UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BARI ‘ALDO MORO’
Dipartimento di Lettere Lingue Arti.
Italianistica e Culture comparate
REGIONE PUGLIA
Assessorato
al Mediterraneo, Cultura, Turismo
CUTAMC
Cento Universitario di ricerca per il
Teatro, le Arti visive,
la Musica e il Cinema
IL PRINCIPE E LE SCENE
Metafore del potere fra antico e moderno
a cura di Monia De Bernardis
Presentazione di Grazia Distaso
interventi di
G. Bonifacino, L. Bosco, S. Bronzini, D. Canfora,
S. Castellaneta, R. Cavalluzzi, C. Consiglio, C. Corfiati,
M. De Bernardis, D. Defilippis, G. Dell’Aquila,
C. Fanelli, O. Imperio, A. Iurilli, D. Lassandro,
M. Leone, F.S. Minervini, L. Mitarotondo,
F. Nardi, R. Palmieri, D.M. Pegorari,
R. Ruggiero, A.B. Saponari, F. Tateo, P. Totaro
Stilo Editrice
Collana Mosaico. Studi e ricerche
SOMMARIO
Presentazione di Grazia Distaso
Volume pubblicato con il contributo della Regione Puglia.
Assessorato al Mediterraneo, Cultura, Turismo
EBOOK ISBN 978-88-6479-139-5
© STILO EDITRICE DICEMBRE 2014
www.stiloeditrice.it
In copertina Juan de Juanes, Ritratto di Alfonso V, olio su tela,
1510 ca.
7
Il palazzo e le voci. In margine al testo di Italo Calvino
11
Un re in ascolto di Giuseppe Bonifacino
Il morbo, il coro, il sovrano: la fragile legittimità del potere
nel frammento drammatico Robert Guiskard
di Heinrich von Kleist di Lorella Bosco
19
«Ambition’s debt is paid»: il merito dell’imperfezione
in Julius Caesar di Shakespeare di Stefano Bronzini
29
Ornati prodeunt in scenam: riflessioni umanistiche
sul potere di Davide Canfora
57
Federico II, Pier della Vigna e lo specchio infranto.
Su La Vittoria di Pomponio Torelli di Stella Castellaneta
65
Clizia o gli affanni del declino di Raffaele Cavalluzzi
81
Privato e pubblico: l’equilibrio della scena shakespeariana
di Cristina Consiglio
87
La fortuna e la storia: figure tragiche
in Tristano Caracciolo di Claudia Corfiati
99
Potenti e sapienti nelle tragedie di Gianvincenzo Gravina
di Monia De Bernardis
109
Roma 1514: il potere in scena di Domenico Defilippis
119
Un Edipo novecentesco: La serata a Colono
di Elsa Morante di Giulia Dell’Aquila
131
Il «dispositivo» politico della festa rinascimentale
di Carlo Fanelli
143
Metamorfosi del potere nella tragedia greca:
l’Edipo Re e l’Edipo a Colono di Sofocle
di Olimpia Imperio
155
Potenti e faziosi in una metafora ‘teatrale’
di Antonio Galateo di Antonio Iurilli
169
«Numa… simulò di avere congresso con una ninfa,
la quale lo consigliava…» (N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio I, 11, 10)
di Domenico Lassandro
181
Tacitismo in versi. Il caso della Polinnia (1628)
di Alessandro Adimari di Marco Leone
Simulazioni e machiavellismi nel teatro
del Seicento di Francesco S. Minervini
Agli orecchi dei Principi. La rappresentazione
della sovranità nell’Eco politica di Scipione Coppa
di Laura Mitarotondo
Le maschere e la corona. Mecenati e comici dell’Arte
tra Cinque e Seicento di Florinda Nardi
Potere e crudeltà in Puccini: Turandot e il
principino di Persia di Rossella Palmieri
«È la vita che resta sul campo»: Mario Luzi
e la crudele autonomia del teatro di Daniele M. Pegorari
Il Segretario dietro le quinte. Rappresentazioni teatrali
del potere negli incontri fra Machiavelli e il Valentino
di Raffaele Ruggiero
Il racconto intermediale del potere: Macbeth
di Orson Welles di Angela B. Saponari
Principi aragonesi in scena di Francesco Tateo
Potere in scena nel prologo del Prometeo
di Piero Totaro
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SIMULAZIONI E MACHIAVELLISMI
NEL TEATRO DEL SEICENTO
di Francesco Saverio Minervini
In un momento di così profonda attenzione alla virtù, alle possibilità ma anche alle storture della società dell’immagine, appare
forte (per coloro che per sensibilità e formazione siano abilitati
a tale ricezione) il richiamo al Seicento, a un secolo attento come
nessun altro periodo storico-letterario alla cura e all’analisi
dell’esteriorità – e dunque assimilabile a certe deteriori tendenze della contemporaneità –, alla fenomenologia non solo della
realtà effettiva, ma soprattutto di una realtà potenziale.
La simulazione (sia intesa nel suo valore assoluto, sia declinabile nella pur plausibile lessione della ‘dissimulazione’) informa di
sé il XVII secolo, e si muove nelle pieghe recondite dei multiformi ambiti dell’agire umano, dalla sfera privata a quella pubblica,
dalla politica alla retorica, dalla scienza al teatro. I presupposti di
una siffatta vocazione all’alterità del reale (cosa diversa ma non
distante dalla falsità) trascendono la tradizionale considerazione
sull’inquietudine di manifestare la verità (si pensi al diffuso nicodemismo e alle pulsioni eretiche ed esoteriche in campo religioso
e ilosoico) e si appuntano intorno ad un’ansia di conformismo
(anch’esso esteriore per disposizione naturale) alla regola dominante in ambito morale, letterario, ilosoico, come già veriicatosi alla ine del secolo precedente. Nel mondo della politica la
simulazione aveva trovato il proprio emblema nel machiavellismo, cui hanno guardato a vario titolo autori noti e meno noti
i quali, raccogliendo e rimaneggiando l’idea della simulazione,
hanno indicato principalmente due vie distinte: la prima, è volta
a intendere la falsità e l’inganno quale imprescindibile strumento
di governo e di dominio (o più semplicemente mascherandone il
frequente ricorso con il pretesto della ragion di stato), la seconda,
invece, la autorizza quale consapevole esercizio letterario, ovvero
razionale mistiicazione di un canone di poetica.
203
Complessivamente una simulazione (persino nella sua versione di dissimulazione) resta pur sempre espressione di una crisi;
per questo motivo, la deviazione verso la follia, verso l’isolamento della malattia tardo-rinascimentale (malinconia, melancolia,
pazzia, insania, magia, occultismo poco importa), verso il pensiero patologico divenne una tentazione troppo forte per non
soggiacere prima alla seduzione seicentesca, e dopo alla risoluta
disciplina dell’Illuminismo.
L’arte supplisce al difetto della natura, Bonifacio. Or, poi
ch’a la mal’ora non posso far che questa traditora m’ame, o
che al meno mi remiri con un simulato amorevole sguardo
d’occhio, chi sa, forse quella che non han mossa le paroli
di Bonifacio, l’amor di Bonifacio, il veder spasmare Bonifacio, potrà esser forzata con questa occolta ilosoia. Si dice
che l’arte magica è di tanta importanza che contra natura
fa ritornar gli iumi a dietro, issar il mare, muggire i monti,
intonar l’abisso, proibir il sole, despiccar la luna, sveller le
stelle, toglier il giorno e far fermar la notte; però l’Academico di nulla Academia, in quell’odioso titolo e poema smarrito, disse:
Don’a’ rapidi iumi in su ritorno,
smuove de l’alto ciel l’aurate stelle,
fa sii giorno la notte, e nott’il giorno.
E la luna da l’orbe proprio svelle
e gli cangia in sinistro il destro corno,
e del mar l’onde ingonia e issa quelle.
Terr’, acqua, fuoco et aria despiuma,
et al voler uman fa cangiar piuma.
(G. BRUNO, Candelaio, I, II)
Nelle scene iniziali del Candelaio, Giordano Bruno pare avere
argutamente racchiuso nel breve volgere di una battuta la profonda sapienza della sua ilosoia, l’estensività dei concetti oggetto della nostra attenzione. La speculazione del Nolano per-
204
mette, infatti, di comprendere sotto l’ampia egida dell’ars (chiaramente una vox media) la tribolazione tardo-rinascimentale di
una nuova società dell’immagine, da un lato deinitivamente
versata nella ‘cultura dell’apparenza’, dell’esteriorità icta, artiiciosamente creata, e dall’altro, condannata a un’aspirazione
alla verità, costantemente negata, perennemente segnata dalla
fallacia della stessa apparenza. In un’epistola a Madama Cristina
di Lorena, Galileo Galilei chiamerà l’auctoritas di Sant’Agostino
(Genesis ad literam, libro I, cap. 21) per abiurare (sarà il caso di
dirlo) la ipocrita sapienza, la ilosoia verbosa e vuota, la falsa
religio:
atque ita teneamus idem Domini nostri, in quo sunt absconditi omnes thesauri sapientiae, ut neque falsae philosophiae loquacitate seducamur, neque simulatae religionis
superstitione terreamur.
La scrittura ilosoica e la ricerca della sapienza indicano che
la manipolazione della verità, una ricercata simulazione e un’artiiciosa menzogna non vanno distaccate da un superno concetto di etica, né dall’aspirazione a una più ampia diffusione della
stessa.
Due sono i territori segnatamente marcati, e direi istituzionalmente creatisi proprio nell’alveo dell’alterazione della realtà,
della falsità: la politica con la trattatistica ad essa connessa, ed
il teatro.
Per ragioni di spazio e di opportunità, e soprattutto alla luce
dei rafinati contributi contenuti in questo volume, procediamo
in medias res, focalizzando il nodo della simulazione.
Io tratterei pur della simulazione e spiegherei appieno
l’arte del ingere in cose che per necessità par che la ricerchino; ma tanto è di mal nome che stimo maggior necessità
il farne di meno, e, benché molti dicono: Qui nescit ingere
nescit vivere, anche da molti altri si afferma che sia meglio
morire che viver con questa condizione.
205
L’incipit del trattato di Torquato Accetto richiama il soisma
di matrice platonica (Platone, Soista, 260c, 3-4) secondo cui il
falso dei discorsi si origina dal falso del pensiero, da quella alterità tra due opzioni che si concentra nelle scelte stesse effettuate
dalla mente: da un lato il falso, dall’altro il vero. La semplicità
dialettica dello schema contrastivo vero-bene/menzogna-male
era già stata distesamente trattata da Aristotele in Metaisica,
1027b, in senso propriamente logico-noologico:
il vero ed il falso non sono nelle cose (quasi che il bene fosse
il vero e il male senz’altro il falso), ma solo nel pensiero;
anzi, per quanto concerne gli esseri semplici e le essenze,
non sono neppure nel pensiero.
Aristotele annoverava tra le ‘scienze pratiche’ l’etica, che ha per
ine l’agire, e la politica, considerata nella sua forma che mira non
alla prassi effettuale, ma alla determinazione del ine (bene supremo dell’uomo) il quale deinisce il requisito morale di ogni azione;
poiché l’etica, dunque, ha per oggetto «realtà che possono essere
diversamente da quelle che sono» e «la cui modalità di esistenza non
è la necessità assoluta ma la contingenza», trattando dell’«anonima
virtù di chi dice il vero nelle relazioni sociali» (Etica Nicomachea, IV,
13, 1127 a, 19-30), Aristotele attribuiva un giudizio biasimevole alla
menzogna (turpe di per sé), e celebrava la verità bella e lodevole:
Parliamo ora di coloro che sono veri o falsi tanto nelle
parole che nelle azioni, vale a dire nel darsi a vedere. Ora
è unanimemente riconosciuto che il millantatore è persona
incline a dare a vedere i titoli di gloria che non possiede; il
dissimulatore, al contrario, nega le qualità che possiede, o
le rende minori; chi tiene il giusto mezzo, essendo un tipo
d’uomo senza artefatti, è persona incline alla verità sia nella
sua vita che nella sua parola, la quale riconosce di aver le
qualità che possiede e non le fa né maggiori né minori. […]
Così anche chi è incline alla verità, essendo persona che tiene la via di mezzo, è lodevole, mentre entrambi coloro che
sono falsi sono biasimevoli, ma di più lo è il millantatore.
206
Una singolare trasformazione della falsità in vera e propria
techné si trova nell’Ippia minore (366b-368a), in cui Platone
esalta la superiore abilità del saggio che, versato nell’arte del
mentire, può scegliere di dire il falso o il vero, proprio per il
fatto che ha una perfetta contezza di entrambe le opzioni:
la stessa persona è menzognera e verace, e colui che dice il
vero non è affatto migliore di chi dice il falso (366 c-d). […]
mendaci sono coloro che sanno e che, perciò, sono capaci
di mentire […]. Un uomo, dunque, incapace di mentire ed
ignorante, non sarebbe mendace (366 b).
A questo proposito giova ricordare che è stata ricostruita la
presenza di una «menzogna farmaceutica» nel teatro di Molière
e Corneille, secondo una teoria che potrebbe produrre risultati altrettanto interessanti se la si estendesse alla corrispondente
produzione letteraria italiana, anche alla luce di quel ‘pensare
per contrari’ rinascimentale di cui ci ha dato un recente saggio Michele Ciliberto: muovendo dall’accostamento proprio
tra Bruno e Machiavelli (quest’ultimo uno degli autori preferiti
dal Nolano), il pensiero del ilosofo campano viene sollevato
a chiave di interpretazione di tutto il Rinascimento; da queste
premesse poi si ingenera una messe di controversie che rientra
nella tradizione contra mendacium, contra hypocritas, de vero et
falso bono su cui non ci si soffermerà in questa sede.
Non dovremo, inine, dimenticare che accanto all’illustrazione
di Accetto (1641) si dovrà restituire la giusta considerazione anche
all’Arte della prudenza di Baltasar Gracián che, sebbene pubblicata
qualche anno più tardi (1647) e in un differente contesto geograico, costituisce col trattato del tranese un’endiadi speculativa; e,
in verità, per completezza esegetica, si dovrebbe valutare anche il
saggio di Francis Bacon Of Simulation and Dissimulation (1625),
al ine di perfezionare l’articolata ‘strategia del velo’ che lega queste opere e nella quale si scoprono talune inluenze neoplatoniche.
Non si tratta, infatti, solo di una casuale «emblematica epifania di
parole» (come ha indicato Giorgio Manganelli in commento all’edi-
207
zione dell’Accetto curata da Salvatore Silvano Nigro), bensì di una
corrispondenza sistemica di prospettive, in cui si cela un condiviso
proponimento esegetico. Proprio la realtà circostante sembra, infatti, auspicare e perino esigere un più marcato ricorso allo strumento
della simulazione, e in particolare alla alterazione di verità psicologiche (o psichiche) o di autenticità politica, sia nella dimensione del
reale sia nella realtà rappresentata.
Tra la ine del Cinquecento e gli inizi del Seicento, Cristoforo
Sicinio, un sacerdote e drammaturgo reatino, si ricollega alla
tradizione retorico-oratoria della simulazione e approfondisce
il ilone ‘straniante’ della follia, la più drammatica forma di alterazione delle capacità razionali e perciò sicuro appannaggio
– come sosteneva Platone nell’Ippia minore – degli uomini più
saggi e dei condottieri più persuasivi; ecco alcuni passaggi del
Pazzo into, una commedia stampata a Roma nel 1603, la quale
segue un’altra opera comica del Sicinio sullo stesso tema (La
pazzia del 1581), ma ancora legata al concetto di insania per
amore riconducibile alla corrente cortigiana di ascendenza boiardesca e ariostesca.
L’eccellenza della qual pazzia, conoscendola i savij, spesse
volte si inser pazzi, come tra ininiti fece il facondo, ricco
di esperienza, e di consiglio, e nelle fatiche pazientissimo
Ulisse, il quale per godere questa pazzia in parte, si inse una
volta anch’egli pazzo, come sapete. […]
Chi è pazzo vive in libertà: può dire ciò che vuole di ciascuno senza ricevere pugnalate. Lascia passare vinticinque
hore per giorno. Senz’artiicio di Rettorica tutti con diletto
l’ascoltano. Non languisce per amor di donne. Non paga
sussidij. Non si fa servo di signori indiscreti. Non attende
a liti. Non conosce puntelli d’honore. I pazzi insomma son
cosa più che universale. Hanno spirito mattesco pronosticativo del futuro, e di qui nasce che tanto se ne dilettano molti,
i Principi li tengono cari, e per divisar co i pazzi, lasciano da
banda spesso huomini di gran stima e virtuosissimi.
(C. SICINIO, Il pazzo into, Prologo)
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Questo ‘spirito mattesco’, dunque, si presenta come una scelta lucidamente consapevole, e peraltro perseguita (come mostra
l’esempio divenuto canonico di Ulisse), proprio da coloro che
posseggono i più sottili strumenti della persuasione retorica.
Alla metà del secolo XVII troviamo, invece, talune convergenze in forma di sintesi tra insania e potere: nella commedia di
Giacomo Castoreo (un drammaturgo veneziano poi passato a
«pubblici maneggi» e, dunque, immediatamente interessato alla
ricaduta ‘effettuale’ e politica della produzione letteraria) Il pazzo politico (rappresentata a Venezia nel 1659) Ariaspe, re del
Ponto, è vittima di una duplice insania; la prima, dovuta alla
sconitta politica sofferta con grave onta da parte del re di Armenia, Artabace, e la seconda, originata dall’impossibile amore
(seppur ricambiato) per Dianisbe, iglia del suo nemico. Ebbene, un idato consigliere (un altro topos machiavellico) suggerisce ad Ariaspe di «ammantare sotto inte follie» (atto I, scena
XIV) la reale condizione, abdicando la propria razionalità e i
propri sentimenti:
nelle scole del Regno
chi non impara a ricoprir il vero
con bugie simulate,
la scienza di regnar mai non apprende.
(G. CASTOREO, Il pazzo politico, atto IV, scena XII)
Ed è proprio per queste ragioni che, come indicava sin già
nella presentazione dell’opera,
si inge Pazzo; da che assicurato Artabace, si persuade lasciarlo vivo. Egli, vedendo con gl’occhi proprij a negoziar
quei trattati, che le toglievano la speranza d’esser più Rege,
opera in modo (sotto la maschera di queste sciocchezze) che
con l’Armi proprie de’ suoi Collegati, opprime Artabace, e
si racquista di novo il Regno.
209
Non diversamente dal testo di Castoreo, ritroveremo qualche
decennio più tardi la medesima sovrapposizione tra follia e politica in un dramma per musica di Antonio Salvi, Il pazzo per politica, rappresentato a Livorno nel 1717; secondo la ricostruzione
di Francesco Giuntini (curatore di una monograia sui libretti
di Salvi), questo dramma dovrebbe in realtà essere una riduzione in versi dell’opera del monaco camaldolese Giacinto Maria
Crocetti (1639-1689) intitolata La pazzia politica di Roberto re
di Sicilia e pubblicata nel 1689 con lo pseudonimo di Tirinto
Accademico Rinato; Il pazzo per politica di Salvi racconta il tentativo da parte di Roberto e del suo idato consigliere Rodrigo,
che si inge servo, di rientrare in possesso del Regno che versava
nelle mani di Alfonso «tiranno di Sicilia», iglio del re di Napoli;
anche in questo caso l’inganno e la simulazione della follia (cui
si afianca nuovamente il termine topico della prudenza di Machiavelli, di Accetto, di Gracián) divengono uno strumento di
costruzione del tessuto drammaturgico tra veli di realtà, ombre,
false sembianze e capovolgimenti di verità, reali e sceniche:
Rodrigo: Tu nel vel di pazzia rimani involto.
Roberto: Già sono, e me ne pregio.
Rodrigo: Servo per genio.
Roberto: Io per prudenza stolto.
Roberto: Della follia col manto ammanto la ragione.
Rodrigo: Di servitù col velo
celo la maestà.
Roberto: Amico, e che sarà?
il ciel seconderà sì bell’inganno.
Rodrigo: Gloria è la servitude.
Roberto: Virtude, è la follia,
la frode è carità;
Ch’al cielo non si fa
Sacriizio miglior d’un re tiranno
(A. SALVI, Il pazzo per politica, atto I, scena III)
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Roberto: Don Carlo? Io quei non sono.
Chi lo dice è mendace, e menzognero.
E voi chi siete ?
Alfonso: A tue bisogne pronto,
Son di Sicilia il Re.
Roberto: Voi? Non è vero
Giove non approvò; su quel fatale
Libro non vi segnò. La Sorte sola
V’elesse, e vi donò nome reale.
Il Re son io, e questa,
questa è la mia corona.
(A. SALVI, Il pazzo per politica, atto I, scena VI)
In tale passaggio della rappresentazione drammaturgica solamente il pubblico e l’autore riescono a dominare la perfetta
verità e le sue più recondite sfaccettature contenute nelle parole
capovolte del pazzo, permettendo così di introdurre gli spettatori o gli eventuali lettori all’interno del gioco della ictio poetica, cioè di un’altra consapevole alterazione dell’oggettività (reale e drammaturgica insieme): perciò, quello che i personaggi del
dramma compiono sulla scena non è una piena verità, ma una
realtà molteplicemente icta, ovvero falsa perché alterata dalle
parole di un pazzo, simulata per la stringente necessità politica,
alterata nella dimensione drammaturgico-poetica.
Nel 1660 viene rappresentata a Venezia con le musiche di
Francesco Cavalli nel teatro di Sant’Apollinare «per virtuosa
ricreatione delli Signori Academici Imperturbabili» La pazzia
in trono overo Caligola delirante. L’opera di stile recitativo,
frutto della feconda penna di Domenico Gisberti (1635-1677),
segretario e poeta di corte presso il duca Ferdinando Maria di
Baviera, è imperniata sulla igura di «una bestia mascherata da
Imperadore», la quale «delirante per colpa di Cesonia, l’Imperadrice consorte, imperocché ella per farsi amare, gli diede
una bevanda che lo privò dell’uso della ragione». Per brevità,
non credo sia necessario evidenziare certi echi mandragoliani,
cui ben si unisce, ancora in ottica machiavelliana, una sinto211
matica esclamazione: «quant’è vero, che la Corte / è il macello
dell’onore».
Dunque, l’antica massima Qui nescit dissimulare, nescit imperare subisce una decisa trasformazione sino a estendere la validità del dettato etico alla mera quotidianità di ogni individuo,
Qui nescit ingere nescit vivere appunto; le inevitabili variazioni
trovano un’eficace attestazione nel tessuto culturale (oltre che
ideologico) delle scene di ine Seicento. Alcuni aspetti interessanti si colgono, infatti, in un gruppo di opere che ratiicano
l’ineluttabilità della inzione sia nell’economia del potere, sia
per la sussistenza della stessa vita: l’opera scenica Il ingere per
vincere del nobile napoletano di origini senesi Ignazio Capaccio (stampata a Napoli nel 1697 nella stamperia di Porpora e
Troyse), l’azione scenica anch’essa intitolata Fingere per vincere
di Pietro Mancuso (1636-1713) edita a Palermo per Domenico
Cortese nel 1705 e Il ingere per vivere di Raffaele Tauro pubblicata a Napoli nel 1673 presso De bonis.
Ebbene, in queste opere drammaturgiche, non importa se
note, poco note o neglette, e pur differenti per committenza,
composizione e destinazione (sebbene in esse si possa riconoscere la traccia uniicante del diffuso teatro di imitazione spagnoleggiante) si attua lo scarto inale: la inzione non è più solo
denunciata nella sua ingombrante e ineluttabile presenza nella
vita (quella reale falsa e quella icta simulata); essa è divenuta
(proprio perché ineludibile) uno strumento non più utile esclusivamente alla gestione del potere, ma connotata ora come il
sofio vitale per l’esistenza stessa (o la sopravvivenza) dell’uomo.
Possiamo perciò afidare le conclusioni del discorso ad un
passo de Il ingere per vivere, dramma di Raffaele Tauro, accademico degli Iniammati della città di Bitonto. Si tratta di un
monologo del Principe (di fronte ha il Conte di Argiro, fratello
di Lucinda, donna di cui è innamorato) e contiene massime sentenziose dalla validità attuale in ogni tempo.
Non è cieca la notte, se tanto vede, né sono io cieco fra
l’ombre, se tanto vedo di notte, cieca è la mia perversa Ma-
212
drigna, che non vede il proprio decoro, e pensa di occiecare
il mio, non si viddero mai le Regie piene di veleno, se non
col iato di queste Arpie, né l’aure serene di prosperosa Corte soffrir contagio lugubre, se non corrotte da fecciosi vapori di queste pesti. In cieca stanza trovo costui a sorte, cerco
saper chi sia, e tace, la mia Madrigna importuna risponde,
m’impedisce la riconoscenza, si frammette, s’inoltra, mostra
spiacerle l’incontro, mai sodisfatta si parte, argomenti so
io di poco honorevoli conseguenze, pur taccio, pur soffro,
pur celo il sospetto, pur m’oppongo alle morsicature della
maligna serpe con l’antidoto della intione, e penso col mio
sangue attossicato addormentar le furie, che m’agitano il
core, inché dalle sue importune maniere svegliato a tempo
opportuno, sia ministro di mie vendette. Soffrirò, tacerò, osservarò, ingerò, che la balia della prudenza è la simulatione,
e lo più ido gabinetto d’un Principe è un simulato letargo.
213
NOTA BIBLIOGRAFICA
Per la ricezione del pensiero machiavelliano in Giordano Bruno
si veda S. RICCI, ‘Fede’ e ‘dissimulazione’. Bruno lettore di Machiavelli nella crisi delle guerre di religione, «Filologia e critica»,
25, 2000, pp. 245-262. Le citazioni di Aristotele sono tratte dai
volumi della Metaisica, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano
2004, dell’Etica Nicomachea, a cura di M. Zanatta, BUR, Milano
2007; l’Ippia minore di Platone è stato letto nell’edizione a cura
di F. Adorno, Laterza, Bari 1971. Per il concetto ‘menzogna farmaceutica’ si è tenuto conto del volume curato da M.G. Profeti,
La menzogna, Alinea, Firenze 2008 e in particolare del saggio di
M. LOMBARDI, La menzogna farmaceutica in Corneille e Molière,
pp. 139-152, mentre il ‘pensare per contrari’ è la teoria contenuta nel volume di M. CILIBERTO, Pensare per contrari: disincanto e
utopia nel Rinascimento, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma
2005. Di ‘cultura dell’apparenza’ ha parlato A. QUONDAM, Tre
inglesi, l’Italia, il Rinascimento: sondaggi sulla tradizione di un
rapporto culturale e affettivo, Liguori, Napoli 2006; rimando
inoltre a G. FERRONI, ‘Sprezzatura’ e simulazione, in La corte e
il ‘Cortegiano’, Bulzoni, Roma 1980, 2 voll.: vol. I, La scena del
testo, a cura di C. Ossola, pp. 119-147. Il tema della simulazione
e della dissimulazione è stato diffusamente trattato: sono state
segnalate interessanti intersezioni culturali nelle Mappe della letteratura europea e mediterranea a cura di G.M. Anselmi (in particolare il capitolo curato da C. VAROTTI, Le teorie del comportamento, pp. 286-307 e il § 5. L’arte della simulazione). Si rimanda poi all’ultima edizione di T. ACCETTO, Della dissimulazione
onesta pubblicata insieme con le Rime a cura di E. Ripari, Bur,
Milano 2012; dell’Accetto si è consultata anche la prima edizione critica uscita a cura di S.S. Nigro, con la presentazione di
G. Manganelli, Costa&Nolan, Genova 1983 (poi 1990); si veda
anche M. LANDOLFI, La dissimulazione: ovvero il trionfo della
prudenza nell’opera di Torquato Accetto, «Riscontri», 24, 2002,
pp. 9-19; il testo di F. BACON, Of Simulation and Dissimulation è
214
stato letto nella traduzione italiana – Saggi – di A.M. Ancarani,
Sellerio, Palermo 1996. Interessanti richiami nell’opera di Traiano Boccalini si trovano in M. BILOTTA, Di lupi, agnelli e altri
animali: la simulazione tra etica e ragion di stato nei ‘Ragguagli di
Parnaso’, «Studi Secenteschi», 52 (2011), pp. 21-41. Per la storia
del pensiero della simulazione si veda anche P. D’ANGELO, Ars
est celare artem. Da Aristotele a Duchamp, Quodlibet, Macerata
2005. Le opere drammatiche citate nel presente saggio (e che
saranno argomento di una più distesa trattazione monograica)
sono state consultate sulle seguenti edizioni: C. SICINIO, Il pazzo
into. Comedia di Christoforo Sicinio da Tofia, appresso Stefano
Paolini, Roma 1603; C. SICINIO, La pazzia. Comedia di m. Christoforo Sicinio, per Antonio Colaldi, Roma 1588; G. CASTOREO,
Il pazzo politico, appresso Andrea Giuliani, Venezia 1659; A.
SALVI, Il pazzo per politica, nella Stamp. di S.A.R., ad istanza di
Domenico Ambrogio Verdi, Firenze 1717; inine per le opere
del Salvi si rimanda a F. GIUNTINI, I drammi per musica di Antonio Salvi: aspetti della riforma del libretto nel primo Settecento, il
Mulino, Bologna 1994.
215
SIMULAZIONI E MACHIAVELLISMI
NEL TEATRO DEL SEICENTO
di Francesco Saverio Minervini
In un momento di così profonda attenzione alla virtù, alle possibilità ma anche alle storture della società dell’immagine, appare
forte (per coloro che per sensibilità e formazione siano abilitati
a tale ricezione) il richiamo al Seicento, a un secolo attento come
nessun altro periodo storico-letterario alla cura e all’analisi
dell’esteriorità – e dunque assimilabile a certe deteriori tendenze della contemporaneità –, alla fenomenologia non solo della
realtà effettiva, ma soprattutto di una realtà potenziale.
La simulazione (sia intesa nel suo valore assoluto, sia declinabile nella pur plausibile lessione della ‘dissimulazione’) informa di
sé il XVII secolo, e si muove nelle pieghe recondite dei multiformi ambiti dell’agire umano, dalla sfera privata a quella pubblica,
dalla politica alla retorica, dalla scienza al teatro. I presupposti di
una siffatta vocazione all’alterità del reale (cosa diversa ma non
distante dalla falsità) trascendono la tradizionale considerazione
sull’inquietudine di manifestare la verità (si pensi al diffuso nicodemismo e alle pulsioni eretiche ed esoteriche in campo religioso
e ilosoico) e si appuntano intorno ad un’ansia di conformismo
(anch’esso esteriore per disposizione naturale) alla regola dominante in ambito morale, letterario, ilosoico, come già veriicatosi alla ine del secolo precedente. Nel mondo della politica la
simulazione aveva trovato il proprio emblema nel machiavellismo, cui hanno guardato a vario titolo autori noti e meno noti
i quali, raccogliendo e rimaneggiando l’idea della simulazione,
hanno indicato principalmente due vie distinte: la prima, è volta
a intendere la falsità e l’inganno quale imprescindibile strumento
di governo e di dominio (o più semplicemente mascherandone il
frequente ricorso con il pretesto della ragion di stato), la seconda,
invece, la autorizza quale consapevole esercizio letterario, ovvero
razionale mistiicazione di un canone di poetica.
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Complessivamente una simulazione (persino nella sua versione di dissimulazione) resta pur sempre espressione di una crisi;
per questo motivo, la deviazione verso la follia, verso l’isolamento della malattia tardo-rinascimentale (malinconia, melancolia,
pazzia, insania, magia, occultismo poco importa), verso il pensiero patologico divenne una tentazione troppo forte per non
soggiacere prima alla seduzione seicentesca, e dopo alla risoluta
disciplina dell’Illuminismo.
L’arte supplisce al difetto della natura, Bonifacio. Or, poi
ch’a la mal’ora non posso far che questa traditora m’ame, o
che al meno mi remiri con un simulato amorevole sguardo
d’occhio, chi sa, forse quella che non han mossa le paroli
di Bonifacio, l’amor di Bonifacio, il veder spasmare Bonifacio, potrà esser forzata con questa occolta ilosoia. Si dice
che l’arte magica è di tanta importanza che contra natura
fa ritornar gli iumi a dietro, issar il mare, muggire i monti,
intonar l’abisso, proibir il sole, despiccar la luna, sveller le
stelle, toglier il giorno e far fermar la notte; però l’Academico di nulla Academia, in quell’odioso titolo e poema smarrito, disse:
Don’a’ rapidi iumi in su ritorno,
smuove de l’alto ciel l’aurate stelle,
fa sii giorno la notte, e nott’il giorno.
E la luna da l’orbe proprio svelle
e gli cangia in sinistro il destro corno,
e del mar l’onde ingonia e issa quelle.
Terr’, acqua, fuoco et aria despiuma,
et al voler uman fa cangiar piuma.
(G. BRUNO, Candelaio, I, II)
Nelle scene iniziali del Candelaio, Giordano Bruno pare avere
argutamente racchiuso nel breve volgere di una battuta la profonda sapienza della sua ilosoia, l’estensività dei concetti oggetto della nostra attenzione. La speculazione del Nolano per-
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mette, infatti, di comprendere sotto l’ampia egida dell’ars (chiaramente una vox media) la tribolazione tardo-rinascimentale di
una nuova società dell’immagine, da un lato deinitivamente
versata nella ‘cultura dell’apparenza’, dell’esteriorità icta, artiiciosamente creata, e dall’altro, condannata a un’aspirazione
alla verità, costantemente negata, perennemente segnata dalla
fallacia della stessa apparenza. In un’epistola a Madama Cristina
di Lorena, Galileo Galilei chiamerà l’auctoritas di Sant’Agostino
(Genesis ad literam, libro I, cap. 21) per abiurare (sarà il caso di
dirlo) la ipocrita sapienza, la ilosoia verbosa e vuota, la falsa
religio:
atque ita teneamus idem Domini nostri, in quo sunt absconditi omnes thesauri sapientiae, ut neque falsae philosophiae loquacitate seducamur, neque simulatae religionis
superstitione terreamur.
La scrittura ilosoica e la ricerca della sapienza indicano che
la manipolazione della verità, una ricercata simulazione e un’artiiciosa menzogna non vanno distaccate da un superno concetto di etica, né dall’aspirazione a una più ampia diffusione della
stessa.
Due sono i territori segnatamente marcati, e direi istituzionalmente creatisi proprio nell’alveo dell’alterazione della realtà,
della falsità: la politica con la trattatistica ad essa connessa, ed
il teatro.
Per ragioni di spazio e di opportunità, e soprattutto alla luce
dei rafinati contributi contenuti in questo volume, procediamo
in medias res, focalizzando il nodo della simulazione.
Io tratterei pur della simulazione e spiegherei appieno
l’arte del ingere in cose che per necessità par che la ricerchino; ma tanto è di mal nome che stimo maggior necessità
il farne di meno, e, benché molti dicono: Qui nescit ingere
nescit vivere, anche da molti altri si afferma che sia meglio
morire che viver con questa condizione.
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L’incipit del trattato di Torquato Accetto richiama il soisma
di matrice platonica (Platone, Soista, 260c, 3-4) secondo cui il
falso dei discorsi si origina dal falso del pensiero, da quella alterità tra due opzioni che si concentra nelle scelte stesse effettuate
dalla mente: da un lato il falso, dall’altro il vero. La semplicità
dialettica dello schema contrastivo vero-bene/menzogna-male
era già stata distesamente trattata da Aristotele in Metaisica,
1027b, in senso propriamente logico-noologico:
il vero ed il falso non sono nelle cose (quasi che il bene fosse
il vero e il male senz’altro il falso), ma solo nel pensiero;
anzi, per quanto concerne gli esseri semplici e le essenze,
non sono neppure nel pensiero.
Aristotele annoverava tra le ‘scienze pratiche’ l’etica, che ha per
ine l’agire, e la politica, considerata nella sua forma che mira non
alla prassi effettuale, ma alla determinazione del ine (bene supremo dell’uomo) il quale deinisce il requisito morale di ogni azione;
poiché l’etica, dunque, ha per oggetto «realtà che possono essere
diversamente da quelle che sono» e «la cui modalità di esistenza non
è la necessità assoluta ma la contingenza», trattando dell’«anonima
virtù di chi dice il vero nelle relazioni sociali» (Etica Nicomachea, IV,
13, 1127 a, 19-30), Aristotele attribuiva un giudizio biasimevole alla
menzogna (turpe di per sé), e celebrava la verità bella e lodevole:
Parliamo ora di coloro che sono veri o falsi tanto nelle
parole che nelle azioni, vale a dire nel darsi a vedere. Ora
è unanimemente riconosciuto che il millantatore è persona
incline a dare a vedere i titoli di gloria che non possiede; il
dissimulatore, al contrario, nega le qualità che possiede, o
le rende minori; chi tiene il giusto mezzo, essendo un tipo
d’uomo senza artefatti, è persona incline alla verità sia nella
sua vita che nella sua parola, la quale riconosce di aver le
qualità che possiede e non le fa né maggiori né minori. […]
Così anche chi è incline alla verità, essendo persona che tiene la via di mezzo, è lodevole, mentre entrambi coloro che
sono falsi sono biasimevoli, ma di più lo è il millantatore.
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Una singolare trasformazione della falsità in vera e propria
techné si trova nell’Ippia minore (366b-368a), in cui Platone
esalta la superiore abilità del saggio che, versato nell’arte del
mentire, può scegliere di dire il falso o il vero, proprio per il
fatto che ha una perfetta contezza di entrambe le opzioni:
la stessa persona è menzognera e verace, e colui che dice il
vero non è affatto migliore di chi dice il falso (366 c-d). […]
mendaci sono coloro che sanno e che, perciò, sono capaci
di mentire […]. Un uomo, dunque, incapace di mentire ed
ignorante, non sarebbe mendace (366 b).
A questo proposito giova ricordare che è stata ricostruita la
presenza di una «menzogna farmaceutica» nel teatro di Molière
e Corneille, secondo una teoria che potrebbe produrre risultati altrettanto interessanti se la si estendesse alla corrispondente
produzione letteraria italiana, anche alla luce di quel ‘pensare
per contrari’ rinascimentale di cui ci ha dato un recente saggio Michele Ciliberto: muovendo dall’accostamento proprio
tra Bruno e Machiavelli (quest’ultimo uno degli autori preferiti
dal Nolano), il pensiero del ilosofo campano viene sollevato
a chiave di interpretazione di tutto il Rinascimento; da queste
premesse poi si ingenera una messe di controversie che rientra
nella tradizione contra mendacium, contra hypocritas, de vero et
falso bono su cui non ci si soffermerà in questa sede.
Non dovremo, inine, dimenticare che accanto all’illustrazione
di Accetto (1641) si dovrà restituire la giusta considerazione anche
all’Arte della prudenza di Baltasar Gracián che, sebbene pubblicata
qualche anno più tardi (1647) e in un differente contesto geograico, costituisce col trattato del tranese un’endiadi speculativa; e,
in verità, per completezza esegetica, si dovrebbe valutare anche il
saggio di Francis Bacon Of Simulation and Dissimulation (1625),
al ine di perfezionare l’articolata ‘strategia del velo’ che lega queste opere e nella quale si scoprono talune inluenze neoplatoniche.
Non si tratta, infatti, solo di una casuale «emblematica epifania di
parole» (come ha indicato Giorgio Manganelli in commento all’edi-
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zione dell’Accetto curata da Salvatore Silvano Nigro), bensì di una
corrispondenza sistemica di prospettive, in cui si cela un condiviso
proponimento esegetico. Proprio la realtà circostante sembra, infatti, auspicare e perino esigere un più marcato ricorso allo strumento
della simulazione, e in particolare alla alterazione di verità psicologiche (o psichiche) o di autenticità politica, sia nella dimensione del
reale sia nella realtà rappresentata.
Tra la ine del Cinquecento e gli inizi del Seicento, Cristoforo
Sicinio, un sacerdote e drammaturgo reatino, si ricollega alla
tradizione retorico-oratoria della simulazione e approfondisce
il ilone ‘straniante’ della follia, la più drammatica forma di alterazione delle capacità razionali e perciò sicuro appannaggio
– come sosteneva Platone nell’Ippia minore – degli uomini più
saggi e dei condottieri più persuasivi; ecco alcuni passaggi del
Pazzo into, una commedia stampata a Roma nel 1603, la quale
segue un’altra opera comica del Sicinio sullo stesso tema (La
pazzia del 1581), ma ancora legata al concetto di insania per
amore riconducibile alla corrente cortigiana di ascendenza boiardesca e ariostesca.
L’eccellenza della qual pazzia, conoscendola i savij, spesse
volte si inser pazzi, come tra ininiti fece il facondo, ricco
di esperienza, e di consiglio, e nelle fatiche pazientissimo
Ulisse, il quale per godere questa pazzia in parte, si inse una
volta anch’egli pazzo, come sapete. […]
Chi è pazzo vive in libertà: può dire ciò che vuole di ciascuno senza ricevere pugnalate. Lascia passare vinticinque
hore per giorno. Senz’artiicio di Rettorica tutti con diletto
l’ascoltano. Non languisce per amor di donne. Non paga
sussidij. Non si fa servo di signori indiscreti. Non attende
a liti. Non conosce puntelli d’honore. I pazzi insomma son
cosa più che universale. Hanno spirito mattesco pronosticativo del futuro, e di qui nasce che tanto se ne dilettano molti,
i Principi li tengono cari, e per divisar co i pazzi, lasciano da
banda spesso huomini di gran stima e virtuosissimi.
(C. SICINIO, Il pazzo into, Prologo)
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Questo ‘spirito mattesco’, dunque, si presenta come una scelta lucidamente consapevole, e peraltro perseguita (come mostra
l’esempio divenuto canonico di Ulisse), proprio da coloro che
posseggono i più sottili strumenti della persuasione retorica.
Alla metà del secolo XVII troviamo, invece, talune convergenze in forma di sintesi tra insania e potere: nella commedia di
Giacomo Castoreo (un drammaturgo veneziano poi passato a
«pubblici maneggi» e, dunque, immediatamente interessato alla
ricaduta ‘effettuale’ e politica della produzione letteraria) Il pazzo politico (rappresentata a Venezia nel 1659) Ariaspe, re del
Ponto, è vittima di una duplice insania; la prima, dovuta alla
sconitta politica sofferta con grave onta da parte del re di Armenia, Artabace, e la seconda, originata dall’impossibile amore
(seppur ricambiato) per Dianisbe, iglia del suo nemico. Ebbene, un idato consigliere (un altro topos machiavellico) suggerisce ad Ariaspe di «ammantare sotto inte follie» (atto I, scena
XIV) la reale condizione, abdicando la propria razionalità e i
propri sentimenti:
nelle scole del Regno
chi non impara a ricoprir il vero
con bugie simulate,
la scienza di regnar mai non apprende.
(G. CASTOREO, Il pazzo politico, atto IV, scena XII)
Ed è proprio per queste ragioni che, come indicava sin già
nella presentazione dell’opera,
si inge Pazzo; da che assicurato Artabace, si persuade lasciarlo vivo. Egli, vedendo con gl’occhi proprij a negoziar
quei trattati, che le toglievano la speranza d’esser più Rege,
opera in modo (sotto la maschera di queste sciocchezze) che
con l’Armi proprie de’ suoi Collegati, opprime Artabace, e
si racquista di novo il Regno.
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Non diversamente dal testo di Castoreo, ritroveremo qualche
decennio più tardi la medesima sovrapposizione tra follia e politica in un dramma per musica di Antonio Salvi, Il pazzo per politica, rappresentato a Livorno nel 1717; secondo la ricostruzione
di Francesco Giuntini (curatore di una monograia sui libretti
di Salvi), questo dramma dovrebbe in realtà essere una riduzione in versi dell’opera del monaco camaldolese Giacinto Maria
Crocetti (1639-1689) intitolata La pazzia politica di Roberto re
di Sicilia e pubblicata nel 1689 con lo pseudonimo di Tirinto
Accademico Rinato; Il pazzo per politica di Salvi racconta il tentativo da parte di Roberto e del suo idato consigliere Rodrigo,
che si inge servo, di rientrare in possesso del Regno che versava
nelle mani di Alfonso «tiranno di Sicilia», iglio del re di Napoli;
anche in questo caso l’inganno e la simulazione della follia (cui
si afianca nuovamente il termine topico della prudenza di Machiavelli, di Accetto, di Gracián) divengono uno strumento di
costruzione del tessuto drammaturgico tra veli di realtà, ombre,
false sembianze e capovolgimenti di verità, reali e sceniche:
Rodrigo: Tu nel vel di pazzia rimani involto.
Roberto: Già sono, e me ne pregio.
Rodrigo: Servo per genio.
Roberto: Io per prudenza stolto.
Roberto: Della follia col manto ammanto la ragione.
Rodrigo: Di servitù col velo
celo la maestà.
Roberto: Amico, e che sarà?
il ciel seconderà sì bell’inganno.
Rodrigo: Gloria è la servitude.
Roberto: Virtude, è la follia,
la frode è carità;
Ch’al cielo non si fa
Sacriizio miglior d’un re tiranno
(A. SALVI, Il pazzo per politica, atto I, scena III)
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Roberto: Don Carlo? Io quei non sono.
Chi lo dice è mendace, e menzognero.
E voi chi siete ?
Alfonso: A tue bisogne pronto,
Son di Sicilia il Re.
Roberto: Voi? Non è vero
Giove non approvò; su quel fatale
Libro non vi segnò. La Sorte sola
V’elesse, e vi donò nome reale.
Il Re son io, e questa,
questa è la mia corona.
(A. SALVI, Il pazzo per politica, atto I, scena VI)
In tale passaggio della rappresentazione drammaturgica solamente il pubblico e l’autore riescono a dominare la perfetta
verità e le sue più recondite sfaccettature contenute nelle parole
capovolte del pazzo, permettendo così di introdurre gli spettatori o gli eventuali lettori all’interno del gioco della ictio poetica, cioè di un’altra consapevole alterazione dell’oggettività (reale e drammaturgica insieme): perciò, quello che i personaggi del
dramma compiono sulla scena non è una piena verità, ma una
realtà molteplicemente icta, ovvero falsa perché alterata dalle
parole di un pazzo, simulata per la stringente necessità politica,
alterata nella dimensione drammaturgico-poetica.
Nel 1660 viene rappresentata a Venezia con le musiche di
Francesco Cavalli nel teatro di Sant’Apollinare «per virtuosa
ricreatione delli Signori Academici Imperturbabili» La pazzia
in trono overo Caligola delirante. L’opera di stile recitativo,
frutto della feconda penna di Domenico Gisberti (1635-1677),
segretario e poeta di corte presso il duca Ferdinando Maria di
Baviera, è imperniata sulla igura di «una bestia mascherata da
Imperadore», la quale «delirante per colpa di Cesonia, l’Imperadrice consorte, imperocché ella per farsi amare, gli diede
una bevanda che lo privò dell’uso della ragione». Per brevità,
non credo sia necessario evidenziare certi echi mandragoliani,
cui ben si unisce, ancora in ottica machiavelliana, una sinto211
matica esclamazione: «quant’è vero, che la Corte / è il macello
dell’onore».
Dunque, l’antica massima Qui nescit dissimulare, nescit imperare subisce una decisa trasformazione sino a estendere la validità del dettato etico alla mera quotidianità di ogni individuo,
Qui nescit ingere nescit vivere appunto; le inevitabili variazioni
trovano un’eficace attestazione nel tessuto culturale (oltre che
ideologico) delle scene di ine Seicento. Alcuni aspetti interessanti si colgono, infatti, in un gruppo di opere che ratiicano
l’ineluttabilità della inzione sia nell’economia del potere, sia
per la sussistenza della stessa vita: l’opera scenica Il ingere per
vincere del nobile napoletano di origini senesi Ignazio Capaccio (stampata a Napoli nel 1697 nella stamperia di Porpora e
Troyse), l’azione scenica anch’essa intitolata Fingere per vincere
di Pietro Mancuso (1636-1713) edita a Palermo per Domenico
Cortese nel 1705 e Il ingere per vivere di Raffaele Tauro pubblicata a Napoli nel 1673 presso De bonis.
Ebbene, in queste opere drammaturgiche, non importa se
note, poco note o neglette, e pur differenti per committenza,
composizione e destinazione (sebbene in esse si possa riconoscere la traccia uniicante del diffuso teatro di imitazione spagnoleggiante) si attua lo scarto inale: la inzione non è più solo
denunciata nella sua ingombrante e ineluttabile presenza nella
vita (quella reale falsa e quella icta simulata); essa è divenuta
(proprio perché ineludibile) uno strumento non più utile esclusivamente alla gestione del potere, ma connotata ora come il
sofio vitale per l’esistenza stessa (o la sopravvivenza) dell’uomo.
Possiamo perciò afidare le conclusioni del discorso ad un
passo de Il ingere per vivere, dramma di Raffaele Tauro, accademico degli Iniammati della città di Bitonto. Si tratta di un
monologo del Principe (di fronte ha il Conte di Argiro, fratello
di Lucinda, donna di cui è innamorato) e contiene massime sentenziose dalla validità attuale in ogni tempo.
Non è cieca la notte, se tanto vede, né sono io cieco fra
l’ombre, se tanto vedo di notte, cieca e la mia perversa Ma-
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drigna, che non vede il proprio decoro, e pensa di occiecare
il mio, non si viddero mai le Regie piene di veleno, se non
col iato di queste Arpie, né l’aure serene di prosperosa Corte soffrir contagio lugubre, se non corrotte da fecciosi vapori di queste pesti. In cieca stanza trovo costui a sorte, cerco
saper chi sia, e tace, la mia Madrigna importuna risponde,
m’impedisce la riconoscenza, si frammette, s’inoltra, mostra
spiacerle l’incontro, mai sodisfatta si parte, argomenti so
io di poco honorevoli conseguenze, pur taccio, pur soffro,
pur celo il sospetto, pur m’oppongo alle morsicature della
maligna serpe con l’antidoto della intione, e penso col mio
sangue attossicato addormentar le furie, che m’agitano il
core, inché dalle sue importune maniere svegliato a tempo
opportuno, sia ministro di mie vendette. Soffrirò, tacerò, osservarò, ingerò, che la balia della prudenza è la simulatione,
e lo più ido gabinetto d’un Principe è un simulato letargo.
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NOTA BIBLIOGRAFICA
Per la ricezione del pensiero machiavelliano in Giordano Bruno
si veda S. RICCI, ‘Fede’ e ‘dissimulazione’. Bruno lettore di Machiavelli nella crisi delle guerre di religione, «Filologia e critica»,
25, 2000, pp. 245-262. Le citazioni di Aristotele sono tratte dai
volumi della Metaisica, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano
2004, dell’Etica Nicomachea, a cura di M. Zanatta, BUR, Milano
2007; l’Ippia minore di Platone è stato letto nell’edizione a cura
di F. Adorno, Laterza, Bari 1971. Per il concetto ‘menzogna farmaceutica’ si è tenuto conto del volume curato da M.G. Profeti,
La menzogna, Alinea, Firenze 2008 e in particolare del saggio di
M. LOMBARDI, La menzogna farmaceutica in Corneille e Molière,
pp. 139-152, mentre il ‘pensare per contrari’ è la teoria contenuta nel volume di M. CILIBERTO, Pensare per contrari: disincanto e
utopia nel Rinascimento, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma
2005. Di ‘cultura dell’apparenza’ ha parlato A. QUONDAM, Tre
inglesi, l’Italia, il Rinascimento: sondaggi sulla tradizione di un
rapporto culturale e affettivo, Liguori, Napoli 2006; rimando
inoltre a G. FERRONI, ‘Sprezzatura’ e simulazione, in La corte e
il ‘Cortegiano’, Bulzoni, Roma 1980, 2 voll.: vol. I, La scena del
testo, a cura di C. Ossola, pp. 119-147. Il tema della simulazione
e della dissimulazione è stato diffusamente trattato: sono state
segnalate interessanti intersezioni culturali nelle Mappe della letteratura europea e mediterranea a cura di G.M. Anselmi (in particolare il capitolo curato da C. VAROTTI, Le teorie del comportamento, pp. 286-307 e il § 5. L’arte della simulazione). Si rimanda poi all’ultima edizione di T. ACCETTO, Della dissimulazione
onesta pubblicata insieme con le Rime a cura di E. Ripari, Bur,
Milano 2012; dell’Accetto si è consultata anche la prima edizione critica uscita a cura di S.S. Nigro, con la presentazione di
G. Manganelli, Costa&Nolan, Genova 1983 (poi 1990); si veda
anche M. LANDOLFI, La dissimulazione: ovvero il trionfo della
prudenza nell’opera di Torquato Accetto, «Riscontri», 24, 2002,
pp. 9-19; il testo di F. BACON, Of Simulation and Dissimulation è
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stato letto nella traduzione italiana – Saggi – di A.M. Ancarani,
Sellerio, Palermo 1996. Interessanti richiami nell’opera di Traiano Boccalini si trovano in M. BILOTTA, Di lupi, agnelli e altri
animali: la simulazione tra etica e ragion di stato nei ‘Ragguagli di
Parnaso’, «Studi Secenteschi», 52 (2011), pp. 21-41. Per la storia
del pensiero della simulazione si veda anche P. D’ANGELO, Ars
est celare artem. Da Aristotele a Duchamp, Quodlibet, Macerata
2005. Le opere drammatiche citate nel presente saggio (e che
saranno argomento di una più distesa trattazione monograica)
sono state consultate sulle seguenti edizioni: C. SICINIO, Il pazzo
into. Comedia di Christoforo Sicinio da Tofia, appresso Stefano
Paolini, Roma 1603; C. SICINIO, La pazzia. Comedia di m. Christoforo Sicinio, per Antonio Colaldi, Roma 1588; G. CASTOREO,
Il pazzo politico, appresso Andrea Giuliani, Venezia 1659; A.
SALVI, Il pazzo per politica, nella Stamp. di S.A.R., ad istanza di
Domenico Ambrogio Verdi, Firenze 1717; inine per le opere
del Salvi si rimanda a F. GIUNTINI, I drammi per musica di Antonio Salvi: aspetti della riforma del libretto nel primo Settecento, il
Mulino, Bologna 1994.
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