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In margine a un’indagine sul "De vulgari eloquentia"

2018, Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia

Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa Classe di Lettere e Filosofia serie 5 2018, 10/2 Pubblicazione semestrale Autorizzazione del Tribunale di Pisa n. 7 del 1964 Direttore responsabile: Massimo Ferretti ISSN 0392-095x Indice Studi e ricerche What laws applied to guarantors? Epigraphic evidence for legal procedure affecting personal security in Athens and beyond Donatella Erdas 333 Variations on a theme by Avicenna in al-Ġazālī’s Maqāṣid al-falāsifa Marco Signori 359 La firma ritrovata: Bonanno e la Torre di Pisa Giulia Ammannati 383 When did clerics start investing? Abbot Uberto and the economics of the monastery of S. Michele di Passignano (c. 1190-c. 1210) Lorenzo Tabarrini 399 Sulle ultime ricerche in merito alla santità femminile d’età medievale e della prima età moderna. Studi storico-letterari e linguistici Mattia Zangari 435 La divisio entis fra Cusano e Pico. Note sulla traduzione del concetto di ens Luca Burzelli 467 Per una nuova edizione dell’Epistolario di Leonardo Bruni Ilaria Morresi 495 Fra Tiziano, Simone Bianco e Pietro Aretino. Intorno a tre sonetti di Girolamo Molin Marcello Calogero, Martina Dal Cengio 519 Sul metodo analitico. Jacopo Aconcio e René Descartes: un possibile confronto Paola Giacomoni 559 Note sull’abisso di Leopardi Vincenzo Allegrini 593 Il più grande evento dopo la Conciliazione. Scenari e retroscena della fedeltà dell’episcopato italiano al fascismo Takashi Araya 611 Note e discussioni In margine a un’indagine sul De vulgari eloquentia Nicolò Magnani 647 Teorie e pratiche della secolarizzazione. A proposito di un libro recente Lucio Biasiori 657 Su una recente edizione goldoniana Andrea Menozzi 667 Una famiglia di ebrei-italiani tra esilio e persecuzione Francesco Torchiani 675 English summaries 681 Autrici e autori 687 Hanno collaborato a questo volume 693 Notizie degli allievi della Classe di Lettere e Filosofia 695 Illustrazioni 703 In margine a un’indagine sul De vulgari eloquentia* Nicolò Magnani Il 15 aprile 2016 si è tenuto presso la Società Dantesca Italiana a Firenze il sesto workshop Lopereseguite, dedicato al De vulgari eloquentia. L’evento, coordinato da Corrado Bologna, ha costituito un’occasione importante per fare il punto sullo stato attuale della critica, nonché un fertile terreno di confronto fra i maggiori esperti del De vulgari, in particolare gli autori delle ultime due grandi edizioni commentate del trattato, Mirko Tavoni e Enrico Fenzi, i quali hanno messo a fuoco soprattutto il contesto storicopolitico in cui viene concepita e divulgata l’opera di Dante, ribadendone con nuovi argomenti la destinazione bolognese. Sempre nel 2016 è apparso questo volume di Riccardo Tesi (Università di Bologna), che insieme a Qualche idea su Dante dello stesso Tavoni (2015) sancisce in maniera definitiva la vitalità degli studi sul De vulgari negli ultimissimi anni. Il lavoro di Tesi si pone in una prospettiva complementare a quella adottata dal seminario fiorentino: non è tanto il ‘contesto’ di produzione del trattato a essere al centro delle indagini, quanto il ‘testo’ in sé. Nonostante una lunghissima tradizione di studi in questo senso abbia dato frutti più che rigogliosi – come dimostra la mole impressionante del commento di Tavoni – il lavoro esegetico è ben lungi dall’essere esaurito, ed è opportuno tornare a riflettere sui luoghi più critici dell’opera con un rigoroso approccio linguistico e filologico. È da questa convinzione che nasce La lingua della grazia, un libro ricco e composito che propone una serie di soluzioni interpretative e traduttive spesso in argomentato contrasto con quelle adottate dalle edizioni canoniche (in particolare quelle di Marigo, Mengaldo, Tavoni e Fenzi). Come avverte l’autore nella Premessa, il volume raccoglie otto saggi indipendenti (ma strettamente correlati) distribuiti in due macrosezioni, Chiavi d’accesso e Luoghi cruciali, orientate secondo due movimenti opposti, dal generale al particolare e dal particolare al generale, quasi R. Tesi, La lingua della grazia. Indagini sul De vulgari eloquentia, Padova, Esedra, 2016, 276 pp. * 648 Nicolò Magnani un omaggio ai meccanismi euristici cari a Dante: nella prima vengono esplorati alcuni motivi cardinali della teoria linguistica dantesca (genesi ed evoluzione della lingua, concetto di lingua gratie, incidenza della fonte agostiniana sulla teoria del linguaggio e sul motivo delle «due città», significato di vulgare latium e dei glottonimi affini) che si riflettono su determinate scelte testuali; nella seconda si parte da singoli luoghi del trattato per sviluppare considerazioni di più ampio respiro. Nel primo saggio (La lingua della grazia nel De vulgari eloquentia, pp. 17-67) vengono indagati accuratamente i rapporti semantici fra prima locutio, primiloquium e lingua gratie, insieme alle teorie del segno linguistico soggiacenti a tali contenitori e alle fonti da cui Dante attinge queste teorie. Gran parte dei concetti cardine utilizzati da Dante nell’esposizione della sua dottrina linguistica ‘generale’ nei primi capitoli del trattato va ascritta, come è noto, a una tradizione filosofica ben precisa coagulatasi attorno alla trafila Aristotele – Agostino – Tommaso. Questa trafila agisce sull’opera del trattatista a un duplice livello: testuale, come corpus di fonti in grado di orientare soluzioni terminologiche e snodi concettuali; culturale, come orizzonte dottrinale di riferimento sul quale viene plasmata la metodologia epistemologica sottesa all’opera (si veda la grande macchina tassonomica fondata sul criterio specie/genere utilizzata per la classificazione dei volgari, di chiara matrice aristotelica). L’interpretazione dei passi danteschi e di singoli sintagmi e lessemi – nonché le relative proposte di traduzione, spesso contrapposte, come si è detto, alle soluzioni adottate dalle edizioni moderne, sul filo di un’acuta e assai ben documentata argomentazione – si appoggia a puntuali considerazioni linguistiche e al sempre pertinente raffronto con gli ipotesti di riferimento. Un approccio di questo tipo, improntato a una scrupolosa acribia nei confronti dell’esegesi del dettato offerto dall’opera in analisi, è fondamentale nel momento in cui ci si trovi di fronte a un testo, quello dantesco, in cui il rapporto fra significante e significato è sempre controllatissimo: ogni soluzione linguistica deve essere considerata il frutto di una scelta dettata da precisi criteri semantici, ed è questa la peculiarità precipua che fa del De vulgari un’opera estremamente densa e problematica a livello concettuale, in particolare nei primi capitoli. È proprio alla luce di questa natura linguisticamente regolata del testo che molti termini e sintagmi vengono analizzati in quanto veri e propri tecnicismi, cellule linguistiche dotate di un portato semantico altamente specializzato, spesso prese a prestito o adattate dal linguaggio dottrinale delle fonti patristiche e tomistiche sempre presenti in sottofondo, o afferenti a una tra- 649 In margine a un'indagine sul De vulgari eloquentia dizione retorica consolidata: è il caso di espressioni come prima locutio, primiloquium, ad placitum, beneplacitum, interrogatio, forma. Come viene opportunamente messo in luce, il concetto di arbitrarietà veicolato dal sintagma ad placitum e relativo all’intrinseca qualità del segno linguistico è applicabile solo qualora lo si intenda nell’accezione di intenzionalità, ma non di convenzionalità: in questo senso, una traduzione come «arbitrariamente» (Fenzi) o «in modo arbitrario» (Tavoni) rischia di farsi portatrice di un equivoco semantico, se è vero che in italiano la prima accezione di cui si è detto, ancora vitale nel sostantivo «arbitrio», tende a perdersi nel relativo aggettivo (e nell’avverbio da esso derivato). Il titolo del saggio fa riferimento alla questione cruciale ivi trattata, il rapporto di consequenzialità spazio-temporale che intercorre fra i due nomina Dei, I(a) e El, di cui si fa menzione in Par., XXVI 134 e 136. Tale questione si risolve nell’elaborazione di un duplice ordine di conclusioni, l’uno filologico e l’altro esegetico: se la prima parte dell’argomentazione è tesa a stabilire la corretta forma ecdotica di Par., XXVI 134, è evidente come il materiale elaborato in questa sezione sia in primo luogo destinato a fornire un solido fondamento euristico all’interpretazione del passo in questione e, contestualmente, di DVE, I iv 4-6. L’analisi coinvolge anche quelle figure retoriche della dispositio che contribuiscono a mettere in risalto determinati concetti, secondo una modellazione dello spazio testuale tipica della poesia ma pienamente riscontrabile nella prosa dantesca, in cui lo stile si fa potente veicolo di senso (cfr. pp. 24 e 36). Il secondo saggio (Un motivo agostiniano della teoria linguistica dantesca: linguaggio ostensivo e prima locutio, pp. 69-86) si propone l’obiettivo di ponderare l’incidenza effettiva di alcuni passi agostiniani su DVE, I vi 1. La critica alle soluzioni traduttive adottate, a partire da Trissino, per il passo dantesco in questione mira a illuminare il filo logico dell’argomentazione dantesca, non adeguatamente espresso dagli interpreti: la lingua adamitica si configura come un caso del tutto particolare, da indagare con discernimento in quanto inserito in una situazione comunicativa ‘altra’, e non ‘analoga’ a quella determinata dalla confusio linguarum babelica. Dante pone dunque l’accento sul fatto che l’essere umano calato in una dimensione civile sia ‘comunque’ in grado di comunicare, a prescindere dagli ostacoli imposti dalla diversità linguistica; il fatto stesso di trovarsi in un contesto relazionale lo pone in condizione di agire tale relazione, senza necessariamente ricorrere al linguaggio verbale. Diverso 650 Nicolò Magnani il caso di Adamo, che si trovò nella necessità di costruire un linguaggio in un contesto a-relazionale (necessità, anche in questo caso, singolare: determinata non dall’esigenza di comunicare ma di esprimere il nome di Dio). Questo porta a ridimensionare l’opinione invalsa nella critica secondo cui la fonte di riferimento del luogo dantesco sarebbe De civitate Dei, XIX 7, dove al contrario si pone l’accento sull’impossibilità di comunicazione fra individui parlanti lingue diverse («inter se communicare non possunt»). Adamo, «vir sine matre, vir sine lacte, qui nec pupillarem aetatem nec vidit adultam» (DVE, I vi 1), incarna la situazione inversa a quella normale descritta da Agostino nelle Confessioni (I viii 13), in cui viene rappresentato un tipo di apprendimento linguistico basato sull’associazione operata dall’infante fra segno linguistico e gesto ostensivo. Questo tipo di apprendimento porterebbe a sviluppare un tipo di linguaggio «primitivo», secondo la formulazione di Wittgenstein, ovvero un linguaggio costruito unicamente sulla codifica segnica degli oggetti e, in seconda battuta, delle connessioni fra tali segni. Se Dante, come sembra, aveva presente il passo di Agostino a questo punto del suo trattato, poteva pensare a un meccanismo analogo per quell’apprendimento linguistico di secondo livello sperimentato da coloro che vengono a trovarsi in una situazione comunicazionale problematica per via della diversità degli idiomi parlati dai soggetti coinvolti. Ma per Dante il gesto è sine verbis: il momento ostensivo non è accompagnato dal momento verbale, dunque egli fa riferimento a un tipo di linguaggio puramente strumentale, ancora più primitivo di quello pensato da Agostino (e da Wittgenstein). In altre parole, il negotium immaginato da Dante dà luogo a una situazione comunicativa che non si risolve nell’elaborazione di un linguaggio verbale, pur strutturalmente primitivo, ma si ferma a un sistema segnico di gesti deittici, non convenzionali, volti a soddisfare i bisogni fondamentali del negotium. Quest’ultimo rappresenta la diretta continuazione di quell’opus babelico post correctionem di cui a I vii, ovvero l’insieme delle attività di costruzione della torre frustrata dalla confusio linguarum1. L’interruzione dei lavori dunque palesa l’insufficienza del linguaggio ostensivo gestuale di fronte a negotia complessi, mentre la possibilità di intendersi sine verbis (se si ac- Il singolare opus, specie nel sintagma opus iniquitatis, designa l’attività di costruzione della torre nel suo complesso, laddove il plurale opera indica le singole operazioni coinvolte nell’attività, analogamente a commertium, actus, exercitium. 1 651 In margine a un'indagine sul De vulgari eloquentia cetta l’interpretazione avanzata da Tesi per I vi 1) varrà non per tutti, ma per ‘molti’ («multi multis»). Il terzo saggio, Identificazione di una città dantesca (pp. 87-127), è una documentatissima proposta di interpretazione del referente sotteso al toponimo «Petramala» di DVE, I vi 2. Attraverso una serie di prove di natura storica, linguistica e intertestuale si dimostra che Petramala non può essere identificata con una delle località toscane che oggi rispondono a tale denominazione, ma con Firenze stessa, o meglio con quella parte corrotta della città (civitas, inteso come cittadinanza) storicamente ricondotta al ceppo fiesolano, di antica origine aramaica, che secondo una tradizione vitale nel XIV secolo fu protagonista della sua fondazione. Spiccano nel corso dell’argomentazione due motivi dominanti della specificità letteraria dantesca: il meccanismo figurale (la Firenze ‘bifronte’ adombrata dall’accostamento della neoformazione toponomastica al nome ufficiale riprenderebbe il motivo agostiniano delle due città, civitas terrena e civitas Dei) e, strettamente connessa al primo, l’intertestualità, intesa come ripresa a distanza di elementi che ne favorisce spesso la corretta interpretazione (la glossa-traduzione del composto riscontrabile in Inf., XV 61-3: «Ma quello ingrato popolo ‘maligno’ / che […] / […] tiene ancor del monte e del ‘macigno’»). Tralascio di parlare del quarto saggio (Una nuova edizione commentata del De vulgari eloquentia, pp. 129-50), onde evitare di produrre una recensione di secondo livello, anche in considerazione del fatto che la nota all’edizione di Mirko Tavoni per i Meridiani Mondadori coinvolge perlopiù argomenti ampiamente approfonditi nei capitoli seguenti del libro, su cui mi soffermerò a breve. Passo dunque alla seconda sezione della monografia, intitolata Luoghi cruciali. La controversa questione della maggiore nobiltà assegnata ora al latino e ora al volgare nel Convivio e nel De vulgari è l’oggetto del saggio di apertura di questa sezione, «Hoc equidem signum est ipsum subiectum nobile de quo loquimur» (DVE, I iii 3) (pp. 153-72). L’autore propone una prospettiva interpretativa diversa da quelle generalmente adottate dai commenti, che tentano di spiegare l’aporia con un’evoluzione in diacronia del pensiero del trattatista o con l’identificazione del volgare di cui si parla nei paragrafi in questione con la locutio in sé, intesa come primo prodotto della facoltà umana del linguaggio, piuttosto che come idioma particolare. La chiave per sanare l’apparente contraddizione e per penetrare i meccanismi del pensiero dantesco è individuata nel contesto in cui le affermazioni discordi vengono a collocarsi, e nella matrice tomistica dei dispositivi euristici 652 Nicolò Magnani adottati dal trattatista, qui come in gran parte dei luoghi cruciali della sua produzione teorica. La conclusione è che (siamo a p. 169) in De vulgari, I i 2-5 […] il cambiamento di prospettiva impone una strategia argomentativa diversa dal trattato filosofico, pur senza modificare di un centimetro gli attributi sostanziali pertinenti alla lingua antagonista, il latino. La differenza più marcata è di assegnare una terna di aggettivi determinativi e relazionali (non qualificativi) che specifichino e, per così dire, riorientino il macrosegno di ‘nobiltà’, calibrato sulla nozione di ‘perfezione/proporzione’ nel trattato filosofico, su tre caratteristiche distintive strettamente proprie del volgare (primazia-universalità-naturalità). La liceità dello slittamento semantico dell’aggettivo nobilis è garantita dall’applicazione del concetto tomistico di ratio, ovvero di «accezione» del praedicatum e del subiectum direttamente orientata dal contesto d’uso che accoglie e insieme conferma la validità di ogni propositio affirmativa vera2. Solo ammettendo che Dante avesse fatto proprie tali premesse concettuali è possibile ravvisare la coerenza del suo discorso e confermare una volta di più la complementarità interna dell’universo testuale dantesco, un sistema organico intessuto di echi, rispondenze e simmetrie mai casuali. Una questione altrettanto spinosa è quella affrontata nel saggio successivo, Un termine-chiave della descrizione linguistica: vulgare semilatium (DVE, I xix 1) (pp. 173-224). Il problema soggiacente al rompicapo semantico imposto dal neologismo dantesco consiste essenzialmente nel determinare il criterio con il quale il trattatista arriva a postulare l’esistenza di un «volgare di metà Italia»: logico, geolinguistico, geopolitico o letterario, secondo le ipotesi messe in campo dalla maggioranza degli studiosi. Tesi arriva alla conclusione per cui l’etichetta farebbe riferimento a un dominio geolinguistico individuabile in quanto configurantesi come base larghissima di potenziali doctores illustres che attingono alla superlingua letteraria comune, ipotesi che si appoggia alla convinzione che dentro il contenitore vulgare latium vadano fatti rientrare due diversi canoni di autori, «un ‘canone largo’, il più numeroso ma anche il meno virtuale, e un ‘canone ristretto’, riservato agli optimi Siciliani illustri, il maximus Guinizzelli, stilnovisti fiorentini più Cino et amicus eius» (p. 215). Per canone largo si intende una comunità aperta di poeti, a base regionale ma anche 2 Cfr. Thom. Summa theol. I xiii 12c. 653 In margine a un'indagine sul De vulgari eloquentia sovraregionale (vulgare semilatium), da cui emergono i veri esponenti del volgare illustre, quelli che vanno a formare il ‘canone ristretto’. Questa soluzione comporta che il concetto di vulgare semilatium si collochi in una posizione mediana fra la matrice letteraria (frazione massima del ‘generale generalissimo’ vulgare latium, inteso come superlingua letteraria comune) e geolinguistica (manifestazione concreta di un’area linguistica tipologicamente omogenea individuata su base empirica). La natura poligenetica del referente troverebbe la sua ragion d’essere nella forma mentis di un letterato del Medioevo a cimento con una qualsiasi riflessione di natura linguistica, condizionata e orientata da una labile coscienza della distinzione fra lingua d’uso e lingua letteraria (che ancora nel Medioevo ha pur sempre come base una lingua d’uso), fra parlato e scritto. I fenomeni di interferenza grammaticale cui vanno sistematicamente soggetti i testi letterari delle origini da una parte spiegano la presunta natura di locutio naturalis mixta del vulgare semilatium, dall’altra forniscono la chiave per l’individuazione dell’esistenza di due macro-aree geolinguistiche, due corridoi (adriatico e tirrenico) che fungerebbero da catino di ricezione e di propulsione in direzione Sud-Nord di quei tratti linguistici distribuiti lungo i due versanti della penisola e veicolati dal flusso circolatorio della poesia lirica volgare. Nel saggio successivo, «Ut Sordellus de Mantua sua ostendit» (DVE, I xv 2) (pp. 225-57), Tesi avanza un’ipotesi interpretativa del controverso passo basata su puntuali rilievi testuali. L’indagine porta alla conclusione che Sordello avrebbe abbandonato (deserere) il volgare di sì per il provenzale, ma non a causa della bruttezza del volgare materno (il mantovano), giudizio in realtà assente nel trattato. A corroborare la legittimità di «una lettura puramente denotativa e obiettiva, non denigratoria, riguardo al giudizio dantesco sul volgare mantovano» (p. 246), soccorre una giusta interpretazione dell’idea di commixtio quale Dante prende a prestito, ancora una volta, da Tommaso (De mixtione elementorum). Secondo questa prospettiva, il prodotto che risulta dalla commixtio ha necessariamente una connotazione (più o meno) positiva per il fatto stesso di trovarsi in una posizione mediana, di equilibrio, di mediocritas, aurea o almeno argentea, a prescindere dalla qualità dei ‘reagenti’ (per usare un termine chimico). Lo dimostra il caso stesso del bolognese, pulcrior locutio in cui si ha una commixtio oppositorum che si realizza non tramite una somma di elementi positivi, e nemmeno un bilanciamento di positivi e negativi, ma attraverso l’equilibrio fra elementi, per così dire, ‘poco negativi’, ovvero da elementi simmetricamente equidistanti rispetto al polo rappresentato 654 Nicolò Magnani dal prodotto e relativamente vicini a esso (lenitas e mollities da una parte, versioni attenuate della mollities veicolata dalla qualità muliebre dei volgari romagnoli, e garrulitas dall’altra, anch’essa meno peggiore della rudis asperitas dei volgari lombardi, yrsuta e yspida). Lo stesso discorso può essere fatto per l’electio verborum da cui risulta il vulgare latium illustre nella sua componente lessicale (II vii 4): qui, l’armonia compaginis è dovuta all’utilizzo dei vocabula pexa insieme agli yrsuta. Prese per sé stesse, queste tipologie lessicali non sono sufficienti a generare una locutio selecta. Infatti, se per i vocabula pexa si può comunque postulare un’intrinseca positività (II vii 5: «pexa vocamus illa que […] loquentem cum quadam suavitate relinquunt»), non si può dire lo stesso per gli yrsuta, che sono ammessi nel volgare illustre ‘nonostante’ (quamvis) le loro caratteristiche fonomorfologiche, di per sé poco attraenti (II vii 6: «Yrsuta […] mixta cum pexis, pulcram faciunt armoniam compaginis, quamvis asperitatem habeant aspirationis et accentus et duplicium et liquidarum et prolixitatis»). Nonostante il diverso peso specifico dei due opposti in termini di ‘negatività’, il meccanismo di commistione di elementi meno negativi è operante anche in questo caso: i pexa rappresentano una versione ‘attenuata’, purgata dai tratti fonomorfologici più marcatamente connotati, rispetto ai puerilia, muliebria e lubrica, come gli yrsuta lo sono rispetto ai silvestria e ai reburra. Non c’è dunque ragione per postulare un diverso criterio alla base del mantovano, e d’altra parte è Dante stesso a confermarlo: l’asserzione della bellezza del bolognese è seguita da una subordinata causale che la legittima («cum ab Ymolensibus, Ferrarensibus et Mutinensibus circunstantibus aliquid proprio vulgari asciscunt»), a sua volta seguita da una circostanziale comparativa che sancisce la perfetta sovrapponibilità, a livello operativo, fra il bolognese e il mantovano («sicut facere quoslibet a finitimis suis conicimus»). La differenza starà, invece, nel grado di bellezza del prodotto: il volgare mantovano è meno bello del bolognese, così come il bolognese è meno bello del volgare illustre, ma tutti e tre partecipano in misura diversa della bellezza, in quanto frutto di commixtio oppositorum. Fra quali opposita, non è dato sapere per il mantovano: a Dante preme qui dichiarare la produttività del meccanismo piuttosto che l’identità degli elementi in gioco, significativi solo per il bolognese in quanto in grado di dare luogo a una commistione superiore alle altre. Il libro si chiude con un saggio, «L’antico nostro Batisteo» (Par., XV 134) (pp. 259-70), che affronta una questione filologica relativa alla Commedia 655 In margine a un'indagine sul De vulgari eloquentia riprendendo strumentalmente alcuni passi discussi nei capitoli precedenti, in particolare nel terzo (Par., XV 110; Inf., XV 61-4). Al volume di Riccardo Tesi va soprattutto ascritto il merito di aver esemplificato un criterio metodologico improntato a un estremo scrupolo nei confronti dell’analisi linguistica e filologica di un testo affatto problematico nel suo carattere eccezionale ma oltranzisticamente medievale come il De vulgari eloquentia. L’insistenza sulla controverifica delle ipotesi prodotte; sull’integrazione fra diversi approcci esegetici; sull’attenta lettura del testo, inteso come intreccio di contesti logicamente interrelati sviluppantisi concentricamente attorno al luogo in esame, che da essi riceve luce; sull’utilizzo ragionato delle fonti, che troppo spesso vanno incontro a una proliferazione incontrollata e compulsiva nei commenti, sotto la spinta arbitraria della suggestione, è indice di una consapevolezza critica da cui l’intelligenza delle cose dantesche non può che trarre giovamento. Finito di stampare nel mese di dicembre 2018 presso CSR S.r.l. Via di Salone, 131/c - 00131 Roma Tel. +39 06 4182113