuc, ‘erba del cuculo’, denominazione già in PONS-GENRE 1997. Allargando lo sguardo oltre i confini delle Valli Valdesi, repertori e atlanti attestano per l’acetosella in località pedemontane di parlata provenzale, francoprovenzale, piemontese, ma pure della Lombardia, del Veneto e del Friuli, i tipi ‘pane del cuculo’, ‘erba del cuculo’ (PENZIG, s.v., AIS 628; cf. pure AIS 627 Acetosa), in qualche caso forse anche su spinta di forme galloromanze d’Oltralpe, o del francese pain du coucou. Dall’osservazione dei tipi si apprende che la sovrapposizione delle due piante nella fitonimia non è infrequente, e se pure in una medesima località esse vengono distinte, i tipi lessicali che si ritrovano sono sempre gli stessi. Senza attenzione alla loro distribuzione, ne elenco i principali: ‘erba / pane cucco /del cuculo’, ‘bruschetta’ ‘erba brusca’ e per antifrasi ‘erba dolce’, ‘pane e vino’, ‘pan del cielo’ (cui forse andrà legato il tipo ‘erba del signore’, che qui lascio da parte). Zamboni (1981: 57) lega molti di questi al «mondo infantile, perché 88 | Scuola Latina di Pomaretto Qualche etimologia di fitonimi oggetto di giochi o ricercate in quanto buone a mangiarsi»64; si potrebbe aggiungere, per tipi come ‘pane e latte’65, la motivazione dello scherzo: “assaggia, che è buona!”. Sicuramente da porsi accanto a questi ultimi tipi, e apparentemente molto vicino al tipo di Prali, è quello di Fenestrelle pan d’ uzuèl: confortati dalla denominazione di Prali e dai nomi raccolti nel Nord Italia, si potrebbe essere portati a tutta prima a interpretare il tipo come ‘pane d’uccello’66, confortati dalla forma pan d’ûzèl attestata da PONS-GENRE 1997 per la poa alpina e l’acetosella. Forme simili sono raccolte dall’ALEPO a Novalesa e Giaglione67. Il tipo pone tuttavia altri problemi: in ‘erba del cuculo’, potrebbe sembrare che ciò che più definisce l’acetosella sia il pur generico ‘erba’ e non ‘cuculo’; già nel tipo ‘pane del cuculo’ ci accorgiamo che è ‘cuculo’ l’elemento forte. Il tipo ‘pane d’uccello’ riporterebbe nel dubbio le nostre certezze, facendo volare via il cuculo in favore di un generico uccello, di cui l’erba sarebbe pane. Uno sguardo al lessico fitonimico popolare ci aiuta: ‘pane’ è un elemento ricorrente in questa lingua speciale per indicare una proprietà della pianta. Zamboni (1981: 43) ricorda che «il primo, grande impulso [motivazionale denominativo] deriva dalle qualità pratiche della pianta, che può essere utile (medicinale od officinale, commestibile, foraggera, ecc.) o inutile, se non addirittura nociva». La spiegazione che propongo per pan d’uzuèl è più semplice. Allargando lo sguardo, il nome francese dell’acetosa è oseille, tipo compatto che si ritrova in tutte le regioni alpine d’Oltralpe, pur con altre forme presenti a macchia di leopardo, per cedere solo nelle Alpi Marittime di fronte a ‘agretta’ (cf. ALF, 954 Oseille). L’etimo è problematico: oseille è stato spiegato (dal FEW, ad es.) come un incontro tra ACIDULA, che abbiamo visto essere produttivo, e OXALIDE (oxalis, oxalidis), che ritroviamo nel nome scientifico dell’acetosella, 64 «è per es. il caso dell’‘acetosa’ (Rumex acetosa L.) e dell’‘acetosella’ (Oxalis acetosella L.), che accanto al nome risalente ad acidula [i breve, u breve], REW 104, cfr. ven. sett. (agord.) zédola, mostrano diffusamente pan e vin, pan e lat, pan e mei: i ragazzi amano infatti succhiarne le foglie e il fusto, di gusto acidulo» ibid. 65 Lo stesso tipo ‘pane e latte’ (insieme con ‘pane e cacio’) è utilizzato per denominare la donnola, ed è stato messo in relazione con (testimoniati) rituali propiziatori: cf. Rohlfs (1931), Bambeck (1984), Alinei (1986), Caprini (2015). Difficile definire i termini di questo possibile rapporto. 66 La difficoltà fonetica ([wɛ] o [we] / [e] o [ɛ]) si potrebbe accantonare date le forme dittongate valsusine: si vedano ALEPO III-I-53 Uccello, località di Novalesa, Giaglione, Mattie, Chianocco, Susa. 67 Rispettivamente paŋ d yzwel e paŋ d ɛizwel, entrambi interpretati ‘pane degli uccelli’ nei materiali di lettura della carta e spiegati in quanto «dal tipo pane (del) cuculo ha probabilmente avuto origine il tipo pane degli uccelli». Coltivare Parole | 89 Pier Andrea Martina e che è grecismo: oxalís ‘vino acido’. Alessio (1950: 191) metteva in discussione l’etimo, riportando oseille a un oxýs greco (‘acido, acre’), ma, sulla scorta di denominazioni latine medievali oxygalla, oxigilla, ponendo alla base un OXYGALA ‘latte acido’. In realtà si può anche supporre che le due forme mediolatine attestate siano retroformazioni di tipo dotto da una forma popolare. Poco importa qui se partiamo da ACIDULA + OXALIS, da OXIGALA o da un semplice ACIDULA (cui credo sia da aggiungersi comunque ACETULA, che è alla base del nome italiano e che viene foneticamente a confondersi con ACIDULA): è in ogni caso riconosciuta l’unità del tipo galloromanzo (‘francese’ con le sue realizzazioni provenzali), cui Alessio riconduce le denominazioni riprodotte da Penzig per Oulx (oseglie) e San Remo (oseju). Per comodità definisco questo tipo ‘oseille’. A quest’ultimo mi pare si possa legare anche il tipo che provvisoriamente era stato definito ‘pan d’uccello’, dove quindi gli uccelli non c’entrano niente: al nome di tipo ‘oseille’, evidentemente linguisticamente opaco (anche se derivante da ACIDULA), si giustappone un ‘pane di’. Il nome potrebbe poi effettivamente esser stato reinterpretato come ‘pane d’uccello’, probabilmente sotto la spinta del vicino ‘pane del cuculo’. Senza andar troppo oltre, sempre a questo tipo si potrebbe legare quello che abbiamo definito, e che è da intendersi, come ‘pane del cielo’. Un nome naturalmente deve trovare le proprie ragioni, e per imporsi e per continuare la sua vita: il fatto che ‘pane del cielo’ sia supportato da ‘pane e vino’ e ‘pane del signore’ può essere una di queste, ma quale delle denominazioni preceda è ben difficile dire. Ad ogni modo mi pare sia plausibile riconoscere dietro i ‘pani del cielo’ e i ‘pani d’uccello’ la nostra base. È questo un caso interessante anche dal punto di vista geolinguistico, che mostra quale possa essere l’interesse di una ricerca come quella condotta. Un’inchiesta a maglie fitte può andare a scovare forme che, in certi casi, possono ridefinire le aree di diffusione di una base lessicale e permette, a volte, di individuare “forme ponte” effettivamente usate68. 68 Si vedano ad esempio le forme raccolte a Pragelato e Fenestrelle per il mirtillo: laz aieddra e laz eidra. Esse sono riconducibili alle denominazioni areza, azera e simili, il cui etimo è stato oggetto di discussioni. Il LEI (76 ss.), seguito dal REP (73-4), propone una derivazione dal *ALISA con slittamento semantico da ontano a mirtillo (che sarebbe a sua volta da una base indeuropea * EL- ‘ontano, olmo, ginepro’). La forma di Fenestrelle pare invece ridare peso all’ipotesi di BERTOLDI 1924-5, che riconosceva una derivazione da ATRA, che ha il pregio di unire le denominazioni piemontesi a quelle d’Oltralpe (prov. airo, fr. airelle) e soprattutto di agganciare il nome non alla pianta ma al frutto, nero appunto. Sul mirtillo si veda soprattutto CUGNOMANTOVANI 2010, nello specifico sulla base ATER: 168; sul prelatino *alisa: 170-171; da quest’ultima, in linea con i dizionari etimologici, le autrici fanno derivare il piemontese arëza. 90 | Scuola Latina di Pomaretto Qualche etimologia di fitonimi Non sono in grado di liberare i cuculi dalla gabbia fitonimica. È ben difficile dire che ‘pan del cuculo’ tenga dietro a ‘pan d’uccello’, dal momento che pare proprio il tipo cuculo, legato alle acetosa/acetosella ma anche ad altre piante, a indirizzare il riconoscimento nel tipo ‘oseille’ di un uccello. Quanto al ‘cielo’, non è così facile a dirsi. Ci sarà chi riconoscerà nel cuculo un animale totemico (erbe dei cuculi si trovano in tutta l’area europea, dalla Polonia alla Francia). In altri tempi dietro al ‘cuculo’ così ricorrente nel nome di fiori si sarebbe riconosciuta una base, magari alpina, comunque un elemento di sostrato che aggalla qua e là in diversi nomi e che viene reinterpretata sulla base del nome dell’uccello. Entrambe le ipotesi sarebbero di comodo, rinunciando a un’effettiva spiegazione. Iperico I nomi dell’iperico raccolti sono quasi tutti noti e poco problematici. La maggior parte è riconducibile ad alcuni tipi lessicali, accomunati da una medesima motivazione che fa riferimento una caratteristica della foglia, traforata: ‘millepertugi’ (in Val Pellice), che è il tipo attestato, con alcuni sottotipi, in tutta la Francia (con poche eccezioni), ‘traforella’ (nelle valli Chisone e Germanasca, ma anche a Bibiana e a San Giovanni come seconda forma); una motivazione che sta alla base anche del nome scientifico e di molte denominazioni in lingue europee (si veda per l’italiano PENZIG 1924: 237-238). Solo a Fenestrelle l’informatore dà il nome il nome matagon, forma di cui non ho trovato paralleli tra le denominazioni repertoriate della pianta. Nonostante la diversità botanica, un parallelo si potrebbe registrare con la denominazione del giglio martagone, matagoun, (ALEPO, I-ii-155); per questa pianta ricorrono (Ingria, Lemie) denominazioni del tipo ‘erba di san Giovanni’, per cui una sovrapposizione con le denominazioni dell’iperico non pare azzardata, pur rimanendo oscure le possibili ragioni. Alcuni matagon / matagoun esistono in area provenzale. Per il Tresor dou Félibrige (MISTRAL 1878: s.v.) «matagot, matagoun» è il «chat sorcier, chat qui enrichit ceux qui prennent soin de lui, selon une croyance populaire; follet, lutin», con alcuni esempi di uso. Sfogliando il FEW si ritrovano alcune forme simili, anche se ricondotte a basi lessicali diverse (v. mandragoras, VI/1, 158): Nfr. martagon m. “mandragore” (1610), hbret. herbem atagon RTrP 7, 158, berr. herbe matago, martigo, montago, Allier herbe de matagon, blim. Dord. motogò, land. môdagò Mt; centr. herbe Coltivare Parole | 91 Pier Andrea Martina matagon “rossolis”, matagon, herbe matagot, matagot Allier herbe au matagot, matagot, Figeac erbo del matago; Cher matagon “orobanche”; Brive matago “ophioglossum vulgatum” RlFl 11, 86. RlFl 8, 12,3, 164; 2, 198. Il francese conosce un matagot nel senso di «homme excentrique, original, souvent grotesque» (TLF, s.v.); per il TLF il termine sarebbe un’invenzione di Rabelais, «peut-être de magot1 “sorte de singe” et “homme laid” par rapprochement entre les gestes des moines prêcheurs et ceux des singes», pur aggiungendo l’opinione contraria del FEW (VI: 382b) e il fatto che «il est à noter également que dans certains parlers région. matagot peut désigner la mandragore [...] et «un lutin, un esprit follet, un être imaginaire», con rimando a FEW, VI: 523b. Sempre il FEW (XXI: Inconnus, 468, aliment) attesta a Nizza un matagoun «aliment grossier et lourd» quello che noi diremmo un ‘mattone’ «pièce d'étoffe mal cousue, formant épaisseur sur la pièce principale». Questo secondo senso, si può considerare una definizione più vasta del grumo che si forma quando chi rammenda non è particolarmente abile nel suo lavoro. È ancora il FEW a lemmatizzare, sotto mattus ‘niedergeschlagen’, ‘treurig’ (‘triste, abbattuto’), ma anche ‘feucht’ (‘umido’), che sta alla base dell’antico e mediofrancese mat ‘abattu, vaincu’, ‘accablé’, ‘sombre’, il guascone matocan “uccisore di cani” (che sarà però forse da matar + 69 CANEM ), e forme simili a quelle che abbiamo già trovato: erbo di motogò “mandragola”, matagó “lutin”, matagot “êtres immaginaires”. Il problema maggiore qui mi pare sia nella base MAT- su cui si hanno poche certezze. Incerti sono gli etimi di matto ‘folle’, ma pure di mattone (cf. DEI e DELI, s.v.). L’unico matto sicuro parrebbe lo scacco matto, che è schietto arabismo, passato con il gioco in Europa (e che generalmente non si pone in parallelo con la nostra base; cf. PELLEGRINI 1972: 96). Etimologia italiana e francese hanno proceduto sempre su binari paralleli, e così non ci sono nei dizionari dei ponti tra il lat. med. mattus alla base del nostro matto, e il mattus col senso di ‘triste, abbattuto’ ma anche ‘umido’, scelto come base dal FEW. Se si chiamano in causa i mattoni è per il mediofrancese matte ‘latte cagliato’, e simili; ma anche la forma maton, già attestata nel Centro e poi produttiva nel Nord soprattutto e nell’Est 69 Su matar, cf. la voce nel DCELC (290b-293b). 92 | Scuola Latina di Pomaretto Qualche etimologia di fitonimi della Francia, nel senso di ‘massa di latte cagliato’, e di ‘grumo di latte’. A Varennes e in altre zone maton è una sorta di torta o pane di forma rotonda, di noci; ma che ha anche varianti col fromage blanc. Avvicinare il nome dell’iperico di Fenestrelle e del giglio martagone alle denominazioni della mandragola da un lato, dal gatto/spiritello magico dall’altra può aver senso; un parallelo si può forse trovare nelle denominazioni dell’iperico del tipo ‘fugademoni’ ‘(s)cacciadiavolo’, ‘cacciademoni’ (attestate rispettivamente da PENZIG 1924 in Piemonte, Liguria, Abruzzo: 238-239). Il legame può essere quello offerto dalle proprietà curative dell’iperico (nei materiali etnobotanici raccolti durante le inchieste si trovano: «trafurela mai desbela», «trafourello set mal a i pello»). Oppure, parallelamente e più sottilmente, dalle proprietà antidepressive della pianta stessa. Conclusioni I problemi che si sono affrontati attraverso questi pochi casi sono soltanto alcuni esempi, e non dei più difficili, degli ostacoli che pone la ricerca etimologica in ambito fitonimico. L’individuazione di basi etimologiche che legano tipi lessicali anche molto diversi è naturalmente importante non soltanto per se stessa, ma perché offre spunti interessanti per indagini sugli aspetti motivazionali, ai quali si può risalire anche attraverso le raccolte di etnotesti. Tra gli esempi proposti sono interessanti i casi di risemantizzazione di basi ormai non più riconosciute. D’altra parte questi lessici impongono anche una grande cautela nell’adoperare altre categorie e concetti della linguistica, su tutti quelli di trasparenza e opacità di un termine. Infine, anche distinzioni troppo meccaniche tra forme di etimo dotto e semidotto e forme «tipicamente descrittive, e quindi trasparenti» (Calleri, in BECCARIA 2004, s.v. Fitonimo) non sono così pacifiche quando nella base etimologica viene riconosciuto un elemento descrittivo peretimologico che la rispiega e ne garantisce la fortuna. Bibliografia ALESSIO, G. 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