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Preghiera e letteratura nell'opera di Guido Casoni

2024, La preghiera nella letteratura italiana, a cura di Marco Ballarini, Simona Brambilla, Pierantonio Frare, Giuseppe Langella, Milano, IPL

The essay examines the entire work of Guido Casoni (1561-1642) to identify various forms of prayer, examining the relationship between the Christian religious component and the literary form.

PREGHIERA E LETTERATURA NELL’OPERA DI GUIDO CASONI Guido Casoni (Serravalle, oggi Vittorio Veneto, 1561 – 1642) appartiene a quelle generazioni di poeti e letterati post-tridentini per le quali è del tutto normale dedicare una parte anche consistente della propria produzione ad argomenti spirituali; non risulta agevole tuttavia identificare, nell’enorme massa di liriche religiose, poemi biblici o agiografici, drammi cristiani, quali siano i testi specificamente legati alla dimensione della preghiera, in man, Poesia in forma canza di un criterio sicuro per distinguerli (cfr. di preghiera, pp. 13-19). Lo stesso si può dire per le opere di C., autore di agiografie in versi e in prosa (Vita della gloriosa vergine e martire Augusta serravallese, Venezia, Zoppini, 1582; Vita del glorioso santo Gerardo Sagredo nobile veneziano, Venezia, Nicolini, 1598), di odi spirituali comprese nella sua raccolta principale, le Ode, stampata numerose volte tra il 1602 e il 1639, e riunite in un’edizione a sé stante (Scelta d’alcune ode spirituali, Bergamo, Ventura, 1606), di brevi narrazioni sacre in ottave contenute nel suo Teatro poetico, a stampa fra 1615 e 1639, di una prosa in cui «si discorre delle grandezze di Dio» (nei Ragionamenti interni, Venezia, Tomaso Baglioni, 1623), di un carme figurato sugli oggetti della passione di Cristo (nell’edizione complessiva delle Opere, Venezia, Tomaso Baglioni, 1626), infine di un ampio volume di Meditazioni divote che celebrano i fasti cristiani di ogni giorno dell’anno (Venezia, Paolo Baglioni, 1636). Considerata la natura intrinsecamente dialogica della preghiera, o quanto meno dell’orazione verbale, unica forma cui può essere accostata la letteratura, che di parole necessariamente si serve, una possibilità sarebbe quella di esaminare i testi in cui compare un ‘tu’ cui l’autore si rivolge, secondo lo stilema tipico della celebrazione innologica della divinità, esteso poi ad * Professore ordinario di Letteratura italiana presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, membro del comitato delle riviste «Aevum» e «Testo», e condirettore della collana «Res litteraria». 292 altre forme letterarie già dall’epoca classica (il Du-Stil di cui tratta Dio ignoto, pp. 261-296). Sennonché, nel caso del serravallese, il discrimine appare poco significativo, perché il discorso alla seconda persona è quasi una marca stilistica di C., che lo applica indifferentemente a soggetti sacri e profani, umani e inanimati, e rappresenta una delle caratteristiche salienti delle sue Ode, che si debbono a tutti gli effetti ritenere ‘inni’, ma paiono orientati nel loro complesso più a una matrice umanistico-rinascimentale che alla dossologia cristiana in senso stretto. Sembra dunque preferibile, entro i limiti di questo studio, un approccio fenomenologico che consenta di costruire un percorso di lettura entro le opere dell’autore, per mettere in luce una tipologia dei componimenti. Il primo caso che analizziamo riguarda un’esplicita preghiera di intercessione, l’ode del 1602 Potentissimo nume, di cui si leggano la prima e le ultime strofe: Potentissimo nume, / che le cose create / co ’l tuo salubre lume / rendi liete e beate, / e con virtù infinita / nutri e conservi dolcemente in vita // […] // Vedi com’ora giace / l’amico egro e languente, / e non ritrova pace / da quell’umor algente, / che, con eterna doglia / te desiando, a sospirar l’invoglia. // Infondi in lui pietosa / quella virtù che rende / lieta ogni umana cosa / e ch’ei bramando attende, / sì ch’egli goda meco / gli anni felici del prudente greco. L’elemento che a prima vista può sorprendere nella lirica è l’assenza di qualsiasi connotazione cristiana del «nume» invocato: non si tratta infatti, come potrebbe sembrare dall’esordio, del Dio creatore che mantiene in vita gli esseri animati mediante il proprio soffio (Sal 104,29-30); tra l’altro, non si giustificherebbe in questo caso l’aggettivo femminile «pietosa». Il testo tuttavia si chiarisce se teniamo conto delle sue fonti: la lirica deriva infatti dall’ode di Bernardo Tasso A la dea de la salute, con cui condivide diversi passaggi testuali, la struttura bipartita, con il tratteggio del mondo malato e languente in assenza del sostegno divino o, all’opposto, felice e amoroso grazie all’intervento celeste, e la preghiera finale per la guarigione (della moglie in Bernardo, di un amico in C.); e l’ode tassiana a sua volta dipende da un Hymnus in bonam Valetudinem dell’umanista Marcantonio Flaminio (peraltro serravallese come C., il quale ne conosceva bene la produzione lirica). Rispetto ai precedenti cinquecenteschi, si osserva la scomparsa della 293 titolazione e di qualsiasi altro riferimento esplicito a una divinità pagana, il che può anche essere interpretato come una misura di prudenza in un’epoca che considerava con sempre maggiore sospetto i contenuti della mitologia classica; a ogni modo è evidente che qui la forma ‘preghiera’ riveste per il poeta un valore esclusivamente letterario, privo di implicazioni religiose, a meno di non voler pensare a qualche sorta di religione naturale. Differente è il caso di un testo di argomento affine in quanto preghiera di intercessione, ma questa volta entro un ambito pienamente cristiano: Clemenza divina appartiene al Teatro poetico fin dalla prima stampa del 1615, e la sua particolarità consiste nel fatto che l’orante che si esprime alla prima persona non è il poeta, bensì Maria vergine, la quale si rivolge al Figlio per impetrare misericordia verso l’umanità peccatrice. Ne deriva un componimento che curiosamente anticipa qualche tratto del manzoniano Natale del 1833, ad esempio nel rappresentarci l’immagine inconsueta di un Gesù folgoratore assiso sulle nuvole; così la breve prefazione in prosa dello stesso C.: «già Cristo nostro Signore si mostrò cinto dalle nubi del suo giusto sdegno co ’l fulmine in mano, per purgare con l’incendio il mondo dalle sue colpe; quando, per intercessione della Beata Vergine, rifulse il lampo della sua misericordia». Riportiamo le prime due ottave: O del gran Padre eterno eterna prole, / Figlio concetto in cielo e in terra nato, / mio vivo sol, ond’ha la luce il sole, / mio caro parto, ond’è il mio sen beato; / tu minacciante, io supplice? E pur suole / esser lo sdegno tuo da me placato: / apro le braccia, e questo petto ignudo / ti scopro, al mondo intercessore o scudo. // Queste piaghe sacrate e luminose, / adorati d’amor santi vestigi, / non sian ministre d’odio, se pietose / fur guida al cielo ai già piangenti e ligi. / Tu, che pene sentisti aspre e spinose / per salute del mondo, il mondo affligi? / Fulmini morte e semini dolore / tu, de la vita e de la gloria autore? Come nell’inno ottocentesco incompiuto, la pietas sembra collocarsi soltanto sul versante materno, con l’esibizione del «seno» e qui addirittura, non senza audacia, del «petto ignudo»; ma dal punto di vista teologico (campo nel quale C. non si mostra sprovveduto) si tratta naturalmente di un errore prospettico, e la risposta non può non ricercarsi nelle «piaghe» di Cristo, cioè nel suo volontario condividere la sofferenza dell’uomo per redimerla (e anche Manzoni noterà: «Ma tu pur nasci a piangere»). Si potrebbe parlare di una preghiera per interposta persona, in cui l’autore, ancora con un arti294 ficio letterario, si nasconde dietro lo schermo di una mediatrice cui lascia la parola (e già l’interpellato è il mediatore per eccellenza tra umano e divino: 1Tm 2,5), quasi per timore o pudore di un contatto troppo diretto. Si diceva di un C. non del tutto ignaro di studi sacri: un lettore qualificato come padre Giovanni Pozzi ha a suo tempo avvicinato il linguaggio delle Ode di argomento religioso a quello della teologia negativa, per l’insistita ricorrenza di figure esprimenti la contraddizione, come ossimori e antitesi, o che accrescono la contraddizione per via di somiglianze verbali, come paronomasie e simili ( , La parola dipinta, pp. 206-214): così Dio è «principio […] senza principio, / una e sola cagion senza cagione, / primo motore senza moto […], fine infinito […] / […], e senza loco ha loco» (ode Con regolati errori), Maria «genera il Genitore», «l’invisibile vede» e la sua è un’«umiltà sublime», Gesù neonato «è Verbo e tace» (ode Vergine e genitrice), e in questi termini si esprime un’ode dedicata alla trasfigurazione di Cristo: «Ch’invisibil si veda / e sia portato il portator del mondo, / che sia la vita occisa, e sia sua preda / di tante prede il predatore immondo / […] / sono misteri ignoti» (Oggi l’eccelsa luce). Alcuni tra i più tipici strumenti ‘arguti’ della stagione concettista si rivelano dunque funzionali all’espressione della via negationis, e la retorica parrebbe aprirsi alla mistica; che l’uso di questo procedimento da parte di C. non dovesse essere inconsapevole sembra provato da un passo del primo dei Ragionamenti interni, in cui l’autore, parlando alla propria anima, la avvisa: «se bene non potrai sapere perfettamente quello che sia Dio, intenderai almeno quello ch’egli non sia», prima di prodursi in una lunga serie di definizioni antitetiche analoga a quella di Con regolati errori. L’approdo ideale di un simile percorso non può essere che il silenzio («Qui riverente lega, / Musa, la lingua, e nel silenzio mio / ciò che non si può dir tacendo spiega», come recita l’explicit della medesima ode), anche se il linguaggio di C. rimane sempre al di qua di una vera discesa nel territorio della mistica, non allentando mai del tutto i legami logico-razionali. Queste ultime considerazioni però riguardano il parlare di Dio, e non a Dio, ciò che dovrebbe essere il proprium della preghiera. Nella prosa appena citata che apre i Ragionamenti interni non si dà propriamente preghiera in atto, ma piuttosto la precisa descrizione di una preghiera contemplativa o, se si vuole, si forniscono le istruzioni per realizzarla. Il soggetto che parla alla prima persona si trova solo, in orario notturno, su un alto monte (simbolo per eccellenza dell’itinerario ascetico), dal quale volge lo sguardo al cielo stellato, per trascorrere subito agli occhi «interni»: «sentomi rapito 295 sopra me stesso, mentre l’anima, ascendendo quasi per gradi dalle cose sensibili alle intelligibili, cerca avidamente di contemplare l’eterno Autore delle cose create, l’ultimo e felicissimo suo fine». L’anima viene quindi invitata a riconoscere tutte le bellezze del creato, elevandosi poi da queste al pensiero della bellezza divina: «Deh, spiega l’ali della contemplazione, anima mia, e considera ch’ogni bellezza e ogni bene particolare è un’orma della bellezza del primo Bene, […] e con questo naturale desiderio volgendoti a lui, ciò che non puoi comprendere, almeno con fede e con amore lauda e adora». Frutto della contemplazione è la consolazione spirituale recata dall’esperienza dell’amore divino: Anima mia, affissati in questo amore infinito […]; se a lui ritorni, come a tuo primo principio e ultimo fine, sentirai scendere in te dolcissime stille di gioia; […] affisandoti in questa verità, come in tuo ultimo oggetto, goderai felicissima il vero bene, gusterai su ’l margo dell’eterno fonte l’acque purissime, l’onde beanti che stillano dall’eterno Amore, il quale, nell’amorose sue braccia accogliendoti, pagherà il tuo amore con altissimo amore. Qui C. si fa direttore spirituale di se stesso, e indirettamente di chi legge, in un testo che sembra risentire dei metodi di orazione mentale diffusi all’epoca. In particolare, già Pozzi e in seguito Guaragnella (Gli occhi della mente, pp. 170-171 e 179) non possono non chiamare in causa gli Esercizi ignaziani, ma li pongono in relazione soprattutto con un’altra prova del serravallese, i dodici pezzi della Passione di Cristo: si tratta della creazione più originale dell’autore, componimenti figurati (per l’esattezza technopaegnia, ossia immagini ottenute grazie alla differente lunghezza dei versi incolonnati, e calligrammi, cioè versi liberamente disposti sulla pagina e utilizzati come tratti grafici per formare disegni) chiamati a rappresentare gli strumenti della passione: nell’ordine, la colonna della flagellazione, due fruste, la croce, il martello, i tre chiodi, la canna con la spugna, la lancia, la scala usata per la deposizione, i due dadi (riuniti in un’unica lirica) con cui i soldati gettano la sorte sulla tunica di Gesù. Ne emerge in primo piano il tema del ‘vedere’, centrale nella letteratura, religiosa e non, dell’età barocca: ma ciò che in Ignazio era il visus imaginationis in questo caso si trasforma in percezione visiva reale, grazie alla presenza della figura sulla carta offerta alla meditazione del lettore/osservatore. È stato osservato come in questi componimenti l’autore limiti l’uso delle acutezze e del materiale retorico troppo 296 artificioso, e il dato sarà molto probabilmente da mettere in relazione con una chiara volontà di mozione degli affetti: i testi seguono in gran parte il Du-Stil che sappiamo congeniale al C. lirico, e il ‘tu’ a cui sono indirizzati è quasi sempre l’oggetto stesso o il Cristo sofferente. Nella lirica di apertura tuttavia la seconda persona è impiegata ancora una volta per un’esortazione a un’«alma», che è insieme la propria e quella del lettore, punteggiata con grande insistenza dagli imperativi dei verba videndi; si trascrive unicamente il testo, senza tentare di renderne una riproduzione grafica: Alma pietosa, lagrimando mira / l’alta pietà dal ciel discesa / da impietà terrena offesa; / vedi lacero il pio / uomo innocente e Dio; / deh, contempla e rimira / la colonna che il ciel sostiene / tutta pene e di sangue tinta / a colonna di pietra avinta, / mira, mira dolente / il giudice celeste / in sembianza di reo, / il dator de le grazie / tra dure pene involto, / l’autore de la gloria / afflitto fra i tormenti, / l’onor del regno eterno / spettacolo funesto, / lui ch’ha il cielo per manto / addobato di sangue, / lui che dà moto al cielo / ora immoto e legato, / vedi la tua salute / priva omai di salute; / contempla la tua pace / sol per te posta in guerra; / guarda il tuo caro amore / d’odio e di rabbia cinto. / Ma battuto e flagellato / beni eterni ei t’apparecchia: / felicissimo male, onde giocondo / festeggia il cielo ed ha salute il mondo. Anche in questo caso, non tanto una preghiera diretta, quanto un invito alla preghiera, certo non inconsueto nel quadro della letteratura religiosa fra Cinque e Seicento (molto vicina, nello specifico, una canzonetta di Angelo Grillo sul medesimo tema comparsa nel suo Cristo flagellato, Venezia, Giunti e Ciotti, 1607, pp. 4-19). E credo che possa valere per C., come per tanti suoi contemporanei, una considerazione di Henri Brémond: «Anche nel sommo dei poeti l’esperienza poetica non si fa preghiera, quantunque tenda a diventarlo; in noi essa lo diviene senza difficoltà e proprio per merito del poeta. Strana e paradossale natura della poesia: una poesia che non , Preghiera e poesia, p. 200). prega e che fa pregare» ( Chiuderemo la veloce ricognizione con una delle ultime fatiche di C., quelle Meditazioni divote composte in età avanzata, come egli stesso sottolinea in una lettera prefatoria a Juan Antonio de Vera y Figueroa, ambasciatore di Madrid presso la Serenissima: «In questa mia tarda età di quindici lustri, ho mutato il canto delle Muse nel pianto del cuore contrito, e ho spiegato alcune divote meditazioni applicate ai misteri divini e ai santi de’ 297 quali si celebra la festa di giorno in giorno per tutto l’anno». Un’idea simile di per sé non è nuova nell’ambito della letteratura italiana, e si lega essenzialmente ai tentativi moderni di riscrittura cristiana di un classico quale i Fasti di Ovidio, che vanno a costituire un piccolo genere ‘calendariale’ a sé stante; per rimanere in un ambito culturale e in un’epoca prossimi a C., si possono ricordare Le feste dell’anno cristiano di Chiabrera (1628), i Fasti sacri di Ascanio Grandi (1635) e l’omonimo lavoro incompiuto che Sforza Pallavicino stese nella prima metà degli anni Trenta. Sennonché le Meditazioni non sono un poema come queste opere, né una raccolta di liriche com’è La corona dell’anno di Bernardino Baldi, ma una serie di 385 prose di varia lunghezza (in alcuni giorni vengono ricordati due diversi santi, o un santo e una festa liturgica) che hanno a che fare più con la liturgia o l’omiletica che con la letteratura: non per pura posa l’autore dichiarava di avere sostituito il canto delle Muse con il pianto del cuore. C. segue la scansione del Martyrologium Romanum (di cui era stata edita nel 1630 una nuova versione, voluta da Urbano VIII) dando vita a una scrittura abbondantemente intessuta di preghiere, se non in massima parte costruita su di esse: e per stabilirlo non sarà determinante osservare che i brani interpellano direttamente il santo del giorno (o Gesù, o Maria, a seconda della festività) alla seconda persona, ma piuttosto constatare che ognuno di essi si conclude con un «amen». Potrà essere sufficiente come esempio l’appello rivolto cumulativamente a tutti i santi, nella data liturgica del 1° novembre: Deh, amorosi contemplatori delle bellezze eterne, felicissimi amanti di Dio, santificati dal Santo dei Santi, volgete in me gli occhi vostri pietosi, e vedete com’io tutto languido e dolente, sepolto in una profonda fossa di peccati, non posso levarmi senza l’aiuto vostro; sollevatemi, per pietà, o regnatori insieme con Cristo, dandomi la mano della vostra intercessione […]. E poiché i vostri meriti sono i suffragi nostri, oggi che si celebrano in terra le vostre battaglie, le vittorie, le corone e i gloriosi vostri trionfi, […] porgete a Dio le moltiplicate vostre preghiere e ottenete per me la salute dal Signore. Nemmeno in pagine come questa C. dimentica del tutto la propria vocazione di uomo di lettere: ma è evidente la natura soprattutto devozionale dello scritto, ed è proprio questa che consente alla pratica dell’orazione di emergere finalmente in primo piano, non più filtrata attraverso il punto di vista delle Muse. 298 Edizioni Tra le opere di C., solo Della magia d’Amore è edita modernamente (a cura di introduzione di , Res, Torino 2002; a cura di , Sellerio, Palermo 2003); per tutte le altre, si deve ricorrere alle stampe citate nel testo. Studi Opere di riferimento generale: Poesia in forma di preghiera. Svela, menti dell’essere da San Francesco ad Alda Merini, Carocci, Roma 2023. Preghiera e poesia [1925], a cura di , Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2010. , Dio ignoto. Ricerche sulla storia della forma del discorso religioso , Morcelliana, Brescia 2002. [1912], a cura di , La preghiera dei poeti, «La civiltà cattolica», CLIII (2002), 3648, pp. 547-556. Contributi critici sulla produzione religiosa dell’autore: , Gli Gli occhi della mente. occhi della mente. Guido Casoni e la cultura della memoria, in Stili nel Seicento italiano, Palomar, Bari 1997, pp. 123-181. Teatro dei mondani comportamenti ed esercizi devoti. Su una operetta del veneto Guido Casoni, in , Teatri di comportamento. La regola e il difforme da Torquato Tasso a Paolo Sarpi, Liguori, Napoli 2009, pp. 73-92. , The Skies of the Soul’s Exile: Devotional Language and Baroque Rhetoric in Guido Casoni’s “Ragionamenti interni”, «Annali d’italianistica», XX , La parola dipinta [1981], Adelphi, Milano 2013. (2002), pp. 149-171. , Ancora su Guido Casoni: la circolazione accademica di un’ode per il Tasso e il dibattito sul poeta-‘teologo mistico’, in (a cura di), Poesia e retorica del sacro tra Cinque e Seicento, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2009, pp. 121-161. Le Ode di Guido Casoni: Il «Teatro» lirico e le «Sirene celesti», in , «Anime divote» e «tragici deliqui». Lirica e Teatro nelle metamorfosi della «letteratura spirituale» tra Seicento e Settecento, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2018, pp. 5-40. (a cura di), Guido Casoni. Un letterato veneto tra ’500 e ’600, Atti del Convegno di Studio, Vittorio Veneto 26-27 febbraio 2005, Teatri SpA, Treviso 2008. 299