Maria Pia Donato
L’insegnamento della storia, la riforma perenne
della scuola e un passato che non passa
Laboratorio dell’ISPF, XI, 2014
DOI: 10.12862/ispf14L204
[Osservatorio - 4]
Una rivista scientifica non dovrebbe seguire le contingenze della politica, tanto
più in un’epoca (e in un paese) in cui il loro ritmo appare tanto convulso e
affannoso, almeno in termini di annunci e dichiarazioni. Non dovrebbe far riferimenti all’attualità mediatica. È però talvolta difficile, e in una certa misura
inopportuno, non rispondere alle sollecitazioni del contesto politico. La
scuola è infatti oggi al centro di un conflitto simbolico e concreto fortissimo,
e chiama tutti a situarsi in un dibattito che vede attori e parti sociali le più diverse proporre le loro soluzioni per una “buona scuola”, a partire dal governo
Renzi.
Raramente, tuttavia, il dibattito pubblico verte sui contenuti di questa pretesa buona scuola, se si esclude forse la questione dell’inglese, reclamata a gran
voce da Confindustria e promessa dal governo nel suo documento programmatico La buona scuola, appunto, presentato nel settembre 2014 e ora in tournée
nel Paese per «ascoltare il territorio»1.
Con questa sezione dell’Osservatorio sui saperi umanistici sulla didattica della
storia, si intende favorire un ritorno critico sui curricoli per l’insegnamento delle discipline storiche nei vari ordini di scuola, dopo la serie di riforme che, negli
ultimi decenni, ha profondamente modificato il quadro normativo, sociale e
organizzativo dell’istruzione in Italia, con il proposito di tracciarne un bilancio
e indicare gli aspetti problematici in attesa di attenzione da parte della comunità
scientifica, prima ancora che della politica. Sono problemi in gran parte comuni
ai paesi europei, come ricorda qui Christophe Charle a proposito della Francia,
dato che attengono alla complessità di funzioni che da sempre si attribuisce alla
storia (cognitive, educative, civiche), nonché all’evoluzione sempre più rapida e
diversificata dei modi di fare storia e di comunicarla, ma che sembrano avere in
Italia una particolare declinazione a causa del continuo susseguirsi di interventi
legislativi che convergono nel favorire un processo di atomizzazione della
scuola repubblicana2.
Almeno al momento dell’ideazione del fascicolo, per la verità, l’esigenza di
una riflessione sull’argomento nasceva da un’intenzione anch’essa a suo modo
politica: rianimare un dibattito sulla didattica e l’uso pubblico della storia che,
nonostante le tante questioni ancora sul tappeto, pare aver perso slancio negli
ultimi anni, ed estenderlo a una platea più ampia di studiosi che non gli specialisti del settore.
Interrogarsi sui motivi di tale stanchezza rappresenta già, in un certo senso,
individuare alcuni aspetti critici della recente politica scolastica e universitaria.
In effetti, la riforma dei cicli avviata dai ministri Berlinguer e De Mauro a
cavallo del nuovo millennio rappresentò l’ultimo grande tentativo di coinvolgere tutti i livelli del mondo scolastico e universitario in una riflessione che coniugasse l’aggiornamento dei contenuti della didattica e l’innovazione organizzativa. Un coinvolgimento che produsse in definitiva un esito negativo, com’è
noto, dato che la riforma De Mauro si infranse, tra l’altro, sul cosiddetto
1
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Il documento è consultabile sul sito del MIUR: <https://labuonascuola.gov.it/>.
A. Scotto di Luzio, La scuola che vorrei, Milano, Bruno Mondadori, 2013.
L’insegnamento della storia
Manifesto dei Trentatré, un polemico documento firmato da autorevoli esponenti
della storia universitaria che condannava senza appello le aperture tematiche in
senso globale ed era critico contro la perdita di centralità dell’Italia nei documenti elaborati in vista della riforma. Un protagonista di quella stagione, in
quanto coordinatore della commissione ministeriale che nel 2001 redasse i curricoli di storia, geografia e scienze sociali per la scuola di base e in seguito consulente esperto, Luigi Cajani, ne ripercorre qui la tormentata vicenda riannodando i fili tra quelle prime convulse fasi3 e la successiva evoluzione fino ad
oggi.
C’è da dire che, su un fronte e sull’altro, si confrontarono allora pubblicamente per mesi sull’insegnamento della storia i migliori studiosi italiani. Se uno
storico eminente come Paolo Prodi indicava già all’epoca le fatiche e i silenzi
della disciplina4, la situazione non è certo andata migliorando. I cambiamenti,
infatti, sono stati introdotti in modo pressoché ininterrotto, a tratti incongruo,
con un continuo alternarsi di proposte contrapposte che ha finito per prosciugare il dibattito in una sorta di riflesso di sopravvivenza.
Contraddistinta da una netta volontà di ritorno all’ordine dopo le aperture
(e le esitazioni) della stagione precedente, la riforma Moratti del 2003 ha inciso
profondamente sull’ordinamento scolastico, modificando anche la scansione
cronologica dei contenuti di insegnamento. Ricordo che il programma fu diviso
tra scuola primaria (dalla terza alla quinta: dalla comparsa dell’uomo alla tarda
antichità) e scuola secondaria di primo grado (dal Medioevo al contemporaneo), per poi essere ripetuto lungo l’arco dell’intoccabile liceo quinquennale (altro
grande pomo della discordia del progetto De Mauro). Ma ciò si accompagnava
anche ad una forte opzione ideologica di impronta cattolica, creazionista e identitaria in prospettiva localista. In quell’occasione ancora, dunque, la comunità scientifica e il mondo della scuola si saldarono per fare argine ad un uso
tanto apertamente strumentale della disciplina5.
In termini di contenuti e di approccio ideologico, non di scansione se non
per alcuni ritocchi, le Indicazioni ministeriali del 2007, ministro Giuseppe Fioroni,
hanno corretto il tiro. Significativamente, nel quadro dell’accentuazione
dell’aspetto cognitivo dell’insegnamento della storia, fu allora introdotto un
impianto assai più aperto verso la storia globale, evidente in particolare nei
primi cicli di istruzione. Ciò che nel 2000-2001 riuscì a far fallire la riforma De
Mauro, fu allora passato con il consenso, ancorché piuttosto distratto, delle
società storiche esistenti. Parallelamente, però, il dibattito si è incanalato essenzialmente in sedi specialistiche. Del resto, gli importanti interventi legislativi
3
Un’esposizione analitica molto puntuale degli eventi fino a dopo il ministero Moratti è già
in L. Cajani, La storia mondiale e la scuola italiana. Cronaca della commissione De Mauro, in La storia è di
tutti, a cura di A. Brusa e L. Cajani, Roma, Carocci, 2008, pp. 248-285.
4 P. Prodi, Eclissi della storia?, in «Passato e presente», XXII, 2004, pp. 91-100.
5 I nuovi programmi di storia: una minaccia per la formazione storica e critica dei cittadini, seminario,
Alma Mater Studiorium, Università di Bologna, Dipartimento di discipline storiche, Bologna,
24 giugno 2004, il cui documento finale è consultabile sul sito <http://www.storiairreer.it/
Materiali/Materiali/DocDipStoBO.pdf>.
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degli ultimi anni si sono concentrati sugli aspetti organizzativi, finanziari e gestionali della scuola. La micidiale legislazione Gelmini del 2008-2010 sta dispiegando i suoi effetti nefasti ancora ora, da misurare essenzialmente in una drastica riduzione delle ore di insegnamento e ridimensionamento del personale
docente. Per limitarci alla storia, per quanto sia difficile avere dati certi a causa
dell’autonomia scolastica, si calcola che si sia perso tra un quarto e la metà delle
ore di lezione, mentre si ripristinavano per le superiori i programmi del 1960.
Intanto, si metteva mano ai dispositivi di formazione iniziale dei docenti, sopprimendo le SISS e modificando i corsi di Scienze della formazione primaria.
Ma c’è da aggiungere che, dopo un primo momento di convergenza tra mondo
della scuola, famiglie e università, quest’ultima si è ripiegata su sé stessa a fronte
del processo di riforma che l’ha investita direttamente e che ha condotto
all’altra riforma intestata alla ministra del governo Berlusconi ed entrata in vigore nel 2010. Il moto perpetuo delle piccole e grandi riforme non si è fermato;
così, valutazione della qualità della ricerca, abilitazione scientifica nazionale,
procedure di accreditamento le più diverse e i ripetuti tagli ai finanziamenti
hanno impegnato l’accademia, e le società scientifiche, in estenuanti (e troppo
spesso sterili) tensioni interne, soffocando ogni residua volontà (capacità?) di
intervenire all’esterno sull’istruzione nel suo complesso, al di là di generiche
lamentazioni sul declino della cultura umanistica.
In questo contesto, il contrasto tra le dichiarazioni di principio e la realtà
appare stridente, e innumerevoli i problemi aperti. Alcuni non concernono esclusivamente le discipline storiche, come in particolare la degradazione del
ruolo sociale dell’insegnante; altri non sono loro esclusivi e tuttavia influiscono
in modo particolarmente forte su di esse, come la malintesa autonomia scolastica6, la persistenza del modello gentiliano nelle classi di concorso (e questo
nonostante la creazione, per meri motivi di bilancio, dell’insegnamento liceale
della geostoria, che potrebbe almeno suggerire una revisione dei percorsi formativi), la carente formazione iniziale e continua degli insegnanti.
Quest’ultimo punto è collegato in maniera strettissima all’evoluzione della
storiografia nell’ultimo mezzo secolo, e particolarmente negli ultimi decenni in
relazione al cosiddetto global turn. Tanto più si chiede ai docenti di moltiplicare
gli approcci possibili, di fornire un quadro informato e critico della storiografia
esperta, di aprire gli orizzonti fuori della storia nazionale e occidentale, come
fanno sia i programmi secondari del 1960 nella loro ampiezza, sia le Indicazioni
nazionali del 2012 per la scuola primaria e secondaria di primo grado, tanto più
si presuppone da parte del docente una solida preparazione ed esperienza di
ricerca e di progettazione didattica che si può dubitare le università forniscano
(soprattutto per quanto riguarda la storia globale) e sicuramente non i corsi di
formazione iniziale degli insegnanti nel loro complesso. Per le lauree in Scienze
della formazione primaria che l’autrice di queste righe conosce meglio, la riforma seguita al ritorno al maestro unico modello Gelmini si è svolta all’inse6
Mi permetto di rinviare al mio intervento Scuola, il coraggio delle scelte, in «Il Mulino online»,
13 maggio 2013 <http://www.rivistailmulino.it/item/2593>.
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L’insegnamento della storia
gna di una pretesa riqualificazione disciplinare, che tuttavia è ben lungi, per
molti motivi, dal raggiungere i livelli formativi dichiarati7.
Appaiono dunque disattesi proprio quegli aspetti qualificanti individuati dagli autori degli interventi qui pubblicati, ossia la capacità di articolare storia nazionale e storia globale e di rintracciare il filo di una storia plurale, che pure costituiscono obiettivi irrinunciabili nella scuola democratica di società aperte e
plurali, appunto. Christophe Charle, che è uno dei più autorevoli contemporaneisti francesi e autore egli stesso di numerose opere di storia della Francia e
dell’Europa che insistono sulla tensione permanente tra scale del tempo e geografie variabili8, propone qui alcune soluzioni praticabili in classe. Lo stesso
vale per la storia di genere, rispetto alla quale, per altro, come mostra qui il saggio di Elvira Valleri, le indicazioni ministeriali sono comunque assai più reticenti. Inoltre, come ha mostrato un recente seminario della Società italiana delle storiche svoltosi a Lucca nell’ottobre 2014, permane nella manualistica un
canone storiografico tradizionale. In entrambi i casi – storia di genere e storia
globale – la manualistica contribuisce a fare delle dichiarazioni programmatiche
dei documenti ministeriali circa la necessità di una storia plurale più che altro
un auspicio.
Sono obiettivi che non si può pensare di lasciare alla buona volontà degli insegnanti e dei consigli di classe. Invece, purtroppo, la solitudine culturale degli
insegnanti appare oggi un tratto tristemente caratterizzante della scuola italiana,
nonostante alcune eccellenze regionali e l’attività di associazioni e consorzi,
molto disparatamente presenti sul territorio nazionale.
Né purtroppo nessuno di questi problemi sembra essere all’attenzione dei
governi, compreso quello attuale, che pure ha fatto della scuola sin dal suo insediamento un locus del discorso sul cambiamento. Merito, valutazione, competizione sono le parole d’ordine di un progetto di contrazione della spesa, riduzione della democrazia interna, maggiore controllo burocratico e politico, standardizzazione della didattica, che riprende il famigerato progetto di legge Aprea
e porta avanti in maniera sostanziale le politiche di svuotamento della scuola
democratica, progressiva e inclusiva realizzata tra gli anni Sessanta e Ottanta.
Quanto alla formazione degli insegnanti, il piano governativo ripropone, per la
verità in termini assai vaghi, le lauree magistrali abilitanti all’insegnamento ideate dal ministro Gelmini con il DM del 10 settembre 2010 n. 249 ma sospese
per la forte opposizione dell’università e dei sindacati.
In questo quadro, e rispetto ancora ad alcuni mesi fa quando abbiamo avviato la redazione di questo fascicolo, appare quanto meno improbabile che alcuno dei problemi sarà risolto, o forse semplicemente affrontato. Del resto,
dubbi altrettanto forti possono essere espressi circa le intenzioni del governo,
dei partiti e di buona parte delle elites italiane di affrontare davvero la questio7 In questo senso si legga anche F. Marostica, Qualche riflessione sul nuovo modello di formazione
iniziale degli insegnanti (di storia), in «Storia e futuro», XXVII, 2011 <http://www.storiaefuturo.
com/it/numero_27/didattica/> (ultimo accesso 18.6.2014).
8 Rinvio solo al recente Discordance des temps, une brève histoire de la modernité, Paris, Armand
Colin, 2011.
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ne della cittadinanza interculturale, fino ad ora lasciato al fai-da-te sociale, in
particolare del mondo della scuola. Bastano del resto, nella più immediata attualità, gli annunci governativi sull’introduzione di uno ius soli legato al compimento della scuola dell’obbligo rilasciati a margine proprio della campagna mediatica a sostegno della riforma della scuola: in sostanza, stranieri fino a sedici
anni, da italianizzarsi a scuola.
Tuttavia, è vero anche che la responsabilità non ricade esclusivamente sulla
politica, bensì tocca tutta l’accademia.
Rispetto al tornante 2000-2001, oggi una novità positiva consiste nell’esistenza di un numero maggiore di organi rappresentativi e società scientifiche (che hanno lo statuto di associazioni aperte anche a studiosi non inquadrati
nei ruoli universitari, o di consulte dei soli accademici). Nel corso degli anni,
non senza qualche tensione, queste hanno svolto una funzione consultiva crescente nei confronti del ministero e degli organi di governo universitario come
il CUN, il che ha portato anche a embrionali forme di coordinamento. Tuttavia, per motivi vari, le politiche scolastiche non sono state mai oggetto di grande
attenzione. Se la Società italiana per lo studio della storia contemporanea (Sissco) era stata in prima fila durante la preparazione della fallita riforma De Mauro e aveva nella scuola un asse portante della propria attività durante la presidenza di Raffaele Romanelli (1999-2003)9, lo slancio è andato scemando nel
periodo successivo; la Società italiana per la storia dell’età moderna (Sisem) ha
dedicato una delle sue assemblee plenarie al tema10 e ha una commissione didattica permanente, e così la Società delle storiche che riserva un’attenzione
costante al problema dell’insegnamento della storia a scuola (ma in quanto associazione tematica e non disciplinare non ha potuto svolgere un ruolo ministeriale). È chiaro però che nulla si può sperare senza un’azione concertata da
parte di tutte le società scientifiche, considerato che si tratta di organismi relativamente deboli sul piano istituzionale.
Più in generale, è difficile immaginare progressi sostanziali senza un coinvolgimento diretto degli storici accademici nella riscrittura degli strumenti didattici.
In particolare, è sul terreno dell’integrazione e della cittadinanza nella differenza che mi pare davvero urgente riprendere il lavoro sul campo per elaborare
delle sintesi accessibili e degli strumenti didattici che non siano esclusivamente
l’accumulazione quantitativa di materiali a margine di una narrazione tutto
sommato tradizionale (come avviene in genere nella manualistica attraverso
l’attuale binomio formato cartaceo/materiali digitali), l’inesauribile rete o il (talvolta ottimo) volontarismo delle associazioni. Come ricorda qui Cajani, il senso
e la funzione della storia globale sono stati i punti più contestati dell’intero
9 Il lavoro allora svolto è ancora consultabile sul sito della SISSCO, e ha dato luogo al volume di G. Bosco, C. Mantovani (a cura di), La storia contemporanea tra scuola e università. Esperienze, programmi, docenti, Catanzaro, Rubettino, 2004.
10 W. Panciera (a cura di), La formazione degli insegnanti di storia. Tradizioni, esperienze, prospettive,
Atti del convegno promosso dalla Società italiana per la storia dell’età moderna, Manfredonia,
27 marzo 2009, numero monografico di «Mundus. Rivista di didattica della storia», 3-4, 2009.
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L’insegnamento della storia
processo di revisione dei programmi scolastici, ma anche uno dei meno intesi.
Da un lato, infatti, si è fraintesa la portata scientifica del global turn (che stenta
del resto ancora oggi a penetrare nella tradizione di ricerca italiana); dall’altro si
è, a vario titolo e con segno diverso, fraintesa la sua potenziale funzione culturale e civile. Non si tratta infatti, come giustamente ironizza Cajani, di fare spazio alle storie degli altri solo per poter dialogare con il compagno di banco,
come se un ripensamento delle connessioni, delle convergenze, delle asimmetrie che hanno generato la modernità occidentale non avesse valore in sé.
D’altra parte, però, evacuare il problema dell’appartenenza alla polis dallo studio
della storia come una superfetazione ideologica – come in parte fanno le stesse
Indicazioni ministeriali, anche laddove introducono il patrimonio come risorsa
per “addomesticare” tale dimensione11 – non condurrà lontano. Si tratta pur
sempre di scegliere che tipo di società vogliamo essere. Si può anche rifiutare
l’idea di una funzione civile immediata della storia; ammettendo pure che la sua
funzione sia meramente scientifico-culturale nel senso lato di intelligenza del
reale, l’allineamento tra acquisizioni storiografiche e contenuti dell’insegnamento non ha molto senso fuori da un progetto di scuola democratica12.
In ogni caso, come ha scritto Antonio Brusa, e come sottolinea ancora
Charle in questa sede, occorre ricomporre una nuova narrazione, «individuare i
fili di intelligenza che ci rendono comprensibili quella massa di fatti, di problemi, di personaggi, che ha rotto gli argini del vecchio racconto e che ha tracimato per ogni dove»13. Nonostante le convulsioni della politica e le esitazioni della
disciplina.
11
Ho trattato di tale questione in M. P. Donato, Il patrimonio e le sfide di una storia interconnessa,
in «Giornale di storia», 14, 2014 <www.giornaledistoria.net>.
12 Sui fraintendimenti della nozione di identità, cfr. W. Panciera, A. Zannini, Didattica della
storia, III edizione aggiornata, Firenze, Le Monnier, 2013, p. 86.
13 A. Brusa, Le sfide dell’insegnamento della storia, in La scuola è di tutti, cit., p. 23
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Maria Pia Donato
Università di Cagliari, IHMC/CNRS
mpdonato
– L’insegnamento della storia, la riforma perenne della scuola e un passato che
non passa.
Citation standard:
DONATO, Maria Pia. L’insegnamento della storia, la riforma perenne della scuola e un
passato che non passa. Laboratorio dell’ISPF. 2014, vol. XI. DOI: 10.12862/ispf14L204.
Online: 18.12.2014
ABSTRACT
A past that will not pass. Teaching history in a time of never-ending school reform. Introducing the
journal issue on “History teaching today”, the article points at the persisting inconsistencies and shortcomings of educational policies in Italy and elsewhere and calls for
cooperation between government agencies and academics.
KEYWORDS
History and didactics; Global History and National History; School Reform;
Scientific Societies; Intercultural Citizenship
SOMMARIO
Introducendo la sezione su “L’insegnamento della storia oggi”, l’articolo individua le
criticità ancora irrisolte della scuola e suggerisce aree di intervento che non solo la politica, ma anche gli storici accademici dovrebbero fare proprie.
PAROLE CHIAVE
Storia e didattica; Storia globale e storia nazionale; Riforma scolastica;
Società scientifiche; Cittadinanza interculturale
Laboratorio dell’ISPF
ISSN 1824-9817
www.ispf-lab.cnr.it