Lingue regionali: liberate
ma…sotto tutela
di Ermete Ferraro
ABSTRACT - Critical notes in relation to a meeting of
linguists that was held in Naples to affirm - at least
theoretically - the importance of safeguarding and
enhancing local languages and dialects. This meeting,
however, appeared only an exchange between 'experts',
without opening a dialogue with the basic work that has
been done by those who have been teaching local
languages for decades, to restore their dignity and to
correct their lexical deformations, also in grammar and
writing. The tendency of part of the academic world to
delimit such activities, establishing what is right or
wrong, seems to want to put them under protection to
neutralize any socio-political connotation, in the name of
a linguistics theoretically neutral and objective, but that
does not help some linguistic expressions to get out of
their cultural marginality.
Un dotto convegno di linguisti e
dialettologi
Che Napoli sia diventata il ‘palcoscenico’ per
un convegno con la partecipazione di una
decina di autorevoli docenti universitari,
venuti da tutta l’Italia per confrontarsi sul
tema della salvaguardia dei patrimoni
linguistici regionali nelle diverse sfaccettature
locali, è senza dubbio cosa buona e giusta. E in
effetti è stato proprio un palcoscenico, quello
dello storico Teatro Nuovo di Montecalvario,
ad ospitare la due-giorni promossa dal
Comitato scientifico per la salvaguardia e la
valorizzazione del patrimonio linguistico
napoletano, operante dal 2020 in seno al
Consiglio Regionale della Campania [i]. Su
quella ribalta si sono affrontate questioni
importanti, prima con qualificate relazioni
accademiche e poi con un panel allargato ad
un’esponente di quel Consiglio Regionale e ad
un rappresentante degli enti locali. Era ora,
d’altronde, che sulla tutela e valorizzazione
delle espressioni linguistiche dei vari territori
si accendessero i riflettori dell’opinione
pubblica e dei media, facendo uscire questo
dibattito
dall’ambito
esclusivamente
universitario.
Il problema, semmai, è che i faretti del
Teatro Nuovo – proseguo nella metafora – si
sono accesi ancora una volta solo sugli
studiosi, lasciando al buio (e non solo
metaforicamente) il pubblico cui questi si
rivolgevano. Un pubblico, in gran parte
giovanile, che ha seguito in religioso silenzio gli
interventi, non si sa quanto coinvolto dai sottili
distinguo circa la bontà o meno di iniziative
che, pur riguardanti coloro che ancora parlano
le lingue locali e talvolta si arrischiano a
scriverle, non li vedono affatto protagonisti
del processo.
Eppure, oltre ad aprire un reale dialogo coi
potenziali fruitori dei progetti di tutela e
rivitalizzazione delle espressioni linguistiche
locali, sarebbe stata l’occasione più opportuna
per avviare un reale confronto con quelli che,
volontaristicamente ed investendoci tempo e
risorse personali, da più di 20 anni svolgono a
Napoli corsi formativi, fanno ricerche,
pubblicano contributi, promuovono iniziative
culturali e si battono per ridare al Napolitano
– come ad altre espressioni dialettali della
Campania – la dignità di oggetto di studio e
d’insegnamento.
Purtroppo tutto ciò non è accaduto e, ancora
una volta, il mondo accademico ha dato
l’impressione di voler ribadire il proprio ruolo,
preoccupandosi di erigere autorevoli steccati
nei riguardi di siffatte iniziative di base,
considerate spontaneistiche ed ingenue se
non deleterie, nonché di difendere la propria
esclusiva relazione con le istituzioni politicoamministrative, stimolate ad investire risorse
finanziarie nelle ricerche ‘scientifiche’.
Sotto i riflettori del Teatro Nuovo si sono
alternati interventi autorevoli ed interessanti
su cosa meriterebbe di essere ‘salvaguardato’
e sui soggetti e le modalità più idonee a
tutelare il patrimonio linguistico delle regioni
italiane. Da larga parte di essi – in particolare
da alcuni docenti della Campania – è però
apparsa in modo palese la diffidenza nei
confronti dei ‘profani’ e del dilettantismo
ingenuo negli interventi di formazione
linguistica svolti in ambito extra-accademico,
ed ancor di più verso una loro possibile, ma a
quanto pare deprecabile, deriva socio-politica
‘identitaria’.
Il ruolo della linguistica, è stato ribadito più
volte, sarebbe infatti quello di studiare
oggettivamente i fenomeni, col necessario
distacco dell’osservatore non partecipante,
privilegiando un metodo descrittivo più che un
approccio normativo. La lingua, si è detto, è
qualcosa di vivo ed in evoluzione e i processi di
cambiamento non sono arginabili. Il che è
vero, se ci si riferisce ai mutamenti linguistici
fisiologici nel tempo e nello spazio, ma suona
quasi un pretesto laddove la naturale
evoluzione di alcune lingue locali è stata
condizionata dalle spinte di un centralismo
autoritario e classista e da atteggiamenti
conseguentemente repressivi o anche di
autocensura. Decenni di studi storici e
sociolinguistici rischiano così di essere
sopravanzati da un’impostazione che
manifesta tuttora dubbi sull’equazione tra la
subalternità socio-economica e quella
culturale, soprattutto nel caso del
Mezzogiorno d’Italia, cercando di esorcizzare
ogni forma di conflittualità tra lingua nazionale
ed espressioni linguistiche identitarie
territoriali, in nome di una sospetta pax
linguistica, che contraddice l’affermazione
dell’assenza di un vero conflitto.
Da
qui
il
martellante
ritornello
sull’inesistenza di qualsivoglia connotazione
spregiativa nell’utilizzo del termine ‘dialetto’,
peraltro in contraddizione con gli interventi di
alcuni studiosi che di tale ‘dialettofobia’ hanno
viceversa portato attestazioni anche recenti.
Da qui anche la pretesa di stabilire ex cathedra
chi sarebbe qualificato ad insegnare cosa e,
soprattutto, dove quando e perché. Alle
risposte offerte da questa sorta di 5W
dell’insegnamento dei dialetti nelle scuole,
infatti, sono stati dedicati vari interventi del
Convegno, esprimendo rispettabili ed
autorevoli pareri, ma senza aver aperto
preventivamente un confronto con quei
soggetti che di tale controversa materia si
occupano comunque già da molti anni.
Se sia opportuna o no una simbolica ‘ora di
dialetto’ nelle realtà scolastiche, oppure se ci
si debba occupare delle espressioni locali solo
sul piano della condivisione delle tradizioni
popolari (e quindi su un piano più folkloristico
che di studio e apprendimento), sono
questioni legittime. Meno legittimo mi sembra
invece l’atteggiamento un po’ supponente di
chi mostra di aver già deciso ciò che va bene o
va scartato, indirizzando unilateralmente
l’operato dei comitati cui le amministrazioni
regionali si sono affidate.
Non a caso, già nella conferenza stampa di
presentazione del Convegno – tenuta nella
sede regionale – si era affermato che il suo
compito era quello di “…definire gli ambiti
linguistici, geografici e culturali del patrimonio
linguistico napoletano, individuare modalità
per la valorizzazione di un patrimonio
linguistico e delineare le possibili iniziative per
veicolare conoscenze adeguate sulla storia
linguistica italiana e sulla variegata
articolazione dell’area regionale campana”
[ii]. Una terminologia che già nei verbi usati
(definire, individuare, delineare) tradiva la
volontà di frapporre precisi paletti,
delimitando preventivamente il terreno di tale
sperimentazione.
Sul sito della Federico II si legge che: “…il
Convegno proporrà tra l’altro una riflessione
su come nella scuola italiana del XXI secolo
possa delinearsi – senza antagonismi con la
lingua italiana – uno spazio per il dialetto, con
una consapevole attenzione verso le
manifestazioni culturali e artistiche legate ai
patrimoni linguistici locali” [iii]. Ma, più che
una riflessione sul ‘come’ salvaguardare i
patrimoni linguistici delle nostre regioni, dal
convegno sembra essere scaturita una vera e
propria ricetta, anticipando le ‘linee guida’ che
il Comitato sembrerebbe voler dare non solo
al suo operato, ma anche alle realtà informali
che agiscono sul campo. Ad esempio
privilegiando palesemente l’attenzione verso
le manifestazioni artistico-culturali più
‘popolari’ ma mostrando diffidenza nei
confronti dello studio scolastico delle
caratteristiche
lessico-grammaticali
e
fonetico-ortografiche dei vari dialetti, attività
considerata forse foriera di spiacevoli
‘antagonismi’ con la lingua italiana… Oppure
insistendo nell’affermazione che le legislazioni
regionali in materia tendono a privilegiare le
espressioni linguistiche delle principali
metropoli (si tratti di Venezia come di Napoli,
di Roma come di Palermo), ipotizzando quindi
sedicenti lingue regionali o addirittura
elaborando
linguaggi
artificialmente
standardizzati. Tendenze che, pur presenti in
alcune normative in vigore, non nascono tanto
dagli orientamenti di chi opera sul terreno,
quanto dai condizionamenti politici degli
organi legislativi.
Il caso della Campania: una legge
mutilata
È successo ovviamente anche nel caso della
Legge regionale della Campania n. 14/2019
(vedi testo), frutto d’un difficile compromesso
tra la proposta avanzata dai Verdi (che io
stesso ero stato incaricato di articolare) e
quella presentata dalla Destra. La risposta a
molte delle obiezioni e perplessità espresse
nel corso del Convegno sta proprio in questa
ambiguità di fondo, che ha di fatto tradito
alcune istanze presenti nella prima proposta.
Già nel titolo, ad esempio, si notano le
differenze. Quella partorita tre anni e mezzo fa
dal Consiglio Regionale della Campania (il cui
organismo attuatore è proprio il Comitato
Scientifico organizzatore del Convegno)
annuncia sbrigativamente “Salvaguardia e
valorizzazione del patrimonio linguistico
napoletano”, laddove il progetto originario
parlava più latamente di “Norme per lo studio,
la tutela e la valorizzazione della Lingua
Napoletana, dei Dialetti e delle Tradizioni
Popolari della Campania”.
Le differenze proseguono all’articolo 1,
laddove tra le finalità nel testo vigente
leggiamo che: “2. La Regione Campania
valorizza il suo patrimonio culturale,
promuove e favorisce la conservazione e l’uso
sociale dei beni culturali linguistici,
etnomusicali e delle tradizioni popolari, con
particolare riguardo alla salvaguardia e
valorizzazione del patrimonio linguistico
napoletano”. Da questo articolo, pur citando
la Dichiarazione Universale dell’UNESCO sulla
diversità linguistica, è sparito invece l’iniziale
riferimento alla Carta Europea delle Lingue
Regionali, approvata nel 1992 dal Consiglio
d’Europa, che è molto più chiara sulla finalità
di facilitarne l’uso orale e scritto
“agevolandone lo studio e l’insegnamento”.
Conseguentemente, è stato cassato anche
l’art. 3 del progetto di legge originario, dove si
prevedeva esplicitamente che “la Regione
Campania tutela e valorizza il patrimonio
storico-culturale e letterario connesso alla
lingua napoletana anche mediante il suo
insegnamento – e la conoscenza degli altri
idiomi della Campania – nelle scuole di ogni
ordine e grado”. Nella legge in vigore,
conseguentemente, è rimasto solo un
generico riferimento ad “iniziative rivolte alla
popolazione scolastica”.
Le premesse della proposta di legge,
pertanto, erano molto più articolate di quanto
emerge dal testo poi approvato, riferendosi al
principio – democratico ed ecolinguistico – del
rispetto della diversità linguistica in tutte le
sue manifestazioni, senza affatto ipotizzare la
preminenza di un idioma su un altro. Appare
allora un po’ pretestuosa l’osservazione di chi
– in un articolo sul quotidiano Il Mattino – ha
scritto: “…si pensa che tutti i dialetti siano,
individualmente e nel loro insieme, testimoni
di storia e di una tradizione linguistica ricca
proprio perché variegata? Oppure si pensa che
la salvaguardia debba riguardare solo alcuni
dialetti proclamati unici o migliori?” [iv]
Domanda retorica che prelude alla successiva
obiezione: “Si parla spesso di introdurre i
dialetti nella scuola. In questo campo più che
mai sono indispensabili obiettivi chiari:
qualcuno crede che la scuola, con didattica
normativa, dovrebbe impartire agli scolari la
capacità di usare fluentemente il dialetto?
Oppure si vuole insegnare solo la grafia di un
dialetto a scolari che in futuro vorranno
scrivere poesie, canzoni o altre opere? In
entrambe le prospettive (tra loro diverse),
bisognerebbe precisare quale dialetto
scegliere tra i tanti di una regione…”. [v]
Il punto centrale della contestazione portata
avanti da alcuni esponenti del mondo
accademico (e sintetizzata in quell’articolo)
riguarda le finalità stesse di un eventuale
insegnamento dei dialetti nelle scuole,
manifestando un atteggiamento sospettoso
verso ipotetici obiettivi di contrapposizione di
essi alla lingua comune e ufficiale.
“Molti, se si considera ciò che si legge in giro
e in rete, credono che tutti i dialetti abbiano
subito torti gravissimi e volontari a causa della
diffusione dell’italiano, tanto che a volte l’idea
di salvaguardia sembra abbinata a un senso di
rivalsa […] Anche nella didattica, con
insegnanti che abbiano padronanza della
materia, si potrà in ogni luogo prevedere, in
rapporto all’età dei discenti, un’attenzione
verso il dialetto […] ma senza esaltazioni e
senza l’idea che qualcuno abbia messo in atto
oppressioni o deprivazioni a danno di altri”.
[vi]
Ecco il punto: esorcizzare ogni potenziale
intenzione di ‘rivalsa’ sembrerebbe più
importante che promuovere lingue locali che
hanno subito viceversa un’innegabile
riduzione a parlate ‘volgari’, da confinare
semmai in ambito familiare perché inadatte ad
esprimere contenuti ‘alti’. La decisa negazione
di ogni forma di “oppressioni o deprivazioni”
cozza inoltre contro decenni di studi
sociolinguistici che hanno messo in evidenza
quanto la marginalità socio-economica della
gente del Sud comportasse anche la
deprivazione delle loro specifiche espressioni
linguistiche. Non si tratta di perseguire
‘rivalse’ o di una sorta di revanscismo culturale
o politico, ma della legittima affermazione
della pari dignità di tutte le espressioni
linguistiche, evitando che quelle più
marginalizzate
vengano
ridotte
a
manifestazioni folkloristiche minoritarie su cui
fare solo ricerche. La rivitalizzazione delle
lingue locali è quindi manifestazione d’identità
culturali
particolari
che
non
si
contrappongono necessariamente a quella
nazionale, ma restituiscono dignità e diritti a
chi per troppo tempo ha subito la
marginalizzazione di un processo unitario di
stampo coloniale. Come ho già scritto in
proposito: “Tutelare il diritto delle minoranze
etnolinguistiche si è rivelato più agevole che
salvaguardare e garantire un futuro a lingue
considerate ‘minoritarie’ o ‘regionali’, che non
rischiano l’estinzione bensì l’accantonamento,
lo snaturamento e la corruzione sul piano
lessicale, grammaticale ed ortografico” (E.
Ferraro, Grammatica ecopacifista, Pisa,
Centro Gandhi Edizioni, 2022, p. 92).
Il paradosso, semmai, è che la rivendicazione
di un’autonomia linguistica vera e propria – sul
modello delle battaglie per la rivitalizzazione
del catalano, del provenzale o dello scozzese –
non proviene affatto dalle regioni meridionali
che più hanno sofferto il peso della
subalternità socio-economica e culturale,
bensì da quelle ricche e forti del Nord, come la
Lombardia e il Veneto. A noi del Sud
basterebbe che le lingue locali delle nostre
genti
non fossero più mortificate,
consentendo di recuperare e valorizzare
espressioni idiomatiche e culturali del tutto
originali. Uno dei modi per marginalizzare i
cosiddetti dialetti è stata la loro riduzione a
strumenti utili solo per la comunicazione
familiare, o anche in ambiti esterni ma limitati
come il teatro popolare, la poesia vernacolare
o le canzoni. L’insistenza – ancora una volta –
sull’opportunità di confinarne lo studio
esclusivamente nel recinto “delle tradizioni e
(del)la storia (nomi di luogo, usi gastronomici,
etimologie, letteratura, altri usi artistici” [vii]
mi sembra quindi che confermi il diffuso
pregiudizio sulla loro inadeguatezza in altri
ambiti comunicativi (ad es. giornali ed altri
media, ma anche produzioni in prosa o
ricerche di altro genere).
L’autoreferenzialità
di
un
mondo
accademico che dialoga con se stesso,
ignorando il confronto con chi, sul terreno
concreto, da decenni si sta battendo per ridare
dignità agli idiomi locali, non è un segnale
positivo di apertura al dialogo. Nel caso della
Campania, la banalizzazione della proposta di
legge iniziale per renderla utile solo ad elargire
finanziamenti a manifestazioni folkloristiche
ed a ricerche accademiche, è stato un altro
segnale negativo. Fatto sta che chi si spende
ogni giorno per difendere e promuovere il
Napolitano ed altre espressioni linguistiche
campane continuerà a farlo sempre e
comunque. Malgrado che da questo convegno
sia emersa la preoccupazione, più che di
salvaguardare queste lingue, di porre la loro
promozione sotto l’autorevole ‘tutela’ degli
esperti…
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Note
[i]
https://accademiadellacrusca.it/it/contenuti/
convegno-salvaguardare-un-patrimoniolinguistico/31069 . Su finalità, composizione e
attività
del
Comit.
cfr.
https://cr.campania.it/comvalnap/
[ii] https://www.lapilli.eu/3.0/agenda/4069salvaguardare-e-valorizzare-il-patrimoniolinguistico-napoletano-idee-fatti-eprospettive
[iii]
https://www.unina.it/-/34934236salvaguardare-un-patrimonio-linguistico
[iv] Nicola De Blasi, Dialetti, ecco le iniziative
per il patrimonio linguistico napoletano:
difendiamo i dialetti (anche) dalle fake news,
IL MATTINO, 13/12/2022
[v] Ibidem
[vi] Ibidem
[vii] Ibidem
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© 2022 Ermete Ferraro