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Cibo e linguaggio. Traduzioni e tradizioni

LCM - La Collana / The Series

Cibo e linguaggio Traduzioni e tradizioni Gianfranco Marrone doi: http://dx.doi.org/10.7359/818-2017-marr Parole chiave: cibo, semiotica, testo, tradizione, traduzione. Keywords: food, semiotics, text, tradition, translation. 1. Mangiare segni Il cibo è un linguaggio; serve per comunicare con gli altri, per esprimere se stessi, per interpretare il mondo, per consolidare tradizioni culturali, per rappresentare gerarchie sociali, per classificare specie naturali … Detto ciò, che cosa significa – esattamente, tecnicamente, scientificamente – ‘linguaggio’? In che termini e sino a che punto il gusto, l’alimentazione, le tecniche culinarie, i comportamenti a tavola (ma anche – allargando progressivamente lo sguardo – le produzioni agroalimentari, gli apparati di distribuzione delle materie prime, gli spazi della ristorazione, le pratiche di smaltimento degli avanzi …) hanno qualcosa che possa accostarle alle lingue propriamente dette, quelle verbali, nonché a tutti quegli altri sistemi di segni – le immagini, i gesti, l’abbigliamento, lo spazio costruito – che l’uomo notoriamente usa per comunicare? A quali condizioni è possibile convalidare l’idea assai diffusa che associa il nutrimento umano a un qualsivoglia idioma? Come passare insomma da quest’intuizione del senso comune – azzeccata ma non per questo meno approssimativa – a una sua definizione puntuale e accorta, problematica ma condivisibile? È quel che ha provato a fare, con risultati spesso notevoli, la semiotica, teoria della significazione umana e sociale, ovvero di tutto ciò che l’uomo, nelle sue diverse manifestazioni storiche e geografiche, adopera per entrare in contatto con gli altri uomini, ma soprattutto per significare se stesso, le organizzazioni della collettività, la storia, la cultura, la natura, il cosmo nella sua interezza, le divinità. L’animale sociale per eccellenza ha 19 Parole per mangiare. Discorsi e culture del cibo - A cura di I. Bajini, M.V. Calvi, G. Garzone, G. Sergio - Milano, LED, 2017 http://www.ledonline.it/index.php/LCM-Journal/pages/view/qlcm-7-parole-mangiare-culture-cibo Gianfranco Marrone specializzato, si sa, alcune parti del proprio corpo – la bocca, l’orecchio – per articolare suoni che esprimano significati, e ne ha fatto il suo principale sistema di segni: la lingua. E ha parallelamente prodotto una moltitudine di differenti dispositivi di senso, utilizzando ora altre parti del corpo – le mani, gli occhi, la postura – ora un certo numero di materie del mondo che, manipolate per l’occasione, hanno dato vita a oggetti e tecnologie, abiti e ornamenti, opere d’arte e rituali, dimore e città, paesaggi e territori: tutte cose che, al di là della loro funzione pratica o mitica, hanno avuto la responsabilità di significare altro da sé, sono diventati segni, entità sensibili che rimandano a entità intelligibili. Fra questa pletora variabile di sistemi di senso, appunto, il cibo. Con un ruolo tutt’altro che secondario, tanto dissimulato quanto, per questo, essenziale. In altri termini, oltre alla sua dimensione prettamente nutritiva, a quella sensoriale e ludica, a quella storica e culturale, il cibo ha una sua dimensione specificamente semiotica. Forse ancor di più e ancor meglio di molti altri sistemi di significazione umana e sociale, tutto ciò che ha a che fare con il nutrimento dell’uomo, dalle materie prescelte alle tecniche per trasformarle sino alla modalità della loro assunzione, è significativo. E lo è proprio grazie al fatto che presenta, per quanto surrettiziamente, le caratteristiche di un vero e proprio linguaggio. Se, come si ripete, l’uomo è ciò che mangia, non è tanto o soltanto perché le sostanze che via via incorpora vanno a costituire la sua materialità fisica, quanto anche perché, dal punto di vista antropologico, il cibo che prepara e ingerisce lo rappresenta, lo significa, contribuendo a costruirne l’identità, individuale come collettiva. 2. Dal bisogno alla comunicazione Gli studi semiotici relativi al gusto, al cibo, alla cucina e alla tavola tendono teoricamente a distinguere due diverse dimensioni che, nella concretezza dell’esperienza umana e sociale, si incrociano di continuo (sguardi d’insieme in: Landowski e Fiorin 1997; Ricci e Ceccarelli 2000; Boutaud 2005; Manetti, Bertetti, e Prato 2006; Marrone e Giannitrapani 2012, 2013; Marrone e Mangano 2013; Marrone 2015a). 2.1. Parlare del cibo La prima è quella del linguaggio (in senso lato) che parla del cibo: nelle conversazioni, nei libri di cucina, nelle riviste specializzate, nelle guide 20 Parole per mangiare. Discorsi e culture del cibo - A cura di I. Bajini, M.V. Calvi, G. Garzone, G. Sergio - Milano, LED, 2017 http://www.ledonline.it/index.php/LCM-Journal/pages/view/qlcm-7-parole-mangiare-culture-cibo Cibo e linguaggio gastronomiche, nei romanzi, nelle trasmissioni televisive, nella pubblicità, nelle arti, nei blog, nei social network ecc. Parlare del cibo è attribuire a esso un significato, indirizzandolo verso aspetti e momenti della storia e della cultura che, sistematicamente, lo trascendono. Per esempio, oggi nei media si fa un gran dialogare di buona cucina e buona tavola; cosa che porta la gente a discuterne tanto, a occuparsene con passione, ma soprattutto a mangiare in modo più attento di prima, a perfezionare i propri gusti, interessandosi finanche a problematiche apparentemente lontane, ma in effetti vicinissime, come quelle delle produzioni agricole su piccola o su grande scala. Il linguaggio insomma – ma sarebbe meglio declinarlo al plurale, nella sua varietà di espressioni e di contenuti – condiziona il gusto, le pratiche culinarie e alimentari, quelle della ristorazione. Si pensi, per fare un altro esempio, a quanto i blog culinari abbiano contribuito, dal basso, al boom della gastronomia, dribblando il discorso ufficiale dei critici di settore per instaurare un regime di gusti molto diverso da quello delle tradizioni familiari o dell’alta cucina. O, ancora, a quanto il successo dei programmi di cucina in televisione abbia cambiato i modi di andare al ristorante o di preparare il cibo a casa (su questi temi cf. Marrone 2014a). D’altra parte, tutto ciò pone il problema del modo in cui si parla del cibo, di che cosa poter dire, o riuscire a dire, e che cosa no. È noto come non sia per nulla facile descrivere l’esperienza gustativa, così come si faccia un gran fatica per insegnare le tecniche culinarie a chi è privo di competenza in merito. Ecco sorgere l’annoso problema di una descrizione soddisfacente della percezione sensoriale, o di una narrazione efficace delle attività pratiche: irrisolvibile in linea di principio, ma quotidianamente affrontato, e risolto, nei fatti. Riprendendo e riarticolando alcune riflessioni antropologiche (Goody 1977) o sociologiche (Giard 1980) sui ricettari come trascrizioni di saperi manuali trasmessi oralmente, diversi studi semiotici (Jakobson 1965; Greimas 1983; Marrone e Giannitrapani 2013; Marrone 2015b) hanno mostrato come il testo della ricetta, nelle sue forti differenze di genere letterario, sia un luogo di negoziazione implicita fra due diverse forme di conoscenza: quella di chi scrive, per principio ipercompetente, e quella di chi legge, scarsamente competente, escludendo al tempo stesso colui il quale è del tutto incompetente. In altri termini, la ricetta non è rivolta a chi non sa completamente cucinare, ma a chi, pur non sapendo cucinare al medesimo livello di maestria dell’emittente, ha comunque una certa idea su come ci si muova ai fornelli. La negoziazione consiste nel gestire i relativi saperi dei due soggetti in gioco, variando il primo al variare del secondo e viceversa; regolando volta per volta la qua21 Parole per mangiare. Discorsi e culture del cibo - A cura di I. Bajini, M.V. Calvi, G. Garzone, G. Sergio - Milano, LED, 2017 http://www.ledonline.it/index.php/LCM-Journal/pages/view/qlcm-7-parole-mangiare-culture-cibo Gianfranco Marrone lità e la quantità dei non detti, degli impliciti, delle allusioni che rinviano, stimolandolo, al sapere del destinatario presupposto dall’emittente. Molte ricette, o forse tutte se pure in modo diverso, a un certo punto del testo delegano al destinatario, ovvero a colui il quale in linea di principio dovrebbe esser lì per imparare ad allestire un determinato piatto, tutta una serie di operazioni che si ritengono più o meno evidenti: da cui espressioni stereotipe che rinviano a piccoli gesti come “aggiustate di sale”, “aggiungete aromi a volontà”, “usate un brodo poderoso”, ma anche a vere e proprie stringhe d’azione che presuppongo saperi complessi come “rosolate l’aglio”, “fate appassire la cipolla”, “lardellate”, “preparate una besciamella”. Così, la ricetta ritenuta perfetta, quella che dovrebbe spiegare assolutamente tutto quanto occorre per preparare un certo piatto, non esiste, né può di fatto esistere. La sua validità si misura piuttosto sul tipo di lettore a cui si rivolge, variabile nello spazio e nel tempo. 2.2. Cibo come linguaggio La seconda dimensione, più profonda e pertanto più nascosta, è quella del cibo stesso che, come si accennava, costituisce una forma specifica di linguaggio. Di un cibo cioè, come ha sostenuto un antropologo fortemente interessato alla linguistica come Claude Lévi-Strauss (1962), “buono da pensare”: attraverso il cibo parliamo del mondo, della società, del cosmo, di tutto insomma. Così come nessuno parla unicamente per trasmettere dei messaggi, o si veste soltanto per proteggere il corpo, allo stesso modo nessuno mangia solo per nutrirsi o per godere dei sapori. Al di là della natura funzionale ed estetica degli alimenti, c’è la loro natura semiotica, ciò che ha permesso all’uomo di allontanarsi della sua natura animalesca per costituire forme diverse di cultura e di civiltà. Per quanto oggi, per esempio, si invochi, e giustamente, un ritorno alla terra e al territorio, alle produzioni e alle tradizioni alimentari locali, è noto come la cucina sia sempre stata (e non solo presso le classi agiate) un desiderio di superare i limiti geografici e climatici, così come temporali e stagionali, per importare prodotti e sostanze altre, ibridandole con le proprie (Montanari 2004). L’America è stata scoperta andando in cerca di spezie. Del resto, il fatto stesso che esistano migliaia di gastronomie (che nessuna differenza climatica o geografica, da sola, può giustificare) è la dimostrazione più evidente della cucina come fatto sociale totale che tende a produrre forme di identità e di alterità etniche. I cibi sono segni, di noi stessi innanzitutto, del mondo sociale in secondo luogo, dell’universo intero infine. 22 Parole per mangiare. Discorsi e culture del cibo - A cura di I. Bajini, M.V. Calvi, G. Garzone, G. Sergio - Milano, LED, 2017 http://www.ledonline.it/index.php/LCM-Journal/pages/view/qlcm-7-parole-mangiare-culture-cibo Cibo e linguaggio Roland Barthes (1960, 49 trad. it.), fra i primi semiologi a interessarsi di queste problematiche, lo aveva ben chiaro: Che cos’è il cibo? Non è soltanto una collezione di prodotti, bisognosi di studi statistici o dietetici. È anche e nello stesso tempo un sistema di comunicazione, un corpo di immagini, un protocollo di usi, di situazioni e di comportamenti. […] Acquistando un alimento, consumandolo o facendolo consumare, l’uomo moderno non maneggia un oggetto in modo puramente transitivo; quest’alimento riassume e trasmette una situazione, costituisce un’informazione, è significativo; ciò vuol dire che esso non è semplicemente l’indice di un insieme di motivazioni più o meno coscienti, ma che è un vero e proprio segno, cioè l’unità funzionale di una struttura di comunicazione. […] Dal momento in cui un bisogno viene preso in carico dalle norme di produzione e di consumo (in poche parole, dal momento in cui passa al rango di istituzione), in esso non è più possibile dissociare la funzione dal segno della funzione reale; il che è vero per l’abbiglia mento, ed è altrettanto vero per il cibo; quest’ultimo è probabilmente, da un punto di vista antropologico (d’altronde perfettamente astratto), il primo dei bisogni; ma dacché l’uomo non si nutre più di bacche selvatiche, questo bisogno è sempre stato fortemente strutturato: sostanze, tecniche, usi entrano gli uni e gli altri in un sistema di differenze significative, e a quel punto la comunicazione alimentare è fondata. E la prova della comunicazione non è data dalla coscienza più o meno alienata che i suoi utenti possono averne; è data semmai dalla docilità con cui tutti i fenomeni alimentari costituiscono una struttura analoga agli altri sistemi di comunicazione. Gli uomini non hanno difficoltà a credere che il cibo sia una realtà immediata (bisogno o piacere), senza che ciò crei un ostacolo al fatto che esso costituisca un sistema di comunicazione. E il cibo non è il primo oggetto che essi continuano a vivere come semplice funzione, proprio nel momento stesso in cui lo costituiscono come segno. Abbandonando la sua natura greve di carburante corporeo, il cibo sfocia, producendolo, in una semiosfera al cui interno ha un ruolo di primo piano, entrando in relazione col resto del mondo, e significando altro da sé. Grazie alla cucina e al gusto, per esempio, si disegnano le sottili e complesse relazioni fra natura e cultura, crudo e cotto, putrido e sofisticato, elaborato e non elaborato. Laddove un antropologo come Lévi-Strauss (1968) aveva messo in guardia contro le facili assimilazioni fra natura e crudità, da un lato, e tra cultura e cottura, dall’altro, chiarendo come anche il crudo sia una forma di trasformazione culinaria (similmente al putrido), Greimas (1983) approfondisce la questione ricordando che le opposizioni crudo/cotto e natura/cultura non sono realtà ontologiche ma coppie concettuali, elementi di un immaginario sociale dinamico e cangiante. In quanto tali, esse entrano in relazione fra loro andando a costituire, volta 23 Parole per mangiare. Discorsi e culture del cibo - A cura di I. Bajini, M.V. Calvi, G. Garzone, G. Sergio - Milano, LED, 2017 http://www.ledonline.it/index.php/LCM-Journal/pages/view/qlcm-7-parole-mangiare-culture-cibo Gianfranco Marrone per volta in modo diverso, i due piani di un linguaggio: espressione e contenuto. Il cibo crudo (poniamo, un’insalata, una macedonia di frutta, una tartare di manzo) non è naturale ma significa ‘natura’. Il cibo cotto (un pane, uno spezzatino, un risotto), in quanto – in linea di principio – più elaborato del primo, significa ‘cultura’. Analogamente il cibo putrido (un formaggio, una birra, una olla potrida), in quanto trasformazione naturale della materia gestita con tecniche assai raffinate, si pone come entità intermedia fra gli altri due. L’opposizione natura/cultura, in altre parole, è l’effetto di senso della differente percezione del grado di elaborazione dei cibi: più essi sono elaborati più si percepiscono come culturali (si pensi al bollito), meno sono elaborati più vengono percepiti come naturali (l’arrostito). In generale lo stesso Greimas (1983), attento osservatore delle sfumature che spesso si insinuano fra opposizioni di significato, osserva come fra il crudo e il cotto occorra quanto meno inserire il non-crudo, anch’esso cucina a tutti gli effetti, come quando si taglia a rondelle una zucchina o si prepara una dadolata di cipolle (Bastide 1987; Mangano 2014). E laddove l’antropologo ricostruisce la serie di usanze e di rituali che le varie culture accostano alle tecniche culinarie di base come la bollitura, l’arrostitura e l’affumicatura, il semiologo risponde che, ancora una volta, non si tratta di realtà ma di significati, non di cose ma di effetti di senso: la bollitura non è ontologicamente una tecnica culinaria femminile, stanziale ed esogamica ma significa tutto ciò, analogamente a come l’arrostitura non è in quanto tale maschile, nomade ed endogamica ma significa quest’altro immaginario sociale. Allo stesso modo, è a partire dal cibo che ci si costituisce un’immagine del corpo, determinando volta per volta la sua funzionalità sociale, la sua desiderabilità erotica, ma soprattutto la sua propensione a farsi modello semiotico del mondo. È così che il processo biologico di ingestione ed eliminazione di materie dal corpo – immettere/trasformare/espellere – diviene motore di tutto un complesso apparato di simbolizzazione: la digestione è intesa come modificazione naturale del cibo così come la cucina sarebbe la sua trasformazione culturale (Lévi-Strauss 1968). L’apparato corporeo, fondato su un’opposizione basica fra interno (invisibile) ed esterno (evidente), con i suoi orifizi d’entrata e di uscita delle sostanze da esso, è la base simbolica di ogni processo di trasformazione delle cose, e dunque di ogni produzione di senso – istituzionalizzata nelle narrazioni mitologiche e folkloriche d’ogni tipo. L’analogia fra digestione e cucina mette in continuità, e al tempo stesso tiene separati, il corpo e il mondo, il sé e l’altro. Produce distanze significative fra soggetto e oggetto, e al contempo ne permette l’attraversamento (Marrone 2005 e 2012). Paral24 Parole per mangiare. Discorsi e culture del cibo - A cura di I. Bajini, M.V. Calvi, G. Garzone, G. Sergio - Milano, LED, 2017 http://www.ledonline.it/index.php/LCM-Journal/pages/view/qlcm-7-parole-mangiare-culture-cibo Cibo e linguaggio lelamente, a partire da tale analogia si costituisce, più in profondità, la relazione fra percezioni sensoriali e loro valutazione estetica, ossia, molto semplicemente, il sistema di valori gastronomici: se il gusto sta nel seguire l’orientamento ‘corretto’ dei processi di trasformazione delle materie (che ‘devono’ entrare dalla bocca ed uscire dall’ano), il disgusto sta nell’inversione di tale direzione, e dunque nella fuoriuscita di sostanze dalla bocca o nell’ingestione di altre che dall’ano sono venute fuori (Fabbri 1991 e 2003). Apprezzare o disprezzare i prodotti culinari è mimare tale processo ritenuto naturale, riproporlo a un altro livello, quello della civiltà e della cultura. Di un piatto maldestro si dice che “fa vomitare”: guardare Masterchef per ricredere (Marrone 2013). Ancora, è l’alimentazione il luogo silenzioso e profondo dove si distinguono, si articolano e si classificano gli esseri viventi, animali e piante, ora commestibili ora meno, ora nutritivi ora velenosi, ora permessi ora vietati. Così, al di là dei tabù che le varie religioni, legandoli a complesse cosmologie e tassonomie, tendono a proporre ai loro adepti (Douglas 1970), le differenti culture finiscono per decretare quali animali ritenere commestibili e quali immangiabili anche a partire da distinzioni di carattere enunciativo (Leach 1964): mangiamo con soddisfazione ciò che ci è prossimo, molto meno quel che per noi è più intimo o eccessivamente distante. Così come i sistemi enunciativi delle diverse lingue (Rastier 2001) tendono a distinguere tra una zona intima (questo, ici), una prossima (codesto, là) e una distante (quello, là-bas), analogamente le specie animali sono commestibili o meno a seconda della zona in cui, dal nostro punto di vista, si trovano. Non mangiamo gli animali che stanno in casa (intimi), mangiamo quelli che stanno nel cortile o nei luoghi a noi accessibili (prossimi), non mangiamo quelli che riteniamo esotici poiché abitanti luoghi impenetrabili (distanti). Così se per noi il cane è animale che non si mangia perché sta in casa (è un pet), in Cina è commestibile perché vive lontano dalle abitazioni. Prova ne sia il fatto che, dal momento in cui anche in quel Paese sta nascendo l’abitudine occidentale di tenere cani fra le mura domestiche, è nato un grosso movimento d’opinione che vuole bandire le loro carni dalle mense familiari. Insomma, a essere significativo non è l’animale in sé, ma la relazione che, attraverso i luoghi che abita, esso stabilisce con noi. È a partire da tutti questi esempi che il cibo può essere interpretato come una forma, tanto silenziosa quanto profonda, di linguaggio, per molti versi più importante di altri linguaggi umani e sociali, a cominciare dalla lingua cosiddetta storico-naturale, come quella dei gesti e del corpo, delle immagini, della musica, dello spazio, del vestiario e così via. E se di 25 Parole per mangiare. Discorsi e culture del cibo - A cura di I. Bajini, M.V. Calvi, G. Garzone, G. Sergio - Milano, LED, 2017 http://www.ledonline.it/index.php/LCM-Journal/pages/view/qlcm-7-parole-mangiare-culture-cibo Gianfranco Marrone linguaggio si tratta, i due elementi che lo compongono – espressione e contenuto – sono fra loro in presupposizione reciproca, di modo che nessuno di essi può esistere senza l’altro, e nessuno determina l’altro. È inutile stabilire quale sia la causa e quale l’effetto, quale la ragione e quali le conseguenze: viene prima la natura o la crudità? La bollitura o la stanzialità? La festa o il cibo che la magnifica? La relazione d’autorità o le scelte del cuoco che tendono a rimarcarla? La differenza di genere o il gioco dei ruoli in cucina e a tavola? La classificazione degli animali in domestici e selvaggi o il sistema dei disgusti alimentari? Il divieto del cannibalismo o la dimensione sacrale del corpo umano? Qualunque sia la risposta, quel che importa è il sistema culturale complessivo – dinamico, cangiante, turbolento quanto si vuole, ma in ogni caso, appunto, sistematico, strutturalmente costituito – entro cui il cibo, volente o nolente, consapevolmente o meno, ha un ruolo comunicativo decisivo. In questo senso, le due dimensioni comunicative che abbiamo teoricamente distinto – il linguaggio che parla del cibo, il cibo come linguaggio – nella pratica sociale finiscono per tradursi a vicenda e a confondersi: il cibo significa perché se ne parla o se ne parla perché significa? Ogni responso è vano: la traduzione da un linguaggio all’altro può andare senza difficoltà in entrambe le direzioni. Più interessante invece, occupandosi della dimensione semiotica del cibo, avere l’agio, se non la necessità, di indagarla a partire da molteplici, e analoghe, possibilità di accostamento: ora quella cosiddetta reale (tecniche e tecnologie culinarie, pratiche di degustazione, esperienze gastronomiche, rituali della tavola ecc.), ora quella supposta rappresentativa, o immaginaria, o finzionale (testi letterari, annunci pubblicitari, guide gastronomiche, film, trasmissioni televisive e così via). Fra il pranzo concreto che la vicina di casa mi ha gentilmente offerto ieri l’altro e quello raccontato in certi romanzi o commentato in tanti blog ci sono senz’altro notevoli differenze: tutte importanti e significative, tutte culturalmente date, semioticamente reali, esistenti e funzionanti entro un immaginario che è insieme gastronomico e sociale, culinario e antropologico. 3. Mangiarsi le parole Le lingue, diceva Ferdinand de Saussure, celebre padre della linguistica contemporanea, sono forme non sostanze: la loro specificità, quel che le fa essere tali, non sta nei suoni, che tutti possiamo udire o di cui in fin 26 Parole per mangiare. Discorsi e culture del cibo - A cura di I. Bajini, M.V. Calvi, G. Garzone, G. Sergio - Milano, LED, 2017 http://www.ledonline.it/index.php/LCM-Journal/pages/view/qlcm-7-parole-mangiare-culture-cibo Cibo e linguaggio dei conti possiamo fare a meno, ma nel modo di articolarli fra loro entro un determinato sistema, di distinguerli secondo precise regole, di renderli pertinenti alla trasmissione di significati, anch’essi a loro volta – dirà un altro linguista di pregio come Louis Hjelmslev – organizzati entro un qualche sistema di senso. La lingua insomma, per quanto paradossale possa apparire, è un sistema di differenze pure, un’entità che esiste solo in negativo, tanto più astratta e formale quanto più efficiente ed efficace. Stessa cosa, non meno paradossale ma parimenti verosimile, vale per il cibo. Laddove le sostanze che concretamente mangiamo, le materie prime che si fanno pietanza e pasto, ci nutrono appesantendoci, facendoci percepire tutta la loro ponderosità, il cibo che significa, il cibo-linguaggio, viene organizzato invece entro un sistema di differenze: tanto astratto e arbitrario a priori, quanto essenziale e identitario a posteriori. Così, se gli spaghetti col sugo di pomodoro, in Italia, costituiscono un piatto a sé, in Francia o altrove vengono serviti, privi di condimento, come contorno in un piatto di carne. Gli spaghetti, grosso modo, sono i medesimi. Quel che li rende significativi, e dunque espressione di un’identità etnica, è il nesso che si istituisce internamente, in Italia, fra pasta e sugo, ed esternamente, in Francia, fra pasta e carne. Dal punto di vista semiotico, la relazione fra gli ingredienti è primaria, gli ingredienti in quanto tali sono secondari, secondo quel principio strutturalista che la cucina, forse ancor più di parecchi altri sistemi di significazione, ha sempre e dovunque utilizzato per le proprie realizzazioni gastronomiche, ora familiari e tradizionali, ora sperimentali e d’alta ristorazione. “La cucina – dice con poetica chiarezza un personaggio di Italo Calvino (1986, 55) – è l’arte di dar rilievo ai sapori con altri sapori” – dove con “sapori” dobbiamo intendere, ovviamente, non soltanto le proprietà gustative ma tutte le qualità sensibili, spesso sinestetiche, regolarmente utilizzate nell’elaborazione culinaria. 3.1. Modelli e usi Se, come e più della lingua, il cibo-linguaggio è forma e non sostanza, vale anche per esso quella dialettica che i linguisti hanno posto alla base d’ogni studio rigoroso dei sistemi di segni: da una parte i modelli sociali, tanto astratti quanto condivisi, dall’altro i loro usi idiosincratici, di piccoli gruppi se non individuali – dove i modelli sono costituiti dagli usi, e gli usi sono possibili a partire dai modelli (Barthes 1964). Nessun parlante può esprimersi senza una lingua che lo preceda, ma nessuna lingua può esistere se non è parlata da qualcuno. Analogamente, nessun piatto (token) può essere 27 Parole per mangiare. Discorsi e culture del cibo - A cura di I. Bajini, M.V. Calvi, G. Garzone, G. Sergio - Milano, LED, 2017 http://www.ledonline.it/index.php/LCM-Journal/pages/view/qlcm-7-parole-mangiare-culture-cibo Gianfranco Marrone preparato se non a partire da una sua forma ideale di riferimento (type), ma tale forma ideale esiste perché a poco a poco, preparando volta per volta i singoli piatti, se ne è istituito, appunto, un modello generale. Cosa che vale soprattutto per le pietanze fortemente identitarie di un paese, di un territorio, di un’etnia: i già menzionati spaghetti col pomodoro sono il piatto simbolo del Meridione italiano, così come il risotto lo è per il Settentrione, ma non ci sono due ristoranti, due famiglie, due persone che li cucinano esattamente allo stesso modo. Ognuno dirà: il mio risotto, i miei spaghetti, pretendendo di incarnare al meglio una pietanza ideale che si dà prima d’ogni sua realizzazione concreta, ma che, dialetticamente appunto, esiste perché mille volte già realizzata. Si pensi alla ratatouille in Francia, al couscous nei paesi arabi, alla paella in Spagna, al tacchino ripieno del Thanksgiving americano, al sushi giapponese, al burek balcanico, alla bagna cauda piemontese … Ovviamente ci sono casi in cui il modello tende a imporsi sull’eventuale creatività della singola realizzazione, come nelle cucine tradizionali o nel fast food industriale, e altri casi in cui la bilancia pende più dal lato dell’estro individuale, come nell’alta cucina, artistica o sperimentale che dir si voglia. Ma la dialettica, comunque, permane. Ed è operativa non solo nell’arte culinaria ma, più in generale, in tutto ciò che ha a che fare col mangiare, dalla batteria di attrezzi culinari al modo di star seduti a tavola, dall’architettura dei ristoranti al turismo enogastronomico. Così, se il modello alimentare è un dispositivo culturale che tende a dettare le regole per mettere in relazione gli elementi e gli ingredienti, ovvero ciò che potremmo chiamare un canone di gusto, l’uso singolo per così dire le interpreta, variandole secondo i piaceri e le necessità del momento, senza mai poterle trasgredire in toto. Il caso più evidente è quello delle già menzionate ricette di cucina: sono trascrizioni di saperi orali, istituzionalizzazioni riduttive di tecniche molto diverse; d’altro canto, proprio perché non possono dir tutto, finiscono per giocare lo stesso ruolo di uno spartito musicale, dove l’esecutore ha il diritto e il dovere di interpretare ciò che gli viene indicato nel pentagramma. In questo senso, usando la nota terminologia di un filosofo molto vicino alla semiotica come Nelson Goodman (1968), possiamo senz’altro dire che la cucina si presenta come un’arte allografica (Marrone 2014b). 3.2. Testi culinari Del resto, la dialettica fra modelli e usi, tipi e occorrenze si stempera notevolmente se si introduce un altro concetto semiotico che appare assai 28 Parole per mangiare. Discorsi e culture del cibo - A cura di I. Bajini, M.V. Calvi, G. Garzone, G. Sergio - Milano, LED, 2017 http://www.ledonline.it/index.php/LCM-Journal/pages/view/qlcm-7-parole-mangiare-culture-cibo Cibo e linguaggio pertinente nello studio cibo-linguaggio: il concetto di testo, che permette di definire al meglio lo specifico oggetto d’analisi della scienza della significazione: l’unità di senso. Che cos’è un testo culinario? Potremmo dire che si tratta di qualsiasi cosa, evento o situazione legato all’alimentazione, alla gastronomia e alla tavola che, a determinate condizioni formali, produce del senso umano e sociale, lo fa circolare, lo traduce in altro senso. Dunque, non soltanto i testi scritti (ricette, guide e recensioni, menu, racconti letterari) o quelli che fanno uso di immagini (film, spot pubblicitari, fotografie). Testo culinario, dal punto di vista semiotico, è anche un piatto o, meglio, i modi in cui, come s’è detto, in una pietanza si associano o si mettono in contrasto sapori, odori, consistenze, temperature, colori, forme e quant’altro, producendo un’unità di gusto che è al tempo stesso un’unità di senso – ossia, appunto, un testo. A esser significativo, dal punto di vista gastronomico, non è la singola sensazione (poniamo, un certo sapore o odore) ma l’accostamento fra questa e tutte le altre ugualmente presenti entro una certa configurazione culinaria. Come le parole non significano niente se non vengono adeguatamente inserite in apposite strutture sintattiche, ossia in frasi, analogamente un singolo sapore non conta nulla, come diceva il personaggio di Calvino, se non è accostato ad altri accanto a lui, o ad altri che avrebbero potuto essere al suo posto (cf. Floch 1995; Fontanille 2006). Ma per esserci vero e proprio testo culinario, occorre spesso superare i limiti del piatto – che molta divulgazione mediatica ipostatizza, erroneamente, come la sola unità di senso nel mondo alimentare – e guardare al pasto nella sua interezza. Di modo che quelli che di solito vengono chiamati ‘abbinamenti’ possano essere ripensati in tutta la loro costitutiva importanza di nessi grammaticali e sintattici, al tempo stesso gastronomici e semiotici. Così come nessuno, in verità, parla per singole frasi ma ricorrendo a discorsi (con un inizio, un’articolazione, uno svolgimento e una fine ben segnalati nei rituali comunicativi), a esser significativo dal punto di vista alimentare, a costituire un’unità di senso gastronomico è appunto un pasto, in qualsiasi modo esso venga pensato e vissuto, preparato e consumato. Può essere pasto una successione di portate secondo un criterio ordinale codificato in anticipo (primo, secondo …) e tacitamente assunto da una cultura al punto da diventare tipico, ‘normale’. Così come può essere pasto un frugale spuntino al bar nella pausa pranzo (dove il piatto unico è comunque accompagnato da una bevanda, che integra il testo, e da un caffè, che lo chiude). Oppure, ancora, un fastoso convivio matrimoniale, dove l’esibizione della presunta prosperità familiare porta a offrire in successione ciò che in una cena quotidiana sarebbe soggetto a selezio29 Parole per mangiare. Discorsi e culture del cibo - A cura di I. Bajini, M.V. Calvi, G. Garzone, G. Sergio - Milano, LED, 2017 http://www.ledonline.it/index.php/LCM-Journal/pages/view/qlcm-7-parole-mangiare-culture-cibo Gianfranco Marrone ne (ammucchiando più primi, più secondi ecc.). Così, una pizza, da sola, non fa un pasto; per completare il testo gastronomico bisogna che abbia quanto meno l’accompagnamento di una bibita (Ricci e Ceccarelli 2000). La varietà delle possibilità combinatorie è enorme. Quel che resta fisso, per fabbricare un testo gastronomico, è la necessità di un’organizzazione strutturale interna, l’esigenza del tenere insieme in modo sistematico elementi differenti e loro qualità relative, prodotti e loro virtualità sensoriali, segnalando al contempo i momenti di apertura (aperitivi, antipasti …) e chiusura (dessert, caffè, digestivi), i passaggi intermedi (sorbetti fra pesce e carne), le pause (sorsi di vino fra un boccone e l’altro) e tutto ciò che costituisce il ritmo testuale, le sequenze rituali, le selezioni a monte. L’esigenza testuale eccede anche alcune norme sociali, la cui presunta indiscutibilità si stempera, come con i codici linguistici, non appena si passa da una cultura a un’altra, da un sistema a un altro, forse anche da una situazione a un’altra. Così, per esempio, nella nostra cultura è ben chiara la separazione fra ciò che accade in cucina (dove si cuociono gli alimenti e si predispongono i piatti) e ciò che accade a tavola (dove si consumano le pietanze secondo precise regole temporali e ritmiche). In altre culture questa differenza non è altrettanto netta: molto spesso è a tavola che si compongono i piatti, quando non addirittura li si continua a tenere sul fuoco. In Cina arriva al desco una certa quantità di vassoi con ingredienti e prodotti vari, dai quali il singolo commensale può e sa selezionare ciò che desidera per comporre il suo pasto/testo. Da noi arriva in sala da pranzo un piatto già allestito in cucina, dal quale ognuno ritaglia i bocconi come meglio crede, magari associandoli a bocconi di cose che stanno, nella medesima tavola, in altri piatti. In Giappone arrivano a tavola, in vassoi diversi, bocconi già fatti. In Spagna si differenzia fra il momento delle tapas, spesso in piedi, e quello della cena vera e propria, seduti al tavolo. In generale, va distinto un modo di servire le vivande per successione prefissata e uguale per tutti i convitati (è quel che si chiama ‘servizio alla russa’, oggi per noi ovvio, ma databile grosso modo dalla metà del XIX secolo) da un altro che funziona invece per simultaneità di portate che ciascuno organizza secondo il proprio gusto (tipico di molte culture, asiatiche e non) (Montanari 2004). Con tutte le commistioni e le sovrapposizioni possibili: si pensi all’attuale rito dell’aperitivo serale detto happy hour, col passare del tempo sempre più assimilato alla cena (o all’apericena); alla fonduta che arriva a tavola sul fornello; alla piastra incandescente che continua ad arrostire la carne di fronte ai commensali. E siamo ancora a un livello di descrizione tanto generale da apparire stereotipo. Sufficiente però, con questa serie di esempi, per lasciar intendere, nella ricchezza e 30 Parole per mangiare. Discorsi e culture del cibo - A cura di I. Bajini, M.V. Calvi, G. Garzone, G. Sergio - Milano, LED, 2017 http://www.ledonline.it/index.php/LCM-Journal/pages/view/qlcm-7-parole-mangiare-culture-cibo Cibo e linguaggio complessità dei sistemi culinari, l’utilità di un loro esame attraverso una metodologia semiotico-testuale, atta a trovare somiglianze formali là dove non appaiono che differenze sostanziali, a riordinare con pochi criteri di massima l’enorme quantità di esiti gastronomici presenti nei diversi contesti storici, sociali e culturali. Così, quel che viene a cadere grazie al cannocchiale semiotico rivolto verso le pratiche culinarie e gastronomiche sono le evidenze quotidiane: tutto ciò che – per tornare al delicato problema delle relazioni fra natura e cultura – è stato da noi assimilato nel tempo e nelle abitudini al punto da apparirci naturale. Per noi, ad esempio, è ben chiara la differenza non solo fra cucina e tavola, preparazione e consumo, ma anche fra tutte quelle altre attività e usanze sociali che stanno a monte o a valle di questi due momenti: la scelta di ciò che è commestibile e ciò che non lo è; la produzione degli alimenti; il loro smistamento, trasporto, commercio, conservazione; le norme della commensalità e le relative gerarchie sociali; l’organizzazione e l’arredamento degli ambienti dove si mangia; le pratiche di rigetto, spreco, eliminazione, riciclaggio e quant’altro. Ma è evidente che la permeabilità fra queste sfere della socialità è molto forte. I grandi schermi in vetro che, ormai in molti ristoranti sedicenti chic, tengono in contatto visivo la cucina con la sala da pranzo, permettendo ai commensali di ‘controllare’ ciò che accade ai fornelli, ne sono il segnale evidente. Ma, per andare a esempi storici celebri, si pensi alla macellazione delle carni, lavoro sino a un secolo fa gestito dal cuoco in cucina (che selezionava i pezzi dell’animale e li estraeva personalmente dalla carcassa), e oggi appannaggio di un mestiere specifico, con un luogo deputato, qual è appunto quello del macellaio. Inversamente, pratiche che sino a poco tempo fa stavano a monte rispetto a quelle culinarie, come l’allevamento e l’agricoltura, sempre più oggi entrano a far parte dell’universo delle scelte gastronomiche, e divengono prerogativa degli chef più accorti. Le varie culture ed epoche, insomma, si trovano a dare maggiore o minor peso, nei loro codici alimentari, alle diverse attività che al mondo del cibo sono collegate, rendendo pertinente ora un momento ora un altro, ora una pratica ora un’altra, ora un luogo ora un altro. Ancora una volta, le forme semiotiche della cucina e dell’alimentazione sono omologhe a quelle del linguaggio: ciò che a un determinato livello di pertinenza è elemento singolo (una frase, un piatto) a un altro può essere inteso come un composto (di parole, di sapori) mentre a un altro ancora come un componente (di un discorso, di un pasto). In altri termini, ciò che per certe culture è un testo (un piatto) per altre è solo la parte di un testo più ampio (un pasto) mentre per altre ancora è inteso come un 31 Parole per mangiare. Discorsi e culture del cibo - A cura di I. Bajini, M.V. Calvi, G. Garzone, G. Sergio - Milano, LED, 2017 http://www.ledonline.it/index.php/LCM-Journal/pages/view/qlcm-7-parole-mangiare-culture-cibo Gianfranco Marrone contesto (un insieme di bocconi). Ciò non significa che tutto è uguale a tutto, che anything goes, dato che ogni cosa è egualmente possibile, senza regole o sistemi. Tutt’altro. I sistemi di regole si basano sul principio della pertinenza, stabilendo volta per volta che cosa è significativo e che cosa non lo è, che cosa è importante e che cosa lo è meno. Si prenda il celebre banchetto rinascimentale, con la tavola imbandita sino all’inverosimile con ogni ben di dio: carni, cacciagione, pollame, pesce, verdure, cereali … Come è noto, i rinascimentali non mangiavano a ogni pasto tutte quelle cose; a essere pertinente era il posto che s’occupava a tavola sulla base della gerarchia sociale. La tavola veniva apparecchiata a seconda di dove sedevano il principe, i signori, i dignitari, i chierici, le donne e così via. E poi, molto semplicemente, ognuno mangiava ciò che aveva di fronte. Così, appare abbastanza evidente come all’interno delle culture non esista, se non per indebita astrazione ed estrapolazione, una specifica simbologia culinaria e alimentare. Esistono semmai sistemi di significazione complessivi entro cui il cibo e la gastronomia trovano un loro preciso ruolo. Di modo che, alla fine, tutto si tiene e tutto si trasforma: cucina, religione, politica, economia, socialità, cosmologie, economia, tecnologia ecc. La cucina e la tavola parlano delle relazioni sociali, ma anche, viceversa, le relazioni sociali spiegano le scelte alimentari; analogamente vale nella relazione della cucina con la religione, le tassonomie botaniche o zoologiche, i sistemi politici, le valenze economiche, i conflitti internazionali e così via. La cucina – come ogni sfera sociale – viene parlata dalle altre sfere sociali, in certi momenti o condizioni; oppure, in certi altri momenti o condizioni, a sua volta ne parla. Significanti e significati, espressioni e contenuti ribaltano i loro ruoli reciproci in quel sistema complessivo, dinamico, cangiante, tumultuoso, sfrangiato che è la cultura o, meglio, la semiosfera. 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