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MERCATO DELLA TERRA A NAPOLI NEL XII SECOLO
Amedeo FENIELLO
1. L’ECONOMIA NAPOLETANA E IL MERCATO DELLA TERRA
La terra, a Napoli, è l’elemento sostanziale di un’economia tutt’altro che lineare, che
cresce e si afferma a partire dal X secolo, la cui trama non è né feudale, né mercantile, né
capitalistica, ma fondata su alcuni presupposti monetari, di produzione e di scambio,
riassumibili così: 1) l’uso condiviso e generalizzato di valuta in oro. 2) L’impiego di una
serie di innovazioni tecnologiche e contrattuali. 3) La specializzazione agricola. 4) Un
tradizionale sistema legale e fiduciario, garantito dall’ordo dei curiales, che fornisce stabilità
all’intero sistema di rapporti e transazioni. 5) Il supporto di intermediari commerciali
esterni, vista la quasi totale assenza di mercatores o negotiatores locali. Un’economia che,
tra l’ultima fase ducale e l’età normanna, si trasforma in alcune sue componenti, così
come muta, in maniera percettibile, il ritmo e la prassi di composizione e scomposizione
dei patrimoni. Dove, al dono e al baratto, i consueti strumenti di scambio adoperati nei
periodi precedenti e fondamento della creazione di nuove fortune e di nuove forme del
potere cittadino, si affiancano le compravendite, segno del mutamento dei tempi e della
modifica delle abituali attitudini del mercato.
In questo saggio intendo mettere a fuoco il funzionamento del mercato della terra a
Napoli nel XII secolo e fornire un’idea adeguata della sua complessità1, partendo da un
1. Per uno studio generale sul tema, con una riflessione sulla più recente storiografia italiana e l’analisi delle
ricerche in ambito europeo, rimando ai due recenti volumi, Il mercato della terra (secc. XIII-XVIII), XXXV
Settimana dell’Istituto Internazionale di Storia Economica « F. Datini » (Prato 5-9 maggio 2003), a cura di S.
CAVACIOCCHI, Firenze 2004 (Pubblicazioni, serie 2, Atti delle settimane di studi e altri convegni, 35) (in modo
particolare, si veda l’articolo di S. CAROCCI, Poteri signorili e mercato della terra [Italia ed Europa Occidentale,
secc. XI-XIV], p. 194-221); e L. FELLER e CH. WICKHAM ed., Le marché de la terre au Moyen Âge, Roma 2005
(CEFR, 350), di cui suggerisco almeno la lettura dei saggi di L. FELLER, Enrichissement, accumulation et circulation des biens : quelques problèmes liés au marché de la terre, p. 3-28, di F. WEBER, De l’anthropologie
Puer Apuliae. Mélanges offerts à Jean-Marie Martin, éd. E. Cuozzo, V. Déroche, A. Peters-Custot et V. Prigent
(Centre de recherche d’Histoire et Civilisation de Byzance, Monographies 30), Paris 2008.
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primo elemento: quello del numero generale delle vendite (che, tra immobili e terreni,
sono, per tutto il secolo, 642), confrontandolo con quelle effettuate nel cinquantennio
immediatamente precedente3. Se seguiamo una scansione generica, legata anche alle
vicende politiche, si può proporre grosso modo questa tripartizione: su un complesso di
81 contratti, 17 appartengono al cinquantennio 1050-1110, 24 al periodo 1100-1140 e
40 a quello 1140-1200. Si tratta di dati grezzi, ma da essi risulta netta la crescita del loro
numero, con un progressivo avanzamento che si accentua in epoca normanna.
L’andamento va però valutato in maniera analitica. Se infatti scomponiamo il numero
dei contratti su indice decennale, abbiamo questa proiezione:
Numero compravendite (1050-1200)
12
11
10
9
8
7
6
5
4
3
2
1
0
10501060
10601070
10701080
10801090
10901100
11001110
11101120
11201130
11301140
11401150
11501160
11601170
11701180
11801190
11901200
économique à l’ethnographie des transactions, p. 29-48, e i due saggi di F. Menant, uno di carattere più specifico
sul caso italiano (F. MENANT, Les transactions foncières dans le royaume d’Italie du Xe à la fin du XIIe siècle.
Essai de bilan historiographique, p. 147-160), l’altro che riassume il tema storiografico, nelle sue diverse
implicazioni, nello scenario europeo (ID., Comment le marché de la terre est devenu un thème de recherche
pour les historiens du Moyen Âge,, p. 195-236).
2. I documenti che ho adoperato, che rappresentano l’impalcatura su cui si regge l’intero saggio, sono:
Monumenta ad Neapolitani Ducatus historiam pertinentiam, ed. B. CAPASSO, Napoli 1892, II, I, nn. 586
(1104), 589 (1106), 598 (1110), 599 (1110), 603 (1112), 610 (1114), 628 (1126), 645 (1130), 648 (1130),
649 (1131), 650 (1131), 652 (1132), 657 (1132), 658 (1133), 666 (1136), 673 (1137), 675 (1138), 676
(1138), 678 (1138), 679 (1138), 680 (1139); e II, II, n. 22 (1107). Le pergamene di S. Gregorio Armeno (11411198), ed. R. PILONE, con introduzione di C. CARBONETTI, Salerno 1996 (Fonti per la storia del Mezzogiorno
medievale, 12), nn. 1 (1141), 3 (1146), 6 (1153), 8 (1154), 12 (1167), 13 (1168), 14 (1170), 17 (1173),
18 (1174), 20 (1175), 21 (1175), 22 (1176), 25 (1178), 27 (1179), 28 (1179), 31 (1181), 33 (1183), 37
(1185), 38 (1185), 41 (1188), 43 (1191), 45 (1192), 48 (1196). L’antico inventario delle pergamene del
monastero dei Ss. Severino e Sossio, ed. R. PILONE, Roma 1999 (Fonti per la storia dell’Italia medievale. Regesta
Chartarum, 48), nn. 1185 e 1405 (1118), 330 e 957 (Tempore Rogerii), 36, 77, 264, 294, 309, 343, 424, 615,
718, 834, 878, 989, 1182, 1676, 1728 , 1779 , 1928, 1934 (scritture effettuate tutte in Tempore Guillielmi,
dove la suddivisione cronologica tra il primo e il secondo Guglielmo risulta di difficile esplicazione), 1963
(1198). Va rilevato che, in quest’ultima raccolta, i docc. nn. 263, 718, 1676 e i nn. 615, 1728, 1928
riguardano, rispettivamente, solo due operazioni.
3. I documenti per il periodo 1050-1110 sono: Monumenta (cit. n. 2), II, I, nn. 490 (1058), 502 (1067),
504 (1070), 516 (1073), 517 (1073), 526 (1077), 529 (1078), 536 (1085), 542 (1087), 567 (1094); e L’antico
inventario, nn. 346 (1082), 370 (1082), 515 (1082), 1673 (1057), 1674 (1057), 1678 (1088), 1679 (1073).
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L’impressione che produce è: 1) nella prima fase (1050-1130) la curva è in sostanziale
equilibrio, con un brusco calo nel decennio 1090-1110. 2) Segue un’improvvisa accelerazione, che coincide col decennio caldo del passaggio della città nelle mani normanne
(1130-1140). 3) Durante tutto il periodo del regno di Ruggero si assiste ad una forte
caduta, che dura fino agli anni Sessanta. 4) Per tutto il regno dei due Guglielmi (11661189) si ha la stagione di maggiore incremento, con un aumento considerevole del numero
di vendite (30 transazioni). 5) La successiva caduta è interpretabile come effetto della
contrazione del mercato dovuta alla congiuntura politica e bellica. Si tratta a ben vedere
di semplici stime che non vogliono avere alcun carattere assoluto ma che consentono, per
ora, qualche prima riflessione. Intanto, un dato è evidente: il periodo 1050-1100 risulta
di scarso profilo e poco rappresentativo. Differente è la situazione nel secolo seguente,
quando il numero delle compravendite raggiunge due momenti di picco: il primo, nel
decennio di passaggio al regno, indizio del riadattamento patrimoniale e della ridefinizione
di alcuni aspetti della società napoletana. Il secondo, del ventennio 1166-1189, caratterizzato dalla lunga fase positiva, è sintomatico della favorevole tendenza dell’economia
cittadina.
2. VENDITE DI TERRA E VENDITE DI IMMOBILI
Il raffronto tra vendite di terre e vendite di immobili è, per tutto il XII secolo, a tutto
vantaggio delle terre, con un rapporto di poco più di 3 a 1 (rispettivamente cinquanta e
quattordici). Gli immobili scambiati sono pochi, collocati tutti all’interno della città
(tranne in un caso, relativo ad una domus – fornita di orto e piscina – sita ad Ottaviano),
con una maggiore prevalenza nelle regioni di Forcella e di Somma Piazza.
Regione
Numero contratti
Forcella
4
Strade
Vico de Campana; Platea Nostriana; vico publico de Galippi; vico
publico S. Euplo
Somma Piazza
2
Vico S. Maria de illu Pictione; vico publico Birginum
Nilo
1
Platea publica Atrense
Foro
1
Platea publica at Forum
Termense
1
Mola Fracta
Augustale
1
Vico Capuano
Portanova
1
Porta de Monaci
N.P.
2
---
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L’elenco è il seguente:
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
domus
1/3 di domus
1/2 domus cum trasendis et gradelle communalis
cellaria
superiora
superiora cum tectum
balneus
1/2 superiora
1/2 orreum
solarium
5
1
1
4
3
1
1
1
1
1
Prevalgono le piccole unità – magazzini, depositi, singole stanze, un balneus –, spesso
frazionate (metà o un terzo). Le poche case (cinque più la metà di una domus cum trasendis
et gradelle communis e 1/3 di domus) passano di mano, quasi tutte, tra il 1106 e il 1118, costituite in prevalenza da abitazioni distrutte o semidistrutte (domus distructa; terra bacua qui
antea domus fuit), forse a causa del primo assedio normanno. La sensazione è che queste
vendite sembrano rientrare in un programma di ricostruzione e di riaggregazione patrimoniale, come testimoniato da due esempi. Il primo, del 1107, vede coinvolto direttamente il
duca, Giovanni, che cede a due esponenti del suo entourage, Lando e Pietro Bircido, dilecti
fideli serbienti nostri, una integra domum distructa a Somma Piazza, già di proprietà di un altro
serbiens del duca, Giovanni della nobile stirpe dei Romano. La zona appare seriamente
danneggiata (domu distructa quo modo ortu est; in terra fundamentu de pariete est finis ubi
fuerunt regie qui ingrediebat de una in alia; a parte septentrionis est domicella distructa) e,
laddove c’era la città, sorgono ormai solo orti e terreni: ad est un horticellu Stephani qui
nominatur de Turre; ad ovest un altro orto dello stesso de Turre; a sud horticellu heredum de
illu Bocciaboccia. Nonostante vengano versate nelle casse ducali 17 solidi d’oro, il tenore del
contratto va al di là di un semplice passaggio di beni. A dimostrazione, va segnalata la
garanzia di continuità nel patrimonio immobiliare di uomini fedeli al duca – prima il
Romano, ora i Bircido – in un tratto urbano di rilevante importanza nel complessivo assetto
difensivo. In secondo luogo, il duca richiede un rapido intervento di bonifica dello stabile,
col recupero e la ricostruzione di tutto il piano superiore compreso tetto e terrazzo (astracum):
conciare et edificare et sterrare et ostracare et illas in altum ascendere et cohoperire4, in modo da
ripristinare parte del tessuto urbano e ridare vigore a questo settore cittadino. E sorprende
come, dopo circa vent’anni, la zona sia stata totalmente recuperata e affollata da nuove
abitazioni che si addossano l’una all’altra, con la tipica commistione, su più livelli, tra tetti,
stanze, pareti, finestre, case, corti e magazzini, senza più spazio per terre bacue, detriti e orti5.
4. Monumenta (cit. n. 2), II, II, n. 22.
5. Ivi, II, I, n. 628: superiora que est constituta super superiora qualiter salitur per hac tectum una cum
eodem tectu desuper se... que coheret a parte orientis est domos tua, et a parte occidentis sunt ahere desuper curticella qui est de ecclesia Sancti Petri ad palatini et ubi abet una fenestra maiora qui respicit super ipsa curticella et
unde per ipsa curticella ibidem lumen ingredit. Iterum et pigna eius tectui decurrit ed descendit in ipsa curticella.
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E dove gli stessi Bircido continuano nella loro opera di ricostruzione col comprare altri
beni confinanti con la loro casa e con l’impegnarsi in ulteriori interventi di recupero:
pariete que tu facere et habere debeatis super capite de pariete qui ascendit inter ipsa domo tua
et inter inferiora et superiora de ecclesia Sancti Petri ad palatino.
Il secondo riguarda l’acquisto, compiuto nel 1112 da Rigale, badessa del cenobio dei Ss.
Gregorio e Sebastiano, di due case, per la cifra record, la più alta riportata nella documentazione del XII secolo, di 280 solidi: contratto grazie al quale il monastero rafforza la sua presenza
nella zona della platea Nostriana, nella regione di Forcella, considerato che una delle abitazioni
confina direttamente cum domo dicti monasterii e cum habitationibus dicti monasteri6. Data
l’importanza della cifra messa in gioco, ritengo che nell’operazione sia implicata la stessa
famiglia ducale, un’ipotesi avvalorata dai vincoli di parentela esistenti tra il duca e la badessa
(umile abbatissa dilecta parenti nostra): relazione rafforzata nel 1127 da un atto di conferma
in favore della badessa compiuto dal duca Sergio VII di omnia privilegia, comprendenti
integras omnem ereditatem seu substantias de intus et foris hoc est domos et casalibus seum terris
sationalibus quamque fundoras et ortos vel mobilibus rebus mobilium et immobilium7.
3. I TERRENI
Passiamo ai terreni. Sono complessivamente 58, con sette tipologie:
1
2
3
4
5
6
7
Terra
Terra cum arboribus et fructoras
Terra cum arboribus et fructoras, palmento, suscettorio et piscina
Clusurie
Terre campesi
Corrigia
Ortum
27
12
7
4
6
1
1
L’interesse dei compratori è quasi esclusivamente rivolto a terreni già sottoposti a
coltura: le terre, ossia i seminativi, gli orti, le corrigie e gli spazi recintati con siepi e palizzate
(clusurie). Invece poco si bada, vista forse la scarsa rilevanza economica o le alte spese di
impiego, ai terreni ancora da bonificare, come attesta la presenza di appena 6 terre campesi
(cioè non dissodate). Il boccone più ricercato sono le colture vinicole, per le quali si usa
il consueto sistema della piantata alta su supporti vivi, e dai frutteti (terra cum arboribus
et fructoras): unità agricole specializzate, che richiedevano grossi investimenti sia economici
sia sotto forma di lavoro agricolo e che imponevano una cura costante dei vitigni e delle
altre colture ripartite su più livelli. Unità che spesso vengono vendute con le attrezzature
per la pigiatura e la conservazione del mosto (palmentum et susceptorium) e delle cisterne
per l’irrigazione dei terreni (piscine).
Le misure sono veramente piccole. Tanti minuscoli appezzamenti, che raramente
superano i 5 moggi (un solo caso, tardo – del 1196 – riporta un terreno di 6 moggi). Anzi,
6. Ivi, II, I, n. 603.
7. Ivi, II, I, n. 26.
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ci si tiene sempre su misure estremamente basse, al di sotto di 2 o di 1 moggio, con
addirittura frazioni di 3, 4, 5, 12 e 14 quarte. Né ci sono grosse variazioni tra il periodo
ducale e quello normanno, quando, in alcuni casi, le dimensioni divengono leggermente
più grandi: se tra il 1100 e il 1140 la misura massima è di 4 moggi (mentre tutte le altre
non superano i 2 moggi), dopo si ha più di un caso di terre di 3 moggi (1154, 1173), uno
di 5 moggi (1168), uno di 5 moggi e 5 quarte (1183).
Queste parcelle si addensano in poche e limitate sacche, considerati i gravi problemi
ambientali che gravano sul territorio. Paludi e boschi rendono gran parte del Ducato
inaccessibile, soprattutto lungo il fronte costiero ad ovest della città. Poi a nord il fiume
Clanio costituisce un argine malsano che rende l’habitat del tutto inospitale, vero e proprio
elemento di separazione con la Terra di Lavoro. Ad est, invece, le grandi paludi intorno
al Sebeto complicano l’insediamento nell’interno, mentre alle falde del Vesuvio, specialmente lungo le pendici meridionali, i villaggi sembrano inghiottiti dalla grande foresta che
prenderà poi il nome di Selva mala. Così le terre tendono ad aggregarsi in generale, com’è
tradizione, presso i casali, cresciuti nella prima epoca bizantina e considerati, già allora,
parte integrante del sistema urbano cittadino8.
Ma non ci si può arrestare solo agli aspetti ambientali. Esiste anche un problema di
controllo politico. I Napoletani non riescono più a dominare lo spazio che li circonda,
pressati come sono, a partire dalla seconda metà dell’ XI secolo, dai Normanni di Aversa
e di Capua, e, poi, dalle truppe del Guiscardo e di Ruggiero II. Sbiadisce così l’interesse
per la zona flegrea e per la Liburia, per secoli florido terreno di contesa con i Longobardi.
L’attenzione si rivolge ora alle immediate vicinanze e si restringe al cortile di casa, all’ager
Neapolitanus e alla parte costiera del territorium Plagense, facilmente difendibili e fonti
primarie di approvvigionamento. Questa modifica nell’interesse economico la si avverte
chiaramente considerando la trama degli acquisti, che segue poche direttrici e che ha, come
estremi, a nord Casoria e Cuculum, ad ovest Pianura e Fuorigrotta e, ad est, lungo il
litorale vesuviano, Calastro (Resina). Si compra terra a una media distanza dalla città (tra
uno e due miglia), presso i villaggi di Capodimonte (due), Piscinola (due) e Miano (una).
Al di là del fiume Sebeto (foris flubeum), vengono acquistate due terre a Ponte piccolo, due
a Terzo, una a Trasanum foris flubeum, una a San Giovanni a Teduccio, una a Casavalera
e poi, ai margini estremi, due terreni a Calastro. Un altro gruppo è ubicato tra Fuorigrotta
(nella località di Solaranum) – dove vengono vendute tre terre – e Pianura. Un altro
ancora a nord della città, lungo la strada che conduce verso gli Appennini e che passa attraverso la ripida strettoia del Caput de Clivus e che attraversa le località di Baccillanum
(dove vengono scambiate tre terre), S. Pietro a Patierno (due terre) e Casoria (una terra).
Presso il castello di Cuculum se ne vende un’altra. Una sola, sul versante interno del
Vesuvio, ad Ottaviano. E poi a Cisano, a Forma rubta, ad Abaranum e, in un unico caso,
lontano, a Lauro super clio Capuano.
Dove si investe di più è nel circondario del casale di Calvizzano9. Posto ai limiti di una
delle più feconde aree rurali dell’antichità – quella della Centuriazione romana –, già da
8. Introduzione, in A. FENIELLO ed., Napoli nel Medioevo. Territorio ed isole, 2008, p. I-VI.
9. Le zone interessate sono queste: Calvizzano (4), ad Tiburula o Teverola (2), Patruscano (2),
Granianum (2), Scannalupu (1), ad Sorba (1), Casinianum (1), S. Pietro ad novem arbores (1).
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più di due secoli il villaggio è uno dei principali produttori dell’intero hinterland. Una zona
dove già nel X secolo appaiono maturi i segni della colonizzazione e della bonifica, sospinta
da comunità di villaggio, aristocrazia cittadina ed enti religiosi e che trova in un consistente
nucleo rurale di dominio della famiglia ducale l’elemento catalizzatore della crescita. Una
vivace dinamica economica, quella di Calvizzano, che già dal primo ventennio dell’XI
secolo consente l’avvio di una sostenuta dialettica di compravendite (16 contratti per il
solo periodo 927-998), la quale si mantiene costante nel tempo, senza grandi oscillazioni,
sino al XII, quando si registrano 14 contratti, quasi tutti stipulati nel corso del regno dei
due Guglielmi10.
4. I PREZZI
Le terre, come di solito a Napoli, vengono pagate in oro, adoperando come moneta di
conto il solidus di Bisanzio e, nella pratica quotidiana, il tarì di Amalfi, la moneta corrente
del peso di circa un grammo valutata 4 tarì per ogni solidus (tarì ana quatuor per solidus).
Se la moneta circola, e come vedremo ne circolava, c’è da chiedersi cosa determinasse il
loro prezzo. Non è una domanda semplice: tanti possono essere i fattori, soprattutto in
questo mondo dove l’economia è subordinata spesso a componenti di natura politica,
sociale, religiosa, mentale e psicologica. Una difficoltà aggravata poi dalla generica descrizione dei beni venduti e dalla scarsa conoscenza dello sviluppo agricolo delle varie aree del
distretto. Perciò, prima di rispondere alla domanda, ritengo opportuno proporre, con
tutte le cautele del caso, la media dei prezzi per tipologia dei terreni, con l’indicazione di
un valore massimo e di uno minimo:
10. Per la descrizione della zona di Calvizzano e dell’evoluzione del suo paesaggio si veda l’eccellente art.
di D. SARNATARO, I casali di Calvizzano, Marano e Mugnano nell’alto Medioevo, in Napoli nel Medioevo (cit.
n. 8), p. 69-77.
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Tipologia
Media (in solidi)
Val. massimo
Val. minimo
Terra cum arboribus et fructoras
94,8
266
15
Terra cum arboribus et fructoras cum
93,6
261
26
Terra campese
68
112
3
Clusuria
47
75
20
37,6
56
1 e 1/2
palmento et susceptorio et piscina
Petia de terra
Vista la ridotta ampiezza dei terreni, il prezzo medio per unità è certamente alto. Poco
al di sotto dei cento solidi è la media delle terre più specializzate, con un valore massimo
di 266 solidi registrato, nel 1173, per una terra cum arboribus et fructoras di tre moggi sita
a Baccillanum super Caput de Clivu. Anche i terreni da dissodare hanno quotazioni piuttosto
elevate, con una media di 68 solidi, ed è evidente la loro tendenza al rialzo: nel 1154 tre
moggi campesi a Patruscano, presso Calvizzano, valgono 30 solidi; 22 anni dopo, nella stessa
zona, 4 moggi 100 solidi; nel 1196, a Pianura, 1 moggio e 9 quarte 95 solidi. Le clusurie
si mantengono su una media di 47 solidi. Le petie de terra, infine, hanno il valore più basso,
sintomo della loro minore redditività: 56 solidi è il prezzo più alto pagato per una terra a
Solaranum, presso Fuorigrotta, mentre appena 1 solido e mezzo viene impiegato per
l’acquisto di un’integra terra ad Abaranum.
Il dato principale è però che, più ci si addentra nel secolo, più il prezzo generale della
terra aumenta. Osserviamo le curve dei prezzi e del numero di contratti tra 1050 e 1190,
calcolate su base ventennale.
Evoluzione dei prezzi (1050-1190)
90
80
Legenda:
70
_____________
60
. . . . . . . . . .
acquisti
50
40
30
20
10
0
1050-1070 1070-1090 1090-1110 1110-1130 1130-1150 1150-1170 1170-1190
curva dei prezzi
curva degli
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L’indice medio dei prezzi, a differenza di quello del numero delle compravendite, si
sviluppa con evidenza, in maniera progressiva. Occorre osservare, anche in questo caso,
i dati in modo specifico, con la valutazione delle variazioni ventennio per ventennio,
assumendo come elemento di partenza la cifra di 11,5 solidi del periodo 1050-1070:
Anni
Prezzi medi
(in solidi)
Variazione
(in percentuale)
1050-1070
11,5
---
1070-1090
15,7
+ 27 %
1090-1110
33,1
+ 187 %
1110-1130
40,3
+ 250 %
1130-1150
41,46
+ 260 %
1150-1170
60,37
+ 424 %
1170-1190
86,6
+ 653 %
Ad un aumento del 27 % tra il 1070 e il 1090, segue una prima fase di slancio, con
uno sviluppo del 187 % (da 15,7 a 33,1 solidi). Nella fase successiva (1110-1150), l’incremento prosegue passando dal 187 al 250 % (da 33,1 a 40,3), per poi assestarsi.
Le variazioni maggiori si raggiungono nel periodo normanno: si passa infatti da 41,46 solidi
a circa 60,4 nel ventennio 1150-1170 e a 86,6 in quello successivo, con un aumento
rispettivo che va dal 260 al 424 e, dopo, al 653 %. Insomma, tra 1050 e 1190 i prezzi
aumentano in maniera imprevedibile, con progressioni persistenti e ininterrotte.
Allora, quali fattori li determinano ? E a cosa attribuire questo sorprendente balzo ?
Il buon senso mi porta a dire al semplice gioco della domanda e dell’offerta. Finché
l’offerta di terra rimane stabile, come avviene tra X e XI secolo grazie alla profonda azione
di bonifica, i prezzi si mantengono contenuti su una linea costante (in media tra i 15 e i
20 solidi). L’instabilità è invece il dato caratterizzante il periodo successivo, con effetti che
spingono il mercato della terra verso un alto livello di saturazione e frenano la crescita
dell’offerta. I motivi ? Diversi ma connessi in maniera causale tra loro.
Guardiamo gli aspetti strutturali: 1) il processo di concentrazione nelle mani di pochi
enti monastici (Ss. Severino e Sossio, S. Gregorio, S. Salvatore in insula maris, ecc.) di gran
parte del territorio coltivato, grazie ad un altissimo numero di donazioni, di cui tratterrò
più approfonditamente. 2) Le bonifiche, intraprese a partire dal X secolo, si riducono nel
XII per poi rapidamente interrompersi del tutto. Scompaiono gli strumenti contrattuali
innovativi di pastinato e ad meliorandum, sostituiti da formule più conservative che mirano
essenzialmente alla prosecuzione delle attività senza l’introduzione di nuove produzioni.
3) L’aumento della popolazione, con il conseguente incremento del fabbisogno agricolo
cittadino, determina una fame di terra che si infrange contro il muro di un coltivo che
cresce sempre meno. 5) La possibilità di immissione dei prodotti agricoli napoletani nel
circuito economico regionale e mediterraneo ha per effetto l’aumento della richiesta di
unità terriere, considerate l’unica e più redditizia forma di investimento. 5) La svalutazione
del tarì amalfitano – che nel corso del secolo subisce almeno quattro modifiche nel suo
intrinseco con un contenuto aureo che passa da circa la metà a meno di un quarto durante
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il governo di Tancredi11 –, determina una condizione in cui il valore della moneta non è
più proporzionale a quello nominale. Una difficoltà avvertita dai Napoletani (in maniera
particolare in età normanna), e la cui sola soluzione, in assenza di politiche monetarie, è
quella empirica di richiedere nei pagamenti tarì diricti, boni et pisanti, cioè i tarì con le
migliori caratteristiche possibili presenti in quel determinato momento sul mercato.
Non vanno dimenticati poi gli elementi congiunturali, in special modo politici.
Il passaggio al nuovo regime normanno ha effetti profondi, i quali condizionano ogni
evoluzione. La guerra influisce col gravare sulle strutture agricole e sul popolamento, con
la distruzione di insediamenti e di coltivazioni. Ma sono gli episodi successivi a creare la
maggiore incertezza. La scomparsa del publicum, il pubblico demanio, è l’aspetto di portata
più rilevante. Retaggio delle istituzioni bizantine, per secoli aveva rappresentato l’appannaggio della famiglia ducale (publicum ducis, res domnica, nostrum publicum), che ne
usufruiva come diretto proprietario. Esso incarna la principale componente economica del
distretto, motore delle opere di bonifica del X e XI secolo, intorno al quale agiscono, in varia
misura, i gruppi sociali più attivi. E che accorpa, al suo interno, villaggi, terre, comunità
e nuclei socio-economici distinti, le cosiddette case, composte da una popolazione in
condizione di semiservaggio. Il cambiamento politico stravolge questo sistema e il publicum
viene frazionato. Dal controllo di un unico soggetto si passa ad una molteplicità di attori:
in primis i nuovi sovrani, che lo utilizzano e se ne servono sotto forma di feudi e di
benefici. Poi le istituzioni monastiche, che ricevono quote di questo patrimonio personalmente dagli ultimi duchi, attraverso diversi atti di donazione. Infine, la nobiltà, di antica
o recente formazione, che, grazie all’agreement stipulato con re Ruggiero per sancire la
definitiva chiusura delle ostilità e l’ingresso di Napoli nel nuovo regno, assume ulteriori
porzioni di questa ricchezza, suddividendola ulteriormente.
Gli scompensi derivati dalla scomparsa del publicum sono evidenti. Negli equilibri
patrimoniali, che vengono stravolti. Nella gestione del mondo contadino, che, come
accade in ambito monastico, viene sottoposto a condizioni più miti di governo, col
passaggio dal sistema per case a contratti duraturi ad laborandum. Negli assetti sociali, con
la perdita di un sicuro punto di riferimento sul territorio e di organizzazione del suo
tessuto produttivo. Inoltre, ci si aspetterebbe che la parcellizzazione del publicum apporti
nuova linfa ad un mercato quasi saturo; invece aggrava la situazione perché la grande
quantità di terra viene subito assorbita, senza grandi sforzi economici, da un pugno
ristretto di detentori, in maniera particolare religiosi, i quali, attraverso il gioco dei rendimenti crescenti, si arricchiscono ancor di più e accelerano la tendenza verso le
concentrazioni patrimoniali. Una situazione che, nell’ambito delle compravendite, aumenta
la spirale monopolistica, che da un lato incide sui prezzi e, dall’altra, rende difficile, a
componenti più ampie della società cittadina, di poter accedere alla terra.
La mia idea sull’aumento dei prezzi è dunque questa: essa è conseguenza di una crisi
di riadattamento, dopo secoli di crescita equilibrata e di una fase, più recente, convulsa e
di mutamento. Il nuovo management politico, il riassetto del publicum, la concentrazione
11. Per questi dati, L. TRAVAINI, I tarì di Salerno e di Amalfi, Rassegna del Centro di cultura e storia
amalfitana 10, 1990, p. 7-72.
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patrimoniale, l’incremento demografico, le nuove opportunità del mercato, la svalutazione,
ecc. generano una dinamica complessa, che, nel medio-lungo periodo, spinge in alto i
prezzi ed esige di riscrivere alcune regole di questa economia. E che pone in evidenza, tra
l’altro, un aspetto nuovo per Napoli: quello di una porzione influente della città – composta
soprattutto da enti religiosi – che si arricchisce, e tanto, con la terra e accumula nuovi
capitali da reimpiegare in agricoltura.
5. LA CIRCOLAZIONE DEL DENARO
Il denaro che circola a Napoli è molto. Al di là delle oscillazioni valutarie, che, come
credo, hanno un sicuro peso, nelle compravendite vengono impegnati complessivamente,
tra terre e immobili, 3246 solidi. Di cui, più della metà – 1838 solidi – concentrata nel
trentennio 1160-1190, Se paragoniamo il circolante adoperato a Napoli per comprare terra
con quello usato allo stesso scopo ad Amalfi12, ossia la realtà cittadina considerata ancora
in quest’epoca la più dinamica del Mezzogiorno, emerge un dato su cui riflettere:
Mezzogiorno, emerge un dato su cui riflettere:
Circolante adoperato nelle compravendite
1200
Legenda:
1100
1000
_____________
900
800
circolante
impiegato a Napoli
700
. . . . . . . . . .
600
circolante
impiegato ad Amalfi
500
400
300
200
100
0
11001110
11101120
11201130
11301140
11401150
11501160
11601170
11701180
11801190
11901200
La sovrapposizione delle due curve mette in luce che, se nella prima metà del secolo
gli Amalfitani investono una quantità di moneta maggiore rispetto a Napoli, a partire dal
decennio 1140-1150 avviene un’inversione di tendenza, la quale prosegue lungo tutto il
secolo, come chiarisce la seguente tabella:
12. I documenti adoperati per Amalfi sono tratti da Codice Perris. Cartulario amalfitano (secc. X-XV), a cura
di J. MAZZOLENI e R. OREFICE, Amalfi 1985 (Centro di cultura e storia amalfitana. Fonti, 1), I, 92 (1100),
93 (1102), 94 (1102), 98 (1115), 99 (1112), 101 (1112), 102 (1118), 103 (1119), 107 (1122), 108 (1122),
109 (1124), 110 (1125), 114 (1126), 115 (1126), 116 (1126), 117 (1127), 118 (1127), 125 (1133),
126 (1136), 127 (1137), 128 (1138), 129 (1138), 130 (1138), 132 (1145), 134 (1146), 141 (1158),
144 (1167), 147 (1169), 149 (1171), 151 (1172), 154 (1172), 158 (1176), 162 (1177), 172 (1182),
175 (1184), 176 (1184), 177 (1184), 178 (1186), 179 (1186), 180 (1186),183 (1188), 184 (1192),
185 (1192), 186 (1192), 187 (1190), 188 (1193), 189 (1193), 190 (1194).
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Amalfi
Nap oli
1100-1110
220
40
1110-1120
685
20
1120-1130
660
101
1130-1140
506
326
1140-1150
230
254
1150-1160
40
104
1160-1170
148
454
1170-1180
370
1150
1180-1190
342
234
1190-1200
177
252
Tot.
3378
2935
Il totale tra le due città riporta il sicuro vantaggio di Amalfi, con più di 400 solidi di
attivo nel corso del secolo. Tuttavia, il dato da sottoporre è un altro: la differenza che si
riscontra tra la prima e la seconda metà del secolo. Gli investimenti amalfitani si
mantengono alti tra 1110 e 1150, ma con un graduale calo (da 685 a 230 solidi), contrariamente a quanto avviene per Napoli, dove avviene l’opposto, con il superamento, tra
1140-1150, della piazza amalfitana, con la cifra di 254 solidi. Da questo momento il
trend è sempre a vantaggio della cittadina partenopea (tranne nel decennio 1180-1190),
con l’exploit di 1150 solidi – a fronte di 370 – avvenuto tra 1170 e 1180. Come leggere
questi dati ? Come il decollo dell’agricoltura e dell’economia napoletana, a cui fa da
contraltare la crisi degli investimenti amalfitani, che nella seconda metà del secolo vivono
un profondo declino, accumulando in cinquant’anni una distanza di ben 1117 solidi
(1077 rispetto ai 2194 napoletani) ? Può essere, sebbene Amalfi possa contare, ancora in
quest’epoca, su altre vantaggiose fonti di investimento oltre quelle rurali. Ma, comunque,
considerando le due situazioni in parallelo, la performance del mercato della terra
napoletano è sorprendente, sintomo del cambiamento profondo degli equilibri economici
regionali, nei quali Napoli e il suo territorio cominciano ad assumere un ruolo centrale
di piazza di produzione agricola e, progressivamente, di mercato di distribuzione su scala
tirrenica e mediterranea.
Meglio di altri, Giuseppe Galasso spiega che, in quest’epoca, « Napoli si qualifica come
importante produttore agrario, oggetto di forte interesse da parte di mercanti e operatori
economici di zone più dinamiche ed avanzate »; e la pianura napoletana diviene uno degli
epicentri dello sviluppo produttivo delle campagne meridionali, che si verifica « prima per
spinta propria poi anche per sollecitazione del mercato internazionale »13. Sono dunque i
mercanti forestieri che arricchiscono i Napoletani, comprando e rivendendo i prodotti del
territorio. Prima gli Amalfitani, che, già a partire dall’XI secolo, sfruttano le opportunità
economiche cittadine. Non si tratta dell’intervento episodico di pochi immigrati, ma di
13. G. GALASSO, Napoli e il mare, in G. MUSCA ed., Itinerari e centri urbani nel Mezzogiorno normannosvevo. Atti delle X giornate normanno sveve (Bari, 21-24 ottobre 1991), Bari 1993 (Atti dell’Università degli studi
di Bari. Centro di studi normanno-svevi, 10), p. 31.
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gruppi familiari consistenti che si trasferiscono in città insediandosi nel suo cuore e sfruttandone le potenzialità. Proprietari di terre nell’hinterland che si affiancano alla
nomenclatura cittadina, che ingaggiano con essa una proficua politica matrimoniale e di
inserimento sociale nelle magistrature e nelle potenti istituzioni monastiche. Che li proietta,
di fatto, all’apice della vita urbana. I nomi sono noti: Amalfitano, Comite Maurone,
Augustariccio, Pantaleone, Coppola, Frezza... E la loro influenza si dilata nel tempo,
riconosciuta ancora alla fine del secolo (il 9 maggio 1190), quando Tancredi concede agli
abitanti della Costiera residenti in città immunità e franchigie.
Ma, già in questo periodo, la loro posizione si è deteriorata. La marea è infatti mutata.
A partire dal regno di Ruggiero II in poi, gradualmente, le navi provenienti dai porti
dell’Italia centro-settentrionale prendono il posto delle marinerie e degli operatori locali.
Arrivano nuovi mercanti, con diverso know how, differenti capacità e altri potenziali, i quali
godono di ampi appoggi dalla Corona – facilitando loro l’inserimento nel Mezzogiorno
– e spingono ai margini i mercanti del posto. A partire da questa fase, per la storia
economica meridionale, niente sarà più come prima: scambio ineguale, passivo nella
bilancia dei pagamenti, scadimento del ruolo dell’imprenditoria regnicola diventano gli
elementi di fondo di un contesto ormai condannato ad una condizione economica di tipo
coloniale. Sebbene ciò significhi pure rafforzata intensità dei traffici, nuova funzione dei
porti meridionali e graduale inserimento delle produzioni agricole del sud in un circuito
degli scambi che abbraccia distanze e quantità prima di allora inimmaginabili14.
In questo scenario, Napoli, a differenza di altri centri meridionali, aumenta le sue
chances. Diventa prima approdo amalfitano, poi, man mano, centro di raccordo pisano e
genovese. Un ruolo che si accresce nel corso del secolo, quando ormai le vecchie gerarchie
cittadine e mercantili rapidamente si trasformano. Questo grazie ad alcune importanti
condizioni che la città può offrire: la posizione strategica, le strutture portuali, una popolazione in crescita, le relazioni privilegiate col potere politico e, infine, la possibilità di trarre
grossi guadagni dall’import-export, dalla produzione agricola e dal surplus di capitali da essa
generati. Se ancora agli esordi degli anni Ottanta del secolo, per i Genovesi figurano come
piazze meridionali soltanto Amalfi e Salerno, appena qualche anno dopo Napoli emerge
con un indice notevole, di fronte all’assenza delle altre due15.
14. Sulla trasformazione dello spazio economico del Mezzogiorno, si suggerisce la lettura dei saggi di
H. BRESC, Reti di scambio locale e interregionale nell’Italia dell’alto Medioevo, in R. ROMANO e U. TUCCI
ed., Storia d’Italia Einaudi, Annali 6: Economia naturale, economia monetaria, Turin 1983, p. 137-183; e di
G. PISTARINO, Commercio e vie marittime di comunicazione all’epoca di Ruggiero II, in Società, potere e
popolo nell’età di Ruggiero II. Atti delle III giornate normanno-sveve (Bari, 23-25 maggio 1977), Bari 1979 (Atti
dell’Università degli studi di Bari. Centro di studi normanno-svevi, 3), p. 239-258.
15. Vedi, a questo proposito, G. PISTARINO, Commercio e comunicazioni tra Genova ed il regno
normanno-svevo all’epoca dei due Guglielmi, in Potere, società e popolo nell’età dei due Guglielmi. Atti delle IV
giornate normanno-sveve (Bari-Gioia del Colle, 8-10 ottobre 1979), Bari 1981 (Atti dell’Università degli studi
di Bari. Centro di studi normanno-svevi, 4), p. 286.
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6. I VENDITORI
I venditori sono in tutto settantasei, quasi tutti appartenenti al gruppo dominante
cittadino, definiti nella documentazione semplicemente come domini, senza altre specificazioni. Sono membri di una struttura sociale che si adatta al cambiamento, cercando
di mantenere sostanzialmente immutata la propria cornice di riferimento e le proprie
rendite di posizione. Però, qualcosa nel loro assetto cambia, soprattutto nelle vicende
legate alla terra: vedono sparire gran parte delle loro piccole proprietà, assottigliarsi la
loro presenza nell’hinterland, tramontare il loro ruolo di proprietari terrieri a vantaggio non
di gruppi sociali antagonisti ma della componente religiosa, formata soprattutto da enti
monastici. Aspetto che non crea antagonismi, considerata la compenetrazione tra essi e il
gruppo dirigente napoletano. Ma che cambia sicuramente il rapporto di forze all’interno
della città, perché i monasteri si espandono sottraendo margini di manovra a tutto un ceto
e assumendo, in campo economico, un’attitudine soffocante e monopolistica.
Perché si vende ? gli indizi per capirlo sono pochi. Emerge qua e là qualche traccia, che
rivela certezze sociologiche più che sociali. Che svela un ambiente concreto, gravato dalle
contingenze, sottoposto ai colpi del bisogno. Dove si vende per opus et necessitates eorum.
oppure a causa della guerra che incombe (pro ista guerra ubi modo sunt). O, ancora, perché
pressati dai debiti, come accade nel 1196 a un tal Martino Liborano, di Calvizzano, il quale,
su un totale di sette once di tarì (equivalenti a 52 solidi e ?) ricavate dalla vendita di 6 moggi
di terra, ne deve versare tre a Giovanni figlio di Mauro Amalfitano, e tre a un esponente
della famiglia Capece Tomacello. Conservando per se stesso appena un’oncia16:
Unde exinde redidibi a quidem Iohanni Amalfitano f. q. Mauro Amalfitano tres
uncie de auro et reconxita da eu una chartula de pignu quam apud te cabxata
remisit et alia tres uncie de auro exinde dedi et rendibi a quidem domino Gregorio
cacapice f. q. domini Sergii Cacapice Tumacello et reconxit da eum alia una chartula
de pignu quam apud te cabxata remisit et de reliqua una uncia de auro exit fecit
opus et necessitatibus meis
Non sappiamo se vi siano altri stimoli alle vendita. Giocano qualche ruolo le pressioni
speculative, visto l’andamento dei prezzi ? Si vende per alimentare il prestigio sociale ?
Incide, in qualche modo, la cattiva gestione dei patrimoni ? Non so rispondere, anche
perché, come si sa, nei comportamenti individuali e di gruppo vi sono moventi assai più
numerosi e potenti di quanto i documenti possano dire.
Tra i venditori, prevalgono quelli considerati, in genere, ai margini dell’agire economico:
donne, pueruli, adolescenti, ragazzi e ragazze al di sotto della maggiore età. In tutto quarantadue, che traggono circa la metà dell’intero ammontare, pari a 1440 solidi:
Numero
Ricavi dalle vendite (in solidi)
Uomini
34
1495
Donne
19
1019
Minorenni
24
421
Tot.
76
2935
16. Le pergamene (cit. n. 2), n. 45.
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Le donne sono 19, le quali guadagnano 1019 solidi, con una media pro capite di 53,6
solidi. La presenza femminile si accresce se, accanto ad esse, riportiamo anche il numero
delle donne che vendono immobili (sette), curiosamente concentrate tra 1106 e 1132, per
complessivi 369 solidi. Tra cui emerge la figura di Tamara Arcucci, proveniente da una delle
principali famiglie di origine caprese e vedova di uno dei maggiori esponenti della colonia
amalfitana a Napoli, Sergio Amalfitano: colei che vende al monastero di S. Gregorio le due
case nella regione di Forcella per 280 solidi.
Esse appartengono tutte al ceto più elevato, registrate come figlie e mogli di domini:
Sichimario, de domino Teodoro, Ademario, Capece de domino Landolfo, Arcamone,
Scoczicato, Buccatorio, de domino Pandulfo, de Cimina, Millula ecc. Naturalmente,
anche l’unica religiosa dell’elenco appartiene alla nobiltà: Gemma, badessa del monastero
Domini et Salvatoris nostris Iesu Christi et Sanctorum Pantaloni et Sebastiani atque beatissimi
Gregorii maioris, che vende tre pezzi di terra, tra cui una clusuria, a una monaca del suo
stesso monastero. Fa parte dello stesso ambiente pure Petrona, discendente di una delle
famiglie amalfitane più altolocate, quella dei Comite Maurone. Ognuna di esse compare
in un solo atto, tranne Marotta del dominus Aligerno Cimino, che trae 25 solidi da due
diverse transazioni.
Il discorso relativo alle vedove (che sono otto) e alle cinque donne che agiscono col
beneplacito dei mariti (cum consensu et voluntate) riveste un valore significativo. Le vedove
vendono prevalentemente beni ricevuti in eredità. Il loro valore è piuttosto ridotto, per
complessivi 224 solidi, con un massimo raggiunto di 74 per una petia de terra di un
moggio cum arboribus et fructoras venduta da Gemma del dominus Gregorio Greco relicta
domino Petro de Mauro; e un minimo di 9 per la quarta parte di un terreno e di un
palmento fornito di subxetorium et pissinam frabitis, ceduti da Trotta figlia Giriperti
Normanni. Le mogli ricavano invece la somma di 460 solidi, circa la metà dell’intero
ammontare femminile:
Marito
Bene venduto
Ricavo
(in solidi)
9
Marotta f. del dominus
Giovanni Sichimario
Dominus Iohannis Pagani Integras petias de terra
Sicha f. del dominus Marino
Mediacapu
Dominus Iohannes de
Pandolfo
Terra que est campise di tre moggi
30
Petrona f. di Sergio Comite
Maurone
Dominus Cesar Sesincula
Terra
60
Mala f. del dominus Pietro
Buccatorio
Gregorio de domino Aczo
Terra una cum arboribus et fructoras di modia tres qt
(et?) quarte due
266
Gayta f. del dominus Sergio
De Cancellu
Sergio f. di Giovanni
domini Guaimarii
Petia de terra campise di un moggio e 9 quarte
95
Il totale è elevato, sebbene la cifra venga assorbita quasi tutta dal contratto effettuato
da Mala figlia del dominus Pietro Buccatorio che, col benestare di Gregorio de domino Aczo,
vende la terra arbustata di 3 moggi e due quarte a Baccilliano al prezzo di 266 solidi.
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Vendita, al confronto della quale, le altre appaiono di tenore più ridotto, comprese tra
un massimo di 95 e un minimo di 9 solidi. Da dove provengono queste proprietà ?
Sembra piuttosto evidente, dalle doti. Se questa risposta è corretta, si può allora dire che,
su un totale di beni venduti per circa 3 000 solidi, almeno un sesto sia composto da esse,
cioè dalla ricchezza di proprietà esclusiva delle spose. Credo si tratti di un’indicazione
importante, che tuttavia lascia in ombra molti altri interrogativi, di cui i principali
sono: con che libertà agiscono ? Quale è il loro spazio sociale ? Con la perdita della
dote, che alterazioni patrimoniali subisce la famiglia del marito e quella originaria ?
Infine, l’alterazione che effetti ha sulle posizioni di privilegio e di status all’interno della
stessa società napoletana ? Domande che restano insolute, sulla scorta di queste sole
testimonianze.
Una questione altrettanto complessa riguarda i minorenni. Sono ventiquattro, di
cui diciannove maschi e cinque femmine, con introiti per 421 solidi. La quota
maggiore la realizzano tra 1131 e 1139 (quattro), poi una nel 1141 e le rimanenti nel
periodo dei due Guglielmi. I minori coinvolti nel primo periodo sono di antica
nobiltà: de Abbatissa, Roncella, Brancaccio, de Acerra, Sichimario. In un caso, relativo
a Pietro e Pandolfo Sichimario, la vendita si verifica in contemporanea con un’altra
compiuta dalla loro sorella Marotta (a. 1131). In un altro, invece, concernente
Gregorio e Giovanni de domino Teodoro, il contratto viene stipulato (ed è l’unico
esempio) insieme alla madre, Marotta. Successivamente i nomi sembrano meno prestigiosi, sebbene ricorra l’appellativo dominus: Pappamolle, Buccone, Barisano, de
Armanu, Millula, Scintilla.
Nonostante il loro impatto economico appaia inferiore rispetto a quello delle donne
e degli uomini, la condizione di minorità imponeva particolari forme di tutela sociale,
più a garanzia del patrimonio e della famiglia che non del minore, secondo la tradizione
del diritto romano. La questione è stata trattata molte volte e la riassumerò brevemente17. Per impedire malversazioni, per consuetudine l’autorità pubblica nominava un
tutore, a cui veniva affidata l’amministrazione del patrimonio del tutelato. Per Napoli,
questo incarico veniva attribuito dalla massima autorità politica, quella del duca (per
absolutione gloriose potestatis domini … eminentissimus Consul et Dux et Domini gratia
magister militum), che sceglieva un advocator, il cui incarico era obbligatorio. Non si
trattava di problemi superficiali, ma sostanziali, di gestione della vita pubblica ed
economica, data l’importanza della posta in gioco, la terra, al cuore di ogni interesse.
Fino a quando la famiglia ducale conserva il potere, non cede mai su questo punto e lo
esercita con continuità. Addirittura, l’ultimo atto amministrativo compiuto dal duca
Sergio VII è proprio la scelta di un tutore per garantire i minorenni Marino, Pietro e
Drosa de Abatissa18.
Ci si aspetterebbe che questa facoltà passi al nuovo potere normanno insediatosi in città.
E così avviene, ma in un solo caso, del 1141, quando è il nuovo compalatius Pietro, il
rappresentante a Napoli del sovrano, che sovrintende alla scelta del tutore:
17. Rimando soprattutto a M. SCHIPA, Contese sociali napoletane nel medioevo, Napoli 1906, p. 7-13.
18. Monumenta (cit. n. 2), II, I, n. 678.
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Per absolutionem domini Petri qui suprascripto domino nostro magnifico rege compalatius constituit in ista civitate nobiscum abendo abbocatore nostrum suprascripto
domino Marino … qui ipse compalatius nobis eum abbocatorem dedi eo quod non
sumus producti in legitima aetatem19.
Immediatamente dopo, però, accade qualcosa. Forse un contrasto in seno alla società
cittadina nei confronti del rappresentante regio. Oppure un semplice richiamo a quanto
stabilito dai nobili napoletani nell’agreement stipulato con re Ruggiero II. Fatto sta che,
da questo momento, il controllo dei minori e dei loro patrimoni ritorna in seno alla città.
Saranno infatti i maggiori rappresentanti delle diverse circoscrizioni urbane, i nobiliores,
ad assumersi questo compito: i nobiliores de regione S. Pauli maioris, de regione Signa, de
regione Portanobense, de regione Capuana ecc. I Napoletani, insomma, pretendono e
ottengono di conservare la loro autonomia in una questione di così rilevante importanza.
Ne richiedono la pertinenza propria ed esclusiva, senza che vi siano ostacoli da parte del
potere centrale. Una soluzione – anche questa, aggiungo –, segno dei tempi. Perché
smembra e modifica, come già era accaduto col Publicum, una delle principali ed originali
istituzioni cittadine, che viene frammentata e suddivisa tra diversi gruppi spesso in lotta
fra loro, senza che ci sia più un’unica e organica autorità di riferimento. E che adombra
qualcosa di più oggettivo e sostanziale, che si concretizzerà in seguito: la formazione di sfere
di potere autonome, guidate da consorterie e clan familiari, le quali, mano a mano,
aumenteranno il proprio prestigio e la loro capacità di intervento, attraverso la ripartizione
del tessuto cittadino per seggi e l’appropriazione di gran parte del sistema di difesa urbano20.
Il gruppo degli uomini è quello che vende di più, per 1495 solidi. La loro media si
mantiene un po’ bassa in rapporto a quella delle donne: 43,97 solidi rispetto a 53,6.
Anche qui prevalgono gli appartenenti al gruppo più elevato, come si apprende dalla
tabella seguente:
Composizione sociale maschile
Numero
Ricavi (in solidi)
Domini
14
791
Abitanti nel distretto
5
66 e ½
Religiosi
3
150
Forestieri
2
2
Servi
2
2e½
Nobiltà comitale
2
269
Scriniario
1
---
N.P.
5
214
Tot.
34
1495
19. Le pergamene (cit. n. 2), n. 1 (1141).
20. A. LEONE e F. PATRONI GRIFFI, Le origini di Napoli capitale, Salerno 1984, passim; e A. FENIELLO,
Contributo alla storia della « Iunctura civitatis » (Secc. X-XIII), in A. LEONE ed., Ricerche sul Medioevo napoletano:
aspetti e momenti della vita economica e sociale a Napoli tra decimo e quindicesimo secolo, Napoli 1996 (Biblioteca
storica meridionale. Testi e ricerche, 9), p. 138-156.
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I domini sono quattordici e vendono terre per 791 solidi, assai meno, dunque, del totale
delle donne e dei minori messi insieme. Mediamente essi guadagnano somme piuttosto
alte, intorno ai 57 solidi, con un massimo di 185 solidi e un minimo di 11. Per loro, più
che per altri, risulta difficile capire perché vendano. Basta leggere i loro nomi, per capire
che non appartengono ad un’aristocrazia perdente e in fase di declino – anzi, il contrario,
sono di coloro che guidano la transizione : Romano, Bulcano, Caracciolo, Buccatorio, de
Gurgite, Primario, Brancaccio, Campomorisco, Tribunopardo, Guindazzo. Le loro vicende
sono comuni. Prima, compaiono come esponenti dell’entourage ducale, al punto da poter
vantare i titoli di camerarius domini nostri, di compalatius o di serbiens del duca. Nella caotica
fase di passaggio e nel periodo normanno aumentano la loro capacità di intervento nelle
questioni urbane, sia con l’inserimento di propri membri negli enti religiosi e con un’efficace politica matrimoniale e di alleanze; sia accrescendo i propri possedimenti immobiliari
e imponendo il proprio controllo sulle diverse circoscrizioni.
A questo gruppo vanno sicuramente aggiunti due personaggi, che nella tabella ho
inserito come membri della nobiltà comitale. L’utilizzo del termine comite era piuttosto
comune in ambito napoletano. Titolo di prestigio, a cui corrisponde originariamente una
funzione militare. C’è da notare però che, a partire dall’XI secolo, alcune delle principali
piazzeforti a tutela del territorio vengono destinate per la difesa proprio a comites, i quali
danno vita a vere e proprie dinastie, con autonome discendenze. Il principale di questi castra
affidati è Pozzuoli, mentre, più decentrati, sono Nola, Avella e Suessula iuxta rivulum
Laneii, cioè presso il Clanio. E’ una suddivisione tutta legata alla storia del Ducato, che
poco ha a che vedere con la successiva ripartizione normanna. Tuttavia, nella società
napoletana, in alcune famiglie, resta memoria di questa origine comitale, che, caso raro
nella documentazione, adottano uno schema genealogico per alcuni tratti simile a quello
delle famiglie amalfitane, ripartito su più generazioni. Nelle nostre vendite appaiono due
nomi. Il primo, del 1132, è quello di Gregorio de domino Auferio, figlio di Giovanni comes
di Avella figlio di Dauferio comes di Avella. Il secondo, del 1178, è di Stefano Milluso figlio
di Giovanni e di Angelessa, figlia del dominus Filippo qui fuit filium quondam domini
imperiali Protonobilissimo qui fuit filium quondam domini Bernardi comite de Suessula21.
Le differenze con Amalfi sono molte: innanzitutto va ribadita l’eccezionalità; in secondo
luogo, non ci si spinge al di là della quarta generazione; in terzo, c’è l’utilizzo di una
donna come anello intermedio di successione, cosa che ad Amalfi non avviene mai.
Tuttavia credo che lo spirito sia lo stesso: rivendicare il proprio prestigio e ribadire la
propria partecipazione ad un ceto eminente, forse perché homines novi o in quanto appartenenti a rami familiari più deboli ma in fase di ascesa. D’altra parte, i due contratti non
permettono di quantificare quale fosse la loro forza economica. I dati sono, infatti, contraddittori. Da una parte, c’è chi vende terra per appena 8 solidi e lascerebbe pensare, ma è
una pura congettura, ad una situazione di decadenza, visto che il bene ceduto è esiguo (duas
quartas petie terre). Dall’altra, c’è chi ricava una cifra ingente (ben 261 solidi), dalla vendita
di un’ampia proprietà comprensiva di petia de terra una plana in qua est constituta pischina
21. Per i due docc., vedi rispettivamente Monumenta (cit. n. 2), II, I, n. 657 e Le pergamene (cit. n. 2)
25. Per Amalfi M. DEL TREPPO, Amalfi: una città del Mezzogiorno nei secoli IX-XIV, in M. DEL TREPPO e
A. LEONE ed., Amalfi medioevale, Napoli 1977 (Biblioteca di studi meridonali, 5), p. 89 ss.
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et palmentum et subscettorium suum et alia petia de terra pendula cum scapula coniuncta, una
cum arboribus et fructoras.
Se osserviamo, infine, tutti gli altri venditori, cinque vengono da Calvizzano, due sono
della famiglia Pantaleone originaria della Costiera amalfitana, tre sono religiosi, uno è lo
scrinario Pietro Condimento, due vengono registrati come servientes S. Neapolitanae
Ecclesiae, risiedenti nel villaggio di Casoria, che vendono un minuscolo appezzamento
(pectiola terre) della misura di quattro quarte, al prezzo di 10 tarì, cioè 2 solidi e mezzo.
Di altri cinque non sono riuscito a risalire a nessun gruppo determinato né vengono
menzionati come domini. Ne riporto comunque i cognomi: Gaydo, Strognulo, Pappadea,
de Mustu, Magellone.
Il ritratto dei venditori napoletani contempla tante variabili, e, sebbene molte questioni
restino insolute, risulta chiaro nella sostanza. Si tratta di un mondo composito, fatto di
donne, adulti e adolescenti di diversa ascendenza (locale, longobarda, normanna,
amalfitana) ma appartenenti al ceto dirigente cittadino, al gruppo dei domini. Persone
spinte alla vendita essenzialmente dal bisogno, che effettuano singole e frammentate
operazioni, che però non alterano la loro posizione nel contesto sociale generale che, nella
pratica, resta immutata. Vendite che, però, mettono in luce l’emorragia di terre, di tante
piccole parcelle che vengono immesse sul mercato, che cambiano nome e proprietario,
alterando gli equilibri patrimoniali fino ad allora costituiti. Sta qui l’aspetto che marca il
cambiamento, economico e sociale a un tempo. Perché a questo progressivo flusso si
contrappone un movimento parallelo, che assorbe il movimento, lasciando che si concentri
nelle mani capaci di pochi singoli detentori, ora più che mai padroni assoluti del territorio
napoletano.
7. I COMPRATORI
Gli acquirenti sono veramente pochi. Comprano tre grandi monasteri, un pugno di preti
e di monaci, qualche sacerdote del Capitolo cittadino, il duca (finché governa), e qualche
suo collaboratore, una decina di domini e, le briciole, agli abitanti delle campagne. Tra loro,
un’unica donna laica e nessun minore.
Soggetti
Numero
Contratti effettuati
Cifra investita
(in solidi)
Monasteri
3
29
2195 e ½
Domini
9
9
410 e ½
Preti e monaci
3
3
138 e ½
Chiesa arcivescovile
4
4
75
Residenti nel distretto
3
2
84
Duca
1
2
31
Ambiente ducale
1
1
2e½
Tot.
24
50
2935
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Contro lo strapotere dei monasteri, non vi sono concorrenti. Non il duca Sergio VII,
che sembra avere una funzione ormai defilata in questa particolare fase della storia cittadina,
il quale interviene con un’operazione di salvataggio del patrimonio dell’eminente famiglia
dei Sichimario, da cui, con due diversi contratti, acquista, per 31 solidi, piccoli appezzamenti a Piscinola22. Né la chiesa arcivescovile, uno dei maggiori detentori di proprietà nei
dintorni di Napoli23, che emerge a malapena nei contratti attraverso Pietro Caracciolo,
diacono Sanctae Sedis Napolitanae e rettore della chiesa Severiana, che nel 1110 compra
per 40 solidi una petia de terra a Porchiano. E, più tardi, con il presbiter del Capitolo
Sergio Bonanima, menzionato come abbas della chiesa di S. Gennaro de illi Castaldi.
Circa i domini, a considerare le cifre (con una media di 45,6 solidi a compravendita)
e il loro numero modesto, si ha la netta sensazione di un gruppo incapace di proporsi come
protagonista nelle dinamiche di mercato. Fra loro non emergono situazioni di rilievo,
tranne una, su cui val la pena di dilungarsi, specchio del mutamento sociale in corso, utile
per la descrizione di questo multiforme gruppo cittadino. Si tratta dell’acquisto compiuto
dall’unica donna. Si chiama Truda, figlia di un importante amalfitano residente a Napoli,
Antimo Augustariccio. Ha dei capitali, di probabile origine dotale, che investe nel 1154
per una terra campise di tre moggi situata nei pressi di Calvizzano.
Quello effettuato, è un investimento di portata medio-bassa (ammonta a 30 solidi) ma
assume rilievo quando si considera il marito della donna, che pone il suo assenso all’acquisto. Il suo nome è Sergio Capace. E’ un personaggio di rilievo, di una delle famiglie
fra le più fedeli alla nuova casa regnante, da cui vengono insigniti con prebende e privilegi.
Personalmente, è registrato come iudex e, soprattutto, con l’incarico di comestabile, la
massima autorità cittadina normanna, che tramanderà anche a suo figlio Gregorio (comestabulus domini regi)24. Egli è un testimone del cambiamento. Ne intuisce i vantaggi e le
possibilità anche grazie agli agganci che ha con le maggiori casate amalfitane, seguendo
una tradizione già intrapresa dalla sua famiglia e inaugurata da un suo omonimo antenato,
sposo di una domina Mira figlia del dominus Manso Amalfitano e proprietaria di beni in
Costiera25. Così, sfrutta queste opportunità, e si lega a Truda, padrona di immobili presso
Amalfi: beni che, presumo, rappresentano la quota di maggior valore della sua dote26.
Infine, per consolidare la sua autorevolezza, non reputando sufficienti fama politica e
ricchezza, ricorre ad altri espedienti, che ne esaltino lo status. E segue, nel presentarsi nel
22. Monumenta (cit. n. 2), II, I, nn. 649 e 650.
23. Non esistono documenti specifici sul patrimonio della chiesa arcivescovile per quest’epoca. Bisogna
affidarsi alle testimonianze successive, di epoca angioina, in special modo alla conferma effettuata da re Carlo
I nel 1269 che accordava al Capitolo cittadino di conservare il controllo sui beni accumulati ab antiquo. Su
questo documento, e sulle zone di pertinenza della chiesa arcivescovile A. FENIELLO, Les campagnes napolitaines
à la fin du Moyen Âge, Roma 2005 (CEFR, 348), p. 117 ss.
24. Sulla rilevanza della famiglia e per la sua adesione alla casa regnante normanna, E. CUOZZO ed.,
Catalogus Baronum. Commentario, Roma 1984 (Fonti per la Storia d’Italia pubblicate dall’Istituto storico
italiano per il Medio Evo, 101**), p. 260.
25. Monumenta (cit. n. 2), II, I, n. 672.
26. Il patrimonio di Truda era costituto da case fabrite et palmentum et labellum et cisterne, poste a
Nubella, che, valutate intorno ai 130 solidi, vengono vendute nel 1171 dai suoi figli a Sergio giudice figlio
del dominus Lupino, Codice Perris (cit. n. 12), I, n. 149 (1171).
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contratto, il modello e lo spirito amalfitano della genealogia lunga, andando indietro di
quattro generazioni (Sergio Capece, figlio del dominus Giovanni Capece, figlio del dominus
Gregorio Capece figlio, a sua volta, della domina Dalfina Capece). E trova, nel passato, il
personaggio di maggiore spicco della sua casata, una donna, domina Dalfina. Figura
energica, vissuta a cavallo tra l’XI e il XII secolo, proprietaria di terre nell’hinterland e
madre della comitissa Maria, moglie di uno dei comites di Pozzuoli, Adenolfo27.
Sergio è tra quelli che partecipano in prima persona all’atto di notifica della morte del
Ducato indipendente, a quel patto siglato a castel dell’Ovo con re Ruggiero II. Occasione
in cui riceve, direttamente dal re, insieme ad altri esponenti della nobiltà napoletana,
cinque moggi di terra. Nel suo caso, nella florida zona di Calvizzano:
Terra que domino Sergio viro tuo in febum abire videris pro illum febu suo quod ipse
detinet da suprascripto domino Rocerio magnifico rege
In questo documento, in che maniera operano Sergio e Truda ? Con avvedutezza.
Investendo il capitale dotale intorno a questo nucleo primitivo, arrivato nelle loro mani
per beneficio regio, il quale diviene il puntello della loro fortuna patrimoniale. Infatti,
nonostante la terra sia da dissodare e non appaia tanto grande, ha dei pregi. Perché confina
da un lato con la terra infeudata e coltivata dagli eredi de illis qui nominatur Muscum et
de heredis de illlis qui nominatur Rungatelli, servi del nuovo signore. Mentre, a sud, confina
con un’altra parcella di Sergio, data in gestione a un nobile napoletano, il dominus Sergio
Tribunopardo (que in rebus detinere a suprascripto domino Sergio)28. Sembra di trovarsi
davanti ad un piccolo ma efficace trust, in cui convergono ambizioni politiche, disponibilità patrimoniali e semplice oculatezza mercantesca, che persegue la strategia di rafforzare
ed accrescere la propria presenza patrimoniale nella zona, con evidenti ricadute anche
nella considerazione sociale e nel peso politico. Un caso esemplare, che, purtroppo, resta
un unicum nelle testimonianze del tempo.
Gli enti monastici napoletani dominano il mercato della terra. I rendimenti crescenti
che realizzano fa si che ne assorbano quote sempre più ampie, lo cannibalizzino, senza
lasciare spazio ad altri competitori29. E’ un progressivo processo di concentrazione patrimoniale determinato dall’enorme flusso di donazioni (circa trecento) cominciate nel X
secolo, che coinvolgono l’intera popolazione cittadina (dai contadini in su fino ai duchi).
Donazioni, che, col cambio di proprietà di centinaia di terre, vigne, case e strutture
produttive, comportano una vera e propria rivoluzione nel generale assetto patrimoniale.
E inaugurano una dinamica economica che, schematizzando, si può articolare così: 1)
l’accumulazione primaria di beni grazie alle donazioni; 2) la messa in produzione della terra
ricevuta; 3) la vendita dei prodotti ricavati; 4) la costituzione di un capitale in moneta; 5)
l’utilizzo del capitale per l’acquisto di altre terre, possibilmente contigue ad altre già
possedute.
27. Monumenta (cit. n. 2), II, I, 611 e 626.
28. Le pergamene (cit. n. 2), n. 8.
29. Sembra quasi di seguire il principio del « winner takes all » (il vincitore prende tutto), adoperato per
spiegare la teoria dei rendimenti crescenti in economia. Sulla quale si veda il celebre saggio di W.B. ARTHUR,
Positive feedbacks in the economy, Scientific American 262/2, 1990, p. 80-85; e R.H. FRANK e P.J. COOK, The
Winner-Take-All Society, New York 1997.
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Investimenti compiuti dai tre monasteri napoletani
Monastero
Investimenti (in solidi)
S. Gregorio Armeno
1763 e ½
Ss. Severino e Sossio
286
S. Marcellino
146
Tot.
2195 e ½
L’esempio del monastero dei Ss. Severino e Sossio è quello che si può seguire meglio,
grazie alla disponibilità di una serie cospicua di testimonianze. Dagli esordi del X secolo,
quando le reliquie dei due santi vengono traslate dal Castrum Lucullanum alla città, il
monastero si afferma come una delle principali istituzioni religiose napoletane, cuore di
una densa spiritualità, tanto da poterlo definire come il vero e proprio santuario della
nazione napoletana. Esso controlla il territorio, non solo attraverso il possesso di terreni
e appezzamenti, ma con una capillare rete di chiese e grance collegate, che diffondono il
culto dei due santi e fungono da collettori di beni e ricchezze. Le donazioni fioccano, con
casi eclatanti, che hanno come protagonisti gli stessi duchi, che fanno convergere nelle sue
casse anche parte dei beni afferenti il publicum. Come testimoniato da tre fondamentali
donazioni del biennio 1130-113130, quando Sergio VII cede molti dei beni a lui appartenuti:
Proprietà cedute
Numero
Terre
19
Campi
12
corrige
7
Fondi
4
Terra cum piscina, palmento et subsceptorio
2
Casale
1
corrigia de terra cum palmento et subsceptorio
1
corrigia de terra cum gripta
1
Fondo cum palmento et subsceptorio
1
Casale cum integra pissina palmento et subsceptorio et cum arboribus et fructoras
1
Casale de terra cum integras alias scapulas
1
Terra cum palmento et subsceptorio
1
starcia cum pissina, palmento et subsceptorio
Tot.
1
52
30. Due donazioni sono del 1130, rispettivamente, Monumenta (cit. n. 2), II, II, app. doc. IV e L’antico
inventario (cit. n. 2), nn. 952 e 1030, e Monumenta (cit. n. 2), II, II, app. doc. 17 e L’antico inventario (cit.
n. 2), nn. 786, 854, 873 e 2081; mentre quella del 1131 è in Monumenta (cit. n. 2), II, II, doc. 27, II, I,
doc. 649 e L’antico inventario (cit. n. 2), n. 1214.
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E’ un numero enorme di proprietà, disposte su un tratto di territorio molto vasto, che
va dall’area suburbana (Limpiano, Baccillliano, Capodichino, plagia S. Laurentii), alle
zone oltre il Sebeto (Foris flubeum, Terzo) e prospicienti il Vesuvio (S. Anastasia, Foris
Arcora), ai casali di Afragola, Cantarello, Baselice, Mugnano, Calvizzano, fino ai confini
occidentali e settentrionali del Ducato (Qualiano, Marigliano). Donazioni che ne
rafforzano il patrimonio, rendendolo più coeso, come rivela la lettura dei confini dei
terreni ceduti (ad es. iuxta terram suprascripti vestri monasterii; oppure in capite de suprascriptum campum vestrum sunt fundoras vestra suprascripti vestri monasterii; o ancora iuxta
biam ubi habitant portionariis vestris). Tutti appezzamenti descritti come floridi, dotati di
arboribus fructiferis vel infructiferis, forniti di pozzi e cisterne (cum cisternis et piscinis seu
puteas aque bibens) e cum duleas intus se et cum palmentas et cum subscetorias illarum.
A queste proprietà si aggiunge la conferma del controllo su ben 32 case, le unità socioeconomiche che ospitavano una popolazione composta da altrettante famiglie contadine
in condizioni semiservile.
In contemporanea – e, in misura maggiore, durante il periodo normanno –,
il monastero esercita la sua pressione sul territorio attraverso degli acquisti, che completano
lo sforzo di allargare l’area di influenza nelle zone già sottoposte al suo dominio, come
appare dai documenti di età normanna:
Zona
bene acquistato
confini
Campagnano
introitum de illum ortumi
con due grotte del monastero
valore (in solidi)
5
Terzo foris flubeum
terra di 2 moggi
---
11
Calastro
2 terre cum arboribus et fructoras circum circa
di 2 moggi e 4 quarte
monasterii
Calastro
terra
Zorano
dicti
26
a tribus partibus sunt aliis terris
dicti monasterii
25
terra ubi est palmentum
subsceptorium et piscina
et da un lato e da un capo sono terrae
dicti monasterii
45
Lauro
terra ubi est palmentum
subsceptorium et piscina
et da un lato e da un capo sono terrae
dicti monasterii
40
Calvizzano
Corrigiola de terra
N.P.
10
Cisano
Quarta parte de terra e quarta N.P.
parte di palmento, subsceptorium
et piscina fabritis
9
Cisano
Terra
Tot.
cum
terris
a parte meridiei cum terra dicti
monasterii
40
241
In tutto, tra le due epoche, investe 286 solidi, con una tendenza al rialzo nel ritmo delle
compravendite dopo la fine del Ducato, quando, verosimilmente, il gettito ricavato dallo
sfruttamento dei beni ricevuti in dono comincia proporzionalmente ad aumentare. Non
a caso, a due sole compravendite effettuate nel 1118 per 45 solidi ne corrispondono nove,
per 241 solidi, nel periodo compreso tra il regno di Ruggiero e quello di Guglielmo II.
D’altra parte, va sottolineato come l’andamento positivo negli acquisti continui in modo
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costante pure nel secolo seguente, fino agli esordi del Trecento, quando, nel solo primo
decennio del secolo, il monastero ne effettua ben 1731.
I documenti conservati sul monastero femminile di S. Gregorio Armeno confermano
i dati di tendenza riscontrati per il monastero dei Ss. Severino e Sossio, ma con numerose
differenze, non solo per la sua esorbitante ricchezza ma specialmente per le modalità di
accumulazione, dove la pratica delle donazioni assume un ruolo marginale rispetto ad altre,
originali ed altrettanto efficaci.
Il monastero investe in terre 1763 solidi e ?: ordini di grandezza incomparabili rispetto
ad altre istituzioni, famiglie o singoli. Sei volte maggiori del monastero dei Ss. Severino e
Sossio. Dodici volte quelli di S. Marcellino. E, lo sottolineo, cifra quattro volte più alta
della somma investita da tutti i domini messi insieme. Ammontare che serve ad acquistare,
via via che ci si addentra nel secolo, proprietà di qualità sempre migliore, con investimenti
che aumentano proporzionalmente. Tra 1133 e 1138 il monastero compra solo qualche
terreno dalle caratteristiche non meglio precisate e di ridotta ampiezza (12 quarte; 1/3 di
clusuria; una terra) per somme limitate (in tutto 116 solidi). Situazione che si ribalta a
partire dal 1141, quando si ha un vero e proprio boom negli acquisti:
Beni acquisiti
Numero
Valore (in solidi)
Terreni cum arboribus et fructoras
5
734 e 1/2
Terreni cum arboribus et fructoras, piscina, palmento et subsceptorio
3
366
Terre campesi
3
307
Terreni cum arboribus, fructoras et piscina
2
100
Terre
2
100
Clusuria
1
40
Tot.
16
1647 e ½
Il monastero guarda solo alle terre migliori (complessivamente 10), per le quali impiega
circa 1200 solidi; e a quelle campesi (307 solidi). Mentre tralascia quasi del tutto le terre.
Lo scarto, tra periodo ducale e normanno, è impressionante, con un tasso di investimenti
che, di fatto, quadruplica. Cos’è successo ? Com’è stato possibile al monastero cambiare
la propria strategia economica e passare da una politica di piccolo cabotaggio a interventi
così incisivi, con somme tanto ingenti ? E poi, da dove derivano così tanti capitali da
permettergli di sbaragliare i rivali e di rispondere, colpo su colpo, a un mercato sottoposto
alla pressione dei prezzi ?
La fonte da cui deriva il denaro non sono le donazioni, se non in minima parte.
Dall’inizio del X secolo al 1140 se ne contano appena 16, di cui cinque stipulate dai duchi
e comprese tra il 1067 e il 1127. Non tante, se si guardano i numeri del monastero dei
Ss. Severino e Sossio o dei Ss. Sergio e Bacco oppure di S. Sebastiano, che, per la stessa
epoca, ne ricevono più di duecento. La strada seguita è un’altra, quella degli appannaggi,
aderente alle modifiche che intanto avvengono nella vita cittadina.
31. FENIELLO, Les campagnes napolitaines (cit. n. 23), p. 109.
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Si tratta di una prassi che non ha nulla in comune con le testimonianze relative ad altri
monasteri, né per quest’epoca né per la precedente. E che, in sintesi, funziona così. Ogni
monaca, all’atto della sua entrata nel monastero, acquista un cespite col denaro ricevuto
dalla famiglia di provenienza. Bene che o viene conservato vita natural durante come
propria dotazione e da cui trarre reddito, per poi, al momento della morte della monaca,
entrare a far parte del patrimonio del monastero (o, come spesso si precisa, dell’infirmarium del monastero):
cunctis diebus vite tue tenere et dominare et frugiare debeas et de ipsa frugias faciendi
quod volueris vite tue et post tuum tranxitum ipsa integra petia de terra fiat de
suprascripto infirmario ad abendum et possidendum illut in ipsu infirmariu usque
in sempiternum32.
Oppure viene ceduto dalla monaca direttamente al momento della monacazione come
dono per l’infirmarium :
per te in illum infirmarium monasterii beatissimi Gregorii in quantum monacha
esse videris; per te in illum infirmarium de ipsius monasterii Sanctii Gregorii
maiore.
Queste sono in genere le consuetudini, con qualche eccezione, come quella del gennaio
1191 relativa alla monaca Merindina de Cammara, secondo la quale il terreno da lei
acquistato per 105 solidi avrebbe dovuto generare reddito per la conservazione usque in
sempiternum di un dipinto dedicato alla Vergine, che lei stessa aveva fatto dipingere all’interno della chiesa:
in illu bultu qui est ad onore beate et gloriose Dei genitricis semperque birginis
Marie domine nostre quem tu pingere fecisti ab intus ipso monasterio et ecclesia
ipsius Sancti Gregorii maioris et est in illu porticu ipsius ecclesie33.
L’appannaggio, dunque, diviene in genere parte del patrimonio del monastero al momento
del decesso della proprietaria. Momento a partire dal quale viene usato per ulteriori investimenti, come chiarisce l’episodio della compravendita per 266 solidi della terra a Baccilliano
da parte della badessa Galia. Di questa cifra, 75 solidi sono quelli che
in ipsum infirmarium reliquit quondam dominam Gaudibisiam dudum monacha
ipsius vestri monasterii que fuit filia quondam domini Iohannis Friccia pro
faciendum se exinde in ipsum infirmarium per omni anno anibersarium pro anima
sua usque in sempiternum.
Altri 191 solidi e ? provengono invece dal lascito effettuato dalle monache Odierna e
Rogata, entrambe figlie del dominus Costantino Frezza:
reliquos centum nonaginta unum et medium ex ipsos solidos quos in ipsum sanctum
infirmarium dederunt et offeruerunt quidem dominam Odiernam et dominam
Rogatam uterine germane monache ipsius vestri monasterii filie quondam domini
Costantini Friccia pro faciendu se exinde in ipsum infirmarium per omni annuo
hanibersarium illorum pro illorum animabus usque in sempiternum34.
32. Le pergamene (cit. n. 2), n. 6 (1138).
33. Ivi, n. 43.
34. Ivi, n. 17.
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Insomma, quello degli appannaggi non è un fenomeno di portata limitata. E’ invece un
gioco di grandi proporzioni, dai molteplici risvolti, che si sviluppa come una spirale che
mano a mano si allarga. Più il monastero aumenta le sue proporzioni e la sua capacità di
pressione sui gangli vitali della città, più si accresce il numero dei membri del gruppo dei
domini che vi si vogliono inserire. Più aumenta la domanda di ingresso nell’ente, più si
scatena la gara delle famiglie a chi compra terreni di valore da offrire al monastero. In una
lotta nella quale convergono capacità economica e prestigio sociale, dove la meta è l’inclusione in uno dei luoghi chiave della vita urbana.
Famiglie
Monache
Frezza
Gaudibisia f. di Giovanni; Granata f. di Giovanni;
Anna f. di Giovanni;
Odierna e Rogata f. di Costantino
4
526
de Arcu
Gemma e Galia f. di Gregorio; Gaitelgrima f. di Gregorio
2
212
Caracciolo
Mira f. di Landulfo
2
134
de Domina Maria
Marotta f. di Pietro
1
185
de Domino Pandolfo
Sicelgarda f. di Giovanni
1
137
de Cammara
Meridnina f. di Riccardo
1
105
Capace
Lavinia f. di Adenolfo
1
52 e 1/2
Comite Maurone
Stefania f. di Sergio
Tot.
Numero
atti
di Investimento
solidi)
1
10
13
1361 e ½
(in
La media per questi acquisti è di 104,6 solidi per operazione: un abisso con la media
di 45,6 calcolata per i domini. Protagoniste sono 14 monache, tutte appartenenti a famiglie
di spicco: de Domina Maria, de Domino Pandolfo, Capece e, soprattutto, i Caracciolo,
che, da una parte acquistano per gli appannaggi terre per 134 solidi; e, dall’altra, donano
proprietà, tra cui quelle comprate, intorno al 1175, per 100 solidi a S. Pietro a Paterno
da Adenolfo Caracciolo35. Su tutte, però, si distingue la famiglia amalfitana dei Frezza, la
quale conta, nel corso del secolo, ben cinque monache. Per tre generazioni, altrettanti
Giovanni e un Costantino fanno acquistare alle loro figlie risorse agrarie per la cifra
veramente considerevole di 526 solidi: una somma che la dice lunga sulla disponibilità di
capitali e sulla capacità di esposizione di alcune famiglie della Costiera residenti a Napoli.
Il mercato della terra napoletano ha dunque un suo canale privilegiato. Il denaro che
vi circola si indirizza in gran parte verso i monasteri, i reali detentori del potere economico,
i quali usano i capitali ricevuti per rafforzare il loro controllo sul patrimonio fondiario
extraurbano, di cui ne divengono i proprietari esclusivi. Una ricchezza che, per crescere,
utilizza fondamentalmente due strumenti: le donazioni, che a Napoli hanno una lunga
consuetudine, almeno a partire dal X secolo e a cui partecipano tutte le componenti della
società cittadina. E gli appannaggi, che compaiono proprio nel XII secolo, che disegnano
invece una differente relazione tra i mondi laico e religioso. Si crea un sistema ad
35. Ivi, n. 21.
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excludendum, al quale possono aderire solo gli appartenenti al ceto più abbiente, con una
ricomposizione gerarchica fondata sulla ricchezza, che configura la marginalizzazione di
famiglie e gruppi che, in mancanza di capitali, non sono più in grado di essere accolti in
istituzioni religiose dotate di carisma e di autorevolezza. I protagonisti di questa nuova
forma dello scambio sono sostanzialmente due: gli esponenti più dinamici del gruppo, ossia
gli Amalfitani, che intravedono nell’inserimento nei ranghi dei monasteri la possibilità di
un’ulteriore aggregazione nell’élite cittadina. E i membri di un’aristocrazia più agiata, dove
convive sia chi, più duttile al cambiamento, usa il monastero come passepartout per un’ulteriore ascesa sociale; e sia chi, in una dimensione più conservativa, trova nello spazio del
chiostro una dimensione rassicurante di continuità. Il tutto, immesso in una logica di
concatenazioni e di interdipendenze, dove, per l’intera società, l’ingrandimento e l’affermazione delle singole istituzioni monastiche viene vissuta come elemento di crescita e di
prestigio di chiunque sia in essi coinvolto – famiglie o singoli che sia –. Senza nessuna
contrapposizione di interessi e con una sostanziale comunanza di visioni, stili di vita e
valori.
8. CONCLUSIONI
Il mercato della terra ha rivelato essere un buon punto di osservazione per capire alcuni
aspetti, che ritengo fondamentali, della vita economica e sociale napoletana del XII secolo.
Ho cercato, nel corso della narrazione, di applicare al materiale documentario adottato un
metodo che mettesse in luce prevalentemente i fattori economici: un tipo di analisi che
comporta dei rischi, soprattutto il pericolo di attribuire eccessiva importanza ad essi,
senza dare il giusto peso ad elementi meno rigorosamente definibili, come le ideologie, le
aspirazioni, le consuetudini, i pregiudizi ecc. Ben consapevole di questi limiti, ho
comunque cercato di costruire questo saggio intorno ad un’intelaiatura costituita da dati
statistici: talvolta si tratta di puri e semplici calcoli aritmetici, tal’altra ho introdotto dati
più elaborati, come quelli relativi alla crescita dei prezzi. Tutto con un unico scopo:
osservare il mondo napoletano dall’interno, adoperando i dati raccolti come elemento di
controllo per verificare che risultati omogenei, trarre da un ammasso confuso di documenti,
le compravendite, mai trattate in maniera organica dalla storiografia.
L’immagine che emerge è quella di una società in trasformazione, che vive una stagione
totalmente nuova, caratterizzata dallo shock della fine dell’indipendenza e del passaggio
alla dinastia normanna. Un secolo dinamico, in cui si producono una serie di eventi a
cascata, che hanno un’evidente ricaduta sul generale contesto sociale, sulle strutture
organizzative della vita quotidiana, sull’ambiente economico. Si pongono problemi nuovi,
si impone un diverso orizzonte di senso. Mutano i referenti politici, che appaiono, ora,
più lontani e distanti. Scompaiono antiche istituzioni cittadine, che vengono smembrate
e attribuite ai nobiliores delle differenti aree urbane, con la formazione di sfere di potere
autonome, guidate da consorterie e clan familiari, che si affermano sulle matrici del
vecchio regime gerarchico, con soluzioni nuove per la gestione diretta del tessuto cittadino.
Ci si apre a nuovi operatori economici e la città via via assume una fisionomia adatta al
mercato, che cresce sugli spazi del porto. Aumenta la popolazione e, con essa, la produzione di beni e derrate. Sale la domanda di terra, i prezzi impennano, circola tanta
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moneta… Tanti fattori, che sembrano evocare il caos. Invece la città si rafforza. Sta
trovando altri punti di riferimento, i giusti stimoli per il futuro. Le basi ci sono, in special
modo economiche, con un’agricoltura che compie uno slancio che eguaglia e forse supera
quella amalfitana, soprattutto se si pensa alle scarse dimensioni del territorio coltivato, che
si limita quasi del tutto all’immediato hinterland, che viene ricoperto da tante piccole
parcelle, ognuna delle quale altamente specializzata, con vigneti, alberi da frutta, case,
strutture per la produzione del vino ecc... Le quali, numerose, passano di mano e giungono
a nuovi proprietari, che immettono nella terra risorse e denaro.
Non si tratta più di piccoli possidenti. Ma di poche e potenti istituzioni religiose che
accumulano ricchezze grazie al loro prestigio e all’aurea di devozione che li circonda. Esse
hanno acquisito sempre più potere, grazie alla combinazione di tanti fattori, tra cui, il
principale, l’adesione ad essi dell’intera società, con la quale l’osmosi è totale. Che però,
a partire da quest’epoca, limitano ancor di più l’ingresso nei loro ranghi solo a chi può
vantare, oltre ai natali, capitali in terre e in moneta. Enti che concentrano al loro interno
grandi fortune, frutto essenzialmente delle donazioni e degli appannaggi, grazie alle quali
aggrediscono il mercato della terra diventandone gli assoluti detentori, con una posizione
di dominio dai caratteri monopolistici, dove scarso spazio è lasciato ad altri imprenditori.
In una condizione di predominio che durerà ininterrotta sino al XIV secolo, quando gli
effetti della congiuntura limiteranno l’impatto e la forza di molti di questi monasteri,
lasciando ad altri lo sforzo di condurre la città fuori dalle secche della crisi.