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98-Gioielli e oggetti in metallo prezioso.pdf

in A. Molinari-L. Spera-R. Santangeli Valenzani, L’archeologia della produzione a Roma (secoli V-XV), Bari 2015, 411-425

L’ARCHEOLOGIA DELLA PRODUZIONE A ROMA (SECOLI V-XV) La ricerca è stata finanziata con fondi del Progetto PRIN “Storia e Archeologia globale dei paesaggi rurali in Italia fra Tardoantico e Medioevo” In copertina: Ricostruzione del cantiere altomedievale nell'area a sud della basilica di S. Paolo fuori le mura (disegno di F. Benetti). Sul retro della copertina: COLLECTION DE L’ÉCOLE FRANÇAISE DE ROME 11 L’ARCHEOLOGIA DELLA PRODUZIONE A ROMA (SECOLI V-XV) Atti del Convegno Internazionale di Studi Roma, 27-29 marzo 2014 a cura di Alessandra Molinari, Lucrezia Spera e Riccardo Santangeli Valenzani COORDINAMENTO SCIENTIFICO DELLA BANCA DATI E CURA REDAZIONALE DEL VOLUME Cinzia Palombi REALIZZAZIONE E GESTIONE DELLA PIATTAFORMA GIS Nicoletta Giannini Roma-Bari 2015 © École française de Rome - 2015 ISSN 0223-5099 ISBN 978-2-7283-0000-0 © 2015 Edipuglia srl, via Dalmazia 22/b - 70127 Bari-S. Spirito tel. 0805333056-5333057 (fax) - http://www.edipuglia.it - e-mail: info@edipuglia.it ISBN 978-88-7228-778-1 DOI http://dx.doi.org/10.4475/778 L’ARCHEOLOGIA DELLA PRODUZIONE A ROMA (SECOLI V-XV) INTRODUZIONE Alessandra Molinari, Riccardo Santangeli Valenzani, Lucrezia Spera L’organizzazione di questo convegno nasce dall’intento di un’analisi esaustiva delle attività produttive a Roma nella Tarda Antichità e nel Medioevo, che possa inserire la città e i fenomeni in essa documentati entro il complessivo dibattito che riguarda l’«archeologia della produzione». Per cominciare ci sembra importante ripercorrere quali sono stati i principali interrogativi dai quali siamo partiti, e quali finalità ci siamo posti e le attività di ricerca e censimento che hanno preceduto queste giornate di studio. Per una città come Roma, che è piuttosto ben nota come centro di consumo, ci è parso invece indispensabile cercare di comprendere meglio in quale modo funzionassero gli aspetti della produzione, i quali rappresentano un elemento centrale per cogliere la struttura ed i ritmi economici nella lunga durata. Lo stato delle conoscenze e l’ampiezza dei problemi da trattare hanno suggerito, in questa sede, di circoscrivere il nostro progetto di ricerca alle sole attività artigianali e all’edilizia, riservandoci in futuro di organizzare un diverso incontro che affronti anche il tema delle produzioni agricole e dei consumi alimentari. È passato oltre un ventennio dall’edizione del convegno organizzato da Lidia Paroli e Paolo Delogu 1, nel quale iniziò un proficuo dialogo tra storici ed archeologi sulla storia economica di Roma post-antica, anche se limitatamente all’alto Medioevo. In questi vent’anni sono cresciuti esponenzialmente i dati archeologici in nostro possesso. Inoltre, negli ultimi tre anni la raccolta di saggi di Paolo Delogu (2010) sull’alto Medioevo, nonché i recentissimi volumi di Chris Wickham sui secoli X-XII e quello di Jean Claude Maire Vigueur sui secoli XII-XIV hanno utilizzato a vario titolo ed in varia misura i dati materiali, ma hanno anche proposto nuovi interrogativi alle fonti archeologiche. È stato quindi importante raccogliere, riorganizzare ed in prospettiva aumentare le fonti in nostro possesso. Nei saggi che abbiamo appena citato è peraltro centrale il rifiuto dello stereotipo di Roma come città improduttiva, parassita ed in qualche modo pregiudizialmente sui generis, proprio a partire da considerazioni che riguardano l’organizzazione e l’articolazione del lavoro artigianale. Per collocare nella giusta scala la produzione artigianale della Roma post-antica abbiamo quindi pensato alla necessità, in primo luogo, di partire da alcune sintesi sulla città imperiale, quindi di affrontare il nostro tema nella lunga diacronia e, infine, di proporre un’ampia sezione comparativa con altre realtà italiane ed europee. Sul fronte della ricerca archeologica i numerosi scavi di emergenza e di ricerca all’interno della città e nel suo immediato suburbio continuano a restituire testimonianze importanti di impianti e/o di indicatori di attività produttive; di qui anche l’esigenza di ‘fare ordine’, di riorganizzare i dati noti e di fare emergere quelli inediti. Da questa constatazione è nata l’idea di costituire una banca dati, collegata ad un GIS dell’area di Roma e del suo suburbio, che ha comportato una schedatura della bibliografia relativa alle scoperte dalla fine dell’Ottocento ad oggi, alla quale hanno partecipato una ventina di giovani studiosi e che ha permesso di censire circa seicento indicatori produttivi e grossomodo trecento contesti. I dati inediti forniti dai responsabili diretti delle ricerche sono invece risultati di minore entità. La banca dati è ora presentata nel CD, allegato a questo volume, quale supporto fondamentale alle prime sintesi proposte, e diverrà fruibile on-line e destinata di una continua implementazione nel corso dei prossimi mesi. Il censimento esaustivo permette di essere molto più precisi nella valutazione generale dei fenomeni (pur con tutte le limitazioni che verranno evidenziate), come è ad esempio avvenuto in seguito allo studio delle sepolture 1 PAROLI, DELOGU 1993. 6 ALESSANDRA MOLINARI, RICCARDO SANTANGELI VALENZANI, LUCREZIA SPERA in urbe realizzato alcuni anni fa da Riccardo Santangeli Valenzani e Roberto Meneghini 2. La possibilità di ragionare su nuove basi sulla dislocazione topografica delle officine, nella lunga diacronia dal V al XV secolo, pur con alcuni limiti insiti nell’evidenza disponibile, è stato uno dei principali fini della nostra ricerca. Le variabili considerate particolarmente significative sono state: la collocazione in area urbana o extra urbana; la concentrazione di attività produttive analoghe in una stessa area della città; la relazione con chiese e monasteri o spazi un tempo pubblici; la relazione con le aree più densamente abitate, etc. Comincia, inoltre, a diventare possibile valutare la complessità, la dimensione, l’entità numerica degli impianti e dei cantieri e distinguere caratteri e forme della produzione, se essa si configuri come attività permanente o limitata/occasionale, nonché di valutarne i significati nelle più generali dinamiche della città nella Tarda Antichità e nel Medioevo. Negli atti del convegno la rassegna delle diverse attività produttive include sia le produzioni seriali, sia quelle di lusso ed artistiche, seppure con diverse lacune. Se è vero che sono le attività più comuni a dare il tono economico dei diversi periodi, sembra interessante capire in quale humus produttivo ed in quale congiuntura economica si siano realizzati gli oggetti di lusso ed i prodotti artistici. Come è noto, esiste tra gli storici dell’economia un nutrito dibattito sulla congiuntura economica di fasi di importante produzione artistica, come ad esempio è ben noto per il Rinascimento italiano. Per molti questa non avviene necessariamente in fasi di sviluppo e crescita. La scelta della lunga durata per studiare l’economia di Roma, attraverso le attività produttive, è stata anche finalizzata a riconoscere meglio le fasi di cambiamento e di passaggio, nonché il peso delle trasformazioni sociali e di quelle istituzionali sull’andamento dell’economia. L’analisi della struttura produttiva ha permesso anche di andare oltre generici giudizi sulle performance economiche (crescita/declino). Peraltro, gli studi più recenti permettono di constatare come le trasformazioni del papato, la sua forza o debolezza, non influiscano in modo lineare sugli andamenti economici e sullo sviluppo delle forze produttive. Questo progetto, nato dalla collaborazione tra l’Università di Roma ‘Tor Vergata’ e l’Università di Roma ‘Tre’, deve molto al contributo di varie istituzioni, l’École française de Rome, che ha generosamente sostenuto anche il progetto editoriale, la British School at Rome, la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma (ora Soprintendenza Speciale per il Co- losseo, il Museo Nazionale Romano e l’Area Archeologica di Roma) e la Sovraintendenza Capitolina ai Beni Culturali; dobbiamo perciò rivolgere ai responsabili di queste, nel momento dell’attivazione della ricerca, a Catherine Virlouvet, Christopher Smith, Maria Rosaria Barbera e Umberto Broccoli, sinceri ringraziamenti per la disponibilità a partecipare, a diverso titolo, al migliore esito dell’iniziativa. Lo sviluppo del progetto si è avvalso soprattutto dell’impegno serio e appassionato del gruppo di ricerca per l’impianto della banca dati, giovani colleghi delle due Università coinvolte e del Pontificio Istituto di Archeologia cristiana, firmatari delle schede del CD allegato: a Laura Acampora, Alexander Agostini, Cristian Aiello, Marco Bianchi, Lucrezia Campagna, Federico Caruso, Gabriele Castiglia, Gabriele Ciccone, Tiziano Cofani, Francesca Colangeli, Emanuela D’Ignazio, Gabriele D’Uffizi, Adriana Farina, Giuliano Giovannetti, Dino Lombardo, Giulia Manili, Marilù Mattace Raso, Francesca Missi, Alfonso Orfeo, Cinzia Palombi, Erika Pischedda, Michela Porcu, Giorgio Rascaglia, Jacopo Russo, Pasqua Scardigno dobbiamo perciò un grazie di cuore. La banca dati è stata arricchita per alcune schede grazie anche all’apporto di studiosi diretti responsabili delle indagini archeologiche, in particolare: Massimo Brando, Monica Ceci, Riccardo Frontoni, Giuliana Galli, Carmen Lalli, Ersilia Maria Loreti, Roberto Meneghini, Francesco Pacetti, Carlo Pavolini, Eleonora Ronchetti, Lucia Saguì, Enrico Zanini. Ringraziamo poi anche, per la generosa e proficua collaborazione, Cinzia Palombi, che ha seguito la costruzione scientifica della banca dati ed effettuato la cura redazionale di questo volume, e Nicoletta Giannini, cui si deve l’elaborazione del sistema GIS e la realizzazione delle numerose mappe che corredano i nostri contributi. Per l’organizzazione del convegno e per una serie di necessità legate allo sviluppo della ricerca abbiamo potuto usufruire di alcuni fondi di ricerca, in particolare di quelli destinati al progetto (PRIN 2010-2011) su ‘Storia e Archeologia globale dei paesaggi rurali in Italia fra Tardoantico e Medioevo. Sistemi integrati di fonti, metodi e tecnologie per uno sviluppo sostenibile’ con la direzione scientifica nazionale di Giuliano Volpe e, per l’Unità di ricerca di Roma ‘Tor Vergata’, sotto il coordinamento di Vincenzo Fiocchi Nicolai. Siamo grati, infine, alla casa editrice Edipuglia per la disponibilità a condividere con l’École française de Rome l’edizione di questi atti. Roma, 4 ottobre 2015 2 Si veda MENEGHINI, SANTANGELI VALENZANI 2004, pp. 103-125. L’ARCHEOLOGIA DELLA PRODUZIONE A ROMA (SECOLI V-XV). INTRODUZIONE Bibliografia DELOGU 2010 = P. DELOGU, Le origini del medioevo. Studi sul settimo secolo, Roma 2010. MAIRE VIGUEUR 2011 = J.-C. MAIRE VIGUEUR, L’altra Roma. Una storia dei romani all’epoca dei comuni (secoli XIIXIV), Torino 2011. MENEGHINI, SANTANGELI VALENZANI 2004 = R. MENEGHINI, R. SANTANGELI VALENZANI, Roma nell’Altomedioevo: to- 7 pografia e urbanistica della città dal V al X secolo, Roma 2004. PAROLI, DELOGU 1993 = L. PAROLI, P. DELOGU (a cura di), La storia economica di Roma nell’Alto Medioevo alla luce dei recenti scavi archeologici. Atti del seminario (Roma, 2-3 aprile 1992), Firenze 1993. WICKHAM 2013 = C. WICKHAM, Roma medievale. Crisi e stabilità di una città 900-1150, Roma 2013. LA BANCA DATI E IL GIS DEGLI INDICATORI DI PRODUZIONE NOTE TOPOGRAFICHE E PRIME RIFLESSIONI DI SINTESI Cinzia Palombi*, Lucrezia Spera** La banca dati e il GIS degli indicatori di produzione: quadri di insieme Il notevole incremento dei dati archeologici sulle attività artigianali a Roma e la necessità di una sistematizzazione delle conoscenze pregresse ha motivato il progetto di ricerca sul tema dell’’archeologia della produzione a Roma nei secoli dal V al XV’, che si propone come fine primario di ricostruire, nella lunga durata, i processi produttivi della città 1, ampliando l’orizzonte geografico del campo d’indagine anche alla fascia territoriale suburbana entro il limite generico, stabilito convenzionalmente, del IV-V miglio, proprio nella prospettiva di una migliore comprensione delle interazioni tra urbs e suburbio (fig. 1) 2. Il progetto associava, già nella concezione iniziale, all’organizzazione del convegno la creazione di una banca dati destinata ad una divulgazione su una piattaforma web in grado di accogliere, inizialmente sulla base dell’edito, tutte le Presento con lievi modifiche e un adeguato apparato critico l’intervento letto nel corso del convegno. Mi è gradito ringraziare i Professori Alessandra Molinari, Lucrezia Spera, Riccardo Santangeli Valenzani, organizzatori di queste giornate di studio, per avermi coinvolto nel progetto di ricerca ed avermi affidato il compito di presentare i primi risultati del lavoro finora svolto. 1 Cfr. supra l’introduzione al presente volume. 2 Effettivamente per l’epoca post-classica sono ancora pochi gli studi in cui si è tentato di ricostruire, in un’ottica più generale, le connessioni storico-economiche tra il centro urbano di Roma e il suo suburbio (cfr. le osservazioni in SPERA 2011a, in particolare pp. 309-311, in riferimento all’età tardo antica). 3 A tutt’oggi sono stati presi in considerazione i seguenti periodici: Archeologia Classica, Archeologia Laziale, Archeologia Medievale, Bollettino di Archeologia, Bullettino di Archeologia Cristiana, Bullettino della Commissione Archeologica Comunale, Capitolium, Mélanges de l’École française de Rome. Antiquité, Mélanges de l’École française de Rome. Moyen Âge, Notizie degli Scavi di Antichità, Ostraka, Papers British at School, Rendiconti della Pontificia Accademia di Archeologia, Rivista di Archeologia Cristiana. informazioni relative alle tracce di lavorazioni di tipo manifatturiero, attestate a Roma nella Tarda Antichità e nel Medioevo. Per raggiungere l’obiettivo, si è pianificata in primo luogo un’accurata acquisizione e catalogazione dei dati, mediante il riesame di studi editi e lo spoglio sistematico delle principali riviste di ambito scientifico, a partire dal 1870 ad oggi 3. Questo lavoro di recupero, Fig. 1. - Roma, foto satellitare: in evidenza il limite generico del campo d’indagine, stabilito convenzionalmente al IV-V miglio. 10 CINZIA PALOMBI - LUCREZIA SPERA Fig. 2. - Immagine dell’interfaccia utente del database relazionale, con pulsantiera principale. Fig. 3. - Esempio di una scheda compilata di ‘contesto produttivo’ estrapolata dal database. Di fatto, non è stato ancora ultimato il vaglio delle pubblicazioni specialistiche a cui seguirà il censimento delle fonti letterarie ed archivistiche. Per tale motivo, ci si è mossi verso uno strumento di catalogazione flessibile che rappresentasse un vero e proprio archivio in progress e in continua implementazione. 5 Il gruppo di lavoro, coordinato da chi scrive, è stato costituito da: Alexander Agostini, Cristian Aiello, Marco Bianchi, Lucrezia Campagna, Gabriele Ciccone, Tiziano Cofani, Francesca Colangeli, Emanuela D’Ignazio, Gabriele D’Uffizi, Giuliano Giovannetti, Giulia Manili, Michela Porcu, Giorgio Rascaglia, Jacopo Russo, Pasqua Scardigno. 4 che non ha, tuttavia, la pretesa di essere esaustivo 4, è stato svolto da una nutrita équipe di studenti delle Università degli Studi ‘Tor Vergata’ e ‘Roma Tre’ 5 ed allievi e dottorandi del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana 6, in collaborazione con gli enti di ricerca e gli organi di tutela, comunale e statale, operanti sul territorio di Roma; diverse informazioni da scavi per lo più inediti hanno, infatti, arricchito il panorama della documentazione disponibile 7 . Si è proceduto alla registrazione delle informazioni raccolte in un database relazionale, appositamente creato con un’architettura di tipo gerarchico che prevede un modello essenziale, organizzato in due principali moduli (fig. 2 e tav. 00) 8. Si è scelta dunque come unità minima di riferimento la scheda di ‘contesto produttivo’ (fig. 3), in cui far confluire in maniera più generica le indicazioni relative alla tipologia di insediamento, alle modalità di rinvenimento (anno, tipo di intervento, direttore di scavo, etc.) e alla localizzazione del sito in base sia alla viabilità moderna che alle coordinate cartografiche, arricchite da una descrizione essenziale e da una datazio- 6 Hanno partecipato: Laura Acampora, Agostina Appetecchia, Federico Caruso, Gabriele Castiglia, Adriana Farina, Dino Lombardo, Marilù Mattace Raso, Francesca Missi, Alfonso Orfeo, Erika Pischedda. 7 In questa sede, ci preme rivolgere i più sinceri ringraziamenti a tutti gli studiosi che hanno fornito il proprio contributo scientifico. 8 La progettazione della banca dati è stata realizzata dalla dott.ssa N. Giannini, con una rivisitazione logico-funzionale e grafica del tecnico informatico A. Pace (per dettagli si rinvia al contributo della studiosa in questo volume); l’inserimento di tutti i dati acquisiti è stato eseguito da chi scrive. Sull’applicazione degli strumenti in- LA BANCA DATI E IL GIS DEGLI INDICATORI DI PRODUZIONE. NOTE TOPOGRAFICHE E PRIME RIFLESSIONI DI SINTESI 11 ne orientativa. Grazie ad un livello diversificato di approfondimento, si passa alle schede correlate sui relativi ‘indicatori di attività produttive’ (fig. 4) 9, in cui è stato possibile dettagliare, utilizzando specifici parametri per la cronologia, la descrizione e la bibliografia, le caratteristiche di ogni singolo elemento, registrato secondo la classificazione adottata nello studio di T. Mannoni e E. Giannicchedda 10. A sua volta, tale modulo garantisce, laddove disponibile, un rimando alla documentazione grafica e fotografica attraverso una sezione per l’archiviazione delle entità multimediali, fotografie, disegni tecnici e dati cartografici. Per completare la descrizione del sistema informativo è necessario accennare alle potenzialità di consultazione della banca dati fornita, nella versione aggiornata a marzo 2014, nel CD-ROM allegato (fig. 5); una maschera di interrogazione consente, all’interno di liste indicizzate, di risalire alla localizzazione e all’identificativo numerico del contesto o effettuare ricerche con l’inserimento di una ‘parola chiave’ (fig. 6) 11. NelFig. 4. - Esempio di una scheda correlata relativa ad un ‘indicatore di attività produttiva’ con rimando l’ottica di una gestione alla sezione per l’archiviazione delle entità multimediali. integrata dei dati su scala tersistema GIS 12, strumento di indubbia utilità che ha reritoriale, si è provveduto parallelamente all’archiviaso possibile la visualizzazione grafica, per ciascuna fazione e georeferenziazione delle informazioni in un formatici all’archeologia si vedano, da ultimi, FRONZA, NARDINI, VA2009, con ampia bibliografia. 9 Nella costruzione del database i vari contesti ed indicatori sono stati associati ad un identificatore numerico progressivo e fisso, a cui si farà costantemente riferimento nel testo. L’eterogeneità di terminologia applicata alle tipologie di ritrovamenti è stata gestita attraverso la definizione di thesauri, in questo caso implementabili e gestiti come tabelle esterne collegate ai campi di riferimento. LENTI MANNONI, GIANNICHEDDA 1996, pp. 171-201. È stata aggiunta, inoltre, la funzionalità ‘reports’ che permette l’esportazione in documenti pdf delle schede di contesto produttivo associate ai specifici indicatori di produzione. 12 Anche l’elaborazione di tale prodotto nasce nel Laboratorio di Archeologia Medievale dell’Università degli Studi ‘Tor Vergata’ (cfr. infra, contributo di N. Giannini in questo volume). 10 11 12 CINZIA PALOMBI - LUCREZIA SPERA Fig. 5. - Maschera di avvio della banca dati nel CD-ROM allegato. se storica, degli assetti distributivi delle varie tipologie di attività. In definitiva, ponendo l’accento sui primi risultati, appare significativo segnalare come il lavoro di raccolta svolto finora abbia fatto emergere una serie diversificata di contesti -316 per l’esattezza- e di indicatori di produzione, per un numero complessivo di circa 600 tipi 13, che annovera a vari livelli gli elementi caratteristici di un processo produttivo (fig. 7): le installazioni fisse (in numero di 185), che costituivano generalmente l’epicentro dell’attività e rappresentano ovviamente i più sicuri indicatori di una localizzata produzione; gli scarti di fabbricazione, presenti in quantità considerevoli (154 segnalazioni) 14; le materie prime, semilavorati ed eventuali prodotti finiti, in genere di difficile riconoscimento (135); gli arnesi, attestati più sporadicamente (111). Tracce di questo tipo hanno permesso di distinguere, sotto il profilo tipologico, produzioni legate al vetro, al Per chiarezza bisogna precisare che il valore fornito indica il numero di schede compilate per tipologia di indicatore e non si riferisce al dato quantitativo esatto. È previsto per la banca dati l’inserimento di un campo apposito che consentirà il conteggio in cifre numeriche (sull’utilità di quantificare i reperti cfr., in particolare, GIANNICHEDDA 2006, pp. 203-215; GIANNICHEDDA 2014, p. 88). 14 Si tratta di una percentuale approssimativa; il numero complessivo di scorie è sicuramente più elevato. 13 Fig. 6. - Maschera di interrogazione della banca dati con un esempio di ricerca. LA BANCA DATI E IL GIS DEGLI INDICATORI DI PRODUZIONE. NOTE TOPOGRAFICHE E PRIME RIFLESSIONI DI SINTESI 13 Fig. 7. - Grafico comparativo a livello quantitativo delle tipologie di indicatori attestate. metallo, alla ceramica, alla sfera edilizia e ad attività minori, soggette nel tempo a variazioni quantitative (figg. 8-9 e tavv. 00-00) 15. Occorre, tuttavia, premettere che la qualità della vasta mole dei dati è stata sottoposta a revisione: costituiscono limiti della ricerca la forte frammentarietà e difformità delle informazioni, spesso estremamente lacunosa e carente di indicazioni cronologiche (il 36% dei contesti è del tutto privo di una datazione puntuale; figg. 10-11) 16. Altro aspetto da tenere nella debita considerazione è quello relativo ad una corretta valutazione ed interpretazione dei residui di lavorazioni. Si tratta nella maggior parte dei casi di indicatori mobili, rinvenuti spesso sporadici, decontestualizzati o provenienti da concentrazioni di materiali in giacitura secondaria, per cui non è possibile definire effettivamente la localizzazione del contesto di origine 17. Da valutare, inoltre, il dato quantitativo, perché un sito dove si individuano scarsi rifiuti di un’attività produttiva ha una valenza ben diversa rispetto ad una percentuale maggiore del materiale di scarto. Per quanto attiene la dislocazione topografica dei ritrovamenti nelle diverse epoche, non si può non tener conto degli spazi ‘vuoti’ che non necessariamente indicano un’assenza di presenze archeologiche 18. Incide inesorabilmente il diseguale grado di visibilità delle zone della città antica, fortemente sollecitate, a partire dai primi anni del Novecento, dai processi di urbanizzazione. D’altro canto, la situazione geomorfologica delle aree contigue al Tevere, soggette, appunto, ad un accrescimento rilevante dei livelli per le inondazioni del fiume, quali per esempio Trastevere o il quartiere Prati 19, costituisce un fattore limitativo nell’analisi degli strati di frequentazione antropica, che, situati a notevoli metri di profondità, sono di difficile raggiungimento 20. Al contrario, particolarmente prezioso è stato l’apporto fornito dalle indagini preliminari alla realizzazione della linea 15 Rimane, purtroppo, il problema della gestione delle incertezze temporali. 16 Cfr. L. Spera, infra, pp. 00. Questo dato deriva dalle modalità di recupero delle testimonianze -perlopiù rinvenimenti sporadici o veri e propri sterri- e dallo scarso interesse, in alcuni casi, per le tematiche connesse con l’archeologia della produzione. Raramente la documentazione risulta più corposa, con integrazioni di analisi archeometriche dei reperti antichi e informazioni sull’organizzazione degli spazi di lavoro (per un excursus sulla genesi dell’archeologia della produzione in Italia si veda GIANNICHEDDA 2014, pp. 75-94). Per tale motivo si è scelto di inserire nella banca dati anche quei contesti incerti di relativa affidabilità che per diversa natura non rien- trerebbero teoricamente nei limiti cronologici prefissati. Si tratta di alcuni casi in cui la definizione temporale appare dubbia, ipotetica o definita da parametri post quem e ante quem nonché di quelle evidenze il cui uso sembra protrarsi per ampi periodi storici, ma non è possibile determinare l’arco cronologico di riferimento. 17 Cfr. L. Spera, infra, pp. 00. 18 Si fa riferimento, in particolare, alle zone gravitanti la riva destra del fiume Tevere e ad alcuni comparti territoriali nei quadranti nord-est e sud-ovest del suburbio della città (su cui, vd. infra). 19 FUNICIELLO, TESTA 2008, pp. 261-274; LANZINI, MAZZA, CAPELLI 2008, pp. 185-194. 20 Cfr. le osservazioni in BERTINETTI 2010, pp. 27-38. 14 CINZIA PALOMBI - LUCREZIA SPERA Partendo da tali presupposti, si tenterà, in questa sede, di cogliere, a grandi linee e con uno sguardo diacronico, alcuni aspetti utili alla ricostruzione della configurazione del quadro produttivo della città 22. 1. L’età tardo antica. I secoli dal V al VII d.C. Le ricerche archeologiche in costante aumento 23 e l’apertura di nuovi cantieri di scavo nell’Urbs hanno arricchito sensibilmente lo scenario delle attività artigianali, in particolare per il periodo compreso tra il V e il VII secolo d.C., portando alla luce delle sostanziali novità. Il paesaggio della produzione che si viene, quindi, a delineare per la Tarda Antichità, rispetto a quanto già noto in passato, appare connotato da un discreto numero di evidenze relative a diversificati tipi di indicatori, prevalentemente attestati in ambito intramuraneo (fig. 12 e tav. 00) 24. Osservando la distribuzione topografica dei rinvenimenti (fig. 13 e tav. 00), si può notare in primo luogo Fig. 8. - Grafico rappresentativo degli indicatori relativi alla produzione del metallo e del vetro (VXV secolo). un’incidenza particolarmente considerevole sia nella zona metropolitana C, che ha rappresentato una straordinacentrale della città, compresa tra Celio, Foro Romano ria occasione per ampliare le conoscenze su quelle parti e Palatino, ove si registra un’affluenza di officine medella città interessate dal progetto 21. tallurgiche e botteghe della lavorazione dell’osso, sia 21 I risultati delle indagini archeologiche preliminari alla realizzazione del progetto sono stati raccolti nel volume a cura di EGIDI, FILIPPI, MARTONE 2010. 22 In questa sede, si presenta il progetto di ricerca allo stato di work in progress; pertanto, l’analisi dei processi produttivi sarà limitata alle tracce individuate fino alla data di svolgimento del convegno (marzo 2014); in previsione della pubblicazione su web del database si avrà l’occasione attraverso il vaglio delle fonti letterarie e della documentazione d’archivio, di integrare le conoscenze e di implementare quanto finora catalogato con nuove attestazioni di attività artigianali. L’elaborazione di tale prodotto informativo ‘aperto’ offrirà l’occasione anche ad utenti esterni di inviare eventuali segnalazioni di rinvenimenti, in modo da ottenere una più esaustiva raccolta di informazioni grazie anche -si spera- alla collaborazione dei vari enti istituzionali. 23 SANTANGELI VALENZANI, VOLPE 2009, pp. 204-215. 24 L’interesse per l’archeologia della produzione a Roma, avente LA BANCA DATI E IL GIS DEGLI INDICATORI DI PRODUZIONE. NOTE TOPOGRAFICHE E PRIME RIFLESSIONI DI SINTESI lungo la fascia prossima alle sponde della riva sinistra del Tevere, in cui prevalgono vetrerie e attività di calcinazione 25; solo sporadicamente si rilevano attestazioni in aree periferiche suburbane, perlopiù legate alla sfera edilizia e diffuse, in particolar modo, nel quadrante a sud della città. Valutando, in secondo luogo, la localizzazione delle singole tipologie rispetto ai luoghi della città classica, il fenomeno certamente più diffuso e meglio documentato, già a partire dalla fine del IV e la prima metà del V secolo, è lo sviluppo dei contesti produttivi all’interno di preesistenti strutture di epoca romana e la rioccupazione senza distinzione sia degli spazi pubblici che privati 26. Nell’ubicazione degli impianti sembrano evidenziarsi alcune scelte preferenziali dettate dalla maggiore disponibilità di materie prime o da riciclo, delle fonti di approvvigionamento del combustibile e dalla vicinanza alle vie di trasporto fondamentali per la circolazione delle merci. Infine, riprendendo quanto sostenuto da A. Augenti, è possibile ribadire, per questi secoli, uno sviluppo delle la- 15 Fig. 9. - Grafico rappresentativo degli indicatori relativi alla sfera edilizia e alla produzione della ceramica (V-XV secolo). come oggetto il ciclo produttivo dei manufatti, malgrado abbia origini assai lontane nel tempo, con la curiosità scientifica di alcuni eruditi del XVIII-XIX secolo, tra cui soprattutto R. Lanciani, prende effettivamente avvio con gli scavi, intrapresi agli inizi degli anni ’80 e ancora in corso nel monumento della Crypta Balbi (Crypta Balbi 1; Crypta Balbi 2; Crypta Balbi 3; Crypta Balbi 4; Crypta Balbi 5; MANACORDA 2001). Gli esiti di tali ricerche hanno costituito, come è noto, un vero punto di svolta nello studio dei fenomeni di trasformazione della città tra la Tarda Antichità e il Medioevo e hanno contribuito, nello specifico, ad iniziare a mettere a fuoco alcuni aspetti relativi lo sviluppo diacronico delle attività artigianali in ambito urbano (cfr. AUGENTI 2010, pp. 101-116). Da allora gli studi sulla città tardo antica e altomedievale, dal seminario sulla storia economica, organizzato nel 1992 da Lidia Pa- roli e Paolo Delogu (PAROLI, DELOGU 1993), agli studi editi in seguito alla costituzione del Museo Nazionale Romano della Crypta Balbi (ARENA, DELOGU, PAROLI et alii 2001; PAROLI, VENDITTELLI 2004), fino ai volumi di Roberto Meneghini e Riccardo Santangeli Valenzani (MENEGHINI, SANTANGELI VALENZANI 2004; MENEGHINI, SANTANGELI VALENZANI 2006; MENEGHINI, SANTANGELI VALENZANI 2007), hanno avuto il pregio di valorizzare le conoscenze sulle fasi post-classiche di Roma, privilegiando rispetto al passato anche i temi connessi con lo studio delle attività produttive. 25 In controtendenza rispetto al quadro produttivo delle epoche più antiche, ove la riva destra del Tevere sembra che abbia restituito il maggior numero di testimonianze di attività artigianali (cfr. il contributo di C. Panella in questo volume). 26 Cfr. L. Spera, infra, pp. 00. 16 CINZIA PALOMBI - LUCREZIA SPERA vorazioni a ‘corrente alternata’ 27, che vede appunto l’alternarsi nella lunga durata, in un medesimo contesto, di differenti attività produttive. 1.1. Il V secolo La produzione metallurgica Per il V secolo, tra le testimonianze di attività artigianali, sono indubbiamente meglio attestate le lavorazioni metallurgiche 28, che possono essere associate sovente ad altre produzioni complementari, come quella dell’osso e del vetro, in linea con una tendenza già Fig. 10. - Grafico comparativo a livello quantitativo sulla datazione degli indicatori di attività produttiva. nota per le epoche precedenti 29. Negli ultimi anni, infatti, c’è stato un incremento di ritrovamenti di fornaci, di cui si è potuto identificare il ciclo di produzione, grazie anche all’impiego di analisi archeometriche eseguite sui manufatti o sugli scarti di fabbricazione 30. L’occupazione da parte delle attività fusorie è documentata piuttosto precocemente al centro politico dell’antica Urbs, nella taAUGENTI 2010, p. 106. Si veda a tal proposito il contributo di V. La Salvia in questo volume. Sulle caratteristiche di questa produzione in epoca tardo antica, si rinvia, da ultimo a GIANNICHEDDA 2007, pp. 187209. 29 Si rimanda al contributo della Panella in questo volume. La coesistenza di lavorazioni di questo tipo è riscontrabile, per l’età romana, pure in altre città d’Italia, come a Milano (GRASSI 2011, pp. 161-168, in particolare pp. 166-167; ivi per ulteriori confronti). 30 Ad esempio, per un recente resoconto delle analisi archeometallurgiche vd. PERNELLA, SANTAMARIA, MORRESI 2013, pp. 124-126. 27 28 Fig. 11. - Grafico comparativo a livello quantitativo degli indicatori di attività produttiva, in base alla datazione generica e puntuale. LA BANCA DATI E IL GIS DEGLI INDICATORI DI PRODUZIONE. NOTE TOPOGRAFICHE E PRIME RIFLESSIONI DI SINTESI 17 Fig. 12. - L’età tardo antica: grafico comparativo a livello quantitativo degli indicatori di attività produttiva, databili nell’ambito compreso tra i secoli V-VII. berna XI del Foro di Cesare, ove, alla metà del V secolo, l’installazione di una fornace del tipo a fossa trasformò l’ambiente in un’officina adibita principalmente alla fusione degli elementi in bronzo (grappe) 31. Un impianto produttivo analogo, cronologicamente coevo, è stato individuato lungo le pendici nord-est del Palatino, nel settore a sud di un tempio di età flavia (area delle Curiae Veteres), in un vano riadattato ad uso artigianale 32. Sembra potersi rilevare l’esistenza di lavorazioni simili perfino in altre zone della città prevalentemente sulla scorta di puntuali ritrovamenti di materiale di scarico ovvero di utensili per la fusione. In una galleria dell’ala sud-orientale delle terme di Traiano, sul colle Oppio, un discreto numero di scorie di metallo e, in minor misura, vitree, insieme a numerosi crogioli costituiscono segni eloquenti di attività connesse alla produzione del metallo e del vetro 33. Appare piuttosto significativo anche il rinvenimento presso la chiesa di S. Stefano Rotondo al Celio di diversi vasetti con incrostazioni metalliche, interpretati come crogioli 34, specie Fig. 13. - L’età tardo antica: planimetria con l’ubicazione degli indicatori di attività produttive relativi al periodo compreso tra i secoli V e VII. DELFINO, DE LUCA, MINNITI et alii 2013, pp. 93-123; CORSARO, DELFINO, DE LUCA et alii 2013, pp. 127-130. Per dettagli sugli indicatori di produzione, rinvenuti in associazione (accumuli di scorie metalliche e ceneri, fosse di scarico, tracce di una paratia lignea) si rinvia alla scheda: DB, contesto 73, indicatori 147-150. 32 DB, contesto 283, indicatore 578. Brevi cenni sull’impianto in FERRANDES 2013, pp. 129-130; PANELLA 2013b, p. 367, nota 30. 33 DB, contesto 111, indicatori 274-275. Le indagini avviate di recente (gennaio-giugno 2014) in una delle tabernae (taberna IV) 31 lungo il fronte nord-occidentale delle terme di Caracalla, in occasione di un intervento manutentivo di restauro, sotto la direzione scientifica della dott.ssa M. Piranomonte, funzionario della Soprintendenza Speciale per il Colosseo, il Museo Nazionale Romano e l’Area Archeologica di Roma, e dirette dalla sottoscritta, hanno evidenziato la presenza anche in questo complesso monumentale di attività artigianali (tracce di fuochi, scorie di metallo e di vetro), riferibili ad epoca tardo antica. I dati di scavo sono ancora in corso di elaborazione da chi scrive e attendono un’edizione definitiva. 34 DB, contesto 17, indicatore 33. MARTIN 2004, p. 506. se messo in relazione con la notizia, seppur generica, della scoperta avvenuta nel corso del XVII secolo di una «filara di botteghe credute de calderari» proprio nell’area dei Castra Peregrina 35. Allo stesso tempo la riconversione a scopo produttivo contraddistingue abitazioni private o edifici commerciali. Talvolta ci si trova di fronte ad attività svolte in maniera occasionale, che si attestano con impianti relativamente semplificati, costituiti da un’unità produttiva singola, prevalentemente funzionale all’autoconsumo. In particolare si segnalano due fossette circolari piene di abbondanti scorie metalliche nei pressi di piazza della Chiesa Nuova, all’interno di un ambiente di domus 36, e una piccola fornace per la lavorazione di leghe metalliche e forse del vetro, connesse con un accumulo di scorie non meglio specificate, che riutilizzava la vasca di una latrina, ubicata lungo via dei Fori Imperiali, di fronte al Belvedere Cederna 37. Di particolare interesse sono le installazioni artigianali, indubbiamente più articolate e durevoli, concentrate nell’area di S. Omobono all’interno di antiche strutture con funzione commerciale, in cui sembra scorgersi una settorializzazione della produzione 38. Un primo impianto è ubicato ad est della chiesa omonima con una fucina per la forgiatura dei metalli, che riusa due tabernae, affiancate e prospicienti ad un viottolo basolato 39. Tra i materiali sono da segnalare un piano in pietra e quantità cospicue di rifiuti metallici, sparsi addirittura sul piano stradale, a testimonianza forse di come non esistesse un luogo adibito a vera e propria discarica 40. L’atelier sembra mostrare una precisa organizzazione degli spazi di lavoro, con un’area scoperta adibita forse alla battitura e una parte dotata di acqua per la tempratura dei manufatti. Nel settore meridionale del sito, in corrispondenza della cosiddetta ‘Insula Volusiana’, si è identificata un’altra officina costituita da tre ambienti, in cui sono emersi resti di fuochi, tracce di termotrasformazioni del terreno e delle murature, e accumuli di scarti 41. In stretta relazione topografica è, infine, il ritrovamento, nel 1931, lungo via Buccimazza, nell’ambito sempre di tabernae, di diversi vasetti interpretati dal Colini come crogioli insieme a numerosi scarti di metallo, benché allo stato attuale la datazione dell’impianto non risulti agevole 42. Appare piuttosto suggestiva la concentrazione delle attestazioni sopra ricordate in questo settore della città che lascerebbe ipotizzare l’esistenza di un’area dalla chiara vocazione produttiva 43. Per concludere, rimane dubbia, vista l’assenza di indicazioni precise sul contesto di rinvenimento, la possibilità di associare a lavorazioni metallurgiche singolari concentrazioni di strumenti ponderali (pesi staderali, tipologicamente differenti e provvisti talora di iscrizioni 44, bilance, etc.), accumuli eterogenei di reperti bronzei 45, lingotti di metallo e residui di piombo fuso DB, contesto 16, indicatore 32. Si fa menzione del ritrovamento nella stessa occasione di «quantità grande di monete di rame» (LANCIANI 1989-2002, V, p. 177). Nel 1890, inoltre, si segnala il recupero di due pesi marmorei nei pressi del muro di cinta dell’edificio cultuale (DB, contesto 249, indicatore 519). 36 FILIPPI 2010, p. 69; Atlante di Roma antica, p. 525. Per dettagli: DB, contesto 83, indicatori 176-177. 37 DB, contesto 288, indicatori 585-586. Brevi cenni in REA 2010, p. 192. Mancano precise indicazioni per la datazione di un accumulo di residui di lavorazione del metallo, scoperto in un ambiente sul Lungotevere Castello, nel quartiere Prati, di cui allo stato attuale è difficile valutare la funzione produttiva. La sua ubicazione al di sopra dei resti di strutture realizzate in opera laterizia e in blocchetti tufacei, potrebbe orientare per un inquadramento cronologico in epoca tardo antica (DB, contesto 296, indicatori 598-599; MARCHETTI, TOMEI 2001, p. 414; CAR 2005, pp. 191-192, n. 264). 38 Gli impianti, scoperti negli anni ’30, sono stati valorizzati dagli studi condotti dalla Sovraintendenza ai Beni Culturali di Roma Capitale che attendono una pubblicazione definitiva. Le informazioni qui riportate sono estrapolate dalle schede redatte, in occasione del convegno, dalla dottoressa M. Ceci della Sovraintendenza Capitolina ai Beni Culturali, alla quale ci preme rivolgere i più sentiti ringraziamenti. 39 DB, contesto 101, indicatori 246-250. 40 DB, contesto 101, indicatori 248-249. 41 DB, contesto 102, indicatori 251-256. A partire dal 2013 il contesto è oggetto di indagini di scavo da parte dell’Università degli Studi di Roma ‘Sapienza’. DB, contesto 197, indicatori 410-411. Effettivamente già a partire dalla seconda metà del III secolo nel settore sud-est dell’area di S. Omobono, grazie agli scavi condotti negli anni ’70, si è individuato nello strato di rialzamento del piano pavimentale di una delle tabernae di età imperiale materiale eterogeneo proveniente forse da una discarica di un atelier, che era costituito da residui di una lavorazione del ferro e piombo, strumenti di metallo, oggetti in osso ed avorio, reperti osteologici e grumi di colore. Lo stesso vano agli inizi del IV secolo parrebbe essere destinato ad ospitare un «emporio di vendita di colori» (VIRGILI 1977, pp. 22, 25; VIRGILI 1978, p. 422; BROCATO, TERRENATO 2012, p. 94). 44 La precisa attribuzione cronologica in assenza di dati di scavo è assai problematica, dal momento che da un punto di vista morfologico i pesi sono standardizzati e non subirono sostanziali modifiche nel tempo dall’età romana a quella tardo antica (CONTI, GIORDANI 2001; SCARPELLINI 2004). L’assenza di indicazioni precise sul contesto di provenienza non consente un inquadramento cronologico dei pesi raccolti in altri luoghi della città, per i quali resta incerto anche l’utilizzo come pendenti da telaio o pondera da bilancia (DB, contesto 72, indicatore 146; contesto 200, indicatore 414; contesto 204, indicatore 430; contesto 205, indicatori 431-432; contesto 210, indicatore 460). 45 Colpisce in particolar modo la consistenza di un deposito rinvenuto nei pressi di una delle domus scoperte nella zona comprendente una «testa di Fauno, coppia di piedi coturnati, calamaio in forma di piede con coperchio, figurina virile giacente, tre ornati di lettiga, quattro morsi di cavallo, cinque pesi a tronco di cono, coltelli ripiegantisi entro manici d’osso o d’avorio, armi e utensili diversi, medaglioni, monete etc.» (LANCIANI 1872-1873, pp. 300-306; 35 42 43 LA BANCA DATI E IL GIS DEGLI INDICATORI DI PRODUZIONE. NOTE TOPOGRAFICHE E PRIME RIFLESSIONI DI SINTESI 19 Fig. 14. - L’età tardo antica: planimetria con l’ubicazione delle aree di lavorazione dell’osso, datate nell’ambito del V secolo. (circa kg 1,5), emersi nell’Ottocento durante i lavori condotti nelle aree della stazione Termini (presso piazza dei Cinquecento o Monte della Giustizia) 46 e del Ministero delle Finanze 47. A ben considerare le varie notizie è difficile stabilire se si è di fronte a depositi intenzionali di spolia recuperati, forse, in loco e accumulati per nuovi utilizzi 48 o, più semplicemente, a reperti legati ad attività commerciali che dovevano svolgersi nel sito 49. La produzione dell’osso Benché le tracce che attestano la presenza di aree di lavorazione dell’osso e dell’avorio appaiano per ora decisamente meno rilevanti da un punto di vista quantitativo, esse ci mostrano quanto fosse ancora viva CAR III, p. 240). Per una disamina di alcuni pregevoli reperti bronzei rinvenuti negli scavi ottocenteschi, si veda FERREA 1996, pp. 3656. 46 DB, contesto 207, indicatori 434-437; contesto 208, indicatori 439-455; contesto 209, indicatori 456-459. 47 DB, contesto 201, indicatori 415-425. 48 L’ipotesi, del tutto suggestiva, meriterebbe ulteriori approfondimenti mirati anche al recupero dei reperti. Una situazione analoga sembra riscontrarsi in altri siti della città, dove si sono recuperati attrezzi di uso commerciale insieme ad oggetti bronzei (DB, contesto 191, indicatore 491; contesto 204, indicatori 428-430; contesto 253, indicatori 525-526). 49 Sulle caratteristiche insediative del quartiere sorto sul Viminale si rimanda, da ultime, a BARBERA, PARIS 1996. 50 Vd. contributo di Baldini Lippolis in questo volume. BONA- a Roma una produzione per le suppellettili di lusso, volta sostanzialmente a soddisfare il bisogno della città (fig. 14 e tav. 00) 50. L’esistenza in loco di botteghe artigianali che possono contare su segnalazioni più affidabili è ben attestata, come per il passato 51, sulle pendici est del Palatino dai resti di una manifattura, che occupa, tra il I e il V secolo, la domus detta con ‘aula ad abside’ 52, e nella taberna X del Foro di Cesare, ove, in fase con l’officina metallurgica già citata 53, si sono individuati avanzi di strutture deperibili in legno insieme a scarti di lavorazione e placchette di rivestimento 54. Segni inequivocabili di una produzione diversificata, rivolta sia alla fabbricazione di aghi e spilloni in osso/avorio che alla preparazione di sostanze coloranti e tessere vitree CASA CARRA 2000, pp. 353-358; RICCI 2001b, pp. 331-428; L. Spera, infra, pp. 00. 51 Sull’ubicazione delle aree di lavorazione dell’osso in età romana (dal I secolo a.C. al IV d.C.) si rimanda, in particolare, a DE GROSSI MAZZORIN, MINNITI 2012, pp. 413-418 (ivi per ulteriori rimandi bibliografici). Vd., inoltre, il contributo di C. Panella in questi stessi atti. 52 DB, contesto 284, indicatore 579. 53 Cfr. supra, p. 00. 54 Per dettagli sul contesto: DB, contesto 74, indicatori 151-153; CORSARO, DELFINO, DE LUCA et alii 2013, pp. 129-130, nota 21. Placchette simili, prodotte forse dal medesimo atelier, sono state rinvenute nei pressi delle domus sotto palazzo Valentini (cfr. LUMACONE 2008, pp. 145-150). La produzione di questi oggetti sembra essere documentata anche nel laboratorio sul Palatino (ST. CLAIR 2003, pp. 38-55; SCHWARZ 2006; HOSTETTER, BRANDT 2009, p. 193). 20 CINZIA PALOMBI - LUCREZIA SPERA di mosaico, è per ora ipotizzata solo sul Celio nella basilica Hilariana, la schola dei dendrofori di Cibele e Attis, in cui si registra, nei decenni centrali del V secolo, una ripresa delle lavorazioni artigianali, che avevano connotato precedentemente l’edificio, attraverso l’inserimento, negli spazi di rappresentanza del settore sud-orientale, di nuove installazioni dal carattere effimero 55. Va segnalato, infine, il rinvenimento nell’area di S. Omobono di un accumulo di corna bovine, che, come è noto, costituiva una delle materie prime dure animali preferite dagli artigiani romani e potrebbe, quindi, in via del tutto ipotetica, essere indiziario di una lavorazione dell’osso, anche se non è possibile stabilire se tale attività avvenisse nelle immediate vicinanze 56. La produzione del vetro Se confrontate con le attività legate alla metallurgia le testimonianze di una produzione del vetro sono in linea di massima più labili e gli scarti in genere meno consistenti 57. Al momento, l’unica installazione fissa certa, databile tra la fine del V e gli inizi del VI secolo, rimane la fornace a pianta circolare rinvenuta nell’esedra della Crypta Balbi 58. Mancano, invece, indicazioni più dettagliate a proposito di una ‘bottega del vetraio’, emersa nell’area del Laterano 59. In tal senso, nel panorama attuale della ricerca, appare degna di nota la recente scoperta nella villa dei Quintili sulla via Appia di DB, contesto 29. Per una lettura delle fasi di vita del complesso cfr. PALAZZO, PAVOLINI 2013 e l’articolo degli stessi in questi atti. Un altro impianto produttivo, di minore entità, risulta installato nella domus di Gaudentius, ubicata nell’area dell’Ospedale Militare al Celio, di cui al momento non è possibile precisarne la funzione originaria (DB, contesto 33, indicatore 66). 56 DB, contesto 102, indicatore 255. Di dubbia datazione è, invece, la segnalazione di un deposito di scarti di zanne di elefante nella zona del Testaccio, sul lato est di piazza dell’Emporio, di solito utilizzati per la lavorazione dell’avorio (DB, contesto 23, indicatore 44). 57 Cfr. il contributo di L. Saguì e B. Lepri in questo volume. A titolo esemplificativo per un inquadramento sulla produzione del vetro in epoca tardo antica si veda SAGUÌ 2007, pp. 211-232. 58 Alla struttura produttiva erano associati numerosi resti di fabbricazione (colletti, scarti di vetro, gocce, colaticci, ritagli, etc.); per dettagli si rinvia alle schede del database redatte da L. Saguì, che si ringrazia calorosamente per la sua collaborazione: DB, contesto 85, indicatori 180-185. Altri indicatori di una lavorazione vitrea, ancora inediti, sono stati rintracciati nell’area retrostante il teatro di Balbo (DB, contesto 159, indicatori 346-347). 59 DB, contesto 136, indicatore 315. L’impianto, a detta di Santa Maria Scrinari, doveva riutilizzare i resti di una sepoltura a camera di età repubblicana (SANTA MARIA SCRINARI 1968-1969, p. 18). Cfr. L. Spera, infra, pp. 00 per un’identificazione sul piano funzionale di tale attività. 60 Cfr. il contributo di R. Paris et alii nel presente volume e le 55 un forno da vetro, il primo attestato nel suburbio prossimo alla città, anche se riferibile ad un periodo di poco precedente 60. Bisogna inoltre sottolineare che i ritrovamenti di prodotti semilavorati e scarti di fabbricazione nei pressi delle pendici nord-est del Palatino 61, sul lungotevere Testaccio 62, in via Marmorata 63 e sul colle Aventino 64, non sono sempre ritenuti indicativi di una realizzazione contestuale e in situ e, dunque, non possono essere messi in relazione con luoghi specifici di lavorazione, anche se la localizzazione di vetrerie nelle vicinanze del Tevere apparirebbe in linea con delle tendenze insediative già note per le epoche più antiche 65. Appare piuttosto suggestiva l’ipotesi della presenza nella basilica Hilariana di un atelier specializzato nella produzione del mosaico, installato ad hoc forse con lo scopo di soddisfare le necessità del cantiere per l’edificazione della vicina chiesa di S. Stefano Rotondo 66. La produzione della ceramica e dei laterizi Per quel che riguarda più specificatamente la produzione dei laterizi e della ceramica, con particolare riferimento al V secolo, va sottolineata la totale assenza di testimonianze archeologiche, se non in fortuiti casi al di fuori del nostro ambito territoriale 67. Non sembra, poi, di cogliere una continuità della fitta rete di fornaci che costellavano in età imperiale varie parti del suburbio 68. relative schede, redatte da G. Galli, ed inserite nel database (DB, contesto 277, indicatori 565-570). 61 DB, contesto 273, indicatori 552-554. 62 DB, contesto 21, indicatore 41. Per una rilettura critica di questo contesto si rimanda al contributo di L. Saguì e B. Lepri in questo volume. 63 DB, contesto 20, indicatori 38-40. 64 DB, contesto 27, indicatore 50. 65 Cfr. il contributo di C. Panella in questo volume. 66 Cfr. il contributo di C. Pavolini et alii in questi atti. 67 Ad esempio, in una villa in località S. Alessandro, all’altezza dell’VIII miglio della via Nomentana, sono state installate dopo la metà del IV secolo due fornaci per laterizi e ceramica in associazione a vasche di decantazione dell’argilla. Interessante anche il riferimento alla presenza di quattro lingotti di ferro, indizi di una lavorazione, forse in loco, di metalli (vd. CARBONARA, MESSINEO 1991-1992, pp. 118-155; DE FRANCESCHINI 2005, pp. 94-98, ivi ulteriore bibliografia). Resta invece più problematico stabilire l’esatta funzione, la cronologia e la durata dell’impianto di una fornace a pianta circolare dotata di praefurnium, riportata alla luce lungo via delle Vigne Nuove, all’altezza del km 23 della via Nomentana (DB, contesto 118, indicatore 283). Sulle lavorazioni svolte in epoca tardo antica all’interno di ville cfr., da ultimo, MUNRO 2010, pp. 217242; MUNRO 2012, pp. 351-370. 68 Un censimento delle fornaci per l’età romana è contenuto in PETRACCA, VIGNA 1985, pp. 131-137; OLCESE 2011-2012. Per una sintesi sulla produzione laterizia a Roma in epoca tardo antica si rimanda a STEINBY 1986, pp. 111-148; STEINBY 2001, pp. 127-150. LA BANCA DATI E IL GIS DEGLI INDICATORI DI PRODUZIONE. NOTE TOPOGRAFICHE E PRIME RIFLESSIONI DI SINTESI 21 Altre attività produttive Completano il quadro produttivo finora delineato le officine lapidarie, attestate con continuità d’uso fino al pieno Medioevo, in particolar modo nelle zone del Campo Marzio e del Testaccio 74, di cui sono state rinvenute labili tracce in recenti indagini, effettuate rispettivamente nell’area di piazza del Parlamento 75 e lungo via Marmorata 76. Va inoltre rimarcato che si potrebbero riferire al medesimo arco temporale alcuni degli opifici segnalati dal Lanciani, per cui, al momento, non si dispone di elementi cronologici più precisi 77. Un discorso a parte merita l’atelier allestito nel piazzale della destrutturata Porticus Minucia Frumentaria, che doveva svolgere in maniera probabilmente occasionale attività destinate alla produzione di rivestimenti in cocciopesto e, forse, in lastre di marmo di reimpiego 78. Poche sono le testimonianze di impianti deputati alla calcificazione del materiale di ‘spoglio’, in prevalenza situati all’interno di edifici dismessi in zone periferiche dell’abitato 79, tra cui la fornace trovata sul Quirinale, nella domus di C(aius) Fulvius Plautianus, prefetto del pretorio sotto Settimio Severo e suocero di Caracalla 80, e quella, collocata nell’angolo nord-occidentale del Circo Variano (negli Horti Spei Veteris) sul colle Esquilino 81. Analogamente sono emersi allestimenti per la produzione di calce sulla via Labicana sia in località Torre 69 LP, I, p. 180. Il toponimo, che ricorre nuovamente nelle passiones di S. Susanna (AA. SS., Aug. II, 632) e dei SS. Mario, Marta e compagni (AA. SS., Ian. II, 216), ha fatto pensare ad un vero e proprio insediamento, dotato di manifatture ragguardevoli di laterizi (DE FRANCESCO 2002, pp. 620-624; DE FRANCESCO 2004a, p. 251; DINUZZI, FUSCO 2009, pp. 142-143, con bibliografia precedente). Un agglomerato di impianti produttivi legato alla presenza di uno scalo fluviale è attestato anche al III miglio della via Ostiense con il toponimo di vicus Alexandri (cfr. VELLA 2013a; VELLA 2013b; L. Spera, infra, pp. 00). 70 DB, contesto 237, indicatore 507. 71 Si possono richiamare, tra le più significative esemplificazioni, le cave di tufo lungo la Portuense sulla collina di Monteverde (da ultimo, LANZINI 2013, pp. 109-118), quelle esistenti nel sottosuolo dell’area compresa tra via Casilina e via di Centocelle (GIOIA, VOLPE 2004, pp. 165-166) o le cave di argilla nella zona di Monte Mario, ampiamente sfruttate dall’epoca antica fino a tempi recenti (GIGLI 1971, pp. 33-60; VENTRIGLIA 1971). Cfr., infra, pp. 00. 72 DB, contesto 187, indicatore 394. A detta dello scopritore la cava doveva datarsi nell’ambito del V secolo; tuttavia, manca qualsiasi elemento per suffragare questa datazione (FIORELLI 1883, pp. 130-131). 73 DB, contesto 242, indicatore 512. 74 MAISCHBERGER 1997, pp. 110-137. Cfr. L. Spera, infra, pp. 00. 75 DB, contesto 285, indicatore 580. In questo caso, la scoperta di una sequenza di battuti ricchi di schegge di marmo, collocabili alla fine del IV-V secolo, è stata messa in relazione con le officine indicate nell’area dal Lanciani (FUR, tav. 15; FILIPPI 2013, p. 137). Pur in mancanza di dati cronologici, è possibile attribuire il cumulo di marmi semilavorati presso il cortile di S. Ivo della Sapienza all’azione di una bottega di marmorarius (DB, contesto 287, indica- tori 583-584). Dato il contesto di rinvenimento, a questi si potrebbero forse aggiungere altri depositi di schegge di lavorazione della pietra e del marmo, messi in luce sempre nella zona del Campio Marzio, lungo via Clementino (DB, contesto 193, indicatori 403404) e via Ascanio (DB, contesti 194, indicatori 405-406; contesto 195, indicatori 407-408), al momento privi di datazione. Un «opificio di scalpellino» è ricordato da R. Lanciani pure in via di Gesù e Maria, di cui, tuttavia, non fornisce ulteriore indicazione (DB, contesto 192, indicatore 402). 76 DB, contesto 19, indicatore 37. Si richiama per un ulteriore esempio l’officina tardo antica installata all’interno di una domus nell’area del mattatoio comunale (DB, contesto 25, indicatori 4748; contesto 26, indicatore 49). Per una disamina delle fonti dall’età romana al Medioevo sulla zona di Marmorata, vd. TOMASSETTI 1979, pp. 22-34. 77 Risultano preziose le numerose indicazioni scrupolosamente raccolte nei volumi della Storia degli scavi di Roma e notizie intorno le collezioni romane di antichità (LANCIANI 1989-2002). Da segnalare, pure, l’articolo edito dallo studioso nel 1891 (LANCIANI 1891, pp. 23-36). 78 DB, contesto 274, indicatori 555-556. Sulle dinamiche di produzione dei rivestimenti parietali e pavimentali si rimanda al contributo di F. Guidobaldi e A. Guiglia in questo volume. 79 In generale sulle fasi del processo produttivo della calce cfr. PETRELLA 2007, pp. 151-172; PETRELLA 2008, pp. 29-44; TRAINI 2013. 80 DB, contesto 211, indicatore 461. Si segnalano, inoltre, nell’area del Laterano presso il piazzale Inps i resti dello scarico di una fornace da calce, non associabile ad alcun impianto produttivo (DB, contesto 138, indicatore 317). 81 DB, contesto 139, indicatore 318. L’esistenza di installazioni artigianali parrebbe comunque attestata nelle fonti storiche. Non è nota la precisa ubicazione, in effetti, di una civitas figlina, menzionata per la prima volta in un passo del Liber Pontificalis, nella biografia di papa Silvestro, in relazione alla donazione di terreni da parte di Costantino alla basilica di S. Agnese 69, per cui è stata proposta una localizzazione tra la via Salaria e la via Nomentana, nei pressi del cimitero dei Giordani 70. In merito all’attività estrattiva, le tracce sono altrettanto poco tangibili; laddove lo sfruttamento di cavità di origine antica sembra essersi svolto a più riprese con successivi rimaneggiamenti fino a tempi moderni, appare assai problematico, in mancanza di elementi datanti, ricostruirne con precisione lo sviluppo diacronico 71. Allo stato attuale delle conoscenze, perciò, sono state attribuite ad epoca tardo antica solo alcune latomie di pozzolana ritrovate alla fine dell’Ottocento sulla via Ostiense, nell’area dell’ex Forte omonimo 72, e il fronte aperto verso il fiume Aniene delle antiche cave di tufo sulla via Tiburtina, identificabili con le lapidicinae Pallenses 73. 22 CINZIA PALOMBI - LUCREZIA SPERA Allo stato attuale, è, invece, difficile definire con esattezza l’orizzonte cronologico e l’effettiva funzione svolta da quei depositi di spoglie architettoniche, distribuiti soprattutto lungo il tratto fluviale 88. Ci sembra possibile attribuire ad epoca postantica solo la formazione di un piccolo accatastamento, scoperto nel 1894 presso ponte Milvio, sulla scorta dell’individuazione su una cornice angolare di un graffito, presumibilmente inciso durante le attività di spoliazione, in cui si legge Probi v(iri) c(larissimi) 89. I caratFig. 15. - Via Latina, basilica di S. Stefano: ubicazione dei resti di vasche per lo spegnimento della teri paleografici del docucalce (nn. 2, 3; rielaborazione da Fortunati 1859). mento epigrafico e le Spaccata 82, nell’ambito di una villa suburbana di età roanalogie del formulario con attestazioni urbane, ampiamana, in correlazione con interventi di recupero delle pamente note, ne permettono una generica datazione in età vimentazioni e decorazioni marmoree, sia tra via Acqua tardo imperiale 90. Bullicante e via dei Portici, nei pressi di un ipotizzato imIn generale, assume un notevole rilievo per la ricopianto produttivo 83. Allo stesso modo sono da ricondursi struzione dell’organizzazione dei cantieri romani il rinall’opera di calcararii anche le attestazioni di alcuni acvenimento di piccoli dispositivi per la lavorazione della cumuli di elementi marmorei con evidenti segni di rilacalce, allestiti a piè d’opera nel corso dei lavori di edivorazione, scoperti nelle vicinanze del Mausoleo di ficazione della chiesa di S. Sisto Vecchio, alle pendici Augusto 84, in piazza della Chiesa Nuova 85 e nella villa del Celio 91, e della basilica di S. Stefano, all’altezza del 86 87 dei Quintili , connessi sovente a fosse di spoliazione . III miglio della via Latina, grazie, in quest’ultimo caso, 82 Si tratta di una piccola calcara installata nella seconda metà del IV secolo (DB, contesto 258, indicatore 534) che fu riutilizzata da un successivo impianto, inquadrabile, per posizione stratigrafica, dalla fine del IV al VI secolo (DB, contesto 259, indicatore 535). 83 DB, contesto 289, indicatore 287. 84 DB, contesto 171, indicatori 371-372. 85 In questo caso è stata rinvenuta anche una fossa per il grassello (DB, contesto 84, indicatori 178-179). 86 DB, contesto 281, indicatori 574-575. Si rinvia anche alla scheda redatta dalla studiosa C. Lalli che raccoglie i dati di scavo ancora inediti (DB, contesto 278, indicatore 571). Cfr. infra, articolo di R. Paris et alii in questo volume. Questa attività sembra proseguire anche nel corso del VI secolo, come testimoniato da cumuli di marmi e strati di schegge di lastre pavimentali emersi nel settore delle piccole terme del complesso residenziale (DB, contesto 281, indicatori 574-575). 87 Attività di spoliazione, mirate non solo al recupero delle decorazioni degli edifici, ma anche del metallo delle condutture, sono documentate in questo periodo anche sul Palatino, presso il tempio di Elagabalus e della sua porticus (DB, contesto 143, indicatore 324), sul Celio, nel complesso scoperto presso i giardini di piazza Celimontana (DB, contesti 65-69), presso la domus di palazzo Valentini (un accenno in DB, contesto 267, indicatore 541) e lungo la via Flaminia, all’altezza dell’incrocio con via Emery (DB, contesto 235, indicatore 505). Di poco precedente (prima della fine del IV secolo) è il deposito di marmi e schegge di lavorazione rinvenuto presso il Circo Massimo, anch’esso determinato da azioni di spoglio (DB, contesto 250, indicatori 520-521). 88 Su queste testimonianze si hanno essenzialmente informazioni di massima che consentono di differenziare alcuni depositi di marmi di cava, dislocati nell’area ostiense (DB, contesti 238, 240), da accatastamenti volontari di marmi per azioni di spoglio di monumenti antichi, come riscontrato a valle di ponte Milvio, lungo la riva sinistra (DB, contesto 234, indicatore 534) o per attività di calcinazione, individuati rispettivamente in località Farnesina, lungo viale Angelico (DB, contesto 221), presso Lungotevere di Pietra Papa (DB, contesto 244) o a piazza Brin, nel quartiere della Garbatella (DB, contesto 239). 89 L’iscrizione, finora ignota, è stata valorizzata in particolare in PALOMBI 2008-2010, pp. 81-82 (ora PALOMBI c.s.); per approfondimenti bibliografici cfr. DB, contesto 215, indicatore 468. 90 Per le valutazioni di carattere cronologico e il raffronto con le testimonianze in ambito urbano si rinvia al testo di L. Spera, infra, pp. 00. 91 DB, contesto 99, indicatore 239. Stessa funzione doveva svolgere la fornace impiantata per la costruzione della basilica costan- LA BANCA DATI E IL GIS DEGLI INDICATORI DI PRODUZIONE. NOTE TOPOGRAFICHE E PRIME RIFLESSIONI DI SINTESI 23 perlopiù di impianti sorti in età imperiale entro dimore private, diversamente distribuite sul Palatino, Celio, Esquilino e Laterano 98, con una continuità d’uso almeno fino al V secolo. al riesame del resoconto degli scavi intrapresi dal Fortunati nel 1857-1858 (fig. 15, nn. 2, 3) 92. Al riguardo figurano infine i resti di un’attività di cantiere predisposta nell’area nord-occidentale del Foro Romano, presso le pendici meridionali del Campidoglio, in probabile connessione con opere edilizie che riguardarono il sito in questo periodo 93; si tratta di un miscelatore di calce, ricavato in un vano di età repubblicana contiguo al tempio di Saturno, da associare ad un consistente deposito di elementi marmorei accumulati all’interno di una vicina fossa 94. Al contrario, è da ricondurre ad una specifica situazione di cantiere svolta in maniera del tutto occasionale un modesto impianto per lo spegnimento della calce, identificabile sostanzialmente dalla presenza di tracce del legante in una fossa ricavata nel pavimento di uno dei magazzini costruiti in età domizianea nell’isolato compreso tra via di S. Paolo alla Regola, via del Conservatorio, via delle Zoccolette e via dei Pettinari 95. Per ora mancano elementi sufficienti per convalidare l’ipotesi dell’esistenza di un impianto artigianale nel settore nord della domus Tiberiana, ove nel tardo IV secolo si costruirono strutture effimere in argilla, buchi e canalette di incerta funzione 96. A completamento del panorama complessivo degli indicatori, si rileva, infine, la presenza di spazi deputati alla follatura, legati, come è noto, ad attività tessili non necessariamente di tipo manifatturiero 97. Si tratta 1.2. I secoli VI-VII Per quanto riguarda i secoli VI-VII, si dispone ancora di una rilevante quantità di evidenze archeologiche riferibili a generi diversi di tradizioni artigianali, tali da disegnare un panorama piuttosto variegato e complesso (fig. 16 e tav. 00) 99. Se da un lato si registra una continuità o discontinuità d’uso di molteplici contesti di epoca precedente 100, in disparati settori della città si evidenzia un rinnovamento su larga scala delle forme di produzione, per le quali si è supposta talora una connessione con il potere statale o ecclesiastico 101. Di nuovo gli indicatori di lavorazioni metallurgiche rappresentano una parte considerevole e significativa delle testimonianze, localizzati di preferenza in edifici a carattere pubblico e spesso complementari ad altre attività manifatturiere. Particolarmente interessante è l’impianto di notevoli dimensioni installatosi, nella metà del VI secolo, sui resti degli auditoria del supposto Athenaeum, fatto costruire dall’imperatore Adriano nel 135 e riportato alla luce presso piazza della Madonna di Loreto 102. La più impressionante caratteristica dell’atelier, che non trova confronti nel panorama conosciuto, è il tiniana dei SS. Pietro e Marcellino, al III miglio della via Labicana, che fu riutilizzata verosimilmente in una fase secondaria (forse successivamente al termine dei lavori da collocare nel 325) come vasca per spegnere la calce (GUYON, MANACORDA, STRÜBER 1981, pp. 10041005, 1014-1016; TRAINI 2013, p. 49). Legati sempre ad operazioni di cantiere sono le tracce di piani di lavorazione emersi nell’area del Laterano, nel piazzale dell’Inps, inquadrabili tra il V e il VI secolo (DB, contesto 137, indicatore 316). 92 Per ulteriori approfondimenti sui due dispositivi per lo spegnimento della calce («smorzatoio di calce» secondo le parole dello studioso: FORTUNATI 1859, pp. 16-17), individuati nella navata centrale e nella zona del battistero, vd. DB, contesto 37, indicatori 38; contesto 38, indicatore 80. 93 Non si esclude una connessione con la tarda ricostruzione alla fine del IV secolo del tempio di Saturno, ipotizzata sulla base dell’analisi stilistica della decorazione architettonica (PENSABENE 1984, pp. 151-152). 94 DB, contesto 56, indicatori 106-107. L’unico elemento di datazione per questa presunta attività di calcinazione è il terminus ante quem offerto dagli strati di obliterazione successivi, inquadrabili, sulla base dei dati ceramici, tra la fine del VI e gli inizi del VII secolo (PAGANELLI 2004, p. 180). 95 I dati di scavo consentono di collocare l’allestimento di questa struttura provvisoria nell’ambito compreso tra la fine del IV e gli inizi del V secolo (DB, contesto 300, indicatori 00-00). 96 DB, contesto 120, indicatore 287. Peraltro ancora incerta resta la funzione di un laboratorio artigianale che riutilizzò, tra la fine del IV e gli inizi del V secolo, un settore della cosiddetta ‘Insula Capitolina’ (DB, contesto 261, indicatore 538). 97 Su questo tipo di lavorazione si vedano DI GIUSEPPE 2012, pp. 477-494 e il contributo della studiosa in questi atti. 98 DB, contesto 28, indicatori 51-52; contesto 32, indicatore 65 (Celio); contesto 113, indicatore 277 (Colle Oppio); contesto 123, indicatore 292 (Palatino); contesto 135, indicatore 314 (Laterano); contesto 295, indicatore 597 (Esquilino). I resti di una fullonica con chiara funzione domestica, formata da una vasca quadrangolare in cocciopesto e da un piano di marmo per sbattere e pressare i panni, sono noti nell’ala nord-ovest della domus di Gaudentius sul Celio, il cui uso abitativo proseguì almeno fino alla metà del V secolo (SPINOLA 1992, p. 964). Ad un’attività di tessitura sempre a conduzione familiare riporta il ritrovamento di una fuseruola in terracotta da un contesto datato tra il V e il VII secolo nella domus B di palazzo Valentini (DB, contesto 266, indicatore 544). Un’altra tipologia di impianto legato sempre ad attività di follatura, ma risalente alla seconda metà del IV secolo, è quello relativo ad una coloreria, attestata sul Palatino nell’area ad ovest del tempio di Cibele (DB, contesto 122, indicatori 289-291). 99 Per un inquadramento generale, si rinvia a DELOGU 2010. 100 Si interrompono definitivamente le attività delle officine metallurgiche e della lavorazione dell’osso nel Foro di Cesare; prosegue la produzione sulle pendici nord-est del Palatino, nella basilica Hilariana e nell’area di S. Omobono (su cui vd. supra, pp. 00). 101 Cfr. L. Spera, infra, pp. 00. 102 DB, contesto 80, indicatori 168-171. Per una lettura recente delle strutture di produzione e dei relativi indicatori si rimanda a ANTONELLI, IACONE, PROSPERI et alii 2013, pp. 95-112. Sull’impianto vd. i contributi di M. Serlorenzi, G. Ricci e di V. La Salvia in questo volume. 24 CINZIA PALOMBI - LUCREZIA SPERA ricco repertorio morfologico e tipologico di fornaci, destinate a processi diversificati di riduzione e lavorazione di metalli più nobili come il rame e l’argento, che rivelano sicuramente una precisa e ben strutturata organizzazione dell’apparato produttivo, difficilmente limitata all’esclusivo fabbisogno locale 103. Peraltro, in una sostanziale contiguità con le funzioni artigianali che avevano già connotato in passato l’area centrale della città, si insediarono nei vani di sostruzione dei Rostra piccole officine per il riciclaggio di materiali metallici (soprattutto bronzo e ferro) 104; allo stesso tempo, un numero cospicuo di crogioli, rifiuti di fabbricazione insieme ad alcuni oggetti in ferro, provenienti dai livelli di abbandono di un ambiente delle cosiddette ‘terme di Elagabalo’ al Palatino, parrebbero suggerire la presenza, sul posto o nelle immediate vicinanze, di un impianto finalizzato ad operazioni di fusione 105. Legata presumibilmente ad una committenza monastica è la più variegata e composita attività artigianale attestata per questo periodo che ha lasciato traccia nell’enorme butto dell’esedra della Crypta Balbi, in cui si è riconosciuto un campionario piuttosto diversificato di oggetti semilavorati, scarti e materie prime, strettamente legati alla lavorazione non solo dei metalli ma anche delle merci di lusso, dell’osso, del vetro, dei tessuti, delle pelli in genere e del legno 106. L’ingente quantità di materiale recuperato è stata giudicata indicativa per proporre l’esistenza di un laboratorio altamente specializzato in tipi differenti di produzioni, la cui ubicazione è stata messa in relazione e in diretto rapporto con il vicino cenobio di S. Lorenzo in Pallacinis 107. Diversamente, non è ancora accertata l’area di provenienza di una serie di scarti di lavorazione, rinvenuti in giacitura secondaria sul colle Oppio, nell’esedra sudoccidentale delle terme di Traiano 108. Gli indicatori più significativi risultano essere in prevalenza ritagli me- Fig. 16. - L’età tardo antica: grafico comparativo a livello quantitativo degli indicatori di attività produttiva, datati nell’ambito compreso tra i secoli VI-VII. 103 È stata suggerita l’ipotesi di identificare tale impianto produttivo con uno spazio della zecca enea. Su questa lettura interpretativa si rinvia ai contributi di M. Serlorenzi, G. Ricci e V. La Salvia in questo volume. Sulle problematiche relative alla produzione monetale a Roma, vd. il testo di A. Rovelli in questi atti. 104 DB, contesto 47, indicatore 93. 105 Si segnala inoltre il rinvenimento di due frammenti di blu egizio: DB, contesto 144, indicatori 325-327. Un accenno sul contesto, tuttora inedito, in SAGUÌ 2013, p. 151. 106 DB, contesto 86, indicatori 186-201. Sulle attività dell’officina vedi, in particolare, RICCI 2001b, pp. 331-428. 107 Cfr. contributo di L. Vendittelli e M. Ricci in questo volume. A riguardo sono emerse nuove considerazioni nel corso del dibattito svolto a fine convegno, per cui rinvio al contributo di A. Molinari in questo volume e a L. Spera, infra, pp. 00. 108 DB, contesto 108, indicatori 266-271. LA BANCA DATI E IL GIS DEGLI INDICATORI DI PRODUZIONE. NOTE TOPOGRAFICHE E PRIME RIFLESSIONI DI SINTESI 25 tallici, scorie di fusione, frammenti di osso ed avorio trattati, lingotti e altri materiali vitrei da riciclare, provenienti probabilmente dalla discarica di una bottega artigianale adibita a molte attività produttive per le quali si è evidenziata una certa affinità, sotto il profilo tipologico, con quelle del coevo deposito della Crypta Balbi 109. A parte gli impianti di epoca precedente ancora in uso 110, mancano casi certi di nuove installazioni entro spazi privati e gli unici laboratori noti sono riconducibili in prevalenza a lavori artigianali svolti su scala abbastanza vasta. In tal senso l’esempio più rappresentativo è costituito dall’officina polivalente collocata nell’ambito delle insulae connesse al teatro di Balbo, dove, accanto alla produzione di metalli, sono attestati indicatori per la realizzazione di accessori d’abbigliamento e manufatti in osso lavorato 111. Nel complesso l’atelier si componeva di due fornaci in mattoni e in pietra lavica, un focolare per la preparazione del combustibile e una vaschetta di raffreddamento, chiari segni di un’organizzazione articolata degli spazi di lavoro e di una produzione assolutamente non occasionale 112. È molto probabile che fosse indirizzata ad un mercato non esclusivamente locale anche l’intensa attività di una bottega emersa presso piazza Venezia, all’interno di tabernae prospicienti un tratto della via Lata, in cui avevano luogo processi di riduzione e trasformazione secondaria delle leghe di rame, rivolti alla creazione di oggetti finiti o semilavorati di piccole dimensioni 113. Per quanto riguarda le restanti produzioni, esse sono presenti in quantità notevolmente più limitata. In relazione ad episodi di destrutturazione e spoliazione delle aree centrali dell’abitato 114 possono essere attribuiti uno strato di schegge di travertino sulle rovine del Foro Transitorio 115, due fornaci da calce nell’Atrium Vestae, con camera di combustione scavata nei suoli antichi, cumuli di marmi pronti per un nuovo carico e depositi di rifiuti 116, e i diversi accatastamenti di abbondanti materiali lapidei nell’Anfiteatro flavio, derivati da sistematiche e continuate operazioni di smontaggio e smistamento delle spoglie architettoniche 117. Per un quadro complessivo si rileva allo stesso modo la testimonianza di processi spoliativi a scala più ridotta anche in contesti privati: lo scarico di una probabile installazione per la calce insieme a due fosse di spoliazione e i resti di un apprestamento per calcinaroli sono stati identificati nell’ambito delle domus, scoperte rispettivamente sotto i palazzi Valentini 118 e delle Assicurazioni Generali 119. Si possono riferire a testimonianze edilizie condizionate spesso da specifiche necessità locali anche diverse lavorazioni manifatturiere riconosciute nel suburbio. In linea di massima si tratta di modeste fornaci attive lungo la via Nomentana 120 e, soprattutto, Labicana 121, in prossimità talvolta di strutture residenziali in disuso, che servivano difatti per attività di calcinazione legate al riciclo di elementi lapidei da spoliazione. Si può, al contrario, considerare un esempio rappresentativo di un vero e proprio cantiere di smontaggio col fine di recuperare materiale da costruzione l’ecce- Ibidem. Ci si riferisce in particolare agli impianti metallurgici nell’area di S. Omobono che rimasero attivi fino al VII secolo (cfr. supra, pp. 00). 111 Cfr. contributo di L. Vendittelli e M. Ricci in questo volume. 112 DB, contesto 160, indicatori 348-355. Sull’ipotesi che questa officina costituisca la prima sede dell’atelier i cui scarti sono stati rinvenuti nell’esedra del teatro di Balbo si rimanda al testo di L. Vendittelli e M. Ricci in questo volume. 113 DB, contesto 76, indicatori 158-162. Cfr. pure il contributo di M. Serlorenzi e G. Ricci in questi atti. 114 Allo stato attuale della ricerca, si è constatata la presenza sul Pincio, nell’area degli horti Luculliani , in una zona scarsamente abitata, di un cumulo di marmi determinato da azioni di spoglio (DB, contesto 212, indicatore 462). 115 DB, contesto 196, indicatore 409. 116 Al di là delle due calcare, nel VII secolo, l’atrium Vestae fu interessato da occupazioni di tipo abitativo (DB, contesto 59, indicatori 114-117). 117 DB, contesto 94, indicatori 223-226. Al momento, vista l’assenza di dati cronologici, non è possibile associare a questa attività di spoliazione anche i resti di una struttura per lo spegnimento della calce, emersi nel 1962 presso piazzale del Colosseo, in direzione di via dei SS. Quattro Coronati (DB, contesto 105, indicatore 260). Un deposito di spolia provenienti dalla vicina Meta Sudans si è rinvenuto nei pressi dell’arco di Costantino a testimonianza delle operazioni di recupero che interessarono in questo periodo la valle del Colosseo (DB, contesto 272, indicatore 551). 118 DB, contesto 267, indicatore 545; contesto 271, indicatore 550. 119 DB, contesto 82, indicatore 175. 120 Una calcara databile al VI secolo è stata rinvenuta nei pressi della villa di Boccone D’Aste, tra via della Bufalotta e via di Casal Boccone, connessa alle fasi di abbandono del complesso (DB, contesto 185, indicatore 391). 121 Si ricordano i forni da calce dislocati sul pianoro di Centocelle, rispettivamente nei pressi dell’ex pista dell’aeroporto omonimo (DB, contesti 254, indicatore 527; 256, indicatore 530), all’interno della villa della Piscina (DB, contesti 302-303, indicatori 000-000) e nelle vicinanze di quella cosiddetta delle Terme (DB, contesto 257, indicatori 532-533). Occorre, tuttavia, premettere che tale particolare concentrazione di calcare, pressoché esclusiva di questo comparto territoriale, va ricondotta molto probabilmente all’estesa campagna di indagini, eseguita in questa parte del suburbio tra il 1995 e il 2000, i cui risultati sono confluiti nell’edizione di ben tre volumi (GIOIA, VOLPE 2004; VOLPE 2007; GIOIA 2008). Non è dunque esclusa la presenza di impianti simili in altri settori del suburbio romano, sicuramente meno esplorati. Si veda a titolo esemplificativo quanto è emerso di recente nel territorio capenate (SAVI SCARPONI 2013, pp. 1-18). 109 110 26 CINZIA PALOMBI - LUCREZIA SPERA zionale contesto, databile nell’ambito del VII secolo, scoperto al V miglio della via Flaminia, in prossimità al Tevere 122, che è stato messo in relazione alla presenza di un insediamento monastico dedicato a S. Leucio, di cui abbiamo notizia nell’epistolario di Gregorio Magno 123. Nel sito, le rovine ancora emergenti di alcuni sepolcri, tra cui si è riconosciuto quello di un senatore di origine bresciana, Marco Nonio Macrino, distinti per le valenze monumentali, diventarono campi privilegiati per il prelievo sistematico, l’accatastamento e la lavorazione in loco di marmi antichi 124. Lo stato di conservazione e l’affidabilità del contesto, grazie anche alle analisi al C14, lo rendono esclusivo nel suo genere 125. Prendendo ora in considerazione gli altri tipi di lavorazioni, l’assenza di materiale di scarto non permette una sicura definizione della funzione produttiva di due piccoli forni in muratura con camera di combustione circolare, installati in un periodo successivo al V secolo in una taberna dei Mercati di Traiano, per i quali si è supposta una destinazione alla cottura di vasellame 126. Non molto si può dire neppure relativamente al grado di specializzazione e al tipo di manufatti prodotti di una bottega artigiana, individuata sulle pendici nord-ovest Fig. 17. - L’età altomedievale: grafico comparativo a livello quantitativo degli indicatori di attività produttiva, datati nell’ambito compreso tra i secoli VIII-X. 122 DB, contesto 219, indicatori 473-479. Sull’organizzazione di questo specifico cantiere di demolizione con fasi di utilizzo fino al pieno Medioevo, cfr. D’AMELIO, ESPOSITO 2012, pp. 331-343; ESPOSITO 2012, pp. 73-75. Più in generale, sulla pratica dello smontaggio, in area romana, cfr. REA 2002, pp. 152-160 e il contributo di R. Santangeli Valenzani in questo volume (ivi, per ulteriore bibliografia). 123 Greg. M., Ep. XI, 57; LP, I, p. 521. Nella lettera il pontefice dà disposizioni perché siano concesse alcuni sanctuaria del martire Leucio, poiché quelli esistenti nel monastero sulla Flaminia, diretto a quel tempo dall’abbas Oportunus, erano stati trafugati. Per un quadro generale sulle forme di insediamento nei secoli dell’alto Medioevo della via Flaminia tra il V e VI miglio, rimando al mio contributo in ARIZZA, PALOMBI 2012, in particolare pp. 53-61. 124 Sul ritrovamento, vd. ROSSI, GREGORI 2009-2010, pp. 109128; ROSSI 2012; sulle fasi tardo antiche cfr. CHIOCCI, GASSEAU, ROSSI et alii 2012, pp. 304-327. Stringente il confronto con la situazione riscontrata nella limitrofa area sepolcrale, al VI miglio della via Flaminia, dove i blocchi della decorazione marmorea del mausoleo cosiddetto a pianta stellare, liberati dagli strati alluvionali, sono stati rinvenuti accatastati in notevole quantità: BRUTO, MESSINEO, VANNICOLA 1984, p. 159. 125 Sono stati individuati frammenti di un’anfora di tipo ‘Cisterna di Samo’, di ceramica da fuoco di VII secolo nonché una moneta dell’imperatore bizantino Phocas, databile tra il 602 e 610; tali dati trovano conferma nell’analisi al carbonio 14 di un bovino, rimasto intrappolato sotto una delle esondazioni del Tevere, che forse costituiva la forza trainante all’interno del cantiere (CHIOCCI, GASSEAU, ROSSI et alii 2012, pp. 310-312). 126 Su questa struttura che meriterebbe ulteriori approfondimenti, cfr. SPECCHIO 2010, pp. 179-180 (DB, contesto 301, indicatori 000). Vd. pure il contributo di G. Rascaglia e J. Russo in questo volume. LA BANCA DATI E IL GIS DEGLI INDICATORI DI PRODUZIONE. NOTE TOPOGRAFICHE E PRIME RIFLESSIONI DI SINTESI del Palatino, per cui si è ipotizzata una stretta relazione con la fondazione della diaconia di S. Teodoro 127. Al contrario, ad una possibile manifattura per la fabbricazione di materiali vitrei rimandano i ritrovamenti di un pane di vetro e scarti di lavorazione nell’area della basilica Hilariana 128. Di particolare interesse, vista la rarità di attestazioni simili, è la scoperta sul Pincio di un laboratorio artigianale presumibilmente dedito alla concia delle pelli o alla preparazione di pergamena 129. Per quanto concerne la produzione di materiale fittile, resta al momento ancora incerta la localizzazione delle figlinae riattivate sotto Teoderico, la cui intensa attività edilizia è ampiamente ricordata nelle fonti e trova conferma in un ampio mercato di distribuzione dei manufatti 130. L’unica manifattura laterizia che è possibile identificare è quella impiantata sui ruderi del balneum dei Frates Arvales, nella zona tra il V e il VI miglio della via Campana 131. Non sembrano comparire neppure evidenze legate alla sfera tessile 132; si segnala solamente il recupero nell’ambito di un insediamento, legato fin dall’antichità allo sfruttamento agricolo dei terreni lungo la fascia prospiciente la sponda destra del Tevere, nei pressi di ponte Milvio, di un peso da telaio 127 Si sono individuate due vasche in opera cementizia, ricolme di argilla diatomitica dalle proprietà sia leviganti che refrattarie (DB, contesto 153, indicatori 335-336; cfr. L. Spera, infra, pp. 0000). Non ci sono elementi per definire la funzione originaria di un altro bacino in muratura, inserito nel VI secolo in un ambiente dell’horreum di età flavia, alle pendici settentrionali del Palatino (DB, contesto 117, indicatore 282). 128 DB, contesto 30, indicatori 60-62. E’ stata connessa all’installazione di attività artigianali anche una struttura in laterizi fornita di un ripiano e di un rivestimento in cocciopesto di incerta funzione (DB, contesto 29, indicatore 56). Vd. pure il contributo di C. Pavolini et alii in questi atti. 129 L’impianto si caratterizzava di un numero abbastanza elevato di vasche rettangolari (ben 7) con scarichi di calce all’interno, forse destinate per il calcinaio (DB, contesto 163, indicatori 358-359). In generale, è difficile distinguere le tracce archeologiche relative al ciclo produttivo delle pelli (DEFERRARI 1997, pp. 363-368; GIANNICHEDDA 2014, p. 87) e, oltre agli indizi già esaminati di un’attività simile nell’atelier della Crypta Balbi (cfr. supra, p. 00), rare sono le attestazioni per Roma (per l’età romana si veda il contributo di C. Panella in questo volume). Si è ipotizzata di recente la possibilità di considerare alcune strutture indagate in passato sul colle Aventino, al di sotto della chiesa di S. Sabina, come un luogo fortemente indiziario per la collocazione di un impianto per le pratiche di conceria, risalente molto probabilmente al IV secolo (ACAMPORA c.s.). Sulla via Tiburtina, presso il Policlinico Umberto I, sono stati recuperati dei trincetti, utensili generalmente attribuibili alla funzione di scarnatura del cuoio; tuttavia, l’assenza di indicazioni sul contesto di riferimento non ne consente un inquadramento cronologico puntuale (DB, contesto 204, indicatori 428-430). 130 Cfr., da ultima, GUERRINI 2011, pp. 133-174, in particolare sulla produzione laterizia si vedano le pp. 156-164. 27 in piombo, presumibilmente ascrivibile ad un’attività a conduzione familiare 133. 2. L’età altomedievale. I secoli dall’VIII al X d.C. Riguardo al quadro ricostruito per il periodo tardo antico, indubbiamente meno ricco e composito si presenta il panorama delle attività artigianali per la forbice compresa tra l’VIII e il X secolo d.C. (fig. 17 e tav. 00). Partendo dal presupposto fondamentale che molteplici realtà produttive attestate solo nelle fonti documentarie non hanno ad oggi un riscontro archeologico che ci permetta di conoscere l’entità e l’organizzazione delle strutture 134, sembra registrarsi per l’alto Medioevo una contrazione quantitativa di indicatori che passano da 130 a circa 60, con una maggiore incidenza di forme connesse alla sfera edilizia e un progressivo sviluppo di una rete artigianale sotto il controllo del potere ecclesiastico 135. Valutando poi la distribuzione topografica dei rinvenimenti (fig. 18 e tav. 00), si evidenzia chiaramente un minor numero di presenze sparse intorno alla città, un incremento di installazioni nelle aree dei Fori e del Palatino, in associazione alla realizzazione di fabbriche 131 DB, contesto 141, indicatore 322. LORETI, MARTORELLI 2000, p. 389. 132 Questa produzione, come si è già evidenziato, risulta attestata per l’ambito urbano solo nel sito della Crypta Balbi (cfr. supra, pp. 00). Degli impianti di follatura installati nel periodo precedente (cfr. supra, pp. 00) solamente quello nella basilica Hilariana parrebbe essere ancora operante fino ai primi decenni del VI secolo (DB, contesto 28, indicatori 51-52). 133 Il contesto, emerso durante le indagini preventive alla costruzione del Nuovo Mercato di ponte Milvio, è costituito da una complessa rete di canalizzazioni riconducibili ad almeno tre diverse fasi cronologiche comprese tra l’epoca medio-repubblicana e l’età medievale ed attende ancora un’edizione scientifica (un breve cenno in ARIZZA, PALOMBI 2012, p. 54). La possibilità di esaminare i materiali di scavo, concessa a chi scrive dalla dott.ssa Marina Piranomonte, funzionario della Soprintendenza Speciale per il Colosseo, il Museo Nazionale Romano e l’Area Archeologica di Roma, responsabile del sito, ha permesso di acquisire dati utili sui reperti provenienti dalle stratigrafie tardo antiche/medievali. Malgrado il perdurare nel tempo di questi pesi insieme alla mancanza di radicali trasformazioni nel repertorio morfologico non consentano una puntuale datazione, il manufatto (DB, contesto 216, indicatore 469) è confrontabile con un esemplare del VI-VII secolo proveniente dalla Crypta Balbi (PAROLI, VENDITTELLI 2004, p. 344, II.4.139). 134 Effettivamente il ruolo importante svolto da alcune produzioni, come ad esempio quella degli oggetti di lusso (cfr. DELOGU 1998b, pp. 123-141; DELOGU 2001, pp. 34-35; RICCI 2001a, pp. 331-428), dei laterizi (STEINBY 2001, pp. 143-144; vd. pure L. Spera, infra, pp. 00-00) e degli arredi architettonici e liturgici delle chiese (MELUCCO VACCARO 1999, pp. 299-308; BALLARDINI 2008, pp. 225-246; BALLARDINI 2010, pp. 141-148), si riflette esclusivamente in un quadro di rinvenimenti topograficamente assai articolato. 135 Cfr. L. Spera, infra, pp. 00-00. 28 CINZIA PALOMBI - LUCREZIA SPERA quegli impianti sorti nei Rostra e presso piazza Venezia 136, che furono sostituiti da attività connesse ad officine marmorarie nel primo caso 137, e da una fornace per la produzione della calce nel secondo 138. Allo stesso tempo, nei contesti riconosciuti come tali prosegue quel fenomeno di rioccupazione di edifici pubblici, anche se in genere la grande maggioranza degli ateliers presenta modeste dimensioni, ricoprendo spazi piuttosto contenuti che implicano un’organizzazione del lavoro non particolarmente sofisticata, per lo più destinata alla rifusione di metallo da riciclo (ferro, bronzo e piombo) 139. A tal proposito vale la pena ricordare l’inserimento nella navata settentrionale della basilica Giulia di un modesto allestimento artigianale probabilmente di breve durata, composto dai resti di un forno a pozzetto, un discreto numero di scorie bronzee Fig. 18. - L’età altomedievale: planimetria con l’ubicazione degli indicatori di attività produttive relativi al periodo compreso tra i secoli VIII-X. e un livello di cenere sparso sopra il pavimento originario 140. Una sireligiose, e, infine, la comparsa di contesti produttivi in tuazione simile è stata riscontrata anche nell’esedra aree finora ‘vuote’. della Crypta Balbi, dove, nella prima metà dell’VIII secolo, in continuità con la tradizione artigianale dei deLa produzione del metallo, vetro, osso cenni precedenti, sono stati identificati i resti di una Per quel che riguarda più specificatamente le eviprobabile officina fusoria pertinente ad una produzione denze di lavorazioni metallurgiche, analogamente a su scala ridotta 141. quanto avviene per l’età tardo antica, esse risultano in Pur in assenza di dati attendibili, occorre, tuttavia, linea di massima presenti in quantità ancora apprezzamenzionare le sporadiche tracce collegabili ad una labile, sebbene in forme qualitativamente ridotte. I dati a vorazione del piombo, considerata soprattutto la rarità disposizione mostrano innanzitutto una dismissione di con cui sono attestate 142. Con estrema cautela potrebbe 136 Cfr. supra pp. 00-00. Anche l’attività artigianale sviluppatasi sui resti dell’Atheneum fu obliterata, nella seconda metà del VII secolo, da un innalzamento del livello di calpestio riutilizzato agli inizi dell’VIII secolo per un’area funeraria (SERLORENZI 2010, pp. 146147; vd. pure il contributo di M. Serlorenzi e G. Ricci in questo volume). 137 DB, contesto 48, indicatori 94-95. 138 DB, contesto 77, indicatore 163. Il periodo di utilizzo di questo impianto dovette essere piuttosto breve e ricadere nell’ambito dell’VIII secolo. In effetti, già a partire della fine del IX e gli inizi del X secolo nel sito è documentata una successiva attività di spoliazione mirata al recupero in particolare di travertino (SERLORENZI 2010, p. 136; vd. pure il contributo di M. Serlorenzi e G. Ricci in questo volume). 139 In età tardo antica si distinguevano, come si è già notato, al- cune officine con caratteristiche più da industria che da bottega artigiana (cfr. supra, pp. 00-00). 140 DB, contesto 61, indicatori 121-123. La struttura produttiva fu attiva almeno fino al IX-X secolo, forse in connessione con i resti di un piccolo oratorio costruito nella navata occidentale della basilica, precedentemente identificato con la chiesa di S. Maria de Cannapara (MAETZKE 2001, p. 596; DE FELICE 2012, pp. 210-211). 141 Nel contesto sono stati rinvenuti due piccoli forni, un numero cospicuo di crogioli e una quantità di cenere e di scorie negli strati di accumulo che coprivano le installazioni (DB, contesto 88, indicatori 206-210). 142 Non sono note per l’epoca tardo antica testimonianze dirette di una metallurgia del plumbum (vd. in particolare L. Spera, infra, pp. 00-00). LA BANCA DATI E IL GIS DEGLI INDICATORI DI PRODUZIONE. NOTE TOPOGRAFICHE E PRIME RIFLESSIONI DI SINTESI 29 essere riferita ad età altomedievale, o forse ad epoca di poco successiva, la notizia, ormai non più verificabile, del rinvenimento, durante gli scavi nell’orto del convento di S. Bernardo, tra la fine del 1598 e il 1612, nell’ambito delle terme di Diocleziano di «alcune Grotte» interpretate come «officine d’Orefici, o fonditori di metalli, e vi fu ritrovata si gran quantità di piombo, che ne fu ricoperta la Cupola della Chiesa» 143. Di estremo interesse sono anche gli esemplari di fornaci, recuperati negli anni Ottanta all’interno delle cosiddette ‘piccole terme’ della villa dei Quintili, per cui non è possibile risalire con precisione all’entità quantitativa e alle modalità di lavorazione 144. Concorre ad integrare il quadro produttivo l’installazione scoperta alla metà del XIX secolo lungo il vicolo dell’Atleta, nella zona di Trastevere, l’unica ad essere collocata all’interno di un edificio privato a carattere termale 145. L’ambiente romano di II-III secolo fu rioccupato con diversa destinazione d’uso e divenne sede di una significativa attività metallurgica concordemente connessa alla trasformazione di elementi di spoglio, di cui si rinvennero tracce consistenti di bruciato sulle murature e residui di bronzo fuso sul piano di calpestio 146. Il recupero poi di un’ingente quantità di materiale bronzeo potenzialmente riciclabile, tra cui il celebre cavallo ora ai Musei Capitolini 147, accuratamente accumulato insieme a vasellame ed elementi marmorei assai eterogenei, potrebbe far supporre un utilizzo secondario come magazzino 148. Più labili, ma non certo da trascurare, sono le tracce in favore di altri generi di attività artigianali. In assenza di una struttura vera e propria, non è possibile precisare i caratteri tecnologici di una probabile vetreria sorta nei pressi e sotto il controllo della chiesa di S. Maria An- La produzione della ceramica In linea generale, indubbiamente più tangibili, a fronte delle epoche precedenti, ma ancora veramente sfuggenti, sembrano essere le attestazioni di un artigianato della ceramica, prevalentemente rappresentate da pochi e più affidabili scarti di lavorazione provenienti dall’area dei Fori e del Campo Marzio 153. A dispetto, infatti, dei progressi registrati nel panorama degli studi condotti negli ultimi anni, non si sono ancora identifi- 143 LANCIANI 1989-2002, V, p. 87; VI, p. 156; FELLETTI MAJ 1952, p. 39. DB, contesto 10, indicatore 18. Si ricordano anche «nella casa fabbricata ivi vicino dai Monaci Camaldolesi furono trovate parimente botteghe» (LANCIANI 1989-2002, VI, p. 156). In via ipotetica, poteva trattarsi di officine specializzate nello spoglio e nella fusione delle fistule plumbee provenienti dal complesso termale. 144 DB, contesto 282, indicatori 576-577. Si attende l’edizione definitiva delle indagini archeologiche eseguite nel 1984-1987 per avere ulteriori informazioni su tale contesto. Brevi cenni sulla scoperta solo in RICCI 1991, pp. 469-470. Si veda pure l’articolo di R. Paris et alii in questo volume. Al momento, non è possibile stabilire se il consistente quantitativo di piombo rinvenuto pure all’interno della villa dismessa del praedium Demetriae, al III miglio della via Latina, tale da raggiungere il peso, a detta del Fortunati, delle «2000 mila e più libre» (FORTUNATI 1859, p. 11) sia da riferire ad un’attività di spoliazione e accatastamento intenzionale del metallo in funzione di nuovi utilizzi (DB, contesto 41, indicatore 86). 145 DB, contesto 291, indicatore 591. 146 Ibidem. PARRISI PRESICCE 2007, pp. 33-53. DB, contesto 292, indicatore 592. Per una rassegna dettagliata dei reperti vd. LANCIANI 1989-2002, VI, pp. 386-388; SACCHI LODISPOTO 1983, pp. 3-22. 149 DB, contesto 46, indicatore 92. 150 DB, contesto 79, indicatore 167. Per ulteriori dettagli si rimanda al testo di M. Serlorenzi e G. Ricci in questo volume. 151 DB, contesto 87, indicatori 202-205. Cfr., supra, pp. 00-00 e il testo di L. Saguì e B. Lepri in questi atti. 152 DB, contesto 155, indicatori 339-341; contesto 157, indicatore 344; contesto 158, indicatore 345. 153 Si tratta di scarti provenienti dal Foro di Cesare (DB, contesto 304, indicatore 00-00; vd. contributo di G. Rascaglia e J. Russo nel presente volume), dal Foro della Pace (per una preliminare presentazione dei residui, ancora inediti ed in corso di studio, cfr. DB, contesto 70, indicatori 136-139), dall’isolato a sud della Crypta Balbi (DB, contesto 155, identificativo 340) e da S. Maria in Cosmedin, anche se in giacitura secondaria (DB, contesto 265, indicatore 543). tiqua, al Foro Romano, a cui sono state ricondotte alcune scorie di fusione e scarti di lavorazione 149. Non ci sono dati certi neppure per definire la funzionalità di un deposito di cenere spesso sino ad un metro, rinvenuto in via Cesare Battisti, che poteva costituire un amalgama destinato alla fusione del vetro o un agente candeggiante per attività tessili 150. Altrove, si registra una persistenza della vocazione produttiva per più secoli, che sembra suggerire il perdurare di una tradizione tecnologica radicata; da un deposito della discarica nell’esedra della Crypta Balbi, risalente alla prima metà dell’VIII secolo, provengono colaticci, crogioli, scarti di fusione e pani di vetro per un peso totale di g 1000, indicatori tipici di una produzione vetraria, svolta in forma decisamente più modesta rispetto all’attività dell’atelier di fine VII secolo 151. Peraltro, si rintracciano nell’isolato attorno al monumento romano, almeno fino al tardo X-inizi dell’XI secolo, ulteriori indizi di una lavorazione analoga affiancata da scarti di una fabbricazione di oggetti in osso e da un crogiolo per la fusione del bronzo che sembrerebbero testimoniare un ampliamento dello spettro delle realtà produttive, in un’area della città che assume ormai i connotati di un vero e proprio quartiere artigianale 152. 147 148 30 CINZIA PALOMBI - LUCREZIA SPERA cate installazioni fisse, che ovviamente potrebbero confermare una localizzata attività produttiva in ambito urbano 154. Peraltro, l’analisi condotta sugli indicatori affermati finora come tali della Crypta Balbi 155, della basilica Hilariana al Celio 156, della fonte di Giuturna 157 e delle Colonne Onorarie 158, ha permesso di ridefinire la funzionalità degli stessi, che non risultano essere sempre indiziari di una produzione 159. La produzione edilizia e del marmo A proposito dei luoghi addetti alla lavorazione del marmo e della calce è interessante notare come, in base alla distribuzione delle testimonianze superstiti, si assista in età altomedievale al diffondersi e al proliferare di officine specializzate in particolar modo nello spazio urbano, compreso tra il Palatino e il Campo Marzio meridionale. Altro elemento che sembra indubitabile è che queste attività siano in genere inserite in edifici pubblici di maggiore risonanza, rispecchiando quel processo secolare di spoliazione subito dalla città. Per quanto riguarda l’organizzazione delle botteghe di marmorarii, numericamente meno consistenti 160, esse rioccupano grosso modo superfici all’aperto grazie all’installazione di precarie strutture lignee prospicienti assi viari di collegamento 161 e, talvolta, si collocano in contiguità agli impianti di calcinazione, a testimonianza di un’articolazione degli spazi destinati alle singole ope- razioni dell’intero ciclo produttivo, dalle fasi di approvvigionamento alla rilavorazione e trasformazione in loco dei materiali lapidei di spoglio. Esemplificativo in tal senso è il caso della basilica Giulia, dove, a fianco all’attività metallurgica citata in precedenza 162, si accostarono ateliers di marmorari e calcinai, dediti ad una produzione certamente più permanente presumibilmente legata alla depredazione del monumento romano e di quelli circostanti. Si rinvennero, infatti, nella navata longitudinale meridionale dell’edificio una calcara a pianta circolare, in uso fino ai secoli del pieno Medioevo, insieme ad un accumulo di elementi architettonici e strutture deperibili intorno, innalzate direttamente sul lastricato marmoreo 163; l’organizzazione del lavoro così articolata parrebbe essere legata, come in altri contesti, ad una programmata iniziativa imprenditoriale 164. Nel quadro complessivo vanno integrate le molteplici attestazioni di attività finalizzate alla lavorazione della calce 165, che raggiungeranno il massimo sviluppo nei secoli immediatamente successivi, segno evidente del rinnovamento edilizio promosso all’interno della città 166. Nell’insieme, si contraddistinguono diverse strutture permanenti che funzionarono per un tempo relativamente lungo, quali le fornaci alle spalle della curia di Adriano 167 o della già citata basilica Giulia; molti impianti che sono da considerarsi piuttosto allestimenti temporanei, in relazione ad interventi specifici di ri- 154 PATTERSON 1993, pp. 309-331; ROMEI 2004, pp. 278-311; PATTERSON 2010, pp. 143-162. Per approfondimenti bibliografici vd. testo di G. Rascaglia e J. Russo in questi atti. 155 DB, contesto 90, indicatore 215. 156 DB, contesto 31, indicatori 63-64. 157 DB, contesto 119, indicatori 285-286. 158 BERTELLI, BROGIOLO 2000, p. 327. 159 Si rimanda alle considerazioni del testo di G. Rascaglia e J. Russo nel presente volume. 160 DB, contesto 48, indicatori 94-95 (area dei Rostra, cfr. supra, pp. 00-00); contesto 63, indicatore 126 (basilica Giulia); contesto 64, indicatori 127-129 (Palatino, zona dello stadio); contesto 230, indicatore 498 (Teatro di Marcello). 161 È stato sinora possibile individuare percorsi di servizio per il passaggio di carri e il trasporto di marmi nell’area dei Rostra orientali (GIULIANI, VERDUCHI 1987, pp. 145, 166, 186-187) e nella basilica Giulia (DE FELICE 2012, p. 214). 162 Cfr. supra, pp. 00. 163 DB, contesto 62, indicatori 124-125; contesto 63, indicatore 126; vd. pure DE FELICE 2012, pp. 212-215. La fornace, datata dal Lanciani all’VIII-IX secolo, parrebbe essere ancora menzionata in documenti del 1426 come appartenente ad una società del rione Pigna, cui era riconosciuta la facoltà di calcinare i blocchi di travertino (LANCIANI 1989-2002, I, p. 55). 164 Pur in assenza di dati cronologici puntuali, una situazione simile sembra rintracciarsi nel contesto del teatro di Marcello, dove si è rilevata la presenza di un’area di rilavorazione di pezzi mar- morei datata nell’ambito dell’VIII secolo, forse in connessione con la vicina diaconia di S. Teodoro, e di una composita attività di calcinazione, probabilmente di lunga durata (due calcare: DB, contesti 227-228, indicatori 495-496; un cumulo eterogeneo di elementi lapidei: DB, contesto 229, indicatore 497). 165 Cfr. infra, pp. 00-00. Tra la fine del VII e gli inizi dell’VIII secolo si colloca la produzione del forno nel Foro di Traiano (DB, contesto 96, indicatori 228-229; vd. pure articolo di R. Meneghini in questi atti); al secolo VIII va attribuita la fornace presso piazza Venezia (DB, contesto 77, indicatore 163); di poco posteriore è quella emersa nell’esedra della Crypta Balbi (DB, contesto 89, indicatore 211-214); all’VIII-IX sono da riferire le installazioni nell’area retrostante la Curia (DB, contesto 50, indicatori 97-99), nel settore tra la chiesa di S. Adriano e la basilica Emilia (DB, contesto 51, indicatore 100), e nella basilica Giulia (cfr. supra, nota 163), tutte in uso fino al pieno Medioevo; al tardo IX secolo risale la fornace nelle cosiddette ‘Terme di Elagabalo’ (DB, contesto 145, indicatori 328332); sulle pendici del Palatino una calcara aveva occupato il settore di una taberna degli horrea Agrippiana, attribuita al IX-X secolo (DB, contesto 45, indicatore 91). Si fa un breve cenno anche all’esistenza di una calcara altomedievale sulla sommità del Celio, ma di essa non si fornisce alcuna indicazione (PAVOLINI 2001, p. 618). 166 Cfr. infra, pp. 00-00 e il testo di R. Santangeli Valenzani in questo volume. 167 DB, contesto 50, indicatori 97-99. In base alle fonti letterarie queste fornaci erano ancora attive nel pieno Medioevo (LANCIANI 1989-2002, I, pp. 33, 62). LA BANCA DATI E IL GIS DEGLI INDICATORI DI PRODUZIONE. NOTE TOPOGRAFICHE E PRIME RIFLESSIONI DI SINTESI 31 strutturazione edilizia, come si è ipotizzato per la fornace di piazza Venezia 168 e, infine, alcune installazioni strategicamente dislocate nelle vicinanze di contesti insediativi, come quella nelle cosiddette ‘Terme di Elagabalo’, alle pendici nord-est del Palatino, che dovette soddisfare le necessità edilizie dell’abitato di S. Maria Nova 169. Al contrario, sporadiche sono le testimonianze di organismi simili nel comparto suburbano; una calcara è stata scoperta all’interno della più volte citata villa dei Quintili 170; altro caso è quello dell’impianto attivo fino all’XI secolo nell’atrio del Mausoleo di Elena, lungo la via Labicana (fig. 19) 171. L’esistenza di queste fornaci è segnale di un evidente processo di defunzionalizzazione di alcune parti dei complessi monumentali, ormai destinate ad uso di cava, e di riqualificazione dei siti in senso produttivo. Indubbiamente più significativi sono i consistenti resti di una lunghissima attività di cantiere documentati nell’area a sud della basilica di S. Paolo fuori le mura, tra la prima metà dell’VIII e il X-XI secolo, in stretta correlazione con i vari momenti edilizi del monastero (tav. 00 e fig. 20a, nn. 1-4) 172; si tratta di bacini per la miscelazione della malta, realizzati in momenti distinti, ma in continuità operativa formati da fosse circolari nel terreno o vasche quadrangolari contornate da intelaiature lignee 173. Ad epoca altomedievale risale presumibilmente un miscelatore, del tutto analogo, individuato all’interno di un vasto complesso insediativo a continuità di vita, ubicato lungo via Sorelle Marchisio, nella zona gravitante la via Trionfale (fig. 20b) 174; elemento che parrebbe suggerire l’impiego di maestranze edili qualificate, con comuni conoscenze tecniche, in grado di spostarsi ed esercitare attivamente la loro arte ad ampio raggio 175. Fig. 19. - Via Labicana, Mausoleo di Elena: resti di una calcara nell’atrio del monumento (rielaborazione da Vendittelli 2011). 168 Cfr. testo di M. Serlorenzi e G. Ricci in questo volume. Una funzione analoga è stata supposta anche per l’impianto nel teatro di Balbo (cfr. L. Vendittelli, M. Ricci in questo volume; per una lettura alternativa vd. il testo di A. Molinari). 169 DB, contesto 145, indicatori 328-332. TRAINI 2013, pp. 5153. 170 Si ringrazia calorosamente R. Frondoni per aver fornito informazioni su questo rinvenimento, ancora inedito (DB, contesto 275, indicatori 557-559). Si rinvia pure al contributo di R. Paris et alii in questi atti. 171 DB, contesto 232, indicatori 501-502. 172 DB, contesto 188, indicatori 395-396; contesto 313, indicatori 000-000. Non vi sono indicazioni sufficienti per definire la cronologia di una «fossa per calce», scoperta davanti al portichetto laterale della basilica (DB, contesto 189, indicatori 397-398). Per alcune anticipazioni sulle scoperte cfr. FILIPPI, SPERA 2009; SPERA 2011b; SPERA 2011c; per le evidenze di cantiere si rimanda a SPERA, ESPOSITO, GIORGI 2011, pp. 19-33; APPETTECCHIA, PALOMBI c.s. Sull’organizzazione dei cantieri altomedievali cfr. SANTANGELI VALENZANI 2002, pp. 419-426. 173 Parrebbero legate, invece, ad un’attività di cantiere svolta in maniera occasionale le due vasche di spegnimento rinvenute nell’isolato prossimo al teatro di Balbo (DB, contesto 156, indicatori 342-343). 174 L’insediamento è stato descritto in maniera sommaria ed attende ancora un’analisi d’insieme (BRUCCHIETTI, OLMEDA 2006, pp. 293-301; SANTOLINI GIORDANI 2009, pp. 621-229). La revisione della documentazione di scavo ed il riesame dei materiali scoperti, eseguita per una tesi di dottorato, svolta da chi scrive presso l’Università di Roma ‘Sapienza’, dal titolo Le dinamiche insediative del territorio compreso tra la via Flaminia e la via Trionfale, dal Tevere al V miglio, nella tarda antichità e nell’altomedioevo, sotto la supervisione del Prof. Vincenzo Fiocchi, ha permesso di acquisire dati significativi per puntualizzare le fasi di vita di questo complesso e valorizzare la scoperta di questo impianto produttivo, del tutto inedito (PALOMBI 2008-2010, pp. 395-404). 175 Sulla trasmissione del sapere antico, cfr. BIANCHI 1996, pp. 53-64; SIMONCINI 1997; sui magistri itineranti, cfr., da ultimo, CAGNANA 2008, pp. 39-53. 32 CINZIA PALOMBI - LUCREZIA SPERA 3. L’età medievale. I secoli dall’XI al XV d.C: Il quadro delle manifatture che emerge per i secoli tra l’XI e il XV risulta, allo stato della ricerca, piuttosto denso di evidenze, distribuite in modo abbastanza disomogeneo nel territorio (fig. 21 e tav. 00), in crescita rispetto al periodo precedente (si passa da 60 indicatori a 140). Ciò nonostante, la conoscenza dei sistemi e dell’organizzazione produttiva è ancora ad uno stadio preliminare, in quanto la documentazione relativa è limitata e spesso del tutto insufficiente. Valutando poi le singole tipologie di indicatori (fig. 22 e tav. 00) si evidenzia una flessione delle testimonianze di un artigianato del vetro, dell’osso e dei metalli a fronte di una presenza quantitativamente più rilevante di impianti per la produzione della calce, che rappresentano più del 50% dell’insieme, con un picco di attestazioni tra il XII e XIII secolo. 3.1. L’XI secolo Il repertorio delle forme produttive riferibili all’assetto di XI secolo ha lasciato segni decisamente meno tangibili nel panorama urbano, in assoluta controtendenza con il quadro fornito dalle fonti scritte 176; mantiene una certa vitalità solamente l’area centrale. Difatti la maggior parte delle fornaci di calce allestite nel Foro Romano risulterebbe ancora operante 177 e nuovi contesti sembrerebbero emergere alle pendici del Palatino, dove, nelle tabernae contigue all’Atrium Vestae, sono documentate fosse di spoliazione e calcare attive almeno fino al XII secolo, in relazione, forse, alla fortificazione del colle, per opera della famiglia dei Frangipane 178, e nel pronao del Templum Pacis, in cui sono state individuate tracce di un’officina di marmorari, costituite in buona parte da accumuli di listelli di colonne e pezzi di decorazioni rilavorate 179. Si segnala, inoltre, il rinvenimento in un butto della prima metà dell’XI secolo, presso piazzale del Colosseo, di numerose scaglie di traFig. 20. - A) area a sud della basilica di S. Paolo fuori le mura: resti di bacini per la miscelazione della vertino e diverse scorie di malta documentati tra la metà dell’VIII e il X-XI secolo (nn. 1-4); B) via Sorelle Marchisio, complesso insediativo: in evidenza è un miscelatore altomedievale (rielaborazione da Santolini Giordani 2009). ferro che, seppur in gia- 176 2013. Si veda la puntuale disamina dei riferimenti storici in WICHKAM Cfr. supra, pp. 00-00. DB, contesto 60, indicatori 118-120; contesto 146, indicatore 333 (nei pressi della chiesa di S. Maria Nova). Cfr. infra, pp. 00177 178 00. Sulle dinamiche insediative nel Medioevo sul colle Palatino si veda in particolare AUGENTI 1996, con bibliografia di riferimento. 179 DB, contesto 305, indicatori 000-000. Allo stesso periodo risale la rimozione delle decorazioni marmoree del monumento, in connessione, secondo l’ipotesi degli studiosi, alla presenza di una calcara nelle vicinanze (FOGAGNOLO, ROSSI 2010, pp. 40-41). LA BANCA DATI E IL GIS DEGLI INDICATORI DI PRODUZIONE. NOTE TOPOGRAFICHE E PRIME RIFLESSIONI DI SINTESI Fig. 21. - L’età medievale: planimetria con l’ubicazione degli indicatori di attività produttive relativi al periodo compreso tra i secoli XI-XV. 33 Iugario, in rapporto alla persistenza d’uso, nel Medioevo, della strada di collegamento tra la Suburra e il Foro Boario, altamente specializzate in una produzione, finora poco indagata, quella delle pietre dure 183. Ne sono una diretta testimonianza la vasta gamma di materiali grezzi, i moltissimi scarti di fabbricazione e i disparati strumenti per la lisciatura, tutti indicatori significativi non raffrontabili con contesti coevi. Cronologicamente in parallelo compaiono nell’ambito suburbano, in particolar modo lungo il percorso della via Appia, altrettante realtà produttive che sembrano riflettere l’immagine vivace desumibile da un passo del problematico atto di conferma dei beni di Gregorio VII, nel 1081, alla basilica di S. Paolo fuori le mura 184. Al di là di labili tracce di impianti artigianali per la produzione di ceramica nei ruderi del circo di Massenzio 185 e di una calcara nell’area centrale della villa dei Quintili, in uso per tutto il Medioevo 186, le attività più rappresentative risultano essere i resti di una fullonica nella zona del Quo vadis e di una gualchiera nel parco della Caffarella 187, considerando soprattutto che questi tipi di strutture hanno lasciato in genere pochi dati archeologici 188. citura secondaria, potrebbero essere interpretate come scarico dei residui di attività metallurgiche e di calcinazione svolte nelle immediate vicinanze del sito 180. Pochi appaiono gli indizi di una lavorazione del vetro, che comprendono due esemplari di crogioli provenienti di nuovo da depositi dell’esedra della Crypta Balbi, databili alla prima metà dell’XI secolo 181, ed un gruppo di rifiuti di fusione e materie prime vetrificabili dal Foro di Nerva, la cui area di provenienza non è stata ancora accertata 182. Al contrario, rivestono particolare rilevanza i resti di botteghe artigianali insediate nei pressi del Vico 3.2. I secoli dal XII al XV d.C. Nelle successive fasi di frequentazione dei secoli del pieno Medioevo si assiste ad un’accentuazione dei fenomeni insediativi rispetto al periodo precedente, con più rilevanti e marcate trasformazioni degli assetti costruttivi. La lettura degli indicatori nella loro globalità mostra con chiarezza una considerevole espansione ed un ampliamento dello spettro delle attività artigianali perfino in zone della città finora poco rappresentate, come ad esempio il quartiere di Trastevere 189 o il settore suburbano lungo la via Cassia 190. Sul piano tipologico si registra altresì il proliferare in Roma e nei suoi DB, contesto 104, indicatori 258-259. MANNONI 1990, p. 604; vd. pure il testo di L. Saguì e B. Lepri in questi atti. 182 DB, contesto 298, indicatori 602-604. 183 DB, contesto 57, indicatori 108-111. Per aspetti generali, cfr. LIPINSKI 1975 e i vari contributi raccolti in BALDINI LIPPOLIS, GUAITOLI 2009; su Roma, cfr. GASPARRI 1979, pp. 4-13. 184 TRIFONE 1908, doc. I, p. 282: Itemque concedimus tibi Sanctam Mariam que cognominatur Domine quo vadis et totam planiciem ante ianuas ipsius ecclesie, ubi fullones candificant pannos, cum tribus molendinis, que ibidem sunt. Et medietatem Circi, cum omnibus criptis, ubi lutea vasa conquuntur. Et balneum, quod nunc detinet Gregorius de Tuscolana. Vd. SPERA 1999, pp. 274, 428 per le considerazioni di carattere topografico. Sull’attendibilità del documento di cui permangono dubbi cfr., da ultima, DE FRANCESCO 2004b, pp. 291-292. 185 DB, contesto 126, indicatori 295-296. WICKHAM 2013, p. 179, nota 104; testo di G. Rascaglia e J. Russo in questi atti. 186 DB, contesto 276, indicatori 560-564. 187 DB, contesto 124, indicatore 293; contesto 152, indicatore 334. Sullo sviluppo di queste forme artigianali nella Valle della Caffarella, in relazione alla presenza del fiume Almone, si rinvia a RANELLUCCI 1980, pp. 445-458. 188 Per aspetti di carattere generale cfr. PANDURI 2010, pp. 83-91; BUSANA, BASSO 2012; per la produzione dei panni a Roma cfr. AIT 2005, pp. 33-59 e testo di H. Di Giuseppe in questi atti. 189 Per una sintesi sullo sviluppo e assetto topografico di questo settore della città, dall’età romana al Medioevo, si rimanda ai vari contributi raccolti in ERMINI PANI, TRAVAGLINI 2010. 190 Studi recenti hanno tentato di colmare le lacune sulla conoscenza di questo comparto territoriale: VISTOLI 2005; VISTOLI 2012. 180 181 34 CINZIA PALOMBI - LUCREZIA SPERA dintorni delle testimonianze riferibili a lavorazioni di tipo edile, costituite sostanzialmente da installazioni fisse (fig. 23 e tav. 00), molto spesso dislocate in prossimità di monumenti oggetto di spoliazione e legate al fervore edilizio del periodo storico 191. Partendo proprio dai luoghi di produzione della calce non si potrà non notare, in particolar modo per l’ambito intramuraneo, la capillare distribuzione in tutti i settori dell’abitato oltre le aree a maggiore densità dei Fori e del Campo Marzio 192, rilevando una deliberata e molto complessa organizzazione produttiva che doveva riflettere il ruolo importante svolto sul piano economico da questa attività 193. Nella vasta gamma di fornaci, distinte Fig. 22. - L’età medievale: grafico comparativo a livello quantitativo degli indicatori di attività produttiva, datati nell’ambito compreso tra i secoli XI-XV. 191 Sulle modalità di recupero dei materiali da costruzione nel Medioevo si vedano D’AMELIO, ESPOSITO 2012, pp. 331-343; ESPOSITO 2012, pp. 59-76, con ampia bibliografia. Per un quadro storico cfr. MAIRE VIGUEUR 2011; GUIDOBALDI 2014. 192 Sugli impianti ancora attivi nel Medioevo cfr. supra, pp. 0000. Anche se permangono dubbi sul preciso inquadramento cronologico di alcune strutture e senza la pretesa di essere esaustivi, le calcare riferibili ad età medievale sono installate rispettivamente nell’area centrale del Foro Romano, nei pressi della chiesa dei SS. Cosma e Damiano, dell’arco di Tito, dei templi dei Castori, di Antonino e Faustina, e di Venere e Roma, forse anche nelle vicinanze della basilica Emilia (DB, contesto 49, indicatore 96; contesto 52, indicatore 101; contesto 53, indicatori 102-103; contesto 54, indicatore 104; contesto 164, indicatori 360-361; contesto 166, indicatore 364; contesto 167, indicatore 365-366); nella valle del Colosseo, sul Celio, Laterano, Palatino, Esquilino, Aventino e nel Campo Marzio (DB, contesto 81, indicatore 172-174; contesto 106, indicatori 261-264; contesto 133, indicatore 312; contesto 134, indicatore 313; contesto 142, indicatore 323; contesto 146, indicatore 333; contesto 154, indicatori 337-338; contesto 161, indicatore 356; contesto 162, indicatore 357; contesto 165, indicatori 362-363; contesto 168, indicatori 367-368; contesto 169, indicatore 369; contesto 170, indicatore 370; contesto 172, indicatori 373-375; contesto 173, indicatori 376-377; contesto 174, indicatori 378-380; contesto 175, indicatore 381; contesto 178, indicatore 384; contesto 179, indicatore 385; contesto 180, indicatore 386; contesto 181, indicatore 387; contesto 183, indicatore 389; contesto 190, indicatori 399-400; contesto 262, indicatore 539; contesto 270, indicatori 548-549). Per un censimento delle attività produttive legate alla sfera edilizia nella zona di Trastevere vd. PORCARI 2009, pp. 93-129 e le schede dei seguenti contesti: DB, contesto 100, indicatori 240-243; 290, indicatore 590; 294, indicatore 596; 306, indicatore 000-000. Permangono principalmente dubbi sulla datazione di numerosi accumuli di spolia eterogenei (DB, contesto 202, indicatore 426; contesto 203, indicatore 427; contesto 245, indicatore 515; contesto 246, indicatore 516; contesto 247, indicatore 517; contesto 248, indicatore 518). È peraltro ben documentata la presenza di impianti destinati ad attività di cantiere, quali le vasche per la lavorazione della calce o della malta presso il tempio di Bellona (DB, contesto 176, indicatore 382) e in via della Croce Bianca (DB, contesto 114, indicatori 278-279) o i residui edilizi nell’area della chiesa di S. Clemente (DB, contesto 98, indicatore 238). 193 Sull’incremento della produzione di calce nei secoli del pieno Medioevo, cfr. BARAGLI 1998; TRAINI 2013, pp. 17-18, 21-22. Per le implicazioni sul piano economico di questo fenomeno si vedano CORTONESI 1996, pp. 277-307; CORTONESI 2002, pp. 109-136. A tale riguardo, appare significativo segnalare come a partire dall’XI secolo la zona del Circo Flaminio, compresa tra i rioni S. Angelo e LA BANCA DATI E IL GIS DEGLI INDICATORI DI PRODUZIONE. NOTE TOPOGRAFICHE E PRIME RIFLESSIONI DI SINTESI 35 Fig. 23. - Grafico comparativo a livello quantitativo del numero di calcare attestate nel corso dei secoli compresi tra il V e il XV. per tipo e probabilmente funzione, differiscono dai modesti allestimenti temporanei alcuni impianti articolati di maggiori proporzioni composti da più calcare, come testimoniato nel sito del Conservatorio di S. Pasquale Baylon 194 o presso piazza Madonna di Loreto 195, che dovettero restare in funzione per un lungo periodo ed essere destinate forse ad una produzione ‘industriale’196. In ugual modo nel territorio periferico si diffondono in maniera omogenea e in quantità rilevanti installazioni di calcinazione, del tutto simili sotto il profilo morfologico, a quelle urbane. Le strutture finora prese in considerazione sono rinvenute per la maggior parte in contesti insediativi (fig. 24), collocati lungo la viabilità principale, e rioccupano indistintamente spazi di ville imperiali (villa dei Quintili, villa di Lucio Vero al V miglio della via Cassia) 197, complessi residenziali (cosiddetti horti di Ovidio, aggregato di Acquatraversa, domus Marmeniae sull’Appia, etc.) 198, contesti funerari (ne- Pigna, prendesse il nome di Calcarario proprio in riferimento alla sua spiccata vocazione produttiva (MARCHETTI LONGHI 1919, pp. 401535; per le testimonianze rinascimentali di calcare nell’area della Crypta Balbi, vd. MANACORDA 2002, pp. 693-715). Sulla svolta decisiva nella produzione della calce a Roma a partire dal Quattrocento, si veda, da ultimo, VAQUERO PIÑEIRO 2002, pp. 137-154; VAQUERO PIÑEIRO 2010, pp. 30-33, con bibliografia di riferimento. 194 DB, contesto 100, indicatori 240-245 (quattro calcare, cumuli di marmi e residui dell’ultima cottura); PORCARI 2009, pp. 112-113. 195 DB, contesto 81, indicatori 172-174. E’ interessante notare come, in questo caso, le fornaci emerse, sebbene non attive contemporaneamente, siano ubicate in contiguità fisica, indice di una riattivazione prolungata nel tempo del medesimo impianto produttivo. 196 Ciò appare plausibile soprattutto per la zona di Trastevere, dove il riesame dei dati noti ha apportato certamente un contributo considerevole alla ricostruzione dei meccanismi produttivi e distributivi nel periodo dal Medioevo al Rinascimento (PORCARI 2009, pp. 93-129). Si sono rintracciate cospicue tracce di attività di calcinazione, documentate sostanzialmente dal rinvenimento di numerosi accatastamenti intenzionali di materiali di spoglio e depositi di stoccaggio, allestiti in ambienti preesistenti di età romana, come per via Salemi o nei pressi della chiesa di S. Maria dell’Orto (ibidem, pp. 107-108, 110-115; GUERRINI 2010, p. 74). 197 DB, contesto 276, indicatori 560-564 (villa dei Quintili; cfr. supra, pp. 00); contesto 222, indicatori 486-487 (villa di Lucio Vero). 198 DB, contesto 40, indicatori 82-85 (villa del praedium Demetriae sulla via Latina); contesto 115, indicatore 280 (domus Marmeniae); contesto 223, indicatori 489-491 (complesso di Acquatraversa). Per gli horti di Ovidio si può parlare più propriamente di un apprestamento per lo spegnimento della calce che riutilizza una vasca di natura idraulica (DB, contesto 217, indicatore 417; PALOMBI 2008-2010, p. 103). Non si forniscono dati cronologici e tipologici per una calcara apprestata forse in età medievale a nord della Torre di Quinto, nei pressi dei resti di un contesto abitativo (DB, contesto 218, indicatore 472). 36 CINZIA PALOMBI - LUCREZIA SPERA Fig. 24. - L’età medievale, esempi di installazioni di calcare in contesti suburbani: a) villa di Lucio Vero sulla via Cassia; b) cosiddetti horti di Ovidio sulla via Flaminia; c) aggregato di Acquatraversa sulla via Cassia; d) complesso di S. Sebastiano sulla via Appia. cropoli di via Vitorchiano, sepolcro dei Servili, complesso di S. Sebastiano, etc.) 199 ed edifici di culto (basilica di S. Stefano sulla via Latina, di S. Paolo fuori le mura, etc.; figg. 15; 20a, n. 6) 200. Il ritrovamento, nelle immediate adiacenze di questi allestimenti produttivi, di ammassi di blocchi eterogenei di spoglio potrebbe indicare l’esistenza di punti di raccolta del materiale da riciclare 201. Allo stesso modo, attività di spoliazioni mirate al recupero di materiale da costruzione (laterizi, marmi e travertini) o al servizio di calcinai investirono molteplici edifici maggiori 202, tra cui a titolo di esempio si possono segnalare l’Anfiteatro Flavio 203, la domus 199 DB, contesto 42, indicatore 87 (sepolcri sulla via Latina); contesto 127, indicatori 297-301 (S. Sebastiano); contesto 184, indicatore 390 (sepolcro dei Servili); contesto 186, indicatori 392-393 (sepolcro degli Scipioni); contesto 220, indicatore 480 (via Vitorchiano). Altre due calcare sono ricordate nei pressi di una catacomba all’altezza del IV miglio della via Latina (DB, contesto 43, indicatori 88-89). Attività di cavatura per produrre calce sono attestate a livello documentario anche presso il sepolcro del Monte del Grano, sulla via Latina (DB, contesto 44, indicatore 90). 200 DB, contesto 39, indicatore 81 (S. Stefano); contesto 315, indicatore 000-000 (S. Paolo fuori le mura). 201 A titolo di esempio sono da segnalare gli accumuli di elementi scultorei ed architettonici presso il Grande Ninfeo della villa dei Quintili (DB, contesto 279, indicatore 572; cfr. pure articolo di C. Lalli in Paris et alii in questi atti), in una fossa all’interno dei resti di una villa lungo il km VII della via Appia Nuova (DB, contesto 243, indicatori 513), nelle vicinanze della villa ad duas lauros sulla via Labicana (contesto 255, indicatori 528-529) o nei pressi del presbiterio della chiesa di S. Stefano sulla via Latina (DB, contesto 39, indicatore 81). Non è possibile stabilire la cronologia precisa di un deposito di spolia lungo la via Trionfale, forse con analoga funzione di stoccaggio (DB, contesto 226, indicatore 494). 202 Per problematiche di carattere generale, vd. articolo di R. Santangeli Valenzani in questi atti. 203 DB, contesto 93, indicatore 222; contesto 95, indicatore 227. LA BANCA DATI E IL GIS DEGLI INDICATORI DI PRODUZIONE. NOTE TOPOGRAFICHE E PRIME RIFLESSIONI DI SINTESI 37 Tiberiana sul Palatino 204, gli impianti termali di Traiano 205 e di Caracalla 206, il tempio di Bellona 207, il Mausoleo di Augusto 208, e, in misura minore, proprietà private, quali la domus B presso palazzo Valentini 209 e l’aula absidata generalmente nota come la biblioteca di papa Agapito 210. Aumentano le attestazioni pure di officine marmorarie con un’incidenza maggiore nei quartieri peritiberini e periferici dell’abitato 211. Al contrario, appaiono sostanzialmente puntuali le evidenze riferibili alle altre tipologie di attività, pur offrendo un quadro ancora piuttosto variegato. Rispetto alle tendenze precedenti i dati disponibili per la lavorazione dei metalli derivano in linea di massima da sporadiche attestazioni di residui e scarichi di fabbricazione, tecnicamente riconducibili al processo di lavorazione del ferro, per i quali non si può stabilire in maniera esatta il contesto di provenienza 212. Diversi scarti, in giacitura secondaria, provengono da accumuli, databili tra la fine del XII e il XIII secolo, indagati in più occasioni nel sottoscala XLV e all’interno del cuneo X dell’Anfiteatro flavio 213; indizi certi di un’attività svolta su scala ridotta sono stati individuati in un ambiente ormai destrutturato nell’area nord-ovest del Foro Romano, riadattato ad uso artigianale 214. In questo panorama piuttosto esiguo, riveste particolare rilevanza l’unica fornace metallurgica, scoperta in area suburbana, sulla collina S. Agata, all’altezza del V miglio della via Trionfale, che sfruttò un puteus di acquedotto preesistente, caduto in disuso (fig. 25) 215. Pur con le cautele dovute all’occasionalità dell’indagine, l’utilizzo di tale installazione, non comparabile al momento con siti coevi, sembra pro- Fig. 25. - Via Trionfale, collina S. Agata: resti di una fornace metallurgica di età medievale (da Santolini Giordani, Brucchietti, Olmeda 2009). 204 DB, contesto 121, indicatore 288. Fosse di spoliazione sono state rintracciate pure sulle pendici nord-ovest del colle (DB, contesto 154, indicatore 337). 205 E’ documentata l’attività di uno scalpellino forse in connessione alle tracce di macchinari o di impalcature utilizzate per le operazioni di smontaggio del monumento (DB, contesti 109-110, indicatori 272-273). 206 DB, contesto 107, indicatore 265. Al di là dell’allestimento per la calce già citato (DB, contesto 106; cfr. supra, nota 191), è attestato anche presso il settore sud-est del complesso termale il rinvenimento di schegge di marmo/travertino, che potrebbero essere residui di lavorazioni svolte in loco (CECCHINI 1985, p. 585). 207 DB, contesto 177, indicatore 383. 208 DB, contesto 172, indicatori 373-375. 209 DB, contesto 268, indicatore 546. 210 DB, contesto 251, indicatore 522; contesto 252, indicatore 524. Ulteriori interventi mirati al recupero di materiali sono documentati nell’ambito di un contesto insediativo scoperto nell’area compresa tra il viale del Monte Oppio e via delle Terme di Traiano (DB, contesto 112, indicatore 276). 211 DB, contesto 5, indicatori 7-8 (presso porta Portese); contesto 6, indicatori 9-11 (via dei Quattro Cantoni); contesto 7, indica- tori 12-14 (Esquilino, villa Altieri); contesto 8, indicatore 15 (via del Mazzarino); contesto 13, indicatori 22-23 (Esquilino, villa Montaldo-Negroni-Massimo); contesto 15, indicatori 26-31 (chiesa di S. Maria in Vallicella); contesto 18, indicatori 34-36 (vicolo del Vaccaio del Borgo Nuovo in Trastevere); contesto 260, indicatore 537 (Campo Marzio, via in Lucina); dubbi sussistono sui contesti 22, 23 e 24 (Testaccio, piazza dell’Emporio) su cui cfr. MAISCHBERGER 1997, pp. 61-93, 177. 212 Sulla produzione di reperti metallici nel Medioevo si veda ZAGARI 2005. Non ci sono elementi sufficienti per definire la cronologia esatta e la funzionalità dei resti di una probabile attività metallurgica, emersi nel 1803 lungo l’attuale via Dandolo, nella zona di Trastevere. Si tratta di crogioli frammentari e mattoni vetrificati (DB, contesto 293, indicatori 594-595). 213 REA, COCCIA 1998, p. 121. Per dettagli su questi indicatori, alcuni dei quali risultano inediti, si rimanda alle schede del database: DB, contesto 35, indicatori 69-70; contesto 36, indicatori 7175. 214 DB, contesto 58, indicatori 112-113. 215 DB, contesto 224, indicatore 492. Per un censimento delle attestazioni più tarde di botteghe di fabbri nell’area del Vaticano si veda CENTOFANTI 1999. 38 CINZIA PALOMBI - LUCREZIA SPERA lungarsi non oltre il XIII secolo, sulla base della più tarda attestazione di alcuni frammenti di ceramica laziale 216. Almeno per quanto è dato sapere, l’esistenza di una concomitante produzione del vetro sembra essere documentata durante il pieno Medioevo, anche se in misura minore 217. Oltre ai segni estremamente labili di un’attività erratica nei pressi del cuneo X dell’Anfiteatro Flavio 218, indubbiamente di maggiore interesse è il rinvenimento nel settore meridionale dell’esedra della Crypta Balbi di uno scarico della fine del XII e la metà del XIII secolo di resti antracologici, livelli di cenere e un considerevole quantitativo di scorie vetrose per un peso complessivo di kg 100, tra cui una più rappresentativa derivata da una trasformazione dell’argento 219, da ricondurre alla fase di cottura o forgiatura di una bottega di vetraio la cui ubicazione, pur restando ancora ignota, va ragionevolmente posta in prossimità dell’area di scavo 220. Naturalmente rappresenta un ritrovamento d’eccezione, se si considera la rarità con cui sono attestati, il forno vetrario emerso presso piazza Venezia, assieme ad un discreto numero di residui, crogioli e un’ingente quantità di materiale vetroso potenzialmente riciclabile 221. Più sfuggenti risultano essere i luoghi deputati ad una manifattura dell’osso. Tracce certe riferibili allo sfruttamento artigianale del corno sono state identificate al momento solo nell’area di S. Paolo fuori le mura 222; dubbi permangono sulla funzionalità di scarti provenienti da depositi tardo medievali della Crypta Balbi 223 e di un cumulo di ossa nella zona di piazza Navona 224. Nell’ambito della produzione ceramica, le notizie tratte dalle fonti storiche circa la presenza di numerose botteghe di vasai nei secoli più tardi del Medioevo parrebbero essere confermate da un incremento delle testimonianze riferibili a questa attività artigianale 225; si segnalano, tra gli indicatori più attendibili 226, diversi biscotti da piazza Navona 227 e da via di S. Paolo alla Regola 228, i manufatti malriusciti dal Foro della Pace 229 e la bottega presso il Foro di Traiano, organizzata in maniera articolata con spazi destinati alle diverse fasi di lavorazione (operazioni di raffinamento, decantazione e depurazione dell’argilla impiegata) 230. Si deve infine ricordare il ritrovamento avvenuto in questi ultimi anni nei pressi di piazza Cavour dei resti di un impianto produttivo, inquadrabile tra la fine del XV e gli inizi del secolo successivo, formato da vasche per la decantazione dell’argilla, la cui destinazione d’uso è ancora incerta 231. Per quel che riguarda le officine di laterizi, singolare è la scoperta di una piccola fornace, nell’area del Campo Marzio, in piazza Sforza Cesarini, sintomo del trasferimento dentro la città di attività forse di natura occasionale e limitate al fabbisogno locale 232. Localiz- Ibidem. Sulla produzione e diffusione del vetro nel Medioevo cfr. STIAFFINI 1999. 218 Da accumuli di XII-XIII secolo provengono un frammento di pane di vetro e uno di colaticcio (DB, contesto 36, indicatori 76-77). 219 A questo riguardo vale la pena segnalare il ritrovamento in strati di riporto del XV secolo nell’esedra della Crypta Balbi di due tipi di bilance, decontestualizzate, solitamente utilizzate nelle oreficerie che potrebbero costituire un unico indicatore dell’esistenza di una produzione di metalli preziosi (DB, contesto 92, indicatore 218). Per approfondimenti su questa lavorazione si veda LIPINSKI 1975; PIGLIONE 2000, pp. 250-261, con ulteriori rimandi bibliografici. 220 DB, contesto 91, indicatori 216-217. 221 DB, contesto 78, indicatori 164-166. 222 Il deposito di pertinenza di tali materiali, recuperati nel corso delle indagini svolte nell’area di S. Paolo ed ora in corso di studio da parte di J. De Grossi Mazzorin (cfr. il contributo dello studioso in questi atti), costituiva la dismissione di un pozzo in uso nell’alto Medioevo (SPERA, FILIPPI c.s.). 223 DB, contesto 92, indicatore 220. Dal contesto proviene pure una matrice in pietra per la realizzazione di medagliette in metallo (ibidem, indicatore 221). 224 DB, contesto 131, indicatore 306. Potrebbe essere legate ad attività piuttosto di macellazione una «gran quantità di corna» individuate nel corso dei lavori per l’edificazione della chiesa di S. Bartolomeo de’ Vaccinari (DB, contesto 12, indicatore 21). 225 GÜLL 1997; GÜLL 2003; BANDINI 2009, pp. 497-505. Si rimanda al contributo di G. Rascaglia e J. Russo in questo volume. 226 Per il periodo in questione il gruppo di scarti ritenuti tali sono costituiti da reperti ceramici ipercotti/deformati o biscotti che, in assenza di ulteriori dati, non forniscono l’indizio certo dell’esi- stenza di una fornace: DB, contesto 55, indicatore 105 (tempio di Romolo); contesto 252, indicatore 523 (Celio, biblioteca di Agapito); contesto 307, indicatore 000-000 (via dei Farnesi); contesto 308, indicatori 000-000 (piazza SS. Apostoli); contesto 309, indicatore 000-000 (Crypta Balbi, area X); contesto 310, indicatore 0000 (Crypta Balbi, area III); contesto 312, indicatore 000-000 (S. Nicola in Carcere); contesto 299, indicatori 605-600 (Area sacra di Largo Argentina); contesto 316, indicatori 000-000 (Basilica di S. Paolo fuori le mura, chiostro). Peraltro il riesame completo dei materiali noti ha permesso di appurare che questi manufatti potrebbero essere ancora funzionali e forse immessi nel mercato (si rimanda alle osservazioni nel testo di G. Rascaglia e J. Russo in questi atti). 227 DB, contesto 132, indicatori 307-311. Si segnala pure un frammento di biscotto, decontestualizzato, dalla Torre De’Conti (DB, contesto 311, indicatore 000-000). 228 DB, contesto 264, indicatore 542. 229 Per dettagli su questi prodotti, del tutto inediti, si rimanda a: DB, contesto 71, indicatori 140-145. 230 Ricco il repertorio di strumenti e degli scarti di fabbricazione (DB, contesto 97, indicatori 230-237). Cfr. infra, il contributo di R. Meneghini in questi stessi atti. 231 Si ringraziano per le notizie circa la scoperta la dott.ssa M. Bertinetti, funzionario della Soprintendenza Speciale per il Colosseo, il Museo Nazionale Romano e l’Area Archeologica di Roma, responsabile del sito, e il dottor M. Brando, autore della scheda: DB, contesto 297, indicatori 600-601. 232 DB, contesto 286, indicatore 581. Potrebbe essere valorizzata in tal senso anche la notizia riportata nel Lanciani della presenza di un forno per laterizi nei pressi della chiesa dei SS. Marcellino e Pietro, di cui, tuttavia, non si fornisce un inquadramento cronologico puntuale (DB, contesto 9, indicatori 16-17). 216 217 LA BANCA DATI E IL GIS DEGLI INDICATORI DI PRODUZIONE. NOTE TOPOGRAFICHE E PRIME RIFLESSIONI DI SINTESI 39 zato, invece, nel suburbio è l’impianto realizzato entro i resti di un edificio preesistente al I miglio della via Appia 233. Nel caso fortuito, sono emerse le tracce archeologiche delle diverse fasi del processo produttivo, dal deposito delle argille depurate, al piano di lavorazione di queste e alla raccolta di materiali da combustione e da scarto 234. Pur non disponendo di elementi precisi per una datazione delle singole coltivazioni 235 possiamo individuare in questo periodo, con la diffusione della tecnica a ‘tufelli’, una ripresa dello sfruttamento delle risorse litotipiche 236; sul Celio sono, infatti, attestate cave di tufo sotterranee forse di epoca medievale 237. Per terminare il quadro produttivo vale la pena ricordare, in relazione alla produzione laniera, il rinvenimento nel settore del Grande Ninfeo della villa dei Quintili di una più tarda attestazione di un apprestamento per la follatura, legato sempre al corso dell’Almone e sicuramente meglio caratterizzato sul piano architetto- nico 238. Pur non essendo noti esempi analoghi, il mondo della tessitura sembra essere ben rappresentato nelle fonti letterarie che ci informano dell’esistenza nel territorio suburbano di svariate gualchiere 239. Quanto allo strumentario connesso sono testimoniati ritrovamenti in particolar modo di fuseruole in stratigrafie di epoca medievale nel deposito della Crypta Balbi 240, nell’area sotto palazzo Valentini 241, nel Foro Romano presso il tempio della Concordia 242 e presso piazza Navona 243. (C. P.) 233 DB, contesto 75, indicatori 154-157. Si segue la datazione proposta per questo impianto in SPERA 1999, pp. 61-63. Sulla produzione dei laterizi nel Medioevo si rimanda ai fondamentali studi di GIUSTINI 1997; DE MINICIS 2001; MONTELLI 2001 e si vedano anche le osservazioni nel testo di N. Giannini in questo volume. Le fonti menzionano nell’area di Borgo e di Trastevere la presenza di diverse fornaci a partire dal XV secolo (DB, contesto 198; VAQUERO PIÑEIRO 2002, pp. 137-154); la produzione di mattoni si sposterà solo alla fine del XVI secolo, in seguito ad un editto di Pio II Piccolomini, nelle valli delle Fornaci e del Gelsomino (MASINI 1986; BULTRINI, STEMPERINI 2009, p. 367). Una fornace adibita alla produzione di tegole e coppi, datata ad età post-medievale, è emersa in via di S. Dorotea, nel quartiere di Trastevere, a testimonianza di una continuità di tradizione (PORCARI 2009, p. 115). 234 Ibidem. 235 Cfr. supra, nota 71. 236 ESPOSITO 1998; cfr. i testi di D. Esposito e R. Santangeli Valenzani in questo volume. A partire dal XV-XVI secolo le notizie documentarie sono ricche di indicazioni relative all’aperture di cave estrattive. A titolo di esempio si ricordano i contesti: DB, contesto 206, indicatore 433; contesto 236, indicatore 506; oppure le numerose cave di pozzolana nei pressi delle catacombe: cfr. FELLE, DEL MORO, NUZZO 1994, pp. 99-100; BISCONTI, DEL MORO 1999, pp. 73-74; GIORDANI 2007, p. 289. È testimoniata anche la ripresa dello sfruttamento delle cave di argilla in relazione soprattutto alla produzione della ceramica: si vedano, in particolare, i recenti studi archeometrici realizzati sugli impasti delle maioliche rinascimentali in PANNUZI, MONARI, MANTOVANI 2010, pp. 197-208; PANNUZI, MONARI, MANTOVANI 2012, pp. 71-74. 237 Cave di tufo sono segnalate dal Lanciani (FUR, tavv. 35-36) come antiche, ma potrebbero essere medievali, considerando in special modo la notizia, riportata in HUBERT 1990, p. 224, che descrive nel sito la presenza nel 1003 di un’industria estrattiva. 238 Cfr. supra, nota 188; DB, contesto 280, indicatore 273. Il perpetuarsi di queste attività nella valle della Caffarella parrebbe trovare conferma in diverse testimonianze note da documenti su cui vd., per una sintesi, DE FRANCESCO 2004b, p. 292. 239 DB, contesti 147-151. 240 DB, contesto 92, indicatore 219. 241 DB, contesto 269, indicatore 547. DB, contesto 116, indicatore 281. DB, contesto 132. Per ulteriori testimonianze si rimanda al contributo di H. Di Giuseppe in questo testo. 244 C. Palombi, supra, pp. 00-00; come si è già detto, la complessiva raccolta dei dati, elaborata per il Convegno nel marzo 2014, è presentata in questa sede nel CD allegato, ma destinato al web nella forma predisposta per un’implementazione sempre aggiornata. Il contributo che si presenta offre un primo tentativo di lettura complessiva delle evidenze, senza pretendere di imporsi come uno studio sistematico ed esauriente di tutte le tematiche correlate, anche nel senso della completezza cronologica. Ad esso, infatti, si intende anche attribuire lo scopo di mettere in luce le potenzialità di una ricerca più ampia, che si presta ad ulteriori radicali approfondimenti. Gli argomenti trattati, si vedrà, non si spingono oltre i secoli dell’alto Medioevo, sia per le specifiche competenze di chi scrive, sia perché il periodo bassomedievale presenta una messe straordinaria di fonti scritte che finora ha indirizzato piuttosto gli storici che gli archeologici all’esame della documentazione e ai conseguenti tentativi di sintesi (si vedano, in questo volume, i preziosi apporti di C. Wickham e di J.-C. Maire Vigueur) e manca ancora un’indagine sistematica che legga contestualmente in quadri generali di dettaglio anche i records archeologici. Per l’età tardoantica e l’alto Medioevo analisi più esaustive e ragionate dovrebbero essere rivolte ad esempio alle categorie professionali, soprattutto correlando dati, anche in senso topografico, e attestazioni di fonti letterarie ed epigrafiche. Alcune professionalità risultano emergenti, ad esempio, con singolari raggruppamenti in ambiti sepolcrali privilegiati, semplicemente dall’epigrafia funeraria (DI STEFANO MANZELLA 1997, pp. 316-337; l’epigrafia è valutata anche nelle raccolte complessive, per categorie di mestieri, di BISCONTI 2000): per qualche caso interessante si richiamano gli argentarii di ICUR V, 13410 (del 498, da S. Sebastiano); II, 4280 (del 522, da S. Pancrazio); II, 5087 (del 544, da S. Paolo); VIII, 20841 (del 557, da S. Agnese, su cui anche LEGA 1997, con un’analisi sul lemma professionale), l’aurifex di ICUR I, 1403 sepolto nel 571 nell’Oratorio dei Quaranta Martiri, il monetarius di ICUR I, 998 (l’epigrafe, del 546, venne riutilizzata nel pavimento della chiesa dei SS. Quattro Coronati), il cabidarius di ICUR II, 5057 (del 538, da S. Paolo), lo spatarius di ICUR II, 4284 (del 538, da S. Pancrazio), il tinctor di ICUR II, 4283 (del 536-537, da S. Pancrazio) – il folto gruppo dei tinctores è ricordato un noto passo Dialogi di Gregorio Magno (4, 56, 1). Studi generali su tali temi ancora assai utili di CRACCO RUGGINI 1971 e di MOR 1971. Note topografiche e riflessioni di sintesi I quadri di insieme ricostruiti, proponendo una generale presentazione diacronica dei dati per tipologie di impianto, evidenziano l’eccezionale ricchezza della documentazione acquisita 244. La raccolta e le prime valutazioni storico-interpre242 243 40 CINZIA PALOMBI - LUCREZIA SPERA tative che ne derivano hanno richiesto alcune considerazioni preliminari di ordine critico-metodologico, soprattutto sul valore del singolo record archeologico che, se non pone troppe questioni per le installazioni fisse, benché queste condividano con gli altri indicatori in molti casi le scarse informazioni e la diffusa fluidità di datazione che segnano le scoperte meno recenti (figg. 10-11), assume ovviamente significati diversi in relazione all’impatto quantitativo per gli scarti di lavorazione e i residui di materie prime, spesso problematici anche per il ruolo all’interno dei depositi archeologici, in quanto non sempre si può stabilire se si tratta di residui o reperti in fase 245. Nel senso del valore topografico, poi, può essere utile ribadirlo, si ritiene che essi vadano considerati tenendo conto anche dei processi di smaltimento dei rifiuti nella città: finché questo si può considerare programmaticamente effettuato entro circuiti urbani preordinati, con la formazione di ampie discariche polarizzanti 246, tali indicatori arrivano a perdere, è logico, ogni valenza di precisazione locativa, mentre un significato diverso va attribuito ai reperti da ‘mondezzai’ di contenuto volume, plausibilmente legati a operatività produttive nelle vicinanze 247. La ricerca sugli apparati di produzione nelle trasformazioni delle città, di Roma in particolare, dall’antichità al Medioevo non può poi limitarsi alla scarna raccolta dei dati materiali, cui finalmente gli studi più recenti stanno concedendo un ruolo primario di documentazione diretta. La migliore lettura di questi richiede, per lo sviluppo e la piena comprensione di una serie di aspetti correlati, uno sforzo di attenta integrazione con le fonti scritte ed epigrafiche, soprattutto quelle che possano aiutare a ricostruire gli apparati le245 Per alcuni casi di indicatori sporadici, particolarmente scorie o crogiuoli, di difficile contestualizzazione e incerto significato cfr. i diversi casi valorizzati nell’esame di C. Palombi, supra, pp. 000. 246 Come quella di età antonina nell’area del Trastevere recentemente edita da Fedora Filippi, di composizione mista, domestica e industriale (FILIPPI 2008); sullo smaltimento dei rifiuti nelle città romane in generale DUPRÉ RAVENTÓS, REMOLÀ 2000, in particolare i contributi di PANCIERA 2000 e MANACORDA 2000; più generale LIEBESCHUTZ 2000. 247 DB, contesto 108, indicatori 266-271. Per il caso più significativo nell’esedra della Crypta Balbi (DB, contesto 86, indicatori 186-201) RICCI 2001b e SAGUÌ 2002. 248 Non a caso uno dei più preziosi avvii della ricerca sulle produzioni nella Tarda Antichità e nel Medioevo, la XVIII settimana di Studio del Centro italiano sull’alto medioevo su Artigianato e tecnica nella società dell’alto medioevo occidentale del 1970, aprendosi prevalentemente alla documentazione diretta monumentale con una serie di approfondimenti sulle tecniche (Artigianato e tecnica 1971, particolare pp. 525-782), affidava i lineamenti introduttivi ad un giurista (LOPEZ 1971). gislativi di riferimento in relazione all’organizzazione del lavoro e, per le ricadute topografiche, alla valenza giuridica degli spazi urbani 248. L’analisi critica complessiva ha permesso di comporre, si è visto, quadri distributivi dai quali è possibile dedurre alcune riflessioni ulteriori, in particolare sul significato delle presenze produttive nelle trasformazioni degli assetti urbani nella Tarda Antichità e nel Medioevo. Tale punto di osservazione risulta obbligato tanto più se si richiama preliminarmente il ruolo di fattore assai dinamico esercitato dalle macroproduzioni sulla configurazione degli insediamenti nella città e nel territorio, fino alla connotazione marcata pressoché monofunzionale di interi quartieri 249 o alla formazione di aggregati demici significativi esterni alle mura, quali dovevano profilarsi, nell’immediato suburbio, la civitas figlinae, a nord, attestata dal Liber pontificalis e dalla passio sanctae Susannae 250, e, al terzo miglio della via Ostiense, in prossimità dello scalo tiberino noto dalla descrizione di Ammiano Marcellino 251, il vicus Alexandri, cui sono stati ragionevolmente riferiti alcuni impianti artigianali e per lo stoccaggio di materiali da costruzione documentati a più riprese nell’area 252. Nell’arco dei dieci secoli in esame, dal V al XV, pur in una sostanziale tenuta dei saperi e dei procedimenti tecnologici 253, si ridisegna, infatti, a più riprese e radicalmente, come si deduce anche da una semplice osservazione delle mappe e dai dati quantitativi (figg. 12-13, 16-18, 21-22), la ‘geografia della produzione’ a Roma. La tendenza che appare inequivocabile a partire dal V secolo è il progressivo inurbamento degli impianti produttivi che nei precedenti secoli dell’età imperiale, 249 Vd. infra, p. 00 per la concentrazione delle officine marmorarie e p. 00 (con nota 00) per il ‘Calcarario’ nel Medioevo. Sulle problematiche del rapporto tra archeologia della produzione e topografia urbana si vedano le recenti riflessioni, anche di ordine metodologico, di ESPOSITO, SANIDAS 2012a; inoltre MONTEIX 2012 per Roma e SALIOU 2012 per alcuni casi in Oriente. 250 LP, I, p. 180 (la donazione di Costantino alla basilica di S. Agnese comprendeva omnis ager circa civitatem Figlinas) e AA. SS., Aug. II, p. 632, che ne suggerisce la localizzazione tra il secondo e il terzo miglio della via Salaria per la prossimità al cimitero dei Giordani (in crypta iuxta sanctum Alexandrum, iuxta civitatem Figlinas; L. DUCHESNE, comm. ad LP, p. 197, nota 82); cfr. anche AA. SS., Ian. II, p. 80. Essenzialmente DE FRANCESCO 2004a, con ulteriore bibliografia. Cfr. già C. Palombi, supra, p. 000. 251 Hist. 17, 4, 14. 252 Un riepilogo ragionato dei dati documentari in VELLA 2013b, pp. 184-185 (cfr. anche VELLA 2013a); si veda poi ROGGIO 2012, pp. 343-355. Vd. anche DB, contesto 241, indicatore 511. 253 Essenzialmente LAVAN 2007. LA BANCA DATI E IL GIS DEGLI INDICATORI DI PRODUZIONE. NOTE TOPOGRAFICHE E PRIME RIFLESSIONI DI SINTESI 41 dicate nel tessuto urbano, accanto ad una serie di microattività e procedure di rifinitura dei prodotti, va richiamato il logico radicamento delle officine marmorarie, operanti, a conclusione dei processi di lavorazione già iniziati in cava, sulla base degli studi di Rodolfo Lanciani e Martin Maischberger, in particolare nei comparti peritiberini dell’Emporio e del Campo Marzio e in prossimità dei grandi cantieri di destinazione 259. ovviamente per le attività primarie, si caratterizzano per una generale localizzazione in aree extra e periurbane 254 e per l’organizzazione di circuiti più articolati in senso spaziale, a motivo delle scontate correlazioni con i siti estrattivi delle materie prime, ma anche, per alcune tipologie di installazioni produttive, le più inquinanti, della diffusa attenzione alla tutela della salubritas di cui si rintracciano ampi riflessi negli apparati legislativi, esigenza primaria in un centro urbano ad alto indice di popolamento 255. Alla fine del I secolo Frontino, celebrando l’intervento di Nerva a favore della salubritas cittadina (Sentit hanc curam imperatoris piissimi Nervae principis sui regina et domina orbis in dies et magis sentiet salubritas eiusdem aucto castellorum, operum, munerum et lacuum numero), poteva ricordare che i Romani del tempo godevano di una città pulita, dove erano scomparsi «gli odori nauseabondi che al tempo degli antichi rendevano l’aria irrespirabile» (causae gravioris caeli quibus apud veteres urbis infamis aer fuit sunt remotae) 256. Non è di scarso significato in questa direzione che nella popolosa Costantinopoli, ancora nel 419, non si concedesse, propter salubritatem, la licentia coquendae calcis in uno spazio della città, benché costiero, centrale e adiacente il palazzo imperiale 257; dallo stesso repertorio di leggi si deriva, tra l’altro, a più riprese, come è noto, che le fornaci erano preferibilmente dislocate in praediis dei domini che gestivano la produzione 258. Tra le attività artigianali invece più naturalmente ra- Nella Roma tardo antica, dunque, dal V al VI secolo, si documenta una decisa inversione di tendenza e l’intromissione sistematica delle attività produttive negli spazi cittadini con diversa configurazione originaria si impone come uno dei fattori più efficaci di rinnovamento urbano nei secoli della transizione 260, fattore, peraltro, riconosciuto come fenomeno connotante in molti centri urbani a continuità di vita 261. Questa tendenza può essere valutata sulla base di impulsi molteplici e interconnessi, alcuni di facile comprensione: il riciclo sempre più consistente di materiali e pratiche frequenti di rilavorazione, che modificano per molte produzioni il rapporto con le ‘materie prime’; disponibilità di grandi edifici in progressivo disuso e il contemporaneo graduale depopolamento 262, con il conseguente affievolirsi di quella cultura ‘ecologica’ ante litteram che aveva tenuto fuori dalla città, si è detto, gli impianti più inquinanti 263; l’emergere di nuovi gestori della produzione, soprattutto, si vedrà, gli enti ecclesiastici. 254 Nel 1987 l’analisi specifica di Morel doveva ammettere come limiti della documentazione l’impossibilità di distinguere sempre con chiarezza le testimonianze di attività produttive e di commercializzazione dei prodotti (MOREL 1987, particolare pp. 128-129); per altri quadri complessivi dello stesso studioso MOREL 1989, MOREL 1990, MOREL 2001. Su questi temi hanno fornito fondamentali contributi Clementina Panella e Filippo Coarelli in questi stessi atti. 255 Sulla tutela alla salubritas in età antica cfr. FASOLINO 2010, ma soprattutto RAMPAZZO 2006; si veda anche, per una serie di altre questioni giuridiche relative alle fulloniche urbane, VALLOCCHIA 2013. La configurazione complessiva della città, anche per gli indici di popolamento, emerge dai vari contributi in GIARDINA 2011 (cfr. anche LO CASCIO 1997). 256 Aq. 88. In un epigramma (6, 93) Marziale ricorda l’odore nauseabondo dell’anfora vecchia di un avaro fullon (Tam male Thais olet, quam non fullonis avari Testa vetus). 257 C.Th. 14, 6, 5 (Impp. honorius et theodosius aa. aetio praefecto urbi. omnes fornaces per omne spatium, quod inter amphitheatrum et divi iuliani portum per litus maris extenditur, tolli praecipimus propter salubritatem urbis amplissimae et nostrarum aedium vicinitatem nec ulli in his locis coquendae calcis praeberi licentiam. dat. iiii non. octob. constantinopoli monaxio et plinta conss.). Per i caratteri demografici di Costantinopoli tra IV e V secolo MANGO 2004, pp. 000-000. 258 Così in una costituzione del 359: C.Th. 14, 6, 1 (Imp. constantius a. ad orfitum praefectum urbi. ex omnibus praediis, quae iam dudum praestationi calcis coeperunt obnoxia adtineri, coctoribus calcis per ternas vehes singulae amphorae vini praebeantur, vecturariis vero amphora per bina milia et nungenta pondo calcis. quin etiam volumus non personas, sed ipsos fundos titulo huius praestationis adstringi. vecturarios etiam ex quattuor regionibus trecentos boves praecipimus dari. dat. viii kal. april. eusebio et hypatio conss.). 259 FUR, tavv. 8, 14, 15, 21, 22, 23, 31; LANCIANI 1891; MAISCHBERGER 1997; PENSABENE 2013b, pp. 116-119. Vd. infra. 260 Per alcuni spunti già SPERA 2014a, pp. 218-220; SPERA 2014b (per il Campo Marzio); SPERA 2015, pp. 58-64 (per il comparto orientale); vd. MENEGHINI, SANTANGELI VALENZANI 2004. 261 Per quadri generali semplicemente BROGIOLO 2011, dalla cui sintesi, per i diversi casi segnalati, emerge una marcata associazione di tale tendenza con il riuso dei grandi edifici pubblici, riscontrato in modo massiccio a Roma (infra). 262 Per il collasso demografico vd. LO CASCIO 1997, LO CASCIO 2000, LO CASCIO 2013. 263 Supra. La minore preoccupazione per la salubritas, che non risulterebbe più considerata nelle fonti, va logicamente posta in correlazione con il decremento demografico e con un modello urbano in parte progressivamente decostruito, con ampi spazi inedificati e coltivati: una buona evidenza di questi fenomeni nei vari contributi in ARENA, DELOGU, PAROLI et alii 2001; PAROLI, VENDITTELLI 2004, cui si affianchino SANTANGELI VALENZANI, MENEGHINI 2004; DELOGU 2010, pp. 211-333. 42 CINZIA PALOMBI - LUCREZIA SPERA Nell’insieme i dati portano in evidenza alcune specificità negli sviluppi della rete delle installazioni produttive, variabili in senso tipologico, locativo e temporale. Sulla base di un gruppo delle attestazioni più antiche raccolte, la probabile riconferma di un indirizzo insediativo già corrente potrebbe riconoscersi nell’attrazione delle produzioni di lusso da parte dei poli preferenziali di uso e si può ritenere non affatto casuale che le tracce più consistenti di lavorazione dell’osso, di metalli e pietre preziose 264, e di produzione dei vetri incisi 265 siano state rintracciate alle pendici del Palatino, dove potevano essere ancora operativi quegli ateliers di manufatti preziosi destinati alla casa imperiale che, sulla base di un interessante suggerimento di Clementina Panella, avevano forse realizzato anche le prestigiose insegne imperiali attribuite a Massenzio 266; in relazione alla supponibile contiguità delle officine degli artigiani palatini, esito di una ‘statalizzazione’ di alcune produzioni soprattutto a partire dall’età tetrarchica 267, può risultare significativa l’ipotesi secondo la quale nel palazzo di Spalato, in uno dei comparti nord destinati ai servizi, potrebbe riconoscersi l’impianto di una grande fullonica per la lavorazione della lana porporata 268, secondo una prassi più tardi ratificata da una norma del Codice giustinianeo che ammetteva la lavorazione degli ornamenta regia solo intra aulam e per mano di palatini artifices, non in privatis domibus 269. Secondo i medesimi criteri di distribuzione di alcune tipologie di poli produttivi si può anche considerare che le postazioni delle botteghe in relazione alle quali operavano le maestranze per le esigenze di abbellimento delle ricche domus tardoantiche con preziosi rivestimenti marmorei e musivi potessero radicarsi nel tessuto urbanistico dei quartieri a marcata residenzialità di alto livello; in tal modo è stato ragionevolmente letto un consistente deposito di lastrine di marmi colorati rintracciato di recente in alcuni ambienti sotto l’ima cavea dello stadio di Domiziano, rifunzionalizzati nel IV secolo forse con l’impianto di un’officina per la fabbricazione di opus sectile 270. La rilocazione degli impianti produttivi nella città tardoantica e medievale si traduce in diffusi episodi di riuso di edifici, più raramente privati 271, ma per la maggior parte pubblici, un fenomeno che troppo sbrigativamente viene letto, soprattutto per i secoli precedenti il Medioevo, come testimonianza di un iniziale processo di ‘privatizzazione’ degli spazi pubblici 272, ma che potrebbe, più significativamente, offrire un punto di riflessione, si vedrà, anche sui caratteri giuridico-gestionali della produzione nell’Urbe tra il V e l’VIII secolo, in migliore consonanza con la fisionomia di un centro urbano garantito, nella tenuta, se non degli apparati monumentali, dell’assetto giuridico degli spazi, da una specifica normativa di salvaguardia 273. Tali antichi edifici, per lo più configurati con macrovolu- DB, contesto 284, indicatore 579. Cfr. anche ST. CLAIR 2003. Sul tema delle produzioni vetrarie di lusso vanno richiamati i numerosi e fondamentali contributi di L. Saguì (particolare SAGUÌ 1993, SAGUÌ 1997, SAGUÌ 2000, SAGUÌ 2002, SAGUÌ 2007, SAGUÌ 2009), ripresi dalla studiosa anche in questi atti. 266 PANELLA 2011, p. 68. 267 In tal senso già JONES 1964, pp. 671, 834-839 e CRACCO RUGGINI 1971, particolare pp. 147-148; PANELLA 2011, pp. 66-69 con ulteriori spunti di approfondimento. 268 BELAMARIČ 2004, pp. 147-149; questo sulla base del riferimento, nella Notitia Dignitatum, ad un procurator Gynecii Iovensis Dalmatiae - Aspalatho, rispetto al quale assumono significato migliore le attestazioni di un purpurarius e di un negotiator artis purpurae in due iscrizioni di Salona (REINHOLD 1970, p. 54). Sull’afferenza di questa produzione a fabricae statali anche CRACCO RUGGINI 1971, p. 163 con nota 205. 269 C.Just. 11, 12, 2; PANELLA 2011, p. 69. 270 D’ANNNOVILLE, FERRI 2014, pp. 243-245 e MOLINARI 2014, pp. 264-265; per le domus nel Campo Marzio e nella VII regio augustea, comparti segnati però anche dalla prevalente presenza di edifici pubblici con fasi di IV secolo (SPERA 2014b), cfr. D’ALESSIO 2012, p. 525 e CAPANNA 2012, p. 487. 271 C. Palombi, supra, p. 000. 272 MANACORDA 2001, p. 42, MOLINARI 2014, p. 265. Si ricorda che anche il caso di occupazione dello spazio del Diribitorium, nel Campo Marzio centrale, con le strutture di una presunta domus (GUIDOBALDI 1986, pp. 175-181; a questa lo studioso riferisce la fistula CIL XV, 7583: cfr. infra), non è unanimamente interpretato in tal senso (MUZZIOLI 1995, particolare pp. 159-162; anche TORELLI 1995 attribuisce al complesso una funzione termale, mentre HÜLSEN 1910, p. 43 pensava al monasterium iuxta thermas Agrippianas nominato da Gregorio Magno (Epist. 6, 44 e 9, 138). 273 Che quello dell’abusivismo e della cessione a privati di spazi pubblici debba essere ritenuto, almeno fino al VI-VII secolo, un fenomeno massimamente controllato si evince proprio dal noto rescritto imperiale del 397 che vietava la costruzione di casae e tuguria in Campo Martio (C.Th. 14, 14, 1); in età teodericiana alcuni permessi sono esplicitamente concessi nell’ottica della preservazione degli stessi monumenti pubblici: così al patricius Albinus, dell’amica e potente famiglia dei Caecinae Decii, si permette di estendere il volume della propria domus sulla porticus curva del Foro di Nerva (Variae 4, 30. Per l’identificazione soprattutto GUIDOBALDI 1995) e a Paulinus, vir inlustris e patricius, di utilizzare per il proprio profitto antichi horrea che avevano perso la propria utilità (Variae 3, 29). Lo stesso Teoderico deve occuparsi di una contesa sul possesso di una turris circi che risolve a favore dei figli di Volusianus, vir magnificaus e patricius: Variae 4, 42. Su tali interventi FAUVINET RANSON 2006, pp. 127-131, 346-348. Progressivamente tali tendenze si configureranno con esiti massicci e capillari e il riuso degli edifici pubblici da parte di privati o delle istituzioni ecclesiastiche per queste, tuttavia, gli aspetti giuridici appaiono più complessi, poiché progressivamente non possono essere considerate entità assimilabili ai semplici privati - sembra diventare più marcato e esplicito nei secoli successivi al VI-VII. Cfr. SANTANGELI VALENZANI 2007; inoltre SPERA 2014a, p. 217. 264 265 LA BANCA DATI E IL GIS DEGLI INDICATORI DI PRODUZIONE. NOTE TOPOGRAFICHE E PRIME RIFLESSIONI DI SINTESI metrie, in alcuni casi arrivano a riprofilarsi come organismi polindustriali su più o meno lunga durata, come si evince dal caso della Basilica Hilariana 274, o pure con serie di installazioni per diverse produzioni artigianali in sequenza temporale, ad esempio nell’emblematica situazione degli annessi del teatro di Balbo, sito ad altissima incidenza di indicatori di produzione, talora logicamente avvantaggiata da un sistematico riciclo di materiali dai contesti preesistenti 275, in cui si succedono un’officina vetraria della fine del V secolo nell’esedra, un articolato complesso metallurgico in attività dal VI in uno degli ambienti orientali, l’operatività di ateliers di vario tipo che si evince dall’importante scarico della fine del VII secolo, una calcara impiantata tra la fine dell’VIII e il IX secolo ancora nell’ampio emiciclo della crypta 276. È significativo che i casi più precoci di riuso (i presunti laboratori di marmorari nello stadio di Domiziano 277, le officine per il vetro e il metallo in un balneum che aveva ancor prima rioccupato una galleria del settore sud-est delle terme di Traiano 278), databili già nell’ambito del IV-V secolo, si individuino in settori secondari e periferici di complessi monumentali articolati, le cui funzioni originarie si prolungano contestualmente spesso con sicurezza nelle strutture principali, talora con supponibili soluzioni di riduzione delle superfici destinate all’uso primario e accompagnando la transizione di questi edifici verso forme di accentuata parcellizzazione con riutilizzi polivalenti 279; tale continuità di uso in forma ‘ridotta’ e con parte degli spazi accessori rioccupati per altre attività, appunto soprattutto artigianali, si può documentare e ipotizzare, nei secoli finali della Tarda Antichità, anche per i più grandi edifici di spettacolo, il Trigarium e il Circo Flaminio Su questa si veda il contributo di Calabria et alii. 275 Tra le ville del suburbio, il complesso dei Quintili, su cui questo volume propone un approfondimento specifico, offre attestazioni macroscopiche in tal senso (cfr. Paris et alii, infra). Per altri esempi di istallazioni produttive in ville suburbane C. Palombi, supra, nota 67. 276 Ricci, Vendittelli in questi stessi atti. 277 Supra, pp. 000. 278 DB, contesto 111, indicatori, 274-275 (cfr. SCIORTINO, SEGALA 2010, pp. 252-253 e, per una lettura sulle forme variate di continuità e rioccupazione del complesso, SPERA 2015, pp. 63-65). 279 SPERA 2014a, pp. 218-220. 280 SPERA 2014b, pp. 000-000. 281 BRANDIZZI VITTUCCI 1988 e BRANDIZZI VITTUCCI 1991. 282 I ‘segni’ dell’uso polifunzionale del Colosseo sono riesaminati in SPERA 2015, pp. 63-65, cui si rimanda per i riferimenti di documentazione e di approfondimento. 274 43 nel Campo Marzio occidentale 280, probabilmente il Circo Massimo 281, l’Anfiteatro flavio 282. Alcuni casi di intromissione di poli produttivi entro apparati monumentali ancora in uso inducono pure a intuire che le attività di lavorazione possano talora essere state richiamate da esigenze di diretta operatività in situ, proprio, appunto, in relazione alla continuità funzionale; così, soprattutto i laboratori artigianali per la lavorazione del piombo e del ferro e l’officina marmoraria nell’area dei rostri orientali del Foro Romano, ancora spazio celebrativo con sicurezza almeno fino ai primi anni del VII secolo 283, ma anche, si può sospettare, la fornace metallurgica in una delle cd. tabernae del foro di Cesare 284 potrebbero plausibilmente risultare significativi in relazione a interventi di riallestimento documentati con sicurezza nei medesimi contesti e negli stessi periodi, i decenni del V e del VI secolo 285, sottraendo in effetti a tali indicatori il ruolo univoco di parametri interpretativi ‘in negativo’, cioè di indizi certi di processi di dismissione e abbandono. Nel quadro complessivo dei markers della produzione individuati in ambito urbano e suburbano un ruolo dominante sotto il profilo quantitativo (circa il 50% delle attestazioni totali) e dell’ampia distribuzione territoriale, è rappresentato, si è visto, dagli indicatori connessi ai prodotti per l’edilizia 286, dai siti estrattivi di materie prime (cave per tufo e pozzolana) 287 e dalle fosse di spoliazione mirate al recupero di manufatti da riciclare 288 alle fornaci per la calce 289, agli addensamenti di materiali lapidei sia collegabili alle stesse attività di calcinazione 290, ma anche, in diversi casi meglio leggibili, come depositi di pezzi per la rilavorazione e il reimpiego 291, infine alle tracce in situ della diretta ope283 GIULIANI, VERDUCHI 1987, pp. 145, 163-166, 187 (DB, contesto 47, indicatore 93; contesto 48, indicatori 94-95). E’ ben noto che la continuità è garantita da una serie consistente di dati, minuziosamente evidenziati da BAUER 1996, pp. 6-79, 397-408, almeno fino alla dedicazione di una preesistente colonna onoraria all’imperatore Foca nel 608 (COATES-STEPHENS 2011, particolare pp. 397401). 284 Per gli ultimi interventi monumentali particolare MENEGHINI 2010 (cfr. anche le note dello studioso in questo volume). 285 Essenzialmente BAUER 1996, pp. 81-86, 408. 286 C. Palombi, supra, p. 000 e perciò a queste sono dedicati gli approfondimenti specifici di Riccardo Santangeli Valenzani e di Daniela Esposito nei presenti atti. 287 C. Palombi, supra, p. 000. 288 C. Palombi, supra, p. 000. 289 C. Palombi, supra, p. 000. 290 C. Palombi, supra, p. 000. 291 C. Palombi, supra, p. 000. 44 CINZIA PALOMBI - LUCREZIA SPERA ratività di cantieri da costruzione (accumuli di materiali selezionati, bacini di miscelazione della malta) 292 e di smontaggio 293. Attraverso la documentazione disponibile emergono, per tutti i secoli considerati, singoli aspetti di un’operatività complessa, circuiti articolati di produzione che investono diffusamente e razionalmente gli spazi della città con insediamenti per il migliore sfrut- tamento delle risorse disponibili, poli di lavorazione e poli di esecuzione significativamente dislocati. Molte di queste attività produttive passano attraverso programmi mirati e regolamentati di smantellamento dell’esistente e, benché modalità di raccolta e ridistribuzione del materiale edilizio di reimpiego siano ancora da focalizzare compiutamente, soprattutto per le procedure giuridico-organizzative, è però ormai ben chiaro che si tratta di operazioni per lo più ‘centralizzate’, pur negli intuibili passaggi di gestione e sottocoordinamento connessi alle dinamiche socio-istituzionali ben note sulla lunga diacronia in esame 294. La ricerca sistematica degli indicatori archeologici ha confermato la formazione di aree con più marcato accentramento di pezzi da deposito o per rilavorazione, talora segnati anche da una particolare mobilità topografica rispetto ai luoghi di originaria collocazione, formazione visibilmente favorita dalla migliore accessibilità stradale e fluviale e dalla naturale, più accentuata disponibilità di risorse in situ per il carattere più marcatamente monumentale di alcune zone (fig. 26 e tav. 00) 295. Nell’ambito di questi significati non stupisce l’attestazione di numerose officine marmorarie nel Campo Marzio anche nella Tarda Antichità e nel Medioevo 296, le quali dovevano attrarre materiali consistenti pure dal resto della città e dal suburbio, considerando come caso esplicitamente emblematico la lastra con l’epigrafe damasiana in onore di Felicissimo e Agapito, sicuramente messa in opera sul sepolcro dei due martiri nel cimitero di Pretestato sulla via Appia e recuperata, dopo essere stata in parte utilizzata come base di taglio per altri marmi (fig. 27), dal pavimento della chiesa di S. Nicola de Calcarariis 297. In tale comparto 292 C. Palombi, supra, pp. 000. Per il caso di S. Paolo fuori le mura, con tracce consistenti di diversi cantieri dall’VIII al XV secolo, SPERA, ESPOSITO, GIORGI 2011. 293 C. Palombi, supra, p. 000. L’individuazione delle tracce di veri e propri cantieri di smontaggio, che dovettero interessare, in alcuni periodi, interi monumenti o parti di essi, per il recupero ‘industriale’ di materiali, attende ancora di essere sistematizzata con ricerca che ne sappia stabilire indicatori univoci (ad esempio indizi di impalcature, asportazione su larga scala di cortine e altri segni di simile significato). Per alcune riflessioni BARKER 2010; il caso esemplare della via Flaminia ben valorizzato da D’AMELIO, ESPOSITO 2012. Infra, per la porticus Minucia frumentaria. 294 Queste sono questioni complesse su cui risultano ancora necessari alcuni approfondimenti mirati, soprattutto, si ritiene, attraverso una minuziosa analisi delle fonti scritte e la valorizzazione di alcuni contesti significativi. Fondamentali in tal senso le ricerche di Patrizio Pensabene, di recente confluite nel volume PENSABENE 2015. Si tratta ovviamente di fenomeni da leggere attraverso le categorie interpretative che ruotano intorno al concetto di «degrado urbano controllato» introdotto nel dibattito più recente sulle città (DELOGU 2000). 295 La semplice osservazione della mappa permette di evidenziare concentrazioni significativi: utile, in questo senso, la mappa di riferimento del DB. 296 Per le officine marmorarie nel Campo Marzio nei secoli precedenti C. Panella e F. Coarelli in questi atti, ma anche MAISCHBERGER 1997, particolare pp. 95-156 e PENTIRICCI 2009, pp. 55-62 (nel quadro generale D’ALESSIO 2012, p. 520). Molti addensamenti di marmi, in gran numero segnalati da Lanciani (LANCIANI 1891, pp. 23-36; FUR, tavv. 14, 15, 21; LANCIANI 1922, pp. 10-11), non sono facilmente decodificabili in senso cronologico (cfr. in generale la nota di LANCIANI 1922, p. 7). Come connotazione del quartiere soprattutto dal V secolo anche D’ALESSIO 2012, p. 525. 297 LANCIANI 1989-2002, I, p. 33, MARCHETTI LONGHI 1919; vd. SANTANGELI VALENZANI 1994 e PANI ERMINI 1998, pp. 48-49. Per mettere a punto alcune linee di inquadramento del fenomeno della mobilità dei materiali, soprattutto marmorei, verso centri di aggregazione e nuove rilocazioni in opera, in generale l’intero repertorio delle epigrafi damasiane, come è ovvio di sicura afferenza cimite- Fig. 26. - Mappa con dislocazione degli indicatori relativi alla produzione del marmo (officine, scaglie etc.) nei secoli V-XV. LA BANCA DATI E IL GIS DEGLI INDICATORI DI PRODUZIONE. NOTE TOPOGRAFICHE E PRIME RIFLESSIONI DI SINTESI 45 Fig. 27. - La lastra con iscrizione damasiana in onore di Felicissimo e Agapito con tracce d riutilizzo come base di taglio (foto PCAS). si possono anzi raccogliere indicatori interessanti di continuità effettiva nell’operatività di officine di un certo livello. Nell’area della Chiesa Nuova, dove anche lo scavo recente per la metro C ha documentato il riutilizzo di un edificio preesistente, forse una domus, per l’impianto di un laboratorio per marmo e metallo 298, il ritrovamento, nel 1938, di un capitello ionico di fattura compiuta, che apparve «non essere stato mai messo in opera», realizzato da un blocco di marmo lunense di spoglio e destinato più probabilmente, per la presenza di cristogrammi, ad un edificio religioso 299, può essere la prova che, ancora tra fine IV e i primi decenni del V secolo, in una delle presumibili officine campensi si realizzavano manufatti fino alle fasi di rifinitura, da inquadrare nell’ambito di una certa persistenza della produzione locale, sia pur segnata da «testimonianze più ingenue o piuttosto impoverite rispetto alla tradizione classica» 300; a botteghe dello stesso tipo dovevano poi essere anche destinati analoghi prodotti architettonici importati in stato di semilavorazione, quali erano, ad esempio, per rimanere entro il medesimo frangente temporale, i capitelli in marmo proconnesio scoperti nello scalo marmorario di Porto 301. Simili operatività sono state documentate entro lo spazio della Porticus riale e santuariale, può offrire dati sicuri e indicazioni di un certo interesse. Tra le circa settantasei epigrafi del corpus di Antonio Ferrua, molte note solo dalle trascrizioni nelle sillogi, di cui fanno parte anche esemplari di impropria attribuzione al papa del IV secolo (FERRUA 1942), alcune vennero scoperte fuori contesto e per queste spesso il luogo di ritrovamento risulta significativo per le riflessioni in corso: dall’area del Foro Romano, la cui centralità inoltrata si traduce in un’importante incidenza di cantieri sulla lunga durata (per le calcare R. Santangeli Valenzani in questa sede), vennero recuperate un frammento dell’epigrafe a Irene, la sorella di Damaso (FERRUA 1942, n. 11, pp. 107-111 = ICUR IV, 12417), e un’iscrizione (FERRUA 1942, n. 13, pp. 114-116; dalla chiesa dei SS. Giovanni e Paolo?), in parte reimpiegata nel pavimento della chiesa dei SS. Cosma e Damiano. Lo stesso destino accomuna diverse lastre incise con le nobili iscrizioni per lo più filocaliane: oltre a quella già ricordata di Felicissimo e Agapito (un ulteriore frammento da Pretestato, FERRUA 1942, n 26a, pp. 156-157 lastricava «un giardino dentro Roma» ai tempi di de Rossi), dal pavimento di S. Martino ai Monti vennero recuperate le epigrafi FERRUA 1942, n. 18,2, pp. 134-136 (di dubbia attribuzione, per semplice suggestione da Callisto; su cui anche SPERA 1994, pp. 124-125), n. 32, pp. 165-166 ( = ICUR VI, 16962; Gorgonio), n. 51, pp. 201-205 (Proietta), dal pavimento della basilica lateranense, tagliata a configurare pezzi per un intarsio (fig. 28), l’epigrafe dedicatoria a Ippolito, martire della via Tiburtina (FERRUA 1942, n. 35, pp. 169-173 = ICUR VIII, 19932). Pure per motivi di riuso o, non si può escludere, accompagnando spostamenti di reliquie, erano nel complesso dei Quattro Coronati un resto della lastra per Marcellino e Pietro (FERRUA 1942, n. 28, pp. 160-162 = ICUR VI, 16961) e il manufatto FERRUA 1942, n. 52, pp. 205-206 e a S. Gregorio al Celio l’epigrafe FERRUA 1942, p. 67a, pp. 239-242. Un caso di riuso in situ dal complesso di S. Valentino, dove un resto dell’iscrizione damasiana FERRUA 1942, n. 49a, pp. 197-198 era reimpiegata nelle murature della schola canthorum. 298 FILIPPI 2010, pp. 69-71; FILIPPI 2013, pp. 139-140 (D’ALESSIO 2012, p. 525, IX, 1703). Anche nell’area di Montecitorio, carotaggi recenti per un parcheggio sotterraneo hanno confermato stratigrafie già documentate negli anni Ottanta con battuti ricchi di schegge di marmi associate a materiali datanti di fine IV-V secolo e quindi la presenza di attività marmorarie (DB, contesto 285, indicatore 580, ma anche C. Palombi, supra, p. 000); su queste precedentemente FUR, tav. 15, da scavi Lais 1860). 299 COLINI 1938b; HERRMANN 1988, pp. 126-127; PENSABENE 1995, p. 206; PENSABENE 2000, p. 348; nelle più recenti rivisitazioni del pezzo P. Pensabene preferisce un’attribuzione alla monumentalizzazione tardoimperiale dei percorsi verso ponte Elio, le porticus maximae (PENSABENE 2008, p. 71; PENSABENE 2015, p. 175). 300 PENSABENE 2013b, p. 139. 301 Questi marmi, tuttavia, come si sa, potevano anche essere messi in opera non rifiniti, come in alcuni casi a S. Paolo fuori le mura e a S. Maria Maggiore (BRANDENBURG 2009; PENSABENE 2013b, p. 138). 46 CINZIA PALOMBI - LUCREZIA SPERA Minucia frumentaria in corso di destrutturazione 302, per la presenza di cataste ordinate di materiali, soprattutto marmi, realizzate prima del crollo del tempio, dei quali si è supposta la provenienza sia da edifici diversi, anche prossimi come il Divorum, sia dallo stesso monumento 303, sottoposto forse ad uno smontaggio sistematico 304. Proprio a questo complesso potrebbe tra l’altro afferire una grande lastra in travertino scoperta nella seconda metà dell’Ottocento su via delle Botteghe Oscure, di cui già il de Rossi, prima degli scavi, sospettò l’attribuzione al sito di ritrovamento a causa delle notevoli pro- Fig. 28. - Resti marmorei dell’iscrizione damasiana al martire Ippolito in sagome per intarsio porzioni del manufatto 305, e che ben (da Ferrua 1942). si lega in effetti all’ultima pavimentazione dell’area documentata si deducono meglio, per la Tarda Antichità, in attesa di a più riprese 306; essa mostra un’iscrizione lungo il bordo una ricerca mirata ed esaustiva, dalle fonti letterarie e con una formulazione interessante di probatio scriptuepigrafiche. Per le prime basti ricordare il noto passo rae, in caratteri giudicati databili negli anni tra la fine delle Variae di Cassiodoro che attesta l’esistenza di un del V e l’inizio del VI secolo, che affiancava ad una deposito di marmi nella domus Pinciana, ovviamente successione alfabetica la trascrizione dell’epigrafe suldalla spoliazione di parti della stessa e delle prestigiose l’arco di Tito, ovvia attestazione dell’operatività di un 307 proprietà contigue (marmora, quae de domo Pinciana lapicida . constat esse deposita), di cui Teoderico poteva disporre Testimonianze dirette sugli apparati organizzativi e il trasferimento a Ravenna (ad Ravennatem urbem vesulle procedure di immagazzinamento e ridistribuzione MANACORDA 1985, pp. 545-547. MANACORDA, ZANINI 1997, p. 274 con n. 114. 304 L’ipotesi (in SPERA 2014b, p. 000) è stata avanzata, considerando la precoce asportazione dei travertini dal piano pavimentale e valutando anche la possibilità che le tracce di fori per una struttura lignea nelle lastre pavimentali, probabilmente un ponteggio, a ridosso del colonnato del tempio (MANACORDA, ZANINI 1997, pp. 256, 261-262), possano essere giudicati riconducibili ad una operazione di smontaggio. 305 DE ROSSI 1881. Per informazioni sul ritrovamento anche FIORELLI 1877. 306 COLINI 1938a; MANACORDA, ZANINI 1997, pp. 253-257. 307 CIL VI, 29849; sul lato, pure di particolare interesse, si legge il lemma Ro-(tra due simboli) ma capus (sic!) mundi. L’iscrizione originale sull’arco di Tito è la CIL VI, 945. La cronologia è suggerita da CARLETTI 2002, p. 362 e fig. 8, diversamente da DE ROSSI 1881, che propone una datazione al VI-VII secolo. Vd. anche MANACORDA 1993, p. 40. In un altro settore del portico, «un grande riporto di cocciami e laterizi, probabilmente databile intorno al V secolo» (MANACORDA, ZANINI 1997, p. 257), si presta forse ad essere letto in relazione ad un impianto per la triturazione dei materiali destinati al cocciopesto (ciò anche sulla base di un’osservazione verbale di Enrico Zanini nell’intervento alla Giornata di Studio Officine in Urbe. Produzione metallurgica a Roma tra tardoantico e 302 303 altomedieovo (Chieti, 13 dicembre 2010); vd. anche DB, contesto 274, indicatore 556 e C. Palombi, supra, p. 000. Analoghi grossi depositi di materiale ceramico erano tra l’altro documentati anche al centro della Crypta Balbi (MANACORDA, ZANINI 1989, pp. 29-30; MANACORDA 1993, pp. 35-38). Non vi sono tracce incontrovertibili, invece, che una qualche continuità come quartiere a prevalente vocazione artigianale segni anche, almeno fino alla supponibile disurbanizzazione, l’area del Testaccio (MENEGHINI, SANTANGELI VALENZANI 2004, p. 127; la formazione precoce del disabitato in questa area urbana si deduce anche dalla scarsissima presenza di tracce insediative fino al basso Medioevo, soprattutto, di chiese, generalmente correlate all’abitato - SPERA 2011a, pp. 331-335. Per la distribuzione delle officine marmorarie nei secoli dell’età imperiale MAISCHBERGER 1997, pp. 61-93): l’interessante assetto archeologico post-antico descritto dal Lanciani per la porticus Aemilia, che ne evidenziava, «dopo l’abbandono ufficiale di quei vastissimi porticati», la rioccupazione da parte di «una colonia di scalpellini [...] per lavorare i marmi abbandonati lungo la sponda di Marmorata [...], industrie esercitate negli ultimi anni dell’impero e fors’anche nel medioevo incipiente» (LANCIANI 1891, p. 25), è infatti rivisitato criticamente da MAISCHBERGER 1997, pp. 84-86, in una riconsiderazione generale dell’ipotesi dello studioso dell’Ottocento sull’operatività di botteghe cosmatesche. Per una struttura abitativa trasformata nell’officina di un lapicida nell’area del mattatoio DB, contesto 25, indicatori n 47-48; contesto 26, indicatore 49. LA BANCA DATI E IL GIS DEGLI INDICATORI DI PRODUZIONE. NOTE TOPOGRAFICHE E PRIME RIFLESSIONI DI SINTESI 47 stra ordinatione dirigentem) 308. Se sulla presenza di magazzini, non solo di marmi di importazione, rifiniti o di fattura incompleta 309, ma anche di materiali reciclabili esito di spoliazioni programmate e radicali, non possono sussistere dubbi ed essi vanno plausibilmente immaginati presso i nuovi cantieri o, per i primi, presso i luoghi di arrivo e di rilavorazione e, per gli ultimi, entro o vicino gli stessi contesti di spoliazione, ad un tempo va pure ribadita la difficoltà a leggere la gran parte dei ritrovamenti di accumuli significativi di marmi sia in senso cronologico 310, sia per eventuali afferenze a siti di estrazione o destinazione. È poi prezioso il piccolo gruppo di iscrizioni tardoimperiali di ambito urbano che sembrerebbero connesse a funzionari in qualche modo operanti in attività di spoglio di edifici pubblici: alle due ben note, già valorizzate in tal senso a più riprese, quella del vir spec- tabilis Gerontius dal Colosseo, probabilmente il senatore nato nel 467 e morto nel 523 a Ravenna 311, e quella, in effetti molto problematica, del Decius attestato sul letto di attesa di un rocchio di colonna scanalata dal Foro di Augusto, nel quale si è proposto di riconoscere uno dei prestigiosi esponenti della gens dei Caecinae Decii vissuti tra la fine del V secolo e gli inizi del successivo, preferibilmente entro l’età teodericiana 312, si può affiancare, per analogia di scrittura, il graffito sul resto di un cornicione in marmo scoperto nel 1894 presso ponte Milvio, in un sito con cumuli di marmi evidentemente raccolti dall’area della via Flaminia e almeno in parte forse pronti per il trasbordo sul fiume 313: in questo si legge Probi v(iri) c(larissimi) 314, ancora un nome al genitivo con specificazione di rango, e può distinguersi il disegno di uno strumento di lavorazione segnato dalle Variae 3, 10; cfr. FAUVINET RANSON 2006, pp. 97-100, 249. A Ravenna, peraltro, nello stesso periodo dovevano essere operativi marmorari provenienti dall’Urbe (MARANO 2015, particolare pp. 998999). 309 Su questi in particolare PENSABENE 2000; PENSABENE 2013b, pp. 138-141. 310 PENSABENE 2007, pp. 428-430 isola le situazioni ostiensi meglio codificabili e riferibili alla Tarda Antichità (di notevole interesse il magazzino sul decumano delle terme di Nettuno ritrovato dal Vaglieri sotto il crollo della volta dell’ambiente riutilizzato per tale uso: VAGLIERI 1909, pp. 84-85), ma evidenzia alcune questioni di metodo e interpretative e la possibilità ricorrente di attribuzione anche al Medioevo o all’età moderna, in cui la pratica di accatastare materiali meno significativi recuperati durante le indagini archeologiche è pure generalizzata. 311 PANI, REA 1995; PANI, REA 2002. Poiché l’epigrafe è ormai molto nota e riconsiderata a più riprese, dopo essere stata rintracciata e valorizzata nel 1979, per ulteriore bibliografia si rimanda alla trattazione esauriente di ORLANDI 2004, pp. 532-534, per le problematiche correlate e l’apparato critico di riferimento. Le evidenze di un’attività di spoliazione in corso nell’anfiteatro tra VI e VII secolo sono anche costituite da accumuli di materiale (DB, contesto 94, indicatori 223-226). 312 R. Meneghini in MENEGHINI, SANTANGELI VALENZANI 1996, pp. 78-81 e idem, in MENEGHINI, SANTANGELI VALENZANI 2004, pp. 71, 179-180 per l’elaborazione delle diverse proposte. Alcune considerazioni aggiuntive in rapporto a questa epigrafe meritano però di essere annotate, soprattutto per la grande valenza attribuitagli per definire la fase di iniziale spoliazione del Foro di Augusto (R. Meneghini in MENEGHINI, SANTANGELI VALENZANI 2004, particolare p. 180). Raccolgo intanto, da alcune osservazioni di Vincenzo Fiocchi Nicolai, il prezioso suggerimento che lo scioglimento del lemma epigrafico come patr(ici) Deci possa essere inappropriato per l’anomala anticipazione nella scrittura della carica pat(ricius) al nome e si presti piuttosto ad essere inteso come un nominativo reggente la forma nominale al genitivo, pat(rimonium) Deci o, preferibilmente, per l’attestazione della abbreviatura (ad esempio CIL II, 2211 del 348), pat(ronatus) Deci. In tal caso, è ovvio, il riferimento alla carica perde il suo valore indicativo in senso cronologico e resta la più generica afferenza alla gens dei (Caecinae?) Decii (PLRE II, stemma 26), generalmente documentata ben prima del V secolo (cfr., ad esempio, CIL II, 4756; X, 5393). Va pure rilevato che l’utilizzo del letto di attesa del rocchio per l’iscrizione non è inequivocabilmente associabile ad una operazione spoliativa, poiché, è ben noto, scritte analoghe su superfici di marmi architettonici che non sarebbero state visibili dopo il montaggio sono soprattutto con certezza pertinenti alle fasi di lavorazione e destinazione primaria dei manufatti, come per i molti esemplari negli edifici severiani di Leptis Magna, tanto per richiamare un caso (WARD PERKINS 1951, figg. 78; per una semplice visualizzazione di altri esempi PARIBENI 2004, figg. 366, 419). Il significato attribuito all’epigrafe del presunto patricius Decius di età teodericiana è l’esito di una procedura tanto più ‘pericolosa’, perché anticipa notevolmente l’iniziale destrutturazione del Foro di Augusto, in disaccordo sia con una serie di dati più certi, che la fanno slittare almeno alle soglie dell’alto Medioevo (il reimpiego di una lastra marmorea con un elogium di sicura pertinenza al foro da un restauro del tetto del Pantheon-S. Maria ad martyres, restauro attribuito ipoteticamente all’intervento di Gregorio III - LP, I, p. 275; LANCIANI 1881b, p. 283 -; l’impianto del monastero di S. Basilio sul podio del tempio di Marte Ultore tra IX e X secolo: cfr. lo stesso R. Meneghini, in MENEGHINI, SANTANGELI VALENZANI 2004, p. 179), sia con le prevalenti tendenze, pur con alcune eccezioni, ad una conservazione degli apparati monumentali nelle aree forensi (ancora MENEGHINI, SANTANGELI VALENZANI 2004, pp. 175-188; MENEGHINI, SANTANGELI VALENZANI 2007). Peraltro, va pure evidenziato, i caratteri paleografici, con l’uso esclusivo delle maiuscole, non appaiono indicativi in senso cronologico e anche la forma della A con traversa spezzata è piuttosto diffusa ben prima dell’età tardoantica (non così R. Meneghini in MENEGHINI, SANTANGELI VALENZANI 1996, p. 78 e in MENEGHINI, SANTANGELI VALENZANI 2004, p. 179), come, ad esempio, su una lucerna di età repubblicana da Canosa (V. Morizio, in CHELOTTI, MORIZIO, SILVESTRINI 1990, p. 71). 313 GATTI 1894, da cui PALOMBI 2008-2010, pp. 81-82; diversi blocchi, si ricorda, vennero ritenuti pertinenti allo smontaggio di un ponte: cfr. anche la scheda del contesto DB, contesto 215, indicatore 468. Sulla mobilità fluviale per questo tipo di carichi interessante il ritrovamento del relitto ritenuto medievale, su cui vd. ROGGIO 2012, p. 270 con dati di ritrovamento e bibliografia di riferimento. 314 Potrebbe trattarsi, con migliori probabilità, sia del pretore organizzatore di ludi nel 424/425 (forse Anicius Probus; PLRE, II, Probus 2 e Anicius Probus 7, pp. 910, 911), sia dell’omonimo personaggio, vissuto sempre nel V secolo (prima o seconda metà), titolare anche di un locum nell’anfiteatro flavio (PLRE, II, Memmius Aemilius Probus 6, p. 911; ORLANDI 2004, n. 134, pp. 504-505). 308 48 CINZIA PALOMBI - LUCREZIA SPERA Fig. 29. - Apografo dell’iscrizione di Probus vir clarissimus (da Gatti 1894). Fig. 30. - Apografo dell’iscrizione di Uranius tribunus et notarius (da Fiorelli 1886). lettere SC, da sciogliere forse, si propone, come s(ub) c(ura) (fig. 29) 315. Difficilmente ascrivibili, invece, alle notae lapicidinarum eseguite nella fase di smontaggio e ridistribuzione del materiale risultano essere sia la scritta Rufeno, che ricorre su due fusti di colonne, rispettivamente a S. Sabina e a S. Maria Maggiore, ritenuta l’indicazione del nome del «mercante intermediario» nelle procedure di reimpiego 316, sia l’epigrafe Urani trib(uni) et not(arii) ripetuta su quattro blocchi di pavonazzetto, scoperti nel 1886 nell’area del Quirinale durante i lavori di costruzione del palazzo della Banca d’Italia 317 e con grande probabilità afferenti, nelle condizioni di ritrovamento, ad un’officina marmoraria – che Lanciani ritenne medievale –, reinsediata in ambienti preesistenti, prossima alle terme di Costantino e per logica favorita soprattutto dalle risorse di tale ricco contesto 318; il deposito di marmi risultò infatti costituito da pezzi «evidentemente spoglio di antiche fabbriche già cadute in rovina [...], fusti di colonne di giallo e di africano, blocchi di caristio e di travertino, i quali mostrano fino a tre o quattro colpi di sega» 319. Il riesame della quadruplice iscrizione, che al primo editore, per le lettere «rozzissime», sembrò «a quanto pare del settimo o ottavo secolo dell’éra nostra» 320, finora sfuggita all’attenzione degli studiosi nella sua completezza 321, suggerisce tuttavia di non considerarla in connessione con una qualche attività spoliativa gestita dal funzionario della burocrazia palatina 322, ma piuttosto di riconoscere nell’incisione un marchio dei marmorari eseguito in cava 315 La formula sub cura è attestata in diverse sigle di cava e di cantiere (BRUZZA 1870, nn. 258-259; FANT 1989, p. 30; PENSABENE 2013b, pp. 368-369); ricorre notoriamente sulle fistulae in relazione alla sovraintendenza dei lavori e su epigrafi CIL VI, 9255, 31369, 31370, 33338. 316 BRENK 2002, pp. 1010-1011 con fig. 5, p. 1012; BRANDENBURG 2004, p. 172; PENSABENE 2013a, p. 716. 317 La nota del ritrovamento in FIORELLI 1886; le dimensioni dei blocchi sono fornite dallo stesso studioso: a) m 1,40 x 0,60 x 0,25; b) m 3,10 x 0,85 x 0,32; c) m 1,94 x 0,60; d) m 1,50 x 0,65 x 0,25. Cfr. DB, contesto 8, indicatore 15. 318 LANCIANI 1886, p. 191 per l’officina (sulla quale anche LANCIANI 1989-2002, I, p. 20). Sull’attribuzione al Medioevo anche GATTI 1887, p. 18, che ritiene però in qualche senso datanti le iscrizioni ben più antiche riferite infra alla nota 000. Per altri ritrovamenti di marmi pregiati dalle alture di Monte Cavallo (questa si individua chiaramente nella pianta di Bufalini), deducibili da una memoria del Vacca (49) valorizzata da Lanciani (un Apollo alato, teste di Pan e una Cibele (?) turrita su due leoni) LANCIANI 1886, p. 186; a p. 189 lo studioso descrive anche il recupero di una statua di Antinoo, che ritiene di provenienza suburbana, forse, per l’associazione con un’iscrizione, dalla villa di L. Funius Vettonianus, all’VIII miglio della via Nomentana (QUILICI, QUILICI GIGLI 1993, sito 219, p. 234). LANCIANI 1886, p. 191; su un resto di fusto in giallo antico lo studioso ricorda incisioni beneauguranti, Maximina / Zenuaria / [—-]ustus /utere e salis /arci con vivas entro una piccola tabula ansata. Una descrizione analoga in FIORELLI 1886, p. 361: «vari frammenti marmorei di ornato architettonico, cioè capitelli, colonne scanalate, architravi, cornici di elegante disegno e di non spregevole lavoro». 320 FIORELLI 1886, p. 361, come poi GATTI 1887, p. 18 e LANCIANI 1989-2002, I, p. 20. 321 Dopo FIORELLI 1886, pp. 361-363, vi fanno riferimento LANCIANI 1989-2002, I, p. 20; DE ROSSI 1886, p. 32; GATTI 1887, p. 18, n. 1703; HÜLSEN, CECCHELLI, GIOVANNONI et alii 1924, pp. 58-59; ORLANDI 2004, p. 534. 322 ORLANDI 2004, p. 534 inserisce l’epigrafe di Uranius tra le «iscrizioni incise o dipinte su elementi marmorei di spoglio derivanti dalla distruzione di edifici antichi e costituite in genere da nomi di personaggi di condizione sociale elevata – in nominativo e in genitivo con o senza titoli di rango – che evidentemente potevano annoverare tra le fonti della loro ricchezza anche lo sfruttamento di questo tipo di materiali». Per la carica di tribunus et notarius cfr. JONES 1974, pp. 772, 799-802; TEITLER 1985, pp. 59-64 e Notarii, in BOWERSOCK, BROWN, GRABAR 1999, pp. 611-612. 319 LA BANCA DATI E IL GIS DEGLI INDICATORI DI PRODUZIONE. NOTE TOPOGRAFICHE E PRIME RIFLESSIONI DI SINTESI 49 o in un centro di stoccaggio e smistamento 323. Dagli apografi pubblicati dal Fiorelli (fig. 30) 324 si deduce che le quattro scritte presentavano alcune difformità, caratterizzandosi, tre di queste, per l’associazione di alcune lettere greche 325, introdotte da un π sormontato da un piccolo ο, in posizione differenziata rispetto al nome (rispettivamente alla fine, all’inizio e nella parte superiore); non vi è dubbio che si tratti della specificazione di valori dimensionali, precisati in piedi con l’abbreviazione πό(δες) 32, e che dunque in a) debba evincersi il valore di 5 (ε) con ½ e con ¼ [πό(δες) εLḍ]; in c) quello di 10 con 5, cioè 15 piedi [πό(δες) ιε]; in d) quello di 8 (η) con ½ [πό(δες) ηL] 32. L’indicazione delle lunghezze o del peso espresso in piedi cubici 328 sui marmi parrebbe richiamare sia la pratica, piuttosto diffusa, di preordinare il materiale prodotto con indicazioni per il montaggio destinate al cantiere 329, sia, più probabilmente nel caso in questione, la necessità di contrassegnare i pezzi sottoposti a controllo di qualità nella fase di produzione o di distribuzione, anche a scopo fiscale 330. In tale direzione il ruolo svolto da Uranius, nel quale si è proposto di riconoscere il funzionario cui nel 339 veniva destinato un provvedimento fiscale straordinario per urgenze indotte da circostanze belliche 331, non deve essere stato tanto quello di destinatario dei manufatti per un qualche edificio privato 332, quanto quello di sovraintendente di tali procedure di controllo, attività che doveva essere in qualche modo legata alle sue funzioni di tribunus et notarius 333. Alcune questioni giuridico-gestionali degli impianti di produzione si possono valutare anche guardando alla distribuzione spaziale degli indicatori e considerando in relazione a questi il ruolo degli edifici riutilizzati, gli stessi caratteri della produzione, situazioni di immediata contiguità con insediamenti che potrebbero aver assunto una funzione di promozione e controllo delle attività produttive. Ad esempio – richiamando la casistica di impatto più immediato –, il parametro della vicinanza topografica può risultare valevole per il significato da attribuire ad alcune fornaci di calce ad uso limitato e, SPERA in c.s. 324 Non è stata infatti possibile la verifica diretta sui reperti, con probabilità conservati proprio nell’edificio della Banca di Italia su via Nazionale, ma forse, durante i lavori, rilavorati per i nuovi arredi marmorei del palazzo Koch (SPERA in c.s.). 325 Tra tutti gli studiosi già ricordati che posero attenzione ai reperti in questione, solo GATTI 1887, p. 18 fa cenno a ulteriori segni grafici, ritenendoli tuttavia «sigle d’incerta lettura». Infatti la grossolanità e la rapidità dell’incisione anche nella parte in greco determina una corsivizzazione marcata dei caratteri che li rende leggibili con una certa difficoltà: devo un grande aiuto, per la possibilità di elaborare una lettura convincente di tali segni, ai colleghi Denis Feissel, Jean-Luc Fournet e Jean-Pierre Sodini. 326 Per l’uso della specificazione dei piedi, non troppo corrente, ma attestata con sicurezza su alcuni marmi BRUZZA 1870, p. 115; inoltre PENSABENE 1995, pp. 193-194, 323. Per un esempio si richiamano alcuni blocchi di un monumento colonnato di Beyrouth (SEYRIG 1949 ripreso da INGLESE 2014, p. 229). 327 Tali note mensurali non vanno disgiunte, si ritiene, dall’elemento nominale di Uranius, benché, è ovvio, solo un’analisi diretta delle incisioni, finora resa impossibile dall’irreperibilità dei manufatti, possa assicurare, mediante la verifica dell’esecuzione dei tratti e degli allineamenti, la contestualità delle scritte latine con i marchi in lettere greche: in effetti in almeno due casi (a e d) queste ultime assecondano la disposizione orizzontale delle altre, con le quali, appunto, si può ragionevolmente supporre siano coerenti. Un simile abbinamento (iscrizione latina con lettere greche indicanti i piedi) è stato riconosciuto su un fusto di pavonazzetto dalla villa di Carranque (Spagna), che recherebbe la sigla [D(omini)] N(ostri) T(heodosi) e una plausibile indicazione di misura (ΠΥ): MAYER OLIVÉ, FERNANDEZ-GALIANO RUIZ 2001, pp. 130-13, n. 10; l’alto valore del numerale attribuito dagli editori nella lettura (πυ = 400 piedi) ha fatto supporre che non si tratti di un riferimento ad un unico pezzo, ma all’intero carico. Dalla foto che accompagna la descrizione si deduce in effetti che nel nesso ΠΥ potrebbe anche riconoscersi quella che L. Bruzza descrive come «la nota numerale propria dei Corciresi» e trattarsi dunque di πγ, cioè di 3 piedi (BRUZZA 1870, p. 189 n. 234, con ulteriori richiami). 32 Ipotesi che risulta essere in effetti la più probabile (si ricordi peraltro la casistica nell’Edictum de praetiis di Diocleziano – pp. 276-279; 2, 5-14 – con il valore monetale dei marmi per ogni pes, quasi certamente il piede cubico: BARRESI 2002, p. 73). SPERA in c.s. per alcune verifiche mensurali effettuate con l’aiuto di Patrizio Pensabene e Paolo Barresi. 329 Sui ‘marchi di montaggio e di assemblaggio’ si veda soprattutto la recente disamina di MARSILI 2014a, che considera un ricco repertorio di attestazioni per tutta l’età imperiale e oltre il VI secolo; anche l’indagine proposta per S. Sofia di Costantinopoli da PARIBENI 2004 è utile per argomentazioni classificative e per l’interesse degli esempi correlati. A questi studi si rimanda per l’inquadramento generale e per la consistente documentazione sul complesso tema dei marchi dei marmorari. 330 Un’idea suggeritami da J.-P. Sodini. Dopo BRUZZA 1870, nella vasta bibliografia sui sistemi di siglatura dei marmi nel mondo romano e i significati nella ricostruzione degli apparati amministrativi di produzione e distribuzione HERRMANN 1988, FANT 1992, FANT 1993, PENSABENE 1997, PENSABENE 1998, PENSABENE 2001, PENSABENE 2002, CUVIGNY 2005, SERAFINO 2009, PENSABENE 2013b, pp. 197-227 e PENSABENE 2014; il contributo complessivo di J.B. Ward Perkins in DODGE, WARD PERKINS 1992. Per i problemi specifici relativi alle cave di Docimium PENSABENE 2010, con bibliografia complessiva, e PENSABENE 2013b, pp. 360-387. Per l’età tardoantica soprattutto DEICHMANN 1976, pp. 206-230, SODINI 1987, pp. 503-518, BARSANTI 1989, pp. 215-220, PARIBENI 2010 e MARSILI 2014a (in particolare, questo ampio studio, sulla produzione del proconnesio). 331 C.Th.11, 1, 5. Il personaggio venne ritenuto dal de Rossi un esponente vissuto nel IV secolo del gruppo famigliare presunto titolare del mausoleo di S. Sebastiano (DE ROSSI 1886; recentemente NIEDDU 2009, pp. 153-156) e attribuito invece nella Prosopography of the Later Roman Empire alla burocrazia di palazzo operante in Occidente tra il V e il VI secolo (PLRE, II, Uranius 5, p. 1187). SPERA in c.s. per le questioni relative. 323 50 CINZIA PALOMBI - LUCREZIA SPERA cumentate da scavi degli anni Cinquanta del XX secolo nei mausolei a nord della basilica di S. Sebastiano sulla via Appia 335, rispetto alle quali, tuttavia, considerandone il numero, non si può neppure escludere l’eventualità che il monastero svolgesse un ruolo imprenditoriale per la 336 produzione della calce . Un’osservazione non trascurabile sulla medesima direzione della lettura dei dati in chiave topografica è indotta dalle mappe di dislocazione delle officine metallurgiche attestate nel V e VI/VII secolo (fig. 31 e tav. 00): esse, nell’ovvia differenziazione per materie (ferro, bronzo, rame, piombo), lavorate o rilavorate, e per tipologia dei proFig. 31. - Mappa con dislocazione degli impianti metallurgici del V-VII secolo. dotti 337, rappresentano un’introduzione veramente dunque, plausibilmente installate non a scopo ‘induinnovativa nell’area monumentale centrale, concenstriale’, ma per cantieri specifici, se pure sempre avtrandosi in particolare nei comparti del Foro Romano, vantaggiate dalla presenza di fonti di rifornimento di dei Fori Imperiali e alle pendici del Palatino, e nel marmi da riciclo; così, con maggiore evidenza, le calCampo Marzio e insediandosi in misura preferenziale care prossime alla chiesa di S. Croce e alla cattedrale entro edifici pubblici (esemplari le officine installate in lateranense, di probabile afferenza alle fasi edilizie meuna taberna del Foro di Cesare 338, nella piazza dei ro334 dievali di tali complessi , o anche le tre fornaci dostri 339, nella basilica Giulia 340, nel sito delle Curiae Ve- 332 GATTI 1887, p. 18. Sui ‘marchi di destinazione’, da ultima, MARSILI 2014b, con una rassegna interessante e ricca di attestazioni. 333 Alla bibliografia principale già riferita supra, alla nota 000, si aggiungano GIARDINA 1977, BARNWELL 1992, pp. 26-28, AMELOTTI, COSTAMAGNA 1995, CRIFÒ 2001a, p. 152. TEITLER 1985, particolare p. 54 propose che la schola notariorum fosse stata istituita negli anni di Costantino e Licinio. Dal 358 sono attestati i primi tribuni et notari (PLRE, I, p. 1070), che, negli ultimi decenni del IV secolo, erano spectabiles (JONES 1974, p. 772). Si è pure dibattuta la questione dell’aggiunta di tribunus ad alcune cariche, oltre a quella di notarius, anche a quella del magister officiorum, se questa sia l’acquisizione di una valenza militare, in rapporto alla militarizzazione della burocrazia in età dioclezianea, ovvero una esplicitazione del rango conquistato (in questo senso già il Godefroy in C.Th., p. 93): cfr. sul tema, più recentemente, AIELLO 2001, pp. 151-159 e CASTELLO 2010, pp. 165-166 (ivi bibliografia ulteriore). 334 DB, contesto 139, indicatore 318; contesto 132, indicatore 312. 335 DB, contesto 127, indicatori 297-301. Per un’ipotesi di correlazione con la ricostruzione del monastero nel XII-XII secolo SPERA 1999, pp. 237-238, 241, 247, 428-430. Molti casi potrebbero essere assimilabili; vedi, per una trattazione generale del tema delle calcare, il contributo di Riccardo Santangeli Valenzani in questi stessi atti. Il legame diretto con cantieri è ovvio per alcuni dispositivi di lavorazione della calce, su cui ha già richiamato l’attenzione C. Palombi, supra, p. 000; SPERA, ESPOSITO, GIORGI 2011 per le numerose e significative presenza di questo tipo nell’area a sud della basilica di S. Paolo fuori le mura. Interessante, poi, l’ipotesi di associare con la realizzazione degli apparati musivi nella basilica di S. Stefano Rotondo l’attività del laboratorio nella Basilica Hilariana (Calabria et alii in questi atti). 336 Possibilità da riconsiderare nell’ambito del tema generale sul ruolo degli enti ecclesiastici nelle reti della produzione (infra, p. 00). 337 Su questo V. La Salvia in questi stessi atti per le questioni generali sulla produzione metallurgica. 338 DB, contesto 73, indicatori 147-150; vd. anche DELFINO, DE LUCA, MINNITI et alii 2013 e R. Meneghini in questo volume. 339 Supra, nota 000. 340 DB, contesto 61, indicatori 121-123. LA BANCA DATI E IL GIS DEGLI INDICATORI DI PRODUZIONE. NOTE TOPOGRAFICHE E PRIME RIFLESSIONI DI SINTESI 51 teres 341, entro gli auditoria prossimi al Foro di Traiano in cui si è riconosciuto l’Athenaeum di Adriano 342, negli annessi del teatro di Balbo 343, nella Basilica Hilariana 344, nei castra peregrina 345, nelle terme traianee del colle Oppio 346). Tale macroscopica convergenza induce ad interrogarsi se questo fenomeno non sia da ritenersi l’esito, oltre che della logica attrazione di quegli stessi luoghi per esigenze peculiari, talora, come nei Fori, associabili a forme ben documentabili di continuità delle funzioni originarie di quegli spazi 347, anche di un controllo statale di una buona parte della produzione metallurgica 348, ovviamente anche in caso di materiali di riciclo di pertinenza pubblica 349, per la quale sarebbero predisposti spazi che non variano, in questa fase, il loro profilo giuridico. Se da una parte è per questo calzante l’ipotesi di riconoscere negli impianti installati nell’Athaeneum una zecca operante in età bizantina 350, proprio nella direzione di una presenza inequivocabile dell’amministrazione bizantina negli impianti produttivi del complesso del teatro di Balbo, va ricordato, hanno assunto un particolare valore i sigilli, particolarmente quelli esarcali, recuperati dai depositi di VII-VIII secolo dell’esedra 351. In senso più generale, poi, non può non evidenziarsi 341 DB, contesto 283, indicatore 578. Cfr. FERRANDES 2013, pp. 119-120 e Panella in questo volume. Indicatori di produzione metallurgica sono emersi dallo scavo delle cosiddette terme di Elagabalo, dunque nella medesima area alle pendici nord-est del Palatino, e attribuiti a contesti di VI-VII secolo (SAGUÌ 2013, p. 151; DB, contesto 144, indicatori 325-327). 342 DB, contesto 80, indicatori 168-171. G. Ricci, M. Serlorenzi in questi atti. Alla connotazione del sito contribuiscono anche le evidenze nelle insulae sulla via Lata (SERLORENZI 2010, pp. 132-133 e G. Ricci, M. Serlorenzi in questo volume) e la presenza di indicatori connessi alla produzione di metalli, ancora inediti, dalle stratigrafie delle domus sotto palazzo Valentini (sulla base di un’indicazione orale di Paola Baldassarri, che ringrazio per la cortese anticipazione; sul contesto BALDASSARRI 2008-2009). 343 DB, contesto 160, indicatori 348-355. L. Vendittelli, M. Ricci in questi atti 344 DB, contesto 29, indicatori 57-59. M.E. Calabria et alii in questi atti. 345 DB, contesto 17, indicatore 33. Cfr. anche C. Palombi, supra, nota 34. 346 DB, contesto 111, indicatori 274-275. Poche sono le eccezioni di impianti metallurgici in spazi sicuramente privati: vd. già C. Palombi, supra, p. 000. 347 Supra, p. 000. 348 Sugli assetti giuridici entro i quali inquadrare l’estrazione e la produzione dei metalli nei secoli della prima e media età imperiale si veda il bel lavoro di HIRT 2010, dal quale evincere anche le complesse questioni, a lungo dibattute, sull’attribuzione esclusiva dello sfruttamento delle miniere all’imperatore ovvero su una rete più articolata di proprietà e competenze con la compartecipazione di privati; utile anche DOMERGUE, BORDES 2006. Contributi significativi per un’estensione di tali questioni alla Tarda Antichità (le cui norme di regolamentazione, ormai si ritiene, non presentano grosse discontinuità con i secoli precedenti) quelli di MISPOULET 1907 e di EDMONSON 1989; MATSCHKE 2002 per Bisanzio. Ben trattato l’argomento anche in CARLÀ 2009, pp. 253-275, con specifico interesse all’oro. Si ricorda che per l’età tardo antica aiutano a considerare il tema alcuni riferimenti normativi del Codex theodosianus e poi del giustinianeo, che dedicano un titolo specifico all’attività estrattiva: C.Th. 10, 19, 3, del 365: Impp. valentinianus et valens aa. ad cresconium comitem metallorum. perpensa deliberatione duximus sanciendum, ut, quicumque exercitium metallorum vellet adfluere, is labore proprio et sibi et rei publicae commoda compararet. itaque si qui sponte confluxerint, eos laudabilitas tua octonos scripulos in balluca cogat exsolvere; quidquid autem amplius colligere potuerint, fisco potissimum distrahant, a quo competentia ex largitionibus nostris pretia suscipient. dat. iiii id. decemb. parisis valentiniano et valente aa. conss. (v. anche C.Just. 11, 7, 1); C.Th. 10, 19, 4, del 367: Idem aa. ad germanianum comitem sacrarum largitionum. ob metallicum canonem, in quo propria consuetudo retinenda est, quattuordecim uncias ballucae pro singulis libris constat inferri. dat. vi id. ian. rom. lupicino et ioviano conss. (v. anche C.Just. 11, 7, 2); C.Th.10, 19, 10, del 382: Imppp. gratianus, valentinianus et theodosius aaa. floro praefecto praetorio. cuncti, qui per privatorum loca saxorum venam laboriosis effossionibus persequuntur, decimas fisco, decimas etiam domino repraesentent, cetero modo suis desideriis vindicando. dat. iiii kal. sept. constantinopoli antonio et syagrio conss. (v. C.Just. 11, 7, 3). Per questi cfr. l’approfondimento delucidante di PIACENTE 2009. Tali problematiche interpretative, è noto, non si dissociano dalle procedure giuridiche sullo sfruttamento delle cave di marmo, su cui sono più direttamente correlate altre promulgazioni legislative: C.Th. 10, 19, 8, del 376: Impp. valens, gratianus et valentinianus aaa. ad senatum. potestatem eruendi vel exsecandi de privatis lapidicinis iam pridem per macedoniam et illyrici tractum certa sub condicione permisimus. sed vobis, patres conscripti, volentibus liberalius deferetur, suo ut quisque sumptu suoque emolumento, vectigalis operas et portorii damna non metuens, pariat eam copiam. et cetera. lecta in senatu id. aug. valente v et valentiniano aa. conss., ma anche C.Th. 10, 19, 11, del 384: Imppp. gratianus, valentinianus et theodosius aaa. cynegio praefecto praetorio. ii, quibus ad exercenda metalla privata dives marmorum vena consentit, excidendi exsecandique iuxta legem dudum latam habeant facultatem, ita ut decima pars fisci nostri utilitatibus, decima ei cuius locus est deputetur. quidquid vero reliquum fuerit, id iuxta eiusdem legis tenorem exercentibus cedat habituris licentiam vendendi donandi et quo voluntas suaserit transferendi. dat. iii non. octob. constantinopoli richomere et clearcho conss. 349 Interessante in tal senso un passo di Sozomeno (2, 3) per il quale i tesori dedotti dalla spoliazione dei templi sarebbero stati δημόσια χρήματα, in analogia con l’invito di Firmico (Err. 28, 6) agli imperatori di rifondere gli ornamenta templorum (Deos istos aut monetae ignis aut metallorum coquat flamma; donaria universa ad utilitatem vestram dominiumque transferte); da Libanio (Or. 30, 6) si deduce la notizia che proprio il depauperamento degli antichi santuari avesse contribuito a finanziare la fondazione di Costantinopoli. Per precisazioni sul tema del riciclo di manufatti metallici a Roma potrebbe risultare utile un approfondimento mirato, anche per una migliore precisazione temporale del contesto, del ripostiglio di bronzi, alcuni di particolare valore artistico e antichità, su vicolo dell’Atleta (DB, contesto 292, indicatore 592); cfr. CANINA 1849, BRAUN 1850 e CANINA 1850; SACCHI LADISPOTO 1983. A queste note si associno le riflessioni di V. La Salvia, infra. 350 Da ultimi G. Ricci, M. Serlorenzi e V. La Salvia in questo volume. Sulla pertinenza statale della produzione monetaria, anche con forme ‘schiavistiche’ esercitate sulle categorie professionali (C.Th. 10, 22, 4 stabilisce che i monetarii venissero marchiati a fuoco come altri lavoratori di fabricae statali), CRACCO RUGGINI 1971, particolare pp. 147, note 181, 162, 170. 351 MARAZZI 2001 (vi torna Marco Ricci, infra), dando però per 52 CINZIA PALOMBI - LUCREZIA SPERA Chiesa negli apparati di controllo della produzione anche di ambito urbano. Le varie istituzioni religiose sembrano infatti tendere ad una sempre più diretta gestione di attività produttive, sotto la spinta di esigenze diversificate: precoci necessità di autosostentamento e imprenditoriali, motivate anche dal ruolo marcatamente assistenziale di alcune fondazioni – dapprima soprattutto xenodochia e monasteri, più tardi le diaconie 353 –; la promozione e conduzione di imprese costruttive di rilievo 354; l’uso precoce e sempre più ampio di prodotti specificamente destinati e connotati, talora concepiti per una realizFig. 32. - Lastra damasiana con la firma di Furius Dionysius Filocalus. zazione seriale ‘massiva’, conche la distribuzione delle attestazioni risulta interessante nessi sia alla liturgia (arredi, suppellettile, abiti) 355, sia anche dal punto di vista della complessiva configuraal culto 356. Alla sfera devozionale si legano, infatti, cazione della città tardoantica nella fase più avanzata, poitegorie di oggetti dedicati, reliquari, encolpi, ampolle 357, ché arriva a restituire quasi un intero quartiere in rapporto ai quali fornisce un’abbondante messe di inspecializzato in senso produttivo, con una modifica soformazioni, per il periodo tra la fine del VI secolo ed il stanziale delle vocazioni funzionali più antiche e la deVII, l’epistolario di Gregorio Magno, con i numerosi finizione progressiva di una toponomastica correlata 352. riferimenti a chiavi e croci in oro e argento, offerte come doni speciali a personaggi eminenti, spesso contenenti In relazione ai temi che ruotano intorno all’organizla polvere della limatura delle catene di Pietro e Paolo, zazione della produzione a Roma nella Tarda Antichità le prime realizzate probabilmente a imitazione della e nel Medioevo un’attenzione precipua deve essere richiave che apriva il recinto della confessione 358; di mavolta al ruolo progressivamente emergente e attivo della nufatti di questo tipo, di chiaro significato ideologico e scontata l’ipotesi di una gestione diretta da parte del monastero di S. Lorenzo in Pallacinis (vd. però anche infra, p. 00 con nota 000). 352 Emerge, ad esempio, la possibilità che le attestazioni tarde di un clivus Argentarius, nelle biografie di Benedetto III (LP, II, p. 145) e di Nicola I (LP, II, p. 53) e, quindi, nell’Ordo romanus di Benedetto Canonico (VALENTINI, ZUCCHETTI 1946, pp. 219-220), possano avere una qualche connessione con la vocazione del quartiere, più che raccordarsi alle antiche nomenclature di edifici a ridosso del Foro di Cesare, di ben più antica tradizione (BUZZETTI, PISANI SARTORIO 1993). Meno chiaro il riferimento nel De civitate Dei di Agostino (7, 4), dal quale, tuttavia, si deduce una interessante critica agli specialismi nei sistemi produttivi, che dovevano dunque essere largamente attestati alle soglie del V secolo (Ridemus [...] tamquam minuscularios vectigalium conductores vel tamquam opifices in vico argentario, ubi unum vasculum, ut perfectum exeat, per multos artifices transit, cum ab uno perfecto perfici posset. Sed aliter non putatum est operantium multitudini consulendum, nisi ut singulas artis partes cito ac facile discerent singuli, ne omnes in arte una tarde ac difficile cogerentur esse perfecti). 353 Sulle funzioni di queste istituzioni, dal profilo ben noto e approfondito a più riprese, ci si limiti a SANTANGELI VALENZANI 1996- 1997, STASOLLA 1998, STASOLLA 2007 per gli xenodochia; a FERRARI 1957, PANI ERMINI 1981, GIUNTELLA 2001 per i monasteri; a BERTOLINI 1947, CECCHELLI 2010 per le diaconie. 354 Poiché il tema è risaputamente ampio e ben approfondito nelle numerose correlazioni, basti portare l’attenzione sull’inesauribile elencazione di interventi offerta dalle biografie dei papi nel Liber pontificalis (LP, I-II). 355 Cfr. le relative voci sulle singole categorie di manufatti in DACL e DP. L’ampio apparato di fonti sui donativi papali di arredi liturgici in VON SCHLOSSER 1992; sull’uso dei tessuti negli apparati decorativi delle chiese SAXER 1996-1997; contributi specifici anche quelli di RIGANATI 2002 e BALLARDINI 2008. 356 Per le attività produttive e commerciali legate ai santuari spunti in FIOCCHI NICOLAI 2012, p. 148 con nota 85. 357 Cfr. le relative voci su tali categorie di manufatti in DACL e DP. 358 Epist. 1, 25; 1, 29; 1, 30; 3, 33; 3, 47; 4, 27; 4, 30; 5, 42; 5, 46; 6, 6; 6, 61; 7, 23; 7, 25; 8, 33; 11, 43; 12, 2. Tra queste, per i significati esplicitati con clausole terminali ricorrenti, si possono richiamare le lettere all’arcivescovo di Corinto Anastasio (Epist. 1, LA BANCA DATI E IL GIS DEGLI INDICATORI DI PRODUZIONE. NOTE TOPOGRAFICHE E PRIME RIFLESSIONI DI SINTESI 53 risultanti di immediata pertinenza, si può presumere che la stessa sede episcopale ne detenesse il monopolio esclusivo di fabbricazione e distribuzione 359, come autorizzano forse a ritenere le normative documentate dalle fonti per la produzione ben più tarda delle ‘quadrangulae’ di pellegrinaggio, in piombo e stagno, con le immagini Pietro e Paolo, per le quali un provvedimento di Innocenzo III del 1199 attribuisce l’auctoritas fundendi o quella di concederne la fusione al Capitolo della Basilica di S. Pietro, pena la scomunica di eventuali falsificatori e produttori non autorizzati 360. Le ben note iscrizioni dell’officina lapidaria di papa Damaso provano in effetti che già dalla seconda metà del IV secolo si può sospettare l’esistenza di artifices e botteghe episcopali (fig. 32) 361. Un’evidenza interessante e degna di approfondimento si riconosce in due fistulae individuate in situ in contesti diversi, il battistero di S. Cecilia in Trastevere e il complesso nell’area a sud della basilica di S. Paolo fuori le mura, entrambe datate, per la sicura correlazione con le strutture, tra la fine del V e Fig. 33. - Fistula nel battistero di S. Cecilia (da Parmegiani, Pronti gli inizi del successivo (figg. 33, a-b; 34) 362; esse pre2004). sentano marchi con lettere a rilievo, nei quali si specifica l’afferenza della risorsa idrica alle rispettive chiese, le vicine S. Cecilia e S. Crisogno quello di provenienza urbana [PE(r)T(inentia) 363 S(an)C(t)OR(um) CHRIS(o)G(oni) ET Fig. 34. - Fistula dallo scavo nell’area a sud della basilica di S. Paolo fuori le mura. 25: Amatoris autem vestri beati Petri apostoli vobis claves transmisi, quae super aegros positae multis solent miraculis coruscare; «Vi ho poi mandato le chiavi di S. Pietro apostolo che vi ama molto: esse, poste sugli ammalati, sogliono risplendere per numerosi miracoli», OGM, V/1, pp. 168-169) e quella al vir inlustris di Costantinopoli Andrea (Epist. 1, 29; Praeterea sacratissimam clavem a sancti Petri apostoli corpore vobis transmisi, quae super aegros multi solet miraculis coruscare; man etiam de eius catenis interius habet. Eaedem igitur catenae quae illa sancta colla tenuerunt suspensae vestra colla sanctificent; «Vi ho inviato la chiave santissima che fu posata sulla tomba di san Pietro apostolo. Essa suole rifulgere per molti secoli sugli ammalati: ha infatti dentro frammenti delle catene di Pietro. Queste catene che strinsero il suo collo, appese al vostro collo, vi santifichino», OGM, V/1, pp. 174-175). Un approfondimento specifico sul tema è di RIGANATI 2007, cui si rimanda per una disamina complessiva delle testimonianze e del loro significato; cfr. anche SPERA 1998, pp. 73-74. 359 Anche RIGANATI 2007, p. 548 presume che questi oggetti «non è escluso che venissero realizzati in botteghe sorte presumibilmente intorno alla Basilica Vaticana per assolvere alle specifiche necessità del complesso ecclesiastico e dei pellegrini». 360 PL 241, cc. 490-491: Eapropter, dilecti in Domino filii, tam redditum, quem de signis plumbeis sive stagneis apostolorum Petri et Pauli imaginem praeferentibus, quibus eorum limina visitantes in augmentum propriae devotionis et testimonium itineris consummati seipsos insigniunt, praedecessores nostri et nos ipsi percipere consuevimus, quam auctoritatem fundendi ea vel quibus volueritis fusoribus concedendi, qui vobis tantum de ipsis respondeant, vobis et per vos canonicae vestrae praesentium auctoritate concedimus et praesentis scripti pagina communimus. Ad haec, sub poena excommunicationis districtius inhibemus ne quis ea praeter assensum et concessionem vestram aliquatenus formare praesumat. Da ultimo, per una trattazione sul tema specifico della produzione romana di tali signa peregrinorum, IMPERIALE 2012, cui si rimanda anche per ulteriore bibliografia. 361 Sull’officina lapidaria di papa Damaso: dopo FERRUA 1942, si rimanda a FIOCCHI NICOLAI 2015 per i più recenti approfondimenti connessi proprio agli aspetti dell’esemplare produzione. 362 Per la fistula del battistero transtiberino PARMEGIANI, PRONTI 2004, pp. 89-90; quella dal complesso dell’Ostiense, in corso di edizione con i materiali dallo scavo 2007-2009, era in connessione con una struttura nella quale si sono riconosciuti i resti dei pauperibus habitacula realizzati a S. Paolo da papa Simmaco (498-514; LP, I, p. 263. Per anticipazioni sulle indagini archeologiche FILIPPI, SPERA 2009; SPERA 2011b; SPERA 2011c); cfr. infra. 54 CINZIA PALOMBI - LUCREZIA SPERA Fig. 35. - Fistula dal complesso di S. Lorenzo (da Filippi 1997). CEC(iliae)] e il santuario apostolico l’altro [PE(r)T(inentia) S(an)C(t)I PAVLI], anticipato da una croce equilatera il primo e con il medesimo segno posto alla fine il marchio dell’Ostiense. La fattura assimilabile delle due iscrizioni induce a ritenere che i tubi in questione possano essere stati prodotti dalla medesima officina plumbaria, forse di dipendenza episcopale, da cui simili manufatti dovevano essere distribuiti ai diversi edifici per i quali erano stati commissionati. Questi due reperti non sono peraltro le uniche testimonianze di tubi plumbei con sicurezza pertinenti a edifici religiosi. Alla fistula transtiberina ne è stata giustamente associata un’altra con formula analoga, PE(r)T(inentia) S(an)C(t)I CRISOGO(ni), scoperta «in Tiberi prope pontem Sixti» e nota dall’apografo del Dressel, che riporta, dopo le lettere, una palmetta, non una croce 364. Tale segno introduce invece il marchio ricorrente su alcune tubature scoperte agli inizi del XVIII secolo nell’area intorno alla chiesa di S. Lorenzo sulla via Tiburtina, che precisa la pertinenza ad un intervento di restauro, forse degli apparati idrici del balneum fatto costruire da papa Ilaro 365, condotto dal praepositus Stefanus, durante il pontificato di Giovanni I (523-526), come meglio ritenne il de Rossi (fig. 35) 366, e, ancora, su un ultimo manufatto dello stesso tipo, di incerta provenienza 367, ma che la specificazione di pertinenza [((crux)) XENOD(ochii) ORFANO<N>T(rophii)] permette di attribuire con buona probabilità alla schola cantorum, quae pridem Orphanotropheum vocabatur, ricostruita per la nimia vetustas e lo stato rovinoso da Sergio II e localizzata, sulla base del quadro complessivo delle attestazioni, nel quartiere della cattedrale lateranense 368. Il valore di questo gruppo di fistulae va oltre il pur già significativo aspetto della produzione, che le direbbe realizzate, si è detto, in una o più officine di diretta gestione ecclesiastica, poiché la stessa contemporaneità dei reperti, sicura per tre di questi e supponibile per i restanti, e il consistente dato quantitativo rispetto ai bolli su tubi plumbei più o meno coevi di pertinenza diversa 369, fa emergere un elemento nuovo, almeno sulla base della documentazione pervenuta, l’acquisizione da parte della Chiesa di Roma del privilegio di bollare le condutture in relazione all’utilizzo di risorse idriche logicamente pubbliche, sia pur con le evidenti variazioni dei formulari, tipiche in particolare dei marchi più tardi, rispetto alle pratiche precedenti prevalentemente normalizzate 370. Le nuove iscrizioni, tuttavia, proprio per la loro anomalia e genericità, non inquadrano precisa- 363 Si ritiene tale scioglimento preferibile rispetto a PET(ia) e P(ropri)ET(as). 364 CIL XV, 7258; cfr. PARMEGIANI, PRONTI 2004, p. 90. 365 LP, I, p. 247. SERRA 2005, pp. 209-210. 366 CIL XV, 7261; ICUR VII, 17615 (il quadro completo delle problematiche di ritrovamento e conservazione e l’apparato delle edizioni in FILIPPI 1997). Trascrizione: ((crux)) Salvo Papa Iohanne / St<e>fanus p(rae)p(ositus) reparavit. Bibliografia essenziale. A FILIPPI 1997 si rimanda anche per le questioni relative all’attribuzione, rispetto alla quale, si è detto, si preferisce l’orientamento iniziale di DE ROSSI 1877, p. 521, ormai generalmente condiviso (cfr. anche SERRA 2005, p. 210). 367 CIL XV, 7257. 368 LP, II, p. 92. L’Orphanotrophium, che poteva assolvere anche ad un ruolo assistenziale, è noto pure da un passo del Liber diurnus (97), e risulta abbinato alla schola cantorum - di questa Giovanni Diacono riferiva la costituzione o la ristrutturazione a Gregorio Magno (Vita, 2, 6) - anche in un documento del Regesto sublacense (RS, n. 112, p. 159). La localizzazione nelle vicinanze delle chiese di S. Matteo e S. Bartolomeo sulla via Merulana si deduce dalla giustapposizione a queste, in fonti più tarde, della chiesa di S. Stefano Ophonotrofio o de Scola Cantoris (HÜLSEN 1927, p. 479; VALENTINI, ZUCCHETTI 1942, p. 318, nota 1). 369 Possono forse essere riferiti allo stesso orizzonte temporale CIL XV, 7260 che documenta un restauro del trib(unus) (aquarum?) Fl(avius) Iohannis v(ir) c(larissimus) - BRUUN 1991, p. 46; BRUUN 2000, p. 169, n. 79 -, CIL XV, 7583 da piazza del Gesù, che si è preteso di attribuire alle strutture nell’area del Diribitorium (GUIDOBALDI 1986, pp. 175-181; MANACORDA 1993, p. 33, nota 24; MANACORDA 2001, p. 47; vd. supra, p. 00), CIL XV, 2, 7538 con P(er)T(inentia?) Silveri v(iri) in(lustris), integrato nella prima parola diversamente da CIL. Di incerta pertinenza e cronologia il bollo CIL XV, 7594 Ex of(f)icina Agnelli ((chrismon)) G. 370 BRUUN 1991. Vd., però, soprattutto BRUUN 1991-1992 su alcune iscrizioni anomale che assumono il carattere di fornire dati indicativi per l’officina plumbaria e non avrebbero perciò valenze giuridiche. LA BANCA DATI E IL GIS DEGLI INDICATORI DI PRODUZIONE. NOTE TOPOGRAFICHE E PRIME RIFLESSIONI DI SINTESI 55 mente il ruolo della Chiesa in relazione agli apparati della cura aquarum, nella Tarda Antichità ancor più complessi dei secoli precedenti e in alcune fasi scarsamente documentati 371. Di certo essa, con le macroscopiche esigenze di rifornimento idrico soprattutto per battisteri, fontane, balnea e simili strutture connesse all’assistenza, dislocati su ampia scala topografica, doveva imporsi come un concessionario extra ordinem in rapporto a quel privilegio per pochi costituito dall’utilizzo dell’acqua pubblica 372, risultante ancor più ristretto nella legislazione del IV e V secolo 373, e Fig. 36. Indicatori di produzione (segnati con asterisco) nel complesso degli horti Domitiae forse le ricorrenti intromissioni di (rielaborazione da Santamaria Scrinari, Marinucci 1995). Teoderico, per le vicende legate allo acquedotti e delle acque; rientrava, infatti, nelle procescisma laurenziano, nelle questioni di stabilizzazione del 374 dure del re goto ben attestate dalle Variae la sollecitapatrimonio ecclesiastico poterono in qualche modo zione indirizzata a personaggi eminenti all’assunzione favorire una qualche apertura anche in merito ai benedi responsabilità civiche, come fa, proprio per la mafici sull’acqua pubblica; può non essere una semplice nutenzione degli acquedotti, con i possessores di Racoincidenza che a papa Simmaco si debba, tra i pontevenna e con il vescovo di Vercelli Emiliano 378. Peraltro fici della Tarda Antichità, la costruzione del maggior sembra tradire un ruolo giuridicamente riconosciuto nel numero di edifici dotati di impianti idraulici, un battirestauro delle condutture idriche il bollo della Tiburtina stero sulla via Aurelia annesso alla chiesa di S. Agata con l’esplicitazione del curatore dei lavori, il praeposiin fundo Lardario, balnea a S. Pancrazio e a S. Paolo, tus Stefanus, appartenente, con tutta probabilità, agli apdove il biografo specifica che aquam introduxit, la meparati ecclesiastici di amministrazione del complesso desima espressione utilizzata dal biografo in relazione martiriale 379. La cura aquarum/formarum resterà coai lavori di ampliamento di una chiesa dedicata a S. Mimunque, per almeno due secoli, appannaggio del pochele 375, probabilmente quella della via Salaria 376, forse tere civile, come si deduce anche da un rapido gli stessi pauperibus habitacula nei santuari principali riferimento della Pragmatica sanctio 380 se, ancora nel di S. Pietro, S. Paolo, S. Lorenzo 377. Non è, tuttavia, 602, Gregorio Magno dovrà rivolgersi, con la medianeppure da escludere che il vescovo di Roma fosse, su zione del suddiacono di Ravenna Giovanni, al prefetto delega, direttamente attivo nell’amministrazione degli 371 LANCIANI 1881a, pp. 520-543; CHASTAGNOL 1960, pp. 357363; BRUUN 1991; BRUUN 1997; BRUUN, - SAASTAMOINEN 2003. 37 ECK 1982, BRUUN 1997, pp. 145-149 (sulla base di Frontino, Aq. 78.3, si è calcolato che il 38% dell’acqua andasse ai privati: BRUUN 1997, p. 138). 373 Si ricordi l’emanazione dei provvedimenti che limitavano ad uso pubblico alcuni acquedotti (C.Th. 15, 2, 9; C.Th. 14, 15, 4), o che stabilivano rigide regole di massimo uso ai privati (C.Th.1 5, 2, 3); a questi era anche vietato innestare tubature da condotti destinati a edifici pubblici (C.Th. 15, 2, 6). Per un panorama legislativo sulla lunga diacronia ancora fondamentale LANCIANI 1881a, pp. 592-605. 374 Basti la sintesi di SARDELLA 2000. 375 LP, I, p. 262. La precisazione aquam introduxit per S. Michele e per il complesso apostolico dell’Ostiense sembra alludere a lavori più impegnativi di canalizzazione, evidentemente perché i due siti risultavano distanti dai rifornimenti idrici principali costituiti dagli acquedotti. 376 FIOCCHI NICOLAI 2009, pp. 40-51, particolare pp. 41-42 per la relazione del passo del Liber pontificalis con la basilica dedicata all’Arcangelo. 377 LP, I, p. 263. 378 Variae 5, 38 e 4, 31. Sul tema, anche oltre gli acquedotti, FAUVINET RANSON 2006, particolare pp. 131-133, 145-148, 201, 217221. 379 GUYON 1974, pp. 580-585; specificamente per la fistula della Tiburtina FILIPPI 1997. 380 Pragmatica sanctio pro petitione Vigilii, 25 (MGH, Leges, V, p. 174): Consuetudines et privilegia Romanae civitatis vel publicarum fabricarum reparationi, vel albo Tiberino vel foro aut portui Romano, sive reparationi formarum concessa, servari pre cipimus: ita videlicet, ut ex hisdem tantummodo titulis, ex quibus delegata fuerunt, praestentur 56 CINZIA PALOMBI - LUCREZIA SPERA bee del ramo della forma Sabbatina che riforniva direttamente il complesso vaticano 384. del pretorio per rivendicare che il vir clarissimus Augustus potesse occuparsi della necessaria manutenzione degli acquedotti 381, benché le fluidità dei decenni precedenti l’VIII secolo, con la oscillazione e intersezione di competenze istituzionali e responsabilità reali, riemerga, se si ammette una nota interpolata del Liber pontificalis, nell’intervento di Onorio I sull’aqua Traiana per un nuovo mulino gianicolense 382. La produzione delle fistulae assumerà un ben più chiaro significato nel quadro di una intuibile istituzionalizzazione del ruolo della Chiesa nella cura aquarum dall’VIII secolo, in un ben diverso contesto storico-istituzionale, quando, non per caso, le biografie si soffermano su interventi massicci di ripristino e direttamente gestiti, come quello di Gregorio II a S. Lorenzo (aquam fistulis compagetis post multum tempus […] reduxit) 383, e quello, massiccio, di Adriano I sulle condutture plum- In rapporto all’ambito della produzione edilizia si può facilmente ritenere che la Chiesa avesse maturato in poco tempo, dopo le prime grandi imprese supportate, anche per le prestazioni tecnologiche e il reclutamento di maestranze specializzate, dall’evergetismo imperiale 385, autonomia e capacità gestionali straordinarie nell’acquisizione e lavorazione dei materiali e nella stessa organizzazione dei cantieri, che si impongono quasi sempre come poli di attivazione di operatività complesse e con esiti di assoluta eccellenza. Un passo di Gregorio di Nazianzo ricorda ad esempio l’arrivo, nelle cave del Proconneso, di un presbitero proveniente da Taso, cui era concesso il privilegio di acquistare Προκοννησίαι πλάκαι per la costruzione di una chiesa 38. La notevole disponibilità di materiali da parte di enti ecclesiastici, anche in quantitativi sistematicamente e industrialmente prodotti e immagazzinati, si evince ancora dall’epistolario di Gregorio I, che, con una lettera al rettore del patrimonio campano, inoltra la richiesta di donare all’abate Felice, per una fabbrica, 1500 libbre di piombo, prelevandolo dal deposito ecclesiastico sull’isola Eumorfiana 387; la Chiesa di Roma disponeva soprattutto di grandi quantità di legname, ovviamente fornito dall’esteso patrimonio terriero, ed il papa, che in una epistola del 599 ad un gruppo di vescovi delle Gallie dimostra di conoscerne le più corrette adozioni nell’edilizia al punto da utilizzarne i dettagli in termini metaforici 388, arriva anche a fornire a più riprese al pa- Epist. 12, 6. 382 LP, I, p. 324 (con L. DUCHESNE, ad comm. LP, p. 327, nota 20). La giurisdizione sulla città era logicamente ancora legata al diretto controllo bizantino, cosicché lo stesso pontefice riceve da Eraclio la formale concessione di riutilizzare per il tetto di S. Pietro le tegole bronzee dal tempio di Venere e Roma (LP, I, p. 323). Note sui restauri degli acquedotti tra Tarda Antichità e alto Medioevo in COATES-STEVENS 1999, pp. 215-223 e MARCELLI, MUNZI 2007, pp. 35-41. 383 LP, I, p. 397. 384 LP, I, p. 504: Et confestim centenarium illud qui ex eandem formam in atrio ecclesiae beati Petri decurrebat, dum per nimiam neglectus incuriam plumbum ipsius centenarii furtim iam plurima pars exinde ablata fuisset, reliquum plumbum conquassatum, protinus isdem praecipuus pastor addita multitudine plumbi ipsum centenarium noviter fecit. In questa fase, dopo la mancanza di attestazioni per numerosi decenni, riprende l’operatività dei papi nella costruzione di balnea e fontane (STASOLLA 2002, pp. 145-147). Sulla ‘svolta’ nelle competenze del papato agli inizi dell’VIII secolo, tema in corso di approfondimento da parte di chi scrive, vd. anche le concordanze nelle più complessive gestioni della produzione edilizia e dell’organizzazione di maestranze e cantieri. 385 Sui cantieri imperiali del IV secolo BRANDENBURG 2004, pp. 16-108, 114-130. 386 Carm. 2, II, 875-882, in PG 37, c. 1089. Per i problemi connessi alla giurisdizione delle cave cfr. la sintesi di PENSABENE 2013b, pp. 197-227; per quelle del Proconneso pp. 317-348. 387 Epist. 1, 48. Nell’edilizia del periodo, è noto, il piombo veniva prevalentemente destinato ai tetti e alle condutture idriche (cfr., per esempio, LP, I, pp. 275, 419. Per altri contesti interessanti i richiami nell’Historia francorum di Gregorio di Tours, 1, 30, in PL, LXXI, c. 177 e nella Vita sancti Eligii di Audoenus Rotomagensis, 18, in PL, LXXXVII, c. 495). Sull’uso massiccio di questo materiale è estremamente interessante un passaggio della relazione delle scoperte di Lorenzo Fortunati alla metà del XIX secolo sulla via Latina; le strutture della villa risultarono essere state radicalmente compromesse da un incendio prima del crollo delle volte che aveva ‘sigillato’ l’esistente e, quindi, dell’impianto di una calcara (DB, contesto 40, indicatori 82-85): gli strati di distruzione dell’edificio presentavano «grandi masselli di piombo fuso» e poi «incastonati e semifusi li condotti di piombo. Piccole lastre, ossiano pezzi di piombo fuso, furono trovati per lungo tratto di tempo sparsi quà e là fra le rovine, e sotto le precipitate volte, fino a metterne insieme due mila e più libre» (FORTUNATI 1859, pp. 10-11). 388 Epist. 9, 219: Apta namque aedificationibus de silvis ligna Fig. 37. Monete destinate alla fusione nel complesso degli horti Domitiae (da Santamaria Scrinari, Marinucci 1995). 381 LA BANCA DATI E IL GIS DEGLI INDICATORI DI PRODUZIONE. NOTE TOPOGRAFICHE E PRIME RIFLESSIONI DI SINTESI 57 triarca di Alessandria Eulogio carichi di travi di varie dimensioni destinate alla carpenteria navale, attività produttiva pure evidentemente gestita in forma diretta dallo stesso patriarca egiziano 389. La possibilità di ampi rifornimenti di trabes de Calabria viene sottolineata nel suo valore qualitativo nelle biografie di Sergio I e di Gregorio II per un integrale restauro del tetto della basilica di S. Paolo fuori le mura 390 In tale ottica possono prestarsi ad una rilettura alcuni contesti urbani che Fig. 38. Cortile con dolia nel complesso degli horti Domitiae (da Santamaria Scrinari, Marinucci 1995). assumono tratti significapietre preziose 394, metallo 395, forse in vetro 396) e per tivi se riconsiderati nell’ottica della rete delle produzioni operatività produttive di tipo alimentare (figg. 36-38) 397. ecclesiastiche, tema ancora poco indagato nelle linee di 391 Da tali indicatori si deriva il profilo di un settore urinsieme . Nell’area a nord-ovest del complesso epibano a prevalente nuova occupazione ‘polindustriale’, scopale del Laterano, entro alcuni nuclei degli antichi per ipotesi alle dipendenze del complesso episcopale 398, horti di Domitia Lucilla, le indagini archeologiche conconsiderando la stretta contiguità topografica, la condotte a partire dalla fine degli anni Cinquanta del Notemporaneità delle trasformazioni e quella ben spiegavecento hanno fatto emergere una generale continuità bile tendenza all’autosostentamento e d’uso nella Tarda Antichità 392, con la tendenza diffusa all’autoproduzione degli enti ecclesiali, in cui si deve al riuso di ambienti per la fabbricazione e la lavorazione riconoscere un fenomeno generale e massivo soprattutto di materiali (una fornace 393, officine per manifatture in succiduntur, nec tamen adhuc viridibus aedificii pondus imponitur, nisi eorum viriditatem multorum dierum mora siccaverit, et apta ad necessarium usum effecerit. Quae observantia si forte negligitur, citius superimposita mole franguntur, et gignit ruinam ad auxilium res provisa. 389 Epist. 6, 61; 7, 37; 8, 28; 10, 21; 13, 43; i riferimenti in Epist. 8, 28 chiariscono anche che per papa Gregorio, in dichiarata adesione con e prescrizioni evangeliche, tali beni, derivati direttamente dalle proprietà ecclesiastiche, non erano commercializzabili, rispondendo appunto con un diniego all’offerta di pagamento per le travi più lunghe da parte di Eulogio. 390 LP, I, pp. 375, 397. Per un quadro generale con ampia diacronia DIOSONO 2008. 391 Solo una prima ‘apertura’ di una ricerca complessa ancora tutta da sviluppare in MARTORELLI 1999. 392 Dalle descrizioni di V. Santa Maria Scrinari derivano diverse indicazioni di verificata continuità di uso delle strutture, con scopi evidentemente differenziati: cfr., in particolare, SANTA MARIA SCRINARI, MARINUCCI 1995, pp. 95, 116, 132, 138, 157, 188-190, 206207, 213-214, a più riprese in 215-241. 393 SANTA MARIA SCRINARI, MARINUCCI 1995, p. 143 (figg. 172, 175), con alcune incertezze. SANTA MARIA SCRINARI, MARINUCCI 1995, pp. 106-109. SANTA MARIA SCRINARI, MARINUCCI 1995, pp. 95-97, figg. 91114. L’identificazione del vano produttivo si lega al recupero di una quantità significativa di oggetti metallici, di diversa funzione e cronologia (statuette di divinità, lucerne bronzee, manufatti decorativi, resti di arnesi da lavoro e di armi, recipienti), tra cui circa settemila monete depositate entro un vaso. È significativo che dell’ambiente interessato da tale riuso la studiosa evidenzi l’abbandono per «un lungo e forte incendio», dopo che «era vissuto a lungo nel tardo impero» (p. 95). 396 SANTA MARIA SCRINARI, MARINUCCI 1995, p. 66. 397 SANTA MARIA SCRINARI, MARINUCCI 1995, pp. 57-66, 114-116, 132 (in fig. 71, p. 69 resti di macine direttamente sul basolato). In particolare, alcuni spazi vennero destinati alla produzione di olio e vino; in alcuni vani l’alloggio entro i piani pavimentali di dolia e anfore ne predispose l’utilizzo come capienti magazzini per lo stoccaggio e il deposito. 398 SPERA, in c.s. Non è tra l’altro escluso che tali proprietà, forse anche con alcuni degli edifici residenziali nell’area, potessero far parte di quel gruppo di domus vel horrea intra urbe Roma, dono di Costantino al battistero lateranense, di certo di consistenza significativa perché con la rendita altissima di 2500 solidi (LP, I, p. 175). 394 395 58 CINZIA PALOMBI - LUCREZIA SPERA a partire dal V secolo 399, ma che potrebbe essersi profilato con maggiore precocità in particolare in alcuni contesti 400. Soprattutto valutando significative aderenze topografiche, diversi markers di produzione diffusi nella città potrebbero essere ragionevolmente ascritti alle varie tipologie di enti ecclesiastici: a chiese titolari, giuridicamente connotate da autonomia amministrativa 401 e perciò dotate, negli atti fondativi, anche di beni urbani con rendite – nei casi più dettagliati dal Liber pontificalis sono attestati domus, balnea, pistrina, horti 402 – , o, ancor più, per la connaturata vocazione ad un servizio polivalente 403, a diaconie o a monasteri 404. Per alcuni esempi delucidanti si ricordi che uno dei tituli dell’area esquilina, forse quello di Marcellino e Pietro, poteva avere alle dipendenze una fullonica, ipotizzabile per l’attestazione di un lector de fullonices in un’epigrafe del V secolo da un cimitero della via Appia 405; alla diaconia di S. Teodoro, alle pendici del Palatino, si è proposto di associare attività produttive operanti nelle prossimità 406; per la complessa rete di ateliers nell’area del teatro di Balbo si sono ipotizzate dipendenze gestionali dal monastero di S. Lorenzo in pallacinis 407 e pure valevoli in tal senso sono i resti di materiali per lavorazioni artigianali in osso recuperati nel sito del monastero di S. Paolo fuori le mura 408. Con il progressivo potenziarsi delle responsabilità del vescovo verso la città, pure in senso materiale, entro i primissimi anni dell’VIII secolo si accentua anche il suo ruolo centrale nella rete artigianale urbana. Le testimonianze in questa direzione appaiono ricorrenti e inequivocabili soprattutto in rapporto alle attività produttive per l’edilizia: a Giovanni VII (705-707) va ascritto il primo laterizio bollato di sicura pertinenza pontificia 409, utilizzato con probabilità nel restauro della rampa che univa l’atrium Vestae al Palatino 410, il quale precede quelli, più numerosi, sempre su tegole, con il monogramma di Adriano I (772-795) 411; nella stringatissima biografia di Sisinnio, papa per soli venti giorni nel 708, il biografo del Liber pontificalis si limita a segnalare che, standogli particolarmente a cuore gli abitanti dell’Urbs (curam agens pro habitatoribus huius civitatis), si era affrettato a ordinare di dequoquere calcarias ‘pro restauratione murorum’ 412, come farà appena più tardi Gregorio II (715-731) con un intervento diretto tra le preoccupazioni iniziali del suo pontificato (exordio pontificatus sui calcarias dequoquere iussit) 413. Non può mancare di cogliersi, in tali esplicitazioni, una sottoli- 399 DESTEFANIS 2013, particolare pp. 490-496. Che la Chiesa di Roma disponesse di strutture specifiche per lo stoccaggio di prodotti sarà attestato più tardi da un noto passo di Gregorio di Tours (Franc. 1, 10, in Monumenta Germaniae Historica, Scriptores rerum merovingicarum, 1, 1, f.2, Hannoverae 1942, p. 477), relativo a horrea ecclesiae interessati da una inondazione tiberina del 589 (e perciò supposti in area peritiberina: GUERRINI 2010, p. 49), nonché dalla biografia di Sabiniano che, in un momento di carestia, iussit aperire horrea ecclesiae (LP, I, p. 315). 400 Il caso di più interessante parallelo su questa linea interpretativa si riconosce nel complesso episcopale di Barcino, al quale si è ipotizzato di correlare, forse già dalla fondazione nel IV secolo, la continuità di uso di strutture produttive di tipo alimentare nelle immediate adiacenze, un impianto per la lavorazione del vino, dotato di grandi dolia per lo stoccaggio, e un analogo organismo per la produzione del garum (BONNET, BELTRÁN DE HEREDIA BERCERO, pp. 77-78, BELTRÁN DE HEREDIA BERCERO 2013, pp. 656-657). Al VI secolo possono essere riferiti i casi di Canosa (VOLPE, FAVIA, GIULIANI et alii 2007, pp. 1116-1119; in generale sui casi pugliesi chiarificanti della gestione diretta del vescovo di svariate attività produttive VOLPE, ROMANO, TURCHIANO 2013, pp. 565-574) e di Byllis (BEAUDRY, CHEVALIER, MUÇAJ 2013, pp. 1273-1274). Caratteri generalmente polifunzionali negli sviluppi dell’insula episcopalis ne segnano la storia: un caso esemplare, sulla base delle testimonianze letterarie, quello di Antiochia (SALIOU 2014, particolare p. 131). 401 Sulla struttura giuridico-amministrativa dei tituli soprattutto PIETRI 1989. 402 LP, I, p. 171 (per il titulus Equitii), pp. 212-213 (per il titulus Damasi), pp. 212-222 (per il titulus Vestinae, al quale la fondatrice, che evidentemente ne era azionaria, devolve anche i 3/8 dei vectigalia legati al passaggio delle merci dalla porta Nomentana). Tali tipologie di beni risultano anche nelle donazioni di altre chiese non titolari, urbane (il gruppo episcopale: LP, I, p. 175; S. Maria Maggiore: LP, I, p. 233) e suburbane (S. Pietro, cui nel territorio d’Oriente vengono destinati domus, horti, cellae, un balneum, un pistrinum e una propina: LP, I, p. 177) 403 Supra, p. 00. 404 Sui monasteri come centri multiproduttivi cfr. soprattutto MARAZZI 2015 e i vari contributi in ERMINI PANI 2015. 405 ICUR IV, 11798; cfr. FERRUA 1975, p. 238 e MARTORELLI 1999, p. 590 406 MILELLA 2004, MILELLA 2009. Incerto è il legame tra l’attività di produzione del vetro riferibile all’alto Medioevo e l’adiacente fondazione di S. Maria Antiqua (DB, contesto 46, indicatore 92; cfr. C. Palombi, supra, p. 000). 407 L. Vendittelli e M. Ricci in questi atti, dopo MANACORDA 2001 e ARENA, DELOGU, PAROLI et alii 2001. Non può essere però trascurata la proposta recente di collocare il monastero, attestato per la prima volta, come è noto, nella biografia di Adriano I (descrizione: in rovina), più ad est, in prossimità del titulus Marci, cui in realtà il papa dell’VIII secolo affida la gestione (LANZANO 2006). D’altra parte, sulla base di quanto considerato supra, non si può escludere che la produzione fosse direttamente, fino agli inizi dell’VIII secolo, sotto il controllo statale. 408 Cfr. I. De Grossi Mazzorin in questi atti (e C. Palombi, supra, p. 000). 409 STEINBY 1986, pp. 115-116. 410 LP, I, p. 385; AUGENTI 1996, pp. 56-58. Spunti generali in DELOGU 2007. 411 STEINBY 1986, pp. 115-116 (e STEINBY 1973-1974). 412 LP, I, p. 388. 413 LP, I, p. 396. Sul tema anche SPERA 2011a, pp. 336-338. LA BANCA DATI E IL GIS DEGLI INDICATORI DI PRODUZIONE. NOTE TOPOGRAFICHE E PRIME RIFLESSIONI DI SINTESI neatura di una prerogativa ormai acquisita e dedotta dal potere civile, che, si sa, della produzione della calce, componente primaria per la solidità degli edifici, a Roma eseguiva il controllo attraverso funzionari specifici, come il praepositus calcis dell’età teodericiana su cui a lungo si dilunga una delle Variae di Cassiodoro 414. In effetti nelle biografie dei papi dell’alto Medioevo ricorrono frequenti richiami alle competenze episcopali nell’organizzazione dei cantieri, con evidenti significati ideologici, sia in relazione alla gestione dei circuiti di produzione e approvvigionamento dei materiali, sia per il coordinamento di maestranze e manodopera: alla fine dell’VIII secolo Adriano I può disporre, per le fondazioni del portico diretto al santuario petrino, di plus quam duodecim milia tufos recuperati a litore alvei fluminis 415 e ripristinare l’aqua Traiana predisponendo la reintegrazione delle fistulae, in gran parte asportate, con multitudo plumbi 416; l’uso del piombo per il restauro dei tetti ricorre anche nella biografia di Gregorio III a proposito di un intervento a S. Maria Maggiore, che il papa attua cum calce abuntantissimo seu chartis plumbeis 417. La responsabilità diretta sulle maestranze si evince da altre testimonianze correlabili: Gregorio III, promuovendo opere reintegrative di plurima pars murorum huius civitatis Romane, alimonia quoque artificum et pretium ad emendum calcem de proprio tribuit, 418 come più tardi Adriano I, per il rinnovamento di muri e turres, aveva garantito multa stipendia, tam in mercedes eorum qui ipsum murum fabricaverunt, quamque in ipsorum alimentis, simulque et in calce atque diversis utilitatibus usque ad centum auri libras expendit 419. L’efficiente rete di risorse materiali e umane per la costruzione della mura vaticane di Leone IV, negli anni centrali del IX secolo, su cui molto è stato detto Var. 7, 17. In tal senso va ricordato che le categorie professionali legate alla produzione della calce sono anche le più controllate e protette dalla legislazione tardoimperiale: C.Th. 14, 6, 1 (del 359) e 14, 6, 3 (del 365) fissano la retribuzione di calcinai e carrettieri, C.Th. 14, 6, 2 ratifica le norme sulle esenzioni fiscali degli stessi. Anche per la produzione di laterizi è forse superfluo ricordare l’enfasi data nelle stesse Variae (1, 25) alla spinta produttiva di Teoderico (vd. STEINBY 1986, pp. 104-106; CAMILLI 1999). Sulla cura edilizia nell’età teodericiana PANI ERMINI 1995 e PANI ERMINI 1999. 415 LP, I, p. 507. 416 LP, I, p. 504. 417 Cfr. anche Sergio I (LP, I, p. 375), a proposito del restauro del tetto dei SS. Cosma e Damiano (supra, sull’uso del piombo). In generale BAUER 2004. 418 LP, I, p. 420. 419 LP, I, p. 501. 420 Per semplicità si rimanda a PANI ERMINI 2000, particolare pp. 414 59 in un’accurata serie di studi 420, con la sua pesante portata ideologica, riflette bene la gestione di tali articolati sistemi di produzione, i quali, a livello archeologico, in generale, si traducono nelle attestazioni di cantieri complessi di buona tenuta tecnologica, sicuramente eccellenti rispetto alle coeve tendenze costruttive 421 e capaci di imporsi ancora come modelli 422. Se una ricerca mirata si spingesse oltre il X secolo, valorizzando con sistematicità, oltre ai dati materiali, soprattutto le copiose informazioni dei fondi archivistici degli enti ecclesiastici 423, ne emergerebbe un già intuibile panorama molto ricco e articolato e si configurerebbero con sicurezza i contorni di un fenomeno massiccio e l’evidenza di apparati più complessi, che devono gradualmente tener conto del radicale riassetto socio-istituzionale e delle famiglie emergenti della nuova aristocrazia urbana 424, in buona parte protagonisti della ristrutturazione degli apparati produttivi del pieno Medioevo 425. (L. S.) Bibliografia AA. SS. = Acta Sanctorum, ed. Bollandisti. ACAMPORA c.s. = L. ACAMPORA, L’area di S. Sabina all’Aventino: nuove acquisizioni da indagini archeologiche e ricerche d’archivio, in Studi e Scavi sull’Aventino (20032015). Atti della giornata di studi (Roma, 24 marzo 2015), c.s. AIELLO 2001 = V. AIELLO, I rapporti tra centro e periferia in epoca costantiniana. 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Paolo fuori le mura. 422 Sulla cultura costruttiva more romano nell’alto Medioevo d’Oltralpe EMERICK 2011. 423 Per le potenzialità della ricerca, esemplare il caso della piccola chiesa S. Maria domine quo vadis, che permette di associare fonti e un’importante presenza monumentale: SPERA 1999, particolare pp. 427-428. 424 WICKHAM 2013, particolare pp. 221-306. 425 Infra, i contributi di Chris Wickham e Jean-Claude Maire Vigueur in questi stessi atti. 60 CINZIA PALOMBI - LUCREZIA SPERA AMELOTTI, COSTAMAGNA 1995 = M. AMELOTTI, G. COSTAMAGNA, Alle origini del notariato italiano. Parte prima. L’età romana, Milano 1995. ANTONELLI, IACONE, PROSPERI et alii 2013 = S. ANTONELLI, A. IACONE, S. PROSPERI, M. TORNESE, L’impianto metallurgico dell’Athenaeum: processi empirici tra “teoria e metodi” ed esperienza archeologica, in BdA on line. Direzione Generale per le Antichità, IV, 2013/2-3-4, pp. 95112. APPETTECCHIA, PALOMBI c.s. = A. APPETECCHIA, C. 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Tale lavoro nasce nell’ambito dell’équipe di ricerca, che aveva progettato preventivamente al convegno una puntuale raccolta di tutte le informazioni rintracciabili nell’edito (bibliografia esistente ed in alcuni casi letteratura grigia) pertinenti la produzione 2. I dati inizialmente sono stati raccolti attraverso l’utilizzo di una scheda cartacea, che ha consentito di quantificare la base di dati poi elaborata nel database e nel GIS. Nello specifico si è fatto ricorso ad una scheda cartacea composita strutturata per voci predefinite (campi aperti e campi chiusi), basata sulla scomposizione del ciclo produttivo. Per quel che concerne gli aspetti informatici il database relazionale è stato realizzato in Access, mentre per il GIS si è fatto ricorso all’applicazione desktop QGIS 3. Il database progettato ha visto la creazione di tabelle relazionate e di maschere per agevolare l’interfaccia utente di immissione dati. Successivamente essi sono stati georeferenziati all’interno di shapefiles con specifici dataset di informazione. Tuttavia poiché trasferire in un sistema GIS una banca dati comporta comunque questioni di metodo, il rischio era quello di disperdere la complessità che le diverse attività produttive comportano. Si è quindi prestata particolare attenzione alla trasposizione del dato ed alle criticità che il dato edito porta con sé. Il presente contributo si prefigge di presentare proprio alcune delle riflessioni formulate di fronte a tali criticità nel momento in cui dalla scheda cartacea di raccolta dei dati si è proceduto alla progettazione della banca dati informatica. Si parlerà perciò del sistema non tanto dal punto di vista informatico quanto del modello concettuale che ne è alla base, dei criteri secondo cui sono state organizzate e trasposte le informazioni e delle riflessioni che in alcuni casi sono scaturite da esse. Le esemplificazioni proposte nel testo che segue hanno quindi la finalità di illustrare questi temi. Elemento cardine è stato vedere il GIS e le attività produttive come tecnologie a confronto, provando a rintracciare paralleli tra le componenti di entrambe. In questa proposta di confronto si è quindi posta l’attenzione sull’unità minima di registrazione, sui parametri che le Ringrazio la Prof.ssa A. Molinari per il sostegno e gli importanti momenti di confronto nelle riflessioni sulla banca dati e nella stesura di questo contributo. Un ringraziamento va alla Prof.ssa E. De Minicis per aver riletto il testo e aver discusso con me alcuni aspetti della produzione laterizia. Quanto scritto ed eventuali imprecisioni restano una mia responsabilità. 1 Si vedano l’introduzione ed i saggi di L. Spera e C. Palombi in questo volume. 2 Cfr. L. Spera, C. Palombi in questo volume. 3 Sull’argomento si veda MOLINARI, GIANNINI 2015. 74 NICOLETTA GIANNINI danno validità storica, e sul rapporto che esiste in entrambi i sistemi tra standardizzazione e complessità. È stata adottata come unità minima di registrazione l’indicatore di produzione, che assume validità di esistenza secondo i tre criteri individuati da Galiniè in un suo lavoro del 2000: la localizzazione, la cronologia, la definizione, elementi questi che secondo l’autore giustamente definiscono la vita di quelli che lui chiama oggetti storici e che Lefevre identifica come Constituent Element (EC) 4. Ovviamente nell’organizzare i dati, quantificandoli e qualificandoli, punto di partenza è stato individuare queste condizioni, avendo come filo conduttore il pensiero che l’archeologia della produzione debba essere considerata non tanto o almeno non solo «dal punto di vista di come si facevano le cose nell’antichità, ma rispondendo alla domanda ben più complessa ed articolata di come si possono studiare le cose prodotte in passato avendo per fine il ricostruire storie di più ampia portata» 5. La struttura a supporto della ricerca del gruppo di lavoro, infatti, doveva essere in grado di restituire informazioni inerenti anche l’organizzazione degli spazi, i tipi di contesti produttivi e se possibile, e dove possibile, l’organizzazione e la divisione del lavoro (officine singole, associate, atelier complessi, manifatture, etc.) almeno potenzialmente. La tecnologia in fondo cosa fa? Soddisfa bisogni, ne crea di nuovi, consente di risparmiare lavoro fisico e di ottimizzare l’organizzazione del lavoro, ma soprattutto come dice K. Kelly «la tecnologia genera opportunità» 6. Alla luce di questo l’idea era quella di rendere il GIS una opportunità a disposizione dell’équipe di lavoro. Il rischio era quello che l’informatica potesse appiat- tire e ridurre ai minimi termini un fenomeno complesso ed articolato, di cui conoscevamo per Roma, nonostante tutto, ancora molto poco. Non appiattire il dato e non disperdere le informazioni quindi, ma non solo. La difficoltà era rappresentata anche dal fatto di dover gestire l’eterogeneità di un dato già filtrato e parziale (dato edito) e quindi provare a gestire anche questa complessità. Il GIS, per sua natura, deve essere impostato ab origine per rispondere a domande specifiche, e non deve assolutamente tendere, almeno a mio avviso, alla creazione di un sistema ‘generalista’, ma di volta in volta deve modellarsi sulle finalità della ricerca. Nell’organizzare la banca dati e la sua georeferenziazione è stato perciò essenziale tenere presente le problematiche legate alla visibilità del dato – cosa rimane della produzione – , le dinamiche e la logica del ciclo produttivo, il rapporto tra quello che riguarda strettamente la produzione e altri aspetti della città (ad esempio viabilità, approvvigionamento idrico, contesto cronologico e topografico). Un possibile limite della banca dati, del quale si è stati consapevoli sin dalla sua impostazione, è quello di contenere esclusivamente le tracce archeologiche. A mio parere le tracce produttive per non essere travisate devono essere relazionate alle varie fasi dei cicli produttivi, senza tralasciare quanto ci dicono altri tipi di fonti in merito ad esempio ai modi della produzione, all’introduzione di innovazioni tecnologiche, all’uso di particolari materiali. Si pensi ad esempio al caso della produzione dei panni lana nel basso Medioevo e ad i cambiamenti che certamente essa subì dal punto di vista del ciclo produttivo nel momento in cui si iniziò ad usare l’allume 7. Sulla base di tali riflessioni di metodo si è pensato quindi, una volta riconosciuta come unità mi- GALINIÈ 2000; LEFEVRE 2012, pp. 65-82. Cfr. GIANNICHEDDA 2006, p. 9. Alla base della costruzione di questo contributo vi è una bibliografia metodologica e inerente casi di studio specifici. Nel tracciare la visione che ha determinato queste riflessioni si ricorderanno perciò solo alcuni dei contributi principali, fil rouge del sistema costruito e delle domande archeologiche cui si è cercato di rispondere. Sulla metodologia di approccio alla produzione e sulle problematiche ad esse legate si rimanda a WHITE 1962; CARANDINI 1979; MANNONI 1993; GIANNICHEDDA, MANNONI 1996; GOULD 1997; LUGLI, STOPPIELLO, VIDALE 2000, pp. 17-19; CARVER 2001, pp. 1-22; MANNONI 2002; VIDALE 2004; MANNONI 2004, pp. 545-550; FORSTER, CROSS 2005; GIANNICHEDDA 2005, pp. 85-104; GIANNICHEDDA 2006; CARVER 2008; MARCINIAK, YALMAN 2013; GIANNICHEDDA 2014a; GIANNICHEDDA 2014b. In particolare, sul rapporto tra tecnologie medievali e ricerca archeologica, vd. GIANNICHEDDA 2007a, pp. 49-61; sullo studio degli indicatori e del processo tecnici e produttivi, vd. ROUX CORBETTA 1989; ROUX 2003, pp. 768782; GIANNICHEDDA, FERRARI 2006, pp. 341-357; sul rapporto tra contesti e affidabilità stratigrafica e residualità GUIDOBALDI, PAVOLINI, PERGOLA 1998; GIANNICHEDDA 2007b, pp. 51-64; sulla necessità di valutare prima di indagare CARVER 2003; per quanto riguarda il Gis, anche in questo caso la bibliografia di riferimento è corposa. Per l’approccio e le piattaforme che si stanno realizzando nell’ambito del laboratorio di Archeologia Medievale di ‘Tor Vergata’ si rimanda a MOLINARI, GIANNINI 2014, pp. 334-340; MOLINARI, GIANNINI c.s.. A titolo esemplificativo si ricordano in questa sede i contributi di HALL, HUNTER-MANN 2002; HOWELL 2004; TWEDDLE, MOULDEN, LOGAN 1999; GARRIOCH, PEEL 2005, pp. 663-676; DEAN 2012. 6 KELLY 2011, p. 27. 7 Si ricordano in questa sede, a puro titolo esemplificativo, alcuni aspetti della produzione dei panni lana nel basso Medioevo, mentre per una analisi puntuale della produzione tessile romana si rimanda invece al contributo di H. Di Giuseppe in questo stesso volume. La produzione tessile, infatti, è certamente quella che lascia meno tracce di sé da tutti i punti di vista, pur tuttavia a Roma è stata oggetto di alcuni studi interessanti per il basso Medioevo specie per quel che concerne l’analisi di alcune fonti storiche. Si rimanda a VAQUERO PIÑEIRO 1993, pp. 287-305; AIT 2005, pp. 33-59. Quanto emerge da queste prime analisi si mostra a mio avviso un esempio interessante della complessità delle tracce. L’introduzione dell’allume infatti non ha solo un peso economico ma modifica profondamente le dinamiche del ciclo, nella lavorazione e soprattutto nell’uso della cenere, che 4 5 IL GIS E LE ATTIVITÀ PRODUTTIVE A ROMA IN ETÀ MEDIEVALE. UNA QUESTIONE DI METODO TRA TENDENZE E FATTI 75 Come accennato nel paragrafo precedente, uno degli elementi cardine nella costruzione del sistema è stato quello di vedere il GIS e le attività produttive come tecnologie a confronto. Questo parallelo tra sistemi differenti prende le mosse da quei confronti tra materia e intangibile che, a partire dalla pubblicazione di Esseri digitali di Negroponte nel 1995, hanno spesso caratterizzato la definizione e la comprensione degli elementi intrinseci di una tecnologia. Nel testo l’autore nello spiegare cosa avrebbe significato in futuro essere digitali, siamo nel 1995, scriveva che il futuro era fatto di bit e che il vecchio mondo era rappresentato dalla materia. Atomi versus bit, vedendo nei bit gli atomi del futuro e suggerendo quasi una completa sostituzione della materia, in una visione, potremmo dire, da fantascienza. Negroponte tuttavia metteva in risalto la distanza tra quello che è l’elemento materiale con la sua fisicità e spazialità e quello che è invece l’elemento numerico intangibile. In realtà sono molte di più le similitudini tra i due sistemi. Essi, infatti, pur afferendo a sfere diverse funzionano secondo strutture del tutto comparabili. Entriamo ora nel merito di questo confronto tra GIS e attività produttive. Il primo è un insieme di componenti (hardware, software, umane) che attraverso una serie di relazioni e connessioni, acquisisce, processa, analizza, immagazzina e restituisce in forma grafica dati riferiti ad un preciso contesto spaziale. Due concetti principali ne sono alla base: il dato e l’informazione. Il primo è una semplice registrazione di fatti, oggetti, fenomeni allo stato grezzo, punto di partenza di ogni ricerca. La seconda è invece un insieme di dati collegati tra loro che hanno lo scopo di fornire nozioni puntuali in risposta a una domanda specifica. Queste informazioni sono poi puntualmente georeferenziate nello spazio secondo un sistema di coordinate. Ciò consente di apprezzarne la localizzazione, i rapporti con le altre informazioni, confrontandone gli attributi, che rappresentano la parte non spaziale del dato immagazzinato in apposite tabelle. Anche nelle produzioni riscontriamo un’articolazione similare. L’attività produttiva è un insieme complesso costituito da più componenti combinati tra loro (strutture produttive, procedure, strumenti, tecniche, senza dimenticare ovviamente la componente umana). Anche qui ci troviamo di fronte ai dati grezzi e alle informazioni ottenute dalle connessioni tra i dati. Tali informazioni si amplificano ogni volta che variamo le domande con cui interroghiamo i dati grezzi (fig. 1). In questo procedere dal semplice al complesso è individuabile un movimento in grado di selezionare le soluzioni migliori, ponendole alla base di nuovi eventi, nuove prospettive, nuove possibilità. L’essenza però è nell’organizzazione delle informazioni. Forzando un po’, potremmo dire che muovendosi da una unità minima verso unità tecnologiche sempre più complesse, queste ultime gettano nuove basi per ulteriori costruzioni. Inoltre, ci si rende conto che utilizziamo queste unità minime in relazione della scala con cui affrontiamo la lettura dei dati. Ragionare secondo questo criterio nelle attività produttive vuol dire ovviamente fare riferimento alla logica del ciclo produttivo; una sequenza ordinata di operazioni concatenate, ripetibili e spesso prevedibili, che consente di valutare i modi della produzione anche in termini di organizzazione, circolazione e trasmissione delle competenze; tutti elementi che rimandano alla complessità invece sembra caratterizzare le produzioni precedenti. A sostanze diverse corrispondono aspetti tecnici diversi, ma anche economici ed organizzativi, poiché ad esse sono legati modi di stoccaggio delle materie prime diverse. Sappiamo ad esempio che una sostanza utilizzata in sostituzione dell’allume era la cenere ottenuta dalla combustione del cremor tartaro, che si forma sul fondo delle botti di vino ed è di facile reperibilità; altro sostitutivo erano le ceneri tanniche ottenute quindi dalla combustione (castagno, faggio, betulla, quercia, noce). È evidente quindi che tali informazioni provenienti dalle fonti d’archivio divengono basi conoscitive importanti, nella valutazione e interpretazione del record archeologico. 8 Si veda il contributo di C. Palombi in questo volume. 9 Queste riflessioni sui contesti produttivi sono inoltre state rese necessarie anche in funzione del successivo inserimento dei dati nel progetto iDEAL ‘Storia e Archeologia globale dei paesaggi rurali in Italia tra tardoantico e medioevo. Sistemi integrati di fonti, metodi e tecnologie per uno sviluppo sostenibile’ (progetto Prin 2010/2011). nima l’indicatore, di associare i dati sia per contesti topografici (database) 8 sia per contesti determinati dall’associazione di indicatori di produzioni. Questi ultimi sono sì in connessione topografica, ma soprattutto in connessione funzionale e ovviamente temporale, in relazione al ciclo produttivo e alle fasi di quest’ultimo, affinché possano, ove possibile, restituire anche informazioni sul tipo di contesto produttivo e sulla sua organizzazione 9. Alla luce di quanto fin qui esposto, è evidente che sebbene l’archivio digitale, prodotto dall’insieme dell’équipe di ricerca sia in progress e quindi modificabile e migliorabile, tuttavia esso può rappresentare un valore aggiunto nella lettura di questi dati, inserendosi così in un percorso di ricerca sulla città potenzialmente innovativo. Tecnologie a confronto. Gli elementi del sistema 76 NICOLETTA GIANNINI Fig. 1. - Quadro riassuntivo del confronto tra GIS e produzioni. economica del ciclo stesso. Ad essi sono poi da sommare i livelli di specializzazione, le scelte e il significato che tali scelte assumono. Sulla base di queste considerazioni, è evidente che per analizzare correttamente le molte tracce che caratterizzano la complessità della realtà produttiva, esse devono essere collocate in una logica di insieme che le quantifichi e sia in grado di ricondurle a specifiche fasi o processi. Perciò si è scelto di porre l’indicatore di produzione, ovvero qualsiasi traccia riconducibile ad una fase della produzione (installazioni fisse, materie prime, tracce nella stratificazione, etc.), alla base del sistema, identificando in esso l’unità minima di registrazione. Ad ogni elemento puntiforme del GIS corrisponde un indicatore di produzione rintracciato nell’edito. Unità minime diverse (l’elemento puntiforme nel GIS, l’indicatore per quel che concerne i processi produttivi) all’interno di diverse tecnologie (il GIS e i modi della produzione). Ma non solo. Dagli elementi singoli è, infatti, necessario passare ai sistemi interconnessi. Dalla traccia alla logica di insieme. Un indicatore isolato, infatti, non è sufficiente a definire un contesto produttivo, o meglio non tutti gli indicatori se presi da soli possono darci informazioni certe sulla presenza di un contesto produttivo. Per poter passare però a questo step successivo, ovvero alla definizione dei contesti produttivi, è necessario prima soffermarci su alcuni aspetti legati alla natura del dato raccolto. Gli indicatori censiti non sempre sono collocabili puntualmente nello spazio, senza dimenticare che spesso nell’edito si riscontrano problemi terminologici, che ren- dono difficile l’inserimento dell’indicatore nella logica di cicli specifici. L’eterogeneità dei dati raccolti proprio dal punto di vista del tipo di informazione rappresenta quindi un elemento da valutare sempre con attenzione: pubblicazioni diverse sotto molti punti di vista e gradi di approfondimento differenziati, talvolta con indicazioni cronologiche generiche. In molti testi, l’informazione produttiva è stata dedotta da indizi non sempre esplicitamente riconosciuti dagli editori dei dati. Per capire la complessità nella costruzione ed interrogazione del GIS legate a questo aspetto prendiamo il caso più che noto della grande calcara che viene innalzata alla fine dell’VIII secolo nell’esedra della Crypta Balbi 10. Una struttura utilizzata per un lasso di tempo molto contenuto, rinvenuta ancora con il suo carico di marmi. Una struttura di una certa importanza, di grandi dimensioni, tecnica di realizzazione accurata, accorgimenti tecnologici di buon livello impiegati. Tutte informazioni che hanno consentito di formulare ipotesi e trovare risposte sul perché ad esempio fosse stata realizzata, da chi, per la costruzione di quale complesso. Spostiamo ora l’attenzione su tutti i dati che abbiamo sulle calcare. Benché esse costituiscano il dato numericamente più significativo tra quelli raccolti, appare evidente che i casi in cui troviamo semplicemente registrato il termine calcara o grande calcara senza ulteriori informazioni su come fossero queste calcare, hanno un valore diverso rispetto al dato della Crypta Balbi. Per poter rendere questi dati maggiormente ‘generosi’, è stato necessario affrontare il problema dell’affidabilità dei dati raccolti, come già notato nel saggio precedente. È sembrato perciò fondamentale ragionare con la volontà di costruire uno strumento che concettualmente affrontasse anche questo tipo di problematiche: guardare ai dati discriminando tra essi in termini di qualità e potenzialità dell’informazione al fine di ricostruire storie. L’edito spesso ci mette di fronte alla presa di coscienza che ci siano notevoli quantità di informazioni perse, tut10 Sulla produzione della calce a Roma si rimanda ai testi di C. Palombi e R. Santangeli Valenzani in questo stesso volume. IL GIS E LE ATTIVITÀ PRODUTTIVE A ROMA IN ETÀ MEDIEVALE. UNA QUESTIONE DI METODO TRA TENDENZE E FATTI 77 Fig. 2. - Distribuzione degli indicatori censiti con grafico riassuntivo dei gruppi di appartenenza. tavia valutare gli indicatori in questi termini vuol dire anche dare un senso diverso all’assenza dell’informazione, attuando quindi una distinzione tra i vuoti, che si riscontrano e che il GIS rende evidenti anche dal punto di vista spaziale, in ‘reali’ e ‘fittizi’. I primi dettati dalla reale assenza di informazioni, i secondi dalla non corretta valutazione delle informazioni. Alla luce di queste difficoltà oggettive, si è scelto di inserire tutti gli indicatori nel GIS dotandoli di un grado di affidabilità determinato dalla qualità della pubblicazione (ovvero se si tratta di una segnalazione generica o no), dalla cronologia (generica o puntuale), dalla terminologia (riferimento preciso ad indicatori produttivi o descrizione vaga) e dalla localizzazione (puntuale o approssimativa). Tutti gli indicatori registrati nel database sono stati quindi inseriti anche con la stessa visualizzazione grafica, ma è possibile tra essi attuare un discrimine. Sono presenti nel sistema 596 indicatori diversificati per classi di appartenenza (fig. 2 e tav. 00). Di questi il 40% risulta valido secondo i criteri appena descritti, mentre del restante 60% , il 10% è privo di indicazione topografica ed il 18% non ha un grado di affidabilità cronologica. Il restante 32%, può essere ulteriormente definito approfondendo le ricerche e incrociando i dati con altre informazioni (fig. 3). È comunque importante sottolineare che anche i dati non collocabili Fig. 3. - Grafici inerenti la valutazione dei dati secondo i criteri di (dall’alto a sinistra ) affidabilità cronologica, bibliografica, topografica. In basso, grafico che riassume i dati censiti sulla base dei tre criteri di validità presi in considerazione. 78 NICOLETTA GIANNINI Fig. 4. - Localizzazione dell’area in cui si concentrano le indicazioni non datate inerenti i marmorarii con segnalate i principali percorsi altomedievali. puntualmente, ma riferibili ad un’area circoscritta restituiscono informazioni importanti. È questo il caso dei cumuli di pietra in via dei Coronari, via del Governo Vecchio o via dei Quattro Cantoni. Questi indicatori sebbene siano registrati con indicazioni topografiche dettagliate, rispettivamente «sotto casa Massali», «accanto la casa Odam», presso «casa di G. Frontoni», allo stato attuale delle ricerche non trovano una collocazione puntuale, poiché non è stato possibile identificare queste indicazioni topografiche. Tuttavia essi consentono di individuare un areale topografico significativo, con una specifica vocazione artigianale. È interessante ad esempio il fatto che l’areale in cui ricadono questi dati corrisponda alla zona interessata dal passaggio delle vie coinvolte negli itinerari di pellegrinaggio noti dalle fonti scritte tra VIII e IX secolo; vie che tra l’altro continuano ad essere coinvolte nei secoli centrali del Medioevo da un infittirsi del tessuto edilizio, che interesserà in maniera preponderante l’area nord del Campo Marzio. A tal proposito dato interessante, messo a confronto con questo tipo di indicatori di attività produttive, è la presenza lungo queste vie e lungo vie limitrofe di portici (fig. 4 e tav. 00) 11. Tornando alla totalità dei dati finora processati invece è possibile evidenziare che gli indicatori maggiormente attestati sono riconducibili a quattro categorie: installazioni fisse, attrezzi e utensili, residui e scarti, materie prime e semilavorati, ed è possibile riportare in queste sede alcune brevi riflessioni. 11 Lo studio sull’edilizia medievale di Roma che si sta portando avanti nell’ambito delle ricerche di Archeologia Medievale presso l’Università degli Studi di ‘Tor Vergata’, sta infatti evidenziando la presenza di una forte concentrazione di questi elementi in questa porzione della città caratterizzata dal passaggio della via Peregrinorum e della via Papalis. Anche la documentazione d’archivio per questo areale registra inoltre la presenza di un’intensa attività commerciale, in linea con l’infittirsi del tessuto edilizio, dato che sembra emergere ad esempio anche dai documenti pertinenti il monastero femminile di S. Maria in Campo Marzio che nel 1194 possiede più di 150 case molte delle quali disposte a schiera. Per il progetto sull’edilizia medievale si veda infra, nota 28. Installazioni fisse. Le strutture accertate sono riconducibili in massima parte a calcare e solo in misura molto più ridotta a fornaci metallurgiche da vetro, da ceramica, per laterizi. Se osserviamo la distribuzione dei dati solo le calcare sono significative da un punto di vista cronologico, ed è interessante la loro concentrazione in tre momenti cronologici importanti per la città. È possibile infatti riscontrarne una forte presenza nel periodo compreso tra il IV e il VI secolo, un momento di IL GIS E LE ATTIVITÀ PRODUTTIVE A ROMA IN ETÀ MEDIEVALE. UNA QUESTIONE DI METODO TRA TENDENZE E FATTI crescita di entità ridotte si riscontra in età carolingia, ed infine si ha un nuovo picco confrontabile con la tarda antichità, a partire dal XII secolo. Attrezzi e Utensili. In proporzione ai dati raccolti, scarse sono le informazioni inerenti i vari attrezzi legati alle più importanti attività artigianali. I dati quantitativamente più importanti arrivano dalla presenza di pesi e fuseruole. Numerosi anche i crogioli (rinvenuti nei contesti di Trastevere, villa dei Quintili, basilica Hilariana, piazza Madonna di Loreto, Crypta Balbi, area Sacra di S. Omobono, Terme di Traiano, Palatino), che divengono un indicatore importante da valutare rispetto alle fornaci accertate. Residui e scarti. A questa classe di indicatori piuttosto varia sono attribuibili gran parte delle informazioni raccolte, sebbene nella maggior parte dei casi non sia semplice ricondurre tali informazioni a specifiche fasi dei processi di lavorazione e consapevoli del fatto che essi debbano sempre essere valutati in relazione al contesto di rinvenimento, appaiono evidenti alcune tendenze. Sebbene infatti non sia questa la sede per approfondire nel dettaglio gli aspetti della ricerca legati a questo tipo di tracce, i dati raccolti mettono in evidenza una scarsa presenza di scarti riconducibili al ciclo della ceramica 12, che, oltretutto in nessuno dei casi registrati sono in connessione a strutture fisse. Tralasciando in questa sede i residui di carboni e ceneri, un dato interessante, certamente da analizzare caso per caso, è rappresentato dalle scorie. I dati raccolti mostrano una tendenza interessante a cavallo tra XII e XIII, anche se è bene sottolineare che dal punto di vista distributivo essi si trovano in contesti produttivi particolari quali il Colosseo e la Crypta Balbi, mentre necessita di un particolare approfondimento la segnalazione del rinvenimento di una fornace metallurgica in via Trionfale, datata al XIII secolo 13. Di interesse può essere la completa assenza di segnalazioni di scorie per quel che concerne il XIV e XV secolo, elemento che mette in evidenza, senza alcun 12 Per un quadro sugli indicatori della ceramica si rimanda a G. Rascaglia, J. Russo in questo stesso volume. 13 Benché manchino elementi pertinenti gli scarti in grado di definire da subito la materia prima lavorata, nuove acquisizioni arriveranno dallo studio della struttura, tuttora in corso. La fornace in bibliografia viene indicata di forma circolare con pareti realizzate in opera pseudo litica con rivestimento in argilla concotta (cfr. DB, contesto 224, indicatore 492). 14 Si veda CENTOFANTI 1999. 15 ARMELLINI 1882. 79 dubbio una scarsa attenzione nelle pubblicazioni, e spesso negli scavi urbani, verso le stratigrafie pertinenti questo arco cronologico. Per definire meglio questa potenzialità informativa farò riferimento ad alcuni dati che, sebbene siano al di là dell’arco cronologico di riferimento del convegno, danno la dimensione di quanto il quadro in nostro possesso sia ancora manchevole. Quanto riusciamo a ricostruire sugli indicatori metallurgici diviene di notevole interesse infatti se lo mettiamo in relazione a ciò che si evince dalle fonti scritte, proprio per questi secoli e per quelli successivi, in particolar modo il XVI secolo, sulla presenza dei fabbri a Roma 14. Se poi confrontiamo la distribuzione di quanto contenuto nella banca dati con la distribuzione dei fabbri a Roma sulla base del censimento del 1513 15, quindi pochi anni dopo la chiusura dell’arco cronologico di nostro interesse, notiamo un completo spostamento dei luoghi produttivi, evidenziando quello che è l’areale oggetto del nuovo progetto urbanistico 16. Materie prime. In merito allo studio delle materie prime i dati raccolti necessitano ancora di specifici approfondimenti e di attente valutazioni. Interessante, ma da puntualizzare meglio, ad esempio, è la connessione tra i cumuli di ossa, e gli scarti di tipo metallurgico identificati, come nel contesto della taberna XI del Foro di Cesare 17. Qui è stata rinvenuta una officina metallurgica ed in connessione con alcuni accumuli di discarica della fornace oggetti non finiti in osso e scarti di lavorazione 18. Ancora da approfondire è, inoltre, la connessione tra ossa animali e vasche, in funzione di una possibile presenza di luoghi produttivi legati al ciclo della concia, per la produzione di cuoio ma anche di pergamene 19. Se pensiamo infatti al cuoio come ad un prodotto commerciale è evidente che la qualità dipende dal tipo di materia prima, ma anche dal tipo di trattamento a cui essa viene sottoposta (bagni di calce, utilizzo di sostanze concianti come allume e tannino, oppure il ricorso all’affumicatura). Scarti di questa attività sono oltre che peli (più raramente attestati) e unghie anche le corna; ecco perché vanno letti con attenzione i dati ine- CENTOFANTI 1999, tavola 1. DELFINO, DE LUCA, MINNITI et alii 2013, pp. 99-100. 18 Nella taberna X del Foro sono stati inoltre rinvenuti tracce di una probabile tettoia e di altri cumuli simili a quello descritto, che hanno portato a identificare qui la presenza di un laboratorio dedito alla lavorazione dell’osso. Dato che porterebbe ancor di più ad avvalorare il riutilizzo dei materiali di scarto nella fornace metallurgica. 19 Sulla concia si veda, DEFERRARI 1997, pp. 363-368. 16 17 80 NICOLETTA GIANNINI renti questo tipo di residui. Inoltre, in relazione ad una produzione così importante e che lascia scarsi dati archeologici, si ribadisce quanto sia fondamentale riflettere attentamente sull’associazione di indicatori. Sempre usando la concia a titolo esemplificativo, è evidente che se ci fermiamo a riflettere su questa produzione saltano agli occhi le numerose connessioni con altri processi indipendenti dall’ambito della conceria. Macellazione, scuoiatura, conservazione, implicano tutte una serie di variabili e quindi di connessioni che non devono essere sottovalutate. Se le concerie usavano pelle fresca esse non dovevano trovarsi distanti dai macelli, al contrario le pelli dovevano essere conservate in magazzini o strutture apposite. Se la conservazione avveniva in conceria, in questi spazi dovevano essere presenti vasche con residui di sale. Elemento quest’ultimo che se non può essere facilmente rintracciato archeologicamente, a meno che non si ricorra ad analisi specifiche sui depositi, può certamente essere rintracciato con il ricorso alle fonti scritte. Inventari, documenti notarili, statuti, gabelle, possono in questo senso dare informazioni preziose riguardo all’impiego della salamoia in questa fase del ciclo. Se pensiamo invece al ricorso ai bagni di calce, non si deve dimenticare, che dove essi venivano praticati era necessario anche l’utilizzo di sabbia, cui si ricorreva per evitare il contatto della calce viva con l’aria. Un interessante lavoro su alcune produzioni della Milano basso medievale, ha messo in evidenza, ad esempio, come nei documenti sia ampiamente riscontrabile il diretto coinvolgimento del conciatore nell’acquisto della calce, distinguendone caratteristiche e proprietà e che era egli stesso ad occuparsi del suo spegnimento 20. La qualità del dato e la sua validità storica messi in evidenza finora, sono certo fondamentali nella valutazione degli indicatori e nella loro associazione, ma allo stesso tempo divengono fondamentali anche nella scomposizione dei dati più complessi. Nella raccolta dei dati infatti non ci si è trovati di fronte solo ad indicatori isolati ma anche a contesti produttivi già definiti, identificati ed interpretati nell’edito (ad esempio l’atelier della Crypta Balbi, quello di piazza Venezia). Di fronte a questo tipo di dati, si è scelto di scomporre l’informazione produttiva e di registrare anche in questo caso i singoli indicatori. Tale scomposizione delle informazioni pro- duttive complesse (officine identificate e ben descritte nella pubblicazione), è stata realizzata per avere un grado di uniformità nella gestione dei dati ed in seconda battuta, proprio perché come si è detto il dato edito è stato in ogni caso filtrato, scomporre l’informazione complessa sembrava essere un modo per non svincolare mai l’unità minima (l’indicatore) dal contesto di scavo. Inoltre è sembrata essere utile anche nella valutazione di tutti quegli indicatori isolati che risultavano essere di dubbia o difficile comprensione e che invece, alla luce di un lavoro di analisi come quello affrontato in questo progetto di ricerca, possono, e potranno anche in futuro, essere ricondotti a specifici cicli, fasi, attività, spostando quindi l’attenzione verso i processi. Certo, come si evince dalle riflessioni fin qui proposte, non sempre è possibile dare un grado di affidabilità al dato desunto dall’edito, tuttavia considerare i dati in questi termini vuol dire rendere il sistema applicabile in futuro anche a dati che provengono da scavi, ricognizioni, o analisi di particolari classi di oggetti, dando così un peso specifico anche alla giacitura del reperto, alle relazioni che lo legano agli altri reperti, e quindi alla definizione del contesto che si analizza; associazioni sbagliate portano infatti alla definizione di contesti inadeguati, che falsificano l’analisi dei contesti stessi, travisando il valore che essi assumono in ricerche di carattere più generale (qualità della produzione, della specializzazione, livelli produttivi, relazione tra le officine, ma anche in relazione all’efficienza e quindi all’economia). Ad esempio, resti ossei come cavicchie e mascelle di bovino e suino sono scarti di macellazione, che possono diventare materie prime per altre lavorazioni, come lo sono anche ad esempio rinvenimenti di tibie con epifisi segate. Indicatori che non ci danno solo informazioni sulla presenza di una specifica attività, ma che consentono di riflettere sulla dislocazione di queste stesse attività in specifiche aree della città e di ragionare sulle connessioni con altre attività, restituendo quindi informazioni sulla catena di officine artigianali legate in questo caso allo sfruttamento animale 21. Gli indicatori, valutati secondo i criteri fin qui descritti, possono essere associati in contesti produttivi, che assumono anch’essi validità di esistenza secondo i tre criteri di localizzazione, cronologia e definizione già ricordati. Nel passare dai singoli indicatori ai contesti ZANOBONI 1996. Si pensi al caso di Padova, o a quello di Aix en Provence: cfr. CIPRIANO, MAZZOCHIN 2014; per Aix, NIN, LEGIULLOUX 2003. Per Roma, ad esempio, sappiamo che l’attività dei candelottari durante il XV secolo nel rione Pigna si svolgeva in connessione con altre at- tività legate sempre alla lavorazione di derivati animali, dato questo che se finora non ha avuto riscontro archeologico nella banca dati, è certamente da approfondire cercando le adeguate connessioni (cfr. MODIGLIANI 1992, p. 462). Per una analisi degli indicatori ossei si veda il contributo di J. De Grossi Mazzorin in questo volume. 20 21 IL GIS E LE ATTIVITÀ PRODUTTIVE A ROMA IN ETÀ MEDIEVALE. UNA QUESTIONE DI METODO TRA TENDENZE E FATTI 81 produttivi, ottenuti per associazione topografica-funzionale, la logica del ciclo consente, ancora una volta, di avere la possibilità di individuare una distinzione tra officine che producono prodotti diversi (vetro, metallo, ceramica, etc.), ma consente anche di dare un grado di validità ad ogni contesto. Infatti, se ci sono degli indicatori che rimandano a specifiche produzioni, altri si prestano a più interpretazioni; senza tralasciare il fatto che a volte alcuni reperti non è chiaro se siano da riferirsi alla produzione o al consumo. Sicuramente la presenza di installazioni fisse, di frammenti dei prodotti lavorati, scarti di produzione, notevoli quantità di materiali non cotti o semilavorati, accumuli di materie prime, rinvenimenti di strumenti ci danno delle indicazioni precise. Tuttavia ad eccezione delle installazioni fisse, che sole possono darci indicazioni precise sulla presenza o meno di un contesto produttivo, gli altri elementi devono essere dapprima valutati in relazione al deposito archeologico e successivamente secondo i criteri di associazione. Ecco perché nel sistema, come si diceva, gli indicatori sono stati associati sia come contesti topografici e poi sulla base di quanto appena descritto sono stati associati in contesti produttivi. Nel database sono stati identificati finora 303 contesti topografici, di questi finora si è proceduto ad una analisi dei contesti produttivi su un campione di 158. Di questi 158, sulla base del metodo presentato, 70 sono contesti produttivi validi, 28 non validi, 21 presentano delle incongruenze e 39 mostrano problemi legati all’identificazione degli indicatori in funzione del ciclo produttivo e quindi sono oggetto di una revisione volta alla comprensione del tipo di contesto produttivo. Rientrano in questa attività di revisione ad esempio i contesti 129 e 131, dove in corso di verifica è la dubbia interpretazione, presente già in bibliografia, dei cumuli di ossa rinvenuti nell’area di piazza Navona 62, area 126. I cumuli sono indicati, infatti, sia come scarti di macellazione sia come probabile materia prima nella lavorazione dell’osso. Scopo della verifica è capire, sulla base dell’affidabilità stratigrafica in quale fase e in quale ciclo ci troviamo ovvero se siamo di fronte a degli scarti semplicemente ‘buttati’ o a degli scarti ‘reimpiegati’ già come materia prima e quindi stoccati per la nuova attività. Un esempio di contesto produttivo problematico è, ad esempio, il contesto 132, sempre in piazza Navona, dove sono censiti tra gli indicatori alcuni scarti di lavorazione della ceramica, rinvenuti in un immondezzaio di XIV-XV secolo. In questo caso è chiaro che il dato è da mettere in relazione alla presenza, attestata anche nelle fonti, di botteghe di vasai, tuttavia se l’indicazione topografica è importante al fine di identificare areali di azione tra botteghe e luoghi di smaltimento dei rifiuti, essi non provengono da un contesto produttivo accertato stratigraficamente, ovvero l’officina di un vasaio. Ecco quindi che l’indicatore ci da una informazione topografica importante, anche se non riconducibile ad un contesto produttivo puntuale. Altro caso interessante, sulla base sempre delle interrogazioni del GIS, è il contesto 108, individuato nell’esedra sud-occidentale delle terme di Traiano. Si tratta di un contesto in cui sono stati identificati indicatori diversificati riconducibili a diverse attività artigianali, che fanno riflettere sulla presenza di una officina composita e complessa, simile a quella del VII secolo della Crypta Balbi, anche se di qualche decennio precedente 22. Certamente si tratta di una ipotesi da valutare con attenzione, ma uno degli scopi del GIS in questo caso è anche quello di aprire i dati a nuovi tipi di interpretazione e a nuove vie di ricerca. Molto è ancora il lavoro da fare, ma l’accortezza dell’analisi avviata, basata in primis su una attenta conoscenza dei cicli produttivi, consentirà di muoversi con maggiore agilità nella complessità che si apre di fronte ai nostri occhi, e che appare ancora più articolata di quanto ipotizzato all’avvio del lavoro. Emerge inoltre come, i dati produttivi possano essere letti anche in relazione allo sviluppo urbanistico, ai rapporti economici e alle interazioni culturali e non debbano mai essere separati dal contesto di rinvenimento. Se poniamo ancora una volta attenzione alla definizione dei contesti cui si è accennato in questo paragrafo, possiamo ora far riferimento ad un altro aspetto della produzione: l’organizzazione del lavoro. L’archeologia non sempre restituisce informazioni sull’organizzazione del lavoro, può, infatti, risultare difficile ricostruire quante persone lavorassero all’interno di ogni officina, quanti collaboratori, quanti apprendisti 23. Tuttavia è importante tentare almeno a livello molto gene- 22 I materiali rinvenuti durante le indagini archeologiche svolte dalla Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali del Comune di Roma tra il 2003 e il 2005, hanno messo in evidenza, ad esempio, come i materiali rinvenuti, dal punto di vista tipologico presentino affinità con quelli dell’esedra della Cripta Balbi, anche se databili a qualche decennio prima rispetto a questi ultimi (cfr. DB, contesto 108, indicatori 266-271). 23 Il tema è certamente ampio e notevolmente discusso. Testi di riferimento in proposito sono certamente PEACOCK 1979; PEACOCK 1982; MOREL 1987; BARRAL I ALTET 1990. Sul rapporto tra economia e tecnologia GOLDTHWAITE 1984. Per una riflessione sull’organizzazione del lavoro in età romana alla luce dei dati si veda il saggio di C. Panella in questo volume. 82 NICOLETTA GIANNINI rale di attuare una classificazione, sulla base delle evidenze archeologiche censite. È possibile ad esempio distinguere i quartieri dai centri artigianali, dai laboratori specializzati, dalle manifatture, sia per alcune caratteristiche intrinseche, sia per il ruolo che essi hanno nell’organizzazione della città e del suo sistema socioeconomico. In verità siamo in grado di attribuire a vere e proprie manifatture, pochi contesti come ad esempio le fornaci che sorsero nel XV secolo a ridosso del Borgo, e che costituiscono il nucleo primordiale di quello che diventerà poi un vero e proprio distretto (pre)industriale. Dal punto di vista urbano le tracce di attività produttive messe in relazione con i dati provenienti dai documenti di archivio, saranno in grado di restituire informazioni, non solo sulla natura dell’attività, ma anche sulla presenza di abitazioni legate ad essa, o sulla presenza di eventuali luoghi destinati al commercio o all’immagazzinamento di materie prime, nonché sull’organizzazione della produzione. La fornace da laterizi di piazza Sforza Cesarini e la produzione laterizia a Roma nel Medioevo. Un esempio di ricerca alla luce del GIS Alla luce di quanto fin qui esposto si evince che ora disponiamo di un nuovo insieme di informazioni, caratterizzate da differenti gradi di dettaglio. Esse tuttavia aprono la strada anche ad altri quesiti; il valore del dato che censiamo e che poi interroghiamo attraverso il sistema GIS, infatti, sta anche nella possibilità di poterlo utilizzare per la ricostruzione del paesaggio produttivo e culturale. Vorrei quindi presentare in questa sede alcune riflessioni scaturite dal rinvenimento della fornace da laterizi di piazza Sforza Cesarini, che hanno portato ad un tentativo di rilettura della produzione laterizia a Roma in età medievale. Tale approfondimento prende le mosse dalla volontà di riconsiderare, alla luce del metodo esposto, il valore degli indicatori legati alle attività costruttive, tuttora in corso di svolgimento, e in stretta 24 Dal 2013 chi scrive sta portando avanti nell’ambito delle attività condotte dal Laboratorio di Archeologia Medievale, una ricerca sull’edilizia medievale della città di Roma, che ha preso le mosse dal progetto pilota Filas-Regione Lazio- Università di Roma ‘Tor Vergata’ dal titolo: Le identità del Lazio. Valorizzazione del patrimonio storico, sociale, artistico e ambientale attraverso nuove piattaforme conoscitive(e multimediali), anche ai fini della promozione turistico-culturale. Essa inoltre è parte di un progetto di più ampia portata, condotto dall’Università di ‘Tor Vergata’, con la volontà di ricostruire le dinamiche evolutive della realtà urbana tra VI e XV secolo. Ad esso quali componenti stabili dell’équipe di ricerca stanno contribuendo Sandro Carocci, Nicoletta Giannini, Alessandra Molinari, Marco Vendittelli. connessione con quanto si sta facendo sull’edilizia medievale della città (fig. 5 e tav. 00) 24. La fornace di piazza Sforza Cesarini 25, infatti, è certamente tra questo tipo di installazioni fisse la più interessante per l’arco cronologico di riferimento, il XIII-XIV secolo. L’impianto è stato rinvenuto durante i saggi effettuati lungo corso Vittorio Emanuele per la realizzazione della Metro C 26. Ci troviamo in un punto importante nella storia della città, ovvero il settore occidentale del Campus Martius, un’area che dalla tarda età repubblicana ha cominciato ad essere oggetto di una edificazione continua. Le indagini hanno messo in luce una sequenza insediativa che dall’età augustea giunge ai giorni nostri, pur mostrando in molti casi l’assenza di livelli di età pienamente medievale, in quanto asportati a seguito delle trasformazioni costruttive che questo settore della città conosce tra XVI e XVII secolo. Tuttavia, proprio da questo saggio provengono le testimonianze superstiti dei livelli medievali databili al XIII-XIV secolo, da mettere in connessione, insieme all’impianto, con le attività costruttive del periodo. Alla luce di quanto possibile ricostruire sulla base dell’edito, si tratta di un impianto di forma quadrangolare, di cui possiamo identificare la camera di cottura e il corridoio centrale, classificabile, come Tipo II/b nella tipologia della Cuomo di Caprio 27. La produzione laterizia è senza alcun dubbio una delle attività edilizie tra le più importanti per la città già in epoca romana e consente certamente di mettere in evidenza tutta una serie di problematiche legate allo studio di una città come Roma dal punto di vista della produzione in età medievale 28. Se guardiamo al rinvenimento in relazione alla produzione dal punto di vista dei problemi metodologici cui si è fatto riferimento nelle pagine precedenti, essi possono essere sintetizzati nei seguenti punti: - valore del rinvenimento in funzione della quantità degli impianti scavati e della loro distribuzione cronologica FILIPPI 2010, p. 54; vd., pure, DB, contesto 286, indicatore 581. EGIDI, FILIPPI, MARTONE 2010. 27 CUOMO DI CAPRIO 2007, pp. 522-525. Allo stato attuale della ricerca non è possibile associare all’impianto altri indicatori e/o strutture pertinenti alle attività necessarie alla fabbricazione dei laterizi. Dati diversi emergono ad esempio dal contesto della fornace per laterizi rinvenuta nei Fori Imperiali datata al XV-XVI secolo, di cui si conserva anche parte degli archetti di sostegno e l’imposta della camera di cottura. 28 In merito alla produzione laterizia in età romana, si vedano i contributi in questo volume di C. Panella e F. Coarelli. 25 26 IL GIS E LE ATTIVITÀ PRODUTTIVE A ROMA IN ETÀ MEDIEVALE. UNA QUESTIONE DI METODO TRA TENDENZE E FATTI 83 - qualità del record archeologico - classificazione del tipo di impianti (occasionali o manifatture per la produzione su scala più ampia) - ricostruzione della produzione partendo dai manufatti. Inoltre i dati così raccolti possono portare ad alcune riflessioni su: - tipo di committenza - presenza di maestranze specializzate a volte portatrici di nuove tecnologie. Un’ulteriore domanda a cui essi portano è legata alla riflessione su quanto è estesa la città in termini di produzione e quindi al rapporto con alcune parti del territorio circostante che non è sempre ed esclusivamente legato all’areale con il quale la identifichiamo, ma spesso mostra legami con territori anche piuttosto distanti. Va sottolineato infine come la produzione laterizia consente di mettere in evidenza quello stringente rapporto tra Fig. 5. - Indicatori di attività edilizie. In alto, la distribuzione nel GIS; in basso, il grafico inerente la loro didato archeologico e altre stribuzione cronologica nel tempo. fonti che si mostra sema Roma ampiamente documentata fino al III secolo, pre fondamentale nella comprensione di un fenomeno subisce un primo arresto nella metà del IV secolo, vede complesso come quello della produzione. Appare evidente per la fornace di piazza Sforza Cepoi un nuovo impulso in età teodoriciana (490-526), sarini che, l’informazione contenuta nel GIS, nonostante senza tuttavia mai riprendere il pieno regime testimoniato la scarsa documentazione edita inerente la giacitura del manufatto ed i livelli antropizzati ad essa associati, si 29 La documentazione in merito a questa produzione a Roma è mostra interessante specie se lo inseriamo nel quadro ancora, nonostante alcuni studi ad esso dedicati, frammentaria, sia della produzione laterizia a Roma di età medievale, per quel che concerne le strutture materiali sia per quel che riguarda sulla quale i dati non sono densi 29. L’industria laterizia lo studio dei documenti d’archivio. Per la comprensione dei modi 84 NICOLETTA GIANNINI dalla produzione di età imperiale. Sebbene i dati provenienti dalle indagini archeologiche segnalino la presenza di una produzione destinata sopratutto ad elementi da copertura è solo alla fine del Medioevo che essa rifiorisce quale attività economica trainante organizzata in serie. Tra questi due momenti cronologici il VI e il XV secolo, si inserisce una ripresa in scala molto ridotta attuata dai papi carolingi, mentre tutte da chiarire sono le dinamiche produttive legate al periodo compreso tra il VIII-IX secolo e il XIV e XV secolo 30. Se, infatti è ben conosciuta e documentata la pratica del reimpiego, è anche vero che siamo a conoscenza di alcune produzioni, certamente limitate e circoscritte nel tempo, sia per il periodo altomedievale che per i secoli centrali del Medioevo. Si pensi al rinvenimento dei mattone con bollo Iohannes in tabula ansata proveniente dal tempio di Vesta, oppure alle tegole con il bollo di papa Adriano I provenienti dal tetto di S. Maria Maggiore, ma anche alle tegole con bollo di Innocenzo II rinvenuto sulla via Nomentana 31. Si tratta di casi circoscritti, che certo potrebbero richiamare anche il valore evergetico dato al bollo laterizio, ma che vanno certamente inquadrati in un ambito circodella produzione laterizia pre-industriale a Roma, resta fondamentale il trattato di Giuseppe Valadier, L’architettura Pratica, redatto nel 1828 e ricco di informazioni in merito alla descrizione di manufatti che molto spesso sono accompagnati da illustrazioni, fornaci, strumenti e fasi del ciclo produttivo. Un primo quadro di sintesi sulla produzione laterizia nel Lazio tra VI e XII secolo fu oggetto di un importante lavoro redatto nel 1983 da Arthur e Whitehouse sulla produzione laterizia dell’Italia centro meridionale (ARTHUR, WHITEHOUSE 1983, pp. 525-537). Ancora scarse in quegli anni erano le ricerche in merito a questa produzione in area romana, ma, nel corso del tempo, le indagini archeologiche hanno portato ad importanti acquisizioni, molte delle quali vennero pubblicate, quasi venti anni dopo il lavoro di Arthur e Whitehouse, nel convegno tenutosi a Roma nel 1998 e poi edito nel 2001 (DE MINICIS 2001). Per alcuni aspetti della produzione laterizia a Roma e per i casi di confronto qui presentati si rimanda a GIUSTINI 1997; GIUSTINI 2001 pp. 9-21; MONTELLI 2001, pp. 63-68. Per un approccio di tipo metodologico, CAMPAGNOLI 1993; STEINBY 1993, pp. 139-143; MANNONI 2000; RATILAINEN, BERNOTAS, HERRMANN 2014. Per uno studio legato soprattutto alla documentazione scritta si ricordano i saggi di CORTONESI 1986; VAQUERO PIÑEIRO 2002. Infine tra la numerosa bibliografia presente si ricordano in questa sede PEACOCK 1979; NORTON 1990; PARENTI 1994; PITTALUNGA, QUIRÓS CASTILLO 1997; PARENTI, QUIRÓS CASTILLO 2000; QUIRÓS CASTILLO 2001; QUIRÓS CASTILLO 2005; BALDASSARI, CIAMPOLTRINI 2006; MELLOR 2014. Per un quadro su cosa accade in epoca romana si rimanda agli interventi di F. Coarelli e C. Panella in questo volume. 30 Ad eccezioni di alcuni esempi sull’alto Medioevo funzionale al discorso che qui si presenta non si tratteranno in questo contributo aspetti legati alla produzione edilizia romana altomedievale, né alle attività che vedono il ricorso sistematico alla pratica del reimpiego, vista nell’ottica della produzione sia per l’alto che per il basso Medioevo. Per entrambi questi aspetti si veda il contributo di R. Santangeli Valenzani in questo volume. 31 LANCIANI, DE ROSSI 1883, p. 494; MARINI 1884, p. 5; CROSTA- stanziale di produzione di tegole. Come già evidenziato da E. Hubert, i laterizi da copertura sembrano passare da un bene di lusso riservato a pochi, ancora a cavallo del X e XI secolo, ad un prodotto edilizio che a partire dal XII secolo trova una rinnovata diffusione 32, tanto da divenire quasi primario almeno nel XIV secolo 33. La prima indicazione di produzione di mattoni vera e propria è invece del 1368-69 ed è inerente al materiale impiegato per i palazzi Vaticani 34, mentre qualche anno dopo, nel 1372, è registrata negli atti del notaio Lorenzo Staglia la richiesta di un Fornaciarius dudum de Peruscio et nunc de regione Ponti set contrate Sancti Petri, da parte del vicario del monastero di S. Paolo 35. In tutti i casi ricordati emerge una connessione tra produzione laterizia e committenza papale o ecclesiastica che sembra essere ben documentata anche dagli scavi di fornaci riguardanti Roma, il suo territorio e altre zone del Lazio, come nel caso di Montecassino 36. Qui le ricerche, dal punto di vista della tecnologia della produzione, hanno consentito di evidenziare la presenza di pratiche produttive specifiche, che sembrano trovare confronto con modi produttivi tipici dell’area lombarda 37, aspetto che si rivelerà inteROSA 1896, p. 63; GATTI 1909, pp. 107-112; STEINBY 1973-1974, pp. 117-118; STEINBY 1986, pp. 146-148, 158-159. 32 È sicuramente prova di questo valore economico il fatto che il cardinale di S. Maria in Trastevere nel 1075 scambia una casa ad un piano con un terreno e 100 tegole (Tab. Vicar. Urbis, Archivio del Capitolo di Santa Maria in Trastevere, pergamena 6). Secondo Hubert, il silenzio che nelle fonti si registra a partire dal XII secolo sulle annotazioni in materia è dettato dall’estrema diffusione che non porta più i notai a registrare la presenza di tegole in funzione del fatto che fosse diventato comune il loro utilizzo (HUBERT 1990, pp. 220-222 e 228-229). Certo è che la presenza di tegole, sebbene esse si diffondano maggiormente, continua ad avere un certo peso nel valore delle case, se in un contratto di vendita del 1456, possiamo leggere casarenum seu domum discopertam cum orto post se, cum duabos trabibus et certis tebulis in eo existetibus, cum omnibus et singulis introytibus […] positum in regione Campi M(artis). 33 MALATESTA 1885, p. 114. 34 KIRSCH 1898, pp. 111-112, doc. 451 del 1367; p. 122, doc. 451 del 1368; p. 147, doc. 334 del 1369. 35 LORI SANFILIPPO 1986, pp. 76-77. Si ricorda inoltre che nell’atto viene chiamato a fare da garante per il fornaciaro, un vasaio di Città di Castello ma abitante nella regione S. Eustachio. 36 Qui i materiali rinvenuti fanno pensare alla presenza di un centro in cui si producevano non solo laterizi ma anche mattoni (PANTONI 1953, p. 258). 37 Sempre a Montecassino è stata riscontrata una anomala presenza di bolli o di altri grafi che contrasta notevolmente con quanto emerge dagli altri contesti laziali. La presenza di nomi quali Iohannes, Mauricius, Bonizo, Gisipert, è stata identificata dalla Giustini come una conferma dell’importante ruolo culturale svolto dall’abbazia, avanzando l’ipotesi che alcuni di questi nomi, oltretutto ben attestati in Europa Centrale, siano da mettere in relazione con la produzione, in particolare con i responsabili delle fornaci o con gli artigiani; ipotesi che viene avanzata anche per alcuni segni su laterizi rinvenuti in area lombarda. Cfr. GIUSTINI 2001, p. 11 e nota 26. IL GIS E LE ATTIVITÀ PRODUTTIVE A ROMA IN ETÀ MEDIEVALE. UNA QUESTIONE DI METODO TRA TENDENZE E FATTI 85 ressante anche per alcuni dati su Roma e su cui si tornerà più avanti. Poniamo ora l’attenzione ad alcuni rinvenimenti di area laziale che, sebbene al di fuori dai limiti spaziali del convegno, svolgono certamente un ruolo importante per la città in diversi momenti storici. Il comparto a nord di Roma, in cui ricadono i siti di S. Cornelia, Ponte Nepesino, Mola di Montegelato, caratterizzato dal passaggio della via Amerina, è uno degli areali più strettamente connessi alla città dal punto di vista funzionale. Questo legame si evidenzia durante l’alto Medioevo, quando, con il pontificato di Adriano I (772-795), viene creata la domusculta Capracorum, a cui seguì tra il 1026 e il 1035 la Fig. 6. - Localizzazione dei e delle installazioni fisse nel comparto nord di Roma. fondazione del Monastero di Sancti romani in laterizio, sarebbe opportuna una rilettura dei Cornelii et Petri (fig. 6) 38. Durante le indagini condotte dati. L’impianto consente di riflettere sul rapporto tra nelle strutture del battistero della chiesa di S. Cornelia, luoghi di produzione, committenze (ecclesiastiche), e fu rinvenuta una fornace per laterizi i cui prodotti e scarti di lavorazione sono riconducibili ad un arco cronologico materiali impiegati. Questa connessione tra ciclo procompreso tra l’XI e il XIII secolo ed hanno contribuito duttivo e cantiere di costruzione ecclesiastico, sempre a rafforzare il ruolo di questo centro monastico. Si tratta restando nell’areale di interesse di Roma, emerge anche di un impianto di forma circolare, in parte scavato nella nel caso della fornace laterizia rinvenuta nel piazzale anroccia e caratterizzato nella parte esterna da un muro in tistante il Castello di Giulio II, riferibile alla realizzapietra, mentre si è ipotizzato per l’interno la presenza di zione dell’episcopio voluto da Pio II, all’interno del blocchi di argilla 39. La struttura è stata messa in relaborgo di Ostia antica, benché databile all’inizio del XV zione con la produzione di materiali da copertura per la secolo 40. Anche qui, è attestata una modalità produttiva, chiesa in quanto non sono state rinvenute tracce di scarti che trova confronto con il caso citato ma anche con altri ceramici che facciano pensare ad un utilizzo della forimpianti presenti sul territorio laziale. Pensiamo ad nace anche per altri materiali. La presenza esclusiva esempio al caso della fornace rinvenuta in località La nelle murature del complesso ecclesiastico di tufelli e Fontanaccia-Allumiere, anch’essa in stretta connessione laterizi di reimpiego contribuiscono ad avvalorare quecon una committenza ecclesiastica e in prossimità di sta interpretazione, anche se forse alla luce delle nuove un’area caratterizzata dalla presenza di figlinae in età acquisizioni sulle sequenze stratigrafiche degli edifici romana 41. Certo si tratta ancora di un numero esiguo di CHRISTIE 1991, pp. 36-37. 39 La fornace trova confronto con l’impianto rinvenuto nella chiesa dei SS. Giovanni e Reparata a Lucca e datato alla fine del XII secolo. Cfr. QUIRÓS CASTILLO 2001, p. 35. E’ interessante ricordare alla luce di quanto si presenta in questa sede quello che l’autore dice in merito alle sue caratteristiche. Quirós Castillo, infatti, mette in evidenza come la fornace sia stata realizzata con mattoni di un modulo particolare (m 26 x 13 x 5) e che trova confronto con i laterizi impiegati nelle navate della chiesa confermando la sua realizzazione per la costruzione dell’edificio. 40 Una prima notizia sulla fornace è presente in BROCCOLI 1983, pp. 170-175. Si veda poi anche GIUSTINI 2001, p. 13. 38 41 Ritengo inoltre opportuno ricordare che ancora poco studiati in merito a questo filone di ricerca sono i dati pertinenti al comparto dell’Appia dove insiste la domusculta Sulpiciana, il cui territorio per numerosi aspetti produttivi continua ad avere un ruolo determinante nelle dinamiche evolutive della città. In particolare in merito alla produzione laterizia è opportuno ricordare in questa sede il rinvenimento di un bollo laterizio delle figlinae Sulpicianae nei pressi del Colle Savelli, fulcro di questo territorio per molto tempo BIAGIONI 2006. Su altri aspetti della realtà produttiva di questo comparto in cui emerge il rapporto con Roma: GIANNINI 2006; GIANNINI 2013. In merito alle figlinae di età romana e all’interesse della aristocrazia romana nella gestione economica di queste attività si rimanda a quanto discusso da Coarelli in questo volume. 86 NICOLETTA GIANNINI impianti noti, che tuttavia mostrano questo stringente rapporto tra cantiere, produzione, committenza, alla luce del quale le nuove acquisizione presenti nel GIS danno certamente un importante contributo, mettendo in evidenza un quadro interessante per l’arco cronologico tra l’XI e il XIV secolo 42, dove alla luce dei dati archeologici le produzioni laterizie sono sempre in stretta connessione con cantieri ecclesiastici di una certa rilevanza. Tornando a riflettere sul rinvenimento di piazza Sforza Cesarini quindi sarà importante, nel proseguimento della ricerca, tentare di ricostruire il tipo di cantiere cui l’impianto fa riferimento, così da comprendere e valutare le modalità della produzione di laterizi in questo arco cronologico. Altro aspetto che necessita di essere confermato è se si tratti di una fornace per l’esclusiva produzione di laterizi; elemento questo di estremo interesse specie se messo in relazione all’organizzazione del lavoro e alla presenza di artigiani specializzati. La fornace, infatti, si trova in quel rione Ponte dove a partire dal XIV secolo vengono attestati diversi fornaciai alcuni dei quali di provenienza umbra. Alla luce delle fonti scritte un altro nucleo di fornaciai che sembra avere una vocazione per la produzione di tegole, è attestato nel XIV secolo in Trastevere e, se volgiamo l’attenzione a questi artigiani, le fonti ci restituiscono un altro aspetto interessante di questa loro concentrazione: umbri e viterbesi insieme ad artigiani autoctoni si trovano in Trastevere, mentre quelli provenienti dall’area lombarda sono esclusivamente concentrati nel rione Borgo. Le attestazioni in Trastevere sono più antiche mentre quelle inerenti gli immigrati lombardi si attestano a partire dal XV secolo 43. Questa prevalenza di maestranze lombarde concentrate nel rione Borgo si intensificherà nel XV e poi nel XVI secolo. Non è certamente un caso che le fonti attestino nel XVI secolo un incremento di abitazioni costruite nel rione Ponte, che vengono indicate ad uso dei Lombardi di Borgo 44. Tornando invece alla distinzione tra la concentrazione di maestranze in zone diverse della città, sembra possibile identificare anche una diversificazione produttiva che vede concentrata in Trastevere la produzione di tegole ed in Borgo quella di mattoni. La presenza di questa duplice produzione in aree diverse della città è stata messa in evidenza anche da Vaquero Piñeiro, che sottolinea come questa distinzione nel tipo di materiale prodotto, benché non rigida, sembra comunque esistente se si ricorda quanto riporta in merito la Gabella dei calcaraii del 1398 45. Nel tentativo di arricchire il dibattito dal punto di vista della cultura materiale, si è tentato di guardare ai dati dal punto di vista delle innovazioni tecnologiche: ovvero se in merito alla produzione di mattoni e laterizi siamo in grado di identificare dei caratteri distintivi che possano avere rimandi all’area lombarda, al fine di rintracciare e comprendere il ruolo ed il legame che queste maestranze hanno con le attività edilizie della città anche sulla scia di quel rapporto tra innovazione/tradizione/cultura/tecnologia. Tenendo conto di quanto finora raccolto ed identificato, nell’ambito del censimento sull’edilizia civile romana è sintomatico riscontrare come le produzioni laterizie di XV secolo, presenti sopratutto nelle murature in restauri o rifacimenti, siano tutte caratterizzate dalla presenza di mattoni rettangolari, secondo forma e dimensioni che trovano rare attestazioni, nelle epoche precedenti, a Roma 46. La riduzione degli spessori e il ricorso ad impasti molto depurati sono già caratteristiche già adottate nelle produzioni laterizie di XI-XIII secolo. Gli esemplari della fornace di S. Cornelia, ad esempio, presentano impasti molto depurati e spessori che mostrano una certa riduzione rispetto a quelli dei secoli precedenti 47. Le tegole inoltre sono caratterizzate da una risega verticale che ha continuità con quelle altomedievali, in special modo del periodo di Adriano I 48. Una interessante osservazione può essere fatta inoltre mettendo a confronto le caratteristiche dei materiali rinvenuti a S. Cornelia, a Ponte Nepesino, a Mola di Monte Gelato e Malborghetto sulla via Flaminia con le attestazione dell’Urbe. Tali ritrovamenti, per esempio nel caso di Malborghetto 49, consentono un 42 Alla luce di questo quadro disegnato è opportuno ricordare anche l’impianto scavato nel 1996 nel sito di Rossilli lungo l’antica via Latina. L’impianto rinvenuto è datato al XIII-XIV secolo, i dati stratigrafici hanno messo in evidenza un abbandono dell’impianto già prima della fine del XIV secolo. Si veda quanto riportato in GIUSTINI 2001, p. 13. 43 Per i documenti sulle fornaci si faccia riferimento alle tavole riassuntive in GIUSTINI 1997 e ai documenti citati da VAQUERO PIÑEIRO 2002. 44 In un documento redatto da un ambasciatore dello stato di Venezia, si riporta infatti il dato che a Roma tra il 1513 e il 1523 si sono costruite circa diecimila case di Lombardi, FOURNEL, ZANCARINI 1996; la notizia inoltre viene riportata anche, in CENTOFANTI 1999, p. 72, nota 21. 45 VAQUERO PIÑEIRO 2002, pp. 137-154. 46 Sui mattoni con bollo di Innocenzo II, cfr. MONTELLI 2001, fig. 40, p.71. 47 PAROLI 1991, pp. 152-172. 48 In particolare con le tegole rinvenute a Roma a S. Silvestro, S. Martino ai Monti e S. Maria Maggiore. Cfr. STEINBY 1973-1974, pp. 108-109. 49 TOMMASI 2001, pp. 108-114. Nel sito è attestato un uso di ma- IL GIS E LE ATTIVITÀ PRODUTTIVE A ROMA IN ETÀ MEDIEVALE. UNA QUESTIONE DI METODO TRA TENDENZE E FATTI 87 confronto con la produzione urbana, in particolare con i materiali laterizi rinvenuti nella Crypta Balbi e datati al XII secolo, contribuendo non poco alla riflessione sulla presenza di una certa continuità produttiva tra realtà urbana ed extraurbana 50. Sia i materiali di Malborghetto che quelli della Crypta mostrano dimensioni ridotte, una forte inclinazione dell’aletta e peso ridotto. Questa forte inclinazione dell’aletta, riconducibile ad un taglio obliquo della medesima, si trova anche nelle tegole di S. Cornelia; la caratteristica è riconducibile, dal punto di vista del gesto tecnico, all’asportazione dell’argilla in eccesso sul pezzo ancora fresco subito dopo l’estrazione dalla forma, al contrario di quelle di epoca romana dove la risega veniva realizzata in negativo quando il manufatto era ancora nella forma 51. A Ponte Nepesino è possibile vedere la presenza di laterizi di nuova produzione già in manufatti di XII secolo; le tegole sono caratterizzate, come quelle di S. Cornelia, da un’attenta selezione delle argille che è in connessione con una certa qualità di esecuzione tanto da avere spesso marcature 52. Non troviamo qui, invece, la presenza di riseghe né tantomeno una omogeneità dimensionale, cosa che è stata messa in relazione con una differenziazione nella destinazione d’uso dei vari pezzi 53. I materiali provenienti da Mola di Monte Gelato, infine, si differenziano per una qualità di fattura minore rispetto agli altri casi 54. Qui le indagini hanno messo in evidenza la presenza di tegole di produzione locale; unici elementi in comune con quelli di Ponte Nepesino sono una estrema friabilità e l’assenza di marcatura. Passando in maniera più specifica all’analisi degli impasti, gli embrici rivenuti a Malborghetto hanno caratteristiche del tutto analoghe a quelle delle tegole. La differenziazione del colore tra i due elementi potrebbero invece essere ricondotte alla loro posizione all’interno del forno nel momento della cottura 55. Anche l’analisi degli impasti effettuata sui campioni dei prodotti messi in opera a Roma e riportato all’interno dello studio della Montelli, ha messo in evidenza, per quelli che sono stati riconosciuti come laterizi medievali, caratteristiche riferibili, secondo l’autrice, ad una lavorazione poco raffinata 56. Difficile allo stato attuale dare un valore alla qualità del prodotto, che sebbene possa dipendere dalla presenza di maestranze più o meno specializzate deve anche essere valutato nell’ambito di produzioni che sembrano sfruttare impianti temporanei e alle modalità di cottura. Allo stato attuale delle ricerche perciò questo aspetto risulta ancora da chiarire. Dalle ricerche finora condotte, sembra emergere una certa continuità con un modo di produrre che si attesta in area romana già in epoca carolingia, è attestato ancora nell’XI secolo e continua a lasciare traccia fino al XIV secolo. Segnando una differenziazione con la produzione di derivazione romana questa nuova tradizione è caratterizzata dalla presenza di risega obliqua, spessori ridotti, leggerezza e maneggevolezza, tutti elementi che necessitano di una particolare attenzione nella valutazione, poiché se da un lato rimandano ad una certa ‘standardizzazione’, devono costantemente essere letti in relazione alle attestazioni di fornaci che certo non rimandano ad una organizzazione della produzione di tipo standardizzato. La contingenza degli impianti produttivi in relazione a queste caratteristiche comuni, consente di avanzare l’ipotesi che tali elementi siano da mettere in relazione con maestranze specializzate itineranti e quindi portatrici di un nuovo modo di produrre. Dati interessanti emergeranno dall’approfondimento sulle maestranze lombarde. Studi condotti su scala regionale hanno messo in evidenza, ad esempio, come il XII secolo rappresenti un momento centrale nella ripresa della produzione laterizia in Italia e in Europa. Tuttavia è in area padana che a partire dal IX secolo compaiono le prime attestazioni di produzioni con modulo medievale, dato questo che porta senza alcun dubbio a riflettere su come da questa regione parta la diffusione di nuove tecnologie 57. Diviene quindi fondamentale comprendere il rapporto tra nuovi cantieri costruttivi urbani, teriale nuovo a partire dal XII secolo. Qui non sono state rinvenute fornaci; tuttavia, in relazione alla continuità territoriale evidenziata precedentemente, è opportuno ricordare che la nascita di un borgo fortificato è in stretta connessione con la presenza di un insediamento rurale posto a pochi chilometri di distanza che si sviluppo su quello che era l’area di pertinenza della domusculta voluta da papa Zaccaria tra il 741 e il 752. 50 PROIETTI 1990, pp. 565-574. 51 Questa tecnica si diffonde in epoca altomedievale e sembra continuare nei secoli successivi come attestano i casi qui ricordati. Sulla diffusione di questa tecnica cfr. STEINBY 1973-1974, pp. 117-118 e 124, fig. 8. STONE 1984, pp. 108-118. Sono stati rinvenuti mattoni databili al XIII-XIV secolo, oltre a 87 tegole e 15 embrici. I materiali presentano un alto grado di specializzazione ed una attenzione particolare nella selezione delle argille riscontrabile soprattutto negli elementi da copertura. 54 GILLIVER1997, pp. 78-79. 55 TOMMASI 2001, p. 111, nota 16. 56 MONTELLI 2001, p. 106. 57 Si ricordano ad esempio per la Liguria la sintesi di PITTALUNGA 2001; per la Toscana, QUIRÓS CASTILLO 2001; per la Sardegna, CORONEO 1993; MURRU 1995. 52 53 88 NICOLETTA GIANNINI maestranze e produzioni, volgendo particolare attenzione ai mattoni, sui quali i dati si infittiscono con le manifatture di XV secolo, legate alla nascita di impianti più stabili e che vedono coinvolte le maestranze lombarde. A tal proposito alla luce dei dati finora raccolti sarà interessante riflettere sulla definizione dei poli produttivi urbani individuati: Trastevere e Borgo. Sarà importante verificare se questa differenziazione nella produzione tegole/mattoni sia da mettere in relazione con impianti che producono stagionalmente o insieme ad altri manufatti, come nel caso del polo produttivo identificato a Lucca nei pressi di Ponte San Pietro 58; oppure si tratti di impianti stabili. Sulla base di quanto finora in nostro possesso appare evidente che anche a Roma, in questo passaggio tra produzione occasionale e stabile non vengono potenziati i quartieri artigianali già esistenti ma si assiste alla vera e propria creazione di un quartiere manifatturiero, la valle delle Fornaci. Importante sarà comprendere le dinamiche di queste trasformazioni in città e il momento di questo passaggio. Altro punto da fissare nell’agenda di ricerca è la necessità di valutare in maniera più dettagliata se questa produzione sia legata solo ed esclusivamente a committenze ecclesiastiche, o se sia possibile individuare anche un coinvolgimento di committenze diverse, valutandone il ruolo in termini di domanda e offerta ovvero richiesta del materiale e controllo delle fornaci. Inoltre sempre in termini di committenze l’indagine, grazie alla combinazione di fonti archeologiche e documentarie, potrebbe consentire di definire nel dettaglio, con una scansione cronologia puntuale, se vi sia stato o meno un ruolo dei grandi enti monastici nella diffusione di nuovi impianti produttivi, anche in relazione alla grande riprese edilizia del Duecento 59. I dati finora analizzati sull’edilizia, che certo necessitano di ulteriori approfondimenti, mettono infatti in risalto quanto la prima metà del XII secolo rappresenti un momento importante nella crescita della città. Un momento cronologico in cui certamente la committenza pa- pale, a partire dall’attività di Pasquale II, ma anche di quella di Innocenzo II, Alessandro III e Celestino III assume un ruolo importante nella crescita edilizia ed urbanistica di alcuni comparti della città. Non vi è dubbio, infatti, che il notevole numero di indicatori di produzione pertinente l’attività edilizia, deve assolutamente essere letto in rapporto all’aspetto abitativo e in relazione ai modi di progettare la città tra XII e XV secolo 60. Tra questi dati sul rinnovamento edilizio, informazioni interessanti emergono dallo studio dei campanili, un elemento edilizio diffuso già nel XII secolo, e che quindi può ampiamente contribuire alla studio dei materiali costruttivi e delle tecniche murarie in relazione agli aspetti tecnologici 61. Al XIII secolo non riusciamo ad attribuire, ad oggi, dei dati archeologicamente certi, tuttavia non è da sottovalutare la diffusione che si ha della tecnica a tufelli. Del resto, nell’edilizia privata in città dove il laterizio di reimpiego viene abbondantemente utilizzato, si riscontra un notevole affinamento delle tecniche di posa in opera, caratterizzate spesso da giunti stilati o lavorati, con particolare accortezza nell’apparecchio murario e nella scelta del materiale. Nello stesso momento e già, a partire dal XII secolo, compaiono, invece, produzioni di pezzi speciali destinati alle decorazioni fittili che non interessano solo l’edilizia ecclesiastica, come ad esempio gli elementi prismatici della cornice di S. Quirico e Giulitta, ma anche nell’edilizia civile; interessante a questo proposito è l’edificio di vicolo del Buco 62. A Roma l’impiego di elementi decorativi architettonici nell’edilizia privata non è molto attestato tuttavia alla luce di quanto qui esposto i dati andrebbero riconsiderati in merito a caratteri, diffusione e tecniche. Nel XIV secolo non sembrano attestate grosse produzioni, ma sopratutto tegole e pezzi speciali, come quelli messi in opera nel campanile di S. Maria Maggiore, nel portico dell’ospedale lateranense o nel campanile dei SS. Quirico e Giulitta. Scarsi inoltre sono gli esempi di murature in laterizi nelle torri e casali della Campagna Romana tra XII e CASTAGNETTI, LUTTAZZI, PASQUALI et alii 1979, p. 232; QUIRÓS CASTILLO 2001, p. 33. 59 In Toscana ad esempio nelle città in cui il laterizio ha avuto un grande impiego si è messo in evidenza come a Lucca e a Pisa la produzione di laterizi si consolidi molto prima della costruzione delle chiese conventuali di XIII secolo. In città come Pistoia e Prato dove invece l’edilizia sembra aver prediletto l’impiego della pietra, i primi edifici in cui si individua l’utilizzo di laterizi nuovi sono proprio questi edifici i cui cantieri comportano la presenza di impianti stabili. QUIRÓS CASTILLO 1993, pp. 139-147; PITTALUNGA, QUIRÓS CASTILLO 1997; QUIRÓS CASTILLO 1997, pp. 159-166; QUIRÓS CASTILLO 2001, p. 32. 60 Sull’esteso progetto edilizio che interessa la città all’inizio del XII secolo si rimanda al recente contributo di GUIDOBALDI 2014. 61 A Pisa ad esempio i primi edifici che vedono l’impiego di laterizi nuovi sono propri i campanili che si diffondono in città tra la fine dell’XI e il XII secolo. 62 Su via del Buco dirimpetto l’abside di S. Salvatore in Corte è visibile il prospetto ben conservato di un edificio in laterizio che presenta la messa in opera di elementi speciali nella parte terminale del palinsesto. 58 IL GIS E LE ATTIVITÀ PRODUTTIVE A ROMA IN ETÀ MEDIEVALE. UNA QUESTIONE DI METODO TRA TENDENZE E FATTI XIV secolo e in tutte finora è stato riscontrato un uso esclusivo di materiale di recupero 63. Le produzioni di XV si distinguono per una forma rettangolare, spessori ridotti impasto rosa/giallo. Sono attestati in diversi fabbricati, come ad esempio gli ultimi due piani del campanile di S. Agnese fuori le mura 64 e la facciata di S. Tommaso in Formis. Inoltre questi mattoni sono presenti in numerose risarciture di prospetti pertinenti ad abitazioni, come, ancora una volta, quella di vicolo del Buco. Se i primi due esempi rimandano in maniera diretta alla committenza ecclesiastica, il secondo, pur trattandosi di un’abitazione non deve stupirci. Crediamo, infatti, che tali rifacimenti siano da attribuirsi ai proprietari degli immobili, molto spesso enti ecclesiastici che avviano una attenta riqualificazione del loro patrimonio immobiliare. É questo ad esempio il caso dell’ospedale di S. Spirito in Sassia , per il quale in molti atti tardo quattrocenteschi sono ricordati interventi di questo tipo. Questa attività di restauro per ovvie ragioni piuttosto diffusa sul territorio, doveva certamente svolgersi in concomitanza dei grandi cantieri cittadini. Tali cantieri, determinano un sostanziale spostamento dei luoghi della produzione laterizia, innescando la costituzione di quel quartiere specializzato che si svilupperà nella così detta valle dell’Inferno in stretta connessione con il rione Borgo. È proprio in concomitanza con il rinnovamento edilizio voluto da Martino V, che troviamo attestati fornaciari soprattutto lombardi e slavi tra Borgo e Ponte. Inoltre è sintomatico che proprio l’ospedale di S. Spirito in Sassia, il maggiore ente ospedaliero romano, nel momento in cui viene fatto oggetto di una grande attività di cantiere, sia in grado di far fronte al fabbisogno di laterizi attraverso impianti esclusivamente di sua proprietà sia urbani che extraurbani. È Si tratta della Torre dei Massimi lungo via della Pisana, della Torre Boacciana sulla via Ostiense, a cui deve aggiungersi la Tor Sapienza, demolita all’inizio del XX secolo. Vi sono poi casi di laterizi associati ad altri materiali nella Torre di Acquafredda, lungo la via Aurelia, e nella torre di Procoio nuovo lungo la via Tiberina. Sui caratteri costruttivi dei casali della Campagna Romana si veda ESPOSITO 2005, in particolare sulle murature in laterizio, pp. 49-50. 64 Alla prima metà del secolo sono da ricondurre anche altre produzioni che vengono sempre realizzate attraverso stampi di tipo rettangolare, ma caratterizzati da uno spessore maggiore, che sembrano trovare utilizzo esclusivo in pilastri ottogonali (cfr. i casi citati in MONTELLI 2001, pp. 97-101). 65 I documenti citati sono contenuti in Archivio di Stato di Roma, Ospedale di S. Spirito, busta 210, f. 146r; sono poi pubblicati anche in CORTONESI 1986, pp. 297-298. 66 Anche in questo caso le fornaci fanno riferimento a costruzioni puntuali, in particolare l’Ospedale di S. Spirito, ma il caso di quelle di Borghetto ad esempio mette in evidenza il ruolo svolto dal Tevere 63 89 questo il caso delle fornaci ricordate nei contratti stipulati tra l’ospedale Santo Spirito in Borgo e Martino da Como lombardo per una fornace posta nei pressi di Gallese nel 1471, o ancora ai contratti riguardanti le fornace collocate nei pressi di Borghetto sulla Flaminia nel 1474 65, i cui prodotti giungevano a Roma attraverso il porto Transpontino 66. Continua infine ad avere un ruolo significativo la produzione di pezzi speciali che tuttavia per i casi finora accertati non si limita più a piccoli elementi messi in opera, come nei secoli precedenti ma diviene una decorazione architettonica articolata che non affonda certo radici nella tradizione romana. Esempi di questa produzione quattrocentesca sono la decorazione dell’albergo dell’Orso su via dei Soldati a Roma e quelle della casa della Fornarina a porta Settimiana 67 che mostrano medesimi caratteri stilistici e una medesima organizzazione dei motivi, tanto da far pensare ad una realizzazione da parte di un unica maestranza. Il confronto dimensionale degli ornati tra la finestra ogivale della casa della Fornarina e le formelle che caratterizzano la decorazione del marcapiano sito al secondo piano dell’albergo sembrerebbe far supporre anche l’utilizzo di una stessa matrice. Di nuovo emerge l’importanza di definire il rapporto tra committenze, maestranze e luogo di produzione. Allo stato attuale delle ricerche appare interessante il fatto che questi elementi trovano confronto in contesti dell’Italia centro-settentrionale legati ad una committenza d’élite 68. Bibliografia AIT 2005 = I. AIT, Aspetti della produzione dei panni a Roma nel Medioevo, in A. ESPOSITO, L. PALERMO (a cura di), nei cicli produttivi di lunga distanza, e quindi ancora una volta ci spinge a riflettere su quanto è estesa la città in termine di produzioni. Dovrebbero ad esempio essere valutati secondo questa chiave di lettura anche alcuni documenti riguardanti la famiglia Leni che sempre negli stessi anni sottoscrive alcune convenzioni per lo sfruttamento di miniere nel territorio Senese (cfr. Archivio di Stato di Roma, Collegio Notai Capitolini, 1110, cc. 37v-39r, cc. 53v-55r. I documenti sono pubblicati anche in AIT, VAQUERO PIÑEIRO 2000, pp. 252-258). 67 Sulla casa dell’Orso, vd. MAROCCO, ZOLI 1984, pp. 61-67. Sulla sua decorazione fittile GIUSTINI 2001, pp. 232-244. 68 In particolar modo trovano confronto stringente a Milano nella Loggia del palazzo ducale nel castello Sforzesco, nella bicocca degli Arcimboldi, nella decorazione di Palazzo Borromeo, nella casa dei Notai e a Pavia nel palazzo di Francesco Bottigella e nella casa Missaglia. Tutti edifici di committenza elevata che vedono nella loro realizzazione il coinvolgimento di architetti di pregi quali Benedetto Ferrini fiorentino che lavora alla corte di Milano e Giovanni Antonio Amadeo originario delle Marche che svolge parte della sua attività a Pavia. 90 NICOLETTA GIANNINI Economia e società a Roma tra Medioevo e Rinascimento. Studi dedicati ad Arnold Esch, Roma 2005, pp. 33-59. AIT, VAQUERO PIÑEIRO 2000 = I. AIT, M. VAQUERO PIÑEIRO, Dai Casali alla fabbrica di San Pietro. I Leni: uomini d’affari del Rinascimento, Roma 2000. ARMELLINI 1882 = M. ARMELLINI, Un censimento della città di Roma sotto il Pontificato di Leone X, Roma 1882. ARTHUR, WHITEHOUSE 1983 = P. ARTHUR, D. WHITEHOUSE, Appunti sulla produzione laterizia nell’Italia centro-meridionale tra VI e XII secolo, in AMediev, X, 1983, pp. 525-537. BALDASSARI, CIAMPOLTRINI 2006 = M. BALDASSARRI, G. CIAMPOLTRINI, I maestri dell’argilla. 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La ricostruzione di un sistema produttivo, che è il fine di un’archeologia della produzione in chiave culturale, sociale ed economica, dipende infatti dalla conoscenza della collocazione ambientale e topografica delle officine, dalla conoscenza dei materiali lavorati, dei soggetti impegnati (uomini, donne, liberi, schiavi), del tipo di consumo previsto (autoconsumo, vendita a varie scale), dei rapporti con altri sistemi, e, ancora, dalla conoscenza della tipologia degli impianti, delle suddivisioni e funzioni degli spazi di lavoro, delle tecnologie utilizzate 2. Ora il principale ostacolo che impedisce di affrontare per Roma alcune di queste tematiche consiste nella difficoltà di recuperare nella città, a causa della sua lunghissima storia, gli indicatori archeologici di tali attività, e tra questi ultimi, in particolare, le istal- lazioni fisse nelle quali un bene è stato trasformato in un altro bene differente dal primo 3. Roma tuttavia ha il vantaggio rispetto ad altre realtà urbane di disporre di un enorme apparato di fonti letterarie, giuridiche, epigrafiche e iconografiche, benché testi, iscrizioni, raffigurazioni scontino il disprezzo del mondo classico per le occupazioni manuali a meno che da esse non siano derivate fortuna e fama. Ciononostante, tale base documentaria ha fornito la possibilità di disporre di un inventario assai dettagliato dei mestieri praticati a Roma, di stabilire le specializzazioni di certe vie e di certi quartieri (vicus Materiarius, vicus Thurarius, vicus Vitrarius, scalae Anulariae, clivus Capsarius, atrium Sutorium, etc.) 4, di individuare la penetrazione in determinate zone di attività prevalenti (inter figulos, inter lignarios, in figlinis, in sandalariis) 5, di interrogarsi più in generale sulle ricadute economiche e sociali dell’esercizio dell’artigianato e della manifattura 6, sullo status di determinati operatori (imprenditori e maestranze: ingenui, liberti, schiavi) 7, e sui modelli macroeconomici dominanti nei diversi momenti della Questo contributo deve molto, come è già avvenuto in altre occasioni (PANELLA 2010), alle riflessioni di J.-P. Morel, che a tutt’oggi è tra i pochi studiosi che ha inquadrato i fenomeni relativi all’artigianato e alle manifatture nel contesto che compete ad essi: MOREL 1981a; MOREL 1981b; MOREL 1989; MOREL 1990; in particolare per Roma: MOREL 1985a; MOREL 1987; MOREL 2001; per altre realtà urbane: MOREL 2010; MOREL 2011. 2 GIANNICHEDDA 2006, pp. 17-18, passim. 3 MANNONI, GIANNICHEDDA 1996, p. 3; sugli indicatori, pp. 168203; sui cicli produttivi, BRUN 2014. 4 Vd. le rispettive voci in LTUR e da ultimo nell’Atlante di Roma antica. 5 Fonti e riferimenti bibliografici in MOREL 1987, p. 143. 6 MOREL 1985b; MOREL 2001, p. 257 e MOREL 2009. Questo tema travalica il caso di Roma. Si rimanda perciò ai contributi raccolti in LEVEAU 1985; BÉAL, GOYON 2002; CHARDRON-PICAULT 2010; FONTAINE, SATRE, TEKKI 2011. 7 La ricerca ha riguardato per Roma, relativamente all’età imperiale, soprattutto la massa di informazioni trasmessa dai bolli sull’opus doliare, con particolare riferimento all’organizzazione dell’industria laterizia, alla filiera e agli attori dell’attività produttiva, alla periodizzazione delle officine, alle ragioni della bollatura, campi di studio che hanno visto protagonista in questi ultimi decenni la Scuola Finlandese, con i lavori di HELEN 1975, SETÄLÄ 1977 e soprattutto di M. Steinby, il cui impegno in questo settore di ricerca può essere rivisitato nella Nota Bibliografica del libro a lei recentemente dedicato (LEONE, PALOMBI, WALKER 2007, pp. XVIXVIII). Gli interventi in alcuni convegni svoltisi nel 1995 a SaintCloud (BOUCHERON, BROISE, THÉBERT 2000), nel 2000 a Roma (BRUUN 2005) e nel 2012 a Viterbo (SPANU 2015) danno conto dello stato attuale degli studi. Sull’interpretazione della timbratura, che è nodo cruciale delle ricerche, STEINBY 1993 o MANACORDA 2000; sulla natura giuridica dei rapporti tra dominus e officinator, AUBERT 2005 e ANDREAU 2009; sull’organizzazione del lavoro, PALLECCHI 2002; sulla localizzazione di alcune officine che servono Roma, GLIOZZO, 1 98 CLEMENTINA PANELLA storia urbana 8. Ma poco o nulla si ricava da questo insieme di testimonianze sui luoghi reali delle produzione di piccola (officine, laboratori) e di grande scala (gli opifici urbani di A. Carandini 9 o le manifatture di J.-P. Morel 10), benché sia lecito supporre sulla base delle nostre fonti che il piccolo artigianato, anche specializzato, trovasse i suoi spazi prevalentemente nelle tabernae 11 (l’«atomo del paesaggio produttivo e commerciale» di E. Papi) 12, un mondo in cui hanno convissuto la lavorazione, il trattamento e la riparazione dei più disparati tipi di oggetti d’uso, ma anche la vendita al minuto di quegli stessi articoli o di merci prodotte altrove. Le stesse fonti e alcuni edifici superstiti suggeriscono la funzione polivalente svolta da alcune strutture collettive di cui Roma si era dotata già a partire dall’età repubblicana (macella, horrea, fora per l’immagazzinamento e vendita di merci), dove hanno certamente trovato spazio negozi, laboratori, officine, in un processo che vede nella creazione di questi grandi complessi il tentativo non sempre vincente delle autorità cittadine di contrastare la cronica tendenza alla dispersione e all’occupazione indisciplinata di suolo pubblico e privato da parte di artigiani e mercanti, di specializzare i luoghi del lavoro (horrea Chartaria, horrea Margaritaria, horrea Piperataria, horrea Candelaria) 13, di allontanarli dal centro politico-istituzionale, di imporre una certa razionalità nella distribuzione degli spazi in conformità con il ruolo di città-capitale 14. Se tutto ciò vale per il piccolo artigianato, è ancora più logico supporre che dal nocciolo del tessuto urbano siano state respinte altre attività, quali quelle più pericolose e nocive (per gli incendi, i fumi, i cattivi odori = concerie, tintorie), talvolta con grandi capacità produttive e con ingente impiego di manodopera (si pensi alle officine metallurgiche), ancora assenti dal registro archeologico, con l’unica eccezione della conceria/tintoria di Casal Bertone, un complesso industriale di grande taglia non a caso collocato ad una certa distanza dalla città. Ma anche questo fenomeno, cioè l’allontanamento dalle zone più densamente abitate degli impianti ‘inquinanti’ 15 e/o destinati alla realizzazione di beni e manufatti di largo o larghissimo consumo (si pensi alle fornaci per laterizi), andrebbe verificato nei modi e nei tempi, laddove le fonti scritte forniscono in proposito pochissime informazioni e la toponomastica risponde a fenomeni di lunga durata. I resti archeologici d’altro canto non consentono di identificare, se non in pochi casi 16, la scala e la destinazione delle merci prodotte. In sostanza i contesti riportati in luce di cui si parlerà, non permettono quasi mai di distinguere se essi fanno capo a piccole realtà produttive o a vere e proprie ‘fabbriche’. Altre osservazioni vanno fatte. Nella tradizione degli studi il termine ‘urbano’ riferito alle produzioni di Roma viene applicato a un areale ampio, che oltre alla città e al suburbio, comprende, in alcuni casi, territori abbastanza lontani, com’è la valle del Tevere e dei suoi affluenti per le officine laterizie 17. Non si può inoltre trattare di un’archeologia della produzione di Roma senza tener conto dei tipi di oggetti lavorati che coprono tutte le possibili articolazioni delle attività praticate per rispondere ai consumi di una capitale (dall’artigianato artistico a quello specializzato – come è quello che fa capo agli orefici, ebanisti, profumieri, tessitori – e alle grandi manifatture che impegnavano masse di uomini e mezzi). Né si può prescindere dai cambiamenti intervenuti nell’economia e nella società nel corso dei secoli. Ne danno conto le stratigrafie accuratamente FILIPPI 2005; FILIPPI, STANCO 2005; GASPERONI 2005; GASPERONI 2010; GASPERONI, SCARDOZZI 2010. 8 CARANDINI 1981, pp. 255-259 da integrare con le osservazioni di MOREL 2001, p. 257. Un esame dei modelli teorici applicati all’organizzazione delle produzioni ceramiche dell’Italia romana (dalle ‘forme della produzione’ di PEACOCK 1982 al ‘modello Morel’) è in DI GIUSEPPE 2012, pp. 23-32. Il materiale di riferimento in questo lavoro è la ceramica a vernice nera; sul piano cronologico l’analisi è centrata sull’età medio- e tardo-repubblicana, con qualche ‘incursione’ nella prima età imperiale. 9 CARANDINI 1981, pp. 258-259. 10 MOREL 1987, pp. 129-133. 11 MOREL 1987, pp. 133-137. Il termine in genere indica uno spazio edificato non utilizzato per abitazione (VLP. dig. 50, 16, 183). Su questa realtà così ben documentata dalle fonti letterarie e dalle iscrizioni della fine della Repubblica e dell’inizio dell’Impero, si rimanda a PAPI 1999 e 2002, che analizza le zone più centrali della città (Foro, Sacra via, Palatino, Velabro). La sua ricerca si ferma all’incendio del 64 d.C., prima cioè della rivoluzione urbanistica neroniana e degli al- trettanto imponenti interventi flavi e adrianei volti a dar ordine e a ristrutturare l’intero centro cittadino. Sul commercio al minuto a Roma, vd. HOLLERAN 2012, che organizza in un’ampia sintesi il già noto; sulla tipologia e sulle funzioni delle tabernae, ivi, pp. 99 ss. 12 PAPI 2013. 13 Vd. le rispettive voci in LTUR e in Atlante di Roma antica. 14 MOREL 1987, pp. 154-155, passim; MOREL 2001, p. 254. 15 Ma è sempre così? Vitruvio (VITR. 7, 9, 4) e Plinio (PLIN. nat. 33, 118) ad esempio menzionano una fabbrica di minio sul Quirinale tra il tempio di Flora e il tempio di Quirino (JORDAN, HÜLSEN I, 3, p. 412, nota 51; COARELLI 2014, pp. 284-285); produzione di coloranti forse per tessuti in pieno centro urbano (Basilica Hilariana sul Celio; vd. infra). 16 Tra questi, come si vedrà, le officine del Gianicolo, di Prima Porta/La Celsa e forse di via Gallia; per le dimensioni le fornaci di Ospedaletto Annunziata e la già citata conceria o tintoria di Casal Bertone. 17 Sulla distinzione tra officine urbane e extra-urbane, STEINBY 1974-1975, p. 12. ROMA IMPERIALE COME CENTRO PRODUTTIVO: LE EVIDENZE ARCHEOLOGICHE 99 degli edifici pubblici e privati e nella diffusione del marmo che incrementa dall’età augustea l’attività delle maestranze specializzate nella sua lavorazione (tagliatori, scalpellini, scultori), altrettanto importante in termini di discontinuità è l’intervento imperiale sulle manifatture, certo per le officine laterizie che nel II secolo passano (com’era già per tutte le cave, incluse quelle di marmi pregiati), nelle mani del principe, dei suoi familiari e dei suoi amici 26, presumibile per altri classi di beni, quali quelli di pregio e di lusso. Ma, come si vedrà, le tracce di impianti di produzione sono non solo scarse, ma anche tanto mal datate e spesso indatabili da impedire di presentare oggi un quadro di sintesi meditato e maturo. vagliate in questi ultimi anni, che dimostrano il passaggio dall’autosufficienza e dall’autoconsumo dell’età arcaica e repubblicana all’importazione massiccia di beni di pregio e di materiali d’uso man mano che il bacino di sussistenza di Roma si allarga prima all’Italia e poi all’intero Mediterraneo (la città organizzatrice di cui parla J. Andreau) 18. Oltre al discrimine rappresentato dall’età augustea rispetto alla tarda repubblica, una seconda cesura va posta nel corso del II secolo. Fino alla metà di questo secolo è possibile infatti seguire ancora un flusso di merci esportate dalla città. L’indicatore costituito dalle lucerne è certamente modesto, ma è una delle poche classi ceramiche prodotte a Roma di cui è possibile rintracciare dopo il I secolo un esito (benché in flessione) anche all’esterno 19; così è anche per i laterizi e per parte dell’opus doliare, se la loro diffusione ‘di prossimità’ – da Civitavecchia ad Anzio 20 –, interregionale – Pompei 21, Etruria 22 – interprovinciale – Proconsolare e Numidia, Gallia 23 –, sia da interpretare come un vero e proprio commercio 24. Nei decenni finali del II secolo le officine ‘romane’ parrebbero invece operare in un circuito chiuso, con la diffusione nel solo ambito cittadino e periurbano di quei manufatti d’uso corrente che riusciamo a rintracciare archeologicamente (è il caso ad esempio delle lucerne, della ceramica comune, della ceramica da fuoco, quest’ultima tuttavia in età tardo-antonina già minoritaria nelle stratigrafie rispetto alle importazioni di vasellame da cucina africano) 25. Se la scomparsa nel II secolo della coroplastica e della coroplastica architettonica trova una sua giustificazione nel diverso modo di concepire la decorazione Stratigrafie e scoperte archeologiche più o meno recenti si affiancano alle fonti letterarie ed epigrafiche (trattate da F. Coarelli in altra parte di questo volume), testimoniando l’esistenza di una produttività di Roma collegata ad alcune classi di materiali tradizionalmente realizzate nelle officine urbane, nel suburbio o lungo il Tevere e i suoi affluenti navigabili (lucerne, vetri, invetriata, ceramica comune da mensa e da dispensa, ceramica da fuoco, antefisse e terrecotte architettoniche, lastre Campana, dolia e mortaria e, ovviamente, mattoni), in alcuni casi e per alcuni periodi anche oggetto di esportazione a breve, medio e lungo raggio 27. Se è poi vero che Roma importava un gran numero di beni ANDREAU 2001, pp. 312-313. PAVOLINI 1981; MOREL 2001, pp. 246-247. 20 STEINBY 1981, p. 239; per Ostia, servita dalle officine urbane, DELAINE 2002. 21 STEINBY 1981, p. 240 (elenco delle occorrenze). 22 GLIOZZO 2005. 23 STEINBY 1981, p. 241; ZUCCA 1987. 24 THÉBERT 2000 riassume il dibattito su questo tema, consentendo di recuperare la bibliografia di riferimento e restituendo alla distribuzione all’estero dei materiali da costruzione urbani, con particolare riferimento alla documentazione africana, valore economico, contro l’opinione corrente, che vede nella diffusione sulle lunghe distanze dei laterizi non l’esito di un commercio ‘primario’, ma una loro funzione come zavorra nelle navi di ritorno (soprattutto STEINBY 1981, pp. 244-245; qui per la raccolta dei bolli, quasi tutti di I secolo e pochi di II secolo, su mattoni, dolii, mortai prodotti a Roma e attestati in Italia e nelle province). Un esame complessivo della questione è in GIANFROTTA 2015, che condivide la tesi della commercializzazione dei mattoni, appoggiandola ad una revisione della documentazione archeologica. Ai contesti subacquei editi si aggiunge un relitto appena individuato nelle acque della Gallura presso Olbia (giugno 2015), con carico costituito unicamente da tegole e coppi (II secolo?). L’evidenza, in mancanza di edizioni della ceramica da cucina nelle stratigrafie urbane di questa età, è fornita da Ostia (Ostia VI, pp. 52-55). 26 STEINBY 1978; LO CASCIO 2005. 27 Esportazione di lucerne: PAVOLINI 1981, pp. 171-176; di terrecotte architettoniche: ANSELMINO 1981, p. 211, passim; di lastre Campana: TORTORELLA 1981, pp. 229-235 (ove si distingue a livello della diffusione la produzione urbana da quella che ne imita i modelli); di laterizi, vd. sopra e nota 24. Un’ipotesi di commercializzazione anche dei vetri prodotti negli ateliers romani in altre regioni dell’Impero è stata avanzata a proposito di alcuni materiali rinvenuti in Narbonese: FOY 2005, pp. 34-35, e in un contesto di Lione di età augustea: DESBAT 2003, p. 401. Una provenienza da Roma e dalla media valle del Tevere è stata supposta sulla base delle analisi delle argille anche per il vasellame e la suppellettile in ceramica invetriata rinvenuta in Occidente (Etruria, Liguria, Cisalpina occidentale, Gallia). I ritrovamenti di via Sacchi e del Nuovo Mercato Testaccio (vd. infra) attestano l’esistenza di una produzione di questa classe a Roma-città, supportando l’ipotesi anche di un’esportazione ‘romana’: FILIPPI 2008, p. 306 e nota 100 per la bibliografia della diffusione. Su un eventuale esportazione, anche a lungo raggio, delle ceramiche comuni e da fuoco di Roma/valle del Tevere, vd. OLCESE 2003, pp. 66-69, limitatamente all’età tardo-repubblicana/prima età imperiale. 18 19 Lo stato delle conoscenze 25 100 CLEMENTINA PANELLA (il fenomeno è in costante crescita a partire dall’età tardorepubblicana), e che una parte degli arrivi consisteva in prodotti finiti (ceramica fine da mensa, ceramica da cucina, manufatti, suppellettili ed arredi di diversificata specie e natura), un’altra considerevole quota di merci era composta da materie prime che venivano lavorate in città. Si deve perciò immaginare, accanto ad un’importazione di beni di largo consumo (di cui danno conto per i materiali indeperibili e non riciclabili le stratigrafie urbane a partire dalla tarda Repubblica) e di grande pregio (assai di rado rintracciabili archeologicamente), una considerevole attività di ‘trasformazione’ attuata dalle officine lapidarie, dalle concerie, dalle officine metallurgiche, dalle officine tessili e da quelle specializzate nell’intaglio di osso, avorio, ebano, pietre preziose. I prodotti finiti rispondevano alla domanda interna, ma sono stati nello stesso tempo, a seconda del tipo di oggetto e della cronologia, anche esportati 28. E qualora non si siano mossi i manufatti o le maestranze 29 – a loro volta portatrici anche di nuove tecnologie –, le matrici e i cartoni hanno trasmesso i modelli tipologici e iconografici (antefisse, lastre Campana 30, decorazione architettonica in marmo, etc.). Una tale attività di servizio esercitata da un artigianato piccolo, medio, grande, di modesta o di alta e raffinata qualità (penso agli esecutori del prezioso arredo degli Horti Lamiani) 31, mette in discussione l’immagine di consumer city (M. Finley) nelle sue diverse declinazioni, o di città ‘parassita’ (Ch. Goudineau), o di città di rentiers (M. Rostovzev), o peggio di città di ‘fannulloni’, ancor oggi veicolata dai media 32. Il ruolo di capitale, la presenza dell’élite politico-sociale, le di- mensioni abnormi della popolazione impediscono di trovare per la Roma tardo-repubblicana, augustea e imperiale etichette di riferimento 33. J. Andreau, riassumendo il dibattito sul modello di città che ha coinvolto storici ed archeologi alla fine del Novecento 34, applica all’Urbs la definizione di «città organizzatrice» in base alla costatazione che il suo bacino di sussistenza ha compreso prima il Lazio e l’Italia e in progressione l’intero Mediterraneo (l’impero-mondo di A. Carandini) 35. E tra i caratteri distintivi inserisce una vivace attività economica anche in materia di artigianato e commercio 36. Per avere un’idea di tale attività sono noti, tratti da diverse fonti, 160 mestieri 37 contro i 225 conosciuti per l’insieme dell’Occidente e contro i 101 mestieri documentati a Parigi nel XIII secolo e i 99 a Firenze nel XVI secolo: parcellizzazione irrazionale 38 o specializzazione del lavoro e dei servizi, come suggerisce J.-P. Morel? 39 La notizia che attribuisce a Numa l’istituzione delle prime associazioni professionali di artefici ed operai (collegia) 40 secondo una precisa gerarchia (flautisti, orafi, falegnami, tintori, cuoiai, conciatori, fabbri, vasai, più un ultimo corpo che accoglieva le arti rimanenti) 41 fornisce i nomi degli operatori implicati nella produzione o nella trasformazione di beni (e del loro commercio). Il dato è ai nostri fini di grande importanza. La tradizione infatti da una parte riconosce nel contesto cittadino l’esistenza in un’età regia più o meno arcaica di una vera e propria divisione del lavoro, dall’altra assegna a questa medesima età l’organizzazione della popolazione sulla base di ‘arti’ riconosciute dallo stato e perciò pubbliche. Attraverso i collegia dotati di propri statuti, di sedi di culto e di riunione (scholae), i ceti più 28 Per i marmi, si possono citare i sarcofagi di officina urbana esportati da Roma nel II secolo (PENSABENE 1986, p. 286) e le opere d’arte (statue e ritratti imperiali: PENSABENE 1981, pp. 86 ss., nota 16); per i metalli lavorati, i colini in rame della prima metà del II secolo trovati in Romania, bollati da un personaggio che operava in Circo Flaminio (MOREL 1987, p. 141, nota 73; AE 1939, 277). 29 Marmo lunense e probabilmente maestranze urbane a Caesarea, capitale della Mauretania in età augustea; marmo lunense e probabilmente maestranze in Gallia Meridionale in età augustea e giulio-claudia: PENSABENE 1986, pp. 297, 299. 30 Vd. supra nota 27. 31 CIMA 1986. 32 Definizione già contestata da LE GALL 1977; per una discussione MOREL 2001, p. 260 e COARELLI 1996, pp. 37-41, relativamente all’artigianato artistico di età repubblicana. 33 CARANDINI 1981, pp. 259-260. 34 Vd. nota 18. 35 CARANDINI 1986, pp. 4, 15-19. 36 ANDREAU 2001, p. 313. 37 Sui mestieri a Roma, TRAINA 2000; sulle iscrizioni relative ad artigiani, vd. PANCIERA 1970 = 2006, pp. 153-159; PANCIERA 1987, pp. 86-87 = PANCIERA 2006, pp. 363-364 (aurifices), e i contributi di E. ZAPPATA (piperarii), P. TASSINI (aurifices, eborarii, margaritarii, thurarii), C. LEGA e S. ORLANDI (vestiarii), G.-L. GREGORI (purpurarii), C. LO GIUDICE (unguentarii), M.L. CALDELLI (lignarii), raccolti in Epigrafia della produzione e della distribuzione, Roma 1994. Si tratta di attività legate alla lavorazione (o alla vendita? un interrogativo a cui non siamo in grado di rispondere) di oggetti di grande pregio, che vengono dichiarate da chi le aveva esercitate. Le iscrizioni sono tutte datate al I secolo d.C. 38 TREGGIARI 1980, p. 56. 39 MOREL 2001, pp. 250-251. 40 Sui collegia è ancora fondamentale WALZING 1895-1900; per la bibliografia assai vasta sull’associazionismo di età romana rimando a SANGRISO 2009. 41 PLUT. Numa 17; PLIN. nat. 34, 1, 1; 35, 46, 159. Per Floro (FLOR. epit. 1, 6, 3) tale suddivisione sarebbe stata opera di Servio Tullio, mentre Cicerone, Livio, Dionigi mostrano di non essere a conoscenza dell’iniziativa di Numa. Analisi dei collegia opificum tramandati dalle fonti in STORCHI MARINO 1972; STORCHI MARINO 1973-1974; STORCHI MARINO 1979; STORCHI MARINO 1999: Sulle origini dell’artigianato a Roma, NONNIS c.s. ROMA IMPERIALE COME CENTRO PRODUTTIVO: LE EVIDENZE ARCHEOLOGICHE 101 umili (artigiani, artisti, commercianti), oltre a difendere i propri interessi, ottenevano un riconoscimento pubblico e assumevano un ruolo nelle istituzioni della città, potendo così ambire ad una promozione sociale preclusa ai singoli individui 42. Rimanendo nell’ambito delle professioni indicate nel testo plutarcheo, vale la pena ricordare che nella lista di Catone 43 – siamo in età repubblicana – tra le città da cui rifornirsi di attrezzi agricoli, Roma compaia prima di Capua, famosa per la produzione di tali strumenti, e di Venafro, centri tra l’altro più vicini di Roma al fundus catoniano. E in un’epoca ancora più risalente la sola ceramica fine largamente esportata al di fuori dell’Italia tra il bucchero etrusco (VII-VI secolo a.C.) e la Campana A di Neapolis (II-I secolo a.C.) è quella del gruppo di officine che va sotto il nome di ‘Atelier des petites estampilles’ (300-280/260 a.C.), operante in area etrusco-laziale e in parte, benché in assenza del riscontro di fornaci, a Roma stessa 44. Nell’elenco dei collegia trasmessoci dalle fonti al settimo posto c’è appunto il collegium figulorum 45, ma di esso non esistono iscrizioni né a Roma, né altrove 46. L’assenza di testimonianze deve avere una sua giustificazione, tenuto conto che ogni corpo professionale, avendo una propria personalità giuridica e un proprio patrimonio che lo rendeva consumatore, produttore e distributore di beni, offriva agli ‘iscritti’ un certo peso economico e sociale. Si è pensato perciò, mettendo insieme testi e fonti di diversa natura, che questo ‘collegio fantasma’ sia stato assorbito in quello dei fictores e/o forse meglio in quello dei fabri, che, nelle sue diverse articolazioni (fabri generici, fabri tignarii, fabri navales), è il corpo professionale più documentato nei testi e nelle iscrizioni 47. Tornando al mondo del lavoro evocato sopra siamo costretti ad ammettere che di esso assai poco resta, sia in relazione ai luoghi in cui i beni erano realizzati che agli altri indicatori archeologici di tali attività (scarti, semifiniti, attrezzi, materiali in attesa), raramente ancorati alle strutture in cui esse erano esercitate. Il panorama complessivamente non è entusiasmante, pur essendo certi (lo attestano le fonti letterarie, epigrafiche, figurative, la toponomastica antica e moderna, i Regionari, la Forma Urbis con la rappresentazione delle file ininterrotte di tabernae distribuite sul fronte di quasi tutti gli isolati, e il buon senso) che Roma, oltre ad essere, come abbiamo detto, un centro di produzione e di rilavorazione di beni di lusso (metalli, tessuti, pietre dure, avorio, marmi, legni pregiati, balsami ed unguenti, vetri, etc.), sia stata anche al centro di intraprese artigianali collegate alla fabbricazione e alla confezione di oggetti d’uso comune, alcuni dei quali in materiale deperibile (vesti e arredi in stoffa, pelle, legno). Per questi ultimi mancano non soltanto i luoghi di lavoro (assai difficili da individuare), ma anche i beni prodotti, per loro natura irrimediabilmente perduti. La modestia della documentazione disponibile può essere spiegata sia con gli sterri dei decenni passati nel centro cittadino antico e con il disinteresse per gli aspetti della cultura materiale che ha caratterizzato l’archeologia di Roma in età post-unitaria e fascista, con contestuale perdita di dati e documenti, sia con la localizzazione delle officine stesse che, per quel che poco che sappiamo o possiamo immaginare (ad esempio quelle più inquinanti e maleodoranti come le tintorie, le concerie, o più nocive per i fumi e i rischi di incendio come le grandi fornaci per laterizi) 48, dovevano essere situate, come si è già detto, in area suburbana, ove la massiccia speculazione edilizia dalla seconda metà MOREL 2001, pp. 258-259. CATO agr. 135, 1-3. 44 STANCO 2004; FERRANDES 2006; FERRANDES 2008; STANCO 2009. 45 […] propter quae Numa rex septimun collegium figulorum instituit: PLIN. nat. 35, 159. 46 SANGRISO 2009, pp. 113-116 raccoglie le iscrizioni spettanti a figuli, di cui una sola da Roma: un tegularius dal colombario dei Silani sulla via Appia (CIL VI, 7615). A quest’unica attestazione si aggiunge ora un graffito dopo cottura sul piede di un piattello in ceramica acroma depurata, rinvenuto nello scavo delle pendici nordorientali del Palatino all’interno delle supposte Curiae Veteres (PANELLA, ZEGGIO, FERRANDES 2014, p. 178, fig. 19): Semp[roni]os ficolos feced med. L’iscrizione, che si data al 470-460 a.C. circa, è la più antica in latino a menzionare un ceramista, utilizzando la formula dell’‘oggetto parlante’, che ritroveremo ad esempio oltre un secolo dopo sulla Cista Ficoroni, un eccezionale oggetto, questa volta in bronzo, di produzione romana, che dà conto, insieme al celebre Bruto Capitolino, delle condizioni e delle caratteristiche dell’artigianato artistico urbano in età medio-repubblicana (COARELLI 1996, pp. 54-57). 47 SANGRISO 2009, pp. 116-130 che spiega l’assenza di iscrizioni relative al collegio dei ceramisti con una sua possibile assimilazione in quello dei fictores sulla base di Asconio Pediano (ASCON. Corn. 75) o dei fabri, che, essendo implicati nelle arti del fuoco, potrebbero aver assorbito nella loro associazione i vasai e i vetrai (per questi ultimi non si dispone di un’istituzione collegiale, ma solo di nomi dei personaggi implicati nella fabbricazione dei manufatti o del loro contenuto). Qui anche per un elenco delle fonti letterarie (p. 120), nelle quali figuli e fabbri sono citati insieme a titolo di esempio o in modo proverbiale. Per l’assimilazione dei ceramisti ai fabbri si pronuncia anche PUCCI 1986, p. 709. 48 Nella lex Ursonensis dell’età di Cesare o del secondo triunvirato, valida per tutti i tipi di agglomerazione urbana, si proibiva di avere in città «figlinas tegularias maioris tegularum CCC tegularumque» (deposito di tegole): CIL I2, 2, 594 = ILS 6087. 42 43 102 CLEMENTINA PANELLA del Novecento ha fatto la sua parte nella distruzione dei resti. Gli elementi di cui disponiamo ci portano inoltre a supporre che, come per l’industria laterizia, fossero i luoghi di approvvigionamento della materia prima (cave, acqua, legno) serviti da strade e soprattutto da fiumi navigabili quelli più favorevoli allo sviluppo delle attività artigianali e alla realizzazione dei prodotti da trasportare e vendere in città. E il sottosuolo di Roma era ricco di argilla, la materia prima della terracotta 49. In particolare sull’Esquilino (dove Varrone ricorda un quartiere in figlinis, certamente molto antico, all’interno del quale colloca il quarto sacrario degli Argei – nella serviana regio II Esquilina – 50, e dove Festo menziona un figulus in Esquilina regione 51) le argille, benché sepolte sotto i depositi tufacei dei Vulcani Romani, risultavano esposte a causa dell’azione di un torrente (forse lo Spinon delle fonti). Su di esse si impianta il quartiere dell’Argiletum, il cui nome potrebbe evocare questi affioramenti 52. La più antica attestazione di un insediamento produttivo urbano viene appunto dall’Esquilino 53, mentre nei pressi delle cinta muraria serviana (dentro/fuori), sempre sull’Esquilino, furono rinvenuti nell’Ottocento una fornace tra via dello Statuto e via Pellegrino Rossi 54, tracce di lavorazione dell’argilla (ante età augustea per R. Lanciani, ma certamente molto più risalente) 55 tra via dello Statuto e via Merulana 56, con scarti di cottura di vasellame da cucina, anfore, pesi da telaio e dolii (?) iscritti, blocchi di argilla vetrificata 57, un deposito di terrecotte nell’orto dei Cappuccini a sud delle Sette Sale, interpretato in via di ipotesi come uno scarico di fornace 58. Altri affioramenti di argilla dovevano essere raggiungibili sul versante meridionale del Celio, erosi da una marrana che correva lungo il fronte delle future mura Aureliane fino al Tevere, passando per il Circo Massimo 59. Qui all’altezza dell’attuale via Gallia presso Porta Metronia è stato rinvenuto nel 1937 un altro probabile impianto produttivo testimoniato da scarti di antefisse, lastre Campana, tegole, coppi, databile, in base alle tegole bollate da Naevius Isichrysus, tra la metà del I secolo a.C. e l’età augustea 60. Sui margini orientali dello stesso Celio è stata supposta la presenza delle figlinae Domitianae, ma l’interpretazione dei ritrovamenti sotto l’ospedale di S. Giovanni, in via Santo Stefano Rotondo presso la Chiesa di S. Andrea, è stata contestata 61. Resta in ogni caso aperto il problema dell’origine del toponimo e del cognome Lateranus 62 portato da alcuni personaggi di età repubblicana e imperiale. Un altro territorio con argille molto utilizzate in an- 49 COZZO 1936, p. 245. Dedicati alla geologia di Roma i fondamentali volumi di VENTRIGLIA 1971 e di FUNICIELLO 1995. 50 VARRO. ling. 5, 50; II quartiere è da collocare in corrispondenza del versante meridionale del tratto superiore del vicus Suburanus sul colle Oppio (nei pressi di Palazzo Brancaccio): ASTOLFI 1995; PALOMBI 1997, p. 25, nota 57. 51 FEST. 344 M=468 L. 52 Sull’etimologia del nome si interrogavano già Varrone (VARRO. ling. 5, 157: ab argilla) e Servio (SERV. Aen. VIII, 345: a pingui terra). Sul quartiere, TORTORICI 1991. 53 Vd. infra. 54 MARIANI 1896, tavv. I-II; JORDAN, HÜLSEN I, 3, p. 265, nota 30. 55 COARELLI 1996, p. 40: tra la metà del IV e la metà del III secolo a.C. in base alla paleografia dei graffiti impressi ante cocturam su alcuni oggetti recuperati. 56 «Angolo occidentale del convento dei Liguorini in Villa Caserta»: LANCIANI 1877, p. 181. 57 LANCIANI 1877, pp. 181-183, che localizza lo scarico tra le tombe arcaiche, dimostrando l’antichità di questa officina all’interno di settori dismessi della necropoli esquilina; DRESSEL 1978, pp. 8184, nn. 88-92, tav. d’agg. R, nn. 10-12, 17-18, che corregge l’identificazione dei pezzi data da R. Lanciani; JORDAN, HÜLSEN I, 3, p. 265, nota 30; PETRACCA, VIGNA 1985, p. 133, n. 1 = OLCESE 20112012, pp. 199-200. Le iscrizioni incise prima della cottura su due piramidi di terracotta (pesi da telaio?), su due dolii (due larghissimi cilindri di terracotta secondo H. Dressel) e su un altro oggetto fittile a ‘forma di orecchio’ si riferiscono, se gli scioglimenti sono corretti, a un P. Se(xtius), a un C. Sextius V(ibi) s(ervus) e a un P. Sextius V(ibi) f(ilio). Il gentilizio è stato ricollegato da COARELLI 1996, pp. 40-41 a quel ramo della plebea gens Sextia, che esprimerà con C. Sex(tius) Sex.f. N.n. Sextinus Lateranus, il primo console plebeo di Roma nel 366 a.C. L’ipotesi non può essere verificata, ma è certo che il gentilizio ricompare nel nome delle figlinae Sestianae o Sextianae (STEINBY 1978, col. 1508), ben note tra tarda repubblica e età augustea: MANACORDA 2007, p. 200. 58 VISCONTI 1887, tavv. X-XI; JORDAN, HÜLSEN I, 3, p. 353, nota 26. 59 Un’eco in VARRO. ling. 5, 154, a proposito dell’etimologia ad Murciae, il cui nome, secondo Procilius, ripreso da Varrone, sarebbe derivato dai vasi fabbricati sul luogo (inter figulos). 60 ANSELMINO 1981, pp. 10, 38-39; MANACORDA 2007, p. 201 e nota 63; OLCESE 2011-2012, p. 200; sulle officine Naevianae, STEINBY 1974-1975, p. 67; sull’ubicazione delle figlinae dei Naevii, attive dalla tarda repubblica, CAMILLI 2006. Tra il primo e il secondo miglio della via Latina sorgeva il sepolcro familiare dei Naevii, che, se messo in relazione con alcuni dei personaggi impegnati nella produzione ceramica (NONNIS 2005), veniva a trovarsi a non grande distanza dall’officina di via Gallia. 61 SANTA MARIA SCRINARI 1983, pp. 204-218; SANTA MARIA SCRINARI 1995, pp. 174-181, contra LIVERANI 1988, p. 895, nota 11. Gli spazi disponibili in quest’area sono comunque incompatibili con la dimensione raggiunta tra prima e media età imperiale da queste importantissime officine. Sui praedia e le figlinae dei Domitii nei pressi di Mugnano in Teverina nella media valle del Tevere, vd. GASPERONI 2003; GASPERONI 2005; GASPERONI 2010 e GASPERONI, SCARDOZZI 2010, pp. 382-387, 397-399. Una piccola fornace per ceramica (?), poi trasformata in calcara, è segnalata nel parcheggio del nuovo ospedale: SANTA MARIA SCRINARI 1983, p. 204; SANTA MARIA SCRINARI 1995, p. 174 = OLCESE 2011-2012, pp. 189-190. 62 Derivato da later-eris, mattone o da latus-eris, fianco?: discussione in MANACORDA 2007, pp. 197-199. ROMA IMPERIALE COME CENTRO PRODUTTIVO: LE EVIDENZE ARCHEOLOGICHE tico è il Gianicolo sia nel suo versante orientale verso il Trastevere, di cui danno conto gli scarti di fornace presso villa Sciarra (nel cosiddetto Santuario Siriaco) e in via Sacchi 63, sia verso il Vaticano. Si tratta delle argille grigio-azzurre dell’Unità del Monte Vaticano; i toponimi moderni di via delle Fornaci, vicolo dei Fornaciari, Monti della Creta hanno conservato l’eco di attività protrattesi fino ai nostri giorni 64. Va ricordato infine che i bolli laterizi menzionano nel nome delle figlinae le vie Trionfale, Aurelia, Salaria, Nomentana, Tuscolana 65 e che anche i territori attraversati da queste vie sono ben forniti di materia prima utilizzata ancora in età moderna. Le analisi chimiche degli impasti fin qui condotte hanno indicato per i materiali campionati delle figlinae Via Nomentana una loro probabile provenienza da un’officina posta alla confluenza del Tevere con l’Aniene 66, e non hanno smentito un’attribuzione all’area attuale dei Monti della Creta dei laterizi bollati dalle figlinae a Creta e Via Triumphalis 67. Un caso a sé è rappresentato dai marmi, che una volta giunti via Tevere dalle più disparate aree del Mediterraneo, venivano accumulati e lavorati presso i luoghi di sbarco o in officine prossime: alla Marmorata dell’Aventino presso l’Emporium, ove si ritiene che esistesse la statio marmorum 68 e nel Campo Marzio settentrionale (da Monte Giordano a piazza Navona passando per piazza Sant’Apollinare), dove scoperte fortuite dal ‘500 in poi e soprattutto durante gli sban63 MOCCHEGIANI CARPANO 1977; MOCCHEGIANI CARPANO 1982; FILIPPI 2008. 64 Assai generiche le menzioni di fragiles patellae in Giovenale (Sat. 6, 344) e di cadi in Marziale (MART. 1, 18, 2) dal Monte Vaticano = Monti della Creta? Sui depositi argillosi del settore compreso tra le vie Trionfale, Cornelia, e le due Aurelie, si rimanda a PETRACCA, VIGNA 1985, pp. 131-132, con bibliografia. 65 STEINBY 1978, coll. 1507-1508. 66 GLIOZZO, FILIPPI 2005, pp. 237-238. Per la via Nomentana c’è il ritrovamento, nel 1988-1989, in località S. Alessandro, a 800 metri della via, di un’officina (due fornaci, vasche per decantazione dell’argilla) probabilmente per laterizi (resti mal cotti), inseritasi all’interno degli ambienti di servizio di una grandiosa villa di età imperiale (I secolo), abbandonata per un incendio nel II secolo e rioccupata nel IV secolo (l’attività produttiva potrebbe appartenere alla seconda fase, ma il dato è incerto); la presenza di lingotti di ferro può far presumere l’esistenza anche della lavorazione di metalli: CARBONARA, MESSINEO 1991-1992b, pp. 118-138; DE FRANCESCHINI 2005, pp. 94-98 = OLCESE 2011-2012, pp. 197-198. 67 GLIOZZO, FILIPPI 2005, pp. 238-239. 68 Sull’argomento, MAISCHBERGER 1997 e PENSABENE 2013, pp. 116-119, 550, con bibliografia. 69 Bibliografia in MOREL 1987, pp. 132-133, note 19, 22-24 (soprattutto JORDAN, HÜLSEN I, 3, p. 596 e LANCIANI 1891). 70 LANCIANI 1886. 103 camenti effettuati lungo gli argini del fiume negli ultimi due secoli hanno rimesso in luce una seconda zona di concentrazione di blocchi grezzi, scarti e tracce di marmi in lavorazione 69. Questo settore certamente centrale della città risulta in qualche modo sacrificato a fronte della necessità di avvicinare i prodotti finiti (soprattutto colonne, lastre, blocchi, decorazione architettonica) ai grandi edifici ai quali erano destinati. Altri ritrovamenti di officine di marmorarii sono segnalati da R. Lanciani negli scavi a via Mazzarino presso la Banca d’Italia 70, sotto palazzo Brancaccio, presso Santa Maria della Vallicella (ateliers di artisti) 71, e da L. Mariani in via Tasso 72. Un’officina di lapicida di età giulio-claudia sarebbe sorta sulla via Appia 73. Un altro laboratorio, forse di età adrianea, è stato scoperto recentemente in via Sannio durante gli scavi della Metro C 74. Resti e contesti: ceramica, opus doliare Ho cercato, senza avere la pretesa di completezza, di aggiornare con qualche dato edito in anni più recenti 75 il dossier sul ritrovamento di officine, fornaci o scarti di cottura spettanti quasi esclusivamente a ceramica o a laterizi, presentato parecchio tempo fa da L. Petracca e M.L. Vigna. Qualcosa occorre dire sull’età arcaica e repubblicana. A questi sette o otto secoli possono essere attribuiti pochi ritrovamenti 76, laddove la straLANCIANI 1923. HAÜBER 1986, p. 191. 73 MANACORDA 1979. 74 REA 2011, p. 235, figg. 26-27. 75 MESSINEO 1991, pp. 185-199; CARBONARA, MESSINEO 19911992a, pp. 179-194; OLCESE 2003, pp. 12-13 (ceramiche comuni); DE FRANCESCHINI 2005; FILIPPI 2008; OLCESE 2011-2012, pp. 184201. 76 Tre fornaci e altre strutture riferibili ad un’officina (cisterna, bacini) lungo la via Laurentina/Acqua Acetosa datate tra la metà del VI e la metà del V secolo a.C., destinate alla produzione di ceramica di impasto, ceramica figulina e laterizi (BEDINI 1990, pp. 171177; NIJBOER 1998, pp. 139-143; OLCESE 2011-2012, p. 184); due piccole fornaci per la produzione di vasellame (?) nel quartiere servile della villa dell’Auditorium sulla via Flaminia nel V secolo a.C. e prima della distruzione dell’edificio alla metà del IV secolo (Periodo 1: ARGENTO, GALLONE 2006, pp. 163-189, in particolare pp. 180-181, 187-189); indicatori di produzione di ceramica a vernice nera e di ceramica in impasto chiaro sabbioso nella prima decade del III secolo a.C. in questa stessa villa (Periodo 3: DE FRANCESCHINI 2005, pp. 116-120, n. 38; DI GIUSEPPE 2006a, p. 204; DI GIUSEPPE 2006b, p. 393; DI GIUSEPPE, BOUSQUET, ZAMPINI 2008, p. 609, nota 78; OLCESE 2011-2012, p. 201); due matrici per arule di età mediorepubblicana rinvenute alla fine dell’Ottocento nello scavo della necropoli dell’Esquilino (RICCIOTTI 1973); una presunta fornace di 71 72 104 CLEMENTINA PANELLA grande maggioranza delle centinaia di migliaia di manufatti di quelle età rinvenuti negli scavi urbani è certamente di produzione ‘locale’: dagli elementi per la copertura dei tetti (tegole, coppi) alla decorazione architettonica fittile (gocciolatoi, antefisse, sime, cornici, acroteri), talvolta di straordinarie dimensioni e di eccezionale valore artistico, dal vasellame in impasto grezzo, in impasto chiaro sabbioso e in argilla figulina al vasellame fine (bucchero romano, vernice nera) 77, dagli utensili (pesi da telaio) alla suppellettile domestica (louteria, timiatheria, lucerne) e alla variegata serie di oggetti spettanti ai santuari e alle necropoli (statue, urne e sarcofagi, infiniti tipi di ex voto, etc.). E’ possibile che anche a Roma, come accade in tanti altri centri in Italia 78, impianti destinati alla produzione di vasi (ad esempio nel III secolo a.C. i pocola deorum, attribuiti al gruppo dell’’Atelier des petites estampilles’, le Heraklesschalen, i vasi con H suddipinta) di vasetti miniaturistici, di votivi anatomici e statuette fittili si trovassero presso i santuari o in prossimità di essi, almeno fino al momento in cui la deposizione di questo tipo di oggetti rispose alle pratiche devozionali in uso (cioè fino al II secolo a.C.). In quest’ambito vi sono testimonianze archeologiche (l’impianto di officine ceramiche dentro e nei pressi della necropoli esquilina) 79, letterarie (coinvolgimento dei figuli nelle cerimonie degli Argei?) 80 ed epigrafiche che indicano da età risalente una familiarità tra religione e mondo del lavoro, che non sembra solo spaziale, ma anche funzionale 81. Seppelliti o distrutti dalla furia edilizia delle epoche successive si è perduta quasi del tutto la traccia degli impianti relativi a questa straordinaria attività produttiva. Due tra le evidenze superstiti 82 sono lontane dalla città (via Laurentina/Acqua Acetosa, via Flaminia/Auditorium), sono destinate probabilmente all’autoconsumo dell’insediamento (Acqua Acetosa) e della villa (Auditorium), producono nel primo caso vasellame domestico e laterizi, nel secondo caso (nella fase della prima metà del III secolo a.C.) ceramica a vernice nera e ceramica d’impasto chiaro sabbioso. In città recuperiamo la notizia della supposta fornace per arule nella necropoli esquilina, destinata a prodotti di uso funerario o sacro, e, sempre sull’Esquilino, dentro e fuori le mura, i ritrovamenti di via dello Statuto/via Pellegrino Rossi, via dello Statuto/via Merulana, orto dei Cappucini alle Sette Sale 83. Per questi ultimi le indicazioni fornite dall’edito sono insufficienti a determinare cronologie e beni realizzati. Le scoperte di impianti relativi ad età successive (dall’età augustea) mostrano come nel centro urbano si disponga solo dei ritrovamenti del Gianicolo su cui torneremo (fornace e scarti; I-II secolo), e di quelli presso l’incrocio della via Isonzo con la via Tevere (officina con annessa fornace, forse di II secolo, ma ignoti i prodotti) 84. La maggior parte dei ritrovamenti riguarda officine con annessi forni, o fornaci o scarichi di cottura rinvenuti in area suburbana. Alcuni di essi si inseriscono in strutture preesistenti (ville); in questi contesti, quando i prodotti sono identificati, si tratta di laterizi, che possono appartenere alla costruzione o alla manutenzione e ai restauri delle residenze all’interno delle quali o in prossimità delle quali questi impianti sono stati rinvenuti. Il materiale edilizio raccolto non è mai bollato (e ciò è indice, per quanto si discuta sul significato della bollatura, di una produzione di modestissima entità). Va anche detto che parte delle strutture ceramica a vernice nera del I secolo a.C. a Prima Porta/Monte dell’Osteriola, da ricognizione della British School di Roma (POTTER, REYNOLDS, WALKER 1999, p. 214, sito K16; DI GIUSEPPE, BOUSQUET, ZAMPINI 2008, pp. 601-603; OLCESE 2011-2012, p. 197). 77 Si veda sopra per i piatti e le coppe del gruppo dell’’Atelier des petites estampilles’; nel corso del IV secolo a.C. compaiono i vasi a vernice rossa opaca (FERRANDES 2006; FERRANDES 2008), forse anch’essi di produzione urbana, così come le produzioni a vernice nera di età tardo-repubblicana (Romana D e Romana E di MOREL 1981b, p. 50, passim; FERRANDES 2014). 78 DI GIUSEPPE 2012, pp. 33, 82-84, 93-99, passim. 79 Vd. infra. 80 Vd. supra, nota 49. STORCHI MARINO 1979, pp. 352-357 (contra PALOMBI 1997, p. 25, nota 57). E’ oggetto di discussione che questo sacrario sia stato effettivamente ritrovato alle spalle del palazzo Brancaccio tra via delle Sette Sale e via delle Terme di Traiano (ASTOLFI, CORDISCHI, ATTILIA 1990; ASTOLFI 1995); per COARELLI 2001 il monumento circolare attribuito agli Argei sarebbe la tomba di Servio Tullio; così anche (heroon del re) per CARANDINI, MINARDI 2007. 81 PALMER 1976-1977, pp. 150-151; MOREL 1987, pp. 144; DI GIUSEPPE 2012, p. 69. Come esempi sono citati le epiclesi di divinità derivanti da attività artigianali come Hercules Victor detto Olivarius (il tempio è stato identificato con lo pseudoperiptero del Foro Boario detto di Vesta), Apollo Sandalarius (dal vicus omonimo da collocare nella regio IV augustea, nella parte nord di via del Colosseo); tra le iscrizioni si segnalano un gruppo di eborarii ab Hercule Primigenio, liberti di età augustea o giulio-claudia (da situare a destra dell’antica Via Salaria, presso piazza Fiume), un gruppo di vestiarii ab aede Cereris (tra Circo Massimo e Aventino, nella regio XI) e un altro ab luco Lubitinae, un lanius ab luco Libentinae (da collocare immediatamente fuori Porta Esquilina, in rapporto con la necropoli arcaica). Per tutti vd. le rispettive voci in LTUR e in Atlante di Roma antica. 82 Vd. supra, nota 76. 83 Vd. supra, note 54-58. 84 GATTI 1925, pp. 282-288; PETRACCA, VIGNA 1985, pp. 133134, n. 2 = OLCESE 2011-2012, pp. 200-201. ROMA IMPERIALE COME CENTRO PRODUTTIVO: LE EVIDENZE ARCHEOLOGICHE preesistenti sfruttate dall’impianto di queste fornaci hanno inizio in età tardo-repubblicana e comprendono fasi edilizie di età imperiale talvolta anche tarda. Le cronologie sono vaghe a causa dello stato delle pubblicazioni, che benché abbastanza recenti, editano in forme assai sintetiche scoperte di scavi di emergenza. All’interno degli impianti inseriti nelle ville vanno segnalate per la discreta conservazione due officine: quella della monumentale villa in località S. Alessandro sulla Nomentana, che abbiamo già menzionato 85, di incerta datazione (IV secolo?), e l’officina realizzata anch’essa all’interno di una grande villa risalente al II-I secolo a.C. a Ospedaletto Annunziata/Fosso del Fontaniletto, in prossimità della via Veientana 86. A questo sito appartengono due fornaci rettangolari di differenti dimensioni, vaschette per la lavorazione dell’argilla, cisterna, distanziatori; si tratta cioè di un impianto produttivo abbastanza completo, datato al II-III secolo (ma la fornace più grande è realizzata in opera vittata), utilizzato per la fabbricazione di laterizi. Difficile da datare è un’altra fornace per laterizi realizzata nella pars rustica di una villa anch’essa di grande impegno, edificata nel I secolo a.C. al km 11 della via Cassia (Casale Ghella), e in uso, con restauri di I/II e III secolo, per tutta l’età imperiale 87. Nella stessa condizione sono una fornace per laterizi nella parte rustica di una villa lungo la via Ostiense in località Torrino, di cui ben poco si conosce (due fasi di età repubblicana e imperiale) 88, un’officina con fornace forse per laterizi all’interno di una villa in prossimità della via Prenestina (Quarto Cappello del Prete), le cui fasi edilizie vanno al II/I a.C. al II d.C. 89, una fornace annessa ad un’ennesima villa, datata tra il I a.C. e il V/VI d.C. nella Tenuta del Forno, a 2 km da La Storta, con probabile produzione di ceramica comune e forse laterizi 90. Solo un cenno esiste degli scarichi di fornace in una villa datata tra età tardo-repubblicana e età traianea, con restauri di incerta cronologia, nella teVd. supra, nota 66. MESSINEO, PETRACCA, VIGNA 1984, pp. 194-196; PETRACCA, VIGNA 1985, pp. 135-136 = DE FRANCESCHINI 2005, pp. 51-53, n. 1 = OLCESE 2011-2012, p. 190. 87 MESSINEO, PETRACCA, VIGNA 1985; PETRACCA, VIGNA 1985, pp. 134-135, n. 5 = DE FRANSCESCHINI 2005, pp. 63-66, n. 16 = OLCESE 2011-2012, pp. 184-185. 88 PETRACCA, VIGNA 1985, pp. 136-137, n. 12 = DE FRANCESCHINI 2005, pp. 252-253, n. 88 = OLCESE 2011-2012, p. 198. 89 DE FRANCESCHINI 2005, pp. 161-163, n. 55 = OLCESE 20112012, p. 197. 90 KAHANE 1977; OLCESE 2011-2012, p. 189. 91 PETRACCA, VIGNA 1985, p. 136, n. 8 = DE FRANCESCHINI 2005, pp. 56-57, n. 12. 105 nuta di Castel Giubileo 91. Priva di altri elementi di contesto è la fornace a pianta circolare, poi trasformata in calcara, in via delle Vigne Nuove, datata ad una generica età imperiale 92. Reimpiega invece un edificio monumentale di epoca repubblicana situato al primo miglio della via Appia (via Anicia) un’officina di cui sono conservate le aree funzionali e piani di lavorazione (nessuna indicazione sui prodotti - laterizi? - e sulla datazione) 93, mentre dalla parte opposta della città, su un probabile diverticolo della via Flaminia, nell’ippodromo di Tor di Quinto, è attestata un’officina delimitata da muri in opera reticolata con due fornaci rettangolari affiancate in opera laterizia, simili per dimensioni e tipologia a quelle presenti al Torrino, a Ospedaletto Annunziata, a via Isonzo/via Tevere (prima età imperiale, laterizi?) 94. Ancora meno significativi, per loro natura, sono infine i dati che provengono da ricognizione: a Casal Giubileo di fronte al fosso di Settebagni, un’area di frammenti di ceramica da cucina e di rozza terracotta mal cotti databili alla prima età imperiale, connessi forse ai resti di una villa rustica 95; a Collatia/Case Rosse nel suburbio orientale affioramenti di tegole mal cotte (arcaiche, repubblicane?) 96; a Collatia/Casale della Cervelleta frammenti di ceramica mal cotta (?) in una villa rustica 97. A fronte di questo panorama non esaltante spiccano tuttavia alcuni ritrovamenti di notevole rilievo, su cui è opportuno soffermarsi: - Via Gallia. Gli scarti di lavorazione di terrecotte architettoniche (antefisse), di lastre Campana e laterizi (tegole bollate da Naevius Isochrysus) sono stati già menzionati 98 - la datazione va dalla metà del I secolo a.C. all’età augustea. - Gianicolo. Scavi di emergenza nella zona di villa Sciarra hanno riportato in luce nel 1965 a via XXX 85 86 92 199. PETRACCA, VIGNA 1985, p. 136, n. 9 = OLCESE 2011-2012, p. 93 PETRACCA, VIGNA 1985, p. 136, n. 12 = OLCESE 2011-2012, pp. 198-199. 94 PETRACCA, VIGNA 1985, p. 134, n. 4 = OLCESE 2011-2012, pp. 188-189. 95 QUILICI, QUILICI GIGLI 1986, pp. 222-223, sito 88; OLCESE 20112012, p. 185. 96 QUILICI 1974, p. 173, n. 67; PETRACCA, VIGNA 1985, p. 136, n. 10. 97 PETRACCA, VIGNA 1985, p. 136, n. 11 = OLCESE 2011-2012, pp. 185-186. 98 Vd. supra e bibliografia a nota 60. 106 CLEMENTINA PANELLA Aprile 99 e nel 1981-1982 nella vicina via Dandolo al di sotto del cosiddetto Santuario Siriaco scarichi e scarti di officine che producevano ceramica comune (boccalini, brocche, vasetti ovoidi e piriformi, bruciaprofumi) e diversificati tipi di lucerne a volute, a becco tondo e a testa d’uccello schematizzate e ansa trasversale (Vogelkopflampen) 100, firmate a stilo nelle forme OPPI e COR da C. Oppius Restitutus, un produttore di grande successo 101. Il suo nome nella forma COPPIRES impresso a punzone compare su centinaia di esemplari in molti contesti urbani e in molti siti del bacino occidentale del Mediterraneo (soprattutto in Africa Proconsolare). La tipologia e la circolazione di queste lucerne consentono di attribuire l’attività artigianale degli Oppii almeno a due generazioni della stessa famiglia e di datarla complessivamente tra la seconda metà del I secolo (70/80 d.C.) e il 140 d.C. Il fatto che i bolli con i tria nomina non siano stati trovati tra i materiali del Gianicolo porterebbe a pensare che gli scarichi riflettano l’attività della prima generazione. In ogni caso questi ritrovamenti hanno restituito un tassello importante della storia dell’artigianato urbano, dal momento che si tratta dell’unica produzione per la quale riusciamo a individuare una diffusione di ampio raggio dopo l’esito mediterraneo dei vasi del gruppo degli ‘Ateliers des petites estampilles’. All’insieme di officine situate alle falde orientali del Gianicolo è possibile assegnare anche la produzione di ceramica a invetriatura piombifera (forme lisce o decorate) denunciata da matrici, vasi nella fase di biscotto, scarti, distanziatori, scoperti nelle stratigrafie di età tardo-antonina della vicina via Sacchi 102. Sono presenti anche qui lucerne di C. Oppius Restitutus (qualche scarto nella discarica di età tardo-antonina) 103, che potrebbero indicare, benché si tratti di materiale residuale rispetto alla datazione della fase da cui provengono, che l’officina non si fosse spostata dal Gianicolo. - Nuovo Mercato Testaccio. Recente è il ritrova- Qualche parola va ancora spesa sull’opus doliare. Ad eccezione delle poche fornaci segnalate sopra, nessun impianto di età imperiale ha occupato spazi del centro urbano: il più vicino alla città è quello di via Gallia, MOCCHEGIANI CARPANO 1977, pp. 173-174; PAVOLINI 19761977, pp. 46 e 76-77; PETRACCA, VIGNA 1985, p. 134, n. 3 = OLCESE 2011-2012, pp. 186-189. 100 PAVOLINI 1976-1977, pp. 63-66, gruppo IIIM. 101 Per la diffusione delle lucerne degli Oppii, MAESTRIPIERI, CECI 1990 (in Proconsolare a Cartagine, in Narbonese e lungo il Rodano, in Spagna); considerazioni generali in MOREL 2001, p. 247; per la ceramica comune prodotta nell’officina, OLCESE 2003, pp. 7492, scheda in OLCESE 2011-2012, pp. 186-188. 102 FILIPPI 2008, pp. 295-304 (via Sacchi); ATTILIA 2008, p. 32, n. 80 (cosiddetto Santuario Siriaco, in via Dandolo). 103 PUPPO 2008, pp. 177, 183. 104 PORCARI, CONTINO, LUCCERINI et alii 2010. Sullo scavo di questo grande magazzino di stoccaggio, SEBASTIANI, SERLORENZI 2008. 105 MESSINEO 1991, pp. 179-182, 185-199; PETRACCA, VIGNA 1985, p. 136, n. 7 = OLCESE 2011-2012, pp. 191-196 con ulteriore bibliografia. 106 CARRARA 2012. 99 mento di tracce di produzione di ceramica invetriata anche nello scavo del Nuovo Mercato Testaccio (calamai con decorazione alla barbotina di notevole pregio), nelle fosse di fondazione e nei livellamenti dell’horreum del II secolo e negli interri moderni. Scorie e resti di fornace (croste di argilla concotta, scorie) sono state raccolte un po’ ovunque, nelle colmate sia della fase costruttiva che negli interri moderni, insieme con strumenti in bronzo di difficile interpretazione 104, ma forse da collegare alla realizzazione di questi manufatti. - Prima Porta/La Celsa. Una prima fornace circolare e un deposito con scarti di cottura di sigillata italica è stata rinvenuta nel 1963 nel fianco del costone roccioso in località La Celsa al km 12 della via Flaminia. Nello stesso fianco della collina nel 1983 e nel 1988 è stato scavato un secondo impianto istallato in un edificio preesistente (con fasi dalla tarda repubblica al IV secolo), di cui occupa diversi ambienti. La fornace più conservata è di forma circolare; meno evidenti sono i resti di altri due forni. Scarichi e scarti sono costituiti da vasi potori a pareti sottili, da ceramica comune e da fuoco databili tra il I e il II secolo, classi e tipi contestualmente documentati in tutti gli scavi urbani della prima e media età imperiale 105. L’attività è connotata da importanti volumi di produzione e di smercio sul mercato cittadino. - A quest’area appartiene anche una piccola fornace ricavata in parte nel tufo, utilizzata una sola volta, probabilmente in età augustea, per la cottura di grandi piatti-vassoio in ceramica grigia e vernice nera brillante nella tradizione dei Graue Platten efesini, un ordinativo di oggetti di grande pregio forse da collegare a committenza imperiale (la villa di Livia ad gallinas albas è nei pressi) 106. ROMA IMPERIALE COME CENTRO PRODUTTIVO: LE EVIDENZE ARCHEOLOGICHE 107 un’officina attiva fino all’età augustea o poco oltre, nella quale per altro la fabbricazione di materiale da costruzione potrebbe essere stata marginale rispetto ad altri manufatti più propriamente associabili all’artigianato artistico. Essa appartiene comunque ad un periodo in cui la produzione laterizia (soprattutto tegole e coppi) ha ancora, com’era stato per tutte le età precedenti, un carattere prettamente locale 107. Il dato 108 conferma la regola di tener lontane dal centro abitato questo tipo di produzione, a partire cioè dal momento in cui la richiesta di materiale edilizio divenne più pressante. Le materie prime (argilla, acqua, e legname) erano largamente disponibili lungo tutta la valle del Tevere, che garantiva anche il trasporto dei prodotti. Ed è su una lunga fascia di territorio attraversato dal fiume, che comprende la Sabina, l’Umbria, e la Toscana, ma anche le contermini aree costiere (comprensori di Caere, di Tarquinia), che vanno collocate 109, con distanze che raggiungono i 100 km da Roma, le figlinae che hanno consentito la costruzione della città imperiale, alimentando la più grande industria urbana, quella dell’edilizia con la sua complessa rete di maestranze (dagli architetti ai pittori, dagli scultori ai mosaicisti, dai muratori ai falegnami e ai fabbri) e con la sua ricaduta, come oggi si direbbe, sul terziario. In questo senso Roma si presenta come il più grosso centro di consumo entro una vasta area di produzione e di mercato 110. Se questo è vero, è anche vero che l’attività produttiva era la diretta estensione delle proprietà e degli interessi economici degli ordini superiori della società (aristocrazia urbana e municipale, imperatori e famiglia imperiale). Le officine, qualora non siano documentate materialmente 111, sono state attribuite ai diversi territori in base ai toponimi impressi sui bolli (opus Sabinu(m), de Ocri(culo), t(egula) Narn(iensis), etc.), talvolta ancora attestati nella toponomastica moderna, e/o in base alla circolazione del materiale timbrato, ad indizi prosopografici più o meno puntuali o al radicamento (origine, patronato) in una determinata area della gens implicata nel processo produttivo 112. Le analisi chimiche effettuate su alcuni campioni appartenenti a laterizi contrassegnati dal nome della figlina o del praedium non hanno consentito di fissare punti precisi, segnalando nella maggior parte dei casi una generica attribuzione alla media valle del Tevere 113. Un altro dato di un certo interesse riguarda la polivalenza degli impianti 114. È stato rilevato in base ai nomi dei domini e degli officinatores che timbrano i prodotti che quasi tutte, se non tutte le officine di laterizi, nel I secolo e fino alla metà del II secolo, realizzano anche dolii, mortai, sarcofagi e terrecotte architettoniche, manufatti che avevano un ciclo produttivo del tutto simile a quello dei laterizi, e che, come abbiamo visto, ne seguivano la circolazione. Dopo questa data (ma i bolli noti a Roma e altrove – a Pompei 115, in Gallia – sono quasi sempre del I secolo) la timbratura su questi oggetti (ma non la produzione) scompare (gli ultimi bolli sono dei primi anni di Marco Aurelio), facendoci perdere le tracce degli impianti di provenienza. La fine di questa pratica sembra implicare un cambiamento nella produzione delle figlinae in favore del materiale da costruzione, molto più richiesto e di più facile esecuzione 116. È anche possibile che dolii e mortai anticipino un fenomeno (l’assenza della timbratura) che si riscontrerà a distanza di qualche decennio (tra i Severi e la Tetrarchia) anche sui laterizi 117. Le officine di ceramica non sembrano essere state interessate dalla produzione di opus doliare, ad eccezione di impianti molto antichi o utilizzati per i consumi interni degli insediamenti (qualche caso, sempre piuttosto incerto, è segnalato nelle fornaci presenti nelle ville). L’esclusione del materiale da costruzione dagli impianti destinati alla fabbricazione di ceramica, come dimostrano le officine del Gianicolo e di Prima Porta/La Celsa, le uniche di età imperiale per le quali disponiamo di qualche dato, non è solo il frutto di una specializzazione delle maestranze, che ha la sua ragion d’essere 107 NONNIS 2015, p. 196, passim. Qui anche per un esame della documentazione epigrafica sull’opus doliare di età repubblicana nel Lazio con i suoi risvolti prosopografici e sociali. 108 Vd. supra. 109 Già da età repubblicana: NONNIS 2015, p. 185, passim; sulla produzione doliare in questi territori, vd. FILIPPI, STANCO 2005; GRAHAM 2006 e i contributi in SPANU 2015. 110 STEINBY 1981, p. 239. 111 I praedia dei Domitii, per esempio, possono essere localizzati oggi a Mugnano in Teverina, nella valle del Fosso del Rio e dintorni: due impianti finora scoperti nella località S. Liberato-Vigna della Corte e Rota Rio (vd. supra, nota 61). 112 Da ultimo si veda la ricerca di FILIPPI, STANCO 2005 e gli approfondimenti sulle figlinae nel tratto della valle tiberina compreso tra Piammiano-Statonia e Amelia in GASPERONI, SCARDOZZI 2010, pp. 82-86, 88-90 e SCARDOZZI 2015. 113 GLIOZZO, FILIPPI 2005, pp. 242-243. 114 PALLECCHI 2002, pp. 270-276; LAZZERETTI, PALLECCCHI 2005, pp. 225-227. 115 Sui bolli dei mortaria centro-italici si rimanda al corpus di PALLECCHI 2002; sui bolli sui dolia e sui rispettivi coperchi vd. ora TAGLIETTI 2015. 116 STEINBY 1981, p. 243. 117 LAZZERETTI, PALLECCCHI 2005, p. 227. 108 CLEMENTINA PANELLA nelle differenze tecniche e tecnologiche spettanti ai diversi tipi di prodotto, ma è anche il risultato del maggior impegno sul piano produttivo dell’industria laterizia (e ciò implica anche impianti adeguati e appositi investimenti) rispetto ad altro tipo di manifattura ceramica. - Vetro. Strabone attesta la presenza a Roma verso la fine del I secolo a.C. di officine vetrarie tecnologicamente avanzate 118. Tracce di una produzione urbana di questa età potrebbero venire dalle scorie e da alcuni cilindri/canne di terracotta per soffiatura (almeno così in via ipotetica questi manufatti sono stati interpretati) ritrovati a via Sacchi in giacitura secondaria in uno scarico datato al 10-15 d.C. 119, presumibilmente provenienti da un’officina da localizzare nei pressi del Tevere 120. A questa testimonianza si aggiungono le strutture afferenti ad una fornace sul Gianicolo sul versante ritenuto della villa di Agrippina 121, le scorie di fusione rinvenute sempre su questa collina nello scavo già citato a villa Sciarra nel cosiddetto Santuario Siriaco 122, i grumi di vetro e crogioli trovati nel Tevere 123, le masse vetrose e scorie dalla Basilica Hilariana sul Celio 124, le scorie (?) dalla villa di via dei Casalotti (II-IV secolo) 125. I vetri incisi eseguiti per un’alta committenza e attribuiti ad almeno due ateliers di Roma-città nel corso del IV secolo 126 costituiscono un solido indizio per assegnare alla città una tradizione manifatturiera consolidata e un artigianato di qualità. Alla produzione urbana è difficile non pensare per i vetri dei sectilia anche figurati che decorano pavimenti e pareti come quelli di un vano di una domus di età augustea sottostante il Tempio di Venere e Roma sulla Velia 127, o quelli parietali e per mobili del II secolo della villa attribuita a Lucio Vero all’Acqua Traversa sulla Cassia 128; per i vetri da finestra, diffusi in città fin dalla prima età imperiale e dal III secolo realizzati con la tecnica della soffiatura; per gli inserti negli arredi; per le cornici e bacchette delle partiture architettoniche; per le infinite tessere di mosaico in pasta vitrea per campire con scene figurate intere pareti e soffitti: ne dà un’idea il mosaico con Apollo, Muse e filosofi nell’edificio della seconda metà del I secolo sottostante le Terme di Traiano su via del Colle Oppio 129. - Non rientra nell’ambito cronologico di questo contributo, ma va ugualmente segnalata per l’unicità della scoperta, la bottega di un fabbricante di gemme in pasta vitrea (un gemmarius) identificata in uno dei vani sottostanti la rampa (le supposte scalae Anulariae) che saliva dall’area del Lacus Iuturnae 130 all’angolo nord-ovest del Palatino, datata al II-I secolo a.C. 131. Questo straordinario ritrovamento (175 gemme finite e semifinite, raccolte insieme a matrici, scarti vetrosi, bacchette, pastiglie, pedine, soprattutto, ma non unicamente nel vano 6 – saggio G – dello scavo del Lacus Iuturnae) può dare l’idea delle attività di produzione (e vendita) di oggetti, in questo caso di semi-lusso, che in età tardo-repubblicana, a detta delle fonti letterarie ed 118 CAES. STRAB. Geogr. XVI, 2, 25, menziona le scoperte fatte nelle officine di Roma sia per produrre i colori, sia per facilitare la produzione; per Plinio (PLIN. nat.) fabbriche erano al Circo Flaminio e sul Celio; un vicus Vitrarius (botteghe o officine? produzione, vendita?) è menzionato dalla Notitia (IV secolo) nella Regio I (Porta Capena); alcuni speclariarii e una porticus inter vitrarios sono menzionati nelle iscrizioni urbane (STERNINI 1995, pp. 183-184, con bibliografia). 119 FILIPPI 2008, pp. 326-345 (due da strati di età augustea e due residuali in strati di età flavia). Particolarmente importante il ritrovamento di una notevole quantità di frammenti di vasi in vetro colorato nelle stratigrafie di via Sacchi per la cronologia, per la varietà dei tipi, per la tecnologia utilizzata, elementi tutti che farebbero pensare non solo alla provenienza da officine urbane di una parte almeno dei materiali, ma anche alla presenza di maestranze orientali trasferitesi nella capitale in questa età. 120 CAMPUS 1982; PETRIANNI 2003, p. 16: ritrovamenti di vetri sulle sponde del fiume nei lavori post-unitari, con bibliografia. 121 FILIPPI 2008, p. 328, nota 10. MOCCHEGIANI CARPANO 1982, p. 26. CAMPUS 1982, pp. 126-127. 124 Vd. infra. 125 DE FRANCESCHINI 2005, p. 133, n. 47. 126 Vd. in questo volume il contributo di L. Saguì. Indizi della vicinanza di un’officina vetraria (lingotti, scorie, scarti) anche dagli strati di abbandono del V secolo nei vani 2 e 3 dello scavo delle Curiae veteres sul Palatino nord-orientale: GLIOZZO et alii 2015. 127 BAROSSO 1940. 128 BACCHELLI, BARBERA, PASQUALUCCI 1995; SAGUÌ 2005; CASERTA 2010, pp. 467-478; sulla villa, DE FRANCESCHINI 2005, pp. 69-73, n. 19. 129 Notizie e foto del ritrovamento in http://www.sovraintendenzaroma.it/i_luoghi/roma_antica/aree_archeologiche/colle_oppio_terme_di_traiano_nuovi_ritrovamenti_archeologici. 130 STEINBY 2012a; STEINBY 2012b. 131 HARRI 2012; SEPIO, STEINBY 2012, p. 173. Resti e contesti: materiali non ceramici Passando ai materiali non ceramici va ancora una volta constatata la scarsezza di evidenze. Ovviamente le merci deperibili non hanno lasciato traccia. 122 123 ROMA IMPERIALE COME CENTRO PRODUTTIVO: LE EVIDENZE ARCHEOLOGICHE 109 epigrafiche, caratterizzavano il paesaggio di uno dei quartieri più centrali della città (la Sacra via e le sue adiacenze) 132. - Metalli. Mancano all’appello la zecca di Roma, localizzata in età repubblicana sull’Arx e in età domizianea nell’area in cui sorse nel IV secolo la chiesa di S. Clemente 133, e le tante officine in cui si fabbricavano le fistulae (le mille iscrizioni finora rinvenute a Roma su questo tipo di manufatti danno un’idea dei livelli della produzione; ad essa corrispondeva una rete ininterrotta di tubature che attraversava tutta la città, preda della ‘fame’ di metalli dell’età post-antica) 134, gli attrezzi e gli strumenti in ferro necessari ad esempio nell’industria edilizia o in quella navale, le armi e le armature 135, per non parlare dei luoghi per la lavorazione di oggetti di maggior valore, in metallo pregiato (vasellame, arredi, gioielli), a cui si riferiscono le fonti scritte e le iscrizioni di orafi e orefici (aurifices, argentarii 136, caelatores, vascularii, etc.), le cui attività sono segnalate nella prima età imperiale soprattutto tra il Foro e la Sacra via 137. L’unico dato che è possibile collegare alle tante indicazioni delle fonti proviene da una delle tabernae (vano 4) sottostanti la rampa (le supposte scalae Anulariae già citate) di collegamento tra area di Iuturna e il versante nordovest del Palatino, identificata con la bottega di un fabbro, attivo dalla fine del I a.C. agli inizi del II secolo e specializzato nella realizzazione di elementi ornamentali in metallo e forse in osso 138. Anche gli scavi delle pendici nord-orientali del Palatino indicano la vicinanza di botteghe, dal momento che nelle stratigrafie di distruzione di quest’area sono stati trovati una bilancina da orafo e uno stampo per decorazioni in foglia d’oro 139. Sul versante orientale del Gianicolo (sotto il cosiddetto Santua- rio Siriaco di via Dandolo) è segnalata la presenza di crogioli, scorie ossidate in bronzo, piccoli manufatti, riferibili secondo C. Mocchegiani Carpano ad un’area di lavorazione di metalli 140. Una manifattura è segnalata sul Celio (Basilica Hilariana) 141. Lingotti di ferro sono stati rinvenuti in uno degli ambienti della villa in località S. Alessandro (vd. supra), riferiti anche in questo caso ad un’area di lavorazione di metalli. - Osso, corno, avorio. Resti cospicui compaiono sul Palatino orientale nelle stratigrafie dalla prima metà del I al V secolo nella domus detta con ‘aula ad abside’ 142 scavata dall’Accademia Americana; in piazza del Colosseo, area della Meta Sudans, da interri di età tiberiana di una domus costruita sul versante orientale della Velia 143; sul Palatino nord-orientale, nell’area delle Curiae Veteres, in uno dei vani sostruttivi della pendice (Ambiente 3), e nelle tabernae antistanti la casa tardo-repubblicana/augustea a monte del santuario, dagli strati dell’incendio del 64 d.C. (il contesto del ritrovamento permette di datare ad età anteriore alla distruzione di questi isolati l’attività artigianale, che include tutte le fasi della lavorazione fino ai prodotti finiti, soprattutto aghi crinali, cornicette, spatoline, cerniere e impiallacciature per mobili) 144; sul Gianicolo in gran parte nei depositi di età tardo-antonina di via Sacchi (spilloni, spatoline per cosmetici, aghi da cucito, fusi, cucchiai, placchette per decorazioni di mobili e scarti in vari stadi di lavorazione) 145 e, sempre sul Gianicolo, nell’area del cosiddetto Santuario Siriaco di via Dandolo 146; all’interno del Colosseo e nel cosiddetto Passaggio di Commodo 147; in Campo Marzio (presso S. Lorenzo in Lucina) 148. Più incerto, ma intricante, il dato relativo a lavorazione dell’osso insieme a quella di me- PAPI 1999, pp. 220-221: gemmarii de Sacra via. 133 COARELLI 1994. Si ignora dove essa sia stata trasferita nel IV secolo, né tracce di una tale attività (scarti, matrici, tondelli, etc.) sono state finora ritrovate. Sull’invisibilità della zecca di Roma, BURNETT 2001, pp. 41-43. 134 BRUUN 2005, p. 15. 135 Fabrica è il termine latino di queste ultime officine. Rimando a ciò che ho raccolto su questo aspetto della produzione, che doveva avere a Roma numerosi ‘clienti’: PANELLA 2011, pp. 66-68. 136 Il termine indica i cambiavalute, gli usurai e i banchieri, ma argentarii si definiscono in età imperiale anche gli artigiani e i commercianti di suppellettili in argento. 137 Sugli orafi e orefici in quest’area, PAPI 1999, pp. 219-220. Vd. anche nota 37. LANCIANI 1882, p. 114 segnala con la consueta indeterminatezza topografica e cronologica un’officina metallur- gica sul Viminale (Monte di Giustizia) indiziata dalla presenza di molti oggetti in metallo. 138 KEMPPAINEN 2012, pp. 239-240, 247; HARRI 2012, p. 259. 139 Inediti. 140 MOCCHEGIANI CARPANO 1982, p. 26. 141 Vd. infra. 142 HOSTETTER, BRANDT 2009, pp. 176, 193; analisi di dettaglio in ST. CLAIR 2003. 143 DE GROSSI MAZZORIN, MINNITI 1995 e 2012. 144 SAGUÌ 2013, p. 137; PANELLA, ZEGGIO, FERRANDES 2014, p. 190 e nota 101 (Ambiente 3). 145 MORONI 2008. 146 MOCCHEGIANI CARPANO 1982, p. 26. 147 DELFINO, MINNITI 2005. 148 CHOYKE 2009; CHOYKE 2012. 132 110 CLEMENTINA PANELLA talli 149 dallo scavo di una delle tabernae (vano 4), identificata con la bottega di un fabbro, sottostante la rampa (le supposte scalae Anulariae) di collegamento tra area di Vesta e il Palatino (fine I-inizi II secolo) 150. Le ossa utilizzate sono in genere quelle bovine, facilmente recuperabili nei luoghi di macellazione, di vendita delle carni e nelle concerie (Foro Boario, Macellum Liviae sull’Esquilino, Macellum Magnum di Nerone sul Celio, ancor prima nel macellum a nord del Foro e altrove). Non mancano attestazioni di oggetti ricavati da ossa di cavallo, di cammello e dalle ossa e dal palco di cervo, mentre la lavorazione dell’avorio è documentata in quantità molto più limitata, certamente a causa del valore della materia prima. Le evidenze di cui oggi disponiamo si concentrano nella valle del Colosseo, sul versante orientale e nord-orientale del Palatino, sul Celio (Basilica Hilariana) 151, sul versante orientale del Gianicolo 152 e nell’area del Campo Marzio 153, benché non sia possibile quasi mai identificare archeologicamente le officine 154, ma solo stabilire una loro presumibile prossimità rispetto alle zone di scarico. La cronologia è difficilmente recuperabile dai materiali, ma sembra almeno per il settore Palatino/Colosseo e nella Basilica Hilariana (fino a tutto il V secolo) di lunga durata all’interno dell’età imperiale (e prima? non disponiamo di alcun dato). istallata a circa 1,5 km da Porta Maggiore, tra le vie Tiburtina e Prenestina, allineata ad un adiacente tratto della via Collatina antica, accanto a una villa con ninfeo e a una necropoli 156. L’impianto, il più grande di Roma e il più grande finora restituito dall’antichità, comprende nei suoi 1000 m2 97 di spazi di lavoro costituiti da piccole celle quadrangolari nelle quali erano inseriti bacini circolari in terracotta (‘tinozze-pigiatoi’) destinati al lavoro delle pelle o dei tessuti o delle lane, anfore per la conservazione delle sostanze necessarie alle lavorazioni, tre grandi vasche rivestite in cocciopesto comunicanti tramite tubuli di terracotta, un canale di deflusso dell’acqua e un’area di 450 m2 allestita con 44 dolia. È la più impressionante evidenza di ciò che dovevano essere le grandi fabbriche del suburbio di Roma. Di quartiere è invece la fullonica rinvenuta nell’isolato ad est dell’esedra della Crypta Balbi nel 2014, datata al II secolo 157; lo stesso carattere potrebbe avere il piccolo impianto (tre vasche e una canaletta) sottostante il battistero della chiesa di S. Crisogono preesistente alla sua costruzione 158 o il piccolo impianto del II secolo rinvenuto nei pressi di via delle Sette Sale sull’Oppio 159, mentre più consistente, ma con la stessa difficoltà di interpretazione (fullonica, conceria?) è il ritrovamento di otto vasche sotto la chiesa di S. Cecilia (fine II secolo?) 160. Un caso particolare: la Basilica Hilariana Concia delle pelli-tintura/lavaggio dei panni. Spettacolare è il ritrovamento nel 2006-2007 a Casal Bertone di una conceria (officina coriarorum) o tintoria-lavanderia (fullonica) 155 della metà del II secolo Una situazione che necessita di un commento è quella emersa dallo scavo della Basilica Hilariana sul Celio, sede dal II secolo del collegio dei dendrophori addetti al culto di Cibele 161. In questo edificio sono stati distinti vani destinati alle riunioni collegiali e al culto e vani di servizio (Ambienti XII, XIII, XIV), all’interno dei quali già dalla prima metà/metà del III secolo (Fase Vd. supra. Vd. supra, nota 138. 151 Vd. infra. 152 DE GROSSI MAZZORIN, MINNITI 2012; nei pressi di S. Maria in Trastevere si suppone che vi fosse la sede del corpus degli eborarii et citriarii (CIL VI, 33885). 153 CHOYKE 2012. 154 L’unica eccezione viene dalla Basilica Hilariana e forse da uno dei vani citati nell’area delle Curiae Veteres (vd. supra e nota 144). Tracce di lavorazione dell’osso anche dalla taberna XI del Foro di Cesare, ma da stratigrafie del V secolo (DELFINO, DE LUCA, MINNITI et alii 2013). Senza datazione e senza precisa localizzazione sono gli scarti di ossi lavorati nei riempimenti rinvenuti nello scavo di villa Patrizi sulla Nomentana (LANCIANI, GATTI 1886, p. 82). 155 La disposizione degli ambienti trova confronto con le due di- verse tipologie di officine, ma la suddivisione degli spazi di lavoro potrebbe suggerire che l’impianto svolgesse entrambe le funzioni. 156 Comunicazione di A. Caspio e S. Musco al Convegno, Ricerche in corso sui magazzini romani. Roma-Ostia-Portus, Roma, 1315 aprile 2011 (http://www.entrepots-anr.efa.gr/); vd. anche MUSCO, CATALANO, CASPIO et alii 2008, pp. 36-37; BRUN 2014 p. 466. 157 www.archeoroma.beniculturali.it/evento/nuove-scopertecrypta-balbi. Più spettacolare è invece sempre nello stesso quartiere il ritrovamento un’officina metallurgica del VI secolo d.C.: www.archeologia.beniculturali.it 158 CECCHELLI 1999, pp. 237-238. 159 ASTOLFI 1989-1990. 160 JORDAN, HÜLSEN I, 3, pp. 637-638. Fullones sono segnalati sull’Esquilino in CIL VI, 266-268 (vd. Tran 2007). 161 PALAZZO, PAVOLINI 2013, e in questo volume. Attività di servizio 149 150 ROMA IMPERIALE COME CENTRO PRODUTTIVO: LE EVIDENZE ARCHEOLOGICHE 111 3), e più intensamente nella seconda metà del III/prima metà del IV secolo (Fase 4), è stata trovata traccia di lavorazioni relative a diversi tipi di materiale, insieme a vasche in cocciopesto, piani di lavorazione, condutture, alloggiamenti per piccole fornaci 162. Le attività artigianali sono testimoniate fino alla metà del V secolo (Fase 5), occupando ora anche gli spazi di rappresentanza e di culto, abbandonati in seguito alla dismissione del collegio. Strutture, manufatti, scarti e residui di fusione hanno consentito di individuare alcuni cicli produttivi: preparazione di materiali coloranti (per tessuti?) 163, lavorazione di masse a base vetrosa 164, fusione di metalli (indiziata da ceramiche utilizzate come crogioli e scorie in bronzo), fabbricazione di oggetti in osso e in minor misura in avorio (aghi crinali finiti e semilavorati, dadi da gioco, pedine) 165. Si tratta dell’unico esempio certo di cui si dispone per Roma dell’inserimento in un unico complesso, per altro di diversa destinazione, e in pieno centro urbano, di diversificate officine 166. In verità il fatto che nell’edificio si fabbricassero o si trasformassero generi di consumo potrebbe non stupire a causa della natura del corpus dei dendrofori che, oltre a finalità associative e religiose, ricopriva anche un carattere artigianale 167. Ma della lavorazione del legno a cui il collegio era preposto non v’è traccia, né vi è traccia di eventuali attività produttive dei due altri organismi di mestiere con cui esso risulta frequentemente associato (i fabri tignarii – essenzialmente costruttori, e i centonarii – fabbricanti di pezze cucite insieme). L’ipotesi pertanto prospettata da C. Pavolini è che i dendrofori possano aver dato semplicemente i locali in affitto, anche separatamente, ad artigiani di varia specializzazione, ricevendone un’adeguata rendita e utilizzando in tal modo anche a fini economici il complesso immobiliare di loro proprietà 168. Comunque sia, questo ritrovamento fornisce la prova dell’esistenza di insiemi di manifatture anche specializzate spettanti al piccolo ed estremamente diffuso artigianato urbano, attivo anche in strutture nelle quali non ci saremmo aspettati di trovarne testimonianza. Viene in mente che possa trattarsi di un genere di botteghe (più che officine) raggruppate con servizi in comune. Quando è stato possibile si è cercato di introdurre nel discorso una gerarchia degli impianti conservati o ipotizzabili, ma il tentativo si è scontrato con una documentazione insufficiente. Tuttavia, tra le produzioni che hanno restituito un qualche tipo di evidenza, escludendo le fabbriche di laterizi (le tante documentate attraverso i bolli) che rappresentano un unicum determinato dall’ampiezza della domanda, mi sembra che abbiano un carattere più spiccatamente manifatturiero le officine di ceramica di Prima Porta/La Celsa (III secolo), quella delle lucerne degli Oppii sul Gianicolo (I-II secolo) e la conceria/tintoria di Casal Bertone (II secolo). Un artigianato di nicchia di breve durata sembra quello che realizza vasellame e suppellettile in ceramica invetriata (via Sacchi, II secolo; Nuovo Mercato Testaccio, ante inizi del II secolo). Diffusa in città e di lunga durata è la lavorazione dell’osso. Ho tuttavia l’impressione che la concentrazione delle testimonianze in determinati settori urbani derivi piuttosto che da un’effettiva zonizzazione di questo tipo di manifattura (piazza del Colosseo/Palatino, Trastevere), dall’attenzione con cui sono stati scavati in anni recenti i contesti (è un caso che tutte le evidenze provengano da indagini stratigrafiche?). Sembrerebbe perciò che alla lavorazione della materia di origine animale ci si applicasse un po’ ovunque, dal momento che non richiedeva impianti particolari, ma acqua bollente per ammorbidire e rendere modellabile le ossa e pochi strumenti di lavoro 169. Scarichi come quello del cosiddetto Santuario Siriaco e di via Sacchi, ove gli scarti di osso lavorato si mescolano a quelli del metallo, dei vetri, dell’invetriata, o la situazione riscontrata nella Basilica Hilariana, ove in alcuni vani di servizio si producevano coloranti, oggetti in metallo, in vetro e in osso, potrebbero indicare che la trasformazione di questo materiale in manufatti si sia appoggiata talvolta ad officine che richiedevano strutture più complesse, sfruttandone le attrezzature. Ibidem, pp. 67, 76, 89-92. 163 PAVOLINI 2013, p. 483, passim. 164 ADAMO 2013, p. 248 (scarti, scorie, manufatti semilavorati, pani di vetro); PAVOLINI 2013, p. 481 e nota 445. 165 Analisi di laboratorio in FERRO, RAPINESI 2013; studio degli aghi crinali in PARENTI 2013. 166 Forse a più officine in un stesso contesto potrebbero riman- dare i ritrovamenti di via Dandolo, ma i resti dei diversi scarti (metallo, vetro, ceramica) si relazionano a scarichi mescolati insieme e non localizzabili. 167 PAVOLINI 2013, pp. 59, 447-448, nota 198. 168 Ibidem, pp. 480-484. Il fenomeno è analizzato per alcuni edifici di Ostia da MAR 1996; MAR 2001. 169 MACGREGOR 1985, pp. 63-67; per gli spilloni, BIANCHI 1995, pp. 100-101; BIANCHI 2007. 162 Per concludere 112 CLEMENTINA PANELLA Differente è il caso della lavorazione dell’avorio, molto meno documentata tra gli scarti 170, che, per il costo della materia prima e per il tipo di oggetti realizzati, potrebbe essere stata appannaggio di un artigianato di più elevato livello. Eborarii e citrarii – intagliatori di avorio e di legni pregiati – sono attestati da un’iscrizione in Trastevere 171, mentre un gruppo di iscrizioni funerarie di età augustea o giulio-claudia, rinvenute nei pressi dell’antica Via Salaria, a ridosso delle Mura Aureliane, appartenenti a liberti specialisti nell’intaglio dell’avorio (eborarii ab Hercule Primigenio) 172, consente di individuare un’altra area fortemente caratterizzata dalla presenza di un’attività artigianale collegata alla lavorazione di questo materiale. nali urbani, con conseguente sviluppo urbanistico (mai monumentale) e demografico (la cui componente multietnica è ampiamente nota) e con la nascita di infrastrutture di stoccaggio (cellae vinarie) e di prima lavorazione delle merci provenienti dal nuovo scalo ostiense 174. Il paesaggio si arricchisce forse già dal III secolo dei mulini ad acqua per la macinazione del grano 175. La documentazione artigianale e manifatturiera, a cui occorre aggiungere anche quella dei laterizi 176, si iscrive in questo quadro topografico, sociale ed economico. Per quanto riguarda un’eventuale vocazione territoriale dell’universo produttivo urbano, escludendo ancora una volta le officine di laterizi delocalizzate rispetto alle città, tre sono i quartieri che appaiono più interessati dai ritrovamenti archeologici. Per l’epoca più antica (età arcaica e media e tarda Repubblica) l’Esquilino, per l’età augustea e imperiale il Celio e la zona del Trastevere dal Gianicolo al Vaticano. In quest’ambito è la riva destra del Tevere che ha restituito il maggior numero di tracce di attività artigianali (ceramica, vetro, invetriata, metallo); ad esse si aggiungono le testimonianze delle fonti soprattutto epigrafiche, che indicano la presenza di lavorazioni pregiate dei cesellatori e intagliatori, ma anche inquinanti (concerie e artigianato del cuoio) 173. Della disponibilità di cave di argilla si è già detto, ma la giustificazione di questa concentrazione di attività è nel carattere di quel territorio, inteso per secoli come un’area di margine, in bilico tra campagna e città, tra spazi per i vivi e luoghi dei morti (caratteristiche queste che condivide con l’Esquilino di età arcaica e repubblicana), tra molto poveri e molto ricchi, tra umili orti e fastosi giardini (gli horti di Cesare, di Agrippina, di Domizia). Annessa all’amministrazione dell’Urbe solo da Augusto come XIV regio, questa parte di Roma, lontana dal centro, ma collocata di fronte alle grandi istallazioni della riva sinistra del Tevere, diventa, soprattutto in seguito alla costruzione dei porti di Claudio e di Traiano, uno dei più importanti termi- Quasi tutte le officine o presunte tali sono datate o databili nel I e II secolo, mentre il III secolo, che pure vede una stabilità demografica e in riferimento alla storia urbanistica ed architettonica grandi operazioni monumentali (Terme di Caracalla, interventi nei palazzi imperiali, Terme Alessandrine, Mura Aureliane, Terme di Diocleziano) appare privo di significativi ritrovamenti. Per quanto abbia cercato di capire le ragioni di questo secolo ‘fantasma’, non ho trovato spiegazioni convincenti. Certo è che nelle stratigrafie urbane prevalgono, in riferimento alla ceramica, le importazioni di beni d’uso dall’esterno (soprattutto dall’Africa Proconsolare), ma sono pur sempre presenti anche ceramiche comuni, da fuoco, lucerne, vetri di presumibile o certa produzione ‘locale’. La sproporzione infine in termini quantitativi e qualitativi tra i dati dell’età imperiale e quelli di età tardoantica (a partire dal V secolo; ‘fantasma’ è per certi versi anche il IV secolo, se non per le officine vetrarie che non sappiamo localizzare), si spiega sia con una maggiore attenzione rivolta oggi allo scavo, sia con la storia della città: l’abbandono generalizzato di alcuni grandi settori urbani e la rovina di edifici e monumenti nel centro cittadino determinano il reimpiego delle strutture ormai in disuso, ma con servizi ancora funzionanti (fogne, strade), ai quali si aggiunge la prossimità delle materie prime (metallo e vetro da rifondere, marmo da riciclare) e la vicinanza con i consumatori nella dimensione via via più ridotta dell’abitato. Anche sul Palatino nella fase più tarda del sito (V e VI secolo) occupato per secoli dalle Curiae Veteres è venuto alla La percentuale di spilloni in avorio rispetto a quella in osso negli ambienti di servizio della Basilica Hilariana è inferiore al 10%: PALAZZO, PAVOLINI 2013, p. 289. 171 ILS 7214; commento su alcune iscrizioni in TASSINI 1994. Un eborarius è anche M. Consius Cerdo, sulla cui ara/ossuario di età augustea compare un elefante che trasporta ceste con zanne di avorio (CIL VI, 16077, dalla via Appia). 172 Sulla localizzazione del luogo di culto, vd. supra, nota 81. Sulle iscrizioni, CHIOFFI 1996. 173 JORDAN, HÜLSEN I, 3, pp. 638-639; LOANE 1938, p. 78; MOREL 1987, p. 131, nota 16 con ulteriore bibliografia. 174 Fonti e bibliografia in AZZENA 2010, in particolare pp. 8-13. 175 COARELLI 1987 (nell’età di Severo Alessandro). 176 Vd. supra e nota 64. 170 ROMA IMPERIALE COME CENTRO PRODUTTIVO: LE EVIDENZE ARCHEOLOGICHE luce un piccolo impianto metallurgico, forse una bottega di fabbro 177, che trova puntuali confronti con le strutture della taberna XI del Foro di Cesare e con quelle rinvenute a piazza Venezia e nel cosiddetto Athenaeum 178, mentre un certo numero di crogioli e scorie metalliche è stato raccolto nell’area delle cosiddette Terme di Elagabalo 179, in buona parte riportati in superficie rispetto alla loro giacitura originaria (VI-VII secolo) dalle spoliazioni basso-medievali. Continuano ad essere presenti nello scavo del Palatino nord-orientale (area delle Curiae Veteres) oggetti in osso e in avorio di qualche pregio nelle stratigrafie del IV e del V secolo 180, da ricollegare forse all’attività ancora in atto, come si è detto, nella o nei pressi della vicina domus con ‘aula ad abside’, o nella stessa area del santuario. Ma con questi ritrovamenti si entra in un orizzonte cronologico su cui altri, in questo volume, interverranno. Bibliografia ADAMO 2013 = M. ADAMO, I reperti vitrei, in PAVOLINI, PALAZZO 2013, pp. 248-249. ANDREAU 2001 = J. ANDREAU, Rome capitale de l’empire, la vie économique, in Pallas, 55, 2001, pp. 303-317. ANDREAU 2009 = J. ANDREAU, Les briques et les tuiles de la région de Rome et les contrats de locatio-condutio, in C. CASCIONE, C. MASI DORIA (a cura di), Fides Humanitas Ius, Napoli 2009, pp. 65-82. ANSELMINO 1981 = L. ANSELMINO, Le antefisse fittili dal I a.C. al II d.C., in SRPS, II, pp. 209-216. ARGENTO, GALLONE 2006 = A. 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LE ATTIVITÀ ARTIGIANALI NELLA ROMA DI ETÀ IMPERIALE: FONTI LETTERARIE E FONTI EPIGRAFICHE Filippo Coarelli Il tema che mi è stato proposto presenta grandi difficoltà: in effetti, la letteratura antica, come è noto, è scarsamente interessata all’economia in generale, e alla produzione in particolare. Inoltre, i documenti disponibili – quasi esclusivamente di carattere epigrafico – sono assai più numerosi e significativi per quanto riguarda il campo della distribuzione, e soprattutto del commercio, piuttosto che per quello della manifattura e dell’artigianato. Basterà qui ricordare la ricca serie di iscrizioni funerarie di commercianti 1, databili quasi tutte tra la tarda repubblica e il primo impero, con precise indicazioni topografiche (circa 200), che permettono anche di ricostruire la posizione topografica delle singole tabernae e di documentarne il progressivo spostamento, dal centro alla periferia, e la trasformazione da imprese di carattere individuale a veri e propri complessi commerciali (macella e horrea). Va sottolineato, a questo proposito, che è talvolta difficile riconoscere l’attività precisa (artigianale o commerciale) di molti di questi operatori. Morel 2 si domanda cos’era esattamente un pistor, un vestiarius, un librarius, un argentarius: artigiano, commerciante o ambedue le cose? Tutti i dati sono stati raccolti da Jean-Paul Morel in un articolo fondamentale, pubblicato nel 1987 3, e sarebbe difficile fare meglio, anche aggiungendo i pochi dati apparsi in seguito. È inoltre evidente che una ricerca del genere, per progredire, non può che basarsi sull’archeologia, l’unica che permetta di accumulare serie di dati omogenei e di elaborarli in estensione e profondità. PANCIERA 1970. MOREL 1987, pp. 128 ss. 3 MOREL 1987. Restando entro i limiti che mi sono stati assegnati, è possibile solo procedere ad alcuni sondaggi parziali, fortemente condizionati dall’inevitabile frammentarietà dei dati a disposizione, e che tra l’altro non sono neanche nuovi, poiché li ho trattati in altre sedi, anche se per lo più di difficile accesso: almeno da questo punto di vista, spero che questo contributo possa presentare qualche utilità nell’occasione presente. Il settore meglio documentato a Roma delle attività produttive è quello connesso con l’edilizia: basti pensare all’importanza che presenta l’uso di bollare i mattoni, sul quale si sono esercitati in particolare, dopo il lavoro pionieristico di H. Bloch 4, gli studiosi finlandesi 5. Del resto, si tratta di un settore che è difficile classificare: si tratta di epigrafia o di archeologia? Probabilmente di ambedue, ma questo davvero mi sembra la cosa meno importante. Trattandosi di un settore molto ben studiato, mi limiterò a una piccola nota a proposito dei grandi depositi di laterizi esistenti a Roma. Accennerò prima, ma solo di passata, a un argomento del tutto trascurato, che riguarda un’attività costruttiva particolare, quella navale, che ha avuto una lunghissima storia, rimasta quasi del tutto sconosciuta prima dei grandi scavi subacquei moderni. Mi riferisco però a una fase molto più antica, alla costruzione delle prime grandi flotte militari romane al momento della prima guerra punica, documentata quasi esclusivamente da un celebre testo di Polibio 6, che però non ci indica (forse perché era universalmente noto) il luogo dove si trovavano queste officine navali, senza dubbio di dimensioni grandiose. È un poeta quasi contemporaneo ai fatti, Ennio, 1 4 2 5 6 BLOCH 1947. Soprattutto Margareta Steynby: STEINBY 1978. Pol. 1, 21, 1-2. 120 FILIPPO COARELLI che in un frammento superstite degli Annales 7 risolve il problema, menzionando il textrinum navibus longis (e cioè l’arsenale) e indicandocene la localizzazione nel Campo Marzio. La fortunata scoperta di vari rostri appartenenti alle navi affondate nel corso della battaglia delle Egadi (242 a.C.) 8, che concluse la prima guerra punica, dimostra che il controllo dei lavori per la costruzione della flotta era stata affidata ai nuovi questori, introdotti pochi anni prima. La presenza nella città di figlinae impegnate nella fabbricazione di materiale laterizio destinato agli edifici urbani (dalle tegole alle terrecotte architettoniche) è attestatata fin dal periodo arcaico. Almeno alcune di esse si trovavano sull’Esquilino, come testimonia Varrone in un testo famoso, quello relativo agli Argei, basato su un documento pontificale senza dubbio di età arcaica, ma che nella redazione che ci resta non sembra anteriore al IV secolo a.C. 9. Anche Festo ricorda un ‘figulo della regione Esquilina’ 10. Ora, gli scavi realizzati sul colle alla fine dell’800 hanno rivelato, in corrispondenza dello sbocco di via dello Statuto su via Merulana, un grande scarico di fornace di età repubblicana piuttosto antica, parzialmente pubblicato da Dressel 11. Tra gli oggetti rinvenuti si distingue un gruppo con iscrizioni incise prima della cottura, identificabili come strumenti destinati alla lavorazione dell’argilla, dove appaiono nomi degli operai della figlina: per ben cinque volte vediamo ritornare lo stesso nome, Sextius. Si tratta di oggetti databili tra la metà del IV e la metà del III secolo a.C., che ci permettono di identificare in un membro della plebea gens Sextia il proprietario dell’officina 12. Ora, uno dei primi personaggi della gens che conosciamo è C. Sextius Sextinus Lateranus, il celebre tribuno della plebe che, tra il 376 e il 367, insieme a C. Licinius Stolo, è autore delle leges Liciniae Sextiae, che equipararono politicamente i plebei ai patrizi. Un rapporto con il proprietario delle figlinae è suggerito con forza dal cognomen Lateranus, che la famiglia conserverà fino al periodo imperiale. Si tratta di un aggettivo indubbiamente derivato da later, mattone: in un’epoca così antica, un cognomen del ge- Enn., in Serv., Aen. 11, 326; COARELLI 1997, pp. 354-356. Si veda COARELLI 2014b; PRAG 2014. 9 Varro, ling. 5, 50, 3. 10 Fest., p. 468 L. 11 DRESSEL 1880. 12 COARELLI 1996, pp. 40 ss. 13 MOREL 1969. 7 8 nere non può che essere legato a una particolare caratteristica del suo detentore, che quindi dovette essere proprietario di figlinae. A questo proposito, è quasi inutile ricordare che la prima delle grandi serie di ceramiche a vernice nera, l’‘Atelier des petites estampilles’, identificato da Morel 13, venne prodotto a Roma o nei suoi immediati dintorni a partire dalla fine del IV secolo a.C. Poco prima era stata fabbricata a Roma, come indica l’iscrizione, la più bella delle ciste dette ‘prenestine’, la cista Ficoroni 14. La recente scoperta, presso Cassino, di una spada databile all’inizio del III secolo 15, in cui è ageminata un’iscrizione dalla quale risulta che l’oggetto (un prodotto di lusso, appartenuto certamente a un ufficiale romano) era stato fabbricato a Roma. Ciò pone tra l’altro un problema per ora insolubile: dove erano le officine, senza dubbio numerosissime, che provvedevano a fornire di armi e di molto altro quello che era forse il mercato più ampio allora esistente, l’esercito romano? 16. Passando a un periodo più vicino, vorrei rapidamente trattare un caso che mostra come molti membri dell’aristocrazia senatoria romana manifestassero, fin dalla fine della repubblica e dall’inizio dell’impero, un grande interesse per la produzione di laterizi: si tratta di un fatto ben noto, che portò, nel corso della media età imperiale, a un progressivo concentrarsi di tale produzione nelle mani dell’imperatore, fino a divenire un vero e proprio monopolio con Marco Aurelio 17. Si tratta delle notissime lastre Campana scoperte nella casa di Augusto durante gli scavi di Gianfilippo Carettoni, tra le quali spicca quella con la lotta tra Ercole e Apollo per il possesso del tripode delfico 18. Sappiamo ormai che queste splendide terrecotte non appartenevano alla decorazione del tempio di Apollo, ma erano destinate ad essere inserite nell’ampliamento della casa di Augusto, avviato nel 36 a.C. 19. Ora, una serie di lastre derivate dalle stesse matrici, apparentemente più fresche, è stata scoperta durante la costruzione del Museo del Risorgimento: esse provengono dunque da un edificio situato alle spalle del tempio di Venere Genitrice, che per motivi che ho già DOHRN 1972. SACCO, TONDO, NICOSIA 2012. 16 Per un’ipotesi che identifica alcune di queste a Fregellae, cfr. COLASANTI 1928; COARELLI 1998, pp. 43 ss. 17 BLOCH 1947; STEINBY 1978. 18 STRAZZULLA 1990. 19 IACOPI, TEDONE 2006, p. 367; COARELLI 2012, p. 365. 14 15 LE ATTIVITÀ ARTIGIANALI NELLA ROMA DI ETÀ IMPERIALE: FONTI LETTERARIE E FONTI EPIGRAFICHE 121 esposti altrove 20, non può essere che l’Atrium Libertatis, ricostruito in forme monumentali da Asinio Pollione a partire dal 39 a.C.. Si deve aggiungere che nella casa di Augusto e nel tempio di Apollo sono apparse tegole bollate con il nome di un Cosconius, che aveva lavorato nelle figlinae di Asinio Pollione: e cioè dello stesso console del 40, che aveva ricostruito l’Atrium Libertatis. Il terzo elemento che permette di completare il discorso si ricava da un vecchissimo articolo di de Rossi, del 1873 21, che identificò ai piedi del colle di Tuscolo, in base ad alcune iscrizioni, la villa di Asinio Pollione, che vi morì all’età di 80 anni 22. Nella stessa zona si trovano importanti cave di argilla e scarichi di officine laterizie. La conclusione evidente è che il console del 40 a.C. produceva nella sua villa suburbana non solo le terrecotte decorate, che venivano vendute a personalità prestigiose, come Augusto, ma anche laterizi e tegole, che dovevano costituire una parte non secondaria delle sue fortune economiche. Un argomento che esporrò brevemente si basa su un frammento della Forma urbis Severiana rimasto a lungo inspiegato, la cui parte perduta è nota da un disegno 23. Vi si scorge un ampio spazio vuoto, occupato in basso da due locali di pianta rettangolare allungata. Al centro dell’area libera si legge con sicurezza: NAVALEMFER. Le correzioni proposte, ad esempio da Hülsen 24, NAVALE INFERIVS, non reggono davanti a un testo così chiaro, anche se certamente incompleto a destra. L’altezza molto ridotta della lastra (37 cm) permette di collocarla alla sommità della forma marmorea, dove si trovavano anche il Mutatorium e l’Area Radicaria, localizzati in un’area immediatamente a sud del Circo Massimo. Il nostro edificio doveva pertanto trovarsi tra questo punto e la via Ostiensis, lungo le pendici orientali del Piccolo Aventino. Penso che tutto ciò permetta l’identificazione con un navale, del tipo di quello menzionato in un mattone proveniente dalla Pannonia, in cui si parla di navalia nel senso di ‘depositi di mattoni’ 25. In effetti, questi stessi edifici altre volte sono designati con il termine analogo di portus: la più importante di queste installazioni a Roma era il portus Licini, che resta in uso fino a Teodorico 26. Ciò permette di sciogliere in modo soddisfacente l’iscrizione con Navale M(arci) Ferocis, e di attribuire il complesso (forse un magazzino, tegularium) con adiacenti figlinae a Cn. Pompeius Ferox Licinianus, console suffetto nel 98 27. Passando a un altro argomento, vorrei ricordare brevemente la grande attività, strettamente connessa con l’edilizia, di marmorari e scultori, che aveva luogo in due zone della città, situate agli estremi opposti, meridionale e settentrionale: nei pressi cioè dei due porti principali di Roma, che in seguito furono sostituiti da Ripa Grande e Ripetta. Questo argomento è stato recentemente trattato molto bene da Martin Maischberger 28, ciò che mi consentirà di abbreviare il discorso. Probabilmente il centro principale di questa attività va identificato nella zona nord-occidentale del Campo Marzio, dove in varie epoche ne vennero rinvenute tracce inequivoche 29. Maischberger ha redatto un’accurata serie di schede dei vari ritrovamenti (più di cento), per i quali però, per la natura e l’epoca delle scoperte, non disponiamo di alcun dato stratigrafico, ciò che sarebbe di grande importanza per riconoscere le varie fasi di questa attività, che si prolungò certamente fino al medioevo. L’unico punto su cui sono in disaccordo con l’autore è la sua esitazione nel riconoscere l’esistenza nell’area di una vera e propria Statio marmorum (come ritenevano gli autori ottocenteschi, tra i quali Lanciani) 30, nonostante le esplicite testimonianze epigrafiche, che segnalano la presenza in prossimità di S. Apollinare 31 (nel 1735 o 37) di una fistula di piombo con l’indicazione IMP. ANTONINI AVG. PII STATIONIS PATRIMONII SUB CURA DIOSCVRI; va menzionata a questo proposito anche un’iscrizione scoperta in Parione 32, con la dedica a Iuppiter Optimus Maximus da parte di un Semnus, optio tabellariorum stationis marmorum. Conosciamo inoltre un M. Ulpius Martialis Aug. lib. (evidentemente di Traiano) a marmoribus 33 e un M. Ulpius Aug. lib. Restitutus (ancora un liberto di COARELLI 1984, pp. 130, 136. DE ROSSI 1873. 22 Hier., chron. a. Abr. 2020: 758 = 5 d.C. 23 CARETTONI, COLINI, COZZA et alii 1960, pp. 60 ss.; COARELLI 1997, pp. 359-361. 24 HÜLSEN 1896, pp. 246-258. 25 EphEp II, p. 434, n. 927. 26 STEINBY 1978, c. 1512; L. CAMILLI, s.v. Port(us) Lic(inii), in LTUR IV, 1999, p. 154. PIR 2, Pompeius 606. MAISCHBERGER1997. 29 LANCIANI 1891, pp. 34-36; MAISCHBERGER 1997, pp. 139141. 30 Ibidem. 31 CIL XV, 7315. 32 CIL VI, 410. 33 CIL VI, 8483. 20 21 27 28 122 FILIPPO COARELLI Traiano) praepositus ex statione marmorum 34. La ragione di tali dubbi è il significato del termine statio, che secondo Bruun 35 non indicherebbe la sede fisica di un ufficio pubblico: una posizione a mio avviso del tutto aberrante. Il dato più notevole di questa funzione dell’area, emerso recentemente, è la presenza sul pavimento antico di lastre di travertino, a sud del Mausoleo di Augusto, di una serie di linee incise, che riproducono la metà di un grande frontone, da identificare senza alcun dubbio con quello del Pantheon 36. Disegni del tutto analoghi, ancora visibili nell’area circostante all’Anfiteatro Campano 37, riproducono a terra la forma delle arcate del recinto esterno dell’edificio: esse erano senza dubbio destinate agli scalpellini che dovevano realizzare i vari elementi architettonici. Nel nostro caso, ciò significa due cose precise: che il luogo di sbarco dei blocchi marmorei destinati alla costruzione del Pantheon era situato in coincidenza dell’antico porto fluviale (in seguito Ripetta); inoltre, che la lavorazione degli elementi architettonici marmorei di grandi dimensioni aveva luogo in genere nella stessa area. Una breve esposizione merita anche un altro argomento: cioè, la posizione delle officine che, per il loro carattere inquinante, non potevano trovarsi nel centro della città. Conosciamo la risposta in almeno tre casi: le officine del minio, quelle del cuoio e quelle del piombo. Nel primo caso, dobbiamo a Vitruvio 38 la notizia che il minio, la cui materia prima proveniva dalla Spagna, era prodotto in un’area del Quirinale compresa tra il tempio di Flora e il tempio di Quirino. Già Hülsen 39 dimostrò, contro Lanciani e altri studiosi 40, che non poteva trattarsi di una zona situata all’interno delle mura, sulla sommità del Quirinale, ma certamente ai piedi del colle, dove tra l’altro l’aqua Sallustiana poteva fornire le grandi quantità d’acqua necessarie. La posizione del tempio di Flora va identificata con una zona esterna alle mura serviane, più o meno in coincidenza con la piaz- zetta Scanderbeg 41: le officine dovevano trovarsi dunque sul lato nord del colle, lungo l’attuale via del Tritone, più o meno tra la fontana di Trevi e piazza Barberini (dove, contrariamente all’ipotesi di Carandini 42, che lo localizza nei giardini del Quirinale, si trovava certamente il tempio di Quirino) 43. Per una certa vischiosità dei nostri studi, si ritiene che le officine restassero sempre nella stessa zona: ma ciò è certamente escluso dal fatto che (come dimostrano gli scavi di Elisa Lissi Caronna 44 nella zona di via dei Maroniti e la recente collocazione nella stessa zona, da parte di Pierluigi Tucci 45, di un frammento della Forma urbis Severiana) tutta quest’area, certamente libera da edifici all’epoca di Vitruvio (cioè tra Cesare e l’inizio del periodo augusteo) venne intensamente urbanizzata nel II secolo d.C.: di conseguenza, le officine del minio dovettero trasferirsi altrove, più lontano dal centro abitato. Conosciamo per via epigrafica (e forse anche archeologica, se gli edifici sotto santa Cecilia in Trastevere fanno davvero parte dei coraria Septimiana, come oggi si tende ad escludere) 46 la posizione delle officine del cuoio, anch’esse altamente inquinanti e situate per questo in un’area marginale e poco urbanizzata del Trastevere. Un’analoga indicazione ci è fornita da un’iscrizione funeraria di un certo C. Iulius Thallus, probabile liberto imperiale 47 qui egit officinas plumbarias Transtiberina (regione) et trigari, prima di diventare un funzionario della Moneta. Sappiamo così dove venivano realizzate le fistule acquarie, di cui tanti esemplari ci sono conservati. Un caso privilegiato è quello della Moneta, del quale è possibile identificare con sicurezza tanto la sede repubblicana, utilizzata fino a Domiziano, che si trovava sull’Arx, come pure la sede successiva, situata nella regio III. La prima inizia la sua attività fin dal 269 a.C. quando venne coniata la prima moneta d’argento romana, il quadrigato 48. La seconda, per motivi che sarebbe qui troppo lungo esporre, va identificata con l’edificio sotto S. Clemente 49. Comunque, tra i motivi di questa identificazione (oltre a un frammento perduto della pianta mar- SAGUÌ, MANACORDA 1995, pp. 121-123. BRUUN 1989. 36 HASELBERGER 1994. 37 GOLVIN 1988, p. 204, nota 418. 38 Vitr. 7, 9, 4. 39 HÜLSEN 1894, p. 409. 40 E. PAPI, s.v. Officinae Miniariae, in LTUR III, Roma 1996, pp. 360-361. 41 COARELLI 2014 a, pp. 76-78. CARANDINI 2007. COARELLI 2014 a, pp. 43-112. 44 LISSI CARONNA 1985. 45 TUCCI 1996. 46 A. PRONTI, s.v. Coraria Septimiana, in LTUR I, Roma 1993, pp. 322-323. 47 CIL VI, 8461; ILS 1637. 48 COARELLI 2013, pp. 57-82. 49 COARELLI 1994; COARELLI 2013, pp. 149-184. 34 35 42 43 LE ATTIVITÀ ARTIGIANALI NELLA ROMA DI ETÀ IMPERIALE: FONTI LETTERARIE E FONTI EPIGRAFICHE morea severiana che rappresenta l’edificio) è una serie numerosa di iscrizioni, scoperte davanti o all’interno della chiesa. Le più importanti sono tre grandi cippi dedicati ad Apollo Augustus, a Fortuna Augusta e ad Hercules Augustus il 28 gennaio del 115, sotto Traiano 50, da un Felix Aug. l. optio et exactor argenti aeris, insieme agli officinatores, signatores, suppostores e malliatores della Moneta Caesaris nostri. L’edificio sotto S. Clemente (che misura circa 2000 m2) comprendeva un grande cortile centrale, dove si trovava probabilmente una grande vasca, chiuso tutt’intorno da una serie di ambienti identici sui lati lunghi, più piccoli sul lato minore conservato: si può così riconoscere una precisa scansione in quattro settori, ognuno costituito da cinque ambienti. Le iscrizioni ci forniscono certamente il numero totale degli operai che lavoravano nella moneta: 17 signatores (12 liberti e 5 schiavi), 11 suppostores (7 liberti e 4 schiavi), 38 malliatores (11 liberti e 27 schiavi). I signatores dovrebbero essere gli artigiani specializzati nella realizzazione dei coni, certamente l’élite del personale (come appare dal numero elevato di liberti). Al capo opposto della gerarchia sono i malliatores (i ‘martellatori’), personale di fatica poco specializzati, tra i quali prevalgono gli schiavi. Una posizione intermedia occupano i suppostores, gli operai incaricati di scaldare il tondello e tenerlo con le pinze al momento della coniatura. Il numero rilevante dei malliatores si spiega senza dubbio con la durezza del lavoro, che doveva richiedere frequenti turni. Nel complesso, il personale della Moneta sembra costituito da un optio exactor, da un optio e da 91 operai, che dovevano essere divisi in una decina di squadre, in ognuna delle quali un suppostor doveva essere coadiuvato da tre malliatores. Si potrebbe in conclusione proporre una suddivisione del genere: Moneta auraria: 1 officina; 6 officinatores (un suppostor, due signatores, 3 malliatores); Moneta argentaria: 4 officinae: 19 officinatores (4 suppostores, 6 signatores, 14 malliatores); Moneta aeraria: 12 officinae: 66 officinatores (11 suppostores, 17 signatores, 38 malliatores). In complesso, 16 o 17 officinae, che potrebbero agevolmente trovar posto nei venti ambienti dell’edificio sotto S. Clemente, mentre gli altri potevano servire per 50 CIL VI, 42-44. 123 la lavorazione dei conii e per la flatura (che poteva aver luogo nel cortile centrale, dove era la vasca probabilmente utilizzata per raffreddare i tondelli fusi). Bibliografia BLOCH 1947 = H. BLOCH, I bolli laterizi e la storia dell’edilizia romana, Roma 1947. BRUUN 1989 = Ch. BRUUN, Statio aquarum, in M. STEINBY (a cura di), Lacus Iuturnae I, Roma 1989, pp. 127-147. BRUUN 1991 = Ch. BRUUN, The Water-Supply of Ancient Rome. A Study of Roman Imperial Administration, Helsinki 1991. CARANDINI 2007= A. CARANDINI, Cercando Quirino, Roma 2007. CARETTONI, COLINI, COZZA et alii 1960 = G. CARETTONI, A.M. COLINI, L. COZZA, G. GATTI, La pianta mermorea di Roma antica, Roma 1960. COARELLI 1984 = F. COARELLI, Roma sepolta, Roma 1984. COARELLI 1994 = F. COARELLI, Moneta. Le officine della zecca di Roma tra repubblica e impero, in AnnIstItNum, 38-41, 1994, pp. 23-65. COARELLI 1996 = F. COARELLI, Revixit Ars, Roma 1996. 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Gli scavi, ben lungi dall’essere completati, nell’area hanno messo in luce una serie di attività produttive in età tardoantica nell’esedra, sul lato est del portico, e nel quartiere di isolati antichi a est del portico, in particolare negli edifici di II secolo portati in luce a sud-est dell’esedra. Si tratta, di officine metallurgiche e/o vetrarie che producevano una vasta gamma di beni di lusso legati all’abbigliamento, alla decorazione etc. 1. L’esedra, che si apriva sul lato est del portico, dal II secolo ristrutturata come latrina e separata dal portico con un muro diametrale, si è ormai appurato che nel corso del III-IV secolo è funzionalmente connessa con gli ambienti a piano terra degli edifici antichi addossatisi al lato sud-est del portico dall’età traianea-adrianea 2. In età tardoantica sembra continuare l’unitarietà funzionale tra l’area dell’esedra e gli ambienti a sud-est di essa. Nell’esedra sono stati rinvenuti i resti di un forno per la produzione del vetro 3. Essi sono stati datati alla seconda metà-fine del V secolo 4. Gli scavi recenti negli edifici a sud-est dell’esedra hanno messo in luce un im- Cfr. RICCI, infra, pp. 00. 2 Cfr. VENDITTELLI 2014, pp. 49-60. 3 Cfr. l’intervento di L. Saguì in questo volume. 1 pianto per produzioni metallurgiche. Gli scavi hanno portato in luce ambienti di due edifici affacciati (uno a sud e uno a nord) su un cortile pavimentato con il basolato, delimitato da due archi a est e ovest, che prosegue con un percorso agibile ma coperto da edifici, e pavimentato in opus spicatum (figg. 2-4). La sistemazione del basolato rinvenuto è da porsi alla metà del V secolo quando si cerca anche di risistemare la copertura della fogna sottostante usando anfore coeve 5. Negli ultimi due ambienti dell’edificio nord, affacciati su questo cortile, sono stati rinvenuti due forni, uno laterizio e uno in pietra lavica pertinenti ad un’officina che ha lavorato fino alla fine del VI secolo, e comunque tutti gli ambienti a piano terra degli edifici fino ad ora scavati saranno abbandonati, e riempiti di macerie a seguito del crollo delle volte, all’inizio del VII secolo. Del resto, sempre negli edifici ad est dell’esedra, rappresentati dalla Forma urbis marmorea, deve ricondursi anche l’officina cui appartengono i materiali e gli scarti che in gran quantità sono stati rinvenuti nel deposito di fine VII secolo dell’esedra e che oggi sono illustrati nel museo della Crypta Balbi 6. Sin dall’inizio la formazione del deposito aveva indotto a ritenere che il butto fosse avvenuto dall’area a nord-est dell’esedra. Oggi saggi di scavo condotti nelle cantine a nord dell’esedra e che hanno documentato l’angolo di un portichetto da riconoscere in quello raffigurato nella Forma urbis marmorea non hanno rivelato tracce di attività produttive per produzioni metallurgiche e/o vetrarie, che dunque, probabilmente, vanno poste tra 4 Cfr. SAGUÌ 1993, pp. 409-418; SAGUÌ, MANACORDA 1995, pp. 121-129. 5 Cfr. VENDITTELLI 2014, pp. 49-59. 6 Cfr. RICCI 2001b, pp. 331-428. Fig. 1. - Crypta Balbi. Pianta archeologica aggiornata. In evidenza in grigio le strutture antiche (I-II secolo); le strutture tardoantiche (IVVII secolo); e le strutture medievali della chiesa di Santa Maria domine Rose ( XII-XIV secolo): vedi anche tav. 00. questa area e quella già portata in luce a sud-est. L’officina di cui al deposito di fine VII secolo dell’esedra, peraltro, era stata messa in connessione come pertinenza del Monastero di S. Lorenzo in Pallacinis da ubicarsi più o meno in corrispondenza della attuale chiesa di S. Stanislao dei Polacchi sul lato nord del complesso della Crypta Balbi 7. I recenti ritrovamenti di un’officina, in parte coeva, a sud-est dell’esedra in ambienti apparentemente non riferibili immediatamente al monastero, 7 Cfr. SAGUÌ, MANACORDA 1995, pp. 121-129. L’ISOLATO DELLA CRYPTA BALBI Fig. 2. - Edifici a sud-est dell’esedra. Pianta degli edifici a nord e sud del cortile. Fig. 3. - Edifici a sud-est dell’esedra. Sezione ovest-est sul cortile. 129 LAURA VENDITTELLI - MARCO RICCI potrebbero cambiare la prospettiva circa la pertinenza al monastero o comunque potrebbero ampliare l’area di eventuale pertinenza e/o controllo da parte del monastero. Due notazioni di carattere topografico Fig. 4. - Edifici a sud-est dell’esedra, visuale da ovest. Due notazioni di carattere topografico sembrano potersi fare allo stato attuale delle ricerche nell’isolato. Gli scavi hanno documentato che le attività di of- Fig. 5. - Posizionamento della Forma urbis marmorea sulla pianta dell’area in scala 1:307: vedi anche tav. 00. L’ISOLATO DELLA CRYPTA BALBI ficine in età tardoantica sembrano mancare sul fronte nord del portico dove in età imperiale esisteva una struttura di servizio tra due edifici pubblici: la cisterna coperta a volta organizzata in età domizianea, subito dopo l’incendio dell’80, tra il muro perimetrale nord della Crypta Balbi e il muro perimetrale sud della Porticus Minucia (fig. 5 e tav. 00) 8. E se anche già dal IV secolo nel braccio nord della Crypta muretti paralleli e buchi per pali sul pavimento d’età imperiale attestano una diversa divisione dello spazio, non sono state rinvenute tracce di attività produttive 9. Tracce di attività produttive mancano anche nell’area dell’antica cisterna. Esse sembrano attestarsi dunque nell’esedra e negli isolati a ridosso di essa sul lato est. Anche negli ambienti addossati all’esterno del muro perimetrale sud della Crypta sono attestate attività produttive in età altomedievale; sono state rinvenute tracce di attività metallurgica e/o vetraria attestate dal rinvenimento di frammenti di crogioli 10. Riguardo alla possibilità di un perpetuarsi di una tradizione di attività di epoca classica negli isolati circostanti la Crypta l’unica attività ascrivibile ad epoca imperiale per ora attestata dagli scavi è un piccolo impianto di fullonica recentemente portato in luce, che sembra sia stato in attività nel corso del II secolo. Il piccolo impianto è documentato nell’ambiente immediatamente a est del cortile basolato, sul lato nord. È ovvio mettere in relazione questo impianto con la latrina funzionante nello stesso periodo nell’esedra della Crypta distante non più di venti metri. La fullonica sembra sia stata in uso pochi decenni. Già negli ultimi decenni del II-inizi del III secolo le vasche per l’acqua sono usate per lo scarico di vasellame rotto, soprattutto anfore, e nello scarico sono stati trovati i frammenti del cratere invetriato, databile al I-II secolo, probabilmente pertinente al culto che si svolgeva nell’ambiente adiacente a est. Le strutture della fullonica sono ormai interrate quando nell’ambiente sono documentate tracce di una frequentazione (un focolare, tracce di pasti, vasellame da mensa e da dispensa) databile, ad un primo esame, alla fine del V-inizi del VI secolo (fig. 6 e tav. 00). Tracce di attività metallurgiche da mettere in relazione con i vicini forni, sono attestate anche nell’ambiente immediatamente a est della fullonica. A est della fullonica VENDITTELLI 2014, p. 11. Cfr. VENDITTELLI 2004, pp. 222-230. 10 Cfr. il contributo di L. Saguì in questo volume. il passaggio nord-sud già coperto da una volta poggiante su un muro addossato all’edificio di cui si è messo in luce l’angolo sud-ovest, viene chiuso tamponando l’arco a nord. Nell’ambiente così ricavato nel corso del II secolo si istalla un sacello dedicato a varie divinità di tradizione greca e orientale tra cui Diana, Meleagro, Afrodite di Afrodisia, Dioniso, di cui si è ritrovata una maschera, Iside e una testa maschile forse riferibile ad Eracle. Le statuette delle divinità erano poste su un altare-bancone su arco ribassato con il piano in laterizio che sta sopra una vaschetta foderata di cocciopesto e delimitata da un cordolo. Nell’angolo ovest una caditoia nel pavimento permetteva lo scolo dell’acqua. Davanti, due muretti che lasciano un’apertura centrale davanti all’altare, provvista di soglia, forse in marmo. Davanti all’apertura rimane, nel pavimento, la traccia di un podio quadrangolare forse in cocciopesto intonacato, con funzione di altare, oppure la traccia documenta l’eventuale l’alloggiamento di un’ara marmorea (fig. 7). Sulla parete est dell’ambiente tracce di una nicchia intonacata che forse ne aveva una corrispondente sulla parete opposta. Come l’ambiente della fullonica, infatti, anche il sacello, una volta in disuso, è ancora frequentato nella seconda metà del VI-inizi del VII secolo. Nello strato di abbandono, di questa fase, sono state rinvenute presso l’altare le statuette delle divinità che evidentemente ancora erano abbandonate nell’area. E a questa fase tardoantica appartiene la sistemazione dei capitelli e del frammento di travertino posti come piani d’appoggio vicino a focolari, di cui si vedono le tracce annerite sui muri, forse per cucinare e, soprattutto, per le attività metallurgiche da connettersi con la vicina officina (fig. 8). Sono state trovate, infatti, ossa di animali, frammenti di vasellame da cucina e da dispensa, ma anche frammenti di crogioli 11. L’attività delle calcare Tra la fine dell’VIII e gli inizi del IX secolo è documentata l’attività di una calcara all’interno dell’esedra, sul lato nord (fig. 5, A) 12. Sembra difficile mettere in relazione tale attività di età carolingia con gli impianti d’età moderna rinvenuti. L’attività dei calcarari è attestata nell’area in età moderna fino alla fine 8 9 131 11 12 Cfr. infra, pp. 00. Cfr. MANACORDA 2001, pp. 49 ss. Fig. 6. - Crypta Balbi. Pianta con l’indicazione delle calcare rinvenute: vedi anche tav. 00. del XVI secolo. In particolare negli scavi sono state rinvenute tracce della calcara databile già nel XV secolo da dove proviene un frammento marmoreo della Forma urbis (fig. 5, 1) 13; la grande calcara sul lato est del portico, vicinissima a quella altomedievale, datata al 1579 e la calcara rinvenuta nelle cantine a nord del- l’esedra: la calcara dei Polacchi (fig. 5, 3) a testimonianza dell’attività delle calcare nella zona detta appunto Calcarario. 13 Cfr. MANACORDA 2002, pp. 693-715. L’ISOLATO DELLA CRYPTA BALBI 133 L’età medievale Tracce di attività produttive legate alla metallurgia sono documentate nell’area meridionale dell’esedra in età medievale 14, mentre dagli scavi non si hanno tracce per ora circa le attività produttive nel complesso attestate dai documenti d’archivio: la produzione delle funi e dei panni 15. (L.V.) Le officine Tra le varie strutture rinvenute negli scavi degli ultimi anni nell’area sud-est della Crypta Balbi, l’area produttiva appare tra le più interessanti e ricca di implicazioni (fig. 9) 16. Quest’area si impianta nei due ambienti più orientali del fronte nord del vicolo/cortile pavimentato in basoli e in uno degli ambienti più orientali sinora indagati. Nell’ambiente occidentale (figg. 10-11 e tav. 00), una volta chiuse le porte che lo mettevano in comunicazione con la sala verso ovest e con il vicolo/cortile verso sud, Cfr. SAGUÌ 1990b, pp. 60-61. Cfr. MANACORDA 2001, p. 78, fig.88; pp. 81 ss. 16 I rilievi sono di Monica Cola, le foto si devono a Zeno Colatoni, mentre i disegni sono di chi scrive. 14 15 Fig. 7. - Sacello a est della fullonica. Particolare dell’altare. Fig. 8. - Sacello a est della fullonica durante lo scavo. Fase fine VI-inizi VII secolo. 134 LAURA VENDITTELLI - MARCO RICCI alto circa cm 75. Il basamento, circolare a est, nell’angolo sud-ovest si presenta rettilineo e crea un piano rivestito di malta che prosegue sino al piano interno della struttura. Di questo, probabilmente in materiale refrattario o in pietra resistente al calore rimane ben visibile l’impronta. Sul basamento poggia la volta circolare del diametro di circa cm 240 (fig. 12), realizzata a corsi orizzontali con paramento interno in laterizi e nucleo in materiale misto. Nel basamento non erano previste aperture mentre nella parte alta nella zona del pianetto nell’angolo sud-ovest si apriva la bocca principale di alimentazione e sulla base dei confronti è molto probabile che il pianetto fosse funzionale all’appoggio dei mantici. Una o più probabilmente due bocche piccole per il passaggio dei crogioli dovevano essere presenti nella parte frontale della volta e di una di esse semFig. 9. - Planimetria dell’area delle fornaci. bra leggersi lo stipite orientale. La fornace appare praticamente identica ad una illustrata nel libro di Vannuccio Biringuccio (fig. 13) 17 per la raffinazione dell’argento e appartiene alla variegata tipologia dei forni a riverbero per metalli. Dal testo del Biringuccio 18, sappiamo che per questi forni, restando fissi gli elementi base, ogni costruttore variava i dettagli a seconda dei materiali e delle esigenze. Il forno sembrerebbe ad oggi un unicum per dimensione e conservazione per quest’epoca. Nell’ambiente orientale (figg. 9, 14) connesso e collegato al primo troviamo nell’angolo nord-ovest l’area di preparazione del combustibile individuata da lastre di marmo e pietra collocate sulla pavimentazione e da evidenti resti di carbone e ossa semicalcinate normalmente usate per alzare il calore. Al centro dell’ambiente legFig. 10. - Sezione dell’area delle fornaci con ricostruzione del volume della fornace grande. germente spostata verso est è collocata una struttura in pietra lavica con rincalzo alla venne aperta o allargata la comunicazione verso est e venbase di laterizi e terra. Nell’angolo sud orientale delne costruita in tutta la parte settentrionale una grande forl’ambiente è attribuibile a questo allestimento una vanace circolare con basamento in opera listata abbastanschetta bassa pavimentata in bipedali probabilmente funza regolare a due corsi di laterizi alternati a uno di tufelli 17 BIRINGUCCIO 1540, carta 58r. 18 BIRINGUCCIO 1540, carte 55v-59r. Fig. 11. - Vista della fornace grande. Fig. 13. - Fornace dal Vannuccio Biringuccio. Fig. 14. - Vista dell’ambiente della fornace piccola. Fig. 12. - Sezione ricostruttiva della fornace grande. zionale al raffreddamento di strumenti. Per quanto a prima vista la struttura in pietra (fig. 15) sembrerebbe una macina riusata, essa non corrisponde ai tipi noti e manca del foro passante per il passaggio del grano, comunque sia appare chiaro che essa venne impiegata come forno per crogioli. Nella parte bassa presenta un’ampia bocca arcuata e una serie di fori interpretabili come fori di inserimento per i mantici. Due fori, probabilmente con la stessa funzione sono presenti anche nella parte alta più rifinita internamente e con un grosso quadrello di ferro al centro. Come detto essa è interpretabile come forno per crogioli e corrisponde nei principi base ai vari tipi illustrati nel Vannuccio Biringuccio (fig. 16) 19. Una terza area di lavorazione, con caratteristiche più 19 BIRINGUCCIO 1540, carte 105r-106v. Fig. 15. - Viste della fornace in pietra lavica. 136 LAURA VENDITTELLI - MARCO RICCI Fig. 17. - Tegame in ceramica da cucina con deformazioni e schizzi di bronzo. Fig. 16. - Tipi di piccole fornaci dal Vannuccio Biringuccio. labili è stata individuata dell’ambiente precedentemente occupato da un sacello di culto. All’interno dell’ambiente è stata individuata una zona nella quale furono collocati due capitelli e altri elementi lapidei a creare un’area di lavoro 20. In questa zona sono state rinvenute varie scorie di lavorazione (fig. 20) oltre ad un frammento di pane di bronzo (figg. 23-24) all’interno di uno 20 Cfr. supra, pp. 00. Fig. 18. - Olla in ceramica da cucina con deformazioni, reificazioni, vetrificazioni e schizzi di bronzo. strato caratterizzato da argilla in parte concotta, carboni, ossa animali, frammenti di crogioli e un notevole numero di frammenti pertinenti ad almeno trenta contenitori in ceramica da cucina. Alcuni di questi presentano sull’orlo deformazioni, zone greificate o vetrificate e schizzi di metallo sulle pareti interne interpretabili come segni di una ricottura parziale degli stessi (figg. 17-18). Questo dettaglio appare interpretabile come un uso de- L’ISOLATO DELLA CRYPTA BALBI 137 Fig. 19. - Colature di bronzo e scoria spugnosa. Fig. 21. - Vista interna ed esterna di frammenti di crogiolo. Tra i materiali rinvenuti negli strati connessi alle strutture negli ambienti principali spicca la presenza di gocce di fusione in bronzo variabili dai 5 ai 50 grammi e di scorie (fig. 19), anche se in numero limitato, ma va detto che il battuto dell’ambiente della fornace grande è stato solo esposto e non scavato. Un paio di gocce di vetro non permettono di affermare che assieme ai metalli il grande forno venisse impiegato anche per la lavorazione del vetro anche se Fig. 20. - Colature di bronzo e sulla destra crogioli con scoria spugnosa. rimane possibile. Rilevante è la presenza di crogioli in ceramica refrattaria piuttosto gli stessi o almeno di buona parte di essi come contenigrandi, tra i cm 10 e i 15 di diametro, con tracce di tori impiegati per la fusione a catino di metalli scelti bronzo (fig. 21) dei quali uno quasi intero realizzato al molto probabilmente per la loro refrattarietà. Questo tornio come gli altri ma con camicia interna plasmata tipo di fusione illustrata da Vannuccio Biriguccio (fig. a mano con un materiale refrattario più fine e spugnoso 16) avveniva posizionando il crogiolo all’interno di un (fig. 22). contenitore riempito di carbone che veniva portato ad Particolare è un frammento di pane di bronzo del peso alta temperatura con l’ausilio del mantice. La temperadi grammi 115 che presenta un listello rilevato, impronta tura di fusione che superava i 1000 gradi portava ad una di una scanalatura nella forma forse un segno di limite ricottura dei vasi soprattutto nella zona dell’orlo. Quedel pane (fig. 15). Questa scanalatura permette di iposto sistema impiegato per la fusione di piccole quantità tizzarne la ricostruzione (fig. 16) dalla quale si evince di metallo permetteva un risparmio del carburante e apcome il pane circolare dovrebbe aver avuto la dimenpare ausiliario alle altre aree destinate alla fusione di sione di circa un piede ed un peso tra i 4,5 e i 5 kg. corquantità di metallo più ingenti. rispondente a 15 libbre circa. Un segno di trancia sul 138 LAURA VENDITTELLI - MARCO RICCI Fig. 22. - Viste e sezione di un crogiolo con camicia esterna e scoria spugnosa. Fig. 23. - Viste di un frammento di pane di bronzo. Fig. 24. - Ricostruzione del pane di bronzo. bordo è forse indice di aggiustamenti del peso. Il pane ci dimostra come nell’officina si lavorassero lingotti di metallo semilavorato oltre probabilmente a fondere rottami di metallo. Un peso da bilancia in piombo sembra anch’esso connesso all’attività dell’officina (fig. 25). Lamine e prodotti in lavorazione attestano oltre alla fusione la laminatura, lo sbalzo e la battitura (fig. 26). Tra i materiali finiti o in corso di lavorazione spicca una fibbia ben databile intorno alla metà del VI secolo (fig. 27) oltre all’attestazione di spilli da acconciatura o ferma mantello, un ago da cucito (fig. 28) e un anello digitale in lamina con croce (fig. 29). La lavorazione dell’osso è attestata da bambole (fig. 31), placchette, aghi, spargi profumo (fig. 30), e un piccolo pendente a forma di cinghiale (fig. 32). Nel complesso gli ambienti sono chiaramente interpretabili come area di lavorazione a caldo di una più vasta officina che doveva comprendere altri ambienti per le altre lavorazioni. Date le dimensioni si tratta comunque di un complesso produttivo con caratteristiche più da industria che da bottega artigiana. L’allestimento degli ambienti appare databile sulla base dei ma- L’ISOLATO DELLA CRYPTA BALBI 139 Fig. 25. - Peso da bilancia in piombo. Fig. 27. - Fibbia in bronzo. Fig. 26. - Lamine e scarti di lavorazione in bronzo. teriali intorno alla metà del VI secolo e la fine del loro uso è da attribuire agli inizi del secolo successivo quando il complesso in cui erano collocati, probabilmente precario dal punto di vista statico, venne abbandonato e demolito. Colpisce la totale mancanza di strumenti di lavorazione oltre che di matrici o altro che fosse reimpiegabile. Questo sembra indizio di come l’officina si sia spostata in questo periodo forse nelle immediate vicinanze dopo l’asportazione di tutto il materiale utile. Appare possibile che l’officina rinvenuta altro non rappresenti che una prima sede del grande atelier i cui scarti sono stati rinvenuti a pochi metri di distanza gettati da edifici posti a pochi metri a nord di questi 21. L’inizio dell’attività intorno alla metà del secolo spiegherebbe anche la presenza tra i materiali del grande deposito rinvenuto nell’esedra di matrici e semilavorati di tipi collocabili cronologicamente nella seconda metà del VI secolo forse semplicemente spostati dalla sede primitiva. L’atelier nel suo insieme è comunque a tutt’oggi uno dei più articolati centri per la produzione di merci di lusso e la sua nascita ben si inquadra nella riorganizzazione generale conseguente alle guerre greco-gotiche in un quartiere la cui vocazione produttiva almeno nella prima età imperiale ci è documentata dalle fonti e in un area nella quale in un periodo di pochi anni precedente sono già attestati forni per la lavorazione del vetro 22. 21 22 Cfr. ARENA, DELOGU, PAROLI et alii 2001, pp. 331-428. Cfr. intervento di L. Saguì in questo volume. 140 LAURA VENDITTELLI - MARCO RICCI Fig. 28. - Spilli, spilloni e ago in bronzo. Fig. 31. - Bambole in osso. Fig. 29. - Anello digitale in lamina di bronzo. Fig. 32. - Pendente a forma di cinghiale in osso. Fig. 30. - Frammenti di oggetti in osso. La produzione romana di queste merci si inserisce appieno nel quadro generale delle produzioni della prima età bizantina con varianti minime soprattutto di decorazione rispetto a quanto veniva prodotto nei grandi atelier di Costantinopoli e delle altre grandi città dell’impero 23. 23 Cfr. RICCI 2001a, pp. 79-87; RICCI 2012, pp. 1-16. L’ISOLATO DELLA CRYPTA BALBI Rimane da capire quanto l’atelier fosse autonomo o sottoposto, come appare più probabile, al controllo di autorità delegate dall’impero bizantino a questa funzione. La presenza di una qualche autorità di controllo è individuabile nelle bulle da documento rinvenute nei depositi dell’esedra 24 e rimane come la più probabile l’ipotesi che questa autorità fosse il monastero di San Lorenzo forse demandato a questa funzione dall’autorità pontificia. Se appare abbastanza certo dai materiali che le produzioni dell’atelier siano proseguite sino almeno alla metà dell’VIII secolo dopo questo periodo esso sembra non più operante e le tracce di attività produttive si fanno più labili. Non si può escludere che i mutamenti politici intervenuti tra la seconda metà dell’VIII secolo e gli inizi del secolo successivo abbiano portato ad una riorganizzazione della produzione delle merci di lusso che passa da grandi atelier concentrati e probabilmente controllati dall’autorità a un sistema di piccole botteghe diffuse specializzate in pochi prodotti come sembra essere il caso del gemmario del Vico Jugario 25. Nella area della Crypta bisogna arrivare alla seconda metà del XII secolo per ritrovare nell’esedra antica grandi quantità di scarichi di scorie testimonianza certa di attività di lavorazione del bronzo di una certa entità le cui strutture dovevano trovarsi nelle sue adiacenze 26. Questi assieme a materiali legati alla produzione di manufatti in metallo e osso rinvenuti negli strati tra XII e XIV secolo 27, oltre alle testimonianze di lavorazione del vetro 28 sembrerebbero indicare per il basso medioevo una vocazione produttiva del quartiere che si estendeva a nord e a sud della Crypta forse da interpretare come evidenza di botteghe artigianali collocate ai margini dell’area del grande mercato alle pendici del Campidoglio che caratterizzò questa zona della città per gran parte del medioevo. (M.R.) 24 Cfr. Sigilli e bolle in ARENA, DELOGU, PAROLI et alii 2001, pp. 257-265. 25 Cfr. Foro Romano - Vico Jugario in ARENA, DELOGU, PAROLI et alii 2001, pp. 587-589. 141 Bibliografia ARENA, DELOGU, PAROLI et alii 2001 = M.S. ARENA, P. DELOGU, L. PAROLI, M. RICCI, L. SAGUÌ, L. VENDITTELLI (a cura di), Roma dall’Antichità al Medioevo. Archeologia e storia nel Museo Nazionale Romano Crypta Balbi, Roma 2001. MANACORDA 2001 = D. MANACORDA, Crypta Balbi. Archeologia e storia di un paesaggio urbano, Milano 2001. MANACORDA 2002 = D. MANACORDA, Un nuovo frammento della Forma urbis e le calcare romane del Cinquecento nell’area della Crypta Balbi, in MEFRA, 114, 2002, pp. 693-715. RICCI 2001a = M. RICCI, La produzione di merci di lusso e di prestigio a Roma da Giustiniano a Carlomagno, in ARENA, DELOGU, PAROLI et alii 2001, pp. 79-87. RICCI 2001b = M. RICCI, Produzioni di lusso a Roma da Giustiniano I (527-565) a Giustiniano II (685-695): l’atelier della Crypta Balbi e i materiali delle collezioni storiche, in ARENA, DELOGU, PAROLI et alii 2001, pp. 331-428. RICCI 2012 = M. RICCI, Rome-Byzantium Affinity and Difference in the Production of Luxury Goods, in B. BÖHLENDORF-ARSLAN, A. RICCI (a cura di), Byzantine small finds in archaelogical context, in Byzas, 15, 2012, pp. 1-16. SAGUÌ 1990a = L. SAGUÌ (a cura di), L’esedra della Crypta Balbi nel medioevo (XI-XV secolo), Firenze 1990. SAGUÌ 1990b = L. SAGUÌ, Lo scavo, in SAGUÌ 1990a, pp. 60 ss. SAGUÌ 1993 = L. SAGUÌ, Crypta Balbi (Roma): conclusione delle indagini archeologiche nell’esedra del monumento romano. Relazione preliminare, in AMediev, 20, 1993, pp. 409-418. SAGUÌ, MANACORDA 1995 = L. SAGUÌ, D. MANACORDA, L’esedra della Crypta Balbi e il Monastero di S. Lorenzo in Pallacinis, in QuadAEI, 12, 1, 1995, pp. 121-134. BIRINGUCCIO 1540 = V. BIRINGUCCIO, De la pirotecnia, Libri X, Venezia 1540. VENDITTELLI 2004 = L. VENDITTELLI, Roma dall’Antichità al Medioevo, II. Contesti tardo antichi e altomedievali, Milano 2004. VENDITTELLI 2014 = L. VENDITTELLI, Il quartiere antico a est della Crypta Balbi, in L. VENDITTELLI (a cura di), Crypta Balbi. Guida, Milano 2014, pp. 49-60. Cfr. SAGUÌ 1990a, pp. 56-60, 603-604. Vedi SAGUÌ 1990, pp. 53-552. 28 Cfr. l’intervento di L. Saguì in questo volume. 26 27 FORI IMPERIALI TESTIMONIANZE DI ATTIVITÀ PRODUTTIVE MEDIEVALI Roberto Meneghini I grandi interventi di scavo realizzati nei Fori Imperiali dalla Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali tra il 1991 e il 2008 hanno fornito un ricco repertorio di nuovi dati riguardanti il Medioevo che costituiscono, in certi casi, delle vere e proprie novità per questo periodo a Roma. Seguendo un ordine cronologico incontriamo per primo il contesto scavato nel templum Pacis che ci offre la testimonianza di una occupazione dell’area centrale scoperta del complesso, dall’inizio del IV secolo, da parte di un agglomerato produttivo (figg. 1-3) 1. L’interpretazione prevalente di tale agglomerato, ben datato agli anni di Massenzio grazie alla presenza di un grande numero di bipedali bollati nuovi, appena posti in opera, è quella di un dislocamento degli horrea Piperitaria, dall’area ove questi erano precedentemente insediati e che era stata occupata dalla basilica Nova, al Foro della Pace. Si tratta di piccoli edifici in muratura, in un caso muniti di vasche, nei quali si dovevano svolgere tutte le operazioni di lavaggio, raffinazione, stoccaggio e non sappiamo se anche di smercio delle spezie, che ebbero una vita di circa due secoli dato che la loro obliterazione è databile stratigraficamente all’inizio del VI secolo. Le strutture distrussero gli euripi che decoravano la piazza del Foro e vi si sovrapposero oltre a distribuirsi attorno a un’area centrale munita di fontana e pavimentata a bipedali (fig. 1). Non doveva trattarsi di costruzioni sviluppate in elevato per più del pianterreno, vista l’assenza di fondazioni, ma gli edifici utilitari recuperarono parte della decorazione marmorea del templum Pacis, come le tegole marmoree 1 MENEGHINI, SANTANGELI VALENZANI 2007, pp. 115-117; NEGHINI 2009, pp. 197-199; CORSARO 2014, p. 261. L’analisi MEdell’agglomerato tardoantico è tuttora in corso a cura di Monica Ceci che coprivano i tetti dei portici, fornendo la precisa indicazione di una precoce e consistente fase di destrutturazione di questi ultimi. A riprova dell’intervento di spoliazione e dello stato di degrado dei portici vi è la scoperta di uno spesso strato di cocciopesto steso contemporaneamente alla fondazione dell’agglomerato in sostituzione del pavimento marmoreo del portico occidentale. Questo accorgimento lascia pensare che anche qui dovevano ormai svolgersi attività analoghe a quelle che si effettuavano negli edifici di fortuna della piazza dove il ciclo produttivo prevedeva un abbondante uso di acqua. Non è stata ancora affrontata l’analisi dei rapporti tra questo agglomerato, che mutò le funzioni della piazza e dei portici del Foro, e le altre parti del complesso che erano certamente ancora in uso (l’aula di culto, la bibliotheca Pacis, l’aula della Forma Urbis), ma il suo aspetto non doveva discostarsi da quello di molti altri mercati e opifici insediati all’interno di antichi complessi monumentali come quello nell’arena dell’anfiteatro di Lucca dove ancora persisteva agli inizi del Novecento (fig. 4) o come un altro che si inserì, sempre nel IV-V secolo d.C., all’interno del cortile degli horrea Agrippiana presso S. Teodoro 2. È certo che quando Costanzo II si recò a Roma, nel 357 d.C., fu accompagnato, come ci dice Ammiano Marcellino, in visita presso i maggiori monumenti della città tra i quali vi era anche il templum Pacis, ormai detto forum Pacis forse proprio a causa della sua nuova identità commerciale 3. È difficile per noi immaginare quanto potesse allora risultare singolare la commistione fra le casupole che avevano invaso la piazza e i portici e la monumentalità e Riccardo Santangeli Valenzani. 2 ASTOLFI, GUIDOBALDI, PRONTI 1978. 3 Amm. Marc. Rer. Gest. XVI, 10, 14. Fig. 1. - Templum Pacis. Scavi 1998-2000. Planimetria di fine scavo. Area B. In grigio scuro sono evidenziate le strutture relative all’agglomerato produttivo di età massenziana (disegno e rilievo Coop. Arkaia con modifiche dell’AUTORE). del luogo che era ancora tanto forte da impressionare il sovrano in visita. Questo del Foro della Pace è comunque il primo caso documentato di un cambiamento radicale di funzioni almeno di un settore di uno dei Fori Imperiali: da complessi monumentali dedicati perlopiù all’amministrazione della giustizia e all’auto-celebrazione delle famiglie imperiali e della loro politica a sede di attività produttive. Mentre l’opificio del Foro della Pace era in funzione ormai da un secolo e mezzo anche in quello di Cesare compaiono tracce di attività produttive intorno alla metà del V. Gli scavi recenti hanno, infatti, evidenziato la presenza, nella taberna XI, di una fornace metallurgica che risulta attiva proprio negli anni centrali di quel secolo e che era forse affiancata da una officina per la lavorazione dell’osso della quale sono stati trovati gli Fig. 2. - Templum Pacis. Scavi 1998-2000. Ambiente semisotterraneo di età massenziana (Archivio Ufficio Fori Imperiali). FORI IMPERIALI. TESTIMONIANZE DI ATTIVITÀ PRODUTTIVE MEDIEVALI 145 scarti nella adiacente taberna X (figg. 5-6 e tav. 00) 4. Anche in questo caso, analogamente al Foro della Pace, deve probabilmente ancora essere affrontato il problema del rapporto tra queste attività produttive e le strutture ufficiali forse ancora funzionanti nel Foro di Cesare come il Secretarium Senatus, istituito alla fine del IV secolo da Virio Nicomaco Flaviano il Giovane e che la tradizione degli studi colloca nella vicina taberna XV o come la stessa Curia Senatus i cui accessi si trovavano in fondo al portico sul quale tutti questi ambienti si aprivano (fig. 5). Non vi sono d’altra parte tracce di una consistente attività Fig. 3. - Templum Pacis. Veduta ricostruttiva dell’agglomerato produttivo di età massenziana indi spoliazione del Foro prima sediato nell’area centrale, scoperta del complesso (R. Meneghini/Inklink). dell’VIII secolo 5 e nulla osta dunque alla possibilità di una effettiva, benché per noi singolare, convivenza tra le officine, il senato e il tribunale della quale ci sfuggono però le modalità di attuazione. Poco tempo dopo, alla fine del V o all’inizio del VI secolo, comincia il capitolo delle massicce demolizioni dei diversi edifici che compongono i Fori a partire dal Tempio di Marte Ultore nel Foro di Augusto. Qui infatti un aristocratico di nome Decio, probabilmente Cecina Mavorzio Basilio Decio, console nel 486, praefectus urbi e al pretorio citato da Cassiodoro come ancora pienamente Fig. 4. - Lucca. Veduta degli inizi del XX secolo con il mercato che occupava l’area dell’arena attivo nel 510, realizza la dedell’antico anfiteatro. strutturazione della peristasi e, forse, anche dell’elevato della cella e appone la sua firma, incisa sulla superficie di appoggio di un rocchio 4 CORSARO, DELFINO, DE LUCA et alii 2013; DELFINO, DE LUCA, MINNITI et alii 2013. di colonna, sotto forma di una breve iscrizione di pro5 MENEGHINI 2010, in particolare vd. p. 511. prietà con il suo nome al genitivo: pat(rici) Deci (fig. 7) 6. 6 MENEGHINI, SANTANGELI VALENZANI 1996, pp. 78-81; MENEÈ possibile che il materiale da costruzione, ottenuto GHINI, SANTANGELI VALENZANI 2004, pp. 170-180; MENEGHINI, SANdalla demolizione dell’edificio e considerato di proTANGELI VALENZANI 2007, p. 118; MENEGHINI 2009, p. 197. 146 ROBERTO MENEGHINI razza Domizianea, oggi meglio nota come Casa dei Cavalieri di Malta, è stata individuata e scavata, nel 1997, una calcara realizzata tagliando il pavimento romano e la fogna sottostante i cui tratti contrapposti vennero utilizzati come praefurnia 7. Per il Foro di Traiano non si tratta ancora della demolizione definitiva ma la presenza della calcara mostra il sicuro inizio della spoliazione limitata, per il momento, ad alcune parti della decorazione marmorea che vengono utilizzate per la trasformazione in calce. Forse l’intera questione della demolizione delle fabbriche dei Fori Imperiali finalizzata al reFig. 5. - Foro di Cesare. Planimetria generale ricostruttiva del monumento dopo il rifacimento di età tetrarchica. Le tabernae X-XI, sul fondo del portico occidentale, sono quelle recentemente scacupero dei materiali da costruvate. Nella taberna XV si colloca tradizionalmente il Secretarium Senatus (R. Meneghini). zione deve essere esaminata da un punto di vista più generale poiché costituì, probabilmente, la maggiore e più consistente attività produttiva che per l’intero Medioevo si svolse in quest’area. Essa, infatti, implicava la partecipazione di una manodopera quanto mai variegata per la fornitura del prodotto finito che era diversificato poiché si poteva trattare di calce, di laterizi da reimpiegare o di marmi colorati da riutilizzare per pavimenti pregiati o di metalli come il ferro, il bronzo e il piombo, derivati dalle grappe di giunzione tra i blocchi di marmo, tufo e travertino, a loro volta Fig. 6. - Foro di Cesare. Taberna XI. Pianta di scavo con la fornace metallurgica attiva intorno alla oggetto di spoliazione e riuso. metà del V secolo d.C. (disegno e rilievo P. Specchio, L. Volpe, V. Di Cola). Ognuna di queste categorie prietà della massima autorità cittadina, sia stato inviato di materiali prevedeva l’intervento di operatori più o a Ravenna per i cantieri teodericiani mentre il tempio meno specializzati senza contare la ricaduta di tale atperse il suo elevato e quando nel IX o X secolo vi si tività su quello che oggi chiameremmo ‘indotto’. insediarono i monaci basiliani il suo aspetto non doveva Per completare il ciclo produttivo, infatti, oltre ai differire molto da quello odierno (fig. 8). semplici cavatori, doveva necessariamente esservi il Tra la fine del VII e l’inizio dell’VIII secolo si incontra una nuova testimonianza di questa attività di spoliazione anche negli ambienti meridionali del Foro 7 di Traiano dove, in una sala absidata alla base della TerMENEGHINI 1998. FORI IMPERIALI. TESTIMONIANZE DI ATTIVITÀ PRODUTTIVE MEDIEVALI 147 concorso di numerose altre figure come: calcarari, marmorari, tagliapietre, fonditori e carrettieri. Ma si tratta di un’attività che, in definitiva, ha coinvolto l’intera Roma per tutto il Medioevo durante il quale essa si è come autoalimentata, sotto il segno del riuso, sfruttando quella vera e propria ‘cava’ di materiali da costruzione che era la città dell’età classica. D’ora in poi, nell’area dei Fori, comincia la massiccia e sistematica demolizione di ampi settori dei diversi complessi a partire dal Foro di Cesare nel quale, dall’inizio dell’VIII se- Fig. 7. - Foro di Augusto. Veduta aerea con individuazione del rocchio di colonna sul quale è incolo, viene asportata una larga cisa l’iscrizione del patricius Decius (foto VVFF di Roma; elaborazione R. Meneghini). parte della pavimentazione in travertino dell’area centrale scoperta. Non si tratta di una spoliazione totale e nella zona privata del lastricato sorge un’area coltivata che si evolve da orto a frutteto e vigna e che, nel X secolo, viene sostituita da un agglomerato di domus terrinee 8. Di particolare interesse è la produzione agricola di questo non piccolo appezzamento, rimesso in luce per circa m2 1000 e che nel suo periodo di maggiore attività può essere arrivato a fornire derrate sufficienti per l’alimentazione di una comunità di alcune decine di persone le quali potevano corrispondere agli assistiti o al personale della diaconia di S. Adriano in Tribus Fatis, insediata nella adiacente curia Senatus almeno a partire dall’VIII secolo. Il IX secolo vede un incremento dell’attività di spoliazione sui Fori con la completa rimozione del lastricato del Foro di Traiano e di quello di Augusto. La piazza del complesso traianeo, in particolare, ha mostrato tracce di interventi di restauro, realizzati fino alla prima metà del IX secolo, sotto forma di acciottolati battuti per colmare le lacune fra le lastre del pavimento ormai in opera da più di sette secoli. Alla metà o all’inizio della seconda metà dello stesso Fig. 8. - Foro di Augusto. Veduta ricostruttiva del monastero di S. Basilio e del tempio di Marte Ultore nel X secolo (R. Meneghini, secolo è invece databile la totale asportazione del lastriR. Santangeli Valenzani/Inklink). cato costituito da più di tremila lastroni di marmo bianco lunense per un volume complessivo di circa m3 1300. La repentina spoliazione della pavimentazione del Foro di Traiano può aver fornito più di m3 780 ovvero 8 MENEGHINI, SANTANGELI VALENZANI 2004, pp. 45-46, 127-129, 1900 tonnellate di calce, dopo la cottura nelle calcare, 178-179; MENEGHINI, SANTANGELI VALENZANI 2007, pp. 144-150. 148 ROBERTO MENEGHINI mati, probabilmente in tondi pavimentali e in blocchi squadrati pronti per il taglio, mediante la scalpellatura delle alette delle scanalature che sono state ritrovate in gran numero (fig. 9, B) 13. Da allora in poi l’area dell’antico templum Pacis venne convertita, almeno in uno degli ampi settori scavati, in un vasto campo coltivato mediante il riporto di un migliaio di m3 di terra, arginato da un muro in opera quadrata con blocchi proFig. 9. - A: nuovi frammenti della Forma Urbis severiana rinvenuti negli scavi recenti del temvenienti anch’essi da attività di plum Pacis. B: alette scalpellate di scanalature di pilastri o colonne da 50 piedi romani rinvenute spoliazione 14. negli scavi (R. Meneghini). Per tutto il basso Medioevo tenendo conto di un decadimento medio del materiale l’area dei Fori rimase poi sepolta sotto potenti interri sui di partenza di circa il 40%. quali si stabilirono i grandi orti di S. Basilio, di S. È stato già notato come questa quantità di legante Adriano, di S. Urbano e dei SS. Cosma e Damiano con sia decisamente fuori misura e da collegare forse con due sole isole di abitato corrispondenti agli antichi Fori una impresa edilizia di grande portata come la costrudi Traiano e di Nerva, ben visibile quest’ultimo nel cezione delle mura della civitas Leoniana avviata proprio lebre panorama quattrocentesco del Codex Escurialenin quegli anni da papa Leone IV, tra l’847 e l’855 9. sis (fig. 10). Anche nel Foro di Augusto, forse in questi stessi anni La vera e propria isola di case, con fortificazioni fae comunque sino al X secolo, viene asportato il lastricenti capo alla Torre dei Conti, nacque nel IX secolo cato, almeno nella porzione della piazza scavata fra il come raggruppamento di abitazioni aristocratiche e 2004 e il 2006, e ci si può forse domandare se anche verso la fine del medioevo fu detta fundicus macellotale destrutturazione non sia da collegare alla precerum de Archanoè a causa della presenza di botteghe pardente 10. zialmente adibite allo spaccio di carni 15. Nel Foro della Pace, sempre nel IX secolo, si imGli scavi recenti hanno permesso di recuperare le pianta un cantiere di demolizione e recupero dei matetracce di questa attività sotto forma di grandi quantità riali marmorei la cui presenza era già stata ipotizzata di ossa, ove predominano quelle di cavallo, con evidenti da Santangeli Valenzani sulla base dello studio dei framsegni di macellazione, scaricate all’interno di grandi 11 menti della Forma Urbis ritrovati di recente . In effosse scavate nelle aree adiacenti alle case 16. fetti, come sembrano dimostrare anche gli ulteriori Tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, nuovi esemplari della pianta marmorea da poco reculungo il limite meridionale dell’abitato sul Foro di Traperati negli scavi, risulta evidente la loro trasformazione iano, sorsero alcune botteghe di vasai che finora ci erano 12 in laterizi triangolari o sub-triangolari (fig. 9, A) . note solo attraverso le fonti notarili e la cui presenza è Anche le grandi colonne e i pilastri d’anta da 50 stata individuata grazie alle ricerche archivistiche di Paolo piedi romani, scanalati e pertinenti alla fila interna della Güll 17. Doveva trattarsi di due o forse tre laboratori che, facciata dell’aula di culto di Pax, furono allora trasfornon a caso, si erano posizionati lungo il margine del quar- MENEGHINI, SANTANGELI VALENZANI 2004, p. 183. 10 I segni dell’asportazione delle lastre di pavimentazione della piazza del Foro di Augusto erano tutti sigillati da strati databili nell’ambito del X secolo, vedi MENEGHINI, SANTANGELI VALENZANI 2010, pp. 144 ss. 11 SANTANGELI VALENZANI 2006. 9 12 13 14 15 16 17 MENEGHINI 2014. COLETTA, MAISTO 2014, in particolare vd. pp. 309-310. MENEGHINI, SANTANGELI VALENZANI 2004, pp. 211-212. LANCIANI 1901, pp. 31-42. MENEGHINI, SANTANGELI VALENZANI 2007, pp. 138-139. GÜLL 2003, pp. 62-63. Fig. 10. - Veduta del settore meridionale dei Fori Imperiali, alla fine del secolo XV, dal Codex Escurialensis. Al centro dell’immagine e verso destra è visibile il nucleo di abitato insediato lungo l’area dell’antico Foro di Nerva. Fig. 11. - Area del Foro di Traiano. Scavi 1998-2000. Planimetria generale dell’isolato con il convento e chiesa di S. Urbano. In nero: le strutture dell’originario edificio duecentesco. In grigio: le strutture relative alle case con bottega di un vasaio della fine del XV-inizi del XVI secolo obliterate dal giardino XX. Al tratto: murature del convento seicentesco di S. Urbano. F = fornace per maioliche ricavata all’interno di una precedente fornace circolare. tiere, confinante con gli orti di S. Basilio e di S. Urbano, poiché quella del vasaio era considerata una professione altamente inquinante tanto che alcune attività legate al ciclo produttivo andavano svolte a una certa distanza dall’abitato, come l’incenerimento della feccia necessaria alla composizione del marzacotto, i cui fumi erano talmente mefitici che, stando a Cipriano Piccolpasso, potevano far: « […] spregniare le donne gravide […] » 18. Le indagini archeologiche recenti hanno permesso di recuperare resti consistenti di una di queste officine, sepolti sotto il seicentesco giardino del convento di S. Urbano, sotto forma di due abitazioni bassomedievali rase al suolo una delle quali doveva fungere da laboratorio ed era munita di una fornace per la cottura delle maioliche ricavata, tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo, all’interno di un precedente forno circolare risalente al pieno XV (fig. 11) 19. 18 19 PICCOLPASSO 1857, II, p. 00. MENEGHINI 1999; MENEGHINI 2009, pp. 231-236. 150 ROBERTO MENEGHINI Gli scavi hanno evidenziato anche la presenza, nel complesso produttivo, di una base per tornio e di un deposito di argilla già sgrassata e pronta all’uso. Grazie ai documenti d’archivio è stato possibile anche dare un nome all’artigiano che conduceva l’atelier e che si chiamava Giovanni Boni, immigrato a Roma dalla lontana Brescia, forse verso il 1480, e morto in urbe intorno al 1520. Il ritrovamento di due grandi ‘butti’ di maioliche, databili agli ultimi anni del Quattrocento e ai primissimi del Cinquecento, si connette all’attività di questo vasaio e degli altri che si trovavano nell’area e ci offre un panorama pressoché completo delle produzioni ceramiche romane di questo periodo a cavallo tra il Medioevo e il Rinascimento 20. Si tratta di maioliche a diversi stadi di lavorazione, per una tonnellata circa, che non contribuiscono solo a chiarire le varie fasi del ciclo produttivo ma aprono anche una inattesa finestra sulle attività quotidiane dell’atelier. Sui frammenti di biscotto appaiono, infatti, gli schizzi dei pittori di bottega con un repertorio di immagini che va oltre quello ufficiale. Al posto della carta qui si utilizzava il biscotto, per delineare rapidi ma incisivi ritratti dei compagni di lavoro 21 o per tracciare inventari ‘figurati’ dei recipienti prodotti 22, e l’argilla fresca delle forme appena tornite per incidere computi e cifre 23. In un’epoca in cui non esisteva la riproducibilità tecnica delle immagini e degli oggetti l’unico modo per fissare per sempre la figura di un animaletto o di una moneta era, per i nostri vasai, quello di utilizzare l’argilla come risulta dai calchi del corpicino di una lucertola 24 e di una medaglia di Maddalena Gonzaga 25. Gli scavi hanno anche mostrato l’altissimo grado di inquinamento prodotto da queste botteghe, non tanto dal punto di vista dei fumi emessi quanto da quello della indistruttibilità e non degradabilità degli scarti prodotti. Frammenti di biscotto e di maioliche mal cotte sono, infatti, stati ritrovati pressoché ovunque, a migliaia, nelle sequenze stratigrafiche post-quattro e cinquecentesche e uno dei due butti, quello più antico, era costituito dal riempimento di un profondo scavo fatto per MENEGHINI 1999; MENEGHINI 2006. MENEGHINI 2001, tav. VIII a. 22 MENEGHINI 2009, fig. 317, p. 236. 23 MENEGHINI 2006, fig.11, p. 136. 24 MENEGHINI 2006, fig.10, p. 136. 25 MENEGHINI 2006, fig.15, p. 138. 26 MENEGHINI 2006, p. 137. 27 MAZZUCATO 1986. 20 21 sottofondare lo spigolo orientale dell’edificio di S. Urbano 26. Gli scarti di fabbricazione di un vasaio invadevano dunque letteralmente lo spazio circostante e per liberarsene, almeno in parte, bisognava addirittura seppellirli. Con l’urbanizzazione dell’area dei Fori Imperiali, voluta e realizzata dal cardinale Michele Bonelli, e la nascita del quartiere Alessandrino, alla fine del Cinquecento, i vasai furono costretti a spostarsi ancora ai limiti dell’abitato che ora si trovava presso la torre dei Conti. Qui continuarono a produrre sino all’inizio del Seicento, come dimostrano gli scavi realizzati nella zona di Largo Corrado Ricci negli anni Ottanta dello scorso secolo 27. Il resto è storia recente e riguarda le vicende moderne del quartiere demolito nel 1932 per l’apertura di via dell’Impero. Bibliografia AA.VV. 1986 = AA. VV., Archeologia nel Centro Storico. Apporti antichi e moderni di arte e cultura dal Foro della Pace, Roma 1986. ASTOLFI, GUIDOBALDI, PRONTI 1978 = F. ASTOLFI, F. GUIDOBALDI, A. PRONTI, Horrea Agrippiana, in ArchCl, 30, 1978, pp. 31-106. CECI 2013 = M. CECI (a cura di), Contesti ceramici dai Fori Imperiali, Oxford 2013 (BAR 2455). COLETTA, MAISTO 2014 = A. COLETTA, P. MAISTO, Il settore meridionale del templum Pacis, in MENEGHINI, REA 2014, pp. 307-312. CORSARO 2014 = A. CORSARO, Gli scavi della Sovrintendenza Capitolina (1998-2000 e 20042006): il settore nord-occidentale del templum Pacis, in MENEGHINI, REA 2014, pp. 258-266. CORSARO, DELFINO, DE LUCA et alii 2013 = A. CORSARO, A. DELFINO, I. DE LUCA, R. 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PASSEGGIANDO NELLA PRODUZIONE: UN EXCURSUS DIACRONICO (VI-XIV SECOLO) ATTRAVERSO GLI INDICATORI DELLA PRODUZIONE, PROVENIENTI DAGLI SCAVI DELLA METRO C (PIAZZA VENEZIA, PIAZZA MADONNA DI LORETO, VIA CESARE BATTISTI) Mirella Serlorenzi, Giovanni Ricci Premessa Le indagini archeologiche condotte in occasione della progettazione della nuova linea C della metropolitana di Roma rappresentano per chi voglia approfondire alcune tematiche legate all’archeologia della produzione, un osservatorio per certi versi privilegiato. È stato infatti possibile investigare in profondità ampi settori della città e del suburbio 1. Ciò ha consentito di recuperare sequenze stratigrafiche di lungo periodo con cui difficilmente si ha l’opportunità di confrontarsi se non in ambito urbano. La mancanza di fondi e le difficoltà pratiche di interventi nel cuore della città hanno in questi ultimi anni fortemente condizionato la ricerca archeologica, limitandone sensibilmente la reale potenzialità di espressione. Sempre più rari sono, infatti, gli scavi che interessano superfici arealmente consistenti ed in cui è possibile analizzare l’intero sviluppo della stratificazione. Cantieri come la Crypta Balbi, la Meta Sudans o le pendici settentrionali del Palatino, solo per citare gli esempi più importanti, sarebbero oggi impossibili da realizzare con denaro pubblico precludendo dunque alla ricerca di continuare a crescere. La quotidianità è invece rappresentata dai cosiddetti ‘scavi di emergenza’: interventi che, pur producendo una straordinaria messe di dati per altro poco standardizzati, sono indotti da esigenze tutt’altro che archeologiche 2. Si tratta infatti di indagini frutto di attività connesse a nuove pianificazioni urbanistiche e quindi fortemente condizionate per ciò che concerne forma e dimensioni dello scavo. In varie situazioni tuttavia gli scavi legati alla nuova metropolitana di Roma, pur rientrando nella categoria degli scavi preventivi, hanno costituito un’eccezione sulle modalità dello svolgimento delle indagini. La straordinarietà dei ritrovamenti ha imposto, infatti, un sensibile allargamento dell’area di intervento trasformandoli in veri e propri cantieri scientifici ove si è riusciti a conciliare la crescita della città moderna con la conoscenza del sottosuolo. Il considerevole ingombro delle stazioni e l’elevato numero dei pozzi di ventilazione, nonché la necessità di raggiungere quote di imposta collocate all’interno della stratificazione geologica, hanno reso possibile investigare l’intera sequenza archeologica. I diversi cantieri qui presi in esame hanno pertanto restituito interessanti spaccati diacronici non solo per l’argomento trattato in questa sede ma anche, più in generale, per ciò che concerne l’evoluzione della città. Relativamente al tema del convegno si è scelto di presentare, sistemati in ordine cronologico, i dati sugli indicatori della produzione rinvenuti nei cantieri di piazza Venezia, piazza della Madonna di Loreto e via Cesare Battisti (fig. 1). Il periodo interessato è compreso tra VI e XIV secolo, con uno iato tra la seconda metà del IX e l’XI secolo: periodo per il quale non si hanno evidenze di carattere specificatamente produttivo, ad eccezione delle attività di ruberia volte al recupero di materiale da costruzione. All’interno di questa ampia tornata temporale si cercherà di porre in risalto i caratteri distintivi che di volta in volta vengono a contrassegnare le attività produttive qui di seguito descritte, prestando particolare attenzione al contesto in cui si collocano, alla loro finalità e, laddove possibile, all’orga- 1 Per le prime notizie sugli scavi legati alla Metro C cfr. EGIDI, FILIPPI, MARTONE 2010. 2 Proprio per questa ragione Soprintendenza Speciale per il Colosseo, il Museo Nazionale Romano e l’Area Archeologica di Roma ha avviato a partire dal 2007 un webgis che ha la finalità principale di omogeneizzare i dati della ricerca archeologica e renderli disponibili in rete, si veda in proposito SERLORENZI 2011 e SERLORENZI, JOVINE 2013. 154 MIRELLA SERLORENZI - GIOVANNI RICCI terne parallele, sono state documentate alcune fornaci volte alla produzione di oggetti (semilavorati e prodotti finiti) in lega di rame (fig. 2) 4. Particolarmente ben conservato è l’impianto messo in luce nell’ambiente 4. L’installazione occupa la metà occidentale del vano, corrispondente allo spazio collocato in prossimità dell’ingresso aperto sulla viabilità principale. Nell’ambito dell’attività dell’officina è stato possibile riconoscere due distinte fasi di utilizzo tra loro stratigraficamente separate. Ad un primo momento appartengono quattro fosse circolari realizzate all’interno di un contesto stratigrafico caratterizzato in superficie da una notevole dispersione di frammenti metallici in ferro e lega di rame, unitamente ad una discreta quantità di reperti ossei animali (fig. 2, A). Le fosse hanno dimensioni estremamente contenute (diametro compreso tra cm 30 e 50, profondità entro cm 30), Fig. 1. - Posizionamento delle aree di indagine su Google Maps (elaborazione S. PICCIOLA). pareti dal profilo verticale con nizzazione del lavoro che esse sottendono. Trattandosi evidenti tracce di esposizione al calore e fondo sia concavo di evidenze già ampiamente analizzate nel dettaglio in che piano. Alcuni elementi interni consentono di riconoprecedenti contributi 3, ci si limiterà in questa sede a tratscere in almeno due di esse esemplari di fornaci del tipo teggiarne sommariamente gli aspetti stratigrafici apbasso fuoco a pozzetto. Entrambe le cavità hanno il fonprofondendo, invece, il tema di questo convegno. do caratterizzato da un’accesa colorazione verdastra, residuo della deposizione del minerale di rame avvenuta durante le fasi di cottura. La presenza inoltre di due piccoli VI-inizi VIII secolo: gli impianti metallurgici di piazza fori circolari (diametro cm 10) in prossimità di una delle Venezia e piazza della Madonna di Loreto pareti potrebbe forse attenere al sistema di ventilazione adoperato. Caratteristiche morfologiche differenti presenta inRiferibili a questo periodo sono i contesti legati ad vece la terza fossa posta in prossimità della parete settenattività metallurgiche messi in luce in due aree di rintrionale del vano. In questo caso l’incisione si caratterizza venimento riguardanti i cantieri di piazza Venezia e per l’assenza del foro per l’alloggiamento del sostegno del piazza della Madonna di Loreto. mantice e per la maggiore profondità di una parte del fonA piazza Venezia, in due tabernae che compongono pardo. Simili connotati, unitamente all’elevato grado di vete di un più ampio isolato di II-III sec d.C., situato in aftrificazione delle pareti, hanno fatto supporre che l’invafaccio sulla via Flaminia ed organizzato su percorrenze inso fosse destinato a ricevere il minerale ormai fluidificato 5. 3 SERLORENZI, SAGUÌ 2008, pp. 175-198; SERLORENZI 2010, pp. 131-164; SERLORENZI c.s.; SERLORENZI, EGIDI 2013, pp. 1-218. 4 Lo scavo dell’officina di piazza Venezia è stato coordinato da Carla Ninel Pischedda della Cooperativa Parsifal. Per la puntuale descrizione del contesto stratigrafico si vedano: FAILLI, PISCHEDDA 2008, pp. 182-184; PISCHEDDA 2010; SERLORENZI 2010, pp. 133-139; SERLORENZI 2013, pp. 74-81. 5 MANNONI, GIANNICHEDDA 1996, fig. 40, p. 182. UN EXCURSUS DIACRONICO (VI-XIV SEC.) ATTRAVERSO GLI INDICATORI DELLA PRODUZIONE, PROVENIENTI DAGLI SCAVI DELLA METRO C 155 Fig. 2. - Planimetria dell’officina scoperta a piazza Venezia. A) particolare della prima fase dell’attività metallurgica all’interno dell’ambiente 4; B) particolare della seconda fase (rielaborazione S. PICCIOLA da SERLORENZI, SAGUÌ 2008, fig. 9). (pagina intera) 156 MIRELLA SERLORENZI - GIOVANNI RICCI Nel riempimento erano inoltre presenti, oltre a scorie metalliche e piccole quantità di carbone, un lingotto, tre lamine in lega di rame e due chiodini: elementi questi ultimi che potrebbero provenire dalle attività di pulizia connesse alla dismissione di questa fase dell’officina (fig. 3). In prossimità dell’ingresso della taberna si situa infine la quarta fossa, le cui caratteristiche farebbero pensare ad una destinazione d’uso non compatibile con una fornace: fondo e pareti non recano tracce di esposizione al calore né si ritrovano elementi riconducibili alla presenza di un mantice. La cavità poteva pertanto servire a contenere gli scarti delle lavorazioni qui raccolti in seguito alle periodiche pulizie dell’officina. Lo strato di riempimento ha restituito inoltre numerosi chiodi a testa tonda, due lamine di rame, un lingotto e nove monete di bronzo. Ad un secondo ciclo produttivo sono, invece, attribuite le sei fosse realizzate immediatamente al di sopra della precedente sistemazione, quattro delle quali sono inserite all’interno di una più ampia incisione (fig. 2, B). Tipologicamente continuano ad essere attestate in questa fase sia le fornaci a pozzetto (tre esemplari) sia la fossa per la raccolta del metallo fluidificato, a cui si aggiungono ora due ulteriori elementi, rispettivamente pertinenti agli alloggiamenti di un’incudine e di una forgia. Nel primo caso si tratta di un’incisione a sezione troncoconica rovesciata con fondo piuttosto profondo e stretto. Le pareti non recano tracce di fuoco ed al suo interno non sono state rinvenute scorie. Come sede di una forgia è stata invece interpretata la cavità di forma circolare, pareti verticali e profondità contenuta, situata subito a nord della presunta ubicazione dell’incudine. In essa si conservano tracce del rivestimento termotrasformato in sabbia e argilla. Pertinente alla stessa attività è la fornace collocata nel corridoio 7 e gli strati individuati nei vani 1-2 (fig. 2). Nel primo caso si tratta ancora una volta di una fossa circolare riempita con cenere, scorie ed elementi provenienti dalla demolizione delle pareti fuori terra del forno. Nel secondo caso invece si è in presenza di livelli nerastri esito delle periodiche pulizie effettuate all’interno degli spazi occupati dalle fucine. Nel corpo di questi depositi è stato rinvenuto un congruo numero di monete di bronzo inquadrabili tra V e VI secolo, la cui relazione con il contesto metallurgico è ancora da esplorare compiutamente 6. L’esame del materiale ceramico contenuto nei livelli connessi all’impianto metallurgico rimanda ad un orizzonte cronologico di prima metà VI secolo; alla seconda metà di esso risalgono invece i reperti contenuti negli strati connessi alla successiva riconversione dell’area per scopi funerari ed anche abitativi 7. Le dimensioni estremamente contenute delle fornaci lasciano presupporre che in esse venissero prodotti oggetti finiti o semilavorati di piccole dimensioni, come testimonierebbero il lingotto, le tre lamine in lega di rame e forse anche i chiodini rinvenuti nel riempimento di uno dei forni, oggetti che verosimilmente sono stati ottenuti attraverso operazioni di ‘riciclaggio’, piuttosto che tramite la fusione di minerale reperito allo stato puro. Considerata, infatti, la congerie temporale in cui si colloca questa attività appare plausibile proporre che gran parte di questi ateliers fossero centri di raccolta e trasformazione di metallo proveniente da edifici spogliati. In quest’ottica andrebbe forse considerata la consistente presenza dei numerari di bronzo rinvenuti negli strati di pulizia, se si esclude che essi siano stati casualmente smarriti durante le transazioni economiche qui effettuate 8. L’inserimento di officine all’interno delle più antiche tabernae sembrerebbe continuare ancora nel VI secolo la vocazione artigianale-commerciale di questi spazi, d’altro canto la diretta connessione dei luoghi di produzione alla via Flaminia permetteva la vendita diretta di ciò che in esse veniva realizzato. Si può inoltre ipotizzare che tali officine fossero gestite da soggetti privati considerato che occupano superfici piuttosto mo- 6 Novantasei nummi provengono dalle stratigrafie documentate nel vano 1 e diciassette dai depositi messi in luce nell’ambiente 2. 7 Per quanto concerne la sistemazione dell’area nella seconda metà del VI secolo si veda: FAILLI, TRAVERSI 2008, pp. 184-185. 8 Un contesto analogo è stato rinvenuto negli scavi della Basilica Giulia. Qui la consistente presenza di monete in depositi connessi ad impianti metallurgici è stata spiegata con pratiche legate alla rifusione, a tal proposito si veda MAETZKE 1991, pp. 8485. Fig. 3. - Riproduzione di un lingotto rinvenuto all’interno dell’officina scoperta a piazza Venezia (foto SS-COL). Fig. 4. - Planimetria dell’officina metallurgica scoperta a piazza della Madonna di Loreto (elaborazione A. AVERINI Cooperativa Archeologia). deste, nel caso qui esaminato la bottega e/o botteghe coprono un’area totale di circa 50 m², ed implicano un’organizzazione del lavoro non particolarmente sofisticata; si insediano, infine, all’interno di un’insula, edificio privato con funzione abitativa. La situazione documentata a piazza Venezia appare inoltre perfettamente in linea con quanto recentemente emerso in numerosi scavi urbani: si pensi ad esempio alle officine individuate nello scavo della Basilica Hilariana 9, o a quelle rinvenute alle pendici del Palatino 10, ed infine agli impianti di forgiatura riconosciuti nell’area di Sant’Omobono 11, solo per citare i ritrovamenti più recenti. D’altro canto la sensibilità ed anche la maggiore attenzione rivolta a partire dagli anni Ottanta verso questa tipologia di contesti ha permesso di riconoscerne appieno la reale significatività ed assegnare loro un ruolo di primo piano nell’ambito degli elementi maggior- mente caratterizzanti il nuovo volto della città tra tardoantico e altomedievo 12. Completamente differente è la situazione messa in luce nel vicino cantiere di piazza della Madonna di Loreto, dove a partire dalla metà/seconda metà del VI secolo all’interno dei due auditoria di età adrianea ritenuti parte del complesso dell’Athenaeum fatto costruire dall’imperatore nel 135 d.C., si impianta un’estesa officina destinata principalmente alla lavorazione delle leghe di rame (fig. 4) 13. PALAZZO 2013, p. 76; PAVOLINI 2013, pp. 480-484. Comunicazione personale di Clementina Panella e Lucia Saguì. 11 CECI c.s. 12 Sulle tematiche legate alle diverse dinamiche della città tra tardoantico e altomedioevo si veda PAROLI, DELOGU 1993. 13 L’officina che occupa l’aula meridionale è stata messa in luce solo parzialmente, l’impianto insediatosi invece nell’aula centrale è stato esposto integralmente. Sul contesto stratigrafico in cui si col9 10 Fig. 5. - N Tipologie delle fornaci presenti nell’officina scoperta a piazza della Madonna di Loreto (elaborazione A. AVERINI Cooperativa Archeologia). UN EXCURSUS DIACRONICO (VI-XIV SEC.) ATTRAVERSO GLI INDICATORI DELLA PRODUZIONE, PROVENIENTI DAGLI SCAVI DELLA METRO C 159 Dal punto di vista tecnologico e relativamente alle fornaci va osservata la ricca varietà e le differenti tipologie costruttive: a pozzetto, a catasta, a camino ed a riverbero. Di esse, ad eccezione di un caso soltanto, si conservano unicamente le parti interrate relative cioè all’invaso destinato ad accogliere combustibile, fondente e materia prima. Nella prima categoria rientrano fosse circolari ed occasionalmente rettangolari di profondità compresa tra cm 2530 ed ampiezza intorno a cm 50. Hanno pareti dal profilo verticale e fondo piano. In alcuni casi, oltre ad evidenti tracce di esposizione al calore, si conserva parte del rivestimento interno in limo rubefatto (fig. 5) 14. Numericamente rientrano in questo raggruppamento ventisei esemplari, di cui quattordici situati nell’aula meridionale e dodici nella sala cenFig. 6. - Riproduzioni di: a) scoria interna; b) scoria colata; c) cucchiaino in lega di rame; d) ingresso trale. A livello distributivo del mantice; e) ricostruzione del piano di una fornace a riverbero; f) lastra di marmo con foro per l’insembrerebbe che lo spazio gresso del mantice, rinvenuti nell’officina scoperta a piazza della Madonna di Loreto (foto SS-COL). inferiore compreso tra le cessivi strati di obliterazione, in cui è stato praticato un due gradonate sia stato preferito per l’installazione dei forforo delle dimensioni compatibili con alcuni esemplari ni; solo quattro di essi occupano, infatti, la sommità delin argilla scorificata di ingressi di ‘tuyère’ (fig. 6, d, f). le scalinate collocate nell’aula centrale. Le fornaci a caDi questa tipologia di forno sono attestati dodici esemtasta, derivazione diretta dei forni a pozzetto, si plari, quattro nella sala meridionale e otto in quella cencompongono invece di una cavità di forma circolare amtrale. Anche in questo caso gli antichi spazi pavimentapia e profonda cm 50, completata su un lato da due inli parrebbero costituire le superfici più idonee ad ospitarli, cassi rettangolari simmetrici alquanto superficiali. Quevisto che in solo quattro casi si è preferito optare per l’area sti ultimi sono destinati a ricevere una lastra posta di taglio occupata dalle gradonate. Ad un terzo raggruppamento per proteggere il mantice, del quale in almeno due casi appartengono i tagli identificabili con fornaci a camino. si conservano le impronte in negativo (fig. 5) 15. Al sistema Si tratta di strutture che rappresentano un’evoluzione dei di protezione del mantice va invece ricondotto un framforni a cupola, in cui la porzione in elevato viene ad asmento di pavimentazione marmorea, rinvenuto nei suc- loca l’officina rinvenuta a piazza della Madonna di Loreto si vedano: SERLORENZI 2010, pp. 145-146; RICCI 2010; RICCI 2013, pp. 30-35; SERLORENZI, RICCI, c.s. Per ciò che concerne l’edificio di età adrianea: EGIDI 2010, pp. 107-116; EGIDI 2013, pp. 3-16; RICCI 2013, pp. 23-29. 14 Non si può tuttavia escludere che in alcune si debbano riconoscere le cavità destinate a contenere il metallo ormai fluidificato, come peraltro documentato nella limitrofa officina messa in luce nel cantiere di piazza Venezia. 15 CIMA 1991, p. 116. 160 MIRELLA SERLORENZI - GIOVANNI RICCI sumere una forma cilindrica slanciata, di altezza superiore al metro e mezzo, protetta esternamente da un’intelaiatura lignea 16. Di simili apprestamenti si conservano le fosse circolari (ampiezza e profondità cm 50) destinate a contenere combustibile e materiale da fondere unitamente ai fori atti a sostenere l’architettura lignea. Questi ultimi, del diametro di cm 5, si dispongono a coronamento della cavità centrale (fig. 5). In tale categoria rientrano unicamente due esemplari, rispettivamente situati nello spazio compreso tra le scalinate sia dell’aula centrale che della sala meridionale. Due sono anche le incisioni riconducibili a fornaci a riverbero, collocate sempre nelle zone pavimentali di entrambe le aule 17. Si tratta in questo caso di fosse caratterizzate da una forma a ‘8’, in cui è presente un catino ribassato (camera di combustione) ed una cavità superficiale dal fondo piatto posta poco al di sotto del livello di calpestio (fig. 5). In essa, o per meglio dire su appositi piani in argilla refrattaria collocati al suo interno, dovevano essere alloggiati i crogiuoli in cui veniva fuso il metallo semiprodotto o affinata la metallina 18 (fig. 6, e). L’esemplare situato nella sala meridionale è l’unico a conservare, oltre alla porzione ‘interrata’, parte dell’elevato costruito con materiale eterogeneo (laterizi, frammenti di marmo e tufo) e di reimpiego adoperando come legante del limo argilloso. Più problematico è invece stabilire la destinazione d’uso delle numerose cavità prive di tracce di esposizione al calore. È probabile che in esse vadano riconosciuti alloggiamenti destinati ad ospitare incudini, contenitori per liquidi o altro tipo di materiale, e fosse per il raffreddamento del prodotto lavorato o semilavorato. Queste, non a caso, si concentrano prevalentemente nello spazio delle gradonate, quasi ad indicare che i gradini abbiano offerto pratiche sedute per gli artigiani in alcune fasi di lavorazione (fig. 7). Dal punto di vista stratigrafico i tagli individuati (circa sessanta nell’aula centrale e quaranta nella porzione scavata della sala meridionale), indipendentemente dalla loro funzione, giacciono indistintamente su di una medesima superficie rappresentata dal conglomerato cementizio delle gradonate e dalla preparazione pavimentale delle aule adrianee. Non è stato possibile, 16 Un confronto puntuale proviene dall’impianto siderurgico altomedievale di Boécourt, a riguardo cfr. ESCHENLOHR, SERNEELS 1991. 17 LOWE, MASON 1987, pp. 85-86; NERI 2006, p. 153. 18 Numerosi frammenti relativi ad originari piani in argilla refrattaria sono stati rinvenuti nello strato di distruzione delle fornaci. La ricomposizione di tali elementi si deve all’attento studio archeometallurgico condotto dall’équipe dell’Università di Chieti coordinata da V. la Salvia. dunque, stabilire un’eventuale seriazione stratigrafica al loro interno, che ragionevolmente dovette esserci considerato l’elevato numero e la contiguità spaziale delle fornaci, a volte confinanti, le quali logisticamente non avrebbero potuto funzionare simultaneamente. Va comunque sottolineata la coesistenza di impianti afferenti a diverse tipologie, i quali indurrebbero a ricostruire processi di lavorazione alquanto articolati suggeriti anche dalle analisi chimiche condotte su una grande quantità di scorie e sui pochi oggetti metallici (barrette e lingotti) rinvenuti 19. Le scorie si possono suddividere in due raggruppamenti principali: quelle colate all’esterno della fornace e quelle interne ad esse. Le prime, numericamente poco attestate, sono caratterizzate da una superficie liscia e vetrificata di colore verde o rosso bruno, struttura interna compatta e segni più o meno evidenti di scorrimento (fig. 6, b). Sono riconducibili sia al processo di alligazione del bronzo piombifero sia al processo di raffinamento e purificazione di rame metallico dalle impurità. Le scorie interne, che rappresentano la maggioranza di questa tipologia di materiale, hanno invece forma irregolare ed un aspetto eterogeneo con frequenti inclusi di cenere e carbone ed appaiono legate alla lavorazione del rame (fig. 6, a). Sono state individuate anche alcune scorie a calotta, tipiche del ciclo della lavorazione del ferro. Queste ultime potrebbero forse indicare la presenza, nell’ambito dell’officina, di una forgia in cui venivano prodotti e/o riparati gli strumenti di lavoro, a meno di non volerle considerare come semplice fondente. Estremamente esiguo è invece il numero degli oggetti metallici rinvenuti, raggruppabili in nove tipologie aventi ciascuna le seguenti caratteristiche 20: a) artefatto in rame di forma circolare e sezione ovale, la cui superficie presenta un forte arricchimento in cloro e piccole inclusioni di argento metallico; b) barretta di rame metallico con inclusioni di solfuro di rame. Ha forma piatta e allungata delle dimensioni di cm 4 di lunghezza, cm 1 di larghezza e mm 2-3 di spessore. Le inclusioni di solfuro di rame sono allungate 19 Per un’ampia trattazione sugli aspetti archeometallurgici si vedano: LA SALVIA, IACONE 2010, pp. 165-166; ANTONELLI, IACONE, PROSPERI et alii 2013 pp. 95-112; LA SALVIA, ANGUILANO c.s.; ANGUILANO, LA SALVIA, ANTONELLI et alii c.s.; ed in particolare La Salvia in questo stesso volume. 20 Per quanto concerne le immagini dei manufatti descritti ai punti a-i si veda infra La Salvia figg.000. UN EXCURSUS DIACRONICO (VI-XIV SEC.) ATTRAVERSO GLI INDICATORI DELLA PRODUZIONE, PROVENIENTI DAGLI SCAVI DELLA METRO C 161 nel senso della lunghezza dell’oggetto, testimoniando così un processo di martellatura. Lo studio della superficie ha indicato anche in questo caso la presenza di argento associato a cloro; c) barretta di rame con inclusioni di solfuri a composizione mista. In associazione al rame si trovano anche ferro, argento e antimonio; d) piccoli lingotti di bronzo piombifero; e) lingotto bronzifero con tracce di piombo; f) lingotto di ferro con strut- Fig. 7. - Ricostruzione dell’interno dell’officina scoperta a piazza della Madonna di Loreto (direzione tura perlitica e inclusio- scientifica M. Serlorenzi, elaborazione Studio Inklink): vedi anche tav. 00. ni di piombo; delle leghe di rame ed in alcuni casi all’argentatura sug) frammento metallico la cui composizione chimica è perficiale delle stesse. Particolarmente rilevante è il conforme alle scorie di alligazione sopra descritte. Sulprocesso connesso alla produzione di semilavorati in lega la superficie di esso, in connessione con rame, piomdi bronzo piombifero ed alla loro eventuale rilavorabo e stagno, sono state rinvenute anche gocce con alta zione. I tre componenti di questa lega sono appunto: concentrazione di argento. Ciò indicherebbe che il prorame, stagno e piombo. Il primo sembra derivare dal ricesso di argentatura veniva effettuato su tipi di metalli ciclo di manufatti in rame e bronzo, alcuni dei quali forse diversi e non solo su artefatti in rame; presenti in origine all’interno delle antiche aule adriah) frammento di piombo con tracce di argento; nee 22 e comunque provenienti da attività di spoglio; il i) frammenti di piombo privi di contaminazioni di altri secondo viene aggiunto nella lega come cassiterite ed in metalli. Resta ancora da verificare se questo materiale misura minore dal ‘bronzo riciclato’; il piombo infine possa derivare dalla riduzione del litargirio dopo la coppotrebbe derivare dalla riduzione del litargirio ottenuto pellazione del piombo argentifero; anche se al momento durante la coppellazione. Come già anticipato, non si è non sono stati analizzati campioni che possano fornire tuttavia certi se quest’ultima lavorazione venisse svolta prove dirette circa l’espletamento in situ del proces21 in situ anche se la presenza di fornaci a riverbero, uniso di coppellazione . tamente al rinvenimento di pianetti di cottura in argilla refrattaria – indicatori di una lavorazione a crogiuolo – Come strumento di lavoro va infine considerato il lascerebbero aperta questa possibilità. cucchiaino in lega di rame presente tra i reperti conteIl paesaggio di entrambe le aule viene inoltre ad esnuti nel livello di dismissione dell’officina (fig. 6, c), sere implementato da ulteriori punti di fuoco e zone con forse adoperato come dosatore di metallo all’interno accumuli di carbone, testimonianze forse di aree utilizdella catena produttiva. zate per lavorazioni diverse ma comunque sempre leDa quanto sopra esposto sembrerebbe abbastanza gate all’attività metallurgica. chiaro che nella fucina avvenissero processi metallurDifferente è invece la contemporanea sistemazione gici diversificati prevalentemente legati alla lavorazione Processo di preparazione dell’argento consistente nel trattare, in ambiente ossidante, in forni detti a coppella, il piombo argentifero. Per effetto dell’aria introdotta nella fornace, il piombo liquido 21 si ossida a litargirio, che in parte viene eliminato all’esterno ed in parte è assorbito dalla suola del forno stesso. 22 Forse in quest’ottica è da considerare la totale asportazione delle grappe di ancoraggio del rivestimento marmoreo parietale. del corridoio e del vano situato all’estremità occidentale di esso, entrambi collocati a sud dell’aula centrale (fig. 4). In questi spazi trovano rispettivamente posto un pozzo alimentato da una fistula plumbea (l’acqua è un elemento fondamentale per lo svolgimento del ciclo produttivo impiantato nella contigua aula gradonata) ed il settore adibito alla miscelazione del legante adoperato nella costruzione delle attigue fornaci come testimoniato da due lunghe incisioni parallele e da altrettante fosse riempite con strati di limo e argilla. Fig. 8. - Veduta al di sotto dell’unità di crollo dello strato di dismissione dell’officina scoperta a piazza della Madonna di Loreto (foto SS-COL): vedi anche tav. 00. Le caratteristiche costitutive dei diversi contesti messi in luce e la loro collocazione topografica consentono di cogliere la destinazione d’uso assunta in questo periodo dai vari settori del complesso adrianeo. Nello schema riprodotto a fig. 4 si può infatti osservare come le officine occupino entrambe le aule: qui si concentrano le fornaci ed è appunto in questi spazi che avevano luogo i processi di cottura e forgiatura. Nella stanza situata all’estremità occidentale del corridoio va invece individuata l’area di stoccaggio del materiale per la costruzione delle fornaci, in particolare del legante adoperato nella loro realizzazione; nel corridoio vero e proprio, ora volutamente separato e protetto dall’ingresso al monumento mediante un tramezzo realizzato con materiale di reimpiego, si può infine riconoscere il luogo di immagazzinamento del prodotto finito o semilavorato, come sembrano indicare i metalli lavorati assimilabili a lingotti qui rinvenuti. L’inizio di questa intensa attività artigianale si colloca in un arco cronologico racchiuso entro il VI secolo, probabilmente alla metà o addirittura nella seconda metà di esso, come sembrerebbero suggerire i dati provenienti dallo studio del materiale ceramico contenuto nelle stratigrafie connesse all’impianto delle fornaci 23. A ciò si aggiunga che l’ultima attestazione dell’originaria destinazione d’uso delle sale come auditoria ci riFig. 9. - Planimetria ricostruttiva delle aree occupate dall’officina scoperta a piazza della Madonna di Loreto (elaborazione A. AVERINI Cooperativa Archeologia). 23 DE LUCA c.s. UN EXCURSUS DIACRONICO (VI-XIV SEC.) ATTRAVERSO GLI INDICATORI DELLA PRODUZIONE, PROVENIENTI DAGLI SCAVI DELLA METRO C 163 manda agli anni finali del V secolo 24. Tra la fine del VII e la prima metà dell’VIII secolo si data, invece, la dismissione dell’impianto metallurgico. Le fornaci vengono intenzionalmente distrutte e sepolte da un ingente riporto artificiale formato dai materiali non riciclabili dell’officina. Tale deposito è caratterizzato da strati di colore nero al cui interno sono presenti elementi termotrasformati, scorie di fusione, frammenti di marmo, frammenti di ossa animali dal colore verdastro e reperti ceramici (fig. 8 e tav. 00). Trattandosi di un accumulo volontario e non di naturale dispersione dovuta al ciclo produttivo, si è cancellata qualunque relazione e/o associazione diretta tra le diverse tipologie di scorie e le differenti fornaci dell’officina. Il panorama sopra delineato rappresenta per certi versi un unicum nel coevo paesaggio romano. Siamo infatti di fronte ad un impianto fuori scala per le sue dimensioni (circa 800 m2 di superficie sinora investigata che però raggiunge i 3400 m2 se ad essa aggiungiamo le zone adiacenti ancora da indagare) 25 in cui, anche se non simultaneamente, sono messi in opera una quarantina di forni caratterizzati a livello strutturale da una evidente diversificazione tipologica e presumibilmente anche funzionale (fig. 9). Se a ciò aggiungiamo l’esistenza in loco di articolati processi produttivi legati alla lavorazione del rame, delle sue leghe e del ferro, appare ragionevole ipotizzare che ci si trovi in presenza di un’attività su larga scala in grado di gestire una catena produttiva assai elaborata che viene ad occupare un precedente spazio pubblico di grande rilevanza culturale. La configurazione architettonica dell’impianto rinvenuto a piazza della Madonna di Loreto si caratterizza inoltre per un’accessibilità controllata degli spazi deputati alla lavorazione dei metalli. Le antiche aule adrianee presentano, infatti, ingressi separati che non si affacciano direttamente all’esterno e che in questa fase vengono ulteriormente salvaguardati da setti murari di nuova costruzione. La protezione del luogo era infine assicurata dall’assenza di finestre nella parte inferiore delle sale: eventuali aperture collocate nei lunotti delle volte dovevano presumibilmente trovarsi ad oltre dieci metri di altezza. Sembra quindi che il tipo di lavorazione effettuata al suo interno dovesse richiedere un controllo costante per garantire la sicurezza dei manufatti che in esso venivano prodotti. Le ridotte dimensioni delle fornaci rendono inoltre verosimile che da esse venissero estratti oggetti finiti o semilavorati di piccole proporzioni. Si sono rinvenute, infatti, unicamente barrette di rame con tracce di argentatura superficiale, lingotti di bronzo piombifero e di ferro che, se non commercializzati direttamente, potevano forse essere utilizzati per produrre oggetti di qualità o comunque dal forte valore simbolico considerato che il metallo utilizzato di per sé non aveva particolare pregio. Alla luce di questi elementi è stato ipotizzato che nell’officina di piazza della Madonna di Loreto si realizzassero tondelli monetali e oggetti onorifici, come già precedentemente proposto ed accolto anche in questa sede congressuale 26. Seguendo questa interpretazione, assumerebbe quindi un preciso significato la minuziosa attività di pulizia che ha interessato l’impianto prima della sua definitiva dismissione così da recuperare tutto ciò che aveva ‘valore’ e che era di pertinenza ‘statale’, come ad esempio gli strumenti di lavoro, ma soprattutto il metallo monetale e eventualmente i conii che dovevano essere messi al sicuro per evitare contraffazioni. Un ulteriore elemento a favore dell’interpretazione del complesso come zecca enea è offerto anche dalla cronologia dell’impianto: nascita/vita/ morte dell’attività avvengono nel momento in cui Giustiniano assegna a Roma la funzione di battere moneta di bronzo per l’Italia Suburbicaria. In ogni caso, in questa fucina non si vuole forzatamente riconoscere il luogo della coniazione – di fatto i conii non sono stati rinvenuti – ma più plausibilmente l’area di produzione del metallo monetale. Occorre tuttavia rammentare che quanto posto in luce non rappresenta un’unità in sé conchiusa, ma unicamente una porzione di un più ampio insieme architettonico i cui contorni sono ancora da delineare. Alle due aule scoperte a piazza della Madonna di Loreto vanno infatti aggiunte sul lato settentrionale una terza sala parzialmente esposta da Gatti agli inizi del ‘900 durante l’edificazione del palazzo delle Assicurazioni Generali di Venezia, i piani superiori delle stesse aule, e sul versante meridionale le ampie porzioni di un vasto ambiente 24 EGIDI 2010, pp. 117-118; RICCI 2013, pp. 29-30. Sulle basi iscritte si veda in particolare: ORLANDI 2010, pp. 124-127; ORLANDI 2013, pp. 45-52. 25 Occorre però sottolineare che dei 3400 m², esclusi gli 800 m² delle due aule indagate, sono probabili i 400 m² della terza aula sotto il palazzo delle Assicurazioni Generali di Venezia, mentre altamente indicativi sono i restanti 2200 m² dell’edificio intravisto in parte in occasione della demolizione di palazzo Desideri. A queste superfici andrebbero comunque aggiunti i 1200 m² dei piani superiori dei tre auditoria. 26 SERLORENZI c.s., ed in particolare per le problematiche della zecca di Roma si veda MARANI c.s. Su quest’ultima tematica si veda anche quanto riportato da A. ROVELLI in questo stesso volume. 164 MIRELLA SERLORENZI - GIOVANNI RICCI sta ad m 1,75 di altezza dal fondo. Le pareti mostrano segni di rifacimenti connessi ad un prolungato utilizzo, come per altro testimoniato anche dai molteplici strati di vetrificazione. Allestimento, uso e distruzione della calcara si collocano in un arco cronologico ristretto, complessivamente inquadrabile nell’ambito dell’VIII secolo. La struttura viene, infatti, ricavata incidendo precedenti livelli di VII secolo; un frammento di ceramica sovradipinta a bande rosse di VIII secolo è stato invece rinvenuto all’interno della parete della camera di combustione; allo stesso periodo rimandano infine i reperti contenuti negli scarichi domestici che obliterano la fornace. Tipologicamente si è di fronte ad una calcara del Fig. 10. - Planimetria, sezione e presa fotografica della calcara scoperta a piazza Venezia (rielaborazione di S. PICCIOLA da SERLORENZI, SAGUÌ 2008, fig. 12). tutto simile ai coevi impianti documentati nel Foro di Traemerso nel 1937 in occasione della demolizione di paiano 29 ed alle pendici settentrionali del Palatino 30, nonlazzo Desideri (fig. 9) 27. In esse potrebbero così celarsi ché a quella di poco posteriore messa in luce nell’esedra gli indicatori utili a connotare esaustivamente la fundella Crypta Balbi 31. La collocazione dell’ impianto zione dell’impianto scoperto. nell’ambito di un complesso architettonico ancora parzialmente funzionante apre tuttavia il campo ad una serie di considerazioni legate in primo luogo alla VIII secolo: la calcara di Piazza Venezia definizione del contesto produttivo. L’equazione calcara-area di cantiere o anche calcara-cantiere di spoglio Il sito di piazza Venezia restituisce per l’VIII secolo sembrerebbe non riguardare il nostro impianto. Nel un nuovo e differente indicatore della produzione. Alprimo caso, infatti, ci si dovrebbe trovare in uno spazio l’interno del complesso commerciale scoperto a piazza aperto, privo cioè di edifici in uso, ove poter impiantare Venezia si impianta nel corridoio retrostante le tabernae e allestire il nuovo cantiere costruttivo. Nel secondo prospicienti la via Flaminia una fornace da calce (fig. 10) 28. caso, invece, la fornace dovrebbe collocarsi all’interno Della struttura, parzialmente compromessa dalla coo in prossimità di complessi monumentali, per loro nastruzione di successive cantine rinascimentali, si conserva tura ricchi di materiale calcinabile. Nel caso qui esamila camera di combustione dotata di un’evidente risega ponato, la calcara si colloca invece in un contesto Sui risultati degli scavi condotti per la costruzione del palazzo delle Assicurazioni Generali di Venezia: GATTI 1902a, pp. 285-291; GATTI 1902b, p. 555; GATTI 1902c, pp. 627-628; GATTI 1903a, pp. 365-369; GATTI 1903b, pp. 276-282; GATTI 1903c, pp. 120-121; GATTI 1903d, pp. 199-200; GATTI 1903e, p. 226; GATTI 1903f, pp. 510-511; GATTI 1903g, p. 602; GATTI 1904a, pp. 83-84; GATTI 27 1904b, pp. 153-157. Sui ritrovamenti avvenuti in occasione della demolizione di palazzo Desideri: LA CAVA 1933, pp. 253-258. 28 LAUDATO, SAVIANE 2008, pp. 185-186. 29 MENEGHINI 1998, pp.127-141. 30 SERLORENZI 1992, pp. 399-401. 31 SAGUÌ 1986, pp. 345-355. UN EXCURSUS DIACRONICO (VI-XIV SEC.) ATTRAVERSO GLI INDICATORI DELLA PRODUZIONE, PROVENIENTI DAGLI SCAVI DELLA METRO C urbanizzato ed ancora parzialmente vitale, difficilmente quindi rapportabile a spazi liberi da edificare o ad una potenziale cava di materiale calcinabile. Pertanto l’impianto di piazza Venezia potrebbe testimoniare un’attività economica finalizzata specificatamente alla produzione e vendita di calce secondo un modello delineato ad esempio per la vicina area del Calcarario 32, anche se non si può del tutto escludere, visto anche il breve lasso di tempo in cui la fornace ha funzionato, che possa essersi trattato di un allestimento temporaneo, legato forse a qualche ristrutturazione puntuale non più accertabile archeologicamente. Fig. 11. - Veduta dello strato di cenere (US 48) rinvenuto nella trincea B1 di via Cesare Battisti (foto SS-COL). VIII - prima metà del IX secolo: via Cesare Battisti Il contesto stratigrafico di via Cesare Battisti attiene ad una attività produttiva al momento non ancora pienamente chiarita, inquadrabile tra l’VIII-prima metà del IX secolo (fig. 11) 33. Lungo questa arteria stradale, in prossimità di piazza Santi Apostoli, sono state aperte due distinte ma contigue trincee di scavo rispettivamente denominate B1 e B2 (fig. 1). Al loro interno sono emerse murature in opera laterizia e, nel sondaggio B2, piani pavimentali in mosaico ed opus sectile, riconducibili ad una domus tardoantica. Ragioni di sicurezza hanno interrotto lo scavo nella trincea B1 all’esposizione di lacunosi livelli di epoca altomedievale, caratterizzati da depositi estremamente selezionati di cenere con carboni e noduli di calce. Trattandosi di un accumulo volontario e non derivante da semplice combustione si è pensato, considerata la peculiarità costitutiva del contesto, ad un suo impiego a fini artigianali. La cenere di alcune piante, come ad esempio la salicornia, era adoperata nel medioevo come fondente nella lavorazione MANACORDA, MARAZZI, ZANINI 1994, pp. 653-654. 33 LAUDATO 2008, p. 188; SERLORENZI 2010, p. 143. 32 165 del vetro 34. D’altro canto la sua composizione chimica ne ha inoltre facilitato l’impiego sia in ambito tessile sia per fini agricoli. La presenza, infatti, di carbonato di potassio, derivante dalla combustione del legno, rende la cenere uno degli elementi utilizzati nella fabbricazione di saponi o per candeggiare i panni, così come gli ossidi di sodio, calcio e magnesio ne consentono l’adozione come fertilizzante per agevolare la crescita delle piante da orto 35. Purtroppo la limitatezza dell’area di scavo e la scarsa conservazione della stratigrafia altomedievale non permettono di aggiungere ulteriori dettagli. Tale deposito viene coperto da livelli di frequentazione contenenti reperti ceramici di seconda metà IX-inizi X secolo. Fine IX-X secolo: i cunicoli e le fosse di spoliazione di Piazza Venezia Tra la fine del IX e il X secolo nell’insula di Piazza Venezia si leggono tracce indirette di attività produttive; 34 Per l’impiego della cenere come fondente nella lavorazione del vetro STIAFFINI 1999, pp. 7-12. 35 TARDIO 2011, p. 6. 166 MIRELLA SERLORENZI - GIOVANNI RICCI Della calcara 1 si conservano unicamente parte delle pareti settentrionale e meridionale della camera di combustione, perché successivamente sostituita dalla calcara 2 che ha una forma circolare del diametro interno di due metri (fig. 12). Di essa oltre alla camera di combustione, sono perfettamente leggibili sia la risega su cui veniva appoggiato il materiale da calcinare sia l’imboccatura del prefurnio. Quest’ultima viene ad essere collocata sul lato occidentale del forno all’altezza della risega. In assenza di rapporti stratigrafici Fig. 12. - Planimetria e foto delle calcare scoperte a piazza della Madonna di Loreto (elaborazione A. diretti non è invece possiAVERINI Cooperativa Archeologia, fotografie E. MONTI). bile stabilire in quale modopo il crollo definitivo, in seguito al terremoto mento sia da collocare l’allestimento della calcara 3, se dell’847, l’edificio viene infatti definitivamente abbancioè contestualmente all’uso del forno 1 o della fornace donato e non vi sono più tracce di rioccupazione fino 2, oppure anteriormente od anche posteriormente ad enal pieno medioevo. In questo periodo vengono realiztrambi. Quale che sia la sequenza di realizzazione, anche zate fosse e cunicoli di spoliazione che interessano tutto in questo caso dell’impianto, collocato nell’angolo nordlo scavo ad eccezione della parte centrale della strada. est dell’antica aula adrianea, è agevolmente percepibile Questi ultimi sono realizzati all’interno e all’esterno dei la sagoma circolare della camera di combustione. Strati vani, venendosi a collocare prevalentemente lungo i di cenere e carbone con sovrapposti livelli di calce e remuri forse per poter intercettare materiale particolare sidui di lavorazione rinvenuti sul fondo delle tre calquale il travertino presente spesso in fondazione nelle care costituiscono infine le tracce materiali dell’ultima angolate degli edifici. Sulle strutture in elevato l’atticottura. vità è invece volta al recupero dei laterizi delle cortine Il rinvenimento all’interno delle pareti della calcara murarie. 2 di frammenti di ceramica a vetrina sparsa di XII secolo, unitamente alla presenza di materiali di seconda metà XIII-inizi XIV secolo negli strati di obliterazione, XII-XIII secolo: le calcare di piazza della Madonna di consentono di circoscrivere questa fase produttiva in un Loreto ambito cronologico compreso tra il XII e la prima metà del XIII secolo. A livello costruttivo le tre fornaci scoNel cantiere di piazza della Madonna di Loreto alperte a piazza della Madonna di Loreto non mostrano l’interno degli strati di crollo delle antiche aule adriasostanziali differenze con la più antica installazione rinnee, esito del devastante terremoto che nell’847-848 venuta nel cantiere di piazza Venezia, radicalmente dicausò ingenti danni in varie zone della città producendo verso è però il contesto topografico nel quale si 36 impressionanti accumuli di macerie , vengono realizpongono. Si tratta in questo caso di un’area di cantiere zate tre calcare (nn. 1-3 nella planimetria a fig. 12) 37. libera da edifici e prossima alle zone ove si impianta il Le fornaci si collocano all’interno dell’aula centrale. nuovo tessuto urbano basso medievale, come hanno di- 36 GALADINI, FALCUCCI 2010, pp. 166-169; GALADINI, RICCI, FALet alii 2013, pp. 139-162; GALADINI, RICCI, FALCUCCI et alii CUCCI c.s. 37 COISSON, RICCI 2008, pp. 192-193; SERLORENZI 2010, pp. 149150; RICCI 2013, pp. 86-88. UN EXCURSUS DIACRONICO (VI-XIV SEC.) ATTRAVERSO GLI INDICATORI DELLA PRODUZIONE, PROVENIENTI DAGLI SCAVI DELLA METRO C 167 mostrato le ricerche di piazza Venezia e del Foro di Traiano 38. Le limitazioni imposte allo scavo hanno tuttavia consentito di esporre solo alcuni degli elementi dell’intero contesto, presumibilmente nelle vicinanze andranno invece ricercate le altre testimonianze di cantiere, come ad esempio le zone di stoccaggio e preparazione dei materiali edilizi. XIV secolo: la fornace da vetro di Piazza Venezia Gli indicatori ascrivibili a questo periodo interessano unicamente il sito di piazza Venezia. Si tratta dei resti estremamente lacunosi di un impianto per la produzione del vetro, testimoniato da una struttura circolare in blocchetti di tufo e laterizi utilizzando l’argilla come legante. Le tracce di termotrasformazione riscontrate sul fondo e sulle pareti stanno ad indicare una prolungata esposizione a fonti di calore. In associazione con tale installazione sono state rinvenute scorie, provini, colaticci e frammenti di crogioli; tutti elementi riconducibili alle ultime fasi di attività del ciclo produttivo (fig. 13). In prossimità della fornace sono stati inoltre messi in luce degli accumuli di sabbia contenenti numerose tessere musive in vetro ed interpretabili forse come materiali destinati al riciclaggio per la preparazione di una nuova miscela vetrificabile 39. Le pesanti asportazioni causate dalla costruzione delle cantine dei palazzi rinascimentali hanno quasi totalmente cancellato la stratigrafia contestuale e dunque le labili tracce riscontrate non permettono, anche in questo caso, una ricostruzione puntuale dell’impianto produttivo. Conclusioni Dagli scavi qui analizzati emerge un quadro articolato che, di volta in volta, offre interessanti spunti di riflessione sia in termini di logiche produttive, sia relativamente al contesto in cui esse vengono svolte; tuttavia la frammentarietà dei dati e l’impossibilità di metterli in relazione all’interno di un contesto areale ampio impedisce di comprendere le reali dinamiche urbanistiche, sociali e produttive che ad esse sottendono. Oc38 Per ciò che attiene l’assetto bassomedievale dell’area di piazza Venezia, cfr. SERLORENZI 2013, pp. 13-17. Riguardo, invece, la zona del Foro di Traiano si veda MENEGHINI, SANTANGELI VALENZANI 2007, pp. 154-155. 39 CASIERI, PISCHEDDA 2008, p. 191. Per ciò che attiene la pro- Fig. 13. - Indicatori della produzione vetraria rinvenuti nel cantiere di piazza Venezia (foto SS-COL). corre infatti cautela nel generalizzare o enfatizzare fenomeni che potrebbero, viceversa, essere circoscritti e non avere rispondenza con il quadro socio economico del periodo storico di riferimento. Queste prime indicazioni andranno quindi considerate come semplici spunti di riflessione da integrare in futuro con i dati derivanti da nuove indagini. L’arco temporale meglio rappresentato dagli scavi della metropolitana riguarda il VI e il VII secolo, periodo tra l’altro ben conosciuto grazie agli studi sulla ceramica, ma anche su altri tipi di merci, come ad esempio i prodotti di lusso, che dimostrano come alla fine del VII secolo la circolazione delle merci nel Mediterraneo era ancora consistente e ben organizzata e, soprattutto, come Roma rappresenti per l’occidente il grande polo di produzione del materiale di lusso, essenziale alle aristocrazie per porre in evidenza il proprio status 40. Tale centralità si può leggere anche negli articolati processi tecnologici messi in atto a piazza della Madonna di Loreto per la produzione di leghe di rame; l’im- duzione del vetro e le tipologie di officine vetrarie: SAGUÌ 1993a, pp. 409-418; SAGUÌ 1993b, pp. 113-136; MENDERA 1999, pp. 217225; STIAFFINI 1999. 40 RICCI 2001, pp. 79-87; SAGUÌ 2001, pp. 62-68. 168 MIRELLA SERLORENZI - GIOVANNI RICCI pianto, infatti, per dimensioni, articolazione delle tipologie di fornaci e durata di attività (più o meno centocinquanta anni) non trova al momento situazioni comparabili nel coevo panorama della città. Di esso sono già state illustrate le motivazioni che porterebbero a riconoscervi la zecca bizantina o comunque un luogo adibito ad assolvere parte di questa filiera produttiva. Pertanto, è abbastanza evidente che, se questo tipo di produzione dipendeva direttamente dall’autorità statale, la tecnologia utilizzata avrebbe dovuto essere la migliore allora esistente. La straordinaria varietà di fornaci e la specializzazione di alcuni processi produttivi, così come desunti dalle analisi chimiche condotte sulle scorie e sui pochi metalli rinvenuti, costituisce un eloquente esempio di una conoscenza tecnologica complessa in grado di gestire differenti stadi di lavorazione, operando soluzioni tutt’altro che elementari 41. Pur nell’assenza di oggetti finiti, l’articolazione delle lavorazioni in atto e la diversificazione delle fornaci porterebbero a riconoscervi un laboratorio destinato, oltre che a pratiche connesse alla monetazione, anche alla produzione di beni suntuari: attività che, come già sottolineato da L. Cracco Ruggini, potevano aver luogo simultaneamente o a fasi alternate all’interno del medesimo complesso 42. Nel caso dell’impianto rinvenuto a Piazza Venezia si è invece in presenza di una modesta bottega dedita alla produzione di oggetti di piccolo taglio, almeno a giudicare dalle dimensioni delle fornaci poste in luce. Queste ultime, inoltre, appartengono ad un’unica tipologia rappresentata da forni a pozzetto. La strutturazione interna dell’’atelier’ presenta, poi, una stretta vicinanza tra aree destinate alla lavorazione e forse anche alla vendita e zone adibite, invece, all’accumulo dei rifiuti prodotti. Cronologicamente, infine, l’attività dell’officina si esaurisce nell’arco di due generazioni. Più problematico è, invece, definire il grado di specializzazione espresso da questa officina anche perché non sono state al momento effettuate analisi sulle scorie né si conosce con precisione la gamma degli oggetti da essa prodotti. Il mancato rinvenimento dei manufatti, unitamente all’assenza di dati provenienti da analisi archeometriche, induce ad una maggiore cautela nell’identificare il sostrato sociale verso cui era rivolto il prodotto finito. In altre parole, è difficile stabilire se nell’officina si realizzassero oggetti di lusso o, viceversa, beni di uso quotidiano; anche se la non particolare complessità dell’impianto farebbe propendere per la seconda soluzione. A tal proposito è utile, forse, rammentare che all’interno di una delle cavità sono stati rinvenuti numerosi chiodi identificati dagli scavatori come uno dei probabili prodotti dell’officina 43. Non andrebbe tuttavia esclusa l’ipotesi che essi potessero far parte integrante di manufatti maggiormente elaborati, come ad esempio cofanetti. I chiodi potrebbero essere stati così impiegati per fissare su di essi decorazioni bronzee. In alternativa è anche plausibile supporre che nell’officina si realizzassero solo piccoli lingotti, destinati al commercio, ottenuti attraverso operazioni di riciclaggio del materiale di spoglio. Quest’ultima chiave di lettura, se confermata, metterebbe in evidenza una specializzazione nella produzione, segno tangibile di un sistema economico in grado di superare il semplice binomio produzione-consumo. Fatte salve le innegabili differenze tra le due attività, sottolineate anche da una non omogenea ‘longevità’, esistono tuttavia elementi in comune che consentono di delineare alcuni aspetti del paesaggio urbano in cui vengono a collocarsi. Come già ampiamente descritto nelle pagine precedenti, entrambe le officine riutilizzano edifici di epoca imperiale di cui sono sostanzialmente rispettati gli antichi piani di calpestio. Si tratta, dunque, di costruzioni che, pur avendo perso (come nel caso delle aule adrianee) l’originaria destinazione d’uso ed essendo state sottoposte ad una parziale spoliazione degli arredi parietali e pavimentali, mantengono pressoché inalterate le loro principali caratteristiche strutturali. Se, dunque, da un lato, nel VI secolo si registra ancora una sostanziale tenuta del tessuto urbanistico di questa porzione di città, testimoniata anche dal mantenimento dei percorsi stradali, esistono parallelamente alcuni indicatori che chiariscono come altre parti della città siano, viceversa, in crisi 44. Tale limite non sempre è così netto e preciso, pertanto, è spesso possibile imbattersi in una commistione funzionale anche all’interno di un medesimo fabbricato, come emblematicamente dimostra la situazione documentata in piazza Venezia, dove si registra una contiguità tra spazi di lavoro/vendita e zone adibite allo smaltimento dei rifiuti. Processi simili si riscontrano per lo stesso periodo nell’area dei fori imperiali e, in particolare, nel Foro di Augusto, dove già a partire dalla fine del V - inizi VI 43 Si veda il contributo di V. La Salvia nel medesimo volume. 42 CRACCO RUGGINI 2001, p. 170. 41 44 ROLI FAILLI, PISCHEDDA 2008, p. 183. Per una panoramica sulla Roma di VI-VII secolo si veda PA2004, pp. 19-27. UN EXCURSUS DIACRONICO (VI-XIV SEC.) ATTRAVERSO GLI INDICATORI DELLA PRODUZIONE, PROVENIENTI DAGLI SCAVI DELLA METRO C 169 secolo inizia una irreversibile destrutturazione, riflesso, come già da più parti evidenziato, di un adattamento della città sia ai mutati bisogni della popolazione, sia alla reale disponibilità di risorse economiche 45. Al di là delle numerose questioni ancora irrisolte, si è, comunque, in presenza di impianti strutturati che a pieno titolo sono testimonianza di una realtà urbana in grado di esprimere ancora nel VI e per tutto il VII secolo una domanda articolata cui le officine di piazza Venezia e Madonna di Loreto erano chiamate in parte a soddisfare. Allargando, ora, l’angolo di visuale alle zone limitrofe si può notare come vi sia una concentrazione di impianti metallurgici nelle immediate vicinanze delle antiche piazze forensi, di cui i contesti messi in luce nel foro di Cesare 46, all’interno del palazzo della Provincia 47, alla Crypta Balbi 48 e nell’area sacra di Sant’Omobono 49, anche se non perfettamente allineati cronologicamente, rappresentano eloquenti testimonianze. Incompletezza e distorsione, tratti peculiari della ricerca archeologica, inducono, tuttavia, ad osservare una certa cautela nell’identificare all’interno della città precisi ambiti topografici destinati a queste attività. Il proliferare di fornaci ‘nell’area centrale’ potrebbe essere non solo il riflesso di una plausibile pianificazione urbana, ma dipendere anche da una non omogenea conoscenza del sottosuolo e da un’accessibilità dei dati tutt’altro che immediata; fattori questi che possono introdurre variabili significative in grado di ridimensionare l’eventuale ‘settorializzazione’ degli ateliers metallurgici. A riflessioni diverse induce invece il rinvenimento della calcara di VIII secolo nel cantiere di piazza Venezia. La fornace è collocata nel corridoio retrostante le tabernae che affacciano sulla via Flaminia, nell’ambito comunque di un fabbricato che, seppur parzialmente deteriorato, risulta ancora essere in uso. Si è in uno spazio, quindi, che, per sua natura, non offre disponibilità di materiale da calcinare, ma che potrebbe indirettamente conferire all’attività svolta un particolare significato. Impiantare un forno per la produzione di calce in un luogo privo della materia prima e che mantiene un carattere abitativo-commerciale implica verosimilmente un’organizzazione della filiera produttiva diversa da quanto previsto, ad esempio, nei cantieri di spolio in cui luogo di produzione e area di reperimento sono pressoché coincidenti. A quest’ultima tipologia afferiscono, come già ricordato, le calcare documentate nel foro di Traiano, alle pendici settentrionali del Palatino e nell’esedra della Crypta Balbi, tutte situazioni in cui la durata dell’attività può dipendere, oltre che da fattori esterni, come ad esempio i diritti di concessione, anche dall’esaurimento in loco della materia prima 50. In piazza Venezia, la netta separazione tra luogo di produzione e bacino di approvvigionamento porterebbe invece ad inquadrare questa realtà in un differente ambito tipologico che è quello dello smercio della calce ivi prodotta, lasciando così intravedere anche per questo periodo l’esistenza di un’articolata organizzazione economica. Un analogo grado di ‘complessità’ sembrerebbe derivare inoltre dal contesto produttivo di via Cesare Battisti, anche se le labili tracce inducono ad osservare maggiore cautela. Ciononostante il ritrovamento di accumuli estremamente selezionati di cenere risalenti all’VIII - prima metà del IX secolo, ha fatto ipotizzare un loro utilizzo nell’ambito di diverse attività artigianali. La sorprendente quantità di tale materiale (circa m3 4) farebbe dunque pensare al superamento del binomio produzione/consumo nello stesso luogo. La cenere, infatti, potrebbe essere stata prodotta altrove ed aver trovato in questi spazi solo l’area di stoccaggio e vendita. Purtroppo l’esiguità del campione a disposizione non consente di avanzare considerazioni maggiormente circostanziate, ma sottolinea l’importanza di rilevare nell’ambito delle attività di scavo anche le tracce apparentemente insignificanti che possono contribuire a ricomporre il variegato mosaico della produzione. Nonostante si tratti in entrambi i casi di indicazioni estremamente puntuali, la loro attestazione potrebbe concorrere a rafforzare quel clima di rinnovato impegno edilizio che tra fine VIII-prima metà del IX secolo sembrerebbe investire in forme e modalità differenti le zone centrali della città, ritessendone l’ordito urbanistico. Si pensi ad esempio alla creazione nel Foro di Cesare di grandi orti urbani con annesse strutture di servizio in legno, o alla lottizzazione del Foro di Nerva in cui domus solarate si accompagnano a frutteti ed orti lungo un percorso acciottolato che attraversa trasversalmente DELOGU 2001, pp. 3-18. DELFINO, DE LUCA, MINNITI et alii 2013. 47 Comunicazione personale di Paola Baldassarri 48 Cfr. il contributo di L. Vendittelli e M. Ricci in questo stesso volume. CECI c.s. Sul significato delle calcare e del recupero di materiali antichi nell’ambito dell’attività edilizia della città si veda l’intervento di R. Santangeli Valenzani in questo volume. Sulle calcare in generale, vd., da ultimo, TRAINA 2013. 45 46 49 50 170 MIRELLA SERLORENZI - GIOVANNI RICCI l’antico spazio forense, solo per citare i casi più importanti attestati nelle vicinanze 51. L’impulso costruttivo dato dalla cosiddetta rinascita carolingia, esito di mutate condizioni politiche e di nuove relazioni economiche, parrebbe subire nei contesti qui presi in esame una battuta d’arresto alla metà del IX secolo, anche a causa dei drastici esiti del terremoto dell’847/48 che in questo settore della città provocarono una sensibile alterazione del paesaggio. A partire da questo periodo e sino a tutto l’XI secolo, infatti, non si hanno nei cantieri analizzati segni di rinascita. Valutare l’impatto che fenomeni di ordine naturale possono aver avuto nel determinare di volta in volta la fisionomia di una città è tematica che esula dal presente contributo; si può, tuttavia, constatare come intorno alla metà del IX secolo il paesaggio dell’area centrale di Roma doveva presentarsi molto difforme dal punto di vista altimetrico, connotato da zone sensibilmente elevate dovute alle macerie non rimosse degli edifici crollati, alternate a settori piuttosto depressi, alcuni dei quali soggetti a fenomeni di impaludamento, dove era più facile impiantare nuove costruzioni. Solo quando, con la piena età medievale, vennero progressivamente appianati questi dislivelli, si riscontrano nuovamente indicatori di produzione nei siti investigati. Tra X e XII secolo, la città vive un grande incremento sia dal punto di vista urbano, testimoniato dall’andamento in crescita del mercato immobiliare ricostruibile dai documenti di compravendita o di affitto, sia dalle relazioni socio-economiche che caratterizzano la vita cittadina in questo arco cronologico 52. A questo proposito è utile menzionare la massiccia presenza di artigiani che si organizzano in scholae a partire dall’anno Mille. In questo periodo, tuttavia, l’area di piazza Venezia non restituisce testimonianze archeologiche evidenti ad eccezione dei cunicoli e delle attività di ruberia dei materiali da costruzione che testimoniano comunque il loro riutilizzo in nuovi cantieri edilizi 53. Nel XII-XIII secolo si collocano le tre calcare scavate all’interno degli strati di crollo delle aule adrianee scoperte nel cantiere di piazza della Madonna di Loreto. In questo caso però il contesto di rinvenimento è radicalmente differente da quello offerto secoli prima MENEGHINI 2009, pp. 201-203. 52 HUBERT 1990; WICHKAM 2013. 53 A tale proposito si veda il contributo di R. Santangeli Valenzani in questo stesso volume. 54 Si veda il contributo di J.-C. Maire Viguer in questo stesso volume. 51 dalla fornace messa in luce nel sito di piazza Venezia. I forni da calce sono collocati in un’area libera da costruzioni e prossima all’attuale piazza Venezia e al Foro di Traiano, in cui si assiste proprio in questo periodo all’edificazione di numerose unità abitative, di cui, oltre alle testimonianze archeologiche, resta ampia traccia nella documentazione scritta. Probabilmente, le fornaci in questione possono aver soddisfatto in parte il fabbisogno di calce necessario alla realizzazione di questi complessi; il luogo di rinvenimento pertanto va identificato come una delle aree di cantiere in cui si approntò il materiale necessario alla costruzione dei nuovi caseggiati bassomedievali. È evidente che, a partire da questo periodo, in cui la documentazione storica è piuttosto puntuale ed abbondante, lo scopo degli indicatori archeologici sia quello di chiarire, con maggior precisione e dettaglio, l’organizzazione materiale e pratica delle diverse attività artigianali e del contesto produttivo, fornendo così un ulteriore contributo alla lettura integrale di questo periodo. Nel XIV secolo le attività produttive vengono nuovamente ad interessare il sito di piazza Venezia, come documentato dalla comparsa di un laboratorio per la produzione del vetro allestito all’interno di una delle precedenti abitazioni d’età medievale. Roma ha ormai assunto i connotati tipici delle altre città medievali senza, tuttavia, rinunciare mai integralmente al legame con la città classica che in vari modi viene ricordata e riproposta. La floridezza dei commerci eleva il livello sociale degli artigiani che possiedono strumenti per svolgere un lavoro autonomo e godono, in molti casi, di una certa agiatezza che li vede proprietari di una o più abitazioni 54. Parrebbe dunque che la città, anche quando tra la fine del VII e l’VIII secolo vive momenti di crisi profonda (e la produzione è forse più orientata verso il consumo quotidiano), ha sempre conservato, per diverse ragioni, la sua natura urbana e una organizzazione cittadina volta a rispondere a bisogni culturali e commerciali complessi e sofisticati. Bibliografia ARENA, DELOGU, PAROLI et alii 2001 = M.S. ARENA, P. DELOGU, L. PAROLI, M. RICCI, L. SAGUÌ, L. VENDITTELLI (a cura di), Roma dall’Antichità al Medioevo. Archeologia e storia nel Museo Nazionale Romano Crypta Balbi, Roma 2001. MANACORDA 2001 = D. MANACORDA, Crypta Balbi. Archeologia e storia di un paesaggio urbano, Milano 2001. UN EXCURSUS DIACRONICO (VI-XIV SEC.) ATTRAVERSO GLI INDICATORI DELLA PRODUZIONE, PROVENIENTI DAGLI SCAVI DELLA METRO C MANACORDA 2002 = D. MANACORDA, Un nuovo frammento della Forma urbis e le calcare romane del Cinquecento nell’area della Crypta Balbi, in MEFRA, 114, 2002, pp. 693-715. RICCI 2001a = M. RICCI, La produzione di merci di lusso e di prestigio a Roma da Giustiniano a Carlomagno, in ARENA, DELOGU, PAROLI et alii 2001, pp. 79-87. RICCI 2001b = M. RICCI, Produzioni di lusso a Roma da Giustiniano I (527-565) a Giustiniano II (685-695): l’atelier della Crypta Balbi e i materiali delle collezioni storiche, in ARENA, DELOGU, PAROLI et alii 2001, pp. 331-428. RICCI 2012 = M. RICCI, Rome-Byzantium Affinity and Difference in the Production of Luxury Goods, in B. BÖHLENDORF-ARSLAN, A. RICCI (a cura di), Byzantine small finds in archaelogical context, in Byzas, 15, 2012, pp. 1-16. SAGUÌ 1990a = L. SAGUÌ (a cura di), L’esedra della Crypta Balbi nel medioevo (XI-XV secolo), Firenze 1990. 171 SAGUÌ 1990b = L. SAGUÌ, Lo scavo, in SAGUÌ 1990a, pp. 60 ss. SAGUÌ 1993 = L. SAGUÌ, Crypta Balbi (Roma): conclusione delle indagini archeologiche nell’esedra del monumento romano. Relazione preliminare, in AMediev, 20, 1993, pp. 409-418. SAGUÌ, MANACORDA 1995 = L. SAGUÌ, D. MANACORDA, L’esedra della Crypta Balbi e il Monastero di S. Lorenzo in Pallacinis, in QuadAEI, 12, 1, 1995, pp. 121-134. BIRINGUCCIO 1540 = V. BIRINGUCCIO, De la pirotecnia, Libri X, Venezia 1540. VENDITTELLI 2004 = L. VENDITTELLI, Roma dall’Antichità al Medioevo, II. Contesti tardo antichi e altomedievali, Milano 2004. VENDITTELLI 2014 = L. VENDITTELLI, Il quartiere antico a est della Crypta Balbi, in L. VENDITTELLI (a cura di), Crypta Balbi. Guida, Milano 2014, pp. 49-60. PRODUZIONI ARTIGIANALI NELLA BASILICA HILARIANA SUL CELIO FRA TARDA ANTICHITÀ E ALTO MEDIOEVO Maria Elena Calabria, Daniela Ferro, Paola Palazzo, Marina Parenti, Tamara Patilli, Carlo Pavolini, Ida Anna Rapinesi, Lucia Saguì Introduzione La pubblicazione definitiva degli scavi della Basilica Hilariana nell’Ospedale Militare Celio, apparsa pochi mesi prima del convegno su ‘L’archeologia della produzione a Roma’ 1, ci esime dal riproporre qui un inquadramento generale dell’edificio e della sua vicenda edilizia, stratigrafica e storico-religiosa. Tuttavia, per mera comodità si può riprodurre (fig. 1) uno stralcio della planimetria della sommità del colle, planimetria già edita in precedenza, ma ripubblicata con leggere modifiche in quel volume 2. È doveroso avvertire che, per ciò che riguarda la Basilica (Saggio III), si tratta di una pianta cumulativa di fine scavo delle sole murature, le quali appartengono quindi a fasi diverse, e non hanno necessariamente ‘convissuto’ le une con le altre. Detto questo, anche per l’estrema ristrettezza dello spazio disponibile tratteremo solo delle fasi nelle quali sono maggiormente presenti quelle realtà materiali che rinviano con certezza ad attività manifatturiere, che si tratti sia di strutture e di elementi stratigrafici ‘orizzontali’ ad esse collegate (strati, pavimenti, battuti, ecc.), sia di interri e scarichi contenenti scarti di lavorazione e altri indicatori di produzione. Questi ultimi saranno un po’ più ampiamente discussi nelle sezioni che seguono, suddivisi per classi di materiali e per tipologie di reperti. È noto che l’edificio quale oggi lo vediamo (sia pure mal conservato), a partire dalla sua fase d’impianto dell’età di Antonino Pio 3 fu destinato a fungere da schola collegiale della confraternita dei dendrophori, addetti al culto della Magna Mater e – in modo particolare – di Attis 4. Elementi di carattere religioso vennero quindi introdotti, con ogni probabilità, nell’assetto architettonico del pianterreno (la sola parte della Basilica che ci sia nota), accanto agli spazi destinati alla vita del collegio, alla rappresentanza, alle attività di servizio: ma – per i motivi di cui sopra – non è il caso di diffondersi nuovamente su questi dati, già ampiamente divulgati. Venendo invece alle cose che ci interessano più direttamente, la Fase 3 – databile attorno alla prima metà del III secolo 5 – vide l’inserimento, nei vani Sud-Est della Basilica (che nell’impianto antonino originario avevano avuto la funzione di ambienti e corridoi di servizio), di installazioni palesemente funzionali ad attività artigianali (figg. 2-3 e tav. 00). Si tratta di alloggiamenti per fistulae (e ci sono resti di vasche, che confermano la consistente presenza di apprestamenti idraulici); di strutture realizzate nell’Ambiente XIII, con muretti laterizi e piano di cocciopesto; di dolia defossa nei pavimenti. Non deve sorprendere la presenza di simili impianti artigianali 6 in una sede associativa di una corporazione a carattere cultuale come i dendrofori. Va detto infatti che PALAZZO, PAVOLINI 2013. Ibidem, pianta a p. 12. 3 Fase 2. Prescindiamo qui dalla Fase 1, databile con probabilità all’epoca giulio-claudia e nella quale si ipotizza l’esistenza di una prima schola dei dendrofori (v. ibidem, pp. 52-57, 431-35). 4 Per le sicure prove in tal senso, v. ibidem, pp. 20-27, 57-67, 443-54 (e passim). 5 Ibidem, pp. 67-72, 475-77. Può sembrare strano che in un convegno dedicato ai secoli V-XV noi prendiamo le mosse da testimonianze che risalgono al III, ma era difficile evitarlo: come vedremo, infatti, le attestazioni di attività manifatturiere nel nostro edificio risultano cronologicamente scaglionate – sia pure con alcune interruzioni, o lacune di evidenza – dalla fase in esame fino alla metà del V secolo almeno, e ciò anche per quel che riguarda i beni prodotti, o parte di essi. 6 Dei quali, per questa fase, non siamo in grado di individuare i prodotti, per l’inesistenza – o la difficoltà di individuazione – di quei reperti di natura ‘tecnologica’ che permetteranno invece di farsi un quadro abbastanza preciso delle lavorazioni databili nelle fasi 4 e 5 (infra, pp. 00). E la cosa si spiega, perché le installazioni della Fase 3 furono oggetto di spoliazioni (descritte subito sotto); in ogni caso non sem- 1 2 174 M.E. CALABRIA, D. FERRO, P. PALAZZO, M. PARENTI, T. PATILLI, C. PAVOLINI, I. A. RAPINESI, L. SAGUÌ Fig. 1. - Pianta della Basilica Hilariana (Saggio III) e dei rinvenimenti archeologici circostanti nell’Ospedale Militare Celio (da Palazzo, Pavolini 2013). questi ultimi avevano conservato il loro probabile, precedente carattere di collegio di boscaioli, lavoratori forestali, commercianti del legno 7, etc., anche dopo essere stati ufficialmente costituiti – dall’imperatore Claudio – in confraternita di addetti al culto di Attis e del pino sacro a questo dio, momento che sembra anche aver coinciso con l’assunzione della nuova denominazione grecizzante di dendrophori 8. Ma, anche al di là delle connotazioni peculiari di tale collegio, sono in realtà frequenti – in età romana – i casi di templi e santuari che facevano fronte alle proprie spese anche mediante le rendite derivanti da attività economiche (investimenti immobiliari, manifattura, piccolo commercio, etc.), o gestendole diretta- Fig. 2. - Basilica Hilariana, pianta della Fase 3 (da Palazzo, Pavolini 2013). brano essere documentati, nel perimetro dello scavo, consistenti strati di scarico riferibili all’attività di questa ‘prima ondata’ di officine. 7 Verosimilmente col nome di lignarii (AURIGEMMA 1910). 8 È naturalmente impossibile scendere qui in dettagli, anche a proposito della complessa problematica storica che fa da sfondo a questi processi, ma (oltre al classico GRAILLOT 1912, pp. 266-68) vd. più di recente DIOSONO 2008a, DIOSONO 2008b, pp. 81-83, e PALAZZO, PAVOLINI 2013, pp. 429-31 e nota 47. PRODUZIONI ARTIGIANALI NELLA BASILICA HILARIANA SUL CELIO FRA TARDA ANTICHITÀ E ALTO MEDIOEVO 175 mente, o più spesso affittando a soggetti ‘terzi’ i relativi locali: basti pensare a Ostia, città per la quale abbiamo sicure evidenze in merito 9, accanto a ipotesi meno facilmente dimostrabili, ma comunque interessanti 10. Nella Fase 4a (verso la metà del III secolo) 11 le attività nei vani sud-est proseguono, ma in tale periodo sono documentati solo interventi di momentanea spoliazione (ci sono fosse di asportazione dei manufatti preesistenti), ai fini di una qualche ristrutturazione degli impianti artigianali. Questa, infatti, si verifica senza soluzione di continuità, a cominciare da nuovi livellamenti della quota di calpestio, databili nel corso della Fig. 3. - Basilica Hilariana, Fase 3, Amb. XIII. Resti di struttura con muretti laterizi e piano di cocciopesto (da Palazzo, Pavolini 2013). stessa fase. Nella Fase 4b, databile con probabici interessa, ma a monte c’è un decisivo evento che qui lità – limitatamente alle Attività che ci interessano – entro mi è possibile solo ricordare di sfuggita: la costituzione la seconda metà del III secolo (figg. 4-5 e tav. 00) 12, si imperiale del 415, con cui Onorio requisisce i beni dei ha, negli stessi settori sud-orientali del pianterreno, dendrofori (e di altri organismi cultuali pagani). Al di quella che potremmo chiamare una ‘seconda ondata’ di là delle rilevanti implicazioni storiche del provvediimpianti a carattere manifatturiero. Sono attestate ad mento 15, ciò vuol dire che da questo momento in poi esempio nuove vasche rivestite di cocciopesto idraulico la Basilica Hilariana non è certamente più tale: in altre (nell’ex-corridoio XI, che ormai va definito così, perparole, non è più la sede dei dendrophori intesi come ché non è ovviamente più percorribile come spazio di collegio religioso, né è più un luogo nel quale fosse perdisimpegno), mentre nell’Ambiente XIV sono attestati messo svolgere riti in onore di Cibele e Attis. livelli con tracce di combustione e di lavorazione e una L’editto onoriano prevede un trasferimento degli impiccola fornace in una fossa (US 5237), a sua volta rimobili delle confraternite disciolte al demanio imperiale: cavata entro una precedente vasca. È questa la prima possiamo solo vagamente immaginare che – nel caso spedelle fasi per le quali disponiamo anche di dati di lacifico – a questo atto abbia fatto seguito una locazione boratorio riguardo ai materiali che venivano prodotti 13. di parte degli spazi a nuovi soggetti privati 16, ma non abVa tenuto ben presente che, in base a tutti gli elementi biamo alcuna prova di ciò, né di chi potesse trattarsi, né a noi noti, in tale periodo l’edificio è ancora saldamente delle modalità giuridiche concrete di tale eventuale affiin mano ai dendrofori come loro schola di riunione e damento. La sola cosa sicura è che le trasformazioni che di culto (e, per inciso, tale situazione non sembra camriscontriamo in questa fase nell’edificio furono operate biare fino alla fine del IV secolo, se non agli inizi del – ancora una volta – per finalità manifatturiere, ma in un V). quadro profondamente diverso dal passato. In seguito, però, le cose mutano radicalmente. La In sintesi, si verifica una sorta di inversione delle deFase 5, ben databile nei decenni centrali del V secolo 14, stinazioni d’uso, per la quale alcuni vani dell’ala sud mostra infatti nuovi sviluppi dal punto di vista che qui Cfr., per fare un solo esempio, il caso dell’edificio di culto degli stuppatores (HERMANSEN 1982). 10 MAR 1996. 11 PALAZZO, PAVOLINI 2013, pp. 73-75, e – sulla Fase 4 nel suo insieme (4a e 4b), con le connesse realtà di natura manifatturiera – pp. 478-484. 12 PALAZZO, PAVOLINI 2013, pp. 76-82. 9 13 Vd. infra la sezione del presente contributo che si deve a Daniela Ferro e Ida Anna Rapinesi. 14 PALAZZO, PAVOLINI 2013, pp. 89-94, 484-86. 15 Ibidem, pp. 486-89. 16 L’ipotesi che si trattasse sempre dei dendrofori, ma ora come mera corporazione di mestiere (e non più anche religiosa), è possibile, ma molto incerta e non dimostrabile: viene più ampiamente discussa ibidem, pp. 488 s. 176 M.E. CALABRIA, D. FERRO, P. PALAZZO, M. PARENTI, T. PATILLI, C. PAVOLINI, I. A. RAPINESI, L. SAGUÌ Fig. 4. - Basilica Hilariana, pianta della Fase 4b (da Palazzo, Pavolini 2013). (già probabili salette di rappresentanza del collegio) 17 diventano ora sedi di piccole installazioni artigianali: per riprendere la metafora già utilizzata nei capoversi che precedono, potremmo chiamarla la ‘terza (e ultima) 17 Erano state create nella Fase 3 (cfr. ibidem, pp. 67-70, 476 s.), come risultato del frazionamento dello spazio unico – scandito da pilastri – che nell’impianto originario della Basilica (Fase 2) aveva costituito una probabile aula o ‘loggia’ di riunione dei dendrofori. PRODUZIONI ARTIGIANALI NELLA BASILICA HILARIANA SUL CELIO ondata’ degli interventi edilizi a carattere manifatturiero (fig. 6 e tav. 00). Abbiamo ad esempio, nell’Ambiente VII, la probabile impronta di un forno circolare (fig. 7) e i resti di una vasca con rivestimento idraulico, che venne realizzata sopra le pavimentazioni musive precedenti; nell’Ambiente IX, l’impronta di un’altra vasca che poi, in una fase ancora successiva, verrà rimossa, e inoltre – nei diversi spazi – lacerti di cocciopesto, piani di lavorazione con residui di calce. Viceversa, quei vani del settore sud-orientale – già locali di servizio – che a partire dal III secolo erano stati adibiti a scopi manifatturieri, come sappiamo, diventano ora spazi di scarico e di sgombero dei rifiuti e degli scarti delle officine appena descritte. Anche per questa Fase 5, come per la precedente, disponiamo di alcuni dati sugli ‘indicatori di produzione’ (stavolta nel senso dei reperti mobili), dati desumibili dalle analisi di laboratorio condotte da Ferro e Rapinesi e dalle osservazioni di M. Parenti e L. Saguì 18. 18 Su tutto questo cfr., infra, i contributi delle autrici citate, ma anche le brevi considerazioni esposte subito sotto, alla fine della presente introduzione. Fig. 5. - Basilica Hilariana, Fase 4b, Amb. XIV. Fornace ricavata all’interno di una vasca preesistente (da Palazzo, Pavolini 2013). Fig. 6. - Basilica Hilariana, pianta della Fase 5 (da Palazzo, Pavolini 2013). 178 M.E. CALABRIA, D. FERRO, P. PALAZZO, M. PARENTI, T. PATILLI, C. PAVOLINI, I. A. RAPINESI, L. SAGUÌ il pozzo di scarico citato è l’unica attestazione stratigrafica individuata dallo scavo entro il perimetro dell’edificio. Questo discorso vale, del resto, anche per il rimanente materiale ceramico della fossa 5334 (sicuramente non di scarto), brevemente descritto nello stesso contributo. Sia per l’ipotetica zona di produzione, sia per l’insediamento nel quale venivano comunque utilizzati i vasi di IX-XI secolo da noi rinvenuti, si potrebbe pensare all’esistenza di ridotte comunità raccolte intorno alle grandi fondazioni cristiane – ecclesiali e monastiche – sorte nel frattempo in questo settore del Fig. 7. - Basilica Hilariana, Fase 5, Amb. VII. Impronta di probabile forno circolare entro un Celio, e in tal caso la direzione più piano pavimentale preesistente (da Palazzo, Pavolini 2013). probabile verso la quale rivolgersi Non ci si occuperà nel dettaglio della Fase 6 e di sembra quella dei non lontani SS. Quattro Coronati 22. quelle successive 19, con le quali la lunga vicenda produttiva Si tratta però di supposizioni per ora molto incerte. che abbiamo fin qui seguito giunge ad un termine, e nel Facendo un passo indietro, e tornando al periodo pianterreno della ex Basilica non c’è più nessuna traccia compreso fra la seconda metà del III e il pieno V sedi impianti del genere. Infatti le fasi citate comprendono colo, se ci basiamo sui contributi di D. Ferro e I. Rascarichi e interri che si formano entro la seconda metà del pinesi, di M. Parenti e di L. Saguì 23 possiamo ipotizzare VI secolo, alcuni ultimi interventi edilizi eseguiti con tecche almeno alcune produzioni si siano svolte nel nostro niche molto rudimentali e finalizzati alla precaria rioccuedificio in un quadro di continuità, o che – se momenpazione abitativa di parte degli spazi, isolati episodi di taneamente interrotte – siano state poi riprese, nonostante seppellimento e – come esito finale – il crollo delle muil probabile variare nel tempo dei soggetti che erano adrature dell’edificio, agli inizi del VII secolo. detti a tali lavorazioni. Un’ultima manifestazione di vita e forse di attività Questo si nota seguendo l’ordine cronologico delle artigianale, sporadica e isolata, si avrà poi con il pozzo fasi, in modo ‘trasversale’ rispetto alle classi dei matedi scarico contenente ceramica del IX-XI secolo (Fase riali rinvenuti. Nella Fase 4a, allorché sappiamo che sono 9) 20. Le autrici avanzano in forma dubitativa l’ipotesi documentati – riguardo alla stratigrafia ‘orizzontale’ – che – nell’ambito di questo rinvenimento – alcuni requasi solo interri per livellamenti, non abbiamo molte perti possano essere considerati scarti di lavorazione 21, testimonianze di natura ‘tecnologica’. Quanto ai vetri 24, e aggiungono che l’area dove si svolgevano tali evenc’è molto poco, e anche di interpretazione incerta, mentuali processi produttivi non può essere al momento identre un’eccezione è rappresentata dagli aghi crinali, dei tificata. Essa doveva semmai trovarsi nei pressi della quali si ipotizza una lavorazione nei vani ex di servizio ex Basilica Hilariana, ma esternamente ad essa, poiché del settore sud-est della Basilica 25. Dalle tabelle e dagli PALAZZO, PAVOLINI 2013, pp. 121-160, 489-92. 20 Ibidem, pp. 160-165 (si tratta dell’Attività 28, costituita dalla fossa US 5334 e dal suo riempimento, US 5335). Il materiale è stato esaminato da M. E. Calabria e T. Patilli per cui infra, pp. 00. 21 Per le motivazioni, vd. infra, pp. 00. 22 Su tutto questo cfr., un po’ più ampiamente, PALAZZO, PAVOLINI 2013, p. 504. 23 Cfr. infra, pp. 00. 19 Vd. infra il contributo di Lucia Saguì, pp. 00. Vd. infra, pp. 00, per le motivazioni dell’ipotesi (che si estende anche ad altri manufatti in osso o in avorio quali gli elementi rettangolari per possibili cornicette: cfr. PALAZZO, PAVOLINI, fig. 11). Alle considerazioni ivi esposte va aggiunto l’alto numero globale degli esemplari rinvenuti (ben 189), difficilmente spiegabile se non pensando ad una fabbricazione in loco, visto che si tratta di oggetti per la cosmesi femminile e che il contesto dello scavo non rinvia ad un complesso abitativo. 24 25 PRODUZIONI ARTIGIANALI NELLA BASILICA HILARIANA SUL CELIO FRA TARDA ANTICHITÀ E ALTO MEDIOEVO 179 istogrammi inseriti nel contributo di Marina Parenti si desume, infatti, che un numero consistente di spilloni in osso è stato rinvenuto nei livelli della Fase 4a: non è escluso che tali reperti vadano interpretati come residui delle prime installazioni artigianali, appartenenti alla Fase 3, installazioni che sembrano invece assenti nella Fase 4a 26. Gli indicatori di produzione si infittiscono in modo molto rilevante quando si passa alla Fase 4b (seconda metà del III secolo), e ciò appare logico, poiché si tratta del periodo al quale risale la ‘seconda ondata’ degli impianti artigianali 27. Ad un’attestazione di aghi crinali numericamente molto maggiore di quella della fase precedente 28 si aggiungono la maggior parte dei reperti ‘tecnologici’ studiati da Daniela Ferro e Ida Anna Rapinesi. Stratigraficamente essi appaiono concentrati, esclusivamente o quasi, nell’Attività 14, topograficamente negli ambienti XIII e XIV del settore sud-orientale del pianterreno, e rinviano ad attività metallurgiche (crogioli, scorie, residui di processi fusori, etc.) e alla produzione di coloranti e pigmenti, da usare sia in pittura 29, sia nei procedimenti di fabbricazione del vetro 30. Nella Fase 5, risalente alla metà del V secolo, gli indicatori di produzione non scompaiono certo (siamo in corrispondenza della citata ‘terza ondata’ degli impianti manifatturieri): essi sembrano però diminuire quantitativamente, anche in misura notevole. Le campionature dovute a Daniela Ferro e Ida Anna Rapinesi annove- rano, per questo periodo, ancora tracce della lavorazione dei coloranti, ma per il resto quasi solo frammenti di lastre di colore verde, caratterizzate da elementi tipici della composizione di masse di natura vetrosa (Ambiente XII, Attività 18). Peraltro Lucia Saguì, inquadrando con opportuna prudenza 31 le informazioni relative alla produzione di vetri nel nostro edificio e nei suoi dintorni (una circostanza che, da molti indizi convergenti, appare comunque probabile), per la Fase 5 si concentra soprattutto sulla grande quantità di tessere vitree di mosaico qui rinvenute, sviluppando un’interessante ipotesi di connessione con la coeva costruzione della vicina basilica di S. Stefano Rotondo. Stando così le cose, l’altra attività che con forte verosimiglianza sembra proseguire nel V secolo è quella della produzione di aghi crinali in osso 32: il buon numero di esemplari attestati fa pensare che si tratti di manufatti ‘in fase’ e non di residui 33, e che alcuni tipi di spilloni venissero tuttora fabbricati nella ex Basilica. Con tutte le cautele del caso, si può concludere – come del resto già accennato, ma ora con maggior cognizione di causa – in favore di una continuità o di una ripresa di almeno alcune produzioni, che sembrano documentate sia nelle fasi in cui la Basilica era ancora la schola collegiale dei dendrofori, sia nel periodo in cui i beni di questi ultimi erano stati requisiti e la destinazione d’uso dell’immobile era cambiata. (P.P.,C.P.) Su tutto questo, vd. supra, pp. 00. Cfr. supra, pp. 00. 28 È utile, a questo punto, rinviare al grafico 1 che correda il testo di M. Parenti. L’istogramma deriva da una rielaborazione dei dati forniti dall’autrice e prende in considerazione solo i tipi di aghi che, in almeno una delle fasi, risultavano rappresentati da più di due esemplari. Un primo esito dell’esperimento è forse scontato: i tipi maggiormente presenti sono quelli di più semplice e standardizzata lavorazione, cioè quelli a testa rotonda o ovoidale. Meno ovvio un altro dato: la variante tipologica più attestata in assoluto, a testa ovoidale piccola e bassa (Tipo 8), è proprio quella i cui esemplari apparivano – in parecchi casi – non perfettamente levigati e con la testa intagliata in modo grezzo (cfr. anche Parenti in PALAZZO, PAVOLINI 2013, p. 294). Si tratta di una morfologia molto diffusa in generale, spesso prescelta – per la sua semplicità – da artigiani non specializzati e probabilmente prodotta a livello locale, come è quasi certo nel nostro caso. 29 Viene da chiedersi se simili sostanze fossero utilizzate anche nel corso delle ristrutturazioni edilizie che a più riprese coinvolsero la Basilica stessa, e che certamente compresero decorazioni o ridecorazioni pittoriche (ve ne furono, in particolare, proprio nella Fase 4b in esame: cfr. ibidem, p. 76). La cosa è probabile, ma è anche verosimile che le sostanze coloranti – così come gli altri manufatti prodotti nell’edificio – venissero vendute nelle botteghe forse di proprietà dei dendrofori (supra, pp. 00), ad uso degli abitanti del quartiere circostante. 30 Può sorprendere la presenza di artigiani dell’osso e dell’avorio, dei metalli, dei coloranti, forse del vetro, in periodi (le fasi 3 e 4) nei quali – come sappiamo – la Basilica era saldamente in mano ai dendrofori, che sul versante ‘professionale’ erano semmai degli specialisti del legno. E non hanno nulla a che fare con questo discorso i numerosi frammenti di legno, combusti o meno, rivelati dalle analisi di laboratorio (vd. Ferro e Rapinesi, infra, pp. 00), perché l’uso del fuoco era necessario nel corso di tutte le lavorazioni citate. La spiegazione è un’altra, e ci rimanda all’’alleanza’, ben nota dalle fonti, fra i dendrofori e altri organismi collegiali, anche a carattere artigianale (questione più ampiamente trattata PALAZZO, PAVOLINI 2013, pp. 481-84), o forse – più semplicemente – al fatto che i locali ex di servizio della Basilica potevano venir concessi in affitto ad altri e autonomi soggetti, come già accennato. 31 E riprendendo – e in alcuni casi discutendo – i dati e le conclusioni edite da Maria Adamo (ibidem, pp. 83-86, 111-17, 142-44, 248 s.), della quale non è stato possibile includere un contributo nei presenti Atti. 32 Cfr. infra, pp. 00, con particolare riguardo alle tabelle e al grafico 1. 33 Il che invece è praticamente certo per i pochissimi aghi documentati nella Fase 6, allorché, come si è già detto, l’edificio era in corso di dismissione e di spoliazione e non era più sede di officine artigianali. 26 27 180 M.E. CALABRIA, D. FERRO, P. PALAZZO, M. PARENTI, T. PATILLI, C. PAVOLINI, I. A. RAPINESI, L. SAGUÌ Produzioni manifatturiere negli ambienti di servizio della Basilica Hilariana Il rinvenimento negli ambienti di servizio basilicali denominati XII, XIII e XIV di vasche in cocciopesto e di un piano di lavorazione con tracce di combustione ha dato luogo ad una indagine conoscitiva, destinata a caratterizzare i diversi materiali messi in luce e porli in relazione alle attività produttive. Durante la prima fase del lavoro è stata eseguita direttamente sul deposito archeologico, all’interno di tutti e tre gli ambienti, una campionatura dei materiali oggetto dell’indagine, da cui sono stati selezionati quarantasei prelievi, perlopiù provenienti dall’Ambiente XIV. In esso sono state differenziate alcune aree per la localizzazione dei prelievi, identificate con le lettere A, B, C, D, E, F, G (fig. 8). Secondo il criterio di campionamento adottato, sono state prelevate sostanze sia dai sedimenti che per colore e morfologia presentavano caratteristiche nettamente differenti dalla terra di scavo, sia dai reperti mobili rinvenuti in questi ambienti, successivamente rimossi e conservati presso il deposito provvisorio all’interno dell’Ospedale Militare Celio, denominato Antiquarium nelle tabelle che seguono. Tutte le sostanze prelevate sono state preliminarmente osservate al microscopio ottico, per effettuare una ulteriore microcampionatura in base alla omogeneità dei materiali componenti e quindi individuare le tecniche specifiche di analisi a cui sottoporle. L’utilizzo di tecniche analitiche basate su differenti metodi ha permesso di fare confronti e/o integrazioni per la definizione della composizione dei singoli materiali, evidenziando così un ottimo accordo tra dati ricavati da strumentazioni differenti: - analisi diffrattometrica ai raggi X di polveri per campioni microcristallini (XRD) - microscopia a scansione elettronica (SEM) per l’evidenziazione delle caratteristiche morfologiche - microanalisi elettronica a dispersione di energia, per analisi qualitativa e quantitativa degli elementi (EDS). Le molteplici attività produttive praticate sono state attestate dai risultati analitici e articolate nei diversi ambienti. Ambiente XII In questo ambiente, nella Fase 5, Attività 18, US 5021, nell’area denominata in fig. 8 sono state osser- Fig. 8. - Basilica Hilariana. Pianta degli Ambienti XII, XII, XIV, con localizzazione dei prelievi. vate le maggiori concentrazioni di parti vetrose, oltre a recipienti fittili in diverso stato di conservazione contenenti residui di sostanze (tab. 1). Campioni nn. 1, 2, 3: i residui prelevati all’interno di recipienti fittili – due pareti di anfore non meglio specificabili e uno spatheion – sono costituiti da sostanze di natura cristallina quali quarzo, calcite, analcime, diopside, muscovite, con le quali si ipotizza venisse preparato una sorta di composto base per la preparazione di colori; nello specifico, la calcite era usata come componente per l’impasto e il quarzo per conferire ad esso brillantezza. Campione n. 26: frammenti di lastre di colore verde, molto decoese, caratterizzate alla microsonda dalla presenza di elementi quali silicio, calcio, alluminio, manganese, sodio, potassio, tipici della composizione delle masse di natura vetrosa, dato quest’ultimo confermato dall’assenza di esiti all’analisi XRD, propria di sostanze di natura amorfa. DESCRIZIONE CAMPIONI AMBIENTE PRELIEVO PRELEVATI CONTENUTO 1 SPATHEION COMPOSIZIONI MEDIE CARATTERIZZAZIONE Micronalisi EDS in ossidi SPECIE MINERALOGICHE (% in peso) Diffrazione X (*) Qz, Ca, An. Diop. Musc. XII Antiquarium 2 CONTENUTO ANFORA XII Antiquarium Qz, Ca, An. Diop. Musc. 3 CONTENUTO ANFORA XII Antiquarium Qz, Ca, An. Diop. Musc. SiO2 (77), Al2O3 (12), 26 LASTRA VERDE XII MgO(1.5), FeO Antiquarium (0.7),CaO (5), Na2O (2), K2O (1.8) Tabella 1 Ambiente XIII In questo ambiente, nella Fase 4b, Attività 14, US 5054, nell’area denominata  in fig. 8 sono stati individuati reperti con superficie porosa e evidenti esiti di sbollitura, identificati alle analisi come scorie metalliche (campione n. 4, fig. 9), parti di crogiolo con scorie (n. 5), tondelli metallici (n. 6), tutti con tracce residue di processi fusori di leghe a base di rame, con la presenza di ossidi e cristallizzazioni caratteristiche (tab. 2). La testimonianza di una attività che includeva processi termici è data dal ritrovamento di residui carboniosi nei campioni n. 8, n. 9 e n. 10, ancora presenti sulle pareti interne di recipienti fittili, mentre il campione n. 11 si riferisce ad un materiale ceramico. Fig. 9. - Basilica Hilariana, Ambiente XIII: scoria metallica da fusione (in tabella, campione n. 4). Ambiente XIV Sono stati trovati qui reperti fittili di diversa dimensione e forma contenenti terre lavorate, mentre altri, con il fondo arrotondato tipico dei crogioli, mostrano ancora segni di processi fusori per metalli. Infine alcuni materiali eterogenei sono stati rinvenuti nella Fase 4b, Attività 14, US 5234, soprattutto nell’area denominata A: vetri, ossa di animali, legni combusti e piccoli oggetti finiti in osso, quali aghi crinali, pedine, dadi da gioco 34. Nell’area di campionatura  della zona D, Attività 14, US 5234, sono stati prelevati da frammenti di ceramica alcuni depositi (campioni nn. 16-18, fig. 10; tab. 3), risultati essere composti soprattutto da ossidi di vari elementi, quali silicio, ferro, manganese, rame, alluminio, calcio e potassio; la loro composizione e struttura può es- 34 V. infra, in questi stessi Atti, il contributo di M. Parenti). Fig. 10. - Basilica Hilariana, Ambiente XIV: fondo di recipiente fittile con deposito di terre colorate e sostanze vetrificate (in tabella, campione n. 18). DESCRIZIONE CAMPIONI PRELEVATI PRELIEVO COMPOSIZIONI MEDIE Micronalisi EDS in ossidi (% in peso) XIII Antiquarium verde: CuO (68), SiO2 (20), Al2O3 (7), CaO (5) marrone: CuO (53), SiO2 (27), Al2O3 (7), CaO (13) XIII Antiquarium verde: CuO (84.8), SiO2 (15.2); marrone: CuO (13), SiO2 (67), SnO2 (20) DUE TONDELLI METALLICI XIII Antiquarium verde: CuO (50), SiO2 (6), CaO (10), P2O5 (34) marrone: CuO (42.3), PbO (57.7) MATERIALE INTERNO GRANDI CONTENITORI XIII Antiquarium FRAMMENTO FITTILE XIII Antiquarium Carbone 9 FRAMMENTO FITTILE XIII Antiquarium Carbone XIII Antiquarium Carbone 10 PRELIEVO DA FRAMMENTO FITTILE A FORMA TRAPEZOIDALE 11 PICCOLE MASSE NERE XIII Antiquarium 4 SCORIE 5 PARTI DI CROGIOLO CON SCORIE 6 7 8 AMBIENTE RESIDUI ORGANICI CARATTERIZZAZIONE SPECIE MINERALOGICHE Diffrazione X Qz, Ca, Feld. CuO, An, SnO2 Qz, Ca, An, SnO2, Ap, Carbonati .Pl, Diop. (*) Legenda: An = analcime; Ap: apatite; Ca = calcite; Diop = Diopside; Feld = feldspati; Hem: ematite; Il l= illite; Leu = leucocite; Musc = muscovite; Qz = quarzo Tabella 2 DESCRIZIONE CAMPIONI PRELEVATI AMBIENTE PRELIEVO 16 RESIDUI PRELEVATI DA FONDO REPERTO FITTILE XIV D verde: SiO2 50, CuO 32, CaO 14; Al2O3 4 marrone: SiO2 64, CuO 11 Al2O3 11, Na2O 9, MgO 5 17 RESIDUO PRELEVATO DA FRAMMENTO DI MANICO FITTILE XIV D SiO2 37.45, Al2O3 10.47, FeO 7.89, Mg O 2.39, CaO 12.99, Na2O 0.37, K2O 0.64, CuO 17.32 PbO 8.00 18 FRAMMENTO FITTILE CON TRACCE VETRIFICATE XIV D COMPOSIZIONI MEDIE Micronalisi EDS in ossidi (% in peso) chiara: SiO2 60.81,Al2O3 13.09, FeO 5.97, MgO 2.76, CaO 8.60, Na2O 3.42, K2O 1.94, CuO 1.55, PbO 1.88 scura: SiO2 = 53.85, Al2O3 12.30, FeO 4.42, MgO 3.14, CaO 19.02, Na2O 2.63, K2O 1.30, CuO 1.47, PbO 1.54 (*) Legenda: An = analcime; Ap: apatite; Ca = calcite; Diop = Diopside; Feld = feldspati; Hem: ematite; Ill = illite; Leu = leucocite; Musc = muscovite; Qz = quarzo. Tabella 3 PRODUZIONI ARTIGIANALI NELLA BASILICA HILARIANA SUL CELIO FRA TARDA ANTICHITÀ E ALTO MEDIOEVO DESCRIZIONE CAMPIONI PRELEVATI COMPOSIZIONI MEDIE Micronalisi EDS in ossidi (% in peso) CARATTERIZZAZIONE SPECIE MINERALOGICHE Diffrazione X AMBIENTE PRELIEVO XIV In situ, area E Carboni di legno In situ, area E Carboni di legno 19 CARBONCINI + TERRA COLORE VERDASTRO 20 FRAMMENTI LIGNEI 21 FRAMMENTI COMBUSTI CON COLORAZIONE VERDE XIV In situ, area E Carboni di legno 22 FRAMMENTI COMBUSTI XIV In situ, area E Carboni di legno 23 FIBRE XIV Antiquarium 31 FRAMMENTI LIGNEI CON DEPOSITO DI COLORE VERDE BRILLANTE XIV In situ, area E 32 FIBRE COLORE VERDE CHIARO XIV In situ, area E FIBRE DI COLORE BRUNO XIV In situ, area E CaO (33) CuO (20), P2O5(40), FeO(7) Fibre legnose incombuste FRAMMENTI FITTILI CON RESTI VEGETALI E FIBROSI XIV In situ, area E CaO (70), P2O5 (23) FeO (7) Fibre legnose incombuste 36 37 XIV CuO (48), CaO (32), P2O5 (20) 183 Qz, Ca, Feld. Fibre legnose incombuste Fibre legnose incombuste Tabella 4 sere riferibile a coloranti misti a sostanze vetrose, ossia pigmenti per l’uso sia in pittura che nella produzione vetraria. Inoltre in questo ambiente, nella zona identificata con E, sono molto abbondanti nell’area di campionamento residui di combustione, come carboni di legno (tab. 4). All’interno di questa area si trovava anche un pozzetto (US 5237, Attività 14, Fase 4b), ove sono stati rinvenuti resti vegetali (nn. 36, 37) ed una consistente quantità di depositi di colore verde (n. 31), risultati essere costituiti da composti del rame, impiegati probabilmente come coloranti. Sempre da quest’area, inoltre, provengono modeste quantità di residui di terre colorate, che alla os- 184 M.E. CALABRIA, D. FERRO, P. PALAZZO, M. PARENTI, T. PATILLI, C. PAVOLINI, I. A. RAPINESI, L. SAGUÌ servazione al SEM-EDS si presentano omogenei per composizione e granulometria, caratteristiche che rimandano ad un processo di lavorazione per macinazione. Si tratta dei materiali campionati con i nn. 24 e 34, costituiti da ossido di ferro (giallo-rosso), e n. 38, da ossido di manganese (bruno). Particolare infine è il rinvenimento di notevoli quantità di valve di ostriche, probabilmente destinate alla macinazione e alla miscelazione con pigmenti, per aumentarne la brillantezza. Si può presumere quindi che all’interno dello stesso ambiente si potessero produrre autonomamente sostanze con funzione di coloranti. Nel settore denominato F, infine, è stato individuato un piano di focolare (US 5239, Fase 4b, Attività 14) sul quale si era compattata una massa costituita da quarzo, calcio, silicati e fosfati (campioni nn. 43, 45). In base ai risultati descritti è possibile formulare l’ipotesi che all’interno dei tre ambienti, nel corso della loro occupazione (e in particolare nelle Fasi 4 e 5) fossero esercitate attività di officine, attinenti a varie produzioni: preparazioni di materiali coloranti, lavorazioni di masse a base vetrosa, fusione di metalli, testimoniata quest’ultima dalla presenza di frammenti fittili probabilmente impiegati come crogioli, associati a residui di fusione e ad una quantità relativamente grande di scorie di bronzo 35. Infine il ritrovamento 36 di una notevole quantità di aghi crinali in osso e di un piccolo numero di pedine e di dadi rimanderebbe alla produzione di un laboratorio per la lavorazione di materiali in osso. Sempre dall’Ambiente XIV, zona E, proviene un campione, identificato con il n. 38, di cui si presenta come esempio il procedimento analitico adottato per il riconoscimento degli elementi presenti in microaree. Si possono distinguere dei corpuscoli più chiari di ossido di piombo nella matrice dei composti del rame. Gli ossidi di rame possono essere introdotti nel vetro fuso come qualsiasi composto mineralogico, anche se gli ossidi e i carbonati sono i più usuali in condizioni ossidanti: gli ossidi di rame colorano il vetro di blu/verde, a seconda di quali altri modificatori di reticolo siano presenti. Con l’ossido di piombo, Si tratta delle scorie descritte supra, Ambiente XIII, pp. 00. 36 Vd. il citato contributo di M. Parenti. 37 Sono state utilizzate essenzialmente le suddivisioni proposte da Béal e dalla Bianchi. Il presente contributo è una rielaborazione della ricerca già edita dalla scrivente in PALAZZO, PAVOLINI 2013, pp. 289-295. 35 l’ossido di rame impartisce al vetro una colorazione verde, con sodio o potassio il colore sarà blu. (D.F., I.A.R.) Attività artigianali nel settore meridionale della Basilica Hilariana: gli spilloni in osso e avorio Negli scavi eseguiti nel settore meridionale della Basilica Hilariana (1997-1998) sono stati rinvenuti numerosi aghi crinali in osso e avorio (circa 189), dei quali meno della metà risulta perfettamente conservato: per il resto si tratta di aghi frammentari, alcuni ancora grezzi e con tracce di combustione. Lo studio tipologico di questi spilloni 37 è stato svolto in modo complementare alla loro contestualizzazione stratigrafica: sono stati, infatti, analizzati e utilizzati i lavori sulla stratigrafia e lo studio di tutti gli altri materiali rinvenuti nello scavo 38. Negli stessi contesti sono stati ritrovati anche altri sporadici oggetti in osso, tra i quali cucchiaini, spatoline, manici ed elementi decorativi come 4 bacchette scanalate, a sezione quadrangolare, forse elementi non finiti per piccole cornici (fig. 11). Tutti questi oggetti risultano di particolare interesse nell’ipotesi che, nel citato settore della Basilica, esistessero ambienti nei quali venivano prodotti questo tipo di manufatti. Contestualizzazione stratigrafica Un discreto numero di spilloni (circa 52) sono stati rinvenuti negli strati che obliterarono il vano di accesso al praefurnium (Ambiente VI), e che testimoniano di un livellamento dei piani di calpestio e di una diversa destinazione d’uso di alcuni ambienti della parte sud della Basilica (Fase 4a) 39. Ad un periodo immediatamente successivo sono ascrivibili il maggior numero di spilloni (circa 130), rinvenuti negli ambienti XIII e XIV (settore sud-orientale), negli strati che testimoniano di nuove attività produttive 40. Ciò si può dedurre dallo studio dei materiali ritrovati negli strati di interro che segnarono il definitivo abbandono dei suddetti ambienti. Infine, alla seconda metà del VI secolo 41 sono attriPALAZZO, PAVOLIN I 2013, passim. Cfr. ibidem, p. 75 e nota 84 (metà III secolo), e in questi stessi Atti, supra, il contributo di P. Palazzo e C. Pavolini. 40 Cfr. supra, pp. 00: Fasi 4b e 5, seconda metà del III-metà del V secolo. 41 Cfr. supra, pp. 00: Fase 6. 38 39 PRODUZIONI ARTIGIANALI NELLA BASILICA HILARIANA SUL CELIO FRA TARDA ANTICHITÀ E ALTO MEDIOEVO 185 Fig. 13. - Aghi crinali, tipi 6 e 13. Fig. 11. - Sopra, elementi in osso per possibili cornicette; sotto, aghi crinali frammentari e (a destra) manico frammentario in osso. buibili un esiguo numero di spilloni (circa 19), rinvenuti nell’Ambiente X: essi attesterebbero ancora l’esistenza di attività produttive, che fin dalla Fase 5 erano state, però, spostate nei vani centrali della metà meridionale della Basilica. Tipologia Dai confronti tipologici si deduce che la maggior parte degli spilloni rinvenuti appartiene al tipo con testa ovoidale (Tipo Béal A XX, 8), che è presente in numerose varianti: quella maggiormente attestata presenta la sommità piccola e bassa (fig. 12) 42: si tratta di aghi molto diffusi, semplici da realizzare, anche da artigiani poco specializzati. Discreto è anche il numero di quelli con alta testa ovoidale e sommità appuntita (‘a oliva allungata’) o solo lievemente appuntita (fig. 13) 43; numericamente più esigui gli esemplari con testa ovoidale e sommità piatta 44 e quelli tipo II/1 di Birò 45. Tra gli spilloni rinvenuti, ve ne sono alcuni a testa Fig. 12. - Aghi crinali, tipo 8. 42 BIRÒ 1987, p. 181, fig. 17, n. 97: type VII; BIANCHI 1995, nn. 17, 20, 39, pp. 60-61. 43 BÉAL 1987, p. 197, n. 372e; BIANCHI 1995, n.68, p. 64; BIRÒ 1987: type I/1; BIANCHI 1995, nn. 71, 101, p. 59. 44 BÉAL 1987, p. 187, n. 372f; BIRÒ 1987: type V; BIANCHI 1995, n. 117, p. 66. 45 BIRÒ 1987: type II/1; BIANCHI 1995, n. 74, p. 65. 186 M.E. CALABRIA, D. FERRO, P. PALAZZO, M. PARENTI, T. PATILLI, C. PAVOLINI, I. A. RAPINESI, L. SAGUÌ Fig. 14. - Aghi crinali, tipo 4. Fig. 16. - Aghi crinali, tipo 11. sferica (tipo Béal A XX, 7; fig. 14), un’altra tipologia molto diffusa nel mondo romano 46, come anche quelli a testa conica (fig. 15) 47. Pochi sono gli esemplari riferibili ad altre tipologie: due spilloni con testa indistinta dallo stelo (tipo Béal A XX, 2), nelle due varianti (a e b), con sommità piatta ed a forma di basso cono 48. Tre sono gli esemplari con testa cilindrica (fig. 16) 49. Vi sono poi uno spillone con sommità a forma sferica e tre solchi incisi nella parte superiore dello stelo (Béal A XX, 13) 50; un esemplare che potrebbe essere confrontato con gli aghi a testa figurata (Béal A XXI, 8) 51; e infine uno spillone a testa piriforme e parte superiore dello stelo decorata con tre solchi ed un collarino 52. Cronologia Fig. 15. - Aghi crinali, tipo 5. Le tipologie degli spilloni (tab. 5; grafici 1-2) rinvenuti nella Basilica Hilariana confermano, in gran parte, le datazioni che ad esse sono state fin qui attribuite dagli studiosi. Si tratta di tipologie diffuse soprattutto dalla media BÉAL 1983, A XX, 7; BIANCHI 1995, nn. 29, 35, p. 56. BÉAL 1983, pp. 187-188; BIANCHI 1995, n. 70, p. 54. 48 BÉAL 1983, A XX, 2, varianti a e b; BIANCHI 1995, n. 90, p. 49 e n. 33, p. 49. 49 BIANCHI 1995, nn. 76, 102, p. 67; BIRÒ 1987, p. 181, fig. 17, n. 94: type IV. BÉAL 1983, p. 202; BIANCHI 1995, n. 32, p. 53. BÉAL 1983, pp. 228-229; BIANCHI 1995, n. 67, p. 83. 52 BÉAL 1987, pp. 197-198, n. 373; BIANCHI 1995, n. 46, p.68: il collarino presente in questo esemplare risulta più pronunciato rispetto a quello in esame, rinvenuto nella Basilica Hilariana. 46 47 50 51 PRODUZIONI ARTIGIANALI NELLA BASILICA HILARIANA SUL CELIO FRA TARDA ANTICHITÀ E ALTO MEDIOEVO TIPI INDIVIDUATI Spilloni con testa indistinta dallo stelo (ALICU-NEMES 1982, tipo c: II secolo d.C.; BÉAL 1983, A XX, 2, variante b; BIANCHI 1995, n. 90, p. 49). (ALICU-NEMES 1982, tipo b: III secolo d.C.; BÉAL 1983, A XX, 2, variante a; BIANCHI 1995, n. 33, p. 49). (BÉAL 1983, A XX, 13; BIANCHI 1995, n. 32, p. 53). I-IV sec. d.C. I-IV sec. d.C. I-III/IV sec. d.C. Fine Iinizi V sec. d.C. TIPO 2 TIPO 3 TIPO 4 TIPO 1 Spilloni con testa indistinta dallo stelo, a forma di calotta sferica Spilloni con testa sferica Spilloni con testa indistinta dallo stelo (BÉAL 1983, A XX, 7; BIANCHI 1995, nn. 29, 35, p. 56). CONTESTI STRATIGRAFICI Fase 4a, Attività 12 metà III secolo d.C. Fase 4a, Attività 13 metà III secolo d.C. Fase 4b, Attività 14 seconda metà III secolo d.C. Fase 5, Attività 19 metà V secolo d.C. TIPI INDIVIDUATI 1 1 1 1 5 1 6 Spilloni con testa indistinta dallo stelo Spilloni con testa indistinta dallo stelo (ALICU-NEMES 1982, tipo c: II secolo d.C.; BÉAL 1983, A XX, 2, variante b; BIANCHI 1995, n. 90, p. 49). (ALICU-NEMES 1982, tipo b: III secolo d.C.; BÉAL 1983, A XX, 2, variante a; BIANCHI 1995, n. 33, p. 49). (BÉAL 1983, A XX, 13; BIANCHI 1995, n. 32, p. 53). I-IV sec. d.C. I-IV sec. d.C. I-III/IV sec. d.C. Fine Iinizi V sec. d.C. TIPO 2 TIPO 3 TIPO 4 TIPO 1 Spilloni con testa indistinta dallo stelo, a forma di calotta sferica Spilloni con testa sferica (BÉAL 1983, A XX, 7; BIANCHI 1995, nn. 29, 35, p. 56). CONTESTI STRATIGRAFICI Fase 4a, Attività 12 metà III secolo d.C. Fase 4a, Attività 13 metà III secolo d.C. Fase 4b, Attività 14 seconda metà III secolo d.C. Fase 5, Attività 19 metà V secolo d.C. TIPI INDIVIDUATI 1 1 1 1 5 1 6 Spilloni con testa indistinta dallo stelo, a forma di calotta sferica Spilloni con testa sferica Spilloni con testa indistinta dallo stelo Spilloni con testa indistinta dallo stelo (ALICU-NEMES 1982, tipo c: II secolo d.C.; BÉAL 1983, A XX, 2, variante b; BIANCHI 1995, n. 90, p. 49). (ALICU-NEMES 1982, tipo b: III secolo d.C.; BÉAL 1983, A XX, 2, variante a; BIANCHI 1995, n. 33, p. 49). (BÉAL 1983, A XX, 13; BIANCHI 1995, n. 32, p. 53). I-IV sec. d.C. I-IV sec. d.C. I-III/IV sec. d.C. Fine Iinizi V sec. d.C. TIPO 2 TIPO 3 TIPO 4 TIPO 1 (BÉAL 1983, A XX, 7; BIANCHI 1995, nn. 29, 35, p. 56). CONTESTI STRATIGRAFICI Fase 4a, Attività 12 metà III secolo d.C. Fase 4a, Attività 13 metà III secolo d.C. Fase 4b, Attività 14 seconda metà III secolo d.C. Fase 5, Attività 19 metà V secolo d.C. 1 1 1 1 5 1 Tabella 5. Contestualizzazione stratigrafica e quantificazione di tutti i tipi 6 187 188 M.E. CALABRIA, D. FERRO, P. PALAZZO, M. PARENTI, T. PATILLI, C. PAVOLINI, I. A. RAPINESI, L. SAGUÌ Grafico 1. Contestualizzazione stratigrafica e quantificazione dei tipi maggiormente attestati (rielaborazione di P. Palazzo e C. Pavolini dei dati forniti da M. Parenti). Grafico 2. Presenze numeriche di tutti i tipi individuati in tutte le fasi stratigrafiche. alla tarda età imperiale, come i diversi tipi di spilloni a testa ovoidale (II-IV secolo d.C.): quelli rinvenuti nella Basilica sono presenti soprattutto in contesti di III-IV secolo, ma non mancano attestazioni, seppure esigue, negli strati di abbandono delle attività lavorative impiantate negli ambienti sud-orientali (V secolo d.C.). Di questa morfologia, l’unico tipo attestato nella Basilica, quello cosiddetto ‘a oliva allungata’ 53, nella Basilica è presente anche in contesti della metà del III secolo d.C., mentre finora risultava bibliograficamente attestato dal IV secolo in poi. 53 Cfr. supra, pp. 00. Gli spilloni a testa sferica costituiscono una tipologia molto diffusa nel mondo romano, attestati dalla fine del I al V secolo d.C.: nella stratigrafia della Basilica sono presenti nei grossi strati di scarico di V secolo d.C. Gli aghi crinali a testa conica sono piuttosto diffusi a partire dal II secolo d.C., ma attestati soprattutto dal III-IV secolo: nella stratigrafia della Basilica questi manufatti sono stati rinvenuti in contesti che confermano tale datazione, ma anche in uno strato di obliterazione di V secolo. Gli aghi con testa indistinta dallo stelo sono generalmente attestati in livelli di metà III secolo, ma nella Basilica è presente anche un residuo in un contesto di V secolo. PRODUZIONI ARTIGIANALI NELLA BASILICA HILARIANA SUL CELIO FRA TARDA ANTICHITÀ E ALTO MEDIOEVO 189 Anche quelli con testa cilindrica, attestati dal III secolo al tardo impero, qui sono presenti in strati di IIIIV secolo e di V secolo. Infine, gli esemplari del tipo Béal A XXI, 8, datati al I-V secolo, sono stati rinvenuti in contesti di V secolo; il tipo Béal A XX, 13, diffuso dal I, ma soprattutto attestato dal III-IV secolo, è documentato in uno strato di metà III secolo; un esemplare di spillone a testa piriforme e parte superiore dello stelo decorata da tre solchi e un collarino, riferibile ad un tipo attestato in età tardo imperiale, è qui presente in una US di V secolo. (M.P.) Possibili indicatori di una produzione vetraria La lavorazione del vetro potrebbe inserirsi coerentemente tra le diverse attività produttive documentate nella Basilica Hilariana nel corso della Fase 4 e, soprattutto, nella fase successiva, che vede la dismissione dell’edificio come sede collegiale dei dendrofori e luogo di culto delle divinità anatoliche, contestualmente alla ristrutturazione e alla più ampia diffusione di attività artigianali. Una revisione dei materiali considerati nella recente pubblicazione dello scavo come indicatori di produzione vetraria invita tuttavia alla prudenza. Per quanto riguarda la Fase 4a, i reperti considerati significativi in questo senso sono infatti limitati ad ‘una piccola massa vitrea informe e schiumosa identificabile molto probabilmente come scoria’ e ad ‘uno scarto di lavorazione di bottiglia con orlo e ansa deformati e ripiegati su se stessi’ 54. In particolare, nel caso del secondo frammento potrebbe trattarsi semplicemente di un esemplare deformato dal calore. Maggiore interesse presentano i reperti della Fase 5, costituiti in assoluta maggioranza da tessere di mosaico. Si tratta infatti di ben 3866 tessere di colori diversi, opache e traslucide, su un complesso di 4090 frammenti vitrei 55. In presenza di resti di stucco ancora aderenti e di altri indicatori di produzione si potrebbe pensare a materiale di recupero, da riutilizzare nell’amalgama. È questa l’ipotesi formulata, ad esempio, nel caso delle tessere di mosaico rinvenute nei depositi di VII e di VIII secolo nell’esedra della 54 55 M. Adamo in PALAZZO, PAVOLINI 2013, p. 84. M. Adamo, ibidem, p. 113 e p. 117, tabella 1. Fig. 17. - Basilica Hilariana. Pane di vetro dalla Fase 6 (residuo?). Crypta Balbi 56 Sulle tessere vitree in esame non sono stati tuttavia individuati resti di altra natura, se non quelli di una notevole corrosione, e gli strati di questo periodo non hanno restituito indicatori di produzione vetraria. Bisogna inoltre osservare che non tutte le tessere sono di forma cubica o parallelepipeda: in alcuni casi potrebbe trattarsi di schegge o di scarti risultanti dal taglio. Tra i reperti, molti dei quali residuali, rinvenuti negli interri della Fase 6, che segna la cessazione di ogni forma di attività artigianale, spicca tuttavia un pane di vetro dello spessore di circa cm 2, di colore rosso scuro, privo dei bordi originari (fig. 17). Le striature verdastre, apparentemente nere, visibili in sezione, sono dovute al rame usato per la realizzazione di questo colore, che richiedeva conoscenze molto specializzate 57. Lastre di questo tipo, in genere discoidali (francese galettes, inglese glass cakes), rappresentano prodotti semi-finiti uti- 56 57 SAGUÌ 2001, in particolare pp. 307-308; SAGUÌ, MIRTI 2003. FREESTONE, STAPLETON, RIGBY 2003. 190 M.E. CALABRIA, D. FERRO, P. PALAZZO, M. PARENTI, T. PATILLI, C. PAVOLINI, I. A. RAPINESI, L. SAGUÌ Fig. 18. - Basilica Hilariana. ‘Goccia’ di aspetto vetroso dalla Fase 6 (residuo?). Fig. 19. - Domus di Gaudentius nell’Ospedale Militare Celio. Frammento di vetro grezzo. lizzati soprattutto dai mosaicisti: esse venivano infatti impiegate per la produzione di tessere di mosaico, che si ottenevano mediante la loro percussione. La realizzazione delle tessere si svolgeva in genere direttamente nei cantieri che ne prevedevano l’impiego o in prossimità di essi, come indica l’associazione di lastre e di tessere musive in edifici di alto livello ed in contesti diversi 58. Degli altri 4 frammenti pertinenti alla Fase 6, illustrati e considerati indicatori di produzione da M. Adamo 59, solo quello in basso a sinistra (una goccia dall’aspetto vetroso: qui fig. 18) può forse essere considerato tale. Poiché però non possiamo escludere che il citato pane di vetro rinvenuto – verosimilmente come residuo – negli strati della Fase 6 sia da associare alle numerosissime tessere di mosaico della fase precedente, è possibile ipotizzare che tra le diverse attività artigianali attestate nel complesso figurasse anche la produzione di tessere musive in vetro. Spingersi oltre nelle congetture sarebbe davvero azzardato, ma non possiamo fare a meno di chiederci se la vicinanza topografica con la chiesa di Santo Stefano Rotondo, e la coincidenza cronologica tra le attività svolte nei decenni centrali del V secolo nell’area un tempo occupata dalla Basilica Hilariana e la costruzione della chiesa stessa 60, rappresentino qualcosa di più di una semplice suggestione, secondo la quale almeno alcuni artigiani attivi sul nostro sito avrebbero potuto essere impegnati nel grande cantiere dell’edificio ecclesiastico. Che la decorazione originaria della chiesa prevedesse anche mosaici parietali in vetro è del resto molto plausibile, anche se non sappiamo a quale fase si riferissero le «molte tessere di vetro colorato di mosaico parietale» rinvenute negli strati di età carolingia che riempirono il canale circolare all’esterno dell’edificio 61. Segnaliamo, infine, un indicatore di produzione interessante, non pubblicato nel volume sugli scavi della Basilica Hilariana in quanto proveniente da strati di abbandono della vicina domus di Gaudentius. Si tratta di un grosso frammento di vetro grezzo (cm 12 x 9 circa), di colore ametista (fig. 19). Pur sottolineando da un lato che la presenza di blocchi di vetro grezzo non è assolutamente sufficiente, in assenza di altre testimonianze, ad identificare un sito produttore, dall’altro che nulla possiamo dire della provenienza e datazione originarie del reperto, un suo riferimento al contesto delle attività artigianali qui illustrate non è da escludere a priori. (L.S.) 58 59 FOY 2008, con bibliografia. In PALAZZO, PAVOLINI 2013, p. 142, fig. 198. 60 61 BRANDENBURG 2004, con ampia bibliografia. Cfr. ibidem, p. 502. PRODUZIONI ARTIGIANALI NELLA BASILICA HILARIANA SUL CELIO FRA TARDA ANTICHITÀ E ALTO MEDIOEVO 191 Fig. 20. - Basilica Hilariana, Fase 9, US 5335. Tipi ceramici dei secoli IX-XI. Il materiale ceramico medievale della fossa 5334 Il materiale ceramico ritrovato all’interno della fossa individuata nell’Ambiente XXIII della Basilica Hilariana era costituito da un riempimento unitario (US 5335, Fase 9) databile tra il IX e l’XI secolo 62. 62 Tra i frammenti recuperati (257 frammenti) sono state riconosciute 6 classi ceramiche, con una prevalenza della ceramica comune da cucina (40%) affiancata dalla ceramica acroma depurata (35%), e solo per queste due classi è stato possibile individuare alcune forme diagnostiche. Cfr. M. E. Calabria, T. Patilli in PALAZZO, PAVOLINI 2013, pp. 161-165. 192 M.E. CALABRIA, D. FERRO, P. PALAZZO, M. PARENTI, T. PATILLI, C. PAVOLINI, I. A. RAPINESI, L. SAGUÌ Le olle in ceramica da cucina si caratterizzano per il corpo globulare oppure ovoide con orlo estroflesso (fig. 20,1-4) 63, in alcuni casi con un gradino interno (fig. 20, 5-7) 64 oppure con collo breve (fig. 21, 7-9) 65. Le forme in ceramica acroma depurata, utilizzate per la mensa o la dispensa, sono anch’esse per lo più costituite da olle a orlo estroflesso, il più delle volte leggermente ingrossato (fig. 20, 13-15), e corpo tendenzialmente ovoide o globulare 66. A questa stessa classe appartiene un’anforetta biansata ad alto collo leggermente rientrante, quasi del tutto integra (fig. 21, 7-10), decorata a pettine con fasce di linee che delimitano gruppi di piccoli tratti 67. Il materiale invetriato è rappresentato da frammenti a vetrina pesante (9%) con decorazione a pinoli, rivestiti prevalentemente da una vetrina che va dai toni del verde oliva a quelli del giallo intenso. Sono stati riconosciuti due frammenti di brocche ad alto collo e orlo verticale (fig. 20, 11) segnate esternamente da scanalature e databili tra la fine del IX e il X secolo 68, e alcuni esemplari di fondi, probabilmente scarti di lavorazione, convessi, con decorazione incisa a onda. Solo il 2% del contesto è rappresentato da frammenti con una vetrina marrone piuttosto scadente; è stata riconosciuta solo un’olla con orlo ingrossato a sezione lenticolare e profilo curvilineo, confrontabile con una forma simile rinvenuta a Porto e databile al VII secolo (fig. 20, 12) 69. La vetrina sparsa (3%) è rappresentata esclusivamente da piccoli frammenti che non offrono informazioni utili da un punto di vista diagnostico. I frammenti di anfore costituivano l’11% del materiale, ma anche per questi non è stato possibile risalire al tipo e alla relativa datazione. L’esame dei materiali evidenzia un contesto cronologicamente omogeneo con forme piuttosto comuni nel panorama romano altomedievale. Alcuni difetti morfologici riscontrati su fondi convessi di olla in ceramica a vetrina pesante (fig. 21), la mancanza di rivestimento vetroso su forme notoriamente invetriate 70, e tracce di vetrina occasionale su forme in ceramica comune lasciano supporre che tra il complesso del materiale ceramico proveniente dalla fossa 5334 ci siano materiali di scarto provenienti da un’ipotetica zona di produzione situata nei pressi dell’area e non ancora identificata. (M.E.C., T. P.) Per i confronti si veda MANACORDA 1985, p. 176, n. 6; PAT1991, p. 123, fig. 24, n. 11. 64 PAROLI, VENDITTELLI 2004, p. 511, tav. II, 21 e p. 514, n. 41. 65 MANACORDA 1985, p. 179, n. 62; ARENA, DELOGU, PAROLI et alii 2001, p. 579, V.4.5; PAROLI, VENDITTELLI 2004, p. 514, n. 42. 66 RICCI 1998, p. 39, fig. 4.6; ARENA, DELOGU, PAROLI et alii 2001, p. 522, IV. 6. 51. ARENA, DELOGU, PAROLI et alii 2001, p. 561, V.1.6. ARENA, DELOGU, PAROLI et alii 2001, p. 578, IV.2. 69 PAROLI, VENDITTELLI 2004, p. 447, n. 32. 70 Tra i frammenti con decorazione a pinoli sono emersi due esemplari completamente privi di vetrina (fig. 22): si tratta di un frammento di parete riconducibile a una brocca e di un orlo di scaldavivande o coperchio. Fig. 21. - Basilica Hilariana, Fase 9, US 5335. Fondo di olla in ceramica a vetrina pesante. Fig. 22. - Basilica Hilariana, Fase 9, US 5335. Frammenti con decorazione a pinoli, privi di vetrina. 63 TERSON 67 68 PRODUZIONI ARTIGIANALI NELLA BASILICA HILARIANA SUL CELIO FRA TARDA ANTICHITÀ E ALTO MEDIOEVO Bibliografia ALICU, NEMES 1982 = D. ALICU, E. NEMES, Obiecte de os descoperite la Ulpia Traiana Sarmizegetusa, in ActaMusNapoca, 19, 1982, pp. 345-56. ARENA, DELOGU, PAROLI et alii 2001 = M.S. ARENA, P. DELOGU, L. PAROLI et alii (a cura di), Roma dall’antichità al medioevo. Archeologia e storia nel Museo Nazionale Romano della Crypta Balbi, Roma 2001. AURIGEMMA 1910 = S. 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È situata tra questa e l’antica via Latina, al V miglio, all’altezza dei due tumuli attribuiti agli Orazi e ai Curiazi, luogo dell’antica bonifica denominata fossae cluiliae ai confini dell’ager romanus, territorio dove sarebbero state combattute antiche battaglie: qui la via Appia traccia una curva di ‘rispetto’. L’acquisizione da parte della Soprintendenza Speciale per il Colosseo, il Museo Nazionale Romano e l’Area Archeologica di Roma nel 1985 ha permesso la realizzazione di tre campagne di scavo, tra 1998 e 2010, che, oltre ad ampliare estensivamente l’area archeologica, hanno prodotto una notevole raccolta di dati per questo sito della campagna romana, a sud di Roma 2. Le fasi edilizie evidenziate all’interno del complesso mostrano la continuità d’uso della residenza che da privata diventa di proprietà imperiale sotto Commodo 3, e poi nuovamente privata con la trasformazione in casale, continuità evidenziata anche dalla tabella della periodizzazione in cui la ricostruzione di alcune parti della villa è stata associata alle notizie che hanno registrato gli eventi sismici notevoli avvenuti Roma a partire dal II secolo fino ad età moderna. La seriazione stratigrafica, nella quasi totalità dell’area indagata della villa, risulta fortemente com- Fig.1. - Veduta generale della villa dei Quintili (foto R. Frontoni). Si ringraziano, oltre alla preziosa Lucia Saguì, anche Barbara Lepri, Paola Santopadre e Marco Verità con i quali sono state intraprese discussioni e confronti costruttivi sull’argomento, in particolare sul forno da vetro. La proprietà delle foto e dei grafici, dove non è diversamente indicato, è della Soprintendenza Speciale per il Colosseo, il Museo Nazionale Romano e l’Area Archeologica di Roma. Cfr. PARIS 2000, pp. 5-9 e FRONTONI, GALLI 2012, pp. 9-18 e pp. 29-31. 2 Sulle campagne di scavo vedi FRONTONI, GALLI, LALLI et alii 2006, pp. 279-294 e FRONTONI, GALLI, PARIS 2010. 3 A seguito della soppressione dei fratelli Quintili nel 182 d.C. per mano dell’imperatore Commodo. Per la storia dei fratelli Quintili vedi anche RICCI 1998 e PARIS 2000, pp. 21-23. 1 196 RITA PARIS, RICCARDO FRONTONI, GIULIANA GALLI, CARMELA LALLI promessa sia dai continui scavi clandestini, di cui numerose fosse di spoliazione praticate negli interri degli ambienti per il recupero dei rivestimenti marmorei e delle opere d’arte, sia dagli scavi antiquari sette-ottocenteschi, sotto papa Pio VI e la famiglia Torlonia, nonché dagli scavi agricoli degli inizi del ‘900 realizzati con aratri fortemente invasivi (ripper) 4. Già Luigi Canina 5 alla metà dell’Ottocento aveva osservato molti degli edifici portati nuovamente alla luce con le tre campagne di scavo, disegnandone la planimetria: si è scavato, dunque, nel terreno di riporto degli scavi precedenti trovando spesso materiali di cronologia eterogenea e non in fase. Solamente i crolli delle strutture murarie, spesso danneggiate dai terremoti, hanno sigillato e mantenuto intatte le stratigrafie all’interno degli ambienti. La periodizzazione delle fasi della villa, associata dunque allo studio dei terremoti a Roma 6, ha permesso di realizzare un quadro sinottico interessante, ancora in corso di elaborazione, avvalorato dalla cronologia dei reperti rinvenuti (tab. 1). Il posizionamento in planimetria dei numerosi indicatori del riuso/riutilizzo dei materiali ritrovati nella villa (fig. 2 e tav. 00), dà la misura della vastità della rifunzionalizzazione (riperimetrazioni di ambienti, riutilizzo, reimpiego, etc.) e l’ampiezza della forchetta cronologica: già a partire dai primi decenni del II secolo fino a tutto il IV segnaliamo un’intensa attività di riutilizzo e quindi di riproduzione, in quello che si potrebbe definire un cantiere continuo 7. Per quanto riguarda l’età romana im- Cfr. introduzione storica in PARIS 2000. CANINA 1856. 6 Per i terremoti vedi: LANCIANI 1917; GUIDOBONI 1989; DE VIVO 1992 e GALLI, MOLIN, SCAROINA 2007-2008. 7 Per la continua attività di cantiere nella villa, vd. FRONTONI 2000, pp. 42-7. 4 5 © DALLA VILLA AL CASALE: ATTIVITÀ PRODUTTIVE NELLA VILLA DEI QUINTILI 197 periale sono stati recuperati alcuni scalpelli in ferro (fig. 3), negli strati di preparazione pavimentale degli ambienti di rappresentanza, ed evidenziati accumuli di materiale edilizio come scaglie di lavorazione del marmo, tritume laterizio e tessere di mosaico negli ambienti di servizio ipogei. Notevoli i rinvenimenti di un deposito di grassello di calce ancora fresco, stipato in un sottoscala della sala ottagonale di metri 4 x 2 per un’altezza di circa metro 1,5 (fig. 4) e di alcune fosse di spegnimento della calce 8. In un ambiente sotterraneo, sotto alla residenza privata, è stato riportato alla luce il cosiddetto ‘angolo del pittore’ con ollette contenenti pigmenti colorati per la realizzazione degli intonaci dipinti (fig. 5). Dovendo, però, rientrare nel range cronologico compreso tra V e XV secolo, tema del convegno, si presentano in questa sede gli indicatori principali e più evidenti, con l’intenzione di fornire una serie di dati che permettano di perseguire l’obiettivo dell’archeologia della produzione, cioè «ricostruire le condizioni di lavoro e cercare di riconoscere il processo culturale connesso» come espresso direttamente da Giannichedda e Mannoni 9. In qualche caso, ai fini di una ricerca archeologica completa tesa alla comprensione del processo tecnologico, sono state disposte le analisi archeometriche, premessa necessaria al lavoro dell’archeologo sperimentale, grazie alla convenzione tra Soprintendenza Speciale per il Colosseo, il Museo Nazionale Romano e l’Area Archeologica di Roma e le Università di Catania e della Calabria, Dipartimento Scienze della Terra 10. Di seguito saranno analizzati un forno FRONTONI, GALLI 2010, pp. 66-70. Secondo quanto espresso da Giannichedda e Mannoni, in GIANNICHEDDA, MANNONI 2003. 10 Si ringraziano Antonio Pezzino, Mauro Francesco La Russa, Cristina Maria Belfiore e Giusy Fichera dell’Università di Catania e della Calabria (cfr. BELFIORE, FICHERA, LA RUSSA et alii 2015, pp. 269-296). 8 9 Tabella 1 Fig. 2. - Planimetria generale della villa con la localizzazione degli indicatori all’interno delle fasi edilizie, evidenziate per grossi blocchi costruttivi (rilievo studio M.C.M. s.r.l.). Fig. 3. - Scalpello in ferro ritrovato negli strati di riempimento sotto il livello pavimentale, in un ambiente dell’area di rappresentanza (foto S. Castellani). Fig. 4. - Deposito di grassello di calce da uno degli ambienti di servizio sotto la sala ottagonale nell’area di rappresentanza della villa (foto R. Frontoni). da vetro e due calcare per l’area centrale (R-L-G) e due accumuli di materiale lapideo di spoliazione e una fullonica per il grande ninfeo (H). Fig. 5. - Ollette con resti di pigmento per l’affresco in uno degli ambienti di servizio ipogei dell’area centrale (foto R. Frontoni). (R.P., R.F., G.G., C.L.) DALLA VILLA AL CASALE: ATTIVITÀ PRODUTTIVE NELLA VILLA DEI QUINTILI 199 Il forno da vetro Lo scavo stratigrafico all’interno del corridoio-rampa di collegamento tra il settore termale (D) e l’area di rappresentanza (R) ha restituito le vestigia di una fornace di m 1,70 x 3,00 x 0,20-0,90, a due camere consecutive con tracce di squaglio vetroso, senza più la copertura originaria. È realizzato, in blocchetti squadrati di tufo conservati per una sola fila (cm 35-50 x 2030) e in mattoni di recupero, allettati in parte sopra, e in parte tagliando, il pavimento in mosaico databile ad età adrianea. L’alzato è poggiato sulle lastre di rivestimento della parete occidentale, lastre sopravvissute così alle spoFig. 6. - Veduta del forno da vetro nel corridoio dell’area termale (foto S. Caliazioni successive all’età romana (fig. 6). stellani). A 1,00 metro dalla cresta delle strutture Tolti gli strati più superficiali, composti da detriti coche si conservano per più di 2 metri dal piano pavistruttivi (malta, laterizi, intonaci dipinti), è stata ripormentale, sotto ad un grande crollo cementizio della tata alla luce la prima camera più piccola, dotata di volta di copertura con spesso strato di cocciopesto, è canale igneo passante sotto i mattoni sesquipedali: l’instata evidenziata una seriazione stratigrafica di cenere terro era costituito da una terra giallo scuro-marrone con e di concotti sopra uno strato di disfacimento del moinclusi frammenti di intonaco dipinto della parete e di saico in pasta vitrea del soffitto che obliterava anche la marmo da rivestimento. A sud, nella camera attigua, a struttura ormai distrutta del forno. pianta quadrangolare più ampia, sono stati evidenziati Di seguito la descrizione delle principali unità strauno strato con frammenti laterizi 11, ed uno strato di ditigrafiche evidenziate: sfacimento della malta di preparazione dei mosaici del soffitto termale con numerose tessere policrome in pasta - strato ricco di scapoli di basalto in terra organica vitrea bianche, rosse, e delle tonalità dal verde all’azmolto scura (cm 50 dalla cresta dei muri); zurro in continuità con l’esterno: lo strato, quindi, si- strato di terreno friabile marrone-rosso, con frammenti gillava l’abbandono del forno e non costituiva uno fittili e frammenti di legno combusto (spessore cm 30smontaggio per il riciclaggio delle tessere ai fini della 40); colorazione del vetro, come è stato ipotizzato in prima - strato chiaro di disfacimento di intonaci dipinti con analisi. tessere di mosaico in pasta vitrea colorata e cumuli Altro dato da segnalare: per la realizzazione del di scaglie di vetro verdastre, spessore cm 50-60 forno è stato tagliato superficialmente il mosaico di ri- strato sottile, lente di carboni nero (spessore cm 5-7) vestimento del pavimentum, le tessere del quale sono - strato grigio cinereo, friabilissimo, sterile di materiali, state ritrovate abbondanti nel primo strato di terra a condirettamente poggiato sul pavimento a mosaico (spestatto con il pavimento: quindi il rivestimento era a vista sore cm 10-50); nell’area del forno ricopre lo strato e voluta la posizione del forno proprio in questo amdi disfacimento dei laterizi-concotto biente, evidentemente ancora coperto con soffitto a mo- strato di concotto di laterizi, con tessere di pasta visaico (forse c’era un’apertura per permettere lo sfiato trea e mosaico in bianco e nero (spessore cm 7/8) dei fumi) 12. Il rivestimento parietale dell’ambiente, - strato di frammenti di mattoni sopra il mosaico e nellungo la zoccolatura, in lastre rettangolari di greco l’area del forno. 11 Un frammento di tegola smarginata riportava il bollo: OPVS DOLIARE EX FIGLINI/ DOMITIAN MAIORIBVS (con nesso tra I e B; cfr. CIL XV, I, 168), databile al II secolo inoltrato. 12 Si può pensare che il soffitto fosse già, in parte, crollato oppure ci fosse una finestra lucifera come nei corridoi di servizio poco distanti. 200 RITA PARIS, RICCARDO FRONTONI, GIULIANA GALLI, CARMELA LALLI delle materie prime (natron e ceneri vegetali) ma non si hanno neanche elementi per attribuirlo con sicurezza ai forni per la cottura o, addirittura, per la soffiatura del vetro. Alcuni suggestivi frammenti di argilla, ritrovati negli strati del manufatto, sembrerebbero riportare l’impronta di una canna da soffio. Certo è che un vetro così chiaro e trasparente non possa essere riferito ai mercati del vetro prettamente blu e non abbiamo documentazione sui forni primari che producessero vetro trasparente, in realtà, molto più prezioso e ricercato 16. Anche i relitti di navi ci forniscono elementi importanti che gettano luce sul traffico e i commerci del vetro sia grezzo sia in forme finite, come per esempio il relitto di Ouest Embiez, isola di Var, lungo le coste francesi, datato Fig. 7. - Grumi vetrosi dall’accumulo accanto al forno da vetro (foto G. Galli). tra la fine del II ed il III secolo, il quale trasportava vetro trasparente, decolorato volutascritto, è coperto dal forno che gli si appoggia, dato immente all’antimonio, come il nostro, insieme a forme portante a livello cronologico relativo: il forno fu cofinite 17. Sarebbe interessante ricostruire la rotta della struito prima dello smontaggio e del recupero delle nave des Embiez che ridistribuiva il vetro grezzo dalle lastre di marmo. coste del Mediterraneo tra forni primari e secondari. Le pareti del forno, in particolare quella settentrioLa scelta di un ambiente termale riparato, databile nale meglio conservata, recano le tracce della fusione al II secolo, con possibilità di approvvigionamento pridel vetro misto a frammenti fittili, visibili su due livelli vilegiato di acqua e vie di trasporto della legna, in un ben distinti, come a segnare due carichi sovrapposti. sistema già predisposto per il riscaldamento termale ai Ai piedi del corpo scala, a ridosso del forno, è stato piedi di una rampa di scale per salire ai piani superiori, messo in luce un accumulo di scaglie e grumi di vetro, è interessante. trasparente e chiaro, misto ad una terra molto friabile. Il corridoio, nel periodo di utilizzo del forno, non Alcuni grumi hanno ancora attaccata una sorta di arfungeva più da collegamento tra il settore termale e l’area gilla rossastra, altri sono porosi e ‘schiumosi’: in base di rappresentanza-esedra: il lato breve meridionale, inai confronti fatti sembrerebbero frammenti di vetro fatti, fu chiuso da una struttura muraria ed un piccolo grezzo accumulati per la seconda cottura, come quelli ambiente di risulta probabilmente fu utilizzato come de13 del forno di Avenches già attivo nel I secolo (fig. 7) . posito. Qui sono stati ritrovati uno scalpello, un accuNon sembrerebbe neanche la ‘fritta’ l’hammonitrum mulo tessere di mosaico in bianco e nero ed un mazzo pliniano 14, in epoca romana ottenuta tramite cottura in di chiavi ad anello in ferro. due fasi successive e in due camere distinte, come nel Di fronte al manufatto, sul pavimentum in mosaico, 15 nostro, e non in una sola camera come nel Medioevo . sono visibili cospicue tracce di combustione con molta Ciò è interessante per cercare di comprendere la funprobabilità connesse alle operazioni di cottura. zione esatta di tale forno: non si hanno ancora elementi Tra i ritrovamenti, nel piccolo deposito, una ciotola sufficienti per escludere il forno primario, forni che con impasto grossolano di cm 15 di diametro e cm 8 di però erano distribuiti soprattutto lungo le coste siro-paaltezza, dello spessore di circa cm 1, apoda, contenente lestinesi e dell’Egitto per un problema di reperimento un terra rosso-marrone all’interno, interpretata al mo- Cfr. AMREIN 2001; cfr. VERITÀ 1999, pp. 108-110. Pl., NHist, l. XXXVI, 66. 15 Cfr. STIAFFINI 1999, pp. 50-51. 16 FOY, JÉZÉGOU 1997, pp. 65-70. 13 14 17 FONTAINE, FOY 2007, p. 253. A p. 260, fig. 27 sono pubblicati alcuni vetri grezzi simili ai nostri da un relitto ritrovato sulle rive del fiume Saona a Lione, datato alla seconda metà del III secolo; vedi anche STERNINI 1995, pp. 128, 133, fig. 210. DALLA VILLA AL CASALE: ATTIVITÀ PRODUTTIVE NELLA VILLA DEI QUINTILI 201 mento della scoperta come crogiolo: certo il confronto con altri crogioli simili non toglie il dubbio su questa interpretazione 18. La prima fase della cottura, però, poteva anche non prevedere i crogiuoli e le materie prime potevano venir gettate direttamente sul piano di cottura che fungeva da serbatoio: simile funzione è stata ipotizzata per le strutture di Salona (metà III - inizi IV secolo) e di Autun (250-350 d.C.). Per cercare di comprendere meglio, a livello composizionale, il tipo di vetro, sono stati messi a confronto i risultati delle analisi archeometriche sia dei grumi vetrosi che avevano ancora attaccata un’argilla rossastra simile e la terra rossa della ciotola. Da questi primi esami sono stati rilevati gli stessi elementi maggiori, sodio (Na), potassio (K) e ferro (Fe): nei grumi è stato rilevato il sodio, in quantità ridotte, e il potassio; nel Fig. 8. - Veduta della calcara del tepidarium ricavata in un ambiente termale (foto R. Frontoni). campione del pigmento è stato rilevato il ferro (Fe) in grandi quantità. esempio la ormai famosa lucerna a volute della metà Con l’applicazione di questo tipo di analisi micro del I secolo d.C. da Voghera (Ferrara) con forno da vetro morfologica e chimica con uso della microscopia eletromano in bassorilievo 22. tronica a scansione con sistema a dispersione di enerPer le ricostruzioni ricordiamo il forno da vetro nel gia (SEM-EDS) si è riusciti a rilevare singolarmente i De Universo di Rabano Mauro conservata a Montevari componenti, in attesa di analisi più approfondite, cassino del 1023 ed il forno di Teofilo, artigiano di Coche possano discriminare gli elementi in traccia. lonia del 1100 ricostruito secondo Theobald a due In ogni caso la preparazione di questi vetri, dagli camere contigue 23. esami effettuati su alcuni campioni, ci riportano alle ti(G.G.) piche alte percentuali del sodio che distingue i vetri romani da quelli d’epoca successiva 19. In epoca romana i forni da vetro sono spesso circoLa calcara del tepidarium lari, raramente rettangolari come questo: un confronto lo possiamo però fare con un forno rettangolare con picIn un vano del tepidarium, posto nel complesso tercola camera adiacente simile alla nostra, ritrovato ad male della villa (D-L-E), realizzato in opera laterizia e Augst (Augusta Raurica) attivo tra la fine del I ed il III databile tra l’età adrianea e quella severiana, sotto uno secolo, pubblicato da Fischer nel 2009 20. spesso strato di detriti costruttivi ed un grande crollo Da uno dei forni di Augst proviene un frammento di cementizio della volta di copertura, è stata riportata alla argilla con impronta, forse, di crogiolo, molto simile ai luce una fornace da calce (fornax calcaria; fig. 8). Alframmenti provenienti dalle pareti della seconda cacuni frammenti di squaglio che si sono poi rivelati apmera del nostro forno 21. partenenti alle strutture in mattoni della calcara, ritrovati Alcune antiche raffigurazioni di forni da vetro agegià dai primi strati, confermano l’ipotesi di una manovolano l’interpretazione dei resti scavati, come per missione della stratigrafia originaria della quale co18 74. Molto simili i crogiuoli analizzati in STERNINI 1995, pp. 73- Fino ad età carolingia il vetro era realizzato utilizzando prodotti sodici, successivamente prodotti potassici. 20 Grazie alla segnalazione di Barbara Lepri, cfr. FISCHER 2009, pp. 65-66, figg. 61-66. 19 FISCHER 2009, p. 51, fig. 25. BERETTA, DI PASQUALE 2004, p. 38, fig. 1, ma anche p. 191, fig. 5. 23 TEOFILO, De Diversis Artibus Libri III, riportato in STERNINI 1995, pp. 50, 57 e 59, fig. 58. 21 22 202 RITA PARIS, RICCARDO FRONTONI, GIULIANA GALLI, CARMELA LALLI munque si propone la sezione stratigrafica evidenziata durante lo scavo 24. A pianta circolare, di m 3 di diametro esterno, è costruita con materiali di recupero come mattoni e frammenti di cocciopesto, in tre costruzioni concentriche che sembrano, dallo squaglio della superficie, aver funzionato tutte; l’impianto del manufatto è arrivato a tagliare anche il piano fondale dell’ipocausto e ha obliterato il forno per il riscaldamento dell’ambiente termale. L’accensione, da parte del coctor calcis, doveva avvenire dall’ingresso occidentale verso l’ambiente adiacente messo in evidenza dalla presenza di un blocco di peperino più grande. Nel battuto di frequentazione della calcara sono stati ritrovati frammenti di piatti in maiolica con fasce color verde e giallo ed altri di catino con decorazione a monticelli con fasce blu cobalto, verde acqua, arancio e celeste tutti databili nell’ambito del XVI secolo, misti a frammenti di alcuni piccoli crolli cementizi e della decorazione architettonica con molta probabilità appartenente ai piani superiori, come per esempio frammenti di una balaustra marmorea ed un frammento di terminale di coppo in terracotta con protome antropomorfa e tralci vegetali, materiali questi databili tra la fine del II e gli inizi del III secolo. Il crollo della copertura, a questo punto, avendo sigillato gli strati di XVI secolo potrebbe essere stato causato da uno dei due forti terremoti (1646 o 1703) che distrussero anche alcune arcate del Colosseo come segnalato dal Lanciani agli inizi del 1900. Al di sotto di questo strato c’era il crollo dei blocchi squadrati di peperino in media cm 30 x 40 con fori per grappe, quindi di recupero, che dovevano chiudere la cupola della calcara, misti ad un terreno friabile ricco di tessere di mosaico in pasta vitrea del soffitto dell’ambiente termale e qualche altro frammento di balaustra marmorea. Sotto uno strato carbonioso molto scuro, è stata messa in luce la calce per un’altezza di circa cm 50, piuttosto sporca, molto farinosa. Aveva ancora incluso un frammento di sottocornice con tralci di foglie d’acanto e calice rovesciato e astragalo con perline e fuseruole romboidali, datata tra la fine del II e gli inizi del III secolo 25. L’ultimo strato scavato, a contatto con la suola del focolare, molto scuro, era ricco di carboni e resti di combustione (fig. 9) 26. Il tipo di forno dovrebbe essere di quelli ‘a fuoco intermittente’, secondo la descrizione di Catone e la classificazione esposta recentemente da Petrella 27, per cui l’accatastamento delle pietre, scelte con cura, avveniva per strati: quelle più grandi alla base fino a quelle più piccole in alto garantendo il passaggio di gas e calore verso l’alto. All’interno si è conservata una cospicua quantità di calce e frammenti di marmi incombusti; esternamente, accatastati negli angoli dell’ambiente, erano altri marmi pronti per essere bruciati. I campioni di calce sono stati analizzati, sia in termini di concentrazione di elementi maggiori sia in traccia, e riportati alla formazione del calcare della Maiolica, proveniente dai Monti Cornicolani a sud-est di Roma 28. Sebbene costruita in epoca medievale, come è stato ipotizzato in base ai confronti e alla cronologia Il manufatto è stato presentato nell’ambito del I Convegno sulla calce tenutosi a Firenze nel 2008: cfr. FRONTONI, GALLI 2010, pp. 70-72. 25 Cfr. NEU 1972. 26 La seriazione stratigrafica è stata illustrata già nell’ambito del I Convegno sulla calce, vedi FRONTONI, GALLI 2010, pp. 7172. 27 PETRELLA 2008, p. 34. 28 Colore della calce bianco Munsell 10YR 8/1, piuttosto friabile; cfr. FICHERA 2012, p. 84; FICHERA, BARCA, BELFIORE et alii 2015, pp. 92-93. Fig. 9. - Veduta della calce all’interno della calcara del tepidarium (foto G. Galli). 24 DALLA VILLA AL CASALE: ATTIVITÀ PRODUTTIVE NELLA VILLA DEI QUINTILI 203 relativa 29, questa calcara rispetta i dettami già impartiti da Catone (160 a.C.) nel De Agricoltura XLIV, 38: - disposizione a nord in un punto riparato dal vento; - focolare molto basso e profondo; - costruzione della parte alta con pietra e mattoni; - caricamento del forno con pietre bianche non macchiate. (G.G.) La calcara dei carceres Nei pressi della ‘Grande Cisterna’ (G), situata nella zona più elevata della villa dei Fig. 10. - Veduta della calcara dei carceres, nell’edificio a torre nei pressi del Quintili, all’interno di un edificio quadrango- circo (foto R. Frontoni). lare di modeste dimensioni, è stato scoperto un secondo forno da calce, obliterato dal crollo della volta in calcestruzzo della copertura (figg. 10-11). L’edificio in cui venne installato l’impianto produttivo è una costruzione della seconda metà del II secolo d.C. ben conservata, a due livelli, con murature perimetrali in opera vittata semplice ad eccezione della cortina meridionale, realizzata in laterizio e decorata architettonicamente da due lesene che incorniciano l’ingresso principale; doveva far parte del settore più occidentale dei carceres del circo della villa, di cui, molto probabilmente, costituiva una delle due Turres. Al di sotto dello strato di crollo della volta a crociera originaria, i cui lacerti sono stati rinvenuti in commistione con frammenti di un rivestimento composto da malta scadente e Fig. 11. Reperti ceramici dallo scavo della calcara dei carceres (foto R. Frontoni). scapoli tufacei e laterizi di riutilizzo, testimoni sta alla quota della soglia d’ingresso in peperino, e che di un rifacimento (o restauro) della copertura in epoca insieme ad essa è da riferire a questa ultima fase, sigilpiù recente, forse da collegare alla fase di riutilizzo della lava il contesto d’abbandono dell’impianto produttivo ‘Grande Cisterna’ e degli edifici limitrofi per attività Nello strato che copriva la pavimentazione e paragricole/d’allevamento in tempi recenti (forse a partire zialmente i crolli della volta, rinvenuti numerosi framdal Sei-Settecento, fino all’Ottocento), è riemersa la menti di maiolica dipinta rinascimentale, assieme ad altri struttura della calcara già rasata e priva della copertura. indicatori eterogenei tra cui un nummus radiatus delUn pavimento in grossolano ‘cocciopesto’, che si atte- 29 Probabilmente venne edificata tra VIII e IX secolo: non sono stati ritrovati oggetti datanti ma in base alla seriazione stratigrafica e ai confronti con altre calcare ritrovate a Roma, come le fornaci della Crypta Balbi e di Tor Sapienza, rientrerebbe in tale epoca. Vd. anche MUSCO 2006, p. 294. 204 RITA PARIS, RICCARDO FRONTONI, GIULIANA GALLI, CARMELA LALLI l’imperatore Diocleziano (Antoniniano?) con raffigurazione della Concordia Militum, databile al 285 d.C., ma anche una moneta di Benedetto XIV (1740-1758), con l’iscrizione BONONIA DOCET e leoncino rampante, forse mezzo bolognino: commistione di materiali a conferma dello sconvolgimento subito dall’interro. La calcara è realizzata in blocchi irregolari di peperino e tufo, allettati con terra argillosa (non è chiaro se la colorazione rossiccia è stata causata dalla temperatura di funzionamento), in forma tendente al circolare, il diametro è variabile da m 1,85 a m 2,35, per uno spessore medio di cm 50. Non è stato possibile raggiungere il piede di fondazione della struttura, benché si sia scesi al suo interno ad una quota più bassa di circa cm 30 rispetto allo spiccato di fondazione della muratura romana (quota assoluta m 82,50 s.l.m.), fino a raggiungere il terreno sterile; la realizzazione del forno ha intaccato sia il terreno vergine che gli strati di frequentazione romana, fase di cui non si è rintracciata la pavimentazione. Dalla quota della risega di fondazione della parete orientale, nell’angolo nord del vano, provengono una pinzetta di bronzo e un vasetto fittile, oltre a numerosi frammenti di ceramica d’uso comune. Lo strato che copre all’intorno il circolo della calcara, fino alla quota della sua rasatura, presumibilmente legato all’attività d’uso dell’impianto, ha restituito ceramica medievale (acroma e maiolica arcaica) di XIII/XIV secolo, in commistione con sectilia marmorei da rivestimento di epoca romana. All’interno della calcara restano alcuni strati di carico, con blocchi marmorei, residui carboniosi e boli di calce; rilevante un frammento di trabeazione architettonica in marmo con decorazioni vegetali a bassorilievo. Su alcuni blocchi della parete interna, si possono osservare le tracce dello ‘squaglio’ della parte silicea del peperino. Non è stata individuata la bocca del forno, probabilmente ubicata ad una quota superiore, non conservata. Nell’angolo sud dell’ambiente, ad una quota prossima alla cresta superstite del muro della calcara, rinvenuto un accumulo di pietrame e materiali di varia natura, tra cui massetti pavimentali in cocciopesto, a ridosso dell’angolo ovest è stata individuata una struttura circolare in blocchi lapidei irregolari disposti per taglio, mal conservata (poche decine di centimetri in elevato, solo un filare di blocchi); misura circa m 1,35 di diametro e al suo interno restano accumulati alcuni frammenti marmorei, tra cui un lacerto di fusto (o rocchio) di colonna in marmo ‘cipollino’, pietrame generico e lacerti di pavimento a ‘cocciopesto’. (R.F.) Due accumuli di materiale lapideo e una fullonica dal ‘Grande Ninfeo’ (H) Il grande ninfeo della villa, localizzato in prossimità della via Appia, affaccia, con la sua quinta monumentale, sulla strada antica (fig. 12). La fontana, costruita in opera listata, fa parte degli interventi edilizi messi in opera dall’imperatore Commodo (180-192 d.C.) e s’inserisce all’interno del più antico giardino ad ippodromo della prima metà del II secolo del quale utilizza la superficie dell’esedra. Attraverso uno dei due ambienti speculari collocati ai lati della fontana, si accedeva al terminale sud-est, piriforme, dello xystus. Tra il 2002 e il 2004 si è svolta un’estesa indagine archeologica che ha riguardato in particolar modo la porzione di terreno in prossimità del lato nord-est dell’edificio. La complessa stratigrafia archeologica individuata si riferiva ad una cronologia piuttosto ampia che comprendeva più di dieci secoli di storia. Gli strati archeologici databili tra la fine del IV e la prima metà del V secolo, individuati all’interno dello xystus, sono una rara testimonianza, all’interno della villa, della continuità d’uso degli spazi che hanno subito un evidente cambiamento nella destinazione d’uso. Tra il XIII e il XIV secolo gli edifici, più precisamente ciò che ancora ne rimaneva, sono stati riadattati e in parte sopraelevati in conseguenza della trasformazione dell’area in casale, ossia un fondo agricolo dotato molto spesso di fabbricati funzionali alle attività che vi si svolgevano. La torre e parte degli edifici annessi, compresa la costruzione di un piano superiore nella cisterna mediana (P), sono stati innalzati utilizzando la nota tecnica edilizia ‘a blocchetti lapidei disposti a filari orizzontali’ di tufo litoide di colore grigio. Nonostante il materiale impiegato sia tutto di prima scelta, va notato l’utilizzo di frammenti di cornici architettoniche e di epigrafi monumentali di marmo per ricavare le mensole che hanno la funzione di sostenere l’aggetto del breve camminamento che corre lungo il muro nord-est dell’edificio 30. In tutto il settore della villa dei Quintili localizzato in prossimità della via Appia e all’interno dell’area originariamente destinata a giardino, è ancora possibile distinguere gli interventi edilizi che si sono susseguiti dal 30 I risultati della ricerca archeologica e documentaria che riguardano le fasi edilizie medievali riscontrate nell’area del grande ninfeo della villa dei Quintili sono ampiamente argomentati in LALLI 2013, pp. 151-166. DALLA VILLA AL CASALE: ATTIVITÀ PRODUTTIVE NELLA VILLA DEI QUINTILI 205 XV fino al XVII secolo. Sono evidenti, in particolar modo, la trasformazione di parte degli ambienti del ninfeo, l’ampliamento del portico medievale e la fondazione di alcuni edifici. Un poderoso muro, che corre parallelo alla strada per poi piegare ad angolo retto all’interno dell’area occupata dai fabbricati antichi, recinge un’area nella quale è compresa anche la grande cisterna (G). Gli eventi che seguono sono legati per lo più agli scavi del XVII e XVIII secolo finalizzati principalmente al recupero di opere d’arte antiche. Le evidenze archeologiche ed architettoniche alle quali si è accennato, seppure costituiscano una sintesi di quanto rilevato durante le indagini sul campo, attestano la particolare continuità di vita del sito. Tracce di frequentazione, seppure intervallate da fasi di abbandono piuttosto estese cronologicamente alle quali consegue il crollo parziale delle strutture, sono evidenti anche dall’asportazione parziale dei crolli, dalle rasature dei muri, azioni che testimoniano la volontà di riutilizzare quanto possibile l’esistente. La villa è stata dunque una cava di materiale che in diverse fasi, e con diverse modalità, è stata anche la base di alcune attività inserite in ‘sistemi di produzione’ che possiamo solo ipotizzare 31. La presenza di semilavorati, accumulati e pronti per essere reimpiegati, costituiscono l’unica testimonianza dell’esistenza di un’attività che si colloca all’interno del terminale sud dello xystus tra la seconda metà del IV e la prima metà del V secolo d.C. Le indagini archeologiche hanno messo in luce un doliarum rinvenuto nella fase di abbandono. Eccezionale è stato il ritrovamento, all’interno di uno dei contenitori in situ, di un accumulo di tessere di pasta vitrea sulle quali è ancora visibile la malta utilizzata per la posa in opera del materiale. E’ apparso subito evidente che la grande quantità di tessere accantonata fosse il risultato di un’intensa attività di spoliazione che ha interessato in particolar modo gli elementi decorativi di rivestimento parietale e pavimentale dei lussuosi ambienti della villa testimoniata anche dal recupero, ad ovest dell’ambiente, di un deposito, in seconda giacitura, di frammenti di lastre di marmo liscio e modanato, crustae marmoree provenienti da pannelli di opus sectile parietale, lesene scanalate di marmo africano. Anche in questo caso sono evidenti su molti frammenti le tracce della malta utilizzata per la posa in opera dei materiali. Alcune lastre presentano segni e incisioni per la predisposizione ad un nuovo taglio (fig. 13). La datazione è suggerita, oltre che dai manufatti ceramici rinvenuti 32, dal ritrovamento di sette monete di bronzo, coniate tra il 340 e il 388, rinvenute sparse sul battuto pavimentale 33 e di un tesoretto di monete d’oro, Presso il Ninfeo, l’usanza di impiegare materiale proveniente dalla decorazione di altri edifici, e non necessariamente dalla villa stessa, è stata riscontrata già per il III secolo. La vasca longitudinale disposta lungo il muro che chiude la vasca realizzata all’interno dell’esedra centrale della fontana, ad esempio, è realizzata con blocchi di marmo che presentano, sul lato non visibile, la tipica decorazione ‘a bucrani’ degli edifici funerari. Le indagini archeologiche hanno evidenziato che il mosaico pavimentale a grandi tessere policrome, datato alla seconda metà del III secolo, che riveste l’area antistante la fontana è stato realizzato contemporaneamente alla vasca (confronta LALLI 2010). 32 In una delle fosse di alloggiamento dei dolia, privata del contenitore, sono stati rinvenuti 5000 frammenti circa di ‘ceramica a rivestimento rosso’ e di ‘ceramica a rivestimento bruno’ ben documentata in contesti archeologici di IV e V secolo d.C. L’analisi archeometrica in corso su alcuni campioni ceramici potrebbe fornire ulteriori dati soprattutto in merito alla produzione di questa classe ceramica. 33 Si tratta di frazioni di monete in bronzo AE 3 e AE 4. 31 Fig. 13. - Alcune lastre di marmo di recupero rinvenute nella US 185 dove sono evidenti le incisioni per la predisposizione al taglio (foto V. Santoro). 206 RITA PARIS, RICCARDO FRONTONI, GIULIANA GALLI, CARMELA LALLI datate tra la seconda metà del IV e la prima metà del V secolo, proveniente dal deposito di marmo 34. L’insieme ha fornito gli elementi per supporre la presenza di una sistematica ed organizzata attività legata alla commercializzazione del materiale recuperato favorita dalla vicinanza del luogo alla via Appia. Alcuni frammenti di grossi blocchi di marmo sono stati recuperati in prossimità dell’ambiente posto ad ovest della fontana durante le indagini svolte nel 2004 per la realizzazione di un sistema di drenaggio delle acque superficiali. Il deposito di materiale, indagato solo in parte, potrebbe essere pertinente ad una calcara. Tra il XV secolo e la prima metà del XVI, l’area occupata originariamente dall’ambiente collocato all’estremità sud-est dello xystus, è stata nuovamente trasformata per ospitare un’attività artigianale di modesta entità. Sono state messe in luce, addossate al muro curvilineo di età imperiale, tre vasche e due annessi edificati con una tecnica muraria che possiamo definire ‘a bozze e bozzette di materiale lapideo differente’, in gran parte di recupero, disposto a filari sub-orizzontali e legati con malta. L’insieme si attesta ad una quota più alta di quella del piano di calpestio di età romana interrato dai crolli dei muri antichi e dai livelli di uso medievali. Due vasche, disposte a sud a ridosso del muro curvilineo dello xystus, presentano il rivestimento interno costituito da un doppio strato di cocciopesto. Il pavimento di quella superiore (fig. 14, a) ha una forte inclinazione verso il centro della parete nord-est in direzione di un’apertura segnata da un blocchetto di marmo di reimpiego. La vasca inferiore, di forma quadrangolare (figg. 14, b; 15) presenta al centro del lato nord-est una cavità di forma cilindrica che mistura cm 40 di diametro ed è profondo cm 44. Il foro, chiuso sul fondo, sembra essere adatto per ospitare un contenitore. Accanto, ad ovest, si trova un discendente in muratura di forma quadrangolare conservato solo parzialmente, che collega la vasca più alta ad una terza vaschetta di forma triangolare (fig. 14, c). Al momento del rinvenimento, quest’ultimo bacino presentava un riempimento costituito da sabbia di colore giallo e ciottoli di fiume, posti a contatto sul fondo. Sotto la vasca più alta, è presente un ambiente, originariamente ipogeo, non ancora indagato. Parallelo al muro perimetrale nord della fon- tana di età imperiale, correva una canaletta,- della quale è stata rinvenuta solo la parte inferiore con forte pendenza in direzione del bacino triangolare presso la quale confluiva. Il sistema di vasche comunicanti aveva così due canali di adduzione. Più ad est si trova un vano di forma quadrangolare (fig. 14, e) che utilizza un edificio preesistente. Al piano pavimentale si accedeva tramite due scalinate costituite ciascuna da quattro gradini, disposte sui lati più lunghi. Il pavimento dell’ambiente presenta una finitura in cocciopesto piuttosto grossolano che ha una forte inclinazione in direzione del vano circolare annesso, simile ad un pozzo di m 2,20 circa di diametro, pavimentato con blocchi squadrati di tufo grigio nel quale si apre una cavità cilindrica, chiusa sul fondo, rivestita anch’essa in cocciopesto. Tra i due gruppi di vasche era ancora presente al momento dello scavo, seppure conservata solo in parte, la pavimentazione (fig. 14, d) costituita da blocchi parallelepipedi regolari di peperino disposti a secco sul battuto di terra. I blocchi erano simili, per lavorazione, a quelli impiegati per il rivestimento delle scale e del vano circolare. Si potrebbe ipotizzare, in assenza di ulteriori informazioni provenienti dai depositi archeologici se non quelle relative alla cronologia, che l’insieme di vasche comunicanti funzionasse come fullonica. Nel caso specifico, si propone in questa sede l’ipotesi che si trattasse di un edificio funzionale allo svolgimento di quelle fasi preliminari, ma fondamentali, del processo di trasformazione della lana in filato e che riguardavano il lavaggio sgrassante della lana e la successiva reidratazione della stessa 35. Il procedimento, già descritto da Columella e ben documentato nel tardo Medioevo, prevedeva l’utilizzo di acqua e materie sgrassanti come la cenere, l’urina e alcune essenze vegetali. Senza entrare volutamente nel dettaglio del procedimento, è importante sottolineare che gli statuti cittadini e gli atti delle corporazioni indicano come luoghi idonei le aree suburbane ed extraurbane poiché si trattava di un’operazione particolarmente inquinante 36. Dopo la pulitura, si provvedeva a reidratare la lana con oli, in particolare era consigliato l’olio di oliva, prima di procedere alla cardatura. Il risultato di tale lavorazione era l’’oliazzo’ che veniva riutilizzato per la fi- Le monete sono state coniate sotto gli imperatori Valentiniano I (364-375), Valentiniano II (375-392) e Arcadio (395-408) e sono attualmente esposte nell’Antiquarium della villa dei Quintili. 35 Il procedimento è documentato soprattutto per il tardo medioevo (D’INCÀ 2012, pp. 525-526). 36 D’INCÀ 2012, p. 525, nota 10. 34 207 c a d b e Fig. 14. - La fullonica del XV secolo rinvenuta all’interno del terminale sud dello xystus. a-b-c) sistema di vasche comunicanti; d) pavimento dell’area in blocchi parallelepipedi di peperino; e) vasca est (foto S. Castellani). Fig. 15. - Vaschetta con foro cilindrico chiuso sul fondo e rivestito di cocciopesto (foto C. Lalli). latura o per la produzione di saponi 37. Un’altra ipotesi è quella che l’attività manifatturiera fosse legata al ciclo produttivo del filato della canapa, coltivazione piuttosto diffusa e attestata anche nella nostra zona come testimoniato dai documenti del XIII secolo, per la quale è necessaria però una lunga macerazione in vasche a fondo chiuso di grandi dimensioni poste generalmente in prossimità di corsi d’acqua. Si tratta soltanto di un’ipotesi che ad oggi non trova ancora un adeguato supporto nella ricerca d’archivio. In breve, dalla ricerca documentaria svolta negli ultimi anni sulle tenute dislocate nella porzione di territorio compresa tra il IV e il V miglio della via Appia è emersa la presenza, tra la fine del XIII secolo e la prima metà del XIV secolo, di due casalia piuttosto estesi 38, il casale Statuarium di proprietà del monastero di S. Maria Nova, e il casale Giovici appartenuto 37 Le trasformazioni del processo produttivo che l’arte della lana conosce a Roma fra il XIV e il XV secolo risulta chiaro dalla lettura di alcuni documenti notarili e degli Statuti delle arti dei merciai e della lana. A questo proposito, la Ait (AIT 2005) nota che soprattutto con Martino V (1417-1431), che abolisce la tassa di immatricolazione e la limitazione dell’importazione di panni di lana a Roma, si sviluppa una nuova forma di organizzazione manifatturiera romana che possiamo definire «manifattura decentrata» e che prevedeva, anche a causa dell’accresciuta domanda, la produzione locale della materia prima (vedi anche AMMANNATI 2012, p. 8). 38 Per approfondire l’argomento sui passaggi di proprietà dei vari casali si rinvia a LALLI 2013, pp. 00. 208 RITA PARIS, RICCARDO FRONTONI, GIULIANA GALLI, CARMELA LALLI alla famiglia Savelli e donato al monastero di S. Paolo ad Albano dal cardinale Giacomo Savelli, futuro papa Onorio IV (1285-1287) nel 1282 39. Alla fine del XIV secolo una parte del casale Giovici è stata incorporata nel casale del giudice Angeli Petri Mactei de regione Campitelli 40. L’altra parte, dopo anni di controversia, sarà acquistata dal monastero di S. Maria Nova entrando così a far parte della tenuta del casale di S. Maria Nova sulla via Appia 41. Nel XVI secolo gli eredi di Angelo Pietro Mattei possiedono anche una parte del casale Statuarium che venderanno al venerabile Ospedale del SS. Salvatore ad Sancta Sanctorum 42. Successivamente, nel 1797, il conte Giovanni Torlonia acquista il casale Statuarium di proprietà della Confraternita. Riassumendo, è molto probabile che tra il XIV e il XV secolo l’area della villa interessata dalla presenza della fullonica facesse parte di quella porzione del casale Giovici che entrerà a far parte del casale Statuarium Statuario degli eredi del giudice Mattei e ai quali è forse da attribuire la fondazione dell’attività manifatturiera rinvenuta. (C.L.) Considerazioni consuntive Concludiamo questo contributo con alcune considerazioni sulla distribuzione degli indicatori delle attività produttive all’interno della villa dei Quintili. Per quanto riguarda le installazioni fisse, che cronologicamente si pongono agli estremi di quanto richiesto in occasione di questo convegno, esse possono considerarsi la testimonianza di realtà produttive specifiche che permettono di ragionare sulla rifunzionalizzazione prima e sulla trasformazione della villa in casale poi. Inoltre le fornaci per la produzione della calce, databili al tardo medioevo e al rinascimento, attestano la presenza di un’attività produttiva legata a quella di spoliazione del materiale, per lo più proveniente dalla villa, che trova pieno riscontro con quanto emerso dalle in- UGHELLI 1644-1662, I, coll. 265-267. Archivio Storico Capitolino, Roma, Archivio Urbano, sez. I, tomo 785, v. CXXII-r. CXXIII 41 Archivio di Stato di Roma, S. Francesca Romana, busta 5, Tabula instrumentorum regesti A. Monasteri S. M.e Nove de Urbe ab an 1455 ad annum 1461. 42 Archivio di Stato di Roma, Catasto di tutti i casali del SS. Salvatore ad Sancta Sanctorum, reg. 381. 43 RICCI 1991. 44 Gli scavi svolti dal 1998 in poi sono stati condotti sotto la direzione scientifica della dott.ssa Rita Paris. 39 40 dagini archeologiche seppure, come è stato evidenziato, con finalità diverse e non sempre legate alla presenza sul luogo di cantieri edilizi. Pochi, quasi assenti, i residui di lavorazione, che invece sono presenti in gran quantità nei cantieri attivi in età imperiale. Rimane comunque un’ultima osservazione da fare su una macroscopica assenza di attività nei secoli VIXI. Per quanto riguarda la frequentazione dell’area per questo periodo, abbiamo alcune testimonianze fornite da rari e poco rappresentativi frammenti di forum ware e di ceramica comune acroma, che potrebbero avere la loro giusta collocazione in relazione alla presenza di alcune attività legate alla fusione di metalli messe in luce nell’area delle piccole terme (M) durante gli scavi degli anni ottanta del secolo scorso 43. Inoltre vale la pena sottolineare che quanto è oggi a nostra conoscenza riguarda una minima parte dell’esistente visto che le indagini archeologiche sistematiche hanno interessato una superficie di circa 15.000 m2 su un totale di 240.000 m2, una percentuale vicina al 6% che lascia ancora circa un 94% di terreno non ancora indagato 44. 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Benché dedicato alle zecche bassomedievali, i problemi affrontati avevano una rilevanza diacronica e rimangono centrali negli studi numismatici 1. In ambito italiano, è merito di Lucia Travaini aver dato vita a due progetti sulle orme tracciate a Oxford. Il convegno «I luoghi della moneta. Le sedi della zecca dall’antichità all’età moderna», svoltosi a Milano nel 1999, ha fornito l’occasione per mettere ulteriormente a fuoco diversi temi relativi all’organizzazione del lavoro e delle maestranze, alla funzione dei magistrati, all’ubicazione delle zecche, al loro eventuale impatto sugli impianti urbani, ai sempre pressanti problemi di approvvigionamento non solo dei metalli monetabili e del combustibile, ma anche dell’acqua, elemento indispensabile in diverse fasi del processo produttivo 2. Gli atti del convegno milanese costituiscono una sorta di premessa ai due volumi editi nel 2011 sulle zecche italiane dall’età altomedievale all’Unità 3. Le voci sulle singole zecche, organizzate in sezioni distinte, la prima relativa alle officine attive in Italia (se ne contano 248), una seconda dedicata alle zecche localizzate all’estero MAYHEW, SPUFFORD 1988. 2 TRAVAINI 2001a. 3 TRAVAINI 2011a. 4 COARELLI 2013. 1 (78), ma sotto il controllo di un’autorità italiana (ad esempio le zecche di alcune colonie genovesi o veneziane), sono precedute da saggi di inquadramento generale sulla storia degli studi, il diritto monetario, l’attività mineraria, gli aspetti metrologici, le caratteristiche edilizie delle sedi di zecca che a volte, specialmente dal XVI secolo, arrivarono ad avere caratteri di monumentalità benché, più frequentemente, occupassero ambienti del tutto anonimi, senza elementi architettonici di pregio. Interessante è allora il confronto con le zecche temporanee allestite in città assediate, le cosiddette zecche ossidionali, e con le zecche ‘castrensi’ sorte per fare fronte alle necessità di eserciti in movimento. Una sezione inquadra l’attività delle zecche clandestine. Bastano questi pochi dati per comprendere quanto i problemi connessi alla produzione della moneta possano essere vasti e complessi e il convegno odierno offre l’occasione per riportare l’attenzione su alcune questioni aperte che riguardano Roma. Parleremo quindi, ancora, di luoghi della moneta tra tarda antichità e medioevo, e in particolare della localizzazione della zecca dopo il declino e l’abbandono di quella imperiale del Celio, potendo oggi contare sulla recentissima sintesi di Filippo Coarelli 4, e sulle ricerche coordinate da Mirella Serlorenzi sull’officina metallurgica sorta nei locali di quello che era stato l’Athenaeum di Adriano 5. In ultimo torneremo sullo spinoso problema della chiusura della zecca di Roma tra la seconda metà del X e la seconda metà del XII secolo. 5 SERLORENZI, RICCI, DE LUCA c.s., ed in particolare, per quanto riguarda gli aspetti propriamente numismatici, il contributo di Flavia Marani; si veda inoltre, in questo stesso volume, l’intervento di Mirella Serlorenzi, che desidero ringraziare per avermi coinvolta nella ricerca. 214 ALESSIA ROVELLI Prendere le mosse da una ricerca rivolta in primo luogo alla monetazione repubblicana, per discutere della produzione monetaria a Roma in età medievale, potrebbe apparire una digressione eccessiva ma si tratta di una premessa necessaria. Nel volume di Coarelli, oltre ad una nuova analisi sulle prime emissioni argentee romane vengono riepilogate le vicende delle officine monetarie di Roma antica, quella repubblicana sul Campidoglio e quella che la sostituì dopo l’80 d.C. che è stata individuata in un edificio situato sotto la basilica paleocristiana di S. Clemente 6: interpretazione, quest’ultima, sostenuta e sviluppata a più riprese appunto da Filippo Coarelli 7. L’edificio in questione, riportato alla luce in buona parte tra la metà del XIX secolo e la metà del successivo, ma rilevato e analizzato solo in epoca più recente 8 è una struttura imponente a pianta rettangolare, che si sviluppava in coincidenza dell’attuale basilica di S. Clemente, incluso il quadriportico, su una presumibile lunghezza di 65-70 metri, e una larghezza accertata di m 29,6 equivalenti a 100 piedi, destinato alla coniazione nei tre i metalli 9. L’interno si articolava in una serie di ambienti di dimensioni regolari che si aprivano su un vasto cortile centrale, richiamando in modo stringente, come si è ricordato, il frammento 680 della pianta marmorea severiana con la legenda MON 10. Un massiccio muro perimetrale in opera quadrata, che ben si addice ad una struttura che, per ovvi motivi, non si voleva fosse di facile accessibilità, delimitava una superficie agibile di circa m² 1900-2000 ripartiti tra i m² 800-900 del cortile e i circa 740 degli ambienti coperti. La presenza di un vano scala indica l’esistenza di un secondo piano, verosimilmente destinato ad uffici e archivi, che con- sentiva di raddoppiare la superficie coperta. I pavimenti, costituiti da semplici battuti o in cementizio, risultano coerenti con la destinazione d’uso di un edificio prettamente industriale, nonostante l’apparente monumentalità esterna suggerita non solo dall’adozione dell’opera quadrata, ma anche dai frammenti di un’iscrizione dedicatoria in lettere di bronzo della ipotetica lunghezza di oltre m 19, riconducibile, analogamente ad altre epigrafi, ad interventi traianei 11. Come abbiamo accennato, diversi indizi consentono di circoscrivere al periodo domizianeo, e in ogni caso all’età flavia, la cronologia dell’edificio 12 la cui costruzione sarebbe riconducibile al trasferimento delle attività di conio dal Campidoglio alla Regio III, dove ancora i Cataloghi Regionari collocano la Moneta 13. Anche alcune epigrafi rinvenute a più riprese tra il XVI e il XVIII secolo in prossimità di S. Clemente, con dediche di vari membri della familia monetalis, rendono plausibile la proposta che nell’area stessa, e in particolare nell’edificio rinvenuto sotto la basilica, si debba appunto riconoscere la sede della Moneta Caesaris, come viene nominata in una delle epigrafi traianee 14. Se questa interpretazione è ampiamente condivisibile nelle sue linee generali, più problematico appare determinare per quanto tempo la zecca di fondazione domizianea sia rimasta in funzione nell’edificio che è stato descritto. Coarelli, in considerazione del fatto che, intorno alla metà del IV secolo 15, sull’area della Moneta si fosse ormai insediata la basilica paleocristiana di S. Clemente, individua in quello stesso arco di tempo la fine delle attività monetali 16. In appoggio a questa cronologia – e, di fatto, anche all’identificazione del monumento – viene ricordata l’epigrafe di età costantiniana, 6 Tale ipotesi era stata inizialmente avanzata nell’ambito di uno studio sul complesso di S. Clemente (GUIDOBALDI 1978, p. 30 e nota 86), sulla base di un suggerimento di Emilio Rodríguez-Almeida (in seguito ripreso in RODRÍGUEZ- ALMEIDA 1981, pp. 63-65). Quest’ultimo aveva, infatti, notato la stretta analogia planimetrica tra l’edificio di età imperiale esistente sotto la più antica basilica clementina –solo allora rilevato integralmente (GUIDOBALDI 1978, tav. I) – e quello rappresentato nel frammento n. 680 della forma urbis severiana con la scritta lacunosa MON, facilmente integrabile come MON[ETA]. 7 COARELLI 1980, pp. 192-195; COARELLI 1994; COARELLI 1996, pp. 280-281; COARELLI 2013, pp. 168-181. 8 GUIDOBALDI 1978, pp. 17-35; GUIDOBALDI 1992, pp. 21-35, per la storia degli scavi; pp. 47-69 per la descrizione e l’analisi delle strutture. 9 Cfr. CIL VI, 42-44. 10 Cfr. supra, nota 6. 11 COARELLI 2013, pp. 149-184 (a p. 173 le ipotesi sulle possibili integrazioni dell’epigrafe dedicatoria traianea). Un primo studio dei frammenti dell’epigrafe, conservata per una lunghezza di m 2,41, è in LAWLOR 1992. Sulla familia monetalis, si veda anche BERNAREGGI 1974. 12 GUIDOBALDI 1992, p. 67; COARELLI 2013, p. 170. 13 VALENTINI, ZUCCHETTI 1940, pp. 95, 167. 14 Le varie epigrafi riconducibili alla Moneta sono riportate in LANCIANI 1907, p. 152 e COARELLI 1996, pp. 280-281. Lanciani, tuttavia, sulla base delle notizie relative al rinvenimento di alcune di queste, ad esempio CIL VI, 42-44 (databili al 115) e 791, preferì collocare la Moneta nell’area subito ad est di S. Clemente ma oltre l’attuale omonima piazza (LANCIANI 1896, tav. 30; GUIDOBALDI 1992, pp. 61-62, con ampia analisi della bibliografia precedente). 15 Questa data è stata proposta da Guidobaldi, pur se con inevitabili approssimazioni, in base all’analisi comparata delle fonti e delle strutture esistenti (GUIDOBALDI 1992, pp. 119-122 e 300-311). L’impianto dell’abside e la definitiva strutturazione della chiesa in forma di basilica absidata appartengono ad una fase di poco successiva, databile alla fine del IV - primi decenni del V secolo (ibidem, p. 156). 16 COARELLI 2013, p. 176. LA PRODUZIONE DELLA MONETA A ROMA TRA TARDA ANTICHITÀ E MEDIOEVO. NOTE SU ALCUNE QUESTIONI APERTE 215 in cui si nomina Valerius Pelagius v. e. proc. s(acrae) m(onetae) u(rbis) 17, che lo studioso ritiene proveniente «proprio dal quadriportico antistante alla chiesa» 18, ma la cui pertinenza al complesso di S. Clemente e alla Moneta, a suo tempo suggerita da Lanciani, appare piuttosto incerta 19. L’interpretazione di Coarelli – che ha suscitato largo interesse 20 – trova un ulteriore ostacolo, per quanto concerne i destini della struttura che ospitò la Moneta, nella presenza di una fase edilizia che precede l’installazione dell’edificio di culto cristiano e che appare caratterizzata da elementi architettonici e decorativi ben diversi rispetto a quelli che avevano qualificato l’edificio in opera quadrata, ma a carattere industriale, di età flavia. Questa nuova costruzione, databile alla seconda metà del III secolo 21, è stata rilevata e genericamente definita da Guidobaldi come ‘edificio del III secolo’, data la difficoltà di individuarne precisamente la funzione. Essa aveva utilizzato i muri in opera quadrata come fondazione e si era sviluppata in corrispondenza del livello del secondo piano domizianeo, distruggendolo completamente. I nuovi muri, in buona parte ancora esistenti, sono in laterizio e conservano, pur se soltanto nella parte inferiore, evidenti resti di intonaco decorato con affreschi che simulano un rivestimento a pannelli marmorei. La planimetria ricavata sulla base dei resti superstiti mostra un vastissimo ambiente rettangolare, circondato su tre lati da una sorta di largo corridoio sul quale si apre verso est, forse con un prospetto a pilastri. Sul lato sud un lungo muro continuo si apriva in fondo in una bifora o trifora a colonne 22. Se è vero che l’insolita planimetria finora delineata non facilita la comprensione della funzione del cosiddetto ‘edificio del III secolo’, è pur vero che quel che rimane della decorazione pittorica fa pensare ad un uso privato, sia abitativo che di rappresentanza, piuttosto che industriale 23. Ne consegue la difficoltà di fare proseguire le attività di conio nel nuovo edificio del III secolo fino al IV secolo inoltrato, cioè fino a quando si insediò in esso la prima ecclesia di S Clemente 24 o, detto altrimenti, di riconoscere la Moneta nell’edificio sottostante in opera quadrata, malgrado l’evidente somiglianza di quest’ultimo con quello indicato come tale nel frammento 680 della FUR. Un riesame dei dati archeologici e la parallela verifica di quelli numismatici possono tuttavia fornire gli elementi utili per circostanziare le fasi di vita e di abbandono delle strutture in esame. È dunque utile riportare l’attenzione sulle principali modifiche strutturali osservabili nell’edificio in opera quadrata. Un primo intervento che, malgrado il rialzamento del livello pavimentale di circa m 0,70, non dovrebbe aver avuto conseguenze di rilievo sulla sua destinazione d’uso è rappresentato dalla sostituzione dei pavimenti in cementizio con un nuovo rivestimento in opus spicatum. La posa in opera dei nuovi pavimenti potrebbe risalire sia ad una ristrutturazione traianea – suggerita dalle citate epigrafi del 115 e dalla grande epigrafe dedicatoria riutilizzata, in parte, come architrave della porta della basilica del XIII secolo 25 – sia, più probabilmente, sulla traccia di alcune emissioni con la legenda MONETA AVG S C; MONETA AVGVSTI S C; MON RESTITVTA S C, RESTITVT MON e RESTITVTOR MON S C, ad Alessandro Severo 26. CIL VI, 1145. COARELLI 2013, citazione a p. 176 e, per quanto riguarda l’epigrafe, p. 169. 19 Il Lanciani, sulla base di un’indicazione del Bianchini, considerò come frutto degli interventi condotti nel 1715 sia CIL VI, 1145 che CIL VI, 1146 ritenendole entrambe provenienti da S. Clemente e pertinenti alla Moneta (LANCIANI 1907, p. 152). In realtà, solo la seconda epigrafe, databile al 324-337, risulta effettivamente proveniente da S. Clemente («Rep. inter instaurandum titulum S. Clementis a. 1715») ma, è utile precisare, manca di riferimenti alla Moneta. Viceversa, per quanto riguarda CIL VI, 1145, databile al 312-324 che, come si è ricordato, tramanda una dedica a Costantino a cura di Valerius Pelagius, procurator s(acrae) m(onetae) u(rbis) una cum p(rae) p(ositis) et officinatoribus, il luogo esatto del rinvenimento non viene citato anche se si precisa che appartenne alla collezione del cardinale Alessandro Albani (nipote di Clemente XI, al quale si deve il rifacimento del quadriportico di S. Clemente nel 1715): cfr. CIL VI, Pars VIII, Fasc. 2, Addenda et corrigenda, con le indicazioni cronologiche; sul problema in generale cfr. GUIDOBALDI 1992, pp. 61-64, in particolare le note 95-98 dove si nota che gli scavi del 1715 interessarono oltre al quadriportico anche la strada antistante e gli accessi esterni. Cadono quindi i presupposti che, in base a CIL VI, 1145, avevano indotto a protrarre l’attività della Moneta nell’edificio in opera quadrata fino alla piena età costantiniana. Anche la diversa datazione suggerisce di non mettere in reciproca relazione i due documenti epigrafici. 20 BURNETT 2001, pp. 41-43 che accoglie l’ipotesi di Coarelli circa la continuità d’uso dell’edificio in opera quadrata fino al IV secolo; SERAFIN 2001, p. 31. 21 GUIDOBALDI 1978, pp. 52-64 e tav. IV; GUIDOBALDI 1992, pp. 97-116. 22 GUIDOBALDI 1978, tav. IV; GUIDOBALDI, LALLI, PAGANELLI et alii 2004. 23 GUIDOBALDI 1992, pp. 114-116. 24 Cfr. supra, nota 15. 25 Per questa ipotesi propende COARELLI 2013, pp. 172-175 che peraltro non esclude anche quella di un possibile intervento di Alessandro Severo (cfr. ibidem, nota 685). 26 BURNETT 2001, p. 42, citando RIC, IV, 2, nn. 586-589, p. 117 e 600-601, p. 118. RIC, IV, 2, pp. v-vii e 66-67 riconduce erroneamente queste legende a modifiche metrologiche. GUIDOBALDI 1992, p. 275 accenna ad una vasta ristrutturazione urbanistica della zona in età severiana. 17 18 216 ALESSIA ROVELLI Più decisivo appare un successivo intervento, avvenuto nell’ambito di una radicale trasformazione dell’area che portò all’innalzamento dei livelli di calpestio di oltre quattro metri. È a questa nuova quota, del resto, che è stato rinvenuto l’edificio databile alla seconda metà del III secolo che oblitera la precedente struttura in opera quadrata. Sembra molto probabile vedere nel totale interramento dell’edificio originario le conseguenze dei violenti scontri scoppiati durante la rivolta dei monetales del 270/271 27. Un riesame degli eventi – che avrebbero causato 7000 morti e, presumibilmente, rilevanti distruzioni – permette di precisare i destini della Moneta e conciliare le condivisibili argomentazioni di Guidobaldi riguardo al succedersi di fasi e destinazioni d’uso diverse, con l’identificazione del monumento difesa da Coarelli. Bisogna premettere che con Gallieno e, in seguito, Claudio II e Quintillo, i monetales (rimane incerto il ruolo del rationalis Felicissimus e del procurator monetae), approfittando anche della frequente assenza dell’imperatore dalla capitale, avevano dato vita ad una massiccia produzione di emissioni fraudolente. La zecca sembra aver funzionato in forma quasi autonoma, gonfiando la circolazione con una massa enorme di moneta di pessima qualità, ciò che avrebbe contribuito notevolmente alla crisi dell’antoniniano 28. Un primo tentativo di arginare il fenomeno si deve a Claudio II che iniziò col trasferire una parte delle maestranze a Milano, per poi sospendere ogni attività della zecca di Roma all’inizio del 270: non sono attestate emissioni successive a quella datata Tr P II del dicembre 268 - dicembre 269. La chiusura della zecca non arrestò, peraltro, il fenomeno delle emissioni fraudolente che raggiunsero volumi particolarmente elevati con quelle a nome di Claudio divus (costituiscono il 93% delle monete a suo nome nel tesoro de La Venera) sollevando, di conseguenza, il problema di stabilire la sede in cui furono coniate. La rilevante produzione di moneta fraudolenta spiega l’incisività dell’intervento di Aureliano – anche se il numero dei morti potrebbe avere valore retorico – e le drastiche misure adottate che portarono al trasferimento del restante personale specializzato nella nuova zecca di Serdica. A Roma la zecca fu riaperta solo nell’estate del 273, con emissioni inizialmente di modesto volume, frutto del lavoro di cinque e poi sei officine (rispetto alle dodici precedenti) 29. In definitiva, i dati numismatici appaiono coerenti con quelli archeologici che, malgrado la frammentarietà, indicano che nella seconda metà del III secolo l’edificio di tipo industriale, in cui è stata riconosciuta la Moneta di età flavia, convincentemente ricondotto al frammento della pianta marmorea, sia stato sostituito da un altro (che precede quello con pianta basilicale) le cui pareti affrescate e di buon livello qualitativo fanno pensare fosse destinato ad un uso diverso da quello di un’officina monetale. Le circostanze appena descritte suggeriscono che nel 273 la ripresa delle attività di coniazione, dopo alcuni anni di totale interruzione, abbia avuto luogo in ambienti e spazi diversi - anche se non lontani - dall’edificio domizianeo che alla fine del III secolo era stato ormai interrato e sostituito da una costruzione probabilmente di carattere privato, nella quale in seguito si inserirà il titulus Clementis. Al riguardo si può osservare che, poiché nell’edificio del III secolo, impostato sulla struttura domizianea ormai interrata, si inserirà una chiesa cristiana, esso difficilmente poteva essere ancora di carattere pubblico: sappiamo infatti che le chiese e in special modo i tituli come S. Clemente risultano installati, di norma, in aree o edifici di proprietà privata 30. A sostegno dell’ipotesi di una contiguità della Moneta domizianea con i nuovi spazi adibiti alla coniazione è la menzione della Moneta nei citati Cataloghi Regionari che la collocano nella Regio III, subito prima di Amphitheatrum e Ludus magnus 31, confermandone la presenza nei paraggi ancora nel IV secolo. In questa prospettiva potrebbe tornare d’attualità anche un’altra ipotesi avanzata da Federico Guidobaldi che, in base a Lanciani e ad una suggestione di Rodríguez-Almeida, e per ovviare ai problemi che la presenza dell’edificio di III sollevava in rapporto all’identificazione della Moneta, ha supposto che la Moneta occupasse più edifici, «magari anche del tutto analoghi» dal punto di vista strutturale, in alcuni dei quali continuò a funzionare la zecca anche dopo i massicci interventi causati dagli incidenti del 270 32. L’ipotesi è condivisa da GUIDOBALDI 1992, pp. 273-274; COA1994; BURNETT 2001; COARELLI 2013, p. 176. 28 CUBELLI 1992. 29 Ampia e aggiornata analisi in ESTIOT 2004, pp. 59-66. 30 GUIDOBALDI 1989, pp. 383-396. 31 VALENTINI, ZUCCHETTI 1940, pp. 95, 167. 32 GUIDOBALDI 1992, p. 65; RODRÍGUEZ ALMEIDA 1981, p. 65: «non sarebbe affatto sorprendente che il complesso occupasse diversi isolati»; contra COARELLI 2013, p. 179 che tende ad escludere la possibilità di spazi alternativi o annessi al corpo principale della Moneta e prolunga le attività di conio negli ambienti dell’edificio del III secolo fino all’installazione del luogo di culto cristiano. 27 RELLI LA PRODUZIONE DELLA MONETA A ROMA TRA TARDA ANTICHITÀ E MEDIOEVO. NOTE SU ALCUNE QUESTIONI APERTE 217 La menzione nei Cataloghi Regionari rimane la fonte più tarda relativa alla localizzazione della Moneta, in seguito siamo privi di elementi che ci consentano di individuare con precisione gli spazi ormai destinati alla zecca, salvo alcuni deboli indizi che potrebbero condurre ad un edificio non lontano dalla chiesa di S. Gregorio Magno, alle pendici del Palatino 33. Dobbiamo comunque considerare che le riforme avviate a partire dall’età tetrarchica, e proseguite nel corso del IV secolo 34, riorganizzarono profondamente l’attività delle zecche portando ad una effettiva separazione, non solo amministrativa, tra la zecca del comitatus alla quale era affidata l’emissione di moneta aurea e argentea, e quella publica preposta all’emissione del bronzo 35. È verosimile che questa riorganizzazione 36, congiunta all’evolversi delle emissioni di bronzo che tenderanno a tipologie piuttosto semplici e ripetitive, adatte ai tondelli di diametro ben più ridotto di quelli della piena età imperiale, abbia limitato la necessità di ampi spazi dedicati alla coniazione. Non si può dunque escludere che nel corso del IV secolo, se non già alla fine del III, la zecca di Roma sia diventata ‘mobile’, come sarà in età medievale e, riprendendo un’espressione di Burnett, ‘invisibile’, analogamente a quanto è stato sovente riscontrato per altre zecche di età imperiale 37. L’assenza di successivi richiami alla Moneta nella toponomastica del Celio (e, più in generale, di Roma) 38, richiami che invece troviamo, seppur non privi di elementi di incertezza, in altri casi come Milano 39 o Ravenna 40 potrebbe costituire un indizio in tal senso. Ho ricordato le caratteristiche architettoniche dell’edificio del Celio dato che, congiuntamente ad una serie di riferimenti nelle fonti scritte, sono state considerate un elemento utile per riconoscere nei resti di un edificio di grandi dimensioni, situato non lontano dall’area su cui insisteva il Palazzo di Teodorico, la sede della moneta aurea o moneta palatii ravennate. Altrettanto possiamo dire, tornando a Roma, sui resti di un grande edificio pubblico riconosciuto come l’Athenaeum di Adriano in cui è stato proposto di localizzare la zecca (nel nostro caso si tratterebbe della moneta publica) dopo gli interventi che, a partire dal VI secolo, ne modificarono profondamente la funzione trasformandolo in officina 41. A questa condivisibile ipotesi aggiungo solo qualche dettaglio tenendo presente i risultati delle analisi metallografiche da cui è possibile dedurre che vi si lavorassero essenzialmente leghe di rame compatibili con la produzione di monete e di oggetti minuti di varia natura. Lellia Cracco Ruggini, intervenendo al citato convegno di Milano, aveva accennato alla possibile contiguità tra generiche manifatture metallurgiche e quelle più propriamente rivolte alla coniazione 42. Dietro questa promiscuità c’era, ovviamente, una ragione economica poiché, come è noto, le attività di conio non avevano necessariamente carattere di continuità. Nei periodi in cui non si coniava moneta diventava dunque economicamente interessante utilizzare le attrezzature industriali della zecca per produzioni artigianali di diversa natura. Probabilmente, solo per la zecca imperiale del Celio possiamo pensare ad una attività esclusivamente rivolta alla produzione di moneta, dato che da essa dipendeva l’approvvigionamento monetario delle province occidentali, valutabile, secondo alcune stime del tutto indicative, in 40-50 milioni di monete l’anno, escluse le emissioni di bronzo 43. La possibile multifunzionalità spiega anche perché sia spesso difficile distinguere archeologicamente una zecca da una semplice fonderia. A Serdica, tracce di produzione monetaria sono state trovate presso il prefurnium di un edificio che era stato un impianto termale ma dove, verso la fine del III e gli inizi del IV secolo, furono assemblati oltre kg 181 di metallo in lega di rame suddivisi in 315 pezzi informi e di dimensioni variabili. Il principale indizio a favore dell’ipotesi che quegli ambienti fossero stati adibiti anche, se non solo, alla co- BURNETT 2001, p. 43, nota 19. 34 Su questo vastissimo tema rimangono testi di riferimento KENT 1956; HENDY 1972; HENDY 1985, pp. 371-447; DELMAIRE 1989, pp. 495-525. 35 KENT 1956, p. 201. 36 Con il trasferimento della corte, Roma, sede di una moneta publica, coniò prevalentemente bronzo anche se a volte, ad esempio durante i lunghi soggiorni di Valentiniano III, ci furono consistenti emissioni auree; sintesi sull’attività delle zecche in RIC, VI, 36-72 e 328-348 (Roma); RIC, VII, pp. 13-24 e 280-295 (Roma); RIC, VIII, pp. 234-247 (Roma); RIC, X, pp. 23-26 e 31-33 (Roma); GRIERSON, MAYS 1992, pp. 48-56; 65-66 (Roma). BURNETT 2001. La localizzazione del luogo detto Monetariis presso l’altare di Matidia, suggerita da DELMAIRE 1998, p. 507 sulla base della frammentaria citazione nell’editto di Tarracius Bassus del 374 (CIL VI, 31893 b) appare poco convincente data la notevole lacunosità del testo. 39 CHIARAVALLE 2001, pp. 247-250. 40 AUGENTI 2005; CIRELLI 2008, pp. 89-90; MORELLI, NOVARA 2007, pp. 163-166 e 177-179; MORELLI 2011, pp. 1052-1055. 41 Si veda la bibliografia citata supra, nota 5. 42 RUGGINI 2001, p. 170. 43 Sui volumi di emissione della zecca cfr. BURNETT 2001, p. 42. 33 37 38 218 ALESSIA ROVELLI niazione è costituito dal ritrovamento di 21 tondelli dal diametro e peso compatibili con emissioni coeve. Tenendo conto di questi aspetti, ritengo che, indipendentemente dalle eventuali similitudini architettoniche, le ipotesi avanzate sull’Athenaeum siano largamente condivisibili. Rimane comunque aperto il problema di localizzare la zecca ostrogota, almeno per quanto riguarda le emissioni auree e argentee 44. Altrettanto può dirsi per l’età bizantina quando, a partire dal regno di Eraclio, la rigida divisione di ruoli tra Ravenna e Roma si affievolì fino a scomparire a causa di una progressiva regionalizzazione che portò all’apertura di una zecca anche a Napoli 45. Rimanendo nel campo delle ipotesi, e sulla base di quanto è noto per Ravenna e Costantinopoli, il Palatino sarebbe il candidato favorito. Sia a Ravenna che a Costantinopoli, infatti, la moneta aurea risulta localizzata dentro o in prossimità del palazzo imperiale, in una netta separazione, sia funzionale che spaziale, dalla moneta publica, che a Costantinopoli era nella XII regio e a Ravenna presso una posterula delle mura urbiche 46. Per quanto riguarda il Palatino, sembra accertato che il nucleo centrale del palazzo imperiale, restaurato da Teodorico, continuò ad essere occupato. Le poche notizie relative al VII secolo concordano nell’indicare nella Domus augustana la residenza del duca bizantino 47. Certamente non mancavano spazi adatti all’impianto di una zecca dato che, come si è detto, non dobbiamo attenderci che l’imponenza della Moneta del Celio si ripeta. Piuttosto dobbiamo considerare che la moneta aurea era una zecca mobile, al seguito del comitatus che, verosimilmente, non necessitava di spazi particolari. Gli ampi volumi dell’edificio del Celio rimangono, con tutta probabilità, una caratteristica propria della zecca dell’Urbe nella piena età imperiale quando Roma coniava nei tre metalli e in volumi considerevoli. Come abbiamo già ricordato, Burnett ha parlato di ‘invisibilità’ delle zecche imperiali e della difficoltà di distinguerle da semplici forge. Difficoltà che si fa più acuta nell’alto medioevo in conseguenza dell’accentuata mobilità delle zecche regie, dei mutati ritmi di produzione che portarono a volumi di emissioni ben più ridotti da parte di monetieri che, per quanto teoricamente sottoposti al controllo regio, operavano in condizioni più assimilabili a quelle di singoli artigiani che di pubbliche maestranze. Quest’ultimo fenomeno è più visibile nell’Inghilterra anglo-sassone e nella Francia merovingia che in Italia, dove si nota la tendenza a fissare le officine monetarie in luoghi che mantengono, o perlomeno evocano, una funzione pubblica 48. Nel IX secolo, a Pavia come a Milano, la zecca era nella zona del foro romano e così è a Verona agli inizi del XII secolo, benché la proprietà dei locali non fosse necessariamente pubblica 49. La documentazione più antica relativa ad un edificio acquisito dallo stato per ospitarvi la zecca risale al 1164 quando a Genova il comune comprò l’hospitio di un giudice. Molte zecche, anche importanti, lavoravano in ambienti presi in affitto 50. È il caso della zecca ‘vagante’ di Bologna, attiva fin dal 1191, della quale sono noti numerosi traslochi. La prima sede sembra essere stata «in casa dei figli di Scannabecco». In seguito, all’inizio del XIII secolo la «domus monete» era parte di un nucleo di edifici affittati nel 1208, per la durata di 5 anni. Durante la signoria di Taddeo Pepoli (1337-1347) la zecca si sposta nelle vicinanze della chiesa di Santo Stefano. Poco dopo, negli anni della signoria viscontea, tra il 1350 e il 1366, ha sede «in casa di Galeotto de’ Bianchi», nella «cappella» di Santa Tecla. Nel 1377 si sposta in casa di Giacomo da Ignano. Potremmo continuare l’elenco di abitazioni private che ospitarono la zecca fino al 1577 quando il Senato acquistò due case «dove collocare stabilmente la zecca» 51. ‘Vagante’, fin dalle sue origini in età longobarda, fu anche la zecca di Lucca che tale continuò ad essere nel XIV secolo quando, dopo la morte di Castruccio, il Consiglio degli Anziani decise di dare in appalto a privati la sua gestione. Almeno in parte, i numerosi cambi di sede sono ora noti, e possiamo citarne alcuni esempi. 44 Per un profilo delle emissioni ostrogote, cfr. MEC, pp. 33-37 e 430-434; METLICH 2004, pp. 11-46; ARSLAN 2011, pp. 370-386. 45 In età ostrogota, infatti, erano parzialmente caduti i motivi che avevano portato a distinguere la moneta aurea da quella publica, motivi che torneranno in vigore con la Pragmatica Sanctio. Giustiniano riportò a Ravenna, sede della prefettura, la moneta aurea, lasciando a Roma il compito di approvvigionare di moneta di bronzo l’Italia suburbicaria: cfr. HENDY 1985, pp. 395-401; HENDY 1988, pp. 41-45. 46 MORRISSON 2001, pp. 49-58 e bibliografia citata alla nota 34. AUGENTI 1996, pp. 118-119. Su questi temi, sotto diverse angolazioni, cfr. LOPEZ 1953, pp. 1-43; MEC, pp. 97-102 e 158-159; BOMPAIRE, DUMAS 2000, p. 385; METCALF 2001, p. 60; NAISMITH 2012, pp. 128-155; recenti sintesi sull’Italia in ANTONUCCI 2011a, p. 313; ARSLAN 2011, pp. 394-396. 49 CHIARAVALLE 2001, pp. 247-249; ANTONUCCI 2011a, pp. 312315. 50 SPUFFORD 1988, p. 21; TRAVAINI 2001b, p. 71. 51 BELLOCCHI 2001, pp. 255-258. 47 48 LA PRODUZIONE DELLA MONETA A ROMA TRA TARDA ANTICHITÀ E MEDIOEVO. NOTE SU ALCUNE QUESTIONI APERTE 219 Nel 1345 la zecca era in contrada S. Petri Cigoli; nel 1372 risulta «in loco dicto Arestano»; solo due anni dopo, nel 1374 sembra trasferita nella bottega di Labruccio di Gilio Cerlotti, incisore dei coni. Nel 1387 si trova nella contrada «s. Dalmatii». La zecca continua ad essere gestita da privati anche sotto la signoria di Paolo Guinigi. Solo dopo la sua caduta la zecca troverà una sistemazione stabile in quella che era stata una torre del palazzo dell’Augusta 52. Anche a Roma le sedi della zecca furono molteplici e il loro susseguirsi, a partire dalla fine del XIV secolo, è ormai sufficientemente noto. Alla fine del ‘300, stando ad alcune fonti del XV e del XVI secolo, la zecca sembra essere stata ai piedi del Campidoglio, nei pressi dell’arco di Settimio Severo e della chiesa di Sant’Adriano, ovvero della Curia. Nel 1431 Eugenio IV progetta di trasferirla in Vaticano presso la «campanaria turris». I lavori continuano con il successore Niccolò V (14471455), e si ha notizia del pagamento di una parte dei lavori nel 1453. Tuttavia sembra che quei locali non siano mai stati utilizzati, e si ha viceversa notizia di continui trasferimenti. Non di rado, infatti, in occasione della stipula di un nuovo appalto (di norma ogni 5 anni) il titolare la trasferiva nella propria casa, o negli immediati dintorni. Negli anni del breve pontificato di Callisto III (1455-1458) la zecca era in un palazzo lungo l’attuale via dei Banchi Vecchi, residenza del cardinale Roderigo Borgia, futuro Alessandro VI. In alcuni casi gli spostamenti appaiono particolarmente ravvicinati, come durante il pontificato di Paolo II (1464-1471) quando sono note due diverse sedi. Tra il 1467 e il 1468 la zecca fu ospitata nella casa di un tale Giovanni Antonio de Rubeis, nel rione Pigna. A costui la Camera Apostolica pagava le spese per l’affitto della casa medesima. Intorno al 1471 l’officina monetaria risulta in un palazzetto nella piazza di ponte Sant’Angelo; nel 1502 è di nuovo nelle vicinanze del Palazzo Borgia 53. Se poniamo attenzione alle attrezzature necessarie al funzionamento di una zecca, prima della diffusione di procedimenti meccanici, si comprende meglio la frequente mobilità che abbiamo appena descritto. Alcuni inventari, ad esempio quelli relativi a Bologna, sono una fonte preziosa 54. Poco, e di età più recente, si è conservato per Roma 55, ma non c’è motivo di ritenere che le attrezzature utilizzate a Roma fossero sostanzialmente diverse da quelle attestate a Bologna, soprattutto se consideriamo che i monetieri erano spesso itineranti. Tra gli inventari bolognesi, quello datato al 14 maggio 1200 è particolarmente interessante per la sua precocità e per la precisione della descrizione anche se, probabilmente, vi troviamo elencati solo gli oggetti di proprietà pubblica e non quelli in possesso del monetiere. Tra questi si annoverano spesso i fornelli, di ferro e trasportabili, usati per fondere o scaldare i metalli. È probabile che anche le bilance non fossero di proprietà pubblica, non essendo menzionate nell’inventario. Ne esistevano di diversa portata. Quelle medie, comunque molto precise, servivano per pesare i metalli che i privati portavano in zecca per trasformarli in moneta, o anche per pesare i metalli in modo da ottenere la lega stabilita. Bilance più piccole erano usate dagli aggiustatori per regolare il peso dei tondelli. Soffermiamoci ora su alcune delle attrezzature menzionate nell’inventario in questione: 230 torselli cioè punzoni, 42 libbre di ferro, 8 manici di padella, 1 pentola di rame piena di ferro, 10 cesoie, 2 crogioli di ferro per fondere, 2 manici per crogioli, 1 tenaglia, 2 lime, 1 martello, 4 piccoli magli, 2 recipienti per imbiancare le monete, 1 grande recipiente di rame, 3 boccali contenenti 7 libbre di rame, 4 padelle, 25 libbre di piombo, 1 piccolo mantice, 1 cassa che conteneva quanto sopra elencato, 1 lastra di pietra, 1 tavola grande con 2 treppiedi, 42 assi da operaio o da monetiere con cui venivano allestiti i banchi per le operazioni di conio 56. I banchi erano dunque smontabili. Il libro della zecca di Firenze ci trasmette un inventario del 1353: casse con serrature, cesoie, martelli, 4 padelle di rame (di cui una rotta), 91 crogioli grandi e 81 medi, 1 materasso, alcune lampade ad olio. Nel 1356 vengono minuziosamente annotate le spese per la riparazione del secchio del pozzo annesso alla zecca e per la pulizia della pietra di paragone utilizzata per testare i fiorini d’oro 57. Senza voler minimizzare un’attività che richiedeva indubbie competenze tecniche e che, con tutta probabilità, aveva ripercussioni di vario genere rispetto alle aree vicine (è ben nota la lettera inviata nel 1350 dal sindaco di Barcellona al maestro della zecca, che aveva VANNI 2001, pp. 219-234. TRAVAINI 2001b, p. 73; ANTONUCCI 2011b, p. 1097. 54 CHIMIENTI 2001, pp. 259-279. 55 ANTONUCCI 2011c, p. 1108. 56 CHIMIENTI 2001, pp. 266-267. Agli strumenti citati nella tra- slitterazione italiana proposta dall’autore, si aggiungono i seguenti di più incerta identificazione: «2 talliatorios (grandi cesoie per tagliare le lastre?)», «3 beccorali (?)», «4 ferittos (piccoli attrezzi di ferro?)». 57 TRAVAINI 2011b, p. 65. 52 53 220 ALESSIA ROVELLI comprato una casa in una zona residenziale e centrale della città per trasferirvi la zecca, invitandolo a desistere dato che il rumore avrebbe disturbato gli abitanti del quartiere) 58, appare chiaro che la produzione di moneta poteva avvenire in spazi attrezzati piuttosto facilmente. A Napoli, nel 1278, per coniare la moneta introdotta dalla riforma monetaria fu allestita un’officina nelle cucine di Castel Capuano. Nel 1317 la zecca di Treviso fu data in appalto a un tintore che coniò a casa 59. Zecche clandestine, che facevano uso di strumenti del tutto analoghi a quelli delle zecche ufficiali, furono impiantate nei luoghi più disparati; nella diocesi di Lucca, nel 1233, persino in una chiesa 60. Tenendo conto anche di questo aspetto, cioè della relativa facilità a mettere insieme il necessario per coniare moneta, la chiusura della zecca di Roma protrattasi per ben due secoli tra la seconda metà del X secolo e la seconda metà del XII appare un problema di difficile soluzione tanto più se tentiamo di spiegare il fenomeno monetario nel vitale quadro economico della città descritto da Chris Wickham 61. Si tratta infatti dell’unica cesura di tale durata nella storia della zecca di Roma dall’età repubblicana ad oggi. In altra sede ho ipotizzato una duplice spiegazione alla rarità dei rinvenimenti numismatici negli scavi italiani, Roma compresa, tra l’VIII e la seconda metà del XII secolo. In sostanza, per quanto riguarda il periodo carolingio, la causa andrebbe cercata nella fragilità economica che rallentava la circolazione di una massa monetaria scarsa, coniata in un numero ridotto di zecche e costituita da un solo nominale 62. Nel periodo successivo, più propriamente tra la seconda metà del X secolo e la prima metà del XII, la rarefatta circolazione monetaria potrebbe trovare una parziale spiegazione nell’incapacità delle zecche di fare fronte in modo adeguato, anche a causa di una ancora insufficiente disponibilità di metallo monetabile, alla crescente richiesta di numerario in un’economia in rapida espansione. Nel corso del XII secolo, gli sviluppi dell’attività mineraria e la nascita di nuove zecche portarono ad un ra- pido incremento della massa monetaria chiaramente percepibile nelle stratigrafie come nelle fonti 63. Anche partendo dal presupposto che Roma sia stata un caso a sé, è chiaro che le ipotesi tratteggiate mal si conciliano con la chiusura della zecca proprio nel momento in cui avrebbe potuto essere approvvigionata facilmente. Apparentemente a Roma circolava una quantità di moneta giudicata considerevole, che affluiva in città grazie ai pellegrini, molti dei quali eminenti, o grazie alla locale prosperità commerciale. Nelle fonti romane, sottolinea Wickham, non si riscontra il ripetersi di prezzi in moneta sostitutiva, cioè in res valentes che sono invece la norma nelle carte notarili laziali e in quelle di ampie regioni dell’Italia centrale fino appunto alla seconda metà del XII secolo 64. Le tracce concrete di questa circolazione nell’economia cittadina sono al momento rarefatte, come lo stesso Wickham osserva, con l’unica eccezione dei materiali rinvenuti negli scavi della Confessione di S. Pietro 65 che, tuttavia, è un deposito votivo e come tale va interpretato. Non metto in discussione la ricostruzione dell’economia urbana tratteggiata da Chris Wickham, ma la soluzione numismatica che propone lascia perplessi, per una serie di ragioni. Immaginare che la diffusa presenza di moneta straniera abbia reso inutile la produzione di moneta locale, al punto da chiudere la zecca, porta a trascurare il guadagno che il diritto di conio assicurava all’autorità emittente; guadagno che è stato valutato, per le zecche carolinge, intorno al 10% 66. Tuttavia l’aspetto più problematico è rappresentato dall’ipotesi che l’argento affluito a Roma sotto le più svariate forme, ivi comprese le monete dei pellegrini, venisse trasformato in lingotti (di che peso e dimensione?) per essere così reinserito nel circuito cittadino 67. L’ipotesi nasce in parte dal materiale inedito della Confessione di S. Pietro, in corso di studio da parte di un’équipe coordinata da Ermanno Arslan. Si tratta di un cospicuo numero di esemplari che Serafini non classificò perché spesso ridotti in frammenti o comunque in cattivo stato di conservazione 68. È utile notare che il materiale frammentato sia in massima parte proveniente ANTONUCCI 2011a, pp. 309-320; CRUSAFONT I SABATER 1989, p. 24, citato in TRAVAINI 2001c, p. 11. 59 TRAVAINI 2011b, pp. 65-70. 60 CONCIONI 1995, p. 47, citato in TRAVAINI 2001, p. 11, nota 16. 61 WICKHAM 2013, pp. 145-220. 62 ROVELLI 2009a; ROVELLI 2009b, ora in ROVELLI 2012a, nn. VII, XV; ROVELLI 2012b. 63 ROVELLI 2009c, ora in ROVELLI 2012a, n. IX; ROVELLI 2010. 64 WICKHAM 2013, p. 210. Sui pagamenti risolti in res valentes in area laziale, cfr. ROVELLI 1993, pp. 341-349 e ROVELLI 2009c; su posizioni diverse, e con riferimento alla regione di Casauria, cfr. FELLER 1998a, pp. 361-378 e FELLER 1998b, pp. 61-75. 65 SERAFINI 1951. 66 BOMPAIRE 1993, p. 120; NELSON 1995, p. 397. 67 WICKHAM 2013, pp. 214-215. 68 Ringrazio Ermanno Arslan per avermi coinvolta nella ricerca e per aver reso disponibili i dati. 58 LA PRODUZIONE DELLA MONETA A ROMA TRA TARDA ANTICHITÀ E MEDIOEVO. NOTE SU ALCUNE QUESTIONI APERTE dall’Europa settentrionale dove ne era ammessa la circolazione 69. Sotto il profilo giuridico, questa moneta ‘mutilata’ non è più una moneta stricto sensu, deve infatti essere pesata ad ogni passaggio di mano. In breve, è già un piccolo lingotto che, date le dimensioni, avrebbe avuto il vantaggio di fornire quella moneta divisionaria ancora assente nel sistema del denaro di origine carolingia. Fondere questo materiale per farne altri lingotti invece che nuova moneta (abbiamo visto che era piuttosto semplice organizzare una zecca) mi sembra un’operazione non funzionale al contesto economico romano che, inoltre, privava l’autorità emittente non solo dei vantaggi economici derivanti dai diritti di conio, ma anche di quel formidabile strumento di prestigio che è la moneta, uno strumento che i papi hanno dimostrato di saper usare con notevole cognizione di causa fin dalle emissioni di frazioni argentee della fine del VII secolo con il monogramma papale 70. La chiusura della zecca di Roma tra il X e il XII secolo rimane dunque un problema complesso, di difficile soluzione, un vero e proprio busillis in attesa di risposta. Bibliografia ANTONUCCI 2011a = M. ANTONUCCI, Le sedi delle zecche italiane, in TRAVAINI 2011 a, pp. 309-320. ANTONUCCI 2011b = M. ANTONUCCI, s.v. Roma, sede, in TRAVAINI 2011 a, pp. 1097-1100. ANTONUCCI 2011c = M. ANTONUCCI, s.v. 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Crisi e sta LA PRODUZIONE DEL VETRO A ROMA: CONTINUITÀ E DISCONTINUITÀ FRA TARDOANTICO E ALTOMEDIOEVO Lucia Saguì, Barbara Lepri Per affrontare il discorso sulla produzione vetraria a Roma fra la tarda antichità e il primo medioevo in una prospettiva più ampia è necessario da un lato conoscere i dati acquisiti in questo ambito cronologico attraverso gli studi che vedono all’avanguardia altri paesi, dall’altro chiarire alcune questioni di metodo. È fondamentale tenere presente in primo luogo che, come in altri settori artigianali, la produzione del vetro nel periodo che qui ci interessa avveniva secondo un modello tecnologico che differenziava nettamente l’aspetto della realizzazione della materia prima da quello della realizzazione degli oggetti. Pochi centri, definiti primari, producevano vetro partendo dalla sabbia (silice e carbonato di calcio), per la quale era particolarmente adatta e famosa quella presente sulle coste siropalestinesi, e dal fondente minerale (natron=carbonato di sodio) estratto principalmente dai piccoli laghi egiziani del Wādi el-Natrūn 1. Molti centri, definiti secondari, rifondevano questo semilavorato ricavandone oggetti. È questo il modello prevalente e del resto coerente, ormai ben noto agli studiosi del vetro antico, che possiamo desumere dalle scoperte archeologiche degli ultimi 20 anni e dalle analisi archeometriche che da queste scoperte hanno preso il via 2. Dopo una fase di transizione e di sperimentazione il sistema crolla fra il IX e il X secolo, quando scompaiono la predominanza del fondente minerale e il trasporto a lunga distanza del materiale grezzo. Ciò determina un sostanziale cambiamento nell’intera catena operativa della produzione 3. Nella cessazione degli arrivi di vetro grezzo dall’Oriente bisogna vedere un segno del declino del grande commercio marittimo; nello stesso periodo il fondente minerale egiziano, non più disponibile per una serie di motivi sui quali ancora si discute 4, viene sostituito da un fondente a base di ceneri vegetali, ricavate da piante diffuse in ambiti geografici diversi; tende quindi a scomparire la separazione tra atelier primari e secondari, perché i forni si strutturano per portare avanti l’intero ciclo produttivo. Nei primi secoli che vedono questo cambiamento il sistema si fa complesso ed è ancora poco noto: possiamo dire che la riorganizzazione non avviene in breve tempo e nei primi secoli del medioevo sembra di intuire una situazione di autarchia, di tentativi, di sperimentazioni da parte degli artigiani, che si traducono nella coesistenza di una varietà di ricette e nel ricorso esasperato al riciclo. Vedremo che cosa si può dire a proposito di questo periodo per quanto riguarda Roma, sulla base delle nostre testimonianze. Questa comunque è la parabola da tenere presente per sostanziare i nostri discorsi. Quali sono i centri primari finora noti dalle testimonianze archeologiche nell’ambito del primo millen- 1 Sulle caratteristiche della sabbia siliceo-calcarea e sulle possibili fonti di approvvigionamento, oltre quelle della costa siro-palestinese, si veda HENDERSON 2013, pp. 56-64; sulle caratteristiche del natron e sulle possibili fonti di approvvigionamento, oltre quella egiziana, che sembra tuttavia la più importante, ibidem, pp. 51-53; SHORTLAND, SCHACHNER, FREESTONE et alii 2006. 2 HENDERSON 2013, in particolare pp. 92-97; NENNA 2008, con bibliografia. 3 HENDERSON 2013, pp. 97-103. 4 La produzione di natron sarebbe stata considerevolmente ridotta da un aumento della piovosità che avrebbe colpito, intorno all’VIII secolo, alcune regioni del Sahara (FOY, NENNA 2001, p. 26). Una diversa ipotesi attribuisce il colpo di grazia nei confronti di una tradizione più che millenaria alla sanguinosa guerra civile ventennale scatenatasi in Egitto nell’811, dopo la morte del califfo Abbaside Hārūn al-Rashīd, che per ben 11 anni vide il porto di Alessandria tagliato fuori da ogni contatto con i vetrai levantini (WHITEHOUSE 2002). In effetti, se i cambiamenti climatici non sembrano giustificare la crisi del natron, a determinarla avrebbero contribuito in primo luogo gli eventi militari e politici che tra VII e IX secolo sconvolsero l’area del Delta e le regioni vicine, come è ben messo in luce da SHORTLAND, SCHACHNER, FREESTONE et alii 2006. 226 LUCIA SAGUÌ, BARBARA LEPRI nio? I più antichi, risalenti al I-II secolo d.C., si trovano in Egitto; più recenti e molto numerosi sono quelli rinvenuti in area siro-palestinese, datati dall’età tardoantica all’epoca islamica (IX-X secolo) 5. Si tratta di forni a vasca, rettangolari, di grandi dimensioni, capaci di produrre diverse tonnellate di vetro nel ciclo fusorio, il cui funzionamento, va sottolineato, implica una straordinaria capacità nella Fig. 1. - Ricostruzione di un forno da vetro tardoantico in base ai dati della Crypta Balbi (da SAGUÌ 2007, gestione dei processi di p. 219, fig. 4). combustione. Una volta primo luogo alla presenza di forni, ma anche di resti di pronto il vetro, il forno veniva raffreddato e demolito; lavorazione e di crogioli. Nonostante il numero delle le masse di vetro erano spaccate e avviate ai centri seofficine vetrarie sia in continuo aumento, la percezione condari. Il commercio legato all’esportazione del vetro rispetto a questo artigianato è tuttavia ancora insoddisemilavorato verso i centri secondari fu dunque molto sfacente e il divario nei confronti delle altre arti del fuoco intenso nell’antichità, come testimoniano i carichi dei è grande. La presenza di un luogo di lavorazione non è relitti, nei quali il vetro grezzo doveva viaggiare come 6 sempre facile da identificare, perché rispetto alle attizavorra , e i sempre più numerosi ritrovamenti nei convità legate alla ceramica e alla metallurgia le tracce sono testi archeologici di pezzi di vetro informi, risultanti dalla più labili e gli scarti in genere meno consistenti. Le cause spaccatura delle grandi masse che riempivano i forni principali sono le piccole dimensioni delle strutture proprimari. Questi ritrovamenti sono sempre più numerosi duttive e il ricorso al riciclo che, alimentato da circuiti perché ora la ricerca archeologica è più attenta: tuttaben organizzati, sembra divenire più intenso, come abvia, come diremo a proposito degli indicatori di probiamo accennato, a partire dall’età tardoantica. Posduzione, un esemplare isolato di vetro grezzo non è siamo aggiungere che la distinzione tra crogioli ovviamente sufficiente a denunciare la presenza di vetrificati in seguito alla lavorazione del vetro o della un’attività vetraria. metallurgia non è sempre chiara. Dove sono i centri secondari e quali sono le caratQuali sono le caratteristiche dei forni dei centri seteristiche dei loro forni? condari e, soprattutto, quali sono le loro dimensioni? Si Le officine secondarie note sono ormai moltissime tratta di strutture molto modeste, se confrontate con i e sono distribuite in tutte le province dell’impero. Solo forni per ceramica (fig. 1) 8. In genere la pianta è cirin Francia, la regione più studiata anche per questo colare e il diametro è inferiore a 1 metro: la parte più aspetto, fino al 2010 era stato identificato un centinaio bassa, che può essere scavata nel terreno, ospita la cadi atelier, dei quali circa 40 appartenenti al periodo 7 mera di combustione, mentre la parte superiore costicompreso tra IV e VII secolo, solo 5 ai secoli VIII-IX . tuisce la camera di fusione 9; le dimensioni ridotte sono Per siti di atelier intendiamo siti identificati grazie in NENNA 2008; NENNA 2012. Per un censimento dei depositi portuali e dei relitti che testimoniano il commercio di vetro grezzo, oltre a quello del materiale da riciclare e dei prodotti finiti, si vedano FOY, NENNA 2001, pp. 101-112; FONTAINE, FOY 2007; RADIĆ ROSSI 2012. 7 FOY 2010a, pp. 31-32, fig. 18. 8 Per un quadro esauriente sulla struttura dei forni e sulle carat5 6 teristiche degli atelier secondari in area francese, dall’età preromana all’VIII-IX secolo, si veda FOY, NENNA 2001, pp. 40-66. 9 Sono note anche strutture di forma rettangolare, ad un solo livello (FOY 2010a, p. 31 e nota 26), ma si discute ancora sulla loro funzione nell’ambito del ciclo produttivo: alcuni studiosi ipotizzano che si trattasse di forni per la ‘ricottura’, cioè per il raffreddamento graduale degli oggetti finiti, necessario ad evitare rotture. Per una diversa interpretazione e per una sintesi della bibliografia in proposito si rimanda a LEPRI, SAGUÌ c.s. LA PRODUZIONE DEL VETRO A ROMA: CONTINUITÀ E DISCONTINUITÀ FRA TARDOANTICO E ALTOMEDIOEVO 227 dovute al fatto che la loro funzione consisteva semplicemente nella rifusione del vetro, come abbiamo accennato, e al consumo di combustibile contenuto. Per una lavorazione di questo tipo erano sufficienti pochissime persone (un solo artigiano lavorava a diretto contatto con la fornace) e spazi ridotti. Va sottolineata la continuità di forni di questo tipo: dal I secolo d.C., quando si diffonde l’uso del vetro soffiato, strutture e modi di produzione arcaici sopravvivono ancora, seppure ormai in via di estinzione, in alcuni paesi orientali, come dimostrano gli studi etnoarcheologici 10. Tutto sommato, dunque, non è possibile confrontare la produzione del vetro con quella della ceramica: niente ci fa pensare ad un’organizzazione su vasta scala di quel tipo. Di produzione a larga scala si può forse parlare, però, a proposito della capacità produttiva di un vetraio che, stando ai confronti etnografici, avrebbe potuto realizzare più o meno 100 recipienti al giorno, dunque, tenendo conto dei fermi stagionali, 11.000 ogni anno e 330.000 in 30 anni di lavoro 11, se era tanto fortunato da vivere abbastanza facendo quel tipo di lavoro. Anche il luogo comune secondo il quale la diffusione della soffiatura avrebbe reso il vetro un prodotto accessibile a tutti va probabilmente corretto, almeno per quanto riguarda i secoli successivi alla media età imperiale. Lo studio dell’Edictum de pretiis, una delle poche fonti disponibili sul vetro, indica che il prezzo massimo dei recipienti non decorati, che al contrario di quelli decorati si vendevano a peso, come avviene ancora nei luoghi in cui sussistono modi di produzione primitivi, era superiore, ad esempio, a quello dei contenitori ceramici; il costo del vetro grezzo era, inoltre, molto alto in rapporto a quello dei prodotti finiti: ciò spiegherebbe il ricorso sempre più frequente al riciclo, il solo modo che potesse consentire un guadagno per l’artigiano 12. a b Fig. 2, a-b. - Distribuzione dei siti che hanno restituito testimonianze di indicatori e di attività produttive databili tra la tarda antichità e l’alto medioevo in Italia. La pianta di Roma nella tarda antichità è rielaborata da MENEGHINI, SANTANGELI VALENZANI 2001, pp. 22-23, fig. 1. 10 Si vedano, ad esempio, STERN 1999, pp. 451452, con bibliografia alla nota 40; FISCHER 2008. 11 STERN 1999, p. 456; v. anche FISCHER 2008, pp. 88 ss. 12 STERN 1999, pp. 460 ss. Cronologia attività vetraria Tipologia rinvenimento e indicatori di produzione V-VI Forno; provini, gocce, filamenti, masserelle, scorie scure spugnose Trento, via Rosmini-piazza Bellesini Età tardoantica (entro il VI) Forno, laterizi con colature vetrose; gocce, filamenti, scorie Altre attività produttive Aree di fuoco dalla funzione incerta Ambiente destinato ad accogliere una o più attività artigianali non determinabili Attività artigianali su piccola scala (metalli, osso, granati) Posizione topografica e spazio occupato Bibliografia U Ambiente riutilizzato come officina CAVADA, ENDRIZZI 1998, pp. 173-178 U Villa con ambienti termali (a ridosso della cinta muraria) CAVADA, ENDRIZZI 1998, pp. 175, 178-179 Insediam. fortificato Insediamento fortificato con funzione militare MAURINA, FIORETTI, ZANDONAI 2013 U Rioccupazione dello spazio di una domus (insediamento longobardo su impianto romano) UBOLDI 1999, pp. 305-307 VI-VII Grumi e colature di vetro (VI-VII); 2 mezzi pani (forse medievali) Brescia, S.Giulia Fine VI-VII Crogioli in pietra con resti di vetro, masse di vetro staccate dai crogioli, pane di vetro a calotta, provini, gocce, colature, ritagli, masse spugnose Leno (BS), Campi S.Giovanni Età tardoantica (entro il VII) Pozzetti circolari con pareti concotte; frr. di pietra ollare con colature vetrose, gocce _ R _ BREDA 1992-93 Como Età tardoantica Frr. di vetro grezzo, alcuni con resti di materiale refrattario interpretati come parte di crogioli Metallo (crogioli con tracce di bronzo) U Ambienti di età romana riutilizzati (a ridosso della cinta muraria, presso la Porta Praetoria) NOBILE DE AGOSTINI 2008 Garlasco (PV) Età tardoantica-altomedievale Fossa di scarico con materiali eterogenei, tra i quali frr. in pietra ollare con tracce di invetriatura, provino, scoria vetrosa _ R _ INVERNIZZI, SAVOIA, FACCIOLI et al. 1996 Verona Età tardoantica-altomedievale Crogioli, frr. di vetro grezzo, provino, ritagli _ U Complesso capitolino abbandonato ROFFIA 2008, in particolare pp. 497, 514-515; GIUMLIA-MAIR 2008 Invillino (UD) IV/V-VI 4 forni dei quali uno rettangolare; frr. di pietra ollare forse usati come crogioli, frr. di vetro grezzo, scarti di lavorazione Metallo, ceramica (?) R Area centrale del sito (insediamento trasformato in castrum nel VI secolo) CECCHINI 2008 Sevegliano (UD) Metà IV-V Fossa riempita da ceneri e carboni con frr. deformati dal fuoco, grumi e gocciolature, frr. con difetti di lavorazione (potrebbe trattarsi di un eposodio di incendio) _ R _ TERMINI STORTI 1994; BUORA 1998 Grado, Episcopio (GO) Dalla seconda metà V 2 piccoli forni rettangolari con colature vetrose; "scoria di lavorazione", oggetti mal riusciti o pronti per essere rifusi _ Castrum bizantino Officina legata alla chiesa di S.Eufemia? LOPREATO 1988, p. 329; MALAGUTI, RIAVEZ, ASOLATI et al. 2007, pp. 6869, 80-82 Aquileia, Fondo Comelli (UD) Età tardoantica Frr. di crogioli, colature, scarti di lavorazione Bronzo e ferro U Area urbana a ridosso delle mura bizantine BUORA, MANDRUZZATO, VERITA' 2009, pp. 53-54 Torcello (VE) IX-X 4 forni; crogioli in pietra ollare, scarti di vario tipo _ Insediam. bizantino _ LECIEJEWICZ, TABACZY SKA, TABACZY SKI 1977, p. 89 ss.; LECIEJEWICZ 2000; VERITA', ZECCHIN 2005 Comacchio (FE) Seconda metà VII Insediam. produtt. e commerc. Officina allestita per la lavorazione del metallo e del vetro (non si esclude che l'ultima fase produttiva dell'officina vetraria sia in relazione con il cantiere della chiesa) GELICHI 2009, pp. 12, 30-35 Ferrara VIII-XII Ferro (scorie dalla capanna forse di un fabbro) Forno circolare per la lavorazione del metallo riutilizzato per il vetro; crogioli in pietra ollare, La lavorazione del ferro sembra colletti, provini, gocce, ritagli, mestolo in metallo vetrificato precedere quella del vetro Frr. di crogioli con vetro aderente, scarti di lavorazione _ _ _ VERITA', TONINATO 1991 ORTALLI 2000; POLI 2000 CIRELLI, TONTINI 2010 Calderara di Reno (BO), Cave Nord V-metà VI Crogioli, frr. di vetro grezzo, "fritte", scarti di lavorazione Scorie ferrose, gocciolature e residui di piombo R Edificio rustico di età romana riutilizzato per attività artigianali (l'officina era forse dipendente da una grande villa non lontana) Classe (RA) Metà V-VII Forno; colletti, frr. di vetro grezzo, provini, colature, ritagli _ U Strutture su precedente villa romana poi comprese nello spazio portuale Ventimiglia (IM) VI-VII Crogiolo con vetrificazione interna, frr. di vetro grezzo, "alcuni stadi di lavorazione (del vetro)" _ U Interri dell'aditus orientale del teatro (a ridosso della cinta muraria) GANDOLFI 1986, p. 297 Luni (SP) Età tardoantica-altomedievale Frr. di crogioli con superficie interna vetrificata e colature _ U Area del Foro ROFFIA 1973, coll. 463-464, 482 U Pubblico: terme di età adrianea, cadute in disuso nella seconda metà del IV secolo (a ridosso della cinta muraria) DE MARINIS 1991 Pubblico: terme di un insediamento interpretato come vicus con funzione di mansio della via Cassia VALENTI 2012 Firenze, piazza della Signoria S.Cristina in Caio (SI) Aiano-Torraccia di Chiusi (SI) Fornace per laterizi, forse anche Rubefazione del pavimento, laterizi deformati e coperti da strato vetroso; frr. di vetro Post seconda metà IV-VII/primi grezzo, provino, scarti di lavorazione, scorie di fusione, colature, masse di vetro, alcune delle tracce di lavorazione di bronzo e decenni VIII ferro quali sembrano conservare la forma del fondo del crogiolo Prima metà V VI-VII Forno Piombo (forno) R Forno; riciclo di tessere musive e di recipienti vitrei Piombo, ferro, ceramica (con fornace), bronzo, oreficeria R Villa romana rioccupata CAVALIERI 2011 KING, POTTER 2008, pp. 295-296 Metà IV-metà VI Deposito di frr. di vetro probabilmente da riciclare Metallo, calce, osso, lana, pellame R Villa con impianto termale rioccupata da una comunità di villaggio gravitante forse intorno ad una piccola chiesa Roma, S.Giovanni in Laterano II-III secolo (Santa Maria Scrinari); età tardoantica (revisione del materiale) Forno non meglio descritto; cumuli di cenere e carbone; "vasi di coccio con strati di pasta vitrea semicotta e spesso tagliata per il ricavo di tessere per mosaico" (l'insieme è definito "bottega del vetraio". Sulla base della revisione del materiale conservato si propone una datazione in età tardoantica, verosimilmente V-VI secolo) _ U Spazio delle strutture imperiali nei "praedia Anniorum" (a ridosso della cinta muraria). SANTA MARIA SCRINARI 1995, pp. 243-250 Monte Gelato (VT) Roma, lungotevere Testaccio Fine IV-prima metà V Scarico ricco di vetri e scarti, soprattutto vetri deformati _ U Pubblico: magazzini del porto fluviale (a ridosso della cinta muraria) STERNINI 1989 Roma, pendici NE del Palatino Metà V Colletti, pani di vetro, frr. di vetro grezzo, provini, colature, scarti di lavorazione _ U Spazio pubblico abbandonato in età tardoantica SAGUÍ 2009 Roma, Basilica Hilariana Metà V Tessere di mosaico probabilmente tagliate sul posto, pane di vetro forse residuo in strati di VI secolo Osso U Ambienti della Basilica Hilariana riutilizzati per attività produttive Calabria, Ferro, Palazzo et al. in questo volume Roma, Crypta Balbi, esedra Fine V-inizi VI Forno; crogioli, frr. di vetro grezzo, provini, gocce, scorie Forse associabile un forno metallurgico (VI secolo) U Spazio pubblico abbandonato in età tardoantica SAGUÍ 2000 Roma, Meta Sudans Fine VI-inizi VII Frr. di vetro grezzo, gocce, colature _ U Spazio pubblico abbandonato in età tardoantica SAGUI' 1993, p. 132 Roma, Terme di Traiano Metà VII Frr. di vetro grezzo, provini Scarti di lavorazione del metallo? U Spazio pubblico abbandonato in età tardoantica CARUSO, PACETTI, SERRA et al. 2010, p. 261, nota 10 Roma, via Marmorata Età tardoantica Masse vetrose con materiale refrattario, "resti di fritta", vetri deformati _ U Strutture di età imperiale riutilizzate MUSELLA 2011 Roma, Crypta Balbi, area al centro del portico Età tardoantica Frr. di vetro grezzo, provini, gocce _ U Spazio pubblico abbandonato in età tardoantica Saguì, Lepri infra LUCIA SAGUÌ, BARBARA LEPRI Loppio-S.Andrea (TN) 228 Sito Trento, area Teatro Sociale Roma, Crypta Balbi, esedra Fine VII e inizi VIII Colletto, frr. di vetro grezzo, provini, gocce, ritagli, tessere di mosaico destinate alla rifusione Produzioni artigianali di carattere diverso U Spazio pubblico abbandonato in età tardoantica, probabilmente di pertinenza monastica SAGUÍ, MIRTI 2003 SERLORENZI 2009, pp. 469-470 Età tardoantica-altomedievale Scorie e scarti di lavorazione _ U Officina forse connessa alla chiesa X Crogioli Lavorazione dell'osso (?) U _ SAGUÍ 2007, pp. 225-226 Roma, Villa dei Quintilii Età tardoantica? Forno rettangolare a bacino con resti di vetro aderenti alle pareti; frr. di vetro grezzo, alcuni dei quali con materiale refrattario aderente, probabilmente dalle pareti del forno _ S Ambiente della villa riutilizzato, contiguo all'area termale Paris, Frontoni, Galli, et al. in questo volume Ostia V Colletto, vetro grezzo _ U Pubblico: Foro della Statua Eroica, Palestra dei Bagni del Foro, Foro LEPRI, MAGYAR c.s. V Forno circolare e forno rettangolare (da raffreddamento?); colletti, frr. di vetro grezzo, provini _ U Area del cosiddetto Macellum e portico della domus dei Pescivendoli ROTTLOFF 2000 Fine IV-inizi V Almeno 4 forni a pianta più o meno circolare, dei quali resta l'impronta; scarti di vetro (l'area artigianale è stata interpretata come offiicna per la produzione di lastrine) _ R Villa con impianto termale abbandonata: area adiacente alle terme BLANCO 2015 LEPRI c.s. Ostia Ciampino (RM), Colle Oliva Villa Magna (FR) IX-X Fr. di vetro grezzo (1 fr. di vetro grezzo con resti di crogiolo e 1 provino rinvenuti in strati di XIII-XIV secolo sono probabilmente residui) _ R Area gravitante intorno alla chiesa di S.Pietro (insediamento altomedievale) S.Vincenzo al Volturno (IS) Fine VIII-IX Forni; crogioli, grande varietà di indicatori Attività produttive diverse R Officina monastica HODGES, LEPPARD, MITCHELL 2011, p. 129 ss. Ordona (FG) Seconda metà IV-metà V Crogioli, scarti di lavorazione, pane di vetro _ U "Domus B", sull'altura prospiciente l'area del Foro: strati di abbandono GIULIANI, TURCHIANO 2003, p.147 ss.; GIANNETTI,GLIOZZO,TURCHIANO 2015, in particolare pp. 296-297 Benevento, S.Sofia Fine VI-inizi VII Crogioli con resti di vetro, colletti, frr. di vetro grezzo, provini _ U Insediamento tardoantico-altomedievale incluso nelle mura longobarde LUPIA 1998, pp. 61-70 Napoli, piazza Bovio Metà-fine VI Crogioli, colletti, frr. di vetro grezzo, provini, gocce, ritagli, scorie vetrose Metallo U Quartiere artigianale installato nella zona insabbiata del porto romano DEL VECCHIO 2010; SOGLIANI 2010 Pozzuoli (NA) III o successivo Forno; "blocchi di fritta", residui di lavorazione, scorie di vetro _ U Complesso termale affacciato su una strada GIALANELLA 1999 MALPEDE 1999 V-VI 2 fosse collegate da un canale e prive di rivestimento, con vetri forse da riciclare; crogioli, pani di vetro discoidali, probabilmente per la produzione di tessere Metallo U Insula affacciata su un decumano, in parte riutilizzata per l'installazione di impianti artigianali Vibo Valentia, Contrada Crivo di Parghelia VI-VII Lenti di bruciato e carboni; fr. di vetro grezzo, provini, gocce, masse spugnose vetrificate, scarti Ferro? S Ambiente riutilizzato di una villa, forse dotata di terme BRUNO 2003 Sofiana (CL) IV-V? Forno; frr. di vetro grezzo, scorie, massa informe di vetri fusi _ R Pubblico: terme di un insediamento con funzione di statio ADAMESTEANU 1963, p. 264; NARBONE 2002 Nora (CA) V-VI? Forno con residui di vetro fuso (identificazione come forno da vetro incerta) Presso un'area artigianale U Presso il teatro GIANNATTASIO 1996 Pontecagnano (SA) Tab. 1. Siti italiani che hanno restituito testimonianze di indicatori e di attività produttive databili tra la tarda antichità e l’alto medioevo (Posizione topografica: U = urbana; S = suburbana; R = rurale). Fig. 3. - Indicatori di produzione: ‘colletti’. 229 Nei campioni di VIII secolo della Crypta Balbi le analisi indicano che il riciclo è superiore rispetto al secolo precedente 13: questo dato potrebbe essere molto significativo, e ancor più sembra esserlo l’assenza praticamente totale di vetri nel IX e X secolo, contro quantità enormi di ceramica rinvenute nelle stratificazioni di questo periodo: forse il riciclo era divenuto così radicale da non lasciare ormai che qualche isolata testimonianza. Stando comunque sempre all’Edictum de pretiis e ai confronti con la ceramica, si è calcolato che i contenitori in vetro del peso di una libra (grammi 327.45) costassero 10 volte in più rispetto a quelli in ceramica di capacità equivalente e che il prezzo di uno o due recipienti (a seconda del peso, che poteva variare grosso modo dai grammi 150 ai 350) corrispondesse più o meno alla paga giornaliera di un lavoratore non specializzato 14. Considerando da un lato le spese di acquisto della materia grezza, oltre a quelle del combustibile e delle attrezzature necessarie alla gestione dell’attività, dall’altro lo scarso ricavo delle vendite, ci si chiede se i vetrai potessero essere artigiani indipendenti. La documentazione di questo periodo fa riferimento sia a piccoli imprenditori indipendenti, sia ad associazioni di vetrai (papiri di Ossirinco, prima metà del IV secolo) e, a diversi secoli di distanza, ad artigiani piccoli im- 14 13 MIRTI, DAVIT, GULMINI et alii 2001; più in generale sul riciclo fra tarda antichità e medioevo, vd. FOY 2003 e, ora, FREE2015. STERN 1999, pp. 460-463. STONE LA PRODUZIONE DEL VETRO A ROMA: CONTINUITÀ E DISCONTINUITÀ FRA TARDOANTICO E ALTOMEDIOEVO Roma, S.Maria Antiqua Roma, Crypta Balbi, portico S 230 LUCIA SAGUÌ, BARBARA LEPRI rando lo stato della documentazione attualmente disponibile, dispersa in pubblicazioni di carattere molto vario e condizionata dalla diversa intensità delle indagini sul territorio, rappresenta una vera sfida (tab. 1; fig. 2, a-b). Ci auguriamo che questo primo tentativo di sistematizzazione dei dati possa costituire il punto di partenza per futuri ampliamenti ed eventuali revisioni. Il censimento dei siti di atelier tiene conto di vari parametri, dei quali illustreremo i più importanti. Dobbiamo infatti anzitutto chiarire quali sono gli elementi utili all’identificazione di un atelier, soprattutto nel caso in cui non si abbia la fortuna di trovare una fornace. Gli indicatori di produzione non hanno tutti la stessa pregnanza ed è necessario pubblicarli in modo corretto e dettagliato, poiché abbiamo verificato che l’individuazione di un’area produttiva poggia spesso su basi molto fragili. Tutte le arti del fuoco producono, del resto, scorie vetrose: gli stessi crogioli, se non associati ad altri indicatori, sono difficilmente riconducibili alla lavorazione del vetro. Gli indicatori più affidabili sono in primo luogo i Fig. 4. - Crypta Balbi: selezione di indicatori di produzione. A): esedra, fine V/inizi VI secolo, as‘colletti’ (francese mors, inglese sociati al forno da vetro; B): area del cortile, età tardoantica; C): esedra, fine VII secolo; D): esedra, prima metà VIII secolo. cylindrical moils), cioè gli scarti di vetro che aderivano alprenditori che gestiscono l’attività attraverso una serie l’estremità della canna da soffio, dalla quale il recipiendi accordi tra loro (documenti di Geniza, fine X - inizi te veniva distaccato: possono avere un profilo più o meno XIII secolo) 15. cilindrico (fig. 3, a) oppure svasato, simile ad un piccoCosa possiamo dire a proposito della distribuzione e lo coperchio, nel caso di forme aperte (lid-shaped moils; dell’organizzazione degli atelier in generale in Italia tra fig. 3, b) 16. Resti di lavorazione sono rappresentati anla tarda antichità e l’alto medioevo? Questo convegno ci che dai cosiddetti provini (filamenti prodotti dal test per ha stimolato ad affrontare un censimento che, consideverificare la fluidità del vetro), da ritagli, da gocce e co15 16 STERN 1999, pp. 459 ss.; STERN 2013. La definizione generica di ‘colletti’ in questo caso non è cal- zante, ma ci sembra che l’italiano, al contrario dell’inglese, non abbia un termine adeguato. LA PRODUZIONE DEL VETRO A ROMA: CONTINUITÀ E DISCONTINUITÀ FRA TARDOANTICO E ALTOMEDIOEVO 231 lature. Importanti sono anche le masse di vetro grezzo di varia forma e dimensione, in genere ridotte in frammenti caratterizzati da spigoli vivi e da piani di sfaldamento talvolta con cerchi concentrici, determinati dalla rottura in pezzi (figg. 45 e tavv. 00) 17. Per limitarci all’area romana troviamo elementi di questo tipo, associati ad un forno, nell’isolato con tabernae adiacente al cosiddetto Macellum di Ostia 18, in un contesto della seconda metà del V secolo, nell’esedra della Crypta Balbi, in un contesto di fine V/inizi VI secolo 19 e nella villa dei Quintili 20. Ben poco possiamo ormai ricostruire, purtroppo, a proposito del forno da vetro che sarebbe stato rinvenuto durante gli sterri nell’area del Laterano 21, se non che tra i materiali recentemente riordinati e conservati nel comprensorio archeologico di S. Croce in Gerusalemme una cassetta 22 è stipata di recipienti in vetro tardoantichi di produzione molto Fig. 5. - Pendici nord-est del Palatino, metà del V secolo: selezione di indicatori di produzione. omogenea e un’altra 23 connastica 25. Le vetrificazioni non sono sinonimo di officiserva alcuni frammenti di vetro grezzo. Non associati ad na vetraria, ma di tutto l’artigianato del fuoco; anche i veun forno, ma comunque importanti per quantità e varietri deformati, se non associati ad altri elementi, non sono tà, troviamo indicatori di produzione alle pendici norindicatori di produzione e, in particolare, di recipienti mal dorientali del Palatino, in strati di abbandono databili in24 riusciti, ma possono essere il risultato di una combustione. torno alla metà del V secolo e alla Crypta Balbi nell’area È bene dunque essere cauti nel caso dell’atelier vetrario al centro del portico, in contesti di abbandono tardoandi fine IV/metà V secolo identificato nel complesso portichi, e nell’esedra, in strati di fine VII e di prima metà tuale di Lungotevere Testaccio 26, anche se la posizione VIII secolo, che riteniamo riferibili ad un’officina mo- Per una classificazione preliminare degli indicatori di produzione si veda, più in dettaglio, GIANNICHEDDA, LERMA, MANNONI et alii 2000. 18 Il forno ostiense è ancora inedito (la sola notizia della struttura, ora distaccata e conservata nei nuovi depositi archeologici di Ostia Antica, è in http://www.fastionline.org/micro_view.php?fst cd=AIAC_465&curcol=sea_cd-AIAC_275 ); per gli indicatori di produzione da associare alla struttura vd. ROTTLOFF 2000. 19 SAGUÌ 2000. 20 Si veda il contributo di R. Paris, R. Frontoni, G. Galli et alii in questo volume. 17 SANTA MARIA SCRINARI 1968-1969, p. 18; SANTA MARIA SCRI1995, p. 243. 22 Con sigla «San Giovanni, vetreria (n. 8463)». 23 Con sigla «Horti Domitiae, sito 1, dal vano del fabbro (n. 14707)». 24 SAGUÌ 2009. 25 SAGUÌ, MIRTI 2003. 26 STERNINI 1989; anche i recenti ritrovamenti di via Marmorata, non illustrati (scarti di lavorazione e materiale refrattario), hanno fatto ipotizzare la vicinanza di un centro di produzione: MUSELLA 2011. 21 NARI 232 LUCIA SAGUÌ, BARBARA LEPRI in un quartiere artigianale e lungo il fiume, grande asse di circolazione di uomini e di merci, sarebbe ideale ed è probabile che nella zona fossero presenti atelier vetrari anche nel periodo che ci interessa. Il forno di Ostia, quello della Crypta Balbi, quello che possiamo presumere attivo sul Palatino o nell’area circostante si trovano in zone un tempo centrali della città, ora semiabbandonate, e probabilmente vi erano forni nell’area tiberina. Un vicus vitrarius era nella regio I, porta Capena: segnalato dai Cataloghi Regionari 27, non sappiamo quanto a lungo abbia visto operare botteghe o officine, o entrambe, come è documentato in qualche caso anche in età tardoantica nei centri del Mediterraneo orientale 28. Tenendo sempre presente la scarsità delle nostre testimonianze, potremmo istituire un confronto con altri centri urbani occidentali, in primo luogo Marsiglia, dove tra V e VI secolo diversi atelier erano disseminati in spazi liberi all’interno della città, mentre i tre più importanti erano all’esterno ma nelle immediate vicinanze delle mura e di questi il più grande, quello della Bourse, era vicino al porto 29. In aree portuali erano anche l’atelier di Classe 30 e quello di Rusellae, alla foce dell’Ombrone 31. In effetti il modello dominante resta, anche alla fine dell’antichità, quello dell’atelier urbano o periurbano. La nocività non sembra comunque aver costituito l’elemento più importante nella scelta dei luoghi in cui installare certe attività artigianali quali quella del vetro, ferma restando l’esclusione dalle aree più densamente abitate, come ribadito anche dalla legislazione dell’epoca 32. Il sistema di produzione gerarchico del vetro nell’antichità e nell’alto medioevo e la dipendenza degli atelier secondari fa sì che la maggior parte di essi sia localizzata nelle città o nelle loro periferie, in prossimità dei grandi centri urbani e dei mercati, per beneficiare degli arrivi di vetro grezzo e della facilità nella raccolta di materiale da riciclare. Per rifondere il vetro non c’è bisogno del resto, come abbiamo detto, di grandi installazioni, grandi spazi ed enormi quantità di combustibile, necessari al contrario nel caso dei forni primari. Nell’ubicazione dei forni ci sembra si evidenzi in Italia – ma l’analisi, se estesa ad altre province, porterebbe forse ad analoghe considerazioni – una scelta preferenziale: potrebbe essere un caso, ma l’installazione in ambienti termali dismessi risulta piuttosto frequente (fig. 6), forse in relazione a sistemi consolidati di approvvigionamento del combustibile o alla maggiore possibilità di riciclo, se pensiamo alle grandi vetrate degli edifici termali. A Marsiglia, nei siti più importanti, il lavo- VALENTINI, ZUCCHETTI 1940, pp. 90 (Curiosum), 165 (Notitia). Ci chiediamo se con il vicus vitrarius possano aver avuto qualche relazione gli ambienti visti nel XVIII secolo tra porta Capena e la chiesa dei SS. Nereo e Achilleo: «[…] in quibus egesta pavimenti fragmenta e signino constabant rudiuscule subacto, cui superfusum, expolitumque, ad semunciae altitudinem vitrum adhaerebat viride, undequaque concolor, minimeque vermiculatum; nulla praeterea segmenta, nullique termini apparebant, neque ullae, nisi quas vetustas fecisset, rimulae; ita ut ex integra tabula solo superinfusa pavimentum illud constitisse conjecerim, mobilibus sane officinis, vel pro numero operum ex tempore excitatis […]»: PASSERI 1739, p. 67. 28 Ad esempio a Edessa e a Tessalonica, dove alle officine ubicate lungo le arterie principali si affiancava un vano per la vendita (ANTONARAS, CHRYSOSTOMOU 2015; ANTONARAS 2014) e a Bet She’an, dove nei pressi del bazaar la vendita si svolgeva in un ambiente accanto a quello che ospitava il forno (STERN 1999, p. 472). Casi analoghi sono forse documentati a Sardis (STERN 1999, p. 472) e a Sepphoris (FISCHER 2008, pp. 48 ss.). 29 FOY 2010b, pp. 349-350. 30 CIRELLI, TONTINI 2010. 31 CYGIELMAN, CHIRICO, COLOMBINI et alii 2013. 32 Nel trattato di Giuliano di Ascalona ad esempio, che rappresenta un documento sulla vita urbana in Palestina alla fine dell’antichità ma testimonia di preoccupazioni universali nel contesto delle città tradizionali, si prescrive che i vetrai, così come altri artigiani che fanno uso del fuoco, pratichino questo tipo di attività fuori dalla città o, quanto meno, in quartieri poco popolati o decentrati. Alcuni esempi di atelier di questo tipo, situati in piena città, invitano tuttavia ad interrogarsi sul valore di tali prescrizioni: SALIOU 1996, in particolare pp. 40-41, 118 ss. Emblematici, a questo proposito, sono i recenti ritrovamenti di Edessa (ANTONARAS, CHRYSOSTOMOU 2015) e di Tessalonica (ANTONARAS 2014). Fig. 6. - Siti con indicatori di attività vetraria: posizione e spazi occupati. Fig. 7. - Siti con indicatori di attività vetraria isolata o associata ad altre produzioni. 27 LA PRODUZIONE DEL VETRO A ROMA: CONTINUITÀ E DISCONTINUITÀ FRA TARDOANTICO E ALTOMEDIOEVO 233 ro del vetro era associato a quello di altri artigiani, come si evidenzia anche in diversi centri nei secoli precedenti 33. Abbiamo riscontrato lo stesso fenomeno in Italia, in diversi siti (fig. 7). Se la concentrazione topografica tra le diverse arti del fuoco appare ovvia, il legame tra l’artigianato vetrario e quello metallurgico potrebbe essere stato più stretto in considerazione della necessità, da parte dei vetrai, non solo di strumenti ma anche di sottoprodotti delle lavorazioni metallurgiche per la realizzazione di coloranti 34. Per restare a Roma, a parte il caso delle officine monastiche, che vedremo meglio in seguito, possiamo forse immaginare un’associazione del genere a proposito della Crypta Balbi, dove a poca distanza dal forno vetrario sono stati rinvenuti due forni metallurgici, datati alla metà del VI secolo (si tratterebbe dunque di una sequenza, piuttosto che di una contemporaneità?) 35 e sul Celio, nell’area della Basilica Hilariana, dove ad una serie di attività artigianali si associa forse, nei decenni centrali del V secolo, la produzione di tessere musive 36. Un’interdipendenza delle attività artigianali si può ipotizzare, nel caso del vetro, per quanto riguarda i contenuti, e in particolare i profumi. L’osservazione si riferisce tuttavia ai secoli precedenti. A Pozzuoli, ad esempio, la regio clivi vitrari sive vici turari, nella quale è stato messo in luce un forno da vetro di III secolo o più tardo 37, riuniva i produttori di profumi, famosi nella città, e gli artigiani del vetro: la tendenza degli artigiani di una stessa attività economica a riunirsi anche spazialmente è un fenomeno del resto comune nelle città antiche. Pozzuoli è ritenuta peraltro il centro di produzione delle famose bottiglie di IV secolo decorate con incisioni che, raffigurando vedute della città stessa e di Baia, rappresentano veri e propri ricordi di viaggio 38. La decorazione di questo tipo non è comunque necessariamente connessa ad un’officina vetraria, ma può svolgersi in un altro luogo. Nel caso dell’atelier tardoantico di Classe si è ipotizzato un rapporto con la ceramica invetriata locale; anche la grande produzione invetriata romana, che ha il suo ex- ploit a partire dal IX secolo, potrebbe implicare una relazione tra vetrai e ceramisti, oltre a motivare con un riciclo ancora più estremo l’assenza di vetro in questi secoli, che sono per giunta i più critici, come abbiamo visto, per la produzione vetraria. Oltre alle officine più o meno strutturate, registriamo nella tarda antichità il fenomeno delle aree artigianali occasionali. Se spesso il fattore determinante dell’impianto di atelier è impossibile da stabilire, in qualche caso è evidente che si tratta di complessi in abbandono che, dotati di grandi apparati decorativi, dovevano presentarsi come vere e proprie cave a cielo aperto e offrivano quindi le più varie possibilità di recupero e di riciclo. E’ il caso, solo per citare il più eclatante, della villa tardoantica di Aiano-Torraccia di Chiusi, nella quale, tra VI e VII secolo, si impiantano diverse officine pirotecnologiche e tra queste un forno da vetro che ricicla vasellame, tessere e lastrine della decorazione in opus sectile per ricavarne piccoli oggetti ornamentali 39. Casi del genere invitano ad interrogarsi sull’organizzazione degli artigiani, tanto coordinati nel tempo e nello spazio da far supporre l’esistenza di un’iniziativa pubblica 40. Recenti ricerche, condotte a partire da una serie di ville rurali tardoantiche dell’Italia meridionale, indicano che queste attività, non certo attribuibili a squatting occasionali, erano frutto di precisi progetti ed erano gestite da una forza lavoro molto specializzata, forse organizzata in associazioni itineranti 41. Nell’individuazione di questi aspetti sussistono tuttavia almeno tre problemi: la scarsa considerazione che in molti scavi si riserva alle fasi di abbandono, la breve durata delle attività, che terminano con l’esaurimento del materiale da riciclare, il pericolo che gli archeologi ne fraintendano la natura, sentendosi più stimolati ad interpretarle come produzioni nate ex novo 42. L’ultima tipologia alla quale accenniamo è quella delle vetrerie che gravitano nell’ambito della Chiesa. Già dal V secolo sembra di poter rilevare testimonianze ar- AMREIN 2009; FOY 2010b, pp. 347 ss. FREESTONE, STAPLETON, RIGBY 2003. 35 Si veda il contributo di L. Vendittelli e M. Ricci in questo volume. 36 Si veda il contributo di M.E. Calabria, D. Ferro, P. Palazzo et alii in questo volume. 37 GIALANELLA 1999. 38 Su queste si veda, da ultimo, GIANFROTTA 2011. 39 CAVALIERI 2011. 40 Si veda anche il caso di Santa Cristina in Caio (Siena), dove nel grande complesso termale della mansio, ormai abbandonato, ha luogo dalla prima metà del V secolo una riconversione artigianale con impianto di forni per la lavorazione del materiale di spoglio (metallo e vetro): VALENTI 2012, in particolare p. 7 e http://archeologia medievale.unisi.it/santa-cristina/scavo/interpretazione-progress/SF04. 41 MUNRO 2010. Per un quadro più ampio delle fasi ‘post villa’, esteso ad altri siti italici e delle province occidentali, vd. MUNRO 2012. 42 È questo il caso dell’atelier di fine IV - inizi V secolo individuato a Ciampino (Roma), in località Colle Oliva, che si ritiene abbia prodotto lastrine vitree da opus sectile, mentre la loro provenienza dallo spoglio dal complesso residenziale adiacente, ormai in abbandono, e la loro utilizzazione come materiale da riciclare sembrano evidenti: BLANCO 2015. 33 34 234 LUCIA SAGUÌ, BARBARA LEPRI cheologiche di atelier vetrari dipendenti da comunità religiose nella Francia meridionale 43, mentre in Gran Bretagna conosciamo almeno due officine monastiche precedenti l’età carolingia 44. Gli esempi più eclatanti e più vicini a noi sono quello della Crypta Balbi, con l’officina attribuita al monastero di S. Lorenzo in Pallacinis, attiva nel VII secolo e ancora nella prima metà dell’VIII 45, i cui prodotti, che poi esamineremo brevemente, avevano un ampio circuito di distribuzione, quello dell’isola di Torcello 46, i cui atelier, secondo la revisione delle datazioni, sembrano operare tra IX e X secolo 47, e ovviamente quello di S. Vincenzo al Volturno 48. La vetreria di S. Vincenzo, nata tra la fine dell’VIII e gli inizi del IX secolo come struttura temporanea, in successione con altre che dovevano realizzare gli arredi della chiesa e forse degli edifici ad essa associati, prosegue la sua attività nel corso del IX secolo ampliando il raggio della committenza. Recentemente, per quanto riguarda ancora Roma, si è ipotizzata l’esistenza di un’area di lavorazione in prossimità della chiesa di S. Maria Antiqua, forse ad essa afferente 49. Il caso di S. Vincenzo è emblematico per il volume straordinario e per la raffinatezza eccezionale delle sue produzioni, che sul piano tipologico rientrano nella koinè occidentale. È emblematico perché non ci troviamo a Roma, eppure qui tocchiamo con mano l’altissimo livello tecnologico raggiunto dagli artigiani del vetro, mentre cogliamo ancora più pienamente l’importanza del ruolo svolto dalla chiesa nei primi secoli del medioevo nel conservare, perfezionare, tramandare la tecnologia e l’arte di fare il vetro. S. Vincenzo ci stupisce rispetto a quelli che noi pensiamo fossero gli standard dell’epoca, che certo dobbiamo riconsiderare. A S. Vincenzo si usa molto vetro riciclato più antico, che si suppone venisse importato o recuperato dai centri urbani o dalle ville rurali della regione. Passiamo ora brevemente in rassegna il repertorio romano che caratterizza i secoli dei quali abbiamo parlato, iniziando dal V. Nel V secolo non sono probabilmente più realizzati i vetri incisi con scene figurate, che hanno rappresentato una parte molto importante della produzione vetraria nei decenni centrali del IV. Bisogna però fare attenzione, perché ne troviamo testimonianza proprio negli strati di V e VI secolo in quanto, trattandosi di FOY 2010b, pp. 354-355. 44 DELL’ACQUA 2011. 45 SAGUÌ 2002; SAGUÌ, MIRTI 2003. 46 LECIEJEWICZ, TABACZYŃSKA, TABACZYŃSKI 1977. 47 LECIEJEWICZ 2000. La rilettura dei risultati degli scavi di Torcello alla luce di nuove analisi chimiche e delle più recenti conoscenze sulla tecnologia vetraria consente di respingere l’ipotesi che nell’isola fosse attivo un centro primario: a Torcello si sarebbe dun- que svolta una produzione secondaria, nella quale si faceva uso anche di vetro riciclato. Le indagini recenti permettono inoltre di escludere una produzione locale di tessere musive vitree ed evidenziano il cambiamento di composizione dai vetri prodotti con natron e sabbie siliceo-calcaree a quelli ottenuti con ceneri di piante litoranee e silice nei materiali databili tra X e XII secolo: VERITÀ, ZECCHIN 2005. 48 HODGES, LEPPARD, MITCHELL 2011, pp. 129 ss., 433 ss. 49 SERLORENZI 2009, pp. 469-470. Fig. 8. - Vetri incisi di età tardoantica riferibili a due officine urbane. A: pendici nord-est del Palatino (da SAGUÌ 2009, p. 212, fig. 4,1, con integrazione); B: Celio, complesso sottostante la basilica dei Santi Giovanni e Paolo (da SAGUÌ 1996, p. 347, fig. 8). 43 LA PRODUZIONE DEL VETRO A ROMA: CONTINUITÀ E DISCONTINUITÀ FRA TARDOANTICO E ALTOMEDIOEVO 235 Fig. 10. - Forme comuni nel repertorio romano tra V e VIII secolo. 1): coppa con spesso filamento sull’orlo, avvolto a spirale sul fondo; 2): lampada a sospensione con portastoppino; 3): polycandilon con lampade in vetro (da L’art byzantin 1992, p. 121); 4-5): calici. Fig. 9. - Principali forme di vetro diffuse a Roma tra V e VIII secolo (da SAGUÌ 1993, fig. 3). prodotti di lusso, si tendeva a conservarli a lungo. A volte si tratta di veri e propri esemplari da largitiones, che hanno tutte le caratteristiche delle altre classi suntuarie quali gli avori e gli argenti, anche se al contrario di questi sono privi di valore intrinseco. Nel repertorio troviamo temi schiettamente pagani, temi genericamente riferibili alla tradizione figurativa classica e temi cristiani a volte molto complessi, che potrebbero caratterizzare questi oggetti come suppellettili liturgiche. L’incisione è una tecnica che si svolge a freddo, come quella della pittura su vetro: nei casi di decorazioni complesse non doveva essere realizzata direttamente dai vetrai, ma da incisori specializzati, gli stessi diatretarii ai quali si riferisce una costituzione costantiniana del 337 che li esenta, insieme ai vitrearii e ad altre categorie selezionate di abili artigiani, dai munera, affinché potessero approfondire la conoscenza della loro arte e tramandarla ai figli. Quello del vetro inciso è un capitolo molto interessante, non solo per quanto riguarda l’artigianato vetrario, ma anche per gli aspetti sociali e storico-artistici che la produzione riflette. Si tratta di una produzione ormai sottratta alle tesi panrenane del secolo scorso, che a nostro parere, ferma restando l’esistenza di alcune produzioni provinciali ben riconoscibili nel diverso linguaggio espressivo e tecnico, può essere fatta risalire ad almeno due diverse officine urbane o a due fasi non molto distanti cronologicamente (fig. 8) 50. L’ampio raggio di distribuzione viene attribuito da alcuni studiosi alla mobilità delle maestranze, ma non si può escludere un’esportazione su precisa committenza. Del resto Roma, anche grazie agli scavi più recenti, ne ha restituito una documentazione eccezionalmente ricca. Molti esemplari provengono dagli strati di abbandono di V secolo avanzato della Crypta Balbi ma soprattutto delle pendici del Palatino 51: considerando l’importanza 50 Per un ampio e sistematico inquadramento della produzione incisa tardoantica si rimanda a ROTTLOFF 2001: delle cinque principali officine individuate dalla studiosa ci riferiamo ai gruppi A e B. 51 SAGUÌ 2009. 236 LUCIA SAGUÌ, BARBARA LEPRI nomeno inverso si registra in Oriente, che vede moltiplicarsi forme e funzioni dei contenitori in vetro. Nonostante queste differenze, una sorta di koinè sembra avvolgere tutta l’area mediterranea. Raramente si riesce a cogliere, nelle peculiarità di una forma, un’espressione tipicamente locale: è il caso, crediamo, di una coppa molto caratteristica e comune nei contesti romani di V secolo (fig. 10, 1). Ci soffermiamo soltanto su due forme ‘universali’ perché sono importanti da diversi punti di vista, non ultimo il fatto che entrambe sono prodotte per un lungo arco cronologico: le lampade, soprattutto del tipo a sospensione, e i calici. Le lampade in vetro, probabilmente originarie dell’area siro-palestinese, si diffondono in Occidente nel periodo in cui il sistema tradizionale delle lucerne in ceramica comincia a risentire anche dei problemi dell’alimentazione a olio e segnano un’importante innovazione nell’arredo architettonico e nella storia dell’illuminazione. A differenza delle lucerne in ceramica, delle quali Fig. 11. - Selezione di lastrine in vetro per decorazioni in opus sectile dal deposito di VII sediventano un’alternativa a seconda colo nell’esedra della Crypta Balbi (da SAGUÌ 2007, p. 224, fig. 7). dei luoghi da illuminare, quelle in vetro, peraltro ancora oggi prodotte del luogo e il ritrovamento di un pezzo non finito o rotto in Oriente, erano riempite d’acqua e poi da uno strato nel corso della lavorazione, non possiamo escludere di olio sul quale galleggiava uno stoppino, tenuto fermo che nelle vicinanze fosse attivo un atelier. da un apposito supporto (fig. 10, 2). Gli studi sulA partire dal V secolo l’aspetto decorativo diviene l’emissione della luce indicano che le lampade in vetro meno rilevante e il repertorio delle forme si riduce senavevano una durata e un’intensità di illuminazione susibilmente, privilegiando gli aspetti funzionali: queste periori rispetto a quelle in ceramica: la luce prodotta era caratteristiche si accentuano nell’alto medioevo. La fig. quasi doppia e il combustibile più adatto doveva essere 9, elaborata ben 20 anni fa, rappresenta in modo sintel’olio di ricino, non idoneo agli usi alimentari 52. Sono tico ma ancora esauriente le principali forme prodotte a in primo luogo le chiese ad utilizzare le lampade in vetro Roma nell’arco di quattro secoli. Il repertorio romano, che, se inserite in vario numero nei grandi lampadari in come quello occidentale in generale, è molto ridotto in metallo (polycandila, coronae pharales, fara canthara) questo periodo rispetto a quello di età imperiale: un fericordati dalle innumerevoli donazioni del Liber Pontificalis (fig. 10, 3), dovevano formare vere e proprie corone luminose, producendo un grande effetto scenografico, oltre ad essere portatrici di messaggi tra52 STERN 2001, p. 262. Sugli usi e sul commercio dell’olio di riscendenti legati al simbolismo della luce. Anche i cacino, la cui presenza è stata recentemente individuata in anfore nordafricane di età tardoantica a Classe, si veda PECCI, SALVINI, CIRELLI lici in vetro (fig. 10, 4-5) dovevano essere impiegati come et alii 2010. LA PRODUZIONE DEL VETRO A ROMA: CONTINUITÀ E DISCONTINUITÀ FRA TARDOANTICO E ALTOMEDIOEVO suppellettile da illuminazione, oltre che con funzione potoria non solo in ambito domestico, a giudicare dai divieti che le leggi canoniche, prescrivendo l’uso di calici eucaristici in metallo prezioso, ribadiscono più volte 53. Per gli archeologi che lavorano in ambito romano i calici, perfettamente riconoscibili grazie allo stelo e al particolare piede a disco, sono molto utili, tra l’altro, come indicatore cronologico, poiché non sembrano comparire prima della seconda metà del V secolo. Fino alla prima metà dell’VIII secolo la produzione in primo luogo di lampade e calici è documentata nell’officina monastica della Crypta Balbi, nella quale peraltro, a differenza del secolo precedente, non sono attestate attività produttive se non quella vetraria 54. La continuità della produzione vetraria rispetto all’età tardoantica è evidente sul piano della tecnologia, nel repertorio formale e anche negli aspetti decorativi che, sia pure limitati all’applicazione di filamenti, sono un retaggio di tradizioni precedenti. In una città nella quale molte cose stavano cambiando la produzione del vetro era dunque sostanzialmente immutata. Ancora a proposito di continuità e di alto livello artigianale, un esempio di un genere ancora poco noto è costituito dall’opus sectile in vetro. La fig. 11 (e tav. 00) mostrano una selezione di lastrine di forme e colori diversi, in alcuni casi ad imitazione del marmo, probabilmente prodotte nell’atelier monastico di VII secolo della Crypta Balbi, che ne ha restituite più di 200. Un filo ininterrotto lega questa produzione a quella che in anni recenti, dopo i famosi ritrovamenti dei pannelli nel porto di Corinto, è stata individuata negli apparati de<corativi della villa di Lucio Vero a Roma e in molte altre lussuose residenze di età imperiale e tardoantica, così come, associata con il sectile in marmo, in diversi edifici religiosi di età giustinianea sia in Oriente sia in Occidente 55. La padronanza di questa tecnologia deve aver resa possibile la realizzazione delle vetrate delle principali basiliche romane, ricordate dal Liber Pontificalis nell’VIII e nel IX secolo. Per concludere il nostro excursus, sarebbe interessante almeno un riferimento ai secoli successivi all’VIII, che come abbiamo detto segnano il passaggio verso il nuovo modo di produrre vetro. La mancanza di testimonianze, alla quale pure abbiamo accennato, tanto più singolare in quanto ci troviamo in un osservatorio privilegiato, non deve però farci pensare ad un vuoto reale: UBOLDI 2003, p. 179. SAGUÌ 2007, pp. 221 ss. 55 SAGUÌ 2007, pp. 223 ss., con bibliografia. Fig. 12. - Crogioli da un contesto di tardo X secolo della Crypta Balbi (da SAGUÌ 2007, p. 226, figg. 8-10). le difficoltà dovute alla riorganizzazione del sistema produttivo e un drenaggio più capillare, legato anche alle esigenze della grande produzione coeva di ceramica a vetrina pesante, potrebbero in gran parte motivare le assenze. Ma che il processo non si fosse interrotto e che anzi, almeno nel X secolo la produzione vetraria urbana fosse ben organizzata, è indicato da almeno cinque crogioli rinvenuti, insieme a resti di lavorazione dell’osso, nel riempimento di un pozzo scavato a ridosso del lato meridionale della Crypta Balbi (fig. 12) 56. Altri due esemplari in tutto simili, riconducibili per le caratteristiche dell’argilla all’area laziale, provengono da contesti dell’esedra databili alla prima metà dell’XI secolo 57. Al contrario dei recipienti per la fusione noti in età tardoantica e nel primo medioevo, che nella grande maggioranza dei casi utilizzano contenitori refrattari in ceramica comune di forme diverse – talvolta 53 54 237 56 57 SAGUÌ 2007, pp. 225-226. MANNONI 1990, p. 604. 238 LUCIA SAGUÌ, BARBARA LEPRI anche chiuse ma con imboccatura appositamente asportata – o in pietra ollare 58, i crogioli della Crypta Balbi fanno parte di una produzione ormai specializzata, caratterizzata da forme aperte molto simili tra loro, di grandi dimensioni e quasi tutte rivestite da uno strato di argilla che doveva proteggerle dalle alte temperature. Su uno dei crogioli rinvenuti nel riempimento del pozzo, databile nell’ambito del X secolo, e sullo strato di vetro prelevato dal fondo sono state effettuate analisi da parte di M.Verità (Laboratorio Analisi Materiali Antichi LAMA, Università IUAV, Venezia). I risultati, ancora preliminari, indicano che entrambi gli strati del crogiolo sono costituiti da argille calcaree e che la fusione del vetro è avvenuta intorno ai 1000°. Per quanto riguarda il vetro, se il modello ormai accettato da tutti gli studiosi è quello al quale abbiamo accennato all’inizio, ci saremmo aspettati di trovare ingredienti in una certa misura diversi rispetto a quelli dei secoli precedenti. La composizione del vetro risulta invece ancora silicico-sodico-calcica di tipo natron, come dimostrano le concentrazioni di potassio e magnesio inferiori a 1%, mentre non si è rilevata la presenza di fosforo. Tracce di piombo, stagno e antimonio indicano poi che, oltre al vetro grezzo, sono stati fusi anche rottami eterogenei. Se il tema del riciclo, che ha rappresentato una costante del nostro discorso, è dunque ancora presente, quello del passaggio al nuovo modo di produrre vetro, che si afferma nel corso del medioevo, deve essere evidentemente valutato alla luce di una casistica più ampia e più dettagliata nel tempo e nello spazio, nell’ambito della quale Roma, con il suo più lento distacco dalla tradizione antica, occupa probabilmente un posto particolare 59. Il nostro discorso termina qui. È andato un po’ oltre l’argomento del titolo: abbiamo cercato di uscire dagli schemi tipologici ma è evidente che resta ancora molto lavoro da fare. Ringraziamo comunque gli organizzatori del convegno, che ci hanno stimolato ad iniziare questa ricognizione ormai doverosa e ci auguriamo di essere stati utili soprattutto ai più giovani, se è vero che negli scavi si registra solo quello che si vede e si vede solo quello che si sa riconoscere. FOY 1990; CATALO, FOY, LLECH 1998, pp. 15 ss. Come del resto sembra dimostrare, nella produzione di tessere musive, il passaggio dall’uso del natron a quello di ceneri vegetali sodiche, avvenuto a Roma solo fra XII e XIII secolo: VERITÀ 1996. Sul protrarsi del riciclo del vetro antico fino al medioevo, con esiti che dal punto di vista della composizione possono risultare ana cronistici, si veda ora FREESTONE 2015. 58 59 Bibliografia ADAMESTEANU 1963 = D. ADAMESTEANU, Nuovi documenti paleocristiani nella Sicilia centro-meridionale, in BdA, XLVIII, 1963, pp. 259-274. AMREIN 2009 = H. 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Anche solo scorrendo le testimonianze epigrafiche e archeologiche risulta evidente che la lavorazione delle fibre animali e vegetali era un’attività centrale a Roma, come lo era in qualunque altro insediamento dell’antichità 3. Del resto non poteva essere altrimenti, trattandosi di un’industria legata a un’esigenza primaria dell’uomo, quale quella di coprirsi, ripararsi dal freddo e dal caldo, arredare gli spazi pubblici e privati, fornire contenitori da trasporto e suppellettile d’uso quotidiano di vario genere, esprimere il proprio ruolo sociale, politico, religioso ed economico nella società attraverso ciò che si indossava 4. Tuttavia, se non possiamo negare che Roma abbia sviluppato una sua produzione tessile interna, è un fatto incontrovertibile, che non viene mai citata nelle fonti letterarie tra le città specializzate nella produzione tessile e non sviluppò mai nel corso della sua storia un’industria che la rendesse famosa e competitiva rispetto ai mercati esterni, al contrario di molti altri centri che, invece, fecero di questo settore un importante motore della loro economia. Basti pensare a Taranto, Canosa, Var. II, 2. 2 SANTILLO FRIZELL 2010, pp. 51-63. 3 Per le attestazioni epigrafiche vd. VICARI 2001, pp. 19-23. 1 Modena, Parma che nell’antichità erano rinomate per la qualità delle loro lane, per le tintorie e per la produzione di particolari capi vestiari, oppure Firenze, Milano, i centri fiamminghi e inglesi che in epoca medievale divennero poli d’eccellenza 5. Come vedremo nel dettaglio, Roma non entrò mai nelle cronache del tempo per questa attività, e non riuscì ad industrializzarsi nemmeno sotto i papi Pio V e Sisto V, quando furono effettuati notevoli investimenti proprio in questo settore. Affrontare il tema della produzione tessile in Italia è impresa notoriamente ardua per via della difficoltà di rinvenire reperti archeologici tessili che necessitano di precise condizioni ambientali e di ritrovamento per conservarsi. Tuttavia, alcuni periodi storici hanno prodotto una tale quantità di indicatori indiretti (fig. 1 e tav. 00) da consentire di ricostruire l’intera filiera del ciclo produttivo, le architetture deputate, le forze sociali in gioco e persino l’entità della produzione. L’impresa, però, si fa ancora più ardua se parliamo del periodo tardoantico, quando il passaggio dal telaio verticale a pesi a quello verticale a barra e orizzontale a pedali, tra il II e il III secolo d.C., determinarono la scomparsa di molti indicatori, come ad esempio i pesi da telaio, riducendo notevolmente il nostro raggio d’azione. Il Prima Il censimento epigrafico a Roma permette di rilevare che l’attività tessile era piuttosto fiorente in epoca im- 4 Sulla centralità della produzione tessile nell’economia antica vd. DI GIUSEPPE 2000; DI GIUSEPPE 2002; GLEBA 2008; DI GIUSEPPE 2012; GLEBA, PÁSZTÓKAI-SZEÖKE 2013. 5 VICARI 2001, p. 19. Fig. 1. - Indicatori indiretti della lavorazione laniera. 1) Cesoie per la tosatura. 2) Pettine per la cardatura. 3a-d) Conocchie. 4a-b) Coprifuso, fuso e fuseruole. 5a-b) Tessere per la tessitura a mano di piccoli manufatti (bordi, fascette, cinture, fasce). 6a-b) Pesi e rocchetti per grandi e piccoli telai verticali. 7a-c) Aghi di metallo e osso di diverse dimensioni per cuciture di tessuti di diverso spessore e grandezza. LA PRODUZIONE LANIERA A ROMA TRA TARDO ANTICO E MEDIOEVO: UN CASO DI INDUSTRIA DISATTESA? periale, vantando il coinvolgimento di illustri famiglie, come gli Statilii, i Caecilii, i Cornelii, i Salluvii, i Veturii, i Vettii e non ultima in ordine di importanza Livia stessa, moglie di Augusto, che aveva al suo seguito un notevole numero di servi e liberti coinvolti nella redditizia industria laniera 6. La geografia delle attività tessili sia produttive sia mercantili coinvolge un po’ tutta Roma dalle aree lungo il Tevere, occupate dagli Horrea Galbana, dove albergavano fulloniche e attività dei sagarii, ovvero produttori e venditori di mantelli di lana, a quelle che gravitavano intorno al foro Boario, dove si trovavano le botteghe dei sagarii (nei pressi del teatro di Marcello), alle aree intorno al Foro romano destinate ai produttori e venditori di porpora, di vestiti e di tessuti di seta (nei pressi del vicus Iugarius, Monumenta Mariana, Horrea Agrippina e vicus Tuscus), fino alle aree più periferiche, dove abbiamo attestazioni di lanarii (in particolare nel vicus Fortunae, vicus Caesaris e Suburra), ovvero addetti alle prime fasi della lavorazione laniera, dai lavaggi, alle pettinature e feltrature. Attestata è pure l’attività di sarti, sarte e ricamatori in località di Roma non ancora individuate (una di queste è ab sexaris) 7. A giudicare dalle competenze che emergono dai dati epigrafici raccolti da F. Vicari per l’epoca imperiale, si ha l’impressione che in città prevalessero le attività di filatura e di sartoria, piuttosto che le fasi preliminari del lavaggio – e questo non stupisce dal momento che tradizionalmente nell’antichità tali fasi si concentravano in campagna – e quelle successive della tessitura – e questo invece stupisce in quanto si tratta di un’attività tipicamente urbana. Infatti, pochissime sono le testimonianze dei lanarii e dei tessitori e molte di più quelle delle filatrici e lanipendi/ae, addetti alla pesatura e alla distribuzione della lana e dei sarcinatores, sarti addetti alla confezione degli abiti. Sembrerebbe cioè che Roma accogliesse lana da filare, ma che i tessuti venissero fatti altrove per poi tornare in città nella fase della confezione. Ovviamente si tratta solo di un’impressione basata sul dato epigrafico che purtroppo non può essere completato con il dato archeologico. Infatti al fine di individuare la presenza di textrina avremmo bisogno di documentare grandi quantità di pesi da telaio concentrati in un unico luogo, informazioni che purtroppo non possediamo per l’epoca imperiale. Ma VICARI 2001, pp. 20, 94-99. VICARI 2001, p. 21. 8 PIRANOMONTE, RICCI 2009. le abbiamo per l’epoca repubblicana, quando sappiamo che Roma e il suo suburbio ospitavano textrina, come quelle ipotizzate nell’edificio di viale Tiziano lungo la Flaminia 8 o lungo la Prenestina, in via dei Gordiani 9, dove le quantità di pesi da telaio rinvenuti sono tali da far pensare a un’attività che superava l’ambito domestico. E per quale motivo tale attività sarebbe scomparsa nelle epoche successive? Va detto anche che la difficoltà di individuare laboratori dedicati unicamente all’arte dell’intreccio risiede nel fatto che la tessitura in ogni periodo storico può avere anche un carattere diffuso presso i privati. Ovvero, la materia prima poteva essere detenuta da grandi proprietari che l’assegnavano a privati in grado di svolgere il lavoro a casa propria, lavoro difficilmente distinguibile sul piano archeologico da una qualunque attività domestica, in assenza del dato epigrafico. E va anche sottolineato che a partire dal II secolo d.C., con l’affermazione del telaio verticale a barra e la conseguente scomparsa dei pesi da telaio, non abbiamo più nessuna speranza di individuare laboratori tessili. Per tutto quanto detto, quindi, il dato epigrafico è fondamentale, ma la sua assenza non vuol necessariamente dire assenza di attività tessili. Anche se Roma non eccelse mai nella produzione tessile, non abbiamo dubbi sul fatto che fu estremamente interessata a quella grande risorsa che era la lana che poteva facilmente essere reperita nei dintorni o nelle regioni più lontane, dove famiglie aristocratiche e imperatori avevano possedimenti che costituivano il polmone economico delle loro casse. Alle famiglie di Roma già citate per il coinvolgimento nella produzione laniera dobbiamo aggiungere quella dei Bruttii Praesentes, potente dinastia dell’Italia antica, i cui esponenti rimasero sulla scena per più di quattro secoli, rivestendo in Italia e in provincia tra i più importanti uffici politici, militari e religiosi. Avevano ville in Sabina, nel Lazio e in Lucania e certamente una domus, citata dai Cataloghi Regionari, anche a Roma (Reg. III: tra il Ludus Magnus/Matutinus et Dacicus e il Summum Choragium) 10, dove svolgevano un’intensa vita politica, soprattutto al fianco di Domiziano, Adriano, Marco Aurelio e Commodo. Diedero Bruttia Crispina in moglie all’imperatore Commodo e questo dovette giustificare la presenza diffusa degli Aurelii in val 6 7 245 9 BUCCELLATO 2005. GUIDOBALDI 1995. 10 246 HELGA DI GIUSEPPE Il mentre E veniamo ora all’epoca tardo antica, quando gli indicatori della produzione laniera si basano su poche notizie delle fonti letterarie e su una documentazione archeologica concentrata soprattutto su un aspetto del ciclo produttivo, quello della follatura. Le fulloniche, come è a tutti noto, sono lavanderie facilmente riconoscibili sul piano archeologico perché dotate di spazi ristretti per il lavaggio, caratterizzati da piccoli muretti laterali che contenevano bacini ovoidali peFig. 2. - La fullonica di Casalbertone lungo la Collatina (rielaborazione da MUSCO, CATALANO, CASPIO et alii 2008, fig. 1). statoi denominati lacunae fullonicae (diametro cm 56d’Agri in Lucania, regione che ospitava innumerevoli 80; profondità cm 40). In tali contenitori tessuti nuovi o proprietà dei Bruttii Praesentes gestite da loro servi, usati venivano pestati da vere e proprie lavatrici umane actores e liberti, la maggior parte dei quali coinvolti che, appoggiandosi ai muretti laterali e attraverso un’openell’allevamento ovino e nella produzione laniera. Ne razione definita saltus fullonicus, ripulivano i panni con è un’emblematica testimonianza la villa di Barricelle l’ausilio di soda o urina dalle note proprietà sbiancanti. in corso di scavo nell’alta Val d’Agri in cui notevoli Vasche più ampie poste a diverse altezze servivano per sono le attestazioni di produzione laniera 11. Prima ani risciacqui da effettuarsi con la terra del fullone, che, al cora degli Aurelii, fu attirata in questa regione la facontrario, conferiva morbidezza ai tessuti induriti dalle miglia giulio-claudia in particolare, gli imperatori sostanze alcaline 13. Completavano le fulloniche ampi spaClaudio e Nerone che molto dovettero basare le loro zi pavimentati con materiale idraulico in cui i tessuti vefortune sull’attività laniera sviluppata in Italia merinivano sospesi sulla viminea cavea per essere sbiancati dionale, centrale e nei dintorni di Roma stessa 12. È evidai fumi dello zolfo, appesi per essere asciugati e pettidente dalla geografia e prosopografia di queste ville nati e sottoposti al pressoio fullonico (prelum) per la stiche, se la base economica si trovava fuori Roma, era ratura. Roma stessa a fruire della ricaduta della ricchezza che Tra i molti esempi di fulloniche che si possono citane derivava, accogliendo materie prime e manufatti fire val la pena ricordare quella di epoca medio-imperianiti da immettere sul mercato. Interessa qui sottolile scavata in estensione a Casalbertone, lungo la Collaneare che è proprio nella prima e media età imperiale tina, nel suburbio orientale di Roma, che ci fornisce un che nascono le premesse del coinvolgimento della res utile termine di paragone architettonico sulla tipologia di privata dell’imperatore nell’attività laniera, coinvoluna fullonica con possibili funzioni pubbliche o comunque gimento che porterà come estrema conseguenza alla gestita da un importante proprietario, la cui attività era nascita in epoca tardo antica dei gynaecei su cui torcondotta su vasta scala (fig. 2) 14. Qui sono state docuneremo. mentate almeno 90 postazioni lavorative occupate da in11 DI GIUSEPPE 2007a; DI GIUSEPPE 2010a; RUSSO, DI GIUSEPPE 2012; DI GIUSEPPE 2014, pp. 216-225. 12 DI GIUSEPPE 1996; DI GIUSEPPE 2007b, pp. 163-164; DI GIUSEPPE 2008; DI GIUSEPPE 2010b; DI GIUSEPPE 2012, pp. 486-489; DI GIUSEPPE 2014, pp. 214-215. 13 FLOHR 2003; FLOHR 2001a; BRADLEY 2002; FLOHR 2011b. 14 MUSCO, CATALANO, CASPIO et alii 2008. Si esclude che si tratti di una conceria, in quanto non sono stati rinvenuti gli accumuli di resti osteologici che normalmente accompagnano questo genere di struttura, né si hanno altri dati, come la presenza dell’allume che potrebbe orientare diversamente l’interpretazione (informazione di Paola Catalano che ringrazio). LA PRODUZIONE LANIERA A ROMA TRA TARDO ANTICO E MEDIOEVO: UN CASO DI INDUSTRIA DISATTESA? 247 dividui di rango sociale certamente basso che, contemporaneamente, saltavano tutto il giorno in spazi ristrettissimi tra miasmi mefitici. Anche se l’associazione tra la vicina necropoli e la fullonica non è certa, è significativo sul piano sociale che le tombe siano tutte alla cappuccina, praticamente prive di corredo e che il campione di 166 scheletri analizzati, di cui il 67% è maschile, mostri alterazioni e lesioni alla colonna vertebrale, agli avambracci, alle clavicole, alle rotule e ai calcagni, le parti maggiormente stressate in un’attività del genere. Stesse alterazioni presentano gli scheletri femminili e quelli degli individui più giovani, il che vuol dire che qui trovavano occupazione anche donne e fanciulli 15. La fullonica di Casal Bertone sembra essere una felice eccezione, più grande anche delle maggiori fulloniche rinvenute a Ostia e a Pompei, anche se è assai probabile che ne esistessero altre così grandi, strategicamente situate lungo le vie di ingresso a Roma. Al contrario, le fulloniche impiantate in città hanno dimensioni di gran lunga inferiori, contando su un numero di 3-5 conche al massimo. A Roma si rintracciano 19 attestazioni epigrafiche di fulloni divise in 13 località 16, e circa 12 casi archeologici che, nati in epoca primo e medio-imperiale, restano in funzione fino al VVI secolo d.C., ma si tratta ovviamente solo di un campione limitato dai ritrovamenti archeologici e dalle notizie pubblicate. Innanzitutto, dobbiamo sgomberare il campo dal luogo comune che trattandosi di un’attività fetida venisse tenuta ai margini della città. Doveva essere un’attività così redditizia e necessaria da far sopportare gli svantaggi mefitici che comportava e di fatto le ritroviamo un po’ ovunque a Roma, anche in centro (fig. 3). Quasi tutte vengono installate in ricche domus, come quella di Gaudentius (fig. 3, 1) sul Celio 17 o quella sotto l’ospedale di S. Giovanni in via Amba Aradam 18 (fig. 3, 2) collegata agli horti di Domitia Lucilla, o, sorprendentemente, nei pressi di luoghi sacri, come quella della Basilica Hilariana sul Celio (fig. 3, 3) 19, quella installata nella platea antistante il complesso sacro della Magna Mater, del santuario di Victoria e dall’Auguratorium (fig. 3, 4) 20 o quella sull’Oppio (fig. 3, 5) nei pressi di un edificio circolare, anch’esso a carattere sacro 21. L’associazione ricorrente tra fulloniche, latrine e santuari ha probabilmente giustificazioni di carattere pratico che risalgono al periodo imperiale. Infatti, l’attività del follatore aveva necessariamente bisogno di abbondante acqua, per cui di solito gli impianti venivano installati vicino a fontane pubbliche e ad acquedotti, come quella che si trovava de titulo Fullonices nei pressi della chiesa dei SS. Marcellino e Pietro sulla via Merulana 22. Per l’utilizzo dell’acqua di almeno due fontane pubbliche era necessario pagare una tassa (pensio) 23 e sappiamo dalla lex collegi 24 che nel III secolo d.C. i fulloni protestarono per circa 20 anni (dal 226 al 244 d.C.) per tornare a fruire di un vecchio diritto in auge fin da epoca augustea, ovvero quello di non pagare le tasse per l’utilizzo dell’acqua sacra nell’attività di follatura 25. Alla fine la controversia fu vinta dai fulloni che tornarono a beneficiare di quell’antico privilegio e questo forse è il motivo che giustifica la concentrazione ancora in epoca tardo antica di alcune fulloniche nei pressi dei luoghi sacri. Altro aspetto estremamente interessante di questo periodo è quello che riguarda i gynaecea, laboratori tessili deputati alla confezione di vestiti e mantelli di lana e di lana e seta insieme per la corte e l’esercito; essendo la loro gestione affidata a procuratori dobbiamo pensare che si trattasse di laboratori imperiali. Il loro sviluppo fu probabilmente incentivato sotto Diocleziano ma vengono citati già al tempo di Galerio e molto probabilmente nascono come textrina della res privata degli imperatori. Non è perfettamente chiaro quali operazioni vi si svolgessero se tutte – dalla filatura, alla confezione dei mantelli, alla follatura – o solo quelle finali e non è nemmeno chiaro di che 15 MUSCO CATALANO, CASPIO et alii 2008, pp. 37-39; KILLGROVE, TYKOT 2012. 16 AE 1958, 273 (catacomba di S. Ippolito); AE 1985, 173 (sconosciuta); CIL VI, 266-268 (Esquilino); 3970 (Monumentum Liviae); 31893 (1) = 41329 (2) (Roma, via della Polveriera 50, S. Pietro in Vincoli, nei pressi); 4336 (Monumentum Drusorum); 4445 (Monumentum Marcellae); 6287, 6288, 6289 e 6290 (Monumentum Statiliorum); 6994 (incerta); 7281a (Monumentum Vousiorum), 9428, 9429 e 9430 (incerta); ICUR VI, 16588 (catacomba di Marcellino e Pietro). 17 SPINOLA 1992, pp. 964-965. SCRINARI 1995, p. 116; MARTORELLI 1999, pp. 589-590. VITTI 1993; PAVOLINI 2001, p. 616; PAVOLINI 2004, pp. 424426; PALAZZO, PAVOLINI 2013, pp. 67, 73, 76. 20 COLETTI 2004, p. 423; COLETTI, MARGHERITELLI 2006, p. 466. 21 ASTOLFI, CORDISCHI, ATTILIA 1989-1990, pp. 61-66. 22 MARTORELLI 1999, p. 589. 23 CIL VI, 10298. 24 CIL VI, 266. 25 MUSCA 1970, p. 310; DE ROBERTIS 1977; DE ROBERTIS 1982; SABLAYROLLES 1996, pp. 113-120; VICARI 2001, p. 23. 18 19 Fig. 3. - Carta delle distribuzioni delle fulloniche di epoca imperiale e tardo antica note a Roma. 1) Domus di Gaudentius (SPINOLA 1992, pp. 964-965); 2) Ospedale di S. Giovanni in via Amba Aradam (MARTORELLI 1999, pp. 589-590); 3) Basilica Hilariana (PAVOLINI 2004, pp. 424-426; PALAZZO, PAVOLINI 2013, pp. 67, 73, 76); 4) Magna Mater (COLETTI, MARGHERITELLI 2006, p. 466); 5) Oppio (ASTOLFI, CORDISCHI, ATTILIA 1989-1990, pp. 61-66); 6) Via Merulana, chiesa dei SS. Marcellino e Pietro (MARTORELLI 1999, p. 589); 7) Celio, Ospedale militare (PAVOLINI 2001, pp. 616-618), 8) Crypta Balbi (M. Ricci, in questo volume); 9) S. Paolo alla Regola (http://www.ilpatrimonioartistico.it/lachiesa-e-linsula-di-san-paolo-alla-regola/); 10) S. Crisogono (riutilizzata come foonte battesimale; PICCOLINI 1953); 11) Via di San Basilio. 12-13) Via Appia, bivio del Quo vadis (SPERA 1999, pp. 72-75). tipo di strutture si trattasse, non essendone mai stata individuata una 26. Con Wild, possiamo immaginare grandi spazi all’interno di abitazioni domestiche re- 26 WILD 1976. quisite dallo stato o meglio all’interno dei palazzi imperiali, in grado di ospitare lo stoccaggio delle materie prime e soprattutto le macchine della tessitura che in questo periodo potevano essere sia orizzontali a pedali sia verticali a barra, come mostrano una lastra funeraria di marmo rinvenuta nello scavo della basilica LA PRODUZIONE LANIERA A ROMA TRA TARDO ANTICO E MEDIOEVO: UN CASO DI INDUSTRIA DISATTESA? 249 Il dopo circiforme sull’Ardeatina 27 e graffiti su epigrafi di catacombe 28. La Notizia Dignitatum Occidentis (XI, 60) datata alla terza decade del V secolo d.C. cita 14 procuratori addetti ai gynaecea sparsi tra le province orientali e soprattutto occidentali nei pressi di centri amministrativi non lontani dai limes delle province dove si concentravano le truppe e dove agevole doveva essere l’approvvigionamento della materia prima e la fornitura ai soldati. Anche per Roma si ricorda un Procurator gynaeceii urbis Romae 29, ma non abbiamo idea di dove si trovasse; per Tyro e Spalato, è stato possibile ipotizzare che i gynaecea fossero ospitati nei palazzi imperiali dove era possibile controllarli 30. Infatti, erano specie di ergastula in cui lavoravano forzatamente i gynaecearii, uomini liberi (mancipia) di rango sociale molto basso, costretti a fornire ore di lavoro in questi laboratori, come riportato da Codex Theodosianus 31. Alcuni di loro fuggivano e cercavano rifugio presso laboratori privati, dove evidentemente trovavano condizioni di lavoro migliori, ma chi li ospitava o li nascondeva era costretto a pagare una multa di 5 solidi. Inoltre, se una donna libera sposava un gynaecearius cadeva nella sua stessa bassa condizione sociale. Finire a lavorare in un gineceo statale poteva essere una punizione, come accadde ad alcune cristiane ricordate per essere state mandate a lavorare nei gynaecea durante la persecuzione di Galerio (305-311 d.C.) 32. Dalla discussione delle fonti letterarie emerge spesso il rapporto competitivo tra manifatture statali e private. Possiamo citare a tal proposito un altro passo del codice Teodosiano del 369 d.C. 33 in cui si proibisce l’uso privato di abiti di seta e dorati sia agli uomini che alle donne e in particolare si ordina che tali abiti siano confezionati solo in gynacaeis nostris, ovvero nei ginecei imperiali, quasi si trattasse di una norma volta a tutelare la produzione imperiale in competizione con quella privata 34. Sulla produzione tessile a Roma in epoca altomedievale non sappiamo molto, ma abbondanti flussi di tessuti di seta e di lino usati per gli addobbi interni furono donati alla chiesa di Roma sotto i papi Adriano I (772-795) e Leone IV (847-855), come si evince dalle indagini statistiche effettuate da Paolo Delogu e i suoi collaboratori a partire dalle liste del Liber Pontificalis 35. Più di duemila pezze di tessuti serici e broccati furono importati a Roma e queste avevano lo stesso valore dei metalli preziosi, notizia che ci dice che Roma aveva bisogno delle manifatture straniere, probabilmente quelle orientali, per approvvigionarsi di tessuti pregiati. Tuttavia, un’industria tessile, domestica e manifatturiera, seppur di piccola scala, dovette albergare a Roma senza soluzione di continuità. Ne sono indicatori indiretti fuseruole, forbici, ditali, aghi da cucito rinvenuti sovente negli scavi di epoca alto-medievale e medievale 36 che rimandano alla filatura e quindi alla fase successiva della tessitura e ai lavori di assemblaggio e cucitura delle pezze finite. Non sarà, infatti, un caso che le corporazioni inerenti l’industria tessile sono tra le più antiche documentate a Roma e tra quelle che sono durate più a lungo. I primi statuti risalgono agli inizi del XIV secolo, in particolare gli Statuta et ordinamenta artis pannorum lanae del 1321 costituiscono una fonte preziosa per la ricostruzione dell’organizzazione di questa attività 37. Lanaioli erano aggregati alla Mercatantia insieme ai bambaciai, ai merciai, ai cimatori e ai canevacciari e dovevano pagare all’Arte maggiore dodici denari per qualsiasi quantità di lana entrasse in città. I lanaioli abitavano e operavano per lo più tra rione Pigna e S. Eustachio e gravitavano sulla chiesa di S. Maria sopra Minerva, dove si svolgevano anche le riunioni degli aderenti all’Arte 38. Nel XVI secolo invece le delibere verranno prese a S. Lucia de apothecis oscuri oppure presso la chiesa di S. Caterina de Rosa. E qui sappiamo che fin dal XIII secolo operavano i mercatores pannorum e probabilmente altre attività connesse alla produzione, 27 FIOCCHI NICOLAI, DEL MORO, NUZZO et alii 1995-96[1999], p. 120, fig. 36. 28 BISCONTI 2000. 29 NOT. dign. occ. XI, 45; XII, 26-27: comes sacrarum largitionum e comes rei privatae. 30 WILD 1976, p. 53 31 COD. Theod. X, 20, 3; X, 20, 6; X, 20, 8; X, 20, 9. 32 LACT., mort. pers. XXI, 4. VICARI 2001, p. 19. 33 COD. Theod. X, 21, 1. MARTORELLI 1999, p. 589. DELOGU 2001, pp. 34-35. 36 Varie ne sono state trovate negli scavi sotto Palazzo Valentini (BALDASSARRI et alii 2008, p. 151), nelle cantine a Piazza Navona, 62 (database Produzione a Roma), dal pozzo 6051 nell’hortus della diaconia dei SS. Sergio e Bacco (FOLLIS 1988), negli scarichi dell’esedra della Crypta Balbi (SFLIGIOTTI 1993, pp. 531-532). 37 LORI SANFILIPPO 2001. 38 LORI SANFILIPPO 2001, p. 149. 34 35 250 HELGA DI GIUSEPPE tintura, lavaggi e stirature delle lane, per cui erano necessari spazi aperti e porticati, come quelli utili per i tiratoria pannorum 39. Nell’agro romano si produceva la lana di pecore di razza garfagnina, che produceva una fibra di qualità mediocre, scura e poco morbida. Interessante notare che l’economia laniera del Lazio nel medioevo sembra essere piuttosto autosufficiente e chiusa rispetto ad altre realtà. Infatti, come nota I. Lori Sanfilippo, nei contratti d’acquisto non compare mai la lana d’oltralpe e nemmeno quella della vicina regione Abruzzo, per fare un esempio, anche se sono noti lanaioli provenienti dall’Aquila che si trasferirono a rione Pigna, come «Nanni di Saba detto Ranocchio» 40. I lanaioli ricevevano direttamente a casa dalla fonte di approvvigionamento la lana ben pulita e purgata e poi la facevano lavorare; alcuni di loro commerciavano anche in piante usate per la tintura delle lane come la robbia da cui si ricavava il colore rosso o il guado da cui si estraeva l’azzurro e in cenere usata come fissante. Il lanaiolo poteva essere produttore di panni e anche mercante degli stessi. Tra i tessuti messi in commercio a Roma vengono citati panni di scarsa qualità, come gli stametti, i miscolati, gli alaczi, i carfangini, gli albi e i lazzi tra i più scadenti. Da tutte queste informazioni ricaviamo che la produzione romana non è mai molto raffinata; anche nel medioevo, come nelle epoche precedenti, i tessuti di lusso dovevano essere importati. Da una lettera del 1297 ai priori di Firenze si apprende che un cittadino romano aveva acquistato dalla Francia una grossa partita di panni con l’idea di farla tingere a Firenze e venderla a Roma, ma ne era stato impedito dai divieti fiorentini 41. Le rubriche del 1321 rivelano che i panni a Roma potevano essere importati per essere tinti e rifiniti e che per questo andava pagata una tassa al tesoriere dell’Arte e chiesto il permesso ai consoli della corporazione. Quindi Roma ancora una volta si conferma essere città che aveva un’industria laniera interna, capace di trattare anche manufatti altrui, ma a un livello di produzione molto diverso da quello noto per Milano, Firenze o i centri francesi fiamminghi e inglesi. Difficile individuare gli indicatori archeologici di tale attività per il periodo medievale. Particolarmente interessante tuttavia sottolineare che negli strati di riempimento dei bagni della Crypta Balbi risalenti al XIII secolo sono state rinvenute 19 fuseruole, forbici e ditali che lasciano presumere, per quanto il materiale sia decontestualizzato, che nei dintorni doveva svolgersi un’attività di filatura e verosimilmente tessitura e cucitura di ambito non propriamente domestico. È assai probabile che la caratteristica di Roma di approvvigionarsi prevalentemente dall’Agro romano fosse tale pure nei periodi precedenti, anche a giudicare dal numero di Gualchiere, deputate ai lavaggi delle lane rintracciabili dalle fonti documentarie e dalla toponomastica nei dintorni di Roma, come il parco della Caffarella 42, Casale della Valchetta 43, Casale di Salone 44, Casale di Buonricovero 45, Casale Mola Pisciamosto 46, Castrum de Tartaris 47. Nel XVI secolo l’Arte della lana romana risultava completamente in declino, surclassata dai laboratori toscani e lombardi che seppero investire in questo campo, ammodernandosi e introducendo migliorie tali da sbaragliare la concorrenza romana. Notevoli tentativi per industrializzare la città e dare lavoro alla povera gente, furono fatti dai papi Pio V e Sisto V, introducendo a Roma l’arte della lana e della seta. Approfittando del restauro degli acquedotti dell’Aqua Virgo, un laboratorio per il lavaggio delle lane e la confezione di stoffe fu impiantato sulla sinistra della fontana di Trevi (Palazzo Poli). Furono effettuati investimenti, messi a disposizione prestiti senza interessi a lunga scadenza, o soldi forniti del tutto gratuitamente, furono acquistati materiali e navi per la commercializzazione; aperti laboratori, fatti venire a Roma tessitori stranieri specializzati che insegnassero l’arte ai romani, fu stimolata l’operatività femminile nei conventi con la convinzione che i tessuti serici prodotti dalle religiose sarebbero stati a buon mercato e avrebbero permesso ottimi guadagni alle casse dello Stato pontificio; furono fatti venire imprenditori da Bergamo, Firenze, Lucca, Genova e Venezia, richiamati operai stranieri con la promessa di ottenere l’impunità per i reati civili commessi nel loro MANACORDA 2003, p. 82. LORI SANFILIPPO 2001, p. 149. 41 LORI SANFILIPPO 2001, p. 162. 42 Not. Evang. Bistusci, Archivio Capitolino 67, V, ff 34 e 35; FILIPPI 2001: Schede AP-GIOVANNETTI-03 e 07. 43 Regesto del Monastero (doc. 165 del 6 dicembre 1279): Scheda AP-GIOVANNETTI-01. Scheda AP-GIOVANNETTI-02. Not. Giorgio Albini, Archivio Capitolino Orig. 57, f 63: Scheda AP-GIOVANNETTI-04. 46 Not. Evang. Bistusci, Archivio Capitolino, Arch. Urb., sez. I, t 66, f 471: Scheda AP-GIOVANNETTI-05. 47 Archivio Capitolare di San Pietro in Vaticano, capsa 42, fasc 166, 23 ottobre 1294: Scheda AP-GIOVANNETTI-06. 39 40 44 45 LA PRODUZIONE LANIERA A ROMA TRA TARDO ANTICO E MEDIOEVO: UN CASO DI INDUSTRIA DISATTESA? paese; fu imposta in tutto lo Stato della Chiesa la piantagione dei gelsi che fornivano l’alimento principale ai bachi da seta; fu introdotta persino l’arte di filare, battere, separare e affinare l’oro e l’argento per la confezione di tessuti fatti di tali fibre metalliche. Un progetto ambizioso di Sisto V, mai realizzato, fu quello di trasformare il Colosseo in un grande opificio laniero 48. Purtroppo fu tutto inutile, le imprese morivano nel giro di un anno e non è chiaro se perché gli investimenti promessi furono spesso disattesi, se erano comunque troppo esigui per l’entità delle imprese o per via della pigrizia di chi operava in questo settore. Sta di fatto che mentre altre città come Firenze, Lucca, Bologna, Milano, Venezia e Napoli svilupparono una consistente industria laniera e serica, Roma perse ancora una volta la sua grande occasione. Bibliografia ASTOLFI, CORDISCHI, ATTILIA 1989-1990 = F. ASTOLFI, L. CORDISCHI, L. ATTILIA, Regione III, Viale del Monte Oppio - via delle Terme di Traiano. Comunicazioni preliminari, in BCom, XCIII, 1989-1990, pp. 57-508. BALDASSARRI et alii 2008 = P. BALDASSARRI et alii, Schedatura dei materiali rinvenuti, in R. DEL SIGNORE (a cura di), Palazzo Valentini. 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IMPIANTI METALLURGICI TARDO ANTICHI ED ALTO MEDIEVALI A ROMA. ALCUNE RIFLESSIONI TECNOLOGICHE E STORICO-ECONOMICHE A PARTIRE DAI RECENTI RINVENIMENTI ARCHEOLOGICI A PIAZZA DELLA MADONNA DI LORETO Vasco La Salvia* L’analisi di alcuni aspetti squisitamente tecnologici della produzione metallurgica a Roma, specie quella relativa al Rame ed alle sue leghe, consente di affrontare una serie di argomenti ed approfondimenti di carattere storico-economico di grande rilevanza in merito alla annosa questione del passaggio fra tarda antichità e alto medioevo. In particolare, la grande officina di piazza Madonna di Loreto, riportata alla luce grazie al lavoro congiunto di M. Serolorenzi e di G. Ricci, apre una finestra sull’Archeologia della Produzione decisamente ‘fuori scala’ rispetto a quanto fin’ora messo in luce dalla ricerca contemporanea e permette di ragionare, grazie anche ad un buon numero di analisi archeometriche, realizzate dalla collega L. Anguilano dell’ETC Brunel di Londra, su temi che spaziano dalla organizzazione della produzione (ed alle sue trasformazioni nel corso del tempo fra mondo tardo romano e quello protobizantino), alla gestione/recupero/approvvigionamento della materie prime, dal trasferimento di tecnologie specifiche fino al relativo problema dell’integrazione di queste con il patrimonio culturale/fabbrile di origine barbarica che si estrinseca e si esplicita anche e, soprattutto, nel riconoscimento e/o costruzione di (nuove/consuete) vie commerciali e di rapporti diretti di committenza. Come ricordato da Giannichedda piuttosto di recente, infatti, occorre tenere presente che: «In order to understand the metallurgy of the period, it is necessary to differentiate between a great variety of socio-economic backgrounds in the Mediterranean and Europe between the 4th. and 7th. c.» 1. Altro aspetto importante è quello di carattere più strettamente metodologico, ovvero, la questione che vuole in ambito italiano (ma non solo), a parte forse la tradizione della scuola senese iniziata da R. Francovich, lo studio delle tecniche metallurgiche tardo antiche (specie per il V e VI secolo e, quindi, sarebbe forse meglio definirle proto-bizantine) essere piuttosto relegato in una posizione secondaria, forse in quanto posizionato fra lo studio dell’Antico in quanto tale e quelle del periodo pienamente Longobardo 2. Ciò ben si comprende dal fatto che la sintesi di S. Vryonis, dell’inizio degli anni ‘60 del secolo XXI, costituisce ancora la base di partenza di molte delle riflessioni di carattere numismatico in merito al problema della abbondanza di monetazione aurea e, in misura minore argentea di origine bizantina, senza che vi sia una chiara visione del problema delle modalità di approvvigionamento minerario 3. Dunque, si sconta ancora una concezione secondo la * Questo contributo è il frutto della ‘digestione’ e della elaborazione di una lunga discussione, partita nel 2013 e fondata sulla sana pratica archeologica di cantiere e di laboratorio che ha visto coinvolti, in primo luogo, gli amici e colleghi G. Ricci e M. Serolrenzi, con i quali costante è stato il confronto, a volte anche ‘aspro’, per cui cruciale si è rivelata la reciproca disponibilità non solo all’ascolto ma anche all’apprendimento dei rispettivi specialismi. Sullo stesso piano, il rapporto ed il lavoro di e con i miei amici e colleghi dell’Università di Chieti, S. Antonelli, A. Iacone, S. Propseri e M. Tornese e dell’ETC Brunel di Londra nella persona di L. Anguilano, che tanto (e più di me) hanno lavorato sull’analisi e la classificazione delle scorie, è risultato conditio sine qua non per la redazione di questo saggio. Senza il lavoro di queste persone, il presente articolo non avrebbe potuto vedere la luce nella sua forma attuale, pur restando il suo contenuto interamente responsabilità dello scrivente. 1 GIANNICHEDDA 2006, p. 189. 2 GIANNICHEDDA 2006, p. 190. 3 VRYONIS 1962, pp. 1-17; PITARAKIS 1998, pp. 141-185; come ben specificato in BRYER 1982, p. 134: resta, infatti, il problema della mancata chiarezza sulla questione della «abundance of Byzantine gold, and to a lesser extent silver, coin. But, so far, numi- Introduzione 254 VASCO LA SALVIA quale la ‘questione del metallo’ poco avrebbe a che fare con la ridefinizione degli spazi urbani, e dei paesaggi in genere, e della generale ristrutturazione delle rotte commerciali, in questo neppure assecondando l’andamento delle fonti (tanto scritte che archeologiche) che, per una volta, sembrano procedere parallelamente descrivendo uno spazio economico in forte contrazione, seppure non in involuzione tecnologica. Il bello e recente libro della Saradi sulla città bizantina del VI secolo, ad esempio, non lascia alcuno spazio a tale problematica. Lo studio delle attività produttive in epoca pre-industriale, tuttavia, fornisce da un lato una chiave di lettura dei rapporti socio-economici, attraverso l’analisi delle strutture di produzione e dei fattori storicoculturali, e dall’altro consente di conoscere e approfondire gli aspetti tecnologici della produzione stessa, anche attraverso l’ausilio delle analisi archeometriche, secondo quel filone di ricerca aperto negli anni Sessanta del XX secolo dai pionieristici lavori di Tylecote proprio sull’applicazione del metodo scientifico per lo studio della metallurgia antica 4. Ciò che appare evidente per questo periodo è, dunque, una riorganizzazione della produzione che esalta una differenziazione netta fra le zone vicine alle aree minerarie e quelle più lontane da esse, connotate come zone di trasformazione e consumo, una situazione che registra (come si è già notato, tanto per le fonti archeologiche quanto per quelle scritte) una frequente commistione fra un ‘sapiente’ e tecnologicamente avanzato riuso di materiali di spoglio e la continuità, seppure forse ‘intermittente nel tempo’, di forme di produzione diretta di materia prima come pare confermare il caso di Castelvecchio di Peveragno in Piemonte, sito presso il quale sono stati rinvenuti, per un periodo compreso fra V e VI/VII secolo numerosi lingotti di piombo insieme a diverse tracce di lavorazione dei me- talli. Il livello quantitativo e qualitativo di questa produzione è tale da caratterizzarla come qualcosa di assai più complesso rispetto ad un’attività occasionale e/o semplicemente collaterale all’agricoltura 5. Le fonti scritte coeve, in prima istanza Cassiodoro nelle Variae, si presentano altrettanto ondivaghe insistendo tanto sull’importanza del recupero dei materiali preziosi dalle sepolture in nome dello stato 6 quanto sull’organizzazione di viaggi specifici in note aree minerarie come quelle della Dalmazia e/o della Calabria per recuperare materia prima e tasse dalle locali miniere e, addirittura, intraprendere nuove prospezioni 7. Prima di entrare nel cuore del dibattito tecnico-economico, occorre sottolineare un ultimo aspetto, ancora di carattere generale e metodologico che riguarda la quasi assoluta mancanza di confronto di quanto archeologicamente scavato con le fonti scritte: in questo caso specifico, naturalmente, per fonti scritte intendo fare riferimento allo studio ed alla analisi approfondita della tradizione tecnica manoscritta tardo antica e alto medievale di argomento metallurgico, una tradizione colta e, sicuramente non direttamente di officina, che ha in testi come la Mappae Clavicula la sua sintesi migliore 8, e che tuttavia riflette il persistere di interessi tecnici e produttivi in ambiti specifici, che possono essere, quindi, definiti peculiari per i luoghi della loro conservazione, tanto da un punto di vista socio-economico (come nel caso degli scriptoria delle Chiese cattedrali e/o dei monasteri) nella trasmissione di ‘ricettari tecnici’ o geograficamente, o meglio, geo-morfologicamente, dal momento che questi stessi luoghi possono risultare siti di interesse minerario, oppure centri ove si concentra la nuova committenza (tanto laica che ecclesiastica), come pare essere stato proprio il caso di un manoscritto rinvenuto negli archivi della cattedrale di Lucca di cui si tratterà, brevemente, più avanti. Ciò che smatic metallurgists have been unable to tell us with certainty where Byzantine gold and silver came from, and how far it was new, imported, or inherited recycled stock». In effetti, in LAIOU, MORRISSON 2007, p. 63: «Although we have little definite information on the chronology of mine exploitation (there is some archaeological evidence, e.g. at Sulucadere in the Bolkardag, of mining in the ninth century), metallurgical analyses of Byzantine coins prove that some quantity of newly mined gold and silver was available for striking coins and renewing the monetary stock. Whether this source of new metal was inside or outside Byzantine territory or a combination of both, is unfortunately not determined». In parziale controtendenza, dunque, gli studi della Morrisson che, tuttavia, mantengono l’accento essenzialmente su questioni merceologiche e strettamente relative al titolo di fino presente nelle monete piuttosto che su quelle mineralogico-metallurgiche; per la vasta produzione della Morrisson si vedano fra gli altri, MORRISSON 1994; MORRISSON, BARRANDON, BRENOT et alii 1985. ANTONELLI, IACONE, PROSPERI et alii 2013, p. 95. GIANNICHEDDA 2006, pp. 192, 194; su Castelvecchio di Peveragno vedi MICHELETTO 1996, pp. 115-129; MICHELETTO, GUGLIELMETTI, VASCHETTI et alii 1995, pp. 137-219; MICHELETTO, PEJRANI BARICCO 1997, pp. 295-344. Simile anche il sito di Belmonte, sempre in Piemonte, presso il quale si sono riscontrate rilevanti tracce di attività siderurgiche che testimoniano della presenza del ciclo di lavorazione completo dall’estrazione alla produzione di manufatti finiti, in proposito CIMA 1986, pp. 173, 177, 179, 181, 187, 188, 189; CIMA 1987, pp. 113, 119; MICHELETTO, PEJRANI BARICCO 1997, pp. 318-322. 6 CASSIOD. var. IV, 34. 7 CASSIOD. var. IX, 3; III, 25 e 26. 8 STANLEY SMITH, HAWTHORNE 1974, pp. 1-128; GIUMLIA-MAIR 1998, pp. 243-249; BERNARDONI 2010, pp. 381-383; BARONI, PIZZIGONI, TRAVAGLIO 2014. 4 5 IMPIANTI METALLURGICI TARDO ANTICHI ED ALTO MEDIEVALI A ROMA 255 Nella descrizione di questa grande officina posizionata in quello che doveva essere ancora il cuore pubblico della Roma forse tardo gotica ma, piuttosto, potrebbe forse dirsi proto-bizantina ed altomedievale, non ci si dilungherà oltre sull’analisi cronologica, spaziale e topografica dato il contributo specifico presente in questo stesso volume a cura di Ricci e Serolorenzi. La discussione sarà, dunque, limitata alla descrizione dettagliata delle tecniche produttive utilizzate (sulla base dei dati archeologici ed archeometrici) in modo da consentire la possibilità di effettuare alcune comparazioni che possano gettare una qualche luce, non certo soluzioni definitive, sulla storia delle tecniche metallurgiche del periodo e sul tipo di organizzazione della produzione. Attraverso le schede raccolte e messe a disposizione dei partecipanti al Convegno sulla archeologia della produzione a Roma, d’altro canto, è stato possibile ricostruire il contesto tecnico ed economico entro il quale posizionare l’attività di questa grande officina romana. Questi dati mettono in luce la presenza, per il periodo in esame di una serie di installazioni fisse e di scarti di lavorazione e scorie che incorniciano, per così dire, tanto cronologicamente quanto dal punto di vista produttivo, l’attività delle officine di piazza della Madonna di Loreto, sottolineandone, al contempo, l’unicità esaltandone tutte le particolarità tecniche, organizzative e l’ampiezza del generale volume produttivo rispetto al quadro economico di riferimento 10. Nell’ambito degli scavi realizzati presso la Basilica Hilariana sono emerse notevoli tracce di riconversione d’uso degli spazi inquadrabili tra la fine del IV e gli inizi del V secolo d.C. che all’interno di alcuni vani, precedentemente destinati a ruoli di ‘rappresentanza’ o di servizio (corridoi), situati al centro dell’ala sud, hanno messo in evidenza indicatori di attività artigianali e dei metalli in particolare, fra cui scorie bronzee ed utensili come pinze e crogioli 11. All’interno del Foro di Cesare, in un contesto stratigrafico di inizio V secolo, è stata rinvenuta un’altra fornace per la lavorazione del bronzo 12. Ancora, presso la chiesa di Santo Stefano Rotondo, alcuni strati, probabilmente databili al V secolo d.C., hanno restituito vasetti con evidenti incrostazioni metalliche che potrebbero, così, essere interpretati quali crogioli. Tuttavia, a causa del forte disturbo post-deposizionale subito dal deposito archeologico potrebbe, in realtà, trattarsi di materiali residuali o intrusivi per cui la datazione dell’intero contesto resta piuttosto incerta 13. Interessanti sono anche i dati provenienti dall’angolo posto a sud delle Terme di Traiano, sul colle Oppio, e, precisamente, nell’area riguardante la metà meridionale della terza galleria traianea dove, a partire dalla metà del V secolo, si evidenzia una nuova fase nell’attività di colmata della galleria, la quale porta ad invadere di macerie lo spazio compreso tra la cisterna e il lato nord del complesso termale. Tra la fine del V e la prima metà del VI secolo, viene ridotta notevolmente la frequentazione della galleria che risulta limitata a soli quattro ambienti che, durante questo periodo, vengono utilizzati NERI 2006, 139. Da questo punto di vista, infatti, resta difficile pensare all’esistenza di un polo metallurgico localizzato nel centro dell’Urbe (e magari ad una sua presunta continuità nel tempo a partire dall’età classica); al contrario, i singoli indicatori produttivi andrebbero correttamente analizzati all’interno di ciascun contesto archeologico in modo da valorizzarne pienamente il potenziale informativo, evitando, così, di forzare il dato verso la creazione di modelli aprioristici. 11 Vedi PAVOLINI, PALAZZO 2013, specie il capitolo sulla Fase 5 - Dismissione dell’edificio di culto; impianto di nuove attività produttive (metà V secolo d.C.) e tutta la parte relativa alle analisi archeometriche dei materiali che ha consentito di formulare l’ipotesi della presenza di una bottega per la produzione di colori in particolare, pp. 89-91; PAVOLINI 2004, p. 424. 12 In proposito, MENEGHINI, SANTANGELI VALENZANI 2007, p. 121; CARANDINI 2012, p. 118; DELFINO, DE LUCA, MINNITI et alii 2013, pp. 93-128. 13 MARTIN 2004, p. 506. è, dunque, ancora quasi del tutto assente è una prassi di ricerca che preveda il confronto fra le esperienze di bottega/saper fare, così come esse appaiono codificate attraverso la ‘registrazione’ delle fonti scritte, quali appunto i ricettari tecnici tardo antichi ed altomedievali, e la pratica archeologica, proprio sulla scorta di quanto recentemente, per altro in modo assai preciso e brillante, è stato proposto da E. Neri per lo studio della produzione delle campane, un metodo secondo il quale l’insieme delle catene operative proprie di ogni ciclo di produzione siano ‘trasformate’ in sequenze stratigrafiche in quanto «è possibile considerare un’unità stratigrafica come traccia materiale di una operazione, ovvero esito permanente di un atto valutato nella sua processualità» 9. L’officina di piazza della Madonna di Loreto ed il suo contesto tecnico-economico 9 10 256 VASCO LA SALVIA per attività artigianali, probabilmente in relazione alle operazioni di spoglio dell’impianto termale 14. Una notevole quantità di metalli sotto forma di grappe di ferro ancora inguainate nella fodera di piombo, pertinenti probabilmente alle officine ivi insediatesi, a partire dal VI secolo è stata rinvenuta nei vani di sostruzioni delle colonne onorarie dell’area centrale del Foro Romano 15. Nel Foro Romano, tra il Tempio di Saturno e la Basilica Giulia, a m 2,60 dal limite settentrionale della navata, nel corso dell’VIII secolo viene realizzato un pozzetto circolare di circa cm 30 di diametro, delimitato da un muretto realizzato in frammenti di mattoni, a sezione troncoconica per circa cm 50 di profondità. Quest’ultimo presentava la superficie interna rivestita d’intonaco; dal suo riempimento provengono numerosi resti di carbone, cenere e scorie di bronzo, per cui è ipotizzabile che si tratti di un forno a pozzetto destinato alla ri-fusione di elementi bronzei di spoglio, in fase con le operazioni di smantellamento della Basilica Giulia al Foro 16. Nell’ambito degli scavi effettuati a piazza Venezia per la realizzazione della linea C della metropolitana, è stata documentata un’importante attività metallurgica databile alla prima metà del VI secolo d.C. Lo scavo ha messo in luce una serie di fornaci a fossa destinate al processo di riduzione del minerale e funzionali alla lavorazione del prodotto ottenuto, per ottenere oggetti in lega di rame. L’impianto occupa una precedente taberna (III secolo d.C.) che si affacciava sulla via Lata ed è caratterizzato da due differenti fasi di utilizzo. La prima si contraddistingue per la presenza di quattro fosse con diametro medio tra i cm 30 ed i 50 con profondità compresa entro i cm 30, con pareti verticali rivestite d’argilla con tracce di termo-trasformazione e fondi concavi o piani. Due di esse sono identificabili come bassifuochi a pozzetto; i riempimenti delle fosse sono ricchi di frammenti di lega di rame, carboni, calce, frammenti ossei, elementi necessari per la carica del forno e due conservano tracce di laterizi, probabilmente relativi ad una cortina posta a protezione dell’imboccatura del mantice. Una fossa presentava due fori di circa cm 5 di diametro, pertinenti al sistema di ventilazione (uno era, con molta probabilità, un sostegno verticale per la tuyère del mantice) ed un’altra ha restituito numerose scorie metalliche, un lingotto, tre lamine in lega di rame (semilavorato) e due chiodi (prodotto finito). La seconda fase di utilizzo a scopo metallurgico ha caratteristiche del tutto identiche alla precedente, essendo costituita da un’ altra serie di fosse impostate al di sopra di quelle più antiche (secondo uno schema non raro per la metallurgia pre-industriale): le tipologie tecnologiche sono le medesime, così come le componenti strutturali (anche qui si conservano fori per il sostegno della tuyère del mantice). Una di queste fosse è, però, interpretabile come probabile incasso per un’incudine, avendo forma di ‘S’, un taglio molto profondo rispetto alle altre e non avendo restituito scorie né tracce di combustione. Nei pressi di queste emergenze sono stati identificati livelli caratterizzati dalla presenza di cenere, carbone, ossa, frammenti ferrosi e di ben 106 nummi, databili tra V e VI secolo 17. In ultimo, occorre mettere in evidenza, per il periodo compreso fra VI e VII secolo, l’unica area produttiva che, almeno (o, forse, sarebbe meglio dire solo) per complessità tecnologica anche se non per volume produttivo né, tantomeno, per gli aspetti relativi all’organizzazione della produzione o per il metallo lavorato, dato che si tratta di ferro, appare al momento paragonabile alle officine della zona di piazza Venezia e, con maggior precisione, con quelle che si aprono sulla via Lata, ovvero quella della zona di S. Omobono-insula Volusiana presso la quale si concentrano diverse fornaci, forge e banchi di lavoro per il ferro che meritano, senza dubbio, un maggiore approfondimento e sembrano presentare, ad un primo esame autoptico, anche delle specifiche/particolari caratteristiche tecniche. Anche in questo caso, siamo in presenza di un’attività, proprio come per la via Lata, che si svolge nell’ambito del riutilizzo dello spazio di tabernae sottolineando, quindi, un’area di produzione probabilmente legata alla proprietà/gestione privata, iniziando ad adombrare un contesto socio-economico che poi sarà regolato e sancito da fonti bizantine assai più tarde, come i Basilica ed alcuni commenti, glosse agli stessi, segnando un discreto cambiamento rispetto al rigido statalismo tardo romano 18. Nell’insieme, dunque, le attestazioni romane relative ai cicli di produzione metallurgica, esclusa appunto l’of- 14 CARUSO, PACETTI, SERRA et alii 2010, pp. 257-282; SCIORTINO, SEGALA 2010, pp. 243-256. 15 CAIROLI, VERDUCHI 1987, pp. 145, 163, 166, 186-187. 16 MAETZKE 1991, pp. 43-200; MAETZKE 2004, pp. 595-596. 17 Su questi scavi vedi SERLORENZI, SAGUÌ 2008, pp. 182-184. 18 Il contesto è, al momento, ancora inedito e le notizie qui riportate si devono alla scheda redatta per il Convegno ed alla gentile collaborazione della collega M. Ceci della Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali. Per quanto riguarda i Basilica ed il regime bizantino vedi, VRYONIS 1962, p. 3. IMPIANTI METALLURGICI TARDO ANTICHI ED ALTO MEDIEVALI A ROMA 257 ficina di piazza Madonna di Loreto, sembrano avvicinarsi come tipologia ad un fenomeno assai diffuso in Italia, ma ben presente anche nel resto dell’Europa e del Mediterraneo già romani, di riuso e spoliazione sistematica degli spazi pubblici, indicativo di un processo di destrutturazione della città antica e dei suoi spazi che sembra accomunare, sia pure con tempi e modi differenti, centro/i e periferia/e 19. Per quanto riguarda la penisola italiana, alcuni casi, strettamente legati alle attività metallurgiche, come ad esempio il complesso di S. Giulia a Brescia (BS), Grumento (PZ), Peltuino (AQ), Torraccia di Chiusi (SI) e S. Cristina in Caio a Buonconvento (SI) risultano essere esemplificativi del medesimo stato di cose. L’elemento che caratterizza maggiormente questa fase è, senza dubbio, il riciclo dei metalli non ferrosi (in particolare, rame e piombo). L’esempio di S. Cristina in Caio a Buonconvento ben si presta a disegnare i confini di questo modello di sviluppo economico 20. Il sito in questione, infatti, presenta un orizzonte economico all’interno del quale le attività artigianali sembrano essere essenzialmente legate alla produzione di piombo e leghe di rame come derivato diretto dalla spoliazione delle fistole e alla rifusione dei diversi manufatti in rame presenti negli ambienti delle terme, quali bracieri o contenitori per l’ebollizione dell’acqua. Presso S. Cristina sono stati individuati 7 forni fusori e 2 possibili forge, probabilmente relative, oltre che ai semilavorati anche alla produzione/riparazione degli strumenti necessari alla conduzione del cantiere dello spoglio. Le strutture produttive, di cui si sono rinvenute solo i fondi e poche parti rubefatte delle strutture sopraelevate, non dovevano essere molto complesse, non essendo necessaria la riduzione del minerale, non era infatti richiesto il raggiungimento di elevate temperature trattandosi di materiali di recupero. Queste attività sistematiche di spogliazione, specie nella loro fase iniziale, sembrano essere state condotte in modo centralizzato, tanto da lasciar supporre una sorta di appalto. Quindi, è possibile ipotizzare un’iniziativa pubblica alla base della demolizione e dello smontaggio delle terme e, d’altro canto la legislazione tardo romana e del regno gotico d’Italia sembra essere in linea con tale prospettiva: la Novella 4 di Maggiorano del 459 (Novella Maioriani 4, promulgata a Ravenna l’11 luglio 459), attesta che tutte le azioni di demolizioni restano strettamente vincolate alle decisioni della pubblica autorità, intesa nella sua massima espressione ovvero Imperatore e Senato e, anche se cronologicamente di poco posteriore, lo stesso Cassiodoro ribadisce, per la politica edilizia gota, l’uso di concedere a privati strutture pubbliche in rovina su concessione statale 21. Risulta, dunque, chiaro che in tale contesto qualsiasi iniziativa di rilievo sugli edifici pubblici doveva essere, per lo meno, concordata con lo Stato, in modo che lo spoglio non risultasse un danno per l’erario e per il decoro urbano 22. Vengono confermati, in questo modo, altri due aspetti fondamentali, da un lato, il mantenimento del vincolo pubblicistico sulla proprietà che viene concessa al privato soltanto attraverso autorizzazione pubblica e, dall’altro, il privilegio esclusivo sull’uso e lo sfruttamento delle risorse metallurgiche e di cava eventualmente presenti all’interno di edifici in rovina oggetto di restauro e/o spoglio da parte dello stato 23. Ciò evidenzia, senza dubbio, la lunga durata dei processi di destrutturazione della città antica che viene mutando il proprio aspetto e le sue articolazioni interne anche attraverso una concreta e continua azione di smantellamento ‘monitorata’ dagli apparati centrali dello Stato. Nuovamente, viene ad evidenziarsi come alcuni fenomeni economici di ampia portata siano caratteristici tanto delle aree centrali ed urbanizzate (come appunto L’ampiezza storico-geografica del fenomeno, ormai ben conosciuto, meriterebbe ben altro trattamento rispetto ad una singola e semplice nota, tuttavia, pur nella brevità si tenga conto di quanto espresso in LAIOU, MORRISSON 2007, pp. 29 e 39: «It is in this context that signs of general impoverishment must be considered […] metalwork and glass workshops were housed in baths, as, for example, at Leptiminus and Carthage». Fra gli altri, su Barcellona e sui contesti iberici in genere vedi, RIPOLL 2001, pp. 34-43; RIPOLL 2003, pp. 123-148; MARÊA GURT I ESPARRAGUERA, DIARTE BLASCO 2011, pp. 7-22; in merito a Olimpia, THEMELIS, KONTI 2002. Sugli spolia, anche per il loro carattere introduttivo e metodologico, vedi anche BRENK 1987, pp. 103-109; ALCHEMERS 1994, pp. 167-78; SENA CHIESA 2012, pp. 17-31. Naturalmente, vedi il contributo di R. Santangeli Valenzani in questo stesso volume. 20 Si è scelto di trattare in modo maggiormente dettagliato, come singolo esempio, questo sito dal momento che dal 2013 l’autore del presente saggio è impegnato con il collega M. Valenti dell’Università di Siena nella ricerca e nello scavo proprio in quest’area. 21 CASSIOD. var. II, 23; III, 29; IV, 30. 22 Secondo la stessa Novella ai magistrati che si arrogavano il diritto di concessione era inflitta una multa di 50 libre d’oro mentre, per i loro sottoposti erano previste pene corporali quali fustigazione ed amputazione degli arti. Simile attenzione alle azioni di spoglio del patrimonio pubblico, tuttavia, si possono rintracciare già all’inizio del secolo IV allorquando, prima Costanzo con un editto ed in seguito il IX libro del Codice Teodosiano (De sepulchri violati) insistono sul medesimo argomento, ovvero sul divieto di spoliazione delle ‘aree monumentali’ e sulla illiceità di fare commercio ed uso con materiale che si ritiene essere ex iure di proprietà statale e/o comunque di pertinenza fiscale. 23 CASSIOD. var. VII, 44. 19 258 VASCO LA SALVIA la stessa Roma) quanto di quelle decentrate o periferiche come i centri minori appena elencati. Tornando, tuttavia, a Roma in conclusione di questa breve introduzione all’orizzonte tecnico-economico della grande officina romana di piazza della Madonna di Loreto e, riprendendo quanto recentemente sostenuto da E. Zanini, è possibile ribadire che, tenendo conto anche e soprattutto dei dati provenienti dalla zona della Crypta Balbi e di quanto rinvenuto presso l’adiacente Porticus Minucia, a nord di via delle Botteghe Oscure, dove è stata rintracciata una officina specializzata per la produzione di cocciopesto, l’intera area in esame (grosso modo corrispondente al Campo Marzio) si presenta come una porzione urbana con una vocazione produttiva fortemente accentuata, fornendo l’immagine di un quartiere piuttosto spopolato con un preciso indirizzo produttivo che, tuttavia, denota una forma integrata di riutilizzo dei materiali, funzionale alla commercializzazione/consumo dei prodotti attraverso una riconversione delle materie di lavoro che ne sottolinea la complessità tecnica ed economica, complessità che caratterizza, quindi, ancora il VI-VII secolo ma non già più la fase immediatamente successiva, ovvero il pieno secolo VIII, mettendo in luce il momento ‘preciso’ di un radicale mutamento di prospettiva tecnica ed economica 24. All’interno di questo contesto con molta probabilità si inserisce, non casualmente, la complessa organizzazione dell’officina localizzata nell’Athenaeum di Traiano con il suo importante volume di produzione. Nel tentativo di ricostruire la storia dei processi metallurgici sono stati inizialmente sottoposti ad analisi autoptica 8041 elementi per un peso di più di 73 chilogrammi. Il peso non comprende, naturalmente, le tipologie di scorie con porzioni di struttura o rivestimento che avrebbero alterato il peso complessivo del residuo. Successivamente, i campioni sono stati divisi in due macro-gruppi, il primo costituito dalle scorie defluite all’esterno delle fornaci, comunemente dette colate (tapped), e il secondo dalle scorie interne createsi, come da definizione, all’interno delle stesse, comprendendo in esso anche quelle che conservano parte del rivestimento o della struttura della fornace. A ciascuna tipologia identificata corrisponde, dunque, una diretta derivazione da fasi distinte del ciclo di produzione, caratterizzate da specifiche condizioni di formazione. Le scorie defluite all’esterno rappresentano rispettivamente il 16% in termini di peso e l’1/% in termini di quantità rispetto al campione complessivo, con una netta preponderanza delle scorie interne (fig. 1 e tav. 00) 25. Tra le scorie defluite all’esterno delle fornaci, sono state riconosciute tre tipologie caratterizzate da una superficie liscia e vetrificata, con struttura interna compatta e maggiori o minori segni di scorrimento in base alla viscosità. La prima classe, detta C1 (fig. 2, A), comprende scorie di colore rosso-bruno con venature verdastre, composte sostanzialmente da silicati, a forma colonnare o stalagmitica, con evidenti segni di scorrimento. Una diversa condizione di raffreddamento e caratterizzazione dei componenti, probabilmente una maggiore presenza di ferro nel minerale d’origine, distinguono la seconda tipologia, C2 (fig. 2, B) che presenta un aspetto simile alla selce ed una conformazione ‘a ciottolo’, con dimensioni generalmente apprezzabili, ed una colorazione tra il verde scuro e il nero metallico. Le analisi archeometriche confermano per entrambe le tipologie una formazione durante il processo di fusione/raffinazione per la produzione delle leghe di rame. Sempre al medesimo processo, partendo da un materiale a base di solfuri misti, rimanda invece la terza tipologia di scorie colate, la C3 (fig. 3) che defluisce all’esterno della fornace allo stato liquido-viscoso e, aderendo alla superficie, presenta all’esterno una caratteristica forma a lastra con segni di scorrimento mentre, nella sua parte inferiore a contatto con il piano di lavoro o di raccolta delle scorie, ingloba materiale inerte (ghiaino, carbone, argilla, quarzo, etc.) 26. Le scorie interne, anch’esse direttamente connesse col processo di riduzione/raffinazione del rame, presentano una forma irregolare e un aspetto eterogeneo e poroso, con frequenti inclusi di cenere e carbone. A queste è stato attribuito il codice alfanumerico T e numero progressivo. Le prime tre tipologie (T1, T2, T3) con caratteristiche morfologiche molto simili, affine a materiale litoide, si presentano come più o meno ‘spugnose’. Fra 24 In occasione della prima presentazione pubblica dei dati sugli scavi di piazza della Madonna di Loreto, avvenuta a Chieti il 13 dicembre 2010, vedi http://archeologiamedievale.unisi.it/insegnamento/mediacenter/officine-urbe-produzione-metallurgica-roma-tra-t ardoantico-e-altomedioevo/07-tavola. 25 ANTONELLI, IACONE, PROSPERI et alii 2013, pp. 97-98. 26 ANTONELLI, IACONE, PROSPERI et alii 2013, p. 98; ANGUILANO, LA SALVIA c.s; ANGUILANO, LA SALVIA, ANTONELLI et alii c.s. Le attività artigianali: archeologia della produzione e archeometria IMPIANTI METALLURGICI TARDO ANTICHI ED ALTO MEDIEVALI A ROMA 259 Fig. 1. - Grafici della composizione tipologica/quantitativa delle scorie. loro si differenziano per la maggiore o minore porosità, dal momento che la grandezza dei vacuoli indica il grado di riduzione della carica, composta essenzialmente da carbone e fondenti (fig. 4). La quarta tipologia di scorie interne, la T4 (fig. 5), caratterizzata da un elevato peso specifico, presenta una struttura che ripropone la miscela della carica con la presenza di fibre carboniose ancora intatte. Sono pressoché assenti zone con silicati. La sua struttura, ad un’analisi macroscopica, potrebbe essere confusa con metallo fortemente ossidato e rimineralizzato. Sempre all’interno della fornace si sono formate quelle scorie dall’aspetto vetroso, ricche di silicati, identifi- Fig. 2. - Scorie, classe detta C1 (A); classe detta C 2 (B). 260 VASCO LA SALVIA Fig. 3. - Scorie colate, C3. Fig. 4. - Scorie interne classi T1, T2, T3. cate come T5 (fig. 6, A), che si caratterizzano per netti segni di scorrimento dovuti al deflusso all’interno della struttura allo stato viscoso. Le caratteristiche composizionali di questa tipologia possono essere messe in relazione con il processo di riduzione/fusione, come confermato anche dalle analisi al SEM. Le tipologie che seguono si distinguono per una evidente interazione con il rivestimento o la struttura della fornace, ovvero con la ceramica tecnica. Nei primi due casi (T6 e T9), si tratta di scorie che hanno inglobato parte del rivestimento ar- gilloso, negli altri due invece (T7 e T8) si tratta di parti delle strutture dei forni con tracce di scorificazione. Le T6 (fig. 6, B) presentano una matrice ricca di silicati, caratterizzata da una tessitura bollosa con tracce di mineralizzazione e leggeri segni di colatura, mentre la superficie a contatto con la parete della fornace ingloba un rivestimento di argilla concotta di colore rossastro. L’argilla utilizzata per proteggere le pareti del pozzetto o della struttura delle fornaci (la ceramica tecnica), trattenendo il calore, svolgeva un ruolo rilevante nel processo chimico-fisico del ciclo produttivo. La scorificazione, particolarmente ricca di silicati dona un aspetto vetroso anche alla tipologia denominata T9 che si differenzia dalla precedente per il rivestimento di argilla stracotta di colore grigio-antracite. Grazie alla presenza di numerosi frammenti di forma sub-circolare con parete concava, riconducibili a porzioni di bordi è possibile ricondurre questa specifica tipologia a fornaci definite dalla trattatistica tardo medievale come «forni a catino» 27 che, per la loro stessa forma e tipologia, non lasciano tracce in negativo sul battuto pavimentale (fig. 7). Le ultime due tipologie comprendono, quindi, elementi scorificati di parti strutturali delle fornaci e sono state identificate, da un lato, come T7, ovvero quali frammenti di rivestimento interno della fornace, con i quali la scoria ha interagito, caratterizzati dalla presenza di piccole parti di fittili e/o lapidei propri dell’incamiciatura interna della struttura produttiva; dall’altro, le T8 (fig. 8), come parti di piani di argilla stracotta, di colore grigio antracite, sottoposta ad una prolungata azione del fuoco, dalla consistenza simile a quella della pietra pomice. Questi piani, di argilla molto leggera, alterati del calore, presentano una forma subcircolare con i bordi lievemente rialzati e una superficie scorificata e diverse tracce di gocce metalliche. Forma e caratteristiche di queste superfici piane e scorificate le rendono del tutto compatibili con i processi 27 Sulle fornaci a ‘catino’ si veda il Libro VII di BIRINGUCCIO 1540, vedi anche NERI 2006, p. 103; ANTONELLI, IACONE, PROSPERI et alii 2013, p. 104. IMPIANTI METALLURGICI TARDO ANTICHI ED ALTO MEDIEVALI A ROMA di fusione in crogiolo e, dunque, riferibili a fornaci cosiddette ‘a riverbero’ (fig. 9), le tracce archeologiche delle quali ben sono riconoscibili nella pavimentazione dell’aula dell’Auditorium del Foro di Traiano nei tagli a forma di 8 che, in effetti, individuano il perimetro di una doppia camera (fig. 10 e Tav. 00) 28. I dati raccolti attraverso l’indagine delle scorie e dei resti archeologici consentono di proporre alcuni modelli ricostruttivi anche per i tipi di fornaci impiegate per la raffinazione/fusione del rame e la successiva produzione di leghe. I numerosi pozzetti individuati sull’intera superficie della pavimentazione dell’aula sono riconducibili a fornaci a pozzetto/cupola 29 o a camino 30. In un caso, la presenza di buche di palo con un andamento circolare intorno al pozzetto potrebbe indicare l’alloggiamento di sostegni lignei forse funzionali alla realizzazione dello stesso camino, come suggerisce il confronto con una delle strutture dell’impianto siderurgico alto medievale (praticamente coevo) di Boécourt in Svizzera (fig. 10 e tav. 00) 31. La tipologia di fornace che ha lasciato tracce archeologiche maggiormente riconoscibili è, certamente, quella cosiddetta ‘a catasta’ (fig. 11, B) che prevedeva l’uso di un muretto o di una lastra in pietra/marmo per proteggere il mantice dal fuoco. L’ingresso della tuyere era, infatti, previsto all’interno di questi schermi di pietra attraverso l’apertura di un apposito Fig. 5. - Scorie interne classe T4. Fig. 6. - Scorie interne classi T5 (A) e T6 (B). 28 Le due camere battono quote diverse, la prima più profonda relativa alla camera di combustione, la seconda con cavità appena accennata sul livello di calpestio, in rapporto al piano di lavorazione a crogiolo; non ci sono resti di camini di sfiato. Qui si propone la ricostruzione di un piano di fornace con frammenti di T8 (fig. 13). Sulle fornaci così dette a ‘riverbero’ vedi ANTONELLI, IACONE, PROSPERI et alii 2013; il trattato sui ‘fornelli a riverbero’ in BIRINGUCCIO 1540, p. 132r; vedi anche NERI 2006, p. 153 e LOWE, MASON 1987, pp. 81-156. 29 In relazione alla tipologia della fornaci a cupola si veda: CLEERE 1972, pp. 11 ss. 30 Per la tipologia del forno a camino si vedano: TYLECOTE 1962, pp. 152 ss.; CLEERE 1972, pp. 16 ss; HEALY 1978, pp. 188 ss.; CIMA 1991, pp. 139 ss.; ANTONELLI, IACONE, PROSPERI et alii 2013, pp. 104, 108. 31 Sul sito archeometallurgico di Boécourt si veda ESCHENLOHR, SERNEELS 1991. Un’ulteriore ipotesi ricostruttiva è quella di un forno fusorio a ‘cestone’, in particolare vedi NERI 2006, p. 155; ANTONELLI IACONE, PROSPERI et alii 2013, p. 108. Fig. 7. - Rappresentazione di un forno a catino. 261 262 Fig. 8. - Scorie classe T8. VASCO LA SALVIA foro 32. Un frammento di lastra di marmo, probabilmente di riutilizzo dall’edificio romano, presenta un orifizio che combacia perfettamente con la scorificazione, caratterizzata dalla presenza di un rivestimento argilloso, di uno degli ingressi di tuyere rinvenuti in situ (fig. 11, A e tav. 00). In totale sono stati ritrovati 18 ingressi di mantice a fronte di 11 fornaci a catasta identificate che, in due casi, presentano impronte del mantice sul piano. Gli ugelli realizzati in argilla e, quindi, più facilmente deperibili, sono solo due 33. L’analisi delle diverse tipologie di scorie e l’identificazione delle differenti forme delle fornaci ha permesso di ricostruire le molteplici attività che avevano luogo nell’officina. Sotto forma di saggiatura/assaggio, doveva operarsi la riduzione da minerale, come attestato anche dal rinvenimento di un frammento di calcopirite, anche se la fusione e la nualmente. Nel corso del tempo questo tipo di fornace andò incontro a diversi miglioramenti strutturali, con la realizzazione di un piano in muratura, su cui viene di volta in volta posto il focolare, e di un muro verticale tra la zona di riduzione e quella del mantice; è spesso anche attestata una cappa per la raccolta e lo smaltimento dei fumi nel caso in cui la struttura sia posta all’interno di un ambiente, CIMA 1991, pp. 126 ss.; vedi anche, LA SALVIA, IACONE 2011, pp. 165166; ANTONELLI, IACONE, PROSPERI et alii 2013, pp. 108-109. 33 Un simile contesto è stato rinvenuto presso Alesia (Francia) con la presenza di ben sette basso-fuochi, conservati in modo frammentario, e datato fra il I a.C. ed il IV secolo d.C., MANGIN 1982, p. 241. La parte conservatasi delle fornaci è costituita dai soli tagli scavati nel suolo naturale o nelle strutture murarie precedenti, di forma circolare e, in alcuni altri casi, ovale con un Fig. 9. - Piano di argilla stracotta pertinente alla camera di fusione di una fornace a riverbero diametro variabile compreso fra m 0,30 e m e sua possibile ricostruzione. 0,45 ed una profondità di m 0,15-0,20. Il pe32 Si tratta di tagli circolari caratterizzati dalla presenza di un’imrimetro della struttura è individuato da blocchi di calcare mentre la pronta rettangolare allungata su uno dei limiti della circonferenza. parte frontale era, molto probabilmente, dotata di un’apertura al liIl basso fuoco a catasta deriva direttamente da quello a pozzetto; vello del suolo, chiusa con un blocco di argilla con un foro per l’alentrambi sono, infatti, costituiti da una cavità scavata nel terreno loggiamento di uno o più mantici; in proposito, MANGIN 1982, p. tuttavia, nel caso della fornace a catasta viene realizzata una cor244; CIMA 1991, p. 126; A1 periodo tardo antico appartiene il basso tina come protezione dopo la prima carica di carbone e minerale; il fuoco di Misobolo (Montalenghe-Torino): CIMA 1986, p. 177; CIMA processo produttivo durava diverse ore e veniva governato empiri1991, p. 125; ANTONELLI, IACONE, PROSPERI et alii 2013, pp. 108camente, mentre l’areazione era assicurata da mantici azionati ma109. Fig. 10. - Localizzazioni e principali tipologie di fornaci individuate all’interno delle aule dell’Athenaeum. Fig. 11. - Tuyeres, ugelli (A) e fornaci a catasta (B). 264 VASCO LA SALVIA Fig. 12. - Campioni analizzati. raffinazione delle leghe di rame, che riutilizzava in una qualche misura anche manufatti romani (grappe bronzee e fistulae plumbee), dovevano rappresentare la principale attività tecnico-produttiva 34. Scorie, scarti di lavorazione e semi-prodotti metallici costituiscono, dunque, i principali indicatori archeometallurgici del sito di piazza della Madonna di Loreto. L’insieme di questi reperti ha fornito dati rilevanti in grado di contribuire alla ricostruzione dei diversi cicli produttivi che iniziarono a svolgersi nell’officina che venne a posizionarsi all’interno delle aule del foro di Traiano almeno a partire dalla fine del VI secolo. Come già rilevato, la varietà delle tipologie delle scorie rinvenute nel sito corrisponde alla molteplicità di forme di fornaci (a camino, a catasta, a pozzetto ed a riverbero) le cui tracce, ancora leggibili sul terreno, puntano verso una innegabile coesistenza di diversi processi metallurgici parzialmente legati tra loro. Tutto ciò contribuisce a strutturare un quadro artigianale complesso al centro del quale si trovava un sistema di officina estremamente sofisticato. La tecnologia impiegata in questi raffinati cicli produttivi è stata per ora ricostruita su una base analitica formata da soli 36 campioni, tra scorie e frammenti metallici, che ha permesso di riconoscere sei tipologie di residui metallurgici corrispondenti ad altrettanti differenti tipi di processi produttivi relativi, per la maggior 34 Per tutto quanto riportato in questi paragrafi su tipologie di scorie fornaci vedi, ANTONELLI, IACONE, PROSPERI et alii 2013, pp. 98-109. parte, alla lavorazione di rame e delle sue leghe ed a quella del ferro; quest’ultima, certamente, non doveva essere direttamente connessa all’attività principale dell’officina ma solamente accessoria ovvero necessaria per la produzione/riparazione degli strumenti di lavoro degli artigiani impegnati nella manifattura delle leghe cuprifere e di piombo. Inoltre, nove tipi di ‘oggetti’ metallici sono stati recuperati, accanto agli scarti dei processi produttivi, per essere analizzati (fig. 12). Questi sono, in parte, prodotti di rame e delle sue leghe, ricollegabili alle scorie analizzate e, parzialmente, relativi alla produzione/utilizzo del piombo nei processi di estrazione dell’argento e del suo successivo riutilizzo all’interno della produzione di oggetti in lega di rame. L’evidenza di quest’ultimo processo produttivo, in associazione alla presenza di fornaci a riverbero e di lavorazione a crogiolo (viste le elevate temperature raggiunte, determinabili in base alle analisi chimico-strutturali delle scorie), lasciato aperta la fondata ipotesi che all’interno di questa officina si svolgesse anche coppellazione. I risultati archeometrici possono essere riassunti come segue. Le scorie legate al rame e alle sue leghe Abbiamo quattro gruppi di scorie e/o materiali di scarto A) Il principale gruppo di scorie analizzato (campioni 3, 4, 5, 6, 7, 10, 15) risulta essere legato al processo di alligazione del bronzo piombifero (produzione della lega Cu/Pb - figg. 11-12). I materiali utilizzati per questo processo sono stati identificati in rame (Cu) metallico, piombo (Pb) metallico e cassiterite (minerale ossido di stagno, SnO2), del quale occorre, dunque, presupporre un’importazione diretta e consapevole nel centro di Roma (fig. 13). B) Un’altra tipologia di scorie (campioni 0, 2, 8, 9, 11) sembra essere originata da un processo di raffinamento e purificazione di rame metallico dalle impurità. Considerando le diverse tipologie di frazione metallica individuata nelle scorie analizzate e rela- IMPIANTI METALLURGICI TARDO ANTICHI ED ALTO MEDIEVALI A ROMA 265 tive a questa fase della lavorazione, come materia prima può essere stato usato sia del rame metallico, contenente inclusi di ferro (Fe), sia del rame metallico con concentrazioni di stagno (Sn) e antimonio (Sb). Il primo, forse, un prodotto diretto dalla riduzione di mineralizzazioni a rame e ferro, mentre, il secondo, probabilmente dovuto al riciclaggio di leghe. C) Una terza tipologia di scorie (campioni 18, 21 e 22) è legata, invece, alla lavorazione del rame. L’elevata vetrosità della scoria, l’alta concentrazione di gocce di rame metallico, la presenza di solfuri di rame e la presenza di quarzo residuo non completamente assorbito dalla porzione fusa, puntano verso un Fig. 13. - Scorie di alligazione della lega rame, stagno e piombo. processo di raffinamento della I metalli metallina impura in fornaci a crogiuolo ove la ceramica tecnica (la base della fornace stessa ed evenFra gli oggetti metallici rinvenuti nel sito ed in setuali ugelli di mantice e/o tubiere) aiutano ad guito sottoposte ad analisi sono state riconosciute nove aumentare la fluidità del materiale non metallico, in tipologie di barrette e frammenti metallici, descrivibili modo che le impurità residue vengano separate dal come segue: metallo e si leghino alla fase silicatica per defluire in forma liquida. Il quarzo, aggiunto in ultima a) artefatto in rame di forma circolare e sezione ovale, istanza nel processo, potrebbe essere stato utilizzato una sorta di ‘tondino’, la cui superficie presenta un per limitare l’ossidazione del metallo alle alte temforte arricchimento in cloro e piccole inclusioni di perature. La mettallina è un semi-prodotto, un seargento metallico in superficie. milavorato, per il quale, come in precedenza per la b) una barretta piatta e allungata di rame metallico (della cassiterite, occorre immaginare una importazione larghezza di un centimetro, con lo spessore di mm diretta per le necessità dell’officina e, quindi, la con2/3 e la lunghezza di cm 4) con inclusioni di solfuro testuale presenza di una rete commerciale di apdi rame. Lo studio della superficie della barretta ha provvigionamento. indicato, anche in questo caso, la presenza di argento D) Inoltre, due frammenti di forma eterogenea (camsempre associato a cloro. pioni 13 e 16) sono stati identificati come residui c) una barretta di rame con inclusioni di solfuri con comdi processo metallurgico e non come prodotto fiposizione mista; associato al rame troviamo, infatti, nale. I campioni sono di rame metallico e superfiferro, argento e antimonio, indicando che la mineracialmente presentano ricristallizzazioni di ossido di lizzazione originaria era a solfuri misti. stagno, coalescenza di piombo e presenza di cloro d) piccoli lingotti di bronzo piombifero. La composi(Cl). Questi reperti sono stati interpretati come dezione del solo bronzo è 90Cu/10Sn, nella sua totarivanti da processi di argentatura del rame tramite lità la lega presenta una composizione equivalente a bagnature in cerargirite fusa (AgCl), un altro mi93% Cu, 4’5% Sn, 2’5% Pb. nerale per il quale bisogna pensare ad un’importae) un lingotto di ferro con struttura perlitica e inclusioni zione diretta e, quindi, un ulteriore percorso di piombo, possibilmente di assorbimento secondario. commerciale. 266 VASCO LA SALVIA f) un lingotto bronzifero con tracce di piombo. g) un frammento metallico. Le composizioni puntuali indicano che la lega bronzea è costituita da 96% Cu e 4% Sn. Le inclusioni sono di piombo metallico e si trovano disperse nel corpo dell’oggetto essendo, tuttavia, concentrate maggiormente in superficie. Entrambe le indicazioni di ‘perdita’ di stagno dal corpo dell’oggetto, rispetto agli indici dei bronzi precedenti (Cu 90%/Sn 10%) e la coaelescenza del piombo in superficie, lasciano ritenere che si tratti di un materiale termicamente trattato. Inoltre, gocce con alta concentrazione di argento sono state rinvenute sulla superficie dello stesso oggetto in associazione con la presenza di piombo, rame e stagno. È importante notare come, anche in questo caso, l’argento sia sempre unito al cloro. h) frammento di piombo con tracce d’argento. Ricalcolando l’ammontare di argento nel piombo si ottiene una percentuale di 0,17, equivalente a 1700g/ton che, se non appare elevata, sarà stata giudicata, comunque, economicamente ragionevole per il periodo in esame specie quando la si confronti con la ratio di epoca classica che, ad esempio, presso le miniere di Rio Tinto in Spagna ammontava a 20000g/ton52. i) frammenti di piombo simili a quelli descritti nel punto (h). In questo caso, però, non si osservano contaminazioni con altri metalli. Questi prodotti, dunque, potrebbero essere derivati dalla riduzione del litargirio dopo la coppellazione del piombo argentifero descritto al punto h) che, a sua volta, poteva essere riutilizzato nella catena operativa sia all’interno della lega di bronzo piombifero, sia per ulteriori coppellazioni. Al momento attuale, tuttavia, non sono stati analizzati campioni che possano fornire prove dirette relative al processo di coppellazione di cui, comunque, è assai plausibile ipotizzare la presenza alla luce dell’insieme delle associazioni di materiali archeometallurgicamente rilevanti. All’interno dell’officina di piazza della Madonna di Loreto, dunque, avvenivano diversi processi metallurgici per la maggior parte legati alla lavorazione del rame e delle sue leghe ed, in alcuni casi, all’argentatura superficiale delle stesse. Inoltre, l’estensione e la posizione dell’officina nonché l’elevato grado di specializzazione artigianale presente al suo interno (compreso il forte valore economico dell’impresa), insieme con l’assenza di indicatori che, al momento, rivelino la presenza massiccia di matrici e di fosse fusorie (necessarie per la lavorazione di grandi bronzi), permettono di ipotiz- zare che l’atelier in questione fosse connesso alla produzione di semi-lavorati di piccole/medie dimensioni, alcuni dei quali probabilmente destinati anche alla monetazione, seppure occorre chiarire che mancano, nella stessa officina, evidenze legate propriamente all’attività di conio che poteva e/o doveva svolgersi, forse, altrove seppure non troppo lontano dall’officina vera e propria. Dunque, nel sito avvenivano, principalmente, processi di lavorazione del metallo già ridotto altrove, mentre, le pur presenti indicazioni di riduzione del minerale sono da intendersi come assaggi del minerale stesso, procedimento necessario dal momento che la materia prima arrivava da fonti e sotto forme diverse (semi-prodotti, quali la mettallina, spoglio, minerali) ed era quindi necessario trovare un ‘grado’ di fino intorno al quale attestare i livelli produttivi. Il processo principale era legato alla produzione di lega di bronzo piombifero e alla sua successiva lavorazione. I tre componenti di questa lega risultano essere rame, piombo e stagno. Il rame utilizzato per questo processo era ottenuto da fonti diverse, dal riciclo del rame e bronzo presenti nell’Athenaeum e da rame originariamente derivante dal prodotto di mineralizzazioni sia a rame e ferro che a solfuri misti che doveva giungere all’officina principalmente sotto forma di semi-lavorati (metallina). Lo stagno, invece, era aggiunto nella lega, quasi esclusivamente, sotto forma di cassiterite (SnO2), provenendo solo parzialmente dai bronzi riciclati. Il piombo pare derivare dalla riduzione del litargirio ottenuto durante la coppellazione ma, come si è già accennato, ulteriori dati sono necessari per verificare che la coppellazione avvenisse in sito. Per quanto concerne la produzione di rame, le analisi hanno messo in luce che dovettero essere utilizzati due materiali originari, un rame ferroso e un rame contaminato con antimonio e stagno, ricollegabile a mineralizzazioni a solfuri misti che, di norma, contengono anche tracce di argento. Tali mineralizzazioni a rame e argento, dunque, sarebbero potute servire per produrre un bullion con gli stessi metalli che poi avrebbe potuto essere raffinato nell’officina tramite l’uso del piombo; per lo meno, dunque, le analisi sanciscono la presenza di questa opportunità tecnica. La metodologia usata per questo primo screening, tuttavia, non ha consentito ancora di rilevare il rame nel bullion di piombo argentifero. Questa assenza del dato non può essere considerata, comunque, come una confutazione assoluta dell’ipotesi della produzione di argento e rame a partire dalla stessa mineralizzazione e della successiva coppellazione. Un quadro interessante viene fornito dai campioni IMPIANTI METALLURGICI TARDO ANTICHI ED ALTO MEDIEVALI A ROMA trattati ai punti (D) e (g) che presentano una forte concentrazione di cloro in superficie; in un caso il cloro è legato al rame (D) mentre, nell’altro, all’argento (g). Nei campioni di cui al punto (D), si osserva la cristallizzazione dello stagno in cristalli scheletrici (di rapido raffreddamento) di ossido di stagno, indicando l’avvenuto rimescolamento della lega metallica, che avviene a temperature attorno ai 400 gradi nel caso delle leghe Cu 90%/Sn 10%. D’altro canto i campioni del punto (g), mostrano perdita di stagno dal corpo dell’artefatto e coalescenza di piombo nelle zone superficiali. Entrambi questi fattori indicano l’avvenuto trattamento termico dei materiali. Una tale affinità strutturale non può che essere scientificamente spiegata come il risultato di una stretta correlazione tecnico-produttiva fra i campioni D) e g): mentre D) è il residuo, g) sarebbe, quindi, il prodotto finito del trattamento ad alta temperatura della lega bronzea piombifera in presenza di cloruro di argento per ottenere l’argentatura superficiale dell’oggetto in lega bronzea. In relazione a tale processo, è interessante notare che già Cope nel 1972 descriveva tale procedura produttiva in relazione a delle monete prodotte in Oriente fra III e IV secolo d.C., sostenendo che il bronzo venisse bagnato in cerargirite (AgCl) fusa in modo da attivare la reazione di scambio ionico tra rame e argento per ottenere un legame fra rame e cloro e la deposizione dell’argento, infine, sulla superficie dell’oggetto. Gli oggetti qui descritti, paiono entrare perfettamente nella categoria descritta da Cope. Tuttavia, Vlachou et alii, recentemente hanno criticato la teoria di Cope, insistendo sulla sua ‘presunta’ scarsa praticità nel caso di un processo su larga scala. Questi autori ritengono, infatti, che una reazione elettrochimica che coinvolgesse un amalgama di mercurio avrebbe rappresentato una spiegazione più plausibile (certamente più ‘tradizionale’) in relazione alla attivazione dello scambio ionico. Senza voler entrare nell’ambito di tale dibattito, va tuttavia rilevato che la co-presenza nell’officina di piazza della Madonna di Loreto di scarto e risultato finale, entrambi indicanti trattamenti ad alta temperatura, e la mancanza di rilevamento di mercurio, fanno, comunque, ipotizzare che proprio il processo suggerito da Cope sia da ritenersi il più simile a quello realizzato a Roma 35. Differente, invece, il caso dei campioni di cui ai punti a) e b), che pure presentano un trattamento di argentatura in qualche modo simile. L’oggetto di forma circolare e sezione ovale a) è, come detto, di rame. All’interno del corpo dell’oggetto non è stata rinvenuta alcuna contaminazione. La struttura è equi-granulare, indicante un possibile casting in forma di fusione. È, 267 tuttavia, molto interessante notare che la superficie dell’oggetto presenta un forte arricchimento in cloro e piccole inclusioni di argento metallico. La barretta piatta b) è anch’essa di rame metallico con inclusioni di solfuro di rame. Le inclusioni sono allungate seguendo la lunghezza della barretta, indicando un processo di martellatura. Anche in questo caso, lo studio della superficie della barretta ha indicato la presenza di argento associato a cloro. Nessuna indicazione di argento è stata rinvenuta nel corpo della barretta. Appare evidente, che il manufatto appena descritto e quello descritto al punto (a) abbiano subito lo stesso processo di argentatura. Dal punto di vista strutturale, tuttavia, i due oggetti non mostrano alcuna correlazione e, quindi, devono essere stati prodotti per uso differente, avendo in comune solo il processo di argentatura delle superfici sempre attraverso il probabile uso di cerargirite. Complessivamente, dunque, relativamente al ciclo del rame, i dati ottenuti presentano una situazione che prevedeva più processi paralleli, quello del raffinamento di rame metallico ottenuto da fonti diverse (uno da metallo derivante da solfuri misti, e uno da minerali di rame e ferro), la produzione di piombo, probabilmente ottenuto da riduzione di litargirio legato alla coppellazione (vista la presenza di piombo argentifero) oltre che dal possibile riutilizzo delle fistulae, e la produzione di bronzo piombifero, che pare essere il prodotto principale dell’officina, con l’aggiunta diretta di minerale di cassiterite, oltre al metallo riciclato (fig. 14). Anche questa lega cuprifero-piombifera viene ad essere in parte soggetta al processo di argentatura tramite bagni in cerargirite fusa, come descritto in precedenza. D’altro canto, anche oggetti di rame, hanno subito lo stesso processo di argentatura, come dimostrato dalle analisi sul manufatto di forma circolare/ovale a) e sulla barretta b), che derivano da lavorazioni diverse del rame, ma che paiono subire lo stesso tipo di trattamento superficiale. Il processo metallurgico maggiormente in opera nell’officina di piazza della Madonna di Loreto fu, senza dubbio, proprio quello legato alla produzione di lega di bronzo piombifero e alla sua successiva lavorazione (fig. 14). I tre componenti di questa lega sono, appunto, rame, piombo e stagno, secondo una proporzione e composizione che sembra essere tipica della produzione occidentale differenziandosi in maniera netta da quella della pars orientis che invece si caratterizza per la massiccia presenza di 35 COPE 1972, pp. 261-278; VLACHOU, MCDONNELL, JANAWAY 2002, II9.2. 268 VASCO LA SALVIA Fig. 14. - Lega di bronzo prodotta. zinco 36. Dai risultati appena discussi si può concludere che il rame utilizzato per questo processo derivi in parte dal riciclo di rame e bronzo presente nell’Athenaeum e, per altra porzione, dalla lavorazione di semi-prodotti di rame metallico (metallina), appositamente importati, ed originariamente derivanti dalla lavorazione di mineralizzazioni sia a rame e ferro che a solfuri misti. Lo stagno viene aggiunto nella lega come cassiterite (SnO2) e deriva, quindi, solo parzialmente dai bronzi riciclati. Il piombo, in ultimo, sembra derivare dalla riduzione del litargirio ottenuto durante la coppellazione, che si presume avvenisse in situ, oltre che dal riciclo delle tubazioni romane. Occorre precisare, tuttavia, che indicatori diretti della coppellazione non sono stati analizzati in questa prima fase investigativa. Tuttavia, l’attestazione di fornaci a riverbero insieme al rinvenimento di pianetti di cottura (anche parzialmente ricostruiti) e, quindi, l’indubbia esistenza di una lavorazione al crogiolo, quando sia valutata assieme alla quantità/qualità dei prodotti della lavorazione del piombo, rende plausibile l’ipotesi che all’interno dell’officina di piazza della Madonna di Loreto si svolgesse effettivamente un’attività di coppellazione per la produzione di argento. In effetti, la coppellazione rappresenta propriamente la fase finale del trattamento delle vene polimetalliche e dei processi di alligazione che sembrano esser stati il nocciolo del lavoro dell’officina romana. Il piombo, infatti, potrebbe essere derivato 36 DRANDAKI 2005; PERIN 2005; PITARAKIS 2005. dalla lavorazione, meglio riduzione, del litargirio dopo la coppellazione per essere, successivamente, riutilizzato nella lega del bronzo piombifero. Questo procedimento, denoterebbe la capacità di utilizzare tutto il materiale a disposizione in officina senza sprechi. Purtroppo, però, al momento, non abbiamo riscontrato tracce di argento in nessuna delle scorie analizzate e, d’altro canto, non è lecito attendersi di ritrovare tale metallo all’interno del piombo, evidentemente depauperato dopo la coppella. L’unica eccezione è il campione di piombo contenente lo 0,17% di Ag che potrebbe essere, dunque, proprio un frammento di bullion di piombo, nonostante presenti un notevole abbassamento della quantità ritenuta economicamente valida per lo sfruttamento di minerali argentiferi rispetto all’epoca classica, come si vedrà meglio in seguito. Tuttavia, se il minerale processato per la coppellazione fosse stato in partenza a base rameosa, sarebbe lecito aspettarsi di trovare tracce dello stesso metallo all’interno del piombo alla fine del processo stesso: questo sembrerebbe essere il caso del nostro campione 26, uno scarto di lavorazione che si presenta come una colatura di piombo con circa lo 0,5 di rame. Una tale ipotesi tecnica trova riscontro anche in altre zone, nel caso dei forni da coppellazione di epoca romana di Hengistbury Head che sembrano avere utilizzato minerali cupriferi ricchi di argento dell’area di Callington in Cornovaglia, come riportato da Tylecote. D’altro canto, è noto che le analisi delle mineralizzazioni a rame, e dei solfuri misti in particolare, lasciano osservare anche la presenza di argento. Esiste, dunque, come già accennato, la possibilità che la mineralizzazione a rame e argento servisse proprio per produrre un bullion di rame e argento che poi veniva raffinata nell’officina tramite l’uso del piombo. La metodologia usata per questo primo screening non permette la rilevazione di rame nel bullion di piombo argentifero prodotto in questo modo. Questa assenza del dato non confuta, tuttavia, l’ipotesi della produzione di argento e rame a partire dalla stessa mineralizzazione. Nell’analisi dei dati ottenuti dal piombo argentifero (al punto h), ricalcolando la quantità di argento che era possibile raccogliere a partire dalla mineralizzazione, pari 1 a 1700 g/ton, occorre osservare che questa quantità risulta essere, in effetti, nettamente inferiore rispetto a quella prelevata in età im- IMPIANTI METALLURGICI TARDO ANTICHI ED ALTO MEDIEVALI A ROMA 269 periale. Ad esempio, presso le miniere di Rio Tinto la quantità era di 20000 g/ton. Questa differenza fornisce un’indicazione estremamente importante su quello che veniva ritenuto economicamente valido al fine dello sfruttamento minerario in questo periodo storico, laddove i limiti geografico/politici sembrano imporre restrizioni economiche assai superiori rispetto a quelle del II secolo d.C. a cui i dati di Rio Tinto si riferiscono 37. La descrizione delle tecniche del processo di argentatura, o meglio di amalgama fra metalli vili e preziosi apre una lunga serie di questioni. I risultati analitici presentati dal collega R. Bertoncello dell’Università di Padova nel 2007 in occasione di un Seminario sulla lamina di Agilulfo, possono aiutare a fare ulteriore luce sulle conoscenze metallurgiche del periodo in esame e sulla trasmissione/trasferimento di questo tipo di tecnologie fra VI e VII/VIII secolo. La lamina di Agilufo, nella quale evidentemente convivono e si integrano patrimoni ed influssi culturali differenti che possiamo chiaramente riconoscere in quelli di matrice barbarica ed in quelli di origine romano-mediterranea, presenta una complessità di forme e simboli che come vedremo è prima di tutto una complessità tecnologica e non solo affatto formale. Che il programma iconografico dell’oggetto in questione sia largamente ispirato a fonti romano-ravennati è fuor di dubbio, così come è altrettanto palese che la rappresentazione del re risponda a canoni germanici, come ormai ben provato anche dalle iconografie riportate dagli anelli-sigillo ad essa coevi. Dal punto di vista tecnologico, le analisi confermano che il substrato di lamina di rame è stato rivestito con deposito di oro in amalgama di mercurio; tuttavia, ciò che appare assai interessante è che a parte la composizione del sub strato di rame, composto in sezione oltre che dal rame da inclusioni costituite da piombo (Pb), antimonio (Sb), bismuto (Bi) e piccole quantità di stagno (Sn), come nel caso romano, dalla zona del substrato di rame avvicinandosi alla zona d’interfaccia rame/oro sono presenti tracce di cloro in aumento verso l’interfaccia e all’interfaccia anche del silicio 38. Dunque, anche in questo caso, seppur con l’aggiunta del mercurio (che a Roma potrebbe non essere stato rilevato a causa dei processi ad alta temperatura subiti dai semi- prodotti), il cloro e forse la medesima cereargite potrebbero aver giocato un ruolo nella gestione dell’amalgama fra i due metalli. È importante notare che l’elevato tenore di rame presente nel rivestimento d’oro del campione dona al pezzo specifiche caratteristiche meccaniche ovvero la possibilità di curvare o raddrizzare la lamina senza arrecare danni sullo sbalzo dei rilievi data la mancanza di una netta discontinuità nell’interfaccia rame/oro ed invece una elevata continuità di composizione con elevato tenore di rame anche nel rivestimento d’oro. Lo stesso si potrebbe pensare dei prodotti romani ovvero la produzione di un barra/semi-prodotto con caratteristiche meccaniche atte a subire modifiche successive alla prima produzione senza evidenti danni all’adesione dell’argento al rame a seguito delle sollecitazioni meccaniche di modifica, condizioni che, per parte mia, continuo a ritenere ideali per le operazioni di conio (fig. 15 e tav. 00). La riflessione intorno alle caratteristiche tecniche della Lamina di Agilulfo, data la sua provenienza e localizzazione, nonché alcune date caratteristiche mineralogiche riscontrate nei componenti della lega, specie in riferimento alla presenza di Sb e Bi, ‘costringe’ a tornare a pensare alla Toscana e all’ipotesi che proprio in questa zona possano trovarsi alcune delle fonti per le materie prime lavorate dalle officine di piazza della Madonna di Loreto (in prima istanza, come indicato dalle analisi archeometriche metallina e cassiterite). Essendo ancora privi, allo stato attuale della ricerca, di riscontri archeometrici e propriamente geominerari, tale paradigma resta, in gran parte, indiziario ma è possibile, tuttavia, avanzare delle ipotesi discretamente attendibili sulla base della documentazione, tanto archeologica quanto scritta, attualmente a nostra disposizione sulla medesima zona. Per la regione Toscana, infatti, più precisamente per il territorio di Lucca, abbiamo a disposizione dei documenti scritti compresi fra il 742 e il 773 (dunque, circa cento anni più tardi rispetto al periodo da noi analizzato in relazione all’officina romana) che fanno menzione di calderari, ovvero lavoratori del rame. Uno di questi, ha delle proprietà in località Cecina, un’area ricca in mineralizzazioni di rame, presso Volterra e non lontana dal Campigliese (colline Metallifere) Per quanto concerne il dato archeometrico, riportato in questi paragrafi, e che si deve, come detto, al lavoro di L. Anguilano (ETC Brunel, London), si faccia riferimento ad ANGUILANO, LA SALVIA c.s.; ANGUILANO, LA SALVIA, ANTONELLI et alii c.s.; ANGUILANO, LA SALVIA, TORNESE 2014, vol. II, pp. 1819-1822. 38 Comunicazione orale fatta da R. BERTONCELLO (Università di Padova), Analisi chimiche del rivestimento aureo della lamina di Agilulfo, in Storia e Archeologia dell’alto medioevo, Seminario interdisciplinare, Anno accademico 2006-2007 (7 marzo 2007, Sala del Consiglio, Dipartimento di Storia, Università di Padova), dal titolo La lamina di Agilulfo: nuove ricerche. Per quanto riguarda una analisi storica della lamina di Agilulfo vedi, KURZE 2002a, pp. 6982 e KURZE 2002b, pp. 83-84, 88-89. 37 270 VASCO LA SALVIA Fig. 15. - Cloro, argento e lega di bronzo piombifera. dove sono localizzate altre importanti fonti minerarie, fra le quali presso monte Valerio la cassiterite. Dalla stessa città di Lucca da stratigrafie pertinenti invece propriamente ai secoli VI e VII provengono gli scarti di un’officina di lavorazione delle leghe di rame che insiste, fra l’altro, su un’area che già nel secolo IV aveva visto la presenza di attività metallurgiche, rievocando forse una certa tradizione metallurgica di origine tardo romana che potrebbe essere stata legata anche alla presenza, nel medesimo municipio e per la stessa epoca, di una fabbrica imperiale di armi, citata dalla Notitia Dignitatum 39. Tracce di produzione di leghe cuprifere provengono anche dalle stratigrafie delle ultime fasi di occupazione della Domus dei mosaici di Roselle (Grosseto) e, sulla base dell’analisi tipologica di orecchini e 39 NOT. dign. occ. IX, 29 (éd. Seeck, 1876). fibule, non è improbabile riconoscere l’opera di una o più botteghe locali che operavano nella zona probabilmente attraverso l’utilizzo delle risorse locali in favore della nuova aristocrazia longobarda, secondo modelli tecnici e culturali fortemente integrati. Una di queste officine potrebbe essere stata localizzata a Luni, area da cui proviene un ritrovamento diretto assai importante, ovvero una matrice in pietra per oreficeria probabilmente associata ad una fornace per la produzione metallurgica e rinvenuta nel corso degli scavi del 1978. La matrice, in origine bivalve ma di cui si conserva solo una delle due forme, era in marmo di locale e presenta lo stampo per un pendente a croce di collana o di orecchini a cestello. Dunque, il contesto generale di questa regione presenta un insieme di indicatori che potrebbero mostrare che nella produzione metallurgica, e in quella dei non ferrosi in particolare, non fossero in atto solo fenomeni di ri-uso e riciclo della materia prima ma anche IMPIANTI METALLURGICI TARDO ANTICHI ED ALTO MEDIEVALI A ROMA 271 attività di estrazione diretta di minerale, seppure solo su scala sub regionale. Da questo punto di vista, potrebbe non essere un caso che proprio negli archivi della cattedrale di Lucca si conservi un manoscritto del secolo VII concernente la metallurgia dei non ferrosi, contenuto in una parte del Liber Pontificalis del Codex Lucensis 490 pubblicato nel 1739 da L.A. Muratori. Alla luce di quanto detto, l’inclusione del territorio che collega Monteverdi a Massa Marittima, una zona ricca in risorse minerarie e boschi, all’interno della iudiciaria lucense dimostra, da un lato l’interesse delle elites urbane lucchesi nel controllo di quella porzione specifica di territorio e, dall’altro, come questo interesse fosse giustificato/bile dalla possibile persistenza, per la medesima zona, di attività minerarie e di trasformazione del metallo. La volontà di includere questo territorio da parte dell’aristocrazia lucchese è ben attestata dalla fondazione dei monasteri di S. Pietro di Monteverdi e Santo Regolo: il primo fondato nel 753, sembra nascere proprio con lo scopo di controllare importanti giacimenti di metalli preziosi presenti nei possessi di alcuni esponenti dell’aristocrazia lucchese e pisana, già detentori di uffici pubblici ma all’epoca in forte dissidio con l’autorità regia. L’abbazia ebbe, infatti, sede in un’area marginale, il Cornino, situata in iudicaria Lucensi ed al confine tra la diocesi di Populonia e quella volterrana. Il sito prescelto per il monastero era prossimo ad una delle maggiori concentrazioni di ‘oro invisibile’ della Toscana (l’area di Monterotondo) e collocato al centro di ricchi distretti minerari (il Massetano, l’alta Val di Cornia ed il Campigliese), entro i quali deteneva un vasto patrimonio fondiario. Una connessione di questa istituzione religiosa con lo sfruttamento delle risorse minerarie appare ancor più probabile quando si consideri la contestuale fondazione del monastero femminile di S. Salvatore a Pitiliano sulla riva del fiume Versilia, vale a dire nello scalo marittimo naturale delle maggiori miniere apuane; il secondo, invece, venne fondato proprio nel distretto minerario massetano ove si estendeva una vasta area fiscale, il waldus regis, in cui ancora nel 780 si trovava un maior selvani, al cui interno venne posi- zionato l’importante monastero, vero e proprio indicatore della presenza longobarda lucchese. Inoltre, il rinvenimento di una moneta aurea (un tremisse), presso Montebamboli, non lontano da Massa Marittima, nel cuore delle colline Metallifere, sottolinea l’importanza di questi luoghi rispetto ai centri di potere e di mercato locali e sub regionali 40. 40 Sull’insieme di questi argomenti relativi alla Toscana si veda, CINI, PALUMBO, RICCI 1979-1980, pp. 37-54; MICHELUCCI 1985; TONDO 1990, p. 761; CIAMPOLTRINI, NOTINI 1990, pp. 561-592; CITTER 1997, pp. 185-211; CITTER 1998, pp. 179-195; CIAMPOLTRINI 2011, in particolare pp. 57-58 e 65-66. 41 Sull’integrazione dei patrimoni tecnici vedi, GIANNICHEDDA 2006, pp. 194-5: «It is not now credible to maintain a clear distinction between the Late Roman-Byzantine goldsmith and his barbarian counterpart: in fact, the more precious and the less bulky the material was, the more transportable were it and its artisans; the ico- nography, for example on the silver plates, shows the coexistence of pagan and Christian depictions, whilst technical analysis of Early Medieval dress ornament shows a high level of interchangeability of finishing processes between ‘Barbarian’ and Roman metalwork». Sul medesimo argomento, leggi LUSUARDI SIENA, GIOSTRA 2003, pp. 925-27 e pp. 929-930: «Quanto allo stile, l’ambiente cosmopolita che dovette contraddistinguere i laboratori metallurgici tardoantichi e più tardi gli ateliers di corte come quelli di Eligio orafo e monetiere alla corte merovingia di Clotario II e Dagoberto (629-639) [...], autorizza ad immaginare anche in Lombardia la compresenza di ar- Conclusioni Al termine di questo percorso di indagine storicotecnologico rimane da comprendere in che modo utilizzare l’insieme dei dati archeologici ed archeometrici desunti a partire dalla analisi della tecnologia e dell’organizzazione della produzione presenti nell’officina di piazza della Madonna di Loreto e attraverso la sua comparazione con esempi vicini e lontani, in modo da presentare un modello coerente dal punto di vista storico-economico. Alcuni punti possono essere, così, messi in rilievo. In primo luogo, appare plausibile ritenere che fra la seconda metà del VI e il VII/VIII secolo il polo metallurgico toscano fosse non solo attivo ma anche in grado di muovere materia prima a medio/lungo raggio. In questa zona, l’insieme delle evidenze confluisce in un orizzonte che ci segnala la presenza e l’attività di officine dalla cultura tecnica variegata e composita (e materialmente condivisa) e che integrano diversi patrimoni tecnici, produttivi, culturali e iconografici al servizio della nuova classe dirigente longobarda. Una aristocrazia che, come si è visto per il controllo della lucchesia e della seppur tarda fondazione di S. Pietro e S. Regolo, dimostra un particolare interesse verso le aree con risorse minerarie. In questa direzione, seppure in un ambito tecnologico differente, in quanto legato alla produzione siderurgica, sembra andare anche la fondazione del villaggio minerario di Miranduolo, luogo in cui si trova una sicura fonte di approvvigionamento di materia prima ed il cui sfruttamento e possesso potrebbe essere stato di origine pubblica/fiscale 41. 272 VASCO LA SALVIA La definizione di una tecnica specifica di amalgama fra metalli vili e preziosi, di probabile origine bizantina-orientale, che le officine della penisola italiana, prime fra tutte quelle di Roma e Ravenna (ma, come si è visto non solo, essendosi precocemente diffusa anche fra le maestranze del Regno), nel corso del secolo VII imparano ad utilizzare per la produzione di oggetti specifici. Tecnica complessa che non consisteva nella ‘semplice’ creazione di una pregiata patina superficiale ma nella produzione di una vera e propria lega atta a cerare la mancanza di una netta discontinuità nell’interfaccia metallo vile/metallo prezioso ed, invece, una discreta continuità di composizione con elevato tenore di rame anche nel rivestimento di fino. Fra i campioni romani, come detto, 5 indicano la presenza di processi di argentatura (fig. 15): 2 sono scarti di lavorazione (D), un frammento di oggetto in bronzo piombifero (g) e un ‘tondino’ (a) e un lingottino in rame (b). I campioni D e g sono il risultato del processo di argentatura del bronzo piombifero mentre gli altri due sono il frutto dell’argentatura diretta del rame e, possibilmente, di due processi differenti 42. 3) Senza dubbio, la storia delle aule del Foro di Traiano, in origine pensate, costruite ed utilizzate come sede per lezioni di retorica e filosofia, e divenute nel corso delle trasformazioni dello spazio urbano tardo antico un’officina metallurgica, segnala un drastico cambiamento, perlomeno una significativa mutazione di destinazione d’uso, definibile come un forte indice di rottura rispetto all’eredità del passato classico. Tuttavia, la loro stessa localizzazione, all’interno dell’area forense, e perciò stesso il possibile mantenimento di uno status pubblico (anche pensando al tipo ed alla qualità della produzione specializzata, a maggior ragione importante data la stretta relazione con i metalli monetabili), sembra insistere, invece, su una linea di continuità dell’esperienza tardo romana. Ovviamente, si tratta in questo caso di una continuità non strutturale ma, piuttosto, di natura funzionale-giuridica ovvero relativa al solo mantenimento del controllo pubblico su determinati cicli produttivi e, probabilmente, di ‘importazione’ bizantina e quindi, forse, non del tutto endogena. Tuttavia, attraverso la ricostruzione del percorso tecnicoeconomico ed organizzativo dell’officina romana di piazza della Madonna di Loreto sembra perpetuarsi la storia di un vincolo pubblicistico sui cicli metallurgici, che si manterrà in seguito per tutto l’alto Medioevo e troverà la sua sublimazione, il suo sigillo, per così dire, nella seconda dieta di Roncaglia (1158) e che trae la sua origine proprio nella complessa gestione del rapporto fra proprietà e fiscalità di origine tardo-romana 43. Il mantenimento di strategie produttive e di eventuali tisti di formazione mediterranea classica, ‘bizantini,’ accanto a rappresentanti della componente germanico-orientale e nordica già parzialmente integrati nell’ambiente della Milano tardoantica ed ostrogota e affiancati poi dalla componente pannonica di ultima generazione legata all’immigrazione longobarda; ed è fuori discussione il ruolo svolto dal bacino carpatico-danubiano come luogo di fusione, nella cultura materiale, di apporti orientali, germanici e tardoantichi/bizantini»; LA SALVIA 2007, p. 72: «It is clear, however, that this process of transformation that Lombard technical/artistic culture was undergoing, as a result of contacts with the Mediterranean area, presupposes continuity of craftsmanship and a stable workshop organization which allowed continuous upgrading of technical procedures aimed at modifying the products as the tastes of commissioners evolved, commissioners who had become gradually accustomed to the rights, the language and customs of the Mediterranean regions. Thus, the absorption of Roman-Byzantine models and their use within a wider artisan context takes into consideration technical-productive skills of Lombard craftsmen as well and assumes that the workshops were able to keep functioning continuously»; LA SALVIA 1998, pp. 16-18. Sulla Toscana cfr. DE MARCHI 2000, p. 284: «In Toscana l’epicentro della produzione di preziosi è Lucca e circondario, i documenti scritti vi ricordano 5 orefici, 3 calderai e monetieri, mentre a Pisa è attestato un orafo e a Pistoia un fabbro. La distribuzione dei mercanti è molto interessante, se confrontata con le attività produttive, perché sono presenti soprattutto a Lucca e a Pavia, e sembrano quindi convergere verso i centri di produzione e/o di smercio»; su Miranduolo, LA SALVIA 2012, pp. 640-643. 42 ANGUILANO 2013, pp. 140-145; è stato utilizzato il SEM per l’investigazione degli strati di corrosione per individuare la distribuzione di Ag e Cl. Il ‘tondino’ è stato invece sottoposto ad analisi di spettrometria di massa a tempo di volo per ioni secondari e XRF anche per determinare l’eventuale presenza di Hg e, quindi, l’uso di pasta di Mercurio durante il processo di argentatura (risultato assente). Importante notare, inoltre, che queste analisi mettono in evidenza la possibilità di creare un protocollo di analisi non fortemente invasivo in grado di individuare elementi che normalmente possono sfuggire alle procedure di routine in laboratorio: senza l’ausilio del XRF, infatti, non sarebbero state riscontrate tracce del processo di argentatura superficiale. 43 L’argomento relativo alla continuità del vincolo pubblicistico intorno al ciclo produttivo metallurgico (e dei metalli monetabili in particolare), della posizione/localizzazione delle sedi degli impianti di lavorazione rispetto al potere (pubblico o privato che sia), della sua relazione con la fiscalità, è questione antica e variamente dibattuta ma certamente fondamentale, per cui risulta difficoltoso riassumerla in una singola nota. Vale, tuttavia, la pena ribadire alcuni punti sullo sviluppo del diritto minerario tra tarda antichità e alto Medioevo, ricordando alcune delle principali indicazioni bibliografiche. Come detto, fra gli altri, da PORSIA 1989, pp. 248-251, le principali dinamiche su cui la storiografia si è nel tempo concentrata sono, da un lato, quelle relative al nascere e al consolidarsi del diritto dello stato, delle élites o comunque della pubblica autorità di porsi quale unico proprietario del sottosuolo, anche di quello appartenente in linea di principio al privato, considerandolo demaniale e, comunque, dello stato qualsiasi titolo giuridico gravasse sulla superficie e, dall’altro, quelle legate al sorgere, in contrasto con il primo, delle libertà minerarie e del diritto del lavoro così come garantito e normato dagli statuti minerari del pieno medioevo. La storia dell’affermazione del principio giuridico secondo il quale il possesso di minerali, di quelli preziosi in particolare, estratti da qualsivoglia terreno, anche da quello dei privati, fosse attributo esclusivo della IMPIANTI METALLURGICI TARDO ANTICHI ED ALTO MEDIEVALI A ROMA 273 rotte di approvvigionamento sono un altro argomento centrale in relazione alla questione della continuità rispetto al mondo Romano. L’officina, di indubbia tradizione classica nella sua organizzazione e nei suoi processi tecnici, e il possibile mantenimento di rotte di approvvigionamento per le materie prime tradizionali per la tarda antichità, qualora fosse confermata una provenienza dalla zona del Campigliese per metallina e cassiterite, in prossimità del Monte Valerio, e delle colline Metallifere, ovvero l’assai plausibile ipotesi toscana, oppure una più suggestiva provenienza calabrese, dunque, sono indici altrettanto importanti. Tuttavia, anche in questo caso, siamo di fronte ad una soluzione di continuità rispetto ad un procedere che, erroneamente, ci si aspetterebbe lineare ed uniforme in rapporto alle esperienze del passato classico. Tale differenza, tuttavia, non implica un meglio o un peggio ma indica solamente l’esistenza di due percorsi tecnologici parzialmente divergenti, segno che il quadro economico di riferimento doveva essere mutato e, con esso, la stessa specializzazione artigianale. In epoca imperiale, infatti, immaginare una installazione produttiva di tali dimensioni e complessità nel cuore dell’Urbe sarebbe stato probabilmente impossibile, non solo ideologicamente ma anche dal punto di vista dell’organizzazione della produzione. Il sistema economico romano classico non pre- vedeva, infatti, una concentrazione di tante differenti attività manifatturiere, seppur pertinenti ad uno stesso ciclo produttivo, all’interno di una medesima struttura collocata per di più in un contesto pienamente urbano. A Rio Tinto, in Spagna, riduzione, raffinazione ed alligazione venivano effettuate a grande distanza le une dalle altre, seppure all’interno di uno stesso distretto industriale e, comunque, pur sempre in ambito ‘rurale’. I lingotti di piombo, rame e stagno viaggiavano, inoltre, dalle Province (e qualche volta anche da oltre limes, come sembra provare il caso del ‘piombo germanico’) verso officine specializzate e soprattutto verso le zecche, poste nelle città e ne saturavano i mercati. Ora, l’officina di piazza della Madonna di Loreto, sembra presentare un quadro assai differente, una situazione in cui la concentrazione della specializzazione e della manodopera qualificata è assai elevata, un’organizzazione produttiva che propone un modello nuovo rispetto alla eredità del mondo classico, forse definibile come già ‘medievale’, per cui l’esercizio ed il mantenimento del controllo del vincolo pubblicistico diviene, allo stesso tempo, motivo e conseguenza della necessità di raccogliere in uno stesso luogo combustibile, materia prima e fondenti, in un’operazione complessa, dispendiosa e complicata. La scala ed il volume produttivo dell’officina in esame (decisamente notevole nel suo complesso sovranità ha precedenti giuridici remoti che possono essere rintracciati in età anche molto antiche e che rimanda a regimi di sfruttamento possibilmente già esistenti per le miniere di Laurion e dell’Attica del V e VI secolo a.C. ed è, essenzialmente, legato allo sviluppo della fiscalità pubblica e del diritto di battere moneta. Alcuni riferimenti legislativi più recenti forniscono, tuttavia, maggiori informazioni in proposito ed appaiono più pertinenti al quadro delle questioni qui in argomento. Ad esempio, le lettere di Teodorico in relazione alle ferriere dalmatiche o quelle indirizzate a Duda Saione per la ricerca di metalli nobili nelle sepolture, nelle quali numerosi sono i rimandi alla pubblica utilità e all’obbligo di rivendicare i beni «fideliter compendio publico», lasciano intravedere un principio di totale avocazione delle ricchezze del sottosuolo allo stato. La citazione «aurum enim sepulcris iuste detrahitur, ubi dominus non habetur» contenuta nell’ultimo documento richiama da vicino il dettato di una legge e chiarisce come e quanto fosse e/o potesse essere assimilato al diritto del sottosuolo quello dei tesori nascosti e contenuti in monumenti e sepolcri che sembra, dunque, percorrere un percorso parallelo al primo (relativo, quindi, alla supremazia dello stato nella gestione delle risorse, di ciò che viene considerato materia prima). Secondo quanto richiamato dal codice giustinianeo, inoltre, chi scavava in terre private doveva pagare decime oltre che al padrone del fondo anche al fisco. Il diritto giustinianeo prevedeva, quindi, una tassa da pagare allo stato per l’estrazione del minerale anche se da terre private, evidenziando così una competenza pubblica generale sulla gestione del sottosuolo. La legislazione longobarda e del regno d’Italia, d’altro canto, non fa cenno diretto alla scoperta di metalli vietando, tuttavia, che le tombe fossero violate per l’asportazione di tesori ritenendo, invece, il di- ritto di monetazione e di raccolta dell’oro dai fiumi prerogativa regia (Editto di Rotari, datato al 643, al famoso capitolo 242 dedicato alla moneta, che recita «si quis sine iussionem regis aurum figuraverit aut moneta confinxerit, manus ei incidatur»; nelle Honorantiae civitatis Papiae, un memoriale del principio dell’XI secolo ma che si riferisce ai tempi del re Ugo e descrive una situazione anticipabile al periodo precedente, «sunt etiam omnes auri levatores qui mittunt rationem ad cameram Papiae et numquam debent alicui aurum venumdare per sacramentum et debent ad illum consignare et camerario», cfr. 1454, 15; 1455, 1; 1456, 1). Anche nel Capitulare de Villis, agli amministratori dei beni regi era imposto di rendere conto annualmente «de ferraris et scrobis, id est fossis ferraricis, vel aliis plumbariciis», che risultavano così proprietà dell’imperatore. La proprietà del sottosuolo restava così del sovrano, per diritto non scritto, forse consuetudinario, ma cogente e universalmente accettato. Palesemente, invece, e con forza ed autorità, Federico I proclamava nella II dieta di Roncaglia (novembre 1158) appartenere al sovrano la regalia sulle miniere equiparandola a quella sulla coniazione delle monete ribadendo, non casualmente, nel diritto di battere moneta una prerogativa regale che la tradizione aveva mantenuto a lungo in mano statale in tutti i così detti regni romano-barbarici, come testimoniato dai relativi testi legislativi. In proposito vedi anche, CUQ 1911, pp. 347-348, 349; ANDREAU 1989, pp. 87-88, 91, 93-94, 96, 99, 101, 111; BRAUNSTEIN 1992, pp. 35, 36-37; FARINELLI, FRANCOVICH 1994, pp. 447, 448, 450, 451, 452, 453-454; SPUFFORD 1998, pp. 9, 16, 18, 23-24; LUDWIG 2006, pp. 235-248; BRIENTA 2007, p. 53; BOWMAN, WILSON 2009, pp. 21, 38, 68, 286, 303; HIRT 2010, leggi l’intera introduzione per una visione di insieme sulla questione storiografica e pp. 360, 366, 367. 274 VASCO LA SALVIA in Urbe per un periodo comunque compreso fra la fine del VI e l’intero arco del VII secolo), presuppone l’esistenza di una iniziativa ‘politica’ in grado di mantenere costanti il livello della manodopera specializzata e dell’approvvigionamento delle materie prime in questo modo proponendo, un ulteriore indizio verso la funzione se non propriamente di zecca pubblica certo di ambienti officinali ad essa e con essa strettamente integrati e connessi. A tal proposito, alcune recenti riflessioni di Coarelli in merito alla localizzazione, al funzionamento, alla struttura nonché intorno al momento della cessazione della attività della zecca imperiale, individuata nel complesso sottostante l’attuale basilica di S. Clemente in Roma, potrebbero fornire ulteriori indizi in favore di una tale ipotesi. In prima istanza, avendo cessato la produzione intorno alla metà del IV secolo d.C., occorre per forza di cose pensare ad un altro luogo per il posizionamento della zecca tardo-romana che, dunque, potrebbe avere trovato la sua sede fra la fine del VI e il corso del VII secolo proprio nella zona dei locali indagati presso il Foro di Traiano in oggetto. Tuttavia, altri sono gli elementi, e tutti di carattere maggiormente strutturale, che inducono a proporre un possibile paragone fra le due situazioni, quella di S. Clemente e quella di piazza della Madonna di Loreto: la struttura degli edifici, infatti, appare assai simile sia dal punto di vista perimetrale (una pianta rettangolare allungata) che volumetrico (una superficie di circa m2 2000 per uno spazio utilizzabile intorno ai m2 738); tuttavia, ciò che soprattutto richiama la similitudine fra i due ambienti è il tipo di pavimentazione, presso la zecca di S. Clemente originariamente in semplice battuto cementizio, un fondo che ben si accorda con il tipo di lavoro che doveva svolgersi all’interno dell’edificio, e che di fatto è il medesimo che si ritrova all’interno dell’officina presente nelle due aule indagate del Foro di Traiano presso piazza della Madonna di Loreto, seppure, in questo caso, in seguito allo spoglio/rimozione della pavimentazione originaria. Inoltre, anche quanto ipotizzabile, sulla scorta delle fonti scritte, in relazione alla ricostruzione dei processi produttivi, in merito alla funzione e qualità/quantità della manodopera impiegata (degli officinatores, suddivisi in malliatores, suppostores e signatores), corrisponde pienamente alla complessità ed alla varietà dei cicli di produzione così come ricostruiti sulla base del dato archeologico ed archeometrico proveniente dalle stratigrafie dell’Athenaeum 44. Dal momento che le capacità di trasformare, recuperare o comunque accumulare/raccogliere materia prima sono direttamente proporzionali alle capacità tecnologiche, alle condizioni economiche e politico-sociali, appare assai credibile il coinvolgimento diretto del potere centrale nella gestione di questo atelier, tra la fine del VI e l’intero corso del VII secolo fino al principio dell’VIII. L’eccezionalità della situazione (tanto dal punto di vista tecnologico quanto da quello dell’impatto economico) emerge con forza proprio valutando, da un lato, il contesto del suo posizionamento, ovvero Roma, e ancor meglio l’area dei Fori, e dall’altro, l’inquadramento cronologico, che vede il suo inizio tra la seconda metà del VI e la prima metà del VII secolo, ed, infine, la specificità della produzione, particolarmente, quando posta in relazione ad un impianto nell’ambito di una zecca o, comunque, connesso alla lavorazione dei metalli monetabili. Significativo, dunque, appare anche il riutilizzo, non certamente casuale, di un edificio a carattere pubblico, secondo un modello che sembra riproporsi anche in altri contesti, come nel caso delle zecche bizantine di Serdica e Tessalonica. Da questo punto di vista, assecondando la cronologia proposta sulla base della sequenza stratigrafica e del dato ceramologico e considerando anche che la durata media di vita di una officina di tali dimensioni non può essere frutto di improvvisazione, potrebbe apparire storicamente accettabile, porre l’inizio delle operazioni produttive, in un orizzonte cronologico compreso nei regni di Maurizio Tiberio, Foca ed Eraclio. D’altra parte, una zecca periferica quale quella di Catania risultava attiva proprio sotto gli stessi imperatori, essendo stata aperta nel 582 da Maurizio ed avendo proseguito a battere moneta, probabilmente, fino agli anni 628-629, sotto il regno di Eraclio. Non deve sorprendere, quindi, che una tale ‘impresa’ abbia potuto iniziarsi a Roma con dimensioni e tempi assai più dilatati 45. L’ampiezza e la complessità delle operazioni tecniche condotte presso la grande officina di piazza della Madonna di Loreto viene così sottolineata ed, allo stesso tempo, a prendere forma proprio grazie al riconoscimento, su base archeologica ed archeometrica, dei differenti cicli produttivi praticati al suo interno che presuppongono e 44 COARELLI 2013, pp. 168-184; sulle volumetrie sviluppate dall’officina di piazza della Madonna di Loreto, del tutto comparabili con quanto ricostruito attentamente da COARELLI, vedi il contributo di Serlorenzi, Ricci in questo stesso volume. HENDY 1985, pp. 406-407, 415, 418; ANTONELLI, IACONE, PROet alii 2013, p. 111; ANGUILANO, LA SALVIA, TORNESE 2014, vol. II, pp. 1819-1822. 45 SPERI IMPIANTI METALLURGICI TARDO ANTICHI ED ALTO MEDIEVALI A ROMA mettono in opera una notevole capacità organizzativa, oltre che squisitamente metallurgica, per convogliare in direzione di un risultato qualitativamente standardizzato e quantitativamente adeguato un prodotto finito ormai realizzato a partire da materie prime non più uniformi, come in epoca classica, bensì dalle provenienze più disparate (dallo spoglio al minerale, al semilavorato), in un’epoca in cui la destrutturazione del contesto urbano e l’evidente contrazione del generale volume degli scambi economici non pare segnare un’altrettanto repentina involuzione sul piano tecnologico. Bibliografia ALCHEMERS 1994 = J. ALCHEMERS, Spolia in Roman Cities of the Late Empire: Legislative Rationales and Architectural Reuse, in DOP, 48, 1994, pp. 167-178. ANDREAU 1989 = J. ANDREAU, Recherches récentes sur les mines romaines. I Propriété et mode d’exploitation, in RNum, 6, 31, 1989, pp. 86-112. 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LA CERAMICA MEDIEVALE DI ROMA: ORGANIZZAZIONE PRODUTTIVA E MERCATI (VIII-XV SECOLO) Giorgio Rascaglia, Jacopo Russo Nell’ambito del censimento degli indicatori produttivi realizzato in occasione di questo convegno, si vuole proporre un bilancio della produzione ceramica a Roma tra VIII e XV secolo. La tradizione di studi su questo tema è ormai consolidata ed i suoi inizi risalgono agli anni ‘60 e ‘70 del ‘900. Lavori pionieristici come quelli di David Whitehouse e di Otto Mazzucato hanno contribuito a porre le basi per una discussione che, coll’avanzare delle conoscenze, ha coinvolto sempre più studiosi e specialisti di varia formazione 1. Va inoltre sottolineato come, fin dagli inizi, lo studio della ceramica medievale (soprattutto romana) ha riguardato anche aspetti archeometrici come lo studio degli impasti e dei rivestimenti vetrificati 2. Il crescente interesse per le fasi postclassiche a Roma come altrove si è accompagnato ad un costante affinamento delle metodologie di studio dei materiali ceramici tardo antichi e medievali. In quest’ottica la straordinaria stagione di ricerca inaugurata con lo scavo urbano dell’isolato della Crypta Balbi ha rappresentato un fondamentale spartiacque nella ricerca sulle ceramiche romane 3. Tra gli anni ‘90 e gli inizi di questo secolo la lista degli scavi urbani a Roma è ulteriormente cresciuta con le ricerche sistematiche nel settore monumentale tra l’area dei Fori Imperiali e il Palatino 4. Contemporaneamente le sintesi di diversi specialisti contribuivano al dibattito sulle implicazioni storico-economiche e sociali 5. Negli ultimi anni le nostre conoscenze si sono dunque ulteriormente affinate, grazie anche a numerosi lavori sul campo. Con l’affermarsi di alcuni punti fermi nello studio della ceramica romana è stato possibile un bilancio della produzione e della circolazione delle ceramiche a Roma e nel Lazio presentata nel convegno AIECM3 del 2012 6. Quest’ultimo contributo ha preso in considerazione diversi contesti a Roma e nel Lazio analizzando dinamiche di produzione e consumo tra siti diversi, alcuni ancora inediti. Il nostro saggio prende dunque le mosse da quest’ultimo lavoro, sviluppandosi su due livelli di ricerca differenti, creando per la prima volta un database georeferenziato per Roma in cui vengono incrociati: le analisi degli impasti, i ritrovamenti di scarti e di prodotti finiti di produzione romana dentro e fuori la città e le fonti scritte attestanti vasai. Abbiamo quindi cominciato analizzando le tracce di produzione emerse durante la schedatura dell’edito, realizzata all’interno del progetto di ‘Archeologia della Produzione a Roma’ da un nutrito gruppo di giovani studiosi. Il secondo stadio della ricerca ha riguardato il censimento dei rinvenimenti di ceramiche rivestite fini da mensa databili tra VIII e XV secolo (ceramica a vetrina pesante e sparsa, ceramica laziale, maiolica arcaica) a Roma e nel Lazio 7. Sono state scelte esclusivamente queste classi e non altre perché spesso più facilmente riconoscibili, anche tramite piccoli frammenti e da archeologi non specialisti WHITEHOUSE 1965; WHITEHOUSE 1967; MAZZUCATO 1968; MAZZUCATO 1972a; MAZZUCATO 1976; MAZZUCATO 1977; WHITEHOUSE 1978. 2 WILLIAMS, OVENDEN 1978; D’AMBROSIO, MANNONI, SFRECOLA et alii 1986; ANNIS 1992; MAZZUCATO 1993. 3 MANACORDA, PAROLI, MOLINARI et alii 1986; CB 5; PAROLI 1992a; SAGUÌ, RICCI, ROMEI 1997. Di pochi anni precedenti sono le ricerche lungo l’ex tracciato di via della Consolazione e in vari settori del Colosseo: si veda rispettivamente MAETZKE 1991; REA 2002. 4 MENEGHINI, SANTANGELI VALENZANI 2006; PANELLA, SAGUÌ 2013. 5 PATTERSON 1993; MOLINARI 2003; MOLINARI 2010a; MOLINARI 2010b; PATTERSON 2010; WICKHAM 2013. 6 RICCI 1998; RICCI 2009; inoltre MOLINARI, BEOLCHINI, DE LUCA et alii c.s. 7 Questo censimento ha potuto tener conto di numerosi dati da scavi ancora inediti sia a Roma che fuori. Vogliamo pertanto ringraziare il lungo elenco di studiosi che generosamente ha messo a disposizione tali informazioni. 1 280 GIORGIO RASCAGLIA, JACOPO RUSSO nello studio delle ceramiche o in generale delle fasi medievali. Questo implica che anche in report di scavo sommari siano state elencate queste classi tra i ritrovamenti. Le ceramiche fini da mensa sono inoltre un buon indicatore della circolazione di beni di consumo, saperi specifici e maestranze. Tutti i dati raccolti in questo censimento sono stati vagliati ed inseriti in una mappatura GIS 8. Tramite questa banca dati georeferenziata, è stato possibile analizzare (a volte con discreta precisione) i pattern distributivi su scala urbana e regionale dei prodotti verosimilmente romani. Riguardo quest’ultimo dato in particolare si è proceduto ad una revisione delle analisi petrografiche finora acquisite (quando possibile). Un ulteriore elemento preso in considerazione è stato anche il livello di standardizzazione delle forme e delle decorazioni, possibile indicatore dell’organizzazione produttiva e soprattutto dei livelli di output. Uno spoglio dell’edito ha inoltre riguardato le attestazioni di vasai nella documentazione romana tra XI e XV secolo. Questa è costituita, tra XI e XIII secolo, soprattutto da cartari dei monasteri romani, mentre per il XIV e XV secolo anche da protocolli notarili 9. Anche questo censimento è confluito nella piattaforma GIS, con una attenzione alla distribuzione topografica e diacronica. Tutti questi elementi combinati permettono di iniziare a valutare l’entità della produzione e la sua distribuzione dentro e fuori la città, ma anche contribuire a comprendere l’estensione dell’area abitata nei diversi periodi. A questo riguardo bisogna sottolineare la parzialità dei dati, che risentono ovviamente della maggiore o minore intensità delle indagini archeologiche. Occorre poi tener conto, nel valutare la distribuzione delle produzioni ceramiche di probabile produzione romana, di ulteriori criticità. Innanzitutto dei problemi legati alle diverse tradizioni di studi, cosa che si riflette nella disomogeneità dei dati a disposizione e nella limitatezza e parzialità dei contesti editi. Questo rende talvolta impossibile, ad esempio, riconoscere produzioni certamente di Roma da quelle di altri centri, come pure di- 8 nini. Indicatori produttivi tra IX e XV secolo Prima di esaminare in dettaglio le tracce di produzione ceramica sinora censite, occorre premettere alcune considerazioni di metodo. La quasi totalità di queste non possono essere considerate sicuri indizi di produzione. È il caso di oggetti con leggeri difetti di foggiatura o cottura, che quando non compromettono l’integrità e la funzionalità del vaso rientrano all’interno della normale variabilità artigianale. Ad esempio si possono citare: i frammenti di olla da fuoco (databili tra IX e XI secolo) dalla Basilica Hilariana, le brocche in vetrina pesante dalle colonne onorarie (IX secolo), gli oggetti in acroma depurata provenienti dal Tempio di Romolo (fine XII secolo) e da piazza SS. Apostoli (XIII-XIV secolo) e un boccaletto in maiolica arcaica da via dei Farnesi (XV secolo), che sembrerebbe preferibile interpretare come prodotti malriusciti ma ancora funzionali, piuttosto che come veri e propri indicatori di attività produttive in loco 11. Un’altra considerazione riguarda i frammenti relativi a produzioni di Forum ware senza vetrina provenienti dal Foro e dalla Crypta Balbi, che si possono considerare oggetti finiti anche se privi di copertura e non quindi scarti 12. La ceramica a vetrina pesante è, in- Si rimanda al contributo in questo volume di Nicoletta Gian- Si rimanda per la bibliografia alle note 22-23, infra. 10 I limiti di alcune nostre conoscenze sulle ceramiche rivestite bassomedievali sono allo stato attuale di difficile superamento. Occorrono sistematici progetti di analisi degli impasti e dei rivestimenti, compiuti su un’ampia campionatura, per circoscrivere areali produttivi più netti. Per la ceramica a vetrina pesante e sparsa, che pure ha visto un’interessantissima e feconda stagione di analisi mineropetrografiche e chimiche, si segnalano i limiti riscontrati nell’edito, prevalentemente legati alla difficoltà di determinare quantità e fasi produttive differenti. 9 stinguere fasi produttive delle classi considerate. Un esempio a riguardo è la distribuzione regionale della maiolica arcaica: pur essendo state censite tutte le attestazioni di questa classe nel Lazio, si è scelto di non inserirle in una mappatura per non falsare il dato della circolazione dei prodotti romani 10. Questo intervento affronta dunque in primo luogo le tracce produttive emerse in schedatura. In secondo luogo si analizzeranno le attestazioni e la distribuzione dei vasai in città mentre nella terza ed ultima parte si sintetizzerà diacronicamente la produzione di ceramiche fini a Roma. 11 Per i materiali della Basilica Hilariana si veda il relativo contributo contenuto in questo volume. Per la vetrina pesante dalle Colonne Onorarie cfr. i materiali schedati da L. Paroli in BERTELLI, BROGIOLO 2000, p. 327. Per gli anforacei provenienti dal Tempio di Romolo cfr. RUSSO 2001. Ringraziamo Marco Ricci e Ilaria De Luca per le segnalazioni da piazza dei SS. Apostoli. Per il boccaletto in maiolica di XV secolo cfr. RINALDONI, FERRACCI 2005, p. 283. 12 Per i frammenti dal Foro si veda WILLIAMS, OVENDEN 1978, p. 508; il frammento dalla Crypta Balbi è pubblicato ed illustrato in PAROLI 1992b, p. 355. LA CERAMICA MEDIEVALE DI ROMA: ORGANIZZAZIONE PRODUTTIVA E MERCATI (VIII-XV SECOLO) 281 fatti, un tipo di ceramica rivestita che prevedeva una sola cottura. Analoghe considerazioni possono farsi per le produzioni più tarde: il sistematico rinvenimento di esemplari privi di rivestimento, di ‘biscotti’, riferibili alle forme ad esempio della maiolica arcaica non può, quasi in nessun caso, essere direttamente collegato alla presenza di officine. È infatti possibile che oggetti privi di copertura potessero essere commercializzati ad un minor prezzo in quanto comunque funzionali. A conferma di questo la mappatura evidenzia, in generale, la presenza di biscotti in aree separate da quelle in cui è eventualmente attestata la presenza di vasai o di altre tracce produttive (fig. 2). Il caso dei biscotti in maiolica arcaica dalla Crypta Balbi e di quelli segnalati da O. Mazzucato provenienti da S. Nicola in Carcere e Largo Argentina 13 sembrerebbero essere indicativi di quanto detto. Una possibile eccezione sembrerebbero i biscotti di boccali, presumibilmente relativi a produzioni in ceramica laziale, rinvenuti durante i lavori di risanamento delle case medievali di S. Paolo alla Regola 14. Riguardo questi oggetti risulta infatti di particolare interesse il loro riuso all’interno di un ciclo produttivo non meglio definibile, per la presenza al loro interno di incrostazioni metalliche, il che non esclude la lavorazione di ossidi metallici per pigmenti 15. La successiva vocazione alla produzione ceramica di questa zona lascia spazio all’ipotesi di O. Mazzucato, che ritiene potessero provenire da una officina posta nelle vicinanze. Va però tenuto conto che le prime notizie di vasai localizzati in questa zona risalgono al XIV secolo. Fatta eccezione per l’ormai ben nota officina (con relativi butti) di Giovanni Boni ai Fori Imperiali, databile a partire dalla fine del XV secolo, non abbiamo alcun resto di installazione fissa 16. Ad oggi, dunque, gli scarti o gli indicatori di produzione ceramica più attendibili si individuano soltanto, a nostro parere, nell’area dei Fori e di piazza Navona. Dagli scavi Lamboglia degli anni ‘60 effettuati tra la Curia e il Foro di Cesare proviene un frammento di parete acroma, probabilmente da fuoco, appena surcotta, sulla cui superficie esterna si è depositata in cottura una spessa massa di sostanza vetrosa di colore verde oliva chiaro (fig. 1) 17. Da una preliminare verifica microscopica si può escludere si tratti di un frammento relativo ad un oggetto invetriato, mentre l’impasto sembra essere del tutto compatibile con quelli da fuoco già noti per Roma. La massa vetrosa potrebbe dunque essere attribuibile ad una colatura da altri oggetti invetriati o relativa ad una fase di lavorazione della fritta da invetriatura. Provenendo da strati superficiali privi di altri indicatori e non essendo riconoscibile il profilo dell’oggetto, non è possibile datare con certezza questo frammento. In ogni caso altre tracce, spesso purtroppo decontestualizzate, rafforzano l’idea di una continuità di produzione ceramica nell’area dei Fori durante tutto il Medioevo e fino all’età moderna 18. È possibile citare al riguardo un fondo di boccale, biscotto, verosimilmente di ceramica laziale, proveniente dall’area di Torre De’ Conti, riutilizzato per delle prove di decorazione (fig. 2, 2) 19. Gli scavi ancora in corso nell’adiacente Foro della Pace hanno, inoltre, restituito sporadici frammenti relativi a diverse fasi della produzione di maiolica arcaica e rinascimentale (fig. 2, 4) 20. Altri possibili indicatori di produzione, pur decontestualizzati, sono le anfore dalle volte del protiro di S. Maria in Cosmedin, per la maggior parte pezzi concotti e deformati, dalla cronologia incerta collocabile tra IX e XI secolo, ad oggi purtroppo disperse (fig. 1) 21. Per la Crypta Balbi cfr. RICCI, VENDITTELLI 2010, p. 113. Per S. Nicola in Carcere cfr. MAZZUCATO 1981; per Largo Argentina cfr. MAZZUCATO 1989. Si segnala inoltre la presenza di un biscotto di boccale, presumibilmente di ceramica laziale, dal riempimento della volta del chiostro di S. Paolo fuori le mura, segnalato in MAZZUCATO 1971, p. 362, fig. 3. 14 MAZZUCATO 1984; MAZZUCATO 1986a. E’ bene sottolineare come questi oggetti siano stati rinvenuti totalmente fuori contesto (cfr. anche QUILICI 1986-1987). 15 Gli oggetti in questione, segnalati da Mazzucato al Museo di Roma, risultano dispersi e non sono dunque possibili ulteriori considerazioni. 16 Si veda al riguardo il contributo di R. Meneghini in questo stesso volume. L’unica fornace medievale (XIII-XIV secolo) rinvenuta in città, in piazza Sforza Cesarini, è connessa alla produzione di laterizi. Si veda FILIPPI 2010, p. 54. 17 Si veda il catalogo dei materiali medievali redatto da C. Leotta in AMICI, DELL’AMICO, LEOTTA et alii 2007, p. 40. Desideriamo ringraziare Cristina Leotta per aver messo a disposizione il materiale in questione. 18 Per il butto rinvenuto vicino Torre De’ Conti, costituito per lo più da biscotti di maiolica pertinenti ad una bottega cinquecentesca, si rimanda a MAZZUCATO 1986b. Riguardo la lunga durata della produzione in questo settore vale la pena menzionare una piccola fornace probabilmente per ceramica, databile al VI secolo, all’interno delle tabernae dei Mercati di Traiano, prospicienti la Salita del Grillo: SPECCHIO 2010, pp. 179-180. 19 Cfr. MAZZUCATO 1974, pp. 10-11. La datazione proposta da quest’ultimo al XIV secolo risulta poco convincente. 20 Informazione personale di R. Santangeli Valenzani che ringraziamo per la visione del materiale. 21 GIOVENALE 1927, p. 245 e tav. XLI a; MAZZUCATO 1971; MAZZUCATO 1977; PAROLI 1992c, pp. 362-363. Questi ultimi fanno giustamente notare le discrepanze nella datazione proposta da Giovenale. Pur essendo il protiro chiaramente di XI secolo, i materiali ceramici dalle volte sono, almeno in parte, effettivamente databili al tardo VIII-IX secolo. In particolare il riconoscibile esemplare 13 282 GIORGIO RASCAGLIA, JACOPO RUSSO Fig. 1. - Distribuzione degli indicatori produttivi e dei vasai entro il XII secolo. I vasai sono posizionati in corrispondenza degli enti ecclesiastici di riferimento. Scoperte recenti dallo scavo condotto dall’École Française de Rome al civico 62 di piazza Navona consentono di incrociare il dato archeologico con quello delle fonti scritte. Il ritrovamento di alcuni biscotti di maiolica arcaica associati ad altri elementi (ad esempio tracce di bruciatura, la presenza di un grumo di argilla cotto), rinvenuti in stratigrafie di XIV-XV secolo, confermerebbe la presenza artigianale in questa zona anche alla luce di ulteriori documenti inediti 22. Il caso che abbiamo appena citato è l’unico, assieme a quello di Giovanni Boni, che ci permette, seppur in via ipotetica, di collegare indicatori archeologici con la documentazione scritta. Il resto delle attestazioni di vasai nelle fonti sono costantemente slegati da sicuri luoghi di produzione. Le prime segnalazioni di vasai nella documentazione romana medievale risalgono al 1021 (fig. 1; tab. 1) 23. Purtroppo, fino al XIV secolo, i figuli vengono menzionati solo come testimoni o contraenti in atti di locazione o donazione a vari enti ecclesiastici. L’unica eccezione risale al 1047. In questo anno un documento dell’archivio di SS. Cosma e Damiano in Mica Aurea descriverebbe quello che sembrerebbe un isolato di vasai, con due officine contigue, delle quali una viene locata dal monastero ad un certo Romanus vir honestus, figulus (tab. 1, ID 3), mentre un Paulo lagunarius compare come locatario dell’altra (tab. 1, ID 4). Queste of- di anfora globulare, che non presenta difetti di cottura; datazioni più tarde sembrano possibili per gli scarti di anforacei da dispensa. 22 I documenti inediti provenienti dal PEF, in corso di studio da parte di B. Gauthiez (che ringraziamo per l’informazione), menzionano la presenza di vasai nello stesso isolato dell’attuale civico 62 nello stesso arco cronologico dei contesti con indicatori di produzione. 23 Si ringrazia Chris Wickham per le segnalazioni riguardanti i vasai anteriori al XIII secolo. L’elenco dei vasai più tardi è stato desunto soprattutto dal lavoro di Paolo Güll (GÜLL 2003). Altri vasai collocabili cronologicamente nel XV secolo sono segnalati da Grigioni (GRIGIONI 1914; GRIGIONI 1958). I vasai 1027 1047 1047 1058 1058 1078 1081 1116 1177 2 3 4 5 6 7 8 9 10 Tab. 1. Vasai e luoghi di produzione ceramica attestati nelle fonti scritte tra XI e XII secolo. ASR, SCD, cassetta 16, n. 146r Menzionato come testimone in un documento del monastero dei SS. Cosma e Damiano in Mica Aurea. Figulus Thomas ASR, SCD, cassetta 16, n. 111 Menzionato come testimone in un documento del monastero dei SS. Cosma e Damiano in Mica Aurea. Figulus TRIFONE 1908, p. 282 Nel Circo di Massenzio, tra le proprietà di S. Paolo fuori le mura, si menzionano delle criptis ubi lutea vasa coquuntur». Cripte Colariae 1021 1 Trastevere Cripte Colariae CRONOLOGIA ID Trastevere QUARTIERE Circi (probabilmente di Massenzio) Cinthius de Cinthio FEDELE 1898, n. 83 Menzionato come testimone in un documento del monastero dei SS. Cosma e Damiano in Mica Aurea. Figulus Cencio FEDELE 1898, n. 57 Figlio di Iohannes, è menzionato come testimone in un documento del monastero dei SS. Cosma e Damiano in Mica Aurea. Figulus Gregorius FEDELE 1898, n. 57 Figlio di Stefano, è menzionato come testimone in un documento del monastero dei SS. Cosma e Damiano in Mica Aurea. Figulus Patius Menzionato nel documento precedente. lagunarius Paulo FEDELE 1898, n. 51 Affittuario del monastero dei SS. Cosma e Damiano in Mica Aurea di una cripta sinino opere coperta, confinante con due altre criptae (delle quali una di Paulo lagunarius) e sugli altri due lati con due strade. Vir honestus figulus Romanus RADICIOTTI 2010, n. 2 Testimone di un documento della chiesa di Santa Maria in Trastevere. Artefigulus Dominicus HARTMANN 1895, n. 45 Testimone in un documento del monastero femminile di SS. Ciriaco e Nicola in via Lata (forse stessa persona del documento successivo?). Figulis Dominicus BIBLIOGRAFIA/DOCUMENTO MENZIONE TOPONIMO BOTTEGA NOME VARIE LA CERAMICA MEDIEVALE DI ROMA: ORGANIZZAZIONE PRODUTTIVA E MERCATI (VIII-XV SECOLO) 283 ficine sono collocate a Trastevere all’interno probabilmente di una struttura antica, fiancheggiata da due strade, non ancora identificata 24. Siamo quindi di fronte alla prima menzione di un vasaio, verosimilmente indipendente, che rientrerebbe dunque nella categoria dell’individual workshop proposta da D. Peacock; la vicinanza di almeno un’altra officina non esclude però la più complessa nucleated workshop 25. A questo proposito la stessa definizione di lagunarius, e non semplicemente figulus, usata per Paulo, potrebbe indicare una specializzazione produttiva (verosimilmente verso anforacei da dispensa). Sempre databile all’XI secolo è anche la menzione di attività di produzione ceramica, probabilmente nei ruderi del Circo di Massenzio sul progressivamente (fig. 2; tab. 2). I vasai sono ora menzionati in atti di compravendita che riguardano direttamente beni immobili, tra i quali gli stessi atelier, quando non direttamente lotti di vasellame 27. A tal riguardo uno spunto per ulteriori approfondimenti potrebbe riguardare il mutato status sociale dei vascellarii romani, alcuni dei quali, come abbiamo accennato, sono da questo momento attivi su più livelli della vita economica cittadina e dimostrano una certa vitalità imprenditoriale. I vascellarii noti per il XIV secolo sono piuttosto pochi e concentrati nella zona del rione Arenula e S. Eustachio, (rispettivamente tre e quattro vasai) 28. 24 Il documento, già edito in passato (FEDELE 1899, pp. 8991; DE MINICIS 1998b, p. 94), è stato di recente valorizzato da C. Wickham (WICKHAM 2013, p. 179). Il luogo, chiamato «Criptae Colariae», sembra essere attestato solo in questo documento. In via del tutto ipotetica lo si potrebbe identificare con le antiche strutture pertinenti ai Coraria Septimiana, una corporazione di conciatori d’epoca imperiale la cui sede è generalmente identificata nella zona tra S. Cecilia in Trastevere, via dei Vascellari e S. Crisogono, area dove si concentrano le evidenze epigrafiche per questa corporazione. Colaria sarebbe quindi una derivazione, per dissimilazione l-r, di Coraria. Cfr. PRONTI 1993. Desideriamo ringraziare il professor P. Trifone per i chiarimenti linguistici. 25 PEACOCK 1982, p. 31. 26 «[…] cryptis ubi lutea vasa coquuntur […]»: SPERA 1999, p. 274; WICKHAM 2013, p. 179, nota 104. 27 È da menzionare, a partire dal XIII secolo, l’esistenza di acquariciarii, probabilmente fabbricanti di olle acquarie (acquarecce), desumibile dall’intitolazione della chiesa di Sant’Andrea nel Rione Parione. Cfr. GÜLL 2003, pp. 120121; GÜLL 2006, p. 165. Sull’argomento si rimanda anche a LORI SANFILIPPO 1981, p. 290; LORI SANFILIPPO 1984. 28 Si potrebbe anche tener conto di un fornaciaio situato nel rione Ponte. GÜLL 2003, p. 49 e seguenti. 284 GIORGIO RASCAGLIA, JACOPO RUSSO Fig. 2. - Distribuzione, per rioni, dei vasai attestati nelle fonti scritte tra XIV e XV secolo, degli indicatori di produzione e dei luoghi di rinvenimento di biscotti relativi a produzioni bassomedievali. La nuova complessità delle fonti, a partire dal Quattrocento avanzato, mostra un panorama certamente più articolato. Due esempi, Santo Spalvera (tab. 2, ID 31) e Antonio, attestati rispettivamente come produttori di acquarecce e di vascelle pente, mostrano ora chiaramente una specializzazione artigianale delle botteghe romane che si differenziano per il tipo di prodotto (anfore per stoccaggio di liquidi – acquarecce – e probabilmente maioliche – vascelle pente) 29. Va senz’altro segnalata la presenza a Roma di numerosi vasai di diversa provenienza regionale ed extraregionale. Vengono fornite, inoltre, indicazioni su installazioni fisse, attrezzi e le materie prime usate. È il caso ad esempio di un documento inquadrabile nella prima metà del secolo, in cui si cita gran parte della dotazione di una bottega ceramica, come torni, macine per i colori, tavole probabilmente di legno 30. Disponiamo persino di un ricettario quattrocentesco per i rivestimenti ed i co- Cfr. GÜLL 1998, pp. 81-82. Nel caso di Antonio si tratta molto probabilmente dello stesso vasaio di cui si parla anche in GÜLL 2003, p. 60 (tab. 2, ID 34). 29 lori, conservato alla Biblioteca Casanatense 31. Databile all’ultimo quarto del XV secolo è anche il sigillo, conservato al Museo Nazionale di Palazzo Venezia, appartenente ad una corporazione di vascellari; di quest’ultimo, proveniente da una collezione privata, non possiamo tuttavia esser certi della città d’origine, che potrebbe anche non essere Roma 32. Nonostante queste informazioni a volte estremamente dettagliate, spesso vi è incertezza sulla reale identificazione dei personaggi citati come produttori di ceramica o piuttosto come intermediari o venditori di vasellame. Inoltre, risulta chiaro come la concentrazione di vasai sia in particolare nei quartieri più prossimi al Tevere (Arenula, Isola, Trastevere) e in alcuni rioni dove la produzione, su base archeologica, potrebbe essere radicata da tempo (Campo Marzio settentrionale e area dei Fori). (G.R., J.R.) GÜLL 2003, p. 54. Per il ricettario si vedano MAZZUCATO 2004 e SACCARONI 2004. 32 Per il sigillo cfr. MAZZUCATO 1969 e BANDINI 2009, p. 505. 30 31 LA CERAMICA MEDIEVALE DI ROMA: ORGANIZZAZIONE PRODUTTIVA E MERCATI (VIII-XV SECOLO) ID       BIBLIOGRAFIA/DOCUMENTO 11 1359 Sant'Eustachio Pucciarellus vascellarius Composizione della disputa con Sanctus Cecchi Capocie de regione Transtiberim. ASC, Notai, Sezione 1, doc. n. 43. Notaio: Paulus de Serromanis. 12 1372 Sant'Eustachio Amicus vasciellarius de regione […] Sancti Heustachii Testimone in un atto di vendita di 25 rubbi di lana tra Tucio di Tomaso di Castro Veriecchie e Cola Alene del rione S. Eustachio. LORI SANFILIPPO 1986, p. 63 (da ASR, CNC; Notaio Staglia, 55, cc. 58 r. -59 r.)       Il vasaio, proveniente da Città di Castello ed ora nel Rione Sant'Eustachio, si fa garante di Paolo, vasciellarius dudum de d'origine perugina ed ora fornaciaio de Ponte. Quest'ultimo deve fare 6000 tegole 'ben stagionate' GÜLL 2003, p. 49, nota 1; LORI SANFILIPPO 1986, pp. 76civitate Castelli et nunc de 77 (da ASR, CNC; Notaio Staglia, 67 cc. 73 v. -74 v.). per Giovanni di Matteo de Ylperinis del rione Sant'Eustachio, vicario generale del monastero di regione Sancti Heustachii S. Paolo fuori le mura. 13 1372 Sant'Eustachio Nardus 14 1436-1443 Sant'Eustachio Egidio de Viterbo 15 1478 Sant'Eustachio Paolo di Giacomo 16 1492 Sant'Eustachio Mariano di Giuliano Rapilone 17 1461-1469 18 1365 Arenula Iohanne de calça vascellario de regione arenule 19 1397 Arenula Cola Cola filio quondam Cole vasciellario Testimone. GÜLL 2003, p. 49, nota 1 con bibliografia (da ASR, CNC, n. 849, c. 33r). vascellario de regione Arenula Testimone nello stesso documento del precedente; nel 1425 stipula un contratto con Stefano de Luppolo (figlio di Paolo Iacobelli) per la gestione di un forno di ceramica in una casa appartenente a Stefano, che fornisce anche le materie prime. GÜLL 2003, p. 49, nota 1 con bibliografia e p. 53 (ASR, CNC, n. 849, c. 33r; ASR, CNC, n. 848, c. 389-390r). Il vasaio non potendo pagare l'affitto del suo atelier alla chiesa di S. Tommaso degli Spagnoli, viene sfrattato e al suo posto subentrano il figlio Pietro e un altro soggetto, Pietro de Sezze (forse un altro artigiano) per quattro fiorini. Nel documento si fa riferimento a unam pilam pro macinando colores, duas rotas et certas tabulas necessarias ad dictam apotecam vascellariorum», acquistati dai nuovi locatari per cinque fiorini. GÜLL 2003, p. 54. in piazza Lombarda Menzionato come affittuario di tale Giovanni Paolo Alene, realizza un forno (all'interno dell'edificio) pro coquendo, pro laborando, fabricando et constituendo vasa. In seguito ad una causa intentata da una confinante (Checca vedova di fu Antonio di Ser Pietro, medico di Siena), il tribunale (1443) ingiunge al proprietario di demolire il forno o a costruire muri e tamponare tutte le aperture per evitare fumo e olezzi. Paulus, magistri Iacobi Proviene da Anagni come si evince da un atto posteriore (27 novembre 1484) in cui viene definito GRIGIONI 1914, p. 50 (da ASC, atti di Evangelista Bistusci, [lacuna]vascellarius de Paulus magistri Iacobi Iohannis de Anania vasarius de Regione sancti Eustachii. vol. 67, fascicolo K, fol. 18 r. e ibidem vol. 1082, fol. 408, v.). Regione Sancti Eustachii presente Mariano quondam GRIGIONI 1914, p. 51 (da ASC, atti di Evangelista Bistusci, Iuliani Rapitonis vasario de vol. 69, tomo I, fol. 118 v.). Urbe de regione Sancti Eustachii Nardo 20 1397 Arenula Antonio de Piperno (o Piperno) 21 XV (prima metà) Arenula Domus sive apotheca […] que est dicte ecclesie sancti Thome […] iuxta dictam ecclesiam et res dicte ecclesie et via publica Simone 22 XV (seconda metà) Arenula in Mercatello Tuccio GÜLL 2003, p. 57 (da ASR, Ospedale del S. Salvatore ad Sancta Sanctorum, cass. 503, pergg. 15-16). Originario di Anagni. GÜLL 2003, p. 59 (4 documenti in ASR, CU). GÜLL 2003, p. 49, nota 2 (da ASR, CNC, n. 0849, c. 171r). GÜLL 2003, pp. 54-55 (da ASR, CU, n. 106, c. 236r; n. 107, c. 315v.). 23 XV (seconda metà) Arenula in Mercatello Servidio Più probabilmente un commerciante di ceramica che non un vasaio vero e proprio. Probabilmente lo stesso soggetto che nel 1495 compra in blocco la produzione di due anni di Casciano (cfr. ASR, CNC, n. 1671, c. 361v e 362v). 24 XV (seconda metà) Arenula in Mercatello Gaspare Più probabilmente un commerciante di ceramica che non un vasaio vero e proprio. GÜLL 2003, p. 54 . 25 XV (seconda metà) Arenula in Mercatello Michele Più probabilmente un commerciante di ceramica che non un vasaio vero e proprio. GÜLL 2003, p. 54 (da ASR, CU, n. 16, c. 15r; c. 97r; 1492). 26 1478 Arenula Gaspare di Pietro Grosso Magistro vascellario Proprietario di una casa nel quartiere (una casa con portico in Arenula). GÜLL 2003, p. 54 (da ASR, CNC, n. 122, c. 442r e 417rv). 27 1401 Ponte Arigho Vascellario de regione pontis Testimone in un atto di vendita di un terreno di proprietà di S. Andrea de Aquariciariis (vigneto e frutteto). LORI SANFILIPPO 1981, p. 83, doc. 40 28 1478-1503 Ponte Bernardino Marescalli Magistro vascellario 29 1480 Ponte Gaspare Gasparis vassallarii 30 1461-1480 a Scorteclaro Giacomo 31 1461-1480 ne la via di Torre Sanguigna Santo Spalvera 32 1459-1480 Isola in isola Francesco Zagarolo 33 1489-1497 Isola in insula Antonio Filippo 34 1465 Isola in isola Antonio 35 36 37 1489 1464 1466 Trastevere? Campitelli Campitelli 38 1486-1517 39 1504 area dei Fori ad Spogliam Christi 40 1518 prope archulum Sancti Urbani 41 1371 La sua casa risulta confinante con la taberna di Iohannes Sancti che la compra per ingrandirsi (isolato piazza Navona, civico 62). Possibile genero di Giacomo (cfr. ID 30). GAUTHIEZ c.s. Sancto Spalvera acquarecciaro de regione Pontis Menzionato come fornitore (tra 1483 e 1484) di un lotto di anfore per l'acqua destinato al Campidoglio. GÜLL 2003, pp. 56-59 (da 29 documenti in ASR, CU, dal 1461 al 1480. Un documento in CNC, n. 1647, c 10v). GÜLL 2003, p. 60 (da 10 documenti in ASR, CU). Figlio di Antonio, di Montelupo. Nel 1492 nella sua bottega è registrato Giovanni figlio di GRIGIONI 1914, p. 50; GÜLL 2003, pp. 60-61; (da ASC, AU, Orlandino, vascellarius di Novara. Nel 1497 sono registrati: Melchiorre di fu Michele, s. 1, n. 122, 5, c. 180rv; ASR, CNC, n.1671, c. 293r; ASR, Magistri Antonii vascellarii vascellarius di Montelupo; Leonardo de Masi, vascellarius di Montelupo; Leonardo Baldi, CNC, n. 1081, c. 6-48r; ASR, CNC, n. 167 1, c.14r; ASR, in insula vascellarius de Perusi. Probabilmente viene citato come testimone in un atto del 21 agosto 1497 CNC, n. 1295, c.484v.; ASC, atti di Lorenzo Bertonii, vol. 122, come presente magistro Antonio vasario fiorentino». fascicolo V, fol. 180 v. e ibidem, vol. 1081, fol. 684 r.) GÜLL 2003, p. 60 (da ASR, CU, n°62, c. 134r; n° 62 c. 144r.). Marcello Guidolini […] Marcello Nardi Guidolini vasuellaro Regionis transtiberim Atto del 31 marzo 1489 in cui viene citato anche Antonio Filippo di Montelupo (cfr. ID 33). GRIGIONI 1914, pp. 50-51 (da ASC, atti di Lorenzo Bertonii, vol. 122, fascicolo V, fol. 180 v.). Antonio di Simone Antonius magistri Simonis vasarius Regionis Campitelli Il 7 aprile 1464 fa una promessa di matrimonio; secondo Grigioni questo vasaio era sicuramente romano (ma non argomenta questa osservazione). GRIGIONI 1914, p. 50 (da ASR, CNC, atti di Augustinus de Martinis, vol. 1081, fol. 179 r.). Maestro Pietro presente magistro Pietro de Tollentino vasario de Regione Campitelli Ricordato in una testimonianza del 2 aprile 1466 e dimorante nella stessa ragione di Antonio. Proviene da Tolentino. GRIGIONI 1914, p. 50 (da ASR, CNC, atti di Augustinus de Martinis, vol. 1081, fol. 330 v.). Sposa nel 1486 la figlia di Nardo Pecho, Stefania, legandosi al cognato Marcello: matrimonio che porta di fatto alla formazione di una 'società' tra i due, che saranno associati a Trastevere nei locali la cui comproprietà era stata portata in dote. Da allora si stabilisce a Trastevere. GÜLL 2003, p. 64; GÜLL 2006, p. 122 (da 11 documenti in ASR, CNC). Faentino, figlio di Michele. GÜLL 2003, p. 63 (da ASR, CNC, n. 851, c. 17r.). Tommaso è di Perugia, e cede il suo atelier per quattro anni ad Antonio de Suna, mercante di ceramica, verso cui ha un debito di 50 ducati. GÜLL 2003, pp. 61-63 (da ASR, CNC, n. 1501, c. 80v.). Proprietario di un appezzamento nelle vicinanze delle proprietà cittadine di Santa Maria Nova. ASC, Notai, Sezione 1, doc. n. 47. Pietro figlio di Simone Vedi ID 21. GÜLL 2003, p. 54 . Sebastiano vassellarius ad Spogliam Christi Tommaso Valentini Robertus Domus sive apotheca […] que est dicte ecclesie sancti Thome […] iuxta dictam ecclesiam et res dicte ecclesie et via publica Stabilito a Roma, nel rione Ponte, fin dal 1478. Poi passa a quello di Sant'Eustachio. L'ultimo GRIGIONI 1958, p. 93 (da ASC, 710, fol. 70 r. della seconda ricordo è del 1503, quando è testimone con altri artisti e artigiani, nel cimitero di S. Luigi dei cartolazione; 931, fol. 178 r.; ASC, 1634, fol. 64 v.). Francesi. Il padre Cristoforo proviene da Imola e non si può escludere che anch'egli non venga da li. vascellarius ad cappellam [Cappella di S. Nicola in S. GÜLL 2003, pp. 58-59 (da 33 documenti in ASR, CU, dal 1461 Maria de Cellis]; Produttore di anfore e maioliche decorate. Sembra risiedere nel rione Ponte, probabilmente al 1480); GAUTHIEZ c.s. (da PEF, Reg. 19, c. 16r-17v; menzionato anche come nell'area di piazza Navona. Il figlio Paolo è menzionato in un documento successivo come vicino 1480.09.13; Reg.8, f. 18v-21v, stessa data; Reg. 19, f. 18v-21v; di un Gasparis vassallarii, entrambi confinanti con Iohannis sancti tabernarii. magistri Iacobi vassallarii e 1482.09.13). magistri Iacobi figularii sive vassallarii Casciano di Faenza non id. GÜLL 2003, pp. 54-55 (da ASR, CU, n. 16, c.78r; 1492). vascellarius 42 entro il 1441 43 1459 Pietro Antonio della Pigna Forse, dato il soprannome Pigna, esso è da collocare in zona Campidoglio/piazza Ara Coeli. GÜLL 2003, p. 55 (da 7 documenti in ASR, CU, dal 1459 al 1464). 44 1461 Giuliano Figlio di Giubileo, forma una società insieme a Egidio Tocco (muratore) e Antonio Anguelloni per lo sfruttamento di una cava d'argilla (cretaro) a Monte Mario, di sua proprietà. GÜLL 2003, p. 86; GÜLL 2006, p. 64. 45 1461-1467 Nardo Pecho (o Pero) Menzionato come locatario della cava d'argilla in ID 44 nel 1461; nel 1467 fa una consegna per il Campidoglio. E' con ogni probabilità il padre di Marcello De Nardo e Stefania (cfr. ID 38). GÜLL 2003, p. 63 (da ASR, CNC, n. 1643, c. 28rv.). 46 1503 Domenico Antonij Vasaio fiorentino. Noto nel 1503 come testimone con altri artisti e artigiani (tra cui Bernardino Marescalli, cfr. ID 28). GRIGIONI 1958, p. 93 (da ASC, 1634, fol. 64 v.). 47 1519 La casa viene locata ad Antonio Senzale da Sigismondo del Sordo, per 10 anni a 18 ducati e due capponi l'anno. La casa è così descritta: cum sala, camera, discoperto et puteo et unam partem alterius domus solite habitationis ipsius domini Sygismundi, videlicet illam partem qui est super stabulum et cantinam qui dicitur vulgariter la stantia delli battilana, posita in regione Columne iuxta dictam domum habitationis ipsius domini Sygismundi. Nel contratto Sigismondo si impegna a costruire, a proprie spese, un forno per ceramica e di fornire tutti gli attrezzi necessari all'attività. GÜLL 2003, p. 63 (da ASR, CNC, n. 659, c.11v.). in rione Columne? Antonio del Senzale vascellario Tab. 2. Vasai attestati nelle fonti scritte tra XIV e XV secolo. 285 286 GIORGIO RASCAGLIA, JACOPO RUSSO Sebbene sia nota la facies complessiva delle produzioni ceramiche del secolo VIII grazie ai ben noti contesti della Crypta Balbi e di alcuni scavi recenti, è tuttavia veramente esiguo il numero di siti con accertate fasi di questo secolo dentro e fuori Roma 33. In molti di questi non è stato inoltre possibile riconoscere una distinta fase di VIII secolo da una generica fase di fine VIII-IX secolo, caratterizzata dalla presenza o meno di ceramica a vetrina pesante. Tuttavia, proprio sul finire del secolo abbiamo l’unica certa traccia di produzione, a Mola di Monte Gelato, nell’ager Faliscus, dove una fornace produceva anforacei e forme chiuse da mensa in ceramica acroma depurata con tipologie assolutamente confrontabili con quelle di Roma. Anche in questo caso sia le tipologie prodotte che i restanti materiali ceramici rimandano ad un orizzonte cronologico di inizio IX secolo 34. Per il resto si segnala una sostanziale assenza di dati, sia a Roma che in altri centri. Il IX secolo vede il radicarsi della tecnica di invetriatura piombifera in monocottura a Roma ed in altri siti del Lazio 35. A questo periodo, com’è ormai noto, è possibile ascrivere la produzione di ceramica a vetrina pesante o Forum ware, oggetto di un lungo dibattito che ha riguardato, oltre alla sua esatta cronologia, anche il tema dell’evoluzione degli insediamenti laziali 36. La sua diffusione dentro e fuori Roma è senz’altro significativa, ed è stata analizzata anche in altre sedi 37. Particolarmente interessante è la distribuzione della Forum ware all’interno della città, che sembra indicare le aree più densamente abitate e significativamente caratterizzate dalla presenza di monasteri e diaconie (fig. 3; tab. 3) 38. È stato peraltro notato come l’attestazione di ceramica a vetrina pesante sia spesso collegata alla presenza di enti ecclesiastici. È il caso dell’area della Crypta Balbi, a ridosso del monastero di S. Lorenzo in Pallacinis. L’area dei Fori, dove si concentrano importanti monasteri e diaconie (S. Adriano, SS. Sergio e Bacco, S. Maria Antiqua, SS. Cosma e Damiano), vede inoltre la compresenza di abitazioni e attività artigianali ed agricole, ed è peraltro uno dei pochi areali dove si siano indagate strutture residenziali di quest’epoca 39. Riguardo al Foro va segnalata inoltre una concentrazione particolare di ritrovamenti databili tra IX e X secolo nell’area della Casa delle Vestali: diversi pozzi (alcuni dei quali hanno restituito ceramiche invetriate ed acrome altomedievali) e tracce d’occupazione abitativa rinvenuti soprattutto durante gli scavi Boni (anni ‘80 e ‘90 dell’800), il noto tesoretto monetale di X secolo e tracce di frequentazione rinvenute più di recente in questo settore alle falde del Palatino, sembrano indicare la presenza di un addensamento insediativo intorno alla diaconia di S. Maria Antiqua 40. Caratteristiche simili all’area del Foro sono riscontrabili nel settore dell’Aventino, dove recenti scavi e analisi di contesti ceramici indicano una presenza a carattere sparso di abitazioni, chiese e strutture monastiche 41. Al di fuori di Roma i siti con presenza di Forum ware sicuramente di IX secolo sono decisamente pochi, dato particolarmente evidente dalle ricognizioni del Tiber Valley Project, tra i più grandi e completi progetti di ricognizione archeologica nel Lazio (fig. 4; tab. 4) 42. Anche qui si tratta per lo più di siti legati alla presenza monastica e dell’amministrazione pontificia. È il caso della domusculta di S. Cornelia e dell’episcopio e santuario di S. Rufina o del casale di Berretta del Prete (tra VIII e IX miglio della via Appia), di proprietà del monastero di S. Erasmo al Celio 43. Tra i pochi siti con attestazioni di ceramica a vetrina pesante non esclusivamente riconducibili alla presenza ecclesiastica si segnalano alcuni centri urbani con lunga continuità di vita come Lucus Feroniae (con il vicino insediamento di Scorano), Albano, Privernum, Ostia e Porto 44. La stragrande maggioranza dei Si vedano alcuni dei contesti editi in PAROLI, VENDITTELLI 2004, in particolare ROMEI, ibibem, per la Crypta Balbi; si veda anche MANDARINI, PAGANELLI 1998 per S. Clemente; RICCI 1998, pp. 36-39 per la ceramica da fuoco. Per la Campagna Romana, PATTERSON 1993. PAROLI 1998, pur con alcuni elementi superati da sintesi successive, rimane un’ottima guida delle produzioni altomedievali romane. Si segnala anche PAROLI, DE LUCA, SBARRA et alii 2003. 34 PATTERSON 1997, pp. 371-383 e PATTERSON 2010. 35 Entro la metà dell’VIII secolo potrebbe collocarsi una piccola produzione di oggetti con invetriatura parziale, per la quale abbiamo ancora pochi dati. Cfr. ROMEI 2004, pp. 285-286. 36 PATTERSON 2010, pp. 147-150, con bibliografia, riassume efficacemente le controversie sulla datazione di questa produzione e le implicazioni nei pattern insediativi. In particolare si rimanda a PATTERSON 1992 e PATTERSON 2010. MENEGHINI, SANTANGELI VALENZANI 2004, pp. 72-101. 39 Ibidem, pp. 34-40. 40 BONI 1899, pp. 332-333; AUGENTI 2001, pp. 139-140; per gli scavi tra Sacra via e Casa delle Vestali, si ringraziano per le informazioni D. Filippi, S. Costa, D. Borruso. Si vedano anche le segnalazioni in MAZZUCATO 1993 per i materiali dall’area delle Vestali e Tempio di Cesare. 41 Informazione personale di M. Ricci. 42 Per il Tiber Valley Project si rimanda a PATTERSON 1998 e, più recente, PATTERSON, DI GIUSEPPE, WITCHER 2004. 43 Per S. Cornelia e S. Rufina si veda CHRISTIE 1991; per Berretta del Prete, vd. GAI 1986. 44 Per Lucus Feroniae e Scorano si rimanda a ROMEI 1992a e ROMEI 1992b. Per Albano si veda FRAZZONI 2013; per Privernum Caratteri della produzione ceramica tra alto e pieno medioevo (VIII-XII secolo) 33 37 38 287 Fig. 3. - Distribuzione dei rinvenimenti di ceramica a vetrina pesante databile tra inizio IX e prima metà X secolo a Roma e nel suburbio. siti con vetrina pesante censiti dalle ricognizioni della British School at Rome e dal presente lavoro di schedatura si data piuttosto a partire dal pieno X secolo, nel momento in cui gli insediamenti laziali, in tempi e modi diversi, si organizzano in nuove forme, in coincidenza col fenomeno dell’incastellamento. Questa ridotta presenza di Forum ware di IX secolo si accompagna ad una discreta varietà di impasti, per la maggior parte collocabili nell’ambito del bacino del Tevere, spesso attestati in diversi vasi anche all’interno dello stesso sito 45. Il caso più lampante al di fuori di Roma è Farfa, dove la vetrina pesante è associata a circa quattro gruppi petrologici distinti. Siamo però di fronte ad un grande monastero imperiale e non stupisce una rete di approvvigionamenti così vasta. Nella maggior parte dei casi in cui sono state compiute campionature ed analisi petrografiche attraverso sezioni sottili, i gruppi petrologici presenti nello stesso sito sono in media tre. Esempi possono essere S. Rufina (un insediamento rurale e sede episcopale a nord di Roma, dove accanto ad argille presu- mibilmente locali compaiono altre provenienti dal bacino del Tevere) o Scorano (insediamento fortificato tra IX e X secolo, adiacente ad approdi fluviali e caratterizzato da diverse associazioni di argille vulcaniche del bacino del Tevere) 46. Questa varietà indica spesso una prevalenza di produzioni circonvicine ma anche una circolazione su scala subregionale di prodotti riconducibili alla tipologia della Forum ware. Occorre tenere presente però come le tipologie decorative e formali, pur ampiamente variabili come è caratteristico di questa classe, rimangano costantemente legate a modelli comuni ad una parte consistente dell’attuale Lazio, con minime e spesso tutt’altro che indicative differenze. Questi elementi possono, in definitiva, essere sia un segnale di circolazione dei manufatti sia della manodopera all’interno di circuiti diretti dalle chiese e dai monasteri dell’Urbe ed è significativo che al di fuori dell’area di suo diretto controllo o influenza questa classe di fatto scompaia. Roma produceva quindi una discreta quantità di vetrina pesante, consumata all’interno delle sue mura e che probabilmente si PANNUZI 1994; per Ostia PAROLI 1993 e PANNUZI 2004; per Porto CIARROCCHI, MARTIN, PAROLI et alii 1993. 45 Si fa qui riferimento in particolare all’ampia campionatura ed alle analisi di impasti compiute in occasione del seminario sulla ce- ramica invetriata tardo antica e altomedievale in Italia, tenutosi a Siena nel 1990: cfr. PATTERSON 1992 e SFRECOLA 1992. 46 Per Scorano si veda anche ENEI, ROMEI 1990; GAZZETTI 1992; ROMEI 1998. 288 GIORGIO RASCAGLIA, JACOPO RUSSO ID SITO 1 2 3 Castel Sant'Angelo Mausoleo d'Augusto Palazzo Altemps Piazza Navona, 62 Piazza Navona San Marcello al Corso Palazzo Valentini 4 6 8 PRODUZIONE 1 Foro di Nerva 9 25 27 28 29 31 35 36 40 41 42 43 45 46 Santa Maria in Campo Carleo Foro di Augusto Foro Romano - Area Nord Occidenale (Ambiente D) Pozzo Presso il Comizio Fonte di Giuturna Tempio dei Castori Vico Jugario Via della Consolazione (Area nord - occidentale del Foro Romano) Tempio di Romolo Tempio di Cesare Tempio della Concordia - Pozzi Santa Maria Antiqua Foro Romano Foro di Cesare Colonne Onorarie - Pozzo H Area retrostante la Curia Foro di Cesare - Domus Terrinee Casa delle Vestali - Pozzi Pendici nord del Palatino Pendici nord-occidentali del Palatino San Teodoro Terme di Elagabalo Bastione Farnesiano Arco di Giano Sant'Omobono Teatro di Marcello Casa dei Vallati Crypta Balbi Teatro di Pompeo Oratorio San Pasquale Santa Cecilia in Trastevere Rocca Savelli - Giardino degli Aranci Colosseo - Sottoscala XXXVI Colosseo - Cuneo X, Ambulacro Colosseo - Piazzale est Colosseo - Cuneo XLV San Clemente San Paolo fuori le Mura Basilica circiforme via Ardeatina San Sebastiano Tor Pignattara Palazzo della Cancelleria (San Lorenzo in Damaso) Via Marmorata Via del Lavatore Piazza Venezia Colonna Traiana Tor De' Specchi Taberne della via Nova Santa Prisca 47 Nuovo Mercato Testaccio - via B. Franklin 48 49 50 51 121 122 Basilica Hilariana Santo Stefano Rotondo Via dei Chiavari Piazza Venezia - Via Lata Giardino delle Milizie Largo Argentina 10 11 12 14 15 16 18 20 21 23 24 PRODUZIONE 2 PRODUZIONE 3 BIBLIOGRAFIA MAZZUCATO 1976; PALOMBI c.s. informazione personale di C. Coletti informazione personale di M. Ricci, B. Ciarrocchi DEWAILLY, BLANC, CALDARINI et alii 2014 BUONFIGLIO, CIANCIO ROSSETTO, LE PERA et alii 2014 EPISCOPO, GANDOLFO 2003 informazione personale di P. Baldassarre DE LUCA 2001; SANTANGELI VALENZANI, PONTANI, GIUDICE et alii 2002 MENEGHINI 1998 MAZZUCATO 1976; informazione personale di G. Del Buono PAGANELLI 1994 BONI 1899 BONI 1901; MAZZUCATO 1993 VAAG 2008 RAIMONDO 2008 GÜLL 2003; GÜLL 2010 RUSSO 2001 MAZZUCATO 1993 FOLLIS 1988 MAZZUCATO 1993 MAZZUCATO 1993 MAZZUCATO 2005 PAROLI 2000 AMICI, DELL’AMICO, LEOTTA et alii 2007 DELFINO 2013 BONI 1899 informazione personale di D. Filippi, S. Costa, D. Borruso AUGENTI 1992 ROCCO 1998 ORLANDI, LEPRI 2013 CICERONI, MARTIN, MUNZI 2004 informazione personale di V. Beolchini, J. Russo RAMIERI, GIUSTINI 2004-2005 MAZZUCATO 1993 MAZZUCATO 1968 CB 3; CB 4; CB 5; RICCI, VENDITTELLI 2010 PACKER, GAGLIARDO, HOPKINS 2010 informazione personale di S. Fogagnolo MOLINARI 2004 informazione personale di M. Ricci, B. Ciarrocchi RICCI 2002 informazione personale di R. Santangeli Valenzani DELFINO, MINNITI 2008 DELFINO 2009 informazione personale di F. Guidobaldi MAZZUCATO 1971; FRESI, DE SANTIS c.s. SMIRAGLIA, ZANOTTI 1998 MAZZUCATO 1993; informazione personale di G. De Rossi RICCI 2011 PENTIRICCI 1994 CIARROCCHI 2011 GROSSI, MARTINI 2014 informazione personale di I. De Luca BONI 1907 MAZZUCATO 1993 informazione personale di C. Palombi VERMASEREN, VAN ESSEN 1965 http://www.fastionline.org/micro_view.php?fst_cd=AIAC_135&cur col=sea cd-AIAC 578 CALABRIA, PATILLI 2013 MARTIN 2004 MAZZUCATO 1993 informazione personale di I. De Luca informazione personale di M.P. Dal Moro MAZZUCATO 1993 Tab. 3. Elenco dei siti che hanno restituito ceramica a vetrina pesante e sparsa a Roma e nel suburbio. Le tre diverse produzioni si riferiscono, schematicamente, alle produzioni a vetrina pesante, vetrina transizionale e vetrina sparsa. muoveva occasionalmente sugli stessi percorsi di scambio che portavano all’interno di essa censi e prodotti agricoli dalla Campagna. Il volume produttivo sembrerebbe complessivamente piuttosto basso, rivolto ad una domanda di livello medio-alto, che al di fuori di Roma veniva forse in parte garantito da vasai dipendenti operanti nell’ambito delle domuscultae o delle massae ecclesiastiche 47. La scarsa standardizzazione dei vasi sotto il pro47 Sui livelli di output e le relative implicazioni produttive cfr. ANNIS 1992. Per la circolazione: PATTERSON 2010, p. 156. filo formale, decorativo, del colore della vetrina e nella realizzazione degli impasti, sono dunque indici di variabilità tecnica e di competenze artigianali, oltre che della presenza di diversi centri produttori. Alle località già note vanno ora aggiunti alcuni siti di recente indagine, che molto possono dirci delle principali tendenze nella produzione e circolazione di questa classe. In particolare il sito di Villamagna, nei pressi di Anagni, indagato dal 2006 al 2010 sotto la direzione di E. Fentress, ha restituito importanti fasi di IX secolo, accompagnate da un registro ceramico sorprendente, in 289 Fig. 4. - Distribuzione dei rinvenimenti di ceramica a vetrina pesante databile tra inizio IX e prima metà X secolo nel Lazio. Sono segnalati i siti con attestazioni di argille metamorfiche, in varie associazioni. linea con elevati standard di livello quasi urbano 48. Qui le analisi petrografiche compiute su ceramica a vetrina pesante hanno permesso di quantificare indicativamente le sue zone di provenienza 49. Circa il 40% della Forum ware rinvenuta a Villamagna sembra essere classificabile all’interno di un gruppo petrologico affine a quello di alcuni campioni provenienti dalla Crypta Balbi, molto 48 Si veda il contributo sulla ceramica di Villamagna in FENTRESS, GOODSON, MAIURO ID SITO 55 57 58 59 60 61 64 65 66 67 68 71 80 81 82 83 84 90 92 99 100 101 102 103 104 105 107 108 109 110 111 112 113 114 115 117 118 119 Santa Severa S. Rufina Via Portuense Basilica Portuense Basilica di S. Ippolito all'Isola Sacra Casale sulla via Laurentina "Berretta del Prete" Abbazia di San Nilo Tusculum Colle del Vescovo Nemi - Località Santa Maria Villa Magna Castel Porciano Formello (Campo sportivo) Santa Cornelia Pietrapertusa Castello di Ostia Albano - Cisternoni Catacombe S. Senatore Sant'Ilario ad bivium Fondi - S. Magno Cencelle Mura di S. Stefano Martignano Costa Sud Malborghetto Scorano Farfa Licenza - Villa c.d. d'Orazio Vicus Augustanus Borghesiana - Speco acquedotto Alessandrino Catacombe di S. Zotico Villa dei Centroni Ponte Nepesino Foglia Mazzano Romano Cisterna di Ceriara Privernum Monte D'Argento Mola di Monte Gelato Castro Dei Volsci - località Madonna del Piano RICCI 2013 CHRISTIE 1991 SERLORENZI 2002 DI GIUSEPPE, MAIORANO 2013 BOSIO, MAESTRI 1995 BARTOLONI 2005 GAI 1986 DE LUCA 2014 BEOLCHINI, RASCAGLIA, RUSSO 2014 DRAGO TROCCOLI 2002-2003 VAAG 2010 RASCAGLIA c.s MALLETT, WHITEHOUSE 1967 BOITANI, BOANELLI 1995 WHITEHOUSE 1980; PATTERSON 1991 STIESDAL 1962 PANNUZI 2003 FRAZZONI 2013 SPERA 1995 LUTTAZZI 1995 BORGOGNONI 2013 CIRELLI 2002 PATTERSON 2009 ALOISI 2004 CERRITO, TOMMASI 2009 ROMEI 1992b informazione personale di H. Patterson ANGELELLI 2006 CLARIDGE 1993 MUSCO, MUNZI, FELICI 2002 BORGOGNONI 2007 DI MATTEO 2002-2003 POTTER 1984 AGNENI 1995 POTTER 1972 GIOVENALE, MARIANI 1899 PANNUZI 1994 TORRE, CIARROCCHI 2006 PATTERSON 1997 MAZZUCATO 1993 86 PRODUZIONE 1 PRODUZIONE 2 PRODUZIONE 3 BIBLIOGRAFIA 121 Ostia - Basilica di Pianabella CIARROCCHI, MARTIN, PAROLI et alii 1993 122 124 Lucus Feroniae Castel Giubileo ROMEI 1992a DI GENNARO 2002 125 Porto - Ninfeo CIARROCCHI, MARTIN, PAROLI et alii 1993 Tab. 4. Elenco dei siti che hanno restituito ceramica a vetrina pesante e sparsa nel Lazio. Le tre diverse produzioni si riferiscono, schematicamente, alle produzioni a vetrina pesante, vetrina transizionale e vetrina sparsa. 290 GIORGIO RASCAGLIA, JACOPO RUSSO probabilmente dal bacino del Tevere, contraddistinti dalla presenza di elementi metamorfici e sporadici elementi vulcanici (il gruppo 9c di SFRECOLA 1992). Gli impasti del restante 60% della ceramica a vetrina pesante, comunque con le forme e le tipologie tipiche di Roma, non sembrano compatibili con l’area vulcanica romana, essendo caratterizzati dall’uso di argille fluviali derivate dal disgregamento di rocce appenniniche, prive di vulcaniti. Questo dato ci pone quindi di fronte alla presenza di altri centri produttivi laziali oltre a Roma, che producevano precocemente Forum ware con tipologie romane. Questa circostanza, sulla base delle analisi petrografiche, era già emersa chiaramente negli studi degli anni novanta del secolo scorso; tuttavia non è stato ad oggi possibile identificare possibili centri produttivi 50. Anche i dati ed i materiali provenienti dalle ricognizioni della British School at Rome per il territorio a nord di Roma, riesaminati nell’ambito di questo lavoro, non sembrerebbero definitivi in tal senso 51. A questa altezza cronologica (IX secolo), la presenza di ceramica a vetrina pesante sicuramente romana fuori del Lazio è esigua e limitata ad alcuni centri della costa Tirrenica, tanto da far pensare a circolazione occasionale e/o destinata ad alcuni siti in particolare piuttosto che ad un commercio vero e proprio 52. A questo proposito è di estremo interesse la presenza, ormai più che sensibile, di Forum ware con cronologie variabili tra il IX ed il X secolo in diversi siti, anche rurali, della Sardegna settentrionale. In particolare il sito costiero di S. Filitica (SS) ha restituito frammenti di ceramica a vetrina pesante associati ad una bolla plumbea di Niccolò I (858-867), segnale evidente della connessione strettissima tra circuiti di scambio romani e l’amministrazione pontificia 53. Quel che emerge inoltre dalle analisi mineropetrografiche effettuate su questi frammenti, pur nella ben nota varietà di impasti che caratterizza la produzione a vetrina pesante, è una predominanza, anche qui, di argille metamorfiche, che se da un lato risultano di difficile collocamento, dall’altro suggeriscono una possibile specializzazione di alcuni settori del territorio laziale verso una produzione (verosimilmente non solo ceramica) destinata a circuiti di scambio regionali ed interregionali 54. A sottolineare la distribuzione mirata di questa produzione contribuisce la presenza estremamente esigua (circa 3 frammenti) di Forum ware dalla Sardegna centrale e meridionale. I secoli centrali del medioevo (figg. 5-6; tab. 3) vedono un’interessante fase di riorganizzazione delle officine ceramiche romane, che se manca ancora di chiari indicatori di produzione e di resti di istallazioni, risulta tuttavia ben intelligibile dalla lettura diretta dei prodotti finiti e dalla loro distribuzione. Il punto di svolta della produzione ceramica a Roma sembra da collocarsi tra la fine del X e l’XI secolo. In questo momento le produzioni ceramiche romane, ed in particolare quelle fini da mensa, sembrano specializzarsi in maniera nettissima sia sotto il profilo formale che tecnico. Se le officine romano-laziali, fino al pieno X secolo, producono una grande varietà di forme invetriate (brocche di varia dimensione con una e fino a tre anse e con beccucci variamente articolati, olle, bottiglie, ciotole, catini, tazze, lucerne, attingitoi, microvasetti, coperchi) e di decorazioni (scaglie ed altre decorazioni plastiche applicate, linee incise, pettinature, unghiate etc.), a partire dalla fine del X secolo riducono drasticamente il repertorio formale e soprattutto quello decorativo, che sostanzialmente si azzera (solo le linee ondulate incise, sempre più sporadiche, sono attestate fino al XII secolo). Il corredo ceramico da mensa a Roma e nel Lazio si restringe nell’XI secolo al boccale ovoide e biconico, a rare forme aperte di dimensioni medio-grandi (destinate a scomparire nel secolo successivo) e – soprattutto dal XII secolo – alle ciotole 55. Le argille utilizzate si presentano progressivamente più selezionate e calcaree, con inclusi più fini, perlopiù mica- et alii c.s. ed in MOLINARI, BEOLCHINI, DE LUCA et alii c.s. Le pur esigue stratigrafie di IX secolo in questo sito hanno restituito una discreta quantità di ceramica a vetrina pesante, per un totale di circa 33 oggetti, associati a frammenti di anfore globulari e tipologie da fuoco e dispensa tipiche del IX secolo. 49 Le analisi sono state compiute da Claudio Capelli; per i risultati di dettaglio si rimanda a FENTRESS, GOODSON, MAIURO et alii c.s.; i gruppi petrografici ai quali si fa riferimento qui sono quelli identificati in SFRECOLA 1992. 50 Uno scarto di fornace è segnalato a Cencelle (CIRELLI 2002, p. 270), ma ad oggi non risulta illustrato chiaramente. 51 Si veda PATTERSON 2010. 52 Anche per questo aspetto distributivo e per i vari siti con attestazioni si rimanda a PAROLI 1992a. Si veda pure l’aggiornamento sulla limitata ma significativa circolazione di produzioni romanolaziali in Sicilia ed in altre regioni meridionali in CACCIAGUERRA 2009, con bibliografia. 53 MILANESE 2010. 54 Per un elenco completo dei siti con attestazioni di questo tipo di argille e per la loro interpretazione si rimanda a SFRECOLA 1992 e a PATTERSON 1992, pp. 423 ss., ai quali vanno aggiunti i materiali da Villamagna (RASCAGLIA in FENTRESS, GOODSON, MAIURO et alii c.s.); per un aggiornato censimento della presenza di vetrina pesante in Sardegna e per le analisi petrografiche citate si rimanda a MILANESE, BICCONE, ROVINA et alii 2006. 55 Più raramente sono presenti microvasetti e coperchi. Per la varietà di forme prodotte si rimanda a PAROLI 1990; ROMEI 2004 e RICCI, VENDITTELLI 2010. 291 Fig. 5. - Distribuzione dei rinvenimenti di ceramica a vetrina pesante e sparsa databile tra metà X e pieno XI secolo a Roma e nel suburbio. sistenti 56. L’invetriatura si assottiglia progressivamente e, sebbene dal punto di vista tecnico e chimico sia del tutto identica alle produzioni a vetrina pesante precedenti, viene applicata progressivamente solo con la tecnica dell’aspersione o con l’uso di pennelli piuttosto che ad immersione, ed in quantità decisamente minori. Nel complesso si assiste quindi ad una selezione delle forme prodotte e all’adozione di tecniche più rapide, sia per quanto riguarda la foggiatura che per il rivestimento 57. Questo processo è quasi sicuramente da mettere in Fig. 6. - Distribuzione dei rinvenimenti di ceramica a vetrina pesante e sparsa databile tra metà X relazione con la necessità di secolo e pieno XI nel Lazio. aumentare i volumi di output, cei, il che permette torniture più sottili ed accurate, ma senza necessariamente tenere conto di particolari qualidenuncia una realizzazione dell’impasto poco accorta, està estetiche. Questa espansione dell’offerta dovette essere sendo spesso le argille utilizzate troppo grasse e poco reuna conseguenza di una crescita della domanda di cera- 56 Si fa qui riferimento ad ANNIS 1992, la migliore disamina delle tecniche produttive della ceramica a vetrina pesante e sparsa e delle sue implicazioni economiche. 57 Per questa evoluzione, ben visibile in tutta l’area romana ed oltre, si veda PAROLI 1990; PATTERSON 1993. 292 GIORGIO RASCAGLIA, JACOPO RUSSO miche fini, che permise probabilmente l’affermazione di artigiani specializzati ed indipendenti, come abbiamo visto attestati proprio dall’XI secolo. La collocazione dei vasai in aree specifiche della città già a quest’altezza cronologica (in particolare a Trastevere) è ipotizzabile su di un numero esiguo di fonti (vedi supra) e resta al momento una ipotesi interessante. Certamente è molto probabile che altri ceramisti dovettero essere operanti anche nell’area dei Fori dove indizi archeologici labili, ma persistenti, permettono di ipotizzare la presenza di officine durante tutto il medioevo (fig. 7). È stato recentemente proposto da M. Ricci che nel corso dell’XI secolo le varie botteghe ceramiche romane si distinguano e si specializzino, proprio sulla spinta di una progressiva trasformazione in senso ‘industriale’ della produzione artigianale 58. Questa caratteristica è senz’altro riscontrabile nella già sottolineata progressiva standardizzazione delle forme e dei tipi, particolarmente evidente a partire nel XII secolo; ma il vero punto di arrivo di questa trasformazione è la fase finale delle produzioni a vetrina sparsa romane, databili nei decenni iniziali del XIII secolo, caratterizzate da impasti di scarsa qualità, identici a quelli dell’acroma da mensa, spesso con difetti di tornitura e cottura e dove la vetrina è quasi assente. Si tratta in definitiva di prodotti di bassa qualità e seriali, che vengono realizzati per una domanda di grandi dimensioni. Contemporaneamente sono attestate ceramiche depurate decorate con bande rosse (realizzate con ossidi di ferro), produzione che (al pari della vetrina sparsa) si estingue col radicarsi della produzione di ceramica laziale. Guardando alla circolazione dei prodotti delle officine romane a partire dal X secolo, si nota una diffusione in un arco relativamente ampio, cosa che risulta particolarmente evidente in alcuni ambiti extraregionali dove gli oggetti romani si distinguono nettamente dalle produzioni locali. È il caso della Toscana, dove in vari centri, soprattutto costieri o legati alla presenza di élites, arrivano oggetti invetriati dal Lazio e dove ceramiche da mensa invetriate di produzione locale comparabili con quelle romane, tra IX e XII secolo, sono del tutto assenti 59. Si tratta comunque, è bene sottolineare, di sporadici movimenti di oggetti, che verosi- milmente circolano in reti di scambio rivolte ad altri, più remunerativi, tipi di merce. All’interno dello stesso Lazio (fig. 8) è generalmente più difficile individuare con certezza ceramiche provenienti proprio da Roma. Bisogna, infatti, sottolineare come in questo periodo nascano o aumentino esponenzialmente produzioni in località diverse da Roma, che pure continuano ad avere la città come modello, mentre contestualmente diminuiscano le differenze macroscopiche negli impasti. È ad esempio il caso di Tuscolo, dove le tipologie rimandano costantemente al panorama romano, ma lievi differenze nelle argille lasciano pensare ad officine differenti 60. Nonostante questo appiattimento tipologico, che si può estendere un po’ a tutto il Lazio centrale, fuori dell’area di Roma si riscontrano differenze nelle vetrine, negli impasti e in alcuni casi nelle tipologie. Possiamo mettere in relazione questa tendenza, seppur in via ipotetica, con gli investimenti progressivamente più sensibili di alcuni enti ecclesiastici ma soprattutto delle aristocrazie laiche nella nascita e sviluppo di nuovi insediamenti, soprattutto castrali. Esemplari sono i casi di alcuni castra della sabina reatina (per i quali vedi anche infra), in particolare Caprignano. N. Lecuyer, che ha curato lo studio dei reperti ceramici da questo castrum, identifica sulla base dell’impasto alcune officine (nessuna delle quali troppo specializzata, realizzando indistintamente oggetti da fuoco o da mensa) ed una peculiare produzione in vetrina sparsa, la cui evoluzione richiama quella d’area romana, ma che apparentemente si declina in un arco di tempo maggiore, che comprende tutto il XIII secolo. Una analogia è forse possibile col villaggio e monastero di Villamagna, dove una produzione locale di ceramica invetriata da mensa (non sempre comparabile con le coeve produzioni romane) sembra sia presente sul sito o nelle vicinanze a partire dal X-XI secolo 61. Su scala regionale le differenze, a volte notevoli, nelle tecniche di invetriatura e nelle stesse forme dei vasi, sembrano quindi indicare una moltitudine di officine e di saperi tecnologici leggermente differenti. Guardando fuori del Lazio, è proprio tra X ed XI secolo, e verosimilmente per analoghe tendenze, che altri centri artigianali della penisola si specializzano nella produzione di oggetti invetriati 62. (G.R.) 58 RICCI 2009. Il termine ‘industriale’ per definire questo momento della produzione ceramica romana è preso in prestito da da ANNIS 1992, p. 174 e PATTERSON 1992, p. 430. 59 Si veda il caso di Pisa (FEBBRARO, MEO 2009, con bibliografia), Cosa (CIRELLI, HOBART 2003, pp. 321-323). I siti di Tricosto (Capalbiaccio), nell’ager Cosanus, e Poggio Cavolo, più a nord, vedono inoltre l’arrivo di altre classi di produzione romano-laziale, come acrome da mensa/dispensa e da fuoco; si veda a riguardo l’intervento di E. Vaccaro e C. Valdambrini in HOBART, CERRI, MARIOTTI et alii 2009, pp. 93-105. 60 BEOLCHINI 2006; RASCAGLIA, RUSSO 2013. 61 Per la Sabina si fa particolare riferimento a Caprignano, per il quale cfr. LECUYER 1997. Per Villamagna vedi supra, nota 48. 62 Non è questa la sede per enumerare la totalità dei casi. Si ve- LA CERAMICA MEDIEVALE DI ROMA: ORGANIZZAZIONE PRODUTTIVA E MERCATI (VIII-XV SECOLO) 293 Fig. 7. - Distribuzione dei rinvenimenti di ceramica a vetrina pesante e sparsa databile tra pieno XI secolo e XIII secolo a Roma e nel suburbio. Come è noto, con il XIII secolo si cominciano a produrre a Roma, al pari di importanti centri come Pisa, Venezia, Genova-Savona, Napoli e Brindisi, ceramiche rivestite secondo tecniche mutuate direttamente o indirettamente dal mondo islamico occidentale 63. A Roma queste tecniche sono alla base della produzione variamente definita come ‘ceramica laziale’ e più recentemente ‘maiolica laziale’ o ‘protomaiolica romana’64 e rappresentano un chiaro indizio di un sostanziale salto di complessità produttiva. Questa ceramica poteva, infatti, presentarsi indifferentemente rivestita con lo smalto oppure con la vetrina trasparente o verde 65, neces- sitando della duplice cottura, che raddoppiava i costi del combustibile, l’uso di pigmenti metallici ed anche di additivi come l’ossido di stagno, che richiedono il loro reperimento nei mercati extraregionali. Come è stato detto, l’avvio di questa produzione avverrebbe in un clima di relativa familiarità del mercato romano con le ceramiche importate, specialmente dall’area campana, nonché ad un ambiente socio-culturale ed economico favorevole alle attività imprenditoriali ed alle innovazioni tecniche 66. Recenti studi sui materiali provenienti dai livelli stradali del Vico Jugario hanno invece suggerito la possibilità di posticipare alla seconda metà del XIII secolo la comparsa a Roma di queste ceramiche rivestite, in un contesto economico ‘opposto’, in cui il ceto mercantile romano entrerebbe in crisi e vi sarebbe un dano, a titolo di esempio, le tracce produttive da Corfinio (AQ), relative ad un insediamento monastico, in COLETTI, GIUNTELLA, SALADINO et alii 1990; GIUNTELLA, DI RENZO 2000, pp. 65-77; per un convincente riesame della fornace di Corfinio e di parte dei materiali si veda ANTONELLI 2015; sempre per l’Abruzzo vedi STAFFA 2004, pp. 224-228; per la Toscana, anche da siti legati ad aristocrazie laiche, BERNARDI, CAPPELLI, CUTERI 1992; PAROLI, ibidem; Milanese in QUIRÓS CASTILLO, BALDASSARI, CRISAFULLI et alii 1996; GRASSI 2009 e GRASSI 2010, pp. 25-31. 63 Mi limito a rimandare ai contributi che, trattando l’introduzione delle nuove tecniche in Italia, fanno ferimento anche a Roma: cfr. BERTI, GELICHI 1995; BERTI, GELICHI, MANNONI 1997; MOLINARI 2000. 64 Il termine ‘maiolica laziale’ (RICCI 2009) non trova consensi uniformi. E’ stato infatti sottolineato (PANNUZI 2011, p. 104) come questa nomenclatura sottolineerebbe la presenza del solo rivestimento stannifero presente all’esterno del vaso, a discapito delle altre due varianti di rivestimento. 65 Nella prima fase produttiva della ‘verde’, la densità di alcuni rivestimenti non permette di escludere che si tratti di uno smalto colorato, ottenuto tramite l’uso di una percentuale di stagno (RICCI, VENDITTELLI 2010, p. 66). 66 Cfr. MOLINARI 2000; sul fenomeno delle importazioni ceramiche a Roma si rimanda anche a RUSSO 2014 mentre per l’attività dei mercatores romani a VENDITTELLI 1993; VENDITTELLI 1995; VENDITTELLI 2001; ALBERZONI 2002. Caratteri della produzione ceramica nel basso Medioevo (XIII-XV secolo) 294 GIORGIO RASCAGLIA, JACOPO RUSSO za di forme quali il boccale con beccuccio a mandorla e la forma da olio con bocca trilobata sarebbe poi un netto segnale dell’iniziativa dei vasai locali nell’introdurre le nuove tecniche, mentre la presenza di decori sin da subito maturi e variegati sarebbe dovuta all’attività, in quelle stesse botteghe, di maestranze già esperte. Non è possibile dunque escludere (e purtroppo neanche valutare) l’eventuale apporto diretto di know-how da altri centri produttori, verosimilmente dall’Italia meridionale, Fig. 8. - Distribuzione dei rinvenimenti di ceramica a vetrina pesante e sparsa databile tra pieno XI area alla quale la ceramica lae XIII secolo nel Lazio. ziale sarebbe vicina culturalminore approvvigionamento di prodotti importati 67. Tale mente per gusto e tecnica, seppur con elementi di oriidea appare poco compatibile con quelle che sono le noginalità. stre conoscenze sull’evoluzione morfologica e decoraLa mappatura dei ritrovamenti di questa classe altiva di questa classe, acquisite grazie a contesti suffil’interno della città mostra una loro concentrazione nelle cientemente ben databili (Colosseo, pozzi del Teatro aree più densamente abitate, soddisfacendo la domanda Argentina e del Mausoleo di Elena, SS. Apostoli) 68. Le di una popolazione urbana raccolta nell’ansa del Tevere prime produzioni di ceramica laziale (prima metà XIII e che fino all’inizio del XIV secolo vive un periodo di secolo) prevedono esclusivamente forme chiuse, quacrescita demografica 70. Ciò che però si nota è una dili brocche con corpo più schiacciato, caratterizzate da stribuzione apparentemente meno capillare della cerauna cura esecutiva nei decori, realizzati in tricromia; promica laziale rispetto alle ultime produzioni invetriate gressivamente, nel corso del secolo, queste si fanno sem(fig. 9; tab. 5). Certamente gli elementi di criticità espopre più allungate, i decori meno curati e comincia la prosti precedentemente (parzialità dei dati, diversa intenduzione delle prime forme aperte. Non abbiamo sità delle ricerche archeologiche nelle varie zone della elementi a sufficienza (chiari indicatori produttivi o foncittà) potrebbero rendere questo dato provvisorio. Si poti scritte) per poter chiarire le forme organizzative di quetrebbe però ipotizzare, pur con le dovute cautele, che sta produzione. Recentemente Marco Ricci ha insistialmeno nella sua fase iniziale, questa classe ceramica to sul fatto che le nuove tecniche verrebbero rappresentasse sul mercato romano un prodotto innoperfettamente assimilate, fin dalla loro comparsa, alvativo, ma non di larghissimo consumo in tutti i ceti l’interno di officine già esistenti, senza alcuna sperisociali. La concorrenza della ceramica laziale potrebbe mentazione graduale 69. Secondo quest’autore la ceraessere alla base dell’interruzione dell’esaurimento della mica laziale verrebbe, infatti, prodotta in quelle stesse produzione delle brocche acrome, con poca vetrina o botteghe che producevano in precedenza gli anforacei dipinte in rosso. Tuttavia, in un arco cronologico piutda dispensa e, per un arco cronologico piuttosto limitosto circoscritto (inizi/prima metà XIII secolo) doveva tato, brocche da mensa dipinte in rosso. La persistenessere disponibile sul mercato romano una grande va- 67 Nel caso del Vico Jugario (cfr. RAIMONDO 2008) la ceramica laziale comparirebbe, con la tipica forma della brocca, nella fase III (seconda metà XIII-XIV secolo) con una percentuale pari all’1% del totale dei frammenti, contro l’8,4 % di maiolica arcaica. Su questa proposta di datazione si vedano anche GÜLL 2003; GÜLL 2010. 68 Per i contesti del Colosseo e di Tor Pignattara, cfr. RICCI 2002; RICCI 2011. MAZZUCATO 1972b e MAZZUCATO 1981 rispettivamente per il pozzo del Teatro Argentina ed il contesto di S. Nicola in Carcere. Per i materiali provenienti da piazza SS. Apostoli si rimanda alla nota 82. 69 Cfr. RICCI 2009. 70 Cfr. MAIRE VIGUER 2011. LA CERAMICA MEDIEVALE DI ROMA: ORGANIZZAZIONE PRODUTTIVA E MERCATI (VIII-XV SECOLO) 295 Fig. 9. - Distribuzione dei rinvenimenti di ceramica laziale a Roma e nel suburbio. rietà di prodotti da mensa sia locali, sia importati a prezzi ovviamente differenti. Naturalmente questa resta soltanto un’ipotesi che necessita di ulteriori conferme da contesti chiusi e ben databili. In ogni caso l’uso delle tre diverse tecniche di rivestimento nell’ambito della ceramica laziale sarebbe poi un ulteriore indice della coesistenza sul mercato di prodotti con un diverso valore commerciale 71. Non è però sempre facile rilevare macroscopicamente l’effettiva incidenza dei vari rivestimenti, a causa dell’ambiguità delle coperture nel caso delle rivestite con smalto, generalmente di scarsa qualità, e delle dipinte sotto vetrina 72. In generale si nota come la variante monocroma verde di questa produzione sia presente in quantità nettamente minoritarie rispetto agli altri due tipi di rivestimento, fino ad esserne sop- piantata del tutto nella seconda metà del XIV secolo e ricomparire, sempre in basse percentuali, nella prima metà del secolo successivo. Stabilire con certezza l’area di circolazione delle ceramiche rivestite dell’area romana (maiolica arcaica inclusa), rispetto a quelle del Lazio settentrionale e dell’Umbria meridionale, resta ancora molto difficile. Questo a causa del fortissimo parallelismo che intercorre tra di esse e la mancanza di sequenze stratigrafiche che documentino l’evoluzione delle ceramiche in queste aree a nord di Roma. Anche le analisi petrografiche degli impasti, per altro raramente eseguite, possono non essere dirimenti nel riconoscimento delle varie produzioni, in quanto le argille usate sono spesso molto depurate 73. Sembra comunque che oltre a soddisfare il mercato cittadino, com- 71 Nella prima fase produttiva della ‘verde’, la densità di alcuni rivestimenti non permette di escludere che si tratti di un rivestimento ottenuto miscelando ossidi di piombo e stagno, conseguendo risultati diversi al minimo variare di uno degli ossidi (RICCI, VENDITTELLI 2010, p. 66 e RICCI 2011, p. 265). Ulteriori analisi dei rivestimenti sarebbero necessarie nell’ottica di confermare o meno questo dubbio e articolare ulteriormente il quadro dei rivestimenti usati. 72 Tale rapporto è stato fino ad oggi valutato solo nel caso della Crypta Balbi grazie anche al supporto di analisi diffrattometriche a raggi X (cfr. MOLINARI 1990, p. 418). Si passerebbe da un rapporto assolutamente paritetico tra i due tipi di rivestimento (prima metà XIII secolo), ad una progressiva diminuzione delle invetriate a fa- vore dei prodotti smaltati (seconda metà XIII e prima metà XIV secolo), molto probabilmente a causa alla concorrenza della maiolica arcaica. 73 Per le uniche analisi condotte fino ad oggi sulla ceramica laziale e la maiolica arcaica si rimanda a WILLIAMS, OVENDEN 1978 e D’AMBROSIO, MANNONI, SFRECOLA et alii 1986. Un programma di analisi chimiche per caratterizzare i diversi centri che producevano ceramica laziale sarebbe forse l’unica strada percorribile, accanto alla eventuale scoperta di officine che producevano questa classe. Unico labile indizio di produzione esterno a Roma è un frammento di invetriata verde con evidenti difetti di fabbricazione segnalato presso il lago di Martignano (ALOISI 2004, tav. CXXII, nn. 106, 106bis); l’autrice lo interpreta come possibile scarto di lavorazione 296 GIORGIO RASCAGLIA, JACOPO RUSSO ID SITO 1 Castel Sant'Angelo 2 Mausoleo d'Augusto informazione personale di C. Coletti 3 Palazzo Altemps Piazza Navona, 62 informazione personale di M. Ricci, B. Ciarrocchi DEWAILLY, BLANC, CALDARINI et alii 2014 BUONFIGLIO, CIANCIO ROSSETTO, LE PERA et alii 2014 informazione personale di M. Ricci EPISCOPO, GANDOLFO 2003 SERLORENZI 2010 informazione personale di P. Baldassarre FOGAGNOLO 2005; FOGAGNOLO 2006 LUCCERINI 2006 informazione personale di I. De Luca MENEGHINI 1998 MAZZUCATO 1976; informazione personale di G. Del Buono 4 5 6 7 8 9 CERAMICA LAZIALE MAIOLICA ARCAICA Piazza Navona Piazza Capranica S. Marcello al Corso Piazza Santi Apostoli Palazzo Valentini Foro della Pace Foro di Traiano Via dei Carbonari Santa Maria in Campo Carleo Foro di Augusto Foro Romano - area nord-occidenale (ambiente D) SANTANGELI VALENZANI, PONTANI, GIUDICE et alii 2002 PAGANELLI 1994 Scavi Boni Fori/Palatino Tempio dei Castori Vico Jugario Via della Consolazione (Area nord - occidentale del Foro Romano) Tempio della Concordia - Pozzi Pendici nord-occidentali Palatino Arco di Giano Bocca della Verità Sant'Omobono Teatro di Marcello Tempio di Apollo Crypta Balbi Teatro Argentina Teatro di Pompeo Via di S. Paolo alla Regola S. Pasquale Santa Cecilia in Trastevere WHITEHOUSE 1978 VAAG 2008 RAIMONDO 2008 GÜLL 2003; GÜLL 2010 MAETZKE 1991 ROCCO 1998 informazione personale di V. Beolchini, J. Russo MAZZUCATO 1976 RAMIERI, GIUSTINI 2004-2005 MAZZUCATO 1976 MAZZUCATO 1968 CB 3; CB 4; CB 5; RICCI, VENDITTELLI 2010 MAZZUCATO 1972b PACKER, GAGLIARDO, HOPKINS 2010 MAZZUCATO 1986b informazione personale di S. Fogagnolo MOLINARI 2004 S. Francesco a Ripa Rocca Savelli - Giardino degli Aranci Colosseo - Sottoscala XXXVI Colosseo - Ambulacri esterni Colosseo - Sottoscala XLV Colosseo - Cuneo XLV S. Clemente Ospedale di S. Giovanni S. Paolo fuori le mura Basilica circiforme via Ardeatina S. Sebastiano Casale sulla via Laurentina Tor Pignattara Piazza Risorgimento Piazza Cola di Rienzo Via dei Farnesi - via di S. Girolamo della Carità Palazzo della Cancelleria (S. Lorenzo in Damaso) Via Marmorata Ospedale di S. Giovanni (Bacini) Caserma Carreca Castrum Caetani S. Nicola in Carcere Villa Medici Piazza S. Pietro informazione personale di M. Ricci, B. Ciarrocchi RICCI 2002 REA, COCCIA 1998 REA, COCCIA 1998 DELFINO 2009 informazione personale di F. Guidobaldi informazione personale di M. Ricci MAZZUCATO 1970; FRESI, DE SANTIS c.s. SMIRAGLIA, ZANOTTI 1998 informazione personale di G. De Rossi BARTOLONI 2005 RICCI 2011 PALOMBI c.s. PALOMBI c.s. RINALDONI, FERRACCI 2005 PEREGO 2009 CIARROCCHI 2011 MAZZUCATO 1976 DE ROSSI 2014 PARIS 2000 MAZZUCATO 1981 BONASERA 2009 SANNIBALE 1993 Foro di Nerva 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 51 52 53 BIBLIOGRAFIA MAZZUCATO 1976; PALOMBI c.s. informazione personale di M. Ricci Tab. 5. Elenco dei siti che hanno restituito ceramica laziale e maiolica arcaica a Roma e nel suburbio. prendente anche la fascia dei casali dell’agro romano ed il territorio circostante, la ceramica laziale raggiungesse come vasellame pregiato anche siti relativamente distanti (fig. 10; tab. 6). Se nelle ricognizioni del Tiber Valley Project, condotte dalla British School at Rome, la sua presenza è piuttosto sporadica, in alcuni castra indagati dall’ École Française de Rome nella valle del Turano, sarebbe la prima classe sicuramente importata dalla città (seppur piuttosto tardi, nella seconda metà del XIII se- colo) ampliando un panorama dominato da produzioni locali invetriate (vedi supra) 74. La sua diffusione coinvolge comunque anche l’area costiera settentrionale. Lo testimoniano ad esempio alcuni butti rinvenuti a Cerveteri ed 74 Per i risultati dalle ricerche della British School at Rome, comunicazione personale di Helen Patterson (per indicazioni bibliografiche vedi nota 41). Per le indagini dell’École Française de Rome in Sabina si rimanda alle sintesi di Nolwen Lecuyer (LECUYER 1994; LECUYER 1997). LA CERAMICA MEDIEVALE DI ROMA: ORGANIZZAZIONE PRODUTTIVA E MERCATI (VIII-XV SECOLO) Fig. 10. - Distribuzione dei rinvenimenti di ceramica laziale nel Lazio. ID SITO BIBLIOGRAFIA 54 55 56 57 58 59 60 61 62 63 66 67 68 69 70 71 72 73 74 75 76 77 78 79 80 81 82 83 92 Civitavecchia Santa Severa Cerveteri S. Rufina Via Portuense Basilica Portuense Basilica di S. Ippolito all'Isola Sacra Casale sulla via Laurentina Casale sulla via Laurentina Villa dei Quintili Tusculum Colle del Vescovo Nemi - Località Santa Maria Tivoli - Anfiteatro Segni Villa Magna Veroli Trevi nel Lazio Privernum Fossanova Montagliano Collalto Sabino Roccabaldesca Caprignano Castel Porciano Formello (Campo sportivo) Santa Cornelia Pietrapertusa Fondi - S. Magno ANGIONI 1986 RICCI 2013 QUARANTA, CASOCAVALLO 2013 CHRISTIE 1991 SERLORENZI 2002 DI GIUSEPPE, MAIORANO 2013 BOSIO, MAESTRI 1995 BARTOLONI 2005 MAZZUCATO 1979 informazione personale di C. Lalli BEOLCHINI, RASCAGLIA, RUSSO 2014 DRAGO TROCCOLI 2002-2003 VAAG 2010 LEOTTA 2002 informazione personale di F. Colaiacomo RASCAGLIA c.s. BIDDITTU 1995 CRISTOFANILLI 1995 informazione personale di C. Leotta informazione personale di C. Leotta LECUYER 1994; LECUYER 1997 DELOGU, COCCIA, PATTERSON 1990 ROMEI 1992c LECUYER 1994; LECUYER 1997 MALLETT, WHITEHOUSE 1967 BOITANI, BOANELLI 1995 WHITEHOUSE 1980 STIESDAL 1962 informazione personale di G. Castiglia Tab. 6. Elenco dei siti che hanno restituito ceramica laziale nel Lazio. Per Santa Severa cfr. RICCI 2013. Per Cerveteri invece QUACASOCAVALLO 2013. Vale comunque la pena sottolineare anche la presenza di un boccale in ceramica laziale di produzione romana, conservato al Museo della Ceramica della Tuscia (Viterbo), proveniente da collezione privata (cfr. LUZI 2005, p. 23, s. 19). 76 Per una prima sintesi sul Lazio meridionale si rimanda a PANNUZI 2011. 77 Frammenti di brocche provengono da sterri condotti nel Castello di Trevi nel Lazio (cfr. CRISTOFANILLI 1995). Un frammento di forma aperta, classificata come ceramica laziale ma per la quale 75 RANTA, 297 il contesto relativo all’obliterazione della chiesa di Santa Severa. In quest’ultimo caso il nucleo quantitativamente più rilevante è proprio di origine romana, forse carico accessorio di navi che arrivavano da Roma per l’approvvigionamento di derrate 75. Piccole quantità di ceramica laziale di sicura fattura romana si trovano anche nel Lazio meridionale, il cui quadro produttivo resta ancora lacunoso, ma arricchito dalle recenti indagini condotte a Villamagna (Anagni) 76. Oltre a sporadiche segnalazioni sfortunatamente fuori contesto, è proprio quest’ultimo il caso più interessante, dove bassissime percentuali di ceramica laziale vanno ad affiancare le più numerose invetriate monocrome di produzione locale 77. Fuori dal Lazio le attestazioni di questa ceramica si limitano ad alcuni porti importanti (Marsiglia, Piombino e probabilmente anche Napoli) 78. Allo stato attuale delle conoscenze sembra che l’investimento dei vasai romani in nuove tecnologie, che in ambito rurale non sembrano siano mai state prodotte o imitate, permetta loro di raggiungere mercati più ampi rispetto a quanto avveniva con le ceramiche tipo sparse glazed, più spesso fatte direttamente in loco. Sembrerebbe però trattarsi di una distribuzione commerciale di non grande entità, nettamente minore rispetto alla circolazione delle ceramiche rivestite prodotte da altri centri della penisola non sembra esserci in realtà certezza, proviene dai lavori di ripulitura e restauro condotti alla porta e alle mura medievali di Veroli (cfr. BIDDITTU 1995). La provenienza di queste testimonianze resta però ancora da chiarire. Per Villamagna cfr. RASCAGLIA in FENTRESS GOODSON, MAIURO et alii c.s. Presenza di ceramica laziale (un boccale e frammenti di forme aperte) sono attestati anche a Segni al Museo Comunale (informazione personale di F. Colaiacomo), Priverno e Fossanova (comunicazione personale di M.C. Leotta). 78 Per Marsiglia cfr. MOLINER 1993, pp. 204-205; nel testo si fa un accenno, non ulteriormente esplicitato, anche a tre frammenti provenienti dal sito di Saint-Laurent (ibidem, p. 204, nota 30). Per il microvasetto smaltato rinvenuto a Piombino (per forma e decori cfr. RICCI, VENDITTELLI 2010, p. 56, I.4.32-33), insieme ad un’olla acquaria in ceramica acroma, cfr. LIGUORI 2006; LIGUORI 2007, pp. 184-185. Infine per i boccali rinvenuti a S. Lorenzo Maggiore cfr. VENTRONE VASSALLO 1984, tav. CVIII, nn. 474-476. 298 GIORGIO RASCAGLIA, JACOPO RUSSO come Pisa (maiolica arcaica), Savona (graffita arcaica tirrenica) o Brindisi (protomaioliche) 79. Un ulteriore arricchimento delle manifatture romane si verifica tra la seconda metà del XIII e la prima metà del XIV secolo con l’inizio, in quantità minoritarie rispetto alla laziale, della maiolica arcaica 80. Quest’ultima, frutto di un mutamento culturale che si attua gradualmente tramite influenze esterne (Toscana) ed un’evoluzione interna delle forme tradizionali, segna un ulteriore miglioramento tecnico rispetto alla ceramica laziale. Le vetrine si presentano di maggior spessore e gli smalti più spessi e bianchi. La produzione ceramica vede ora numerose varianti formali delle due forme principali, ovvero la panata e il boccale, al contrario dell’omogeneità formale che caratterizzava il periodo prcedente. Si tratta di una fase di definizione del patrimonio morfologico dovuta alla presenza in città di vasai di diversa formazione e con specifici repertori (soprattutto di area umbro-laziale), col conseguente moltiplicarsi di botteghe 81. Questo almeno sembra evidente dall’unico contesto affidabile per questa cronologia. Si tratta dello scarico scavato in piazza dei SS. Apostoli e studiato da M. Ricci e Ilaria De Luca, riferibile verosimilmente ad una comunità come un monastero, un ospizio o una locanda 82. Ancora una volta i contesti di Santa Severa (piccoli immondezzai e terre ortive) ci aiutano a far luce sulla circolazione dei prodotti romani fuori dalla città. Questi, infatti, sono ancora una volta i più attestati, con le ultime produzioni di maiolica laziale e della prima maiolica arcaica, oltre a pentolame da cucina acromo ed invetriato 83. Il secondo Trecento vede l’affermazione della maiolica arcaica matura, con un aumento della varietà e quantità delle forme prodotte (in particolare di quelle aperte) che si presentano ora meglio tornite, con rivestimenti di migliore qualità e un repertorio decorativo ampliato e tecnicamente migliorato a livello esecutivo. Uno studio ancora in corso, da parte di chi scrive, sugli apparati de- corativi della ceramica laziale e della maiolica arcaica conferma la progressiva standardizzazione, nell’arco di un secolo, dei decori che si presentano ora apparentemente basati su di un repertorio codificato di exempla. Tuttavia, se i decori principali appaiono fortemente stereotipati, alcuni elementi decorativi accessori potrebbero invece essere delle valide spie dell’attività di artigiani o botteghe differenti (fig. 11). Dopo il forte calo demografico conseguente alla ‘peste nera’ è possibile ipotizzare anche per Roma una notevole espansione dei consumi di prodotti artigianali 84. Gli immondezzai rinvenuti al civico 62 di piazza Navona, inquadrabili tra XIV e XV secolo, hanno restituito materiale che, seppur di buona qualità e notevole varietà formale e funzionale, non connoterebbe consumi d’élite, coerentemente con quanto emerge dalla documentazione scritta, che attesta nella zona la presenza di vasai, calcarari e tavernieri 85. Sebbene la mappatura dei ritrovamenti di maiolica arcaica sembrerebbero indicare una leggera espansione degli areali distributivi (è il caso di piazza san Pietro, Pincio, piazza Risorgimento e piazza Cola di Rienzo; fig. 12; tab. 5), non abbiamo elementi per affermarlo con certezza a causa, anche in questo caso, della bassa incidenza di dati editi. Sembrerebbe comunque che questa tendenza alla crescita dei consumi si intraveda anche nel mercato rurale, dove la maiolica arcaica romana è presente anche in siti relativamente distanti da Roma. Seppur in quantità ridotte, è stata infatti rinvenuta nel castrum di Villamagna, dove comunque continua ad essere prevalente l’uso di ceramica da mensa di produzione locale (quasi esclusivamente invetriata), e dove sono attestate maioliche più scadenti prodotte da centri ‘minori’ non ancora identificati 86. Ulteriori attestazioni riguardano l’Alto Lazio; oltre infatti al già citato caso dei butti di Cerveteri, una minima presenza di maioliche arcaiche riferibili all’area romana sono segnalate a Tarquinia e Tuscania 87. Nel caso della maiolica arcaica rinvenuta nei castra della Sabina (ad esempio Montagliano), ci troviamo di nuovo davanti al fenome- 79 Per la graffita arcaica tirrenica si rimanda a VARALDO 1997, mentre per le protomaioliche a PATITUCCI UGGERI 1997 e RIAVEZ 2000. Per le maioliche arcaiche pisane cfr. BERTI 1997. 80 Vale la pena sottolineare come in questo momento si verifichi anche l’introduzione del pentolame invetriato; ancora incerta è però l’origine di questa produzione, probabilmente dovuta a maestranze alloctone e non all’iniziativa di botteghe già esistenti (cfr. RICCI, VENDITTELLI 2010, p. 288 e PANNUZI 2007). 81 Cfr. MOLINARI 2000. 82 Per un primo inquadramento del contesto si rimanda al contributo di Ilaria De Luca contenuto in SERLORENZI 2010. Si ringraziano Marco Ricci ed Ilaria De Luca per le informazioni messe a disposizione. 83 RICCI 2013; più incerta è invece l’attribuzione a produzioni romane di una brocca rinvenuta a Corinto (cfr. MORGAN 1942, p. 261, fig. 193). 84 Vedi ad esempio DYER 1997; MOLINARI 2010b; MOLINARI 2014. 85 Per una presentazione preliminare del materiale cfr. da ultimo DEWAILLY, BLANC, CALDARINI et alii 2014. Per lo studio della documentazione attinente l’immobile di piazza Navona vd. supra, nota 21. 86 Per Villamagna, cfr. supra, nota 77. 87 Per Tuscania ROMEI 1994, p. 96; Per il pozzo 3 di via Lunga a Tarquinia invece cfr. CASOCAVALLO 2002. LA CERAMICA MEDIEVALE DI ROMA: ORGANIZZAZIONE PRODUTTIVA E MERCATI (VIII-XV SECOLO) 299 nella seconda metà del Quattrocento e l’inizio del secolo successivo, prima dello spostamento progressivo a Trastevere, dove si stabiliranno anche per fenomeni legati agli sviluppi urbanistici del Campo Marzio. (J. R.) Considerazioni conclusive Il dato combinato delle fonti archeologiche e scritte consente quindi di tracciare, pur con diverse incertezze, i luoghi della produzione ceramica a Roma in un arco cronologico piuttosto ampio. In generale si può ipotizzare la presenza di officine ceramiche all’interno del tessuto urbano, fino al XVIII secolo 90. Fig. 11. - Evoluzione diacronica di due motivi decorativi della produzione romana (uccello e colonna). Le maggiori incertezze si Esemplari da Crypta Balbi, piazza SS. Apostoli, Foro di Traiano. hanno per l’alto Medioevo, dal momento che nessun inno dell’importazione, verosimilmente da centri urbani, di dicatore di produzione si è dimostrato affidabile e non ceramiche fini evolute 88. esistono attestazioni scritte di vasai. Non si può tuttaUn’ulteriore evoluzione estetica avviene nella prima via escludere che l’area dei Fori abbia visto una duremetà del XV secolo. Accanto a prodotti che non sembrano vole presenza di vasai. La documentazione scritta, a partire dall’XI secolo, testimonia l’esistenza di officine, avere successo (invetriata verde e giallo-bruna) 89 comnon si può escludere nucleate, a Trastevere ed in area paiono per la prima volta le maioliche policrome di prosuburbana, lungo la via Appia. Sembrerebbe evidente duzione locale, mutuando parte dei repertori formali e decome tutti i luoghi di produzione ceramica a Roma siano corativi dalla maiolica arcaica. L’integrazione all’interno da mettere in connessione con le proprietà degli enti ecdelle botteghe romane di maestranze provenienti da clesiastici, almeno fino al basso Medioevo, come d’alcentri specializzati della valle del Tevere (Deruta ed area tronde appare normale anche per numerosi altri casi di viterbese) o del Valdarno (vedi supra) vivacizzano il pabeni immobili. Non a caso la comparsa dei vasai nella norama ceramico locale con la fabbricazione in loco dei documentazione principalmente come testimoni è forse loro prodotti. I vasai menzionati nelle fonti tra la fine del da mettere in relazione a circuiti clientelari degli enti ‘300 e ‘400 sono, come abbiamo visto, quelli dei quali abreligiosi. Interessante a riguardo è il censo stabilito per biamo più informazioni. La loro presenza fa riferimento l’affitto della già citata bottega situata in Criptae Colaalla zona tra piazza Navona e il quartiere Arenula, sul liriae, che è costituito anche da otto laguenas, ovvero anmite dell’ansa del Tevere. Ed è proprio tra Arenula, piazfore. Non possiamo comunque sapere quanto la za Giudea ed Isola Tiberina che aumenterà la loro presenza 88 La maiolica arcaica rinvenuta in Sabina sembra, infatti, ricollegarsi alle tipologie delle produzioni romane (cfr. LECUYER 1994; LECUYER 1997). 89 L’invetriata verde, che ricompare ora con pochi esemplari, sembra riferibile ad una singola bottega attiva nell’arco di un trentennio (cfr. RICCI, VENDITTELLI 2010, pp. 172-175). 90 Oltre agli impianti già citati ricordiamo anche la fornace di via della Consolazione, databile tra XVII e XVIII secolo, che produceva soprattutto ceramica invetriata (PANNUZI 1998). Tracce produttive relative a ceramica invetriata sono state inoltre rinvenute in viale delle Mura Portuensi (MARCELLI, MUNZI, SCHINGO 2013). 300 GIORGIO RASCAGLIA, JACOPO RUSSO Fig. 12. - Distribuzione dei rinvenimenti di maiolica arcaica a Roma e nel suburbio. produzione fosse diretta dagli stessi enti ecclesiastici o se questi si limitassero ad essere proprietari soltanto delle botteghe. Non siamo altresì in grado, se non valutando ad esempio i livelli di standardizzazione dei vasi, di valutare i volumi produttivi, che sembrano però, come abbiamo detto, progressivamente crescenti. L’affermarsi di distinti e specializzati gruppi di atelier nel corso dell’XI e XII secolo, risultato di un mercato interno sempre più sviluppato, sembrerebbe facilitare anche gli sviluppi del XIII secolo. Nel 1200 la produzione diviene, infatti, più complessa, con l’introduzione di nuove ed avanzate tecniche da parte delle officine locali. Queste tendenze diverranno sempre più evidenti nel corso del Trecento, quando si assiste ad un ulteriore allargamento del mercato cittadino, con l’aumento dei consumi di beni di qualità mediamente alta anche da parte di classi non abbienti. La presenza di officine ceramiche nel tessuto urbano non è affatto un’eccezione romana. Molte città medievali dell’Italia centrale vedono questa presenza 91. Quel che sembra assente a Roma è una legislazione in materia. Mentre in altre realtà urbane italiane viene regolata la produzione ceramica (a Viterbo gli statuti comunali che riguardano le attività dei figuli risalgono al 1251) o si vieta la presenza di fornaci entro le mura (l’esempio più chiaro e precoce in tal senso è Siena), non conosciamo alcuna regolamentazione romana che impedisca l’impiantarsi di fornaci ed altri generi di attività correlate alla produzione ceramica in zone urbane anche molto popolate 92. In conclusione si potrebbe dire GELICHI 1992. 92 Per Viterbo, dove gli statuti non vietano la presenza di fornaci in città ma regolamentano solo gli orari di attività delle stesse, si veda MAZZA 1983, pp. 22-24; per Siena CAROSCIO 2010, p. 171. Altri esempi archeologici per il Lazio possono essere Gallese (GÜLL, PATILLI 2001), Acquapendente (CHIOVELLI 1994), Cencelle (ANNOSCIA 2012). 91 LA CERAMICA MEDIEVALE DI ROMA: ORGANIZZAZIONE PRODUTTIVA E MERCATI (VIII-XV SECOLO) che per tutta l’età medievale le officine dei vasai romani si collocano negli stessi luoghi nei quali si trova la popolazione. Sembra comunque consolidarsi progressivamente una certa sensibilità da parte delle autorità cittadine ai problemi derivati da questa attività produttiva, in concomitanza forse con l’aumento esponenziale della produzione romana nel Quattrocento. È il caso di una fornace a S. Eustachio, che viene costretta a ‘chiudere’, nel 1443, a seguito delle proteste di una residente, infastidita dall’odore e dal fumo. Papa Pio II nel 1458 fece invece trasferire i fornaciari fuori dalla città Leonina, per gli stessi motivi ed anche per questioni di sicurezza 93. (G.R., J.R.) Bibliografia AGNENI 1995 = M.L. AGNENI, Materiali ceramici da Magliano in Sabina e dal suo territorio, in DE MINICIS 1995, pp. 159-168. AIX-EN-PROVENCE 1997 = G. DÈMIANS D’ARCHIMBAUD (a cura di), La céramique médiévale en Mediterranée. Actes du VIe Congrès de l’AIECM2 (Aix-en-Provence, 13-18 novembre 1995), Aix-en-Provence 1997. ALBERZONI 2002 = M.P. ALBERZONI, I “mercatores romani” nel registro di Innocenzo III, in R. DELLE DONNE, A. ZORZI (a cura di), Le storie e la memoria. In onore di Arnold Esch, Firenze 2002, pp. 91-108 (http://www.rm.unina.it/ebook/estratti/alberzoni.zip). ALOISI 2004 = M.C. 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LO SFRUTTAMENTO DEGLI ANIMALI DOMESTICI A ROMA E NEL LAZIO NEL MEDIOEVO Jacopo De Grossi Mazzorin Tra le aree urbane maggiormente indagate da un punto di vista archeozoologico vi è la città di Roma, dove negli ultimi trenta anni si sono concentrati numerosi scavi le cui analisi hanno permesso di delineare un quadro abbastanza esaustivo del consumo alimentare e probabilmente anche delle modalità di allevamento animale. Va infatti ricordato che, per quel che riguarda la componente alimentare in un contesto urbano, generalmente il luogo di consumo non coincide, almeno in parte, con il luogo di produzione. I prodotti animali che venivano consumati in città provenivano di solito da luoghi di produzione extraurbani, sia piccoli che grandi, situati a distanza variabile. Ciò significa che lo studio dei materiali faunistici rinvenuti in contesti urbani fornisce soprattutto indicazioni sui consumi alimentari ma non è detto che rifletta appieno le pratiche di allevamento strettamente legate all’esigenza del mercato carneo della città. Lo scopo di questo lavoro è quindi quello di confrontare i dati provenienti dagli scavi urbani medievali con quelli dei centri produttivi più piccoli sparsi nella regione. Le informazioni disponibili ovviamente sono differenti in numero e in qualità. Non tutte le fasi cronologiche sono ugualmente rappresentate e la grandezza dei campioni faunistici analizzati è piuttosto differente e in diversi casi è tale da non poter rendere completamente attendibili le valutazioni statistiche che hanno determinato l’interpretazione dei dati archeozoologici. sumo di carne suina. Dalla fondazione dell’Urbe fino a gran parte del periodo repubblicano le percentuali di resti di maiale, rispetto ai principali animali domestici che contribuivano alla alimentazione (bovini e caprovini), si aggirano nei diversi campioni intorno a una media del 50%, con la tendenza ad aumentare ancor più dal III sec. a.C. in poi, fino a raggiungere nei primi secoli dell’Impero percentuali che si aggirano intorno all’80% dei resti 1. Il periodo storico coincide con la notevole espansione demografica della città e l’incremento del consumo di maiale potrebbe trovare una sua spiegazione nella maggiore richiesta di carne, alla quale si scelse di ovviare con l’allevamento intensivo e più economico di questo animale assai prolifico. Solo alla fine del periodo imperiale i resti di maiale, pur restando il principale animale domestico consumato nell’Urbe, diminuiscono e nella fase tardo antica si attestano su percentuali intorno al 55%. Questo cambiamento coincide con un periodo di crisi e di parziale demolizione degli edifici urbani, corrispondente a una riduzione drastica del numero degli abitanti, che si manifesta nell’Urbe nella seconda metà del V secolo dopo il sacco di Alarico nel 410. La tab. 1 elenca i contesti urbani di Roma che hanno restituito importanti campioni di resti faunistici dal periodo tardo antico al basso Medioevo, questi sono: - un campione (US 3641) dall’area della Meta Sudans collocabile cronologicamente tra il V e il VI secolo 2; - diversi campioni dai recenti scavi nell’area delle Terme di Traiano, databili tra il VI e il VII secolo 3; - gli ingenti campioni provenienti dagli scavi del- I suini L’aspetto caratterizzante della dieta proteica a Roma è costituito, sin dal periodo Imperiale, dal notevole con- 1 2 DE GROSSI MAZZORIN, MINNITI 2010, pp. 52-54. DE GROSSI MAZZORIN 1995. 3 De Grossi Mazzorin, Mezzina, Minniti in studio. 310 JACOPO DE GROSSI MAZZORIN pione quantitativamente più attendibile – nel periodo che va dal VII al X secolo la percentuale del maiale scende progressivamente dal 57,2 al 47,3%. Colpisce infine la perCrypta Balbi VIII 3268 346 10,6 1100 33,7 1822 55,8 Argileto VIII-XI 243 26 10,7 71 29,2 146 60,1 centuale particolarmente Crypta Balbi IX 3955 830 21,0 1138 28,8 1987 50,2 bassa di resti di maiale della Crypta Balbi X 2448 499 20,4 790 32,3 1159 47,3 basilica di S. Cecilia tra il XII Piazzale Anfiteatro Flavio XI 296 45 15,2 125 42,2 126 42,6 e il XIII secolo (29,2%) ma Crypta Balbi XI 273 62 22,7 119 43,6 92 33,7 Anfiteatro Flavio, Amb.36 XI-XIII 901 36 4,0 403 44,7 462 51,3 vedremo più avanti che il parCrypta Balbi XII 1004 119 11,9 624 62,2 261 26,0 ticolare contesto archeologico Palatino XII-XIII 317 30 9,5 142 44,8 145 45,7 può in qualche modo aver inS. Cecilia XII-XIII 2833 349 12,3 1657 58,5 827 29,2 fluito sulle diverse percenPassaggio di Commodo XII-XIII 337 87 25,8 103 30,6 147 43,6 tuali di animali domestici. Crypta Balbi XIII 620 45 7,3 337 54,4 238 38,4 Crypta Balbi XIV 2207 270 12,2 1111 50,3 826 37,4 Dai dati sull’eruzione, il Crypta Balbi XV 365 46 12,6 168 46,0 151 41,4 rimpiazzamento e l’usura dei Tab. 1. Percentuali delle tre principali categorie di animali domestici nei diversi contesti urbani di denti dei contesti urbani di Roma. Roma, risulta che le modalità di abbattimento dei suini non l’esedra della Crypta Balbi, databili tra il VII e il subiscono grosse variazioni nel corso dei secoli e che X secolo 4; gran parte dei maiali veniva macellata tra i due anni e mezzo e i tre di vita, quando questi animali rag- un piccolo campione dall’area dell’Argileto, in5 giungevano la maturità e quindi la massima resa in quadrabile tra l’VIII e l’XI secolo ; carne, mentre una minima parte degli animali oltre- tre campioni dall’area del Colosseo, databili tra l’XI 6 passava il terzo anno e quindi veniva allevato per la e il XIII secolo ; riproduzione e macellato solo in tarda età. Invece una - un pozzo di butto individuato sulle pendici del Paanche una piccolissima parte veniva macellata entro il latino, il cui riempimento si data tra il XII e il XIII primo anno di vita probabilmente per il consumo di secolo 7; tagli di carne più pregiata. Bisogna inoltre considerare - un campione proveniente da strati di interramento che la maturazione dei maiali era senza alcun dubbio del battistero medievale, avvenuto tra la fine del più lenta rispetto a quella attuale e questo ritardo era XII e la prima metà del XIII secolo, in occasione probabilmente dovuto alla loro alimentazione. I madi rifacimenti della basilica di S. Cecilia in Traiali erano tenuti liberi nel territorio vicino alla città: stevere 8; da ciò se ne deduce che la loro alimentazione doveva - un altro campione proveniente sempre dall’area delessere costituita prevalentemente da ghiande, che esl’esedra della Crypta Balbi databile tra il XII e il sendo un alimento a scarso contenuto proteico ne ralXV secolo 9. lentavano lo sviluppo. Che i boschi fossero utilizzati anche per l’allevamento a pascolo brado dei maiali è I dati sembrano indicare che il consumo della carne testimoniato anche dal fatto che la loro superficie fosse suina, pur mantenendosi su percentuali considerevoli spesso misurata con il numero di maiali che poteva soper tutto il Medioevo, non raggiunge più i livelli, stenere 10. quasi esclusivi, dei primi secoli dell’Impero romano I contesti altomedievali nel Lazio mostrano forti analogie con il tipo di alimentazione descritto per i lie come si può vedere dalle percentuali il consumo convelli della Crypta Balbi (tab. 2): a Casale S. Donato 11, tinua a diminuire (tab. 1). Alla Crypta Balbi – il camSito Meta Sudans US 3641 Terme di Traiano Terme di Traiano Crypta Balbi Terme di Traiano Secolo N. Bovini % Caprovini % Suini % V-VI VI VI-VII VII metà VII 1852 524 842 3259 2464 349 55 103 240 188 18,8 10,5 12,2 7,4 7,6 488 112 262 1156 958 26,3 21,4 31,1 35,5 38,9 1015 357 477 1863 1318 54,8 68,1 56,7 57,2 53,5 DE GROSSI MAZZORIN, MINNITI 2001; MINNITI 2005a. DE GROSSI MAZZORIN 1989. 6 BEDINI 2002; DELFINO, MINNITI 2005; MINNITI 2008. 7 De Grossi Mazzorin in studio. DE GROSSI MAZZORIN, MINNITI 2004. BEDINI 1990. 10 MONTANARI 1998, p. 38. 11 CLARK 1997. 4 8 5 9 LO SFRUTTAMENTO DEGLI ANIMALI DOMESTICI A ROMA E NEL LAZIO NEL MEDIOEVO 311 a Farfa 12 e a Monte Gelato 13 Sito Datazione N. Bovini % Caprovini % Suini % i livelli di occupazione che Casale S. Donato VI-VIII 198 20 10,1 82 41,4 96 48,5 Farfa VIII-IX 256 26 10,2 96 37,5 134 52,3 vanno dal VI al XII secolo inGelato, fase 5 Monte IX 231 17 7,4 93 40,3 121 52,4 dicano un prevalente con98 32 0,7 94 1,5 172 57,7 Cencelle IX-XIII sumo di carne suina (tra il Castiglione XI 6803 356 5,2 1770 26 4677 68,7 48,5% e il 52,4%), seguito da Monte Gelato, fase 6 XI 487 40 8,2 174 35,7 273 56,1 quello di carne ovina (tra S. Paolo fuori le mura metà XI-metà XII 106 34 33,7 44 43,6 23 22,8 Farfa XI-XIII 1062 59 5,6 323 30,4 680 64 circa il 35% e il 40%) e in Monte Gelato, fase 7 XII 153 7 4,6 70 45,8 76 49,7 bassa percentuale (se si ecS. Paolo fuori le mura fine XII-XIII 923 230 24,9 305 33 388 42 cettua il piccolo borgo fortiCencelle XIII 198 17 8,6 77 38,9 104 52,5 ficato di S. Paolo fuori le Tuscania XIII 194 6 3,1 170 87,6 18 9,3 mura 14, mai oltre il 10%) da Tarquinia XII-XIV 1352 114 8,4 389 28,8 849 62,8 quella bovina. In questi casi S. Paolo fuori le mura XIII-XIV 209 82 39,2 60 28,7 67 32,1 Cencelle XIV 2127 329 15,5 765 36 1033 48,6 però non si tratta di scavi di Tuscania XIV 403 49 12,2 288 71,5 66 16,4 contesti urbani ma di insediaTarquinia XIV 6852 555 8,1 3579 52,2 2718 39,7 menti rurali con popolazione Santa Severa seconda metà XIV 4494 534 11,9 2365 52,6 1595 35,5 limitata, come complessi moTuscania XV 1989 284 14,3 1243 62,5 462 23,2 nastici o castelli. Tarquinia XV 217 25 11,5 113 52,1 79 36,4 Successivamente, nei se- Tab. 2. - Percentuali delle tre principali categorie di animali domestici nei diversi contesti del Lazio. coli centrali (o pieno Melano tra il 10 e il 30% 20, questi valori invece tendono a dioevo), i suini mantengono ancora una posizione crescere per tutto il periodo tardo-antico e alto-mediepercentualmente predominante rispetto agli ovicaprini vale; inizialmente abbiamo una media del 25% nel Ve bovini, come si può notare a Cencelle tra il IX e il 15 16 XIII secolo , a Castiglione nell’XI secolo e ancora, VI secolo che aumenta attorno al 30% perlomeno fino tra l’XI e il XII secolo, a Monte Gelato 17. Nel basso a tutto il X secolo e cresce ulteriormente nei secoli sucmedioevo continuano ad avere maiali prevalenti i concessivi fino a raggiungere il culmine nel campione di S. testi di S. Paolo (dal XII al XIV secolo), Cencelle (XIV Cecilia – nel XII-XIII secolo – dove gli ovicaprini rapsecolo) e Palazzo Vitelleschi a Tarquinia tra XII e XIV presentano quasi il 60% degli animali domestici (tab. 1). secolo 18 ma altri, come avviene a Roma nel complesso A Roma, tuttavia, in epoca tardo antica e alto medi S. Cecilia, iniziano a presentare tra XIV e XV secolo dievale si notano, rispetto al periodo romano, alcune difpercentuali preponderanti di ovicaprini, tra questi Tuferenze nel sistema di utilizzazione di questi animali. scania 19 e Tarquinia. Ricorrendo all’analisi dell’eruzione, rimpiazzamento e usura dei denti è stato, infatti, possibile stimare la composizione per età nei diversi campioni. Le percentuali di denti attribuiti ad ogni classe di età ci ha permesso Gli ovicaprini di elaborare le cosiddette ‘curve di mortalità’ (fig. 1) in base alle osservazioni effettuate da S. Payne 21. Queste A Roma, nell’alto Medioevo, l’importanza della carne a seconda del tipo di allevamento – latte, carne o lana – ovina e caprina sembra rimanere secondaria a quella suina, senza subire significativi cambiamenti rispetto al avranno delle caratteristiche peculiari: periodo romano. Nei campioni faunistici provenienti da diversi contesti urbani e rurali compresi tra il I secolo - un allevamento dove lo scopo principale è la proa.C. e il III secolo d.C., le percentuali di ovicaprini oscilduzione di latte presenterà un’elevata percentuale 12 Ibidem. KING 1997. 14 Il piccolo borgo fortificato nei pressi della basilica di S. Paolo, di cui sono stati studiati, da parte di chi scrive, diversi contesti provenienti dall’area di scavo nell’orto del monastero della basilica e collocabili cronologicamente tra l’VIII e il XIII secolo, presenta percentuali ancora più basse che tuttavia sembrano mantenersi costanti nel tempo. 13 15 MINNITI 2009; MINNITI 2012. MINNITI 2009. 17 KING 1997. 18 CLARK 1989. 19 BARKER 1973. 20 DE GROSSI MAZZORIN, MINNITI 2010. 21 PAYNE 1973. 16 312 JACOPO DE GROSSI MAZZORIN questi hanno raggiunto la massima dimensione corporea. Tenere in vita gli animali oltre questa età non conviene ai pastori perché lo sforzo economico e lavorativo non verrebbe ripagato da un’equivalente resa in carne; - un allevamento finalizzato, invece, alla produzione di lana vedrebbe percentuali di animali che oltrepassano il terzo anno d’età, perché queste seguitano a produrre lana di buona qualità almeno fino ai 6 anni di vita. Rispetto all’allevamento di età romana in cui la mortalità sembra indicare soprattutto la presenza di animali macellati tra i due e i tre anni, cioè quando la maggior quantità di carne è resa con i più bassi costi di produzione, per il rifornimento del mercato carneo 22, il campione Fig. 1. - Curve di mortalità dei caprovini nei diversi contesti urbani di Roma. di VI-VII secolo, proveniente dall’area delle Terme di Traiano, mostra ancora una pastorizia volta alla produzione di carne (figg. 1-2). Infatti circa il 50% circa degli animali era ucciso entro i tre anni di vita, e di questi, la percentuale di animali uccisi tra i 6 e i 12 mesi, circa il 32%, indica allo stesso tempo che parte della produzione di carne era riservata a tagli di carne più pregiata (abbacchi o agnelloni). Si nota infine un certo interesse anche per la produzione della lana; dal grafico della fig. 1 infatti risulta che un certo numero di animali adulti (circa il 50%) era tenuto in vita dopo i tre anni per questo scopo. È chiaro che queste stime rappresentano solo un dato indicativo perché non è possibile distinguere, mediante l’analisi dei denti, le capre dalle pecore o i maschi dalle femmine; quest’ultime, senza dubbio, avevano un differente destino nell’allevamento. Le curve di morFig. 2. - Percentuali dei caprovini uccisi per ogni classi d’età nei diversi contesti urbani di Roma. talità dal VII al IX secolo della Crypta Balbi mostrano percentuali abbastanza sidi animali, soprattutto i maschi, uccisi entro i primi mili tra loro ma con alcuni distinguo. La percentuale di mesi di vita. Gli agnelli succhiando il latte alle animali giovani, tra 6 e 12 mesi, è leggermente infemadri lo toglierebbero alla produzione dannegriore al periodo precedente segno di un minore interesse giando il pastore; per i tagli di carne pregiata. Nell’VIII secolo sembra vi - un allevamento in cui lo scopo principale è la produzione carnea avrebbe un’alta percentuale di ani22 mali uccisi tra i due e i tre anni, ovvero quando DE GROSSI MAZZORIN, MINNITI 2010, pp. 54-55. LO SFRUTTAMENTO DEGLI ANIMALI DOMESTICI A ROMA E NEL LAZIO NEL MEDIOEVO 313 sia più interesse per una maggiore resa carnea. L’interesse per la produzione di lana si manifesta soprattutto nei campioni del VII e del IX secolo con percentuali di individui che oltrepassano i tre anni di vita superiori al 40%. Ma alla Crypta Balbi è soprattutto nel X secolo che si assiste invece ad un forte incremento di interesse per la lana; le percentuali di animali che sopravvivono oltre i 3 anni costituiscono, infatti, quasi il 60% del gregge (figg. 12). A S. Cecilia, come si nota nei grafici delle figure 1-2, l’interesse per la produzione della lana si accentua ulteriormente. Questo dato, come anche la predominanza sul totale dei resti di caprovini, sembra anticipare un assetto economico che i documenti storici registrano a Roma solo a partire dalla seconda metà del XIV secolo, Fig. 3. - Curve di mortalità dei caprovini nei contesti di Castiglione (XI secolo) e Cenquando le proprietà terriere della campa- celle (XIII-XIV secolo). gna romana vengono progressivamente secolo) e Cencelle (XIII-XIV secolo). Dal grafico trasformate da seminativi in pascoli e, come si è acdella figura 3 si nota che complessivamente le età di cennato, nella città si registra un particolare sviluppo abbattimento degli ovicaprini sono abbastanza diffedella lavorazione della lana. A questo proposito si deve renti: a Castiglione è fortemente accentuata la proricordare che dalla seconda metà del 1300 i lanaioli o duzione di carne, fornita soprattutto da animali lanistae, insieme ai macellai e ai bovattieri, sono congiovani, a Cencelle invece a fianco di un consumo di siderati tra gli artigiani più vivaci e più attivi nella vita 23 carne di qualità si nota anche un interesse marcato per economica e politica romana . Tuttavia non si può la produzione di lana. La fauna del castello di Castiescludere l’ipotesi che il campione di S. Cecilia rifletta glione in Sabina ovviamente riflette solo la condizione la condizione economica di un particolare settore della di un contesto signorile in cui la predominanza di incittà e che non sia indicativo dei sistemi di macellazione dividui giovani mostra un loro uso esclusivo per l’alie consumo dell’intera popolazione urbana, dal momento mentazione carnea e non per gli altri prodotti che i frati Umiliati che risiedevano presso S. Cecilia dell’allevamento. Cencelle – la Civitas Leopolina – commerciavano la lana. Sappiamo infatti che una parte invece mostra una pastorizia dove l’importanza per i consistente della popolazione urbana, costituita sia da prodotti dell’animale vivente (in questo caso la lana) laici che da ecclesiastici, gestiva in economia diverse hanno una grande importanza 24. proprietà fondiarie e casali della campagna romana, dai Purtroppo degli altri siti o non abbiamo dati regiquali è probabile che si rifornissero sia per il consumo strati con la stessa metodologia 25 oppure questi sono alimentare che per le attività commerciali. troppo scarsi e quindi statisticamente poco attendibili. Il campione di S. Cecilia, infine, mostra una discreta Tuttavia, a solo titolo indicativo, va detto che la prevapercentuale di animali uccisi in età molto giovane prolenza di individui adulti, quindi legata ad un probabile babilmente per salvaguardare anche la produzione di maggior sfruttamento della lana, si nota anche a Monte latte e altri prodotti caseari (figg. 1-2). Gelato 26 e a S. Paolo fuori le mura 27 mentre una magIl confronto sui dati della mortalità con i siti lagiore prevalenza di individui più giovani si nota nei camziali è possibile solo con i campioni di Castiglione (XI 23 24 25 GENNARO 1967. MINNITI 2009. PAYNE 1973. 26 27 KING 1997, p. 389. De Grossi Mazzorin in studio. 314 JACOPO DE GROSSI MAZZORIN Lecce 33. Tuttavia nel caso di S. Paolo, almeno nell’area indagata, non vi sono altri indizi che testimonino la concia delle pelli. Gli altri siti del Lazio mostrano per tutto l’alto Medioevo fino al XII secolo percentuali di ovicaprini che oscillano grosso modo 34 tra il 35% e il 45% (tab. 2), nei secoli successivi si nota un loro particolare aumento soprattutto a Tuscania (VT) dove si registrano, tra il XIII e il XV secolo, percentuali particolarmente elevate. Il consumo di carne ovina e caprina è inoltre ben documentato nel campione di Palazzo Vitelleschi a Tarquinia (tab. 2). I bovini pioni di S. Severa 28, Tarquinia ‘Palazzo Vitelleschi’ 29 e nell’abbazia di Farfa 30. Si è notato, inoltre, un altro aspetto interessante nell’obliterazione, avvenuta nella seconda metà del XII secolo, di un pozzo del borgo fortificato di S. Paolo, in cui erano presenti alcuni resti animali, in prevalenza (circa il 57%) costituiti da una dozzina di cavicchie di pecora bruciate e con evidenti i segni del colpo per rimuoverle dal cranio (fig. 4). Questi tagli lasciano intuire che nell’area fosse svolta anche la lavorazione dell’astuccio corneo. Questo materiale, costituito da una scleroproteina ricca in zolfo, è stato utilizzato in passato per la realizzazione di numerosi oggetti come ‘finestre’ per lanterne, bottoni, pettini, manici di coltello, cucchiai etc. In genere i lavoratori del corno operavano a fianco di pellai e conciatori in luoghi della città riservati a questo scopo a causa dei cattivi odori generati da questi lavori 31. Un’analoga situazione è documentata anche nelle concerie del Priamàr a Savona 32 e a Il bue, nei contesti urbani romani, è sicuramente l’animale domestico meno rappresentato, anche se con notevoli variazioni percentuali attraverso i secoli ed i suoi resti raramente oltrepassano il 30% dei diversi campioni (tab. 1). Alla Crypta Balbi si nota tuttavia un progressivo incremento della sua percentuale che dal 7,4% nel VII secolo cresce fino a circa il 23% nell’XI, per poi diminuire di nuovo tra il XII e il XIV con percentuali che si collocano attorno al 12%. Un valore percentuale quest’ultimo che, se si eccettua il campione proveniente dal Passaggio di Commodo, ritroviamo anche a S. Cecilia. Nel complesso si tratta di animali di media statura alti in media, nel VII secolo, cm 127 alla spalla. Questo valore è completamente sovrapponibile a quello registrato, tra il I e il II secolo, in un complesso agricolo indagato nel suburbio romano 35 e denota quindi come sostanzialmente i bovini si mantennero nelle stesse dimensioni fino alla tarda antichità. Successivamente, nei secoli dall’VIII al X, si registra una sensibile riduzione della taglia che non oltrepassa in media i cm 120 36. Questa taglia modesta si registra anche in altri siti italiani FATUCCI, CERILLI 2013. CLARK 1987a; CLARK 1989. 30 CLARK 1987a; CLARK 1987b. 31 MACGREGOR 1989. 32 SPINETTI, MARRAZZO 2005. 33 DE GROSSI MAZZORIN 2008, p. 187. 34 Unica eccezione è il piccolo castello di Castiglione in Sabina dove i resti di pecora e capra non oltrepassano il 26% del campione (MINNITI 2009). 35 Si tratta dei resti animali rinvenuti in tre pozzi di un insediamento rurale situato nella Tenuta di Vallerano a pochi chilometri a sud di Roma, lungo la via Laurentina. Anche in questo sito i bovini sono alti al garrese in media cm 127,4 (MINNITI, 2005). 36 I bovini di grosse dimensioni (ovvero che oltrepassano i cm 130 al garrese) ancora presenti nel VII secolo scompaiono completamente nei secoli successivi. Fig. 4. - S. Paolo fuori le mura: resti di cavicchie di pecora con tracce di tagli e combustione. 28 29 LO SFRUTTAMENTO DEGLI ANIMALI DOMESTICI A ROMA E NEL LAZIO NEL MEDIOEVO 315 altomedievali o dei secoli centrali del medioevo. La riduzione di taglia potrebbe riflettere, come scrive Salvadori 37, un minor interesse per la cerealicoltura a scapito di un maggior sfruttamento dell’incolto, oppure rappresentare una maggior presenza di soggetti femminili che lascerebbero intuire un maggior sfruttamento dell’allevamento bovino al fine della produzione casearia. Tuttavia nei campioni della Crypta Balbi a dispetto di scarsissimi individui maschili, i castrati e le femmine sembrano bilanciarsi tra loro. A Roma, alla Crypta Balbi, dai dati relativi alla fusione delle epifisi articolari delle ossa lunghe, risulta che in ogni fase cronologica considerata, dal VII al X secolo, circa la metà dei resti appartiene a bovini di età superiore ai quattro anni, con punte nel VII e X secolo che oltrepassano il 70%. È probabile, quindi, che questi animali fossero stati macellati solo dopo essere stati utilizzati da vivi, a seconda del sesso, per la produzione del latte, la riproduzione e i lavori agricoli. A conferma di ciò si è notato, soprattutto tra le ossa bovine della Crypta Balbi, che sono presenti diversi casi di processi infiammatori delle falangi e di una particolare patologia a carico degli arti, lo spavenio, che si manifesta nell’accentuata divaricazione delle terminazioni distali dei metapodi dovuta al continuo sforzo fisico durante la trazione dell’aratro. Tuttavia non mancano, anche se presenti con percentuali molto modeste, individui giovani uccisi nei primi 18 mesi, come anche esemplari macellati intorno ai 2-3 anni di vita, allevati più propriamente per la produzione carnea. Anche gli altri siti laziali presentano, durante l’alto Medioevo, percentuali molto modeste con valori al di sotto del 10% (tab. 2). Solo il borgo fortificato di S. Paolo fuori le mura mostra percentuali più alte, tra il 25 e il 30% circa, forse il riflesso di una campagna più vicina all’Urbe meno forestata e più dedita ai lavori agricoli. Nel resto della regione un incremento dello sfruttamento bovino si nota dal XIII secolo in poi, soprattutto nei siti dell’Etruria meridionale (Cencelle, Tarquinia e Tuscania). La presenza di un altro bovino viene spesso messa in relazione con l’alto Medioevo: il bufalo. Cockrill 38 sostiene che non vi siano buone ragioni per credere che i primi bufali (secondo alcuni uno solo) siano stati donati nel 595 dal Khan degli Avari ad Agilulfo re dei Longobardi 39. Hehn e Stallybrass 40, speculando su un passo di Paolo Diacono 41, sostennero che i longobardi avessero introdotto i bufali in Italia ma alcuni anni dopo la pubblicazione del loro lavoro Hahn 42 confutava questa asserzione sottolineando che l’animale descritto col termine «bubalus» non fosse altro che il bisonte europeo (Bison bonasus) importato da Oltralpe. Boettger 43 successivamente ipotizzò che invece con tale termine lo storico volesse indicare l’uro (Bos primigenius) che ancora viveva in nord Europa. La confusione nasce probabilmente da un passo di Plinio «Ceterorum animalium, quae modo convecta undique Italiae contigere saepius, formas nihil attinet scrupulose referre. Paucissima. Scythia gignit inopia fruticum, pauca contermina illi Germania, insignia tamen boum ferorum genera, iubatos bisontes excellentique et vi et velocitate uros, quibus inperitum volgus bubalorum nomen inponit, cum id gignat Africa vituli potius cervique quadam similitudine» (degli altri animali, che portati da ogni parte, abbastanza spesso sono capitati in Italia, non importa descrivere scrupolosamente l’aspetto. La Scizia ne genera pochissimi per mancanza di vegetazione, pochi la Germania che con essa confina; tuttavia vi nascono razze famose di buoi selvaggi, i bisonti con la criniera e gli uri dalla grande forza e dalla grande velocità, che il popolo nella sua ignoranza chiama bubali, mentre questi ultimi nascono in Africa ed hanno una qualche somiglianza piuttosto con i vitelli o i cervi) 44. A riguardo White 45 argomenta che Paolo Diacono ben conosceva il bisonte (ne parla anche in un altro passo dell’Historia Langobardorum) 46 e che l’uro era ancor più diffuso a nord delle Alpi che non il bisonte per cui è improbabile che potesse aver tanto meravigliato. Tra l’altro White sostiene che è molto probabile che i bufali, provenienti da una via settentrionale lungo le coste del Mar Nero, fossero diffusi al tempo degli Avari nel SALVADORI 2015, pp. 93-101. COCKRILL 1984. 39 Anche ZEUNER 1963, p. 251 e KELLER 1909, p. 288 sembrano poco propensi a credere ad un’introduzione del bufalo in Italia alla fine del VI secolo e riportano il fatto che S. Villibaldo di Eichstätt, visitando la Palestina nel 723 aveva visto dei bufali nella valle del Giordano e si era meravigliato di tali strani animali. Ma avendo egli viaggiato attraverso l’Italia e la Sicilia non era possibile che non li avesse visti prima. HEHN, STALLYBRASS 1885. « […] Tunc primum cavalli silvatici et bubali in Italiam delati, Italiae populis miracula fuerunt»: P. DIACONO, Historia Langobardorum, Liber IV, 10.42 HAHN 1896. 43 BOETTGER 1958 44 PLIN. nat., VIII, 15. 45 WHITE 1974. 46 P. DIACONO, Historia Langobardorum, Liber II, 8. 37 38 40 41 316 JACOPO DE GROSSI MAZZORIN Nei contesti urbani a Roma nel periodo imperiale i resti di equini (cavalli, asini e loro ibridi) non sono affatto abbondanti, il loro rapporto percentuale confrontato con quello degli altri tre mammiferi dome- stici presenta valori sempre abbastanza bassi (pochi punti percentuali). I diversi elementi scheletrici, inoltre, si presentano di solito integri e senza tracce di macellazione e/o combustione. Questo indica che, con ogni probabilità, non rientravano nell’alimentazione abituale. Gli equini erano utilizzati prevalentemente come cavalcatura e animali da tiro. Alla prima funzione dovevano essere riservati esemplari volutamente selezionati come il cosiddetto ‘cavallo militare’ romano, il cui tipo ideale si può cogliere nella rappresentazione equestre del Marco Aurelio 55. Un evidente esempio di animale da tiro è invece fornito dallo scheletro appartenente molto probabilmente ad un mulo, rinvenuto sul Celio in un tratto, ormai totalmente caduto in disuso, del condotto fognario di una insula, la cui costruzione risale all’età domizianea. Lo scheletro giaceva con attorno e sopra sei anforette, alcune solo scheggiate, altre parzialmente rotte, datate attorno al V secolo d.C. È stato ipotizzato che la fogna sia stata usata per gettarvi la carcassa dell’animale probabilmente insieme al carico di anfore, ormai inutilizzabili, che l’equino stava trasportando lungo il vicino vicus Capitis Africae. Un’attenta analisi dello scheletro ha rivelato come l’animale fosse in qualche modo adibito a lavori pesanti, a parte il carico di anfore che doveva trasportare, per la presenza di un’alterazione patologica a carico dell’arto posteriore sinistro 56. Nell’alto Medioevo queste percentuali iniziano a crescere raggiungendo percentuali intorno al 10% nei campioni di IX e X secolo della Crypta Balbi e addirittura del 18% nei livelli di XII-XIII secolo del Passaggio di Commodo (tab. 3). A volte presentano tracce di combustione mentre le tracce di tagli sulla loro superficie sono abbastanza rare e più che alla macellazione sembrano riferirsi soprattutto al recupero della pelle dell’animale. Solo in due casi, un frammento di diafisi di ulna e uno distale di metapodio, i tagli erano abbastanza profondi ma anche in questo caso non si può escludere che questi non fossero dovuti alla lavorazione dell’osso. BÖKÖNYI 1974, pp. 151 ss. EPSTEIN 1971, p. 568. 49 ERBERTO DI CLAIRVAUX, De Miraculis, II, 30, la vicenda è riportata anche da Corrado di Eberbach nel suo Exordium Magnum Cisterciense, libro IV, cap. XXXIV. 50 In Inghilterra invece furono probabilmente introdotti da Riccardo di Cornovaglia, che li aveva visti sia in Palestina che in Italia (WHITE 1974, p. 206). 51 Sulla presenza nel 1231 in Sicilia e nel 1239 a Vietri si veda WINKELMANN 1880, I, n. 797, p. 621; n. 841, p. 647; n. 998, pp. 756-757); ancora sulla presenza del bufalo in Italia si veda LATINI 1863, I, cap. 122 e P. DE’ CRESCENZI, Ruralium commodorum libri duodecim, IX, cap. 66. 52 BEDINI 1990. 53 FATUCCI, CERILLI 2013. 54 A Siponto è stata rinvenuta una mandibola, più o meno completa di bufalo, attualmente in studio da un èquipe interdisciplinare costituita da chi scrive assieme a C. Laganara, P. Albrizio, E. Ciani e P. Ajmone. 55 DE GROSSI MAZZORIN 1995. 56 BISTOLFI, DE GROSSI MAZZORIN 2005. bacino del Danubio, anche se ammette di non aver trovato alcuna testimonianza (scritta o iconografica) di questo nei quattro secoli successivi. È certo invece della loro presenza in Anatolia già dal IX secolo; da qui la diffusione di questo animale verso l’Italia meridionale bizantina è avvenuta passando per la Tracia, la Grecia o i Balcani Anche Bökönyi47 dava credito al racconto di Paolo Diacono; secondo lui gli Avari avevano preso i bufali nella Russia meridionale e li avevano portati nel bacino carpatico nel 560 e di qui introdotti in Italia nel 596. Epstein48 invece pensava che i bufali fossero stati introdotti in Italia dal nord Africa a seguito della conquista araba della Sicilia nel 827 e da lì diffusi in Campania. Anche questa però è solo una supposizione perché non vi sono testimonianze della loro presenza in Tunisia (la parte più prossima dell’Africa alla Sicilia) in quel periodo. La prima testimonianza della presenza di bufali in Italia l’abbiamo nel 1154 quando un monaco dell’abbazia di Clairvaux, di nome Lorenzo, fu inviato in Sicilia e a Roma per ottenere finanziamenti per la ricostruzione della loro chiesa 49. A Roma questo ricevette in dono da un gruppo di cardinali e altri romani dieci bufali che riuscì a condurre a Clairvaux, destando grande meraviglia per quegli animali mai visti che da lì si diffusero in altre aree della Francia 50. Dal XIII secolo in poi si trovano alcune testimonianze scritte della presenza di bufali in Italia 51 oltre a dati archeologici; resti ossei di bufalo sono segnalati infatti, per il XIII secolo, negli scavi della Crypta Balbi 52, del castello di S. Severa 53 e di Siponto 54. Gli equini 47 48 LO SFRUTTAMENTO DEGLI ANIMALI DOMESTICI A ROMA E NEL LAZIO NEL MEDIOEVO 317 NR tre NR NR NR totale Probabilmente ancora Sito Secolo dom. cavallo % asino % equini % nel Medioevo questi aniMeta Sudans US 3641 V-VI 1852 129 6,5 1 0,1 130 6,6 mali non rientravano nelTerme di Traiano VI 524 28 5,1 0,0 28 5,1 l’alimentazione abituale. Terme di Traiano VI-VII 842 32 3,7 4 0,5 36 4,1 Le popolazioni occidentaCrypta Balbi VII 3259 56 1,7 2 0,1 58 1,8 Terme di Traiano metà VII 2464 110 4,3 9 0,4 119 4,6 li hanno infatti sempre maCrypta Balbi VIII 3268 72 2,2 2 0,1 74 2,2 nifestato una certa ritrosia Argileto VIII-XI 243 1 0,0 0,0 0 0,4 al consumo di carne equiCrypta Balbi IX 3955 424 9,7 39 1,0 463 10,7 na, privilegiando come apCrypta Balbi X 2448 256 9,5 21 0,9 277 10,3 porto proteico alla loro Piazzale Anfiteatro Flavio XI 296 11 3,6 16 5,1 27 8,7 Crypta Balbi XI 273 0,0 17 5,9 dieta altri tipi di carne Anfiteatro Flavio, Amb. 36 XI-XIII 901 4 0,4 7 0,8 11 1,2 come quella bovina, ovina Crypta Balbi XII 1004 0,0 38 3,6 e suina. La carne equina è Palatino XII-XIII 317 0,0 0,0 0 0,0 più magra, più nutriente e S. Cecilia XII-XIII 2833 54 1,9 15 0,5 69 2,4 più ricca di ferro di quella Passaggio di Commodo XII-XIII 337 53 13,6 15 4,3 68 17,9 degli altri animali domeCrypta Balbi XIII 620 0,0 6 1,0 Crypta Balbi XIV 2207 0,0 62 2,7 stici. Le ragioni quindi di Crypta Balbi XV 365 0,0 5 1,4 questa ‘scelta’ alimentare vanno ricercate in scelte Tab. 3. Numero di resti e relative percentuali dei resti di equini nei diversi contesti urbani di Roma. ‘culturali’ che affondano le nacciata dall’Islamismo proprio in Europa, vietò immeproprie radici in tempi molto lontani da noi. diatamente il consumo di carne equina. Poiché molte poI tabù alimentari sulla carne di cavallo compaiono polazioni dell’Europa settentrionale e orientale con le prime civiltà agrarie del Medio Oriente, che avecontinuavano a macellare e mangiare cavalli, sempre nel vano bisogno del cavallo non come mezzo di sostentamento ma come macchina da guerra. Anche nel 732, il papa Gregorio III si affrettò a scrivere le seguenti mondo romano vi fu una forte avversione a cibarsi di parole al suo inviato presso i Germani: «[...] oltre al resto carne equina e questo si può notare indirettamente tu accenni al fatto che alcuni (Germani) mangiano i caanche dai testi antichi nei quali vengono descritti casi valli selvaggi e, anzi, che mangiano cavalli addomestidi ippofagia da parte dei soldati affamati. Probabilcati. In nessun caso, santo fratello, tu dovrai consentire mente ancora in pieno periodo romano i cavalli seuna cosa del genere. Piuttosto commina la dovuta puniguitano a essere considerati troppo preziosi per essere zione ricorrendo a qualsiasi mezzo, che, con l’aiuto di usati come cibo. Cristo, ti consenta di rendere impossibile una cosa del È interessante notare che a differenza della Bibbia in genere. Perché questa pratica è immonda e detestabile» 58. cui è espresso chiaramente il divieto a cibarsi della carne Quindi Harris conclude con le seguenti parole: «didi cavallo, in quanto animale non ruminante e senza lo fendere il cavallo era difendere la fede». Questo è il zoccolo fesso, il Corano non lo vieta, tuttavia i mussulprimo tabù alimentare del Cristianesimo che denota mani consumavano la carne equina solo in caso di un’inversione di rotta rispetto a quella che è stata da estrema necessità. I mussulmani conquistarono l’intera sempre la politica religiosa della Chiesa che, nell’ottica Spagna nel 711 e cominciarono a penetrare in Francia del proselitismo universale, si era ben guardata dai tabù dove li fermò solo Carlo Martello a Poitiers nel 732. A alimentari che avrebbero potuto costituire un grosso proposito di questa vittoria è interessante l’analisi effetostacolo a potenziali conversioni. tuata da M. Harris57, in cui si sottolinea l’importanza avuta Solo successivamente i cavalli furono utilizzati anche dalla cavalleria pesante di Carlo Martello che ebbe faper i lavori agricoli quando i contadini iniziarono a sercile gioco sull’esercito arabo armato alla leggera e su picvirsi di razze robuste per arare i campi, grazie all’incoli cavalli. Da allora in Europa si passò da un gran venzione del collare rigido e dei nuovi aratri in ferro numero di fanti a un contingente più piccolo ma ben arcon le ruote. mato di vassalli a cavallo e la Chiesa, sentendosi mi- 57 HARRIS 1990. 58 PL, IX, C, c. 578. 318 JACOPO DE GROSSI MAZZORIN Il pollame Alle tre principali categorie di animali domestici segue per importanza il pollame. Questo animale, sebbene sia stato probabilmente introdotto in Italia già nell’età del Ferro, trova una più ampia diffusione a partire dall’età romana anche se non incise mai in modo particolare sull’alimentazione. Nel periodo romano-imperiale, infatti, le percentuali di resti di pollo nei contesti urbani di Roma non oltrepassano mai l’8% 59. A Roma un leggero incremento si è notato nei livelli tardo-antichi delle Terme di Traiano e della Meta Sudans dove raggiunge il 12% circa (tab. 4). Tra i materiali della Crypta Balbi invece si registra, nel VII secolo, un lieve calo percentuale: siamo intorno al 7%. Tale calo sembra subire un drastico aumento nei secoli successivi, sotto il 3%, anche se questa percentuale è fortemente condizionata dal metodo di recupero dei resti. Infatti alla Crypta Balbi solo i livelli del VII secolo sono stati setacciati per intero rendendo quindi possibile il recupero delle ossa di piccole dimensioni. Si tratta in genere di animali di piccole dimensioni rispetto agli attuali. Ovviamente l’allevamento del pollame, oltre alla carne degli animali, forniva anche uova e piume. Tra i resti di pollo della Crypta Balbi sono presenti sia capponi che galline e galli. Il rapporto tra questi era di 1:25:8. Il dato è ottenuto dal numero dei tarsometatarsi recuperati, ossa caratterizzate dalla presenza del cosiddetto sperone nei maschi, assente invece nelle galline e ridotto a un abbozzo rudimentale nei capponi. Si è inoltre notato che sicuramente sussistono più razze 60. Nel VII secolo ci sono alcuni elementi femminili di dimensioni notevoli e viceversa nel campione del XII-XIII secolo esistono individui maschili di dimensioni piccolissime. Purtroppo i dati sono ancora abbastanza scarsi e queste restano solo supposizioni che necessitano di ulteriori conferme. Nella Regione si notano percentuali abbastanza elevate a Cencelle, anche se il campione del IX-XIII secolo, in cui si registra una percentuale di quasi il 70% dei resti, potrebbe essere falsata dalla presenza di un pollaio in uno degli ambienti esaminati 61 e Tarquinia. Anche la fauna di Tarquinia potrebbe risentire del consumo alimentare dell’ambiente signorile (Palazzo Vitelleschi) in cui è stata recuperata (tab. 5). A Roma solo Sito Meta Sudans US 3641 Terme di Traiano Terme di Traiano Crypta Balbi Terme di Traiano Crypta Balbi Argileto Crypta Balbi Crypta Balbi Piazzale Anfiteatro Flavio Crypta Balbi Anfiteatro Flavio, Amb. 36 Crypta Balbi Palatino S. Cecilia Passaggio di Commodo Crypta Balbi Crypta Balbi Crypta Balbi DE GROSSI MAZZORIN 2005. DE GROSSI MAZZORIN 2005, pp. 355-357. 61 MINNITI 2009, p. 279. 62 DE GROSSI MAZZORIN 2006; DE GROSSI MAZZORIN 2010. NR 3 dom. 1852 524 842 3259 2464 3268 243 3955 2448 NR pollame 247 57 23 247 223 94 38 43 5 % pollame 11,8 9,8 2,7 7,0 8,3 2,8 13,5 1,1 0,2 XI XI 296 273 16 7 5,1 2,5 XI-XIII XII XII-XIII XII-XIII 901 1004 317 2833 172 34 467 432 16,0 3,3 59,6 13,2 XII-XIII XIII XIV XV 337 620 2207 365 14 27 56 14 4,0 4,2 2,5 3,7 Tab. 4. Numero di resti e relative percentuali di pollame nei diversi contesti urbani di Roma. il campione, di XII-XIII secolo, delle pendici del Palatino registra un numero spropositato di resti di pollame (circa il 60% del campione) ma i resti sono ancora in fase di studio. I camelidi Tra gli animali domestici va considerato anche un altro mammifero ‘esotico’ che durante il Medioevo trova ancora ampia distribuzione nella nostra penisola: il cammello 62. Con questa parola da qui in avanti si indicheranno indistintamente sia il dromedario a una gobba (Camelus dromedarius) che il cammello battriano a due gobbe (Camelus bactrianus) perché nella maggior parte dei casi non è stato possibile discriminare dalle ossa le due specie. La prima segnalazione in Italia di ossa di camelide, una prima falange, si ha nei livelli augustei di un accampamento militare a Bedriacum nei pressi di Calvatone 63 in Lombardia, e altre due, sempre del periodo romano imperiale, rispettivamente ad Aquileia 64 ed Ostia 65. Altri resti, 59 60 Secolo V-VI VI VI-VII VII metà VII VIII VIII-XI IX X 63 WILKENS 1997. RIEDEL 1994a. 65 MCKINNON 2002. 64 LO SFRUTTAMENTO DEGLI ANIMALI DOMESTICI A ROMA E NEL LAZIO NEL MEDIOEVO 319 poteva essere giunto a Roma a seguito dei contatti commerciali con Bisanzio. pollame Sito Datazione Altri frammenti di ossa di camelidi sono Monte Gelato, fase 5 IX 231 1 0,4 stati rinvenuti nel Foro della Pace e nell’area 98 228 Cencelle IX-XIII 69,9 adiacente alla tomba dei Valerii sulla via LaCastiglione XI 6803 1005 12,9 tina. Purtroppo questi ritrovamenti apparMonte Gelato, fase 6 XI 487 50 9,3 tengono a livelli archeologici piuttosto S. Paolo fuori le mura metà XI-metà XII 106 0,0 rimaneggiati per cui si è resa necessaria una Monte Gelato, fase 7 XII 153 2 1,3 loro datazione al radiocarbonio 71. S. Paolo fuori le mura fine XII-XIII 923 59 6,0 In particolare dalla Tomba dei Valerii Cencelle XIII 198 61 23,6 Tarquinia XII-XIV 1352 734 35,2 sulla via Latina proviene una prima falange S. Paolo fuori le mura XIII-XIV 209 3 1,4 che ha dato una datazione calibrata colloCencelle XIV 2127 340 13,8 cabile tra il II e il III secolo, mentre dal Foro Tarquinia XIV 6852 6675 49,3 della Pace proviene invece un metapodio di S. Severa seconda metà XIV 4494 563 11,1 individuo adulto la cui estremità distale è Tarquinia XV 217 0,0 stata segata forse per l’utilizzazione della Tab. 5. Numero di resti e relative percentuali dei resti di pollame nei diversi contediafisi come materiale osseo da lavorare. In sti del Lazio. questo caso la datazione calibrata si pone tra il V e il VI secolo. È interessante notare identificati come dromedari, provengono da S. Giacomo come in Italia la maggior parte delle testimonianze ardegli Schiavoni 66, in Molise, dove il riempimento di cheologiche siano tuttavia riferibili ad un arco cronouna cisterna databile alla metà del V secolo d.C. ha relogico che si colloca tra la fine dell’Impero Romano stituito un frammento di scapola di probabile dromed’Occidente e l’alto Medioevo. dario e da Verona 67 nei livelli dell’area del ‘Tribunale’, Ancora nel VI secolo Magno Felice Ennodio di Pavia databili al VI-VII secolo d.C., da cui proviene una ter(473-521) scrive in una lettera al papa Ormisda in cui minazione distale di radio. Un calcagno invece proviene racconta che lui e gli altri monaci hanno consegnato al dai recenti scavi della Marteggia di Meolo 68 nella Lasuo messo alcuni cammelli di loro proprietà 72. Col VII guna di Venezia e si data tra il V e il VII secolo, nei secolo abbiamo le ultime segnalazioni archeologiche di livelli di VII secolo del teatro di Catania 69. resti di camelidi tuttavia le testimonianze storiche contiDi recente sono stati identificati altri resti di camenuano di tanto in tanto a segnalare la presenza di questi lidi provenienti da diversi contesti urbani e suburbani animali nella nostra penisola. La più celebre riguarda una di Roma. Una prima falange è stata rinvenuta alla delle crisi che subì il papato per la contesa del soglio ponCrypta Balbi in un deposito di VII secolo 70. Tale osso tificio. Maurice Bourdin un monaco cluniacense francese, poi vescovo di Coimbra ed arcivescovo di Braga in Pormostra alcune caratteristiche comuni, a seconda dei togallo, fu contrapposto da Enrico V come antipapa, col casi, sia col cammello battriano che col dromedario. nome di Gregorio VIII, prima a Gelasio II e successivaL’attestazione di entrambe le specie a Roma in quemente a Callisto II. Dopo alterne vicende questi fu assesto periodo sarebbe giustificabile anche da un punto di diato a Sutri dall’esercito pontificio capitanato dal vista storico. La presenza del dromedario potrebbe trocardinale Giovanni da Crema e qui catturato e consegnato vare una ragione nei frequenti scambi commerciali con dagli abitanti nelle mani del pontefice (1121). Le cronal’Africa settentrionale e il Levante, come testimonia la che riportano che Bourdin fu usato come barbaro ornamassiccia importazione di ceramica da queste regioni mento al trionfo del suo rivale. Messo a cavalcioni a tra i materiali della Crypta Balbi. Il cammello batrovescio su un cammello, con la coda dell’animale tra le triano, che abita le regioni più interne dell’Asia invece NR 3 dom. ALBARELLA, CEGLIA, ROBERTS 1993. 67 RIEDEL 1994b. 68 BON 2011. 69 WILKENS 2012, p. 69. 70 DE GROSSI MAZZORIN, MINNITI, REA 2005. 66 NR pollame % DE GROSSI MAZZORIN, MINNITI, REA 2005. ENNOD., epist., 5, 13: «Dudum dum nobis metus inastare et de clementia pii Regis dubio meritorum aestimatione penderemus incerto, camelos nostros tot dandos domno papae tali reuerentiae uestrae condicione tradidimus, ut si nobis animalia ipsa non essent necessaria, iustum pro ipsis pretio mitteretur». 71 72 320 JACOPO DE GROSSI MAZZORIN mani e il corpo ricoperto di pelli caprine, fu messo a seguire il vincitore per le vie di Roma; condannato poi a perpetuo esilio, venne inviato prima nel convento benedettino di Cava dei Tirreni per espiare le sue colpe e poi rinchiuso nella Rocca di Fumone, ove l’infelice morì e venne sepolto nel 1124. L’evento è riportato da Giovanni Villani: «Sentendo la sua venuta Bordino, il papa ch’avea fatto Arrigo imperadore, per paura si fuggì di Roma a Sutri; ma per gli Romani fu in Sutri assediato e preso, e menato a Roma in diligione in su uno cammello col viso volto addietro a la groppa, e legatagli in mano la coda del cammello, e misollo in pregione nella rocca di Fummone in Campagna, e ivi morìo» 73. Al di là del fatto storico più o meno curioso e del dileggio inferto a Gregorio VIII, è interessante notare come al seguito del papa Callisto II vi fosse un cammello utilizzato come bestia da soma per trasportare gli utensili da cucina. Per quanto riguarda, invece, il dileggio di Gregorio doveva essere prassi abbastanza comune nel medioevo, come ben documentato in alcuni lavori di Dierkens 74: anche la regina Brunechilde era stata posta a cavalcioni di un cammello prima di essere condotta al supplizio e il duca Paolo, durante il regno Visigoto in Spagna, era stato condotto per le vie di Toledo su un carro trainato dai cammelli. Dierkens inoltre cita il caso dell’Imperatore Andronico I Comneno che subì la stessa umiliazione nel 1185 a Bisanzio. Ma i cammelli non dovevano essere proprio rari presso il soglio pontificio se, come riporta il monaco benedettino Goffredo Malaterra (... - XI secolo) nel suo De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae comitis, alcuni anni prima, dopo la battaglia di Cerami (1063), il conte Ruggero I di Sicilia aveva inviato al papa Alessandro II il suo nunzio Meledio per ragguagliarlo della vittoria e per consegnargli quattro cammelli, tratti dal bottino di guerra. Il pontefice avrebbe risposto all’omaggio con l’invio di un Vessillo papale, raffigurante un’icona bizantina del secolo VIII, e con la benedizione e l’indulgenza per i combattenti cristiani. L’utilizzazione dei cammelli come animali da soma non doveva quindi essere un fatto insolito a quel tempo. Infatti anni dopo, il 12 agosto 1086 Ruggero d’Altavilla, il Normanno, dopo 25 anni, festeggiava a Messina, da dove era partito nel 1061, la vittoria riportata sui Saraceni ed entrava trionfante nella città a dorso di cammello. 73 VILLANI 1991. Successivamente una discreta presenza di cammelli è segnalata, sin dal 1622, a S. Rossore nei pressi di Pisa. I primi cammelli furono infatti introdotti quell’anno nella tenuta da parte di Ferdinando II de’ Medici che li aveva ricevuti in dono dal bey di Tunisi. Circa quarant’anni dopo, nel 1683, altri ancora giunsero come bottino di guerra a seguito della battaglia di Vienna contro i Turchi. Successivamente altri furono acquistati, per migliorare la razza, dai Medici prima e poi da Marco di Craion. Ancora alle soglie del novecento vivevano nella tenuta di S. Rossore un centinaio di dromedari, molti furono uccisi durante l’ultima guerra. L’ultimo dromedario di S. Rossore è morto nel 1976. Conclusioni Come si è visto per quanto riguarda il periodo medievale i dati archeozoologici sono numerosi solo per la città di Roma mentre nel resto della regione i dati sono sicuramente più scarsi e meno omogenei, tuttavia si può cominciare a delineare un quadro abbastanza attendibile di quelle che furono le diverse attività economiche legate allo sfruttamento degli animali e, di conseguenza, anche il loro uso alimentare. Sin dai primi secoli dell’Impero l’aspetto caratterizzante della dieta proteica a Roma è costituito da un notevole consumo di carne suina; le percentuali di resti di maiale nei diversi contesti urbani costituiscono in genere circa l’80% dei campioni. Nell’alto Medioevo il consumo di carne di maiale diminuisce, ma rimane sempre prevalente rispetto a quello dei bovini e caprovini (le percentuali di resti suini in questo periodo scendono su valori percentuali tra il 65 e il 50%). I maiali erano macellati prevalentemente tra i due e i tre anni di vita ovvero quando questi animali raggiungevano la maturità e quindi la massima resa in carne. Questa maturazione abbastanza lenta rispetto ai giorni nostri era probabilmente dovuta ad un’alimentazione basata prevalentemente sulle ghiande, infatti i maiali venivano tenuti a pascolo brado nelle aree boschive vicino alla città. Anche i diversi siti altomedievali del Lazio, in genere insediamenti rurali con popolazione limitata, come complessi monastici o castelli, mostrano percentuali di suini preponderanti sugli altri animali domestici. A Roma il consumo di carne ovina e caprina rimane secondario rispetto a quello di carne suina per tutto l’alto 74 DIERKENS 2003; DIERKENS 2005. LO SFRUTTAMENTO DEGLI ANIMALI DOMESTICI A ROMA E NEL LAZIO NEL MEDIOEVO Medioevo. Le percentuali di ovicaprini però tendono a crescere per tutto il periodo tardo antico e altomedievale fino a raggiungere il culmine nel basso Medioevo nel campione di XII-XIII secolo di S. Cecilia – dove gli ovicaprini rappresentano quasi il 60% degli animali domestici – e nel Lazio a Tuscania e Tarquinia. Rispetto all’allevamento di età romana in cui i dati sulla mortalità degli ovicaprini sembrano indicare soprattutto l’abbattimento degli animali tra i due e i tre anni di vita (ovvero quando la maggior quantità di carne è resa con i più bassi costi di produzione) dall’alto Medioevo si assiste pian piano ad un maggior interesse per la produzione di lana che diverrà particolarmente forte dal X secolo (Crypta Balbi nel X secolo) in avanti (S. Cecilia nel XII-XIII secolo); circa il 60% delle greggi sono infatti tenute in vita oltre il terzo anno d’età. Questo dato, a fianco dell’ormai sopravvenuta predominanza percentuale sui resti suini, sembra anticipare un assetto economico che i documenti storici registrano a Roma solo a partire dalla seconda metà del XIV secolo, quando le proprietà terriere della campagna romana vengono progressivamente trasformate da seminativi in pascoli e, come si è accennato, nella città si registra un particolare sviluppo della lavorazione della lana. Anche gli altri siti del Lazio mostrano per tutto l’alto Medioevo fino al XII secolo lo stesso trend con percentuali di ovicaprini che oscillano tra il 35% e il 45%; l’incremento della pastorizia sembra esserci anche qui nei secoli successivi, tra il XIII e il XV secolo, in cui si registrano percentuali particolarmente elevate come nel caso di Tuscania (VT). Il bue, nei contesti urbani altomedievali romani, è sicuramente l’animale domestico meno rappresentato, anche se con notevoli variazioni percentuali attraverso i secoli, ed i suoi resti raramente oltrepassano il 30% dei diversi campioni. A Roma, alla Crypta Balbi, i dati sulla mortalità indicano una macellazione prevalente in età superiore ai quattro anni, con punte che oltrepassano il 70% dei resti animali nel VII e nel X secolo. E’ probabile, quindi, che questi animali fossero stati macellati solo dopo essere stati utilizzati da vivi, a seconda del sesso, per la produzione del latte, la riproduzione e i lavori agricoli. Anche gli altri siti laziali presentano, durante l’alto Medioevo, percentuali molto modeste, con valori di solito al di sotto del 10%. Solo il sito del borgo fortificato di S. Paolo fuori le mura presenta percentuali più alte, tra il 25 e il 30% circa, forse il riflesso di una campagna più vicina all’Urbe meno forestata e più dedita ai lavori agricoli. Nel resto della regione un incremento dello sfruttamento bovino si nota dal XIII 321 secolo in poi, soprattutto nei siti dell’Etruria meridionale (Cencelle, Tarquinia e Tuscania). I resti di equini (cavalli, asini e loro ibridi) non sono affatto abbondanti, il loro rapporto percentuale confrontato con quello degli altri tre mammiferi domestici presenta valori sempre abbastanza bassi (pochi punti percentuali). I diversi elementi scheletrici, inoltre, si presentano di solito integri e senza tracce di macellazione e/o combustione. Questo indica che, con ogni probabilità, non rientravano nell’alimentazione abituale. Alle tre principali categorie di animali domestici segue per importanza il pollame, anche se con percentuali piuttosto limitate. Si tratta in genere di animali di piccole dimensioni rispetto agli attuali. Si è notato, inoltre, che probabilmente in epoca altomedievale sussistono più razze. Alla Crypta Balbi, infatti, nel VII secolo ci sono alcuni elementi femminili di dimensioni notevoli e viceversa nel campione del XII-XIII secolo esistono individui maschili di dimensioni piccolissime. Con ogni probabilità nel corso del medioevo viene introdotta una specie alloctona: il bufalo. Tuttavia la sua presenza nell’alto Medioevo è ancora oggetto di discussione. Molti studiosi, infatti, ritengono, in base a un passo di Paolo Diacono nella Historia Langobardorum, che sul finire del VI secolo il bufalo sia stato introdotto nelle nostre regioni, ma non vi sono né testimonianze scritte, né iconografiche né archeologiche che testimonino la presenza di questo bovino prima della metà del XII secolo. Gli unici ritrovamenti archeologici di resti di bufalo sono segnalati, solo per il XIII secolo, negli scavi della Crypta Balbi, del castello di S. Severa e di Siponto. Per concludere un altro mammifero ‘esotico’ trova la più ampia distribuzione nella nostra Penisola nell’alto Medioevo: il cammello. Presente sulla penisola sin dai primi secoli dell’Impero (Bedriacum, Aquileia, Roma ed Ostia) è ancora documentato nel V secolo a S. Giacomo degli Schiavoni in Molise e tra il VI e il VII secolo a Verona, Marteggia di Meolo (VE), Roma (Crypta Balbi), Catania. Le testimonianze scritte e iconografiche comunque confermano la presenza di camelidi sino a tempi recentissimi. Bibliografia ALBARELLA, CEGLIA, ROBERTS 1993 = A. ALBARELLA, V. CEGLIA, P. ROBERTS, S. Giacomo degli Schiavoni (Molise): an early fifth century AD deposit of pottery and animal bones from central Adriatic Italy, in BSR, LXI, 1993, pp. 157-230. BARKER 1973 = G. BARKER, The economy of medieval Tu- 322 JACOPO DE GROSSI MAZZORIN scania: the archaeological evidence, in BSR, XLI, 1973, pp. 155-177. BEDINI 1990 = E. BEDINI, I resti faunistici, in L. SAGUÌ, L. 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VIVERE E LAVORARE AL CENTRO DI ROMA IN ETÀ MEDIEVALE: IL CONTRIBUTO DELL’ANTROPOLOGIA FISICA Lisa Pescucci, Flavia Porreca, Paola Catalano L’indagine di campo Dal sepolcreto, scavato tra gennaio e marzo 2010 a piazza della Madonna di Loreto (archeologi responsabili Roberto Egidi e Mirella Serlorenzi) durante le indagini archeologiche preventive ai lavori di realizzazione della linea C della metropolitana, provengono 29 individui. Le sepolture sono datate, su base stratigrafica e grazie alle analisi al C14 condotte su alcuni resti scheletrici, alla prima metà dell’VIII secolo, immediatamente dopo la dismissione dell’atelier metallurgico avvenuta nelle fasi iniziali dello stesso secolo. Le sepolture sono tutte ad inumazione: si tratta, in particolare, di sette tombe singole, di una bisoma (fig. 1) e di tre collettive. Dei 29 individui recuperati, 22 sono stati rinvenuti in totale o in parziale connessione anatomica. Lo stato di conservazione dei reperti osteologici è generalmente buono. Gli scheletri erano orientati con i crani ad ovest o a nord, con l’unica eccezione di un individuo, deposto con andamento est/ovest. Nel corso delle campagne di scavo condotte, in diversi momenti, tra il 2006 e il 2010 al Foro della Pace Fig. 1. - Tomba 3, bisoma. Piazza della Madonna di Loreto. Si ringraziano affettuosamente il Soprintendente Mariarosaria Barbera e gli archeologi Roberto Egidi, Mirella Serlorenzi, Ros- (archeologo responsabile Rossella Rea) è stato recuperato il campione numericamente più rappresentativo, composto da 49 individui. Gli inumati esaminati successivamente in laboratorio provengono dalle tombe, datate in base all’analisi stratigrafica, tra l’XI secolo ed il XIII secolo d.C. Le sepolture sono tutte ad inumazione e a fossa terragna (fig. 2). Si tratta di: 14 singole, una bisoma e quattro collettive. Lo stato di conservazione delle ossa è generalmente discreto. L’orientamento, in base alla posizione del cranio, è risultato essere ovest/est. Tutti gli inumati per i quali è stato possibile stabi- Fig. 2. - Tomba 9. Foro della Pace. sella Rea, Francesca Montella e Giovanni Ricci per aver reso possibile la realizzazione del lavoro e per la preziosa collaborazione. 326 LISA PESCUCCI, FLAVIA PORRECA, PAOLA CATALANO del numero minimo degli individui deposti in ogni sepoltura, valutato in base: alla presenza di elementi scheletrici omolaterali, alla morfologia ed alle dimensioni dei reperti ossei e all’attribuzione a diverse unità scheletriche, in base alla determinazione dell’età alla morte. Sono stati così identificati: 19 individui in tre tombe collettive a piazza della Madonna di Loreto e 35, nelle quattro collettive al Foro della Pace. Fig. 3. - Tomba 5, collettiva. Piazza della Madonna di Loreto. lire la modalità di deposizione sono supini, ad eccezione di uno, adagiato sul fianco destro. Diversamente da quanto riscontrato a Roma nei contesti di età imperiale 1, nei siti in questione si nota una cospicua presenza di tombe collettive (fig. 3). Con questo termine si indicano tombe al cui interno si trovano i resti di un numero più o meno grande di individui, deposti in modo progressivo e scaglionato nel tempo 2. Le prime deposizioni sono risultate quasi sempre ridotte: le ossa sono in genere raggruppate nello spazio dove è stata effettuata la deposizione iniziale, per far posto ad un nuovo defunto. In altre parole, la riduzione del corpo è stata operata lì dove il cadavere si è decomposto; il più delle volte, le ultime deposizioni sono invece in giacitura primaria. La realizzazione di ciascun insieme funerario deve aver coperto un tempo relativamente lungo, in quanto i rimaneggiamenti legati al collocamento di ciascun nuovo cadavere, a diretto contatto con la precedente deposizione, devono essere avvenuti quando le articolazioni erano già deteriorate. La manipolazione e la riduzione delle ossa alla riapertura della tomba, implicava inoltre l’esistenza di uno spazio vuoto; si sono così potute provocare ulteriori perturbazioni tra le ossa già presenti nella tomba, tali da spiegare lo stato di sconvolgimento in cui sono stati rinvenuti i resti scheletrici. La prima analisi effettuata sul campo e confermata in un secondo tempo in laboratorio ha riguardato la diagnosi 1 BUCCELLATO, CATALANO, TALANO, CALDARINI, MINOZZI ARRIGHETTI et alii 2003, p. 330; CAet alii 2003, p. 70. DUDAY 2005, p. 163. ACSÀDI, NEMESKÈRI 1970; FEREMBACH, SCHWIDETZKI, STOUKAL 1977-79, pp. 5-51. 4 STLOUKAL, HANAKOVA 1978, pp. 53-69. 5 UBELAKER1989. 2 3 La ricostruzione della vita quotidiana Per quanto concerne l’aspetto paleodemografico, la diagnosi del sesso è stata determinata considerando i marcatori più dimorfici pertinenti al blocco cranio-facciale ed alla cintura pelvica, in associazione, ove possibile, all’osservazione della robustezza delle ossa lunghe e del pilastro femorale 3. La stima dell’età alla morte, per gli individui subadulti (infanti I, II e giovanili), è stata stimata in base alla dimensioni delle metafisi delle ossa lunghe 4, al grado di sviluppo ed eruzione dentaria 5 ed allo stadio di saldatura delle epifisi con le diafisi delle ossa lunghe 6. Per questi individui non è stato possibile effettuare la diagnosi del sesso, poiché solo dopo il completo sviluppo scheletrico si manifestano i caratteri sessuali secondari che permettono la distinzione tra i due sessi. Negli individui adulti, l’età alla morte è stata stimata in base al grado di usura delle superfici occlusali dei denti 7, al grado di obliterazione delle suture ectocraniche 8 ed ai cambiamenti morfologici, correlati con l’età, di alcuni distretti scheletrici, come: la sinfisi pubica 9, i corpi vertebrali 10 e le estremità sternali delle coste 11. Nel sito di piazza della Madonna di Loreto si è rilevato che nove individui sono deceduti ad un’età compresa fra 0 e 12 anni (in particolare nell’intervallo fra FEREMBACH, SCHWIDETZKI, STOUKAL 1977-79. LOVEJOY 1985, pp. 47-56. 8 MEINDL, LOVEJOY 1985, pp. 57-66. 9 TODD 1921, pp. 1-70. 10 BURNS 1999. 11 ISCAN, LOTH 1986, pp. 853-864. 6 7 VIVERE E LAVORARE AL CENTRO DI ROMA IN ETÀ MEDIEVALE: IL CONTRIBUTO DELL’ANTROPOLOGIA FISICA 327 0 e 6 anni), tre ad un’età inferiore ai 20 anni, 15 tra i 20 ed i 49 anni e due dopo i 50 anni. È stato possibile effettuare la diagnosi del sesso su 15 individui; di cui 11 maschi e quattro femmine. Nel campione del Foro della Pace otto individui sono deceduti ad un’età alla morte compresa fra 0 e 12 anni, sette tra i 13 ed i 19 anni, 19 sono adulti tra i 20 ed i 49 anni, quattro hanno un età superiore ai 50 anni; infine, 11 individui sono stati inseriti nella classe genericamente adulta (>20 anni). È stato possibile effettuare la diagnosi del sesso su 32 individui: 16 maschi e 16 femmine. Confrontando i profili demografici dei Fig. 4. - Distribuzione mortalità individui adulti. due sepolcreti, si è rilevato che la fascia di età alla morte con il numero maggiore di decessi è quella adulta tra i 20 e i 49 anni, in particolare quella compresa tra i 40-49 anni (fig. 4), dato che si discosta da altri contesti medievali studiati 12. Per quanto riguarda la diagnosi del sesso (fig. 5), la discrepanza evidenziata a piazza della Madonna di Loreto tra i due sessi, potrebbe essere imputabile alla ridotta numerosità del campione. Per il Foro della Pace, è stato possibile calcolare la sex ratio (rapporto tra gli individui di sesso maschile e quelli di sesso femminile), che risulta pari ad 1, valore che corrisponde a quello delle popolazioni attuali, raggiungendo oggi tale indicatore, alla nascita, valori prossimi a Fig. 5. - Determinazione del sesso. 1,05 13. Infatti, in antropologia con il termine stress ci si riferiIn antropologia, il calcolo della statura può rappresentare un valido strumento per ottenere informazioni sce ad uno squilibrio fisiologico, intervenuto come reariguardanti la costituzione fisica individuale e lo stato zione ad un’ampia varietà di fattori, che possono di salute generale, in termini di nutrizione e stress fiincludere: malnutrizione, infezioni aspecifiche e malatsiologici. Per la stima della statura, sono state utilizzate tie di varia eziologia. Sono stati analizzati tre dei più le equazioni di regressione di Trotter e Gleser 14. La pocomuni indicatori di stress: l’iperostosi porotica nel crapolazione maschile e femminile dei nostri campioni è nio, l’ipoplasia dello smalto nei denti e la periostite nelle caratterizzata da valori medi simili: circa cm 166 per i tibie. maschi e cm 157,5 per le femmine. Lo scarto intersesL’iperostosi porotica è identificabile con porosità suale è di circa cm 8-10 (il valore, nelle popolazioni atosservabili sul tavolato esterno del cranio (cribra cratuali, è di cm 10-12) 15. nii), o sul tetto delle orbite (cribra orbitalia); in genere Gli indicatori di stress sono importanti per la ricoè causata da stati anemici con diversa eziologia (anestruzione delle condizioni di vita di una popolazione. mie da carenza di ferro, anemie conseguenti a malattie GIOVANNINI 2001. 13 HILL, HURTADO 1995. 12 14 TROTTER, GLESER 1952, pp. 463-514; TROTTER, GLESER 1977, pp. 355-356. 15 MARTIN, SALLER 1957-66. 328 LISA PESCUCCI, FLAVIA PORRECA, PAOLA CATALANO Fig. 6. - Linee ipoplasiche. Foro della Pace. Tomba 27.. infettive o parassitarie), che provocano un iperattività del midollo osseo che si manifesta macroscopicamente sotto forma di porosità localizzate. La presenza/assenza di cribra è stata valutata in tutti gli individui nei quali almeno un terzo della teca cranica e/o un’orbita erano conservati, mentre la severità è stata rilevata seguendo i 7 gradi proposti da Hengen 16. Osservando le due modalità di espressione dell’iperostosi porotica, si nota che a piazza della Madonna di Loreto, in entrambi i casi, le frequenze sono maggiori del 50%, mentre al Foro della Pace la percentuale è analoga per i cribra cranii, mentre quella dei cribra orbitalia è del 40%. L’ipoplasia dello smalto consiste nell’arresto temporaneo della deposizione dello smalto del dente. L’alterazione si produce in seguito a episodi di stress, come ad esempio periodi di malnutrizione o di malattia grave, verificatisi durante l’infanzia, quando i denti si stanno sviluppando, cioè durante il periodo dell’amelogenesi, che non va oltre il settimo anno di vita. L’ipoplasia si presenta sotto forma di linee orizzontali o di pozzetti sulla superficie dei denti, colpendo maggiormente gli incisivi ed i canini (fig. 6) 17. L’ipoplasia dello smalto è generalmente molto diffusa nelle antiche popolazioni: anche nei sepolcreti esaminati, le frequenze individuali sono alte, raggiungendo il 95% al Foro della Pace. Dato che lo smalto non si rimodella più nel corso della vita, queste alterazioni possono essere osservate a qualsiasi età. Utilizzando delle equazioni di regressione che tengono conto dell’età e delle fasi di sviluppo dei singoli denti, dalla posizione delle linee di ipoplasia è possibile determinare l’età d’insorgenza 18: nei nostri campioni si è notato che la maggior incidenza è tra i 2 ed i 4 anni, da porre probabilmente in relazione al periodo dello svezzamento, caratterizzato da un apporto alimentare inadeguato, ed alle malattie infettive tipiche della prima infanzia. Negli indicatori di stress rientra anche la periostite, un processo infiammatorio acuto o cronico del periostio, la membrana connettivale che riveste esternamente l’osso 19..Si può distinguere una forma primaria di origine infettiva o traumatica, da una secondaria, in risposta a specifiche malattie. La periostite si osserva principalmente sugli arti inferiori, in particolar modo sulle tibie e sulle fibule, come una superficie irregolare, di spessore variabile, caratterizzata da piccoli fori e striature longitudinali, poco profonde nelle forme lievi; si possono poi formare strati di nuovo osso sovrapposti longitudinalmente 20. La periostite è molto diffusa a piazza della Madonna di Loreto, con il 90% degli individui colpiti, mentre per il Foro della Pace si scende al 65%. Dal confronto dei due sepolcreti si nota che gli stress aspecifici presentano percentuali molto alte, in particolare a piazza della Madonna di Loreto per l’iperostosi porotica e la periostite, mentre è il Foro della Pace a presentare un valore più alto per l’ipoplasia dello smalto (fig. 7). Un elemento utile alla ricostruzione dello stile di vita dell’antica popolazione di Roma è rappresentato dall’analisi delle patologie orali. Sono state rilevate le più importanti affezioni dento-alveolari: carie, perdite intra vitam, ascessi, e tartaro. La carie dentale è una malattia degenerativa dei tessuti del dente, causata da acidi prodotti da microrgani- HENGEN 1971, pp. 57-76. GOODMAN, ARMELAGOS 1985, pp. 503-507. 18 MASSLER, SCHOUR, PONCHER 1941; GOODMAN, ROSE 1990, pp. 59-110. 19 FORNACIARI, GIUFFRA 2009, p. 51. 20 ORTNER 2003, pp. 206-215. 16 17 VIVERE E LAVORARE AL CENTRO DI ROMA IN ETÀ MEDIEVALE: IL CONTRIBUTO DELL’ANTROPOLOGIA FISICA 329 - grado 4: la lesione ha distrutto la corona (carie destruente). Per meglio valutare l’incidenza della carie, sono state calcolate le frequenze dei denti affetti:il valore più alto è quello di piazza della Madonna di Loreto, con il 17,4%, mentre è più basso quello del Foro della Pace, con l’8,6%. Nel confronto con serie scheletriche romane di età imperiale (Collatina 11,2%, Osteria del Curato 8,8%, Casal Bertone 6,3%, Padre Semeria 6,2%) la frequenza Fig. 7. - Confronto tra le frequenze in percentuale dell’iperostosi porotica, ipoplasia e periostite. delle lesioni cariogene è risultata più alta a piazza Madonna di Loreto mentre la frequenza rilevata al Foro della Pace è nella media. Per quanto riguarda la perdita dei denti intra vitam, le frequenze rispecchiano la precedente situazione: piazza della Madonna di Loreto mostra la percentuale più alta (23%) mentre il Foro della Pace quella più bassa (14%); le perdite dentarie sono molto più basse nelle necropoli romane si attestano intorno al 5/6%, questo a dimostrare una più bassa aspettativa di vita per le popolazioni più antiche. L’ascesso, caratterizzato dalla formazione di pus, è causato da un accumulo di microorganismi nella cavità pulpare. Le più frequenti cause dell’infiammazione sono: la carie, la forte usura dentaria e la malattia parodontale. Il pus all’interno può essere drenato attraverso il canale della radice, ma spesso la pressione esercitata sull’osso può portare alla formazione di una fistola, ben visibile sull’osso, attraverso la quale avviene il dreFig. 8. - Grave ascesso. Foro della Pace. Tomba 27. naggio all’esterno (fig. 8) 23. La frequenza degli ascessi ha valori simili, intorno al 7%, a piazza della Madonna di Loreto e al Foro della Pace. smi della flora orale presenti nella placca batterica. È Confrontando le diverse affezioni dento-alveolari, si riconoscibile inizialmente per la comparsa di una macnota che tutti i valori sono sotto al 25%, ad eccezione chia scura, dalla quale si sviluppa una cavità che dallo del tartaro, i cui valori superano il 50% (fig. 9). Quesmalto o dal cemento può raggiungere la dentina, la st’ultimo rappresenta una mineralizzazione della placca polpa dentaria e portare alla completa distruzione del batterica che si accumula sulla superficie del dente, fadente 21. vorita da una scarsa igiene orale e dal consumo di carLe lesioni cariogene sono state rilevate utilizzando boidrati. Esso è stato rilevato secondo i gradi indicati una scala di quattro gradi in base alla gravità 22: da Brothwell (1981). Paragonando le frequenze con quelle di serie scheletriche romane di età imperiale si - grado 1: carie superficiale, la lesione intacca solo lo smalto, raggiungendo solo parzialmente la dentina; - grado 2: la lesione intacca ampiamente la dentina; 21 CASELITZ 1998, pp. 203-225. - grado 3: carie perforante, la lesione raggiunge il cana22 CANCI, MINOZZI 2005, p. 222. 23 le del dente; HILLSON 1998. 330 LISA PESCUCCI, FLAVIA PORRECA, PAOLA CATALANO porosità, erosioni. Il rilevamento dei marcatori muscolo-scheletrici di stress è stata effettuata secondo le indicazioni di Hawkey 25 e di Mariotti 26, considerando tre gradi di sviluppo per ogni entesi. Il primo grado (1), caratterizzato da uno sviluppo debole e medio, è distinto in tre sottocategorie: lieve (1a), basso (1b) e medio sviluppo (1c). Il secondo (2), corrisponde ad una manifestazione marcata, il terzo (3) ad un fortissimo sviluppo del tratto; questi gradi rientrano nell’ambito ‘fisiologico’: modificazione assente o normale. Le entesopatie, quando presenti, vengono distinte in forme proliferative ‘osteofitiche’ Fig. 9. - Confronto tra le frequenze in percentuale delle affezioni dento-alveolari. (OF) e in forme erosive ‘osteolitiche’ (OL). Il metodo proposto per la loro classificazione comprende tre gradi di espressione che definiscono i livelli patologici. Il primo corrisponde a leggere porosità ed esostosi inferiori ad mm l; il secondo a numerose aree di erosione e esostosi comprese tra mm 1 e 4; il terzo ad esostosi marcate maggiori di mm 4. Il rilevamento di queste variazioni morfologiche ha consentito di supporre quali fossero i distretti corporei maggiormente colpiti dallo stress funzionale: ad esempio, se vi fosse una prevalenza dell’uso degli arti superiori rispetto agli inferiori e/o di certi gruppi muscolari collegati a movimenti specifici. Nei due campioni, le lesioni magFig. 10. - Entesopatia ligamento costo-clavicolare, clavicola destra. Piazza della Magiormente rilevate sono quelle relative ad donna di Loreto. Tomba 5 individuo 2. un uso intenso delle spalle e delle braccia, rappresentate da un’alta incidenza dell’ennota una situazione analoga (valori superiori al 50%), tesopatia del ligamento costo-clavicolare (fig. 10) e del probabilmente in relazione alla scarsa igiene orale, codeltoide sulle clavicole e all’inserzione dei muscoli mune alle popolazioni romane e medievali. grande pettorale (fig. 11) e brachioradiale degli omeri. Le alterazioni ergonomiche osservate sugli arti inferiori, come: gli entesofiti sui femori, in corrispondenza Ipotesi sulle attività lavorative del grande gluteo (fig. 12); sulle tibie al livello del soleo e sui calcagni (tendine d’Achille), suggeriscono Per formulare ipotesi attendibili sul tipo di attività un intenso uso delle gambe e una forte pressione eserlavorative svolte dalle comunità di appartenenza, sono citata sui piedi. state analizzate le entesopatie, indicatori di stress muDal grafico (fig. 13), vediamo come gli individui di scolo-scheletrici che si rilevano sulle ossa, in corrispondenza delle inserzioni di tendini e legamenti, o entesi 24. Quando un muscolo è stimolato in maniera eccessiva, o sottoposto a stress prolungati (ad esempio nello svolgimento di ripetitive e pesanti attività lavorative), le zone delle inserzioni muscolo-tendinee presentano delle alterazioni, quali: rugosità, eburneazioni, 24 MARIOTTI, FACCHINI, BELCASTRO 2004, pp. 145-149; MARIOTTI, FACCHINI, BELCASTRO 2007, pp. 291-313. 25 HAWKEY, MERBS 1995, pp. 324-338. 26 MARIOTTI, FACCHINI, BELCASTRO 2004, pp. 145-149; MARIOTTI, FACCHINI, BELCASTRO 2007, pp. 291-313. VIVERE E LAVORARE AL CENTRO DI ROMA IN ETÀ MEDIEVALE: IL CONTRIBUTO DELL’ANTROPOLOGIA FISICA 331 piazza della Madonna di Loreto presentino, in generale, frequenze più alte rispetto al Foro della Pace. Nel cinto scapolare, la frequenza di entesopatie al livello dell’inserzione del ligamento costoclavicolare supera, in entrambi i campioni, il 50%, mentre la frequenza di entesopatie a carico del deltoide è molto più alta a piazza Madonna di Loreto, così come negli arti superiori, dove il gran pettorale e il brachioradiale dell’omero superano il 55%. Per gli arti inferiori, in generale, piazza della Madonna di Loreto presentai livelli percentuali maggiori: sopra il 50% a livello dell’inserzione del grande gluteo, del soleo e del tendine d’Achille. Anche le lesioni traumatiche possono essere importanti indicatori dei rischi conFig. 11. - Entesopatia gran pettorale, omero Fig. 12. - Entesopatia grande gluteo, femore destro. Piazza nessi all’attività lavorativa, destro. Foro della Pace. Tomba 16. della Madonna di Loreto. Tomba 1. ma anche del livello di violenza. I traumi sono rappresentati soprattutto dalle fratture. Nonostante la scarsa numerosità campionaria, a piazza della Madonna di Loreto sono stati individuati molti traumi: su 4 individui maschi sono state rilevate fratture costali, due di essi presentano anche un ispessimento osseo in prossimità del corpo dello sterno. Inoltre, sono state rilevate due fratture vertebrali e due delle clavicole (fig. 14). Al Foro della Pace i traumi interessano soprat- Fig. 13. - Frequenze delle alterazioni ergonomiche rilevate nei vari elementi scheletrici. tutto il cranio: di particolare L’artrosi è una patologia degenerativa articolare che interesse è la lesione a stampo rilevata in un cranio macompare generalmente a partire dalla terza decade d’età. schile,con i tavolati che si sono introflessi senza romLa predisposizione genetica gioca un ruolo fondamenpersi (fig. 15). 332 LISA PESCUCCI, FLAVIA PORRECA, PAOLA CATALANO Madonna di Loreto a presentare la frequenza più alta (27,5%), mentre il Foro della Pace si attesta intorno al 18%. Conclusioni Fig. 14. - Frattura clavicola sinistra. Piazza della Madonna di Loreto. Tomba 4 individuo 5. Fig. 15. - Trauma cranico. Foro della Pace. Tomba 26 individuo 1. tale nella sua comparsa, ma nelle popolazioni antiche è indubbiamente molto importante anche il sovraccarico funzionale, in relazione a determinate attività fisiche e lavorative. Al Foro della Pace, l’artrosi progredisce e si aggrava con l’avanzare dell’età, a partire dai 40 anni; mentre a piazza della Madonna di Loreto, l’alta percentuale di artrosi, soprattutto a livello delle articolazioni che coinvolgono lo sterno e la clavicola, colpisce anche individui più giovani. Associabili ad alterazioni artrosiche del disco intervertebrale, o riconducibili alla flessione del tronco, sia in avanti che lateralmente, in particolare concarichi pesanti, sono le ernie di Schmörl (delimitate depressioni del corpo, causate dalla degenerazione del disco intervertebrale). Tali lesioni sono localizzate prevalentemente sulla porzione centrale del piatto delle vertebre lombari e delle ultime toraciche 27. Dall’osservazione delle singole vertebre, anche in questo caso, è piazza In conclusione, i dati analizzati indicano che i campioni (datati tra l’VIII ed il XIII secolo d.C.), sono piuttosto omogenei: tutti gli individui sembrano infatti appartenere ad un ceto sociale medio-basso, caratterizzato da condizioni di vita abbastanza modeste e dalla stessa disponibilità di risorse e di approvvigionamento. Le alte frequenze di stress sono probabilmente imputabili ad un’alimentazione inadatta o a malattie aspecifiche. L’alta frequenza di patologie orali indica un discreto tasso di carie, riconducibile in parte alla scarsa igiene orale, dato confermato dall’alta frequenza di tartaro. In particolare, a piazza della Madonna di Loreto le frequenze più alte sembrano indicare condizioni di vita peggiori. Inoltre, si nota che piazza della Madonna di Loreto descrive una popolazione fortemente impegnata in attività lavorative pesanti, probabilmente non di tipo agricolo, ma piuttosto artigianali. Negli arti superiori, le entesopatie indicano un movimento ripetitivo di estensione e flessione del braccio, compatibile con l’uso di strumenti da lavoro; mentre negli arti inferiori, fanno ipotizzare deambulazioni lunghe e frequenti. Il campione appare caratterizzato anche da una discreta frequenza di lesioni traumatiche, con una maggiore presenza di fratture a carico della gabbia toracica nei maschi: elementi che farebbero ipotizzare per quest’ultimi un’attività lavorativa molto rischiosa. L’alta percentuale di artrosi a livello dello sterno e della clavicola, presente anche in individui giovani, ha suggerito un probabile scompenso articolare da sovraccarico funzionale, confermato dalle impronte muscolari marcate su questi segmenti scheletrici. Infine, il quadro paleobiologico delineato per il Foro della Pace sembra rispecchiare una popolazione impegnata in attività lavorative non molto pesanti, come rivelato dalle inserzioni muscolari poco marcate. Il fenomeno, come prevedibile, si incrementa in funzione dell’età: gli individui maschili con un’età superiore ai 40 anni mostrano infatti numerose entesopatie e fenomeni artrosici. 27 FORNACIARI, GIUFFRA 2009, pp. 192-193. VIVERE E LAVORARE AL CENTRO DI ROMA IN ETÀ MEDIEVALE: IL CONTRIBUTO DELL’ANTROPOLOGIA FISICA Si può inoltre ipotizzare una differenziazione tra i due sessi: infatti, gli individui maschili mostrano numerose entesopatie, a livello soprattutto degli arti superiori, a differenza di quanto riscontrato nelle donne. Bibliografia ACSÁDI, NEMESKÉRI 1970 = G. ACSÁDI, J. NEMESKÉRI, History of Human Life, Span and Mortality, Budapest 1970. BUCCELLATO, CATALANO, ARRIGHETTI et alii 2003 = A. BUCCELLATO, P. CATALANO, B. ARRIGHETTI, C. CALDARINI, G. COLONELLI, M. 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CALCARE ED ALTRE TRACCE DI CANTIERE, CAVE E SMONTAGGI SISTEMATICI DEGLI EDIFICI ANTICHI Riccardo Santangeli Valenzani Il tema del reimpiego dei materiali edilizi nella tarda antichità e nel medioevo non è di quelli che hanno il pregio dell’originalità. Specialmente a partire dagli anni ’80 del secolo passato gli sono stati dedicati numerosi studi, e con particolare riferimento proprio a Roma 1. La grande maggioranza di questi studi, tuttavia, si sono concentrati su un particolare aspetto del fenomeno, quello del riuso degli elementi decorativi e architettonici, lasciando sullo sfondo quello che invece ne costituisce l’aspetto quantitativamente più imponente, ed economicamente più significativo, il reimpiego cioè dei materiali da costruzione più usuali (mattoni, tufi, travertini e marmi per alimentare le calcare). In questa sede voglio invece focalizzare l’attenzione proprio su questi aspetti, ponendomi due obiettivi: innanzitutto delineare l’ampiezza e la pervasività del fenomeno nell’ambito dell’attività edilizia della tarda antichità e dell’altomedievo, e in secondo luogo, ampliando lo sguardo fino al basso medioevo, analizzare i dati in nostro possesso per chiarire l’organizzazione della pratica dello smontaggio e del recupero dei materiali dal punto di vista organizzativo e della committenza. Va innanzitutto sottolineato che l’uso di recuperare elementi riutilizzabili da edifici in demolizione non è certo esclusivo della tarda antichità e del medioevo, ma è ampiamente attestato in ogni epoca, anche nei momenti in cui l’organizzazione produttiva ed economica dell’impero romano era al suo apice, e a volte in modi così accurati da mostrare come si trattasse di un fatto non occasionale ma organizzato e rispondente a precise direttive. Quello che cambia, a partire dal IV secolo, è La bibliografia sul tema è amplissima: si veda BERNARD, BERESPOSITO 2008. 2 PANELLA, PENSABENE 1993-94. la dimensione del fenomeno che, da marginale e secondario nell’organizzazione tecnica ed economica dei cantieri edilizi, finisce invece per diventarne centrale. Come ho detto, l’aspetto che ha più attirato l’attenzione degli studiosi è stato quello del reimpiego della decorazione architettonica. L’arco di Costantino ha costituito il punto di partenza obbligato di quasi tutte le riflessioni su questo tema 2, ma in realtà il massiccio riutilizzo di pezzi architettonici è ampiamente attestato già nei decenni precedenti alla sua costruzione. Possiamo attribuire l’avvio di questa pratica, in modo massiccio e nell’ambito dei monumenti pubblici, alla grande fase edilizia che investe il centro monumentale di Roma in età tetrarchico-massenziana: i monumenti costruiti o ricostruiti in quest’epoca non solo hanno reimpiegato elementi architettonici come colonne, capitelli o architravi tratti da edifici precedenti ma, come hanno mostrato recenti interventi di restauro, anche le lastre di rivestimento parietale e pavimentale, sono state realizzate rilavorando e adattando elementi preesistenti 3. Questo massiccio avvio della pratica del reimpiego nella Roma di Diocleziano e di Massenzio è legato senza dubbio alla sproporzione tra l’eccezionale ampiezza dei giganteschi progetti edilizi avviati 4 e la capacità delle officine romane, dopo la grande crisi del III secolo, di fornire il materiale necessario, ma anche alla disponibilità, a seguito del disastroso incendio che nel 283 aveva distrutto vasti settori della città, di molto materiale recuperato dai monumenti demoliti e, evidentemente, immagazzinato in attesa di un’occasione per riutilizzarlo. Come è ben noto, questo riutilizzo di materiali architettonici come colonne, capitelli, epistili, 1 NARDI, 3 4 MENEGHINI 2010. COARELLI 1986; SANTANGELI VALENZANI 2000. 336 RICCARDO SANTANGELI VALENZANI continuerà senza interruzioni per tutto il Medioevo (e anche successivamente) ed è l’aspetto che più ha colpito l’attenzione degli studiosi, sia perché è quello più evidente, sia perché più coerente con gli interessi essenzialmente storico artistici della maggior parte degli studiosi di archeologia classica fino ancora alla seconda metà del secolo scorso. Tuttavia, e di gran lunga, non è quello quantitativamente più rilevante, in quanto il riutilizzo riguarda tutti i materiali edilizi. Possiamo affermare che praticamente, con pochissime eccezioni, a partire già dal tardo IV secolo, e certamente dal V, e fino al pieno medioevo, nessun materiale da costruzione è stato prodotto a Roma, e tutti gli edifici sono stati edificati utilizzando materiale antico riciclato 5. Le eccezioni di cui ho parlato sono costituite essenzialmente dalle tegole di copertura dei tetti (materiale molto più difficile da reimpiegare, perché utilizzabile solo in condizioni di integrità), delle quali una certa produzione è attestata fino ai primi decenni del VI secolo, e sporadicamente nei secoli seguenti 6. La pratica di spoliare completamente gli edifici antichi delle cortine di mattoni ha dato a tanti monumenti romani il loro aspetto completamente ‘scrostato’, con le superfici murarie ridotte al solo nucleo cementizio, oppure, nel caso di strutture con paramenti misti in blocchetti di tufo e laterizio, un aspetto ancora più strano a causa della spoliazione selettiva, con l’asportazione delle sole parti in laterizio. Anche nel caso dei paramenti in blocchetti di tufo essi, in molti casi, devono provenire direttamente dalla spoliazione di pareti antiche, come mostra la presenza di blocchetti usurati e con spigoli arrotondati, e solo dal basso medioevo riprende la coltivazione delle cave per la fornitura del materiale per l’opera a blocchetti, anche se di questa attività è difficile riconoscere le tracce archeologiche 7. Questo uso quasi esclusivo di materiale di reimpiego non è, ovviamente, senza conseguenze sull’aspetto e sulla qualità delle strutture realizzate. Se per le strutture di prestigio e di committenza alta, particolarmente le chiese, l’uso di materiale di spoglio comunque selezionato e di prima scelta consente ancora, per il V, VI e in parte per il VII secolo la realizzazione di cortine murarie, sia in opera laterizia che in opera listata, di aspetto regolare e di buona qualità 8, nell’edilizia più corrente – e poi generalmente a partire dal VII secolo – l’uso per i paramenti di frammenti di mattone, a volte delle semplici schegge, 5 6 7 GIUSTINI 2001. STEINBY 1986. ESPOSITO 1997. di diverso spessore e di varie dimensioni, comporta in molti casi la realizzazione di strutture irregolari, con piani di posa dei filari non orizzontali, spesso fuori piombo; il fatto, inoltre, che i mattoni recuperati tramite scalpellatura delle cortine antiche avessero perso la loro forma triangolare, fa sì che le cortine siano spesso ammorsate in modo precario con il nucleo della struttura, cosa che provoca frequentemente distacchi e lesioni. Ma il riciclaggio dei materiali nelle nuove costruzioni non si limita alle sole cortine esterne. La stessa calce utilizzata per la malta che costituisce il nucleo delle strutture viene ora realizzata non più, come in epoca romana, a partire da pietre calcaree scavate in apposite cave, ma direttamente cuocendo travertino e marmo recuperato tra le rovine dei monumenti antichi. La presenza delle calcare, cioè dei forni in cui si produceva la calce, diviene un elemento caratterizzante, per secoli, del paesaggio della Roma altomedievale, medievale e proto moderna, fino a dare il nome di Calcararium a un’intera contrada della città. L’argomento è stato più volte analizzato dagli studiosi, per lo più in riferimento alle fonti scritte basso medievali e moderne, e gli studi specialmente di A. Cortonesi e M. Vaquero Piñeiro mi esimono da tornare su questo aspetto 9. Per quanto riguarda la documentazione archeologica di questo fenomeno, in occasione del Seminario preparatorio di questo Convegno, lo spoglio sistematico delle pubblicazioni di scavo e dei dati d’archivio ha portato all’individuazione di ben 77 di questi impianti all’interno o immediatamente all’esterno delle Mura Aureliane, datati tra l’alto medioevo e il primo Rinascimento. Come si vede dalla carta (fig. 1 e tav. 00), la distribuzione degli impianti messi in luce mostra un evidente addensamento intorno alle aree a maggior densità monumentale della città antica (l’area Foro Romano - Fori Imperiali - Palatino e il Campo Marzio meridionale, corrispondente al medievale Calcararium), evidenziando lo strettissimo legame tra l’impianto di queste strutture e la disponibilità di materiale da calcinare. La loro presenza anche in molte altre aree della città documenta tuttavia la capillarità dello sfruttamento degli edifici monumentali romani, come le grandi terme imperiali o i complessi residenziali nella zona degli Horti. L’aggiunta delle attestazioni archeologiche dei cumuli di frammenti di marmo (fig. 2 e tav. 00), indica- 8 9 CECCHELLI 2001. CORTONESI 1986; CORTONESI 2002; VAQUERO PIÑEIRO 2002. CALCARE ED ALTRE TRACCE DI CANTIERE, CAVE E SMONTAGGI SISTEMATICI DEGLI EDIFICI ANTICHI Fig. 1. - Pianta di distribuzione delle calcare identificate archeologicamente. Fig. 2. - Pianta di distribuzione delle calcare e dei cumuli di marmi. 337 338 RICCARDO SANTANGELI VALENZANI zione della presenza nelle vicinanze di una calcara o del lavoro preparatorio per la sua costruzione, amplia e precisa questo quadro, anche se purtroppo il fatto che nella maggior parte dei casi queste evidenze non siano datate rende impossibile seguirne l’evoluzione topografica. L’impatto di questa attività sulla conservazione della città romana è stato gigantesco, ed essa è senza dubbio la prima causa della distruzione dei monumenti antichi: tra i materiali lapidei rinvenuti negli ultimi scavi nel Foro della Pace i marmi colorati rappresentano un volume quasi doppio rispetto ai marmi bianchi (63 e 37% rispettivamente) 10, quando originariamente dovevano costituire invece solo una piccola percentuale del totale (poco più del 10%, secondo i calcoli fatti da R. Meneghini e E. Bianchi per il Foro di Traiano) 11, a testimonianza proprio della selettività della spoliazione, che si è concentrata sul materiale adatto a finire nelle calcare. L’importanza economica di queste attività deve essere stata eccezionale: la pavimentazione del Foro di Cesare, asportata in un’unica fase verso la metà dell’VIII secolo, deve aver fruttato circa m3 1.200 di travertino, sufficiente per ricavare tra le 600 e le 700 tonnellate di calce 12. La decorazione marmorea del Foro di Traiano doveva sviluppare, sempre secondo i calcoli di Meneghini e Bianchi, m3 13.107 pari a t 32.772; se ne conserva una minima parte, non più dell’1/2%, quasi tutto il resto deve essere finito nelle calcare, attestate archeologicamente all’interno dello stesso Foro nell’VIII secolo, e deve aver fornito circa t 7000 di calce 13. Anche in questo caso almeno la pavimentazione (m3 1.300) è stata asportata in un’unica fase intorno al IX secolo 14. Si tratta di quantità enormi, la cui produzione deve aver richiesto la realizzazione di diverse calcare e deve aver coinvolto una numerosissima manodopera. Sulla base di un documento del 1332, A. Cortonesi ha calcolato in 669 le giornate di lavoro necessarie per la preparazione di una singola calcara, l’esecuzione di una cotta e il trasporto del materiale 15. È probabile quindi che operazioni di queste dimensioni, eseguite in aree che fino a questo periodo devono aver conservato il carattere pubblico, siano legate a committenze specifiche, per importanti iniziative edilizie, da parte dell’autorità pontificia o delle classi dominanti. Dalla metà dell’VIII secolo, poi, assistiamo all’introduzione di una nuova tecnica edilizia, che nei due Informazione di A. Coletta. BIANCHI, MENEGHINI 2002. 12 MENEGHINI, SANTANGELI VALENZANI 2007, pp. 123-124. 13 BIANCHI, MENEGHINI 2002. Fig. 3. - Abside della chiesa di S. Lucia del Calcarario. secoli seguenti si diffonde fino a divenire una delle caratteristiche più evidenti e riconoscibili dell’edilizia romana di alto livello, che reimpiega blocchi di tufo, peperino o travertino, spoliati dai monumenti romani, a volte spaccati per portarli a dimensioni più maneggevoli, e rimessi in opera in un apparecchio murario generalmente di grande irregolarità. Nella maggior parte dei casi i blocchi sono posti in opera a secco e senza l’utilizzo di grappe di nessun tipo. I primi esempi datati di questa tecnica sono costituiti dalle fondazioni dell’abside delle chiese di S. Angelo in Pescheria e di S. Lucia del Calcarario, della metà dell’VIII secolo (fig. 3) 16. Nel corso del IX secolo troviamo questa tecnica utilizzata in tutte le chiese costruite o restaurate dai papi di epoca carolingia, anche se generalmente solo nelle fondazioni, così come nei restauri delle Mura Aureliane e nelle Mura Leonine, ma anche nell’edilizia privata, come le domus dei Fori Imperiali 17. Per avere un’idea 10 14 11 15 16 17 MENEGHINI, SANTANGELI VALENZANI 2007. CORTONESI 2002. CECI, SANTANGELI VALENZANI c.s. MENEGHINI, SANTANGELI VALENZANI 2004 pp. 136-139 CALCARE ED ALTRE TRACCE DI CANTIERE, CAVE E SMONTAGGI SISTEMATICI DEGLI EDIFICI ANTICHI Fig. 4. - Domus del Foro di Nerva (IX secolo). delle quantità di materiale di cui stiamo parlando, basti citare un dato riportato dal Liber Pontificalis: per il restauro del portico che conduceva dal Tevere a S. Pietro, Adriano I fece impiegare 12.000 blocchi di tufo 18; anche se immaginiamo che questo numero si riferisca a blocchi ritagliati a dimensioni più piccole, come quelli spesso usati nelle costruzioni altomedievali, stiamo parlando comunque dell’equivalente di m2 1500-2000 di opera quadrata antica, circa la metà del grande muraglione del Foro di Augusto. Se consideriamo che il Liber Pontificalis attribuisce ad Adriano I la costruzione o il restauro di 57 chiese, 6 monasteri e 8 edifici assistenziali, oltre a consistenti restauri delle Mura Aureliane, possiamo farci un’idea dell’impatto che questo massiccio impiego di blocchi smontati dagli edifici romani deve aver avuto sulla conservazione delle strutture antiche. Ma vediamo in dettaglio un caso: la domus, databile alla metà del IX secolo, rinvenuta negli scavi del Foro di Nerva, costituisce l’esempio per noi meglio conservato della tipologia edilizia delle dimore di medio - alto livello della Roma altomedioevale (fig. 4) 19. Questa del Foro di Nerva ha il piano terreno costruito nella tecnica in blocchi di reimpiego, mentre il piano superiore (ora quasi completamente perduto) era in un’opera laterizia costituita da frammenti irregolari di mattone misti a pietre e schegge 18 19 LP I, p. 507. SANTANGELI VALENZANI 2011, pp. 75-89. 339 di tufo. È lunga metri 20 e larga circa 10. La muratura in blocchi sviluppava m2 176; il numero dei blocchi è in media di 35 ogni m2 10, quindi in totale devono essere stati impiegati circa 600 blocchi, del peso medio di kg 350. Il tipo di materiale e le caratteristiche della lavorazione delle superfici non interessate dalla rilavorazione medievale indicano che, con ogni probabilità, i blocchi provenivano dai muri perimetrali dello stesso Foro di Nerva. Ma i blocchi antichi, pesanti più di due tonnellate e mezzo l’uno, vennero spaccati, per portarli a dimensioni più maneggevoli e facilitarne il trasporto e la messa in opera. In totale devono essere stati impiegati circa 80 blocchi del muro perimetrale del Foro di Nerva. È probabile che anche i circa 75.000 frammenti di mattone di recupero utilizzati nelle murature del piano superiore provenissero dalle aree adiacenti, così come la calce dalle numerose calcare attive nella zona. In definitiva, a parte il legname utilizzato per il solaio e per il tetto, calcolabile in una ventina di metri cubi (meno del 4% del peso totale del materiale impiegato nella costruzione), tutto il resto del materiale utilizzato nella realizzazione di questa residenza aristocratica era materiale antico riciclato, e proveniva da poche decine, o al massimo poche centinaia di metri 20. Se ci spostiamo dall’edilizia residenziale di alto livello a quella, contemporanea, relativa alla massa della popolazione, la situazione non cambia: nonostante un maggior utilizzo di materiali deperibili (legno, paglia per i tetti e argilla cruda), le strutture sono realizzate con materiale antico, recuperato anch’esso nel raggio di poche decine di metri (fig. 5) 21. Ben al di là, quindi, della messa in opera di colonne ed elementi architettonici, è l’intera attività edilizia sviluppatasi a Roma dalla tarda antichità fino al 1000 che si basa, quasi totalmente, sul riciclaggio del materiale proveniente da strutture antiche. Ma veniamo ora al secondo punto che volevo af20 21 SANTANGELI VALENZANI 2002. Ibidem. 340 RICCARDO SANTANGELI VALENZANI di un personaggio noto alle fonti storiche, un senatore del secondo grado dell’Ordo senatorio, morto nel 523 a Ravenna e che probabilmente rivestì a Roma la prefettura urbana sotto Teoderico. Il caso genitivo del nome sta a indicare una qualche forma di proprietà su questo settore del Colosseo. Secondo Rossella Rea, che ha pubblicato l’iscrizione, Gerontius doveva gestire un cantiere di smontaggio di parte delle arcate XIII, XIV e XV, dalle Fig. 5. - Strutture relative a domus terrinea nel Foro di Cesare (X secolo). quali si traeva materiale da costruzione, nonostante frontare: quali forme assumeva questa attività di spol’Anfiteatro fosse ancora in uso (l’ultimo spettacolo di liazione e riuso? Si trattava di una pratica che avveniva cui abbiamo notizia ebbe luogo proprio nel 523, lo in modo spontaneo e al di fuori di ogni regola, oppure stesso anno della morte di Geronzio) 23. era in qualche modo regolamentata? Fin da età impeUn caso analogo è stato individuato nel Foro di Auriale la legislazione sanzionava i privati che demolisgusto, dove vi è una iscrizione con un nome, anche quesero parti di edifici senza autorizzazione al fine di sta volta al genitivo: Pat(rici) Deci. La posizione rivendere e riutilizzare materiali da costruzione. In dell’epigrafe, ricavata sulla superficie di appoggio di uno epoca tardo antica queste disposizioni divengono più fredei rocchi delle colonne del tempio di Marte Ultore, moquenti, ma significativamente inseriscono una serie di stra che quando essa fu realizzata il tempio stesso doclausole ed eccezioni che finiscono per svuotare di efveva essere già in buona parte demolito. Anche in questo ficacia le proibizioni, come la precisazione che il dicaso il personaggio è probabilmente identificabile con vieto non vale nel caso di edifici in condizioni tali da uno noto per altra via, forse Basilius Decius Aginannon poter essere più restaurati. L’impressione è che, sotto tius, che rivestì il consolato negli ultimi anni del V seil consueto tradizionalismo formale della legislazione colo 24. Sembra quindi di poter vedere che negli anni romana, si nasconda un sostanziale cambiamento di del regno di Teoderico la spoliazione dei monumenti rotta, con una presa d’atto dell’impossibilità di mantefosse una pratica regolata da disposizioni ufficiali, genere e gestire l’immenso patrimonio monumentale erestita dalle classi dominanti a seguito di apposite conditato dal passato, e quindi l’accettazione cessioni ottenute dal re o dai suoi rappresentanti, come dell’inevitabilità della pratica dello spolio e del reimuna lettera della segreteria dello stesso Teoderico ci piego dei materiali 22. mostra per il riutilizzo dei materiali dell’anfiteatro di I dati epigrafici ci mostrano come le classi dirigenti Catania 25. È d’altra parte evidente che lo smontaggio della città avessero messo a frutto questo sostanziale di strutture in blocchi, o di colonne, capitelli e archiavallo da parte dell’autorità centrale. Su un pilastro in travi di gigantesche dimensioni, come quelli del temblocchi di travertino del settore meridionale del Colospio di Marte Ultore, oppure la scalpellatura di intere seo si legge un’epigrafe incisa in un punto raggiungipareti di laterizio, fino a diversi metri di altezza, al fine bile solo dopo un ampio intervento demolitorio; è di recuperare i mattoni, sono operazioni di grande imcostituita da una sola riga di lettere ed è leggibile Gepegno, che richiedono l’impianto di un vero cantiere, ronti v(iri) s(pectabili). Si tratta del nome, al genitivo, con l’impiego di numerosa manodopera e di attrezza22 23 ALCHERMES 1994. REA 2002. 24 25 MENEGHINI, SANTANGELI VALENZANI 1996. CASSIOD. var. III, 49. CALCARE ED ALTRE TRACCE DI CANTIERE, CAVE E SMONTAGGI SISTEMATICI DEGLI EDIFICI ANTICHI ture complesse, e non potevano certo essere gestite in modo episodico e incontrollato, e dietro di esse dobbiamo senz’altro vedere l’attività delle classi dirigenti della città. Per i successivi secoli dell’altomedioevo la scarsità di testimonianze e di documentazione scritta non ci permette di valutare appieno il fenomeno; l’VIII secolo segna comunque un momento di profonda trasformazione nella gestione del patrimonio monumentale della città con l’affermazione dell’autorità anche civile del papa sulla città e sul suo territorio dopo la rottura tra Roma e l’Impero bizantino 26. Si deve probabilmente a questa conquistata disponibilità delle strutture antiche da parte dei papi se, in concomitanza con la grande attività edilizia messa in atti dai pontefici di età carolingia, i dati archeologici ci mostrano Roma investita da una grande fase di spoliazioni. Nei Fori Imperiali vennero completamente asportate le pavimentazioni dei Fori di Cesare e Traiano, e gran parte dei capitelli e degli epistili; la piazza del Foro della Pace venne occupata da enormi mucchi di detriti costituiti da macerie edilizie, frammenti di marmo, pezzi di colonne, evidentemente gli scarichi dei cantieri di demolizione che dovevano aver interessato le aree circostanti 27. Anche in questo caso siamo certamente in presenza di interventi programmati da parte dell’autorità pubblica, da mettere in relazione alla domanda di materiale da costruzione legata all’eccezionale attività edilizia che caratterizza Roma nella seconda metà dell’VIII e nella prima metà del IX secolo. La fase successiva, a partire dalla metà del IX secolo, è segnata dalla privatizzazione degli spazi e delle aree che fino a quel momento avevano mantenuto il loro carattere pubblico. All’interno delle piazze forensi, ad esempio, si impiantano coltivazioni e sorgono case private. Dati archeologici e documenti scritti ci mostrano come si sia trattato di un fenomeno generalizzato che interessa gran parte dei monumenti antichi. Questa privatizzazione dovette riguardare anche la possibilità di utilizzare i materiali recuperati. I casi, che abbiamo analizzato, della domus del Foro di Nerva e di quelle del Foro di Cesare, mostra come quelle strutture siano costruite con uso quasi esclusivo di materiali tratti dagli stessi complessi imperiali. È difficile pensare che a ciascun proprietario venisse rilasciata un’apposita conces- MARAZZI 1991. 27 MENEGHINI, SANTANGELI VALENZANI 2007. 28 SANTANGELI VALENZANI et alii c.s. 26 341 sione per la demolizione di un tratto del monumento per trarne i materiali da utilizzare; è probabile invece che ciò avvenisse sulla base del semplice diritto di proprietà su quelle strutture, che infatti cominciano in questo momento a comparire negli atti notarili, definite come cryptis o parietinis antiquis, e descritte alla stregua degli altri beni connessi con le case e le proprietà e in piena disponibilità del proprietario. La pratica della spoliazione sembra quindi rientrare, a partire dal IX-X secolo, nell’ambito delle attività private, gestite anche a livello episodico e al di fuori di un efficace controllo pubblico. La documentazione archeologica mostra che, nell’area centrale della città, il tardo XIII e il XIV secolo è un momento di ripresa delle demolizioni su larga scala. Nella parte dell’Anfiteatro Flavio oggetto dei recenti scavi si è visto come sia proprio verso la fine del XIII secolo che prende avvio lo smontaggio dei muri in blocchi della cavea e delle loro fondazioni 28. Nei Fori Imperiali è in questo stesso periodo che viene asportata gran parte dei muri di limite dei complessi forensi, a volte con soluzioni di grande complessità tecnica, come nella cella del Tempio della Pace, dove i blocchi di travertino di fondazione dei muri in laterizio sono stati tolti lasciando in posto l’alzato del muro, eseguendo il lavoro a settori via via riempiti con muri a secco di sostegno (fig. 6) 29. Anche le fondazioni in travertino dei portici dello stesso Foro della Pace sono spoliate in questa fase, abbandonando sul posto il materiale non riutilizzabile nelle calcare, come le colonne intere in granito rosa (fig. 7) 30, dimostrazione evidente di come la produzione della calce fosse il vero motore di queste attività, e il recupero di pezzi architettonici avesse invece un’importanza economica decisamente minore, e forse non aveva un vero mercato ma avveniva solo su commissione per specifiche esigenze (ancora due secoli dopo Bramante non si faceva scrupolo di far abbattere, spaccandole e rendendole inutilizzabili, le grandi colonne del vecchio S. Pietro, come gli rimprovera indignato Michelangelo). Ancora una volta ci troviamo comunque di fronte ad operazioni di vastissima portata e di grande impegno tecnico, che richiedono un’organizzazione complessa, numerosa manodopera, competenze avanzate e, specialmente, un forte investimento economico, e devono quindi essere state gestite a livelli di com29 Scavi in corso dal 2013 ad opera della Soprintendenza Speciale per il Colosseo, il Museo Nazionale Romano e l’Area Archeologica di Roma e l’Università di Roma Tre. 30 MENEGHINI, SANTANGELI VALENZANI 2007. 342 RICCARDO SANTANGELI VALENZANI ne pubblica dello spazio urbano si esplica anche con la progressiva ripresa del controllo sui monumenti antichi, fino alla clausola dello Statuto del 1363 che vietava la distruzione di qualsiasi edificio antico, escludendo esplicitamente la possibilità per la stessa autorità pubblica di concedere deroghe al divieto 31. Solo l’anno precedente il cardinale Pierre Bohier, legato pontificio a Roma, aveva scritto ad Avignone al papa Urbano V informandolo riguardo la vendita di una grossa partita di travertino cavato dal Colosseo 32. Non escluderei un diFig. 6. - Foro della Pace. Struttura di contenimento del riempimento di una fossa di spoliazione basso retto collegamento tra i due medievale. fatti, che cioè la norma inserita nello Statuto del 1363 sia legata proprio al contrasto tra il Comune di Roma e l’autorità pontificia riguardo la gestione dei resti antichi. Fin dalla Renovatio Senatus del 1143, sui monumenti romani, simbolo della passata grandezza di Roma, si giocava una partita propagandistica e ideologica tra i fautori delle libertà comunali e la Curia (di cui il decreto del 1162 sulla colonna Traiana costituisce la più celebre testimonianza), e la devastazione dell’edificio simbolo della città da parte del legato papale può forse essere stata la motivazione alla base delFig. 7. - Foro della Pace. Fossa di spoliazione delle fondazioni del portico (XIII secolo). la decisione di tradurre in norma giuridica il desiderio di mittenza molto alti, probabilmente su iniziativa dei protutelare quel che restava della città antica. prietari dei complessi, aristocratici o enti ecclesiastici. Generalmente si è supposto che la norma del 1363, Nel basso medioevo la riaffermazione di una gestioe quelle che la ribadirono successivamente, dovettero 31 RE 1880, p. 188. 32 Per l’episodio, e un suo inquadramento storico, LANCIANI 1897, p. 374. CALCARE ED ALTRE TRACCE DI CANTIERE, CAVE E SMONTAGGI SISTEMATICI DEGLI EDIFICI ANTICHI rimanere largamente disattese. È evidente che, dopo il ritorno da Avignone, l’autorità pontificia consentiva di superare qualsiasi norma, basti pensare ai casi del Settizodio o del Tempio di Minerva, ma, per quanto riguarda la pratica più diffusa del recupero dei materiali, non va trascurato il fatto che queste disposizioni si preoccupavano di salvaguardare i monumenti sopraterra, ma lasciavano libertà di intervenire sui resti nel sottosuolo, e ci si può chiedere se la diffusione degli scavi in galleria, quei ‘cunicoli’ che costituiscono la disperazione di tutti gli archeologi che scavano nel centro monumentale di Roma, non possa essere legata proprio a questa nuova modalità di gestione del recupero dei materiali. Pur in assenza di studi specifici sul fenomeno, e nonostante l’estrema difficoltà di datare queste strutture in considerazione della complessità del loro posizionamento stratigrafico e del fatto che i riempimenti sono composti quasi esclusivamente da materiale residuale, sembra infatti che questa pratica sia attestata a partire da un periodo molto avanzato, e che si diffonda in età rinascimentale. Tenendo conto della complessità di questa modalità di scavo, che deve impiegare tecniche e competenze dello scavo in miniera, ma in una situazione molto più difficile, perché condotta per lo più in terreno incoerente, è chiaro che devono esservi state motivazioni molto forti dietro la sua adozione, abbandonando i grandi scavi a cielo aperto che avevano caratterizzato il XIII e il XIV secolo, e forse queste motivazioni sono da ricercare anche nelle norme di tutela che impedivano di intervenire sui monumenti posti al livello del suolo. Il fatto che si affrontasse un lavoro così difficile e pericoloso, d’altra parte, costituisce la migliore testimonianza degli alti profitti che la pratica del recupero dei materiali antichi consentiva di ottenere, e spiega come mai questa attività sia andata avanti senza soste per più di un millennio. Bibliografia ALCHERMES 1994 = J. ALCHERMES, Spolia in Roman Cities of the Late Empire: Legislative Rationales and Architectural Reuse, in DOP, 48, 1994, pp. 167-178 BERNARD, BERNARDI, ESPOSITO 2008 = J.F. BERNARD, PH. BERNARDI, D. ESPOSITO (a cura di), Il Reimpiego in Architettura. Recupero, trasformazione, uso (Collection de l’École Francaise de Rome, 418), Roma 2008. BIANCHI, MENEGHINI 2002 = E. BIANCHI, R. MENEGHINI, Il cantiere costruttivo del Foro di Traiano, in Cantieri antichi. Atti della Giornata di Studio (Roma, 25 ottobre 2002), in RM, 109, 2002, pp. 395-417. CECCHELLI 2001 = M. 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Lavoro, tecniche, materiali nei secoli XIII-XV, Manziana 2002, pp. 137-154. TECNICHE MURARIE E ORGANIZZAZIONE DEL CANTIERE A ROMA E IN AREA ROMANA NEI SECOLI XII-XIV: ALCUNI INDICATORI Daniela Esposito Gli studi sulle tecniche costruttive e sui sistemi di approvvigonamento e organizzazione dei cantieri medievali pongono in evidenza come la qualità dei materiali e la loro lavorazione per far opere murarie sia spesso collegata alla natura stessa dei materiali, alla loro lavorabilità, alle caratteristiche geologiche dei banchi di estrazione, fino ad esserne in molti esempi determinata. Pur confermando tale linea intepretativa, l’esegesi e lo studio sul cantiere edile in area romana nel basso Medioevo riservano alcune deroghe rispetto a questa linea generale di lettura del fenomeno costruttivo. Il tipo di materiale e di lavorazione degli elementi lapidei delle murature medievali di area romana del XII-XIV secolo appaiono infatti scelti ‘a priori’, ossia decisi indipendentemente dalla natura e dal grado di lavorabilità. Inoltre anche la modalità di messa in opera delle stesse murature richiama il sistema dell’opus coementicium romano, con alcune deroghe alla tecnica antica dovute alla stessa organizzazione del cantiere medievale, diverso rispetto a quello romano. Tale consuetudine è da riferirsi ad un modello statico, costruttivo ed anche ‘estetico’ elaborato e condiviso dalle maestrranze romane che operavano in Roma e nel distretto della città seguendo la tradizione costruttiva antica innovata e ripensata con mentalità contemporanea. Il contributo affronterà una lettura del fenomeno costruttivo tardomedievale in area romana, con particolare riguardo alle murature con paramenti in blocchetti lapidei a filari orizzontali (in alcuni casi detti anche ‘tufelli’) attraverso l’analisi e il confronto fra le diverse componenti che hanno definito il carattere del cantiere dell’epoca e soprattutto della produzione degli elementi della costruzione 1. L’analisi ha portato alla conferma della diretta corrispondenza fra la geologia dei luoghi e l’utilizzo dei materiali da costruzione e al contemporaneo diffondersi del fenomeno del reimpiego del materiale antico rilavorato e spesso ridotto a dimensioni più piccole degli elementi di partenza. La messa in opera delle murature in area romana riflette con certezza la tradizione antica, nell’adozione di apparecchiature assimilabili all’opera cementizia romana, a strati orizzontali corrispondenti all’altezza dei filari di blocchetti (cm 6-8 al massimo), ma risulta anche essere un’evidente rielaborazione medievale. Nel loro insieme, le osservazioni presentate conducono a riconoscere il riferimento tecnico-costruttivo antico e la sua contestuale rielaborazione medievale come reinvenzione di un modo di costruire coerente con l’organizzazione razionale del cantiere edile del XIII-XIV secolo. Un’organizzazione che si manifestava soprattutto nella produzione sistematica e standardizzata di blocchetti isometrici, nella loro messa in opera a filari orizzontali senza differenziazioni per tipi di costruzione (fig. 1). Come detto, nel corso del Medioevo il riferimento alla tradizione costruttiva romana appare confermato dall’evidenza muraria e, soprattutto a partire dal XII secolo per le opere murarie, dalla ripresa dell’uso della tecnica dell’opera cementizia; le sezioni murarie degli edifici erano costituite infatti da spessori notevoli di opera cementizia con due sottili strati di paramento, interno ed esterno. La tradizione costruttiva e architettonica romana trova espressione nella pienezza delle strutture murarie, nella compattezza degli apparecchi 1 BARCLAY LLOYD 1985, pp. 225-276; ESPOSITO 1998; ESPOSITO 2005; ESPOSITO 2008, pp. 625-637; BERNARDI, ESPOSITO 2009, pp. 191-210; ESPOSITO 2009, pp. 415-424; MONTELLI 2011; ESPOSITO 2014, pp. 233-240. 346 DANIELA ESPOSITO Fig. 1. - Roma, Palazzo del Castrum Caetani a Capo di Bove sulla via Appia antica: particolare del paramento (prima metà XIII secolo) in bloccheti di tufo litoide. murari, nel coordinamento delle singole parti degli edifici in una concezione unitaria (fig. 2). Nel corso dei secoli XII-XIV si riscontrano in area romana tipi murari diversificati, articolati e differenziati in fasi storiche diverse. In sintesi, nel XII secolo la tipologia era caratterizzata da murature con paramento a bozze irregolari senza corsi orizzontali o con piccole bozze disposte senza un ordine apparente e con livelli di orizzontamento ogni quaranta-sessanta centimetri (fino a un metro circa); ma anche da murature in opera listata a fasce irregolari di laterizi alternate a bozze e bozzette di tufo o altro materiale lapideo che, col passare del tempo e nel corso del XIII secolo, risultava composta da una quantità sempre maggiore di bozzette in materiale lapideo, tagliate in modo sempre più regolare e con un sempre minor numero di laterizi (fig. 1). Altre murature presentavano paramenti in laterizi che a Roma e in molti siti in area romana erano utilizzati di reimpiego 2. L’attività del recupero di tali materiali da costruzione si sviluppava in prevalenza in corrispondenza di zone dove sussistevano resti di strutture antiche abbandonate; l’opera di smontaggio dei pezzi delle costruzioni antiche richiedeva certamente particolare cura e anche azioni di rilavorazione, lisciatura, sagomatura per rendere gli elementi nuovamente utilizzabili 3. Dalla metà circa del XII secolo la tipologia muraria in area romana presenta una linea di sviluppo che diverrà riferimento sostanziale per i tipi murari realizzati nel corso del XIII e XIV secolo, costituito da apparecchi murari con paramenti in scaglie sbozzate e spaccate 2 MONTELLI 2011. Fig. 2. - Roma, Tor Chiesaccia sulla via Laurentina: particolare del resto della volta in conglomerato cementizio. secondo dimensioni che col tempo si ridussero fino a raggiungere altezze pari a circa tre-cinque centimetri e lunghezze pari a dieci-quindici centimetri (fig. 3). In quest’ultimo tipo murario l’andamento dei giunti orizzontali è divenuto progressivamente sempre più regolare e parallelo nei vari filari, così come le altezze degli elementi lapidei che, oltre a diminuire come dimensione, divennero più costanti agli inizi del XIII secolo, quando si diffuse la tecnica muraria con paramenti in blocchetti lapidei a corsi orizzontali. L’inizio del XIII secolo vide dunque l’avvio di una nuova fase di sviluppo della tecnica muraria; una stagione caratterizzata da mutate condizioni socio-economiche e produttive che trovarono espressione anche in quel particolare tipo di apparecchio murario a blocchetti che si diffuse fra XIII, XIV e parte del XV secolo a Roma e nell’intera area in questione. La tecnica a blocchetti sembra sostituirsi gradualmente agli apparecchi murari del secolo precedente e, ciò che sembra 3 ESPOSITO 2014, pp. 233-240. TECNICHE MURARIE E ORGANIZZAZIONE DEL CANTIERE A ROMA E IN AREA ROMANA NEI SECOLI XII-XIV: ALCUNI INDICATORI più significativo, a una concezione della muratura con apparecchiatura meno regolare come quella del XII secolo. L’introduzione del nuovo apparecchio murario può essere anche motivato dalla sua somiglianza al sistema costruttivo in laterizi di recupero, sempre meno reperibili con lo scorrere del XIII secolo e perciò sostituti dai blocchetti lapidei. Ma la caratteristica sostanziale del sistema costruttivo in blocchetti rimane il principio di standardizzazione degli elementi lapidei che corrisponde ad una più razionale organizzazione del lavoro del cantiere edile dell’epoca, secondo una tendenza in atto anche in altri ambiti culturali (nell’Alto Lazio come nella Francia settentrionale o nel Regno di Napoli) produttivi e organizzativi del lavoro edile dell’epoca. La tecnica a blocchetti era realizzata con tufo, calcare compatto o poroso, arenaria, puddinga; era costituita da paramenti con blocchetti d’altezza costante che, a seconda dei casi, variava da cm 4,5 a circa cm 9-10, disposti ordinatamente, secondo filari regolari, corsi orizzontali e giunti sfalsati e allettati con malta composta generalmente di calce e pozzolana. Il nucleo interno, compreso fra i paramenti in ‘tufelli’, era eseguito per strati orizzontali di malta pozzolanica o di calce e calcare o sabbia e di pezzame lapideo irregolare; la messa in opera dei blocchetti del paramento e del nucleo avveniva così contemporaneamente, procedendo per strati orizzontali sovrapposti: questo sistema di montaggio consentiva di ottenere una buona connessione fra strati di paramento e nucleo della sezione muraria, tanto più strutturalmente indispensabile, quanto più si trattava di muri relativamente poco spessi e a differenza di quelli ‘a secco’ d’età romana. Nel corso del XIV secolo l’apparecchio divenne più irregolare, le dimensioni dei singoli elementi lapidei aumentarono e i ricorsi divennero meno lineari e paralleli fra loro; i blocchetti, pur mantenendo una conformazione approssimativamente quadrangolare persero rigore geometrico e precisione nel taglio e finitura delle superfici a vista (fig. 4). Il modulo aumentò e i blocchetti ebbero una configurazione sempre più deformata o, in altri casi, mantennero la configurazione regolare ma aumentarono la loro altezza fino a 13-15 centimetri (nel primo Quattrocento), per poi scomparire (fig. 5) 4. 4 Sullo sviluppo della tecnica a blocchetti in area romana si rimanda a ESPOSITO 1998. Per riferimenti agli interventi nel corso del Medioevo alle mura aureliane di Roma, si rimanda al volume di MANCINI 2001 e agli ampi riferimenti bibliografici in esso contenuti. Si ricorda inoltre un recente progetto di ricerca diretto da M. 347 Fig. 3. - Roma, Casale dei Gallicano sulla via Tiburtina: particolare della sezione muraria della muratura con paramenti in blocchetti lapidei a corsi orizzontali. Fig. 4. - Roma, Cappella di S. Nicola a Capo di Bove sulla via Appia antica (1302): particolare del paramento in blocchetti lapidei. Il muro in elevato Alcune specifiche ragioni che possono aver condizionato i diversi caratteri di esecuzione delle murature nell’area e nel periodo analizzati possono essere, accanto alla possibilità di approvvigionamento e alle proprietà meccaniche dei materiali da costruzione, le culture tecniche proprie di aree d’influenza meridionale, orientale, longobarda, normanno-sveva e angioina. Si sottolinea anche la peculiarità della tecnica e la sua distinguibilità Medri (Le mura aureliane nella storia di Roma), in collaborazione con l’Università di ‘Roma Tre’, la Sovraintendenza ai Beni Culturali di Roma Capitale e la Soprintendenza Speciale per il Colosseo, il Museo Nazionale Romano e l’Area Archeologica di Roma. 348 DANIELA ESPOSITO delle loro finiture e delle sezioni, la diversa maniera di concepire la struttura muraria, la sua funzione e il suo comportamento meccanico nell’ambito dell’intero organismo architettonico. Il modo di costruire le strutture murarie è espressione di peculiarità dell’organizzazione del cantiere romano: fino al XII secolo il cantiere era dotato di specifiche capacità esecutive, specialistiche e settoriali. In particolare, l’apparecchio della sezione muraria appariva meno serrato e compatto rispetto agli esempi d’età imperiale che erano in conglomerato cementiFig. 5. - Città del Vaticano, tratto di mura medievali (XIV secolo) sul tracciato della cinta leonina con integrazioni moderne (in basso). zio pieno con paramento in blocchetti lapidei e laterizi. Il nucleo interno appariva invece, nei secoli centrali del Medioevo, sempre meno apparecchiato e più spesso costipato e messo in opera in modo disordinato rispetto agli esempi romani (fig. 6). In tale fase l’apparecchio murario perdeva progressivamente il suo carattere di opera ‘cementizia’, in favore di una messa in opera meno ordinata e più caotica. L’aumento e, spesso, l’irregolarità dei giunti di malta dell’allettamento degli elementi del paramento murario erano il riflesso del modo di costruire di un cantiere organizzato in modo da mettere in opera paramenti a filari non rigorosamente orizzontali. Nel XIII secolo queste caratteristiche si modificheranno in favore di un’attività più sistematica, razionale, ‘standardizzata’ e meno specialistica anche nel caso dell’utilizzo di materiale da costruzione di recupero e che dà luogo a murature in opera cementizia apparecchiate con paramenti in blocchetti e/o laterizi a filari orizzontali. L’orizzontalità dei filari è il risultato della modalità di apparecchiatura dei muri, ossia a strati orizzontali di blocchetti o laterizi e piccoli coementa con abbondante malta nello spessore di un filare, per strati successivi, secondo una procedura che ricordava appunto la tecnica costruttiva d’età romana. La resistenza e compattezza della muratura erano insite proprio nella sua apparecchiatura, a strati serrati e sovrapposti, e tenuti Fig. 6. - Tivoli, resti di edificio religioso a Colle Ripoli: particolare della sezione della struttura muraria dell’abside (XI-XII secolo). insieme da ottima malta pozzolanica (fig. 3). Vi è inoltre da dire che ciò che non cambia, nell’arco temporale soprattutto nel modo diverso di apparecchiare le muraanalizzato, è la particolare cura nella produzione e nella ture e nell’individuazione delle componenti del propreparazione della malta di allettamento: a differenza cesso costruttivo attraverso la lettura dei paramenti, infatti delle modalità della messa in opera, la qualità, TECNICHE MURARIE E ORGANIZZAZIONE DEL CANTIERE A ROMA E IN AREA ROMANA NEI SECOLI XII-XIV: ALCUNI INDICATORI 349 l’accuratezza e il livello di miscelazione rimangono sempre di alto livello. Molto scarse sono le fonti relative a questo modo di costruire. Si può ricordare una testimonianza di Poggio Bracciolini quando, a proposito delle mura aureliane e delle loro stratificazioni murarie, descriveva le strutture posteriori a quelle romane che riteneva fragiles ac putrides e costituite da un insieme di pezzi di marmo e di laterizi (ex variis marmorum contritorum ac tegularum frustis conglutinata est) 5. Non è possibile asserire con certezza che l’espressione conglutinata possa essere riferita alla tecnica costruttiva in opera cementizia apparecchiata delle murature medievali che Bracciolini descriveva. Appare comunque significativo l’uso di un termine che fa riferimento alla composizione di più parti lapidee ‘legate’ in un insieme. L’osservazione diretta dei caratteri costruttivi delle murature medievali in area romana fornisce più spunti interpretativi delle fonti indirette, proprio riguardo il modello strutturale e costruttivo di riferimento, soprattutto per le modalità d’‘ingranamento’ degli spessori murari. Nelle murature nelle quali prevale la struttura e l’apparecchiatura dell’opera cementizia, sussistono legami fra gli elementi per adesione. Il processo costruttivo sembra aver seguito, in questi casi, la messa in opera dei blocchetti o dei laterizi sui bordi dello spessore murario filare per filare, strato per strato, lungo allineamenti orizzontali, in modo uniforme e continuo. Il muro sembra così, in sezione, apparecchiato come un’unica struttura, un unico blocco, un ‘monolite’ con i soli orizzontamenti delle bancate che, nel caso delle murature in blocchetti, sono realizzati, in media ogni 7-8 filari (circa cm 50-60). Blocchetti parallelepipedi trasversali disposti ‘di testa’ coadiuvavano l’ingranamento dell’apparecchiatura muraria nel suo spessore. Il carattere unitario e compatto, apparecchiato per strati sottili orizzontali sembra coincidere con una forma particolare di comportamento strutturale che si concretizza, nel caso di crolli, con rotture a blocco anche di grandi dimensioni 6. In tutti i casi analizzati, le tracce dei fori pontai, la posa in opera degli elementi lapidei e della malta, l’apparecchiatura del muro e delle angolate, danno testimonianza del modello strutturale e costruttivo di riferimento. In particolare, ad esempio, proprio nel Lazio meridionale e in Sabina, al confine con l’area d’influenza romana, la tecnica a blocchetti a filari orizzontali è caratterizzata da angolate in blocchi squadrati di calcare o di tufo alti circa cm 15-30 7. Si riconosce in questi casi una modalità costruttiva che costituisce un modello intermedio fra le strutture murarie di area romana, con angolate di soli blocchetti lapidei, e quelle del Lazio meridionale e della Sabina, con blocchi di rinforzo alle angolate, anche di notevoli dimensioni (cm 20-30 d’altezza), e dunque consuetudini costruttive peculiari della cultura tecnica meridionale e d’influenza umbro-abruzzese. BRACCIOLINI 1940, III, p. 245. Le strutture in cui prevalga il legame per attrito tendono, in caso di crollo, a frantumarsi in parti minute (DOGLIONI, PARENTI 1993, p. 154). Diversa appare infatti la condizione di stabilità e di risposta meccanica alle sollecitazioni delle murature coeve presenti nel Lazio, dove, ad esempio, si riscontrano nuclei incastrati o costipati. In questi casi si tratta di sezioni resistenti per attrito più che per adesione, anche se è possibile trovare soluzioni miste di adesione e attrito insieme. Tali differenze di messa in opera e, quindi, di comportamento strutturale sono anche determinate, a differenza dei casi in area romana, dagli spessori murari (Ibidem, pp. 150-154). In questi esempi, in caso di crollo, le strutture spesso si rompono frammentandosi in parti anche di piccole dimensioni. 7 Edifici in muratura con paramenti in blocchetti lapidei e angolate in grandi blocchi apparecchiati sono rilevabili, nel Lazio meridionale, a Colleferro (Roma), Artena (Roma), Frosinone, Sgurgola (Frosinone), Anagni (Frosinone), Sermoneta (Latina), Serrone (Latina); in Sabina sono presenti a Scandriglia (Rieti), Poggio Mirteto (Rieti) e altri centri ai confini orientali del distretto romano. 8 BIANCHI 1996, pp. 53-65. 5 6 Materiali e lavorazione Tali osservazioni legate alla natura strutturale ma anche ai modelli di riferimento della costruzione muraria medievale nell’area geografica in questione e in altri ambiti regionali vicini con culture tecniche diverse, richiamano la diretta relazione fra diffusione dei saperi tecnici e i procedimenti costruttivi nel Medioevo 8. E proprio all’interno dell’area romana si possono individuare caratteri che testimoniano l’adesione a procedimenti costruttivi peculiari e indipendenti da fattori naturali come ad esempio la natura stessa dei materiali da costruzione, la loro lavorabilità e facilità di messa in opera. Per le murature in cementizio e paramenti in blocchetti lapidei il materiale è sia di reimpiego e di riciclo, sia di primo uso. Nei due casi saranno state diverse le modalità e le procedure di estrazione, smontaggio, lavorazione e utilizzo. Ma il taglio e la dimensione degli elementi del paramento, nonché delle parti lapidee della sezione muraria seguivano un modello strutturale e costruttivo predeterminato al punto 350 DANIELA ESPOSITO di lavorare allo stesso modo e tagliare con le medesime dimensioni e configurazione blocchetti in ogni tipo di materiale (dal marmo alla puddinga, dall’arenaria al tufo vulcanico, dalla lava leucititica al calcare compatto). Il taglio era predeterminato e faceva riferimento a moduli e configurazioni standardizzati. Era realizzato, pur se con qualche lieve variante a seconda del materiale e della sua lavorabilità, indifferentemente con i diversi materiali lapidei citati. Un’altra questione riguarda proprio l’origine del materiale da costruzione, se cioè provenga da una cava e sia stato quindi estratto e confezionato appositamente per la costruzione di una determinata struttura muraria o, come è stato spesso riscontrato, se sia stato recuperato da edifici preesistenti in loco o in aree limitrofe o fatto giungere appositamente da luoghi diversi, come nel caso, a titolo d’esempio, della torre del casale dei SS. Quattro Coronati sulla via Tuscolana 9. Il denominatore comune non è solo, per ciò che concerne l’uso dei materiali per la costruzione delle strutture murarie, la composizione della struttura geologica dell’area su cui la fabbrica insiste, poiché, nel caso di un ‘recupero’, la disponibilità d’un certo tipo di materiale naturale è sia in stretta relazione con la sua presenza nell’area, con l’esistenza di cave per la sua estrazione, sia anche con la reperibilità locale dello stesso: essa è perciò legata, per motivi economici, anche al sistema dei trasporti e alla viabilità. Così avviene che nella confezione della malta prevalga, nella maggior parte dei casi, l’uso di calce e di granuli di pozzolana nera o rossa, di piccole scaglie di tufo e di altri piccoli inerti, come ad esempio il pietrisco, materiali presenti in quantità notevoli nel territorio laziale e romano; ma, non appena ci si allontani dall’ambito territoriale raccolto intorno agli apparati vulcanici dei monti Vulsini, Cimini, Sabatini e dei Colli Albani (per citare solo i più importanti), non è raro riscontrare anche l’uso di malta di calce, ghiaia e sabbia o di calce, sabbia e pietrisco, con conseguente variazione anche della granulometria e della sua consistenza, valutata soprattutto nel tempo. Tornando alla configurazione dei blocchetti, gli elementi lapidei impiegati nella muratura sono squadrati più o meno regolarmente e presentano una finitura superficiale solo sulla faccia a vista per i blocchetti del paramento, su due facce ortogonali fra di loro per i blocchetti angolari. La rimanente parte risulta spesso sbozzata irregolarmente con sagoma ‘a cuneo’, in sezione verticale, e triangolare o, più spesso, trapezoidale, in sezione orizzontale (fig. 7). I blocchetti del paramento sono configurati per aderire meglio al nucleo interno: le loro altezze oscillano da un minimo di circa quattro a un massimo di circa nove centimetri e mezzo, mantenendosi costanti entro la stessa struttura muraria; il rapporto altezza-lunghezza varia sensibilmente da 1:2 a 1:3, mentre la profondità è compresa fra i valori dell’altezza e quelli della lunghezza (fig. 3). L’altezza dei blocchetti rimane costante, a differenza della lunghezza che varia sensibilmente. I filari, misurati nella dimensione in altezza data dalla successione di un blocchetto e di un giunto di malta, sono costanti: ciò significa che anche lo strato di malta d’allettamento fra gli elementi lapidei contribuisce a mantenere, talvolta regolarizzandola, la dimensione dei filari. I blocchetti del paramento interno ed esterno sono poi disposti a giunti sfalsati e secondo corsi orizzontali generalmente paralleli. 9 Si rimanda, per la struttura geologica del territorio laziale, alla vastissima bibliografia esistente su tali argomenti, da cui possono enuclearsi i seguenti testi: LUGLI 1957 (particolarmente il I volume, pp. 234-333); RODOLICO 1965; FORNASERI, SCHERILLO, VENTRIGLIA 1963; VENTRIGLIA 1971; CAMPONESCHI, NOLASCO 1978-1986, con ampia bibliografia all’interno dei singoli volumi e relativa a ciascuna area geo-morfologica descritta. Strumenti di base sono anche la Carta Idrogeologica del territorio della Regione Lazio (1:250000), curata da C. Boni, P. Bono, G. Capelli, e il Modello litostratigrafico-strutturale della Regione Lazio (1:250000), curata da G. Bigi, D. Cosentino e M. Parotto: opere redatte per conto della Regione Lazio, Assessorato alla Programmazione-I.C.A., Ufficio Parchi e Riserve Naturali, e dell’Università degli Studi di Roma ‘Sapienza’, Dipartimento di Scienze della Terra, Laboratorio di Idrogeologia (la Carta Idrogeologica) e Sezione di Geologia (il Modello litostratigraficostrutturale). Fig. 7. - Castelnuovo di Porto (RM), Torre del castello di Belmonte: blocchetto di tufo litoide con tracce della lavorazione ‘a spacco’ con martellina. TECNICHE MURARIE E ORGANIZZAZIONE DEL CANTIERE A ROMA E IN AREA ROMANA NEI SECOLI XII-XIV: ALCUNI INDICATORI 351 Fig. 8. - Roma, Casale dei Gallicano sulla via Tiburtina: particolare della finitura superficiale del muro in elevato di un edificio (XIII secolo) presso la torre (XII secolo). Fig. 9. - Cisterna di Latina, Castello di Ninfa: particolare della finitura ‘a scivolo’ dei giunti del paramento di un edificio del XIII secolo presso la chiesa di S. Maria Maggiore. Per ciò che riguarda la finitura dei giunti orizzontali di malta, essa risulta spesso eseguita a ‘scivolo’ o a ‘filopietra’ o lievemente arretrata rispetto all’allineamento dei blocchetti lapidei; talvolta si è riscontrata una finitura estesa anche ai giunti verticali (figg. 8 e 9). nerali costituenti il lessico tecnico-costruttivo comune di base. Non ci si riferisce quindi alla ‘tipologia’ della struttura muraria, nel suo insieme, quanto piuttosto a come determinate ‘regole’ generali della tecnica costruttiva romana siano state declinate, differenziandosi, e come queste varianti e le diverse realtà regionali abbiano caratterizzato, tutte insieme, la medesima tecnica a blocchetti nel territorio, sincronicamente e diacronicamente. Riguardo al taglio e alla lavorazione dei blocchetti, la diversa configurazione dei blocchetti (o bozzette, a seconda del grado di finitura), dipende o dal tipo di materiale o dal carattere delle maestranze locali e può quindi collegarsi a ben determinate aree regionali; ma può anche corrispondere a determinati periodi storici e divenirne così un parametro indicativo delle fasi di escavazione e di taglio. Pertanto all’interno dell’area omogenea interessata dalla diffusione della tecnica a blocchetti lapidei la presenza di costruzioni con murature con paramenti in blocchetti e di bozzette si articola spesso secondo un andamento non casuale ma, come rilevato ad esempio per Roma, secondo uno sviluppo che da conformazioni irregolari ed appena lavorate si modifica, in pieno XIII secolo, in blocchetti ben squadrati, sbozzati o rifiniti, per poi nuovamente assumere una conformazione meno regolare nel corso del XIV secolo e nei primi decenni del secolo successivo. Sono casi, questi, riscontrabili nella struttura muraria della Tor Maggiore, sulla via Ardeatina (ante 1195), nei resti della Rocca Savelli sull’Aventino (terzo quarto del XIII secolo), nella cappella di S. Nicola a Capo di Bove, sulla via Appia antica (1302) (fig. 10) 10. La tecnica e il ta- Varianti tecnico-esecutive La tecnica costruttiva medievale in blocchetti, come quella con paramenti in laterizi e in listato, segue dunque alcune ‘regole’ generali di esecuzione che, per le murature in blocchetti, possono essere sintetizzate in: la configurazione quadrangolare e cuneiforme in sezione degli elementi lapidei, la loro lavorazione e livello di finitura, le loro caratteristiche dimensionali, le modalità della messa in opera a corsi orizzontali ed infine la composizione e le caratteristiche meccaniche delle stesse malte utilizzate. Molto forte risulta soprattutto l’influenza della cultura romana, testimoniata peraltro dalla stessa tecnica a blocchetti ed anche dalla presenza di particolari valori dimensionali riferiti ad unità di misura in uso nella città ed in buona parte dell’’area romana’. Alcune varianti tecnico-esecutive, come la ricorrenza di blocchetti di taglio e dimensioni in altezza tipiche di alcuni gruppi di murature localizzate in ambiti regionali particolari o il loro livello di finitura e le modalità di lavorazione, anch’essi legati a maestranze specifiche, rappresentano altrettante realtà costruttive locali connotate da caratteri distintivi peculiari che si differenziano da quelli ge- Fig. 10. - Roma, Rocca Savelli, cinta muraria: particolare del paramento in blocchetti di tifo litoide lionato (seconda metà XIII secolo). Fig. 11. - Cisterna di Latina, Castello di Ninfa, rocca: particolare del paramento merlato (XIII secolo) con soprelevazione (XIV secolo). ai limiti dell’area di diffusione della muratura nel XIII e XIV secolo si possono individuare esempi nei quali la conformazione e la lavorazione dei blocchetti per la costruzione era piuttosto irregolare, con lavorazione appena accennata, a spacco o a sbozzatura, con la martellina, e spesso senz’altra finitura sulla faccia esterna del blocchetto. Si trattava, in questi casi, di consuetudini costruttive di maestranze locali, spesso influenzate anche dalla natura del materiale lapideo utilizzato, come è possibile osservare, ad esempio, in Sabina, nei blocchetti calcarei presenti a Nerola, nella chiesa di S. Maria del Colle a PontiFig. 12. - Palombara Sabina, Castello di Castiglione: particolare del paramento interno della muracelli, presso Scandriglia, neltura di un edificio adiacente alla torre interna alle mura (XIII secolo). la chiesa di S. Paolo a Poggio glio dei blocchetti raggiunse, fra la prima e la seconda metà Nativo, in quella di S. Alessandro a Toffia, a Fara in Sadel XIII secolo, un livello di regolarità notevoli anche nebina e a Poggio Mirteto (fig. 12) 12. gli immediati dintorni di Roma o a Cave, Paliano, RocAnche sui monti Cornicolani, Lucretili ed in area tica Massima, Sermoneta, Ninfa, o anche al castello di Corburtina sono stati riscontrati numerosi esempi in boznazzano, presso Galeria (fig. 11) 11. In alcuni settori posti zette, prevalentemente calcaree, come nel castello di 10 Nel 1334 Tor Maggiore apparteneva ai Savelli col nome di Turris maior; ma le caratteristiche della struttura muraria a bozzette tufacee fa ipotizzare un’origine anteriore a questa data, collocabile alla fine circa del secolo XII (cfr. TOMASSETTI 1979, II, pp. 514515; DE ROSSI 1980, pp. 74-76). La rocca dei Savelli fu costruita nel XIII secolo sui resti di una precedente fortificazione (cfr. KRAUTHEIMER 1980, pp. 385-386 e DELOGU 1983, p. 711). La chiesa di S. Nicola sorgeva nel castrum Caietani, acquistato dal cardinale Fran- cesco Caetani nei primi anni del XIV secolo (cfr. RIGHETTI TOSTI CROCE 1983, pp. 497-510, con riferimenti bibliografici). 11 A proposito del castello di Cornazzano cfr. TOMASSETTI 1979, pp. 72-74; DE ROSSI 1980, pp. 193-194). 12 Per la chiesa di S. Alessandro a Toffia e dell’annesso convento (i suoi resti sono stati recentemente distrutti per far posto ad una nuova costruzione) si rimanda a THEULI, COCCIA 1967, pp. 290-293. TECNICHE MURARIE E ORGANIZZAZIONE DEL CANTIERE A ROMA E IN AREA ROMANA NEI SECOLI XII-XIV: ALCUNI INDICATORI 353 tempo permette così, da una parte, di risalire ad una distinzione fra le consuetudini locali e, dall’altra, d’interpretare con chiavi di lettura specifiche, proprie della cultura locale, lo sviluppo della tecnica costruttiva a blocchetti lapidei. Bibliografia Fig. 13. - Tivoli (RM), Casa in via del Tempio d’Ercole 16: particolare della facciata (XIII secolo). Grotta Marozza (XIII secolo), a Montecelio, nei ruderi del castello di Marcellino, presso Marcellina (primi del XIII secolo), e di Saracinesco (XIII secolo) ed ancora nel castello sul colle S. Croce (XIII secolo) 13; a Tivoli, dove il materiale, quasi del tutto di recupero, risulta appena sbozzato o spaccato (fig. 13). Si può dunque riconoscere, nella conformazione, più o meno regolare e squadrata, e nel grado di lavorazione dei blocchetti lapidei (semplicemente sbozzati o finiti almeno sulla faccia a vista), due parametri significativi (e oltre a quelli dimensionali, della messa in opera e delle caratteristiche dei giunti e della malta) ai fini della loro collocazione entro cantieri e ambiti cronologici definiti. Il riconoscimento del carattere degli elementi distintivi precedentemente descritti e del loro sviluppo nel 13 Per Grotta Marozza, i castelli di Marcellino e Saracinesco e l’insediamento sul colle di S. Croce, cfr. COSTE 1988, pp. 398-400. BARCLAY LLOYD 1985 = J. BARCLAY LLOYD, Masonry tecniques in medieval Rome c. 1080-1300, in BSR, LIII, 1985, pp. 225-276. BERNARDI, ESPOSITO 2009 = PH. BERNARDI, D. ESPOSITO, Recyclage, récuperation, remploi. Les diverses formes d’usage de l‘«ancien» dans l’architecture du Xe au XIIIe siècle, in P. TOUBERT, P. MORET (edd.), Remploi, citation, plagiat. Conduites et pratiques médiévales (Xe-XIIe siècle), Madrid 2009, pp. 191-210. BIANCHI 1996 = G. BIANCHI, Trasmissione dei saperi tecnici e analisi dei procedimenti costruttivi, in AArchit, 1, 1996, pp. 53-65. BRACCIOLINI 1940 = P. BRACCIOLINI, Narracio de varietate Fortunae, in R. VALENTINI, G. ZUCCHETTI (a cura di), Codice topografico della città di Roma, III, Roma 1940, p. 245. 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Un accumulo di ‘conoscenze’ perennemente ‘in fieri’, suscettibile cioè di continui nuovi incrementi, stimati solo per l’Italia in circa 1.000 esemplari all’anno, dei quali più della metà riferibili a Roma. Dietro e dentro questi numeri – che restano parziali e solo indiziari di una realtà produttiva non definibile nelle sue effettive dimensioni – si muove comunque una storia articolata e progressiva di lunga durata – circa dieci secoli – che allo stato attuale si lascia leggere con sufficiente attendibilità almeno nelle sue linee portanti. La scansione temporale dei flussi di produzione – almeno nelle sue linee essenziali – è ormai generalmente definita nei seguenti termini: una crescita continua e ininterrotta – quasi impetuosa – tra la nascita del principato e l’età severiana; un sensibile rallentamento nella seconda metà del III secolo e, in sequenza, un ciclo non lineare – di ascesa e discesa – dall’età protocostantiniana fino ai secoli dell’altomedioevo, decisivi per Roma come terminali irreversibili di processi secolari in relazione alla stabilità, alla fruizione, alla diffusione sociale, ai diversificati caratteri assunti nel tempo dalla produzione epigrafica, dunque un diagramma diacronico di espansione e contrazione dell’uso di ‘scrittura esposta’ 1. Si trattò – in principio – di una vera e propria ‘esplosione epigrafica senza precedenti’ 2, cresciuta costantemente nel corso dei primi tre secoli nelle città dell’impero, piccole e grandi che fossero, fino a configurare una ‘koiné epigrafica’ che, almeno fino al V secolo, rimane sostanzialmente omogenea 3 pur considerando le variabili di densità e diffusione che emergono soprattutto a Roma, in Italia e in alcune aree provinciali dell’Impero come l’Africa e le Gallie. L’avvio di un fenomeno di queste dimensioni – che trova il suo epicentro in età augustea – ha la sua ragion d’essere in una molteplicità di motivazioni tra loro complementari, relative ad una apprezzabile diffusione dell’alfabetizzazione, alle dinamiche demografiche, alla economia, agli assetti politico-ideologici, all’immaginario collettivo: tutti fattori che, nel loro sviluppo estensivo, si collocano non a caso nell’età proto e medio imperiale «in concomitanza, da un lato con la formazione di un largo senso di appartenenza...dall’altro con il convincimento indotto e diffuso tra gli utenti di essere partecipi di una svolta epocale, dell’inizio di un nuovo saeculum in cui l’ordine instaurato si sarebbe perpetuato» 4. In questo orizzonte quasi naturalmente si andò consolidando una vera e propria ‘consuetudine’ all’uso della scrittura epigrafica, che la storiografia contemporanea ha condensato nel concetto di epigraphic habit 5. E, in effetti, soprattutto nei primi tre secoli dell’impero il me- PETRUCCI 1986, p. 3. 2 PANCIERA 2006, p. 100. 3 MZOREK 1973, pp. 113-118 e MZOREK 1988, pp. 61-64; nel diagramma annesso (MZOREK 1973, p. 114) si osserva come nell’arco temporale compreso tra l’età augustea e il 268-284 le iscrizioni latine (Mzorek fonda l’esemplificazione sulle testimonianze datate) raggiungano il picco massimo nell’età di Settimio Severo; HARRIS 1991, pp. 320-324. Le statistiche elaborate da Mzorek sono riprese e adeguatamente commentate da MACMULLEN 1982, pp. 243-245. 4 PANCIERA 2006, p. 100. 5 Su questo concetto vd. MANN 1985, pp. 204-206; MEYER 1990, pp. 74-96; BODEL 2001, pp. 6-10 il quale nella genesi e nello sviluppo di questo fenomeno vede piuttosto una pluralità di fattori concomitanti, oltre a quello di ‘ordine psicologico’ (fiducia nei riguardi del futuro) sottolineato da MacMullen; per una sintesi aggiornata 1 356 CARLO CARLETTI dium epigrafico sembra riflettere una società di dialogo, nella quale emittenti e riceventi sono molteplici e di fatto socialmente trasversali 6: un macrofenomeno che trova la sua giustificazione prossima nella complementarietà degli elementi di complessità che qualificano lo spazio fisico e culturale, che per eccellenza può ritenersi il terreno di gestazione e di sviluppo dell’uso di ‘scrittura esposta’, vale a dire la città. È, infatti, negli insediamenti urbani – piccoli o grandi che fossero – e nel loro immediato suburbio, che si registra una estesa e diffusa esposizione di prodotti epigrafici, presenti dappertutto in tutte le loro declinazioni funzionali, che prevedevano ciascuna specifiche norme e procedure - testuali e formali - consolidate e generalmente osservate 7. Fino all’età severiana, la pluralità funzionale e la prevalente ubicazione in spazi aperti dei prodotti epigrafici ne avevano deterrminato una sostanziale omogeneità produttiva nei suoi esiti formali, estetici, trasmissivi. A tale risultato concorrevano l’elaborazione di un linguaggio con proprie strutture testuali e con un repertorio formulare codificato dall’uso (e perciò più facilmente riconoscibile e memorizzabile dal pubblico anche nelle forme abbreviate), nonché la progressiva canonizzazione di uno stilema grafico uniforme: la «capitale epigrafica». Sul piano tecnico-esecutivo si erano consolidate specifiche competenze nella scelta di supporti adeguati agli scopi previsti e compatibili ai contesti monumentali di appartenenza, nell’organizzazione degli spazi di scrittura e nel trattamento delle forme grafiche: la scomposizione prospettica dei tratti delle lettere ottenuta mediante la tecnica – tipicamente romana – dell’incisione a sezione triangolare; l’impaginazione armoniosamente simmetrica nell’equilibrio tra spazi vuoti e pieni e nella variazione modulare dei caratteri e degli spazi interlineari e dei margini; la definizione di uno specchio epigrafico con modanature e cornici; infine l’inserimento sintatticamente coerente di apparati figurativi. Tecniche e dispositivi, che concorrevano alla realizzazione di prodotti formalmente rigorosi e pienamente leggibili o quantomeno percepibili sul piano figurale, esito dell’attività di botteghe epigrafiche nelle quali si erano radicate eccellenti abilità professionali. Litteras lapidarias scio dice Hermeros nel Satityricon (58, 7) quasi a significare che il suo livello di alfabe- di queste problematiche e delle relative interpretazioni vd. TROUT 2009, pp. 170-186. 6 PETRUCCI 1986, pp. 3-6; CAVALLO 1991, pp. 203-204. tizzazione derivava anche dalla consuetudine con le scritture esposte, che lui come altri potevano quantomeno visivamente percepire se non compiutamente leggere negli spazi aperti della città. Di fatto nei pimi tre secoli dell’età imperiale l’espansione e l’alto livello tecnico-esecutivo raggiunto dalla produzione scritta esposta aveva condotto la scrittura epigrafica (e soprattutto quelle monumentale di apparato) al vertice di una gerarchia ideale della norma grafico-espressiva. Le trasformazioni nel tardo antico, ovvero ‘la terza età dell’epigrafia’ Nel corso dell’età severiana nella produzione epigrafica iniziano a manifestarsi le prime alterazioni, destinate ad una sempre maggiore incidenza nel corso della tarda antichità e dell’altomedioevo. Questa fase ultima dell’epigrafia romana è stata efficacemente definita da Gabriel Sanders come ‘terza età dell’epigrafia’: un concetto storiografico che non vuole indicare né stigmatizzare un’epoca di irreversibile senescenza, ma individuare nella produzione dei secoli IV-VIII aspetti e momenti «di sopravvivenza, di rinnovamento o di caduta dei linguaggi epigrafici» 8. In questa direzione particolarmente significativi si rivelano – sopratutto a Roma – i materiali conservati negli insediamenti catacombali romani che, seppure generalmente trascurati nella storia della scrittura epigrafica tardo antica, non passarono però inosservati all’attenzione di uno studioso come Armando Petrucci, che ne intuì il notevole potenziale documentario per la storia ‘globale’ della scrittura romana e, in particolare, in direzione della sua diffusione sociale, tanto da suggerirgli l’icastica immagine delle catacombe come «vere e proprie città sotterranee dello scritto» 9. Negli oltre km 100 di estensione lineare delle gallerie dei cimiteri di Roma, in un insieme di oltre 50.000 esemplari, si conserva una sorprendente varietà di soluzioni epigrafiche. Accanto alle iscrizioni lapidarie, normative per eccellenza, convivono quelle rubro, nigro o albo pictae, quelle a mosaico e in opus sectile, quelle ‘a sgraffio’ su intonaco e talora su marmo o supporto fittile, quelle variamente impresse a sigillo e quelle infine, numerosissime e neglette, cosiddette ‘a nastro’, PETRUCCI 1986, p. 3. Vd. in DONATI 1988, pp. 5-6. 9 PETRUCCI 1995, p. 49. 7 8 PRODUZIONE EPIGRAFICA TRA TARDA ANTICHITÀ ALTO MEDIOEVO. DISCONTINUITÀ E TRADIZIONE tracciate cioè sulla malta ancora molle che fissava le lastre di chiusura (marmoree o fittili) alle bocche dei loculi. Questa convivenza di tecniche tra loro diverse e per molti aspetti ‘empiriche’ e talvolta palesemente ‘extraofficinali’ non costituisce in sé sintomo di una complessiva crescita dell’utenza, come anche indicato in piena età tardoantica dall’aumento delle sepolture anepigrafi. Un insediamento emblematico di questa realtà è il cimitero di Commodilla sulla via Ostiense 10. In questa vasta necropoli, attiva con diversificate fasi di intensità dalla metà del IV secolo alla seconda metà del VI, emerge in termini espliciti come si fosse ormai ineluttabilmente avviata una accentuata disomogeneità sociale nella utenza delle ‘iscrizioni ultime’. Due regioni campione, particolarmente significative per il numero altissimo di sepolture ancora intatte – quella di Leone officialis annonae e della galleria Bb – presentano dati significativi: su un complesso di 852 sepolture, tutte o quasi nella tipologia del loculo parietale, soltanto 68 recano una iscrizione, cioè l’8% 11. Per tutte le altre gli unici ‘segnacoli’ visibili – ma non identificativi dei defunti – sono i segni cristologici tracciati sulla malta ancora fresca dei loculi e/o la presenza, sul medesimo supporto, di lucerne fittili, recipienti vitrei, oggettini di avorio e osso, pezzetti di marmo multicolore, ovvero resti del pasto rituale (refrigerium) come valve di conchiglie, chiocciole, lische di pesce 12: una gran parte degli inumati giaceva in definitiva nel più totale anonimato. Una realtà speculare si osserva in altre coeve aree funerarie: nella regione del I piano del cimitero di Panfilo sulla via Salaria vetus (gallerie A13-A24) 13, nel cimitero di S. Agnese sulla via Nomentana 14, in quello dei SS. Marcellino e Pietro sulla via Labicana 15, le sepolture iscritte si attestano rispettivamente al 3%, al 14%, al 10%. Questo squilibrio si avverte sensibilmente anche nelle enormi basiliche cimiteriali a deambulatorio erette tra circa il 330 e il 350 16. Sulla via Appia entra in attività la basilica Apostolorum, dove tra il primo CARLETTI 1994, pp. 3-27; DE SANTIS 1994, pp. 23-51. La sua azione come committente di una vasta regione cimiteriale è documentata da una iscrizone rubro picta esposta nel suo cubicolo di famiglia (ICVR III, 8669) 12 Vd. FÉVRIER 1978, pp. 262-263. 13 ICVR X, 26549, 26550, 26556, 26571, 26576, 26583, 26590, 26592, 26609, 26613. 14 ARMELLINI 1880, pp. 354-361. 15 GUYON 1986, pp. 315-317. 10 11 357 quadriennio del IV secolo e la metà del VI secolo (il periodo di massima attività) 17, trovarono posto circa 1.000 inumati: 200 negli arcosoli ricavati lungo il perimetro, 800 nelle forme scavate sul piano di calpestio. Qui, rispetto ai coevi cimiteri ipogei, le differenze, oltre che nelle ovvie diversità morfologiche e strutturali delle sepolture, emergono anche e – soprattutto – nella frequenza della memoria scritta che accompagna le sepolture visibili: l’incidenza delle iscrizioni (586), tutte lapidarie, raggiunge un livello altissimo, attestandosi quasi sul 60%. È il segno inequivocabile della presenza di un’utenza in gran parte diversa per estrazione sociale e culturale e per capacità economiche rispetto alle masse per lo più anonime deposte in alcune aree dei cimiteri sotterranei. E, in effetti, le grandi basiliche martiriali dislocate sulle vie Appia, Cornelia, Ostiense, Flaminia, Nomentana, Tiburtina, Labicana per il prestigio dei martiri eponimi (Pietro, Paolo, Valentino, Agnese, Lorenzo, Marcellino e Pietro) e per la loro visibilità monumentale, si configurano fin dal loro sorgere come dimora ultima prediletta dalle ‘gerarchie’ della società, ecclesiastiche e laiche. In questi insediamenti – quasi quartieri esclusivi in termini di effettiva visibilità – fondano la loro ultima dimora personaggi di altissimo rango come Iunius Bassus praefectus urbi 18, Sextus Claudius Petronius Probus prefetto del pretorio 19, Amnia Demetrias della famiglia degli Anicii 20, Anicius Probus console del 525 21, Flavius Avitus Marinianus console del 423 22, Rufius Postumianus praefectus urbi dell’anno 400 23 e un gran numero di viri clarissimi e clarissimae feminae, ecclesiastici, funzionari dell’amministrazione pubblica ed ecclesiastica, facoltosi commercianti, artisti famosi, come Vitale, mimo e ventriloquo 24. Il prestigio di questi defunti eminenti è anche significato dalle dimensioni enormi dei supporti che accolgono gli elogia funerari, come si può osservare in alcune esemplari della basilica di S. Paolo f.l.m. per le iscrizioni del lettore Cin- TOLOTTI 1982, pp. 153-211; TORELLI 1992, pp. 203-217; FIOCNICOLAI 1995-1997, pp. 776-786. 17 Questa l’attendibile stima formulata da TOLOTTI 1982, p. 161. 18 ICVR II, 4164, a. 359. 19 ICVR II, 4219 † 388. 20 ICVR VI, 15764, metà V secolo. 21 ICVR II, 4222. 22 ICVR II, 4102. 23 ICVR II, 4782. 24 ICVR V, 13655; COLAFRANCESCO 2006, pp. 213-228. 16 CHI 358 CARLO CARLETTI Fig. 1. - Palermo. Insegna bilingue di una bottega epigrafica. namius Opas 25, della clarissima femina Matrona 26, del presbitero Felix 27, di Mandrosa 28. Questi contenitori funerari di committenza imperiale ed ecclesiastica si imponevano come grandiose strutture monumentali, come catalizzatori della pratica funeraria tardo antica e, più in generale, come strutture ‘nuove’ nel paesaggio suburbano della città. Subentrano gradualmente alla sepoltura sotterranea nelle catacombe, caratterizzandosi come giganteschi e razionali container, capaci di accogliere migliaia di tombe: iscritte per le élites, anepigrafi per ‘i comuni mortali’ per lo più stratificati nelle grandi fosse terragne. Fig. 2. - Roma. Insegna di una bottega epigrafica. Per l’ars epigraphica non abbiamo un corrispettivo del de Architectura. Nondimeno – almeno ‘metaforicamente’ – si può tentare di entrare in una bottega epigrafica, sottolineando subito che allo stato attuale non abbiamo evidenze archeologiche attribuibili alla struttura fisica, alla articolazione, alla contestuale strumentazione di un definito e riconoscibile impianto di produzione 29. E tuttavia la possibile testimonianza archeologica di un atelier epigrafico può forse riconoscersi in due ambienti rinvenuti ad Ostia nel 1913 in prossimità del teatro romano, forse riferibili al labora- torio di un marmorarius, dove – secondo una recente ‘rilettura’ di Buonopane – venivano prodotti anche monumenti iscritti: lo indicherebbero la presenza di scaglie di marmo e una lastra con molte lettere tracciate in rosso, riconducibile plausibilmente ad una minuta epigrafica 30. La sostanziale assenza di informazioni sui luoghi fisici di produzione è – seppur molto parzialmente – compensata da alcuni esemplari epigrafici che si riferiscono a officine epigrafiche, a procedure di lavorazione, al nome di qualche lapicida o calligrafo, come attestato dalle insegne di Palermo (fig. 1) 31 e di Roma (fig. 2) 32, da un’iscrizione sacra di Philippi (Macedonia) 33, da due testi mutili urbani (fig. 3) 34, nonché dalla firma del celeberrimo calligrafo Furius Dionysius Philocalus incisa sul margine di alcuni elogia martyrum composti da papa Damaso (fig. 4) 35. Da questa documentazione tuttavia emerge per un verso un lessico generico (scribere, inscribere, incidere, sculpere, insculpere, scariphare) – e non sempre propriamente tecnico – per indicare l’azione «del produrre un’iscrizione», per l’altro l’occorrenza di un apax come il lemma ordinare dell’insegna di Palermo, certamente in antico recepita come un ICVR II, 4815, a. 377. ICVR II, 4928, a. 452. 27 ICVR II, 4958, a. 471 28 ICVR II, 4985, a. 485. È quanto opportunamente osservato da FIOCCHI NICOLAI 2009, pp. 330-331. 29 Sulle linee guida preliminari per l’analisi dei molteplici aspetti connessi alla produzione e alla organizzazione del lavoro di una bot- tega epigrafica vd. SUSINI 1966; SUSINI 1979, pp. 45-62; MANACORDA 1980; SUSINI 1982, pp. 78-79. 30 CIL XIV, 5305; BUONOPANE 2012, pp. 201-206. 31 CIL X, 7296. 32 CIL X, 7296; CIL VI, 9556. 33 CIL III, 633, 2; RICCI, NONNIS 2007, pp. 49-50, 56, n. 22. 34 CIL VI, 5064, 9557; MANACORDA 2000, pp. 277-289. 35 ED, nn. 18, 182, 27. La bottega epigrafica: discontinuità e trasformazioni delle tecniche produttive 25 26 PRODUZIONE EPIGRAFICA TRA TARDA ANTICHITÀ ALTO MEDIOEVO. DISCONTINUITÀ E TRADIZIONE Fig. 3 (a sinistra). - Roma. Frammento di un’insegna di bottega epigrafica. Fig. 4 (a destra). - Roma. Musei Vaticani. Firma del calligrafo Furius Dionysius Filocalus sul margine sinistro di un frammento di un elogio damasiano tecnicismo, che secondo la vulgata storiografica avviata da Jean Mallon, si riferibbe alla seconda fase della «genesi del prodotto epigrafico», quella «de la composition épigraphique», in cui un artigiano ‘specializzato’ – che Mallon chiama ordinator in riferimento all’insegna palermitana – «muni d’un morceau de craie ou de charbon ou d’une pointe sèche ou d’un pinceau, traduit en lettres monumentales sur la surface de la pierre la rédaction qui on lui a remise» 36. Sulla scorta di quanto esposto si deve riconoscere che i nostri elementi di conoscenza relativi ai mutamenti intervenuti nelle tecniche esecutive epigrafiche non sono sostenuti nè da una ‘teorica’ nè da una definito lessico di tecnicismi nè dalla presenza degli ambienti fisici di produzione. In questa direzione pertanto lo strumento di indagine pressoché esclusivo rimane quello dell’osservazione autoptipca di prodotti ‘finiti’, e ancor più di quelli ‘non finiti’, riutilizzati, ovvero anche scartati. I concreti e più evidenti indicatori che progressivamente intervengono nella produzione epigrafica postclassica, come sintomi di allontanamento e devianza rispetto al modello normativo della prassi epigrafica romana dei primi tre secoli, possono così sintetizzarsi: 359 Fig. 5. - Catacomba di S. Callisto. Epitaffio di Titus Eupor. (a) Un primo palese mutamento si riconosce nell’inosservanza di una preventiva deliminazione dello ‘specchio epigrafico, cioè della superficie destinata ad accogliere il blocco-testo. Di conseguenza in molti prodotti, superficie del supporto e specchio epi- grafico coincidono, ovvero anche su supporti di medio-grandi dimensioni il testo si dispone in maniera asimmetrica o comunque decentrata, per l’assenza di una squadratura preventiva, di linee di guida funzionali all’allineamento e alla giustezza dei righi e all’uniformità modulare delle lettere. In questo sostanziale empirismo, risulta compromesso anche l’equilibrio tra testo scritto e apparato figurativo, con esiti talvolta paradossali, ma in qualche caso – va riconosciuto – vivacemente espressivi (fig. 5) 37. (b) Per quanto riguarda più specificamente l’uso e il trattamento dei sistemi di scrittura, già intorno alla metà del IV secolo, nel tessuto grafico si inseriscono tipologie in sé non destinate alla produzione epigrafica, e men che mai a quella lapidaria. Mi riferisco ai due sistemi peculiarmente tardo antichi e – nei loro successivi sviluppi – largamente impiegati anche nella produzione altomedievale: la minuscola – o corsiva nuova – (con ductus posato o corsivo a seconda dei contesti, delle tecniche scrittorie usate e del livello di competenza degli scriventi) e l’onciale, presenti, l’una e l’altra, per lo più nelle iscrizioni ‘a sgraffio’ e in quelle ‘a nastro’ (tracciate su supporto molle), ma ben individuabili dove meno ce lo aspetteremmo, cioè nei titoli lapidari. Si osserva dapprima una presenza sporadica con la presenza di singole lettere (soprattutto la E e la D per l’onciale, la S, la R, la A per la minuscola) in iscri- 36 MALLON 1952, p. 58. Credo tuttavia che non si possa in assoluto dare per scontata la lettura proposta da Mallon, anche perché la forma ordinare dell’insegna di Palermo – un unicum nell’accezione proposta da Mallon – si palesa con ogni evidenza come riferita ad una produzione destinata ad edifici pubblici e sacri, cioè ad una epigrafia monumentale di apparato, che in ultima analisi sembra essere stata la ‘specializzazione’ propria della bottega palermitana, non a caso espressemente descritta nell’insegna. È dunque possibile che ordinare si rifesca ad un passaggio preliminare relativo alla simmetrica collocazione di un testo epigrafico nello spazio ‘preordinato’ di una struttura architettonica complessa. Ma su questo problema mi riprometto di ritornare in seguito. 37 ICVR IV, 12499. 360 CARLO CARLETTI Fig. 8. - Catacomba di S. Callisto. Epitaffio di Leopardus del 369. Fig. 6. - Napoli (da una catacomba romana). Epitaffio di Victorinus del 330. Fig. 7. - Catacomba di S. Sebastiano. Epitaffio di Sanctula del 402. zioni ancora di impianto capitale fino a giungere a prodotti di impianto totalmente onciale o minuscolo (figg. 6-7) 38, con esempi non infrequenti di commistione, chiaramente derivata dalla scrittura usuale, nella quale – come indicato dai graffiti – spesso sono simultaneamente presenti le tre tipologie capitale, minuscola e onciale (fig. 8 ) 39. L’uso della capitale pur rimanendo dominante – almeno nella produzione corrente lapidaria – mostra evidenti sintomi di distacco rispetto alla norma officinale di tradizione al punto da legittimare la definizione di ‘capitali atipiche’ per indicare tutte quelle forme grafiche caratterizzate da un tratteggio disarticolato ovvero modificato – talvolta anche sensibilmente – nella sua struttura formale. In questi esiti si coglie un evidente contagio con le scritture usuali ‘elementari di base’, veicolate dalla miriade di iscrizioni a sgraffio e a ‘nastro’ (fig. 9) 40. (c) Emerge poi un aspetto nevralgico, che si propone come sintomo profondamente divisivo rispetto alla più peculiare delle abilità tecniche di una bottega epigrafica di età proto e medio imperiale. È la progressiva riduzione dell’uso dell’intaglio a ‘sezione triangolare’ che, generando una scomposizione prospettica di ogni tratto della lettera, produceva un forte effetto chiaroscurale e dunque un alto tasso di leggibilità. A questa tecnica, non sempre e non dovunque, subentra l’altra – di più semplice e rapida esecuzione – dell’incisione ‘a cordone’ realizzata non già con lo scalpello (scalprum) a tagliente rettilineo, ma con uno strumento a punta conica, piramidale o curva (subbia-subula) disposto perpendicolarmente al piano di incisione. Gli esiti sono evidenti nei solchi pesanti, slabbrati, disomogenei o all’inverso, nei tracciati filiformi più graffiti che incisi o, ancora, nella frequentissima spezzatura dei tratti curvi. E proprio da questo ultimo fenomeno – quello appunto della ten- CARLETTI 2003, pp. 53-55, n. 7; CARLETTI 2012, pp. 223-242. ICVR IV, 11101. 40 ICVR III, 6498 dell’anno 348: è qui notevole la locuzione iscrise Donatus tracciato dall’esecutore di questa iscrizione ‘a nastro’ con il modulo. 38 39 PRODUZIONE EPIGRAFICA TRA TARDA ANTICHITÀ ALTO MEDIOEVO. DISCONTINUITÀ E TRADIZIONE 361 denza alla spezzatura dei tratti curvi – deriva la ‘teorizzata’ tipologia delle «lettres carres», ritenuta impropriamente come una sorta di ‘stilizzazione’ correlata ad una improbabile oltre che indimostrabile influenza dell’originario alfabeto germanico, appunto il runico 41. Si tratta invece – anche qui – come indicato da Paola Supino Martino 42, dell’esito mediato della generalizzata semplificazione delle tecniche esecutive: in definitiva di un processo ‘dal basso’ che veicolò nelle Fig. 9. - Catacomba di Domitilla. Iscrizione ‘a nastro’ del 348. scritture epigrafiche le forme di una ‘vulgata grafica’ sostazialmente empirica e non normativa, caratteristica di quei non pochi scriventi rimasti ai primi rudimenti dell’insegnamento elementare di base. (d) Un altro sintomo evidente della progressiva e diffusa alterazione qualitativa delle procedure officinali va individuato nel ricorso sempre più frequente alla pratica del reimpiego e dunque dell’uso di ‘materia scrittoria’ occasionale (per lo più stele, coperchi e fronti di sarcofago, elementi architettonici, scarti di lavorazione), che spesso per natura, forma e lavorazione si rivelavano generalmente poco funzionali ad accogliere scrittura nelle sue molteplici procedure normative e strumentali. La riutilizzazione poi di materiali epigrafici – e non di rado di quelli ancora in uso – proprio perché già iscritti, poteva determinare ulteriori alterazioni ed empiriche semplificazioni. Sempre più frequenti, e certo molto più che nell’età precostantiniana, le lastre opistoFig. 10. - Catacomba di S. Callisto. Lastra marmorea del 542 riutigrafe: nel già ricordato cimitero di Commodilla raglizzata - previa abrasione - nel 565. giungono il 6% e non di rado vengono ‘strappate’ dalle originarie sepolture, sicchè uno stesso supporto mente diffusa nel corso del IV secolo 44, si giunge epigrafico in breve lasso di tempo emigra più volte alla cancellazione più o meno accurata di testi già da una tomba all’altra 43. Ma la crescente penuria iscritti (e talvolta ancora in uso) per inciderne di dei materiali – soprattutto marmorei – e il loro costo nuovi o all’introduzione di nuovi testi negli spazi commerciale sollecitano altre soluzioni: dall’opiinterlineari e nei margini, spesso capolvolgendo le stografia, che è la modalità di reimpiego maggiortabulae (fig. 10) 45. Su un medesimo supporto, in un Così GRAY 1948, pp. 60-61. SUPINO MARTINI, PETRUCCI 1978, pp. 45-101; SUPINO MARTINI 2001, pp. 922-968. 43 CARLETTI 2001, pp. 340-341; ICVR II, 6035 (a. 381), 6069 (aa. 385, 386). 41 42 44 ICVR II, 6035 (a. 381), 6069 (aa. 385-386), 6072 (a. 415), 6078 (a. 428-429), 6079 (a. 430) e inoltre 6103, 6116, 6123, 6251, 6264, 6296, 6299 assegnabili tra la fine del IV e la metà del V secolo. 45 ICVR IV, 11174 362 CARLO CARLETTI Fig. 11. - Roma. Macellum Liviae sull’Esquilino. Graffiti di una taberna. arco di tempo anche breve, si susseguono due, tre, quattro epitaffi successivi e non sempre si ha cura di cancellare i testi precedenti: una lastra di S. Paolo f.l.m. 46 accolse il primo epitaffio all’inizio del V secolo e poi, nel corso di circa 120 anni, quelli di Dextrus, di Viator vir honestus horrerarius, infine di Istephania morta nell’anno 555 26. Analogamente all’inizio del VI secolo nella chiesa di S. Prassede per la sepoltura di Adeodatus, trovò la sua ultima collocazione una lastra marmorea già impiegata tre volte – evidentemente in un cimitero suburbano – per le sepolture di Aurelia Victoria, di Sabbatius, di Palumbus 47. (e) La gran parte degli esiti grafici cui si è sopra accennato trovano il loro primario ambito di gestazione nella pratica della epigrafia funeraria di routine e soprattutto delle scritture estemporanee a sgraffio, che si propongono come il più vasto e variegato deposito di scrittura usuale. Uno sguardo, anche sommario, all’ubicazione, ai contenuti e alle forme di queste ‘performaces’ grafiche individuali fornisce un’idea sufficientemente definita dei mutamenti che si introducono in questo ambito della produzione epigrafica nei secoli centrali della tarda antichità 48. A fronte di una sensibile riduzione degli spazi di esposizione fisica e della generalizzata cristallizzazione dei messaggi, si osserva negli impianti grafici un progressivo mutamento della prassi tradizionale con la simultanea e disordinata compresenza – a partire in particolare dal IV secolo – di elementi capitali, minuscoli, onciali. L’emergenza sincronica di que- ICVR II, 5732; IREP, 2096, fig. 208. IC, I, 937. 48 Per uno sguardo di insieme sulle iscrizioni estemporanee a sgraffio tra tarda antichità e altomedioevo vd. WARD PERKINS 2005, pp. 46 47 sti fenomeni è il segnale esplicito che un tratto peculiare della società urbana romana - la cosiddetta ‘letteratura di strada’ – stava ormai volgendo al termine. In questo panorama una delle ultime e più significative testimonianze ancora ‘laiche’ – e quasi residuali – di scrittura estemporanea è costituita dai graffiti tracciati in età protocostantiniana sulle pareti di un’osteria adiacente al macellum Liviae sull’Esquilino (fig. 11) 49: sono iscrizioni di argomento del tutto profano (elenchi di nomi, giochi di parole, immagini varie) tracciate in una regolare e controllata minuscola posata. Nel corso degli ultimi decenni del IV secolo il luogo dell’esposizione dei graffiti, da plurale e spazialmente estensivo quale era stato per circa quattro secoli, si avvia a concentrarsi nel chiaroscuro delle chiese e nel buio dei santuari ubicati nelle catacombe. Questa diversa dislocazione fisica culturale e sociale è un diretto indotto dell’emergenza di due fattori sostanzialmente concomitanti: per un verso una progressiva e generalizzata riduzione dell’alfabetizzazione soprattutto nell’ambiente laico, per l’altro l’improvvisa e tumultuosa esplosione del culto dei martiri. A Roma – almeno fino all’VIII secolo (cioè fino all’avvio delle traslazioni in urbe) – i poli di attrazione sono i santuari del suburbio dove continuano ad abitare i ‘defunti eccellenti’ – i martiri – ai quali i devoti visitatori (soprattutto gli ecclesiastici) indirizzano messaggi devozionali spesso autografi 50. Epilogo I fenomeni ora esposti – con diversi livelli di incidenza e con esiti dissimili da luogo a luogo – si manifestano dapprima nel corso del IV secolo per poi accentuarsi sensibilmente nei due secoli successivi e quindi affermarsi nell’altomedioevo, quando ‘lo strappo’ rispetto alla tradizione tardoantica di fatto si ‘normalizza’ e produce – almeno in apparenza – nuovi ‘stili epigrafici’, che non a caso sempre più guardano ai modelli della produzione libraria financo nell’im- 163-167; CARLETTI 2011, pp. 682-683. 49 CASTRÉN 1972, pp. 69-87, vd. in particolare i nn. 17, 18, 25, 27, 40. 50 CARLETTI 1995, pp. 197-226; CARLETTI 2002, pp. 323-360. PRODUZIONE EPIGRAFICA TRA TARDA ANTICHITÀ ALTO MEDIOEVO. DISCONTINUITÀ E TRADIZIONE 363 spondore con le abilità del passato alla committenza più alta, quella appunto della curia apostolica. Di qui l’attività della bottega di Furius Dionysius Philocalus (fig. 12) 52 o di quelle che elaboravano gli epitaffi degli alti gradi del clero, e soprattutto le iscrizioni dedicatorie prodotte durante i pontificati di Leone I (fig. 13) 53, Simmaco, Vigilio (fig. Fig. 12. - Catacomba di S. Sebastiano. Elogio di Damaso in onore di S. Eutichio. 14) 54, per giungere ad esemplari come il constitutum di Gregorio Magno e, nel pieno altomedioevo, al capovaloro assoluto che conclude un secolo: l’epitaffio su marmo nero dedicato da Carlo Magno da papa Adriano (fig. 15) 55, un prodotto di assoluta eccellenza, che però non a Roma fu concepito e prodotto ma nel regno Franco e su committenza ‘dichiarata’ di Carlo Magno: post paFig. 13. - Basilica di S. Paolo f.l.m. Dedica di Leone Magno per i restauri della basilica. trem lacrimans haec paginazioni dei testi, come si osserva soprattutto nei Karolus scribsi, laddove scribsi in tal caso è evidentemente prodotti altomedievali 51. Emerge in sostanza una sorta da intendere come scribendum curavit. di stilizzazione della ‘semplificazione’, che diventa Una conclusione definitiva che organicamente tenesse norma. conto di quanto esposto o soltanto accennato nel corso E tuttavia a Roma, dove il consumo di produzione epidi questo contributo rischierebbe – credo – di tracimare grafica già verso la fine della tarda antichità tende a ponella semplificazione o sottovalutazione di temi e prolarizzarsi nell’ambito dell’élites ecclesiastiche, si registra blemi, che quantomeno richiedono ulteriori dati e con– almeno fino all’età di Gregorio Magno – una vivace soseguenti approfondimenti. Almeno in via provvisioria si pravvivvenza di esemplari di ‘nicchia’, prodotti in botpossono però indicare le cause interposte che tra la fine teghe di buon livello artigianale, ancora in grado di ridel mondo antico e l’altomedioevo – seppure con un trend PETRUCCI 1992, pp. 41-43. ED. 53 ICVR II, 4738. 51 52 54 55 ICVR IX, 24313. MEC I, tav. II, n.6. CARLO CARLETTI desultorio – determinarono le molteplici e non irrilevanti trasformazioni che coinvolsero la produzione di scrittura esposta a Roma e nel suo immediato suburbio. Sul piano della diffusione sociale il mutamento più rilevante ed evidente rispetto al passato, coinvolge in pieno dislocazione, committenza e utenza delle scritture esposte, che da fenomeno plurale – quale era stato pienamente nei primi tre secoli – tende a concentrarsi in ambiti sociali e culturali sempre più ristretti, anche in conseguenza del progressivo ridursi dell’alfabetismo, vale a dire della premessa culturale che sola poteva soFig. 14. - Catacomba dei Giordani. Dedica di papa Vigilio per i restauri eseguiti dopo stenere in vita la circolazione di scrittura espola scorreria di Vitige nel 545. sta con una funzione realmente trasmissiva: come concettualizzato da G. Cavallo – ad «una pratica aperta» si andava sostituendo «una pratica chiusa» 56. Era anche questo l’esito non già di un’irreversibile frattura epocale, ma di un processo di lenta ‘ridefinizione’ del rapporto tra scritture esposte e realtà urbana, che coinvolgeva spazi e supporti di esposizione, protagonisti e loro scelte, organizzazione e tecniche di produzione, nonché forme e contenuti dei messaggi veicolati, che, con le ovvie variabili spaziali e temporali, riproponevano il passato ovvero lo ‘rileggevano’ e lo modificavano in ragione di nuovi assetti e di nuove emergenze. In questa direzione – per richiamare una esemplificazione macroscopica di accumulo di prodotti epigrafici – i monumenti più appariscenti, vale a dire le chiese (urbane e suburbane) – diversamente dagli edifici pubblici della Roma imperiale – si presentavano all’esterno in veste quasi ‘dimessa’ e sistematicamente prive di iscrizioni. L’ostentata ricchezza e la monumentale sontuosità, visibile e godibile negli spazi aperti della città come rappresentata dall’epigrafia monumentale di apparato romana «finì lentamente per non essere più esteriore, diretta ai cittadini nel loro complesso, come avvenne nel primo Impero. Gli edifici delle chiese si risolvevano nella costruzione di facciate esterne abbastanza ‘spartane’ solo al loro interno si dispiegava la vera ricchezza di mosaici e di tendaggi» 57, di suppellettile liturgica, di marmi preziosi e multicolori e – si deve pur aggiungere – solo al loro interno si esponeva quella molteplicità di prodotti epigrafici (dedicatori, votivi, devozionali, funerari), che in età imperiale avrebbero trovato la loro naturale collocazione negli spazi aperti delle 56 Fig. 15. - Basilica Vaticana. Epitaffio di Adriano I. 57 CAVALLO 1991, p. 220; CARLETTI 2001, pp. 325-392. WICKHAM 1988, p.109. PRODUZIONE EPIGRAFICA TRA TARDA ANTICHITÀ ALTO MEDIOEVO. DISCONTINUITÀ E TRADIZIONE 365 città e nelle superfici esterne degli edifici, sacri o profani essi fossero, quando le iscrizioni esposte imponevano la loro visibilità, rivolgendosi di fatto non solo alla collettività dei potenziali leggenti ma anche a quei molti che in un’iscrizione potevano cogliere soltanto valori estetici, figurali, autoritativi. Non così negli edifici di culto cristiani dove per leggere o soltanto guardare i messaggi epigrafici bisognava – consapevolmente – varcare un limen che separava le suitable homes for Saints 58 dallo spazio pubblico esterno. Le cause remote dei fenomeni che coinvolgono la produzione epigrafica in età tardoantica e altomedievale vanno ricercate nella sincronica azione di molteplici fattori tra loro interdipendenti: la rarefazione dell’insegnamento elementare di base con il conseguente decadimento dell’alfabetizzazione sociale e più in generale gli elementi di ‘indebolimento’ delle forme materiali della città, tra i quali naturalmente emergono – in stretta relazione alle nostre problematiche – la riduzione quantitativa e qualitativa della produzione, la conseguente rarefazione di una manodopera specializzata con il conseguente ricorso a tecniche di lavorazione semplificate, spesso connotative di interi complessi epigrafici, dove come in molti insediamenti catacombali si moltiplicano prodotti ‘fai da te’ e comunque chiaramente ormai extraofficinali. In tale contesto appare emblematica anche la forte riduzione dell’uso delle ‘scritture ultime’ – quelle destinate ai morti – che da sempre erano state il propulsore primo di produzione epigrafica e che soprattutto avevano avuto larghissima e trasversale utenza sociale. In questa direzione i luoghi della sepoltura dell’altomedioevo, nella loro ubicazione spaziale, nelle loro morfologie, nella loro diversificate utenze, testimoniano una divaricazione ormai irreversibile: da una parte i cimiteri collettivi subdiali (cioè all’aperto) popolati da una folla di defunti anepigrafi e dunque anonimi; dall’altra la nicchia di rispetto delle gerarchie laiche e soprattutto ecclesiastiche, le cui sepolture vengono accolte, tutelate, rese visibili e ‘scritte’ nell’interno delle chiese urbane e comunque entro il ‘ristretto’ spazio della città. Questa forte e generalizzata contrazione, indotta da uno sviluppo cumulativo e sincronico di diversificati processi culturali, economici e sociali, produsse l’inevitabile effetto di allontanare dall’utenza epigrafica la cosiddetta ‘gente comune’, sia nel senso della promozione sia nel senso della fruizione: produrre iscrizioni Fig. 16. - Basilica di S. Prassede. Iscrizione di Pasquale I commemorativa della traslazione di reliquie dai santuari extra moenia. 58 L’espressone è di WARD PERKINS 2005, pp. 148-149. 366 CARLO CARLETTI nell’altomedioevo equivaleva in definitiva a ‘scrivere i grandi’, come efficacemente concettualizzato da Armando Petrucci 59. Anche per la storia plurisecolare della scrittura epigrafica romana si possono indicare momenti ed eventi che si propongono emblematicamente come espliciti indicatori di determinati percorsi di trasformazione. In tal senso particolarmente eloquente si rivela il fenomeno dell’ingresso dei morti in città. A Roma nel corso del IX secolo cadono nel più totale abbandono quegli spazi funerari del suburbio che per sette secoli – prima come luoghi ordinari di sepoltura (III-V secolo) poi come santuari martiriali – si erano proposti come protetti ‘spazi speciali’ di esposizione epigrafica, prima funeraria poi devozionale. A sigillo defintivo di questo processo è quasi d’obbligo il richiamo all’iscrizione commisionata da Pasquale I (817-824) esposta nella chiesa di S. Prassede, che certifica la traslazione di 2300 veneranda sanctorum corpora prelevati ex cymiteriis seu cryptis (fig. 16) 60. In definitiva un accumulo indistinto di ossa, che Pasquale I in prima persona sub sacro sancto altare summa cum diligentia propriis manibus condidit. E ancora a Roma – e sempre nel IX secolo – in un graffito di contenuto liturgico tracciato da un anonimo ecclesiastico su un affresco della catacomba di Commodilla, si colgono evidenti sintomi di una precoce ‘coscienza romanza’: una testimonianza di eccezionale importanza che segna un taglio epocale con il passato 61. Il percorso del mio contributo – come evidente – si è mosso essenzialmente nel panorama epigrafico della tarda antichità e dell’altomedioevo. Non si è trattato evidentemente di un’emarginazione di quanto passa e si trasforma nei secoli immediatamente seguenti, ma anzi – all’opposto – di un tentativo di mettere a fuoco la natura e la genesi degli aspetti caratterizzanti della prassi epigrafica post-classica. In queste dinamiche emerge con nettezza un dato significativo sul versante dei vettori che regolano e governano la produzione: è la sensibile riduzione delle iscrizioni di apparato di estrazione laica, che, per quantità e per qualità, risultano del tutto miPETRUCCI 1995, pp. 49-59. MEC I, tav. XXIX, n.1. 61 CARLETTI 1994, pp. 23-24. 62 PETRUCCI 1992, PP. 38-39. 63 CAVALLO 1991, P. 220. 64 CARLETTI 2000, PP. 439-459. 65 WARD-PERKINS 2005, P. 167. 59 60 noritarie rispetto alla produzione commissionata dalle gerarchie ecclesiastiche 62. Se nel mondo romano, in cui vi era una diffusa alfabetizzazione estesa trasversalmente a tutte le categorie sociali, l’uso delle scritture esposte (in tutte le loro declinazioni) si poneva come ‘pratica aperta’, all’opposto, tra la fine della tarda antichità e l’altomedioevo, la produzione epigrafica, rispetto al mondo antico, si era gradualmente ridotta nelle tipologie e nelle funzioni, diventando sempre più una ‘pratica chiusa’ riservate a ristretti ambiti sociali e/o agli stretti e limitanti ambiti dell’ecclesia 63. In questo orizzonte le iscrizioni accentuano la loro valenza autorappresentativa, autoritativa e simbolica come emerge con il massimo della evidenza nelle iscrizioni di apparato esposte nelle chiese urbane 64. E tuttavia non si trattò di un processo di rinnovamento susseguente ad un collasso, ma degli esiti intermedi – destinati cioè nel tempo ad ulteriori sviluppi – dei molteplici mutamenti intervenuti nella epigrafia tardoantica: un esito – certo non secondario – dello «extraordinary and faschinating decline in complexity that occured at the end of the empire» 65. Bibliografia ARMELLINI 1880 = M. ARMELLINI, Il cimitero di s. Agnese sulla via Nomentana, Roma 1880. BODEL 2001 = J.P. BODEL, The Roman Epigraphic Habit, in J.P. BODEL (a cura di), Epigraphic Evidence. Ancient History from Inscriptions, London-New York 2001, pp. 1-54. CARLETTI 1994 = C. CARLETTI, Storia e topografia della catacomba di Commodilla, in J.G. DECKERS, G. MIETKE, A. WEILAND, La catacomba di Commodilla. Repertorio delle pitture, Città del Vaticano 1994, pp. 3-27. CARLETTI 1995 = C. CARLETTI, Viatores ad martyres. Testimonianze scritte altomedievali nelle catacombe romane, in G. CAVALLO, C. 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L’attività di progettazione, realizzazione e posa in opera dei rivestimenti pavimentali e parietali è certamente da annoverare tra i più importanti settori produttivi che si svilupparono nella Roma imperiale e tardo antica. Si tratta in effetti di un insieme assai articolato di dinamiche di produzione e commercio che dovevano coinvolgere sia le professionalità artigianali e tecnico-artistiche, sia l’imprenditoria privata o anche statale. Forse proprio per la complessità del tema, legata alla molteplicità degli aspetti coinvolti, e anche per l’incompletezza e disorganicità dei dati disponibili, non se ne è finora proposto uno studio d’insieme né per il periodo indicato né tanto meno per l’alto medioevo 1. Ciò d’altronde è facilmente giustificabile se si tiene conto della disomogeneità del tema nella sua globalità. La varietà delle tipologie dei rivestimenti pavimentali e parietali, evidente non solo nella struttura e composizione, ma anche nelle caratteristiche stilistiche e iconografiche e nelle specifiche funzioni decorative, diventa infatti ancora maggiore – o comunque diversa – se è vista nell’ottica della realizzazione tecnica che di fatto è quella più adeguata quando si vogliono studiare le modalità della produzione. Potrà allora essere utile delineare, innanzitutto, un quadro diacronico delle tipologie decorative di rivestimento in uso nell’area di Roma 2 nel periodo indicato come tema di questo Convegno – ma tenendo conto, per inevitabili motivi di chia- Il mosaico pavimentale, che nella sua struttura canonica ereditata dal mondo ellenistico è composto soprattutto di tessere di materiali litici (palombino, leucitite, calcari), mostra già al tempo di Adriano alcuni segni di innovazione tecnica, anche se inizialmente limitati forse al solo caso particolare della residenza suburbana di quell’imperatore. Troviamo infatti proprio a Villa Adriana redazioni musive in cui le tessere litiche sono in più casi sostituite da quelle marmoree policrome (fig. 1 e tav. 00) 4. A fianco di questa nuova variante, che mantiene comunque le dimensioni delle tessere nella misura canonica (intorno al centimetro), ne compare un’altra, anch’essa da considerare solo sperimentale, con tessere litiche o anche marmoree decisamente più grandi, da cm 2-3, che si mantiene però in modeste stesure monocrome, destinate principalmen- 1 Non ci risulta infatti, a tutt’ora, uno studio d’insieme dedicato ai manufatti in questione analizzati nell’ottica specifica della produzione. È semmai nel settore dello sfruttamento delle cave e della commercializzazione dei marmi che si dispone oggi di studi più estesi ed approfonditi: cfr. ad esempio DE NUCCIO, UNGARO 2002; LAZZARINI 2006; PENSABENE 2013. Anche gli aspetti tecnici della messa in opera sono stati indagati nell’ambito di più vasti contesti (cfr. ad es. GIULIANI 1998, pp. 137-145) e in modo più specifico per i rivestimenti marmorei parietali in BRUTO, VANNICOLA 1990 e, da ultimo, BITTERER 2013, con particolare attenzione agli edifici di età imperiale e tardo antica di Roma e con bibliografia precedente. 2 Un excursus sintetico su tale tema era stato proposto qualche anno fa da chi scrive: GUIDOBALDI 2000. 3 Ovviamente non si terrà conto di quelle forme di rivestimento pavimentale e parietale esistenti in età repubblicana o nella piena età imperiale ma già in disuso nella tarda antichità (cementizi decorati, sectilia non marmorei, emblemata musivi, commessi laterizi, etc.). 4 VINCENTI c.s. Mosaici pavimentali 370 FEDERICO GUIDOBALDI, ALESSANDRA GUIGLIA Fig. 1. - Tivoli, Villa Adriana, mosaico con tessere marmoree di giallo antico alternate con quelle di materiali litici (leucitite e palombino) in un ambiente del complesso detto Roccabruna (foto V. Vincenti per gentile concessione). Fig. 2. - Roma, Terme di Caracalla, mosaico a tessere esclusivamente marmoree e porfiretiche da cm 1 circa nella palestra nord (foto F. Guidobaldi). Fig. 3. - Roma, Terme di Diocleziano, mosaico a tessere marmoree e porfiretiche da cm 2-3 nella palestra nord (foto F. Guidobaldi). te a pavimenti esposti all’aperto 5. Si tratta comunque di innovazioni che, essendo riscontrabili soprattutto nel contesto di un cantiere residenziale imperiale, sono da intendere come esperienze circoscritte, che tuttavia, all’inizio del III secolo, vengono recuperate ed ampliate, anche se sempre in collegamento a committenze di alto livello. Possiamo infatti riscontrare, in grandi impianti termali della Roma di quel periodo, che le composizioni musive pavimentali a tessere di dimensioni tradizionali si arricchiscono di un’altra soluzione redazionale, che aggiunge alla compagine policroma tessellae di porfido rosso egiziano e porfido verde greco, le quali, associate con quelle di pavonazzetto e di giallo antico, tendono ad imitare la ben nota quadricromia di marca neroniana, esistente nei più preziosi sectilia pavimenta già dal I secolo d.C. 6. Le Terme di Caracalla ci offrono esempi eccezionali di questa ulteriore innovazione (fig. 2 e tav. 00) 7, alla quale si affiancano le altrettanto innovative redazioni a grandi tessere, stavolta anch’esse policrome e in parte porfiretiche, pur se in stesure assai semplici 8. Logico attribuire questo più largo e intenso uso di tessere di marmi policromi, riscontrabile in grandi cantieri di committenza imperiale e soprattutto di funzione termale, alla presumibile larga disponibilità di frammenti di tali materiali, anche di quelli più pregiati, come residui della estesa produzione e lavorazione delle incrustationes marmoree destinate a rivestire le pareti che ne erano ricoperte fino a notevole altezza. Alcune delle superstiti pavimentazioni musive delle Terme di Diocleziano (fig. 3 e tav. 00) 9, si pongono su 5 Anche in questo caso gli esempi più antichi sembrano individuabili a Villa Adriana: BETORI, MARI 2006; VINCENTI c.s. 6 GUIDOBALDI 2003. 7 GUIDOBALDI 1983. Anche le Terme Alessandrine, di poco più tarde delle antoniniane, offrono altri significativi esempi di queste redazioni in tessere marmoree e porfiretiche 8 Ibidem. Si tratta soprattutto dei pavimenti periferici della natatio che sono redatti con grandi tessere quadrangolari in vaste e semplici campiture di porfido verde greco e di giallo antico. 9 GUIDOBALDI 2014. I RIVESTIMENTI PAVIMENTALI E PARIETALI A ROMA FINO AL IX SECOLO 371 una linea di continuità con quelle delle altre grandi terme e mostrano come, alla fine del III secolo o, piuttosto, ormai all’inizio del IV, la redazione in materiali marmorei e la quadricromia neroniana fossero divenute quasi canoniche nel mosaico pavimentale destinato ai più importanti ambienti termali, ma con la variante del citato aumento delle dimensioni delle tessere 10. Questa moda del mosaico a grandi tessere marmoree, con o senza l’inclusione di materiali porfiretici, si estende da allora anche all’ambito privato: Ostia ce ne mostra numerosi esempi, attribuiti talvolta anche alla fine del III secolo, ma ascrivibili soprattutto al IV secolo 11, e anche Roma conserva vari pavimenti della stessa epoca, tra i quali ricordiamo quello di un’aula sotto la basilica di S. Cecilia in Trastevere (fig. 4 e tav. 00) 12, ove file di tessere litiche tradizionali di media dimensione, sono utilizzate per definire l’intelaiatura reticolare, le maglie della quale sono interamente campite a grandi tessere marmoree. Tuttavia, proprio le tessere litiche da cm 1 circa, che restano comunque in uso in gran parte del mondo romano per tutto il periodo paleocristiano e anche oltre, sono impiegate sempre meno a Roma, città ormai traboccante di marmi, ove esse si trovano ormai solo in quantità minoritarie in composizioni redatte insieme a quelle marmoree più grandi che tendono spesso - ma non sempre 13 ad assumere una forma più disinvoltamente irregolare e ad utilizzare per le campiture semplici - un tempo decisamente monocrome - marmi di tono chiaro ma di specie diverse, come vediamo ad esempio nell’edificio sotto la chiesa di S. Teodoro (fig. 5 e tav. 00) 14. Il mosaico tradizionale non marmoreo, insomma, si può considerare pressoché estinto nella Roma del V secolo, tranne che per qualche esempio di livello qualitativo relativamente modesto 15, mentre i pavimenti a tessere marmoree irregolari sopravvivono, ma in stesure assai semplificate e spesso prive di motivi decorativi, tanto da ridursi talvolta a campiture pressoché omogenee, pur se animate da un tenue cromatismo interno. Ne vediamo esempi all’inizio del secolo, nell’edificio con stibadium presso l’Arco di Tito 16, nei resti recuperati a S. Sisto Vecchio, che recano anche inserti di dimensioni difformi rispetto al tessuto d’insieme 17, in alcuni tratti di integrazione del pavimento di S. Pudenziana 18 e in- Le Terme della Marciana a Ostia, del IV secolo (OLEVANO, ROSSO 2001), ripropongono una linea di gusto analoga, pur se le tessere sono di dimensioni ancora maggiori e, stavolta, non è presente il porfido rosso. Per altri pavimenti in edifici termali ostiensi più modesti cfr. BECATTI 1961, n. 347, p. 186 (Terme Reg. IV, Is. IV, 8) e n. 407, pp. 212-213, tav. CCIII (Terme del Filosofo), entrambi della seconda metà-fine del III secolo. 11 Come ad esempio nella domus Reg. IV, Is. IV, 7: GUIDOBALDI 1995. 12 GUIDOBALDI, GUIGLIA GUIDOBALDI 1983, pp. 207-211, 259, figg. 56-57, tav. I, 4 (inizio del IV secolo); PARMEGIANI, PRONTI 2004, pp. 65-67, fig. 56 (pieno IV secolo). 13 Come si vedrà anche dagli esempi che illustreremo, non è raro che, in tratti musivi di queste tarde tipologie redazionali, le tessere marmoree tornino talvolta ad essere quadrangolari e relativamente omogenee nelle dimensioni: l’irregolarità della forma di esse, in- somma, sembra essere più una caratteristica di diverse maestranze o un segno di diversa qualità dell’esecuzione, piuttosto che un indizio di diversa cronologia. 14 GUIDOBALDI, GUIGLIA GUIDOBALDI 1983, pp. 217-224, 259, figg. 62-63, tav. I, 5 (intorno alla metà del IV secolo); MILELLA 2009, pp. 228, 231, fig. 6. 15 Ci si può riferire al grande mosaico con le stagioni e una scena mitologica del Museo Nazionale Romano, attribuito appunto al V secolo: PARIS, DI SARCINA 2012, n. 29, pp. 181-183 (scheda di A. ROTONDI). 16 GUIDOBALDI, GUIGLIA GUIDOBALDI 1983, pp. 230-238, 258, figg. 66-69 (non anteriore al V secolo); SAGUÌ 2012, pp. 346-347, fig. 10, con segnalazione di numerosi altri esempi e relativa bibliografia. 17 GUIDOBALDI, GUIGLIA GUIDOBALDI 1983, pp. 227-230, fig. 65 (primi anni del V secolo). 18 GUIDOBALDI, GUIGLIA GUIDOBALDI 1983, pp. 202-206, figg. 54- 10 Fig. 4. - Roma, ambiente sotto la chiesa di S. Cecilia in Trastevere, mosaico a grandi tessere marmoree da cm 2-2,5 circa inquadrato da un reticolato in tessere litiche da cm 1-1,5 circa (foto F. Guidobaldi). Fig. 5. - Roma, edificio sotto la chiesa di S. Teodoro, mosaico a grandi tessere marmoree irregolari da cm 2-5 inquadrato da un reticolato in tessere litiche da cm 1-2 circa (foto F. Guidobaldi). 372 FEDERICO GUIDOBALDI, ALESSANDRA GUIGLIA Fig. 6. - Roma, Basilica Emilia, taberna VII, particolare del pavimento in sectile-tessellato marmoreo, ora ricoperto, con tessere marmoree da cm 3-5 di media (foto F. Guidobaldi). Fig. 7. - Roma, S. Maria Antiqua, pavimento in sectile-tessellato marmoreo (foto F. Guidobaldi). fine nelle vaste specchiature trapezoidali dell’ultima navata anulare di S. Stefano Rotondo, collegabili probabilmente al pontificato di papa Simplicio (468-483) 19. Nonostante i segni evidenti di una decadenza, apparentemente irreversibile, della produzione assistiamo invece nel corso del VI secolo ad una inaspettata ripresa, certo parziale e contenuta nella durata, ma non priva di innovazione. La tipologia ‘elementare’ del mosaico marmoreo a grandi tessere irregolari viene infatti inquadrata quasi sempre entro un reticolo di fasce marmoree o comunque suddivisa in pannelli separati da tali fasce, si arricchisce di nuovo di motivi decorativi, pur se semplici e lineari, e si impreziosisce con l’inserzione di elementi marmorei, anche porfiretici, di varie forme geometriche, provenienti con ogni probabilità da tratti di reimpiego di sectilia pavimenta o di incrustationes parietali. Un primo esempio di questa nuova soluzione redazionale lo vediamo già in una taberna della Basilica Emilia (fig. 6) 20. Tale tecnica, che per brevità abbiamo definito a suo tempo «sectile-tessellato marmoreo», resta comunque un prodotto originale e specifico della cultura di Roma e viene adottato in numerose chiese o complessi cultuali edificati o decorati in quel periodo, da S. Maria Antiqua (fig. 7) a S. Clemente (fig. 8), da S. Marcello al battistero lateranense, da S. Crisogono ai SS. Apostoli, etc. 21. Anche questa tipologia ha tuttavia una durata contenuta che non oltrepassa i primi decenni del VII secolo; riappare poi, ma solo sporadicamente, nell’età carolingia, sia in solo sectile-tessellato, come nella chiesa di S. Agnese in Agone, forse ancora dell’VIII secolo 22, sia in 55; le numerose e diversificate fasi del pavimento, incluse quelle databili all’inizio del V secolo, sono state recentemente analizzate in modo più specifico ed approfondito: ANGELELLI 2011. 19 GUIDOBALDI, GUIGLIA GUIDOBALDI 1983, pp. 238-241, 260, fig. 71; BRANDENBURG 2004, p. 209, fig. 124, tav. XXXI, 19 a p. 311: i resti del pavimento sono stati rinvenuti nel settore diagonale orientale. 20 GUIDOBALDI, GUIGLIA GUIDOBALDI 1983, pp. 350-353, figg. 79, 106 (taberna VII). Proprio in altre due tabernae adiacenti troviamo invece pavimenti con analoghe intelaiature a pannelli, ma campite con un tipo di opus sectile geometrico a piccolo modulo che, in se- guito, sarà assai spesso associato, come poi vedremo, con le stesure a mosaico marmoreo. 21 GUIDOBALDI, GUIGLIA GUIDOBALDI 1983, pp. 349-459; per altri pavimenti di S. Clemente e per quello dei SS. Apostoli, di recente scoperta, cfr. GUIGLIA, GUIDOBALDI 2014. 22 A quell’epoca, o poco dopo, potrebbe essere infatti datato il pavimento con fioroni a tessere di porfido rosso e porfido verde greco che ancora esiste, pur se incisivamente restaurato nel XIX secolo, in un ambiente sotterraneo: GUIDOBALDI, GUIGLIA GUIDOBALDI 1983, pp. 435-440, 458-459, figg. 149-150; GUIDOBALDI 2011-2012, pp. 441-448, figg. 30, 32-33. Fig. 8. - Roma, S. Clemente, pavimento in sectile-tessellato marmoreo nella chiesa inferiore (foto F. Guidobaldi). I RIVESTIMENTI PAVIMENTALI E PARIETALI A ROMA FINO AL IX SECOLO 373 Fig. 9. - Roma, SS. Quattro Coronati, pavimento in sectile-tessellato marmoreo nella navata destra della chiesa carolingia (foto F. Guidobaldi). contesti misti con opus sectile, come nella chiesa dei SS. Quattro Coronati (fig. 9 e tav. 00) del tempo di Leone IV 23. Sectilia pavimenta Una dinamica in parte analoga a quella già osservata per i mosaici si registra nell’altro principale settore dei rivestimenti pavimentali, cioè quello dei sectilia pavimenta, che nell’età imperiale erano certamente considerati, nelle loro varie forme, le più lussuose soluzioni possibili per i pavimenti di ambienti sia pubblici che privati. Nelle residenze imperiali dei primi due secoli se ne trovano le più originali ed elaborate realizzazioni, pur se su schemi di dimensioni modulari minori di quelle adottate nel caso di edifici pubblici. Le domus neroniane (fig. 10) e la domus Flavia del Palatino, insieme alle ville di Domiziano a Sabaudia, di Traiano ad Arcinazzo e di Adriano a Tivoli 24 bastano da sole a mostrarci i livelli qualitativi ai quali potevano giungere queste pavimentazioni, ma, nel contempo, le domus aristocratiche di medio livello documentano le forme più usuali e più diffuse che permettevano di ostentare un certo lusso contenendo comunque i costi. Dominano 23 148. GUIDOBALDI, GUIGLIA GUIDOBALDI 1983, pp. 418-435, figg. 133- 24 Si rinvia, per le domus neroniane, a LUGARI, GUIDOBALDI 2013; per Sabaudia, a GUIDOBALDI 2004b e ANGELELLI 2004; per Arcinazzo, a FIORE, MARI 2005 e FIORE, APPETECCHIA 2013; infine per Villa Adriana, a GUIDOBALDI, OLEVANO, PARIBENI et alii 1994, tutti con bibliografia precedente. 25 Prevalgono tra essi certamente i motivi a quadrati con quadrati inscritti e soprattutto quello a tre quadrati che offre varie possibilità di concordanze cromatiche e notevoli vantaggi di fabbricazione a partire da semplici parallelepipedi di due o quattro Fig. 10. - Roma, prima residenza imperiale neroniana sul Palatino (Domus Transitoria), particolare del pavimento in sectile dell’ambiente A6 (da Lugari, Guidobaldi 2013). tra gli schemi più comuni quelli a modulo quadrato 25, inventati certo nella prima età imperiale per favorire una dimensione ‘industriale’ della produzione dei sectilia pavimenta: si è già altrove sottolineato, infatti, che l’iterazione di elementi disegnativi uguali si poteva realizzare utilizzando formelle modulari quadrate 26 che potevano essere prefabbricate anche in grandi quantità in laboratorio entro casseforme e rese compatte con rinforzi delle giunte e gettatine di malta sul retro (fig. 11,a). I motivi geometrici potevano essere abbastanza variati (fig. 11,b), ma il più conveniente per motivi tecnici – e quindi il più diffuso in assoluto – era quello che definiamo Q3 (fig. 11,c) 27. È logico pensare che gli stock di mattonelle modulari prefabbricate che sviluppavano i disegni più semplici e più richiesti fossero almeno in parte già disponibili presso la bottega-laboratorio, alla quale l’acquirente poteva rivolgersi direttamente sia per scegliere tra le partite di formelle già pronte sia per commissionare, in base ad un eventuale ‘campionario’, un sectile più insolito ed originale, magari con disegni complessi marmi diversi (GUIDOBALDI, GUIGLIA GUIDOBALDI 1983, pp. 174184; DUNBABIN 1999, pp. 254-261, in particolare pp. 257-259) 26 Il modulo quadrato era certamente quello più adatto a questo fine, ma anche altre forme geometriche semplici (esagonali, triangolari rettangolari etc.) potevano essere prodotte con esiti analoghi. 27 GUIDOBALDI, OLEVANO, PARIBENI et alii 1994, pp. 49-55 e figg. 3-4. Questa tecnica era certamente assai più pratica di quella applicata per i sectilia più antichi che, nel I secolo a.C. e almeno per tutta l’età augustea, venivano montati in situ, elemento per elemento, con ovvie complicazioni operative e notevole dilatazione dei tempi di esecuzione. Le formelle in cassette così ottenute potevano facilmente essere poi trasportate sul luogo di installazione per essere al- c a Fig. 11. - a) Schema della prefabbricazione di una formella per sectilia pavimenta a modulo quadrato (motivo QkQ) (dis. Studio Azimut, Roma); b) Esempi di motivi geometrici semplici per formelle a modulo quadrato (dis. F. Guidobaldi); c) Rappresentazione schematica della composizione di formelle a modulo quadrato con motivo Q3 a due sole specie marmoree, a partire da due blocchi calibrati dei due marmi componenti (dis. F. Guidobaldi). b I RIVESTIMENTI PAVIMENTALI E PARIETALI A ROMA FINO AL IX SECOLO 375 e mistilinei, quindi da eseguire ex-novo, con tempi di attesa più lunghi e a costi ovviamente più alti. L’ipotetico iter che abbiamo appena suggerito lascia intravedere un sistema produttivo di tipo quasi industriale che si serviva di professionalità diverse, operanti almeno in parte in tempi e luoghi separati, secondo una catena di montaggio che, partendo dalle cave di marmo passava ai cantieri di produzione delle lastre, poi ai laboratori di allestimento delle formelle e infine al cantiere edilizio nell’ambito del quale si eseguiva l’installazione materiale del pavimento. Si comprende facilmente come questo insieme di operazioni comportasse non solo un notevole impiego di mano d’opera ma anche un sistema imprenditoriale piuttosto articolato che a Roma doveva corrispondere ad un movimento economico non certo trascurabile. Questo sistema produttivo era alimentato, nei primi secoli dell’impero, con materiali di primo impiego e quindi con lastre di marmi tagliate, specie per specie, dallo stesso blocco, e ridotte in elementi geometrici per lo più interi, ottenuti con tagli assai accurati e commessi con precisione secondo concordanze cromatiche rigorosamente rispettate 28. Nel III secolo, invece, e ancor più nel IV si verificano vistose variazioni nelle modalità tecniche di redazione che si sviluppano comunque secondo due filoni paralleli, corrispondenti a qualità e costi diversi. Nella produzione diretta ad una clientela di medio livello si riscontrano una evidente e graduale semplificazione degli assemblaggi, un uso di lastrine di reimpiego e una associazione di elementi spesso non interi ma giuntati, quasi mai ben accostati e con concordanze cromatiche non rispettate 29. È tipico in questo senso il caso dei motivi più comuni, in specie quello a tre quadrati inscritti, che indichiamo come Q3, nel quale viene abbandonato qualunque vincolo e vengono proposte intenzionalmente formelle a cromatismo misto. Questa nuova soluzione, economicamente assai conveniente, viene di fatto imposta come una sorta di ‘moda’ e viene evidentemente accettata come tale da tutti poiché nel IV e nel V secolo i sectilia pavimenta più semplici non vengono prodotti se non con questo disordine cromatico. Lo dimostrano le testimonianze superstiti sia di livello modesto come, ad esempio, i tratti pavimentali rinvenuti sotto il portico della chiesa di S. Sabina, nella prima basilica di S. Marco (fig. 12) e nel complesso di S. Alessandro sulla via Nomentana 30 sia di livello medio alto come nella domus sotto Palazzo Valentini (fig. 13) 31. Nel settore produttivo rivolto invece ai committenti delle fasce aristocratiche più alte che prediligevano i sectilia pavimenta con motivi complessi, in genere esclu- lettate in serie ortogonali sulla malta fresca del sottofondo pavimentale. 28 Naturalmente non mancano eccezioni a questa regola: il caso di Ercolano, che recentemente è stato oggetto di un corpus delle pavimentazioni e, quindi, anche dei sectilia pavimenta, ha permesso di individuare tra questi ultimi, nell’ambito del modulo quadrato, non solo esempi con concordanze rigorosamente rispettate, ma anche testimonianze di soluzioni redazionali ‘a campionario’ sia con motivi variatissimi e talvolta quasi unici sia con i più comuni motivi Q2 e Q3 ma con concordanze cromatiche del tutto irregolari (GUI- DOBALDI, GRANDI, PISAPIA et alii 2014, passim). Si tratta comunque di redazioni da inquadrare nel campo delle sperimentazioni (GUIDOBALDI, ANGELELLI 2008) piuttosto che in quello delle proposte di nuove modalità compositive, poi consolidate da un uso più frequente. 29 GUIDOBALDI 1985. 30 GUIDOBALDI, GUIGLIA GUIDOBALDI 1983, rispettivamente pp. 99-110, 74-90, 133-139. Per S. Alessandro si veda inoltre FIOCCHI NICOLAI 2009, pp. 343-346. 31 BALDASSARRI 2008, pp. 61-67; LUMACONE, QUATTROCCHI 2008, pp. 95-99, con datazione alla prima metà del IV secolo. Fig. 12. - Roma, S. Marco, pavimento della prima chiesa in opus sectile a modulo quadrato (foto F. Guidobaldi). Fig. 13. - Roma, scavi sotto Palazzo Valentini, domus B, ambiente 5, pavimento in opus sectile a modulo quadrato (da Lumacone, Quattrocchi 2008). 376 FEDERICO GUIDOBALDI, ALESSANDRA GUIGLIA sivi e di costo evidentemente maggiore, si mantiene comunque, pur se a diversi livelli, la cura nel disegno e la regolarità nelle concordanze e sussiste come elemento connotante anche l’uso dei porfidi all’interno della classica quadricromia di età neroniana (porfido rosso, porfido verde greco, pavonazzetto e giallo antico), come si vede in molti esempi non solo in ambito urbano e suburbano (fig. 14) 32 ma anche in buona parte dell’area dell’impero 33. Questi preziosi sectilia pavimenta con motivi complessi sembrano però ‘fuori produzione’ già entro la prima metà del V secolo: potrebbe esserne una delle ultime e più nobili manifestazioni l’articolata pavimentazione rinvenuta sotto Villa Medici e attribuibile alla domus Pinciana, nella sua fase di età onoriana (fig. 15 e tav. 00) 34. Si prolungò invece ancora per qualche decennio la forma decorativa pavimentale più economica, che sopravvisse certamente a Roma nella seconda metà del V secolo, quando fu adottata anche per chiese di imponenti dimensioni come S. Stefano Rotondo 35, ed è possibile che fosse in uso nel VI secolo, se è corretta la datazione agli anni di papa Vigilio (537-555) dei resti di sectile rinvenuti nello scavo della chiesa dei SS. Quirico e Giulitta 36. È proprio a questo punto, nel pieno VI secolo, ma certo indipendentemente dall’iter fin qui descritto, che compare un nuovo genere di pavimentazione in opus sectile, decisamente diversa dalle precedenti: i sectilia geometrici a piccolo modulo, o a piccoli elementi, entro pannelli bordati da fasce marmoree. I motivi iterativi utilizzati nelle campiture sono molto semplici e utilizzano solo poche forme geometriche realizzate con elementi marmorei di piccole dimensioni: si tratta, in effetti, di una soluzione decorativa che, di fatto, era stata già sperimentata a Roma in età tardorepubblicana 37, ma senza le partizioni a pannelli e poi era riaffiorata nella tarda antichità sia in Italia settentrionale 38 che in Oriente 39. I sectilia dell’ambiente davanti all’ingresso della Basilica Emilia, con schema decorativo centralizzato (fig. 16 e tav. 00), e della contigua taberna VIII costituiscono forse i primi esempi di questa tipologia 40, ai quali si affiancano il più noto pavimento di S. Maria Antiqua (fig. 17), del VI secolo inoltrato, ed altre testimonianze sopravvissute quasi solo in impronte, come quella dell’oratorio sotto S. Saba e della basilica pelagiana di S. Lorenzo Particolarmente significativo è il caso del pavimento dell’edificio fuori Porta Marina a Ostia: BECATTI 1969, pp. 151-154, tavv. LXXVIII, 2-LXXIX; ARENA 2005, pp. 20-22. 33 GUIDOBALDI 2001. 34 BRUNO 2005. 35 GUIDOBALDI, GUIGLIA GUIDOBALDI 1983, pp. 142-149; BRANDENBURG 2000, pp. 48-50, figg. 55, 58. 36 GUIDOBALDI, GUIGLIA GUIDOBALDI 1983, pp. 149-153. 37 GUIDOBALDI 1994. GUIDOBALDI 2009. GUIDOBALDI, GUIGLIA GUIDOBALDI 1983, pp. 327-339; GUIGLIA GUIDOBALDI 1984 per la diffusione della tipologia in Grecia; DONCEEL-VOUTE 1988 per l’area siriaca; MICHAELIDES 1993 per i numerosi e significativi esempi di Cipro; GUIGLIA GUIDOBALDI 2011, pp. 422-424 per Costantinopoli con qualche aggiornamento per l’area microasiatica. 40 GUIGLIA GUIDOBALDI 1983; GUIDOBALDI, GUIGLIA GUIDOBALDI 1983, pp. 264-280, pianta a fig. 79; COATES-STEPHENS 2011, pp. 389390, fig. 1. Fig. 14. - Roma, Museo dell’Alto Medioevo, da Ostia, edificio con opus sectile fuori Porta Marina (da Becatti 1969). Fig. 15. - Roma, domus Pinciana, pavimento (foto M. Bruno per gentile concessione). 32 38 39 I RIVESTIMENTI PAVIMENTALI E PARIETALI A ROMA FINO AL IX SECOLO 377 Fig. 17. - Roma, S. Maria Antiqua, particolare del pavimento in opus sectile a piccoli elementi nel presbiterio (foto F. Guidobaldi). fuori le mura, quest’ultima nota anche da una documentazione grafica 41 . Il riapparire a Roma di questo tipo di sectilia pavimenta – con radici antiche ‘autoctone’, ma dopo lunga assenza e in versioni rielaborate soprattutto nell’Oriente bizantino – coincide cronologicamente in modo non certo casuale con le vicende storiche che portarono, nel terzo decennio del VI secolo, all’intensificarsi delle relazioni con Costantinopoli e poi alla riconquista giustinianea dell’Italia e di Roma 42 . È probabile dunque che maestranze bizantine abbiano contribuito al diffondersi di questa tipologia, che comunque assunse sin dall’inizio una connotazione tutta romana per la costante presenza, alimentata certo da materiali di reimpiego, dei porfidi rosso e verde, solo assai di rado individuabili nei pavimenti che già da tempo si erano affermati e diffusi nei territori orientali dell’impero. Gli esempi romani di questi sectilia sono relativamente numerosi, ma comunque circoscritti ad un periodo piuttosto limitato che non oltrepassa i primi decenni del VII secolo, e si trovano associati in molti casi a tratti in sectile-tessellato marmoreo, la forma decorativa pavimentale descritta nel precedente paragrafo, che è invece tutta romana, ma che ha in comune, con quella in oggetto, l’intelaiatura in pannelli bordati da fasce marmoree. Come abbiamo osservato per i mosaici ed i loro ‘succedanei’ del VI secolo anche nel campo dei sectilia si verifica una improvvisa pur se breve ripresa di interesse in età carolingia e in varianti anche insolite. Un intenzionale reimpiego e/o riassemblaggio di sectilia pavimenta più antichi, spesso arricchiti di porfidi, ma con motivi decorativi elementari, si riscontra, infatti, in alcune chiese di quell’epoca, come ben testimoniano i resti di S. Maria in Cosmedin (fig. 18), verosimilmente pertinenti alla fase di Adriano I, che recuperano il motivo a quadrati inscritti realizzato appunto con assoluta predominanza di porfidi 43. In parallelo vengono adottate originali stesure marmoree a scacchiera disposte intorno a dischi o quadrati centrali, come nella cappella di S. Zenone a S. Prassede, del tempo di Pasquale I (817-824) 44 o nel presbiterio GUIDOBALDI, GUIGLIA GUIDOBALDI 1983, rispettivamente pp. 280-294, 294-307, 307-310. 42 Una recente analisi in COATES-STEPHENS 2006; COATES-STEPHENS 2011. 43 GUIDOBALDI, GUIGLIA GUIDOBALDI 1983, pp. 461-468, e per un pannello laterale con motivo a scacchiera già MCCLENDON 1980, p. 158, tav. XXXb. 44 MCCLENDON 1980, p. 157, tav. XXXa; GUIDOBALDI, GUIGLIA GUIDOBALDI 1983, pp. 468-469. Fig. 16. - Roma, Basilica Emilia, ex ambiente d’ingresso, il pavimento in opus sectile a piccoli elementi nel disegno di Maria Barosso che include anche i restauri ‘filologici’ in laterizio ideati da Giacomo Boni (Archivio della SSBAR riprodotto da Coates-Stephens 2011). 41 378 FEDERICO GUIDOBALDI, ALESSANDRA GUIGLIA Fig. 20. - Roma, SS. Quattro Coronati, pavimento in opus sectile nella navata destra della chiesa carolingia (foto F. Guidobaldi). Fig. 18. - Roma, S. Maria in Cosmedin, pavimento in opus sectile intorno all’altare (foto F. Guidobaldi). di S. Giorgio in Velabro, attribuibile a Gregorio IV (827-844) (fig. 19) 45, dove i porfidi costituiscono, anche se con minore impatto visivo, una componente essenziale del linguaggio decorativo. Epigono del piccolo gruppo di sectilia è l’articolato pavimento sopravvissuto nell’antica navata destra della chiesa dei SS. Quattro Coronati (fig. 20), della metà del IX secolo, nel quale i pannelli con motivi a scacchiera si affiancano a quelli già visti in sectile-tessellato marmoreo e in opus sectile a piccoli elementi, riproponendo associazioni già riscontrate nel VI secolo e, forse, anche riciclando elementi pavimentali di quell’epoca 46. Una conferma delle scelte ‘filologiche’ dei marmorari di età carolingia che, certo consapevoli dei livelli artistici raggiunti nel passato, ne recuperavano – o rimontavano – talvolta integralmente i sectilia della piena età imperiale, proviene dall’eccezionale pavimento dell’abbazia di Farfa (fig. 21), che compone e armonizza i nuovi motivi a scacchiera con vasti tratti di antichi sectilia a modulo quadrato, recuperati probabilmente da qualche villa in rovina, un tempo costruita da un membro dell’aristocrazia senatoria romana nei dintorni stessi dell’abbazia 47. Mosaici parietali Tutt’altro discorso è quello relativo al mosaico parietale, tecnica solo apparentemente simile a quella pa- Fig. 19. - Roma, S. Giorgio in Velabro, pavimento in opus sectile nel presbiterio (foto F. Guidobaldi). MCCLENDON 1980, p. 158, tav. XXXIa; GUIDOBALDI, GUIGLIA GUIDOBALDI 1983, pp. 470-476; P.C. CLAUSSEN, in CLAUSSEN, MONDINI, SENEKOVIC 2010, p. 43, fig. 31. 46 GUIDOBALDI, GUIGLIA GUIDOBALDI 1983, pp. 418-435, in particolare pp. 419-420, 430, figg. 133-135, 137, 143, 146. 45 47 MCCLENDON 1980, pp. 158-165, tavv. XXXIb-XXXII, anche per il contemporaneo sviluppo delle pavimentazioni in opus sectile nelle città d’Oltralpe, a cominciare dalla Cappella Palatina di Aquisgrana, analogamente realizzate con marmi di reimpiego; GUIDOBALDI, GUIGLIA GUIDOBALDI 1983, pp. 477-482, figg. 161-162; MCCLENDON 1987, pp. 56-57. I RIVESTIMENTI PAVIMENTALI E PARIETALI A ROMA FINO AL IX SECOLO 379 Fig. 22. - Roma, ambienti sotto la casema dei Corazzieri, sul Quirinale, tratto musivo parietale del I secolo d.C. di un grandioso ninfeo (da de Vos 1997). vimentale dalla quale si differenzia invece decisamente, come è ben noto, sia per i materiali impiegati, soprattutto vitrei, sia per lo spessore delle tessere, sia per la tecnica di posa in opera. Questa forma artistica ebbe in età imperiale, e soprattutto nel I secolo d.C., una larghissima applicazione nella decorazione di ninfei e fontane, o comunque di ambienti legati all’acqua, giungendo talvolta ad esiti di notevolissimo impegno, come dimostrano i celebri esempi di Pompei ed Ercolano 48, e talvolta ad estensioni notevoli, come risulta anche a Roma specialmente dai ritrovamenti del Quirinale (fig. 22) 49 e da quelli assai più recenti del Pincio 50 e soprattutto del Colle Oppio 51. Nel II secolo si registra una certa continuità di impiego di questa tecnica, sempre limitatamente agli edifici delle tipologie indicate 52, ma già per la fine del III secolo le fonti lettera- rie ci segnalano realizzazioni musive parietali poste talvolta in ambienti domestici interni e anche in decisa competizione con la pittura perché sviluppate non solo come decorazioni aniconiche, ma anche come rappresentazioni figurate e persino di soggetto ‘storico’ 53. L’impiego nelle terme e nei ninfei resta comunque predominante, con espressioni di incredibile monumentalità anche se purtroppo giunte fino a noi solo in minime tracce 54. È poi certamente l’età costantiniana che rappresenta un momento di incisiva ripresa di questa tecnica particolarmente versatile per le applicazioni su superfici concave e quindi sulle absidi e sulle cupole, elementi strutturali, questi, prediletti dall’innovativa architettura di quel tempo. Poche tessere ancora in situ nella cupola e nei catini absidali del cosiddetto Tempio di Minerva Medica, recentemente interpretato come settore privato del Sessorium costantiniano (fig. 23) 55, attestano l’uso su tali superfici di stesure musive continue, anche con l’uso relativamente innovativo delle tessere d’oro rilevato pure nel costantiniano mausoleo di Elena 56. Ma è soprattutto il mausoleo di Costan- 48 SEAR 1977; GUIDOBALDI, GRANDI, PISAPIA et alii 2014, nn. 121 (Casa dello Scheletro), 223 (Casa dei Cervi), 259 (Casa di Nettuno e Anfitrite), pp. 145-150, 246-248, 287-289, tavv. CXLI-CL. 49 Per il ninfeo rinvenuto nell’ambito della caserma dei Corazzieri sul Quirinale cfr. DE VOS 1997. 50 Per il mosaico del ninfeo rinvenuto sotto la Bibliotheca Hertziana cfr. F. FELICI in BARTOLI, FELICI, SANTOPADRE et alii 2013. 51 VOLPE 2010, in particolare tavv. 4,1 e 5,1. 52 Di particolare interesse è certamente la decorazione musiva superstite delle Terme dei Sette Sapienti a Ostia, pubblicata dal Sear (SEAR 1977, n. 106, pp. 112-113, tavv. B e 46, 3; 47, 1.2) al quale si rinvia anche per la consueta, dettagliatissima, rassegna di altri resti musivi del II e del III secolo; per Ostia si veda anche VINCENTI 2000; altre utili indicazioni in SALVETTI 2013. 53 Ci riferiamo alle menzioni di grandi mosaici, purtroppo perduti, che decoravano la Casa dei Tetrici sul Celio, con rappresentazioni di Aureliano che conferiva la dignità senatoria ai due futuri imperatori (Hist. Aug., Tyranni triginta, 25,4). 54 Per le esigue, ma in origine estesissime, superfici decorate a mosaico, sia esterne che interne, nelle Terme di Diocleziano cfr. GUIDOBALDI 2014, pp. 121-123, figg. 22-28. 55 GUIDOBALDI 2004a; GUIDOBALDI, PEDONE 2011, p. 97, fig. 58. 56 VENDITTELLI 2011, p. 43. Fig. 21. - Farfa, chiesa abbaziale, pavimento in opus sectile della navata carolingia, attuale transetto (foto T. Vicinelli per gentile concessione). 380 FEDERICO GUIDOBALDI, ALESSANDRA GUIGLIA Fig. 23. - Roma, c.d. Tempio di Minerva Medica, resti di tessere musive nella cupola (foto M. Magnani Cianetti per gentile concessione). Fig. 24. - Roma, mausoleo di Costantina, mosaico di una campata della volta anulare (foto F. Guidobaldi). tina che ci offre la testimonianza più nota e significativa del pieno IV secolo, documentabile solo graficamente per la cupola perduta 57, ma concreta invece nelle parti originali dell’esteso rivestimento musivo, pur se incisivamente restaurato, della volta della navata anulare 58 (fig. 24). Quest’ultimo presenta un particolare tecnico assai interessante: è infatti redatto secondo schemi decorativi più propri dei pavimenti tessellati e presenta il fondo bianco tipico di gran parte di questi ultimi. Ciò sembrerebbe indicare, come è stato già ampiamente osservato 59, che alla progettazione e stesura di questi mosaici abbiano partecipato anche alcune maestranze attive nella produzione di tessellata pavimenta. Questa interpretazione, che contiene certamente elementi di oggettiva validità, va però intesa più come una occasionale collaborazione tra le due professionalità dei tessellarii e dei musivarii in un momento di transizione della cultura decorativa, piuttosto che come indizio di un fenomeno di generale riconversione delle maestranze ‘pavimentali’ in quelle ‘parietali’: è infatti assai poco probabile che le prime possano essersi in breve tempo rese esperte nelle ben diverse attività svolte dalle seconde che avevano competenze specifiche ben proprie nelle tecniche di preparazione e manipolazione di tessere in vetro, nelle modalità di posa in opera su superfici non certo orizzontali ma verticali o curvilinee e nella realizzazione di complesse ed estesissime rappresentazioni figurate, che richiedevano una assai più incisiva capacità artistica. Resta in ogni caso da tener presente la contemporaneità tra il declino della produzione musiva pavimentale e il crescente dilagare di quella parietale che, già nel IV secolo, è testimoniata da numerosi tratti superstiti di ambito funerario 60 – ma doveva essere presente anche nelle basiliche costantiniane – e che poi troviamo, sempre più incisivamente arricchita dalla connotante presenza di tessere d’oro, in moltissimi edifici cristiani urbani e suburbani soprattutto a partire dal V secolo e con notevole continuità fino a buona parte del IX, il che permette di considerare Roma uno dei più importanti centri autonomi di stabile produzione del mosaico parietale dell’età paleocristiana e altomedievale. Basterà ricordare in tal senso i ben noti rivestimenti musivi del V secolo nelle chiese di S. Pudenziana, S. Sabina, S. Maria Maggiore, S. Paolo fuori le mura e nel battistero lateranense con le relative cappelle (fig. 25) 61, quelli del VI secolo nei SS. AMADIO 1986; PIAZZA 2006, pp. 72-78. BRANDENBURG 2004, pp. 73-86, in particolare pp. 82-84; PIAZZA 2006, pp. 54-66. 59 BOVINI 1954, p. 12; MATTHIAE 1967, pp. 5-9; PIAZZA 2006, pp. 54-55 con relativa discussione. 60 Si ricordano, ad esempio, i mosaici nel Mausoleo dei Giulii nella necropoli vaticana, dell’inizio del IV secolo (MENNA 2006a), nella catacomba di Domitilla, del tempo di papa Damaso (POGLIANI 2006), nella catacomba di Sant’Ermete, della seconda metà del IV secolo (GIULIANI 2006), e infine dell’ipogeo di via Livenza, della metà del IV secolo (CROISIER 2006), per i quali si rinvia alle recenti schede del I volume del Corpus della pittura medievale a Roma, curato da Maria Andaloro (ANDALORO 2006a). 61 Anche per questi mosaici si rinvia alle recenti schede del I volume del Corpus della pittura medievale a Roma, curato da Maria Andaloro (ANDALORO 2006a), che aggiornano ed integrano la ‘classica’ monografia di Matthiae (MATTHIAE 1967) e le successive pubblicazioni. Si vedano rispettivamente ANDALORO 2006b; LEARDI 2006c, pp. 292-297; MENNA 2006b; MORETTI 2006; BORDI 2006; PENNESI 2006, pp. 425-432; per il battistero lateranense e le cappelle di S. Giovanni Evangelista e S. Giovanni Battista si veda anche BRANDT, GUIDOBALDI 2008, pp. 266-272. 57 58 I RIVESTIMENTI PAVIMENTALI E PARIETALI A ROMA FINO AL IX SECOLO Fig. 25. - Roma, Battistero Lateranense, cappella di S. Giovanni Evangelista, mosaico della volta (foto O. Brandt per gentile concessione). 381 Fig. 27. - Roma, S. Maria in Cosmedin, frammento musivo proveniente dall’oratorio di Giovanni VII in S. Pietro in Vaticano (foto A. Guiglia). Fig. 26. - Roma, S. Lorenzo fuori le mura, mosaico dell’arco absidale (foto A. Guiglia). Fig. 28. - Roma, S. Cecilia in Trastevere, mosaico absidale (foto A. Guiglia). Cosma e Damiano, a S. Teodoro e a S. Lorenzo fuori le mura (fig. 26), quelli del VII secolo a S. Agnese fuori le mura, nella cappella di S. Venanzio nel complesso del battistero lateranense e in quella dei SS. Primo e Feliciano a S. Stefano Rotondo 62, quelli dell’VIII secolo nell’oratorio mariano di Giovanni VII (705-707), un tempo nell’antica basilica vaticana (fig. 27) ed ora dispersi in disiecta membra in chiese e musei di diverse città 63, e nella perduta decorazione di Paolo I (757-767) sulla facciata della chiesa di S. Maria in Cancellis, poi in Turris (nella parte anteriore del portico di S. Pietro) 64; infine, quelli delle chiese di Roma costruite o ricostruite in età carolingia, largamente noti ed anche caratterizzati da una fortunata sopravvivenza 65, come SS. Nereo e Achilleo, S. Prassede, S. Cecilia (fig. 28), S. Maria in Domnica, S. Marco, etc. 66. Sarà poi proprio la evidente consistenza culturale acquistata nel tempo da questa ‘scuola romana’ del mosaico parietale a permetterne la sopravvivenza anche dopo i momenti di interruzione della richiesta e quindi della produzione: ci riferiamo alla pausa, coincidente con la generale difficoltà economica legata alle vicende del X e dell’XI secolo, dopo la quale, con il mosaico di S. Clemente 67, rinasce, più vigorosa che mai, la produzione di mosaici parietali che arricchiranno le chiese di Roma per tutto il medioevo. Si rinvia anche in questo caso ad un riferimento bibliografico di base, poiché non è questa la sede per approfondire analiticamente i singoli esempi: MATTHIAE 1967, pp. 135-198, tavv. 78-124. 63 ANDALORO 1989; da ultime BALLARDINI, POGLIANI 2013, con bibliografia. 64 ALFARANO-CERRATI 1914, p. 151; KRAUTHEIMER, CORBETT, FRAZER 1980, pp. 275-276. 65 Sembra logico, peraltro, attribuire almeno in parte ad una solida professionalità delle maestranze questa ‘resistenza al tempo’ dei mosaici di IX secolo. 66 MATTHIAE 1967, pp. 225-275, tavv. 136-227; GOODSON 2010; THUNØ 2015. 67 RICCIONI 2006. 62 382 FEDERICO GUIDOBALDI, ALESSANDRA GUIGLIA Incrustationes L’ultima tecnica che prendiamo in considerazione è quella che impiega le crustae marmoree per il rivestimento delle pareti, l’incrustatio appunto. L’uso di rivestire di marmo le pareti, se si eccettuano le menzioni di sporadici usi di luxuria riportate dalle fonti per il I secolo a.C. (Plin. nat. 36,48), inizia a Roma in forma più specifica ed estesa nell’età di Augusto, anche con soluzioni di estrema raffinatezza, in cui il marmo bianco era addirittura dipinto 68, ma che poi non ebbero seguito. Il I secolo d.C. è comunque il periodo di indiscussa affermazione di questa tecnica decorativa che all’inizio prediligeva le forme più semplici ed eleganti a partizioni geometriche di minima articolazione, come nella domus neroniana del Palatino (fig. 29) 69 e nella successiva domus Flavia 70. Anche in ambiente privato le semplici partizioni ebFig. 29. - Roma, prima residenza imperiale neroniana sul Palatino bero largo uso nel I e II secolo, come vediamo in vari (Domus Transitoria), particolare del sottofondo e di qualche resto 71 delle incrustationes marmoree che rivestivano le pareti dell’ambiente esempi tuttora conservati ad Ercolano e in area roA6 (da Lugari, Guidobaldi 2013) 72 mana . Non abbiamo per ora dati sufficienti per stabilire la dinamica produttiva di questo settore nel corso del III secolo, ma sembra probabile che, già in età tetrarchica, i rivestimenti parietali si siano orientati verso tipologie di maggiore articolazione. Lo dimostrerebbe, ad esempio, un documento grafico relativo alla Curia di Diocleziano (fig. 30) 73, sempre che il rivestimento rappresentato sia coevo alla costruzione: i pannelli qui si arricchiscono di più articolati motivi geometrici e prefigurano l’innovativo sviluppo decorativo che si concretizza in coincidenza con l’età costantiniana. I resti superstiti delle sole preparazioni che vediamo tuttora nel cosiddetto Tempio di Minerva Medica 74 e le documentazioni grafiche dei rivestimenti Fig. 30. - Roma, Curia di Diocleziano, resti del perduto rivestimento ad incrustationes marmoree in parietali del mausoleo di Co- un disegno segnalato da Rodolfo Lanciani (da Mancini 1967-68). 68 Significativa è ad esempio l’Aula del Colosso nel Foro di Augusto: UNGARO 2002. 69 LUGARI, GUIDOBALDI 2013, p. 616, figg. 5, 7. 70 FOGAGNOLO 2009; BITTERER 2013, pp. 98-144, tavv. 30-49. 71 GUIDOBALDI, GRANDI, PISAPIA et alii 2014, pp. 445-447, tavv. CLI-CLXVIII. 72 GUIDOBALDI 2003, p. 58, figg. 70-71 e passim per lo sviluppo di questa tipologia decorativa fino al VI secolo. 73 MANCINI 1967-1968, p. 195, fig. 2. 74 GUIDOBALDI, PEDONE 2011, p. 97. Fig. 31. - Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo, pannello che un tempo faceva parte del rivestimento parietale ad incrustationes marmoree dall’aula absidata della domus di Giunio Basso (da Becatti 1969). Fig. 33. - Roma, catacomba dei SS. Marcellino e Pietro, cubicolo con opus sectile (foto F. Guidobaldi). Fig. 32. - Roma, scavi sotto Palazzo Valentini, domus B, ambiente 5, rivestimento parietale ad incrustationes marmoree (da Lumacone, Quattrocchi 2008). Fig. 34. - Roma, Museo Nazionale Romano, lastra funeraria con figura di marmorario che compone un pannello per incrustatio parietale (da Becatti 1969). stantina 75 e dell’aula in cui si insediò la chiesa dei SS. Cosma e Damiano 76 possono dare una prima idea dei nuovi orientamenti decorativi. La difficoltà di conservare in situ questi rivestimenti, soggetti facilmente al distacco se esposti alle intemperie, ma rimossi anche intenzionalmente sia perché degradati e non sostituibili, sia per più pratici fini di reimpiego, ha comportato la perdita di gran parte di tali manufatti che dovevano essere assai diffusi nei più importanti edifici pubblici e privati di Roma e Ostia del IV secolo, come dimostrano i ben noti e più cospicui resti delle aule absidate come quella, con riquadri anche figurati, della domus di Giunio Basso (fig. 31) 77, o, su toni più contenuti, di sale meno sontuose come quella rinvenuta sotto Palazzo Valentini (fig. 32) 78. Significativi per la diffusione di que- sta tecnica sono anche i resti tuttora esistenti in alcuni cubicoli delle catacombe romane, come quello del cimitero di Callisto e quello più noto del cimitero dei SS. Marcellino e Pietro sulla via Labicana (fig. 33) 79, ove è facile ravvisare proprio un pannello identico a quello su cui lavorava il marmorarius della lapide funeraria pubblicata a suo tempo dal Garrucci poi dal Becatti e da attribuire non ad un pavimento, come si era ipotizzato inizialmente, ma ad un rivestimento parietale (fig. 34) 80. Altre domus 81 romane ci offrono documentazioni di rivestimenti marmorei parietali piuttosto articolati in uso nel IV secolo: basterà ricordare quella di via in Arcione, che conserva tuttora tratti superstiti del registro inferiore 82, quella sopra le Sette Sale, che nell’aula di rappresentanza recava una ricchissima decorazione AMADIO 1986; PIAZZA 2006, pp. 79-80 e figg. 19, 25. LUSCHI 1997 e TUCCI 2001, con bibliografia precedente. 77 BECATTI 1969, pp. 181-215; LEARDI 2006a, con bibliografia precedente. Ampiamente rivestite di marmi, come testimoniano le estese tracce della preparazione, dovevano essere le pareti dell’edificio nel Foro Romano divenuto poi chiesa di S. Maria Antiqua, in particolare l’ambiente centrale e quello laterale sinistro (poi cappella dei SS. Quirico e Giulitta), ove l’opus sectile rimase verosimilmente in situ al- meno fino all’VIII secolo: GUIGLIA GUIDOBALDI 2004. 78 BALDASSARRI 2008, pp. 65-66, figg. 62-64; LUMACONE, QUATTROCCHI 2008, pp. 100-106, figg. 11-18. 79 SPERA 1995, anche per altri esempi in catacomba. 80 GUIDOBALDI, GUIGLIA GUIDOBALDI 1983, p. 122, fig. 34. Si veda anche BISCONTI 2000, p. 245. 81 BECATTI 1969, pp. 152-153, tav. XXXIV, 1. 82 LISSI CARONNA 1985, p. 364; ASTOLFI 1999. 75 76 Fig. 35. - Roma, Museo dell’Alto Medioevo, da Ostia, edificio con opus sectile fuori Porta Marina tratto delle incrustationes marmoree parietali riassemblate e rimontate nel museo (da Arena 2005). anche figurata, della quale si sono potuti recuperare i frammenti caduti al suolo 83, e quella di via in Selci, per la quale dobbiamo invece contentarci di descrizioni, pur se dettagliate, delle decorazioni poi scomparse 84. La situazione sembra restare stabile per tutto il IV secolo come ci dimostra la lussuosissima aula della domus di Porta Marina ad Ostia interamente rivestita da incrustationes (fig. 35) oggi ricostruite e musealizzate 85, con alcune raffigurazioni pressochè identiche (pannelli con le tigri che assalgono altri animali) a quelle riscontrabili nella citata domus di Giunio Basso. Nel passaggio al V secolo il settore continua a presentare una notevole vitalità, trovando applicazione soprattutto in diverse chiese di quel tempo: di redazione del tutto originale sembrano peraltro alcuni notissimi esempi, come quelli in gran parte ancora in situ a S. Sabina (fig. 36), del tempo di Sisto III (432440) 86, quelli raffinatissimi nell’atrio del Battistero Lateranense (fig. 37) 87, dello stesso papa, e quelli della Santa Croce del tempo di Ilaro (461-468) 88, con soluzioni stilisticamente e tecnicamente ben differenziate sia negli schemi sia nei contenuti decorativi. A questi si possono aggiungere i rivestimenti marmorei della basilica celimontana di S. Stefano Rotondo, dell’età di Simplicio (468-483), noti sia da descrizioni e disegni rinascimentali sia da scarsi lacerti di lastre, ma soprattutto da numerose tracce degli agganci di 83 BIANCHI, BRUNO, COLETTA et alii 2000; BIANCHI, BRUNO, DE NUCCIO 2002, pp. 168-169 e schede nn. 179-180, p. 466 (F. BIANCHI), figg. a pp. 465 e 467. 84 SERLORENZI 2004, p. 359. 85 BECATTI 1969; ARENA 2005; LEARDI 2006b, con bibliografia precedente. 86 RICKERT 1998; LEARDI 2006c, pp. 297-301. 87 ALFANO 2006; BRANDT, GUIDOBALDI 2008, pp. 260-266. 88 PENNESI 2006, pp. 432-435; BRANDT, GUIDOBALDI 2008, pp. 260-266. Fig. 36. - Roma, S. Sabina, rivestimento parietale ad incrustationes sopra il colonnato della navata centrale (foto F. Guidobaldi). Fig. 37. - Roma, Battistero Lateranense, rivestimento in opus sectile dell’atrio sulla parete di facciata (foto O. Brandt per gentile concessione). esse alle pareti, evidenziate dalle recenti indagini 89; da attribuire ad epoca imprecisata, ma forse anche a diverse fasi decorative collocabili tra il IV e il VI secolo 90, sono invece vari resti di incrustationes marmoree visti ancora in situ nel XVI secolo nella basilica di S. Pietro 91 e periti con l’intero edificio costantiniano all’inizio del XVII secolo. L’arte dell’incrustatio non sembra che a Roma si sia estesa molto oltre il VI secolo, quando viene te- 89 BRANDENBURG 2000, pp. 51-54, figg. 61-68; BRANDENBURG 2004, p. 208. Non va esclusa una datazione al tempo dei pomtefici Giovanni I (523-526) e Felice IV (526-530), come attestava una perduta iscrizione: BRANDENBURG 2004, p. 205; GUIGLIA 2015, p. 118. 90 KRAUTHEIMER, CORBETT, FRAZER 1980, pp. 176-182 e passim. 91 UGONIO 1588, f. 96v. Per la decorazione del portico cfr. la descrizione dell’Anonimo del XVI secolo, f. 1 (p. 15): «Nel porticho de sancto Pietro ponete mente sono crustamenti de porfidi et serpentini et chalcidoni, dipinte de dette pietre, ovvero commesse, ch’abbia dentro uccegli, fatte con tanto artificio, che ne piglierete Fig. 38. - Roma, S. Clemente, resti della preparazione e di pochi frammenti di lastrine marmoree del rivestimento ad incrustationes del battistero nella chiesa inferiore (foto F. Guidobaldi). Fig. 40. - Istanbul, Santa Sofia, i pannelli in opus sectile della parete nord del bema (foto A. Guiglia). Fig. 39. - Roma, S. Agnese fuori le mura, rivestimento marmoreo del semicilindro absidale (foto A. Guiglia). stimoniata nel battistero di S. Clemente 92, superstite purtroppo quasi solo in impronte (fig. 38). L’intera superficie parietale era articolata su almeno tre ordini in pannelli rettangolari separati da lesene, arricchiti all’interno da dischi o rombi o rettangoli, di cui oggi è difficile definire l’esatta struttura; minimi resti di lastrine di marmi ancora in situ permettono di delineare la fascia decorativa che coronava il secondo ordine e di stabilire che anche i porfidi erano utilizzati nelle composizioni. Una piccola abside completava la struttura del battistero ed era anch’essa rivestita interamente di fasce verticali di marmo separate da listelli di porfido, tranne che nel catino absidale dove restano tracce di tessere musive. È invece nel VII secolo che questo tipo di decorazione sembra rarefarsi, almeno nelle sue forme più com- plesse ed articolate: ne troviamo infatti solo esempi decisamente ridimensionati e semplificati, come nell’abside della basilica di S. Agnese fuori le mura (fig. 39), dove l’emiciclo conserva il rivestimento a lastre marmoree omogenee inquadrate da fasce porfiretiche secondo schemi che richiamano gli esempi più antichi, anche per la presenza di capitelli di lesena e cornici scolpite di reimpiego 93. Qualcosa di simile poteva forse esistere anche nell’abside di S. Giorgio in Velabro, oggi pressoché integralmente restaurata 94, che così dimostrerebbe, insieme a S. Prassede, una sopravvivenza della tradizione antica fino all’età carolingia. Tradizione antica che già nel VI secolo aveva lasciato esplicite tracce nella lontana Costantinopoli, Nuova Roma, sulle pareti della chiesa di Santa Sofia (fig. 40) 95. gran consolazione et sono spoglie de grandissimo spendio». Si veda inoltre ALFARANO-CERRATI 1914, pp. 115 e 153. 92 GUIDOBALDI 1997, pp. 483-486, figg. 19-22; GUIDOBALDI, LALLI, PAGANELLI et alii 2004, pp. 408-410, figg. 28-29. 93 BRANDENBURG 2004, pp. 246-247; GUIGLIA GUIDOBALDI, PEN- SABENE 2005-2006, pp. 42-45, figg. 78-81. MUÑOZ 1926, pp. 33-34, tav. XXXI, fig. 46; MELUCCO VACCARO 1974, pp. 62-63; P.C. CLAUSSEN in CLAUSSEN, MONDINI, SENEKOVIC 2010, p. 43. 95 GUIGLIA GUIDOBALDI 2007. 94 386 FEDERICO GUIDOBALDI, ALESSANDRA GUIGLIA Analisi d’insieme Mentre nella piena età imperiale prevale una certa stabilità delle soluzioni tipologiche disponibili nel campo delle pavimentazioni, nella tarda antichità si assiste a dinamiche assai più discontinue che si manifestano a Roma sia con ‘invenzioni’ di nuove forme pavimentali sia con modificazioni di quelle esistenti sia, infine, con l’estinzione graduale di soluzioni tecniche in precedenza largamente diffuse. Nel campo del mosaico la prima innovazione ben individuabile, cioè quella legata alle prime sperimentazioni di compagini con tessere marmoree e porfiretiche di dimensioni ancora tradizionali, introdotta in età severiana nelle Terme di Caracalla, non comportò particolari modificazioni delle tecniche di esecuzione e quindi, probabilmente, non richiese la formazione di maestranze diverse da quelle esistenti. Il problema assume invece ben diversa connotazione se si tiene conto dell’altra scelta innovativa del settore, cioè quella che consistette nel sostituire gradualmente, soprattutto dal IV secolo, le tessere di forma e dimensione tradizionale con quelle marmoree di dimensioni maggiori, di spessore minore e di forma sempre meno regolare, ricavate per lo più da lastrine di marmo. La preparazione e la posa in opera di tali tessere – che divennero di fatto semplici frammenti di lastrine di forma quadrangolare, ma poi sempre più irregolare – richiedeva infatti perizia e specializzazione assai minori rispetto a quelle necessarie nelle redazioni musive canoniche. Anche la levigatura finale, che nel mosaico classico era una operazione necessaria di finitura, poteva essere omessa poiché le tessere marmoree, data la loro provenienza, erano già lisce su almeno uno dei lati e quindi potevano non richiedere tale operazione 96. Per di più, la quasi totale eliminazione di elementi figurati e di complessi disegni geometrici rendeva inutile l’impiego di veri artifices, quali erano certamente i tessellarii 97, e permetteva di servirsi, con costi ovviamente minori, di semplici scalpellini. Anche la scelta di impiegare materiale marmoreo recuperato da manufatti in disuso, o eventualmente da lastrame di scarto dei laboratori in cui si producevano rivestimenti marmorei parietali e pavimentali di qualità, cioè di ‘prima scelta’, doveva comportare notevoli risparmi sul prezzo finale. Emblematico è, in tal senso, il fenomeno della contemporanea rarefazione a Roma, appunto nell’arco del IV secolo 98, dei mosaici pavimentali tradizionali (cioè con tessere litiche di forma regolare e di dimensioni prossime a un centimetro), che lascia ipotizzare come, mentre si formavano le nuove maestranze di modesto livello artigianale, i più professionali tessellarii che avevano operato a Roma fino al IV secolo 99 abbiano subìto le conseguenze della drastica riduzione della richiesta ed abbiano spostato la loro attività verso le molte aree in cui si continuò per alcuni secoli a produrre mosaici pavimentali a tessere medie 100. La residua attività pro- 96 Era infatti sufficiente porre in opera ‘in piano’ i frammenti di lastrine di marmo per ottenere superfici abbastanza lisce. 97 È interessante constatare che, tra gli artifices elencati in una legge di età costantiniana, così come era trascritta nel Codice Teodosiano (COD. Theod., XIII, 4, 2), sono elencati i tessellarii insieme ai marmorarii e ai musivarii, mentre nel Codice Giustinianeo (COD. Iust. 10, 66, 1) troviamo soltanto i marmorarii e i musarii (= musivarii). Sarebbe suggestivo considerare questa eliminazione come indizio di una sorta di decadenza ‘artistica’ dei tessellarii, ma, dato che la legge era destinata all’intera area dell’impero e che, al di fuori di Roma, questo mestiere continuò ad essere largamente praticato (crf. infra) non possiamo certo azzardare estrapolazioni in tal senso. Per una analisi delle diverse terminologie, basata sulle firme degli artisti, cfr. BALMELLE, DARMON 1986. Cfr. supra. Si deve tener conto, a tal proposito, che a Roma operavano certamente, nel settore del mosaico pavimentale, anche maestranze ‘allogene’ o comunque di cultura più generalmente mediterranea, che essendo almeno in parte itineranti non avranno avuto difficoltà a riciclarsi dove la richiesta della loro opera era più incisiva. 100 È opportuno ricordare, anche se già ampiamente osservato in precedenza, che il fenomeno della caduta di interesse per il mosaico pavimentale di tipo tradizionale nel IV secolo, è specifico dell’area di Roma: in gran parte dell’impero questa tecnica decorativa pavimentale restò largamente in uso anche nel V e VI secolo e oltre – a seconda delle zone geografiche – e anche con esiti di altissima qualità, come dimostra, già da solo, il mosaico del Grande Palazzo Imperiale di Costantinopoli, verosimilmente di età giustinianea. Per Nelle pagine precedenti abbiamo sinteticamente delineato un panorama delle tipologie di rivestimento pavimentale e parietale in uso a Roma dall’epoca tardoimperiale all’altomedioevo ed abbiamo posto in evidenza gli ambiti cronologici di produzione delle varie tipologie. Possiamo ora proporre un’analisi d’insieme dei risultati di questa prima schematizzazione dedicando anche una maggiore attenzione agli aspetti più pertinenti alla produzione e separando inizialmente il campo dei manufatti pavimentali da quello dei rivestimenti parietali, proprio perché i dati finora riportati hanno permesso di evidenziare ‘andamenti’ piuttosto diversi nelle attività produttive relative ai due comparti indicati. Rivestimenti pavimentali 98 99 I RIVESTIMENTI PAVIMENTALI E PARIETALI A ROMA FINO AL IX SECOLO 387 duttiva nel settore restò così concentrata nei semplici pavimenti a tessere marmoree policrome di forma sempre più irregolare che, nel VI secolo, trovarono una più concreta via di sopravvivenza nelle campiture interne dei reticolati di fasce marmoree dei nuovi pavimenti in sectile-tessellato. Anche questa nuova tipologia pavimentale non ebbe tuttavia una lunga vita dopo l’inizio del VII secolo, pur se, in effetti, sembra riemergere sporadicamente con qualche esempio concreto nell’VIIIIX secolo 101. Ripercorrendo l’arco cronologico dal IV al IX secolo, anche per i sectilia pavimenta possiamo individuare un iter che risulta almeno in parte analogo a quello appena descritto a proposito del mosaico. Abbiamo già osservato che, in età imperiale, erano operative, nel settore dei pavimenti a commesso marmoreo, maestranze di altissima specializzazione che a Roma avevano avuto certamente il centro di produzione più importante e più innovativo in assoluto e lo avevano conservato anche nella tarda antichità 102 quando la produzione del settore si era mantenuta comunque su due linee ben diverse: quella del lusso e quindi della manifattura di sectilia di disegno sempre più complesso e comunque originale o addirittura unico 103, e quella del reimpiego, rivolta invece al riciclaggio di commessi pavimentali dei tipi più semplici, rimossi dalla giacitura originaria e riassemblati in composizioni imitative delle precedenti stesure, ma senza rispetto delle iterazioni precise dei moduli e delle concordanze cromatiche. Queste due linee di produzione sembra siano sopravvissute, la prima almeno fino al V secolo, la seconda forse anche all’inizio del VI, ma con un impoverimento qualitativo sempre più accentuato. Sta di fatto, comunque, che il periodo che va dalla metà del V secolo a quella del successivo corrisponde ad un drastico ridimensionamento della produzione pa- vimentale con conseguente riduzione delle attività umane che ne traevano lavoro e sostegno economico. In particolare è la produzione di qualità che tende addirittura a scomparire a Roma a partire dal pieno V secolo, quando non troviamo più i sectilia pavimenta con motivi complessi e redatti con cura utilizzando soprattutto materiali di primo impiego. Nel periodo immediatamente successivo anche i sectilia ricomposti e riassemblati diventano più rari, finché nel pieno VI secolo, si registra una temporanea rivitalizzazione, stavolta però con apporti di cultura esterna, testimoniata dai sectilia a piccolo modulo, di matrice bizantina. La soluzione redazionale dell’intelaiatura entro pannelli bordati da fasce marmoree accomuna questi sectilia pavimenta con quelli in sectile-tessellato e testimonia, di fatto, una unificazione delle due tecniche in una sola tipologia ‘mista’ nella quale i due antichi settori produttivi dei sectilia pavimenta e dei tessellata pavimenta, un tempo rigidamente separati sono ormai fusi in un unico percorso. I pavimenti a pannelli in varie redazioni e composizioni restano di fatto le uniche tipologie pavimentali di un certo pregio in uso nel VI e VII secolo e corrispondono comunque ad una produzione circoscritta geograficamente, cronologicamente e quantitativamente. Le maestranze impiegate nel settore dovevano essere quindi poco numerose e non altamente specializzate, anzi di professionalità piuttosto ‘mista’, cioè non più organizzata in comparti ben definiti, ma ormai trasversale rispetto ai più numerosi e più specialistici mestieri ricordati nel Codice Teodosiano 104. È infatti probabile che la semplificazione delle tecniche esecutive, non richiedesse più, come nel passato, particolari capacità ed esperienze di taglio ‘artistico’ e che quindi la assai più contenuta volumetria delle commesse 105 potesse essere assorbita da maestranze di modesto livello artigianale e semmai relativamente le epoche ancora più avanzate nel tempo i casi più significativi si possono facilmente individuare sia nelle chiese della Giordania la cui datazione si estende anche oltre la metà dell’VIII secolo (ad esempio PICCIRILLO, ALLIATA 1994), sia nei contemporanei castelli e palazzi omayyadi della medesima regione e dell’antico territorio palestinese (PARIBENI 2004). 101 Ci riferiamo al tratto in sectile-tessellato marmoreo tuttora visibile nei sotterranei della chiesa di S. Agnese in Agone e pertinente all’edificio di culto già esistente alla fine dell’VIII secolo e ad alcuni pannelli del pavimento marmoreo dei SS. Quattro Coronati (cfr. supra). 102 Sembra si possa affermare, in effetti, che solo nel III secolo e solo in un’area particolare, cioè quella alessandrino-cirenaica, si può individuare un centro di produzione di sectilia pavimenta di tipologia originale ed indipendente da quelle che, per caratteri co- muni, sembrano da ricondurre esclusivamente a Roma. Si tratta di quei pavimenti marmorei che abbiamo definito ‘plurilistellati’ perché caratterizzati dalla presenza di delineature con più listelli sottili di più colori contrastanti e organizzate per formelle singole e indipendenti. Questa tipologia si diffuse già nei secoli successivi, non solo in gran parte dell’area mediterranea meridionale e orientale, ma anche verso nord: ne troviamo infatti esempi ad Ostia – ma finora non a Roma – già nel IV secolo (GUIDOBALDI 2005). 103 GUIDOBALDI 2001. 104 COD. Theod. XIII, 4, 2. 105 Le cause dell’evidente contrazione dei volumi di lavoro provenienti dal ‘comparto’ della produzione pavimentale a Roma, nel periodo che va dal V al VII secolo, sono ovviamente da ricercare nella riduzione della richiesta, a sua volta legata sia al depopolamento che alla decadenza economica. Inutile ribadire che tali fe- 388 FEDERICO GUIDOBALDI, ALESSANDRA GUIGLIA Se si guarda solo alla produzione pavimentale si ricava probabilmente un’immagine troppo riduttiva dell’attività artigianale relativa ai rivestimenti decorativi nella Roma tardoantica e altomedievale: infatti, come abbiamo indicato nelle pagine precedenti, al crollo verticale della richiesta di nuovi pavimenti non corrisponde affatto una altrettanto drastica diminuzione nel settore dei rivestimenti parietali. Già nel IV secolo, quando i tradizionali tessellata pavimenta vanno in disuso a Roma, assistiamo infatti ad un improvviso ed incisivo sviluppo non solo dei rivestimenti musivi parietali, che ora non sono più limitati, come in precedenza, quasi esclusivamente ad edifici termali o a ninfei, ma anche dei commessi marmorei che diventano una sorta di status symbol specialmente nell’ambito dell’edilizia di committenza imperiale e, in generale, in quella residenziale di alto e medio livello. È evidente, peraltro che le due tecniche di rivestimento citate, che si pongono ad un livello qualitativa- mente assai superiore a quello che compete alla pur diffusissima alternativa della decorazione pittorica, sono spesso associate tra loro in singoli edifici. Emblematico in tal senso è il caso del mausoleo di Costantina, del pieno IV secolo, nel quale, come abbiamo ricordato, la volta della navata anulare e le absidi conservano tuttora buona parte dei rivestimenti musivi che si svolgevano anche nella cupola, mentre il tamburo interno e le pareti perimetrali erano ricoperte da incrustationes marmoree e ciò anche in base ad ovvi accorgimenti pratici 107. Così anche nel mausoleo di Elena, nel cosiddetto tempio di Minerva Medica e in molti degli altri edifici residenziali di Roma e di Ostia che hanno conservato gli alzati e le tracce dei relativi rivestimenti. Dopo le prime realizzazioni in mausolei e palazzi imperiali o in residenze aristocratiche i rivestimenti parietali assunsero una diffusione sempre maggiore nelle chiese che si appropriarono con decisione di queste tecniche decorative e soprattutto del mosaico parietale. Esso si prestava infatti assai bene non solo alle esigenze di rappresentare simbologie e figurazioni cristiane talora complesse, ma anche alla nuova concezione dell’architettura, che, a partire da Costantino, aveva scelto la luce e il cromatismo delle superfici lisce e riflettenti come elementi connotanti degli interni 108 e in quest’ottica aveva impiegato, in modo sempre più incisivo proprio nelle chiese, le tessere d’oro che meglio accompagnavano gli intenti rappresentativi della religione nei suoi contenuti spirituali. Le incrustationes non avevano le stesse valenze ed è forse per questo motivo che, mentre nella stessa capitale si formò ben presto e prosperò per molti secoli una vera e propria ‘scuola romana’ del mosaico parietale, la produzione di rivestimenti marmorei dopo una prima ‘impennata’ nel IV e V secolo, che rese Roma nomeni, già innescati almeno a partire dalla morte di Valentiniano III – coincidente peraltro con il sacco vandalico (455) – e poi incrementati con l’estinzione dell’impero d’occidente (476) e con la migrazione di parte dell’aristocrazia a Costantinopoli, giunsero a un punto critico di caduta verticale nel disastroso ventennio delle guerre gotiche (535-555), al termine delle quali sia gli abitanti che le risorse economiche dovevano essere ridotti a quantità insignificanti rispetto alla situazione della metropoli del IV secolo. 106 Va detto, a questo punto, che pur se inizialmente era nostra intenzione affrontare l’argomento della produzione nel settore dei rivestimenti decorativi sulla base dei mestieri antichi quali risultavano dalle fonti e dall’epigrafia, abbiamo poi preferito rinunciare a questa impostazione dopo la constatazione delle notevoli ambiguità interpretative che sembrano sussistere in letteratura sui vari termini come marmorarius, crustarius, musivarius, etc. Cogliamo qui l’occasione per esprimere un sincero e amichevole ringraziamento a Gian Luca Gregori, che ci è stato prodigo di indicazioni su questo argomento, in realtà poco frequentato, se si eccettuano alcuni importanti contributi (cfr. ad es. BALMELLE, DARMON 1986, con bibliografia precedente e con interessante discussione alle pp. 248-249; DUNBABIN 1999, pp. 236, 275-276). Sembra comunque che si sia ancora lontani da inquadramenti univoci delle varie professionalità, nonostante la notevole quantità dei dati ricavabili dai repertori epigrafici ai quali si è recentemente aggiunto anche quello specifico dell’epigrafia cristiana di Roma (BISCONTI 2000). 107 In realtà le superfici semicilindriche come quelle della base delle absidi, o cilindriche, come i tamburi delle cupole, sono state talvolta rivestite da commessi marmorei, ma le volte, le cupole e i catini absidali non potevano ricevere quel tipo di decorazione, notevolmente pesante, per ovvi motivi di sicurezza. 108 GUIDOBALDI, PEDONE 2011, pp. 104-109; GUIDOBALDI 2013. versatili, tanto da ricoprire i vari ruoli, di marmorarii, tessellarii etc. che in precedenza erano nettamente separati anche nell’inquadramento ‘ufficiale’ dei mestieri 106. Si deve ammettere, tuttavia, che questo mestiere ‘misto’, che le contingenze storiche ed economiche avevano fatto sviluppare, permise di fatto la sopravvivenza, pur se in tono minore, di una cultura decorativa pavimentale tipicamente romana che anche dopo periodi di evidente ‘latenza’ riuscì a riemergere e a riacquistare anche livelli di ben più alta professionalità come testimonia la lunga e folta serie dei pavimenti cosmateschi prodotti a partire dall’inizio del XII secolo. Rivestimenti parietali I RIVESTIMENTI PAVIMENTALI E PARIETALI A ROMA FINO AL IX SECOLO 389 Estendendo finalmente l’analisi all’intero insieme dei manufatti finora presi in considerazione, si può a questo punto generalizzare sottolineando che, mentre i rivestimenti pavimentali nel loro insieme, cioè sia quelli a mosaico sia quelli marmorei, subiscono già nel V secolo un notevole decremento della richiesta, i rivestimenti parietali sia musivi che ad incrustationes tendono ad un incremento della produzione almeno per il periodo che va dal IV al VI secolo. Per il successivo intervallo che va dal VII al IX secolo dobbiamo ammettere invece che, mentre il mosaico parietale resiste anche alla generale decadenza economica che si riscontra soprattutto all’interno del VII e VIII secolo, il settore produttivo delle incrustationes di una certa articolazione scompare quasi del tutto: il rivestimento marmoreo ormai assai semplificato di S. Agnese fuori le mura, è un indizio prezioso di questo ridimensionamento delle qualificazioni artistiche nel settore che si avvia ad una più modesta continuazione dell’attività, orientata ormai sempre più verso i semplici e resistenti rivestimenti a lastre bianche omogenee 110, certo in gran parte recuperate da edifici più antichi. Ciò ci ricorda che, parlando di attività produttive nella Roma tardoantica e, soprattutto, in quella altomedievale, non dobbiamo mai omettere la componente fondamentale che ebbero, in tutti i settori, le complementari attività del reimpiego, che sono da considerare uno dei principali elementi dell’economia globale di Roma, sia in quei tempi – e in parte già in quelli precedenti – sia in quelli successivi fino al XVII secolo e oltre. Le fonti che alimentarono a Roma questa ‘industria del reimpiego’ sono davvero innumerevoli ed è interessante sottolineare che anche i rivestimenti marmorei e musivi prodotti con materiali recuperati da altri edifici furono poi essi stessi oggetto di ulteriore reimpiego per i rivestimenti dei periodi successivi. Così le formelle dei sectilia pavimenta, che già erano soggette al riciclaggio almeno dal IV secolo, continuarono ad essere riutilizzate più volte anche per rappezzi nei mosaici pavimentali e se provenivano da composizioni a lastre più grandi, furono usate nei numerosi e semplicissimi pavimenti a lastricato irregolare, in uso nell’alto medioevo e oltre. Anche le incrustationes, specialmente quelle ottenute con grandi specchiature contenenti lastre intere, tonde, ovali, rettangolari rombiche etc., un tempo solidamente ancorate alle pareti, ben presto, quando persero aderenza e si distaccarono dai supporti per effetto dell’assenza di manutenzione in molti edifici ormai abbandonati, divennero anch’esse una fonte di facile approvvigionamento, prima per le pavimentazioni in sectile-tessellato o in sectile che si andavano affermando nel VI e IX secolo poi per i manufatti prodotti dalle maestranze ‘cosmatesche’. Lo stesso dovette verificarsi con le tessere musive che, come abbiamo accennato, potevano trovarsi in tratti estesissimi soprattutto nelle grandi terme, ma poi anche negli edifici di IV e V secolo che, già in disuso alla fine del VI secolo, erano diventate possibili cave incustodite di quelle preziose tessere vitree, facilmente recuperabili e riutilizzabili, delle quali si saranno sicuramente alimentate sia la fiorente industria 109 Significativo in tal senso è il recente accertamento di un rivestimento musivo su una parete esterna delle terme di Diocleziano che poteva estendersi per parecchie centinaia di metri quadrati (GUIDOBALDI 2014, pp. 121-123 e 125-126): dell’originaria superficie musiva policroma restano oggi poche decine di tessere in situ, ma è facile ipotizzare che i milioni di tessere che certo componevano la superficie originaria nel IV secolo, una volta cadute oppure intenzionalmente rimosse, siano state per secoli oggetto di recuperi intensivi a scopo di reimpiego. 110 Un caso particolarmente integro è quello della cappella di S. Zenone in S. Prassede, del tempo di Pasquale I (817-824). non solo centro di manifattura ma anche di irradiazione ed esportazione, sopravvisse ancora attivamente nel VI secolo, ma già verso la fine di esso sembra decrescere velocemente nella qualità e nella quantità. Contemporaneamente, invece, il mosaico parietale mantenne connotazioni stilistiche proprie e superò brillantemente anche la crisi delle guerre gotiche e, nei tre secoli successivi, continuò a produrre opere di notevole impegno e qualità che dimostrano la vitalità pressoché ininterrotta delle maestranze attive nel settore. La serie delle decorazioni musive parietali sopravvissute o documentate nelle chiese di Roma dal IV secolo fino alla metà del IX, che abbiamo delineato, pur se sommariamente, nel paragrafo dedicato a questa tecnica di rivestimento, presenta in effetti solo minime soluzioni di continuità e quindi la corrispondente attività produttiva può essere considerata stabile e costante; lo stesso vale per altri settori collaterali di notevole importanza, cioè quello della produzione del vetro e quello della lavorazione dell’oro, ai quali si deve certo aggiungere anche quello più modesto, ma certo non trascurabile, del recupero delle tessere vitree da più antiche decorazioni musive di grande estensione, come quelle presenti nei più importanti complessi termali ormai da tempo abbandonati 109. Conclusioni 390 FEDERICO GUIDOBALDI, ALESSANDRA GUIGLIA dei mosaici cristiani sia quella altrettanto attiva del vetro e dei prodotti ad esso associati. Il reimpiego dei materiali che erano stati essenziali nella produzione di rivestimenti parietali e pavimentali della Roma antica e tardoantica resta dunque un elemento fondamentale dell’economia della Roma altomedievale, anzi si può forse affermare che proprio la disponibilità larghissima di marmi da riutilizzare fu una componente essenziale della sopravvivenza di vari settori produttivi nel campo dei rivestimenti decorativi, che conservarono, anche nei momenti di più profonda decadenza economica, una sorta di ‘continuità latente’ della cultura artistica legata alle decorazioni marmoree e musive. Bibliografia ALFANO 2006 = G. ALFANO, 42. I mosaici e la decorazione ad opus sectile nell’atrio del battistero lateranense: 42c. La decorazione ad opus sectile, in ANDALORO 2006a, pp. 355-357. ALFARANO-CERRATI 1914 = TIBERII ALPHARANI, De basilicae vaticanae antiquissima et nova structura, pubblicato per la prima volta con introduzione e note dal Dott. D. Michele Cerrati, Roma 1914. 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Un numero cospicuo di chiese romane presenta, infatti, decorazioni stratificate, le quali, una volta superati i limiti imposti dalla frammentarietà, rivelano le loro distinte ‘pelli pittoriche’ 2. Da tempo gli storici dell’arte di area anglosassone denunciano i limiti di un approccio esclusivamente stilistico nello studio della pittura altomedievale proponendo chi, come John Osborne, di considerarlo una testimonianza della cultura materiale 3, chi, come Fig. 1. - S. Maria Antiqua. Parete ‘palinsesto’. Beat Brenk, di concentrarsi sulla committenza 4 e chi, come Leslie Brubaker, di legla superficie dipinta attraverso un’analisi stratigrafica gere il testo pittorico come un documento storico 5. Lo ‘verticale’. Lo scopo è quello di sfogliare, strato dopo studio della pittura medievale, in realtà, richiede oggi strato, il palinsesto pittorico. I singoli livelli sono ricoun approccio multi e inter disciplinare, che non può prenosciuti e isolati in base ai precipui materiali costituscindere dalla lettura storico-artistica. tivi e alle tecniche esecutive impiegate. In seconda La metodologia che ho sperimentato per lo studio battuta, con un occhio più propriamente storico-artistico, delle decorazioni pittoriche delle chiese romane indaga 1 NORDHAGEN 1962, pp. 54-66; ANDALORO 2004, pp. 97-111; BORDI c.s. 2 Si ricordano a titolo esclusivamente esemplificativo le decorazioni stratificate conservate sulle pareti della chiesa inferiore di S. Saba, nelle nicchie di S. Balbina, sulle pareti della chiesa inferiore di S. Crisogono e nell’absidiola settentrionale della chiesa inferiore dei SS. Quirico e Giulitta. 3 OSBORNE 2001, pp. 694-711. 4 BRUBAKER 2006, pp. 41-47. 5 BRENK 2003, pp. 971-974, 1047-1053. 396 GIULIA BORDI cerco di leggere e integrare l’ordito iconografico e formale di ogni singola ‘pelle pittorica’. La sfida è quella di capire fino a che punto ci si possa spingere nell’interpretazione di pareti dipinte ritenute illeggibili e sia possibile superare, mediante un’‘integrazione mentale’, il limite della frammentarietà di un testo pittorico 6. L’obiettivo è quello di restituire visibilità a ciò che irrimediabilmente sta scomparendo, di riconoscere, registrare e quindi recuperare ogni minima traccia di decorazione dipinta al tessuto figurativo originario, senza mai oltrepassare la soglia della ricostruzione arbitraria. Un rapporto dinamico con la parete dipinta permette inoltre di riconoscere la coesistenza di fasi pittoriche risparmiate accanto a obliterazioni e aggiornamenti. La frequenza di casi di questo tipo induce a proporre l’introduzione, anche in pittura, del concetto di ‘riuso’ che di norma ci è più familiare in architettura e scultura. Gli intonaci dipinti, infatti, possono essere ‘riusati’ sia per un mero sfruttamento materiale sia per il loro valore cultuale o ideologico 7. Ho scelto come osservatorio privilegiato per indagare il rapporto tra parete e pittura nel Medioevo gli ambienti sotterranei dell’antica diaconia di S. Maria in via Lata (fig. 2), poiché rappresentano con la loro decorazione pittorica stratificata, oggi in gran parte decontestualizzata, un caso emblematico 8. Questa scelta vale una provocazione per esplicitare come un’indagine sui cantieri e sulla circolazione delle maestranze pittoriche a Roma nel Medioevo debba scontrarsi necessariamente con la realtà molteplice e mutevole della parete dipinta intessuta di palinsesti, riusi e obliterazioni. La chiesa di S. Maria in via Lata nella sua maestosa veste barocca, opera di Pietro da Cortona (1658-1662), si affaccia su via del Corso, antica via Lata 9. I dipinti murali medievali tornarono alla luce tra il 1904 e il 1914 durante le campagne di scavo condotte da Luigi Cavazzi nella cripta barocca 10. Essi sono caratterizzati da una stratificazione complessa della quale sono andati perduti gran parte dei nessi quando, negli anni 1959-1961, a causa dell’eccessiva umidità degli ambienti, l’Istituto Centrale per il Restauro decise di staccarli e trasferirli in un luogo più idoneo 11. Conservate per quaranta anni nei depositi dell’Istituto, le pitture di S. Maria in via Lata nel 2000 hanno finalmente trovato uno spazio espositivo permanente nel Museo Nazionale Romano della Crypta Balbi 12. I pochi dipinti rimasti in situ, negli ambienti sottostanti all’attuale chiesa seicentesca, versano oggi in uno 6 Questo approccio metodologico nasce da un modello di indagine applicato alla parete dipinta di epoca paleocristiana e medievale messo a punto a partire dal 1996 nell’ambito dei progetti di ricerca diretti da Maria Andaloro (Università egli studi della Tuscia) in Asia Minore. Vd. ANDALORO 2002, pp. 163-164; ANDALORO 2005a, pp. 147-162; BORDI 2008, pp. 9-11. 7 Si tratta in entrambi i casi di spolia in se. Cfr. BRILLANT 1982. Per una riflessione a tutto campo sul concetto di spolia si veda da ultimo il volume a cura di Richard Brillant e Dale Kinney, Reuse value. Spolia and Appropriation in Art and Architecture from Constantine to Sherrie Levine, Farnham 2011. 8 Lo studio della decorazione pittorica della diaconia di S. Maria in via Lata è stato condotto da chi scrive a partire dall’elaborazione della tesi di perfezionamento in discipline storico-artistiche, di- scussa nel 2008 presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, dal titolo Pittura e parete a Roma tra VII e XI secolo. Gli affreschi di San Saba e Santa Maria in via Lata. 9 Sulle fasi post medievali della chiesa si veda da ultimo: PIERDOMINICI 2010. 10 La prima campagna di scavo fu intrapresa da Cavazzi tra il 1904 e il 1905, dopo una lunga pausa i lavori furono ripresi nel 1914 sotto la guida di Antonio Muñoz, allora funzionario della Regia Sopraintendenza per la conservazione dei Monumenti. Vedi: CAVAZZI 1908, pp. 200-240; CAVAZZI 1914, pp. 64-71, 151-152; PARDI 2006, pp. 21-24. 11 BERTELLI, GALASSI PALUZZI 1971, pp. 16-17; TAMANTI 2001, pp. 466-469. 12 BETTI 2001, pp. 455-465; MORETTI 2014, pp. 207-214. Fig. 2. - S. Maria in via Lata. Sotterranei della chiesa. Vano II. TRA PITTURA E PARETE. PALINSESTI, RIUSI E OBLITERAZIONI NELLA DIACONIA DI SANTA MARIA IN VIA LATA TRA VI E XI SECOLO 397 stato di conservazione critico, ma restano l’unico appiglio per ricostruire questo importante complesso pittorico medievale. La diaconia, rinvenuta nel 1904, si era insediata all’interno di strutture più antiche (fig. 3). Gli scavi di Cavazzi, infatti, portarono alla scoperta di un organismo architettonico che aveva subìto diverse trasformazioni d’uso nel corso dei secoli. Il complesso altomedievale, con orientamento inverso a quello dell’edificio barocco, si era inserito all’interno di sette vani comunicanti tra loro, che appartenevano ad una grande porticus del I-II secolo 13. Nel III-IV secolo il portico monumentale era stato convertito in horreum 14 o in un’insula con tabernae 15, mediante l’inserimento di lunghi muri trasversali, che crearono una doppia fila di celle a pianta qua- Fig. 3. - S. Maria in via Lata. Planimetria dei sotterranei della chiesa (da Arena 2001). drata, coperte con volte a crociera e ante quem è fornito dalle pitture più antiche datate, dotate tutte di un piano mezzanino 16. come si vedrà a breve, tra la fine del VI e la metà del La diaconia di S. Maria in via Lata è attestata per la VII secolo. La cristianizzazione dell’edificio comportò prima volta nel Liber Pontificalis, nella biografia di l’abolizione dei mezzanini, l’inserimento di nuove coLeone III (795-816) 17, come già esistente. Le fonti tacperture con volta a botte e la progressiva apertura di ciono sulla sua fondazione. Erik Sjöqvist data la cripassaggi e archivolti tra un ambiente e l’altro 21. Infine, stianizzazione del luogo al VI secolo e l’insediamento 18 nel vano II fu chiusa la porta orientale con l’innesto di della diaconia intorno alla metà dell’VIII secolo . Riun’abside 22. chard Krautheimer e Spencer Corbett, invece, riconoLa prima campagna decorativa della diaconia è stata scono una trasformazione degli horrea già agli inizi del datata da Marina Righetti Tosti-Croce e da Fabio Betti V o al VI secolo e il loro adattamento a scopi ecclealla fine VI-inizi VII secolo 23 mentre da Carlo Bertelli siastici non più tardi del primo quarto del VII secolo 19. alla metà del VII 24. Secondo questi studiosi si trattò di Secondo una recente ipotesi di Robert Coates-Stephens, un intervento di vasto respiro, manifesto purissimo delS. Maria in via Lata potrebbe rientrare nel novero degli l’immissione a Roma della pittura greca, che interessò edifici di culto dedicati alla Theotòkos passati sotto sialmeno quattro dei sei vani dell’edificio. In base a conlenzio dal Liber Pontificalis, in quanto fondazioni imfronti stilistici, spesso non esplicitati, sono stati riuniti periali bizantine posteriori alla riconquista 20. Il terminus 13 KRAUTHEIMER, CORBETT, FRANKL 1971, pp. 75-77, fig. 69; ARENA 2001, pp. 448-449, fig. 134; PARDI 2006, pp. 3-8. 14 SJÖQVIST 1946, p. 78; KRAUTHEIMER, CORBETT, FRANKL 1971, p. 77. 15 PARDI 2006, p. 29. 16 KRAUTHEIMER, CORBETT, FRANKL 1971, pp. 76-77, figg. 7071; PARDI 2006, p. 29. 17 LP II 98, cc. 46, 70. 18 SJÖQVIST 1946, p. 94. 19 KRAUTHEIMER, CORBETT, FRANKL 1971, pp. 78-79, 81. 20 COATES-STEPHENS 2006, pp. 158-160; COATES-STEPHENS 2012, pp. 87-88. 21 KRAUTHEIMER, CORBETT, FRANKL 1971, pp. 78-79; PARDI 2006, pp. 30-31. 22 KRAUTHEIMER, CORBETT, FRANKL 1971, p. 79. L’abside fu scoperta nel 1961, quando Bertelli, con l’appoggio finanziario di Krautheimer, fece tre saggi nella parete orientale del vano II nella muratura del XVII secolo, inserita a sostegno del portico d’ingresso della chiesa superiore (BERTELLI, GALASSI PALUZZI 1971, p. 30). 23 RIGHETTI TOSTI-CROCE 1989, pp. 180-181; BETTI 2001, pp. 453454. 24 BERTELLI, GALASSI PALUZZI 1971, pp. 33-35; BERTELLI 1974, p. 27; BERTELLI 1994, p. 209. 398 GIULIA BORDI ce e Betti su una cronologia di fine VI-inizi VII secolo 27, ha riguardato solo il vano IV. Sulle pareti fu dipinto, distribuito su tre registri, un ciclo veterotestamentario, articolato, sulla base dei brani di pittura ancora in situ, in almeno venti scene. Due furono identificate da Josef Wilpert: il Giudizio di Salomone (1 Re 3, 16-28), già sulla parete ovest, oggi esposto al Museo Nazionale Romano della Crypta Balbi e Mosé che scrive la legge (Dt 31, 24-25), già sulla parete sud e perduto all’indomani dello stacco del 1959-1961 (fig. 4) 28. Una terza scena si conserva parte in situ e parte staccata: si tratta dei due pannelli in origine dipinti all’attacco dell’arco tra i vani I Fig. 4. - Ricostruzione 3D del vano IV. Angolo sud-ovest. Fase fine VI-inizi VII secolo, Mosè che scrive la legge e Giudizio di Salomone (realizzata da M. Viscontini). e IV. A destra è rappresentato un tempietto mentre a sinistra, in uno stesso gruppo: i Quaranta martiri di Sebaste nelin base alla mia lettura, una figura stante (fig. 5). Lo strinl’abside (vano II); l’Orazione nell’orto e le teste nimgente confronto con una miniatura dell’Ottateuco vatibate (già nel vano III); il frammento con il tempietto e cano 29, consente di riconoscervi l’episodio di Aronne l’orante, il Mosè che scrive la legge, il Giudizio di Saal tempio: la figura a sinistra dell’arco è Aronne che inlomone e le storie dei Sette dormienti di Efeso (già nel cede verso il tempio, quest’ultimo rappresentato a devano IV); l’arcone con i volti clipeati di santi e la fistra come un ciborio retto da colonne. Sul piedritto degura stante in palinsesto (già nel vano V) 25. Un gruppo stro dell’arco si conserva traccia di pannelli iconici: una decisamente troppo ampio ed eterogeneo per la plurasanta orante, sotto al tempietto della scena di Aronne, lità di esiti stilistici, come già denunciato da Maria Ane più in basso un’altra figura di santo, del quale è giundaloro 26. ta a noi solo la testa incorniciata da un’ampia aureola. Per sondare i criteri che hanno governato l’organizSul montante sinistro è ipotizzabile che fossero dipinzazione e la distribuzione della decorazione pittorica ti altri due santi, obliterati dall’inserimento del riquasulle pareti di S. Maria in via Lata e riconoscere e isodro con i Sette dormienti di Efeso, che pertanto appartiene lare i singoli programmi iconografici sono partita dalla a una fase decorativa successiva e distinta. Figure di sanmappatura capillare di tutte le tracce superstiti in situ, ti erano rappresentate anche negli intradossi della finesopravvissute nonostante gli stacchi. stra aperta sulla parete occidentale (fig. 4). Sulla pareIn base alla mia ricognizione, la più antica campagna tina destra ho ritrovato tracce di panneggi della veste di decorativa, per la quale concordo con Righetti Tosti-Crouna figura e dell’iscrizione Κοσμάς, già vista da Ca- 25 I dipinti già conservati nei vani III, IV e V sono oggi ospitati presso il Museo Nazionale Romano della Cryta Balbi, esposti o in deposito. 26 ANDALORO 1992, p. 601, nota 105. 27 RIGHETTI TOSTI-CROCE 1989, pp. 180-181; BETTI 2001, pp. 453, 455-456. Le scene veterotestamentarie del vano IV, nonostante l’ingente depauperamento della pellicola pittorica tradiscono ancora una sintassi compositiva, una spazialità e una scioltezza dei movimenti delle figure che trovano un confronto solo nelle straordinarie miniature del VI secolo del Codex purpureus Rossanensis (CAVALLO, GRIBOMONT, LOERKE 1985-1987). Si veda ad esempio la pagina del codice con il Processo davanti a Pilato e il Pentimento di Giuda (fig. 8, recto) a confronto con la scena del Giudizio di Salomone. 28 WILPERT 1916, II, pp. 698-700; IV, taf. 138.3. 29 Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Grec. 749, fol. 241r; WEITZMANN, BERNABÒ 1999, p. 179, pl. 777. TRA PITTURA E PARETE. PALINSESTI, RIUSI E OBLITERAZIONI NELLA DIACONIA DI SANTA MARIA IN VIA LATA TRA VI E XI SECOLO vazzi 30, chiaro indizio che qui erano raffigurati, uno di fronte all’altro, i SS. Cosma e Damiano. Nel pannello con il tempietto e la santa orante, esposto nel Museo della Crypta Balbi, si conserva, infine, una ghirlanda di fiori, a bottone giallo e a calice rosso alternati, e foglie (fig. 6). Ho trovato la stessa ghirlanda nell’abside di S. Maria Antiqua, dipinta in prossimità degli spigoli tra l’emiciclo e le paretine absidali. Questa cornice fa parte di una campagna decorativa riferibile alla fine del VI-inizi del VII secolo, datazione che si accorda con quella della prima fase pittorica di S. Maria in via Lata 31. Nonostante la propensione diffusa tra gli studiosi ad assimilare la disposizione dei vani di S. Maria in via Lata a un edificio chiesastico a tre navate (fig. 3), la concentrazione dei dipinti più antichi nel vano IV induce a ritenere che solo questo ambiente, nell’iniziale uso cristiano del complesso, sia stato valorizzato e reso specificamente connotato, probabilmente in senso cultuale, dalla decorazione pittorica 32, e che solo in seguito il vano II, con l’inserimento di un’abside, sia presumibilmente diventato l’oratorio principale della diaconia. Va però evidenziato che, se da una parte la lettura dei programmi decorativi deve essere necessariamente associata alla riflessione sulla funzione degli ambienti cui sono destinati, riguardo al complesso di S. Maria in via Lata, in effetti, spe- Fig. 5. - Vano IV. Lato est. Aronne al tempio. Ricostruzione grafica della scena (realizzata da G. Bordi e M. Viscontini). a b Fig. 6. - Ghirlanda con fiori e foglie: a) S. Maria in via Lata, vano IV, ghiera dell’arcone est; b) S. Maria Antiqua, emiciclo absidale. CAVAZZI 1914, p. 69. Oggi dell’iscrizione restano solo due lettere finali: [Κοσυ]ας. 31 BORDI c.s. 30 399 32 Bertelli suggerì che in una prima fase il vano IV potesse essere stato un oratorio isolato, trasformato poi, insieme al vano I, nella navata destra quando la chiesa assunse la sua forma definitiva. BERTELLI 1974, p. 27. 400 GIULIA BORDI gesse funzioni legate al riuso cristiano, rivelando una interessante analogia con la ‘sala a sei vani’ del complesso dei SS. Silvestro e Martino ai Monti 34, ambienti aperti e adibiti dal VI al IX secolo ad un uso cristiano, ma di non immediata lettura funzionale. Alla metà circa del VII secolo, in base alla nuova ricostruzione delle fasi che qui si propone, nell’angolo nord-est del vano IV viene incastonato nel preesistente ciclo veterotestamentario il miracolo dei Sette dormienti di Efeso dipinto sulle due paretine adiacenti (fig. 7) 35. La scena, articolata in due riquadri attigui, racconta l’incontro del vescovo di Efeso, MartiFig. 7. - Ricostruzione 3D del vano IV. Angolo nord-est. Fase metà VII secolo, Miracolo dei Sette no, accompagnato da Teodosio II dormienti di Efeso (realizzata da M. Viscontini). o dal suo proconsole, Antipatro, cie per la fase più antica, si palesano non pochi problecon i sette giovani che escono dalla caverna dove erano mi circa la sicura attribuzione ad un luogo di culto, poistati murati per ordine dell’imperatore Decio 36. In alto si chè, in questo caso, configurazione dell’ambiente e conserva l’iscrizione in greco [---]αν γλοσσο[κομον] / [soggetti iconografici delle pitture non appaiono dirimenti --]αντες di cui si ricostruisce solo la parola τὸ γλοσσόκοin modo univoco sulla trasformazione del vano in oratorio. μον che designa l’astuccio trovato dal vescovo presso la Benchè le caratteristiche monumentali degli interi comcaverna 37. Questi dipinti non trovano nel panorama pitplessi diaconali nella Roma altomedievale siano ancora torico romano un diretto confronto e in base a valutaziotutte da indagare 33, anche con approfondimenti archeoni di ordine epigrafico Guglielmo Cavallo ne ha proposto logici, e di questi emergano con sicura riconoscibilità soluna datazione intorno agli anni di Martino I (649-655), batanto le chiese – pur essendo ovvio che a queste dovessandosi sui nessi riscontrati con le coeve iscrizioni pictae, sero connettersi una serie di strutture di servizio –, per conservate a S. Maria Antiqua 38. Sotto alla scena era dila diaconia di S. Maria in via Lata non è da escludere che, pinta una teoria di sette santi stanti, di cui restano solo le malgrado la concentrazione delle pitture nel vano IV, l’araureole, probabilmente gli stessi sette dormienti (fig. 7). ticolato insieme di vani nell’arco di circa due secoli svolSi tratta del primo caso attestato nell’Urbe di una parete Cfr. Bertolini 1947, pp. 1-145; Durliat 1990, pp. 165-184; Falesiedi 1995. Si veda da ultimo Cecchelli 2010 pp. 539-573. 34 Un parallelo tra la diaconia di S. Maria in via Lata e la ‘sala a sei vani’ del complesso dei SS. Silvestro e Martino ai Monti è stato proposto da Margherita Cecchelli (CECCHELLI 2001, pp. 4647, 90-91). Vd. inoltre: SERRA 1999, pp. 325-328. 35 A partire dalla lettura di Bertelli tutti gli studiosi hanno considerato le scene dell’Antico Testamento e i due riquadri dei Sette dormienti di Efeso appartenenti ad una stessa fase pittorica. Bertelli riteneva, infatti, che sotto alle scene veterotestamentarie, nei due registri inferiori delle pareti del vano IV, fossero dipinte storie agiografiche, chiuse in basso da figure iconiche di santi. Questa decorazione è stata datata dallo studioso alla metà del VII secolo (BERTELLI 1974, p. 25), mentre Righetti Tosti-Croce, seguita da Andaloro e Betti, ne ha proposto, come abbiamo già visto, un’antici33 pazione alla fine del VI-inizi VII secolo (RIGHETTI TOSTI-CROCE 1989, pp. 180-181; ANDALORO 1992, p. 601; BETTI 2001, pp. 453, 455-457). 36 I due riquadri dipinti tornarono alla luce nel 1960, durante le operazioni di stacco dell’Istituto Centrale per il Restauro, sotto alle scene con il Martirio di sant’Erasmo. Una volta separati dallo strato superiore, furono posti su un nuovo supporto e sono oggi esposti nel Museo Nazionale Romano della Crypta Balbi (BERTELLI 1974, pp. 23-35; BETTI 2001, pp. 456-457). Sul culto dei Sette dormienti di Efeso si veda da ultimo: PIATNITSKY 1999, pp. 361-366. 37 La trascrizione e l’integrazione dell’iscrizione sono state proposte da Bertelli in base alla versione del racconto del X secolo di Simone Metafraste (PG 115, col. 445). BERTELLI, GALASSI PALUZZI 1971, p. 54. 38 CAVALLO 1988, p. 488. TRA PITTURA E PARETE. PALINSESTI, RIUSI E OBLITERAZIONI NELLA DIACONIA DI SANTA MARIA IN VIA LATA TRA VI E XI SECOLO 401 che presenta una decorazione ad assetto tripartito, decorazione che diventerà poi consueta nel corso dell’VIII secolo 39. Il miracolo dei Sette dormienti ridestati è tradizionalmente interpretato come prefigurazione della Resurrezione dell’umanità 40. L’introduzione della scena in questo angolo del vano potrebbe trovare una spiegazione nella scelta di allestire qui un’area di culto privato, patrocinata da un benefattore laico della diaconia, probabilmente greco. Questa funzione sembra confermata anche dalle decorazioni aggiunte successivamente nel vano, tutte concentrate proprio su queste due pareti. Va inoltre ricordato che il culto di santi di origine orien- Fig. 8. - Ricostruzione 3D del vano III. Pareti ovest e sud. Orazione nell’Orto e Pentecoste (realiztale si diffonde a Roma tra zata da M. Viscontini). VII e VIII secolo per influenper essere identificati. Queste pitture non hanno niente za greca, e che i racconti agiografici vengono dipinti in a che vedere con le figure esili del Giudizio di Saloaree secondarie delle chiese, in piccoli oratori, spesso mone o del miracolo dei Sette dormienti alle quali sono legati a laici, che si affidano all’intercessione di questi state accomunate in passato 42. Come già notato da Per santi 41. Jonas Nordhagen 43, la costruzione ampia e plastica Agli inizi dell’VIII secolo, la decorazione viene delle masse, creata per mezzo di generose pennellate estesa ad altri due vani: il III e il V, che accolgono scene brune, ocra e bianche, è la stessa dei volti del tempo di del Nuovo Testamento. Nel vano III, sulla parete ovest, Giovanni VII (705-707) a S. Maria Antiqua, in partiviene inserita l’Orazione nell’orto (fig. 8). La figura di colar modo di quello dell’angelo dell’Annunciazione del Cristo è rappresentata nei tre momenti della preghiera, pilastro sud orientale e di S. Cosma nella cappella dei mentre in basso gli apostoli giacciono addormentati, in SS. Medici 44. Anche l’ambientazione paesaggistica, che ottemperanza a quanto narrato nel Vangelo di Matteo si è arricchita di dettagli quali le rocce dipinte a gra(Mt 26, 36-46). Probabilmente sulle pareti del vano dodoni, trova anch’essa un confronto preciso nelle pitture vevano figurare altri episodi legati alla Passione e Redi S. Maria Antiqua 45. È questo il raro caso in cui si surrezione di Cristo, dei quali restano brani troppo esigui Si intende per assetto tripartito della parete una decorazione articolata in: scene a carattere narrativo, teoria di santi stanti, zoccolo decorato con velari dipinti. Sui sistemi di impaginazione tripartita della parete dipinta a Roma nell’alto Medioevo si veda: BORDI 2008, pp. 147-152. 40 I sette dormienti si sarebbero risvegliati per testimoniare l’attesa della resurrezione sperimentata durante il sonno della morte (KAZDHAN, PATTERSON ŠEVČENKO 1991, p. 1883). 41 JESSOP 1999, pp. 278-279. Leslie Jessop, nel suo studio sui cicli pittorici romani dedicati ai santi ‘non biblici’, fa solo un riferimento fugace alla scena dei Sette dormienti. La studiosa prende invece in esame le Storie di sant’Erasmo, dipinte sullo strato superiore, ipotizzando la presenza nel vano IV di un altare con reliquie del santo (ibidem, pp. 259-266). Si veda inoltre: MACKIE 2003, pp. 69-90. 39 Bertelli, seguito da Andaloro, Righetti Tosti-Croce e Betti, colloca l’Orazione nell’orto nella prima fase decorativa, ipotizzando tuttavia la presenza, nel vano III, di una bottega differente da quella attiva nel vano IV (BERTELLI, GALASSI PALUZZI 1971, pp. 34-35; ANDALORO 1987, p. 253; RIGHETTI TOSTI-CROCE 1989, p. 180; BETTI 2001, pp. 453, 463-464). 43 Lo studioso riconosce nella scena dell’Orazione nell’orto lo ‘step’ immediatamente successivo alle pitture volute da Giovanni VII in S. Maria Antiqua (NORDHAGEN 1988, p. 610). 44 Cfr. NORDHAGEN 1968, pl. LXXXIII, XCIX. 45 Cfr. NORDHAGEN 1968, pl. LXXXVI. La scena, oggi assai depauperata dal punto di vista pittorico, è apprezzabile nella foto acquerellata Wilpert-Tabanelli, realizzata poco dopo la sua scoperta nel 1905 (WILPERT 1916, IV, taf. 171.1). 42 402 GIULIA BORDI Fig. 9. - Museo Nazionale Romano della Crypta Balbi. Parete ‘palinsesto’ già nel vano V di S. Maria in via Lata. può constatare la presenza delle stesse maestranze all’opera in cantieri diversi della città. Nel vano V, furono, inoltre, inserite scene della vita e dei miracoli di Cristo, di cui si conserva la Moltiplicazione dei pani e dei pesci sul secondo strato del palinsesto, staccato dalla paretina est dell’ambiente (fig. 9) 46. Alla metà dell’VIII secolo, si torna a decorare il vano IV, insistendo sempre sull’angolo nord-est. Si oblitera il miracolo dei Sette dormienti, sovrapponendovi le Storie di S. Erasmo di Antiochia chiuse in basso da una teoria di santi (fig. 10) 47, mentre il resto dell’ambiente continua a conservare il ciclo veterotestamentario della fine del VI-inizi del VII secolo. Per la scelta iconografica e per il linguaggio figurativo adottato, che sottolinea l’enfasi dei gesti e indulge nei particolari truculenti del martirio, le storie di S. Erasmo, al pari della decorazione della cappella dei SS. Quirico e Giulitta in S. Maria Antiqua 48, sono un prodotto dell’innesto a Roma di influssi probabilmente siro-palestinesi, effetto della presenza nell’Urbe di monasteri orientali 49. Ma, occorre osservare che a S. Maria Antiqua, come nella diaconia di via Lata, le iscrizioni pictae ora sono in latino. Sempre alla metà dell’VIII secolo, si interviene anche nel vano III, aggiornando il ciclo cristologico, ma lasciando in vista la più antica Orazione nell’orto. Si ridipinge la parete sud inserendo una scena della quale restano solo quattro teste nimbate (fig. 8) 50, i cui volti presentano un’impostazione assai vicina a quella dei protagonisti delle storie di S. Erasmo. Le quattro teste facevano forse parte di una scena della Pentecoste 51. Il pannello, oggi conservato al Museo della Crypta Balbi, presenta un palinsesto di tre stati dipinti. Il primo, di cui resta solo la parte inferiore di una figura di un santo in piedi, potrebbe essere attribuito alla fase pittorica dei Sette Dormienti di Efeso o poco più tardi, nella seconda metà del VII secolo. Nel secondo strato Bertelli ha riconosciuto elementi affini alle pitture di Giovanni VII in S. Maria Antiqua (BERTELLI, GALASSI PALUZZI 1971, p. 35; BETTI 2001, pp. 459-461). 47 Il racconto dei due martiri di S. Erasmo è narrato in cinque scene condensate in due riquadri. Nel primo riquadro, già sulla parete nord, il santo, vescovo di Antiochia, è rappresentato due volte al cospetto dell’imperatore Diocleziano, la prima mentre viene interrogato e costretto ad abiurare la religione cristiana, la seconda mentre è fustigato da due carnefici. Nel secondo riquadro, staccato dalla parete est, Erasmo subisce un nuovo martirio a Sirmio ordinato, questa volta, dall’imperatore Massimiano. Il santo è colto, in alto a sinistra, nel momento in cui è miracolosamente trasportato in Campania, in basso mentre, obbligato da due carnefici, sta per indossare una tunica di bronzo arroventata, a destra poi è rappresentata la mano di Dio che chiama a sé Erasmo e in alto, in fine, un angelo che reca sulle mani velate l’anima del santo in cielo (Acta Sanctorum, Iunii, I, Parigi-Roma 1867, coll. 208-211). ANDALORO 1987, pp. 272-273; MATTHIAE 1987, p. 152, figg. 101-116, tav. 9; JESSOP 1999, pp. 259-266; BETTI 2001, p. 458. 49 Il culto di S. Erasmo fu introdotto a Roma alla metà del VII secolo da monaci ellenofoni che fondarono un monastero sul Celio in suo onore (SANSTERRE 1983, I, p. 35) e le sue reliquie erano conservate nella chiesa di S. Angelo in Pescheria, come ricorda l’epigrafe commemorativa di Teodoto primicerio (755) esposta nella chiesa stessa (JESSOP 1999, pp. 264-265; sull’epigrafe di S. Angelo in Pescheria: DE RUBEIS 2001, pp. 118-119, fig. 80). 50 L’osservazione autoptica ravvicinata dei brani di intonaco rimasti in situ e della documentazione fotografica anteriore al 1961 ha permesso di appurare un dato rilevante: lo strato d’intonaco delle tre teste nimbate non poggiava direttamente sulla muratura ma su uno strato precedente. La scena, pertanto, non appartiene alla prima decorazione dell’ambiente e quindi non è contemporanea all’Orazione nell’orto, come ritenuto in passato da gran parte degli studiosi (BERTELLI, GALASSI PALUZZI 1971, p. 34; ANDALORO 1987, p. 253; BETTI 2001, p. 464), fatta eccezione di Matthiae (MATTHIAE 1987, p. 151). 51 Sull’identificazione della scena si è espresso, in passato, solo Wilpert, proponendo di riconoscervi un frammento dell’Ultima cena o dell’Incredulità di Tommaso (WILPERT 1916, IV, tav. 177.1; BETTI 2001, p. 464). Ma nell’iconografia canonica di entrambe le scene 46 48 TRA PITTURA E PARETE. PALINSESTI, RIUSI E OBLITERAZIONI NELLA DIACONIA DI SANTA MARIA IN VIA LATA TRA VI E XI SECOLO Negli ultimi decenni dell’VIII secolo i vani II e V, come attestano i brani conservati in situ, furono oggetto di una estensiva campagna decorativa. Nel vano V fu aggiornato, sulle pareti sud ed est, il ciclo cristologico già esistente, dedicato ai miracoli di Cristo. La parete est, infatti, accolse, come terzo strato, una nuova Moltiplicazione dei pani e dei pesci, che andò a sostituire la precedente dipinta agli inizi dell’VIII secolo (fig. 9) 52. Le scene erano disposte su due registri e chiuse in basso da velari (fig. 11). Sulla parete nord e su quella adiacente est, invece, correva una teoria di figure stanti, concluse sempre da vela 53. Nel passaggio tra i vani IV e V furono inserite, inoltre, le due figure dei martiri celimontani Giovanni e Paolo (fig. 11) 54. Sull’arco di passaggio tra i vani V e II furono dipinti, entro clipei, l’Agnus Dei tra Pietro e Paolo e gli apostoli (fig. 11), 403 Fig. 10. - Ricostruzione 3D del vano IV. Angolo nord-est. Fase metà VIII secolo, Martirio di S. Erasmo (realizzata da M. Viscontini). gli apostoli non sono aureolati, mentre lo sono nella Pentecoste dove si dispongono a raggiera intorno alla Vergine, come ad esempio nella miniatura dei Vangeli di Rabbula (VI secolo; Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, ms. Plut. I.56, f. 14v.). 52 Sulla parete sud adiacente si conservano tracce di un’altra scena, oggi di difficile lettura, nella quale Bertelli riconobbe un cielo azzurro, delle rocce rosate e le ali e i capelli di un angelo (BERTELLI, GALASSI PALUZZI 1971, p. 26). 53 Si tratta di un ampio brano con la parte inferiore di quattro figure, di cui le due centrali clamidate, chiuse in basso dall’attacco di vela e di un frammento più piccolo con il piede di Fig. 11. - Ricostruzione 3D del un santo stante e tre panneggi di un velario. Quest’ultimo fu staccato dalla paretina est del vano e non da quella nord come ritiene Bertelli, seguito da Betti (BERTELLI, GALASSI PALUZZI 1971, p. 24; BETTI 2001, pp. 461-462). I due riquadri sono oggi conservati nel Museo della Crypta Balbi. 54 I due pannelli, oggi esposti nel Museo della Crypta Balbi, erano vano V. Fase metà VIII secolo (realizzata da M. Viscontini). chiusi in basso da un velario dipinto visto da Bertelli prima dello stacco nel 1961 (BERTELLI, GALASSI PALUZZI 1971, p. 23). La datazione alla fine dell’VIII secolo è generalmente accolta (ANDALORO 1987, p. 285; BETTI 2001, p. 459, figg. III.7-III.8). 404 GIULIA BORDI quel quinquennio, negli anni caldi che preparano la fine della crisi iconoclasta e prima della Synodica all’imperatrice Irene e al patriarca Tarasio (785), nella quale Adriano I cederà alla richiesta del patriarca di accettare le delibere del Canone 82 57. L’arco di S. Maria in via Lata mostra, a mio avviso, di inserirsi in questo circuito di cantieri adrianei. Sembra dimostrarlo, non solo la presenza dell’Agnus dei, ma anche la sorprendente consonanza con il sottarco dell’arcosolio già in S. Lorenzo fuori le mura, dove al culmine era la Vergine clipeata con il capo velato dal maphorion e ai lati due figure di santi, uno dei quali reggeva, come a Fig. 12. - S. Maria in via Lata. Arcone tra i vani II e V: a) sottarco, imago clipeata della Vergine col Bambino tra due santi stanti; b) rilievo grafico; c) e d) particolari. S. Maria in via lata, una lunga croce astile 58. Mentre tangenze mentre nell’intradosso due figure stanti ai lati dell’imatra i frammenti ricomposti di S. Susanna, specialmente go clipeata della Vergine (fig. 12) 55. con la Vergine col Bambino tra sante 59, e la decorazione Bertelli si appiglia alla presenza dell’Agnus dei in quetutta del vano V si avvertono nella tavolozza di colori sta decorazione per datarla a un’epoca anteriore al 692, chiari e freddi e nel linearismo marcato dei panneggi, anno di promulgazione del canone 82 del Concilio Quisegnati da larghe e nette pennellate. nisesto che vietava di rappresentare Cristo con le semDella decorazione del vano II sono rimasti pochi bianze dell’agnello 56. In realtà la questione dell’Agnus brani pittorici concentrati nella zona absidale che tutdei a Roma risulta essere assai più complessa e, come Antavia è stata completamente tamponata nel XVII secolo daloro ha dimostrato, tra il 775 e il 780, durante il pone oggi è esplorabile soltanto attraverso alcuni tagli pratificato di Adriano I, è ricostruibile una fitta rete iconoticati nella muratura nel 1961 (fig. 2) 60. Nella breccia grafica che ruota intorno al Cristo-Agnus Dei, documentato aperta sul lato destro della tamponatura è ancora visiin pittura sull’arco dei SS. Silvestro e Martino ai Monbile la decorazione dell’emiciclo che impedì a Krauti, sull’arcosolio di S. Susanna e su quello perduto del nartheimer e a Corbett di pronunciarsi sulle caratteristiche tece della basilica pelagiana di S. Lorenzo fuori le della muratura nascosta da due strati di intonaco dimura. Secondo la studiosa l’immagine dell’Agnus Dei, pinto 61. Nel primo strato Betti ha identificato i Qualatitante nella pittura dell’VIII secolo, ricompare in ranta martiri di Sebaste in gloria (fig. 13 e tav. 00), La decorazione del fronte ovest dell’arco di passaggio tra i vani V e II fu staccata per tre quarti della sua superficie nel 19591961 (cfr. BETTI 2001, fig. 136) ed è oggi conservata nei depositi del Museo della Crypta Balbi, mentre quella dell’intradosso è ancora in situ. 56 Lo studioso colloca anche queste pitture nella prima fase decorativa della diaconia, senza tenere conto della stratigrafia degli intonaci (BERTELLI, GALASSI PALUZZI 1971, pp. 25-26, 33-34). Le pitture che si conservano ancora in situ, infatti, mostrano chiaramente che questa decorazione poggia su uno strato preesistente. 55 ANDALORO 2005b, pp. 528-534. Dipinti murali perduti, ma documentati visivamente da un disegno acquerellato conservato nella Raccolta Lanciani (Biblioteca dell’Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte, Roma XI.45.III., fol. 33). Si veda da ultimo: BORDI 2006a, pp. 77, 81, fig. 32. 59 Sui dipinti frammentati di S. Susanna si veda: ANDALORO 2003 e ANDALORO 2005b, fig. 4. 60 Vedi supra. 61 KRAUTHEIMER, CORBETT, FRANKL 1971, p. 79. 57 58 TRA PITTURA E PARETE. PALINSESTI, RIUSI E OBLITERAZIONI NELLA DIACONIA DI SANTA MARIA IN VIA LATA TRA VI E XI SECOLO 405 Fig. 13. - S. Maria in via Lata. Vano II, abside. Quaranta martiri di Sebaste (I strato); S. Giuliana (II strato). Fig. 14. - Ricostruzione grafica della scena dei Tre giovani nella fornace (realizzata da M. Viscontini). proponendone una datazione alla più antica fase decorativa della chiesa, fine del VI-inizi VII secolo 62. Tuttavia, i Quaranta martiri di Sebaste non mostrano caratteristiche formali ed esecutive paragonabili alle pitture del primo strato del vano IV, e a mio parere, invece vanno contestualizzate alla decorazione di fine VIII secolo del vano V. Se un confronto iconografico stringente si riscontra proprio tra la fine dell’VIII e gli inizi del IX secolo nell’omonimo oratorio nel Foro romano 63, da un punto di vista stilistico un accostamento più convincente va cercato ancora una volta nella ‘sala a sei vani’ del complesso dei SS. Silvestro e Martino ai Monti (778-779), nella fisionomia, nell’acconciatura e nell’abbigliamento di S. Processo, rappresentato nel pannello con Cristo tra santi dell’ambiente M 64. La decorazione continuava sulle pareti adiacenti all’abside, a destra della quale ho riconosciuto la rappresentazione dei Tre giovani nella fornace (Dn 3, 19-100), confermata dal nome Misae[l], vergato nell’iscrizione picta letta da Cavazzi, ma ignorata dagli studi successivi 65. I tre ebrei Anania, Misail e Azaria dovevano essere rappresentati uno accanto all’altro dentro la fornace, protetti alle spalle da un grande angelo (fig. 14) 66. Pertanto, è plausibile che negli anni del pontificato di BETTI 2001, p. 453. 63 Sulle pitture della parete nord dell’oratorio dei Quaranta Martiri al Foro romano si vedano: WILPERT 1916, IV, taf. 200.2; ROMANELLI, NORDHAGEN 1999, p. 45; GULOWSEN 2001, pp. 235-248. 64 Sul pannello con Cristo tra i santi Pietro e Paolo, Processo e Martiniano della ‘sala a sette vani’ si veda: DAVIS-WEYER, EMERICK 1984, pp. 26-28. Cfr. WILPERT 1916, IV, taf. 205.2. CAVAZZI 1908, p. 227. Hoogewerff vi lesse Elisab[et] mentre Bertelli [---]NISA[---]. HOOGEWERFF 1946, p. 96; BERTELLI, GALASSI PALUZZI 1971, p. 32. 66 Della scena, dipinta sul primo strato steso sulla parete restano, partendo dall’alto: la figura a mezzo busto di uno degli ebrei, la spalla e l’ala destra dell’angelo, parte della fornace, l’iscrizione Misail. Sull’iconografia dei Tre giovani nella fornace si veda: MAZZEI 2000, pp. 177-178. 65 62 406 GIULIA BORDI 1491 della rimozione dell’altare maggiore della chiesa medievale, nel momento in cui Innocenzo VIII (1484-1492) dava inizio ai lavori per la costruzione di una nuova chiesa 68. Secondo Cavazzi, Krautheimer e Corbett, seguiti da Bertelli, la deposizione delle reliquie del 1049 fu l’atto conclusivo di una campagna di ristrutturazione del complesso di S. Maria in via Lata, che implicò la fondazione di una nuova chiesa e la trasformazione dei vani I e II dell’antica diaconia in cripta 69. Molti elementi, tuttavia, inducono a ritenere che l’intervento si sia limitato, come già pensava Martinelli 70, al solo restauro dell’antica diaconia e alla sua dotazione di un nuovo Fig. 15. - Ricostruzione 3D del vano II. Abside e parete sud. Fase metà XI secolo (realizzata da M. Viscontini). altare maggiore. L’abside fu rinnovata con Adriano I (772-795) i vani II 67 e V, interessati da una l’inserimento di una nuova decorazione della quale sono campagna decorativa unitaria, abbiano assunto l’aspetto ancora visibili due sante clipeate nell’emiciclo (fig. 13) e di un’aula absidata a navata unica divenendo il fuoco due figure stanti nella calotta. Secondo la ricostruzione da liturgico della diaconia. me proposta lo schema compositivo adottato doveva avNegli anni del pontificato di Leone IX (1049-1054) vicinarsi a quello di lunga durata dell’abside di S. Maria il vano II fu oggetto di un radicale restauro che investì in Pallara al Palatino (955-977) 71. Il catino doveva ospinon solo l’abside, ma tutte le pareti dell’ambiente; si tare, al centro, la figura di Cristo affiancata da almeno due intervenne anche nel vano IV e I aggiornando, in aree santi per parte (fig. 15). Al di sotto, nell’emiciclo, correlimitate, le pitture. va una banda con l’iscrizione dedicatoria di cui si legge solo Nel 1049, secondo quanto è ricordato in una pergal’ultimo tratto: [---] renovari feci A[---] e una teoria di immena trovata nel 1491, furono deposte nell’altare magmagini clipeate di sante, almeno sette, calcolando lo spagiore della chiesa le reliquie dei SS. Ippolito, Dario, Agazio a disposizione. Le due sante, apprezzabili nei due tapito, e altri ancora, dal pontefice Leone IX. La notizia è gli della muratura, sono Iulianes (S. Giuliana) e Iust[i]nes tramandata da Stefano Infessura, nel suo Diario della cit(S. Giustina) 72, entrambe celebrate come vergini e martità di Roma, il quale fu testimone oculare il 23 agosto del ri 73, le cui reliquie erano attestate in S. Maria in via Lata 74. 67 Sul primo tratto della parete sud, attigua a quella absidale, si conservano due riquadri con figure stanti e sulla parete nord del vano altre tracce di panneggi di vesti. Questi brani, data l’estrema frammentarietà, consentono unicamente di affermare che tutte le pareti del vano, in origine, presentavano una decorazione pertinente a questa fase pittorica. 68 INFESSURA 1890, p. 269. 69 CAVAZZI 1908, pp. 79-82; KRAUTHEIMER, CORBETT, FRANKL 1971, pp. 79-80; BERTELLI 1982, pp. 299-300. 70 MARTINELLI 1655, p. 64. 71 BORDI 2006b, pp. 37-39. Sulla decorazione absidale di S. Maria in Pallara/S. Sebastiano al Palatino vd., da ultimo: MARCHIORI 2009. Sulla fortuna dell’iconografia del mosaico absidale dei SS. Cosma e Damiano tra X e XII secolo vd. da ultimo: ROMANO 2006c, pp. 169-171. 72 L’iscrizione, oggi velata da una garza di restauro, è trascritta da PARDI 2006, p. 73. 73 Va ricordato che dalla metà del X secolo alla chiesa di S. Maria in via Lata era affiliata una comunità monastica femminile (ROMANO 2006a, pp. 16-17), pertanto non è da escludere che nell’emiciclo absidale fosse stata inserita una teoria di figure clipeate composta da exempla di santità muliebre (BORDI 2006b, p. 38; ROMANO 2006a, p. 19). 74 Le reliquie di Giuliana e Giustina furono trovate nell’altare maggiore di S. Maria in via Lata nella ricognizione dell’8 maggio TRA PITTURA E PARETE. PALINSESTI, RIUSI E OBLITERAZIONI NELLA DIACONIA DI SANTA MARIA IN VIA LATA TRA VI E XI SECOLO 407 La decorazione era chiusa in basso da uno zoccolo, probabilmente con velari dipinti, di cui si vedono deboli tracce in corrispondenza di S. Giustina, e ai lati da due colonne scanalate dipinte, che dovevano reggere, molto probabilmente, un festone analogo a quello della già citata decorazione di S. Maria in Pallara. Le pareti absidali ospitavano, invece, due figure iconiche, di cui resta quella di destra: un vescovo con in mano un tomo (fig. 15) 75. Le pareti del vano accolsero, invece, un ciclo cristologico, di cui restano, sul tratto orientale della parete sud (fig. 15): la scena mutila del Battesimo di Cristo, di cui si leg- Fig. 16. - Ricostruzione 3D del vano IV. Angolo nord-est. Fase metà XI secolo, Vergine in trono tra gono solo la figura di Giovanni santi e Benedicta mulier e Cristo in trono tra santi e Silbester maritus (realizzata da M. Viscontini). Battista, accompagnato dalquest’ultima di una lunga veste bianca decorata con mol’iscrizione S(anctus) Ioh(anne)s BB[T], e il braccio detivi ornamentali rossi. Nel secondo è Cristo in trono anstro della figura di Cristo; l’iscrizione Ecce mater [tua], ch’esso tra santi e il donatore Silbester maritus 79, che titulus della scena della Crocifissione, già dipinta nel indossa una veste corta, le gambe avvolte nelle fasciae registro superiore e oggi perduta 76. Sulla parete nord fu ed è ritratto nell’atto di donare dei ceri. Una coppia di aggiunto un altare a blocco decorato da croci bicolore donatori laici conforme alle numerose figure di coniugi e tralci vegetali 77. evergeti che proliferano tra X e XI secolo nella pittura Nel vano IV, si interviene per la quarta volta nelromana e hanno in Maria Macellaria e Beno de Rapiza, l’angolo nord-est dove furono inseriti, nello zoccolo sotto raffigurati nella chiesa inferiore di S. Clemente, gli alle Storie di S. Erasmo, due pannelli votivi (fig. 16 e esponenti più celebri 80. tav. 00). Nel primo è raffigurata la Vergine con il Bam78 La campagna decorativa fin qui delineata, che coinbino tra santi e la donatrice Benedicta mulier , vestita 1639. E’ assai probabile che facessero parte del gruppo di reliquie deposte da Leone IX nel 1049, come ricordato nella pergamena a esse allegata vista nella precedente ricognizione del 23 agosto 1491, e successivamente nel 1639, e poi perduta (MARTINELLI 1655, pp. 164-165). 75 CAVAZZI 1908, p. 204; BERTELLI, GALASSI PALUZZI 1971, pp. 31-32. 76 Cavazzi e Bertelli considerano la scena del Battesimo e l’iscrizione Ecce Mater appartenenti a due strati differenti, databili, secondo Bertelli, la prima all’XI-XII secolo e al X la seconda (CAVAZZI 1908, p. 204-207; BERTELLI, GALASSI PALUZZI 1971, p. 32. Ho rilevato ulteriori tracce della presenza di scene del ciclo cristologico, quali cornici e panneggi di vesti di figure, anche sulla parete nord, che consentono di affermare che il racconto si snodava, in origine, lungo tutte le pareti del vano. 77 Bertelli data invece la decorazione dell’altare alla fine del XV secolo, momento in cui viene aggiunto il pannello soprastante con la Trinità (BERTELLI, GALASSI PALUZZI 1971, p. 31). 78 Cavazzi vide nel riquadro tracce di sette figure allineate, mentre io ne ho individuate solo cinque, di cui la centrale in trono è verosimilmente la Vergine con il Bambino affiancata da quattro santi. Lungo la cornice superiore il prelato lesse l’iscrizione, oggi perduta, [---]Benedicta mulier (CAVAZZI 1908, p. 220), che fa riferimento alla piccola donatrice dipinta, come Silbester, nella parte inferiore del pannello sul lato sinistro, non vista in precedenza. 79 Quest’ultimo è stato creduto un monaco, a causa dell’erronea trascrizione Ego Silbester mon[---], proposta da Wilpert, integrata da Bertelli con mo[achus] (WILPERT 1916, IV, taf. 191.2; BERTELLI, GALASSI PALUZZI 1971, pp. 21-22), di contro alla corretta lettura avanzata da Cavazzi, Ego Silbester MA[---] (CAVAZZI 1914, p. 68), della quale propongo la più plausibile l’integrazione ma[ritus]. 80 Sulle pitture della basilica inferiore di S. Clemente vd. da ultimo: ROMANO 2006b, pp. 129-150. 408 GIULIA BORDI volse, come abbiamo appena visto i vani II e IV, spinge a riconsiderare le ipotesi avanzate da Cavazzi, Krautheimer, Corbett e Bertelli circa la trasformazione, alla metà dell’XI secolo, della diaconia in cripta di una nuova chiesa medievale costruita al di sopra di essa. Alcuni elementi inducono a sospettare che l’antica diaconia sia rimasta in uso come edificio di culto oltre il 1049. Innanzitutto, l’inserimento nel vano IV dei due pannelli votivi di Silbester e Benedicta dimostra che nell’XI secolo anche questo ambiente fosse ancora praticabile e non chiuso come ritengono Krautheimer e Corbett 81. Nel vano II, poi, l’aggiornamento della decorazione dell’abside e della navata non sembra un’impresa attuata per riqualificare un ambiente adibito a cripta. Infine, nel vano I l’inserimento sulla parete orientale di una scala di raccordo tra la nuova chiesa superiore e la cripta non può essere avvenuto alla metà dell’XI secolo 82, poiché la scala taglia un intonaco dipinto proprio in quegli anni 83, ed è pertanto successiva. In base a queste considerazioni la deposizione delle reliquie da parte di Leone IX, nel 1049, va letta, a mio parere, come l’atto conclusivo del restauro dell’antica diaconia, voluto dal pontefice, il quale la dotò di una nuova veste pittorica e di un nuovo altare maggiore con preziose reliquie. La chiesa superiore fu eretta, pertanto, successivamente, non prima della fine dell’XI secolo-inizi del XII secolo 84. Bibliografia ANDALORO 1987 = M. ANDALORO, Aggiornamento scientifico, in G. MATTHIAE, Pittura romana nel Medioevo. Secoli IVX, I, Roma 1987. ANDALORO 1992 = M. 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Maria in via Lata è intervenuto di recente anche Federico Guidobaldi con il quale ho avuto modo di discutere lungamente sugli interventi urbanistici che hanno toccato la città di Roma negli anni del pontificato di Pasquale II (1099-1118). Cfr. GUIDOBALDI 2014, pp. 11-13. 81 82 cura di), La cattedrale di Spoleto. Storia, arte, conservazione, Milano 2002, pp. 163-175. ANDALORO 2003 = M. ANDALORO, I dipinti murali depositati nel sarcofago dell’area di Santa Susanna a Roma, in E. RUSSO, 1983-1993: dieci anni di archeologia cristiana in Italia. Atti del VII Congresso internazionale di archeologia cristiana (Cassino, 20-24 settembre 1993), I, Cassino 2003, pp. 377-386. ANDALORO 2004 = M. ANDALORO, La parete palinsesto:1900, 2000, in J. OSBORNE, J.R. BRANDT, G. MORGANTI (a cura di), Santa Maria Antiqua al Foro Romano cento anni dopo. Atti del colloquio internazionale (Roma, 5-6 maggio 2000), Roma 2006, pp. 97-111. ANDALORO 2005a = M. ANDALORO, Küçük Tavsan Adasï nel Golfo di Mandalya, in A. 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GIOIELLI E OGGETTI IN METALLO PREZIOSO Isabella Baldini Anche a Roma, come in altri centri importanti dell’impero tardoantico, le tracce della lavorazione dei metalli per la produzione di oggetti d’uso personale rimangono piuttosto labili, nonostante una tradizione di indagini di scavo lunga e che, nel caso nell’Urbe, non ha eguali nella storia dell’archeologia. Tracce dei processi artigianali sono noti solo attraverso il rinvenimento sporadico di crogioli 1 o degli strumenti specifici della professione 2, mentre manca quasi del tutto la documentazione relativa alle matrici 3. In questo quadro, l’evidenza offerta dalla Crypta Balbi rivela senza dubbio un carattere di eccezionalità – e non solo per Roma – per la possibilità di conoscere concretamente la storia dello spazio utilizzato per le attività produttive in relazione agli stessi manufatti eseguiti in loco: è ormai ben noto negli studi archeologici questo atelier dotato di un’organizzazione complessa, comprendente un insieme articolato di artigiani specializzati in varie tecniche e impegnati nell’esecuzione di prodotti diversi (gioielli, armi, finimenti da cavallo, utensili, manufatti in osso, corno e avorio) 4. Gli oggetti di ornamento rinvenuti, di valore limitato salvo poche eccezioni, rispecchiano un sistema di produzione standardizzata, che, sulla base dei ritrovamenti e della carta di diffusione delle tipologie corrispondenti 5, non sembra di fatto molto dissimile da quello ipotizzabile per molte altre realtà artigianali del periodo. Questo carattere fa meglio comprendere il perché delle attuali difficoltà di attribuzione delle produ- zioni ai singoli centri, in un quadro generale policentrico e con una forte tendenza all’omologazione, contraddistinto da una circolazione a breve e a largo raggio di prodotti e di maestranze. La lampada d’argento trovata nel 1632 presso S. Martino ai Monti, un donativo, come mostra l’iscrizione latina Sancto Silvestro ancilla sua votum solvit (fig. 1) 6, non si differenzia ad esempio per tipologia e decorazione dalla serie prodotta in Oriente tra V e VI secolo 7, rispecchiando anche la medesima prassi devozionale attuata dalle classi elevate nei confronti degli edifici di culto. Le costanti già riscontrate a proposito degli orafi orientali, delle loro specializzazioni tecniche, degli aspetti corporativi e dei possibili trasferimenti da una città all’altra a seconda delle necessità di mercato, già Oltre alle testimonianze della Crypta Balbi v. ad esempio, i rinvenimenti archeologici segnalati in SERLORENZI, SAGUÌ 2008; SCIORTINO, SEGALA 2010, pp. 227-307; SERLORENZI 2010, p. 132. 2 BALDINI, NOWAK 2012. 3 RICCI 2001b, p. 333. Sulle matrici nell’oreficeria protobizantina: BROKALAKIS 2012. RICCI 2001a e RICCI 2001b. RICCI 2001b, p. 546, IV.10.31 (Crypta Balbi, Collezioni storiche, inv. 262747, VIII-IX secolo). 6 SERAUX D’AGINCOURT 1808-1823, II, p. 38; SHELTON 1981, p. 36, fig. 15. 7 BOYD 1988; BOURAS, PARANI 2008, pp. 42-43. Fig. 1. - Lampada d’argento dall’area di S. Martino ai Monti (da Seraux d’Agincourt 1808-1823). 1 4 5 412 ISABELLA BALDINI affrontato soprattutto sulla base delle fonti letterarie ed epigrafiche 8, sembrano riguardare anche gli artigiani romani, di cui restano purtroppo scarse testimonianze epigrafiche. Nell’Urbe un numero estremamente limitato di iscrizioni funerarie ricordano orafi tardoantichi o altri artigiani del metallo e delle pietre preziose, come ad esempio Amantius, un aurifex sepolto nel 572 nell’oratorio dei Quaranta Martiri di S. Maria Antiqua 9. A volte si tratta di donne, come Vicentia, auri netrix (tessitrice d’oro) 10, o Masumilla, aurifex 11. Sembrano coesistere forme produttive organizzate e articolate, come quelle evidenziate nella Crypta Balbi, accanto ad attività più limitate, le cui tracce archeologiche risultano inevitabilmente meno evidenti per le caratteristiche stesse della professione, che prevedeva l’uso di pochi strumenti, alcuni dei quali in materiale deperibile, e un riutilizzo completo dei residui del materiale lavorato. La ricerca sugli oggetti di ornamento di produzione romana, quindi, più che sul processo di produzione, deve concentrarsi necessariamente sugli aspetti della fruizione degli oggetti, per cercare di delineare parametri che possano servire ad identificarne le caratteristiche e lo sviluppo. Innanzitutto è necessario valutare diversamente i manufatti in bronzo rispetto a quelli in argento e in oro: come si è già accennato, infatti, alcune produzioni di oggetti di ornamento e accessori per l’abbigliamento, come ad esempio gli orecchini a cerchio, gli aghi crinali, le fibbie, mostrano un carattere molto omogeneo nel panorama generale, non permettendo una chiara definizione degli elementi distintivi delle botteghe di provenienza: gli stessi rinvenimenti della Crypta Balbi, fuori contesto, non consentirebbero probabilmente alcun collegamento con Roma e forse neanche con l’Italia centrale, trattandosi generalmente di oggetti semplici e prodotti in serie. Le difficoltà riscontrate nelle attribuzioni certamente possono dipendere dalla parzialità delle nostre conoscenze, anche considerando la scarsa percentuale delle analisi archeometallurgiche, ma è necessario tenere presente che l’omologazione è anche una caratteristica propria del sistema produttivo tardoantico, un fattore non secondario da considerare nei tentativi di interpretazione dei singoli manufatti e dei luoghi di provenienza. In maniera diversa anche nell’esecuzione degli oggetti in oro è presente una tendenza alla ripetizione dei modelli e delle associazioni (set di argenterie per il banchetto e per le pratiche termali, parure di gioielli femminili, oggetti di ornamento personale con significato di status), ma nei manufatti si riscontrano specificità tipologiche e stilistiche più accentuate: non sempre tuttavia tali caratteristiche possono essere ricondotte facilmente ad un ambito produttivo. Un esempio è rappresentato dalla fibula rinvenuta nel 1895 nell’area del Palatino (fig. 2) 12, simile ad altre in oro rinvenute in contesti diversi: un’osservazione analitica delle caratteristiche tecniche, in particolare dell’opus interassile, ha permesso a B. Toth di collegare il gioiello ad uno specifico gruppo occidentale databile attorno alla metà del V secolo, di cui farebbe parte anche la fibula del tesoro di Reggio Emilia, con la quale quella di Roma presenterebbe strettissimi contatti nel sistema di foratura della lamina 13. L’attribuzione ad una bottega romana del gioiello, tuttavia, rimane incerta: parte del materiale del tesoro di Reggio Emilia, infatti, tra cui le BALDINI, NOWAK 2012. CIL VI, 37782; ICUR I (n.s.), 1403; FERRUA 1981, p. 18. In generale: Lipinsky 1962.1. 10 CIL VI, 9213. 11 CIL VI, 9206. 12 Roma, Museo dell’Alto Medioevo. BALDINI LIPPOLIS 1999, p. 162, 2.IV.1, con bibliografia precedente. Sulla tipologia v. anche DANDRIDGE 2000; DEPPERT-LIPPITZ 2000, pp. 66-69. 13 TOTH 2012. Fig. 2. - Roma, Museo dell’Alto Medioevo, fibula dal Palatino. 8 9 GIOIELLI E OGGETTI IN METALLO PREZIOSO 413 monete rinvenute nello stesso contesto e la stessa «Zwiebelknopffibel» viene collegato alla corte gota di Ravenna 14 ed è pertanto difficile stabilire, nell’arco temporale al quale sono assegnati i due manufatti, quale possa essere stato il loro luogo di produzione, Roma o Ravenna, anche considerando il possibile valore originario di donativo nell’ambito della corte e l’uso da parte di membri di alto grado dell’esercito o dell’amministrazione imperiale. Oltre che da rinvenimenti sporadici di ornamenti personali di notevole livello, come appunto la fibula del Palatino oppure il bracciale in oro e ametiste del Foro Romano 15, le produzioni di lusso sono attestate a Roma anche attraverso un limitato numero di tesori di argen- terie e di corredi funerari. Iniziando dal primo ambito, può essere ricordato il rinvenimento di manufatti dell’Esquilino, oggi diviso tra il British Museum (fig. 3), il Louvre e il Museo Nazionale di Napoli 16. L’insieme venne descritto a pochi mesi dalla scoperta da Ennio Quirino Visconti, direttore del Museo Capitolino e bibliotecario del Principe Chigi. Gli oggetti, del peso complessivo di ben 1029 once 17 (quasi kg 30), erano stati rinvenuti durante lavori condotti nel 1793 nella «chiesa di S. Lucia in Selci, al Monastero delle Religiose Minime» 18, «dietro al coro a cornu evangelii dentro all’angolo del monastero» 19 stesso, in un «avanzo di camere antiche di una fabbrica, murate ed ingombre delle ruine de’ superiori edifizi» 20. Il primo lotto portato alla luce comprendeva il celebre cofanetto decorato a sbalzo, con invocazione augurale agli sposi Secundus e Proiecta (Secunde et Proiecta vivatis in Chris[to]) 21 e un secondo cofanetto con la raffigurazione cesellata delle Muse, scompartito all’interno per accogliere cinque recipienti destinati a unguenti e profumi 22; inoltre, cinque piatti quadrangolari con un monogramma dorato e niellato entro una corona di alloro 23, quattro «scodelle leggermente concovate» con lo stesso monogramma (fig. 4) BALDINI, PINAR GIL 2010. ARENA, DELOGU, PAROLI et alii 2001, II. 4. 514, p. 364 (VIVII secolo). 16 VISCONTI 1793 (lettera riprodotta integralmente in VISCONTI 1825, VISCONTI 1827 e FEA 1836). Sul tesoro vd. soprattutto SHELTON 1981; CAMERON 1985 (380 circa); SHELTON 1985 (330/370); PAINTER 2000 e bibliografia citata alle note seguenti. 17 VISCONTI 1793, p. 3. 18 VISCONTI 1793, p. 3. 19 FEA 1836, p. 47. 20 VISCONTI 1793, p. 3. Sulla profondità di rinvenimento e sulle incertezze nella localizzazione: PAINTER 2000, pp. 140-141, con bibliografia precedente. 21 Londra, BM, 66, 12-29, 1: argento; 55,9 x 43,2 x (alt.) 2 cm (indicazione graffita del peso di 22 once e 3 semionce sul bordo verticale del coperchio). VISCONTI 1793, pp. 4-7; Age of Spirituality 1979, pp. 330-332; SHELTON 1981, pp. 72-75, n. 1; CAMERON 1985; PIRZIO BIROLI STEFANELLI 1991, pp. 302-303; BARATTE 1993, pp. 86-88, 160-161, 187, 190, 201, 226; MUNDELL MANGO, BENNET 1994, p. 53; PAINTER 2000, pp. 493-495 (seconda metà del IV secolo); ELSNER 2003; PAPAGIANNAKI 2013, p. 81. 22 Londra, BM, 66, 12-29, 2: argento; 32,7 x 26,7 cm. VISCONTI 1793, pp. 7-11; SHELTON 1981, pp. 75-77, n. 2; PIRZIO BIROLI STEFANELLI 1991, p. 303; BARATTE 1993, p. 162; PAINTER 2000, pp. 495496 (seconda metà del IV secolo). Un altro cofanetto cilindrico, decorato con figure femminili, proviene dal tesoro di Sevso (V secolo): MUNDELL MANGO, BENNET, pp. 445-473; MRÁV, DÁGI 2014. 23 VISCONTI 1793, pp. 11-13. 1) Londra, BM, 66, 12-29, 15: argento e niello; 20,2 x 14,6 cm. SHELTON 1981, p. 81, n. 10. 2) Londra, BM, 66, 12-29, 16: argento e niello; 20,2 x 14,6 cm; SHELTON 1981, p. 81, n. 11. 3) Londra, BM, 66, 12-29, 17: argento e niello; Fig. 3. - Londra, British Museum, oggetti del tesoro dell’Esquilino. 14 15 Fig. 4. - Londra, British Museum, piatto con monogramma. e, in un caso, anche con un’iscrizione augurale graffita sul piede (vivas in Deo Marciana vivas) 24, cinque «vasi di bella forma», uno dei quali era una brocca con l’iscrizione Pelegrina utere felex 25, una lucerna «d’un sol lucignolo» 26, una «gran conca a forma di conchiglia[…]in parte frammentata», che conservava un frammento di tessuto 27. Al nucleo di argenterie appartenevano inoltre quattro applicazioni raffiguranti le Tychai di Antiochia, Alessandria, Costantinopoli e Roma 28, forse elementi di una sedes gestatoria 29 e due elementi, probabilmente dello stesso mobile, a forma di braccia (destra e sinistra) che impugnano uno scettro terminante in un globo sormontato da un elemento floreale 30. Nel rendiconto del Visconti viene citata anche la pre- senza di anse «d’altri vasi e utensili perduti» 31, in numero imprecisato (forse i tre esemplari conservati al British Museum con indicazione di provenienza dal 20,2 x 14,6 cm. SHELTON 1981, pp. 81-82, n. 12. 4) Londra, BM, 66, 12-29, 18: argento e niello; 20.2 x 14,6 cm. SHELTON 1981, n. 9; PIRZIO BIROLI STEFANELLI 1991, p. 303; 5) PAINTER 2000, pp. 499500 (seconda metà del IV secolo). Del quinto esemplare, citato in VISCONTI 1793, non si conosce il luogo di conservazione. 24 VISCONTI 1793, pp. 11-13. 1) Londra, BM, 66, 12-29, 11 (con iscrizione): argento e niello; diam. 16,1 cm. SHELTON 1981, p. 80, n. 6; PAINTER 2000, p. 499 (seconda metà del IV secolo). 2) Londra, BM, 66, 12-29, 12: argento e niello; diam. 16,1 cm (con indicazione del peso complessivo corrispondente ai quattro gli esemplari, indicati come scutellae = 5 libbre). Sui sistemi ponderali e sul valore degli oggetti in argento: MUNDELL MANGO 1994, pp. 38-43. SHELTON 1981, p. 80, n. 5; BARATTE 1993, p. 262. 3) Londra, BM, 66, 12-29, 14: argento e niello; diam. 16,1 cm. SHELTON 1981, p. 80, n. 7; 4) Londra, BM, 66, 12-29, 13: argento e niello; diam. 16,1 cm. SHELTON 1981, p. 80, n. 8. 25 VISCONTI 1793, pp. 13-14. 1) bottiglia senza anse e con decorazione a rilievo con girali ed eroti: Londra, BM, 66, 12-29, 4; argento; alt. 34,6 cm. SHELTON 1981, pp. 82-83, n. 16; BARATTE 1993, p. 162. 2) brocca con iscrizione: Londra, BM, 66, 12-29, 5; argento e niello; alt. 27,9 cm. SHELTON 1981, pp. 83-84, n. 17; BARATTE 1993, pp. 74- 79. 3) anfora: Londra, BM, 66, 12-29, 6; argento; h 20,2 cm. SHELTON 1981, p. 84, n. 19; BARATTE 1993, p. 82. 4) anfora: Londra, BM, 66, 12-29, 7; argento; h 20,3 cm. SHELTON 1981, p. 85, n. 20; BARATTE 1993, p. 82. 26 VISCONTI 1793, p. 14. Di questo manufatto non si conosce la collocazione attuale. 27 VISCONTI 1793, p. 14. Londra, BM, 66, 12-29, 3: argento; diam. 56,2 cm; SHELTON 1981, pp. 78-79, n. 4; PIRZIO BIROLI STEFANELLI 1991, p. 303, n. 182; PAINTER 2000, pp. 498-499 (seconda metà del IV secolo). 28 VISCONTI 1793, pp. 14-18. Londra, BM, 66, 12-29, 21-24: argento dorato. Age of Spirituality 1977, pp. 176-177; SHELTON 1981, pp. 87-89, nn. 30-33; PAINTER 2000, pp. 491-493 (seconda metà del IV secolo). 29 VISCONTI 1793, p. 16; SERAUX D’AGINCOURT 1810-1823, II, p. 39. 30 VISCONTI 1793, p. 11. Braccio destro: Londra, BM, 66, 12-29, 20: argento dorato; h 33 cm; SHELTON 1981, pp. 88-89, n. 34; PAINTER 2000, p. 500 (seconda metà del IV secolo). Braccio sinistro: Londra, BM, 66, 12-29, 19: argento dorato; h 33 cm; SHELTON 1981, p. 89, n. 35; PAINTER 2000, pp. 500-501. I manufatti sono stati presi a confronto per una delle insegne del Palatino: PANELLA 2011, p. 252. 31 VISCONTI 1793, p. 14. Fig. 5. - Napoli, Museo Nazionale, brocca configurata del tesoro dell’Esquilino (da Aurea Roma 2000). GIOIELLI E OGGETTI IN METALLO PREZIOSO 415 tesoro) 32 e «diversi cocchiari per uso delle manteche e de’ belletti» 33. Di questi ultimi il museo londinese conserva nove esemplari, catalogati come pertinenti al tesoro 34; il più antico, mai esplicitamente menzionato dal Visconti e quindi probabilmente da escludere, si data al I secolo e reca un’iscrizione votiva a Giunone Lanuvina da parte di Servio Sulpicio Quirino 35, mentre gli altri potrebbero essere coevi ai due cofanetti già citati, come farebbero pensare le iscrizioni niellate su due di essi, uno contrassegnato dalle lettere impresse «MA» 36, l’altro con un monogramma nel quale sono riprodotte le stesse due lettere 37. Il Visconti nomina la presenza di particolari bardature da parata per cavalli: anche queste, decorate con pendenti lunati e a goccia, protomi leonine e aquile a rilievo su placche a doppia pelta, sono attualmente conservate al British Museum 38. In un post scriptum alla lettera di E.Q. Visconti, vengono infine enumerati altri oggetti, venuti alla luce nello stesso contesto a distanza di qualche tempo rispetto al lotto originario 39: ne facevano parte un candelabro con elementi in cristallo di rocca 40, un piatto «decorato con degli arabeschi senza rilievo ma soltanto battuti e graffiti» 41, una brocca configurata a testa femminile (fig. 5) 42 e una patera con una raffigurazione di Afrodite al centro e di Adone sul manico (fig. 6) 43. Il rinvenimento del 1793, fin dall’inizio, suscitò notevole attenzione presso i circoli culturali romani: fu32 1) Londra, BM, 66, 12-29, 57: argento; L 14,3 cm; SHELTON 1981, p. 93, n. 57. 2) Londra, BM, 66, 12-29, 58; argento; L 14,3 cm; SHELTON 1981, p. 93, n. 58. 3) Londra, BM, 66, 12-29, 59; argento; L 19,7 cm; SHELTON 1981, p. 93, n. 56. 33 1) Londra, BM (66, 12-29, 22): argento dorato; h 14 cm. VISCONTI 1793; SHELTON 1981, p. 88, n. 33. 2) Londra, BM, 66, 1229, 24. SHELTON 1981, p. 87, n. 31. 3) Londra, BM 66, 12-29, 23. SHELTON 1981, p. 86, n. 30. 4) Londra, BM, 66, 12-29, 21; SHELTON 1981, pp. 87-88, n. 32. 34 Già illustrati in VISCONTI 1827, tav. XVI. 35 Londra, BM, 66, 12-29, 35: argento; L 20,2 cm. SHELTON 1981, p. 85, n. 21. 36 Londra, BM, 66, 12-29, 33: argento e niello; L 19,1 cm. SHELTON 1981, p. 85, n. 22. 37 1) Londra, BM, 66, 12-29, 34: argento; L 22,2 cm. SHELTON 1981, p. 85, n. 23. Gli altri sei, uno dei quali contrassegnato da un’epigrafe graffita non leggibile, sembrano appartenere a tre serie diverse. Prima serie (due cucchiai): 1) Londra, BM, 66, 12-29, 31; argento; L 21 cm. SHELTON 1981, n. 24. 2) Londra, BM, 66, 12-29, 32; argento; L 20,2 cm. SHELTON 1981, p. 85, n. 25. Seconda serie (tre cucchiai): 1) Londra, BM, 66, 12-29, 36; argento; L 15,1 cm; SHELTON 1981, p. 85, n. 26. 2) Londra, BM, 66, 12-29, 37; argento; L 14,4 cm; SHELTON 1981, 86, n. 27. 3) Londra, BM, 66, 12-29, 39; argento; L 15,2 cm. SHELTON 1981, p. 86, n. 28. Terza serie (un solo esemplare, con iscrizione graffita illeggibile): Londra, BM, 66, 1229, 38; argento; L 9,8 cm; SHELTON 1981, p. 86, n. 29. 38 1) Londra, BM, 66, 12-29, 26; argento dorato; alt. 63,5 cm. VISCONTI 1793; SHELTON 1981, p. 91, n. 40. 2) Londra, BM, 66, 1229, 27; argento dorato; alt. 29,5 cm. SHELTON 1981, p. 91, n. 41. 3) Fig. 6. - Parigi, Musée du Petit Palais, patera del tesoro dell’Esquilino (da Aurea Roma 2000). Londra, BM, 66, 12-29, 28; argento dorato; alt. 63,5 cm. SHELTON 1981, p. 90, n. 37; PAINTER 2000, p. 50 (seconda metà del IV secolo, con confronti di metà V-fine VI secolo). 4) Londra, BM, 66, 12-29, 29; argento dorato; alt. 63,5 cm. SHELTON 1981, pp. 89-90, n. 36. 5) Londra, BM, 66, 12-29, 30; argento dorato; alt. 14,8 cm SHELTON 1981, pp. 90-91, n. 38. 6) Londra, BM, 66, 12-29, 25; argento dorato; alt. 63,5 cm. SHELTON 1981, p. 91, n. 39. 39 VISCONTI 1793, pp. 20-22. L’informazione su questi ultimi reperti è confermata (1803) dal fratello di Ennio Quirino Visconti, Filippo Aurelio, Commissario delle Antichità tra il 1784 e il 1799: VENUTI 1803. 40 VISCONTI 1793, p. 20. L’esemplare è perduto. 41 VISCONTI 1793, pp. 20-21. Non se ne conosce l’attuale collocazione. Non può trattarsi, infatti, né del piatto del British Museum 66, 12-29, 10 (SHELTON 1981, pp. 81-82, n. 13 e p. 22, fig. 7), pertinente in realtà al Tesoro di Maçon (BARATTE 1977), né del piatto privo di decorazione (BM, 66, 12-29, 9: SHELTON 1981, p. 82, n. 14). 42 VISCONTI 1793, p. 21. Napoli, Museo Nazionale, inv. n. Borgia 28.69086: argento e niello; alt. 21,5 cm. SHELTON 1981, p. 84, n. 18; PAINTER 2000, pp. 496-497 (seconda metà del IV secolo). L’oggetto è stato riesaminato in KAUFMANN-HEINIMANN 2010. 43 VISCONTI 1793, pp. 21-22. Parigi, Musée du Petit Palais, inv. n. Dut 171 (coll. Dutuit): argento; diam. 24,2, L 37 cm, peso 62 once. SHELTON 1981, p. 78, n. 3; BARATTE 1993, p. 170; PAINTER 2000, pp. 497-498. 416 ISABELLA BALDINI rante Pallade […]: una collana montata in oro con camei […] una imagine clipeata […] in marmo bianco […] con busto in mezzo […] rappresentante un giovane» 47. Le fonti appena citate (Seraux d’Agincourt, Fea), che attingono a informazioni di prima mano, in aggiunta alla lettera del Visconti e ad una lettera di autore sconosciuto pubblicata da R. Ridley e databile agli stessi anni 48, costituiscono l’ultima testimonianza diretta, coerente, e quindi attendibile, sulla composizione originaria del tesoro emerso nel 1793. Quasi tutti gli oggetti vennero acquistati l’anno successivo al rinvenimento dal barone Friedrich Christian Heinrich Ludwig von Schellersheim 49, un collezionista prussiano residente a Firenze, per passare successivamente (entro il 1825, data della ripubblicazione della lettera del Visconti a cura di Pietro Paolo Montagnani MiraFig. 7. - Oggetti attribuiti al tesoro dell’Esquilino (da Seraux d’Agincourt 1808-1823). bili) 50 nelle mani del duca Pierre rono testimoni oculari delle operazioni di scavo anche Louis Jean Casimir de Blacas, diplomatico francese lo storico dell’arte francese J.B.L.G. Seraux d’Aginpresso il Regno delle Due Sicilie. Dal suo successore, court 44 e il Commissario alle Antichità Carlo Fea 45. Il Louis de Blacas d’Aulps, la collezione passò infine al Seraux d’Agincourt nel secondo volume della propria British Museum nel 1866 51. opera enciclopedica (1810-1823), pubblicò una tavola L’edizione della lettera del Visconti del 1825, reaeseguita ad hoc (fig. 7) per illustrare gli oggetti del telizzata probabilmente al momento del passaggio dei soro 46: essi coincidono sostanzialmente con l’elenco già beni nella proprietà del duca de Blacas, contiene anche fornito dal Visconti nel 1793. Il Fea in un testo del 1836 25 tavole grafiche che integrano i disegni già eseguiti rivela di aver assistito anche ad altri ritrovamenti, dei dal Seraux d’Agincourt: rispetto a quanto già noto, quali successivamente si è persa traccia: «diversi schiffi tuttavia, il tesoro appare notevolmente accresciuto nel tondi d’argento, uno quadro con in mezzo un cervo, colla numero degli oggetti 52. Tra i materiali aggiunti (fig. marca dietro del nome dell’artista: un finimento di ca8) sono tre aghi crinali, due dei quali con la terminavallo in argento: una statuetta pure d‘argento raffiguzione superiore raffigurante Afrodite 53, due fibule a SERAUX D’AGINCOURT 1810-1823, II, p. 37. 45 VISCONTI 1825. 46 SERAUX D’AGINCOURT 1810-1823, tav. IX. 47 FEA 1836, p. 47. Viene aggiunta (FEA 1836, p. 48) la notizia dell’avvenuto ritrovamento nella stessa area, nel 1774, di un’iscrizione protoimperiale posta a ricordo della costruzione di un muro nel santuario di Giunione Lucina: CIL VI, 358. 48 RIDLEY 1996: Roma, Archivio dello Stato, Camerale II, Antichità e Belle Arti, vol. 6, 161. V. anche PAINTER 2000, pp. 141-142. 49 RIDLEY 1996, p. 220; PAINTER 2000, p. 142. Il peso del mate44 riale (1014 once), era di poco inferiore a quello originario registrato dal Visconti (1029 once). 50 VISCONTI 1825. 51 PAINTER 2000, p. 142. Dei manufatti elencati dal Fea, apparentemente esclusi dalla vendita al barone Schellersheim, non si conosce la sorte. 52 VISCONTI 1825 e VISCONTI 1827. Viene inclusa anche una coppa che non era stata descritta precedentemente: Londra, BM, 66, 12-29, 8: argento; diam. 11,7, h 5,1 cm; SHELTON 1981, p. 82, n. 15. 53 Estremità superiore con Afrodite Anadiomene: Londra, BM, 66, 12-29, 42; argento; L 8,3 cm. SHELTON 1981, p. 92, n. 46. Estre- GIOIELLI E OGGETTI IN METALLO PREZIOSO 417 Fig. 8. - Oggetti attribuiti al tesoro dell’Esquilino (da Visconti 1825). staffa 54 e tre fibule ad arco 55 di diversa datazione, una statuetta miniaturistica raffigurante un topo 56, un amuleto a forma di braccio che regge una fiaccola 57, un manico a sezione ottagonale con iscrizione niellata Μὴ λύπι σ’ αυτόν 58, un elemento a forma di mano (forse l’estremità di uno stilo) con iscrizione Byzan e le due lettere greche Λ e Σ 59, un anello digitale con una Nike incisa sul castone 60, un elemento decorativo a forma di felino 61. Risaltano per la cronologia, nel contesto già molto eterogeneo, anche tre ornamenti femminili, erroneamente considerati orecchini 62, ma in realtà riconoscibili come «kolt» databili tra il XII e il XIII secolo 63. È quasi certo, a questo punto, che tutti gli ultimi manufatti siano stati uniti al nucleo originario del tesoro in un secondo tempo, probabilmente durante il transito attraverso la collezione del barone von Schellersheim, alla quale il nucleo era giunto con lo stesso peso. La premessa mostra come possa essere difficile distinguere, in contesti con una storia così stratificata e complessa, in un ambiente tradizionalmente cosmopolita come quello di Roma, non solo le specificità dei singoli oggetti ma la stessa pertinenza ad un unico in- mità superiore con Afrodite che si allaccia il sandalo: Londra, BM, 66, 12-29, 41; argento; L 10,2 cm. SHELTON 1981, p. 92, n. 47. Estremità superiore sferica: Londra, BM, 66, 12-29, 40; argento; L 7 cm. SHELTON 1981, p. 92, n. 48. 54 Londra, BM, 66, 12-29, 52: argento dorato; L 6 cm. SHELTON 1981, p. 92, n. 49. Londra, BM, 66, 12-29, 53: argento dorato; L 7,1 cm. SHELTON 1981, p. 92, n. 50. 55 1) Londra, BM, 66, 12-29, 54: argento; L 4,9 cm. SHELTON 1981, p. 93, n. 52. 2) Londra, BM, 66, 12-29, 55: argento; L 4,4 cm. SHELTON 1981, pp. 92-93, n. 51. 3) Londra, BM, 66, 12-29, 56: argento; L 4,4 cm. SHELTON 1981, p. 93, n. 53. 56 Londra, BM, 66, 12-29, 49: argento dorato; L 2,2 cm. SHELTON 1981, p. 93, n. 54. 57 Londra, BM, 66, 12-29, 47: argento; a 3,2 cm. SHELTON 1981, p. 93, n. 55. 58 Londra, BM, 66, 12-29, 58: argento e niello; L 6,9 cm. SHELTON 1981, p. 95, n. 59; MUNDELL MANGO 2007, p. 136. 59 Londra, BM, 66, 12-29, 48; argento; L 2,5 cm. SHELTON 1981, p. 94, n. 60. 60 Londra, BM, 66, 12-29, 43; argento dorato; diam. 2,2 cm. VISCONTI 1793, SHELTON 1981, p. 91, n. 42. 61 Londra, BM, 66, 12-29, 51; argento; L 3,7 cm. SHELTON 1981, p. 94, n. 61. Potrebbe trattarsi di un elemento di thiasos marino. 62 VENTURI 1827, tav. XXV, 5-6; SHELTON 1981, p. 91, n. 43. 63 Londra, BM (66, 12-29, 44-45). Primo esemplare con estre- 418 ISABELLA BALDINI sieme. A proposito delle argenterie del nucleo rinvenuto nel 1793, si può osservare inoltre, che esse appartennero con certezza a personaggi diversi. I monogrammi sui piatti quadrangolari e sulle scutellae, diversamente a quanto a volte sostenuto 64, possono essere letti regolarmente con il sistema identificativo dei tria nomina, in quanto pertinenti a L. Apronianus Turcius, che fu praefectus urbi tra il 362 e il 364 65. L’iscrizione relativa ad una Marciana di religione cristiana, graffita sul fondo di un piatto in maniera poco rifinita, è molto probabilmente un’aggiunta successiva, forse in seguito ad un passaggio di mano degli oggetti, per vendita o per eredità. Le bardature di cavallo e le applicazioni di mobilio (Tychai e scettri) sembrano riflettere un ambito pubblico, come già osservato 66, adattandosi perfettamente alle cariche occupate da alcuni componenti della famiglia dei Turcii Aproniani 67. Il set di manufatti per le pratiche termali destinati agli sposi cristiani Proiecta e Secundus, ricordati in uno dei cofanetti, potrebbe essere leggermente posteriore e appartenere ad un discendente del personaggio menzionato, un esponente della stessa famiglia convertitosi al cristianesimo 68. Generalmente la cronologia di questa conversione viene fissata attorno al 380 per il supposto collegamento con una Proiecta celebrata da papa Damaso morta nel 383 a 16 anni 69. Che la Proiecta citata sul recipiente argenteo sia la stessa giovane ricordata dall’epitaffio damasiano, tuttavia, non è certo 70 e la datazione su base stilistica del manufatto, come hanno opportunamente osservato A. Cameron 71 e F. Baratte 72, rimane necessariamente incerta. Un ulteriore personaggio è infine la Pelegrina non meglio nota, anch’essa cristiana, nominata nell’iscrizione augurale su una brocca con caratteri diversi rispetto a quelli del cofanetto di Proiecta e Secundus. I personaggi menzionati sugli oggetti sono, quindi, complessivamente cinque e l’arco cronologico dei manufatti sembra compreso tra la metà del IV e gli inizi del V secolo, con un certo excursus attribuibile ai diversi passaggi di proprietà. É possibile, ma non sicuro, che la circostanza dell’abbandono del tesoro sia l’assedio visigoto del 410, situazione alla quale viene generalmente attribuito il seppellimento degli oggetti preziosi e in cui, secondo Zosimo, i senatori avrebbero nascosto i propri beni preziosi per non doverli consegnare ai barbari di Alarico 73. La stessa situazione potrebbe essersi verificata anche nel 455, all’epoca del sacco di Genserico, il quale lasciò Roma carico di bottino dopo un saccheggio durato quattordici giorni 74. Il contesto rispecchia la dotazione in vasellame di una famiglia fortemente radicata nell’Urbe e a lungo caratterizzata da una persistente adesione alle forme di culto tradizionali, secondo quanto confermato anche dalle fonti letterarie ed epigrafiche: al momento dell’abbandono degli oggetti d’argento, però, la maggioranza dei suoi componenti si era ormai convertita al cristianesimo, avvertendo la necessità di mostrare tale adesione religiosa attraverso le iscrizioni sugli oggetti preziosi 75. La sporadicità dei confronti possibili a Roma non consente di stabilire con certezza se gli oggetti del tesoro siano stati eseguiti in loco, ma le caratteristiche tipologiche, le scelte iconografiche e l’importanza della committenza rendono estremamente verosimile che provengano da uno dei maggiori laboratori artigianali dell’Urbe 76. La stessa ipotesi può essere formulata per un altro celebre insieme di argenterie, rinvenuto sul Celio e già mità a losanga: argento; diam. 3,8 cm. SHELTON 1981, nn. 43-44. Secondo esemplare: Londra, BM (66, 12-29, 46); argento; diam. 2,2 cm. SHELTON 1981, p. 91, n. 45. Cfr., ad esempio, BALDINI LIPPOLIS 2007, p. 317, fig. 6. 64 Tra le identificazioni proposte: Proiecta Turci (VISCONTI 1793; FEA 1936, p. 34; PLRE I, p. 750); Pelegrina Turci (SHELTON 1981, p. 33; LOVERANCE 2004, p. 10), un nome femminile non leggibile seguito dal genitivo Turci (PAINTER 2000, p. 499). 65 PLRE I, pp. 88-89. Sono grata a Salvatore Cosentino per il suggerimento epigrafico. 66 PAINTER 2000, p. 493 67 Sulla famiglia: PANCIERA 1990; PAINTER 2000, p. 146. 68 PLRE I, p. 1147; SHELTON 1985, p. 153; CAMERON 1985, p. 145; PANCIERA 1990; SALZMAN 2002, pp. 80-81. 69 ILCV, 3446; ED, n. 51; PLRE I, p. 750. Commento in CAMERON 1985 e SHELTON 1985. 70 La difficile questione viene ampiamente dibattuta in CAMERON 1985, secondo il quale il padre di Proiecta, Floro sarebbe il magi- ster officiorum del 380-381, prefetto del pretorio d’Oriente nel 381383 (PLRE I, pp. 367-368). Risulta veramente strano, nonostante le spiegazioni addotte, che nell’epigramma non figuri l’identità del marito, che secondo un’interpretazione del testo potrebbe essersi chiamato Primo. 71 CAMERON 1985, pp. 139-140. 72 BARATTE 1993, pp. 226-229. 73 ZOS. Hist. 5, 37-51; 6, 6-13. SPERA 2013, pp. 170-178, con bibliografia. Due basi iscritte relative ad esponenti della famiglia confermerebbero l’ipotesi (SHELTON 1981, pp. 13-17; CAMERON 1985, p. 136) che il luogo di rinvenimento del tesoro sia quello delle residenze sull’Equilino dei Turcii Aproniani: PANCIERA 1990. 74 Per gli aspetti archeologici: SPERA 2013, pp. 179-180. 75 Sul contesto sociale: GWYNN 2011 (in particolare pp. 152-153). La raccolta di argento, anche in forma di suppellettile, è una delle forme di tesaurizzazione più diffusa presso le classi sociali elevate in età tardoantica: GRIERSON 1993, pp. 140-141 76 BARATTE 1993, p. 226. GIOIELLI E OGGETTI IN METALLO PREZIOSO 419 ritenuto di proprietà della famiglia senatoria dei Valerii 77: gli studi di C. Lega hanno permesso di ricostruire esattamente la storia di tale nucleo (fig. 9), probabilmente databile al V secolo, e la sua composizione originaria prima della dispersione: si tratta di manufatti di ambito ecclesiastico, almeno in parte votivi, ai quali nel tempo sono stati erroneamente accostati, come nel caso precedente, oggetti argentei di provenienze diverse 78. I gioielli costituiscono un ambito di studio complementare rispetto a quello condotto sulle argenterie, risentendo spesso delle stesse difficoltà di raccolta dei dati. Un esempio significativo è, ad esempio, il tesoro emerso nel 1908 in piazza della Consolazione, per il quale si ipotizza, come per quelli dell’Esquilino e del Celio, un abbandono in occasione del sacco Visigoto o di quello Vandalo di Roma 79. Il nucleo, molto cospicuo, era composto da almeno ventisei gioielli, divisi e dispersi subito dopo il rinvenimento: sei collane 80, cinque coppie di orecchini 81, due aghi crinali riccamente decorati 82, dodici anelli 83 e un bracciale 84. Si tratta dunque di un insieme corrispondente a sei parure femminili complete; manca, come nel caso precedente, il materiale numismatico a volte associato a questo tipo di rinvenimenti. In uno degli anelli 85, venduti a E. Guillhou già prima del 1912, con Fig. 9. - Roma, ampolla del tesoro del Celio (da Brenk 1999). 77 Gli oggetti vennero venduti nel 1757 a papa Benedetto XIV dal marchese Angelo Gabrielli. L’insieme comprendeva due ampolle lenticolari con la raffigurazione dei busti di Pietro e Paolo (Musei Vaticani, Museo Profano, inv. 60862 e 60857), un piatto con una scena di caccia al cinghiale (Musei Vaticani, reimpiegato nell’anta di un armadio collocato nell’Atrio dei Quattro Cancelli, inv. 65178), un bicchiere con iscrizione votiva Petibi et accipi votum solvi (Musei Vaticani, Museo Profano, inv. 60857), un cratere con decorazione figurata, 4 specilla e un cucchiaio: questi ultimi oggetti sono dispersi. Per una interpretazione dei manufatti in riferimento alla domus dei Valerii: BRENK 1999. Contra: LEGA 2003. 78 LEGA 2003. 79 DE RICCI 1912; Kalebdjiian 1913; ROSS 1965, pp. 1-4; MANIÈRE-LÉVÊQUE 1997, pp. 82-83; BALDINI LIPPOLIS 1999, pp. 34-35; DEPPERT-LIPPITZ 2000. 80 1) collana a catena con due pendenti, uno dei quali nuziale: New York, Metropolitan Museum of Arts (1958, 58.12); oro; L 78,7 cm; diam., medaglione nuziale 5,6 cm. BALDINI LIPPOLIS 1999, 2.III.1.b.3. 2; DEPPERT-LIPPITZ 2000, pp. 61-62. 2) collana a catena con due pendenti: coll. Baurat-Schiller; coll. Eva Merz (Berna); oro; L 106 cm. BALDINI LIPPOLIS 1999, 2.III.1.b.7. 3; DEPPERT-LIPPITZ 2000, pp. 61-62. 3) collana a catena con pietre, fermagli circolari: Washington, Dumbarton Oaks Collection (28.8), ex coll. Bliss, 1928; oro, perle, smeraldi, zaffiri, calcedoni; L 37. BALDINI LIPPOLIS 1999, 2.III.1.c.28; DEPPERT-LIPPITZ 2000, pp. 58-59. 4) collana a catena con pietre, fermagli cuoriformi: Washington, Dumbarton Oaks Collection (28.9), ex coll. Bliss, 1928; oro, perle, smeraldi, zaffiri; L 40 cm. BALDINI LIPPOLIS 1999, 2.III.1.c.29. 5; DEPPERTLIPPITZ 2000, pp. 58-59. 5) collana a treccia con pietre: Washington, Dumbarton Oaks Collection (28.10), ex coll. Bliss, 1928; oro, perle, smeraldi, zaffiri; L 69. BALDINI LIPPOLIS 1999, 2.III.2.b.5. 6; DEPPERT-LIPPITZ 2000, pp. 58-59. 6) collana a catena con medaglione di Onorio e medaglione nuziale Liverpool Museum (N 95, 2475), ex coll. Schiller e coll. P. Nelson, 1953; oro. ODGEN 1996; DEPPERTLIPPITZ 2000, pp. 59-61; PINAR GIL 2007, pp. 172-173. 81 Coppia di orecchini ad anello con pendenti (senza chiusura): 1) Washington, Dumbarton Oaks Collection (52.7.1-2), ex coll. J. Pierpont Morgan; B. Da Costa Green, 1952; oro, perla, zaffiro; L 6.5 cm. BALDINI LIPPOLIS 1999, 2.II.4.a.3. 2; DEPPERT-LIPPITZ 2000, p. 62. 2) Washington, Dumbarton Oaks Collection (28.12 a-b), ex coll. Bliss, 1928; oro, perle, smeraldi, zaffiri; L 7.5. BALDINI LIPPOLIS 1999, 2.II.4.a.4. 3) Washington, Dumbarton Oaks Collection (28.14-15), ex coll. Bliss, 1928; oro, perle, smeraldi, zaffiri; L 6.5. BALDINI LIPPOLIS 1999, 2.II.4.a.5. Coppia di orecchini ad anello con pendenti (chiusura a gancio): Washington, Dumbarton Oaks Collection (28.16-17), ex coll. Bliss, 1928; oro, perle, zaffiri; L 6,3-6,6 cm; BALDINI LIPPOLIS 1999, 2.II.4.b.6. Coppia di orecchini: Washington, Dumbarton Oaks Collection (28.13 a-b), ex coll. Bliss, 1928; oro, perle; diam. 2. 82 Washington, Dumbarton Oaks Collection (inv. 28.11), ex coll. Bliss, 1928; cm 3,4 e 4. ROSS 1965, p. 1. 83 DE RICCI 1912, tav. XIII. 84 Il gioiello presenta un castone raffigurante il busto della personificazione di Roma: New York, Metropolitan Museum of Arts (inv. 17.190.2053), ex coll. J. Pierpont Morgan, 1917; oro; diam. 6,4 cm. BALDINI LIPPOLIS 1999, 2.VI.1.c.7; DEPPERT-LIPPITZ 2000, p. 63. 85 DE RICCI 1912, p. 92, n. 815; BALDINI LIPPOLIS 1999, p. 212, 2.VII.4.a.2; DEPPERT-LIPPITZ 2000, p. 62. 420 ISABELLA BALDINI Fig. 11. - New York, Metropolitan Museum of Arts, bracciale del Tesoro di via della Consolazione. verga ottagonale e chrismon inciso, secondo una tipologia diffusa nel IV secolo, era nominata una Septimina Severina 86, probabilmente l’ultima proprietaria dei gioielli. Tre anni dopo la scoperta tre collane e un bracciale furono esposti in una mostra a Parigi: di una delle collane, che alla fine degli anni ’60 si trovava nella collezione privata di Eva Merz, è stata pubblicata un’immagine 87. La seconda, databile alla prima metà del V secolo 88, è stata riconosciuta da J. Ogden in un gioiello del Museo di Liverpool forse ottenuto dall’unione di due gioielli diversi 89. La terza è al Metropolitan Museum di New York insieme all’unico bracciale del contesto (figg. 10-11) 90. Cinque coppie di orecchini e altre tre collane, con pietre policrome, sono invece conservate presso la Dumbarton Oaks Collection di Washington. Gli esemplari corrispondono a tipologie ben note in età tardoantica: nel caso degli orecchini e di una delle collane, ad esempio, stretti confronti sono emersi di recente dalla sepoltura della basilica di papa Marco sulla via Ardeatina (fig. 12), contenente gioielli attribuiti ad una bottega urbana databile tra la fine del IV e la metà del V secolo 91. Anche la coppia bracciale-medaglione nuziale di New York sembra presentare uno stile peculiare nella resa delle decorazioni figurate, tale da far ritenere i due preziosi manufatti il prodotto di un medesimo atelier, probabilmente romano. Il riferimento alla sepoltura della basilica sull’Ardeatina, uno dei pochi esempi di cui si conosca il contesto stratigrafico, introduce il tema, troppo complesso per essere affrontato in questa sede, degli oggetti di ornamento trasmessi come corredi funerari. In una città in cui sembra poco frequente in età tardoantica l’uso di deporre ornamenti personali all’interno delle sepolture 92, risaltano alcune situazioni in cui l’importanza del defunto giustifica una deroga a tale consuetudine. Spesso si tratta di situazioni compromesse, nelle possibilità di analisi, dalla continuità del culto, come mostrano ad esempio alcuni reperti della basilica Vaticana che sembrano strettamente legati a funzioni rituali (fig. 13) 93. La docu- È improbabile che il personaggio possa essere identificato (ROSS 1965, p. 3) con Septimia Severina (PLRE I, p. 830), moglie di Flavius Iulius Catervius, comes sacrarum largitionum nel 379 (PLRE I, pp. 186-187): si tratterebbe infatti della difficile modifica del gentilizio Septimia in Septimina (un cognomen). Sono grata ad Antonio Felle per un parere sugli aspetti onomastici ed epigrafici. 87 V. nota 80, n. 2. 88 V. nota 80, n. 6. Per la datazione: PINAR GIL 2007, pp. 272273. 89 OGDEN 1996, p. 87; DEPPERT-LIPPITZ 2000, p. 59. 90 V. nota 80, n. 1. 91 FIOCCHI NICOLAI 2013. Del rinvenimento fanno parte una collana a catena in oro, con fermaglio circolare in lamina decorato con un chrismon (Roma, Museo Nazionale Romano, inv. 572053), una parure formata da una collana in oro, perle e smeraldi (inv. 572052) e da un paio di orecchini con smeraldi e granati (inv. 572054), quattro anelli (inv. 572055-8) ed elementi sparsi (vaghi e lamine decorate). 92 Vd. ad esempio la documentazione emersa nell’area del Lungotevere Testaccio (RIEMER 2000, pp. 392-393), del Palatino (M. Vitale, in ARENA, DELOGU, PAROLI et alii 2001, pp. 231-237), dell’Oppio (C. Panella, in ARENA, DELOGU, PAROLI et alii 2001, pp. 238-242). 93 Vd. ad esempio uno spillone in oro con chrismon (Fabbrica Fig. 10. - New York, Metropolitan Museum of Arts, collana del Tesoro di via della Consolazione. 86 GIOIELLI E OGGETTI IN METALLO PREZIOSO 421 Fig. 12. - Roma, Museo Nazionale Romano, collana di una tomba della via Ardeatina (da Fiocchi Nicolai 2013). Fig. 13. - Città del Vaticano, Fabbrica di S. Pietro, spillone dalla necropoli Vaticana (da Sena Chiesa 2012). Fig. 14. - Parigi, Louvre, Department des Objects d’Art, pendente di Maria, prima moglie di Onorio, dalla sepoltura imperiale nella Cappella di Santa Petronilla presso San Pietro. mentazione restituisce anche corredi deposti accanto alle sepolture e non all’interno di esse, una casistica quest’ultima emersa ad esempio nella stessa Crypta Balbi 94 e a Capena 95. Il caso più eclatante di corredo funerario è quello delle sepolture imperiali rinvenute nel XVI secolo nel mausoleo di S. Petronilla, attiguo alla basilica di S. Pietro: la ricostruzione di questo contesto da parte di F. Paolucci 96 permette di valutarne appieno il carattere eccezionale, rispecchiato dalla quantità dell’oro ricavato dai sudari aurei e dal numero di manufatti in materiale prezioso fusi o dispersi dopo il ritrovamento. Il pendente di Maria (fig. 14), prima moglie di Onorio, unico gioiello sopravvissuto alla distruzione del materiale, è sufficiente a valutarne la raffinatezza e la qualità tecnica: non esistono confronti tipologici per il manufatto, che tuttavia viene verosimilmente attribuito a botteghe occidentali per la tecnica della sbiancatura delle lettere dell’iscrizione in forma di chrismon e per alcuni particolari epigrafici 97. di S. Pietro, inv. FSP 0003) e una lamina votiva (Fabbrica di S. Pietro, inv. FSP 0002): P. Zander, in SENA CHIESA 2012, pp. 241242. 94 ARENA, DELOGU, PAROLI et alii 2001, I.12.6. 95 RIEMER 2000, pp. 389-390; L. Paroli, in ARENA, DELOGU, PA- ROLI et alii 2001, pp. 174-178: si tratta di un corredo datato tra V e VI secolo. 96 PAOLUCCI 2008, con bibliografia precedente. 97 Parigi, Louvre, Department des Objects d’Art (inv. OA.9523). DE ROSSI 1863; Age of Spirituality 1979, p. 306, n. 279; BALDINI 422 ISABELLA BALDINI L’unicità dei più importanti manufatti sopravvissuti alla dispersione limita le possibilità di dare efficacia alle ipotesi riguardanti le produzioni romane, consentendo di apprezzarne soprattutto la varietà e l’alto livello di raffinatezza. Un altro esempio è la croce d’oro pendente rinvenuta nel 1863 dal de Rossi in una sepoltura maschile della basilica di S. Lorenzo fuori le mura, non lontano dalla tomba del santo titolare (fig. 15) 98. Il manufatto, in lamina d’oro decorata a niello, presentava alcune iscrizioni (Emmanouel-Nobiscum Deus e Crux est vitam mihi-Mors inimice tibi) 99, scelte evidentemente come augurio di protezione nei confronti del proprietario del gioiello 100. Sullo spessore dei bracci trasversali e della parte inferiore del braccio verticale erano due monogrammi resi a niello, uno dei quali ripetuto due volte: evidentemente, quindi, si trattava di un oggetto di valore fabbricato su commissione. Il nome e forse la qualifica del proprietario della croce, purtroppo, non sono stati ancora definiti 101 e la decorazione, pur confrontabile con schemi ornamentali diffusi tra il V e il VI secolo, epoca alla quale viene assegnato il gioiello, non trova confronti nell’abito dell’oreficeria nota, probabilmente a causa dell’alta qualità del manufatto, finora un unicum. Anche in questo caso all’incertezza sulla cronologia si aggiunge anche quella sul luogo di fabbricazione del gioiello: la proposta di riconoscere nel sistema di fissaggio dell’anello di sospensione - a vite - un elemento distintivo delle botteghe romane 102 è infatti contraddetto dalla ampia diffusione di questo elemento in gioielli tardoantichi in oro di provenienza orientale 103, soprattutto bracciali, che presentano una chiusura a perno filettato proprio come nell’esemplare descritto. Gli spunti emersi da una verifica preliminare della documentazione disponibile sui prodotti in materiale prezioso di epoca tardoantica rinvenuti a Roma sottolineano, in sostanza, un quadro ancora estremamente frammentario, con un panorama documentario che oscilla tra produzioni standardizzate e oggetti di eccezionale qualità e valore, tali da poter essere confrontati con difficoltà. Il rinvenimento del laboratorio della Crypta Balbi ha dato nuova consistenza e nuove prospettive alle ricerche sull’oreficeria tardoantica a Roma e in Italia, consentendo da un lato di verificare concretamente le fasi e il carattere specializzato del processo produttivo, dall’altro di rimettere in discussione alcune attribuzioni preconcette in riferimento a classi e a tipologie di ampia diffusione, frutto in realtà di un sistema produttivo complesso e dislocato in più sedi. L’omologazione degli oggetti di ornamento è in genere espressione di fenomeni di condivisione sociale di comportamenti e di simboli, un aspetto evidente so- LIPPOLIS 1999, p. 145, 2.III.6.d; D. Gaborit-Chopin in Aurea Roma 2000, pp. 468-469. 98 Musei Vaticani, Museo Cristiano, inv. 1101: oro e niello. 4 x 3 x 0,5 cm. DE ROSSI 1863, pp. 31-38. Sul manufatto: LIPINSKY 1962; FARIOLI CAMPANATI 1982, p. 356; FARIOLI CAMPANATI 1990, p. 133, n. 48; BALDINI LIPPOLIS 1999, p. 149, III.10.c.7; RICCI 2001a, p. 79; L. Franco, in SENA CHIESA 2012, pp. 271-272. 99 ILCV, 3466. 100 SANDERS 1982, p. 375. 101 Il secondo monogramma è simile a quello di Teoderico, ma manca la lettera ‘o’ e forse è presente una ‘elle’: considerando la notorietà del re goto e della rappresentazione grafica del suo nome, è possibile che la croce romana possa essere attribuita all’età teodericiana o poco dopo. 102 LIPINSKY 1962. 103 Ad esempio vd. i bracciali del Paul Getty Museum, di Bakodpuszta (Ungheria, V secolo) e di Malaia Pereschepina (Russia meridionale): DEPPERT-LIPPITZ 1993, pp. 114-115. Fig. 15. - Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Cristiano, croce pettorale da San Lorenzo fuori le mura (da Sena Chiesa 2012). GIOIELLI E OGGETTI IN METALLO PREZIOSO prattutto nei manufatti di maggiore pregio, spesso caratterizzati dalla presenza di iscrizioni. Alcuni ornamenti, come il pendente di Maria, vennero eseguiti per essere unici e come tali sfuggono alle possibilità di una comparazione tipologica. I gioielli del tesoro di piazza della Consolazione, invece, sia nella tipologia che nell’assortimento degli oggetti rispecchiano i comportamenti e i gusti di una classe specifica, quella senatoria, che aveva i tratti di un ceto elitario ma che era sufficientemente numerosa da permettere fenomeni di imitazione: ancora legata a forme espressive tradizionali (i busti nuziali degli sposi, la personificazione di Roma sul medaglione del bracciale, i pendenti con gemme gnostiche), la proprietaria del tesoro mostra in maniera palese la propria adesione al cristianesimo solo nell’anello, mentre la tecnica degli oggetti rivela presumibilmente un carattere specifico, locale. Lo stesso livello elevato è riflesso dalle argenterie dell’Esquilino, probabilmente un tesoro trasmesso attraverso l’arco di qualche decennio in un contesto familiare di notevole rilevanza pubblica che aderisce progressivamente al cristianesimo, aspetto percepibile prevalentemente in riferimento a figure femminili. Lo sviluppo delle produzioni destinate alla Chiesa, progressivamente prevalenti nell’impegno dei committenti e dei donatori, è invece ben esemplificato dal tesoro del Celio. Un ambito produttivo corrispondente ad una committenza elitaria è evidente nel corredo personale, quasi coevo, della basilica della via Ardeatina, in cui l’importanza sociale della deposizione si esprime ormai secondo nuove forme, tipicamente cristiane: la famiglia ha la possibilità di collocare all’interno della tomba oggetti preziosi eseguiti secondo la moda dei ceti eminenti del periodo, ai quali evidentemente la defunta appartiene; tra questi gioielli solo una collana presenta un chiaro riferimento al credo religioso della defunta e l’adesione religiosa, al pari dell’importanza sociale, si esprimono pubblicamente soprattutto attraverso la vicinanza della sepoltura al centro cultuale principale dell’area funeraria. Il medesimo sistema gerarchico delle tombe doveva interessare anche la basilica Vaticana, dalla quale provengono oggetti legati in modo specifico al rituale funerario, un settore del mercato orafo con caratteristiche tipologiche e funzionali proprie. Anche nella difficoltà di riconoscere con chiarezza le linee di sviluppo e i particolari tecnici specifici della tradizione orafa tardoantica di Roma, quello che sembra emergere chiaramente è comunque il carattere stabile del modello locale attraverso alcuni elementi distintivi, che rimangono costanti per molto tempo: an- 423 cora nel VI e nel VII secolo, ad esempio, alcuni ricchi tesori orientali presenteranno manufatti e associazioni di oggetti (collane e orecchini a pietre policrome, bracciali con medaglioni) ispirati a gioielli simili a quelli del tesoro di piazza della Consolazione, segno del ruolo eminente e riconosciuto, sebbene ancora indistinto a livello tecnologico e stilistico, dalle produzioni romane. 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ATTIVITÀ ARTIGIANALI E BOTTEGHE ATTRAVERSO LE FONTI SCRITTE CRAFTSMANSHIP AND WORKSHOPS THROUGH THE WRITTEN SOURCES GLI ARTIGIANI NEI DOCUMENTI ITALIANI DEI SECOLI XI E XII: ALCUNI CASI DI STUDIO Chris Wickham Lo scopo di questo contributo è di mettere i documenti di Roma dei secoli XI-XII in un contesto più ampio, confrontandoli con quelli di alcune altre città. Questo è in parte perché ho già affrontato le evidenze specificamente romane altrove; in parte perché, come sempre, non si possono bene capire la natura e lo sviluppo di una realtà senza confrontarli con quelli di altre. Bisogna subito dire, comunque, che questo confronto, poiché i documenti che discuterò provengono dai secoli centrali del medioevo, ci porta sin dall’inizio a dover affrontare quella che si può definire la metanarrazione del decollo artigianale e industriale del basso medioevo italiano. Dunque, prima di tutto, voglio mettere in evidenza alcuni problemi che riguardano il rapporto fra la natura dei documenti stessi e lo svolgimento di quella narrazione. Nei secoli XI-XII, come in verità anche prima, gli artigiani appaiono nei documenti che ci sono sopravvissuti solamente se sono proprietari o affittuari di terra, dal momento che le transazioni fondiarie sono il tema di base di quasi tutte le cartulae, notitiae o brevia dei secoli precedenti al 1200, oppure se sono testimoni a tali transazioni. Anche in questi casi, sappiamo dell’esistenza degli artigiani solo se i formulari dei documenti dell’epoca prevedono la citazione dei mestieri, che non è sempre il caso. Non possiamo, dunque, se non con molta cautela, costruire una storia completa delle attività economiche non agricole solo sulla base delle citazioni di artigiani nei nostri testi. Lucca, ad esempio, avrebbe uno sviluppo molto strano se lo facessimo. Nell’VIII secolo, ci sono dei riferimenti, fra gli altri, ai calderai e agli orefici, e ai magistri casarii, i costruttori delle case, che comprano terra in campagna; questo sarebbe in sintonia con quanto è contenuto in un testo tecnico, scritto in città nello stesso periodo, che tratta di vari mestieri artigianali, la tintura, la metallurgia e il pellame fra gli altri. In breve, per Lucca si potrebbe dunque parlare di una buona evidenza di attività artigianali nell’VIII secolo 1. Se tenessimo fede all’andamento quantitativo della documentazione scritta, questo fervore di attività comunque finirebbe subito dopo, dal momento che abbiamo pochi altri riferimenti all’artigianato lucchese fra l’800 e il 1050. Solo d’allora in poi alcuni artigiani ricominciano a comparire, diventando relativamente numerosi dopo il 1140 circa. Poi, negli anni ’20 e ’30 del XIII secolo vedremmo un rapidissimo decollo artigianale in città, soprattutto connesso all’industria tessile, che continuerebbe poi fino a tutto il medioevo. L’abbassamento delle attività nei secoli IX-X però non è altro che la conseguenza della fine delle donazioni fondiarie alle chiese lucchesi nel periodo carolingio, che prima avevano portato negli archivi ecclesiastici un insieme di documenti riguardanti le transazioni fra laici per le stesse terre; successivamente, per due secoli, abbiamo poco altro che cessioni di terra ecclesiastica in affitto, soprattutto alle élites locali, documenti che danno molto meno spazio alle attestazioni di artigiani. In maniera simile, il ‘decollo’ verso il 1230 è semplicemente il risultato della sopravvivenza a Lucca di registri notarili dal 1220 in poi, che, per la prima volta, evidenziano molte transazioni commerciali senza una base fondiaria 2. In sintesi: tutta questa traiettoria è puramente il risultato dei cambiamenti nella tipologia 1 Calderarii: Chartae latinae antiquiores, XXXI, n. 921; XXXIV, n. 996; XXXV, n. 1032; XXXVI, n. 1041; aurefices: XXXI, n. 916a; XXXIV, n. 1001; XXXVI, n. 1041; casarii: XXXVIII, n. 1117; LXXIV, nn. 18, 42. Per il testo tecnico, HEDFORS 1932. 2 Per i registri, MEYER 2000, pp. 235-502; per il decollo, BLOMQUIST 2005. 430 CHRIS WICKHAM delle nostre fonti scritte. Può darsi che sia vera, almeno in parte – vedremo che, soprattutto per l’inizio del ‘200, un autentico cambiamento economico può essere effettivamente ipotizzato – ma non si può dirlo solamente sulla base delle menzioni di artigiani nei testi. Queste constatazioni non costituiscono una novità. È comunque utile continuare a svilupparle. Quasi tutto quello che sappiamo dei secoli d’oro del commercio e dell’industria medievale italiani fra il ‘200 e il ‘400 si basa sulla documentazione notarile: prima, nel tardo XII secolo, genovese, poi, nel XIII secolo, lucchese o bergamasca, quindi nel tardo XIII e nel XIV secolo di moltissime altre città, inclusa Roma. Come risultato, le attività artigianali e commerciali si accendono per noi, come delle lampadine, città per città, l’una dopo l’altra. È comunque vero che, se non si ha documentazione notarile in loco, si può in alcuni casi utilizzare quella di altre città, soprattutto, all’inizio, quella di Genova. Le analisi dettagliate dell’attività febbrile di Milano nel ‘200, soprattutto nelle industrie tessili e metallurgiche, messe in evidenza nel libro di Paolo Grillo sulla città lombarda, provengono, nell’assenza di un notarile milanese, soprattutto da quello genovese, grazie al fatto che Genova era in effetti il porto di Milano; persino il rapporto, sempre più co-dipendente, fra Milano e i borghi del contado come Monza e Cantù, si vede più facilmente attraverso i documenti di Genova 3. A Lucca, il decollo dell’industria della seta è stato datato da Florence Edler negli anni ’30 e di recente da Alma Poloni negli anni ’90 del XII secolo perché è in quel momento che i mercanti lucchesi della seta compaiono nei registri genovesi 4. Almeno a Lucca i registri notarili cominciano un trentennio dopo e ci danno quindi una visione meno esterna dei processi in questione; ne sappiamo parecchio d’allora in poi. Abbiamo però sempre la sensazione della piena luce nel ‘200 (oppure nel ‘300 a Roma) e del buio prima. La differenza fra il buio e la luce può tenderci due trappole. La prima, per gli storici del basso medioevo, è di persuadersi che la storia commerciale e produttiva comincia solamente nel 1200 e che (almeno fuori di Genova) i secoli precedenti esistano appena. Se Grillo e Poloni non ci sono cascati, gli storici americani dell’economia medievale d’Italia attivi alla metà del ‘900, che dominano anche adesso la metanarrazione del periodo, un poco sì. La seconda trappola, per gli storici 3 GRILLO 2001, pp. 209-234; per un elenco completo dei registri notarili fino al 1300, vedi MEYER 2000, pp. 179-222. dei secoli precedenti, è di considerare tutti i segni sparsi dell’attività artigianale come i semplici prodromi di un decollo commerciale che deve essere avvenuto, prima o poi (un fatto su cui, per la verità, non possiamo essere in disaccordo) e che dunque (ed è qui la trappola) è il solo fenomeno economico che merita di essere studiato e magari identificato più precocemente possibile. Le città nelle quali questo decollo non è avvenuto (di cui un esempio è Roma) sono invece state considerate fallite per questo motivo, anche per quanto riguarda i secoli precedenti al ‘200. Sono sempre ostile alle teleologie e certamente sono ostile a questa; bisogna sempre provare a capire le strutture e gli sviluppi del periodo che si sta studiando e non vederli solo attraverso l’ottica di quello successivo. Questo sarà ad ogni modo il filo conduttore del resto dell’articolo: voglio semplicemente guardare ciò che si può trarre dalla documentazione scritta che abbiamo per i secoli XI-XII e come si più spiegarlo. Considererò a volte il rapporto fra questo materiale e quello successivo, ma senza alcuna preoccupazione teleologica. Voglio inoltre presentare questo materiale per un pubblico tanto archeologico che storico. In parte perché è questo lo scopo del libro; ma in parte anche perché se c’è una disciplina che scoprirà alla fine le vere modalità della traiettoria economica italiana fra (diciamo) il 950 e il 1250, sarà l’archeologia, e non, se non in maniera molto più mediata, la storia dei documenti, proprio per le ragioni che si sono già esposte. In questo momento, vale insistere semplicemente che non sappiamo quando e come e dove il decollo commerciale italiano sia cominciato. La convinzione di un inizio precoce, nel IX secolo, è meno diffusa oggi che non 60 anni fa, quando Cinzio Violante scrisse il suo libro classico su Milano 5. Attualmente penso che ci sia un dibattito quasi celato fra quelli che sembrano preferire, detto in maniera molto schematica, il 950 circa e quelli che guarderebbero invece al 1150 (incluso, come penso, vari archeologi). So tuttavia per certo che ancora non siamo in grado di stabilire quale delle due date sia la più proficua da scegliere e propongo dunque che la cosa migliore da fare, adesso, è di seguire le tracce, che abbiamo ed avremo, e studiarle per il periodo in cui le abbiamo senza il senno di poi. In questa ottica, analizzerò qui i documenti per tre casi di studio, la stessa Roma, Lucca e Milano, aggiungendo qualche commento anche su Ravenna e Na- 4 5 POLONI 2009, pp. 46-55, che cita la bibliografia anteriore. VIOLANTE 1953, pp. 3-53. GLI ARTIGIANI NEI DOCUMENTI ITALIANI DEI SECOLI XI E XII: ALCUNI CASI DI STUDIO poli, per provare a mettere in evidenza quello che possiamo o non possiamo dire. Salvo che per Roma, mi baserò in questa sede quasi interamente sui documenti editi e aggiungo l’avvertimento che un tale studio non è stato affrontato in maniera sistematica per nessuna delle altre città; questo limita la profondità del confronto che è finora possibile. Alcune conclusioni si possono comunque trarre, come vedremo. Tra le città che ho citato, quella che ha più documentazione per il periodo qui discusso è sicuramente Roma. Comincerò quindi da qui anche per questo motivo e non solo perché Roma è il tema principale che si affronta in questo volume. Roma è unica in questo contesto perché era normale nell’XI secolo e comune anche nel XII, attribuire una definizione professionale agli attori e ai testimoni di ogni sorta di documento. Per citare qualche esempio di questo uso possiamo ricordare un documento del 1017 in cui i figli di un tessitore vendono a un erario (cioè ramaio o lavoratore del bronzo) una casa nella regione del Colosseo, confinante con un’altra di un altro erario, con testimoni al documento che sono tutti artigiani, tre erari e due rotarii (cioè carrai); oppure un testo del 1019 in cui il monastero di SS. Ciriaco e Nicola in Via Lata allivella a un pistrinario (cioè fornaio) e al suocero un terreno per costruire una casa nella regione di Trevi, con testimoni un calzolario e un saponario; oppure ancora uno del 1062 in cui nella regione del Colosseo la chiesa di S. Maria Nova cede una casa a un sartor, con testimoni due calzolai 6, e così via. Tali citazioni sono rare nel X secolo (prima del 980, quando cominciano a essere più frequenti, ci sono solo un paio di menzioni di opifices, una parola molto generica per artigiano, e una di un candeggiatore) 7, ma aumentano rapidamente nel nuovo millennio, in accordo con l’espansione della tipologia dei documenti, e continuano dopo senza soluzioni di continuità, anche se con una lieve flessione nel XII secolo. Per i due secoli qui considerati sono presenti più di trecento di tali citazioni e oltre cento mestieri sono identificabili nei testi. I lavoratori della pelle e dei metalli sono i mestieri più citati nella documentazione romana per questo periodo: una sessantina di menzioni ciascuno. Poi, vengono i lavoratori tessili (sempre di lana, non di lino) e i venditori di cibo e bevande, ambedue dei quali ne contano una cinquantina. Ma ci sono pure parecchi lavoratori del legno, vasai (un gruppo che compare molto 6 FEDELE 1900, nn. 4, 19; HARTMANN, MERORES 1895-1913, I, n. 41. 431 raramente altrove nei documenti scritti, malgrado la loro importanza per gli archeologi), operai edili, addetti ai trasporti e trasportatori di animali (ad esempio porcari). Ci sono inoltre molti altri mestieri, ciascuno attestato da un numero ristretto di addetti, come i pittori ed i vetrai. Ci sono anche delle differenziazioni interne in questi grandi gruppi di attività. Persino i vasai (figuli) includono uno specialista di orci o anfore (lagunarius), fatto che combacia con la divisione fra tre reti di officine di vasai ipotizzata da Marco Ricci per questo periodo sulla base dei reperti archeologici. I lavoratori del metallo includono molti più specialisti: ferrarii, scudarii, erarii, caldararii, malleatores, maniani, iaculatores, palumbatores, aurefices, maniscalci, fusores e semplici fabri. Qui, evidentemente, c’è una separazione fra tipi di metallo, ferro, piombo, oro e bronzo; ma c’è anche una specializzazione funzionale, una sensibile divisione del lavoro, ad esempio all’interno dei ferrai fra specialisti delle chiavi, dei ferri di cavallo, degli scudi, etc. Ovviamente, non possiamo sapere quanto queste specializzazioni fossero interamente mantenute - se, per esempio, un magnano poteva o meno ferrare un cavallo. Tuttavia questo non ha molta importanza. Il punto centrale è invece che era possibile concepire tali differenziazioni e che ci si poteva autodefinire specialisti e non semplicemente ferraio o altre denominazioni più generiche. Questo indica quanto era complesso il mondo artigianale di Roma, già nell’XI secolo. Sarei contento di ipotizzare che lo fosse sempre stato, almeno in parte, per quanto non ci siano prove documentarie; d’altronde il resto di questo libro mi sembra che ne possa dare parecchie prove materiali. In ogni caso se era stato così prima oppure no, dopo il 1000 lo era di sicuro 8. Sulla base dei documenti, si può anche affermare come Roma abbia visto una certa specializzazione regionale delle attività artigianali dentro la città. Sarò qui molto sintetico, perché ho discusso altrove il tema, ma il fatto non può essere omesso in questa sede. Trastevere mostrava una specializzazione nei lavoratori della pelle, della ceramica e del ferro. La regione di Pigna, a nord dell’attuale Piazza Venezia, era invece un’area di concentrazione dei ferrai, come pure dei lavoratori del legno. Nella regione di Campo Marzio, al nord del Montecitorio, c’erano più lavoratori tessili. La regione di S. Maria Nova, oppure del Colosseo, conteneva tutti i ramai conosciuti in città in questo periodo e gran parte 7 8 RS, nn. 89, 59. RICCI 2009; WICKHAM 2013, pp. 177-192. 432 CHRIS WICKHAM dei calzolai e dei pellicciai (anche se questi ultimi si trovavano pure vicino a Piazza Navona). Il Celio ospitava la maggior parte dei candeggiatori, almeno all’inizio dell’XI secolo (nei secoli successivi i documenti per questa zona si diradano rapidamente). Anche con questo semplice e parziale elenco, alcune tendenze appaiono già chiare. La lavorazione del ferro era abbastanza comune nella maggior parte di queste regioni cittadine. Si trovavano pressoché ovunque anche gli addetti ai diversi tipi del lavoro tessile e i lavoratori della pelle, anche nelle regioni in cui non appaiono particolarmente dominanti. Si può supporre che questi tre mestieri iper attestati siano stati così essenziali che era utile trovare spazio per loro ovunque. Sono i mestieri con meno artigiani (stando sempre ai documenti), che si trovano per lo più in una singola regione dell’urbe – i vasai in Trastevere, i fabbricanti di scudi in Pigna, i ramai al Colosseo, i candeggiatori sul Celio. Questi prodotti più specializzati dovevano necessariamente essere commercializzati, da una regione all’altra e con l’aiuto senz’altro del grande mercato cittadino del Campidoglio. Vale la pena aggiungere che non vedo una ragione particolare per queste scelte topografiche; l’eccezione sarebbero i candeggiatori, perché questo tende a essere un mestiere che si pratica, grazie alle sue possibilità di inquinamento, ai margini delle zone urbanizzate e il Celio, sebbene non ancora disabitato, era comunque decisamente marginale. A Roma, i candeggiatori quasi certamente includevano anche i tintori, perché i tinctores, comuni altrove in Italia, non sono menzionati nei documenti romani del periodo; l’argomento della marginalità vale pure per loro. In sintesi, anche senza delle ragioni particolari per queste specializzazioni, il risultato era certamente una scala intra-urbana di scambi assai grande 9. Bisogna riconoscere che queste configurazioni si basano solo su una parte della città, all’incirca il 40% delle zone abitate. Non abbiamo documenti per tutta l’ansa del Tevere, all’ovest e sud di Piazza Navona, nè per la zona portuale di Ripa, fra il Campidoglio e il fiume; ne abbiamo relativamente pochi per le regioni di Colonna e di Trevi, oppure di Biberatica e Monti sopra i Fori Imperiali. Il risultato è che, sulla base delle fonti documentarie, non è possibile avere un’assoluta certezza sull’esatta distribuzione dei mestieri. Ad esempio: nel basso medioevo, gran parte dei vasai di Roma si trovavano nella regione Arenula, non in Trastevere; possiamo dunque dire con sicurezza che Trastevere era più importante per la ceramica nel nostro periodo che successivamente, ma non che questa vocazione fosse nuova per Arenula, perché non abbiamo nessuna informazione al riguardo per Arenula prima del 1200 10. Comunque, si può almeno insistere sul fatto che alcuni mestieri erano certamente ‘regionalizzati’, almeno in buona parte. È possibile che ci fossero vasai in più regioni fuori di Trastevere per le quali i documenti mancano, ma senz’altro non sono per niente visibili in regioni importanti e ben documentate come Pigna e Colosseo. C’è, poi, almeno una zona della città per la quale le assenze sono significative: la città leonina. Questa zona (tecnicamente, non era una regione, perché non faceva ancora parte dell’urbs) è ben documentata e vi compaiono molti mercanti (negotiatores, mercatores), ma pochi artigiani: senza alcun dubbio, la funzione di questa zona era di vendere ai pellegrini e di ospitarli, non di fabbricare merci 11. Anche considerando la parzialità della nostra documentazione, come pure il fatto che, come altrove, le nostre informazioni provengono solamente dalle transazioni fondiarie, la conclusione che ci fossero delle concentrazioni regionali di mestieri in città già nell’XI secolo sembra essere fuori discussione. E sicuramente tale ‘regionalizzazione’ continuò anche dopo, sebbene con cambiamenti. Ad esempio, Isa Lori Sanfilippo, nel suo libro fondamentale sugli artigiani romani del ‘300 (il primo periodo per cui abbiamo dei registri notarili) mostra come Pigna dovette diventare più centrale, rispetto ai secoli precedenti, per gli artigiani della lana e della pelle; viceversa, i ferrai trecenteschi si trovavano ancora dappertutto 12. WICKHAM 2013, pp. 151-152, 179-180. GÜLL 2003, pp. 49-79 (Trastevere tornò a essere importante solo nel ‘500). Per una discussione sugli scarti di produzione della ceramica, registrati dali archeologi in più parti della città si rimanda ai testi di M.E. Calabria et alii e G. Rascaglia, J. Russo in questo volume. 11 WICKHAM 2013, pp. 173-177. 12 LORI SANFILIPPO 2001, pp. 150, 222, 297, 300. 9 10 *** Per mettere questi dati a confronto con altri, passiamo ora a considerare due città ben documentate del centronord, Lucca e Milano, che hanno infatti, in ambedue i casi, più documenti di Roma. Ho già accennato all’andamento dei riferimenti agli artigiani nei documenti di Lucca. Guardiamo ora con maggior dettaglio ai secoli GLI ARTIGIANI NEI DOCUMENTI ITALIANI DEI SECOLI XI E XII: ALCUNI CASI DI STUDIO 433 XI-XII per mettere a fuoco il confronto, in particolare al periodo dopo il 1050 quando le citazioni degli artigiani lucchesi cominciano lentamente a comparire, e il periodo dopo il 1140 quando sono più comuni. Se a Roma i primi artigiani nei documenti del X secolo sono denominati opifices, senza ulteriore definizione, a Lucca sono fabri. Questi dominano, nei nostri pochi riferimenti agli artigiani, fino al 1140, come testimoni e come proprietari di terra agricola nella piana di Lucca, attorno alla città, come pure qualche volta dentro le mura, ad esempio vicino alla chiesa di S. Alessandro nella parte occidentale della città. Chi sono questi ‘fabbri’?. Una traccia è in un testo del 1075, dove un faber risulta possedere una gualchiera a Brancoli, 10 km a nord di Lucca: dunque è in realtà un follatore. Il manipolo di pellettieri o coiai o sarti menzionati nei testi avrebbero potuto quindi senz’altro essere ugualmente chiamati ‘fabbri’. Non si tratta di un mondo dominato dai ferrai; la parola faber è qui indeterminata, come opifex a Roma. Un mestiere era forse già specificato, quello degli speziali, che appaiono in una famosa iscrizione del 1111 sulla cattedrale lucchese; questo è inoltre probabile per i fornai e i venditori di cibo, che appaiono con una certa regolarità con le proprie denominazioni; ma gli altri artigiani lucchesi erano probabilmente tutti ‘fabbri’ per molti decenni 13. A Lucca la gamma dei mestieri identificabili si allarga parecchio alla metà del XII secolo. D’allora in poi sappiamo di una trentina di vocazioni diverse, sebbene ci siano percentualmente molto meno menzioni che a Roma, rispetto alla quantità dei documenti. Qui spicca la lavorazione della pelle: calzolarii (i più numerosi), pellarii, coiarii, sellarii. Seguono i venditori di cibo, quindi gli addetti al lavoro tessile (soprattutto i tintori, che hanno una presenza pari ai calzolai). La metallurgia è meno presente, molto meno che a Roma, il che rafforza ulteriormente l’argomento appena messo in evidenza sulla mancata precisione della parola faber nella città toscana. Questi artigiani non sono visibilmente ricchi (lo stesso è vero anche a Roma); vendono, comprano e affittano pezzi di terra agricola a prezzi normalmente bassi. Solo alla fine del secolo – nel caso ad esempio del figlio di un pelliparius nel 1187 o di un fabbro nel 1194 – troviamo compravendite per somme più elevate. In generale, stando ai documenti lucchesi, fino al tardo XII secolo, abbiamo segni della lavorazione della pelle, che risulta più significativa della lavorazione della lana. In generale, l’attività artigianale è assai in sordina, se seguiamo le indicazioni delle fonti 14. Se guardiamo, invece, i registri notarili lucchesi degli anni ’20 del XIII secolo in poi, la situazione si rivela ben diversa. Lucca era ormai una città con un’industria tessile, sia di lana che di seta, molto marcata. Quest’industria si basava alle origini, e il fatto è importante, soprattutto sulle importazioni di stoffe già tessute: stando al notarile genovese (anche se le menzioni precoci al riguardo sono relativamente poche), i Lucchesi compravano stoffe di lana a Genova nel tardo XII secolo, le tingevano (la ‘scarlatta lucchese’) e rivendevano i panni rifiniti, ancora una volta attraverso il mercato genovese. Questo, di sicuro, spiegherebbe l’importanza dei tintori fra i mestieri tessili nei documenti della nostra città. Dalla fine del XII in poi, le stoffe importate includevano ormai la seta grezza, e Lucca nel XIII secolo doveva molta della sua forza economica a un monopolio sulla lavorazione e, soprattutto, la rifinitura della seta 15. Tuttavia, anche questo non avrebbe cambiato in modo così decisivo l’economica della città in generale. Ciò che era a mio avviso più importante era l’inizio della produzione della lana nella stessa Lucchesia, grazie alle greggi della Garfagnana, che divennero più numerose e importanti con lo sviluppo della transumanza in Maremma nel tardo XII e soprattutto nel XIII secolo; ormai, la lana era per lo più tessuta nella campagna lucchese e poi comprata dai pannarii cittadini e portata in città per una rifinitura che era già una specialità locale. In questo sviluppo vediamo un rapporto più organico fra città e campagna che agirebbe come base per una produzione di massa 15. Che Lucca fosse presto eclissata nell’industria della lana da Firenze, la quale seguì la stessa strada mezzo secolo dopo e più rapidamente, non cambia il discorso 16. Si sa che la produzione di massa delle città italiane era intimamente collegata con l’economia internazionale, perché le città dovevano vendere a un mercato più grande di quello della penisola per mantenersi. Quando Queste constatazioni derivano da una lettura dei documenti lucchesi editi e inediti fra il 1050 e il 1140, nell’Archivio arcivescovile di Lucca, il RCL (I, nn. 358, 627 per S. Alessandro), e AZZI VITELLESCHI 1903-1911 (I, n. 256 per il documento del 1075). Per l’iscrizione, vedi BARACCHINI, CALECA 1973, p. 57. 14 Qui il campione si basa sul RCL; III, nn. 1556 e 1723 per gli anni 1187 e 1194. 15 POLONI 2009, pp. 36-60. 16 Per la transumanza, vedi la bibliografia citata in WICKHAM 1988, p. 25; per dei commenti sui pannarii etc., vedi BLOMQUIST 2005, article VI. 13 434 CHRIS WICKHAM tuttavia anche la materia prima veniva da fuori, come per la lana a Lucca nel XII secolo, la produzione rimaneva per forza al livello del lusso, semplicemente perché i costi della materia erano più alti (l’industria della seta rimase, invece, sempre nella sfera delle produzioni di lusso, anche quando la seta lucchese si produceva in loco, alla fine del medioevo). Per l’industria della lana era la localizzazione della produzione della materia prima e un conseguente abbassamento dei suoi costi, che avrebbe permesso un cambiamento di livello nell’economica cittadina. Direi che le informazioni che abbiamo sull’espansione della transumanza delle greggi garfagnine indicherebbero che questo dovette avere luogo a Lucca verso o dopo il 1200. Questo vuol dire che una conclusione attendibile che si può trarre dai documenti lucchesi per il tardo XII secolo, anche se sono più opachi di quelli di Roma, è che Lucca era in quel periodo una città certamente prospera, ma con una prosperità non così tanto basata sull’attività artigianale, certamente meno di Roma. Se guardiamo la Lucca del tardo XII come una città che si prepara già per il decollo economico, imponiamo una teleologia che non è appropriata. A Milano, invece, era probabilmente diverso. Si ha già un’idea chiara della forza di Milano come centro produttivo e commerciale, specialmente nel ‘200, quando era di gran lunga la città più grande d’Italia, con un’industria sia tessile che metallurgica di scala internazionale. Nei documenti del XII secolo, però, non compare quasi niente di simile e qui dobbiamo considerare se quest’assenza sia semplicemente un problema di fonti. Cinzio Violante, come si è detto sopra, cercò di trovare i prodromi della grandezza economica di Milano già nel IX secolo, con menzioni di mercanti, come pure, con più sicurezza, nel X-XI secolo con un innalzamento dei prezzi della terra sia in città che nel suburbio. Non ci sono infatti molti dubbi che questo sia stato un periodo di una crescita almeno demografica e topografica nella città lombarda. Tuttavia, degli artigiani del periodo non sappiamo quasi nulla. I mercanti sono comuni nei documenti fino al 1060 circa, ma dopo quella data anche qui - il fatto è curioso - scompaiono 17. Questi mercanti trafficavano qualcosa in città, di sicuro, ma non sappiamo che cosa e quanto era prodotto in loco. Gli artigiani milanesi, sia in città che in campagna, cominciano a essere documentati in più dettaglio nell’ultimo quarto dell’XI secolo. Il fatto che molti siano visibili in un contesto rurale, come a Lucca, non è problematico, perché ogni cittadino italiano con un po’ di soldi comprava terra nel contado. Bisogna, tuttavia, dire che, a Milano, delle figure assai minori potevano possedere dei campi più distanti dalle mura cittadine rispetto a Lucca. Ad esempio, i figli di Bombello, tinctor di Milano, con la famiglia, allivellarono fra il 1128 e il 1135 della terra a Villamaggiore nel sud della diocesi milanese, 20 km dalla città; il cittadino milanese Pietro Millemerce, un nome assai suggestivo, prese terra in affitto a Vimercate, un borgo 30 km dalla città a nord-est, nel 1161. Queste sono, come al solito, operazioni fondiarie, non segni del funzionamento di un’economia artigianale; ma almeno sono segni di un rapporto economico fra città e campagna, che si estendeva notevolmente. Detto questo, è anche possibile che Pietro di Marchisio, tinctor della stessa Vimercate, che donò della terra alla chiesa locale nel 1137, potrebbe aver partecipato anche lui all’economia cittadina – proprio come sarebbe successo nel ‘200, quando il rapporto economico organico fra i borghi del contado e la città è ben documentato 18. Ho seguito i documenti editi di Milano in maniera sistematica fino al 1162, data della distruzione temporanea della città da parte di Federico Barbarossa e dell’inizio di un periodo di guerre, che cambiò parecchio il contesto economico della città. La metallurgia domina: la metà delle citazioni di artigiani nei documenti milanesi nel secolo prima della distruzione sono ferrai. Ferrarius è una parola più univoca di faber, dunque non dubiterei che abbia un significato preciso in questi testi, anche se manchiamo quasi del tutto della gamma di mestieri metallurgici più specifici che sono attestati a Roma 19. Questo concorda con l’importanza ben attestata della metallurgia a Milano nel ‘200. Gli artigiani tessili sono secondi nella lista, ma sono meno di un quarto del totale, malgrado la loro vasta importanza successiva. Il resto dell’elenco degli artigiani milanesi non fornisce particolari sorprese. I ferrai sono più spesso cittadini milanesi, gli altri mestieri sono più sparsi fra città e campagna. Come a Lucca e a Roma, nessuno fra que- 17 VIOLANTE 1953, pp. 41-70, 99-127, per i secoli dal IX al primo XI (pp. 47-49 elencano le poche citazioni degli artigiani del periodo, più della metà dei quali sono, come successivamente, dei ferrai). 18 Pergamene milanesi, XVII, nn. 39-40, 47, 52-53; XIV, nn. 30, 65. 19 Questo si basa su una lettura dei documenti milanesi fino al 1162 editi in VITTANI, MANARESI, SANTORO 1933-1969; Pergamene milanesi; e i documenti pubblicati in rete (che includono la maggior parte dei volumi di Pergamene milanesi ma anche altri fondi) su http://cdlm.unipv.it/. GLI ARTIGIANI NEI DOCUMENTI ITALIANI DEI SECOLI XI E XII: ALCUNI CASI DI STUDIO sti risulta essere notevolmente ricco. Sul rapporto fra gli artigiani e l’élite urbana di Milano, infatti, il massimo che si può dire è che una famiglia consolare dell’élite non aristocratica, i Zavatari, aveva un cognome probabilmente di mestiere dal 1130; questo forse dimostra che si poteva riuscire ad arricchirsi con la fabbricazione delle ciabatte già nell’XI secolo 20. La documentazione che abbiamo per Milano, dunque, attesterebbe un’economia artigianale che, prima del 1162, sembrerebbe incentrata più sulla lavorazione del metallo che su quella dei tessuti e sembrerebbe mostrare un rapporto fra città e campagna che si estendeva in una zona geografica più grande rispetto a quanto si può ricostruire per Lucca. Non si tratta di constatazioni molto complicate, ma sulla base delle evidenze disponibili c’è poco altro che si possa dire. Tuttavia, qui non è necessario guardare all’economia milanese con la visione teleologica di che cosa sarebbe successo un secolo dopo per capire che la presenza relativamente marginale dell’artigianato nei nostri documenti, in contrasto con la situazione a Lucca, è decisamente fuorviante. Già prima del 1162, la grandezza fisica della città, il suo notevole protagonismo politico, la precoce visibilità dei suoi mercanti (anche se questi scompaiono presto dai documenti), non avrebbero senso se non ci fosse stato un artigianato assai attivo, e per la verità molto più attivo di quello che compare nei documenti. D’altronde, persino nel ‘200, non sono le pergamene sciolte milanesi a dirci quello che sappiamo dell’industria cittadina, ma una gamma di altre fonti, che adesso esistono come mai prima. Si può concludere che, a Milano, semplicemente non era mai stato necessario specificare i mestieri quando le persone apparivano nei documenti; qui non possiamo essere sicuri di niente sulla base di tali citazioni. Può sicuramente darsi che la principale forza artigianale, verso diciamo il 1100, sia stata nel settore del ferro; la lenta emergenza delle evidenze per la transumanza lombarda attraverso il XII secolo ne è forse un altro segno, perché, come a Lucca, indicherebbe che la domanda per la lana non era ancora alta; ma non possiamo esserne sicuri 21. Se ci asteniamo dal senno di poi, dobbiamo semplicemente riconoscere che ci sono delle assenze, che rimarranno incolmabili se non ci sarà un’ar- 20 MANARESI 1919, n. 3; da aggiungere forse gli Scaccabarozzi, un’altra famiglia consolare, che presero in affitto un forno da pane in città nel 1143: Pergamene milanesi, XV, Capitolo Maggiore, n. 12; per la famiglia, FASOLA 1972. 21 Per la documentazione, GRILLO 2001, pp. 209 ss. E, infatti, i primi riferimenti ai fustagni milanesi provengono già dal primo registro notarile genovese – si tratta di due documenti in CHIAUDANO, 435 cheologia più attenta nella città lombarda. Ci sono, infatti, veramente pochi dati archeologici editi per Milano, tuttavia lo scavo di una bottega vicino alla cattedrale mostrerebbe una continuità di attività dal X secolo al XII, con un focolare apparentemente per la metallurgia nell’ultimo livello 22. Nondimeno, un focolare senza un contesto più ampio non ci porta molto oltre le conoscenze tratte dai documenti scritti. Per questa città bisogna decisamente aspettare nuovi scavi per saperne di più. *** Torniamo a Roma infine, perché queste assenze sono decisamente minori nell’urbs e adesso bisogna chiedersi perché. Roma è unica in Italia per la densità di riferimenti agli artigiani nei documenti di questi secoli. Ciò non vuol dire, comunque, che abbia avuto una struttura economica altrettanto unica. Ho altrove sostenuto che Roma era molto più ricca ed economicamente complessa di quanto non si tenda a presumere in questo periodo e che fino al 1100 circa era la città più grande d’Italia (e dell’Europa latina), prima che fosse sorpassata da Milano. Tuttavia, non è possibile sostenere che era veramente la sola città italiana ad avere una tale gamma di mestieri. A Roma, era semplicemente normale, specificare il mestiere di quelli che sottoscrivevano gli atti pubblici, come sicuramente non era a Milano. Il risultato è che abbiamo, anche tenendo conto dei problemi dell’evidenza discussi prima, una visione relativamente accurata dell’attività artigianale a Roma, già prima del 1200, come non abbiamo altrove. Vale, tuttavia, la pena di discutere anche le ragioni di questa differenza e qui penso che dobbiamo introdurre un altro elemento della società artigianale, non discusso prima, e cioè l’organizzazione dei mestieri. A Roma troviamo menzioni di più scolae di mestieri, che erano enti strutturati, a volte con priores o patroni citati nei testi: i candeggiatori già nel 978, gli erarii nel 1025, i fullones nel 1034, i muratores nel 1120; poi, nel 1192 (nel Liber Censuum), i fiolarii (cioè fabbricanti di oggetti di vetro), i ferrai della regione Colonna, i calderai, i carbonai e due scolae cia- MORESCO 1935, nn. 383, 678, dagli anni 1158 e 1160. Bisogna dire, comunque, che due documenti sui 1306 nel registro non sono prove di un’industria con uno sbocco ancora internazionale. MENANT 1993, pp. 249-287, data il vero decollo della transumanza lombarda (anche se non specificamente milanese) alla fine del XII secolo. 22 ANDREWS 1991. 436 CHRIS WICKHAM scuna di muratori e di bandonarii, che facevano bandiere 23. Queste menzioni sono casuali, ma danno l’idea di una strutturazione normale dei mestieri che senz’alcun dubbio si estendeva anche agli altri. Si è dibattuto parecchio sull’origine e sulla natura di queste scolae; la terminologia rimonta di sicuro all’impero romano/bizantino, ma questo vuol dire che le arti medievali hanno necessariamente avuto un’origine, senza successive soluzioni di continuità, sin nell’antichità 24? Si tratta di un dibattito vecchio e inutile. È invece sicuramente vero che ci sia stato un collegamento geneologico, fragile ma appena visibile, fra queste scolae e le arti del ‘300. Tuttavia la citazione del 1192 ci dà l’opportunità di meglio comprendere proprio il nostro periodo: l’identificazione del gruppo di mestieri, di cui stiamo parlando, proviene da un elenco papale di molte scolae, per lo più di dipendenti papali e non di artigiani, che ricevevano doni a Natale e a Pasqua da parte del papa. Le scolae alle origini erano senz’altro tutti gruppi cerimoniali, che facevano parte del rituale pubblico, denso e ben documentato, dell’urbs; solo lentamente – verosimilmente nel nostro periodo per almeno alcune, anche se non necessariamente tutte 25 – divennero anche arti nel senso socio-economico della parola. In ogni caso è almeno plausibile che questa identità anche cerimoniale abbia permesso di strutturare i membri di ciascun mestiere come gruppo, per cui poteva apparire utile specificare chi erano quando apparivano nei documenti. Questo valeva persino per mestieri di basso status, quelli del futuro ‘popolo minuto’, come porcari e vaccari, che appaiono pure loro con una certa regolarità. Questa spiegazione almeno trova un interessante corrispettivo nella discreta presenza di indicazioni di mestiere in due altre città ex-bizantine: Ravenna e Napoli. A Ravenna, i documenti editi evidenziano non solo gli artigiani, ma anche lì delle scolae di pescatori, calzolai e mercanti già nel X, e quella dei macellai nell’XI secolo. La scola dei calzolai aveva una sede fissa, citata più volte nei documenti 26. A Napoli, per la quale ci sono quasi altrettanti documenti che a Roma, non ci sono sco- lae documentate, ci sono però parecchi mestieri citati nei testi: in primo luogo sono attestati i ferrai, come a Milano. Si tratta di un gruppo consistente che è attivo negli affari fondiari; alcuni di loro sono più ricchi di qualsiasi altro artigiano romano, lucchese o milanese del nostro periodo. Ci sono poi dei mestieri connessi con il porto e ancora almeno trenta altri, inclusi alcuni (come i vasai, chiamati qui fictiliarii), che sono rarissimi altrove, ad eccezione di Roma. I mestieri di Napoli, come quelli di Ravenna, sono già visibili nel pieno X secolo, cioè prima di Roma, anche se, stando ai documenti, sono ancora una volta meno numerosi che nella città laziale. Rappresentano inoltre un problema per la storia economica di Napoli, in quanto la città campana era famosa per la produzione del lino, ma gli artigiani tessili sono pressoché assenti nei testi 27. Tuttavia, la notevole visibilità dei ferrai colpisce e anche qui mi sentirei di sostenere che ci troviamo di fronte, in una maniera ancora non ben indagata, ad un’eredità bizantina almeno per quello che riguarda la visibilità dell’artigianato. 23 WICKHAM 2013, pp. 189-190; per il 1192, vd. FABRE, DUCHESNE 1905, pp. 304-306. 24 Vedi la discussione critica della storiografia in LORI SANFILIPPO 2001, pp. 15-32. 25 La documentazione migliore per l’organizzazione interna delle scolae proviene dalla campagna, non dalla città, cioè dai salinarii e i piscatores delle saline e le lagune di Porto e da una scola di ortulani sulle via Portuense: vedi WICKHAM 2013, pp. 119-122, 135137. Ma queste sono probabilmente delle guide anche per delle scolae urbane; aggiungerei che il fatto che le scolae potevano essere sia rurali che urbane spiegherebbe anche il fatto che i porcari, etc., avrebbero potuto essere ugualmente organizzati. 26 Scolae: BENERICETTI 1999-2002, I, nn. 48, 77-78; III, nn. 213 (sede fissa), 248 (sede fissa), 276 (sede fissa); BENERICETTI 20032011, I, n. 33 (sede fissa); II, n. 178 (sede fissa); III, n. 298.15; V, n. 417; VII, n. 611. 27 FENIELLO 2011, pp. 171-172 (vasai); 194-202 (la documentazione per la fabbricazione del lino); 80-82, 219-223 (ferrai). *** Questi esempi di città portano in varie direzioni, anche al livello sintetico che ho scelto in questa sede. Vale comunque la pena di ripetere che senza uno studio accurato di ogni città sotto questo aspetto, che ancora manca, è difficile dire molto di più. Tutti gli esempi che ho proposto hanno i loro problemi, se cerchiamo di offrire un’interpretazione generale affidabile. Per capirli bene, inoltre, bisognerebbe sviluppare un modello economico per ciascuna città e per il suo rapporto con il territorio (e a volte anche con il mercato internazionale), un modello che, anche in questo caso, manca nel nostro periodo per quasi ogni città italiana e che sarebbe arduo – anche se necessario – costruire. Ho però provato a delineare un profilo socio-economico per Roma, Lucca e Milano che permetta di evidenziare degli elementi utili per un confronto fra queste città; ho inoltre proposto che la visibilità degli artigiani nei documenti romani riflette il livello della loro importanza in città e GLI ARTIGIANI NEI DOCUMENTI ITALIANI DEI SECOLI XI E XII: ALCUNI CASI DI STUDIO con i confronti qui messi in evidenza ho tentato di spiegare in quale contesto sociale potremmo vedere bene la gamma dei mestieri dell’urbs. Si può tentare anche una graduatoria della complessità: possiamo concludere che la gamma dei mestieri specializzati è ben visibile anche a Napoli e forse a Ravenna; un po’ meno a Lucca e molto meno a Milano, dove la documentazione al riguardo è decisamente fuorviante. Bisogna però insistere sull’eccezionalità della quantità di mestieri a Roma nel nostro periodo; la quasi totalità di quelli che si trovavano a Milano o a Firenze nel 1300 si riscontra a Roma già nel 1100. Sebbene, senza alcun dubbio, Roma nel 1100 aveva molti meno artigiani in ciascun mestiere di Milano nel 1300, come pure una minore complessità interna della maggior parte delle arti, ad ogni modo quasi nessun tipo di lavoro artigianale mancava nell’urbs nel nostro periodo ed anche quando c’è un’assenza nei documenti (come nel caso dei tintori) si può fornirne una spiegazione attendibile. A Roma, come si sa, non ci fu un sensibile decollo economico. Almeno quest’assenza, riconosciuta da tutti, ha fatto si che le distorsioni teleologiche che ho criticato sopra non siano presenti nella storiografia dell’urbs. Viceversa, altre distorsioni sono state più serie: infatti, fino a poco tempo fa era comune, sostenere che a Roma non ci fosse nemmeno una struttura commerciale, persino nel basso medioevo: era solamente la città dei papi, una città di consumi e nient’altro. Una generazione di studi sui secoli XIII-XIV, con studiosi come Isa Lori Sanfilippo, Jean-Claude Maire Vigueur e Marco Vendittelli, ha dimostrato come tale visione non era per nulla adeguata a questo periodo 28. L’economia romana del basso medioevo era un’economia con meno cambiamenti rispetto a città come Milano, ma aveva una complessità che colpisce comunque. Ora possiamo riconoscere questo anche per i secoli precedenti, perché i documenti per i secoli XI-XII dimostrano esattamente la stessa cosa. Detto questo, non è necessario preoccuparsi troppo del problema che Roma non abbia vissuto un decollo come quello di Milano; per capire Roma, basta capire la sua complessità interna. Si potrebbe certamente provare a continuare il confronto qui schizzato per comprendere la stabilità dell’economia dell’urbs nel periodo successivo, quando altre città vissero cambiamenti economici più radicali. Per farlo, sarebbe necessario ritornare sul rapporto con la campagna e con 28 LORI SANFILIPPO 2001; VENDITTELLI 2001; MAIRE VIGUEUR 2011, pp. 87-120. 437 altre città e borghi laziali, come ho accennato per Lucca e Milano. Tuttavia in questa sede una tale analisi non è essenziale, perché Roma dentro le mura è il tema principale del libro. Allora una cosa deve essere qui enfatizzata: Roma aveva una stabilità duratura nella sua struttura economica di base, nel rapporto fra offerta e domanda appropriata a una città grande, con una ricchezza locale sufficientemente diversificata, che poteva sostenere per lungo tempo una divisione del lavoro notevolmente complessa. Questo dimostra che non era necessario il mercato internazionale per sostenere una tale divisione del lavoro: una grande città era sufficiente. Questa è, infine, una conclusione che sarebbe utile applicare anche altrove, se vogliamo capire meglio la traiettoria dell’economia medievale italiana. Ringrazio Alessandra Molinari per una lettura serrata di questo testo. Bibliografia ANDREWS 1991 = D. ANDREWS, Lo scavo di piazza Duomo: età medioevale e moderna, in D. CAPORUSSO (a cura di), Scavi MM3: ricerche di archeologia urbana a Milano durante la costruzione della linea 3 della metropolitana 1982-1990. I. Gli scavi, Milano 1991, pp. 163-210. 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Il quadro cronologico del mio intervento è quindi in parte condizionato dallo stato della documentazione: tratterò di un periodo relativamente breve che inizia alla metà del XIV secolo e non va oltre il pontificato di Martino V (1417-1431). Gli storici in genere concordano nel far risalire a questo pontificato l’inizio del processo che porterà, nel corso del XV secolo, a delle significative trasformazioni tanto nel campo dell’economia che in quello delle strutture della società romana. La fine del pontificato di Martino V coincide inoltre, più o meno, con la scomparsa di quello che, fino a quel momento, era stato, almeno a giudicare dai registri che ci sono pervenuti, il più attivo e il più ricercato tra i notai in attività a Roma in quest’epoca. La morte, a più di ottant’anni, di Nardo Venettini non ha evidentemente niente a che fare con i grandi cambiamenti annunciati dal pontificato di Martino V, ma, per uno studioso che si è dedicato a lungo ai suoi registri, la sua scomparsa può suonare come la campana a morto di un’intera epoca 2. A Roma, come ovunque, i notai sono ben lontani dal fare luce allo stesso modo su tutti gli strati della popolazione. È ben noto che, in tutti i luoghi e in tutte le epoche, i notai preferiscono la compagnia dei ricchi a quella dei poveri, e questo è d’altra parte inevitabile perché una buona parte della loro attività consiste nel redigere degli atti che trattano di beni fondiari, di cui i ricchi sono evidentemente molto più forniti che gli altri strati della popolazione. Tuttavia anche le persone di condizione più modesta non possono evitare, di tanto in tanto, di ricorrere ai servizi di un notaio. Non c’è da stupirsi quindi se, nella Roma della fine del Medioevo, dove gli strati popolari rappresentano tra i tre quarti e i nove decimi della popolazione, la clientela di ogni notaio si compone, in una proporzione che varia molto da un notaio all’altro, di personaggi appartenenti a quella categoria della popolazione che chiamerò il popolo dei mestieri e sulla quale verterà la maggior parte del mio intervento. Definire i confini di questa categoria non presenta particolari problemi se ci si attiene a dei criteri puramente professionali: essa comprende tutti coloro, uomini e donne, che praticano un’attività manuale, sia nel campo della vendita al dettaglio che in quella della produzione d’oggetti d’artigianato. Ne sono evidentemente esclusi i grandi proprietari fondiari e gli imprenditori agricoli, i grandi mercanti e i banchieri-cambiavalute, gli uomini di legge e i notai, anche se la posizione sociale di alcuni 1 Per il periodo anteriore al 1150, Ch. Wickham non ha potuto far altro, per analizzare il grado di sviluppo e di complessità dell’economia romana, che appoggiarsi alle citazioni di artigiani e commercianti nei documenti conservati nei fondi archivistici delle chiese. Queste citazioni possono certamente dare un’idea dell’economia romana di quest’epoca ma non permettono di rispondere alle domande che mi pongo in questo articolo, anche se è vero, come sottolinea giustamente lo stesso Wickham, che i notai di XI e XII secolo hanno l’abitudine di menzionare la professione dei testimoni degli atti rogati molto più frequentemente dei loro colleghi del XIV e XV secolo. Cfr. WICKHAM 2013, pp. 172-206. 2 Per i riferimenti archivistici dei notai citati in questo articolo cfr. LORI SANFILIPPO 2007, pp. 143-148. 440 JEAN-CLAUDE MAIRE VIGUEUR notai appare molto più vicina, a ben guardare, a quella del popolo dei mestieri che a quella delle classi più elevate. Pur così delimitata, la categoria del popolo dei mestieri è ben lontana da essere omogenea. Quel che colpisce è anzi la sua grande eterogeneità, che mi propongo di analizzare, nella prima parte del mio studio, sulla base di tre criteri assai semplici ma tuttavia capaci di mettere in luce qualcuna delle differenze più significative tra i principali gruppi professionali: analizzerò innanzitutto il numero delle persone che li compongono, e quindi il loro peso numerico nell’economia urbana, la loro distribuzione nello spazio urbano, che si collega al loro grado di concentrazione o dispersione topografica, e infine il tipo di organizzazione di cui si sono dotati. Queste differenze sono evidentemente in rapporto con il livello di ricchezza al quale possono aspirare i membri delle diverse professioni e hanno una incidenza diretta sulla possibilità di migliorare la loro posizione sociale. Queste differenze non sono tuttavia tali, e questo sarà il secondo punto della mia trattazione, da mettere in discussione la coesione, all’interno di ciascuna di queste professioni, di un vasto gruppo di artigiani e di commercianti, che beneficiano tutti di una certa agiatezza, anche se di un livello solitamente modesto, partecipano tutti di un medesimo stile di vita e restano legati al loro ambiente di origine anche quando riescono a raggiungere un livello di ricchezza paragonabile a quello delle classi più elevate. Si tratta, ben inteso, di una condizione privilegiata che riguarda, in ciascuna categoria professionale, solo un numero limitato di artigiani e commercianti che svolgono il ruolo di piccoli imprenditori. Ma quale è la condizione di tutti gli altri, di tutti quelli che lavorano come salariati agli ordini di un padrone al quale offrono il loro servizio per un periodo o per un lavoro specifico, come avviene in settori interi dell’economia romana come ad esempio i trasporti o lo sfruttamento dei grandi possedimenti fondiari? I notai sono piuttosto avari di informazioni sul loro conto, e dunque noi non sappiamo granché delle loro condizioni di vita. Il solo punto che emerge con una certa chiarezza dai registri notarili è la necessità in cui si trova un buon numero di essi di far ricorso con una certa regolarità al credito, il che non vuol però necessariamente dire, come si vedrà nella terza parte della mia esposizione, che essi vivano in uno stato di totale precarietà. SELLA 1965. 4 LORI SANFILIPPO 2001. La maggior parte dei dati che utilizzerò 3 I mestieri a Roma: uno sguardo d’insieme Sommando tutti i termini utilizzati dai notai per indicare la professione dei loro clienti o dei testimoni degli atti, si arriva a un totale di un centinaio di nomi di mestieri. Una decina di questi termini non figurano né nel Ducange né nel Sella 3, e confesso che non ho nessuna idea di quale tipo di attività si nasconda sotto questi nomi misteriosi. Gli altri novanta mestieri non impegnavano evidentemente tutti lo stesso numero di lavoratori. Il mio primo obiettivo, nelle pagine che seguono, sarà quindi quello di valutare il numero delle persone che lo praticavano. Per diversi motivi, ma innanzitutto per lo stato estremamente lacunoso della documentazione notarile pervenutaci, per molte di queste professioni si tratta di una operazione assai aleatoria e i cui risultati potranno essere rimessi in discussione dall’analisi di fonti che finora non ho potuto consultare. Per il momento non ho nulla di meglio da offrire al lettore, che quindi si dovrà accontentare. Non mi attarderò a giustificare la scelta che ho fatto di raggruppare in sette grandi settori di attività la quasi totalità dei mestieri menzionati nei registri, se non per dire che mi è sembrato un sistema di classificazione molto più adatto alle caratteristiche del sistema economico romano della griglia fornita dal sistema delle corporazioni, se non altro perché queste ultime lasciano da parte interi settori dell’economia. Preciso infine che una buona parte degli elementi sui quali mi baso per tentare di valutare gli effettivi dei differenti mestieri figurano già nel saggio sulle corporazioni romane di I. Sanfilippo, che fornisce inoltre per ciascuna di esse una gran quantità di informazioni preziose, ma che non ho potuto prendere in considerazione qui per non perdere di vista il mio obiettivo principale 4. Sempre per le stesse esigenze di chiarezza e di efficacia, e anche in considerazione dello spazio a disposizione, esporrò i dati ottenuti su ciascuno dei sette gruppi di mestieri in modo schematico, per non dire telegrafico, riservandomi di essere più discorsivo al momento di trarre le conclusioni. La produzione tessile La produzione delle stoffe di lana è senza dubbio, di tutte le attività manifatturiere romane, l’unica che esporti parte della sua produzione fuori Roma. Niente a che vedere, naturalmente, con la grande industria lain questo articolo sono già presenti nel libro della Lori Sanfilippo, il che non deve stupire in quanto abbiamo lavorato a partire dai medesimi registri notarili. IL MONDO DEI MESTIERI A ROMA niera fiorentina che esporta i suoi tessuti di lusso in tutto l’Occidente e anche oltre. Dalle botteghe romane escono solo delle stoffe di qualità mediocre che non trovano mercato, fuori Roma, che nei villaggi del Lazio e forse in Abruzzo. La produzione del lino non era certamente sconosciuta ai Romani, che riservavano alcuni dei loro possedimenti destinati a cultura intensiva alla coltivazione di questa pianta, ma non sappiamo nulla né sullo svolgimento delle operazioni che compongono il ciclo produttivo dei tessuti di lino né sulla manodopera incaricata di svolgerle. Sarebbe strano che a Roma si ignorasse la produzione del cotone, ma ho trovato nei registri notarili una sola menzione di un bombaciarius (lavoratore del cotone) e quindi non posso dirne nulla. L’industria della lana, o almeno le botteghe dei maestri lanaioli, sembra essere stata fortemente concentrata in due rioni della città, S. Eustachio e Pigna 5. Una ventina di imprenditori lanaioli sono infatti menzionati nel solo registro che ci è pervenuto di un importante notaio del rione S. Eustachio, Staglia, mentre la menzione di lanarolus è molto meno frequente nelle minute degli altri notai, ad eccezione di quelle dei Serromani, una famiglia di notai installata nel rione Pigna. Una disposizione statutaria del 1425/6 parla di 47 mercanti lanaioli chiamati a votare sull’opportunità di modificare alcuni statuti della loro arte, il che lascia supporre a Roma non ci fossero in quest’epoca più di una cinquantina di capomastri lanaioli 6. Il problema è che la produzione dei tessuti di lana comprende, lo sappiamo bene, tutta una serie di operazioni alcune delle quali, come la cardatura, la lavatura, la follatura, la tintura e la stiratura, erano, in molte città, quasi tutte ‘esternalizzate’ e dunque affidate a degli artigiani indipendenti che disponevano di loro proprie installazioni situate spesso in periferia o addirittura fuori dalle città. Accadeva lo stesso anche a Roma? Penso di si, ma la mia convinzione si basa più sul volume degli acquisti di lana effettuati dai più importanti maestri lanaioli del rione S. Eustachio che sulle rarissime apparizioni di questi artigiani ultra specializzati nei registri notarili. Se le cose stanno così, dobbiamo ammettere che l’industria della lana doveva impiegare un centinaio almeno di artigiani indipendenti, ai quali bisogna aggiungere la cinquantina di maestri lanaioli e un numero certamente molto più alto di salariati che lavoravano nelle loro botteghe. La più antica versione degli statuti dell’ars lanarolorum che ci è giunta risale al 1327. Tutti i mestieri che 5 6 Ibidem, p. 150. Ibidem, p. 151. 441 concorrono alla produzione dei tessuti di lana rientrano comunque sotto la giurisdizione dei consoli dell’Arte, eletti dai soli maestri lanaioli, che sono anche i soli membri di pieno diritto dell’Arte. Nulla negli statuti impedisce agli artigiani autonomi e specializzati in una o nell’altra delle fasi del processo di fabbricazione delle stoffe di dotarsi di una propria organizzazione, ma sembra che solo i fulloni e i tintori abbiano dato vita a due associazioni professionali, che sono restate peraltro subordinate all’Arte dei maestri lanaioli. La produzione e la lavorazione dei metalli Sotto la penna dei notai, lo stesso termine – ferrarius – viene impiegato per indicare sia coloro che lavorano il minerale di ferro per ricavarne il metallo, sia quelli che utilizzano il metallo uscito dalle fornaci per fabbricare oggetti e utensili di ogni tipo. I registri notarili attestano l’esistenza di un gran numero di ferriere quasi tutte localizzate nella pianura a est di Roma, nella zona dei Castelli, oppure nel territorio di città e villaggi come Tivoli, Palestrina e Ninfa. Esse appartengono a degli enti religiosi, tra i quali compare in prima fila il monastero di Grottaferrata, proprietario di vaste distese di boschi e di corsi d’acqua, ma anche a dei ricchi romani, e sono di solito locate a degli imprenditori che lavorano del minerale estratto sul posto o importato dall’isola d’Elba. Le officine sono sempre poste su dei corsi d’acqua che producono l’energia motrice necessaria al funzionamento delle ventole idrauliche e, se possibile, non lontano dalle foreste dove operano i carbonarii che riforniscono le fornaci di carbone di legna. All’interno delle mura i notai attestano la presenza di fabbri in tutti i quartieri della città, ma mostrano anche una loro forte concentrazione nei rioni S. Angelo, Campitelli e Ripa. È impossibile stabilirne con precisione il numero totale, che tuttavia deve essere compreso tra i cento e i centocinquanta. Nessuno di essi sembra aver avuto i mezzi per lanciarsi nella conduzione di un altoforno e di assicurarsi così il controllo dell’approvvigionamento del ferro per la sua bottega. Si può concludere che la professione non consentiva l’accumulo di grandi ricchezze, il che è ampiamente confermato da quel che sappiamo del patrimonio dei fabbri, che raramente possedevano più di qualche vigna e di una o due case. L’esistenza di un’arte dei ferrarii è attestata per la prima volta da un atto del notaio Capogalli nel 1378 7. 7 Un notaio romano del Trecento 1994, n. 213, pp. 164-165 (= Notaio Francesco di Stefano Capogalli). 442 JEAN-CLAUDE MAIRE VIGUEUR È molto probabile che, insieme ai fabbri, l’ars ferrariorum riunisse tutti i mestieri specializzati nella lavorazione anche degli altri metalli, oltre al ferro, o nella fabbricazione di tipi particolari di oggetti metallici. Questi mestieri erano in quest’epoca così numerosi come saranno in epoca moderna, quando gli statuti del 1690 rivelano l’esistenza, all’interno dell’arte e insieme ai fabbri, di tredici altre associazioni di mestiere? 8 È lecito dubitarne, ma si avrebbe torto di considerare come trascurabili le rare attestazioni di fabbricanti di corazze, spade, lance, elmi, dardi o calderoni che si incontrano nei registri notarili: ciascuna di queste professioni non avrà, senza dubbio, contato che un numero molto limitato di officine, ma sommandole tutte dobbiamo rivalutare in modo sostanziale il numero degli effettivi dell’ars ferrariorum. I mestieri del cuoio e dell’abbigliamento Riunisco sotto questo titolo un gruppo di mestieri ben distinti tra di loro, ma di cui solo i due più importanti, almeno per numero di membri, dispongono di una loro specifica corporazione: i calzolai e i sarti, che sono chiamati a Roma con il termine sutores. Gli altri mestieri sono specializzati in una o nell’altra delle fasi di lavorazione della pelle: si tratta dei vaccinarii, che sono insieme cuoiai e conciatori, dei pellarii, di cui non si conosce l’esatta natura delle lavorazioni che effettuavano sulle pelli, e infine dei pelliparii o pellicciai. Ciascuno di queste tre professioni non conta che qualche decina di botteghe. Mentre un buon numero di vaccinarii e di pellarii si concentrano nel rione Arenula, non lontano dal Tevere dove sono localizzate le vasche necessarie per la pulizia e la conciatura delle pelli, i pellicciai sembrano mostrare una leggera preferenza per il rione Pigna, almeno a giudicare dalla frequenza con cui appaiono nei registri dei notai che operano in questo rione, come Staglia e i Serromani 9. Calzolai e sarti si ritrovano invece in tutti i quartieri della città, e questa dispersione nello spazio urbano, insieme al fatto che non si conoscono che pochi esempi di calzolai e sarti che si siano arricchiti con l’esercizio della loro professione, fa ritenere che per lo più si contentassero di lavorare per una clientela di vicinato che non offriva loro l’occasione di fare grandi profitti. Sembra tuttavia che la situazione di un certo numero di sarti sia migliorata considerevolmente, a partire dalla fine del XIV secolo, gra- 8 9 LORI SANFILIPPO 2001, p. 223. Ibidem, pp. 300-301. zie al ritorno a Roma della Curia e, quindi, alla presenza in città di una clientela particolarmente esigente riguardo al lusso nel vestire. Quanti potevano essere i sarti e i calzolai nella Roma della fine del Medioevo? Come per la maggior parte delle professioni, non si dispone di nessuna cifra precisa, ma a giudicare dal numero di calsolarii e sutores di cui fanno menzione i registri notarili, non sarei stupito se ciascuno di questi due mestieri contasse tra i centocinquanta e i duecento piccoli imprenditori. Questi numeri non potevano non riflettersi su quelli delle loro due corporazioni, che dovevano pertanto rientrare nel gruppo di testa delle corporazioni romane, insieme agli imprenditori agricoli (bobacterii) e ai macellai, anche se erano evidentemente ben lontani dall’avere la stessa importanza economica. I registri menzionano talvolta l’esistenza di sarti specializzati nella realizzazione di questo o quell’altro indumento, come i farsetti e i pantaloni. Facevano parte anch’essi dell’Ars dei sarti? È più che probabile, ma in assenza degli statuti e di ogni altra fonte in grado di dare informazioni sulle arti dei sarti e dei calzolai, è impossibile dire di più. I mestieri del costruire Come abbiamo visto per le professioni relative all’abbigliamento, tutte le attività connesse con quella che oggi chiameremo l’industria dell’edilizia appartengono a due corporazioni nettamente distinte: da un lato l’arte dei marmorari, dall’altro quella dei muratori e dei carpentieri. Come indica il nome stesso, i primi sono specializzati nella lavorazione di una materia prima assai costosa e dalla quale ricavano dei prodotti destinati sia a essere venduti sia a essere utilizzati dagli stessi marmorari per decorare o ornare edifici sia laici che religiosi. I marmorari non possiedono tutti lo stesso grado di qualificazione. La maggior parte di essi esegue un lavoro che si avvicina a quello di uno scalpellino, ma con delle particolarità per quanto riguarda la qualità e la provenienza del materiale utilizzato: questo materiale proviene essenzialmente dai monumenti antichi, che era necessario sfruttare con oculatezza, sia per non essere colpiti dalle sanzioni delle autorità comunali 10, sia per sfruttare al meglio le risorse disponibili, che non erano inesauribili. Il marmorario utilizza il materiale che ha personalmente recuperato per realizzare dei prodotti in marmo di varie forme e dimensioni che serviranno 10 Archivio storico dell’Accademia di San Luca, Statuti, 1, 18v19r e LORI SANFILIPPO 2001, p. 232. IL MONDO DEI MESTIERI A ROMA per la costruzione, e specialmente per la decorazione di edifici di diverso tipo. Molti di questi pezzi sono decorati con motivi ornamentali la cui esecuzione richiede capacità che si avvicinano più a quelle di uno scultore che a quelle di un semplice scalpellino. È il caso dei pezzi più decorati e più preziosi come per esempio i capitelli, le balaustre, le lapidi funerarie, le lastre di marmo decorate di motivi vegetali o animali, i pulpiti, gli amboni e tanti altri pezzi che fanno parte dell’arredo liturgico delle chiese. Si può obiettare che la domanda, in questo settore dell’attività economica, deve aver subìto un forte calo nel XIV secolo a causa dell’allontanamento della corte pontificia e in conseguenza del Grande Scisma che ha pesantemente colpito le risorse del clero. Questo è senza dubbio vero per quel che riguarda le chiese, ma molto meno se si considera la domanda che proviene dai laici, che sembrano al contrario assai desiderosi, a seconda delle loro capacità, di ingrandire le proprie case e di abbellirle con un impiego massiccio dei materiali più preziosi, a cominciare dal marmo. Se le cose stanno così, se ne deve concludere che l’arte dei marmorari, lungi dall’essere riservata a quella manciata di artisti ai quali si può attribuire la paternità di questa o quell’altra delle opere d’arte conservate nelle chiese romane, doveva riunire almeno qualche decina di piccoli artigiani, dei quali, ovviamente, solo qualcuno può essere considerato un vero artista. Molto diversa è la situazione per quanto riguarda i numeri dell’arte dei muratori e dei carpentieri. Innanzitutto perché le citazioni di muratores sono infinitamente più numerose nei registri notarili di quelle dei marmorarii, e inoltre perché la corporazione riunisce, oltre ai muratori e ai carpentieri, anche altri mestieri sottoposti alla giurisdizione esclusiva dei consoli dell’arte. Si tratta dei calcarari, dei cavatori e mercanti di pozzolana oltre che dei produttori di laterizi. Come già nel caso dei marmorari, anche la localizzazione di questi mestieri non sembra obbedire ad alcuna regola particolare, e li si trova dispersi ai quattro angoli della città, ed anche, nel caso dei calcarari e dei cavatori di pozzolana, della campagna circostante, che pullula di siti adatti alla produzione della calce e della sabbia. Gli statuti della corporazione, che risalgono al 1397, non offrono nessuna indicazione sul numero degli iscritti, e quindi bisogna ancora contentarsi di una stima grossolana fondata esclusivamente sull’occorrenza di questi 11 12 MODIGLIANI 1998, pp. 29-55. MAIRE VIGUEUR 2010, pp. 127-147. 443 differenti mestieri nei registri notarili: con un centinaio di attestazioni, i muratori costituiscono senza dubbio la metà degli effettivi dell’ars, ai quali si devono aggiungere una cinquantina di carpentieri e un numero più o meno equivalente di artigiani specializzati nella produzione della calce, della sabbia e dei laterizi, che porta a un totale di circa duecento artigiani per i mestieri relativi all’ars muratorum. Notiamo per inciso che, a giudicare da quel poco che sappiamo dei loro patrimoni, nessuno di questi artigiani sembra essersi veramente arricchito con l’esercizio della sua professione. Il commercio al dettaglio Non c’è bisogno di osservare che gli artigiani di cui parliamo commercializzavano essi stessi una parte più o meno importante della loro produzione. Come è ancora oggi usuale in molte delle società tradizionali, ogni bottega svolgeva anche la funzione di negozio e ciascuno era libero di acquistare sul posto gli articoli prodotti. A Roma esisteva per gli artigiani anche un’altra opportunità per vendere i propri prodotti. Tutti i sabati si teneva alle pendici del Campidoglio un immenso mercato aperto a tutti gli artigiani della città, che erano obbligati, in quel giorno, a tenere chiuse le proprie botteghe, in modo da offrire ai romani la più grande scelta possibile di prodotti di artigianato. Più che di un mercato, si trattava di una vera e propria fiera, dalla quale erano escluse le derrate alimentari 11. Per queste esistevano altri circuiti di commercializzazione, che cominceremo ad esaminare prima di passare a tre commerci che sembrano anch’essi essere stati esclusi dal mercato del sabato: i gioiellieri, i droghieri e i merciai. Di tutti i mercanti di generi alimentari, quelli di gran lunga meglio conosciuti sono i pescivendoli e i macellai, che figurano in gran numero tra la clientela dei due notai che hanno lasciato le più belle serie di atti giunte fino a noi. Venettini operava nel rione Monti, a due passi dal mercato in cui si concentrava la maggior parte dei banchi e delle botteghe dei macellai della città, mentre la bottega o il portico dove i due Scambi, padre e figlio, avevano l’abitudine di operare, si aprivano direttamente sul grande mercato del pesce di S. Angelo in Pescheria. Grazie a Venettini e ai due Scambi noi disponiamo per queste due professioni di una massa di informazioni senza paragoni rispetto a quelle relative agli altri mestieri, e io ne ho fatto largamente uso in alcuni dei miei precedenti lavori su Roma 12. Ecco quel che possiamo trarne riguardo ai tre criteri che ci sono ormai divenuti familiari: 444 JEAN-CLAUDE MAIRE VIGUEUR Per quanto possa sembrare strano, considerando l’importanza relativa di queste due professioni nella società contemporanea, i mugnai sembrano essere stati a Roma nettamente più numerosi dei fornai. Questi ultimi fanno solo delle sporadiche apparizioni nei registri notarili e la prima attestazione della loro ars non è anteriore al 1425 14. Sappiamo invece che all’interno di Roma i mulini pullulavano sulle due rive del Tevere, mentre, al di fuori delle mura, altri mulini utilizzavano la forza motrice dei numerosi corsi d’acqua, o marrane, che solcavano la Campagna romana. A seconda che lavorassero nei mulini galleggianti sul Tevere o nei mulini terrestri della Campagna romana, i mugnai facevano parte di due corporazioni diverse, e i membri della prima dovevano essere molto più numerosi di quelli della seconda. Tenendo conto di questo squilibrio, e sapendo che la corporazione dei mugnai ‘di terra’ comprendeva, nel 1408, una decina di membri 15, si può stimare che gli effettivi totali della professione superasse largamente le cinquanta unità. Se il numero dei fornai è veramente così basso come suggerisce la rarità delle loro attestazioni nei registri notarili, questo vuol dire che i Romani hanno mantenuto a lungo l’abitudine di prepararsi e cuo- cersi da sé il pane, cosa che non stupisce quando si sa che esistevano, in ogni quartiere, un gran numero di forni accessibili a tutti gli abitanti del vicinato 16. Questa situazione non poteva che trasformarsi molto rapidamente nel corso del XV secolo a causa dello sviluppo della burocrazia pontificia e dell’afflusso di stranieri in una Roma divenuta la capitale di un grande Stato regionale, e non c’è quindi da stupirsi nell’assistere, nei primi decenni del XV secolo, a una moltiplicazione del numero dei forni, spesso gestiti da tedeschi, così come alla creazione di un’ars fornariorum et panacteriorum. Nulla ci indica tuttavia che questi nuovi venuti abbiano avuto la tendenza a concentrarsi in quei quartieri che accoglievano la maggior parte dei membri della curia e gli uomini d’affari gravitanti intorno al papato, come Ponte e Parione, e si può escludere che questa professione abbia conosciuto delle forme di concentrazione topografica, cosa che la distingue dai mugnai, obbligati ad installarsi lungo il corso del Tevere e degli altri corsi d’acqua che potevano fornire la forza motrice in grado di far funzionare i loro mulini. Visti attraverso la lente dei registri notarili, gli orefici, i droghieri e i merciai presentano un certo numero di tratti in comune, che senza dubbio superavano, agli occhi dei contemporanei, quelle che erano le particolarità di ciascuna delle tre professioni che, ovviamente, fabbricavano e vendevano prodotti o merci ben diverse. È probabile per esempio che gli orefici fabbricassero da sé la maggior parte, o forse la totalità, dei gioielli e degli altri oggetti, più o meno preziosi, che vendevano, mentre i droghieri e i merciai non producevano, nelle proprie botteghe, che una parte molto più limitata della vasta gamma di merci che mettevano in vendita. Per quanto mi riguarda preferisco usare il termine ‘droghiere’ piuttosto che ‘speziale’ per designare coloro che i nostri notai chiamano ‘spetiarii’, poiché essi svolgevano la funzione di droghieri e venditori di chincaglierie tanto quanto quella di speziali e farmacisti che producevano le proprie medicine 17. Più difficile è farsi un’idea precisa di quel che poteva offrire la bottega di un merciaio romano, anche se è chiaro che vi si trovavano molte più cose degli articoli per signora esposti nelle vetrine delle mercerie dei tempi delle nostre nonne e delle nostre bisnonne. Il merciarius forniva in effetti ai suoi clienti non solamente tutta una serie di prodotti 13 A Piazza Giudea nel rione S. Angelo: cfr. MAIRE VIGUEUR 2010, p. 129. 14 LORI SANFILIPPO 2001, p. 333. 15 MAIRE VIGUEUR 2010, p. 150. 16 BROISE, MAIRE VIGUEUR 1983, p. 123; LORI SANFILIPPO 2001, p. 334. 17 Sulla varietà dei prodotti fabbricati e venduti dagli spetiarii, cfr. AIT 1996, pp. 38-42, 85-94. - numero: tra quaranta e cinquanta pescivendoli nel mercato di S. Angelo, tra i cento e i centocinquanta macellai in tutta la città; - distribuzione nello spazio urbano: grande concentrazione nel solo mercato di S. Angelo per i pescivendoli, presenza di numerosi mercati per la carne, dei quali almeno due specializzati nella carne di bufalo (presso la chiesa di S. Cecilia, nel rione Trastevere) e nella carne kosher 13, ma con una netta prevalenza del mercato di Arcanoè, installatosi tra i resti del foro di Nerva, dove si raccoglie la maggior parte dei macellai della città e da cui provengono alcuni dei migliori clienti di Venettini; - Artes: ciascuna delle due professioni possiede la sua propria corporazione, ma sembra che l’ars pescivendolorum comprendesse solo i pescivendoli del mercato di S. Angelo, mentre quella dei macellai comprendesse anche dei mestieri dagli effettivi molto più limitati e specializzati nella vendita di derrate particolari, come per esempio i mercanti del lardo. IL MONDO DEI MESTIERI A ROMA per l’abbigliamento personale, come le cinture, le borse e ogni tipo di copricapo, ma anche le selle, i finimenti e tutto quello che serviva per l’equipaggiamento delle cavalcature. L’esistenza di una ars dei merciai è attestata dall’inizio del XIV secolo, mentre bisogna aspettare il 1406 per trovare la prima attestazione di una corporazione degli spetiarii e il 1432 per quella degli orefici. Nel 1317 il vicario del re Roberto d’Angiò, titolare dal 1313 della carica di senatore, conferma quella che è, senza dubbio, la prima redazione degli statuti dell’arte dei merciai. Il testo si conserva ancora oggi in un registro che contiene anche i testi di altre rubriche, approvate nel 1375, insieme con due liste di membri dell’arte, datate tutte e due allo stesso anno 1375, e che presentano poche differenze tra di loro, poiché 36 dei 38 nomi che figurano nella prima di queste liste si ritrovano anche nella seconda, che ne contiene 42 18. Tenendo conto degli assenti, sempre assai numerosi in questo genere di liste, si può stimare che il numero dei merciai attivi a Roma superasse largamente la cinquantina. A giudicare dal numero di orefici e spetiarii che si trovano nei registri notarili, gli effettivi di queste due professioni non dovevano essere molto inferiori a quello dei merciai, ciascuna di esse comprendente quindi un numero di botteghe compreso tra le quaranta e le cinquanta. L’unica di queste tre arti che sembra avere un alto livello di concentrazione topografica è quella degli orefici, che mostrano una netta preferenza per i dintorni della chiesa di S. Lorenzo in Damaso, situata in prossimità di una strada, la via Mercatoria, percorsa, nelle grandi occasioni, da un flusso continuo di pellegrini provenienti da S. Pietro. Per quanto riguarda gli spetiarii, si può certamente osservare una maggiore densità delle loro botteghe in prossimità delle tre principali aree commerciali della città, nei pressi di S. Maria sopra Minerva, di S. Angelo e a Campo de’ Fiori, ma senza che questo comporti la loro scomparsa nel resto dello spazio urbano, dove i notai attestano regolarmente la loro presenza. In una delle due liste del 1375, che registra il rione di residenza di 38 merciai iscritti all’arte, dieci di essi esercitavano la loro professione nel rione Monti e otto nel rione Ponte, due quartieri molto distanti l’uno dall’altro, mentre il resto dei merciai è ripartito uniformemente negli altri quartieri, con la sola eccezione dei rioni Trevi e Campo Marzio, dove ne è attestato uno Statuti delle arti 1885, pp. 000-000. Ibidem, p. 00. 20 MAIRE VIGUEUR 2010, pp. 147-151. solo 19. Queste tre professioni permettono a una buona parte di coloro che le esercitano, a condizione, come sempre, di essere proprietari delle proprie botteghe e dei propri strumenti di lavoro, di raggiungere un’agiatezza che li pone un po’ al di sopra del livello medio degli artigiani e dei commercianti. Diversa è la situazione se si prende in considerazione, per ciascuno di questi tre mestieri, il numero di coloro che si sono realmente arricchiti, arrivando a possedere, alla fine della loro vita, un patrimonio di un valore dieci volte superiore a quello posseduto all’inizio della carriera: si può vedere allora che è la professione del droghiere a offrire le migliori possibilità di arricchimento, seguita dalla oreficeria, mentre la merceria si trova in posizione molto più distante 20. I servizi La parola servizi può evidentemente fare riferimento a realtà ben diverse. Gli storici del Medioevo parlano frequentemente di servizi sociali per riferirsi a quelle istituzioni che forniscono aiuto alle classi più povere della popolazione. Io utilizzerò qui questo termine per riunire sotto una stessa rubrica un certo numero di professioni che non hanno a che fare né con l’artigianato né con il commercio, nel vero senso della parola, e sulle quali noi siamo per lo più assai male informati. È questo il caso dei lavori specializzati nell’igiene e nella cura del corpo: barbieri, medici e chirurghi compaiono molto raramente nei registri notarili, e per lo più come testimoni piuttosto che come attori di un qualche negozio giuridico. Aggiungendo che i barbieri sembrano essere stati esclusi dal sistema delle corporazioni, e che non si sono conservati, per la nostra epoca, gli statuti del collegio dei medici, la cui prima attestazione non è anteriore al 1425 21, si comprenderà come sia impossibile avanzare ipotesi sul numero e la distribuzione topografica dei barbieri e dei medici che esercitavano la loro professione nella Roma del XIV e XV secolo. Quello che è certo, e che non sorprenderà nessuno, è che i medici occupavano nella scala sociale una posizione infinitamente superiore a quella dei barbieri, come si evince tanto dalle dimensioni del loro patrimonio quanto dal livello delle loro relazioni sociali 22. Altre professioni molto mal conosciute sono quelle degli albergatori e dei tavernieri. Benché i due mestieri 18 19 445 21 22 LORI SANFILIPPO 2001, p. 417. Ibidem, pp. 422-423. 446 JEAN-CLAUDE MAIRE VIGUEUR offrissero in pratica gli stessi servizi, poiché gli albergatori servivano del vino ai propri clienti e i tavernieri tenessero dei letti a loro disposizione, ognuna possedeva una sua corporazione, attestata per la prima volta nel 1376 23 per i tavernieri, più tardi per gli albergatori. Per il resto, per quanto possa sembrare strano per una città che accoglieva ogni anno folle di pellegrini e visitatori, non abbiamo nessun dato per poter valutare il numero e la localizzazione nello spazio urbano delle strutture in grado di offrire vitto e alloggio a questa massa di turisti ante litteram. Quel che si può dire è che il loro numero subì un forte aumento a partire dalla fine del XIV secolo e che un certo numero di loro cominciò allora a concentrarsi attorno a Campo de’ Fiori. I registri sono avari di informazioni per quanto riguarda i redditi e la condizione sociale dei membri di queste due professioni. Escono dall’ombra solo due o tre albergatori e tavernieri che, dopo essersi arricchiti con l’esercizio del loro mestiere, si impegnarono a diversificare i propri investimenti 24. In definitiva, l’unica branca dei servizi sulla quale le nostre fonti permettono di fare un po’ di luce è quella dei trasporti, almeno per quanto riguarda i trasporti terrestri perché, a mia conoscenza, non si fa mai riferimento, nei registri notarili, ai trasporti per via d’acqua, sia effettuati da navi d’alto mare in grado di navigare fino a Roma sia da barche o chiatte che risalivano il Tevere anche per lunghe distanze, sia pure con frequenti trasbordi. Asinai, mulattieri, carrettieri e vetturini costituiscono un mondo variegato la cui gerarchia interna è determinata dal numero e dalla natura degli animali di cui dispongono questi specialisti del trasporto delle merci. È fuor di dubbio che il primo posto spetta ai bubolarii, i soli che sono in grado, grazie ai loro possenti attacchi di bufali, di trasportare le merci più pesanti, come i blocchi di marmo o altri pezzi provenienti dai monumenti antichi o i pesanti carichi di legname da costruzione. Vengono poi i carrettieri, i cui veicoli a due ruote sono trainati da una o due paia di buoi. Gli effettivi di queste due categorie di trasportatori, considerate insieme, a mio avviso non potevano superare di molto la cinquantina di persone, tutte proprietarie dei loro animali e dei loro veicoli. Chiude il corteo, se così si può dire, la lunga teoria dei conduttori di animali da basto, principalmente asini e muli, infinitamente più numerosi delle due precedenti categorie di trasportatori e che ga- rantivano la maggior parte dei trasporti sia all’interno della città che tra la città e la sua duplice cintura delle particelle di coltura intensiva e delle grandi proprietà. Quanti sono a praticare questo mestiere? Certamente non meno di due o trecento, ma il loro numero poteva variare grandemente nel corso dell’anno ed è probabile che solo una piccola parte lo svolgesse continuativamente e a tempo pieno. Nessuna di queste differenti categorie di trasportatori sembra aver mai avuto una corporazione. La loro presenza è attestata in tutti i quartieri della città, senza che sia possibile vedere nessuna forma di concentrazione topografica. Sembra infine, a giudicare dai rari testamenti di casengi di cui disponiamo, che fare il trasportatore non sia mai stato il modo migliore per fare fortuna. Ibidem, p. 379. MAIRE VIGUEUR 2010, pp. 149-150. 25 MAIRE VIGUEUR 1974a; MAIRE VIGUEUR 1974b, pp. 63-136; MAIRE VIGUEUR 1976, pp. 4-26; MAIRE VIGUEUR 1984, pp. 213-224; MAIRE VIGUEUR 2010, pp. 73-115. 26 MAIRE VIGUEUR 2010, p. 46. 23 24 Il lavoro della terra L’ho già detto, scritto e ripetuto in tutti i modi: il principale settore dell’economia romana, quello che produceva le maggiori ricchezze e impiegava il maggior numero di persone, era il lavoro della terra 25. Innanzitutto la terra dei casali, queste grandi proprietà che coprivano la quasi totalità dei 2000 km2 della Campagna romana, ma anche quella delle particelle recintate a cultura intensiva che si stendono, sia all’interno che all’esterno delle mura, per una superficie di parecchie migliaia di ettari. In passato ho avuto la tendenza a sottovalutare l’importanza economica di queste particelle per il fatto che le loro produzioni, rivolte principalmente all’autoconsumo, non entravano nel circuito dell’economia mercantile, ciò che mi ha portato, ora me ne rendo conto, a trascurare interi settori dell’economia romana e a non comprendere l’originalità di un sistema economico che evidentemente non funzionava secondo le regole delle nostre economie contemporanee. Comincerò quindi trattando delle particelle recintate. Un contemporaneo ne stimava il numero in più di ventimila 26. In effetti, come si vedrà subito, questo tipo di proprietà era accessibile alla maggior parte dei romani, compresa la grande massa del popolo dei mestieri, ovviamente quelli che erano proprietari delle loro case e dei loro strumenti di lavoro. Queste particelle, anche se erano quasi sempre di piccole o piccolissime dimensioni, richiedevano tuttavia delle lavorazioni intensive a causa delle culture che vi erano praticate: tutte erano piantate IL MONDO DEI MESTIERI A ROMA 447 a vigna e a frutteto, e vi si coltivavano degli ortaggi tra i filari. Esisteva certamente a Roma una manodopera specializzata nella coltivazione di queste particelle; composta di salariati un po’ vignaioli e un po’ ortolani, questa manodopera lavorava principalmente per le chiese e le famiglie ricche che erano proprietarie di parecchie particelle e non disponevano sempre tra i propri salariati di personale specializzato per questo tipo di lavoro. È raro che l’assunzione di questi specialisti nella coltivazione di culture delicate, generalmente per un tempo limitato, sia formalizzata con un contratto stipulato davanti a un notaio, e non si ha quindi l’occasione di incontrarli spesso nei registri notarili. A fianco di queste figure un po’ ibride di vignaioli-ortolani, esiste un’altra categoria di lavoratori specializzati nelle sole colture orticole che essi praticano su delle particelle molto raggruppate e fornite di un sistema di irrigazione collettivo. È a questa sola categoria di lavoratori che i notai riservano il nome di ortolanus, mentre parlano piuttosto di potator per definire l’altra categoria di lavoratori, specializzati nella coltivazione delle ‘vigne’, nome che si dava a Roma alle particelle recintate a coltura intensiva. Ognuna di queste due categorie di lavoratori possedeva la sua propria corporazione, ambedue attestate per la prima volta nel 1425 in un registro del notaio Pietro di Giacomo Capogalli 27. Corporazioni di cui bisogna stare attenti a non sovrastimare il numero dei componenti. Le terre consacrate esclusivamente alle colture orticole erano di superficie molto limitata, e qualche decina di ortolani certamente erano sufficienti per la loro coltivazione. Per quanto riguarda le vigne, esse erano per la gran parte coltivate dagli stessi proprietari, aiutati dai membri della loro famiglia e solo occasionalmente da una manodopera retribuita a giornata. È dunque poco probabile che il numero dei potatores fosse molto superiore a quello degli ortolani. Completamente diverso è il caso della manodopera impiegata nei quattro o cinquecento casali della Campagna romana. Anche se l’allevamento, e specialmente l’allevamento transumante degli ovini, conobbe un grande sviluppo nell’epoca di cui stiamo trattando 28, il personale necessario alla guardia delle greggi, alla tosatura degli ovini, alla mungitura delle vacche, delle bufale e delle pecore, così come alla produzione del formaggio, si limitava senza dubbio a qualche centinaio di persone obbligate a seguire le greggi nei loro spostamenti e dei quali una buona parte proveniva senza dubbio dai villaggi del Lazio e dell’Abruzzo. Infinitamente più numerosa era la manodopera necessaria alla coltivazione delle terre cerealicole. Esse coprivano una superficie che non scese mai sotto i 20.000 ettari e ogni terra destinata alla semina era sottoposta, durante gli otto-nove mesi precedenti la semina, a sei successive arature, il che obbligava l’imprenditore del casale ad avere a disposizione gli animali da tiro necessari per un attacco completo per ciascuna delle laboreria (unità di coltivazione di 8 rubbi, cioè poco meno di ha 15) di cui si componeva la sua proprietà. Tra l’inverno e l’autunno centinaia e centinaia di contadini, giunti per lo più da Roma, erano dunque portati a lavorare sulle terre della Campagna romana, che vedeva inoltre affluire, per la sarchiatura delle terre seminate, per la mietitura e per la trebbiatura, una folla ancora più imponente di braccianti giunti dalle regioni del Lazio più vicine a Roma. Chi erano questi lavoratori? Alcuni erano senza dubbio assunti a tempo pieno da chi gestiva la proprietà, e poco importa qui sapere se si trattava o no del proprietario del casale, che ovviamente forniva loro gli animali da tiro e tutto il materiale necessario alla coltivazione dei loro campi. Come sempre nel caso dei salariati, è assai raro che i registri notarili ne facciano menzione ma, tenendo conto della quantità di buoi posseduti dai grandi imprenditori agricoli, anche se un certo numero poteva essere affittato a dei lavoratori indipendenti a seguito di un contratto di soccida o di stalgium 29, non si vede come i proprietari dei casali, definiti dalle fonti con il nome di bobacterii, potessero utilizzarli in altro modo che assumendo per tutto l’anno o per la sola stagione dei lavori agricoli, che copriva comunque almeno nove mesi, dei lavoratori incaricati di assicurare la guardia e l’utilizzo dei loro buoi 30. Il gestore del casale poteva a volte evitare, in tutto o in parte, di ricorrere a dei lavoratori salariati, ricorrendo a delle formule di conduzione indiretta che, a differenza dei contratti di assunzione, danno spesso luogo alla stipula di un atto notarile e che hanno dunque, ai nostri occhi, il vantaggio di essere molto più visibili del ricorso ai salariati. Io non farò qui un’analisi approfondita di queste differenti formule, alle quali ho già dedicato alcuni studi 31. Sarà sufficiente ricordare che esse permettono a un gran 27 Archivio di Stato di Roma (=ASR). not. Pietro di Giacomo Capogalli, 477, quad. 15, ff. 405-424. 28 MAIRE VIGUEUR 1974a, pp. 252-316; MAIRE VIGUEUR 2003, pp. 219-237. 29 MAIRE VIGUEUR 1974a, pp. 232-234. 30 Sulle tecniche agricole utilizzate nella Campagna romana cfr. CORTONESI 2005, pp. 123-145. 31 MAIRE VIGUEUR 1974a, pp. 232-234; MAIRE VIGUEUR 2010, pp. 104-109; cfr. anche CORTONESI 2005. 448 JEAN-CLAUDE MAIRE VIGUEUR numero di cittadini di partecipare allo sfruttamento delle terre cerealicole, investendo ciascuno in queste operazioni a seconda delle sue capacità economiche, del tempo di cui dispone e delle sue attitudini personali. Nel caso dei contratti ad laborerium, nei quali il concessionario s’impegna a coltivare per due anni una superficie mai inferiore ai 15 ettari, è assai frequente che sia egli stesso obbligato a far ricorso a una manodopera salariata, esattamente come fa, per un’altra porzione delle sue proprietà, lo stesso grande imprenditore. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, i concessionari dei contratti di conduzione indiretta sono in grado di lavorare da sé le terre che ricevono dai proprietari dei casali, sia che essi stessi dispongano di animali da tiro, sia che se li procurino con uno dei contratti concepiti espressamente per questo, come i contratti di soccida o di stalgium. Quale che sia il tipo di contratto che li lega al padrone del casale, tutti questi aratori sono dei lavoratori indipendenti, degli artigiani dell’aratura, si potrebbe dire, obbligati ad aspettare la fine dei lavori per ricevere la parte del raccolto che spetta loro, e che rappresenta, insieme a un piccola somma in denaro versata alla stipula del contratto, la loro sola retribuzione. Molti di loro sono degli artigiani o dei piccoli commercianti di Roma che si associano per la stipula del contratto e che si dividono i lavori da compiere. Altri sono dei contadini venuti dai villaggi del Lazio o dell’Umbria le cui competenze sono apprezzate dai cittadini che li associano volentieri alle loro attività di imprenditori cerealicoli. Come si vede, nella Campagna romana vi sono molti modi di partecipare alla messa a frutto delle terre cerealicole. Insieme a qualche centinaio di romani che dedicano a questa attività la maggior parte del loro tempo e che possiamo considerare dei coltivatori professionisti, una grande quantità d’altri romani, che non appartengono necessariamente alle fasce più basse della popolazione, investono in questa attività una parte più o meno importante del loro tempo e delle loro disponibilità economiche. La maggior parte di loro è costituita da lavoratori che cercano in questo modo di fare ulteriori profitti o, più semplicemente, di integrare le risorse che derivano dalla loro principale attività professionale. A differenza del vino, della frutta e degli ortaggi forniti dalle particelle a coltura intensiva, solo una parte del frumento raccolto da tutti quelli che prendevano parte, in una forma o in un’altra, allo sfruttamento delle 32 LORI SANFILIPPO 1981, pp. XII-XIII; GÜLL 2003, pp. 49-65. terre cerealicole, era destinato all’autoconsumo, l’altra parte era destinata ad essere immessa sul mercato. In un modo o nell’altro, migliaia di romani si dedicavano ogni giorno a lavorare la terra, pur esercitando, almeno la maggior parte di essi, un’attività professionale praticata da un numero molto più limitato di persone e destinata dunque a giocare, nel processo di costruzione dell’identità sociale, un ruolo molto più determinante del fatto di lavorare nelle vigne o sui campi di frumento dei casali. Il posto riservato alle differenti categorie dei lavoratori agricoli all’interno di quella che si definisce a volte l’arte dell’agricoltura non poteva ostacolare o modificare questo processo: tutto il potere, all’interno di quella che è certamente, sia dal punto di vista politico che economico, la più potente tra le corporazioni di Roma, è nelle mani dei bobacterii, cioè dei grandi imprenditori agricoli, che almeno fino al 1425 non riconoscevano, a coloro che lavoravano sulle loro terre, altro diritto che quello di potersi rivolgere ai tribunali della corporazione in caso di contenzioso con i loro datori di lavoro. I mestieri invisibili Il quadro dei mestieri romani che vado delineando ha delle evidenti lacune. La più clamorosa è senza alcun dubbio quella dei vasai, destinati in tutte le società tradizionali a produrre una grande quantità di oggetti di uso comune come le stoviglie da mensa e la maggior parte dei recipienti destinati alla conservazione e al trasporto dei liquidi e di alcune merci solide. Roma, con una popolazione tra i trenta e i cinquantamila abitanti, non poteva contare meno di qualche decina di botteghe di vasai, ma quel che ne sappiamo, per il periodo precedente la metà del XV secolo, è troppo poco per poter sperare di ricavarne indicazioni precise sul loro numero e sulla loro distribuzione nello spazio urbano 32. Un altro mestiere del quale nessuna società preindustriale può fare a meno è quello del cordaio, che fornisce un prodotto indispensabile sia alla vita di tutti i giorni sia allo svolgimento di numerose attività professionali. Il caso ha voluto che il notaio Scambi abbia avuto tra i suoi clienti un ricco cordaio del rione Campitelli, rione presso il quale sorge una chiesa, ricostruita nella seconda metà del XVI secolo e che assunse allora il nome di S. Caterina dei Funari, proprio per la presenza nel quartiere di numerosi cordai 33. Era così anche due secoli prima? È possibile, ma non si può dire di più sulla pre- 33 PIETRANGELI 1976, pp. 72-76. IL MONDO DEI MESTIERI A ROMA senza di cordai nella Roma della fine del Medioevo. Ancora meno sappiamo di numerosi altri artigiani e commercianti che fanno solo delle rare apparizioni nei registri notarili, e quasi sempre in qualità di testimoni, il che evidentemente non ci dice molto su di loro; è il caso per esempio dei barilarii (fabbricanti di barili), dei candelocterii (fabbricanti di candele e ceri ), dei cartarii (fabbricanti di carta), dei flasconarii (fabbricanti di fiaschi), dei soffaroli (venditori di zolfo?), dei suverarii (fabbricanti di tappi e altri oggetti in sughero) e di altri ancora. Si può pensare, per consolarsi, che in ognuno dei mestieri che abbiamo citato non fosse impiegata più di una decina o una ventina di persone, ma senza dubbio questo non era il caso di altri mestieri totalmente assenti nelle nostre fonti anche se la loro presenza è ampiamente attestata per l’epoca immediatamente posteriore: penso ai venditori o ai mercanti di frutta e verdura, così come ai commercianti che vendevano i loro prodotti nei mercati della città, sia che disponessero di banchi fissi sia che offrissero le loro merci in ceste o contenitori poggiati a terra, come i mercanti di grano e di farina. Conclusioni Dei tre criteri che ho proposto d’applicare per giudicare il posto dei differenti mestieri nella società romana, il primo è certamente quello che ha fornito i risultati più aleatori, in quanto mancano, per la maggior parte dei mestieri, dei dati affidabili per valutare il numero di coloro che lo praticavano. Disponiamo di liste nominative, peraltro incomplete, solo per quattro corporazioni, quelle dei lanaioli, dei merciai, dei pescivendoli e dei mugnai ‘di terra’. Se si aggiungono ai rari mulini di terra qualche decina di mulini installati sulle rive del Tevere, si ottengono, per ciascuno di questi quattro mestieri, dei numeri assai simili, più o meno una cinquantina di ‘imprese’ d’importanza, nell’insieme, assai limitata. Tra la corporazione dei lanaioli e le altre tre, tuttavia, c’è una differenza fondamentale, il quanto la prima riunisce, a differenza delle altre tre, un certo numero di mestieri subordinati, i cui effettivi totali erano certamente da due a tre volte superiori a quelli del mestiere da cui la corporazione prendeva il nome. Lo stesso ragionamento vale senza alcun dubbio per i mestieri relativi ai cicli lavorativi del metallo (paragrafo 2) e dell’edilizia (paragrafo 4); ciascuno di questi due settori poteva contare, secondo me, non meno di centocinquanta o duecento piccoli imprenditori; a maggior ra- 449 gione questo vale per i mestieri relativi alla lavorazione della pelle e all’abbigliamento, i cui effettivi totali dovevano essere certamente più vicini ai duecento che alle trecento persone. In totale, l’insieme dei settori relativi alla produzione artigianale, ai quali appartengono i mestieri che abbiamo trattato nei paragrafi 1-4, dovevano contare un numero di botteghe variabile tra le ottocento, nell’ipotesi più bassa, a più di mille. A confronto il commercio al dettaglio, anche con l’aggiunta dei mulini, non doveva raggiungere che la metà di questa cifra, almeno se teniamo conto solo dei commercianti che possedevano una propria bottega o punto di vendita, il cui numero doveva essere, come si è detto prima, di circa cinquanta per ciascuno dei sei tipi di commercio esaminati nel paragrafo 5, con la sola eccezione dei macellai che erano forse due o anche tre volte più numerosi. I miei calcoli e le mie ipotesi mi portano a dei risultati più o meno analoghi per il settore dei servizi, tra i quali i trasporti si riservano la parte del leone. Servizi e commercio al dettaglio formeranno quindi in totale un blocco di ottocento/mille piccole imprese (se è lecito impiegare anche in questo caso questo termine), analogo per quantità al blocco formato dai mestieri legati alle produzioni artigianali. A questi due blocchi ne va aggiunto un terzo, quello dei lavoratori agricoli impegnati nella coltivazione delle particelle a coltura intensiva e delle terre cerealicole nei grandi domini della Campagna romana. Quest’ultimo settore era senza dubbio il più importante dei tre, e i suoi effettivi saranno stati superiori a quelli degli altri due blocchi messi insieme. Il problema è che essi si compongono, per una parte importante ma impossibile da calcolare, di artigiani e di commercianti che dividono il loro tempo tra la città e la campagna, che, in altri termini, praticano una forma di poliattività che non è peraltro la sola a cui si dedicano i romani di quest’epoca. Tornerò su questo tema della pluralità di attività svolte, ma va sottolineato come la diffusione di questa pratica spinge a relativizzare sensibilmente l’importanza del calcolo degli effettivi occupati nei diversi mestieri. La distribuzione dei diversi mestieri nello spazio urbano solleva meno problemi di quella del numero di coloro che li svolgevano. Alcune professioni sono indiscutibilmente molto più concentrate di altre. Il caso limite è quello dei pescivendoli, che esercitavano quasi tutti sul sagrato di S. Angelo in Pescheria e tra le colonne del portico d’Ottavia. L’antico Foro di Nerva era stato allestito per accogliere decine e decine di macellerie, dotate tutte di un annesso nel quale i macellai ospitavano gli animali prima dell’abbattimento; due ufficiali 450 JEAN-CLAUDE MAIRE VIGUEUR eletti dai macellai erano preposti alla gestione di quello che sembra più un centro commerciale ante litteram che un mercato a cielo aperto 34. Si è visto come, senza mai giungere a questi livelli di concentrazione, altri commerci al dettaglio mostrano ugualmente una tendenza a raggrupparsi nei quartieri più centrali o a formare delle nebulose più o meno dense in luoghi a volte anche sensibilmente distanti gli uni dagli altri. Per i mestieri relativi alle produzioni artigianali, gli esempi di concentrazione topografica si spiegano essenzialmente con motivi di ordine tecnico e, oltre ai maestri lanaioli, raggruppati, per ragioni ancora misteriose, nei rioni S. Eustachio e Pigna, riguardano quei mestieri che necessitano di molta acqua per svolgere il loro lavoro, come i cuoiai, i conciatori e i tintori, e scelgono per questo di installarsi nelle vicinanze del Tevere, oppure, come nel caso dei mugnai, sulla riva stesse del fiume. Queste differenti forme di concentrazione riguardano un numero limitato di mestieri e va sottolineato che si tratta sempre, con la sola eccezione dei macellai, di professioni che impiegano un numero limitato di persone. Quando si passa invece ad osservare i mestieri che coinvolgono un gran numero di lavoratori, la situazione si presenta completamente diversa: fabbri, cordai, sarti, lavoratori dell’edilizia, conducenti di animali da soma, vignaioli e contadini sono attestati in tutti i quartieri della città e, quale che sia il loro livello sociale o la natura del loro mestiere, non sono fatti oggetto di nessuna segregazione sociale o professionale. Roma, non va mai dimenticato, è una città dove ricchi e poveri vivono fianco a fianco in tutti i rioni e in tutte le contrade, dove la promiscuità sociale si estende alla totalità dello spazio urbanizzato, dove gli immigrati, anche gli ultimi arrivati, trovano alloggio in tutti i quartieri, una città che nel Medioevo non ha sobborghi e nella quale la nozione stessa di centro storico appare priva di senso. Una città, inoltre, nella quale ciascuno è più o meno libero di esercitare il mestiere che preferisce. È evidentemente il caso (e non c’è bisogno di insistervi) di tutti quei mestieri che non dipendono da nessuna corporazione, e si è visto come alcune di queste professioni siano praticate da un numero considerevole di persone, come ad esempio i conduttori di animali da soma o i contadini, i quali non hanno nessun altro obbligo, quando lavorano alle dipendenze di un proprieMAIRE VIGUEUR 2010, pp. 128-129. AIT 1996, p. 203. 36 Archivio storico capitolino (=ASC), Cred. XI, t. 56, f. 14r; Statuti delle arti 1885, p. 31. tario o un affittuario di un casale, che di riconoscere la giurisdizione dei tribunali dell’ars bobacteriorum in caso di contenzioso con i loro datori di lavoro. La situazione non doveva essere troppo diversa anche per quei mestieri che, in modo più o meno diretto, ricadevano sotto l’autorità di una corporazione. Questa è almeno l’impressione che si ricava da una attenta lettura dei sei statuti di corporazione che ci sono giunti, quelle dei lanaioli, dei merciai, dei pescivendoli, dei marmorari, dei muratori e degli speziali/droghieri. Innanzitutto l’iscrizione alla corporazione non è mai richiesta per praticare la professione, con la sola eccezione dei lanaioli, ma le condizioni richieste per essere ammessi all’arte della lana non sono certo severe, poiché è sufficiente giurare di rispettare gli statuti dell’arte e di pagare una tassa di 10 lire. Coloro che vogliono esercitare la professione di spetiarius dovranno dimostrare di possedere le conoscenze necessarie per la preparazione dei medicinali, ma non sono per questo tenuti a iscriversi alla corporazione 35. Le condizioni poste dai merciai e dai muratori per l’esercizio della professione da parte dei non iscritti sono leggermente più rigide: i muratori ‘indipendenti’, per così dire, non possono accettare lavori il cui importo superi una certa somma, mentre i merciai autorizzano coloro che non sono iscritti alla loro arte ad esercitare la sola vendita ambulante 36. La vendita dei pesci non è invece sottoposta a nessuna condizione e l’arte dei pescivendoli riconosce a tutti il diritto di dedicarsi a questo commercio in ogni parte della città 37. Quanto agli speziali/droghieri, essi riconoscono persino agli ebrei e alle donne il diritto di esercitare la loro arte, a condizione, ovviamente, che abbiano superato con successo l’esame di cui si è detto prima 38. Per parte loro, i marmorari non pongono ostacoli alla presenza di colleghi ‘stranieri’ (advenae) sui cantieri della città ma, nel caso che un marmorario romano volesse associarsi con un collega giunto da fuori, richiedono da quest’ultimo il pagamento dell’iscrizione nella corporazione 39. In generale sembra che le corporazioni abbiano cercato di incoraggiare piuttosto che di limitare l’ingresso di nuovi iscritti. Per essere ammessi in una corporazione bisognava certo pagare una tassa di iscrizione, generalmente fissata a 10 lire, ed essere stati accettati dalla maggioranza dei membri, ma si cercherebbe invano la minima traccia di ‘malthusianesimo corpora- 34 35 LANCONELLI 1985, pp. 83-131, a p. 92. AIT 1996, p. 198. 39 Statuti dell’arte dei marmorarii, a. 1406, 21v-22r. 37 38 IL MONDO DEI MESTIERI A ROMA tivo’ negli statuti che ci sono giunti, e nulla indica che i membri delle corporazioni favorissero oltre misura l’ammissione dei loro parenti, con la sola eccezione dei pescivendoli che abbassavano da 10 a 5 lire la tassa di ammissione per i figli dei membri dell’arte. Questo comportamento in definitiva molto liberale, per non dire lassista, delle corporazioni romane in materia di accesso ai vari mestieri, non ha peraltro nulla di eccezionale in quest’epoca anche se, nelle città più industrializzate, come Firenze, si comincia, già dalla seconda metà del XIV secolo, ad osservare, da parte di alcune corporazioni, l’introduzione di una politica più ‘malthusiana’ volta a riservare ai soli iscritti la pratica della professione 40. Come ho detto, non è questo il caso di Roma, dove è inoltre tranquillamente ammesso che la stessa persona possa appartenere contemporaneamente a più corporazioni, e queste hanno essenzialmente la funzione di: 1) regolare le liti che possono sorgere tra coloro che praticano lo stesso mestiere, sia che siano o no iscritti all’arte; 2) imporre il rispetto delle norme riguardanti la qualità dei prodotti o la natura dei compiti da eseguire. Questa seconda preoccupazione è particolarmente evidente negli statuti delle corporazioni che riuniscono diversi mestieri, come per esempio nel caso dell’arte della lana. La prima è invece al centro di tutti gli statuti, nei quali è fatta oggetto di intere pagine, e a volte di quasi tutte le rubriche, come se il solo problema che realmente interessasse i membri di un’arte fosse quello di potersi regolare da se i propri conflitti interni, e di estendere questa prerogativa a tutti coloro che praticavano lo stesso mestiere, senza far nessuna differenza tra coloro che erano iscritti all’arte e coloro che non lo erano. I livelli di ricchezza e stili di vita Benché gli artigiani e i negozianti si rivolgessero raramente a un notaio al momento di assumere un apprendista o un operaio, esistono tuttavia nei registri notarili un certo numero di contratti di lavoro grazie ai quali ci possiamo fare un’idea dei salari praticati a Roma alla fine del Medioevo. Al contrario i profitti dei loro padroni ci sfuggono completamente. Il solo modo per situare coloro che praticavano un mestiere nella gerarchia sociale dell’epoca è quello di calcolare il valore del loro patrimonio a partire dai dati che i notai sono invece ben in grado di fornire, visto che la loro funzione consiste proprio nel conferire valore giuridico a 40 DEGRASSI 1996, pp. 137-140. 451 tutta una serie di atti concernenti, nella maggior parte dei casi, i beni fondiari e immobiliari dei loro clienti. Si tratta ovviamente di una materia molto complessa, che non potrò trattare in modo esaustivo nelle poche pagine che seguono. Cercherò quindi di rispondere in modo molto sintetico a tre domande, le prime due peraltro strettamente legate: che possiamo sapere della scala di ricchezza all’interno dei differenti mestieri, e quali sono le possibilità di arricchimento concesse da ciascuno di essi? Quale è la composizione e il valore del patrimonio posseduto dall’intero popolo dei mestieri? La regola che vuole che, in tutte le economie libere, le differenze nei profitti e nei patrimoni siano infinitamente più ampie tra i lavoratori indipendenti che tra i salariati si applica ai mestieri romani come a quelli di tutte le altre città italiane della stessa epoca. In ogni mestiere si trovano dunque degli artigiani e dei negozianti che vivono di stenti e altri che si arricchiscono al punto da essere ammessi senza problemi tra i ranghi della classe superiore. Questa disparità è senza dubbio inferiore a Roma che altrove, per il fatto che gli artigiani non producono che per il mercato locale, il che limita il loro volume di affari e dunque l’ammontare dei loro profitti; essa tuttavia è non di meno la regola all’interno di ciascuna professione, anche se la sua ampiezza varia sensibilmente tra un mestiere e l’altro, e tra i mestieri stessi in quanto alcuni offrono delle possibilità di arricchimento ben superiori a quelle di altri. Il solo mestiere per il quale si dispone di elementi sufficienti per ricostruire la scala di ricchezza è quello dei pescivendoli del mercato di S. Angelo in Pescheria e questo, come si può immaginare, grazie alla frequenza della loro comparsa nei registri del notaio Scambi. È, in effetti, possibile, come penso di aver mostrato nel mio libro su Roma 41, di collocare la maggior parte dei quaranta o cinquanta pescivendoli che operano su quel mercato ad un livello ben preciso d’una piramide che dividerò, per brevità, in tre gruppi. Quello posto più in basso è composto da venticinque/trenta pescivendoli che possiedono ciascuno un patrimonio valutabile tra i 200 e i 300 fiorini, quello mediano, composto da dieci/quindici pescivendoli il cui patrimonio è valutabile tra i 300 e i 1000 fiorini, e infine il gruppo più in alto, composto da meno di dieci pescivendoli ma dotati tutti di un patrimonio il cui valore supera i 1000 fiorini. Può certo accadere a un pescivendolo di S. Angelo, 41 MAIRE VIGUEUR 2010, pp. 136-147. 452 JEAN-CLAUDE MAIRE VIGUEUR come a qualunque altro lavoratore di quell’epoca, di fare dei cattivi affari o di cadere vittima di qualche imprevisto, il che comporta il suo declassamento e lo obbliga a condividere, caduto in basso nella scala dei mestieri, una condizione analoga a quella di numerosi altri artigiani e commercianti ma piuttosto eccezionale tra i pescivendoli il cui livello di ricchezza, nell’insieme della professione, sembra essere stato nettamente superiore a quello degli altri mestieri. Il che equivale a dire, in altre parole, che anche il più modesto dei pescivendoli se la passa meglio della maggior parte degli altri artigiani e commercianti e che si hanno più possibilità di arricchirsi, a Roma, vendendo pesce che facendo il fabbro, il cordaio, il muratore, l’asinaio e via dicendo. La domanda da porsi è se si tratta di un caso isolato nel panorama dell’economia romana o se è al contrario possibile estendere quel che chiamerò il ‘modello pescivendoli’ anche ad altri mestieri. È una domanda alla quale è estremamente difficile rispondere, perché per nessun altro mestiere noi disponiamo, come per i pescivendoli, di informazioni sufficienti a conoscere il ventaglio delle ricchezze all’interno di ciascuno di essi e per ripartire i membri della professione nelle differenti parti del ventaglio. Si ha tuttavia qualche motivo di pensare che il ‘modello pescivendoli’ non fosse così eccezionale come potrebbe apparire a prima vista e che dovevano esservi due o tre altri mestieri nei quali la distribuzione delle ricchezze era molto vicina a quella che abbiamo visto per quella dei pescivendoli. La categoria socioprofessionale che, per certi versi, si avvicina di più a quella dei pescivendoli è quella dei droghieri. Noi non sappiamo se esistevano prima del XV secolo delle vere dinastie di droghieri come ve ne erano già tra i pescivendoli, ma sembra che a partire dalla fine del XIV secolo l’ascesa sociale fosse molto più rapida in questa professione che nel commercio del pesce, al punto che il numero dei droghieri molto ricchi ha senza dubbio eguagliato nei primi decenni del XV secolo quello dei più ricchi pescivendoli, e l’ha certamente superato nel corso dei decenni seguenti 42. A differenza dei pescivendoli, gli spetiarii commerciano derrate e prodotti molto costosi, e il valore delle merci immagazzinate può facilmente raggiungere svariate centinaia di fiorini, il che fa ritenere che la ricchezza media dei droghieri fosse almeno uguale, se non superiore, a quella dei pescivendoli. Senza alcun dubbio questo doveva essere il caso anche per gli orefici, ma la loro comparsa nei re- 42 AIT 1996, pp. 43-80; LORI SANFILIPPO 2001, pp. 205-209. gistri notarili è purtroppo così sporadica che è impossibile ricavarne altro che la presenza, nei loro ranghi, di personaggi capaci di investire forti somme per l’acquisto di metalli preziosi e che quindi dovevano essere ricchi tanto quanto i più ricchi tra i droghieri e i pescivendoli. Benché la situazione fosse destinata a cambiare nel corso del XV secolo per il grande sviluppo degli orefici e dei droghieri, è tuttavia tra i macellai che si possono seguire, durante tutto il periodo che stiamo esaminando, i più clamorosi e i più numerosi esempi di mobilità sociale. Ne ho già parlato prima, e non ci tornerò qui, se non per ricordare che una o due generazioni sembrano essere state sufficienti, in questa professione, per passare da una condizione di piccolo commerciante a quella di grande, e anche grandissimo, imprenditore agricolo, con una disponibilità di migliaia di fiorini, e per essere ammesso a frequentare, e anche a legarsi per matrimonio, con le più ricche e più antiche famiglie della nobiltà cittadina 43. Bisogna ricordare che a Roma i macellai erano almeno il doppio dei pescivendoli, il che relativizza, in qualche modo, il loro tasso di successo, e consente di precisare che se l’élite dei macellai ci è ben nota grazie alle minute di Venettini – l’amico dei ricchi! – non sappiamo invece granché della condizione degli altri macellai e dunque il ventaglio delle fortune consentite da questa professione, il che mi porta a chiedermi quanto in fin dei conti sia realmente il caso di applicare il ‘modello pescivendoli’ ai macellai. La nostra immagine dell’ambiente dei macellai non è la sola a soffrire di quella che definirei la sovraesposizione dei più ricchi rispetto ai meno ricchi. Vi è, in effetti, un livello di fortuna a partire dal quale diviene obbligatorio ricorrere al notaio per un certo numero di affari. Non è questo certamente il caso degli artigiani e dei commercianti più modesti, ma essi sono talmente numerosi in certe professioni che si finirà inevitabilmente per incontrarne qualcuno nei registri notarili. È questo il caso di tutti i mestieri praticati dal più alto numero di persone: i fabbri, i calzolai, i sarti, gli artigiani edili, ad eccezione dei marmorari, i conduttori di animali da soma, per non parlare ovviamente di tutti quelli che praticano uno dei mestieri che ho definito invisibili. All’interno di tutti questi mestieri la mobilità sociale sembra essere stata molto bassa, e non si trovano che rarissimi esempi di arricchimento, al di fuori di un piccolo gruppo di sarti che, dopo il ritorno del papato, hanno beneficiato delle ordinazioni della 43 MAIRE VIGUEUR 2010, pp. 127-136. IL MONDO DEI MESTIERI A ROMA 453 curia 44. Quelli che compaiono nei registri, tuttavia, sembrano aver goduto di una modesta ma reale agiatezza, di cui cercherò tra poco di precisare il tenore. Tutti questi mestieri condividono quindi un insieme di elementi che li distinguono nettamente tanto dal ‘modello pescivendoli’ quanto dai mestieri di cui parlerò tra poco: un alto numero di persone che lo praticano, una netta prevalenza del fattore artigianale su quello commerciale, una mobilità molto limitata, un livello di ricchezza modesto ma relativamente egualitario. Il profilo dell’ultimo gruppo di mestieri da esaminare si avvicina di più a quello dei pescivendoli che a quello dei calzolai o dei fabbri. Lanaioli, conciatori, cuoiai, pellicciai, merciai, albergatori, locandieri, mugnai, cordai sono dei mestieri praticati da poche persone ma che offrono delle reali possibilità di arricchimento ai loro titolari. Ne ho fornito un certo numero di esempi nel mio libro su Roma 45. Altri se ne troveranno nel libro di I. Sanfilippo, che riguarda in particolare una categoria di artigiani, i conciatori e i pellicciai, alla quale non ho prestato tutta l’attenzione che meritava, visto che conta nei suoi ranghi un numero non trascurabile di artigiani fortunati e capaci, in certi casi, di arrivare ad assicurarsi il controllo delle loro fonti di approvvigionamento 46. Tutti questi mestieri condividono il fatto di essere praticati da un numero piuttosto limitato di persone, con la sola eccezione forse dei locandieri/albergatori, sui quali siamo particolarmente poco informati, e tuttavia di avere offerto delle reali possibilità di arricchimento ad alcuni di essi. Raramente, tuttavia, a più di due o tre, il che è molto al di sotto di quel che si osserva nei mestieri che seguono il ‘modello pescivendoli’ e mi spinge a ritenere che essi occupino una posizione intermedia tra i due modelli, quello dei pescivendoli e quello dei calzolai, alcuni avvicinandosi di più al primo, come i conciatori e i pellicciai, altri, come i mugnai e i cordai, più al secondo. Come ho già detto, non sappiamo nulla dei profitti realizzati dai nostri artigiani-bottegai e non abbiamo quindi nessuna idea dei denari che passavano per le loro mani ogni giorno o ogni settimana, ma siamo invece ben informati su quel che possedevano e anche sul valore delle loro proprietà. Ogni artigiano o commerciante possedeva, in effetti, due tipi di beni immobili: una o più case e una o più particelle a coltura intensiva. Il va- lore di queste case varia ovviamente in funzione di diversi fattori, principalmente la loro superficie e la loro posizione, e lo stesso vale per le vigne, il cui valore dipende non solo dalla superficie, che può andare da qualche ara a mezzo ettaro, ma anche dalla loro distanza rispetto alla città, dalla qualità del suolo, dalle possibilità di irrigazione e da altri motivi ancora. I dati a nostra disposizione sono tuttavia abbastanza numerosi da stabilire una forcella dei prezzi valida per la quasi totalità di questi due tipi di beni: essa va da 40 o 50 a 200 fiorini per le case e da qualche decina a più di cento fiorini per le vigne 47. Vi sono certamente delle case che valgono molto più di 200 fiorini, e senza dubbio non c’è indicatore più visibile, e perciò più ricercato, della posizione sociale di una famiglia che la grandezza, la bellezza e il valore della casa o del palazzo dove abita. Le vigne non hanno questo ruolo di indicatori sociali. La loro principale funzione è quella di fare fronte ai bisogni alimentari della famiglia per quanto riguarda il vino, la frutta e gli ortaggi, il che non esclude che esse potessero fornire agli artigiani e ai commercianti più poveri un supplemento di risorse finanziarie con la messa in vendita sul mercato di parte della vendemmia e dei prodotti dell’orto. Sembra, e si tratta di un punto fondamentale nella mia visione della società romana, che anche i più modesti o, non dobbiamo avere paura delle parole, i più poveri degli artigiani e dei bottegai, fossero proprietari di una o due vigne, oltre alla casa dove abitavano. Questa sarà certamente di un valore inferiore a 50 fiorini e la sua morfologia sarà quella della piccola casa unifamiliare che costituiva allora i tre quarti del patrimonio immobiliare romano: essa occupa una particella tra i m2 50 e 100, si compone di un piano terra e di un solo piano, con due stanze per ciascun piano e si prolunga sovente in un cortile o un orto posto nella parte interna della particella e a volte fornito di un pozzo 48. Per quanto riguarda le vigne che possiede e coltiva da sé con l’aiuto della famiglia, la loro superficie totale è al di sotto del mezzo ettaro e il loro valore non è mai superiore ai 100 fiorini. La somma è presto fatta: aggiungendo il valore della casa a quello di una o due particelle a coltura intensiva, si ottiene una somma compresa tra i 100 e i 150 fiorini che corrisponde, secondo me, al valore medio del patrimonio posseduto in LORI SANFILIPPO 2001, pp. 259-260. MAIRE VIGUEUR 2010, pp. 121-125, 147-151. 46 LORI SANFILIPPO 2001, pp. 294-296, 301-304. 47 Per le vigne: centinaia di casi nei registri di Scambi nella Biblio- teca Apostolica Vaticana (=BAV) e di Venettini nell’Archivio Storico Capitolino che stipulano ogni anno dai cinque ai dieci contratti di vendita di vigne. Per le case: BROISE, MAIRE VIGUEUR 1983, pp. 106-114. 48 Ibidem, pp. 146-148. 44 45 454 JEAN-CLAUDE MAIRE VIGUEUR ciascun mestiere dalla parte più povera, o la meno agiata, se preferite, di coloro che lo praticano. Si tratta, non c’è bisogno di sottolinearlo, di una valutazione eseguita sulla base di indicatori che ritengo molto affidabili ma che non provengono direttamente dalle fonti stesse: queste ci informano di cosa si compongono i patrimoni degli artigiani e dei commercianti, anche quando appartengono alla parte più povera della loro professione, ci rivelano i prezzi di parecchie centinaia di case e di vigne, ma ci lasciano il compito di procedere ai controlli incrociati necessari per calcolare, a partire dai dati che ci forniscono, il valore dei patrimoni posseduti dalle differenti categorie di persone che ci interessano. La mia valutazione del patrimonio della parte più povera del mondo dei mestieri mi sembra quindi tanto affidabile quanto quelle che io stesso e altri storici abbiamo proposto per altre categorie della popolazione, come i baroni, i nobiles viri o gli strati superiori del popolo dei mestieri 49. Resta da provare, mi si potrebbe obiettare, che non esista, al di sotto di quella frazione a cui ho attribuito un patrimonio tra i 100 e i 150 fiorini, uno strato di artigiani e di bottegai ancora più povero e privo di risorse, talmente povero da non possedere né casa né vigna e che dunque ha ben poche possibilità di avvalersi del servizio di un notaio. L’obiezione non è priva di fondamento, ed è, in effetti, possibile che vi sia stata, in qualche mestiere, una frangia di artigiani e di bottegai non meno poveri dei propri dipendenti, ammesso che ne avessero, e privi di qualsiasi proprietà. È tuttavia facile constatare che anche nei matrimoni più umili, il marito è sempre in grado di portare qualche bene a garanzia della dote, il cui valore può non superare le 30 o le 50 lire 50. Credo dunque che, se povertà, o anche estrema povertà, può esservi stata nel mondo dei mestieri a Roma, non deve però aver interessato, e in modo più temporaneo che permanente, che un piccolissimo numero di artigiani e di bottegai, mentre la quasi totalità di loro deve aver goduto, forse più grazie al loro patrimonio fondiario che ai loro guadagni professionali, di una certa agiatezza, e deve aver vissuto senza temere troppo i colpi della sorte. Questa condizione ordinaria peraltro non necessariamente soddisfaceva tutti ed era abbastanza normale che in ogni mestiere un certo numero di artigiani e bottegai cercasse, praticando la propria arte, di elevarsi al di sopra della massa. Il numero di quelli che sono veramente riusciti in questa impresa, al punto di collocarsi al livello delle due o trecento famiglie più ricche di Roma, varia molto da un mestiere all’altro, come si è detto, e non rappresenta in definitiva che una infima percentuale dei duemilacinquecento o tremila piccoli imprenditori attivi nell’artigianato o nel piccolo commercio. Diversa è la situazione se passiamo a considerare il numero di coloro che riuscirono, nel corso della loro vita, a guadagnare abbastanza denaro da lasciare ai propri figli un patrimonio nettamente più consistente di quello che essi stessi avevano ereditato, il che è testimoniato, per esempio, dal fatto che essi hanno potuto offrire a ciascuna delle figlie una dote di valore superiore alla dote della propria moglie. Ho già detto quanto è difficile, per la maggior parte dei mestieri, di valutare l’ampiezza numerica di questa classe media di artigiani e commercianti con un patrimonio di alcune centinaia di fiorini, due o tre volte più ricchi, quindi, della maggior parte dei loro colleghi, ma mi sembra fuor di dubbio che il loro numero non cessa di aumentare durante il periodo oggetto di questo studio, anche se ogni professione ha inevitabilmente la sua parte di famiglie colpite dal declino e costrette a vendere tutti, o parte, dei loro beni. È rimarchevole che, anche giunto all’apice della sua fortuna, nessun membro di questa classe media abbia mai preso in considerazione l’idea di abbandonare l’attività professionale con la quale si era arricchito, anche a costo di riversare su uno dei propri figli i sogni di promozione sociale, e che tutti abbiano mostrato una gran voglia di diversificare le proprie attività, molto più investendo nella produzione agricola che in altri campi dell’artigianato o del commercio. Non c’è da stupirsi. Passata la grande mortalità dei decenni centrali del XIV secolo, i prezzi dei generi alimentari e dei prodotti dell’allevamento, la lana e il cuoio innanzitutto, sono costantemente cresciuti, garantendo buoni guadagni a tutti coloro che erano in grado di investire nella cerealicoltura e nell’allevamento. Nel campo dell’alimentazione i romani hanno sempre cercato, per quanto possibile, di usufruire dei prodotti dei propri possedimenti, rivolgendosi al mercato solo per la carne e il pesce, oltre che, naturalmente, per i prodotti esotici come lo zucchero e le spezie. Le esigenze, in questo campo, aumentavano con la crescita del livello di vita, e si capisce perché la prima preoccupazione di coloro che praticavano un mestiere, quando raggiungevano una certa agiatezza, era quella di aggiungere altre particelle a coltura 49 MAIRE VIGUEUR 1976; MAIRE VIGUEUR 2010, capp. III-V; ESPOSITO 1992, pp. 571-587. 45v. 50 Per un esempio tra i molti possibili: BAV, Scambi, X, 44v- IL MONDO DEI MESTIERI A ROMA intensiva a quelle che possedevano già. C’è infine un fattore di ordine mentale, o culturale, che, secondo me, sarebbe errato sottovalutare: i romani sono vissuti per secoli in una città piena di orti e vigne, nella quale gli spazi coltivati coprivano una superficie ben maggiore di quella degli spazi abitati 51; anche dopo essersi concentrati nella zona dell’ansa del Tevere, molti abitanti potevano ancora raggiungere le loro vigne senza dover superare le mura della città, poiché vi erano migliaia di vigne e di orti al loro interno. Per i romani, coltivare la vigna e l’orto e prendersi cura degli alberi da frutta erano delle occupazioni che facevano parte della vita quotidiana e alle quali tutti i membri della famiglia erano chiamati a partecipare. Certamente i più ricchi ricorrevano a una manodopera specializzata per i lavori più faticosi, ma anche essi si recavano volentieri nella loro vigna per sorvegliare i lavori, raccogliere frutta e ortaggi, partecipare alla vendemmia e alla spremitura dell’uva e via di seguito. Per tutti, non solamente per i più ricchi, la vigna è anche uno spazio per il relax e il piacere, dove si può andare a dormire durante i periodi più caldi, ricevere gli amici e i vicini nei giorni di festa, dedicarsi a ogni genere di piacere 52. La vigna in definitiva aveva, agli occhi dei romani, un duplice valore, simbolico ed economico. Torniamo un istante sulla funzione economica di queste vigne e delle altre particelle a coltura intensiva. Se artigiani e bottegai vi dedicavano una parte così importante del loro tempo lavorativo, non è, evidentemente, per semplice amore per la natura o per il piacere di giocare a fare il contadino. Vigne e orti avevano innanzitutto la funzione di garantire il rifornimento a tutti i membri della famiglia, e probabilmente anche agli operai, agli apprendisti e ai ragazzi di bottega alloggiati nella casa del padrone, di prodotti essenziali al loro sostentamento come il vino, gli ortaggi e la frutta. Una particella di buone dimensioni poteva essere sufficiente, ma il poterne coltivare due o tre offriva maggiori garanzie e poteva all’occorrenza fornire un significativo incremento delle entrate, poiché vi era a Roma tutto un settore della popolazione, a cominciare dai religiosi e dai pellegrini, che non disponevano di proprie fonti di approvvigionamento. Investire nella produzione cerealicola, ricorrendo a una delle formule che permettevano ai cittadini di coltivare una parte di una grande proprietà compatibile con i propri mezzi, offriva gli stessi vantaggi ma richiedeva forse più tempo e più capacità. In ogni caso siamo in pre51 KRAUTHEIMER 1981, passim; HUBERT 1990, pp. 63-96; MAIRE VIGUEUR 2010, pp. 38-44. 455 senza di un sistema economico che non era sottoposto alle leggi del mercato e serviva innanzitutto a rispondere ai bisogni essenziali del gruppo familiare. Artigiani e bottegai continuavano a produrre e vendere i prodotti che costituivano la loro specializzazione ma questa attività, che è sottoposta ai rischi del mercato, non è sempre, ai loro occhi, quella che conta di più: senza dubbio consideravano più importante, almeno in alcuni momenti dell’anno, andare a lavorare nelle loro vigne o nelle loro terre cerealicole dove sono certi di raccogliere di che nutrire la famiglia. Artigiani e bottegai partecipavano insomma a due sistemi economici paralleli e poco comunicanti, uno la cui funzione principale è di garantire la sicurezza alimentare della famiglia, l’altro da cui la famiglia si aspetta di ricavare i denari liquidi che le permettono di soddisfare le altre esigenze e, forse, di procedere a nuovi investimenti. Pratiche del credito e forme di dipendenza Se posso riassumere in una frase le condizioni di vita di coloro che esercitavano un mestiere nella Roma della fine del Medioevo, direi senza esitare che la maggior parte godeva di una vera o discreta agiatezza. Questo giudizio si basa più su quello che sappiamo sul valore e la composizione del loro patrimonio che sui profitti che potevano ricavare dalla loro produzione artigianale o dalla loro attività commerciale, che sono dati che rimangono sconosciuti, ma credo che questo valga per tutte le professioni e, all’interno di ciascuna di esse, per la grande maggioranza di coloro che la praticano. Esiste tuttavia certamente in ogni mestiere una frangia di artigiani e di bottegai la cui situazione è molto più precaria e che, anche se non sono del tutto privi di beni fondiari, hanno bisogno, più o meno regolarmente, di ricorrere al credito per far quadrare i conti. Non sono i soli ad avere queste esigenze, perché ogni anno numerosi lavoratori della terra sono costretti alla vendita anticipata di parte del loro futuro raccolto, il che costituisce, come è noto, il modo più usuale per questa categoria di lavoratori di avere accesso al credito. Anche per essi tuttavia questo può avvenire anche per altre vie, e questa diversità dei modi di accesso al credito è ancora più visibile nel caso degli artigiani e dei commercianti, per i quali l’indebitamento era senza dubbio visto come una forma di dipendenza ma senza che questa di- 52 MAIRE VIGUEUR 2010, pp. 44-50. 456 JEAN-CLAUDE MAIRE VIGUEUR pendenza instaurasse necessariamente un rapporto di dominio tra il creditore e il suo debitore. Il rapporto tra le due parti è in realtà ben lungi dall’essere univoco, e non può in nessun caso ridursi a un semplice rapporto di dipendenza e men che mai di dominio: è quello che cercherò di dimostrare nei paragrafi seguenti. Prima di arrivarci, tuttavia, vorrei ricordare l’esistenza, a Roma come altrove, di due categorie di lavoratori di cui non ho trattato finora ma che sono la perfetta illustrazione di quello che può essere un rapporto di dominio nel mondo del lavoro. La prima è quella degli operai, dipendenti e apprendisti, che lavorano come salariati per conto di un artigiano o un commerciante. Senza dubbio doveva essere piuttosto raro che un artigiano ne impiegasse più di qualcuno, in quanto, come si è visto, la manifattura, sia concentrata che diffusa, era quasi sconosciuta nel paesaggio romano. Anche le più grandi botteghe dei lanaioli non dovevano impiegare più di qualche tessitore e affidavano ad altri artigiani il compito di eseguire la maggior parte delle altre operazioni necessarie alla produzione delle stoffe di lana, a cominciare dalla cardatura, la follatura e la tintura. A questo riguardo voglio ricordare come nelle corporazioni che riunivano, come nel caso dei lanaioli, dei merciai, dei muratori e altre ancora, un’arte principale e altre che le erano subordinate, i membri della prima esercitano una doppia supremazia su quelli delle arti ‘minori’. Anche se pienamente autonomi, essi dovevano tuttavia rispettare le regole stabilite dai loro colleghi dell’arte ‘maggiore’ ed erano sottoposti, per tutti i contenziosi che non potevano mancare di sorgere tra essi e chi forniva loro il lavoro, ai tribunali gestiti da questi ultimi. A questa forma di supremazia giuridica e statutaria, chiaramente affermata negli statuti delle corporazioni in questione 53, se ne aggiungeva frequentemente un’altra, sulla quale le nostre fonti sono purtroppo molto più avare di informazioni: si tratta della supremazia economica dei più forti sui più deboli e i più poveri, che può portare questi ultimi a indebitarsi verso i primi e li obbliga ad accettare condizioni di lavoro sempre più dure. Torniamo un momento ai salariati. La prima cosa da dire è che noi non sappiamo quasi nulla né del loro numero né delle loro remunerazioni. Quest’ultimo dato non è tuttavia impossibile da conoscere perché, anche se la maggior parte degli imprenditori evitava di rivolgersi a un notaio al momento di assumere un apprendista o un 53 Statuti delle arti 1885, pp. 201 ss. operaio, il numero dei contratti di assunzione contenuti nei registri notarili è senza dubbio abbastanza elevato per permetterci di conoscere le condizioni di remunerazione della manodopera utilizzata dagli artigiani e dai principali commercianti. Lo studio sistematico di questi contratti resta purtroppo da fare. La sola cosa che mi sento per ora di poter dire, sulla base dei miei spogli archivistici, che però in questo campo sono ben lontani dall’essere esaustivi, è che, nella maggior parte dei casi, apprendisti e operai non godono di una vera indipendenza economica, nel senso che essi ricevono dal loro padrone vitto e alloggio, e spesso anche qualcosa per vestirsi e calzarsi, a cui si aggiunge una somma in denaro soggetta a grandi variazioni, senza dubbio in ragione dell’età e della qualificazione dell’operaio. Sembra difficile pensare che con tali condizioni di vita questi abbiano potuto sposarsi e mettere su famiglia. Erano quindi condannati a rimanere celibi, o dovevano aspettare di farsi una posizione in proprio per sposarsi e avere dei figli? Penso che questa doveva essere la speranza di tutti i salariati, e che un certo numero di essi deve essere riuscito a realizzarla, grazie proprio al denaro che i loro padroni versavano loro e del quale potevano risparmiarne una buona parte. Molti apprendisti sono figli di artigiani o di piccoli commercianti che i loro genitori, non essendo in condizione di offrire loro un lavoro, hanno collocato come apprendisti presso un collega o un vicino, con la speranza che un giorno sarebbero riusciti anch’essi a mettersi in proprio. Si tratta di una forma di mobilità orizzontale che ha certamente contribuito a rafforzare la coesione, tanto sociale che politica, del mondo dell’artigianato e del piccolo commercio e che deve spingerci a non vedere in una luce troppo drammatica la situazione di numerosi apprendisti e operai. Quanti tra loro sono riusciti a liberarsi dalla dipendenza del padrone e a diventare padroni di loro stessi? La domanda è destinata a rimanere senza risposta ma tutto lascia pensare che, se era usuale che un figlio succedesse al padre nell’esercizio di una attività artigianale o commerciale, era invece molto più difficile per un semplice operaio, specialmente se si trattava, come accadeva spesso, di un immigrato recente, divenire padrone di una attività in proprio. Se si ammette che la Roma di quest’epoca contasse, secondo la stima più bassa, un numero di salariati almeno uguale a quello dei piccoli imprenditori del commercio o dell’artigianato, si può valutare a più di mille e cinquecento o anche a più di duemila il numero degli operai destinati a passare tutta la loro vita alle dipendenze di un padrone e privi per lo più di ogni autonomia, al punto di non po- IL MONDO DEI MESTIERI A ROMA tersi sposare né di disporre della propria abitazione. Essi si trovano quindi in una situazione molto simile a quella della seconda categoria di lavoratori a cui ho fatto cenno prima, quella dei servitori e dell’altro personale domestico, obbligati anch’essi a vivere nella casa dei loro padroni e di essere al loro servizio ventiquattro ore al giorno. Non meno sfruttata dei salariati dell’artigianato e del commercio, questa categoria di lavoratori, che conta a Roma parecchie migliaia di persone, è in gran parte composta da donne, e si trova allo stesso tempo esposta a forme di dominio alle quali sfuggono gli altri salariati. Nonostante la loro importanza numerica e il posto che i servitori e l’altro personale domestico rivestono nella vita delle famiglie romane e malgrado quel che i registri notarili ci lasciano capire delle loro condizioni di vita, non dirò di più, per mancanza di tempo, su questa categoria di lavoratori, pur essendo consapevole di espormi così alle critiche di coloro che stigmatizzano la propensione degli storici a tralasciare sempre i più umili, e vengo all’ultimo punto della mia trattazione, che riguarda l’indebitamento degli artigiani e dei piccoli commercianti. L’indebitamento e non il credito. Questo è onnipresente nella vita degli artigiani e dei piccoli commercianti come in quella dei grandi mercanti, dei grandi allevatori e dei grandi produttori di cereali. Ogni artigiano o commerciante può aver avuto bisogno, in un momento o nell’altro della propria vita sia professionale che familiare, di ricorrere al credito per fare fronte a una temporanea mancanza di liquidità, per procedere a un investimento, per acquistare un bene fondiario o immobiliare, per pagare la dote di una figlia o per qualsiasi altra ragione. A differenza tuttavia dei grandi uomini d’affari, per i quali il ricorso al credito è una pratica usuale e riguarda somme molto elevate, artigiani e piccoli commercianti fanno ricorso al credito molto più raramente e per delle somme raramente superiori ai 50 o 100 fiorini, in rapporto dunque con il valore di un patrimonio che oscilla di solito tra i 200 e i 400 fiorini. Dare e ricevere prestiti di questo tipo, e se ne contano decine nelle minute dei notai, non ci autorizza evidentemente a parlare d’indebitamento a proposito degli artigiani e dei commercianti che vi ricorrono, anche perché non è raro vedere gli stessi personaggi passare dal ruolo di chi presta a quello di chi riceve, e viceversa. Perché si possa parlare di indebitamento bisogna che l’artigiano sia obbligato a prendere in prestito regolarmente delle piccole somme di denaro che, si può capire, gli servono per continuare la sua attività professionale, o anche per far fronte ai suoi bisogni più ele- 457 mentari. L’indebitamento può essere considerato, non senza ragione, come una forma di dipendenza ma, nel mondo dell’artigianato e del piccolo commercio romano, questa dipendenza non è necessariamente sinonimo di miseria o di precarietà. Io sarei incline a interpretarlo in molti casi come una forma di mutua assistenza o come uno scambio di servizi, certo squilibrato perché chi fa il prestito è in grado di imporre le sue condizioni a colui che lo riceve, ma tuttavia calcolato in modo di non comportare il fallimento di quest’ultimo e a lasciargli una certa libertà di lavorare. Il problema è che noi siamo di solito molto meglio informati su coloro che concedono il prestito più che su chi lo riceve, e in queste condizioni non è facile capire l’esatta natura del rapporto che si instaura tra di essi. È quel che cercherò di fare distinguendo tre casi. Il primo è quello nel quale i due contraenti sono legati, anche prima che uno faccia un prestito all’altro, dal fatto di far parte di uno stesso ambiente o di una stessa comunità. Il caso meglio documentato è quello dei pescivendoli del mercato di S. Angelo in Pescheria e dei pescatori che li riforniscono di pesce 54. Sia che essi esercitino la loro attività lungo il litorale o nelle acque del Tevere, nei laghi vulcanici della Tuscia o nelle distese di acque salmastre del Lazio meridionale, tutti i pescatori intrattengono con i pescivendoli di S. Angelo dei legami che vanno ben al di là dei semplici rapporti di affari. Essi si incontrano decine di volte all’anno, i loro figli crescono insieme e continuano e frequentarsi quando raggiungono l’età per lavorare, ambedue le parti sono ben consapevoli di avere bisogno l’una dell’altra, e mi sembra difficile pensare che, anche se generalmente si trovano, da un punto di vista finanziario, in una posizione di netta superiorità rispetto ai pescatori, i pescivendoli siano rimasti insensibili alla durezza del loro lavoro e al carattere così aleatorio della loro attività, sottoposta all’imprevedibilità del clima e ad altri fattori di rischio. Si capisce dunque perché i pescatori si siano rivolti ai loro abituali partners in affari ogni volta che hanno avuto bisogno di liquidità, e perché questi abbiano accettato facilmente di prestare loro del denaro. È vero che si tratta sempre di somme molto modeste, raramente superiori a due o tre fiorini, e, come sempre in materia di credito, non abbiamo alcuna idea del tasso di interesse richiesto. Va notato anche che questi prestiti sono concessi solitamente senza che chi lo 54 139. LANCONELLI 2005, pp. 181-203; MAIRE VIGUEUR 2010, pp. 136- 458 JEAN-CLAUDE MAIRE VIGUEUR concede senta la necessità di rivolgersi a un notaio, cosicché questo tipo di credito ci è rivelato principalmente dai testamenti dei prestatori, nei casi almeno in cui questi si preoccupino di fornire il nome dei loro debitori e l’ammontare dei loro debiti, cosa che non sempre fanno in modo esaustivo. Prendiamo per esempio il caso di Paolo Rosso, un pescivendolo di media agiatezza, almeno a giudicare dal tenore generale del suo testamento, ma che sembra essere stato particolarmente ben disposto nei riguardi dei pescatori con problemi di liquidità. Vi si trova una lista di 48 crediti con la specificazione per ciascuno di essi della somma dovuta a Paolo e, nella maggior parte dei casi, del luogo di origine del debitore o, se si tratta di un romano, del suo rione di appartenenza. Il totale di questi 48 crediti arriva a poco più di 160 fiorini, e il loro importo va da 1 a 12 fiorini. Questi non corrispondono tuttavia alla totalità dei prestiti concessi da Paolo, perché al termine della sua enumerazione il notaio menziona l’esistenza di numerosi altri crediti conservati «in cartabulo credentiarum dicti Paoli» 55. Tenuto conto del piccolissimo numero di testamenti di pescivendoli che ci sono giunti, è impossibile valutare l’ampiezza dell’indebitamento dei pescatori verso i pescivendoli né di sapere se essi erano disposti a prestare denaro a qualsiasi pescatore, compresi quelli che non facevano parte dei loro fornitori abituali. Sembra evidente che Paolo Rosso fosse disposto a farlo ma forse applicando un tasso di interesse un po’ più elevato di quello concesso dai pescivendoli ai pescatori che li rifornivano, o che riservavano loro il loro pescato. In un caso come nell’altro credo che si sia in presenza di un tipo di credito che si basa certamente su un rapporto di confidenza tra le due parti ma che suppone anche, da parte di chi si trova nella posizione più vantaggiosa, nel caso specifico i pescivendoli, il desiderio di manifestare il suo sostegno a un collega in difficoltà. Senza voler arrivare a dire che tutti gli artigiani che avevano fatto fortuna, o che semplicemente erano forniti di una certa agiatezza, manifestassero lo stesso desiderio di aiutare i colleghi all’inizio della carriera o meno fortunati, credo che si possa attribuire lo stesso comportamento a tre artigiani che si collocano, almeno a giudicare dai loro testamenti, a tre differenti livelli sulla scala della ricchezza. Il primo, il mugnaio Tucio Tordoneri, è a capo di uno dei più importanti patrimoni del BAV, Scambi, III, 10v-13r. Su Tucio Tordoneri e suo fratello Nicola cfr. LORI SANFILIPPO 2001, pp. 324-327; MAIRE VIGUEUR 2010, pp. 162-164; testamento di Tucio in BAV, Scambi, VIII, 30v-32r. rione S. Angelo 56, il secondo, il cordaio Vance, dispone all’epoca del suo primo testamento di capitali molto consistenti 57, il terzo è un semplice fabbro al quale si può, tutt’al più, attribuire una certa agiatezza 58. Tutti e tre hanno in comune di avere come debitori esclusivamente persone che praticano la loro stessa professione o che operano in settori molto vicini, ai quali hanno fornito a credito degli attrezzi o del materiale indispensabile all’esercizio della loro attività. Nicola Tordoneri e Vance mi sembrano degli uomini d’affari troppo impegnati e importanti per pensare che abbiano voluto aggiungere qualche soldo ai loro guadagni speculando sulle difficoltà di un collega o sulle necessità di un giovane che si avvia alla professione. Quanto al fabbro, originario dell’Italia meridionale, i suoi debitori sono quasi tutti dei vicini di quartiere, degli artigiani con i quali intrattiene continui rapporti di lavoro, dei carrettieri o dei contadini che fanno parte della sua clientela abituale, in definitiva delle persone che appartengono tutte al mondo del lavoro, hanno l’abitudine di aiutarsi a vicenda e ai quali il fabbro fa credito sapendo che sarà per loro un punto d’onore ripagarlo non appena ne avranno la possibilità. A questi legami che si basano sul vicinato, sui rapporti di lavoro, sulla solidarietà tra persone che praticano lo stesso mestiere, se ne aggiunge a volte un altro che è ben illustrato da un testamento del 1 luglio 1409, datato quindi a un’epoca in cui numerosi immigrati hanno già cominciato ad affluire a Roma da diverse regioni d’Italia e a volte anche da più lontano 59. Questo testamento è quello di uno schiavone, cioè di un immigrato originario della costa dalmata che, prima di stabilirsi a Roma nel rione Ponte, il quartiere per eccellenza degli immigrati, aveva vissuto per un certo tempo a Fara Sabina. Il notaio non precisa il mestiere di questo schiavone, ma la sua principale attività doveva consistere nel commercio del legno, non si capisce bene se legna per il riscaldamento o legname da lavoro, il che non gli impediva però di fare anche il falegname perché tra i suoi crediti figura il prezzo di una bara che non gli era stata pagata. Matteo riconosce nel suo testamento di dovere del denaro a nove persone, per un totale di circa 68 fiorini, e aggiunge di essere a sua volta creditore di ventuno persone per un totale di 167 fiorini. Motivazioni di questi crediti? Una bara che non gli era stata pagata, come abbiamo visto, delle forniture di legna e forse 55 56 BAV, Scambi, XV, 57v-59r. ASC, Venettini, 795/9, 31r-33r. 59 BAV, Scambi, XXV, 53r-57r. 57 58 IL MONDO DEI MESTIERI A ROMA 459 anche di corde, ma soprattutto dei prestiti e, quel che per noi è più interessante, dei prestiti nella maggior parte dei casi concessi a degli schiavoni, dunque a delle persone che avevano la stessa origine etnico-geografica di Matteo e con le quali avrà condiviso quell’insieme di sentimenti fatto di solidarietà, di difesa identitaria, di convivialità e di molte altre cose tipiche dei membri di tutte le minoranze e che si possono vedere per tutta l’epoca moderna all’interno delle comunità nazionali di Roma. Va notato inoltre che se Matteo preferisce evidentemente prestare a degli schiavoni piuttosto che a degli ‘stranieri’, è a degli schiavoni che si rivolge quando è lui ad aver bisogno di credito. Il secondo caso è quello dei contratti intercorsi tra un imprenditore agricolo e il contadino, o i contadini che si incaricano di coltivare una parte delle terre cerealicole del suo casale. Gli obblighi del locatario nei riguardi del locatore dipendono essenzialmente dalla superficie della terra che è in grado di coltivare e dai mezzi dei quali dispone per farlo. Solitamente, il locatario che si impegna a effettuare l’intero ciclo di lavori previsti dagli statuti dell’ars bobacteriorum su una superficie di terra uguale o superiore ai 15 ettari è un romano agiato, o anche molto agiato, che possiede più di un attacco di buoi e delle riserve di grano sufficienti per effettuare la semina della terra presa in locazione. Può trattarsi di aratori qualificati, ma è raro che essi possano coltivare più di 15 ettari, o, ed è il caso più frequente, di artigiani o commercianti arricchiti, o anche di altri imprenditori agricoli che preferiscono investire in questo tipo di contratti di breve durata, stipulati per un solo ciclo di lavori e che non sono mai di durata superiore ai 18 mesi, piuttosto che negli affitti a lungo termine. Questo tipo di contratto è molto vantaggioso per il concessionario perché gli garantisce i tre quarti del raccolto, benché non è privo di interesse anche per il locatore che riceverà, in cambio della terra coltivata, una buona quantità di grano, e questo senza dover sborsare altro che i pochi fiorini che è usanza versare al locatore a titolo di introytus o di merces. Questa è almeno la situazione più usuale. Tuttavia non è affatto raro che dei contadini, degli artigiani o anche dei notai si lanciano nell’avventura senza essere in grado di assolvere a tutte le condizioni teoricamente necessarie per questo genere di contratto, sia che non abbiano il grano sufficiente per la semina, sia che manchi loro il denaro necessario per rinnovare la loro attrezzatura o affittare uno o due buoi o qualcos’altro ancora. Questa mancanza di risorse non sembra tuttavia inquietare i locatori, che accettano di anticipare agli affittuari il grano necessario per la semina, sapendo che gli sarà restituito dopo la mietitura, a volte anche di prestare loro una somma di denaro che può andare da 3 o 4 fino a 20 o 30 fiorini 60. Questa pratica, che è l’eccezione nei contratti ad laborerium (questo è il nome del tipo di contratti di cui abbiamo parlato), è al contrario la regola nel caso dei contratti ad pomedium, che si riferiscono a superfici coltivate molto più piccole, sempre inferiori a 8 ettari, nei quali il proprietario si contenta a volte di un ciclo di lavoro più corto e quindi meno dispendioso per l’affittuario, che ha però ovviamente degli obblighi molto più pesanti verso il proprietario del fondo, che si tiene la metà del raccolto e a cui l’affittuario dovrà inoltre restituire il grano di cui ha avuto bisogno per la semina 61. Il profilo dei locatori, in questo genere di contratto, è molto diversificato, perché troviamo sia dei grandi imprenditori, come nei contratti ad laborerium, sia degli artigiani e dei commercianti molto agiati che hanno preso in affitto delle vaste superfici di terre cerealicole e ne subaffittano delle particelle di qualche ettaro a dei lavoratori di condizione evidentemente molto più modesta della loro; tra questi ultimi vi sono sia degli abitanti della città che della campagna, giunti dai castelli del Lazio, e, tra i cittadini, i piccoli artigiani e bottegai sembrano essere stati numerosi tanto quanto i veri specialisti nel lavoro agricolo, i quali, tra l’altro, svolgono anche essi un’attività diversificata, perché dividono il loro tempo tra la cura delle vigne e degli orti e la coltivazione dei campi a grano. Non c’è bisogno di precisare che gli affittuari dei contratti ad pomedium si trovano, in rapporto ai loro locatori, in una condizione di netta inferiorità, se non di vera dipendenza, e si potrebbe facilmente immaginare che questi ultimi ne abbiano approfittato per incrementare il tasso d’interesse dei prestiti e aumentare le proprie pretese nei riguardi degli affittuari, cosa che si può escludere nel caso dei contratti ad laborerium, nei quali locatori e affittuari sono di condizione molto simile e in grado di discutere da pari a pari. Sono con- 60 Sul contratto ad laborerium, cfr. MAIRE VIGUEUR 1974a, pp. 225-229; MAIRE VIGUEUR 2010, pp. 106-107; CORTONESI 2005. Qualche esempio di contratto ad laborerium, tra molti altri, in: ASC, Venettini, 785/4, 4r-5r; 785/7, 141v-142v, 153r-v; Andrea di Antonio de Appollinariis, 136, 26v-27r, 38r-39r. 61 Sul contratto ad pomedium, cfr. MAIRE VIGUEUR 1974, pp. 229232; MAIRE VIGUEUR 2010, p. 108; CORTONESI 2005. Qualche esempio di contratto ad pomedium, ancora tra molti altri, in: ASC, Venettini, 785/6, 92v; Paolo de Serromanis, 649/11, 47v-48r; BAV, Scambi, II, 133rv; III, 85v-86r; V, 121v. 460 JEAN-CLAUDE MAIRE VIGUEUR vinto tuttavia che questo non sia avvenuto, e che in una città con una cronica scarsità di manodopera, come Roma dopo la metà del XIV secolo, i locatori avessero, al contrario, tutto l’interesse a fornire i loro prestatori d’opera (perché di questo in fondo si trattava) di tutto l’aiuto di cui potessero aver bisogno, sia sotto forma di grano per la semina o di credito necessario a completare o migliorare il loro equipaggiamento. Aggiungo infine che coloro che investivano nella produzione cerealicola stipulando un contratto ad laborerium o ad pomedium, ben lungi dall’essere dei perfetti sconosciuti agli occhi dei locatori che affidavano loro le terre da coltivare, erano generalmente persone che esercitavano un mestiere, erano proprietari di case e di vigne, partecipavano con loro al governo del comune e si consideravano, davanti a coloro dei quali coltivano le terre, più come dei soci che come dei lavoratori dipendenti. Vengo infine al terzo caso che, a differenza dei due precedenti, mostra delle situazioni di maggiore fragilità, nelle quali il ricorso al credito rappresenta, per i più poveri, il solo mezzo per mantenersi nella condizione di lavoratore indipendente. È evidente che chi si trova in questa situazione non va davanti a un notaio a mettere in piazza i suoi problemi, e dobbiamo dunque rivolgerci a indizi di altro tipo per trovare situazioni di questo genere. Il fatto di dover ricorrere a un notaio per ottenere il prestito di una somma molto piccola è spesso segno di una certa precarietà economica, ma non è sempre così, e va considerato insieme ad altri indizi. Uno di questi può essere fornito dalla personalità di chi accorda un credito di questo tipo e più ancora dal numero di prestiti che è disposto a concedere. Quando vi si aggiunge, da parte del prestatore, la richiesta di una garanzia che consiste quasi sempre nell’acquisto anticipato di mosto, grano, lino o fieno, si può allora ritenere di essere in presenza di una persona specializzata nei prestiti ai lavoratori più poveri, a coloro che hanno bisogno del credito non per aumentare i propri guadagni ma semplicemente per sbarcare il lunario in attesa del prossimo raccolto o di riscuotere del denaro che tarda ad ar- rivare. Ci si può chiedere anche se non vi siano stati a Roma dei notai più disposti di altri a registrare questo genere di prestiti, poiché è quanto meno strano vedere che un notaio come Francesco Capogalli ha, in meno di sei anni, rogato più di 300 atti di questo tipo 62, mentre i venticinque e ventitre registri di due notai ben più famosi di lui, Scambi e Venettini, ne contengono meno di un centinaio. Questi confermano però un fenomeno già ampiamente attestato nei registri di Capogalli: il ruolo delle donne nella concessione di questi prestiti destinati ad assicurare la sussistenza, per non dire la stessa sopravvivenza, dello strato più basso di coloro che praticavano un mestiere e dei lavoratori agricoli 63. Molte di queste donne sono vedove, quasi tutte sono di condizione agiata o molto agiata e si può pensare che la pratica del credito, concesso d’altra parte non solo ai più deboli, costituisse per loro uno dei rari mezzi per esercitare un’attività lucrativa, forse anche una delle poche occasioni di affermare la propria personalità fuori dalla cerchia familiare. I registri di Capogalli sono invece i soli, grazie al gran numero di atti di depositum che contengono, a rivelarci un altro aspetto, ancora più caratteristico, del credito ‘di sussistenza’, cioè l’esistenza di un piccolo numero di persone specializzate in questo tipo di prestiti, o almeno di persone alle quali coloro che ne avevano bisogno sapevano di potersi rivolgere. Sui 281 prestiti di sussistenza stipulati da Capogalli, 170 sono stati concessi da una dozzina di persone, in testa ai quali c’è il locandiere Anastasello di Anastasio, con un totale di 34 prestiti, di cui 18 sotto forma di acquisto anticipato di prodotti agricoli, tra i quali il vino tiene, naturalmente, il primo posto. Per un locandiere, l’acquistare già a gennaio o febbraio di grandi quantità di mosto, che gli saranno consegnate dopo la vendemmia, costituisce senza dubbio un buon modo per rifornirsi la cantina a buon prezzo. Ma che dire degli altri prestatori che, per il 30% dei prestiti che accordano, ricorrono anche essi alla formula dell’acquisto anticipato di prodotti agricoli, principalmente mosto e vino? E innanzitutto, chi sono? Allo stato at- Si tratta degli atti definiti di depositum, più raramente di refutatio, nell’Index instrumentorum che accompagna l’edizione delle minute di Francesco di Stefano Capogalli di R. Mosti: Un notaio romano del Trecento 1994, pp. 643-658. 63 Nei registri di Francesco di Stefano Capogalli quasi un terzo dei prestiti sono concessi da un po’ meno di trenta donne. Mi limito qui a citare i nomi delle sei donne più attive nel campo del credito, rinviando il lettore che volesse consultare gli atti dove esse compaiono all’indice dei nomi di persona elaborato da R. Mosti: cfr. Un notaio romano del Trecento 1994, pp. 583-617. Si tratta di Margherita moglie di Lorenzo Presbiteri Capogalli, di Perna moglie di Giovanni di Lello Capogalli, di Petruzia moglie di Cecco di Lomolo Capogalli, di Giovanna moglie de Giannuzio di Lello Pocie, di Francesca vedova de Lorenzo di Nuzio Ammirate, della nobilis domina Soresca moglie del nobilis vir Corrado de Marcellinis. Tre altri esempi di donne ‘prestatrici’ tratti dalle minute di Scambi: Caterina vedova di Cencio di Giovanni di Paolo Capozucca (BAV, Scambi, III, 115r-118r), Margherita vedova del quondam nobilis vir Lello di Crescenzio alias Rosso (BAV, Scambi, XI, 87r-88v) e di Caterina figlia del quodam nobilis vir Andreozzo di Graziano de Pelleonibus e vedova di Saba Paronis (BAV, Scambi, XVIII, 47v-48v). 62 461 IL MONDO DEI MESTIERI A ROMA tuale delle nostre conoscenze, un certo numero restano per noi dei perfetti sconosciuti, ma tra gli altri conosciamo un mugnaio (15 prestiti), qualche artigiano, otto membri della famiglia Capogalli, tra cui due notai, e parecchi membri di due famiglie della nobiltà cittadina, i Pappazurri e i Marcellini. Tutti risiedono nel rione Trevi, come i Capogalli, o nel vicino rione Monti. Lo stesso vale per la maggior parte dei loro debitori, ma non per tutti, perché il notaio ci fornisce per poco meno di sessanta di essi una indicazione che merita di essere sottolineata: quasi trenta abitano nei castelli della fascia meridionale della Campagna romana, e un’altra trentina sono ex-abitanti di questi stessi castelli o di altri castelli e città del Lazio, e anche dell’Umbria e delle Marche, che si sono trasferiti a Roma dove abitano nei rioni Trevi e Monti. È evidente che quasi tutti quelli che abitano ancora nei castelli della Campagna romana sono dei piccoli contadini che coltivano le terre prese in affitto da dei romani e sono obbligati, per soddisfare le loro necessità, di vendere in anticipo una parte del loro raccolto. L’origine rurale della maggior parte degli immigrati recenti lascia pensare che anche essi siano degli antichi contadini che continuano a Roma ad esercitare una attività agricola lavorando nelle vigne o sulle terre cerealicole delle grandi proprietà. Resta da capire se questa è la loro sola attività o se dividono il loro tempo tra l’agricoltura e altri lavori. Le nostre fonti sono mute al riguardo ma sarebbe veramente strano se questa categoria di lavoratori non avesse avuto, più ancora della massa degli artigiani e dei piccoli commercianti, la necessità di guadagnarsi il pane svolgendo diverse attività e quindi dividendosi tra il lavoro dei campi e delle occupazioni urbane di carattere più o meno stagionale. La condizione degli altri debitori era così precaria come quella degli immigrati più recenti? Si può escluderlo per quelli per i quali il notaio si prende la briga di specificare il mestiere; si tratta di artigiani, di bottegai, anche di notai, che traggono la loro visibilità sociale da una professione che costituisce la loro occupazione principale e dovrebbe, almeno in teoria, garantire loro una certa sicurezza economica, ma che non impedisce però che a volte anche essi si trovino nella condizione di dover prendere in prestito delle piccole somme di denaro. Lo stesso non si può tuttavia certamente dire degli altri debitori, quelli di cui il notaio non menziona la professione, e che rappresentano più del 60% del totale. Che il notaio non abbia voluto, o non sia stato in grado, di indicare il mestiere di un così gran numero di clienti, non ha per me nulla di casuale: vuol dire che aveva davanti persone che non avevano un vero mestiere, cioè un mestiere noto a tutti e capace di fissare l’identità sociale di chi lo pratica, delle persone estremamente modeste, di condizione molto inferiore a quella della media dei romani che praticavano un mestiere e obbligate per guadagnarsi da vivere a moltiplicare i lavori occasionali oltre al lavoro nelle vigne e nei campi che costituiva la loro sola occupazione regolare. Resta da chiedersi se per queste persone il ricorso al credito fosse una pratica usuale o se fosse al contrario visto come qualcosa di eccezionale e traumatico. Senza avere molti argomenti per poterlo dimostrare, sono però incline a pensare che per la fascia più povera della popolazione cittadina, composta principalmente da coloro che, non possedendo un impiego stabile, tiravano avanti cumulando lavori occasionali e lavoro agricolo, il ricorso al credito fosse una pratica usuale, così come lo è stato per le classi popolari nell’Inghilterra tra le due guerre 64: una pratica che faceva parte integrante dello stile di vita delle classi più povere e ben accettato dal resto della società, e che offriva a un certo numero di persone l’occasione di arrotondare le proprie entrate, ed eventualmente anche di riempire a prezzo vantaggioso le proprie cantine e i propri granai. *** I limiti di questo articolo sono fin troppo evidenti. Come ho già avuto modo di sottolineare più volte, noi ignoriamo quasi del tutto il volume della produzione artigianale nella Roma della fine del Medioevo e non sappiamo quasi nulla né dei profitti realizzati dai maestri artigiani né del numero degli operai che impiegavano. Lo stesso si può dire, più o meno, per la maggior parte delle attività commerciali, tuttavia con qualche significativa eccezione. Queste riguardano in primo luogo il commercio del pesce, della carne, delle spezie e degli altri prodotti rari che erano la specialità degli spetiarii, ma è possibile che vi si possano aggiungere, a partire dall’inizio del XV secolo, altre attività allora in forte crescita, come l’oreficeria, la pelletteria, la gestione degli alberghi. Infatti, al di fuori dei produttori di stoffe di lana che non è escluso che esportassero parte della loro produzione nel Lazio e anche più lontano, tutti gli artigiani e i commercianti che incontriamo nei registri notarili lavoravano per una clientela locale, cioè per la popolazione di una città che conta tra i 40 e i 50.000 64 79. Confronto che devo al grande libro di HOGGART 1970, pp. 78- 462 JEAN-CLAUDE MAIRE VIGUEUR abitanti, ma che presenta anche due particolarità suscettibili di influire in modo determinante sul livello della domanda. La prima non può essere messa in discussione: anche in assenza del papato, Roma è una città che trabocca di ricchezze. I principali detentori di queste ricchezze sono ben noti: si tratta innanzitutto delle chiese romane, e specialmente delle comunità monastiche e di canonici (Roma contava più di cinquanta capitoli, quasi tutti dotati di grandi patrimoni), inoltre le famiglie baronali, divise in svariati rami tutti titolari di un numero più o meno elevato di signorie castrali dalle quali traggono enormi rendite, infine le due o trecento famiglie della nobiltà cittadina che possiedono o gestiscono la quasi totalità del territorio che si stende in un raggio di km 20 -25 intorno a Roma. Non è questa la sede per tornare sul processo grazie al quale qualche decina di chiese e qualche centinaio di famiglie romane sono venute a detenere, alla fine del Medioevo, una tale massa di ricchezza. Questo processo non ha evidentemente nulla a che fare con quello che ha permesso alle repubbliche marinare, Venezia, Genova e Pisa, e alle principali città manifatturiere, Milano e Firenze, di portarsi allo stesso livello di ricchezza di Roma, e forse anche di superarlo, ma resta il fatto che a Roma la domanda è senza dubbio molto superiore a quello delle altre città della stessa importanza demografica. Ma non è tutto: nessun’altra città dell’Occidente medievale attira un così gran numero di pellegrini come Roma, senza che la presenza o l’assenza del papa abbia la minima influenza su questo flusso di visitatori. Certamente esso è soggetto a delle forti variazioni, sulle quali siamo sfortunatamente poco informati, al di fuori dell’eccezionale crescita negli anni giubilari, ma la presenza quasi permanente a Roma di una popolazione variabile da qualche centinaio a qualche migliaio di pellegrini non può non aver avuto una forte incidenza sul livello della domanda. L’economia locale era in grado di fare fronte a questa domanda? Certamente non per i preziosi tessuti di lana o di seta né per gli articoli di lusso dei quali le famiglie più in vista della città erano appassionate non meno di quelle delle più ricche città d’Italia. Questi prodotti erano oggetto di un commercio di importazione al quale i grandi mercanti romani non mancavano d’altra parte di partecipare. Invece, per i prodotti alimentari e gli oggetti di uso corrente, il sistema economico romano era perfettamente in grado di soddisfare i bisogni della popolazione, compresi quelli dei più ricchi e dei pellegrini. Non sono tuttavia convinto che tutti i mestieri romani abbiano approfittato allo stesso modo dell’ecce- zionale livello della domanda interna. Il consumo dei prodotti d’uso comune non può, infatti, espandersi all’infinito, se non altro perché coloro che ne avevano la possibilità avranno preferito concedersi l’acquisto di qualche costoso prodotto di lusso importato piuttosto che di moltiplicare gli acquisti di calzature, cappelli o vasellame di fabbricazione locale. Quello dei prodotti alimentari è molto più elastico e mi sembra logico pensare che le professioni legate all’alimentazione, a cominciare da macellai, pescivendoli e droghieri-speziali, siano stati i primi ad aver approfittato dell’alto livello di risorse di una frazione importante della popolazione romana. Pur non dandoci nessuna informazione sui profitti degli artigiani e dei piccoli commercianti, i registri notarili ci danno invece una immagine precisa del loro patrimonio, e ci autorizzano a pensare che la maggior parte di essi godessero di vera agiatezza, in quanto quasi tutti erano proprietari della casa dove abitavano e lavoravano, e possedevano inoltre una o più particelle a coltura intensiva che provvedevano largamente alle loro esigenze di vino, frutta e ortaggi. La prima impressione del lettore sarà senza dubbio di vedervi una conferma di quanto detto finora: stimolati dall’alto livello della domanda, il commercio e l’artigianato sono due settori dell’economia romana che permettono a una buona parte di coloro che vi si dedicano di accumulare un patrimonio fondiario e immobiliare di un valore medio compreso tra i 200 e i 300 fiorini. In realtà, è necessario rendersi conto che l’innegabile agiatezza degli artigiani e dei commercianti romani del XIV e XV secolo ha delle cause molto remote ed è, almeno in parte, la conseguenza di un processo identico a quello che ha permesso l’arricchimento delle chiese e dell’aristocrazia: come le chiese, dopo averle ricevute dal papato, si sono affrettate a concedere i grandi possedimenti della campagna in locazione enfiteutica a lunghissima scadenza alla fascia più alta della popolazione cittadina, così, allo stesso modo, hanno concesso, non più soltanto ai proceres ma a tutta la popolazione romana, le migliaia e migliaia di vigne e orti che circondano la città per un raggio di tre o quattro km intorno alle mura. Secondo Wickham, al quale si deve la più recente e migliore analisi di questo lungo processo, i romani che hanno beneficiato di queste concessioni nel corso dell’XI e XII secolo hanno rapidamente acquisito la piena proprietà di queste particelle a coltura intensiva, pur restando soggetti all’obbligo di versare alla chiesa che le aveva concesse un quarto dei prodotti raccolti, obbligo ancora in vigore nell’epoca che ci interessa. Ed è molto probabilmente a un processo dello stesso tipo, sempre secondo Wic- IL MONDO DEI MESTIERI A ROMA kham, che si deve l’appropriazione da parte di laici di ogni condizione sociale della maggior parte della superficie urbana, sia costruita che non, ed è questo che avrebbe permesso alla maggior parte dei romani di diventare proprietari della loro casa 65. Come si vede dunque, a loro modo e in una misura evidentemente molto inferiore a quella dell’aristocrazia, anche gli artigiani e i commercianti hanno approfittato della ricchezza e delle elargizioni delle chiese di Roma ed è senza dubbio questa una delle ragioni che spiega l’agiatezza di cui essi godono ancora alla fine del Medioevo. Una breve osservazione, infine, sul ruolo delle corporazioni nella vita politica romana. A Roma, come in tutte le altre città dell’Italia comunale, le associazioni di mestiere rappresentano una delle due forme di organizzazione utilizzate dal popolo per difendere i suoi interessi in seno alle istituzioni comunali e, infatti, a Roma la loro presenza nei consigli e negli altri organi dirigenti del comune è regolarmente attestata a partire dal momento nel quale il popolo è riuscito a imporsi come una delle principali forze politiche della città, cioè a partire dal 1254 66. Ma a fianco delle corporazioni, il popolo dispone, con le associazioni di quartiere, di un altro canale di partecipazione alla vita politica, aperto all’insieme delle classi popolari e non più solo ai membri delle corporazioni, e spesso portatore di un programma più radicale di quello delle arti. La funzione di questi due tipi di organizzazione nell’apparato comunale, il loro ruolo nell’evoluzione del sistema politico e i rapporti, a volte conflittuali e a volte consensuali, che intrattengono lungo tutto il XIII e XIV secolo, sono tra i problemi più dibattuti della storiografia sul comune. Ci vorrebbero delle fonti per poterli risolvere, il che non è il caso per quanto riguarda Roma, dove non si è conservato nulla degli archivi comunali. C’è tuttavia, nella storia di Roma, un periodo un po’ meno oscuro degli altri, e vale la pena di soffermarcisi un momento, poiché corrisponde agli ultimi quaranta anni del XIV secolo e quindi rientra in pieno nel periodo di cui stiamo trattando. Dal 1358 o 1359 fino al 1398 il regime politico vigente a Roma si caratterizza per l’egemonia assoluta di una società popolare, la Felice Società dei Balestrieri e Pavesati, che recluta i suoi membri nel quadro di quei mini-quartieri che a Roma si chiamano contrade e il cui numero, all’interno di ogni rione, varia in ragione della superficie e della popolazione. Si è dunque in presenza di un sistema di organizzazione basato esclusivamente sul luogo di residenza e sui legami che uniscono delle persone che abitano all’interno di un perimetro limitato, molto più limitato rispetto a quello del 463 rione che costituiva fino a quel momento il solo quadro di riferimento topografico per la partecipazione alla vita politica del comune. Ma chi sono le persone che la Società recluta all’interno delle contrade? Non c’è alcun dubbio: anche se non conosciamo che una minima parte dei tremila membri della Società 67, tutti gli indizi a nostra disposizione indicano che almeno in tre casi su quattro si tratta di artigiani e di piccoli commercianti, che si identificano quindi molto più con il mini-quartiere dove risiedono e lavorano che con la corporazione di cui la maggior parte di essi fa parte. Questa maggiore importanza, per le persone del popolo, dei legami di vicinato rispetto alla solidarietà professionale non deve stupire, se si tengono a mente i due tratti che caratterizzano la massa del popolo dei mestieri, costituito da tutti coloro che lavorano nei settori dell’abbigliamento, del metallo, dell’edilizia, dei trasporti, così come dalla grande maggioranza dei contadini e dei vignaioli-ortolani: innanzitutto l’assenza quasi totale di concentrazione topografica di questi lavoratori, sparsi in ogni rione e spesso anche in ogni contrada della città, in secondo luogo la forte omogeneità del loro modo di vita poiché è per loro quasi impossibile superare un certo livello di ricchezza, e possiedono tutti, più o meno, lo stesso tipo di patrimonio immobiliare e fondiario, e infine il fatto che sono tutti costretti, per scelta e/o per necessità, a praticare una forma di pluriattività in cui il lavoro della terra è sempre associato all’esercizio di un mestiere urbano. Quest’ultimo ha certo la sua importanza e fa senza alcun dubbio parte degli indicatori dell’identità individuale, ma nello spirito delle persone del popolo il mestiere resta certamente in secondo piano tra i tratti che segnano la loro identità collettiva e li distinguono non solo, come è ovvio, dalle classi più elevate, ma anche dai mestieri meno gravosi e più lucrativi. Presso i quali si osserva esattamente l’inverso: per i pescivendoli, i macellai, i droghieri, per tutti quelli che esercitano un mestiere che offre delle reali possibilità di arricchimento e assicura dei guadagni superiori alla media degli altri mestieri, la professione è la base dell’identità individuale e sociale, la comunità di mestiere prevale su tutti gli altri tipi di legame e la corporazione rappresenta il miglior canale di partecipazione alla vita politica. Da un lato la mentalità dei sanculotti, dall’altra lo spirito dei girondini. 65 WICKHAM 2013, pp. 80-90 per le terre della Campagna romana; pp. 123-132 per le vigne e gli orti; pp. 157-158 per il suolo urbano. 66 MAIRE VIGUEUR 2001, pp. 141-151. 67 MAIRE VIGUEUR 2008, pp. 577-606. 464 JEAN-CLAUDE MAIRE VIGUEUR Bibliografia AIT 1996 = I. AIT, Tra scienza e mercato. Gli speziali a Roma nel tardo Medioevo, Roma 1996. BROISE, MAIRE VIGUEUR 1983 = H. BROISE, J.-C. MAIRE VIGUEUR, Strutture familiari, spazio domestico e architettura civile a Roma alla fine del Medioevo, in AA. VV., Storia dell’arte italiana. 12. III. Situazioni monumenti indagini. V. Momenti di architettura, Torino 1983, pp. 97160. CORTONESI 2005 = A. CORTONESI, Il casale romano fra Trecento e Quattrocento, in ESPOSITO, PALERMO 2005, pp. 123145. DEGRASSI 1996 = D. DEGRASSI, L’economia artigiana nell’Italia medievale, Roma 1996. ESPOSITO 1992 = A. ESPOSITO, Strategie matrimoniali e livelli di ricchezza, in M. CHIABO’, G. 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Lo studio delle opere murarie costituisce pertanto una testimonianza materiale di grande valore per conoscere la transazione dall’antichità al Medioevo, periodo in cui l’industria edilizia, soprattutto per le tecniche di approvvigionamento della materia prima, di trasporto, di sollevamento, attraversò cambiamenti assai profondi, in relazione alle trasformazioni nell’organizzazione sociale e produttiva. Lo sviluppo dell’archeologia postclassica, sia per quanto riguarda lo scavo di edifici, sia per lo studio degli elevati, ha offerto, negli ultimi decenni, una notevole quantità di dati utili alla conoscenza dei cicli produttivi dell’edilizia fra tarda antichità e altomedioevo 1. Caratterizzano i secoli del tardo impero una progressiva interruzione dell’attività estrattiva e una crescente divaricazione fra Mediterraneo occidentale e orientale. Relativamente alla prima fase del ciclo, ovvero quella estrattiva, si osserva una vistosa diminuzione delle cave già nel III secolo e un sostanziale, definitivo abbandono nel corso del IV e V secolo. Ciò vale, nel Mediterraneo occidentale, sia per le estrazioni di pietra calcarea 2, sia per quelle di marmi bianchi o colorati 3. Differente è la situazione nel Mediterraneo orientale, dove, in seguito alla fondazione di Costantinopoli, prendono avvio, proprio dal IV secolo in poi, importanti cave di marmo 4 il cui massiccio utilizzo va avanti, perlomeno, fino alla metà dell’VIII secolo, ovvero, per tutta l’epoca Ommayade 5. L’archeologia delle cave ha d’altra parte evidenziato come nell’altomedioevo non siano scomparse del tutto le attività estrattive, neppure in Occidente, ma siano molto sporadiche 6, formate da coltivazioni poco estese, di carattere episodico e occasionale e, soprattutto, caratterizzate da una geometria molto semplificata e da una limitata gamma di strumenti 7. Con la fine delle cave vengono meno anche le strutture in quadrato lapide, ovvero in grandi blocchi squadrati. Se un edificio come il mausoleo di Teodorico a Ravenna rappresenta, all’inizio del VI secolo, forse l’ultima costruzione, in Occidente, con grandi blocchi squadrati estratti, altrove sono attestati, in maggior misura, edifici realizzati in grandi spolia. Laddove l’archeologia ha consentito di elaborare datazioni oggettive 8, si è constatato che opere quadrate di spolia sono presenti in BROGIOLO, CAGNANA 2012, pp. 7-19. 2 BESSAC 1996, pp. 232-242. 3 CAGNANA 2014; CAGNANA c.s. 4 MARANO 2014. 5 ARCE 2014. 6 Un caso di studio di grande interesse è rappresentato dalla cava altomedievale di Valdieri, sfruttata nell’VIII secolo per eseguire l’arredo liturgico della chiesa di Borgo San Dalmazzo di Pedona (Cuneo). Cfr. MICHELETTO 1999; CROSETT 1999; FRISA MORANDINI, GOMEZ SERITO 1999. 7 BESSAC 1987. 8 Per il tratto delle mura di Verona, datate ad età teodoriciana, cfr. CAVALIERI MANASSE, HUDSON 1999; per il tratto di mura di Opitergium posteriormente al VI secolo, cfr. CASTAGNA, TIRELLI 1995. Per Roma, le mura in opera quadrata di spolia sono datate al IX-X secolo, cfr. SANTANGELI VALENZANI 2002; SANTANGELI VALENZANI 2004. 1 468 GIOVANNA BIANCHI, AURORA CAGNANA Fig. 1. - Lo sviluppo diacronico dei principali tipi di opere murarie fra alto e basso medioevo (da Brogiolo, Cagnana 2012). tutto il territorio italiano dall’età tardo antica al X secolo 9. Si tratta, generalmente, di opere pubbliche di notevole importanza (mura, torri, ridotte difensive) più raramente di luoghi di culto (fig. 1). Studiato prevalentemente sotto l’aspetto ideologico, il fenomeno del reimpiego rappresenta, innanzi tutto, un espediente tecnologico per imitare l’opera quadrata 10, in un ambiente in cui la coltivazione estesa di cave era divenuta pressoché impossibile, anche a causa della mancata manutenzione di ponti e strade. La realizzazione di opere di spolia è comunque frutto di un notevole sforzo tecnico, in particolare per affrontare il trasporto, il sollevamento e la posa in opera di blocchi che potevano comunque raggiungere il peso di centinaia di chili 11. Rispetto all’opera quadrata, il ciclo produttivo di questo tipo di muratura è semplificato, in quanto le complesse operazioni estrattive sono sostituite dallo smontaggio di edifici precedenti, in genere ubicati non lontano dal cantiere del reimpiego, onde evitare impegnative opere di trasporto (fig. 2). Le lavorazioni a piede di muro sono limitate a sgrossature a picco o a punta grossa che sovente si sovrappongono a quelle originali, più fini. Quanto alle maestranze è plausibile pensare che si tratti di specialisti itineranti, come quei marmorarii peritissimi ai quali farebbe riferimento lo stesso re Teodorico a proposito di una fornitura di materiali da Roma a Ravenna 12. Pochi specialisti e un coagulo di forza lavoro reclutata nelle domuscultae alla periferia di Roma, alle quali alluderebbero alcuni passi del Liber Pontificalis, sarebbero invece all’origine delle domus carolingie rinvenute nel foro di Nerva e, soprattutto, delle mura leonine che cingevano lo Stato della Chiesa, fra IX-X secolo 13. Fenomeni analoghi a quelli descritti sembrano avere caratterizzato anche le murature in opera listata e quelle in petit appareil, particolarmente diffuse nelle provincie occidentali dell’Impero. Anche in questo caso i cubilia, o blocchetti, erano prodotti dall’estrazione in cava, ma effettuata con sistemi meno impegnativi rispetto al- CAGNANA 2005a; CAGNANA 2010. 10 CAGNANA 2008, pp. 42-44. 11 Per lo studio delle domus edificate nel foro di Nerva nel IX secolo, cfr. SANTANGELI VALENZANI 2002; SANTANGELI VALENZANI 2004. 12 CASSIOD. var., I, 6. 13 SANTANGELI VALENZANI 2004. 9 MAESTRANZE, AMBIENTE TECNICO E COMMITTENZE DEI CANTIERI NEL CENTRO NORD DELL’ITALIA TRA ALTO E BASSO MEDIOEVO 469 murature che imitano il petit appareil, per lo più realizzate in blocchetti di reimpiego o in ciottoli, tanto da conferire alle murature quell’aspetto irregolare che ha portato a coniare la definizione di piccolo apparato ‘degradato’ 15. Lo studio di diversi monumenti porta alla constatazione che, in alcune regioni (come nella Liguria Maritima), la tradizione costruttiva del piccolo apparato sia continuata Fig. 2. - Schema dei cicli produttivi delle murature (da Brogiolo, Cagnana 2012). anche dopo la fine delle attività estrattive su grande scala. Dal IV-V secolo i blocchetti, non più forniti da apposite cave, vengono ricavati dallo spoglio di precedenti edifici non più in uso (fig. 3). Le città di Albintimilium e di Albingaunum, molto studiate sotto questi aspetti, testimoniano l’esistenza di una forma ‘degradata’ del petit appareil, caratterizzata da un aspetto irregolare, dovuto all’eterogeneità dei materiali di recupero. La vasta casistica di edifici studiati porta a ritenere che dopo il VII secolo anche questo tipo di muratura scompare, insieme con il declino definitivo dell’organizzazione dei collegia urbani. Se ne deduce che, anche il piccolo apparato non ha avuto una continuità nell’altomedioevo, ma ha Fig. 3. - Esempio di muratura in piccolo apparato degradato (Albenga, chiesa paleocristiana conosciuto una battuta di arresto. di S. Clemente, foto A. Cagnana). Anche per due delle maggiori città l’opera quadrata: al distacco di lastre coincidenti con dell’Occidente, quali Roma e Milano, l’attività edilizia gli strati naturali di rocce (per lo più sedimentarie) faviene basata sulla progressiva scarnificazione dei mocevano seguito operazioni di spacco a martello (a dopnumenti antichi e su un continuo riciclo. Di notevole pia punta o semplice, o dentato) che consentivano di interesse è lo studio del mercato dei reimpieghi, che è produrre, in poco tempo, molto materiale 14. Gli scarti stato avviato, proprio partendo dai monumenti tardo anvenivano impiegati nell’interno dei muri, mentre i bloctichi di Milano 16. chetti costituivano i paramenti esterni degli edifici. Interrotti il ciclo dell’opera quadrata e quello del picL’approvvigionamento da cava viene meno anche nel colo apparato, si direbbe che l’unica muratura che concaso delle coltivazioni più semplici, ovvero quelle che tinuò ad essere prodotta nell’altomedioevo sia stata sfruttavano strati naturali per ottenere lastre da ridurre l’opus incertum (ovvero in pietra e calce) ritenuto ‘anin blocchetti, impiegati nelle murature a bozzette, o in tiquum’ all’epoca di Vitruvio, il quale, significativapiccolo apparato. Fra V e VI secolo si trovano ancora mente, lo considerò non bello, ma più solido 14 15 BESSAC 1996. CAGNANA 2005b, pp. 100-102. 16 FIENI 2004. 470 GIOVANNA BIANCHI, AURORA CAGNANA (‘firmiorem’) dell’opera in cubilia 17. Se si esamina una carta di distribuzione dell’opus incertum altomedievale, si riscontra che esso è presente, con poche varianti, in tutto il territorio nazionale, nei monumenti più importanti dell’altomedioevo 18. Le ricerche condotte sulle opere murarie fra V e X secolo hanno permesso di operare una rilettura delle fonti scritte rappresentate, soprattutto, dalle fonti legislative longobarde e ha consentito di riesaminare la questione dei magistri commacini, posta già nel 1725, l’anno dell’edizione muratoriana dell’Editto di Rotari. Negli anni seguenti, molte sono state le osservazioni e le ipotesi interpretative del testo, in particolar modo per quanto riguarda i tipi di murature e di opere citati nelle fonti longobarde 19. Alla luce dei dati materiali sembra oggi possibile comprenderne le parti più problematiche dei testi. Vale la pena ricordare che tali fonti sono costituite da due capitoli dell’Editto di Rotari (144 e 145), dal memoratorium de mercede commacinorum, o prezziario, forse dell’epoca di Grimoaldo e da un atto notarile del 739 che menziona un magister commacinus Rodpert 20. Altri due documenti risalgono, rispettivamente, all’XI e al XIII secolo 21. I due capitoli dell’Editto sono da considerare fonti legislative valide per tutto il Regno longobardo, così come il memoratorium, come è stato ribadito anche di recente 22. Gli altri tre documenti attestano la presenza di magistri commacini nell’Italia centrale e nella Langobardia Minor. Non si evince, pertanto, alcun rapporto con una città e, nella fattispecie, con Como. L’editto prescrive quali comportamenti si debbano tenere in caso di incidenti che coinvolgano magistri appaltatori di un’opera (insieme ai soci, o collegantes), oppure in caso di magistri assoldati (conducti) da un proprietario, per dirigere i suoi servi nella costruzione di un edificio. È quindi abbastanza chiaro che il testo fa riferimento ad artigiani itineranti e che riguarda tutto il Regno Longobardo. Un maggior numero di notizie si ottiene, invece, dal Memoratorium de mercedibus commacinorum; esso reca una serie di lavorazioni vistosamente scarna: le varie prestazioni artigianali sono meno di una decina. Il tariffario è suddiviso in dieci paragrafi che non paiono, però, ordinati secondo una sequenza logica, ma piuttosto disarticolati. I capitoli che fanno riferimento alla costruzione di particolari edifici, o annessi (de sala, de caminata, de furnum, de puteum) sono intercalati dai paragrafi che fanno riferimento alle murature e alle finiture delle pareti. Un dato interessante è costituito dalla quantificazione della ricompensa per il muratore, dato che rivela, fra il resto, un costo del lavoro molto alto 23. Si dice inoltre che con un solidus si possono acquistare 225 piedi di muro. Il prezzo varia, inoltre, a seconda dello spessore: è da duplicare fino alla larghezza di un piede, da quintuplicare nel caso di strutture che raggiungono cinque piedi di spessore. Quanto alla tipologia delle murature, si fa cenno soltanto all’opera ‘gallica’ e alla ‘romanense’, termini sul cui significato molto si è dibattuto. Il senso della prima si può meglio chiarire laddove si precisa «si cum axibus clauserit et opera gallica fecerit […]», espressione che lascia intendere una struttura a pareti lignee, probabilmente di tipo stabbau piuttosto che standerbau. Riguardo all’opera ‘romanense’, il significato del termine è una delle questioni più controverse e dibattute. Dopo diversi anni di ricerche archeologiche, di scavi, di ricognizioni e studi sulle opere murarie di età altomedievale penso sia possibile identificare tale tipo di opera con le murature, di origine romana, in pietra e calce, quelle che Vitruvio aveva definito come opus incertum; questa è, infatti, l’unica tradizione costruttiva di età classica che non viene abbandonata durante i secoli dell’altomedioevo, neppure quando l’attività costruttiva si riduce drasticamente 24. La ricerca archeologica mostra anche l’esistenza di una sostanziale uniformità di tecniche su un vasto areale geografico, ciò che rispecchia proprio una realtà di maestri itineranti (fig. 4). Un altro punto importante è la cura per le rifiniture, manifestata dalle testimonianze materiali, talora costituite, semplicemente, da una stuccatura o rinzaffo dei giunti, talora da un più complesso rivestimento a intonaco. L’espressione «si muro dealbaverit», e le relative VITR. II, 8,1. CAGNANA 2010. 19 Una esauriente e aggiornata raccolta di scritti è costituita dal volume I magistri commacini 2009. 20 ROTHARI, Edictus 144, 145, éd. F. Bluhme, in Edictus Langobardorum, 1868, p. 33 (MGH, LL IV). Memoratorio de Mercedes commacinorum, éd. F. Bluhme, in Edictus Langobardorum, 1868, pp. 176-180 (MGH, LL IV). 21 Nel 1058 un «Leo f.q. Ursi magistri commacini» è attestato a Salerno (cod. dipl. Cavensis, t. VIII, p. 83); mentre nel 1262 è menzionato un «Gualterius magister comacenus habitator civitatis Trani» (cod. dipl. Barese, t. VIII, 1899, p. 301, doc. n. 278). 22 JARNUT 2009, pp. 2 ss. 23 BROGIOLO 2008, p. 13. 24 CAGNANA 2005b. 17 18 MAESTRANZE, AMBIENTE TECNICO E COMMITTENZE DEI CANTIERI NEL CENTRO NORD DELL’ITALIA TRA ALTO E BASSO MEDIOEVO 471 precisazioni del prezzo sembrano infatti fare riferimento all’operazione di intonacatura, che comportava, ovviamente, un costo maggiore, e che era conteggiata a parte. Collegato a questo significato è anche quello di machina, termine che ha rappresentato, per molto tempo, il punto di più controversa interpretazione del testo. Va osservato che tale espressione ricorre quando si parla del costo del muro in relazione all’altezza («si machina mutaverit[…]»), ciò che induce a ritenere che il termine faccia riferimento a ponteggi lignei, una delle tante macchine descritte da Vitruvio 25. Questo si- Fig. 4. - Muratura in opera incerta o romanense. Castelseprio chiesa di S. Maria (foto A. Cagnana). gnificato, reso evidente dalla lettura del contesto, è confermato anche da un’altra fonte: un passo dell’Etymologicon di Isidoro di Siviglia nel quale si afferma: «machiones dicti a machinis in quibus insistunt propter haltitudinem parietum» 26. Fonti scritte e dati materiali indicano, dunque, che nel pieno altomedioevo (fra VII e IX secolo), le attività costruttive furono quantitativamente ridotte e rappresentate soprattutto dalle strutture in materiali deperibili, dai muri in spolia (più rari) e, soprattutto dall’opera incerta, in pietra e buona calce, definita opera romanense. Sembra dunque possibile concludere che, nei secoli dell’altomedioevo, la murature in opera incerta, intonacate, siano l’unica tradizione costruttiva dell’età classica ad essersi mantenuta (fig. 5). Un argomento di notevole importanza è quello relativo alla produzione laterizia, che nei secoli dell’alto medioevo non scomparve del tutto, ma fu soppiantata da piccole fabbricazioni destinate ad alcune parti degli edifici, mentre la grande quantità era tratta dai prelievi degli edifici non più in funzione. Lo si è constatato nei casi in cui sia stato possibile effettuare datazioni in termoluminescenza oltre che, nei rari casi, di laterizi bollati ‘a crudo’. Gli studi archeometrici di dettaglio effettuati sul battistero paleocristiano di Santa Tecla di Milano 27 o sulla basilica milanese di S. Lorenzo 28 hanno dimoFig. 5. - Muratura di spolia, ottenuta con frammenti di mattoni romani (Palazzo Pignano, foto A. Cagnana). strato che, nella quantità dei mattoni di reimpiego, una 25 26 VITR. VII, 2, 2. ISID. orig. XIX, 8. 27 28 FIENI, MARTINI, RICCI 1998. FIENI 2004. 472 GIOVANNA BIANCHI, AURORA CAGNANA piccola percentuale era costituita da mattoni prodotti per quel determinato cantiere, segno che l’attività produttiva non si era spenta. Interessanti ricerche dimensiocronologia sono state effettuate anche sui materiali reimpiegati, giungendo a dimostrare l’esistenza di un mercato del reimpiego 29. La grande fornace rinvenuta presso il monastero di San Vincenzo al Volturno rappresenta un impianto assai evoluto, per il quale si è anche proposta l’attività di artigiani provenienti dall’area medio bizantina 30. Non si conosce ancora quale meccanismo portò, in un momento dell’altomedioevo, a produrre mattoni di un piede per mezzo piede, ossia molto più maneggevoli rispetto ai pedali romani e ai loro multipli. Alla crescita demografica e al consolidamento dei poteri locali fa seguito, dal IX-X secolo in poi, un decisivo aumento quantitativo di queste murature 31. Il fatto che le testimonianze aumentino consente inoltre di cogliere anche le trasformazioni che avvengono: si evince, in particolare, una progressiva ricerca della regolarità, attraverso una maggiore selezione del materiale raccolto. Dai muri albati altomedievali si passerà alle strutture a corsi sub-orizzontali e, quindi, alle opere a corsi di bozzette lapidee, molto simili al piccolo apparato di età classica. Questo passaggio sembra essere graduale e, ancora una volta, attestato in un vasto areale geografico, non limitato solo al Regno Italico. È interessante osservare che nello stesso periodo compare, nelle fonti scritte, l’uso del termine ‘quadrato’ (quadris lapidis) riferibile, a quanto pare, al recupero delle murature in piccolo apparato 32. La maggiore regolarità del paramento si ottiene anche attraverso un uso più sistematico e ragionato del materiale di spoglio che, proprio fra X e XI secolo, diviene più sistematico. Tutte queste trasformazioni consentirono di limitare, sempre più, l’impiego dei muri albati e di recuperare i muri a vista. Anche in questo caso l’ampia estensione areale del fenomeno lascia intuire l’azione di una committenza a largo raggio, quale può essere identificata, forse nella rete dei monasteri benedettini 33. Quanto al recupero della vera e propria opera quadrata, costituita da grandi elementi geometrici, esso si colloca, in alcuni territori, fra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo 34 e, a livello più generale, nel corso del MANNONI 2000. MORAN 2000. 31 Cfr. infra. 32 MORTET, DESCHAMPS 1995. XII secolo. L’elemento promotore, in questo caso, sembra da individuarsi nelle città, dove si afferma sempre più, economicamente e politicamente, il ceto mercantile, che tende a investire i proventi del commercio nell’architettura per rappresentare lo status raggiunto. L’introduzione dell’opera quadrata costituisce un balzo tecnologico importante e segna una differenza fondamentale con le tradizioni costruttive precedenti. Un caso di studio interessante è Genova, dove si dispone di una notevole ricchezza delle fonti scritte e materiali 35; qui si evidenzia una ‘improvvisa’ reintroduzione delle cave e dell’opera quadrata 36. Questo fenomeno, è da mettere in relazione, fuori di ogni dubbio, con i rinnovati e frequenti contatti con la Terrasanta e con l’Armenia, regioni dove le tecniche estrattive e di lavorazione della pietra avevano mantenuto una maggiore continuità durante i secoli dell’altomedioevo. (A.C.) Brevi considerazioni sulle trasformazioni del cantiere tra altomedioevo e secoli centrali All’organizzazione dei cantieri edili di età preindustriale si lega una realtà complessa nella quale interagiscono fattori dipendenti, in particolar modo, dalla disponibilità delle materie prime, dalle conoscenze tecniche dei costruttori, dalla condizione economica sia della singola committenza, sia del generale contesto storico. Si potrà obiettare che queste siano caratteristiche proprie anche di altri cicli produttivi. La differenza con il ciclo legato al costruire è insita, però, nel fatto che molti dei luoghi dell’abitare, ma anche dell’esercizio di svariati poteri pubblici laici od ecclesiastici, hanno da sempre svolto un ruolo di forte rappresentanza nei confronti di chi li aveva commissionati, divenendo, di conseguenza, uno degli indicatori più significativi di mutamenti di tipo economico, sociale e politico. Nell’analisi dei cambiamenti nell’organizzazione di cantiere è, pertanto, importante anche la valutazione del ruolo di coloro che recepivano queste architetture, le cui impressioni, il cui giudizio potevano acquisire una significativa rilevanza per le stesse committenze. Da questa sintetica premessa si può evincere quanto 29 33 30 34 35 36 BIANCHI 2003. Per Pisa: QUIRÒS CASTILLO 2005. CAGNANA 2005a. CAGNANA 2008; CAGNANA, MUSSARDO 2012. MAESTRANZE, AMBIENTE TECNICO E COMMITTENZE DEI CANTIERI NEL CENTRO NORD DELL’ITALIA TRA ALTO E BASSO MEDIOEVO 473 rischiose possano essere le generalizzazioni sulle caratteristiche dei cantieri soprattutto per un periodo ampio, come quello analizzato in questo contributo. Per tale motivo le successive considerazioni sono rapportabili ad un ambito geografico più ristretto, riferibile al Centro-Nord della penisola. Inoltre, per cercare di cogliere nella lunga diacronia i momenti più evidenti di possibili cambiamenti nell’organizzazione del cantiere, si farà riferimento alle costruzioni in materiale non deperibile, le quali sono più rappresentative di fasi di transizione o di repentine modifiche, essendo maggiormente legate a dinamiche di committenza articolate, a loro volta connesse a trasformazioni di ordine politico ed economico 37. Prima di ogni riflessione sulle trasformazioni del cantiere edilizio e degli altri aspetti ad esso connessi, è necessario definire che cosa distingue un’organizzazione complessa del costruire da una più semplificata. Ormai da tempo ed in più sedi di edizione si è precisato, mutuando tali termini dalla ricerca antropologica, come l’’ambiente tecnico’, definibile come l’insieme delle conoscenze necessarie a presiedere i vari aspetti della vita tecnica legati alla sfera domestica e lavorativa, sia costituito anche dall’insieme delle catene operative finalizzate alla produzione di beni per singoli individui o per l’intera comunità 38. L’insieme degli oggetti e dei gesti necessari per la realizzazione delle singole catene operative sono definiti ‘gruppi tecnici’. Nel mondo del costruito non si può parlare di un unico gruppo tecnico ma di più gruppi. A titolo esemplificativo, tra i principali gruppi possiamo individuare l’estrazione del materiale dalla cava (pietra); la produzione del materiale da costruzione (laterizi, terra, legno); la lavorazione e finitura del materiale; la realizzazione dei leganti (malta di calce); la produzione di pavimentazioni, di vetri, di rivestimenti parietali (intonaci, affreschi, marmi etc.) o di elementi di arredo scultoreo. Gli studi antropologici dimostrano che ad una maggiore articolazione dell’ambiente tecnico corrisponde un maggior numero di gruppi tecnici che lo compongono. Un cantiere di tipo semplificato prevedeva la presenza di operatori che potevano occuparsi di più gruppi tec- nici contemporaneamente. Al contrario un cantiere complesso era caratterizzato dalla specializzazione massima di chi vi lavorava, ovvero era composto da un alto numero di gruppi tecnici presieduti da operatori diversificati 39. In questo cantiere i compiti erano ben divisi in base alle specifiche competenze delle varie maestranze. I gesti, gli strumenti, i passaggi della catena operativa pertinenti un singolo gruppo tecnico erano riferibili a saperi che potevano interagire anche relativamente con quelli di altri gruppi. Il cantiere di età classica rientra in questo tipo di organizzazione, data la presenza degli ampi collegia, caratterizzati da un alto livello di specializzazione dei vari artigiani 40. Rispetto a quest’ultimo tipo di cantiere, possiamo individuare un radicale cambiamento a partire dal VII secolo. Una prima testimonianza di ciò proviene dagli stessi dati documentari. Un’organizzazione di cantiere semplificata è ben testimoniata dai testi di VII e di VIII secolo riferibili ai maestri comacini di cui si è scritto nel precedente paragrafo. Dai grandi collegia di età classica si passò, infatti, a gruppi di maestranze molto più ridotti, itineranti tra la campagna e la città, composti da soggetti capaci di concentrare nella propria persona più specialismi e svolgere una pluralità di azioni. Secondo Lomartire la definizione di questi compiti, nelle fonti riferite ai comacini, delle volte poteva essere intesa come sinonimo. Tale difficoltà, quindi, nel trovare nei documenti dei sicuri riferimenti ad una precisa distinzione dei ruoli farebbe ipotizzare la presenza di muratori che all’occorrenza potevano anche provvedere a predisporre la decorazione scultorea 41. È, quindi, ipotizzabile che cicli produttivi, prima affidati a differenti figure, fossero divenuti di competenza spesso di unici operatori. Per trovare, quindi, un cantiere complesso sul modello di quello tratteggiato poco sopra e tipico dell’età classica è indubbio che, nel centro-nord della penisola, bisogna attendere i grandi e numerosi progetti dei secoli centrali del Medioevo, relativi alla costruzione di cattedrali, chiese, palazzi civici, cinte urbiche o castelli nelle campagne. Le considerazioni sinora elaborate indirizzano però Per i casi di architetture in legno o materiale deperibile è, infatti, più difficile cogliere delle trasformazioni significative, nell’arco cronologico qui esaminato, sia nel trattamento dei materiali impiegati, sia nella tipologia planimetrica o nelle trasformazioni interne. Ciò non significa che tali cambiamenti non fossero presenti, come dimostra l’ampia letteratura in proposito. Questi però avvennero in maniera meno percettibile rispetto alle architetture in pietra o in altro materiale non deperibile. A riguardo, per una più recente trattazione di questo tema, si rimanda a SANTANGELI VALENZANI 2011; BIANCHI 2012a. 38 BIANCHI 2008; BIANCHI 2011; BIANCHI 2013. 39 Su questi temi si veda anche BROGIOLO 2008. 40 Per una sintesi su questo tema, in ultimo CAGNANA 2008. 41 BROGIOLO 2008; LOMARTIRE 2009. 37 474 GIOVANNA BIANCHI, AURORA CAGNANA verso due correlate domande: un livello di specializzazione massimo o minimo può realmente essere indicativo della reale complessità del cantiere?. La concentrazione dei saperi in un numero più ridotto di figure fu legata ad un impoverimento degli stessi saperi, così come spesso sostenuto a proposito del cantiere altomedievale?. Per una adeguata risposta a tali quesiti è, quindi, importante ricordare, seppure in estrema sintesi, quali fossero le conoscenze circolanti nel lungo periodo compreso tra VII e XI secolo. Per questo è necessario fare riferimento soprattutto alle evidenze materiali, tenendo a mente però una più generale considerazione. Così come dimostrato nel precedente paragrafo, con lo sviluppo dell’archeologia dell’architettura, le caratteristiche delle tecniche murarie sono divenute i parametri di lettura più utilizzati per la comprensione dei livelli di conoscenza dei costruttori e del tipo di investimento riferibile alla generale condizione economica delle committenze. Per il periodo altomedievale l’uso esclusivo di questi indicatori non è, però, sufficiente, perché, proprio la presenza diffusa di figure, simili ai maestri comacini, caratterizzate da specialismi multipli, induce a valutare la reale complessità del cantiere tenendo conto anche di altri aspetti della produzione legati al costruito. Nel precedente paragrafo sono già stati ricordati alcuni dei gruppi tecnici ancora attivi nell’altomedioevo in continuità o meno con l’età classica. Nella costruzione dei paramenti murari sappiamo che la chiusura delle grandi cave a partire dal periodo tardo antico comportò spesso l’utilizzo di pietre di raccolta od estratte da piccoli fronti di cava. Le pietre in genere presentano scarsi segni di lavorazione e solo in rari casi si registra una squadratura o sbozzatura del pezzo, spesso destinato a specifiche parti del paramento come cantonali o aperture 42. Di conseguenza, come si è scritto nel precedente paragrafo, la posa in opera nei vari ambiti regionali risulta piuttosto irregolare e caratterizzata spesso dall’impiego di materiali di diversa provenienza. Rari e puntuali furono anche le produzioni di laterizi. Per tutto l’altomedioevo nelle architetture in materiale non deperibile registriamo, invece, un uso costante di malta di calce, indicativo di come tale gruppo tec- nico continuasse ad essere presente seppure in casi più ridotti numericamente, analogamente alla produzione di intonaci, abbondantemente usati anche per celare un paramento murario spesso irregolare 43. Strumenti come scalpello, gradina o subbia che i costruttori non utilizzarono diffusamente nella lavorazione della pietra erano, invece, usati negli elementi di arredo ed architettonici, a partire soprattutto dalla metà dell’VIII secolo 44. Stucchi, intonaci dipinti e affreschi continuarono ad abbellire le pareti interne delle architetture, sebbene le analisi archeometriche evidenzino, talora, la scelta di pigmenti più economici 45. Nei primi secoli dell’altomedioevo la costruzione di chiese, di nuovi palazzi vescovili o di monasteri urbani e rurali, malgrado la scala dimensionale spesso più ridotta, evidenzia una circolazione non interrotta di saperi relativi alla progettazione architettonica ed alla misurazione degli spazi 46. Il sintetico riepilogo dei principali gruppi tecnici presenti nel cantiere altomedievale non solo, quindi, limitato all’analisi della tecnica muraria, consente di rispondere in contemporanea ad ambedue le domande formulate in precedenza. La presenza nell’altomedioevo di gruppi tecnici legati ad un alto livello di specializzazione attesta, comunque, una circolazione di tali saperi e non una loro interruzione drastica. In questo caso, quindi, la definizione di cantiere semplificato, soprattutto nei casi di architetture di un certo rilievo, non diviene indicativa di una riduzione delle conoscenze tecniche e di un loro impoverimento, ma è sintomatica di una generale semplificazione dell’organizzazione dei ruoli nello stesso cantiere. Tale semplificazione rimanda, come sappiamo dai numerosi studi in proposito, al più generale contesto politico-economico di quei secoli. Alla diminuzione drastica delle committenze, rispetto anche alla tarda antichità, ora rappresentate dai più alti livelli del potere laico ed ecclesiastico ed in minor misura dai membri delle aristocrazie urbane e rurali e dalle medio-alte élites, corrispose un generale restringimento delle possibilità di investimento, proprio di sistema caratterizzato Per il caso toscano, vd. BIANCHI 2008. In ultimo, vd. VECCHIATTINI 2009, ma anche CAGNANA 2000 e infra, pp. 00. 44 BELCARI 2006; LOMARTIRE 2009. 45 Ad esempio i falsi blu nel caso del tempietto di Cividale, su cui vd. CAGNANA, ZUCCHIATTI, ROASCIO et alii 2003. 46 Per quanto riguarda la trascrizione e diffusione dei codici agri- mensori nell’altomedioevo si rimanda a DEL LUNGO 2004; sul tema della trattatistica e la trasmissione di saperi si veda TOSCO 2003; sul variare delle dimensioni degli edifici con particolare riferimento a quelli ecclesiastici si veda l’ormai noto WARD PERKINS 1984 ed, in riferimento a Roma e Ravenna, in ultimo AUGENTI 2008. Per un rimando bibliografico più completo a queste tematiche si veda BIANCHI 2013. 42 43 MAESTRANZE, AMBIENTE TECNICO E COMMITTENZE DEI CANTIERI NEL CENTRO NORD DELL’ITALIA TRA ALTO E BASSO MEDIOEVO 475 da scambi più localizzati e da una base economica principalmente basata sul possesso fondiario 47. Naturalmente anche i vari specialismi risentirono di questa frammentazione e localizzazione che, sino perlomeno all’XI secolo caratterizzò altri cicli produttivi, come, ad esempio, quello della ceramica 48. La più ridotta disponibilità economica di queste committenze, a cui probabilmente fu conseguente un minor numero di maestranze impiegate, portò, pertanto, a fare degli investimenti più puntuali e mirati, soprattutto, ad enfatizzare e caricare di valore simbolico gli interni delle architetture. Questo a discapito di una maggiore accuratezza dei muri portanti che avrebbe richiesto un maggiore dispendio economico legato ai tempi e alla manodopera necessaria per lavorare e rifinire gli stessi materiali da costruzione, come dimostrato dall’uniforme distribuzione dell’opera incerta in base a quanto scritto nel precedente paragrafo. I gruppi tecnici da attivare nel cantiere legati ai diversi cicli produttivi sarebbero, pertanto, stati selezionati da una committenza interessata a contenere i costi dell’intera operazione costruttiva. La diffusione di tali saperi specializzati relativi al costruire fu legata anche alla costante mobilità dei gruppi di specialisti chiamati in cantieri urbani e rurali per organizzare il cantiere, coordinando i costruttori locali o la stessa manovalanza non specializzata 49. In recenti analisi archeologiche di murature in pietra altomedievali si è potuto distinguere il lavoro delle maestranze specializzate, caratterizzato dall’adozione di una tecnica di più alto impegno costruttivo, rispetto a quella delle ipotetiche maestranze facenti riferimento ad un ambiente tecnico costruttivo locale più semplificato, chiamate a coadiuvare gli specialisti nel cantiere 50. Per alcuni studiosi, inoltre, la scomparsa, dalla fine dell’VIII secolo, del termine commacino, quasi sinonimo di specifici saperi tecnologici, sarebbe indicativo proprio dell’accresciuto numero di maestranze specializzate a riprova, quindi, del mantenimento di un livello di specializzazione nel cantiere di questi secoli 51. La selezione dei gruppi tecnici e la maggiore attenzione all’interiorità degli edifici può forse ritenersi anche l’esito di una differente percezione delle archi- tetture, conseguente ad un cambio culturale rispetto all’età classica. Già nel VII secolo, secondo Tosco, il vescovo Isidoro di Siviglia, nelle sue Etimologie, sembra riprendere il termine vitruviano di vetustas, originariamente indicativo di proporzioni e ritmo, per conferirgli un nuovo significato riferibile all’ornamento aggiunto dell’edificio 52. Per Isidoro, quindi, la bellezza dell’edificio deriverebbe maggiormente dalla magnificenza e dall’importanza delle decorazioni applicate all’architettura 53. Il valore dell’architettura risiedeva, pertanto, soprattutto al suo interno e il parametro della ricchezza della stessa committenza ed il valore insito nella simbologia associata a ciò, oltre alle decorazioni architettoniche dipendeva anche dai ‘tesori’ contenuti dagli stessi edifici 54. Pertanto, all’interno di una cultura ed un’economia evidentemente in forte trasformazione, appare pienamente comprensibile la minore cura che si prestava ‘all’involucro’ di questi spazi interni, ovvero allo stesso paramento murario. Non bisogna, inoltre, dimenticare che la stessa chiesa, come dimostrano gli scritti di X secolo del vescovo Raterio di Verona, indicava come elementi distintivi del dives, almeno per le élites di età post carolingia una serie di caratteristiche riguardanti soprattutto manifestazioni esteriori e ‘mobili’ della ricchezza come vesti, gioielli, pellicce 55. E’, comunque, indubbio che i materiali costruttivi durevoli, come la pietra, anche se di riuso, continuarono ad avere un forte significato di potere e ricchezza nei primi secoli dell’altomedioevo, differenziando le architetture dove questi materiali furono impiegati. Ciò è, del resto, attestato dalle differenti definizioni delle abitazioni presenti nelle fonti scritte di area longobarda significative di una diversità di status dei loro abitanti, con il palatium al vertice della scala di importanza, seguito da domus o sala ed in ultima posizione da curtis e casa 56. Prima, però, di arrivare di nuovo al cantiere complesso della piena età romanica, caratterizzato da più specialismi legati al lavoro di diversificate maestranze, è, quindi, importante individuare i possibili cenni di cambiamento che, data la rilevanza dell’’industria’ del costruire, possono divenire anche esplicativi di trasformazioni nella fi- WICKHAM 2009, pp. 184-196, 231-260. Per il caso toscano, si veda CANTINI 2011. 49 GALETTI 1997, pp. 100-103. 50 BIANCHI 2013. 51 In AZZARA 2009, pp. 20-31 si ricorda che nell’Italia centronord il termine commacino non venne più usato dal 720, a fronte di una sua diffusione sino all’XI secolo, nei territori della Langobardia minor. TOSCO 1993. Oltre a Tosco, a proposito del cambio di retorica della costruzione si veda anche WICKHAM 1988. 54 Sul concetto di ricchezza nell’altomedioevo italiano si veda GELICHI, LA ROCCA 2004 e DEVROEY, FELLER, LE JAN 2010. 55 LA ROCCA 2004, p. 131 56 JARNUT 2005, p. 344. 47 48 52 53 476 GIOVANNA BIANCHI, AURORA CAGNANA sionomia economica delle stesse committenze e nel livello di percezione delle stesse architetture. In base ai dati archeologici a nostra disposizione è più facile riconoscere tali segnali nelle campagne. È, infatti, in questo ambito che, a partire soprattutto dalla disgregazione dell’impero carolingio, quindi dalla seconda metà-fine IX secolo, si registra la diffusa riorganizzazione di molte aziende rurali (inserite o meno nel sistema curtense) coincidente con più incisive iniziative da parte delle signorie fondiarie, coinvolte, dal regno di Beregario I, in un maggiore numero di concessioni e privatizzazioni di diritti prima di prerogativa statale 57. Nel momento in cui la fisionomia di queste signorie si avviò dalla dimensione pubblica a quella privata, nel graduale passaggio da signoria fondiaria a locale, è evidente un aumento dei cantieri nelle campagne finalizzato a ridefinire nuclei abitati, preesistenti o meno, con nuove cinte murarie, più sporadiche architetture in pietra od edifici religiosi interni agli stessi circuiti 58. Spesso, in particolare nell’Italia padana, tale ridefinizione si legò ad ampie progettazioni degli spazi costruiti 59 che, pur riguardando nuclei abitativi ancora in legno, sono comunque indicative di una più ampia scala di cambio di assetto 60. Sino all’XI secolo, le caratteristiche generali del cantiere, tratteggiate in precedenza, non sembrano però cambiare, dal momento che fonti scritte e materiali indicano ancora la circolazione di piccoli gruppi di maestranze specializzate, depositarie di più saperi spesso concentrati nello stesso operatore. Quello che sembra mutare è, invece, la scala ed il numero degli interventi che andò di pari passo ad un aumento dei cantieri e alla presenza di una manodopera non specializzata più numerosa, forse anche perché sottoposta ai più incisivi poteri coercitivi delle nuove signorie locali. Tale contesto legato al costruire, che si sviluppò parallelamente ad altri importanti cambi nelle campagne riguardanti l’aumento demografico, la maggiore razionalizzazione delle risorse agricole, il progressivo aumento delle produzioni ceramiche, mantenne però il carattere di una forte localizzazione e frammentazione che comportò l’applicazione dei saperi ancora in puntuali contesti edilizi legati, a volte, a specifiche condizioni strettamente connesse alle vicende storico-politiche. È questo il caso dei miscelatori da malta, diffusi in Toscana e non in altre regioni italiane (nemmeno nei grandi cantieri romani) a causa, ipotizziamo, di forti legami e conseguenti flussi di saperi tra la Marca di Tuscia e l’area germanica, dove tali miscelatori furono ampliamenti diffusi 61; oppure il caso dell’impiego diffuso della litotecnica nel cantiere ottoniano della basilica di S. Lorenzo a Milano, frutto probabilmente di un flusso di saperi sempre provenienti dall’area germanica 62 od ancora l’adozione di icnografie uniche alla metà dell’XI secolo, come per la chiesa da poco riportata in luce in località Canonica a Montieri, simbolo di un forte investimento del vescovo di Volterra finalizzato ad un maggiore controllo dello sfruttamento dell’argento 63. Il vero cambiamento, come abbiamo anticipato in precedenza, è, quindi, registrabile solo a partire dal XII secolo, quando anche si verifica una sempre più massiccia diffusione di murature costruite con pietre sbozzate o squadrate, così come si è sottolineato nel precedente paragrafo. Esaminando le caratteristiche materiali dei cantieri di questo periodo, è evidente di nuovo una specializzazione massima accompagnata dall’apertura di un impressionante numero di cantieri sia in città come in campagna. La crescita politica ma anche economica delle ormai formate signorie locali, il loro radicamento nelle campagne, l’esigenza di intercettare ricchezze ormai non più garantite dalle autorità centrali e la conseguente dialettica messa in moto dalla forte competizione tra gli stessi esponenti signorili, attivò dei meccanismi di impresa indicativi dello spessore e maturità economica raggiunto dalle stesse aristocrazie rurali nel loro processo di formazione, iniziato nei primi decenni del X secolo 64. L’archeologia dell’architettura mostra in maniera chiara all’interno dei cantieri rurali ancora la presenza di maestranze specializzate itineranti, al servizio dei nuovi committenti, con il compito di coordinare quelle locali sovente legate da un rapporto di dipendenza ai nuovi signori. L’aumentata entità degli operatori impiegati nei nuovi cantieri e dei relativi livelli di specializzazione, connessa ad un numero sicuramente maggiore di maestranze circolanti nel centro-nord della penisola, è desumibile anche analizzando alcuni dati provenienti dall’archeologia sperimentale. La simulazione di alcuni CAMMAROSANO 1996; CAMMAROSANO 2009. BIANCHI 2014. 59 Come nel caso di Piadena o S. Agata Bolognese BROGIOLO, MANCASSOLA 2005; GELICHI, LIBRENTI, MARCHESINI 2014. 60 Per considerazioni generali su questo tema BIANCHI 2013. BIANCHI 2012b. FIENI 2004. 63 BIANCHI, BRUTTINI, GRASSI 2012. 64 Per una sintesi su questi temi e relativa bibliografia si veda BIANCHI 2014. 57 58 61 62 MAESTRANZE, AMBIENTE TECNICO E COMMITTENZE DEI CANTIERI NEL CENTRO NORD DELL’ITALIA TRA ALTO E BASSO MEDIOEVO cicli del cantiere edilizio mostra che per costruire 2 m3 di muratura, corrispondenti, quindi, ad una piccola porzione di paramento murario, fossero necessari kg 520 di calce viva e 1000 litri di acqua per produrre kg 420 di ‘grassello’ che mescolato poi con kg 600 di aggregati (sabbie) avrebbe portato alla produzione di circa kg 1100 di malta di calce 65. Sempre dall’archeologia sperimentale sappiamo che per squadrare un concio di medio grandi dimensioni erano necessarie dalle cinque alle sei ore di lavoro 66. Solamente questi dati, se rapportati alle realtà architettoniche del tempo, forniscono un quadro davvero impressionante della nuova forza lavoro impiegata, specializzata o meno. Basti solo considerare che per una pieve di media grandezza, come ad esempio quella di S. Giovanni a Campiglia Marittima, è stato calcolato l’impiego (per difetto) di circa 8000 conci squadrati per la sua costruzione nella seconda metà del XII secolo 67. Tale conteggio acquisisce un maggiore spessore se rapportato all’immaginabile e altissimo numero di conci prodotti, ad esempio, nello stesso secolo per costruire un intero castello, seppure di non grandi dimensioni, ad esempio sul modello del noto Rocca San Silvestro che occupava circa un ettaro di estensione. Altrettanto significativo è il dato relativo all’acqua necessaria per produrre il giusto quantitativo di malta di calce per edificare un intero castello o grandi architetture religiose (cattedrali ma anche i nuovi monasteri rurali, ad esempio). Tale quantità di acqua presuppone il suo trasporto (nel caso che il cantiere fosse lontano da fonti idriche) da parte di un notevole numero di persone e tale lavoro fu più impegnativo nel caso dei castelli costruiti o riedificati nel corso del XII secolo, locati nella maggioranza dei casi in alture di variabile altezza, sprovviste di fonti idriche capaci di fornire l’acqua necessaria. Tali informazioni, con dati sicuramente in eccesso in alcuni casi od in difetto per altri, da un lato sono indicative del numero di persone impiegate e dall’altro, soprattutto in ambito rurale, della capacità coercitiva del signore nel richiedere prestazioni d’opera, la cui entità a volte è solo intuibile dalle fonti documentarie. Al tempo stesso, però, questi dati sono indicativi della nuova situazione economica dei committenti e della loro capacità di impresa che, in ambito urbano, portò all’innalzamento delle grandi cattedrali o dei nuovi circuiti murari sorti in gran numero proprio nel corso del XII secolo. In contemporanea, il ricorso ad una tecnica regoFICHERA 2012. CAGNANA 2000. 67 BIANCHI 2004. 65 66 477 lare, composta da conci sbozzati o squadrati, seguendo una posa in opera che caratterizzerà ogni tipo di architettura edificata in pietra tra XII e XIII secolo, mostra come il paramento murario, la superficie dei muri, contrariamente all’altomedioevo, avesse allora acquisito un valore simbolico legato ai poteri della stessa committenza e all’entità di investimento. Dal XII secolo si era, quindi, concluso il tempo degli investimenti nel costruito limitati e selezionati e non ci fu più necessità di scegliere quale gruppo tecnico privilegiare, con l’uscita dei maestri costruttori e progettisti dal precedente e diffuso anonimato, per legare il proprio nome ad architetture simbolo a tutto tondo di una nuova dimensione del costruito. (G.B.) Bibliografia ARCE 2014 = I. ARCE, Late antique and Umayyad quarries in the Near East. A model of optimization of resource, in BONETTO, CAMPOREALE, PIZZO 2014, pp. 383-412. AUGENTI 2008 = A. AUGENTI, A tale of two cities. Rome and Ravenna between 7th and 9th century AD, in S. GASPARRI (a cura di), 774. Ipotesi su una transizione, Turnhout 2008, pp. 175-198. AZZARA 2009 = C. AZZARA, Magistri commacini, maestranze e artigiani nella legislazione longobarda, in I magistri commacini 2009, pp. 19-34. BELCARI 2006 = R. BELCARI, Elementi architettonici e di arredo dal monastero altomedievale di S. 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Il n’est pas question de prétendre proposer dans les quelques pages qui vont suivre un bilan et, moins encore, une synthèse des travaux menés actuellement en France dans un domaine aussi dynamique que celui de la construction médiévale. Sous les effets conjoints du développement, depuis les années 1970, de l’archéologie médiévale et, plus récemment, de l’archéologie du bâti, d’un renouvellement des études sur les comptabilités de chantiers, et d’un recours croissant aux sciences dures (à travers la dendrochrononologie, l’analyse pétrographique ou l’archéométallurgie, entre autres), ce champ de recherches s’est considérablement élargi; se fragmentant en diverses spécialités aux méthodes et aux avancées diverses. L’une des manières d’évoquer «La construction et les chantiers de la France médiévale» peut être de chercher à rendre compte de cette diversité. C’est ce que j’essaierai de faire au cours dans cet article, sans entrer dans le détail des résultats et en me concentrant sur trois questions majeures en ce qui concerne l’histoire de la construction: celle des rythmes économiques, celle des matériaux et celle de la main d’œuvre. L’étude des chantiers médiévaux a, en France, une longue histoire qui s’ancre fortement dans l’attention que le XIXe siècle a pu porter au Moyen Âge. Antoine Quatremère de Quincy 1 consacre une vingtaine de pages à l’«architecture gothique» 2 dans le second (1801-1820) des trois volumes dédiés à l’Architecture qu’il rédige pour l’Encyclopédie méthodique 3. L’auteur y porte un jugement encore sévère sur un art qu’il estime être le «produit de la corruption du goût, de l’ignorance de toutes règles, de l’absence de tout sentiment original [...] sorte de monstre engendré dans le chaos de toutes les idées, dans la nuit de la barbarie, mélange incohérent de souvenirs confus, de traditions oblitérées, de modèles disparates» 4. Il se livre néanmoins à une analyse de cette architecture, tente de rendre compte de son origine, de son caractère distinctif et de son goût du décor; témoignant, ainsi, des prémices d’un intérêt pour l’architecture médiévale dont l’étude connaîtra, dans les décennies suivantes, un grand développement grâce, notamment à des personnages comme Arcisse de Caumont (1801-1873). Cet historien, après avoir créé la Société des antiquaires de Normandie (1824), dispensa à partir de 1830 son «Cours d’antiquités monumentales» et créa en 1834 la Société française pour la conservation et la description des monuments historiques – qui deviendra la Société française d’archéologie – à laquelle il associa une revue, le Bulletin monumental, et qui, depuis la même date, prend en charge l’organisation et la publication des Congrès archéologiques de France. Le «dénombrement complet des monuments français» que cette Société (règlement constitutif art. II) s’est assigné comme tâche, accompagne l’inscription des premiers monuments à préserver sur la liste des Monuments historiques, établie par Prosper Mérimée (1840), et où figurent, entre autres, des édifices médiévaux tels que la cathédrale de Laon, la basilique Saint- 1 Archéologue, philosophe, critique d’art et homme politique français, 1755-1849. 2 L’épithète n’a alors pas encore le sens restreint que nous lui donnons et couvre une grande part de l’architecture médiévale. 3 QUATREMÈRE DE QUINCY 1801-1820, pp. 455-474. 4 QUATREMÈRE DE QUINCY 1801-1820, p. 463. 482 PHILIPPE BERNARDI Rémi de Reims, les abbayes de Conques, et de Montmajour, le Palais des Papes d’Avignon ou le donjon du château de Beaugency. C’est dans les mêmes années que furent créés l’Ecole nationale des Chartes (1821), le Comité des travaux historiques et scientifiques (1834) ou les Annales archéologiques (1844), qui précédèrent de peu la publication des premiers volumes du Dictionnaire raisonné de l’architecture française du XI au XVIe siècle d’Eugène Emmanuel Viollet-Le-Duc (10 volumes, 1854-1868) 5. Le fait que la plupart des associations, comités et revues mis en place dans les premières décennies du XIXe siècle soient encore très actifs aujourd’hui montre, s’il en était besoin, que l’histoire des constructions médiévales s’inscrit dans une tradition à la fois longue et vivace. Cette dimension historiographique est une richesse mais elle fait parfois peser sur la discipline le poids de notions ou de présupposés sur lesquels il est nécessaire de revenir. L’architecture envisagée a ainsi longtemps été une architecture monumentale, ne prenant en compte que les édifices insignes; le «monument» se définissant, pour Aubin-Louis Millin (1759-1818), comme un «ouvrage de l’art érigé dans une place publique, pour conserver et transmettre à la postérité la mémoire des personnages illustres ou des événements remarquables» 6. L’archéologie médiévale apparaît ainsi, dans un premier temps, «pour l’essentiel» comme une archéologie monumentale: une «branche de l’histoire de l’art tournée uniquement vers l’analyse des monuments de pierre (églises ou châteaux)», pour reprendre les termes d’André Debord 7. Elle se trouvait en quelque sorte subordonnée à l’étude des archives qui, elle aussi, concerna avant tout les entreprises les plus prestigieuses. Pendant plus d’un siècle, jusque dans les années 1960, l’approche de l’architecture médiévale se fit en grande partie par ce biais, ce qui a orienté notablement notre perception de ce domaine. Les grandes synthèses sur la construction médiévale qui marquent la fin des années 1950 8 évoquent ainsi essentiellement des ouvrages monumentaux. C’est dans ce contexte que l’on trouve mention du terme «chantier» 9 qui s’impose à nous comme une évidence pour parler de la construction médiévale. Le chantier est monumental ou cathédral par excel- lence mais à concentrer la critique sur l’objet somme toute limité du chantier, le mot «chantier» lui-même en apparaît anodin. Est-ce bien le cas? Revenir sur ce que peut véhiculer ce terme comme présupposés pour notre approche de la construction médiévale s’impose, à mon sens, comme un préalable. «Chantier», vous avez dit «chantier»? Le mot «chantier» vient du latin classique cantherius (cheval hongre, mauvais cheval de charge) et désigne chez Vitruve, par métaphore, le chevron. Il a, au Moyen Âge, le sens de «support», désignant en particulier les pièces de bois sur lesquelles on place des tonneaux (1261), la cale supportant l’objet que l’on veut façonner (1611), d’où l’expression mettre en chantier, «commencer (un travail)» (1753). Il désigne, dès 1400 au moins, un «entassement de matériaux», ne prenant que dans la seconde moitié du XVIIe siècle (1680) le sens moderne, demeuré usuel, d’«atelier en plein air», «lieu où l’on construit un bâtiment», «où on le démolit» (chantier de construction, de démolition), «où l’on effectue divers travaux» (construction ou réfection des voies, etc.). Il implique l’idée d’un «grand travail en progression» 10. Ce triple sens de lieu, d’action et du résultat de l’action se retrouve dans la difficulté que les principales langues européennes ont trouvée pour traduire le mot «chantier»: - espagnol: obra, mais poner en marcha; - italien: cantiere, mais una strada con lavori in corso (une rue en chantier); - allemand: baustelle; - anglais: building site, construction site, mais workings (travaux) et yard (pour indiquer le lieu de construction de quelque chose d’autres qu’un bâtiment - boatyard). L’usage même du mot «chantier» dans les études sur la construction n’est pas linéaire. Dans son étude sur Le chœur de la cathédrale d’Evreux depuis sa restauration, Robert-Auguste-Louis Avril, comte de Burey, en 1898, fait, par exemple, mention de «pierres tombales, DU COLOMBIER 1953; GIMPEL 1958; AUBERT 1960-1961. Par exemple dans le titre de l’ouvrage de Pierre du Colombier: Les chantiers des cathédrales. 10 Trésor de la Langue Française informatisé: http://atilf.atilf.fr. 8 VIOLLET-LE-DUC 1854-1868. 6 MILLIN 1806, définition citée par POULOT 2006, p. 30. 7 DEBORD 1991, p. 219. 5 9 LA CONSTRUCTION ET LES CHANTIERS DE LA FRANCE MEDIEVALE dont celle qui nous occupe, et qu’on avait reléguées en dehors de la cathédrale, dans le chantier, au milieu des matériaux et des décombres de toutes sortes» 11. Mais, on le voit, c’est le sens d’«entassement de matériaux» qui est ici sollicité. Une décennie plus tôt, Eugène Lefèvre-Pontalis, use aussi du terme dans son travail sur la nef de la cathédrale du Mans, notant que «les artistes du moyen âge ne terminaient pas toujours leurs chapiteaux sur le chantier et qu’ils se contentaient quelquefois de les dégrossir avant de les mettre en place» 12. Le «chantier» paraît alors réduit à la loge des tailleurs de pierre, sens qui est celui attesté, par exemple, en 1854 chez l’abbé Crosnier 13 et en 1913 chez René Fage 14. Un rapide sondage dans les publications disponibles sur le site Gallica de la Bibliothèque nationale de France 15 pour les occurrences communes à chantier et cathédrale laisse entrevoir un développement de l’usage du terme – avec le triple sens que nous lui donnons – autour de 1920, en relation étroite, semble-t-il, avec les restaurations imposées par les bombardements de la première guerre mondiale. Tout se passe comme si, à la lumière des chantiers de restauration, l’aspect organisationnel ou technique de la construction des bâtiments médiévaux s’imposait avec plus d’évidence aux historiens. Jusque dans les années 1950-1960, les études utilisant le terme «chantier» dans leur titre demeurent toutefois rares 16. Les auteurs préfèrent se référer à la «construction», dans des travaux qui s’avèrent essentiellement monographiques et s’intitulent simplement La cathédrale ou le château de…, voire La construction de la cathédrale de…ou du château de… Le titre du livre de Pierre du Colombier formalise, de ce point de vue, une certaine rupture décalant le centre d’intérêt de l’édifice vers sa mise en œuvre; ce que tentent à leur maCOMTE DE BUREY 1898, p. 18. LEFÈVRE-PONTALIS 1889, p. 35. 13 CROSNIER 1854, p. 116: «Nous avons présumé que, ne voulant pas que les ouvriers fussent gênés dans leurs travaux, les architectes, après avoir établi le plan général et fondé en conséquence, mettaient simultanément les maçons à l’oeuvre aux deux extrémités, laissant la partie centrale pour la libre circulation des travailleurs, ou pour servir de chantier aux tailleurs de pierre». 14 FAGE 1913, p. 92: «Au XVIe siècle la sculpture se faisait encore assez souvent dans le chantier avant la pose […]». 15 http://gallica.bnf.fr. 16 La bibliographie donnée dans l’édition de 1975 de l’ouvrage de Du Colombier, ne fait apparaître que quatre occurrences de ce terme dont deux antérieures à 1950: BRUTAILS 1899-1901 et PIETRESSON DE SAINT-AUBIN 1928-1929. 17 GIMPEL 1958. 18 AUBERT 1960-1961. 19 BEAUJOUAN 1963; DAVID 1965. 483 nière les deux synthèses contemporaines de Jean Gimpel et Marcel Aubert respectivement intitulées Les bâtisseurs de cathédrales 17 – ce qui met l’accent sur les hommes – et La construction au Moyen Âge 18 – qui dégage la construction, l’action de construire, d’un objet particulier pour l’envisager comme un domaine, un métier. Si le chantier a dès lors pleinement droit de cité dans le corps des études, il s’affiche encore peu dans leurs titres. Il ne se rencontre guère que dans quelques travaux comme ceux de Guy Beaujouan ou Marcel David 19, dans les années 1960, ou de quelques autres, dont Philippe Braunstein 20, dans les années 1980. «Chantier» devient, en revanche, un mot incontournable dans les années 1990-2000 21. Plusieurs phases sont ainsi observables, après les années 1920, dans l’usage du mot «chantier». A partir des années 1950 – et surtout 1960-1970 – nous assistons, en effet, au développement d’une archéologie médiévale «en tant qu’activité réellement scientifique» 22; développement qui voit se diversifier l’archéologie médiévale et la recherche s’ouvrir à l’ensemble du bâti y compris le plus modeste, notamment celui du village. Parallèlement, l’attention des historiens se porte sur les aspects économiques et sociaux du bâtiment 23. Les années 1960-1970 marquent ainsi une césure forte et un passage d’une histoire stylistique de la construction, à la recherche d’une appréhension de la réalité quotidienne des chantiers: des infrastructures techniques, de l’origine, du prix et du transport des matériaux, de l’outillage et du recrutement de la main d’œuvre. Si le recours au mot «chantier» devient relativement courant, il s’affiche encore peu, nous l’avons vu, dans le titre des travaux. Il fallut, pour cela, que la 11 12 20 BRAUNSTEIN 1985; YANTE STEIN1986; BRAUNSTEIN 1990. 1985; LEGUAY 1985; BRAUN- 21 Citons simplement les ouvrages collectifs GUILLAUME 1991; CHAPELOT 2001; CROUZET-PAVAN 2003; L’Échafaudage 1996; ACETO, ANDALORO, CASSANELLI et alii 1996. 22 DEBORD 1991, p. 219. C’est, par exemple, en 1961 que débutent les premières enquêtes de la VIe section de l’EPHE sur les villages désertés, d’une part, et la fouille du village de Rougiers par Gabrielle Démians d’Archimbaud, de l’autre. C’est en 1971 qu’est créée la revue Archéologie médiévale et quatre ans plus tard que sort le Manuel d’archéologie médiévale de Michel de Bouärd (DE BOUÄRD 1975). 23 C’est, par exemple, en 1971 qu’est publiée l’enquête dirigée par Pierre Chaunu Le bâtiment, enquête d’histoire économique XIVeXIXe siècles (CHAUNU 1971) et un an plus tard qu’a lieu le Congrès de la Société des Historiens Médiévistes de l’Enseignement Supérieur Public consacré à La construction au Moyen Âge (La construction au Moyen Âge 1973). 484 PHILIPPE BERNARDI recherche en matière de construction franchisse une seconde étape, dans les années 1990-2000, avec un renouveau du recours aux textes, y compris dans l’approche du bâti le plus monumental 24. L’usage du mot ‘chantier’ peut, on le voit, être mis en relation avec une attention portée au processus de construction qui dépasse ou transcende l’objet construit lui-même: c’est la construction (à la fois acte de construire et domaine d’activité) qui est au centre de l’enquête et qu’illustre parfois la monographie. Mais son affichage dans le titre des travaux semble lié à un renouveau de l’approche monumentale qui, à partir d’une reprise des sources écrites, se réapproprie une partie de la démarche développée par les archéologues et historiens médiévistes à partir des année 1960-1970. Or, l’usage du terme ‘chantier’ paraît fortement lié à l’approche que l’on peut avoir du bâti et plus particulièrement aux sources dont nous disposons pour envisager ce bâti. En effet, si par chantier nous considérons l’organisation mise en place pour édifier un bâtiment, les comptes de construction ou comptes de chantier se présentent comme une source majeure sinon pour la qualité des détails fournis, au moins par l’ampleur des renseignements qu’ils fournissent. Or ces comptes concernent, il faut bien le reconnaître, avant tout de grands édifices. Nous trouvons confirmation de cette tendance dans les récents congrès de l’Association francophone d’histoire de la construction (Paris, 19-21 juin 2008, et Lyon, 29-31 janvier 2014). Les actes du premier congrès, publiés en 2010 sous le titre Edifices et artifices 25, regroupent 125 contributions. Si l’une des grandes parties qui structurent le volume est bien intitulée «Les chantiers», ce terme est peu utilisé dans les titres des différents articles (treize contributions y recourent). Il s’agit alors de traiter du théâtre antique de Vaison-la-Romaine 26, du Palais du Trône de Bangkok 27, de diverses églises rouennaises et troyennes 28, de l’hôtel de ville d’Arles 29, du temple de Vernègues 30, des «grands chan- tiers de la première Naples angevine» 31, c’est-à-dire de ‘grands chantiers’, jamais de ‘petits’. Il en va de même pour le congrès de 2014 qui ne compte que 7 références au chantier dans les 140 intitulés contenus dans le programme. Et là encore les grands chantiers dominent. Le terme de ‘chantier’ n’est généralement pas mis en avant dans le cas des constructions les plus modestes; ce que confirment les publications consacrées à ce type de bâti tels les deux volumes envisageant La maison au Moyen Âge dans le Midi de la France 32, édités en 2002 et 2008. Là encore, le terme chantier n’apparaît pas dans les titres. Et il en va de même dans l’importante bibliographie sur la maison médiévale rassemblée sur le site des sociétés savantes de Toulouse 33. Les habitudes prises sont tenaces mais, même si les titres n’en rendent pas vraiment compte, les travaux de recherche se multiplient sur les chantiers médiévaux plus modestes, sur leur approvisionnement, l’organisation du travail ou l’économie de ces constructions: à partir des sources archéologiques mais également des sources écrites qui, pour les derniers siècles du Moyen Âge, ne manquent pas pour l’habitat privé. L’usage du terme chantier demeure pratique pour désigner «l’atelier de construction à l’air libre» ou «le lieu où s’effectue la construction d’un bâtiment» et nous l’entendrons en ce sens malgré son anachronisme s’agissant du Moyen Âge. Depuis le XIXe siècle, ce sens restreint a toutefois – c’est ce que j’ai essayé de montrer – été chargé de certains a priori qui peuvent influer sur notre lecture des chantiers médiévaux. Au-delà de son caractère monumental, sur lequel j’ai déjà insisté, le chantier est en premier lieu un objet isolé par l’historien. La palissade qui clôture, qui isole la construction du reste de la cité est, pour nous, une image forte relayée par l’expression «chantier interdit au public» apposée sur les barrières de chantier. Cela contribue à l’isolement du chantier comme une entité forte, fermée sur elle-même, et détermine en partie la manière dont nous 24 Ce regain d’intérêt est bien marqué, par exemple, par le dossier de la Revue de l’art (1995, n. 110) dirigé par René Locatelli et Eliane Vergnolle et intitulé «Les comptes de construction médiévaux et l’histoire de l’architecture». En ce qui concerne le recours au mot «chantier» dans les titres, citons, outre les ouvrages collectifs déjà mentionnés les articles et ouvrages suivants: TEYSSOT 1992; BECK 1993; JENZER 1994; LARDIN 1998; CAILLEAUX 1999; SALAMAGNE 2001; COSTANTINI 2003; BAUD 2003; REVEYRON 2005; HAMON 2008; BAUDEZ 2008. C’est aussi dans ces années que sont réédités l’ouvrage de Pierre du Colombier (DU COLOMBIER 1953), le recueil de Victor Mortet et Paul Deschamps (MORTET, DESCHAMPS 1911-1929) et l’enquête dirigée par Pierre Chaunu (CHAUNU 1971). CARVAIS, GUILLERME, NÈGRE et alii 2010. MIGNON 2010. 27 FILIPPI 2010. 28 L’HÉRITIER, DILLMANN 2010. 29 TAMBORÉRO 2010. 30 BADIE, ZUGMEYER 2010. 31 BÉRENGER 2010. 32 NAPOLÉONE, SCELLÈS 2002; NAPOLÉONE, SCELLÈS 2008. 33 http://www.societes-savantes-toulouse.asso.fr/samf/grmaison/ bibligen.htm. 25 26 LA CONSTRUCTION ET LES CHANTIERS DE LA FRANCE MEDIEVALE l’abordons. Cette clôture était-elle, cependant, une réalité à l’époque médiévale?. Alors que des structures éphémères telles que les cintres ou les échafaudages ont laissé des traces aussi bien sur les bâtiments que dans les sources écrites, aucune attestation de barrières de chantier n’a, à ma connaissance, été relevée pour la période médiévale. Les représentations de travaux de construction contemporaines, pourtant assez nombreuses, n’en donnent pas non plus à voir. L’absence de mentions et de figurations de palissades n’implique bien sûr pas que ces dernières n’aient jamais existé. Il faut bien constater, toutefois, que la clôture du chantier n’apparaît pas aussi marquée que de nos jours. Cela ne semble pas un point si secondaire que cela car la clôture réelle ou idéologique du chantier a une grande incidence sur la manière dont il a été abordé. Quand le bâtiment va… La construction a souvent été considérée comme un domaine à part dans les activités de production, notamment sous l’effet de cette entité que serait le chantier: à la fois lieu de travail et objet du travail. Dans une note fameuse sur «Le maçon médiéval: problèmes de salariat», parue en 1935 dans les Annales, Marc Bloch 34 revient, en quelques phrases, sur la singularité de cette activité: «La construction d’une cathédrale, d’un monastère avec son église et ses multiples édifices, d’un château, voire d’un pont, exigeait une main-d’œuvre considérable, groupée en un ample atelier. [...] dans un monde dominé presque tout entier par l’artisanat, la production des grands ouvrages architecturaux dut, par une exception quasiment unique, s’organiser, au contraire, sous la forme de vastes entreprises et entraîna, de bonne heure, un régime de salariat [...]». Que l’on perçoive l’organisation des grands chantiers comme une «exception quasiment unique», comme Marc Bloch, ou que l’on considère, avec Jacques Le Goff, que «La production en grand des matières premières (pierre, bois, fer), la mise au point de techniques et la fabrication d’un outillage pour l’extraction, le transport, l’érection de matériaux de taille et de poids BLOCH 1935, p. 216. LE GOFF 1964, pp. 46-47. 36 LOPEZ 1952, p. 438. 37 BIGET 1974, p. 160. 38 CONTAMINE 1978, p. 23. 34 35 485 considérables, le recrutement de la main-d’œuvre, le financement des travaux, tout cela a fait des chantiers de construction [...] le centre de la première, et presque de la seule industrie médiévale» 35; le résultat est un isolement du domaine de la construction du fait de sa démesure ou de son «anormalité». Cet isolement n’a pas été sans incidence sur la difficulté ou les réticences à envisager la construction comme un domaine de «production» à part entière. Il a contribué au soupçon de «pétrification» des richesses qui pèse sur des entreprises édilitaires dont les fins seraient «économiquement improductives» 36. L’idée a été contestée, depuis la parution de l’article de Robert Lopez, en 1952, notamment par Jeran-Louis Biget qui met en avant le fait que «le développement de l’architecture et du décor gothiques dans le Midi de la France [épouse] étroitement l’évolution des revenus ecclésiastiques» 37 et pèse donc d’un poids moindre sur l’économie des villes que ce que le supposait Lopez. Plus que la notion d’«investissement défensif» défendue par Philippe Contamine pour qui «les dépenses militaires étaient susceptibles, en fin de compte, d’être inférieures aux pertes matérielles et humaines qu’entraînerait leur absence ou leur insuffisance» 38, les recherches de Jean-Louis Biget reviennent sur le caractère soit disant ‘improductif’ de l’édification des cathédrales; relevant que «Au contraire, elle draine vers elles [les cités] une part du revenu agricole supérieure à la normale et contribue par-là à vivifier les activités urbaines» 39. Ce que Jean-Louis Biget met en évidence avec cette vivification des activités urbaines est le caractère abusif de l’image, employée, par exemple, par Henry Kraus dans son étude sur le financement des cathédrales, selon laquelle gold was the mortar 40. Le raccourci met en avant de manière efficace le coût de ces entreprises édilitaires, mais en gommant leur dimension productive, c’est-à-dire le nécessaire passage par une phase de transformation qui par combinaison du travail et du capital donne lieu à un revenu en contrepartie 41. Il n’y pas immobilisation simple d’un capital de la part du ou des commanditaires, mais transformation de ce capital en revenus perçus par les personnes contri- BIGET 1974, p. 158. C’est la première partie du titre original de son ouvrage, KRAUS 1979. 41 C’est une des définitions de la production retenue dans ALBERTINI, SILEM 1995. 39 40 486 PHILIPPE BERNARDI buant à la production du bien matériel projeté: l’édifice. Le fait qu’une cathédrale ne puisse pas se vendre paraît rendre l’immobilisation définitive d’où sans doute l’image de la pétrification. Outre le fait qu’une église neuve puisse drainer des fidèles et des dons – donc des revenus – en plus grand nombre, il faut souligner une fois de plus que le bâti ne se réduit pas aux lieux de culte et que la revente possible de divers immeubles – y compris sous forme de matériaux 42 – rend cette immobilisation de capital très relative.La construction apparaît, en cela, non comme un domaine clos mais comme une activité économique, productive parmi les autres. Constatant que «les cathédrales sont le fruit des moissons», qu’elles «s’enracinent dans la prospérité de leur terroir», Jean-Louis Biget 43 met en avant leur soumission à des rythmes économiques. Peut-on pour autant «faire émerger des rythmes économiques» - comme y invitaient les organisateurs de ce colloque - en ce qui concerne les chantiers médiévaux français? Cela semble bien difficile dans l’état de nos connaissances à l’échelle d’un pays. La fin de l’«âge classique de l’architecture gothique» – généralement fixée dans les années 1270-1280 – ne marqua aucunement, en France, en matière d’architecture, le terme des grandes entreprises de construction. Pour ne s’en tenir qu’aux cathédrales, de nombreux chantiers se poursuivent passée cette date: celle de Narbonne est en travaux à partir de 1286; le choeur de celle de Toulouse à partir de 1300; celle de Perpignan, en 1324. La guerre de Cent ans, elle-même, ne marqua pas un coup d’arrêt pour le domaine du bâtiment. Elle suscita même de nombreux chantiers de fortification 44. La «conjoncture de 1300» n’empêcha pas l’érection du Palais de Papes d’Avignon ou du Louvre de Charles V (env. 1360-1364). L’atonie qui paraît avoir marqué le milieu parisien des premières décennies du XVe siècle n’est pas générale puisque c’est autour de 1400 que l’on commence à bâtir, par exemple, le château de Pierrefonds ou la chartreuse de Champmol; en 1429 et 1434 que débutent respectivement les constructions des cathédrales de Saint-Pol-deLéon et de Nantes, avant que l’on assiste, à partir des années 1490, à ce «renouveau flamboyant» qui a dura- blement marqué le paysage architectural parisien, entre autres. Suivant la nature des chantiers considérés, suivant les lieux aussi, la conjoncture peut apparaître très diverse à l’échelle de la France actuelle. Et quand tout va mal, le bâtiment peut assez bien se porter, comme nous l’observons, par exemple, au cours de la guerre de Cent ans. Nous sommes, de plus, dépendants des enquêtes menées. Les recherches sur l’activité du bâtiment conduites à l’échelle d’une ville sont très rares en France 45. L’intérêt porté á l’éclosion du gothique a longtemps occulté les productions postérieures. Les chantiers les mieux documentés ont, de même, pris le pas sur les entreprises moins bien servies par les sources écrites. Et nous revoilà face aux grands chantiers, souvent considérés comme des cas un peu particuliers. Ces entreprises ‘exceptionnelles’ fonctionnèrent-elles sur un mode si différent des autres chantiers? L’encadrement de cette main d’œuvre considérable a, bien sûr, suscité la mise en place de structures comme les fabriques, ou œuvres, qui apparaissent au début du XIIIe siècle pour des raisons diverses: le besoin de centraliser des ressources d’origines multiples; la nécessité de répondre par une structure spécifique à une direction polycéphale; ou le besoin d’assurer, par l’assignation, des revenus plus stables permettant de pérenniser l’entreprise. A échelle plus réduite, le besoin d’un personnel d’encadrement ne se faisait certes pas sentir, mais la rationalisation n’était pas étrangère au monde des petits chantiers. Elle se manifeste, par exemple, dans l’adoption d’un vocabulaire relativement normalisé pour désigner aussi bien les divers matériaux que les modes de rémunération du travail 46. L’adoption d’étalons, véritables «pierres de compte» auxquelles peuvent être réduites toutes les autres pierres, est ainsi mentionnée dans les statuts marseillais du milieu du XIIIe siècle et se retrouve appliquée à l’ensemble de la Provence au XIVe siècle 47. Le recours à ces étalons va de pair avec la normalisation du vocabulaire qui facilite les échanges par la fixation d’un certain nombre de formes types de matériaux ou de rémunérations. Les termes vagues de pièce de bois ou de pierre, par Sur ce point voir BERNARD, BERNARDI, ESPOSITO 2008. 43 BIGET 1974, p. 156. 44 Cfr., par exemple, CONTAMINE 1978; RIGAUDIÈRE 1985; BLIECK, CONTAMINE, FAUCHERRE et alii 1999; NICOLAS 2005; LOPPE 2010. 45 Pour la France, l’industrie du bâtiment est envisagée globale- ment pour diverses cités, bien que de manière plus ou moins poussée, notamment dans LEGUAY 1969; ROUDIÉ 1975; BERNARDI 1995; LARDIN 1998; MOULIN 2007. 46 Sur ce dernier point voir la récente étude BECK, BERNARDI, FELLER 2014. 47 BERNARDI 2004. 42 LA CONSTRUCTION ET LES CHANTIERS DE LA FRANCE MEDIEVALE 487 Les historiens de l’architecture ont accordé une grande attention à l’apparition de loges «où les ouvriers travaillaient à l’abri des intempéries, rangeaient leurs outils, prenaient leurs repas» 48. Cette installation semble nouvelle au XIIIe siècle: époque à laquelle elle est pour la première fois figurée sur un vitrail de la cathédrale de Chartres. Certaines représentations médiévales ne montrent qu’un simple appentis mais les ouvriers pouvaient aussi disposer de véritables bâtiments en dur. C’est, ainsi, d’un bâtiment ne mesurant pas moins de 50 m de long sur 14 m de large dont disposaient en 1385 les ouvriers travaillant à Poitiers. Et nombre de bâtiments préexistants, promis ou non à la démolition ont pu jouer ce rôle. La «loge» a eu, d’après les historiens, une grande importance dans la mesure où, permettant la taille des pierres à l’abri des intempéries, elle aurait conduit à une certaine permanence du travail et atténué les effets de l’hi- ver sur le rythme des constructions. Ce que sous-tend cette proposition est, au-delà, d’une modification dans l’organisation du chantier, une possibilité de spécialisation du travail; les tailleurs de pierre qualifiés se voyant employables sur l’année. Mais la loge ne doit pas cacher le chantier. Toutes les activités liées à une construction ne sauraient se concentrer dans la loge dont l’image forte participe à son niveau de la clôture «conceptuelle» du chantier. Le terme de chantier, nous l’avons vu, a longtemps été appliqué au lieu de stockage des matériaux, mais en milieu urbain, ce stockage se faisait-il toujours sur le lieu de la construction? On peut en douter. La standardisation de certains éléments, leur taille en série, bien mise en évidence sur le chantier d’Amiens 49, permet une relative distance entre production et mise en oeuvre. Dans la mesure où une partie au moins de la taille des pierres s’effectuait en carrière, le stockage sur le chantier se voyait considérablement réduit. L’emploi, démontré depuis plusieurs années maintenant 50, de pièces de bois vert pour les charpentes va dans le même sens. Carrière, forêt, quais de débarquement apparaissent ainsi comme des annexes du lieu de construction. Encore que le terme d’annexe soit ambigu dans la mesure où il laisse supposer un rattachement exclusif au lieu de construction, alors qu’une carrière ou une forêt pouvait desservir plusieurs chantiers et fonctionner de manière relativement autonome. C’est le cas, par exemple, des carrières de la Couronne qui, de l’Antiquité à l’époque moderne, ont approvisionné l’ensemble du bassin marseillais 51. C’est le cas également des carrières parisiennes dont la production fut utilisée jusqu’en Bourgogne, via les vallées de la Seine et de l’Yonne, pour édifier les portails des cathédrales de Sens ou d’Auxerre 52. La plupart des charpentes du sud-est de la France, furent édifiées, pour leur part, avec des bois issus des forêts des Alpes distantes de centaines de kilomètres et achetées à des producteurs alpins 53. Une standardisation relative pouvait faciliter cette dissociation. En France, la recherche s’est développée ces dernières années, «par matériau». Des questionnements de plus en plus pointus, conjuguant les approches archéo- 48 COLDSTREAM 1992, p. 10. Les travaux déjà un peu anciens de MORTET 1904 et AUBERT 1958 ont été en partie renouvelés par RECHT 1995. 49 KIMPEL 1977. 50 Voir notamment CHAPELOT 2003. Voir PÉDINI 2013. Voir BLANC, LEROUX 2008. 53 L’étude la plus développée et la plus récente sur la question BOUTICOURT 2014. exemple, font ainsi place dans nos sources à des appellations correspondant à des pièces de dimensions relativement standardisées que l’on retrouve, notamment, dans les tarifs de péages. Le vocabulaire, commun à l’ensemble des constructeurs, marque à sa manière un recours à une relative standardisation qui dégage, au moins partiellement, la production de la commande, du ‘sur mesure’. Les organisateurs de ce colloque invitaient dans leur programme à «saisir les transformations de l’organisation productive au cours des siècles: des types de matière première employés à la complexité des processus productifs et des objets produits, à la spécialisation du travail, à l’organisation topographique des ateliers». Même si de nombreuses contributions rassemblées dans ce volume envisagent les productions liées au monde du bâtiment (chaux, pierre, bois…), «Objets produits», «organisation topographique des ateliers» semblent des notions un peu éloignées du monde du chantier médiéval tel qu’il a longtemps été envisagé. L’évolution de la recherche dans le domaine de l’histoire de la construction médiévale engage à en douter. Chantier ou atelier: les matériaux du bâtiment 51 52 488 PHILIPPE BERNARDI logiques, l’étude des sources écrites et les analyses de laboratoire ont entraîné une forte spécialisation dont rendent compte, depuis les années 1980, de nombreux colloques et publications collectives consacrées à la pierre, à la terre cuite architecturale, à la terre crue, au bois ou au verre 54. La cession ou l’achat des droits de quelques carrières ou forêts dans le cadre d’un chantier a amené souvent à conclure à une forme d’autarcie, contredite par l’étude même des matériaux, à l’exemple de ces traces archéologiques ténues d’un transport par voie d’eau, inscrites sur les poutres de bâtiments provençaux 55. Les enquêtes, historiques, archéologiques, physico-chimiques, géologiques, dendrochronologiques et autres mettent, en effet, en évidence la diversité des provenances et, à travers cela, l’importance du marché. Toutefois, la spécialisation par matériau débouche encore trop souvent sur une forme d’enfermement problématique concentrant les recherches sur des caractérisations de plus en plus poussées et délaissant les aspects économiques de l’approvisionnement, encore peu traités, sauf dans le cas de la pierre et de la terre cuite. L’autonomie des grands chantiers est aussi à reconsidérer sur un autre plan. Gros acheteurs de matériaux, ces derniers pouvaient aussi, à l’occasion, se présenter comme des plaques tournantes d’un commerce de redistribution des matières premières. Ce peut être par la revente des matériaux surnuméraires, des provisions ou «garnisons» trop importantes, mais aussi par la mise sur le marché des matériaux récupérés lors de démolitions, comme le montre l’étude du chantier de l’église de Gisors, dans le Vexin français 56. Ce rôle de moteur reste cependant encore à étudier. Une relative division du travail entre la carrière, la forêt, le four à chaux aussi ou la tuilerie, ou la forge, ou la verrerie, laisse entendre que ces travaux pouvaient être confiés à des équipes différentes de celles des maçons et des manoeuvres montant les murs ou des charpentiers installant les échafaudages, fabricant les cintres et posant les charpentes. Nous ne sommes plus alors face à un chantier mais à une mosaïque d’ateliers répartis selon une logique propre à leur activité: au débouché de la voie par où arrive le bois, pour les charpentiers; juste hors des remparts, 54 La bibliographie dans ce domaine est foisonnante. Citons à titre d’exemples, outre les ouvrages déjà mentionnés, quelques références de volumes publiés au cours de ces cinq dernières années: LAGABRIELLE, PHILIPPE 2009; TIMBERT 2009; JAMES-RAOUL, THOMASSET 2010; DE CHAZELLES 2011; GÉLY, LORENZ 2011; HOFFSUMMER 2011; BLARY, GÉLY, LORENZ 2014. pour les fabricants de plâtre; au plus près du bois et des pierres pour les chaufourniers, en carrière,… A une mosaïque d’équipes également. Le statut des constructeurs: Main d’œuvre considérable? Les sources conservées pour quelques grands chantiers ont, de ce point de vue, «contaminé» l’image que nous pouvons avoir de l’organisation du chantier médiéval. L’organisation pyramidale allant du commanditaire et de son représentant, aux exécutants, dirigés par le maître d’oeuvre ou architecte, les chefs d’équipes et les manoeuvres n’est pas à rejeter totalement mais elle s’avère en partie idéale ou, si l’on préfère, comptable. Les études d’archéologie du bâti font généralement apparaître plusieurs équipes travaillant conjointement ou successivement mais, surtout, la régie directe par laquelle le maître d’ouvrage, le commanditaire, rémunère individuellement, à la journée ou à la pièce, l’ensemble des intervenants et fait travailler l’ensemble des matières premières par ses équipes, est très rarement bien attestée. Quand, par exemple, Marcel Aubert inventorie les diverses dépenses à la charge d’une fabrique, il note que celle-ci «paye les honoraires de l’architecte et de son adjoint, les salaires des maîtres artisans et ouvriers; l’achat et le transport des matériaux, qui souvent viennent des bois et des carrières appartenant à l’évêché ou au chapitre; l’entretien des machines et des outils, des animaux utilisés sur le chantier; toutes dépenses très élevées» 57. Et cite à l’appui de cela les fragments de comptes parvenus jusqu’à nous, dont ceux relatifs à la construction de la cathédrale d’Autun, datés de la fin du XIIIe siècle 58. Si l’on reprend les extraits de compte publiés par Paul Deschamps, nous trouvons bien mention de versements effectués selon toute vraisemblance pour des salaires hebdomadaires (Primo, dicta septimana, in lathomis et minutis operariis, IIII lib. XIIII sol. VIII d.) mais aussi des paiements plus complexes (in forgia Eduensi per annum, XII lib. X s. VI d.; in forgia perrerie, LXII s., ferro non computato; Item, magistro Stephano pro verreriis beatorum Nazarii et Lazeari reficiendis, XI lb. XVI s. VIII d.) qui ne correspondent pas BOUTICOURT 2014. Pour la pierre, voir la récente étude FOU2014. 56 HAMON 2008. 57 AUBERT 1960-1961, pp. 248-249. 58 MORTET, DESCHAMPS 1911-1929, pp. 956-960. 55 CHER LA CONSTRUCTION ET LES CHANTIERS DE LA FRANCE MEDIEVALE nécessairement à des salaires ou à des dépenses d’entretien mais peuvent, tout aussi bien être considérée comme la rémunération d’artisans indépendants et inclure le prix des fournitures et du travail. Et que dire des matériaux (chaux, clous, cordes et autres) manifestement achetés à des marchands? Quoi qu’il en soit, dès le XIVe siècle au moins, nous voyons intervenir sur les chantiers, de manière indubitable, des équipes indépendantes, rémunérées au forfait ou à prix-fait, qui, une fois la tâche exécutée, s’en repartent. Il n’est pas question alors des tailleurs de pierre passant de grand chantier en grand chantier, précurseurs, en quelque sorte, de ce que les compagnons appelleront leur «Tour de France». Il s’agit au contraire d’entrepreneurs pour l’essentiel locaux qui, au sein de la cité ou d’un territoire plus large, passent de la construction d’une église à celle d’une maison, d’une grange ou d’une tour de rempart 59. L’histoire de la construction en se décloisonnant sous l’effet, à partir des années 1970 en France, du développement de l’archéologie médiévale a donné droit de cité à l’architecture commune et aux chantiers les plus modestes découvrant ainsi l’arrière-plan du grand chantier, fait de petits travaux plus ou moins alimentaires permettant une relative sédentarisation des artisans mais également une porosité entre le monde des grands chantiers et celui de la construction courante. Cette nouvelle approche des constructions courantes, bien mise en évidence pour l’Italie dans la présentation d’Aurora Cagnana et de Giovanna Bianchi, a montré, par exemple, que l’habitat urbain pouvait, dès le XIe siècle au moins, nécessiter l’intervention d’ouvriers qualifiés et de matériaux commercialisés (briques ou pierres de taille) 60. La question des chantiers médiévaux s’ouvre du point de vue qualitatif mais également de manière chronologique ce qui engage à reconsidérer ce qui a été un peu rapidement présenté comme des innovations dans un temps plus long, en termes de développement ou de diffusion; l’archéologie donnant leurs lettres de noblesse à des périodes moins bien desservies par les sources écrites. J’achèverai un propos sans doute trop ramassé, sans nuances, par la question de la «main-d’œuvre considérable». La masse des manoeuvres, des ouvriers non qualifiés qui forme le gros du contingent des grands Voir sur ce point les exemples qu’en donne VICTOR 2008. DE MONTJOYE 2002, p. 115. 61 Voir, par exemple, SAPIN 2011; ANDREAULT-SCHMITT 2013. 59 60 489 chantiers était-elle formée d’autre personnes que les hommes, femmes et parfois enfants de la cité: employés sur les chantiers quand l’occasion se présentait de gagner quelques pièces ou travaillant aux champs quand la moisson ou les vendanges le réclamaient? Loin d’être un lieu clos, le chantier participe de la vie de la cité à travers le flux des personnes et des véhicules qu’il suscite quotidiennement. Véritable poumon économique, il dynamise le marché du travail et celui des matériaux. Nous sommes loin toutefois de pouvoir bien saisir la place de ce secteur ou de cet acteur, dans la vie économique des cités médiévales, précisément parce que la construction n’est en rien une activité close sur ellemême: le bois, la chaux, le métal, le plâtre ou le verre ne servent pas qu’au bâtiment. La recherche française après les différentes étapes que j’ai essayé de retracer à grands traits tend aujourd’hui à se recentrer sur l’objet construit; revenant à des études monographiques qu’enrichissent les acquis récents de l’archéologie du bâti comme de l’analyse des matériaux ou de l’approche socio-économique des chantiers 61. Ces travaux montrent que l’analyse fine des chantiers ne peut se faire qu’à partir d’une connaissance la plus approfondie possible des ressources disponibles à l’échelle du territoire dans lequel ils sont implantés. Les études d’ensemble ou globales de l’activité constructive au niveau d’une ville, proposée par le présent volume, ne sont assurément pas aisées à mettre en œuvre. Elles se présentent néanmoins comme le prochain enjeu de la recherche dans ce domaine. Bibliographie ACETO, ANDALORO, CASSANELLI et alii 1996 = F. ACETO, M. ANDALORO, R. CASSANELLI, CH. FREIGANG, D. HOCHKIRCHEN, D. KIMPEL, S. MORALEJO, P. SANVITO, F. 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Aldilà della qualità delle relazioni, la sola organizzazione del convegno (e di una banca data georeferenziata sulle produzioni capitoline) credo sia un fatto importante che potrà avere ripercussioni positive; non tanto per lo sviluppo di nuove ricerche, ma per stabilire relazioni stabili con chi di tecnica, produzione, cultura materiale, abitualmente non si occupa. In questi anni il rischio che mi sembra si sia corso, per essere chiari, è difatti quello di un’archeologia della produzione troppo tecnica, iperspecialistica, disattenta alle questioni sociali ed economiche. Prime fra tutte le questioni relative ai rapporti produzione – consumo e produzione – scambi. E questo mentre gran parte degli archeologi continuano a studiare i manufatti raccolti nei siti di consumo sentendosi legittimati a non chiedersi come venivano prodotti e a non farne per intero la storia. Contemporaneamente, ancora sopravvive fra gli storici, e trova largo spazio sui media, un’attenzione alle tecniche antiche sostanzialmente astorica, interessata alle macchine e non agli uomini, ai congegni anziché alle ripercussioni che i diversi manufatti hanno avuto nel tempo. Su alcune di queste tematiche tornerò, però, in conclusione del presente lavoro avvalendomi anche degli stimoli offerti dalle numerose relazioni che hanno contraddistinto le giornate romane. Come è noto, in Italia, solo con lo sviluppo dell’archeologia medievale, l’archeologia della produzione si è affermata come disciplina autonoma e fondamentali, al riguardo, sono stati i contributi di Riccardo Francovich (archeologia delle attività estrattive e metallurgiche) e di Tiziano Mannoni (archeometria e storia della tecnica). Grazie a loro si è avuto un primo corso universitario dedicato all’archeologia della produzione ed è uscito un manuale che in qualche misura ha fatto davvero scuola 1. Personalmente io stesso in più occasioni mi sono occupato di archeologia della produzione, sia indagando contesti specifici sia scrivendo di problematiche e metodologie di indagine, di rapporti interdisciplinari, di storia delle ricerche e quant’altro. Proprio il rinvio a tali lavori, alcuni dei quali citati più avanti, credo renda possibile, nel presente intervento, sintetizzare sia le questioni generali più importanti sia non dilungarsi in una storia delle ricerche di archeologia della produzione nell’Italia settentrionale. Per questo motivo, il presente contributo è, con poche modifiche, conforme all’intervento tenuto a Roma il 28 marzo 2014 e la bibliografia è volutamente ridotta al minimo. Fra l’altro in un recente lavoro, a cui rinvio 2, ho sistematicamente discusso le ricerche di archeologia della produzione pubblicate fra il 1974 e il 2013 nella rivista Archeologia Medievale e affrontato sia il tema di un corpus di informazioni importante sia la necessità di precisarne le finalità: nell’ordine, valorizzazione degli indicatori, studio dei cicli produttivi, ricostruzione dei contesti e 1 MANNONI, GIANNICHEDDA 1996. Un qualche successo dell’archeologia della produzione, anche come ‘contenitore’ di approcci diversi è comprovata dagli spazi riservatigli, fra l’altro, nel Dizionario di archeologia curato da R. Francovich e D. Manacorda (GIANNICHEDDA 2000) e nell’Enciclopedia Treccani (GIANNICHEDDA 2002). Sul tema cfr. anche MANNONI 1994; GIANNICHEDDA 2006. 2 GIANNICHEDDA 2014. 494 ENRICO GIANNICHEDDA dei saperi specifici, attenzione per i cicli di vita dei manufatti finiti (scambi e consumo), storia della cultura materiale. Nella parte conclusiva di tale lavoro, vengono inoltre discusse varie questioni più generali; la necessità di confrontare fra loro dati archeologici con sistemi di fonti diverse (scritte, iconografiche, etno-archeologiche); la possibilità di ampliare le ricerche di archeologia della produzione ad altri ambiti (archeologia delle attività agro-silvo pastorali, archeologia delle produzioni alimentari, archeologia dell’architettura); la necessità di quantificare produzioni e consumi per ricostruire gli equipaggiamenti materiali; lo studio di innovazioni e persistenze. Questioni che in questa sede non riprendo benché importanti per definire il repertorio di attività svolto in specifici siti e periodi, ricercare le relazioni tra attività che soddisfacevano bisogni diversi e, più in generale, per contribuire al riconoscimento dei modi di produzione (gestione delle risorse e impatto ambientale, spazi e tempi di lavoro, sapere tecnico, distinzioni di genere e d’età, rapporti economici e sociali). Un compito che gli archeologi, impegnati come sono da una mole enorme e sempre crescente di dati, troppo spesso demandano agli storici dell’economia e alle loro fonti appositamente selezionate. Siti e territorio L’argomento assegnatomi dagli organizzatori del convegno prevedeva la disamina delle principali tematiche produttive in Italia settentrionale fra V e XV secolo. Un compito, che ho accettato, ma che ben presto ho capito essere, almeno per le mie forze, impossibile. Il territorio è, difatti, troppo vasto ed eterogeneo, sia dal punto di vista geografico ambientale sia dal punto di vista storico, e le mie competenze sfumano ogniqualvolta ci si allontana dalla Liguria e, più in generale, dal nord-ovest. Via via che preparavo questo intervento, mi rendevo sempre più conto che le perplessità iniziali a trattare una tematica così vasta non dipendevano, però, soltanto da personali lacune di conoscenza, solo in parte colmate dallo spoglio sistematico delle principali riviste di settore, compresi i notiziari delle Soprintendenze e Fasti online. Impegnatomi in tale lavoro, per un qualche periodo avevo difatti trascurato un problema ben noto che, invece, non si può non affrontare. Consapevole dell’impossibilità di raccontare una storia o descrivere la geografia dei modi di produzione nell’Italia settentrionale, la scelta più ovvia sarebbe difatti stata ragionare dei casi migliori, presi, uno qua e uno là, a coprire l’intero territorio. Tutto questo un po’ lo farò, perché forse è nelle attese, ma tale descrizione, se spinta troppo oltre, avrebbe il difetto di essere a macchia di leopardo evidenziando i pieni e finendo con il celare i vuoti: ad esempio, la vetreria di Torcello a Venezia e quella di Monte Lecco presso Genova; la siderurgia alpina e quella appenninica; e così via tralasciando tutto il resto. In ogni caso, non vorrei trascurare il problema di fondo che va affrontato per fare storia e su cui tornerò in conclusione. Un problema che può definirsi di scala e che è determinato dalla necessità di valorizzare osservazioni puntuali, talvolta molto puntuali come sono una sezione di scavo o la raccolta di scorie in un sito, in un’ottica più ampia: talvolta di archeologia del territorio (o, come attualmente si usa dire, del paesaggio), ma più spesso per ricostruzioni socio economiche in cui, come minimo, lo studio di una produzione non può essere separato da quello delle altre attività coeve. Un problema, quindi, di relazione fra siti produttivi, che restano l’oggetto della relazione, e ambiente antropizzato (comprensivo quindi di altri siti). Per essere chiari, la descrizione di pochi siti non risolve i problemi più interessanti che sono di relazione. E, siccome di pochissimi siti produttivi è nota l’evoluzione nel tempo il problema di scala non si pone solo in chiave geografica o sincronica ma si ha anche sull’asse del tempo. Come è noto, l’osservazione di singoli episodi produttivi non rende difatti agevole coglierne i motivi del cambiamento e, già in altra sede, è stato rilevato che, troppo spesso e troppo semplicisticamente, si tende a spiegare la nascita di un’attività come determinata dalla disponibilità di risorse e la morte della medesima come conseguenza di fatti sociali. Pensando, con tutta evidenza, che la natura è a disposizione dell’uomo, che il progresso tecnico è carattere peculiare del divenire storico, che la storia sociale delle tecniche assomiglia alla parabola della vita umana (nascita, sviluppo, maturità e stasi, declino e, quindi, nuova nascita…) 3. La situazione, ovviamente, è molto più complessa ma resta evidente che, fra V e XV secolo, l’Italia settentrionale era un unico tecno-complesso, da qui il titolo, che si evolveva con velocità crescente a partire da una società agraria, con centri produttivi di limitata estensione, tecnologie tanto più semplici quanto più radicate, produzioni di prestigio diffuse soprattutto 3 In generale rinvio a MANNONI, GIANNICHEDDA 1996, ma si veda anche GIANNICHEDDA 2006 (con ampia bibliografia) e GIANNICHEDDA 2007a. CASI SPECIFICI E CONSIDERAZIONI GENERALI SUI TECNOCOMPLESSI DELL’ITALIA SETTENTRIONALE in ambito urbano. Un insieme unitario che nel corso del tempo mutava, con velocità molto differenti, in quantità e qualità. Sia accompagnando la crescita demografica sia in relazione allo sviluppo dei traffici marittimi. Il termine «tecno-complesso», definito da David Clarke alla fine degli anni Settanta, mi sembra perfettamente idoneo per comprendere questo lungo periodo, in quanto strumento flessibile capace di assorbire differenze anche forti. Differenze che, il vasellame ceramico, evidenzia più di altri materiali grazie soprattutto alla pluralità di forme e decori caratterizzanti le diverse produzioni regionali. Un tecno-complesso, quindi, dai limiti incerti perché dinamico e comprensivo di situazioni locali molto differenziate che andrebbero ricostruite e raccontate singolarmente per coglierne le specificità e, soprattutto, il rapporto fra produzione e organizzazione socio economica. Politica della ricerca A questo proposito è evidente quanto ogni trattazione generale dipenda dalla politica della ricerca che si è avuta nei passati decenni, dal numero e qualità dei progetti aventi per oggetto le tematiche produttive, ma anche dal rapporto fra ricerche effettuate, comprese quelle d’emergenza, e ricerche pubblicate. E se quest’ultimo è un tema dolente un po’ in tutta Italia, è utile rilevare quanto sia stata diversa l’organizzazione delle ricerche fra nord e centro Italia 4. In pratica, quanto si sarebbe potuto fare ma non si è fatto. Come già accennato, l’archeologia della produzione ha avuto, in Italia, i medesimi due padri nobili che sono propri dell’archeologia medievale. E, forse, senza lo sviluppo di un’archeologia, medievale e postclassica, avente per oggetto la storia della cultura materiale, l’archeologia della produzione neppure sarebbe nata. Le persone a cui mi riferisco sono, ovviamente, Riccardo Francovich (1946-2007) e Tiziano Mannoni (1928-2010). Francovich, il primo ad usare il termine ‘archeologia della produzione’ per designare la parte monografica di un corso universitario dedicato alle attività estrattive e metallurgiche, era un archeologo con la formazione di uno storico. Grande organizzatore di ricerche sul campo, egli diede un fondamentale contributo allo studio delle tecniche produttive a partire dallo scavo del villaggio minerario di Rocca S. Silvestro: un’ar4 Al proposito si veda la relazione di Federico Cantini in questo stesso convegno. La restante parte del presente paragrafo, con poche 495 cheologia, che mi ostino a definire di sito, perché capace di leggere in chiave sociale ed economica, o storica in senso lato, le attività produttive e il loro modificarsi nel tempo: dallo studio del sito minerario, in tutta la sua complessità, fino, nel caso specifico, alle problematiche dell’incastellamento e oltre. Mannoni, che di formazione era un naturalista, si mosse, invece, dall’analisi di evidenze minute: sezioni sottili di impasti ceramici, scorie metallurgiche, gocce di vetro che arrivavano nel suo laboratorio da una pluralità di siti (un’archeologia delle tecniche produttive attenta alle problematiche connesse alla trasmissione del sapere tecnico in età preindustriale e, per certi versi, aperta a ciò che oggi si designa come archeologia cognitiva; dallo studio delle attività alla comprensione dell’uomo). Molto si potrebbe ancora approfondire il parallelismo fra i due studiosi, ad esempio notando, da un lato, quasi ad indiziare i diversi caratteri, la partenza ‘con il botto’ di Francovich (Rocca S. Silvestro, indagato a partire dal 1984, è un sito, e ora un parco archeominerario, senza eguali) e quella lenta, per accumulazione progressiva, di Mannoni che procedette a sondare mille materiali per poi costruire un sistema di conoscenza. In tal modo, e certo non per colpa di Mannoni, in Italia settentrionale non si è, però, avuto alcuno studio ‘globale’ di un bacino minerario paragonabile al caso toscano, ma una miriade di ricerche sparse, note preliminari, progetti avviati e mai conclusi. Nel complesso, in assenza di una politica della ricerca sostenuta dagli enti preposti e, in particolare, dalle Università, in Italia settentrionale lo stato delle ricerche consente di tracciare solo un quadro estremamente disomogeneo a cui tenteremo di accennare isolando singole tematiche. Evidenziando, di ognuna, i caratteri principali, la rilevanza storica, e quindi la scala territoriale e i problemi della ricerca. Attività estrattive L’archeologia mineraria più di altre attività, e con tutta evidenza, ha a che fare con i caratteri del territorio e, quindi, con le risorse potenziali. Prima, però, devo accennare ad alcuni aspetti ben noti del territorio in oggetto: la vastità degli spazi acuita, in termini di possibilità di rapporti, da fattori contingenti quali modifiche, riprende considerazioni già espresse in GIANNICHEDDA 2014. 496 ENRICO GIANNICHEDDA popolamento e viabilità; la presenza di confini naturali da sempre valicati, ma non trascurabili; l’esistenza ai due estremi ovest e est, di due grandi porti attivi su mari diversi e con un retroterra anch’esso del tutto differente; l’importanza di alcune vie d’acqua, e dei solchi vallivi circostanti, per l’impianto di attività e lo svolgersi dei traffici; la grande differenza fra la pianura e le aree montane, Appennino compreso. A proposito, questa netta distinzione fra pianura e montagna va intesa, storicamente, come distinzione fra chi viveva in prossimità di strade e città e chi era ‘chiuso’ in sacche di maggiore arretratezza, spesso sfruttate e controllate da poteri radicati altrove. Ancora a metà XIV secolo, il Filarete, con specifico riferimento ai metallurgisti, notava che nell’Appennino si aveva a che fare con abitanti che sembravano zingari, poveri, pallidi, di cattivo odore e, in tal modo, anche esteticamente, finiva con dare un giudizio di parte 5. A proposito, è bene rilevare che la consueta contrapposizione città - campagna, con quello che si intende con tali termini nei diversi periodi, andrebbe meglio approfondita distinguendo da un lato, città manifatturiere e città mercantili, città piccole e grandi, città aperte sulla pianura e città maggiormente racchiuse in aree montane, e, dall’altro, le aree rurali economicamente legate per l’approvvigionamento alle città da quelle distanti, isolate, autarchiche, impervie. Archeologia mineraria significa tecniche estrattive, conoscenza risorse, un qualche determinismo ambientale che nel caso non si può negare. Determinismo certamente temperato dalle scelte degli uomini che non sempre sfruttano i materiali locali come sarebbe possibile, ma che, come minimo, impedisce la nascita di determinate attività dove gli stessi materiali mancano. Un determinismo evidente anche in settori che molto hanno a che fare con le attività estrattive, com’è l’edilizia dove, proprio la diversa disponibilità di risorse, spinse alcune aree all’uso della pietra e altre verso l’industria del mattone. Aree ben distinte, ma in rapporto fra loro e oggetto di studi particolarmente interessanti laddove sono noti casi di tecniche miste (pietre e mattoni) dovute allo spostamento di maestranze, a specifiche esigenze anche di carattere estetico, all’organizzazione dei cantieri. Nelle aree montane dove, per ragioni di conservazione delle testimonianze, si sono avuti gli studi 5 6 Citato in TIZZONI 2001, p. 295, nota 8. Atti Como 1987; LUSUARDI SIENA 1995. più approfonditi, sono almeno cinque le attività estrattive che necessita menzionare. La pietra ollare è un materiale ben noto ai medievisti, proveniente da diverse aree alpine, archeologicamente diffuso in maniera decrescente procedendo verso l’Italia centro meridionale. Un materiale che ha precocemente richiamato l’attenzione degli studiosi che, oltre trent’anni fa, hanno distinto litotipi e, quindi, due macroaree produttive e le principali tecniche adottate in età romana, alto e basso medievale. Oltre, ovviamente, ai caratteri e alla funzione dei prodotti riconducibili peraltro a pochi tipi, ognuno con molteplici varianti 6. Trattandosi di manufatti concorrenziali al pentolame ceramico e metallico, si è verificato che livelli produttivi e aree di commercializzazione mutarono drasticamente fra alto e basso medioevo e recentemente è stato anche affrontato il problema della distribuzione che, per taluni, si poteva avere, oltre che lungo il Po, anche scendendo il Rodano e poi via mare. I siti produttivi noti sono numerosi anche in considerazione della facile riconoscibilità degli scarti di lavorazione, spesso recuperati in età contemporanea per usi impropri, ma in nessun caso le indagini hanno portato ad affrontare le questioni più importanti: l’origine della tornitura, probabilmente per modificazione dei torni da legno; la reale articolazione dei cicli produttivi finora attuata guardando a pochi reperti anziché valutando campioni quantitativamente significativi; la continuità, o meno, delle diverse produzioni nel tempo; tempi e modi dell’adozione della tecnica ‘a cipolla’, che si può presumere fosse attuata, in forme semplificate, già in età altomedievale. A partire dai siti estrattivi importanti passi avanti nella ricerca sono stati compiuti relativamente alle macine. Una produzione che, similmente alla pietra ollare, era stagionale, altamente specializzata, economicamente rilevante, posta sotto il controllo feudale, e origine di dispute fra signori come ben dimostra la documentazione d’archivio relativa ad Ivrea. Le ricerche, sviluppatesi soprattutto in valle d’Aosta hanno interessato, oltre a siti estrattivi all’aperto e in grotta, anche i manufatti rinvenuti sul territorio 7. Oggetto di studi piuttosto approfonditi è stato, in anni recenti, anche un materiale fra i meno importanti. Ricognizioni e scavi in più siti, hanno dimostrato che fusaiole e vaghi di collana in steatite erano prodotti in gran numero (migliaia e decine di migliaia di pezzi), so- 7 Cfr. Il grano e le macine 1994 e, fra i contributi più recenti, CORTELLAZZO 2013; DAVITE, GIANNICHEDDA 2012. CASI SPECIFICI E CONSIDERAZIONI GENERALI SUI TECNOCOMPLESSI DELL’ITALIA SETTENTRIONALE prattutto fra X e XIII secolo, in decine di atelier ubicati sia in prossimità degli affioramenti della materia prima sia in castelli fra cui Groppallo di Cairoli nel parmense. Proprio il controllo feudale della produzione dovette comportare in alcuni siti una sorta di razionalizzazione del ciclo produttivo, una organizzata gestione degli scarti e, fatto importante, sottolinea la rilevanza dell’attività in alcune aree appenniniche, fra quelle che definiremmo più isolate e arretrate 8. Diversamente dai casi precedenti, in cui gli indicatori di produzione sono facilmente riconoscibili e diagnostici, nelle Apuane, è stato lo studio degli accumuli poco differenziati degli scarti delle attività estrattive del marmo a consentire il riconoscimento di paleosuoli sviluppatisi nelle fasi di abbandono post romane e, quindi, alla datazione C14 delle attività avutesi fra antichità e bassomedioevo 9. Nell’area alpina, la collaborazione archeologi-geologi da tempo ha portato a ricerche di archeologia mineraria nel senso più vero del termine e da ricordare sono i lavori in corso nella valle Arnas a Usseglio (Piemonte) che ben esemplificano le difficoltà ambientali, intorno ai m 2400 s.l.m., ma anche la ricchezza inaspettata di evidenze relative ad attività sì di lunga durata ma di cui è stata colta l’evoluzione temporale. L’attività mineraria prevedeva, fra l’altro, una prima lavorazione in atelier dislocati presso i siti abitativi e, fra XII e XIV secolo, era finalizzata all’esportazione di ferro e argento verso Torino (e da qui l’interesse del Vescovo e dei signori locali) ma anche oltralpe, mentre dal XVIII secolo sarà il cobalto ad essere esportato verso l’area tedesca 10. Proprio le ricerche in aree precedentemente meno studiate, o non studiate affatto, grazie al riconoscimento di una siderurgia locale già sviluppata nel XIII secolo, introduce un elemento nuovo nello studio di un’attività che, in precedenza, sembrava essere stata caratteristica importante solo di due differenti zone e, in particolare, delle valli bresciane e del Genovesato 11. Proprio il caso di Usseglio e l’archeologia mineraria in genere evidenziano quanto siano importanti gli studi nelle aree estrattive per tutti quei materiali che poi non si rinvengono se non in piccola quantità nei siti d’uso. È il caso della pietra ollare, delle macine, dei BIAGINI, GHIRETTI, GIANNICHEDDA 1995; BAZZINI, DEVOTI, GHIet alii 2008. 9 Per un esempio, ripreso anche in GIANNICHEDDA 2006, pp. 177178, cfr. BARTELLETTI, PARIBENI 2003; più in generale si vedano le relazioni al convegno Carved mountains 2011. 10 ROSSI, GATTIGLIA 2011; ROSSI, GATTIGLIA 2013. 8 RETTI 497 vaghi in steatite, ma anche, per ragioni diverse, dei manufatti metallici. Nei siti estrattivi, con più facilità, si riesce a ragionare di livelli produttivi, di discontinuità nell’organizzazione del ciclo, di rilevanza economica della produzione. A cui ovviamente concorrono, poi, le carte distributive dei manufatti, talvolta semilavorati e talvolta finiti, verso aree che spesso mutarono nel corso del tempo anche in relazione a eventi geopolitici o in relazione all’affermarsi di materiali concorrenziali o nuove tecniche. Attività manifatturiere Per ragioni di tempo, e spazio, ancora più sintetica e schematica sarà la discussione delle testimonianze di attività propriamente manifatturiere. Per il ferro evito di soffermarmi su considerazioni relative alla sempre maggiore diffusione di manufatti in attività importanti, dalla guerra all’agricoltura, sulla persistenza di molti tipi funzionali, sul concorso tardivo del ferro alla progressiva meccanizzazione della società basso medievale che dipese, in realtà, da bisogni crescenti e dalle esigenze del commercio e fu in gran parte soddisfatta da ruote e macchine lignee 12. Tematiche, quelle citate, comunque importanti, ma due sono gli aspetti su cui è possibile soffermarsi. Il primo è conseguenza delle ricerche nelle valli lombarde dove è importante la recente identificazione di ghisa in contesti di V-VI secolo in val Gabbia, nel bergamasco, a seguito dei lavori di Marco Tizzoni 13. La ricerca, comprendente ricognizioni, scavi e analisi archeometallurgiche dei materiali, segnala vari aspetti interessanti. È difatti possibile che nelle valli alpine, già dal V-VI secolo, molteplici piccole strutture di riduzione produssero, con il metodo indiretto, quantità apparentemente esigue di ferro (kg 2000 di ferro è la quantità stimata in val Gabbia e ancora nel IX secolo poche decine di chili di ferro erano portati annualmente dalla val Camonica al monastero di S. Giulia a Brescia) dando vita a una tradizione produttiva meglio nota per le età successive. Il secondo aspetto interessante si collega al primo e Al proposito si vedano almeno le relazioni in CUOMO DI CASIMONI 1991 e in FRANCOVICH 1993. 12 Per una sintesi cfr. ZAGARI 2006. 13 CUCINI TIZZONI, TIZZONI 1999. Le complesse problematiche relative alle ricerche archeometallurgiche sono ben rappresentate in CUCINI 2012. 11 PRIO, 498 ENRICO GIANNICHEDDA ha a che fare con la contrapposizione fra metodo indiretto, per l’appunto tipicamente lombardo e che porterà agli altoforni, e il metodo diretto adottato dai metallurgisti liguri, corsi e genericamente tirrenici. Due parole sul Genovesato perché è un caso significativo. In un’area priva di minerale, ma ricca di legna e, fatto più importante, di manodopera a basso costo, la Repubblica di Genova organizzò dal XII secolo un sistema produttivo che segnerà la storia di intere valli. Un sistema che collegava l’isola d’Elba, da cui si importava il materiale da ridurre nei bassi fuochi, alle aree di commercializzazione del prodotto ubicate in tutto il Mediterraneo. Un sistema che segnerà la storia genovese sia dal punto di vista politico, i feudi dell’interno erano enclave produttive, sia nei secoli a seguire quando le ferriere in crisi divennero cartiere, segherie, cotonifici, a comprovare quella che potrebbe definirsi una vocazione manifatturiera che dipese dalla flessibilità di un sistema fatto di forza lavoro - rapporti feudali - strade - uso della forza idraulica applicabile a materiali diversi in tempi diversi. Ovviamente, ma non è questa la sede, sarebbe di grande interesse approfondire come furono possibili due sistemi tecnici distinti, in ambiti fra loro lontani, ma fra cui è noto vi fossero relazioni comprensive anche di spostamento maestri e sperimentazioni, e il ruolo di centri di consumo importanti come Milano 14. Relativamente ai metalli, lo studio della bronzistica, in Italia settentrionale ma non solo, negli ultimi dieci anni ha compiuto notevoli progressi in un settore specifico, ma non isolato, com’è la realizzazione di campane. Si sono difatti avuti alcuni scavi fortunati che hanno restituito nel medesimo sito evidenze di impianti di più periodi, ricerche etno-archeologiche nelle fonderie ancora attive, ma soprattutto la rilettura in chiave archeologica delle fonti, in particolare di Teofilo e Biringuccio, ha portato a una schematizzazione dei cicli utile per la rilettura critica di vecchi (e nuovi) scavi condotti spesso in maniera inadeguata 15. La messa in valore degli indicatori di produzione, dei dati di scavo e perfino di manufatti musealizzati ha permesso di rilevare i motivi delle scelte tecniche adottate, l’alternarsi nella stessa area di impianti a cera persa e non a cera persa e ha fornito elementi utili anche per lo studio di altre produzioni destinate sia alla realizzazione di grandi opere (le porte bronzee, ad esempio) sia a manufatti d’uso comune per i quali, al momento, in Italia settentrionale, non sono note evidenze significative. Da notare che, proprio lo spostamento di maestranze ha fatto sì che le due tradizioni tecniche adottate per la fusione delle campane si ritrovino in tutta Italia e oltre 16. Cambiando completamente orizzonte è possibile rilevare i recenti sviluppi e l’attenzione crescente per lo studio delle produzioni tessili. Penso alla lana su cui in molti hanno lavorato per l’età romana nella Cisalpina, ma soprattutto all’identificazione di impianti di trasformazione grazie ad indicatori fino ad oggi trascurati. Il riferimento è alle buche di palo che indiziano telai lignei allineati in grandi botteghe nell’area piemontese e ai cuscinetti di vetro, unico resto di torcitoi da seta presenti, fra l’altro, nel XII-XIII secolo nel centro di Genova 17. Un caso, questo, importante perché conseguenza di un insieme di fattori tecnici, economici e sociali di cui informa: seta significa difatti importazione di conoscenze, crescente meccanizzazione del ciclo produttivo, avvio della bachicoltura, delocalizzazione in epoca tarda, export extraregionale, connessioni con altri cicli. Una vicenda, quella della seta, non del tutto dissimile da quella che nel Genovesato è ricostruibile per un altro materiale di pregio: il vetro. Per ragioni di tempo si può solo notare che l’archeologia della produzione vitrea in Italia settentrionale tutt’oggi si basa su scavi vecchi di quarant’anni. Il riferimento è, ovviamente a Torcello e alle vetrerie cosiddette forestali fra Genova e Savona. Due realtà separate da cinquecento anni (Torcello databile al VII-VIII secolo, le vetrerie liguri dal XII secolo), e quasi cinquecento chilometri, ma accomunate a grandi linee da una similarità degli scarti di lavorazione che, quando sottoposti ad analisi, rivelano però molteplici differenze nei materiali impiegati e nei processi 18. Le distanze che separano Torcello dal Genovesato evidentemente palesano un vuoto di conoscenza sulla vetraria medievale, solo in minima parte colmato dall’ubiquo rinvenimento di frammenti di recipienti vitrei nei contesti di scavo sia urbani sia rurali. Per fortuna ad arricchire il quadro Per le questioni del cambiamento tecnologico cfr. anche GIAN2007b. 15 NERI 2006. 16 Alla produzione delle campane, e ai numerosi, ed importanti, temi connessi alle medesime, sono stati dedicati due recenti convegni: REDI, PETRELLA 2007; LUSUARDI SIENA, NERI 2007. Per un più recente contributo di sintesi cfr. NERI, GIANNICHEDDA c.s. 17 NEPOTI 2004; GIANNICHEDDA 2010. 18 Per il Genovesato CALEGARI, MORENO 1975; FOSSATI, MANNONI 1975; GIANNICHEDDA, DEFERRARI, LERMA et alii 2005; per Torcello LECIEJEWICZ, TABACZYNSKA, TABACZYNSKI 1977. In generale cfr. anche STIAFFINI 1999; FOY 2000. 14 NICHEDDA CASI SPECIFICI E CONSIDERAZIONI GENERALI SUI TECNOCOMPLESSI DELL’ITALIA SETTENTRIONALE 499 Per concludere, è evidente che non ho potuto evitare una trattazione a macchia di leopardo e con limitatissimi cenni alle classi di manufatti che più frequentemente si rinvengono sul territorio. Senza alcuna pretesa di completezza e trascurando aspetti im- portanti fra cui, ad esempio, i fabbri longobardi o la bronzistica minore o le produzioni artistiche, per dare spazio anche a casi d’importanza locale, penso alla steatite, ma significativi, se non esemplari, trattandosi di ricerche condotte ragionando per cicli, non trascurando il contesto (ambiente, ma anche strade, ruolo del mercato, sistemi di potere) e insistendo, dove possibile, sulle cesure (innovazioni, mutamenti, crisi) con il fine di comprendere le persistenze. Ho tralasciato anche tutto quanto pertinente al macchinismo, tema di grande importanza soprattutto per i secoli finali del medioevo e per i periodi successivi. Per semplicità ho anche proceduto a separare troppo nettamente i singoli materiali, ma in realtà, aldilà dei passaggi squisitamente tecnici, si potevano discutere insieme i modi generali di produzione dei beni d’uso comune (ceramiche, abiti e accessori, attrezzi metallici, etc.) distinguendoli dai modi di produzione dei manufatti di pregio (ancora ceramiche, vetri, svariati oggetti metallici, seta). In tal modo si sarebbe dato maggiore risalto alle questioni economiche e di rilevanza della produzione e al loro mutare nel tempo, ad esempio per l’insorgere di nuovi mercati. Oppure si sarebbe potuto cercare di descrivere dei quadri sincronici, ma sarebbe stato enormemente più dispensioso, anche in termini di tempo, e con il rischio di troppe ripetizioni e distinguo. Certamente sarebbe risultato evidente che le discontinuità, nel periodo in esame, sono numerose; sia quelle di carattere tecnico sia quelle economiche, ed entrambe hanno tempi, e storie, diverse nelle diverse aree (e, quindi, il tecno-complesso dai limiti incerti di cui si è detto più sopra è passibile di frammentazione crescente se solo si sceglie di valorizzare maggiormente le differenze interne anziché le somiglianze di fondo). Un quadro sincronico, esemplare della complessità dei sistemi tecnico produttivi, può essere accennato se, ancora per un attimo, l’attenzione si concentra su Genova, nel periodo meglio conosciuto, i secoli XIII-XV. All’epoca, il Comune, adottava strategie di controllo differenti a seconda degli ambiti produttivi: controllava l’estrazione del ferro dal minerale elbano, che importava in regime di monopolio e lavorava grazie ad un sistema di feudi satellite delocalizzati nelle valli interne; controllava, invece, direttamente la vetraria con lo strumento delle concessioni annuali e, addirittura, consentiva attività di tessitura a pochi passi dal castello dove Cfr. le relazioni in MENDERA 1991. In generale, per l’impostazione e la bibliografia cfr. LUSUARDI SIENA 1995 e i contributi più recenti in Fornaci. Tecnologie e produzione 2010. concorrono, però, le ricerche in ambiti estranei a questa relazione, come sono la Toscana e la Francia 19. Detto del vetro, resta da affrontare il tema ceramica ma benché i due materiali si ritrovino sulle medesime tavole la loro storia produttiva è completamente diversa. Il dato di partenza è che per il periodo in questione, in Italia settentrionale, nessun impianto produttivo, nessuna fornace, è stata indagata con risultati paragonabili a quelli ottenuti per la vetraria. Non che non si conoscano indicatori di produzione, singole fornaci o, addirittura, l’ubicazione di interi quartieri artigianali, penso a Savona in particolare, ma lo stato delle testimonianze e delle ricerche fa sì che l’archeologia della produzione ceramica sia uno studio che muove dai prodotti finiti. Studio che ha consentito di distinguere nettamente un’età tardo antica e altomedievale, caratterizzata dal terminare delle importazioni mediterranee e dalla ripresa delle produzioni locali, dall’età basso medievale con lo sviluppo di centri produttivi ben noti. Gli studi, grazie soprattutto alle ricerche di archeologia urbana e nei castelli, si sono basati per questo periodo sulle caratterizzazioni mineralogiche, di impasti e rivestimenti, e su tipologie sempre più accurate 20. Inutile in questa sede soffermarsi sulle diverse vicende relative alle produzioni d’uso comune e di pregio, su tecniche innovative e conservative, ma è evidente che le aree costiere in questa storia hanno avuto la funzione di concentrare gli stimoli provenienti dal Mediterraneo, dall’area spagnola e da quella orientale, anche per il tramite dell’Italia meridionale e della Sicilia, filtrando in modo diverso la diffusione di saperi, tecniche e maestri, che poi si ritrovano nei siti dell’interno. In tutto questo, oltre a Genova, Savona e Venezia ovviamente non si può non citare Pisa anche per la qualità delle ricerche che sono state condotte sulle maioliche toscane e per gli stimoli dati alla fondamentale questione dei rivestimenti (ingobbio, vetrina, smalto). Altre strade 19 20 500 ENRICO GIANNICHEDDA trovavano spazio altri artigianati di pregio relativi soprattutto ai metalli. Nel settore ceramico maggiore spazio era lasciato alla libera imprenditoria e il controllo si appuntava, semmai, sulle esportazioni e importazioni. Ad accrescere la riconosciuta complessità di un sistema socio produttivo erano le necessità di approvvigionamento alimentare di Genova e altre attività qui trascurate per ragioni di tempo, ma localmente importanti: dalle lavorazioni per l’edilizia e la cantieristica, fino alla lavorazione dell’osso e alle concerie in cui sono state condotte indagini che evidenziano la poca attenzione alle problematiche di impatto ambientale determinate dall’ubicazione urbana. Nel complesso, sembra possibile sostenere che l’archeologia della produzione, in molti dei casi accennati, ha fatto ampi progressi grazie alla messa in valore di indicatori minuti o, in precedenza, trascurati, e meno, almeno in Italia settentrionale, a seguito di estese ricerche sul campo. Talvolta hanno potuto più le analisi che le edizioni di grandi complessi, ma, in genere, non è tanto il ricorso all’archeometria ad avere modificato il quadro delle conoscenze quanto la capacità di porre domande esplicite sui modi di produzione e ricondurre le evidenze nella logica dei cicli (siano essi del vetro, della seta o dei metalli). In molti casi, risultati importanti sono stati ottenuti anche grazie ad un’archeometria di ‘basso livello’, ma applicata a grandi quantità di materiali e meno con applicazioni iper analitiche limitate a pochi pezzi (penso alla caratterizzazione dei centri produttivi del vasellame rivestito che si basano, quasi intuitivamente, sulla contemporanea messa in valore dei caratteri tecnologici e di quelli formali o estetici). Pur tenendo conto della limitatezza delle mie conoscenze su un areale così vasto, devo però rilevare che le tematiche ancora poco sviluppate sono numerose e che l’archeologia della produzione non solo ha bisogno di scavi ben condotti ma, più di altre, necessita di pubblicazioni che vadano oltre le relazioni preliminari di indagini in castelli, chiese, abitati rurali e città dove, spesso, compaiono frequentissimi riferimenti a fornacette, probabili scorie e residui di attività che, se non meglio specificati, valgono, però, meno di niente. Ad alcune tematiche che ritengo importanti per lo sviluppo di una migliore archeologia della produzione avevo già fatto cenno in precedenti lavori 21 suggerendo che fra le questioni da sviluppare è fondamentale ragionare di rapporti uomini-cose, e quindi, storia della cultura materiale; almeno per alcuni periodi, del ruolo del macchinismo nel progresso tecnico e pre-scientifico; dell’importanza di quantificare per valutazioni socio economiche; di archeologia cognitiva per ricostruire saperi e rapporti culturali. Ma a ciò aggiungerei la necessità di ampliare le ricerche condotte con la logica propria dell’archeologia della produzione (approccio tecnoantropologico, valorizzazione indicatori, ricostruzione dei cicli, etc.) ad altri ambiti spesso più importanti, dal punto di vista socio economico, delle stesse attività manifatturiere: all’archeologia delle attività agro silvo pastorali, delle produzioni alimentari, dell’architettura (o, meglio, del costruire che è cosa distinta dall’abitare). Il convegno romano ha, però, anche evidenziato due aspetti che rinviano a questioni già rilevate da tempo, ma, con tutta evidenza, irrisolte. La prima è relativa alla perdurante difficoltà di fare corrette valutazioni tecnologiche in assenza di una specifica competenza o di una adeguata attenzione 22. Da ciò, il rischio che più ricerche di archeologia della produzione significhino anche più ricostruzioni inattendibili e non verificabili stante, come minimo, le consuete modalità di pubblicazione (o non pubblicazione) degli indicatori. La seconda questione è relativa alla parimenti perdurante subalternità delle testimonianze di attività produttive schiacciate dal rinvenimento, nel medesimo sito, di evidenze monumentali o di forte valore artistico. Un fatto, comprensibilissimo se si pensa alla storia della disciplina, che contrasta però con le dichiarazioni di principio sulla pari importanza delle diverse evidenze archeologiche e rischia di essere più forte nelle ‘città d’arte’ e laddove le esigenze della valorizzazione siano preminenti rispetto a quelle della ricostruzione storica. Quanto sopra, ovviamente, deve essere motivo per una archeologia della produzione migliore e, quindi, non relegabile a specialismo d’appendice. Guardando alla politica della ricerca credo si debba rilevare che, finora, la migliore archeologia della produzione, la più completa, si è avuta a partire dallo studio dei siti di consumo. Questo forse potrà apparire paradossale, ma è ben reso soprattutto dalla ceramica che è la produzione meglio studiata. Partendo dai manufatti finiti sono, difatti, state studiate scelte tecniche, GIANNICHEDDA 2006. 22 Tiziano Mannoni scriveva che: «chi non ha nessuna esperienza di impianti produttivi, ad esempio, difficilmente coglie nello scavo di un insediamento quei dati archeologici che suggeriscono il so- spetto di qualche attività artigianale, ma può anche fare ipotesi di una produzione senza nessun elemento che veramente la sostenga» sviando, almeno per un qualche periodo, dalla possibilità di una corretta ricostruzione del contesto e della storia: MANNONI, GIANNICHEDDA 1996, pp. 47-48. 21 CASI SPECIFICI E CONSIDERAZIONI GENERALI SUI TECNOCOMPLESSI DELL’ITALIA SETTENTRIONALE sperimentazioni, innovazioni e conservatorismi, movimenti di artigiani, logiche mercantili, conseguenze del sistema viario, predilezioni locali, differenziazioni nelle pratiche d’uso e molto altro. Forse restano da compiere ancora due passi importanti: la realizzazione di pubblicazioni di sintesi che facciano il punto aggiornato almeno sulle aree meglio studiate e costituiscano nuove basi da cui progredire; un maggior ricorso a quantificazioni, non di ciò che si è trovato sito per sito, ma degli equipaggiamenti materiali in uso in aree, tipi insediativi e periodi differenti. Solo quantificando i materiali nei siti di consumo si avrà difatti la comprensione della rilevanza socio economico delle diverse produzioni. E, solo guardando ai siti d’uso, si comprenderà l’esatta funzione di alcuni fra i materiali a cui si è fatto cenno; dall’esatta destinazione delle macine (non sempre ipotizzabili per granaglie), all’uso dei vaghi di steatite interpretati talvolta in modo troppo sbrigativo soltanto come fusaiole. Proprio le quantificazioni, laddove attuate, hanno del resto dimostrato che, in molti casi, in siti completamente differenti, erano grossomodo usate ceramiche della medesima qualità, ma diversa era la proporzione fra vasellame importato e non; fra il pentolame indispensabile e le stoviglie da mensa ‘superflue’; e, fra queste, fra i tipi di maggiore e minore pregio 23. Per chiudere, torno per un attimo sui problemi di scala a cui ho accennato in apertura. Le indagini in singoli siti determinano la conoscenza di fatti locali, ovviamente importantissimi e che spesso contribuiscono alla conoscenza di tendenze generali, ma non sempre sufficienti ad una comprensione globale e non solo quando i vuoti sono troppi, ma quando l’indagine nel singolo sito produttivo è tutta volta al suo interno senza porlo in relazione al contesto storico e, quindi, alle altre produzioni coeve. Tendenze generali, ben note ad esempio per quanto attiene alla pietra ollare o alla ceramica, lo sono molto meno se si guarda alla vetraria e ad altre arti del fuoco o lo sono diversamente se si guarda ai periodi che precedono o seguono l’ambito affrontato da questo convegno. Tendenze generali che si possono anche ravvisare in fenomeni distinti, ma di significato analogo, come furono, per ragioni economiche, la riduzione della dimensione dei mattoni, del tenore di metallo nelle monete e, all’opposto, l’incremento delle misure usate per quantificare i beni da coloro che li importavano. 23 Un esempio, credo significativo, delle potenzialità, e del rischio, di quantificare, differenziando, l’equipaggiamento materiale in uso in specifici siti si ha in GIANNICHEDDA 2012. 501 Ovviamente i problemi di scala, il passare dal locale al generale, dalle micro osservazioni al contesto, è un problema di tutta l’archeologia ma l’archeologia della produzione può, forse, muoversi più di altre, legando fatti locali a tendenze generali, con due strumenti che si rafforzano a vicenda e a cui ho già fatto cenno ricordando Riccardo Francovich e Tiziano Mannoni. Da un lato, l’indagine di singoli siti produttivi, che rinvia all’archeologia del territorio; dall’altro, lo studio propriamente tecnico antropologico di ogni possibile indicatore di attività così da comprendere fenomeni più generali quali le modalità di trasmissione del sapere tecnico o le tendenze che, semplificando, definiamo con innovazione e conservatorismo. Bibliografia Fornaci. Tecnologie e produzione 2010 = AA.VV., Fornaci. Tecnologie e produzione della ceramica in età medievale e moderna. Atti del XLII Convegno Internazionale della ceramica (Savona, 29-30 maggio 2009), Firenze 2010. Il grano e le macine 1994 = AA.VV., Il grano e le macine. La macinazione di cereali in Alto Adige dall’Antichità al Medioevo, Museo Provinciale di Castel Tirolo 1994. Atti Como 1987 = La pietra ollare dalla preistoria all’età moderna. Atti del Convegno (Como, 16-17 ottobre 1982), Como 1987. BARTELLETTI, PARIBENI 2003 = A. BARTELLETTI, E. PARIBENI (a cura di), Ante et post Lunam. 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FORME, DIMENSIONI E LOGICHE DELLA PRODUZIONE NEL MEDIOEVO: TENDENZE GENERALI PER L’ITALIA CENTRALE TRA V E XV SECOLO Federico Cantini In questo contributo cercheremo di evidenziare i momenti in cui le attività produttive (perlomeno quelle che sono state oggetto di approfondite ricerche archeologiche) mostrano fasi di recessione o sviluppo in termini di investimenti tecnologici, organizzazione del lavoro e capacità di espandere il proprio mercato, lungo il corso del Medioevo. Proveremo a verificare se per i diversi tipi di produzione tali momenti coincidano, testimoniando macrofenomeni economici, oppure se vi siano delle divergenze. In quest’ultimo caso tenteremo di individuarne le ragioni. I fenomeni descritti saranno illustrati attraverso casi esemplari di scavi di siti produttivi. Prima di entrare nel dettaglio del lavoro fatto, sono necessarie alcune precisazioni. Lo spazio geografico (l’Italia centrale) e l’arco cronologico che abbiamo inteso affrontare, dalla tarda Antichità alle soglie del Rinascimento, come si legge dal titolo, è evidentemente smisurato e ambizioso. Lo sarebbe soprattutto se si fosse inteso affrontare l’oggetto dell’analisi, la produzione nel Medioevo, sotto tutti i punti di vista che solitamente, e spesso separatamente, vengono affrontati dagli specialisti delle fonti materiali e delle fonti scritte: i luoghi della produzione, gli oggetti prodotti, l’organizzazione del lavoro, le forme di commercializzazione dei manufatti e le declinazioni del consumo. L’ambizione sarebbe stata intollerabile se ancor più si fosse voluto toccare i numerosi campi della produzione, da quelli legati agli oggetti di consumo a quelli connessi all’edilizia, solo per citarne alcuni. Ovviamente non è stato così. L’obbiettivo che ci siamo posti è stato quello di osservare esclusivamente i centri di produzione, contarli, quando possibile, nel tempo, comprenderne la geografia in rapporto alle aree di ‘estrazione’ delle materie prime e a quelle dove si concentrava la domanda, definire i modi di articolazione degli spazi dove si svolgevano, l’organizzazione del lavoro, le tecnologie impiegate e la scala della produzione. Ma ancor più ci interessava individuare i momenti in cui queste variabili subivano delle alterazioni, dei mutamenti, per cui abbiamo privilegiato un arco temporale molto ampio. Relativamente alle fasi di cesura ritenevamo poi interessante individuare quelle che non fossero state legate alla storia del singolo sito, ma a macrofenomeni economici. Per far questo dovevamo verificare se quelle stesse cesure si fossero ripercosse su più settori della produzione. Tra quelli che potevano indagare abbiamo preferito scegliere i settori che da una parte avevano lasciato più tracce archeologiche, anche per una questione di competenze, e dall’altra che abbracciassero prodotti di vasto consumo e che quindi non fossero legati a logiche proprie di cerchie molto ristrette della società o ai complessi sviluppi o involuzioni dell’edilizia. Abbiamo quindi concentrato la nostra attenzione sulla ceramica, il metallo, il vetro e i tessuti. Relativamente all’ambito geografico il lavoro si è concentrato sulla Toscana, l’Umbria e le Marche, tralasciando il Lazio, che in qualche modo immaginavo fosse già ampiamente oggetto di discussione o confronto nelle relazioni del convegno (fig. 1). I dati archeologici ora a disposizione mi hanno poi costretto a concentrarmi soprattutto sulla Toscana rispetto alle altre aree geografiche. Le informazioni di- Un ringraziamento ad alcuni miei dottorandi per l’anticipazione dei risultati di lavori ancora in corso a Pisa (Francesco Carrera, Caterina Toscani, per lo scavo degli ex Laboratori Gentili, e Anto- nino Meo, per quelli di S. Eufrasia), oltre a Marja Mendera per l’aiuto che mi ha fornito relativamente ai centri di produzione vetraria. 504 FEDERICO CANTINI vo, inizia una parabola ascendente dall’XI fino al XIII secolo, per poi avere un balzo nel XIV secolo, che si rinnova nel XV secolo (fig. 2) 1. Se andiamo ad analizzare dove si collocano i resti di queste attività produttive notiamo che: Iniziamo a contare i centri di produzione: in totale ad oggi sono noti 91 centri di produzione ceramica tra V e XV secolo in Toscana. Questo numero va considerato in difetto rispetto alla realtà, specie per il periodo precedente al XIII secolo, quando sono state individuate, attraverso l’analisi del vasellame nei centri di consumo, diverse produzioni ma raramente le officine. Se si va a osservare lo stesso dato nel tempo, emerge come dopo una fase caratterizzata da una minima attestazione di ‘officine’ che dura per tutto l’alto Medioe- - fino al XII secolo esse sono tutte rurali, poste in luoghi strategici per il reperimento delle materie prime e la vicinanza con le vie di comunicazione; in età tardo antica sono collocate dentro a realtà insediative che potremmo definire vici e dall’età carolingia sempre in villaggi collegati a centri curtensi fiscali (vicus Wallari); - solo dal XIII secolo, a seguito di una diminuzione numerica delle officine rurali, iniziamo a trovare tracce sicure di produzioni dentro le città, fenomeno che forse sottende anche l’inurbamento dalle aree rurali di alcuni artigiani richiamati dalla crescita della popolazione urbana che rendeva comunque vantaggioso lavorare lontano dalle materie prime. Ne potrebbe essere testimonianza anche il fatto che i primi vasai attestati a Pisa, Sigerius e Nicolus, provenivano dal territorio rurale 2; - a partire dalla fine del XIII-XIV secolo e in misura maggiore dal XV secolo, ritorniamo ad avere attività produttive che si radicano nelle campagne, a seguito della crescita demografica che investe anche il mondo rurale e alla diminuzione dei costi dei prodotti smaltati. Lo sviluppo di alcuni di questi poli produttivi rurali, soprattutto dal XV secolo, si lega strettamente a quello della città da cui dipendono, come nei casi di Montelupo Fiorentino e Bacchereto rispetto a Firenze. 1 Per i centri di produzione ceramica nel territorio toscano cfr.: BERTI, CAPPELLI, FRANCOVICH 1986; MILANESE 1997; CAROSCIO 2009; CANTINI 2010; GRASSI 2010; CANTINI 2011 e CANTINI, GRASSI 2012 per i quadri generali che possono essere integrati, specie per il periodo tardo medievale, con BERTI, RENZI RIZZO 1997; GATTIGLIA 2013, per Pisa; BOLDRINI 1994 per Siena e BOLDRINI, GRASSI, QUIRÓS CASTILLO 1999 per le produzioni di catini figlinesi. 2 RENZI RIZZO 2000, p. 146. Fig. 1. - Carta con i siti citati nel testo. sponibili per Marche ed Umbria rimangono infatti talmente sporadiche che non possono ad oggi essere considerate rappresentative, per cui le ho utilizzate solo per confronto. Il testo, da qui in avanti, sarà articolato per singola produzione e poi nelle conclusioni cercheremo di tratteggiare un quadro di sintesi. La ceramica FORME, DIMENSIONI E LOGICHE DELLA PRODUZIONE NEL MEDIOEVO 505 Relativamente al raggio di diffusione delle produzioni regionali si osserva poi come: - fino alla prima metà del VI secolo il vasellame valichi i confini solo quando si tratta di contenitori di prodotti alimentari (anfore); - dal VII al XII secolo non si va oltre ambiti locali o sovralocali (km 35) che possono allargarsi, a partire dall’XI-XII secolo, seguendo l’espansione delle città sul contado; - solo a partire dalla seconda metà - fine del XIII e inizio XIV secolo si torna ad avere la capacità di esportare i prodotti in ambiti anche extraregionali, ma solo relativamente al centro produttore urbano di Pisa, Fig. 2. - Grafico: numero di centri produttori di ceramiche dal V al XV secolo in Toscana. che immette i propri vasi in Nel IX secolo abbiamo poi il caso di vicus Wallari, quella vasta rete commerciale che lo legava a molte nel Valdarno, dove abbiamo trovato i resti di una foraree del tirreno (Lazio, Sicilia, Sardegna, Liguria, nace per la produzione di vasellame dipinto con ingobbio Provenza, Corsica); rosso. Si tratta di una struttura di tipo verticale, di grandi - dal XV secolo l’espansione territoriale di alcune dimensioni (cm 250 x 150), realizzata con frammenti città e il legame tra investimenti di capitali urbani di laterizi romani legati da argilla e pezzi di arenaria e centri manifatturieri rurali satelliti, posti su vie per gli archi che sostenevano il piano forato. Poteva prodi transito strategiche, consentono di avere anche durre fino a 200 oggetti per volta. Si inserisce in un’area produzioni rurali che circolano in ambiti mediterartigianale che prevede fosse intercomunicanti per la deranei: è il caso di Montelupo Fiorentino che dopo cantazione dell’argilla e aree destinate allo scarico degli la conquista fiorentina del 1406 di Pisa, si trova a scarti. Ha inoltre nelle vicinanze uno spazio destinato mezza strada, sull’Arno, tra la città gigliata e i suoi alla produzione dell’olio e molto probabilmente del nuovi porti (in primis quello livornese). vino, oltre alla macinazione del grano. Probabilmente nella fornace si producevano anche i contenitori per imDiamo ora uno sguardo alle tecnologie e in particomagazzinare l’olio prodotto nello stesso centro, visto che lare alle fornaci, di cui purtroppo rimangono pochissime alcune brocche non sono dotate di versatoio e potrebtracce. bero essere state facilmente tappate. L’area produttiva Per il V - prima metà VI secolo gli scarichi emersi occupa, allo stato attuale delle conoscenze, una supera Empoli ci parlano di fornaci di tradizione romana con ficie di circa m2 2000. Si colloca all’interno di un cenvolte realizzate con vasi fittili e sistemi di tubuli per tro curtense di proprietà del marchese di Tuscia creare atmosfere perfettamente ossidanti per la cottura Adalberto ‘il Ricco’, dotato di una pieve con antistante di ceramiche ingobbiate di rosso. Queste fornaci, stando cimitero e forse di un battistero, richiamando da vicino alla distribuzione dei butti e degli scarti, potrebbero esle cosiddette domuscultae romane (fig. 3) 4. Dopo il IX sere dislocate lungo la strada romana che univa Pisa a 3 secolo per ritrovare strutture produttive dobbiamo anFirenze e nei pressi dell’Arno . 3 CANTINI, BOSCHIAN, GABRIELE 2014. 4 Lo scavo, diretto da chi scrive, è ora in corso di edizione. Per alcune notizie preliminari cfr. CANTINI, SALVESTRINI 2010. 506 FEDERICO CANTINI ad un’attività gestita dall’alto, magari dai responsabili del centro curtense del marchese, dove l’attività del vasaio si integrava con quella degli addetti alla spremitura dell’olio e alla produzione del vino e della farina. La presenza di mezzi di produzione e di prodotti diversi nel centro garantiva un costante afflusso di persone e quindi una domanda forse tale da consentire l’esistenza di artigiani professionisti, che rifornivano coloro che dipendevano dal centro Fig. 3. - San Genesio, ricostruzione del sito nel IX secolo, di B. Fatighenti. curtense e che vivevano nel territorio circostante, come dare a Rugano, a nord-ovest di Lucca, dove è stata troha dimostrato la ricognizione di superficie. vata una fornace, di pianta circolare del diametro di cm Ritroviamo questa integrazione tra differenti attività 240 e altezza ipotetica di cm 200, scavata in un verproduttive, in dimensioni e forme maggiori, solo in città sante, di tipo orizzontale, alimentata da una camera di a partire dal Duecento. combustione posta ad un livello di poco inferiore a A Firenze i ceramisti potevano acquistare il piombo quella di cottura, dotata di pavimentazione compattata dai bicchierai e dagli speziali, dai quali potevano troda schegge di pietra. Vi si producevano, tra fine XI e vare anche lo stagno, mentre per Pisa si è ipotizzato che inizio XII secolo, ceramiche con un impasto semidevi fosse un qualche rapporto tra i vasai che avevano inipurato, con raggio di circolazione dei prodotti sopratziato a produrre maiolica arcaica e i fabbri che avrebtutto locale che comprende l’area lucchese e la valle del bero importato stagno dalle miniere del campigliese, che Serchio 5. dalla fine del XII secolo era diventato parte del contado Infine, dobbiamo fare un altro salto temporale, per pisano 7. Questi stessi ceramisti, almeno dagli inizi del arrivare a Siena tra la metà del XV e l’inizio del XVI XIII secolo, prelevavano il combustibile (paglia) nelle secolo: ai margini della città è stata infatti indagata una aree prossime alla foce dell’Arno, prese in affitto dal fornace, scavata in grotta, con pianta di cm 200 x 250 vescovo o dal capitolo, in cambio di denaro e vasi 8. con piano del forno in terra, lati rivestiti da laterizi leL’attività dei vasai sembra poi, insieme ad altre, congati da argilla e piano forato sostenuto da archetti. Vi centrarsi, tra XIII/XIV e XV secolo, in alcune aree spesi produceva ceramica ingobbiata e graffita, invetriata cifiche della città, spesso periferiche: a Pisa in quella d’ole acroma depurata 6. tre Arno, Baractularia (1246-48) e Tegularia (1204), a Passiamo ora all’organizzazione del lavoro, per caFirenze nel quartiere di S. Spirito, sempre oltre Arno, ad pire la quale abbiamo ancora pochi dati perlomeno fino Arezzo nell’area tra la Porta di Santo Spirito e S. Iacoal XIII secolo, quando anche le fonti scritte contribuipo, a Siena in quelli di Abbazia nuova, Stalloreggi e S. scono a gettare luce su questo tema. Marco (fig. 4) 9. In queste aree vanno probabilmente a laNel caso di vicus Wallari, la contiguità, nel IX sevorare anche gli artigiani che si inurbano dal contado. Quecolo, con altri tipi di produzione potrebbe far pensare sto fenomeno, che possiamo ipotizzare per Pisa già agli 5 6 7 CIAMPOLTRINI 2004, pp. 159-161. BOLDRINI 1994. Per Firenze CAROSCIO 2009, p. 54; per Pisa GIORGIO 2012. 8 RENZI RIZZO 1994, pp. 67-70; BERTI, RENZI RIZZO 1997, pp. 499, 501-503. 9 Per Pisa RENZI RIZZO 1994, pp. 74-78; BERTI, RENZI RIZZO 1997; per Firenze CAROSCIO 2009, pp. 56-57; per Arezzo FRANCOVICH, GELICHI 1983, pp. 16-24; per Siena FRANCOVICH 1982, pp. 40-51. FORME, DIMENSIONI E LOGICHE DELLA PRODUZIONE NEL MEDIOEVO 507 inizi del XIII secolo 10, è evidente a Firenze tra la metà del XIV e la metà del XV secolo, quando troviamo ceramisti di Bacchereto e Montelupo 11. In questa città i vasai rappresentano comunque sempre una componente minima della popolazione: dal catasto del 1427 la produzione della ceramica impiegava infatti solo l’1,4% della popolazione attiva 12. Il numero dei vasai diminuisce poi alla fine del XV secolo, quando Firenze punta su Montelupo, dove l’integrazione si osserva tra i ceramisti nell’uso di una stessa fornace, che ha come corrispettivo la comparsa dei marchi sulle maioliche, che garantivano il riconoscimento dell’appartenenza dei diversi lotti di vasi all’interno della stessa fornace 13. La circolazione di manodopera sembra comunque limitata nel XIV Fig. 4. - Pisa, i quartieri artigianali di Baractularia e Tegularia, da Garzella 1990, p. 67, tav. VIII. secolo tra centri produttori vicini e maggiori, mentre alcuni ceramisti si Relativamente al rapporto tra chi si occupava della spostano su rotte extraregionali. Si osserva invece soproduzione e chi era dedito alla commercializzazione prattutto a partire dal XV secolo un movimento di maepossiamo osservare casi diversi: a Pisa, a partire dalla stranze in due direzioni 14: fine del XIV secolo, potevano essere la stessa persona 17, così come nel centro di Bacchereto 18 o a Prato nel XV - dalle campagne alle città, dove forse sono attirate secolo 19, mentre a Firenze la divisione tra le due fundalla possibilità di commercializzare i loro prozioni è netta già dal XIV secolo per poi diventare padotti, anche quelli realizzati nelle fornaci dei villese dalla fine del XV secolo 20, quando saranno le laggi rurali da dove provengono, di cui spesso aristocrazie urbane a investire capitali nei centri rurali mantengono la proprietà (nel fiorentino e nel seiperspecializzati, come dimostra l’accordo del 1490 con nese); cui gli Antinori acquistarono la produzione di tre anni - dai centri di produzione nati nel XIV secolo verso della Lega di 23 orciolai di Montelupo Fiorentino 21. Ma quelli sviluppatisi in campagna nel corso del XV prima di loro, sempre in area fiorentina, sembra plausecolo (specie in area valdarnese). sibile che l’intraprendenza di alcuni mercanti, come Francesco di Marco Datini di Prato (1335-1410), possa Dall’inizio del XV secolo si assiste all’instaurarsi aver contribuito alla fortuna di alcune produzioni, come anche di rapporti stretti tra vasai di diverse città (Pisa, quella dei catini figlinesi 22. Lucca) 15 e dalla fine del secolo al consolidarsi di Leghe 16 Passando alle altre due regioni i pochi dati a dispodi ceramisti di uno stesso centro (Montelupo) . RENZI RIZZO 1994, pp. 62-67. CAROSCIO 2009, pp. 55-56. 12 CAROSCIO 2009, p. 51. 13 CAROSCIO 2009, p. 75. 14 BERTI, CAPPELLI, FRANCOVICH 1986, pp. 503-504. 15 BERTI, CAPPELLI, FRANCOVICH 1986, p. 495. 16 CAROSCIO 2009, p. 75. 10 17 11 18 19 20 67. 21 22 RENZI RIZZO 1994, p. 83; BERTI, RENZI RIZZO 1997, p. 501. CAROSCIO 2009, p. 69. CAROSCIO 2009, p. 153. CAROSCIO 2009, pp. 53-54, con relative tabelle nelle pp. 58CAROSCIO 2009, p. 75. BOLDRINI, GRASSI, QUIRÓS CASTILLO 1999, p. 407 e nota 21. 508 sizione ci parlano di un centro di produzione, quello di Eggi, posto a km 4 da Spoleto, con tre fornaci impostate sui resti di una villa rustica, che producono, in un’area ancora ben strutturata, anforette, olle, casseruole dipinte con ingobbio bianco, coperchi e lucerne del tipo a ciabatta, diffuse nell’area umbra centro-meridionale e in quella alto-laziale 23. Per trovare di nuovo traccia di produzioni ceramiche dobbiamo spostarci nelle città due-trecentesche, come Assisi, dove sono noti scarti di maioliche arcaiche e acrome di metà XIV secolo 24, oppure ad Orvieto, con le due fornaci della metà del XIV - metà XVI secolo trovate in via della Cava 25, o ancora nella Deruta di fine XIV - prima metà XV secolo, dove, tra il 2008 e il 2010, è stato riportato alla luce un complesso produttivo dotato di due fornaci, a pianta subrettangolare, dotate di prefurnio e camera di combustione profonda m 1, costruite con laterizi legati da argilla 26. Relativamente alle Marche non sono note fornaci altomedievali e per il tardo Medioevo conosciamo solo quelle trovate a Piobicco, nell’alto Pesarese, di cui non è però chiara la destinazione 27. FEDERICO CANTINI Fig. 5. - Strutture per la lavorazione del vetro di Spolverino, rielaborata da Sebastiani, Chirico, Colombini et alii 2012, fig. 2. Relativamente al vetro ci concentreremo sulla Toscana. La quantificazione dei siti di produzione vede 4 impianti (Spolverino, Torraccia, S. Cristina e Firenze) tra IV e V secolo e poi il vuoto fino al pieno XII secolo, quando questa attività produttiva è di nuovo attestata a Pisa, seguita a partire dal XIII secolo da alcuni centri della Valdelsa (San Gimignano, Montaione, Gambassi, Camporbiano), che aumentano di numero a partire dal XIV secolo; dal secolo successivo i vetrai di quest’area si sposteranno in altri grandi borghi rurali (Colle Valdelsa, Figline Valdelsa, San Miniato, Castelfiorentino, Certaldo, Empoli, San Giovanni Valdarno, Prato), nelle città (Arezzo, Pistoia, Pisa, Firenze e Siena) e nel Mugello (1480) 28. In generale per l’età tardo antica abbiamo produzioni in qualche modo ancora ben strutturate, come quella emersa a Spolverino, il probabile approdo di Roselle sull’Ombrone, che presenta, tra IV e V secolo, un impianto dove convivono un’attività per la produzione del vetro, a cui sono riferibili tre forni, e un’officina per la rifusione dei metalli (leghe di rame) (fig. 5 e tav. 00) 29. Anche la fornace che tra fine IV e V secolo si inserisce in uno degli ambienti dell’impianto termale di età adrianea di Piazza della Signoria a Firenze, privatizzato a partire dalla seconda metà del IV secolo, doveva comunque essere un tipo di bottega non provvisoria, come dimostra l’estrema ricchezza delle forme prodotte CARBONARA, VALLELONGA 2015. 24 BLAKE 1980. 25 http://www.pozzodellacava.it/grotte/cosa/fornace.htm. Sulla possibile presenza di una fornace nei pressi della chiesa di S. Lorenzo cfr. SATOLLI 1981, p. 47. 26 Per una prima notizia: http://sistemamuseo.it/data/allegati_ news/20130902160301_depliant_fornaci_deruta.pdf; http://siste- mamuseo.it/data/allegati_news/20130909170138_1%20FOREX%20 200%20X%20100%20SAN%20SALVATORE.pdf. 27 PROFUMO 2004, p. 173. 28 Per i temi legati allo studio dei centri di produzione del vetro in Italia cfr.: MENDERA 1991a; STIAFFINI 1999; MENDERA 2000; per l’area Valdelsana cfr. anche GALGANI 2001. 29 SEBASTIANI, CHIRICO, COLOMBINI et alii 2012; SEBASTIANI, CHIRICO, CINI et alii 2013. Vetro 23 Fig. 6. - Pisa, ex Laboratori Gentili, rielaborata da Carrera, Pasini, Bonaiuto 2013, fig. 5. (coppe, bicchieri, piatti, balsamari, lucerne e forse bottiglie) e la quantità di resti di vetro che superano i kg 100 30. Altre attività sembrano invece avere un carattere meno stabile, ma forse ancora una gestione pubblica, tra la metà del V e la metà del VI secolo: sono rivolte alla rifusione del vetro e al riciclo sistematico dei materiali spoliati dai grandi complessi tipo villa, come suggerisce il caso di S. Cristina (Si), dove tra la seconda metà del IV e il V secolo è attiva una fornace da vetro, costituita integralmente da materiali di reimpiego, vicino ad una zona dove si rifondevano i metalli 31, oppure quello di Torraccia di Chiusi (Si), dove, in alcuni ambienti rettangolari intorno ad una sala da otium, viene creato una sorta di centro di raccolta di ferro, lega di rame, oro, pasta vitrea e frammenti di mosaici 32. Possiamo immaginare che ci potesse essere una qualche forma di rapporto tra cantieri e officine legate alla spoliazione delle grandi ville e botteghe urbane più strutturate, dove forse confluivano le materie prime prelevate in campagna 33. Una sorta di primato della città sulla campagna sembra emergere anche a partire dal XII secolo, quando torniamo ad avere dati sulla produzione, o già prima se si considerano i crogioli trovati a Luni datati ad un generico alto Medioevo 34. Per la seconda metà del XII secolo il recente scavo del complesso degli ex Laboratori Gentili, posti a sud della città medievale di Pisa, lungo il margine settentrionale della zona paludosa colmata tra il 1177 (alluvione) e la fine del XII secolo, sta portando alla luce un’area con un edificio, H, che al piano terra era diviso in due vani di cui quello sud ospitava un forno di ridotte dimensioni per la fusione del vetro (Fv1), del quale sono state riconosciute le pareti esterne, il condotto igneo, i sostegni dei banconi laterali, e alcune buche di palo forse pertinenti al matteo. L’edificio viene poi parzialmente abbattuto lungo il fronte nord per far posto ad una strada coincidente con via Alberto Mario, mentre l’ambiente sud viene pavimentato e cambia funzione. Tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo il fabbricato H è infine demolito per la costruzione di un nuovo edificio residenziale (B); nello stesso tempo le attività di lavorazione del vetro (Fv2) sono spostate nella parte a sud del nuovo edificio e di quello posto ad ovest denominato A, residenziale (costruito sempre alla fine del XII secolo), dietro al quale è realizzato anche un forno fusorio per le leghe di rame (Fb1). A inizio XIII secolo si ha una nuova modificazione dell’assetto delle attività produttive. Quella del vetro (Fv3) viene collocata al piano terra dell’edificio B, che viene diviso in due ambienti: quello a est destinato al forno fusorio in mattoni e quello a ovest a magazzino per lo stoccaggio dei crogioli, dei semilavorati e dei prodotti finiti. Il tutto convive con le attività metallurgiche (ferro e leghe metalliche) collocata al piano terra dell’edificio A (fig. 6) 35. CANTINI 2013. ROFFIA 1973, p. 465. 35 DUCCI, CARRERA, PASINI et alii 2011; CARRERA, PASINI, BONAIUTO 2013. 33 DE MARINIS 1991. 31 VALENTI 2012. 32 CAVALIERI, GIUMLIA-MAIR 2009. 30 34 510 FEDERICO CANTINI gioli; un’altra più grande a base rotonda di cm 230 di diametro (E), destinata sempre alla fusione della fritta preparata nella fornace A, a cui erano aggiunti rottami di vetro, frantumati nell’angolo sud-ovest su una pila di pietra con un martello in ferro, utilizzato anche per spezzare i crogioli, che forse erano realizzati nella stessa vetreria; accanto alla fornace era una buca che ci parla del tentativo fallito di realizzare un’altro forno; nell’ambiente più piccolo (b) si trovava una terza fornace (D) usata per la fusione del vetro in crogioli e la soffiatura del vasellame; un vicino pilastro poteva essere usato come ripiano sul quale si accatastava la legna; altri ambienti collocati ad est (c, d, e) erano usati per le attività produttive e nel caso di quello ‘c’ come cucina (fig. 7) 36. Relativamente alla gestione dei processi produttivi a partire dal XV secolo si osserva una loro semplificazione e specializzazione: la produzione della fritta è distinta da quella dei manufatti, mentre si consolida la figura dell’imprenditore, che nasce nella seconda metà del XIV secolo, estraneo alla lavorazione, che investe nell’allestimento delle vetrerie e si assicura una parte dei guadagni 37. Relativamente all’Umbria e alle Marche le Fig. 7. - Germagnana, resti archeologici della produzione vetraria, da Mendera uniche notizie edite riguardano: per l’Umbria 1991b, fig. 3. il ritrovamento di un crogiolo da vetro in strati di VI-IX secolo a Narni 38 e le attestazioni di Se la coesistenza e contiguità fisica tra attività provetrai a Perugia e Orvieto (Piegaro, Monteleone) a parduttive diverse caratterizza Pisa, così non è per le aree tire dal XIV secolo 39; per le Marche sempre le attestarurali della Valdalsa dove a partire dal XIII secolo, spezioni di vetrai a partire dalla seconda metà del XIV cie in prossimità delle zone di estrazione delle sabbie secolo ad Ancona e dal XV ad Urbino 40. Sono dati che silicee si sviluppano numerosi centri di produzione. Uno confermano quanto delineato per la Toscana. di questi, Germagnana, è stato oggetto di scavi stratigrafici. Si tratta di un complesso esteso non meno di m2 225, con un edificio con pareti parzialmente aperte, Metallo composto da almeno 5 ambienti con ulteriore area produttiva esterna (area I), che accoglieva una grande forRelativamente al metallo l’archeologia fornisce innace da fritta (A), una più piccola da vetro (B) e una formazioni più ricche e numerose, ma riguardano quasi zona per la raccolta delle ceneri. All’interno dell’edifiesclusivamente l’area toscana. cio, realizzato con murature a sacco, si distinguono due In linea generale si osserva una presenza di attività ambienti principali. In quello più grande (a) si trovano produttive abbastanza costante in città e in campagna, due fornaci: una di piccole dimensioni di forma rettancon una rarefazione delle informazioni che riguarda sogolare (C; cm 150 x 100) per la fusione del vetro in croprattutto il IX secolo. MENDERA 1991b. MENDERA 1991b, p. 22. 38 CAMPOREALE 2012, p. 259. 36 37 39 40 MENDERA 2000, pp. 132-133. MENDERA 1991b, pp. 16-17; TADDEI 1954, doc. VII. FORME, DIMENSIONI E LOGICHE DELLA PRODUZIONE NEL MEDIOEVO 511 In età tardo antica (IV-V secolo), a parte Lucca, dove sono evidenti le tracce di attività metallurgica che si protraggono tra IV e V secolo e che richiamano da vicino la fabbrica di spade imperiali nota dalle fonti 41, e Firenze, dove le evidenze si riducono a strati con scorie di difficile interpretazione (IV-VII secolo) 42, le realtà produttive, sia urbane (Roselle-Gr), che rurali (Spolverino-Gr, S. Cristina-Si) sono perlopiù rivolte alla rifusione del metallo (fig. 8). Queste attività sono ancora ben strutturate all’interno di edifici tra IV e V secolo, Fig. 8. - Lucca, l’area dello scavo Galli Tassi con i forni da fucina, rielaborata da Ciampoltrini 2007, come dimostra il caso di Ro- fig. 5. selle e del suo approdo di Spolverino (fig. 9 e tav. 00) 43. In quest’ultimo sito accanto alla fusione del vetro è stata, infatti, trovata un’officina per la rifusione dei metalli (leghe di rame) con forgia, tettoia, ripostiglio, alloggio per mantice e incudine, oltre a una vasca in cocciopesto. Le attività metallurgiche legate ai cantieri di spoliazione delle ville tardo antiche possono essere invece meno strutturate come nel caso di S. Cristina, dove tra la seconda metà del IV e il V secolo sono stati individuati forni per la rifusione del metallo prelevato Fig. 9. - Officina metallurgica di Spolverino, da Sebastiani, Chirico, Colombini et alii 2012, fig. 9. da un impianto termale, posti in un’area collocata ad ovest e nel centro della stessa città (Piazza dei Cavalieri), andell’edificio romano 44. che se la datazione di entrambi i contesti è al momento A volte si vanno a installare in alcuni ambienti delle 45 incerta 46. A Firenze, ad oggi, abbiamo invece ancora solo stesse ville, come nel caso di Torraccia di Chiusi . strati con scorie. A partire dal VII secolo troviamo resti di attività di riEvidenze di lavorazione del ferro e del bronzo sono duzione del ferro nei pressi di Pisa (ex area Scheilbler) CIAMPOLTRINI 2007, pp. 18-21. SCAMPOLI 2010, p. 90. 43 SEBASTIANI, CHIRICO, COLOMBINI et alii 2012; SEBASTIANI, CHIRICO, CINI et alii 2013. 41 42 VALENTI 2012. CAVALIERI, BALDINI, D’ONOFRIO et alii 2010. 46 Da ultimo cfr. GATTIGLIA 2013, pp. 163-164. 44 45 512 FEDERICO CANTINI Un salto di qualità si osserva dal X-XI secolo: sono fondati ex novo castelli minerari (Rocca San SilvestroLi) 50, mentre i villaggi altomedievali d’altura si dotano di mura che vanno a racchiudere le strutture produttive (Rocchette, Cugnano). Intanto ricompaiono tracce evidenti di attività metallurgiche anche in città. A Lucca, tra VIII e IX secolo, nell’area dell’ex Galli Tassi, è strutturata una sorta di officina dotata di due forni Fig. 10. - Vicus Wallari, ricostruzione della fase di VII secolo, di B. Fatighenti. (uno largo cm 180 e uno più piccolo di cm 40), con a poi emerse nel Valdarno a vicus Wallari, dove si collofianco una zona di lavorazione con scorie e tracce di cano in un sito dotato di una torre, probabilmente lerame, dotata di una tettoia (fig. 11) 51. Tra il X e l’XI 47 gato a Lucca (fig. 10) . Le strutture produttive si secolo, sotto la casa-torre annessa alla Loggia dei Merlimitano a bassofuochi (cm 46 di diametro a vicus Walcanti, sono poi impiantati forni da ferro, riferibili a fasi lari) e a forge per il ferro, associati nei casi pisani e nel successive d’uso di una fucina posta all’aperto: si caso di vicus Wallari ad ematite; in quest’ultimo sito tratta di ampie fosse circolari con pareti rivestite di arsono emersi anche modelli in piombo per stampi. In gilla, frammenti ceramici e soprattutto ciottoli, fortepiazza dei Cavalieri, a Pisa, in strati datati tra VII e VIII mente arrossati dal calore; sul fondo resti di scorie, secolo si trovano anche tuyeres. carboni e cenere 52. Tra la fine del VII e l’VIII secolo iniziano poi a A Pisa, in Piazza dei Cavalieri, si osserva una conentrare in scena villaggi d’altura collocati nei pressi tinuità produttiva che non si arresta tra la fine del IXdelle aree di estrazione dei minerali nelle Colline metalX fino alla seconda metà del XII - prima metà del XIII lifere e ai loro margini: Miranduolo (Si) per il ferro 48, secolo, in concomitanza con la crescita delle fabbriche Cugnano (Gr) e Rocchette (Gr) soprattutto per il comunali. In particolare si susseguono: piombo argentifero 49. A Miranduolo si trovano minerale, scorie, frammenti di forni (scavati nel banco di - tra la fine del IX e il X secolo un fondo di forno roccia e rivestiti di argilla), aree di frantumazione e da riduzione (depressione a forma di settore circotracce di arrostimento del minerale, oltre ad una possilare di raggio cm 40-45); bile forgia, accompagnata da banco da lavoro, una - tra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo uno strato grande pietra squadrata e levigata, e una piccola vasca. di colmata, su cui si impostano nuove attività meA Rocchette tra l’VIII e il IX secolo è attestata solo tallurgiche (crogioli); l’estrazione e al massimo il test del minerale o prime - nella prima metà dell’XI secolo un nuovo forno da lavorazioni dentro il sito. A Cugnano tra VIII e X riduzione e una forgia (chiazza di concotto di cm secolo state datate tracce di escavazioni minerarie a 30 di diametro, con vicino due pietre squadrate e cielo aperto al di fuori di un fossato che delimita l’abisovrapposte; chiazza di terreno rossastro argilloso tato. di cm 50 x 60 con vicino lastra di ardesia, buche I dati sono in corso di edizione da parte dello scrivente. LA SALVIA 2012. 49 GRASSI 2013; per Cugnano BIANCHI, BRUTTINI, QUIRÒS CASTILLO et alii 2012. 47 48 FRANCOVICH 1991. ABELA, BIANCHINI 2006, pp. 53-55. 52 ABELA, BIANCHINI 2002, p. 24. 50 51 FORME, DIMENSIONI E LOGICHE DELLA PRODUZIONE NEL MEDIOEVO 513 di palo e pietre; depressione a forma di settore semicircolare con intorno pietre) 53. L’intensa attività di lavorazione del ferro pisana si lega naturalmente soprattutto allo sfruttamento dei bacini minerari dell’Isola d’Elba, dove sappiamo che, dall’XI al XIV secolo, i fabbri della città marinara si recavano stagionalmente. La ricerca archeologica ha permesso il riconoscimento di resti di attività di riduzione in bassifuochi (bacini parzialmente scavati nel suolo, con un piano in argilla, ridotte dimensioni e forse sovrastrut- Fig. 11. - Officina metallurgica altomedievale, Lucca ex Galli Tassi, rielaborata da Abela, Bianchini tura in pietra per riparare il 2006, p. 54, fig. 51. mantice) e di forge, queste ultime probabilmente funzionali alla fabbricazione degli strumenti necessari ai fabbri, oltre alle tuyers, databili soprattutto dal XII secolo (e fino al XV secolo), quando questi indicatori di produzione si trovano associati a manufatti ceramici di produzione pisana, a conferma della provenienza degli artigiani 54. Solo a partire dal Duecento nell’isola si hanno anche attività produttive più strutturate, all’interno di edifici in pietra, come quello emerso sul Monte Serra, denominato Fig. 12. - Officina del Monte Serra, Elba, da Martin 1994, fig. 5. Site 18: un edificio diviso in osservano anche in città tra la fine del XII e il XIII sedue vani con resti, nell’ambiente occidentale, di un forcolo. netto da riduzione con vicina un’area per la battitura A Pisa abbiamo attestate lavorazioni della lega di del minerale, una fossa per l’acqua e altre fosse per larame tra la fine dell’XI e la prima metà del XII secolo vorare la bluma, databile tra il XIII e il XIV secolo (fig. in via Toselli 56 e tra la fine del XII e l’inizio del XIII 12) 55. Maggiori investimenti nel settore metallurgico si 53 54 CORRETTI 2000. CORRETTI, CHIARANTINI, GIUNTOLI et alii 2012. 55 56 MARTIN 1994. Si tratta di un piano di vita ricco di fruscoli carboniosi e sco- 514 FEDERICO CANTINI secolo in S. Eufrasia, nel cuore della città medievale 57, e negli ex Laboratori Gentili 58, a sud dell’Arno. Qui accanto all’edificio B, che aveva accolto la produzione del vetro, ne troviamo un altro (A), costruito sempre alla fine del XII secolo, dietro al quale è realizzato un forno fusorio per le leghe di rame (Fb1). Ad inizio XIII secolo è poi il piano terra dell’edificio A ad essere destinato alla lavorazione dei metalli: sono stati trovati almeno due forni per la fusione del bronzo, alimentati da mantici a mano, a cui si possono riferire numerose tuyeres, crogioli, frammenti di uno stampo fittile a matrici multiple e la base di un bancone in laterizio, dove probabilmente erano spaccati gli stampi e poi rifiniti con la lima i pezzi finiti, forse stipati in un cassone interrato, posto sul lato orientale dell’ambiente; un secondo bancone in muratura, che affacciava su via Alberto Mario, poteva ipoteticamente essere destinato alla vendita delle fibbie e degli anelli in bronzo prodotti nella bottega. Nella corte murata dell’edificio A è stato trovato anche un forno per la fusione del bronzo (cm 120 x 50; prevedeva un prefurnio di cm 70 e una camera di combustione circolare di cm 5 di diametro, oltre ad un piano forato) 59 e uno per la riduzione dell’ematite, costituito da un circolo di pietre e laterizi. Tra il forno di riduzione e la parte meridionale dell’edificio A, dove è stata individuata la traccia di un fuoco di forgia accanto ad un basamento rettangolare, forse funzionale all’impianto di un’incudine, è stata trovata una buca riempita da ossa di corna di caprovini tagliati alla base e in punta, forse utilizzati come cappuccio per il becco del mantice, o che comunque ci parlano di una stretta integrazione con i vicini conciatori, noti dalle fonti scritte come collocati al di là della strada posta a nord della bottega (via Alberto Mario). A sud-ovest, lungo via S. Antonio, un altro edificio (E), databile tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo, ospitava al piano terra una bottega per la lavorazione del ferro e delle leghe di rame 60: nell’angolo sud-orientale sono stati trovati i resti di una forgia alimentata forse da due mantici, ed in adiacenza ad essa l’alloggiamento del ceppo ligneo sul quale poggiava l’incudine. Il rinvenimento di numerosi coltelli in ferro, di rivetti, di una cote, di alcune guancette in osso e di immanicature ha lasciato ipotizzare la presenza di uno dei coltellinai testimoniati a inizio XIII secolo anche dalle fonti scritte. Questa bottega viene abbandonata a inizio XIV secolo, forse a seguito dell’alluvione del 1333. La produzione di oggetti in lega di rame la troviamo, a Pisa, anche a nord dell’Arno: in via Consoli del Mare è stata infatti rinvenuta una fornace per il ferro, che cessa di funzionare tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo, quando si passa ad un nuovo impianto, che rimane in funzione fino alla fine del XIII/inizio XIV secolo, destinato alla produzione di oggetti in lega di rame, a cui sono associabili una fornace per la fusione del metallo in crogioli (struttura circolare concava di cm 30 di diametro, profonda cm 12, con vicino l’alloggio per mantice cilindrico), e una fossa di gettata (struttura scavata nel terreno di forma ellittica, realizzata in mattoni legati da malta di calce). Interessante è il ritrovamento anche in questo contesto di ematite 61. Lo sviluppo delle attività metallurgiche in città soprattutto a partire dal Duecento ha un corrispettivo nelle colline metallifere tra il XII e la prima metà del XIII secolo. La presenza delle signorie territoriali (Aldobrandeschi a Cugnano dal 1150, Pannocchieschi a Rocchette dal 1232, Alberti a Monterotondo dal 1164) si fa evidente non solo a livello documentario, ma anche materiale: con il rinnovamento urbanistico dei castelli, che prevede l’introduzione delle prime chiese, si afferma una netta distinzione funzionale tra aree abitate e aree dedite alla lavorazione dei minerali, che spesso diventa prevalente su tutte le altre, come dimostra la scomparsa degli indicatori di raccolta dei prodotti agricoli. Aumenta anche l’intensità della produzione, legata alla richiesta di metallo, soprattutto monetabile, da parte delle città, che si erano dotate o si stavano dotando di zecche, come emerge per esempio a Cugnano, dove nel corso del XII secolo si osserva il continuo rifacimento delle strutture produttive, con una sequenza di 4 forni da riduzione, 1 per l’arrostimento e una struttura forse uti- rie di lavorazione con frammenti di crogioli, all’interno di un edificio posto vicino a S. Cristina (GATTIGLIA 2013, p. 166). 57 MEO 2013. 58 DUCCI, CARRERA, PASINI et alii 2011; CARRERA, PASINI, BONAIUTO 2013. 59 Questa struttura, che era stata interpretata come destinata alla cottura degli stampi (cfr. bibliografia in nota precedente), è stata ora riconosciuta come forno per la fusione delle leghe di rame (comunicazione personale del dott. Francesco Carrera, che sta svolgendo la tesi di dottorato su questo contesto). 60 Per le leghe di rame comunicazione personale del dott. Francesco Carrera. 61 GATTIGLIA 2013, pp. 164-166. 62 GRASSI 2013; BIANCHI, BRUTTINI, QUIRÒS CASTILLO et alii FORME, DIMENSIONI E LOGICHE DELLA PRODUZIONE NEL MEDIOEVO 515 lizzata per il lavaggio delle materie prime (fig. 13) 62. Alcuni centri collocati in posizione strategica rispetto ai filoni di argento e alle vicine città vedono investimenti eccezionali diretti verso questo settore economico. Emblematico è il caso del castello di Montieri, dove, pur essendo attestate tracce di attività metallurgiche, forse legate all’argento, già tra il IX/XI e la fine del XII secolo, vedrà proprio tra la fine del XII e quella del XIV secolo la costruzione di un grande palazzo, detto delle Fonderie (m 32 di lunghezza e m 6-7 di larghezza), che in tre ambienti posti al piano terra ospiterà: in quello a nord le attività legate al processo produttivo dei metalli monetabili, con l’utilizzo di ‘canalette’ scavate nel terreno, bracieri, forni, una forgia e un pozzo per attingere l’acqua; in quello a sud quelle pertinenti alla lavorazione del ferro, con una forgia da ferro e un pozzo, attività probabilmente funzionali anche a creare gli oggetti necessari ai processi di la- Fig. 13. - Cugnano nel XII secolo, da Bianchi, Bruttini, Quiròs Castillo et alii 2012, fig. 3. vorazione che si svolgevano negli altri ambienti. Si tratta di una struttura imponente che è stata infine in crisi, perché ormai era sconveniente lavorare ipoteticamente identificata con la prima zecca del vescovo il metallo lontano dai corsi d’acqua che garantivano l’uso di Volterra 63. dell’energia idraulica. A questo riguardo sono illuminanti gli studi di Maria Tra la metà del XIII e il XIV secolo si ha un nuovo Elena Cortese sul bacino Farma-Merse nel senese. Qui momento di cesura nei castelli minerari della Toscana il numero dei mulini, utilizzati tra il XII e il XIII semeridionale: attraverso l’acquisto di quote di questi colo, soprattutto per la macinazione dei cereali, aucentri fortificati ai signori subentrano le autorità cittamenta e tocca l’apice tra la seconda metà del XIII e la dine e comunali (principalmente Massa Marittima e prima metà del XIV secolo, quando iniziano a essere Siena, ma anche Firenze per il castello di Montieri), che impiegati per l’attività siderurgica legata alla lavorazione attuano un ripopolamento e strutturano nuove aree ardel ferro elbano, forse per iniziativa dei cistercensi di tigianali, controllate ora da guarnigioni militari instalS. Galgano. Si tratta di strutture imponenti, alle quali late nelle ex aree signorili, dove sono creati ambienti nei documenti ci si riferisce con il termine di fabrica o ad uso magazzino, stalle, forni da pane e cisterne (Rochedificium ferri 65. chette). Le nuove aree produttive non vedono comunque un miglioramento del processo di riduzione dei La monumentalità delle strutture produttive si mametalli, ma solo un allargamento delle aree lavorative, nifesta in maniera ancora più palese a partire dal XV per incrementare i volumi di produzione 64. secolo, come ci mostrano i resti delle allumiere di Monterotondo. Alla fine del XIV secolo i castelli minerari vanno 2012. 63 BRUTTINI, GRASSI 2010. 64 65 GRASSI 2013, in particolare pp. 33-34. CORTESE 1997. 516 FEDERICO CANTINI per trovare le prime tracce di strutture legate alla produzione di tessuti dobbiamo arrivare al periodo compreso tra la fine dell’XI e il XIII secolo e spostarci in città. A Pisa, in via Toselli, un vano non affacciato sulla strada è destinato a pellicceria. Sono stati rinvenuti una serie di strati con matrice organica e presenza di numerose zampe di volpe, associate a più rare code, in un contesto di fine XI - prima metà XII secolo. Una retrostante capanna con zoccolo in pietra e alzato in materiale deperibile era forse utilizzata come magazzino 68. Alla tintura doveva poi essere destinato uno spazio aperto individuato nel centro della città antica, a S. Eufrasia, dove tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo si trovava un Fig. 14. - Monteleo-Monterotondo Marittimo, strutture produttive per l’allume e fronti di cortile pavimentato aperto, con alcava (rielaborata da Dallai, Poggi 2012, fig. 2). l’interno tre vasche circolari in laterizio e un pozzo centrale al cui Lo scavo archeologico del sito di Monteleo ha reinterno sono stati trovati due strumenti in legno per la stituito, infatti, una batteria di fornaci, note come forni lavorazione dei tessuti. Numerose buche di palo sono di calcinazione, e un forno per la liscivazione, oltre ad state poi associate a battitoi o stenditoi 69. una grande struttura in legno. L’organizzazione del laImpressionanti sono le strutture che troviamo in via voro prevede ora la creazione di una società di cittadini Busini-Bardi, vicino all’Arno, a Firenze nel XIV secosenesi che lavora grazie ad una concessione richiesta al lo. A seguito della demolizione di un quartiere duecenComune, concessione che permetteva anche la costrutesco sono impiantate sei vasche: due in laterizio, di forzione di edifici a scopo abitativo, la modificazione del ma rettangolare, impermeabilizzate con un rivestimento paesaggio attraverso la costruzione di strade, ponti e e dotate di scarico lungo una delle spallette, e quattro vaopere di regimazione, garantendo anche diritti sulle sche di forma circolare di m 1,5 di diametro, con basaacque e sul legname, e la possibilità di allevare il bemento orizzontale o suborizzontale, piano, perimetrato stiame, di piantare grano e viti (fig. 14) 66. da un profondo solco ampio cm 10 e profondo cm 8, con Fuori dalla Toscana abbiamo solo il caso di Spoleto alta parete laterale in tecnica mista, rivestita internamente dove è stato trovato un forno da bronzo datato ad un da un getto cementizio omogeneo. La spalletta di quelgenerico alto Medioevo, in un’area che in età romana le circolari presenta sulla superficie interna due profonera lastricata e collegata ad un tempio 67. de riseghe regolari, ortogonali e sopraelevate rispetto all’omologo solco perimetrale del basamento. I solchi sono funzionali all’alloggiamento di un elemento ruotante in Tessile legno che non doveva appoggiarsi al fondo della struttura. Mentre la vasca rettangolare è stata associata alla Se si escludono i rinvenimenti di fuseruole, diffuse tintura, quelle circolari sono state collegate alla gualcain molti contesti rurali e urbani per tutto il Medioevo, tura. Nella porzione centrale della fascia nord dello sca- 66 67 DALLAI, POGGI 2012; DALLAI 2013. DONNINI, GASPERINI 2015. 68 69 GATTIGLIA 2013, pp. 176-178. MEO 2013. FORME, DIMENSIONI E LOGICHE DELLA PRODUZIONE NEL MEDIOEVO 517 vo si trova poi un altro ambiente quadrangolare di incerta funzione, mentre nella parte orientale sono stati scoperti una serie di piccoli ambienti di forma allungata probabilmente destinati allo stoccaggio delle materie prime e dei prodotti finiti (fig. 15) 70. Relativamente alla gualcatura imponenti sono Fig. 15. - Firenze, strutture produttive di Palazzo Busini-Bardi, da Palchetti 2007. anche le strutture in pietra minati nelle campagne per il recupero delle matetrovate a Quintole, a nord di Firenze, lungo l’Arno, imrie prime; piantate dopo l’alluvione del 1333 che distrusse le gualnell’alto Medioevo nel mantenimento di un certo chiere poste su zattere in legno nella città gigliata. Si trattasso di produzione metallurgica, spesso legata ta di costruzioni in pietra collegate ad una gora che faceva anche alla realizzazione di oggetti di lusso 73; entrare l’acqua dell’Arno per azionare le macchine di le- dall’XI e in maniera più evidente dal XII secolo gno che, con i loro magli, servivano per gualcire, cioè pinella domanda di una quantità sempre maggiore di giare e battere, i tessuti di lana trasformandoli in ‘pan71 ferro e di metallo monetabile sufficiente a supporni’ . tare la crescita economica urbana, che promosse una Tra la fine del XIV e il XV secolo la tessitura dimaggiore razionalizzazione dei processi produttivi venta archeologicamente evidente anche a Lucca, dove, e un incremento delle quantità di minerale prodotto in piazza Napoleone, una serie buche di palo e una fossa nelle aree di estrazione attraverso un controllo disembrano interpretabili come gli alloggi di un telaio orizretto (cfr. i fabbri pisani all’Elba) o la spinta, gezontale, posto su un piano pavimentale in argilla comnerata da una domanda in forte crescita, data ad pattata, consolidata da pietrisco e minuti frammenti di alcune grandi famiglie signorili a sviluppare i calaterizi e in parte lastricato di mattoni frammentati, instelli minerari in aree ricche di materie prime, come tegrati da qualche scheggia di pietra. Sono forse tracce le Colline metallifere; delle misure disposte dalla Repubblica di Lucca nel - dalla fine del XII e soprattutto dal XIII secolo, nella 1382 per favorire l’arrivo di tessitori specializzati nelcapacità di far rinascere (nel caso del vetro) o di l’arte della Lana 72. riorganizzare le attività produttive in aree urbane dove la contiguità fisica ottimizzava i cicli di lavorazione e la qualità e il peso della domanda proConclusioni muoveva l’inurbamento di artigiani dalle campagne (ad esempio ceramisti) e l’applicazione delle inIn estrema sintesi dai dati che abbiamo illustrato novazioni tecnologiche (ad esempio smalto e emerge il ruolo centrale della città nell’introduzione stampi fittili); delle innovazioni tecnologiche, nella capacità di gestire dal XIV e in maniera massiccia dal XV secolo nella sistemi produttivi complessi e nella forza attrattiva eserspinta economica che i capitali urbani dettero ad citata sulle maestranze, che si manifesta: alcuni tipi di produzione che si erano sviluppati nelle campagne nel secolo precedente (ceramica-Mon- in età tardo antica nella continuità delle attività letelupo; allumiere-grossetano) che ora crebbero e gate alla lavorazione del vetro e dei metalli e forse promossero la diffusione dei loro prodotti su scala nella capacità di gestire i grandi cantieri di spoliainternazionale (Montelupo). zione dei complessi monumentali imperiali disse- 70 71 PALCHETTI 2007. SALVINI 1986. 72 73 CIAMPOLTRINI 2002. Per Lucca cfr. BELLI BERSALI 1973, pp. 477, 492-493. 518 FEDERICO CANTINI Ma la forza della città, che stava soprattutto in quella della domanda di beni e nella possibilità di approfittare della contiguità fisica tra produttori di diversi settori, rese stabile, anche dopo la grande crisi demografica di metà Trecento, pure ciò che fino ad allora era stato sempre itinerante: la produzione delle campane, come emerso a Pisa, vicina alla chiesa di S. Andrea in Chinzica, dove nella seconda metà del XIV secolo viene impiantato un atelier, che occupava una superficie di m2 750, costituito da una serie di ambienti disposti a schiera, di circa m2 30, con murature in laterizi, coperti, ognuno dei quali conteneva una fornace fusoria e una fossa di gettata 74. Bibliografia ABELA, BIANCHINI 2002 = E. ABELA, S. BIANCHINI, La città nascosta. Venti anni di scoperte archeologiche a Lucca, Lucca 2002. ABELA, BIANCHINI 2006 = E. ABELA, S. 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LA PRODUZIONE IN ITALIA MERIDIONALE FRA TARDO ANTICO E MEDIOEVO: INDICATORI ARCHEOLOGICI, ASSETTI MATERIALI, RELAZIONI SOCIO-ECONOMICHE Pasquale Favia, Roberta Giuliani, Maria Turchiano Negli ultimi anni il panorama e le prospettive degli studi sulle produzioni artigianali tardo antiche, altomedievali e medievali in Italia meridionale si è notevolmente ampliato, sia pure in maniera disomogenea nelle varie regioni. Nella consapevolezza dell’impossibilità di considerare i territori meridionali come un insieme unitario, privo di articolazioni significative sul piano produttivo ed economico, si è cercato da un lato di valorizzare le differenze spaziali e le scansioni temporali, dall’altro di individuare caratteri e tendenze generali, ponendo in evidenza elementi di continuità e discontinuità rilevabili tra tardo antico e Medioevo. L’ampiezza del comparto geografico e dell’arco cronologico e la complessità delle tematiche da affrontare hanno imposto la scelta di alcuni contesti archeologici più significativi per rappresentatività, qualità e quantità degli indicatori di produzione. (P.F., R.G., M.T.) La presenza delle attività produttive nelle aree centrali del tessuto cittadino è considerato ormai da più parti uno dei caratteri distintivi della città tardo antica 1, uno di quei tratti che dovette contribuire sensibilmente al peggioramento della qualità urbana, soprattutto per via dell’emissione di fumi e la creazione di accumuli di rifiuti, in molti casi, non facilmente smaltibili 2. Il fenomeno, ormai accertato per la tarda antichità su un ampio areale geografico 3, dovette assumere dimensioni tutt’altro che trascurabili anche in Italia meridionale. A differenza di quanto si verifica per l’ambito rurale, le evidenze archeologiche disponibili riguardo alle realtà cittadine, spesso frutto di indagini di emergenza o comunque condotte tramite sondaggi assai limitati, non consentono tuttavia di apprezzare a pieno, salvo rari casi, dimensioni, caratteristiche, organizzazione e qualità degli opifici, la loro relazione con le infrastrutture urbane e con i luoghi di approvvigionamento delle materie prime; come si vedrà, gli spunti su questi argomenti sono ancora piuttosto limitati e suscettibili di ulteriori verifiche. In via preliminare, dal punto di vista della localizzazione degli impianti artigianali, si può osservare che spesso sono le aree e gli edifici pubblici in dismissione o in abbandono ad ospitare impianti di produzione. Un ruolo prevalente tra questi sembra assunto dalle calcare 4, rappresentando evidentemente i grandi monumenti MCKORMICK 2001, p. 61. Alcuni studiosi francesi hanno individuato proprio nell’uso dei combustibili per le attività artigianali, un tempo dislocate in aree marginali della città, uno dei possibili fattori all’origine della formazione dei depositi organici noti come ‘terre nere’, caratteristici, come è noto, delle stratigrafie tardoantiche-altomedievali di molte città europee (CAMMAS, CHAMPAGNE, DAVID et alii 1995, p. 27). 3 BROGIOLO 2011, p. 181 con citazioni di vari esempi in territorio italiano ed extra; LEONE 2007, pp. 219-220, 224-225, 232-236 per le città africane. 4 Dispositivi per la produzione della calce si registrano nei tea- tri di Copia, Locri, Venafro, nell’anfiteatro di Larino (DATTOLO 2008, pp. 492-493, con bibliografia relativa), nella porticus del foro di Suessula (calcara e vasche: CAMARDO, ROSSI 2005, pp. 171, 175, fig. 3), lungo il tracciato dell’Appia a Calatia (PETACCO, RESCIGNO 2005, pp. 146, 148, fig. 11); a Cuma, nell’aula basilicale del foro, tra metà VI e VII secolo, fu collocato un impianto per la lavorazione della calce, dotato di sette forni; in prossimità delle mura settentrionali, nell’area della ‘Porta Mediana’, nello stesso periodo, fu installata un’altra calcara (MALPEDE 2005, pp. 197, 199; fig. 4 a p. 209); forni per calce sono documentati pure nelle terme di Thurii (NOYÉ 2006, p. 500, fig. 6), nel foro di Scolacium (RAIMONDO 2006, p. 543) e ad Egnazia (due nelle terme e uno nel santuario dell’acropoli: cfr. da ultimo MASTROCINQUE 2014, pp. 422, 424). L’ETÀ TARDO ANTICA E ALTOMEDIEVALE L’artigianato di ambito urbano 1 2 522 PASQUALE FAVIA, ROBERTA GIULIANI, MARIA TURCHIANO una fonte di approvvigionamento preziosa di materiali da cuocere per ottenere calce; peraltro non sono assenti altri tipi di attività artigianali (ad esempio fabbricazione di terrecotte a Scolacium e a Grumento 5, vetro a Canosa, a Thurii e a Pozzuoli 6, metallo ad Egnazia, a Reggio e Scolacium 7; ad Egnazia, nell’ambito di un’officina polifunzionale, metalli, tegole, calce, malta e forse pelli 8). Non è trascurabile tuttavia il fenomeno delle officine dislocate all’interno di edifici privati, in un quadro che spesso prevede il ridimensionamento e la riorganizzazione dei settori residenziali preesistenti a favore dell’inserimento dei nuclei produttivi 9, con casi significativi registrati ad Aeclanum e Picentia (per la produzione del vetro) 10, Venosa (ceramiche, ferro e vetro) 11, Canosa (ceramiche, laterizi, ferro) 12 , Ordona (ferro e vetro) 13 , Egnazia (ceramiche, legante, osso) 14, Brindisi e Napoli (calce) 15, Locri 16 (metallo). Tra gli impianti menzionati emerge per il carattere polifunzionale, l’ampiezza, l’articolazione e differenziazione degli spazi, il livello di specializzazione, la manifattura di Egnazia (fig. 1) impostata a sud della via Traiana, attiva tra fine V e VI secolo, collegabile forse con il programma di ristrutturazione della vicina piazza porticata, adattata ad ospitare spazi dediti alle attività connesse alla pesca ed al commercio; sono state rinvenute due fornaci per ceramica (una specializzata nella fattura di vasellame dipinto, l’altra di manufatti da Fig. 1. - Egnazia (BR). Planimetria del complesso produttivo polifunzionale ubicato a sud della via Traiana: (8-9) ambienti deputati alla fabbricazione della malta; (10) deposito combustibile; (11) vano adibito alla decantazione dell’argilla e alla modellazione del vasellame; ad est, il cortile con i due forni ceramici (a e b) (da Mastrocinque 2014). 5 Scarti di lavorazione ceramica sono stati rinvenuti nell’anfiteatro della città lucana (DI GIUSEPPE, CAPELLI 2005, p. 397, fig. 9), mentre nel foro di Scolacium è stata individuata una fornace per terracotta (NOYÉ 2006, p. 512; RAIMONDO 2006, p. 543). 6 Nel praefurnium delle terme ‘Lomuscio’ a Canosa, in uso fino a età tardo antica, fu allestita, in fase tarda, un’attività di produzione di calici vitrei (inf. M. Turchiano). Sull’impianto di Thurii di inizi V secolo, localizzato all’interno delle terme, forse in connessione con il riadattamento di alcuni spazi ad edificio di culto, cfr. NOYÉ 2006, p. 496. Per la fornace di Pozzuoli (III-IV secolo), ubicata in un ambiente affacciato sulla strada, in relazione con il vicino impianto termale, attivo fino al II secolo, vedi GIALANELLA 1999. 7 Una produzione metallurgica è segnalata nella porticus della piazza forense di Egnazia (MASTROCINQUE 2014, pp. 420-421). Impianti per la fabbricazione di metalli (bronzo in particolare), alloggiati all’interno degli spazi monumentali del porto, furono in uso a Reggio fino alla metà del IV secolo; una nuova fornace per la lavorazione del bronzo fu realizzata nel V secolo (NOYÉ 2006, pp. 486, 491), mentre nel foro di Scolacium una forgia (per metalli e bronzo in particolare) fu collocata all’interno dell’ambiente absidato (RAIMONDO 2006, p. 543). Cfr. da ultimo MASTROCINQUE 2014, pp. 421-422. Sull’argomento cfr. GIULIANI 2010, pp. 133-135; GIULIANI 2014, pp. 355-357. 10 Cfr. rispettivamente PESCATORI 2005, p. 280 e MALPEDE 1999. 11 Cfr. da ultime GIULIANI 2010, pp. 134-135 e MARCHI 2010, pp. 211-213. 12 SCRIMA 2011-2012; GIULIANI 2014, pp. 358, 363. 13 Per la casa con annessa bottega metallurgica cfr. GIULIANI 2010, pp. 135-136, figg. 4-6; mentre produzioni vetrarie sono documentate da indicatori rinvenuti nel riempimento della cisterna della domus B, realizzato tra seconda metà IV e metà V secolo (cfr. da ultimi GIANNETTI, GLIOZZO, TURCHIANO 2015, p. 297). 14 MASTROCINQUE 2014, pp. 417-420. 15 A Brindisi, al di sotto della chiesa di S. Giovanni al Sepolcro, una calcara fu allestita nell’area di una domus di età imperiale, già parzialmente trasformata in senso produttivo in età tardo antica (BRACCIO 1996). A Napoli, nell’area di Carminiello ai Mannesi, due ambienti dell’edificio A furono convertiti in calcinaio, non oltre la metà del V secolo (ARTHUR 1994, pp. 59-60, 73). 16 A Locri una forgia fu annessa ad un edificio privato (ZAGARI 2005, p. 193). 8 9 LA PRODUZIONE IN ITALIA MERIDIONALE FRA TARDO ANTICO E MEDIOEVO 523 prefigurando anche la possibilità di una loro acquisizione da parte di un soggetto forte nell’economia cittadina, forse la stessa Chiesa. Non mancano inoltre esempi di installazioni produttive insediatesi nel perimetro urbano su superfici apparentemente non occupate in precedenza, come l'officina di Benevento, attiva tra VI e inizi VII secolo, rinvenuta nell'area su cui si sarebbe insediato il complesso di S. Sofia 18; in altri casi resta incerto il rapporto tra le officine tardo antiche ed eventuali preesistenze 19; per le produzioni di lucerne, ad esempio, documentate prevalentemente da matrici e scarti rinvenuti in contesti di raccolta di superficie o di scarichi, sono difficilmente localizzabili le fabbriche, sebbene esse appaiano fortemente radicate nell’ambito urbano/suburbano 20. Le aree investite dall’edilizia cristiana costituiscono assai spesso nella compagine urbana luogo di installazione di officine temporanee (laterizi, calce, metallo, vetro), funzionali alle esigenze dei singoli cantieri: è quanto si registra ad Egnazia, laddove una calcara collocata presso la cd. ‘basilica di Rufenzio’ sembra aver funzionato sia in occasione della costruzione del primo edificio di culto (fine IV secolo), sia in seguito, per il rifacimento della stessa chiesa (nel corso del V secolo) 21; anche a Canosa una fornace per Fig. 2. - Scolacium. Planimetria della piazza forense con localizzazione degli impianti produttivi; il vano D corrisponde alla curia, forse trasformata in edificio di laterizi, attiva probabilmente durante la coculto (da Raimondo 2006). struzione del complesso paleocristiano di S. Pietro, fu presto obliterata dall’erezione di fuoco), vasche di decantazione dell’argilla, utensili, amuna domus nella seconda metà del VI secolo 22; tale bienti e dispositivi per la fabbricazione della malta, il fattispecie potrebbe riguardare, ma in maniera più deposito del combustibile, resti collegabili alla lavoradubbia, anche Thurii e Scolacium (fig. 2) 23. Le stesse zione dell’osso 17; l’impianto sembra indicare una comaree però si rivelano talvolta anche sede di attività non pleta riconversione degli spazi residenziali precedenti strettamente finalizzate ad uno specifico monuCfr. supra, nota 14. LUPIA 1998b. L’atelier, di cui sono stati portati alla luce esclusivamente alcuni spazi di servizio con accumuli di scarti e indicatori artigianali, era un centro di produzione secondario (recuperati numerosi pani vitrei) e fabbricava probabilmente bottiglie ed altre forme non chiaramente identificate. Sulla localizzazione intra moenia del settore cfr. ROTILI 2006a, fig. 11 a p. 26; pp. 67-71. 19 Questo aspetto non è rilevato infatti dagli autori delle ricerche per gli stanziamenti produttivi di Crotone, Vibo, Locri-Centocamere, Locri-Paleapoli (NOYÉ 2006, pp. 484, 513; RAIMONDO 2006, pp. 528531); la produzione ceramica di Cuma è testimoniata soltanto da scarti rinvenuti nell’area dell’anfiteatro (DE ROSSI 2005, p. 544). 20 Indicatori di tali produzioni provengono da Herdonia, Lucera, Venosa, Canosa, Egnazia, Taranto (per una sintesi relativa al com17 18 parto apulo si rinvia da ultimo a FIORIELLO 2012). Di recente è stato individuato nella catacomba di Ponte della Lama a Canosa un nucleo di lucerne prodotto localmente (ERAMO, GIANNOSSA, ROCCO et alii 2014). Per le matrici di ‘tipo Siciliano’, rinvenute a Miseno all’interno del teatro, cfr. DE ROSSI, DI GIOVANNI, MINIERO et alii 2010, p. 490, fig. 5.7. 21 MASTROCINQUE 2014, pp. 424-425. 22 VOLPE, FAVIA, GIULIANI et alii 2007b, n. 65. Sulla fornace cfr. infra, nota 27. 23 La rifunzionalizzazione in senso cultuale cristiano di alcuni ambienti delle terme di Thurii e del foro di Scolacium, sostenuta da Gh. Noyé che dunque suggerisce la relazione tra impianti produttivi e presenza ecclesiastica (NOYÉ 2006, pp. 495-496, 516), non è ipotesi percorsa da C. Raimondo (RAIMONDO 2006, pp. 533-534, 542). 524 PASQUALE FAVIA, ROBERTA GIULIANI, MARIA TURCHIANO Andrebbe meglio indagato il ruolo esercitato dai contesti produttivi dislocati in ambito suburbano, di certo non scomparsi in età tardo antica, e che anzi appaiono prolungare nel tempo vocazioni manifatturiere attivate in precedenza, come si riscontra a Vibona, sulla collina dell’Affaccio, laddove una fornace, allestita già in età imperiale, produce ceramica comune acroma nel VI secolo, momento in cui il complesso si arricchisce pure di una figlina per mattoni 26; è il caso anche del quartiere suburbano appena menzionato di Canosa, investito nel VI secolo dal grandioso progetto di costruzione del polo Fig. 3. - Canosa, S. Pietro. La bottega di rilavorazione dei lapidei annessa alla domus meridionale: in cultuale di S. Pietro voluto basso a destra, (a) la zona di lavoro da cui provengono scalpelli e punteruoli; a sinistra si riconosce dal vescovo Sabino, sede sin uno scarico di tessere musive (b), accumulate in una fossetta quadrangolare. da età romana di installazioni mento 24; interessante al riguardo il caso della botper la fabbricazione di laterizi e ceramiche, forse attive tega/magazzino installata tra VII e VIII secolo nella ancora in età tardo antica, come dimostrerebbero la fordomus vicina alla chiesa di S. Pietro, nel suburbio di nace A (fig. 4), probabilmente usata per produrre i matCanosa, dove furono accumulati elementi architettotoni messi in opera nel complesso cristiano e nici, arredi, suppellettili liturgiche del complesso resuccessivamente obliterata, e le matrici di lucerne tardo ligioso non più funzionante, destinati ad essere antiche recuperate sia in superficie, sia nell’ambito derilavorati (diversi i punteruoli e gli scalpelli ritrovati) gli scavi 27. e immessi nel circuito del reimpiego, verosimilmente Nelle maggiori città portuali, distretti produttivi interno alle proprietà ecclesiastiche cittadine, ma forse di una certa importanza, costruiti ex novo o su anche dell’intero comprensorio canosino (fig. 3) 25. strutture preesistenti, appaiono poi localizzati in po- 24 È quanto si ipotizza proprio per la menzionata calcara presso la chiesa di Egnazia, che difficilmente, rilevano gli autori dello scavo, potrebbe essere stata ripristinata a distanza di decenni (per le esigenze costruttive della seconda basilica) se non fosse stata in uso, sotto il controllo della Chiesa stessa, forse per produzioni non necessariamente connesse all’edilizia religiosa (MASTROCINQUE 2014, p. 425). Per le numerose scorie metalliche, ascritte al VI secolo, rinvenute negli scavi di S. Restituta a Lacco Ameno di Ischia (ARTHUR 2002, p. 118) e per gli scarti relativi ad anfore e ceramiche dipinte provenienti dall’abitato contiguo alla chiesa stessa (DE ROSSI 2005, p. 544, n. 24 con bibliografia) resta incerto il profilo produttivo di riferimento. 25 Indizi di una circolazione di manufatti di spoglio interna alle proprietà della Chiesa sono rappresentati dai capitelli che si trovano nell’attuale cattedrale, provenienti, secondo alcune ipotesi, dall’area del tempio romano di Giove Toro, su cui la Chiesa canosina dovette acquisire diritti in età tardo antica. Questi capitelli sono peraltro iden- tici a quelli rinvenuti in frammenti negli scavi della chiesa di S. Maria, nel polo di S. Giovanni, prima cattedrale canosina, dove, a nostro giudizio, potrebbero essere stati prioritariamente messi in opera, per essere trasferiti soltanto successivamente nella basilica dei SS. Giovanni e Paolo, con lo spostamento presso quella chiesa del titolo episcopale; il reimpiego (con rilavorazione) di elementi plastici provenienti dal tempio di Giove a S. Giovanni si basa anche su altri indicatori (cfr. su queste questioni GIULIANI, LEONE, VOLPE 2013, pp. 1141-1142, n. 23). 26 NOYÉ 2006, p. 484. 27 Sulla fornace A di S. Pietro cfr. VOLPE, ANNESE, CORRENTE et alii 2003, pp. 143-148; GLIOZZO, BALDASARRE, TURCHIANO et alii 2015; sui resti dell’insediamento produttivo di età romana e sulle matrici di lucerne paleocristiane rinvenute nell’area di scavo, si veda DE STEFANO, GIULIANI, LEONE 2007, pp. 42-45, figg. 10-13; riguardo poi alle matrici di lucerne ritrovate sulla collina di S. Pietro anteriormente agli scavi, cfr. da ultimo FIORIELLO 2012. LA PRODUZIONE IN ITALIA MERIDIONALE FRA TARDO ANTICO E MEDIOEVO 525 sizione prossima agli scali (impianti per vetro e metallo a Napoli 28; centri produttivi ceramici a Miseno e Otranto 29 ). Tenendo fermi i problemi rilevati in premessa, le evidenze richiamate delineano un quadro in cui l’artigianato urbano pare connotato generalmente da ateliers di dimensioni contenute, collegati ai nuclei abitativi, compatibili con produzioni di piccola scala, destinate al mercato urbano 30; emergono peraltro anche officine più articolate (forse controllate dalle autorità civili ed ecclesiastiche), che occupano spazi estesi e denunciano un livello di specializzazione Fig. 4. - Canosa di Puglia, S. Pietro. La fornace A (foto G. Volpe). elevato (impianto polifunL’artigianato di ambito rurale zionale a Sud della Traiana ad Egnazia, calcinaio di Cuma), volte probabilmente a soddisfare le esigenze L’ambito rurale sembra connotare fortemente le prodegli stessi circuiti legati alle committenze pubbliche duzioni manifatturiere. Vitalità economica, diffusione del e religiose, ma anche di consistenti fette di mercato citsistema vicano, grande proprietà senatoria, imperiale e tadino. I centri produttivi suburbani si pongono di successivamente anche ecclesiastica, colonato, valoriznorma in continuità con le fabbriche di età romana, di zazione di antiche vocazioni produttive (in particolare cui continuano a sfruttare evidentemente i vantaggi leil grano e la lana per l’Apulia, i maiali per la Lucania, gati a posizioni favorevoli rispetto all’approvvigionail vino per i Bruttii), rapporto privilegiato con il mermento di materie prime (argilla, acqua, legna) e alla cato di Roma, rappresentano alcuni dei caratteri fondadisponibilità di infrastrutture utili al funzionamento dementali del comparto territoriale in esame. Forte appare gli impianti 31, e probabilmente anche il duplice nesso infatti il nesso tra lo spostamento del baricentro protopografico da un lato con la città, dall’altro con i ri32 duttivo verso Meridione, una condizione di generale flospettivi distretti territoriali rurali . A produzioni più ridezza, la centralità nella geografia economica del chiaramente rivolte anche a mercati di medio e lungo Mediterraneo, la buona rete viaria terrestre e marittima raggio infine possono essere ricondotti gli stanziae la vivacità delle produzioni artigianali documentate 33. menti produttivi dislocati nelle aree portuali, come è Le ricerche condotte in alcune aree apule, lucane e chiaramente documentato dalle anfore di Otranto e calabresi 34 hanno registrato, per l’età tardo antica, un Miseno. fenomeno di selezione e ristrutturazione delle ville pree(R.G.) 28 A piazza Bovio, sul litorale, sulla sponda est del bacino portuale, nella seconda metà del VI secolo, è documentata un’officina vetraria, cui si aggiunge, dopo breve tempo, un impianto metallurgico (GIAMPAOLA, CARSANA, FEBBRARO et alii 2005, pp. 235-237). 29 Cfr. rispettivamente DE ROSSI 2004 e 2005; LEO IMPERIALE 2004. 30 Cfr. su questo tema GIULIANI 2010, pp. 147-150 e 2014, pp. 357-359. Sia le officine dell’Affaccio a Vibona, sia quelle di S. Pietro a Canosa erano ubicate a brevissima distanza da un acquedotto. 32 Cfr. per Vibona, NOYÉ 2006, p. 484. 33 VERA 2005. 34 NOYÉ 1994; VOLPE 1996; DI GIUSEPPE 1996; ARSLAN 1999; VOLPE 2005; GUALTIERI 2008; SMALL 2008; VOLPE 2012. 31 526 PASQUALE FAVIA, ROBERTA GIULIANI, MARIA TURCHIANO sistenti, talvolta monumentalizzate, con una riarticolazione funzionale e topografica delle attività agricole e manifatturiere 35. In molti casi non sembra più sussistere, in pendant con la perdita dell’unità villa/fundus, un rapporto organico tra pars urbana e pars rustica, anche in un’ottica di razionalizzazione degli instrumenta nell’ambito delle grandi proprietà 36. Le numerose residenze tardo antiche indagate rinviano prevalentemente al modello di un complesso dotato di strutture residenziali prive di relazione topografica con i settori produttivi, che si ritiene fossero vicini ma separati. Parallelamente, altre ville sembrano accentuare una specializzazione produttiva, con impianti per le attività agricole e manifatturiere distribuiti in varie parti di una stessa proprietà, in complessi dismessi e riconvertiti. Sembra dunque affermarsi un modello profondamente diverso da quello della prima età imperiale quando, in territori come la Lucania, «quasi ogni villa possedeva uno o più impianti produttivi per ceramica e laterizi» 37. Anche in Calabria, fino agli inizi del IV secolo, le indagini delineano una maggiore articolazione delle attività manifatturiere 38. Gradualmente, si registra una tendenza alla centralizzazione degli impianti produttivi e manifatturieri in alcuni siti. In Lucania, significativa è la caratterizzazione dei siti di Calle di Tricarico, di Trigneto e di La Marmora come poli produttivi specializzati nella produzione ceramica 39. Per San Giovanni di Ruoti, è stata ipotizzata una collocazione degli impianti artigianali nel vicus di San Pietro, a circa m 400 di distanza dalla villa che doveva fungere da centro amministrativo 40. Ipotesi analoghe sono state formulate per altri siti 41, tra cui la villa di Faragola, il cui polo produttivo e manifatturiero è forse da localizzare nel vicus di Cifre-Sedia d’Orlando, distante circa km 1,8 42. Nel caso di S. Giusto, lo sviluppo del quartiere ar- tigianale è da leggere in rapporto alla connotazione ecclesiastica acquisita dal sito, di cui la villa divenne sostanzialmente un annesso ‘produttivo’ 43. A poche decine di metri dal complesso episcopale è stato individuato un quartiere artigianale, con un atelier adibito alla manifattura di ceramiche e alla lavorazione dei metalli 44, accanto a strutture per il lavaggio e il trattamento delle lane e delle pelli; tali settori, nel corso del V secolo, furono riarticolati in coincidenza con il floruit del complesso episcopale (fig. 5). L’ultimo carico della fornace era costituito da olle globulari biansate di ispirazione egea. Le analisi archeometriche hanno consentito di ricondurre al sito di S. Giusto e/o al territorio circostante la produzione di bacini e anforette dipinti e di ceramiche da cucina ‘steccate’ 45. Se la presenza, in alcuni comparti territoriali 46, di indicatori di produzione agricola (olio, vino e grano) e manifatturiera (prevalentemente laterizi e scorie di ferro) 47, ha lasciato supporre un panorama insediativo articolato sul piano dell’organizzazione degli spazi del lavoro e delle attività produttive, non si può escludere che alcuni impianti per la produzione di laterizi, installati in relazione con i cantieri di costruzione e di ristrutturazione delle ville, in seguito siano stati dismessi (fig. 6) 48, mentre le manifatture metallurgiche sembrano dotate di caratteri di maggiore stabilità. Accanto al modello prevalente di progressiva centralizzazione degli insediamenti produttivi, sembrano coesistere altre variabili. Nella fattoria di Posta Crusta, ad esempio, le analisi archeometriche hanno individuato un gruppo di produzione omogeneo, probabilmente destinato all’autoconsumo 49, a breve distanza dalla città di Herdonia, che doveva ospitare altre manifatture 50. In Campania è stata rilevata l’esistenza, soprattutto nel IV-V secolo, di molteplici centri manifatturieri sia urba- 35 Si vedano le considerazioni di TURCHIANO 2014, con rinvio alla bibliografia di riferimento. 36 Cfr. VERA 1995; VERA 1999a; VERA 1999b. 37 DI GIUSEPPE, CAPELLI 2005, p. 398; DI GIUSEPPE 2010. 38 Impianti per la produzione di ceramiche e/o laterizi sono stati individuati, ad esempio, nelle ville di Strange, Santa Tecla, Muricelle, Solfara, Collina Foresta-L’Auzo, Contrada Piano di Mazza, Trainiti-San Nicola. In alcuni casi l’ampia datazione non consente di precisare i caratteri delle produzioni. 39 DI GIUSEPPE 1998; FRACCHIA 2005, pp. 140-141. Un’eccezione sarebbe rappresentata da Masseria Ciccotti: GUALTIERI 2008, p. 285. 40 SMALL 2008, pp. 461-464. Cfr. infra. 41 Cfr. i siti citati in TURCHIANO 2014. 42 GOFFREDO, FICCO, COSTANTINO 2013. 43 Si veda da ultimo VOLPE, ROMANO, TURCHIANO 2013. 44 Le scorie sono riconducibili ad attività di forgiatura del ferro (informazioni di M. Maruotti). 45 GLIOZZO, FORTINA, TURBANTI MEMMI et alii 2005. 46 Sintesi in VOLPE 2005. 47 Si pensi alla celebre prescrizione di Palladio (PALLAD. 1, 6, 2). Cfr. VERA 1999a. 48 Nel sito di Faragola, una fornace per laterizi potrebbe essere letta in relazione con uno dei cantieri della villa, a cui sembrano riferibili anche altri indicatori di lavorazione restituiti dai piani del cantiere di ristrutturazione di pieno V secolo d.C. Sulla produzione laterizia di Faragola cfr. BALDASARRE 2009; GLIOZZO, BALDASARRE, TURCHIANO et alii 2015 e R. Giuliani infra. 49 GLIOZZO, LEONE, ORIGLIA et alii 2010a. Si evidenzia la buona fattura di tali ceramiche. 50 GLIOZZO, TURCHIANO, LOMBARDI et alii 2013. LA PRODUZIONE IN ITALIA MERIDIONALE FRA TARDO ANTICO E MEDIOEVO 527 ti sul piano morfo-tipologico e qualitativo e in un incremento nella domanda di manufatti di produzione locale, conseguente anche al drastico calo delle importazioni di ceramiche africane. Il vasellame prodotto negli impianti dell’ager Falernus 51 risulta documentato tra le stoviglie in uso nelle ville di Posto, San Rocco e Francolise. Altri ateliers, localizzati nei Campi Flegrei, sembrano aver rifornito Napoli, Capua e altri centri urbani, a conferma di un sistema produttivo destinato ad approvvigionamenti locali con un breve raggio di diffusione 52. In area flegrea una pluralità di centri manifatturieri, prevalentemente suburbani, specializzati nella produzione di anfore vinarie e di ceramiche dipinte a bande, è documentata anche tra VII e IX secolo a Miseno, Cuma e Ischia (Lacco Ameno) 53. Vivace appare il panorama produttivo alifano 54, analogamente a quanto ipotizzato per il contesto salernitano 55 sulla base di analisi archeometriche e di considerazioni tipologiche. Molteplici attività artigianali, in prossimità di corsi fluviali, sono state ipotizzate anche nella pianura pestana 56. Gli indicatori di produzione associati ai vici contribuiscono bene a connotarli come luoghi di Fig. 5. - S. Giusto (Lucera, FG). A) planimetria delle aree indagate; B) fornace; C) ceramiche proproduzione, oltre che di abitadotte nell’atelier; D) pianta e sezione della fornace (foto G. Volpe, dis. G. De Felice e M. Turchiano). zione, consumo, stoccaggio e ni che rurali. A partire dalla fine del V secolo, indizi su redistribuzione. Insediamenti vicani caratterizzati da una tendenza verso una maggiore parcellizzazione del siuna specifica vocazione produttiva, in ambito lucano, sono stema produttivo sarebbero da individuare in mutamenquelli di S. Pietro, Trigneto, La Marmora e Calle 57. Solo i complessi produttivi di Masseria Dragone e Cascano sembrano aver avuto una continuità produttiva fino al VI secolo, mentre gli altri impianti non supererebbero gli inizi del V secolo: ARTHUR 1987; ARTHUR, PATTERSON 1994 e ARTHUR 1998. 52 Sulle produzioni documentate a Napoli si vedano i contributi di P. Arthur e V. Carsana in ARTHUR 1994 e CARSANA, D’AMICO, DEL VECCHIO 2007. Uno studio morfo-tipologico e archeometrico 51 è in TONIOLO, DE FRANCESCO, ANDALORO et alii 2014. 53 DE ROSSI 2004; DE ROSSI 2005; analisi archeometriche in GRIFA, LANGELLA, MORRA et alii 2009. 54 MARAZZI, DI COSMO, SALAMIDA et alii 2010, p. 500. 55 RINALDI, ALFANO, SCHIAVO et alii 2007, pp. 452, 454. 56 PEDUTO 1999, pp. 215-216. 57 Cfr. supra. 528 PASQUALE FAVIA, ROBERTA GIULIANI, MARIA TURCHIANO Una caratterizzazione produttiva connota anche alcuni vici individuati nelle valli del Celone e del Carapelle. Interessante la differenziazione ipotizzata per i siti di Fontana di Rano e di Cifre-Sedia d’Orlando, collocati a distanza di circa km 2, uno specializzato nella lavorazione del ferro, l’altro in attività produttive, di trasformazione e di conservazione delle derrate 61. Riconducibili a insediamenti vicani sono i centri produttivi delle anfore Keay LII e dei contenitori derivati da questa famiglia 62, individuati prevalentemente nel territorio di Reggio Calabria, oltre che in Sicilia 63. A PelFig. 6. - Faragola (Ascoli Satriano, FG). a) pianta e sezione della fornace; b) fornace per laterizi (foto laro è stato rinvenuto un G. Volpe; dis. G. Baldasarre). complesso artigianale con Il vicus di Vagnari, nella valle del Basentello, docufornaci e una vasca di decantazione dell’argilla 64. Inmenta forme di organizzazione produttiva specializzata, stallazioni produttive sono state ritrovate a Lazzaro, in particolare nella fabbricazione di tegole ed embrici 58, identificata con la statio di Leucopetram 65. Una prodestinati a coprire le esigenze, oltre che del vicus stesso, duzione di anfore è stata ipotizzata anche nel vicus di anche dei numerosi insediamenti sorti in età tardo anBova Marina, gravitante intorno a una sinagoga, per il tica dentro e fuori la proprietà imperiale 59. Sono testiquale si è proposta l’identificazione con la statio di moniate attività metallurgiche, in particolare, con Scyle 66. Nel sito di Paola, le fornaci furono installate riferimento a una casa/officina presso la quale sono nel precedente impianto termale di una statio 67. stati ritrovati indicatori di produzione, fosse, oggetti in L’esistenza di molteplici centri di produzione, di non ferro non integri, forse indizio di un’attività condotta a grandi dimensioni, verosimilmente anche connessi a diintegrazione delle mansioni agricole e finalizzata alla versi vigneti, ubicati nelle immediate adiacenze di banproduzione e manutenzione degli stessi attrezzi adopechi di argilla, di fiumare 68 e in collegamento diretto con 60 rati nel lavoro dei campi . la rete stradale, è attestata dall’ampia gamma di tipi ascri- Sono state indagate fornaci tardo antiche, una delle quali usata nella fase più tarda anche come calcara. 59 SMALL 2011b, p. 239. 60 SMALL, MCLAREN, HEALD 2011. 61 GOFFREDO, FICCO, COSTANTINO 2013. 62 Un quadro di sintesi è in PACETTI 1998. Si è proposto di attribuire all’area calabrese anche la produzione di anfore di tipo Kuzmanov XX: cfr. DI GANGI, LEBOLE 1998. 63 Fornaci sono state rinvenute anche sulla costa tirrenica a S. Salvatore a Paola: SANGINETO 2001, pp. 231-233. Ateliers di anfore a fondo piano di piccole dimensioni sono stati indagati lungo la costa settentrionale della Sicilia, presso Caronia Marina, Capo d’Orlando e Furnari e sul versante orientale, a Naxos e a S. Venera al Pozzo, nel territorio di Catania. Altre produzioni sono note nel territorio di 58 Agrigento, a Montallegro (c.da Campanaio): cfr. FRANCO, CAPELLI 2014. 64 È stata ipotizzata la manifattura di ceramiche e laterizi. Scarti di fornace provengono anche da Marina di S. Lorenzo. 65 COSTAMAGNA 1991, pp. 615-617. 66 Ivi, pp. 617-619. Le comunità ebraiche sembrano aver avuto un ruolo nella produzione ceramica, come attestato principalmente dai simboli ebraici presenti sulle anfore Keay LII (PACETTI 1998, pp. 197-198) e probabilmente anche su altri manufatti (DI GIUSEPPE, CAPELLI 2005, p. 398). 67 Gh. Noyé propone l’identificazione del sito con la statio di Clampetia (NOYÉ 2006, p. 508), mentre A.B. Sangineto con la statio di Erculis o Herculis (SANGINETO 2001, pp. 231-233). 68 Le fiumare rappresentavano anche punti di approdo per l’imbarco delle merci da veicolare verso il porto di Reggio. LA PRODUZIONE IN ITALIA MERIDIONALE FRA TARDO ANTICO E MEDIOEVO 529 vibili a tale famiglia di contenitori documentati soprattutto a Roma, anche ben oltre la fine delle attività delle fornaci indagate che non sembrerebbero oltrepassare la metà del V secolo d.C. 69. Alcuni bolli potrebbero aiutare a ricostruire aspetti significativi dell’organizzazione della produzione di tali anforette 70 che evidenziano l’importanza della viticoltura nella regione 71. La manifattura ed esportazione di Keay LII è stata collegata a esigenze di forniture annonarie 72, a cui successivamente subentrerebbe la Chiesa. Accanto al canale ‘istituzionale’, si sviluppa un flusso di merci legato al libero mercato, come attesta la presenza di Keay LII in alcuni dei principali scali portuali del Mediterraneo. La progressiva polarizzazione sullo scalo romano, evidente nell’ampia presenza di tali contenitori in contesti romani di VI-VII secolo, è stata letta alla luce del rapporto funzionale tra i territori calabresi e la Chiesa di Roma, proprietaria di ampi patrimoni nella regione, rinomata non solo per il vino, ma anche per i cereali, l’attività mineraria e lo sfruttamento delle selve per l’estrazione del legno e della pece 73. Una ‘connessione ecclesiastica’ è stata ipotizzata anche a proposito della produzione di anfore globulari vinarie campane 74. La manifattura delle anfore suddette si inserisce nel solco di un fenomeno complesso, di ampia portata, relativo al coinvolgimento delle gerarchie ecclesiastiche nell’organizzazione e nel controllo della produzione agraria e manifatturiera e nelle dinamiche di commercializzazione di derrate e, in generale, di beni di consumo anche su lunga distanza, fenomeno materializzato, su scala mediterranea, da molteplici indicatori 75. Il tema della produzione artigianale nelle campagne dell’Italia meridionale non deve confrontarsi solo con la fisionomia poliedrica del sistema agrario tardo an- tico, ma anche con il fenomeno della ‘fine delle ville’ e con le nuove forme e strutture del popolamento rurale altomedievale. Analogamente a quanto riscontrato in altri comparti territoriali 76, ben documentata, soprattutto a partire dal pieno VI e VII secolo, è la trasformazione di ambienti residenziali delle ville in luoghi produttivi 77, spesso accompagnata da una sistematica pratica di recupero e riciclo di rivestimenti, materiali da copertura, arredi e tubature. Forme di rifunzionalizzazione in senso produttivo sono state individuate in numerosi siti 78, secondo modalità non sempre riconducibili a forme di occupazione marginali, precarie o degradate. Le analogie nelle forme, dimensioni e ubicazioni degli impianti di riciclo 79 suggerirebbero la natura organizzata dell’attività artigianale e una forza lavoro specializzata, assunta probabilmente dai proprietari delle ville o da intermediari. In alcuni casi gli impianti potrebbero essere stati in funzione per un breve periodo di tempo; più frequentemente, la vocazione artigianale, accanto a quella agricola e pastorale, sembra connotare tali abitati, che talvolta diventarono il fulcro di nuovi nuclei demici. Particolarmente significative sono le testimonianze offerte dalle ville di Barricelle di Marsicovetere e di Faragola. Il complesso edilizio di Barricelle, in alta Val d’Agri, tra metà VI e prima metà del VII secolo d.C., fu oggetto di un’intensa rioccupazione e riconversione in senso artigianale e produttivo, con l’installazione di una calcara, di una vasca per lo spegnimento della calce e di un forno per la rifusione dei metalli, in un’area in prossimità del peristilio della villa precedente (fig. 7) 80. Nel sito di Faragola, il profondo riassetto degli spazi abitativi e la riarticolazione delle strutture produttive sono stati messi in relazione all’ipotetico sviluppo, tra pie- PACETTI 1998. Analisi archeometriche in CAPELLI 1998. Cfr. i bolli (SAT)URNINI, (SAT)URN(INI), SATUR(NINI), collegati ai clarissimi viri Saturnini noti da un’iscrizione di IV-VI secolo a Locri; interessante il bollo REG preceduto da un carattere che A.B. Sangineto ha proposto di identificare con una V e di sciogliere in VINUM REGINUM, ipotizzando un nesso con una sorta di monopolio non dello Stato ma della Chiesa (SANGINETO 2001, pp. 229-230, 240-242). 71 Non si può escludere una commercializzazione di salse di pesce, pesce fresco o secco in connessione a peschiere e a impianti per la lavorazione del pescato; sull’importanza della produzione ittica in Calabria cfr. IANNELLI, CUTERI 2007. Si vedano anche le osservazioni di BERNAL CASASOLA 2010, pp. 19-20. 72 PANELLA 1993, pp. 646-647. 73 NOYÉ 1994, p. 729; SAGUÌ 2002, pp. 17-18, 32-33. Un altro prodotto destinato alle chiese di Roma era il legname estratto dai boschi della silva Sila, utilizzato per le travi dei tetti (LP, pp. LXXXVI, 375 e XCI, 397). È noto, inoltre, l’utilizzo del legno proveniente dalle massae calabresi anche nel settore della carpenteria navale. 74 DE ROSSI 2004; DE ROSSI 2005. 75 SAGUÌ 2002; BERNAL CASASOLA 2010; COSENTINO 2012; VOLPE, ROMANO, TURCHIANO 2013, pp. 565-574. Cfr. R. Giuliani infra. 76 Quadro di sintesi in CASTRORAO BARBA 2014. 77 Si veda da ultimo TURCHIANO 2014. 78 A titolo esemplificativo, riusi in senso artigianale e produttivo sono attestati in Basilicata, a S. Giovanni di Ruoti, Masseria Ciccotti, S. Pietro in Tolve, Pietrastretta di Vietri, Casa del Diavolo, Torre degli Embrici, Calle di Tricarico, Barricelle; in Puglia, a Casalene e Faragola; in Calabria, a Contrada Crivo, Santa Maria, Larderia e S. Salvatore a Paola. 79 MUNRO 2010; MUNRO 2012. 80 RUSSO, PELLEGRINO, GARGANO 2012. 69 70 530 PASQUALE FAVIA, ROBERTA GIULIANI, MARIA TURCHIANO Fig. 7. - Marsicovetere-Barricelle (PZ). Planimetria del complesso fra tardo antico e alto Medioevo (da Russo, Pellegrino, Gargano 2012). no VII e VIII-IX secolo d.C., sul nucleo della preesistente villa, di un’azienda agraria collocata probabilmente all’interno di una proprietà fiscale palatina beneventana (gaio Fecline) 81. L’abitato presenta una spiccata vocazione artigianale. Molteplici gli indicatori rinvenuti, tra cui una fornace e due grandi vasche in laterizi per la decantazione/stagionatura e/o pestatura dell’argilla, che documentano l’importanza dell’artigianato fittile (fig. 8) 82. Di particolare rilievo anche la lavorazione di oggetti metallici in ferro e in piombo, svolta all’interno di piccole officine; consapevolezza tecnica e conoscenze pirotecnologiche rinviano all’attività di fabbri specializzati 83. Alcune soluzioni architettoniche e il ritrovamento di strumenti riconducibili alla sfera edilizia potrebbero attestare la presenza di costruttori altamente qualificati, posti a coordinare maestranze stabilmente impegnate nella manutenzione del complesso 84. Il caso di Faragola introduce il tema della produzione non agricola nell’ambito di una azienda agraria di tipo curtense 85, ponendo una serie di interrogativi su un artigianato che sembrerebbe plurispecializzato e centralizzato, in parallelo con forme di controllo diretto della produzione agricola e del lavoro, sul volume della produzione e sull’esistenza di eventuali circuiti di scambi tra proprietà palatine. Caratteri delle produzioni, dei consumi e degli scambi Fig. 8. - Faragola (Ascoli Satriano, FG). Vasca per la decantazione dell’argilla e fornace (foto M. Turchiano). 81 VOLPE, TURCHIANO 2012, pp. 472-484. Il toponimo Fecline è stato messo in relazione con il termine Figline, collegato all’enorme disponibilità di argilla in questo territorio (MARTIN 1993). 82 SCRIMA, TURCHIANO 2012. Analisi archeometriche in GLIOZZO, SCRIMA, TURCHIANO et alii 2014. Le ceramiche prodotte nel comparto territoriale in esame si caratterizzano, tra IV e VII-VIII secolo, per un repertorio morfo-tipologico e decorativo sostan- GOFFREDO, MARUOTTI 2012. CARDONE, DE VENUTO, GIULIANI 2012. 85 Sul tema si veda TOUBERT 1995, p. 148. Cfr. le osservazioni di VALENTI 2004, p. 107. 83 84 LA PRODUZIONE IN ITALIA MERIDIONALE FRA TARDO ANTICO E MEDIOEVO 531 zialmente omogeneo 86. La struttura del sistema artigianale rinvia a un modello di produzione frazionato, ramificato nei centri urbani e rurali, diversificato sul piano della specializzazione e integrato a più livelli di scambi. Regionalizzazione dei fenomeni produttivi, standardizzazione dei manufatti, discreto livello tecnologico, quartieri artigianali polifunzionali sembrerebbero ricondurre le produzioni a officine semi-artigianali, artigianali o a poli produttivi più complessi 87; decisamente meno attestate le produzioni ‘casalinghe’. I progetti di ricerca di carattere archeometrico condotti su alcuni contesti hanno consentito di evidenziare uno sfruttamento consapevole dei territori, con selezioni funzionali e mirate nella scelta dei bacini di approvvigionamento e del combustibile. Per la Puglia, ad esempio, si dispone ormai di una massa critica di dati: agli studi tipologici si sono affiancate le indagini minero-petrografiche e chimiche, condotte su numerosi campioni di ceramiche e sulle argille affioranti nel territorio. Si è anche tentato un incrocio tra i dati tipologici e archeometrici di cinque contesti, Fig. 9. - (1) Olla prodotta a S. Giusto; (3) pentola steccata ipoteticamente prodotta a Herdonia; (5) bacino ipoteticamente prodotto a Canosa; (2) olla ‘tipo dislocati in tre valli 88. È stata evidenziata l’esi- Classe’ importata; (4) olla di probabile importazione (modificato da Gliozzo, stenza tra i siti esaminati di scambi infraregio- Turchiano, Lombardi et alii 2013). nali favoriti anche da buone infrastrutture, buzione a scala regionale e infraregionale 90. Quadri anaconfermando un modello organizzato su più siti produtloghi emergerebbero anche per la Campania 91 e la Lutivi che sfruttavano depositi simili, specializzati in alcune 89 cania 92. produzioni : ad esempio, olle scanalate da cucina a S. L’omogeneità morfo-tipologica e decorativa che conGiusto, vasi e pentole steccate a Herdonia e ceramiche traddistingue l’Italia meridionale è stata in parte spiedipinte più rifinite a Canusium. Gli scambi documentati gata alla luce dell’‘imitazione’ 93 di forme africane e, di ceramiche comuni a scala extraregionale riguardano secondariamente, orientali, replicate in molti centri di le ceramiche da cucina ‘tipo Classe’ e probabilmente improduzione 94, sperimentando talvolta contaminazioni portazioni da area greca (fig. 9). I campioni analizzati morfologiche e decorative 95. Anche l’uniformità delle non forniscono prove di scambi tra Puglia, Lucania, produzioni di lucerne deriverebbe da comuni modelli Campania e Calabria, suggerendo piuttosto una distri- 86 ARTHUR, PATTERSON 1994; ARTHUR 1998; ARTHUR, PATTERSON 1998; RAIMONDO 1998; DI GIUSEPPE 1998; DI GIUSEPPE, CAPELLI 2005; ARTHUR 2007; ARTHUR, DE MITRI, LAPADULA 2007; CUTERI, CORRADO, IANNELLI et alii 2007; VOLPE, ANNESE, DISANTAROSA et alii 2007a; TURCHIANO 2010; VOLPE, ANNESE, DISANTAROSA et alii 2010; CUTERI, IANNELLI, VIVACQUA et alii 2014. 87 Cfr. le osservazioni di S. Gelichi sui modelli di produzione elaborati da D.P.S. Peacock applicati alle evidenze archeologiche italiane (GELICHI 2007, pp. 58-61). 88 GLIOZZO, TURCHIANO, LOMBARDI et alii 2013. 89 Non si dispone di dati rilevanti per valutare l’incidenza di produzioni collegate a forme di economia completamente autarchica. Nel sito di Faragola, ad esempio, la presenza di recipienti modellati a mano (anche con la tecnica a colombino), associati a vasellame tornito di buona qualità, potrebbe essere legata a motivazioni di tipo socio-culturale o funzionale. 90 GLIOZZO, TURCHIANO, LOMBARDI et alii 2013. Sull’importanza degli scambi e delle economie regionali cfr. WICKHAM 2009. Si vedano le riflessioni di MOLINARI 2003 sull’uso della ceramica nella ricostruzione dei sistemi economici. 91 In Campania numerosi sarebbero stati gli ateliers adibiti alla produzione di lucerne (GARCEA 1999). 92 DI GIUSEPPE, CAPELLI 2005, p. 397. 93 Sintesi in FONTANA 1998; cfr. Leone in VOLPE, ANNESE, DISANTAROSA et alii 2007a e in VOLPE, ANNESE, DISANTAROSA et alii 2010 e TURCHIANO 2010. 94 In Campania e in Puglia sono attestate anche imitazioni di casseruole con prese a ditate impresse di Pantelleria. 95 Le forme maggiormente imitate risultano essere le Hayes 61, 83, 85, 86, 91, 97, 104, 105, 109 e, in sigillata orientale, la Hayes 532 PASQUALE FAVIA, ROBERTA GIULIANI, MARIA TURCHIANO di ispirazione, rappresentati soprattutto dalle forme Atlante VIII e Atlante X, in officine che proposero anche soluzioni originali 96. Il fenomeno delle ‘imitazioni’ connota, però, solo parzialmente un repertorio morfo-tipologico caratterizzato da un significativo grado di autonomia, evidente nella predominanza di brocche, anforette e bacini, forme più ancorate alle tradizioni artigianali locali 97. Una standardizzazione è riscontrabile non solo nelle produzioni anforarie campane, apule e calabresi, ma anche in produzioni da cucina (S. Giusto) e da dispensa (Egnazia) 98. Le nundinae svolsero un ruolo centrale non solo nella rete degli scambi, ma anche nel confronto di un variegato patrimonio di conoscenze tecnologiche e di informazioni stilistiche, contribuendo ad alimentare una koiné artigianale basata su un gusto condiviso espresso in un linguaggio comune 99. In alcune aree, la scala interregionale dei mercati legati all’allevamento, alla pastorizia e al complesso di attività manifatturiere e commerciali connesse 100, potrebbe aver coinvolto una varietà più ampia e un volume maggiore di beni commerciati. In età altomedievale, analogamente a quanto riscontrato in altri territori, alla prevalente persistenza di un repertorio di matrice tardo antica, si associa, a partire dal VII secolo, una tendenza verso un rinnovamento dei repertori morfotipologici e decorativi, che in parte si ispirano a modelli bizantini, mutuando suggestioni anche dall’ambito longobardo. Alcuni studi hanno evidenziato come la varietà tipologica e funzionale sia da leggere in parallelo con la complessità dei regimi alimentari, emersi dalle ricerche archeozoologiche e archeobotaniche, e potrebbe riflettere variazioni nei modelli culturali e nelle abitudini alimentari 101, con un maggiore ricorso al bollito per la preparazione di pietanze liquide e semiliquide, a base di cereali (frumento, orzo e avena), carne di pollo, agnello e maiale, pesce, vegetali e legumi (piselli e lenticchie) 102. A proposito della gestione degli impianti, si può forse pensare a un affidamento, con contratti di affitto temporanei (locatio-conductio), a manodopera abbastanza specializzata che, in cambio dell’utilizzo delle dotazioni strumentali, doveva corrispondere un canone fisso, e/o una fornitura di quantità definite di beni e di servizi 103. Appare difficile ricostruire invece forme, modalità e caratteri della lavorazione del vetro, disponendo di limitate informazioni sulle strutture produttive e di scarse analisi archeometriche. Installazioni fisse, scorie, scarti, provini di fluidità, ritagli, crogioli e pani di vetro, sono stati individuati in Campania, mentre nei comparti territoriali lucani, apuli e calabresi, la presenza di ateliers è stata ipotizzata sulla base del ritrovamento di pochi indicatori di produzione. I dati, riferibili soprattutto al tardo V/VI-VII secolo, rinviano ad ateliers secondari di piccole dimensioni, prevalentemente impiantati in ambito urbano, talvolta inseriti in quartieri artigianali più ampi e abbinati a officine adibite alla lavorazione dei metalli 104, orientati a produzioni diffuse a scala locale, regionale e infraregionale, realizzate sia utilizzando semilavorati 105, sia riciclando rottami di vetro 106. 3C. Sono attestate anche imitazioni della forma Hayes 197, di cui è documentata una produzione molto fedele all’originale nelle fornaci di Venosa (MARCHI 2002). 96 Le officine napoletane, dopo una iniziale fase di riproposizione puntuale dei modelli africani, avviarono una produzione più autonoma: GARCEA 1999. In Puglia sembra avere una forte connotazione urbana/suburbana la produzione di lucerne abbastanza standardizzate, talvolta di fattura non molto curata. Cfr. FIORIELLO 2012; MANGONE, GIANNOSSA, LAVIANO et alii 2009. Interessante è un nucleo di lucerne prodotto a Canosa, proveniente dalla catacomba di Ponte della Lama: analisi archeometriche in ERAMO, GIANNOSSA, ROCCO et alii 2014. 97 La produzione di anforette biansate è forse da mettere in relazione alla conservazione di acqua, vino e olio e alla vendita a scala locale o regionale. 98 DE ROSSI 2004; LEO IMPERIALE 2004; CASSANO, DE FILIPPIS 2010; TURCHIANO 2010. 99 In Italia meridionale nundinae sono state ipotizzate in rapporto a numerosi siti urbani e rurali, anche in relazione a complessi paleocristiani, sul modello della fiera descritta da Cassiodoro a Marcellianum nel Vallo di Diano (CASSIOD. Var. 8, 33). 100 Sull’importanza dell’allevamento transumante e delle attività laniere in Apulia cfr. da ultimo VOLPE, BUGLIONE, DE VENUTO 2012. 101 P. Arthur ha sottolineato il nesso tra variazioni morfologiche e fattori economici, culturali, alimentari e ambientali. Spesso trascurata è la variabile climatica: il peggioramento delle condizioni climatiche potrebbe aver inciso sull’incremento di cibi semi-liquidi e di olle e pentole, rispetto alle forme aperte più rare nei corredi domestici altomedievali; ARTHUR 2007. Analisi degli isotopi stabili del carbonio su materiali archeobotanici provenienti dal sito di Faragola, hanno evidenziato, ad esempio, un aumento della piovosità nel VI-VII secolo: CARACUTA 2011. 102 VOLPE, TURCHIANO 2012 con rinvio ai dati delle analisi bioarcheologiche condotte nel sito di Faragola. 103 Cfr. VERA 1995; VERA 1999a e VOLPE, ROMANO, TURCHIANO 2013 con rinvio alla bibliografia di riferimento. 104 A titolo esemplificativo si vedano i casi di Napoli (SOGLIANI 2010) e di Contrada Crivo (Parghelia) (BRUNO 2003). 105 Nell’impianto di Benevento, sono stati rinvenuti numerosi frammenti di pani di vetro e nove crogioli (LUPIA 1998b, pp. 6869). Tre pani di vetro provengono dall’officina di Piazza Bovio (Napoli), insieme a sette frammenti di crogioli (DEL VECCHIO 2010, p. 81; FEBBRARO 2010; analisi archeometriche in DE FRANCESCO, SCARPELLI, DEL VECCHIO et alii 2014). L’officina di Pontecagnano ha restituito otto pani di vetro (MALPEDE 1999). Un pane di vetro e due crogioli frammentari sono stati rinvenuti anche a Herdonia (FG) (GIANNETTI, GLIOZZO, TURCHIANO 2015, p. 297). 106 Nell’officina napoletana sono state ritrovate numerose lastre LA PRODUZIONE IN ITALIA MERIDIONALE FRA TARDO ANTICO E MEDIOEVO 533 Il quadro delineato consente di osservare come nel corso della tarda antichità la riorganizzazione amministrativa dei territori imperiali, le nuove gerarchie fra città e le modificazioni dei quadri urbani, i fenomeni di concentrazione della proprietà terriera e le nuove modalità di gestione dei fundi, le riforme economiche, il riassetto delle compagini sociali con l’emergere di nuovi soggetti forti, ebbero riflessi evidenti nel settore manifatturiero anche per quanto riguarda le committenze. Le tracce della persistenza di un ruolo pubblico nella promozione e nel controllo delle produzioni artigianali si colgono in effetti nel comparto tessile, documentato dal gineceo imperiale menzionato nella Notitia Dignitatum, dislocato tra Canosa e Venosa, e dalla tintoria di Taranto, probabilmente trasferita agli inizi del VI secolo a Otranto, importante fabbrica di porpora adibita alla produzione di indumenti per la corte di Ravenna, che Cassiodoro paragonava a Tiro per l’elevata qualità dei prodotti 111. Si tratta degli unici complessi manifatturieri afferenti all’amministrazione delle sacrae largitiones presenti nell’Italia Suburbicaria; la scelta statale a favore di questi territori deve essere stata orientata dalla presenza di buoni pascoli e di grandi allevamenti, dalla facilità di reperimento della lana, dall’efficienza della rete stradale e portuale e dalla prossimità alle saline 112. Purtroppo mancano al momento tracce materiali attribuibili con sicurezza a questi impianti. Non si può escludere che nel settore tessile siano state attive in particolare le comunità ebraiche 113. Più timidi appaiono i segnali delle funzioni esercitate dalla committenza statale nel comparto edilizio e delle altre manifatture. Il settore delle costruzioni e delle produzioni connesse (cicli della pietra, del laterizio, della calce) andarono incontro tra IV e V secolo ad una sensibile contrazione e a profondi cambiamenti, indotti soprattutto dalla forte riduzione delle grandi opere a committenza pubblica; le difficoltà economiche della compagine statale, le razionalizzazioni imposte dalla riforma amministrativa dioclezianea, la crisi delle magistrature municipali non dovettero tuttavia azzerare le iniziative dei governi locali e della stessa autorità imperiale 114. Va rilevato in ogni caso che la testimonianza di queste iniziative è affidata prevalentemente alle fonti di finestra, tessere musive e sectilia pronti per essere riciclati; paste vitree da riciclare sono attestate nell’impianto di Benevento; a Herdonia e a Faragola, le analisi archeometriche hanno evidenziato l’utilizzo diffuso di materiali riciclati. 107 SANTAGOSTINO BARBONE, GLIOZZO, D’ACAPITO et alii 2008; GLIOZZO, SANTAGOSTINO BARBONE, D’ACAPITO et alii 2010b; GLIOZZO, SANTAGOSTINO BARBONE, TURCHIANO et alii 2012; GIANNETTI, GLIOZZO, TURCHIANO 2015. 108 Analisi sulla Breccia corallina, coordinate dall’ISCR, hanno evidenziato compatibilità con i giacimenti garganici. 109 I piani del cantiere di ristrutturazione della villa hanno restituito indicatori forse riconducibili ad ateliers attivati per l’esecuzione dei pannelli. 110 GIULIANI, TURCHIANO 2003. L’atelier ritrovato a Napoli era adibito prevalentemente alla produzione di calici Isings 111, e secondariamente di bicchieri/lampade Isings 106, di lampade Isings 134 e forse anche di piatti con orlo ribattuto; le stesse forme furono prodotte nell’officine di Benevento, insieme a bottiglie e a manufatti in vetro marmorizzato. A Canosa, gli indicatori rinviano a calici; più articolato il quadro ipotizzato per Herdonia (bicchieri/lampada Isings. 106, piatti con orlo ribattuto all’esterno Isings 45/46a, brocche/bottiglie con filamento applicato sotto l’orlo Isings 102b, lampade Isings 134, calici Isings 111 e fondi a filamento multiplo). 111 NOT. Dign. Occ. 11, 52 e 11, 65: Cfr. GRELLE 1986, p. 390; VOLPE 1996, pp. 281-287. 112 VOLPE 1996, pp. 282-283. 113 La presenza di fiorenti comunità ebraiche a Taranto e a Venosa ha indotto F. Grelle ad ipotizzare un loro nesso con le manifatture tessili (GRELLE 1994, p. 155; GRELLE, VOLPE 1994, p. 30). 114 Tra IV e V secolo dei 68 atti di evergetismo registrati per le città campane, il 30% vede i governatori provinciali come prota- Nella Puglia centro-settentrionale, un progetto di analisi archeometriche ha consentito di caratterizzare alcuni aspetti dell’artigianato vetrario locale 107. Le indagini condotte sui pannelli in opus sectile, rinvenuti nella cenatio della villa di Faragola, hanno documentato l’importazione di semilavorati o di elementi finiti, prevalentemente dall’area siro-palestinese, messi in opera, insieme a brecce di approvvigionamento regionale 108, da maestranze specializzate 109. Le indagini sul vasellame vitreo di Herdonia e di Faragola, hanno permesso di tracciare un’evoluzione nei flussi di approvvigionamento del vetro: tra il III e gli inizi del V secolo le importazioni dall’area orientale risultano predominanti mentre, a partire dal pieno V secolo, i canali africani/adriatici si affiancano a quelli orientali, diventando preponderanti soprattutto tra VI e VII-VIII secolo. A scala meridionale emerge dunque una sostanziale tenuta dei cicli di lavorazione riflessa anche nel repertorio morfo-tipologico che, sia pur semplificato e polarizzato su alcune tipologie funzionali (principalmente bicchieri a calice e apodi, lampade e bottiglie), continua ad apparire articolato 110. (M.T.) Le committenze 534 PASQUALE FAVIA, ROBERTA GIULIANI, MARIA TURCHIANO scritte, mentre resta difficile l’individuazione di sicuri indicatori archeologici. L’installazione di calcare all’interno degli edifici pubblici in età tardo antica è fenomeno che si presta ad interpretazioni controverse: violazione di una proprietà pubblica in abbandono da parte di privati o segno di una regolamentazione statale delle operazioni di demolizione, recupero e riciclo dei materiali del patrimonio edilizio in deperimento? Entrambe le possibilità sono ammissibili 115, ma forse, sia pur con molte cautele, si potrebbe propendere per la seconda perlomeno nei casi in cui gli impianti presentino una discreta articolazione (come nell’esempio di Cuma, ricordato supra). Una gestione pubblica delle risorse minerarie del Bruzio, anche sulla scorta di alcune indicazioni di Cassiodoro, è stata ipotizzata da Gh. Noyé, che al fisco riconduce le produzioni metallurgiche del porto di Reggio 116. La committenza statale nel settore edilizio assunse un carattere senza dubbio più significativo intorno alla metà del VI secolo nei territori investiti dalla riconquista bizantina, cui si collega l’avvio di numerosi cantieri per la realizzazione di opere difensive e soprattutto religiose 117. Indicatori di produzioni laterizie connesse all’amministrazione bizantina possono essere ravvisati nei bolli su tegoloni che recano il nome di Narsete, reimpiegati a Mercato S. Severino (SA) nella necropoli adiacente alla chiesa di S. Maria di Rota (metà VI secolo), probabilmente nei pressi di un centro collegato a funzioni fiscali, all’interno di una mansio 118, reperti che si aggiungono a quelli in tutto analoghi ritrovati in Sicilia, nell’area della chiesa paleocristiana di Monte Po di Nesima, costruita sui resti di un vicus romano, documentando evidentemente un’attività evergetica del noto generale di Giustiniano, esercitata anche attraverso la valorizzazione dell’artigianato fittile e della tradizione della bollatura 119; all’interno del medesimo solco potrebbe inscriversi peraltro anche il mattone ritrovato a S. Giusto con il monogramma di Iohannis, collegato ipoteticamente da G. Volpe al magister militum, anch’egli protagonista della riconquista bizantina dei territori italici 120. Non si può escludere però che i bolli indichino semplicemente la committenza pubblica delle opere edilizie cui i fittili erano destinati e non necessariamente la proprietà statale delle figlinae 121. Il ruolo significativo che la Chiesa venne assumendo nelle compagini urbane e rurali tardo antiche, in particolare attraverso la figura del vescovo, si riverbera in maniera inequivocabile anche nel settore dell’artigianato. I contesti di Canosa, Egnazia, S. Giusto, possono considerarsi emblematici della complessità dell’azione esercitata dai vescovi, che alla promozione di articolati programmi edilizi, indicativi della florida base economica delle rispettive diocesi 122, affiancarono significative forme di investimento nel settore manifatturiero, spesso strettamente correlate alle imprese costruttive. L’artigianato laterizio canosino, caratterizzato da una gamma di prodotti assai articolata (mattoni contrassegnati da croci di vario tipo, bollati con il monogramma del vescovo Sabino, decorati con motivi geometrici, ornati da intelaiature geometriche campite con disegni simbolici; antefisse con croce e lettere apocalittiche; lucerne), probabilmente avviato già nel V secolo, conobbe il suo apogeo al tempo del vescovo Sabino (fig. 10), nel secondo quarto del VI secolo, momento in cui la produzione assunse un carattere più specializzato, forme organizzative più articolate e fu indirizzata al sod- gonisti (SAVINO 2010, p. 275). L’archeologia mostra nello stesso periodo ancora significativi interventi di restauro e ampliamento di edifici termali (ad Herdonia, Canosa e Venosa ad esempio); nel caso di Venosa un possibile finanziamento imperiale è stato suggerito da M. Silvestrini in base alla lettura di un’epigrafe; ad Herdonia i tempi celeri ed il tenore delle ricostruzioni post-terremoto prefigurerebbero un ruolo attivo svolto dal governatore provinciale (su questi temi e per la bibliografia di riferimento cfr. GIULIANI 2010, p. 138, n. 40). 115 Cfr. sull’argomento le riflessioni di A. Leone per la realtà nordafricana (LEONE 2007, pp. 232-236). Due documenti epigrafici di fine V - inizi VI secolo testimoniano per Roma il controllo pubblico dei lavori di smantellamento del Colosseo e del foro di Augusto (MENEGHINI, SANTANGELI VALENZANI 2004, pp. 70-71). 116 NOYÉ 2000, pp. 442-444. 117 ZANINI 1998, pp. 109-111. 118 Il bollo, di forma circolare, si compone di croce monogrammatica centrale ed iscrizione (+ VIR EXCELLENTISSIMUS NARSIS FECIT) disposta internamente lungo il contorno del bollo stesso. Cfr. sul rinvenimento COROLLA, PEDUTO 2012, p. 531, fig. 5. 119 Riferimenti a questo edificio di culto, oggetto di scavo negli anni ’20 del ‘900, sono in ARCIFA 2009, p. 85, n. 58. Sui fittili cfr. in particolare FIORILLA 2000, pp. 191, 195, 198, 205; l’identificazione del personaggio indicato nel bollo con Narsete, generale bizantino divenuto comandante supremo della spedizione in Italia nel 551 (PLRE, s.v. Narses 1, IIIB, pp. 912-928; COSENTINO 2000, s.v. Narses 1, pp. 405-417), è stata proposta in MANACORDA 2000, p. 149. 120 Cfr. VOLPE 2002 (anche per i richiami all’attività evergetica di Giovanni e Narsete nei mosaici della cattedrale di Pesaro), che non esclude del tutto, in alternativa, la pertinenza del monogramma ad un vescovo sconosciuto alla cronotassi episcopale lucerina. 121 Su questi aspetti cfr. MANACORDA 2000, p. 149. 122 In Italia, perlomeno a partire dal V secolo, le Chiese erano tenute ad investire la quarta parte delle proprie rendite nell’edilizia religiosa (ZICHE 2006, p. 72, n. 16). La base economica della Chiesa canosina doveva fondarsi anche sulle rendite derivate da proprietà terriere situate in aree extraregionali: ancora alla fine del VI secolo la diocesi detiene beni fondiari in Sicilia (GREG. Ep. 1, 42). LA PRODUZIONE IN ITALIA MERIDIONALE FRA TARDO ANTICO E MEDIOEVO 535 disfacimento delle esigenze delle fabbriche religiose urbane e dell’intero territorio di pertinenza della diocesi, oltre che, forse, di specifiche commesse provenienti da aree limitrofe 123; anche ad Egnazia il rinvenimento di un mattone con croce a rilievo apicata, unito ad altri manufatti connotati da simboli cristiani 124, suggerisce l’esistenza di circuiti produttivi e commerciali fortemente legati alla Chiesa locale; frammenti fittili con bolli SPES IN DEO (Vico Equense) e SPES DEI (Ponticelli) documentano inoltre produzioni di area campana, connesse all’ambito funerario cristiano, forse anche og- getto di esportazione 125. I siti meglio indagati dimostrano che la Chiesa doveva controllare anche altri aspetti delle produzioni legate agli edifici di culto: probabilmente la fabbricazione di vetrate e tessere musive 126, componenti metalliche 127, calce 128, arredi architettonici 129; l’officina di S. Pietro a Canosa, in cui nell’alto Medioevo si rilavoravano i manufatti plastici derivati dallo spoglio della chiesa, costituisce una testimonianza interessante, unita ad altri indicatori 130, di gestione da parte dell’autorità ecclesiastica delle attività di smantellamento, recupero, stoccaggio, rilavorazione e destinazione a nuovi usi del materiale edilizio proveniente da edifici dismessi 131. Questo insieme di evidenze mostra dunque come gli investimenti delle maggiori Chiese locali non si limitassero alla committenza delle fabbriche religiose, ma erano indirizzati a gestire la gran parte dei processi produttivi ad esse sottesi, a strutturare progressivamente l’intero comparto manifatturiero connesso alle costruzioni, mettendo in atto strategie che dovettero avere importanti ricadute sul tessuto economico-produttivo e sociale delle rispettive realtà territoriali. In ambito rurale la complessità dei programmi di marca ecclesiastica emerge in maniera ancor più chiara nel caso di S. Giusto, mostrando la stretta connessione tra l’avvio o il potenziamento di specifiche attività artigianali (produzione di ceramiche, lavorazione di metalli, vetri, lane e pelli) e l’utilizzo delle risorse agropastorali, anche forse nella dimensione di una loro commercializzazione all’interno di fiere 132; la stessa Chiesa di Roma sembra aver esercitato un ruolo significativo, attraverso i funzionari preposti alla gestione delle tenute del Patrimonium Petri dislocate in Calabria ed in Campania, nel promuovere produzioni manifatturiere (Keay 52, anfore di Miseno) collegate allo sfruttamento della viticultura nei propri fundi 133. Naturalmente in ambito rurale un’apprezzabile azione propulsiva delle attività manifatturiere, anche di elevato profilo artigianale, fu esercitata dai grandi proprietari terrieri. L’allestimento dei cantieri per la costruzione Cfr. per i laterizi: BALDASARRE 2009, pp. 63-67, 70-71 e GIULIANI, BALDASARRE 2013, pp. 753-757, figg. 9-11. 124 CASSANO 2007, p. 1263, figg. 7-10, 13. 125 ARTHUR 2002, p. 32. 126 Si veda FIORI, VANDINI, MACCHIAROLA 1998 per le analisi su tessere musive di S. Giusto che suggeriscono produzioni vitree locali di carattere secondario. 127 Cfr. M. Turchiano, supra. 128 Per la calcara rinvenuta presso la cattedrale di Egnazia, attiva a più riprese, cfr. supra. 129 Il quadro degli arredi e delle suppellettili scultoree degli edi- fici di culto denuncia la compresenza di manufatti marmorei di importazione ad elementi in pietra locale lavorati in loco sebbene ispirati a modelli allogeni (cfr. GIULIANI, BALDASARRE 2013, p. 759, n. 66). 130 Cfr. supra n. 25. 131 Cfr. GIULIANI 2014, p. 353, figg. 3-6. 132 Su questi temi cfr. Turchiano supra e, più diffusamente TURCHIANO 2010, p. 658. Sul problema dell’esercizio di attività commerciali da parte dei chierici, condannato dai Padri della Chiesa e dalla legislazione canonica, eppure ben documentato tra VI e IX secolo, cfr. COSENTINO 2012, pp. 429-430. 133 Cfr. M. Turchiano supra. Fig. 10. - Bolli su laterizi canosini (da Baldasarre 2009); i primi due (ottenuti da matrici diverse) rappresentano il monogramma del vescovo Sabino. 123 536 PASQUALE FAVIA, ROBERTA GIULIANI, MARIA TURCHIANO delle residenze aristocratiche di campagna, spesso connotate da spiccati caratteri di lusso (Faragola), rappresentarono l’occasione per l’attivazione di impianti destinati a fabbricare calce, laterizi, metallo, vetro, tessere musive, a lavorare probabilmente lapidei e marmi; tali impianti videro talvolta il coinvolgimento di maestranze qualificate itineranti, latrici di pratiche artigianali di rara specializzazione, capaci di rispondere alle richieste di arredi e suppellettili avanzate da raffinati e facoltosi committenti, ispirate ad un gusto comune alle élites del tempo. Accanto alle manifatture funzionali alla costruzione dei complessi residenziali, i cui impianti vengono di norma smantellati una volta conclusa la loro edificazione, le aristocrazie furono promotrici anche di altre attività artigianali, sulle quali evidentemente dirottarono il surplus ricavato dalle stesse rendite fondiarie 134. Sarà necessario in futuro condurre un esame più puntuale dei contesti manifatturieri dislocati in città, in larga parte riconducibili ad officine individuali e dunque a produzioni di piccola scala intraprese per soddisfare specifici comparti del mercato urbano, ma che, in alcuni casi, mostrano caratteristiche più complesse (atelier vetrario di Eclano, complesso polifunzionale di Egnazia), evocative forse di iniziative legate ad altri soggetti, su cui occorrerà approfondire le ricerche. In sintesi dunque, nel settore artigianale, alla committenza pubblica, che tende a divenire più sfuggente tra IV e V secolo, e che si esprime nei territori riconquistati all’impero bizantino nel VI secolo piuttosto attraverso i funzionari militari, sembrano affiancarsi in maniera significativa la Chiesa di Roma nella gestione degli ingenti patrimoni fondiari in Campania e Calabria, e le Chiese locali, soprattutto per il tramite dei loro vescovi. Dal punto di vista delle committenze private un ruolo importante sembra ritagliarsi l’azione delle aristocrazie che investe preferibilmente l’ambito rurale in connessione da un lato con la costruzione di residenze lussuose, dall’altro con la promozione di attività arti- gianali integrate alle specifiche produzioni agricole della proprietà; l’iniziativa privata nei contesti urbani, rappresentata da impianti di dimensioni contenute, connessi in genere agli spazi domestici, può forse essere ricondotta ad un ceto medio di artigiani, residenti in città, che evidentemente tese a conquistare all’artigianato stesso spazi meno periferici, ma che spesso gestiva la propria attività in forma integrata con altre mansioni 135. (R.G.) Cfr. M. Turchiano, supra. Cfr. GIULIANI 2010, p. 159 e 2014, pp. 356-357. 136 Ad Otranto, le già citate fornaci ‘Mitello’ garantirono sino al IX secolo la fornitura di ceramica da dispensa, fuoco e trasporto. Dal punto di vista tecnologico va ricordato che la suola delle camere di cottura idruntine era realizzata in barre fittili (LEO IMPERIALE 2003, pp. 674-676, fig. 2), secondo un sistema di ampia diffusione cronologica e geografica, ma particolarmente attestato in Oriente e nel mondo islamico, ben documentato in epoca bassomedievale in Sicilia (FIORILLA 1990; MOLINARI 1997 p. 376, fig. 1; D’ANGELO 2005, pp. 396-397, fig. 7). Per un quadro delle attestazioni ceramiche beneventane, che lasciano presagire, pur in assenza del ritrovamento di fornaci, una continuità manifatturiera lungo tutto il Medioevo vd. CARSANA, SCARPATI 1998, pp. 200-203 (per l’intera Campania vd. inoltre infra, nota 139). Per Reggio vd. i rinvenimenti di ceramica dipinta in rosso al Lido, di possibile produzione locale (RACHELI 1991); per Tropea vd. DI GANGI, LEBOLE 1997, p. 156; DI GANGI, LEBOLE 1998, p. 765. 137 A Reggio ai resti degli impianti attivi fra tardo antico ed alto Medioevo per la lavorazione del bronzo si aggiungono i ritrovamenti di un fornetto e di crogioli in terracotta riferibili a una piccola fonderia utilizzata nella prima metà del XII secolo. Al di là del problema della verifica di una continuità metallurgica ininterrotta o meno nella città, emerge il ruolo di Reggio stessa quale terminale delle risorse minerarie della regione e forse anche di area messinese (CUTERI 2006, pp. 415-418). 138 Sulle ipotesi di produzioni napoletane ARTHUR 2002, pp. 118119. 134 135 L’età medievale: cicli, sistemi e modalità di produzione in Italia meridionale Fra i tratti di base nelle reti manifatturiere del Mezzogiorno dei secoli centrali e finali del Medioevo si annoverano elementi in continuità con gli assetti dei decenni precedenti (nella geografia delle produzioni, nel riarticolato apparato logistico delle lavorazioni urbane, nell’assestamento degli impianti rurali, nell’accentuato ricorso al reimpiego) e fattori di scarto e trasformazione: comparsa di nuovi protagonisti nel mondo delle produzioni, su tutti le élites signorili e gli enti monastici; formazione di nuclei artigianali anche nelle nuove tipologie demiche, quali i villaggi accentrati o i castra; rinnovata preoccupazione rispetto all’accesso e alla gestione dei luoghi di estrazione della materia prima; frequente tendenza all’accorpamento di più passaggi dei cicli di fabbricazione; propensione del potere statale e signorile verso il controllo accentrato delle manifatture. L’artigianato di ambito urbano Diverse città nell’VIII-IX secolo riformularono uno spazio definito e proprio nell’universo delle produzioni meridionali, sia come sedi di fabbricazione di terrecotte 136, metalli 137, vetri 138, sia come luogo di domanda e con- LA PRODUZIONE IN ITALIA MERIDIONALE FRA TARDO ANTICO E MEDIOEVO 537 sumo delle derrate provenienti dai circondari rurali, ma anche in qualità di centri di organizzazione della parabola commerciale di manufatti plasmati in un comprensorio di riferimento 139. L’indicatore ceramico costituisce naturalmente elemento primario anche per valutare la capacità delle città di incidere sulle fasi di smercio dei manufatti, pure su medio e lungo raggio. In effetti, in vari nuclei cittadini costieri furono forgiate, fra VIII e X secolo, anfore da trasporto, morfologicamente distinte dai precedenti tardo antichi, generalmente meno capienti, destinate ad assicurare la circolazione di prodotti alimentari, su tutti il vino, sul versante tirrenico, lungo un asse dalla Sicilia a Roma, e sul versante adriatico-ionico su direttrici che raggiungevano pure l’Egeo. A Otranto, fu plasmato dalla fine del VII secolo e poi lungo l’VIII, il tipo cosiddetto ‘Mitello 1’, di forma globulare 140; in Calabria si modellarono contenitori a fondo arrotondato e umbonato, progressivamente sempre più lontani dalle Keay LII e succedanee, proseguendo la linea produttiva sino al X secolo 141. Come detto, le fornaci di Miseno perpetuarono la fabbricazione di anfore vinarie almeno per tutto l’VIII secolo 142. Le anfore da trasporto gettano una luce sulla formazione, fra VIII e X secolo, di circuiti produttivi-commerciali di orizzonte non ristretto, su scala transregionale. Non fu probabilmente estranea alla creazione di tale tessuto l’esistenza di sfondi istituzionali e di reti infrastrutturali di una qualche solidità, in particolare in ambito bizantino, che agevolarono la rela- zione fra committenza, fabbricazione, mediazione nei traffici e consumo 143; peraltro fra i territori soggetti all’Impero d’oriente e le regioni sotto il dominio longobardo non paiono emergere serie limitazioni nella circolazione delle merci 144. Nella Puglia meridionale e in Calabria, dalla seconda metà del X secolo sino ad epoca angioina 145, si elaborarono ulteriori versioni di contenitori da trasporto, indizio di una prosecuzione della commercializzazione su ampia distanza dei beni agricoli del Mezzogiorno; le variazioni nelle forme e il ridimensionamento delle capienze riflettono forse modifiche nelle quantità dei beni alimentari disponibili per un traffico sovraregionale, nella possibilità e programmazione delle quote di prodotto da esportare ed anche nella stazza e cabotaggio delle imbarcazioni. I porti delle città ionico-adriatiche meridionali, inoltre, nel XIII-XIV secolo furono anche i punti di imbarco dei tipi delle invetriate dipinte e delle protomaioliche, che costituirono categoria merceologica di buona diffusione in tutto l’Adriatico e in Oriente, trovando propri spazi nei complessi meccanismi commerciali dei diversi quadri amministrativi-istituzionali egei e del Levante tutto 146. L’integrazione dell’informazione archeologica con i dati delle fonti scritte e con le indicazioni toponomastiche allarga il ventaglio di conoscenze sulle classi di materiali prodotte e sui mestieri praticati negli opifici cittadini 147, attrezzati per una domanda e una committenza diversificata. Alcuni nuclei urbani costituirono 139 Se pure a Napoli non vi sono, ad ora, chiare evidenze di opifici ceramici, la città gravitava comunque in un articolato circuito di figlinae, ubicate, ancora nell’alto Medioevo, ad Ischia (ARTHUR 1993, p. 233), Miseno e Cuma (per entrambi, vd. DE ROSSI 2004). A Salerno si modellava l’argilla nei sobborghi del centro urbano (vd. infra, nota 150), ma gli impianti di trattamento si estendevano verosimilmente sino a Vietri e Cava (PEDUTO 1982, p. 17). 140 Sull’anfora ‘Mitello 1’ vd. ARTHUR, CAGGIA, CIONGOLI et alii 1992, pp. 103-110; ARTHUR, PATTERSON 1998, pp. 518-524; LEO IMPERIALE 2004, pp. 329-332, fig. 3, 1-2. 141 Su questi tipi anforici si veda DI GANGI, LEBOLE 1997, pp. 153-155. 142 DE ROSSI 2004, p. 255. 143 Si è già segnalata l’importanza delle proprietà ecclesiali nel quadro produttivo campano; si ricordano inoltre gli accordi fra papa Gregorio II e il duca di Napoli Teodoro e i provvedimenti di Leone III l’Isaurico che nel secondo quarto dell’VIII secolo contribuirono a rafforzare le direttrici dei traffici tirrenici, specialmente sull’asse Napoli-Roma (vd. MARAZZI 1991, pp. 232, 252-257 e, per gli aspetti materiali, ARTHUR 1993, pp. 237-241; DE ROSSI 2004, p. 259). Per quanto riguarda Otranto, la città rappresentava il fulcro di uno degli «interlocking exchange networks» formatisi nel Mediterraneo bizantino (ARTHUR 2012, pp. 348-349). Per l’inquadramento delle manifatture calabresi nella sfera di controllo costantinopolitano, vd. DI GANGI, LEBOLE 1997, pp. 154-155. L’influenza del sostrato politico-istituzionale va vista peraltro come terreno di coltura per condizioni favorevoli alle produzioni e al commercio, piuttosto che come presupposto per interventi in senso dirigista e centralizzatore. 144 Se, ad ora, si constata che le ceramiche salentine non paiono trovare sbocco nei distretti vicini (ARTHUR 2010, p. 82), i contatti fra il comprensorio napoletano e i territori della Langobardia Minor appaiono intensi (CARSANA, SCARPATI 1998, pp. 135, 200, 203; ARTHUR 2012, p. 342). 145 Sulle anfore cosiddette ‘Otranto 1 e 2’ vd. ARTHUR 1993, pp. 206-216, fig. 7, 1-6; ARTHUR 1998, pp. 11-13; per la produzione di grandi contenitori nella Calabria normanna si veda DI GANGI, LEBOLE 1997, p. 154. Dalla fine del XII secolo si registra il declino dei recipienti calabresi, mentre quelli otrantini proseguirono nel XIII secolo. 146 Sulle attestazioni e sulle condizioni di scambio delle ceramiche invetriate meridionali nel Mediterraneo orientale vd. PATITUCCI UGGERI 1985; RIAVEZ 2012; TINELLI 2012. 147 A Benevento, per esempio, le fonti scritte permettono di ricostruire, direttamente o indirettamente, la presenza di numerose attività artigianali già dall’alto Medioevo (ROTILI 1986, p. 128). 538 PASQUALE FAVIA, ROBERTA GIULIANI, MARIA TURCHIANO Fig. 11. - a) Ariano Irpino (AV). Attuale configurazione del quartiere dei ‘Tranesi’, nel Medioevo sede di fornaci ceramiche (da Giorgio, D’Antuono 2010); b) Crotone. Localizzazione (nel cerchio grigio) dell’area di rinvenimento di fornaci medievali (da Aisa, Cristiano, Ruga et alii 2010). verosimilmente il polo di riferimento anche per molte maestranze specializzate o itineranti 148; le città erano inoltre le sedi prevalenti delle officine a controllo statale, fra cui arsenali e zecche 149. La suddetta combinazione di fonti di diversa natura permette di ricostruire la presenza di specifici settori artigianali all’interno dello specchio urbano o nelle loro periferie; la geografia dei poli produttivi urbani assunse progressivamente contorni più precisi, disegnando isolati edilizi o quartieri ad essi dedicati, dislocando quelli a maggior peso ecologico e logistico nei sobborghi. Gli stessi ritrovamenti di resti di fornace o di zone di concentrazione di scarti ricompongono, infatti, una casistica in cui le installazioni per la lavorazione della ceramica, del laterizio e dei metalli erano, in prevalenza, ubicate immediatamente all’esterno dei circuiti murari o alla periferia della città, come per esempio a Salerno, Ariano Irpino, Lecce, Otranto, Crotone, Oppido Mamertina, spesso non lontano dai punti di approvvigionamento delle materie prime, dalla disponibilità di acqua e in collegamento con la viabilità principale, in modo da gestire più sezioni del ciclo produttivo (fig. 11) 150. Altre attività artigianali si svolgevano invece, ovviamente, all’interno dei recinti cittadini, spesso con l’affiancamento degli spazi residenziali, laboratoriali e di bottega 151. Riflessi del consolidamento dell’artigianato urbano sono 148 Nel noto, complesso e discusso documento del 774, riguardante il monastero di S. Sofia di Benevento (I.S.2 X, col. 425), si fa riferimento da parte di Arechi II a carpentarii nostri; questo passo ha dato forza all’ipotesi dell’esistenza di maestranze edilizie specializzate al servizio della corte, a disposizione dei progetti ducali nella Langobardia Minor. Le principali città costituivano inoltre bacino operativo per alte professionalità e ricercate soluzioni tecniche: un esempio altomedievale è dato da S. Pietro a Corte, a Salerno, che testimonia la ripresa anche in Italia meridionale dell’uso dell’opus sectile e dell’epigrafia monumentale, prefigurando la compresenza di lavoratori locali e di specialisti, provenienti forse dall’Italia settentrionale longobarda (su questi temi vd. DI MURO 1996, pp. 57-58). Queste condizioni peraltro si riproposero ripetutamente nel corso del Medioevo, soprattutto in campo edilizio (si pensi per esempio alle maestranze transalpine operanti su molti cantieri ecclesiali pugliesi: GIULIANI 2011, pp. 204, 210, 214). 149 Officine statali, arsenali e zecche nel Regno di Sicilia si distribuivano fra Napoli, Gaeta, Castellamare, Amalfi, Salerno, Melfi, Lucera, Foggia, Canosa, Brindisi, Nicotera, Messina. 150 Le già citate fornaci otrantine si ubicavano in una posizione extra-muranea, di agevole accesso alla materia prima e all’acqua e in buona posizione rispetto alla viabilità e allo scalo portuale (LEO IMPERIALE 2003, p. 674). Si è già fatto riferimento per Salerno (vd. supra, nota 139) allo sviluppo di attività produttive nell’area su- burbana (vd. anche PEDUTO 2006, p. 336). A Oppido Vecchio è stata rinvenuta un’area di lavorazione metallurgica di età bassomedievale, testimoniata da quindici forni, esterni alla città (CUTERI 2009, pp. 653-654). A Crotone, il ritrovamento di una fornace consente di ipotizzare nel XIII-XIV secolo lo sviluppo di un quartiere ceramico fuori le mura (AISA, CRISTIANO, RUGA et alii 2010). Ad Ariano Irpino nel XV-XVI secolo si sviluppò una zona di botteghe esterne al recinto murario, che sostituì impianti precedentemente situati nel centro cittadino; la nuova installazione utilizzava alcune grotte naturali, le cui condizioni microclimatiche e l’articolazione in più gallerie creavano condizioni favorevoli alla produzione (GIORGIO, D’ANTUONO 2010, pp. 221, 223-224). A Lecce un consistente scarico di cocci è stato rintracciato in un luogo corrispondente ad un settore urbano interno alla cerchia medievale, a ridosso delle mura (TAGLIENTE 2002). L’ubicazione extra moenia di diverse fornaci ceramiche siciliane costituisce significativa occasione di comparazione; ad Agrigento il complesso produttivo ubicato nella valle dei Templi reimpiegò le strutture della necropoli e degli ipogei paleocristiani (ARDIZZONE 2010, p. 275). 151 Nella Benevento altomedievale un pontile, struttura aerea di collegamento fra i due lati di una strada, era denominato de aurificibus (ROTILI 2006b, p. 332, fig. 21). A Napoli le fonti documentarie menzionano nel X secolo famiglie di fabbri, residenti ed attive nel vicus Sancti Georgii (SKINNER 1994, pp. 291-294). LA PRODUZIONE IN ITALIA MERIDIONALE FRA TARDO ANTICO E MEDIOEVO 539 Stanziamenti religiosi e sistemi produttivi percepibili nel riconoscimento sociale ottenuto da una serie di mestieri e figure lavorative, nelle stesse forme di manifestazione di sé che le categorie professionali esprimevano sul piano pubblico (per esempio in campo religioso) 152, che nell’organizzazione di una cornice normativa e fiscale riguardante le attività produttive 153. L’insieme di tali elementi qualifica più compiutamente il ruolo delle città nei meccanismi produttivi del Mezzogiorno medievale: esse fungevano da luogo di agglomerazione di diversi passaggi dei cicli manifatturieri, che rispondevano peraltro alle consistenti domande economiche formulate dalle stesse città; i nuclei urbani inoltre rappresentavano sedi primarie per lo smistamento su media-lunga distanza delle merci, per la fabbricazione di oggetti di alta qualità e, infine, per le sperimentazioni tecnologiche. Questa trama produttiva marcò in più contesti territoriali la predominanza sul piano economico-artigianale della città sui relativi comprensori rurali e sul mosaico insediativo secondario e anche rispetto al flusso delle materie prime; tuttavia gli indicatori archeologici suggeriscono nel corso del Medioevo la formazione di altre realtà di commisurabile importanza a quelle cittadine, quali i centri manifatturieri legati ai monasteri e le officine sorte in alcuni nuclei demici rurali in espansione e in vari siti incastellati. S. Vincenzo al Volturno rappresenta certamente l’esempio più espressivo dell’appropriazione di ruolo delle comunità monastiche nei processi produttivi; l’abbazia molisana si ritagliò uno spazio di straordinaria rilevanza come catalizzatore dell’approvvigionamento e del controllo delle materie prime, gestore dei passaggi produttivi, polarizzatore di una forte domanda di manufatti (in gran parte consumati internamente per le notevolissime esigenze, d’occasione e di più lungo periodo, del complesso abbaziale), organizzatore di una catena di lavoro che prevedeva l’impiego di artigiani specializzati, maestranze itineranti 154, figure direttive 155. Il sistema di produzione si serviva sia di installazioni decentrate 156, sia di officine interne (fig. 12) 157, che coprivano una vasta gamma di lavorazioni, dagli oggetti di uso quotidiano a quelli di particolare pregio 158, peraltro con un attento ricorso al reimpiego 159. Al netto della sua eccezionalità, l’esempio volturnense getta una luce comunque indicativa dei potenziali produttivi del mondo monastico anche per realtà di minore peso. I monasteri calabresi, per esempio, acquisirono uno specifico spazio nell’impegnativa gestione della risorsa metallifera 160, divenendo inoltre luogo di fabbricazione, come confermato dai ritrovamenti archeologici 161, costituendo esempio di una dinamica che peraltro investì l’intera penisola 162. Gli indicatori ma- 152 Nel corso del Medioevo si riscontrano varie citazioni di edifici religiosi promosse da gruppi di artigiani (per esempio a Benevento, nella Civitas Nova, furono erette le chiese di S. Nazzaro de lutifiguli e di S. Giovanni de fabricatoribus: ROTILI 1986, pp. 154155). Inoltre, è stata opportunamente ricordata la diffusione dell’agiotoponimo di S. Eligio, patrono dei fabbri: le architetture dedicate a questo santo, significativamente, sono generalmente poste (in Calabria come a Napoli) in posizione periferica, presso le mura (CUTERI 2009, p. 651; sulle implicazioni culturali e simboliche di queste dislocazioni vd. anche GALLONI 1998, p. 243). 153 A Lucera, per esempio, nell’ultimo quarto del XIII secolo, si applicava una tassa sullo ius quartariorum, interpretabile come gabella sulla produzione ceramica, praticata in particolare dai Saraceni (CDSL, app. nn. IV, V, VIII). Ad Ariano Irpino nel 1301 erano effettuati prelievi fiscali sui cives laborantes in creta, ma anche sugli extranei vendentes vasa terrea (GIORGIO, D’ANTUONO 2010, p. 221). 154 Come già visto supra (nota 148) per il caso di Salerno, le officine lapidarie volturnensi propongono un quadro lavorativo fatto di maestranze specializzate, forse in parte itineranti, con la possibilità di un impegno diretto nei lavori anche degli stessi monaci (FERRAIUOLO 2012, p. 633). 155 In uno dei laboratori monastici fu ricavato uno spazio edilizio (datato post 848) dai tratti costruttivi rifiniti, interpretato come alloggio del preposto alle officine stesse (MARAZZI, FRANCIS 1996, p. 1042). 156 Per quanto riguarda la ceramica, il quadro archeologico ricomposto da H. Patterson ipotizza un originario rifornimento del- l’abbazia da impianti esterni alla terra di S. Vincenzo, ma verosimilmente da essa dipendenti, con uno schema produttivo dunque fortemente gerarchico. Nell’XI secolo si svilupparono officine in alcuni siti del circondario monastico e fu installata una fornace anche a S. Vincenzo stessa (HODGES, PATTERSON 1986, pp. 21-23, fig. 7; ARTHUR, PATTERSON 1994, pp. 431-436). 157 Per la ricostruzione e la cronologia delle officine relative al cantiere di S. Vincenzo Maggiore e di quelle ‘permanenti’ durante il IX secolo si rimanda a MARAZZI, FRANCIS 1996, pp. 1033-1042; FRANCIS, MORAN 1997; D’ANGELO, MARAZZI 2006, p. 447, con bibliografia precedente; più in generale, MARAZZI 2008. 158 Fra le lavorazioni realizzate si segnalano, fra le altre, quelle degli ossi, degli avori, degli smalti e di oggetti in metallo assai ricercati (MARAZZI, FRANCIS 1996, p. 1042, con bibliografia precedente). 159 Il reimpiego è attestato, come operazione consapevole e regolata, nella lavorazione dei vetri e negli arredi architettonici (MARAZZI, D’ANGELO 2006, pp. 453-454; FERRAIUOLO 2012, pp. 630-631), accanto al rifornimento di materiale anche da aree lontane. 160 Per una rassegna delle fonti che narrano delle concessioni fra fine XI e inizi XIII secolo a chiese e monasteri calabresi, ma anche ad un’abbazia florense laziale, dei diritti di sfruttamento di miniere e saline nella stessa Calabria, si rimanda a PORSIA 1989, pp. 251253; CUTERI 2002a, p. 292. 161 Scorie di lavorazione dei metalli provengono dai monasteri cistercensi di S. Angelo de Frigillo e di S. Maria di Corazzo (CUTERI 2006, p. 419; CUTERI 2009, p. 655 con bibliografia precedente). 162 Sul tema del rapporto fra poteri e attività mineraria, cfr. la situazione toscana (FRANCOVICH, FARINELLI 1994, pp. 451-453). 540 PASQUALE FAVIA, ROBERTA GIULIANI, MARIA TURCHIANO Fig. 12. - a) S. Vincenzo al Volturno. Ipotesi ricostruttiva dell’area della basilica maior nel primo quarto del IX secolo (da Marazzi 2008); b) S. Vincenzo al Volturno. Planimetria delle officine vetrarie e di altri impianti artigianali (da Marazzi 2008). Ampliando lo sguardo all’organizzazione della produzione nelle campagne del Meridione nel Medioevo, la ricerca archeologica verifica lineamenti specifici e ritmi diversi rispetto a quelli urbani. I meccanismi, che abbiamo visto in azione fra tardo antico ed alto Medioevo, di utilizzo dei bacini insediativi rurali di età romana come basi per diverse attività artigianali, paiono arrestarsi o comunque rallentare nei secoli successivi. Nella rete agricola della Puglia meridionale, integrata e gravitante sulla città di Otranto 164, circolavano, per esempio, anfore da dispensa simili a quelle idruntine e altre forme vascolari da immagazzinamento, da cucina e da fuoco 165. Tuttavia, le economie delle campagne sembrano muoversi in uno scenario di sfruttamento su raggio locale delle diverse risorse del territorio e in una logica di prevalente autoproduzione e sussistenza 166, con un accesso limitato a circuiti di ambito extraregionale, se non per materiali di peculiare utilità, come le pietre da macina e quelle ollari 167; analogo ambito laboratoriale domestico è prefigurato da reperti ceramici e metallici rinvenuto nel Casertano, in un’area gravitante nell’orbita volturnense 168. Dal X secolo si percepiscono peraltro i segni di un nuovo respiro produttivo negli stessi villaggi rurali, nei casali e in alcuni siti fortificati bizantini. Il reperimento di scorie e di piccoli forni all’interno di alcuni nuclei demici salentini, per esempio, documenta l’allestimento di punti di lavorazione del ferro e del rame che sottendono ca- A questo proposito vd. nuovamente il caso di Agrigento (ARDIZZONE 2010, p. 277). 164 LEO IMPERIALE 2004, p. 333; ARTHUR 2006, p. 400. 165 L’esistenza di una fornace è per esempio ipotizzata non lontano dal sito rurale salentino di Supersano (ARTHUR 2004, p. 316; ARTHUR 2012, p. 350). Nella ceramica di VIII-X secolo viene notata «una maggiore competenza produttiva e standardizzazione rispetto a quella di VII secolo […]; in contrasto con Mitello invece le anfore commerciali sono in netta minoranza» (ARTHUR 2004, p. 317). 166 ARTHUR 2006, p. 391; ARTHUR 2012, p. 350. 167 Sulla circolazione di macine siciliane ed elleniche vd. ARTHUR 2000. Ritrovamenti di pietra ollare, seppure in quantitativi abbastanza limitati, si distribuiscono lungo il medio e basso Adriatico per gran parte del Medioevo. 168 Si tratta di ritrovamenti in località Arivito, non lontano da Mondragone (ALBARELLA, ARTHUR, WAYMAN 1989, pp. 587-596). teriali contribuiscono dunque a lumeggiare l’affiancamento di una consistente attività di lavorazione dei metalli e dell’argilla 163 al lavoro di trasformazione delle risorse agricole (testimoniato dall’installazione o dal controllo di mulini, palmenti, etc.). L’artigianato rurale e i paesaggi produttivi 163 LA PRODUZIONE IN ITALIA MERIDIONALE FRA TARDO ANTICO E MEDIOEVO 541 attività estrattive, abbinate ad una produzione diretta del metallo. In effetti, il disegno territoriale calabrese nel corso del Medioevo fu significativamente influenzato dall’esistenza di apprezzabili giacimenti metalliferi che determinarono una rete insediativa scandita fra siti di controllo, poli di lavorazione e infrastrutture di comunicazione 171. I riscontri materiali calabresi inoltre contrappuntano quanto emerge dalle fonti documentarie, ovvero l’appropriazione da parte dei poteri pubblici e centrali della disponibilità delle risorse del sottoFig. 13. - Rupecanina (S. Angelo di Alife - CE). Resti produttivi: macina e forgia (da Marazzi, Di suolo 172 e la loro eventuale Cosmo, Frisetti 2012). cessione ad agenti economici, pacità logistiche ed economiche per l’importazione di proin grado di sostenere lo sforzo logistico e finanziario dotti semi-lavorati e, inoltre, l’inserimento della figura del per lo sfruttamento delle vene metallifere o delle cave, fabbro nella compagine sociale e nel quadro delle attività compresi i grandi bacini architettonici di età romana, artigianali svolte in loco, sebbene con orizzonti di lavoro che servivano da giacimento a cielo aperto 173. di ambito locale, all’interno di spazi prevalentemente doUna forgia peraltro è stata messa in luce, insieme a mestici; gli oggetti plasmati peraltro si inscrivono all’inuna vicina macina olearia, nell’agglomerato demico di terno di bisogni ed esigenze di base nel campo dell’edilizia, Rupe Canina (fig. 13), nella Campania settentrionale (dadelle attrezzature agricole, in quello del trattamento delle tabile al X secolo, preesistente allo sviluppo della rocca), lane, delle pelli, del cuoio e del legno, con ampia parte di ulteriormente comprovando nei contesti rurali lo sforzo lavoro dedicata alla manutenzione e riparazione dei madi attivazione congiunta di impianti per la lavorazione 169 nufatti . dei prodotti dei campi e per la fattura di attrezzature e Ad un’occupazione risalente al X-XI secolo sono strumenti in metallo. ascritti gli indizi di attività di riduzione del minerale ferroso, evocate da scorie di tipo ‘tapped’, rintracciate sul Monte Consolino, area ipoteticamente corrispondente al Attività produttive nei castra e nei casali kastron bizantino di Stilo, e in altre fortificazioni calaLa formazione di un articolato sistema castrale allargò bresi 170. I dati prospettano dunque il ruolo di alcune strutdal XII secolo gli orizzonti del paesaggio produttivo in ture castrali nella gestione delle risorse minerarie e delle Per un quadro delle testimonianze archeologiche di attività metallurgiche nel Salento vd. ARTHUR, GLIOZZO 2005. 170 Le tracce sono state individuate a Tiriolo e Casalini e forse anche a Torre di Mare. A Santa Severina negli strati di epoca bizantina sono state ritrovate due valve di fusione in calcare per la modellazione di piccoli oggetti (CUTERI 2009, p. 651, fig. 1, nn. 78, con bibliografia precedente). Questi kastra si ubicavano in posizione non lontana dalle miniere e dagli approvvigionamenti di acqua e legno, in un quadro di incremento produttivo (CUTERI 2006, p. 415; CUTERI 2009, p. 655). Dal punto di vista tecnologico, in Calabria, più tardi, nel 1274, si ha attestazione di un mulino da ferro, 169 a testimonianza dell’uso dell’elemento innovativo, sviluppato su scala europea, costituito dai mantici idraulici (CORTESE 1997, p. 146). 171 Sulle modellazioni del territorio calabrese in rapporto allo sfruttamento delle miniere, vd. CLEMENTE 2012. 172 Sulla considerazione dei beni del sottosuolo come appartenenti al demanio pubblico vd. PORSIA 1989, pp. 246-253. Alla citata attenzione dell’amministrazione bizantina, fece seguito la politica normanna di concessione dei diritti sul sale e le miniere, spesso a favore di enti monastici (vd. supra, nota 160). 173 Anche la possibilità di sfruttare i materiali costruttivi di pregio rivenienti dall’edilizia antica dipendeva da concessioni statali (CORRADO 2012, p. 153; FERRAIUOLO 2012, p. 630). 542 PASQUALE FAVIA, ROBERTA GIULIANI, MARIA TURCHIANO Il castello di Mercato S. Severino può costituire un buon esempio di tale dualità; nel sito campano la ricerca archeologica ha individuato un settore insediativo frequentato fra seconda metà del XIII e XIV secolo, connotato da scorie metalliche comprovanti un’attività produttiva, che si situa a ridosso della rocca, usufruendo così delle sue strutture di difesa. Ciò ha portato ad ipotizzare un diretto controllo signorile sull’opificio; d’altronde, nello stesso sito è stata individuata un’unità costruttiva interpretata come abitazione e laboratorio, suggerendo dunque la compresenza di spazi per autonome attività artigianali 175. A Mondragone, nel Casertano, fra fine XIV e XV secolo, fu impiantata un’officina vetraria presso la cortina muraria meridionale della rocca 176. Il castrum lucano di Torre di Mare costituisce un ulteriore episodio di operazioni siderurgiche intraprese negli insediamenti murati fra XIII e XIV secolo 177. Inoltre, l’attività metallurgica all’interno dei recinti castellari calabresi pare perpetuarsi sino ad epoca aragonese, come nel caso di Amendolea 178. Gli episodi citati manifestano dunque il grado di disseminazione e il progressivo incremento delle sedi artigianali nei castra bassomedievali, favoriti dalla buon accessibilità alle materie prime e dalla crescita dei bisogni interni. Fig. 14. - Puglia meridionale. Siti di ritrovamento di scorie metalliche, contrasseTale processo di ramificazione produttiva gnati da quadrato nero (da Arthur, Gliozzo 2005). peraltro pare essersi consolidato e allargato, Italia meridionale 174. I luoghi fortificati si inserirono nella soprattutto nel corso del basso e del tardo Medioevo, trama dei punti manifatturieri, agendo su un duplice piano: anche a molti villaggi aperti o casali recintati. In Puglia i siti murati, cioè, svolsero su un versante una funzione per esempio, gli indicatori produttivi manifestano una di controllo ed organizzazione delle risorse e delle lavopluralità di siti verosimilmente ospitanti opifici, in parrazioni, su un altro fronte formularono una domanda stiticolare ceramici 179, ma anche metallurgici (fig. 14) 180. molata dalle esigenze signorili o dalle necessità della Gli impianti per la lavorazione delle argille, in partipopolazione interna ai borghi fortificati medesimi, variacolare, si disponevano dunque su un vasto spettro insemente combinando o disgiungendo queste due polarità. diativo che dalle città principali si estendeva anche a quelle 174 Un indizio dell’inserimento anche di figure artigianali nei movimenti demici che accompagnarono i processi di incastellamento è dato dalla nota carta del Chronicon Vulturnense (CV II, pp. 310311), del 989, che cita due figuli, Lando e Domenico, fra i personaggi coinvolti nella formazione del castrum di Cerro al Volturno. 175 COROLLA 2008, pp. 53-54, 137-138. 176 SOGLIANI 2012; le tracce archeologiche suggeriscono che intorno alla fornace si svolgessero diversi passaggi produttivi del ciclo del vetro. 177 CUTERI 2002b. 178 179 484. CALABRIA 2003. Per gli esempi nella Puglia settentrionale vd. FAVIA 2012, p. 180 Nei villaggi della Puglia meridionale, per i quali si è già fatto cenno a un’attestazione di lavorazione dei metalli nel X secolo (vd. supra, nota 169), l’attività metallurgica (per ferro e bronzo) pare intensificarsi significativamente nel basso Medioevo, pur rimanendo confinata in contesti laboratoriali domestici, priva di spazi (e di manufatti) particolarmente specializzati, rispondenti ai bisogni pratici e primari nel campo dell’edilizia, dell’agricoltura e del trattamento LA PRODUZIONE IN ITALIA MERIDIONALE FRA TARDO ANTICO E MEDIOEVO minori, interne e d’altura, ad alcuni castra, ma coinvolgeva anche borghi rurali emergenti, di peso insediativo ed economico rilevante; questa dislocazione diffusa ampliò significativamente l’offerta dei contenitori in terracotta, riducendo gli areali distributivi, ma accompagnando la diffusione dell’innovazione tecnologica materializzata dai contenitori rivestiti da invetriature al piombo e allo stagno e dipinti, promuovendo il loro consumo. Le tracce di bassoforni, le scorie di attività di forgiatura o rifinitura si abbinano a una certa diffusione degli oggetti in ferro e leghe di rame, usati come accessori dell’abbigliamento o di ornamento 181, testimoniando dunque una buona penetrazione territoriale di questa categoria funzionale di manufatti, che entrò a far parte dei corredi personali e familiari. Sporadiche sono le attestazioni dei metalli preziosi nei contesti rurali e demici secondari; le oreficerie, e in generale i prodotti di pregio, paiono rimanere, anche nel Medioevo avanzato, prerogativa di officine selezionate, generalmente urbane, destinati ovviamente a una committenza di rango, anch’essa prevalentemente cittadina; l’introduzione di manufatti di qualità ricercata negli insediamenti castrali o agricoli 182 avveniva dunque mediante acquisto nei luoghi di produzione o forse attraverso l’operato di artigiani itineranti 183. 543 In sede di introduzione a questa panoramica sugli aspetti archeologici inerenti le principali direttrici delle culture materiali e dei cicli produttivi nel Mezzogiorno medievale (pur realisticamente priva di ambizioni di esaustività) avevamo fatto cenno alla possibilità di cogliere alcuni elementi di fondo condivisi e generali sul medio periodo. In fase di sintesi conclusiva è opportuno riprendere i fili di queste argomentazioni, enucleando ulteriori temi che si propongono alla discussione, seppure declinati con variazioni regionali apprezzabili: una certa prontezza nell’assimilazione e nell’affermazione delle innovazioni tecnologiche 184, un miglioramento delle abilità artigianali 185, in presenza peraltro di alcuni settori in cui si esprimevano maggiori resistenze e volontà di conservazione; l’avocazione alla disponibilità demaniale di alcune materie prime e l’affidamento del loro trattamento a figure od organizzazioni economicamente solide; un progressivo processo verso la moltiplicazione e la ramificazione degli impianti lavorativi, ubicati all’interno di stanziamenti tipologicamente diversi, con la conseguente formazione di un paesaggio produttivo connotato piuttosto che da rigide gerarchie, da una compresenza di siti di diverso statuto ma parimenti importanti nel quadro dei sistemi manifatturieri. Questa situazione, non priva di dinamismo, non fu però immune da sofferenze e disagi legati, per esempio, al procacciamento delle materie prime (fig. 15) 186, a bilanciamenti non sempre risolti fra domanda e offerta 187, ad alcune lacune tecnologiche e professionali 188, ai delicati equilibri delle mediazioni commerciali, svolte spesso da operatori esterni ai territori produttivi 189. Le fluttuazioni nelle produzioni e negli stessi periodi d’uso delle pelli, del cuoio e del legno. L’incremento produttivo è stato peraltro posto in relazione con il passaggio tecnico bassomedievale, condiviso del resto nell’intera penisola, costituito dalla sostituzione nelle costruzioni degli incastri in legno con quelli in ferro. Le differenze quantitative e, in certa misura, qualitative dei reperti fra diversi villaggi vengono inoltre utilizzate ai fini di una valutazione di un variegato quadro socio-economico fra i vari poli demici. Un documento del 1182 cita nella lista dei capofamiglia di due casali salentini, un magister Leo faber, comprovando la definizione del profilo di questa figura professionale anche in ambito rurale, forse a servizio di più poli demici (sull’insieme di questi temi vd. ARTHUR, PIEPOLI 2011); la diffusione della presenza territoriale dei fabbri è riscontrabile anche in Campania (COROLLA 2008, p. 138). In Calabria si verificò il caso di addetti al comparto metallurgico sottoposti alla diretta giurisdizione degli imprenditori privati da cui dipendevano (PETRALIA 1993, p. 315). 181 A questo proposito si veda l’analisi delle necropoli dei villaggi salentini in LAPADULA 2003. 182 Nel villaggio abbandonato di Motta S. Demetrio è stato rinvenuto un crogiolo in bronzo del XIV secolo, forse indizio della presenza di un orafo itinerante (CUTERI 2009, pp. 651-652, fig, 1, n. 6). Il martelletto ritrovato a Mercato S. Severino, pur interpretabile come strumento per lavorazione di diversi materiali, non esclude del tutto un uso per la cesellatura di metalli pregiati (COROLLA 2008, p. 138). Vd. supra, note 154, 180, 182. Nelle elaborazioni tecniche in tema di rivestimento e decorazione delle ceramiche, come noto, il contributo di culture allogene fu assai rilevante. 185 Un manufatto esemplare degli sforzi di miglioramento e affinamento tecnologico può essere individuato nella campana, oggetto di cui si riscontrano tracce di fabbricazione in numerose chiese di ambito urbano, castrense e rurale. 186 Per il ferro e il legno, l’Italia meridionale si trovò ad essere dipendente da altri bacini territoriale. 187 I grandi cantieri edili di età svevo-angioina, ad esempio, da un lato costituiscono esempio di un’articolata e complessa organizzazione della produzione e del lavoro, dall’altro tradiscono problemi sui ritmi di attuazione progettuale, sui tempi, i luoghi di approvvigionamento e la disponibilità dei materiali e sull’assoldamento delle maestranze (su questi temi si veda MANGIALARDI 2012). 188 Un esempio in questo senso proviene dalle officine statali messinesi di armi che lamentavano, per alcuni passaggi del ciclo di lavorazione, l’assenza di adeguate figure professionali in loco (PORSIA 1989, p. 262). 189 Si ribadisce l’importanza delle fiere nell’economia di scambio del Mezzogiorno medievale. Lineamenti e problemi di ricerca su produzione e lavori nel Mezzogiorno medievale 183 184 544 PASQUALE FAVIA, ROBERTA GIULIANI, MARIA TURCHIANO Fig. 15. - Lucera, fortezza. Carta dei flussi di approvvigionamento dei materiali per il cantiere edile (da Mangialardi 2012). delle officine o i casi di cessazione di attività costituiscono testimonianza archeologica talora di fisiologiche oscillazioni economiche, ma spesso di gravi difficoltà che trovano, per esempio, eco nelle fonti documentarie riguardo ad alcune tendenze monopolistiche o accentratici del potere regio: si può citare esemplificativamente, a tal proposito, una serie di provvedimenti di età sveva quali l’adozione del monopolio regio sulle sete, sul sale e sul ferro (l’applicazione dello ius ferri causò non trascurabili aumenti dei costi degli attrezzi metallici) e l’emanazione dell’Edictum contra communia civium et societates artificum, misura di evidente contrasto verso l’autonomia produttiva delle comunità del Mezzogiorno 190, specchio di nodi sempre presenti nel mondo produttivo medievale dell’Italia del Sud. (P.F.) Bibliografia AIECM2 VI = G. 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AD 500-1066 Christopher Loveluck When analysing the evidence for specialist production in sixth – and seventh – century Britain, especially of non-ferrous metal artefacts and certain non-ferrous metals, a paradox immediately presents itself between societies that created what we call today an ‘AngloSaxon’ ethnic affiliation in eastern Britain, and their western and northern British counterparts in Scotland, Wales and Cornwall. In summary, evidence for specialist metalworking is much more evident among the settlement remains of western and northern Britain, than among most Anglo-Saxon settlement deposits in eastern Britain. This paradox cannot be claimed as a reflection of sample bias, in terms of radically different numbers of excavated and published sites in these different regions. Hence, explanations for the differences must increasingly be sought in different patterns of the organisation of space and production, in terms of potential settlement zoning and the controlled or independent actions of specialist artisans among early medieval societies within Britain. Despite the comparatively large number of Anglo-Saxon settlements excavated and published from eastern Britain and southern Scotland (in the Tweed valley and Dumfries and Galloway) over the last thirty years, and despite the large-scale sieving and sampling for industrial residues, there is still a limited corpus of evidence of specialist metalworking debris. The same can be said of other specialist craft-working remains for a level of production undertaken at a scale beyond the domestic needs of rural households, between c. AD 500 and 700. Yet, one only has to examine the tableaux of artefacts of different metals and other raw materials from sixth- to mid seventh-century Anglo-Saxon graves, often adjacent to settlements, and by the seventh century sometimes with- I am especially grateful to Prof Alessandra Molinari, Prof Riccardo Santangeli Valenzani and Prof Lucrezia Spera for the invitation to present a shortened version of this paper at the ‘L’Archeologia della Produzione’ conference in Rome in 2013, and I am especially thankful to Professor Molinari for her co-ordination of the conference. I would also like to thank David Taylor for producing figure 1, and my thanks are also extended to my former colleagues at Humber Archaeology for the images of the tools from Flixborough. Introduction This contribution to the comparative analysis of the archaeological reflections of specialist production, its organisation and its context in early medieval Europe will focus on Britain, between c. AD 500 and 1066 (fig. 1). It has two principal aims. Firstly, to review the evidence for the nature and organisation of specialist commodity production, craft-working, and the exchange of products in Britain, especially relating to metalworking; and secondly, to explore the roles of specialist artisans, commodity-producers and merchants as actors within their wider societies. Discussion is organised within a bipartite framework, presenting and reviewing the evidence relating to chronological periods and trends, and to specific themes pertaining to those periods. For the era spanning the early sixth to early eighth centuries AD, the key question posed is where are the specialist artisans in rural Britain, especially metalworkers? For the period from the eighth to the eleventh centuries, the principal theme explored is the relationship between specialists from ports and other emerging towns and the wider rural world. Where are the specialist artisans in rural Britain, between c. AD 500 and 700? 554 CHRISTOPHER LOVELUCK Fig. 1. - Location of key sites discussed in the text. in them, to demonstrate that huge numbers of complex artefacts were manufactured and used in life and for the purpose of accompanying the dead. Hence, for sixth- and seventh-century Anglo-Saxon societies, the key questions to address are: were there specialist artisans?, where did they live?, where did they undertake their specialist activities?, and how was specialist production organised and the services of smiths procured, assuming their existence in significant numbers? ALCOCK 1987. BARROWMAN, BATEY, MORRIS 2007, p. 319. 3 LAING, LONGLEY 2006; LANE, CAMPBELL 2000. 1 2 In a stark and paradoxical contrast to the evidence from Anglo-Saxon societies in eastern Britain, archaeological excavations of fortified rural centres (often on promontories) from western and northern Scotland, Wales and to a lesser extent, Cornwall, present comparatively abundant evidence of the presence of craft-specialists, in the form of metalworkers, based at these sites periodically or permanently. For example, from the sixth and seventh centuries, there is recurrent evidence of specialist non-ferrous metalworking, glass-working for the embellishment of metalwork, and ironworking at fortified rural settlements. Examples include: Dinas Powys (Glamorgan) in south Wales 1; Tintagel (Cornwall) 2 ; the Mote of Mark (Dumfries and Galloway) and Dunadd (Argyll) in western Scotland 3; and at Birsay (Mainland, Orkney) in the northern Isles of Scotland 4. Some monasteries founded in western Britain (Christianized in the fifth century), such as Whithorn (Dumfries and Galloway) have also produced similar concentrations of metalworking evidence 5; and a smaller quantity of evidence for casting copper-alloy objects and glass-working for their decoration has also been recovered at the monastery on the island of Iona (Argyll) 6. The settlements listed above were located both within and to the north of what had been the Roman provinces of Britain. They all seem to have been central places for their localities, and in some cases for their wider regions. Elites were resident at the centres and they formed lo- CURLE 1982; MORRIS 1995. HILL, NICHOLSON 1997, pp. 402-404. 6 BARBER 1981; GRAHAM-CAMPBELL 1981, pp. 23-25. 4 5 SPECIALIST ARTISANS AND COMMODITY PRODUCERS AS SOCIAL ACTORS IN EARLY MEDIEVAL BRITAIN, C. AD 500-1066 cations for the conspicuous consumption of regional agricultural surpluses, using ostentatious imported feasting kits, such as glass vessels imported from western France, and foodstuffs from the Mediterranean in the sixth century, and from western France in the seventh. Alongside their function as local and regional points of consumption, they were also centres of specialist production for the social territories of their elite patrons, especially for fine metalworking. Very similar patterns of consumption and production are evident at secular elite and monastic centres from early Christian Ireland in the sixth and seventh centuries, at ring-forts such as Garranes and Garryduff (both in County Cork); Crannogs (secular elite settlements on artificial islands) at Moynagh Lough and Lagore (both County Meath) and at the monasteries of Armagh (County Armagh) and Nendrum (County Down) 7. All these western and northern British and Irish centres have yielded metalworking remains of a very similar character, in terms of the nature of metalworking at the settlements. They have usually comprised fired clay crucibles in either a complete or fragmentary condition, which have often yielded traces of copper-alloy, silver, gold, and sometimes lead or a lead alloy. Clay mould fragments, sometimes in considerable numbers, have also been recovered; and in many cases these moulds were used to cast complex and highly decorated brooches and other dress accessories. Evidence for glass working, in the form of ‘millefiori’ rods, moulds for glass studs, and glass tesserae or glass vessel fragments as raw materials have also been found at most of these sites, in addition to copper alloy and iron ingots in some cases. Tools in the form of anvils, and tongs for holding crucibles and partially finished iron objects have also been recovered, in addition to slags and furnace fragments for smelting and smithing. Furthermore, it can also be observed that all these sites in Britain and Ireland come from settlement patterns and societies that possessed established secular and ecclesiastical elites with permanent and stable central places in the sixth and seventh centuries. In eastern Britain, there are now significantly more excavated and published settlements dating from the sixth and seventh centuries than from western and northern Britain. In most Anglo-Saxon regions, however, the 7 CRADDOCK 1989, pp. 170-187; GASKELL BROWN, HARPER 1984; BOURKE 2007, pp. 407-412. 8 HAMEROW 2002, pp. 93-99. 9 POWLESLAND 2000; POWLESLAND 2003; TIPPER 2004. 555 settlements exhibited a much more extensive use of space and did not possess any fortified elements in most cases. Since the 1990s, theories of settlement shift have been proposed for Anglo-Saxon settlements of these centuries, when it was suggested that they wandered over the landscape within their social and economic territories, following interpretations suggested for Continental northern Europe in the Roman and post-Roman Iron Ages, particularly the regions of northern Germany and southern Scandinavia beyond the former Roman Empire 8. More recently, settlements that remained stable in one location have also been excavated, albeit with extensive use of space for habitation, crop processing and industrial zones, most emphatically demonstrated at West Heslerton (North Yorkshire) 9. Hence, current assessment would suggest settlement patterns with both stable and shifting settlements, depending on local circumstances – and the same nuanced understanding is now being suggested for southern Scandinavian settlements of the fifth to seventh centuries 10. Despite the changing theories of use of settlement space in recent decades, two observations still hold true. Firstly, signs of a social hierarchy manifested in the archaeology of settlements are absent until the later sixth and seventh centuries in eastern Britain; and secondly, evidence for the production of complex artefacts on a significant scale, especially non-ferrous metal artefacts, is very scarce. The number of clay crucible fragments is rising from excavated settlements due to more extensive and intensive dry – and wet – sieving but the fragments are often very small. The same can be said for the small number and dimensions of mould fragments. Robin Fleming has also observed that the numbers of metal artefacts cast away in settlement deposits are very limited in fifth - and sixth - century settlement deposits, when they can be dated that closely, due to the need for the recycling of metals as the principal strategy to procure them as raw materials 11. The evidence from Carlton Colville (Suffolk) provides a good case study of an estate centre that seems to have developed from an ‘average’ Anglo-Saxon rural settlement of the sixth century into a small estate centre by the end of that century, with a gravitational pull on the local resources of a territory 12. It housed an elite who were armed, rode on horseback, and indulged in pastimes such LOVELUCK 2013, pp. 86-89; HOLST 2004. FLEMING 2012, pp. 19-20. 12 LUCY 2009, pp. 430-431. 10 11 556 CHRISTOPHER LOVELUCK as hunting; and they patronized artisans, including blacksmiths and non-ferrous metalworkers 13. Small numbers of very fragmented pieces of crucibles and moulds were recovered from surface refuse middens, in addition to ironworking debris and some scrap-metal objects. Between the sixth and seventh centuries, the more loosely organised sixth-century settlement also became more clustered and intensively organised in its use of space 14. At the northern extremity of Anglo-Saxon England, the long-excavated Northumbrian royal estate centre at Yeavering (Northumberland) provides comparable evidence to that from Carlton Colville, although the small numbers of crucible and mould fragments retrieved were not found during the famous Hope-Taylor excavations of the late 1950s 15. They were found during the excavation of the Neolithic,Yeavering Henge, by Anthony Harding in the 1970s, which is adjacent to the major building complexes at Yeavering, on the opposite side of the modern road. No Anglo-Saxon buildings were indicated on aerial photographs of the Neolithic henge, in contrast to the adjacent area of the large estate centre/palace halls. The recovery of ironworking debris, small numbers of crucible fragments and loom weights from the henge suggests the organisation of high-temperature, fire-risk activities on the settlement periphery and the dumping of industrial debris in these same areas 16. Several crucible fragments and a possible mould fragment were also excavated in a settlementedge situation at Spong Hill (Norfolk), in between a settlement and the better known, fifth – and sixth – century cremation and inhumation cemetery 17. A similar situation to that at the royal centre at Yeavering, in terms of extensive organisation of settlement and craft working space, is also suggested from recent extensive archaeological surveys and sample excavations at Rendlesham (Suffolk), probably the principal estate centre or ‘palace’ of the Kings of the East Angles, in the Deben valley. Surveys have identified an Anglo-Saxon settlement zone of approximately fifty hectares with indications of non-ferrous metalworking zones, perhaps workshops, from the discovery of gold, silver and copper-alloy casting debris and lead models for moulds, probably of the sixth and seventh centuries. The occupation sequence within this extensively organised settlement space lasted from the fifth to eleventh centuries AD. Without more extensive excavations, however, it is not currently clear whether the metalworking zone is located on the settlement periphery 18.The siting of ironworking and non-ferrous metalworking on the peripheries of Anglo-Saxon settlements, covering extensive areas with distinct zones, may explain to some extent the scarcity of non-ferrous metalworking evidence, given the relatively small excavated areas of many settlements. Yet given the largescale surface collection and geophysical surveys, and more recently metal-detector surveys, that have often accompanied the smaller-scale excavations, it is still surprising that greater quantities of metal casting evidence and mould and crucible fragments have not been recovered and that more smelting and smithing zones have not been identified (smelting furnace sites and smithies can be identified by magnetometer and geochemical surveys) 19. A further observation can also be made about the nature of the artefacts that were made in the moulds recovered from sixth - to mid seventh-century Anglo-Saxon settlements. With a few exceptions, such as the fragment of a sixth-century Great-square-headed brooch mould from Mucking (Essex) 20, the mould fragments that survive were used to cast simple artefacts. They were far simpler than the complex non-ferrous metal dress accessories found abundantly in sixth and seventh-century cemeteries, often associated with the settlements: for example, the early to mid seventh-century cemetery within the settlement at Carlton Colville. And above all, the contrast between the thousands of nonferrous metal artefacts from sixth - and seventh - century cemeteries and the handful of mould fragments from their contemporary settlements is astonishing. Only the emerging evidence from Rendlesham, in the form of the gold, silver and copper-alloy debris from casting, and the recovery of gold and garnet – and gilded copper – alloy artefacts very similar to those from the nearby Sutton Hoo burial mounds, demonstrate a probable direct link between a royal centre of production and some of MINTER, PLOUVIEZ, SCULL 2014, p. 52. For example, see LOVELUCK, SALMON 2011, pp. 1404-1407 for an example from the early medieval (fifth - to eleventh-century) settlement at Stavnsager, Denmark, and MINTER, PLOUVIEZ, SCULL 2014 for surveys at Rendlesham (Suffolk) from southeast England. 20 WEBSTER 1993, pp. 62-63. 18 LUCY, TIPPER, DICKENS 2009, pp. 275-276. 14 TIPPER 2009. 15 HOPE-TAYLOR 1977. 16 TINNISWOOD, HARDING 1991. 17 HILLS, RICKETT, PENN 1995, pp. 74-76. 13 19 SPECIALIST ARTISANS AND COMMODITY PRODUCERS AS SOCIAL ACTORS IN EARLY MEDIEVAL BRITAIN, C. AD 500-1066 557 the complex, ostentatious artefacts interred in a nearby royal cemetery 21. It can be assumed that non-ferrous metalworking, and iron-working, comprising the limited procurement of iron ore (usually bog iron) and its smelting, and blacksmithing (using recycled iron objects and small quantities of freshly smelted metal) 22 were predominantly, if not totally, male skills but it is uncertain to what extent relatively simple black- and fine-metal- smithing were activities undertaken seasonally or on a need-basis among most farming communities 23. It is possible that less complex iron and copper-alloy working could have been gendered components of the rural household economies of the sixth and seventh centuries, counterparts to the female focus on clothing the household through textile production and leatherworking. Seasonal and small-scale household production could also contribute to the scarcity of non-ferrous metalworking debris on settlements. However, the complex artefacts from graves, such as dress accessories and fine weapons (particularly pattern-welded swords and weaving swords), also demonstrate the existence of very skilled specialist smiths whose abilities were far beyond those that could be expected of seasonal household production. In order to attain the skills necessary to produce the most complex artefacts, those smiths probably spent most of their time in their role as specialist artisans rather than working in agriculture on any family lands. The scarcity of evidence for large quantities of manufacturing debris relating to non-ferrous metalworking especially, and also complex blacksmithing such as sword-smithing, has led to the theory that some specialist smiths were itinerant, either working away from their ‘home’ kinship groups seasonally or for longer periods, travelling between different settlements working for communities or individual patrons 24. David Hinton’s analysis of the archaeological and textual evidence from the late sixth and seventh centuries also shows that by the late sixth century smiths were also permanently attached to recently emerged royal households, as reflected in the early seventh-century law code of King Aethelberht of Kent (from the same period as the appearance of royal and aristocratic estate centres in Anglo-Saxon Britain) 25. The evidence from the royal estate centres/palaces at Rendlesham and Yeavering from the same period further reinforces observation of the likely permanent presence of some of the finest smiths at royal centres. However, the discovery of the smith’s grave at Tattershall Thorpe (Lincolnshire), on the edge of the Lincolnshire Fens in eastern England, also indicates that itinerant smiths continued to provide their services on an independent basis through the seventh century. The Tattershall Thorpe smith’s grave seems to date from c. AD 670. The grave was an isolated burial that cut through earlier Neolithic remains. This placement away from any other graves possibly reflects the smith’s status as an itinerant ‘outsider’, who possibly died away from his extended family and home settlement while working for an individual patron or community. He was buried with a wooden box full of metalworking tools that could have been used for ironworking and non-ferrous metalworking. These included a portable anvil; hammers of different sizes; tongs; ‘snips’ for cutting sheet metal; a soldering lamp; files; copper-alloy objects, including sword- or seax-scabbard studs, a seaxguard and scrap; lead objects (some possibly models for moulds); and small collections of loose garnets and vessel glass fragments for embellishing metal jewellery 26. There was also a copper-alloy amulet wrapped in silk, which is likely to have been a personal possession. A small collection of silver bullion in the form of strips could have been used as both a raw material and a medium of exchange. The presence of a copper-alloy balance and set of weights also suggests that the smith exchanged his skills for payment, partially in bullion (almost certainly silver by c. AD 670). The possession of such a complex range of tools, silver bullion and imported commodities, such as garnets and the silk that wrapped the amulet, mark the smith as a man of above average portable wealth for his time. Archaeological evidence for possession of silk is very rare from mid seventh-century England, and other traces of it have been encountered only from several cylindrical copper-alloy ‘work-boxes’ in the graves of wealthy women 27. Both archaeological and textual sources from the MINTER, PLOUVIEZ, SCULL 2014, pp. 53-55. See Fleming’s recent argument for limited smelting until the later sixth and seventh centuries, FLEMING 2012, pp. 24-28. 23 First suggested by E.T. Leeds in 1936, who noted that such blacksmithing on a household scale was still common in Scandinavia when he was writing, LEEDS 1936, p. 24. 24 See especially DICKINSON 1993; WICKER 1994 and COATSWORTH, PINDER 2002, pp. 239-240. 25 HINTON 1998, p. 9. 26 See HINTON 2000. 27 HINTON 2000, p. 63. 21 22 558 CHRISTOPHER LOVELUCK sixth and seventh centuries suggest some independent agency on the part of specialist artisans and traders, who potentially had more freedom of action to choose or leave patrons than has been suggested in the models of elite control of production, stressed over the last thirty years. For example, the laws of the Kings of Kent, Hlothere and Eadric (c. 673-685) and their successor, Wihtred (c. 695) all have clauses that address appropriate etiquette for ‘traders’, ‘men who have travelled from a distance’ and ‘foreigners’, and for those who offered them hospitality while travelling or working for them. In the laws of the former kings, a clause deals with redress for those who have housed a stranger or a trader for more than three days 28. While the laws of Wihtred indicate an obligation for men travelling from a distance or foreigners to shout or blow a horn before they leave a trackway or road, presumably to enter a settlement 29. Such an obligation seems to have been widespread within Anglo-Saxon Britain, as the same law is also cited in the code of King Ine of the West Saxons (c. 688-694) 30. An iron bell, found in the Tattershall Thorpe grave has been seen as a tool for announcing such a presence prior to leaving main thoroughfares 31. It is almost certain that many of the travellers and traders addressed in these law codes were specialist artisans. Furthermore, the range of itinerant craft specialists probably included more than metalworkers. Arthur MacGregor has argued that specialist bone and antler workers, especially comb-makers, were also itinerant – perhaps seasonally 32. Nor was itinerancy necessarily limited to providing services to single ethnic groups or socio-political territories. Among the large collections of mould fragments from the casting of complex nonferrous artefacts at the Mote of Mark (Dumfries and Galloway), in south-west Scotland, are moulds for producing axe-blade-shaped copper-alloy fittings, probably from bridle attachments from riding gear. Their visible surfaces were decorated with Anglo-Saxon interlace decoration of the mid to late sixth to early seventh century. Indeed, the Mote of Mark mould fragments are most similar to examples from south-east England, especially the bridle fittings from mound 17 at Sutton Hoo (Suffolk) 33. One explanation for the use of these overtly WHITELOCK 1955, p. 361. WHITELOCK 1955, p. 364 30 WHITELOCK 1955, p. 366. 31 HINTON 2000, p. 47. 32 MACGREGOR 1985, pp. 46-47. 28 29 Anglo-Saxon decorative styles for the axe-blade-shaped fittings at the Mote of Mark would be the occasional presence of Anglo-Saxon fine-metalworking smiths serving aristocratic patrons well beyond their home regions. Alternatively, smiths from southwest Scotland could have previously travelled to serve Anglo-Saxon patrons before returning home, thus also providing a context for diffusion of the use of art-styles within Britain, and also Ireland. Perhaps most significant about this likely movement of smiths and other specialist artisans is that they could choose to move between patrons over large distances. Some may then have chosen to become exclusive craftsmen for one patron or community, such as a King or a Bishop and their respective households, or of a monastic community. However, there was probably some element of choice in such relationships and mutual benefit for both. For Anglo-Saxon England, there has been a tendency to stress the control of specialist artisans by elites, whether royal or ecclesiastical, based on impressions gained from early law codes and ecclesiastical works describing specialist artisans involved in building monasteries, during the later seventh century, such as Jarrow, Monkwearmouth and Ripon 34. Indeed, it is true that from the later seventh century, the evidence for the casting and production of complex nonferrous artefacts in Anglo-Saxon Britain comes almost exclusively from monastic sites, the best examples being the moulds from Hartlepool (County Durham) 35. These centres also became the principal patrons of many specialist artisans, who subsequently lived at monasteries. Yet, what we do not know is the extent to which such a relationship began as a matter of mutual benefit and agreement. In time, resident artisans in these monastic communities, and in royal and aristocratic households, may have become formal dependents with the resulting loss of freedom of movement, despite a relatively high status within those households. The same ambiguities also hold for the relationship between specialist artisans and secular and ecclesiastical patrons in the fortified centres and monasteries of western and northern Britain and Ireland. In Britain, we do not have the textual evidence that is available from France and Italy to show that specialist LAING, LONGLEY 2006, pp. 148-155. Stephen, Life of Wilfrid, Ch. 17, trans. WEBB 1965, pp. 123124; Bede, Lives of the Abbots of Wearmouth and Jarrow, Chs. 5 & 6, trans. FARMER 1983, pp. 189-191. 35 DANIELS 2007, p. 127. 33 34 SPECIALIST ARTISANS AND COMMODITY PRODUCERS AS SOCIAL ACTORS IN EARLY MEDIEVAL BRITAIN, C. AD 500-1066 artisans were also landowners in their own right but it can be assumed that they or their families also held land in many instances. The wealth of a smith like the individual interred at Tattershall Thorpe would suggest that he would be placed at the apex of the peasantry, in terms of his portable wealth, although his specialist role and hence his access to particular objects and raw materials may distort our interpretation of the true status that he actually held. Perhaps he can be seen as analogous to the smith, Carantcar of Ruffiac, in mid ninth-century Brittany, in northwest France, who owned several small agricultural estates and slaves to work them 36. It is unknown whether artisans who became patronized by royal and ecclesiastical elites retained their lands - other family members may have kept them, and over several generations those specialists at elite centres may have become divorced from any family estates, and consequently more dependent on their patrons. Again, however, it is unknown whether having principal patrons who were members of the secular or ecclesiastical elite, or ecclesiastical institutions, precluded smiths and other artisans from providing their skills to others for their own profit or the profit of their patrons (or both). For example, millwrights, as a specialist group of precision wood-workers and hydraulic engineers probably became based at royal and major ecclesiastical centres in Britain and Ireland, during the seventh century. The distributions of known watermills of the seventh and eighth centuries in Ireland and England cluster at known or assumed royal estate centres and monasteries. For example, at the royal and assumed royal centres at Kingsbury, Old Windsor (Berkshire) and Tamworth (Staffordshire), and at the monastery at Barking (Essex) in England; and at the monasteries of Nendrum (County Down) and Little Island (County Cork) in Ireland 37. Yet, watermills on farming settlements in close proximity to royal centres, such as Wellington several kilometres from the Mercian royal estate centre at Sutton St Nicholas (Herefordshire), and Raystown (County Meath) close to the royal crannog at Lagore, could reflect client communities of those royal centres, or communities that had procured the services of a millwright resident at the nearby centres 38. An Irish law code of DAVIES 1988, p. 100. 37 HOPE-TAYLOR 1958; RAHTZ, MEESON 1992; RYNNE 1998; MCERLEAN, CROTHERS 2007; LOVELUCK 2013, pp. 146-148. 38 SEAVER 2010; LOVELUCK 2013, pp. 148-149. 39 KELLY 2000, p. 484. 36 559 the eighth century indicates that by that time farming families from one or several settlements could combine their resources to finance the construction of a mill, pay for the services of a millwright, and hold equal shares in it 39. So, some provision of services beyond those to principal patrons is indicated on behalf of certain specialists. The recovery of later sixth- to seventh-century weights for bullion-linked exchange at the royal centre at Rendlesham (Suffolk) could also reflect some exchange of smithing services to other patrons, during times when the centre may have held seasonal fairs or markets 40. And Robin Fleming has also suggested that production of smelted iron and iron objects in large quantities from royal estates, such as Ramsbury (Wiltshire) and some monastic centres, such as Lyminge (Kent), reflects production not only for patrons but also for a wider population 41. Nevertheless, the increasing trend of the permanent residence of artisans at central places certainly does seem to have facilitated their greater control by elites, or at least their taxation in kind or coinage by the later seventh century. Similarly, in the rare instances where access to particular commodities was specific to a locality or region, greater control by elites became manifest by the early eighth century. For example, specialist salt production at the brine springs around Droitwich (Worcestershire) had been undertaken using lead evaporation pans through the sixth and seventh centuries by local inhabitants, and it had presumably been traded as in later centuries 42. By the early eighth century, however, a significant proportion of the brine springs around Droitwich and salt production from them was incorporated within estates of the Anglo-Saxon Kings of Mercia, and estates that they had granted to the Bishops of Worcester 43. By the 680s, possession and exchange of iron-ore bearing land and rights to extract iron in the Weald region had also become linked to estates of the Kings of Kent and major ecclesiastical institutions in that Kingdom, such as Lyminge 44. The same is also true of the lead-producing region of the Peak District (Derbyshire), in central England, where the likely ability of local elites to benefit from lead production, and perhaps limited silver extraction from it, was curtailed when the MINTER, PLOUVIEZ, SCULL 2014, p. 53. FLEMING 2012, pp. 30-32. 42 HURST, HEMINGWAY 1997, pp. 24-25. 43 HOOKE 1981; HURST, HEMINGWAY 1997, pp. 30-31. 44 THOMAS 2011, p. 46. 40 41 560 CHRISTOPHER LOVELUCK From the later decades of the seventh century, a further distinct geographical and socio-economic difference is evident between western and northern Britain and Ireland, and south-eastern Anglo-Saxon England, from the Humber estuary in the east to the Solent estuary in the south. At London, Southampton, Ipswich and York, large port settlements of specialist artisans and seafaring traders developed, perhaps from origins as seasonally occupied sites, outside existing royal and episcopal centres, in the case of London and York, and in estuarine and lower-river locations with good access to the North Sea and English Channel at Ipswich and Southampton. By c. AD 700, they had permanent populations, planned layouts with defined plots occupied by houses, craft-working zones and workshops, fronting on to metalled gravel streets. A smaller river-port centre also existed at Droitwich (Worcestershire), the focus of the brine springs and salt producing locality which had also become an ‘emporium salis’ – a salt trading centre – during the first half of the eighth century 46. Salt from Droitwich was distributed over land by a series of routes which later became known as salt-ways, and probably by boat and ship, as Droitwich is located on a tributary of the River Severn, and is close to its estuary. There is no evidence of the existence of port settlements, housing permanent populations of artisans and the families of seafaring traders akin to the major emporia port centres from southwest England (Devon and Cornwall), Wales, coastal northwest England or western Scotland. A small port may have existed at Chester by the ninth century but it was inconsequential in comparison to the southern and eastern emporia 47. In all known instances, production by specialist artisans continued at settlements of the secular elite, such as Dunadd and Birsay or at monasteries, like those at Whithorn, Iona, and Clonmacnoise (County Offaly), Ireland 48. The integration of those centres into their far-flung networks was achieved via the same beach and estuarine landing places and seasonal trading sites that had served them in preceding centuries. For example, the beach and dune sites at Meols on the Wirral peninsula, in northwest England, situated between the estuaries of the Rivers Dee and Mersey; and at Bantham Ham (Devon) and Gwithian (Cornwall) on the coast of southwest England 49. Over the last thirty years much has been written on the nature, origins and demise of the ‘emporia’ ports of eastern and southern England by scholars such as Richard Hodges and others, in regard to their specialist production and trading activities, their roles and their relationships with their rural hinterlands 50. Most have emphasized the likelihood of elite initiative leading to their foundation 51. Hence, the populations who lived at these centres permanently or intermittently have been viewed very much as the dependent clients of royal or ecclesiastical patrons, who were policed and taxed in the emporia centres by royal officers (port-reeves) and their armed retinues. Yet, in recent years, the assumed exclusive role of ruling elites in the foundation of these ports has been questioned, in the light of a more nuanced appreciation of the networks of coastal societies beyond emporia and their specialist activities, and a greater appreciation of the potential of merchant agency in the initial foundation of the trading sites 52. There is now a greater acceptance of the possibility, if not likelihood, that merchant seafarers and specialist artisans could have come together to form the initial cores of the port settlements, and that they could have come under the control of royal authorities once the latter realised that there was an opportunity to benefit from the taxation of trade. More recently still, the potential of the ports having been collaborative ventures has been suggested, as initiatives of merchant and artisan specialists together with royal power, and this argument is devel- LOVELUCK 1995, pp. 89-92. HURST, HEMINGWAY 1997, pp. 30-31. 47 GRIFFITHS 2010, p. 133. 48 LANE, CAMPBELL 2000; MORRIS 1995; KING 2009; O’SULLIVAN, MCCORMICK, KERR et alii 2014, p. 169. 49 FOX 1955; THOMAS 1958; SILVESTER 1981; MAY, WEDDELL 2002; GRIFFITHS, PHILPOTT, EGAN 2007. 50 HODGES 1982, HODGES 2000; MORELAND 2000; PALMER 2003; NAYLOR 2004; HODGES 2012 among others. 51 HODGES; MORELAND ibidem. 52 LOVELUCK, TYS 2006; MCCORMICK 2007; LOVELUCK 2012; WICKHAM 2012. region was brought under more direct Mercian rule in the later seventh century, and many of the lead-producing areas were incorporated within estates of favoured Mercian royal monasteries, such as Repton 45. Artisan and merchant initiative in ports and emerging towns, and relationships with the rural world, c. AD 7001066 45 46 SPECIALIST ARTISANS AND COMMODITY PRODUCERS AS SOCIAL ACTORS IN EARLY MEDIEVAL BRITAIN, C. AD 500-1066 561 oped further here, within the context of the nature of specialist artisan and trading households 53. One of the most important and least discussed aspects of the emergence of specialists in early medieval Europe is the fact that for long periods within a year, or even longer, a significant proportion of the adult men of households are likely to have been away from their home settlements and families. The evidence of wives and children having travelled on major trading ventures is almost non-existent; however, serving women are noted to have accompanied Anglo-Saxon aristocrats on journeys, along with their reeves and smiths, in the later seventh century 54. The absence of a substantial proportion of the adult men would have created a gender and age imbalance among the family members left behind, with particular concentrations of old men, women and children - the most vulnerable members of families to exploitation and predation from neighbouring communities and raiders from furtherafield. The security of wider extended families while specialists were away must have been a principal concern for them. To leave the most vulnerable family members without significant adult male protection would have been to put the future of the extended family at risk. At the same time, seafaring mariners and riverboat traders with too few crew, and peddlers and specialist artisans travelling on their own or in very small groups would have been similarly vulnerable to predation from piracy or exploitation from the communities for whom they worked. Within these family dynamics, the seeking out of exclusive or principal patrons by specialist artisans and some traders would have been one strategy to provide greater protection for their family dependents, if all or the immediate families of the specialists could live at a royal estate centre or a monastery. A variant on the latter protective strategy was specialist artisan and trader initiative to found larger settlement communities, which would allow greater levels of collective protection, and this could have been one context for the foundation of embryonic emporia port communities, as a risk management strategy by artisans and merchants. In addition, merchant seafarers, in particular, may also have approached the nearest royal power in the vicinity of these embryonic ports to secure royal protection for their families and the wider community while the seafarers were away. Similarly, foreign mariners may have approached royal authorities for protection in foreign ports. In all these cases royal protection could have been given in return for taxation in kind and in the silver sceatta coinage adopted in the later seventh century across northwest Europe, to be followed by penny/denarial coinage in the mid to late eighth century. Royal protection and taxation by approval would no doubt have become royal control of port spaces very quickly, and certainly royal initiative was probably involved in the expansion of emporia ports. However, the likelihood of an initial co-operative venture in the foundation and development of emporia ports, and continued co-operation for mutual benefit and profit, is potentially expressed in the archaeological reflections of their artisan and trading households. One of the most striking traits of emporia households is their apparent ability to possess large quantities of portable wealth in comparison to their counterparts in the rural world, with the exception of landed elites. For example, the lifestyles of artisan-trading households in Hamwic-Southampton; Lundenwic - London and Eorforwic - York, all show abundant use and discard of silver coinage. Access to and use of luxury drinking vessels, in the form of glass vessels, is also suggested for a significant number of families. In the past, fragments of fine vessel glass among the refuse deposits of these port households have been assumed, mostly by specialists who study glass, to be fragments of cullet for reuse in glass-working but the rarity of glass-working evidence at these settlements, and the abundance of glass vessel fragments in domestic refuse across households in emporia ports (over a thousand fragments at Hamwic), suggests a greater likelihood that a significant proportion of emporia artisans and traders actually used complete glass drinking vessels 55. The fragments are no different in nature or size to those found on rural aristocratic estate centres of the eighth century, such as Flixborough (Lincolnshire), Portchester Castle (Hampshire) or Staunch Meadow, Brandon (Suffolk) 56. Just as the artisan and merchant-seafarer households of ports could benefit through possession of levels of portable wealth beyond their counterparts in the rural world, while paying taxation to royal protectors, they also co- LOVELUCK 2013, pp. 207-208 and 211-212. See the Law code of King Ine of Wessex (688-694), Clause 63, WHITELOCK 1955, p. 371. 55 HUNTER, HEYWORTH 1998; EVERY, LOADER, MEPHAM 2005, p. 130; and see LOVELUCK 2013, pp. 204-206, for a fuller discussion of merchant-artisan lifestyles within emporia ports. 56 LOVELUCK 2007; CUNLIFFE 1976; TESTER, ANDERSON, RIDDLER et alii 2014. 53 54 562 CHRISTOPHER LOVELUCK operated with royal authorities in the provision of armed contingents to royal armies. For example, in Altfrid’s Life of Liudger, from the mid eighth century, it is noted that the ‘citizens’ of York fought alongside the Northumbrian royal war band. And in the same Saint’s Life, both the armed nature of seafaring merchants and the need for royal protection of foreign merchants is reflected. A Frisian merchant is noted as having killed a Northumbrian aristocrat, when attacked by the latter. As a consequence, the Frisians among the merchant colony at York were obliged to flee to escape blood feud 57. It is difficult to know how far merchant-artisan families of emporia-ports ventured inland away from royal protection, or how regularly the rural populations travelled to the ports to procure objects, commodities or the services of artisans. Distributions of silver coinage, especially sceattas of the secondary series from the early to mid eighth centuries, and certain products in particular regions do suggest regular contact between emporia ports and their rural hinterlands. This is particularly the case for East Anglia, where the slow-wheel-thrown pottery known as Ipswich ware, made at the emporium port at Ipswich (Suffolk) from c. AD 720 and 850, has been found distributed in large quantities throughout East Anglia 58. This suggests either very regular contact between the wider rural populace and the port, or more likely, the transport and trade of Ipswich ware for the commodities that it carried and sometimes for itself (in regard to its pitchers). It is also true that settlements along major rivers inland from emporia also gained access to imported pottery wares and other items that had arrived at the ports. The settlement at Dorney-Maidenhead/Eaton (Berkshire), on the Thames up-river from London, is one example 59. However, with the exception of Ipswich ware in East Anglia, and certain types of sceatta coinage such as Series R probably struck at Ipswich 60, the quantities of commodities or objects imported or made at emporia that travelled significant distances inland seem to have been limited in number. Those items that are found in the interior of Anglo-Saxon England seem to have a ranked distribution, with imports present in small numbers, usually in the form of coins, and pottery or glass vessel fragments, at some estate centres and monasteries, for example, Higham Ferrers (Northamptonshire) and Eynsham (Oxfordshire) 61. This general inland scarcity of items imported from Continental Europe, and the small quantities of Ipswichware pottery beyond emporia ports and East Anglia, is not mirrored in the low-lying coastal zones of eastern England, between Kent and the River Humber, with their large tracts of marshland/Fenlands and islands. All elements of the settlement and social hierarchy in these regions had access to imported commodities from the Continent or from the port at Ipswich, between the eighth and mid ninth centuries, whether farmsteads, larger hamlets or estate centres. For example, between the East Anglian and Lincolnshire Fens and the Humber estuary, all excavated small farmsteads and hamlets, such as those from Gosberton and Fishtoft (both Lincolnshire) had access to either small quantities of Continental pottery, lava quern stones and/or Ipswich ware, and sometimes silver coinage. Some of the inhabitants of larger hamlets, such as Riby-Cross roads (Lincolnshire), had access to small quantities of glass vessels, Frisian coinage, and they were both armed and rode around their landscapes. While an estate centre in this region, at Flixborough (Lincolnshire) had much larger quantities of glass vessels, Frisian and other coinage, and pottery vessels, especially in the eighth century when the settlement was a major centre for aristocratic consumption. In the early to mid ninth century, however, the estate centre was focussed much more towards production, with significant increases in fine textile production and metalworking, presumably by resident artisans and more specialist textile producers. The latter phase was accompanied by significant discard of high-quality iron tools (fig. 2, a-d) relating to metalworking, woodworking, leatherworking and textile clothing manufacture, suggesting limited need for recycling. Importation of up to 269 vessels of Ipswich ware and coinage struck in Mercia and Kent also indicates continuity of regular maritime links between Flixborough and southeast England in the first half of the ninth century 62. The maritime connectivity of the east coast of England across all elements of the social spectrum, between the eighth and mid ninth centuries, is also marked by Altfrid, Vita Liudgeri, Chs 11-12, trans. DIEKAMP 1881, p. 17. 58 BLINKHORN 2009. 59 BLINKHORN 2002; CROPPER 2002. 60 See GANNON 2003. 61 CROPPER 2003, p. 299; METCALF 2003, pp. 248-249; HARDY, CHARLES, WILLIAMS 2007. 62 For a detailed discussion of the Flixborough evidence and the east-coast distributions, see LOVELUCK 2007; LOVELUCK 2013, pp. 183-189. 57 SPECIALIST ARTISANS AND COMMODITY PRODUCERS AS SOCIAL ACTORS IN EARLY MEDIEVAL BRITAIN, C. AD 500-1066 563 certain networks that seem to have been the result of direct contact with merchant-seafarers, through trade of specific low-value commodities in return, presumably, for fresh water, provisions or specific products. So, for example, the distribution of Ipswich ware is geographically much more widespread in the Lincolnshire Fens and along its sea-marsh coast to the Humber estuary, while it is very rare inland and also comparatively rare in the composite royal, episcopal and port centre at York. Hence, it seems that mariners were choosing to trade Ipswich ware, and also lava querns and the occasional Continental pot, with coastal populations in return for provisions, often without coinage transactions. Whereas, the demand for Ipswich ware or its contents at port centres like York was much weaker, or the merchant seafarers chose not to trade the wares in York to the same extent 63. The Ipswich ware trading network focussed on the coastal and estuarine regions between the Fens and the Humber, mostly between the early and mid ninth century, also coincided with the period of much more intensive production at estate centres such as Flixborough (possibly a monastic estate centre or small monastery by this time) and the period when specialist salt production in coastal regions becomes demonstrable archaeologically in England, notably in this Fens to Humber region at the settlement of Fishtoft, in the Lincolnshire Fens, near Boston 64. When well-dated stratified deposits exist, it can also be observed that the Ipswich ware distribution is also a product largely of the early to mid ninth century on the Humber estuary and along the Lincolnshire coast. This is also the period when the scale and extent of long-distance trade focussed on emporia ports began to reduce, whether due to internal dynamics or increasing Scandinavian disruption. Hence, in the case of eastern England between East Anglia and the Humber estuary, the evidence could suggest two linked phenomena. Firstly, an increasing movement of artisans away from emporia to patrons on rural estate centres through the first half of the ninth century, as the emporia ports started to decline; and secondly, the choice of mariner-merchants to do more direct trade with coastal rural populations at smaller coastal and river landing places, for commodities such as salt and, perhaps, some products manufactured at rural estate centres or monasteries. This maritime trade between East Anglia and the Hum- 63 64 LOVELUCK 2013, pp. 190-191. COPE-FAULKNER 2012. a b c d Fig. 2. - A selection of the fine iron tools discarded in refuse deposits at Flixborough between the early and mid ninth century. A) metalworking tongs or ‘hand-vice’; b) ‘lunette’-knife for leatherworking; c) one of the numerous iron shears for clothing manufacture; d) woodworking axe. 564 CHRISTOPHER LOVELUCK ber continued throughout the first half of the ninth century, despite increasing raiding by Scandinavians. By the mid to late ninth century, between the 860s and 880s, when Scandinavian warbands overwintered in eastern England, during the Conquest of what became the Danelaw and the Scandinavian kingdom of York, there are signs of further significant changes to which both new and old elites and specialist artisans and merchants responded in different parts of Britain. In some instances the artisans based at estate centres in eastern England, during the first half of the ninth century, had disappeared from those same settlements by the late ninth century, and this is certainly the case at Flixborough 65. Yet, the occurrence of evidence for metal-casting, textile-working, and bullion-related exchange from the Viking overwintering camp of 872-873, on an island site at Torksey (Lincolnshire) not far south of Flixborough, in the Trent valley, also suggests the possibility that specialist artisans may have chosen or were compelled to work for new Scandinavian patrons in the same region 66. The occurrence of significant quantities of craftworking evidence indicated on the apparent overwintering site also raise questions concerning the longevity of this temporary settlement for craftworking activity - it may have continued for significantly longer than the presence of any army, and the production of ‘Torksey ware’ wheel-thrown pottery began in the later ninth century, on the site of the medieval town of Torksey 67. This suggests the possibility that some artisans moved from the island site to the vicinity of the later town in the mid to late ninth century. In western Britain, there was a greater picture of continuous use of the same production and trading sites through the ninth century, although the identity of the traders may have changed. For example, the stratified evidence of salt production at Upwich, in the vicinity of Droitwich, and the presence of coinage of Alfred the Great of Wessex, struck in the 880s, indicates continued and uninterrupted production and distribution of salt in the western regions of the Anglo-Saxon kingdom of Wessex, both within estate networks and by trade between specialist producers and customers, once any estate rent or taxation-in-kind had been paid 68. Currently, however, there is insufficient excavation at Droitwich to base any conclusions on the nature of the ‘salt em- LOVELUCK 2007, pp. 154-155. HADLEY, RICHARDS 2013, pp. 12-19. 67 BARLEY 1964, pp. 171 and 186-187. porium’ at this time. On the coast of northwest England, diagnostic Scandinavian and ‘Hiberno-Norse’ dress accessories and artefacts, such as drinking horn mounts, fragments of balances for bullion-related exchange and weapons were deposited at the long-established beach-trading site at Meols (Wirral), suggesting some significant continuity of exchange networks with Hiberno-Norse Ireland 69. By the late ninth century, however, one phenomenon is consistent across Britain: the hugely diminished access of rural settlement hierarchies to foreign luxury goods. By the early tenth century, the places where foreign goods could be procured were the growing AngloScandinavian port-towns of eastern England, and the principal port of southern England - London. During the first half of the tenth century, especially in Scandinavian-influenced England, these port-towns became the hubs for specialist craft production and trade with foreign merchants. These occurrences coincided with a diminished presence of specialist artisans at centres in the rural world - specialist artisans had moved to the newly emerging river-port towns of the Danelaw and the kingdom of York, the principal residences of Anglo-Scandinavian elites and patrons. Indeed, the trends in the changing locations of specialist artisans through the ninth and into the tenth century suggest significant artisan and merchant initiative in response to new sociopolitical and economic circumstances, searching out new patrons, and stability and protection for their families, potentially with little regard for ethnic or ‘state’ allegiances. For example, a significant number of the moneyers who struck coinage for the Scandinavian kings of York, between c. AD 927 and AD 954, had Old German and Old French names, suggesting that they had travelled from the Continent to work for new patrons, probably voluntarily 70. From the early to mid tenth century, artisans of major port towns, and increasingly urban ‘burh’ shire centres too, produced finished goods for their surrounding regions in a way that had not been the case with most of the earlier emporia. Provisioning of rural hinterlands with goods can be seen clearly in the distribution throughout the East Midlands of England of wheelthrown pottery wares made at Anglo-Scandinavian Lincoln, during the tenth and into the eleventh centuries; 65 68 66 69 70 HURST, HEMINGWAY 1997, p. 27. GRIFFITHS 2007, pp. 62-77. BLACKBURN 2004, p. 342. SPECIALIST ARTISANS AND COMMODITY PRODUCERS AS SOCIAL ACTORS IN EARLY MEDIEVAL BRITAIN, C. AD 500-1066 and the distribution of wheel-thrown pottery made at the ‘burh’ shire town of Stafford, which extended throughout the West Midlands to Chester, north Wales and also Dublin, between the early to mid tenth and mid eleventh centuries 71. Other urban centres, throughout eastern England in particular, also produced wheelthrown pottery wares for their regions, such as York, Thetford (Norfolk), and smaller centres such as Torksey and Stamford (Lincolnshire). By the later tenth century, wheelthrown pottery was also produced at Winchester (Hampshire) 72. During the course of the tenth century, and especially from c. AD 950, there is also clear evidence of the upward social mobility of some merchant-artisans, especially in major port-towns. This resulted from a combination of factors: locational choices on behalf of merchants and artisans to site themselves in close proximity to patrons; and more developed governmental structures, with towns as administered regional central places, markets and taxation collection points. Levels of portable wealth and the character of lifestyles and networks at major port centres can be witnessed among the families of goldsmiths, metalworkers, moneyers and other artisans of Coppergate, in York. They used imported materials and objects such as Byzantine or Central Asian silk, in the form of a bonnet and off cuts, and silver dirhem coins, minted in Islamic Central Asia. They also possessed weapons, riding gear (horse-bits, harness, and a silver-inlaid wooden saddle) 73. The bones of two hunting birds, a Goshawk and a smaller Sparrowhawk were also recovered from the Coppergate tenements, including documented prey species, such cranes and other wildfowl 74. This suggests that the merchant-artisans of Coppergate could indulge in pastimes previously the preserve of rural elites. On the west coast of England, however, large port-cities were not as developed during the tenth century. Instead maritime trade was conducted from smaller ports at burh centres such as Chester, and the port that grew at Bristol from the later tenth/early eleventh century, and also via the continued use of beach-trading sites, such as Meols, that had existed throughout the Early Middle Ages 75. It was only by the mid eleventh century that Bristol was established as the major port centre in western Britain, based on REDKNAP 2000, p. 64; VINCE, YOUNG 2009, pp. 398-401; CARVER 2010, p. 92. 72 LOVELUCK 2013, p. 347. 73 OTTAWAY 1992, pp. 698-718; WALTON ROGERS 1997, p. 177; MAINMAN, ROGERS 2004, p. 482. 74 O’CONNOR 2004, pp. 436-438. 565 trade in hides and slaves with Ireland, in particular; and archaeological evidence for the nature of Bristol before the Norman Conquest is still limited 76. Charters from the 960s onwards indicate that some artisans, especially moneyers, goldsmiths and other metalworkers (artificers), and stone masons/engineers, were granted or purchased substantial rural estates, on which they were entitled to hunt, in the vicinity of London, in particular, but also Worcester and other towns. In their ownership of riding gear, weapons and hunting animals, they were probably becoming indistinguishable from many rural aristocrats, especially the thegns - local and regional lords. Indeed, the funnelling of long-distance international exchange through major port-town markets, such as London and York, may well have resulted in leading merchant-artisans having access to more exotic portable wealth and clothing than many rural lords. In the law code clauses of the document known as the Textus Roffensis, written between c. AD 1002 and 1023, in the reigns of either Kings Aethelred the Unready of England or Cnut of Denmark and England, it is noted that if a Freeborn-trader financed and undertook a voyage across the sea three times, he was automatically given the rank of thegn/aristocrat, reflecting increasing merchant-seafarer wealth to finance trading voyages 77. It is no accident, therefore, that from the mid tenth century, we also witness rural aristocrats being given or buying urban town-houses and estates to generate income and gain access to exotica in major port cities 78. From the late tenth century, we see leading merchants, such as the Deorman family of moneyers and spice traders in the port-city of London, becoming rich by combining commerce and royal office; and by the mid eleventh century the family had estates both within London and its rural hinterland 79. By the 1050s, when Edward the Confessor ordered the building of his Romanesque Westminster abbey, he did not put a secular or ecclesiastical aristocrat in charge of its direction. Instead, he placed the direction of the Abbey’s construction under his Church-wright (stone mason), Teinfrith, who possessed a large rural estate at Shepperton (Middlesex) of ‘eight hides’ (i.e. its produce could support at least eight extended families). Teinfrith was sup- 71 GRIFFITHS 2007; GRIFFITHS 2010, pp. 133-135. WATTS, RAHTZ 1985, pp. 185-186; JACKSON 2006, p. 5. 77 WHITELOCK 1955, p. 432. 78 See FLEMING 1993. 79 NIGHTINGALE 1995, pp. 24-37. 75 76 566 CHRISTOPHER LOVELUCK ported in his task by the London merchant ‘burgesses’, Leofsi and Alwine, who were also urban and rural landowners and held the rank of thegn, the lowest level of aristocracy 80. In the fifty years following the Norman Conquest of England in 1066, merchant-artisans of towns who combined their trades with service as royal officials, such as moneyers, were to become even more prominent, also providing some significant continuity of office-holders between the Late Anglo-Saxon and early Norman state 81. Concluding remarks This contribution has begun to explore the many questions that need to be asked in regard to how specialist craftworking was organised in early medieval Britain. A particular emphasis has been placed on exploring the actions of specialist artisans and merchants within the context of their family dynamics, and their place within the changing social and settlement hierarchies, between c. AD 500 and 1066. The development of elite patronage and protection and taxation of artisans, specialist traders and their activities has been viewed as a strategy of mutual benefit and alliance between elites and specialists. Elite patronage and protection was a risk management strategy for artisan-traders to protect the most vulnerable members of their families – the women, the old and the children – while a significant proportion of the adult men of households were away from their home settlements. Foundation of emporia specialist production and trading ports in the later seventh century can also be viewed as an initial communal protection strategy by specialist artisans and river - and maritime traders, who actively sought protection from royal authorities and were prepared to accept taxation as the price of greater security. Mutual benefit is indicated in the lifestyles of emporia households, in terms of their ability to accumulate portable wealth, even though they were taxed; and co-operation with royal power is also reflected by their service in royal armies. Dynamic responses to changing socio-political circumstances are also suggested on the part of merchantartisan families in their search for new patrons in the later ninth and early tenth century, independent of any ethnic affiliation. By the mid to late tenth century some 80 81 GEM 2009, pp. 168-172. CAMPBELL 2009, p. 30. merchant-artisans usually ‘burgesses’/citizens of major towns, had gained social status to match their possession of portable wealth. Again, this was usually achieved through alliance with ruling elites, by holding royal offices in addition to commercial activities. Indeed, by the eleventh century, leading merchant-artisans were becoming indistinguishable from the lower aristocracy, as they possessed rural estates in the ‘countryside’ in addition to their urban residences, and indulged in lifestyles of consumption and display using the same social practices as the landed elites. 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How did the balance between them change, and why did this happen?’ In a long term perspective medieval England seems to have been less urbanized than its continental neighbours. Only London can be compared with the great continental cities, and it is only by taking into account England’s large number of small towns (with populations below 2000 in the later middle ages) that England can be rated as a society with a strong urban sector 1. This urban element was slow to develop, as by 1100 only a hundred places had a claim to be regarded as towns. Yet in the nineteenth century Britain (as it had become) can be regarded as intensively urban, with a majority of its population living in large cities. This was associated with the industrial revolution, in which Britain led the world in mechanization of industry, factories, transport, marketing and the exploitation of an overseas empire. Urban and industrial growth were not always closely linked in eighteenth – and nineteenth – century Britain, when much industry was located in the countryside. In our own post-industrial age, the early textile factories and iron forges have become tourist attractions, and we enjoy visiting these memorials of an industrial past in beautiful rural settings. In the middle ages also England’s industries grew in both town and country, and it is the complex interaction between these alternative locations of production that will be treated here. Firstly to set the scene, the phases of urbanization of manufacture between the tenth and the thirteenth centuries will be traced, followed by the late medieval growth of rural 1 PALLISER 2000, pp. 3-4; DYER 2002, pp. 1-24. industry. Then the main substance of the paper will consist of an analysis of why industries grew in different environments: what were the attractions of towns for manufacturers? What advantages did rural producers enjoy? The concluding section will emphasize the interdependence of town and country and discuss the role of the consumer. Industry in town and country: change over time This contribution begins after the demise of the wics or emporia, that is the urban settlements such as Hamwic and Lundenwic in which many crafts were practised in dense settlements with wide trading links. These settlements declined in the ninth century, and new towns grew on sites which would become some of the major urban centres of medieval and modern times: London, Winchester, York, Lincoln, Norwich and many others. The precise chronology of the expansion of these urban settlements within the period 900 to 1300 is not known, with some scholars seeing growth in the tenth century, and others emphasizing the eleventh 2. Everyone recognizes the rapid expansion of the thirteenth century, when London reached 80,000-100,000, and at least 200 new towns were founded. Possibly a million people (out of a national total of 5-6 million) were living in towns, large and small, in c. 1300. Many of these people were making things, at least for part of their working lives, or as part-time workers. When we can list the occupations recorded for individuals involved in property transactions or holding land or a house, we gain some idea of the proportion of different crafts and 2 ASTILL 2000, pp. 34-49. 572 CHRISTOPHER DYER horners and leather workers. Large numbers of goat horn cores for example are the Agriculture 1 clues that shoemakers were Food and drink 20 Cloth/wool 15 using goat skins, some of Clothing 9 which came ultimately from Leather 15 Cordova in Spain 3. Offcuts Metal 6 and other discarded pieces of Building 8 Mercantile 3 leather from waterlogged deClerical/Administrative 18 posits reveal the presence of Miscellaneous 5 shoemakers and those makTOTAL 100 ing knife sheaths and saddles. Pieces of cut and carved bone Notes: the Coventry list includes woodworkers in the ‘artisan’ category, and ‘textiles’ includes those show that bone knife handles who made clothing (Sources: KEENE 1985, pp. 352-365; GODDARD 2004, p. 161). and other artefacts such as Table 1. - Analysis of occupations (percentages) in two large towns, based on a variety of records, combs were being manufacmainly deeds conveying urban property. tured, though these specialists are scarcely recorded in doctrades (table 1). In the case of Winchester and the uments. And so we could continue through the metalsmaller city of Coventry three-quarters of those with working residues, the slag, hammer scale, crucible recorded occupations were involved in a variety of manfragments, splashes from once molten metal, the moulds ufactures. The sample of people with named occupaused by those casting bells, cooking pots and belt bucktions is of course biased towards the better off – those les from copper alloy. Less frequently encountered eviwith property, which suggests that an even higher prodence, but especially valuable, comes from the excavated portion of the people as a whole gained their living in hearths, forges, kilns and workshops which can be idensome form of industry. The workers were specialized tified as the sites of industrial processes. Comparison bein the sense that each was described in specific terms, tween rural and urban finds can tell us something of the with each branch of clothmaking, for example, carefully migration of industries from country to town. Finds of distinguished among weavers, fullers, dyers, shearmen loom weights show that vertical looms were working in and so on, but each town contained a mixture of trades the countryside prior to the growth of towns 4. They disand can only be described as having an unspecialized appear from rural sites, but do not form a major element economy. Usually the largest group were those preparamong urban finds because the move of cloth making ing and selling food and drink, such as bakers, brewers into the towns was accompanied by the adoption of the and butchers, which in our two examples account for horizontal loom, the wooden frame of which rarely sur20-21% of the total, but other groups of artisans each vives. Documents reveal urban clothmaking by recordamounted to between 5 and 15%. One might expect in ing weavers’ guilds in the twelfth century; purchases by view of the importance of clothmaking, and its labour the royal household of cloth from Lincoln, Gloucester, requirements, that workers in the textile trades would Bristol and other towns; the appearance of cloths called account for a high proportion of craftsmen and women ‘Lincolns’ or ‘Northamptons’ on the continent in the in both Coventry and Winchester, but they accounted thirteenth century; and references to various types of for no more than 15% of the recorded occupations. cloth merchant 5. The archaeological evidence reflects the variety and The most striking evidence comes as usual from ceintensity of craft activities in towns because of the acramics. Small-scale pottery making, using unsophisticumulations of detritus from industrial production - rubcated technology was widespread in the countryside bish pits and middens contain the discarded bones and before the ninth century. After 850 towns such as Thethorn cores which reveal the former presence of butchers, ford, Leicester and Stamford, and even in the west at Winchester (Hampshire), occupations recorded before 1300 (N = 197) 3 4 NODDLE 1985, pp. 84-94. KEENE 1990, pp. 203-207. Coventry (Warwickshire), occupations recorded 1200-1299 (N = 628) Food and drink 21 Textiles 15 Leather and fur 12 Metal 15 Building 4 Distributive 5 Religion/Administrative 11 Service 9 Artisans 8 TOTAL 100 5 MILLER, HATCHER 1995, pp. 93-127. THE URBANIZATION AND DE-URBANIZATION OF INDUSTRIAL PRODUCTION IN ENGLAND, 900-1500 573 Stafford, were making high quality pots, which were wheel made and fired in a kiln. Stamford ware represents a complete break from tradition, as it was well made and colourfully glazed, apparently as the result of a transfer of technology from the continent 6. Small copper alloy artefacts were being made on rural sites such as the high status residence at Faccombe/Netherton in Hampshire in the tenth century, but in the towns came mass production of metal work, well represented by the crucibles, slag and other copper working residues from the densely settled urban site at Coppergate in York 7. A high volume fishing industry developed around 1000, stimulated by demand from a growing urban population. Eleventh-century fish processing in towns is visible in the archaeological evidence, and a trade in preserved fish can be assumed from documents relating to such towns as Dunwich (Suffolk) in the same period 8. Rural archaeology reveals the connections forged between town and country when industry was urbanized. The distinctive type of pottery known as Thetford ware is found throughout the county of Norfolk, at more than a thousand find spots 9. Stamford ware is spread over a large area of the east midlands. Some of the largest towns of the tenth and eleventh centuries lay in East Anglia, and were connected to a dense rural population, some of whom enjoyed considerable prosperity. Numerous pieces of metalwork, such as the fittings and ornaments once attached to belts, are now found in quantity by metal detectorists in fields which were also used as agricultural land in the early middle ages 10. These artefacts were of urban manufacture, and then traded into the country; after use by peasants they were incorporated in the middens containing household rubbish, and spread on the fields in cartloads of manure. Not all industries were concentrated in towns. Of course many minerals were only available at specific rural locations, and the metal ores (iron, lead and tin) were dug out of the ground by country people and often smelted near the mines. Limestone was also extracted in convenient rural locations, in order to be burnt to make lime, and salt was made by evaporating sea water. Sources of energy such as coal and turf (peat) were extracted, sometimes in quite remote rural locations, to use in these processes. The fuel was also carried to towns, preferably by water as that form of transport was cheaper. It was burnt in domestic fires, but a major use was in urban crafts such as metal working. Building stone came from rural quarries, though masons who were based in towns might on occasion travel to the sources of the stone to cut and prepare it for the building. Crafts could be placed conveniently near to the rural consumers, for example in the case of bakers and brewers, who plied their trades in both town and country. A scatter of smiths served rural customers who needed the convenience of having their horses shod and their implements repaired near to their villages. Even during the process of urbanization, some industries were growing in the country. Rural potters are recorded in Domesday Book (1086), and they proliferated in the twelfth and thirteenth centuries. Nonetheless as towns became more numerous and populous, a high proportion of their inhabitants worked in industries. While their richest inhabitants, merchants, distributed goods rather than making them, and in many towns such as Winchester clergy, administrators, and those employed in the service sectors accounted for a sizeable and very influential proportion of the town dwellers, participation in crafts gave most people a living (table 1). Even in the capital, where trading, administrative and service employment were most developed, industry still gave employment to 60% of the population in the later middle ages, and the proportion is unlikely to have been any smaller before 1300 11. The mass of artefacts found in rubbish dumps in excavations along the Thames waterfront from the high and later middle ages included many metal, leather, wooden and bone objects made by Londoners working within 2km of the place where they were deposited. The opposite trend, the de-urbanization of industry as it is called in my title, can be observed at the same time as the later phases of urban growth. In reviewing the history of urban clothmaking reference has already been made to the types of English cloth which were identified by continental merchants by their place of manufacture, such as ‘Lincolns’. These ‘brands’ were fading in importance even in the late thirteenth century, and disappear from view on the continent in the early four- BLINKHORN 2013; CARVER 2010, pp. 76-93. FAIRBROTHER 1990, pp. 244-272; BAYLEY 1992, pp. 746-818. 8 DARBY 1977, p. 285; BARRETT 1997; BARRETT, LOCKER, ROBERTS 2004; ORTON, MORRIS, LOCKER et alii 2014. 9 Information from the Norfolk Historic Environment Record (Alice Cattermole). 10 THOMAS 2000, pp. 237-255. 11 BARRON 2004, pp. 64-76. 6 7 574 CHRISTOPHER DYER teenth 12. Urban clothmaking did not cease, as the large home market for textiles continued to be supplied by English-made cloth, much of it woven and finished in towns. Salisbury was known consistently through the whole late medieval period as a textile centre, and newcomers to the craft, notably Colchester and Coventry, expanded in the fourteenth century only to fade in the late fifteenth and sixteenth 13. The dissemination of the rural cloth industry can be traced by plotting references to fulling mills, the first of which appear in the second half of the twelfth century, and which were through the following century spread over the whole country. They appear more often in the western regions, which encouraged historians in the past to suggest that clothmaking as a whole was attracted to hilly areas where the water flowed swiftly and could be harnessed to power the mills. Now more fulling mills have been identified in the east, such as in the county of Suffolk 14. Fulling, though visible because it required investment in machinery, cannot be regarded as the most important part of the clothmaking process. Some types of cloth, such as worsted, did not require fulling; the process could be done by hand or foot in the traditional way; only woollen cloth was fulled, which makes the important linen industry more difficult to find in the records. Finally our source of information is provided by the records made by and for the lords of landed estates, as often the lords built the mills in order to profit from the tolls that clothmakers paid for using the machinery. Many of the mills yielded modest sums, suggesting that lords with unprofitable manors sought to increase their revenues wherever possible, even if the rewards were meagre. Another factor that deprived them of profit was the frequent evasion of toll payment by the clothmakers. Some fulling mills were built not by lords but by enterprising cloth makers and middle men, and these tend to escape mention in the documents 15. The mills and their profits are therefore an imperfect guide to the most industrialized areas, or the output of cloth. Despite these problems of interpreting evidence, if the information about fulling mills is assembled, together with references to artisans pursuing occupations such as weaving; records of the digging of fullers’ earth; lists of possessions which include implements used in tex- tile working; and lengths of cloth apparently intended for sale; the spread of clothmaking can be traced over a number of regions. Towards the end of the middle ages the types of cloth were identified by the name of the district in which they were made, and we find ‘westerns’ from Wiltshire and Somerset, and ‘stroudwaters’ from south Gloucestershire. Clothmaking was associated with villages and hamlets in such districts, but also in small towns such as Coggeshall in Essex and Sudbury in Suffolk. From the second half of the fourteenth century English country cloth was being exported to the continent, and in the following century it was being sold in great quantities to consumers from the Baltic to the Mediterranean. Pottery making was growing in the countryside from the late eleventh century, but especially in the late twelfth and thirteenth centuries. Pots were still being made in towns, such as Stamford, Coventry, Ely and Nottingham, but their output was overshadowed by the groups of country potters who established themselves in villages and hamlets throughout the country. Their place of manufacture can be precisely identified by geological analysis of the fabrics, and this scientific evidence can often be matched by documentary references to potters or rents paid for access to fuel or clay. The wares are now known to archaeologists by the names of the settlements or districts in which the kilns were located: Grimston ware in west Norfolk, Staxton ware in east Yorkshire, Minety ware in north Wiltshire, Chilvers Coton ware in north Warwickshire, and ‘Malvernian’ pottery in Worcestershire are among dozens of types of pottery named after rural manufacturing centres found throughout England 16. These potteries enjoyed no monopoly in their region, and judging from the mixture of sherds from three or four different kilns found in rural settlements the potters were competing with one another. They satisfied the needs of the rural consumers, but were also traded in towns, so that even in a town with its own pottery industry, such as Coventry, most of the pots found in excavations came from the country. Other industries based in the country could include the tanning of leather, and the ‘tawing’ of skins such as those of sheep, dogs and rabbits. Such industries are also found in towns, or rather on their outskirts, and often there was much movement of skins and leather back and 12 14 13 15 MUNRO 1997, pp. 116-119. BRITNELL 1986, pp. 54-85, 163-189; GODDARD 2004, pp. 223-233. 16 HOLT 1988, pp. 152-158; BAILEY 2009, pp. 13-20. LANGDON 2004, pp. 218-221. MCCARTHY, BROOKS 1988, pp. 73-76. THE URBANIZATION AND DE-URBANIZATION OF INDUSTRIAL PRODUCTION IN ENGLAND, 900-1500 forth between country and town. The raw hides were carried from the butchers’ shambles in the towns to the country tanners, and the treated leather went back to supply the shoemakers and others 17. Similarly building materials and building workers often originated in the country, but travelled to both urban and rural building sites. Historians of the medieval and early modern periods often speculate about the numbers of people who were pursuing occupations outside agriculture. A high figure for non-agrarian workers – such as one in excess of 30%, would suggest levels of agricultural productivity sufficient to feed a considerable number who were not involved in cultivation, as well as the peasant producers themselves. A high proportion of artisans, traders, professionals and others engaged in ‘secondary’ or ‘tertiary’ occupations was a sign of a more complex and sophisticated economy 18. In late medieval England (specifically in the period 1380-1525) in the more dynamic counties such as Suffolk the proportion of town dwellers exceeded 20% and even 25%, and adding industrial workers in the countryside would raise the total to a third or more. In counties such as Leicestershire where the rural economy was based on cereal cultivation the urban percentage was quite low and rural crafts few, so the nonagrarian total would have been below 20%. The national percentage of those employed mainly outside agriculture could well have exceeded 30%. Such calculations cannot take into account the part-time nature of much industrial employment, which was often concentrated in particular seasons, or which filled the gaps in the agrarian routine. We always count the occupations of adult male heads of households because they were most commonly recorded, but whole families were not always following the same trade. Many women had their own part-time occupations such as spinning, brewing and cheese making, and some worked more continuously in a separate trade, in cloth making for example 19. Why were industries located in towns? Towns were nodal points in the economy in which people and wealth were concentrated. They were densely populated, and the labour force was constantly replenished by migrants from the countryside, or even KOWALESKI 1995, pp. 300-307. WRIGLEY 2002, pp. 225-228. 19 MCINTOSH 2005, pp. 123-124, 145-150, 190-202, 210-225. 575 from overseas. Towns had developed infrastructures to facilitate trade and industry. Houses had sufficient space, either within the main structure or in back yards, for storage of materials and for workshops. Market places, fair grounds, stalls and selds (rows of shops) enabled trade to be conducted conveniently and efficiently. Every town was served by roads radiating in a number of directions, and if possible access to water transport. They were often sited near to important sources of raw materials, such as the coal mines that gave Newcastleon-Tyne much prosperity, or the lead mines which benefited towns in Derbyshire such as Wirksworth. Many towns had a large area of woodland close by, mainly as a source of fuel but also for timber for building and industries such as making barrels or carts. A few towns could obtain raw materials near their centres, such as Droitwich’s brine wells, on which the town’s dominant industry of salt-making depended 20. The limestone quarries under and around Walsall, together with an abundant supply of nearby coal, helped to make the town a regional centre for lime burning 21. At Crawley in Sussex iron ore was mined very near the town, and was then smelted in furnaces within a short distance of the main street 22. In towns capital could be obtained in order to finance industrial buildings and equipment, but more important (because much of medieval industry did not require large amounts of capital) towns were often the homes of entrepreneurs and middlemen, who could coordinate the activities of workers (such as the different processes in cloth making), and connect the artisans to the markets for their products. These traders are difficult to identify, though the use of the occupational name of ‘monger’ sometimes helps - an ‘ironmonger’ bought bars of iron, both imported and produced in England, and sold them to smiths, and a woolmonger, also called a woolman or ‘brogger’ bought wool at market or from the owners of sheep flocks, and sold it to other traders or to those making cloth. Sometimes people bearing an occupational description which suggests that they worked as artisans were also dealing in raw materials. A baker might buy and sell grain for example, or a shoemaker would buy more leather than was needed for his own workshop and sell to other shoemakers. For those manufactures which were intended for trade over long HURST 1997, pp. 1-4, 32-43. WRATHMELL, WRATHMELL 1981-1982, pp. 103, 105. 22 HAMMOND 2011. 17 20 18 21 576 CHRISTOPHER DYER distances, or overseas, the merchants with the expertise, contacts and capital needed for long distance trade were based in the larger towns. Large quantities of tin were mined and smelted in Devon and Cornwall, but it was London merchants who funded the extraction process and transferred the metal to London. In London also pewterers made vessels that continental and English merchants sold abroad. In short the merchants applied their economic muscle to dominate both tin mining and the trade in pewter 23. Towns were also a source of social capital, containing networks of people who could trade with each other, form partnerships, or share craft work. Although it is rarely revealed explicitly, we are aware that building work would often be coordinated by a mason or carpenter, who would know the various specialists who could be brought in to do the roofs or the glazing or plumbing. Towns were also centres of skill and training. Here whether through formal apprenticeships, or more often by acquiring skills and experience in a period of service (‘learning on the job’ as we would now say) a pool of useful trained workers was available. Various types of school gave a section of the workforce the ability to read and sometimes write in English, and to keep financial records 24. Towns could be promoters of innovation, having the external contacts to pick up ideas, and providing the environment in which new methods could be applied. A striking example of this has already been mentioned, which was the revolution in ceramics at Stamford in Lincolnshire around 900 which appears to have resulted from the migration to the town of a potter from Huy (in modern Belgium) who brought with him methods of glazing and firing which produced a very superior ware. In a later period as a result of contacts between mariners and shipwrights in northern Europe and the Mediterranean, ships were designed with two or three masts, lateen sails, and carvel built hulls, making them more manoeuvrable but above all better able to make headway against unfavourable winds 25. In clothing and shoes artisans were faced with constant advances in fashion, though archaeological studies of shoes in provincial towns report variations in willingness to adapt. Sometimes fashions in footware can be shown to have been changing in line with ‘the London look’ in the fourteenth HATCHER 1977, pp. 43-88, 104-110. PARKES 1991; BRITNELL 1997, pp. 6-7. 25 KILMURRY 1980; FRIEL 1995, pp. 157-180. 26 FLETCHER, MOULD 2010, pp. 141-152. and fifteenth centuries, while the shoemakers of Peterborough in the midlands were slower to adopt new styles 26. In a large town in which a number of workers were producing similar goods the consumer could expect that quality would be maintained, sometimes because of systems of inspection, and through marking of items (knives and pewter for example) so that any shoddy workmanship could be traced back to individuals. In such towns there was more chance that workers in crafts served some form of apprenticeship. Town authorities would take an interest in keeping standards high, as certain commodities would be associated with a particular town, compelling the leading townspeople in Bristol in 1407 to regulate the dyeing of cloth, lest the reputation of the town’s textiles be tarnished 27. One might expect the same sort of concerns among the leading figures in small towns which had a distinctive product that carried the name of the place of manufacture, such as the knives made in the small Essex town of Thaxted 28. One should add that there were practical and cost advantages in having the various branches of a manufacturing process living in close proximity. Cloth, once woven, could be transferred to the fullers and then the dyers who would be living and working within a few yards of one another. At the end of the process the drapers and clothiers living nearby would be taking the cloth for sale. A final point is to emphasize the role of the larger towns in the luxury trades. The archaeological evidence from the early middle ages shows traces in towns of high quality metal working, including the use of precious metals, and the making of glass vessels and window glass. In the later middle ages a single goldsmith is recorded in a number of small market towns, but it was the larger centres that provided a living for artisans who were clearly catering for a wealthy elite 29. Goldsmiths, whose main trade must have been making silver plate, and the armourers and furbishers, both of which crafts manufactured, sold and maintained protective armour would have been patronized by the aristocracy. Churches and clergy had the money to buy the products of those who cast bells and made organs, both of whom are found only in large towns 30. Building workers who specialized in skills most often used for 23 27 24 28 29 30 BICKLEY 1900, II, pp. 81-89. KEENE 1995, pp. 234-235. DYER 2011, pp. 217-238. LAUGHTON, JONES, DYER 2001, pp. 337, 344-345. THE URBANIZATION AND DE-URBANIZATION OF INDUSTRIAL PRODUCTION IN ENGLAND, 900-1500 churches, castles and the houses of the wealthy – glaziers and plumbers – are most frequently encountered in the larger centres. Some products, notably cooking pots cast from copper alloy, were bought by all sections of society, but these expensive items were purchased so infrequently by ordinary households that only the extended hinterlands of the major towns and cities generated enough demand to keep a foundry in business 31. Only the aristocracy, clergy and wealthier townsmen were able to afford commemoration on a brass plate incised with an image of the dead person fixed to a specially prepared slab of high quality stone. The ‘marblers’ who created these monuments in the fourteenth and fifteenth centuries were concentrated in London, but could also be found in such major provincial towns as Norwich and Coventry 32. Some makers of clothing, fur linings and leather work, such as tailors, skinners and saddlers, might have supplied people at all social levels, but the specialized, high quality and expensive products aimed at the wealthy were no doubt made by those members of these crafts who operated from bases in London and the greater regional towns. This concentration of luxury trades reflected the tendency of the better-off consumers to satisfy all of their requirements in large towns. There was also a close relationship between those making expensive consumer items and the use of imported raw materials, such as metals (silver and copper) and furs which came though the major ports, notably London. The advantages of rural industry We should not idealize towns or exaggerate the advantages that they offered to those working in industry. Towns could be restrictive places, with oppressive oligarchic governments. Inspections systems could be used, not to protect the consumer but to advance the interests of the merchants. Each craft could become entrenched in protecting its own interests, and quarrelled with the people who could have been helpful collaborators. Attempts were made for example to stop shoe makers tanning leather 33. Far from being centres generating new ideas, towns were full of vested interests resisting changes which they regarded as threats. The decline of urban clothmaking around 1300 may have 31 32 DALWOOD, EDWARDS 2004, pp. 105-110. NORRIS 1977, I, pp. 132-153, 177-195. 577 been the result of a failure to make changes in design and quality to meet consumer demand. Towns were expensive places to live, as townspeople had to pay high rents, taxes and tolls, and charges for basic services such as a water supply, and this meant that labour costs drove up the prices of town manufactures. The argument that privileged towns enjoyed a freedom which encouraged enterprise is therefore unconvincing. Lords exercised power over their rural tenants, through the institutions of serfdom, customary tenure, and rights of jurisdiction, but that did not mean that they prevented their peasants from participating in industry. A potting industry was recorded in 1234 in the hamlet of Crockerton on the manor of Longbridge Deverill on the estate of a strong lord, the Benedictine monastery of Glastonbury Abbey. The Abbey allowed the potters to work, and have access to clay and fuel, provided that they paid for the privilege: a list of rents from 13 tenants for taking clay totalled 3s. 10d., and charges for wood fuel came to 6s. 3½d., making 9d. per potter 34. This was a nuisance for the potters to pay, but did not prevent them from working. Artisans based in towns would have paid much more for their materials. In general lords did not discourage industrial growth among their tenants, and hoped to make some profit from it. They built fulling mills, not in order to initiate and promote new clothmaking industries, but because they saw weaving going on among the villagers on their estates, and hoped to make money from the charges paid to use the mill. Rural society was capable of providing a flexible work force, consisting of many smallholding peasants who needed to gain income outside agriculture. They had spare time because cultivating a holding containing less than 2 hectares occupied the peasant family for only a few weeks of work each year, and its produce was not enough to feed a family. In districts with a concentration of smallholders there was insufficient paid agricultural work from better-off peasants and lords’ demesnes, which compelled the workers to seek employment in crafts and trades. In those parts of the country where pastoralism played a large part in the economy – in the woodlands and on the hills – even less time was needed for agriculture, as cultivation, and especially the harvest, required more labour than rearing animals. Historians of early industry have said that the work- 33 34 SWANSON 1989, pp. 53-58. LE PATOUREL 1968, pp. 105, 123. 578 CHRISTOPHER DYER ers pursued ‘dual occupations’ as peasants combined agriculture with weaving or mining or smelting metals. A better way of describing complex patterns of employment might be to adapt a French word and talk of ‘pluriactivity’ as a peasant with 2 ha. might grow crops and work as a carpenter, while his wife brewed and sold ale, and span yarn for clothmaking, and both would take time in August to work in the harvest fields to take advantage of the high rate of pay prevailing in that month. Production in the countryside followed the rhythm of the seasons, with agricultural work predominant at spring ploughing, haymaking and harvest, while craft work would reach its peak in the early summer. In the right season, workers living in the country, who in some circumstances were very anxious to gain work to fill gaps in their household budgets, and among whom women and children figured prominently, would have cost less to hire than their urban equivalents. The rural environment could give convenient access to materials and fuel. In woodland landscapes, such as south Staffordshire, artisans could obtain lime bark for rope making, oak bark for tanning, and quartz for making glass. In that region, and others, wood fuel could be obtained in plenty, charcoal was burnt, and in certain localities mineral coal could be extracted. Take a list of those offending against laws protecting the woods in the Forest of Cannock (also in south Staffordshire) in 1286, when surnames are a guide to occupation, and we find Smith, Turner (who made cups and plates from wood), Cooper (who made barrels), Carpenter and Bloomer (iron smelter) 35. A country location was more likely to have access to streams with a strong flow of water suitable for mills, which were applied to a number of processes, most often to fulling but also to operating bellows in smelting metal and in working hammers in iron forges. Water power was applied to an iron works at Bordesley in woodlands of north Worcestershire as the result of investment from the thirteenth century by the nearby Cistercian abbey. The mill and its associated structures were presumably leased to an enterprising smith whose output covered a wide range of products, including weapons but also iron tenter hooks needed in the finishing process of woollen cloth 36. Urban industries were often constrained by a lack of 35 BIRRELL 1969, pp. 93-96; HATCHER 1993, pp. 149-152; WELCH 1997, pp. 2-4; BIRRELL 1999, pp. 139-177. 36 ASTILL 1993. 37 DRAPER 2010, pp. 55-77. space, which was not such a problem in the countryside. The shores of the Thames estuary, from Greenwich in the vicinity of London to the Medway and the Isle of Sheppey km 60 to the east, were used for ship and boat building, where the water front was available for the assembly work, nearby woods supplied the timber, and iron could be readily supplied from the wooded Weald district to the south 37. Tanners tended to locate their extensive lines of pits on the outskirts of towns, where they could find spare land and access to running water, but the smells and pollution provoked complaints from their fellow townsmen. In the country they were less likely to face a succession of fines from the local court, and could obtain easily the bark which was essential for the tanning process 38. The availability of space had an economic dimension, because those wishing to develop a piece of land for such purposes as ship building or tanning would pay a lower rent than would have been the case in or near to a town. In some cases, on the moorlands of Cornwall and Devon where tin mines and works were sited, the tinners were allowed without cost to occupy the land and to damage the landscape with heaps of debris 39. Perhaps rural industries suffered from their remoteness and distance from markets? This was not just a question of obtaining materials which were not available locally, such as the chemicals for dyeing cloth, or of transporting goods for sale. There was also a potential problem that country craftsmen would be cut off from news of trends in consumer preferences and even fashion. There is little support for this view. Records from Southampton in the fifteenth century show that cartloads of imported raw materials for clothmakers, such as oil, alum and woad, were regularly carried not just to the textile towns such as Salisbury, but also to trading centres from which the barrels and bales could have been distributed to the country places of manufacture, such as in east Somerset and the Stroud valley in Gloucestershire 40. Country potters, to take an example based on archaeological evidence, seem to have been able to serve a wide area, judging from the finds of pottery from places 50 km from the place where they were made - this was the distance which separated Hanley Castle in Worcestershire from remote villages in central Warwickshire where pieces of the distinctive wares 38 39 40 SEMPLE 2006, pp. 1-25. GERRARD 2000, pp. 60-103. COLEMAN 1960, pp. XXXIV, 126. THE URBANIZATION AND DE-URBANIZATION OF INDUSTRIAL PRODUCTION IN ENGLAND, 900-1500 dating from the thirteenth, fourteenth and fifteenth centuries are found. The Hanley potters had easy access to the boats travelling up and down the river Severn, but much of the pottery that they made, like that of other potting villages located away from navigable waterways, was carried by cart or packhorse over land 41. The road system was capable of linking places at some distance, and even to be able to convey relatively fragile objects like thin-walled cooking pots. The design of pots also changed over time and the potters were aware of the preferences of urban consumers, judging from the plentiful finds from excavations in the town of Oxford of wares made in the rural kilns at Brill and Boarstall in Buckinghamshire. Forms, fabric and decoration changed, presumably with the aim of attracting purchasers 42. The urban drinkers saw the merits of ceramic cups and mugs as replacements for traditional wooden vessels when they were introduced in the fifteenth century, though we do not know (as always) if the innovation was the result of consumer demand, or a clever initiative of the potters. Perhaps the middlemen who traded the pots acted as a channel of communication between producers and consumers. Towns had no monopoly in adopting new techniques: ship building has been cited as an example of novelty in design in the fifteenth century, but many ships were built, as we have seen, at some distance from the towns and major ports. For bulky and heavy commodities location near to water transport gave some industrial sites a strong competitive advantage. There were many potential sources of building stone in the east midlands, but the quarries at Barnack in Northamptonshire were sufficiently near to waterways to enable the stone to be carried in bulk to towns in the region which were also accessible by boat, such as Ely, Bury St Edmunds and Cambridge 43. Interactions between town and country Town and country industries should not be too sharply divided. When industries were functioning on the outskirts of the town, such as the tanning and flax preparation found on the edge of a stream running next to the very small town of Brewood in Staffordshire, the VINCE 1977; HURST 1994. MELLOR 1994, pp. 111-138. 43 ALEXANDER 1995. 44 CIARALDI, CUTTER, DINGWALL et alii 2004. distinction between urban and rural industry becomes blurred 44. Sometimes the town served as the focus of an industrialized rural area, like Bradford-on-Avon in Wiltshire where the clothiers who coordinated textile weaving, lived in the town, but the spinners, weavers and fullers worked mainly in the surrounding villages and hamlets 45. We have already noted the complex relationship in the tanning trade between towns and country producers. The town could exercise strong economic influence over a rural industry. At a local level the Newcastle merchants profited from coal mining near the town by carrying the coal by ship to London and other ports. They created demand for the product, but they did not dominate the industry and invest heavily in the mines until the sixteenth and seventeenth centuries 46. At a longer distance the London mercers were much involved in the linen and worsted weaving that was concentrated in northern Norfolk, and they distributed these specialist textiles over the whole country. Provincial woollen cloth makers found that as the trade expanded in the fifteenth century that merchants attached to the mercers company formed the Merchant Adventurers, which organized the collection of cloth in London, and then its export to the continent 47. Conclusions In this analysis economic causes have been emphasized in explaining the siting of industries in town or country, and the changes from one location to another. Institutional factors have been mentioned with regard to the tendency to monopoly among London merchants in particular. State policy had a role also, but often as an unforeseen consequence of tax policies, which led for example to the expansion of the native English cloth industry (mainly in the countryside) when the tax on wool exports gave English cloth makers an advantage over their continental rivals. Town governments introduced restrictions and imposed taxes which may have discouraged manufacture in the town and given a stimulus to those working in the countryside. English towns, however, had no control over their rural surroundings, and the state was not disposed to intervene directly in 41 42 579 45 46 47 HARE 2011, pp. 182-185. HATCHER 1993, pp. 73-74, 76-77, 473, 474, 509-572. SUTTON 2005, pp. 54-57, 146-150, 239-241, 257-276. 580 CHRISTOPHER DYER economic matters. Attempts at economic legislation, like the sumptuary laws of 1363 and 1463, were ineffective in their professed aim of preventing people of inferior status from wearing clothes reserved for the higher ranks. They were unenforceable, and in the same way a law of 1196 prohibiting dyeing cloth outside towns, and another which attempted to prevent country cloth making in Worcestershire in 1534 seem to have failed 48. Periodic attempts to confine ‘whitetawyers’ (those who treated sheep skins) to towns did not prevent the craft being practised in the country. Although economic factors, such as costs of materials, premises, labour and transport were major considerations in deciding whether a craft was practised in town or country, some attention should be paid to cultural factors. Artisans in the largest towns belonged to guilds which were much more than trade associations, but held social and religious events, and developed a strong sense of group identity. Small towns were sometimes closely associated with a particular craft, and were even known nationally for their specialism, such as Bridport ropes and High Wycombe simnel bread. Attachment to either a craft or an urban community, or both may have helped to perpetuate manufacturing traditions. Factors which introduced instability into some industries were the shifts in consumer demand, which compelled tailors, cloth makers, shoemakers and potters to change their products. As consumers’ incomes increased, so customers exercised their power over the producers. The surge in demand for cheap cloth made in the country and small towns of Devon was not the result of impoverishment, but an increase in demand from less affluent people who had increased their spending power. An ability to respond to shifts in consumption must have played a part in the continued prosperity of some industries. References ALEXANDER 1995 = J. ALEXANDER, Building stone from East Midland quarries: sources, transportation and usage, in MedievA, 39, 1995, pp. 107-135. ASTILL 1993 = G. ASTILL, A medieval industrial complex and its landscape: the metalworking watermills and workshops of Bordesley Abbey, York 1993 (Council for British Archaeology Research Report, 92). ASTILL 2000 = G. 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Al-Andalus, como es conocida la Península Ibérica en los documentos y en la historiografía, es un referente complejo que designa los territorios ibéricos integrados en la Dār al–Islām (la casa del Islam) durante el medievo, reflejados en la peculiar forma de concebir y representar el mundo desde ‘la otra orilla’, que simboliza por ejemplo el famoso mapamundi del geógrafo alIdrīsī, orientado al revés de lo que era usual en el occidente europeo, y que pretende reflejar nuestro título ‘la mirada del otro’. Al-Andalus, cuyo nombre se ha fosilizado en la denominación de la actual Andalucía, es por tanto un referente geopolítico amplio que incluye territorios de las actuales España, Portugal y en su fase más temprana, el sur de Francia. Sus límites territoriales varían y se reducen entre los siglos VIII y XV, mientras sus implicaciones sociales alcanzan los albores del siglo XVII con la expulsión de los ‘moriscos’ (musulTrabajo realizado en el marco del proyecto de investigación HAR2012-34035, Lectura arqueológica del uso social del espacio. Espacios domésticos y vida social entre la Antigüedad y el Medievo, financiado por el Ministerio de Economía y Competitividad. manes forzados a convertirse al cristianismo en el siglo XVI) 1. Desde su irrupción como disciplina académica, la arqueología medieval ibérica ha sido, a diferencia de la del resto de Europa occidental, una arqueología profunda y fundamentalmente islámica, si bien siempre coexistió con una arqueología de los Estados cristianos, tímida al principio y potente en la actualidad, muy implicada en los problemas arqueológicos de la Europa centro septentrional 2. Sin embargo, la sociedad de al-Andalus planteaba problemas históricos muy diferentes a los del resto de la Europa medieval, con excepción quizá de la propia Italia meridional: la hegemonía de lo privado sobre lo público, el predominio de lo urbano, la relación entre el hecho tribal y el estado islámico o las comunidades campesinas como sujetos históricos han centrado la investigación arqueológica sobre al-Andalus. Y entre estas temáticas la percepción de la complejidad productiva y comercial ocupó siempre un lugar central, reforzada por el temprano estudio de las producciones cerámicas, los complejos ciclos edilicios o la circulación monetaria de época islámica. La arqueología permitió intuir, por ejemplo, la magnitud del urbanismo y la producción urbana andalusí en relación a la Europa contemporánea y analizar las relaciones con los territorios rurales, definiendo un panorama social (con obvias implicaciones productivas) muy diferente al del Occidente romano-barbárico. «Un quadro [...] ben diverso rispetto all’urbanesimo arabo, il solo che, per l’età altomedievale, soddisfi la maggior parte dei criteri» en palabras de G.P. Brogiolo 3. La GARCÍA SANJUÁN 2003. GUTIERREZ LLORET 2015. 3 BROGIOLO 2011, p. 25. 1 2 Fig 1. - Córdoba durante el Califato. Actualización de la planta elaborada por Manuel Acién y Antonio Vallejo en ‘Cordoue’, Grandes villes méditerraneéenes du monde musulman médiéval, Rome, Collection de l’École Française de Rome, 269, 2000; gentileza de los autores. magnitud de la espectacular conurbación urbana de la Córdoba califal (el conjunto urbano de Madīna Qurtuba y Madīnat al-Zahrā’) 4 en relación con la propia Corduba romana (capital de la provincia Bética de Hispania), muestra con claridad la perplejidad con la que la discusión sobre el origen de la ciudad medieval – y sobre el nivel de la edilicia pública y residencial de los centros urbanos y rurales altomedievales – era contemplada por los estudiosos de algunos territorios de la Europa mediterránea integrados en la Dār al–Islām desde el altomedievo, como es el caso de al-Andalus; perplejidad extensible seguramente a los investigadores de la Sicilia tardoantigua y altomedieval. Quizá se entienda mejor con un ejemplo gráfico: de la misma forma que Chris Wickham, refiriéndose a la sagaz visión del problema expuesta por Bryan WardPerkins, señaló la dificultad de entendimiento entre los historiadores británicos e italianos a la hora de determinar la condición urbana altomedieval, puesto que unos la materializaban en el emporio de Hamwic y otros en la Roma imperial o incluso en la altomedieval 5, para los estudiosos de al-Andalus muy pocas realidades urbanas altomedievales europeas son comparables a la mayoría de las ciudades andalusíes y ninguna, desde luego, a Córdoba ni durante el Emirato ni, por supuesto, en el Califato Omeya, como tampoco lo será a ninguna ciudad europea durante todo Medievo (salvo quizá Constantinopla) 6. Esta poderosa imagen, quizá hipertrofiada, sugiere que el «rapporto produttivo tra mondo rurale e mondo urbano» en al-Andalus fue muy diferente al del resto de las sociedades medievales coevas, incluida la propia Roma. El reciente estudio arqueológico de los pecios ‘sarracenos’ hundidos en las costas provenzales, en un 4 Conurbación urbana que osciló en torno al siglo X entre 100.000 y un millón de habitantes, según los hiperbólicos datos del censo de Almanzor transmitido por al-Bakri (m 1094); una magnitud poblacional comparable a los ejemplos orientales y atestiguada, al menos en cuanto a la extensión de sus restos por la arqueología de las últimas décadas. ACIÉN ALMANSA, VALLEJO TRIANO 1998; GARCIN 2000; LEON, MURILLO 2014. 5 WICKHAM 2008, p. 842. 6 GUTIÉRREZ LLORET 2014, p. 27. LA MIRADA DEL OTRO: AL-ANDALUS contexto histórico de actividad pirático-comercial temprana vinculada al enclave de Fraxinetum, emprendido en el marco de una estrecha colaboración con Catherine Richarté y el L’Inrap (Institut de recherches archéologiques préventives), sugiere a partir de la homogeneidad de las cargas, una actividad comercial de ámbito mediterráneo (al-Andalus, Ifrīqiya, Sicilia y Liguria, entre otros espacios de contacto) con transporte de mercancías (vino, aceite, lácteos, etc.) y de productos cerámicos y metálicos firmados (artesanos y/o comerciantes; fig. 2), que permiten entrever una complejidad en la organización de la producción artesanal y una regularidad de los circuitos comerciales insospechada en un contexto del siglo X temprano 7, previo quizá al fenómeno amalfitano y a la organización comercial del Califato 8. Estos ejemplos muestran que es necesario abordar el problema de la arqueología de la producción andalusí desde lo que podría ser la conclusión: al-Andalus fue una de las sociedades más poderosas y complejas surgidas en el occidente europeo desde el fin del Imperio romano y su conocimiento (junto con el de la Sicilia y otras regiones del sur de Italia), como señala E. Manzano, es fundamental en un análisis no eurocéntrico del medievo 9. En consecuencia, se pretende caracterizar una sociedad compleja desde el punto de vista productivo, altamente urbanizada y con una intensa interacción campo-ciudad, a más de un artesanado especializado, dependiente a veces del Estado, pero también con un alto grado de autonomía en la organización de los ciclos productivos y los mercados. No obstante, resulta imposible analizar todos los indicadores productivos que se han tratado en el caso de Roma, ni por su propio carácter de ‘central place’ larga y excelentemente investigado, ni por la complejidad que supondría contemplar toda la panoplia de actividades productivas que se dieron en al-Andalus durante más de ocho siglos. Un simple ejemplo, el mapa de dispersión de hornos cerámicos elaborado por A. García y J. Coll 10 demuestra la magnitud y el predominio urbano de la actividad artesanal alfarera, una de las más y mejor documentadas de alAndalus (fig. 3). La elaboración de cartografías de dispersión en al-Andalus de todas las actividades artesanales que se han analizado en el caso de Roma y su entorno, transformarían la península en un inmenso punto oscuro. Un dialogo equilibrado solo podría obtenerse a través de la comparación de Córdoba y Roma como centros productivos, pero no es esa mi intención ni el sentido de la aportación solicitada. Tampoco es fácil ni factible realizar un balance crítico de la arqueología de la producción en al-Andalus o en la Península Ibérica medieval, en tanto que la propia materia no presenta límites conceptuales tan precisos, desarrollos disciplinares consolidados ni ofertas formativas específicas, comparables a las que se plantean en el caso italiano 11. Es cierto que existen enfoques que abordan las técnicas productivas en clave socioeconómica, al igual que en Italia, y que se alinean abiertamente en la perspectiva común de construir una historia de la cultura material, como se aprecia en volúmenes recientes 12, pero el tratamiento de los temas relacionados con la arqueología de la producción en España resulta desigual y heterogéneo, ya que en algunos casos se limita al estudio de las estructuras artesanales, los procedimientos técnicos o la presentación de ejemplos arqueológicos que ilustran procesos productivos, en particular la cerámica 13, el vidrio 14, el metal RICHARTE, GUTIERREZ LLORET 2015. MANZANO MORENO 2013. 9 MANZANO MORENO 2012, p. 21; GUTIÉRREZ LLORET 2015. 10 COLL CONESA, GARCÍA PORRAS 2010. 11 MANNONI, GIANNICHEDDA 1996; GIANNICHEDDA 2014. 12 GARCÍA PORRAS 2013. Reseña de QUIRÓS CASTILLO 2014. Las re- ferencias que a continuación se citan sobre aspectos vinculados a la arqueología de la producción no persiguen la exhaustividad. Son únicamente algunos trabajos escogidos para ilustrar ciertos casos. Los lectores encontrarán en ellos bibliografía extensa sobre estos y otros aspectos. 13 GUTIÉRREZ LLORET 1996a; FERNANDEZ NAVARRO 2008; COLL CONESA 2013. 14 CRESSIER 2000. 7 8 Fig. 2. - Caldero metálico del pecio de Agay A (Joncheray 2007) con el nombre Sa’id ( ) según lectura de M. Antonia Martínez. Fotografía Gutiérrez & Richarté. La singularidad productiva de al-Andalus: temas, problemas, perspectivas 1. En términos generales y sobre todo a partir del siglo X en al-Andalus, nos encontramos ante una producción artesanal con una organización compleja y altamente especializada, que se singulariza incluso en la propia actividad. La firma de artesano o taller se constata en numerosas producciones, algunas altamente especializadas (como la metalistería) con antropónimos Fig. 3. - Distribución de los hornos alfareros en al-Andalus (de Coll Conesa, García Porras 2010, www.arárabes o mozárabes, precequeologiamedieval.com). didos en ocasiones por la y de forma colateral otros temas como la arqueología marca de autoría expresa, tanto en árabe (amal, hecho hidráulica o más recientemente agraria 15. El análisis de por) como en latín (opus) en ciertas obras atribuidas a la metalurgia muestra una importante vitalidad a parartesanos mozárabes, como el candil doble con la instir del estudio de las minas y del reconocimiento reciente cripción Oc opvs Salomonis erat procedente de Madīnat de actividades metalúrgicas en contextos arqueológiIlbira 20. cos 16, mientras que uno de los ámbitos más desarroEsta especialización productiva, propia de talleres llados es, sin duda, el de las técnicas constructivas y ciurbanos próximos al poder, es muy característica de las clos productivos vinculados a la edilicia, en particular producciones procedentes de la Dār al-Sinā’a (Casa de los procedimientos y la organización de los talleres 17. los oficios), es decir, de los talleres califales de Madīnat Por fin y en otro orden de cosas, también existen intentos al-Zahrā’, la nueva capital del Califato Omeya. En este de estudiar las cadenas tecnológicas operativas de ciercaso, llama la atención la aparición de inscripciones tos alimentos, como el pan y el aceite 18. Se aprecia en cursivas interpretadas como ‘firmas’, en ocasiones dogeneral una dificultad para trascender objetos y esbles, en el interior de ataifores (platos) y en menor metructuras en beneficio de un verdadero estudio social dida sobre ciertas formas cerradas, decoradas con la de los procesos de producción y los contextos de contécnica del ‘verde y manganeso’ (fig. 4 y tav. 00) 21. Desumo 19. jando a un lado la discutida existencia de ciertos antroPor ello quiero únicamente destacar algunos temas pónimos femeninos, que M. Ocaña propuso relacionar sustanciales que permiten trazar una visión diacrónica con ‘pintoras cortesanas’ del entorno familiar del califa 22, de la complejidad social de al-Andalus, a través de inel predominio de nombres propios de varón, similares a dicadores arqueológicos que permiten comprender las los documentados en otras producciones de los mismos formas de organización y especialización de la productalleres 23, sugiere que se trata de artesanos de la Dār alción artesanal. Sinā’a y quizá, en el caso de la doble firma, de otros per- CRESSIER 2006; KIRCHNER 2010. CANTO GARCÌA, CRESSIER 2008; GILOTTE, GALTIER 2014. 17 CRESSIER 2004; CABALLERO, UTRERO 2005; CABALLERO 2013; CABALLERO, UTRERO 2012. 18 GUTIÉRREZ LLORET 1996b. 19 QUIRÓS CASTILLO 2014, p. 199. 20 Museo Arqueológico Nacional (Madrid), n. inv. 50.557, datado hacia el 962. PAPI RODES 1998, p. 57; ZOZAYA 2001, p. 195. 15 16 CANO PIEDRA 1996, pp. 36, 124, fig. 64. Sobre el verde y manganeso Le Vert et Le Brun 1995. 22 OCAÑA 1970, p. 35. 23 Quisiera agradecer las observaciones de María Antonia Martínez Núñez sobre esta y otras cuestiones epigráficas, así como las de Antonio Vallejo a propósito de las producciones de la Dār alSinā’a. Sin embargo, solo yo soy responsable de los errores. 21 Fig. 4. - 1-2. Ataifores de Madīnat al-Zahrā’ decorados en verde y manganeso con epigrafía cursiva. Fotografías gentileza de Antonio Vallejo. sonajes implicados en la organización y control de los talleres estatales, donde se producían los objetos suntuarios empleados en la corte y el armamento del ejército. De esta forma, las producciones ‘con nombre propio’ (cerámica, eboraria o metalistería), unidas al traslado de la ceca a Madīnat al-Zahrā’ circa 947, nos hablan de un ambiente técnico centralizado y especializado y nos permiten reconocer – aquí sí – los sujetos históricos, de los procedimientos de organización de la producción ‘palatina’; en otras palabras, reconocer la dimensión social y política de los sistemas productivos directamente controlados por el Estado, más allá de la caracterización de sus producciones o del análisis de su iconografía. No obstante y pese a lo que podría parecer, existen también indicadores materiales que sugieren la existencia de talleres artesanales en contextos aparentemente regionalizados altomedievales. Algunos hornos cerámicos identificados en asentamientos rurales del interior de la Península Ibérica, como Gozquez (Madrid), Arroyo Culebro-La Recoba (Leganés) y Pardo Viejo (Torrejón de la Calzada), en los siglos VII y VIII, denotan en opinión de A. Vigil-Escalera, la labor de especialistas itinerantes (tejeros y alfareros), dedicados a la actividad a tiempo parcial o en ciclos estacionales, que recorrerían el territorio abasteciendo a las comunidades locales en función de demandas concretas. Este tipo de ‘industria doméstica’ explicaría la homogeneidad tipológica y tecnológica que presenta el repertorio cerámico de este período por zonas muy amplias en ausencia de talleres centralizados 24. La especialización artesanal se lee igualmente en las marcas de autoría de El Tolmo de Minateda (Hellín, Albacete), correspondientes a tejeros y alfareros. El primer ejemplo es un fragmento de ímbrice procedente de la habitación septentrional del baptisterio, con un grafito inciso en escritura cursiva visigoda que Isabel Velázquez propone interpretar como el final de un nombre propio antepuesto al inicio de la palabra fecit, que indicaría la producción específica de un artesano o taller del siglo VII 25. Otro ejemplo, aún más significativo, es el de la marca de autoría hallada sobre el cuerpo de un gran contenedor con decoración plástica digitada, procedente de un contexto emiral fechable a partir de mediados del siglo IX. La inscripción permite reconocer el nombre de acción ‘‫( ’عمل‬amal, ‘obra de’) seguido de un nombre de oficio con una falta de ortografía, que puede leerse como ‘obra del tinajero o jarrero’ (fig. 5). Estos datos, aun escasos, nos muestran niveles de especialización y de organización productiva con artigiani full-time, en escalas locales o regionales y ambientes ruralizados. 24 VIGIL-ESCALERA GUIRADO 2007, pp. 273-274; VIGIL-ESCALERA GUIRADO, QUIRÓS CASTILLO 2013, p. 379. 25 CÁNOVAS GUILLÉN 2005, pp. 108-109; GUTIÉRREZ LLORET 2006; GUTIÉRREZ LLORET, CÁNOVAS GUILLÉN 2009, pp. 116-117. 2. En esta misma línea, incluso en ambientes técnicos con cierta complejidad, como es el caso de la edilicia religiosa del siglo VII, se observan procedimientos 588 SONIA GUTIÉRREZ LLORET distintos en las cadenas técnicas operativas 26. Así, en la arquitectura episcopal de El Tolmo se aprecia la coexistencia de una albañilería dominante a pie de obra (mampostería, enlucidos, etc.), con trabajo coordinado de cantera (extracción de lajas sin escuadrar para jambas, muros y sepulturas), reempleo sistemático de obra romana (sillares para esquinales, columnas, basas, etc.) y piezas decorativas ex novo (especialmente canceles y capiteles) elaborados en talleres regionales y adecuados in situ (figg. 6, a-b). Es el caso de los canceles recortados para el cerramiento del baptisterio o el de ciertos capiteles que cuentan con auténticos paralelos en otros enclaves de la zona como la Iglesia de Aljezares. De esta iglesia proceden incluso piezas moduladas sin tallar 27, que sugieren distribución de productos ‘semipreparados’ para ser acabados in situ, en una práctica que indica que se comercializaba un estadio anterior al propio capitel, constatada también en contextos islámicos donde ‘esbozos’ de capiteles y basas dispuestos para su transporte fueron localizados en un pecio nazarí 28. La presencia de capiteles similares en las basílicas de El Tolmo, Algezares y Segobriga, por ejemplo, sugiere la existencia de talleres regionales que pudieron trabajar a pie de obra o distribuir sus elaboraciones con diversos grados de esbozo 29. En época islámica el expolio con finalidad puramente constructiva se sistematiza. El propio caso de El Tolmo permite documentar el expolio sistemático de los grandes ambientes del complejo episcopal (basílica y aula palatina) cuyas columnas y ventanas monolíticas fueron recuperadas como material de obra desde fechas relativamente tempranas (siglo VIII y IX; fig. 7) 30. Sin embargo, un tema de interés que debería comenzar a formar parte de la agenda de investigación de los procesos productivos es precisamente el de quién controla la recuperación de materiales constructivos y cómo se organiza. Los indicios epigráficos romanos, mostrados en este mismo marco por R. Santangeli Valenzani 31, permiten defender que el expolio de los monumentos públicos y privatizados fue una práctica regulada por disposiciones oficiales y gestionada por las clases dominantes mediante concesiones reconocidas. En el caso de al-Andalus estamos lejos de poder plantear el problema en los mismos términos, aunque algunos indicios permiten suponer una gestión mucho más organizada de lo que aparentemente se supone. Más allá de la conocida referencia de al-Rāzī de que Zorita se construyó con las piedras de Recópolis 32, algunos indicios arqueológicos permiten avanzar en esa dirección. Uno de los más interesantes es la inscripción en árabe incisa sobre el fuste de una columna monolítica procedente del palatium de Santa María de Abajo, en el conjunto de la villa de Carranque en Toledo. Recientemente se ha propuesto la lectura ‘l-rujām dī umud l/-bn Abū [sic por Abī] Mslm, cuya traducción sería «Los mármoles estos (son) de Ibn Abī Muslim», seguido de un numeral (3 o 5) en la tercera línea que indicaría el número de columnas 33. Se trata de uno de los pocos ejemplos explícitos que atestiguan la gestión controlada del reempleo constructivo en al-Andalus; el resto son siempre indirectos y Una lectura compleja de la actuación coordinada de varios talleres u oficios en la arquitectura religiosa plenamente altomedieval en CABALLERO, UTRERO 2012. 27 MARTÍNEZ RODRÍGUEZ 1988, p. 208; DOMINGO 2011, n. 127, pp. 139-40, 273. 4 ejemplos de piezas esbozadas sin tallar proceden precisamente de Cola de Zama, en el entorno de El Tolmo de Minateda SELVA INIESTA, MARTINEZ RODRIGUEZ 1991, pp. 119-120, lams. 14.2 a 16.2. CRESSIER 2004, p. 357, fig. 1. GUTIÉRREZ LLORET, SARABIA BAUTISTA 2007, pp. 334-336. 30 SARABIA BAUDISTA 2008; GUTIÉRREZ LLORET 2002. 31 SANTANGELI VALENZANI en este mismo volumen. 32 OLMO 2011, pp. 54-55. 33 RODRIGUEZ MORALES, VIGUERA MOLINS 2014, p. 373. Agradezco a Yolanda Peña Cervantes el dato. Sobre el edificio romano GARCÍA-ENTERO, FERNÁNDEZ OCHOA, PEÑA CERVANTES et alii 2014. Fig. 5. - Graffiti sobre contenedor de El Tolmo de Minateda (Hellín siglo IX) con marca de autoría. 26 28 29 LA MIRADA DEL OTRO: AL-ANDALUS 589 en contextos de época taifa, en relación a la dispersión de artesanos y a la voluntad ideológica de emular el poder califal, justificando ideológicamente las dinastías locales. El tema, sabiamente analizado desde una perspectiva ideológica por M. Acién 35, es conocido y solo lo ejemplificaré con un hallazgo reciente: el ataifor de Fadrel, que muestra el uso de patrones legitimadores califales (el poder como ave sobre el caballo) en soportes y técnicas altamente espeA cializadas (cuerda seca total), que viene a unirse al caso de Benetusser (con el ‘príncipe’ bebiendo) ya conocido 36 (fig. 8 y tav. 00). Este aspecto se relaciona con un factor notorio que afecta precisamente a la capacidad de la arqueología de reflejar procesos de homogeneización social y de proyección inconsciente de su ideología en el registro material, en el sentido que le otorgo Acién 37. Desde esta perspectiva, la generalización de ciertos repertorios materiales (formas, técnicas y decoraciones en el caso de la cerámica) a partir del califato, muestra una sociedad islamizada y homogénea, tanto en contextos urbanos B como rurales, que ha asumido la ideFig. 6. - A) Ortofotografía cenital de la cantera altomedieval de El Tolmo de Minateda; B) ología triunfante y participa de una Materiales de construcción utilizados en la edificación del complejo episcopal del Tolmo de Minateda (Hellín, Albacete), siglo VII. organización productiva compleja, en la que con independencia de los diproceden de la información arqueológica del desmontaje. ferentes sistemas productivos y de distribución, los reEs el caso de la importantísima actividad de expolio de pertorios cerámicos son cada vez más homogéneos. la ciudad califal de Madīnat al-Zahrā’, que afectó intensamente al tramo sur de la muralla y a la mezquita allí situada de los siglos XIII al XV. Como se constató en la Un caso paradigmático: formas de producir y consuintervención de 2007-08, los sillares recuperados se dismir la cerámica pusieron de forma ordenada sobre la calzada adyacente Es imposible analizar el problema en toda su compara proceder a su traslado, lo que indica una gestión orplejidad, pero podemos esbozar una síntesis de amplia esganizada de la ‘cantera’ de recuperación 34. cala que muestre las transformaciones significativas y en3. Otro aspecto a tratar es precisamente la difusión de fatice los elementos útiles de comparación, a partir patrones decorativos y saberes técnicos, muy frecuente precisamente de las formas de producir y consumir la ce- 34 35 VALLEJO TRIANO 2009, p. 223. ACIÉN ALMANSA 2001. 36 37 ARMENGOL, DÉLERY, GUICHARD 2013. ACIÉN ALMANSA 1998. Fig. 7. - Transformaciones del complejo episcopal Visigodo de El Tolmo de Minateda (s. VII): usos domésticos y expolio (s. VIII), construcción de un barrio islámico (s. IX). Ejemplos de reutilización de material arquitectónico visigodo en época islámica (capiteles y ventanas). terráneo occidental en el final del mundo antiguo: un ambiente dominado por la regionalización y la crisis del comercio mediterráneo, la creciente tendencia al autoabastecimiento y la simplificación de los procesos productivos, de los que desaparece la especialización y estandarización característica de las producciones romanas precedentes. Por el contrario, se adoptan estrategias productivas domésticas abandonadas desde la prehistoria (denominadas por Peackock «produzione e Fig 8. - Comparativa entre el diseño iconográfico del ataifor de Madinat Ilbira (s. X) en verde y manganeso y la Safa de Fadrell (s. XI-XII) en cuerda seca total. Fotografía gentileza de Pau Armengol. industria domestica» respecArmengol, Délery, Guichard 2013, p. 34. tivamente) 38, caracterizadas rámica. La atención a los procesos tecnológicos y a la orpor formas de elaboración y cocción sencillas, entre las ganización social de la producción ha permitido conceque resurgen con vigor las cerámicas ‘modeladas’, al tiembir el estudio de la cerámica de las sociedades andalusíes po que se simplifica enormemente el repertorio formal, como un indicador privilegiado de los procesos económicos que explican el Medioevo. La conquista islámica se ins38 PEACOCK 1997 (Household Production, Household Industry; cribe en un contexto productivo común al resto del MediPEACOCK 1982). LA MIRADA DEL OTRO: AL-ANDALUS y se generalizan pautas de distribución y consumo locales y regionales. Sobreviven formas sencillas y prácticas en las que se refleja una marcada continuidad, como las ollas y cazuelas altas que parecen inspirarse en la cerámica de cocina africana (en especial de la forma Hayes 197), los cuencos herederos de las formas romanas de Terra Sigillata Hispánica tardía y todo un repertorio de vajilla de mesa torneado fabricado en talleres, urbanos o rurales, con distintos grados de permeabilidad. La variedad de producciones siguiere la coexistencia de modelos productivos domésticos con los propios de «officine singole» 39. A partir del siglo VIII, con la conquista arabo-bereber, la aparente continuidad de ciertas producciones se ve matizada por la incorporación de formas y decoraciones ajenas a la tradición local, como el horno de pan (tannūr), el vaso de noria (arcaduz), el nuevo vaso de beber con boca amplia, cuello cilíndrico y una única asa (jarro) o los candiles de corta piquera, que representan tradiciones culturales distintas y, lo que es más importante, evidencian la introducción de paquetes tecnológicos (nuevos alimentos y prácticas agrícolas vinculadas con el regadío; fig. 9). No obstante, nada indica que esas formas no se integren en los sistemas productivos domésticos (a juzgar por la variedad de fábricas y eventuales talleres constatados). Estaríamos ante un primer proceso de transferencia técnica entre artesanos independientes y predominantemente rurales, en un marco donde se perfila como dominante el modelo productivo de ‘officine singole’, representado por el grafito y el taller alfarero (con un horno de doble cámara) construido sobre la antigua catedral de El Tolmo 40. El proceso de reorganización de los sistemas productivos comienza en fechas tempranas y se lee a través de diversos indicadores como la generalización de la cerámica torneada, que se traduce en la paulatina especialización de la vajilla, en la incorporación de series adaptadas a las nuevas tradiciones culturales, en la generalización de tipos y decoraciones, y en la introducción de los primeros vidriados monocromos eminentemente funcionales, fabricados en alfares urbanos la zona suroriental de al-Andalus en la segunda mitad del siglo IX, y que comienzan difundirse de forma discreta por diversos territorios de al-Andalus y del Mediterráneo. Este último indicador nos sugiere una relación entre mundo rural y mundo urbano más articulada puesto que el vidriado («invetriatura») es un paquete tecnológico importado que se intro39 40 Individual Workshops. GAMO PARRAS, GUTIÉRREZ LLORET 2009. 591 Fig. 9. - 1. Formas nuevas: a) horno de pan (tannur), b) vaso de noria (arcaduz), c) jarro, d) candil; 2. Rueda hidráulica (noria); 3. Uso del tannur (Gutierrez Lloret c.s.). duce en talleres urbanos (se han identificado algunos en Pechina y Málaga), posiblemente agrupados, con hornos complejos en el marco de los primeros «agglomerati di officine» 41. A lo largo del siglo IX se define un nuevo universo de formas cada vez más homogéneo y original, propiamente islámico, representado por unas series características de servicio de mesa (dominadas por el jarro y la jarra), de contención y transporte (tinajas, orzas, etc), culinarias (marmitas, cazuelas, ollas, hornos, etc), iluminación y usos múltiples (candil, tapadera, alcadafe, etc), y se difunden técnicas decorativas muy características como la pintura en óxido de hierro, generalizadas en el siglo X (fig. 10). 41 Nucleated Workshops. 592 SONIA GUTIÉRREZ LLORET Fig. 10. - Producciones del siglo X (Rabita de Guardamar, MARQ). Fig. 11. - Horno barras de la Plaza de la Constitución Jaén (gentileza de V. Salvatierra). El Califato y la aparición de las cerámicas decoradas en Verde y Manganeso, de acuerdo a un claro programa ideológico y simbólico destinado a difundir la imagen del Califato triunfante, evidencian ya la existencia de una estructura de mercado compleja, en la que el peso del proceso productivo recaerá en talleres agrupados y situados en la periferia urbana, conformando barrios alfareros (caso de Córdoba), con la introducción de procedimientos especializados y hornos complejos (los primeros hornos de barras) que denotan un alto dominio de los procesos tecnológicos – patente en la generalización del vidriado con complejos programas decorativos –, una estandarización y especialización de los servicios de mesa, almacenaje, transporte e iluminación (fig. 11) 42. La homogeneización productiva alcanzada debe entenderse como un trasunto de la homogénea y plena islamización de la sociedad, que no perderá fuerza con la aparente fragmentación política que suponen los Reinos de Taifas. En este momento se generalizan técnicas muy especializadas, como la cuerda seca, y se documentan numerosos talleres alfareros urbanos o periurbanos en todo al-Ándalus, cuyos productos llegan a las alquerías con morfologías domésticas muy similares a las urbanas. El proceso de integración continúa durante los periodos almorávide y almohade, con un alto nivel productivo y especializaciones decorativas (cerámica esgrafiada, estampillada, etc) producidas tanto en talleres urbanos como rurales, distribuyéndose en función de criterios económicos. Se aprecia una gran homogeneidad cultural (vajillas, decoraciones) con independencia de la pluralidad de centros productores (fig. 12). Al-Andalus es una sociedad homogénea, monetarizada, con un alto nivel de especialización artesanal, sólidas redes de producción (hornos más grandes) y de distribución (redes suprarregionales y ‘mediterráneas’). El proceso continuará en el último reducto 42 GUTIÉRREZ LLORET 2012, pp. 50-51. LA MIRADA DEL OTRO: AL-ANDALUS 593 de al-Andalus, en el Reino de Granada, con cadenas productivas muy especializadas (como la loza azul y dorada malagueña) cuyo ‘saber tecnológico’ pasará al mundo cristiano, por un acto volitivo de control señorial de los procesos productivos 43, dando lugar a un sistema artesanal altamente especializado ya no en barrios sino incluso en poblaciones ‘alfareras’. Las producciones de Paterna y Manises en tierras valencianas inundarán el Fig. 12. - Producciones de los siglos XII-XIII (MARQ). Mediterráneo con mercancías estandarizadas que, a CABALLERO, UTRERO 2005 = L. CABALLERO, M.A. UTRERO, través de redes de talleres nucleados, anticipan las maUna aproximación a las técnicas constructivas de la Alta nufacturas. Pero ésta ya es otra historia en la que la miEdad Media en la Península Ibérica. Entre visigodos y omeyas, in Arqueología de la Arquitectura, 4, 2005, pp. rada de al-Andalus ya es solo un reflejo con el que de169-192. bemos detenernos. 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Según la hipótesis clásica de Olivar Daydí, Pere de Boil viajó a Málaga y Almería, en su condición de embajador del rey Jaime II en la corte Grana- dina entre 1308 y 1309, favoreciendo la emigración de alfareros malagueños conocedores de la técnica a Manises y paterna, imitando y desplazando la obra de Maliqa en el siglo XV. SOLER FERRER 1997, pp. 150-151. Bibliografía 594 SONIA GUTIÉRREZ LLORET CRESSIER 2004= P. CRESSIER, Historias de capiteles ¿Hubo talleres califales provinciales?, in Cuadernos de Madinat al-Zahra’, 5, 2004, pp. 355-375. CRESSIER 2006 = P. CRESSIER (ed.), La maîtrise de l’eau en al-Andalus: paysages, pratiques et techniques, Madrid 2006 (Collection de la Casa de Velázquez, 93). DOMINGO MAGAÑA 2011 = J.A. DOMINGO MAGAÑA, Capiteles tardorromanos y visigodos en la Península Ibérica (siglos IV-VIII d.C.), Tarragona 2011. FERNANDEZ NAVARRO 2008 = E. FERNANDEZ NAVARRO, Tradición tecnológica de la cerámica de cocina almohadenazarí, Arqueología y cerámica, Granada 2008. 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DALLA PERIFERIA: ARCHEOMETALLURGIA DEL FERRO NELLA SPAGNA NORD-OCCIDENTALE NELL’ALTO E PIENO MEDIOEVO Juan Antonio Quirós Castillo Introduzione Lo studio dell’artigianato rappresenta una delle tematiche più indagate negli ultimi 30 anni dall’archeologia politica, in quanto esiste un vincolo molto stretto tra la strutturazione delle attività secondarie e lo studio delle forme di complessità politica e sociale 1. Anche se la maggior parte della teoria archeologica è stata costruita in Europa intorno allo studio delle società protostoriche, negli ultimi due decenni si è osservato un crescente interesse per l’analisi in termini sociali e politici delle produzioni non agrarie di età storica, in particolare per quanto riguarda lo studio dei processi di trasformazione sociale profonda che caratterizzano l’altomedioevo 2. Lo studio delle invenzioni, stagnazioni e recessioni dei sistemi tecnologici 3, l’intensità delle forme specializzate di produzione in funzione della struttura sociale ed economica 4, la distribuzione cronospaziale dei centri di produzione in rapporto con le trasformazioni politiche 5, le forme di dominio signorile di risorse e processi produttivi 6, lo studio economico dei sistemi di produzione e circolazione 7 o l’analisi delle forme di rappresentazione del potere attraverso gli investimenti in settori secondari 8 sono alcune delle principali linee di studio sviluppatesi in questi anni. Un forte segno dello sviluppo di questo indirizzo di ricerca è la definizione in Italia di un’archeologia della produzione 9 incentrata precisamente nell’analisi archeologica delle attività artigianali. Nonostante questo campo di ricerca possa essere fortemente distorsivo quando tralascia il settore primario – molto più rilevante in termini quantitativi e qualitativi nelle società medievali –, se ubicato in un contesto più largo offre uno spaccato di grande interesse che permette di arricchire significativamente le analisi sociopolitiche del passato. In molte delle ricerche condotte intorno alle società altomedievali si è posto l’accento nello sviluppo delle attività artigianali in rapporto con l’azione dei poteri e le dinamiche aristocratiche che costituiscono, in ultima istanza, il principale fattore che spiega la complessità dei sistemi di scambio e dei meccanismi di produzione 10. Resta, invece, più oscura la strutturazione delle strutture artigianali attive ad una scala locale, che spesso sono state considerate come una versione semplificata o degenerata dei sistemi produttivi romani 11. In questa sede si prenderanno in considerazione le Ringrazio Alessandra Molinari per l’invito a prendere parte a questo convegno. Inoltre ho avuto diverse informazioni per la realizzazione di questo contributo da parte di collaboratori e colleghi che vorrei ringraziare: Javier Franco, Javier Fernández Bordegarai, Alfonso Vigil-Escalera, Igor Santos, Rafael Mansilla, Andoni Tarriño. Sonia Gobbato ha migliorato notevolmente lo stile del testo. Departamento de Geografía, Prehistoria y Arqueología, Universidad del País Vasco/Euskal Herriko Unibertsitatea, UPV/EHU. Ricerca condotta all’interno del progetto di ricerca ‘Desigualdad en los paisajes medievales del norte peninsular: los marcadores arqueológicos’, HUM 2012-32514, dell’attività del ‘Grupo de Investigación en Patrimonio y Paisajes Culturales/Ondare eta Kultur Paisaietan Ikerketa Taldea’ (IT315-10) finanziato dal Governo Basco, della UFI 11/02 ‘Historia, Pensamiento y Cultura Mate- rial’ e della Unità Associata CSIC-UPV/EHU ‘Grupo de Estudios Rurales’. 1 COSTIN 2001 e COSTIN 2005, p. 1035. 2 Ad esempio LAVAN, ZANINI, SARANTIS 2007. 3 LAVAN 2007. 4 WICKHAM 2008. 5 HENNING 2007. 6 FRANCOVICH, WICKHAM 1994. 7 GUTIÉRREZ LLORET 1996. 8 BIANCHI 2013. 9 MANNONI, GIANNICHEDDA 1996. 10 WICKHAM 2008. 11 WARD PERKINS 2005. 598 JUAN ANTONIO QUIRÓS CASTILLO strutture artigianali alto e pieno medievali (secoli VIXII) indagate archeologicamente nel quadrante nordovest della Penisola Iberica, più precisamente nelle province delle Asturie, Cantabria, Paesi Baschi, Madrid e Castiglia e Leon. Si tratta di un territorio molto vasto in cui l’archeologia medievale si è sviluppata in anni molto recenti, e che, quindi, ancora non ha affrontato in modo sistematico lo studio dei centri artigianali. Di seguito si analizzeranno le attività siderurgiche nei Paesi Baschi, che permettono di analizzare la strutturazione dei sistemi artigianali all’interno delle società locali medievali. lo studio dell’artigianato resta quindi l’analisi delle sedi produttive individuate in modo casuale nel corso di indagini realizzate con altri obiettivi (studio di castelli, analisi di sedi rurali, interventi preventivi, etc.). Il magro elenco di siti disponibili, che si riassume nella mappa allegata (fig. 1), rispecchia le debolezze ma anche la complessa struttura politica di quest’ampio territorio nei secoli qui considerati e che potremo riassumere nei seguenti punti: Negli ultimi quindici anni si è assistito ad un notevole sviluppo delle indagini archeologiche delle società medievali nel quadrante nord-ovest della Spagna, sia nei contesti di archeologia preventiva che attraverso progetti di ricerca di diversa entità. Tuttavia, la natura dei siti individuati e gli approcci teorici impiegati hanno dato priorità all’indagine dei record bioarcheologici, alla costruzione di un’archeologia agraria e, in particolare, all’analisi archeologica delle comunità contadine. Altre tematiche, quali l’archeometria dei materiali e lo studio dell’artigianato non sono state finora affrontate in modo sistematico, anche se non mancano ricerche puntuali. I principali studi realizzati sull’artigianato sono stati condotti su alcune produzioni di alto livello, quale la toreutica 12, rispetto ad altri prodotti di minor rilievo estetico quale il ferro o la ceramica comune che sono stati indagati soprattutto a partire dai contesti di consumo. Mancano quindi ricerche indirizzate espressamente all’analisi dei centri artigianali o studi archeometrici, in modo tale che ancora oggi ci sono gravi deficienze per quanto riguarda lo studio dei mulini idraulici, le vetrerie, le zecche, etc. La principale fonte d’informazione disponibile per 1) mancano quasi completamente indagini sui central places, e in particolare sui centri urbani. È anche vero che questo territorio, durante il periodo indagato, non ha una rete urbana né densa né potente e buona parte delle aristocrazie sono ruralizzate 13, tranne eccezioni 14. Soltanto dall’XI-XII secolo si riscontrano centri di carattere urbano dotati di elementi di sofisticazione economica e sociopolitica che si manifesta nell’emergenza di mercati e di centri artigianali 15. 2) Non sono ancora rilevanti neanche i ritrovamenti artigianali realizzati su altri sedi di potere quali i castra, i monasteria e le chiese, che comunque sono numerosi in questo territorio. Sono stati rinvenuti alcune fornaci e centri metallurgici in alcuni castelli (El Castillón, Castillo de los Monjes, Peñaferruz, Camargo, Gauzón, Valencia de Don Juan) 16 o in siti quali la villa già abbandonata di Veranes, dove è stato scoperto un centro metallurgico che è stato datato nel secolo VII 17, ma il campione è ancora esiguo. Colpisce, inoltre, la mancanza di dati riferibili a monasteri quali Melque o El Bovalar. 3) La maggior parte delle informazioni proviene quindi da abitati rurali tipo villaggio. Va sottolineato che, nella maggior parte dei siti, le uniche attività artigianali documentate sono quella tessile, svolta a piccola scala, la metallurgia, orientata alla riparazione di oggetti di uso quotidiano, talvolta la produzione di ceramica e, infine, le attività costruttive realizzate a scala intercomunitaria 18. Vedi PEREA 2001 e PEREA 2009. QUIRÓS CASTILLO 2011. 14 Tra queste va sottolineato il caso di Recopolis, città fondata del re visigoto Leovigildo, dove sono state rinvenute strutture artigianali di produzione di vetro e di orafi (OLMO ENCISO, CASTRO PRIEGO, GÓMEZ DE LA TORRE-VERDEJO et alii 2008, p. 68) databili tra la seconda metà del VI e la prima metà del VII secolo. 15 Nel caso dei Paesi Baschi vedi SANTOS SALAZAR 2011. 16 Per Castrillón SASTRE BLANCO, FUENTES MELGAR 2011; per Castillo de los Monjes TEJADO SEBASTIÁN 2011, p. 362 ss.; per Peñafe- rruz GUTIÉRREZ GONZÁLEZ 2003, p. 101; per Camargo BOHIGAS ROL2001; per Gauzón MUÑIZ LÓPEZ, GARCÍA ÁLVAREZ-BUSTO 2012 e per Valencia de Don Juan, ARGÜELLO MENÉNDEZ 1998, p. 143. 17 Struttura E28: FERNÁNDEZ OCHOA, GIL SENDINO 2008, p. 447. Altre attestazioni di ville ispaniche con attività metallurgiche sono quelle delle ville di El Ruedo, El Val o Monroy (CHAVARRIA ARNAU 2004). 18 Ad esempio COLMENAREJO, FERNÁNDEZ SUÁREZ, GÓMEZ OSUNA et alii 2010. Altri siti in corso di studio (ad esempio SALAS ÁLVAREZ, AYARZAGÜEÑA SANZ, LÓPEZ CIDAD et alii 2014) potrebbero allargare questo panorama produttivo. 1. L’archeologia della produzione nel quadrante nordovest della Spagna 12 13 DÁN DALLA PERIFERIA: ARCHEOMETALLURGIA DEL FERRO NELLA SPAGNA NORD-OCCIDENTALE NELL’ALTO E PIENO MEDIOEVO 599 Fig . 1. - Principali siti artigianali altomedievali del nord-ovest della Spagna, esclusi quelli dei Paesi Baschi. 4) Sarebbe tuttavia sbagliato pensare che questa bassa densità di centri artigianali rifletta un sistema economico autarchico e chiuso. In un recente volume dedicato all’analisi delle società rurali dei secoli VI-VIII dell’interno della Spagna è stato possibile analizzare la complessità dei rapporti di tipo eterarchico e gerarchico che si snodano intorno a queste comunità (fig. 2). In particolare nel caso di Madrid e del sud del Duero è stato possibile osservare l’esistenza di un sistema artigianale articolato a scala locale e sovralocale (orizzontale), formato da strutture usate in funzione della domanda (fornaci di materiali ceramici, fucine per la riparazione di strumenti) o di sistemi di approvvigionamento a distanza di materiali quali i molini di granito, il sale o di materiali costruttivi reimpiegati. È piuttosto probabile che gli artigiani attivi in questo sistema avessero una occupazione a tempo parziale e che fossero itineranti 19. 5) Sono documentati anche rapporti di scambio di tipo verticale tra le comunità rurali fino ai vertici territoriali, creandosi vincoli di tipo clientelare e rapporti di potere visibili attraverso il ritrovamento di ceramica d’importazione (ad esempio la sigillata africana rinvenuta a Gozquez), oggetti di vetro, oggetti di prestigio quale la toreutica, etc. Le logiche di redistribuzione di questi oggetti non sono solo di carattere commerciale oppure semplici doni, in termini di Mauss, ma, come ha sottolineato recentemente John Moreland, rispondono a processi complessi di 19 VIGIL-ESCALERA GUIRADO, QUIRÓS CASTILLO 2013. 600 JUAN ANTONIO QUIRÓS CASTILLO 9) 22. Inoltre, nei due settori dedicati alla forgiatura di oggetti metallici non ci sono bassi fuochi di riduzione. C’è quindi da considerare che questo territorio, dotato di forme politiche di potere locale ben definite, è al centro di una rete artigianale densa che prevede, tra gli altri fattori, la circolazione di prodotti semilavorati che sono tra- sformati in centri artigianali disposti in Fig. 2. - Struttura di produzione e distribuzione documentata nelle comunità rurali di età visigota nelvillaggi, come La Mata, l’interno della Spagna. DA CORREGGERE “circulazione” e “gierarchica” oltre a sistemi di redistribuzione a scala territointerazione sociale in funzione della biografia degli riale. Altrettanto si potrebbe suggerire per le oggetti e del loro significato contestuale, che traproduzioni ceramiche, e in particolare per quanto riscende la contrapposizione tra queste sfere di scamguarda le forme di produzione e distribuzione delle bio e redistribuzione 20. ceramiche stampigliate e altre classi rinvenute in 6) In ogni caso è interessante sottolineare che, quando questi centri 23. Si può inoltre ipotizzare che il caso abbiamo scavi accentrati in un territorio ridotto si de La Mata non sia un esempio isolato ma si trovi rivela la complessità delle reti di distribuzione e all’interno di una rete più densa nella quale c’è spadell’articolazione delle sedi produttive. Un caso zio per una domanda stabile di prodotti lavorati e sesignificativo è quello dell’areale del sito di La Mata milavorati, che probabilmente fanno riferimento del Palomar (Nieva, Segovia), databile tra il VI e il anche sui centri di potere 24. VII secolo (fig. 3). Questo sito rurale, che ha un record molto simile ad altri villaggi situati all’in2. La produzione del ferro nei Paesi Baschi terno della penisola, si caratterizza per la presenza di tre settori artigianali situati nella periferia delle Forse l’unica attività artigianale che ha finora meriaree abitate, dedicati, i primi due, alla forgia di ogtato una certa attenzione da parte degli studiosi nel nogetti metallici, e il terzo alla produzione di cerastro territorio è stata la produzione di ferro 25. mica. È l’unico centro finora rinvenuto in cui si è Almeno dagli anni ‘90 diversi ricercatori hanno anariscontrata questa varietà di centri artigianali tra gli 21 lizzato in termini archeologici i centri di produzione del abitati di età visigota dell’interno ispanico . Ci ferro di diversi settori del nord della Spagna (in partisono due aspetti comunque che vanno sottolineati colare delle Asturie, Zamora, Paesi Baschi e Catalogna), in questo esempio. In primo luogo il sito è ubicato interessandosi sostanzialmente alle analisi tecniche dei in prossimità di almeno due castra coetanei di una diversi impianti, studiando sia basso fuochi (Fabrecerta entità, Bernardos (Virgen del Castillo, km 9) gada), ferriere idrauliche (Agorregi o El Pobal) e fucine e Torrejón (Ermita de la Virgen del Torrejón, km MORELAND 2010, pp. 96-99. QUIRÓS CASTILLO 2013, pp. 144-147. 22 A km 15 al nord-ovest si trova anche un altro importante centro, quello di Coca (LARRÉN IZQUIERDO, BLANCO GARCÍA, VILLANUEVA ZUBIZARRETA et alii 2003); su Bernardos vedi GONZALO GONZÁLEZ 2006. 23 GONZALO GONZÁLEZ 2006, pp. 37-77. 24 Infatti, da recente è stato rinvenuto a circa km 12 di questo 20 21 sito un centro metallurgico dedicato alla produzione del rame (SALAS ÁLVAREZ, AYARZAGÜEÑA SANZ, LÓPEZ CIDAD et alii 2014). Per cfr. con la realtà altomedievale italiana, vedi FARINELLI, FRANCOVICH 1994; GIOSTRA 2000. 25 Oltre alla ceramica studiata sostanzialmente dai contesti di consumo piuttosto che da quelli di produzione. Le principali sintesi disponibili sono GUTIÉRREZ GONZÁLEZ, BOHIGAS ROLDÁN 1989; LARRÉN IZQUIERDO, BLANCO GARCÍA, VILLANUEVA ZUBIZARRETA et alii 2003; SOLAUN 2007. DALLA PERIFERIA: ARCHEOMETALLURGIA DEL FERRO NELLA SPAGNA NORD-OCCIDENTALE NELL’ALTO E PIENO MEDIOEVO 601 Fig. 3. - Localizzazione del sito de La Mata del Palomar in rapporto con i siti incastellati di Bernardos e Torrejón. come quelle di l’Esquerda o Matallana 26, o analizzando la dimensione sociale della produzione 27. Tuttavia, buona parte dell’archeologia sociale della metallurgia in Europa non si è incentrata nell’analisi della siderurgia. La frequenza della mineralizzazione di ferro in natura e il minor interesse da parte delle aristocrazie nel controllo dei sistemi produttivi siderurgici ha fatto sì che, come è noto, ci sia stata una maggior attenzione da parte degli studiosi verso l’analisi di altre risorse quale la galena argentifera 28. Se intorno allo sfruttamento dei minerali monetabili è possibile spiegare l’articolazione di signorie complesse, come quelle delle colline metallifere toscane 29, le logiche di articolazione della produzione del ferro sono assai diverse e raramente generano paesaggi di potere 30 e quindi spesso, il ferro viene considerato come un metallo di seconda importanza 31. Ricerche recenti stanno comunque dimostrando che lo studio sistematico di quest’attività produttiva ha un’importante capacità esplicativa di dinamiche sociali complesse a scala locale e sovralocale. Nel presente studio prenderemo in considerazione l’attività siderurgica pre-idraulica in età medievale nei Paesi Baschi. In questo territorio si è svolta un’intensa attività metallurgica in età storica come risultato dello sfruttamento delle importanti mineralizzazioni presenti lungo l’anticlinale di Bilbao (fig. 4) 32. Tranne qualche eccezione, le fonti scritte fanno riferimento alle attività siderurgiche soltanto a partire del basso medioevo e per 26 RIU 1996; URTEAGA ARTIGAS 1996; AYERBE IRIBAR, URTEAGA ARTIGAS, LÓPEZ COLOM 2002; SANCHO 2011. 27 ARGÜELLO MENÉNDEZ 1998; ARGÜELLO MENÉNDEZ 2009. 28 FARINELLI, FRANCOVICH 1994. 29 Nel nostro territorio sono rilevanti le miniere di Navarra, sotto dominio dei reali nel basso Medioevo (MUGUETA MORENO 2005). 30 FRANCOVICH, WICKHAM 1994, pp. 8-10; CANTO GARCÍA, CRESSIER 2008, p. XV. 31 SANCHO 2011, p. 652. 32 GIL, VELASCO 1992. 602 JUAN ANTONIO QUIRÓS CASTILLO 1) Le 36 datazioni radiocarboniche realizzate finora negli accumuli di scorie e in questi impianti produttivi sono comprese tra l’età romana e il XIII secolo e mostrano che i bassi forni per la riduzione diretta del minerale di ferro sono stati in uso, almeno in Biscaglia, durante tutto il periodo 35. E anche se c’è un incremento delle attestazioni in tutti i territori nel periodo compreso tra i secoli XI e Fig. 4. - Carta geologica dei Paesi Baschi, dove si osserva l’anticlinale di Bilbao e gli affioramenti XIII, si può affermare che il del Cretacico Inferiore dove si concentrano le mineralizzazioni di ferro. ferro è stato prodotto nei Paesi questo motivo l’archeologia ha svolto un ruolo centrale Baschi in modo continuo durante tutto l’alto Menello studio di quest’attività produttiva. dioevo. 2) Questi bassi fuochi, chiamati haizeolak o ferriere a 2.1. L’evidenza archeologica vento, sono di piccole dimensioni e si ubicano in zone di montagna, dove sono accessibili risorse quali il miL’entità e la natura della documentazione archeolonerale, il carbone e i corsi d’acqua. Questi forni sono gica relativa all’attività siderurgica disponibile nei Paesi lontani dai centri abitati e dovevano quindi disporre Baschi si è incrementata in modo notevole negli ultimi di strutture residenziali almeno temporali, che ancora anni. Al giorno d’oggi sono stati schedati oltre 350 acnon sono state rinvenute. cumuli di scorie sulle montagne basche e sono stati scaLe indagini stratigrafiche realizzate in questi centri vati oltre una dozzina di bassi forni (Oiola I e II, hanno mostrato delle realtà molto eterogenee. Mentre Ilso-Betaio, Tresmoral 6, Zabarain, Gasteiz, Bagoeta, alcune sembrano avere una vita breve (Ilso Betaio, CalCallejaverde, Peñas Negras, Arrastaleku, Olazar 1 e 3, leja Verde, Peñas Negras), in altri casi ci troviamo di Teniola, La Zepa) 33, ed anche diversi impianti metalfronte a sedi produttive estese in uso durante lunghi lurgici (Segura, Durango, Bilbao, Vitoria). Sono state, periodi. Questo è il caso di Oiola IV, stabilimento siinoltre, rinvenute scorie di forgia per la riparazione di tuato in prossimità di un altro centro di età tardo rostrumenti in diversi abitati (Zaballa, Zornoztegi, etc.) e mana (Oiola II). Sul posto sono state trovate una decina sono stati studiati più di 1.100 oggetti di ferro di età di fornaci e fucine oltre a una carbonaia che appar34 medievale . Ciononostante la maggior parte di tutta quetengono a due fasi di uso medievale; una dei secoli Xsta informazione rimane ancora inedita o è stata pubXI e un’altra del XII-XIII secolo, quando l’impianto blicata in modo piuttosto parziale e frammentario (fig. raggiunse un’estensione di circa m2 1000. Sul sito, 5). Tuttavia, è possibile proporre alcune tendenze prinquindi, si svolgeva l’intero ciclo produttivo 36. cipali: Molti di loro si trovano proprio sotto gli accumuli di scorie. Per quanto riguarda lo studio degli oggetti vedi MANSILLA HORTIGUELA 2012; GONZÁLEZ CASTAÑÓN 2011 e la sezione dedicata nel II Congrés d’Arqueologia Medieval i Moderna a Catalunya. Per quanto riguarda i contesti produttivi i lavori di riferimento sono: AA.VV. 1980; GORROCHATEGUI, YARRITU, MARTÍN et alii 1995; ARDIBE ELORZA, URCEALY 1995; PEREDA GARCÍA 1997; FERNÁNDEZ BORDEGARAI 1998; URTEAGA ARTIGAS 1995; URTEAGA ARTIGAS 1997; MORAZA BAREA 2004; FERNÁNDEZ CARVAJAL 2007; FERNÁNDEZ CARVAJAL 2008; FERNÁNDEZ CARVAJAL, FRANCO PÉREZ 2010; BASTERRRETXEA, ORUE-ETXEBARRIA 2010; ORUE-ETXEBARRIA, APELLANIZ, ARTARAZ et alii 2010; AZKARATE GARAI-OLAUN, SOLAUN BUSTINZA 2009; AZKARATE GARAI-OLAUN, MARTÍNEZ TORRECILLA, SOLAUN BUSTINZA 2011; HERRERO, GIL-CRESPO, YUSTA et alii 2012; FRANCO PÉREZ, ALBERDI LONDIBE, ETXEZARRAGA OR33 34 TUONDO 2013; FRANCO PÉREZ RRAGA ORTUONDO c.s.; FRANCO BERDI LONDIBE et alii c.s.. c.s.; ALBERDI LONDIGE, ETXEZAPÉREZ, FERNÁNDEZ CARVAJAL, ALL’inventario archeologico delle haizeolak è stato eseguito in Biscaglia da J. Franco (FRANCO PÉREZ 2010), che attualmente prepara la sua tesi di dottorato, nel caso di Álava da Marta Lopez de Armentia (LÓPEZ DE ARMENTIA ITURRALDE 2010) e nel caso di Guipúzcoa è attualmente in corso la schedatura degli accumuli di scorie: ALBERDI LONDIGE, ETXEZARRAGA ORTUONDO, ARTETEXE FERNÁNDEZ 2013; ALBERDI LONDIGE, ETXEZARRAGA ORTUONDO c.s.. Un bilancio critico sullo studio delle produzioni del ferro si trova in ETXEZARRAGA 2004. Vedi anche QUIRÓS CASTILLO c.s. 35 Altrettanto occorre in altri settori iberici, quale Sierra Nevada in Granada (BERTRAND, SÁNCHEZ VICIANA 2008, pp. 127-129). 36 PEREDA GARCÍA 1997. DALLA PERIFERIA: ARCHEOMETALLURGIA DEL FERRO NELLA SPAGNA NORD-OCCIDENTALE NELL’ALTO E PIENO MEDIOEVO 603 Fig. 5. - Carta di localizzazione delle principali haizeolak e ferrerie rinvenute in Biscaglia, Alava e alcuni settori di Guipúzcoa, con indicazione dei siti indagati stratigraficamente. In altre occasioni sono state rinvenute fornaci di cronologie post-medievali o strutture adibite alla tostatura dei minerali. In definitiva, si tratta di un fenomeno piuttosto complesso visibile in superficie soltanto a partire dagli accumuli di scorie 37. L’elemento che accomuna tutte queste attestazioni è la loro ubicazione in zone di montagna sfruttate dalle comunità locali in regime comunale 38. È più che probabile, quindi, che l’estrazione del minerale fosse aperta a tutti i membri della comunità (come attestato nella documentazione più tarda) 39, mentre la riduzione del minerale richiedesse la presenza, anche in modo stagionale, di artigiani specializzati che operavano a piccola scala in funzione della domanda (come nel caso piemontese di Misobolo) 40, anche se non si deve escludere la produzione di eccedenti 41. Un sistema di gestione comunitario sarebbe anche alle spalle della produzione del carbone necessario per la riduzione del minerale. Le analisi archeobotaniche dei carboni rinvenuti in centri quali Oiola IV hanno mostrato un’importante diversità delle specie impiegate come risultato della non selezione o specializzazione delle risorse forestali. Non è stato neppure possibile associare certi tipi di legno con le diverse attività ALBERTI LONDIGE, ETXEZARRAGA ORTUONDO c.s. 38 Invece nella Sierra Menera a Teruel ci sono accumuli di scorie ubicati in prossimità delle aree abitate oppure dislocate (ORTEGA 2008, p. 119). 39 DÍEZ DE SALAZAR FERNÁNDEZ 1983, p. 223. CIMA 1996. Sulla densità del concetto specializzazione nell’analisi archeologica vedi COSTIN 2001, pp. 279 ss. La presenza di produzioni di ferro in comunali è ampiamente attestata in altri settori europei, quali la Scandinavia (LINDHOLM, SANDSTRÖM, EKMAN 2013, pp. 1819). 40 37 41 604 JUAN ANTONIO QUIRÓS CASTILLO svolte lungo l’intero ciclo produttivo 42. Invece nel basso forno di Ilso-Betaio si impiegò praticamente in modo esclusivo il faggio 43. In definitiva, in ampi settori dei Paesi Baschi la riduzione del ferro è un’attività dotata di una certa complessità tecnologica, ma l’estrazione del minerale, la raccolta della legna e la produzione del carbone si snoda all’interno delle comunità locali, seguendo logiche gestionali simili a quelle dei pascoli estivi, delle risorse forestali o dello sfruttamento del sale. Questo sistema produttivo di carattere domestico è largamente attestato in tutto l’alto e pieno Medioevo 44. 3) A partire dal XI-XII secolo troviamo indizi di una maggior complessità nei sistemi produttivi poiché in alcuni siti si ritrovano dislocate fornaci di arrostimento o fucine (Vitoria, Segura, Durango, Bagoeta N), che fanno capire come il processo produttivo si svolgesse ora in più sedi e/o esistesse un incipiente mercato di prodotti semilavorati. Il quadro si modificherà ulteriormente nel basso Medioevo a seguito dell’introduzione dell’energia idraulica e la trasformazione profonda dei meccanismi di produzione e di distribuzione. 4) Ci sono tuttavia anche degli esempi che non rispondono a questa logica produttiva e che si localizzano significativamente nel versante mediterraneo, nella provincia di Alava. In questo territorio le ferriere preindustriali si ubicano nel limite settentrionale, dove affiorano i materiali del Cretacico Inferiore e si ritrovano le mineralizzazione di ferro, specialmente nelle aree di Aramaiona e Araia. Ad esempio una di queste ferriere è stata rinvenuta alla base del castello di Murutegui 45, dove sono stati rinvenuti armamenti e oggetti di ferro e d’altri metalli di età pieno medievale 46. 5) Nella pianura alavesa, una conca strutturale realizzata su materiali del Cretacico Superiore, sono stati rinvenuti soltanto alcuni centri produttivi che hanno delle particolarità molto significative. Nel sito di Bagoeta S, situato in prossimità delle vene di Otxandio e Aramaiona ma non su di esse, si è documentata una piccola occupazione di circa m2 350, datata nei secoli VII-VIII, nella quale non sono state rinvenute fornaci, ma evidenti tracce di scorie di riduzione e forge per il ferro. In questo caso le ferriere non si localizzano sugli affioramenti metalliferi come succede con le haizeolak, e quindi è da supporre che ci sia stato uno spostamento verso questo centro produttivo 47. Il sito fu rioccupato nel pieno Medioevo (secoli XIXIII), e in questa fase fu realizzato un nuovo basso fuoco e una fucina (Bagoeta N). Anche nello scoriale di Lekubarri, situato nel confine tra Bizkaia e Alava, è stata trovata la traccia di un bassoforno di montagna datato nel VII secolo che è ben distante dell’anticlinale di Bilbao, dove si ubicano le principali mineralizzazioni dei Paesi Baschi 48. Riveste anche grande interesse il ritrovamento nell’area della cattedrale di Vitoria (Gasteiz Cattedrale) di un’interessante attività siderurgica altomedievale 49. Seppure nelle fasi più antiche (secoli VIII-X) siano attestate delle strutture di riduzione di ferro, dalla metà del X secolo si è documentata la presenza di una fucina inserita all’interno di una struttura urbanistica più strutturata. La presenza di strutture metallurgiche in cima alla collina di Vitoria trova riscontro, inoltre, con altri rinvenimenti individuati più a sud, nell’area del Campillo, databili nel X secolo 50. Si può quindi ipotizzare che nella fase più antica esistesse un settore artigianale ben definito (si tratta di un centro ‘specializzato’?; potrebbe trattarsi di un sito metallurgico simile a quello di Bagoeta S?) che forse si trovava in un settore periferico dell’abitato dove si svolgevano sia i lavori di riduzione di un minerale – che doveva essere trasportato da una certa distanza – sia la lavorazione degli oggetti di ferro. Per quanto riguarda il consumo di legno la gran varietà delle specie attestate nell’intero sito in età altomedievale ha portato a pensare ad un uso opportunistico delle risorse forestali vicine; tuttavia la legna impiegata negli impianti siderurgici dei secoli VIII-IX è composta in modo massiccio dalle Rosaceae (circa 70%) 51. ZAPATA 1997. GORROCHATEGUI, YARRITU, MARTÍN et alii 1995. 44 Questo sistema produttivo è attestato anche in altri territori iberici: CORULLÓN PAREDES, ESCALONA MONGE 2007; ORTEGA 2008, p. 120; BERTRAND, SÁNCHEZ VICIANA 2008. Per quanto riguarda lo sfruttamento del sale nell’alto Medioevo condotto probabilmente a scala comunitaria, vedi ora i recenti rinvenimenti di Salinas de Añana in Alava (MARTÍNEZ TORRECILLA, PLATA MORENO, SÁNCHEZ ZUFIAURRE 2013, p. 53). 4 LÓPEZ DE ARMENTIA ITURRALDE 2010. GARCÍA RATES 1986, pp. 463-465. AZKARATE GARAI-OLAUN, MARTÍNEZ TORRECILLA, SOLAUN BUSTINZA 2011, p. 81. 48 FRANCO PÉREZ c.s. 49 AZKARATE GARAI-OLAUN, SOLAUN BUSTINZA 2009. Con posteriorità alla redazione di questo lavoro è stato edito il volume AZKARATE GARAI-OLAUN, SOLAUN BUSTINZA 2014 e quindi non è stato possibile impiegarlo in questa sede. 50 FERNÁNDEZ BORDEGARAI 1998. 51 RUIZ-ALONSO, AZKARATE, SOLAÚN et alii 2012. 42 43 46 47 DALLA PERIFERIA: ARCHEOMETALLURGIA DEL FERRO NELLA SPAGNA NORD-OCCIDENTALE NELL’ALTO E PIENO MEDIOEVO 605 Dalla metà del X secolo Gasteiz è inserito in un sistema di approvvigionamento di prodotti semilavorati (pani di ferro) che alimentavano una fucina. Tutti questi dati sono coerenti con la rilevanza raggiunta dalla siderurgia in Alava in questo periodo, mentre in Biscaglia e in Guipúzcoa, dove si concentrano le haizeolak di tipo domestico, bisognerà aspettare i secoli XII-XIII per documentare la presenza di fucine all’interno dei centri territoriali che, come VitoriaGasteiz, raggiungeranno lo status protoubrano (ad esempio Durango, Bilbao) 52. 6) Gli oggetti rinvenuti negli scavi di abitati sono altrettanto significativi delle forme di consumo e dell’articolazione della domanda locale. Nei villaggi di Zornoztegi e Zaballa, entrambi scavati in modo estensivo, è stato rinvenuto oltre un migliaio di oggetti identificabili di età medievale 53. Si tratta, comunque, di un campione sottorappresentato, tenendo conto la complessità dei processi formativi (assenza di depositi primari, frequente spostamento dell’abitato), l’incidenza del riciclaggio e la natura del sito. In ogni caso va sottolineato che lo strumentario di ferro forma parte della cultura materiale del contadino altomedievale basco. Uno dei contesti più significativi è quello rinvenuto nell’abitazione E10 di Zaballa del IX-X secolo, dove sono stati rinvenuti 1 falce, 2 roncole, 3 coltelli, 3 paia di forbici e alcune punte di freccia, reperti che si ritrovano anche in altri siti più antichi. Paradossalmente, nei contesti tardo romani dell’abitato di Zornoztegi non sono state trovate delle falci di ferro, ma di selce (IV-V secolo), anche se non mancano altri oggetti ferrosi (in particolare materiali costruttivi). Sono anche piuttosto ricorrenti in questi abitati gli oggetti di carattere artigianale e quelli vincolati all’allevamento di animali. In definitiva, le comunità rurali basche erano, almeno dall’VIII secolo, ben attrezzate con strumenti di ferro 54 che erano impiegati sia nelle attività artigianali domestiche che nell’ambito di una attività agraria intensiva che includeva la rotazione delle coltivazioni e l’allevamento di bestiame stanziale 55. Le notizie sono, per ora, più scarse per quanto riguarda l’impiego degli oggetti di ferro in ambiti domestici Un elemento importante relativo alla produzione del ferro nei Paesi Baschi è la sua opacità nella documentazione medievale. Prima del XIII secolo è, infatti, quasi del tutto assente nei testi scritti qualsiasi riferimento alla produzione siderurgica, nonostante la sua rilevanza archeologica. Ad esempio nel caso del cartulario di S. Millán de la Cogolla si menziona un’unica ferrera nell’anno 1076 in una delimitazione di diversi beni donati nel sito di Camprovín, nella Rioja, da un importante nobile locale al monastero (n. 63) 57. Mancano invece attestazioni nei fondi documentali di Leyre o Valpuesta. Ciononostante, almeno dal X secolo sono diversi i ferreros che sono menzionati nei documenti, che possiedono beni (talvolta anche rilevanti) e firmano alcuni atti. Le ragioni di questo silenzio sono varie. Innanzitutto queste strutture di uso temporale e talvolta breve non finiscono per essere così rilevanti da lasciare traccia nelle mappe mentali e quindi non sono riferimenti impiegati nella documentazione. Ma sicuramente la ragione principale è che una parte rilevante di questa produzione si snoda all’interno della comunità senza un’implicazione diretta delle élite, che non mostrano un interesse specifico nel controllare il processo produttivo in parte o nella sua totalità, come succede nel caso dei minerali monetabili. Infatti, nei paesi Baschi, e in genere nell’area Castigliana, non si avverte nella documentazione un interesse signorile per il controllo della produzione prima del 1200, nonostante la rilevanza che mostra il record archeologico. Invece nel Regno delle Asturie, che ha una diversa struttura sociale, è ben attestata almeno Ad esempio GARCÍA CAMINO 1992-1993; BENGOETXEA REMENTERIA 2009. 53 Sulla difficoltà di studiare questi reperti vedi GIANNICHEDDA 2007, pp. 202-203. 54 Che comunque era un bene pregiato, come si osserva nelle donazioni dove non mancano i riferimenti alla ferramenta (ad esem- pio RUIZ ASENSIO, RUIZ ALBI, HERRERO JIMÉNEZ 2010, n. 139, a. 1122). 55 QUIRÓS CASTILLO 2012; GRAU-SOLOGESTOA 2014. 56 AZKARATE GARAI-OLAUN, MARTÍNEZ TORRECILLA, SOLAUN BUSTINZA 2011. 57 http://www.ehu.es/galicano/docu?d=121&l=es&tmp=13923 30427029. 52 nei secoli precedenti. I contesti disponibili finora procedono sostanzialmente da cimiteri come quello di Aldaieta, dove è stato rinvenuto un numero molto significativo di oggetti e di armamenti realizzati in ferro. Secondo A. Azkarate 56, questi materiali potrebbero essere stati realizzati in centri quale Bagoeta S. L’ipotesi, molto suggestiva, richiederebbe senz’altro, la realizzazione di analisi metallografiche che permettano di capire l’articolazione della produzione in questo periodo. 2.2. Il silenzio della documentazione scritta 606 JUAN ANTONIO QUIRÓS CASTILLO Fig. 6. - Localizzazione dei siti menzionati nel documento dell’anno 1025 noto come ‘Reja di San Millán’. dal X secolo un’implicazione signorile nel controllo della produzione siderurgica attraverso il possesso delle stesse miniere 58. Il fatto che i poteri signorili non compaiono nei documenti come implicati nel dominio delle miniere o nel controllo dei processi produttivi non significa che non fossero interessati nei risultati della produzione. Come ha giustamente sottolineato J. Escalona è molto rilevante constatare che la produzione di ferro in Castiglia sia attestata nei documenti soltanto attraverso la forma di rendite di oggetti metallici 59. In particolare, un documento dell’anno 1025 noto come ‘Reja di San Millán’ ci mo- stra come questo importante monastero richiedesse (e forse otteneva) 339 regas di ferro da quasi 300 villaggi situati in Alava (fig. 6) 60. Ancora, in un altro noto documento del XII secolo (Falsos votos de San Millán) questo monastero richiedeva sempre ad Alava la concessione di regas di ferro a ragione di una ogni dieci case 61, mentre a Biscaglia e Guipúzcoa chiedeva bovini. Questa asimmetria territoriale, sottolineata da autori come García de Cortázar (2005), è molto rilevante perché, tranne eccezioni, le attestazioni archeologiche relative a centri di produzione del ferro si concentrano sostanzialmente in queste ultime due province dove, a ARGÜELLO MENÉNDEZ 1998, pp. 151-164. Altrettanto si osserva nel caso di Catalogna (SANCHO 2011, p. 661). 59 CORULLÓN PAREDES, ESCALONA MONGE 2007, p. 44. 60 «De ferro de Alava. In era MLXIII decano de Sancti Emiliani sicut colligebat ferro per Alave ita scribimus» (n. 583): http://www.ehu.es/galicano/docu?d=790&l=es&tmp=139179842509 5. In realtà non si sa di precisione cosa sia una rega; tradizional- mente si è identificato con una reja o vomere di aratro (GARCÍA DE CORTÁZAR 2005), ma alcuni autori pensano che potrebbero essere masselli (AZKARATE GARAI-OLAUN, SOLAUN BUSTINZA 2009). Infatti, nel documento si fa riferimento in un’occasione all’esistenza di una differenza tra le regas «de cubito in longo» e quelle «minores». Tuttavia questa interpretazione non è nemmeno esente di problemi (PASTOR DÍAZ DE GARAYO 2011, p. 59). 58 DALLA PERIFERIA: ARCHEOMETALLURGIA DEL FERRO NELLA SPAGNA NORD-OCCIDENTALE NELL’ALTO E PIENO MEDIOEVO differenza di Alava, si localizzano le mineralizzazioni più importanti. Attualmente non è possibile sapere se questa contraddizione è il risultato delle lacune delle ricerche archeologiche realizzate ad Alava oppure se esista un sistema di produzione e commercializzazione delle produzioni cantabriche nell’area mediterranea più complesso di quanto ancora riusciamo ad intravedere 62. E anche se le due possibilità non sono incompatibili, va rilevato che l’unico documento databile prima del 1200 dell’area Cantabrica che fa riferimento al ferro è il privilegio reale (fuero) di S. Sebastián dell’anno 1180, che fa menzione alla presenza di fabri nella villa 63. In ogni caso, dal XIII secolo questa geografia produttiva si capovolge completamente quando le aristocrazie di Alava scommettono sull’allevamento estensivo a discapito delle ferriere. Questo nuovo orientamento produttivo modifica l’uso delle aree di montagna e penalizza quindi le risorse forestali, determinando il fatto che il numero di ferriere e di carbonaie è piuttosto ridotto in età bassomedievale 64. Invece nell’area cantabrica le ferriere diventano a partire da questo momento il settore produttivo prioritario, in modo tale che nel Cinquecento almeno il 40% della popolazione di Guipúzcoa lavorava nelle ferriere e attività collegate 65. In questo periodo è attestata l’esportazione sia dei minerali dell’area di Biscaglia che di prodotti semilavorati destinati via marittima a numerose aree europee o, più tardi, americane. Quindi, intorno a quest’attività si articolano numerosi interessi incrociati da parte dei re (che possiedono le vene), delle protocittà basche 66, delle aristocrazie territoriali (che gestiscono le signorie) e dei nuovi imprenditori non aristocratici che pure gestiscono alcune ferriere idrauliche 67. Anche la gestione delle risorse forestali e della produzione del carbone diventerà, in questo contesto, un punto di scontro sociale molto importante 68. In ogni caso, risulta molto interessante sottolineare che la diffusione dalla seconda metà del XIII secolo delle 61 «Alava, cum suis villis, ad suas alfoces pertinentibus, id est de Losa et de Buradon usque Eznate ferrum; per omnes villas, inter domus decem una reia […]. De rivo de Galharraga usque in flumen de Deba, id est, tota Bizcahia, et de ipsa Deba usque Sanctum Sebastianum d’Ernanni, id est, tota Ipuzcua, a finibus Alava usque ad ora maris. Quicqu<i>d infra est de unaqu<a>que alfoce: singulos Boves»: http://www.ehu.es/galicano/docu?d=1&l=es&tmp=1391798481772. 62 Forse lo spostamento di minerali a siti quali Lekubarri, Bagoeta o Gasteiz documentata già nell’alto Medioevo potrebbe supportare questa seconda ipotesi. 63 MARTÍN DUQUE 1982, IV, 4. 6 DÍAZ DE DURANA 1986. 65 DÍEZ DE SALAZAR FERNÁNDEZ 1983, p. 122. 607 ferriere idrauliche non comportò la fine nei Paesi Baschi delle haizeolak, come testimoniato dagli ordinamenti di Segura del 1335 riguardanti le ferriere in cui sono menzionate «ferrerias masugueras, de maço de agua e de omes» 69 o dal caso di Burdinola, accumulo di scorie datato nel XIV secolo 70. Questa coesistenza rispecchia la diversità in termini sociali dei sistemi produttivi del ferro. Le nuove ferriere idrauliche, che richiedono importanti investimenti e nuove forme di gestione delle risorse forestali, compaiono presto in mano di hidalgos (aristocrazie locali) 71 e di nuovi investitori in forte concorrenza con i comuni urbani e con i principali signori territoriali. Le comunità rurali mantengono invece un loro sistema produttivo non orientato alla commercializzazione a grande scala, ma certamente funzionale ad un sistema di consumo interno. 3. Discussione La produzione di ferro in età tardo romana nel quadrante nord-ovest della Spagna è basata su un sistema produttivo articolato e complesso che prevede anche il trasporto di minerali a lunga distanza e la circolazione di artigiani di alto livello. Ad esempio nella forgia rinvenuta nel Castro del Castrillón (Zamora) del V secolo le analisi metallografiche hanno individuato una produzione di strumenti di ferro d’alta qualità realizzati con ringwoodita, ragione per la quale è stata suggerita un suo trasporto dall’area di Cáceres, situata a circa km 300 al sud 72. Inoltre i siti indagati finora suggeriscono l’esistenza di un’intensa produzione, di una fluida circolazione e un importante consumo di oggetti di ferro durante la prima metà del V secolo: sono assai frequenti l’uso di chiodini nelle suole delle scarpe, rinforzi e chiodi di ferro nelle bare e la comparsa massiccia di oggetti di ferro nelle sepolture 73. Dagli inizi del VI secolo SANTOS SALAZAR 2011. GARCÍA DE CORTÁZAR 2005; MUGUETA MORENO 2013. 68 URIARTE AYO 1998. 69 DÍEZ DE SALAZAR FERNÁNDEZ 1985, n. 12 e 13. La coesistenza tra innovazione, stagnazione e recessione è comune in età altomedievale (LAVAN 2007, pp. XVIII-XIX), creando tensioni che sono di grande interesse in termini di storia sociale. 70 AA. VV. 1997. 71 Carta puebla di Portugalete dell’anno 1322 (HIDALGO DE CISNEROS AMESTOY, LARGACHA RUBIO, LORENTE RUIGÓMEZ et alii 1987, n. 1). 72 SASTRE BLANCO, FUENTES MELGAR 2011. 73 Vedi gli esempi di Fuentespreadas (CABALLERA ZOREDA 1974), 66 67 608 JUAN ANTONIO QUIRÓS CASTILLO si osserva invece un’importante diminuzione nella presenza di oggetti di ferro, secondo un fenomeno generalizzato nel nord-ovest della Spagna. La riduzione massiccia delle produzioni metallurgiche nel V secolo era già stata rilevata da J.C. Edmonson 74, il quale aveva sostenuto come l’attività metallurgica fosse perdurata nel periodo post-romano ad una scala più ridotta, sebbene finora non si avessero molte evidenze di come fosse articolato questo sistema 75. Gli oggetti metallici rinvenuti, ad esempio, nei grandi scavi preventivi di villaggi e di abitati dei secoli VI-VIII, condotti all’interno della Spagna, sono piuttosto scarsi e presentano un repertorio tipologico e funzionale piuttosto ridotto. Anche gli impianti siderurgici rinvenuti in centri di potere quali i castelli (Castillo de los Monjes, Peñaferruz, Camargo, Murutegui o Valencia de Don Juan) sono di piccola entità e basati sull’autoapprovvigionamento. In definitiva, non sembra che ci sia stata un’interruzione nella produzione del ferro in questo settore della Spagna, ma certamente un profondo cambiamento della scala dell’organizzazione sociale della produzione. Tuttavia, questo non si osserva nei Paesi Baschi. Nonostante la ricchezza delle mineralizzazioni basche fosse già rammentata da Plinio 76, le uniche strutture siderurgiche di età romana rinvenute finora sono piccoli impianti dotati di bassi fuochi simili a quelli altomedievali, come è il caso di Oiola II 77, La Zepa 78, Arbiun 79 o Aloria 80. In questo ultimo centro sono stati trovati sia bassi fuochi che fucine impiegate nelle lavorazioni di oggetti, e quindi c’è da pensare che in queste sedi si svolgeva una parte significativa dell’intero ciclo produttivo. Anche se è piuttosto probabile che nel versante mediterraneo ci siano stati impianti più complessi, non ne abbiamo per il momento notizia 81. Quindi il modello produttivo domestico ha apparentemente prevalso nell’area cantabrica, sia in età romana che in età alto e pieno medievale, mentre nel versante mediterraneo si osserva invece l’esistenza, a partire del VII secolo, di realtà più articolate. Il centro siderurgico di Bagoeta S e quello di Gasteiz-Cattedrale indicano l’esistenza di reti precoci di circolazione di legna o carbone, minerale e, dal X secolo, di prodotti semilavorati. Siamo in presenza quindi di un sistema di redistribuzione più sofisticato che prevede spostamenti di materie prime e prodotti finiti destinati a realtà locali di diversa entità. A questo proposito risulta rilevante sottolineare come anche gli attrezzi altomedievali di selce impiegati nei villaggi della zona di Alava (falci, pietre per la trebbiatura, acciarini) provengano soltanto dai monti di Urbasa, mentre le cave di Treviño (ampiamente impiegate nella preistoria) non venivano ora usate 82. Queste realtà mostrano un panorama di scambi piuttosto articolato a scala locale e provinciale che seguono logiche estranee a quelle delle strutture economiche basate su sistemi politici centralizzati, anche se non mancano delle eccezioni 83. A partire del VII secolo ci sono ad Alava delle officine singole dislocate ad una certa distanza rispetto alle aree minerarie (Bagoeta S, Gasteiz cattedrale) che vengono approvvigionate da legna selezionata e ferro, fenomeno che testimonia la maggior complessità della struttura artigianale dell’area mediterranea rispetto a quella cantabrica nell’alto Medioevo. La comparsa anche nei contesti di consumo di una discreta quantità di strumenti di ferro permette di tracciare un quadro denso di scambi interterritoriali nelle società locali altomedievali basche che si presentano come comunità profondamente gerarchizzate al loro interno. Un successivo grado di complessità si riscontra tra la seconda metà del X e il primo quarto dell’XI secolo, quando è attestata la circolazione di ferro semilavorato e si creano le condizioni perché quasi 300 villaggi della zona di Alava potessero far fronte al pagamento di almeno una rega di ferro al monastero di S. Millán de la Cogolla (sempre che questo documento venga interpretato in questo modo). Non si ha finora nessun riscontro documentale o materiale del tipo di strutture siderurgiche che erano alla base di questa situazione, anche se è possibile ipotizzare l’esistenza di villaggi minerari o ferriere accentrate, come forse quelli esistenti nell’area di S. Sebastián verso la fine del XII El Rasillo (POZUELO LORENZO, VIGIL-ESCALERA 2003) e Castro Ventosa (GONZÁLEZ CASTAÑÓN 2011). 74 EDMONSON 1989. 75 Un punto di vista più catastrofista è quello sostenuto da MCCORMICK 2005, pp. 55-65. 76 PLIN. nat. 34, 148. 77 PEREDA GARCÍA 1992-1993, p. 111. 78 ALBERDI LONDIGE, ETXEZARRAGA ORTUONDO c.s. ESTEBAN DELGADO c.s. MARTINEZ SALCEDO 1997, pp. 571-575; CEPEDA 2001. 81 Sugli strumenti di ferro di età romana in Alava vedi FILLOY NIEVA, GIL ZUBILLAGA 2000. 82 Andoni Tarriño studia in questo momento la provenienza degli oggetti di selce altomedievali rinvenuti in diversi siti. 83 Anche la circolazione della ceramica altomedievale mostra dei pattern di produzione e circolazione dotata di una certa complessità a scala locale e sovralocale (SOLAUN 2007, pp. 308-390). 79 80 DALLA PERIFERIA: ARCHEOMETALLURGIA DEL FERRO NELLA SPAGNA NORD-OCCIDENTALE NELL’ALTO E PIENO MEDIOEVO secolo. Purtroppo la mancanza di fonti non ci permette di capire il ruolo delle aristocrazie e delle élite locali nella gestione delle miniere e delle risorse metallurgiche dei Paesi Baschi. Dove, invece, la monarchia e le aristocrazie si sono consolidate in modo più precoce ed effettivo, come è il caso del settore asturiano, si riscontra un’azione diretta da parte delle élite nel controllo delle risorse produttive, e in particolare nelle miniere di ferro. Nell’area castigliana questo dominio è invece piuttosto tardivo e parziale, come si vede nel caso dei Paesi Baschi. Qui, soltanto dal XIII secolo i reali castigliani riescono a controllare le vene di ferro e il loro sfruttamento. Inoltre in questo periodo emergono le prime ferriere idrauliche nell'area cantabriche risultato dell'investimento da parte dei poteri territoriali. 84. 4. Conclusioni In definitiva, il quadro qui proposto da un territorio periferico ci permette di rivalutare forme artigianali attive a scala locale e che spesso lasciano poche tracce significative nel record archeologico. L’attenzione posta negli ultimi anni al ruolo delle aristocrazie come motori dello sviluppo economico a scala regionale e interregionale rischia di appiattire altre dinamiche complesse che si svolsero a una scala eterarchica/orizzontale, come abbiamo definito precedentemente. Una volta che si sono superati i ‘modelli primitivisti’ nello studio delle società rurali altomedievali, occorre introdurre nell’analisi altri approcci che permettano di cogliere dinamiche che si svolgono all’interno delle società locali e che mostrano che la frammentazione di questo periodo non implica necessariamente semplificazione o ritardo economico, ma piuttosto una rielaborazione dei sistemi di produzione risultato del cambio di scala al quale operano numerosi elementi delle società postclassiche 85. Bibliografia AA.VV. 1980 = AA. VV., Ferrerías en Legazpi, San Sebastián 1980. AA. VV. 1997 = AA. VV., Memoria inédita de la excavación arqueológica de Burdinola 1997, San Sebastián 1997. MUGUETA MORENO 2013. 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LA PRODUZIONE ARTIGIANALE A ROMA TRA V E XV SECOLO: RIFLESSIONI SUI RISULTATI DI UNO STUDIO ARCHEOLOGICO SISTEMATICO E COMPARATIVO Alessandra Molinari naturalmente di un taglio parziale rispetto alla comLa moltitudine di punti, che indicano la distribuzione prensione complessiva delle trasformazioni economiche, degli indicatori di attività artigianali, sulla pianta di tuttavia le dinamiche dei consumi sono state forse magRoma rappresenta un’immagine efficace della sua ‘opegiormente indagate (almeno per alcuni periodi storici) 2 rosità’ nel corso di circa dieci secoli (fig. 1 e tav. 00). Diversi studi prima di questo hanno contestato con forza e avrebbero richiesto un’ampiezza di studio non afl’idea della ‘città parassita’, già a partire dall’età rofrontabile in tempi accettabili. Rimane comunque vero 1 mana . Il progetto pluriennale sull’archeologia della proche le conoscenze ottimali si raggiungono nei casi, anduzione a Roma tra V e XV secolo ha a sua volta cora purtroppo troppo pochi anche fuori Roma, in cui contribuito in modo, crediamo, originale alla comprenè possibile conoscere sia le officine sia la distribuzione sione della storia economica di questa città. Sui limiti delle loro creazioni 3. dell’evidenza archeologica si sono soffermati diversi auDopo alcune osservazioni di carattere generale, certori e torneremo su questi brevemente in seguito, tuttavia pensiamo che l’aver coinvolto specialisti di fonti diverse, l’aver concepito il progetto con una forte diacronia e l’aver stimolato alcune sintesi su zone distinte da Roma abbia generato spunti importanti per l’avanzamento della ricerca e della comparazione. Come si è già accennato nell’introduzione a questo volume, alla base del taglio che si è voluto dare all’intero progetto c’è stata l’idea di quanto sia importante comprendere il contesto della produzione, la sua collocazione topografica specifica a Roma, la sua scala ed organizzazione. Si tratta Fig. 1. - Mappa di Roma con l’indicazione di tutti gli indicatori di produzione censiti. Vorrei ringraziare in modo particolare Chris Wickham e Sandro Carocci per aver letto e commentato questo testo. 1 Per l’età romana vd. ad esempio ANDREAU 2001 e C. Panella in questo volume; per il Medioevo, da ultimi, MAIRE VIGUEUR 2011 e WICKHAM 2013. 2 È il caso ad esempio dei consumi ceramici per i quali si può far riferimento alla bibliografia di L. Saguì, L. Paroli, D. Romei citata in bibliografia ed al testo di Rascaglia, Russo in questo volume. 3 Per alcuni casi inglesi soprattutto nel campo delle ceramiche si rimanda ad esempio al testo di C. Dyer in questo volume, con bibliografia. Un caso esemplare di studio in Italia è ad esempio CARRERA 2014-2015. 614 ALESSANDRA MOLINARI cherò di sintetizzare quelle che, a mio parere, possono essere considerate le nuove acquisizioni ed i temi aperti suscitati dal censimento degli indicatori produttivi e dai diversi contributi di questo convegno. Su questo tema esiste ovviamente una letteratura molto vasta, che non mi interessa qui ripercorrere in dettaglio. Posso solo ricordare come lo sviluppo di particolari competenze legate allo studio dell’archeologia della produzione abbia ampliato anche in Italia la conoscenza dei processi operativi, dal reperimento delle materie prime alla commercializzazione dei prodotti 4. Come è noto questi processi si possono inferire tanto dagli oggetti finiti, che (con maggiore ricchezza di dettagli) dallo scavo delle strutture produttive. Sempre più, tuttavia, la comprensione più fine ed articolata di specifici contesti produttivi si lega alla possibilità di condurre esami archeometrici e simulazioni attraverso l’archeologia sperimentale. Quest’ultimo approccio in particolare consente ad esempio di approssimarsi in modo più attendibile alla valutazione dei tempi, delle risorse, del numero di addetti e del volume della produzione di determinate imprese 5. Mi interessa qui però insistere su due temi, che mi sembrano centrali nella discussione dei risultati dell’indagine su Roma: lo studio dei livelli di specializzazione produttiva e quello dello status sociale degli artigiani, in modo particolare quando essi si possano considerare dipendenti dalle strutture pubbliche o dalle élites oppure indipendenti 6. La specializzazione produttiva, che in termini molto generali è stata definita come la condizione nella quale uno o più individui producono più oggetti di uno stesso tipo rispetto a quelli che loro stessi consumano, è considerata molto importante nell’organizzazione sociale ed economica delle civiltà passate per diversi motivi. Un primo aspetto fondamentale è che la divisione delle competenze produttive obbliga allo scambio e crea un più alto numero di legami e di interdipendenza nei gruppi sociali. In secondo luogo, come è noto, per l’economia classica la specializzazione è alla base dello sviluppo economico perché tende a migliorare l’efficienza e la qualità dei prodotti, stimola lo scambio e sarebbe alla base dello sviluppo delle città e delle campagne insieme. Nell’ambito della specializzazione è, inoltre, importante comprendere quanto gli artigiani lavorassero a tempo pieno ad una stessa attività oppure in modo stagionale e part-time ad esempio con le attività agricole; se vi era una accentuata differenziazione produttiva tra città e campagna o ancor più tra regioni diverse di una stessa unità politica o tra unità distinte. L’archeologia ha molti mezzi per studiare il grado di specializzazione raggiunto dalle attività artigianali nei diversi periodi. In primo luogo è molto importante valutare la complessità tecnica degli oggetti, per la quale è necessaria una conoscenza approfondita dei cicli produttivi, ossia dei modi di reperire le materie prime e tutti i processi e gli strumenti necessari per trasformarle in oggetti finiti. Un ulteriore strumento di valutazione è la collocazione topografica delle attività: in città e/o in campagna, in una stessa zona della città o del suburbio, in uno specifico ambito territoriale particolarmente ricco di determinate materie prime, solo per citare le opzioni più importanti. Anche la compresenza di tecniche differenti per realizzare oggetti derivanti dalle stesse materie prime può essere un ulteriore fattore di giudizio. Il livello di standardizzazione degli oggetti è, poi, un importante strumento a disposizione della ricerca archeologica. La standardizzazione può riguardare diversi parametri come il tipo di materie prime adoperate, le misure degli oggetti, la loro forma e decorazione, etc. Si ritiene che la bassa standardizzazione possa essere il portato di un numero più elevato di addetti non coordinati tra di loro, che per altro lavorerebbe solo part-time alla produzione di un tipo specifico di oggetti. I livelli produttivi, ossia le capacità in termini quantitativi di produrre oggetti, possono anch’essi essere significativi, ma in questo caso bisogna essere più cauti in quanto talvolta produzioni ‘domestiche’ possono avere notevoli capacità produttive (come ad esempio nel caso delle famose pentole di Pantelleria in età tardo antica) 7. Per quanto riguarda il riconoscimento dei diversi livelli della specializzazione artigianale tanto gli antichisti che i medievisti fanno ampio e giustificato uso dei di- 4 Oltre al classico MANNONI, GIANNICHEDDA 1996, per una sintesi recente si veda GIANNICHEDDA 2014; vd., inoltre, il contributo dello studioso in questo volume. 5 Anche banalmente calcolare quante persone, per quanto tempo, usando quale quantità d’acqua o combustibile fosse necessario per realizzare una determinata quantità di prodotto è di importanza centrale nella comprensione dei processi e della loro rilevanza econo- mica. Si vedano, ad esempio, gli accenni di G. Bianchi ed A. Cagnana in questo volume e, per alcune raffinate applicazioni per il periodo medievale, THOMAS, BOURGARIT, PERNOT 2007. 6 Per un’analisi dell’importanza di queste variabili si veda, ad esempio, COSTIN 2005, alla quale si rimanda anche per la bibliografia. 7 Si veda da ultimo SAMI 2005, con bibliografia. 1. La produzione artigianale e la ricerca archeologica LA PRODUZIONE ARTIGIANALE A ROMA TRA V E XV SECOLO 615 versi modelli produttivi elaborati, sulla base di un’ampia casistica etnografica, da D. Peacock per la ceramica di età romana 8. I diversi gradi di specializzazione che vanno dalla produzione in ambito domestico alla manifattura sono di notevole utilità euristica e comparativa, in quanto comportano anche il riconoscimento del diverso modo di realizzare gli oggetti, gli attrezzi utilizzati, le modalità dello smercio, etc. Inoltre, queste tipologie produttive risultano molto utili anche quando si dispone solo degli oggetti finiti e non anche degli impianti produttivi. È, tuttavia, importante sempre chiarire secondo quali precisi parametri si attribuiscono determinate produzioni ad un tipo o all’altro di produzione, tra quelli elaborati da Peacock. L’uso non univoco di questi modelli può, infatti, complicare piuttosto che facilitare la comparazione tra produzioni diverse. Ad esempio, per citare un caso che può sembrare più evidentemente stridente, con produzione domestica si potrebbe in teoria indicare sia quanto veniva prodotto in seno alla famiglia contadina per gli usi interni al gruppo parentale sia sofisticati oggetti fatti ad esempio da manodopera schiavile in seno alla famiglia imperiale 9. Nello studiare la specializzazione l’integrazione del dato archeologico con quello testuale è in ogni caso fondamentale (qualora sia possibile). Ad esempio, anche solo la quantificazione dei diversi mestieri, compresenti in uno stesso arco cronologico, e la loro collocazione in aree specifiche della città sono informazioni preziose, specie se comparabili nello spazio e nel tempo. I centosessanta mestieri diversi della Roma imperiale, i cento della Roma dei secoli centrali del Medioevo, rispetto ai trenta nello stesso periodo a Lucca o i due di un castello laziale sono ovviamente di per sé significativi 10. Sempre rimanendo su questo argomento il problema della collocazione urbana o rurale delle officine è molto importante ed il saggio di C. Dyer è particolarmente incentrato sul tema dell’artigianato rurale e/o urbano. Se in Inghilterra vi sarebbe una tendenza alla ‘urbanizzazione’ delle produzioni artigianali tra X e XIII secolo e successivamente una tendenza alla ‘deurbanizzazione’ nel tardo Medioevo, il significato economico di questi fenomeni va analizzato con cautela e senza preconcetti. Diversi contributi hanno sollevato questo stesso problema, ad esempio, per la Roma imperiale o in alcune delle sintesi regionali 11. Su questo argomento, che è centrale nella storia stessa dell’urbanesimo, tornerò a breve. Tuttavia si può dire che se la collocazione urbana delle officine più specializzate (che producono una maggiore varietà di oggetti, che utilizzano spesso materie prime più pregiate ed importate anche da aree lontane, etc.) è considerato uno dei sintomi stessi dello sviluppo economico e della piena affermazione delle città, è importante valutare con accortezza le motivazioni della collocazione rurale di alcuni tipi di produzione, nei diversi periodi. La presenza di particolari materie prime, l’abbondanza di combustibile, la presenza di corsi d’acqua utili al trasporto o alla collocazione di macchine idrauliche, la maggiore ‘flessibilità’ ed il minor costo della manodopera rurale possono risultare validi motivi per la dislocazione in campagna di alcune produzioni. In ogni caso, come vedremo a breve, la ‘deurbanizzazione’ delle attività artigianali nell’alto Medioevo, ha un significato assolutamente distinto rispetto a quanto avviene nel tardo Medioevo e nel primo Rinascimento. Questione centrale e controversa è quella che riguarda lo status giuridico degli artigiani ed i livelli di controllo sulla loro attività 12. Questo controllo si può esercitare in molti modi e su fasi diverse della produzione o sull’intero ciclo. Le autorità o le élites possono cioè controllare: l’accesso alle materie prime, le scelte tecniche, il luogo di produzione, l’organizzazione del lavoro, la forma degli oggetti e soprattutto la loro distribuzione o solo alcuni di questi aspetti. Il controllo sulla produzione può riguardare oggetti strategici (come ad esempio le armi), ma anche particolari indicatori di status (alcuni tipi di stoffe, di monili, etc.) o religiosi (ex-voto, arredi liturgici, porta-reliquie, etc.). La distribuzione ed il possesso di questi beni possono ad esempio concorrere alla definizione ed al mantenimento delle distinzioni sociali. Si può, invece, supporre che l’accesso ai beni prodotti da artigiani indipendenti sia libero e che il possesso di questi stessi beni non garantisca alcun vantaggio istituzionalizzato. Archeologicamente non è sempre agevole cogliere queste organizzazioni alternative, tuttavia l’individuazione e lo scavo delle officine o delle grandi manifatture e la loro organizzazione e collocazione topografica, possono essere significative. Particolari segni identificativi delle produzioni come i bolli PEACOCK 1997. È quanto fa ad esempio DI GIACOMO 2013-2014. 10 Su questi temi per l’età romana, ad esempio, MOREL 1987 e C. Panella in questo volume; per il Medioevo C. Dyer, C. Wickham e J.-C. Maire Vigueur in questo volume. 11 I contributi di C. Panella, F. Cantini, P. Favia et alii, J.A. Quirós Castillo per citarne alcuni. 12 Di nuovo COSTIN 2005, pp. 1069-1075. 8 9 616 ALESSANDRA MOLINARI 2. Attività artigianali e storia delle città laterizi, noti anche se in misura ridotta anche nell’alto Medioevo, possono essere ulteriori strumenti conoscitivi. Il controllo sulla produzione può esercitarsi in molti modi differenti e tra l’età tardo antica ed il pieno Medioevo i problemi interpretativi possono essere molto diversi. Il controllo pubblico su alcuni tipi di produzioni è ad esempio ben noto per la tardo antichità 13, anche se perlopiù sulla base dei testi legislativi. Una serie di riflessioni importanti, che sono state sollevate da alcuni contributi e sulle quali tornerò, riguardano in modo particolare l’accesso alle materie prime, che a partire dal periodo tardo antico investono in modo centrale anche lo sfaccettato tema del reimpiego. Ricco di spunti è anche il tema del ruolo giocato nella produzione artigianale da enti religiosi, quali templi, chiese e monasteri 14, dove si possono immaginare molte diverse relazioni: a partire dalle produzioni gestite in proprio in officine alle strette dipendenze dell’ente (come è il caso più volte testimoniato dei monasteri altomedievali), all’utilizzo di maestranze itineranti o alla riscossione di rendite o affitti in prodotti semilavorati o oggetti finiti, solo per citarne alcune. Bisogna poi sempre contemplare la possibilità che calcare, officine vetrarie e metallurgiche siano state semplicemente legate ai cantieri costruttivi degli edifici religiosi ed abbiano avuto quindi una durata limitata nel tempo. Sono tuttavia note testimonianze in cui le officine, nate in occasione del cantiere edilizio, hanno in seguito continuato a funzionare producendo oggetti di prestigio o anche utilitari 15. Per il basso Medioevo la prevalente condizione degli artigiani/proprietari dei mezzi di produzione e responsabili in proprio della vendita dei prodotti, si complica con la comparsa dei mercanti-imprenditori che forniscono le materie prime e/o si occupano in toto dello smercio dei prodotti. In questo caso, tuttavia, è stato notato come i singoli artigiani possano lavorare contemporaneamente in proprio e per il mercante-imprenditore e, in ogni caso, le loro capacità operative specifiche li differenzino dai semplici salariati 16. Rispetto a questo tema, che è centrale nello studio dell’economia e dell’organizzazione sociale antiche e medievali, vorrei soltanto ricordare alcune delle questioni più dibattute, che meglio ci consentiranno di valutare il caso di Roma. La scelta dell’ampia diacronia, affrontata in molti dei contributi e nella impostazione stessa del convegno, ha consentito del resto di non partire da stereotipi interpretativi. In generale, mi sembra che la concentrazione in città di attività artigianali specializzate rimanga uno dei parametri fondamentali nella definizione stessa del fenomeno urbano sia per l’età antica sia per quella medievale, naturalmente accanto ad altri, che possono variare in virtù dell’area geografica o del periodo studiati, come anche della formazione degli studiosi 17. Quello che tuttavia può cambiare notevolmente è il ruolo che queste attività hanno come motori economici. È senz’altro molto differente se le attività artigianali sono indirizzate a soddisfare soltanto il mercato interno (che deve comunque essere sufficientemente sostenuto in termini sia quantitativi che qualitativi) o se invece, grazie all’esportazione in un territorio più o meno vasto, esse diventano uno degli elementi portanti dell’attività economica cittadina. Ancora diverso è il caso nel quale sono le attività mercantili e terziarie a prevalere su tutte le altre. In altri termini, anche nell’ideal-tipo weberiano della città antica come centro specialmente di consumatori, che traggono le proprie risorse principalmente dalle rendite agricole, la consistente presenza di artigiani specializzati e del mercato è comunque un elemento connotante il fenomeno urbano 18. Avendo come obiettivo quello di guardare alle trasformazioni urbane e privilegiando il punto di vista della produzione di manufatti ed edifici, possiamo ricordare come uno dei fenomeni che più è stato evidenziato dalla ricerca archeologica recente sia stata, a partire dall’età tardo antica, la frequente presenza di tracce più o meno consistenti di attività produttive (ad esempio re- 13 Per un’ampia rassegna anche bibliografica sulla tecnologia e la produzione in età tardo antica si veda LAVAN, ZANINI, SARANTIS 2007. 14 Su questi aspetti, in particolare, si vedano i saggi di C. Pavolini et alii, L. Spera, P. Favia et alii in questo volume. Inoltre, ad esempio MARTORELLI 1999 e per la produzione in ambito monastico HODGES, LEPPARD, MITCHELL 2011; da ultimo, MARAZZI 2015 e PANI ERMINI 2015. 15 È il caso, ad esempio, del monastero di S. Vincenzo al Volturno, ma anche di diversi contesti paleocristiani in area pugliese, P. Favia et alii in questo volume. Si veda ad esempio DEGRASSI 1996, pp. 16-17. Per una sintesi vd. WICKHAM 2009a, pp. 627-728; WICKHAM 2009b. 18 In questa sede non voglio neppure lontanamente addentrarmi in questo tema ovviamente molto discusso tra i classicisti, per una sintesi del dibattito recente si veda la nuova edizione della Cambridge Economic History of the Roman World (SCHEIDEL, MORRIS, SALLER 2007) e BOWMAN, WILSON 2009 e 2011. Rimangono illuminanti le pagine di CARANDINI 1981. 16 17 LA PRODUZIONE ARTIGIANALE A ROMA TRA V E XV SECOLO 617 lative a metalli, ceramiche, vetro, calce) in quelle che erano un tempo le aree monumentali (i fori, le basiliche, le terme) dei centri antichi 19. Questo fenomeno è sostanzialmente presente in tutta l’area dell’impero, anche se si evidenzia con tempistiche differenti tra V e VII secolo. L’interpretazione di queste ricorrenze è alquanto variabile ed effettivamente non si presta a conclusioni univoche, come anche vedremo in seguito. L’idea che semplicemente esse indicherebbero l’ingresso in città delle attività artigianali, un tempo rigorosamente emarginate dalle aree abitate e monumentali in quanto inquinanti, deve essere probabilmente sfumata ed articolata. Secondo altri alla base di questo fenomeno vi sarebbe l’affievolirsi del controllo delle autorità pubbliche sul decoro e le infrastrutture urbane. Un ulteriore taglio interpretativo negativamente connotato è quello che individua nello spopolamento delle città e nel decadere delle funzioni e della centralità di alcune aree come il Foro le cause di questo importante cambiamento urbanistico. Una posizione, che legge in termini più decisamente positivi questo fenomeno, è invece quella che vede nella comparsa di botteghe ed attività produttive tra il nitore dei colonnati un chiaro segno di vitalità delle città, un’intensificarsi delle attività artigianali, un nuovo modo di vivere gli spazi 20. Un interrogativo fondamentale riguarda i promotori e/o controllori di queste produzioni artigianali ‘inurbate’: le autorità pubbliche (specie nelle aree rimaste bizantine), gli enti religiosi o invece i privati, con il conseguente tema della privatizzazione (controllata o meno) di spazi un tempo pubblici. Un aspetto però che ritengo sia importante da verificare con maggiore precisione rispetto a questo argomento è se le tracce produttive riguardano fenomeni temporanei (come ad esempio cantieri di smontaggio o forni per il riciclo di elementi metallici o anche calcare per la costruzione di singoli edifici) o piuttosto produzioni di oggetti o semilavorati reiterate nel tempo. Come vedremo, l’analisi della collocazione spaziale delle officine censite in questo progetto in relazione allo sviluppo della città tra V e VII secolo suggerisce percorsi interpretativi differenziati. La ‘ruralizzazione’ e la decadenza del fenomeno ur- bano con tempi ed esiti differenti nelle diverse aree dell’ex-impero romano specialmente tra VI e X secolo è un altro tema, che può connettersi a quello della specializzazione artigianale ed alla sua collocazione o meno in città. La ruralizzazione si connetterebbe con la comparsa di ampie aree coltivate all’interno delle città o con la presenza di un’edilizia di tipologia identica a quella dei villaggi, che presuppone la scomparsa di quella moltitudine di specialisti dell’edilizia che caratterizzava la città antica ed, in misura già più ridotta, quella tardo antica. L’affievolirsi della presenza di un artigianato specializzato urbano è talvolta un implicito corollario della ‘ruralizzazione’. La collocazione di attività artigianali in contesti di villaggio, nei pressi di residenze aristocratiche e monasteri rurali oppure il diffondersi di maestranze itineranti sarebbero un ulteriore sintomo del fenomeno. Se si può dire, sin da subito, che Roma non si dovette mai propriamente ‘ruralizzare’, nelle sintesi che ci sono state proposte per altre aree, si evidenzia come, mentre in Toscana si ritenga che almeno alcune città abbiano mantenuto una discreta centralità anche come centri artigianali, nel caso dell’Italia meridionale esisterebbe una realtà più variegata per la presenza di numerose attività produttive non-agricole in ambito rurale 21. Per l’Europa centro-settentrionale la de-urbanizzazione delle attività produttive sembrerebbe decisamente il tratto prevalente almeno fino alla sviluppo degli emporia, specialmente in età carolingia 22. La ‘rinascita’ delle città, in concomitanza e come sintomo stesso della espansione economica ed in coincidenza con ‘l’urbanizzazione’ dell’artigianato, ha tempi e modi discussi e comunque variabili nelle diverse parti del Mediterraneo e dell’Europa settentrionale 23, mentre è sicuramente molto precoce nel mondo islamico 24. Come ricorda C. Wickham nel suo saggio, per l’Italia sembrano esservi divergenze spesso implicite tra quanti, storici ed archeologi, preferiscono il X e quanti il XII secolo come la fase di vero decollo dell’artigianato specializzato e del commercio. Le notevoli ed incolmabili lacune della documentazione scritta lasciano agli archeologi il compito di produrre nuove informazioni su questo tema, sul quale non mi sembra vi sia ancora una Una sintesi su questo tema è in BROGIOLO 2011, pp. 181-184. Questa visione è ad esempio centrale nel noto testo di H. Kennedy sulla transizione dalla polis alla madina (KENNEDY 1985). 21 Si vedano rispettivamente F. Cantini e P. Favia et alii in questo volume. Per l’Europa settentrionale si veda C. Loveluck in questo volume e ad esempio HENNING 2007. 23 Si vedano, in particolare, i contributi di C. Wickham, C. Loveluck e C. Dyer in questo volume. Sui problemi legati alla definizione della crescita ed il possibile contributo dell’archeologia post-classica rimando a quanto già scritto in MOLINARI 2014a. 24 Si veda S. Gutierrez Lloret in questo volume. 22 19 20 618 ALESSANDRA MOLINARI Negli ultimi anni la ricerca archeologica ha contribuito in modo essenziale ad una nuova visione della storia economica di Roma medievale 27. All’inizio del periodo gli importanti depositi, in particolare, dell’esedra della Crypta Balbi hanno consentito di modificare fortemente l’idea di un’economia urbana totalmente autosufficiente già dal VII secolo. La prevalente presenza, negli strati con questa cronologia, di ceramiche ed anfore di provenienza mediterranea 28, associata a grandi quantità di monete in bronzo, adatte alle transazioni più minute, ed agli scarichi di una o più officine di generi di lusso hanno sicuramente concorso a questa mutata visione. Nella prima metà dell’VIII secolo, sempre nei depositi dell’esedra, sarebbe testimoniata una drastica riduzione delle ceramiche di importazione, rappresentate ora quasi esclusivamente dalle anfore globulari (provenienti in prevalenza dall’Italia meridionale) 29, come anche della circolazione monetaria. Quest’ultima toccherebbe tuttavia il punto più basso a partire dalla seconda metà dell’VIII secolo. L’acquisizione di nuovi dati sulle attività produttive databili tra VI e VII secolo consente ora alcune ulteriori riflessioni. Il principale problema interpretativo rispetto ai depositi della Crypta Balbi rimane la verifica della loro rappresentatività all’interno dell’area urbana. A prescindere dalle molte aree della città in abbandono, nelle quali sono totalmente assenti fasi di VII/prima metà dell’VIII secolo, sembrano nel complesso rari i depositi avvicinabili per ricchezza a quelli appena citati. In termini generali, poi, tra pieno VII e prima metà dell’VIII secolo si assisterebbe ad un rallentamento di tutte le attività edilizie. Lo studio comparato dei rinvenimenti ceramici urbani e quelli della Campagna Romana 30 sembra mostrare un primo allentamento dei rapporti di scambio tra la città ed il territorio rurale già a partire dal tardo IV secolo. Una più netta dicotomia tra i consumi della città e dei centri rurali si avrebbe, tuttavia, soprattutto a partire dalla metà del VI secolo; in quello successivo, mentre in alcuni contesti urbani sarebbero presenti in prevalenza ceramiche di importazione e molte monete, nel mondo rurale solo pochi centri privilegiati avrebbero queste caratteristiche. Il contesto nel quale si collocherebbe la frattura con l’impero bizantino 31 e la conseguente ‘perdita’ dei patrimoni meri- 25 Si vedano i testi di A. Rovelli, G. Bianchi, A. Cagnana, F. Cantini in questo volume. Pisa è la città che sta rivelando le tracce archeologiche più interessanti a questo proposito, con lo sviluppo a partire dal tardo XII secolo della specializzazione artigianale della zona di Chinzica, dove tra XIII e XIV secolo erano collocate officine capaci di output veramente ‘industriali’. Per questa città si veda ora la tesi dottorale di CARRERA 2014-2015. 26 Di nuovo F. Cantini in questo volume. Sulle potenzialità dell’archeologia nel contribuire al dibattito sulla congiuntura del Trecento rimando anche a BURNOUF, BECK, BAILLY-MAÎTRE 2008 e a MOLINARI 2014a, con bibliografia. 27 Cfr., ad esempio, PAROLI, DELOGU 1993; ARENA, DELOGU, PA- ROLI et alii 2001; Roma nell’altomedioevo; PAROLI, VENDITTELLI 2004. 28 Si vedano ad esempio i diversi contributi su Roma contenuti in SAGUÌ 1998 ed in PAROLI, VENDITTELLI 2004; per una sintesi SAGUÌ 2002. 29 Sui contesti di VIII-X secolo dell’esedra della Crypta Balbi di questo periodo si rimanda a ROMEI 2004. 30 Cfr., ad esempio, PATTERSON, ROVELLI 2004; PATTERSON 2010. 31 Su questo tema specifico si veda ora PRIGENT 2004, che colloca questo fenomeno precisamente negli anni centrali dell’VIII secolo (intorno al 740). massa critica di dati sufficientemente ampia. Se tuttavia guardiamo ad esempio all’enorme espansione del volume del costruito in pietra e mattoni, alla circolazione monetaria, all’intensificarsi del ruolo delle officine urbane, all’introduzione anche di novità tecniche nei processi artigianali 25 sono i secoli XII-XIII, che sembrano decisamente essere connotati in Italia, almeno nelle aree centro-settentrionali, da una notevole intensificazione di quella che si può senz’altro definire come crescita economica. Quella che C. Dyer nel suo saggio definisce una tendenza alla ‘deurbanizzazione’ delle attività produttive nel Trecento inglese è anch’essa un fenomeno complesso ed ineguale in Italia. La ‘de-urbanizzazione’ può, infatti, assumere differenti connotazioni nei diversi comparti produttivi e riguardare ad esempio l’affermazione della cosiddetta ‘industria diffusa’ nel comparto laniero, la affermazione di opifici alimentati dall’energia idraulica, la creazione di centri satelliti specializzati in produzioni determinate, come è per la ceramica nel caso di Montelupo presso Firenze alla fine del Medioevo. In ogni caso questa de-urbanizzazione sembrerebbe avvenire nell’ambito di iniziative intraprese da alcuni ceti urbani, non sembrerebbe universale, si collocherebbe in una fase di trasformazione e apparentemente di incremento dei consumi pro-capite anche all’interno delle classi meno abbienti. In questo volume, soltanto per l’area inglese e per la Toscana questo argomento è stato discusso anche su base archeologica 26. 3. L’economia di Roma dalla tardo antichità alla fine del Medioevo: alcuni dei temi aperti LA PRODUZIONE ARTIGIANALE A ROMA TRA V E XV SECOLO 619 dionali non sembrerebbe pertanto leggibile in modo univoco. L’affermazione, quindi, che questa frattura coinciderebbe con la definitiva trasformazione della città «dal centro dell’economia globale a capitale di una piccola regione» 32 potrebbe essere più sfumata, sebbene nel complesso renda bene l’idea della forte discontinuità di questa fase. L’età carolingia sarebbe quella del grande interventismo papale in tutti i settori della vita pubblica ed in particolare nelle attività edilizie di tipo laico e religioso, del passaggio dal sistema trimetallico al denaro d’argento di tipo carolingio, delle domuscultae, del rinnovato rapporto tra città e campagna e della piena affermazione della ceramica a vetrina pesante. Dobbiamo, tuttavia, ricordare come i pareri non siano affatto unanimi su questa fase dell’economia romana e come, da un lato, vi sia chi la considera fortemente espansiva, potendosi collocare Roma nell’ambito di una fiorente economia di scambio 33 e chi ne sottolinea la forte, se non esclusiva, dipendenza dall’iniziativa papale. In particolare P. Delogu, accentuando posizioni già espresse in precedenza, in un suo saggio recente parla precisamente di «economia patriarcale urbana» 34, che come vedremo è forse la definizione più calzante. La seconda metà del IX ed il X secolo che vedono la crisi ed il ridimensionamento del ruolo papale sono ancora un periodo controverso. Tuttavia, sembrerebbero essere decenni decisivi per la trasformazione delle forze economiche e l’allargamento della base produttiva. E’ certamente un periodo difficile da cogliere sotto il profilo materiale, ma gli indizi del cambiamento sembrerebbero esserci. Il rallentamento dell’edilizia religiosa e delle grandi opere pubbliche, cui si può senz’altro collegare la rarefazione della produzione scultorea e la crisi precoce delle domuscultae non sono gli unici elementi da considerare. Diversi indizi parlano di crescita demografica fuori e dentro della città, l’edilizia civile ad oggi nota e databile con un certo grado di precisione (le case dei Fori di Nerva, Cesare, Traiano, del vicus Iugarius) si colloca in grande misura in questa fase piuttosto che nella precedente e dall’XI secolo è più evidente anche dalle fonti scritte l’espansione del costruito 35. La ceramica tende ad essere decisamente più standardizzata e a raggiungere un mercato più ampio 36. Sono anche i secoli in cui nel mondo rurale si colgono i primi segni di un più diretto intervento signorile, l’inizio dell’incastellamento 37. Nel complesso il dato materiale non è per nulla impressionante, ma forse si stanno creando le basi per un allargamento dei consumi ed una accentuazione della specializzazione produttiva. In questo contesto la persistente scarsissima attestazione di moneta dai livelli archeologici rimane tuttavia un elemento dissonante, che ci invita a non enfatizzare o postulare necessariamente la crescita. Ci sarebbero quindi tra IX e X secolo le premesse per una trasformazione strutturale dell’economia romana, ma ‘la crescita’ non sarebbe ancora così evidente? Il recente volume di C. Wickham su Roma nei secoli X-XII 38 ha messo in discussione modi e tempi dello sviluppo economico di Roma anche per i secoli successivi a quelli in esso trattati. Per questo autore, pur con fasi alterne, il periodo tra circa il 900 ed il 1150 sarebbe caratterizzato da una notevole complessità economica, specie se Roma viene confrontata con le altre città del centro-nord della penisola. Una consistenza demografica di circa 20-30.000 abitanti nel X secolo ne farebbero la città più popolosa dell’Occidente latino. La documentazione scritta testimonierebbe l’esistenza di circa un centinaio di mestieri diversi, alcuni dei quali collocati in zone specifiche della città, indizio appunto di produzioni specializzate e della necessità di scambio tra le diverse zone della città. Anche l’espansione edilizia, promossa in primo luogo da alcuni monasteri, avrebbe un ritmo molto sostenuto. Alla base di questa ricchezza, vi sarebbe non solo e non tanto la presenza del papato ed il flusso enorme di pellegrini, quanto piuttosto il controllo assoluto sulla cosiddetta Campagna Romana, che costituirebbe un ‘contado’ enormemente più esteso di quello controllato da una qualsiasi città del centro-nord negli stessi secoli. La scarsa presenza, tuttavia, di centri insediativi di qualche consistenza collocati in prossimità della città avrebbe fatto sì che il mercato degli artigiani romani sarebbe soprattutto stato quello interno. Un problema non del tutto risolto rispetto a questa interpretazione di una brillante economia di mercato è tuttavia, come accennavo, quello 32 Cfr., ad esempio, MARAZZI 1991 e 1993; DELOGU 2010, pp. 309-333. 33 Ad esempio PAROLI, CITTER, PELLECUER et alii 1996; NOBLE 2000; MCCORMICK 2002. 34 Cfr. DELOGU 2010, pp. 309-333. 35 Si veda ad esempio HUBERT 1990; MENEGHINI, SANTANGELI VALENZANI 2004, pp. 31-51. G. Rascaglia, J. Russo in questo volume. TOUBERT 1973 e per una sintesi sulla ricerca successiva nel Lazio: MOLINARI 2010. 38 WICKHAM 2013, con temi ulteriormente sviluppati nel saggio in questo volume. 36 37 620 ALESSANDRA MOLINARI della circolazione monetaria. La zecca di Roma rimase chiusa proprio tra il X ed il XII secolo, riprendendo a coniare solo nel 1180 ca. per iniziativa del senato cittadino 39. Le monete sono, inoltre, estremamente rare nel record archeologico. Bisogna quindi immaginare che l’economia di scambio sia stata sostenuta prevalentemente dall’afflusso di moneta argentea portata dai pellegrini, che per altro è stata rinvenuta anche ‘tosata’. Il ruolo dei cambiavalute deve necessariamente essere stato assolutamente centrale in questi secoli, come del resto testimonierebbe l’esistenza di un Trivium Cambiatoris già nel 1052, nei pressi del Colosseo 40. La Roma del 1300 con 40/50.000 abitanti sarebbe invece una città di media grandezza se confrontata ad esempio a Firenze e Milano. Per Wickham l’interrogativo centrale sarebbe quindi perché essa non si adattò con altrettanto brio di altri centri urbani al mondo più commercializzato dei secoli centrali del Medioevo. In questa fase l’assenza di centri demici intermedi, potenziali acquirenti dei prodotti romani, nelle aree più prossime all’Urbe sarebbe una delle possibili spiegazioni. In ogni caso se nei secoli X-XII Roma sarebbe stata una città straordinariamente evoluta sotto il profilo economico, nei secoli XIII-XIV ne sarebbe stata invece una di media importanza. Diverso il parere di altri studiosi, tra i quali in primo luogo S. Carocci e M. Vendittelli 41, che vedono nel periodo tra XII e XIII secolo (specie fino alla prima metà del secolo) una fase estremamente dinamica di fortissimo investimento in primo luogo in campagna con la riorganizzazione radicale dello sfruttamento agricolo attraverso la forma organizzativa del ‘casale’ e con la massima affermazione dei mercatores specializzati nel commercio del denaro, in operazioni di tipo prevalentemente finanziario, come diremmo oggi. Il censimento dell’edilizia civile medievale, che il Laboratorio di Archeologia Medievale di Tor Vergata sta conducendo da un paio d’anni, consentirebbe al momento di valutare come la grande maggioranza delle abitazioni presenti ancora nel centro storico siano state costruite tra XII e XIII secolo 42. Questo dato coincide anche con la massima attestazione di attività costruttive di tipo civile nelle fonti scritte 43. Il Trecento è anche a Roma un secolo controverso e 39 Sul tema delle zecche e della circolazione monetaria si veda A. Rovelli in questo volume; ROVELLI 2000; ROVELLI 2009; ROVELLI 2010. 40 CAROCCI, VENDITTELLI 2001, p. 79. 41 Ad esempio VENDITTELLI 1993; CAROCCI, VENDITTELLI 2001 e 2004. ricco di trasformazioni economiche e sociali non tutte di segno negativo, inoltre esso coincide con il lungo soggiorno avignonese dei Papi. Il quadro delle attività produttive, che emerge dall’analisi della documentazione notarile dei secoli XIV-XV, illustrato nel saggio di J.C. Maire Vigueur, offre molti spunti di riflessione. In primo luogo non sarebbe così evidente la concentrazione topografica delle attività artigianali in aree specifiche della città, ad eccezione di alcune produzioni più inquinanti o bisognose di maggiori quantità d’acqua e quindi collocate lungo il fiume (come i cuoiai ed i vasai). Un tratto molto importante sottolineato da questo autore è la ‘pluriattività’ di molti artigiani, che affiancavano alla propria e specifica attività artigianale lavori a vario titolo nel settore agricolo. Molti di essi avevano una discreta agiatezza, possedendo spesso casa e vigna, ma in pochi riuscivano ad arricchirsi (privilegiati sarebbero stati i mestieri legati al settore alimentari come macellai e pescivendoli). Il mercato di riferimento degli artigiani romani del Tre e Quattrocento sarebbe ancora quello locale, comunque sostenuto da un ceto aristocratico con un ottimo potere d’acquisto e da molti pellegrini, numerosi anche in assenza del papa. 4. Un tentativo di sintesi dei dati emersi sulle attività produttive a Roma I limiti dell’evidenza disponibile Altri autori hanno evidenziato prima di me i limiti dell’evidenza raccolta attraverso il censimento dell’edito e l’acquisizione di un piccolo numero di dati inediti 44. Qui posso ricordarne di nuovo alcuni, ma anche evidenziare le potenzialità future della banca dati degli indicatori produttivi. Gli elementi distorsivi rispetto alla rappresentatività del corpus raccolto sono, come è stato detto: il notevole peso dell’inedito, ma anche spesso la difficoltà di interpretare correttamente quanto rinvenuto; l’indefinitezza spaziale e cronologica dei ritrovamenti in special modo nei casi di letteratura non recente (ma non solo in quella) o la maggiore intensità delle indagini nell’area centrale (troppo poco si sa ad esempio di Trastevere). Le dinamiche di formazione dei depo42 Sul progetto: MOLINARI, GIANNINI 2014, l’esatta percentuale delle testimonianze delle diverse fasce cronologiche è tuttavia ancora in corso di elaborazione. 43 HUBERT 1990. 44 Si vedano i testi di L. Spera, C. Palombi, N. Giannini, E. Giannichedda in questo volume. LA PRODUZIONE ARTIGIANALE A ROMA TRA V E XV SECOLO siti archeologici e dello smaltimento dei rifiuti possono, come è stato detto, essere a loro volta incisive, come anche i maggiori disturbi, che le stratificazioni bassomedievali possono aver avuto rispetto a quelle antiche. I casi, come la Crypta Balbi, nei quali sono state, fino ad una certa data, edite in modo esaustivo le stratigrafie potrebbe naturalmente portare a sovrastimare l’importanza produttiva di questa zona. Naturalmente il ricorso sistematico alle analisi archeometriche, come è stato fatto per l’Athaeneum, arricchisce fortemente i dati disponibili ed i possibili percorsi interpretativi 45. Disponiamo tuttavia di circa seicento indicatori di produzione, nella maggior parte dei casi georeferenziabili e in numero consistente databili. Possiamo ragionare così in modo molto più esatto e sistematico sui dati disponibili, tentare di individuare delle tendenze anche in termini quantitativi e soprattutto sperare che la sensibilità per le tracce del lavoro, che personalmente trovo bellissime, aumenti grazie anche a questa nostra iniziativa. Del resto nessuna fonte è, per l’archeologo come anche per lo storico, indenne da limiti qualitativi e quantitativi. 621 Non vi è alcun dubbio sul fatto che per la Roma postantica l’eredità del passato rappresentò un’enorme, se non la principale, risorsa materiale e simbolica. I modi tuttavia con i quali questo passato venne riutilizzato, reinterpretato, ridigerito o trasformato sono veramente molteplici e richiedono un’attenzione specifica. Sul reimpiego di elementi scultorei ed architettonici, sul rapporto mutevole con le opere d’arte dell’antichità, si è molto scritto e non intendo tornare sul tema in questa sede 46. Nel suo saggio R. Santangeli Valenzani insiste invece giustamente sull’importanza del reimpiego di elementi non ‘nobili’, sul reimpiego non ‘ideologico’, ma funzionale. A. Cagnana a sua volta distingue diversi livelli di complessità nella messa in opera in nuove murature degli spolia. Di recente la B. Munro 47 ha poi fatto presente come sia utile distinguere tra reimpiego e riciclo, poiché queste due operazioni richiedono capacità tecniche differenti e specifiche: mentre il riuso non comporterebbe la trasformazione delle materie prime, il riciclo sì. Si ricicla, in sostanza, quando si rifondono vetri e metalli o si fa la calce. Forse è possibile pensare anche a categorie intermedie quando, come nei casi dei pavimenti cosmateschi, venivano affettate colonne, sminuzzate e ritagliate lastre con una trasformazione sostanziale degli oggetti antichi. Il significato economico e sociale di riuso e riciclo, come si evince anche in molti dei saggi di questo volume, è quanto mai complesso e non univoco. La connotazione solo negativa che ne vede un sintomo di semplificazione economica e tecnologica, l’attività incontrollata di ‘squatters’ non è accettabile come la sola possibile, come anche non lo è l’opposta interpretazione che semplicemente si riutilizzava saggiamente quello che non serviva più perché la mentalità ed il gusto erano cambiati. I temi che mi sembra siano emersi sono: in quale misura le attività di smontaggio erano controllate e/o organizzate dalle autorità pubbliche oppure spontanee/privatizzate; quale complessità organizzativa e tecnica potevano richiedere recupero, riuso e riciclo; in quale rapporto topografico si trovavano edifici da riusare ed officine di trasformazione dei materiali di spoglio. Per i nostri interrogativi generali sulla storia economica di Roma, ma non solo di questa città, questi quesiti più specifici sono molto importanti perché, ad esempio, possono essere o meno significativi della presenza di personale specializzato, addetto alle diverse attività connesse alla spoliazione e rilavorazione oppure del controllo pubblico sulla produzione, almeno nel segmento relativo all’approvvigionamento delle materie prime. R. Santangeli Valenzani ritiene, con buoni argomenti, che le autorità pubbliche abbiano conservato a Roma il controllo sulle attività di spoliazione degli edifici (fonti di approvvigionamento di materiali diversi, non solo edilizi) fino all’età carolingia ed ai suoi energici papi. Dopo uno iato compreso all’incirca tra la metà del IX e la metà del XII secolo, il controllo pubblico riprenderebbe come sembrerebbe ad esempio emergere dal conflitto di attribuzioni nella tutela e conservazione di alcuni monumenti antichi tra il neo-costituito senato romano ed il papato. Da questo non si può evincere tuttavia che il controllo su tutte le materie prime, lavorate a Roma, fosse assoluto da parte delle autorità pubbliche, pur con fasi di maggior lassismo. Esisteva ad esempio con ogni probabilità un’attività di recupero dei rottami di vetro, la spoliazione di edifici e ville privati, solo per citare alcune possibilità. La complessità tecnica dei cantieri di spoliazione è anch’essa centrale. Esiste il bell’esempio del VII secolo Si vedano i testi di V. La Salvia e M. Serlorenzi, G. Ricci in questo volume. 46 Si veda ad esempio il recente BERNARD, BERNARDI, ESPOSITO 2008, inoltre MAIRE VIGUEUR 2011, pp. 382-432. 47 Ad esempio MUNRO 2012. Riuso e riciclo 45 622 ALESSANDRA MOLINARI di un ben organizzato cantiere di smontaggio intorno al sepolcro di Marco Nonio Macrino, al V miglio della via Flaminia. Il recupero della maggior parte dei laterizi delle cortine di edifici come le Terme di Caracalla, dovette richiedere l’approntamento di impalcature e di macchine per la mobilitazione dei materiali pesanti e carri per il loro trasporto. La Munro ha poi messo in luce come le officine spesso presenti nelle fasi di V-VII secolo delle ville suburbane e rurali richiedessero competenze specialistiche per la rifusione di vetri e metalli o per la produzione della calce, al punto che è giunta ad ipotizzare la presenza di maestranze itineranti. Inoltre, le nuove materie prime ricavate dalle spoliazioni potevano essere riutilizzate in loco (qualora vi siano fasi di occupazione successive nei siti delle ex-ville) o più spesso probabilmente rivendute o trasportate altrove. La villa dei Quintili può essere uno dei mille casi di cantieri di riciclaggio immaginabili nel suburbio di Roma 48. Le analisi archeometriche condotte sui resti delle lavorazioni relative soprattutto alle leghe del rame, che si impiantarono per un secolo e mezzo nell’Athaeneum, hanno dimostrato come si utilizzassero sia metalli di reimpiego, sia materiali di nuova importazione. Questo fatto, specie in quanto connesso ad attività di coniazione della moneta, comportava, secondo La Salvia, capacità tecniche ancora più elevate. Un altro indicatore importante è il legame topografico tra edificio da spoliare, officine ed anche edificio eventualmente da costruire, nonché la durata nel tempo delle attività di riciclo. Inoltre, è importante valutare se si riciclava soltanto, creando ad esempio lingotti, oppure si producevano anche nuovi oggetti. Questo tema si può ben leggere ad esempio nel caso delle calcare. Per R. Santangeli Valenzani le calcare si collocavano in prevalenza nei pressi degli edifici da spoliare, nell’area monumentale quindi in modo particolare, e vicino ai nuovi edifici da costruire, soprattutto per il costo dei trasporti. Su questo punto vorrei dissentire, almeno in parte. Nel carico della calcara di fine VIII/IX secolo ritrovata nell’esedra della Crypta Balbi si usavano marmi provenienti probabilmente dalla decorazione del teatro di Balbo, ma anche ad esempio frammenti di sarcofagi che sicuramente potevano invece venire da aree extraurbane 49. L. Spera ha ricordato il caso dell’epigrafe damasiana proveniente dalla via Appia e ritrovata presso S. Nicola de Calcarariis. La calcara altomedievale ritrovata a piazza Venezia non era nei pressi di un edificio in costruzione, né di un monumento da spoliare e venne utilizzata per più cotture 50. Le calcare presenti nelle ville suburbane spesso non sono in connessione a nuove costruzioni. Il fatto stesso che a partire dall’XI secolo fosse attestata una zona specifica della città denominata Calcarario 51, fa pensare che dovette esistere anche un vero e proprio mercato della calce, con specialisti permanenti. Anche ad esempio la circostanza nella quale in occasione della riparazione delle mura Aureliane da parte di papa Gregorio III si usi il verbo emere, comprare quindi, per quanto riguarda la calce potrebbe essere un’ulteriore testimonianza in questo senso 52. Relativamente al reimpiego di altre materie prime, come il metallo, mi sembra molto improbabile che la zecca identificata nell’Athaeneum, per oltre un secolo e mezzo, semplicemente rifondesse i bronzi, seppur abbondanti, del vicino Foro di Traiano. Doveva invece esistere un sistema ben organizzato per il suo rifornimento stabile. L’officina del bronzista della taberna di piazza Venezia, della prima metà del VI secolo, in uso forse per breve tempo, sembrerebbe specializzata nella creazione di lingottini, da materiale riciclato. Il grande forno della seconda metà del VI secolo sul retro dell’esedra della Crypta Balbi usava invece grossi lingotti per produrre, su grande scala, oggetti di bronzo, tra i quali probabilmente fibbie da cintura fatte a matrice 53. Di breve durata nel tempo dovettero invece essere le attività di riciclo attestate nella villa dei Quintili. Sui materiali da costruzione deve poi esistere una casistica complessa. Se nel caso delle abitazioni aristocratiche del IX secolo del Foro di Nerva si riutilizzarono i blocchi di peperino smontati dal muro di recinzione dello stesso Foro, collocato a pochi metri di Si veda il testo di R. Paris et alii in questo volume. 49 SAGUÌ 1986, la quale ritiene che la maggior parte dei marmi appartengano al vicino monumento. Non esiste, tuttavia, una edizione analitica dei marmi ritrovati nei pressi della calcara. Tra quelli esposti al Museo Nazionale Romano-Crypta Balbi spiccano però anche frammenti di sarcofagi. 50 M. Serlorenzi, G. Ricci in questo volume. 51 Cfr. MANACORDA, MARAZZI, ZANINI 1994, pp. 653-654. Secondo questi autori il ritrovamento della calcara altomedievale dell’esedra della Crypta Balbi, cui si può aggiungere ora quella quasi coeva di piazza Venezia, permetterebbero di far risalire almeno all’età carolingia l’esistenza di un quartiere specializzato nella lavorazione della calce. La presenza di numerose epigrafi funerarie di età romana ritrovate in diversi contesti della stessa zona sono state interpretate come ulteriore indizio di questa vocazione dell’area. Devo sottolineare che una posizione di questo tipo non collima con l’interpretazione della calcara dell’esedra come costruita solo in funzione dei restauri del monastero di S. Lorenzo in Pallacinis voluti da Adriano I. La prima ipotesi sembrerebbe forse preferibile. 52 L. Spera in questo volume. 53 M. Ricci in questo volume. 48 LA PRODUZIONE ARTIGIANALE A ROMA TRA V E XV SECOLO 623 distanza, e nelle povere case del X secolo del Foro di Cesare si ‘raccattò’ quello che c’era nelle vicinanze, diversa organizzazione, invece, fanno supporre le numerose imprese edilizie ad esempio dei papi carolingi. La discreta uniformità dei materiali di reimpiego utilizzati in tutti gli edifici costruiti ex-novo o restaurati da questi papi (blocchi di peperino e mattoni) fanno pensare a sistemi centralizzati di smontaggio e di stoccaggio dei materiali da costruzione. Per altro, nel caso ad esempio degli edifici fatti costruire nella domusculta di S. Cornelia, dove non esistevano edifici di età romana preesistenti, i materiali da costruzione dovettero essere trasportati direttamente da Roma 54. I magnifici pavimenti cosmateschi dei secoli centrali del medioevo, che si ritrovano numerosi anche fuori Roma 55, sono costituiti da spolia rigorosamente selezionati. Infine, come avremo modo di ricordare anche a breve, sebbene dal tardo IV e fino almeno al XIII secolo a Roma si fece uso esclusivo di materiale edilizio di reimpiego, la selezione e/o rilavorazione dei materiali, la loro messa in opera, l’uso più o meno abbondante di malta di calce, la complessità architettonica e decorativa sono tutte variabili da considerare nel valutare la qualità ineguale degli edifici e delle murature. Un caso a parte e di estremo interesse è poi quello del vetro. Le ricerche sulla produzione vetraria a Roma in particolare di L. Saguì, che si è avvalsa di dati stratigrafici incontestabili e di analisi archeometriche 56, hanno messo in evidenza come i pani di vetro dell’area siro-palestinese arrivino in città certamente ancora nel VII secolo. Nell’VIII secolo i vetri sono ancora di composizione simile a quella del secolo precedente, ma con un ricorso maggiore al riciclo. Così è probabile che fino all’VIII secolo siano arrivate a Roma materie prime dall’area siro-palestinese, sebbene in quantità più ridotte. L’assenza totale di ritrovamenti di oggetti di vetro nelle stratificazioni di IX secolo è poi stata spiegata da questa studiosa con un sistema di riciclaggio talmente capillare e sistematico, che si sarebbe riusciti a recuperare la quasi totalità dei vetri rotti. Per questo motivo negli strati con questa cronologia non se ne ritroverebbe oggi alcun frammento. Probabilmente siamo oggi molto più sensibili e ben disposti, rispetto anche solo a venti-trent’anni fa, nei confronti della cultura del riciclaggio e questo ci spinge a considerarlo in termini non necessariamente negativi. In sintesi possiamo comunque dire che, sebbene a Roma non manchino casi in cui il reimpiego sembrerebbe dettato dalla massima convenienza per la facilità e semplicità di accesso alle materie prime, sembrerebbero prevalenti: il controllo pubblico, seppur variabile e non pervasivo, nell’accesso ai materiali da costruzione ed alle materie prime; scelte accurate di cosa reimpiegare; procedimenti tecnici non necessariamente semplificati; maestranze specializzate nello smontaggio e nel riciclo tanto nell’area urbana che in quella suburbana. La circolazione e trasporto in ambito almeno urbano e suburbano degli elementi da riciclare o dei semilavorati sembrerebbe piuttosto sistematicamente attestato. Infine, possiamo dire come almeno fino al settimo secolo giungessero ancora in qualche misura a Roma materie prime provenienti da aree anche distanti, come l’area siro-palestinese per il vetro. Queste considerazioni complessive non tendono comunque a negare il fatto che la necessità di reimpiegare derivi da forti discontinuità nel sistema mediterraneo dei trasporti e nella gestione pubblica o comunque su larga scala di cave e miniere. Queste ultime sembrano, in generale, in abbandono o usate in forme molto più ridotte già dall’età tardo antica 57. Tuttavia, se un sintomo della massima complessità economica possono essere considerati i sectilia pavimenta di età imperiale fatti a partire da blocchi di marmi predisposti già nelle cave (collocate in diverse parti del Mediterraneo) e tagliati in modo perfetto, secondo schemi ricorrenti, prodotti quindi di lusso, ma con una domanda elevata anche quantitativamente, i sectilia tardoantichi o quelli più recenti del tipo cosmatesco, realizzati con soli marmi di reimpiego, non sono meno belli e tecnicamente complessi 58. 54 R. Santangeli Valenzani in questo volume per il Foro di Nerva. Si veda inoltre ad esempio SPERA, ESPOSITO, GIORGI 2011 per un diverso parere e su S. Cornelia: CHRISTIE 1991. 55 Sui Cosmati si rimanda ad es. a CLAUSSEN 2002. L. Saguì, B. Lepri in questo volume con bibliografia. Ad esempio G. Bianchi, A. Cagnana in questo volume. 58 Sull’evoluzione delle tecniche pavimentali si veda F. Guidobaldi, A. Guiglia Guidobaldi in questo volume. Le diverse fasi storiche La «topografia dell’artigianato», come indicava già nel 1987 J.P. Morel per Roma antica, offre spunti importanti di riflessione sulle modalità della produzione, l’organizzazione degli spazi urbani, l’intervento dei poteri pubblici e le rappresentazioni collettive. Ancor più, aggiungerei, se si sceglie di considerarla nella lunga diacronia ed in termini comparativi. La Roma della piena 56 57 624 ALESSANDRA MOLINARI età imperiale 59 vide senz’altro una politica urbanistica volta a relegare progressivamente ai margini dell’abitato o ad organizzare in strutture ben definite e ‘chiuse’ le attività produttive, a concentrare nell’area centrale le attività politiche, giudiziarie e cultuali, allontanandone o tentando di disciplinare le attività artigianali e/o commerciali. Tuttavia, la tensione tra la tendenza alla regolamentazione (dei poteri pubblici) e la resistenza (dei piccoli artigiani) fece si che alcune attività produttive (ad esempio quelle legate alle produzioni di lusso, non necessariamente poco inquinanti, o le fulloniche, non proprio ben odoranti) fossero veramente a pochi passi dalle zone monumentali. In particolare è bene ricordare come produzioni di metalli preziosi erano collocate sin dall’età traianea nella Basilica Argentaria (sul lato ovest del Foro di Cesare), come nel retrostante Clivus Argentarius ed anche nella zona tra vicus Tuscus e vicus Iugarius ed il tempio dei Castori 60. Ai due lati insomma della piazza del Foro. Del resto, le tabernae, luoghi spesso deputati sia alla produzione sia alla commercializzazione dei prodotti, si insinuavano spesso negli spazi lasciati liberi dai grandi monumenti. L’immagine quindi di Roma, come di altre città antiche, tutta nitore di marmi ed aria pulita va forse ridimensionata. In quest’ottica il V secolo va considerato con cautela, come suggerisce anche L. Spera. Certamente si individuano elementi decisivi di trasformazione degli spazi come l’abbandono totale o parziale di alcuni monumenti, il loro cambio d’uso, le attestazioni, seppur ancora sporadiche, delle sepolture urbane. Tuttavia, non tutte le testimonianze di attività artigianale si devono considerare in posizione difforme rispetto al più recente passato. Le attività metallurgiche in corrispondenza della taberna X del Foro di Cesare, potrebbero non costituire affatto una novità, come non lo furono quelle che si ampliarono in questo periodo nella Basilica Hilariana sul Celio. Ulteriore segno di continuità sono le tracce di IV e V secolo di lavorazione dei marmi nell’area di Testaccio e nella vasta area a nord di piazza Navona ‘sacrificata’ già in età imperiale alla lavorazione dei marmi. Mi sembra, inoltre, degno di riflessione il fatto che ben due epigrafi datate al VI secolo inoltrato, entrambe provenienti dall’oratorio dei Quaranta Mar- tiri (ossia di fronte alla fonte di Giuturna, dietro al tempio dei Castori) siano di un aurifex (Amantius) e della moglie di un artigiano dell’argento (Ypolita). Nell’ambito di mutati costumi funerari forse questi artigiani privilegiati ed i loro familiari si fecero seppellire nei pressi dell’area in cui svolgevano la loro attività, che era quella dove si lavoravano da secoli metalli preziosi 61. La piccola fornace da vetro che nel V secolo si installò nella grande latrina, realizzata in età adrianea, della Crypta Balbi forse addirittura nobilitò lo spazio nel quale venne a collocarsi. I secoli VI e VII si presentano sempre più con molte sfaccettature e non si prestano a interpretazioni univoche. Il quadro delle trasformazioni urbanistiche e demiche della città, come anche è stato ricostruito dalla ricerca archeologica, ha indubbiamente aspetti drammatici 62. La popolazione decimata, molte aree della città totalmente abbandonate, la moltiplicazione inoltre delle sepolture in urbe in forme talvolta organizzate, talvolta ‘abusive’ 63 sono tutti fenomeni accertati. Si sottolinea, inoltre, da più parti come dopo il pontificato di Onorio I (625-638) e fino a quello di Adriano I (772795) vi sarebbe stato un ulteriore rallentamento delle attività edilizie (nessun edificio costruito ex-novo, difficoltà anche ad eseguire restauri) e nella produzione scultorea ed epigrafica. Il contesto politico è quello della guerra greco-gotica, quindi della restaurazione bizantina e poi dei Longobardi alle porte. Eppure Roma continuò ad avere un’economia complessa. Abbiamo ricordato più sopra i dati riguardanti i consumi e la circolazione monetaria, soffermiamoci ora sugli indicatori delle attività produttive. Come ricordavamo nella sezione precedente, reimpiego e riciclaggio sembrerebbero organizzati, gestiti (se non controllati) ed eseguiti in maniera consistente da maestranze specializzate. La collocazione, la natura, le dimensioni delle officine sono poi estremamente articolate, come anche il rapporto con aree abitate, usate o abbandonate. Nell’area del Foro propriamente detto le tracce di attività produttive sono abbondanti, sebbene per lo più mal note per quanto riguarda la loro entità e durata nel tempo. Il Foro rimase, tuttavia, almeno fino al IX secolo il centro della vita cittadina, come dimostrano, insieme naturalmente Si rimanda naturalmente ai testi di F. Coarelli e C. Panella, incentrati in modo particolare su Roma antica, ed anche a L. Saguì, B. Lepri e H. Di Giuseppe in questo volume. 60 Si sofferma in modo particolare su questi temi la tesi dottorale di G. Di Giacomo (DI GIACOMO 2013-2014), risultata vincitrice per il 2015 del concorso Fecit te, della casa editrice Scienze e Lettere. DI GIACOMO 2013-2014, che ho tuttavia forzato nell’interpretazione. 62 Si veda ad esempio la sintesi di MENEGHINI, SANTANGELI VALENZANI 2004. 63 Sui molteplici aspetti di questo fenomeno a Roma si veda MENEGHINI, SANTANGELI VALENZANI 2004, pp. 103-125 ed anche MOLINARI 2014b, con bibliografia. 59 61 LA PRODUZIONE ARTIGIANALE A ROMA TRA V E XV SECOLO ad altri elementi, i cospicui ritrovamenti di ceramica altomedievale 64. Una trasformazione impressionante è quella subita dall’Athaeneum, del quale è stata per altro scavata soltanto una parte. La presenza di alcune decine di forni di diversa tipologia ed i resti di lavorazione hanno consentito di individuarvi, con buona ragione, la sede della zecca enea tra VI e VII secolo. Il profilo pubblico della collocazione topografica e dell’impresa sono quindi in questo caso evidenti. Accanto alla zecca (che doveva fare un gran fumo) la piazza del Foro di Traiano rimase in uso fino al IX secolo. Di natura differente e di durata più breve (prima metà VI secolo) è l’attività del bronzista che si collocò in una taberna lungo la via Lata (in corrispondenza dell’attuale piazza Venezia), quando con ogni probabilità l’insula nella quale era inserita era perlomeno ancora in piedi. Il suo profilo sembrerebbe più privato che pubblico. Di estrema complessità interpretativa sono gli importanti ritrovamenti dell’area della Crypta Balbi 65. In primo luogo consideriamo l’officina sorta nel pieno VI secolo in uno dei vicoli subito alle spalle dell’esedra di questo monumento (al di fuori quindi di esso). Lo scavo non è stato del tutto completato e non sono state realizzate analisi archeometriche, tuttavia se ne vede perfettamente la notevole estensione. Occupa, infatti, almeno tre ambienti, che davano direttamente sulla strada, ed è stato possibile riconoscere due differenti tipi di forno. Uno di questi è di una scala impressionante, oltre ad essere stato costruito in forme durevoli. Gli scarti di lavorazione e la presenza di semilavorati (un frammento di un lingotto di rame ad esempio) e crogioli fanno pensare che si producessero oggetti di bronzo ed anche in osso. Si ritiene che l’officina sia stata smantellata sistematicamente per spostarsi nelle vicinanze, quindi non è stato possibile avere un’idea completa della gamma complessiva degli oggetti prodotti. Alcuni scarti, tuttavia, indicherebbero come tra le sue produzioni vi fossero anche bambole di osso e fibbie da cintura in bronzo, realizzate a stampo (di un tipo molto corrente). Non sembrerebbe pertanto scontata la connessione con istituzioni pubbliche o religiose di questa officina, che doveva comunque avere un output impressionante, se si considerano soprattutto le dimensioni di uno dei forni e la quantità di combustibile necessaria per farlo funzionare. Il monastero di S. Lorenzo in Pallacinis, che doveva trovarsi al di sotto dell’attuale chiesa di S. Stanislao dei Polacchi, non può avere avuto 64 65 Si veda G. Rascaglia, J. Russo in questo volume. L. Vendittelli e M. Ricci in questo volume. 625 in questo secolo una connessione diretta con questo vicolo, pensando anche che le insulae nelle quali è inserita l’officina hanno alzati ancora oggi conservati fino al secondo piano. Per quanto è giunto fino a noi, perlomeno alcune delle merci prodotte non erano connesse né alla sfera religiosa, né a quella del lusso. Perché Stato o monasteri dovevano controllare o curare direttamente la produzione di cinture dozzinali e di bambole d’osso? Mi sembra che tutto sommato una connotazione anche privata di questa officina, che poteva per altro rifornire un mercato non solo locale, si possa almeno non escludere. Non sappiamo con esattezza dove si ricollocò l’atelier, del quale si è appena discusso, certamente però il grande scarico ben inquadrabile nel VII secolo, scavato da L. Saguì nell’esedra della Crypta Balbi 66, è pieno di un numero impressionante di scarti di lavorazione, materie prime anche preziose, matrici, attrezzi, ritagli e prodotti finiti. Come è noto la pendenza del deposito e la sua composizione hanno fatto ipotizzare che si tratti di un’attività di scarico non protratta nel tempo e avvenuta a partire dall’area dove poteva trovarsi il monastero di S. Lorenzo, forse per ripristinare uno stato normale dopo un evento traumatico, come ad esempio un’alluvione. Questo spiegherebbe anche perché molti oggetti anche preziosi non siano stati recuperati. L’associazione di questi depositi con il monastero sarebbe anche indicata dal ritrovamento di un sigillo che ne ricorderebbe il nome. La produzione della/e officine, le cui dotazioni e scarichi finirono nell’esedra è quanto mai varia e include sia oggetti di uso corrente, sia di lusso come monili d’oro e pietre preziose. Bisogna chiedersi però se tutto questo venisse effettivamente da un ambiente monastico. Proviamo dunque ad affrontare il problema in una maniera più olistica. Nelle vicinanze si lavoravano: sostanzialmente tutti i metalli, secondo tecniche differenti e per realizzare oggetti sia di uso personale sia ad esempio suppellettili da mensa ed utensili; vetro; osso e avorio; cuoio; tessuti. Che si tratti di un contesto archeologico di notevole ricchezza, a causa anche delle circostanze probabilmente eccezionali di formazione, non vi è dubbio. Per altro l’associazione dei resti di produzione con grandi quantitativi di anfore da vino e da olio e ceramiche sigillate da mensa africane, nonché con una serie di sigilli plumbei, infine la rarità di contesti paragonabili a questo in ambito urbano, permettono di collegare senz’altro questo ritrovamento con 66 SAGUÌ 2002; M. Ricci in questo volume con bibliografia. 626 ALESSANDRA MOLINARI un centro di consumi privilegiato. Ho, tuttavia, trovato interessanti le notazioni di I. Baldini Lippolis, che considera la qualità dei prodotti della/e officina/e della Crypta negli standard di una koinè tardoantica. I prodotti di altissima oreficeria, ritrovati ad esempio nei tesori, sarebbero invece più spesso degli unica. Questa notazione inviterebbe in primo luogo alla prudenza nel valutare il raggio di diffusione dei prodotti di questa officina specifica. Sarebbe qui necessario un lavoro più di dettaglio, non necessariamente archeometrico, volto ad esempio ad individuare piccole idiosincrasie formali e tecniche o nell’individuazione di famiglie di oggetti provenienti dalle stesse matrici. Non è quindi assolutamente certo a quale mercato (urbano o anche extra-urbano?) potesse rivolgersi l’atelier in questione, che lavorava comunque ad altissimi livelli tecnici e produceva una gamma molto ampia di prodotti diversi. La connessione con un ente religioso, in un’area (quella centrale) controllata ancora dalle istituzioni pubbliche è una delle ipotesi interpretative di questo contesto, riproposta da diversi autori in questa sede e con diverse sfumature. La produzione in ambito monastico anche di beni non necessariamente dedicati al culto è nota archeologicamente ad esempio a S. Vincenzo al Volturno 67, in corrispondenza delle fasi carolingie del monastero. Le officine nate in connessione alle fasi costruttive della chiesa di S. Vincenzo Maggiore sarebbero poi passate a produrre oggetti di prestigio, destinate forse al complicato gioco di alleanze con le aristocrazie locali. Un pericolo in questo caso è, tuttavia, insito nel confrontare contesti che potevano essere solo apparentemente simili: un monastero urbano di VII secolo con uno rurale di età carolingia. In sintesi, sebbene la connessione con un monastero non si possa affatto escludere, questa potrebbe non essere l’unica interpretazione possibile. Nel caso si trattasse di un atelier monastico dobbiamo allora forse pensare che operasse prevalentemente al di fuori del mercato e gli oggetti qui prodotti fossero distribuiti come doni o scambiati con altri beni. Non tutta la produzione si presta, tuttavia, bene a questa interpretazione. Inoltre, data la grande varietà di lavorazioni e di materiali attestati, con processi produttivi che richiedevano competenze molto specifiche, dobbiamo immaginare che alle dipendenze del monastero (una vera casa di mode e di arredo!) lavorasse un MITCHELL, HODGES, LEPPARD 2010; HODGES, LEPPARD, MIT2011. 68 Sull’articolazione sociale della Roma altomedievale cfr., ad esempio, MARAZZI 2001 e WICKHAM 2006. numero molto alto di addetti. La possibilità che ci troviamo invece di fronte ai relitti di gruppi di officine, che operavano per il mercato (probabilmente anche extra urbano), alimentato da un élite laica e religiosa piuttosto articolata 68 non è forse quindi da escludere a priori. L’associazione tra produzioni differenti (metallo e osso, metallo e vetro, etc.) non è un indicatore interpretabile invece in modo univoco, sebbene a Roma sia più tipico di questi secoli rispetto a quelli successivi. Ad esempio in un contesto più tardo inequivocabilmente caratterizzato da liberi artigiani, che lavoravano per un mercato molto ampio, come quello scoperto recentemente nel quartiere di Chinzica a Pisa e databile al XIII-XIV secolo, si trasformava nelle stesse botteghe il bronzo ed il vetro o il ferro e l’osso 69. Una cronologia meno definita e forse più precoce (V-VI secolo) hanno le testimonianze che si stanno riconsiderando di recente nell’area di S. Omobono, dove all’interno di tabernae, si doveva collocare un’estesa attività metallurgica. Più distanti dall’area centrale erano le attività produttive attestate all’interno delle terme di Traiano sul colle Oppio. Riassumiamo, quindi, le riflessioni fatte a proposito dei diversi contesti di VI e VII secolo. Si può sottolineare, credo, la varietà di condizioni produttive. Ai casi certi in cui si può ricostruire un controllo diretto sulla produzione da parte delle autorità pubbliche (Athaeneum), si affiancano officine più probabilmente private (ad esempio quella nel vicolo dietro l’esedra della Crypta Balbi) e situazioni di più difficile interpretazione, come nel caso del/degli atelier che nel VII secolo scaricarono all’interno dell’esedra dello stesso monumento. Del resto, fino agli ultimi decenni del VII secolo, il ruolo capillare degli enti ecclesiastici ed in particolare del papa nella vita pubblica ed economica romana è stato almeno in parte ridimensionato, incrementandosi invece notevolmente a partire dal secolo seguente 70. L’esistenza di artigiani indipendenti e socialmente influenti sembrerebbe poi attestata, ancora alla fine del VI secolo, dalle epigrafi di Amantius ed Ypolita, sepolti nell’oratorio dei Quaranta Martiri nel Foro. La tendenza ad una maggiore concentrazione delle officine nell’area centrale potrebbe derivare, oltre che dall’incompletezza del campione, da un controllo pubblico sulla dislocazione topografica 67 CHELL 69 70 230. CARRERA 2014-2015. Ad esempio COATES-STEPHENS 2006; DELOGU 2010, pp. 220- LA PRODUZIONE ARTIGIANALE A ROMA TRA V E XV SECOLO 627 degli artigiani e sulla gestione delle materie prime, non necessariamente esteso a tutta la filiera produttiva. Certamente in molti casi le officine sembrerebbero collocate nelle immediate vicinanze di aree ancora abitate o comunque utilizzate. Se a questo dato uniamo la presenza sempre più frequente di sepolture, abbiamo la netta sensazione che il senso del ‘decoro’ doveva decisamente essere cambiato, come anche la funzione stessa di molti spazi. Se tuttavia dovessi tirare delle fila, anche se molto provvisorie, mi verrebbe di affermare che i secoli VI-VII, sotto il profilo dell’organizzazione produttiva, assomigliano più al V che non all’VIII secolo, quando le discontinuità sono maggiori in diversi settori della vita materiale ed organizzativa. Insomma, non sembrerebbe tutto degrado, abbandono e semplificazione tecnologica, come non sembrerebbe tutto pubblico o tutto ecclesiastico. La scala delle produzioni sembrerebbe, inoltre, ancora piuttosto variabile ed, in alcuni casi, decisamente consistente. Le testimonianze relative ai secoli VIII-X ci portano a considerazioni di tipo diverso. In primo luogo si può notare un netto calo (riduzione di oltre il 50%) quantitativo degli indicatori delle attività produttive, rispetto ai quali dobbiamo anche tener presente il probabile ulteriore calo della popolazione. Una concentrazione importante di attestazioni è ancora nell’area centrale, nel Foro e nella Crypta Balbi. Sempre in connessione quindi con le aree più intensamente abitate 71. Certamente può essere penalizzante per la comprensione del periodo l’assenza di informazioni per le aree intorno al Laterano e a S. Pietro. Tuttavia, stupisce che in un grande monastero periurbano come San Paolo fuori le mura quasi le uniche tracce produttive siano quelle del cantiere di costruzione degli edifici monastici. Alcune notazioni importanti si possono fare partendo dagli oggetti, realizzati a Roma, in particolare dalla ceramica. La ceramica a vetrina pesante, prodotta a partire dalla fine dell’VIII secolo, è stata in passato considerata un indicatore di complessità produttiva e di circolazione ampia. Questa ceramica non ha tuttavia un medesimo significato economico nel lungo arco di tempo nel quale venne prodotta. Già negli anni novanta, M.B. Annis 72, guardando agli aspetti tecnici delle produzioni di IX secolo, ipotizzava che la loro bassa standardizzazione e variabilità potesse indicare come nella prima fase produttiva gli oggetti in Forum ware potessero addirittura essere fatti su commissione. Questo fatto coinciderebbe bene anche con la carta di distribuzione degli esemplari più antichi, che fuori Roma si trovano spesso in connessione con strutture di tipo ecclesiastico. È, inoltre, interessante notare come la completa revisione degli scarti di produzione urbani e rurali fatti in occasione della nostra ricerca abbiano completamente espunto tutti quelli che in passato erano considerati indicatori di produzione. Ad oggi quindi la produzione propriamente urbana della Forum ware viene ipotizzata, oltre che sulla maggiore concentrazione dei rinvenimenti, sulla base del fatto che le analisi mineralogiche degli impasti (che andrebbero tuttavia ampliate) danno risultati composizionali abbastanza uniformi per quello che riguarda i ritrovamenti cittadini. In ogni caso sempre nel IX secolo dovevano esistere altri centri produttori, anche di ambito rurale. E’ poi abbastanza significativo il fatto che l’unica fornace finora conosciuta, che produceva ceramica comune identica a quella di Roma, nota per i secoli VIII e IX, sia stata trovata nell’ambito dell’ insediamento rurale di Mola di Monte Gelato, connesso con una domusculta papale. A partire dal X secolo, invece, la Forum ware risulta essere più standardizzata e circola con maggiore ampiezza. Molto interessanti sono anche i dati che riguardano la produzione ed il consumo del vetro. Se, sempre alla Crypta Balbi, ancora nell’VIII secolo si produceva vetro secondo le tecniche e alcune delle forme di origine tardo antica (con l’incrementato però del ricorso al riciclo), colpisce tuttavia che negli strati di IX secolo, nei quali abbondano le ceramiche, non si trovino per nulla frammenti di contenitori in vetro. L. Saguì suggerisce che questo sia dovuto ad un riciclaggio capillare e quasi totale delle suppellettili vitree. Il knowhow rispetto alla produzione vetraria non sarebbe infatti scomparso, come testimonierebbero i mosaici di età carolingia e lo stesso rivestimento della Forum ware. Si può tuttavia anche ipotizzare che l’uso di suppellettili in vetro si sia drammaticamente ridotto tra la seconda metà dell’VIII ed il IX secolo. Mi sembra poi significativo il fatto che i crogioli rinvenuti in contesti di X secolo sempre alla Crypta Balbi, segnino un importante cambiamento tecnico, proprio per il modo con il quale sono stati realizzati. Questo potrebbe per altro coincidere con l’immigrazione di nuovi artigiani. 71 La presenza di ceramica medievale è stata cartografata in G. Rascaglia, J. Russo in questo volume, col fine di monitorare anche le aree di più intensa residenza. 72 ANNIS 1992. Nel testo di G. Rascaglia, J. Russo è riportata tutta la bibliografia sulla Forum ware. 628 ALESSANDRA MOLINARI Il fatto che i residui vetrosi nei crogioli siano risultati silico-sodico-calcici potrebbe, infine, indicare che le materie prime di base erano comunque importate 73. Si potrebbe, in sintesi, ipotizzare una cesura o comunque una forte contrazione nell’uso e nella produzione di suppellettili vitree nell’arco del IX secolo, cui seguì nel X secolo un cambiamento tecnico dovuto a nuove maestranze. Gli studi e gli scavi recenti 74 hanno permesso di individuare con certezza le tecniche costruttive databili tra l’VIII ed il IX secolo. Universale è, inoltre, la constatazione del forte incremento qualitativo e quantitativo delle attività edilizie sia religiose sia laiche, sia urbane sia rurali, specialmente tra la metà dell’VIII secolo e la prima metà di quello seguente. Il complesso delle attività edilizie è di una qualità e quantità incomparabile con quanto è noto nello stesso periodo per la maggior parte delle città italiane 75. Le tecniche costruttive del periodo, negli edifici di impegno medio ed alto 76, prevedono nella maggior parte dei casi l’utilizzo di blocchi (molto spesso di peperino e sommariamente ridotti nelle dimensioni) medio-grandi di reimpiego (per un’altezza variabile) e di filari in laterizi (ovviamente di reimpiego), con i caratteristici corsi ‘ondulati’. Le murature sono, anche se non sempre, legate con malta di calce di qualità variabile. Queste tecniche costruttive richiedono in termini generali: il reperimento dei materiali costruttivi adeguati; l’impianto di calcare che necessitano di know how specifico e di prezioso combustibile, nonché una organizzazione complessiva del cantiere, comprensiva, in alcuni casi almeno 77, di sistemi di sollevamento dei blocchi. Come ricordavo più sopra, in alcuni contesti si sono ipotizzate (S. Paolo fuori le mura) forme di smontaggio degli antichi monumenti e stoccaggio sistematico dei materiali da costruzione 78. Questo però non indica affatto un ritorno ai livelli professionali del passato. Se guardiamo ai dettagli della messa in opera, non si può non notare come le murature non siano spesso perfettamente a piombo ed i corsi ondulati presuppongano una non completa padronanza dell’arte del murare. Riprendendo suggerimenti già espressi da R. Santangeli Valenzani 79, si può ipotizzare come il livello complessivo di specializzazione professionale nei cantieri romani altomedievali fosse in sostanza relativamente basso. Magistri esperti potevano avere alle proprie dipendenze lavoratori non specializzati, magari costretti alle corvèe 80. Questo è, ad esempio, il caso ben noto dei restauri realizzati da Adriano I alle mura aureliane e della costruzione delle mura leonine 81. Casi analoghi di organizzazione del lavoro sono noti anche per i Magistri Commacini, che potevano lavorare anche con maestranze fornite direttamente dal committente 82. In sintesi, la committenza e l’iniziativa papale svolsero un ruolo fondamentale nel funzionamento dell’economia romana, come certamente avvenne nel settore edilizio, ivi inclusa la decorazione scultorea 83. Rimane, tuttavia, da chiarire quanto e se si possano essere sviluppate in questo periodo maestranze completamente ‘indipendenti’, mentre ho già accennato ai temi (ancora aperti) legati alla produzione della calce. Ritornerò a breve sul problema della rinascita economica in età carolingia, sembrerebbe però opportuno sottolineare sin da ora di come difficilmente tra VIII e IX secolo si possa parlare di una crescita basata sulla 73 Non si tratta, infatti, di vetri potassici realizzabili con ceneri di piante non marine. Per i vetri sodici nel Medioevo si ricorreva infatti alle ceneri di piante marine come la salicornia, cfr. ad esempio FOY 2001. 74 Cfr. COATES-STEPHEN 1997; MENEGHINI, SANTANGELI VALENZANI 2004, pp. 133-142; di grande interesse sono poi i recenti rinvenimenti degli scavi presso la basilica di S. Paolo fuori le mura, nei quali è stato possibile stabilire precise corrispondenze tra le tracce di attività di cantiere e specifici manufatti murari, con fasi che coprono tutto l’VIII secolo, cfr. SPERA, ESPOSITO, 2011. 75 Per una sintesi su questi temi si vedano G. Bianchi, A. Cagnana in questo volume e BROGIOLO 2011. 76 Ad esempio nelle domus terrinae scavate nei Fori di Cesare e Traiano, riferibili ai ceti medio-bassi, le tecniche edilizie sono moto più semplici prevedendo basamenti in blocchi non selezionati di reimpiego, legati con terra, ed alzati in mattoni crudi, cfr. ad esempio MENEGHINI, SANTANGELI VALENZANI 2004, pp. 133-142. 77 Quando ad esempio la parte di cortina composta dai blocchi di peperino si eleva ad una altezza consistente, come nel caso delle mura leonine e nei restauri carolingi delle mura aureliane. 78 Cfr. SPERA, ESPOSITO 2011. Cfr. ad esempio SANTANGELI VALENZANI 2002; MENEGHINI, SANVALENZANI 2004, pp. 133-142. 80 Sembra a questo proposito interessante la notazione relativa alle fosse per la preparazione della malta rinvenute nei recenti scavi di S. Paolo fuori le mura: l’assenza di macchine miscelatrici fa pensare alla presenza di manodopera, cospicua ma non specializzata, cfr. SPERA, ESPOSITO 2011. 81 Su questi aspetti si sofferma anche DELOGU 2010, p. 317. 82 Sui Magistri Commacini si rimanda al recente volume Magistri Commacini 2009, si veda inoltre G. Bianchi, A. Cagnana in questo volume. In sintesi, per l’alto Medioevo si può in generale pensare a diverse possibilità per gli operatori specializzati nelle attività edilizie: maestranze indipendenti, ma itineranti (questo sarebbe ad esempio il caso dei Magistri Commacini, che tuttavia non sembrerebbe applicabile a Roma, dove le maestranze sembrano decisamente stanziali); maestri pagati in parte in moneta, in parte in ‘natura’; maestri dipendenti ed anche membri autorevoli delle principali comunità ecclesiastiche (su quest’ultimo tema si veda ad esempio CANTINO WATAGHIN 2010). 83 Si vedano ad esempio PAROLI 2001; BALLARDINI 2010. 79 TANGELI LA PRODUZIONE ARTIGIANALE A ROMA TRA V E XV SECOLO specializzazione artigianale urbana e sull’incremento degli scambi di tipo commerciale (data anche la ridottissima circolazione monetaria). Tra la seconda metà del IX ed il X secolo si possono forse cogliere alcuni timidi sintomi di cambiamento. Abbiamo già ricordato le novità tecniche del vetro e la maggiore standardizzazione e diffusione della Forum ware. Possiamo anche citare gli importanti cambiamenti, ben visibili nell’area centrale, costituiti soprattutto dalla costruzione consistente di case private in contesti un tempo pubblici come nei casi dei Fori imperiali, della Basilica Giulia, del Vicus Iugarius. Espansione dell’abitato e appropriazione/privatizzazione di spazi un tempo pubblici sembrerebbero esserne le cause. Infine, mi piace ricordare la testimonianza del ‘gemmario’ i cui resti di produzione sono stati trovati sul Vicus Iugarius. La collocazione sostanzialmente nella stessa area nella quale dovevano trovarsi concentrati i gemmari nella Roma antica devo dire colpisce 84. Per l’XI secolo poche sono le tracce archeologiche esplicite di trasformazione delle attività produttive, rispetto alla relativa abbondanza di testimonianze scritte 85. L’espansione dei consumi di ceramica locale riguarda soprattutto il mercato urbano, mentre si moltiplicano le produzioni, in alcuni casi molto simili a quelle romane, negli altri centri del territorio laziale. La ceramica romana è ora molto più standardizzata (testimoniando quindi forse l’esistenza di meno vasai, maggiormente specializzati), ma evidentemente poco competitiva rispetto alle produzioni rurali. Negli edifici, non numerosi invero, attribuibili a questo periodo, le tecniche murarie, sebbene sempre realizzate con materiale di recupero, sembrerebbero essere in alcuni casi più regolari. In particolare alcune cortine laterizie presentano una selezione attenta dei mattoni ed una messa in opera molto più accurata 86. Tra XII e XIII secolo i cambiamenti sono molto più sensibili in diversi settori. In primo luogo un nuovo aumento esponenziale delle testimonianze di attività produttive, specialmente nel settore dell’edilizia. Il grande numero di calcare, assommandosi al numero degli edifici ancora superstiti, alle testimonianze scritte, alle nuove tecniche edilizie, testimonia dei ritmi accelerati dell’espansione del costruito e delle trasformazioni urbanistiche. La novità principale nelle tecniche costruttive è costituita in primo luogo, a partire dal XIII secolo, DI GIACOMO 2013-2014. WICKHAM 2013 e lo stesso autore in questo volume. 86 MONTELLI 2011. 629 dalla grande diffusione, accanto al persistere delle cortine in laterizi di reimpiego, delle murature in tufelli. Queste possono essere considerate le prime cortine murarie, dopo il IV secolo, ad essere realizzate con materiali nuovi predisposti già in cava, secondo un modulo standardizzato 87. Il volume del costruito è ancora più impressionante se si annovera nel conto anche la costruzione di decine di casali (dotati di torri, recinti murari e domus), nel raggio di venti chilometri dalle mura aureliane 88. Importante è anche il più netto impulso ad una diversa connotazione dello spazio urbano. È, infatti, in questo periodo che si accentua e si intensifica l’occupazione dell’area compresa nell’ansa del Tevere, con un ‘compattamento’ dell’abitato. Quella che era l’area centrale dei Fori è ora decisamente più marginale. Alle indicazioni che derivano dalla distribuzione del costruito si aggiunge un dato di estremo interesse, valorizzato recentemente da F. Guidobaldi 89. Si data, infatti, in molti casi con assoluta certezza, al XII secolo una vasta operazione urbanistica consistente nel riporto di strati di terreno (spesso ricchi di macerie) finalizzati ad un innalzamento sistematico delle quote di calpestio ed alla eliminazione di molti salti di quota, che dovevano caratterizzare ancora i livelli percorribili nella città. Nel campo delle ceramiche la principale novità è costituita dall’inizio della produzione della ‘ceramica laziale’ agli inizi del XIII secolo, che comporta l’introduzione di nuove tecniche, di un nuovo gusto decorativo, nell’ambito di repertori funzionali, in un primo tempo, tradizionali. Questi prodotti si connotano quindi come decisamente urbani, fabbricati in modo innovativo, con tecniche più complesse (come la doppia cottura) e materie prime di non facile reperimento (come l’ossido di stagno). Nel complesso quindi la ‘ceramica laziale’ è un prodotto competitivo rispetto all’artigianato rurale. Tuttavia, l’ampiezza della sua distribuzione al di fuori della città non è particolarmente significativa, specie se la paragoniamo con altri prodotti coevi come la maiolica arcaica pisana e la graffita arcaica tirrenica savonese, che raggiungevano un numero notevole di siti nell’ambito dell’area tirrenica. Ricordo, infine, come la riapertura della zecca a Roma per iniziativa del senato cittadino alla fine del XII secolo e l’aumentata circolazione monetaria rappresentino un dato altrettanto importante. La distribuzione topografica degli indicatori di produzione, riferibili a tutto l’arco cronologico compreso ESPOSITO 1998 EAD. in questo volume. CAROCCI, VENDITTELLI 2004. 89 GUIDOBALDI 2014. 84 87 85 88 630 ALESSANDRA MOLINARI tra l’XI ed il XV secolo, non consente di individuare tendenze alla concentrazione in aree particolari della città di attività artigianali specifiche, ma su questo può influire: la parzialità del dato a nostra disposizione (particolarmente lamentabile nel caso di Trastevere zona in cui dovevano concentrarsi diversi tipi di artigiani); la distorsione che può derivare dai maggiori disturbi moderni, che le stratigrafie bassomedievali possono presentare, ma anche un interesse attenuato degli archeologi per queste fasi cronologiche. Difficile stabilire la scala produttiva sulla base dei ritrovamenti noti (ad esempio la fornace da vetro di piazza Venezia), sembrerebbe però più diffusa la scala della piccola impresa artigiana. Inoltre, sembrerebbe più netta rispetto ai secoli V-VII la distinzione tra artigiani che lavoravano materiali diversi, la qual cosa coincide con quanto risulta dalla documentazione scritta. Per valutare le capacità produttive degli artigiani romani è quanto mai utile il confronto con alcune scoperte recenti fatte in città come Pisa o Parigi. Di Pisa abbiamo già ricordato il successo della maiolica arcaica anche fuori dall’area cittadina, gli scavi di emergenza nel quartiere di Chinzica, a sud dell’Arno, hanno poi portato alla luce una serie di officine di complessità impressionante 90. Questa zona della città si sviluppò particolarmente nel XIII secolo con l’ampia bonifica di aree paludose. All’interno dell’area degli ex-laboratori Gentili, che avevano inglobato alcuni edifici medievali, sono stati scavati i resti ben conservati di fornaci metallurgiche e vetrarie, la cui cronologia principale si colloca tra XIII e prima metà del XIV secolo, corredate di decine di crogioli, di scorie, minerali ed in modo particolare di una serie di matrici, per la produzione seriale di fibbie ed altri piccoli oggetti per l’abbigliamento. A dare un’idea piuttosto precisa delle potenzialità produttive di queste officine c’è il calcolo, fatto da F. Carrera, che ciascuna matrice ‘multipla’ poteva produrre decine di fibbie ad ogni colata. Lo studio attento delle matrici ha poi consentito di ipotizzare che alcune fibbie trovate, ad esempio, nel villaggio sardo di Geridu o in alcuni dei castelli delle colline Metallifere in Maremma, potevano venire proprio da questa officina pisana. Sembra molto interessante allora il circuito economico, che Pisa era in grado di mettere in atto in questo periodo: controllo politico di alcune importanti aree metallifere, nonché dell’estrazione e prima lavoCARRERA 2014-2015. MILANESE 2007. 92 THOMAS, BOURGARIT, PERNOT 2007. razione di metalli come il rame e l’argento (questo non solo doveva alimentare la produzione monetaria, ma anche le officine metallurgiche); lavorazione in città di un numero enorme di oggetti molto correnti; vendita dei prodotti in ambito urbano, ma anche nelle stesse aree di estrazione dei minerali metallici. Sempre a Pisa nell’area di Chinzica, pochi anni or sono, è stata inoltre scavata un’officina per la produzione in serie di campane 91, produzione che è sempre stata considerata tipica di maestranze itineranti. Lo scavo parigino di Rue des Archives 92 ha portato alla luce un’officina, che lavorava il rame e le sue leghe, databile nella prima metà del XIV secolo. Lo studio accurato, attraverso anche analisi archeometriche ed archeologia sperimentale, hanno consentito di ricostruire l’organizzazione del lavoro e le dinamiche della produzione, che gli autori della ricerca definiscono non di serie, ma di massa di oggetti di poco valore. È stato ad esempio calcolato, che questo atelier poteva produrre, per difetto, oltre diecimila placchette al mese. Inoltre, valutando spazi, resti di lavorazione, punti di lavoro è stato calcolato che l’officina non poteva essere a conduzione familiare, ma doveva impiegare un numero elevato di addetti, con livelli diversi di specializzazione. Anche a Pisa nelle officine degli ex-laboratori Gentili a Chinzica, solo per la lavorazione degli oggetti in lega di rame è stato calcolato che dovevano essere impiegate tra le sedici e le ventisei persone 93. Questi esempi, oltre a indicarci quale potenziale per la storia della produzione artigiana ed in generale dell’economia medievale possano avere studi ben condotti, ci suggeriscono come a Roma, allo stato attuale delle ricerche, non sembra esservi nessuna testimonianza materiale che permetta di ipotizzare l’esistenza di officine con questi livelli di output e di organizzazione interna. Per i secoli XIV e XV, per i quali la documentazione notarile è molto più nutrita, possiamo segnalare in particolare l’espansione delle produzioni e dei consumi di ceramiche di qualità, secondo metodi di produzione sempre più standardizzati, attraverso il ricorso anche a specimina 94 per l’esecuzione delle decorazioni. Nel campo dell’edilizia se fonti scritte e materiali concordano nell’indicare un rallentamento notevole nelle attività costruttive, è possibile che anche in questo settore, a seguito della forte contrazione demografica, sia aumentato il livello del comfort domestico, attraverso ad 90 91 93 94 CARRERA 2014-2015. G. Rascaglia, J. Russo in questo volume. LA PRODUZIONE ARTIGIANALE A ROMA TRA V E XV SECOLO 631 Non esistono e se sono esistite non sono durate a lungo le città di nullafacenti, di parassiti e di soli consumatori 95. Certamente Roma non lo fu mai. Esistono, tuttavia, molti modi nei quali può funzionare ed articolarsi la produzione artigiana e molti modi nei quali essa contribuisce al funzionamento più generale dell’economia, come abbiamo visto a Roma nella lunga durata e attraverso le sintesi comparative 96. Il focus sulle attività produttive ha certamente contribuito a ripensare e ad articolare la lettura dei ritmi economici, delle fasi di crisi, di stasi o di crescita. È così ad esempio evidente come questi ritmi non coincidano necessariamente con quelli dell’architettura ufficiale, con le iniziative edilizie ed i donativi papali. L’accumulo delle informazioni archeologiche sui consumi e le produzioni, su tutte le attività edilizie, sulla circolazione monetaria ed anche il rinnovamento della ricerca storica permettono di guardare diversamente da quanto si faceva qualche decennio fa alla storia cittadina 97. In termini molto generali possiamo dire che l’economia di Roma rimase sempre ‘urbana’, complessa, non ‘ruralizzata’. Come ha tuttavia suggerito C. Wickham, poiché rimase a lungo forse più complessa della maggior parte delle città italiane, il problema è piuttosto perché nel XIII secolo non decollò come fecero ad esempio altri centri quali Pisa, Firenze, Milano. I ritmi economici invece del mondo islamico, ma anche di quello inglese sono ancora diversi. Entriamo tuttavia più nel dettaglio. Si possono individuare senz’altro dei momenti in cui sono prevalse le discontinuità o meglio nelle quali queste sono più evidenti: alla fine del VII secolo, nel X secolo, agli inizi del XIII. Non giova, a mio parere, alla comprensione delle trasformazioni della città antica una visione che la assimila alla Parigi di Haussmann, tanto che dal V secolo tutto diventerebbe inesorabilmente più sporco e più degradato. Certamente Roma non poté non subire gli ef- fetti delle trasformazioni socio-politiche e del calo drammatico della popolazione nei secoli VI e VII, tuttavia, pur nella sua conformazione a ‘macchia di leopardo’, non cessò di gravitare sull’area centrale, sul Foro, e di essere gestita e governata in modo centralizzato. Nelle trasformazioni delle attività produttive non si può affatto dire, tuttavia, che tutto fu controllato e diretto dalle autorità pubbliche e neppure dagli enti religiosi. Sembrerebbero essere attive una pluralità di forze e una notevole complessità produttiva, nell’ambito di un’economia ancora in buona parte di scambio. Si può anzi sottolineare la discreta importanza economica della produzione metallurgica, non relegata soltanto alle produzioni di lusso e forse con un mercato più ampio di quello locale. Nonostante il ricorso amplissimo al reimpiego ed al riciclo, alcune materie prime come il vetro ed alcuni metalli non cessarono di arrivare in città (come arrivarono molte ceramiche di importazione). Sostanzialmente in nessun settore produttivo si può parlare di semplificazione o di scomparsa di tecniche. L’VIII secolo è veramente una fase di svolta, di trasformazioni profonde, di crisi e di riorganizzazione. Tra VIII e IX secolo la popolazione toccò i suoi livelli più bassi, pur rimanendo Roma una delle città più popolose dell’Occidente cristiano. Si registrano molte interruzioni, semplificazioni, cambiamenti nel settore della produzione e del consumo. Cessano quasi del tutto le importazioni, si riduce enormemente l’uso della moneta, i consumi di oggetti di vetro si riducono a tal punto da essere quasi invisibili. Compaiono nuove tecniche (forse sopite, forse reintrodotte) e nuovi gusti ad esempio nella produzione della ceramica o in quella scultorea. Anche nelle costruzioni di qualità le tecniche che vedono l’associazione di grossi blocchi di tufo per diversi filari, con estese cortine laterizie sono piuttosto diverse dall’opera listata che era prevalsa fino al VII secolo. Cambiano, sicuramente dal IX secolo, le tipologie delle abitazioni. Sotto il profilo del funzionamento economico ci sono certamente molti cantieri, specialmente a partire dalla seconda metà dell’VIII secolo e fino alla metà del IX, in cui si cura soprattutto la decorazione interna. Tuttavia, i prodotti romani circolano poco, non sono seriali, alcune produzioni possono essersi ruralizzate. Certamente è leggibile con nettezza lo straordinario sforzo di riorganizzazione anche economica intrapresa dagli 95 Un’eccezione potrebbero forse essere le ‘città cerimoniali’, che infatti non durarono mai a lungo. 96 In queste ultime pagine ho anche tenuto conto della discussione che si è tenuta nella tavola rotonda finale, alla quale hanno partecipato: S. Carocci, P. Delogu, C. Wickham, J.C. Maire Vigueur, R. Santangeli Valenzani, L. Spera e la sottoscritta. 97 Il bellissimo libro di Krautheimer (KRAUTHEIMER 1980) non poté usufruire di questa massa enorme di dati. esempio l’accorpamento di più unità immobiliari. Nessuna traccia infine di decentramento di attività produttive in ambito rurale, se non forse per il frequente collocamento di gualchiere in aree sub-urbane. *** 632 ALESSANDRA MOLINARI energici papi dell’età carolingia. L’economia però non sembrerebbe funzionare sulla base delle forze del mercato, dello scambio e della marcata specializzazione produttiva, il primo motore sembrerebbe invece essere costituito dalle risorse e dalle reti di scambio, che il papato e gli enti ecclesiastici furono in grado di mobilitare. La forma della città non dovette cambiare molto dal secolo precedente, aumentarono forse però ulteriormente i vuoti. Il tardo IX ed il X secolo sono ancora elusivi archeologicamente, ma si avvertono forse le tracce del cambiamento, della riconversione. Non si costruirono più grandi chiese e la produzione marmorea entrò in crisi, ma la ceramica divenne molto più standardizzata; nel X secolo comparirono nuove tecniche per la produzione del vetro, ma soprattutto si espansero le abitazioni private di diversa qualità e si invertì probabilmente il trend demografico negativo. In campagna si notano chiaramente i sintomi della riorganizzazione del controllo attraverso il fenomeno dell’incastellamento. Tuttavia, non sembra ancora che ci troviamo di fronte alla ripresa vera e propria, ma ad una fase importante della riorganizzazione economica e delle forze sociali e produttive. Non è la crescita e tanto meno il boom economico, ma si cominciarono a porre le basi per la ripresa. I secoli XI-XII sono controversi. Se nella documentazione scritta appaiono chiaramente molti mestieri specializzati, in alcuni casi localizzati in aree specifiche della città, ed è evidente il forte investimento soprattutto da parte dei monasteri nell’edilizia, tutto questo non è ancora ben visibile archeologicamente (ad eccezione del numero crescente di calcare). Si attua però una profonda ristrutturazione urbanistica con l’innalzamento dei livelli ed il compattamento dell’abitato. Le produzioni ceramiche sono molto standardizzate, ma sono prevalentemente destinate al mercato locale e sono poco competitive rispetto alle produzioni rurali. È tra la fine del XII ed il XIII secolo che si avvertono i cambiamenti più forti: l’espansione impressionante e documentata materialmente del costruito, l’affermazione del sistema costruttivo standardizzato dei tufelli, la produzione della ceramica laziale, l’aumento consistente della circolazione monetaria. I mercatores hanno un peso importante. Come abbiamo già ricordato, C. Wickham 98 ha sostenuto che nei secoli X-XII l’economia di Roma sarebbe stata più evoluta delle altre città italiane, ma non 98 99 WICKHAM 2013 e lo stesso studioso in questo volume. C. Loveluck e C. Dyer in questo volume. sarebbe decollata al pari di alcune di esse nel XIII secolo. Fino al XII secolo purtroppo la comparazione archeologica con altre città italiane non è decisiva, mentre il sistema della produzione delle città inglesi sembrerebbe più evoluto forse già dall’ XI secolo, come anche il prestigio sociale del quale sembrerebbero godere gli artigiani 99. Il confronto con le officine di Pisa e Parigi del XIII-XIV secolo e delle loro straordinarie capacità produttive, ci dà invece il senso delle differenze profonde nella scala e nell’organizzazione produttiva. Riprendendo molte delle notazioni che J.C. Maire Vigueur fa per il Trecento romano, sulla base della più ricca documentazione notarile, si possono forse fare alcune riflessioni per l’intero periodo compreso tra l’XI ed il XIV secolo. Il mercato interno è sempre il riferimento prevalente e più importante per gli artigiani romani. Si tratta di un mercato comunque molto esteso, anche quando i papi sono assenti: aristocrazie con buon potere d’acquisto, popolazione relativamente numerosa, moltissimi chierici, moltissimi pellegrini. Tuttavia, il relativo benessere degli artigiani (spesso posseggono almeno una casa ed una vigna) non deriverebbe dal successo particolare dei loro prodotti, ma piuttosto dalla possibilità (ben documentata nel Trecento) di dedicarsi anche ad altre attività, specialmente nel settore agricolo. Questo ci fa capire come il grado di specializzazione sia alto, ma non altissimo. Inoltre, non ci fu un sistematico investimento di capitali (nella produzione come nella commercializzazione extra-urbana) da parte di aristocrazie e mercatores. Questi ultimi, come ha dimostrato M. Vendittelli 100, si dedicarono piuttosto al commercio del denaro, ad operazioni di tipo finanziario e non produttivo, come diremmo oggi. Insomma, Roma fu una città di artigiani operosi, ma non divenne mai una città manifatturiera. Per questo, a mio parere, nel XIII secolo crebbe, ma non quanto e come altre città. Dalla seconda metà del XIV secolo, dopo le grandi pandemie, Roma era certamente meno popolata, ma sembrerebbe che i consumi pro capite di oggetti ben fabbricati siano aumentati. È il momento dei bovattieri, nonché della maiolica arcaica per tutti! Ma a Roma e nella campagna romana non c’è nessuna ‘ruralizzazione’ dell’industria, nessuna creazione di centri satelliti specializzati, nulla che assomigli al ‘distretto industriale’ intorno a Milano o alla città dei vasai di Montelupo, vicino Firenze, che esportava le sue belle maioliche in tutto il mondo. 100 VENDITTELLI 1993. LA PRODUZIONE ARTIGIANALE A ROMA TRA V E XV SECOLO Bibliografia ANDREAU 2001 = J. ANDREAU, Rome capitale de l’empire, la vie économique, in Pallas, 55, 2001, pp. 303-317. ANNIS 1992 = B. 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