Academia.eduAcademia.edu

Lessico della modernità - Merito

2023, Il lessico della modernità Continuità e mutamenti dal al secolo

Il lessico della modernità Continuità e mutamenti dal xvi al xviii secolo A cura di Simonetta Bassi Con la collaborazione di Elisa Fantechi Volume 1 Carocci editore Merito di Pasquale Terracciano 1. Merito è categoria fondamentale del nostro presente, sia sul piano della filosofia politica che del discorso pubblico più generalista. Si tratta di una nozione che ha strettamente a che fare con le teorie della giustizia, con le categorie della morale, e che ha inoltre una rilevanza indubbia nella speculazione teologica. Eppure, non è agevole rintracciare una storia filosofica dell’idea di merito. Un motivo dell’assenza di una storia filosofica del lemma è che solo nell’ultimo secolo è emersa in maniera estesa la rivendicazione esplicita di società fondate sul merito, e quasi esclusivamente su di esso. Si tratta del modello “meritocratico”, che viene talvolta invocato come autoevidente e autogiustificantesi: come cioè un’aspirazione condivisa e un sistema “naturale” di costruzione della società, e non invece una precisa opzione filosofica e ideologica da valutare, con i suoi vantaggi e i suoi limiti (Brigati, 2015). Va del resto ricordato che lo stesso lemma “meritocrazia” – cui è dedicata una specifica voce in questo lessico – sia un neologismo inventato negli anni Cinquanta e reso celebre dal sociologo Michael Young, in un testo distopico, intitolato appunto The Rise of Meritocracy, in cui il lemma aveva un significato negativo. Solo a partire da allora, e principalmente nelle scienze sociali, si è sviluppato un filone di interventi sul tema, che però ha raramente affrontato il versante storico-filosofico e quello lessicografico del tema. 2. Nell’intraprendere la nostra analisi, conviene partire innanzitutto da alcune osservazioni lessicali. Nelle lingue neolatine c’è una sostanziale uniformità nell’esprimere tale concetto: troviamo mérite, merito, mérito cui si aggiunge l’inglese merit. Sono tutti termini che derivano da meritus e dunque da mereo che ha il significato principale di “ottenere una parte, guadagnare, servire”. Mereo a sua volta richiama il verbo greco meiromai (“ricevere in sorte” o “ottenere la propria parte”) e il sostantivo meros (“parte” o “sorte”, da cui ad esempio le Moire, divinità del destino). Nelle lingue germaniche 741 pasquale terracciano e slave il termine ha invece piuttosto a che fare con il “servire” (significato presente anche in mereo, ma in maniera meno immediata). L’inglese ha la caratteristica di avere due termini per indicare il merito, entrambi di derivazione latina. Oltre merit vi sono infatti desert/to deserve che provengono dal latino deservio, che sta a significare il “servire coscienziosamente”. A tale sfera di significato si attengono anche il tedesco das Verdienst e i termini slavi zasluga, zasługa o zásluhy. “Ottenere” e “servire” hanno una evidente liminarità concettuale, quando si intenda “servire” al fine di ricevere una paga, “guadagnare” qualcosa per aver compiuto degli atti: stessa radice ha la parola “meretrice” che porta in effetti con sé l’idea di un servizio svolto per ottenere una paga. Una sfera semantica, dunque, molto ricca che presenta diverse insidie filosofiche: innanzitutto, come si riconosce e cosa misura il merito; in secondo luogo, a cosa è utile misurare il merito. 3. Potremmo definire il merito come il valore delle azioni umane da ricompensare. Senza forme di riconoscimento sociale o di ricompensa non si dà merito. Il merito inteso in tale maniera si accompagna strettamente all’idea di giustizia. Tale nozione affonda le sue radici in Aristotele, nei capitoli del quinto libro dell’Etica nicomachea che fondano la giustizia distributiva. Conviene partire da qui, perché la trattazione del merito della prima età moderna si confronterà esplicitamente con tale modello. È giusto, dunque, per lo Stagirita, che la giustizia distributiva si ispiri a principi di proporzione e che stabilisca criteri per dare a tutti secondo il proprio merito (axia, termine che indica sia un valore morale che un valore economico). È un’idea – quella della giustizia che si distribuisce a ciascuno secondo il merito – che in forma laconica si trova già nel pensiero platonico. Questa forma della giustizia è relazionale, perché riguarda sempre altri. È da notare che le pagine in cui sorge il concetto di merito sono pagine in cui serrata è la riflessione aristotelica sulle nozioni di misurabilità, commensurabilità, proporzionalità (Etica nicomachea, 1131-3) come caratteristiche coessenziali alla giustizia. Stabilito questo aspetto, già in quelle pagine emerge la difficile decidibilità del merito, e la sua contendibilità. Così ne dice Aristotele: «Di qui sorgeranno battaglie e contestazioni, qualora persone eque abbiano e ottengano rapporti non equi oppure persone non eque abbiano e ottengano rapporti equi. Ciò è ancora evidente dal punto di vista del merito: tutti infatti concordano che nelle ripartizioni vi debba essere il giusto secondo il merito, ma non tutti riconoscono lo stesso merito» (1131a, 25-30). Su questo piano Aristotele accenna, senza però svolgerlo compiutamente in quella 742 merito sede, al ruolo del merito nell’organizzazione della società e alle diverse definizioni che esso assume: «infatti i democratici lo vedono nella libertà, gli oligarchici nella ricchezza o nella nobiltà di nascita, gli aristocratici nella virtù». Uno specifico ambito di utilizzo della nozione di merito è infatti, con ogni evidenza, l’allocazione di onori, ricompense e responsabilità, che ricorre più distintamente nella Politica aristotelica: l’attribuzione delle cariche e degli onori in base al valore presuppone esplicitamente una concezione della giustizia che distribuisce punizioni e premi in base ai meriti (Falcone, 2007, pp. 148-52). A partire da questa riflessione del mondo greco, il tema del merito e della giustizia distributiva fluisce nel pensiero romano: è una riflessione che viene poi fatta propria ed elaborata da Cicerone sia nelle opere retoriche (in particolare in Inv., ii, 160) che nel De officiis. Si tratta di un principio che viene fissato come cardine stesso della definizione di giustizia nella giurisprudenza romana: la giustizia viene definita come quella volontà ferma e stabile tesa a dare «a ciascuno il suo»: Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi. 4. La nozione filosofica e giuridica di merito, strettamente connessa all’idea di giustizia, non esaurisce l’ambito di influenza di tale concetto. Particolare sviluppo ebbe infatti la riflessione più propriamente teologica. “Merito” è una categoria fondamentale della dialettica della grazia. Prima del pelagianesimo la definizione dei meriti personali era sostanzialmente inesistente: quando si parlava di grazia, si rifletteva piuttosto sul libero arbitrio e sulla possibilità di adempiere o rifiutare “liberamente” i precetti divini. La posizione più classica del cristianesimo può essere riassunta in una massima di sant’Agostino secondo cui si ergo Dei dona sunt bona merita tua, non Deus coronat merita tua tanquam merita tua, sed tamquam dona sua (“se infatti i doni di Dio sono i tuoi buoni meriti, Dio non ricompensa i tuoi meriti in quanto tuoi meriti, ma in quanto suoi doni”; cfr. De gratia et libero arbitrio, 6, 15). Il merito è dunque un dono divino che «cinge» il giusto; lo sguardo è principalmente rivolto alla vita eterna e non al momento terreno di giustificazione. La definizione agostiniana vedeva il merito come una conseguenza della gratia, donata gratis pro gratia. Un approfondimento dello statuto del merito avvenne tra l’xi e il xii secolo, quando si cominciò a riflettere se l’uomo fosse meritevole della gratia prima, cioè dell’iniziale giustificazione divina (McGrath, 1986, pp. 109 ss.). Si fece strada a quel punto una distinzione tra merito e congruità: attra743 pasquale terracciano verso le sue azioni l’uomo non può meritare, in senso stretto, di essere salvato, ma la sua condotta può rendere appropriato (congruo) il ricevimento della grazia. Così, dunque, si esprimevano i teologi scolastici: digno, dico, non dignitate meriti, sed dignitate congrui. Una dignitas ottenuta in virtù della propria condotta virtuosa, sebbene attraverso un’interpretazione “debole” della categoria di merito individuale. Si venne dunque così a formare il concetto di meritum congruitas o meritum interpretativum e dunque della più nota distinzione tra meritum de congruo (quel merito che abbiamo definito essere tale in senso lato) e meritum de condigno. Fu una distinzione elaborata per spiegare in che modo Maria meritasse di essere la madre di Gesù Cristo, ma poi, in maniera più generale, venne pastoralmente inteso come incoraggiamento dell’uomo per prepararsi e rendersi degno della grazia divina. Non mancarono in realtà coloro che proposero una interpretazione teologicamente più ardita secondo cui il merito de congruo sarebbe stato il merito prima dell’atto di grazia, mentre il merito de condigno quello dopo l’atto della grazia divina. Una condotta appropriata preparerebbe cioè la possibilità di ricevere la grazia divina: le azioni successive di colui che ha ricevuto la grazia divina sono invece già meritevoli. Sono due, in ogni caso, gli elementi da sottolineare. In primo luogo, il fatto che tale partizione spinse a chiarire con esattezza le caratteristiche salienti del merito in senso stretto. Alain de Lille elaborò quattro condizioni fondamentali perché il merito potesse essere considerato tale: 1. che sia riconoscibile l’apporto della persona che merita; 2. che si meriti presso un altro e che 3. questi abbia il potere di remunerare; 4. che il merito sia tale da obbligare una ricompensa (ut de indebito fiat debitum). Nell’economia del discorso di Alain de Lille ciò serviva a dedurre che poiché il merito arriva a obbligare Dio, solo Cristo poteva essere meritevole della gloria, mentre l’uomo poteva invece meritarsi sì la pena, ma mai la ricompensa (Alano di Lilla, 2002, [82], p. 154). Può essere notato che al di fuori dell’ambito più propriamente teologico, tali condizioni possono essere considerate efficaci nel proporre una più solida definizione filosofica di merito. L’analisi del merito all’interno della teologia della grazia costituì in effetti un momento di eccezionale approfondimento delle articolazioni interne del concetto. 5. Se si guarda infatti all’uso del termine al di fuori dell’ambito teologico si può riscontrare il fatto come la nozione di merito tra Basso Medioevo e Rinascimento venisse usata genericamente: “merito” è spesso ricompreso all’interno dei termini virtus o dignitas e dei loro equivalenti nelle lingue volgari. Da questo punto di vista un cruciale osservatorio delle tensioni 744 merito cui è sottoposta tale nozione è la Firenze umanistica. Ciò per un duplice motivo: innanzitutto per la riscoperta e il confronto con la classicità greca e latina (e nello specifico con le riflessioni di Aristotele e Cicerone sul merito sopra esposte); in secondo luogo perché l’autocelebrazione della città, per alcuni autori, poggiava su quello che definiamo in termini moderni come mobilità sociale e meritocrazia. Secondo Leonardo Bruni, uno dei più autorevoli esponenti dell’Umanesimo civico, il segreto della grandezza di Firenze, la sua eccellenza di virtù in tutti gli ambiti era da attribuire al suo popolo e al modo che si era data per governarsi: una forma di governo che implicava il riconoscimento del merito di qualsiasi cittadino. È questa la miscela che rende Firenze, agli occhi di Bruni, città unica al mondo, capace di esprimere i campioni della teoria politica, dell’arte, dell’architettura, della poesia, della milizia: la virtù è incoraggiata a esprimersi e brillare in ogni settore, cercando onore e riconoscimento, senza inseguire l’umbratile assenso dei re o gli intrighi cortigiani (Bruni, 1996b, pp. 717-9; Hankins, 2000, 2019). Tali riflessioni sono in parte legate al più vasto dibattito sulla nobiltà che attraversava quei decenni (con autori come Poggio Bracciolini, Bartolomeo Platina, Cristoforo Landino). Il dibattito aveva riguardato infatti il dilemma se fosse preferibile una nobiltà originata dal valore personale oppure quello derivante dalla nascita (Finzi, 2010). Si trattava di una riflessione cruciale al riguardo della definizione dei vantaggi e degli svantaggi della distribuzione di onori e cariche in base a quello che modernamente definiamo merito, ma anche al riguardo dell’idea di quali virtutes vadano incentivate per rendere prospera una comunità. In tale contesto, è raro che si usi il lemma “merito”, mentre è comune il più vasto “virtù”, in opposizione a “sangue”, plausibilmente perché rimanda a una sfera di dignitas che copre anche l’ambito del carattere acquisito e della personalità. Altro fondamentale corpus in cui va inserito il tema del merito sono le orazioni fiorentine sulla giustizia, legate a quella specifica magistratura cittadina che era il Gonfalonierato di Giustizia. Si tratta di un’istituzione che merita di essere segnalata in questo contesto perché all’assunzione della carica il nuovo gonfaloniere, per statuto di estrazione non magnatizia, doveva pronunciare un’allocuzione sulla giustizia. Sono testi che, volgarizzando autori classici e testi sacri, presentano un quadro preciso degli elementi centrali della giustizia distributiva (Santini, 1959). Spesso l’orazione era incentrata sulla possibilità di sviluppare i propri talenti e veder ricompensato il proprio merito: da questo punto di vista questi discorsi sono luoghi utilissimi per comprendere l’evoluzione del lemma “merito” e del discorso 745 pasquale terracciano sul merito nel corso del Quattrocento. Come detto, “merito” si traduce innanzitutto, in quanto principio generale, come dignitas, seguendo del resto le traduzioni latine e i primi volgarizzamenti aristotelici della nozione greca di axia. Così Matteo Palmieri (1982, p. 112) riprende – con lunghi calchi testuali – la riflessione di Aristotele dell’Etica nicomachea, le formule ciceroniane e della giurisprudenza romana, e dichiarava: «Iustitia essere habito d’animo disposto alla conservatione dell’utilità comune che distribuisce a ciascuno il merito suo»; «La degnità di ciascuno è quella secondo la quale debbono essere distribuiti gli onori pubblici». Merito è, nelle sue parole, il meccanismo che fa agire la giustizia, e al tempo stesso l’oggetto delle ripartizioni della giustizia. È da notare che per Palmieri e più in generale per gli esponenti dell’Umanesimo civile fiorentino, chi viene ritenuto meritevole ha innanzitutto un dovere verso gli altri: il merito non è un premio che si raggiunge alla fine di un tragitto, ma ha sempre come contraltare un obbligo verso la comunità. Nella trattazione umanistica esso si giustifica cioè al fine di «conservare l’utilità comune»: come elemento dunque di coesione e non di frantumazione del corpo sociale. L’allocazione su base di merito deve avvantaggiare l’intera società (ivi, p. 133). 6. Sugli usi di “merito” esposti finora irruppero nel corso del Cinquecento alcuni eventi di portata dirompente. Innanzitutto, la Riforma protestante. Come noto, l’elemento di distinzione teologica di Lutero riguardò l’interpretazione della grazia, che si fondava su una lettura rigida della lettura paolina del principio sola gratia, sola fide: l’uomo si salva esclusivamente per il dono della grazia divina né vi è spazio per le opere e per le intercessioni ecclesiastiche. Lo scontro che ne seguì spinse a riprendere e ad approfondire la tassonomia scolastica del merito (m. de congruo, m. de condigno) sopra delineata e ad approfondire la “cronologia” della grazia: dagli anni Venti del Cinquecento sino ad almeno il Concilio di Trento si moltiplicarono testi e formule per chiarire in che maniera fosse individuabile o meno l’esatto “merito”, cosa gli fosse imputabile e che rapporto vi fosse tra opera e ricompensa. Non si trattava di riflessioni del tutto nuove, ma la drammaticità di quella frattura rese “merito” un termine che non poteva più essere utilizzato come generico sinonimo di virtù, o come elemento della definizione classica di giustizia, ma che si presentava come un lemma dall’immediata connotazione ideologica spesso polemica. 7. Caso eclatante di questo fenomeno si trova nell’opera di Giordano Bruno, che utilizza in maniera estesa e puntuale il termine – in maniera 746 merito ben distinta da “virtù” o “dignità” – sullo sfondo di una precisa opzione antiluterana. Se il merito è la condizione perché vi sia un premio per una virtù correttamente indirizzata, Bruno è però ben consapevole che il nesso tra merito e ricompensa non è sempre automatico e, ancor meno, garantito. Sin dal Candelaio è chiarito come questo sia anzi un nesso labile, più spesso capovolto che seguito: «A chi è concesso il meritare sia negato l’avere, a chi è concesso l’avere sia negato il meritare» (Bruno, 1923, p. 188), vi si dice al riguardo dei bizzosi doni della fortuna. La sfida del Nolano consisterà nel riallacciare questo legame, poiché è convinto che per favorire la virtù – e dunque l’azione umana e la vita civile – bisogna riconoscere e premiare il merito. Tale aspetto non si limita tuttavia a una – pur fondamentale – massima di pedagogia e prudenza politica. Lo sfilacciamento del rapporto tra virtù, merito, e premio – come mostrerà più compiutamente nello Spaccio de la bestia trionfante – è infatti una delle molteplici fratture nell’ordine del mondo che interrompono la comunicazione tra divino e umano, ed è testimonianza della crisi in cui versa la civiltà. Laddove il merito viene dismesso e la praxis accantonata, inizia la decadenza: è questa una legge fondamentale dello sviluppo e del declino delle civiltà, confermata dalle guerre di religione causate dalla Riforma. Nel lamento di Asclepio, le statue animate della religione egizia – modello di religione civile, vincolo positivo per la società – recano i loro effetti benefici proprio assecondando i meriti, non slegandoli dalle opere. Quando la crisi si imporrà e la religione si sarà disgregata, si perderà al tempo stesso il senso dei meriti e dei demeriti (Bruno, 2000a, p. 637). La ricomposizione di queste fratture risulta allora strettamente intrecciata all’intero progetto di riforma filosofica portato avanti dal Nolano: restituire al merito la propria centralità è così una delle strategie necessarie da attuare per uscire dalla decadenza e uno dei segnali dischiusi dall’affermazione della nuova ontologia bruniana. Nel secondo dialogo della Cena, pur denunciando che i meriti si impongono solo quanto la fortuna permette (ivi, p. 146), Bruno traccia inoltre una linea di demarcazione fondamentale: nella perseveranza dell’operare umano – nel suo sforzo di remare controcorrente – vi è sempre merito, anche quando non valorizzato «per torto di fortuna» (ivi, p. 49). 8. La questione del merito, in ambito civile, ha anche a che fare, come accennato, con i meccanismi di individuazione del merito, con la ricompensa cui esso dà diritto, con l’istituzione che riconosce ed elargisce tale ricompensa e con gli scopi di questo meccanismo. Un altro elemento, cronologicamente di poco successivo alla Riforma, 747 pasquale terracciano intervenne sul quadro concettuale sopra delineato: si tratta della conoscenza sempre più approfondita del mondo cinese. I primi visitatori europei furono infatti meravigliati e spesso positivamente colpiti dall’assenza di un’aristocrazia ereditaria in Cina e dai meccanismi che rendevano efficiente il mandarinato. Tra essi in particolare l’esteso sistema di esami scritti fondamentale per la ripartizione delle cariche. Nei resoconti di viaggi tali esami venivano spesso citati (ad esempio nel diario di Galeote Pereira) e questa modalità di stabilire il “merito” delle persone venne indicata come la chiave dell’Impero cinese, del resto considerato come la prima compiuta meritocrazia politica (Bell, 2015). I missionari gesuiti della seconda metà del xvi secolo offrirono dettagliati resoconti del funzionamento di questi esami (per esempio Giovanni Maffei, Alessandro Valignano), che divennero familiari al pubblico colto dopo la pubblicazione della traduzione latina delle opere di Matteo Ricci. In ogni caso, attraverso il Valignano, alcune idee derivanti dall’osservazione del modello cinese entrarono indirettamente tra i principi della Ratio studiorum dell’Ordine, stesa nel 1599 (Adshead, 1988, p. 226; Bell, 2015). Si tratta di una vicenda spartiacque non solo per l’impatto che i modelli pedagogici gesuiti ebbero sull’Europa moderna, ma anche perché quando più tardi Inghilterra e Prussia decisero di creare sistemi uniformi di reclutamento della propria burocrazia guardarono, in qualche misura, anche al modello di merito “cinese” tramandato dai gesuiti (Cassese, Pellew, 1987). 9. Per trarre le fila del discorso sulla nozione filosofica dell’idea di merito nella prima età moderna, si può rimarcare come il “combinato disposto” della Riforma protestante e dell’osservazione del modello cinese mutò i termini con cui la cultura europea si rapportò con tale idea: non più nozione generica, ma categoria filosofica a sé stante, con una propria legittimità. Non è allora un caso il fatto che il primo saggio noto che porti “merito” nel titolo dati al 1600. Si tratta di Il merito delle donne della gentildonna veneziana Moderata Fonte, un pamphlet protofemminista. Va inoltre notato che se il “linguaggio del merito” viene spesso considerato il linguaggio del potere, qui la rinnovata sfera semantica del “merito” venne individuata come quella da utilizzare per patrocinare causa e diritti di gruppi “subordinati”. A tale uso positivo del merito, fa invece da contraltare certo uno degli aspetti che avevamo già visto evocato da Bruno: cioè la fragilità e l’illusorietà del merito, il riconoscimento che esista merito senza ricompensa. Nella riflessione filosofica della prima età moderna, e sempre più spesso in 748 merito età barocca, non è raro che il merito venga considerato, in maniera disincantata, come una virtù troppo “instabile” per poter essere uno dei princìpi regolatori della società: ci si ricollegava così a una visione che era già propria di alcuni autori umanisti. Se infatti, come abbiamo visto, per una parte degli esponenti dell’Umanesimo civico il rapporto tra premio e virtù era elemento cardine, altri misero piuttosto l’accento sull’ingenua presunzione di mettersi completamente al riparo dai colpi della fortuna ed essere totalmente dipendenti dal proprio merito/talento per la propria affermazione. Anche per questo l’attenzione si concentrò su quelle virtù che sono capaci di far ottenere gloria, onori e cariche, ma che sono altrettanto capaci di sorreggere l’uomo nelle inevitabili avversità che la sorte prepara: e dunque prudenza, fortuna, saggezza. Per un verso, infatti, la natura ha una forza che rende vana l’idea di affidarsi ai meriti umani, come viene espresso ad esempio nelle Intercenales di Alberti (2003b, pp. 54-5); per altro verso è la stessa comunità umana che riconosce i meriti in maniera troppo volubile. Di tale riflessione filosofica si trovano ampie tracce in Shakespeare. Così le parole di Iago «Reputation is an idle and most false imposition: oft got without merit, and lost without deserving» (Othello, ii, 3); ma la decostruzione del nesso tra merito e riconoscimento emerge anche nei dialoghi tra Amleto e Polonio (Hamlet, ii, 2). Su questa scia può essere inserita anche la più compiuta riflessione di La Bruyère (1696, 1, 11), che al merito personale dedica uno dei suoi Caractères. Merito non può essere fondamento legittimo né di orgoglio né di rivendicazione sociale. È una patina illusoria: chi merita non viene ricompensato, e d’altra parte la società confonde successo e merito, ritenendo che abbia meritato solo chi viene premiato esteriormente dal successo. 10. La riflessione sulle virtù civili, spesso collegata a un’antropologia ottimistica, vide porre una nuova attenzione al tema del merito, in connessione con una ridefinizione della virtù e dei premi. Shaftesbury scrisse una Inquiry concerning virtue, or merit (pubblicata a sua insaputa da Toland) in cui intendeva offrire una visione della virtù come interesse, ma anche mostrare l’armonia di interesse privato e bene pubblico. Il testo venne poi tradotto nel 1745 da Diderot come Essai sur le mérite et la vertu, e così il tema del merito venne riletto all’interno delle categorie illuministe. Più ancora che in Francia, in quegli anni vennero pubblicati alcuni lavori italiani, poco noti se non per gli addetti ai lavori, ma cruciali: in particolare l’opera di Giacinto Dragonetti (Delle virtù e de’ premi, 1766) che ebbe un grande successo nell’Europa prerivoluzionaria. 749 pasquale terracciano Fonti Alano di Lilla (2002); Alberti (2003b); Bruni (1996b); Bruno (1923; 2000a); [Dragonetti] (1766); Gioia (1818-19); La Bruyère (1696); Moderata Fonte (1600); Palmieri (1982); Shaftesbury (1699). Bibliografia Adkins (1960); Adshead (1988); Bell (2015); Brigati (2015); Carson (2007); Cassese, Pellew (1987); Elman (2000); Falcone (2007); Finzi (2010); Hankins (2000; 2019); Ho (1962); Kett (2012); Leonhard, Wieland (2011); Littler (2018); McGrath (1986); Müller (2013); Neumahr (2002); Pomeranz (2000); Raith (2016); Santini (1959); Santoro (1967); Skinner (1978; 2002a); Smith (1996); Terracciano (2014b); Young (1958). 750