T
S
CITTADINANZE
NELLA STORIA
DELLO STATO
CONTEMPORANEO
a cura di
Marcella Aglietti, Carmelo Calabrò
di
S
FRANCOANGELI
EMI
TORIA
EMI di
TORIA
S
COMITATO SCIENTIFICO
Guido Abbattista (Università di Trieste), Pietro Adamo (Università
di Torino), Salvatore Adorno (Università di Catania), Filiberto Agostini
(Università di Padova), Enrico Artifoni (Università di Torino), Eleonora
Belligni (Università di Torino), Nora Berend (University of Cambridge),
Giampietro Berti (Università di Padova), Pietro Cafaro (Università
Cattolica del Sacro Cuore di Milano), Beatrice Del Bo (Università
di Milano), Giuseppe De Luca (Università di Milano), Santi Fedele
(Università di Messina), Monica Fioravanzo (Università di Padova),
Alba Lazzaretto (Università di Padova), Erica Mannucci (Università
di Milano-Bicocca), Raimondo Michetti (Università di Roma Tre),
Roberta Mucciarelli (Università di Siena), Marco Pasi (Universiteit van
Amsterdam), Alessandro Pastore (Università di Verona), Lidia Piccioni
(Sapienza Università di Roma), Gianfranco Ragona (Università di Torino),
Daniela Saresella (Università di Milano), Marina Tesoro (Università
di Pavia), Giovanna Tonelli (Università di Milano), Michaela Valente
(Università del Molise), Albertina Vittoria (Università di Sassari).
COORDINAMENTO EDITORIALE
Pietro Adamo, Giampietro Berti
Il comitato assicura attraverso un processo di double blind peer review
la validità scientifica dei volumi pubblicati.
Il presente volume è pubblicato in open access, ossia il file dell’intero lavoro è
liberamente scaricabile dalla piattaforma FrancoAngeli Open Access
(http://bit.ly/francoangeli-oa).
FrancoAngeli Open Access è la piattaforma per pubblicare articoli e monografie, rispettando gli standard etici e qualitativi e la messa a disposizione dei
contenuti ad accesso aperto. Oltre a garantire il deposito nei maggiori archivi
e repository internazionali OA, la sua integrazione con tutto il ricco catalogo
di riviste e collane FrancoAngeli massimizza la visibilità, favorisce facilità di
ricerca per l’utente e possibilità di impatto per l’autore.
Per saperne di più:
http://www.francoangeli.it/come_pubblicare/pubblicare_19.asp
I lettori che desiderano informarsi sui libri e le riviste da noi pubblicati
possono consultare il nostro sito Internet: www.francoangeli.it e iscriversi nella home page
al servizio “Informatemi” per ricevere via e-mail le segnalazioni delle novità.
CITTADINANZE
NELLA STORIA
DELLO STATO
CONTEMPORANEO
a cura di
Marcella Aglietti, Carmelo Calabrò
FRANCOANGELI
Il volume è stato pubblicato con il contributo del progetto di ricerca di Ateneo
dell’Università di Pisa intitolato “Cittadini e cittadinanze nella costruzione dello Stato
contemporaneo: esperienze a confronto” (PRA2015_0013), coordinato da Marcella Aglietti.
Copyright © 2017 by FrancoAngeli s.r.l., Milano, Italy.
L’opera, comprese tutte le sue parti, è tutelata dalla legge sul diritto d’autore ed è pubblicata in versione
digitale con licenza Creative Commons Attribuzione-Non Commerciale-Non opere derivate 3.0 Italia
(CC-BY-NC-ND 3.0 IT)
L’Utente nel momento in cui effettua il download dell’opera accetta tutte le condizioni della
licenza d’uso dell’opera previste e comunicate sul sito
http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0/it/legalcode
Indice
Prefazione
pag.
7
La cittadinanza dell’appartenenza. La naturalizzazione degli
stranieri nella Spagna liberale, di Marcella Aglietti
»
15
Nazione e cittadinanza. Pasquale Stanislao Mancini e i diritti
civili degli stranieri, di Alessandro Polsi
»
33
Pedagogie della nuova cittadinanza. L’avvio dell’esperienza accademica e parlamentare di Augusto Pierantoni (1865-1883), di
Alessandro Breccia
»
47
Legge del ritorno e cittadinanza in Israele. Il delicato rapporto
tra ebraicità e democrazia dopo la ine della stagione di Oslo
(2000-16), di Arturo Marzano
»
62
Là «où l’égalité respire»: Pétion de Villenueve all’Assemblea
Nazionale Costituente, 11 agosto 1791, di Cristina Cassina
»
79
Questioni di cittadinanza in un “meticcio politico”: Tom Paine
(1737-1809), di Thomas Casadei
»
94
I – Cittadini, stranieri e diritto
II – L’idea di cittadinanza nella storia
del pensiero contemporaneo
5
L’idea di cittadinanza nel pensiero politico dei moderati italiani,
1815-1861, di Mauro Lenci
pag. 109
La cittadinanza in Inghilterra da The English Constitution al
Welfare State, di Carmelo Calabrò
»
121
Un polic(t)eman? Il liberalismo umanitario di Gaetano Meale
(1888-1900), di Emanuela Minuto
»
137
Problemi e prospettive della cittadinanza oltre lo stato, di Nico
De Federicis
»
151
La cittadinanza di genere nella distopia. I romanzi di George
Orwell e Katharine Burdekin, di Laura Muzzetto
»
166
Limiti contemporanei alla cittadinanza: la questione del digital
divide, di Roberta Bracciale
»
180
Autori e Autrici
»
197
Indice dei nomi
»
201
III – Cittadinanza cosmopolitica
6
Prefazione
Cittadinanze. La scelta del plurale indica esplicitamente l’intenzione
sottesa al volume che presentiamo: declinare un tema vasto e trasversale
attraverso prospettive e metodi diversi, ma al contempo convergenti. Le
vie percorse qui sono quelle della storia, con l’ambizione di seguire le forme della cittadinanza nella sfera pubblica e privata, nelle sedi istituzionali
e nella società civile, tra soluzioni concettuali, normative ed epistemologiche.
Tema vasto, la cittadinanza, carico di molteplici implicazioni strettamente correlate: il rapporto del soggetto con l’ordine politico; il dualismo mobile tra appartenenza ed esclusione; il nesso tra la sfera dei diritti e doveri da
una parte e il ruolo delle istituzioni e degli ordinamenti giuridici dall’altra;
la dialettica tra evoluzione della forma Stato e rivendicazione di nuovi proili da integrare allo status di cittadino; lo scenario incerto, e per certi versi
irenico, di una condizione che trascenda la dimensione statuale. Tema trasversale, la cittadinanza. Indagato da storici, giuristi, ilosoi e teorici della
politica, con il microscopio che rileva le metamorfosi molecolari di assetti
complessi e articolati, e il telescopio che consente di rintracciare tendenze
di lunga gittata.
Senza velleitarie ambizioni di esaustività, i contributi che compongono
le tre sezioni di questo lavoro collettaneo sono il frutto di una rilessione approfondita e stimolante che si è avvalsa di oltre un anno di lavoro congiunto,
e di più occasioni di confronto.
All’origine vi è stato un progetto di ricerca, inanziato dall’Università di
Pisa, pensato attorno ad alcuni nuclei argomentativi forti sul tema della cittadinanza che consentissero di avvalersi in modo dialogico dei metodi e delle fonti caratteristiche delle discipline storico-politiche, individuando casi
7
di studio inediti o poco noti1. Nei molteplici momenti di dibattito che sono
seguiti, e soprattutto in occasione del workshop tenutosi a Pisa nel febbraio
del 2016, il gruppo di studiosi iniziale si è arricchito di nuovi collaboratori
e di ulteriori punti di vista, alcuni dei quali trovano spazio in questo primo
tentativo di sistematizzazione. I saggi che qui si presentano sono, infatti,
la rielaborazione e l’approfondimento di alcuni dei risultati emersi e che,
oltre ad avvalersi di mirate ricerche d’archivio e di approfondimenti teorici,
hanno potuto beneiciare anche del contributo critico e utilissimo di colleghi che ringraziamo per averci accompagnato in una o più delle varie fasi
di confronto attraverso le quali è passato il progetto, e cioè Luca Mannori,
Arnaldo Testi, Silvia Benussi e Maria Chiara Pievatolo2. Da questo patrimonio di analisi speciiche e di scambio scientiico, abbiamo selezionato quei
contributi che crediamo meglio rispecchiassero la ricchezza dei diversi possibili modi di accostarsi alla macro-area della cittadinanza, condividendo la
volontà di amalgamarli mediante ili tematici credibili.
Tre sezioni, dunque. La prima, Cittadini, stranieri e diritto, ruota intorno
a una questione fondamentale: la natura costitutivamente duplice, inclusiva
ed escludente, dell’istituto e del concetto di cittadinanza (due facce inseparabili della stessa medaglia). La storia ha costruito molte forme di distinzione tra cittadini e non cittadini, ma questa divisione ha anch’essa una sua
storia, quella di una categoria che è venuta innalzandosi per tentativi e con
contributi successivi, tra contraddizioni e incertezze, acquisendo signiicati
politici e legali che sono andati stratiicandosi, spesso condivisi con lo sviluppo di una struttura statuale. Ma se è ben nota l’importanza storica della
nascita dello Stato moderno per l’affermazione della retorica dell’identità
nazionale, ciò che invece non lo è altrettanto è come prese forma la distinzione giuridicamente rilevante che ha cominciato, da un certo momento in
poi, a dividere i soggetti tra nazionali e non, tra stranieri e cittadini.
Attraverso una lunga e approfondita analisi che parte dalla Costituzione
di Cadice del 1812 e giunge ino a inizio Novecento, nel suo La cittadinanza
dell’appartenenza. La naturalizzazione degli stranieri nella Spagna liberale, Marcella Aglietti analizza il tema controverso della naturalizzazione
1. Si fa riferimento al progetto di ricerca di Ateneo 2015, inanziato dall’Università degli
studi di Pisa, dal titolo “Cittadini e cittadinanze nella costruzione dello Stato contemporaneo:
esperienze a confronto” (PRA-2015-0013) e coordinato da Marcella Aglietti.
2. Nell’ambito del progetto hanno preso forma anche altri contributi, che hanno trovato
una diversa collocazione. Si veda, ad esempio, di M. C. Pievatolo, Funzionari dell’umanità?
Diritto d’autore e uso pubblico della ragione fra polis e cosmopolis, in «Bollettino telematico
di ilosoia politica. Online Journal of Political Philosophy», ipertesto consultabile qui: http://
btfp.sp.unipi.it/dida/autori/
8
come cartina di tornasole dell’ancoraggio saldo e durevole della cittadinanza all’appartenenza nazionale. La legislazione in materia di naturalizzazione
è la lente che aiuta a comprendere in che misura la storia dei diritti legati
alla condizione di cittadino si sia sviluppata nel lungo Ottocento, e non solo,
all’ombra sfuggente eppure imprescindibile della Nazione.
Il contributo di Arturo Marzano, Legge del ritorno e cittadinanza in
Israele. Il delicato rapporto tra ebraicità e democrazia dopo la ine della stagione di Oslo (2000-16), ci dà conferma controintuitiva della forza
tutt’altro che declinante dell’idea di Nazione a fondamento della cittadinanza, in un contesto in cui il carattere presuntamente laico della democrazia risente dell’equazione tra polis, ethos e religio. Il saggio si interroga sul ruolo
che la cittadinanza – e, dunque, le leggi che prevedono come questa venga
attribuita – ha avuto (e tuttora ha) nella deinizione di Israele come Stato
ebraico e democratico. È un percorso storico non unidirezionale, attraverso
le ragioni che furono alla base delle due leggi che tuttora regolamentano
la cittadinanza in Israele, la Legge del ritorno del 1950 e la Legge di Nazionalità del 1952, con i loro successivi emendamenti, sino alle più recenti
proposte di trasformazione con la cosiddetta Legge per la cittadinanza e
l’ingresso in Israele, approvata temporaneamente nel 2003, ma da allora
sempre prorogata.
Ed è proprio nelle proposte di due giuristi, Pasquale Stanislao Mancini e
Augusto Pierantoni, igure strettamente collegate e oggetto rispettivamente
degli interventi di Alessandro Polsi e Alessandro Breccia, che possiamo ritrovare il tentativo ottocentesco di fondare la regolazione giuridica dei rapporti internazionali e la convivenza paciica e inclusiva tra i popoli a partire
da uno Stato-nazione depurato del suo lato oscuramente aggressivo. Polsi
ben mette in luce la genesi della teoria della nazionalità, avanzato da Mancini all’inizio degli anni Cinquanta del XIX secolo. Il principio ebbe una rapida fortuna fra i giuristi italiani e non solo, e servì a sviluppare un approccio
liberale al riconoscimento dei diritti degli stranieri in Italia. Mancini, come
anche Pierantoni, partecipò del clima effervescente degli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento, quando i migliori giuristi europei si convincono che
nella elaborazione di un nuovo diritto internazionale, non più mero elenco
dei trattati fra stati, sia possibile costruire una scienza in grado di fornire gli
strumenti per risolvere, per via giuridica, i conlitti politici fra Stati. Qui nasce anche il Mancini iniziatore di un movimento paciista in Italia. In ideale
continuità, Pierantoni, allievo e collega di Mancini, aderì con convinzione
a quella battaglia di civiltà e di «progresso» che stabiliva un nesso tra l’emancipazione nazionale, la conquista e l’ampliamento dei diritti di ciascun
9
cittadino, e l’ediicazione di un apparato di regole, in campo privatistico e
pubblicistico, che tutelassero i cittadini stranieri e consentissero una paciica
convivenza tra ordinamenti statuali.
L’idea di cittadinanza nella storia del pensiero contemporaneo è la seconda sezione del libro, dedicata a rintracciare aspetti cruciali delle diverse
concezioni elaborate in tre scenari dello scacchiere europeo: Francia, Italia,
Inghilterra; in aggiunta, la sezione contiene un proilo di Tom Paine – eficacemente tratteggiato da Thomas Casadei – e del suo contributo sul crinale
di due Rivoluzioni (la francese e l’americana), utile a mettere in risalto la
circolazione delle idee che daranno linfa alla moderna rilessione sulla cittadinanza.
In Là «où l’égalité respire»: Pétion de Villenueve all’Assemblea Nazionale Costituente, 11 agosto 1791, Cristina Cassina mostra come un dibattito assembleare possa contenere in nuce gli elementi concettuali e politici
decisivi per comprendere il rapporto durevole tra potere del denaro e cittadinanza. Nel fermento della Rivoluzione francese, l’autrice prende in esame la fase della riscrittura dell’articolo relativo alle condizioni di accesso
alle assemblee elettorali di secondo grado, ora innalzate ben oltre il celebre
«marco d’argento», e ricostruisce le opposte posizioni nel corso dei lavori.
Anche se il dibattito non portò ad alcun esito, esso permette nondimeno
di entrare nel vivo di concezioni, aspettative e atteggiamenti attraverso gli
occhi di chi era ansioso di «chiudere la rivoluzione» e di chi, invece, pensava di rilanciarla: da una parte come dall’altra, richiamando anche il piano
simbolico del droit de cité.
Nel suo L’idea di cittadinanza nel pensiero politico dei moderati italiani, 1815-1861, Mauro Lenci individua nel dibattito interno al moderatismo
liberale italiano la rappresentazione plastica della tensione tra liberalismo e
democrazia, tensione che inluirà costantemente nell’orientare prospettive
non spontaneamente compatibili. La concezione di cittadinanza dei moderati italiani ruotò, infatti, intorno al rapporto tra libertà civile e quella politica,
ma era la prima a rappresentare la meta irrinunciabile degli stati moderni.
Essa doveva essere estesa universalmente, mentre la seconda, la libertà politica, assumeva contorni problematici: la plebe doveva essere certamente
innalzata alla dignità di popolo, per partecipare al potere politico, ma questo
doveva avvenire gradualmente nel corso del tempo. Nel frattempo sarebbe
divenuto importante instaurare delle forme di governo rappresentativo fondate su un’opinione pubblica diretta dalla classe più colta.
Carmelo Calabrò, in La cittadinanza in Inghilterra da The English Constitution al Welfare State, tenta di seguire i diversi passaggi, politici e ideo10
logici, che conducono la patria del liberalismo classico a divenire nella prima metà del Novecento il laboratorio in cui conciliare liberta civili e diritti
sociali (conquista da diverso tempo entrata in crisi).
La terza sezione del volume è la più sperimentale. Abbiamo ritenuto di
dare spazio a ricerche che proiettano la cittadinanza oltre i conini «tradizionali».
Pur profondamente storico nel suo impianto di contestualizzazione, il
saggio di Emanuela Minuto, Un polic(t)eman? Il liberalismo umanitario
di Gaetano Meale (1888-1900), ci conduce alle origini pioneristiche di una
visione sovranazionale che attribuisce a istituzioni europee ancora nebulosamente concepite il compito di realizzare ideali di libertà e giustizia destinati
a irradiarsi dentro e oltre l’antico continente.
Una cittadinanza oltre lo stato? Problemi e prospettive, di Nico De Federicis, riprende il tema della cittadinanza sovranazionale, ma lo affronta
nella cornice degli studi più recenti di ilosoia politica sulla crisi dello Stato
moderno, sfondo su cui mettere a confronto le diverse ipotesi prescrittive
concernenti in particolare il modello di integrazione europea, ino ad aspirare a una forma di cittadinanza sovranazionale, e in alcuni casi “cosmopolitica”.
Più eccentrico, ma tutt’altro che avulso dalla trama complessiva del volume, La cittadinanza di genere nella distopia. I romanzi di George Orwell e
Katharine Burdekin di Laura Muzzetto ci fa immergere nelle acque di conine tra immaginazione letteraria e realtà, affrontando il tema irrisolto della
discriminazione di genere a partire dalle suggestioni di due grandi autori
come Orwell e Burdekin.
Chiude la raccolta un articolo di Roberta Bracciale, Limiti contemporanei alla cittadinanza: la questione del digital divide. Se la ricchezza non
ha mai smesso di interferire sull’eguale accesso alla piena cittadinanza, le
risorse culturali sono sempre state e continuano a essere ricchezza che fa la
differenza. Il digital divide ripropone un conine vecchio riferendolo a una
risorsa sempre più nuova: l’accesso alle tecnologie dell’informazione e alle
conoscenze che ne consentono un uso eficace e consapevole.
I saggi qui raccolti non ambiscono quindi ad essere esaustivi, bensì speculativi, provocatori magari per offrire ciascuno un signiicato differente di
cittadinanza, tanti quanti furono le vesti che ha assunto nei diversi contesti
presi in esame. Una prima, approssimativa deinizione la si può ricavare
solo dall’insieme dei contributi. Quel che si è inteso mostrare è la variabilità
degli aspetti da considerare per comprendere a fondo la storia della cittadinanza. Impossibile non afiancare al dibattito giuridico e costituzionale delle
11
istituzioni quello sui sistemi politici, o separare l’analisi di regole e prassi
di partecipazione dalla forza morale esercitata dalla retorica dei diritti o,
inine, non ricorrere a una molteplicità di fonti, testi e a dati empirici. Stato
e società hanno sviluppato nel tempo molteplici sistemi di identiicazione,
meccanismi di distinzione, creando nuovi conini tra cittadini e non cittadini, autorizzando e regolando il movimento della popolazione dentro e fuori
tale ideale perimetro. È la storia di un processo di «monopolizzazione» da
parte dell’autorità pubblica della capacità di erigere, mantenere e nutrire
questa separazione, attraverso la produzione di documenti, di teorie, di ideologie capaci di controllarla e rafforzarla. Questi strumenti sono stati più
o meno vincolanti e stringenti con il mutare delle epoche e il variare delle
nazioni, e in ultimo la narrazione storica pare indicare un diverso sviluppo,
l’affermazione di parametri per una nuova appartenenza, su base a-statuale
e post-nazionale, che però si fa a sua volta portatrice di restrizioni e preclusioni capaci di limitarne l’accesso.
Il cerchio si chiude: la cittadinanza include, la cittadinanza esclude.
Marcella Aglietti e Carmelo Calabrò
12
I
Cittadini, stranieri e diritto
La cittadinanza dell’appartenenza
La naturalizzazione degli stranieri
nella Spagna liberale
Marcella Aglietti
1. Introduzione
Nel Diccionario razonado de legislación y jurisprudencia del 1874, alla
voce Ciudadano si trovava la deinizione di un individuo appartenente a
«una città o a uno Stato libero a cui una Costituzione politica riconosce certi
diritti» 1. A ulteriore chiarimento, seguivano le disposizioni previste dalla
legge provvisoria del 17 giugno 1870, istitutiva del Registro civile, in materia di Inscripción de ciudadanía, ovvero di acquisizione, recupero o perdita
della nazionalità spagnola2. La coincidenza, non priva di ambiguità, tra due
concetti e istituzioni giuridiche diverse quali la nazionalità e la cittadinanza,
risulta evidente. Deinire la cittadinanza implicava dunque, in primo luogo,
stabilire l’appartenenza, cioè il vincolo giuridico-politico esistente tra un
individuo e una comunità politica (nazionale); e poi issare le qualità indispensabili per l’inclusione o l’esclusione cioè, nello speciico, le politiche
di naturalizzazione atte al passaggio dalla condizione di straniero a quella
di cittadino.
Il caso spagnolo ci offre a questo proposito un ambito di ricerca ineguagliabile. La peculiare conformazione della Monarchia ispanica pose
Abbreviazioni: Archivo Histórico del Congreso de los diputados (Ahcd); «Gaceta de
Madrid» (GU), «Diario de sesión de las Cortes (Dsc), Congreso de diputados (CD); Archivo
Histórico Nacional, Fondos contemporáneos, Ministerio de Asuntos Exteriores (Ahm, FC, Mae).
1. D. Balbino Cortés y Morales, Diccionario razonado de legislación y jurisprudencia
diplomático-consular, Imprenta de J. Antonio García, Madrid 1874, pp. 107-109.
2. Questa legge, entrata in vigore l’1/1/1871, fu tutt’altro che provvisoria e restò vigente –
salvo puntuali disposizioni complementari – ino al 1/1/1959. Il testo della legge, promulgata
a irma del reggente, il generale Francisco Serrano y Domínguez, e per volontà delle Cortes
della nazione spagnola, è reperibile in GU, n. 171, del 20/7/1870, pp. 1-2.
15
infatti precocemente il problema, non solo per la dificoltà di disciplinare un territorio che, per tutta l’età moderna, fu scenario dell’incontro
con l’altro da sé, ma per la natura stessa della forma statuale spagnola,
composita e policentrica, una realtà che non ebbe pari quanto a estensione e disomogeneità3. La Spagna ottocentesca comprendeva ancora i
possedimenti di Ultramar con Cuba, Portorico e le Filippine; annoverava
numerose comunità mercantili straniere, più o meno stanziali, e la stessa
frontiera con il Portogallo si caratterizzava per una certa porosità nella
percezione della popolazione (e non solo per effetto della Unión ibérica
conclusasi nel 1640)4.
Durante le esperienze costituzionali del secolo XIX, con la sola eccezione dei periodi di vigenza dello statuto di Bayona del 1808 e dell’Estatuto Real del 1834, il principio della nazionalità trovò il proprio spazio nel
dettato dei primissimi articoli delle Carte, a riprova dell’importanza riconosciutagli nell’ordinamento giuridico5. Ciò nonostante, in tale sede ci si
limitò all’enunciato generale, rimandando alla legge il compito di sancire
modalità e requisiti speciici. Le occasioni di adempiere a tale incombenza
furono tutt’altro che frequenti, anche per la brevità che caratterizzò i regimi
politici dei primi tre quarti del secolo, al punto che l’istituto parlamentare si
occupò formalmente di naturalizzazioni solo nelle legislature del 1847-48
e del 1879-1881. Anche se nessuno dei progetti dibattuti giunse al termine
dell’iter legislativo, l’esame dei documenti istruttori e la discussione che
ne seguì alle Cortes consentono di comprendere le tappe di una importante
evoluzione in materia.
Confrontando le proposte del legislativo con le soluzioni giuridiche
adottate, ci si propone pertanto di ripercorrere alcune fasi della storia della
cittadinanza, intesa come appartenenza, col ine di individuare i principali
cambiamenti che si registrarono in termini sia di sensibilità politica, sia nella costruzione di modelli regolamentari alternativi.
3. P. Cardim et alii (eds.), Polycentric Monarchies. How did Early Modern Spain and
Portugal Achieve and Maintain a Global Hegemony?, Sussex Academic Press, Eastbourne
2012.
4. T. Herzog, Naturales y extranjeros: sobre la construcción de categorías en el mundo
hispánico, in «Cuadernos de Historia Moderna», X, 2011, pp. 21-31.
5. Appariva infatti disciplinata all’art. 5 della Costituzione del 1812, al primo articolo
nelle Carte del 1837, del 1845, del 1869 e del 1876, e al secondo nella Costituzione del 1856
(mai entrata in vigore). Sul concetto di “straniero”, contrapposto a quello di “nazionale”,
nell’ambito del costituzionalismo spagnolo dell’Ottocento, cfr. A. Muro Castillo, G. Cobo
del Rosal, La condición del nacional y extranjero en el constitucionalismo decimonónico
español, in F.J. García Castaño, N. Kressova (a cura di), Actas del I Congreso Internacional
sobre migraciones en Andalucía, Instituto de Migraciones, Granada 2011, pp. 2083-2090.
16
2. Le origini di un dibattito plurisecolare
In Spagna, la naturalizzazione degli stranieri ricevette variabile attenzione per buona parte dell’età asburgica, alternando l’adozione di meccanismi
d’integrazione a, più spesso, strumenti per la repressione e il controllo delle
minoranze etniche o religiose. Più in generale, la frontiera tra l’appartenenza
e l’esclusione, tra spagnoli e stranieri, rimase generalmente irrilevante, anche
da un punto di vista giuridico, salvo casi speciici o nell’eventualità di conlitti.
Tra i due estremi dello spazio concettuale compreso tra lo spagnolo a tutti gli effetti (il naturale) e lo straniero senza alcuna ulteriore connotazione,
si trovavano molteplici tipologie, più o meno deinite e soggette a frequenti
rideinizioni. Vi era lo straniero di passaggio, il così detto transeunte, che
godeva del patrimonio di prassi e consuetudini proprie, spesso riconosciute
da accordi bilaterali tra la nazione estera di riferimento e Madrid. Vi era poi
il vecino (o anche avecindado o domiciliado), cioè chi aveva preso dimora
stabile in una località rinunciando alla propria nazionalità a favore di quella
spagnola; e il naturalizado, ovvero colui che aveva ricevuto «carta di naturalizzazione» dal re, rilasciata dal Consejo de Castilla o dal Consejo de Indias.
Un caso a parte era quello del jenizaro, iglio di stranieri ma nato in Spagna,
il cui statuto subì cambiamenti signiicativi nel corso del tempo ma che, in
linea generale, era equiparabile allo spagnolo naturale.
Recenti studi dedicati alle colonie estere in Spagna tra Settecento e primo Ottocento hanno rivelato la complessità di questo universo, evidenziando
come la naturalizzazione entrasse a pieno nelle strategie di opportunismo economico e d’integrazione sociale di detti gruppi6. Opportunismo valido anche
per lo Stato spagnolo, che concedeva la «carta» ai soggetti considerati utili,
come in caso di esercizio di attività strategiche o redditizie per le comunità locali. In altri casi, si «riconosceva» la naturalizzazione a individui già integrati
di fatto, formalizzando per via di diritto una situazione preesistente7.
6. Si ricorda infatti che l’acquisizione della «carta de naturaleza» consentiva a uno straniero di poter accedere alle attività commerciali assicurate dalla carrera de Indias, altrimenti
riservate ai soli spagnoli. L’esempio antitetico tra la condotta degli appartenenti alle nazioni
mercantili francesi e genovesi a Cadice, con l’ampia richiesta di «carte» dei secondi al contrario dei primi, mostra a che punto l’acquisizione della naturalizzazione fosse – in linea
generale – il frutto di una considerazione meramente strumentale e opportunistica. A. Bartolomei, La naturalización de los comerciantes franceses de Cádiz a inales del siglo XVIII y
principios del XIX, in «Cuadernos de Historia Moderna», X, 2011, pp. 123-144 e A. Crespo
Solana (a cura di), Comunidades transnacionales. Colonias de mercaderes extranjeros en el
Mundo Atlántico (1500-1830), Doce Calles, Madrid 2010, pp. 83-102.
7. T. Herzog, Vecinos y extranjeros: hacerse español en la Edad moderna, Alianza
Editorial, Madrid 2006.
17
Nel breve giro d’anni tra il 1714 e il 1723, con l’avvento di Filippo V di
Borbone sul trono di Madrid, le politiche nei confronti degli stranieri subirono un profondo cambiamento, anche importando modelli vigenti in Francia8. Una prima importante novità fu la creazione, nel 1714, della Junta de
dependencias y negocios de extranjeros, competente su tutto ciò che riguardava gli stranieri in territorio spagnolo, e che sarebbe rimasta in vita ino al
1800. La Junta aveva anche il compito di deinire – conformemente a norme
in uso o sancite da ordini regi - chi fosse spagnolo e chi no, inizialmente per
ragioni iscali ma, ben presto, sulla base di motivazioni politiche, realizzando già nel 1765 il primo censimento sugli stranieri presenti nel Regno9.
Di pari rilievo fu la riforma del 1716 con la quale il sovrano avocò a
sé in esclusiva e attraverso la Camera di Castiglia, il rilascio della carta
de naturaleza, distinguendo in quattro classi gli stranieri naturalizzati in
ragione dell’ampiezza della capacità d’accesso a cariche, rendite e dignità.
Contestualmente esautorava le Cortes, che avevano avuto il diritto di concedere la naturalizzazione castigliana per oltre due secoli, salvo una riserva
per le città dotate di voto10. La norma favorì l’inserimento nelle élites cortigiane e militari spagnole di un gran numero di soggetti esteri, francesi ma
non solo, provocando gravi conlitti tra autoctoni e new comers rispetto ai
meccanismi di spartizione del potere politico e nella gestione dei privilegi
commerciali11.
3. Conciliare il vecchio col nuovo: la prima età liberale
Per la prima volta, e diversamente da quanto stabilito nelle costituzioni
successive, la Costituzione di Cadice del 1812 attribuì in via esclusiva alle
Cortes il potere di concedere agli stranieri che ne avessero fatto richiesta
carta de naturaleza e i connessi diritti di cittadinanza.
8. S. Marzagalli, Négoce et politique des étrangers en France à l’époque moderne:
discours et pratique de rejet et d’intégration, in M. Augeron, P. Even (a cura di), Les
Etrangers dans les villes-ports atlantiques. Expériences françaises et allemandes XVe-XIXe
siècles, Indes savantes, Paris 2011, pp. 45-62.
9. A. Crespo Solana, V. Montojo Montojo, La Junta de Dependencias de Extranjeros
(1714-1800): Trasfondo socio-político de una historia institucional, in «Hispania», 69, 232,
2009, pp. 363-394.
10. G. Pérez Sarriòn, La peninsula comercial: mercado, redes sociales y Estado en
España en el siglo XVIII, Marcial Pons Historia, Madrid 2012.
11. D. Ozanam, Les étrangers dans la haute administration espagnole au XVIIIe siècle,
in J.P. Almaric (coord.), Pouvoirs et société dans l’Espagne moderne. Hommage a Bartolomé
Bennassar, Presses Universitaires du Mirail, Tolosa 1993, pp. 215-229.
18
Agli stranieri tout-court non era riconosciuto alcun diritto politico: solo
gli spagnoli erano parte della nazione e ne potevano esprimere la sovranità.
Il requisito della nazionalità era necessario anche per l’accesso alla categoria di «cittadino», che identiicava un livello successivo. Si poteva diventare
«spagnoli» tramite naturalizzazione concessa dalle Cortes (con la carta de
naturaleza), o annoverando dieci anni di vecindad, ma per acquisire la «cittadinanza» occorreva, inoltre, ottenere la carta de ciudadania, sempre attribuita dalle Cortes a chi attestava qualità aggiuntive quali avere moglie spagnola, esercitare un’attività commerciale o altro impiego economicamente
rilevante, possedere un patrimonio di certa entità o annoverare meriti speciali in servizio della nazione. I naturalizzati restavano esclusi dalle cariche di
deputato, di giudice e di consigliere di Stato, oltre che da quella di reggente.
La Carta gaditana introduceva dunque una formale differenziazione tra i
soggetti di nazionalità spagnola, naturali o naturalizzati che fossero, e quelli
provvisti della cittadinanza, ovvero della capacità di esprimere e rappresentare la volontà nazionale12.
L’esautoramento completo del sovrano e del potere esecutivo rispetto al
conferimento della naturalizzazione consentì di por ine alla frammentazione di prassi, oramai vetuste, che assegnavano a differenti autorità politiche e
militari, ecclesiastiche e giudiziarie, il controllo sulla popolazione autoctona
e straniera. Inoltre, l’esclusione dei naturalizzati dai più importanti ruoli
pubblici del Paese ridimensionava drasticamente il fenomeno dell’integrazione di élites transnazionali ai vertici dello Stato. Per il liberalismo spagnolo, il diciottesimo secolo era stato «extranjerizante» e in ciò identiicavano
la causa principe del declino patrio13.
L’esperienza gaditana fu destinata a breve durata, ma vi fu il tempo per
discutere a Cortes un caso piuttosto insolito che, al di là della sua speciicità,
esempliica la dificoltà delle istituzioni per dare piena vigenza alle nuove
norme, nel conlitto con consuetudini esito di secoli di rapporti di forza con
le comunità straniere presenti sul territorio.
Il 13 novembre 1812, l’allora segretario di Stato Pedro Labrador riferì
ai deputati segretari delle Cortes come tale José María Pardo de Seixas,
suddito spagnolo, fosse stato nominato dall’autorità consolare britannica,
con tanto di patente, «agente consolare, ovvero viceconsole» in Ceuta14.
12. B. Alàez Corral, Nacionalidad y ciudadanía: una aproximación histórico-funcional,
in «Historia Constitucional», 6 (2005), pp. 29-76, p. 30.
13. O. Recio Morales, Los extranjeros y la historiografía modernista, in «Cuadernos de
Historia Moderna», X, 2011, pp. 33-51, p. 37.
14. Ahcd, fasc. 21, ins. 51, relazione del ministro di Stato Pedro Gómez-Labrador Havela
del 13/11/1812.
19
L’ambasciatore inglese aveva già ottenuto l’approvazione del capitano generale dell’Andalusia, Francisco Ballesteros, e chiedeva quindi a Labrador
l’uficiale ratiica. Il Tribunale speciale di Guerra e Marina spagnolo ritenne
invece che, in virtù di quanto sancito dalla Costituzione in materia di perdita della «qualità di cittadino spagnolo» a causa dell’aver prestato servizio
ad altro Stato senza il permesso del proprio, l’exequatur richiesto potesse
concedersi solo a condizione di privare Pardo dei «diritti della cittadinanza spagnola». Il consiglio di Reggenza giudicò impraticabile tale soluzione
perché ne sarebbe conseguito l’obbligo di applicare lo stesso criterio per tutti i viceconsoli esteri già ratiicati, in maggioranza spagnoli, con le immaginabili complicazioni anche sul piano delle relazioni internazionali. Suggerì
piuttosto di sospendere ogni decisione, mantenendo in un limbo normativo
l’istituto viceconsolare15. La competenza in materia di cittadinanza spettava
però alle Cortes, alle quali la Reggenza rimandò la decisione deinitiva.
Nel novembre del 1812, la commissione parlamentare per la Costituzione incaricata dell’esame del caso si riunì più volte, in sessione segreta,
e dopo accurato esame delle norme vigenti e delle consuetudini pregresse, concluse che per l’attività di viceconsole non fosse necessario essere
«naturale del Paese i cui negozi promuoveva», giacché tale incarico non
rispondeva a una nomina del governo, né prevedeva la corresponsione di
alcun salario. La grande maggioranza dei consoli esteri in Spagna ricorreva
con frequenza a gente del luogo, quali facoltosi commercianti ben inseriti e
dotati di utili capacità di mediazione con le autorità locali, senza autorizzarli
a compiti di rappresentanza uficiale. Lo stesso avveniva per i viceconsoli
di Spagna in Stati Uniti, in Danimarca, in Svezia, in Russia, in Inghilterra:
erano tutti sudditi di quei Paesi. Pertanto, concludeva la commissione, Pardo
e i suoi colleghi non cessavano di essere «naturali e cittadini» spagnoli, nella pienezza dei diritti e doveri. La disposizione costituzionale fu insomma
aggirata considerando il viceconsolato non «veramente assimilabile a quelli
dei funzionari di uno Stato straniero», e si incaricò la Segreteria degli Esteri
di inviare una nota a tutti gli ambasciatori accreditati presso il Regno di
Spagna indicando di non usare più il termine «empleo» nelle corrispettive
patenti16. Le Cortes approvarono il dictamen della commissione nella sua
prima parte, salvo respingere la proposta di intervenire sul testo delle paten15. Cfr. M. Aglietti, Le riforme dell’istituto consolare nel dibattito istituzionale spagnolo
del secondo Ottocento, in «Storia Amministrazione Costituzione”, Annale Isap, n. 2, 2016.
16. Ahcd, fasc. 21, ins. 51, relazione del vice-segretario della Commissione costituzionale,
Antonio Oliveros, del 22/11/1812, e comunicazione dalle Cortes alla Reggenza, Cadice,
27/11/1812.
20
ti. Alcuni deputati, infatti, fecero osservare che la validità dall’incarico non
promanava dalla patente del console estero, irrilevante ai ini giuridici, bensì
dalla dichiarazione rilasciata dalle Cortes, ribadendo l’autorità sovrana del
legislativo in materia17.
I testi costituzionali successivi procedettero secondo un impianto d’ispirazione liberal-conservatrice. La Carta del 1837 deinì «spagnoli» tutti
coloro che fossero nati «nei domini di Spagna», poi «territorio spagnolo»
secondo i testi del 1845, del 1869 e del 1876. Si confermarono due forme di
naturalizzazione possibili, cioè tramite conferimento di carta de naturaleza
o acquisizione di vecindad presso una località del Regno, ma riconducendo
entrambe tra le prerogative governative e regie. Si lasciava al legislatore solo
il compito di normare il processo e di issare i requisiti per il ricorso all’una
o all’altra modalità, prevedendo espressamente in dal 1845 la possibilità di
disciplinare i due istituti in modo diverso.
A inizio del 1847, il ministro dell’Interno Manuel Seijas Lozano presentò alle Cortes un primo progetto di legge in materia. Il testo era piuttosto
complesso e articolato, e conteneva in nuce già tutte le variabili che sarebbero state prese in considerazione di lì in avanti. Il perno della norma stava
nel riconoscimento della residenza quale fondamento dell’appartenenza e
dell’eventuale accesso alla cittadinanza.
Lo straniero poteva acquisire anzitutto il «domicilio» nel Regno, previa autorizzazione dell’autorità politica provinciale. Nei primi due anni di
domicilio era esentato da ogni gravezza e servizio pubblico (compresa la
contribución de sangre18), contribuendo alle spese comunali solo dopo tale
periodo e ino al compimento del sesto anno. A quel punto poteva richiedere
la carta de vecindad, rilasciata dall’autorità locale dopo la veriica dei requisiti necessari, e rimettendo eventualmente al Governo la decisione deinitiva
in caso di conlitto o di contestazione. Con la vecindad, acquisiva i diritti e
i doveri del Comune di residenza, i diritti politici attivi, ma non i passivi, e
i diritti civili di tutti gli spagnoli, l’accesso agli ufici ecclesiastici di basso rango e a quelli pubblici, eccettuate le cariche militari e l’insegnamento
universitario (possibile solo con una autorizzazione ad hoc). In alternativa,
poteva richiedere la vecindad dopo un periodo di servizio militare (8 anni
in tempo di pace, 6 in tempo di guerra), di convivenza matrimoniale con
una spagnola (5 anni ridotti a 4 in caso di igli), di esercizio di un mestiere
utile (5 anni, ridotti a 4 anni se si introduceva in Spagna un’attività econo17. Diario de sesiones de las Cortes generales y extraordinarias, n. 709, del 25/11/1812,
pp. 4017-4018.
18. Così era chiamato l’obbligo del servizio militare.
21
mica proicua allo sviluppo del Paese), o dietro acquisto di un patrimonio
immobiliare di cospicuo valore. Restava facoltà del Governo concedere la
vecindad anche in caso di meriti di servizio allo Stato.
La dichiarazione di vecindad restava sempre una prerogativa sovrana.
Inoltre, il richiedente aveva l’obbligo di professare la religione cattolica
«che è quella degli Spagnoli», di prestare giuramento di fedeltà al re e alla
Costituzione, di rinunciare alla qualità, coi connessi vantaggi, di straniero.
A un livello superiore si trovava la carta civil de naturaleza, che si poteva
chiedere solo dopo alcuni anni di vecindad e dava accesso a una cittadinanza più ampia: abilità a tutti gli ufici e beneici, sia ecclesiastici che civili e
militari, a eccezione dei ruoli vescovile e arcivescovile, di capitano generale
dell’esercito, di deputato e di senatore, di ministro della Corona, di tutore
del re e di reggente. All’apice della scala, con l’equiparazione in tutto e per
tutto alla condizione degli spagnoli, vi era la carta política de naturalización, o naturalización plena, esigibile dopo due anni dall’ottenimento della
carta civil e attribuita solo per mezzo di una legge speciale.
Inine per gli individui «di razza spagnola» nati in uno degli «antichi domini delle Americhe, oggi emancipati», per i quali l’identità etno-culturale
prevaleva sul principio della residenza, si riconosceva la vecindad due anni
prima che agli altri, purché in condizione di reciprocità da parte dello Stato
di provenienza. Quanto invece agli spagnoli che avessero perso la propria
condizione perché naturalizzati in altro Paese, avrebbero potuto essere «riabilitati» solo con l’emanazione di una legge ad hoc.
La norma, qualora approvata, sarebbe valsa nella Spagna peninsulare e
isole adiacenti, ma non nei territori di Ultramar19.
A fronte di «materia tan grave» e prima di sottoporre il testo al dibattito
parlamentare, la commissione incaricata del riesame volle studiare i precedenti, inclusi gli accordi esistenti in materia tra la Spagna e le altre nazioni20,
e dopo quasi due mesi di lavoro chiese al ministro dell’Interno un incontro21.
Forse a causa di obiezioni sostanziali o per la dificoltà di trovare un accordo, tant’è che il progetto di Seijas Lozano fu ritirato dal Governo, e tornò
alla commissione dopo quasi un anno, cambiato e sempliicato. Il nuovo
testo, organizzato in due titoli, non contemplava più alcuna gradualità di ac19. Ahcd, fasc. 65, ins. 88, Proyecto de ley sobre naturalización de estrangeros, bozza
ministeriale intitolata Ley sobre vecindad y naturalización de estrangeros.
20. Ahcd, fasc. 65, ins. 88, la commissione parlamentare al ministro dell’Interno, il
18/3/1847.
21. Ahcd, fasc. 65, ins. 88, la commissione parlamentare al ministro dell’Interno, il
1/5/1847.
22
cesso, ma solo il rilascio della lettera di naturalizzazione e il riconoscimento
di vecindad. La carta era conferibile a tutti i richiedenti che rientrassero
in una di sei speciiche casistiche, riducendo anche signiicativamente gli
obblighi di residenza nel Paese22; mentre molto più dificile era l’ottenimento della vecindad, per la quale era necessario un domicilio decennale e
il matrimonio con una spagnola. In entrambi i casi, il processo si otteneva
a istanza dell’interessato e previo accreditamento del responsabile politico
provinciale, con l’avallo del Consiglio provinciale. Il decreto di concessione
non era del sovrano, ma del Governo, rilasciato dal Ministero dell’Interno.
La naturalizzazione diveniva effettiva dopo la dichiarazione di professione
cattolica, il giuramento di fedeltà al re e di obbedienza alle leggi di Spagna.
Questi «nuovi» spagnoli acquisivano gli stessi obblighi, diritti e capacità di
accesso agli ufici dei naturales, eccetto alcune cariche pubbliche di prestigio o di particolare rilievo politico – incluse quelle di ministro, deputato
e senatore – per le quali era richiesta una legge. Un breve articolo, inine,
disponeva la perdita della «qualità di spagnolo» per quanti si fossero naturalizzati altrove, o avessero svolto un impiego presso un altro Stato senza
licenza del re di Spagna.
La commissione esaminò il nuovo progetto e presentò il proprio dictamen al Congresso dei deputati il 26 febbraio 1848. La discussione si aprì il
17 marzo successivo con le obiezioni di Pedro Gómez de la Serna y Tully.
Costui era un personaggio di spicco sulla scena spagnola del tempo, riconosciuto giurista, avvocato e accademico, liberale convinto e già deputato nel
1841 a lato del generale Espartero, tornato in patria da pochi mesi (dopo 5
anni di esilio politico in Inghilterra) e seduto nelle ila dell’ala conservatrice
del Partido progresista23.
Gómez de la Serna giudicò la norma incompatibile con il dettato della
Carta del 1845 e, avendo partecipato alla redazione del testo in qualità di
ministro regio, non era accusa da poco. Tacciò poi d’illegittimo il principio,
che non esitava a deinire di «intolleranza religiosa», di esigere un atto di
professione cattolica, visto che per gli stranieri presenti in Spagna la confessione religiosa non era stata mai condizione per il godimento dei diritti
22. Si sanciva l’obbligo del domicilio per 8 anni in caso di assenza di altri meriti, ridotti a
6 per chi esercitava una professione utile e a 4 in caso di matrimonio con una spagnola. Non
era necessario alcun tempo minimo di residenza per chi introduceva in Spagna una industria
utile e innovativa, per chi vi acquisiva proprietà di rilievo o aveva prestato «servizi degni di
nota» alla nazione. Ahcd, fasc. 65, ins. 88, Dictamen del 26/2/1848.
23. J.M. Montalbán, Pedro Gómez de la Serna, in «Revista General de Legislación y
Jurisprudencia», t. 46, 1875, pp. 55-76.
23
civili24. Il presidente della commissione, chiamato a difendere il progetto di
legge, era Antonio de los Ríos Rosas, brillante giurista e antico avversario
politico di Gómez de la Serna, poi spostatosi verso posizioni più convintamente liberali. Ríos Rosas intavolò uno scontro teorico sull’interpretazione autentica del testo costituzionale in materia di cittadinanza. Sostenne la
perfetta conformità della legge ai commi terzo e quarto del primo articolo
costituzionale laddove si stabiliva che, di fronte allo straniero che si fosse
guadagnato condizione di vecindad, le autorità erano tenute a ratiicare una
cittadinanza spagnola già presente per diritto acquisito; non così per l’ottenimento della carta de naturaleza ove, anche in caso di possesso dei requisiti previsti, il Governo poteva discrezionalmente accogliere o meno l’istanza.
L’esistenza di questa doppia modalità di naturalizzazione, proseguiva Ríos
Rosas, recepiva antiche consuetudini della tradizione spagnola. La forma
più antica – la vecindad – corrispondeva a un concetto di aggregazione alla
cittadinanza non troppo dissimile da altri casi europei, come quella italiana
di età comunale, incluso il legame esistente tra accesso alla cittadinanza ed
esercizio dei diritti politici25.
En los tiempos en que la ciudad, en que el Municipio era todo, el que se avecindaba,
aunque fuera extranjero, por el mero hecho de avecindarse adquiría todas las condiciones
de ciudadano español y de vecino.
L’altra forma – la carta de naturaleza – era sopraggiunta in seguito, con
l’affermarsi della monarchia, non più connessa al godimento di diritti e doveri in una data comunità ma piuttosto pertinente alla sfera di controllo esercitato dello Stato nella concessione di una condizione divenuta espressione
della volontà del sovrano:
Posteriormente, consolidándose la Monarquía, extendiendo más su acción, acumulándose
las localidades más hacia el centro, el gobierno se apoderó, por decirlo así, de este asunto
como de otros muchos de que entendían antes especialmente las Municipalidades, y
prestando su atención a los extranjeros que se establecían en España, aplicándoles su
acción y su vigilancia, comenzó a exigir condiciones y a expedir cartas de naturaleza26.
24. Dsc, CD, intervento di Gómez de la Serna del 17/3/1848, n. 85, pp. 1832-1833, e
rettiicazione, p. 1836.
25. Della copiosa bibliograia in materia ci si limita al recente, sintetico ma illuminante,
M. Ascheri, Nella città medievale italiana: la cittadinanza o le cittadinanze?, in «Initium:
Revista catalana d’historia del dret», 16, 2011, pp. 299-312, oltre ovviamente a P. Costa,
Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, Laterza, Roma-Bari 1999, vol. I – Dalla civiltà
comunale al Settecento.
26. Dsc, CD, intervento di Ríos Rosas, 17/3/1848, n. 85, pp. 1833-1834.
24
Senza mezzi termini, Ríos Rosas riconosceva i limiti nei quali doveva
muoversi il legislatore rispetto al requisito religioso: «la legislazione attuale
è intollerante; la legislazione attuale proibisce qualsiasi culto eccetto il cattolico; e non riconosce diritti civili, né politici se non a quelli che appartengono a detto culto». La commissione non era però autorizzata a entrare nel
merito di un principio così generale, ritenuto un valore fondante dell’identità nazionale e quindi legittimo fattore di esclusione. Intervenne a supporto
anche il ministro dell’Interno, replicando laconicamente che «inché non
si fosse stabilito d’introdurre la tolleranza religiosa per gli spagnoli», non
sarebbe potuta esistere nemmeno per gli stranieri in procinto di diventarlo.
Le obiezioni dei deputati proseguirono, arenandosi però su quali dovessero essere i diritti dei naturalizzati e sul peso da attribuire al requisito religioso, inché la legislatura arrivò alla sua conclusione e il progetto non ebbe
esito.
Durante i lavori si sottolineò anche come fosse in approvazione una legge
su naturalización e vecindad e non una legge «sugli stranieri», de extranjería,
che restava invece di esclusiva prerogativa del Governo, sancendo una differenza sostanziale in termini di contenuto e, soprattutto, di competenza, tra
le due materie27. In effetti, mentre le naturalizzazioni restavano senza una
disciplina, il 17 novembre 1852 entrò in vigore il real decreto de extranjería,
la prima norma sugli stranieri in Spagna destinata a restare vigente, seppur
non integralmente, sino al 198628. Il Governo, come chiariva il ministro degli
Esteri Manuel Bertran de Lis nel lungo proemio al decreto, non aveva inteso
produrre «alcuna nuova legge», ma solo «riunire in un’unica disposizione
quanto esisteva già». Il testo si occupava dello status di domiciliado e di
transeunte, con l’elenco dei diritti e doveri corrispettivi, non senza però dotare principi già noti di nuova eficacia e di una diversa formulazione. Per gli
stranieri che non ricadevano in una delle due dette condizioni, si disponeva
l’obbligo di espulsione e il pagamento di una multa. Il domiciliado e il transeunte non potevano aspirare a impieghi pubblici, né esercitare alcun incarico o diritto politico, nemmeno in ambito comunale, a meno che – e solo in
casi eccezionali – non rinunciassero allo status di stranieri. Inoltre, il decreto
ratiicava una forma di cittadinanza più debole per le donne rispetto a quella
degli uomini, almeno rispetto agli effetti giuridici. Il matrimonio diveniva,
per la coniuge, un motivo di perdita della nazionalità, aggiungendo una fattispecie in più rispetto a quanto previsto dallo stesso dettato costituzionale:
27. Dsc, CD, n. 87 del 20/3/1848, pp. 1911-1912.
28. Real decreto dictando varias reglas sobre extranjería, y adoptando la clasiicación de
domiciliados y transeúntes, GM, n. 6730 del 25/11/1852, pp. 1-3.
25
ciò valeva infatti in caso di unione di una spagnola con uno straniero, ma non
per gli spagnoli sposati con donne estere. La stessa eccezione valeva per la
condizione dei igli: i generati da padre spagnolo erano sempre considerati
spagnoli, anche se nati all’estero, mentre non lo erano quelli di madre spagnola e padre straniero, nemmeno se nati in Spagna29.
4. Trasformazioni e permanenze: tra sovranità dello Stato e politica
estera
La questione della naturalizzazione tornò a esser dibattuta in un’aula
parlamentare dopo oltre trent’anni e in un regime politico completamente
diverso, quello della prima Restauración. Vigeva allora la Costituzione del
1876, detta canovista dal nome del suo principale arteice, Antonio Cánovas
del Castillo, capo del partito liberal conservatore30. All’articolo I enunciava
come «spagnoli» tutti coloro che avessero ottenuto carta de naturaleza o
dichiarazione di vecindad, rimandandone di nuovo il compimento al regolamento di una legge. Un’importante novità era stata introdotta dalla ley
municipal del 2 ottobre 1877, che riconosceva come vecino chiunque lo
avesse chiesto al proprio Municipio, con la sola condizione di dimostrare
una residenza continuata di almeno sei mesi31. Il quadro era pertanto ancora
più confuso, tenendo conto che il vecino avrebbe acquisito il diritto di voto
amministrativo attivo e passivo, prima su basi rigidamente censitarie, ma dal
1890 fu introdotto il suffragio universale maschile.
Una nuova proposta in materia di naturalizzazione non giunse su iniziativa governativa, ma fu avanzata da un deputato, l’avvocato salmantino
Fermín Hernández Iglesias. Pur non appartenendo al partito conservatore
allora al governo, Hernández era tutt’altro che estraneo alla vita politica e
sarebbe stato destinato a una lunga carriera nelle principali istituzioni dello
Stato32. La proposta di legge «sulla naturalizzazione degli stranieri» avocava
l’intera procedura all’autorità governativa: presentata domanda al sovrano,
29. A. Muro Castillo, G. Cobo del Rosal, La condición del nacional y extranjero …, cit.,
pp. 2086-2089.
30. J. Varela Suanzes-Carpegna, La Constitución de 1876, Iustel, Madrid 2009.
31. Ley Municipal, art. 16, in GM, 4/10/1877, n. 277, pp. 39-46.
32. Hernández Iglesias (1833-1908) era stato a capo della sezione per la Beneicenza del
Ministero dell’Interno, incarico che lasciò per espletare il suo ruolo di deputato (fu eletto nel
1879, nel 1881, nel 1884 e ancora nel 1891) e poi di senatore (dal 1886 al 1890 e dal 1893 al
1900). Fu nominato Consigliere di Stato e ministro del Tribunal Contencioso Administrativo,
diresse per alcuni anni la rivista «La Voz de la Caridad» e, inine, assunse l’incarico di
vicepresidente della Real Academia de Jurisprudencia y Legislación.
26
la richiesta – indifferentemente di carta de naturaleza o di vecindad - passava prima al governatore provinciale per le opportune veriiche, poi al ministro degli Interni e, dopo udienza del consiglio di Stato, era accolta (se del
caso) con decreto reale. Per l’eficacia del decreto, pubblicato sulla Gazzetta
uficiale, restava l’obbligatorietà del giuramento di fedeltà alla Costituzione
e la rinuncia alla precedente nazionalità, mentre nulla si diceva quanto alla
professione di fede cattolica33.
Hernández Iglesias presentò personalmente la proposta di legge al Congresso dei deputati il 23 dicembre del 1879. Denunciò la gravità della mancanza di una normativa in materia perché «lasciava del tutto disarmato il
Governo, quando il Governo dev’essere il difensore unico della nostra nazionalità e dei nostri interessi»34. Quel vuoto legislativo obbligava infatti,
proseguiva il deputato, a ricorrere alle oramai anacronistiche disposizioni
dell’epoca di Filippo V, causa di molti inconvenienti e di possibili conseguenze nefaste nelle relazioni tra Stati, ma anche con i molti stranieri residenti in Spagna.
Ci si trovava in un contesto profondamente diverso, per signiicato e
prospettiva politica, da quello che aveva caratterizzato il dibattito parlamentare degli anni Quaranta: gli aspetti legati all’attribuzione dei diritti
di cittadinanza restano in secondo piano, seppur trattati diffusamente, a
favore di una preoccupazione tutta rivolta alla politica estera ed ai rapporti
con gli altri Stati, ambito d’intervento esclusivo del potere esecutivo e non
del legislativo. In conseguenza, anche la ricostruzione storica di Hernández
ebbe ad oggetto altri temi rispetto a quelli menzionati da Ríos Rosas. Per
Hernández , nei periodi nei quali la difidenza in ambito internazionale aveva prevalso, erano state adottate misure restrittive. Quando invece, in tempi
di espansione o di politiche volte a «colonizzare regioni deserte, favorire
attività economiche abbandonate o sostenere interessi occulti», la naturalizzazione era stata di una «facilità anarchica», consentendo a stranieri dall’«appetito disordinato» di godere dei vantaggi del commercio spagnolo. In
queste parole si ritrova l’eco degli scritti xenofobi di molti liberali dell’epoca che attribuivano all’inluenza «occulta» dei troppi francesi, italiani e
inglesi la responsabilità di aver corrotto e deturpato il Paese, saccheggiato
rapaci le sue ricchezze all’ombra della Corona, minato l’autentica essenza
del «carattere spagnolo»35. Occorreva trovare un nuovo metodo, una via
di mezzo tra la proposta avanzata nel 1847 e quanto vigente nelle altre
33. Ahcd, fasc. 202, ins. 22.
34. Dsc, CD, n. 77 del 23/12/1879, p. 1331.
35. O. Recio Morales, Los extranjeros y la historiografía modernista, cit., p. 36.
27
nazioni europee «rette da istituzioni liberali analoghe a quelle che esistono
in Spagna».
Hernández Iglesias non aveva dubbi: in primo luogo la naturalizzazione
degli stranieri e il riconoscimento di vecindad dovevano essere afidati al
governo e non alle Cortes, cosa che (a suo giudizio) era «implicitamente»
sancito dalla Costituzione del 1876; inoltre, a tutti i naturalizzati spagnoli
dovevano riconoscersi i diritti e doveri degli autoctoni, incluso l’accesso
agli impieghi pubblici, col solo limite del merito e delle capacità di ciascuno. Un’equiparazione invero non priva di eccezioni, su modello di quanto
avveniva in altri Paesi: il deputato ricordava infatti la legge svedese che
precludeva l’accesso all’incarico di consigliere di Stato, e la Costituzione
americana che escludeva quello di presidente della repubblica. In Spagna,
secondo Hernández, non si sarebbe dovuto consentire l’accesso agli incarichi «che implicano l’esercizio di giurisdizione, che incarnano […] la rappresentazione della dignità e del nome nazionale», confermando il divieto per
gli stranieri, pur naturalizzati, di sedere in Parlamento36.
La commissione per il riesame del testo fu composta da sette deputati, tra
cui lo stesso Hernández37, ma il progetto non proseguì il suo iter e si arenò
senza portare a nulla. Divenuto in seguito senatore, Hernández Iglesias presentò di nuovo il testo alla Camera alta il 13 marzo 1888, sostanzialmente
senza cambio alcuno rispetto ad otto anni prima38, né l’esito fu diverso.
La proposta di Hernández Iglesias fu però recepita di lì a poco nel Codice
civile riformato, pubblicato con regio decreto il 24 luglio 1889, negli undici
articoli del libro primo, titolo primo, «De los españoles y extranjeros»39. Si
aggiungeva così un nuovo tassello regolamentare, aggravando la frammentarietà della disciplina. Il Codice dichiarava spagnoli tutti i nati su territorio
spagnolo, e i igli di genitori spagnoli nati fuori dal Paese. Erano tali anche
gli stranieri che avessero ottenuto «carta di naturalizzazione» o acquisito vecindad in una qualsiasi delle località del Regno, purché avessero rinunciato
alla nazionalità estera, giurato fedeltà alla costituzione e si fossero iscritti
nel Registro civile. In tal modo, avrebbero goduto di tutti i diritti degli spagnoli, salvo quanto disposto in Costituzione o altrimenti sancito da trattati
internazionali. I igli di stranieri nati sul territorio spagnolo ne avrebbero
36. Dsc, CD, n. 77 del 23/12/1879, p. 1331.
37. Dsc, CD, n. 78 del 24/12/1879, p. 1337.
38. Dsc, S, n. 69 del 13/3/1888, p. 1511. Il testo è pubblicato nella Appendice V a questo
stesso numero. L’unica differenza rispetto al precedente è la scomparsa dei due requisiti per
il richiedente la carta di naturalizzazione, quello della maggior età e l’attestazione di buoni
costumi.
39. GM, n. 206 del 25/7/1889, pp. 249-312 e, in particolare, p. 249.
28
acquisito la nazionalità o dietro esplicita disposizione dei genitori, o per propria volontà entro un anno dal compimento della maggior età. Gli spagnoli
che avessero perso la nazionalità a favore di quella di un altro Paese, avrebbero potuto riacquistarla tornando in patria e dichiarando al cospetto di un
funzionario del Registro civile la propria volontà di restarci; lo stesso valeva
per la spagnola che, persa la nazionalità a seguito del matrimonio con uno
straniero, rimasta vedova o separata, fosse tornata in Spagna. Per chi invece
avesse assunto un incarico presso un altro Stato o si fosse arruolato nei ranghi di un esercito estero senza licenza del proprio sovrano, sarebbe rientrato
in possesso della nazionalità solo per mezzo di atto formale di riabilitazione del monarca stesso. Espressa manifestazione di fronte ai rappresentanti
diplomatico-consolari accreditati all’estero era invece richiesta agli spagnoli
emigrati che desiderassero mantenere la nazionalità natia, introducendo per
la prima volta formalmente sia la questione dell’emigrazione, sia un ruolo
speciico in materia per le autorità diplomatiche.
Il dettato iuscivilistico non concluse certo la diatriba sulla naturalizzazione. Il Novecento riservava nuove side, modiicando ancora i termini del
dibattito politico su quali dovessero essere i fondamenti della ciudadanía
española.
A seguito della disastrosa conclusione della guerra ispano-americana, la
Spagna rimase priva anche degli ultimi territori coloniali e non sorprende
che una nuova proposta di legge mosse proprio nel tentativo di conservare i vincoli, oramai sovranazionali ma ancora caratterizzati da un comune
sentimento di appartenenza, tra le popolazioni di tradizione ispanica divise
dall’Atlantico. Nel novembre 1901, il deputato Eugenio Silvela y Corral, già
direttore generale dell’Amministrazione locale, presentò una proposta che
si differenziava dalle precedenti in nelle modalità della sua elaborazione.
Silvela aveva infatti compilato il testo sulla base di una relazione, redatta
insieme a due funzionari del Ministero dell’Interno (Juan Andrés Topete e
José Lon y Alvareda) e che aveva presentato durante il Congresso Social y
Economico Hispano-Americano. Si era trattato di un incontro, celebratosi a
Madrid la prima settimana di novembre del 1900, che ebbe grande inluenza
sullo spirito regeneracionista di quegli anni40.
La legge, nell’intenzione dell’estensore, avrebbe dovuto «valorizzare il
concetto che alla condizione di spagnolo corrisponde», adeguare la normativa nazionale a quella delle altre «nazioni civilizzate», e favorire i lega40. Cfr. I. García-Montón e G. Baquero, El Congreso Social y Económico HispanoAmericano de 1900: Un instrumento del hispanoamericanismo modernizador, in «Revista
Complutense de Historia de América», 25, 1999, pp. 281-294.
29
mi dell’antica madrepatria con le popolazioni ispano-americane41. Il testo
conteneva diverse novità. In primo luogo prevedeva una via estremamente
agevolata per la naturalizzazione di individui nati negli Stati ispanoamericani e nelle ex Antille spagnole, addirittura prescindendo dal requisito della
reciprocità, mentre per gli altri stranieri la procedura diveniva più complessa, con molti più requisiti cui soddisfare. La naturalizzazione assumeva l’aspetto di un istituto giuridico unico, a prescindere dall’esser stata ottenuta
per lettera di naturaleza oppure per vecindad, ed era concessa dall’autorità
ultima del Ministero degli Esteri, chiamato a sanzionare l’acquisizione del
diritto. Era la ine del concetto di vecindad conosciuto ino a quel momento:
l’intervento statuale andava ben oltre il riconoscimento formale di un diritto
acquisito, ma assumeva valore sostanziale. Il principio di appartenenza era
rimodellato su basi identitarie, non privo di elementi nazionalistici ed escludenti, e soppiantava la residenza, presupposto invece di una cittadinanza
inclusiva.
Ai naturalizzati si assicurava «il godimento dei diritti civili e politici» al
pari degli spagnoli, salvo per incarichi ministeriali, e la nomina a senatore
vitalizio, a rappresentante all’estero o a magistrato, per i quali si richiedeva
l’abilitazione con una legge speciale e discrezionale del Governo. Silvela,
nel presentare il suo testo al Congresso, menzionò esplicitamente l’anacronismo rappresentato dall’istituto della vecindad, un caso «vergognoso» e
unico in Europa. Altrove la naturalizzazione era stata oggetto di articolate
regolamentazioni e, soprattutto, era sancita «con una dichiarazione [dello
Stato], che costituisce un atto di sovranità»42. Nonostante l’appoggio espresso di fronte alla Camera da parte del ministro degli Esteri, la proposta passò
alla commissione d’esame ma non poté essere approvata prima del termine
della legislatura, costringendo il deputato a ripresentare il testo alla successiva, il 7 aprile del 1902. La nuova commissione d’esame fu nominata, ma il
dictamen restò ancora una volta pendente43.
Il progetto di Silvela non divenne mai legge, ma quei contenuti indicavano oramai che i tempi erano maturi per un cambiamento.
La prima guerra mondiale fu l’evento, l’ultimo al quale accenneremo in
questa breve analisi, che maggior impatto ebbe sul sistema spagnolo, ponendo ine sia al regime liberale restauracionista, sia alla concezione ottocentesca della naturalizzazione. Gli effetti del conlitto costituirono una sida
all’autorità dello Stato sotto diversi punti di vista, e la reazione istituzionale
41. Il testo della proposta di legge è in Dsc, CD, Appendice 33 al n. 58 del 12/11/1901.
42. Dsc, CD, intervento di Silvela, n. 71 del 27/11/1901, pp. 1883-1884.
43. Dsc, CD, n. 4 del 7/4/1902, p. 23, e testo in Appendice IV.
30
fu quella di ridurre sotto il proprio controllo spazi che sino a quel momento
erano rimasti più dificili da monitorare. In primo luogo fu necessario bloccare il movimento delle popolazioni provenienti dalle nazioni belligeranti e
richiedenti la nazionalità spagnola, approittando della neutralità del Paese,
per evitare l’invio al fronte. Nell’estate del 1916 il Governo adottò misure
drastiche per interrompere la pratica diffusasi in alcuni tribunali prossimi al
conine lusitano di riconoscere la vecindad a soggetti portoghesi privi dei
requisiti. Di lì a poco, il presidente del Consiglio dei ministri ordinò di non
concedere più alcuna forma di naturalizzazione, inclusa la carta de naturalidad, inché la guerra non fosse giunta al termine44. Il 6 novembre del 1916,
senza alcun tipo di coinvolgimento parlamentare, un decreto reale riformò
alle basi l’istituto della vecindad rendendolo conferibile esclusivamente per
autorità discrezionale del Ministero di Grazia e Giustizia. Il decreto avocò
così all’esecutivo un potere mai esercitato prima, mentre il valore attribuito
all’aspetto volontaristico del richiedente, e del riconoscimento da parte della
Comunità locale, passavano in secondo piano. Si trattava di un cambiamento
sostanziale nella politica delle naturalizzazioni, come si evince inequivocabilmente dal testo del decreto laddove sancì la competenza esclusiva del
Governo in materia «per evitare la possibilità di pratiche difformi e abusive,
come avverrebbe se tale facoltà fosse in possesso di autorità locali, giudiziali e amministrative»45.
La guerra richiese anche l’adozione di soluzioni straordinarie rispetto
alle procedure di naturalizzazione per quanti – pur nati spagnoli - avessero
perduto tale condizione, come nel caso delle diverse migliaia di volontari
che si erano arruolati nell’esercito francese senza il permesso sovrano. Il
caso fu oggetto di discussione al Congresso in dal giugno del 1916, quando
un deputato presentò una petizione al governo per raccogliere informazioni
sui «cinque o seimila» spagnoli che combattevano agli ordini della Francia.
La «spinosa questione» restò sospesa per tutta la durata del conlitto nel
timore di aprire pericolosi motivi d’imbarazzo per l’uficiale posizione neutralista della Spagna, inché, ai primi mesi del 1919, i ministri degli Esteri e
degli Interni presero prima in considerazione la concessione di una grazia,
poi risolsero il pasticcio ricorrendo alla duplice emissione di un decreto reale e di un indulto46.
44. Ahn, FC, Mae, H 3142, ins. 1, Criterio del gobierno español sobre concesión de
naturalizaciones durante la guerra, del 18/8/1916; comunicazioni ministeriali del 19 e del
22/8 successivi.
45. GM, n. 319 del 14/11/1916, p. 395.
46. Su questi aspetti, si rimanda a M. Aglietti, In nome della neutralità. Storia politicoistituzionale della Spagna durante la Prima Guerra Mondiale, Carocci, Roma 2017.
31
5. Brevi annotazioni inali
Nonostante le poche occasioni di dibattito che vi furono, e il fatto che
l’istituto parlamentare non abbia saputo dimostrarsi in grado di provvedere a regolamentare la naturalizzazione in modo eficace, questo percorso
mette in luce continuità e trasformazioni capaci di spiegare anche alcune
delle contraddizioni sopravviventi nell’istituto di accesso alla cittadinanza.
Infatti, se altrove si assistette a una più precoce transizione dell’autorità titolare del diritto di conferimento della nazionalità dal monarca al legislativo,
il perdurante dualismo monarchia-Cortes sancito ancora nella Costituzione
spagnola del 1876, e il predominio ministeriale sulla produzione normativa,
resero più dificile quel passaggio, spiegando almeno in parte il ritardo e le
resistenze per l’introduzione di una più moderna disciplina in materia. La
scelta che divenne dominante in dai primi del Novecento di ricondurre la
vecindad all’interno di una sola fattispecie di naturalizzazione signiicò sì
avvicinarsi a un modello più simile alla normativa di altri Paesi d’Europa,
ma anche eliminare una differenza concettuale e funzionale che era stata
centrale nell’ordinamento ottocentesco, laddove la vecindad aveva rappresentato una forma immediata d’accesso alla cittadinanza coincidente con il
godimento di diritti civili e politici, quanto meno sul piano locale.
Restano invece fuori da questa analisi molti altri aspetti, altrettanto importanti, quali quelli delle modalità di aggregazione dei soggetti di indubbia origine spagnola ma appartenenti alle minoranze religiose47, così come
rispetto alle discriminazioni etniche o di genere, cui pure si è accennato
brevemente.
L’ordinamento spagnolo vede ancora oggi il prevalere del concetto di
nacionalidad su quello – più circoscritto – di ciudadanía, in analogia con il
sistema tedesco e contrariamente, ad esempio, all’ordinamento italiano o a
quello francese, ove è invece la cittadinanza ad apparire semanticamente inclusiva anche del carattere della nazionalità48. Conoscere le origini di questa
differenza può contribuire a comprendere meglio le dinamiche, e le speciicità, degli ordinamenti politici contemporanei rispetto a fenomeni nuovi,
tra i quali la regolamentazione dei lussi migratori rappresenta solo uno dei
molti possibili esempi.
47. Degno di nota in materia di naturalizzazione di individui appartenenti a minoranze
religiose, M. Ojeda Mata, Identidades, fronteras, cruces y ambivalencias: los sefardíes
en la España contemporánea, in M. Ventura (ed.), Fronteras y mestizajes: sistemas de
clasiicación social en Europa, América y Asia, Universitat Autónoma de Barcelona,
Barcellona 2010, pp. 57-68.
48. B. Alàez Corral, Nacionalidad y ciudadanía, cit., p. 30.
32
Nazione e cittadinanza. Pasquale Stanislao Mancini
e i diritti civili degli stranieri
Alessandro Polsi
Pasquale Stanislao Mancini oltre a manifestare un precocissimo ingegno
e una enorme voracità di letture, non provò alcun reverenziale timore nel
gettarsi in da giovane nella trattazione di questioni complesse e di grande
rilevanza.
I primi rapporti diretti con intellettuali e pensatori esterni al Regno delle
Due Sicilie si possono datare alla ine degli anni ’30, quando poco più che
ventenne entrò in contatto con Terenzio Mamiani, allora in esilio a Parigi,
intavolando una corrispondenza sulle radici ilosoiche del diritto a punire1.
Nei primi scritti di carattere giuridico pubblicati all’inizio degli anni ’40
Mancini manifesta la sua avversione per la scuola storica del diritto (scuola
tedesca), ma anche il disagio rispetto ad una ilosoia del diritto che rischiava di essere così astratta da non poter tradursi in diritto positivo. Quando
nel 1842 presenta la scuola privata di diritto che promuove a Napoli assieme
a due altri colleghi, propone una fusione fra le due tendenze come unica via
per giungere ad una formazione completa ed eficace del giurista. È una dichiarazione di eclettismo, che non va intesa in senso negativo, ma dimostra
l’approccio pragmatico e lessibile che Mancini intende dare al suo lavoro
di insegnante, studioso ed avvocato2.
1. P.S. Mancini, Intorno alla ilosoia del diritto e singolarmente intorno alle origini del
diritto di punire. Lettere di Terenzio Mamiani e di P.S. Mancini, Firenze 1844. Una prima
edizione incompleta era stata pubblicata a Napoli nel 1841. Un commento in O. Zecchino, Il
problema penale nelle lettere di Mancini a Mamiani, in Aa.Vv., Pasquale Stanislao Mancini:
l’uomo lo studioso il politico, Guida, Napoli 1991, pp. 635-662. Su Mancini nell’ambiente
napoletano, F. Gentile, Il posto della ilosoia del diritto negli studi legali secondo Mancini,
in P.S. Mancini. L’uomo…, cit., pp. 335-365.
2. Studio di Diritto de’ professori de Augustinis, Tecci e Mancini. Programma per
l’insegnamento di un corso completo di diritto, in «Continuazione delle Ore Solitarie», 1842,
I semestre, pp. 345-347. Il De Augustinis era editore di un periodico, «Temi napolitana».
33
La prima arringa pronunciata in un tribunale alla ine degli anni ’30 fu
la difesa in appello di tre imputati, condannati a morte in primo grado per
aver procurato l’uccisione, in duello, di un cittadino piemontese. Fatto accaduto a Genova, in una giurisdizione che all’epoca riconosceva come lecita
la pratica. Oltre all’umanesimo, che lo spingeva a respingere la pena capitale
l’arringa lo portò a misurarsi con la questione, che lo impegnerà per decenni, su quale diritto utilizzare per decidere di controversie civili o penali,
quando le parti interessate appartenevano a nazionalità differenti3. Questione
rilevante non solo dal punto di vista teorico, ma anche giurisprudenziale in
un’Italia preunitaria, dove la sempre crescente mobilità delle classi colte
portava con frequenza cittadini di uno stato a stipulare contratti, redigere un
testamento o commettere un reato in uno degli altri stati.
In Piemonte
Fuggito da Napoli nel settembre del 1849 Mancini riuscì ad inserirsi nella elite sociale piemontese nel giro di pochi mesi4. Oltre ai mezzi economici
di cui poteva disporre, contribuirono i rapporti di amicizia con alcuni fuoriusciti già accolti nel Regno, come Terenzio Mamiani e Antonio Scialoja, e i
rapporti instaurati negli anni ’40 con alcuni amministratori piemontesi come
Federico Sclopis5, già membro del Consiglio di stato, Ministro di grazia e
giustizia nel primo governo costituzionale e senatore dal 1849, e il Conte
Carlo Ilarione Petitti di Rorero, già consigliere di stato e senatore dal 1848.
Immediata è l’amicizia con Urbano Rattazzi, quasi a controbilanciare un
Alla sua morte nel 1845 la redazione passò a collaborare con il periodico di Mancini. G.
Oldrini, La cultura ilosoica napoletana dell’Ottocento, Laterza, Roma-Bari 1971, p. 213.
Della scuola privata di Mancini dà un lusinghiero giudizio K. Mittermaier, Delle condizioni
dell’Italia del Cav. Carlo Mittermaier, Milano 1845, p. 214. Mancini appartiene a quella
tradizione di eclettismo che si può considerare un sedimento profondo della cultura giuridica
italiana dell’800. L. Lacchè, Il canone eclettico. Alla ricerca di uno strato profondo della
cultura giuridica italiana dell’Ottocento, in «Quaderni iorentini per la storia del pensiero
giuridico moderno», 39, 2010, pp. 153-228, e S. Mastellone, Mancini e l’eclettismo di Victor
Cousin, in P.S. Mancini. L’uomo…, cit., pp. 367-371.
3. L’appello si concluse con l’assoluzione dei tre imputati. E. Jaime, Pasquale Stanislao
Mancini. Il diritto internazionale privato fra Risorgimento e attività forense. Cedam, Padova,
1988. Al tema del duello Mancini dedicò un saggio nel 1842 in «Continuazione delle Ore
solitarie».
4. L. Firpo, Gli anni torinesi, in P.S. Mancini. L’uomo…, cit., pp. 139-156.
5. Su Sclopis vedi G. Saredo, Federigo Sclopis, Torino 1862 e L. Moscati, Da Savigny
al Piemonte. Cultura storico-giuridica subalpina tra la Restaurazione e l’Unità, Carocci,
Roma 1984.
34
ingresso nella elite dirigente piemontese troppo sbilanciato su illustri esponenti del fronte liberale conservatore. Oltre all’esercizio dell’avvocatura, ripreso nel giro di pochi mesi, gli si aprì rapidamente la carriera accademica
quando il Parlamento nel novembre del 1850, non senza qualche malumore,
istituì una nuova e innovativa cattedra di Diritto Pubblico Esterno e Internazionale Privato presso l’Università di Torino6. Era un insegnamento periferico rispetto alle grandi materie classiche delle facoltà di Giurisprudenza, ma
in linea con le ambizioni del nuovo stato costituzionale piemontese, spinto
dalla parte più dinamica della sua classe politica ed imprenditoriale a seguire la grande ondata di intensiicazione degli scambi commerciali e di
persone che dopo il 1848 stava coinvolgendo le economie e le società più
dinamiche dell’Europa occidentale.
Nella celebre prelezione del gennaio 1851 con cui inaugurò il suo corso
Mancini sviluppò l’idea della appartenenza nazionale come principio teorico per risolvere una serie concentrica di problemi legati tanto al diritto
internazionale privato che al c.d. diritto internazionale pubblico7. Il saggio
si segnala per una capacità di sintesi illuminante, ma che rischia di apparire
astratta dove non si collochi la rilessione di Mancini nell’ambito di una
attività professionale che nel Piemonte preunitario si era fatta molto intensa.
Nello stato sabaudo, molto più che a Napoli, la sua attività forense si
misura con il problema dei molti cittadini di nazionalità piemontese che
avevano abbandonato il regno per servire sotto Napoleone, divenuti per
una breve stagione cittadini francesi, quando il Piemonte era stato annesso
alla Francia, e chiamati a scegliere il proprio status di cittadinanza alla ine
dell’Impero.
La questione si faceva oltremodo intricata per i cadetti delle famiglie
nobili, proprietari di grandi fortune. Il trattato di Parigi del 30 maggio 1814
aveva indicato la strada per regolarizzare la situazione di tutti gli aderenti
al regime napoleonico originari di territori che non appartenevano più alla
Francia. In accordo con le potenze vincitrici si stabiliva un lasso di sei
anni entro il quale chi aveva servito nell’esercito o nell’amministrazione
6. L. 14 novembre 1850 n. 1092 che istituisce una cattedra di Diritto pubblico esterno
ed internazionale privato. Il relativo disegno di legge era stato approvato dal Senato il 7
maggio 1850 e dalla Camera l’8 novembre. Determinante in Senato l’intervento di Sclopis
per giungere all’approvazione della legge.
7. P.S. Mancini, Della nazionalità come fondamento del diritto delle genti. Prelezione
al corso di diritto internazionale e marittimo pronunziata nella R. Università di Torino nel
dì 22 gennaio 1851. Testo riedito numerose volte. Un commento in G.S. Pene-Vidari, La
prolusione di P.S. Mancini all’Università di Torino sulla nazionalità (1851) in Id. (a cura),
Verso l’unità italiana: contributi storico-giuridici, Giappichelli, Torino 2010, pp. 21-46.
35
francese poteva richiedere la cittadinanza transalpina, condizione indispensabile per poter continuare a servire nell’esercito, lavorare nella pubblica
amministrazione e godere delle pensioni pagate dallo stato. Anche il Congresso di Vienna aveva statuito su tema analogo, ma in questo caso andando
più alla radice, concedendo il lasso di un anno per decidere della propria
nazionalità a quei sudditi che, a seguito del cambiamento dei conini europei, e della scomparsa di alcuni stati si trovavano privi della nazionalità di
origine. Se per la massa della popolazione la questione era risolta d’uficio
in base al principio del domicilio, la questione aveva non poca rilevanza
per le ristrette elite nobiliari e possidenti i cui beni si distribuivano su più
stati. La scelta, oltre ad avere un sapore identitario e politico poteva avere
conseguenze non indifferenti soprattutto per il futuro dei patrimoni famigliari, per la sussistenza di ordinamenti giuridici difformi, che regolavano
in maniera diversa, a seconda degli stati, la capacità di testare, la validità
dei testamenti redatti all’estero, la possibilità stessa di trasmettere beni a
cittadini di altro stato.
Nel Piemonte restaurato il codice civile in vigore ino al 1837 escludeva
dall’asse testamentario i parenti del defunto con nazionalità estera – ultimo
rilesso di una concezione patrimoniale dello stato (cosiddetto diritto di albinaggio) –, e solo il nuovo codice emanato in quell’anno abolì in parte quella
norma, sostituendola con una clausola di reciprocità di trattamento fra stati,
la formula più usuale in quegli anni per regolare la questione8.
Uno dei primi casi trattati dall’avvocato Mancini riguardò un cadetto della famiglia Della Villa, Cesare, che aveva servito nell’esercito francese, ino
a giungere al grado di maresciallo di campo, e che nel 1814, in base al trattato di Parigi, aveva chiesto la naturalizzazione francese, per poter continuare
a servire nell’esercito d’oltralpe. Per questo motivo la famiglia piemontese
lo aveva escluso dall’asse ereditario, considerandolo suddito francese. Nel
1851 la causa fu discussa in appello a Torino, e per appoggiare le ragioni dei
discendenti di Cesare Della Villa un collegio formato da Mancini, Urbano
Rattazzi, Giovanni Battista Cassinis e Leone Rocca presentò varie memorie,
di cui una in particolare assumeva le dimensioni e i contenuti di un vero
8. L’art. 27 stabiliva che lo straniero non naturalizzato non aveva la capacità di succedere
ai sudditi dello stato, salvo il caso esistesse un pubblico trattato di reciprocità sul trattamento
delle successioni fra il Piemonte e lo stato interessato.
L’art. 34 stabiliva invece che il suddito che acquistava la naturalità in un paese straniero
perdeva i diritti civili, a meno di non aver ottenuto il permesso dal Sovrano, nel qual caso
manteneva il diritto di succedere e trasmettere in eredità. Sui lavori che portarono al Codice
del 1837 vedi F. Sclopis, Storia della legislazione negli Stati del Re di Sardegna dal 1814 al
1847, Torino 1860.
36
trattato di commento delle disposizioni su cittadinanza e nazionalità nel passaggio dal regime napoleonico alla restaurazione9.
Da un lato bisognava stabilire se l’annessione del Piemonte alla Francia
avesse inito per cancellare la nazionalità sabauda, e quindi chi, come il
Della Villa, era rimasto in Francia, avesse assunto la nazionalità francese
al momento dell’annessione del Piemonte e non l’avesse più persa avendo
mantenuto il proprio domicilio in Francia. La tesi avversa esposta da Mancini si fondava sul sostegno di un’ampia citazione di fonti, da E. Vattel ino
a J.L. Kluber e G.F. Martens per ricostruire il vero spirito dei Trattati di
Vienna e di Parigi. Negando validità ad alcune interpretazioni più liberali
e interpretando lo spirito condiviso dei giuristi dell’età della restaurazione
Mancini concludeva a favore dell’esistenza di un principio di sovranità che
si estendeva al territorio e agli abitanti di uno stato. In caso di guerra e di occupazione di parte del territorio tale appartenenza rimaneva come sospesa,
per poi ridiventare pienamente operativa nel caso di uno stato cessato e poi
reintegrato nella sua sovranità. In questa prospettiva le clausole del Trattato
di Vienna, che si applicavano agli abitanti nei territori della cessata Polonia,
e le stesse norme francesi costituivano non nuove leggi, ma eccezioni ad una
norma generalmente riconosciuta, e ne confermavano la piena forza. Così
il Della Villa, nato piemontese, nel 1814 aveva riacquistato la nazionalità
sabauda, tanto da essersi dovuto valere del Trattato di Parigi per poter richiedere ed ottenere la cittadinanza francese, senza che questo comportasse
per altro la perdita della sua natura di suddito piemontese. Affermazione
avvalorata dal fatto che la naturalizzazione francese accordata dal trattato di Parigi era, come detto all’epoca, una naturalizzazione “minore” non
equivalente all’acquisizione della nazionalità francese, ma necessaria solo
per poter continuare a servire nell’esercito. Inoltre mancava l’altro requisito
necessario per il mutamento di nazionalità, e cioè un atto del Re di Sardegna, che concedesse al suddito la facoltà di stabilire la propria residenza
permanente fuori dal Regno, situazione che senza la sanzione regia, avrebbe
assunto rilevanza penale. Quindi in assenza di un provvedimento regio, il
Della Villa aveva mantenuto la nazionalità piemontese.
In questa causa erano racchiusi una distinzione fra nazionalità, intesa
come un dato genetico, legato allo ius soli, il domicilio, e l’eventuale godimento di diritti civili e politici in un altro stato (cittadinanza) che invece
9. Museo Centrale del Risorgimento Roma (ora Mccr), Mancini, MS B. 878,
Ragionamento nella causa degli Cav. Alessandro della Villa e altri di Villastellone. Torino
1851 e Brevi Cenni nell’interesse dei Signori Della Villa, in replica alle osservazioni dettate
nell’interesse dei signori Partiaut, Torino 1851.
37
erano due condizioni potenzialmente mutevoli. Alla nazionalità era legato il
diritto di poter fare sempre, nel corso della propria vita, riferimento al sistema giuridico del proprio paese di nascita, nel caso in questione al diritto di
famiglia dell’ordinamento piemontese.
Un ragionamento che poneva la nazionalità come ancoraggio dei diritti
civili di un individuo, e in cui i conlitti fra leggi di stati diversi, determinati dal mutamento di domicilio, avrebbero trovato più semplice risoluzione
non dalla ricerca del domicilio prevalente – come sosteneva un’autorità del
calibro di Savigny – ma dal riconoscimento di una quasi immutabile appartenenza nazionale dei sudditi. La Corte d’appello nella sua sentenza accolse
le tesi di Mancini e dei suoi colleghi.
Le memorie per il caso Della Villa10 vedono la luce poche settimane dopo
la celebre prolusione del 1851, ed evidentemente erano state concepite nello
stesso momento della prelezione dedicata al principio di nazionalità. In questa prospettiva l’attività forense e accademica di Mancini si ricompongono
in una visione unitaria11.
Nell’attività forense e nella prolusione accademica emergeva con coerenza l’idea che la nazionalità e non il domicilio costituisse il punto di
riferimento attorno al quale costruire la sfera dei “diritti civili” dell’individuo.
Alla metà degli anni ’50, assieme a due altri fuoriusciti, Giuseppe Pisanelli e Antonio Scialoja, Mancini cura un corposo commentario del Codice
di procedura civile sardo, un’opera collettiva che getterà le basi per la riforma dei codici nello stato unitario di lì a pochi anni.12 La scrittura di un
codice di procedura civile era stata uno dei punti del programma del primo
ministero Cavour. Si trattava di adeguare le procedure frutto di una legislazione frammentaria al nuovo regime costituzionale. Nell’ottobre del 1851
Mancini, membro della commissione per la riforma dei codici, dopo aver
10. Dobbiamo ricordare anche un altro processo del 1854 in cui Mancini trattava del
testamento del conte Saporiti, suddito della cessata Repubblica di Genova e domiciliato a
Milano dal 1814. Anche in questa causa Mancini produceva lunghe memorie in cui affrontava
il problema della nazionalità e del diritto da applicare per la validità dei testamenti. Mccr,
Mancini, MS, B. 878.
11. Un primo saggio sulla nazionalità come strumento per affrontare in maniera eficace
il problema dei conlitti fra leggi in materia di contratti era stato pubblicato nel 1844. P.S.
Mancini, Esame dell’opera di dritto internazionale di Nicola Rocco, e del rapporto del sig.
Portalis sulla stessa, in «Continuazione delle Ore Solitarie», 1844, pp. 10-29.
12. Commentario del Codice di procedura per gli Stati Sardi con la comparazione degli
altri Codici italiani. Compilato dagli avvocati e Professori di Diritto P.S. Mancini, G. Piselli,
A. Scialoja, vol I, Torino 1855. Sul Commentario v. F. Aimerito, La codiicazione della
procedura civile nel Regno di Sardegna, Giuffrè, Milano 2008.
38
preso visione della prima stesura del progetto aveva pubblicato un intervento sul primo numero di prova del “Monitore dei Comuni Italiani” in cui criticava il tentativo di imitare in Piemonte il modello del codice di procedura
napoleonico del 1806.13 Secondo Mancini la riforma non era ancora matura,
perché era in corso in Francia un dibattito sulla modiica del Code de procedure, e si correva il rischio di emanare un codice proprio quando il suo
modello di riferimento veniva mutato14. La posizione di Mancini non ebbe
comunque un rilevante impatto sul codice di procedura che fu approvato
seguendo il modello francese.
Il governo invece accolse quanto era stato suggerito da Mancini in altra
sede per giungere all’approvazione parlamentare del nuovo codice, stabilendo un importante precedente di natura costituzionale. Basandosi sulla autorità e il sostegno pubblico di Karl Mittermaier15, Mancini sosteneva che il
Parlamento doveva limitarsi alla sola approvazione dei principi generali, una
sorta di “approvazione provvisoria”, cioè licenziare un testo a cui il governo si riservava di apportare le modiiche che sarebbero sembrate opportune
dopo qualche momento dalla sua applicazione.
Fu questa la linea seguita dal Ministero che, non senza qualche polemica,
fu accolta dalla Camera e dal Senato e portò all’approvazione della L. 16
luglio 1854. Il monumentale commentario che Mancini Pisanelli e Scialoja
produrranno pochi anni dopo l’approvazione del codice di procedura non si
limitò a commentare il codice di procedura sardo, ma si aprì all’analisi comparata dei codici civili e di procedura degli altri stati italiani. L’intento era di
preparare il terreno ad una armonizzazione dei codici degli stati italiani, ma
inì per essere un importante lavoro preparatorio all’uniicazione provvisoria
del 1859-60 e poi alla emanazione del nuovo codice civile e del successivo
codice di procedura civile del Regno d’Italia, di cui Pisanelli e Mancini,
grazie alla competenza e all’autorità conseguita, diedero uno il nome, l’altro
l’impronta su alcuni punti signiicativi.
13. Mancini citava come esempio negativo il Codice del Regno delle Due Sicilie,
improntato al testo francese: «In Napoli, dove il voto pubblico da lungo tempo non è di alcun
inluenza sugli atti de’ governanti, non fu possibile inora ottenere la riforma della procedura
civile francese», Aimerito, La codiicazione…, cit., p. 244.
14. Ibidem, p. 241.
15. K. Mittermaier, Sul progetto di Codice di procedura civile. Lettera del Prof.
Mittermaier al Prof. P.S. Mancini, in «Gazzetta dei Tribunali», n. 33, 4 maggio1853.
Sui rapporti fra Mancini e Mittermaier v. E. Di Carlo, Lettere inedite di P.S. Mancini al
Mittermaier nel decennio di preparazione, in «Rassegna storica del Risorgimento», 39, 3-4,
1952, pp. 502-516.
39
Il principio di nazionalità
Mancini è stato considerato come il principale divulgatore a livello internazionale del principio di nazionalità, e il fondatore della c.d. scuola italiana
di diritto internazionale che una certa fortuna ha avuto soprattutto ino alla
guerra mondiale, tanto in Europa che in America latina16.
L’idea di nazionalità espressa da Mancini nella prolusione del 1851 e in
sede processuale, è contemporaneamente una categoria giuridica e un dato
sociologico, cosa che ne rappresenta la forza nel discorso politico e la debolezza in ambito scientiico. La nazionalità appare come il cardine di una
ilosoia del diritto che si deinisce con orgoglio eclettica17. Il punto di partenza è nell’affermazione del giurista tedesco Savigny dell’esistenza di una
tradizione giuridica comune europea, composta da valori morali e principi
giuridici condivisi. Ma rispetto a questa concezione, che vedeva negli Stati
gli strumenti di un diritto internazionale che non era solamente il rilesso del
combinarsi dell’interesse egoistico degli stati, ma conteneva il riconoscimento di un concetto superiore di umanità18, Mancini introduceva una nuova
costruzione sociale e morale, la nazione, che colmava lo iato troppo vasto
che esisteva fra il concetto di umanità e l’azione concreta degli stati. La
nazione per Mancini era un dato sociale, frutto della formazione nel corso
della storia di una serie di comunità che emergono attraverso un processo di
acquisizione di una lingua, costumi e tradizioni comuni
La nazione formata e che si riconosce come tale19 diviene una fonte del
diritto: lo stato che la sorregge esprime attraverso il proprio ordinamento
16. Jaime. P.S. Mancini…, cit., A. Droetto, Pasquale Stanislao Mancini e la scuola
italiana di diritto internazionale del secolo XIX, Giuffrè, Milano, 1954. K.H. Nadelmann,
Mancini’s Nazionality Rule and Non-Uniied Legal Systems. Nazionality versus Domicile,
in «The American Journal of Comparative Law», 3, 1969, pp. 418-451. Svilisce in maniera
sbrigativa la scuola italiana S. Mannoni, Da Vienna a Monaco (1814-1938). Ordine europeo
e diritto internazionale, Giappichelli, Torino 2014.
17. P.S. Mancini, Della vocazione del nostro secolo per la riforma e la codiicazione
del diritto delle genti e per l’ordinamento di una giustizia internazionale. Discorso per la
inaugurazione degli studi nella R. Università di Roma, pronunziato nel 2 novembre 1874,
Roma 1874.
18. Sull’emergere del principio di nazionalità in rapporto con lo stato v. L. Nuzzo, Da
Mazzini a Mancini: il principio di nazionalità tra politica e diritto, in «Giornale di Storia
Costituzionale», 14, 2007, pp. 160-186.
19. Sostiene T. Mamiani, D’un nuovo diritto europeo, Torino 1859, che la nazionalità è
un diritto non un’imposizione. Nel corso della propria attività politica, Mancini, che spesso
cita Mamiani, deinisce la situazione dell’Austria come quella di popoli che hanno accettato
di vivere antro un medesimo corpo politico, senza giungere ad una piena affermazione della
propria potenziale nazionalità. v. G. Fieschi, Terenzio Mamiani e “il nuovo diritto europeo”,
in «Rivista di studi politici internazionali», 4, 1973, pp. 689-694.
40
giuridico lo spirito della nazione che racchiude. Lo spirito della nazione
inisce per diventare una sorta di marchio indelebile che si imprime negli
individui al momento della nascita e della loro formazione, per cui ogni
individuo appartenente ad una nazione si ritrova a vivere in un ordinamento
giuridico che meglio rispecchia le sue tendenze profonde. Dal momento che
l’affermazione delle nazioni è un dato storico oggettivo, che sta portando
alla formazione di un vero e proprio consorzio delle nazioni civilizzate20,
la nazione può svolgere in maniera soddisfacente la funzione di riferimento
per risolvere i conlitti fra leggi, applicando allo straniero le leggi della propria nazione in ambito e civile.
L’idea di nazionalità risulta essere più vicina all’idea di sudditanza verso
un ordinamento, ed ha quindi un sapore maggiormente conservatore rispetto
al concetto di cittadinanza, che infatti svanisce negli scritti di Mancini e nel
dibattito pubblico della metà del secolo. La cittadinanza, come concetto di
derivazione rivoluzionaria, pone l’accento sui diritti dell’individuo, mentre
la nazionalità privilegia il rapporto dell’individuo con una comunità di appartenenza, con cui si presume vi sia una afinità e condivisione di fondo,
che si esprime in un ordinamento statale a cui l’individuo è soggetto21.
D’altro lato il concetto di nazione permette di ancorare l’ordinamento
dello Stato ad un dato di consenso sociale e politico che inluenza i caratteri
della legislazione ed impedisce di considerare lo stato come fonte prima ed
autoreferente della costruzione del diritto interno e internazionale.
Meno chiaro ed evidente è calare il concetto di nazionalità nel campo
delle relazioni fra gli stati. In questa sfera il concetto risente delle inevitabili
ambiguità del termine, che può evocare sentimenti politici da un lato, mentre dall’altro è costretto ad identiicarsi con lo stato, per poter diventare uno
strumento del diritto22.
20. L’espressione viene largamente utilizzata dai giuristi e diviene quasi un dato di fatto
nel confrontare il diritto di matrice europea e gli ordinamenti degli stati asiatici o dei territori
africani. v. J. Lorimer, The Institutes of the Law of Nations. A Treatise of the Jural Relations
of Separate Political Communities., Edimburgo e Londra, 1883. Sul tema v. D. Rodogno,
European Legal Doctrines on Intervention and the Status of the Ottoman Empire within the
‘Family of Nations’ throughout the Nineteenth Century, in «Journal of the History of International Law», 18, 2016, pp. 1-37.
21. M. La Torre, Cittadinanza e Nazionalità. Identità o Differenza?, in «Sociologia del
diritto», 3, 2001, pp. 81-111.
22. La grande debolezza teorica rimproverata a Mancini è la dificile applicazione del
concetto di nazionalità a realtà statuali multietniche, come l’Austria-Ungheria, o con ordinamenti giuridici plurimi, come l’Impero Ottomano. F. Holtzendorf, Il principio di nazionalità
e la letteratura italiana del diritto delle genti, Firenze 1870. Nadelmann, Mancini’s Nationality Rule…, cit.
41
La nazionalità si dimostra un criterio utile per risolvere i conlitti fra legislazioni nel campo del diritto di famiglia e successorio nel caso di individui
domiciliati all’estero. Fare riferimento alla nazionalità, secondo Mancini,
permette di superare le nebulose controversie sul domicilio prevalente o sul
luogo effettivo in cui un atto o un contratto sono stati stipulati.
L’emergere dell’idea di nazionalità si accompagna a una crescente richiesta sociale di chiariicazione della posizione dei cittadini stranieri all’interno degli stati europei. Se all’indomani del Congresso di Vienna vigevano
regimi a volte oscuri, dalla metà del secolo, in concomitanza con l’affermarsi di un’idea forte di nazione si afferma faticosamente una tendenza negli
ordinamenti europei a creare un solo sistema di acquisizione della nazionalità – si perde una nazionalità e si acquista una piena nazionalità altrove – e a
considerare i cittadini stranieri come titolari dei diritti civili nel paese che li
ospita, sia a carattere temporaneo che permanente, riconoscendo contemporaneamente loro la facoltà di fare riferimento alla legislazione della propria
nazione di appartenenza per la sfera del diritto di famiglia e delle successioni. Una sempliicazione che verrà estesa anche alle società commerciali
nella seconda parte del secolo, e che intende favorire lo spostamento delle
persone e agevolare le loro attività economiche. Mancini fu tra i protagonisti
di questa evoluzione.
La codiicazione nel Regno d’Italia
Mancini nell’ottobre del 1859 era stato inviato a Firenze da Cassinis,
divenuto Ministro della giustizia, con l’incarico di preparare l’uniicazione
giuridica della Toscana con il Piemonte. Il 27 ottobre sottopose al governo
provvisorio toscano una lunga memoria sull’assimilazione legislativa al Piemonte, che conteneva una analisi della legislazione piemontese e dei suoi
punti più difettosi di cui si prospettava la riforma23.
Con Decreto del ministro Cassinis del 24 dicembre 1859 fu istituita una
commissione per l’uniicazione dei codici che comprendeva Mancini e altri
8 giuristi piemontesi, cui si aggiungevano 3 giuristi lombardi di non primo
piano. All’interno della commissione si consumò un acceso confronto fra
l’aprirsi o meno al codice austriaco. Mancini partecipò al fronte contrario,
23. Mccr, Mancini, b. 619, f. 17. “Relazione intorno all’assimilazione legislativa della
Toscana al Piemonte”, 27 ottobre 1859, riprodotta ora in S. Solimano, Il Letto di Procuste.
Diritto e Politica nella Formazione del Codice Civile Unitario. I progetti Cassinis (18601861). Giuffrè, Milano 2003, pp. 375-388.
42
nemico deciso della scuola storica germanica, che aveva condannato apertamente in più occasioni, pur accogliendo alcune innovazioni di derivazione
austriaca, come l’idea di far precedere il nuovo codice da alcune disposizioni preliminari di carattere generale.
Sul fronte più propriamente politico Mancini, grazie alla propria rete di
relazioni, compì nei primi mesi del 1860 un piccolo miracolo, prima recandosi a Bologna per dissuadere la commissione emiliana per l’uniicazione
giuridica, nominata dal governo provvisorio, dall’emanare un codice civile
che si presentava troppo difforme dai progetti in discussione a Torino, poi
trattando con il governo provvisorio toscano la rinuncia alla pregiudiziale
sulla riforma del codice civile e penale albertino prima di giungere all’uniicazione, in cambio dell’allargamento a tre rappresentanti toscani della
commissione per la riforma dei codici. L’ammorbidimento dei toscani era
dovuto alle pressioni su Vincenzo Salvagnoli. Il giurista, che dalle frequentazioni nei convegni degli scienziati conosceva da tempo il ministro Cassinis
e Mancini24, alla ine si convinse che solo una rapida uniicazione amministrativa, anche a costo di sacriicare le particolarità locali, era condizione
necessaria per ediicare il nuovo regno25.
Abbandonata l’ipotesi di mantenere in piedi i codici preunitari in attesa
della nuova opera di uniicazione, Mancini riuscì a far accettare al governo
sabaudo l’ipotesi di non estendere il codice penale sardo alla Toscana, per
conservare l’abolizione della pena di morte nelle province dell’ex granducato26. La deroga toscana costituì la leva su cui negli anni successivi Mancini,
Pisanelli, e la parte più liberale del Parlamento fecero leva per introdurre il
nuovo codice penale del Regno d’Italia, in cui la pena di morte risultò abolita, anche se furono necessari vent’anni per vincere le resistenze di una parte
consistente del mondo politico.
La commissione per l’uniicazione dei codici elaborò una bozza in cui
Mancini e la parte più innovativa dei giuristi riuscirono ad introdurre il matrimonio civile, pur con qualche attenuazione, l’abolizione dell’autorizzazione
maritale e il riconoscimento dei diritti civili agli stranieri senza clausole di
24. Mccr, Mancini, B. 675, f. 22, contiene una corrispondenza fra Salvagnoli a Mancini
che inizia dal 1852.
25. Solimano, Il letto di Procuste…, cit., p. 166.
26. Sui progetti di Mancini v. F. Mele, Un codice unico per un’Italia nuova. Il progetto di
codice penale di Pasquale Stanislao Mancini, Carocci, Roma 2002. Mancini aveva proposto
nella primavera del 1860 un o.d.g. alla Camera, per impegnare il Ministero a promuovere
accurati studi sulla legislazione penale e in particolare sulla pena di morte in previsione della
futura uniicazione legislativa. Non fu messo ai voti e inì inglobato in un più generico appello di La Farina. Atti Parlamentari, Camera, Leg. VII, Discussioni, 10 maggio 1860.
43
reciprocità con gli stati esteri. Ritardato nell’approvazione dalle resistenze
del Senato, il progetto di codice civile di Cassinis non giunse in porto, ad un
passo dal traguardo, per la morte improvvisa di Cavour27.
L’opera di uniicazione del codice civile fu ripresa da Pisanelli, che nel
1863 presentò una prima bozza di codice al Senato. In quella sede si ripropose la disputa se procedere per una delega di massima al governo oppure al
voto articolo per articolo in aula, soluzione auspicata da più di un senatore e
avversata da Mancini e dai giuristi. Il Senato alla ine optò per la nomina di
una commissione incaricata di esaminare il progetto e in quella sede il testo
subì numerose modiiche in senso conservatore nel diritto di famiglia, e per
il trattamento degli stranieri fu reintrodotto il principio della reciprocità. La
bozza del nuovo codice era ancora in discussione quando nella primavera
del 1865 il progetto fu ritirato dal governo, e conluì nella delega complessiva per l’uniicazione amministrativa28.
La delega permise di ritornare al progetto originario di Pisanelli per
quanto riguardava i diritti degli stranieri. I nuovi principi inirono racchiusi
negli articoli 6-12 delle Disposizioni preliminari, in particolare l’art. 6 che
recita: “Lo stato e la capacità delle persone, dei rapporti di famiglia, sono
regolati dalla legge della nazione a cui esse appartengono” e nell’articolo
3 del libro I, “Lo straniero è ammesso a godere dei diritti civili attribuiti ai
cittadini”.
Veniva deinitivamente abilito il diritto di albinaggio, o quello che ne
restava nella legislazione piemontese. Il codice italiano, nella parte che
riguardava gli stranieri, colmava una lacuna del codice civile francese, che
pure rimaneva la principale fonte ispiratrice, il quale, come è noto, stabiliva
un privilegio a favore dei cittadini francesi all’estero, che potevano essere
giudicati secondo la legge francese, ma taceva sui diritti degli stranieri domiciliati in Francia29. Il codice italiano costituiva un’importante proposta
per la costruzione di un nuovo diritto internazionale privato, imperniato
sull’idea di libertà di movimento delle persone, e su una rilevante sempliicazione, in quanto il riconoscimento della legge nazionale dello straniero,
27. Solimano, Il letto di Procuste…, cit., ricostruisce nei dettagli la vicenda.
28. Come noto il testo del codice civile fu predisposto da una commissione di coordinamento nominata dal governo, e di cui faceva parte Mancini. Processi verbali della Commissione Speciale incaricata con R. Decreto del 2 aprile 1865 al ine di proporre le modiiche
di coordinamento nelle disposizioni del codice civile e le relative disposizioni transitorie,
Napoli 1867.
29. V. Pappafava, Des vicissitudes du Droit International Privé dans l’histoire de
l’umanité, Paris 1884. La Francia con la legge 14 luglio 1819 aveva concesso agli stranieri
la facoltà di ereditare beni in Francia. La norma italiana aveva però carattere più generale.
44
permetteva di superare la complessa situazione che il principio di reciprocità imponeva30.
Mancini fu incaricato dal governo italiano nel 1867 di contattare i governi di Francia, Confederazione delle Germania del Nord, Belgio per giungere
ad un trattato internazionale per rendere comuni le norme sul trattamento
degli stranieri, ma le vicende politico diplomatiche seguenti al tentativo di
Garibaldi di conquistare Roma e infrantesi a Mentana, interruppero bruscamente le trattative31.
L’esempio italiano, ripetutamente citato dagli specialisti, fu in ogni caso
imitato dai Paesi Bassi che nel 1869 adottarono una disposizione analoga a
quella del nostro codice civile. Nel 1874 alla seconda riunione dell’Institut
de Droit International, che si tenne a Ginevra, Mancini, assieme all’olandese Tobias Asser preparò una relazione che affrontava il tema della utilità di
rendere obbligatorie per tutti gli stati sotto la forma di uno o di più trattati
internazionali alcune regole generali del Diritto Internazionale Privato per
assicurare la decisione uniforme dei conlitti tra le differenti legislazioni civili e criminali32. Mancini in quasi 60 pagine evidenziò l’approccio metodologico del suo pensiero riguardo alla risoluzione dei conlitti fra legislazioni,
che andava affrontato ricercando regole comuni e chiare, che avrebbero dovuto essere oggetto di un trattato internazionale. La nazionalità era, in questo caso, uno dei capisaldi che permettevano di andare in quella direzione:
Un uomo potrebbe cambiare nazionalità, acquistando la naturalità in altro paese ma non
potrebbe mantenere la sua nazionalità originaria, e malgrado ciò ripudiare quelle qualità
e relazioni domestiche, che sono lo specchio, in cui la propria nazionalità è rilesso, cioè
la realtà materiale degli elementi costitutivi della nazionalità.
Perciò se un Inglese, un Italiano, un Francese entrando in paesi stranieri, dovessero
deporre alla frontiera le qualità, gli attributi ed i diritti della persona civile, che costituiscono la loro nazionalità ed acquistare quelle scritte nelle leggi del paese dove gli
30. P. Esperson, Il principio di nazionalità applicato alle relazioni internazionali e riscontro di esso colle norme di diritto internazionale privato sancite dalla legislazione del
Regno d’Italia, Pavia 1868 e L. Palma, Del principio di nazionalità nella moderna società
europea. Opera premiata dal R. Istituto Lombardo di Scienze Lettere ed Arti nel concorso
scientiico del 1866, Milano 1867.
31. Lo ricorda lo stesso Mancini, Della vocazione del nostro secolo…, cit., p. 211.
32. Istituto di Diritto Internazionale. Sessione di Ginevra 1874, Relazione preliminare
intorno la utilità di rendere obbligatorie per tutti gli stati sotto la forma di uno o di più trattati internazionali alcune regole generali del Diritto Internazionale Privato per assicurare la
decisione uniforme dei conlitti tra le differenti legislazioni civili e criminali (prove di stampa
non rivedute dei professori Mancini ed Asser), s.i.d., s.i.l. Sull’Institut, di cui Mancini fu il
primo presidente, v. L. Nuzzo, Disordine politico e ordine giuridico. Iniziative e utopie nel
diritto internazionale di ine Ottocento, in «Materiali per una storia della cultura giuridica»,
2, 2011, pp. 319-337.
45
affari e le inclinazioni li portano a mettere propria stanza, è evidente in primo luogo
che un tal sistema creerebbe spesso fortissimi ostacoli all’esercizio della prima e più
necessaria libertà dell’uomo, quella di abitare nella parte della terra, ove più gli aggrada,
o dove i propri bisogni lo chiamino, senza essere costretto a comperare codesta libertà
al caro prezzo della perdita dei diritti di persona e di famiglia dipendenti dalla propria
nazionalità.
Inoltre se ciò avvenisse, non sarebbe vero che le varie nazionalità ottengano dagli stati
stranieri riconoscimento e rispetto, disconoscendosi il diritto nazionale e gli attributi
giuridici delle persone, che hanno quella nazionalità33.
Durante la permanenza al Ministero degli esteri Mancini riprese i contatti con i governi europei per organizzare nel settembre del 1884 a Roma
una “Conferenza internazionale per la riforma e la codiicazione del diritto
delle genti”, che si doveva occupare del riconoscimento delle sentenze civili
emesse da tribunali stranieri, ma l’epidemia di colera costrinse ad annullare
la conferenza34.
La Conferenza Internazionale dell’Aja sul diritto internazionale privato,
riunitasi per la prima volta nel 1893 su iniziativa di Asser, coronò dopo la
sua morte il sogno di Mancini di giungere a dei trattati internazionali che
regolassero i conlitti di legge fra gli stati in materia di diritto privato, in Europa. Proprio a seguito della drastica sempliicazione nel trattamento degli
stranieri introdotta dallo stato italiano si era affermato un regime sostanzialmente di libera circolazione delle persone. All’interno dei paesi Europei era
consentito muoversi, stabilirsi, intrattenere rapporti commerciali, acquistare
e vendere beni immobili, contrarre matrimonio e fare testamento, con la
ragionevole certezza di poter godere dei medesimi diritti civili dei nazionali
e di mantenere, salvo espressione di volontà diversa, una sfera di diritti personali propria del paese di origine.
33. Istituto di Diritto Internazionale. Relazione preliminare intorno la utilità…, cit., p.
43.
34. Mccr, Mancini, B. 645 contiene la corrispondenza relativa. Ne dà cenno Nadelmann,
Mancini’s Nationality Rule…, cit.
46
Pedagogie della nuova cittadinanza.
L’avvio dell’esperienza accademica e parlamentare
di Augusto Pierantoni (1865-1883)
Alessandro Breccia
Felici i nostri tempi nei quali la scienza è cittadina, popolare, nazionale, propagatrice
di quelle idee civili, che il guerriero difende in battaglia. Beati coloro che dopo aver
combattuto con la forza delle idee, potranno combattere con quella delle armi! In questa
schiera di cittadini, allontanandomi dal tempio della scienza, io vado a cercar posto. Ieri
insegnante, oggi soldato, fra breve tempo o vincitore o estinto1.
L’enfatica esclamazione, rivolta da Augusto Pierantoni agli studenti della
Facoltà di giurisprudenza di Modena poco prima di arruolarsi come volontario nella terza guerra d’indipendenza, risale all’anno accademico 18651866, quando prese avvio la sua più che quarantennale2 carriera accademica,
trascorsa nelle cattedre di Diritto internazionale e costituzionale della città
emiliana, poi di Napoli e inine della Sapienza di Roma3.
In quell’occasione, Pierantoni, ben noto per aver già combattuto nella
campagna garibaldina del 1860, enunciava l’esistenza di un’assoluta, quasi naturale, continuità tra il ruolo di «insegnante» e quello di «soldato»,
tra l’attività scientiica e di apprendimento, da una parte, e il sacriicio per
la patria, dall’altra. Al di là dell’enfasi patriottica, si poteva percepire la
volontà di postulare una diretta connessione, ben più estesa e profonda,
tra la missione pubblica dell’istituzione universitaria e la vita politica nazionale.
1. A. Pierantoni, Il progresso del diritto pubblico e delle genti. Introduzione allo studio
del diritto costituzionale ed internazionale, Zanichelli, Modena 1866, p. 136.
2. Cfr. Augusto Pierantoni nell’anno XL dell’insegnamento universitario. Omaggio degli
amici e ammiratori, 20 maggio 1906, Coop. Tip. Manuzio, Roma 1906.
3. Per una sintetica, ma puntuale, osservazione dei momenti principali della vita di Augusto Pierantoni si rinvia alla recente voce del Dizionario biograico degli italiani (E. Mura,
Pierantoni Augusto Francescopaolo, in Dizionario Biograico degli Italiani, vol. LXXXIII,
Treccani, Roma 2015, ad vocem). Non sono stati invece inora realizzati studi sistematici
dedicati ai molteplici aspetti dell’impegno pubblico di Augusto Pierantoni.
47
L’esclamazione di Pierantoni trovò ospitalità in un volume dalla chiara
inalità didattica, una Introduzione allo studio del diritto costituzionale ed
internazionale, che a sua volta avrebbe inaugurato una nutrita serie di fortunate pubblicazioni dello stesso autore, funzionali anzitutto allo studio di
base e alla divulgazione della scienza giuridica internazionale, nonché di
quella costituzionale. La lettura dell’opera, sulla quale si ritornerà a breve,
permetteva di cogliere in maniera particolarmente felice alcuni tratti distintivi di una igura di “giurista-politico”, per molti versi paradigmatica, che
costruì il proprio proilo pubblico proprio a partire dalla propria condizione
di professore-combattente volontario4.
La variegata esperienza pubblica di Augusto Pierantoni, prestigioso docente, pubblicista scientiico, protagonista dell’elaborazione e della sperimentazione dei nuovi ordinamenti internazionali, ma anche avvocato di
Cassazione, deputato e poi a lungo senatore, si sviluppò all’interno di una
stagione storica, quella compresa tra l’ultimo terzo del XIX secolo e la Prima guerra mondiale, durante la quale gli “uomini di legge” inluenzarono
potentemente il dibattito politico e quello lato sensu culturale, partecipando pienamente alle complesse vicende parlamentari dell’Italia post-risorgimentale5. Fra di loro, un contributo importante provenne da chi perseguiva
l’esigenza di rideinire il “programma liberale”, di fronte alle incombenti
side politico-sociali e nel contesto di una monarchia costituzionale ancora
alla ricerca di solidi fattori di legittimazione. Pierantoni, in particolare, si
sarebbe collocato al ianco di coloro che caldeggiavano evoluzioni di segno
“progressista”, all’insegna di un concetto estensivo, e sempre più inclusivo,
di libertà e di cittadinanza6.
Aderendo pienamente alla visione maturata dal maestro Pasquale
Stanislao Mancini7, uno dei terreni privilegiati in cui si mosse fu quello
delimitato dalla prospettiva di affermare un sistema extra-nazionale di regole
4. Che non si trattasse di un caso isolato lo dimostra ad esempio la parabola di un altro
docente di diritto costituzionale, Pier Carlo Boggio, biografo di Garibaldi e come Pierantoni
avvocato, che morì volontario a Lissa (cfr. L. Borsi, Storia nazione costituzione. Palma e i
“preorlandiani”, Giuffrè, Milano 2007, pp. 305-306).
5. Come ha fatto notare Pasquale Beneduce, a partire dagli anni Settanta i “giuristi”
cominciarono ad avvertire con maggiore sistematicità il loro ruolo di «funzionari pubblici»,
tanto da essere protagonisti di una sorta di «conversione agli apparati ideologici dello stato
liberale» (P. Beneduce, Il corpo eloquente. Identiicazione del giurista nell’Italia liberale, il
Mulino, Bologna 1996, pp. 108 ss.).
6. Si vedano le suggestioni, ancora imprescindibili, fornite in tal senso dai contributi
ospitati in A. Mazzacane (a cura di), I giuristi e la crisi dello Stato liberale fra Otto e Novecento, Liguori, Napoli 1986.
7. Per la bibliograia su Mancini e la sua “scuola” si rimanda al saggio di Alessandro
Polsi ospitato dal presente volume.
48
e di diritti sempre più ampio e codiicato, da considerarsi come la naturale
proiezione delle tutele attribuite all’individuo. In estrema sintesi, a guidarlo
era la convinta adesione ad una generale battaglia di civiltà e di “progresso”
che tracciava una linea di continuità tra il processo di emancipazione
nazionale, la conquista e l’ampliamento dei diritti di ciascun cittadino e,
inine, l’ediicazione di un apparato di norme volto a consentire una paciica
convivenza tra ordinamenti statuali8.
Università e politica: Il progresso del diritto pubblico e delle genti
Augusto Pierantoni consacrò la propria opera scientiica in primo luogo
all’elaborazione del nascente diritto internazionale, di cui fu concreto promotore nei congressi dell’Institut de droit international9, ma anche nelle aule
parlamentari, nell’esercizio del ruolo di membro del consiglio del contenzioso diplomatico, inine nell’ambito dei consessi istituzionali ove fu inviato
a rappresentare il regno d’Italia10. Al contempo, la didattica e la divulgazione restarono centrali, come testimoniavano i ricordati volumi destinati
agli studenti universitari11. L’osmosi tra attività accademica e azione politica
8. Per il ruolo giocato da Pierantoni nella storia dell’ediicazione del diritto internazionale
ci si limita a rimandare a L. Nuzzo, Origini di una Scienza. Diritto internazionale e
colonialismo nel XIX secolo, Klostermann, Frankfurt am Main 2012, pp. 86-168 e a M.
Koskenniemi, Il mite civilizzatore delle nazioni. Ascesa e caduta del diritto internazionale
1870-1960, Laterza, Roma-Bari 2012. Alcune utili indicazioni anche nel recente C. Bersani,
Il diritto internazionale nella Facoltà romana di giurisprudenza e in età liberale attraverso
il genere del «discorso», in M. Caravale, F.L. Sigismondi (a cura di), La facoltà giuridica
romana in età liberale. Prolusioni e discorsi inaugurali, Jovene, Napoli 2014, pp. 1-22: 7-11.
9. Com’è noto, nel 1873 Pierantoni fu tra i fondatori dell’Institut di Gand. Per una ricostruzione in chiave autobiograica si veda A. Pierantoni, La riforma del diritto delle genti
e l’Istituto di diritto internazionale di Gand, in D. Dudley Field, Prime linee di un codice
internazionale, trad. di A. Pierantoni, Jovene, Napoli 1874, pp. 1-84.
10. Cfr. Mura, Pierantoni…, cit. Alcune informazioni anche in E. Fiocchi Malaspina, La
giustizia internazionale e le leggi della guerra: l’impegno della famiglia Mancini Pierantoni
per il diritto internazionale umanitario, in «Chronica Mundi», 6-8, 1-3, 2013, pp. 176-204.
11. «Con parecchie pubblicazioni volli aiutare i vostri studii», ricordava agli studenti
romani nel 1907 (A. Pierantoni, La giustizia internazionale e le leggi della Guerra (1899):
Il manifesto della seconda conferenza dell’Aja (1907), Tip. Manuzio, Roma 1907, p. VI).
Di seguito un elenco, probabilmente non del tutto esaustivo, della consistente messe di testi
espressamente inalizzati in primis a compiti didattici: A. Pierantoni, Storia degli studi del
diritto internazionale in Italia, Tip. Vincenzi, Modena 1869 (nuova edizione: Casa ed. Cammelli, Firenze 1902), Id., Trattato di diritto costituzionale, Marghieri, Napoli 1873, Id., La
riforma del diritto delle genti e l’Istituto di diritto internazionale di Gand, cit., Id., Storia del
diritto internazionale nel secolo XIX, Marghieri, Napoli 1876, Id., Trattato di diritto internazionale, Tip. Forzani, Roma 1881, Id., I progressi del diritto internazionale nel secolo XIX,
49
può dunque essere considerata un’importante chiave di lettura dell’itinerario
pubblico da lui compiuto.
Un simile percorso individuale, pare utile ribadirlo, prese avvio poco dopo
l’avvento del regno d’Italia; Pierantoni appartenne al ceto dirigente formatosi
all’indomani dell’Unità, ovviamente in stretta relazione con le inedite condizioni istituzionali, culturali e politiche venutesi a creare con il cambio di
regime. Fece parte della nuova generazione di docenti chiamati ad insegnare
negli atenei italiani nei primissimi anni della storia post-unitaria, quando si
procedette alla ediicazione del sistema universitario del nuovo stato, rinnovando – almeno in parte – il personale accademico e i contenuti scientiicodidattici. Tale rinnovamento, come ha ben illustrato Ilaria Porciani, fu accompagnato dall’insistito richiamo ad un generale ilo conduttore riconosciuto
quasi unanimemente come fondativo, che avrebbe dovuto legare in maniera
indissolubile l’università alla missione di propagare la «scienza nazionale».
Nelle cerimonie uficiali e in molte aule universitarie, ma anche nel dibattito
parlamentare, si reiterarono i riferimenti alla peculiare missione pubblica della comunità accademica, che immediatamente era stata eretta a pilastro della
visione politico-istituzionale elaborata dalla classe dirigente liberale12.
Il disegno di decisa politicizzazione dell’istituzione universitaria interessò pienamente gli studi del diritto internazionale, di fatto banditi dagli stati
pre-unitari e, al contrario, elevati a bandiera di libertà e patriottico incivilimento nel regno di Sardegna post-quarantottesco con la ben nota chiamata
– nel 1851 – dell’esule Pasquale Stanislao Mancini13. In effetti, la riforma
dell’ordinamento della facoltà di giurisprudenza, decisa nel 1865, potenziò
la disciplina, rendendola obbligatoria per tutti gli iscritti ed elevandone il
ciclo di lezioni a due anni: ino ad allora il corso di diritto internazionale aveva avuto durata annuale ed era stato obbligatorio solo per i giovani
che aspiravano alla «laurea politico-amministrativa». Come ricordava con
Tip. Pallotta, Roma 1899, Id., Appunti di diritto internazionale, Lit. Casetti, Roma 1900, P.S.
Mancini, A. Pierantoni, Diritto internazionale, Un. Tip. Manuzio, Roma 1905, A. Pierantoni,
Il diritto civile e la procedura internazionale codiicati nelle convenzioni dell’Aja. Storia
della riforma, lavori preparatori, progetti, Jovene, Napoli 1906. Alcune informazioni sulla
manualistica giuridica del tempo anche in V. Trombetta, I libri per la gioventù studiosa:
manuali e testi universitari a Napoli dall’Unità al Novecento, in G.P. Brizzi, M.G. Tavoni (a
cura di), Dalla pecia all’e-book. Libri per l’Università: stampa, editoria, circolazione e lettura. Atti del convegno internazionale di studi (Bologna, 21-25 ottobre 2008), Cisui, Bologna
2009, pp. 529-540: 535.
12. I. Porciani (a cura di), Università e scienza nazionale, Jovene, Napoli 2001.
13. G.S. Pene Vidari, La prolusione di Pasquale Stanislao Mancini sul principio di nazionalità (Torino 1851), in G. Cazzetta (a cura di), Retoriche dei giuristi e costruzione dell’identità nazionale, il Mulino, Bologna 2013, pp. 117-134.
50
compiacimento lo stesso Pierantoni, il nuovo «Regolamento della Facoltà
di giurisprudenza», pubblicato l’8 ottobre 1865, portò pure la durata del
«corso d’insegnamento legale» a cinque anni14. Inine, forse proprio in conseguenza di questa scelta, nel primo ventennio di storia del regno d’Italia
il diritto delle genti fu, di fatto, la disciplina giuridica più valorizzata, se si
guarda al numero di concorsi banditi dal ministero15. Si consolidava, anche
approittando di queste favorevoli condizioni, la «scuola italiana di diritto
internazionale»16.
Il “garibaldino” Pierantoni non poteva che riconoscersi nel mandato afidato all’istituzione universitaria, proponendosi come il prototipo del «nuovo
insegnante in libero paese, dove conviene render conto dell’adempimento
del proprio uficio non soltanto al governo nazionale, ma pure alla sapienza
della pubblica opinione»17. Cosciente della vocazione patriottica conferita al
proprio ruolo di docente, si presentava come il contraltare di molti colleghi
delle generazioni precedenti, «i quali abbracciarono umilmente le ginocchia
dello straniero e vissero addomesticati con le cessate tirannidi» «nei tempi
delle dittature scientiiche». La nuova «scienza nazionale», pur possedendo
una chiara funzione di legittimazione dell’ordine costituito, doveva quindi
al contempo sfoggiare come proprie cifre distintive l’autonomia dell’indagine e il riiuto di ogni oscurantismo. La «conquistata libertà», rilevava sempre Pierantoni, aveva aperto le università ad una «nuova coltura», che – tra
l’altro – garantiva «più razionale ripartizione e maggiore importanza alle
scienze sociali»18. Nel rivendicare il peso cruciale delle «scienze sociali»
per l’ediicazione di una società più avanzata e giusta faceva afiorare con
evidenza le afinità di approccio con alcune importanti iniziative associative
coeve di matrice liberale – si pensi alla britannica National association for
the promotion of social science e alla francese Association nationale pour
14. S. Polenghi, La politica universitaria italiana nell’età della destra storica (18481876), La Scuola, Brescia 1993 e Pierantoni, Il progresso del diritto pubblico…, cit., pp.
137-138.
15. Si vedano le preziose rilevazioni effettuate da Fulco Lanchester, che mettono in luce
come nel periodo considerato fossero stati banditi sette concorsi per diritto internazionale,
contro i soli quattro per tutte «le materie strettamente pubblicistiche» (F. Lanchester, Pensare
lo Stato, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 192).
16. Sulla nascita di una scuola italiana di diritto internazionale, assecondata dalle scelte
di reclutamento dei governi, paiono interessanti le considerazioni che vennero esposte da
Franz von Holtzendorff (F. Von Holtzendorff, Il principio di nazionalità e la letteratura italiana del diritto delle genti. A proposito dell’opera di Augusto Pierantoni Storia degli studi
del diritto internazionale in Italia, Civelli, Firenze 1870).
17. Pierantoni, Il progresso del diritto pubblico…, cit., p. III.
18. Pierantoni, Il progresso del diritto pubblico…, cit., p. 2.
51
le progrès des sciences sociales – fondate dai pionieri del nuovo diritto internazionale europeo con il prioritario intento di «fornire una base secolare
e scientiica per una politica liberale non più associata al razionalismo del
primo Illuminismo o all’utilitarismo deduzionista»19.
Tra le scienze sociali, proseguiva ancora il docente, «la ragione internazionale, tanto pubblica quanto privata, è scienza degna ed indispensabile per
un popolo libero e grande»20, mentre la prospettiva di erigere un apparato di
norme volte a disciplinare le relazioni tra gli uomini su scala sovra-statuale
era resa inalmente plausibile dall’imporsi della nazionalità, «principio civilizzatore». Nel solco della lezione manciniana, l’impianto teorico alla base
della sua analisi si condensava nel richiamo ad una ormai inarrestabile «legge di progresso, secondo la quale l’individuo dalla monade famigliare passa
gradatamente per quella nazionale, affine di giungere al concetto di umanità, essendo la nazionalità condizione necessaria della pacifica distribuzione
della specie umana sulla terra»21. Ne discendeva che la nazionalità avrebbe
giocato da «principio civilizzatore» anche con riferimento ai conlitti armati, poiché «poggiando il diritto pubblico internazionale e costituzionale
sul principio di nazionalità si ottiene l’accordo della scienza militare con la
scienza sociale, si concilia 1’etica politica del soldato con l’etica dei doveri
militari del cittadino, onde si fa l’arte della guerra non più ambiziosa, irrequieta e conquistatrice, ma deputata a mantenere i santissimi diritti delle
genti»22.
Il beneico impulso del principio di autodeterminazione nazionale si
estendeva al godimento dei diritti civili, che potevano essere inalmente oggetto di una tutela universale motivata dalla «comune natura umana». Tali
diritti erano destinati a diventare «patrimonio dell’umanità […] senza alcuna
distinzione tra straniero e nazionale», mentre «l’esercizio dei diritti politici»
sarebbe «spetta[to] esclusivamente al cittadino obbligato alla conservazione dell’autonomia nazionale, salvo le eccezioni d’incapacità ed il beneficio
della naturalità, che […] permettono l’operosità politica al forestiero»23. Anche in questo passaggio era esplicita la connessione con fatti molto recenti,
come lo storico passo da poco compiuto dall’Italia con la formulazione degli
articoli 6, 7, e 8 delle disposizioni preliminari del codice civile del regno. Le
norme in questione – com’è noto – abolivano il vincolo della reciprocità cir19. Koskenniemi, Il mite civilizzatore…, cit., pp. 16-18.
20. Pierantoni, Il progresso del diritto pubblico…, cit., p. 3.
21. Pierantoni, Il progresso del diritto pubblico…, cit., p. 38.
22. Pierantoni, Il progresso del diritto pubblico…, cit., p. 25.
23. Pierantoni, Il progresso del diritto pubblico…, cit., p. 35.
52
ca «lo stato e la capacità delle persone ed i rapporti di famiglia» e gli atti di
disposizione dei beni mobili, ridimensionando quello della territorialità pure
per quelli immobili, in caso di successione, attraverso il rinvio alla «legge
nazionale della persona».
Nella parte conclusiva, le considerazioni ospitate da Il progresso del diritto pubblico e delle genti facevano deinitivamente del volume un manifesto della visione del Pierantoni – politico. La «moderna scienza sociale», di
cui si ergeva ad esegeta, poggiava sulla rivendicazione dell’esistenza di un
«nesso indissolubile tra il diritto pubblico esterno e quello interno, sanzionando il primo l’accordo della libertà degl’individui, il secondo l’accordo
della libertà delle nazioni formate da individui uniti per elementi dell’umana
e della fisica natura»24. Augusto Pierantoni intendeva dunque produrre la
propria azione pubblica entro la duplice linea d’indirizzo così enunciata,
orientata a realizzare un coerente modello di società, di stato e, inine, di
“comunità internazionale”, alimentato da una gamma di libertà e di diritti
sempre più ampia, esaustiva e generalizzata.
All’interno dei conini nazionali, il paradigma centrale era quello del
«governo costituzionale», chiamato a presidiare «la libertà individuale, la
religiosa, quella d’insegnamento, di stampa, la municipale, la libertà d’associazione, di riunione ed altre […] fondamento del self government»25. Un
simile presupposto ridimensionava ulteriori prerogative, a partire da quelle
attribuibili ai monarchi: «i re sono fatti per i popoli e non i popoli pei re»,
dichiarava Pierantoni, dal momento che «lo Stato è mezzo e non ine per
l’individuo». Parallelamente, il proilarsi di una «fratellevole comunione degli Stati va fermando il nuovo giure internazionale sul diritto certo e naturale
dei popoli e non su quello astioso ed innaturale dei principi»26. Di conseguenza, sempre nei primi corsi universitari a lui afidati, Pierantoni avrebbe
concesso spazio all’analisi del valore costitutivo della «sovranità popolare»,
spingendosi sino a proporre interessanti rilessioni sull’«eguaglianza politica delle donne»27. Si soffermava poi sulle «Prerogative del re per l’amministrazione esterna ed interna dello Stato», che a suo avviso non potevano
essere estese sino a negare «il diritto di resistenza popolare»: «Il privilegio
di cui gode il re non può compromettere la libertà della nazione», argomen24. Pierantoni, Il progresso del diritto pubblico…, cit., p. 47.
25. Pierantoni, Il progresso del diritto pubblico…, cit., p. 134.
26. Pierantoni, Il progresso del diritto pubblico…, cit., p. 135.
27. Si vedano gli appunti di alcune lezioni tenute da Pierantoni a Modena, custoditi presso l’Archivio del Museo Centrale del Risorgimento di Roma (d’ora in avanti Amcrr). Come
attestano tali manoscritti, il 10 e il 12 gennaio 1866 Pierantoni si occupò «dell’eguaglianza
politica delle donne» (Amcrr, Fondo Augusto Pierantoni, b. 777, f. 5, ins. 1).
53
tava rifacendosi all’antica tradizione britannica e alle più recenti disposizioni della carta francese del 183028.
Il costrutto teorico che stabiliva un’indissolubile contiguità tra la difesa
e la promozione delle libertà nel diritto pubblico interno e in quello internazionale non fu mai abbandonato. Augusto Pierantoni si sarebbe sempre
mosso sulle differenti scene pubbliche alle quali ebbe accesso per ottenerne
una concreta traduzione politica e istituzionale. Continuando a fermare lo
sguardo sugli anni iniziali della sua carriera pubblica, è possibile individuare alcuni passaggi che restituiscono in maniera particolarmente eficace quali canali e quali contenuti facilitarono la sua deinitiva affermazione
all’interno del panorama politico del regno.
Pedagogie e processi politici: Pierantoni avvocato
Come si è potuto constatare, già nel 1866 era possibile cogliere come
l’attività scientiico-accademica e gli altri momenti dell’impegno pubblico
di Augusto Pierantoni fossero orientati nella medesima direzione, consentendogli di misurarsi – da prospettive diverse e in ambiti distinti – con il
dibattito politico nazionale adottando posizioni sempre meglio riconoscibili. Alla vigilia del conferimento del corso modenese, nel 1865, Pierantoni
diede alle stampe il suo primo volume, che rappresentava un ideale ponte
tra la dimensione dell’elaborazione dottrinaria e quella del confronto politico. Signiicativamente, il volume era dedicato ad una questione di scottante
attualità, l’opportunità o meno di contemplare la pena capitale nella legislazione del regno. Secondo l’autore, che aveva illustrato le proprie idee in
una serie di articoli pubblicati da «Il diritto» ora riuniti in quel testo, l’unica
soluzione possibile – nello stato sorto dal «progressivo» processo di emancipazione nazionale – era l’abolizione, così come previsto dalla proposta
di legge presentata alla Camera da Mancini. Nell’argomentare, faceva riferimento alla tradizione di «Beccaria, del Romagnosi, del Carmignani, del
Rossi»29, ma non si fermava ai rimandi di natura teorico-concettuale. Allo
scopo di «ritogliere dalla società qualche vieto pregiudizio e di ricordare
28. Gli appunti in questo caso risalgono al periodo immediatamente successivo al ritorno
dal fronte (gennaio-marzo 1867). Cfr. Amcrr, Fondo Augusto Pierantoni, b. 777, f. 5, ins.
3. Per una ricostruzione del pensiero costituzionale di Pierantoni, e in particolare della sua
personale declinazione del «diritto di resistenza» si rinvia a Borsi, Stato, nazione, costituzione…, cit., pp. 321-328.
29. A. Pierantoni, Dell’abolizione della pena di morte, Tip. del «Diritto», Torino 1865,
p. 9.
54
le prepotenti ragioni del progresso e del buon senso naturale», esponeva
un’analisi di ampio respiro sulla situazione della penisola, enucleando side e problemi sollevati dal processo di uniicazione. Da segnalare, l’esame documentato e circostanziato del fenomeno del brigantaggio, a partire
dal sostrato di miseria sociale che lo favoriva, volta da un lato a smentire
chi sosteneva la necessità della pena capitale per contrastarlo e dall’altro
a descrivere le pesanti responsabilità politiche e morali della Chiesa e dei
borbonici30. L’“esordio” pubblicistico, e sulle pagine del giornale, denotava
in deinitiva la volontà di non sottrarsi alla quotidiana dialettica politica,
partendo da questioni “di diritto” per allargare l’orizzonte ai nodi di fondo
dell’età della Destra storica.
La pubblica discussione sulla pena di morte era solo uno dei molteplici
terreni di scontro all’interno della comunità politica circa la maggiore o
minore portata dell’aflato di libertà rivendicato dall’intero gruppo dirigente. Più in generale, le più alte questioni di principio inerenti la tutela dei
diritti personali e di libertà spesso venivano sollevate, nei medesimi anni,
anche nelle aule dei tribunali. Sempre nella scia di Mancini, di cui fu discepolo pure da avvocato, Pierantoni si sarebbe pure distinto per una intensa
attività professionale, alla quale presto impresse un forte segno politico. Di
nuovo, la partecipazione ai processi contribuì a conferire visibilità alla sua
igura in virtù della speciale attenzione che la stampa tributava ai dibattimenti. Un accurato ilone di studi ha dimostrato come in età post-unitaria
i processi, e la loro rappresentazione giornalistico-letteraria, si sarebbero
progressivamente rivelati un potente canale di comunicazione politica31.
Una rapida ricognizione dei procedimenti penali ai quali Pierantoni partecipò in veste di avvocato difensore tra il 1866 e il 1870 fa emergere alcuni
casi dotati di notevole riverbero politico. Sia suficiente ricordare che nel
novembre 1868 difese i giovani iorentini processati per aver commemorato nel cimitero di San Miniato i caduti di Mentana, mentre nel 1869 fu protagonista dell’infuocato processo intentato contro il maggiore garibaldino
Cristiano Lobbia, vera e propria cartina di tornasole della «dificile uscita
dal Risorgimento» dell’intero gruppo dirigente post-unitario32. Nel 1870,
inine, aderì fattivamente alla campagna diretta a scongiurare la condanna
a morte del mazziniano Pietro Barsanti, indirizzando all’avvocato Curti
30. Pierantoni, Dell’abolizione…, cit., pp. 38-58.
31. Sia suficiente rinviare a F. Colao, L. Lacchè, C. Storti (a cura di), Processo penale e
opinione pubblica in Italia tra Otto e Novecento, il Mulino, Bologna 2008.
32. A. Arisi Rota, 1869: il Risorgimento alla deriva. Affari e politica nel caso Lobbia, il
Mulino, Bologna 2015. In particolare, per il contributo di Pierantoni, cfr. pp. 170 ss.
55
una memoria circa la «Competenza dei giurì nei fatti imputati ai militari
in Pavia e Piacenza». Il testo in questione mirava a dimostrare l’incompetenza del tribunale militare in presenza di una violazione di carattere
eminentemente politico, come quella compiuta dagli imputati, anche se
appartenenti all’esercito33. Il senso generale che accomunava tali esperienze processuali era chiaro: Pierantoni si impegnava per una declinazione
più garantista della legislazione e contro ogni restringimento delle libertà
individuali, in special modo se determinato da un sostanziale disegno di
repressione politica condotto dall’autorità giudiziaria e dal governo34. Una
visione ribadita con forza nel corso degli anni, ino a conoscere una possibile sistematizzazione ne La costituzione e la legge marziale, edito nel
caldissimo anno 1894 con l’obiettivo di denunciare il tentativo crispino di
manomettere gli equilibri e le garanzie del sistema costituzionale35. A più
riprese pertanto ostentò la sua collocazione nel campo liberal-progressista,
mantenendo un atteggiamento di apertura e di dialogo con tutto l’ampio
spettro del mondo ex-garibaldino e democratico, ino ad alcuni settori del
mazzinianesimo.
Anche in questo modo, attraverso l’incrocio tra attività accademica e
forense, avrebbe costruito le condizioni per proporsi come candidato alla
Camera, dove giunse dopo le elezioni del novembre 1874, a poca distanza
dall’apertura della stagione della Sinistra storica di Depretis. Già nel 1870,
nel sottoscriverne pubblicamente la candidatura per il collegio di Santa Maria Capua Vetere, «alcuni amici» condensavano in una sintetica formula la
sua biograia, esaltandone la «svariata vita di amministratore, scienziato,
soldato della libertà e difensore»36. Analogamente a quanto era accaduto
con il suo ingresso nell’accademia, Pierantoni si trovò ad essere esponente
di una nuova generazione di deputati, la cui storia parlamentare cominciava
proprio allora, accentuando il senso di una reale cesura politica e culturale
rispetto all’età della Destra.
33. A. Pierantoni, Competenza dei giurì nei fatti imputati ai militari in Pavia e Piacenza,
Tip. Amalia Bettoni, Milano 1870.
34. Cfr. M. Sbriccoli, Dissenso politico e diritto penale in Italia tra Otto e Novecento.
Il problema dei reati politici dal «Programma» di Carrara al «Trattato» di Manzini, in
«Quaderni iorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 1973, 2, pp. 607-702:
632 ss.
35. A. Pierantoni, La costituzione e la legge marziale, Tip. dell’Unione cooperativa editrice, Roma 1894.
36. Cenno biograico di Augusto Pierantoni. Agli elettori del collegio di Santa Maria di
Capua Vetere, s.l., s. d. (ma 1870), in Amcrr, Fondo Augusto Pierantoni, b. 771, f. 24, ins. 4.
56
I conini della cittadinanza: l’applicazione delle leggi straniere e la
commissione per l’estradizione
Tra i temi ai quali Augusto Pierantoni si dedicò in maniera ricorrente, da
studioso, da parlamentare e nell’esercizio dell’avvocatura, igurarono certamente la disciplina della condizione giuridica del cittadino straniero e la
deinizione della sfera di applicazione delle leggi di altri stati sul territorio
italiano. L’auspicato avvento di una nuova fase delle relazioni interstatuali
all’insegna di una maggiore apertura transnazionale doveva portare con sé
più estese libertà per gli individui, indipendentemente dalla loro nazionalità,
ino a fare echeggiare, sullo sfondo, l’ideale di una cittadinanza “universale”
da tutelare e regolare.
Nelle differenti vesti in cui operò, Pierantoni si fece fautore della necessità di ridiscutere l’estensione del principio di territorialità e gli equilibri tra
le leggi nazionali, perseguendo l’obiettivo di ridurre molte restrizioni delle
prerogative e dei diritti individuali patite dai cittadini di diversa nazionalità
presenti all’interno del regno d’Italia. Il deciso sostegno conferito alle citate
disposizioni preliminari del nuovo codice civile lo testimoniava, così come
l’approfondita elaborazione dottrinaria condotta in dai primi anni del suo
magistero, che lo portò a formalizzare – nei primi anni Ottanta – l’evocativa
«proposta di un codice dei codici»37.
Un simile strumento, la cui asserita funzionalità procedurale si combinava ad un manifesto signiicato simbolico, avrebbe dovuto consentire ai
magistrati di applicare correttamente le «leggi straniere» nei procedimenti
civili in presenza di attori non italiani. Si sarebbe così garantita la piena
effettività dello «statuto personale dello straniero oltre i conini della patria, come ricognizione legislativa della personalità umana», dando coerenza
all’obbligo – stabilito dall’ordinamento del regno sabaudo – di applicare
la legge altrui38. In un ambito deinito, ma importante, quello dei diritti e
della capacità civile e “patrimoniale” della persona, si attribuiva una reale
parità di dignità alle differenti normative, anche se di natura consuetudinaria
come accadeva tra «i popoli semibarbari», di recente entrati nel «consorzio
37. Per un inquadramento generale dell’elaborazione dottrinaria di Augusto Pierantoni in
materia si rimanda a C. Storti Storchi, Ricerche sulla condizione giuridica dello straniero in
Italia: aspetti civilistici, Giuffrè, Milano 1990.
38. Cfr. A. Pierantoni, Delle prove in giudizio delle leggi straniere. Proposta di un codice
dei codici, in «Rassegna di diritto commerciale italiano e straniero», 1883, poi ristampato in
un ennesimo volume dal chiaro intento didattico, Pierantoni, Il diritto civile e la procedura
internazionale..., cit., pp. 309-351: pp. 314 ss.
57
giuridico degli Stati»39. A rendere a suo avviso indefettibile l’introduzione
di una simile innovazione era l’epocale processo storico di «rinnovamento
legislativo» e di «trasformazioni politiche» avvenuto «dal 1859 al 1878»,
sostenuto dalla «risurrezione dell’Italia, [da]l «rinnovamento politico della
Germania […] [dal] grande fatto dell’emigrazione, [dal]l’apertura di molte
parti dell’Oriente al commercio dell’Occidente, [da]l rinnovamento del sistema coloniale»40.
L’apparato teorico qui ricordato solo per cenni, messo a punto adottando una persistente interlocuzione con la comunità scientiica internazionale
nell’alveo dell’Institut de droit international, sarebbe stato poi messo alla
prova da Pierantoni nell’esercizio dell’attività forense, che lo vide di nuovo
coinvolto in processi di grande notorietà, uno su tutti il celebre caso sollevato dalle divergenze circa la legge di successione da applicare al defunto
«possidente» Caid Nissim Samama, «ebreo di nascita, suddito tunisino»41.
Anche da parlamentare, Pierantoni non mancò di sostenere le proprie convinzioni a riguardo del trattamento da riconoscere ai cittadini stranieri, allargando lo sguardo alla materia penale. Fin dalle prime battute del suo mandato di deputato scelse di segnalarsi con riguardo ad una questione densa di
rimandi politici e allora di grande attualità, come quella dell’estradizione. Nel
novembre 1877, la discussione sull’abolizione della pena di morte, prevista
dal progetto di codice penale presentato dal ministro Mancini, fece registrare
l’intervento del docente, che propose di inserire «ne’ trattati d’estradizione
[…] una clausola in forza della quale gl’imputati di reati pe’ quali è comminata da’ Codici esteri la pena capitale non vengan consegnati allo Stato che li
reclama se non con la promessa che non saranno giustiziati»42. La «proposta
Pierantoni» – così la ribattezzava «Il Corriere della Sera» in un velenoso articolo – godette di forte visibilità in virtù delle accese critiche provenienti da
molti avversari della maggioranza. «Se gli Stati esteri non vorranno, com’è
certo, assumere l’impegno […], come faremo noi?», chiosava il quotidiano milanese riassumendone le argomentazioni, «Faremo del nostro paese un
luogo d’asilo per tutti gli assassini del mondo?»43.
39. Pierantoni, Delle prove in giudizio delle leggi straniere…, cit., pp. 319-320.
40. Pierantoni, Delle prove in giudizio delle leggi straniere…, cit., p. 319.
41. Pierantoni, Delle prove in giudizio delle leggi straniere…, cit., pp. 323 ss.; Corte
d’Appello di Lucca, Causa Samama Governo di Tunisi e Samama. Sentenza dell’8 maggio
1880, Tip. Zecchini, Livorno 1880; S. Tonolo, L’Italia e il resto del mondo nel pensiero di
Pasquale Stanislao Mancini, in «Cuadernos de Derecho Transnacional», 2011, 2, pp. 178192: 187-190.
42. La proposta Pierantoni, in «Il Corriere della Sera», 30 novembre 1877, p. 1.
43. Ibid.
58
Ovviamente, il punto di vista di Augusto Pierantoni era diametralmente
opposto, e combinava il generale ripudio della pena capitale all’esigenza
di una complessiva revisione della normativa sull’istituto dell’estradizione,
resa impellente – ancora una volta – dal mutato contesto giuridico internazionale e dagli sforzi compiuti dai legislatori di importanti paesi. Da quel
momento, in effetti, anche in virtù dell’iniziativa proveniente da Mancini
e Pierantoni, presso alcuni circuiti politici ed accademici vicini al governo
si ritennero ormai maturi i tempi per il varo di una prima legge italiana in
materia, che superasse quanto prescritto dal codice penale sabaudo. Come
avrebbe spiegato la «Gazzetta piemontese», non era più compatibile con i
principi fondamentali dell’ordinamento del regno che la facoltà di concedere l’estradizione rimanesse sostanzialmente in capo ad un’autorità politica,
il governo. Il ricorso allo strumento della legge si conigurava come un atto
volto ad adeguare il sistema alle più avanzate esigenze di tutela del cittadino
straniero, e al contempo si inseriva nella battaglia condotta da molti liberali
“progressisti” al ine di «determinare con tutto il rigore possibile l’azione
del potere esecutivo»44.
Sarebbe stato proprio Pasquale Stanislao Mancini, da ministro degli esteri, a formare una prestigiosa commissione chiamata a redigere il progetto di
legge, della quale facevano parte autorevoli accademici, magistrati ed avvocati. A presiederla fu Francesco Crispi, mentre tra i commissari igurava
Augusto Pierantoni45.
Una pur sintetica analisi dei lavori della commissione consente di apprezzare l’alto livello del dibattito che vi si svolse, dettato anzitutto dalla
condivisa consapevolezza della cruciale importanza di molte questioni politico-giuridiche sollevate dalla speciica fattispecie dell’estradizione.
Ricostruendone l’operato a pochi anni di distanza, il penalista Luigi Masucci osservò che l’assunto di partenza dei commissari consistette nel considerare l’estradizione come un «prodotto della civiltà moderna […] [un’]
44. La legge sull’estradizione, in «Gazzetta piemontese», 1 dicembre 1881, p. 1.
45. Erano membri della commissione, oltre a Crispi e a Pierantoni, gli alti funzionari del
ministero degli affari esteri Alberto Blanc, Augusto Peiroleri e Emilio Puccioni, il consigliere
di cassazione Tancredi Canonico, il consigliere di corte d’appello Luigi Casorati, i docenti
universitari Pietro Ellero, Pietro Nocito ed Enrico Pessina, il procuratore generale presso la
corte d’appello di Milano Cesare Oliva, il primo presidente della corte d’appello di Firenze
Baldassarre Paoli, gli avvocati-deputati Diego Tajani, Giambattista Varè e Tommaso Villa
(cfr. art. 4 del Decreto ministeriale con cui viene istituita una Commissione con l’incarico
di studiare e compilare un progetto legge sull’estradizione (Capodimonte, 15 ottobre 1881),
in Atti della commissione ministeriale per lo studio e la compilazione di un progetto di legge
sulla estradizione istituita, con decreto del 15 ottobre 1881, dal Ministro degli Affari Esteri
P. S. Mancini, Tip. Sciolla, Roma 1885, pp. 1-2).
59
istituzione sociale, fondata sulla comunanza di scopo dei popoli civili e sulla
necessità di tutela della giustizia universale»46. Si mirava a superare deinitivamente l’antico, e abusato, istituto dell’asilo, assecondando le reciproche
aperture e la crescente osmosi tra le giustizie dei singoli stati che si stavano
diffondendo negli ultimi decenni. L’orientamento così deinito veniva portato alle più coerenti conseguenze, facendo del regno d’Italia il primo ordinamento che «non [avrebbe] richie[sto], per la estradizione, la condizione
dell’esistenza di un trattato, né quella della reciprocità». Trattandosi di un
«dovere naturale tra le genti civili», «utile all’umanità intera», quindi di una
prescrizione dal valore tendenzialmente universale, spiegava il segretario
della commissione, Emilio Puccioni, le condizionalità legate alle relazioni
tra stati non potevano trovare giustiicazione di sorta47.
Del pari, non si intendeva disperdere, ma semmai rafforzare, il portato di
garanzie e di protezione della persona umana proprio dell’estradizione. La
legge, scriveva ancora Puccioni confermando quanto sostenuto dalla «Gazzetta piemontese», aveva lo scopo di sanare «i vizi dell’attuale sistema, che
tutto abbandona alla discrezione del potere amministrativo», conferendo
alla magistratura l’esclusiva competenza a pronunciarsi sull’ammissibilità
della domanda. La sorte del cittadino straniero oggetto della richiesta proveniente da uno stato estero sarebbe dunque stata determinata rispettando le
procedure, e le garanzie, proprie del sistema giudiziario italiano. Signiicativamente, Pierantoni prese l’iniziativa su questo punto insieme a Ellero e a
Pessina, tentando di imprimere un’ulteriore virata “garantista”. I tre chiesero che venisse previsto nel progetto di legge il riesame da parte dei giudici
italiani del processo in seguito al quale veniva richiesta l’estradizione dello
straniero. «Non possiamo fare atto di fede cieca alle autorità degli Stati esteri», dichiaravano appellandosi a quanto già prescrivevano la legge britannica
e quella statunitense, perché «l’azione del nostro Governo dovrebbe essere
illuminata, tutelatrice del diritto e della libertà, diretta al trionfo della giustizia violata». A maggioranza, tuttavia, i commissari respinsero la proposta
ritenendo che avrebbe «stabili[to] un sistema di reciproca difidenza» tra
gli stati e «tra popoli civili»48. Su un altro aspetto da disciplinare, la libertà
personale dell’imputato, la commissione avrebbe invece accolto le spinte
più decise in senso umanitario, approvando «norme liberalissime» che prevedevano il «minimo sacriicio della libertà individuale dell’accusato». Al
46. L. Masucci, Esposizione analitica di un progetto di legge sulla estradizione, Vallardi,
Napoli 1885, p. 4.
47. Atti della commissione ministeriale…, cit., pp. VIII ss.
48. Masucci, Esposizione analitica…, cit., pp. 26-27.
60
contrario di quanto disponevano le leggi vigenti in Belgio, Regno unito e
Stati uniti, in Italia, qualora fosse stato approvato il progetto di legge, l’arresto dello straniero non sarebbe stato obbligatorio ma facoltativo, e sarebbe
avvenuto in seguito ad un provvedimento del procuratore generale presso la
Corte d’appello, o – nei casi d’urgenza - del ministro dell’interno49.
Inine, altrettanto generoso in senso «liberale» sarebbe stato il testo licenziato da Pierantoni e dagli altri commissari nel vietare non solo l’estradizione per reati di carattere politico, ma anche «per tutti i fatti connessi ai
reati politici», formula secondo alcuni critici troppo «elastica» che chiamava in causa il troppo «vago» concetto della connessione tra reati comuni e
obiettivi di natura politica. L’omicidio volontario veniva escluso, «eccetto
il caso però in cui, oltre al ine politico, concorra la circostanza di essersi
l’omicidio commesso nell’atto di una insurrezione o di una guerra civile»50.
«Importa che l’estradizione serva alla repressione dei delitti, e non diventi un mezzo di polizia preventiva, lo stromento internazionale di una nuova
forma di legittimismo, che la ragione dei tempi ha per sempre condannato»,
aveva invocato la «Gazzetta piemontese» al momento dell’insediamento
della commissione nominata da Pasquale Stanislao Mancini51. Conclusi i lavori dell’organo, il tono della discussione e il testo di legge licenziato avevano fatto trasparire la sistematica volontà di fare tesoro di quanto provenisse
dai parlamenti dei paesi più «civili» per adeguare l’ordinamento nazionale.
Allo stesso tempo, in alcuni frangenti si era tentato di adottare – senza remore di sorta – disposizioni ancora più avanzate di quelle invalse oltreconine,
allargando con convinzione la sfera dei diritti e delle libertà personali. Forse
anche per questo motivo, non sarebbe mai giunta la deinitiva approvazione
parlamentare.
Non fu tuttavia trascurabile il valore di quell’esperienza, pur circoscritta,
per la sedimentazione della cultura e dei riferimenti politici che ne erano alla
base, nonché – almeno indirettamente – per la loro divulgazione. Augusto
Pierantoni svolse un ruolo preminente all’interno della commissione nelle
sue riunioni collegiali, ma ricevendo pure il compito di fungere da «relatore» per la parte del progetto concernente una «questione capitale»: «a quali
persone» applicare la legge52. Anche attraverso l’impegno in quella sede,
procedeva il suo personale itinerario politico.
49. Atti della commissione ministeriale…, cit., p. LXXXV.
50. Masucci, Esposizione analitica…, cit., pp. 9 ss.
51. La legge sull’estradizione…, cit.
52. Atti della commissione ministeriale…, cit., p. II.
61
Legge del Ritorno e cittadinanza in Israele:
Il delicato rapporto tra ebraicità e democrazia
dopo la ine della stagione di Oslo (2000-16)
Arturo Marzano
Introduzione
Questo articolo intende rilettere sulla deinizione di Israele come «Stato
ebraico e democratico»1 e sui cambiamenti avvenuti nel rapporto tra «ebraicità» e «democrazia» negli ultimi anni, impiegando un prisma che mi sembra particolarmente utile, vale a dire la cittadinanza e, in particolare, le leggi
che prevedono come questa venga attribuita. Ritengo infatti che la questione
dell’attribuzione della cittadinanza israeliana e il dibattito intorno a questo
tema siano utilissime cartine al tornasole per valutare il percorso compiuto
da Israele negli ultimi due decenni, caratterizzati a mio avviso dalla volontà
della politica di far prevalere il carattere «ebraico» dello Stato rispetto a
quello «democratico».
L’articolo è diviso in tre parti. Dopo una prima parte in cui analizzo le
principali posizioni di sociologi e scienziati politici che si sono interrogati
sul rapporto tra «ebraicità» e «democrazia», le pagine successive sono dedicate a presentare il modo in cui viene regolamentata l’attribuzione della
cittadinanza in Israele, partendo dalla Legge sulla cittadinanza del 1952 e
la Legge del Ritorno del 1950 e inendo con i cambiamenti intervenuti nei
decenni seguenti. Inine, l’articolo si occupa del dibattito relativo all’attribuzione della cittadinanza israeliana negli ultimi quindici anni, dopo la ine
della stagione di Oslo. Da un lato, mi soffermo sulla Legge sulla cittadinanza e l’ingresso in Israele, approvata temporaneamente nel 2003 ma da allora
1. Nella Legge fondamentale sulla dignità e la libertà della persona del 1992 si legge:
«L’obiettivo di questa legge è proteggere la dignità e la libertà della persona per fondare in
questa Legge fondamentale i valori dello Stato di Israele come stato ebraico e democratico».
Cfr. il testo in inglese, http://www.mfa.gov.il/MFA/MFA-Archive/1992/Pages/Basic%20
Law-%20Human%20Dignity%20and%20Liberty-.aspx, accesso del 25.06.2016.
62
sempre prorogata, che vieta il ricongiungimento familiare e la cittadinanza
ai coniugi dei cittadini israeliani che provengano dai Territori occupati Palestinesi e da altri paesi arabi. Dall’altro, analizzo il dibattito relativo alle proposte di cambiamento o abolizione della Legge del Ritorno che dopo il 2000
sono state portate avanti da organizzazioni non governative, associazioni,
e intellettuali israeliani. La discussione relativa tanto alla legge del 2003
quanto alle proposte della società civile, infatti, mettono in luce come la cittadinanza sia uno degli ambiti in cui si registra maggiormente lo scontro tra
coloro che intendono accentuare il carattere «ebraico» di Israele a discapito
di quello «democratico» e chi, invece, mira al processo opposto.
Deinire Israele: democrazia etnica o etnocrazia?
Nel novembre del 2002, Ahmed Tibi, uno dei dieci parlamentari arabi
eletti alla Knesset nelle elezioni del 1999, rilasciò un’intervista in cui, utilizzando un gioco di parole relativo alla ricordata deinizione di Israele come
Stato «ebraico e democratico», dichiarava: «Israele è democratico per i suoi
cittadini ebrei ed ebraico per quelli arabi»2. L’obiettivo di Tibi era mettere
in luce la dificoltà di conciliare due elementi differenti: quello «ebraico»,
che vede Israele come lo «Stato degli ebrei» cui pensava già Theodor Herzl
nel 1896 e come «la raccolta degli esiliati», per usare le parole della Dichiarazione di indipendenza del 14 maggio 19483, e quello «democratico»,
che vede Israele come uno Stato che garantisce i pieni diritti sia formali sia
sostanziali a tutti i suoi cittadini senza alcuna distinzione.
Non pochi tuttavia sono gli autori che, in linea con quanto ha affermato
Tibi, ritengono che la democrazia israeliana non sia completa, per l’impossibilità di conciliare questi due principi, tanto da impiegare le deinizioni di
«democrazia etnica» o «etnocrazia».
Il sociologo Sammy Smooha, ad esempio, deinisce Israele una «democrazia etnica». Smooha ha più volte, infatti, sostenuto come Israele rappresenti una novità rispetto ai vari tipi di democrazia conosciuti. Non essendo
né una democrazia liberale, come gli Stati Uniti, né una democrazia “conso2. In Identity Crisis. Israel and Its Arab Citizens, International Crisis Group Middle East
Report N. 25, 4 marzo 2004, p. 11, http://www.crisisgroup.org/~/media/Files/Middle%20
East%20North%20Africa/Israel%20Palestine/Identity%20Crisis%20Israel%20and%20
its%20Arab%20Citizens.pdf, accesso del 25.06.2016.
3. Il testo in inglese si trova in http://www.mfa.gov.il/MFA/Peace%20Process/ Guide%20
to%20the%20Peace%20Process/Declaration%20of%20Establishment%20of%20State%20
of%20Israel, accesso del 25.06.2016.
63
ciazionale”, che include nella propria costituzione la presenza di due comunità nazionali etniche differenti, come il Belgio, né una democrazia razziale,
un Herrenvolk, come il Sud Africa, è necessario utilizzare un neologismo,
che tenga conto della nuova tipologia di democrazia, quella «etnica»4. Per
«democrazia etnica», Smooha intende un sistema politico che combina
l’esistenza di istituzioni democratiche con la presenza di un gruppo etnico
maggioritario in posizione dominante rispetto ad uno o più gruppi etnici
minoritari. Al contempo, però, proprio perché democratico, un sistema politico del genere prevede che questo o questi gruppi etnici minoritari possano
utilizzare le istituzioni democratiche esistenti per cambiare la situazione esistente e trasformare il sistema politico.
Altre autori hanno, invece, preferito utilizzare il termine «etnocrazia»
per deinire Israele. Tra questi, As’ad Ghanem, Nadim Rouhama, e Oren
Yiftachel, che riiutano il concetto di «democrazia etnica» sostenendo che
«concetti come “etnocrazia” e “Stato etnico” colgano meglio l’essenza della
struttura politica di Israele, rafigurando un regime che non è né democratico, né autoritario»5. Ritengono, infatti, errata la posizione teorica in base
alla quale vengono accostati due concetti distinti, quello di etnos, cioè di
un gruppo che per deinirsi opera una selezione in base ad un’appartenenza
originaria, e quello di demos, di un gruppo che, al contrario, si deinisce includendo soggetti diversi in base alla residenza o alla cittadinanza. Il loro timore, infatti, è che la deinizione di Israele come «democrazia etnica» possa
in qualche modo rappresentare una legittimazione ad uno status quo politico
e giuridico. Questi tre autori sottolineano una distinzione essenziale tra un
«nucleo etnico» e un «involucro democratico». Gli elementi democratici,
rappresentati dalle elezioni, da un potere giudiziario indipendente, da una
stampa libera, e dalla tutela delle libertà personali, rappresentano soltanto
l’involucro di una struttura niente affatto democratica, perché fondata su
4. S. Smooha, Ethnic Democracy: Israel as an Archetype, in «Israel Studies», 2, 2, 1997,
pp. 198-241 (pp. 206-207). Cfr. anche Id., The Model of Ethnic Democracy: Israel as a
Jewish and Democratic State, in «Nations and Nationalism», 8, 4, 2002, pp. 475-503.
5. A. Ghanem, N. Rouhama, O. Yiftachel, Questioning “Ethnic Democracy”: A
Response to Sammy Smooha, in «Israel Studies», 3, 2, 1998, pp. 253-267 (p. 265). Cfr. anche
A. Ghanem, State and Minority in Israel: The Case of Ethnic State and the Predicament of
Its Minority, in «Ethnic and Racial Studies», 21, 3, 1998, pp. 428-448; N. Rouhama, The
Test of Equal Citizenship: Israel Between Jewish Ethnocracy and Binational Democracy,
in «Harvard International Review», 20, 2, 1998, pp. 74-78; O. Yiftcahel, Israeli Society and
Jewish-Palestinian Reconciliation: Ethnocracy and Its Territorial Contradictions, in «Middle
East Journal», 51, 4, 1997, pp. 1-16; Id., «Etnocrazia». La politica della giudaizzazione
di Israele-Palestina, in J. Hilal e I. Pappe (a cura di), Parlare con il nemico. Narrazioni
palestinesi e israeliane a confronto, Bollati Boringhieri, Torino 2004, pp. 96-131.
64
una rigida gerarchia etnica, sulla mancanza di una cittadinanza inclusiva e
su un eccessivo potere esercitato delle istituzioni religiose. In questo modo,
dunque, Israele legittima una discriminazione fondata sull’appartenenza etnica, perché i palestinesi, sebbene cittadini a pieno titolo, possono godere
solo dei diritti previsti dall’«involucro democratico», ma non di quelli che il
«nucleo etnico» riserva solo agli ebrei. Per questa ragione, a loro avviso, la
deinizione più appropriata è quella di «etnocrazia».
A metà tra le due posizioni si colloca quella di Yoav Peled che ritiene
come a partire dal 2000 Israele, ino ad allora una «democrazia etnica»,
si sia «costantemente mosso […] verso una forma di Stato che assomiglia
fortemente ad una etnocrazia»6. Peled ricorre proprio al prisma della cittadinanza per argomentare la sua tesi e sottolinea come, nel tentativo di combinare tre diversi principi costituzionali, repubblicanesimo, liberalismo ed
etnicità, Israele abbia inito per dare origine a due diversi tipi di cittadinanza: una «repubblicana» per gli ebrei, e una «liberale» per gli arabi7. Ciò
signiica che, mentre ciascun membro di entrambi i gruppi etnici può godere
dei diritti di cittadinanza, solo gli ebrei possono esercitare tali diritti per il
raggiungimento del bene comune. Secondo Peled, le tradizioni liberale e repubblicana, infatti, divergono laddove per la prima la cittadinanza si risolve
nel garantire uguali diritti a ciascun individuo, inteso come un’entità politica
astratta, mentre per la seconda la cittadinanza presuppone l’appartenenza
ad una comunità morale che ha già individuato un concetto di bene comune
che tutti gli individui parte di questa comunità contribuiscono a realizzare. È
evidente come stabilire chi possa appartenere alla comunità morale diventi
fondamentale per capire di quali diritti il cittadino possa godere o meno.
Israele è, da questo punto di vista, un esempio molto interessante. Secondo
Peled, infatti, Israele è nato come Stato per gli ebrei, per realizzare un bene
comune, quello del popolo ebraico, che è stato dunque riconosciuto come
prioritario. L’appartenenza etnica al popolo ebraico è l’elemento determinante per poter avere accesso alla cittadinanza «repubblicana», da cui i non
ebrei sono stati esclusi perché etnicamente non appartengono a tale comunità. Dal momento, però, che Israele intendeva comunque essere uno Stato che
6. Y. Peled, Citizenship Betrayed: Israel’s Emerging Immigration and Citizenship
Regime, in «Theoretical Inquiries in Law», 8, 2, 2007, pp. 333-358 (p. 337).
7. Una distinzione simile viene utilizzata da Uri Davis, che impiega i termini in arabo
jinsiyya e muwatama per indicare l’esistanza in Israele di due cittadinanza: la prima, che riconosce principalmente il «diritto di residenza» nello Stato di cui sono cittadini, per gli arabi,
e la seconda, che garantisce la pienezza dei diritti, per gli ebrei. Cfr. U. Davis, Jinsiyya versus
Muwatama: the Question of Citizenship and the State in the Middle East: the cases of Israel,
Jordan and Palestine, in «Arab Studies Quarterly», 17, 1/2, 1995, pp. 19-50.
65
garantisse l’uguaglianza di tutti i propri cittadini, agli arabi israeliani è stato
garantito il godimento dei diritti di una cittadinanza «liberale». Ed è proprio
la modalità di attribuzione della cittadinanza israeliana in maniera differente
per ebrei e non ebrei che Peled ritiene sia come la “prova provata” della
compresenza di due tipologie di cittadinanza, «republicana» e «liberale»8.
Le modalità di attribuzione della cittadinanza in Israele
Sulla base della Legge sulla cittadinanza, entrata in vigore il 14 luglio
1952, quattro sono i modi in cui può essere acquisita la cittadinanza israeliana: per nascita, attraverso la Legge del Ritorno, per residenza, e per naturalizzazione9.
La prima modalità è per nascita, sulla base del principio dello ius sanguinis. Diventa, dunque, cittadino israeliano chiunque sia iglio di cittadino
israeliano, sia questi nato nel territorio di Israele o fuori di esso. Se qualcuno, invece, nasce in Israele, ma non è iglio di cittadino israeliano, ha diritto
alla cittadinanza nel caso in cui ne faccia richiesta tra i 18 e i 25 anni, e sia
stato residente in Israele consecutivamente per i cinque anni precedenti la
richiesta. In secondo luogo, la cittadinanza israeliana si acquista attraverso
la cosiddetta Legge del Ritorno, approvata dalla Knesset [Parlamento israeliano] nel 1950 e su cui tornerò nelle prossime pagine. Un terzo modo per
acquisire la cittadinanza è in base alla residenza. Fu questa la modalità attraverso cui ottennero la cittadinanza israeliana i palestinesi che risiedevano
in Israele negli anni del mandato britannico e che rimasero in Israele dopo il
1948. In realtà, la cittadinanza venne immediatamente data soltanto a 63.000
abitanti10, dal momento che per la maggioranza degli arabi palestinesi rimasti in Israele fu molto dificile dimostrare di essere in possesso della cittadinanza mandataria11 o soddisfare gli altri criteri previsti dalla legge. Molti di
questi riuscirono ad ottenere la cittadinanza solo nel 1980, quando un nuovo
emendamento ne rese più facile l’acquisizione12. La legge del 1952 prevede,
8. Y. Peled, Ethnic Democracy and the Legal Construction of Citizenship: Arab Citizens
of the Jewish State, in «American Political Science Review», 86, 2, 1992, pp. 432-443.
9. Il testo della legge in inglese si trova in http://www.israellawresourcecenter.org/
israellaws/fulltext/nationalitylaw.htm, accesso del 25.06.2016.
10. Il dato si trova in S. Robinson, Citizen Strangers. Palestinans and the Birth of Israel’s
Liberal Settler State,Stanford University Press, Stanford 2013, p. 100.
11. Sulla cittadinanza palestinese negli anni del Mandato britannico, cfr. L. Banko, The
creation of Palestinian citizenship under an international mandate: legislation, discourses
and practises, 1918-1925, in «Citizenship Studies», 16, 5-6, 2012, pp. 641-655.
12. In A.F. Kassim, The Palestinians. From Hyphenated to Integrated Citizenship, in N.
66
inine, l’acquisizione della cittadinanza per naturalizzazione. Fatta salva la
discrezione del ministero degli interni, la naturalizzazione si applica ai casi
in cui una persona si trovi in Israele, risieda in Israele almeno tre anni nei
cinque precedenti il momento della domanda di naturalizzazione, abbia il
permesso di residenza permanente, si sia stabilita o abbia intenzione di stabilirsi in Israele, abbia qualche conoscenza di ebraico, e abbia rinunciato o
intenda rinunciare alla propria cittadinanza originaria.
È quest’ultima modalità che ci interessa maggiormente ai ini di questo
articolo, perché è in questo modo che il coniuge non-israeliano di un cittadino israeliano ha diritto ad ottenere la cittadinanza. Naturalmente, se il
coniuge di un cittadino israeliano è ebreo, questi ha diritto alla cittadinanza in base alla Legge del Ritorno. Se, invece, non è ebreo, si aprono due
possibilità. Nel caso in cui sia coniuge di una persona che è in procinto di
ottenere la cittadinanza in virtù della Legge del Ritorno, avrà diritto alla cittadinanza nello stesso modo, come dirò nel paragrafo successivo. Nel caso
in cui sia coniuge di un cittadino israeliano che ha già la cittadinanza israeliana, seguirà invece le regole della naturalizzazione. Teoricamente, non c’è
differenza se il coniuge israeliano è ebreo o non-ebreo. In pratica, però, le
procedure sono piuttosto diverse, e i controlli per motivi di sicurezza sono di
gran lunga inferiori nel caso in cui il cittadino israeliano sia ebreo, rispetto
all’ipotesi in cui non lo sia.
La Legge del Ritorno
La Legge del Ritorno del 1950 prevedeva che chiunque fosse ebreo/a
avesse diritto a immigrare in Israele e ad acquistare la cittadinanza israeliana
in qualsiasi momento della propria vita. In questo modo, pertanto, si dava
la possibilità ad ogni ebreo/a – sebbene la deinizione di “ebreo” non fosse
inclusa nella legge e sarebbe stata chiarita solo molti anni più tardi – di ottenere la cittadinanza israeliana13. Per comprendere la ratio della legge, è utile
citare quanto l’allora Primo ministro israeliano, David Ben Gurion, dichiarò
in occasione del voto parlamentare che avrebbe dato via libera alla legge.
Agli occhi di Ben Gurion, il diritto di ogni ebreo alla cittadinanza non era
Butenschon, U. Davis e M. Hassassian (a cura di), Citizenship and the State in the Middle
East: Approaches and Applications, Syracuse University Press, Syracuse-New York 2000,
pp. 201-224.
13. Per il testo della legge in inglese, cfr. http://www.mfa.gov.il/mfa/mfa-archive/
1950-1959/pages/law%20of%20return%205710-1950.aspx, accesso del 25.06.2016.
67
concesso dallo Stato, perché tale diritto precedeva in realtà l’esistenza dello
Stato; era il diritto dello Stato alla terra a derivare dal diritto degli ebrei a
quella terra, e non viceversa14.
Non è questa la sede per approfondire in chiave comparata la Legge del
Ritorno, sebbene sarebbe interessante analizzare il caso israeliano confrontandolo con altri casi nazionali. Molti altri Stati, infatti, hanno nel corso della loro storia adottato leggi che prevedono la concessione della cittadinanza
a un particolare gruppo etnico, come è il caso di vari paesi europei, come
Finlandia, Grecia, Germania, Irlanda, Ungheria15.
Ci interessa maggiormente in queste pagine mettere in luce le modiiche
apportate alla Legge nei decenni successivi. Tralasciando un primo emendamento più di natura formale che sostanziale, introdotto dalla Knesset nel
1954, fu nel 1970 che un secondo emendamento introdusse due importanti
cambiamenti16.
In primo luogo, venne data una deinizione di «ebreo», stabilendo che
ai ini della Legge del Ritorno per «ebreo» si sarebbe inteso «una persona
che era nata da madre ebrea o si è convertita all’ebraismo e non è membro
di un’altra religione». In questo modo, il legislatore recepiva quanto alcuni
anni prima era stato affermato nel 1962 dalla Corte Suprema, in occasione
del famoso caso di Oswald Rufeisen. Questi era un ebreo polacco che durante la Seconda guerra mondiale si era rifugiato in un convento cattolico per
sfuggire alla persecuzioni naziste, dopo aver contribuito a salvare numerosi
ebrei, grazie al suo impiego nella polizia polacca. Terminata la guerra, aveva
preso i voti diventando sacerdote carmelitano, col nome di Padre Daniel,
ed era giunto in Israele chiedendo la cittadinanza israeliana sulla base della
Legge del Ritorno. Tuttavia, la sua domanda era stata respinta perché nel
frattempo si era convertito al cattolicesimo. A quel punto Padre Daniel aveva ricorso alla Corte Suprema, ma questa aveva deliberato che il sacerdote,
avendo abbracciato un’altra religione, non avesse diritto alla cittadinanza
israeliana tramite la Legge del Ritorno. Una soluzione di compromesso fu
poi trovata allorché Padre Daniele ottenne la cittadinanza per naturalizzazione: in tal modo, veniva garantita la possibilità di vivere in Israele ad un
«giusto delle nazioni», ma al contento veniva introdotto il principio in base
14. In Y. Hazony, The Jewish State. The Struggle for Israel’s Soul, Oxford, Basic books,
2001, p. 56 e segg.
15. Cfr. A. Yakobson, A. Rubinstein, Israel and the Family of Nations. The Jewish nationstate and human rights, Routledge, London-New York 2009, in particolare pp. 126-131.
16. Per il testo dell’emendamento, cfr. http://www.mfa.gov.il/mfa/mfa-archive/1950-1959/
pages/law%20of%20return%205710-1950.aspx, accesso del 25.06.2016.
68
al quale non avrebbe avuto diritto alla cittadinanza israeliana sulla base della
Legge del Ritorno una persona che, pur nata ebrea, si fosse convertita ad
un’altra religione17.
In secondo luogo, il secondo emendamento allargava notevolmente le
maglie dell’attribuzione della cittadinanza israeliana: il diritto ad ottenere
la cittadinanza israeliana sulla base della Legge del Ritorno veniva infatti
garantito a «il/la iglio/a e il/la nipote di un/a ebreo/a, il coniuge di un/a
ebreo/a, il coniuge del/la iglio/a di un/a ebreo/a, il coniuge del/la nipote di
un/a ebreo/a , con l’eccezione di una persona che è stata ebrea e ha volontariamente cambiato la propria religione». Veniva in questo modo ribadito
come l’adesione ad una religione differente dall’ebraismo fosse ritenuta una
delle motivazioni per escludere dalla concessione della cittadinanza chi pure
ne aveva diritto sulla base della Legge. Ancora più signiicativa però era
l’estensione del diritto alla cittadinanza anche a chi non è ebreo secondo la
halakha [legge ebraica], includendo pertanto anche igli e nipoti di possibili
matrimoni misti. Come ricorda Amnon Rubinstein, che a quel tempo prese
parte alla discussione sull’emendamento in qualità di giovane docente di
legge all’Università di Tel Aviv, tale scelta va compresa alla luce delle persecuzioni naziste. La decisione di estendere la possibilità di immigrare alla seconda generazione fu presa perché le Leggi di Norimberga, approvate dalla
Germania nazista nel 1935, colpivano chiunque avesse anche un solo nonno
ebreo18. In tal modo, la Legge del Ritorno si poneva in diretta relazione con
quelle di Norimberga e confermava come la possibilità data ad ogni persona
ebrea di immigrare in Israele venisse considerata una fondamentale garanzia
per salvarla da subire possibili persecuzioni.
Tuttavia, la conversione che permetteva ad una persona di essere deinita
ebrea era soltanto quella avvenuta presso il Rabbinato ortodosso (o ultraortodosso), mentre non venivano ritenute accettabili conversioni presso
istituzioni riconducibili all’ebraismo riformato o conservatore. Soltanto a
partire dagli anni Novanta, dopo l’ondata migratoria degli ebrei russi, molti dei quali non ebrei secondo la halakha, la Corte Suprema ha – con due
sentenze – messo in discussione la supremazia del Rabbinato ortodosso,
stabilendo nel 1995 che il governo era obbligato a riconoscere le conversioni non-ortodosse, incluse quelle riformate, all’estero. Inine, nel 2002,
la Corte Suprema ha messo ulteriormente in discussione la prevalenza del
17. Cfr. N. Tec, In the Lion’s Den: The Life of Oswald Rufeisen, Oxford University Press,
Oxford 1990.
18. In A. Rubinstein, The Curious Case of Jewish Democracy, «Azure», 41, 2010: http://
azure.org.il/include/print.php?id=545#xkcd21, accesso del 25.06.2016.
69
Rabbinato ortodosso, stabilendo che anche le conversioni riformate fatte in
Israele sarebbero state valide per la registrazione di una persona come ebreo
nel registro di residenza in Israele19. Esula da questo articolo una rilessione
sul rapporto tra l’ebraismo ortodosso, che rappresenta la stragrande maggioranza della popolazione ebraica in Israele, e quello riformato e conservatore,
che accoglie invece la maggioranza degli ebrei americani. Basti sottolineare
come, anche da questo punto di vista, la cittadinanza (e le modalità per l’attribuzione) rappresenti un terreno di indagine molto interessante per comprendere i cambiamenti in atto nella politica e nella società israeliana.
La Legge sulla cittadinanza e l’ingresso in Israele (provvedimento
temporaneo) 5763-2003
Come conseguenza della Legge del Ritorno, c’è dunque una differenza
fondamentale tra coniugi ebrei di cittadini israeliani, poiché possono ottenere la cittadinanza israeliana in virtù dell’essere ebrei, e i coniugi non ebrei di
cittadini israeliani, che possono ottenere la cittadinanza solo per naturalizzazione. È a questa seconda categoria di persone che si applica la cosiddetta
Legge sulla cittadinanza e l’ingresso in Israele (provvedimento temporaneo)
5763-2003, adottata in via temporanea dalla Knesset il 27 luglio 200320.
Tale disposizione ha stabilito che tutti gli abitanti che risiedessero in Giudea e Samaria (cioè la Cisgiordania) o nella striscia di Gaza – fatta eccezione per gli abitanti degli insediamenti israeliani, cioè ebrei, che possono
ottenere la cittadinanza israeliana, nel caso in cui non la abbiano, tramite
la Legge del Ritorno – non avrebbero più potuto ottenere la cittadinanza
israeliana sulla base della Legge sulla cittadinanza del 1952, risiedere in
Israele sulla base della stessa legge, e soggiornarvi secondo quanto previsto
da una serie di leggi in materia di sicurezza. La legge prevedeva due eccezioni: la possibilità che un residente nei Territori Occupati potesse entrare
in Israele per motivi di lavoro o medici per un periodo non superiore a sei
mesi; e la possibilità di risiedere in Israele per i bambini inferiori a 12 anni
di età, nel caso in cui un loro genitore risiedesse legalmente in Israele. La
legge non veniva applicata ai collaboratori o alla famiglia dei collaboratori;
19. G. Barzilai, Who is a Jew? Categories, Boundaries, Communities, and Citizenship
Law in Israel, in S.A. Glenn, N.B. Sokoloff (a cura di), Boundaries of Jewish Identity,
University of Washington Press, Seattle-London 2010, pp. 27-42 (p. 31).
20. Per il testo in inglese, cfr. http://www.knesset.gov.il/laws/special/eng/citizenship_
law.htm, accesso del 25.06.2016.
70
a quei palestinesi, cioè, residenti nei Territori, che collaborano con Israele
per garantire il successo delle operazioni militari nei confronti di singoli
o di organizzazioni considerate terroristiche e, dunque, un pericolo per la
sicurezza dello Stato ebraico.
La legge, rinnovata annualmente da allora, l’ultima volta nel giugno
201621, prevede, nella sua versione modiicata a metà 2005, che non possano più ottenere la cittadinanza israeliana e il permesso di residenza in
Israele quei coniugi di cittadini israeliani che siano residenti nei Territori
Palestinesi Occupati e che abbiano meno di 25 anni, se donne, e meno di
35 anni, se uomini. Allo stesso tempo, nel marzo 2007 è stato introdotto un
emendamento che estende il divieto ad ottenere la cittadinanza israeliana a
persone di «paesi nemici», vale a dire cittadini di Iran, Iraq, Libano e Siria.
Tale legge è stata la prima adottata dalla Knesset a compiere una discriminazione nella concessione della cittadinanza per motivi di ricongiungimento familiare su base etnica, dal momento che impedisce sostanzialmente
di ottenere la cittadinanza israeliana ai palestinesi dei Territori Occupati e
agli abitanti di paesi arabi. In tutti gli altri casi, la legge non prevede alcuna
restrizione. Questa disposizione, inoltre, intacca pesantemente i diritti dei
palestinesi israeliani, e in misura ridottissima quelli degli ebrei israeliani,
dal momento che sono soprattutto i primi a sposare persone residenti nei
Territori Palestinesi Occupati o nei «paesi nemici» e a subirne, perciò, le
drammatiche conseguenze.
La posizione uficiale dello Stato di Israele su tale disposizione venne per
la prima volta espressa a seguito di una serie di petizioni contro il governo
presentate alla corte suprema da privati cittadini, membri della Knesset, e
varie organizzazioni non governative palestinesi22. Il governo affermò che
la sicurezza dei cittadini e dei residenti israeliani sarebbe stata messa fortemente in pericolo nel caso in cui, data la situazione di conlitto esistente,
si fosse continuato a consentire la residenza o il soggiorno in Israele o si
fosse garantito il conseguimento della cittadinanza a «residenti in un’entità
politica in conlitto armato con Israele». Il governo sosteneva dunque che
la disposizione era stata adottata per pure ragioni di sicurezza, «soltanto
a causa […] del […] conlitto armato». D’altronde, il 31 marzo 2002, un
21. J. Lis, Law Restricting Palestinian Family Reuniication Extended at Shin Bet’s
Request, in «Haaretz», 2 giugno 2016.
22. Sul ruolo di tali organizzazioni per tutelare i diritti della minoranza palestinese, cfr. S.
Payes, Palestinian NGOs in Israel: A Campaign For Civic Equality in a Non-Civic State, in
«Israel Studies», 8, 1, 2003, pp. 60-90, e O. Haklai, Palestinian NGOs in Israel: A Campaign
for Civic Equality or “Ethnic Civil Society”?, in «Israel Studies», 9, 3, 2004, pp. 157-168.
71
palestinese israeliano, Shadi Tubasi, si era fatto esplodere in un ristorante di Haifa, uccidendo sedici israeliani. Subito dopo l’attentato terroristico,
l’allora ministro degli interni, Eli Yishai, aveva deciso di congelare tutte le
pratiche di riuniicazione familiare inoltrate da cittadini israeliani a favore
dei propri coniugi palestinesi residenti nei Territori Occupati, in attesa che
una nuova politica venisse adottata in tale materia. Nel maggio del 2002, il
governo israeliano sposò la linea di Yishai e tutte le pratiche di riuniicazione vennero sospese in attesa dell’adozione di nuove regolamentazioni «per
ragioni di sicurezza»23.
Nell’incontro avvenuto il 4 aprile 2005 tra il primo ministro Ariel Sharon, il ministro della giustizia Tzipi Livni, il ministro degli interni Ophir
Pines-Paz, il consigliere per la sicurezza nazionale, e il capo dei servizi di
sicurezza per discutere del rinnovo della disposizione, però, Sharon smentì
la posizione che il governo aveva mantenuto ino ad allora. In quell’occasione, infatti, Sharon dichiarò apertamente come fossero considerazioni di
natura demograica più che di sicurezza a giustiicare l’adozione della legge,
dal momento che l’obiettivo essenziale della legge era garantire l’esistenza
di Israele come Stato ebraico24.
Questa dichiarazione ha confermato quanto da tempo una serie di organizzazioni non governative israeliane andavano sostenendo, che non fossero
ragioni di sicurezza a motivare l’adozione della legge temporanea, quanto
l’obiettivo di mantenere il controllo della composizione etnica del paese.
Già nel gennaio del 2004, ad esempio, la Ong israeliana B’tselem aveva
fatto notare come l’aspetto demograico fosse la ragione essenziale per cui
tale disposizione era stata adottata. In alcune dichiarazioni, infatti, sia il ministro Yishai, sia il suo successore, Avraham Poraz, avevano sottolineato la
necessità che lo Stato di Israele intervenisse per porre un freno all’eccessivo
utilizzo che del matrimonio con cittadini israeliani veniva fatto dai palestinesi residenti nei Territori Occupati. L’acquisto della cittadinanza tramite il
ricongiungimento familiare stava infatti diventando, agli occhi del governo,
una modalità per realizzare concretamente quel “diritto al ritorno” rivendicato dai profughi palestinesi, e che costituisce uno degli scogli più dificilmente superabili per giungere ad una pace stabile tra israeliani e palestinesi.
23. Y. Stein (a cura di), Forbidden Families. Family Uniication and Child Registration in
East Jerusalem, Rapporto congiunto di B’tselem – The Israeli Information Center for Human
Rights in the Occupied Territories e Ha Moked: Center for the Defence of the Individual,
2004, pp. 11-13. In https://www.btselem.org/download/200401_forbidden_families_eng.
pdf, accesso del 25.06.2016.
24. A. Benn, Y. Yoaz, PM extends law meant to maintain Jewish demographic edge, in
«Haaretz», 4 april 2005.
72
Considerazioni demograiche hanno dunque avuto un ruolo fondamentale
nella decisione politica israeliana di modiicare la legge in materia di attribuzione della cittadinanza tramite naturalizzazione25.
Quale futuro per la Legge del Ritorno?
Negli stessi anni in cui veniva approvata e poi rinnovata la Legge sulla
cittadinanza e l’ingresso in Israele, sono stati pubblicati alcuni documenti, frutto della rilessione di organizzazioni non governative israeliane, che
ponevano l’accento sulla questione del rapporto tra «ebraicità» e «democrazia», mettendo in discussione la reale compatibilità tra i due aspetti e
giungendo a chiedere cambiamenti nella modalità di attribuzione della cittadinanza, a partire dalla Legge del Ritorno26.
Ad esempio, il documento intitolato La visione futura degli arabi palestinesi in Israele, scritto da alcuni intellettuali palestinesi e pubblicato nel
dicembre 2006, ha messo in discussione la «deinizione di Israele come uno
Stato ebraico», affermando come l’«utilizzo della democrazia a vantaggio
dell’ebraicità» non facesse che «escludere» i cittadini palestinesi e proponendo pertanto la trasformazione di Israele in uno Stato pienamente «democratico», che riconoscesse «la presenza di due gruppi, gli ebrei e i palestinesi». Dal punto di vista concreto, tale documento rivendicava la «piena
eguaglianza» tra ebrei e non-ebrei in una serie di questioni, «in particolare
la cittadinanza, l’immigrazione», e richiedeva che la cittadinanza e non l’etnicità diventasse il principio chiave su cui fondare la piena uguaglianza di
tutti gli israeliani, ebrei e arabi27.
In linea con questo documento si è posta la Costituzione democratica,
pubblicata dall’organizzazione palestinese Adalah nel febbraio 2009 per festeggiare il decimo anniversario della sua fondazione. Anche la Costituzione
è fortemente critica nei confronti delle discriminazioni della minoranza palestinese che si fondano sulla «deinizione dello Stato come ebraico», proponendo la sua sostituzione con quella di uno «Stato democratico, basato
sui valori di dignità umana, libertà e uguaglianza», con la piena uguaglianza
di tutti i cittadini e una speciica tutela per i diritti della minoranza araba. E
25. Y. Stein, Forbidden Families…, cit., pp. 17-20.
26. Sul tema, cfr. D. Waxman, Israel’s other Palestinian problem: the Future Vision
Documents and the demands of the Palestinian monority in Israel, in «Israel Affairs», 19, 1,
2013, pp. 214-229.
27. Cfr. il testo in inglese, http://reut-institute.org/data/uploads/PDFVer/ENG.pdf,
accesso del 25.06.2016.
73
anche questo documento si occupa di cittadinanza, auspicando che le future «leggi di cittadinanza e immigrazione si basino sul principio della nondiscriminazione», indicando così – pur senza farne menzione – l’intenzione
di cancellare la Legge del Ritorno28.
Inine, la Dichiarazione di Haifa, pubblicata il 15 maggio del 2007 per
commemorare il 59° anniversario della Nakba [catastrofe], si poneva assolutamente sulla stessa lunghezza d’onda, avendo come obiettivo la «creazione
di uno Stato democratico basato sull’uguaglianza dei due gruppi nazionali».
Chiaramente, anch’essa partiva dalla richiesta di «un cambiamento nella deinizione di Israele da uno Stato ebraico a uno democratico» e sottolineava
la necessità, per fare questo, di «invalidare tutte le leggi che discriminano
direttamente o indirettamente sulla base di nazionalità, etnicità o religione
– a partire dalle leggi di immigrazione e cittadinanza – e promulgare leggi
basate sui principi di giustizia e uguaglianza»29.
Nel mondo politico israeliano, tali proposte sono state accolte in maniera piuttosto negativa. Nessun partito politico, eccetto quelli sostenuti dai
cittadini palestinesi di Israele, si è detto d’accordo sull’idea di eliminare la
Legge del Ritorno. L’attuale presidente della Repubblica Reuven Rivlin, ad
esempio, da presidente del Parlamento si dichiarò contrario ad ogni cambiamento dal momento che la Legge del Ritorno era a suo avviso «una legge
che ha un valore morale e storico». Anche il presidente della Corte Suprema
Aharon Barak, una delle voci più autorevoli in Israele a favore della parità
di diritti tra arabi ed ebrei, ritiene la Legge del Ritorno un elemento cardine
dello Stato di Israele, tanto da averne proposto la trasformazione in una delle
Leggi fondamentali. Allo stesso tempo, vi sono proposte per accentuare il
carattere «ebraico» della Legge del Ritorno, eliminando cioè la cosiddetta
“clausola del nipote”, vale a dire l’emendamento del 1970 che permetteva
al/la iglio/a del/la iglio/a di una persona ebrea di poter immigrare in Israele. Tizpi Livni, ex ministro degli esteri e della giustizia, ed esponente del
centro-sinistra israeliano, è tra coloro che si è espressa in questi termini, con
l’obiettivo di evitare che un/a nipote non-ebreo/a (secondo la halakha) di
una persona ebra possa immigrare in Israele30.
Soltanto alcuni intellettuali si sono schierati accanto alle organizzazioni
non governative. Tra questi, vale la pena ricordare il sociologo israelia28. Cfr. il testo in inglese, http://www.adalah.org/uploads/oldiles/Public/iles/
democratic_constitution-english.pdf, accesso del 25.06.2016.
29. Cfr. il testo in inglese, http://mada-research.org/en/iles/2007/09/haifaenglish.pdf
accesso del 25.06.2016.
30. S. Ilan, A Political Sacred Cow No More, «Haaretz», 13 maggio 2005.
74
no Baruch Kimmerling, che ha descritto la Legge del Ritorno «non solo
come una violazione dell’eguaglianza civile, ma anche come l’ostacolo
centrale per la trasformazione di Israele in una democrazia propriamente
funzionante»31.
Conclusioni
La Legge sulla cittadinanza e l’ingresso in Israele (provvedimento temporaneo) 5763-2003 e il dibattito intorno ai possibili cambiamenti alla modalità di attribuzione della cittadinanza israeliana analizzati nelle pagine
precedenti vanno inseriti all’interno di un più ampio contesto, quello che ha
visto negli ultimi anni i partiti di governo presentare proposte legislative che
vanno chiaramente nella direzione di una restrizione del carattere democratico di Israele.
Nel 2007 è stata approvato in prima lettura un emendamento che prevedeva la revoca della cittadinanza a persone «accusate di tradire il paese (…)
semplicemente sulla base di quanto viene affermato dallo Shin Bet», lo sherut ha-bitachon ha-klali [servizio di sicurezza generale]32. Sebbene tale legge
sia poi stata ritirata, il principio che ne era alla base è sostanzialmente conluito due anni dopo nello slogan con cui Avigdor Liebermann, attualmente
ministro degli esteri – ha conquistato alle elezioni politiche del febbraio 2009
ben 15 seggi. Durante la campagna elettorale, lo slogan «senza fedeltà, non
c’è cittadinanza» – rivolto ai palestinesi cittadini di Israele – campeggiava
su tutti i manifesti e i volantini di Yisrael Beitenuy [Israele casa nostra], a
testimonianza della sua importanza all’interno del programma del partito.
L’obiettivo di Liebermann era far passare un messaggio politico chiaro: senza
una piena adesione ad Israele, i palestinesi cittadini di Israele avrebbero potuto essere privati dei diritti di cittadinanza. E se tale progetto non è certamente
realizzabile, il fatto che sia diventato parte integrante del discorso politico
pubblico pone un’ombra preoccupante sulla tenuta democratica di Israele.
Ancora più signiicativa è la richiesta da parte di varie forze politiche di
subordinare il carattere democratico a quello ebraico, come dimostra il disegno di legge Israele come lo Stato-nazione del popolo ebraico, approvato
dal governo nel novembre 2014, il cui obiettivo è «deinire il carattere di
Israele come Stato nazionale del popolo ebraico», e trasformare Israele da
31. In Yakobson, Rubinstein, Israel and the Family of Nations, cit., p. 125.
32. Cfr. S. Ilan, Bill to revoke citizenship passes irst reading, in «Haaretz», 18 ottobre
2007.
75
«Stato «democratico» a «Stato con un regime democratico»33. Ed è sostanzialmente riconducibile a questa impostazione ideologica la pretesa da parte
del governo israeliano negli ultimi anni all’Olp afinché questo riconosca
Israele come «Stato ebraico»34.
L’attribuzione – o meno – della cittadinanza israeliana è dunque un prisma molto interessante perché mette in luce più e meglio di altre questioni come l’uguaglianza nel godimento dei diritti sia rimasta coninata alla
Dichiarazione di indipendenza, il cui testo includeva tale principio tra gli
obiettivi del neonato Stato di Israele. A due anni dall’ottantesimo anniversario della sua creazione, non solo tale principio non è stato realizzato, ma
la situazione è ulteriormente peggiorata negli ultimi due decenni per una
progressiva deriva nazionalistica della politica israeliana35 e la crescente incapacità della società civile israeliana, pur sempre molto attiva, a contrastare
tale discorso etno-nazionalista.
Il modo in cui l’attribuzione della cittadinanza verrà disciplinata in futuro potrà dunque dirci molto per quanto concerne la tenuta democratica di
Israele e la direzione che lo Stato prenderà relativamente alla prevalenza del
suo carattere ebraico su quello democratico.
33. Israel’s Jewish nation-state bill: a primer, «Haaretz», 25 novembre 2014.
34. M. Mualem, Lieberman: PA must accept Israel as Jewish state, in «Haaretz», 15
novembre 2007.
35. Cfr. The most racist Knesst in Israel’s history, in «Haaretz», 26 giugno 2015.
76
II
L’idea di cittadinanza nella storia
del pensiero contemporaneo
Là «où l’égalité respire»: Pétion de Villeneuve
all’Assemblea Nazionale Costituente, 11 agosto 1791
Cristina Cassina
La deinizione di un nuovo soggetto politico, il cittadino-elettore, ha conosciuto punte di aspra conlittualità all’ombra delle rivoluzioni atlantiche.
Gli ultimi vent’anni del Settecento – capitolo fondamentale di una storia
in cui la cittadinanza igura al contempo come «strumento di indagine» e
«oggetto-di-analisi»1 – costituiscono, anche per questo, un ambito di studio
tra i più frequentati.
La rilevanza della letteratura, d’altro canto, non esaurisce gli spazi per la
ricerca. Anzi, non è raro che la profondità delle analisi faccia sorgere nuove
domande, come quella da cui muove questo contributo. Esso riguarda un
aspetto dei lavori della prima Costituente francese discusso durante l’opera
di revisione inale, nel corso di un’estate particolarmente calda.
1. I nodi al pettine
È nella fase conclusiva del primo processo costituente dell’Europa moderna che tanti nodi emersi nel corso di due anni di lavoro vengono inine al
pettine. Tra questi, in primo piano, campeggia la necessità di rivedere alcuni
requisiti per l’esercizio dei diritti politici. La complessità della questione,
strettamente intrecciata alle ultime accelerazioni del processo rivoluzionario,
consiglia di soffermarsi in prima battuta su fasi, problemi e attori coinvolti.
Per cominciare un passo indietro, ino a dicembre del 1789; a quando,
cioè, l’Assemblea Nazionale Costituente, al termine di una lunghissima discussione originata da una partizione suggerita dall’abate Sieyès2, giunge a
1. P. Costa, Cittadinanza, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 4.
2. Cfr. [E.-J. Sieyès], Observations sur le rapport du comité de Constitution, concernant
la nouvelle organisation de la France, Badouin, Versailles 2 ottobre 1789, pp. 22-23.
79
decretare le regole fondamentali per l’accesso alla cittadinanza politica. È il
celebre decreto del 22 dicembre 1789.
Con esso i cittadini francesi si scoprono divisi tra attivi e passivi. Ai
secondi sono riconosciuti i diritti naturali e civili – una protezione che la
Nazione estende indistintamente a tutti i suoi membri – ma non l’accesso
alla sfera politica3. Tra gli esclusi, oltre alle donne e ai minori, igurano i
senza issa dimora, i lavoratori stagionali e l’ambigua classe dei serviteurs
à gages, nonché tutti coloro che non soddisfano alla condizione di pagare
una contribuzione diretta minima, pari all’equivalente di 3 giornate lavorative. L’insieme di queste norme, per riprendere la nota espressione di Pierre
Rosanvallon, disegna infatti una cittadinanza «inclusiva», volta in realtà a
includere nel gioco politico (quasi) tutti i maschi proprietari o lavoratori,
senza calcare (troppo) la mano su barriere di tipo censitario4.
Lo stesso decreto traccia a grandi linee il funzionamento del corpo elettorale, organizzandolo secondo un sistema a più gradi. Disegna, cioè, una
piramide a base larga: il primo grado è formato dalle assemblee primarie,
dove i cittadini attivi eleggono, a livello locale, funzionari amministrativi,
giudiziari e religiosi scegliendoli tra chi, come loro, riunisce i requisiti per la
cittadinanza attiva; eleggono poi i membri delle Assemblee elettorali di secondo grado tra coloro che, invece, pagano una contribuzione di almeno 10
giornate lavorative. A questi ultimi spetta di eleggere alle cariche pubbliche
a livello dipartimentale nonché i deputati dell’Assemblea Legislativa, con
una differenza: mentre alle prime può essere eletto chiunque superi la soglia
delle 10 giornate, per l’accesso alla rappresentanza nazionale si richiede
il possesso di una proprietà e una contribuzione diretta superiore al marco
d’argento, soglia quantiicabile in circa 50 giornate lavorative5.
L’insieme di tali misure – sul momento – riesce a passare, nonostante
un’accanita opposizione tanto in aula quanto, e forse più, nel prosieguo del
dibattito pubblico.
Non c’è dunque da stupirsi se la prima fase della rivoluzione è stata ricostruita anche sulla base delle posizioni – pro o contro – rispetto al primo
3. Sul punto si veda P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, vol. ii, L’età
delle rivoluzioni, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 37 ss.
4. Mi riferisco al capitolo I, intitolato L’impératif de l’inclusion (P. Rosanvallon, Le sacre
du citoyen. Histoire du suffrage universel en France, Gallimard, Paris 1992).
5. Guardando da una prospettiva leggermente diversa, si può dire che il sistema ritagliava
cinque igure nel grande insieme degli attivi: due tra gli elettori e tre tra gli eleggibili. Ci sono
infatti elettori di primo (3 giornate) e di secondo grado (10 giornate); eleggibili a funzioni
locali (3 giornate), a funzioni dipartimentali (10 giornate), a funzioni nazionali (una proprietà
e il marco d’argento).
80
tentativo di tradurre in legge il droit de cité: i mutevoli schieramenti in aula, le
scissioni interne ai club, ma anche la nascita di nuovi giornali, possono infatti
essere letti alla luce di questa frattura originaria. Come è inutile aggiungere
che l’elaborazione del decreto del 22 dicembre è una tra le pagine più studiate, in passato come oggi, della fase all’ombra della monarchia costituzionale.
In realtà lo stesso rilievo potrebbe calzare per la sua riformulazione nell’estate del 1791. Tanto più che l’attenzione degli studiosi verso questo secondo
passaggio è legata a un contesto peculiare: la revisione costituzionale va a
cadere in un quadro profondamente mutato, per molte e diverse ragioni.
In primo luogo il Paese si trova sotto il fuoco incrociato di molteplici
urgenze. La fuga di Varennes, 20-21 giugno, ha fatto balenare la possibilità
di una svolta repubblicana, richiesta a gran voce dai gruppi più radicali,
come i cordiglieri, e in tono più velato dai futuri capi girondini, Brissot e
Condorcet. La prospettiva di un’ulteriore deriva produce immediate ripercussioni: ad essa si risponde con la scissione dei foglianti dai giacobini, sul
piano politico, e con la fucilata al Campo di Marte, il 17 luglio, sul piano
dell’ordine pubblico. Il contesto, sotto tutti i punti di vista, si annuncia dunque particolarmente movimentato6.
Un’altra ragione da tenere presente è che i lavori dell’Assemblea Nazionale non si muovono più su un terreno vergine. Il decreto del 22 dicembre
1789 ha conosciuto una prima applicazione con l’elezione di amministratori, giudici e cariche ecclesiastiche, a livello locale e dipartimentale, nell’anno successivo al varo. Nell’estate del ‘91 è la volta delle prime votazioni
per la futura Assemblea Legislativa, secondo le regole ulteriormente precisate nella legge 29 maggio 17917. Ai primi di giugno le assemblee primarie
hanno eletto i membri delle Assemblee elettorali. Le notizie di Varennes ne
hanno però fatto ritardare la convocazione, sicché le assemblee di secondo
grado si tengono proprio mentre l’Assemblea Nazionale Costituente si avvia
a concludere i propri lavori.
Cosa più semplice a dirsi che a farsi.
Nel corso di due anni l’Assemblea ha infatti prodotto una grande mole
di decreti, non sempre di natura strettamente costituzionale. Per ultimare
e perfezionare l’opera, nell’ottobre del 1790 Le Chapelier ha proposto di
afiancare al Comitato di costituzione, il secondo, un Comitato di revisione
di sette membri8: ad esso spetta di fare la cernita tra i diversi decreti, isolare
6. M. Vovelle, La chute de la monarchie 1777-1792, Points, Paris 1999, pp. 179-184.
7. M. Edelstein, The French Revolution and the Birth of Electoral Democracy, Ashagate,
Farnham 2014.
8. Fanno parte del Comitato di revisione Adrien Du Port, Antoine Barnave, Alexandre
81
quelli di contenuto costituzionale e riunirli in un articolato logico e coerente,
senza modiicarne i termini, a meno di sviste, errori o lacune sostanziali.
Questo è dunque il quadro: la maggioranza che guida la Francia, la stessa che ha deciso di coprire la fuga del re e avallare la fucilata al Campo di
Marte, ha in mano le redini della redazione inale della Costituzione grazie
al cospicuo numero di uomini che siedono nei due Comitati. La tentazione
di rivedere le regole di accesso alla cittadinanza politica è forte e appare
più urgente dopo una prima valutazione sull’operato delle Assemblee elettorali: le preferenze degli elettori di secondo grado (coloro che pagano una
contribuzione di 10 giornate lavorative), nella scelta di giudici, amministratori civili e religiosi, si sono riversate su igure considerate per molti aspetti
pericolose o inafidabili, come Pétion, Robespierre, Roederer e Grégoire9.
L’esito di questa prima applicazione delle regole elettorali fa temere, agli
occhi della maggioranza, il rischio di un’impennata di estremisti sui banchi
delle future assemblee legislative.
2. Riformare, sì, ma cosa?
Una riforma s’impone, dunque, ma il punto è: cosa riformare? quale tassello di un sistema che cerca di tenere insieme le maglie larghe dell’inclusione (contribuzione di 3 giornate lavorative) e le barriere censitarie dell’esclusione (in oltre il marco d’argento)?
Malouet, uno tra gli ultimi monarchiens ancora presenti in aula, avrebbe
in mente di sferrare un attacco frontale all’opera dei costituenti; ci prova nella seduta dell’8 agosto, quando la discussione non è ancora entrata nel vivo,
ferma com’è sull’ordine dei lavori. Ma la maggioranza dell’Assemblea si
fa forte dell’impossibilità di tornare sui contenuti, deliberata in precedenza,
per non ammettere critiche alla Costituzione, soprattutto non ammetterle da
parte dei sostenitori del modello inglese. Infatti, per tagliare corto, gli toglie
la parola10.
de Lameth (che formano il cosiddetto Triumvirato), Stanislas Clermont-Tonnerre e Albert de
Briols-Beaumetz (vicini ai monarchiens), Jerôme Pétion de Villeneuve e François-Nicolas
Buzot (in rappresentanza dei gruppi più radicali).
9. A. Aulard, Histoire politique de la Revolution française, Armand Colin, Paris 19215,
p. 160.
10. Il discorso, come da prassi, è comunque riportato per esteso negli Annexes delle
Archives Parlementaires de 1787 à 1860, recueil complet des débats législatifs et politiques
des Chambres françaises, sous la direction de M.-J. Mavidal, M.-E. Laurent, Première série
(1789-1799), tome xxix, Dupont, Paris 1888, pp. 274-278.
82
Dopo questo primo incidente i lavori procedono in maniera piuttosto
spedita, fatta eccezione per singoli punti e molte, necessarie precisazioni.
Un primo segnale che lo scontro è solo rimandato si coglie quando il lavori
giungono al Titolo III «Dei Pubblici Poteri» e, più precisamente, agli articoli che formano la Sezione seconda, «Assemblee primarie. Nomina degli
elettori». L’articolo 2, relativo ai requisiti necessari per accedere alla cittadinanza attiva, passa veloce, senza intoppi. Nessuno si oppone, nessuno
alza la voce contro questa misura su cui, invece, sono stati versati iumi
d’inchiostro. E il fatto, in sé, è inequivocabile. Tutti sanno che i Comitati si
sono espressi per abolire il cosiddetto marco d’argento innalzando, però, in
modo vertiginoso, l’accesso al secondo grado: si vocifera dell’introduzione
di una soglia paragonabile al marco d’argento, benché calcolata su un diverso asse contributivo.
Dubbi e sospetti sono sciolti l’11 agosto quando il relatore Thouret presenta le ragioni che hanno indotto a rivedere parte del decreto 22 dicembre
1789.
Le «garanzie» necessarie al buon funzionamento del sistema rappresentativo, egli afferma, possono essere soddisfatte in due modi: restringendo l’eleggibilità alla funzione di rappresentante della Nazione oppure restringendo
l’accesso alle Assemblee elettorali di secondo grado. Il primo modo ha suscitato approvazioni ma anche un largo fronte di critiche, tant’è che la città
di Parigi ne ha chiesto l’annullamento. Il secondo offre migliori garanzie:
[…] è negli elettori che riposa la base più essenziale della cosa pubblica perché è grazie
ad essi che la società ottiene non solamente i suoi rappresentanti che fanno le leggi, ma
ancora tutti i funzionari pubblici che agiscono per essa per il mantenimento dell’ordine
in tutte le parti dell’amministrazione politica: poiché sono gli elettori stessi che danno
gli amministratori, i giudici, anche i ministri di culto11.
Ciliegina sulla torta, le Assemblee elettorali avranno la più ampia libertà
di scelta e potranno eleggere alle diverse funzioni pubbliche tutti coloro che
«meritano la loro iducia», anche semplici cittadini attivi. Per tutto questo,
conclude Thouret a nome dei due Comitati, «abbiamo pensato, Signori, che
la condizione di eleggibilità degli elettori dovesse essere una contribuzione
del valore di 40 giornate di lavoro»12.
Lo scontro a cui i costituenti si stanno preparando verte dunque sull’elettore di secondo grado, igura intermedia della piramide elettorale assurta
11. J.-G. Thouret, 11 agosto 1791, Archives Parlementaires…, cit., p. 356. Qui, e d’ora in
avanti, la traduzione dei testi citati in lingua francese è mia.
12. Ibid.
83
– inaspettatamente – al ruolo di policy maker. Anche se nelle parole di Le
Chapelier, membro del Comitato di costituzione, le modiiche proposte riguarderebbero in realtà ambiti qualitativamente diversi:
[…] è alle due estremità che io pongo il diritto del popolo: alla qualità di cittadino attivo
che elegge nelle assemblee, e alla facoltà di essere eletto per l’Assemblea rappresentativa
della nazione. Ma quanto alla funzione di elettore, è una funzione come quella di essere
giudice e di essere amministratore: non c’è affatto in essa un diritto politico13.
3. I tre giorni dell’elettore
Il tentativo di sottrarre l’elettore all’ambito politico non è che una delle
tante forzature a cui si assisterà nel corso di un importante dibattito, quello
che impegna l’Assemblea Nazionale Costituente per tre lunghe sedute, l’11,
il 12 e il 27 agosto. Rendere conto dei singoli interventi potrebbe essere un
esercizio avvincente se vincoli temporali e ragioni espositive non lo sconsigliassero. Si procederà dunque per sommi capi, a parte un accenno all’andamento dei lavori in aula (riassunto in appendice) tanto per non perdere il
ilo della narrazione.
L’11 agosto i lavori, iniziati il 5 con il lungo rapporto introduttivo di
Thouret e ino allora proseguiti, si è detto, con andamento spedito, s’incagliano sull’articolo 714 relativo ai nuovi requisiti necessari per essere nominati elettori. Thouret ha presentato la proposta dei Comitati calcando la
mano sul fatto che tutti i cittadini attivi potranno essere eletti alla rappresentanza nazionale. Ma la soluzione non riesce a mascherare la reale portata
della misura, e la reazione è immediata. I più rilevanti oratori della sinistra,
a partire da Pétion e Robespierre, argomentano contro; i più arguti rappresentanti della maggioranza, in particolare Barnave, difendono la proposta
dei Comitati. Dopo nove ore ininterrotte di discussione, dopo ininite prove
e controprove circa l’ammissibilità o meno della misura, l’Assemblea, stremata, decide di rimandare l’esame al giorno seguente.
Il 12 si riparte, con una successione interminabile di interventi pro e contro, di mozioni d’ordine, di richiesta di andare immediatamente ai voti mentre, via via, la discussione inisce per ingarbugliarsi su questioni procedurali
e aspetti particolari. Sembra che non se ne possa uscire ino a quando, su
proposta del deputato Vernier, motivata in base all’importanza della norma
13. I.-R.-G. Le Chapelier, 12 agosto 1791, Archives Parlementaires…, cit., p. 386.
14. Come altre carte di ine Settecento, la Costituzione del 1791 non ordina gli articoli secondo una numerazione progressiva: l’articolo 7 a cui si farà più volte riferimento è l’ultimo
della Seconda sezione in cui si ripartisce il Capitolo primo del Titolo terzo.
84
per l’intero disegno costituzionale, è deciso un ulteriore rinvio; questa volta,
però, si tratta di attendere la conclusione dell’opera di revisione.
Di qui lo slittamento al 27 agosto, quando l’Assemblea Nazionale Costituente, ormai a ine corsa15, ritorna sul punto. Di nuovo interventi pro e
contro, ma la proposta dei Comitati, presentata con una nuova redazione e
alcune integrazioni, è inine approvata.
La prima impressione, da uno sguardo d’insieme, è quella di un andamento serrato, rigoroso e comunque senza colpi di scena: se sostenitori e
oppositori appaiono irremovibili, è perché ciascuno ha vagliato, a lungo,
le ragioni e gli argomenti da portare all’Assemblea. Manca l’illusione di
poter convincere gli avversari e le posizioni sembrano espresse più per (ri)
affermare la propria linea politica all’esterno che non per incidere in modo
sostanziale sui lavori in aula.
Molte considerazioni che si possono trarre dalla schermaglia oratoria
sono state rilevate dai diversi interpreti della storia politica della grande rivoluzione. Aulard, quasi due secoli fa, individuava nella nuova deinizione
dell’elettore «un episodio notevole della lotta di classe»16, coagulata nello
scontro tra popolari e borghesi. Ed è questo, in effetti, uno dei punti su cui
ribattono gli oppositori. Le parole infuocate di Robespierre – «che importa
al cittadino che non vi siano più blasoni se vede, ovunque, la distinzione
dell’oro»17 – non fanno che annunciare un iume in piena: con questa norma
«vedrete rinascere una nuova nobiltà; vedrete dei patrizi, e venti milioni di
plebei alle loro dipendenze»18 lamenta Grégoire; vi è infatti il rischio di fondare una «aristocrazia dei ricchi»19, gli fa eco Rewbell.
Più recentemente Bernard Manin ha parlato di una via francese per rafforzare, attraverso un intervento istituzionale, quel principio di distinzione
in realtà sempre operante nelle competizioni elettorali: un principio che i
Comitati perseguono calcando sul secondo livello della barriera censitaria,
dunque in modo diverso rispetto ai sistemi coevi adottati in Gran Bretagna
(barriera unica e assai più consistente) e nella giovane Unione americana
(assenza di barriere nel testo costituzionale e rinvio, per questo, alle singole
leggi statuali)20.
15. Le restano da votare tre decreti e decidere il protocollo per la presentazione della
Costituzione al sovrano: anche per questo l’articolo 7, l’ultimo a suscitare una grande battaglia, assume un valore liminare all’interno dei lavori dell’Assemblea Nazionale Costituente.
16. Aulard, Histoire politique…, cit., p. 163.
17. Discorso dell’11 agosto 1791, Archives Parlementaires…, cit., p. 360.
18. Discorso del 12 agosto 1791, Archives Parlementaires…, cit., p. 384.
19. Discorso del 27 agosto 1791, Archives Parlementaires…, cit., p. 749.
20. B. Manin, Principi del governo rappresentativo (1992), tr. it. di V. Ottonelli, il
Mulino, Bologna 2010, pp. 110-113.
85
A dire il vero anche altri aspetti meriterebbero attenzione. A partire
dal fatto che le tre giornate rappresentano una pagina signiicativa per la
storia costituzionale. Nel corso del dibattito emergono parecchi aspetti
procedurali; ci si chiede, ad esempio, se è lecito o meno tornare su una
norma precedentemente approvata. Ma sotto questo proilo l’Assemblea
Nazionale non ha operato linearmente: si era ripromessa di non cambiare
nulla e, difatti, in virtù di tale decisione, non ha ammesso interventi critici, come quello di Malouet. Tuttavia ha inito per modiicare l’architettura
dei poteri stravolgendo l’articolo 7 in modo sostanziale. Per altro è a tutti
chiaro che sulla materia si dovrebbe deliberare con la massima cautela.
Sempre nel corso del dibattito, infatti, emergono posizioni consapevolmente contrarie alla costituzionalizzazione delle leggi elettorali: legare
le condizioni per l’esercizio del droit de Cité alla legge fondamentale, si
argomenta, ne mette in pericolo la durata. Di più, apre necessariamente
alla revisione21.
Anche per la storia elettorale l’esame dell’articolo sugli elettori ha un
respiro fondativo. La discussione porta alla luce la frattura, mai rimarginata
e mai risolta, tra campagna e città. Su due punti, in particolare, ci s’infervora. Sul fatto che i livelli contributivi e le attività prevalenti del mondo rurale
sono, e continuano ad essere, segnatamente diversi rispetto a quelli urbani, e
che da tale diversità – quasi inevitabilmente – discende un divario incolmabile in termini di concreta possibilità di accedere alla grande politica. La redazione inale terrà conto, in una certa misura, di queste differenze: al posto
della condizione unica (40 giornate lavorative) proposta in prima battuta dal
Comitato, si sceglierà di modulare la barriera a seconda che l’elettore abiti
in campagna, in una città piccola o in una città grande22. Ma neppure questo
potrebbe risolvere il divario morale, che è poi quello su cui maggiormente
s’insiste. Per capire chi è il lavoratore che paga una contribuzione di 10
giornate lavorative, di quale statura morale è fatto e da quale spirito civico
è mosso; per capire, cioè, a chi il Comitato sta negando il diritto di voto,
argomenta un avversario, «bisogna uscire dalle città, respirare l’aria pura
delle campagne»:
Non bisogna avere sempre gli occhi issi sulle città, e sul bene e il male che dicono di
voi i giornalisti che esse racchiudono. Bisogna uscire dalle città, respirare l’aria pura
delle campagne. E che cosa vi vedrete? […] Vi vedrete pochi coltivatori che aspirano a
essere deputati, ma una moltitudine di cittadini che si credono tagliati per essere elettori
21. J.-F. Rewbell, 27 agosto 1791, Archives Parlementaires…, cit., p. 749.
22. Cfr. Le Costituzioni di democrazia. Testi 1689-1850, a cura di E. Rotelli, il Mulino,
Bologna 2008, pp. 217-218.
86
perché, per essere tali, è suficiente avere della probità e la iducia della maggioranza dei
cittadini con cui si vive abitualmente23.
Parole che, a dire il vero, potrebbero introdurre un altro ambito a cui il
dibattito apporta contributi signiicativi, quello della retorica parlamentare.
Ma il vero imbarazzo, a quest’altezza, è il numero eccessivo degli esempi.
Proprio per questo non si andrà oltre due rilievi. Uno verte sull’assunzione
di posizioni estremiste da parte degli oppositori: tant’è che parecchi24 – ma
non Robespierre – arriveranno a chiedere di mantenere il marco d’argento
pur di non accettare la nuova misura, lesiva dei diritti di un numero più che
considerevole di cittadini. Una stranezza che, del resto, non sfuggirà a un
autorevole membro del Comitato di costituzione25. L’altro riguarda ancora il fronte degli oppositori, dove alcuni si rallegrano nello scoprirsi più
attaccati alle regole di quanto lo siano gli avversari. Sono proprio loro, gli
oppositori, coloro che durante la crisi innescata da Varennes sono stati accusati di «repubblicanesimo»26, che ora chiedono di mantenere il contenuto
dei decreti votati o, meglio, solennemente giurati dalla stessa Assemblea
Nazionale.
4. Realismo… e … idealità
Se contenuti, strategie e retoriche dell’una e dell’altra parte formano,
nell’insieme, un materiale ben studiato, minore attenzione è stata prestata a
un ulteriore livello discorsivo. L’intero dibattito può essere ripercorso separando le affermazioni vocate al realismo dalle posizioni in cui preminente
appare invece la difesa delle idealità. Seguendo questo ilo – lo stesso di un
importante convegno tenutosi a Perugia nel 201327 – non sembra possibile,
però, ascrivere il realismo ai soli fautori dell’innalzamento della soglia né
23. Rewbell, 27 agosto 1791, Archives Parlementaires…, cit., p. 749.
24. A questa conclusione arrivano Pétion, Roederer e Buzot nella seduta dell’11 agosto,
Goupil-Préfeln il giorno seguente, anche se lista è molto più lunga.
25. «E permettemi, signori, di fare un’osservazione. C’è ch’è in troppo strano che siano
quelli che hanno fatto ininiti reclami contro il marco d’argento, coloro che non hanno smesso
di alzare la voce per la riforma di quel decreto, coloro che per primi ci hanno illuminato sui
vizi di quella disposizione, che siano proprio loro, io dico, che oggi vengono a reclamarne
la conservazione!» (Le Chapelier, 12 agosto 1791, Archives Parlementaires…, cit., p. 386).
26. «Ed è davvero sorprendente, in verità, che coloro che sono stati sì a lungo accusati
di repubblicanesimo siano i primi a combattere per mantenere la Costituzione tale e quale»
(F.-N. Buzot, 11 agosto 1791, Archives Parlementaires…, cit., p. 364).
27. A. Campi, S. De Luca (a cura di), Il realismo politico. Figure, concetti, prospettive di
ricerca, Rubbettino, Soveria Mannelli 2014.
87
agli altri un’esclusiva sul piano delle idealità. L’impressione che si ricava,
a conclusione della lettura, non può che essere diversa, ed è su questo che
si vuole riferire. Anche perché essa non collima con alcune osservazioni di
Pierre Rosanvallon. Non tanto perché lo studioso francese non usa il metro
del realismo e del suo contrario. A Rosanvallon preme mostrare che in quel
frangente l’idea inseguita dai costituenti – da tutti i costituenti – è quella di
un’«eguaglianza simbolica». Ma nel far questo inisce per affastellare momenti diversi e, soprattutto, scivola via sulle aspre contrapposizioni che, di
fatto, scandiscono le tre giornate28.
Ciò non signiica che il registro simbolico non sia fondamentale (non potrebbe essere altrimenti), tuttavia non è l’unico a operare. Accanto ad esso,
o grazie ad esso, ne giocano altri non meno rilevanti, come per l’appunto la
convinzione di dare voce alla realtà delle cose: un registro, è bene ripetere,
non sempre riconducibile agli schieramenti in aula.
In realtà chi vorrebbe restringere l’accesso al secondo grado elettorale
spesso si esprime per mezzo di un realismo addirittura crudo, per altro favorito dalla concomitanza della discussione con le operazioni elettorali che
stanno interessando il Paese. I lavori delle Assemblee di secondo grado, sostengono i sostenitori del Comitato, sono complessi e vanno a rilento a causa
del sistema elettorale adottato, uno scrutinio di lista semplice a tre turni29.
Ma gli uomini che superano di misura la soglia delle 10 giornate lavorative
non possono permettersi di soggiornare nei rispettivi capoluoghi di dipartimento tralasciando il proprio lavoro. Ed ecco che arriva la richiesta di essere
pagati per svolgere quello che, allora, è ritenuto più un dovere che non un
diritto. Briols-Beaumetz, uno dei più strenui difensori delle nuove condizioni, nonché membro del Comitato di revisione, batte forte su questo punto.
Ma, si dice, voi state per privare i cittadini di un diritto di cui sono gelosi. Amerei
crederlo. Tuttavia, bisogna dirlo, non avete notato che una gran parte degli elettori, lungi
da guardare quest’onorevole distinzione come un favore, come una prova di stima dei
loro concittadini, avevano considerato tale funzione come onerosa e vi avevano pregato
di accordare loro un trattamento? (Applausi) Che mi sia permesso di osservarlo, è a
questo che si deve attribuire la diserzione delle assemblee elettorali, poiché in questa
stessa capitale, nel seno del patriottismo, si è visto delle scelte risultanti da soli 200
elettori. Non è a un difetto di patriottismo che bisogna attribuirlo, dato che il suo felice
28. Al punto da chiedersi «per quale motivo l’opposizione inalmente vittoriosa al marco
d’argento non si è riprodotta quando le condizioni restrittive furono spostate sull’elettore?»
(Rosanvallon, Le sacre du citoyen…, cit., p 85). L’esame del dibattito, invece, mostra che
l’opposizione in aula ci fu, e che anch’essa fu ampia, lunga e tenace.
29. Cfr. S. Aberdam et al., Voter, élire pendant la Révolution française 1789-1799. Textes
oficiels organisant l’activité électorale, Paris, Cths 2006, p. 239.
88
giuramento agita ancora tutti gli spiriti. A cosa dunque attribuirlo? Al fatto che avete
sottoposto a questa funzione delle persone che in tal modo distogliete dalle loro cure
giornaliere; e perché non vi sia permesso di dubitarne, essi hanno inito per chiedervi
un’indennità per il tempo del loro spostamento30.
La necessità di restringere l’accesso al grado di elettore, conclude l’oratore della maggioranza, è dunque una logica conseguenza del comportamento di molti cittadini: desertando le Assemblee elettorali, sono essi stessi
a decretare che per essere elettori di secondo grado è necessario trovarsi in
ben altre disponibilità, in primo luogo economiche.
Non minor realismo, in ogni modo, si riscontra nelle ile degli oppositori.
L’abolizione del marco d’argento, nelle parole del relatore Thouret, costituirebbe una «compensazione»31 rispetto alla perdita di accesso alle Assemblee
di secondo grado. È come se si chiudesse una porta e se ne aprisse un’altra,
del resto ben più importante. Questa argomentazione inisce sotto il fuoco di
molti oratori. Realisticamente, si chiedono i Pétion, i Robespierre, i Roederer, dove andrà a cadere la scelta di elettori ricchi se non su chi, come loro, è
in grado di offrire quelle garanzie che il Comitato, a torto, individua nel possesso? Una possibilità immaginaria non sostituisce affatto un diritto reale.
Proporre alla maggioranza della nazione la prospettiva poco fondata di essere deputato,
per privarla del diritto reale e molto esteso di essere elettore, è prendersi gioco di essa e
volerla pascerla con un’illusione32.
Barnave, a capo della maggioranza che vuole imprimere alla revisione
costituzionale una piega moderata e conservatrice33, è un politico troppo accorto per non inciampare in modo altrettanto maldestro. Proprio l’11 agosto
1791 tiene uno dei suoi discorsi più celebri, spesso citato. In questo magazzino dell’oratoria politica c’è infatti di tutto. Un esame che sfocia nella distinzione tra governo rappresentativo e democrazia; l’indice puntato contro
il maggiore rischio per il governo rappresentativo, vale a dire la corruzione;
30. A. Briols-Beaumetz, 11 agosto 1791, Archives Parlementaires, tomo xxix, cit., p.
362). Sulla stessa linea anche l’intervento di Le Chapelier (ibid., p. 387 ss.).
31. Thouret, 11 agosto 1791, Archives Parlementaires…, cit., p. 357; Pétion, che interviene subito dopo il relatore, stigmatizza invece il maldestro tentativo di «indennizzo» (ibid., p.
358); espressioni simili si ritrovano negli interventi di quasi tutti gli oppositori.
32. Rewbell, 27 agosto 1791, Archives Parlementaires…, cit., p. 748.
33. Dopo la morte di Mirabeau, è Barnave che intrattiene rapporti segreti con i sovrani,
in particolare con la regina a cui va ripetendo, in questo mese d’agosto, che la Constitution
est très monarchique: «l’aristocrazia è abbattuta, ma il principio monarchico vi è profondamente e solidamente radicato» (A. Barnave alla regina, s.n, s.d, in Marie-Antoniette,
Correspondance, tomo iii: Correspondance secrète avec Barnave juillet 1791-janvier 1792,
Éditions paleo, Paris 2005, p. 39).
89
una stoccata contro i nemici del buon governo tra cui, in bella vista, igurano
giornalisti e «pamphlettisti». Un vero arsenale di argomenti, frugando nel
quale, però, si capisce come Barnave ben si guardi dal prospettare l’elezione
di umili cittadini, cioè uomini che contribuiscono alla spesa pubblica per
sole 3 giornate lavorative, alla sommità della rappresentanza politica. Più
concretamente, egli afferma, il buon cittadino lavoratore sa perfettamente
che non sarà scelto, ma saprà comunque accontentarsi, anzi sarà orgoglioso
della possibilità che ora gli viene offerta.
C’è da aggiungere che è a Pétion de Villeneuve, più che ad altri, che Barnave sembra indirizzare il suo intervento. Dopo aver combattuto le nuove
disposizioni in qualità di membro del Comitato di revisione, Pétion – primo
degli oppositori a prendere la parola – smonta pezzo per pezzo il rapporto di
Thouret facendo sfoggio di tutta la sua arte oratoria.
È nelle Assemblee elettorali, sostiene il futuro sindaco di Parigi, in quelle
assemblee dove si fanno le scelte importanti, che «l’egalité respire»: perché
è lì che l’uomo che paga l’equivalente di 10 giornate lavorative ha la possibilità di trovarsi accanto ai possidenti, ai più istruiti, a chi nella scala sociale
occupa i gradini superiori. È nelle Assemblee elettorali, rincara, che risiede
«la vera fonte della rappresentanza». Organizzare i corpi elettorali secondo
le «condizioni disastrose» proposte dal Comitato equivale dunque a decretare che «la rappresentanza non è più reale, la rappresentanza non è più intera,
la rappresentanza non è più nazionale»34.
5. Aporie della cittadinanza
L’eguaglianza che respira è un’immagine forte e riccamente allusiva. Di
primo acchito verrebbe da ascriverla al piano delle idealità se l’associazione
al verbo «respirare» – a sua volta sinonimo di «vivere» – non invitasse a
complicare l’interpretazione, a sottrarre quest’immagine a un solo registro
esplicativo. Più letture, a ben vedere, potrebbero infatti coesistere.
Una è legata a ragioni fattuali. Riguarda il modo in cui a quel tempo
si svolgevano le elezioni: il modo assembleare, prolungato, a volte anche
per parecchi giorni. Non si trattava di un attimo fugace, del mero gesto di
mettere un foglio in un’urna, ma della reale compresenza di alcune decine
di uomini in un dato luogo per un arco di tempo non indifferente. Nel corso
del quale si discuteva, si contrattava, talvolta si iniva per prendere decisioni
34. J. Pétion de Villeneuve, 11 agosto 1791, Archives Parlementaires…, cit., p. 358.
90
anche su altre questioni: in questo senso, allora, è molto realistica l’immagine proposta da Pétion.
Altre possibili letture chiamano in causa un prima e un dopo: un prima
che è gia passato (la sociabilità ai tempi dei Lumi) e un dopo che si proporrà
molto più avanti, pur affondando le radici nelle esperienze del prima tanto
lontano. È all’annoso problema della ricerca di una democrazia migliore,
fondata su una deliberazione partecipata e condivisa – pratica che Jürgen
Habermas individua per l’appunto nelle società borghesi di ine Settecento35
– che si vuole alludere.
Con l’immagine di un’eguaglianza che respira – ossia vitale e vivace,
dunque pulsante, senziente, agente – Pétion sembra preigurare, se non i
dilemmi dell’oggi, molti nodi che si vanno ponendo nell’immediato. Essere elettore per lui vuol dire far parte realmente, in modo isico, corporale,
dell’assemblea: un essere che signiica esser-ci. Per molte ragioni, in primo
luogo ideali: «essere elettore è una qualità ambita, desiderata»; «gli uomini
di tutte le professioni amano ritrovarsi in queste assemblee», vale a dire nei
luoghi in cui le diseguaglianze non contano. E invece «voi state per privarli
all’istante del diritto di ritrovar-ci-si»36.
L’eguaglianza simbolica ha dunque un suo peso, indubitabile, ma non è
tutto. Quello che è in gioco è anche il reale funzionamento della macchina
rappresentativa, un avversario assai più temibile del Comitato di revisione.
Il vero antagonista di Pétion, per l’appunto, sono quei terribili vuoti che inevitabilmente vanno creandosi nel passaggio, anzi, nell’istituzionalizzazione
del governo rappresentativo. Si può dire che nella seduta dell’11 agosto egli
dia voce a un pericolo che non sarebbe sfuggito a Thomas Jefferson e che, di
lì a poco, sarà al centro del Plan de Constitution di Condorcet. Ovviamente
a modo suo. Mentre Jefferson e Condorcet paventano la possibilità di un
irrigidimento costituzionale (non a caso entrambi insistono sulla revisione
periodica della Legge fondamentale), Pétion è ancora tutto dentro gli ingranaggi della rivoluzione e si muove in difesa delle più recenti conquiste,
messe a repentaglio dai Comitati. Utilizzando la sua stessa prosa, l’innalzamento della soglia per accedere alla qualità di elettore soffocherebbe, di
fatto, l’eguaglianza che respira.
Più in generale, è da chiedersi se e in quale misura i tre giorni dedicati
all’esame dell’articolo 7 abbiano lasciato un segno nella storia della cittadinanza politica francese.
35. J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica (1961), tr. it. di A. Illuminati, F.
Masini, W. Perretta, Laterza, Roma-Bari 20155.
36. Pétion de Villeneuve, 11 agosto 1791, Archives Parlementaires…, cit., p. 358. Corsivi
e l’aggiunta di segni di interpunzione sono miei.
91
Sull’immediato la risposta è negativa. Le nuove disposizioni non erano
state pensate per le elezioni all’Assemblea legislativa allora in corso, ma in
vista della tornata successiva, quella che sarebbe dovuta cadere nell’estate
del 1793. Com’è noto, l’andamento della guerra e nuove insurrezioni spazzarono via la Costituzione del 1791, e non solo, ben prima di quell’appuntamento elettorale. Ma il pezzo forte dell’architettura avrebbe resistito per
qualche tempo: con la sola eccezione dell’inattuata Costituzione montagnarda37, l’articolo 7 fu riproposto praticamente alla lettera nella Costituzione
termidoriana38 e in termini piuttosto simili nei sistemi napoleonici, ino al
suo deinitivo accantonamento ad opera delle leggi elettorali della restaurazione.
Resta che l’articolo 7 conigura un sistema elettorale peculiare, dove una
grande apertura, in basso e in alto, si fonde con un giro di vite particolarmente stretto a livello intermedio, cioè nella scelta degli elettori. Si tratta di
un modello inedito e, salvo errori, mai più riproposto dopo la lunga stagione
rivoluzionaria d’oltralpe. Nei sistemi censitari, infatti, lo sbarramento di solito cresce salendo di grado. L’anomalia, d’altra parte, si chiarisce calando la
misura nel suo tempo: in essa si rilettono paure (il proilarsi di una maggioranza democratico-repubblicana), tensioni (lo scontro tra popolari e borghesi) ma anche ambizioni (riaffermare l’eguaglianza quantomeno simbolica) e
vaghe intuizioni (la presenza di un principio di distinzione nelle competizioni elettorali) che, nell’insieme, hanno impresso una curvatura peculiare alla
traduzione costituzionale del droit de cité nell’estate del 1791.
Anche per questo, dopo aver ricordato le ragioni dei fautori e degli avversari, piace restituire la parola a chi era stata tolta. L’intenzione di Malouet
era di mostrare subito, senza attendere la discussione sull’articolo 7, le contraddizioni del nuovo sistema costituzionale. Per questo, facendo prova di
vero realismo (in entrambe le accezioni), l’oratore dei monarchiens puntava
dritto al cuore del problema:
Voi avete voluto, attraverso un cammino retrogrado di venti secoli, avvicinare il popolo
alla sovranità, e di continuo gliene date la tentazione senza afidargliene direttamente
l’esercizio39.
37. La quale, però, prevede il ricorso ad Assemblee elettorali, cioè di secondo grado, per
la nomina di amministratori e la scelta di una rosa di eleggibili al Consiglio esecutivo (cfr.
articoli 37 e 38).
38. Costituzione del 1795 o dell’anno III, Titolo IV, articolo 35.
39. P.-V. Malouet, 8 agosto 1791, Archives Parlementaires…, cit., p. 264.
92
Assemblea Nazionale Costituente, agosto 1791
Principali interventi sull’art. 7 della sezione II (cap. I, Titolo III):
«Assemblee primarie. Nomina degli elettori»
11
Thouret
agosto
relatore
Pétion
Prugnon
Robespierre
Roederer
Briol-Beaumetz
Buzot
Barnave
[diversi interventi]
contro
pro
contro
contro
pro
contro
pro
Thouret
[diversi interventi]
relatore
Freteau-Saint-Just
contro
RINVIO ALL’INDOMANI
12
Thouret
Grégoire
Guillaume
Goupil-Préfeln
Merlin
Le Chapelier
D’André
[diversi interventi]
Venier
agosto
relatore
contro
pro
contro
contro
pro
contro, mozione:
AGGIORNAMENTO
a ine lavori
27
Démeurier
Rewbell
La Rochefoucauld
Goupilleau
D’Allarde
Buzot
Démeurier
Dubois-Crancé
[diversi interventi]
Démeurier
agosto
relatore
contro
pro
pro
pro [non può parlare]
contro
relatore
pro
relatore
VOTAZIONE
Roederer
Goupil-Préfeln
Grégoire
93
chiede integrazioni
chiede integrazioni
contro [non può parlare]
Questioni di cittadinanza in un
«eclettico meticcio politico»:
Tom Paine (1737-1809)
Thomas Casadei
1. La cittadinanza come spazio di tensioni
Il termine “cittadinanza”, è ormai consuetudine rilevarlo, «è evocativo
di un universo semantico sommamente complesso e poliforme. Affermare
che essere “cittadini” ha a che fare con l’appartenenza a una civitas, ossia a
una comunità di individui che condividano diritti e doveri e si riconoscono
reciprocamente una medesima identità politica, è sicuramente corretto, e
tuttavia non pienamente soddisfacente. Le diverse idee attorno alle ragioni
di quell’appartenenza, alle modalità di costituzione di quella comunità e soprattutto alla giustiicazione delle regole in base a cui sono issati di volta in
volta i termini dell’inclusione e dell’esclusione, producono signiicati molto
diversi tra di loro, proili identitari estremamente variegati, in deinitiva “registri del discorso” non sempre comunicanti»1.
Come è stato notato in una delle opere più complete e organiche sul
tema, una vera e propria storia del pensiero politico e istituzionale sub specie civitatis, «cittadinanza è divenuto un crocevia di suggestioni variegate
e complesse che coinvolgono l’identità politico-giuridica del soggetto, le
modalità della sua partecipazione politica, l’intero corredo dei suoi diritti e
dei suoi doveri»2.
Diverse sono dunque le modalità di ricostruzione, analisi, narrazione di
questo concetto, diversiicate le intenzionalità che fanno da sfondo al suo
utilizzo in ambito accademico ma anche nella retorica politica.
1. E. Grosso, Una cittadinanza funzionale. Ma a cosa? Considerazioni sull’acquisto della cittadinanza iure soli, a partire da una suggestione di Patricia Mindus, in «Materiali per
una storia della cultura giuridica», 2, 2015, pp. 477-501, p. 477.
2. P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, 4 voll., Laterza, Roma-Bari
1999-2001, vol. I: p. VII.
94
Rispetto a questo scenario sono venuti a consolidarsi, in generale, due
atteggiamenti.
Da un lato, vi è quello che, partendo dalla nozione convenzionale marshalliana3, anche al ine di criticarla, si propone un’actio inium regundorum
nel tentativo di fare chiarezza, distinguere piani e, come è stato tentato con
grande rigore recentemente da Patricia Mindus, proporre una teorizzazione
che possa fare presa sulla realtà attraverso standard e criteri di valutazione4.
Dall’altro lato, quello che mira a cogliere, in una chiave critica, tensioni
e antinomie, aporie e asimmetrie5, come ha suggerito, tra gli altri, Étienne Balibar nei suoi scritti; a partire da quest’angolazione c’è chi ha proposto di abbandonare l’uso del concetto per una supposta «impossibilità
deinitoria»6, o, d’altro canto, di individuarne nuove possibilità di utilizzo.
In questa categoria si rinviene una forma tipica della modernità, che meglio
di altre ne rispecchia le «tensioni»7; ancora, si rileva come dietro alla logica
della cittadinanza ci siano una serie di fatti contingenti e/o mere questioni di
opportunità tipiche della Realpolitik. Sotto questo proilo, «non si può non
partire dalla considerazione che le leggi sulla cittadinanza rappresentano la
risultante di relazioni di potere e sono l’espressione di un’élite di un dato
momento storico». Esse non sarebbero altro che «lo strumento essenziale
attraverso cui lo stato […] racconta e rappresenta la sua idea dell’estensione
della comunità politica»8.
In entrambi i casi, l’odierna complessiicazione della cittadinanza, la
varietà di «strutture di signiicato» a essa sottese, le sue molte facce, esigono un numero crescente di «competenze»9 per studiarla; di qui l’utilità,
3. Cfr. D. Zolo (a cura di), La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Laterza,
Roma-Bari 1994.
4. P. Mindus, Cittadini e no. Forme e funzioni dell’inclusione e dell’esclusione, Firenze
University Press, Firenze 2014 (a cui si rimanda anche per l’ampia letteratura recente in
materia di citizenship studies). In un altro scritto, generato da una discussione a più voci
del volume, l’autrice precisa ulteriormente il suo intento: «lo standard che propongo […]
ci fornisce un metodo per scegliere una regolazione dell’accesso alla cittadinanza che sia
funzionale (o adeguata) al ruolo svolto dalla cittadinanza all’interno dell’ordine costituzionale» (P. Mindus, Ancora sulla teoria funzionale della cittadinanza. Risposta ai critici, in «Materiali per una storia della cultura giuridica», 2, 2015, pp. 521-541, p. 541).
5. É. Balibar, La cittadinanza, Bollati Boringhieri, Torino 2012.
6. Sempre P. Grosso, Una cittadinanza funzionale, cit., p. 477.
7. E. Gargiulo, Leggere la modernità e le sue tensioni: la cittadinanza come chiave di
lettura simmeliana, in C. Corradi, D. Pacelli, A. Santambrogio (a cura di), Simmel e la cultura moderna, voll. II: Interpretare i fenomeni sociali, Morlacchi, Perugia 2010, pp. 49-70.
8. P. Grosso, Una cittadinanza funzionale, cit., p. 479.
9. Cfr. P. Raciti, La cittadinanza e le sue strutture di signiicato, FrancoAngeli, Milano
2004; E. Gargiulo, L’inclusione esclusiva. Sociologia della cittadinanza sociale, FrancoAn-
95
di recente ribadita con dovizia di argomenti, di uno studio interdisciplinare10.
La cittadinanza, sotto questo proilo, rappresenta un ineludibile «mezzo
di costituzione dell’identità»11 ma anche, come emerso in una serie di studi
critici degli ultimi anni, un formidabile «meccanismo di differenziazione»12.
Con riferimento a quest’ultimo aspetto, essa assume un rilievo straordinariamente problematico: tramite la sua igura si attua una distinzione netta
tra chi appartiene a una certa comunità politica e possiede una certa identità
ben precisa (mediante la quale rivendicare il rispetto e la tutela dei diritti
fondamentali e umani) e chi, invece, è escluso da tale perimetro e possiede
un’identità che risulta, rispetto a essa, del tutto eterogenea, altra; lo attestano i recenti fenomeni migratori e, con essi, lo spezzarsi del consenso «sui
“valori” costitutivi dello stato democratico»13.
I tratti di questa alterità possono, tuttavia, conoscere conigurazioni differenti che è bene distinguere in modo analitico, come ha opportunamente
proposto Mindus. Si possono, in prima battuta, individuare tre diverse dicotomie: quella cittadino/suddito (con riferimento allo spazio politico); quella
cittadino/straniero (con riferimento allo spazio giuridico); quella cittadino/
emarginato (con riferimento allo spazio sociale)14.
geli, Milano 2008; Su questi proili: S. Caruso, Una nuova ilosoia della cittadinanza, Firenze University Press, Firenze 2012, p. 81.
10. E. Gargiulo, G. Tintori, Giuristi e no. L’utilità di un approccio interdisciplinare allo
studio della cittadinanza, in «Materiali per una storia della cultura giuridica», 2, 2015, pp.
503-519
11. «La cittadinanza, con tutti i condizionamenti che derivano a livello di libertà di movimento delle persone in Europa, rappresenta la vera “macchina discriminante” contribuendo
a determinare non solo i conini concettuali tra differenti classi di individui, ma anche l’appartenenza degli stessi alle relative classi» (D. Ruggiu, Cittadinanza e processi formalizzati
di costituzione dell’identità in Europa, in «Ragion pratica», 2, 2012, pp. 225-257, p. 233).
12. Si veda, a titolo esempliicativo, O. Giolo, Status in trasformazione. Il diritto
alla cittadinanza nell’esperienza europea, in Ead., Diritti e culture. Retoriche pubbliche,
rivendicazioni sociali, trasformazioni giuridiche, Aracne, Roma 2012, pp. 23-55.
13. Si vedano, in proposito, i contributi di Clelia Bartoli, Come il diritto inventa le identità e di P. Mindus, Cittadinanza, identità e il sovrano potere di escludere in «Ragion pratica»,
2, 2012, rispettivamente alle pp. 335-356 e 477-494. Sulle trasformazioni cui è soggetta la
categoria della cittadinanza in seguito alle pressioni migratorie e allo svolgersi delle dinamiche della globalizzazione si vedano gli studi condotti da S. Mezzadra: Diritto di fuga: migrazioni, cittadinanza, globalizzazione, ombre corte, Verona 2001; S. Mezzadra e A. Petrillo (a
cura di), I conini della globalizzazione: lavoro, culture, cittadinanza, Manifestolibri, Roma
2000. Come ulteriore sviluppo di questo approccio, si veda É. Balibar, S. Mezzadra, Ranabir
Samaddar (eds.), The Borders of Justice, Temple University Press, Philadelphia 2012.
14. Oltre allo studio monograico citato in precedenza, si veda P. Mindus, Anatomia del
cittadino. Tre modi di intendere la cittadinanza e alcuni problemi indesiderati, in «Analisi e
Diritto», 2009, pp. 73-97.
96
A queste tre declinazioni si può però aggiungere una più ampia dicotomia tra emancipazione/esclusione che rinvia ad uno spazio, lato sensu,
culturale e ideologico (ovvero, entro certi approcci, normativo, nel senso di
‘valoriale’15). Un proilo, questo, su cui torneremo nelle rilessioni conclusive di questo contributo.
Per cogliere le odierne «antinomie» della cittadinanza16, prendendo sul
serio la tripartizione sopra menzionata, può essere certamente fecondo uno
scavo di tipo genealogico17, specie se condotto – come sarà in questa sede
mediante il pensiero e l’impegno politico di Paine – nel periodo in cui il
concetto di cittadinanza è indissociabile dalla promessa di eguaglianza, per
lo meno nella sua formulazione: il lasso di tempo che va dalla Declaration
of Indipendence del 1776 alla Déclaration des Droits de l’Homme e du Citoyen del 1789, con la cesura epocale che ne consegue nel discorso sulla
cittadinanza.
Da questo punto di vista risultano interessanti le connessioni tra l’idea di
cittadinanza e le ideologie politiche; basti pensare, solo per fare un esempio,
ai diversi liberalismi che si delineano tra la seconda metà del Settecento
e il corso dell’Ottocento (‘aristocratico’, “moderato”, “umanitario”, “radicale”, “progressivo”18) e alle loro forme di giustiicazione dell’inclusione/
esclusione; ma anche, con riferimento allo stesso lasso di tempo, il sempre
problematico legame tra cittadinanza e cosmopolitismo19 o, ancora, quello a
lungo rimosso tra cittadinanza e genere20.
15. Si veda, ad esempio, S. Veca, La cittadinanza. Rilessioni ilosoiche sull’idea di
emancipazione, Feltrinelli, Milano 1990.
16. É. Balibar, Cittadinanza, cit., in part. p. 80.
17. È questa la via praticata, con grande rigore, nell’opera di Costa come è stato rilevato in varie recensioni al primo volume (P.P. Portinaro, Genealogia della cittadinanza, in
«Teoria politica», 2, 2000, pp. 177-179; L. Scuccimarra, I sentieri della cittadinanza, in
«Storica», 16, 2000, pp. 173-189; F. Soia, Archeologia della cittadinanza, in «Passato e
presente», 53, 2001, p. 165) nonché in una sua discussione complessiva (C. Malandrino,
Sulle retoriche politiche del discorso sulla cittadinanza, in «Il Pensiero Politico», 1, 2004,
pp. 126-132).
18. A titolo esempliicativo si vedano, in questo volume, i contributi di Polsi e Breccia
sul pensiero di Pierantoni (liberalismo progressivo), quello di Minuto su Meale (liberalismo
umanitario), di Lenci sul liberalismo moderato di Gioberti e, ancora, quello di Calabrò che
compara il liberalismo radicale e progressivo di Mill con quello aristocratico di Bagehot. Ma
da tratti aristocratici, come è ormai noto, non era immune il pensiero dello stesso Mill: cfr.,
sul punto, R. Giannetti, L’utopia di un liberale aristocratico: saggi sul pensiero politico di
John Stuart Mill, ETS, Pisa 2002.
19. Per una visione d’insieme si veda K. Hutchings, R. Dannreuther (eds.), Cosmopolitan
Citizenship, St. Martin’s Press, New York 1999. Cfr. anche il contributo di De Federicis in
questo volume.
20. Su questo punto speciico si tornerà in seguito.
97
Dietro la promessa di eguaglianza si combinava, sotto un velo invisibile,
la produzione di status differenti: la condizione di eguaglianza di accesso ai
diritti civili e politici, nella pratica, escludeva chiunque non fosse maschio,
bianco, proprietario e capofamiglia21.
È questo uno snodo chiave nella storia della cittadinanza ma, per molti
versi, anche nel suo stato presente. Come si osserva con forza nell’ambito
delle teorie critiche del diritto, infatti, «la razza, la classe, il genere, continuano a funzionare come fattori determinanti di una cittadinanza ineguale,
che deprivano le persone dell’opportunità di partecipare a numerose forme
di associazione e di lavoro cruciali allo sviluppo dei talenti e delle capacità – talenti e capacità che a loro volta mettono in grado gli esseri umani di
contribuire in modo signiicativo alle (e di trarre beneicio dalle) possibilità
collettive della vita nazionale»22.
Il processo di “naturalizzazione” di certe differenze, sedimentato attraverso sistematiche giuridiche diverse a seconda dei contesti23, struttura forme di cittadinanza che determinano gerarchie e trattamenti, ingiustamente,
differenziati (la cittadinanza diseguale, appunto).
La naturalizzazione costituisce, oggi come in passato, l’atto di consacrazione della visione del gruppo dominante, la sua piena legittimazione:
naturalizzandosi, esso fa sì che i suoi dogmi restino impliciti, che i conini
imposti al pensiero, al linguaggio e all’azione siano invisibili, che abbia
più resistenza di un impedimento creato da un corpo isico in quanto non
riconoscibile.
Sul piano giuridico-istituzionale ne deriva ciò che Balibar deinisce «cittadinanza imposta» (ascriptive citizenship), quella concezione della cittadinanza che anche i protagonisti della Critical Race Theory (CRT) hanno
stigmatizzato, mettendo in evidenza il residuo di imposizione che è proprio
di ogni “cittadinanza”, nonché il suo «sovrano potere di escludere»24.
21. Cfr. F. Belvisi, Cittadinanza, in A. Barbera (a cura di), Le basi ilosoiche del
costituzionalismo, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 117-144.
22. Così C.L. Harris e U. Narayan: L’azione affermativa e il mito del trattamento
preferenziale (1994), in Legge, razza e diritti, La Critical Race Theory negli Stati Uniti,
Diabasis, Reggio Emilia 2005, p. 177. Per una disamina di questi aspetti, con particolare attenzione al dibattito contemporaneo, sia consentito rinviare al mio Il rovescio dei diritti umani. Razza, discriminazioni, schiavitù, DeriveApprodi, Roma 2016, in part. cap. II.
23. Ne costituiscono due interessanti esempi i «processi di naturalizzazione degli stranieri» nella Spagna liberale descritti da Aglietti e la «legge del ritorno» che connota la cittadinanza in Israele così come descritta da Marzano.
24. Mutuo l’espressione da P. Mindus, Cittadinanza, identità e il sovrano potere di
escludere, cit.
98
Se queste linee di demarcazione e di sviluppo dell’ordine politico, sociale ed economico si sedimentano alle origini della modernità, è anche vero
che questi processi legittimavano, in nuce, i membri subalterni della comunità politica come agenti di trasformazione dei conini del demos e della
cittadinanza stessa25; in secondo luogo, tali processi venivano a connotare
quest’ultima non tanto nel segno della dicotomia ma, a ben vedere, della
polarità, generando deinizioni luttuanti, scandite per graduum, dalle rivendicazioni per allargarne gli spazi (e dalle reazioni ad esse); tutte lotte ispirate
dalle promessa – e dal potente mito – dell’eguaglianza26.
L’itinerario intellettuale e politico di Tom Paine (1737-1809)27, connesso
a un vero e proprio peregrinare tra Inghilterra, Stati Uniti e Francia, costituisce una signiicativa via di accesso a queste problematiche e agli spazi di
discorso che le connotano.
2. Un caso emblematico, nel fuoco delle rivoluzioni: Tom Paine
La vita di Paine è incastonata tra le rivoluzioni: si potrebbe dire a cavallo
tra due rivoluzioni… e mezzo. La Rivoluzione americana, il cui compito
precipuo è «fare ricominciare il mondo daccapo» (nell’intenzione profonda
dei rivoluzionari americani la sottrazione dello spazio al nemico britannico
corrispondeva ad un’appropriazione radicale del tempo), e quella francese28,
prima di tutto. Ma non va dimenticato – aspetto, invece, spesso lasciato in
ombra nell’ambito degli studi critici29 – che in nome dei diritti universali,
Paine dichiarò guerra alla tradizione costituzionale inglese, monarchica e
25. Si veda, in proposito, E. Fahri. Isin, Being Political. Genealogies of Citizenship,
University of Minnesota Press, Minneapolis 2002.
26. Il contesto francese, in cui lo stesso Paine agì insieme ai girondini, è emblematico di
questa tensione come mostra il contributo di Cassina in questo volume. Su questi aspetti è
fondamentale P. Rosanvallon, La rivoluzione dell’uguaglianza: storia del suffragio universale in Francia, Anabasi, Milano 1994. Dello stesso autore si veda anche, più di recente, La
società dell’eguaglianza (2011), Castelvecchi, Roma 2013.
27. In una letteratura molto ampia: M. Griffo, Thomas Paine. La vita e il pensiero poltico,
Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2011; W.A. Speck, A Political Biography of Thomas
Paine, Pickering & Chatto, London 2013.
28. Cfr., tra gli studi monograici, J. Lessay, L’Américain de la Convention. Thomas
Paine: professeur de révolutions, député du Pas-de-Calais, Perrin, Paris 1987. Più in generale:
M. Griffo, Thomas Paine’s Idea of Revolution: Between the New and the Old World, in «Il
Pensiero Politico», 2, 2014, pp. 237-243.
29. Lo rileva molto esplicitamente J. Keane, Tom Paine. A Political Life, Bloomsbury,
London 1995, pp. XIX-XX.
99
aristocratica, ponendo al centro della sua rilessione proprio la questione
della cittadinanza repubblicana e democratica30.
Alle sue spalle sta del resto la rivoluzione del ’600, e in particolare stanno i Levellers; costantemente davanti ai suoi occhi sta il tentativo – mai
portato a termine – di una rivoluzione del sistema inglese. La fortuna posteriore della sua opera sui Diritti dell’uomo (1791-1792) e la stessa immagine
storica di Paine sono state profondamente inluenzate da questo evento non
realizzato, da questa promessa di cambiamento radicale non mantenuta31.
Paine si identiicava con il common people (un aspetto enfatizzato in
modo affascinante, tra gli altri, da Eric Hobsbawm e, prima di lui, da William Parrington ma pure problematizzato da un acuto scienziato politico
come Carl J. Friedrich32): «Paine era la gente per cui scriveva, gente che si
era fatta da sé, che si era formata da sé, che contava solo su di sé», gente che
era alla ricerca di un pieno ingresso nella sfera pubblica, nella dimensione –
orizzontale33 – della cittadinanza34.
Paine considerava tutti gli individui, di tutti i paesi, come potenziali cittadini. Come cittadini, egli argomentava, essi dovevano essere titolari di certi
diritti ma anche impegnati nel rispetto di certi doveri, entro una struttura di
governi costituzionali che “massimizzasse” la libertà civile e politica e, al
tempo stesso, garantisse la giustizia sociale (aspetto che emerge nel fuoco
degli eventi in terra di Francia ma che l’autore di Agrarian Justice affronta
con uno sguardo anche alle condizioni e alle trasformazioni della società
inglese).
L’affermazione universale dei diritti, la scrittura di una costituzione che
ne sancisca il pieno riconoscimento e la possibilità di reale applicazione
orientando le scelte del governo, possono dunque essere visti come un ples30. Cfr. P. Leech, The Language of Controversy: Burke, Paine, and the French Revolution,
Editrice Compositori, Bologna 1990.
31. T. Magri, Thomas Paine e il pensiero politico della rivoluzione borghese, Introduzione a Th. Paine, Scritti politici, Editori Riuniti, Roma 1978, p. 17. Sulla «distruzione creatrice» del radicalismo di Paine: G. La Neve, «Thomas Paine and the Idea of Human Rights».
Discussione sul lascito intellettuale di Thomas Paine, in «Storia e Politica», 1, 2016, pp. 171187, il quale ricostruisce alcune linee del dibattito più recente a partire da R. Lamb, Thomas
Paine and the Idea of Human Rights, Cambridge University Press, Cambridge 2015.
32. C.J. Friedrich, L’uguaglianza politica e l’uomo comune, in Id., Introduzione alla teoria politica: dodici lezioni a Harvard, ILI, Milano 1971, in part. pp. 160-161.
33. Su questo punto emerge la netta contrapposizione con Burke, teorico invece della
gerarchia sociale e della «verticalità»: cfr. G. Claeys, Thomas Paine. Social and Political
Thought, Unwin Hyman, Boston 1988, pp. 110 ss.
34. P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, cit., vol. II: L’età delle
rivoluzioni, cap. 2.
100
so che ha nella cittadinanza il suo sbocco: una cittadinanza repubblicana
concepita in modo democratico e sociale.
Di qui scaturisce la necessità di indagare sia le proposte di Paine per
la deinizione delle regole generali dello Stato democratico e repubblicano
(e quindi della cittadinanza all’interno dei suoi conini), ovvero il proilo
giuridico-costituzionale della sua opera, sia le sue proposte per la realizzazione di una democrazia sostanziale, oltre che formale; rilevante è, entro il
suo itinerario, la pluralità di piani, politico, economico e sociale, e le loro
interrelazioni35. Emerge qui quel proilo «materiale» della cittadinanza36 che
rimanda alla questione dell’emarginazione messa a fuoco dalla sua rafigurazione sociologica37; nell’ottica di Paine, tale condizione accomuna orfani
e giovani privi di istruzione, anziani, disabili.
A questi proili si connette strettamente anche l’intento ideologico di
Paine, la sua visione della cittadinanza come progetto di emancipazione
universale. La “ricerca della cittadinanza”, della sua completa e più ampia
realizzazione, si situa davvero su uno scenario «mondiale» e si connette alla
vita di Paine e al suo muoversi entro la “geograia delle rivoluzioni”38; non a
caso una delle deinizioni più ricorrenti in letteratura è quella che fa di Paine
«il cittadino del mondo»39.
La problematicità di questo progetto costruttivo, architettonico, è, d’altra
parte, attestata ad un doppio livello.
A livello individuale, prima di tutto. Quando Paine venne arrestato nel
1793, con la singolare accusa di «straniero» da parte dei giacobini guidati
da Robespierre40, la cittadinanza “mondiale” divenne la sua trappola: cittadino britannico di nascita, cittadino americano per meriti rivoluzionari,
35. Sia consentito a questo proposito rinviare a T. Casadei, Tra ponti e rivoluzioni. Diritti,
costituzione, cittadinanza in Thomas Paine, Giappichelli, Torino 2012; Id., I diritti sociali.
Un percorso ilosoico-giuridico, Firenze, Firenze University Press 2012, cap. I .
36. L’espressione è di L. Grifone Baglioni, Formale e materiale: la cittadinanza alla prova
nella società che cambia, in E. Recchi, M. Bontempi, C. Colloca (a cura di), Metamorfosi
sociali. Attori e luoghi del mutamento nella società contemporanea, Rubbettino, Soveria
Mannelli (CZ) 2013, pp. 266-276.
37. Cfr. P. Mindus, Cittadini e no, cit., pp. 165-228.
38. Cfr. B. Vincent, The Transatlantic Republican. Thomas Paine and the Age of
Revolutions, Rodopi, Amsterdam-New York 2005.
39. Da ultimo si veda il Convegno “Citizen of the World. The Use and Abuse of Thomas
Paine” organizzato il 29 e 30 novembre 2013 a Manchester e di cui ha dato conto M. Griffo,
Uso (e abuso) di Thomas Paine: un Convegno a Manchester, in «Le Carte e la Storia. Rivista
di Storia delle Istituzioni», 1, 2014, pp. 197-198.
40. Sulle complicate vicende di Paine nel contesto francese si può vedere, ora, J. Israel,
La rivoluzione francese. Una storia intellettuale dai Diritti dell’uomo a Robespierre (2014),
Einaudi, Torino 2015, passim.
101
cittadino francese honoris causa, si trovò respinto da tutti i governi dei tre
paesi41.
Ad un livello più generale, egli si impegnò nel costruire e ampliare gli
spazi della cittadinanza nei paesi in cui visse e condusse le sue lotte politiche, coniugando slancio utopico e realismo politico, ma sempre incontrò
avversari e ostacoli che resero ardua, piena di traversie e sofferenze, la realizzazione dei suoi intenti.
Rispetto a questo scenario, Costa ha opportunamente rilevato che «[l]a
cittadinanza rivoluzionaria è una delle immagini di cittadinanza che negli
anni Novanta del Settecento circolano nel mondo occidentale: l’immagine,
se si vuole, più impressionante e coinvolgente a causa dell’estremo assottigliarsi» – come dimostra l’intera vicenda painiana – «tra parola ed evento,
ma pur sempre un’immagine accanto alle altre»42. Un’immagine che peraltro porta con sé tensioni e coni d’ombra.
Paine ha cercato di farne un’immagine universale, cimentandosi per tutta
la vita nella costruzione di ponti tra i diversi paesi dell’occidente, alla ricerca di una «cordiale concordia»43 tra tutti gli esseri umani, andando oltre i
diversi contesti di appartenenza geograica e culturale. La sua idea di una
cittadinanza repubblicana, senza frontiere, conserva a tutt’oggi un notevole
fascino e, tuttavia, è accompagnata da un’inevitabile serie di processi che
muovono in direzioni ostinatamente contrarie. Lo slancio costruttivo painiano non ha ancora trovato effettiva e completa realizzazione, anzi, al di là di
aspettative e slanci, si è visto come sia rafforzata la forza escludente della
cittadinanza stessa.
Scaturisce anche di qui, tra periodi di oblio e ricorrenti riscoperte, il perdurante interesse per la sua opera44. Essa reca con sé l’idea, caratteristica delle costituzioni radicali, di «una cittadinanza che non è solo contenitore attributivo di diritti, ma anche vincolo […], condivisione dei principi e dei valori
della repubblica»45, progetto nazionale e internazionale, politico e sociale.
41. Su questa condizione paradossale di straniero: S. Wahnich: Thomas Paine, éternel
étranger, in Thomas Paine citoyen du monde, textes réunis par G. Kantin, Créaphis, Paris
1990, pp. 65-73; Id., Thomas Paine, de l’étranger identique au citoyen hétérogène, réception
par la République d’une voix autre, in Thomas Paine ou la république sans frontières,
études réunies par B. Vincent, préface de M. Rebérioux, postface de M. Vovelle, Presses
Universitaires de Nancy, Nancy – Ligue des droits de l’homme, Paris 1993, pp. 58-65.
42. Cfr. P. Costa, Civitas, cit., vol. II, p. 95.
43. L’espressione usata da Paine è, precisamente, cordial unison: Rights of Man, II, p. 555.
44. B. Vincent lo ha deinito «un homme des XVIIIe et XXIe siècles», poiché i secoli
compresi tra queste epoche gli furono «fondamentalement étrangers» (B. Vincent, Introduction
a Id. [études réunies par], Thomas Paine ou la république sans frontières, cit., p. 16).
45. M. Fioravanti, Costituzionalismo. Percorsi della storia e tendenze attuali, Laterza,
Roma-Bari 2009, p. 75.
102
Il costituzionalismo di Paine sembra mostrare una visione della cittadinanza e dell’ordine politico di notevole spessore anche con riferimento ad
alcuni nodi del dibattito contemporaneo46.
L’unità e la volontà della nazione sono il presupposto, la base dinamica
del costituzionalismo di Paine, che così si riallaccia alle celebri tesi elaborate da Sieyès. La distanza che separa questa visione da quella di Burke è
evidente: nei due autori vi è, al fondo, una concezione completamente diversa della sovranità. Attraverso una forma rappresentativa che possa garantire l’effettiva corrispondenza tra governo e volontà della nazione si viene
ad instaurare, secondo Paine, il vero governo del popolo: ad esso spetta la
sovranità, mentre ai rappresentanti spetterà soltanto l’esercizio di tale sovranità, realizzando così una concreta forma democratica di governo e di
cittadinanza attiva che intende abolire la igura del suddito (declinazione
prettamente politica).
Il sistema repubblicano – che abbraccia l’intera nazione – collega, nella
prospettiva di Paine, la rivoluzione americana e quella francese ed esprime
«a renovation of the natural order of things». Esso rimanda costitutivamente
al popolo e alla nazione, fonti di ogni sovranità. Nessun individuo o corpo
di uomini (lo sguardo di Paine è rivolto ancora a Burke) può essere investito di alcuna autorità che non derivi espressamente dalla nazione. La teoria
radicale della sovranità popolare, legata a doppio ilo con una teoria storica
dell’incivilimento progressivo, ha nella concezione painiana della costituzione il suo momento di congiunzione.
Ciascuna rivendicazione della quale Paine si fece portavoce, nella sua
ininterrotta battaglia per l’emancipazione, si fondava sul riconoscimento
della naturale eguaglianza dei diritti degli uomini. L’idea dell’eguaglianza
muove e orienta già i suoi primi scritti in «The Pennsylvania Journal»: quelli
di condanna per la schiavitù dei neri (African Slavery in America47); si tratta
46. Cfr., sul punto, C. Martinelli, Le radici del costituzionalismo. Idee, istituzioni e trasformazioni dal Medioevo alle rivoluzioni del XVIII secolo, Giappichelli, Torino 2009, pp. 134-135.
47. L’articolo, scritto nel 1774 e pubblicato l’anno successivo, si inseriva nel solco della
tradizione umanitaria quacchera. In esso si sosteneva non solo il diritto naturale alla libertà
dei neri in quanto igli di Dio, ma anche che gli ex proprietari di schiavi avrebbero avuto il dovere di offrire assistenza a quegli schiavi vecchi o infermi, del cui lavoro avevano in passato
goduti i frutti. Sull’anti-schiavismo di Paine si vedano A. Truyol y Serra, Thomas Paine y la
esclavitud de los negros, in Aa.Vv., Studi in memoria di Giovanni Ambrosetti, 2 voll., Giuffrè, Milano 1989, vol. I, pp. 374-385; J.V. Lynch, The Limits of Revolutionary Radicalism:
Tom Paine and Slavery, in «Pennsylvania Magazine of History and Biography», 3, 1999, pp.
177-199. Paine fu uno dei fondatori dell’“American Anti-Slavery Society” e lavorando come
segretario per l’Assemblea legislativa della Pennsylvania contribuì a stendere un primo testo
di legge che prevedeva l’abolizione della tratta.
103
di testi che hanno anticipato fondamentali battaglie civili della storia americana, come storia di espansione dei conini della cittadinanza, ben oltre il
tempo di Paine48 e che toccano il rapporto tra deinizione del periplo della
cittadinanza e igura dello straniero (caratterizzato anche in senso razziale).
Siamo così all’interno dello spazio giuridico-istituzionale.
Sullo stesso giornale Paine pubblica le sue rilessioni contro la discriminazione femminile (An Occasional Letter on the Female Sex). Vale la pena
a questo punto notare, come la prospettiva painiana sull’ordine sociale e
politico – radicalmente alternativa rispetto a quella di Burke e attentissima
alla deinizione delle forme del bisogno e dall’emancipazione da esso –, pur
non riservando un’attenzione speciica ai diritti delle donne, restituisca la
tensione ad aprire spazi all’emancipazione femminile e quindi ad una inedita collocazione della donna nello spazio civile e politico della cittadinanza.
È questo uno snodo chiave che peraltro sta alla base anche delle critiche femministe al modello marshalliano; quest’ultimo analizza il rapporto
problematico tra cittadinanza e classe ma non quello tra cittadinanza e dipendenza dalla famiglia. Il sexual contract è il contenuto rimosso del social
contract49, l’ombra di una cittadinanza declinata tutta al maschile.
Chi coglie questo punto è Mary Wollstonecraft, moglie di William
Godwin e a stretto contatto con Paine negli ambienti radicali e repubblicani
inglesi50. La sua intenzione segna, per molti e importanti aspetti, le origini del femminismo teorico51. Il suo dialogo serrato con Paine nel contesto
radicale restituisce il portato di una tensione che all’epoca non trovò l’esito della cittadinanza paritaria ma che, appunto, segnò un’inedita apertura,
capace di inserirsi perfettamente, come mostrano recenti studi52, nel solco
della tradizione repubblicana. Proprio l’innervatura della questione di genere nel discorso repubblicano diventa, con Wollstonecraft, un’occasione
48. Sul punto: P. Grosso, Una cittadinanza funzionale, cit., pp. 483-488.
49. C. Pateman, Il contratto sessuale. I fondamenti nascosti della società moderna
(1988), con un’introduzione di O. Guaraldo, Moretti&Vitali, Bergamo 2015. In precedenza:
Gillian Pascall, Social Policy: A Feminist Analysis, Tavistock Publications, London-New
York 1986, p. 9.
50. Cfr. G.J. Barker Benield, Mary Wollstonecraft: Eighteenth-Century Commonwealthwoman, in «Journal of the History of Ideas», 50, 1989, pp. 95-116; e, soprattutto, W. Godwin,
Ricordo dell’autrice de «I diritti della donna», a cura di S. Bertea, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2003.
51. Cfr. N. Urbinati, Alle origini del femminismo teorico, introduzione a J.S. Mill, H.
Taylor, Sull’uguaglianza e l’emancipazione femminile, a cura di N. Urbinati, Einaudi, Torino
2001, pp. V-LI.
52. Si veda in particolare L. Halldenius, Mary Wollstonecraft and Feminist Republicanism.
Independence, Rights and Experience of Unfreedom, Pickerling and Chatto, London 2015.
104
per riformulare i riferimenti teorici che lo stesso Paine aveva contribuito a
far circolare in Inghilterra. É l’esperienza delle donne, infatti, che dimostra
come la repubblica sia una condizione necessaria ma non suficiente per garantire libertà ed eguaglianza: anche nell’America democratica, e lo accenna
già Paine nella citata Occasional Letter on the Female Sex, la soggiogazione
delle donne è la prova della falla nel sistema. La libertà, intesa in senso
repubblicano come assenza di dipendenza, non può essere scissa dall’uguaglianza, e quest’ultima potrà dirsi compiuta solo quando avrà spinto i suoi
conini verso un universalismo autentico, comprensivo di entrambi i generi.
Il “nodo delle generazioni” che Paine aveva posto al centro della sua
visione costituzionale, connotandola in un senso progressivo, allarga con
Wollstonecraft la sua portata alle questioni interne alla famiglia. L’antica
famiglia aristocratica viene descritta nella Vindication of Rights of Woman
come luogo di rapporti freddi, centrati sull’interesse, ove in nome della perpetuazione della proprietà – e dunque dell’ordine stabilito – i igli minori
vengono sacriicati, costretti a matrimoni combinati, rinchiusi in conventi,
sempre per il buon nome della famiglia, del rango. Al contrario per la Wollstonecraft, così come non è potere dei morti decidere per conto dei vivi
(secondo la prospettiva painiana), non è potere dei genitori decidere della
morte o della vita dei propri igli.
Recuperando da Locke l’idea dei limiti del potere parentale, la Wollstonecraft pone il tema della “rottura delle catene” tra generazioni anche
all’interno della famiglia, sostenendo che alla ine del dispotismo politico
(nell’ambito del quale, secondo la teoria delle forme di governo di Paine, è
assorbita anche la monarchia, strutturata sul principio dell’ereditarietà) deve
seguire la ine del dispotismo paterno all’interno della famiglia. Emerge
così il riiuto della riduzione burkeana dell’ordine politico gerarchico ad un
ordine naturale, riduzione operata proprio mediante l’analogia tra l’ordine
politico e l’ordine familiare, e vengono preigurate nuove relazioni sociali
all’insegna dell’eguaglianza fra tutti gli individui, comprese – per la prima volta nella storia dell’umanità – le donne53, coloro che già Olympe de
53. Cfr. B. Casalini, Introduzione a M. Wollstonecraft, I diritti degli uomini. Risposta alle
Rilessioni sulla Rivoluzione francese di Edmund Burke, introduzione, traduzione e note di
B. Casalini, Plus, Pisa 2003. Fu Condorcet che, negando radicalmente l’esistenza di differenze morali tra uomini e donne, elaborò uno dei primi progetti in epoca moderna in favore dei
diritti civili e politici delle donne (anche se, forse scoraggiato dalla freddezza con la quale
fu accolta, non la incluse nel progetto girondino di riforma costituzionale): cfr. G. Magrin,
Condorcet: cittadinanza politica e riforma istituzionale nella crisi dell’antico regime, in «Il
Pensiero politico», 2, 1996, pp. 215-237, p. 232. Cfr. L. Hunt, La forza dell’empatia. Una
storia dei diritti dell’uomo (2007), Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 135-141.
105
Gouges, aveva “osato” deinire – isolatissima nel contesto della rivoluzione
francese – «cittadine»54.
Il tema della cittadinanza in Wollstonecraft non può dunque essere disgiunto da quello della libertà, che a sua volta conduce alla rilessione sui
diritti. Come la liberazione dal dispotismo politico e paterno è una via di accesso alla virtù e all’indipendenza, specularmente la rivendicazione dei diritti civili e politici implica, per la pensatrice inglese (così come per Paine),
il necessario contraltare dei doveri. É in questo che si sostanzia, in deinitiva,
la sua idea di cittadinanza paritaria.
Già nel secondo Settecento, grazie a donne audaci e isolate come Olympe
de Gouges e Mary Wollstonecraft ma anche a uomini che lottavano per molte
giuste cause (abolizione della tortura e della schiavitù, oltre che della discriminazione tra i sessi) come Paine e soprattutto Condorcet, la questione dei diritti delle donne rimette in discussione l’intera concezione della cittadinanza,
e questo sia perché induce a reinterrogarsi sui suoi presupposti ilosoici ed
esistenziali, quali quelli dei concetti di essere umano e di umanità, quelli del
rapporto tra i sessi e del rapporto tra sesso e diritto, sia perché scompiglia le
ripartizioni tradizionali delle categorie dei diritti, avanzando l’interrogativo
se e in che senso sia conigurabile una categoria a sé stante dei “diritti delle
donne” e se e in che senso i processi di estensione della cittadinanza siano
effettivamente riconducibili alle dicotomie cittadino/suddito, cittadino/straniero, cittadino/emarginato già ben chiari agli occhi di Paine.
Come afferma Costa, «negli anni della rivoluzione l’eguaglianza aveva
sprigionato la sua simbolica valenza propulsiva inducendo a contestare ogni
differenziazione che apparisse, insieme, come una deprivazione dei soggetti
e uno schermo tra essi e la nazione. L’obiettivo dell’estensione massima
dei diritti politici (un obiettivo caratteristico della crescente radicalizzazione
dello slancio rivoluzionario) è stimolato dalla doppia esigenza di valorizzare
i soggetti ‘come tali’ e di sottolineare la loro eguale e immediata appartenenza alla nazione; e, anche nel corso dell’Ottocento, tanto prima quanto
dopo il 1848, la lotta per la democrazia politica torna insistentemente ad
avvalersi della forza suggestiva del simbolo egualitario»55. Si potrebbe af54. O. De Gouges, Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina (1791), Il Melangolo, Genova 2007. Su queste igure-chiave, spiccano, nella letteratura italiana, gli accurati studi di A. Loche: Mary Wollstonecraft e i diritti delle donne, in «Annali della Facoltà
di Lettere e Filosoia dell’Università di Cagliari», 1991, pp. 249-278; I diritti delle donne e
la rivoluzione possibile. La Déclaration di Olympe de Gouges, ivi, 2010-2011, pp. 117-132;
Moderatismo politico, radicalismo sociale, femminismo in Olympe de Gouges, in A. Loche,
M. Lussu (a cura di), Saggi di ilosoia e storia della ilosoia. Scritti dedicati a Maria Teresa
Marcialis, FrancoAngeli, Milano 2011, pp. 103-121.
55. P. Costa, Civitas, cit., vol. III, pp. 363-364.
106
fermare, dunque, che gli effetti del “richiamo dell’eguaglianza”, nell’epoca
di Paine e in qualche modo anche con il suo contributo insieme a quello, soprattutto, dei radicali come Wollstonecraft e Condorcet, iniziano a delinearsi
non solo per quanto riguarda la deinizione dei diritti, ma anche nei termini
della deinizione dei soggetti. In questo senso, il discorso sulla cittadinanza
si fa discorso sui cittadini e le cittadine.
3. Attraverso più spazi: la cittadinanza come movimento
Il costituzionalismo progressivo che l’opera di Paine preigura, la sua
connessione con una speciica idea dei diritti e della loro autorità, lo conduce a mettere a fuoco l’idea dei diritti sociali e un’idea di cittadinanza
sociale, che coglie la condizione della povertà e individua possibili forme di
contrasto. È questa un’ulteriore conferma del fatto che la sua opera travalica
le coordinate del tempo in cui fu scritta, assegnando al costituzionalismo
un’apertura che va ben oltre i conini del liberalismo56.
Alla base di questi percorsi sta un’idea di individuo che, peraltro, può
fungere da strutturale elemento di congiunzione – ovvero da ponte – tra
repubblicanesimo e apertura cosmopolitica.
Connettendo il piano d’indagine più propriamente storico-politico con
quello teorico e ilosoico-politico e con quello giuridico-istituzionale, mi
pare allora possibile indicare, paradossalmente, nel “meticciato” la chiave
interpretativa dell’intera rilessione painiana sulla cittadinanza: e del resto
egli costituisce un esempio paradigmatico di «eclettico meticcio politico»57.
Dai suoi scritti emerge una idea complessa, soggetta a varie declinazioni, politica, sociale, cosmopolitica, come si è visto, ma restituisce anche il
tratto dinamico della sua articolazione, aspetto fecondo, questo, nel contesto
del dibattito odierno58.
Si potrebbe forse azzardare che un ritorno al pensiero di Paine possa
contribuire ad un rinnovato slancio per quei nuclei valoriali posti alle radici
56. In questo senso la mia interpretazione si discosta dalle tesi di Griffo che conclude
la sua assai accurata ricostruzione del pensiero politico di Paine, descrivendolo come «un
proilo esemplare nella storia del costituzionalismo liberale» (Thomas Paine. La vita e le
opere, cit., p. 497).
57. Così P. Colombo, Governo, il Mulino, Bologna 2003, p. 112. Per un approfondimento
sia consentito rinviare a Il repubblicanesimo “meticcio” di Thomas Paine: democrazia, socialità, felicità, in «Cosmopolis», luglio 2016.
58. Più in generale, sulla visione dei diritti di Paine: T. Casadei, Tra ponti e rivoluzioni,
cit., cap. II.
107
del pensiero democratico moderno (libertà, eguaglianza e fraternità) e che
sostanziano l’idea stessa dei diritti – a cominciare da quelli civili, politici,
sociali, ritenuti «fondamentali» e «indivisibili»59 – per tutti gli esseri umani,
e questo nei diversi contesti degli Stati nazionali, dell’Europa, del mondo
intero.
Un “ritorno alle origini”, si potrebbe dire, seguendo l’andamento argomentativo del Paine più impegnato nella rilessione ilosoica, un gesto
intenzionale che rappresenta, anche, un «volgersi indietro, al tempo delle
rivoluzioni»60.
Una rilettura della sua opera, entro uno scavo genealogico, ci restituisce
la conferma che vi sono più «spazi di cittadinanza» da attraversare, e che la
cittadinanza va intesa nella sua concretezza, come complesso di funzioni sociali che spettano ai singoli cittadini e alle singole cittadine ma anche come
forza collettiva potenzialmente capace di opporsi a poteri che generano, a
vari livelli, esclusione61. Un’esclusione che, ancora oggi, assume vari tratti,
compreso quello, lambito da Paine, del genere che discrimina ed emargina. Ma lo stesso Paine ci mostra come la cittadinanza sia uno spazio, certo
caratterizzato da tensioni, ma anche, e ancora, aperto. Il punto non è allora
rinunciare al suo lessico e alle sue retoriche, o limitarsi ad una sua apologia,
quanto piuttosto, consapevoli dello spazio di tensioni che la segna, rilanciarne la sua carica ideologica.
59. Un importante documento come il Preambolo alla Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea, richiama esplicitamente l’idea di valori indivisibili, a cui ancorare i
diritti fondamentali deinendo i contorni di una «cittadinanza europea». Sui proili comunque problematici di questa conigurazione: C. Margiotta, Cittadinanza europea. Istruzioni
per l’uso, Laterza, Roma-Bari 2013. Cfr., inoltre, M. Barberis, “Civis europæus sum”. Una
ragionevole apologia della cittadinanza, in «Filosoia politica», 2, 2015, pp. 317-331, che
riprende la distinzione tra i tre sensi della parola cittadinanza proposti da Mindus: sociale,
politico, giuridico (p. 318). In precedenza: M. La Torre, Cittadinanza e ordine politico. Diritti, crisi della sovranità e sfera pubblica: una prospettiva europea, Giappichelli, Torino 2004.
60. Sull’utilità di questa mossa nei tempi odierni ha argomentato Fioravanti, Costituzionalismo, cit., p. 85.
61. Riprendo qui alcune delle suggestioni che caratterizzano l’ultima parte di Caruso, Per
una nuova ilosoia della cittadinanza, cit., in part. pp. 70, 81-83.
108
L’idea di cittadinanza nel pensiero politico
dei moderati italiani, 1815-1861
Mauro Lenci
Il saggio vuole prendere in esame l’idea di cittadinanza nel pensiero politico dei moderati italiani, un lemma questo che, non a caso, non igura neppure nel recente Atlante culturale del Risorgimento1 curato da Alberto M.
Banti; e vuole mostrare come la galassia degli autori moderati abbia usato
tale termine con prudenza, forse perché rimandava direttamente all’epopea
rivoluzionaria e soprattutto alla concezione democratica dei giacobini nel
periodo del terrore2. Ovviamente una posizione del genere, per i moderati,
1. A.M. Banti, A. Chiavistelli, L. Mannori, M. Meriggi (a cura di), Atlante culturale del
Risorgimento. Lessico del linguaggio politico dal Settecento all’Unità, Roma-Bari, Laterza,
2011. Tra gli autori presenti nel libro, Pietro Costa avrebbe potuto occuparsi della voce cittadinanza durante il Risorgimento (periodo al quale aveva già dedicato una parte della sua
fondamentale monograia: Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, 4 voll., Laterza, Bari
2000-2002). A riprova della spigolosità del termine in quel contesto, Costa ha optato invece
per la voce diritti/doveri. D’altronde è proprio dal rapporto di cittadinanza che scaturiscono
quest’ultimi, cioè a dire dal rapporto tra l’individuo e l’ordine politico-giuridico di cui fa
parte.
2. Sarebbe stato il famoso discorso di Robespierre alla Convenzione, nel febbraio 1794,
a rappresentare chiaramente un punto di svolta in questa percezione, facendo afiancare
chiaramente il termine democrazia all’operato dei giacobini. La concezione di Robespierre,
sebbene non era mai stata concepita organicamente, andava intesa come un’alternativa sia
alla démocratie absolue che al despotisme représentatif, e avrebbe trovato una sua realizzazione nella costituzione dell’anno I (M. Robespierre, Discours sur les principes de morale
politique qui doivent guider la convention nationale dans l’administration intérieure de la
république [1794], e Discours sur le gouvernement représentatif (1793), in Id., Textes choisis,
ed. Jean Poperen, Paris, 1956-58, vol. III, p. 113, vol. II, p. 147.). Fu però il fortunato libro
di Filippo Buonarroti sulla congiura degli eguali a far identiicare i sostenitori del partito
“democratico” con i fautori di una maggiore uguaglianza sociale. Buonarroti avrebbe scritto:
«La Rivoluzione francese è stata soltanto la premessa di un’altra rivoluzione, più grande e
solenne, che sarà l’ultima» (F.M. Buonarroti, Conspiration pour l’égalité, dite de Babeuf
(1828), Éditions Sociales, Paris 1957, pp. 94-95). Cfr. J. Dunn, Il mito degli uguali. La lunga
storia della democrazia (2005), Egea, Milano 2006, pp. 129-161.
109
non implicava necessariamente pensare che l’esperienza francese andasse
respinta in blocco; essa rimaneva uno snodo cruciale nella storia della civiltà umana, stabilendo che il popolo non poteva più rinunciare a interpretare
un ruolo fondamentale nella condivisione del potere legislativo. Al popolo,
soprattutto dopo il tornante degli anni Quaranta, si sarebbe venuto ad afiancare il concetto di nazione italiana, ma negli autori moderati non sembrò
prevalere quella concezione di Blut und boden che Banti ritiene invece essere la base del cosiddetto canone risorgimentale3. Il richiamo al popolo o
alla nazione non signiicava certo ritenere che ogni uomo, secondo il diritto
naturale, potesse accedere al voto. Né signiicava accettare in senso assoluto
e astratto il concetto di sovranità popolare. La concezione di cittadinanza dei
moderati italiani ruotò, infatti, intorno al rapporto tra libertà civile e libertà
politica, e fu la prima che per loro diventò la meta irrinunciabile degli stati
moderni. Essa doveva essere estesa universalmente, mentre la seconda, la
libertà politica, assumeva contorni più incerti: la plebe doveva essere certamente innalzata alla dignità di popolo, per partecipare al potere politico, ma
questo doveva avvenire gradualmente nel corso del tempo. Nel frattempo
sarebbe divenuto importante instaurare delle forme di governo rappresentativo fondate su un’opinione pubblica diretta dalla classe più colta. Tale
lettura vorrebbe contribuire a restituirci un’immagine dei moderati italiani non attardati su battaglie di retroguardia, opinione questa radicata nella
storiograia italiana sull’argomento4. Un moderatismo cioè perfettamente
3. A.M. Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Einaudi, Torino 2000.
4. Guido de Ruggiero ne Il pensiero politico meridionale nei secoli XVIII e XIX, Laterza,
Bari 1954, pp. 217-218, parlando dei liberali napoletani protagonisti del moto del 1820-21,
aveva scritto che sin dall’inizio essi rivelarono «una tendenza schiettamente conservatrice
e moderata, che spesso contrasta[va] con la realtà dell’azione rivoluzionaria». Quel liberalismo non aveva «nessuno di quegli ardimenti, di quelle pregiudiziali antistatali, di quelle
insofferenze verso ogni vincolo, di quegli accenti individualistici: niente insomma di quel
fermento rivoluzionario che caratterizza[va] il liberalismo straniero, specialmente inglese,
da cui prende[va] il nome». Rosario Romeo ha parlato «di distacco dall’impostazione moderata», dopo il 1848, per opera di Massimo d’Azeglio e Camillo Cavour, quell’impostazione
che lo rendeva dubbioso sulla possibilità che uomini come Alessandro Manzoni od Antonio
Rosmini potessero «rientrare nella deinizione di liberalismo» (R. Romeo, Il giudizio storico
sul Risorgimento, Bonanno Editore, Catania, 1966, pp. 111-113). Sergio La Salvia ha approfondito questa prospettiva, rincarando la dose, ed affermando che dopo il 1848 vi fu «il
tracollo deinitivo ed irreversibile della proposta politica moderata», la cui ideologia divenne
«totalmente conservatrice». Secondo La Salvia «l’opera di Cavour e poi quella della Destra
indicarono che l’Italia avrebbe battuto altre vie per giungere a costituirsi nazione», quel liberalismo, infatti, attingeva «a principi e dottrine fondamentalmente diversi» dal semplice
«stare in mezzo» tra chi voleva conservare e chi voleva mutare, in esso vi era «la schietta
accettazione del sistema rappresentativo» e della «libertà dei moderni» (S. La Salvia, Il mo-
110
in linea con quello europeo più avanzato, inglese o francese, come anche
gli studi di Luca Mannori, Maurizio Isabella e Roberto Romani ci hanno
mostrato. Mannori per esempio si è chiesto: se quello che ci viene spesso
descritto è il quadro di una cultura liberale italiana chiusa e asittica, perché
la mobilitazione nei confronti della costituzione «divenne una realtà in tutti
gli Stati della penisola nei primi mesi del 1848»?5 Com’era potuto accadere
tutto questo? È chiaro che la risposta a questa domanda passa attraverso
una maggiore contestualizzazione delle battaglie politico-ideologiche in cui
furono coinvolti gli scrittori moderati durante il Risorgimento.
Prendendo una suggestione che sempre Pietro Costa ha ricavato dall’antropologo Francesco Remotti, cercherò anch’io di usare il concetto di “cittadinanza” come «un sacco vuoto»6. Che cosa s’intende con questa espressione? Dietro tale metafora sta l’idea che le convinzioni cognitive dello storico
debbano stare dietro le procedure euristiche e non dentro di esse. Questa
avvertenza metodologica perciò ci spinge, prima di tutto, ad esplorare un
campo semantico più vasto e quindi a cercare parole, espressioni lessicali od
deratismo in Italia, in U. Corsini, R. Lill, Istituzioni e ideologie in Italia e in Germania tra le
rivoluzioni, il Mulino, Bologna 1987, pp. 175-177). Per Raffaele Romanelli addirittura sarebbe improprio parlare di liberalismo «in mancanza di ordinamenti costituzionali e di sistemi
rappresentativi» e il pensiero dei moderati prima del 1848 essendo «del tutto privo di sensibilità costituzionale e ben povero di rilessioni dottrinarie sull’argomento» si allontanava
dal contemporaneo liberalismo europeo (R. Romanelli, Nazione e costituzione nell’opinione
liberale avanti il ’48, in P. L. Ballini (a cura di), La rivoluzione liberale e le nazioni divise,
Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Venezia, 2000, pp. 280-284).
5. L. Mannori, Il dibattito istituzionale in Italia al tornante degli anni Quaranta, in M.
L. Betri (a cura di), Rileggere l’Ottocento. Risorgimento e nazione, Carocci, Torino, 2010,
p. 64. Maurizio Isabella e Roberto Romani hanno rivisto letture come quelle di Romanelli
o La Salvia. Isabella nel suo studio su Cesare Balbo, ha cercato, contrariamente al primo,
«di collocare il pensiero politico di Balbo e dei suoi colleghi al centro dei dibattiti europei
contemporanei, in particolare francesi, su libertà e aristocrazia» (M. Isabella, Aristocratic
Liberalism and Risorgimento: Cesare Balbo and Piedmontese Political Thought after 1848,
«History of European Ideas», 6, 2013, p. 835). Romani ci ha mostrato che, benché fosse certamente vero che il moderatismo, e in particolare quello piemontese, si aggiornasse in un certo senso col 1848, mantenne il suo volto conservatore: «il compito che affrontò il Piemonte
negli anni Cinquanta dell’Ottocento fu formidabile. Esso consistette nel consolidamento del
governo costituzionale interno e, allo stesso tempo, nel sovvertimento dell’equilibrio di potere europeo, e probabilmente del potere temporale del Papa, senza scatenare la democrazia, o
peggio ancora, il socialismo» (R. Romani, Reluctant Revolutionaries: Moderate Liberalism
in the Kingdom of Sardinia, 1849-1859, «The Historical Journal», 1, 2012, p. 49, vedi anche
Id., Political Thought in Action: the Moderates in 1859, «Journal of Modern Italian Studies»,
5, 2012, pp. 593-607, e Liberal Theocracy in the Italian Risorgimento, «European History
Quarterly», 4, 2014, pp. 620-650).
6. P. Costa, La cittadinanza: un “Geschichtlicher Grundbegriff”?, in S. Chignola, G.
Duso (a cura di), Sui concetti giuridici e politici della costituzione dell’Europa, FrancoAngeli, Milano, 2005, pp. 255-256.
111
altri concetti che siano riconducibili a quello di cittadinanza. Pertanto non
ci occuperemo solo di libertà civile e politica, di diritti civili o politici, ma
anche di democrazia, sovranità popolare, governo rappresentativo, popolo e
nazione.
Come ho appena accennato è proprio la parola cittadinanza a rivelarsi
subito un problema perché dietro di essa stava l’ombra inquietante della
Rivoluzione francese, che, nel caso italiano, rimandava direttamente all’esperienza del Triennio giacobino.
Nella tradizione repubblicana, da quella classica attraverso il Medioevo
e il Rinascimento sino a Rousseau e Mably, come eficacemente avrebbe
riassunto il giurista Giuseppe Compagnoni nel 1797, con la parola cittadino si doveva intendere «colui che godeva di tutti i diritti della città» e
quindi anche della libertà politica. Questa accezione era quella di città e di
cittadinanza che avevano avuto gli antichi romani, i quali avevano goduto
di una «costituzione libera». Di essa, in parte, si era persa memoria prima
della Rivoluzione francese, perché i nostri padri, continuava Compagnoni,
«attaccava[no] a questo nome» solo l’idea «di una certa politezza di costumi
ed usi». In ogni caso l’esercizio effettivo della sovranità sarebbe spettato
solo a quei cittadini che potevano dirsi «padroni di sé» (sui juris), i quali,
«tutti insieme» andavano a costituire «uno stato libero»7. Luciano Guerci ha
mostrato come, durante il triennio vi fosse sempre stato un vaglio attento per
stabilire a chi spettasse, o meno, la cittadinanza8. Inoltre in quel periodo si
sarebbero ripresentate le dinamiche politiche che avevano caratterizzato la
Francia post-termidoriana. Da una parte c’erano cioè i fautori di una democrazia più partecipata, egalitaria, universalistica, dall’altra i sostenitori di un
governo fondato sul principio rappresentativo9. Un governo, come avrebbe
scritto Vincenzo Cuoco, che andava afidato «agli ottimi», o a «un congresso
di savj», e non certo «al popolo inetto». Sempre lo stesso Cuoco, rivolgendosi a Vincenzio Russo, avrebbe scritto che «il popolo dotato di cittadinanza
politica non è mai stato (e non è) sinonimo di tutti»10.
7. G. Compagnoni, Elementi di diritto costituzionale democratico (1797), Cet, Firenze
1987, pp. xxxiii-xxxiv, 43-44.
8. L. Guerci, Istruire nelle verità repubblicane. La letteratura politica per il popolo
nell’Italia in rivoluzione (1796-1799), il Mulino, Bologna 1999, p. 199.
9. L. Guerci, “Democrazia rappresentativa”: deinizioni e discussioni nell’Italia del
triennio repubblicano (1796-1799), in P. Alatri (a cura di), L’Europa tra illuminismo e restaurazione. Scritti in onore di Furio Diaz, Bulzoni, Roma 1993, pp. 230-275.
10. V. Cuoco, Frammenti di lettere dirette a Vincenzio Russo (1799), in Id., Saggio storico
sulla rivoluzione di Napoli, Sonzogno, Milano 1806, p. xxviii, N. di Maso, Il repubblicanesimo di Vincenzo Cuoco. A partire da Machiavelli, Cet, Firenze 2005, p. 207. Scriveva ancora
Cuoco contro l’astratta concezione rivoluzionaria: «non amo quella cittadinanza chimerica
112
Tra i sostenitori del governo rappresentativo in opposizione alla democrazia giacobina vi era stato anche Giandomenico Romagnosi il quale aveva distinto la nazionalità, come «cittadinanza subalterna», dalla quale discendevano determinati diritti e competenze, dall’altra cittadinanza, quella
«eminente» cioè a dire la facoltà di esercitare il potere popolare. Questo
era sì aperto, in linea teorica, a tutti i «nazionali» ma non era riservato ad
ognuno di essi, perché sottintendeva la contestuale presenza della capacità,
dell’indipendenza, della padronanza di sé, della proprietà.
L’idea che dalla prima cittadinanza derivasse necessariamente la seconda, «ipso jure» era il frutto di una sorta di «democratismo sbrigliato». Per
Romagnosi andava perciò evitata ogni forma di «specolativa dogmatica
uguaglianza»11.
Anche Carlo Botta, in alcune delle pagine che più avrebbero ispirato i
patrioti del Risorgimento, aveva ricordato che i repubblicani italiani volevano fare dell’Italia un patriziato con una potenza popolare moderata che
prevedesse, nello stesso tempo, «l’egualità dei diritti civili» e l’«inegualità
di diritti politici». Nessuno stato, infatti, poteva fondarsi se non sul dominio
degli uomini autorevoli e la stessa opinione dei popoli alla lunga avrebbe
fuggito gli «esagerati» per seguitare i «savj»12.
Il primo storico italiano della Rivoluzione francese, Lazzaro Papi, si sarebbe espresso in linea con Botta: nel momento in cui si entrava in una
società si doveva godere di un’uguaglianza non più «naturale» ma «civile»
nei diritti, lasciando quindi perdere qualsiasi dichiarazione astratta di questi.
Per essere un cittadino a tutti gli effetti si doveva quindi fare una distinzione
preliminare tra proprietari e non proprietari: solo i primi, infatti, avevano
interesse a conservare e difendere il territorio. Questa la ragione per cui,
secondo il classico topos repubblicano e rousseauviano, si doveva fare il
possibile per estendere il numero dei proprietari, escludendo però dalla cittadinanza piena sia gli eccessivamente ricchi che i poveri13.
Fin qui le opinioni di autorevoli scrittori che avevano simpatizzato o
aderito ai rivolgimenti originati dalla Rivoluzione francese, ma che senza
dubbio avevano ripiegato verso forme di sostegno più moderate al governo
rappresentativo.
per cui un uomo appartiene ad una nazione intera, mentre non appartiene a veruna sua parte:
vorrei che ogni uomo prima di avere una nazione avesse una patria» (V. Cuoco, Frammenti di
lettere dirette a Vincenzio Russo, cit., p. xlvii).
11. G.D. Romagnosi, Istituzioni di civile ilosoia ossia di giurisprudenza teorica (postumo), in Id., Opere, Piatti, Firenze 1845, vol. III, pp. 251-253.
12. C. Botta, Storia d’Italia dal 1789 al 1814 (1824), Giachetti, Prato 1862, pp. 225-226.
13. L. Papi, Lettere inedite di Pietro Giordani e Lazzaro Papi con un frammento inedito
di quest’ultimo, Baccelli, Lucca 1851, pp. 133-146.
113
Se volessimo sintetizzare come il problema della cittadinanza si presentò
agli autori moderati del periodo che va dalla ine dell’epopea napoleonica
alla ine degli anni Trenta, potremmo utilizzare le parole che il ilosofo Pasquale Galluppi aveva rivolto al parlamento napoletano nel 1820: «Io cerco
dunque: quale è quella libertà civile, di cui deve godere il cittadino, in rapporto al potere politico in generale, prescindendo da qualunque forma di
governo?»14 Ricongiungendosi alla grande tradizione ilosoica napoletana
del Settecento, quella per intenderci dei Genovesi e dei Filangeri egli aveva
proclamato «l’eguaglianza de’ cittadini in faccia alla legge, la libertà del
pensiero, quella della coscienza, quella della persona, quella de’ propri beni
e della propria industria». La Rivoluzione aveva portato la democrazia ma
la nazione non era ancora pronta, nonostante si fosse cercato di imitare perfettamente i francesi, si sarebbe scatenato come reazione a questi il furore
popolare e solo la storia successiva avrebbe prodotto il bisogno reale di un
regime costituzionale, di un monarca in concerto con la nazione15.
Per Pietro Colletta la libertà politica portata dai francesi era stata «scienza di pochi dotti, appresa dai libri moderni, (…) troppo lontana dal vero».
Negli ordini civili e nella storia napoletana non si trovavano «pratica o segno
di uguaglianza» politica, nel 1799 perciò il popolo non la poteva neppure
concepire, «solamente l’ultima plebaglia inse d’intendere in quella voce
l’uguale divisione delle ricchezze e de’ possessi»16.
Gli eventi napoletani del 1820 secondo Luigi Blanch non avevano fatto
che sostituire il principio della dominazione con quello dell’associazione,
tenendo conto di uno spirito che allora pervadeva tutta l’Europa. I protagonisti della Rivoluzione francese, continuava Blanch in chiara sintonia con
Benjamin Constant, non avevano capito le differenze tra la libertà degli antichi e quella dei moderni. Quest’ultima aveva tratto la propria «spinta dallo
spirito commerciale» per il quale l’individuo stava al centro e la patria e le
leggi politiche avevano lo scopo di proteggere le sue libertà ed i suoi interessi17.
Anche per l’esule Giovanni Battista Marochetti nel 1837, sempre sulla
scia di Constant, la libertà politica non poteva essere che un mezzo per raggiungere quel ine che i popoli allora perseguivano, e cioè quello della liber14. P. Galluppi, Della libertà di stampa (1820), in Id., Opuscoli politico-ilosoici sulla
libertà, Morano, Napoli 1976, p. 35.
15. P. Galluppi, Lo sguardo dell’Europa sul Regno di Napoli (1820), in Id., Opuscoli
politico-ilosoici sulla libertà, cit., pp. 86, 89-93.
16. P. Colletta, Storia del reame di Napoli (1834), Utet, Torino 1975, pp. 301-303.
17. L. Blanch, La rivoluzione del 1820 e la reazione che ne seguì, in Id., Scritti storici,
Laterza, Bari 1945, vol. II, pp. 170, 172.
114
tà e dell’uguaglianza civile. La sovranità popolare perciò non poteva essere
considerata come un diritto astratto ma bisognava regolarne l’esercizio18.
Al principio degli anni Quaranta molti scrittori moderati avrebbero raccolto l’invito che Niccolò Tommaseo aveva formulato nel 1839: preparare
cioè «un’opinione concorde» su libertà, indipendenza ed unità d’Italia19. Secondo Luca Mannori, essi decisero di abbandonare proprio la prospettiva
giacobina, facendo leva su un nuovo pubblico pre-politico per creare quel
necessario consenso a quelle trasformazioni costituzionali che venivano invocate20.
La nazione, l’italianità iniziarono così a essere considerate il presupposto
per la creazione di un popolo moderno, per la concessione dei diritti politici,
in altre parole di una cittadinanza in senso stretto, là dove, in senso lato,
avrebbe poi scritto Vincenzo Gioberti, «la cittadinanza patria» era una sola
e ne era alla base21.
Nel dibattito che si sarebbe sviluppato in seguito alla pubblicazione del
Primato, l’Italia doveva recuperare prima di tutto la sua vita come nazione e
questo per Gioberti poteva avvenire solo attraverso l’unione politica, perché
c’era sì una stirpe italiana comune, ma era irrimediabilmente divisa22. Anche
Cesare Balbo avrebbe parlato di «un’antica ed incontrastabile Italia»23, e per
Massimo D’Azeglio alla nazione italiana era stata «rapita la celeste eredità
lasciatele dal padre comune di tutti gli uomini, l’indipendenza», tale questione rappresentava perciò «una gran mina scavata sotto l’intera penisola»,
ma a differenza di Grecia e Spagna l’Italia mancava ancora del «corpo di
nazione»24.
Popolo e nazione dunque dal punto di vista dell’indipendenza erano identici ma quando lo sguardo si rivolgeva all’interno dei singoli stati si afiancava, a quest’ultima accezione di popolo, una più ristretta. Per essa, infatti,
nelle parole di Balbo, il popolo non era altro che «la parte inferiore e meno
18. G.B. Marochetti, L’Italie. Ce qu’elle doit faire pour igurer inin parmi les nations
indépendentes et libres (1837), Lamoin, Marseille 1838, pp. 236-238.
19. N. Tommaseo, Un affetto. Memorie politiche (1839), Edizioni di storia e letteratura,
Roma 1974, p. 32.
20. L. Mannori, Il dibattito istituzionale in Italia al tornante degli anni Quaranta, cit.,
pp. 69-71.
21. V. Gioberti, Del rinnovamento civile d’Italia, Bocca, Parigi-Torino 1851, vol. I, p.
305.
22. V. Gioberti, Del primato morale e civile degli italiani (1843), Meline, Cans Brusselle
1845, p. 50.
23. C. Balbo, Delle speranze d’Italia (1843), Tipograia elvetica, Capolago 1844, p. 37.
24. M. d’Azeglio, Degli ultimi casi di Romagna, Tipograia della Svizzera italiana, Lugano 1846, pp. 3, 20.
115
educata della nazione» e quindi l’espressione «sovranità del popolo» non poteva essere che un’espressione dogmatica, in quanto, se si doveva fare appello al popolo si doveva intendere quello «de’ colti e sodi» a cui si era rivolto
anche Gioberti25. Questi pure, infatti, aveva considerato il dogma della sovranità popolare contrario al «tenore generale della scienza». Se tutti i cittadini
avessero partecipato ugualmente ai diritti politici, non ci sarebbe mai stata
libertà, perché non ci sarebbe stato freno agli abusi di potere. L’America rappresentava «un’oligarchia spaventevole, dove una razza di uomini opprimeva
crudelmente due altre razze». All’uguaglianza civile doveva corrispondere la
diseguaglianza nel merito, «il giure politico» doveva emanare direttamente
dal principe che avrebbe comunicato «un raggio della sua maestà»26. In egual
modo la pensava Balbo secondo cui le esperienze repubblicane, da quelle
antiche a quelle della Svizzera e dei Paesi Bassi, prevedevano la libertà solo
per alcuni signori in mezzo a molti schiavi, oppure semplicemente stabilivano la tirannia di una classe; anche la repubblica americana non era immune
dal peggiore dei vizi politici dell’antichità, quello della schiavitù. Era proprio riguardo a queste esperienze che Balbo pensava che, solo attraverso il
sistema rappresentativo, saremmo arrivati a un’equa distribuzione dei diritti
politici27. D’Azeglio avrebbe rilevato come le parole «sovranità del popolo»
suscitassero disordine e fossero furiosamente combattute. Per questo proponeva di sostituirle con l’espressione «consenso generale». Era pertanto
innegabile che, ormai, si dovesse concedere al popolo una parte attiva nella
direzione dei propri interessi e la nazione dovesse rappresentare la più sicura
base per i troni, ma era comunque un errore pensare che gli ordinamenti
fossero il frutto della volontà degli uomini. Erano, infatti, gli individui più
«potenti» che dovevano dirigere l’opinione pubblica e consigliare i principi;
in ciò consisteva l’effettiva restaurazione del sistema rappresentativo28.
In questo dibattito Giacomo Durando avrebbe cercato di esorcizzare lo
spettro della rivoluzione francese facendo notare come ogni volta che si parlava di libertà politica i suoi avversari vi vedevano il popolo dei «berretti
frigi». In realtà era solo attraverso questa libertà che si poteva dare nuovo
vigore alla monarchia, non solo essa era il frutto dei tempi, ma costituiva un
nesso imprescindibile nel raggiungimento dell’indipendenza, e lo strumento
25. C. Balbo, Della monarchia rappresentativa in Italia (postumo), Le Monnier, Firenze
1857, p. 181, Id., Delle speranze d’Italia, cit., 202.
26. V. Gioberti, Del primato morale e civile degli italiani, cit., pp. 174, 315-317, Id.,
Lettre sur les doctrines philosophiques et politiques de M. de Lamennais (1840), MelineCans, Bruxelles 1845, p. 72.
27. C. Balbo, Della monarchia rappresentativa in Italia, cit., pp. 39-48, 177.
28. M. d’Azeglio, Degli ultimi casi di Romagna, cit., p. 99, Id., Proposta d’un programma
per l’opinione nazionale italiana, Le Monnier, Firenze 1847, pp. 18, 44.
116
stesso della coesione nazionale. Il guazzabuglio delle vecchie concezioni di
libertà che avevano caratterizzato il mondo antico ma anche quello delle vecchie repubbliche italiane del medioevo doveva essere sostituito dalla nuova
concezione del governo rappresentativo, la «sola capace di confondere in
una nazionalità comune le sub-nazionalità, riluttanti e anche nemiche»29.
Una posizione particolare fu certamente quella espressa da Antonio Rosmini che scrisse sull’onda degli avvenimenti del 1848-49 e parve cercare una sorta di terza via tra la concezione democratica e quella espressa
dai “dottrinari” che tanto avevano inluenzato i moderati italiani30. Rosmini
dunque da una parte respingeva il dogma della sovranità popolare perché
questo prevedeva
che a ciascun uomo competesse di avere una parte uguale nel governo: quasiché la
sovranità fosse annessa alla natura dell’uomo e non fosse una conseguenza delle
relazioni sociali.
Gli uomini erano «certamente uguali per ciò che riguarda il diritto naturale», ma questo non signiicava che dovessero esserlo anche «in una società
che string[evano] tra loro». La sovranità per Rosmini dipendeva dalla proprietà e doveva rilettere la sua distribuzione.
Dall’altra egli mostrava di capire come l’intento dei dottrinari fosse stato
certamente quello «di allargare la base del governo» sperando di poterla
migliorare e rinforzare «con una maggiore capacità di lumi», garantendo
«senno e probità», ma anche «senza riconoscere nei governati alcun diritto
d’inluenza nel governo medesimo e di sindacarlo». Questa scelta inoltre
non scioglieva
il gran problema dell’ordinamento costituzionale degli stati, e riconduce[va] presto o
tardi la nazione indebitamente al primo sistema,
quello della sovranità popolare, che poi non era altro che il «dispotismo del
basso popolo»31. Quello che certamente premeva di più a Rosmini era, sia la
protezione dei diritti naturali, che l’uguaglianza civile di fronte alla legge;
su questi aspetti, infatti, si fondava «il comune diritto di cittadinanza» che
29. G. Durando, Della nazionalità italiana. Saggio politico-militare, Bonamici e
Compagni, Losanna 1846, pp. 163, 172, 176.
30. La posizione dei dottrinari ebbe una notevole inluenza sui “moderati” italiani, come
ha ben documentato Maurizio Isabella nel suo saggio sulla libertà di stampa e l’opinione
pubblica durante il periodo del Risorgimento. (M. Isabella, Freedom of the press, public
opinion and liberalism in the Risorgimento, «Journal of Modern Italian Studies”, 5, 2012,
pp. 551-567).
31. A. Rosmini-Serbati, La costituzione secondo la giustizia sociale con un’appendice
sull’unità d’Italia, Giuseppe Radaelli, Milano 1848, pp. 49, 56.
117
apriva a tutti gli italiani la possibilità di accedere «agli impieghi di ciascun
stato», a tutti gli italiani di un’Italia caratterizzata dalla «varietà delle sue
stirpi non fuse ancora in una sola», dalle «differenze dei suoi climi, delle sue consuetudini, delle sue educazioni, dei suoi governi, dei suoi cento
dialetti»32. La protezione delle libertà che riguardava ogni cittadino senza
alcuna distinzione era meglio garantita da una costituzione monarchica, nella
quale doveva trovare posto il tribunale politico, un’istituzione eletta da una
sorta di suffragio universale che doveva tutelare i diritti umani nella società33.
Nel campo moderato ebbe ripercussioni importanti la svolta democratica di Gioberti, che prese piede nel dicembre del 1848. Il discorso che egli
fece alla camera in occasione della formazione del suo ministero, un ministero che voleva riprendere le ostilità contro l’Austria, dopo l’armistizio di
Salasco, divenne esempliicativo del nuovo ruolo che la parola democrazia
sarebbe venuta ad assumere nel contesto italiano. Per Gioberti essere democratici signiicava innalzare la plebe alla dignità del popolo, rispettare
l’uguaglianza dinnanzi alla legge, curare l’interesse della metropoli come
quello delle province, costituire una guardia nazionale a difesa della libertà.
«La democrazia intesa in questi termini», continuava Gioberti, non poteva
«ingelosire nessuno».
Essa è la sola che risponda al suo nome e sia degna veramente del popolo, come quella
che virtuosa, generosa, amica dell’ordine, della proprietà, del trono, è alienissima dalla
licenza, dalle violenze, dal sangue; e non che ripulsar quelle classi che in addietro
chiamavansi privilegiate, stende loro amica la mano, e le invita a congiungersi seco
nella santa opera di salvare e felicitare la patria34.
Nel Rinnovamento del 1851 Gioberti avrebbe criticato Balbo, D’Azeglio
ma anche Guizot per non aver capito che la questione della forma di governo
era secondaria una volta che il regno fosse stato informato dalla democrazia.
La nazionalità rappresentava la base per ogni franchigia e non si doveva
temere la libertà politica, in quanto tale, «di per se stessa non era buona né
rea», scriveva Gioberti, essa certamente non doveva essere concessa con una
32. Ibid., pp. 99, 103.
33. Con il “tribunale politico” Rosmini apriva dunque all’idea di suffragio universale,
perché mentre la proprietà avrebbe dovuto essere tutelata dal parlamento che ne curava e ne
proteggeva gli interessi, la libertà riguardava tutti indistintamente. Questa la ragione per cui
tale organo poteva «dirsi democratico, in quel modo che è democratica la giustizia: poiché
questa esige (...) che tutti gli uomini e le persone morali si considerino eguali quando vengono ad essa innanzi per essere giudicati» (A. Rosmini-Serbati, Della naturale costituzione
della società civile, Grigoletti, Rovereto, 1887, p. 332). Vedi anche G. Campanini, Rosmini
politico, Giuffrè, Milano 1990, pp. 49-66, 109-143.
34. In G. Rumi, Gioberti, il Mulino, Bologna 1999, pp. 22-23.
118
funzione livellatrice, ma in modo «graduale ed armonico», tenendo conto
che era uno strumento «per ordinare a civiltà». Si doveva accordare con virtù
e scienza, sfumando i conini tra le classi stesse. La rappresentanza prevedeva «la parità essenziale di tutti gli uomini» e «la disparità individuale e
accidentale del valore». La proprietà e la ricchezza non potevano più essere
il vero discrimine. Nel «voto universale» la plebe inalmente avrebbe scelto
i migliori, si sarebbe così salvata «l’uguaglianza senza scapito della cultura». In tale concezione, gli Stati Uniti assurgevano ora, a dispetto di quanto
scritto qualche anno prima, a modello di vera democrazia rappresentativa35.
Ovviamente la maggior parte dei moderati non si sarebbe riconosciuta
pienamente nella svolta di Gioberti. Col 1848 quasi tutti, anche quelli più
restii, come il conte Ilarione Petitti di Roreto, avrebbero alla ine accettato in
via di principio la necessità del governo rappresentativo36, ma avrebbero contrastato comunque il principio della sovranità popolare, già deinita da Gino
Capponi, «legal menzogna e nome vano»37. Cavour continuò a considerare
il voto concesso a tutti un grave errore che si fondava sulla fallace dottrina,
conseguenza di uno dei più pericolosi soismi dei tempi moderni, che proclamava il diritto di partecipazione al governo della società, diritto di natura38.
Per il conte Filippo Linati conferire alla moltitudine la somma dei diritti
privati, per quanto li considerassimo «sacri e legittimi», di fatto li annullava
tutti, perché li rendeva soggetti non solo alla «norma della comune utilità»
ma anche «al piacere della plebe dominatrice». L’autorità sociale doveva
rimanere «intrinsecamente libera ed indipendente dalla parziale volontà dei
soci»; il suffragio universale non era altro che l’applicazione del libero esame alla vita pubblica, ed «una tal dottrina trasportata nella politica dovea
necessariamente trar seco perniciosissime conseguenze»39. Nel 1852 Domenico Carutti avrebbe scritto che il vizio radicale del giusnaturalismo stava
«nel derivare l’origine autoritativa dei doveri nella decisione umana», senza
35. V. Gioberti, Del rinnovamento civile d’Italia, Bocca, Parigi-Torino 1851, vol. I, pp.
30-31, 155, 187, vol. II, pp. 274-283.
36. Petitti aveva scritto che «la tendenza democratica» era ormai «passata nel comune
convincimento» e non era affatto «inconciliabile con la forma della monarchia rappresentativa, la quale [poteva] benissimo ordinarsi a modo democratico» (C.I. Petitti di Roreto, Sull’attuale condizione del Risorgimento italiano. Pensieri (1848), in Id., Opere scelte, Fondazione
Luigi Einaudi, Torino 1969, vol. II, pp. 945-946.
37. In R. Romanelli, Nazione e costituzione nell’opinione liberale avanti il ’48, cit., p. 287.
38. C. B. Cavour, Tutti gli scritti di Camillo Cavour, Centro studi piemontesi, Torino,
1976, vol. III, pp. 1104-1105. Cfr. M. Salvadori, Il liberalismo di Cavour, in U. Levra (a cura
di), Cavour, l’Italia e l’Europa, il Mulino, Bologna 2011, pp. 81-83, L. Salvatorelli, Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870, Einaudi, Torino 1941, pp. 299-300, 310.
39. F. Linati, Nuova teoria del sistema rappresentativo (1848), Pomba, Torino 1848, pp.
8, 17, 42.
119
riconoscere alcun «imperativo superiore e preesistente». La sovranità non
poteva essere riposta solo nel popolo, «la sola qualità d’uomo non [dava]
diritto al comando», questo spettava all’intelligenza e darla vinta al «numero» signiicava abbandonarsi «al primato dell’ignoranza e alla imbecillità
intellettiva»40. Anche Terenzio Mamiani avrebbe sottolineato la «razionalità» del governo rappresentativo, poiché «la saggezza civile non [poteva] dimorare nel cuor della moltitudine che è la parte più passionata ed ignorante
del genere umano»; la plebe era infatti incapace «di conoscere e di giudicare del generale», di fare astrazione da quel «poco e male» che conosceva.
Per queste ragioni «i soli ottimi d’intelletto e di cuore [dovevano] esercitare
l’impero e dettar le leggi», dovevano «reggere la cosa pubblica», perché non
ricevevano un mandato dal popolo, bensì «dalla natura e da Dio». Il popolo
doveva solo riconoscerli attraverso il suffragio, disponendosi così a obbedirli. La sovranità, dunque, non poteva risiedere che «nella ragione e non
mai nelle creature umane», quindi, in sostanza, doveva scemare «la diretta
partecipazione del cittadino al governo». Queste considerazioni, comunque,
non dovevano far mettere in discussione «la perfetta uguaglianza giuridica».
In fondo, ricordava Mamiani, in polemica con i repubblicani, in quelle esperienze passate le libertà civili erano esistite solo nel raggio stabilito da un
tratto di balestra scoccato dalle mura cittadine.
L’Italia, come altre nazioni avevano fatto prima di lei, aveva riconosciuto
di appartenere a una sola grande cittadinanza. Prima di tutto la lingua volgare
scritta aveva fatto sviluppare il senso della propria dignità, ma anche l’amore
per la libertà e l’indipendenza e la comunanza d’interessi avevano contribuito
a costruire la nazione. Nonostante si riconoscessero come aventi origini in
un sol ceppo, le genti d’Italia, sembravano scaturite da schiatte diverse, per
secoli confuse tra loro, ma da ultimo si erano inalmente congiunte, uniicandosi «spiritualmente con una specie stessa di tradizioni, di lettere, d’arti, di
religione, d’indole, d’inclinazione, di proponimenti e di ini»41.
Ci sembra quindi evidente, per concludere, che, a partire dal triennio
giacobino, sino all’unità d’Italia, si possa intravedere una linea di pensiero
moderato che andò gradualmente accettando la necessità del governo rappresentativo e la tutela della cosiddetta “libertà dei moderni”, rimanendo
scettica e dubbiosa sull’utilità del suffragio universale, se non addirittura
ostile, una linea moderata che certamente aveva due frange una più conservatrice e l’altra più progressista ma che poneva comunque al centro della
cittadinanza l’individuo con tutti i suoi diritti.
40. D. Carutti, Dei principi del governo libero (1852), Stabilimento tipograico, Napoli
1860, pp. 32, 84, 108.
41. T. Mamiani, D’un nuovo diritto europeo, Italia, 1860, pp. 238-241, 48, 251-252.
120
La cittadinanza in Inghilterra da
The English Constitution al Welfare State
Carmelo Calabrò
L’oggetto della mia sintetica ricostruzione storico-critica è il discorso sulla cittadinanza1 in Inghilterra tra Ottocento e Novecento; o meglio,
i diversi discorsi sulla cittadinanza, giacché dall’età vittoriana al secondo
dopoguerra il rapporto tra soggetto e ordine, cittadino e stato, individuo
e società, è stato declinato secondo traiettorie ideologiche e interpretative
differenti. Il mio tentativo è stato quello di dare ordine prospettico a «una
trama dall’esito non scontato in ogni sua parte»2, e che tuttavia si snoda in
corrispondenza con il progressivo ampliarsi e rafforzarsi dello statuto della
cittadinanza. La dificoltà di un’operazione del genere è consistita nel delineare un processo a tappe, evitando, per quanto possibile, sempliicazioni
eccessivamente schematiche, senza tuttavia dimenticare che alcuni luoghi
comuni storiograici possono contenere una parte di verità.
Seguire le metamorfosi della cittadinanza lungo l’arco temporale qui
considerato signiica dover fare preliminarmente i conti con due stereotipi
strettamente collegati. Il primo consiste nell’identiicazione dell’età vittoriana con l’individualismo liberale e la fede nel mercato. Il secondo, nell’idea
di uno spartiacque, tanto decisivo nella sua portata quanto cronologicamente luttuante, oltre il quale si avrebbe un rovesciamento di Zeitgeist, con
l’abbandono del liberalismo classico in favore di una visione organicista e
statalista dell’ordine sociale. I due stereotipi interconnessi trovano riscontro
nelle pagine di autorevoli interpreti, che osservano in presa diretta il compimento della transizione.
1. P. Costa, Cittadinanza, Laterza, Roma 2005, p. 5.
2. C. Palazzolo, La cultura politica britannica tra Ottocento e Novecento. Scenari interpretativi, Ets, Pisa 2014, p. 7.
121
Per il celebre giurista Albert Venn Dicey, è a partire dalle «agitazioni
politiche del biennio 1866-1867»3, volàno del Reform Act del 1867, che
comincia la virata dall’egemonia del liberalismo all’affermarsi del collectivism, sospinta dall’istituzione a tappe della democrazia. Nel signiicato attribuitogli da Dicey, l’espressione collectivism non designa la collettivizzazione dei mezzi di produzione, bensì la graduale affermazione della «scuola
di opinione» chiamata anche «“socialismo”, favorevole all’intervento dello
stato, anche a costo di qualche sacriicio per la libertà individuale, allo scopo
di garantire dei beneici alla massa del popolo»4. Dicey individua in quattro
tendenze della legislazione il segno di un diverso modo di concepire il ruolo
dello stato in rapporto ai cittadini: ampliamento della protezione pubblica, limitazione della libertà di contratto, prevalere dell’azione collettiva su
quella individuale, riequilibrio nella distribuzione dei vantaggi economici e
sociali. Si tratta di un “socialismo” light, estraneo alla versione rivoluzionaria, avallato da classi dirigenti di comprovata fedeltà al sistema e di orientamenti anche opposti: un “socialismo” che ha trovato terreno fertile tanto
nell’«umanitarismo dei tories»5, quanto nell’idealismo liberale del «prof.
T.H. Green»6.
Dieci anni dopo, nel suo classico Political Thought in England. From
Herbert Spencer to the Present Day, Ernest Barker sposterà al 1880 l’eclissarsi della dottrina che «postula il non intervento come dovere supremo dello Stato», con effetti che non riguardano solo la sfera delle idee, ma anche il
terreno concreto dei «fatti»7.
L’individuazione di scansioni epocali è tanto inevitabile a ini “narrativi”
quanto aleatoria sotto il proilo analitico. Dalle stesse pagine di Dicey e Barker si evince peraltro chiaramente che la rappresentazione di un dominio liberale soppiantato dall’ideologia “collettivista” è una sempliicazione dietro
la quale è facile scorgere qualcosa di più complesso e sfumato. Lo stereotipo
3. A.V. Dicey, Diritto e opinione pubblica nell’Inghilterra dell’Ottocento (1905), il Mulino, Bologna 1997, p. 270.
4. Ivi, pp. 120-121. Come ha notato Claudio Palazzolo, «un uso siffatto del termine “socialismo” o “collettivismo” rinvia a una consuetudine che la cultura politica inglese aveva
maturato da tempo…per esprimere lo scandalo (degli avversari) o lo stupore compiaciuto
(dei simpatizzanti) davanti al risultato complessivo dei Factory Acts e all’impegno sociale
accessorio di ogni nuova riforma del diritto del lavoro» (Dal Fabianesimo al Neofabianesimo. Itinerari di storia della cultura socialista britannica, Giappichelli, Torino 1999, p. 12).
5. A.V. Dicey, Diritto e opinione pubblica nell’Inghilterra dell’Ottocento, cit., p. 243.
6. Ivi, p. 399.
7. E. Barker, Political Thought in England. From Herbert Spencer to the Present Day,
Williams and Norgate, London 1915, p. 20. In realtà, Barker aggiunge che già dal 1870 lo
Stato ha ampliato la sua sfera di intervento, in particolare nel campo dell’educazione (Ibid.).
122
del turning point non è fuorviante, a patto di considerarlo alla stregua di uno
schema generalizzante; solo così è possibile cogliere la natura contrastata
dell’egemonia liberale e le metamorfosi del liberalismo stesso, insieme di
tendenze culturali irriducibili a un corpus dottrinario omogeneo.
The English Constitution e la cittadinanza diseguale
Il lungo cammino dell’Inghilterra in direzione della democrazia trova nel
Reform Act del 1832 il suo punto simbolico d’avvio. Un inizio molto timido,
in termini di allargamento del suffragio8, che in concreto non costituisce
l’effetto più rilevante della riforma. Il 1832 scaturisce in primo luogo dalla
volontà di modiicare gli equilibri costituzionali alla luce di nuovi rapporti
di forza caratterizzati dall’ascesa della borghesia inanziaria e imprenditoriale. La rideinizione dei collegi elettorali registra lo spostamento dell’ago
della bilancia sociale dalla terra alla città9, a dire il vero in misura molto
limitata. Senza dubbio la «proprietà reale» e la «rispettabilità reale» concentrata nei nuovi centri urbani assumono maggior peso politico10, ma con
sacriicio contenuto da parte dell’aristocrazia terriera11. La middle class (più
correttamente la upper middle class) comincia a esprimere un proprio ceto
politico, senza che la composizione sociale del Parlamento subisca stravolgimenti strutturali. In sostanza, la riforma del 1832 estromette gli strati po8. La legge estendeva il diritto di voto ai proprietari e agli afittuari di una casa del valore
annuo di 10 sterline, i ten-pounds householders (Reform act of 1832, in Selected documents
of English constitutional history, 1901, articolo XVIII, p. 515).
9. Com’è noto, la riforma colpiva in particolare i rotten boroughs, villaggi di campagna
spopolati, la maggior parte dei quali era sotto l’inluenza di un patrono locale. La legge privava di rappresentanza 56 borghi con meno di 2000 abitanti e dimezzava i seggi assegnati in 30
borghi con meno di 4000 abitanti (Reform act of 1832, in Selected documents of English constitutional history, cit., articolo I, p. 514). I seggi liberati andavano in parte a costituire nuove
circoscrizioni in centri urbani industriali come Londra, Manchester, Leeds, Birmingham.
10. A. Briggs, L’età del progresso. L’Inghilterra fra il 1783 e il 1867, il Mulino, Bologna
1993, p. 274.
11. Di fatto, il ridimensionamento dei borghi scarsamente popolati era compensato
dall’aumento dei seggi appannaggio delle contee, dove il voto ino ad allora «limitato a liberi
possessori di terre con un’entrata di quaranta scellini, fu esteso ai ittavoli con un emendamento che il ministero era stato obbligato ad accettare per la pressione dei proprietari terrieri
whig che componevano il nucleo più importante del partito della riforma alla Camera. Nessuno avrebbe potuto criticare l’estensione del suffragio ai ittavoli, se fosse stata accompagnata
della protezione del voto segreto. Ma col sistema del voto “aperto” questa nuova categoria
d’elettori non aveva alcuna indipendenza, e il loro nuovo diritto elettorale non faceva altro
che aumentare il dominio dei loro signori sui seggi delle contee, ora cresciuti di numero»
(G.M. Trevelyan, Storia dell’Inghilterra nel secolo XIX, Einaudi, Torino 1971, p. 251).
123
polari dalla cittadinanza politica e risponde all’esigenza di dare al sistema
una curvatura favorevole alle classi emergenti senza metterne a repentaglio
i principi cardine: difesa della proprietà e accesso ai diritti politici a base
censitaria.
Tuttavia, il primo Reform Act innesca un processo di cambiamento nella
percezione della English Constitution sotto l’aspetto cruciale dei principi
di legittimazione del potere. Lentamente ma in profondità, il rispetto delle «istituzioni venerabili», consacrate da consuetudini immemoriali, cede il
posto all’idea che la volontà nazionale possa materializzarsi esclusivamente
mediante l’elezione dei rappresentanti12. È il grimaldello della democrazia.
Esponente esemplare del whiggism uscito trionfante dal 1832 è Walter Bagehot. Figlio dell’élite inanziaria in ascesa, dal 1861 direttore dell’«Economist», Bagehot incarna il liberalismo aliere della modernità incentrata sull’economia di mercato, che prende le distanze dalla paludata
cultura tory e difida al contempo delle imprudenti aperture nei confronti
della democrazia13. Le valutazioni di Bagehot sul Reform Act testimoniano
eficacemente tale sentiment.
A distanza di un trentennio dalla sua introduzione, la riforma è cosiderata
«successful»14. È vero che il riequilibrio tra le ragioni delle «growing parts»
(borghesia emergente) e le ragioni delle «stationary parts» (aristocrazia
terriera)15 è stato molto parziale, ma proprio l’estrema cautela del cambiamento ha impedito che le maglie del sistema fossero deformate dalla pressione democratica. Bagehot non ha dubbi nell’individuare tra le ila delle
«growing parts» la presenza dei «fairly instructed men»16 adatti a governare
una società sempre più sviluppata e complessa. Uomini istruiti, competenti
e pratici, che offrono le maggiori garanzie di buon governo, poiché costituiscono la parte «più disinteressata, la più indipendente»17 del paese. Ma
l’autolegittimazione della propria classe, votata naturaliter a governare la
modernità, è accompagnata dal riconoscimento della funzione vantaggiosamente stabilizzatrice svolta dalle «stationary parts». È opportuno, e inevita12. A.V. Dicey, Diritto e opinione pubblica nell’Inghilterra dell’Ottocento, cit., p. 102.
13. Sul pensiero politico di Bagehot, mi permetto di rinviare a C. Calabrò, Tra equilibrio
ed esclusione: classi dominanti, élite delle ‘fairly intelligent persons’ e interessi sociali in
Walter Bagehot (1859-1872), in Classe dominante, classe politica ed élites negli scrittori politici dell’Ottocento e del Novecento, Volume I, Dal 1850 alla prima guerra mondiale, Centro
Editoriale Toscano, Firenze 2008, pp. 227-248.
14. W. Bagehot, Parliamentary Reform, in Collected Works, Harvard University Press,
Cambridge 1968, vol. VI, p. 187.
15. Ivi, p. 193.
16. Ivi, p. 188.
17. Ivi, p. 222.
124
bile, che le cosiddette parti «nobili» della Constitution cedano sempre più il
controllo effettivo della macchina governativa, ma esse rimangono indispensabili nell’assolvimento di un compito cruciale: «stimolano e mantengono la
reverenza del popolo»18.
Il concetto di deferenza, e la retorica che lo identiica con il national chararcter, rivela il côté disegualitario dei «moderate Liberals»19. Nella concezione di Bagehot, il popolo è prevalentemente, e invariabilmente, composto
di soggetti mediocri – i «membri dei pub»20 – che si sottomettono volentieri
all’ordine costituito proprio in virtù dello spirito di deferenza nei confronti
delle classi superiori. L’idea di democrazia contrasta con il national character e corrompe la deferenza illudendo il popolo di potersi autogovernare.
Il Reform Act del 1867 voluto dal conservatore Disraeli introduce un
ampliamento del suffragio che va proprio nella direzione avversata da Bagehot21. Finora formato da «persone scelte, selezionate»22 con adeguati iltri
censitari, il Parlamento rischia di essere stravolto nella composizione e snaturato nella vocazione. Non più corpo tendenzialmente «neutrale, omogeneo
ed imparziale»23, animato dalla dialettica tra conservatori e liberali entro
una cornice di valori fondamentali condivisi, ma tempio sconsacrato dalle
pretese della classe lavoratrice.
Il timore del liberale Bagehot è alimentato da un fenomeno prorompente:
l’organizzazione sempre più eficace delle forze del lavoro, volto minaccioso del positivo processo di industrializzazione dell’economia. I «membri
dei pub» non sono più moltitudine sciolta; sono lavoratori afiliati a Trade
Unions che intralciano la dinamica virtuosa del libero mercato e l’«useful
selishness»24, propellente indispensabile del progresso. Aprire le porte alla
democrazia signiica correre il serio pericolo che le istituzioni del paese
18. W. Bagehot, La Costituzione inglese, il Mulino, Bologna 1995, p. 47.
19. Id., Collected Works, cit., vol. VII, p. 229.
20. Id., La Costituzione inglese, cit., p. 154.
21. La riforma produsse di fatto un raddoppiamento del numero degli elettori. La Legge
conferiva a ogni hauseholder occupante, sia come proprietario sia come inquilino, una casa
di qualsiasi valore, purché domiciliato nel borgo da un anno e iscritto alla tassa dei poveri e
alle municipali, e a chiunque tenesse a pigione da un anno un appartamento del valore locativo netto di 10 sterline l’anno. Nelle parole della legge: «deve possedere il titolo per essere
registrato come elettore, e, una volta elettore, votare per uno o più membri rappresentanti una
contea in Parlamento, ogni uomo che sia qualiicato come segue: egli in qualità di afittuario
deve avere, in tale contea, occupato dei possedimenti per almeno un anno, e avervi risieduto,
parimenti, per almeno un anno» (Reform Act of 1867, in Selected documents of English Constitution history, cit., p. 533-34).
22. W. Bagehot, La Costituzione inglese, cit., p. 65.
23. Ivi, p. 63.
24. W. Bagehot, Collected Works, cit., vol. VIII, p. 23.
125
siano asservite agli interessi della classe numericamente maggioritaria. Due
le ipotesi poco rassicuranti avanzate nelle Conclusioni aggiunte nel 1872 a
La Costituzione inglese. La prima vede i partiti tradizionali fare dissennatamente «a gara per conquistare l’appoggio dei lavoratori»25. La seconda
corrisponde a uno scenario per certi aspetti più inquietante: la tentazione
che spinge gli «operai all’unione di classe»26 e la conseguente creazione di
un partito anti-sistema.
Libertà e cooperazione: l’idea di cittadinanza in John Stuart Mill
Nella seconda metà dell’Ottocento, diviene sempre più evidente il nesso
che lega democrazia, questione sociale e centralità del lavoro.
John Stuart Mill è senza dubbio l’esponente di maggior spicco della cultura inglese dell’epoca. Nella sua opera sterminata ritroviamo il tentativo di
gettare un ponte tra idee e valori potenzialmente in conlitto, coniugando i
principi classici del liberalismo con la disponibilità a prendere sul serio la
questione sociale e i diritti del lavoro.
Esclusione delle masse dall’agone politico e «good-government»27, esercitato con moderazione ed equilibrio da coloro che si presume sappiano
interpretare correttamente il bene nella nazione, sono il binomio inscindibile
del liberalismo à la Begehot. Con Mill, il governo rappresentativo si apre
all’esigenza di integrare gli interessi dei soggetti inora esclusi.
Giusta la prospettiva evoluzionista tipica del positivismo della seconda
metà dell’Ottocento, il regime rappresentativo è per Mill la forma ideale di
governo dei popoli civilizzati28. Nelle Considerations pubblicate nel 1861,
è espressa con chiarezza una convinzione: il representative government
rispecchia gli orientamenti della nazione in proporzione alla molteplicità
delle istanze sociali che è in grado di integrare e difendere. Fedele all’impostazione utilitaristica, Mill perora l’ampliamento del suffragio conside25. Id., La Costituzione inglese, cit., p. 275.
26. «Si deve ricordare che l’unione politica delle classi inferiori, sia di per sé che per i
suoi obiettivi, costituisce un male di prim’ordine. Una loro aggregazione permanente (adesso
che hanno il diritto di voto) le renderebbe onnipotenti; e questa supremazia, nelle condizioni
in cui attualmente si trovano, signiicherebbe il dominio dell’ignoranza sull’istruzione e della
forza dei numeri sulla competenza» (Ivi, p. 276).
27. W. Bagehot, Collected Works, vol. VI, p. 340.
28. Figlio del suo tempo, per quanto geniale e progressista, Mill sostiene con pari convinzione sia che «la miglior forma ideale di governo non potrà essere rintracciata che entro i vari
modelli del regime rappresentativo», sia che «un popolo non può avviare la civilizzazione se
prima non apprende l’arte dell’obbedienza» (Considerazioni sul governo rappresentativo, a
cura di M. Prospero, Editori Riuniti, Roma 1997, pp. 39 e 34).
126
rando ingiustiicata l’esclusione degli interessi popolari dalle garanzie della
rappresentanza29. La coerenza dell’impianto teorico è corroborata da una
visione progressiva della società inglese: a differenza di Bagehot, Mill ritiene che si possano creare le condizioni per trasformare le masse incolte in
un insieme di cittadini mediamente istruiti, capaci di partecipare con consapevolezza alla vita politica. Inoltre, l’ideale del self-development acquisisce
in Mill un’accezione sociale che integra i canoni del liberalismo classico:
l’affrancamento dei cittadini dal governo paterno passa non solo da una via
individuale, ma si realizza anche attraverso l’associazione30.
L’idea di cittadinanza che si può ricavare dalla lunga e travagliata rilessione teorica dell’autore di On Liberty è complessa e dinamica. Non occorre
richiamare lo spettro del dispotismo della maggioranza, temuto sulla scia
dell’amico Tocqueville, per aver presente quanto il sostegno all’inclusione
politica della classe lavoratrice conviva in Mill con l’esigenza di tutelare
le minoranze e preservare il governo dei migliori. Sotto questo proilo, le
considerazioni sul riconoscimento dei diritti politici e le proposte in materia
elettorale si intrecciano a deinire una trama bicromatica. La democrazia
non è una forma ideale di governo da istaurare ex abrubto, bensì un processo
che va governato con lungimiranza e cautela. È, questo, un assunto da tenere ben presente per comprendere le tensioni tra l’indicazione del suffragio
universale come meta da perseguire e l’esclusione temporanea di chi non
ha determinati requisiti per usare il voto correttamente; tra la necessità di
non estromettere il punto di vista degli strati popolari dalle istituzioni rappresentative e l’opportunità di ricorrere al “voto plurimo”31 per aumentare il
gradiente qualitativo della classe politica.
Allo stesso modo, i riferimenti alle politiche pubbliche sono formulati in un’ottica per certi aspetti pre-welfarista, ma senza che venga meno
29. Con molta nettezza, Mill ritiene che i «desideri e gli interessi di chi non ha suffragio
non rientrano nelle preoccupazioni di chi governa. Anche se ben intenzionati, niente obbliga
chi ha il potere a perdere tempo dietro interessi che possono impunemente trascurare» (Ivi,
p. 130).
30. Soprattutto nei Principi di economia politica, pubblicati per la prima volta nel 1848,
Mill elogia lo spirito associativo. Nelle associazioni la disciplina deriva dalla consapevolezza
di agire per un ine collettivo e condiviso. Questo comporta «senso di valore e di dignità
personale» (Principi di economia politica, a cura di B. Fontana, Utet, Torino 1983, vol. II,
pp. 1029-1031).
31. Secondo Mill, «la persona dotata di qualità superiori ha diritto a esercitare una inluenza superiore». In teoria, «il voto plurimo è aperto anche all’individuo più povero che,
a dispetto degli ostacoli, può affermarsi in virtù della sua intelligenza» (Considerazioni sul
governo rappresentativo, cit., pp. 134 e 137). È tuttavia evidente che solo un incisivo investimento in istruzione pubblica, fortemente auspicato da Mill, può consentire all’intelligenza
del più povero di svilupparsi.
127
la difidenza liberale nei confronti degli effetti perversi derivanti dal paternalismo assistenziale. Istruzione, sanità, interventi in difesa dei soggetti
deboli e bisognosi sono un dovere dello Stato, nella misura in cui soddisfano un interesse sociale senza ledere le libertà individuali. Tuttavia, chi
governa dovrebbe sempre porsi il problema di «come dare il massimo aiuto
necessario, insieme al minimo incoraggiamento a fare su di esso un indebito
afidamento»32.
Inine, Mill è il primo liberale ad affrontare senza pregiudizi il tema della
cittadinanza industriale. Se l’individuo rimane il protagonista del progetto
di sviluppo autonomo delle facoltà umane, la cooperazione è la risorsa che
lascia intravedere l’auspicabile transizione della civiltà da una condizione
dominata dall’obiettivo di incrementare indeinitamente la ricchezza, allo
«stato stazionario», orizzonte ideale in cui il benessere sostituisca la crescita
come ine socialmente condiviso33.
Dai Principi di economia politica agli ultimi scritti sul socialismo34, le
pagine di Mill sono punteggiate di elogi alla classe lavoratrice e stoccate
contro i pregiudizi che la dipingono come pericolosa, inafidabile e antinazionale35. Colpito dagli esperimenti, a dire il vero di rado duraturi, delle
imprese cooperative, Mill esprime aperta ammirazione per la tenacia e il
sacriicio con cui umili lavoratori riescono a raggiungere risultati produttivi
non scontanti, sviluppando al contempo la propria personalità morale e intellettuale di cittadini autonomi e integrati36.
La versione del socialismo che riscuote la simpatia di Mill echeggia le
suggestioni di Owen, Fourier e del sansimonismo, il tutto con una riserva
di individualismo che non viene mai meno. La cooperazione può condurre
alla quadratura del cerchio, contrastando le diseguaglianze più intollerabili37
32. J. S. Mill, Principi di economia politica, cit., vol. II, p. 1255.
33. Sotto il proilo morale, per Mill, «la condizione migliore per la natura umana è quella
in cui, mentre nessuno è povero, nessuno desidera di essere più ricco, né ha ragione di temere
che qualcun altro lo respinga indietro per sopravanzarlo» (Ivi, p. 1000).
34. I Chapters on Socialism furono pubblicati sulla «Fortnightly Review» nel 1879 a
cura di Helen Taylor, che aveva rinvenuto il manoscritto incompiuto tra le carte di Mill. Sul
punto, si veda l’Introduzione di Stefan Collini a On Liberty and other writings, Cambridge
University Press, Cambridge 2012, p. XXII.
35. Nelle Considerazioni sul socialismo, Mill sosterrà che i lavoratori salariati sono la
categoria che ha più a cuore l’interesse nazionale: le «classi che nel vocabolario dei ceti alti,
sono dette non avere alcun interesse per la nazione. In realtà esse hanno primario interesse
poiché il loro pane quotidiano dipende dalla prosperità della nazione» (Considerazioni sul
socialismo, Introduzione e traduzione di E. Marino, Aracne, Roma 2012, p. 85).
36. J.S. Mill, Principi di economia politica, cit., p. 1024.
37. Distinguendo tra leggi della produzione – equiparabili a leggi di natura – e leggi della
distribuzione – che è bene siano regolate dagli uomini in funzione delle esigenze sociali, Mill
128
senza pregiudicare né il rendimento produttivo38 né la libertà in tutte le sue
manifestazioni. L’impresa di lavoratori associati è la terza via potenzialmente in grado di sanare le iniquità del capitalismo padronale ed evitare a un
tempo la deriva illiberale del collettivismo statale.
E tuttavia Mill semina tracce di scetticismo sul radioso futuro delle società cooperative, indica rischi e dificoltà. I rischi rinviano al prevalere
dell’appiattimento egualitario: è dificile mantenere vivo il senso del merito
individuale là dove i lavoratori tendono a riconoscersi pari dignità e anche
pari autorità nelle decisioni concernenti la redistribuzione dei proitti. Le
dificoltà riguardano l’esigenza, per Mill imprescindibile, di incoraggiare
tutte le forme di cooperazione a patto che non neghino la concorrenza del
libero mercato39, garanzia di stimolo al lavoro e all’intraprendenza non solo
economica.
La cittadinanza della libertà sociale
In Mill, la cittadinanza è un campo dialettico in divenire. Con Thomas
Hill Green, il più noto esponente della cosiddetta scuola idealistica di Oxford, il liberalismo esprime il tentativo di risoluzione a carattere organicistico del rapporto tra individuo e società.
La ilosoia morale è la base teorica su cui Thomas Hill Green poggia
l’operazione di riscatto del liberalismo inglese dal monopolio dell’individualismo di marca utilitarista. Al principio edonistico della massima felicità
per il maggior numero, Green contrappone il principio universalistico della
dignità umana. La sensibilità verso la questione sociale riposa su premesse
distanti da quelle di John Stuart Mill. Non è l’individuo il centro intorno a
cui far gravitare le decisioni collettive. La legislazione deve identiicarsi con
il punto di vista dello Stato, di cui si postula la capacità di trascendere e riritiene necessario rimediare alle tendenza che vede «il prodotto del lavoro…distribuito come
noi vediamo attualmente, cioè praticamente in proporzione inversa al lavoro – le quote maggiori a favore di quelli che non hanno mai lavorato del tutto, quelle appena un po’ più piccole
a coloro il cui lavoro è puramente nominale, con la remunerazione che diminuisce sempre di
più via via che il lavoro diventa più gravoso e sgradevole» (Ivi, vol. I, p. 346).
38. Mill afferma che il motivo per cui «la cooperazione tende…ad accrescere la produttività del lavoro, consiste nel potente stimolo conferito alle energie produttive, mettendo la
massa dei lavoratori in una condizione tale rispetto al loro lavoro, da far sì che diventi loro
principio e loro interesse – contrariamente a quanto avviene attualmente – di fare il massimo
possibile, invece del minimo possibile, in cambio della loro remunerazione» (Ivi, pp. 10421043).
39. Ivi, p. 1046.
129
comporre gli interessi particolari dei singoli individui40 in vista del bene comune41. Lo stato al servizio della dignità umana: questa la combinazione tra
hegelismo e morale kantiana che sottende il pensiero di Green. Ne derivano
una serie di conseguenze che modiicano in profondità la conigurazione
della cittadinanza liberale.
A mutare è innanzitutto l’idea stessa di libertà, che si realizza solamente
all’interno di una società regolata al ine di valorizzarla. Sia su un piano morale che civile, la possibilità di soddisfare i propri desideri individuali è subordinata al dovere di “sintonizzarsi” con il bene comune, dal quale dipende
il bene dei singoli. La coincidenza tra libertà e dovere rimanda dunque alla
corrispondenza tra diritto alla free life e funzione sociale da assolvere: il
«riconoscimento di un diritto alla vita libera per ogni uomo, in quanto uomo,
deve logicamente implicare la concezione che tutti gli uomini formano una
società in cui ogni individuo ha qualche servizio da rendere, un organismo
in cui ognuno ha una funzione da adempiere»42.
Seconda conseguenza, connessa alla prima: se lo Stato deve farsi carico
di sostenere i progetti di free life di tutti i cittadini, intesi come comunità,
ogniqualvolta l’interesse dei singoli contrasta con il bene pubblico, il primo
può essere sacriicato per consentire la salvaguardia del secondo. Sul piano
del rapporto tra Stato e società civile, ciò implica che la libertà di contratto
e il godimento della proprietà privata, valori assoluti nella visione liberale
classica, assumono un rango relativo e subordinato43.
Calata nella dimensione concreta dei rapporti tra le classi sociali, l’argomentazione concettuale che giustiica la riduzione della proprietà privata
da ine in sé a mezzo per assicurare una cittadinanza inclusiva ha immediate
implicazioni redistributive. Non è suficiente l’assenza di impedimenti for40. Lo Stato è per Green l’interprete migliore dei principi morali che provengono dalle
forme originarie di organizzazione sociale, a partire dalla famiglia: «È un errore pensare allo
stato come a un aggregato di individui sotto un sovrano…uno stato presuppone altre forme di
comunità, con i diritti che da loro scaturiscono, ed esiste solo in quanto le sostiene, conferisce
loro sicurezza, le completa» (Lectures on the Principles of Political Obligation, Longsman,
London 1950, p. 139).
41. In Bernard Bosanquet, continuatore dell’opera di Green al Balliol college, tale impostazione è ancora più accentuata in senso comunitario. Nella sua opera principale, The
Philosophical Theory of the State, pubblicata nel 1899, è il Rousseau del Contrat il punto
di riferimento per individuare la via di ricomposizione del dissidio tra pubblico e privato,
ricomposizione che si realizza nella igura del «popolo» (The Philosophical Theory of the
State, McMillan, London 1951).
42. T.H. Green, Lectures on the Principles of Political Obligation, cit., p. 157.
43. A titolo di esempi, Green evidenzia l’opportunità di applicare la limitazione delle
libertà contrattuale «a quei tipi di contratto o di affare che colpiscono la salute e la condizione
popolare» (Ivi, p. 209).
130
mali ad acquisire i beni necessari a condurre una vita dignitosa, se il sistema
economico risponde a criteri di appropriazione che impediscono a una parte consistente della popolazione di «acquisire i mezzi per una vita morale
libera»44. Spetta alla legislazione intervenire a ini di riequilibrio. Green è un
ilosofo, e non entra nei dettagli tecnici delle politiche redistributive. Si limita a invocare l’intervento dello Stato nel campo non solo dell’educazione degli strati più poveri della popolazione, che a partire da Smith non costituiva
un tabù per i liberali, ma anche nelle dinamiche interne alla distribuzione del
reddito: difesa dei salari e aggressione della rendita sono strumenti legittimi,
coerenti con il principio morale per cui «l’incremento di ricchezza di un
individuo non deve provocare una diminuzione di ricchezza in un altro»45.
È evidente che con tali posizioni il liberalismo subisce una virata che
rende quanto meno plausibile attribuire agli attacchi di Green contro l’individualismo un eficace contributo al diffondersi delle «simpatie socialiste»46.
Eppure Green non è un caso isolato.
La cittadinanza della libertà eguale
Il New Liberalism, che trova in Leonard T. Hobhouse la igura di maggior
spicco, si afferma in concomitanza con la stagione dei governi liberali che
all’inizio del Novecento accelerano il processo di ampliamento della legislazione sociale47.
Hobhouse procede sul solco tracciato da Green e propone una revisione
del liberalismo a partire dal concetto di proprietà funzionale, deinito mediante la distinzione teorica tra “proprietà d’uso” e “proprietà di potere”. La “proprietà d’uso” equivale al «controllo di cose, che dà libertà e sicurezza»; la
“proprietà di potere” investe invece le relazioni sociali ed economiche e consente «il controllo di persone attraverso le cose, che dà potere al padrone»48.
Senza interventi regolatori esterni, il capitalismo tende a produrre disuguaglianze che comportano la riduzione ai danni della grande maggioranza della
“proprietà d’uso”, coincidente con la possibilità di godere dei frutti del pro44. Ivi, p. 219. E Green aggiunge: l’«uomo che non possiede altro che la propria forza
lavoro e che ha da venderla al capitalista per la propria nuda sussistenza, può…vedersi negati
del tutto i diritti di proprietà» (ibid.).
45. Ivi, p. 224.
46. A.V. Dicey, Diritto e opinione pubblica nell’Inghilterra dell’Ottocento, cit., p. 399.
47. M. Pugh, Storia della Gran Bretagna. 1779-1990, Nis, Roma 1997, pp. 155 e ss.
48. L.T. Hobhouse, The historical evolution of property, in Sociology and Philosophy, G.
Bell and sons LTD, London 1966, p. 89.
131
prio lavoro, di cui dovrebbero beneiciare tutti i cittadini; al contempo, una
ristretta minoranza inisce per beneiciare dell’«accumulazione di una vasta
massa di “proprietà di potere”»49, spesso non generata da attività produttive.
È compito della politica contrastare il privilegio, ampliando l’accesso ai beneici economici, posto che per Hobhouse è nell’interesse dell’intera società
far sì che ciascun cittadino abbia un’«opportunità di lavoro,…ai frutti del suo
lavoro, e inine a ciò che può usare di questi frutti»50. Senza timore di tradire
la fedeltà ai principi liberali, Hobhouse non ha remore a invocare il “diritto
al lavoro”, equiparandolo in dignità ai diritti civili: «il diritto al lavoro e al
salario minimo è altrettanto valido quanto i diritti civili o di proprietà, ed è
quindi il presupposto fondamentale di un buon ordine sociale»51.
In una simile versione, il liberalismo differisce solo in termini di gradi
dal laburismo, i cui esponenti politici e culturali non a caso provengono
spesso dal mondo liberale. Questo è vero in particolare per la componente
riformista, in netta maggioranza nel gruppo parlamentare così come ai vertici delle Trade Unions52. Non che nell’ambito del dibattito d’idee la sinistra inglese d’inizio Novecento sia stata aliena da decise tendenze radicali,
anche tra coloro che non si riconoscevano in ideali rivoluzionari estremi.
Basti pensare a Richard Henry Tawney, uno dei padri ideologici del Welfare State britannico, che dalle pagine del diario precedenti la prima guerra
mondiale53 ino alle sue opere maggiori non smetterà mai di puntare il dito
contro i mali morali, prima ancora che materiali, prodotti dal materialismo
egoistico sotteso all’economia capitalistica54. Eppure, la versione del socialismo che troverà la sua acme con il governo Attlee nell’immediato secondo
dopoguerra sarà sostanzialmente espressione del progetto fabiano55. Anche
se inizialmente piuttosto spurio per composizione ideologica, il fabianesimo
acquisirà un proilo sempre più ispirato al riformismo statalista, soprattutto
49. Ivi, p. 98.
50. Ivi, p. 102.
51. Id., Liberalismo, Introduzione di F. Sbarberi, Vallecchi, Firenze 1995, p. 159.
52. È un dato assunto polemicamente dallo storico marxista Ralph Miliband come ilo
rosso della sua storia del laburismo, non a caso intitolata Parliamentary Socialism. A Study in
the Politics of Labour, Allen & Unwin, London 1961.
53. R.H. Tawney’s Commonplace Book, Edited and with an Introduction by J.M. Winter
and D.M. Joslin, Cambridge University Press, Cambridge 1972.
54. Le tre opere più importanti di Tawney ai ini del nostro discorso sono senza dubbio
The Acquisitive Society, Religion and the Rise of Capitalism e Equality, pubblicate in prima
edizione rispettivamente nel 1920, 1926, 1931,
55. Come ha notato Vittorio Foa, dal punto di vista ideologico, le politiche adottate dal
governo Attlee erano già indicate dal documento Labour and the New Social Order, scritto
da Sidney Webb per il congresso laburista del 1918 (V. Foa, La Gerusalemme rimandata.
Domande di oggi agli inglesi del primo Novecento, Einaudi, Torino 2009, p. 309).
132
in virtù dell’inluenza di Sidney e Beatrice Webb. Un riformismo che punta
alla graduale transizione dalla cittadinanza politica alla cittadinanza sociale
tramite l’ampliamento progressivo della rete di tutele e protezioni e la nazionalizzazione dei grandi servizi pubblici e dei settori strategici dell’economia
nazionale56. Tramite l’azione congiunta del partito e dei sindacati, saranno
questi gli obiettivi concreti della via laburista al socialismo.
Gradualismo, via parlamentare alle riforme, nazionalizzazioni: prassi e
ini che, sebbene contrastati anche a sinistra, soprattutto negli anni Dieci, da
posizioni cooperativiste-libertarie57 o corporative, diventano ragioni di convergenza lib-lab e trovano terreno fertile nella percezione collettiva.
Tra le due guerre, sono diversi i fattori che concorrono a creare un clima
adatto afinché la presenza dello Stato nell’economica e il welfare mettano
radici. Senza dubbio, l’impianto teorico su cui poggiano le fondamenta del
sistema di welfare contiene l’idea di convertire a ini di pace e progresso sociale l’ingerenza dello Stato nell’economia sperimentata a ini bellici58. Nonostante la revanche del grande capitale privato dopo la prima guerra mondiale – non va dimenticato che dal 22 al 45 i conservatori stanno al governo
20 anni su 23 – l’assetto complessivo della legislazione sociale maturata a
partire da metà ’800 non viene smantellato, anzi, si espande e consolida.
La iducia nell’intervento statale si radica, nella classe politica, negli intellettuali, non solo socialisti, e sempre più diffusamente nel senso comune.
William Beveridge, che continuò sempre a dirsi orgogliosamente liberale, coglieva con acutezza come alla ine della seconda guerra mondiale prevalesse il bisogno di liberarsi dalla paura: paura della guerra, dell’indigenza,
della disoccupazione. Per questo l’opinione pubblica approvava il ruolo sociale dello Stato59. Con la convinzione di affermare qualcosa di mero buon
senso, scriveva: «chiedere che sia attuata la piena occupazione mentre si
sollevano obiezioni contro l’estensione dell’attività statale signiica volere il
ine e riiutare i mezzi»60.
56. Già in Industrial Democracy, uscito in prima edizione nel 1897 e poi più volte ripubblicato ino al 1926, sono presenti le linee fondamentale della concezione sostenuta dai Webb.
57. È il caso della corrente gildista (il cui esponente di punta è G. D. H. Cole), ma anche
di pensatori come Laski e Tawney, assestati negli anni Dieci su posizioni pluralistiche ostili
all’accentramento statalista, e simpatizzanti con il gildismo.
58. Come scrisse Keynes: «l’organizzazione della produzione socializzata durante la
guerra ha lasciato in chi l’ha osservata da vicino la smania ottimistica di ripetere l’esperienza
in condizioni di pace» (J.M. Keynes, La ine del laissez-faire, in Sono un liberale? E altri
scritti, a cura di G. La Malfa, Adelphi, Milano 2010, p. 216).
59. W. Beveridge, Il piano Beveridge: introduzione e sommario, in La libertà solidale.
Scritti 1942-1945, a cura di M. Colucci, Donzelli, Roma 2010, p. 21.
60. Id., Relazione sull’impiego integrale del lavoro in una società libera, in La libertà
solidale, cit., p. 103.
133
III
Cittadinanza cosmopolitica
Un polic(t)eman? Il liberalismo umanitario
di Gaetano Meale (1888-1900)
Emanuela Minuto
1. Un invisibile
Sotto lo pseudonimo di Umano s’è acquistata la dovuta notorietà nel mondo intellettuale
milanese un giovane meridionale di forte intelletto e di spirito largo e moderno, v’era
anima d’apostolo per saldezza e irruenza di convinzioni umanitarie meditate e sviscerate1.
Così, nel 1891, il quotidiano repubblicano «L’Italia del popolo» presentava l’autore di un pamphlet contro l’ode «La guerra» di Carducci, di
cui forniva contestualmente uno stralcio. In effetti, già da due anni la irma
Umano apposta a scritti paciisti propugnanti un nuovo ordine europeo circolava negli ambienti della democrazia lombarda e che dietro quello pseudonimo si nascondesse l’identità del magistrato Gaetano Meale era ormai
noto a molti, compresi i superiori del pubblicista. All’indomani della pubblicazione dell’estratto da parte del giornale infatti i più alti gradi del tribunale
di Milano attivarono una segnalazione al ministro della giustizia ricca di
dettagli sull’autore e le sue ultime opere2.
Meale era giunto a Milano nel 1889 come aggiunto giudiziario. Fino
all’anno prima il suo percorso non era stato certo differente da quello di
molti colleghi provenienti da famiglie del sud di modeste condizioni economiche. Nato ad Avellino nel 1858, si laureò a Napoli nel 1881 per poi iniziare lo stesso anno la carriera in magistratura in qualità di uditore. Tre anni
dopo superò l’esame da aggiunto giudiziario e tra il 1884 e il 1888 svolse
l’incarico nei tribunali di Napoli, Genova e Firenze3.
1. «La guerra» del prof. Carducci lagellata da Umano, in «L’Italia del popolo», 20-21
novembre 1891.
2. Archivio centrale dello Stato (d’ora in avanti Acs), Ministero di Grazia e Giustizia,
fascicoli personali dei magistrati, I versamento 1860-1905, b. 317, fasc. 38224, procuratore
generale e primo presidente al ministro di Grazia e Giustizia e dei culti, 23 novembre 1891.
3. In merito ai meccanismi di carriera nella magistratura e al peso rivestito dalla “scuola”
137
La promozione fu accompagnata dall’esordio editoriale senza ricorso ad
alcun nome d’arte. Il debutto pubblicistico avvenne sotto forma di divulgazione e promozione del liberalismo britannico contemporaneo che certo
non imponeva l’anonimato. Fu l’arrivo a Milano a segnare l’inizio di un
attivismo paciista che necessitò quella copertura rivelatasi assai fragile e
che produsse un duplice esito: la rapida emarginazione all’interno della magistratura e una crescente popolarità nell’universo della democrazia e del
socialismo del centro-nord e in alcuni circuiti paciisti internazionali.
La fama del tempo non ha trovato ampi riscontri storiograici. Di Meale restano poche tracce disseminate in varie pubblicazioni, alcuni cammei di amici
e una biograia scritta da Edgar e Lilian Mowrer per la Philosophical Library
di New York nel 1973 che ad alcuni pregi associa evidenti limiti4. Il testo dei
Mowrer infatti è soprattutto un omaggio a Meale connotato da toni encomiastici e da immagini del magistrato nei termini di santo, mistico, apostolo dell’umanità, immagini elaborate dai suoi contemporanei. Inoltre, pur fornendo alcuni preziosi elementi biograici, sono assai ridotti i riferimenti agli studi, alla
carriera in magistratura intrapresa tra gli anni ottanta e novanta dell’Ottocento,
alle reti di relazione, alle congiunte attività maturate a Milano. Il lavoro peraltro offre quasi esclusivamente sintesi entusiaste delle pubblicazioni di Meale.
Le dificoltà di reperimento di una signiicativa documentazione hanno
senz’altro ostacolato le indagini su Meale. Al contempo, le note direttrici
della storia politica praticate in Italia sino agli anni novanta del Novecento
costringevano in una dimensione di anonimato o quasi personaggi come il
magistrato. La tenace focalizzazione sugli aspetti ideologici e partitici ha
lasciato a lungo vasti coni d’ombra sulla tipologia del giurista-politico-scrittore democratico o liberal-democratico, sul cui peso hanno invece insistito
ricerche successive. La nuova stagione storiograica ha invece messo in risalto la centralità di tale igura, privilegiando peraltro un approccio di rete
concentrato sulla rappresentanza politica rispetto a una prospettiva metodologica culturale. Ne è un esempio la signiicativa storiograia sulla Napoli di
ine Ottocento, città dove Meale studiò e lavorò ino al 18875. La ricostruziodi Napoli nell’Italia liberale cfr. A. Meniconi, Storia della magistratura italiana, il Mulino,
Bologna 2012, pp. 57-61. Per le note di carriera di Meale, Acs, Ministero di Grazia e
Giustizia, fascicoli personali dei magistrati, I versamento 1860-1905, b. 317, fasc. 38224.
4. E.A. Mowrer, L.T. Mowrer, Umano and the Price of Lasting Peace, Philosophical
Library, New York 1973.
5. Per la network analysis applicata alla realtà meridionale e al caso napoletano in
particolare si ricordano i lavori pionieristici di L. Musella, Relazioni, clientele, gruppi e partiti
nel controllo e nell’organizzazione della partecipazione politica (1860-1914), in P. Macry e P.
Villani (a cura di), Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi, La Campania, Einaudi, Torino
1990, pp. 731-790; L. Musella, Individui, amici, clienti. Relazioni personali e circuiti politici
138
ne di importanti tasselli della galassia democratica partenopea si combina
infatti con la persistenza di limitate ricerche di taglio culturale o di vecchi
giudizi su igure anche di primissimo piano quali quella di Giovanni Bovio.
Stella politica della scapigliatura napoletana, interprete fondamentale della
democrazia nazionale e ‘maestro’ di almeno una generazione di giovani meridionali, compreso Meale, Bovio ha acquisito più nitidi contorni solo grazie
a pochissimi studi attenti alla dimensione culturale, studi che permettono di
superare la classiicazione del democratico nei termini di semplice epigono
di un tardo e ingenuo sentimentalismo6.
Se questo è stato il destino del deputato meridionale, si possono intuire le ragioni della mancata fuoriuscita di Meale dall’oblio o la persistente
riproposizione delle qualiicazioni adoperate dai suoi contemporanei. D’altronde, dopo anni di vuoto storiograico, il recente interesse manifestato da
più studiosi per il paciismo italiano di ine Ottocento non ha consentito una
ricomposizione della parabola del magistrato. Le riletture delle vicende di
alcuni grandi esponenti, in primis Ernesto Teodoro Moneta che di Meale fu
promotore, e più in generale le recenti analisi del paciismo democratico non
contengono riferimenti al magistrato7.
in Italia meridionale tra Otto e Novecento, il Mulino, Bologna 1994. Nell’ambito delle nuove
ricerche dedicate ai giuristi-politici-letterati si vedano per esempio P. Villani, Carlo Del Balzo
tra letteratura e politica, Edizioni Scientiiche Italiane, Napoli 2001; R. Della Fera (a cura di),
Carlo Del Balzo: un intellettuale moderno, Centro Guido Dorso, Avellino 2010. Il bel libro
di Barbagallo sulla Napoli in de siècle, che restituisce i contorni di una metropoli europea,
dedica però uno spazio limitato al mondo culturale e politico democratico. Cfr. F. Barbagallo,
Napoli, Belle époque, Laterza, Roma-Bari 2015. Tra gli studi più fertili sulla democrazia
italiana di ine Ottocento cfr. E. Mana, La “democrazia” italiana. Forme e linguaggi della
propaganda politica Tra Ottocento e Novecento, in M. Ridoli (a cura di), Propaganda e
comunicazione politica. Storia e trasformazioni nell’età contemporanea, Bruno Mondadori,
Milano 2004, pp. 147-164; E. Mana, La democrazia radicale italiana e le forme della
politica, in M. Ridoli (a cura di), La democrazia radicale nell’Ottocento europeo. Forme
della politica, modelli culturali, riforme sociali, Annali della Fondazione Gian Giacomo
Feltrinelli (Anno Trentanovesimo 2003), Feltrinelli, Milano 2005, pp. 189-218.
6. Cfr. in particolare P. Finelli, “E la Repubblica verrà come le stagioni...” Giovanni Bovio
e l’estrema sinistra meridionale tra politica e cultura, tesi di laurea, relatore A.M. Banti,
Università di Pisa, aa. 1995-1996; P. Finelli, Un collegio moderno. Reti notabilari, discorso
politico e strutture organizzative nella costruzione del «partito boviano» in Terra di Bari
(1882-1890), in «Società e Storia», 88, 2000, pp. 269-296; P. Finelli, Costruzione dell’identità
politica e questione religiosa nei “Drammi sacri” di Giovanni Bovio, in F. Bertolucci (a
cura di), Galilei e Bruno nell’immaginario dei movimenti popolari tra Otto e Novecento,
Bfs, Pisa 2001, pp. 127-141. Utili notizie su Bovio e l’enorme inluenza esercitata sui circoli
universitari napoletani e sulla stampa democratica e socialista della città si trovano in A.
Alosco, Radicali Repubblicani e Socialisti a Napoli e nel Mezzogiorno tra Otto e Novecento
1890-1902, Pietro Laicata Editore, Manduria-Bari-Roma 1996, pp. 9-26, 38, 53-60, 71.
7. Negli ultimissimi anni Moneta è stato oggetto di un’abbondante produzione. A titolo
esempliicativo si ricordano i seguenti titoli: B. Pisa, Ernesto Teodoro Moneta: storia di un
139
Pur essendo una igura minore rispetto a un Bovio o a un Moneta, la ricognizione di alcune fonti rivela in effetti, come accennato, che Meale fu una
voce ascoltata, evocata e trasigurata dalle cerchie giornalistiche e dagli intellettuali ai vertici delle correnti democratiche, socialiste e perino anarchiche.
L’accoglienza e la circolazione in questi circuiti si legano principalmente a
tre componenti rappresentate dallo stato professionale, dalle reti di relazione
e dai registri del discorso politico. Il proilo di magistrato liberal-democratico
oppositore dei governi di ine Ottocento costituì senz’altro un elemento di fascinazione da agitare all’evenienza in varie sedi. Al contempo, il percorso formativo e professionale così come il successivo patronage di Moneta ne fecero
un membro a pieno titolo di un itto reticolo di giuristi-politici-scrittori che, al
di là delle appartenenze “partitiche” formali, avrebbe continuato a maturare
esperienze condivise sul piano municipale, nazionale e internazionale. A questo reticolo, Meale offrì un discorso politico altamente attraente. Il decennale
sforzo di articolazione di un disegno di cittadinanza europea e italiana si snodò attraverso registri discorsivi che incorporavano caratteri, motivi e umori
dominanti nelle cerchie democratiche e socialiste di ine secolo. Al contempo,
la declinazione di tale disegno avvenne con l’impiego di stili comunicativi
“effervescenti” ed evocativi corrispondenti a una sensibilità assai diffusa.
Seppur in forma parziale, il presente contributo mira quindi a rileggere
alcuni aspetti della igura di Meale e della sua notorietà nella fase compresa
tra il 1888 e il 1900, privilegiando l’analisi dei testi, delle reti di relazione e
della circolazione degli scritti.
2. L’Inghilterra ad uso della democrazia italiana
Il grande esordio di Meale nel circuito editoriale italiano si ha con l’uscita nel 1888 dell’opera Moderna Inghilterra, Educazione alla vita politi“paciista con le armi in mano”, in B. Pisa (a cura di), Percorsi di pace e di guerra fra Ottocento
e Novecento: movimenti, culture e appartenenze, in «Giornale di Storia Contemporanea», 12,
2, 2009, pp. 21-56; F. Canale Cama, La pace dei liberi e dei forti. La rete di pace di Ernesto
Teodoro Moneta, Bononia University Press, Bologna 2012; A. Castelli, Il paciismo alla
prova. Ernesto Teodoro Moneta e il conlitto italo-turco, in G. Angelini (a cura di), Nazione
democrazia e pace tra Ottocento e Novecento, FrancoAngeli, Milano 2012, pp. 111-141; A.
Castelli, Il discorso sulla pace in Europa 1900-1945, FrancoAngeli, Milano 2015, pp. 1532. Tra i più recenti contributi dedicati al paciismo democratico si ricordano le ricerche di
Lucio D’Angelo e Renato Girardi. L. D’Angelo, Il paciismo democratico italiano dalla ine
dell’Ottocento alla prima guerra mondiale, in O. De Rosa, D. Verrastro, (a cura di), Pensare
il Novecento. Fatti, problemi e idee di un secolo denso di suggestioni storiche, Laterza, RomaBari 2012, pp. 283-310; L. D’Angelo, Il paciismo democratico italiano dalla guerra di Libia
alla nascita della Società delle Nazioni, il Mulino, Bologna 2016; R. Girardi, Né pazzi né
sognatori. Il paciismo democratico in Italia tra Otto e Novecento, Pacini Editore, Pisa 2016.
140
ca per i tipi dei fratelli Bocca grazie anche alla mediazione di Lombroso8.
Come noto, poco dopo l’unità, si registrò in Italia un proluvio di pubblicazioni tese ad esaltare il sistema politico-istituzionale britannico al ine anche
di indicare una via d’uscita al sempre più lamentato parlamentarismo. A
partire soprattutto dagli anni Ottanta dell’Ottocento però alla denuncia del
grande “male” il moderatismo associò sempre più spesso la richiesta di rafforzamento del potere regio ino a teorizzare in alcuni casi l’abbandono del
sistema parlamentare. In questo clima, Meale scriveva un’opera che indicava tutt’altra direzione, proponendo a modello di rigenerazione nazionale la
contemporanea Inghilterra e il liberalismo radicale di Joseph Chamberlain.
Pur essendo presentata come pedagogia nazionale, l’Educazione alla
vita politica costituisce soprattutto un itto dialogo-scontro interno alla dimensione culturale e politica di Napoli. La lunga introduzione all’opera si
gioca infatti sul ilo della polemica con Ruggiero Bonghi e Giovanni Bovio secondo direttrici che risentono di alcune suggestioni del Francesco De
Sanctis pensatore politico degli anni settanta dell’Ottocento9. La degenerazione sistemica dell’Italia politica era prevalentemente ricondotta a quei
motivi desanctisiani relativi ai deicit di libertà sostanziale, alla incompleta
conciliazione tra liberalismo e democrazia, alla mancanza di partiti e alle
responsabilità in questo senso della frazione repubblicana10. Meale mutuava la critica di De Sanctis nei confronti del dottrinarismo-formalismo della
componente repubblicana; tuttavia, nonostante i prudenziali elogi al binomio Zanardelli-Crispi, afidava una funzione redentrice proprio al leader
del repubblicanesimo partenopeo Bovio. Se Bonghi costituiva l’acerrimo
‘nemico’, Bovio era il maestro rispetto al quale Meale si poneva in una posizione di discepolo deluso e al contempo idente in una sua trasformazione
secondo il «modello Chamberlain» da lui confezionato11.
Il libro assumeva così le vesti di un prontuario diviso in due parti, l’una
dedicata alle scuole inglesi di libertà e l’altra ai discorsi della campagna
elettorale del 1885. Almeno due terzi del volume era rappresentato dalla
riproduzione di decine di discorsi estratti dal «Times», con una netta prevalenza dell’oratoria di Chamberlain, di cui peraltro negava la parabola ormai
in corso rispetto ai conservatori e all’imperialismo. Il Chamberlain di Meale
era quello delle libertà, dei diritti e delle riforme sociali all’interno del paese
8. G. Meale, Moderna Inghilterra. Educazione alla vita politica, Fratelli Bocca, Torino
1888.
9. Si fa qui riferimento all’interpretazione fornita da Mario Mirri nel volume Francesco
De Sanctis politico e storico della civiltà moderna, G. D’Anna, Messina-Firenze 1961.
10. G. Meale, Moderna Inghilterra…, cit., pp. XL-XLVIII, LX-LXXII.
11. G. Meale, Moderna Inghilterra…, cit., pp. LXVII-LXII.
141
e quello del federalismo imperiale letto attraverso il prisma dell’ultimo stadio di una politica di civilizzazione tanto mite quanto necessaria che aveva
il suo contrario nell’africanismo italiano.
Queste direttrici avrebbero lasciato una forte impronta anche nella produzione successiva. Nonostante la radicalizzazione di stili e contenuti, l’abbondo delle accortezze e le torsioni, il discorso di Meale infatti si sarebbe
snodato attraverso tre assi in relazione alla sfera nazionale e a quella internazionale: la genuina rivendicazione di un sistema di diritto e di libertà per
l’Italia plasmato sull’ideale inglese, la creazione di una federazione europea
delle nazioni più civili, l’assegnazione ad essa tra l’altro di una missione di
patronato. Queste direttrici costituirono l’oggetto di tre lavori comparsi per
la prima volta in occasione di anni emblematici per la storia internazionale
e nazionale: La ine delle guerre (1889), Il discorso di un policeman nel
cinquantenario dello Statuto italiano (1898), Patria lex (1900).
3. La violenta ine delle guerre di un paciista
La ine delle guerre uscì con lo pseudonimo Umano in un anno chiave
per il paciismo italiano e internazionale. Nel 1889 parallelamente alla nascita della Seconda Internazionale, si strutturava in forma permanente un
movimento internazionale per la pace di segno borghese, lontano dal tolstoismo e in generale del paciismo assoluto. Con felice espressione è stato
deinito da Cooper Patriotic Paciism12. In quell’anno fu convocato a Parigi
il primo Universal Peace Congress e contemporaneamente si tenne il primo
meeting della Unione Interparlamentare votata alla ricerca di forme conciliative, mentre l’Associazione di Roma per l’Arbitrato e per la Pace internazionale diretta da Bonghi organizzò nella capitale un incontro nazionale13.
Nel 1889 così come negli anni successivi il movimento continentale per la
pace si concentrò sulla promozione dell’arbitrato internazionale, in modo
più faticoso sul disarmo, mentre alcuni leader rilanciavano periodicamente
forme più incisive di cooperazione regionale14. Il programma del congresso
italiano riprodusse questa agenda, limitando le prospettive di integrazione
12. Sandi E. Cooper, Patriotic Paciism. Waging War on War in Europe 1815-1914,
Oxford University Press, New York-Oxford 1991.
13. Per il congresso di Parigi cfr. Sandi E. Cooper, Patriotic Paciism…, cit., pp. 8, 5859, 75; in merito alle vicende dell’Unione Interparlamentare cfr. L. Tedoldi, Understanding
Globalization. The Inter-Parliamentary Union from the Late Nineteenth to Early Twentieth
Century, in «History Research», 2014, vol. 4, n. 1, pp. 21-30.
14. Sandi E. Cooper, Patriotic Paciism…, cit., pp. 60-139.
142
alle suggestioni di Vilfredo Pareto sull’unione doganale quale strumento di
miglioramento delle relazioni politiche15.
Nonostante la direzione moderata, il congresso di Roma fu caratterizzato
dal primato di adesioni di società e personalità della galassia democratica
lombarda e dalla partecipazione del deputato socialista Andrea Costa. Dall’inizio dell’anno, proprio questa galassia, insieme ai socialisti, era promotrice
di comizi e opuscoli contro la guerra stimolati dal timore di un conlitto
con la Francia e gli appuntamenti erano spesso dominati dalle suggestioni
federative del garibaldino comunardo Amilcare Cipriani e dai riferimenti al
Garibaldi presidente del congresso ginevrino della pace del 186716.
La ine delle guerre maturava in questo clima all’indomani del trasferimento a Milano di Meale. La genesi del pamphlet ha radici nell’avversione
agli orientamenti emersi a Parigi così come a Roma e nel consueto slancio
pedagogico in direzione di un’«educazione alla vita politica» ad uso dei democratici17. Il testo è suddivisibile in due parti e la cifra è rappresentata dalla
combinazione di radicalismo critico e di umanitarismo liberal-democratico
che ne consentirono la trasformazione in piccolo best-seller in Italia e in un
prodotto esportabile nel circuito del paciismo internazionale. Molte delle
iniziali pagine costituiscono un atto di accusa nei confronti delle politiche di
nazionalizzazione e dei nazionalismi. Il serrato attacco del magistrato si articolava attraverso proiezioni evoluzioniste e un sistema di contrapposizioni
entrambi fondati sull’uso di igure inscritte nel lessico della democrazia e del
socialismo e tutt’altro che in via di esaurimento. Al culto della nazione opponeva la visione del progresso per stadi lungo l’asse barbarie-nazione/patriaumanismo e, al contempo, contro lo chauvinismo-nazionalismo ricorreva alle
formule tanto vaghe quanto diffuse della fratellanza e dell’unione dei popoli
e ancora dell’umanismo. In aggiunta, alla critica era abbinato un vademecum
antimilitarista ricco di espressioni e consigli contro governi, poteri costituiti e
pubblicisti suscettibili di letture radicali. Peraltro, nella seconda parte del te15. Atti del Congresso di Roma per la pace e per l’arbitrato internazionale (12-16
maggio 1889), S. Lapi Tipografo-Editore, Città di Castello 1889, pp. 83-94. Sono molti i
lavori che fanno riferimento al Congresso della pace di Roma. Oltre al volume di Cooper, si
vedano per esempio B. Pisa, Ernesto Teodoro Moneta…, cit., p. 27. F. Canale Cama, La pace
dei liberi e dei forti…, cit., pp. 36-38; R. Girardi, Né pazzi né sognatori…, cit., pp. 35-40.
16. Si vedano a titolo esempliicativo i seguenti articoli pubblicati da «La Giustizia» di
Prampolini: Contro la guerra, 10 febbraio 1889; Il comizio contro la guerra, 5 maggio 1889;
Contro la guerra, 9 giugno 1889. Sulla partecipazione italiana al congresso di Ginevra del
1867 si rinvia al lavoro pionieristico di F. Pieroni Bortolotti, La donna la pace, l’Europa.
L’Associazione internazionale delle donne dalle origini alla prima guerra mondiale,
FrancoAngeli, Milano 1985, pp. 26-36.
17. Umano, La ine delle guerre, Libreria editrice Galli, Milano 1889, p. 28.
143
sto, l’antimilitarismo e l’umanismo si sarebbero risolti in un disegno riformatore federalista. L’architettura paciista di Meale si concretizzava in soluzioni
federative fondate su una tradizionale geograia/gerarchia delle nazioni. Sulla
base del criterio di «una civile maniera» di condursi, Meale prospettava un
ordine ideale al cui vertice stavano Europa e Stati Uniti, seguiti dai paesi asiatici in via di civilizzazione e da un continente africano in attesa di educazione.
Aspettando un’inevitabile maturazione delle condizioni per un’unione di tutti, il magistrato elaborava la proposta di una Federazione degli Stati d’Europa
con Parlamento internazionale per gli affari comuni e Parlamenti nazionali
per le questioni locali. Nella cornice accennata, il progetto presentava in relazione alla sistemazione un modello di integrazione che vagamente evocava
la federazione statunitense (unione doganale, uniformità delle comunicazioni
e delle politiche sanitarie, primato delle autorità federali); un’integrazione
che continuava a fondarsi su una precisa gerarchia interna e che rispetto alla
conservazione della pace regionale prevedeva meccanismi chiaramente non
ascrivibili al paciismo integrale. Tra le funzioni assegnate al Parlamento europeo igurava l’elaborazione di un diritto con modalità di applicazione militare nel caso di contenziosi tra Stati. In questo senso, la conservazione della
pace all’interno della federazione si fondava su tre elementi: diritto internazionale, tribunali federali e coercizione afidata a una polizia europea, pur in
una cornice di disarmo dei singoli paesi aderenti all’organizzazione.
Dalla critica all’agenda del movimento continentale sino al disegno riformatore, il testo si conigura come una rivisitazione del programma del
congresso di Ginevra del 1867 e un aggiornamento delle tesi originarie di
Charles Lemonnier, regista di quel consesso e successivamente della corrente
federalista del paciismo europeo organizzata intorno alla Ligue internationale
de la Paix et de la Liberté e al giornale «Les Etas Unis d’Europe»18. Meale
era già entrato in contatto con Lemonnier nel 1881 durante un meeting della
International Arbitration and Peace Association tenutosi a Bruxelles. Allora
insieme ad altri ne aveva sposato la linea dell’urgenza della costruzione degli
Stati Uniti d’Europa rispetto a prospettive favorevoli all’arbitrato19. Nel 1889,
in sintonia d’altronde con umori sempre più diffusi nella corrente, Meale si
mantenne fedele alla posizione espressa a Bruxelles, ritenendo però fondamentale il superamento della pregiudiziale repubblicana che aveva costituito
uno dei fondamenti dei progetti di Lemonnier. Sotto quest’ultimo aspetto, il
magistrato si attestava così lungo la linea compromissoria di Moneta che da
18. Cfr. M. Petricioli, D. Cherubini, A. Anteghini (a cura di), Les Etas Unis d’Europe.
Un Projet Paciiste, Peter Lang, Berna 2004; A. Anteghini, Pace e federalismo. Charles
Lemonnier, una vita per l’Europa, Giappichelli, Torino 2005.
19. Sandi. E. Cooper, Patriotic Paciism…, cit., p. 54.
144
anni predicava allo stesso Lemonnier la necessità dell’accantonamento della
questione istituzionale e degli elementi ideologicamente più marcati del disegno europeista20. Peraltro, elementi di non poco conto avrebbero continuato a
separare il magistrato dal direttore del «Secolo» a partire dalle valutazioni dei
movimenti e dei motivi nazionalisti europei sino agli obiettivi da promuovere.
4. Storia di un best-seller (o quasi)
Nonostante le diversità e la corrosiva critica di Meale nei confronti del congresso di Roma, fu proprio Moneta la chiave fondamentale di circolazione
dell’opuscolo. Tra il 1889 e il 1896 La ine delle guerre conobbe tre edizioni italiane e una inglese. Nel 1889, Moneta lanciò l’opuscolo attraverso il «Secolo»,
il più diffuso giornale lombardo, ma anche la sede per alcuni anni ancora di potenti intersezioni tra universi politici e organizzazioni operaie. Contemporaneamente, il periodico democratico «La Lombardia» fornì una recensione, mentre
lo scapigliato Ferdinando Fontana plaudiva a stile e contenuti dell’opuscolo
dalle pagine dell’«Italia» ancora guidata da Dario Papa, prossimo direttore de
«L’Italia del popolo», il giornale che nel 1891 tornò a incoraggiarne la lettura in
nuova edizione nel pieno della polemica sollevata dall’ode di Carducci21.
Una prima edizione del 1889 e la ristampa ampliata del 1891 furono
opera della casa editrice milanese Carlo Aliprandi, che sul inire del secolo avrebbe annoverato in catalogo alcune penne del «Secolo», Fontana e
Papa, e l’almanacco «L’Amico della pace» di Moneta. La seconda uscita del
pamphlet ben si disponeva nello scenario anti-africanista e anti-triplicista
di queste realtà e nella cornice dei fermenti connessi con il terzo congresso
internazionale della pace tenutosi a Roma. Non a caso, la riedizione della
Aliprandi era accompagnata dal supporto di Moneta e del suo almanacco
«L’Amico della pace», il periodico del paciismo italiano22. In aggiunta,
Moneta inserì La ine delle guerre nella lista delle pubblicazioni da pro20. Sull’idea federativa di Moneta cfr. C. Ragaini, Giù le armi! Ernesto Teodoro Moneta
e il progetto di pace internazionale, FrancoAngeli, Milano 1999, pp. 83-93; B. Pisa, Ernesto
Teodoro Moneta…, cit., pp. 24-27.
21. Per le recensioni del 1889 cfr. Umano, La ine delle guerre. Edizione popolare
ampliata, Carlo Aliprandi Editore, Milano 1991. In merito alla promozione del 1891 ad opera
del giornale «L’Italia del popolo» cfr. «La guerra» del prof. Carducci…, cit.
22. La casa editrice milanese infatti disponeva a chiusura del testo la ristampa di una
nota di Meale dichiaratamente estratta dall’almanacco di Moneta del 1891. Cfr. Umano, La
ine delle guerre (1891). Più in generale, Moneta negoziò con la Aliprandi la pubblicazione
dell’almanacco dietro assicurazione di un suo impegno per garantire alla casa editrice scritti
di personaggi di primo piano, quali Dario Papa. Cfr. R. Girardi, Né pazzi né sognatori…, cit.,
p. 58 e p. 244.
145
muovere da parte del Bureau International de la paix istituito proprio nel
1891 e guidato dal belga La Fontaine23. Lo scritto entrò così nell’Essai de
bibliographie de la paix compilato da La Fontaine nel 1891, continuando
a comparire nella letteratura consigliata almeno ino al 190424. In questa
data, ancora La Fontaine avrebbe citato nella Bibliographie de la paix et de
l’arbitrage international, pubblicata dall’Institut International de la paix,
la terza edizione del 1896 e la traduzione in inglese dell’opuscolo ad opera di Monica Mangan, igura centrale del paciismo britannico e moglie di
Hodgson Pratt, fondatore dell’Unione Lombarda per la Pace e l’Arbitrato
Internazionale di Moneta25.
Se nel 1891 La ine delle guerre scosse il mondo dell’associazionismo
paciista lombardo26, la consacrazione ad opera dei circuiti del «Secolo» e
dell’«Italia del popolo» servì a inserire il pamphlet nell’agenda comunicativa
di alcuni leader del socialismo e dell’anarchismo nella fase di strutturazione
dei ‘partiti’, ma ancor più nei due passaggi critici rappresentati dal 1898 e
dalla guerra di Libia. L’innesto dello scritto di Meale nelle galassie socialiste
e anarchiche si deve principalmente a Camillo Prampolini e a Pietro Gori.
Entrambi erano avvocati e avevano un potente debito formativo nei confronti
degli ambienti politico-culturali milanesi; come Meale, poi, si guadagnarono
in quegli anni gli epiteti di santi e apostoli dell’umanità per poi essere a lungo
liquidati sul piano storiograico come propagandisti ingenui e sentimentali.
Più di recente, in merito a Prampolini e Gori si è dato conto dell’enorme fortuna attraverso la ricostruzione di quelle che furono vere e proprie strategie
comunicative dettate dall’esigenza di “andare al popolo”27.
23. A partire almeno dal 1891, Moneta fornì a La Fontaine indicazioni bibliograiche in
lingua italiana da inserire nelle pubblicazioni promosse dal senatore belga. Cfr. Mundaneum,
Papiers personnels d’Henri La Fontaine, HLF 189-1. Société belge de l’arbitrage et de la
paix. Correspondance 1889-1892, lettere di E.T.Moneta a H. La Fontaine del 22 gennaio
1891, 28 marzo 1892, 17 giugno 1892.
24. Essai de bibliographie de la paix par H. Lafontaine, Imprimerie Th. Lombaerds,
Bruxelles 1891, p. 15.
25. Bibliographie de la paix et de l’arbitrage international par H. La Fontaine, Tome
Premier, Mouvement paciique, Institut International de la paix, Monaco 1904, p. 120.
26. All’indomani del terzo congresso internazionale per la pace, l’Unione lombarda per
la pace si riunì per dare conto dell’appuntamento. Angelo Mazzoleni, membro del neo-nato
Bureau International de la paix, presentò la relazione per l’Unione lombarda, discutendo tra
l’altro le tesi de La ine delle guerre. Cfr. I quattro discorsi di ieri sul congresso della pace,
in «L’Italia del popolo», 14-15 dicembre 1891.
27. Per Prampolini cfr. per esempio S. Bianciardi, Camillo Prampolini costruttore di
socialismo, il Mulino, Bologna 2012. In merito a Gori cfr. M. Antonioli, Pietro Gori il
cavaliere errante dell’anarchia, Bfs, Pisa 1996; M. Manfredi, Una cultura politica fortemente
emotiva. L’anarchismo italiano all’inizio del Novecento, in P. Morris, F. Ricatti, M. Seymour
146
La leadership carismatica di Gori si strutturò durante la permanenza milanese iniziata alla ine del 1890. Anche in questo caso, la visibilità iniziale
fu assicurata da «L’Italia del popolo»; in aggiunta il giornale mantenne per
tutto il 1891 una benevola disposizione verso l’avvocato, il cui apprendistato milanese passò dalla partecipazione agli appuntamenti dell’Unionedemocratica sociale di Turati e Papa, che riuniva parte dei repubblicani e dei
radicali e i socialisti28. A questa fase risale la maturazione da parte di Gori
di una strategia che identiicava nell’avvocatura un canale di azione politica
fondamentale. Sul inire dell’Ottocento, tutta l’Estrema sfruttava l’oratoria
del tribunale per ini pedagogici e di formazione di un consenso personale
e di partito. I processi penali erano uno dei maggiori spettacoli dell’epoca
e il genere giudiziario a stampa una letteratura diffusissima e popolare29.
Fino alla morte, Gori ne fece un’asse della sua azione politica e nel 1898
lo strumento fu quasi la sola arma a disposizione per propagandare il progetto gradualista dei malatestiani inalizzato alla riconnessione con le classi
popolari e alla costruzione di alleanze con democratici e socialisti in primo
luogo sulla base della difesa dei diritti civili e politici30. Nel corso del 1898,
Gori calcò i palcoscenici dei tribunali a ianco di repubblicani, socialisti e
radicali, seguendo un costante schema visivo e narrativo. In aula si sedeva
(a cura di), Politica ed emozioni nella storia d’Italia dal 1848 a oggi, Viella, Roma 2011, pp.
89-111; M. Antonioli, Pietro Gori. La nascita del mito, in M. Antonioli, F. Bertolucci, R.
Giulianelli (a cura di), Nostra patria è il mondo intero. Pietro Gori nel movimento operaio e
libertario italiano e internazionale, Bfs, Pisa 2012, pp. 19-33; E. Minuto, Una battaglia per
la libertà. Pietro Gori e il domicilio coatto (1897-1898), in M. Antonioli, F. Bertolucci, R.
Giulianelli (a cura di), Nostra patria…, cit., pp. 161-175.
28. «L’Italia del popolo» fece della cancellazione dell’anarchico dal registro dei
procuratori un vero caso politico con il coinvolgimento di Turati. Cfr. Un avvocato
socialista cancellato dall’albo dei procuratori e Una lettera di Filippo Turati, 5-6 aprile
1891. In relazione all’Unione cfr. L. A. Tilly, Politics and Class in Milan 1881-1901, Oxford
University Press, New York 1992, pp. 217-218
29. G. Alessi, Il processo penale. Proilo storico, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 183-191;
L. Lacchè, Una letteratura alla moda. Opinione pubblica, «processi ininiti» e pubblicità in
Italia tra Otto e Novecento, in M.N. Miletti (a cura di) Riti, tecniche, interessi. Il processo
penale tra Otto e Novecento, Giuffrè, Milano 2006, pp. 459-513; L. Lacchè, «L’opinione
pubblica saggiamente rappresentata». Giurie e Corti d’Assise nei processi celebri tra Otto e
Novecento, in P. Marchetti Inchiesta penale e pre-giudizio. Una rilessione interdisciplinare,
ESI, Napoli 2007, pp. 89-147; F. Colao, L. Lacchè e C. Storti, Processo penale e opinione
pubblica in Italia tra Otto e Novecento, il Mulino, Bologna 2008. Sull’importanza dei tribunali
per i socialisti M. Ridoli, Il Psi e la nascita del partito di massa. 1892-1922, Laterza, RomaBari 1992, pp. 162-163; E. D’Amico, Strategie di manipolazione dei giurati: Enrico Ferri e la
coscienza popolare, in F. Colao, L. Lacchè e C. Storti Processo penale e opinione pubblica…,
cit., pp. 265-290.
30. Per il progetto malatestiano cfr. D. Turcato, Making Sense of Anarchism: Errico
Malatesta’s Experiments with Revolution, 1889-1900, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2012.
147
disponendo «tutta una biblioteca» che comprendeva invariabilmente La ine
delle guerre31. Inoltre, nell’arringa tenuta durante il più importante processo
antecedente alla relazione di maggio, ossia quello a Malatesta, Gori utilizzò
diffusamente La ine delle guerre. Come di consueto, l’avvocato allestì una
sorta di contro-processo alle istituzioni liberali e ai suoi garanti, i giudici
in primis. In modo funzionale a tale pratica, oppose al magistrato un altro
magistrato, Meale, e alle «tirate patriottarde del primo», le accuse al nazionalismo e la visione del progresso lungo l’asse barbarie-patria-umanismo
del secondo, assegnando ovviamente il ruolo di apostoli agli anarchici32.
Tacendo la parte propositiva di Meale, le tante versioni a stampa della difesa
maturate entro e fuori i conini nazionali conservarono il passaggio indicato.
La ine delle guerre si proilava in generale come un’arma da tempi di
crisi. All’opuscolo ricorse per esempio Prampolini nel pieno della guerra di
Libia, del travaglio del socialismo italiano e del trauma nel movimento paciista nazionale prodotto dall’interventismo di Moneta. Il socialista, peraltro,
ne avrebbe fatto un uso decisamente meno spregiudicato di quello di Gori,
rilanciando le proposte di creazione degli Stati Uniti d’Europa. Le idee di
Meale relative alle sistemazioni internazionali erano al centro dell’attenzione di Prampolini da più di un decennio tanto che la rivisitazione delle tesi
compiuta dal magistrato nello scritto Patria lex non era passata inosservata33. Ancor prima però Prampolini ne aveva fatto il campione di un liberalismo esemplare da inserire nell’agenda socialista.
5. Hear, hear!
Nel pieno della battaglia contro la reazione di ine secolo, dalle pagine della «Giustizia», Prampolini aveva raccomandato a tutti i propagandisti
socialisti di leggere Il discorso di un policeman di Umano34. L’opuscolo,
pubblicato nel dicembre 1898 sotto forma di traduzione, costituisce una formidabile denuncia nei confronti del governo e della classe dirigente liberale in merito ai recenti avvenimenti e alla più generale condotta della cosa
pubblica. La requisitoria rivela una visione schiettamente liberale con pochi
31. Si veda per esempio una testata locale che seguì un intero processo ad anarchici e
socialisti per un attentato ad un delegato di pubblica sicurezza, Supplemento straordinario
all’Eco del Carrione, 53, 15 aprile 1898.
32. Processo a Malatesta e Compagni innanzi al tribunale penale di Ancona, Buenos
Aires, 1899, p. 95.
33. S. Bianciardi, Camillo Prampolini…, cit., pp. 413-414, pp. 423-424.
34. Uno, Per la libertà. La nostra battaglia, in «La Giustizia», 10 febbraio 1899.
148
eguali in quella fase articolata però attraverso uno stile aspro al limite del
violento. L’ineducazione al regime rappresentativo igura come la chiave di
lettura dell’intera vicenda dell’ultimo anno, in particolare dei moti rivoluzionari, mentre già dal titolo l’Inghilterra era di nuovo proposta come il «più
alto grado di civiltà umana»35. Pur non mancando durissime accuse ai repubblicani per gli esiti violenti di una retorica anti-sistemica, gran parte della responsabilità dei moti era ricondotta ai governanti e a una classe politica che
da lungo tempo aveva calpestato i principi dello Stato di diritto: le libertà di
espressione, di associazione e di voto. Quello che delineava era un costante
processo di eversione della legge e delle libertà e un’educazione alla violenza attraverso le politiche di nazionalizzazione, da cui scaturivano ribellioni,
corruzione, illegalismo di magistrati e polizia, elusioni delle norme da parte
dei cittadini36. La mancanza di certezza da parte della legge e di garanzie di
libertà insomma erano all’origine di una durevole frode che aveva trovato il
suo acme negli stati d’assedio, considerati da Meale «un sovvertimento assai
più grande del moto rivoluzionario»37.
Il durissimo j’accuse, come accennato, fu subito raccolto da Prampolini
che successivamente ne fece un caposaldo di uno scritto di grande diffusione. Nel 1900, dopo l’incarcerazione causata dal noto episodio del rovesciamento delle urne in Parlamento, il deputato reggiano diede alle stampe
un’autodifesa mai pronunciata per la mancata celebrazione di un processo
che peraltro aveva già assunto i contorni di un appuntamento sensazionale38.
Senza signiicative torsioni, Il Resistete agli arbitrii! riprese dal Discorso di
un policeman le principali linee di sviluppo e di interpretazione39.
Intanto, a ridosso di questi prestiti e promozioni, «La Giustizia» attingeva all’ultima fatica di Umano, ossia Patria lex, questa volta glissando del
tutto sulle tesi e sfruttando la funzionalità dell’ormai ex ruolo dallo scrittore
e di un gusto stilistico iperbolico, tagliente e beffardo verso le autorità40.
Patria lex costituiva una nuova rilessione sul paciismo e sulla necessità
di un ordine internazionale. Ancor più de La ine delle guerre, il pamphlet
era farcito di radicalismo nei confronti dei paciisti e dei governi, che includeva proiezioni volutamente surreali, di immagini di fraternità e di rinvii a
35. Il discorso di un policeman nel cinquantenario dello Statuto italiano prefazione e
traduzione di Umano, Casa editrice libraria L. Battistelli, Milano 1898, p. 8.
36. Il discorso di un policeman…, cit., pp. 24-34.
37. Il discorso di un policeman…, cit., p. 40.
38. C. Prampolini, Resistete agli arbitrii! (Che cosa avrei detto ai giurati), Libreria
Garagnani e Pagliani, Modena 1900.
39. S. Bianciardi, Camillo Prampolini…, cit., pp. 279-290.
40. Per gli stralci pubblicati dal giornale socialista cfr. «La Giustizia», 13 gennaio 1901.
149
un futuro di socialismo cristiano. Lo scritto (male) si muove su un piano
di caustica contestazione della parabola del movimento internazionale per
la pace e dell’iniziativa della Conferenza dell’Aja, deinita una «farsa diplomatica» messa in scena «a beneicio dei fanciulli» delle società per la
pace41. A cadere sotto i colpi della penna di Umano furono tutte le soluzioni
circolanti in questi consessi – arbitrato obbligatorio e facoltativo, accordi per
il disarmo, la nazione armata tanto cara a Moneta –, così come però l’antimilitarismo socialista o le campagne di entrambi i movimenti a favore dei
boeri42. A beneicio questa volta della Unione interparlamentare, che peraltro
annoverava molti dei membri delle società per la pace, Umano riformulava
l’idea di un’Assemblea internazionale in un senso differente rispetto a La
ine delle guerre. L’Europa non costituiva il nucleo del discorso e una generica Federazione internazionale era concepita solo in termini di coordinamento economico e sociale e di regolazione degli affari internazionali. Nella
sostanza, il modello di Meale non differiva poi molto dalle organizzazioni
del ventesimo secolo. La Federazione non era preclusa ad alcun Stato, al di
là del regime esistente; l’Assemblea per gli affari internazionali doveva agire
a maggioranza, ma in un quadro di «prevalenza delle nazioni» più forti «per
intelligenza industriosa, per popolazione, per ricchezza»43. Una sistemazione di questo tipo per Umano era l’antidoto alle carneicine del Sud Africa e
della Cina, ma in un senso che coniugava umanità e accoglimento del colonialismo di tipo britannico. La condanna della brutalità in Sud Africa, che
per ammissione di Meale lo spingeva a scrivere Patria lex, si associava a una
strenua difesa dell’Inghilterra in guerra con le repubbliche boere44. L’ordine
armato internazionale guidato dai più civili assumeva così la isionomia di
una struttura razionalizzatrice in grado di far convivere la legittima espansione dei forti con la tutela delle popolazioni dalle barbariche violenze del caos.
Il discorso di un policeman e Patria lex si proilano in questo senso come
un’espressione del liberalismo umanitario occidentale, suscettibile di una
recezione ad ampio raggio che sarebbe andata di pari passo con l’emarginazione di Meale ino all’uscita dalla magistratura. Dopo trasferimenti punitivi
e anni di aspettativa, il giudice consegnò le dimissioni nel momento in cui
licenziò Il discorso di un policeman. All’epoca di Patria lex, Meale era ormai solo un pubblicista libero di spingersi ino al dileggio delle autorità45.
41. Per la citazione cfr. Umano, Patria lex, Società editrice lombarda, Milano 1900, p. 14.
42. Umano, Patria lex…, cit., pp. 6-16.
43. Umano, Patria lex…, cit., p. 5.
44. Umano, Patria lex…, cit., pp. 14-15.
45. Acs, Ministero di Grazia e Giustizia, fascicoli personali dei magistrati, I versamento
1860-1905, b. 317, fasc. 38224.
150
Problemi e prospettive della cittadinanza
oltre lo stato
Nico De Federicis
1. Introduzione
A partire da un notissimo saggio di Thomas H. Marshall, poi raccolto
e arricchito in un volume del 19501, il discorso sulla cittadinanza ha assunto un proilo peculiare all’interno delle discipline teoriche della politica,
imponendosi in seguito, soprattutto nel corso degli anni settanta e ottanta,
dapprima in ambiente angloamericano, e poi sempre più progressivamente,
ma inesorabilmente, da noi, come uno speciico e autonomo settore di ricerca, anche accademico. In questo caso, tuttavia, ciò che vale per la teoria
non vale per la storia, perché quella di un tale concetto va cercata molto più
indietro negli anni, e in un certo senso la data sopracitata rischia di essere
persino fuorviante; infatti, gli storici hanno ben ricostruito come la lunga
marcia verso la cittadinanza nella società moderna parta da molto più lontano2, e pur volendo sorvolare sulle sue origini remote – che in occidente
rinviano alle esperienze politiche del medioevo – si dovrebbe retrocedere
almeno all’età della Grande Rivoluzione. Ma lo scopo di questo intervento
non è quello di ricostruire il quadro storico – come ho detto, un compito già
lodevolmente assolto da altri – bensì di rilettere sulle più recenti trasformazioni del paradigma, e su come oggi si tenda a mettere in primo piano
il sempre più pervasivo allargamento dello spazio politico e culturale da
una dimensione nazionale a una dimensione transnazionale o globale; di
1. T.H. Marshall, Citizenship and Social Class, and other Essays, Cup, Cambridge 1950
(trad. it. di P. Maranini, a cura di S. Mezzadra, Cittadinanza e classe sociale, Laterza, RomaBari 2002).
2. Cfr. P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa. 4 voll., Laterza, RomaBari 1999-2001. Cfr. anche D. Zolo, La cittadinanza. Storia di un concetto teorico-politico,
«Filosoia politica», 14, 1, 2000, pp. 5-18.
151
tali trasformazioni intendiamo analizzare i rilessi (in effetti, di larghissima
portata) sulle forme della cittadinanza3.
2. La teoria (I): il “continuismo” di David Held
Le attuali teorie della cittadinanza «oltre lo stato» devono molto del loro
attuale accreditamento (almeno in ambito accademico) ai lavori di David
Held, già studioso di teoria democratica in dagli anni ottanta, il quale a
partire dalla metà degli anni novanta del novecento iniziò a proporre una
rivisitazione dell’idea classica di cosmopolitismo alla luce di un progetto
istituzionalista per una democrazia mondiale4. Tra i capisaldi della democrazia cosmopolitica (cosmopolitan democracy) promossa da Held c’è anche l’idea di cittadinanza, declinata ora in chiave sovranazionale. Chiamerò
questo modello «continuista», per porre in risalto gli elementi di continuità
con l’antico paradigma, quello cioè della cittadinanza nazionale inaugurato
da Marshall. Tali elementi, naturalmente, non si trovano nel legame con la
base nazionale, ma nello stile in cui la cittadinanza è pensata, nonostante –
ed anzi direi proprio in virtù – della sua estensione oltre lo stato.
Il modello continuista afferma che – fatte salve le necessarie differenze
poste dal fatto di far riferimento a una dimensione globale, anziché semplicemente nazionale – le aspettative politiche di una cittadinanza estesa oltre
lo stato, e potenzialmente cosmopolitica, devono e possono essere le stesse.
In altri termini, il senso e il valore della cittadinanza – storicamente, lo strumento più potente di implementazione della democrazia nella sua accezione
normativa – rimane sostanzialmente immutato dopo la sua proiezione globale.
Anzi, per i continuisti il senso ultimo di una siffatta proiezione è di garantire
la realizzazione su scala mondiale di quei princìpi e di quei valori affermatisi
solamente in una parte del mondo (quello cioè che Samuel P. Huntington ha
chiamato occidente5), e che oggi, proprio per poter sopravvivere alle straor3. Tra la ormai ampia letteratura sul tema cfr. K. Hutchings, R. Dannreuther (ed. by),
Cosmopolitan Citizenship, Palgrave/Macmillan, Basingstoke/New York 1999; A. Carter, The
Political Theory of Global Citizenship, Routledge, London 2001; N. Dower, J. Williams (ed.
by), Global Citizenship. A Critical Introduction, Routledge, London and New York 2002; N.
Dower, An Introduction to Global Citizenship, Edinburgh University Press, Edinburgh 2003.
4. D. Held, Democracy and the Global Order. From the Modern State to Cosmopolitan
Governance, Polity Press, Cambridge 1995; cito dalla versione americana Stanford, Stanford
University Press, 1995, rist. 2013 (trad. it. di A. De Leonibus, Democrazia e ordine globale:
dallo stato moderno al governo cosmopolitico, Asterios, Trieste 1999).
5. S. Huntington, The Clash of Civilization and the Remaking of the World Order, Simon
152
dinarie trasformazioni imposte dalla globalizzazione, devono poter contare
su una instaurazione universale. Come abbiamo anticipato, a nostro avviso
l’autore che meglio ha interpretato una tale prospettiva rimane David Held6.
Held giunge all’elaborazione dei problemi della cittadinanza cosmopolitica passando attraverso la propria rilessione sulla democrazia come peculiare forma di governo. Gran parte della sue proposte di estensione del governo politico oltre i tradizionali conini degli stati nazionali muove proprio
dall’esigenza di riorganizzare la teoria democratica, adeguandola alle grandi
trasformazioni della società attuale. Per far questo, a suo avviso, il modello
democratico necessita di una separazione dalla sua tradizionale associazione
alla nazionalità7. Realizzare questo obiettivo sarà il compito di quel che egli
chiama «diritto cosmopolitico democratico». Una tale estensione spaziale
della democrazia muove innanzi tutto dalla volontà di difenderla negli ordini interni; ciò perché oggi le nuove side mondiali mettono in pericolo le
conquiste democratiche degli ultimi due secoli. Per questa ragione – egli
afferma – «le democrazie nazionali hanno bisogno di una democrazia cosmopolitica internazionale»8.
All’interno di una prospettiva siffatta, il discorso condotto in Democrazia e ordine globale investe direttamente il tema della cittadinanza, ino a
prevederne – come abbiamo anticipato – un modello ampliato in sostanziale
continuità col modello della cittadinanza nazionale. Per comprendere bene
l’importanza concessa alla relazione tra cittadinanza e democrazia cosmopolitica dobbiamo fare riferimento a un luogo speciico dell’opera, nel quale, riprendendo una tesi di John Dunn, Held parla di una «cristallizzazione
della cittadinanza» in Europa. Tale morfogenesi della cittadinanza è stato
il risultato dell’interazione di tre fattori: 1) l’introduzione di un principio
di reciprocità del potere, secondo il quale il quest’ultimo deve provenire
dalla cooperazione di quanti gli sono assoggettati; 2) la deinitiva crisi di
un principio di legittimità politica fondato sopra un ordine trascendente; 3)
la separazione del politico dall’economico9. Il risultato speciico di questa
& Schuster, New York 1996 (trad. it. di S. Minucci, Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine
mondiale, Garzanti, Milano 2001).
6. Più di recente si vedano D. Held, Cosmopolitanism: Ideals and Realties, Polity Press,
Cambridge 2010; di prossima uscita, il volume Global Political Theory, ed. by D. Held, P.
Maffettone, Polity Press, Cambridge 2016.
7. D. Held, Democracy and the Global cit., p. 22.
8. Ibid., p. 23. Per una dettagliata analisi delle ragioni della crisi dello stato nazionale,
e della conseguente necessità di prospettare una nuova forma di democrazia sovranazionale
cfr. ibid., pp. 89-94.
9. Cfr. J. Dunn (ed. by), Democracy: The Uninished Journey, 508 B.C. to A.D. 1993,
Oup, Oxford 1992.
153
grande trasformazione all’interno della storia occidentale fu l’affermarsi di
uno speciico paradigma politico, ovvero quello dell’autonomia (autonomy),
nel quale – secondo Held – dev’essere ricompreso il signiicato della democrazia moderna.
L’autonomia è il cuore della teoria democratica di Held; ma cosa presuppone questo concetto? In realtà, esso copre vari ambiti, tanto quelli di tradizionale natura pubblicistica (gli aspetti cioè relativi all’autogoverno della
comunità politica, ovvero la sfera che tradizionalmente era di pertinenza
della libertà positiva), quanto quelli di natura privatistica (come la libertà
politica negativa, e dunque la sfera dei diritti individuali, ma anche l’autonomia morale degli individui); inine, l’autonomia comprende anche la nondipendenza: non-dipendenza dal potere politico, certamente, ma anche dalla
fame e dal bisogno. In altri termini, il concetto di autonomia cui Held fa
riferimento abbraccia l’intero complesso della marshalliana «strategia della
cittadinanza»10, portando a sintesi le tre distinte (ma strutturalmente unite)
famiglie dei diritti civili, politici, e sociali. È chiaro, dunque, che il principio
dell’autonomia si avvale dello strumento della cittadinanza moderna.
Ma quali speranze può nutrire questo antico e nobile concetto in un mondo divenuto globale? Ciò che a Held appare certo è il fatto che, nella situazione presente, lo stato nazione non è più in grado di garantire molti dei
diritti tradizionalmente ricondotti sotto lo status della cittadinanza democratica11. Pertanto, la sua proposta si muove verso un tentativo di empowerment della democrazia e della cittadinanza democratica stessa attraverso un
innalzamento dell’ordine di grandezza della sua applicazione. Ma è proprio
vero che i diritti di cittadinanza, nati in un contesto particolare, possono essere riconvertiti in diritti universali, come ad esempio i diritti umani? Larga
parte delle argomentazioni condotte nella seconda parte di Democrazia e
ordine globale paiono volte a dimostrare come l’accelerazione della globalizzazione sia un potente vettore di riorganizzazione anche dei diritti di
cittadinanza all’interno della struttura del diritto internazionale (ponendo
quindi all’ordine del giorno il problema della sua trasformazione in senso
cosmopolitico)12. Allo stesso tempo, tuttavia, se è vero che la completa assicurazione dei diritti umani costituisce una delle ambizioni fondamentali
della democrazia cosmopolitica, a Held non sfugge neppure il fatto che, da
un altro punto di vista, è l’idea stessa di diritti umani a presentarsi come
10. Cfr. D. Zolo, La strategia della cittadinanza, in La cittadinanza. Appartenenza,
identità, diritti, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 3-46.
11. D. Held, Democracy and the Global, cit., p. 222.
12. Ibid., p. 223.
154
problematica. Visti nella prospettiva della cittadinanza classica, si innescano
forti tensioni tra gli elementi che hanno garantito i presupposti per la loro
formulazione e per il loro riconoscimento (come l’identità nazionale, l’appartenenza religiosa), da un lato, e i presupposti della sovranità statale e del
diritto internazionale, dall’altro. D’altra parte, è pur vero – sostiene Held –
che democrazia e paradigma dei diritti appaiono fortemente interconnessi,
e pertanto il loro punto di vista, così come il loro progressivo ampliamento
oltre la dimensione nazionale, può essere difeso e valorizzato indipendentemente dall’appartenenza nazionale13. In questa prospettiva, dunque, i diritti
umani possono trovare una piena implementazione anche nel contesto del
diritto pubblico cosmopolitico.
Alla luce di queste considerazioni, la strategia proposta da Held appare in
modo più nitido: egli conferisce un signiicato piuttosto debole al concetto
di cittadinanza, rispetto a quello dei diritti. E laddove il primo viene riferito
essenzialmente all’elemento nazionale, direi quasi nazionalistico, il secondo
serve invece a caratterizzare lo strumento fondamentale per la tutela delle
libertà personali; e perciò se ne sottolinea l’aspetto universale. In effetti, si
tratta di una strategia che potrebbe essere deinita in senso lato kantiana.
In un tale contesto, sono i diritti stessi a essere considerati intrinsecamente
democratici, indipendentemente da quali cluster di cittadinanza li abbiano
generati, e questo permette a Held di allargare notevolmente l’estensione
della loro polity di riferimento. Pertanto, è l’accountability democratica ad
essere il pernio di un tale incastro; il suo ‘continuismo’ si giustiica a partire
da qui. Tutto ciò è garantito proprio dalla natura aperta del concetto moderno di comunità politica, la quale in tal modo permette una profonda rideinizione dello spazio politico tradizionale. Come scrive Held, il «bene politico
democratico» (democratic political good) passa attraverso delle comunità
di sovrapposizione (overlapping communities), interne e internazionali, che
interagiscono al loro interno e verso l’esterno. Pertanto, la revisione operata
da Held dell’idea moderna di polity produce una continuità rispetto al passato: essa rende il modello cosmopolitico fortemente intriso dei presupposti
del paradigma moderno, che – come si è detto – ora accentua il suo legame
strutturale con l’idea democratica, esaltando i princìpi di accountability da
un lato, e di autonomia dall’altro, indipendentemente dalla relazione alla
nazione.
Ma tutto ciò ha come esito il fatto di rendere piuttosto problematica – se
non controversa – l’identiicazione del luogo peculiare della politica, come
13. Ibid., p. 224.
155
invece non accadeva per il modello della statualità classica14. Di conseguenza, la proposta di Held si presenta innanzi tutto come una sida alla teoria
politica moderna, nella misura in cui quest’ultima si era fatta interprete di
una visione costruttivistica dello stato. A tale visione faceva seguito tanto
la convinzione – più o meno resa esplicita – che la cittadinanza risultasse
nient’altro che un epifenomeno del processo di nation building, quanto l’assunzione che il concetto stesso del diritto fosse da identiicare tra i prodotti
speciici del razionalismo occidentale. In questo senso peculiare, la democrazia cosmopolitica non è altro da una ulteriore articolazione di quella medesima forma di razionalità politica.
3. La teoria (II): democrazia cosmopolitica, cittadinanza, sovranità
Vediamo ora la speciica modalità in cui Held costruisce la cittadinanza
cosmopolitica. La prima regola fondamentale si riferisce ai luoghi (o siti)
del potere: essi devono essere costruiti seguendo uno schema multi-livello,
rispetto al quale possono caratterizzarsi come nazionali, transnazionali o
internazionali15. In ogni caso, il diritto pubblico democratico ha bisogno di
essere sostenuto da una struttura sovranazionale, alla quale si dà il nome di
«diritto cosmopolitico democratico». Il riferimento teorico, inanche obbligato, è a Kant, che fu il primo autore a teorizzare la igura del diritto cosmopolitico (weltbürgerliches Recht), conferendole una propria autonomia nello
sviluppo sistematico delle forme del diritto pubblico. Nel nostro caso, ciò
che importa non è tanto la fedeltà ilologica di Held al cosmopolitismo kantiano – in effetti, si potrebbero sollevare delle riserve su più di un punto, anche se, complessivamente, egli resta fedele allo spirito del kantismo politico
–; ad essere rilevanti qui sono soprattutto le novità apportate all’interno delle
teorie contemporanee. E l’autentico aspetto innovativo è dato dal fatto che
Held stabilisce il principio secondo il quale, per essere davvero affermato, il
diritto pubblico democratico deve passare attraverso il diritto cosmopolitico
democratico.
Una questione parimenti importante nell’impalcatura concettuale schizzata da Held è data da quella dimensione del diritto cosmopolitico che coinvolge il diritto di ospitalità. Ma su questo punto non vorrei intrattenermi
di più16. Mi soffermerò invece su un aspetto particolare della discussione
14. Ibid., p. 225.
15. Ibid., p. 227.
16. Mi limito a rimandare alle pp. 228 ss. del volume.
156
sull’ospitalità, che solleva la questione del suo rapporto con il principio di
autonomia. Held sostiene che per garantire una forma di «ospitalità universale», la quale si realizza, sostanzialmente, attraverso una universale attribuzione dei diritti umani fondamentali e l’azionabilità di tali diritti di fronte
ai molteplici fori della democrazia cosmopolitica, il principio fondamentale da difendere è il mutuo rispetto delle sfere di autonomia. Il perseguimento di «progetti individuali o collettivi – scrive – richiede un’autonomia
di potere e una nautonomia da cogliere in modo tale che possano essere
stimati i conini legittimi dell’autonomia degli uni e degli altri»17. Anche
in questo caso, insomma, si fa ritorno alla formula kantiana della reciprocità universale, affermata dall’idea di giustizia e garantita dal concetto del
diritto. Se è chiaro che, in via generale, il principio di reciprocità implicito
nell’idea di giustizia prescrive uguale rispetto per eguali diritti legittimi,
tuttavia, nel caso dell’ospitalità, ad essere in questione non c’è soltanto la
tradizionale ascrizione basata sui requisiti della cittadinanza (con i diritti
politici e quelli sociali in prima ila), ma anche l’attualissimo tema dell’accesso a tali cluster da parte di quei terzi che se ne trovano esclusi sulla base
di una condizione di estraneità alla comunità politica particolare (ad es.
stranieri, apolidi, ecc.). Ciò sposta i termini del confronto molto più avanti, perché il riferimento alla dimensione cosmopolitica pone stabilmente
l’accento dalla dimensione affermativa a quella negativa della cittadinanza,
cioè fa riferimento alla sfera privatistica degli individui. Pertanto, prima di
rivendicare diritti positivi (come il diritto all’assistenza, al welfare, il diritto al lavoro o ad altri titoli economici), è necessario richiedere un eguale
rispetto dei diritti fondati sulla reciprocità semplice, che sono poi i diritti
di prima generazione. Infatti, anche in Held i diritti positivi sono differentemente stabiliti in virtù delle differenze nazionali, nelle quali giocano un
ruolo sensibile elementi identitari quali l’appartenenza religiosa, la speciica cultura ecc. In questo senso, è vero che la democrazia cosmopolitica
riporta la cittadinanza all’interno di una dimensione prevalentemente legata
alla libertà negativa; si potrebbe persino affermare che, in qualche modo, li
riporta all’interno del suo originario contesto liberale18. D’altra parte, anche
quando si afferma la necessità di una profonda integrazione democratica tra
le varie regioni del mondo, tra i vari popoli e tra i vari stati, non può sfuggire il fatto che l’effettiva implementazione di queste politiche attraverso la
tipologia delle azioni affermative resta necessariamente legata a presuppo17. Ibid., p. 228.
18. È anche l’argomentazione di David Miller, Citizenship and National Identity, Polity
Press, Cambridge 2000, p. 92.
157
sti culturalisti, che non fanno che riproporre la versione occidentale della
razionalizzazione.
Quest’ultima considerazione solleva problemi di ordine etico. In molti
si sono interrogati sulla legittimità morale della pretesa della democrazia
cosmopolitica di andare oltre la dimensione comunitaria della cittadinanza,
inendo per riiutare le rivendicazioni dell’egualitarismo globale19. Dinanzi a queste obiezioni, la posizione di Held appare una via intermedia tra
due versioni opposte del cosmopolitismo morale: la prima è infatti quella
degli autori più vicini al comunitarismo, ma anche a una certa tipologia
di repubblicanesimo; la seconda, invece, è la prospettiva dei teorici della
giustizia globale, i quali, in nome del primato dei diritti umani, contestano i
presupposti istituzionali del diritto cosmopolitico democratico. A differenza
di costoro, Held segue una via al cosmopolitismo prettamente politica, che
unisce cittadinanza e diritti attraverso le istituzioni democratiche. Al contrario, laddove i critici del globalismo si muovono sostanzialmente in linea con
la prospettiva particolaristica dello stato-nazione, relegando i doveri cosmopolitici a doveri genericamente ilantropici, i teorici della giustizia globale
seguono la via della teoria morale normativa, e pertanto fanno riferimento a
modelli universalistici all’interno dei quali la dimensione classica, marshalliana, della cittadinanza è interamente superata.
L’ultima questione da comprendere è di natura sostantiva, e risponde alla
domanda seguente: in quale luogo si colloca la rideinizione cosmopolitica
della cittadinanza operata da Held? Il cuore della proposta dell’autore è una
forma di cittadinanza «multi-livello», deinita anche «cittadinanza multipla»
(multiple citizenship)20. Come abbiamo detto, in un tale contesto il signiicato originario del concetto tende inevitabilmente a essere indebolito, soprattutto perché inisce per perdere i suoi presupposti identitari. Ma in concreto
a che cosa conduce una tale divisione degli attributi della cittadinanza? Nei
suoi esperimenti più avanzati, com’è il caso della cittadinanza europea, i cittadini sono chiamati ad esprimersi secondo una duplice veste (ad esempio,
nelle elezioni nazionali si esprimono i cittadini della varie patrie, e in quelle
europee i cittadini d’Europa). Allo stesso modo, ma in maniera enormemente più complessa, dovrebbe funzionare il sistema di ascrizioni della cittadinanza cosmopolitica. In tale contesto, le strutture cosmopolitiche democratiche dovrebbero garantire la possibilità di una tale coesistenza, sicuramente
problematica, perché tra i differenti livelli di identità possono insinuarsi
19. È di nuovo Miller che ha espresso con più nettezza una tale avversione: cfr. D. Miller,
National Responsibility and Global Justice, Oup, Oxford 2007, p. 53.
20. Ibid., p. 233.
158
varie forme di conlitto, anche potenti (basti pensare a quello che, in forma
molto più circoscritta rispetto al modello mondiale proposto da Held, stiamo
vivendo noi europei in quest’ultima fase della storia della nostra integrazione). Held stesso si esprime in modo molto poco deinito; egli parla genericamente di «diverse forme di potere politico» e di diverse «entità», e ciò pone
già qualche problema, perché, per essere tale, la democrazia cosmopolitica
non dovrebbe riproporre una forma di neo-medievalismo (prospettiva che
infatti l’autore riiuta esplicitamente)21; e se ciò inisse per accadere, la sua
immagine di continuatore, nonostante tutto, della teoria della cittadinanza
moderna ne risulterebbe immediatamente sbiadita.
Perciò, non sorprende il fatto che Held si difenda da tali critiche rivendicando il ruolo ancora positivo degli stati nazionali22, anche se ogni dottrina
autenticamente cosmopolitica deve comunque assumere come proprio punto di partenza la ine della loro centralità23. Ne consegue tanto l’inattualità di una politica incentrata sulla esclusiva rivendicazione degli interessi
nazionali, quanto l’inevitabile opposizione tra questi ultimi e gli interessi
cosmopolitici (e ancora una volta, l’esperienza della nostra Europa appare
per molti versi esempliicativa). Di fronte a tale scelta, la preferenza per un
modello statuale di tipo cosmopolitico, alternativo a quello classico, non è
affatto semplice, né scontata; eppure, nemmeno quest’ultimo potrà garantire
totalmente dai rischi di nuovi conlitti. Le storie nazionali, il ricordo delle
loro conquiste progressive – delle quali il lungo cammino verso la cittadinanza fa parte a pieno titolo – l’insicurezza generata dal rischio della loro
perdita, giocheranno ancora per molto tempo un ruolo signiicativo per le
sorti dell’occidente. Se è vero che l’esperienza storico-politica che le ha
rette, la sovranità applicata all’idea di nazione, è stata espressione di particolarismo politico (e nelle sua manifestazioni peggiori di egoismo nazionale),
al contempo un tale contesto particolaristico ha dato attuazione a quello
stesso universalismo dei diritti sul quale i popoli contemporanei continuano
a fondare la legittimità del proprio universo politico.
Possiamo dunque concludere che la soluzione favorita da Held non è che
l’antica idea di sovranità divisa (o addirittura frammentata)? Certamente,
il progetto della democrazia cosmopolitica potrà realizzarsi soltanto attra21. Tuttavia, un tale riiuto non costituisce una ragione suficiente per fugare interamente
le critiche in tal senso; si veda ad esempio la discussione sulla presenza di presupposti
anarchici nella teoria heldiana: cfr. A. Prichard, David Held is an Anarchist. Discuss, in
«Millennium», 39, 2, 2010, pp. 439-59.
22. D. Held, Democracy and the Global cit., p. 233.
23. Infatti, l’autore precisa che sicuramente essi non saranno più l’unica fonte del potere
legittimo. Cfr. ibid.
159
verso un frazionamento (splitting) delle funzioni statali, dividendole tra i
vari livelli del potere: locale, nazionale, regionale e internazionale24. Tuttavia, almeno per Held un tale progetto signiica ricostruire, assieme ai limiti, anche il senso originario della sovranità statale, tenendo conto della sua
storia – che dalle prime forme dello stato moderno (di tipo rigorosamente
monista) giunge allo stato democratico di diritto. Ripercorrere la storia della statualità signiica perciò adattarne il paradigma alle side poste da un
mondo fortemente interconnesso, com’e l’attuale; ciò richiede un profondo
rinnovamento di quello stesso concetto di personalità icta dal quale ha preso le mosse la modernità politica. Per operare un tale rinnovamento, occorre
ripensare la statualità stessa alla luce del primato del diritto e della legalità
internazionale, ovvero degli elementi che costituiscono l’architettonica del
diritto cosmopolitico democratico. Per questa ragione, la politica oltre lo
stato impone la presenza di una moltitudine di istituzioni diverse dallo statonazione, operanti nei vari livelli della polity sovranazionale. Nel modello
della democrazia cosmopolitica è allora possibile individuare tanto una continuità, quanto una frattura rispetto al paradigma speciicamente moderno.
A conclusione di questa silhouette di quello che ho chiamato il ‘continuismo’ di Held, mi limiterò a puntualizzare unicamente gli elementi di
frattura. Non v’è dubbio sul fatto che il teorico inglese sia convinto della
possibilità di produrre un mutamento della natura della sovranità moderna.
Essa – egli scrive – può essere «spogliata (stripped away) dell’idea di conini e territori preissati e pensata […] come entità (clusters) spazio-temporali
malleabili»25. L’idea dell’autore è che la sovranità sopravviva come attributo
fondamentale del diritto democratico, ma che possa essere attuata (entrenched) attraverso differenti forme associative autonome, che vanno dagli stati, alle città, alle corporations26. Tuttavia, non possono essere evitati né un
certo grado di subordinazione tra i vari livelli dell’ordine cosmopolitico, né
una forma di garanzia della partecipazione democratica in tutti i livelli; per
questa ragione, Held prevede una «struttura comune di azione politica», che
nel lungo periodo dovrebbe poter assumere la veste di assemblee pubbliche
a livello mondiale, con l’intervento di città, nazioni e degli altri soggetti dei
vari ordini di costituency27. A ciò va aggiunto il principio che stabilisce la
necessità di relazioni non coercitive nella risoluzione delle controversie tra
cluster, nell’orizzonte del quale l’uso della forza resta una opzione collettiva
24. Ibid., p. 234.
25. Ibid.
26. Cfr. ibid., pp. 270-72.
27. Ibid., pp. 278-79.
160
solamente di ultima istanza28. Il modello cosmopolitico della democrazia
potrà essere così il fondamento di un’autorità globale e diversiicata, incentrata su differenti e sovrapposti centri di potere, che saranno modellati e
al contempo delimitati dal diritto democratico. Tutto ciò diverrà dunque lo
strumento di una rinnovata e più complessa articolazione dell’appartenenza democratica, nella quale la cittadinanza potrà essere estesa dal locale al
globale29.
3. La pratica: esperienze e problemi
Dopo questa escursione teorica, è necessario chiedersi se, e in che misura, quella della cittadinanza sia una teoria davvero praticabile oltre lo stato.
Per farlo occorre ripartire da una delle domande dalle quali avevamo preso le mosse: a che serve (oppure, a cosa è servita) la cittadinanza? Come
sappiamo, una delle risposte più convincenti è quella che ne sottolinea il
ruolo di veicolo fondamentale per l’implementazione della democrazia30.
Se questo è vero, la cittadinanza sovranazionale potrà mai svolgere la medesima funzione? Se il nodo del problema è di andare oltre lo stato, anche
nel senso di un superamento della teoria politica a cui quest’ultimo inora
ha fatto riferimento, non v’è dubbio sul fatto che le nuove versioni sovranazionali, potenzialmente cosmopolitiche, della cittadinanza iniscono in
qualche modo per trascenderne il proilo classico. Infatti – almeno in prima
istanza – il paradigma classico della cittadinanza appare costruito con il
ine di produrre un’attuazione completa della democrazia. Come sappiamo,
essa nasce in stretta associazione con l’idea di una comunità di eguali che si
auto-rappresenta, ma che lo fa sulla base di una qualche forma di restrizione
dello spazio politico di riferimento; in questo senso, la parabola del progetto
politico moderno è inesorabilmente connessa alla storia dello stato nazione.
D’altra parte, estendere la democrazia oltre lo stato signiica trascendere
proprio quest’ultima dimensione: una tale operazione può richiedere il riconoscimento di una differenza costitutiva tra due diverse forme di sovranità
(quella dello stato, da un lato, e quella sovrastatuale, dall’altro), comportando la necessità di introdurre una differenziazione nel modo di concepire
princìpi come la libertà, l’uguaglianza, la solidarietà e la giustizia. Ciò non
28. Ibid., p. 271.
29. Ibid., p. 272.
30. Cfr. N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1990, p. 68, pp. 70-71; ma anche D.
Held, Democracy and the Global Order cit., pp. 22-23.
161
è assolutamente necessario, ma è comunque un’opzione in gioco, che apre
un bivio rispetto al quale il cosmopolitismo contemporaneo è costretto a
operare delle scelte sostanziali.
Ma in qui ancora la teoria. A tutt’oggi, nelle sue esperienze concrete la
cittadinanza oltre lo stato ha fatto riferimento a tipologie aventi un rilievo
eminentemente internazionalistico, piuttosto che autenticamente cosmopolitico. Un esempio lampante è il caso della cittadinanza europea. Com’è
noto, essa non costituisce un’alternativa allo status delle cittadinanze nazionali, ma ne rappresenta una speciica integrazione. Essa, infatti, si costruisce
tanto attraverso condizioni di sostituzione della cittadinanza nazionale (il diritto alla protezione diplomatica ne è un caso esemplare31), quanto attraverso dispositivi di ampliamento, che prevedono il riconoscimento al cittadino
europeo di prerogative aggiuntive rispetto a quelle dei cittadini dei meri stati
nazionali32. D’altra parte, anche nel caso europeo, che senza alcun dubbio
rappresenta il tentativo più signiicativo mai effettivamente tentato di dar
vita a una cittadinanza sovranazionale, non si giunge all’affermazione di una
primazia gerarchica di quest’ultima rispetto a quella nazionale. Il testo dei
trattati (ad esempio, il trattato di Amsterdam) precisa esplicitamente che «la
cittadinanza dell’Unione costituisce un completamento della cittadinanza
nazionale e non si sostituisce a quest’ultima»33.
Ma è pur vero che una tale clausola di salvaguardia delle prerogative
nazionali è stata e continua a essere oggetto di costanti processi di trasformazione. È peculiarità delle istituzioni politiche il fatto che, una volta che è
stata data loro vita, esse siano capaci di un proprio potenziale performativo,
il quale è in grado di rimodellare le varie realtà e le relative prassi. Questo è
avvenuto anche per la cittadinanza europea, la quale – soprattutto attraverso
la forza della dottrina e l’opera interpretativa delle corti – ha manifestato allo
stesso tempo una diversa e opposta tendenza, che tende a conferire sempre
più forza e autonomia alla igura del cittadino europeo, spingendo il nostro
continente verso un’autentica dimensione federale. Fondamentale in questo
senso è stata una sentenza della Corte di Giustizia, attraverso la quale è stata
respinta la revoca della cittadinanza nazionale di uno stato membro (che
pure della cittadinanza europea costituisce il presupposto), perché lesiva di
diritti previsti dallo status di cittadino dell’Unione34. Una tale qualiicazio31. Tfue, art. 23.
32. Quest’ultimo può essere il caso del diritto di petizione al Parlamento o all’Ombdusman
europeo, oppure il diritto a iniziative per richiedere nuova legislazione europea. Cfr. Tfue,
art. 24.
33. Tce, art. 17, § 1.
34. Sentenza «Rottmann» del 2 marzo 2010 (causa C 135/08).
162
ne aggiuntiva attribuita dalla cittadinanza sovranazionale rispetto a quella
nazionale ha spinto alcuni ad affermare che in Europa quest’ultima oggi è
da intendere non più come una condizione sussidiaria, ma come una vera e
propria seconda cittadinanza, e come tale dotata di una propria autonomia35.
Resta vero, però, che in entrambi i casi, cioè quello di una cittadinanza
integrativa e quello di una cittadinanza sovrapposta e indipendente rispetto
alla nazionale, siamo in una situazione che si pone al di fuori della igura di
tipo analogico. E veniamo così ai problemi. Riiutare l’analogia non signiica aver trovato la chiave di volta per tutte le dificoltà. In primo luogo, l’esistenza di un solco teorico (di una differenza ontologica, appunto) che separa
la cittadinanza oltre lo stato da quella all’interno dello stato non pregiudica
il fatto che di cosmopolitismo si possa parlare dal punto di vista del suo
ideale normativo, ovvero quello della giustizia globale. In questo caso, il superamento della prospettiva teorica ediicata tra ottocento e novecento dalle
grandi dottrine dello stato va ricercata non tanto nello spazio istituzionale,
quanto in quello concettuale, ovvero in una visione normativa della politica
pronta a emanciparsi dal paradigma – speciicamente occidentale e moderno – di ciò che i ilosoi politici hanno chiamato «teologia politica», e con
essa dal modello di sovranità che le è proprio. Quando si sollevano questioni
peculiarmente normative, come quelle sulla giustizia, non bisogna stupirsi
se i problemi posti dal paradigma della cittadinanza divengono sempre più
onerosi; a ben guardare, il lungo cammino della cittadinanza nazionale prese
le mosse proprio a partire da qui. Pertanto, nella misura in cui la si voglia
distinguere dalla mera membership, la cittadinanza resta democratica per
antonomasia, pur non invocando direttamente la dimensione della comunità
(nel senso di ciò che i tedeschi chiamano Gemeinschaft), ma piuttosto la sua
giustiicazione normativa. In questo senso si può comprendere facilmente
perché, dal punto di vista concettuale, nella modernità la cittadinanza si sia
presentata come una proiezione nel mondo delle istituzioni della illuministica idea di giustizia.
Ma con ciò facciamo ingresso in un ambito dominato dal rapporto tra
mezzi e ini, e la statualità stessa, strumento della «strategia della cittadinanza», diviene il mezzo peculiare per perseguire il ine della giustizia. Già
nel caso interno allo stato, questo mezzo appariva funzionale a uno scopo
eminentemente politico: la sida dei nostri tempi riguarda il progetto della
trasformazione cosmo-politica di una tale giustizia realizzata all’interno dello stato democratico di diritto. Come abbiamo già messo in rilievo, un tale
35. E. Triggiani, L’Unione europea secondo la riforma di Lisbona, Laterza, Roma-Bari
2008, pp. 31 ss.
163
percorso appare irto di insidie; e qui mi limito a far notare soltanto come,
proprio su questo punto, si inneschi una fortissima tensione di nuovo con la
statualità, igura concettuale che ha dominato la politica moderna. Infatti, se
è vero – come affermava Carl Schmitt – che lo stato è il luogo del politico, e
dunque dei suoi speciici ini, oggi tutto pare spostarsi al di fuori della sfera
di competenza di quest’ultimo36.
Ancora una volta, l’esempio del vecchio continente riassume la questione nei suoi termini essenziali. Se vogliamo avere uno squarcio sul futuro,
è forse utile guardare nuovamente a quel che accade nel nostro continente.
Che fortuna avrà la cittadinanza europea? Può davvero funzionare come, al
netto dei problemi emersi nel corso della sua tutto sommato breve storia,
ha in qualche modo funzionato la cittadinanza nazionale? Se i cosmopoliti
si pronunciano in senso positivo, replicando ai loro critici il classico argomento che pure gli stati nazionali sono stati il frutto artiiciale di un’opera di
invenzione, e che dunque – in linea di principio – lo stesso può esser valido
per le nuove formazioni postnazionali, nessuno è tuttavia disposto a cedere
a un facile ottimismo. Certo è che anche le identità nazionali (impiego qui
il termine con molta prudenza e nessuna enfasi) sono emerse da conlitti
sociali potentissimi, da quelli religiosi ed etnici dell’origine, a quelli economici e sociali più recenti. Conlitti che nessuno sembra voler riproporre per
le realtà sovranazionali, se non altro perché tutto ciò sarebbe ben lontano da
quello stesso spirito irenico col quale la nuova costellazione postnazionale
intende esplicitamente legittimarsi, e che si è rivelato una delle componenti
essenziali della costruzione europea. Un tale spirito, infatti, dovrebbe garantire lo sviluppo a venire della nuova cittadinanza oltre lo stato, mettendola
al riparo dalle dure esperienze della vecchia Europa. Ma proprio perché la
nuova Europa non ha inteso battere il medesimo sentiero percorso dal nazionalismo (e non è per nulla casuale il fatto che abbia impiegato come
propri strumenti privilegiati il linguaggio dei diritti e la giurisprudenza), la
cittadinanza europea non può semplicemente sostituirsi alle prima, e in via
di principio deve proporsi come una igura non costruttivistica.
Tutto ciò è ancora più vero quando dall’esperienza del nostro continente
ci si proietta verso la dimensione globale. L’estensione cosmopolitica della
cittadinanza, nel senso in cui l’abbiamo conosciuta in occidente negli ultimi
due secoli, richiederebbe un’unica impalcatura istituzionale, qualsiasi vorrà
essere la forma attraverso la quale interpretarla; inoltre, avrebbe bisogno di
affermare come jus cogens alcuni standard minimi riguardo ai diritti umani
36. Cfr. C. Galli, Spazi politici. L’età moderna e l’età globale, il Mulino, Bologna 2001.
164
fondamentali (siano essi civili, politici, di welfare ecc.)37. Da qui mi pare
consegua, come quintessenza della cittadinanza oltre lo stato, il fatto che
essa inisca con l’acquistare un proilo differente da quella marshalliana. La
sua funzione primaria sembra essere non tanto la spinta verso l’uguaglianza
e l’integrazione, ma quella di «mettere in relazione», e di ediicare spazi di
condivisione per aspetti anche soltanto parziali della convivenza politica.
Essa mira innanzi tutto alla creazione di speciiche sfere di competenza,
affrancandosi dall’immagine del cittadino «totale»38, che invece mi pare il
presupposto della cittadinanza moderna di tipo tradizionale. In questo senso, la cittadinanza oltre lo stato tende anche ad allontanarsi da quello stesso
principio di emancipazione sociale che ha esercitato una potente spinta propulsiva per tutto l’ottocento politico, ed è proseguita poi nel secolo successivo. Più di ogni altro segnale, ciò mi pare rappresenti la riprova del fatto che
la sola rivendicazione della cittadinanza sia lontana dall’essere la soluzione
deinitiva ai problemi della politica del nostro tempo39. Ma se la risposta
alle nuove side, almeno in Europa e negli altri paesi della nostra porzione
occidentale di mondo, dovrà essere quella di costruire un quadro istituzionale nel quale garantire il dominio della politica al di là delle particolarità
nazionali, allora lavorare per una cittadinanza oltre lo stato sarà un compito
col quale, probabilmente, iniremo per confrontarci seriamente.
37. Hdhr, art. 25.
38. Cfr. N. De Federicis, Gli imperativi del diritto pubblico, Plus, Pisa 2005, p. 76.
39. Una lucida ricostruzione in R. Bellamy, Citizenship: A Very Short Introduction, Oup,
Oxford 2008.
165
La cittadinanza di genere nella distopia: i romanzi
di Katharine Burdekin e George Orwell
Laura Muzzetto
L’idea di cittadinanza come partecipazione alla gestione della comunità
costituisce senz’altro uno dei fondamenti delle democrazie moderne e ha
radici lontane e profonde, anche se nel corso dei secoli il concetto ha subito
evoluzioni e modiiche, sia a livello teorico-ilosoico sia politico. Storicamente la cittadinanza si è basata sull’inclusione nella comunità religiosa o
sui legami familiari, è dipesa dal censo, dalla classe sociale, o dal genere.
Filosoicamente ha sempre rappresentato un nodo problematico e dificile
da sciogliere: è stata pensata come appartenenza, come garanzia di libertà ed
eguaglianza, come modalità di organizzazione delle relazioni sociali, come
attributo giuridico di tutela o di esclusione1, ed anche come chiave di universalizzazione della civiltà. Insomma, indubbiamente la cittadinanza è dirimente per la democrazia, che senza di essa rimane incompiuta, imperfetta.
Ed è proprio per questo che, guardando alle logiche di inclusione/esclusione
determinate proprio dalla cittadinanza, non si può non fare riferimento a
un fenomeno che è stato storicamente onnipresente nel percorso del genere
umano verso il raggiungimento dei diritti civili, politici e sociali: la questione della cittadinanza femminile2. In questa sede ci si propone di farlo da una
prospettiva letteraria, quella della tradizione distopica, da cui, sia in positivo
che in negativo, emerge una caratterizzazione importante della visione delle
donne in società immaginate.
La distopia, in quanto drammatizzazione catastroica delle tendenze già
in atto nella società contemporanea, dovrebbe enfatizzare il problema della
scarsa inclusione delle donne in quel contratto sociale che sta alla base della
1. S. Veca, Cittadinanza. Rilessioni ilosoiche sull’idea di emancipazione, Feltrinelli,
Milano 1990, pp. 22-26.
2. P.L. Di Viggiano, R. Bufano, Donne e società. Partecipazione Democratica e
Cittadinanza Digitale, «Tangram Edizioni Scientiiche», Trento 2013, pp. 93-95.
166
democrazia. I generi utopico e distopico, invece, pur facendo della lungimiranza un proprio tratto distintivo, raramente si fanno portavoce delle istanze
femminili, ed alle donne, anche nell’utopica società ideale o nel terribile
futuro distopico, viene solitamente riservata una condizione di cittadinanza
incompleta.
L’utopia, nella sua intrinseca ipotesi di società perfetta, dovrebbe includere l’umanità intera nel progetto di estensione dei diritti e di sovversione
dell’ordine sociale esistente; invece il suo progressismo si arresta spesso e
volentieri di fronte all’ipotesi, anche solo teorica, dell’abolizione o di una
riduzione del potere maschile3. Pure nelle «terre visionarie delle possibilità
perfette4», dove i disagi delle diverse epoche storiche vengono risolti almeno
attraverso proiezioni immaginarie, la disparità della condizione femminile,
una prevaricazione sociale perpetuata attraverso i secoli, non trova risposta
né soluzione, a parte poche eccezioni. La vita delle donne che popolano i
mondi utopici si ripropone generalmente secondo modelli culturali assodati;
dificilmente troveremo in queste società cittadine che godono di pari diritti
e doveri o che si autodeterminano in base a libere scelte, a conferma della
dificoltà di elaborazione, anche meramente romanzesca, di un modello sociale egualitario.
A partire dall’utopia di Platone ino ai romanzi di Wells, le donne vengono escluse, sfruttate, disprezzate, poste alternativamente a servizio dell’uomo o dello Stato, e sottoposte a legami familiari coercitivi o a regimi di
comunione dalle sfumature poligamiche. A dispetto dei cambiamenti che
l’utopia produce nei più svariati ambiti sociali, dalla politica alla religione,
la donna rimane legata ad un solido stereotipo culturale che privilegia la
sua funzione biologica, e di conseguenza viene rafigurata come generatrice
e allevatrice di igli, deputata ai compiti di cura e di gestione domesticofamiliare.
Quando invece la denuncia di una realtà oppressiva e pericolosa, quella
contemporanea, avviene attraverso le proiezioni distopiche, uomini e donne
sembrano essere accomunati da una stessa, terribile, sorte. Lo specchio deformante della distopia non prospetta nessuna soluzione ai mali del mondo,
bensì ammonisce sui rischi insiti nel destino dell’uomo, che prepara più o
meno coscientemente per sé e per il mondo un futuro catastroico5. Qui tutti
3. G. Pezzuoli, Prigioniera in Utopia, Edizioni il Formichiere, Trento 1978, p. 13.
4. E. Hoffman Baruch, A Natural and Necessary Monster: Women in Utopia, in
«Alternative Futures», 2, 1, 1979, p. 29.
5. R. Bianchi, I Parametri della Controutopia, in Aa.Vv., Utopia e Fantascienza,
Giappichelli, Torino 1975, pp. 159-161.
167
sono solitamente vittime della stessa barbarie, schiacciati da un sistema autoritario autoperpetuantesi, e privati delle più elementari libertà. Ma anche
in questo caso possiamo individuare delle differenze di genere signiicative,
riscontrabili sia nella caratterizzazione dei personaggi che nella descrizione
della condizione femminile. Le principali distopie novecentesche, quelle di
Zamjatin, Huxley e Orwell, non prevedono per le loro società totalitarie
un cambiamento sostanziale del ruolo riservato alle donne, cittadine di second’ordine anche in un mondo in nessun modo desiderabile.
Ma negli anni Trenta e Quaranta, quando l’Europa scricchiola sotto il
peso dei totalitarismi, il genere distopico ispira anche la penna di alcune
autrici, i cui romanzi non avranno altrettanta risonanza, ma presentano
senz’altro una maggiore sensibilità nei confronti della secolare “questione
femminile”. Tra queste la scrittrice inglese Katharine Burdekin, che negli
anni Trenta dà alla luce diverse opere distopiche: Proud Man (1934), The
End of This Day’s Business (1935) e la più famosa Swastika Night (1937);
e la poetessa svedese Karyn Boye, che nel 1940 si cimenta nell’inquietante
distopia Kallocaina. Questi romanzi aiutano ad avere una percezione maggiormente accurata dell’atmosfera dell’epoca, delle ansie e dei timori di un
periodo buio e complesso della storia contemporanea, visti anche da una
prospettiva femminile.
In questa sede verranno analizzati due romanzi antitetici ma esempliicativi della rappresentazione della cittadinanza di genere all’interno della
tradizione distopica: 1984 di George Orwell e il già menzionato Swastika
Night di Katharine Burdekin.
George Orwell, scrittore dall’indiscussa lungimiranza politica espressa
soprattutto in Animal Farm e 1984, viene spesso tacciato di misoginia dalla
critica femminista. Nella sua opera emergono igure femminili marginali,
sottomesse e votate al sacriicio, la cui condizione è secondaria e accessoria
rispetto a quella dell’uomo, capace invece di combattere, lottare, opporsi
al dominio. L’unico dissenso, l’unica contestazione ammessa per le donne
avviene per motivi egoistici e supericiali, per una ricerca personale della
felicità o per il soddisfacimento di un desiderio, mai per sete di giustizia
o per l’affermazione di un pensiero politico, di un’idea6. I protagonisti dei
romanzi di Orwell sono solitamente igure maschili e le donne presenti sono
personaggi secondari e di poco spessore. Elisabeth, di cui è innamorato John
Flory in Burmese Days è bella ma stupida, e la Figlia del Reverendo, Do6. G.M. Bravo, Orwell. Le contraddizioni politiche di un impolitico, in M. Ceretta (a cura
di), George Orwell. Antistalinismo e Critica del Totalitarismo, Atti del Convegno, Torino,
24-25 febbraio 2005, Leo Olschki Editore, Firenze, p. 81.
168
rothy, bigotta e irrazionale. Gordon Comstock, protagonista di Keep the Apidistra Flying si dimostra sarcastico e maschilista nei confronti delle rivendicazioni di genere della sua idanzata Rosemary, e Hilda, la moglie di George
Bowling in Coming Up for Air è descritta come spilorcia e insopportabile7.
Come i romanzi precedenti, la famosa distopia orwelliana presenta alcune discriminazioni di genere facilmente percepibili. Nell’Oceania del 1984,
tenuta sotto scacco dal totalitarismo, la condizione femminile non è poi così
diversa da quella dell’Europa del 1948, anno di stesura del romanzo, ma ciò
non sembra destare le preoccupazioni dell’autore. Tra le critiche al regime
non spicca infatti nessuna considerazione di genere, nessuna disapprovazione per un sistema che continua a riproporre e a riprodurre uno schema di
ruoli sempre identico a se stesso. Winston Smith, per molti aspetti controigura dell’autore come gli altri protagonisti dei romanzi di Orwell, non fa
mistero della sua misoginia:
non sapeva tollerare, in genere, quasi nessuna donna, e in particolare le giovani e piacenti. Erano sempre le donne, particolarmente le più giovani, che fornivano le aderenti
più bigotte del Partito, che si nutrivano di slogans, di frasi fatte, le spie dilettanti, le
scopritrici dell’eterodossia8.
Nell’Oceania di Orwell nessuna cittadinanza intesa come pienezza di
diritti civili e politici è riconosciuta né agli uomini né alle donne, mentre
in tutti i modi si cerca di infondere negli individui un profondo senso di
appartenenza alla comunità, o meglio al Partito. E coloro che più di tutti subiscono le conseguenze di questo indottrinamento massivo sono proprio le
donne, facili vittime di un sistema al quale quasi mai oppongono resistenza.
Nel romanzo quasi tutte le igure femminili sono dipinte come fanatiche e
incredibilmente ortodosse promotrici del Socing: incontriamo esaltate sostenitrici della Lega Antisesso, segretarie, mogli, o prostitute prolet, secondo uno stereotipo poco futurista e molto consolidato, che relega le donne ad
un modello di cittadinanza incompleto, non consentendo loro di accedere
a condizioni sociali egualitarie. La rappresentazione dei personaggi fornisce un quadro abbastanza chiaro: l’unica igura femminile tutto sommato
positiva è la madre di Winston, animata da spirito di sacriicio e da un amore genitoriale dificilmente riscontrabile ai tempi del Socing. Katherine, ex
moglie del protagonista, di cui si narra che avesse «il cervello più vuoto,
stupido e volgare [...] mai incontrato9», è l’esempio più tragico della cate7. C. Hitchens, Orwell’s Victory, The Penguin Press, London 2002, pp. 104-105.
8. G. Orwell, 1984, Mondadori Editore, Milano 1989, pp. 13-14.
9. G. Orwell, 1984…, cit., p. 13.
169
chizzazione del regime, un gelido fantoccio senza più tracce di umanità, addestrato a ripetere senza sosta slogans e frasi propagandistiche dalla logica
discutibile. Katherine ha soffocato sia la ragione che l’istinto per amore del
Partito, unica fonte motivazionale della sua vita ripetitiva e minuziosamente
programmata.
E poi c’è Julia. Giovane, bella, e tanto furba da mascherare la sua indisciplina con un apparente morboso attaccamento al regime. Winston la crede inizialmente una fanatica seguace del Partito e delle norme del Socing,
ma si rivelerà un’abile simulatrice, che inge di essere ligia alle regole per
guadagnare, in segreto, un po’ di libertà. Peccato però che Julia sia una «ribelle solo dalla cintola in giù10», la sua moralità politica è inesistente, il suo
fervore rivoluzionario si limita ad un egoistico libertinaggio, praticato più
per diletto personale che come atto sovversivo. È complice di Winston, ma
a differenza dell’antieroe orwelliano, non è animata da alcun intento politico, non ha nessun interesse a cospirare contro il sistema per rovesciarlo,
non cerca di entrare a far parte della mitica organizzazione clandestina, la
Fratellanza. Julia non condivide le illusioni rivoluzionarie del suo amante,
vuole solo riuscire a imbrogliare il Partito per ritagliarsi un piccolo spazio
di autonomia. La dimostrazione del suo scarso interesse politico, Orwell
la dà in una scena decisiva del romanzo, quando Winston entra inalmente
in possesso del tanto agognato libro segreto di Goldstein, La Teoria e la
Pratica del Collettivismo Oligarchico, e legge a Julia le sue rivelazioni, ma
lei, proprio sul più bello, si addormenta dando prova di un totale disinteresse per le sorti di una possibile rivoluzione. Anche se dimostra un livello
di consapevolezza indubbiamente superiore rispetto alle igure adoranti di
fronte ai teleschermi col faccione del Grande Fratello, la sua emancipazione dal sistema rimane comunque incompleta; si può sostenere che Julia
abbia recuperato l’istinto, ma non il raziocinio. La dote della razionalità,
propria unicamente delle specie evolute, è riservata nel romanzo solo a due
personaggi, due uomini, due intellettuali: Winston, il ribelle, e O’Brien, il
più subdolo dei carneici.
Sono signiicativamente, uomini, protagonisti del romanzo di Katharine Burdekin, Swastika Night, aspra denuncia distopica del regime nazista
scritta con lo pseudonimo maschile di Murray Constantine e pubblicata da
Victor Gollanz, editore progressista inglese che proprio in quegli anni dava
alle stampe, non senza esitazione, le opere irriverenti11 di George Orwell.
10. G. Orwell, 1984…, cit., p. 165.
11. Tra cui Down and Out in Paris and London (1933), Burmese Days (1935), The Road
to Wigan Pier (1937).
170
Nel 1937, anno di uscita del romanzo, la Germania nazista è una nazione
in ripresa economica e Hitler un dittatore dal carisma magnetico che raccoglie un largo consenso, dando forma al suo delirio razzista ed espansionistico. Burdekin ha già colto l’essenza reazionaria e ideistica di una follia
xenofoba e misogina, che trascinerà il mondo intero verso una catastrofe di
proporzioni mai viste prima, e così dipinge uno scenario dalle tinte foschissime.
Siamo nell’anno 720 dopo la morte del “Nostro Signore Hitler”, di cui
si narra che sia esploso dalla testa di suo padre; l’impero Nazista ha conquistato l’Europa intera e l’Africa, e ha come unico rivale mondiale l’impero
Giapponese, che governa invece su Asia e Americhe. Come spesso accade
nei romanzi distopici, la società hitleriana non conserva nessuna traccia del
passato, e il presente è un medioevo desolante in cui lo Stato Nazista ripropone un modello feudale: il potere appartiene alla casta dei Cavalieri Teutonici, che lo esercitano in modo violento e arbitrario sugli stranieri e sulle
categorie più deboli, considerate intoccabili, cristiani e donne.
Come la donna è superiore al verme
così l’uomo è superiore alla donna
Come la donna è superiore al verme
così il verme è superiore al cristiano12.
Ma le donne sono senza dubbio quelle che pagano il prezzo più alto di
questa involuzione storica, poiché, private dei più elementari diritti civili,
sono ridotte ad una terribile schiavitù: segregate in appositi quartieri, hanno
la testa rasata e indossano uniformi che le abbruttiscono e le ridicolizzano.
Il loro unico compito è quello di garantire la sopravvivenza della specie,
perciò vengono sistematicamente violentate, e poi private dei loro igli maschi perché non contaminino la loro crescita. In questo mondo dove l’amore
eterosessuale è inconcepibile, le donne vengono considerate alla stregua degli animali, senz’anima; si crede pertanto che non abbiano sentimenti e non
possano provare sofferenza per la loro condizione.
Non più docili interpreti del sistema, quindi, come Lenina nel Brave New
World di Huxley, non frivole ribelli come Julia in 1984; per sottolineare la
pericolosità della situazione contemporanea Burdekin propone igure femminili il cui status sociale è così inimo da non consentire alle donne neanche di assurgere alla dignità di personaggi13. Per questo i protagonisti del
12. K. Burdekin, La Notte della Swastika, Editori Riuniti, Roma 1993, p. 5.
13. C. Pagetti et alii, In the Year of Our Lord Hitler 720: Katerine Burdekin’s “Swastika
Night”, in «Science Ficton Studies», vol. 17, n. 3, 11, 1990, p. 361.
171
romanzo non possono che essere uomini, gli unici appartenenti di diritto ad
una società da cui le donne sono state totalmente escluse.
Una triade insolita ci guida attraverso questa landa desolata, composta
dal guerriero Hermann, omosessuale ottuso e profondamente ortodosso,
dall’inglese Alfred, curioso e ribelle, e dal Cavaliere von Hess, malinconico e solitario membro sovversivo della casta governante. Il Cavaliere è in
possesso di un antico libro tramandato nella sua famiglia di generazione in
generazione, che rivela verità storiche impensabili e smaschera le menzogne
costruite nei secoli dal regime. Un libro nel libro, come quello di Goldstein
in 1984, letto anch’esso in un tempo in cui la storia è inita o è solo uficiale,
anch’esso afidato da un uomo di potere ad un potenziale ribelle14. In mancanza di eredi, infatti, von Hess decide di afidare il prezioso manoscritto ad
Alfred, considerandolo come un suo discendente spirituale. Sebbene dotato
di intelligenza e perspicacia nettamente superiori alla media, tanto da intuire
quasi tutte le assurdità della terribile società nazista, Alfred è comunque
iglio di questo medioevo futurista, inizialmente impassibile di fronte alla
più incivile delle atrocità, quella che concerne la condizione femminile e che
viene denominata “Riduzione delle Donne”.
In questo tempo distopico le bambine vengono educate in da piccole ad
essere inferiori e insigniicanti, a subire ingiustizie e prevaricazioni, e a fare
sempre ciò che gli uomini impongono loro. Ma la “Riduzione” alla loro funzione biologica si esprime soprattutto, dopo i sedici anni, nell’istituzionalizzazione della violenza sessuale, una pratica di routine che ricorda incessantemente alle donne la loro scarsa importanza, la mancanza di autonomia,
la carenza di personalità, e le obbliga ad una disponibilità incondizionata
che implica la rinuncia alla facoltà di scegliere e al potere di opporsi15. Dal
libro di von Hess scopriamo che la rovina delle donne fu deliberatamente
orchestrata dagli uomini tedeschi, che consideravano un insulto alla Virilità
la vita familiare, il controllo che le madri avevano sui igli e, principalmente,
il potere sessuale che le donne esercitavano sugli uomini, congiuntamente
al rischio di essere respinti senza possibilità di appello. Il passaggio da una
condizione di cittadinanza incompleta ad una di sudditanza assoluta, in cui
le donne devono sottostare a doveri e comandi, avviene soprattutto grazie a
Rupprecht von Wied, che seicento anni addietro fu il principale sostenitore
14. G. MacKey, Metapropaganda: Self-Reading Dystopian Fiction: Burdekin’s “Swastika
Night” and Orwell’s “Nineteen Eighty-Four”, in «Science Fiction Studies», vol. 21, n. 3, 11,
1994, pp. 302-304
15. D. Patai, Orwell’s Despair, Burdekin’s Hope: Gender and Power in Distopia, in
«Women’s Studies Int. Forum», vol. 7, n. 2, Autumn, 1996, p. 89.
172
della campagna antifemminile, e nelle cui idee retrograde risuona la critica di Burdekine a Otto Weininger16. La responsabilità delle donne rispetto
alle dinamiche descritte è quella di essersi incondizionatamente piegate, di
essersi sacriicate al volere degli uomini ino al completo annullamento di
loro stesse. «La donna non è nulla, se non l’incarnazione di un desiderio di
accontentare l’uomo17» scrive Burdekin, ma questa concezione dell’identità
femminile, questa condiscendenza autolesionista, non ci viene presentata
come naturale, bensì come prodotto socio-culturale, in questo caso un prodotto dell’ideologia nazista e patriarcale.
Durante le sue rilessioni sul regime, dettate dalle nuove scoperte storiche rivelate dal libro, Alfred intravede una speranza per il futuro della sua
iglia neonata, cerca un modo per salvarla dalla terribile sorte che il mondo
le riserva in quanto donna, in quanto priva di qualunque diritto di cittadinanza. Egli spera dunque di trasformarla in una “donna vera” proprio perché
intuisce che «non è nel grembo che avviene il danno18», anticipando così
Simone de Beauvoir che scriverà più di dieci anni dopo «donna non si nasce,
lo si diventa19».
Ed è proprio questa la denuncia più aspra che Burdekin rivolge al Reich:
la socializzazione programmata delle donne come esseri inferiori, che rischia di determinare mondi assolutamente distopici come quello descritto
in Swastika Night. La lucidità del romanzo sta nell’individuare il legame tra
totalitarismo e maschilismo, tra il culto della virilità e il conseguente immiserimento della componente femminile20. Da un lato gli uomini, con la loro
personalità, il loro potere, il loro ego tronio; e dall’altra le donne, ridotte a
meri corpi, senz’anima, senza la dignità di esseri umani. Un mondo talmente
asimmetrico quale quello su cui impera la croce uncinata diventa inevitabilmente distopico: così fu per quello storicamente esistito del Nazismo e così
è per quello descritto nel romanzo di Katharine Burdekin.
Con il termine “culto della mascolinità” l’autrice identiica il dominio, il
potere, e la violenza, che saranno anche i presupposti su cui Orwell baserà
la strategia politica e ideologica del Partito ad Oceania. Gli eroi fragili che
Burdekin ci presenta sono il risultato di una società composta da soli uomini per secoli, basata anche in tempo di pace su valori d’ispirazione milita16. K. Holden, Formation of Discipline and Manliness: Culture, politics and 1930s
women’s writing, in «Journal of Gender Studies», vol. 8, n. 2, 1999, p. 150.
17. K. Burdekin, La Notte della Swastika…, cit., p. 93.
18. Ivi, p. 181.
19. S. De Beauvoir, Il Secondo Sesso, Il Saggiatore, Milano 1961, p. 15.
20. C. Pagetti, Cittadini di un assurdo universo, Editrice Nord, Milano 1989, p. 118.
173
re, quali l’aggressività, l’obbedienza cieca e la prestanza isica. E se queste
sono considerate le più lodevoli virtù sociali, non c’è da meravigliarsi che
le donne arrivino sempre seconde, che si affannino inutilmente per cercare
di raggiungere un ideale sociale modellato su canoni estranei, non inclusivi
delle loro speciicità. Razza, sangue, culto del capo, nel romanzo danno vita
a superuomini patetici e goffamente ingenui, bulli medievali che mascherano una grande debolezza sotto una maschera di spacconeria e xenofobia,
costretti a vivere in una notte perenne creata da loro stessi. Gli uomini hitleriani hanno creato il mondo a loro immagine e somiglianza, deinendo
autonomamente virtù e debolezze, e poiché le donne non hanno partecipato
a questa grottesca creazione, risulta un mondo totalmente privo dei valori
femminili che porterebbero stabilità ed equilibrio. La violenza e la guerra
sono solo alcune delle manifestazioni del loro potere, un potere fortemente
genderizzato, totalmente sbilanciato21.
Quando la componente maschile invade ogni aspetto della vita, quando
non esiste più alcun rifugio, alcuna intimità, allora l’elemento femminile,
personale, viene ghettizzato ed emarginato in una sfera privata, esclusa dal
mondo reale, politico, pubblico, maschile appunto. Sarebbe forse azzardato
sostenere che quando questo avviene siamo di fronte ad una distopia, ma
sicuramente questo è ciò che avviene nelle principali distopie: nel Nuovo
Mondo di Huxley segnato dall’asetticità dei rapporti umani; nel 1984 di
Orwell in cui sempre, costantemente, «il Grande Fratello ti guarda22»; nel
romanzo di Karin Boye, Kallocaina, dove anche il pensiero diventa perseguibile; ed anche in Swastika Night, in cui l’assenza delle donne trasforma
il mondo in un inferno terreno23.
Un’umanità che voglia prendere le distanze dalla distopia dovrebbe
quindi porsi il problema di come includere le donne nella società, ma non
attraverso la loro incorporazione in un mondo totalmente maschile, bensì
con il ripensamento della società stessa, creata non solo «a misura d’uomo»
ma anche «a misura di donna», attraverso un ripensamento dei diritti e doveri di cittadinanza.
L’estensione di una piena cittadinanza alle donne, come «diritto di essere
nel diritto e di avere dei diritti24» è ancora oggi una questione irrisolta. La
21. R. Baccolini, I Romanzi di Burdekin, Boye e Bryher, in George Orwell. Antistalinismo
e Critica del Totalitarismo…, cit., pp. 43-49.
22. G. Orwell, 1984…, cit., p. 8.
23. G. Pezzuoli, Prigioniera in Utopia..., cit., pp. 58-59.
24. E. Baeri Parisi, Dividua. Femminismo e Cittadinanza, Il Poligrafo, Padova 2013, p.
108.
174
situazione di soggezione politica e giuridica in cui sono state coninate per
secoli ha origini molto antiche, sin da quando, affacciate all’uscio della polis, potevano solo stare a guardare gli uomini che decidevano delle sorti della comunità. Già Aristotele teorizzava la realizzazione dell’uomo all’interno
della collettività come piena espressione di civiltà, e contemporaneamente
l’estromissione della donna dalla gestione della vita pubblica e il suo coninamento nella sfera privata, più consona a chi presenta un’intrinseca inferiorità biologica25. Questa “naturale” gerarchia tra i sessi è stata perpetuata
per secoli dalla cultura patriarcale, ino ad apparire ontologica, metastorica,
immutabile. Da qui la convinzione di Locke che la soggezione della moglie
avesse il suo fondamento nella Natura26 e la mancata inclusione delle donne
da parte di Rousseau in quel patto tra eguali che avrebbe sancito l’origine
della democrazia27.
Neanche le forze rivoluzionarie francesi si fecero portavoce delle istanze
femminili, escludendo ancora una volta le donne dalla conquista dell’universalità dei diritti dell’uomo, appunto. Tanto da spingere Olympe de Gouges a
redigere nel 1791 la Dichiarazione dei Diritti della Donna e della Cittadina,
per rivendicare come naturali i diritti civili e politici che la cultura patriarcale aveva sempre negato al genere femminile. La fraternitè, pilastro portante
della rivoluzione, era il segno che il patriarcato tradizionale cedeva il passo
ad una moderna fratellanza, che vedeva inalmente gli uomini liberi e uguali, ma ancora una volta le donne sottomesse ed escluse, deliberatamente.
Non-cittadine, invisibili pilastri della struttura sociale, unpersons per dirla
nell’orwelliana neolingua di 1984, “vaporizzate” non con l’eliminazione isica ma attraverso il mancato accesso ad uno status che garantisca libertà,
eguaglianza, e l’appartenenza a tutti gli effetti ad una comunità28.
A distanza di secoli la cittadinanza continua ad essere appannaggio di
pochi ed a rappresentare un traguardo irraggiungibile per alcune categorie
di persone29, poiché di fatto viene ancora intesa come bianca, occidentale,
maschile, eterosessuale e non disabile. Coloro che non appartengono a questa minoranza si vedono spesso negati alcuni dei diritti fondamentali che lo
status di cittadino garantisce. Spesso, nel caso delle donne ad esempio, il
25. Aristotele, La Politica. Libro I, Le Monnier, Firenze 1853, pp. 33-39.
26. C. Pateman, The Fraternal Social Contract, in The Disorder of Women: Democracy,
Feminism and Political Theory, Standford University Press, Standford 1989, p. 39.
27. J.J. Rousseau, Il Contratto Sociale, RCS Libri, Milano 2010.
28. T. Man Ling Lee, Rethinking the Personal and the Political: Feminist Activism and
Civic Engagement, in «Hypatia», vol. 22, n. 4, Democratic Theory, 2007, p. 166.
29. K. Bhavanani; J. Foran, Feminist Future: From Dystopia to Eutopia?, University of
California 2007, p. 320.
175
raggiungimento dei diritti politici non presuppone quello dei diritti civili,
contrariamente al modello evolutivo elaborato da Marshall, che paventava la
progressiva acquisizione di diritti civili, politici e sociali30. L’esclusione delle donne dal godimento di una cittadinanza piena, pur variando nello spazio
e nel tempo, si basa ancora essenzialmente sulla categorizzazione di qualità
e capacità maschili e femminili. Secondo una ripartizione che vede l’uomo
naturalmente razionale, imparziale, attivo e indipendente, e la donna naturalmente emozionale, volubile, passiva e debole, quest’ultima risulta non
qualiicata per l’ottenimento dello status di cittadina. Come nella distopia
di Burdekin, la secolare genderizzazione del potere determina un’assoluta
distorsione di pregi e difetti, virtù e mancanze, e una loro attribuzione arbitraria e pregiudizievole.
Fino ai sostanziali cambiamenti sociali determinati negli anni ’70 del Novecento dalle battaglie dei movimenti femministi, una tale suddivisione dei
compiti ha determinato una altrettanto netta divisione degli spazi: una sfera
privata, in cui svolgere le attività considerate naturali, riservata alle donne;
e arene di cittadinanza quali lo Stato, il campo di battaglia o il mercato, ad
esclusiva frequentazione maschile, in cui era possibile governare, combattere,
lavorare, comprare e vendere proprietà31. Attività di carattere sociale considerate per gli uomini non solo un diritto, ma anche un dovere di cittadinanza.
L’esclusione delle donne dalla comunità politica è stata determinata infatti non solo dalla presunta incapacità di essere titolari di diritti, ma anche
da quella di assolvere determinati doveri. Tradizionalmente le chiavi di accesso allo status di cittadino sono state lo svolgimento di un impiego e l’abilità di prendere parte ad un esercito, attività di dominio esclusivamente maschile ino a non molto tempo fa32. La mancanza di forza isica fu tra l’altro
una delle principali argomentazioni utilizzate dal movimento anti-suffragio,
forte del timore che l’estensione della cittadinanza alle donne avrebbe potuto costituire un pericolo per lo Stato. Anche la struttura del welfare state,
dal quale derivano i diritti sociali teorizzati da Marshall, si è sempre basata
sulla contribuzione dei lavoratori, e quindi degli uomini, per lungo tempo
unici percipienti di un salario, breadwinners per dirla con Esping-Andersen.
Il lavoro non retribuito femminile, invece, indispensabile per la nazione e
principale supporto del welfare, è rimasto orfano di cittadinanza politica33.
30. R. Lister, Citizenship. Feminist Perspectives, Macmillan, 2003, p. 49.
31. M. Friedman, Women and Citizenship, Oxford University Press, 2005, p. 106.
32. N. Yuval-Davis, Women, Citizeship and Difference, in «Feminist Review», n. 57,
Citizeship: Pushing the Boundaries, Autumn, 1997, p. 20
33. D. Sainsbury, Gender and Welfare State Regimes, Oxford University Press, 1999, p.
24.
176
È un dovere di cittadinanza a cui non è corrisposto alcun diritto, una semina
che non ha dato frutti, una fatica non ricompensata.
D’altro canto il dovere politico femminile riconosciuto come indispensabile alla sopravvivenza dello Stato, il principale vincolo di cittadinanza
per le donne ino a tempi molto recenti, è stata la maternità. Private della
possibilità di contribuire allo sviluppo economico nazionale e di combattere e morire per la patria, le donne hanno avuto il compito di servire lo Stato
mettendo al mondo nuovi cittadini e nuove nate34. Un ruolo fortemente
limitativo poiché teneva conto unicamente della funzione biologica, ricordando un po’ quella “Riduzione” che in Swastika Night veniva ampliicata
ino alle conseguenze più disumane. La preoccupazione degli Stati per le
tendenze demograiche ha fatto sì che, in alcuni periodi storici, coloro che
avevano compiuto il proprio dovere politico con risultati eccellenti potevano addirittura essere insignite di medaglie al valore, come veri soldati.
Inoltre, le politiche demograiche statali non prestano attenzione solamente
alla quantità di popolazione, ma anche alla qualità; ed ecco che, ancora una
volta, questo dovere femminile di cittadinanza subisce delle limitazioni,
essendo valido solo per le donne bianche, occidentali, della classe media.
Le politiche nataliste della Germania nazista, ad esempio, riguardavano
solo le donne ariane, mentre l’elogio del valore della maternità lasciava
facilmente il posto a sterilizzazioni forzate e aborti obbligati per le donne
slave, ebree o gitane.
Oggi la cittadinanza è senz’altro un concetto in via di rideinizione a
causa di complesse dinamiche internazionali e transnazionali35, e si assiste
alla riproposizione sotto nuove spoglie di vecchie forme di oppressione e
colonizzazione del corpo e della sessualità femminile, veicolate attraverso
la retorica della libertà di scelta. Nel nostro tempo la diseguaglianza si cela
dietro un’apparente e appagante equità sociale, dietro le pari opportunità,
sotto la trasparenza di un sofitto di cristallo che non consente alle donne
di raggiungere una cittadinanza piena. Le porte della polis si sono aperte,
ma il tessuto culturale continua ad essere impregnato di una disparità atavica, determinata da quella ripartizione “naturale” di qualità e capacità. Il
linguaggio, i messaggi veicolati dai media, le dinamiche sociali e politiche,
l’inadeguatezza delle leggi o la loro sistematica disapplicazione, continuano
a evidenziare un modello di cittadinanza a una dimensione.
34. G. Bock, S. James, Beyond Equality and Difference. Citizenship, Feminist Politcs and
Female Subjectivity, Routledge, London 2005, p. 20.
35. N. Berekovitch, From Motherhood to Citizenship: Women’s Rights and International
Organizations, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1999, pp. 9-15.
177
Per colmare inalmente questo deicit di democrazia si dovrebbe poter
disporre di un’effettiva eguaglianza tra uomo e donna, sia in termini di iscrizione nel diritto di cittadinanza che di equità nell’accesso alle risorse. Eguaglianza signiica rideinizione del lavoro, come lavoro di cura e cura del
lavoro, che garantisca un equilibrio tra la sfera pubblica e quella privata. Ma
vuol dire anche inviolabilità del corpo femminile e sovranità delle donne su
se stesse, ancora controversa, sempre reversibile, messa costantemente in
discussione.
Già Burdekin, nel 1937, forse nel tentativo di aprire uno spiraglio di luce
nella sua tetra distopia, spiega che:
Ci sono due cose che stimolano l’evoluzione del proprio Io e che le donne, al contrario
degli uomini, non hanno mai avuto. Una è l’invulnerabilità sessuale, l’altra è l’orgoglio
del proprio sesso, che è il più indiscutibile dei diritti di nascita anche del più umile dei
bambini. […] L’intimo potere che nasce dalla consapevolezza della propria identità,
identità di donna36.
L’utopia di un nuovo genere di cittadinanza non può non tener conto delle differenze, se vuole ambire a quell’universalità suggellata storicamente da
libertà, uguaglianza e fraternità37. Non può non ripensare il contratto sociale
in modo da includervi anche le donne, al di là dei ruoli sociali che esse ricoprono, in quanto attrici e non come mere spettatrici della vita pubblica.
Se è vero, come asseriva John Stuart Mill, che la condizione della donna
è «in assoluto[...]la misura più indicativa della civilizzazione di un popolo o di un’era38», allora il civilissimo e modernissimo Occidente dovrebbe
aver trovato da tempo un equilibrio paritario. La politica dall’alto, quella
del potere che si confronta solo con se stesso, la politica del dominio maschile descritta da Orwell, non ha inora consentito di trovare un equilibrio
soddisfacente. Burdekin aveva intuito che la vita quotidiana è determinata
da giochi di potere che affondano le proprie radici nelle strutture sociali e
non nelle caratteristiche individuali, che “il personale è politico” come molti
anni dopo avrebbero urlato le femministe39, ma la sua denuncia non ha avuto
grande risonanza. La cittadinanza di genere nella tradizione utopica e distopica ha avuto dificoltà a trovare una sua piena realizzazione, come del resto
è avvenuto storicamente, nella realtà.
36. K. Burdekin, La Notte della Swastika…, cit., p. 123
37. A. Del Re, J. Heinen, Quale cittadinanza per le donne? La crisi dello Stato Sociale e
della rappresentanza politica in Europa, FrancoAngeli, Milano 1996, pp. 25-40.
38. J.S. Mill, The Subjection of Women, D. Appleton and Company, New York 1869, p.
38.
39. M. Friedman, Women and Citizenship…, cit., p. 109.
178
Fortunatamente, il paragone tra distopie e realtà risulta problematico; ma
non è il confronto il senso intrinseco della distopia, è l’avvertimento, è il
monito che dovrebbe spingere l’essere umano nella direzione opposta, quella della giustizia, della libertà, in questo caso, della cittadinanza universale.
Burdekin e Orwell hanno disegnato la loro visione del futuro in un tempo in
cui il presente appariva spaventoso; mondi diversi, ma ugualmente inquietanti. Per raccogliere la loro eredità, per ascoltare la loro voce lungimirante,
bisognerebbe percorrere la strada che porta verso la pluralità e l’universalizzazione dei diritti, in modo da non incorrere negli errori che portarono alle
catastroi del passato, anzi, in questo caso, del futuro.
179
Limiti contemporanei alla cittadinanza:
la questione del digital divide
Roberta Bracciale
Technology is neither good nor bad;
nor is it neutral.
(Kranzberg1, 1985)
1. L’esclusione digitale dai diritti di cittadinanza
La vague culturale relativa alla diffusione di Internet nelle società contemporanee ha alimentato, in parte, una utopia democratica rispetto alle capacità che la rete avrebbe di garantire nuovi e più solidi diritti di cittadinanza. Non è inusuale, infatti, rintracciare letture che prevedono la possibilità di
ricostruire una sorta di nuova agorà ateniese “digitale”, in cui il ritorno alla
democrazia diretta garantisca la ridistribuzione del potere decisionale e dei
diritti a tutti i cittadini, in egual maniera2. Se è indiscutibile che le ICTs (Information and Communication Technologies) possano favorire una migliore
organizzazione dei processi di partecipazione alla res publica, tale retorica
ottimistica è messa in crisi da tensioni e criticità che afliggevano già la
cittadinanza “analogica”. Le disuguaglianze nella disponibilità di capitale
economico, sociale e culturale, infatti, producono un divario tra i gruppi
sociali che non si attenua con il passare del tempo e che, anzi, inisce con il
generare sempre nuovi e più profondi gap tra i cittadini e tra i diritti di cittadinanza cui possono accedere.
Infatti, la tensione insita nel compromesso della cittadinanza, tra inclusione di alcuni ed esclusione di altri3, trova nelle reti una ulteriore spinta
all’accelerazione, non una sua risoluzione: i soggetti più ricchi diventano
1. M. Kranzberg M., The Information Age: evolution or revolution?, in Guile B.R. (a
cura di), Information Technologies and Social Transformation, National Academy Press,
Washington 1985, pp. 33-53.
2. Per una ricostruzione puntuale sul tema cittadini digitali e cittadinanza on line, cfr. L.
Ceccarini, La cittadinanza online, il Mulino, Bologna 2015; R. De Rosa, Cittadini digitali.
L’agire politico al tempo dei social media, Apogeo, Milano 2014.
3. I. Wallerstein, Utopistics. Or, Historical Choices of the Twenty-irst Century, The New
Press, New York 1998.
180
sempre più ricchi, mentre i soggetti più poveri diventano sempre più poveri4.
Questa dicotomia, tra inclusione ed esclusione, si associa alla preclusione dalle opportunità di uguaglianza sociale tout court, poiché i processi di
ineguaglianza digitale sono fortemente sovrapponibili alle disuguaglianze
sociali correlate a caratteristiche ascrittive, come la razza, il genere, l’etnia, l’età, e così via5. La questione delle disuguaglianze di natura digitale è
dunque strettamente connessa alla esclusione di soggetti già titolari di cittadinanze svantaggiate: cittadini che restano in solitudine ad abitare il Quarto Mondo, un mondo «costituito dai molteplici buchi neri dell’esclusione
sociale6».
In questo modo, si producono nuove forme di ghettizzazione sociale per
gli esclusi dai circuiti che permettono di esercitare i propri diritti di cittadinanza politica e culturale, sempre meno connessi ai rapporti di produzione,
ma più dipendenti dalle effettive capacità di gestire i lussi informativi7 nella
società dell’informazione. Infatti, nell’ultimo decennio, la rilevante diffusione delle ICTs ha ridisegnato modi e tempi nell’accesso e nella condivisione delle informazioni, trasferendo il potere a chi è in grado di controllare
l’accesso alle reti o comunque di governarne i lussi (informativi, inanziari,
etc.)8. In questo contesto, l’esclusione dai network di computer è diventata
una delle forme più dannose e più pericolose di esclusione nella network
society9 perché le reti stanno alimentando sempre più ampi «vuoti di informazione10» tra i diversi gruppi sociali. Il rischio in tale processo è che la
sottoclasse dei poveri di informazione possa diventare ancora più marginale
nelle società in cui le competenze informatiche di base stanno diventando
4. D. Rigney, The Matthew Effect: How Advantage Begets Further Advantage, Columbia
University Press, New York 2010.
5. K. Mossberger, C.J. Tolbert, R.S. McNeal, Digital Citizenship. The Internet, Society,
and Participation, MIT, Cambridge 2008.
6. M. Castells, Volgere di millennio, Egea, Milano 2003; ed. or. End Of Millennium. The
Information Age: Economy, Society and Culture, Blackwell, Oxford 2000.
7. S. Lash, La rilessività e i suoi doppi: struttura, estetica, comunità in U. Beck, A.
Giddens e S. Lash (a cura di), Modernizzazione rilessiva. Politica, tradizione ed estetica
nell’ordine sociale della modernità, Asterios, Trieste 1999, pp. 161-227; ed. or. Relexive
Modernization: Politics, Tradition and Aestetics in the Modern Social Order, Polity Press,
Cambridge 1994.
8. M. Castells, La nascita della società in rete, Egea, Milano 2002; ed. or. The Rise of
Network Society. The Information Age: Economy, Society and Culture, Blackwell, Oxford
1996.
9. M. Castells, Galassia Internet, Feltrinelli, Milano 2002; ed. or. Internet Galaxy,
Oxford University Press, Oxford 2001.
10. J.A.G.M. van Dijk, The Network Society. An Introduction to the Social Aspects of
New Media, SAGE, London 2006.
181
essenziali per garantire migliori occasioni formative, successo economico,
possibilità di carriera, accesso ai networks sociali e opportunità di partecipazione sociale11.
Le ICTs, dunque, non solo presentano una infrastruttura profondamente
connessa alle disuguaglianze sociali già esistenti ma sono in grado di determinare un inasprimento di tali disparità12, facendo venir meno i presupposti
di uguaglianza insiti nel concetto stesso di cittadinanza. Infatti, è proprio
l’ascesa del capitalismo informazionale in sé a essere «caratterizzata dalla
compresenza di sviluppo e sottosviluppo economico, inclusione ed esclusione sociale»13.
2. Il digital divide e l’effetto San Matteo
I cittadini digitali sono quelli che usano «Internet regularly and effectively14». Per comprendere una società a velocità multiple, in cui alcuni
soggetti traggono vantaggio dalle opportunità di cittadinanza digitale e altri
invece sono svantaggiati perché non accedono a tali possibilità, è necessario
analizzare attentamente i presupposti sulla base dei quali tali nuove cittadinanze possono svilupparsi. Una eguale opportunità di accesso a Internet,
per esempio, diventa il prerequisito per valutare i margini in base ai quali si
articolano le diverse opportunità di abitare la società informazionale.
Gli ostacoli principali all’inclusione possono essere ricondotti a due declinazioni del concetto di divario digitale: (i) il digital divide di primo livello15 e (ii) il digital divide di secondo livello o digital inequalities16.
Il digital divide di primo livello si riferisce alla contrapposizione binaria
tra information have e information have nots, ovvero la dicotomia tra co11. P. Norris, Digital Divide: Civic Engagement, Information Poverty, and the Internet
Worldwide, Cambridge University Press, Cambridge 2001.
12. S. Sassi, Cultural Differentiation or Social Segregation? Four Approaches to the
Digital Divide, in «New Media & Society», 7, 5, 2005, pp. 684-700.
13. M. Castells, Volgere di millennio, Egea, Milano 2003, p. 90; ed. or. End Of Millennium.
The Information Age: Economy, Society and Culture, Blackwell, Oxford 2000.
14. K. Mossberger, C.J. Tolbert, R.S. McNeal, Digital Citizenship. The Internet, Society,
and Participation, MIT, Cambridge 2008, p. 1.
15. P. Norris, Digital Divide: Civic Engagement, Information Poverty, and the Internet
Worldwide, Cambridge University Press, Cambridge 2001.
16. P. DiMaggio, E. Hargittai, From the “digital divide” to “digital inequality”: Studying
Internet use as penetration increases, Center for Arts and Cultural Policy Studies, Woodrow
Wilson School Princeton University, 15, 2001; E. Hargittai, Second-level digital divide:
Differences in People’s Online Skills, in «First monday», 7, 4, 2002, pp. 1-17.
182
loro che hanno accesso alle nuove tecnologie e coloro che non lo hanno17.
L’inclusione o l’esclusione, in questo caso, si basa sulla contrapposizione
binaria tra connessione vs disconnessione. Ovviamente l’accesso alla rete
dipende da numerosi fattori che costituiscono una precondizione per superare la barriera preliminare dell’inclusione digitale. Tali fattori includono da
un lato motivazioni e attitudini personali, dall’altro disponibilità di device
personali e una connessione di buona qualità18.
Il digital divide di secondo livello, invece, si concentra sulle differenze
tra gli information have, i soggetti che accedono a Internet, rispetto alle
capacità di processare adeguatamente le informazioni disponibili online per
trarne beneici per l’empowerment personale e sociale19.
Tale capacità dipende da tre aspetti speciici, che si muovono lungo un
continuum con innumerevoli nuance tra i diversi utenti: (i) la frequenza
nell’uso di Internet e l’incorporazione del medium nelle pratiche della vita
quotidiana; (ii) le competenze digitali possedute dagli individui e la loro
capacità di interagire con le informazioni online in maniera eficace ed eficiente; (iii) le attività di navigazione che si compiono nel network nelle declinazioni che equilibrano l’impegno nel loisir personale e relazionale con
le opportunità di uso strategico e strumentale20.
17. NTIA (National Telecommunication and Information Administration Us Department
of Commerce), Falling Through the Net: Deining the Digital Divide, [http://www.ntia.doc.
gov/legacy/ntiahome/fttn99/contents.html].
18. W. Chen, B. Wellman, The global digital divide-within and between countries, in «It
& Society», 1, 7, 2004, pp. 39-45; P. DiMaggio, E. Hargittai, C. Celeste, S. Shafer, Digital
inequality. From Unequal Access to Differential Use, in K.M. Neckerman (a cura di), Social
inequality, Russell Sage Foundation, New York 2004, pp. 549-566; J.E. Katz, R.E. Rice,
Social consequences of Internet use. Access, involvement, and interaction, MIT, Cambridge
2002; H. Ono, M. Zavodny, Digital inequality: A ive country comparison using microdata,
in «Social Science Research», 36, 3, 2007, pp. 1135-1155; N. Selwyn, Reconsidering
Political and Popular Understandings of the Digital Divide, in «New Media & Society», 6,
3, 2004, p. 341-362; J.A.G.M. van Dijk e A.J.A.M. van Deursen, Digital Skills. Unlocking
the Information Society, Palgrave Macmillan, New York 2014; J.A.G.M. van Dijk, Digital
divide research, achievements and shortcomings, in «Poetics», 34, 4-5, 2006, pp. 221-235.
19. R. Bracciale, Donne nella rete. Disuguaglianze digitali di genere, FrancoAngeli,
Milano 2010; E. Hargittai, Y.P. Hsieh, Succinct Survey Measures of Web-Use Skills, in «Social
Science Computer Review», 30, 1, 2011, pp. 95-107; S. Bentivegna, Disuguaglianze digitali.
Le nuove forme di esclusione nella società dell’informazione, Laterza, Roma-Bari 2009.
20. R. Bracciale e I. Mingo, La e-inclusion e le competenze digitali: il contesto Europeo
e il caso dell’Italia, in I. Mingo, Concetti e quantità. Percorsi di statistica sociale, Bonanno,
Acireale-Roma 2009, pp. 179-214; E. Hargittai, Y.P. Hsieh, Digital Inequality, in William
H. Dutton (a cura di), The Oxford Handbook for Internet Studies, Oxford University Press,
Oxford 2013, pp. 129-150; E.J. Helsper, A Corresponding Fields Model for the Links
Between Social and Digital Exclusion, in «Communication Theory», 22, 4, 2012, pp. 403426; K. Mossberger, C. Tolbert, M. Stansbury, Virtual Inequality, Georgetown University
183
L’articolo «From the “Digital Divide” to «Digital Inequality”»21 può essere considerato lo spartiacque che segna questa nuova angolatura del problema: non più il riferimento esclusivo al concetto unidimensionale e binario di divario digitale, impostato intorno alla dimensione dell’accesso alle
tecnologie, ma la disarticolazione del problema. Quindi, l’adozione di un
nuovo concetto multidimensionale, quello di disuguaglianze digitali, in grado di restituire centralità alle diverse variabili che intervegno a disegnare le
innumerevoli gradazioni in cui si declina concretamente l’uso della rete. Sostanzialmente, l’analisi delle disuguaglianze si concentra su quello che sanno fare e su quello che fanno online gli utenti quando navigano in rete. Tale
paradigma interpretativo si concentra speciicamente sulle disuguaglianze
prodotte dal differente radicamento tecnologico nella everyday life22, per
comprendere come differenti gruppi sociali possono arrivare a trarre beneici dall’uso di Internet e nuove opportunità di partecipazione sociale, mentre
altri ne sono sistematicamente esclusi23.
Se l’attenzione alle digital inequalities è stata quanto mai opportuna per
iniziare a ragionare sui profondi gap che si determinano anche tra i soggetti
che sono già online, allontanando l’idea di una inclusione legata e dipendente esclusivamente dallo scoglio dell’accesso, c’è da dire che tali differenze
hanno inito con il monopolizzare l’attenzione di studiosi e policy maker,
relegando il digital divide di primo livello a un ruolo di secondo piano. Gli
esiti di tale processo hanno in parte sbiadito le criticità connesse alle questioni legate all’accesso, almeno nei paesi occidentali24 in cui tali gap sembrano essere diventati meno evidenti. Al contrario, però, sembra opportuno
continuare a focalizzare l’attenzione sul gruppo dei disconnessi poiché l’acPress, Georgetown 2003; A.J.A.M. Van Deursen, J.A.G.M. van Dijk, O. Peters, Rethinking
Internet skills: The contribution of gender, age, education, Internet experience, and hours
online to medium- and content-related Internet skills, in «Poetics», 39, 2, 2011, pp. 125144; M. Warschauer, Technology and Social Inclusion: Rethinking the Digital Divide, MIT,
Cambridge 2003.
21. P. DiMaggio, E.Hargittai, From the “digital divide” to “digital inequality”: Studying
Internet use as penetration increases, Center for Arts and Cultural Policy Studies, Woodrow
Wilson School Princeton University, 15, 2001.
22. B. Wellman, C. Haythornthwaite (a cura di), The Internet in Everyday Life, Blackwell,
Malden 2002; M. Bakardjieva, Internet Society. The Internet in Everyday Life, Sage, London
2005; L. Haddon, Information and communication technologies in everyday life: A concise
introduction and research guide, Berg, Oxford 2004; N. Selwyn, Apart from technology:
understanding people’s non-use of information and communication technologies in everyday
life, in «Technology in Society», 25, 1, 2003, pp. 99-116.
23. E. Hargittai, S. Shafer, Differences in Actual and Perceived Online Skills: The Role of
Gender, in «Social Science Quarterly», 87, 2, 2006, pp. 432-448.
24. A livello mondiale ci sono 4.3 miliardi di information have nots. Più del 90% vive
in paesi in via di sviluppo (ITU, Measuring the Information Society Report, Ginevra 2014).
184
cesso alle ICTs funziona da moltiplicatore delle chance di cittadinanza per i
privilegiati e da moltiplicatore delle disuguaglianze per i meno privilegiati,
e ampliica gli esiti delle disuguaglianze sociali creando nuovi social cleavage, oltre che rafforzare i vecchi25.
Entrambi gli aspetti, dunque, sono altrettanto rilevanti e riguardano
contesti sociali e territoriali eterogenei, in differenti momenti storici, indipendentemente dal livello di accesso alla rete raggiunto tra la popolazione, perché «when the Internet matures, it will increasingly relect known
social, economic and cultural relationships of the ofline world, including
inequalities»26.
Gli esiti di tali dinamiche di disuguaglianza, che minano dal profondo le
opportunità di cittadinanza digitale, sono strettamente connessi alle caratteristiche strutturali dei network e ai loro effetti27: raramente le reti riescono a
colmare le distanze tra soggetti, molto più spesso invece iniscono con l’esacerbare le differenze tra i diversi gruppi sociali28. Tale processo, che può
considerarsi connaturato alle società contemporanee, proprio per la struttura
reticolare che le caratterizza, può essere descritto e analizzato ricorrendo al
cosiddetto effetto San Matteo29 che spiega i meccanismi di riproduzione o di
ampliamento delle disuguaglianze nel corso del tempo30. L’effetto prende il
nome da un versetto del Vangelo secondo Matteo (13:12) che recita: «poiché
a chi ha verrà dato, ed egli avrà in abbondanza: ma a chi non ha, verrà tolto
anche quello che ha». In ambito digitale31, è stato utilizzato per predire che
25. J. De Haan, A multifaceted dynamic model of the digital divide, «It & Society», 1, 7,
2004, pp. 66-88; S. Sassi, Cultural differentiation or social segregation? Four approaches to
the digital divide, in «New Media & Society», 7, 5, 2005, pp. 684-700.
26. A.J.A.M. van Deursen, J.A.G.M. van Dijk, The digital divide shifts to differences in
usage, in «New Media & Society», 16, 3, 2013, pp. 507-526, p. 507.
27. Sul tema, cfr. A.L. Barabási, Link. La scienza delle reti, Einaudi, Torino 2004.
28. P. DiMaggio, F. Garip, Network Effects and Social Inequality, in «Annual Review of
Sociology», 38, 1, 2012, pp. 93-118.
29. Inizialmente l’etichetta è stata utilizzata per spiegare i meccanismi di diffusione
della notorietà nella comunità accademica, R.K. Merton, The Matthew Effect in Science, in
«Science», 159, 3810, 1968, p. 56-63; R. K. Merton, The Sociology of Science: Theoretical
and Empirical Investigation, University of Chicago Press, Chicago 1973.
30. D. Rigney, The Matthew Effect: How Advantage Begets Further Advantage, Columbia
University Press, New York 2010; T.A. DiPrete, G.M. Eirich, Cumulative Advantage as a
Mechanism for Inequality: A Review of Theoretical and Empirical Developments, in «Annual
Review of Sociology», 32, 1, 2006, pp. 271-297.
31. Le etichette “rich to get richer” (R. Kraut, S. Kiesler, B. Boneva, J. Cummings, V.
Helgeson, A. Crawford, Internet Paradox Revisited, in «Journal of Social Issues», 58, 1, 2002,
pp. 49-74.) e “accumulation of advantage (AOA) hypothesis” (J. De Haan, A multifaceted
dynamic model of the digital divide, in «It & Society», 1, 7, 2004, pp. 66-88) individuano
modelli simili all’effetto San Matteo in ambito digitale.
185
i soggetti privilegiati, ovvero coloro che sono più ricchi in termini di risorse
culturali, sociali ed economiche, non solo saranno più inclusi nella network
society ma godranno appieno dei beneici generati dall’uso di Internet, mentre
i soggetti meno privilegiati rimarranno progressivamente sempre più esclusi32.
Nel contesto digitale, a fronte di un generalizzato aumento nella diffusione
delle ICTs tra la popolazione, è possibile registrare un effetto San Matteo di
tipo “relativo”. Tale effetto relativo si rileva quando sia i ricchi che i poveri diventano più ricchi, ma i ricchi lo diventano con un ritmo talmente più elevato
che le differenze con i poveri si ampliano nel corso del tempo, anziché diminuire33. Tali dinamiche di arricchimento e impoverimento della popolazione
dipendono da gap nell’accesso, nelle competenze e nell’utilizzo della rete che
sono strettamente connessi al “capitale” di cui dispongono i cittadini34.
L’effetto San Matteo si radica su un modello cumulativo e ricorsivo delle
disuguaglianze, in un meccanismo che si alimenta a partire da differenze
di natura sociale, che si riverberano su quelle digitali che, a loro volta, impattano sul contesto sociale nel quale sono inseriti gli individui35. Su queste basi, Helsper36 ipotizza una stretta interrelazione tra inclusione digitale
32. J. Hunsinger, M. Allen, L. Klastrup (a cura di), International handbook of internet
research, Springer, London-New York 2010; J.A.G.M. van Dijk, One Europe, digitally
divided, in A. Chadwick, P.N. Howard (a cura di), Routledge handbook of Internet Politics,
Routledge, London-New York 2009, pp. 288-304; N. Zillien, E. Hargittai, Digital Distinction:
Status-Speciic Types of Internet Usage, in «Social Science Quarterly», 90, 2, 2009, pp. 274291; J. Harambam, S. Aupers, D. Houtman, The Contentious Gap. From Digital divide to
cultural beliefs about online interactions, in «Information, Communication & Society», 2012,
pp. 1-22; R. Bracciale, Donne nella rete. Disuguaglianze digitali di genere, FrancoAngeli,
Milano 2010; E. Hargittai, The digital divide and what to do about it, in D.C. Jones (a cura
di), New economy handbook, Academic Press, San Diego 2003, pp. 821-841; S. Bentivegna,
Disuguaglianze digitali. Le nuove forme di esclusione nella società dell’informazione,
Laterza, Roma-Bari 2009; D. Rigney, The Matthew Effect: How Advantage Begets Further
Advantage, Columbia University Press, New York 2010; J. De Haan, A multifaceted dynamic
model of the digital divide, «It & Society», 1, 7, 2004, pp. 66-88.
33. D. Rigney, The Matthew Effect: How Advantage Begets Further Advantage, Columbia
University Press, New York 2010.
34. P. Bourdieu, The Forms of Capital, in J. Richardson (a cura di), Handbook of Theory
and Research for the Sociology of Education, Greenwood, Westport 1986, pp. 241-258; E.
Hargittai, The digital reproduction of inequality, in D. Grusky (a cura di), Social stratiication,
Westview Press, Boulder 2008, pp. 936-944; A.J.A.M. van Deursen, E.J. Helsper, The ThirdLevel Digital Divide: Who Beneits Most from Being Online?, in L. Robinson, S. R. Cotten,
J. Schulz, T.M. Hale, A. Williams (a cura di), Communication and Information Technologies
Annual (Studies in Media and Communications, Volume 10), Emerald Group Publishing
Limited, 2015, pp. 29-52.
35. S. Bentivegna, Disuguaglianze digitali, Laterza, Roma-Bari 2009.
36. E.J. Helsper, A Corresponding Fields Model for the Links Between Social and Digital
Exclusion, in «Communication Theory», 22, 4, 2012, pp. 403-426.
186
e inclusione sociale individuando una dinamica di inluenza che, a partire
dagli elementi di esclusione ofline, incide su quelli online come l’accesso,
le competenze, le attitudini o le motivazioni. Allo stesso tempo, la qualità,
la disponibilità e l’impegno con le risorse digitali incide sulle dinamiche di
esclusione ofline. Dunque, le ICTs si sommano alle fonti di disuguaglianza
già esistenti, legate al benessere, alle relazioni sociali e al successo professionale37, rendendo Internet non solo un riproduttore ma un potenziale
acceleratore delle ineguaglianze38.
Gli ostacoli alla cittadinanza digitale in Europa e in Italia
La persistenza dei processi di esclusione digitale, e i segnali del loro
allargamento registrati dall’effetto San Matteo nella dimensione costitutiva
dell’accesso alla rete, ha riportato l’attenzione di alcuni studiosi sulle differenze che ancora si determinano a livello macro (tra i paesi) in Europa39 e a
livello micro (tra individui) all’interno dei paesi più ricchi40.
La situazione dell’Italia sia a livello macro, in confronto ad altri paesi, che
a livello micro, tra i cittadini italiani, segna una evidente arretratezza digitale,
tanto da rappresentare ormai da tempo un caso anomalo in Europa e, più in
generale, tra i paesi sviluppati41. Infatti, il paese è etichettato in modo sistematico come “in ritardo digitale42”, tanto da essere incluso stabilmente nel
gruppo dei “fanalini di coda” nei ranking europei43. L’Italia, dunque, fa parte
di un cluster a “esclusione digitale crescente”, insieme a Grecia, Cipro, Ro37. J. De Haan, A multifaceted dynamic model of the digital divide, «It & Society», 1, 7,
2004, pp. 66-88.
38. J.C. Witte, S.E. Mannon, The Internet and Social Inequalities, Routledge, New YorkLondon 2010.
39. M.R. Vicente, A.J. López, Assessing the regional digital divide across the European
Union-27, in «Telecommunications Policy», 35, 3, 2011, pp. 220-237.
40. C. Campos-Castillo, Revisiting the First-Level Digital Divide in the United States:
Gender and Race/Ethnicity Patterns, 2007-2012, in «Social Science Computer Review», 33,
4, 2015, pp. 423-439.
41. P. Guerrieri, S. Bentivegna, The Economic Impact of Digital Technologies (a cura di),
Edward Elgar, Cheltenham (UK) 2011.
42. P.B. Brandtzæg, J. Heim, A. Karahasanović, Understanding the new digital divide – A
typology of Internet users in Europe, in «International Journal of Human-Computer Studies»,
69, 3, 2011, pp. 123-138.
43. M.R. Vicente, A.J. López, Assessing the regional digital divide across the European
Union-27, in «Telecommunications Policy», 35, 3, 2011, pp. 220-237; C. Campos-Castillo,
Revisiting the First-Level Digital Divide in the United States: Gender and Race/Ethnicity
Patterns, 2007-2012, in «Social Science Computer Review», 33, 4, 2015, pp. 423-439.
187
mania e Bulgaria, caratterizzato da alti livelli di marginalità sociale e effetti di
impoverimento più evidenti a causa della crisi economica degli ultimi anni44.
Per ancorare la rilessione teorica sul digital divide e sull’effetto San
Matteo alla situazione attuale, si è scelto di prestare attenzione al livello
macro e al livello micro analizzando i dati Eurostat45 relativi agli individui
tra i 16 e i 74 anni che dichiarano di non aver mai utilizzato Internet. Tale
analisi è stata condotta in una prospettiva diacronica, dal 2007 al 2015, per
veriicare le dinamiche di chiusura, stabilità o ampliamento dei gap nell’accesso nel corso del tempo.
Uno sguardo generale ai dati rivela una decrescita sostanziale del numero dei soggetti che non hanno mai utilizzato Internet nei paesi dell’Unione
Europea, tanto che la quota di non utenti passa dal 37% del 2007 al 16% del
2015 (cfr. tab. 1). Tale dato, che apparentemente potrebbe far pensare a una
riduzione del divario digitale, perlomeno nella dimensione dell’accesso, in
realtà rischia di nascondere una differenza abbastanza marcata tra i diversi
paesi. Infatti, mentre le possibilità di accedere a Internet in alcune aree geograiche sono molto al di sotto della media europea, in altri paesi sono molto
superiori, con uno scarto signiicativo che arriva a più di 30 punti percentuali.
Un esempio su tutti è rappresentato dalla differenza tra il Lussemburgo, in cui
la quota di cittadini che non ha mai avuto accesso alla rete è solo il 2% della
popolazione nel 2015, e la Bulgaria, in cui tale percentuale raggiunge addirittura il 35% della popolazione nello stesso anno. C’è un evidente divario tra il
nord e il sud dell’Europa che dipende da diversi fattori tra cui la disponibilità
di infrastrutture e i costi della tecnologia e dei device per la connessione; il
livello di istruzione; la conoscenza della lingua inglese per accedere ai contenuti; la diffusione di una cultura informatica e della tecnologia a partire dai
percorsi formativi; le policy a promozione e sostegno delle motivazioni per
la partecipazione alla società dell’informazione, specialmente tra le categorie
più a rischio per mancanza di competenze speciiche46 (es. gli anziani).
44. R. Bracciale, I. Mingo, Digital Divide in Time of Crisis in Europe: do the Rich get Richer,
the Poor get Poorer?, in A. Borghini, E. Campo (a cura di), Exploring the crisis: theoretical
perspectives and empirical investigation, Pisa University Press, Pisa 2015, pp. 41-57.
45. Per l’analisi sono stati utilizzati i dataset dell’Eurostat, l’istituto Europeo di statistica.
L’istituto fornisce dati armonizzati a livello europeo che permettono agevolmente la comparazione di un indicatore tra diversi paesi. L’analisi è stata svolta sui 27 stati che componevano
l’Unione Europea nel primo anno in analisi.
46. J.A.G.M. van Dijk, One Europe, digitally divided, in A. Chadwick, P.N. Howard (a
cura di), Routledge Handbook of Internet Politics, Routledge, London-New York 2009, pp.
288-304; F. Cruz-Jesus, T. Oliveira, F. Bacao, Digital divide across the European Union, in
«Information Management», 49, 6, 2012, pp. 278-291; M.R. Vicente, A.J. López, Assessing
the regional digital divide across the European Union-27, in «Telecommunications Policy»,
35, 3, 2011, pp. 220-237.
188
Il confronto tra i paesi dell’unione europea e tra i cittadini italiani, e
l’evoluzione nel corso del tempo, può essere letta solo grazie a una misura
ad hoc che renda comparabili i dati e restituisca il peso dei differenti gap. Il
Digital Exclusion Relative Index47 (Deri) è un indice relativo che rapporta
la quota di non utenti – presente in un sottoinsieme del totale considerato
– alla quota media della popolazione di riferimento al tempo t. Tale indice
funziona a livello macro e a livello micro, a seconda dei gruppi o sottogruppi che si analizzano e si comparano (es. Italia vs EU27; donne in Italia vs
popolazione Italiana; etc.).
L’indice ha il vantaggio di essere molto semplice da calcolare e da interpretare poiché quando il punteggio è uguale a 1, la situazione di esclusione in
quel sottogruppo è simile a quella registrata nella popolazione di riferimento;
se il valore è superiore a 1, l’esclusione è maggiore; se il valore è inferiore a 1,
l’esclusione è minore. Quindi, più il punteggio del sottogruppo si avvicina allo
zero, più la categoria può considerarsi inclusa da un punto di vista digitale.
L’analisi del Deri in Europa rileva la presenza ingombrante dell’effetto
San Matteo, ovvero un processo di progressivo e crescente impoverimento
dei paesi già poveri nel corso del tempo, a fronte di una crescita generalizzata
della connettività. In alcuni paesi, le quote di esclusione, già elevate nel 2007,
addirittura si incrementano nel 2015, evidenziando un gap che diventa più
profondo tra i diversi contesti territoriali. In particolare, il valore dell’indice
supera il punteggio di 1,5 in Romania, Bulgaria, Grecia, Portogallo, Cipro, e
Italia, fotografando un processo di distanziamento nell’inclusione digitale dei
cittadini che risiedono in quei paesi da quelli che abitano nel Regno Unito,
Lussemburgo, Finlandia, Svezia, Paesi Bassi, Danimarca, in cui il Deri è addirittura inferiore al punteggio di 0,5 (ig. 1). In questo quadro generale, la traiettoria dell’Italia è indicativa di un divario nell’accesso che la allontana sempre
più dalla media Europea (Deri 2007 = 1,46; Deri 2015 = 1,75) (cfr. tab. 2).
L’arretratezza digitale italiana pone il Paese in una situazione di debolezza in merito alla capacità di sfruttare appieno le opportunità economiche
connesse allo sviluppo della network society. Infatti, le ICTs sono «crosscutting enablers for achieving the three pillars of sustainable development:
economic growth, environmental balance and social inclusion»48. Il loro
47. Per ulteriori applicazioni e speciiche sull’indice Deri, cfr. R. Bracciale, I. Mingo,
Digital Divide in Time of Crisis in Europe: do the Rich get Richer, the Poor get Poorer?, in A.
Borghini, E. Campo (a cura di), Exploring the crisis: theoretical perspectives and empirical
investigation, Pisa University Press, Pisa 2015, pp. 41-57; R. Bracciale, I. Mingo, Social
Inequalities in Digital Skills: The European framework and the Italian case, in J. Servaes,
T. Oyedemi (a cura di), The Praxis of Social Inequality in Media: A Global Perspective,
Lexington Books, Lanham 2016, pp. 81-111.
48. ITU, Measuring the Information Society Report, Ginevra, 2014, p. 25.
189
Fig. 1 – Digital Exclusion Relative Index (Deri) nei paesi dell’Unione Europea (16-74 anni,
2007-2015)
2,5
Esclusione Digitale Crescente
Bulgaria
2,0
Romania
Grecia
Portogallo
Italia
Polonia
Cipro
Lituania
1,5
Malta
Slovenia
Ungheria
1,0
Spagna
Lettonia
Slovacchia
Irlanda
Belgio
Rep. Ceca
Austria
Francia
Germania
Estonia
Regno Unito
Svezia
Finlandia
Paesi Bassi
Danimarca
Lussemburgo
EU27
0,5
0,0
Esclusione Digitale Decrescente
2007
2015
Fonte: Elaborazione su dati Eurostat, 2016.
inadeguato sviluppo genera una Europa frammentata e a velocità profondamente ineguali in merito alle opportunità individuali di diventare a pieno
titolo cittadini digitali nella società dell’informazione.
L’analisi macro relativa alla comparazione tra i diversi paesi europei restituisce dunque un quadro in cui l’Italia, a partire dalla basilare dimensione
dell’accesso alla rete, sconta un processo di progressivo ampliamento dei gap
che la separano dagli altri paesi europei. Questo elemento non deve ingannare:
in termini generali, la quota di utenti cresce per via di una maggiore diffusione
delle tecnlogie nella società, in termini relativi cresce più velocemente in alcuni paesi tanto che lo scarto di connettività si allarga anziché diminuire. Si radica così un modello di stratiicazione, anziché un modello di normalizzazione.
Passando all’analisi micro, dunque, è evidente che l’esclusione digitale
complessivamente intesa diminuisce nel corso degli anni, passando dal 54%
di esclusi totali nel 2007 al 28% del 2015 (media Eu27 = 16%) (cfr. tab. 3).
Una analisi più dettagliata permette di individuare alcuni elementi che segnano la distanza tra i diversi gruppo sociali. Tali debolezze sono ben note an190
che alla commissione europea che sin dalla Conferenza ministeriale di Riga49
“ICT for an Inclusive Society” dell’11 giugno 2006 ha individuato alcuni
segmenti di popolazione come più deboli e a rischio rispetto alle dinamiche
di impoverimento digitale e sociale. In questo cluster a rischio sono inserite
le persone anziane, quelle con disabilità, le donne, i soggetti con un livello
di istruzione basso, i disoccupati e i soggetti che vivono nelle regioni meno
sviluppate. Sulla base di queste categorie, i dati della popolazione italiana relativamente agli esclusi digitali sono stati declinati rispetto al genere (maschi/
femmine); la classe di età (16-24, 25-34, 35-44, 45-54, 55-64, 65-74); il livello di istruzione (basso, medio, alto); la condizione professionale (occupato,
disoccupato, studente, pensionato); il luogo di residenza (aree poco popolate,
meno 100 ab./Km²; aree mediamente popolate, 100-499 ab./Km²; aree densamente popolate, 500 ab./Km²). All’analisi, inoltre, è stata aggiunta una combinazione tra due variabili di rischio, per evidenziare come la combinazione
di più fattori di criticità ampliichi in maniera evidente le distanze tra i gruppi
sociali. Nello speciico, la combinazione ha riguardato i soggetti tra i 55 e i
74 anni, quindi con una età più avanzata, rispetto al genere, poiché le donne
subiscono maggiormente i processi di marginalizzazione digitale50, e al livello
di istruzione, considerato lo stretto legame con le competenze individuali.
A colpo d’occhio i punteggi dell’indice di esclusione digitale relativo (Deri,
ig. 2) evidenziano molto chiaramente la dinamica di stratiicazione sociale in
atto, confermando anche a livello micro l’esistenza dell’effetto San Matteo.
Al top dell’esclusione digitale, inseriti in una dinamica di estromissione
crescente, si trovano alcuni proili di soggetti che, pur se variamente combinati, sono composti da anziani, donne, con un basso livello di istruzione e inattivi da un punto di vista lavorativo. Per questi cittadini, l’indice di esclusione
relativa passa da un punteggio mediamente vicino al 1,6 del 2007 ad oltre il
2,3 nel 2015 (cfr. tab. 4). Questo dato chiarisce con evidenza che i processi di
estromissione dalla società dell’informazione si acuiscono per i soggetti che si
trovano in una situazione già a rischio di marginalità sociale. La combinazione, poi, di più fattori critici insieme, per esempio età avanzata e basso livello di
istruzione, produce un ulteriore aggravamento della situazione di esclusione.
A questo punto, sembra chiaro che le nuove opportunità di cittadinanza
offerte dai media digitali sono precluse a molte fasce della popolazione51,
49. European Commission, Measuring progress in e-Inclusion. Riga Dashboard, 2007.
50. R. Bracciale, Donne nella rete. Disuguaglianze digitali di genere, FrancoAngeli,
Milano 2010.
51. Un elemento che potrebbe in futuro mitigare tali considerevoli gap, almeno nell’accesso, è dato dalla diffusione degli smartphone e della banda larga mobile la cui adozione fa
191
Fig. 2 – Digital Exclusion Relative Index (Deri) per categorie di persone in Italia (16-74
anni, 2007-2015)
3,0
Esclusione Digitale Crescente
55-74, bassa istruzione
65-74 anni
2,5
F, 55-74
pensionati
2,0
bassa istruzione
M, 55-74
55-64
1,5
1,0
aree poco popolate
donne
55-74, media istruzione
aree mediamente popolate
45-54 anni
aree popolate
disoccupati
occupati
35-44 anni
media istruzione
55-74, alta istruzione
25-34 anni
alta istruzione
studenti
16-24 anni
Italia
0,5
Esclusione Digitale Decrescente
0,0
2007
2015
Fonte: Elaborazione su dati Eurostat, 2016.
disegnando, di converso, un proilo di incluso digitale al maschile, giovane,
con un titolo di studio elevato e occupato.
Rilessioni conclusive
La ricognizione dei limiti alla cittadinanza contemporanea si è concentrata sulla questione del digital divide di primo livello, ovvero sulla possibilità
per i cittadini di accedere al nuovo bouquet delle offerte di cittadinanza disponibile in formato digitale. Tale analisi ha evidenziato come, già a partire
dalla distinzione binaria tra chi accede e chi non accede alla rete, le società
contemporanee appaiono estremamente stratiicate sia a livello macro, nelle
differenze tra paesi, sia a livello micro, ovvero tra i cittadini. La dinamica
registrare una crescita consistente negli ultimi anni e un valore (32%) nel 2014 in linea con la
media europea (31%) (Istat-Fub, «Internet@Italia 2014. L’uso di Internet da parte di cittadini
e imprese», 2015).
192
che sottostà a tale processo di marginalizzazione è più vicina a una ipotesi di
stratiicazione e approfondimento delle differenze, piuttosto che all’ipotesi di
una progressiva normalizzazione. Detto in altri termini, la persistenza dell’effetto San Matteo nel corso degli anni sottoscrive l’esistenza di un meccanismo di differenziazione sociale per il quale “the rich get richer, the poor get
poorer”. La contrapposizione che si registra sembra muovere sulla scacchiera
della differenziazione gli information have e gli information have nots, traducendo le disuguaglianze tra i cittadini in una nuova dicotomia tra chi potrà
e chi non potrà accedere ai nuovi diritti di cittadinanza. Infatti, si assiste a un
progressivo ampliamento dei gap che suggerisce un marcato impoverimento
dei settori più deboli della popolazione nel corso del tempo.
Sullo sfondo rimangono le questioni legate al secondo livello di digital
divide, ovvero alle differenze che permangono anche tra chi accede a Internet, in termini di possibilità di empowerment personale e sociale in relazione
ai diversi usi della rete che si fanno e che si è in grado di fare.
Naturalmente le questioni legate alle digital inequalities sono altrettanto importanti per la piena fruizione dei diritti di cittadinanza, sia online che ofline, e
chiamano in causa ulteriori rilessioni sul nucleo ristretto e altamente caratterizzato di chi partecipa la sua cittadinanza sfruttando le opportunità offerte dalla
rete e chi non lo fa perché non è in grado di farlo. Ancora diversa, poi, è la situazione tra gli inclusi digitali che però non hanno interesse a esprimere la propria
partecipazione sociale online o ad accedere a nuovi e più personalizzati diritti
di cittadinanza. Da questo punto di vista, se è vero che «internet is an inherently
democratising technology, so it is bound to democratise governance»52, tale
capacità è più facilmente rintracciabile nelle opportunità che offre in termini di
accountability per il cittadino monitorante53, più che di civic engagement. Inoltre, se già con i media analogici, si parlava di disfunzione narcotizzante indotta
dall’overload informativo, nuove e più variegate forme di catalessi radicate nello slacktivism si registrano con la diffusione della rete54.
Di tali elementi, non si potrà non tener conto nel valutare il bacino delle
cittadinanze coinvolte nei processi di digitalizzazione in atto nelle società
contemporanee, prima di dare ottimisticamente per assodata l’esistenza di
nuove opportunità rivolte alla popolazione tout court.
52. S. Coleman, J.G. Blumler, The Internet and democratic citizenship: Theory, practice
and policy, Cambridge University Press, Cambridge 2009, p. 166.
53. M. Schudson, The Good Citizen, Free Press, New York 1998.
54. E. Morozov, L’ingenuità della rete. Il lato oscuro della libertà di internet, Codice,
Torino 2011.
193
Tab. 1 – Cittadini che non hanno mai utilizzato Internet nei paesi dell’Unione Europea (1674 anni, 2007-2015, v. %)
Geo/Time
2007
2015
Bulgaria
65
35
Romania
69
32
Greece
62
30
Italy
54
28
Portugal
56
28
Poland
48
27
Croatia
56
26
Cyprus
56
26
Lithuania
49
25
Malta
51
22
Slovenia
39
22
Hungary
46
21
Spain
43
19
Latvia
39
18
Ireland
35
16
Slovakia
35
16
Belgium
29
13
Czech Republic
46
13
Austria
28
13
France
34
11
Germany (until 1990 former territory of the FRG)
23
10
Estonia
32
9
United Kingdom
22
6
Finland
17
5
Sweden
15
5
Netherlands
13
4
Denmark
12
3
Luxembourg
20
2
European Union (27 countries)
37
16
Fonte: Elaborazione su dati Eurostat, 2016.
194
Tab. 2 – Digital Exclusion Relative Index (Deri) nei paesi dell’Unione Europea (16 -74 anni,
2007-2015)
2007
2015
Bulgaria
1,7568
2,1875
Romania
1,8649
2,0000
Grecia
1,6757
1,8750
Portogallo
1,5135
1,7500
Cipro
1,5135
1,6250
Italia
1,4595
1,7500
Malta
1,3784
1,3750
Lituania
1,3243
1,5625
Polonia
1,2973
1,6875
Ungheria
1,2432
1,3125
Rep. Ceca
1,2432
0,8125
Spagna
1,1622
1,1875
Slovenia
1,0541
1,3750
Lettonia
1,0541
1,1250
Irlanda
0,9459
1,0000
Slovacchia
0,9459
1,0000
Francia
0,9189
0,6875
Estonia
0,8649
0,5625
Belgio
0,7838
0,8125
Austria
0,7568
0,8125
Germania
0,6216
0,6250
Regno Unito
0,5946
0,3750
Lussemburgo
0,5405
0,1250
Finlandia
0,4595
0,3125
Svezia
0,4054
0,3125
Paesi Bassi
0,3514
0,2500
Danimarca
0,3243
0,1875
Fonte: Elaborazione su dati Eurostat, 2016.
195
Tab. 3 – Cittadini che non hanno mai utilizzato Internet in Italia per categorie sociodemograiche(16 -74 anni, 2007-2015, v. %)
Geo/Time
16-24
25-34
35-44
45-54
55-64
65-74
Uomini
Donne
bassa istruzione
media istruzione
alta istruzione
pensionati
occupati
studenti
disoccupati
Totale
2007
2015
23
36
47
56
74
90
49
59
76
33
17
84
41
12
50
54
4
10
15
26
43
71
24
32
49
14
5
59
15
2
23
28
Fonte: Elaborazione su dati Eurostat, 2016.
Tab. 4 – Digital Exclusion Relative Index (Deri) in Italia per categorie socio-demograiche
(16 -74 anni, 2007-2015)
55-74 bassa istruzione
65-74 anni
F, 55-74
pensionati
bassa istruzione
M, 55-74
55-64 anni
Donne
aree poco popolate (meno 100 ab/Km²)
55-74 media Is
aree medie (100-499 ab./Km²)
45-54 anni
aree popolate (500 ab./Km²)
Uomini
disoccupati
35-44 anni
occupati
media istruzione
55-74 alta istruzione
25-34 anni
alta istruzione
16-24 anni
studenti
Fonte: Elaborazione su dati Eurostat, 2016.
196
2007
2015
1,69
1,67
1,61
1,56
1,41
1,39
1,37
1,09
1,11
1,11
1,04
1,04
0,93
0,91
0,93
0,87
0,76
0,61
0,81
0,67
0,31
0,43
0,22
2,68
2,54
2,25
2,11
1,75
1,64
1,54
1,14
1,14
1,11
1,00
0,93
0,89
0,86
0,82
0,54
0,54
0,50
0,50
0,36
0,18
0,14
0,07
Autori e Autrici
Marcella Aglietti insegna Storia delle Istituzioni politiche presso l’Università di Pisa. Ha al suo attivo numerosi volumi e saggi dedicati alla storia dei
ceti dirigenti, alle istituzioni parlamentari e rappresentative, tra età moderna
e contemporanea, con particolare attenzione per la storia spagnola e di area
euro-mediterranea. Tra i suoi contributi più recenti, si ricordano le monograie: Cortes, nazione e cittadinanza. Immaginario e rappresentazione delle
istituzioni politiche nella Spagna della Restauración (1874-1900) (2009);
L’istituto consolare tra Sette e Ottocento. Funzioni istituzionali, proilo giuridico e percorsi professionali nella Toscana granducale (2012) e le co-curatele di Los cónsules de extranjeros en la Edad moderna y a principios de
la Edad contemporánea (2013); Élites e reti di potere. Strategie d’integrazione nell’Europa di età moderna (2016) e La città delle nazioni. Livorno e
i limiti del cosmopolitismo (sec. XVI-XIX) (2016).
Roberta Bracciale è docente di Sociologia dei nuovi media presso l’Università di Pisa. I suoi interessi di ricerca sono attinenti all’impatto sociale dei
nuovi media, con particolare attenzione alle prospettive metodologiche connesse ai media studies (es. Digital Methods); alle implicazioni delle Digital
Inequalities nella vita quotidiana; alle relazioni tra social media e comunicazione politica. Tra i suoi contributi più recenti, si segnalano i saggi: Social Inequalities in Digital Skills: The European Framework and the Italian
Case (2016); Political Information on Twitter: #elezioni2013 and the role of
gatekeeper citizens (2016); Digital Divide in Time of Crisis in Europe: do
the Rich get Richer, the Poor get Poorer? (2015), e la monograia: Donne
nella rete. Disuguaglianze digitali di genere (2010).
Alessandro Breccia è docente di Storia delle Istituzioni politiche e sociali
presso l’Università di Pisa. Ha pubblicato numerosi studi e ricerche sulla
197
storia dei ceti dirigenti e funzionariali nella Toscana pre-unitaria, sull’istituzione universitaria in Italia tra Otto e Novecento e sulle istituzioni parlamentari in età liberale e repubblicana. Tra i suoi contributi si ricordano la
monograia Fedeli servitori. Le onorate carriere dei Giorgini nella Toscana
dell’Ottocento (2006), la curatela del volume Le istituzioni universitarie e il
Sessantotto (2013) e l’edizione critica dei Discorsi parlamentari di Bettino
Ricasoli (2012).
Carmelo Calabrò insegna Storia delle dottrine politiche e Storia del pensiero politico e sociale contemporaneo presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. I suoi interessi di ricerca si sono concentrati
soprattutto sulla storia della cultura socialista nel Novecento. È autore di
Il socialismo mite. Rodolfo Mondolfo tra marxismo e democrazia (2007);
Liberalismo, democrazia, socialismo. L’itinerario di Carlo Rosselli (2009);
Storia e Rivoluzione. Saggio su Antonio Gramsci (2012).
Thomas Casadei è docente di Filosoia del diritto e di Teoria e prassi dei
diritti umani presso l’Università di Modena e Reggio Emilia. Tra i suoi contributi più recenti, si ricordano le monograie: Tra ponti e rivoluzioni. Diritti,
costituzioni, cittadinanza in Thomas Paine (2012); Il sovversivismo dell’immanenza. Diritto, morale, politica in Michael Walzer (2012); I diritti sociali.
Un percorso ilosoico-giuridico (2012); Il rovescio dei diritti umani. Razza,
discriminazioni, schiavitù (2016); nonché le curatele di Diritti umani e soggetti vulnerabili. Violazioni, aporie, trasformazioni (2012); Donne, diritto,
diritti. Prospettive del giusfemminismo (2015); e, inine, della selezione di
lettere di Sarah M. Grimké, Poco meno degli angeli. Lettere sull’eguaglianza dei sessi (2016).
Cristina Cassina insegna Storia del pensiero politico presso l’Università di
Pisa. Le culture politiche e gli assetti istituzionali dell’Otto e del Novecento
sono al centro dei suoi interessi di ricerca. Fa parte del comitato editoriale di
«Storia del Pensiero Politico» (il Mulino) e del comitato scientiico di «Politics. Rivista di Studi Politici» (A.I.C. – Labrys). Tra i suoi libri: Il bonapartismo o la falsa eccezione (2001), Parole vecchie parole nuove. Ottocento
francese e modernità politica (2007), Soglie nel tempo. Storie di prefazioni
ai classici del Pensiero politico moderno (2015).
Nico De Federicis insegna Teoria cosmopolitica presso il Dipartimento di
Scienze politiche dell’Università di Pisa. I suoi interessi sono concentra198
ti sulla ilosoia dell’idealismo classico e sulla sua eredità contemporanea,
sulla teoria democratica e cosmopolitica, sulla storia del diritto naturale
moderno. È autore dei volumi Moralità ed eticità nella ilosoia politica di
Hegel (2001), Gli imperativi del diritto pubblico. Rousseau, Kant e i diritti
dell’uomo (2005); ha curato con M.C. Pievatolo l’opera postuma di G. Marini, La ilosoia cosmopolitica di Kant (2007), e con C. Palazzolo, Storicità
del diritto, dignità dell’uomo, ideale cosmopolitico. Atti in memoria di Giuliano Marini (2008).
Mauro Lenci è docente di Storia delle dottrine politiche presso l’Università
di Pisa, e fa parte del gruppo di ricerca «Re-Imagining Democracy in the
Mediterranean, 1750-1860», con base all’Università di Oxford. Ha pubblicato numerosi saggi sul pensiero di Burke, sull’illuminismo e sulla storia
dell’opinione pubblica. Tra i suoi lavori: Il Leviatano invisibile. L’opinione
pubblica nella storia del pensiero politico (2012); Le metamorfosi dell’antilluminismo: Aspetti ed itinerari del dibattito sui Lumi nella storia del pensiero politico moderno (2007); Individualismo democratico e liberalismo
aristocratico nel pensiero politico di Edmund Burke, Istituti Editoriali e Poligraici Internazionali (1999).
Arturo Marzano insegna Storia del Medio Oriente presso l’Università
di Pisa. È stato Visiting Fellow alla Hebrew University di Gerusalemme e
all’American University di Beirut; Senior Research Fellow all’Université
Panthéon-Assas (Paris 2); Marie Curie Fellow all’Istituto Universitario Europeo. Si occupa di storia del sionismo, dello Stato di Israele, del conlitto
israelo-palestinese e dei rapporti fra Europa e Medio Oriente. Tra le sue
pubblicazioni più recenti, si ricordano i volumi Leo Levi. Contro i dinosauri. Scritti civili e politici (1931-1972), 2011; Attentato alla Sinagoga.
Roma, 9 ottobre 1982. Il conlitto israelo-palestinese e l’Italia, 2013 (con
G. Schwarz); Onde fasciste. La propaganda araba di Radio Bari (193443), 2015. Ha pubblicato numerosi articoli su riviste italiane e straniere, tra
cui «Contemporanea», «Passato e Presente», «Italia Contemporanea», «The
Journal of Conlict Studies», «Israel Studies», «European Journal of Jewish
Studies», «The International Spectator».
Emanuela Minuto è docente di Storia contemporanea presso l’Università
di Pisa. Si occupa di movimenti politici in età contemporanea. Negli ultimi
anni ha dedicato particolare attenzione all’universo anarchico e alle manifestazioni di protesta veriicatisi durante il primo conlitto mondiale. Tra i suoi
199
contributi più recenti si ricordano: The Reception of Thomas Moore in Italy
in the Nineteenth Century, in C. Barr, M. Finelli and A. O’ Connor (edited
by), Nation/Nazione. Irish Nationalism and the Italian Risorgimento (2014),
pp. 193-205; Rilessioni sul seminario “Metodi e temi della storiograia
sull’anarchismo”, «Italia contemporanea» (2014), pp. 372-379; Parma, in
F. Cammarano (a cura di) Abbasso la guerra. Neutralisti in piazza alla vigilia della Prima guerra mondiale in Italia (2015), pp. 345-356; Assenze.
Giovani anarchici negli anni Cinquanta, in G. Berti e C. De Maria (a cura
di), L’anarchismo italiano. Storia e storiograia (2016), pp. 179-191.
Laura Muzzetto si è addottorata presso la Scuola di dottorato in Scienze Giuridiche, indirizzo in Giustizia costituzionale e Diritti fondamentali,
presso l’Università di Pisa con una tesi dal titolo Distopia e Utopia nel Pensiero Politico di Aldous Huxley. È attualmente assegnista di ricerca presso
il Dipartimento di Scienze politiche della stessa università con un progetto
in Storia delle Dottrine politiche dal titolo «Dalla cittadinanza politica alla
cittadinanza sociale: proili critici».
Alessandro Polsi è docente di Storia delle Istituzioni politiche e di Relazioni Internazionali presso l’Università di Pisa. Si è occupato di storia
dell’amministrazione in Italia e di storia delle istituzioni internazionali nel
XX secolo. È autore di Storia dell’ONU (2006) e ha pubblicato negli ultimi
anni articoli e saggi sulla giustizia internazionale e la genesi dei movimenti
associativi transnazionali a partire dalla ine del XIX secolo.
200
Indice dei nomi
Aberdam, Serge, 88
Aglietti, Marcella, 8, 20, 31, 98
Aimerito, Francesco, 38-39
Alàez Corral, Benito, 19, 32
Alatri, Paolo, 112
Alessi, Giorgia, 147
Allen, Matthew M., 186
Alosco, Antonio, 139
Ambrosetti, Giovanni, 103
Andrés Topete, Juan, 29
Angelini, Giovanna, 140
Anteghini, Alessandra, 144
Antonioli, Maurizio, 146-147
Arisi Rota, Arianna, 55
Aristotele, 175
Ascheri, Mario, 24
Asser, Tobias, 45-46
Augeron, Mickaël, 18
Aulard, François-Alphonse, 82, 85
Aupers, Stef, 186
Bacao, Fernando, 188
Baccolini, Raffaella, 174
Baeri Parisi, Emma, 174
Bagehot, Walter, 97, 124-127
Baglioni, Lorenzo Grifone, 101
Bakardjieva, Maria, 184
Balbo, Cesare, 111, 115, 116, 118
Balibar, Étienne, 95-98
Ballini, Pier Luigi, 111
Banko, Lauren, 66
Banti, Alberto Mario, 109-110, 139
Barabási, Albert-László, 185
Barak, Aharon, 74
Barbagallo, Francesco, 139
Barbera, Augusto, 98
Barberis, Maurizio, 108
Barker-Benield, Graham John, 104
Barker, Ernest, 122
Barnave, Antoine, 81, 84, 89-90, 93
Barsanti, Pietro, 55
Bartoli, Clelia, 96
Bartolomei, Arnaud, 17
Barzilai, Gad, 70
Beccaria, Cesare, 54
Beck, Ulrich, 181
Belvisi, Francesco, 98
Bellamy, Richard, 165
Ben Gurion, David, 67
Beneduce, Pasquale, 48
Benn, Aluf, 72
Bentivegna, Sara, 183, 186-187
Berekovitch, Nitza, 177
Bersani, Carlo, 49
Bertea, Stefano, 104
Bertolucci, Franco, 139, 147
Bertran de Lis, Manuel, 25
Betri, Maria Luisa, 111
Beveridge, William, 133
Bhavanani, Kum-Kum, 175
Bianchi, Ruggero, 167
Bianciardi, Silvia, 146, 148-149
Blanc, Alberto, 59
Blanch, Luigi, 114
Blumler, Jay G., 193
Bobbio, Norberto, 161
Bock, Gisela, 177
Boggio, Pier Carlo, 48
Boneva, Bonka, 185
Bonghi, Ruggiero, 141-142
201
Bontempi, Marco, 101
Bourdieu, Pierre, 186
Borghini, Andrea, 188-189
Borsi, Luca, 48, 54
Bosanquet, Bernard, 130
Botta, Carlo, 113
Bovio, Giovanni, 139-141
Bracciale, Roberta, 11, 183, 186, 188189, 191
Brandtzaeg, Petter Bae, 187
Bravo, Gian Mario, 168
Breccia, Alessandro, 9, 97
Briggs, Asa, 123
Briols-Beaumetz, Albert de, 82, 88-89
Brissot, Jacques-Pierre, 81
Brizzi, Gian Paolo, 50
Bufano, Rossella, 166
Buonarroti, Filippo Giuseppe Maria Ludovico, 109
Burdekin, Katharine, 11, 168, 170-174,
176, 178-179
Burke, Edmund, 100, 103-105
Butenschon, Nils A., 67
Buzot, François-Nicolas, 82, 87, 93
Calabrò, Carmelo, 10, 97, 124
Campanini, Giorgio, 118
Campi, Alessandro, 87
Campo, Enrico, 188-189
Campos-Castillo, Celeste, 187
Canale Cama, Francesca, 140, 143
Canonico, Tancredi, 59
Cánovas del Castillo, Antonio, 26
Capponi, Gino, 119
Caravale, Mario, 49
Cardim, Pedro, 16
Carducci, Giosuè, 137, 145
Carmignani, Giovanni, 54
Carrara, Francesco, 56
Caruso, Sergio, 96, 108
Carutti, Domenico, 119-120
Casadei, Thomas, 10, 101, 107
Casalini, Brunella, 105
Casorati, Luigi, 59
Cassina, Cristina, 10, 99
Cassinis, Giovanni Battista, 36, 42-44
Castelli, Alberto, 140
Castells, Manuel, 181-182
Cavour, Camillo, 38, 44, 110, 119
Cazzetta, Giovanni, 50
Ceccarini, Luigi, 180
Celeste, Coral, 183
Ceretta, Manuela, 168
Chadwick, Andrew, 186, 188
Chamberlain, Joseph, 141
Chen, Wenhong, 183
Cherubini, Donatella, 144
Chiavistelli, Antonio, 109
Chignola, Sandro, 111
Cipriani, Amilcare, 143
Claeys, Gregory, 100
Clermont-Tonnere, Stanislas, 82
Cobo del Rosal, Gabriela, 16, 26
Colao, Floriana, 55, 147
Cole, George Douglas Howard, 133
Coleman, S., 193
Colletta, Pietro, 114
Collini, Stefan, 128
Colloca, Carlo, 101
Colombo, Paolo, 107
Compagnoni, Giuseppe, 112
Condorcet, Nicolas de, 81, 91, 105-107
Constant, Benjamin, 114
Cooper, Sandi E., 142-144
Corsini, Umberto, 111
Cortés y Morales, Balbino, 15
Costa, Andrea, 143
Costa, Pietro, 24, 79-80, 94, 97, 100, 102,
106, 109, 111, 121, 151
Cotten, Sheila, 186
Cousin, Victor, 34
Crawford, Anne, 185
Crespo Solana, Ana, 17-18
Crispi, Francesco, 59, 141
Cruz-Jesus, Frederico, 188
Cummings, Jonathan, 185
Cuoco, Vincenzo, 112-113
Curti, Pietro Andrea, 55
D’Amico, Elisabetta, 147
D’Angelo, Lucio, 140
D’Azeglio, Massimo, 110, 115-116, 118
Dannreuther, Roland, 97, 152
Davis, Uri, 65, 67
De Augustinis, Matteo, 33
De Beauvoir, Simone, 173
202
De Federicis, Nico, 11, 97, 165
De Haan, Jos, 185-186
De Leonibus, Aurora, 152
De Luca, Stefano, 87
De Rosa, Ornella, 140
De Rosa, Rosanna, 180
De Ruggiero, Guido, 110
De Sanctis, Francesco, 141
Del Re, Alisa, 178
Della Fera, Raffaele, 139
Della Villa, Alessandro, 37-38
Della Villa, Cesare, 36-38
Depretis, Agostino, 56
Di Carlo, Eugenio, 39
Dimaggio, Paul, 182-185
Di Maso, Nunzia, 112
Di Viggiano, Pasquale Luigi, 166
Diaz, Furio, 112
Dicey, Albert Venn, 122, 124, 131
DiPrete, Thomas A., 185
Dower, Nigel, 152
Droetto, Antonio, 40
Du Port, Adrien, 81
Dudley Field, David, 49
Dunn, John, 109, 153
Durando, Giacomo, 116-117
Duso, Giuseppe, 111
Dutton, William H., 183
Edelstein, Melvin, 81
Eirich, Gregory M., 185
Ellero, Pietro, 59-60
Esperson, Pietro, 45
Even, Pascal, 18
Fieschi, Guido, 40
Filangeri, Gaetano, 114
Filippo V di Borbone, 18, 27
Finelli, Pietro, 139
Fiocchi Malaspina, Elisabetta, 49
Fioravanti, Maurizio, 102, 108
Firpo, Luigi, 34
Foa, Vittorio, 132
Fontana, Bianca Maria, 127
Fontana, Ferdinando, 145
Foran, John, 175
Fourier, Charles, 128
Friedman, Marylin, 176, 178
Friedrich, Carl Joachim, 100
Galli, Carlo, 164
Galluppi, Pasquale, 114
García-Montón G.-Baquero, Isabel, 29
Gargiulo, Enrico, 95-96
Garibaldi, Giuseppe, 45, 48, 143
Garip, Filiz, 185
Genovesi, Antonio, 114
Gentile, Francesco, 33
Ghanem, As’ad, 64
Giannetti, Roberto, 97
Giddens, Anthony, 181
Gioberti, Vincenzo, 97, 115-116, 118-119
Giolo, Orsetta, 96
Girardi, Renato, 140, 143, 145
Giulianelli, Roberto, 147
Glenn, Susan A., 70
Godwin, William, 104
Gómez de la Serna y Tully, Pedro, 23-24
Gori, Pietro, 146-148
Gouges, Olympe de, 106, 175
Goupil-Préfeln, Guillaume de, 87, 93
Green, Thomas Hill, 122, 129-131
Grégoire, Henri, 82, 85, 93
Griffo, Maurizio, 99, 101, 107
Grosso, Enrico, 94-95, 104
Grusky, David, 186
Guaraldo, Olivia, 104
Guerci, Luciano, 112
Guerrieri, Paolo, 187
Guile, Bruce R., 180
Guizot, François Pierre Guillaume, 118
Habermas, Jürgen, 91
Haddon, Leslie, 184
Haklai, Oded, 71
Halldenius, Lena, 104
Harambam, Jaron, 186
Hargittai, Eszter, 182-184, 186
Harris, Charles Luke, 98
Hassassian, Manuel, 67
Haythornthwaite, Caroline, 184
Hazony, Yoram, 68
Heim, Jan, 187
Heinen, Jacqueline, 178
Held, David, 152-161
Helgeson, Vicki, 185
203
Helsper, Ellen, 183, 186
Hernández Iglesias, Fermín, 26-28
Herzl, Theodor, 63
Herzog, Tamar, 16-17
Hilal, Jamil, 64
Hitchens, Christopher, 169
Hobhouse, Leonard Trelawny, 131-132
Hobsbawm, Eric, 100
Hoffman Baruch, Elaine, 167
Holden, Kate, 173
Holtzendorff, Franz, 41, 51
Houtman, Dick, 186
Howard, Philip N., 186, 188
Hsieh, Yuli Patrick, 183
Hunsinger, Jeremy, 186
Hunt, Lynn, 105
Huntington, Samuel P., 152
Hutchings, Kimberly, 97, 152
Ilan, Shahar, 74-75
Isabella, Maurizio, 111, 117
Isin, Engin Fahri, 99
Israel, Jonathan, 101
Jaime, Erik, 34, 40
James, Susan, 177
Jefferson, Thomas, 91
Jones, Derek C., 186
Kant, Immanuel, 156
Kantin, George, 102
Karahasanovic, Amela, 187
Kassim, Anis F., 66
Katz, James E., 183
Keane, John, 99
Keynes, John Maynard, 133
Kiesler, Sara, 185
Kimmerling, Baruch, 75
Klastrup, Lisbeth, 186
Kluber, Johann Ludwig, 37
Koskenniemi, Martti, 49, 52
Kranzberg, Melvin, 180
Kraut, Robert, 185
La Farina, Giuseppe, 43
La Fontaine, Henri, 146
La Malfa, Giorgio, 133
La Neve, Giorgio, 100
La Salvia, Sergio, 110-111
La Torre, Massimo, 41, 108
Labrador, Pedro, 19-20
Lacchè, Luigi, 34, 55, 147
Lamb, Robert, 100
Lamennais, Hugues-Félicité Robert de, 116
Lameth, Alexandre de, 82
Lanchester, Fulco, 51
Lash, Scott, 181
Laski, Harold, 133
Le Chapelier, Isaac-René-Guy, 81, 84, 87,
89, 93
Leech, Patrick, 100
Lemonnier, Charles, 144-145
Lenci, Mauro, 10, 97
Lessay, Jean, 99
Levra, Umberto, 119
Liebermann, Avigdor, 75
Lill, Rudolf, 111
Linati, Filippo, 119
Lis, Jonathan, 71
Lister, Ruth, 176
Livni, Tzipi, 72, 74
Lobbia, Cristiano, 55
Locke, John, 105, 175
Loche, Annamaria, 106
Lombroso, Cesare, 141
Lon y Alvareda, José, 29
López-Menéndez, Ana, 187-188
Lorimer, James, 41
Los Ríos Rosas (de), Antonio, 24
Lussu, Marialuisa, 106
Mably, Gabriel Bonnot de, 112
Machiavelli, Niccolò, 112
MacKey, George, 172
Macry, Paolo, 138
Maffettone, Pietro, 153
Magri, Tito, 100
Magrin, Gabriele, 105
Malandrino, Corrado, 97
Malatesta, Errico, 147-148
Malouet, Pierre-Victoire, 82, 86, 92
Mamiani, Terenzio, 33-34, 40, 120
Man Ling Lee, Theresa, 175
Mana, Emma, 139
Mancini, Pasquale Stanislao, 9, 33-46, 4850, 54-55, 58-59, 61
204
Manfredi, Marco, 146
Mangan, Monica, 146
Manin, Bernard, 85
Mannon, Susan E., 187
Mannoni, Stefano, 40
Mannori, Luca, 8, 109, 111, 115
Manzini, Vincenzo, 56
Manzoni, Alessandro, 110
Maranini, Paolo, 151
Marchetti, Paolo, 147
Marcialis, Maria Teresa, 106
Margiotta, Costanza, 108
Maria-Antonietta d’Asburgo, 89
Marino, Enrico, 128
Marochetti, Giovanni Battista, 114-115
Marshall, Thomas H., 151-152, 176
Martens, Georg Friedrich, 37
Martinelli, Claudio, 103
Marzagalli, Silvia, 18
Marzano, Arturo, 9, 98
Mastellone, Salvo, 34
Masucci, Luigi, 59-61
Mazzacane, Aldo, 48
Mazzini, Giuseppe, 40
Mazzoleni, Angelo, 146
McNeal, Ramona S., 181-182
Meale, Gaetano (pseudonimo Umano),
11, 97, 137-146, 148-150
Mele, Franca, 43
Meniconi, Antonella, 138
Meriggi, Marco, 109
Merton, King Robert, 185
Mezzadra, Sandro, 96, 151
Miletti, Marco Nicola, 147
Miliband, Ralph, 132
Mill, John Stuart, 97, 104, 126-129, 178
Miller, David, 157-158
Mindus, Patricia, 94-96, 98, 101, 108
Mingo, Isabella, 183, 188-189
Minucci, Sergio, 153
Minuto, Emanuela, 11, 97
Mirabeau, Honoré-Gabriel Riqueti de, 89
Mirri, Mario, 141
Mittermaier, Karl, 34, 39
Moneta, Ernesto Teodoro, 139-140, 143146, 148, 150
Montalbán, Manuel Juan, 23
Montojo Montojo, Vicente, 18
Morozov, Evgenij, 193
Morris, Penelope, 146
Moscati, Laura, 34
Mossberger, Karen, 181-183
Mowrer, Edgard, 138
Mowrer, Lilian, 138
Mualem, Mazal, 76
Mura, Eloisa, 47, 49
Muro Castillo, Alberto, 16, 26
Musella, Luigi, 138
Nadelmann, Kurt H., 40-41, 46
Napoleone Bonaparte, 35
Narayan, Uma, 98
Neckerman, Kathryn, 183
Nissim Samama, Caid, 58
Nocito, Pietro, 59
Norris, Pippa, 182
Nuzzo, Luigi, 40, 45, 49
Ojeda Mata, Maite, 32
Oldrini, Guido, 34
Oliva, Cesare, 59
Oliveira, Tiago, 188
Oliveros, Antonio, 20
Ono, Hiroshi, 183
Orwell, George, 11, 166, 168-170, 172174, 178-179
Owen, Robert, 128
Oyedemi, Toks, 189
Ozanam, Didier, 18
Padre Daniel, 68
Pagetti, Carlo, 171, 173
Paine, Thomas, 10, 94, 97, 99-108
Palazzolo, Claudio, 121-122
Palma, Luigi, 45, 48
Paoli, Baldassarre, 59
Papa, Dario, 145, 147
Papi, Lazzaro, 113
Pappafava, Vladimir, 44
Pappe, Ilan, 64
Pardo de Seixas, José María, 19
Pareto, Vilfredo, 143
Parrington, William, 100
Pascall, Gillian, 104
Patai, Daphne, 172
Pateman, Carole, 104, 175
205
Payes, Shany, 71
Peiroleri, Augusto, 59
Peled, Yoav, 65-66
Pene-Vidari, Gian Savino, 35
Pérez Sarriòn, Guillermo, 18
Pessina, Enrico, 59, 60
Pétion de Villeneuve, Jerôme, 10, 79, 82,
84, 87, 89-91, 93
Petitti di Rorero, Carlo Ilarione, 34, 119
Petricioli, Marta, 144
Petrillo, Agostino, 96
Pezzuoli, Giovanna, 167, 174
Pierantoni, Augusto, 9, 47-61, 97
Pieroni Bortolotti, Franca, 143
Pines-Paz, Ophir, 72
Pisa, Beatrice, 139-140, 143, 145
Pisanelli, Giuseppe, 38-39, 43-44
Polenghi Simonetta, 51
Polsi, Alessandro, 9, 48, 97
Poraz, Avraham, 72
Porciani, Ilaria, 50
Portalis, Jean-Étienne-Marie, 38
Portinaro, Pier Paolo, 97
Prampolini, Camillo, 143, 146, 148-149
Pratt, Hodgson, 146
Prichard, Alex, 159
Puccioni, Emilio, 59-60
Pugh, Martin, 131
Raciti, Paolo, 95
Ragaini, Claudio, 145
Rattazzi, Urbano, 34, 36
Rebérioux, Madeleine, 102
Recchi, Ettore, 101
Recio Morales, Oscar, 19, 27
Rewbell, Jean-François, 85-87, 89, 93
Ricatti, Francesco, 146
Rice, Ronald E., 183
Richardson, John, 186
Ridoli, Maurizio, 139, 147
Rigney, Daniel, 181, 185-186
Rivlin, Reuven, 74
Robespierre, Maximilien de, 82, 84-85,
87, 89, 93, 101, 109
Robinson, Laura, 186
Rocca, Leone, 36
Rocco, Nicola, 38
Rodogno, Davide, 41
Roederer, Pierre-Louis, 82, 87, 89, 93
Romagnosi, Gian Domenico, 54, 113
Romanelli, Raffaele, 111, 119
Romani, Roberto, 111
Romeo, Rosario, 110
Rosanvallon, Pierre, 80, 88, 99
Rosmini-Serbati, Antonio, 110, 117, 118
Rossi, Pellegrino, 54
Rottmann, Janko, 162
Rouhama, Nadim, 64
Rousseau, Jean-Jacques, 112, 130, 175
Rubinstein, Amnon, 68-69, 75
Rufeisen, Oswald (vedi Padre Daniel) 6869
Ruggiu, Daniele, 96
Rumi, Giorgio, 118
Russo, Vincenzio, 112-113
Sainsbury, Diane, 176
Salvadori, Massimo Luigi, 119
Salvagnoli, Vincenzo, 43
Salvatorelli, Luigi, 119
Samaddar, Ranabir, 96
Saporiti, Marcello, 38
Saredo, Giuseppe, 34
Sassi, Sinikka, 182, 185
Savigny, Friedrich Karl, 34, 38, 40
Sbarberi, Franco, 132
Sbriccoli, Mario, 56
Schmitt, Carl, 164
Schudson, Michael, 193
Scialoja, Antonio, 34, 38-39
Sclopis, Federico, 34-36
Scuccimarra, Luca, 97
Seijas Lozano, Manuel, 21-22
Selwyn, Neil, 183-184
Servaes, Jan, 189
Seymour, Mark, 146
Shafer, Steven, 183-184
Sharon, Ariel, 72
Sieyès, Emmanuel-Joseph, 79, 103
Sigismondi, Francesca Laura, 49
Silvela y Corral, Eugenio, 29
Smooha, Sammy, 63-64
Soia, Francesca, 97
Sokoloff, Naomi B., 70
Solimano, Stefano, 42-44
Speck, William Arthur, 99
206
Stein, Yael, 72-73
Storti, Claudia, 55, 57, 147
Tajani, Diego, 59
Tavoni, Maria Grazia, 50
Tawney, Richard Henry, 132-133
Taylor, Harriet, 104
Taylor, Helen, 128
Tec, Nechama, 69
Tecci, Raffaele, 33
Tedoldi, Leonida, 142
Thouret, Jacques-Guillaume, 83-84, 8990, 93
Tibi, Ahmed, 63
Tilly, Louise A., 147
Tintori, Giorgio, 96
Tolbert, Caroline J., 181-183
Tommaseo, Niccolò, 115
Tonolo, Sara, 58
Trevelyan, George Macaulay, 123
Triggiani, Ennio, 163
Trombetta, Vincenzo, 50
Truyol y Serra, Antonio, 103
Tubasi, Shadi, 72
Turati, Filippo, 147
Turcato, Davide, 147
Urbinati, Nadia, 104
Van Deursen, Alexander J.A.M., 183-186
Van Dijk, Jan A.G.M., 181, 183-186, 188
Varè, Giambattista, 59
Varela Suanzes-Carpegna, J., 26
Vattel, Emer, 37
Veca, Salvatore, 97, 166
Ventura, Montserrat, 32
Vernier, Théodore, 84
Vicente, Maria, 187-188
Villa, Tommaso, 59
Villani, Paola, 139
Villani, Pasquale, 138
Vincent, Bernard, 101-102
Vovelle, Michel, 81, 102
Wahnich, Sophie, 102
Wallerstein, Immanuel Maurice, 180
Waxman, Dov, 73
Webb, Sidney, 132-133
Wellman, Barry, 183-184
Williams, John, 152
Witte, James C., 187
Wollstonecraft, Mary, 104-107
Yakobson, Alexander, 68, 75
Yiftachel, Oren, 64
Yishai, Eli, 72
Yoaz, Yuval, 72
Yuval-Davis, Nira, 176
Zanardelli, Giuseppe, 141
Zavodny, Madeline, 183
Zecchino, Ortensio, 33
Zillien, Nicole, 186
Zolo, Danilo, 95, 151, 154
207
CITTADINANZE NELLA STORIA
DELLO STATO CONTEMPORANEO
Cittadinanze offre una nuova prospettiva sulla storia dello Stato, inteso aristotelicamente come l’insieme dei suoi cittadini. Il volume raccoglie dodici
saggi dedicati ai possibili modi in cui la cittadinanza ha preso forma durante
l’età contemporanea, analizzandone le diverse concrezioni storiche. Non una
cittadinanza singola dunque, ma plurale, oggetto e insieme strumento epistemologico dalle molte declinazioni – istituzionali, teorico-politiche, giuridiche,
filosofiche – qui riprese in un dialogo a più voci, attingendo a fonti inedite e
innovative, variegate ma non incompatibili. Una ricostruzione condotta attraverso luoghi e tempi differenti, che vanno dalle rivoluzioni francese e americana sino all’immaterialità del digital divide, attraverso i dibattiti parlamentari
e politici per l’accesso ai diritti, le diatribe sui meccanismi di inclusione e
esclusione, le teorie della nazionalità e le ombre delle discriminazioni di genere, di religione, di etnia. Un esame originale che interroga le storie, le prassi
e i simboli che hanno legato gli individui alle loro comunità politiche, sul filo
rosso di un concetto poliedrico e controverso.
Marcella Aglietti è professore ordinario in Storia delle istituzioni politiche
presso l’Università di Pisa. Ha pubblicato numerosi saggi in Italia e all’estero
sui temi della costruzione delle élite, sulle istituzioni rappresentative e parlamentari spagnole, sulle riforme in materia di cittadinanza e naturalizzazione in
età moderna e contemporanea.
Carmelo Calabrò è professore associato in Storia delle dottrine politiche
presso l’Università di Pisa. I suoi interessi di ricerca si sono concentrati
soprattutto sulla storia della cultura socialista nel Novecento, ed è autore di
molti scritti, tra articoli, volumi e curatele, dedicati alla storia dell’idea democratica e del liberalismo.
FrancoAngeli
La passione per le conoscenze