gli albatri / 3
Collana diretta da Pietro Taravacci, Carlo Tirinanzi De Medici,
Francesco Zambon
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Gli attrezzi delle Muse
Itinerari fra poesia e musica dalla modernità all’estremo contemporaneo
A cura di Carlo Tirinanzi De Medici
Il volume è stato pubblicato grazie al contributo della Struttura Dipartimentale
Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Trento
nell’ambito dell’iniziativa “Dipartimenti di Eccellenza –
Legge 232/2016 art. 1 commi da 314° a 338°”
1a edizione, febbraio 2024
© copyright 2024 by
Carocci editore S.p.A., Roma
Realizzazione editoriale: Elisabetta Ingarao, Roma
Finito di stampare nel febbraio 2024
dalla Litografia Varo (Pisa)
isbn 978-88-290-1383-8
Riproduzione vietata ai sensi di legge
(art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633)
Senza regolare autorizzazione,
è vietato riprodurre questo volume
anche parzialmente e con qualsiasi mezzo,
compresa la fotocopia, anche per uso interno
o didattico.
Indice
Introduzione
di Carlo Tirinanzi De Medici
1.
9
«The Lord of song». Rimediazioni e affetti tra musica e
poesia
di Carlo Tirinanzi De Medici
19
2.
Serafino Aquilano poeta e musico
di Antonio Rossi
3.
«Esto cantan aora los músicos del duque de Alba». La lirica
tradizionale spagnola nella Napoli barocca
di Daria Castaldo
65
Le Testament de Villon e Cavalcanti: sung dramedies di Ezra
Pound
di Stefano Maria Casella
79
Mondani esercizi di metrica classica: le liriche di Pasolini
per Giro a vuoto
di Giulio Carlo Pantalei
105
Sempreverdi. Quattordici opere di Verdi trasposte in racconto da Vittorio Sermonti
di Monica Lanzillotta
125
4.
5.
6.
7
51
indice
7.
Discrepanze. La partecipazione della parola al discorso musicale nella canzone italiana contemporanea
di Alessandro Bratus
141
8.
A noble amateur? Sulla ricezione italiana di Kate Tempest
di Lorenzo Mari
167
9.
Un’isola di arcaismi nella canzone contemporanea
di Luca Zuliani
187
10.
Composin’ Hallelujah. Leonard Cohen, cantastorie tra musica e letteratura
di Nicolò Rubbi
201
Coda. Melologhi. Per una performance di poesia e musica
di Rosaria Lo Russo
209
Gli autori
221
8
Introduzione
di Carlo Tirinanzi De Medici
1
Il legame della poesia con la musica è antico quanto la poesia stessa. Se
le differenze di produzione e destinazione, dovute tanto alle diverse epoche quanto alle stesse differenti concezioni di poesia, orizzonti d’attesa e
quant’altro, sono evidenti a tutti, ci è parso interessante provare a rilevare alcune continuità che la diade musica-poesia ha conservato attraverso
i secoli. Poesia e musica rinviano alla archetipica associazione di parola e
suono, non solo nelle infinite forme del canto performato, luogo del loro
reale incontro, ma nelle loro implicazioni: fin dalle sue origini, la musica
ha mostrato di tendere alla parola, alla produzione di un senso e un significato; al tempo stesso la parola poetica è, necessariamente, canto, musica.
È evidente il comune potenziale evocativo e allusivo di poesia e musica, la
comune necessità di un’espressione regolata da una misura, da un ritmo,
che si modellano e si organizzano in funzione della diversa necessità di raccontare, di “pronunciare” e rappresentare l’esistente. Non ultimo, il potenziale emotivo e quello mnemonico che fanno di poesia e musica due forme
d’arte destinate, da sempre, a depositarsi, con più immediatezza e agio di
altre, nel nostro intelletto mediante le emozioni.
Se nel Medioevo abbondano i testi “vestiti” dalla musica – e naturalmente la musica relativa – essi consentono di studiare i diversi aspetti teorici e pratici del “connubio” (contrafacta, variazioni morfologiche, imprestiti,
forme strofiche e forme con ritornello, metro e ritmo in poesia e in musica). Sullo sfondo resta la stimolante questione del “divorzio” fra musica e
poesia, separazione che si sarebbe consumata, in particolare, con la nascita
della poesia lirica in Italia. Questo legame si ravviva nel tardo Cinquecento, con l’arrivo di nuove strumentazioni (chitarra ecc.) e con la diffusione
presso le corti di canzonieri veri e propri. In relazione al periodo rinascimentale e barocco, si intende osservare come la poesia e la musica diano
vita, con linguaggi diversi e in significativo rinnovamento, a quella conta9
carlo tirinanzi de medici
minazione che consentirà (anche mediante la mescolanza di vari registri
espressivi) la nascita e lo sviluppo di forme del tutto nuove, come il madrigale rinascimentale e il melodramma, e il rinnovamento dell’ode oraziana,
del romance spagnolo tradizionale in romance artístico, e di tutti i generi
poetici “popolari”.
Dalla seconda metà del Settecento alla fine dell’Ottocento – con
un’onda lunga che si estende ben addentro il Novecento – i rapporti fra
poesia e musica godono in generale di una stabilità estremamente fruttuosa: sia in tutte le forme riconducibili alla canzone (dal Lied alla chanson
alla romanza da camera), sia nella produzione operistica essi “concorrono”
alla formazione di un oggetto poetico-musicale, ma al tempo stesso sono
in “concorrenza”, dimostrandosi sostanzialmente riluttanti – nonostante i
numerosi proclami – a rinunciare alle proprie peculiarità per incontrarsi in
un terzo luogo.
È nel Novecento che questa esigenza si fa pressante, anche perché la
poesia del xx secolo, nel suo allentamento dei nessi sintattici e denotativi,
diviene un punto di riferimento fondamentale (al pari della pittura astratta) per l’elaborazione di nuovi linguaggi musicali. Il terreno stesso del Lied
(da Brahms a Schönberg, Berg e Webern attraverso Mahler e Strauss) e
della chanson (da Debussy e Ravel a Milhaud, Poulenc, Messiaen) diviene
campo di sperimentazione, nella direzione di un superamento del rapporto
di “concorrenza”. Nella seconda metà del Novecento, epoca in cui le problematiche si radicalizzano, portando a un ampio spettro di possibili rapporti fra poesia e musica, fra gli estremi dell’impermeabilità reciproca fino
alla rinuncia a qualsiasi rapporto e a varie forme di pacifica convivenza, si è
provato a indagare questa relazione attraverso il dialogo fra un poeta che ha
collaborato come librettista con noti compositori e un musicologo-compositore che ha affrontato sia nell’attività analitica, sia in quella compositiva le diverse problematiche relative alla messa in musica di testi poetici.
Un contributo consistente alla reinvenzione dei rapporti fra poesia e
musica è stato fornito dall’applicazione degli strumenti offerti dall’elettronica all’elaborazione della voce, nella direzione di uno sviluppo razionale
della poesia intesa come performance (pertanto eseguibile come una composizione musicale). Elaborazione elettronica e live electronics hanno permesso, sin dagli anni Cinquanta, operazioni di compenetrazione totale fra
poesia e musica, come dimostra ad esempio uno dei capolavori del genere:
Thema. Omaggio a Joyce di Luciano Berio sul capitolo Sirene dell’Ulysses.
Molti poeti e compositori si sono mossi concettualmente nella stessa direzione.
10
introduzione
A partire dagli anni Cinquanta del Novecento, il campo della poesia
(in Italia più lentamente, ma non solo in Italia) è mutato progressivamente
e in modo radicale: in relazione al concetto stesso di poesia, alla natura del
soggetto, al rapporto tra scrittura e oralità fra testo letterario e testo performativo, ai canali comunicativi che capitalizzano la performance poetica,
sempre più rilevante, sin dai beat americani, recuperando dunque una tradizione antica ma per secoli passata in secondo piano.
Inoltre si sono sviluppate forme espressive che intersecano poesia e
musica in modi inediti per la tradizione moderna, a partire dalla canzone
d’autore fino al rap. Il Nobel per la letteratura di cui è stato insignito Bob
Dylan può essere considerato il punto d’arrivo di questa mutazione. Nell’estremo contemporaneo si moltiplicano i fenomeni inter- e transmediali.
Da un lato, autori come Umberto Fiori convocano, anche per formazione
personale, il tessuto musicale nei testi, o anche – nel recente Autoritratto
automatico (2023) – partono da un medium (la fotografia, e nello specifico la fototessera) per costruire un discorso poetico che rielabori quelle
immagini, per definizione e natura epidittiche e momentanee, destinate a
sbiadire e anche a segnalare il flusso inarrestabile del tempo. Un discorso
dunque che introietti il flusso temporale, attraverso l’immagine evocata o
pensata, nel cronotopo a rigore puntiforme della poesia lirica (se la lirica è
specchio o elaborazione di un Io, è di per sé priva di estensione cronologica
o topografica, o, il che è lo stesso, questa estensione è matteblanchianamente infinita), espandendola.
Ed eguale espansione si ottiene in quelle forme poetiche che si situano
al confine, o direttamente fuori, del testo scritto: le performance, anzitutto, sia quelle che coniugano atto poetico e installazione (la cui versione
degradata e avant-pop sono le luminarie che a Natale invadono i centri storici), sia quelle che dinamizzano il testo portandolo in scena. Così l’intero
spazio che va dai readings poetici all’intrattenimento-happening dei poetry
slams. Pur con differenze evidenti: si va, insomma, da una forma pienamente autoriale della performance dove il poeta inscena la propria opera,
con un rimasuglio benjaminianamente auratico dato dal luogo (librerie,
aule universitarie ecc.), dalla postura dei convenuti (silenzio, attenzione),
dalla presenza di interlocutori-gatekeepers (critici, altri poeti); si va da una
riproposizione della poesia come atto quasi sacro, alla dimensione tra il
talent e il cabaret dei poetry slams: che si svolgono in locali notturni, alternano – nella migliore tradizione dell’intrattenimento televisivo – momenti comici e seri, hanno presentatori anziché veri interlocutori scelti per
le loro doti d’intrattenimento, e di frequente utilizzano l’impatto scenico
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carlo tirinanzi de medici
per coprire quelle che, da un punto di vista puramente poetologico, sono
mancanze (formali, tecniche ecc.). Senza nulla togliere al fatto che nella varia fauna degli slammers sia possibile riscontrare aspetti interessanti, anche
metricamente e a livello di inventività (Giovannetti, 2008; Tirinanzi De
Medici, 2020), e che in un ambito performativo ci sia necessariamente un
compromesso tra linguaggio e altri elementi, laddove l’effetto anche estetico è frutto della somma degli elementi. Pertanto valutare una performance
orale, per quanto poetica, con i criteri della lirica moderna (basata su una
lettura silenziosa e individuale) è necessariamente riduttivo.
2
Senza pretesa di sistematicità dunque, abbiamo voluto vedere in che modo
poesia e musica possano convivere nei testi di diverse epoche e tradizioni. Questa l’idea alla base del convegno Gli attrezzi delle Muse, tenutosi a
Trento nel novembre 2018, che è stato il punto di partenza per lo sviluppo
di questo libro, che raccoglie alcuni interventi tenuti in quella sede e altri
scritti apposta per questo volume. “Attrezzi” nel senso di strumenti: la musica, il suono, il ritmo come strumenti essenziali per ogni opera artistica, e
in particolare per la poesia. Ci si è concentrati su due momenti: l’inizio del
moderno, cioè il blocco Quattro-Seicento (intendendo dunque “moderno” in senso ampio, dall’Umanesimo al Barocco), e la sua fase avanzata, ovvero il Novecento. Ciò era già stato, almeno in parte, previsto: c’interessava
vedere innanzitutto i momenti “di svolta”.
Alcuni momenti canonici delle trattazioni su poesia e musica sono affrontati in modo breve (la fase medievale), altri sono assenti (il melodramma, il rapporto neoavanguardia-musica). Si è pensato di concentrarsi su
altri luoghi, forse meno noti ma che restituiscono proprio la costanza del
fenomeno rimediativo. Per questo si apre con una visione d’insieme che,
dopo una trattazione delle principali teorie sull’intermedialità, propone
di considerare il rapporto tra poesia e musica nei termini di rimediazione.
In tal modo il legame reciproco tra suono e parola diventa particolarmente
evidente, nel flusso di scambi costanti tra i due media.
La prima cosa che questo libro può dirci, infatti, è proprio che l’intermedialità e la rimediazione sono una costante dei rapporti tra poesia e
musica. Sempre nel cap. 1 si propone di osservare il punto d’incontro tra
musica e poesia nella comune radice timica, emozionale, che si concentra
sugli affetti evocati nel destinatario. A seguire, il volume procede in ordine
cronologico.
12
introduzione
La composizione testuale per musica ha due vite, e una è (è stata, fino alla soglia del Novecento) tendenzialmente effimera; perché sopravviva sono richieste un’attenzione continua e un’impostazione multidisciplinare del lavoro ecdotico (e si può aggiungere anche critico). Osservato in
quest’ottica, il rapporto musica-parola sembra confermare quello che diceva Roland Barthes in Scrivere, verbo intransitivo?.
Antonio Rossi (cap. 2) indaga il successo di un sonetto di Aquilano,
Consumo la mia vita poco a poco, che individua nella «più o meno efficace
costruzione formale, combinata con una sostanza tematica dall’elevato grado di suggestività». Più nel dettaglio, Rossi rileva che il successo sia dato
dalla ripresa di temi petrarcheschi e classicamente lirici come la «metafora
cardine della lirica amorosa», quella del poeta che brucia (d’amore, passione ecc.).
Dunque, con un po’ di malizia, si potrebbe dire che sin dall’età umanistica il successo dei testi in musica dipende dalla ripresa di motivi e temi già
noti e di successo, che il pubblico può riconoscere: mutatis mutandis, è la
dinamica innovazione-riconoscimento tipica sì del campo estetico nel suo
complesso, ma in questa conformazione fa premio il secondo polo, il che
è specifico anche dei prodotti di massa dell’epoca contemporanea (basti
pensare alle riflessioni di Umberto Eco sulla serialità).
Questo porta all’attenzione due elementi che di frequente si tralasciano: primo, la forza dell’innovazione si conferma come tratto dominante
in alcune epoche (in particolare il Modernismo) e il Verbotenkanon adorniano è valido solo in determinate fasi (per la fase apertasi nel secondo
Novecento, cfr. Tirinanzi De Medici, 2018) e, se mai, in determinati attori
del campo culturale (i vertici, di solito: ma anche qui il fenomeno è molto
spesso controbilanciato dall’attenzione alla tradizione); secondo, il pubblico è stratificato e si configura – ovviamente con meno variazioni, dato
che la stratificazione è comunque più ristretta – sempre come attento ad
aspetti diversi. I diversi livelli di lettura che già Vittorio Spinazzola aveva
evidenziato per i romanzi, per cui esistono formule differenti che attraggono diversi tipi di lettori, erano ben presenti anche agli albori del moderno.
Il sospetto adorniano per le forme popolari di cultura, dunque, ha reindirizzato gli studi in una direzione problematica.
D’altra parte, osserva Rossi, proprio Aquilano prepara le sue opere in
modo che possano percorrere «un doppio binario»: la lettura “bassa” o ingenua, meno colta, non è una degenerazione o una forzatura, ma un tratto
intrinseco di questi testi. Un dualismo che, si vedrà, attraversa quasi tutta
la tradizione non solo primo-moderna.
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carlo tirinanzi de medici
Con Daria Castaldo (cap. 3) seguiamo invece la natura cosmopolita,
aperta a influenze diverse, della Napoli del primo Seicento, e il legame tra
letteratura e musica attraverso un prodotto nato nella corte napoletana.
Il manoscritto XVII. 30 della Biblioteca Nazionale di Napoli dà, infatti,
grande rilevanza all’aspetto musicale: per le tipologie tradizionali di testi
scelti, che si caratterizzano per essere naturalmente destinati all’esecuzione, sia per le innovazioni apportate dagli estensori, che altrove prediligono
la quartina, riducono l’aspetto narrativo e accorciano il testo per renderne più agevole l’esecuzione, sia per la presenza di notazioni musicali che
ne testimoniano la destinazione d’uso. Castaldo dunque conferma il ruolo
della musica nelle corti, ma inoltre ci permette di individuare le evoluzioni
(anche metriche) che da essa derivano, come lo sviluppo del recitativo che
permette una serie di variazioni (oggi le chiameremmo forse cover) amplificando «la libertà vocale che investiva sia la condotta ritmica, sia la pratica degli abbellimenti» al testo. Ma soprattutto ci dice una cosa, anch’essa
spesso dimenticata: le innovazioni spesso arrivano dal basso (superfluo il
rimando a Bachtin, meno, forse, quello al già citato Spinazzola).
Su una lunghezza d’onda (parzialmente) simile il cap. 4 di Stefano
Maria Casella, che con Ezra Pound ci porta in pieno Modernismo. L’epoca
dell’Opera totale, assoluta e trasposta in uno spazio ulteriore, sottratta alle
dinamiche di esaurimento e dissoluzione che la modernità ha reso evidente, e la figura di Pound – tra i più attenti a rinovellare la presenza dei classici – non potevano che portare l’indagine su un aspetto più apertamente
highbrow. L’autore infatti ricostruisce i testi per musica, radio e opera che
Pound dedica a Le Testament di Villon e a Guido Cavalcanti e che spaziano
dall’opera vera e propria alle sung dramedies, testi in cui dominano «fonti
antiche e “culte”». Tuttavia Casella sottolinea anche come questi testi nascano in una situazione liminale, almeno da un punto di vista diastratico:
pensati per i nuovi mezzi di comunicazione di massa, si arricchiscono di
accorgimenti che ne denunciano la natura performativizzata. Pertanto, highbrow, ma riadattato. In che modo?
È interessante vedere come anche un testo quale Le Testament, che nasce in origine come opera, venga poi rielaborato per diventare un dramma
(mentre Cavalcanti nasce già consapevolmente entro il nuovo orizzonte
mediale): Pound cerca dunque di sfruttare i nuovi linguaggi portandovi
la propria poetica. Certo, qui l’operazione è, se si vuole, agli antipodi della
popolarizzazione (intesa come diffusione a strati diversi di pubblico): se
mai, è un uso quasi avanguardistico del medium (come nota Casella). Tuttavia è innegabile che nonostante l’arte poundiana (e per estensione quella
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introduzione
modernista in genere) sia certo pensata per un pubblico decisamente colto
e raffinato, in questi testi si dimostri «apertura verso un pubblico sempre
più ampio, anche e proprio attraverso il mezzo o i mezzi/media all’epoca
più moderni e innovativi, ancora pressoché in fase sperimentale (radio e
tv) che permettevano e promettevano la più vasta diffusione delle opere/
dramedies poundiane» che per Casella è tratto comune alle poetiche moderniste stesse. In effetti anche il privilegio dato a una forma nobilitata solo
di recente, e ancora chiaramente legata ad aspetti popolari come il romanzo, segnala lo stesso miscuglio di istanze contrapposte – ennesimo segno
della «modernità incompiuta» del Modernismo ( Jameson, 2004).
Inoltre Casella rileva una cosa già osservata qui in precedenza: il disprezzo adorniano per le forme popolari non coincide appieno con il gusto
modernista (d’altra parte troppo spesso si scorda che esiste anche un Modernismo americano, decisamente più piegato verso stili popolari: cfr. Tirinanzi De Medici, 2022).
Ci si sposta poi per un ultimo affondo sullo spazio contemporaneo,
con particolare interesse sui fenomeni italiani. Il campo è analizzato su due
fuochi: il pieno Novecento, dove si mostra da un lato l’apertura a forme
popolari contemporanee (diciamo sincronica), dall’altro il recupero (diacronico) di forme popolari esaurite o in esaurimento tra gli intellettuali del
secondo dopoguerra. Il primo punto viene affrontato tramite le opere per
musica di Pier Paolo Pasolini, che Giulio Carlo Pantalei analizza nel dettaglio (cap. 5). Ne emerge anche la ricostruzione di un quadro comune, d’interazioni tra livelli diversi, che caratterizzava la postura popolare degli intellettuali emersi nel secondo dopoguerra: anche Calvino fece da paroliere
per diverse canzoni; il rapporto tra intellettuali e popolo era al centro del
dibattito, come si rileva anche dal titolo di un celebre saggio di Asor Rosa.
È anche interessante che Pasolini sembri a quest’altezza ancora sperare in una possibile cultura popolare sopravvissuta a quella che pochi anni
dopo avrebbe chiamato «la mutazione». Poi la mutazione avviene, prende
una strada che alcuni chiamano postmoderna, e Pasolini getta la spugna.
Una postura che richiama quella di altri intellettuali, che nelle generazioni
successive, fino a oggi, faticano a riconoscere le potenzialità di uno stato di
cose e preferiscono ritirarsi o nel rifiuto del nuovo, dell’«inferno» calviniano (Luperini), o nel finto cinismo di un Simonetti, che guarda ai fenomeni più recenti e pop con un disincanto apparentemente curioso che però
tradisce una sufficienza paternalistica, segno di un rigetto della cultura più
recente. Entrambe le posture sono il portato del narcisismo intellettuale
di chi si ritiene comunque superiore ai fenomeni che lo circondano, di chi
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carlo tirinanzi de medici
osserva il mondo da fuori – una torre d’avorio, o un attico in collina, un
altrove intellettuale in cui ci si rifugia per paura di riconoscere la propria
insignificanza, in un’illusione di dominio su un campo letterario che non
si comprende più davvero, per il quale non si sviluppano categorie (infatti
la principale intuizione critica, quella sulla velocità della narrativa contemporanea, Simonetti la riprende da un saggio del suo maestro Walter Siti).
Il cap. 6 di Monica Lanzillotta si volge a una figura direi strutturalmente vocata all’intermediale come Vittorio Sermonti, osservandone la
complessità stilistica, tematica e formale, in una serie di momenti cardine
per la produzione sermontiana. L’esito è la ricostruzione anzitutto di un
ambiente nel quale l’interazione parola-musica prende forma e che segnala una svolta più ampia, che riguarda il campo culturale e che determina la
conformazione dell’estremo contemporaneo (su questo cfr. anche cap. 1).
La parte finale del volume è dedicata alla canzone e alla poesia performativa, sviluppi più recenti e tra i più centrali nel panorama artistico
contemporaneo. Il cap. 7 di Alessandro Bratus indaga le discrepanze nella
relazione tra parola e musica nella canzone, e i riflessi che questo fenomeno ha tanto sulla fisionomia quanto sul significato complessivo della canzone stessa. I casi di studio oggetto dell’analisi appartengono a esperienze
musicali dell’ultimo decennio poste ai margini della produzione musicale
mainstream: il duo hip hop sperimentale Uochi Toki, di cui viene esaminato l’avvicinamento tra cantato e parlato; il cantautore Iosonouncane, che
offre un esempio notevole di interazione tra griglia ritmica latente e testo
verbale; infine il gruppo Virginiana Miller, la cui Lettera di San Paolo agli
operai (targa Tenco per la migliore canzone nel 2014) offre l’occasione per
un’indagine della dimensione microritmica.
Il cap. 8 di Lorenzo Mari prende le mosse dalla constatazione delle criticità nella ricezione di opere inter-, cross- o transmediali. La produzione
di Tempest, che muovendosi al confine tra musica e poesia è ascrivibile a
queste categorie, ha ricevuto anche per questo motivo giudizi altalenanti.
L’accoglienza in Italia è ulteriormente complicata dalla questione traduttiva: a tal proposito, viene esaminato il rapporto tra i testi originali in lingua
inglese e la resa in italiano, sempre tenendo sullo sfondo le differenze dei
contesti culturali chiamati in causa. L’opera di Tempest viene comparata a
quella del poeta italiano Alberto Dubito, mettendone in luce affinità e differenze, in modo da far emergere le specificità della prima che si ripercuotono sulla sua ricezione italiana.
Luca Zuliani (cap. 9) osserva le strutture metrico-sintattiche e le figure retoriche della canzone. Zuliani osserva come l’italiano dei testi per mu16
introduzione
sica si sia evoluto molto negli ultimi decenni, eppure stilemi tradizionali,
come l’anastrofe o la cosiddetta “rima tronca in consonante”, sono riemersi
in maniera massiccia nella musica power metal (e in altri generi affini): qui
la patina arcaica che tali elementi contribuiscono a creare fa sistema con le
tipiche ambientazioni medievaleggianti o fantasy molto diffuse nei brani.
Attraverso l’analisi di alcuni testi campione, lo studio cerca di comprendere e contestualizzare il ricorso a strumenti espressivi generalmente considerati superati, tanto da correre facilmente il rischio di divenire oggetto
di parodia.
I piani espressivi e compositivi, dunque, specie nel presente, si mescolano. La parola per musica e la musicalità della poesia s’intersecano, rendendo a tratti difficile distinguere l’una dall’altra. Nicolò Rubbi (cap.
10) approfondisce proprio questo aspetto affrontando il profilo artistico
di Leonard Cohen. Romanziere, poeta, cantante, Cohen, secondo Rubbi, evidenzia proprio la contiguità delle varie modalità espressive, dei vari
generi discorsivi e artistici di volta in volta praticati dal canadese: la parte
più rilevante è, nelle sue composizioni, l’attenzione alla parola, alla parola come forma, che è divenuta proverbiale nella lunghissima gestazione di
Hallelujah, una delle canzoni più celebri, oggetto di rivisitazioni apertamente pop (le tante cover che spesso trovano spazio anche in televisione) o
anche midcult come quella di Jeff Buckley, ma che possiede al suo interno
un nucleo di profondità che i gorgheggi e i virtuosismi di tanti interpreti
fanno perdere.
Buckley può andar bene, al massimo, per rimorchiare qualche partner sprovveduto che si fa affascinare dal virtuosismo, dalla voce romantica (e dall’idea morbosa della vendetta: «all I ever learned from love / was
how to shoot somebody who outdrew you», mentre Cohen sostituisce il
verbo con “shoot at”, indicando che sì ha sparato nella direzione del fellone, ma lasciando intendere che non lo abbia colpito, altrimenti non ci
sarebbe la preposizione “at”): solo Cohen, nella lunghezza delle versioni
live, con il suo passo lento e la voce di basso, riesce a restituire a questa
canzone il suo senso autentico di ossessività, di costante e involontario
ritorno sulle stesse scene – come se il protagonista si trovasse ancora e
ancora davanti alla donna in una vasca da bagno, e ancora (sempre) ne
uscisse sconfitto (perché «somebody […] outdrew you», qualcuno ti ha
superato, tu provi pure a fare qualcosa come sparargli ma è inutile). Così
primo e ultimo capitolo di questo libro sembrano rispondersi, nel comune riferimento a questo dio della canzone e della poesia (e dell’amore,
anche se perduto).
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carlo tirinanzi de medici
Fin qui gli studi critici. Infine la prospettiva cambia, e a parlare è chi ha
intersecato davvero, spesso e con risultati ottimi, musica, parola, melodia.
La poetessa e performer Rosaria Lo Russo approfondisce en artiste il tema
del volume, stavolta dalla prospettiva non delle parole per musica, ma della
musica per parole: i suoi «melologhi» compongono una sorta di coda del
volume, un finale che pur nella diversità forse sussume le tante prospettive
illustrate, che indicano, ognuna a suo modo, che qualcosa interviene sempre a legare i due campi, i due media, le due posture artistiche. E – lo si vedrà meglio nel cap. 1 – anche laddove apparentemente non c’è nulla, rimane, come memoria o impronta (meglio imprinting), che pervade lo spazio
al confine tra musica e poesia. In questo spazio si costruiscono gli attrezzi
delle Muse.
Riferimenti bibliografici
giovannetti p. (2008), Dalla poesia in prosa al rap. Tradizioni e canoni metrici
nella poesia italiana contemporanea, Interlinea, Novara.
jameson f. (2004), Una modernità singolare, Sansoni, Firenze.
tirinanzi de medici c. (2018), Il romanzo italiano contemporaneo, Carocci,
Roma.
id. (2020), Tra certamen e talent. Tradizione mancata, lotta per il campo e concetti
di lirico nel poetry slam, in “L’Ulisse”, 23, pp. 480-503.
id. (2022), Pavese between European and American Modernisms, in I. Moscardi
(a cura di), Cesare Pavese Mytographer, Translator, Modernist, Wilmington,
Vernon Press, pp. 109-28.
Avvertenza
La data di ultima consultazione dei siti internet è il 15 novembre 2023.
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