“Questa è la mente, questo è il mentale, un contesto e uno spazio che condividiamo!” (A.G.Gargani).
“La responsabilità come suprema deontologia della intersoggettività… [deve] coniugarsi con una
qualificata antropologia della comunicazione” (L.Alici).
“I cittadini di una comunità democratica sono debitori l’un verso l’altro delle ragioni delle loro scelte politiche” (J.Habermas).
Parlare e ascoltare per costruire contesti comuni di significato, per
riconoscersi, per “dare e ricevere ragioni”.
Funzione pedagogica e didattica della conversazione a scuola.
Le note che seguono vorrebbero essere una perorazione a favore dell’attività del conversare a scuola,
del conversare con tutte le componenti della comunità scolastica, del conversare come stile di presenza,
come impegno diffuso, come attività trasversale.
Se compito della scuola è formare “la persona, il cittadino, il lavoratore” questo obiettivo non può
essere raggiunto attraverso un’azione di solo addestramento, né concentrando la propria attenzione solo
sul soggetto che apprende. La comunicazione tra tutte le componenti della comunità scolastica non è solo
quella funzionale al raggiungimento di un obiettivo comune. Vi è un comunicare il cui scopo è far crescere le relazioni all’interno di una comunità e questa deve essere oggetto di una attenzione specifica. Sia
l’ascolto attento e intenzionale, sia il proferire parole che impegnano sono momenti fondanti di ogni convivenza che vuole essere più di un semplice condividere spazi e tempi.
Sono tanti i motivi per i quali non si può prescindere dalla attività di conversare e di conseguenza
dalla educazione alla conversazione. In questo articolo vorrei sottolinearne almeno tre.
1. Il primo è di tipo epistemico e riguarda il modo in cui apprendiamo qualcosa e formiamo le nostre convinzioni: se accettiamo il fatto che i significati hanno natura fortemente contestuale, solo attraverso l’attività di parola-ascolto possiamo costruire un contesto semantico comune, operativamente significativo e razionalmente accettabile.
2. Il secondo è di natura filosofico-esistenziale: oltre ad essere impossibile per chiunque “star bene”
senza conversare, il prestare ascolto, il prendere sul serio ciò che l’altro dice, l’attribuirgli capacità di pensare e agire in modo ragionevole costituiscono un riconoscimento radicale del suo essere persona. Non
posso realmente conversare se non considero il mio interlocutore come capace di impegnarsi responsabilmente in credenze ragionevoli1.
3. Il terzo motivo riguarda la stabilità sociale. In una società pluriculturale, ideologicamente segnata
da convinzioni diverse su questioni vitali, sembrerebbero possibili solo due vie per evitare conflitti sociali: la neutralizzazione giuridica delle differenze (posizione attribuita a J.Rawls) o l’impegno responsabile
in una attività di ascolto-parola, nel dare e ricevere ragioni a tutti i livelli dal personale al privato sociale
al pubblico istituzionale, per salvaguardare le risorse delle differenze, senza che in modo violento un
gruppo imponga la propria cultura ad un altro (J.Habermas).
Se tutto questo è vero, far diventare la scuola luogo di conversazione è impegno pedagogico prima2
rio .
Cosa vuol dire “conversare”
E’ utile un chiarimento sul termine “conversazione”. Comunichiamo in tanti modi non verbali e non
espliciti, ma, prima o poi, la parola interviene per chiarire, far crescere relazioni, per sostenerle o per e1
Questa prospettiva è irraggiungibile per un naturalismo riduzionista.
Si deve aggiungere che non vi è didattica efficace senza motivazione delle scelte di contenuto e delle strategie, senza ascolto
delle attese e delle precomprensioni. Lo studente è realtà complessa: egli concede alla scuola solo una parte di sé, astratta e demotivata. Senza conversazione è impossibile un recupero emotivo che aiuti l’alunno a considerare la scuola un ambiente che lo
riconosce in quanto persona. Il dibattito in atto sulla personalizzazione e/o la individualizzazione della didattica deriva da mutate
prospettive sul ruolo della motivazione, del contesto, della immagine si sé etc.. dell’alunno.
2
1
stinguerle. Sicuramente un momento alto della relazione è quello nel quale due persone sono impegnate
in uno sforzo esplicito di parola e di ascolto, in modo paritetico, anche quando si è responsabili di funzioni che rendono la relazione asimmetrica (docente-alunno, genitori-figli, etc..). Includo nel termine
“conversazione” anche scambi verbali tesi, impegnati, dialettici ma non polemici, nei quali l’interesse per
la parola pronunciata è pari a quello per la parola ascoltata.
E’ importante sottolineare la necessità di uno stile paritetico nello scambio. Nella conversazione la
differenza di ruoli e funzioni tra gli interlocutori è tenuta sullo sfondo, mentre in primo piano emerge la
comune appartenenza ad un contesto significativo ed alla stessa storia, pur nella differenza delle convinzioni. Lo scambio è paritetico anche nel senso già detto che l’interesse per l’espressione delle proprie ragioni è pari all’interesse per l’ascolto delle ragioni dell’altro. I modi di comunicare per via telematica: le
reti3, le chat, i forum o quelli che sono mediati dalla scrittura di testi di qualunque tipo, per quanto oggi
fondamentali e concorrenti agli obiettivi sottolineati come premessa, non possono sostituire quel “faccia a
faccia” che rende la locuzione-ascolto un evento unico4.
Nella didattica la funzione docente non può essere esaurita da testi e sussidi digitali anche per questo.
Gli approcci alla didattica che relegano il docente nel ruolo di manager dell’apprendimento dell’allievo o
quelli che vedono nel docente colui che organizza la costruzione di un prodotto finale (che può anche essere la conoscenza stessa), per quanto siano illuminanti e significativi, non esauriscono tutte le vie
dell’apprendimento e della crescita dell’alunno.
Non tutti gli scambi diretti, faccia a faccia, possono essere inclusi in “conversazione”. Per un autentico conversare occorrono attenzione e intenzione!
La maggior parte degli scambi verbali tra persone riguardano cose da fare, obiettivi da raggiungere o
sono semplicemente chiacchiera, una specie di esercizio linguistico come quel correre in una palestra che
serve per tenersi in esercizio e non conduce da nessuna parte. La chiacchiera ha una sua funzione sociale,
ma se non si apre mai alla conversazione diventa un tentativo di mettere le proprie certezze al riparo da
ripensamenti profondi5. Quello che distingue la conversazione dalla chiacchiera, dalla contesa o dalla adulazione o dallo scambio di notizie utili è che in essa lo scambio verbale non è funzionale solo a fini esterni ai parlanti, all’acquisizione o al chiarimento di contenuti concettuali, né è regolato da strategie occulte di affermazione personale, il linguaggio non è usato in modo obliquo o ambiguo, non è nemmeno
riempitivo di tempi morti, non è esercitazione retorica…. È comunicazione personale, accesso ad una
dimensione esistenziale sulla quale non ho potere, ma verso la quale sono chiamato ad essere responsabile.
Nella conversazione si fondono, in modo inseparabile, l’interesse per i contenuti comunicati e
l’attenzione ai comunicanti. E’ proprio questa intenzione duplice che rende la conversazione un evento
performativo, capace, cioè, di provocare conseguenze. Coloro che si impegnano in una conversazione
sono, quindi, attori responsabili. Per quello che dicono e in quello che ascoltano si impegnano! Si impegnano a dire cose in cui credono e a concedere fiducia all’ascoltatore. M.Polanyi ha dedicato pagine me-
3
Secondo gli esperti siamo passati alla versione 2.0 del web. Questa nuova versione rende la rete meno gerarchica e più
collaborativa. Tutti gli strumenti di lavoro vengono reperiti in rete e i contenuti vengono prodotti e distribuiti in rete.
Anche la relazione tra chi vende e chi compra o tra chi insegna e chi apprende diventa paritetica; tra gli utenti della rete
si conversa! “Ecco se dovessimo definire in qualche maniera il web 2.0 potremmo dire proprio questo: un luogo di
conversazione (di scambio fra opinioni diverse) e quindi – di conseguenza – anche un luogo di apprendimento”
(P.Mometto, La società dell’apprendimento, in «nòva24review», febbraio2007).
4
La parola «evento» può essere diversamente interpretata. Qui intendo per evento un accadimento spazio temporale interpretato, in quanto evento, all’interno di un contesto di significati.
5
Per Heidegger la chiacchiera è discorso che ha rinunciato a risalire verso il fondamento, è ripetizione di discorso che si
chiude nel dire per dire (o “scrivere pur di scrivere”). “La chiacchiera, che è alla portata di tutti, non solo esime da una
comprensione autentica, ma diffonde una comprensione indifferente, per la quale non esiste più nulla di incerto. […] La
chiacchiera, rifiutandosi di risalire al fondamento di ciò che è detto, è sempre e recisamente un procedimento di chiusura. Questa chiusura è ulteriormente aggravata dal fatto che la chiacchiera, con la sua presunzione di possedere sin
dall’inizio la comprensione di ciò di cui parla, impedisce ogni riesame e ogni nuova discussione, svalutandoli o ritardandoli in modo caratteristico” M.Heidegger, Essere e tempo, UTET, Torino, 1969, p.271.
2
morabili al legame tra verità e impegno responsabile del parlante6. L’esigenza di verità nasce sempre nel
dialogo con un altro. “E’ vero” detto di ciò che sto proferendo sposta l’attenzione dal contenuto
dell’asserto alla relazione tra asserto è realtà. “E’ vero quello che dico” impegna di fronte ad altri. Il concetto stesso di verità non nascerebbe se non ci fosse il bisogno e la necessità di comunicare e condividere.
La veracità con se stessi è un riflesso dell’obbligo ad essere veritieri con gli altri.
In tempi recenti la conversazione è diventata oggetto di riflessione esplicita, di analisi raffinate. Abbiamo imparato a riflettere sul nostro parlare e ascoltare con rinnovato stupore! D’altra parte riflettere su
ciò che sembra più scontato richiede una buona dose di attenzione e capacità di analisi. Se tale analisi può
disorientare, può anche avere come esito la riconquista di dimensioni antropologiche sacrificate, con la
sorpresa di guadagnare punti di vista più ampi.
La riflessione filosofica sul come è possibile che due parlanti si intendano (e su come questo intendersi è spesso epistemicamente impossibile!) può favorire il desiderio di vivere in modo più attento e responsabile tutti i momenti di conversazione che ci vengono offerti; può aiutarci a vivere in modo più
gioioso la vita quotidiana, dandole spessore e sottraendola all’ovvio; può preparare le nostre orecchie alla
esigenze di un altra Parola.
Il tema della conversazione ci costringe, quindi, a riflettere sul linguaggio come medium della interazione. L’esercizio della conversazione è necessaria se si acquista consapevolezza della non ovvietà della
funzione referenziale del linguaggio, della dipendenza dei significati dal contesto, della dimensione sociale della ragionevolezza e della sua espressione linguistica.
In un senso più spirituale è proprio il problema dell’interpretazione di quanto detto dal parlante che
costringe l’uditore a riconoscere lo spessore della persona.
1.
Costruire significati comuni.
In una recente pubblicazione7 Silvano Tagliagambe paragona la scuola gentiliana alle comunità
di ricerca scientifiche, così come le ha descritte T.Kuhn8. In un caso e nell’altro la funzione della
istituzione è tramandare e consolidare paradigmi. La scuola come le comunità scientifiche sono organismi unitari, fondati sull’autorità degli insegnanti e dei testi, caratterizzati da omogeneità linguistica, da una sostanziale convergenza di interessi, di valori, di finalità. I manuali e le pratiche condivise formano la comunità scolastica con le identiche modalità con le quali si formano le comunità
scientifiche. “Insegnanti e studenti possono, senza forzature, essere considerati parte di uno stesso
soggetto collettivo”9.
In una comunità così concepita l’ascolto è asimmetrico, i testi dicono tutto, l’impegno del discente consiste fondamentalmente in tre attività: ascoltare la lezione, studiare su manuali, esercitarsi
su problemi tipo!10
Questa impostazione, a giudizio di S.Tagliagambe, è stata spazzata via da nuove acquisizioni
sulla natura e i modi della conoscenza. La scuola dell’autonomia è la risposta ad una mutata concezione dei modi e della complessità dei processi cognitivi.
Il presupposto ideologico della scuola gentiliana è venuto meno quando si è compreso che i fenomeni sono fenomeni all’interno di un preciso quadro teorico, che il referente di un discorso non è
la realtà in assoluto, bensì la realtà del discorso stesso, cioè quella che “il discorso medesimo sceglie, seleziona e istituisce come realtà”, che la funzione referenziale è una funzione globale ripartita
su tutto il discorso. L’attività linguistica non consiste nel trasmettere contenuti già fissati da referen6
M.Polanyi, La conoscenza personale. Verso una filosofia post-critica, Rusconi, Milano, 1990. Vedi in particolare il
cap.10.
7
S.Tagliagambe, Più colta e meno Gentile. Una scuola di massa e di qualità, Armando editore, Roma 2006.
8
T.S.Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino, 1969.
9
Tagliagambe op.cit, p.16.
10
C’è però una differenza fondamentale, non rilevata da Tagliagambe, tra la filosofia prescrittiva delle comunità scientifiche e la filosofia della didattica gentiliana. Lo spirito ha una storia e seguirne le tappe fa parte dell’educazione, la
scienza è senza storia perché non hanno storia né i fatti, né l’analiticità di tutti gli a-priori che strutturano le teorie. Su
giudizi di fatto e giudizi analitici e sulla negazione di giudizi sintetici a priori si basava la scienza secondo i neoempiristi.
3
ti stabili. Essa ha come funzione prevalente quella di rigenerare continuamente lo spazio consensuale, di connotare un campo di cooperazione. Siamo “gettati” (Heidegger) attraverso il linguaggio in
una situazione della quale dobbiamo prenderci cura. La comunicazione non è discorso su enti indipendenti dal contesto11, è “spartizione con altri esseri dello stesso rapporto di comprensione nei
confronti dell’ente su cui verte l’asserzione”. Il dominio più appropriato nel quale collocare il linguaggio è quello delle azioni e delle interazioni umane: la conversazione quotidiana crea una fitta
rete di impegni reciproci. Chi parla impegna se stesso, la sua capacità di essere veritativo, la sua
sincerità, la sua capacità di pertinenza12. Per comprendere quanto la conversazione comprometta socialmente occorre fare riferimento alla intelligenza connettiva, alla metafora della rete, alla esteriorizzazione della intelligenza. Occorre ripensare il mentale, ci esorta A.G.Gargani, non come una realtà privata ma come “contesto e spazio che condividiamo”13.
Il sapere è dinamico e sempre incompleto, operativo (Popper: il sapere progredisce attraverso la
posizione di problemi; Wittgenstein: comprendo una regola solo se cerco di seguirla), collettivo. La
conoscenza è distribuita, labirintica, come il web avviene all’interno di una community of practice,
fatta di esperienze, attività, storie, narrazioni, pratiche condivise. Il contesto comune orienta le pratiche ma non le irrigidisce, attira le traiettorie e oppone resistenza alle deviazioni ma non rende impossibile la novità. Le communities of practice sono caratterizzate secondo E.Wenger14 da partecipazione e reificazione. La reificazione riguarda tutto il lavoro di esplicitazione. “Rendere qualcosa
esplicito, formalizzarlo, non è una semplice traduzione ma la produzione di un nuovo contesto in
cui sia la partecipazione sia le reificazioni, le relazioni tra tacito e esplicito, tra formale e informale
devono essere rinegoziate”15. Per trasferire conoscenza l’unico cammino possibile è quello della
partecipazione, della interazione diretta che non è sostituibile con la tecnologia. Oltre tutto la conoscenza non è solo collettiva, distribuita su una rete di soggetti; essa dipende da una interazione tra
livelli diversi: proprietà nuove nascono dalla interazione tra i livelli e non sono possedute da nessun
livello isolatamente preso. L’organizzazione è un ambiente che impone vincoli funzionali alle esigenze dell’organizzazione.
M.Polanyi in Conoscenza personale ha fortemente sottolineato l’aspetto duplice della conoscenza: vi è una conoscenza esplicita ed una conoscenza tacita (“conosciamo più di quanto sappiamo dire”). Vi è un sostrato condiviso di conoscenza implicita che non può essere trasferito, che non
è esplicitabile, che è contestuale a differenza di una conoscenza trans-contestuale che i linguaggi
formali tentano di trasferire da un contesto ad un altro. La non trasferibilità può, però, anche essere
dovuta non tanto alla inconsapevolezza del soggetto che la possiede come abilità ma al fatto che la
conoscenza in questione è sensibile al contesto, è nata in un certo contesto e non è trasferibile in altro contesto senza un lavoro di traduzione.
Nel processo di insegnamento/apprendimento non è possibile disattivare tale riferimento al
contesto con l’ipotesi di una omogeneità di contesti che rende infruttuoso il tentativo di comunicare
conoscenze.
Alla base del concetto di autonomia scolastica sta la consapevolezza della molteplicità dei contesti di provenienza non solo economico sociali ma anche culturali e geografici.
Il linguaggio è pluridiscorsivo, è un intreccio di contesti, di passato, presente, futuro, di punti di
vista sul mondo (Bachtin). Queste lingue della pluridiscorsività si incrociano dando luogo a nuove
lingue socialmente tipiche. Esse nascono all’interno di contesti specifici tematici o sociali. Potrebbe
11
Questo non vuol dire che è impossibile prendere le distanze dal contesto per intenzionare “qualcosa che non è qui” e
per ricostruire un contesto diverso attraverso un progetto.
12
Il riferimento è ancora a M.Polanyi e alla sua opera fondamentale La conoscenza personale.
13
“Paragonare la mente non tanto a un processo occulto che avviene dentro la scatola cranica di ciascuno e pensare invece il mentale come un’atmosfera che ci circonda che possiamo anche toccare, così come nelle varie fasi di una giornata si provano momenti di pesantezza e poi di sollievo. Questa è la mente, questo è il mentale, un contesto e uno spazio
che condividiamo” A.Gargani, L’organizzazione condivisa. Comunicazione, invenzione, etica. Guerini e Associati, Milano 1994, p.72, in S.Tagliagambe op.cit. p.28.
14
citato in S.Tagliagambe op.cit. p.33
15
S.Tagliagambe, op.cit. p.33
4
sembrare che tale pluridiscorsività renda le lingue non confrontabili. In realtà tutte le lingue possono essere confrontate e correlate dialogicamente tra loro; il confronto avviene già dentro ogni uomo.
La scuola dell’autonomia si basa su questa consapevolezza: la comunità scolastica è un insieme
eterogeneo, fatto di provenienze diverse.
Se la parola autoritaria non va discussa, né interpretata, se essa deve essere accettata senza passaggi fluidi, divisioni e accomodamenti (è intrisa della forza della gerarchia!), a giudizio di
S.Tagliagambe a scuola la parola non deve essere autoritaria, deve essere internamente convincente,
deve risvegliare il pensiero autonomo e creativo. Non deve tanto essere interpretata quanto andare
oltre verso nuovi materiali e nuovi contesti. La parola a scuola non è compiuta ma aperta, capace di
rivelare sempre nuove possibilità semantiche. Per questo deve entrare in competizione con altre parole. Ogni allievo elabora gradatamente le proprie parole a partire dalle parole altrui attraverso una
integrazione “di contesti e di concezioni del mondo, delle lingue della pluridiscorsività, del passato
e del presente, del compiuto e dell’incompiuto, del “già detto” e delle nuove possibilità semantiche”16.
Se così stanno le cose la conversazione diventa una pratica decisiva per il funzionamento di una
comunità come quella scolastica. Nella conversazione un momento decisivo diventa l’ascolto attivo,
la sollecitazione ad esplicitare motivazioni, valori, orizzonti di senso da comprendere e confrontare
con i propri.
L’insegnante incontra in una classe ragazzi e adolescenti provenienti da contesti diversi, che
l’insegnante spesso ignora, ragazzi appartenenti a comunità e gruppi che restano fuori dalla scuola.
Quello che l’insegnante pensa di comunicare viene filtrato e decodificato in modi incontrollabili. La
pratica della conversazione, il lasciar parlare, l’ascolto, l’osservazione dei comportamenti può diventare un modo di costruire significati e contesti di senso condivisi all’interno della classe17.
2.
Riconoscere la persona ascoltandola
Ma vi è una motivazione più profonda che invita a favorire momenti di conversazione.
Nel secolo scorso la riflessione sulla natura del linguaggio, sul suo rapporto con la cosa, intesa in
senso ermeneutico come “cosa del testo”, in senso pragmatico come “cosa del discorso”, in senso epistemico-ontologico come “cosa del mondo” è stata protagonista. Se nella prima metà del Novecento interpretazioni riduttive su mente e linguaggio, su esperienza e conoscenza sembravano diventate versioni
standard, particolarmente in sintonia con le acquisizioni delle scienze, nella seconda metà si sono fatte
sentire in maniera sempre più decisa voci che invitavano ad allargare le prospettive a rispettare i diversi
livelli di realtà, a recuperare posizioni filosofiche che non sacrificassero il senso comune in modo paradossale18. Domande tipiche della interrogazione analitica sono: quando due interlocutori si scambiano atti
linguistici partecipano ad un gioco che si esaurisce nella linguisticità oppure traducono un contenuto
mentale? Rivestono di spazio e di tempo una riflessione solitaria o partecipano ad un evento di natura
profondamente sociale? E’ necessaria una rappresentazione mentale per dare senso alle parole o bastano i
contesti e le regole dei vari giochi linguistici?
La risposta a questi interrogativi può sembrare ad alcuni ovvia, se ci si basa sul senso comune e su
una esperienza ingenua delle pratiche linguistiche. La filosofia del Novecento ha sottoposto, però, tali
questioni ad analisi tanto raffinate da mettere in dubbio anche le certezze più consolidate. Tali dubbi possono confortare posizioni relativistiche o scettiche, possono, al contrario, essere occasione di una rinnovata consapevolezza dello spessore di realtà e di mistero che si cela sotto attività così quotidiane come
quella di conversare.
La risposta che si dà agli interrogativi posti non è senza peso ai fini della concezione della persona,
della vita spirituale e di conseguenza della pratica didattica. Si sa, però, che le risposte dipendono in modo critico da quello che si è disposti a ritenere vero come premessa del discorso. I filosofi, che per como16
ivi p.39.
Chi insegna da molti anni sa, però, quanto questo sia veramente difficile. Il problema non è però aggirabile.
18
H.Putnam ha proposto un ritorno al «realismo ingenuo» riguardo alla percezione in Mente, corpo, mondo, il Mulino,
Bologna, 2003.
17
5
dità chiamiamo analitici19, partendo da presupposti riduttivamente empirici e comportamentali («come
viene usata questa parola?»), per giustificare la possibilità stessa della comunicazione verbale, hanno
prodotto argomentazioni tanto aggrovigliate su verità, significato, riferimento… da far chiedere, tempo
fa, ad uno dei suoi esponenti di spicco20 una moratoria nel dibattito, per tentare di ripartire da prospettive
meno anguste.
Capita però che, giunti al termine di strade senza sbocco, antiche verità tornano a noi rinnovate e può
capitarci di accoglierle con stupore dopo che la loro ovvietà è stata messa in dubbio dal trattamento analitico, e dopo che lo stesso travaglio analitico ce le restituisce purificate.
In particolare la scoperta della complessità di competenze richieste per un uso pertinente del linguaggio, la non trattabilità della comprensione dei significati mediante modelli funzionalistici, il rifiuto
della riduzione forzata delle differenze operata da modelli monistici della mente, i ritardi nella attuazione
dei programmi di Intelligenza Artificiale forte ci restituiscono l’atto di ascoltare e di interpretare un parlante come atto che richiede il riferimento ad un centro responsabile e intenzionale non trattabile naturalisticamente.
Vorrei su questo scendere più nel dettaglio del discorso per comprendere di cosa si tratti. Parto dal
problema del rapporto tra le parole e il mondo, che va sotto il nome di “problema del riferimento dei nomi propri o dei nomi di genere naturale”. All’inizio del Novecento, per sottrarre i significati e il linguaggio all’invadenza della psicologia, si è diffusa la prassi filosofica di tentare di descrivere significato e linguaggio in termini oggettivi, pubblici, in modo tale che il significato delle parole potesse fare a meno della chiamata in causa dei parlanti o quanto meno dovesse solo riferirsi non al mondo interiore, mentale,
degli stessi ma solo al loro comportamento: azioni, gesti, uso dei termini. Un nome da solo, si è notato,
non ha la capacità di unirsi ad alcunché; ascoltando un parlante che proferisce nomi e fa asserzioni, a partire solo dall’ascolto e dall’osservazione del suo comportamento, è possibile adottare interpretazioni diverse o, come scriveva Quine in Parola e oggetto (1960), diverse “ipotesi analitiche” di traduzione. Questo non riguarda solo la traduzione tra lingue diverse, ma è anche un problema intralinguistico. E’ possibile, a partire dalle parole proferite, attribuire in modo coerente al parlante le credenze più strambe e inverosimili o quelle più sofisticate che ne fanno, volta a volta un selvaggio superstizioso o una persona di
buon senso. Questo non riguarda solo il linguaggio naturale ma anche i linguaggi formali, appositamente
emendati per evitare ambiguità. Quale traduzione scegliere? Secondo W.V.O.Quine la scelta doveva sottostare ad un criterio pragmatico, il cosiddetto principio di carità21: «La massima della traduzione che sta
alla base di tutto questo è che asserzioni che appaiono inizialmente false dipendono con ogni probabilità
da nascoste differenze di linguaggio. (...) Il senso comune che sta alla base di questa massima è che
l’insipienza del nostro interlocutore, oltre un certo limite, è meno probabile della cattiva traduzione - o,
nel caso domestico (cioè tra parlanti la stessa lingua), della divergenza linguistica.»22. Le parole che mi
vengono dette, cioè, possono essere interpretate solo se concedo loro, preliminarmente, che siano ragionevoli. Interpretazione caritatevole era per Wilson, che prima di Quine aveva introdotto il principio, quella che attribuiva alle parole referenti tali da rendere vero il maggior numero possibile di asserzioni proferite. In tal modo era possibile evitare di attribuire al parlante credenze incoerenti o eccessivamente diverse dalle nostre.
Successivamente il criterio è stato articolato e precisato per evitare il riferimento diretto alla nozione
di “verità”, che era al centro di accesi quanto inconclusivi dibattiti.
H.Putnam articolò il principio di carità nei due principi: principio del beneficio del dubbio e principio di ragionevole ignoranza. I due principi esonerano i parlanti dall’obbligo di conoscere l’esatta definizione e, per così dire, l’essenza di ciò cui i termini proferiti si riferiscono e dall’obbligo di essere filosoficamente onniscienti, tanto da avere esatta consapevolezza dell’atto di riferirsi che compiono proferendo
19
Quelli, cioè, che considerano il linguaggio come territorio proprio del lavoro filosofico, e l’analisi del linguaggio come strumento adeguato per risolvere i problemi filosofici che l’uso scorretto del linguaggio crea.. Sulla caratterizzazione di “analitica” per una filosofia vedi F.D’Agostini, Filosofia Analitica, Paravia, Torino, 1997.
20
Si tratta di H.Putnam in Realism with a human face, Harvard University Press, 1990.
21
Vedi una sintesi in M.Dell’Utri, Le vie del realismo, Franco Angeli, Milano, 1992, cap.3.
22
W.V.0.Quine, Parola e oggetto, Bompiani, Milano, 1970, p. 79.
6
nomi. Se io considero il parlante come appartenente alla mia stessa cultura o, al limite, al mio stesso
mondo sono vincolato ad interpretare il suo discorso in modo ragionevole. D.Davidson così sintetizza il
ruolo del principio di carità:23 «la carità non è un'opzione ma la condizione per avere una teoria efficiente...(la carità) ci si impone per cosi dire; se vogliamo capire gli altri dobbiamo, ci piaccia o no, tenerli nel
giusto conto nella maggior parte delle questioni».
Infine con R.Grandy il principio di carità diventa principio di umanità. Se vogliamo predire il
comportamento dei parlanti non basta la conoscenza delle loro credenze e dei loro desideri. Abbiamo bisogno in più di un modello che li rappresenti nella loro disposizione al comportamento verbale e non verbale. Tale modello siamo noi stessi: cosa faremmo se avessimo le stesse credenze e gli
stessi desideri? «Otteniamo così quel vincolo pragmatico sulla traduzione, la condizione che
l’insieme di relazioni tra credenze, desideri, e mondo che noi attribuiamo al parlante sia quanto più
possibile simile al nostro. Tale principio lo chiamerò principio di umanità»24.
L’evoluzione del principio è guidata da considerazioni che qui non è il caso di riprendere. Ci
interessa, però, il fatto che una semplice analisi del linguaggio non basta per interpretare un discorso o tradurlo da una lingua ad un’altra. Neanche è sufficiente aggiungere un’analisi dei comportamenti. Lavorando solo sulle parole e sui comportamenti si possono attribuire al parlante concezioni,
credenze, desideri molto diversi tra loro, anche abbastanza balzane. La traduzione o la interpretazione dei riferimenti necessita della decisione di passare dalle parole alle intenzioni di chi le proferisce, dalla registrazione di enunciati alla scelta di considerare il parlante come facente parte della
nostra stessa umanità, di considerare il suo punto di vista, le sue credenze, preventivamente, ragionevoli e, nel caso di un parlante poco competente25, sopperire alla sua incompetenza linguistica e
correggere i suoi errori materiali con una interpretazione caritatevole.
Questa può, però, ancora essere considerata solo una strategia di interpretazione, un vincolo
pragmatico per essa. J.R.Searle26 si è spinto più in là! Ha tentato non solo un’analisi del linguaggio,
ha cercato anche di capire come un linguaggio sia possibile, si è avventurato nel terreno minato di
una filosofia del linguaggio. Per questo è stato costretto a riaffermare che la capacità di un linguaggio di essere significativo dipende dal fatto che la mente ha una proprietà irriducibile che è la Intenzionalità. E’ la Intenzionalità che spiega il carattere referenziale del linguaggio e non viceversa.
Non sono le parole ad avere intenzionalità (con la i minuscola), l’Intenzionalità (con la i maiuscola)
è una caratteristica della mente. Ma non basta! La Rete Intenzionale è una rete olistica fatta di fili
che conducono ad uno sfondo preintenzionale, non linguistico. L’atto illocutorio di proferire parole
è un atto intenzionale che reintroduce la esperienza del nesso causale come primario e non come inferito dalla esperienza della regolarità. In tal modo (reintroducendo causalità e mente), secondo
L.Alici27, Searle ha commesso un duplice parricidio: nei confronti di Hume e nei confronti di Wittgenstein e si distacca dalla tradizione analitica28.
Queste conclusioni hanno un peso rilevante se si considera che sono nate in un clima filosofico
antimentalista e anticartesiano. La concezione che, per comodità, possiamo chiamare cartesiana è
quella che considera un parlante come un individuo solo con i suoi pensieri, che vive una sua vita
mentale rispetto alla quale il linguaggio è uno strumento per comunicare pensieri. La reazione a tale
atteggiamento fondamentalista non lo è stata di meno: eliminare il ruolo della mente nell’analisi del
linguaggio e di riferirsi solo ai comportamenti verbali e non verbali. E’ noto l’aforisma di Wittgenstein: «Se Dio avesse gettato uno sguardo sulla nostra anima non sarebbe stato in grado di scorgervi
di chi stavamo parlando»29. L’intenzione del parlante non sta nella sua mente, riposa nella situazione, è esibita dall’uso del linguaggio.
23
In R.Egidi ( acura di), La svolta relativistica nell’epistemologia contemporanea, Franco Angeli, Milano, 1988, p.166.
Cit. in Dell’Utri p.97
25
Come tutti noi siamo dal momento che di molte parole adoperate conosciamo il significato in modo approssimativo.
26
J.R.Searle, Della intenzionalità. Un saggio di filosofia della conoscenza, Milano, 1984.
27
Op.cit.; vedi sul significato dell’opera di Searle tutto il primo capitolo: Intenzionalità e rappresentazione.
28
Searle si distacca anche dal suo maestro di Oxford J.L.Austin perché introduce nel significato di una asserzione il valore illocutorio. Questo significava superare la distinzione tra analisi semantica e analisi pragmatica.
29
L.Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1983, p.285.
24
7
Nonostante le reazioni antimentaliste e i veti comportamentisti, proprio all’interno di quel tipo
di indagine che considerava l’analisi linguistica l’unica filosofia del linguaggio possibile, il parlante
ha riaffermato il suo diritto ad essere preso in considerazione con le sue intenzioni, i suoi desideri,
le sue concezioni e le preintenzioni inanalizzabili linguisticamente. Chiamare in causa le intenzioni
del parlante significa aprire una questione filosofica cui, solo per decisione ascetica, si può decidere
di non dare seguito. Wittgenstein, in Della certezza, affermava: «Dove gli altri proseguono, io mi
fermo».30
La decisione di fermarsi di Wittgenstein, se può essere giustificata da abusi internalisti, non appare più, a questo punto, ragionevole. La prosecuzione non potrà essere una riconquista di antiche
posizioni; dovrà tenere conto del cammino percorso e delle acquisizioni ormai condivise. Due di esse sono irrinunciabili: la dimensione intrinsecamente sociale dei significati e del linguaggio, da una
parte, l’atto di discorso come evento e come azione, dall’altro.
Riguardo alla prima questione occorre rifiutare l’idea di un parlante traduttore solitario di pensieri in parole. Anche se non tutto è riducibile a linguaggio, i nostri pensieri coscienti lo sono. Ma il
linguaggio è capace di veicolare significati solo perché un mondo è condiviso dai parlanti e il linguaggio è la manifestazione di questa condivisione. Provocatoriamente H.Putnam ha più volte affermato che “i significati non sono nella mente!”. Lo afferma anche adesso che rinnega tante posizioni passate e riscopre la irriducibilità della intenzionalità a realtà fisica. Possiamo accettare questa
espressione nel senso che la possibilità di riferire parole a cose non dipende dalla perfetta consapevolezza di ciò che facciamo, dipende da una cooperazione sociale o, secondo una sua ben nota espressione: “dalla divisione del lavoro linguistico”. Se abbiamo competenze linguistiche è una questione che non possiamo decidere se non dentro e insieme alla comunità dei parlanti.
Per quanto riguarda la seconda acquisizione Austin e, in seguito, Searle si sono impegnati in
questa direzione: non basta considerare i significati nell’analisi linguistica, occorre considerare anche gli atti di discorso. E’ famosa la distinzione tra l’atto di dire qualcosa (locutorio) e l’atto che si
compie nel dire qualcosa (illocutorio): “con le parole facciamo cose”31. Secondo Searle nel significato di una asserzione è incluso l’atto stesso di discorso. Le due domande: «Come determinano i significati degli elementi di una frase il significato di una frase nel suo complesso?» e «Quali sono i
diversi tipi di atti linguistici che i parlanti compiono quando usano espressioni?» non solo appartengono ad una sola filosofia del linguaggio, ma sono necessariamente collegate32.
L’approfondimento del discorso come azione invita ulteriormente a considerare il parlante come un
agente che ha delle intenzioni e che vuole perseguire uno scopo. E, se vuole perseguire scopi, ha uno status morale; è capace di valutazioni e di previsioni non legate solo al desiderio di sopravvivere; è capace
di percepire significati propriamente umani; considera se stesso come causa della catena di eventi che il
discorso provoca e, quindi, soggetto di responsabilità.
Proprio nell’ascolto ci riferiamo ad un altro, che consideriamo nostro pari, capace di partecipare al
discorso, di far si che nel nostro parlare e ascoltare vi sia evento. D'altro canto, «ciò che è rilevante non è
tanto la capacità di avere qualche conoscenza interna dei significati umani che è il modo tipicamente "internalista" di comprendere, ma piuttosto l'accesso ad una forza o ad una regione che giace fuori di noi»33.
Se vogliamo allora recuperare il valore della interiorità senza ricadere in concezioni internaliste insostenibili dobbiamo ritrovare nella conversazione, come nell’azione, il momento rivelativo della persona
alla frontiera di quei due modi di essere che, solo per metafora, chiamiamo interiore ed esteriore.
Osserva L.Alici: «Non si tratta di giustapporre all’autosufficienza di una res cogitans l’opaca
impersonalità di una res extensa, quanto di esplorare con strumenti adeguati la compresenza di rimandi che costituiscono la ricchezza dell’esperienza comunicativa, radicandola nell’apertura ad un
30
Searle da parte sua rifiuta il dualismo cartesiano e, pur ritenendo la mente irriducibile, ne rifiuta una spiegazione essenzialista. L’unica spiegazione possibile, per Searle, non può che essere naturalistica.
31
Vedi J.L.Austin, Come fare cose con le parole, Marietti, Genova, 1987.
32
J.R.Searle, Atti linguistici, Bollati Boringhieri, Torino, 1976, p.43.
33
Ch.Taylor cit. in L.Alici, Presenza e ulteriorità, Edizioni Porziuncola, Perugia, 1992, p.57.
8
primum personale»34. In sintesi: «Occorre esplorare una linea che va dal senso del detto all’impegno
del dire, riconoscendo la originaria coappartenenza di interiorità, intenzionalità e comunicazione»35.
Mentre la riflessione sui presupposti della conversazione ci costringe a trascendere i limiti del linguaggio, a ripensare il tema della persona, ci impegna anche ad essere all’altezza di ciò che essa significa.
Non siamo soltanto ritornati al punto di partenza: abbiamo recuperato la persona nel suo essere strutturalmente persona con altre persone! Abbiamo raggiunta una consapevolezza nuova del fatto che l’azione
di conversare implica una scelta verso l’altro, una assunzione di responsabilità36.
Conversare diventa un’attività di cooperazione sociale indispensabile che rivela le possibilità interiori della persona, è un agire che ha conseguenze e che, se vuole essere sensato e responsabile, deve sottomettersi al vincolo di regole, richiede una educazione.
Si configura allora una vera e propria sfida educativa per il futuro per sottrarre la conversazione
alle sue patologie e farla diventare un vero e proprio luogo di rivelazione e di cambiamento37.
3. Ricostruire i presupposti della democrazia per decisioni ragionevoli: “l’uso pubblico della ragione”
Un terzo ordine di considerazioni riguarda la ragion pratica.
Culture alternative e “dottrine comprensive” si affollano sulla scena sociale e politica richiedendo riconoscimento. Essere ragionevoli è diventata una richiesta irrinunciabile, pena l’instabilità
sociale. La definizione classica di persona, data da Boezio e accettata da tutto il Medioevo, è: individua substantia rationalis naturae. Allora si preferiva mettere in evidenza la individua substantia
oggi è emersa, a seguito anche delle riflessioni su linguaggio e apprendimento, la dimensione essenzialmente sociale della razionalità38. W.Sellars ha introdotto la metafora dello “spazio delle ragioni”: non esiste una giustificazione solipsistica delle nostre credenze, la giustificazione ha sempre
un carattere interpersonale, sociale. Secondo Sellars i contenuti di tutti i nostri concetti possono essere compresi solo all’interno di quelle inferenze attraverso le quali noi partecipiamo al gioco sociale del “dare e chiedere ragioni”39.
La caratteristica fondamentale di un atteggiamento ragionevole40 è la preoccupazione di giustificare di fronte a se stessi e di fronte ad altri (potenzialmente di fronte a tutta l'umanità) ciò che si
pensa e ciò che si fa, in vista dei fini scelti per il proprio agire. Per alcuni la scelta dei fini non è
sindacabile e sfugge al controllo razionale; per altri proprio la scelta ponderata del fine e la discussione su di essi appartengono al campo tipico della razionalità. Essere ragionevoli è possibile solo
all'interno di una dialettica sociale. Noi tentiamo di formulare le nostre convinzioni in modo da
34
ib. p.78.
ib.p.71.
36
Questo significa, tra l’altro, che l’attività del conversare non è comprensibile in una prospettiva riduzionista che non riconosce ai livelli più complessi un grado di realtà maggiore e vorrebbe spiegare le proprietà di tali livelli in base a livelli materiali
ritenuti più fondamentali. Sui problemi di un naturalismo riduttivo vedi M.Di Francesco, Filling the gap, or jumping over it?
Emergentism and naturalismi in Epistemologia XXVIII (2005), pp. 93-120. Proprio il rapporto tra parlanti è assolutamente refrattario ad un trattamento naturalistico. Sui problemi legati alla prospettiva “naturalistica” vedi il volume collettaneo Natura
senza fine. Il naturalismo moderno e le sue forme, a cura di P.Costa e F.Michelini, EDB, Bologna, 2006.
37
All’estremità opposta vi può essere una distanza radicale come quella descritta da Primo Levi in Se questo è un uomo
nel capitolo L’esame di chimica.
38
Che non deve essere considerata come alternativa ad una concezione che riconosce alla persona autonomia rispetto
alla relazione.
39
Vedi R.Giovagnoli, Intenzionalità e spazio “sociale” delle ragioni, in «Epistemologia» XXVIII (“005), pp.75-92
40
C'è una differenza tra essere razionale ed essere ragionevole: la razionalità sembra appannaggio di procedure apodittiche, la ragionevolezza è tipica di comportamenti in condizione di incertezza. Sono termini diversi e che hanno una
lunga storia alle spalle. In una prospettiva empirista la ragione è calcolatrice, algoritmica per la massimizzazione
dell’utile, nella prospettiva classica la ragione mira ai fini e ai principi. Le conclusioni della ragione non possono essere
negate: un ragionamento corretto non può essere contestato se si accettano le premesse, la ragione è potenzialmente universale; la ragionevolezza riguarda scelte e inferenze fatte in condizione di incertezza cognitiva. Posso non accogliere
le concezioni di un altro anche se le ritengo ragionevoli. “Ragionevolezza” ha un riferimento alla verità più debole di
“ragione”.
35
9
renderle potenzialmente condivisibili da tutti; ci sforziamo di giustificare i nostri comportamenti in
modo da ottenere un assenso sociale; entriamo in conflitto con gli altri e con noi stessi quando questo assenso è negato. Cerchiamo di fondare le nostre convinzioni e di giustificare i nostri comportamenti con argomentazioni persuasive non solo perché aspiriamo alla certezza ma anche perché
aspiriamo ad una vita in comune la cui fisionomia è caratterizzata dalle idee e dai comportamenti
condivisi.
Il punto critico di ogni processo di giustificazione delle scelte personali e sociali è il passaggio
dalle convinzioni personali, basate su quelle intuizioni che costituiscono il nucleo delle dottrine
comprensive e che spesso sono prive di adeguato sviluppo concettuale, alla formulazione, nella lingua della nostra cultura di appartenenza, di teorie esplicative, di ragioni e, per quanto riguarda l'azione, di regole e di norme che vorremmo potenzialmente condivisibili da ogni essere razionale.
Attraverso la mediazione del linguaggio (cosa di più sociale del linguaggio?) il vissuto interiore si
struttura e diventa comunicabile. Solo allora può iniziare un cammino di argomentazione, riflessione, ricerca, dibattito, scambio che conduce alla costruzione di una visione del mondo e alla possibilità di esperienze più profonde. Può accadere così che norme di comportamento, ritenute prima irrinunciabili, vengano messe in discussione e principi, prima condivisi, appaiano meno evidenti e sicuri; può accadere che le ragioni dell’altro convincano a ripensare le proprie posizioni.
Può accadere però, anche, che le differenze si definiscano meglio, che le divergenze non vengano meno, che la pluralità di prospettive non venga ridotta. Di fronte al prevedibile fallimento dei
tentativi di raggiungere obiettivi condivisi e di aderire a valori comuni in contesti pluralistici la esigenza di ragionevolezza non viene meno. Anzi! Una rinuncia alla ragionevolezza lascerebbe la porta aperta agli interessi privati dei gruppi più forti. E’ necessario continuare il dibattito, è necessario
continuare a dare e ricevere ragioni. Una società politica smette di essere società e diventa un aggregato di interessi privati se viene meno la conversazione a tutti i livelli privati e pubblici, se l’atto
di parola e l’ascolto attento smettono di impegnare la responsabilità degli interlocutori sociali, se
questi non sono più animati da una intenzione comunicativa.
Recentemente J.Habermas41 ha ripreso il tema dell’”uso pubblico della ragione” teso tra la neutralità dello Stato e un rispetto reale del pluralismo. Secondo una posizione difesa da J.Rawls, le
credenze dei cittadini, le loro concezioni profonde42 non devono superare il confine istituzionale.
Uno stato democratico deve essere neutrale nel senso che sono ammissibili solo le concezioni della
giustizia politica in linea di principio accettabili da tutti, indipendentemente dalla dottrina comprensiva che professano43. I singoli cittadini devono accettare e riconoscere l’autorevolezza che dipende
da tale scelta di neutralità in vista del bene di tutti e per un principio di reciprocità, pena il conflitto
permanente e la disgregazione sociale. La critica che J.Habermas rivolge a Rawls consiste nel fatto
che, in questo modo, il riferimento alla verità rischia di uscir fuori dalla scena pubblica. Nella prospettiva di Rawls i principi di giustizia comune dipendono da un consenso per “sovrapposizione”,
senza che vi sia un effettivo momento argomentativo pubblico. Secondo Habermas la ragione pubblica richiede un dibattito pubblico, nel quale i protagonisti sono invitati ad essere all’altezza delle
esigenze di tale dibattito. In tale dibattito devono entrare anche le motivazioni profonde, il nucleo di
fede religiosa che ispira le proprie scelte e convinzioni. Non spetta solo a queste ultime l’onere della
prova. In definitiva, afferma Habermas, anche una posizione radicalmente illuminista è una comprehensive doctrine come altre. Il non credente deve ascoltare con molta attenzione le ragioni del
credente perché forse quest’ultimo può ricordargli le stesse motivazioni della solidarietà sociale andate perdute, quei valori che una convivenza civile presuppone e che non possono essere “imposti
per legge”. La ragione illuministica non può appellarsi alla scienza dichiarando irragionevoli le cre41
J.Habermas, Tra scienza e fede, Laterza, Roma-Bari, 2006.
inglobanti scelte etiche, comportamenti sociali, stili di vita, opzioni politiche…
43
Rawls cerca di conciliare la ragione pubblica kantiana, potenzialmente universale, con le istanze hobbesiane che identificano, per motivi pragmatici, la gione pubblica con il giudizio del sovrano. Sulla posizione di J.Rawls vedi F.Viola,
La ragionevolezza politica secondo Rawls, in C.Vigna ( a cura di ), Etiche e politiche della post-modernità, Vita e pensiero, Milano, 2003, pp. 163-181.
42
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denze religiose. Se il laicista “fa eccessivi prelievi dal suo conto scientifico” allora è giunto il momento di un dibattito su questioni filosofiche fondamentali: il problema del rapporto tra asserzioni
delle scienze sperimentali e convinzioni religiose riguarda “la genealogia della idea di sé della modernità”. La scienza moderna non è il risultato di “una storia della ragione che sostanzialmente include le religioni mondiali?”44.
Educare alla conversazione
Da tutto quello che precede si comprende come non basti sottolineare l’importanza personale e sociale della conversazione, occorre educare ad essa, occorre cioè educare alle regole di una conversazione
responsabile e impegnata, come quella della quale si occupano queste note.
Questa educazione ha un aspetto epistemico ed uno normativo. Concludo questo articolo con alcune
note su questi due aspetti riferendomi alle osservazioni di P.Grice e J.Habermas..
Secondo Grice la conversazione è un’attività cooperativa. Per questo i parlanti devono accettare alcune regole45. Grice enuncia un principio di cooperazione: «conforma il tuo contributo conversazionale a
quanto è richiesto, nel momento in cui avviene, dall’intento comune accettato o dalla direzione dello
scambio verbale in cui sei impegnato». Articola il principio, al modo di Kant, in quattro categorie sotto le
quali raggruppare massime più specifiche: Quantità, Qualità, Relazione e Modalità. Sotto la categoria
della Quantità sono comprese le massime: «Dá un contributo tanto informativo quanto richiesto (dagli
intenti dello scambio verbale in corso); non dare un contributo più informativo di quanto richiesto». Sotto
la categoria della Qualità sono comprese una supermassima: «Cerca di dare un contributo che sia vero» e
due massime più specifiche: «Non dire ciò che ritieni falso; non dire ciò per cui non hai prove adeguate».
Sotto la categoria della Relazione Grice colloca l’unica massima: «Sii pertinente». La categoria della
Modalità contiene la supermassima «Sii perspicuo» e varie massime quali: «Evita oscurità di espressione,
evita ambiguità, sii conciso, sii ordinato». Queste massime configurano, secondo l’A., comportamenti
cooperativi necessari per rendere possibile lo scambio verbale, cioè per rendere disponibili le implicature
conversazionali, cioè le intenzioni implicite non dette che fanno parte del significato. Nella misura in cui
la conversazione costruisce relazioni sociali e rende quindi possibile convivenza e cooperazione, da regole pragmatiche esse diventano un codice di comportamento. Se non interessano solo informazioni e prestazioni che un altro può fornire, ma anche l’incontro con l’altro, se tale incontro è un evento desiderabile
occorre educarsi ad una vera e propria etica della conversazione46.
Le preoccupazioni di J.Habermas partono da un altro contesto problematico ma contribuiscono
anch’esse a delineare le regole di una conversazione costruttiva. Coloro che conversano, che si impegnano “a dare e ricevere ragioni”, per ricostruire le ragioni stesse di una convivenza che non sia semplice
modus vivendi, devono essere “all’altezza dei criteri dell’uso pubblico della ragione”47. Questi criteri possono essere riassunti nell’obbligo reciproco di prendersi veramente sul serio. Anche tra persone che aderiscono a dottrine comprensive radicalmente diverse48. Ma come è possibile che la ragione illuministica
prenda sul serio l’istanza religiosa senza considerarla residuo del passato da tollerare o che il credente
consideri la posizione del laicista come una posizione dalla quale apprendere qualcosa? Come possono
44
J.Habermas, cit. p.49.
P.Grice, Logica e conversazione. Saggi su intenzione, significato e comunicazione, introduzione di G.Moro Il Mulino,
Bologna, 1993. Le regole della conversazione, esposte in Logica e conversazione, vengono qui citate solo ai nostri fini,
che non sono quelli dell’autore. Per Grice, formatosi a Oxford nel clima della cosiddetta «filosofia del linguaggio ordinario», l’interesse era di tipo logico semantico, anche se non mancavano aperture verso la metafisica e la filosofia morale (a differenza del gruppo di Oxford tutto intento a comporre una specie di «botanica linguistica»). La sua nozione di
implicatura conversazionale è, però, un recupero del legame tra logica e psicologia nella definizione del significato.
46
Un'altra linea di pensiero è legata alla necessità di fondare l’etica stessa. In tale caso le regole della conversazione diventano condizioni trascendentali. Vedi K.O.Apel, Etica della comunicazione, Jaka Book, Milano 1992.
47
J.Habermas op.cit. p.47.
48
“Lo Stato democratico si nutre di una solidarietà, che non può imporre con le leggi, fra cittadini che si considerano
reciprocamente membri liberi ed uguali della loro comunità politica. Nella scena pubblica politica, questa solidarietà
riscossa in moneta spicciola deve dar prova di sé anche e soprattutto al di là dei confini ideologici. Ad esempio, il riconoscimento reciproco significa che i cittadini credenti e non credenti sono disposti a prestarsi ascolto e a imparare gli
uni dagli altri nei pubblici dibattiti”
45
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una visione scientista della realtà e quella che ricorre ad una rivelazione trascendente avere qualcosa da
dirsi? J.Habermas risponde che non vi è altra strada: se si vogliono salvare i presupposti, inattingibili alle
norme giuridiche, dei quali le nostre democrazie vivono occorre che si ascoltino gli altri come coloro dai
quali è sempre possibile apprendere.
Le preoccupazioni di Habermas sono di tipo politico, riguardano la possibilità di conciliare rispetto
del pluralismo e coesione sociale. Anche se la conversazione deve essere condotta in modo comunicativo
e non strumentale, nel contesto del discorso, essa sembrerebbe motivata solo dalla necessità di salvaguardare la stabilità politica in un’epoca di pluralismo. Una motivazione non solo pragmatica è possibile reperirla nella ritrovata consapevolezza della dignità di persona di coloro che si impegnano nel parlare e ascoltare. In un certo senso questa dignità sfugge alla strettoia ideologica: anche quando non condividiamo
ciò in cui il nostro interlocutore crede, quello che unisce in un vincolo solidale è più profondo delle divergenze possibili.
Perché ci sia reale conversazione, quindi, occorre che i parlanti si predispongano ad essa con la esplicita intenzione di conversare. Condizione essenziale è, come abbiamo visto, la intenzione di comunicare realmente e la fiducia vicendevole nella capacità di atteggiamenti razionali del nostro interlocutore.
La conversazione ha in sé un valore personalizzante che la rende epifania della persona. Per un cristiano è
epifania del Dio Conversazione nel quale crede49.
Costruire luoghi di conversazione
Per potere conversare occorrono dimore comuni! La conversazione è anche riconoscimento di appartenere a dimore comuni. Il dono di un conversare amico può diventare un luogo nel quale silenzio e
parola, discrezione e intimità, identità e differenza convivono.
L’adulazione vuole sempre piacere e non può divenire schiettezza. Il litigio si oppone all’altro senza
motivo per difetto di amore nei suoi confronti. La difesa del ruolo trasforma l’attenzione in sospetto, la
comunicazione in performance.
Vi sono alcuni modi di comunicazione verbale nei quali la efficacia dello scambio dipende dal riconoscimento di ruoli diversi e di asimmetrie. L’insegnamento, ad esempio, (o la relazione genitoriale) presuppone un rapporto di dipendenza del discente e di responsabilità del docente. Ma, poiché chi insegna
non è solo insegnante e non è insegnante secondo tutti i rispetti, un buon insegnante deve essere in grado
di conversare con i suoi allievi. Una deformazione di questo atteggiamento estendendo inopportunamente
l’asimmetria della relazione conduce al paternalismo. Prima di essere alunno (o figlio), ogni alunno è
uomo. Ogni uomo richiede come atto quasi di giustizia di entrare nella conversazione. Ogni uomo ha diritto ad essere trattato come uno col quale è possibile avere conversazione. Se c’è un modo di disprezzare, che può al limite per il credente diventare peccato contro lo Spirito, è quello di negare all’altro la capacità di conversare considerandolo un minore inguaribile.
La conversazione è il momento maturo della dimensione linguistica.
La comunicazione linguistica può essere funzionale. Nelle società complesse il linguaggio veicola
spesso contenuti tecnici, operativi; la parola dipende dalla funzione; attraverso la parola un gruppo di lavoro mira ad una realizzazione. Ma poiché l’uomo rimane uomo in ogni relazione, non vi può essere comunicazione di lavoro che non sia anche conversazione, che non porti con sé l’avvertenza che si sta trattando tra uomini; ogni uomo ha diritto alla benevolenza e alla considerazione, anche nel bel mezzo di una
febbrile attività.
La conversazione richiede la pratica del silenzio. Forse un motivo del fatto che le nostre chiacchiere
non si trasformano mai in conversazione è la scarsa attitudine al silenzio e all’ascolto. Il silenzio è la forza della parola, il silenzio rende la parola significativa. Chi non sa tacere, non può ascoltare, ma non sa
neanche parlare; non ha nulla da comunicare; non riesce più a credere che vi possa essere autentico
scambio diverso dalle comunicazioni puramente strumentali.
La conversazione richiede anche disponibilità di tempo. Educarsi a conversare può significare educarsi a rallentare la corsa, imparare a concedere alle cose tempo per la loro crescita. Così la fretta di giun49
rimando al mio A.Briguglia, Conversazione ed ethos trinitario, in «Nova et Vetera», ed.italiana, ottobre 1999.
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gere ad una comunicazione senza ombre può uccidere la conversazione. Senza realismo e senso del limite, senza la capacità di accontentarsi delle piccole quotidiane riuscite, non è possibile accogliere i momenti forti e gli eventi comunicativi che segnano una vita. La conversazione è resa impossibile dalle nostre patologie relazionali. C’è qui un paradosso: non possiamo fare a meno di relazioni nelle quali accogliamo e siamo accolti, ma le strategie che mettiamo in atto avvelenano e rendono impossibili le relazioni
stesse. Il conflitto interiore, che spesso nasce dall’impossibilità di essere all’altezza della immagine di sé,
rende indisponibili alla conversazione veritiera, perché essa sarebbe rischiosa50. La conversazione matura
può essere il segno della nostra guarigione.
La conversazione ha bisogno dei suoi spazi, occorre cercarli o costruirli.. Un atteggiamento dirigista
o sottomesso, un io prorompente o depresso non cerca le occasioni, un io interessato o che ha paura di
perdere ciò che crede di possedere non è disponibile. La conversazione è amata dall’uomo libero,
dall’uomo umile e sapiente.
Se la scoperta di una qualunque verità è un evento personale, la conversazione precede e accompagna la ricerca, è il luogo adatto alla ricerca della verità.
Nella ricerca della verità occorrono, certamente, maestri di pensiero e di sapienza. Ma occorre anche
il momento della comunicazione verbale paritaria nella quale si riesca ad andare al di là delle parole, per
cogliere il nucleo di senso che emerge a fatica. Il maestro comunica percorsi antichi e nuovi, apre a contenuti usuali, la parola si sottomette in modo strumentale a percorsi consolidati. Nella ricerca fatta in comune, attraverso il dialogo, la parola è evento. I due interlocutori sanno che da origini segrete e misteriose qualcosa sta emergendo per diventare rivelazione. Quello che in me è confuso o inespresso attende un
interlocutore amico che sappia pazientemente andare al di là delle parole, per cogliere una realtà che vuole diventare carne, nel modo in cui per gli uomini il mistero di esistere può diventare carne. Il viaggio più
breve da me a me è la parola di un amico! Ma nella conversazione la parola e la cosa rimangono distinte.
Il piacere di conversare è come il piacere estetico. L’intelligenza e i sensi godono di trovarsi in presenza
di qualcosa di adatto, cioè di bello; ma è l’equilibrio misterioso tra questo piacere autoreferenziale e la
contemplazione di una alterità ciò che connota le autentiche esperienze estetiche, a differenza del piacere
che ha per oggetto il piacere stesso. Così nella conversazione godo di essere in presenza di un partner, ma
questo piacere è inseparabile dalla res comunicata. Questo è possibile se colui con cui converso non accaparra per sé la mia attenzione e la mia affettività sia dominandole sia sottomettendosi, in cerca di esperienze fusionali; occorre anche che la parola non diventi prepotente, invadente, che non cerchi vittoria a
tutti i costi, che applichi quel principio di carità, che ci permette di interpretare le parole
dell’interlocutore nel modo più ragionevole e a lui più favorevole.
Se è vero quanto fin qui detto, costruire luoghi di conversazione diventa compito politico prioritario.
Non può esistere pedagogia che non preveda educazione alla conversazione, esperienze di conversazione.
La scuola può essere uno di questi luoghi? E’ utopia dal momento che la scuola non riesce a sottrarsi (e
non deve sottrarsi) agli stimoli e sollecitazioni che vengono dalla società. Deve sottrarsi però alla corrosione della solidarietà sociale che i mercati globalizzati impongono alla comunità dei consumatori51. Il
carattere utopico di questo imperativo ha dalla sua due motivazioni alle quali attingere: la persona non
può farne a meno per essere persona, non vi è altra strada percorribile se non si vuole rinunciare alla forza
mite della ragionevolezza.
50
Vedi K.Horney, I nostri conflitti interni, Martinelli, Firenze, 1971: M.Novellino, Conflitto intrapsichico e ridecisione,
Citta Nuova, Roma, 1990.
51
Qualche anno fa L.Russo preconizzava una scuola di massa il cui obiettivo fondamentale sarebbe stato: avviare al
consumo. “Una tale scuola dovrà fornire una serie di prescrizioni alle quali il futuro cittadino consumatore dovrà attenersi nei vari momenti dell’esistenza” (L.Russo, Segmenti e bastoncini. Dove sta andando la scuola?, Feltrinelli, Milano, 1998, p.19). Analoghe preoccupazioni si trovano nel libro di G.Savagnone, La scuola nella società complessa. Tra
cultura dell’efficienza e nuovi valori, La scuola, Brescia, 2002.
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