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Il maestro Garrone

Novità, novità: dappertutto novità. La Befana quest'anno è arrivata a bordo di un razzo a diciassette stadi, e in ogni stadio c'era un armadio zeppo di doni, e davanti ad ogni armadio un robot elettronico con tutti gli indirizzi dei bambini. Non solo dei buoni, ma di tutti: perché bambini cattivi non ne esistono, e la Befana, finalmente, lo ha imparato. Novità a Carnevale: il vecchio Pulcinella ha indossato una tuta spaziale, Gianduia lanciava coriandoli da uno sputnik d'argento, le Damine Rococò e la Fata Turchina seguivano il corteo mascherato in elicottero. Novità a Pasqua. Rompiamo l'uovo di cioccolato e chi ne salta fuori? Sorpresa: un pulcino marziano, con un'antenna sul berretto. L'uovo era un uovo volante. Novità da tutte le parti. Perché dunque il maestro Garrone (nipote di quel bravo Garrone del libro Cuore) è tanto malinconico? - Caro signor Gianni, - egli dice, - anche a me le novità fanno piacere. Che belle macchine ci sono nelle fabbriche, che belle astronavi in cielo. E anche il frigorifero, com'è bello. Ma la mia scuola, l'ha vista? È tale e quale come era ai tempi di mio nonno Garrone e dei suoi compagni: il Muratorino, De Rossi e Franti, quel cattivello. Di belle macchine, là dentro, neanche l'ombra. Gli stessi banchi graffiati e scomodi d'una volta. Vorrei che la mia scuola fosse bella come un bel televisore, come una bella automobile. Ma chi mi aiuta?

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Gianni Rodari, Favole al telefono, Einaudi (collana Gli struzzi n°14), 1973⁷; p. 118. [Prima edizione: 1962]

" In tanti anni di insegnamento in un’università frequentata per il 70 per cento da ragazze, ho avuto centinaia di studentesse. Ogni primavera, alla prima lezione del primo anno di corso, entrando in aula più che le loro facce vedevo le loro teste, che tenevano abbassate, lo sguardo sul banco, le mani in grembo. I maschi d’altronde non erano molto più spigliati. Una trentina di diciottenni in tutto, che dovevo aiutare, se volevo che imparassero l’italiano, a venir fuori da un esagerato riserbo. Provenendo da dodici anni di insegnamento autoritario, che li aveva abituati solo ad ascoltare e a ubbidire, gli studenti all'inizio erano tutti molto passivi, e per cavar loro di bocca qualche parola ci volevano mesi di paziente lavoro. Nell'arco di quattro anni li vedevo trasformarsi fisicamente, maturare mentalmente, manifestare a poco a poco la loro personalità. La metamorfosi era evidente, soprattutto nelle ragazze, che cambiavano pettinatura, incominciavano a truccarsi, a seguire la moda, e col trascorrere dei mesi rivelavano negli atteggiamenti, pur nel loro modo contenuto, il passaggio attraverso nuove esperienze di vita. "

Antonietta Pastore, Nel Giappone delle donne, Giulio Einaudi, 2004. [Libro elettronico]

" Aprii gli occhi e mi trovai faccia a faccia con Lucia. Una statua di marmo distesa sulla bara di vetro, come Biancaneve. L’iscrizione recitava: «Santa Lucia, vergine e martire, morta a vent’anni per amore del Signore». Infilai la mia busta nella buca della posta e le soffiai un bacio. Eppure anche quell’anno non ricevetti nulla. Temevo che in fondo mia madre avesse ragione. Inaspettatamente, l’anno seguente, a Santa Lucia ricevetti qualcosa per la prima e unica volta. Quel mattino, sullo scuolabus, raccontai a Latte e ai miei compagni tutto il ben di dio che avevo ricevuto: una biro multicolore, un quaderno, un album da colorare con le principesse, una confezione di gianduiotti. Ero talmente eccitata che non vedevo l’ora di parlarne alla maestra e a tutta la classe.

" «Con la cultura non si mangia» ha dichiarato […] Tremonti il 14 ottobre 2010. Poi, non contento, ha aggiunto: «Di cultura non si vive, vado alla buvette a farmi un panino alla cultura, e comincio dalla Divina Commedia». Che umorista. Che statista. Meno male che c’è gente come lui, che pensa ai sacrosanti danè. E infatti, con assoluta coerenza, Tremonti ha tagliato un miliardo e mezzo di euro alle università e otto miliardi alla scuola di primo e secondo livello, per non parlare del Fus, il Fondo unico per lo spettacolo e altre inutili istituzioni consimili. Meno male. Sennò, signora mia, dove saremmo andati a finire?

LA NOSTRA SCUOLA

La nostra scuola è privata. È in due stanze della canonica più due che ci servono da officina. D’inverno ci stiamo un po’ stretti. Ma da aprile a ottobre facciamo scuola all’aperto e allora il posto non ci manca! Ora siamo 29. Tre bambine e 26 ragazzi. Soltanto nove hanno la famiglia nella parrocchia di Barbiana. Altri cinque vivono ospiti di famiglie di qui perché le loro case sono troppo lontane. Gli altri quindici sono di altre parrocchie e tornano a casa ogni giorno: chi a piedi, chi in bicicletta, chi in motorino. Qualcuno viene molto da lontano, per es. Luciano cammina nel bosco quasi due ore per venire e altrettanto per tornare. Il più piccolo di noi ha 11 anni, il più grande 18. I più piccoli fanno la prima media. Poi c’è una seconda e una terza industriali. Quelli che hanno finito le industriali studiano altre lingue straniere e disegno meccanico. Le lingue sono: il francese, l’inglese, lo spagnolo e il tedesco. Francuccio che vuol fare il missionario comincia ora anche l’arabo. L’orario è dalle otto di mattina alle sette e mezzo di sera. C’è solo una breve interruzione per mangiare. La mattina prima delle otto quelli più vicini in genere lavorano in casa loro nella stalla o a spezzare legna. Non facciamo mai ricreazione e mai nessun gioco. Quando c’è la neve sciamo un’ora dopo mangiato e d’estate nuotiamo un’ora in una piccola piscina che abbiamo costruito noi. Queste non le chiamiamo ricreazioni ma materie scolastiche particolarmente appassionanti! Il priore ce le fa imparare solo perché potranno esserci utili nella vita. I giorni di scuola sono 365 l’anno. 366 negli anni bisestili. La domenica si distingue dagli altri giorni solo perché prendiamo la messa. Abbiamo due stanze che chiamiamo officina. Lì impariamo a lavorare il legno e il ferro e costruiamo tutti gli oggetti che servono per la scuola. Abbiamo 23 maestri! Perché, esclusi i sette più piccoli, tutti gli altri insegnano a quelli che sono minori di loro. Il priore insegna solo ai più grandi. Per prendere i diplomi andiamo a fare gli esami come privatisti nelle scuole di stato.

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Brano tratto dalla lettera dei ragazzi di Barbiana ai ragazzi di Piadena dell’1 novembre 1963 raccolta in:

Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana, a cura di Michele Gesualdi, Milano, A. Mondadori (collana Oscar n° 431), 1976 [1ª Edizione: 1970]; pp. 167-168.

“ Se dovessimo tener conto delle letture importanti che dobbiamo alla Scuola, ai Critici, a tutte le forme di pubblicità e, viceversa, di quelle che dobbiamo all'amico, all'amante, al compagno di scuola, vuoi anche alla famiglia - quando non mette i libri nello scaffale dell'educazione - il risultato sarebbe chiaro: quel che abbiamo letto di più bello lo dobbiamo quasi sempre a una persona cara. Ed è a una persona cara che subito ne parleremo. Forse proprio perché la peculiarità del sentimento, come del desiderio di leggere, è il fatto di preferire. Amare vuol dire, in ultima analisi, far dono delle nostre preferenze a coloro che preferiamo. E queste preferenze condivise popolano l'invisibile cittadella della nostra libertà. Noi siamo abitati da libri e da amici. Quando una persona cara ci dà un libro da leggere, la prima cosa che facciamo è cercarla fra le righe, cercare i suoi gusti, i motivi che l'hanno spinta a piazzarci quel libro in mano, i segni di una fraternità. Poi il testo ci prende e dimentichiamo chi in esso ci ha immersi: tutta la forza di un'opera consiste proprio nel saper spazzar via anche questa contingenza! Eppure, con il passare degli anni, accade che l'evocazione del testo faccia tornare alla mente il ricordo dell'altro: alcuni titoli sono allora di nuovo dei volti. E, siamo giusti, non sempre il volto di una persona amata, ma anche quello (oh! raramente) del tal critico o del tal professore. È il caso di Pierre Dumayet, del suo sguardo, della sua voce, dei suoi silenzi, che nelle Letture per tutti della mia infanzia dicevano tutto il suo rispetto per il lettore che grazie a lui sarei diventato. E il caso di quel professore la cui passione per i libri sapeva dotarlo di un'infinita pazienza e regalarci perfino l'illusione dell'amore. Doveva proprio preferirci - o stimarci - noialtri allievi, per darci da leggere quel che gli era più caro. “

Daniel Pennac, Come un romanzo, traduzione di Yasmina Mélaouah, Feltrinelli (collana Idee), 1998²⁶, pp. 70-71. (Corsivi dell’autore)

[1ª edizione originale: Comme un roman, éditions Gallimard, 1992]

“ Il presupposto, quasi esplicito, su cui sorse l’UE fu che i paesi ‘peccatori’ (Italia e Grecia in particolare) avevano vissuto fino ad allora al di sopra delle loro possibilità, eccedendo in spesa pubblica ovviamente non immediatamente redditizia. Ricordiamo le prediche in proposito. Certo, ogni tanto ci viene detto che basterebbe l’importo dell’italica evasione fiscale per risanare il debito che ci strangola e ci rende sorvegliati speciali all’interno della UE. Ogni volta però si conclude, con un sospiro, che si tratta di un male incurabile. E allora, ancora una volta, non resta che «pestare» quelli che «stanno sotto». E anche, forse soprattutto, a tal fine, si provvede ad instaurare, di volta in volta, un esecutivo «europeista». Il teorema non fa una grinza. Salvo che in un punto fondamentale, che vorremmo qui brevemente tratteggiare: alle vere e ataviche carenze italiane potrebbe porre rimedio un gigantesco investimento che incrementi proprio la pubblica amministrazione, ma questo è l’esatto contrario di ciò che «chiede l’Europa». È lamento quotidiano, e ben fondato e largamente condiviso, che da noi manchi adeguato e sufficiente personale in tanti settori vitali: magistratura (giudici e cancellieri: il commissario UE alla giustizia ce lo rimproverava cifre alla mano esattamente il 9 luglio scorso), ispettori del lavoro (le morti bianche sono il nostro flagello quotidiano), scuola (abbiamo ancora le vergognose classi-pollaio di gelminiana memoria particolarmente pericolose sotto ogni rispetto), guardie carcerarie (le vicende e i pestaggi recenti sono una macchia), sistema sanitario nazionale (il lamento in proposito fu molto forte quando l’epidemia sembrò soverchiante). E si potrebbe seguitare. Ci ordinano contemporaneamente di ridurre la spesa pubblica, di far funzionare il nostro paese (e di saldare prima o poi il debito). Arduo: «né pentère e volere insieme puossi / per la contradizion che nol consente» (Inferno, XXVII, 119-120). “

Luciano Canfora, La democrazia dei signori, Laterza (Collana: i Robinson / Letture), gennaio 2022. [Libro elettronico]

“ La maestra puntò la bacchetta sull’immagine di una chitarra acustica. «Chi vuole sillabare questa parola?». Alzai la mano, col sorriso della certezza stampato in faccia. «g-h-i-t-a-r-e . Ghitare». La classe scoppiò a ridere. «Marilena, in italiano questa è una chitarra. So che in africano è diverso. Cerca solo di non confondere più le due lingue, va bene?». L’ africano raggruppava, a dire della maestra Pennacchia, le migliaia di lingue e dialetti che costellavano l’Africa intera. Ghitare fu la prima di tante parole che dovetti re-imparare a scuola. Cortero fu corretto in coltello, aise in aids. Mamma mi parlava in un italiano immigrato. Un misto di parole francesi, bergamasche e rwandesi. Era un italiano approssimato il suo, appreso da cartoni animati e vicini di casa che parlavano solo dialetto. Quel pomeriggio, di rientro dal lavoro, mamma accostò una sedia alla mia per leggere con attenzione ciò che stavo scrivendo. «Vai via, smettila di farmi sbagliare». La scansai, ma lei non accennò a muoversi. «Oggi la maestra ci ha spiegato che ghitare non è una parola. Si dice chitarra, e si scrive in questo modo…». Fu così che mia madre – lei che in Rwanda era stata direttrice e insegnante di filosofia, chimica, algebra, letteratura e lingua francese, corse a prendere carta e penna. Da brava studentessa, copiò la parola che avevo appena scritto cinque volte. Fu la prima di tante lezioni d’italiano a venire. “

Marilena Umuhoza Delli, Negretta. Baci razzisti, Red Star Press (collana Tutte le strade), 2020. [ Libro elettronico ]

“ A novembre hanno ricevuto una telefonata della direttrice. Voleva parlare con loro e no, sarebbe stato meglio farlo di persona, meglio non per telefono. Si sono presentati tutti e due. Era caduta una neve precoce; la luce livida, l’ambiente urbano repentinamente mutato li rendevano inquieti, come se non bastasse già il tono della telefonata, certo non minaccioso, ma ambiguo, guardingo. L’inquietudine è aumentata quando la direttrice ha cominciato con un discorso molto generale sulla missione (ha detto proprio cosí, mission) dell’insegnamento e sui compiti degli educatori. Si vedeva che rimandava il momento in cui avrebbe sputato il rospo, e i due stavano seduti sulla punta della sedia, sempre piú nervosi. Poi finalmente gliel’ha detto: i genitori degli altri bambini si erano lamentati. Le telefonavano per dirle che sempre piú spesso, a casa, i figli di quattro anni si rivolgevano a loro con parole mai sentite prima, che alla fine risultavano essere italiane. Si registravano già alcuni casi di gravi incomprensioni transgenerazionali, con conseguenze che solo per un pelo non erano state serie. Interpellate, la maestra Shirley e la maestra Carol avevano confermato; loro stesse si erano rassegnate ad apprendere il significato di espressioni quali pipí, popò, basta, prendi, vieni qua e vaffanculo, finendo per utilizzarle anche loro, in violazione dei principî educativi del Learning World, per non restare tagliate fuori. La direttrice, a cui evidentemente sfuggiva la differenza tra vaffanculo e vattene via, aveva aggiunto che però la contaminazione culturale, cosí si era espressa, procedeva anche in direzione opposta, tanto che il bambino aveva adottato il termine wedgie. Su richiesta dei genitori, aveva poi specificato che la parola, di cui non si conoscono equivalenti in altre lingue, designa la condizione in cui, adulti o minori, ma soprattutto questi ultimi, si è infastiditi dalle mutande insinuatesi nel solco fra l’una e l’altra natica. La direttrice non si era mai trovata alle prese con un problema del genere (adesso parlava del bambino, non piú della wedgie). Non sapeva esattamente cosa proporre. Contava però sul loro aiuto per trovare una soluzione, escogitare qualcosa che permettesse agli altri alunni di mantenere la madrelingua in presenza della formidabile spinta all’innovazione portata da quel bambino dal carattere cosí forte. “

Guido Barbujani, Soggetti smarriti. Storie di incontri e spaesamenti, Einaudi (collana Super ET Opera Viva), febbraio 2022¹; pp. 126-127.

“ Degli anni della mia formazione scolastica l’esperienza più emblematica che mi torna in mente è il sabato fascista: le ore che era obbligatorio trascorrere nella sede del fascio per essere indottrinati. Non che allora noi rifiutassimo o aderissimo alla dottrina di Mussolini, semplicemente la imparavamo a memoria, era un compito come un altro. Imparavamo a memoria anche le poesie, e non è che ne capissimo ogni verso. Ancora ricordo l’articolo primo, che era la base di tutto ciò in cui ogni bravo fascista doveva credere: «Lo Stato è un valore assoluto, niente fuori dello Stato, niente contro lo Stato, niente al di là dello Stato, lo Stato è fonte di eticità». È vero che chi non si presentava al sabato fascista, il lunedì non veniva ammesso a scuola ed era redarguito severamente, ma ciò ci appariva una punizione circoscritta all’ambito scolastico, legata al fatto che non eravamo stati buoni scolari, più che solerti futuri camerati. Non bisogna inoltre dimenticare che non tutti gli insegnanti subordinavano il loro dovere di maestri alle imposizioni del regime. Senza contare che quella dottrina era troppo lontana dal nostro mondo, dalla nostra cultura per far breccia dentro di noi, anzi, aggiungerei, era quasi considerata un’eresia. Sentivo a casa mia e in altre famiglie amiche discuterne, criticarla, rifiutarla: nel nostro Veneto cattolico l’eticità delle leggi era avocata a sé dalla Chiesa.

“ Per fare dell’ironia bisogna avere una certa padronanza del linguaggio, o del gesto. Diciamo pure del linguaggio in senso lato. E quindi la cultura è essenziale. Una cultura ristretta fa sì che le regole del gioco, qualunque sia il gioco, vengano intese in un modo così rigido da cancellare ogni aspetto coraggiosamente innovativo. In ambito scolastico, per esempio, può essere significativo, mentre un professore fa lezione, che uno degli allievi si alzi per dichiarare: «Però, io la penserei diversamente». Ecco, il pensare diversamente può essere conseguito in modo ironico, e guai se la scuola non è più la zona dove l’ironia ha questo diritto di cittadinanza. E non è comunque bene che l’ironia venga riutilizzata da coloro che rimangono delusi della rigidità delle istituzioni? Allora, il legame con la cultura è essenziale: l’ironia su cosa gioca? Sul fatto che una parola, che noi solitamente impieghiamo in una certa accezione standard, venga usata in una accezione un po’ diversa. E questa è una cosa divertente, o no? «Oggi il tempo è perverso» uno dice. Oddio, che visione pessimistica! «Veramente, io mi stavo riferendo al tempo atmosferico.» La padronanza del linguaggio e dei significati è ineliminabile. È cruciale per tutte le situazioni in cui rigidità vuol dire morte dell’istituzione di cui ci stiamo occupando. La rigidità nella scuola, per esempio, è letale; la rigidità nella ricerca scientifica alla fine uccide la ricerca stessa; la rigidità in campo artistico vuol dire solo stanchezza e noia. Possibile che Antoni Gaudí o Pablo Picasso non fossero ironici? E poi ci sono i grandi umoristi. Qui sarebbe adeguato indicare qualche grande ironista che è stato al tempo stesso un maestro. Un candidato ce l’avrei: Achille Campanile. E poi si può essere ironici perfino in una situazione drammatica, in letteratura o nelle arti. Pensiamo al teatro di Shakespeare. È un sommo artista che in mezzo ai più torbidi massacri spinge Amleto a pronunciare una miriade di battute ironiche. “

Giulio Giorello, La danza della parola. L'ironia come arma civile, Mondadori (collana Orizzonti), 2019¹. [Libro elettronico]

“ L'ultimo giorno di scuola, mentre li attendeva, pensava all'opportunità di fare un discorso di congedo, prudente, intonato al suo stato d'animo. Ma convinto che la sua fredda chiarezza, la sua mancanza d'entusiasmo, erano in relazione con la sua decadenza fisica di cui notava giorno per giorno i progressi, non gli parve giusto riversare le sue tristezze nell'anima degli scolari. Né voleva, d'altra parte, lasciare un ricordo che non fosse aderente all'immagine che i giovani s'erano fatta di lui. Comprendeva che, se avesse parlato seguendo le sue vere idee, quel senso di lieve distacco da loro, che egli aveva già notato, si sarebbe accentuato, forse sarebbe divenuto definitivo. Nella loro mente sarebbe rimasto il ricordo del loro vecchio maestro, morto non solo fisicamente, ma morto nell'anima. Sarebbe stato troppo triste. Allora parlò cosí: – Chiudiamo con oggi, venti giugno, il nostro anno di scuola, ultimo forse per il vostro vecchio maestro. So che avvenimenti gravi si stanno preparando, che giornate luminose per l'avvenire del nostro paese metteranno a prova quanti hanno saldezza d'animo, bellezza d'ideali, fermezza di propositi. Bisogna credere: profondamente credere, – e qui si arrestò un momento perché il suono della sua voce lo aveva ingratamente sorpreso, – che il mondo va verso un destino migliore. – Io sono certo che tutti voi troverete nella prossima lotta il vostro posto; che il mio insegnamento avrà avuto il potere di rinsaldare in voi la giovanile fede nell'avvenire della vostra opera e che, comunque e dovunque, voi mi considererete presente in mezzo a voi, con gli stessi sentimenti... ma con migliori gambe. Si volse intorno sperando di avere acceso un sorriso sulla faccia dei suoi scolari. Ma si accorse che era riuscito solamente a commuoverli. Si alzò lentamente; e fece per andarsene, ma di colpo, come per una intesa precedente, i suoi scolari gli furono tutti intorno ansiosi. Egli si arrestò stupito: poi dopo averli guardati negli occhi li abbracciò tutti. Si allontanò con la maggiore rapidità possibile, perché sentiva un tremito in mezzo al petto: un tremito infantile. «Non si sa mai, – pensò, – la vecchiaia fa scherzi molto curiosi». “

Francesco Jovine, Signora Ava, Einaudi, 1958; pp. 170-172.

[1ª edizione originale: 1942]

“ La scuola è diversa dall’aula del tribunale. Per voi magistrati vale solo ciò che è legge stabilita. La scuola invece siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi. È l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità (e in questo somiglia alla vostra funzione), dall’altro la volontà di leggi migliori cioè il senso politico (e in questo si differenzia dalla vostra funzione). La tragedia del vostro mestiere di giudici è che sapete di dover giudicare con leggi che ancora non son tutte giuste. Son vivi in Italia dei magistrati che in passato han dovuto perfino sentenziare condanne a morte. Se tutti oggi inorridiamo a questo pensiero dobbiamo ringraziare quei maestri che ci aiutarono a progredire, insegnandoci a criticare la legge che allora vigeva. Ecco perché, in un certo senso, la scuola è fuori del vostro ordinamento giuridico. Il ragazzo non è ancora penalmente imputabile e non esercita ancora diritti sovrani, deve solo prepararsi a esercitarli domani ed è perciò da un lato nostro inferiore perché deve obbedirci e noi rispondiamo di lui, dall’altro nostro superiore perché decreterà domani leggi migliori delle nostre. E allora il maestro deve essere per quanto può profeta, scrutare i segni dei tempi, indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso. Anche il maestro è dunque in qualche modo fuori del vostro ordinamento e pure al suo servizio. Se lo condannate attenterete al progresso legislativo. In quanto alla loro vita di giovani sovrani domani, non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo d’amare la legge è d’obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate. La leva ufficiale per cambiare la legge è il voto. La Costituzione gli affianca anche la leva dello sciopero. Ma la leva vera di queste due leve del potere è influire con la parola e con l’esempio sugli altri votanti e scioperanti. E quando è l’ora non c’è scuola più grande che pagare di persona un’obiezione di coscienza. Cioè violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede. “

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Brano tratto dalla lettera del 18 ottobre 1965 rivolta ai magistrati incaricati di giudicare il priore di Barbiana per una sua lettera aperta a favore dell’obiezione di coscienza militare. Il testo è raccolto in:

Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana, a cura di Michele Gesualdi, Milano, A. Mondadori (collana Oscar n° 431), 1976 [1ª Edizione: 1970]; pp. 214-215.

A GIORGIO PECORINI - MILANO.

Barbiana, 7.4.1967.

Caro Giorgio, stiamo ora correggendo le bozze della Lettera a una professoressa. L’autore è Scuola di Barbiana. L’editore Libreria Editrice Fiorentina. Il prezzo circa 500 lire. Te ne mando una copia dattiloscritta perché tu la legga se puoi e tu la faccia leggere a chiunque ti possa parere utile per il lancio pubblicitario. La destinataria è all’apparenza una professoressa, ma il libro è inteso per i genitori dei ragazzi bocciati e vuol essere un invito a organizzarsi. […] Mi ero fatto fare una prefazione dall’architetto Michelucci (stazione di Firenze, chiesa dell’Autostrada ecc.) che è come me un maniaco dell’arte anonima e del lavoro d’équipe. Parlava per es. dei maestri comacini, dei mosaicisti cristiani, delle cattedrali gotiche, delle ferrovie e dell’Autostrada (ponti ecc.), tutte opere di scuola e non di autore. E poi del cinema in cui tutti sono abituati a vedere decine e decine di nomi di cui nessuno riesce esattamente a scindere cosa ha fatto ognuno (registi, soggettisti, dialogo, fotografia, musica, costumi, attori…): in conclusione si ricorda forse il nome del regista, ma è per esempio pacifico che il soggetto cioè il contenuto cioè talvolta il più non è suo. Ora la prefazione di Michelucci è risultata troppo difficile per i lettori che noi vogliamo e così ho chiesto a quel sant’uomo se potevo non metterla. Resta però il problema che per me è fondamentale. Io sono in pessime condizioni. Non solo sono a letto da un anno, ma da mesi sono disteso orizzontale e dormicchiante. Stamani colgo un raro momento in cui riesco a star su per scriverti. Se i lettori maliziosi potessero vedermi capirebbero subito che anche in letteratura si può lavorare in équipe come in cinema e in architettura. Ma non possiamo insistere sul patetico. Mi occorre dunque che un giornale o due diano per scontato che questo è un lavoro dei ragazzi. Che è un modo nuovo di scrivere e che è l’unico vero e serio. Quello che sembra lo stile personalissimo di don Milani è solo lo stare per mesi su una frase sola togliendo via via tutto quello che si può togliere. Tutti sanno scrivere così purché lo vogliano. È solo un problema di non pigrizia. Su questo libro potevamo stare ancora dei mesi e farlo diventare opera d’arte fino in fondo, ma son cose che invecchiano troppo presto e così abbiamo deciso di buttarlo fuori così. Se vuoi maggiori chiarimenti sulle tecniche del lavoro d’équipe dimmelo. Ma devi far qualcosa per me. Prima di tutto perché è vero quello che ti dico cioè che il lavoro è tutto dei ragazzi salvo la mia regia (ma regia da povero vecchio moribondo). Poi perché non voglio morire signore cioè autore di libro, ma con la gioia che qualcuno ha capito che per scrivere non occorre né genio né personalità perché ci sono regole oggettive che valgono per tutti e per sempre e l’opera è tanto più arte quanto più le segue e s’avvicina al vero. Così la classe operaia saprà scrivere meglio di quella borghese. È per questo che io ho speso la mia vita e non per farmi incensare dai borghesi come uno di loro. O peggio per far dire ai maliziosi che ho fatto firmare ai ragazzi per evitare le complicazioni dell‘imprimatur. Insomma io non so se son riuscito a spiegarti cosa voglio perché come ti dicevo sono addormentato dalla mattina alla mattina, ma se puoi fare qualcosa per me in questo senso te ne sarò grato. Se non hai capito bene vieni per piacere a rifartelo spiegare a voce. Ci tengo sopra a ogni cosa. È un dovere che ho verso i ragazzi. Un abbraccio, tuo

Lorenzo

[Il libro esce i primi di maggio o poco dopo.]

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Testo tratto da:

Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana, a cura di Michele Gesualdi, Milano, A. Mondadori (collana Oscar n° 431), 1976 [1ª Edizione: 1970]; pp. 273-275. (Corsivi dell’Autore)

“ Le ondate antiscientiste dipendono, epoca per epoca, da scarse confidenza e dimestichezza con le scienze. È vero che si ha paura di ciò che non si capisce esattamente come abbiamo paura del buio, ma è vero altrettanto che esiste qualcosa chiamato scuola italiana. Il Piano nazionale informatica (Pni), voluto da Franca Falcucci, ministro dell’Istruzione, a metà degli anni Ottanta, era stato pensato per insegnare i rudimenti di programmazione a studenti e studentesse delle scuole superiori. Cosí è stato per molti, e per me. Mi sono diplomata nel 1996 al Liceo Scientifico Leon Battista Alberti di Minturno, indirizzo Pni, sapendo programmare in Pascal, e conoscendo rudimenti di Assembler. La riforma di Letizia Moratti, ministro dell’Istruzione, a circa vent’anni dal Piano nazionale informatica, propagandava – non trovo esatto nessun altro verbo – la scuola delle «tre I». Impresa, Inglese e Informatica (non ricordo in che ordine). In questa nuova idea di informatica, studenti e studentesse, cittadini e cittadine a venire, non erano piú chiamati a programmare ma a conseguire la Ecdl (European Computer Driving Licence), dunque a imparare l’utilizzo di un pacchetto applicativo. Imparare a essere utenti consapevoli. Utenti e non programmatori. La riforma Falcucci e quella Moratti sono antipodali rispetto all’idea di istruzione e, in fondo, anche a quella di cultura. Nella proposta Falcucci, la teoria e la prassi dell’informatica si compenetrano e si rafforzano. A scuola si impara cioè che teoria e prassi non hanno differente natura e, dal punto di vista culturale, il principio che passa è che alla cultura si partecipa. La cultura non è intoccabile, altra e irraggiungibile, la cultura è fatta da chi e con chi vi partecipa. La scienza stessa è cultura, e dobbiamo lavorare perché questa coscienza la abbiano tutti. Gli studi scientifici hanno sbocchi tecnologici, l’avanzamento tecnologico richiede studi scientifici, e si impara dunque, giorno per giorno, che la tecnologia non coincide con i dispositivi. L’indirizzo della riforma Moratti è diverso, l’effetto è quello dei signori viaggiatori divenuti gentili clienti negli annunci sonori sui treni. Il fine appare non tanto la comprensione e il contributo del singolo, ma il completamento di un percorso volto a ottenere un titolo, un marchio, un bollino (torniamo al discorso sulle merci). Partecipare o ricevere, pensare di poter contribuire o non pensarci affatto. Giocare o eseguire. Esercitarsi a capire o trovare la soluzione. Cercare la soluzione o avere ragione. Esseri umani considerati viventi o merci non viventi. Ha vinto la riforma Moratti. “

Chiara Valerio, La tecnologia è religione, Einaudi (Collana Vele, n° 208), marzo 2023; pp. 45-47.

“ Dovevo ben insegnare come il cittadino reagisce all’ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto. Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande «I care». È il motto intraducibile dei giovani americani migliori. «Me ne importa, mi sta a cuore». È il contrario esatto del motto fascista «Me ne frego». Quando quel comunicato* era arrivato a noi era già vecchio di una settimana. Si seppe che né le autorità civili, né quelle religiose avevano reagito. Allora abbiamo reagito noi. Una scuola austera come la nostra, che non conosce ricreazione né vacanze, ha tanto tempo a disposizione per pensare e studiare. Ha perciò il diritto e il dovere di dire le cose che altri non dice. È l’unica ricreazione che concedo ai miei ragazzi. Abbiamo dunque preso i nostri libri di storia (umili testi di scuola media, non monografie da specialisti) e siamo riandati cento anni di storia italiana in cerca d’una «guerra giusta». D’una guerra cioè che fosse in regola con l’articolo 11 della Costituzione. Non è colpa nostra se non l’abbiamo trovata. Da quel giorno a oggi abbiamo avuto molti dispiaceri. Ci sono arrivate decine di lettere anonime di ingiurie e di minacce firmate solo con la svastica o col fascio. Siamo stati feriti da alcuni giornalisti con «interviste» piene di falsità. Da altri con incredibili illazioni tratte da quelle «interviste» senza curarsi di controllarne la serietà. Siamo stati poco compresi dal nostro stesso Arcivescovo (Lettera al Clero 14.4.1965). La nostra lettera è stata incriminata. Ci è stato però di conforto tenere sempre dinanzi agli occhi quei 31 ragazzi italiani che sono attualmente in carcere per un ideale. Cosi diversi dai milioni di giovani che affollano gli stadi, i bar, le piste da ballo, che vivono per comprarsi la macchina, che seguono le mode, che leggono giornali sportivi, che si disinteressano di politica e di religione. Un mio figliolo ha per professore di religione all’Istituto Tecnico il capo di quei militari cappellani che han scritto il comunicato. Mi dice di lui che in classe parla spesso di sport. Che racconta di essere appassionato di caccia e di judo. Che ha l’automobile. Non toccava a lui chiamare «vili e estranei al comandamento cristiano dell’amore» quei 31 giovani. I miei figlioli voglio che somiglino più a loro che a lui. “

* L'11 febbraio 1965 un gruppo di cappellani militari in congedo della Toscana, riunitisi in assemblea a Firenze nell’anniversario della conciliazione tra Stato e Chiesa, votarono un ordine del giorno in cui dichiaravano, fra l’altro, di considerare «un insulto alla Patria e ai suoi Caduti la cosiddetta “obiezione di coscienza”, che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà». L’ordine del giorno, pubblicato dal quotidiano «La Nazione» di Firenze, fu fatto conoscere a don Lorenzo da alcuni giovani di San Donato e da un amico professore di Prato saliti a Barbiana la domenica successiva. Il Priore stava facendo scuola. Lesse il ritaglio del giornale insieme ai ragazzi. Se ne discusse un’intera serata, e maturò così la «Lettera ai cappellani militari toscani che hanno sottoscritto il comunicato dell'11 febbraio 1965». La Lettera, firmata da don Lorenzo, venne diffusa a stampa in forma di volantino e fu riprodotta parzialmente da vari giornali e per intero dal settimanale del P.C.I. «Rinascita» [ Nota del curatore ].

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Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana, a cura di Michele Gesualdi, Mondadori (collana Oscar n° 431), 1976; pp. 213-214.

[1ª Edizione: 1970]

“ La mancata educazione delle pulsioni confina i ragazzi, fin dalla tenera età, a esprimersi unicamente con i gesti, invece che con le parole e i ragionamenti. Ne sono un esempio i cosiddetti “bulli”, coloro che compiono azioni riprovevoli senza la minima consapevolezza della gravità delle loro azioni. Come già abbiamo ricordato, Kant dice che: «La differenza tra il bene e il male potremmo anche non definirla perché ciascuno la ‘sente’ naturalmente da sé» [I. Kant, Metafisica dei costumi, § 23: “Dottrina delle virtù”]. Nel caso del bullo questo “sentire” è deficitario, perché chi ne soffre non ha mai incontrato momenti educativi che gli avrebbero consentito di avvertire quel­l’immediata risonanza emotiva che di solito accompagna i nostri comportamenti. Alludo a quella risonanza emotiva [...] che fin da bambini provavamo quando la mamma ci raccontava le fiabe, anche truci, perché i bambini non vanno esonerati dalla conoscenza del male e neppure dal lutto, che capiranno nei limiti della loro età, ma non ne saranno sorpresi, senza sapere come reagire, quando la vita li metterà di fronte a queste manifestazioni. Ascoltando quelle fiabe o accompagnati nella lettura dalle nostre mamme imparavamo, più per via emotiva che mentale, la differenza tra il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, il buono e il cattivo, acquisendo in tal modo un regolatore emotivo che ci consentiva di “sentire” quando le nostre azioni erano buone o cattive, giuste o ingiuste. Senza un’educazione emotiva, oltre a non avere un’immediata consapevolezza della bontà o meno delle nostre azioni, si rimane a livello pulsionale, con una pericolosità sociale che la cronaca nera di ogni giorno non cessa di illustrarci. Come si comporta la nostra scuola nei confronti dei “bulli”, che sono poi quei ragazzi il cui sviluppo psichico si è arrestato a livello pulsionale? Li sospende dalla frequenza scolastica, togliendo loro l’unica opportunità che in quegli anni hanno per poter emanciparsi e passare dal livello pulsionale al livello emotivo. Dovrebbero invece essere più accuditi, meglio curati affinché possano acquisire la consapevolezza delle loro azioni, in modo da sentirle risuonare dentro di loro come buone o cattive, come gravi o lievi. “

Umberto Galimberti, Il libro delle emozioni, Feltrinelli (collana Serie bianca), settembre 2021. [Libro elettronico; corsivi dell’autore]

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