Il lessico della modernità
Continuità e mutamenti dal xvi al xviii secolo
A cura di Simonetta Bassi
Con la collaborazione di Elisa Fantechi
Volume 1
Carocci
editore
Merito
di Pasquale Terracciano
1. Merito è categoria fondamentale del nostro presente, sia sul piano della filosofia politica che del discorso pubblico più generalista. Si tratta di
una nozione che ha strettamente a che fare con le teorie della giustizia,
con le categorie della morale, e che ha inoltre una rilevanza indubbia nella
speculazione teologica. Eppure, non è agevole rintracciare una storia filosofica dell’idea di merito. Un motivo dell’assenza di una storia filosofica
del lemma è che solo nell’ultimo secolo è emersa in maniera estesa la rivendicazione esplicita di società fondate sul merito, e quasi esclusivamente su
di esso. Si tratta del modello “meritocratico”, che viene talvolta invocato
come autoevidente e autogiustificantesi: come cioè un’aspirazione condivisa e un sistema “naturale” di costruzione della società, e non invece una
precisa opzione filosofica e ideologica da valutare, con i suoi vantaggi e i
suoi limiti (Brigati, 2015). Va del resto ricordato che lo stesso lemma “meritocrazia” – cui è dedicata una specifica voce in questo lessico – sia un
neologismo inventato negli anni Cinquanta e reso celebre dal sociologo
Michael Young, in un testo distopico, intitolato appunto The Rise of Meritocracy, in cui il lemma aveva un significato negativo. Solo a partire da allora,
e principalmente nelle scienze sociali, si è sviluppato un filone di interventi
sul tema, che però ha raramente affrontato il versante storico-filosofico e
quello lessicografico del tema.
2. Nell’intraprendere la nostra analisi, conviene partire innanzitutto da
alcune osservazioni lessicali. Nelle lingue neolatine c’è una sostanziale uniformità nell’esprimere tale concetto: troviamo mérite, merito, mérito cui si
aggiunge l’inglese merit. Sono tutti termini che derivano da meritus e dunque da mereo che ha il significato principale di “ottenere una parte, guadagnare, servire”. Mereo a sua volta richiama il verbo greco meiromai (“ricevere
in sorte” o “ottenere la propria parte”) e il sostantivo meros (“parte” o “sorte”,
da cui ad esempio le Moire, divinità del destino). Nelle lingue germaniche
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e slave il termine ha invece piuttosto a che fare con il “servire” (significato
presente anche in mereo, ma in maniera meno immediata). L’inglese ha la
caratteristica di avere due termini per indicare il merito, entrambi di derivazione latina. Oltre merit vi sono infatti desert/to deserve che provengono
dal latino deservio, che sta a significare il “servire coscienziosamente”. A tale
sfera di significato si attengono anche il tedesco das Verdienst e i termini
slavi zasluga, zasługa o zásluhy.
“Ottenere” e “servire” hanno una evidente liminarità concettuale, quando si intenda “servire” al fine di ricevere una paga, “guadagnare” qualcosa
per aver compiuto degli atti: stessa radice ha la parola “meretrice” che porta
in effetti con sé l’idea di un servizio svolto per ottenere una paga. Una sfera semantica, dunque, molto ricca che presenta diverse insidie filosofiche:
innanzitutto, come si riconosce e cosa misura il merito; in secondo luogo,
a cosa è utile misurare il merito.
3. Potremmo definire il merito come il valore delle azioni umane da ricompensare. Senza forme di riconoscimento sociale o di ricompensa non
si dà merito. Il merito inteso in tale maniera si accompagna strettamente
all’idea di giustizia. Tale nozione affonda le sue radici in Aristotele, nei
capitoli del quinto libro dell’Etica nicomachea che fondano la giustizia distributiva. Conviene partire da qui, perché la trattazione del merito della
prima età moderna si confronterà esplicitamente con tale modello. È giusto, dunque, per lo Stagirita, che la giustizia distributiva si ispiri a principi di
proporzione e che stabilisca criteri per dare a tutti secondo il proprio merito
(axia, termine che indica sia un valore morale che un valore economico).
È un’idea – quella della giustizia che si distribuisce a ciascuno secondo il
merito – che in forma laconica si trova già nel pensiero platonico. Questa
forma della giustizia è relazionale, perché riguarda sempre altri. È da notare
che le pagine in cui sorge il concetto di merito sono pagine in cui serrata è la
riflessione aristotelica sulle nozioni di misurabilità, commensurabilità, proporzionalità (Etica nicomachea, 1131-3) come caratteristiche coessenziali alla giustizia. Stabilito questo aspetto, già in quelle pagine emerge la difficile
decidibilità del merito, e la sua contendibilità. Così ne dice Aristotele: «Di
qui sorgeranno battaglie e contestazioni, qualora persone eque abbiano e
ottengano rapporti non equi oppure persone non eque abbiano e ottengano rapporti equi. Ciò è ancora evidente dal punto di vista del merito: tutti
infatti concordano che nelle ripartizioni vi debba essere il giusto secondo il
merito, ma non tutti riconoscono lo stesso merito» (1131a, 25-30). Su questo piano Aristotele accenna, senza però svolgerlo compiutamente in quella
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merito
sede, al ruolo del merito nell’organizzazione della società e alle diverse definizioni che esso assume: «infatti i democratici lo vedono nella libertà, gli
oligarchici nella ricchezza o nella nobiltà di nascita, gli aristocratici nella
virtù».
Uno specifico ambito di utilizzo della nozione di merito è infatti, con
ogni evidenza, l’allocazione di onori, ricompense e responsabilità, che ricorre più distintamente nella Politica aristotelica: l’attribuzione delle cariche e degli onori in base al valore presuppone esplicitamente una concezione della giustizia che distribuisce punizioni e premi in base ai meriti
(Falcone, 2007, pp. 148-52).
A partire da questa riflessione del mondo greco, il tema del merito e
della giustizia distributiva fluisce nel pensiero romano: è una riflessione che
viene poi fatta propria ed elaborata da Cicerone sia nelle opere retoriche (in
particolare in Inv., ii, 160) che nel De officiis. Si tratta di un principio che
viene fissato come cardine stesso della definizione di giustizia nella giurisprudenza romana: la giustizia viene definita come quella volontà ferma
e stabile tesa a dare «a ciascuno il suo»: Iustitia est constans et perpetua
voluntas ius suum cuique tribuendi.
4. La nozione filosofica e giuridica di merito, strettamente connessa
all’idea di giustizia, non esaurisce l’ambito di influenza di tale concetto.
Particolare sviluppo ebbe infatti la riflessione più propriamente teologica.
“Merito” è una categoria fondamentale della dialettica della grazia. Prima
del pelagianesimo la definizione dei meriti personali era sostanzialmente
inesistente: quando si parlava di grazia, si rifletteva piuttosto sul libero arbitrio e sulla possibilità di adempiere o rifiutare “liberamente” i precetti
divini. La posizione più classica del cristianesimo può essere riassunta in
una massima di sant’Agostino secondo cui si ergo Dei dona sunt bona merita
tua, non Deus coronat merita tua tanquam merita tua, sed tamquam dona
sua (“se infatti i doni di Dio sono i tuoi buoni meriti, Dio non ricompensa
i tuoi meriti in quanto tuoi meriti, ma in quanto suoi doni”; cfr. De gratia et
libero arbitrio, 6, 15). Il merito è dunque un dono divino che «cinge» il giusto; lo sguardo è principalmente rivolto alla vita eterna e non al momento
terreno di giustificazione. La definizione agostiniana vedeva il merito come
una conseguenza della gratia, donata gratis pro gratia.
Un approfondimento dello statuto del merito avvenne tra l’xi e il xii
secolo, quando si cominciò a riflettere se l’uomo fosse meritevole della gratia prima, cioè dell’iniziale giustificazione divina (McGrath, 1986, pp. 109
ss.). Si fece strada a quel punto una distinzione tra merito e congruità: attra743
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verso le sue azioni l’uomo non può meritare, in senso stretto, di essere salvato, ma la sua condotta può rendere appropriato (congruo) il ricevimento
della grazia. Così, dunque, si esprimevano i teologi scolastici: digno, dico,
non dignitate meriti, sed dignitate congrui. Una dignitas ottenuta in virtù
della propria condotta virtuosa, sebbene attraverso un’interpretazione “debole” della categoria di merito individuale. Si venne dunque così a formare
il concetto di meritum congruitas o meritum interpretativum e dunque della
più nota distinzione tra meritum de congruo (quel merito che abbiamo definito essere tale in senso lato) e meritum de condigno. Fu una distinzione elaborata per spiegare in che modo Maria meritasse di essere la madre di Gesù
Cristo, ma poi, in maniera più generale, venne pastoralmente inteso come
incoraggiamento dell’uomo per prepararsi e rendersi degno della grazia divina. Non mancarono in realtà coloro che proposero una interpretazione
teologicamente più ardita secondo cui il merito de congruo sarebbe stato il
merito prima dell’atto di grazia, mentre il merito de condigno quello dopo
l’atto della grazia divina. Una condotta appropriata preparerebbe cioè la
possibilità di ricevere la grazia divina: le azioni successive di colui che ha
ricevuto la grazia divina sono invece già meritevoli.
Sono due, in ogni caso, gli elementi da sottolineare. In primo luogo, il
fatto che tale partizione spinse a chiarire con esattezza le caratteristiche salienti del merito in senso stretto. Alain de Lille elaborò quattro condizioni
fondamentali perché il merito potesse essere considerato tale: 1. che sia riconoscibile l’apporto della persona che merita; 2. che si meriti presso un
altro e che 3. questi abbia il potere di remunerare; 4. che il merito sia tale da
obbligare una ricompensa (ut de indebito fiat debitum). Nell’economia del
discorso di Alain de Lille ciò serviva a dedurre che poiché il merito arriva
a obbligare Dio, solo Cristo poteva essere meritevole della gloria, mentre
l’uomo poteva invece meritarsi sì la pena, ma mai la ricompensa (Alano di
Lilla, 2002, [82], p. 154). Può essere notato che al di fuori dell’ambito più
propriamente teologico, tali condizioni possono essere considerate efficaci
nel proporre una più solida definizione filosofica di merito. L’analisi del merito all’interno della teologia della grazia costituì in effetti un momento di
eccezionale approfondimento delle articolazioni interne del concetto.
5. Se si guarda infatti all’uso del termine al di fuori dell’ambito teologico
si può riscontrare il fatto come la nozione di merito tra Basso Medioevo e
Rinascimento venisse usata genericamente: “merito” è spesso ricompreso
all’interno dei termini virtus o dignitas e dei loro equivalenti nelle lingue
volgari. Da questo punto di vista un cruciale osservatorio delle tensioni
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merito
cui è sottoposta tale nozione è la Firenze umanistica. Ciò per un duplice
motivo: innanzitutto per la riscoperta e il confronto con la classicità greca e
latina (e nello specifico con le riflessioni di Aristotele e Cicerone sul merito
sopra esposte); in secondo luogo perché l’autocelebrazione della città, per
alcuni autori, poggiava su quello che definiamo in termini moderni come
mobilità sociale e meritocrazia.
Secondo Leonardo Bruni, uno dei più autorevoli esponenti dell’Umanesimo civico, il segreto della grandezza di Firenze, la sua eccellenza di virtù
in tutti gli ambiti era da attribuire al suo popolo e al modo che si era data
per governarsi: una forma di governo che implicava il riconoscimento del
merito di qualsiasi cittadino. È questa la miscela che rende Firenze, agli
occhi di Bruni, città unica al mondo, capace di esprimere i campioni della teoria politica, dell’arte, dell’architettura, della poesia, della milizia: la
virtù è incoraggiata a esprimersi e brillare in ogni settore, cercando onore
e riconoscimento, senza inseguire l’umbratile assenso dei re o gli intrighi
cortigiani (Bruni, 1996b, pp. 717-9; Hankins, 2000, 2019). Tali riflessioni
sono in parte legate al più vasto dibattito sulla nobiltà che attraversava quei
decenni (con autori come Poggio Bracciolini, Bartolomeo Platina, Cristoforo Landino). Il dibattito aveva riguardato infatti il dilemma se fosse preferibile una nobiltà originata dal valore personale oppure quello derivante
dalla nascita (Finzi, 2010). Si trattava di una riflessione cruciale al riguardo
della definizione dei vantaggi e degli svantaggi della distribuzione di onori
e cariche in base a quello che modernamente definiamo merito, ma anche al
riguardo dell’idea di quali virtutes vadano incentivate per rendere prospera
una comunità. In tale contesto, è raro che si usi il lemma “merito”, mentre è
comune il più vasto “virtù”, in opposizione a “sangue”, plausibilmente perché rimanda a una sfera di dignitas che copre anche l’ambito del carattere
acquisito e della personalità.
Altro fondamentale corpus in cui va inserito il tema del merito sono
le orazioni fiorentine sulla giustizia, legate a quella specifica magistratura
cittadina che era il Gonfalonierato di Giustizia. Si tratta di un’istituzione
che merita di essere segnalata in questo contesto perché all’assunzione della
carica il nuovo gonfaloniere, per statuto di estrazione non magnatizia, doveva pronunciare un’allocuzione sulla giustizia. Sono testi che, volgarizzando autori classici e testi sacri, presentano un quadro preciso degli elementi
centrali della giustizia distributiva (Santini, 1959). Spesso l’orazione era
incentrata sulla possibilità di sviluppare i propri talenti e veder ricompensato il proprio merito: da questo punto di vista questi discorsi sono luoghi
utilissimi per comprendere l’evoluzione del lemma “merito” e del discorso
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sul merito nel corso del Quattrocento. Come detto, “merito” si traduce innanzitutto, in quanto principio generale, come dignitas, seguendo del resto
le traduzioni latine e i primi volgarizzamenti aristotelici della nozione greca
di axia. Così Matteo Palmieri (1982, p. 112) riprende – con lunghi calchi
testuali – la riflessione di Aristotele dell’Etica nicomachea, le formule ciceroniane e della giurisprudenza romana, e dichiarava: «Iustitia essere habito
d’animo disposto alla conservatione dell’utilità comune che distribuisce a
ciascuno il merito suo»; «La degnità di ciascuno è quella secondo la quale
debbono essere distribuiti gli onori pubblici». Merito è, nelle sue parole, il
meccanismo che fa agire la giustizia, e al tempo stesso l’oggetto delle ripartizioni della giustizia. È da notare che per Palmieri e più in generale per gli
esponenti dell’Umanesimo civile fiorentino, chi viene ritenuto meritevole
ha innanzitutto un dovere verso gli altri: il merito non è un premio che si
raggiunge alla fine di un tragitto, ma ha sempre come contraltare un obbligo verso la comunità. Nella trattazione umanistica esso si giustifica cioè al
fine di «conservare l’utilità comune»: come elemento dunque di coesione
e non di frantumazione del corpo sociale. L’allocazione su base di merito
deve avvantaggiare l’intera società (ivi, p. 133).
6. Sugli usi di “merito” esposti finora irruppero nel corso del Cinquecento
alcuni eventi di portata dirompente. Innanzitutto, la Riforma protestante.
Come noto, l’elemento di distinzione teologica di Lutero riguardò l’interpretazione della grazia, che si fondava su una lettura rigida della lettura
paolina del principio sola gratia, sola fide: l’uomo si salva esclusivamente per
il dono della grazia divina né vi è spazio per le opere e per le intercessioni
ecclesiastiche. Lo scontro che ne seguì spinse a riprendere e ad approfondire
la tassonomia scolastica del merito (m. de congruo, m. de condigno) sopra
delineata e ad approfondire la “cronologia” della grazia: dagli anni Venti del
Cinquecento sino ad almeno il Concilio di Trento si moltiplicarono testi e
formule per chiarire in che maniera fosse individuabile o meno l’esatto “merito”, cosa gli fosse imputabile e che rapporto vi fosse tra opera e ricompensa.
Non si trattava di riflessioni del tutto nuove, ma la drammaticità di quella
frattura rese “merito” un termine che non poteva più essere utilizzato come
generico sinonimo di virtù, o come elemento della definizione classica di
giustizia, ma che si presentava come un lemma dall’immediata connotazione ideologica spesso polemica.
7. Caso eclatante di questo fenomeno si trova nell’opera di Giordano
Bruno, che utilizza in maniera estesa e puntuale il termine – in maniera
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merito
ben distinta da “virtù” o “dignità” – sullo sfondo di una precisa opzione
antiluterana. Se il merito è la condizione perché vi sia un premio per una
virtù correttamente indirizzata, Bruno è però ben consapevole che il nesso
tra merito e ricompensa non è sempre automatico e, ancor meno, garantito.
Sin dal Candelaio è chiarito come questo sia anzi un nesso labile, più spesso
capovolto che seguito: «A chi è concesso il meritare sia negato l’avere, a chi
è concesso l’avere sia negato il meritare» (Bruno, 1923, p. 188), vi si dice al
riguardo dei bizzosi doni della fortuna. La sfida del Nolano consisterà nel
riallacciare questo legame, poiché è convinto che per favorire la virtù – e
dunque l’azione umana e la vita civile – bisogna riconoscere e premiare il
merito. Tale aspetto non si limita tuttavia a una – pur fondamentale – massima di pedagogia e prudenza politica. Lo sfilacciamento del rapporto tra
virtù, merito, e premio – come mostrerà più compiutamente nello Spaccio
de la bestia trionfante – è infatti una delle molteplici fratture nell’ordine
del mondo che interrompono la comunicazione tra divino e umano, ed
è testimonianza della crisi in cui versa la civiltà. Laddove il merito viene
dismesso e la praxis accantonata, inizia la decadenza: è questa una legge
fondamentale dello sviluppo e del declino delle civiltà, confermata dalle
guerre di religione causate dalla Riforma. Nel lamento di Asclepio, le statue
animate della religione egizia – modello di religione civile, vincolo positivo
per la società – recano i loro effetti benefici proprio assecondando i meriti, non slegandoli dalle opere. Quando la crisi si imporrà e la religione si
sarà disgregata, si perderà al tempo stesso il senso dei meriti e dei demeriti
(Bruno, 2000a, p. 637). La ricomposizione di queste fratture risulta allora
strettamente intrecciata all’intero progetto di riforma filosofica portato
avanti dal Nolano: restituire al merito la propria centralità è così una delle
strategie necessarie da attuare per uscire dalla decadenza e uno dei segnali
dischiusi dall’affermazione della nuova ontologia bruniana. Nel secondo
dialogo della Cena, pur denunciando che i meriti si impongono solo quanto
la fortuna permette (ivi, p. 146), Bruno traccia inoltre una linea di demarcazione fondamentale: nella perseveranza dell’operare umano – nel suo
sforzo di remare controcorrente – vi è sempre merito, anche quando non
valorizzato «per torto di fortuna» (ivi, p. 49).
8. La questione del merito, in ambito civile, ha anche a che fare, come
accennato, con i meccanismi di individuazione del merito, con la ricompensa cui esso dà diritto, con l’istituzione che riconosce ed elargisce tale
ricompensa e con gli scopi di questo meccanismo.
Un altro elemento, cronologicamente di poco successivo alla Riforma,
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intervenne sul quadro concettuale sopra delineato: si tratta della conoscenza sempre più approfondita del mondo cinese. I primi visitatori europei
furono infatti meravigliati e spesso positivamente colpiti dall’assenza di
un’aristocrazia ereditaria in Cina e dai meccanismi che rendevano efficiente il mandarinato. Tra essi in particolare l’esteso sistema di esami scritti fondamentale per la ripartizione delle cariche. Nei resoconti di viaggi tali esami
venivano spesso citati (ad esempio nel diario di Galeote Pereira) e questa
modalità di stabilire il “merito” delle persone venne indicata come la chiave
dell’Impero cinese, del resto considerato come la prima compiuta meritocrazia politica (Bell, 2015). I missionari gesuiti della seconda metà del xvi
secolo offrirono dettagliati resoconti del funzionamento di questi esami
(per esempio Giovanni Maffei, Alessandro Valignano), che divennero familiari al pubblico colto dopo la pubblicazione della traduzione latina delle
opere di Matteo Ricci. In ogni caso, attraverso il Valignano, alcune idee
derivanti dall’osservazione del modello cinese entrarono indirettamente
tra i principi della Ratio studiorum dell’Ordine, stesa nel 1599 (Adshead,
1988, p. 226; Bell, 2015). Si tratta di una vicenda spartiacque non solo per
l’impatto che i modelli pedagogici gesuiti ebbero sull’Europa moderna,
ma anche perché quando più tardi Inghilterra e Prussia decisero di creare
sistemi uniformi di reclutamento della propria burocrazia guardarono, in
qualche misura, anche al modello di merito “cinese” tramandato dai gesuiti
(Cassese, Pellew, 1987).
9. Per trarre le fila del discorso sulla nozione filosofica dell’idea di merito
nella prima età moderna, si può rimarcare come il “combinato disposto”
della Riforma protestante e dell’osservazione del modello cinese mutò i termini con cui la cultura europea si rapportò con tale idea: non più nozione
generica, ma categoria filosofica a sé stante, con una propria legittimità.
Non è allora un caso il fatto che il primo saggio noto che porti “merito”
nel titolo dati al 1600. Si tratta di Il merito delle donne della gentildonna
veneziana Moderata Fonte, un pamphlet protofemminista. Va inoltre notato che se il “linguaggio del merito” viene spesso considerato il linguaggio
del potere, qui la rinnovata sfera semantica del “merito” venne individuata
come quella da utilizzare per patrocinare causa e diritti di gruppi “subordinati”.
A tale uso positivo del merito, fa invece da contraltare certo uno degli
aspetti che avevamo già visto evocato da Bruno: cioè la fragilità e l’illusorietà del merito, il riconoscimento che esista merito senza ricompensa.
Nella riflessione filosofica della prima età moderna, e sempre più spesso in
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merito
età barocca, non è raro che il merito venga considerato, in maniera disincantata, come una virtù troppo “instabile” per poter essere uno dei princìpi
regolatori della società: ci si ricollegava così a una visione che era già propria di alcuni autori umanisti. Se infatti, come abbiamo visto, per una parte
degli esponenti dell’Umanesimo civico il rapporto tra premio e virtù era
elemento cardine, altri misero piuttosto l’accento sull’ingenua presunzione
di mettersi completamente al riparo dai colpi della fortuna ed essere totalmente dipendenti dal proprio merito/talento per la propria affermazione.
Anche per questo l’attenzione si concentrò su quelle virtù che sono capaci
di far ottenere gloria, onori e cariche, ma che sono altrettanto capaci di
sorreggere l’uomo nelle inevitabili avversità che la sorte prepara: e dunque
prudenza, fortuna, saggezza. Per un verso, infatti, la natura ha una forza
che rende vana l’idea di affidarsi ai meriti umani, come viene espresso ad
esempio nelle Intercenales di Alberti (2003b, pp. 54-5); per altro verso è la
stessa comunità umana che riconosce i meriti in maniera troppo volubile.
Di tale riflessione filosofica si trovano ampie tracce in Shakespeare. Così le parole di Iago «Reputation is an idle and most false imposition: oft got
without merit, and lost without deserving» (Othello, ii, 3); ma la decostruzione del nesso tra merito e riconoscimento emerge anche nei dialoghi tra
Amleto e Polonio (Hamlet, ii, 2). Su questa scia può essere inserita anche la
più compiuta riflessione di La Bruyère (1696, 1, 11), che al merito personale
dedica uno dei suoi Caractères. Merito non può essere fondamento legittimo né di orgoglio né di rivendicazione sociale. È una patina illusoria: chi
merita non viene ricompensato, e d’altra parte la società confonde successo
e merito, ritenendo che abbia meritato solo chi viene premiato esteriormente dal successo.
10. La riflessione sulle virtù civili, spesso collegata a un’antropologia ottimistica, vide porre una nuova attenzione al tema del merito, in connessione
con una ridefinizione della virtù e dei premi. Shaftesbury scrisse una Inquiry concerning virtue, or merit (pubblicata a sua insaputa da Toland) in cui
intendeva offrire una visione della virtù come interesse, ma anche mostrare
l’armonia di interesse privato e bene pubblico. Il testo venne poi tradotto
nel 1745 da Diderot come Essai sur le mérite et la vertu, e così il tema del
merito venne riletto all’interno delle categorie illuministe.
Più ancora che in Francia, in quegli anni vennero pubblicati alcuni lavori italiani, poco noti se non per gli addetti ai lavori, ma cruciali: in particolare l’opera di Giacinto Dragonetti (Delle virtù e de’ premi, 1766) che
ebbe un grande successo nell’Europa prerivoluzionaria.
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Fonti
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Bibliografia
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2019); Ho (1962); Kett (2012); Leonhard, Wieland (2011); Littler (2018); McGrath
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(2014b); Young (1958).
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