MARIO LENTANO
(Università di Siena)
Terenzio paracomoedus
0. Iniziando questo intervento, adempio con piacere all’obbligo di ringraziare
Granfranco Nuzzo, al quale devo il cortese invito a prendere parte al convegno; il
mio debito di riconoscenza nei suoi confronti si amplia così ulteriormente, tanto
da farmi disperare di poterlo mai colmare; insieme ringrazio per la generosa
ospitalità l’Istituto nazionale del dramma antico, con la cui splendida rivista ho
l’onore di collaborare sin quasi dal primo numero della nuova serie. Confesso, tra
nomi di colleghi così eminenti, dai cui libri ho spesso imparato da studente prima
e da studioso poi, di provare lo stesso imbarazzo avvertito da Livio all’inizio
delle sue Storie; a lui chiedo dunque un viatico per aprire il mio intervento,
pensando che «se la mia fama rimarrà nell’ombra, troverò di che consolarmi
nella nobiltà e nella grandezza di quanti avranno offuscato il mio nome» 1.
1. Vengo dunque all’oggetto del quale vorrei qui occuparmi. Paratragoedare è
verbo e nozione plautina: il commediografo di Sarsina, com’è noto, si diverte a
fare il verso a situazioni e stilemi propri del genere teatrale maggiore, nell’ambito
di quel meticciamento degli stili e dei registri linguistici che rappresenta una
delle cifre della sua drammaturgia. «Anche la commedia talvolta innalza la
voce»: è una sentenza di Orazio che giustamente Maurizio Massimo Bianco ha
scelto come titolo di un suo recente e interessante contributo su questo aspetto
dell’arte di Plauto 2. La decisa opzione di Terenzio per in direzione di una
medietà tanto dal punto di vista linguistico che dell’organizzazione dell’intreccio
esclude simili innalzamenti; la “paratragedia” non è del tutto assente nel corpus
terenziano, anzi un’attenta disamina delle commedie da questo punto di vista
potrebbe forse condurre a risultati interessanti; ma certo ne costituisce un aspetto
secondario e in fondo marginale.
1
Liv. praef. 3.
2
M. M. BIANCO, «Interdum vocem comoedia tollit». Paratragedia “al femminile” nella
commedia plautina, Bologna 2007.
1
Il punto sul quale vorrei invece attirare l’attenzione riguarda quella che
definirei para-commedia: un’operazione che non è banalmente complementare a
quella compiuta da Plauto nei confronti della tragedia, perché comporta la
tendenza a convocare nel gioco letterario tratti e motivi afferenti non ad altro e
diverso genere, ma costitutivi della commedia stessa, o meglio, di quella sorta di
vulgata del genere comico che era stata consacrata essenzialmente dal magistero
teatrale plautino. La lunga e pervasiva presenza sulla scena del commediografo
sarsinate, protrattasi per almeno un ventennio, nonché la straordinaria fortuna
incontrata dalla sua personalissima reinvenzione dei modelli ellenistici, avevano
verosimilmente imposto il modo plautino di fare teatro comico come un modello
di riferimento, divenuto presto canonico e in certo modo prescrittivo; qualsiasi
operazione di ridefinizione della commedia implicava quindi inevitabilmente una
presa di posizione rispetto a quel prestigioso ma ingombrante precedente.
Naturalmente è molto difficile stabilire se un fenomeno di questo genere non
comparisse, magari in misura più contenuta, già in Cecilio; sarebbe molto
interessante, al riguardo, conoscere l’opinione del professor Guardì, la cui
edizione dei frammenti di Cecilio tutti noi abbiamo conosciuto e apprezzato; ho
in mente qualche frammento ceciliano che potrebbe avallare una simile
congettura; temo però che una valutazione appropriata del fenomeno della paracommedia sia possibile soltanto sulla lunghezza di un testo teatrale completo, che
consenta di apprezzarne appieno intenzioni, modalità, sviluppi.
Trovo a questo proposito interessante che la pièce nella quale a mio parere
l’elemento della para-commedia diventa fattore di organizzazione dell’intero
impianto dell’opera sia proprio l’Andria, copione d’esordio del commediografo
cartaginese, quello che, secondo una ben nota tradizione, Terenzio avrebbe letto,
giovanissimo, all’ormai anziano Cecilio Stazio, ricevendone un’attenzione
dapprima distratta, poi sempre più partecipe e consenziente. Accade cioè come se
Terenzio volesse incipitariamente, al momento stesso del suo accesso alla scena
teatrale romana, regolare i propri conti con la tradizione e ribadire nel modo più
limpido certe adesioni e certe prese di distanza. Con molta audacia, ma anche con
preciso senso di sé, il giovane ex schiavo si affacciava al contatto col pubblico
nella piena consapevolezza di voler battere strade nuove. Nell’Andria, infatti, il
gioco con le convenzioni proprie della commedia – ripeto, per come Plauto le
aveva definite, in modo autorevole e duraturo, nella tradizione romana – tocca
pressoché tutti i punti essenziali. Cercherò di illustrarli uno alla volta,
tralasciando solo la questione del nuovo prologo terenziano, già largamente
vagliata dagli studiosi.
2
2. Partirei da ciò che in una commedia si trova di norma alla fine, e cioè dal tema
del riconoscimento. La scarsa predilezione di Terenzio per la classica
anagnorisis (la sua “resistenza” a servirsi di questo dispositivo, come è stata
recentemente definita 3) è ben nota, ed è stata solitamente ricondotta alla ricerca
di un maggiore “realismo”, nella misura in cui una simile categoria moderna
possa essere appropriatamente impiegata per il teatro antico. Concentrando la
nostra attenzione sul corpus del Terenzio maggiore, per così dire – e quindi
tenendo fuori portata Eunuchus e Phormio –, nelle commedie in cui il
riconoscimento compare esso è in vario modo depotenziato, privato com’è della
sua caratteristica tradizionale di evento risolutivo dell’intreccio.
Nell’Heautontimorumenos il riconoscimento avviene piuttosto precocemente
nell’arco della commedia e anziché chiudere l’azione esso ne apre semmai uno
sviluppo ulteriore e tutt’altro che irrilevante; nell’Hecyra l’agnizione è
accompagnata da una ben nota battuta del giovane Panfilo, che aggredisce al
cuore il meccanismo del riconoscimento proprio denunciandone la natura di vieta
convenzione teatrale: «non voglio che accada come nelle commedie, dove tutti
vengono a sapere tutto; ora quelli che era opportuno che sapessero, sanno; quelli
che non è giusto che vengano a sapere, non saranno informati e non sapranno» 4.
Proprio nell’Andria, viceversa, il riconoscimento sembrerebbe pienamente
accolto e legittimato come tratto di chiusura dell’intreccio; in realtà esso è
oggetto da un capo all’altro della commedia di una ricorrente demistificazione,
che di fatto ne disconosce la validità nello stesso momento in cui se ne serve.
Così, ai vv. 217 ss. il servo Davo informa il pubblico che il giovane Panfilo e
la sua amata Glicerio, la «donna di Andro» che dà il titolo alla pièce, hanno
imbastito un racconto fittizio per far credere che la ragazza sia in realtà cittadina
ateniese: «Un tempo un vecchio mercante fece naufragio sull’isola di Andro, poi
3
Alludo a W. S. ANDERSON, Resistance to Recognition and “Privileged Recognition”
in Terence, «CJ» 98, 2002, pp. 1-8.
4
Ter. hec. 866-868: placet non fieri hoc itidem ut in comoediis / omnia omnes ubi
resciscunt. Hic quos par fuerat resciscere / sciunt; quos non autem aequomst scire
neque resciscent neque scient, su cui cfr. O. BIANCO, Terenzio. Problemi e aspetti
dell’originalità, Roma 1962, pp. 24-25 e L. PERELLI, Il teatro rivoluzionario di
Terenzio, Firenze 1973, p. 173. Qui e sempre, le citazioni terenziane provengono
dall’edizione oxoniense curata da R. KAUER e W. M. LINDSAY.
3
morì… allora il padre di Criside raccolse la piccola orfanella gettata sulla riva» 5.
Tutti i commenti rilevano che questa invenzione di Panfilo e Glicerio – come tale
presentata dal servo Davo, che parla apertamente di fallacia e impiega il
canonico verbo fingere 6 – corrisponde esattamente a quanto accadrà alla fine
della commedia, allorché Glicerio si rivelerà figlia di Cremete, vicino di casa e
amico di Simone, a suo tempo naufragata ad Andro, e potrà dunque sposare
Panfilo; questa però è una informazione che il pubblico di Terenzio, a questa
altezza della commedia, ancora non possiede; nel valutare le procedure di una
commedia antica (e di quella terenziana in particolare), noi dobbiamo rinunciare
provvisoriamente alla nostra superiorità conoscitiva di lettori per assumere il
punto di vista in fieri dello spettatore e le sue progressive ristrutturazioni; per il
pubblico è dunque giocoforza fare propria l’opinione di Davo: si tratta di una
invenzione priva di consistenza, di una storia fittizia per trarre in inganno Simone
e far passare la donna di Andro per quello che non è, una legittima cittadina
ateniese. Davo ostenta incredulità affermando che si tratta di una macchinazione
da amentes e non da amantes e che a lui «una cosa del genere non sembra affatto
verosimile» 7. Quest’ultima osservazione va tenuta da conto: poiché il gioco
paronomastico tra amantes e amentes è possibile solo in latino, le parole di Davo
vanno dunque ascritte a Terenzio e non al suo modello, e possono quindi essere
considerate un commento d’autore. Ed è una sicura aggiunta terenziana anche
l’osservazione relativa alla scarsa verosimiglianza della storia inventata da
Panfilo e Glicerio: se infatti è molto probabile che nell’originale menandreo la
notizia sulla vera paternità di quest’ultima era già fornita dal prologo 8, è
5
Ter. And. 221-223. Criside è la cortigiana, anch’essa proveniente da Andro, di cui
Glicerio è creduta sorella.
6
Ter. And. 220: et fingunt quandam inter se nunc fallaciam.
7
Si tratta rispettivamente dei vv. 218 (nam inceptiost amentium, haud amantium) e 225
(miquidem hercle non fit veri simile).
8
Questa è almeno l’opinione vulgata: tra gli altri cfr. T. FRANK, Terence’s Contribution
to Plot-construction, «AJPh» 49, 1928, p. 318; H. OPPERMANN, Zur «Andria» des
Terenz (1934), ora in E. LEFÈVRE (hrsg.), Die römische Komödie: Plautus und Terenz,
Darmstadt 1973, p. 318; H. HAFFTER, Terenzio e la sua personalità artistica, trad. it.,
Roma 1969 (Darmstadt 19672), p. 51; E. LEFÈVRE, Das Wissen der Bühnenpersonen bei
Menander und Terenz am Beispiel der Andria, «MH» 28, 1971, p. 25; G. CALBOLI,
Terenzio, «Andria» 481-499, «Philologus» 124, 1980, pp. 47-67; A. BLANCHARD, Essai
sur la composition des comédies de Ménandre, Paris 1983, p. 197; A. C. SCAFURO, The
4
altrettanto ovvio che in quella sede la notizia non poteva certo essere fatta
oggetto di una presa di distanza come quella di Davo; l’intervento di Terenzio
non consiste dunque solo, come di norma si legge, nell’aver dislocato all’interno
della pièce un’informazione che Menandro forniva nel prologo, ma, molto più
profondamente, nell’aver demistificato quella stessa informazione, nell’averla
degradata al rango di un inganno goffo e inverosimile. Se perciò alla fine quella
invenzione si tramuta in realtà e Glicerio si rivela davvero la figlia orfana di un
ateniese naufragato ad Andro, è legittimo, e direi anzi inevitabile, estendere il
commento di Davo-Terenzio al finale stesso della commedia: un finale che
appare dunque alla stregua di una trovata da amentes, qualcosa che non fit veri
simile. La commedia di Terenzio accoglie così al proprio interno, e nel medesimo
tempo, se stessa e la sua negazione, la riproposizione di un topos e la sua
contestuale, anzi preventiva demistificazione 9.
In questo senso, è ancora più interessante il fatto che immediatamente dopo
aver riferito della storia imbastita da Panfilo e Glicerio, Davo la commenti con
un brusco Fabulae! 10. Qui davvero il latino è intraducibile (e questa, detto per
inciso, è una prova ulteriore di Bearbeitung terenziana): non credo sia possibile
pensare in italiano ad un termine che contenga in sé da un lato l’idea di
un’invenzione favolosa, appunto, destituita di ogni plausibilità, dall’altro quella
di pièce teatrale, un significato con il quale fabula compare, per fare un solo
esempio, già al terzo verso del prologo dell’Andria proprio in riferimento alle
commedie composte da Terenzio 11. Il gioco del commediografo è dunque qui
Forensic Stage. Settling Disputes in Graeco-Roman New Comedy, Cambridge 1997, pp.
255-256, note 32-33 e p. 367; perplessità solleva BIANCO, Terenzio, cit., pp. 68-70.
9
Molto bene su questo punto B. COMPAGNO, L’«Andria» e la parodia della fabula,
«Pan» 20, 2002, p. 51: «l’improbabile fallacia che il servo sbeffeggia è l’essenza stessa
della commedia […]. Il personaggio, orditore di fallacie per antonomasia nella palliata,
mette in ridicolo la fabula stessa entro cui agisce». È riduttivo dunque pensare, con
LEFÈVRE, Das Wissen der Bühnenpersonen, cit., p. 26, che Fabulae! e gli altri
commenti di Davo abbiano qui solo «die Funktion dramaturgischer Verschleirung»,
“occultamento” teso a dissimulare la necessità per Terenzio di fornire informazioni che
lo spettatore greco otteneva già dal prologo.
10
Al v. 224.
11
Sulla nozione di fabula nella cultura romana cfr. da ultimo il bel contributo di M.
BETTINI, Mythos/Fabula: Authoritative and Discredited Speech, «HR» 45, 2006, pp.
195-212.
5
raffinato e scoperto insieme: la storia messa su da Panfilo e Glicerio è al tempo
stesso una fabula intesa come escogitazione fantasiosa e inverosimile, ma anche
una fabula in quanto invenzione da commedia, anzi in quanto commedia vera e
propria in un suo tratto pertinente e caratterizzante quale è appunto l’agnizione:
la polisemia del termine impiegato da Davo finisce per evocare entrambi i valori
del termine e induce dunque a considerare la commedia stessa nei termini di
un’invenzione gratuita e destituita di credibilità: anche in questo caso la scena
demistifica se stessa, nella cornice di una fabula si può impiegare la stessa parola
fabula nel significato di invenzione fantastica e incredibile 12. Se di
“metaletteratura” si può parlare, in un caso di questo genere, allora bisogna anche
riconoscere che la sua portata è più ampia, comunque differente da quella che
normalmente si rinviene in Plauto: ad essere osservato dall’esterno, demistificato
e svelato nel suo carattere di gioco e di convenzione non è questo o quel tratto
della rappresentazione, ma il genere letterario commedia nella sua interezza.
Ma non abbiamo ancora chiuso i conti con questa sezione dell’Andria. Una
volta Ulrich von Wilamowitz ebbe a sostenere, con straordinaria efficacia, che la
Medea di Seneca sembra aver letto l’omonima tragedia di Euripide: il
personaggio senecano appare già consapevole di sé, già perfettamente conscio di
quello che ci si può attendere da lei, è un personaggio riflesso, consapevole del
proprio passato letterario più e prima che del proprio vissuto biografico e
individuale 13. Ebbene, in modo non dissimile si potrebbe affermare che i
personaggi terenziani sembrano personaggi “che hanno letto Plauto”: sono
personaggi di secondo grado, figure metaletterarie, come in fondo succede spesso
nella storia della letteratura latina, che più volte non nasconde, anzi esibisce la
propria natura di Nachliteratur, di letteratura sulla letteratura, una sorta di
letteratura au second degré. Glicerio e Panfilo che inventano una perfetta storia
di agnizione sono come personaggi che sanno benissimo come si scrive una
scena di riconoscimento, ne padroneggiano topoi e motivi ricorrenti, sanno che in
12
E infatti il medesimo termine fabula ritorna sulla bocca di Simone (v. 925 fabulam
inceptat) quando Critone, alla fine della commedia, inizia a narrare la storia di Glicerio,
e lo fa esattamente con gli stessi termini impiegati da Davo (v. 221 navim is fregit apud
Andrum insulam ~ v. 923 Atticus quidam olim navi fracta ad Andrum eiectus est): il
richiamo tra i due passi (rilevato, tra i principali commenti, dal solo Spengel) è
chiaramente intenzionale, e così la duplice, “metateatrale” valenza del termine fabula.
Cfr. anche COMPAGNO, L’Andria e la parodia, cit., p. 51 e nota 10 e p. 55.
13
U.
126.
VON
WILAMOWITZ-MOELLENDORFF, Griechische Tragödien, Berlin 1926,
6
III,
p.
una commedia è per questo tramite che due amanti “irregolari” possono uscire
dall’impasse nella quale si dibatte la loro relazione. Appropriandosi per un attimo
dello statuto del drammaturgo, Panfilo e Glicerio stanno inventando un perfetto
riconoscimento da commedia.
3. Ritorneremo fra un attimo sulla natura dei personaggi terenziani come
personaggi “che hanno letto Plauto” e sulle implicazioni di questo loro statuto.
Intanto, però, segnaliamo come la parodia terenziana prenda a bersaglio, ancora
nell’Andria, un altro elemento caratteristico della commedia: alludo alla
convenzione per la quale l’azione scenica, gli eventi che conducono al precipitare
di una situazione e poi al suo esito felice, si risolvono tutti nell’ambito di
un’unica giornata, anzi nel tempo della rappresentazione stessa. Nell’Andria
Terenzio attira espressamente l’attenzione sulla inverosimiglianza di questa
concentrazione dei tempi e degli eventi ed essa è oggetto di una presa di distanza
non dissimile da quella messa in opera dal servo nei confronti dell’agnizione.
Nello scorcio finale dell’Andria fa la sua apparizione un nuovo personaggio,
Critone: il vecchio si presenta come cugino di Criside, proviene da Andro ed è
giunto ad Atene per incamerare l’eredità della cortigiana, a lui riveniente, e per
sapere se Glicerio abbia ritrovato i suoi veri genitori. La sua venuta risulterà
decisiva: sarà infatti Critone a rivelare l’identità di Glicerio e a consentire dunque
la felice conclusione della commedia. Ma Simone, padre di Panfilo, diffida:
sospetta che Critone sia un personaggio appositamente istruito dal figlio, che il
suo racconto costituisca un’invenzione congegnata per trarre d’impaccio i due
amanti – una fabula, si potrebbe dire. Si produce quindi uno scambio di battute
piuttosto brusco tra il padre risentito e il vecchio di Andro, certo poco disposto a
tollerare le esplicite insinuazioni di Simone e i dubbi da lui avanzati sulla propria
buona fede. Tra le battute di questo dialogo, è per noi particolarmente
interessante quella in cui Simone osserva: «E come mai è stato così tempestivo
da capitare qui proprio il giorno delle nozze, mentre prima non lo si è mai visto?
E a una persona del genere bisognerebbe credere, Cremete?» 14.
L’inverosimiglianza contro la quale Simone punta il dito è dunque proprio
l’implausibile concentrazione degli eventi nell’arco di una sola giornata, una
delle più tenaci convenzioni del teatro, non solo comico: la sua battuta «e a costui
bisogna credere?» – ma altrettanto bene si potrebbe rendere «ad una cosa di
14
Ter. And. 916-917 (itane adtemperate evenit, hodie in ipsis nuptiis / ut veniret,
antehac numquam? Est vero huic credendum, Chreme?). Preciso che mi discosto in
questo caso dal testo dell’edizione Kauer-Lindsay, segnando punto interrogativo invece
di punto fermo dopo Chreme.
7
questo genere bisogna prestare fede?» – fa il paio con la perplessità di Davo a
proposito dell’inverosimile storia escogitata da Panfilo e Glicerio.
Senonché anche Simone, come Davo, ha torto: in effetti, Critone è esattamente
ciò che dice di essere (e questa volta il pubblico ne è già a conoscenza), egli è
davvero giunto ad Atene proprio nel momento in cui la sua presenza si sarebbe
rivelata decisiva. Eccoci nuovamente di fronte alla compresenza di affermazione
e negazione, motivo letterario e sua critica, convenzione e denuncia
dell’inverosimiglianza della convenzione stessa: cose incredibili si danno in
commedia realmente, e insieme le cose che si danno in commedia sono
incredibili 15.
Del resto, la denuncia della inverosimiglianza di certe coincidenze e
combinazioni di cui invece si alimenta la commedia tradizionale è presente anche
altrove nell’Andria. Ai vv. 459 ss., ad esempio, Simone si trova ad assistere
all’ingresso della levatrice in casa di Glicerio; la donna di Andro è in preda alle
doglie; conversando sulla soglia, l’ancella Miside e l’ostetrica Lesbia
commentano la decisione di Panfilo, pronto a riconoscere come legittimo il
bambino che sta per nascere. Simone si convince immediatamente che la scena
alla quale inopinatamente ha assistito sia fittizia, che rappresenti una messa in
scena allestita dal servo Davo: le grida di dolore di Glicerio dall’interno della
casa gli appaiono simulate allo scopo di dare ulteriore verosimiglianza alla
rappresentazione. Il commento del vecchio padre all’udire le urla della
partoriente è significativo: «Ehi, così presto? È ridicolo: quando ha sentito che
ero davanti alla porta, si è affrettata a gridare. Davo, non hai calcolato bene i
tempi […] O sono stati i tuoi allievi a dimenticare la parte?» 16. Dunque, la
convinzione di trovarsi di fronte ad una finzione nasce in Simone non già dalla
inverosimiglianza di quanto ha visto (che è anzi “sospettosamente” coerente), ma
15
Bene S. M. GOLDBERG, The Dramatic Balance of Terence’s Andria, «C&M» 33,
1981-82, p. 143, n. 6 parla della capacità terenziana «to exploit and laugh at a
convention simultaneously» (l’articolo è ristampato, con decurtazione delle note, in E.
SEGAL (ed.), Oxford Readings in Menander, Plautus, and Terence, Oxford 2001, pp.
216-223).
16
Si tratta dei vv. 474-477 (hui tam cito? Ridiculum: postquam ante ostium / me audivit
stare, adproperat. Non sat commode / divisa sunt temporibu’ tibi, Dave, haec. […] /
Num inmemores discipuli?), sui quali cfr. le belle considerazioni di L. CICU, Spectator
extra fabulam. La nascita del dramma assoluto, «Sandalion» 19, 1996, p. 66; della
COMPAGNO, L’«Andria» e la parodia, cit., p. 52; di P. KRUSCHWITZ, Terenz,
Hildesheim-Zürich-New York 2004, p. 50.
8
dal rilevare la coincidenza tra il suo accesso sulla scena e le grida di Glicerio, una
coincidenza troppo singolare per essere credibile; con gioco metateatrale, Simone
rimprovera a Davo di aver calcolato male i tempi della sceneggiatura o di essersi
servito di attori scadenti, che hanno recitato male la loro parte. Come già nel caso
di Davo e della sua esclamazione Fabulae!, così anche qui l’inverosimiglianza di
una situazione è espressa attraverso il suo accostamento alla finzione scenica; lo
straniamento deriva però dal fatto che questo accostamento avviene proprio
all’interno di un’opera teatrale. Anche di Critone, come abbiamo visto, Simone
sospettava che fosse un attore, un pessimo attore, cui era stata assegnata da
Panfilo una parte da recitare, come tante volte accade nella commedia plautina. E
anche in quel caso a tradire, agli occhi di Simone, la natura fittizia degli eventi
che si producono sulla scena è la straordinaria serie di coincidenze,
l’inverosimile concentrazione che fa accadere tutto nell’“oggi scenico”: non è
credibile che “proprio ora” Glicerio stia partorendo, non è credibile che “proprio
oggi” Critone sia giunto ad Atene.
Ora, sia nel caso di Simone che in quello di Davo, ciò che essi percepiscono
come messa in scena di attori improvvisati, poco credibile perché fondata su
coincidenze assolutamente inverosimili, o come escogitazione di commediografi
da quattro soldi, capaci solo di inventare la più convenzionale tra le storie di
agnizione, è invece del tutto reale: Glicerio è davvero figlia di un mercante che
ha fatto naufragio ad Andro; sempre Glicerio sta davvero partorendo quando
Simone entra in scena; e Critone è davvero un vecchio di Andro giunto per caso
ad Atene il giorno delle nozze di Panfilo: di nuovo la commedia contiene in se
stessa gli elementi della propria falsificazione, messa in scena e demistificazione
della messa in scena coincidono. Davo e Simone funzionano come una sorta di
spettatori interni che commentano, giudicandoli inverosimili, una serie di
meccanismi che sono per l’appunto i meccanismi tipici della commedia stessa,
tanto tipici da essere scambiati dai due personaggi per giochi di teatro, per scene
da palcoscenico, per trame di commedia. Quelle singolari coincidenze, quella ben
poco credibile concentrazione e combinazione di tempi e situazioni sono
esattamente le convenzioni sulle quali si fonda la commedia tradizionale;
giudicandole poco credibili, valutandole come rappresentazioni mal riuscite di
attori improvvisati, Simone e Davo demistificano la commedia dall’interno, sono
personaggi di teatro che prendono le distanze dal teatro stesso, o meglio dalla
forma che il teatro ha assunto nella tradizione della commedia romana. Sono,
potremmo dire, insieme personaggi e spettatori, osservati dal pubblico e insieme
pubblico delle rappresentazioni davanti alle quali sospettano di volta in volta di
trovarsi: configurandosi come pubblico interno, come sorta di pròtesi della platea
installata nel cuore stesso della scena, essi finiscono per suggerire al pubblico
9
vero, quello assiepato intorno al palcoscenico, un atteggiamento di diffidenza nei
confronti della finzione scenica proprio mentre ne fanno parte a tutti gli effetti.
Al tempo stesso, la loro convinzione di essere di fronte a una serie di inganni
orditi ai loro danni ne denuncia ancora una volta la natura di personaggi “che
hanno letto Plauto”: questo li porta a interpretare ciò che accade sul palcoscenico
come se avvenisse all’interno di una pièce del Sarsinate e ad assumere perciò la
diffidenza di chi sa già cosa deve succedere, conosce la sceneggiatura e prende
immediatamente le sue cautele, trincerandosi in una preventiva e preconcetta
incredulità.
Di tenore analogo è un altro equivoco che, ancora nell’Andria, vede come
protagonista l’altro senex, Cremete 17. Anche in questo caso il vecchio entra in
scena dall’esterno nel momento esatto in cui l’ancella Miside sta uscendo di casa
con il fagottino che contiene il bambino appena nato di Glicerio e Panfilo. Qui la
situazione è drammaturgicamente piuttosto complessa: in questo caso è infatti
Davo che accusa fittiziamente Miside di aver messo su un inganno allo scopo di
dissuadere Cremete dalle progettate nozze tra sua figlia e Panfilo; l’ancella viene
accusata di aver procurato un puer suppositicius spacciandolo per figlio di
Glicerio, ma Davo si dice certo che Cremete non cadrà nell’inganno. Anche qui
dunque il gioco prende ad oggetto una convenzione da commedia: Davo riesce
perfettamente a improvvisare la sua parte di fittizio accusatore di Miside perché
sa bene che sulla scena teatrale lo scambio di neonati rientra tra gli ingredienti
possibili dell’intreccio; torna anche qui, non a caso, l’uso ambivalente (o
polisemico) di fabula, ancora una volta sulla bocca di Davo: «Che storia è
questa? [ma anche: cos’è questa commedia?] / Miside, dico a te, da dove viene
questo bambino?» 18. Così la diffidenza di Cremete, il quale invece è persuaso che
ciò che vede corrisponda alla realtà – come in effetti è –, finisce ancora una volta
per delegittimare implicitamente un topos proprio della tradizione comica 19.
17
Ter. And. 740 ss.
18
Ter. And. 747-748 hem quae haec est fabula? / Eho Mysis, puer hic undest?
19
Cfr. al riguardo le osservazioni di E. FANTHAM, Domina-tricks, or How to Construct
a Good Whore from a Bad One, in E. STÄRK, G. VOIGT-SPIRA (hrsg.), Dramatische
Wäldchen. Festschrift für Eckard Lefèvre zum 65. Geburtstag, Hildesheim-Zürich-New
York 2000, p. 295, che rimanda al Truculentus plautino; ma c’è la Cistellaria, vv. 133
ss. (eam meae ego amicae dono huic meretrici dedi, / quae saepe mecum mentionem
fecerat, / puerum aut puellam alicunde ut reperirem sibi, / recens natum eapse quod sibi
supponeret eqs.) e ci sono i memorabili versi di Aristofane, Tesmoforiazuse, 502-511:
10
4. Nell’alveo della para-commedia farei rientrare un altro aspetto del teatro
terenziano che è forse quello più diffuso e meglio noto: alludo alla tendenza
propria del commediografo cartaginese a frustrare le aspettative alimentate da un
certo personaggio, il quale, una volta comparso in scena, una volta entrato
concretamente nello svolgimento della pièce, si muove e si comporta in modi che
smentiscono sistematicamente quelle aspettative 20. Basti qui ricordare come
l’intera azione dell’Hecyra, dall’inizio alla fine, sia completamente costruita sulla
frustrazione delle aspettative che ciascuno dei diversi personaggi ha rispetto a
tutti gli altri; la difficoltà e la bellezza di questa straordinaria pièce terenziana
consistono per l’appunto nel grande impegno che essa richiede al proprio
pubblico, non a caso ripetutamente renitente a svolgerlo, per adattare di volta in
volta la propria messa a fuoco degli eventi e dei loro protagonisti a mano a mano
che il procedere del dramma li rivela sotto una nuova luce. Un caso eloquente,
proveniente proprio dall’Hecyra, è quello della cortigiana: dipinta come avida,
sfrontata, gelosamente possessiva nei confronti del proprio amante,
pregiudizialmente ostile alla moglie legittima di quest’ultimo, Bacchide si rivela
invece la più compiuta realizzazione della bona meretrix, rilevata già dai
commentatori antichi come figura originale del teatro terenziano; non è un caso
che essa finisca per sorprendere le aspettative di tutti i personaggi con i quali di
volta in volta viene a contatto, non da ultimo persino del suo ex amante Panfilo 21.
«Conosco un’altra donna che aveva finto di aver le doglie / per dieci giorni, finché non
ebbe comprato un bambino. / Il marito andava di qua e di là per procurarle ciò che era
necessario / ad affrettare il parto, e intanto una vecchia le portava un neonato / dentro
una pentola: perché non piangesse gli aveva tappato / la bocca con la cera. Appena la
vecchia le ebbe fatto un cenno, / la donna si mise a gridare: “va’ via, va’ via, marito
mio, / questa volta sto per partorire!” Il bambino infatti / aveva scalciato nella pancia –
della pentola. Il marito corre fuori felice, / la vecchia toglie la cera della bocca del
bambino e quello si mette a piangere» (trad. di M. Bettini).
20
Uno specifico contributo su questo aspetto del teatro terenziano è quello di T.
MCGARRITY, Reputation vs. Reality in Terence’s Hecyra, «CJ» 76, 1980-81, pp. 149156.
21
Della bona meretrix terenziana si è discusso a lungo: troppo unilateralmente ne mette
in dubbio l’esistenza W. GILULA, The Concept of the bona meretrix. A Study of
Terence’s Courtesans, «RFIC» 108, 1980, pp. 142-165 (contra, tra gli altri, E. SEGAL,
The Death of Comedy, Cambridge [Mass.] 2001, p. 253 e n. 77); da ultimo cfr.
FANTHAM, Domina-tricks, cit., pp. 287-299 (centrato prevalentemente sulla Fronesio del
11
Ora, questo fenomeno – la dissonanza tra le aspettative legate ad un certo
personaggio e le forme in cui quel personaggio si rivela effettivamente quando
compare nell’intreccio – è stato più volte rilevato, come dicevo; meno, mi pare, è
stato osservato che l’immagine di sé che il personaggio terenziano si incarica di
smentire è pressoché invariabilmente quella che proprio la tradizione della
commedia aveva finito per consacrare: lo schiavo, il padre, la suocera, il figlio, la
cortigiana terenziani si contrappongono non ad una generica configurazione
convenzionale dei loro ruoli, ma precisamente a quella configurazione che la
commedia plautina aveva tracciato di loro e che si imponeva quindi, nelle attese
del pubblico, come la configurazione per eccellenza. Essi sono personaggi
metaletterari nel senso che guadagnano tutta la loro novità non già in rapporto ai
loro equivalenti del mondo reale, se possiamo esprimerci così, ma in relazione al
profilo letterario che di quelle stesse figure era venuto definendosi e
stabilizzandosi nella tradizione del teatro plautino. Del resto, se, come suggerivo
poc’anzi sulla scorta di Wilamowitz, i personaggi terenziani sembrano aver letto
Plauto, e sul presupposto di trovarsi nel contesto di una “normale” commedia
plautina elaborano reazioni, comportamenti e aspettative, non è meno vero che
gli spettatori terenziani sono spettatori “che hanno visto Plauto”, portatori quindi
delle medesime aspettative. I personaggi terenziani costituiscono allora una sorta
di “spettatore interno”, di spectator intra fabulam, nel senso che le aspettative di
cui essi sono portatori sono le stesse di cui è latore il pubblico – l’aspettativa,
cioè, di trovarsi di fronte ad una commedia di tipo plautino – e la sorpresa o lo
straniamento che essi patiscono allorché le loro aspettative vengono smentite
coincidono con quelli sperimentati dal pubblico terenziano.
5. Ma riprendiamo la nostra rassegna delle forme assunte dalla parodia comica
terenziana. Una di queste forme è senz’altro individuabile in quelle situazioni
nelle quali un personaggio si mostra pienamente consapevole dei topoi relativi
alle figure ricorrenti in commedia, al punto da poter giocare con quei topoi stessi
e servirsene ai propri fini. È il caso di quegli schiavi – Davo nell’Andria, ma
anche, anzi in misura maggiore, Siro negli Adelphoe – i quali fanno il verso ai
loro padroni dicendo loro ciò che essi si aspettano di sentire in merito ai propri
figli. Essi rassicurano rispettivamente Simone e Demea dipingendo Panfilo e
Ctesifone come giovani assennati, pienamente consapevoli delle aspettative
paterne nei loro confronti e il cui comportamento corrisponde appieno a quelle
Truculentus plautino, ma con utili osservazioni anche su Terenzio) e G. TOTOLA, Elio
Donato e il concetto di bona meretrix nelle commedie di Terenzio, in R. PRETAGOSTINI,
E. DETTORI (a c. di), La cultura ellenistica. L’opera letteraria e l’esegesi antica, Roma
2004, pp. 385-392.
12
stesse aspettative 22. Accade come se quegli schiavi avessero familiarità con il
personaggio teatrale del durus pater, ne conoscessero idiosincrasie, preferenze,
avversioni, e fossero perciò in grado di modellare le proprie battute alla luce di
questa familiarità. Davo e Siro conoscono il profilo letterario dei loro
interlocutori, ne frequentano aspettative, parole d’ordine, valori di riferimento,
conoscono perfettamente lo script, la sceneggiatura che di solito il poeta comico
imbandisce per il padre severo. Nel momento in cui quest’ultimo cessa di essere
un individuo per trasformarsi in un fascio di topoi, in un insieme stereotipo di
tratti e comportamenti, di aspettative e reazioni fisse e quindi prevedibili, allora
chiunque, persino uno schiavo, può indossarne all’occorrenza la maschera,
purché conosca le battute che il copione prevede per quella figura.
6. Mi sia consentita un’ultima incursione nella parodia terenziana di aspetti e
motivi propri della commedia: e voglio alludere ora al matrimonio, quel
matrimonio che spesso conclude gli intrecci delle pièces plautine e terenziane. In
miei lavori precedenti ho cercato di argomentare che le nozze, poste come sono
alla fine di molte commedie latine, si caricano di un ben preciso valore
antropologico: esse segnalano l’avvenuta chiusura del periodo liminare, del
“margine” vissuto dai giovani protagonisti della scena plautina e terenziana, di
quella fase della loro socializzazione al mondo adulto durante la quale hanno
presunto di poter infrangere le regole consolidate della cultura alla quale
appartengono; rispetto a questa fase, il matrimonio costituisce e propizia il
momento del loro definitivo rientro nei ranghi, dell’accettazione spesso
sgradevole ma comunque ineludibile delle compatibilità e delle responsabilità
dell’età adulta 23. La commedia, spazio della trasgressione e della
sperimentazione di mondi possibili, si chiude così nel segno della
normalizzazione, della riaffermazione di valori e modelli che solo l’alibi della
scena teatrale aveva consentito per un attimo di mettere in discussione.
Da questo punto di vista, è naturale che il matrimonio sia fenomeno che
riguardi i soli adulescentes: i senes, nella commedia, sono perlopiù già sposati,
sia pure con esiti ben poco gratificanti, oppure felicemente vedovi o scapoli
impenitenti, come il Periplectomeno del Miles plautino, il quale teorizza com’è
noto la bontà della propria scelta in barba a qualsiasi richiamo dei suoi
22
Si tratta rispettivamente di And. 443 ss. e ad. 355 ss.
23
Ho lungamente sviluppato questo punto nell’ultimo capitolo del mio Le relazioni
difficili. Parentela e matrimonio nella commedia latina, Napoli 1996, cui mi permetto
di rinviare.
13
interlocutori all’opportunità della scelta coniugale 24. Del tutto anomalo, in questo
contesto, si presenta perciò, alla fine degli Adelphoe, il caso del matrimonio di
Micione, personaggio che pure presenta significative analogie proprio con il
senex lepidus del Miles. Non solo perché si tratta di un matrimonio che riguarda
un grandis natu, il quale ha ispirato l’intera sua vita ad una atarassia che esclude
programmaticamente l’orizzonte coniugale, ma soprattutto perché, ciò
nonostante, la funzione che sembra essere attribuita a questo matrimonio è la
stessa cui solitamente le nozze adempiono nella commedia romana: si tratta
anche qui di porre fine a degli eccessi, di chiudere un periodo di mancato rispetto
delle regole culturali che nel caso di Micione si è colpevolmente prolungato per
quasi tutta la vita. Venutosi a configurare come una sorta di doppio del figlio
adottivo Eschino (e anche di Ctesifone, il figlio che invece è cresciuto accanto al
padre Demea), al punto che Eschino stesso lo assimila a un sodalis o senz’altro a
un frater 25, egli ne condivide le intemperanze, ne giustifica le trasgressioni, ne
promuove gli eccessi, e andrà dunque assoggettato alla medesima terapia di
norma adibita per sanare le effervescenze della giovinezza: se Demea pretende il
matrimonio del figlio Ctesifone, non appena sarà sbollita la sua infatuazione per
la cortigiana Bacchide, allo stesso modo e per ragioni non dissimili chiede che
anche Micione acceda, tardivamente ma opportunamente, alla dimensione
matrimoniale: una dimensione naturalmente degradata, con una donna anziana,
con la quale Micione non ha alcuna precedente dimestichezza: del resto, è così,
di norma, anche per le donne di buona famiglia che i giovani di commedia
vengono di norma costretti a sposare. Adolescente attempato, trasgressore fuori
tempo massimo, Micione verrà ricondotto alla ragione alla stessa stregua di un
qualsiasi scapestrato giovinastro da commedia.
Se posso permettermi un inciso, io credo che queste considerazioni possano tra
l’altro contribuire a risolvere la ben nota questione della presenza già
nell’originale menandreo del matrimonio di Micione. Come si sa, il commento di
Donato informa (nella nota al v. 938) che nel modello degli Adelphoe, gli
Adelphoí B di Menandro, il vecchio de nuptiis non gravatur: e si discute tuttora
tra gli studiosi se la locuzione di Donato vada intesa nel senso che il Micione
menandreo non opponeva alcuna resistenza alla proposta di matrimonio avanzata
da Demea oppure che tale proposta nel modello greco non veniva affatto
24
Discussione e bibliografia ivi, pp. 70-103.
25
Ter. ad. 708.
14
avanzata 26. Io credo che quanto abbiamo osservato poc’anzi possa indirizzare
verso quest’ultima ipotesi; se è così, come una parte non esigua degli studiosi
ritiene, e se dunque l’elemento del matrimonio senile di Micione è da
considerarsi una innovazione terenziana, allora si tratta di un ulteriore aspetto di
para-commedia, nel senso che Terenzio gioca applicando a Micione un tratto
conclusivo che pertiene di norma ai soli adulescentes; in questo modo, entrambe
le modalità con le quali, alternativamente o congiuntamente, si chiude si solito
una commedia latina, il matrimonio e l’agnizione, sarebbero oggetto da parte di
Terenzio della medesima degradazione parodistica.
7. Nell’avviarmi a prospettare qualche conclusione di questa analisi sommaria
della commedia terenziana vorrei trarre uno spunto di analisi, si parva licet, dalla
splendida prefazione che Gian Biagio Conte scrisse qualche anno fa per
l’edizione Marsilio dei Remedia amoris ovidiani 27. I Remedia, argomentava
Conte, sono comprensibili e acquistano senso in riferimento a quel tipo preciso di
costrutto eminentemente letterario che è l’amore elegiaco: la composizione di
un’opera come quella ovidiana è possibile cioè solo nella misura in cui quella
esperienza sia stata assunta in tutto il suo carattere di convenzione letteraria, che
come tale produce una convenzione di segno uguale e contrario, per cui all’Arte
di amare fa riscontro l’arte di non amare, o l’arte di disimparare ad amare,
apprestata per l’appunto dai Remedia. In Ovidio Conte rileva un «inizio di
consapevolezza critica che dal di fuori “assiste” alla formazione del testo e ne
disvela le pratiche implicite» 28. Questa è la definizione che Conte fornisce
dell’ironia ovidiana, ma essa si attaglia splendidamente anche alla categoria della
parodia comica terenziana che abbiamo sin qui cercato di mettere a fuoco.
Sentiamo ancora Conte: Ovidio ha meditato attentamente le parole dei suoi
predecessori nel genere elegiaco,
26
Rimando per brevità agli studi da me censiti in Quindici anni di studi terenziani.
Parte prima: studi sulle commedie (1979-1993), «BStudLat» 27, 1997, in particolare
pp. 549-553; tra gli studi apparsi successivamente cfr. A. PERUTELLI, La conclusione
degli Adelphoe, «Incontri triestini di filologia classica» 2, 2002-2003, p. 173 e n. 7
(secondo il quale in Menandro Micione «non si sente angustiato» dalle nozze).
27
L’amore senza elegia. I Remedia amoris e la logica di un genere, in C. LAZZARINI (a
c. di), Ovidio. Rimedi contro l’amore, Venezia 19872, pp. 9-53.
28
Ivi, p. 23.
15
ha imparato a capire come è costruito il sistema che le programma, ha scoperto quali
contraddizioni lo abitano, lo ha decostruito […] e ora sa ricostruirlo a suo modo. Il testo
ovidiano accetta le convenzioni del genere, si pone in rapporto di intertestualità con la
lignée elegiaca, anzi di continuazione […]. Ma nel momento stesso in cui acquista una
superiore comprensione delle istanze letterarie che sono proprie dell’elegia […] Ovidio
resta come sospeso, in quanto rifiuta sia la semplice identificazione con il modello
elegiaco tradizionale sia il netto ripudio di esso. L’ironia segnala questa esitazione fra
discorsi incompatibili o almeno dissenzienti 29.
Io credo, lo ripeto, che la lettura contiana dell’ironia di Ovidio possa essere
reimpiegata senza significativi rimaneggiamenti alla “para-commedia”
terenziana. Anche Terenzio, per come ho cercato di presentarlo qui, appare
pienamente consapevole delle convenzioni della commedia, anche Terenzio le
guarda in qualche misura dall’esterno, anch’egli si pone insieme come il
continuatore di una tradizione e il critico di quella stessa tradizione, e anche in lui
la compresenza di queste due istanze dissonanti determina un equilibrio instabile
e potenzialmente distruttivo. Già, perché un’operazione di questo genere può
avere delle conseguenze che sfuggono di mano, per così dire, al suo artefice. Una
volta che l’elegia si sia ridotta a mero codice, a costrutto letterario, ottenuto
dall’assemblaggio di una serie finita e stabile di tratti ricorrenti, topoi, motivi,
una volta che essa si sia pienamente letterarizzata, perdendo ogni finzione di
contatto con la vita reale, essa finisce anche per cessare come genere letterario:
non c’è più elegia dopo Ovidio perché l’elegia ha perso per sempre la sua
verginità, è stata fatta oggetto di un’operazione di “disincantamento” che ha reso
per sempre impossibile scrivere seriamente elegie alla maniera di Cornelio Gallo,
Tibullo o Properzio. Se c’è letteratura, non può esserci dramma; perché ci sia il
dramma, la letteratura deve scomparire, o almeno deve nascondersi dietro le
quinte; Properzio e Tibullo sono letterati che si presentano però come amanti;
Ovidio è un letterato prima e più che un amante, ed è questo a creare il disagio
che tanto spesso prende i lettori moderni della sua poesia.
Se si vuole un parallelo con la letteratura moderna, esso potrebbe essere
trovato nella posizione di Ariosto rispetto alla tradizione cavalleresca: una
tradizione veneranda, che il grande poeta si permette di decostruire da par suo
non negandola frontalmente, anzi semmai riprendendone integralmente contenuti
e forme, ma svelandone al tempo stesso la natura di tradizione di cartapesta, di
bozzolo vuoto che ha visto corrodersi al proprio interno, nel passaggio dal
Medioevo alla modernità, il sistema di valori che l’aveva generato. La differenza
29
Ivi, p. 24 (il corsivo è di CONTE).
16
è che Ariosto ha avuto il suo Tasso, nel senso che la tradizione eroicocavalleresca ha saputo poi trovare, anche dopo l’Orlando furioso, nuove strade e
forme diverse, in parte anche alimentate da una nuova stagione culturale nella
quale il mondo parodizzato da Ariosto ritrovava altre possibili e inedite ragioni
d’essere; non così, invece, è accaduto nel caso della poesia elegiaca, di quella
poesia elegiaca, nel successivo sviluppo della letteratura latina.
È possibile pensare in termini analoghi anche alla sorte della commedia dopo
Terenzio? È possibile pensare, cioè, che l’operazione messa in atto da Terenzio
sia stata, certo preterintenzionalmente, foriera della successiva scomparsa della
commedia dall’orizzonte letterario romano? Il parallelo con Ovidio potrebbe
essere suggestivo, se non altro perché Terenzio è esponente di punta e al tempo
stesso estremo epigono della commedia allo stesso modo in cui Ovidio lo sarà
per la poesia elegiaca. Terenzio non è l’ultimo commediografo del II secolo a.C.;
ma è ben noto che la commedia conosce dopo la sua scomparsa una crisi
inarrestabile che ne determina di fatto la sparizione, almeno come genere
letterario vivo e produttivo, già nella seconda metà di quello stesso secolo 30. Il
fatto è che Terenzio, se è corretta l’analisi che abbiamo condotto fino a questo
momento, mette a sua volta in atto un “disincantamento” analogo a quello
operato da Ovidio con l’elegia: giocando con le convenzioni della commedia,
svelandone il carattere arbitrario e fittizio, smontando sistematicamente gli
ingredienti che contribuivano a comporre la ricetta di un genere consacrato e
portato al successo di massa da Plauto, Terenzio lascia in eredità ai suoi
potenziali successori una situazione senza uscita: non si può più tornare
senz’altro a Plauto, come se nulla fosse accaduto, per quanto tentativi in questo
senso non siano mancati e appaiano chiaramente documentati dai frammenti
superstiti 31; ma è anche molto difficile andare oltre Terenzio, che porta il genere
fino al suo punto di rottura, pur senza mai definitivamente oltrepassare quel
punto. Una situazione di impasse che va considerata tra le ragioni non ultime che
hanno determinato il tramonto e poi la definitiva eclissi del genere commedia dal
panorama della letteratura latina. In questo senso, il rapporto di Terenzio con la
tradizione della commedia può senz’altro essere assimilato a quello di Ovidio nei
confronti dell’elegia: in entrambi i casi siamo di fronte a generi contrassegnati da
30
Sulla “morte della commedia” dopo Terenzio cfr. l’omonimo, ultimo capitolo di S.
M. GOLDBERG, Understanding Terence, Princeton 1986 (le cui conclusioni non
collimano però con quelle suggerite da me nelle righe che seguono).
31
Sui quali non si può non rimandare alle fini analisi di A. TRAINA, Comoedia.
Antologia della palliata, Padova 20005, pp. 147-161.
17
un tasso altissimo di convenzionalità letteraria, i quali cessano non per una sorta
di naturale esaurimento e neppure solo per mutamenti radicali del contesto
culturale (che certo ci sono stati, ma non hanno contato in senso assoluto), bensì
anche perché la messa a nudo di quella convenzionalità non consente più di
continuare a servirsene in modo innocente: la commedia è nuda, e così l’elegia; e
in entrambi i casi questa lacerazione del velo ha reso inservibili quei pur
formidabili attrezzi letterari.
Del resto, alla ricca tradizione biografica antica confluita in Svetonio risulta
che dopo il 160 Terenzio abbia lasciato le scene di Roma per recarsi in Grecia:
per sfuggire alle polemiche sorte intorno ai rapporti con i suoi patroni, o forse per
acquisire nuovi originali menandrei, si narra, o ancora per conoscere di persona i
luoghi dove le commedie erano originariamente ambientate 32. Di certo l’autore
era allora al vertice della sua creatività, era reduce dal successo strepitoso
dell’Eunuchus, mentre l’ammissione di ben due suoi copioni ai giochi in
memoria di Lucio Emilio Paolo dimostrava come le défaillances di una carriera
discontinua e contrastata non avevano intaccato la fiducia riposta in lui dai suoi
editors politici di riferimento. È però possibile anche avanzare l’ipotesi che
Terenzio stesso fosse cosciente di aver percorso fino in fondo la strada che egli
stesso aveva aperto con l’Andria e tenacemente perseguito in quasi tutte le pièces
successive, sperimentando in modi diversi ma omogenei le possibilità di una
commedia oltre la commedia, di una forma-commedia che si costruisce anche
attraverso la dissacrazione a tutto campo degli elementi costituenti la commedia
tradizionale: occorreva sperimentare strade nuove, era necessaria una pausa di
riflessione per dirigere altrove il proprio sperimentalismo letterario: che Terenzio
l’abbia cercata in Grecia, quella Grecia che ora, grazie alle conquiste promosse
dai suoi patroni letterari, si apriva al contatto diretto con l’élite politica e
intellettuale romana, non è certo sorprendente. C’è semmai da rimpiangere che la
prematura morte del commediografo abbia troncato sul nascere questa ricerca di
nuove vie.
Ma non abbiamo citato a caso i patroni letterari di Terenzio. Patroni che, come
si sa, una insistente tradizione biografica ed erudita antica identifica con quegli
esponenti filelleni dell’élite aristocratica romana che già in vita gli avversari di
Terenzio individuavano come gli ispiratori o senz’altro come i veri autori delle
commedie. Non intendo qui avventurarmi nel campo minato dei nomi, già
dibattuto in antico, o riaprire il discorso sull’effettiva natura della collaborazione
di Terenzio con essi: è sufficiente, per le conclusioni che intendo qui suggerire,
32
Suet. Vita Terenti, p. 32, 4 ss. Reifferscheid.
18
che quel milieu intellettuale e politico sia abbastanza precisamente individuabile
quanto meno nei suoi orientamenti culturali di fondo 33.
Che questi uomini abbiano individuato nel teatro uno strumento possibile di
egemonia culturale non è strano: una volta depurato dalle intemperanze di tipo
neviano, il teatro restava l’unica piazza mediatica in grado di raggiungere
capillarmente un pubblico che senza timore di apparire troppo modernizzanti
possiamo senz’altro definire “di massa”: il progetto culturale di svecchiamento
della tradizione romana e di acquisizione, sia pure selettiva e controllata, di
elementi della cultura greca, il progetto dunque di cui questa élite era portatrice,
poteva trovare proprio nel teatro un suo canale privilegiato di realizzazione; e del
resto qualcosa di simile accadeva, negli stessi anni, con il teatro tragico, anche se
in forme per noi assai più difficilmente precisabili; un dibattito sui modelli
educativi, per citare un solo esempio, è documentabile nello stesso torno di anni
tanto in Terenzio quanto in Pacuvio 34; certo, però, questa funzione di mediazione
non poteva realizzarsi entro una commedia come quella di Plauto, che si
alimentava tra l’altro della irrisione dei Graeculi e che tracciava un quadro del
presunto stile di vita “alla greca” (si pensi ai noti verbi plautini congraecari o
pergraecari) fatto apposta per solleticare gli istinti difensivi di un pubblico che
guardava con diffidenza, quando non con aperta ostilità, a quel mondo.
A quel progetto culturale di svecchiamento poteva invece risultare funzionale
la proposta di una commedia diversa, nella quale proprio il mondo greco, nel
quale le palliate terenziane sono pur sempre ambientate, era l’incubatore di un
modello di humanitas, di uno nuovo stile di vita, di pensiero e persino di
linguaggio. Nello splendido Terenzio e la sua personalità artistica, tuttora un
punto di riferimento ineludibile della bibliografia terenziana, Heinz Haffter
sosteneva giustamente che il commediografo cartaginese tende a obliterare
allusioni troppo puntuali a cose e fatti della Grecia che trovava nei suoi originali
e a dare alle sue commedie un tono più universale, svincolato da riferimenti
33
Una recente, sintetica riconsiderazione dei dati biografici su Terenzio e dei problemi
ancora aperti è in E. FANTHAM, Terence and the Familiarisation of Comedy, «Ramus»
33, 2004, pp. 20-34.
34
Rimando qui al noto studio di A. LA PENNA, Funzione e interpretazione del mito
nella tragedia latina arcaica (1977), ora in ID., Fra teatro, poesia e politica romana,
Torino 1979, pp. 49-104.
19
troppo precisi e “localizzanti” 35. Già Fraenkel, del resto, aveva parlato a suo
tempo della tendenza terenziana a trasformare ciò che è troppo marcatamente
greco in ciò che è più generalmente umano 36. Simili, autorevoli rilievi sono
senz’altro corretti, come dicevo, ma forse troppo unilaterali; perché la natura
dell’operazione terenziana è a mio avviso più sfumata. Quelle commedie così
“universali” sono infatti pur sempre collocate in Grecia, anzi la loro patina
grecizzante viene persino accentuata da Terenzio, come basta a dimostrare la
preferenza per titoli esclusivamente greci persino quando si debba semplicemente
parlare di una suocera o di due fratelli; il mondo ibrido di Plauto, con le sue
continue allusioni a fatti, luoghi e istituzioni della Roma coeva, è in questo senso
assai meno “greco” di quello terenziano. Il movimento è dunque duplice e
convergente: universalizzazione da un lato, perché il nuovo modello etico ed
estetico deve presentarsi come proprio di una “élite dell’anima” transnazionale,
per così dire, e proprio per questo anche romana; ma dall’altro lato sottolineatura
della natura greca del mondo ritratto nelle commedie, perché la matrice ultima
dei modelli che vengono universalizzati non vuole essere lasciata nel vago, ma al
contrario deve risultare chiaramente identificabile con un ben preciso bacino
culturale.
Autore colto, versatile, perfettamente padrone del greco e del latino ma
proveniente da un mondo “periferico” come quello nord-africano e dunque
equidistante da entrambe quelle tradizioni culturali, Terenzio, al pari del
salentino Ennio, dovette apparire agli aristocratici che investirono su di lui come
lo strumento perfetto per un programma di questo genere: ma era probabilmente
il contenitore letterario di quel programma ad essere inadeguato, pensato com’era
stato per veicolare contenuti e ideologie di tipo diverso e per certi versi
opposto 37. Il restyling della commedia operato da Terenzio, il ridisegno
complessivo dei suoi contenuti e delle relative forme espressive, può apparire
35
HAFFTER, Terenzio e la sua personalità artistica, cit., pp. 69-77 (Haffter parla di
«soppressione e […] attenuazione di tutto ciò che è troppo greco», pp. 71-72). Cfr.
anche BIANCO, Terenzio, cit., pp. 23-24. Contra, tra gli altri, W. LUDWIG, The
Originality of Terence and his Greek Models, «GRBS» 9, 1968, pp. 175-176 (l’articolo
è ristampato, senza note, in SEGAL [ed.], Oxford Readings, cit., pp. 205-215).
36
E. FRAENKEL, Zum Prolog des terenzischen «Eunuchus», «Sokrates» 6, 1918, pp.
302-317.
37
Il punto sfugge, se non erro, a J. CH. DUMONT, Le théâtre, cheval de Troie de
l’hellénisme à Rome, «Pallas» 70, 2006, pp. 329-335.
20
senz’altro soddisfacente agli occhi dei moderni, se non altro perché nel lungo
periodo è stato il classicismo “scipionico”, se vogliamo chiamarlo così, la linea
vincente di sviluppo della cultura latina; nell’immediato, però, la commedia
riformata fallisce i suoi obiettivi di egemonia culturale: l’abbandono in massa del
pubblico di fronte alle reiterate rappresentazioni dell’Hecyra, persino quando la
commedia viene riproposta in un’occasione politicamente “blindata” come i
funerali di Lucio Emilio Paolo, costituisce il simbolo di questo fallimento;
Terenzio lascia la scena, partendo per l’Oriente, ma non verrà rimpiazzato; i
tentativi di mediazione della cultura greca a Roma rinunciano definitivamente
all’ambizione di raggiungere un’utenza “di massa” e ripiegano verso altri, certo
più elitari ma anche più omogenei, tramiti culturali.
21