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Cittadinanze nella storia dello Stato contemporaneo

Il comitato assicura attraverso un processo di double blind peer review la validità scientifica dei volumi pubblicati.

T S CITTADINANZE NELLA STORIA DELLO STATO CONTEMPORANEO a cura di Marcella Aglietti, Carmelo Calabrò di S FRANCOANGELI EMI TORIA EMI di TORIA S COMITATO SCIENTIFICO Guido Abbattista (Università di Trieste), Pietro Adamo (Università di Torino), Salvatore Adorno (Università di Catania), Filiberto Agostini (Università di Padova), Enrico Artifoni (Università di Torino), Eleonora Belligni (Università di Torino), Nora Berend (University of Cambridge), Giampietro Berti (Università di Padova), Pietro Cafaro (Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano), Beatrice Del Bo (Università di Milano), Giuseppe De Luca (Università di Milano), Santi Fedele (Università di Messina), Monica Fioravanzo (Università di Padova), Alba Lazzaretto (Università di Padova), Erica Mannucci (Università di Milano-Bicocca), Raimondo Michetti (Università di Roma Tre), Roberta Mucciarelli (Università di Siena), Marco Pasi (Universiteit van Amsterdam), Alessandro Pastore (Università di Verona), Lidia Piccioni (Sapienza Università di Roma), Gianfranco Ragona (Università di Torino), Daniela Saresella (Università di Milano), Marina Tesoro (Università di Pavia), Giovanna Tonelli (Università di Milano), Michaela Valente (Università del Molise), Albertina Vittoria (Università di Sassari). COORDINAMENTO EDITORIALE Pietro Adamo, Giampietro Berti Il comitato assicura attraverso un processo di double blind peer review la validità scientifica dei volumi pubblicati. Il presente volume è pubblicato in open access, ossia il file dell’intero lavoro è liberamente scaricabile dalla piattaforma FrancoAngeli Open Access (http://bit.ly/francoangeli-oa). FrancoAngeli Open Access è la piattaforma per pubblicare articoli e monografie, rispettando gli standard etici e qualitativi e la messa a disposizione dei contenuti ad accesso aperto. Oltre a garantire il deposito nei maggiori archivi e repository internazionali OA, la sua integrazione con tutto il ricco catalogo di riviste e collane FrancoAngeli massimizza la visibilità, favorisce facilità di ricerca per l’utente e possibilità di impatto per l’autore. Per saperne di più: http://www.francoangeli.it/come_pubblicare/pubblicare_19.asp I lettori che desiderano informarsi sui libri e le riviste da noi pubblicati possono consultare il nostro sito Internet: www.francoangeli.it e iscriversi nella home page al servizio “Informatemi” per ricevere via e-mail le segnalazioni delle novità. CITTADINANZE NELLA STORIA DELLO STATO CONTEMPORANEO a cura di Marcella Aglietti, Carmelo Calabrò FRANCOANGELI Il volume è stato pubblicato con il contributo del progetto di ricerca di Ateneo dell’Università di Pisa intitolato “Cittadini e cittadinanze nella costruzione dello Stato contemporaneo: esperienze a confronto” (PRA2015_0013), coordinato da Marcella Aglietti. Copyright © 2017 by FrancoAngeli s.r.l., Milano, Italy. L’opera, comprese tutte le sue parti, è tutelata dalla legge sul diritto d’autore ed è pubblicata in versione digitale con licenza Creative Commons Attribuzione-Non Commerciale-Non opere derivate 3.0 Italia (CC-BY-NC-ND 3.0 IT) L’Utente nel momento in cui effettua il download dell’opera accetta tutte le condizioni della licenza d’uso dell’opera previste e comunicate sul sito http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0/it/legalcode Indice Prefazione pag. 7 La cittadinanza dell’appartenenza. La naturalizzazione degli stranieri nella Spagna liberale, di Marcella Aglietti » 15 Nazione e cittadinanza. Pasquale Stanislao Mancini e i diritti civili degli stranieri, di Alessandro Polsi » 33 Pedagogie della nuova cittadinanza. L’avvio dell’esperienza accademica e parlamentare di Augusto Pierantoni (1865-1883), di Alessandro Breccia » 47 Legge del ritorno e cittadinanza in Israele. Il delicato rapporto tra ebraicità e democrazia dopo la ine della stagione di Oslo (2000-16), di Arturo Marzano » 62 Là «où l’égalité respire»: Pétion de Villenueve all’Assemblea Nazionale Costituente, 11 agosto 1791, di Cristina Cassina » 79 Questioni di cittadinanza in un “meticcio politico”: Tom Paine (1737-1809), di Thomas Casadei » 94 I – Cittadini, stranieri e diritto II – L’idea di cittadinanza nella storia del pensiero contemporaneo 5 L’idea di cittadinanza nel pensiero politico dei moderati italiani, 1815-1861, di Mauro Lenci pag. 109 La cittadinanza in Inghilterra da The English Constitution al Welfare State, di Carmelo Calabrò » 121 Un polic(t)eman? Il liberalismo umanitario di Gaetano Meale (1888-1900), di Emanuela Minuto » 137 Problemi e prospettive della cittadinanza oltre lo stato, di Nico De Federicis » 151 La cittadinanza di genere nella distopia. I romanzi di George Orwell e Katharine Burdekin, di Laura Muzzetto » 166 Limiti contemporanei alla cittadinanza: la questione del digital divide, di Roberta Bracciale » 180 Autori e Autrici » 197 Indice dei nomi » 201 III – Cittadinanza cosmopolitica 6 Prefazione Cittadinanze. La scelta del plurale indica esplicitamente l’intenzione sottesa al volume che presentiamo: declinare un tema vasto e trasversale attraverso prospettive e metodi diversi, ma al contempo convergenti. Le vie percorse qui sono quelle della storia, con l’ambizione di seguire le forme della cittadinanza nella sfera pubblica e privata, nelle sedi istituzionali e nella società civile, tra soluzioni concettuali, normative ed epistemologiche. Tema vasto, la cittadinanza, carico di molteplici implicazioni strettamente correlate: il rapporto del soggetto con l’ordine politico; il dualismo mobile tra appartenenza ed esclusione; il nesso tra la sfera dei diritti e doveri da una parte e il ruolo delle istituzioni e degli ordinamenti giuridici dall’altra; la dialettica tra evoluzione della forma Stato e rivendicazione di nuovi proili da integrare allo status di cittadino; lo scenario incerto, e per certi versi irenico, di una condizione che trascenda la dimensione statuale. Tema trasversale, la cittadinanza. Indagato da storici, giuristi, ilosoi e teorici della politica, con il microscopio che rileva le metamorfosi molecolari di assetti complessi e articolati, e il telescopio che consente di rintracciare tendenze di lunga gittata. Senza velleitarie ambizioni di esaustività, i contributi che compongono le tre sezioni di questo lavoro collettaneo sono il frutto di una rilessione approfondita e stimolante che si è avvalsa di oltre un anno di lavoro congiunto, e di più occasioni di confronto. All’origine vi è stato un progetto di ricerca, inanziato dall’Università di Pisa, pensato attorno ad alcuni nuclei argomentativi forti sul tema della cittadinanza che consentissero di avvalersi in modo dialogico dei metodi e delle fonti caratteristiche delle discipline storico-politiche, individuando casi 7 di studio inediti o poco noti1. Nei molteplici momenti di dibattito che sono seguiti, e soprattutto in occasione del workshop tenutosi a Pisa nel febbraio del 2016, il gruppo di studiosi iniziale si è arricchito di nuovi collaboratori e di ulteriori punti di vista, alcuni dei quali trovano spazio in questo primo tentativo di sistematizzazione. I saggi che qui si presentano sono, infatti, la rielaborazione e l’approfondimento di alcuni dei risultati emersi e che, oltre ad avvalersi di mirate ricerche d’archivio e di approfondimenti teorici, hanno potuto beneiciare anche del contributo critico e utilissimo di colleghi che ringraziamo per averci accompagnato in una o più delle varie fasi di confronto attraverso le quali è passato il progetto, e cioè Luca Mannori, Arnaldo Testi, Silvia Benussi e Maria Chiara Pievatolo2. Da questo patrimonio di analisi speciiche e di scambio scientiico, abbiamo selezionato quei contributi che crediamo meglio rispecchiassero la ricchezza dei diversi possibili modi di accostarsi alla macro-area della cittadinanza, condividendo la volontà di amalgamarli mediante ili tematici credibili. Tre sezioni, dunque. La prima, Cittadini, stranieri e diritto, ruota intorno a una questione fondamentale: la natura costitutivamente duplice, inclusiva ed escludente, dell’istituto e del concetto di cittadinanza (due facce inseparabili della stessa medaglia). La storia ha costruito molte forme di distinzione tra cittadini e non cittadini, ma questa divisione ha anch’essa una sua storia, quella di una categoria che è venuta innalzandosi per tentativi e con contributi successivi, tra contraddizioni e incertezze, acquisendo signiicati politici e legali che sono andati stratiicandosi, spesso condivisi con lo sviluppo di una struttura statuale. Ma se è ben nota l’importanza storica della nascita dello Stato moderno per l’affermazione della retorica dell’identità nazionale, ciò che invece non lo è altrettanto è come prese forma la distinzione giuridicamente rilevante che ha cominciato, da un certo momento in poi, a dividere i soggetti tra nazionali e non, tra stranieri e cittadini. Attraverso una lunga e approfondita analisi che parte dalla Costituzione di Cadice del 1812 e giunge ino a inizio Novecento, nel suo La cittadinanza dell’appartenenza. La naturalizzazione degli stranieri nella Spagna liberale, Marcella Aglietti analizza il tema controverso della naturalizzazione 1. Si fa riferimento al progetto di ricerca di Ateneo 2015, inanziato dall’Università degli studi di Pisa, dal titolo “Cittadini e cittadinanze nella costruzione dello Stato contemporaneo: esperienze a confronto” (PRA-2015-0013) e coordinato da Marcella Aglietti. 2. Nell’ambito del progetto hanno preso forma anche altri contributi, che hanno trovato una diversa collocazione. Si veda, ad esempio, di M. C. Pievatolo, Funzionari dell’umanità? Diritto d’autore e uso pubblico della ragione fra polis e cosmopolis, in «Bollettino telematico di ilosoia politica. Online Journal of Political Philosophy», ipertesto consultabile qui: http:// btfp.sp.unipi.it/dida/autori/ 8 come cartina di tornasole dell’ancoraggio saldo e durevole della cittadinanza all’appartenenza nazionale. La legislazione in materia di naturalizzazione è la lente che aiuta a comprendere in che misura la storia dei diritti legati alla condizione di cittadino si sia sviluppata nel lungo Ottocento, e non solo, all’ombra sfuggente eppure imprescindibile della Nazione. Il contributo di Arturo Marzano, Legge del ritorno e cittadinanza in Israele. Il delicato rapporto tra ebraicità e democrazia dopo la ine della stagione di Oslo (2000-16), ci dà conferma controintuitiva della forza tutt’altro che declinante dell’idea di Nazione a fondamento della cittadinanza, in un contesto in cui il carattere presuntamente laico della democrazia risente dell’equazione tra polis, ethos e religio. Il saggio si interroga sul ruolo che la cittadinanza – e, dunque, le leggi che prevedono come questa venga attribuita – ha avuto (e tuttora ha) nella deinizione di Israele come Stato ebraico e democratico. È un percorso storico non unidirezionale, attraverso le ragioni che furono alla base delle due leggi che tuttora regolamentano la cittadinanza in Israele, la Legge del ritorno del 1950 e la Legge di Nazionalità del 1952, con i loro successivi emendamenti, sino alle più recenti proposte di trasformazione con la cosiddetta Legge per la cittadinanza e l’ingresso in Israele, approvata temporaneamente nel 2003, ma da allora sempre prorogata. Ed è proprio nelle proposte di due giuristi, Pasquale Stanislao Mancini e Augusto Pierantoni, igure strettamente collegate e oggetto rispettivamente degli interventi di Alessandro Polsi e Alessandro Breccia, che possiamo ritrovare il tentativo ottocentesco di fondare la regolazione giuridica dei rapporti internazionali e la convivenza paciica e inclusiva tra i popoli a partire da uno Stato-nazione depurato del suo lato oscuramente aggressivo. Polsi ben mette in luce la genesi della teoria della nazionalità, avanzato da Mancini all’inizio degli anni Cinquanta del XIX secolo. Il principio ebbe una rapida fortuna fra i giuristi italiani e non solo, e servì a sviluppare un approccio liberale al riconoscimento dei diritti degli stranieri in Italia. Mancini, come anche Pierantoni, partecipò del clima effervescente degli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento, quando i migliori giuristi europei si convincono che nella elaborazione di un nuovo diritto internazionale, non più mero elenco dei trattati fra stati, sia possibile costruire una scienza in grado di fornire gli strumenti per risolvere, per via giuridica, i conlitti politici fra Stati. Qui nasce anche il Mancini iniziatore di un movimento paciista in Italia. In ideale continuità, Pierantoni, allievo e collega di Mancini, aderì con convinzione a quella battaglia di civiltà e di «progresso» che stabiliva un nesso tra l’emancipazione nazionale, la conquista e l’ampliamento dei diritti di ciascun 9 cittadino, e l’ediicazione di un apparato di regole, in campo privatistico e pubblicistico, che tutelassero i cittadini stranieri e consentissero una paciica convivenza tra ordinamenti statuali. L’idea di cittadinanza nella storia del pensiero contemporaneo è la seconda sezione del libro, dedicata a rintracciare aspetti cruciali delle diverse concezioni elaborate in tre scenari dello scacchiere europeo: Francia, Italia, Inghilterra; in aggiunta, la sezione contiene un proilo di Tom Paine – eficacemente tratteggiato da Thomas Casadei – e del suo contributo sul crinale di due Rivoluzioni (la francese e l’americana), utile a mettere in risalto la circolazione delle idee che daranno linfa alla moderna rilessione sulla cittadinanza. In Là «où l’égalité respire»: Pétion de Villenueve all’Assemblea Nazionale Costituente, 11 agosto 1791, Cristina Cassina mostra come un dibattito assembleare possa contenere in nuce gli elementi concettuali e politici decisivi per comprendere il rapporto durevole tra potere del denaro e cittadinanza. Nel fermento della Rivoluzione francese, l’autrice prende in esame la fase della riscrittura dell’articolo relativo alle condizioni di accesso alle assemblee elettorali di secondo grado, ora innalzate ben oltre il celebre «marco d’argento», e ricostruisce le opposte posizioni nel corso dei lavori. Anche se il dibattito non portò ad alcun esito, esso permette nondimeno di entrare nel vivo di concezioni, aspettative e atteggiamenti attraverso gli occhi di chi era ansioso di «chiudere la rivoluzione» e di chi, invece, pensava di rilanciarla: da una parte come dall’altra, richiamando anche il piano simbolico del droit de cité. Nel suo L’idea di cittadinanza nel pensiero politico dei moderati italiani, 1815-1861, Mauro Lenci individua nel dibattito interno al moderatismo liberale italiano la rappresentazione plastica della tensione tra liberalismo e democrazia, tensione che inluirà costantemente nell’orientare prospettive non spontaneamente compatibili. La concezione di cittadinanza dei moderati italiani ruotò, infatti, intorno al rapporto tra libertà civile e quella politica, ma era la prima a rappresentare la meta irrinunciabile degli stati moderni. Essa doveva essere estesa universalmente, mentre la seconda, la libertà politica, assumeva contorni problematici: la plebe doveva essere certamente innalzata alla dignità di popolo, per partecipare al potere politico, ma questo doveva avvenire gradualmente nel corso del tempo. Nel frattempo sarebbe divenuto importante instaurare delle forme di governo rappresentativo fondate su un’opinione pubblica diretta dalla classe più colta. Carmelo Calabrò, in La cittadinanza in Inghilterra da The English Constitution al Welfare State, tenta di seguire i diversi passaggi, politici e ideo10 logici, che conducono la patria del liberalismo classico a divenire nella prima metà del Novecento il laboratorio in cui conciliare liberta civili e diritti sociali (conquista da diverso tempo entrata in crisi). La terza sezione del volume è la più sperimentale. Abbiamo ritenuto di dare spazio a ricerche che proiettano la cittadinanza oltre i conini «tradizionali». Pur profondamente storico nel suo impianto di contestualizzazione, il saggio di Emanuela Minuto, Un polic(t)eman? Il liberalismo umanitario di Gaetano Meale (1888-1900), ci conduce alle origini pioneristiche di una visione sovranazionale che attribuisce a istituzioni europee ancora nebulosamente concepite il compito di realizzare ideali di libertà e giustizia destinati a irradiarsi dentro e oltre l’antico continente. Una cittadinanza oltre lo stato? Problemi e prospettive, di Nico De Federicis, riprende il tema della cittadinanza sovranazionale, ma lo affronta nella cornice degli studi più recenti di ilosoia politica sulla crisi dello Stato moderno, sfondo su cui mettere a confronto le diverse ipotesi prescrittive concernenti in particolare il modello di integrazione europea, ino ad aspirare a una forma di cittadinanza sovranazionale, e in alcuni casi “cosmopolitica”. Più eccentrico, ma tutt’altro che avulso dalla trama complessiva del volume, La cittadinanza di genere nella distopia. I romanzi di George Orwell e Katharine Burdekin di Laura Muzzetto ci fa immergere nelle acque di conine tra immaginazione letteraria e realtà, affrontando il tema irrisolto della discriminazione di genere a partire dalle suggestioni di due grandi autori come Orwell e Burdekin. Chiude la raccolta un articolo di Roberta Bracciale, Limiti contemporanei alla cittadinanza: la questione del digital divide. Se la ricchezza non ha mai smesso di interferire sull’eguale accesso alla piena cittadinanza, le risorse culturali sono sempre state e continuano a essere ricchezza che fa la differenza. Il digital divide ripropone un conine vecchio riferendolo a una risorsa sempre più nuova: l’accesso alle tecnologie dell’informazione e alle conoscenze che ne consentono un uso eficace e consapevole. I saggi qui raccolti non ambiscono quindi ad essere esaustivi, bensì speculativi, provocatori magari per offrire ciascuno un signiicato differente di cittadinanza, tanti quanti furono le vesti che ha assunto nei diversi contesti presi in esame. Una prima, approssimativa deinizione la si può ricavare solo dall’insieme dei contributi. Quel che si è inteso mostrare è la variabilità degli aspetti da considerare per comprendere a fondo la storia della cittadinanza. Impossibile non afiancare al dibattito giuridico e costituzionale delle 11 istituzioni quello sui sistemi politici, o separare l’analisi di regole e prassi di partecipazione dalla forza morale esercitata dalla retorica dei diritti o, inine, non ricorrere a una molteplicità di fonti, testi e a dati empirici. Stato e società hanno sviluppato nel tempo molteplici sistemi di identiicazione, meccanismi di distinzione, creando nuovi conini tra cittadini e non cittadini, autorizzando e regolando il movimento della popolazione dentro e fuori tale ideale perimetro. È la storia di un processo di «monopolizzazione» da parte dell’autorità pubblica della capacità di erigere, mantenere e nutrire questa separazione, attraverso la produzione di documenti, di teorie, di ideologie capaci di controllarla e rafforzarla. Questi strumenti sono stati più o meno vincolanti e stringenti con il mutare delle epoche e il variare delle nazioni, e in ultimo la narrazione storica pare indicare un diverso sviluppo, l’affermazione di parametri per una nuova appartenenza, su base a-statuale e post-nazionale, che però si fa a sua volta portatrice di restrizioni e preclusioni capaci di limitarne l’accesso. Il cerchio si chiude: la cittadinanza include, la cittadinanza esclude. Marcella Aglietti e Carmelo Calabrò 12 I Cittadini, stranieri e diritto La cittadinanza dell’appartenenza La naturalizzazione degli stranieri nella Spagna liberale Marcella Aglietti 1. Introduzione Nel Diccionario razonado de legislación y jurisprudencia del 1874, alla voce Ciudadano si trovava la deinizione di un individuo appartenente a «una città o a uno Stato libero a cui una Costituzione politica riconosce certi diritti» 1. A ulteriore chiarimento, seguivano le disposizioni previste dalla legge provvisoria del 17 giugno 1870, istitutiva del Registro civile, in materia di Inscripción de ciudadanía, ovvero di acquisizione, recupero o perdita della nazionalità spagnola2. La coincidenza, non priva di ambiguità, tra due concetti e istituzioni giuridiche diverse quali la nazionalità e la cittadinanza, risulta evidente. Deinire la cittadinanza implicava dunque, in primo luogo, stabilire l’appartenenza, cioè il vincolo giuridico-politico esistente tra un individuo e una comunità politica (nazionale); e poi issare le qualità indispensabili per l’inclusione o l’esclusione cioè, nello speciico, le politiche di naturalizzazione atte al passaggio dalla condizione di straniero a quella di cittadino. Il caso spagnolo ci offre a questo proposito un ambito di ricerca ineguagliabile. La peculiare conformazione della Monarchia ispanica pose Abbreviazioni: Archivo Histórico del Congreso de los diputados (Ahcd); «Gaceta de Madrid» (GU), «Diario de sesión de las Cortes (Dsc), Congreso de diputados (CD); Archivo Histórico Nacional, Fondos contemporáneos, Ministerio de Asuntos Exteriores (Ahm, FC, Mae). 1. D. Balbino Cortés y Morales, Diccionario razonado de legislación y jurisprudencia diplomático-consular, Imprenta de J. Antonio García, Madrid 1874, pp. 107-109. 2. Questa legge, entrata in vigore l’1/1/1871, fu tutt’altro che provvisoria e restò vigente – salvo puntuali disposizioni complementari – ino al 1/1/1959. Il testo della legge, promulgata a irma del reggente, il generale Francisco Serrano y Domínguez, e per volontà delle Cortes della nazione spagnola, è reperibile in GU, n. 171, del 20/7/1870, pp. 1-2. 15 infatti precocemente il problema, non solo per la dificoltà di disciplinare un territorio che, per tutta l’età moderna, fu scenario dell’incontro con l’altro da sé, ma per la natura stessa della forma statuale spagnola, composita e policentrica, una realtà che non ebbe pari quanto a estensione e disomogeneità3. La Spagna ottocentesca comprendeva ancora i possedimenti di Ultramar con Cuba, Portorico e le Filippine; annoverava numerose comunità mercantili straniere, più o meno stanziali, e la stessa frontiera con il Portogallo si caratterizzava per una certa porosità nella percezione della popolazione (e non solo per effetto della Unión ibérica conclusasi nel 1640)4. Durante le esperienze costituzionali del secolo XIX, con la sola eccezione dei periodi di vigenza dello statuto di Bayona del 1808 e dell’Estatuto Real del 1834, il principio della nazionalità trovò il proprio spazio nel dettato dei primissimi articoli delle Carte, a riprova dell’importanza riconosciutagli nell’ordinamento giuridico5. Ciò nonostante, in tale sede ci si limitò all’enunciato generale, rimandando alla legge il compito di sancire modalità e requisiti speciici. Le occasioni di adempiere a tale incombenza furono tutt’altro che frequenti, anche per la brevità che caratterizzò i regimi politici dei primi tre quarti del secolo, al punto che l’istituto parlamentare si occupò formalmente di naturalizzazioni solo nelle legislature del 1847-48 e del 1879-1881. Anche se nessuno dei progetti dibattuti giunse al termine dell’iter legislativo, l’esame dei documenti istruttori e la discussione che ne seguì alle Cortes consentono di comprendere le tappe di una importante evoluzione in materia. Confrontando le proposte del legislativo con le soluzioni giuridiche adottate, ci si propone pertanto di ripercorrere alcune fasi della storia della cittadinanza, intesa come appartenenza, col ine di individuare i principali cambiamenti che si registrarono in termini sia di sensibilità politica, sia nella costruzione di modelli regolamentari alternativi. 3. P. Cardim et alii (eds.), Polycentric Monarchies. How did Early Modern Spain and Portugal Achieve and Maintain a Global Hegemony?, Sussex Academic Press, Eastbourne 2012. 4. T. Herzog, Naturales y extranjeros: sobre la construcción de categorías en el mundo hispánico, in «Cuadernos de Historia Moderna», X, 2011, pp. 21-31. 5. Appariva infatti disciplinata all’art. 5 della Costituzione del 1812, al primo articolo nelle Carte del 1837, del 1845, del 1869 e del 1876, e al secondo nella Costituzione del 1856 (mai entrata in vigore). Sul concetto di “straniero”, contrapposto a quello di “nazionale”, nell’ambito del costituzionalismo spagnolo dell’Ottocento, cfr. A. Muro Castillo, G. Cobo del Rosal, La condición del nacional y extranjero en el constitucionalismo decimonónico español, in F.J. García Castaño, N. Kressova (a cura di), Actas del I Congreso Internacional sobre migraciones en Andalucía, Instituto de Migraciones, Granada 2011, pp. 2083-2090. 16 2. Le origini di un dibattito plurisecolare In Spagna, la naturalizzazione degli stranieri ricevette variabile attenzione per buona parte dell’età asburgica, alternando l’adozione di meccanismi d’integrazione a, più spesso, strumenti per la repressione e il controllo delle minoranze etniche o religiose. Più in generale, la frontiera tra l’appartenenza e l’esclusione, tra spagnoli e stranieri, rimase generalmente irrilevante, anche da un punto di vista giuridico, salvo casi speciici o nell’eventualità di conlitti. Tra i due estremi dello spazio concettuale compreso tra lo spagnolo a tutti gli effetti (il naturale) e lo straniero senza alcuna ulteriore connotazione, si trovavano molteplici tipologie, più o meno deinite e soggette a frequenti rideinizioni. Vi era lo straniero di passaggio, il così detto transeunte, che godeva del patrimonio di prassi e consuetudini proprie, spesso riconosciute da accordi bilaterali tra la nazione estera di riferimento e Madrid. Vi era poi il vecino (o anche avecindado o domiciliado), cioè chi aveva preso dimora stabile in una località rinunciando alla propria nazionalità a favore di quella spagnola; e il naturalizado, ovvero colui che aveva ricevuto «carta di naturalizzazione» dal re, rilasciata dal Consejo de Castilla o dal Consejo de Indias. Un caso a parte era quello del jenizaro, iglio di stranieri ma nato in Spagna, il cui statuto subì cambiamenti signiicativi nel corso del tempo ma che, in linea generale, era equiparabile allo spagnolo naturale. Recenti studi dedicati alle colonie estere in Spagna tra Settecento e primo Ottocento hanno rivelato la complessità di questo universo, evidenziando come la naturalizzazione entrasse a pieno nelle strategie di opportunismo economico e d’integrazione sociale di detti gruppi6. Opportunismo valido anche per lo Stato spagnolo, che concedeva la «carta» ai soggetti considerati utili, come in caso di esercizio di attività strategiche o redditizie per le comunità locali. In altri casi, si «riconosceva» la naturalizzazione a individui già integrati di fatto, formalizzando per via di diritto una situazione preesistente7. 6. Si ricorda infatti che l’acquisizione della «carta de naturaleza» consentiva a uno straniero di poter accedere alle attività commerciali assicurate dalla carrera de Indias, altrimenti riservate ai soli spagnoli. L’esempio antitetico tra la condotta degli appartenenti alle nazioni mercantili francesi e genovesi a Cadice, con l’ampia richiesta di «carte» dei secondi al contrario dei primi, mostra a che punto l’acquisizione della naturalizzazione fosse – in linea generale – il frutto di una considerazione meramente strumentale e opportunistica. A. Bartolomei, La naturalización de los comerciantes franceses de Cádiz a inales del siglo XVIII y principios del XIX, in «Cuadernos de Historia Moderna», X, 2011, pp. 123-144 e A. Crespo Solana (a cura di), Comunidades transnacionales. Colonias de mercaderes extranjeros en el Mundo Atlántico (1500-1830), Doce Calles, Madrid 2010, pp. 83-102. 7. T. Herzog, Vecinos y extranjeros: hacerse español en la Edad moderna, Alianza Editorial, Madrid 2006. 17 Nel breve giro d’anni tra il 1714 e il 1723, con l’avvento di Filippo V di Borbone sul trono di Madrid, le politiche nei confronti degli stranieri subirono un profondo cambiamento, anche importando modelli vigenti in Francia8. Una prima importante novità fu la creazione, nel 1714, della Junta de dependencias y negocios de extranjeros, competente su tutto ciò che riguardava gli stranieri in territorio spagnolo, e che sarebbe rimasta in vita ino al 1800. La Junta aveva anche il compito di deinire – conformemente a norme in uso o sancite da ordini regi - chi fosse spagnolo e chi no, inizialmente per ragioni iscali ma, ben presto, sulla base di motivazioni politiche, realizzando già nel 1765 il primo censimento sugli stranieri presenti nel Regno9. Di pari rilievo fu la riforma del 1716 con la quale il sovrano avocò a sé in esclusiva e attraverso la Camera di Castiglia, il rilascio della carta de naturaleza, distinguendo in quattro classi gli stranieri naturalizzati in ragione dell’ampiezza della capacità d’accesso a cariche, rendite e dignità. Contestualmente esautorava le Cortes, che avevano avuto il diritto di concedere la naturalizzazione castigliana per oltre due secoli, salvo una riserva per le città dotate di voto10. La norma favorì l’inserimento nelle élites cortigiane e militari spagnole di un gran numero di soggetti esteri, francesi ma non solo, provocando gravi conlitti tra autoctoni e new comers rispetto ai meccanismi di spartizione del potere politico e nella gestione dei privilegi commerciali11. 3. Conciliare il vecchio col nuovo: la prima età liberale Per la prima volta, e diversamente da quanto stabilito nelle costituzioni successive, la Costituzione di Cadice del 1812 attribuì in via esclusiva alle Cortes il potere di concedere agli stranieri che ne avessero fatto richiesta carta de naturaleza e i connessi diritti di cittadinanza. 8. S. Marzagalli, Négoce et politique des étrangers en France à l’époque moderne: discours et pratique de rejet et d’intégration, in M. Augeron, P. Even (a cura di), Les Etrangers dans les villes-ports atlantiques. Expériences françaises et allemandes XVe-XIXe siècles, Indes savantes, Paris 2011, pp. 45-62. 9. A. Crespo Solana, V. Montojo Montojo, La Junta de Dependencias de Extranjeros (1714-1800): Trasfondo socio-político de una historia institucional, in «Hispania», 69, 232, 2009, pp. 363-394. 10. G. Pérez Sarriòn, La peninsula comercial: mercado, redes sociales y Estado en España en el siglo XVIII, Marcial Pons Historia, Madrid 2012. 11. D. Ozanam, Les étrangers dans la haute administration espagnole au XVIIIe siècle, in J.P. Almaric (coord.), Pouvoirs et société dans l’Espagne moderne. Hommage a Bartolomé Bennassar, Presses Universitaires du Mirail, Tolosa 1993, pp. 215-229. 18 Agli stranieri tout-court non era riconosciuto alcun diritto politico: solo gli spagnoli erano parte della nazione e ne potevano esprimere la sovranità. Il requisito della nazionalità era necessario anche per l’accesso alla categoria di «cittadino», che identiicava un livello successivo. Si poteva diventare «spagnoli» tramite naturalizzazione concessa dalle Cortes (con la carta de naturaleza), o annoverando dieci anni di vecindad, ma per acquisire la «cittadinanza» occorreva, inoltre, ottenere la carta de ciudadania, sempre attribuita dalle Cortes a chi attestava qualità aggiuntive quali avere moglie spagnola, esercitare un’attività commerciale o altro impiego economicamente rilevante, possedere un patrimonio di certa entità o annoverare meriti speciali in servizio della nazione. I naturalizzati restavano esclusi dalle cariche di deputato, di giudice e di consigliere di Stato, oltre che da quella di reggente. La Carta gaditana introduceva dunque una formale differenziazione tra i soggetti di nazionalità spagnola, naturali o naturalizzati che fossero, e quelli provvisti della cittadinanza, ovvero della capacità di esprimere e rappresentare la volontà nazionale12. L’esautoramento completo del sovrano e del potere esecutivo rispetto al conferimento della naturalizzazione consentì di por ine alla frammentazione di prassi, oramai vetuste, che assegnavano a differenti autorità politiche e militari, ecclesiastiche e giudiziarie, il controllo sulla popolazione autoctona e straniera. Inoltre, l’esclusione dei naturalizzati dai più importanti ruoli pubblici del Paese ridimensionava drasticamente il fenomeno dell’integrazione di élites transnazionali ai vertici dello Stato. Per il liberalismo spagnolo, il diciottesimo secolo era stato «extranjerizante» e in ciò identiicavano la causa principe del declino patrio13. L’esperienza gaditana fu destinata a breve durata, ma vi fu il tempo per discutere a Cortes un caso piuttosto insolito che, al di là della sua speciicità, esempliica la dificoltà delle istituzioni per dare piena vigenza alle nuove norme, nel conlitto con consuetudini esito di secoli di rapporti di forza con le comunità straniere presenti sul territorio. Il 13 novembre 1812, l’allora segretario di Stato Pedro Labrador riferì ai deputati segretari delle Cortes come tale José María Pardo de Seixas, suddito spagnolo, fosse stato nominato dall’autorità consolare britannica, con tanto di patente, «agente consolare, ovvero viceconsole» in Ceuta14. 12. B. Alàez Corral, Nacionalidad y ciudadanía: una aproximación histórico-funcional, in «Historia Constitucional», 6 (2005), pp. 29-76, p. 30. 13. O. Recio Morales, Los extranjeros y la historiografía modernista, in «Cuadernos de Historia Moderna», X, 2011, pp. 33-51, p. 37. 14. Ahcd, fasc. 21, ins. 51, relazione del ministro di Stato Pedro Gómez-Labrador Havela del 13/11/1812. 19 L’ambasciatore inglese aveva già ottenuto l’approvazione del capitano generale dell’Andalusia, Francisco Ballesteros, e chiedeva quindi a Labrador l’uficiale ratiica. Il Tribunale speciale di Guerra e Marina spagnolo ritenne invece che, in virtù di quanto sancito dalla Costituzione in materia di perdita della «qualità di cittadino spagnolo» a causa dell’aver prestato servizio ad altro Stato senza il permesso del proprio, l’exequatur richiesto potesse concedersi solo a condizione di privare Pardo dei «diritti della cittadinanza spagnola». Il consiglio di Reggenza giudicò impraticabile tale soluzione perché ne sarebbe conseguito l’obbligo di applicare lo stesso criterio per tutti i viceconsoli esteri già ratiicati, in maggioranza spagnoli, con le immaginabili complicazioni anche sul piano delle relazioni internazionali. Suggerì piuttosto di sospendere ogni decisione, mantenendo in un limbo normativo l’istituto viceconsolare15. La competenza in materia di cittadinanza spettava però alle Cortes, alle quali la Reggenza rimandò la decisione deinitiva. Nel novembre del 1812, la commissione parlamentare per la Costituzione incaricata dell’esame del caso si riunì più volte, in sessione segreta, e dopo accurato esame delle norme vigenti e delle consuetudini pregresse, concluse che per l’attività di viceconsole non fosse necessario essere «naturale del Paese i cui negozi promuoveva», giacché tale incarico non rispondeva a una nomina del governo, né prevedeva la corresponsione di alcun salario. La grande maggioranza dei consoli esteri in Spagna ricorreva con frequenza a gente del luogo, quali facoltosi commercianti ben inseriti e dotati di utili capacità di mediazione con le autorità locali, senza autorizzarli a compiti di rappresentanza uficiale. Lo stesso avveniva per i viceconsoli di Spagna in Stati Uniti, in Danimarca, in Svezia, in Russia, in Inghilterra: erano tutti sudditi di quei Paesi. Pertanto, concludeva la commissione, Pardo e i suoi colleghi non cessavano di essere «naturali e cittadini» spagnoli, nella pienezza dei diritti e doveri. La disposizione costituzionale fu insomma aggirata considerando il viceconsolato non «veramente assimilabile a quelli dei funzionari di uno Stato straniero», e si incaricò la Segreteria degli Esteri di inviare una nota a tutti gli ambasciatori accreditati presso il Regno di Spagna indicando di non usare più il termine «empleo» nelle corrispettive patenti16. Le Cortes approvarono il dictamen della commissione nella sua prima parte, salvo respingere la proposta di intervenire sul testo delle paten15. Cfr. M. Aglietti, Le riforme dell’istituto consolare nel dibattito istituzionale spagnolo del secondo Ottocento, in «Storia Amministrazione Costituzione”, Annale Isap, n. 2, 2016. 16. Ahcd, fasc. 21, ins. 51, relazione del vice-segretario della Commissione costituzionale, Antonio Oliveros, del 22/11/1812, e comunicazione dalle Cortes alla Reggenza, Cadice, 27/11/1812. 20 ti. Alcuni deputati, infatti, fecero osservare che la validità dall’incarico non promanava dalla patente del console estero, irrilevante ai ini giuridici, bensì dalla dichiarazione rilasciata dalle Cortes, ribadendo l’autorità sovrana del legislativo in materia17. I testi costituzionali successivi procedettero secondo un impianto d’ispirazione liberal-conservatrice. La Carta del 1837 deinì «spagnoli» tutti coloro che fossero nati «nei domini di Spagna», poi «territorio spagnolo» secondo i testi del 1845, del 1869 e del 1876. Si confermarono due forme di naturalizzazione possibili, cioè tramite conferimento di carta de naturaleza o acquisizione di vecindad presso una località del Regno, ma riconducendo entrambe tra le prerogative governative e regie. Si lasciava al legislatore solo il compito di normare il processo e di issare i requisiti per il ricorso all’una o all’altra modalità, prevedendo espressamente in dal 1845 la possibilità di disciplinare i due istituti in modo diverso. A inizio del 1847, il ministro dell’Interno Manuel Seijas Lozano presentò alle Cortes un primo progetto di legge in materia. Il testo era piuttosto complesso e articolato, e conteneva in nuce già tutte le variabili che sarebbero state prese in considerazione di lì in avanti. Il perno della norma stava nel riconoscimento della residenza quale fondamento dell’appartenenza e dell’eventuale accesso alla cittadinanza. Lo straniero poteva acquisire anzitutto il «domicilio» nel Regno, previa autorizzazione dell’autorità politica provinciale. Nei primi due anni di domicilio era esentato da ogni gravezza e servizio pubblico (compresa la contribución de sangre18), contribuendo alle spese comunali solo dopo tale periodo e ino al compimento del sesto anno. A quel punto poteva richiedere la carta de vecindad, rilasciata dall’autorità locale dopo la veriica dei requisiti necessari, e rimettendo eventualmente al Governo la decisione deinitiva in caso di conlitto o di contestazione. Con la vecindad, acquisiva i diritti e i doveri del Comune di residenza, i diritti politici attivi, ma non i passivi, e i diritti civili di tutti gli spagnoli, l’accesso agli ufici ecclesiastici di basso rango e a quelli pubblici, eccettuate le cariche militari e l’insegnamento universitario (possibile solo con una autorizzazione ad hoc). In alternativa, poteva richiedere la vecindad dopo un periodo di servizio militare (8 anni in tempo di pace, 6 in tempo di guerra), di convivenza matrimoniale con una spagnola (5 anni ridotti a 4 in caso di igli), di esercizio di un mestiere utile (5 anni, ridotti a 4 anni se si introduceva in Spagna un’attività econo17. Diario de sesiones de las Cortes generales y extraordinarias, n. 709, del 25/11/1812, pp. 4017-4018. 18. Così era chiamato l’obbligo del servizio militare. 21 mica proicua allo sviluppo del Paese), o dietro acquisto di un patrimonio immobiliare di cospicuo valore. Restava facoltà del Governo concedere la vecindad anche in caso di meriti di servizio allo Stato. La dichiarazione di vecindad restava sempre una prerogativa sovrana. Inoltre, il richiedente aveva l’obbligo di professare la religione cattolica «che è quella degli Spagnoli», di prestare giuramento di fedeltà al re e alla Costituzione, di rinunciare alla qualità, coi connessi vantaggi, di straniero. A un livello superiore si trovava la carta civil de naturaleza, che si poteva chiedere solo dopo alcuni anni di vecindad e dava accesso a una cittadinanza più ampia: abilità a tutti gli ufici e beneici, sia ecclesiastici che civili e militari, a eccezione dei ruoli vescovile e arcivescovile, di capitano generale dell’esercito, di deputato e di senatore, di ministro della Corona, di tutore del re e di reggente. All’apice della scala, con l’equiparazione in tutto e per tutto alla condizione degli spagnoli, vi era la carta política de naturalización, o naturalización plena, esigibile dopo due anni dall’ottenimento della carta civil e attribuita solo per mezzo di una legge speciale. Inine per gli individui «di razza spagnola» nati in uno degli «antichi domini delle Americhe, oggi emancipati», per i quali l’identità etno-culturale prevaleva sul principio della residenza, si riconosceva la vecindad due anni prima che agli altri, purché in condizione di reciprocità da parte dello Stato di provenienza. Quanto invece agli spagnoli che avessero perso la propria condizione perché naturalizzati in altro Paese, avrebbero potuto essere «riabilitati» solo con l’emanazione di una legge ad hoc. La norma, qualora approvata, sarebbe valsa nella Spagna peninsulare e isole adiacenti, ma non nei territori di Ultramar19. A fronte di «materia tan grave» e prima di sottoporre il testo al dibattito parlamentare, la commissione incaricata del riesame volle studiare i precedenti, inclusi gli accordi esistenti in materia tra la Spagna e le altre nazioni20, e dopo quasi due mesi di lavoro chiese al ministro dell’Interno un incontro21. Forse a causa di obiezioni sostanziali o per la dificoltà di trovare un accordo, tant’è che il progetto di Seijas Lozano fu ritirato dal Governo, e tornò alla commissione dopo quasi un anno, cambiato e sempliicato. Il nuovo testo, organizzato in due titoli, non contemplava più alcuna gradualità di ac19. Ahcd, fasc. 65, ins. 88, Proyecto de ley sobre naturalización de estrangeros, bozza ministeriale intitolata Ley sobre vecindad y naturalización de estrangeros. 20. Ahcd, fasc. 65, ins. 88, la commissione parlamentare al ministro dell’Interno, il 18/3/1847. 21. Ahcd, fasc. 65, ins. 88, la commissione parlamentare al ministro dell’Interno, il 1/5/1847. 22 cesso, ma solo il rilascio della lettera di naturalizzazione e il riconoscimento di vecindad. La carta era conferibile a tutti i richiedenti che rientrassero in una di sei speciiche casistiche, riducendo anche signiicativamente gli obblighi di residenza nel Paese22; mentre molto più dificile era l’ottenimento della vecindad, per la quale era necessario un domicilio decennale e il matrimonio con una spagnola. In entrambi i casi, il processo si otteneva a istanza dell’interessato e previo accreditamento del responsabile politico provinciale, con l’avallo del Consiglio provinciale. Il decreto di concessione non era del sovrano, ma del Governo, rilasciato dal Ministero dell’Interno. La naturalizzazione diveniva effettiva dopo la dichiarazione di professione cattolica, il giuramento di fedeltà al re e di obbedienza alle leggi di Spagna. Questi «nuovi» spagnoli acquisivano gli stessi obblighi, diritti e capacità di accesso agli ufici dei naturales, eccetto alcune cariche pubbliche di prestigio o di particolare rilievo politico – incluse quelle di ministro, deputato e senatore – per le quali era richiesta una legge. Un breve articolo, inine, disponeva la perdita della «qualità di spagnolo» per quanti si fossero naturalizzati altrove, o avessero svolto un impiego presso un altro Stato senza licenza del re di Spagna. La commissione esaminò il nuovo progetto e presentò il proprio dictamen al Congresso dei deputati il 26 febbraio 1848. La discussione si aprì il 17 marzo successivo con le obiezioni di Pedro Gómez de la Serna y Tully. Costui era un personaggio di spicco sulla scena spagnola del tempo, riconosciuto giurista, avvocato e accademico, liberale convinto e già deputato nel 1841 a lato del generale Espartero, tornato in patria da pochi mesi (dopo 5 anni di esilio politico in Inghilterra) e seduto nelle ila dell’ala conservatrice del Partido progresista23. Gómez de la Serna giudicò la norma incompatibile con il dettato della Carta del 1845 e, avendo partecipato alla redazione del testo in qualità di ministro regio, non era accusa da poco. Tacciò poi d’illegittimo il principio, che non esitava a deinire di «intolleranza religiosa», di esigere un atto di professione cattolica, visto che per gli stranieri presenti in Spagna la confessione religiosa non era stata mai condizione per il godimento dei diritti 22. Si sanciva l’obbligo del domicilio per 8 anni in caso di assenza di altri meriti, ridotti a 6 per chi esercitava una professione utile e a 4 in caso di matrimonio con una spagnola. Non era necessario alcun tempo minimo di residenza per chi introduceva in Spagna una industria utile e innovativa, per chi vi acquisiva proprietà di rilievo o aveva prestato «servizi degni di nota» alla nazione. Ahcd, fasc. 65, ins. 88, Dictamen del 26/2/1848. 23. J.M. Montalbán, Pedro Gómez de la Serna, in «Revista General de Legislación y Jurisprudencia», t. 46, 1875, pp. 55-76. 23 civili24. Il presidente della commissione, chiamato a difendere il progetto di legge, era Antonio de los Ríos Rosas, brillante giurista e antico avversario politico di Gómez de la Serna, poi spostatosi verso posizioni più convintamente liberali. Ríos Rosas intavolò uno scontro teorico sull’interpretazione autentica del testo costituzionale in materia di cittadinanza. Sostenne la perfetta conformità della legge ai commi terzo e quarto del primo articolo costituzionale laddove si stabiliva che, di fronte allo straniero che si fosse guadagnato condizione di vecindad, le autorità erano tenute a ratiicare una cittadinanza spagnola già presente per diritto acquisito; non così per l’ottenimento della carta de naturaleza ove, anche in caso di possesso dei requisiti previsti, il Governo poteva discrezionalmente accogliere o meno l’istanza. L’esistenza di questa doppia modalità di naturalizzazione, proseguiva Ríos Rosas, recepiva antiche consuetudini della tradizione spagnola. La forma più antica – la vecindad – corrispondeva a un concetto di aggregazione alla cittadinanza non troppo dissimile da altri casi europei, come quella italiana di età comunale, incluso il legame esistente tra accesso alla cittadinanza ed esercizio dei diritti politici25. En los tiempos en que la ciudad, en que el Municipio era todo, el que se avecindaba, aunque fuera extranjero, por el mero hecho de avecindarse adquiría todas las condiciones de ciudadano español y de vecino. L’altra forma – la carta de naturaleza – era sopraggiunta in seguito, con l’affermarsi della monarchia, non più connessa al godimento di diritti e doveri in una data comunità ma piuttosto pertinente alla sfera di controllo esercitato dello Stato nella concessione di una condizione divenuta espressione della volontà del sovrano: Posteriormente, consolidándose la Monarquía, extendiendo más su acción, acumulándose las localidades más hacia el centro, el gobierno se apoderó, por decirlo así, de este asunto como de otros muchos de que entendían antes especialmente las Municipalidades, y prestando su atención a los extranjeros que se establecían en España, aplicándoles su acción y su vigilancia, comenzó a exigir condiciones y a expedir cartas de naturaleza26. 24. Dsc, CD, intervento di Gómez de la Serna del 17/3/1848, n. 85, pp. 1832-1833, e rettiicazione, p. 1836. 25. Della copiosa bibliograia in materia ci si limita al recente, sintetico ma illuminante, M. Ascheri, Nella città medievale italiana: la cittadinanza o le cittadinanze?, in «Initium: Revista catalana d’historia del dret», 16, 2011, pp. 299-312, oltre ovviamente a P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, Laterza, Roma-Bari 1999, vol. I – Dalla civiltà comunale al Settecento. 26. Dsc, CD, intervento di Ríos Rosas, 17/3/1848, n. 85, pp. 1833-1834. 24 Senza mezzi termini, Ríos Rosas riconosceva i limiti nei quali doveva muoversi il legislatore rispetto al requisito religioso: «la legislazione attuale è intollerante; la legislazione attuale proibisce qualsiasi culto eccetto il cattolico; e non riconosce diritti civili, né politici se non a quelli che appartengono a detto culto». La commissione non era però autorizzata a entrare nel merito di un principio così generale, ritenuto un valore fondante dell’identità nazionale e quindi legittimo fattore di esclusione. Intervenne a supporto anche il ministro dell’Interno, replicando laconicamente che «inché non si fosse stabilito d’introdurre la tolleranza religiosa per gli spagnoli», non sarebbe potuta esistere nemmeno per gli stranieri in procinto di diventarlo. Le obiezioni dei deputati proseguirono, arenandosi però su quali dovessero essere i diritti dei naturalizzati e sul peso da attribuire al requisito religioso, inché la legislatura arrivò alla sua conclusione e il progetto non ebbe esito. Durante i lavori si sottolineò anche come fosse in approvazione una legge su naturalización e vecindad e non una legge «sugli stranieri», de extranjería, che restava invece di esclusiva prerogativa del Governo, sancendo una differenza sostanziale in termini di contenuto e, soprattutto, di competenza, tra le due materie27. In effetti, mentre le naturalizzazioni restavano senza una disciplina, il 17 novembre 1852 entrò in vigore il real decreto de extranjería, la prima norma sugli stranieri in Spagna destinata a restare vigente, seppur non integralmente, sino al 198628. Il Governo, come chiariva il ministro degli Esteri Manuel Bertran de Lis nel lungo proemio al decreto, non aveva inteso produrre «alcuna nuova legge», ma solo «riunire in un’unica disposizione quanto esisteva già». Il testo si occupava dello status di domiciliado e di transeunte, con l’elenco dei diritti e doveri corrispettivi, non senza però dotare principi già noti di nuova eficacia e di una diversa formulazione. Per gli stranieri che non ricadevano in una delle due dette condizioni, si disponeva l’obbligo di espulsione e il pagamento di una multa. Il domiciliado e il transeunte non potevano aspirare a impieghi pubblici, né esercitare alcun incarico o diritto politico, nemmeno in ambito comunale, a meno che – e solo in casi eccezionali – non rinunciassero allo status di stranieri. Inoltre, il decreto ratiicava una forma di cittadinanza più debole per le donne rispetto a quella degli uomini, almeno rispetto agli effetti giuridici. Il matrimonio diveniva, per la coniuge, un motivo di perdita della nazionalità, aggiungendo una fattispecie in più rispetto a quanto previsto dallo stesso dettato costituzionale: 27. Dsc, CD, n. 87 del 20/3/1848, pp. 1911-1912. 28. Real decreto dictando varias reglas sobre extranjería, y adoptando la clasiicación de domiciliados y transeúntes, GM, n. 6730 del 25/11/1852, pp. 1-3. 25 ciò valeva infatti in caso di unione di una spagnola con uno straniero, ma non per gli spagnoli sposati con donne estere. La stessa eccezione valeva per la condizione dei igli: i generati da padre spagnolo erano sempre considerati spagnoli, anche se nati all’estero, mentre non lo erano quelli di madre spagnola e padre straniero, nemmeno se nati in Spagna29. 4. Trasformazioni e permanenze: tra sovranità dello Stato e politica estera La questione della naturalizzazione tornò a esser dibattuta in un’aula parlamentare dopo oltre trent’anni e in un regime politico completamente diverso, quello della prima Restauración. Vigeva allora la Costituzione del 1876, detta canovista dal nome del suo principale arteice, Antonio Cánovas del Castillo, capo del partito liberal conservatore30. All’articolo I enunciava come «spagnoli» tutti coloro che avessero ottenuto carta de naturaleza o dichiarazione di vecindad, rimandandone di nuovo il compimento al regolamento di una legge. Un’importante novità era stata introdotta dalla ley municipal del 2 ottobre 1877, che riconosceva come vecino chiunque lo avesse chiesto al proprio Municipio, con la sola condizione di dimostrare una residenza continuata di almeno sei mesi31. Il quadro era pertanto ancora più confuso, tenendo conto che il vecino avrebbe acquisito il diritto di voto amministrativo attivo e passivo, prima su basi rigidamente censitarie, ma dal 1890 fu introdotto il suffragio universale maschile. Una nuova proposta in materia di naturalizzazione non giunse su iniziativa governativa, ma fu avanzata da un deputato, l’avvocato salmantino Fermín Hernández Iglesias. Pur non appartenendo al partito conservatore allora al governo, Hernández era tutt’altro che estraneo alla vita politica e sarebbe stato destinato a una lunga carriera nelle principali istituzioni dello Stato32. La proposta di legge «sulla naturalizzazione degli stranieri» avocava l’intera procedura all’autorità governativa: presentata domanda al sovrano, 29. A. Muro Castillo, G. Cobo del Rosal, La condición del nacional y extranjero …, cit., pp. 2086-2089. 30. J. Varela Suanzes-Carpegna, La Constitución de 1876, Iustel, Madrid 2009. 31. Ley Municipal, art. 16, in GM, 4/10/1877, n. 277, pp. 39-46. 32. Hernández Iglesias (1833-1908) era stato a capo della sezione per la Beneicenza del Ministero dell’Interno, incarico che lasciò per espletare il suo ruolo di deputato (fu eletto nel 1879, nel 1881, nel 1884 e ancora nel 1891) e poi di senatore (dal 1886 al 1890 e dal 1893 al 1900). Fu nominato Consigliere di Stato e ministro del Tribunal Contencioso Administrativo, diresse per alcuni anni la rivista «La Voz de la Caridad» e, inine, assunse l’incarico di vicepresidente della Real Academia de Jurisprudencia y Legislación. 26 la richiesta – indifferentemente di carta de naturaleza o di vecindad - passava prima al governatore provinciale per le opportune veriiche, poi al ministro degli Interni e, dopo udienza del consiglio di Stato, era accolta (se del caso) con decreto reale. Per l’eficacia del decreto, pubblicato sulla Gazzetta uficiale, restava l’obbligatorietà del giuramento di fedeltà alla Costituzione e la rinuncia alla precedente nazionalità, mentre nulla si diceva quanto alla professione di fede cattolica33. Hernández Iglesias presentò personalmente la proposta di legge al Congresso dei deputati il 23 dicembre del 1879. Denunciò la gravità della mancanza di una normativa in materia perché «lasciava del tutto disarmato il Governo, quando il Governo dev’essere il difensore unico della nostra nazionalità e dei nostri interessi»34. Quel vuoto legislativo obbligava infatti, proseguiva il deputato, a ricorrere alle oramai anacronistiche disposizioni dell’epoca di Filippo V, causa di molti inconvenienti e di possibili conseguenze nefaste nelle relazioni tra Stati, ma anche con i molti stranieri residenti in Spagna. Ci si trovava in un contesto profondamente diverso, per signiicato e prospettiva politica, da quello che aveva caratterizzato il dibattito parlamentare degli anni Quaranta: gli aspetti legati all’attribuzione dei diritti di cittadinanza restano in secondo piano, seppur trattati diffusamente, a favore di una preoccupazione tutta rivolta alla politica estera ed ai rapporti con gli altri Stati, ambito d’intervento esclusivo del potere esecutivo e non del legislativo. In conseguenza, anche la ricostruzione storica di Hernández ebbe ad oggetto altri temi rispetto a quelli menzionati da Ríos Rosas. Per Hernández , nei periodi nei quali la difidenza in ambito internazionale aveva prevalso, erano state adottate misure restrittive. Quando invece, in tempi di espansione o di politiche volte a «colonizzare regioni deserte, favorire attività economiche abbandonate o sostenere interessi occulti», la naturalizzazione era stata di una «facilità anarchica», consentendo a stranieri dall’«appetito disordinato» di godere dei vantaggi del commercio spagnolo. In queste parole si ritrova l’eco degli scritti xenofobi di molti liberali dell’epoca che attribuivano all’inluenza «occulta» dei troppi francesi, italiani e inglesi la responsabilità di aver corrotto e deturpato il Paese, saccheggiato rapaci le sue ricchezze all’ombra della Corona, minato l’autentica essenza del «carattere spagnolo»35. Occorreva trovare un nuovo metodo, una via di mezzo tra la proposta avanzata nel 1847 e quanto vigente nelle altre 33. Ahcd, fasc. 202, ins. 22. 34. Dsc, CD, n. 77 del 23/12/1879, p. 1331. 35. O. Recio Morales, Los extranjeros y la historiografía modernista, cit., p. 36. 27 nazioni europee «rette da istituzioni liberali analoghe a quelle che esistono in Spagna». Hernández Iglesias non aveva dubbi: in primo luogo la naturalizzazione degli stranieri e il riconoscimento di vecindad dovevano essere afidati al governo e non alle Cortes, cosa che (a suo giudizio) era «implicitamente» sancito dalla Costituzione del 1876; inoltre, a tutti i naturalizzati spagnoli dovevano riconoscersi i diritti e doveri degli autoctoni, incluso l’accesso agli impieghi pubblici, col solo limite del merito e delle capacità di ciascuno. Un’equiparazione invero non priva di eccezioni, su modello di quanto avveniva in altri Paesi: il deputato ricordava infatti la legge svedese che precludeva l’accesso all’incarico di consigliere di Stato, e la Costituzione americana che escludeva quello di presidente della repubblica. In Spagna, secondo Hernández, non si sarebbe dovuto consentire l’accesso agli incarichi «che implicano l’esercizio di giurisdizione, che incarnano […] la rappresentazione della dignità e del nome nazionale», confermando il divieto per gli stranieri, pur naturalizzati, di sedere in Parlamento36. La commissione per il riesame del testo fu composta da sette deputati, tra cui lo stesso Hernández37, ma il progetto non proseguì il suo iter e si arenò senza portare a nulla. Divenuto in seguito senatore, Hernández Iglesias presentò di nuovo il testo alla Camera alta il 13 marzo 1888, sostanzialmente senza cambio alcuno rispetto ad otto anni prima38, né l’esito fu diverso. La proposta di Hernández Iglesias fu però recepita di lì a poco nel Codice civile riformato, pubblicato con regio decreto il 24 luglio 1889, negli undici articoli del libro primo, titolo primo, «De los españoles y extranjeros»39. Si aggiungeva così un nuovo tassello regolamentare, aggravando la frammentarietà della disciplina. Il Codice dichiarava spagnoli tutti i nati su territorio spagnolo, e i igli di genitori spagnoli nati fuori dal Paese. Erano tali anche gli stranieri che avessero ottenuto «carta di naturalizzazione» o acquisito vecindad in una qualsiasi delle località del Regno, purché avessero rinunciato alla nazionalità estera, giurato fedeltà alla costituzione e si fossero iscritti nel Registro civile. In tal modo, avrebbero goduto di tutti i diritti degli spagnoli, salvo quanto disposto in Costituzione o altrimenti sancito da trattati internazionali. I igli di stranieri nati sul territorio spagnolo ne avrebbero 36. Dsc, CD, n. 77 del 23/12/1879, p. 1331. 37. Dsc, CD, n. 78 del 24/12/1879, p. 1337. 38. Dsc, S, n. 69 del 13/3/1888, p. 1511. Il testo è pubblicato nella Appendice V a questo stesso numero. L’unica differenza rispetto al precedente è la scomparsa dei due requisiti per il richiedente la carta di naturalizzazione, quello della maggior età e l’attestazione di buoni costumi. 39. GM, n. 206 del 25/7/1889, pp. 249-312 e, in particolare, p. 249. 28 acquisito la nazionalità o dietro esplicita disposizione dei genitori, o per propria volontà entro un anno dal compimento della maggior età. Gli spagnoli che avessero perso la nazionalità a favore di quella di un altro Paese, avrebbero potuto riacquistarla tornando in patria e dichiarando al cospetto di un funzionario del Registro civile la propria volontà di restarci; lo stesso valeva per la spagnola che, persa la nazionalità a seguito del matrimonio con uno straniero, rimasta vedova o separata, fosse tornata in Spagna. Per chi invece avesse assunto un incarico presso un altro Stato o si fosse arruolato nei ranghi di un esercito estero senza licenza del proprio sovrano, sarebbe rientrato in possesso della nazionalità solo per mezzo di atto formale di riabilitazione del monarca stesso. Espressa manifestazione di fronte ai rappresentanti diplomatico-consolari accreditati all’estero era invece richiesta agli spagnoli emigrati che desiderassero mantenere la nazionalità natia, introducendo per la prima volta formalmente sia la questione dell’emigrazione, sia un ruolo speciico in materia per le autorità diplomatiche. Il dettato iuscivilistico non concluse certo la diatriba sulla naturalizzazione. Il Novecento riservava nuove side, modiicando ancora i termini del dibattito politico su quali dovessero essere i fondamenti della ciudadanía española. A seguito della disastrosa conclusione della guerra ispano-americana, la Spagna rimase priva anche degli ultimi territori coloniali e non sorprende che una nuova proposta di legge mosse proprio nel tentativo di conservare i vincoli, oramai sovranazionali ma ancora caratterizzati da un comune sentimento di appartenenza, tra le popolazioni di tradizione ispanica divise dall’Atlantico. Nel novembre 1901, il deputato Eugenio Silvela y Corral, già direttore generale dell’Amministrazione locale, presentò una proposta che si differenziava dalle precedenti in nelle modalità della sua elaborazione. Silvela aveva infatti compilato il testo sulla base di una relazione, redatta insieme a due funzionari del Ministero dell’Interno (Juan Andrés Topete e José Lon y Alvareda) e che aveva presentato durante il Congresso Social y Economico Hispano-Americano. Si era trattato di un incontro, celebratosi a Madrid la prima settimana di novembre del 1900, che ebbe grande inluenza sullo spirito regeneracionista di quegli anni40. La legge, nell’intenzione dell’estensore, avrebbe dovuto «valorizzare il concetto che alla condizione di spagnolo corrisponde», adeguare la normativa nazionale a quella delle altre «nazioni civilizzate», e favorire i lega40. Cfr. I. García-Montón e G. Baquero, El Congreso Social y Económico HispanoAmericano de 1900: Un instrumento del hispanoamericanismo modernizador, in «Revista Complutense de Historia de América», 25, 1999, pp. 281-294. 29 mi dell’antica madrepatria con le popolazioni ispano-americane41. Il testo conteneva diverse novità. In primo luogo prevedeva una via estremamente agevolata per la naturalizzazione di individui nati negli Stati ispanoamericani e nelle ex Antille spagnole, addirittura prescindendo dal requisito della reciprocità, mentre per gli altri stranieri la procedura diveniva più complessa, con molti più requisiti cui soddisfare. La naturalizzazione assumeva l’aspetto di un istituto giuridico unico, a prescindere dall’esser stata ottenuta per lettera di naturaleza oppure per vecindad, ed era concessa dall’autorità ultima del Ministero degli Esteri, chiamato a sanzionare l’acquisizione del diritto. Era la ine del concetto di vecindad conosciuto ino a quel momento: l’intervento statuale andava ben oltre il riconoscimento formale di un diritto acquisito, ma assumeva valore sostanziale. Il principio di appartenenza era rimodellato su basi identitarie, non privo di elementi nazionalistici ed escludenti, e soppiantava la residenza, presupposto invece di una cittadinanza inclusiva. Ai naturalizzati si assicurava «il godimento dei diritti civili e politici» al pari degli spagnoli, salvo per incarichi ministeriali, e la nomina a senatore vitalizio, a rappresentante all’estero o a magistrato, per i quali si richiedeva l’abilitazione con una legge speciale e discrezionale del Governo. Silvela, nel presentare il suo testo al Congresso, menzionò esplicitamente l’anacronismo rappresentato dall’istituto della vecindad, un caso «vergognoso» e unico in Europa. Altrove la naturalizzazione era stata oggetto di articolate regolamentazioni e, soprattutto, era sancita «con una dichiarazione [dello Stato], che costituisce un atto di sovranità»42. Nonostante l’appoggio espresso di fronte alla Camera da parte del ministro degli Esteri, la proposta passò alla commissione d’esame ma non poté essere approvata prima del termine della legislatura, costringendo il deputato a ripresentare il testo alla successiva, il 7 aprile del 1902. La nuova commissione d’esame fu nominata, ma il dictamen restò ancora una volta pendente43. Il progetto di Silvela non divenne mai legge, ma quei contenuti indicavano oramai che i tempi erano maturi per un cambiamento. La prima guerra mondiale fu l’evento, l’ultimo al quale accenneremo in questa breve analisi, che maggior impatto ebbe sul sistema spagnolo, ponendo ine sia al regime liberale restauracionista, sia alla concezione ottocentesca della naturalizzazione. Gli effetti del conlitto costituirono una sida all’autorità dello Stato sotto diversi punti di vista, e la reazione istituzionale 41. Il testo della proposta di legge è in Dsc, CD, Appendice 33 al n. 58 del 12/11/1901. 42. Dsc, CD, intervento di Silvela, n. 71 del 27/11/1901, pp. 1883-1884. 43. Dsc, CD, n. 4 del 7/4/1902, p. 23, e testo in Appendice IV. 30 fu quella di ridurre sotto il proprio controllo spazi che sino a quel momento erano rimasti più dificili da monitorare. In primo luogo fu necessario bloccare il movimento delle popolazioni provenienti dalle nazioni belligeranti e richiedenti la nazionalità spagnola, approittando della neutralità del Paese, per evitare l’invio al fronte. Nell’estate del 1916 il Governo adottò misure drastiche per interrompere la pratica diffusasi in alcuni tribunali prossimi al conine lusitano di riconoscere la vecindad a soggetti portoghesi privi dei requisiti. Di lì a poco, il presidente del Consiglio dei ministri ordinò di non concedere più alcuna forma di naturalizzazione, inclusa la carta de naturalidad, inché la guerra non fosse giunta al termine44. Il 6 novembre del 1916, senza alcun tipo di coinvolgimento parlamentare, un decreto reale riformò alle basi l’istituto della vecindad rendendolo conferibile esclusivamente per autorità discrezionale del Ministero di Grazia e Giustizia. Il decreto avocò così all’esecutivo un potere mai esercitato prima, mentre il valore attribuito all’aspetto volontaristico del richiedente, e del riconoscimento da parte della Comunità locale, passavano in secondo piano. Si trattava di un cambiamento sostanziale nella politica delle naturalizzazioni, come si evince inequivocabilmente dal testo del decreto laddove sancì la competenza esclusiva del Governo in materia «per evitare la possibilità di pratiche difformi e abusive, come avverrebbe se tale facoltà fosse in possesso di autorità locali, giudiziali e amministrative»45. La guerra richiese anche l’adozione di soluzioni straordinarie rispetto alle procedure di naturalizzazione per quanti – pur nati spagnoli - avessero perduto tale condizione, come nel caso delle diverse migliaia di volontari che si erano arruolati nell’esercito francese senza il permesso sovrano. Il caso fu oggetto di discussione al Congresso in dal giugno del 1916, quando un deputato presentò una petizione al governo per raccogliere informazioni sui «cinque o seimila» spagnoli che combattevano agli ordini della Francia. La «spinosa questione» restò sospesa per tutta la durata del conlitto nel timore di aprire pericolosi motivi d’imbarazzo per l’uficiale posizione neutralista della Spagna, inché, ai primi mesi del 1919, i ministri degli Esteri e degli Interni presero prima in considerazione la concessione di una grazia, poi risolsero il pasticcio ricorrendo alla duplice emissione di un decreto reale e di un indulto46. 44. Ahn, FC, Mae, H 3142, ins. 1, Criterio del gobierno español sobre concesión de naturalizaciones durante la guerra, del 18/8/1916; comunicazioni ministeriali del 19 e del 22/8 successivi. 45. GM, n. 319 del 14/11/1916, p. 395. 46. Su questi aspetti, si rimanda a M. Aglietti, In nome della neutralità. Storia politicoistituzionale della Spagna durante la Prima Guerra Mondiale, Carocci, Roma 2017. 31 5. Brevi annotazioni inali Nonostante le poche occasioni di dibattito che vi furono, e il fatto che l’istituto parlamentare non abbia saputo dimostrarsi in grado di provvedere a regolamentare la naturalizzazione in modo eficace, questo percorso mette in luce continuità e trasformazioni capaci di spiegare anche alcune delle contraddizioni sopravviventi nell’istituto di accesso alla cittadinanza. Infatti, se altrove si assistette a una più precoce transizione dell’autorità titolare del diritto di conferimento della nazionalità dal monarca al legislativo, il perdurante dualismo monarchia-Cortes sancito ancora nella Costituzione spagnola del 1876, e il predominio ministeriale sulla produzione normativa, resero più dificile quel passaggio, spiegando almeno in parte il ritardo e le resistenze per l’introduzione di una più moderna disciplina in materia. La scelta che divenne dominante in dai primi del Novecento di ricondurre la vecindad all’interno di una sola fattispecie di naturalizzazione signiicò sì avvicinarsi a un modello più simile alla normativa di altri Paesi d’Europa, ma anche eliminare una differenza concettuale e funzionale che era stata centrale nell’ordinamento ottocentesco, laddove la vecindad aveva rappresentato una forma immediata d’accesso alla cittadinanza coincidente con il godimento di diritti civili e politici, quanto meno sul piano locale. Restano invece fuori da questa analisi molti altri aspetti, altrettanto importanti, quali quelli delle modalità di aggregazione dei soggetti di indubbia origine spagnola ma appartenenti alle minoranze religiose47, così come rispetto alle discriminazioni etniche o di genere, cui pure si è accennato brevemente. L’ordinamento spagnolo vede ancora oggi il prevalere del concetto di nacionalidad su quello – più circoscritto – di ciudadanía, in analogia con il sistema tedesco e contrariamente, ad esempio, all’ordinamento italiano o a quello francese, ove è invece la cittadinanza ad apparire semanticamente inclusiva anche del carattere della nazionalità48. Conoscere le origini di questa differenza può contribuire a comprendere meglio le dinamiche, e le speciicità, degli ordinamenti politici contemporanei rispetto a fenomeni nuovi, tra i quali la regolamentazione dei lussi migratori rappresenta solo uno dei molti possibili esempi. 47. Degno di nota in materia di naturalizzazione di individui appartenenti a minoranze religiose, M. Ojeda Mata, Identidades, fronteras, cruces y ambivalencias: los sefardíes en la España contemporánea, in M. Ventura (ed.), Fronteras y mestizajes: sistemas de clasiicación social en Europa, América y Asia, Universitat Autónoma de Barcelona, Barcellona 2010, pp. 57-68. 48. B. Alàez Corral, Nacionalidad y ciudadanía, cit., p. 30. 32 Nazione e cittadinanza. Pasquale Stanislao Mancini e i diritti civili degli stranieri Alessandro Polsi Pasquale Stanislao Mancini oltre a manifestare un precocissimo ingegno e una enorme voracità di letture, non provò alcun reverenziale timore nel gettarsi in da giovane nella trattazione di questioni complesse e di grande rilevanza. I primi rapporti diretti con intellettuali e pensatori esterni al Regno delle Due Sicilie si possono datare alla ine degli anni ’30, quando poco più che ventenne entrò in contatto con Terenzio Mamiani, allora in esilio a Parigi, intavolando una corrispondenza sulle radici ilosoiche del diritto a punire1. Nei primi scritti di carattere giuridico pubblicati all’inizio degli anni ’40 Mancini manifesta la sua avversione per la scuola storica del diritto (scuola tedesca), ma anche il disagio rispetto ad una ilosoia del diritto che rischiava di essere così astratta da non poter tradursi in diritto positivo. Quando nel 1842 presenta la scuola privata di diritto che promuove a Napoli assieme a due altri colleghi, propone una fusione fra le due tendenze come unica via per giungere ad una formazione completa ed eficace del giurista. È una dichiarazione di eclettismo, che non va intesa in senso negativo, ma dimostra l’approccio pragmatico e lessibile che Mancini intende dare al suo lavoro di insegnante, studioso ed avvocato2. 1. P.S. Mancini, Intorno alla ilosoia del diritto e singolarmente intorno alle origini del diritto di punire. Lettere di Terenzio Mamiani e di P.S. Mancini, Firenze 1844. Una prima edizione incompleta era stata pubblicata a Napoli nel 1841. Un commento in O. Zecchino, Il problema penale nelle lettere di Mancini a Mamiani, in Aa.Vv., Pasquale Stanislao Mancini: l’uomo lo studioso il politico, Guida, Napoli 1991, pp. 635-662. Su Mancini nell’ambiente napoletano, F. Gentile, Il posto della ilosoia del diritto negli studi legali secondo Mancini, in P.S. Mancini. L’uomo…, cit., pp. 335-365. 2. Studio di Diritto de’ professori de Augustinis, Tecci e Mancini. Programma per l’insegnamento di un corso completo di diritto, in «Continuazione delle Ore Solitarie», 1842, I semestre, pp. 345-347. Il De Augustinis era editore di un periodico, «Temi napolitana». 33 La prima arringa pronunciata in un tribunale alla ine degli anni ’30 fu la difesa in appello di tre imputati, condannati a morte in primo grado per aver procurato l’uccisione, in duello, di un cittadino piemontese. Fatto accaduto a Genova, in una giurisdizione che all’epoca riconosceva come lecita la pratica. Oltre all’umanesimo, che lo spingeva a respingere la pena capitale l’arringa lo portò a misurarsi con la questione, che lo impegnerà per decenni, su quale diritto utilizzare per decidere di controversie civili o penali, quando le parti interessate appartenevano a nazionalità differenti3. Questione rilevante non solo dal punto di vista teorico, ma anche giurisprudenziale in un’Italia preunitaria, dove la sempre crescente mobilità delle classi colte portava con frequenza cittadini di uno stato a stipulare contratti, redigere un testamento o commettere un reato in uno degli altri stati. In Piemonte Fuggito da Napoli nel settembre del 1849 Mancini riuscì ad inserirsi nella elite sociale piemontese nel giro di pochi mesi4. Oltre ai mezzi economici di cui poteva disporre, contribuirono i rapporti di amicizia con alcuni fuoriusciti già accolti nel Regno, come Terenzio Mamiani e Antonio Scialoja, e i rapporti instaurati negli anni ’40 con alcuni amministratori piemontesi come Federico Sclopis5, già membro del Consiglio di stato, Ministro di grazia e giustizia nel primo governo costituzionale e senatore dal 1849, e il Conte Carlo Ilarione Petitti di Rorero, già consigliere di stato e senatore dal 1848. Immediata è l’amicizia con Urbano Rattazzi, quasi a controbilanciare un Alla sua morte nel 1845 la redazione passò a collaborare con il periodico di Mancini. G. Oldrini, La cultura ilosoica napoletana dell’Ottocento, Laterza, Roma-Bari 1971, p. 213. Della scuola privata di Mancini dà un lusinghiero giudizio K. Mittermaier, Delle condizioni dell’Italia del Cav. Carlo Mittermaier, Milano 1845, p. 214. Mancini appartiene a quella tradizione di eclettismo che si può considerare un sedimento profondo della cultura giuridica italiana dell’800. L. Lacchè, Il canone eclettico. Alla ricerca di uno strato profondo della cultura giuridica italiana dell’Ottocento, in «Quaderni iorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 39, 2010, pp. 153-228, e S. Mastellone, Mancini e l’eclettismo di Victor Cousin, in P.S. Mancini. L’uomo…, cit., pp. 367-371. 3. L’appello si concluse con l’assoluzione dei tre imputati. E. Jaime, Pasquale Stanislao Mancini. Il diritto internazionale privato fra Risorgimento e attività forense. Cedam, Padova, 1988. Al tema del duello Mancini dedicò un saggio nel 1842 in «Continuazione delle Ore solitarie». 4. L. Firpo, Gli anni torinesi, in P.S. Mancini. L’uomo…, cit., pp. 139-156. 5. Su Sclopis vedi G. Saredo, Federigo Sclopis, Torino 1862 e L. Moscati, Da Savigny al Piemonte. Cultura storico-giuridica subalpina tra la Restaurazione e l’Unità, Carocci, Roma 1984. 34 ingresso nella elite dirigente piemontese troppo sbilanciato su illustri esponenti del fronte liberale conservatore. Oltre all’esercizio dell’avvocatura, ripreso nel giro di pochi mesi, gli si aprì rapidamente la carriera accademica quando il Parlamento nel novembre del 1850, non senza qualche malumore, istituì una nuova e innovativa cattedra di Diritto Pubblico Esterno e Internazionale Privato presso l’Università di Torino6. Era un insegnamento periferico rispetto alle grandi materie classiche delle facoltà di Giurisprudenza, ma in linea con le ambizioni del nuovo stato costituzionale piemontese, spinto dalla parte più dinamica della sua classe politica ed imprenditoriale a seguire la grande ondata di intensiicazione degli scambi commerciali e di persone che dopo il 1848 stava coinvolgendo le economie e le società più dinamiche dell’Europa occidentale. Nella celebre prelezione del gennaio 1851 con cui inaugurò il suo corso Mancini sviluppò l’idea della appartenenza nazionale come principio teorico per risolvere una serie concentrica di problemi legati tanto al diritto internazionale privato che al c.d. diritto internazionale pubblico7. Il saggio si segnala per una capacità di sintesi illuminante, ma che rischia di apparire astratta dove non si collochi la rilessione di Mancini nell’ambito di una attività professionale che nel Piemonte preunitario si era fatta molto intensa. Nello stato sabaudo, molto più che a Napoli, la sua attività forense si misura con il problema dei molti cittadini di nazionalità piemontese che avevano abbandonato il regno per servire sotto Napoleone, divenuti per una breve stagione cittadini francesi, quando il Piemonte era stato annesso alla Francia, e chiamati a scegliere il proprio status di cittadinanza alla ine dell’Impero. La questione si faceva oltremodo intricata per i cadetti delle famiglie nobili, proprietari di grandi fortune. Il trattato di Parigi del 30 maggio 1814 aveva indicato la strada per regolarizzare la situazione di tutti gli aderenti al regime napoleonico originari di territori che non appartenevano più alla Francia. In accordo con le potenze vincitrici si stabiliva un lasso di sei anni entro il quale chi aveva servito nell’esercito o nell’amministrazione 6. L. 14 novembre 1850 n. 1092 che istituisce una cattedra di Diritto pubblico esterno ed internazionale privato. Il relativo disegno di legge era stato approvato dal Senato il 7 maggio 1850 e dalla Camera l’8 novembre. Determinante in Senato l’intervento di Sclopis per giungere all’approvazione della legge. 7. P.S. Mancini, Della nazionalità come fondamento del diritto delle genti. Prelezione al corso di diritto internazionale e marittimo pronunziata nella R. Università di Torino nel dì 22 gennaio 1851. Testo riedito numerose volte. Un commento in G.S. Pene-Vidari, La prolusione di P.S. Mancini all’Università di Torino sulla nazionalità (1851) in Id. (a cura), Verso l’unità italiana: contributi storico-giuridici, Giappichelli, Torino 2010, pp. 21-46. 35 francese poteva richiedere la cittadinanza transalpina, condizione indispensabile per poter continuare a servire nell’esercito, lavorare nella pubblica amministrazione e godere delle pensioni pagate dallo stato. Anche il Congresso di Vienna aveva statuito su tema analogo, ma in questo caso andando più alla radice, concedendo il lasso di un anno per decidere della propria nazionalità a quei sudditi che, a seguito del cambiamento dei conini europei, e della scomparsa di alcuni stati si trovavano privi della nazionalità di origine. Se per la massa della popolazione la questione era risolta d’uficio in base al principio del domicilio, la questione aveva non poca rilevanza per le ristrette elite nobiliari e possidenti i cui beni si distribuivano su più stati. La scelta, oltre ad avere un sapore identitario e politico poteva avere conseguenze non indifferenti soprattutto per il futuro dei patrimoni famigliari, per la sussistenza di ordinamenti giuridici difformi, che regolavano in maniera diversa, a seconda degli stati, la capacità di testare, la validità dei testamenti redatti all’estero, la possibilità stessa di trasmettere beni a cittadini di altro stato. Nel Piemonte restaurato il codice civile in vigore ino al 1837 escludeva dall’asse testamentario i parenti del defunto con nazionalità estera – ultimo rilesso di una concezione patrimoniale dello stato (cosiddetto diritto di albinaggio) –, e solo il nuovo codice emanato in quell’anno abolì in parte quella norma, sostituendola con una clausola di reciprocità di trattamento fra stati, la formula più usuale in quegli anni per regolare la questione8. Uno dei primi casi trattati dall’avvocato Mancini riguardò un cadetto della famiglia Della Villa, Cesare, che aveva servito nell’esercito francese, ino a giungere al grado di maresciallo di campo, e che nel 1814, in base al trattato di Parigi, aveva chiesto la naturalizzazione francese, per poter continuare a servire nell’esercito d’oltralpe. Per questo motivo la famiglia piemontese lo aveva escluso dall’asse ereditario, considerandolo suddito francese. Nel 1851 la causa fu discussa in appello a Torino, e per appoggiare le ragioni dei discendenti di Cesare Della Villa un collegio formato da Mancini, Urbano Rattazzi, Giovanni Battista Cassinis e Leone Rocca presentò varie memorie, di cui una in particolare assumeva le dimensioni e i contenuti di un vero 8. L’art. 27 stabiliva che lo straniero non naturalizzato non aveva la capacità di succedere ai sudditi dello stato, salvo il caso esistesse un pubblico trattato di reciprocità sul trattamento delle successioni fra il Piemonte e lo stato interessato. L’art. 34 stabiliva invece che il suddito che acquistava la naturalità in un paese straniero perdeva i diritti civili, a meno di non aver ottenuto il permesso dal Sovrano, nel qual caso manteneva il diritto di succedere e trasmettere in eredità. Sui lavori che portarono al Codice del 1837 vedi F. Sclopis, Storia della legislazione negli Stati del Re di Sardegna dal 1814 al 1847, Torino 1860. 36 trattato di commento delle disposizioni su cittadinanza e nazionalità nel passaggio dal regime napoleonico alla restaurazione9. Da un lato bisognava stabilire se l’annessione del Piemonte alla Francia avesse inito per cancellare la nazionalità sabauda, e quindi chi, come il Della Villa, era rimasto in Francia, avesse assunto la nazionalità francese al momento dell’annessione del Piemonte e non l’avesse più persa avendo mantenuto il proprio domicilio in Francia. La tesi avversa esposta da Mancini si fondava sul sostegno di un’ampia citazione di fonti, da E. Vattel ino a J.L. Kluber e G.F. Martens per ricostruire il vero spirito dei Trattati di Vienna e di Parigi. Negando validità ad alcune interpretazioni più liberali e interpretando lo spirito condiviso dei giuristi dell’età della restaurazione Mancini concludeva a favore dell’esistenza di un principio di sovranità che si estendeva al territorio e agli abitanti di uno stato. In caso di guerra e di occupazione di parte del territorio tale appartenenza rimaneva come sospesa, per poi ridiventare pienamente operativa nel caso di uno stato cessato e poi reintegrato nella sua sovranità. In questa prospettiva le clausole del Trattato di Vienna, che si applicavano agli abitanti nei territori della cessata Polonia, e le stesse norme francesi costituivano non nuove leggi, ma eccezioni ad una norma generalmente riconosciuta, e ne confermavano la piena forza. Così il Della Villa, nato piemontese, nel 1814 aveva riacquistato la nazionalità sabauda, tanto da essersi dovuto valere del Trattato di Parigi per poter richiedere ed ottenere la cittadinanza francese, senza che questo comportasse per altro la perdita della sua natura di suddito piemontese. Affermazione avvalorata dal fatto che la naturalizzazione francese accordata dal trattato di Parigi era, come detto all’epoca, una naturalizzazione “minore” non equivalente all’acquisizione della nazionalità francese, ma necessaria solo per poter continuare a servire nell’esercito. Inoltre mancava l’altro requisito necessario per il mutamento di nazionalità, e cioè un atto del Re di Sardegna, che concedesse al suddito la facoltà di stabilire la propria residenza permanente fuori dal Regno, situazione che senza la sanzione regia, avrebbe assunto rilevanza penale. Quindi in assenza di un provvedimento regio, il Della Villa aveva mantenuto la nazionalità piemontese. In questa causa erano racchiusi una distinzione fra nazionalità, intesa come un dato genetico, legato allo ius soli, il domicilio, e l’eventuale godimento di diritti civili e politici in un altro stato (cittadinanza) che invece 9. Museo Centrale del Risorgimento Roma (ora Mccr), Mancini, MS B. 878, Ragionamento nella causa degli Cav. Alessandro della Villa e altri di Villastellone. Torino 1851 e Brevi Cenni nell’interesse dei Signori Della Villa, in replica alle osservazioni dettate nell’interesse dei signori Partiaut, Torino 1851. 37 erano due condizioni potenzialmente mutevoli. Alla nazionalità era legato il diritto di poter fare sempre, nel corso della propria vita, riferimento al sistema giuridico del proprio paese di nascita, nel caso in questione al diritto di famiglia dell’ordinamento piemontese. Un ragionamento che poneva la nazionalità come ancoraggio dei diritti civili di un individuo, e in cui i conlitti fra leggi di stati diversi, determinati dal mutamento di domicilio, avrebbero trovato più semplice risoluzione non dalla ricerca del domicilio prevalente – come sosteneva un’autorità del calibro di Savigny – ma dal riconoscimento di una quasi immutabile appartenenza nazionale dei sudditi. La Corte d’appello nella sua sentenza accolse le tesi di Mancini e dei suoi colleghi. Le memorie per il caso Della Villa10 vedono la luce poche settimane dopo la celebre prolusione del 1851, ed evidentemente erano state concepite nello stesso momento della prelezione dedicata al principio di nazionalità. In questa prospettiva l’attività forense e accademica di Mancini si ricompongono in una visione unitaria11. Nell’attività forense e nella prolusione accademica emergeva con coerenza l’idea che la nazionalità e non il domicilio costituisse il punto di riferimento attorno al quale costruire la sfera dei “diritti civili” dell’individuo. Alla metà degli anni ’50, assieme a due altri fuoriusciti, Giuseppe Pisanelli e Antonio Scialoja, Mancini cura un corposo commentario del Codice di procedura civile sardo, un’opera collettiva che getterà le basi per la riforma dei codici nello stato unitario di lì a pochi anni.12 La scrittura di un codice di procedura civile era stata uno dei punti del programma del primo ministero Cavour. Si trattava di adeguare le procedure frutto di una legislazione frammentaria al nuovo regime costituzionale. Nell’ottobre del 1851 Mancini, membro della commissione per la riforma dei codici, dopo aver 10. Dobbiamo ricordare anche un altro processo del 1854 in cui Mancini trattava del testamento del conte Saporiti, suddito della cessata Repubblica di Genova e domiciliato a Milano dal 1814. Anche in questa causa Mancini produceva lunghe memorie in cui affrontava il problema della nazionalità e del diritto da applicare per la validità dei testamenti. Mccr, Mancini, MS, B. 878. 11. Un primo saggio sulla nazionalità come strumento per affrontare in maniera eficace il problema dei conlitti fra leggi in materia di contratti era stato pubblicato nel 1844. P.S. Mancini, Esame dell’opera di dritto internazionale di Nicola Rocco, e del rapporto del sig. Portalis sulla stessa, in «Continuazione delle Ore Solitarie», 1844, pp. 10-29. 12. Commentario del Codice di procedura per gli Stati Sardi con la comparazione degli altri Codici italiani. Compilato dagli avvocati e Professori di Diritto P.S. Mancini, G. Piselli, A. Scialoja, vol I, Torino 1855. Sul Commentario v. F. Aimerito, La codiicazione della procedura civile nel Regno di Sardegna, Giuffrè, Milano 2008. 38 preso visione della prima stesura del progetto aveva pubblicato un intervento sul primo numero di prova del “Monitore dei Comuni Italiani” in cui criticava il tentativo di imitare in Piemonte il modello del codice di procedura napoleonico del 1806.13 Secondo Mancini la riforma non era ancora matura, perché era in corso in Francia un dibattito sulla modiica del Code de procedure, e si correva il rischio di emanare un codice proprio quando il suo modello di riferimento veniva mutato14. La posizione di Mancini non ebbe comunque un rilevante impatto sul codice di procedura che fu approvato seguendo il modello francese. Il governo invece accolse quanto era stato suggerito da Mancini in altra sede per giungere all’approvazione parlamentare del nuovo codice, stabilendo un importante precedente di natura costituzionale. Basandosi sulla autorità e il sostegno pubblico di Karl Mittermaier15, Mancini sosteneva che il Parlamento doveva limitarsi alla sola approvazione dei principi generali, una sorta di “approvazione provvisoria”, cioè licenziare un testo a cui il governo si riservava di apportare le modiiche che sarebbero sembrate opportune dopo qualche momento dalla sua applicazione. Fu questa la linea seguita dal Ministero che, non senza qualche polemica, fu accolta dalla Camera e dal Senato e portò all’approvazione della L. 16 luglio 1854. Il monumentale commentario che Mancini Pisanelli e Scialoja produrranno pochi anni dopo l’approvazione del codice di procedura non si limitò a commentare il codice di procedura sardo, ma si aprì all’analisi comparata dei codici civili e di procedura degli altri stati italiani. L’intento era di preparare il terreno ad una armonizzazione dei codici degli stati italiani, ma inì per essere un importante lavoro preparatorio all’uniicazione provvisoria del 1859-60 e poi alla emanazione del nuovo codice civile e del successivo codice di procedura civile del Regno d’Italia, di cui Pisanelli e Mancini, grazie alla competenza e all’autorità conseguita, diedero uno il nome, l’altro l’impronta su alcuni punti signiicativi. 13. Mancini citava come esempio negativo il Codice del Regno delle Due Sicilie, improntato al testo francese: «In Napoli, dove il voto pubblico da lungo tempo non è di alcun inluenza sugli atti de’ governanti, non fu possibile inora ottenere la riforma della procedura civile francese», Aimerito, La codiicazione…, cit., p. 244. 14. Ibidem, p. 241. 15. K. Mittermaier, Sul progetto di Codice di procedura civile. Lettera del Prof. Mittermaier al Prof. P.S. Mancini, in «Gazzetta dei Tribunali», n. 33, 4 maggio1853. Sui rapporti fra Mancini e Mittermaier v. E. Di Carlo, Lettere inedite di P.S. Mancini al Mittermaier nel decennio di preparazione, in «Rassegna storica del Risorgimento», 39, 3-4, 1952, pp. 502-516. 39 Il principio di nazionalità Mancini è stato considerato come il principale divulgatore a livello internazionale del principio di nazionalità, e il fondatore della c.d. scuola italiana di diritto internazionale che una certa fortuna ha avuto soprattutto ino alla guerra mondiale, tanto in Europa che in America latina16. L’idea di nazionalità espressa da Mancini nella prolusione del 1851 e in sede processuale, è contemporaneamente una categoria giuridica e un dato sociologico, cosa che ne rappresenta la forza nel discorso politico e la debolezza in ambito scientiico. La nazionalità appare come il cardine di una ilosoia del diritto che si deinisce con orgoglio eclettica17. Il punto di partenza è nell’affermazione del giurista tedesco Savigny dell’esistenza di una tradizione giuridica comune europea, composta da valori morali e principi giuridici condivisi. Ma rispetto a questa concezione, che vedeva negli Stati gli strumenti di un diritto internazionale che non era solamente il rilesso del combinarsi dell’interesse egoistico degli stati, ma conteneva il riconoscimento di un concetto superiore di umanità18, Mancini introduceva una nuova costruzione sociale e morale, la nazione, che colmava lo iato troppo vasto che esisteva fra il concetto di umanità e l’azione concreta degli stati. La nazione per Mancini era un dato sociale, frutto della formazione nel corso della storia di una serie di comunità che emergono attraverso un processo di acquisizione di una lingua, costumi e tradizioni comuni La nazione formata e che si riconosce come tale19 diviene una fonte del diritto: lo stato che la sorregge esprime attraverso il proprio ordinamento 16. Jaime. P.S. Mancini…, cit., A. Droetto, Pasquale Stanislao Mancini e la scuola italiana di diritto internazionale del secolo XIX, Giuffrè, Milano, 1954. K.H. Nadelmann, Mancini’s Nazionality Rule and Non-Uniied Legal Systems. Nazionality versus Domicile, in «The American Journal of Comparative Law», 3, 1969, pp. 418-451. Svilisce in maniera sbrigativa la scuola italiana S. Mannoni, Da Vienna a Monaco (1814-1938). Ordine europeo e diritto internazionale, Giappichelli, Torino 2014. 17. P.S. Mancini, Della vocazione del nostro secolo per la riforma e la codiicazione del diritto delle genti e per l’ordinamento di una giustizia internazionale. Discorso per la inaugurazione degli studi nella R. Università di Roma, pronunziato nel 2 novembre 1874, Roma 1874. 18. Sull’emergere del principio di nazionalità in rapporto con lo stato v. L. Nuzzo, Da Mazzini a Mancini: il principio di nazionalità tra politica e diritto, in «Giornale di Storia Costituzionale», 14, 2007, pp. 160-186. 19. Sostiene T. Mamiani, D’un nuovo diritto europeo, Torino 1859, che la nazionalità è un diritto non un’imposizione. Nel corso della propria attività politica, Mancini, che spesso cita Mamiani, deinisce la situazione dell’Austria come quella di popoli che hanno accettato di vivere antro un medesimo corpo politico, senza giungere ad una piena affermazione della propria potenziale nazionalità. v. G. Fieschi, Terenzio Mamiani e “il nuovo diritto europeo”, in «Rivista di studi politici internazionali», 4, 1973, pp. 689-694. 40 giuridico lo spirito della nazione che racchiude. Lo spirito della nazione inisce per diventare una sorta di marchio indelebile che si imprime negli individui al momento della nascita e della loro formazione, per cui ogni individuo appartenente ad una nazione si ritrova a vivere in un ordinamento giuridico che meglio rispecchia le sue tendenze profonde. Dal momento che l’affermazione delle nazioni è un dato storico oggettivo, che sta portando alla formazione di un vero e proprio consorzio delle nazioni civilizzate20, la nazione può svolgere in maniera soddisfacente la funzione di riferimento per risolvere i conlitti fra leggi, applicando allo straniero le leggi della propria nazione in ambito e civile. L’idea di nazionalità risulta essere più vicina all’idea di sudditanza verso un ordinamento, ed ha quindi un sapore maggiormente conservatore rispetto al concetto di cittadinanza, che infatti svanisce negli scritti di Mancini e nel dibattito pubblico della metà del secolo. La cittadinanza, come concetto di derivazione rivoluzionaria, pone l’accento sui diritti dell’individuo, mentre la nazionalità privilegia il rapporto dell’individuo con una comunità di appartenenza, con cui si presume vi sia una afinità e condivisione di fondo, che si esprime in un ordinamento statale a cui l’individuo è soggetto21. D’altro lato il concetto di nazione permette di ancorare l’ordinamento dello Stato ad un dato di consenso sociale e politico che inluenza i caratteri della legislazione ed impedisce di considerare lo stato come fonte prima ed autoreferente della costruzione del diritto interno e internazionale. Meno chiaro ed evidente è calare il concetto di nazionalità nel campo delle relazioni fra gli stati. In questa sfera il concetto risente delle inevitabili ambiguità del termine, che può evocare sentimenti politici da un lato, mentre dall’altro è costretto ad identiicarsi con lo stato, per poter diventare uno strumento del diritto22. 20. L’espressione viene largamente utilizzata dai giuristi e diviene quasi un dato di fatto nel confrontare il diritto di matrice europea e gli ordinamenti degli stati asiatici o dei territori africani. v. J. Lorimer, The Institutes of the Law of Nations. A Treatise of the Jural Relations of Separate Political Communities., Edimburgo e Londra, 1883. Sul tema v. D. Rodogno, European Legal Doctrines on Intervention and the Status of the Ottoman Empire within the ‘Family of Nations’ throughout the Nineteenth Century, in «Journal of the History of International Law», 18, 2016, pp. 1-37. 21. M. La Torre, Cittadinanza e Nazionalità. Identità o Differenza?, in «Sociologia del diritto», 3, 2001, pp. 81-111. 22. La grande debolezza teorica rimproverata a Mancini è la dificile applicazione del concetto di nazionalità a realtà statuali multietniche, come l’Austria-Ungheria, o con ordinamenti giuridici plurimi, come l’Impero Ottomano. F. Holtzendorf, Il principio di nazionalità e la letteratura italiana del diritto delle genti, Firenze 1870. Nadelmann, Mancini’s Nationality Rule…, cit. 41 La nazionalità si dimostra un criterio utile per risolvere i conlitti fra legislazioni nel campo del diritto di famiglia e successorio nel caso di individui domiciliati all’estero. Fare riferimento alla nazionalità, secondo Mancini, permette di superare le nebulose controversie sul domicilio prevalente o sul luogo effettivo in cui un atto o un contratto sono stati stipulati. L’emergere dell’idea di nazionalità si accompagna a una crescente richiesta sociale di chiariicazione della posizione dei cittadini stranieri all’interno degli stati europei. Se all’indomani del Congresso di Vienna vigevano regimi a volte oscuri, dalla metà del secolo, in concomitanza con l’affermarsi di un’idea forte di nazione si afferma faticosamente una tendenza negli ordinamenti europei a creare un solo sistema di acquisizione della nazionalità – si perde una nazionalità e si acquista una piena nazionalità altrove – e a considerare i cittadini stranieri come titolari dei diritti civili nel paese che li ospita, sia a carattere temporaneo che permanente, riconoscendo contemporaneamente loro la facoltà di fare riferimento alla legislazione della propria nazione di appartenenza per la sfera del diritto di famiglia e delle successioni. Una sempliicazione che verrà estesa anche alle società commerciali nella seconda parte del secolo, e che intende favorire lo spostamento delle persone e agevolare le loro attività economiche. Mancini fu tra i protagonisti di questa evoluzione. La codiicazione nel Regno d’Italia Mancini nell’ottobre del 1859 era stato inviato a Firenze da Cassinis, divenuto Ministro della giustizia, con l’incarico di preparare l’uniicazione giuridica della Toscana con il Piemonte. Il 27 ottobre sottopose al governo provvisorio toscano una lunga memoria sull’assimilazione legislativa al Piemonte, che conteneva una analisi della legislazione piemontese e dei suoi punti più difettosi di cui si prospettava la riforma23. Con Decreto del ministro Cassinis del 24 dicembre 1859 fu istituita una commissione per l’uniicazione dei codici che comprendeva Mancini e altri 8 giuristi piemontesi, cui si aggiungevano 3 giuristi lombardi di non primo piano. All’interno della commissione si consumò un acceso confronto fra l’aprirsi o meno al codice austriaco. Mancini partecipò al fronte contrario, 23. Mccr, Mancini, b. 619, f. 17. “Relazione intorno all’assimilazione legislativa della Toscana al Piemonte”, 27 ottobre 1859, riprodotta ora in S. Solimano, Il Letto di Procuste. Diritto e Politica nella Formazione del Codice Civile Unitario. I progetti Cassinis (18601861). Giuffrè, Milano 2003, pp. 375-388. 42 nemico deciso della scuola storica germanica, che aveva condannato apertamente in più occasioni, pur accogliendo alcune innovazioni di derivazione austriaca, come l’idea di far precedere il nuovo codice da alcune disposizioni preliminari di carattere generale. Sul fronte più propriamente politico Mancini, grazie alla propria rete di relazioni, compì nei primi mesi del 1860 un piccolo miracolo, prima recandosi a Bologna per dissuadere la commissione emiliana per l’uniicazione giuridica, nominata dal governo provvisorio, dall’emanare un codice civile che si presentava troppo difforme dai progetti in discussione a Torino, poi trattando con il governo provvisorio toscano la rinuncia alla pregiudiziale sulla riforma del codice civile e penale albertino prima di giungere all’uniicazione, in cambio dell’allargamento a tre rappresentanti toscani della commissione per la riforma dei codici. L’ammorbidimento dei toscani era dovuto alle pressioni su Vincenzo Salvagnoli. Il giurista, che dalle frequentazioni nei convegni degli scienziati conosceva da tempo il ministro Cassinis e Mancini24, alla ine si convinse che solo una rapida uniicazione amministrativa, anche a costo di sacriicare le particolarità locali, era condizione necessaria per ediicare il nuovo regno25. Abbandonata l’ipotesi di mantenere in piedi i codici preunitari in attesa della nuova opera di uniicazione, Mancini riuscì a far accettare al governo sabaudo l’ipotesi di non estendere il codice penale sardo alla Toscana, per conservare l’abolizione della pena di morte nelle province dell’ex granducato26. La deroga toscana costituì la leva su cui negli anni successivi Mancini, Pisanelli, e la parte più liberale del Parlamento fecero leva per introdurre il nuovo codice penale del Regno d’Italia, in cui la pena di morte risultò abolita, anche se furono necessari vent’anni per vincere le resistenze di una parte consistente del mondo politico. La commissione per l’uniicazione dei codici elaborò una bozza in cui Mancini e la parte più innovativa dei giuristi riuscirono ad introdurre il matrimonio civile, pur con qualche attenuazione, l’abolizione dell’autorizzazione maritale e il riconoscimento dei diritti civili agli stranieri senza clausole di 24. Mccr, Mancini, B. 675, f. 22, contiene una corrispondenza fra Salvagnoli a Mancini che inizia dal 1852. 25. Solimano, Il letto di Procuste…, cit., p. 166. 26. Sui progetti di Mancini v. F. Mele, Un codice unico per un’Italia nuova. Il progetto di codice penale di Pasquale Stanislao Mancini, Carocci, Roma 2002. Mancini aveva proposto nella primavera del 1860 un o.d.g. alla Camera, per impegnare il Ministero a promuovere accurati studi sulla legislazione penale e in particolare sulla pena di morte in previsione della futura uniicazione legislativa. Non fu messo ai voti e inì inglobato in un più generico appello di La Farina. Atti Parlamentari, Camera, Leg. VII, Discussioni, 10 maggio 1860. 43 reciprocità con gli stati esteri. Ritardato nell’approvazione dalle resistenze del Senato, il progetto di codice civile di Cassinis non giunse in porto, ad un passo dal traguardo, per la morte improvvisa di Cavour27. L’opera di uniicazione del codice civile fu ripresa da Pisanelli, che nel 1863 presentò una prima bozza di codice al Senato. In quella sede si ripropose la disputa se procedere per una delega di massima al governo oppure al voto articolo per articolo in aula, soluzione auspicata da più di un senatore e avversata da Mancini e dai giuristi. Il Senato alla ine optò per la nomina di una commissione incaricata di esaminare il progetto e in quella sede il testo subì numerose modiiche in senso conservatore nel diritto di famiglia, e per il trattamento degli stranieri fu reintrodotto il principio della reciprocità. La bozza del nuovo codice era ancora in discussione quando nella primavera del 1865 il progetto fu ritirato dal governo, e conluì nella delega complessiva per l’uniicazione amministrativa28. La delega permise di ritornare al progetto originario di Pisanelli per quanto riguardava i diritti degli stranieri. I nuovi principi inirono racchiusi negli articoli 6-12 delle Disposizioni preliminari, in particolare l’art. 6 che recita: “Lo stato e la capacità delle persone, dei rapporti di famiglia, sono regolati dalla legge della nazione a cui esse appartengono” e nell’articolo 3 del libro I, “Lo straniero è ammesso a godere dei diritti civili attribuiti ai cittadini”. Veniva deinitivamente abilito il diritto di albinaggio, o quello che ne restava nella legislazione piemontese. Il codice italiano, nella parte che riguardava gli stranieri, colmava una lacuna del codice civile francese, che pure rimaneva la principale fonte ispiratrice, il quale, come è noto, stabiliva un privilegio a favore dei cittadini francesi all’estero, che potevano essere giudicati secondo la legge francese, ma taceva sui diritti degli stranieri domiciliati in Francia29. Il codice italiano costituiva un’importante proposta per la costruzione di un nuovo diritto internazionale privato, imperniato sull’idea di libertà di movimento delle persone, e su una rilevante sempliicazione, in quanto il riconoscimento della legge nazionale dello straniero, 27. Solimano, Il letto di Procuste…, cit., ricostruisce nei dettagli la vicenda. 28. Come noto il testo del codice civile fu predisposto da una commissione di coordinamento nominata dal governo, e di cui faceva parte Mancini. Processi verbali della Commissione Speciale incaricata con R. Decreto del 2 aprile 1865 al ine di proporre le modiiche di coordinamento nelle disposizioni del codice civile e le relative disposizioni transitorie, Napoli 1867. 29. V. Pappafava, Des vicissitudes du Droit International Privé dans l’histoire de l’umanité, Paris 1884. La Francia con la legge 14 luglio 1819 aveva concesso agli stranieri la facoltà di ereditare beni in Francia. La norma italiana aveva però carattere più generale. 44 permetteva di superare la complessa situazione che il principio di reciprocità imponeva30. Mancini fu incaricato dal governo italiano nel 1867 di contattare i governi di Francia, Confederazione delle Germania del Nord, Belgio per giungere ad un trattato internazionale per rendere comuni le norme sul trattamento degli stranieri, ma le vicende politico diplomatiche seguenti al tentativo di Garibaldi di conquistare Roma e infrantesi a Mentana, interruppero bruscamente le trattative31. L’esempio italiano, ripetutamente citato dagli specialisti, fu in ogni caso imitato dai Paesi Bassi che nel 1869 adottarono una disposizione analoga a quella del nostro codice civile. Nel 1874 alla seconda riunione dell’Institut de Droit International, che si tenne a Ginevra, Mancini, assieme all’olandese Tobias Asser preparò una relazione che affrontava il tema della utilità di rendere obbligatorie per tutti gli stati sotto la forma di uno o di più trattati internazionali alcune regole generali del Diritto Internazionale Privato per assicurare la decisione uniforme dei conlitti tra le differenti legislazioni civili e criminali32. Mancini in quasi 60 pagine evidenziò l’approccio metodologico del suo pensiero riguardo alla risoluzione dei conlitti fra legislazioni, che andava affrontato ricercando regole comuni e chiare, che avrebbero dovuto essere oggetto di un trattato internazionale. La nazionalità era, in questo caso, uno dei capisaldi che permettevano di andare in quella direzione: Un uomo potrebbe cambiare nazionalità, acquistando la naturalità in altro paese ma non potrebbe mantenere la sua nazionalità originaria, e malgrado ciò ripudiare quelle qualità e relazioni domestiche, che sono lo specchio, in cui la propria nazionalità è rilesso, cioè la realtà materiale degli elementi costitutivi della nazionalità. Perciò se un Inglese, un Italiano, un Francese entrando in paesi stranieri, dovessero deporre alla frontiera le qualità, gli attributi ed i diritti della persona civile, che costituiscono la loro nazionalità ed acquistare quelle scritte nelle leggi del paese dove gli 30. P. Esperson, Il principio di nazionalità applicato alle relazioni internazionali e riscontro di esso colle norme di diritto internazionale privato sancite dalla legislazione del Regno d’Italia, Pavia 1868 e L. Palma, Del principio di nazionalità nella moderna società europea. Opera premiata dal R. Istituto Lombardo di Scienze Lettere ed Arti nel concorso scientiico del 1866, Milano 1867. 31. Lo ricorda lo stesso Mancini, Della vocazione del nostro secolo…, cit., p. 211. 32. Istituto di Diritto Internazionale. Sessione di Ginevra 1874, Relazione preliminare intorno la utilità di rendere obbligatorie per tutti gli stati sotto la forma di uno o di più trattati internazionali alcune regole generali del Diritto Internazionale Privato per assicurare la decisione uniforme dei conlitti tra le differenti legislazioni civili e criminali (prove di stampa non rivedute dei professori Mancini ed Asser), s.i.d., s.i.l. Sull’Institut, di cui Mancini fu il primo presidente, v. L. Nuzzo, Disordine politico e ordine giuridico. Iniziative e utopie nel diritto internazionale di ine Ottocento, in «Materiali per una storia della cultura giuridica», 2, 2011, pp. 319-337. 45 affari e le inclinazioni li portano a mettere propria stanza, è evidente in primo luogo che un tal sistema creerebbe spesso fortissimi ostacoli all’esercizio della prima e più necessaria libertà dell’uomo, quella di abitare nella parte della terra, ove più gli aggrada, o dove i propri bisogni lo chiamino, senza essere costretto a comperare codesta libertà al caro prezzo della perdita dei diritti di persona e di famiglia dipendenti dalla propria nazionalità. Inoltre se ciò avvenisse, non sarebbe vero che le varie nazionalità ottengano dagli stati stranieri riconoscimento e rispetto, disconoscendosi il diritto nazionale e gli attributi giuridici delle persone, che hanno quella nazionalità33. Durante la permanenza al Ministero degli esteri Mancini riprese i contatti con i governi europei per organizzare nel settembre del 1884 a Roma una “Conferenza internazionale per la riforma e la codiicazione del diritto delle genti”, che si doveva occupare del riconoscimento delle sentenze civili emesse da tribunali stranieri, ma l’epidemia di colera costrinse ad annullare la conferenza34. La Conferenza Internazionale dell’Aja sul diritto internazionale privato, riunitasi per la prima volta nel 1893 su iniziativa di Asser, coronò dopo la sua morte il sogno di Mancini di giungere a dei trattati internazionali che regolassero i conlitti di legge fra gli stati in materia di diritto privato, in Europa. Proprio a seguito della drastica sempliicazione nel trattamento degli stranieri introdotta dallo stato italiano si era affermato un regime sostanzialmente di libera circolazione delle persone. All’interno dei paesi Europei era consentito muoversi, stabilirsi, intrattenere rapporti commerciali, acquistare e vendere beni immobili, contrarre matrimonio e fare testamento, con la ragionevole certezza di poter godere dei medesimi diritti civili dei nazionali e di mantenere, salvo espressione di volontà diversa, una sfera di diritti personali propria del paese di origine. 33. Istituto di Diritto Internazionale. Relazione preliminare intorno la utilità…, cit., p. 43. 34. Mccr, Mancini, B. 645 contiene la corrispondenza relativa. Ne dà cenno Nadelmann, Mancini’s Nationality Rule…, cit. 46 Pedagogie della nuova cittadinanza. L’avvio dell’esperienza accademica e parlamentare di Augusto Pierantoni (1865-1883) Alessandro Breccia Felici i nostri tempi nei quali la scienza è cittadina, popolare, nazionale, propagatrice di quelle idee civili, che il guerriero difende in battaglia. Beati coloro che dopo aver combattuto con la forza delle idee, potranno combattere con quella delle armi! In questa schiera di cittadini, allontanandomi dal tempio della scienza, io vado a cercar posto. Ieri insegnante, oggi soldato, fra breve tempo o vincitore o estinto1. L’enfatica esclamazione, rivolta da Augusto Pierantoni agli studenti della Facoltà di giurisprudenza di Modena poco prima di arruolarsi come volontario nella terza guerra d’indipendenza, risale all’anno accademico 18651866, quando prese avvio la sua più che quarantennale2 carriera accademica, trascorsa nelle cattedre di Diritto internazionale e costituzionale della città emiliana, poi di Napoli e inine della Sapienza di Roma3. In quell’occasione, Pierantoni, ben noto per aver già combattuto nella campagna garibaldina del 1860, enunciava l’esistenza di un’assoluta, quasi naturale, continuità tra il ruolo di «insegnante» e quello di «soldato», tra l’attività scientiica e di apprendimento, da una parte, e il sacriicio per la patria, dall’altra. Al di là dell’enfasi patriottica, si poteva percepire la volontà di postulare una diretta connessione, ben più estesa e profonda, tra la missione pubblica dell’istituzione universitaria e la vita politica nazionale. 1. A. Pierantoni, Il progresso del diritto pubblico e delle genti. Introduzione allo studio del diritto costituzionale ed internazionale, Zanichelli, Modena 1866, p. 136. 2. Cfr. Augusto Pierantoni nell’anno XL dell’insegnamento universitario. Omaggio degli amici e ammiratori, 20 maggio 1906, Coop. Tip. Manuzio, Roma 1906. 3. Per una sintetica, ma puntuale, osservazione dei momenti principali della vita di Augusto Pierantoni si rinvia alla recente voce del Dizionario biograico degli italiani (E. Mura, Pierantoni Augusto Francescopaolo, in Dizionario Biograico degli Italiani, vol. LXXXIII, Treccani, Roma 2015, ad vocem). Non sono stati invece inora realizzati studi sistematici dedicati ai molteplici aspetti dell’impegno pubblico di Augusto Pierantoni. 47 L’esclamazione di Pierantoni trovò ospitalità in un volume dalla chiara inalità didattica, una Introduzione allo studio del diritto costituzionale ed internazionale, che a sua volta avrebbe inaugurato una nutrita serie di fortunate pubblicazioni dello stesso autore, funzionali anzitutto allo studio di base e alla divulgazione della scienza giuridica internazionale, nonché di quella costituzionale. La lettura dell’opera, sulla quale si ritornerà a breve, permetteva di cogliere in maniera particolarmente felice alcuni tratti distintivi di una igura di “giurista-politico”, per molti versi paradigmatica, che costruì il proprio proilo pubblico proprio a partire dalla propria condizione di professore-combattente volontario4. La variegata esperienza pubblica di Augusto Pierantoni, prestigioso docente, pubblicista scientiico, protagonista dell’elaborazione e della sperimentazione dei nuovi ordinamenti internazionali, ma anche avvocato di Cassazione, deputato e poi a lungo senatore, si sviluppò all’interno di una stagione storica, quella compresa tra l’ultimo terzo del XIX secolo e la Prima guerra mondiale, durante la quale gli “uomini di legge” inluenzarono potentemente il dibattito politico e quello lato sensu culturale, partecipando pienamente alle complesse vicende parlamentari dell’Italia post-risorgimentale5. Fra di loro, un contributo importante provenne da chi perseguiva l’esigenza di rideinire il “programma liberale”, di fronte alle incombenti side politico-sociali e nel contesto di una monarchia costituzionale ancora alla ricerca di solidi fattori di legittimazione. Pierantoni, in particolare, si sarebbe collocato al ianco di coloro che caldeggiavano evoluzioni di segno “progressista”, all’insegna di un concetto estensivo, e sempre più inclusivo, di libertà e di cittadinanza6. Aderendo pienamente alla visione maturata dal maestro Pasquale Stanislao Mancini7, uno dei terreni privilegiati in cui si mosse fu quello delimitato dalla prospettiva di affermare un sistema extra-nazionale di regole 4. Che non si trattasse di un caso isolato lo dimostra ad esempio la parabola di un altro docente di diritto costituzionale, Pier Carlo Boggio, biografo di Garibaldi e come Pierantoni avvocato, che morì volontario a Lissa (cfr. L. Borsi, Storia nazione costituzione. Palma e i “preorlandiani”, Giuffrè, Milano 2007, pp. 305-306). 5. Come ha fatto notare Pasquale Beneduce, a partire dagli anni Settanta i “giuristi” cominciarono ad avvertire con maggiore sistematicità il loro ruolo di «funzionari pubblici», tanto da essere protagonisti di una sorta di «conversione agli apparati ideologici dello stato liberale» (P. Beneduce, Il corpo eloquente. Identiicazione del giurista nell’Italia liberale, il Mulino, Bologna 1996, pp. 108 ss.). 6. Si vedano le suggestioni, ancora imprescindibili, fornite in tal senso dai contributi ospitati in A. Mazzacane (a cura di), I giuristi e la crisi dello Stato liberale fra Otto e Novecento, Liguori, Napoli 1986. 7. Per la bibliograia su Mancini e la sua “scuola” si rimanda al saggio di Alessandro Polsi ospitato dal presente volume. 48 e di diritti sempre più ampio e codiicato, da considerarsi come la naturale proiezione delle tutele attribuite all’individuo. In estrema sintesi, a guidarlo era la convinta adesione ad una generale battaglia di civiltà e di “progresso” che tracciava una linea di continuità tra il processo di emancipazione nazionale, la conquista e l’ampliamento dei diritti di ciascun cittadino e, inine, l’ediicazione di un apparato di norme volto a consentire una paciica convivenza tra ordinamenti statuali8. Università e politica: Il progresso del diritto pubblico e delle genti Augusto Pierantoni consacrò la propria opera scientiica in primo luogo all’elaborazione del nascente diritto internazionale, di cui fu concreto promotore nei congressi dell’Institut de droit international9, ma anche nelle aule parlamentari, nell’esercizio del ruolo di membro del consiglio del contenzioso diplomatico, inine nell’ambito dei consessi istituzionali ove fu inviato a rappresentare il regno d’Italia10. Al contempo, la didattica e la divulgazione restarono centrali, come testimoniavano i ricordati volumi destinati agli studenti universitari11. L’osmosi tra attività accademica e azione politica 8. Per il ruolo giocato da Pierantoni nella storia dell’ediicazione del diritto internazionale ci si limita a rimandare a L. Nuzzo, Origini di una Scienza. Diritto internazionale e colonialismo nel XIX secolo, Klostermann, Frankfurt am Main 2012, pp. 86-168 e a M. Koskenniemi, Il mite civilizzatore delle nazioni. Ascesa e caduta del diritto internazionale 1870-1960, Laterza, Roma-Bari 2012. Alcune utili indicazioni anche nel recente C. Bersani, Il diritto internazionale nella Facoltà romana di giurisprudenza e in età liberale attraverso il genere del «discorso», in M. Caravale, F.L. Sigismondi (a cura di), La facoltà giuridica romana in età liberale. Prolusioni e discorsi inaugurali, Jovene, Napoli 2014, pp. 1-22: 7-11. 9. Com’è noto, nel 1873 Pierantoni fu tra i fondatori dell’Institut di Gand. Per una ricostruzione in chiave autobiograica si veda A. Pierantoni, La riforma del diritto delle genti e l’Istituto di diritto internazionale di Gand, in D. Dudley Field, Prime linee di un codice internazionale, trad. di A. Pierantoni, Jovene, Napoli 1874, pp. 1-84. 10. Cfr. Mura, Pierantoni…, cit. Alcune informazioni anche in E. Fiocchi Malaspina, La giustizia internazionale e le leggi della guerra: l’impegno della famiglia Mancini Pierantoni per il diritto internazionale umanitario, in «Chronica Mundi», 6-8, 1-3, 2013, pp. 176-204. 11. «Con parecchie pubblicazioni volli aiutare i vostri studii», ricordava agli studenti romani nel 1907 (A. Pierantoni, La giustizia internazionale e le leggi della Guerra (1899): Il manifesto della seconda conferenza dell’Aja (1907), Tip. Manuzio, Roma 1907, p. VI). Di seguito un elenco, probabilmente non del tutto esaustivo, della consistente messe di testi espressamente inalizzati in primis a compiti didattici: A. Pierantoni, Storia degli studi del diritto internazionale in Italia, Tip. Vincenzi, Modena 1869 (nuova edizione: Casa ed. Cammelli, Firenze 1902), Id., Trattato di diritto costituzionale, Marghieri, Napoli 1873, Id., La riforma del diritto delle genti e l’Istituto di diritto internazionale di Gand, cit., Id., Storia del diritto internazionale nel secolo XIX, Marghieri, Napoli 1876, Id., Trattato di diritto internazionale, Tip. Forzani, Roma 1881, Id., I progressi del diritto internazionale nel secolo XIX, 49 può dunque essere considerata un’importante chiave di lettura dell’itinerario pubblico da lui compiuto. Un simile percorso individuale, pare utile ribadirlo, prese avvio poco dopo l’avvento del regno d’Italia; Pierantoni appartenne al ceto dirigente formatosi all’indomani dell’Unità, ovviamente in stretta relazione con le inedite condizioni istituzionali, culturali e politiche venutesi a creare con il cambio di regime. Fece parte della nuova generazione di docenti chiamati ad insegnare negli atenei italiani nei primissimi anni della storia post-unitaria, quando si procedette alla ediicazione del sistema universitario del nuovo stato, rinnovando – almeno in parte – il personale accademico e i contenuti scientiicodidattici. Tale rinnovamento, come ha ben illustrato Ilaria Porciani, fu accompagnato dall’insistito richiamo ad un generale ilo conduttore riconosciuto quasi unanimemente come fondativo, che avrebbe dovuto legare in maniera indissolubile l’università alla missione di propagare la «scienza nazionale». Nelle cerimonie uficiali e in molte aule universitarie, ma anche nel dibattito parlamentare, si reiterarono i riferimenti alla peculiare missione pubblica della comunità accademica, che immediatamente era stata eretta a pilastro della visione politico-istituzionale elaborata dalla classe dirigente liberale12. Il disegno di decisa politicizzazione dell’istituzione universitaria interessò pienamente gli studi del diritto internazionale, di fatto banditi dagli stati pre-unitari e, al contrario, elevati a bandiera di libertà e patriottico incivilimento nel regno di Sardegna post-quarantottesco con la ben nota chiamata – nel 1851 – dell’esule Pasquale Stanislao Mancini13. In effetti, la riforma dell’ordinamento della facoltà di giurisprudenza, decisa nel 1865, potenziò la disciplina, rendendola obbligatoria per tutti gli iscritti ed elevandone il ciclo di lezioni a due anni: ino ad allora il corso di diritto internazionale aveva avuto durata annuale ed era stato obbligatorio solo per i giovani che aspiravano alla «laurea politico-amministrativa». Come ricordava con Tip. Pallotta, Roma 1899, Id., Appunti di diritto internazionale, Lit. Casetti, Roma 1900, P.S. Mancini, A. Pierantoni, Diritto internazionale, Un. Tip. Manuzio, Roma 1905, A. Pierantoni, Il diritto civile e la procedura internazionale codiicati nelle convenzioni dell’Aja. Storia della riforma, lavori preparatori, progetti, Jovene, Napoli 1906. Alcune informazioni sulla manualistica giuridica del tempo anche in V. Trombetta, I libri per la gioventù studiosa: manuali e testi universitari a Napoli dall’Unità al Novecento, in G.P. Brizzi, M.G. Tavoni (a cura di), Dalla pecia all’e-book. Libri per l’Università: stampa, editoria, circolazione e lettura. Atti del convegno internazionale di studi (Bologna, 21-25 ottobre 2008), Cisui, Bologna 2009, pp. 529-540: 535. 12. I. Porciani (a cura di), Università e scienza nazionale, Jovene, Napoli 2001. 13. G.S. Pene Vidari, La prolusione di Pasquale Stanislao Mancini sul principio di nazionalità (Torino 1851), in G. Cazzetta (a cura di), Retoriche dei giuristi e costruzione dell’identità nazionale, il Mulino, Bologna 2013, pp. 117-134. 50 compiacimento lo stesso Pierantoni, il nuovo «Regolamento della Facoltà di giurisprudenza», pubblicato l’8 ottobre 1865, portò pure la durata del «corso d’insegnamento legale» a cinque anni14. Inine, forse proprio in conseguenza di questa scelta, nel primo ventennio di storia del regno d’Italia il diritto delle genti fu, di fatto, la disciplina giuridica più valorizzata, se si guarda al numero di concorsi banditi dal ministero15. Si consolidava, anche approittando di queste favorevoli condizioni, la «scuola italiana di diritto internazionale»16. Il “garibaldino” Pierantoni non poteva che riconoscersi nel mandato afidato all’istituzione universitaria, proponendosi come il prototipo del «nuovo insegnante in libero paese, dove conviene render conto dell’adempimento del proprio uficio non soltanto al governo nazionale, ma pure alla sapienza della pubblica opinione»17. Cosciente della vocazione patriottica conferita al proprio ruolo di docente, si presentava come il contraltare di molti colleghi delle generazioni precedenti, «i quali abbracciarono umilmente le ginocchia dello straniero e vissero addomesticati con le cessate tirannidi» «nei tempi delle dittature scientiiche». La nuova «scienza nazionale», pur possedendo una chiara funzione di legittimazione dell’ordine costituito, doveva quindi al contempo sfoggiare come proprie cifre distintive l’autonomia dell’indagine e il riiuto di ogni oscurantismo. La «conquistata libertà», rilevava sempre Pierantoni, aveva aperto le università ad una «nuova coltura», che – tra l’altro – garantiva «più razionale ripartizione e maggiore importanza alle scienze sociali»18. Nel rivendicare il peso cruciale delle «scienze sociali» per l’ediicazione di una società più avanzata e giusta faceva afiorare con evidenza le afinità di approccio con alcune importanti iniziative associative coeve di matrice liberale – si pensi alla britannica National association for the promotion of social science e alla francese Association nationale pour 14. S. Polenghi, La politica universitaria italiana nell’età della destra storica (18481876), La Scuola, Brescia 1993 e Pierantoni, Il progresso del diritto pubblico…, cit., pp. 137-138. 15. Si vedano le preziose rilevazioni effettuate da Fulco Lanchester, che mettono in luce come nel periodo considerato fossero stati banditi sette concorsi per diritto internazionale, contro i soli quattro per tutte «le materie strettamente pubblicistiche» (F. Lanchester, Pensare lo Stato, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 192). 16. Sulla nascita di una scuola italiana di diritto internazionale, assecondata dalle scelte di reclutamento dei governi, paiono interessanti le considerazioni che vennero esposte da Franz von Holtzendorff (F. Von Holtzendorff, Il principio di nazionalità e la letteratura italiana del diritto delle genti. A proposito dell’opera di Augusto Pierantoni Storia degli studi del diritto internazionale in Italia, Civelli, Firenze 1870). 17. Pierantoni, Il progresso del diritto pubblico…, cit., p. III. 18. Pierantoni, Il progresso del diritto pubblico…, cit., p. 2. 51 le progrès des sciences sociales – fondate dai pionieri del nuovo diritto internazionale europeo con il prioritario intento di «fornire una base secolare e scientiica per una politica liberale non più associata al razionalismo del primo Illuminismo o all’utilitarismo deduzionista»19. Tra le scienze sociali, proseguiva ancora il docente, «la ragione internazionale, tanto pubblica quanto privata, è scienza degna ed indispensabile per un popolo libero e grande»20, mentre la prospettiva di erigere un apparato di norme volte a disciplinare le relazioni tra gli uomini su scala sovra-statuale era resa inalmente plausibile dall’imporsi della nazionalità, «principio civilizzatore». Nel solco della lezione manciniana, l’impianto teorico alla base della sua analisi si condensava nel richiamo ad una ormai inarrestabile «legge di progresso, secondo la quale l’individuo dalla monade famigliare passa gradatamente per quella nazionale, affine di giungere al concetto di umanità, essendo la nazionalità condizione necessaria della pacifica distribuzione della specie umana sulla terra»21. Ne discendeva che la nazionalità avrebbe giocato da «principio civilizzatore» anche con riferimento ai conlitti armati, poiché «poggiando il diritto pubblico internazionale e costituzionale sul principio di nazionalità si ottiene l’accordo della scienza militare con la scienza sociale, si concilia 1’etica politica del soldato con l’etica dei doveri militari del cittadino, onde si fa l’arte della guerra non più ambiziosa, irrequieta e conquistatrice, ma deputata a mantenere i santissimi diritti delle genti»22. Il beneico impulso del principio di autodeterminazione nazionale si estendeva al godimento dei diritti civili, che potevano essere inalmente oggetto di una tutela universale motivata dalla «comune natura umana». Tali diritti erano destinati a diventare «patrimonio dell’umanità […] senza alcuna distinzione tra straniero e nazionale», mentre «l’esercizio dei diritti politici» sarebbe «spetta[to] esclusivamente al cittadino obbligato alla conservazione dell’autonomia nazionale, salvo le eccezioni d’incapacità ed il beneficio della naturalità, che […] permettono l’operosità politica al forestiero»23. Anche in questo passaggio era esplicita la connessione con fatti molto recenti, come lo storico passo da poco compiuto dall’Italia con la formulazione degli articoli 6, 7, e 8 delle disposizioni preliminari del codice civile del regno. Le norme in questione – com’è noto – abolivano il vincolo della reciprocità cir19. Koskenniemi, Il mite civilizzatore…, cit., pp. 16-18. 20. Pierantoni, Il progresso del diritto pubblico…, cit., p. 3. 21. Pierantoni, Il progresso del diritto pubblico…, cit., p. 38. 22. Pierantoni, Il progresso del diritto pubblico…, cit., p. 25. 23. Pierantoni, Il progresso del diritto pubblico…, cit., p. 35. 52 ca «lo stato e la capacità delle persone ed i rapporti di famiglia» e gli atti di disposizione dei beni mobili, ridimensionando quello della territorialità pure per quelli immobili, in caso di successione, attraverso il rinvio alla «legge nazionale della persona». Nella parte conclusiva, le considerazioni ospitate da Il progresso del diritto pubblico e delle genti facevano deinitivamente del volume un manifesto della visione del Pierantoni – politico. La «moderna scienza sociale», di cui si ergeva ad esegeta, poggiava sulla rivendicazione dell’esistenza di un «nesso indissolubile tra il diritto pubblico esterno e quello interno, sanzionando il primo l’accordo della libertà degl’individui, il secondo l’accordo della libertà delle nazioni formate da individui uniti per elementi dell’umana e della fisica natura»24. Augusto Pierantoni intendeva dunque produrre la propria azione pubblica entro la duplice linea d’indirizzo così enunciata, orientata a realizzare un coerente modello di società, di stato e, inine, di “comunità internazionale”, alimentato da una gamma di libertà e di diritti sempre più ampia, esaustiva e generalizzata. All’interno dei conini nazionali, il paradigma centrale era quello del «governo costituzionale», chiamato a presidiare «la libertà individuale, la religiosa, quella d’insegnamento, di stampa, la municipale, la libertà d’associazione, di riunione ed altre […] fondamento del self government»25. Un simile presupposto ridimensionava ulteriori prerogative, a partire da quelle attribuibili ai monarchi: «i re sono fatti per i popoli e non i popoli pei re», dichiarava Pierantoni, dal momento che «lo Stato è mezzo e non ine per l’individuo». Parallelamente, il proilarsi di una «fratellevole comunione degli Stati va fermando il nuovo giure internazionale sul diritto certo e naturale dei popoli e non su quello astioso ed innaturale dei principi»26. Di conseguenza, sempre nei primi corsi universitari a lui afidati, Pierantoni avrebbe concesso spazio all’analisi del valore costitutivo della «sovranità popolare», spingendosi sino a proporre interessanti rilessioni sull’«eguaglianza politica delle donne»27. Si soffermava poi sulle «Prerogative del re per l’amministrazione esterna ed interna dello Stato», che a suo avviso non potevano essere estese sino a negare «il diritto di resistenza popolare»: «Il privilegio di cui gode il re non può compromettere la libertà della nazione», argomen24. Pierantoni, Il progresso del diritto pubblico…, cit., p. 47. 25. Pierantoni, Il progresso del diritto pubblico…, cit., p. 134. 26. Pierantoni, Il progresso del diritto pubblico…, cit., p. 135. 27. Si vedano gli appunti di alcune lezioni tenute da Pierantoni a Modena, custoditi presso l’Archivio del Museo Centrale del Risorgimento di Roma (d’ora in avanti Amcrr). Come attestano tali manoscritti, il 10 e il 12 gennaio 1866 Pierantoni si occupò «dell’eguaglianza politica delle donne» (Amcrr, Fondo Augusto Pierantoni, b. 777, f. 5, ins. 1). 53 tava rifacendosi all’antica tradizione britannica e alle più recenti disposizioni della carta francese del 183028. Il costrutto teorico che stabiliva un’indissolubile contiguità tra la difesa e la promozione delle libertà nel diritto pubblico interno e in quello internazionale non fu mai abbandonato. Augusto Pierantoni si sarebbe sempre mosso sulle differenti scene pubbliche alle quali ebbe accesso per ottenerne una concreta traduzione politica e istituzionale. Continuando a fermare lo sguardo sugli anni iniziali della sua carriera pubblica, è possibile individuare alcuni passaggi che restituiscono in maniera particolarmente eficace quali canali e quali contenuti facilitarono la sua deinitiva affermazione all’interno del panorama politico del regno. Pedagogie e processi politici: Pierantoni avvocato Come si è potuto constatare, già nel 1866 era possibile cogliere come l’attività scientiico-accademica e gli altri momenti dell’impegno pubblico di Augusto Pierantoni fossero orientati nella medesima direzione, consentendogli di misurarsi – da prospettive diverse e in ambiti distinti – con il dibattito politico nazionale adottando posizioni sempre meglio riconoscibili. Alla vigilia del conferimento del corso modenese, nel 1865, Pierantoni diede alle stampe il suo primo volume, che rappresentava un ideale ponte tra la dimensione dell’elaborazione dottrinaria e quella del confronto politico. Signiicativamente, il volume era dedicato ad una questione di scottante attualità, l’opportunità o meno di contemplare la pena capitale nella legislazione del regno. Secondo l’autore, che aveva illustrato le proprie idee in una serie di articoli pubblicati da «Il diritto» ora riuniti in quel testo, l’unica soluzione possibile – nello stato sorto dal «progressivo» processo di emancipazione nazionale – era l’abolizione, così come previsto dalla proposta di legge presentata alla Camera da Mancini. Nell’argomentare, faceva riferimento alla tradizione di «Beccaria, del Romagnosi, del Carmignani, del Rossi»29, ma non si fermava ai rimandi di natura teorico-concettuale. Allo scopo di «ritogliere dalla società qualche vieto pregiudizio e di ricordare 28. Gli appunti in questo caso risalgono al periodo immediatamente successivo al ritorno dal fronte (gennaio-marzo 1867). Cfr. Amcrr, Fondo Augusto Pierantoni, b. 777, f. 5, ins. 3. Per una ricostruzione del pensiero costituzionale di Pierantoni, e in particolare della sua personale declinazione del «diritto di resistenza» si rinvia a Borsi, Stato, nazione, costituzione…, cit., pp. 321-328. 29. A. Pierantoni, Dell’abolizione della pena di morte, Tip. del «Diritto», Torino 1865, p. 9. 54 le prepotenti ragioni del progresso e del buon senso naturale», esponeva un’analisi di ampio respiro sulla situazione della penisola, enucleando side e problemi sollevati dal processo di uniicazione. Da segnalare, l’esame documentato e circostanziato del fenomeno del brigantaggio, a partire dal sostrato di miseria sociale che lo favoriva, volta da un lato a smentire chi sosteneva la necessità della pena capitale per contrastarlo e dall’altro a descrivere le pesanti responsabilità politiche e morali della Chiesa e dei borbonici30. L’“esordio” pubblicistico, e sulle pagine del giornale, denotava in deinitiva la volontà di non sottrarsi alla quotidiana dialettica politica, partendo da questioni “di diritto” per allargare l’orizzonte ai nodi di fondo dell’età della Destra storica. La pubblica discussione sulla pena di morte era solo uno dei molteplici terreni di scontro all’interno della comunità politica circa la maggiore o minore portata dell’aflato di libertà rivendicato dall’intero gruppo dirigente. Più in generale, le più alte questioni di principio inerenti la tutela dei diritti personali e di libertà spesso venivano sollevate, nei medesimi anni, anche nelle aule dei tribunali. Sempre nella scia di Mancini, di cui fu discepolo pure da avvocato, Pierantoni si sarebbe pure distinto per una intensa attività professionale, alla quale presto impresse un forte segno politico. Di nuovo, la partecipazione ai processi contribuì a conferire visibilità alla sua igura in virtù della speciale attenzione che la stampa tributava ai dibattimenti. Un accurato ilone di studi ha dimostrato come in età post-unitaria i processi, e la loro rappresentazione giornalistico-letteraria, si sarebbero progressivamente rivelati un potente canale di comunicazione politica31. Una rapida ricognizione dei procedimenti penali ai quali Pierantoni partecipò in veste di avvocato difensore tra il 1866 e il 1870 fa emergere alcuni casi dotati di notevole riverbero politico. Sia suficiente ricordare che nel novembre 1868 difese i giovani iorentini processati per aver commemorato nel cimitero di San Miniato i caduti di Mentana, mentre nel 1869 fu protagonista dell’infuocato processo intentato contro il maggiore garibaldino Cristiano Lobbia, vera e propria cartina di tornasole della «dificile uscita dal Risorgimento» dell’intero gruppo dirigente post-unitario32. Nel 1870, inine, aderì fattivamente alla campagna diretta a scongiurare la condanna a morte del mazziniano Pietro Barsanti, indirizzando all’avvocato Curti 30. Pierantoni, Dell’abolizione…, cit., pp. 38-58. 31. Sia suficiente rinviare a F. Colao, L. Lacchè, C. Storti (a cura di), Processo penale e opinione pubblica in Italia tra Otto e Novecento, il Mulino, Bologna 2008. 32. A. Arisi Rota, 1869: il Risorgimento alla deriva. Affari e politica nel caso Lobbia, il Mulino, Bologna 2015. In particolare, per il contributo di Pierantoni, cfr. pp. 170 ss. 55 una memoria circa la «Competenza dei giurì nei fatti imputati ai militari in Pavia e Piacenza». Il testo in questione mirava a dimostrare l’incompetenza del tribunale militare in presenza di una violazione di carattere eminentemente politico, come quella compiuta dagli imputati, anche se appartenenti all’esercito33. Il senso generale che accomunava tali esperienze processuali era chiaro: Pierantoni si impegnava per una declinazione più garantista della legislazione e contro ogni restringimento delle libertà individuali, in special modo se determinato da un sostanziale disegno di repressione politica condotto dall’autorità giudiziaria e dal governo34. Una visione ribadita con forza nel corso degli anni, ino a conoscere una possibile sistematizzazione ne La costituzione e la legge marziale, edito nel caldissimo anno 1894 con l’obiettivo di denunciare il tentativo crispino di manomettere gli equilibri e le garanzie del sistema costituzionale35. A più riprese pertanto ostentò la sua collocazione nel campo liberal-progressista, mantenendo un atteggiamento di apertura e di dialogo con tutto l’ampio spettro del mondo ex-garibaldino e democratico, ino ad alcuni settori del mazzinianesimo. Anche in questo modo, attraverso l’incrocio tra attività accademica e forense, avrebbe costruito le condizioni per proporsi come candidato alla Camera, dove giunse dopo le elezioni del novembre 1874, a poca distanza dall’apertura della stagione della Sinistra storica di Depretis. Già nel 1870, nel sottoscriverne pubblicamente la candidatura per il collegio di Santa Maria Capua Vetere, «alcuni amici» condensavano in una sintetica formula la sua biograia, esaltandone la «svariata vita di amministratore, scienziato, soldato della libertà e difensore»36. Analogamente a quanto era accaduto con il suo ingresso nell’accademia, Pierantoni si trovò ad essere esponente di una nuova generazione di deputati, la cui storia parlamentare cominciava proprio allora, accentuando il senso di una reale cesura politica e culturale rispetto all’età della Destra. 33. A. Pierantoni, Competenza dei giurì nei fatti imputati ai militari in Pavia e Piacenza, Tip. Amalia Bettoni, Milano 1870. 34. Cfr. M. Sbriccoli, Dissenso politico e diritto penale in Italia tra Otto e Novecento. Il problema dei reati politici dal «Programma» di Carrara al «Trattato» di Manzini, in «Quaderni iorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 1973, 2, pp. 607-702: 632 ss. 35. A. Pierantoni, La costituzione e la legge marziale, Tip. dell’Unione cooperativa editrice, Roma 1894. 36. Cenno biograico di Augusto Pierantoni. Agli elettori del collegio di Santa Maria di Capua Vetere, s.l., s. d. (ma 1870), in Amcrr, Fondo Augusto Pierantoni, b. 771, f. 24, ins. 4. 56 I conini della cittadinanza: l’applicazione delle leggi straniere e la commissione per l’estradizione Tra i temi ai quali Augusto Pierantoni si dedicò in maniera ricorrente, da studioso, da parlamentare e nell’esercizio dell’avvocatura, igurarono certamente la disciplina della condizione giuridica del cittadino straniero e la deinizione della sfera di applicazione delle leggi di altri stati sul territorio italiano. L’auspicato avvento di una nuova fase delle relazioni interstatuali all’insegna di una maggiore apertura transnazionale doveva portare con sé più estese libertà per gli individui, indipendentemente dalla loro nazionalità, ino a fare echeggiare, sullo sfondo, l’ideale di una cittadinanza “universale” da tutelare e regolare. Nelle differenti vesti in cui operò, Pierantoni si fece fautore della necessità di ridiscutere l’estensione del principio di territorialità e gli equilibri tra le leggi nazionali, perseguendo l’obiettivo di ridurre molte restrizioni delle prerogative e dei diritti individuali patite dai cittadini di diversa nazionalità presenti all’interno del regno d’Italia. Il deciso sostegno conferito alle citate disposizioni preliminari del nuovo codice civile lo testimoniava, così come l’approfondita elaborazione dottrinaria condotta in dai primi anni del suo magistero, che lo portò a formalizzare – nei primi anni Ottanta – l’evocativa «proposta di un codice dei codici»37. Un simile strumento, la cui asserita funzionalità procedurale si combinava ad un manifesto signiicato simbolico, avrebbe dovuto consentire ai magistrati di applicare correttamente le «leggi straniere» nei procedimenti civili in presenza di attori non italiani. Si sarebbe così garantita la piena effettività dello «statuto personale dello straniero oltre i conini della patria, come ricognizione legislativa della personalità umana», dando coerenza all’obbligo – stabilito dall’ordinamento del regno sabaudo – di applicare la legge altrui38. In un ambito deinito, ma importante, quello dei diritti e della capacità civile e “patrimoniale” della persona, si attribuiva una reale parità di dignità alle differenti normative, anche se di natura consuetudinaria come accadeva tra «i popoli semibarbari», di recente entrati nel «consorzio 37. Per un inquadramento generale dell’elaborazione dottrinaria di Augusto Pierantoni in materia si rimanda a C. Storti Storchi, Ricerche sulla condizione giuridica dello straniero in Italia: aspetti civilistici, Giuffrè, Milano 1990. 38. Cfr. A. Pierantoni, Delle prove in giudizio delle leggi straniere. Proposta di un codice dei codici, in «Rassegna di diritto commerciale italiano e straniero», 1883, poi ristampato in un ennesimo volume dal chiaro intento didattico, Pierantoni, Il diritto civile e la procedura internazionale..., cit., pp. 309-351: pp. 314 ss. 57 giuridico degli Stati»39. A rendere a suo avviso indefettibile l’introduzione di una simile innovazione era l’epocale processo storico di «rinnovamento legislativo» e di «trasformazioni politiche» avvenuto «dal 1859 al 1878», sostenuto dalla «risurrezione dell’Italia, [da]l «rinnovamento politico della Germania […] [dal] grande fatto dell’emigrazione, [dal]l’apertura di molte parti dell’Oriente al commercio dell’Occidente, [da]l rinnovamento del sistema coloniale»40. L’apparato teorico qui ricordato solo per cenni, messo a punto adottando una persistente interlocuzione con la comunità scientiica internazionale nell’alveo dell’Institut de droit international, sarebbe stato poi messo alla prova da Pierantoni nell’esercizio dell’attività forense, che lo vide di nuovo coinvolto in processi di grande notorietà, uno su tutti il celebre caso sollevato dalle divergenze circa la legge di successione da applicare al defunto «possidente» Caid Nissim Samama, «ebreo di nascita, suddito tunisino»41. Anche da parlamentare, Pierantoni non mancò di sostenere le proprie convinzioni a riguardo del trattamento da riconoscere ai cittadini stranieri, allargando lo sguardo alla materia penale. Fin dalle prime battute del suo mandato di deputato scelse di segnalarsi con riguardo ad una questione densa di rimandi politici e allora di grande attualità, come quella dell’estradizione. Nel novembre 1877, la discussione sull’abolizione della pena di morte, prevista dal progetto di codice penale presentato dal ministro Mancini, fece registrare l’intervento del docente, che propose di inserire «ne’ trattati d’estradizione […] una clausola in forza della quale gl’imputati di reati pe’ quali è comminata da’ Codici esteri la pena capitale non vengan consegnati allo Stato che li reclama se non con la promessa che non saranno giustiziati»42. La «proposta Pierantoni» – così la ribattezzava «Il Corriere della Sera» in un velenoso articolo – godette di forte visibilità in virtù delle accese critiche provenienti da molti avversari della maggioranza. «Se gli Stati esteri non vorranno, com’è certo, assumere l’impegno […], come faremo noi?», chiosava il quotidiano milanese riassumendone le argomentazioni, «Faremo del nostro paese un luogo d’asilo per tutti gli assassini del mondo?»43. 39. Pierantoni, Delle prove in giudizio delle leggi straniere…, cit., pp. 319-320. 40. Pierantoni, Delle prove in giudizio delle leggi straniere…, cit., p. 319. 41. Pierantoni, Delle prove in giudizio delle leggi straniere…, cit., pp. 323 ss.; Corte d’Appello di Lucca, Causa Samama Governo di Tunisi e Samama. Sentenza dell’8 maggio 1880, Tip. Zecchini, Livorno 1880; S. Tonolo, L’Italia e il resto del mondo nel pensiero di Pasquale Stanislao Mancini, in «Cuadernos de Derecho Transnacional», 2011, 2, pp. 178192: 187-190. 42. La proposta Pierantoni, in «Il Corriere della Sera», 30 novembre 1877, p. 1. 43. Ibid. 58 Ovviamente, il punto di vista di Augusto Pierantoni era diametralmente opposto, e combinava il generale ripudio della pena capitale all’esigenza di una complessiva revisione della normativa sull’istituto dell’estradizione, resa impellente – ancora una volta – dal mutato contesto giuridico internazionale e dagli sforzi compiuti dai legislatori di importanti paesi. Da quel momento, in effetti, anche in virtù dell’iniziativa proveniente da Mancini e Pierantoni, presso alcuni circuiti politici ed accademici vicini al governo si ritennero ormai maturi i tempi per il varo di una prima legge italiana in materia, che superasse quanto prescritto dal codice penale sabaudo. Come avrebbe spiegato la «Gazzetta piemontese», non era più compatibile con i principi fondamentali dell’ordinamento del regno che la facoltà di concedere l’estradizione rimanesse sostanzialmente in capo ad un’autorità politica, il governo. Il ricorso allo strumento della legge si conigurava come un atto volto ad adeguare il sistema alle più avanzate esigenze di tutela del cittadino straniero, e al contempo si inseriva nella battaglia condotta da molti liberali “progressisti” al ine di «determinare con tutto il rigore possibile l’azione del potere esecutivo»44. Sarebbe stato proprio Pasquale Stanislao Mancini, da ministro degli esteri, a formare una prestigiosa commissione chiamata a redigere il progetto di legge, della quale facevano parte autorevoli accademici, magistrati ed avvocati. A presiederla fu Francesco Crispi, mentre tra i commissari igurava Augusto Pierantoni45. Una pur sintetica analisi dei lavori della commissione consente di apprezzare l’alto livello del dibattito che vi si svolse, dettato anzitutto dalla condivisa consapevolezza della cruciale importanza di molte questioni politico-giuridiche sollevate dalla speciica fattispecie dell’estradizione. Ricostruendone l’operato a pochi anni di distanza, il penalista Luigi Masucci osservò che l’assunto di partenza dei commissari consistette nel considerare l’estradizione come un «prodotto della civiltà moderna […] [un’] 44. La legge sull’estradizione, in «Gazzetta piemontese», 1 dicembre 1881, p. 1. 45. Erano membri della commissione, oltre a Crispi e a Pierantoni, gli alti funzionari del ministero degli affari esteri Alberto Blanc, Augusto Peiroleri e Emilio Puccioni, il consigliere di cassazione Tancredi Canonico, il consigliere di corte d’appello Luigi Casorati, i docenti universitari Pietro Ellero, Pietro Nocito ed Enrico Pessina, il procuratore generale presso la corte d’appello di Milano Cesare Oliva, il primo presidente della corte d’appello di Firenze Baldassarre Paoli, gli avvocati-deputati Diego Tajani, Giambattista Varè e Tommaso Villa (cfr. art. 4 del Decreto ministeriale con cui viene istituita una Commissione con l’incarico di studiare e compilare un progetto legge sull’estradizione (Capodimonte, 15 ottobre 1881), in Atti della commissione ministeriale per lo studio e la compilazione di un progetto di legge sulla estradizione istituita, con decreto del 15 ottobre 1881, dal Ministro degli Affari Esteri P. S. Mancini, Tip. Sciolla, Roma 1885, pp. 1-2). 59 istituzione sociale, fondata sulla comunanza di scopo dei popoli civili e sulla necessità di tutela della giustizia universale»46. Si mirava a superare deinitivamente l’antico, e abusato, istituto dell’asilo, assecondando le reciproche aperture e la crescente osmosi tra le giustizie dei singoli stati che si stavano diffondendo negli ultimi decenni. L’orientamento così deinito veniva portato alle più coerenti conseguenze, facendo del regno d’Italia il primo ordinamento che «non [avrebbe] richie[sto], per la estradizione, la condizione dell’esistenza di un trattato, né quella della reciprocità». Trattandosi di un «dovere naturale tra le genti civili», «utile all’umanità intera», quindi di una prescrizione dal valore tendenzialmente universale, spiegava il segretario della commissione, Emilio Puccioni, le condizionalità legate alle relazioni tra stati non potevano trovare giustiicazione di sorta47. Del pari, non si intendeva disperdere, ma semmai rafforzare, il portato di garanzie e di protezione della persona umana proprio dell’estradizione. La legge, scriveva ancora Puccioni confermando quanto sostenuto dalla «Gazzetta piemontese», aveva lo scopo di sanare «i vizi dell’attuale sistema, che tutto abbandona alla discrezione del potere amministrativo», conferendo alla magistratura l’esclusiva competenza a pronunciarsi sull’ammissibilità della domanda. La sorte del cittadino straniero oggetto della richiesta proveniente da uno stato estero sarebbe dunque stata determinata rispettando le procedure, e le garanzie, proprie del sistema giudiziario italiano. Signiicativamente, Pierantoni prese l’iniziativa su questo punto insieme a Ellero e a Pessina, tentando di imprimere un’ulteriore virata “garantista”. I tre chiesero che venisse previsto nel progetto di legge il riesame da parte dei giudici italiani del processo in seguito al quale veniva richiesta l’estradizione dello straniero. «Non possiamo fare atto di fede cieca alle autorità degli Stati esteri», dichiaravano appellandosi a quanto già prescrivevano la legge britannica e quella statunitense, perché «l’azione del nostro Governo dovrebbe essere illuminata, tutelatrice del diritto e della libertà, diretta al trionfo della giustizia violata». A maggioranza, tuttavia, i commissari respinsero la proposta ritenendo che avrebbe «stabili[to] un sistema di reciproca difidenza» tra gli stati e «tra popoli civili»48. Su un altro aspetto da disciplinare, la libertà personale dell’imputato, la commissione avrebbe invece accolto le spinte più decise in senso umanitario, approvando «norme liberalissime» che prevedevano il «minimo sacriicio della libertà individuale dell’accusato». Al 46. L. Masucci, Esposizione analitica di un progetto di legge sulla estradizione, Vallardi, Napoli 1885, p. 4. 47. Atti della commissione ministeriale…, cit., pp. VIII ss. 48. Masucci, Esposizione analitica…, cit., pp. 26-27. 60 contrario di quanto disponevano le leggi vigenti in Belgio, Regno unito e Stati uniti, in Italia, qualora fosse stato approvato il progetto di legge, l’arresto dello straniero non sarebbe stato obbligatorio ma facoltativo, e sarebbe avvenuto in seguito ad un provvedimento del procuratore generale presso la Corte d’appello, o – nei casi d’urgenza - del ministro dell’interno49. Inine, altrettanto generoso in senso «liberale» sarebbe stato il testo licenziato da Pierantoni e dagli altri commissari nel vietare non solo l’estradizione per reati di carattere politico, ma anche «per tutti i fatti connessi ai reati politici», formula secondo alcuni critici troppo «elastica» che chiamava in causa il troppo «vago» concetto della connessione tra reati comuni e obiettivi di natura politica. L’omicidio volontario veniva escluso, «eccetto il caso però in cui, oltre al ine politico, concorra la circostanza di essersi l’omicidio commesso nell’atto di una insurrezione o di una guerra civile»50. «Importa che l’estradizione serva alla repressione dei delitti, e non diventi un mezzo di polizia preventiva, lo stromento internazionale di una nuova forma di legittimismo, che la ragione dei tempi ha per sempre condannato», aveva invocato la «Gazzetta piemontese» al momento dell’insediamento della commissione nominata da Pasquale Stanislao Mancini51. Conclusi i lavori dell’organo, il tono della discussione e il testo di legge licenziato avevano fatto trasparire la sistematica volontà di fare tesoro di quanto provenisse dai parlamenti dei paesi più «civili» per adeguare l’ordinamento nazionale. Allo stesso tempo, in alcuni frangenti si era tentato di adottare – senza remore di sorta – disposizioni ancora più avanzate di quelle invalse oltreconine, allargando con convinzione la sfera dei diritti e delle libertà personali. Forse anche per questo motivo, non sarebbe mai giunta la deinitiva approvazione parlamentare. Non fu tuttavia trascurabile il valore di quell’esperienza, pur circoscritta, per la sedimentazione della cultura e dei riferimenti politici che ne erano alla base, nonché – almeno indirettamente – per la loro divulgazione. Augusto Pierantoni svolse un ruolo preminente all’interno della commissione nelle sue riunioni collegiali, ma ricevendo pure il compito di fungere da «relatore» per la parte del progetto concernente una «questione capitale»: «a quali persone» applicare la legge52. Anche attraverso l’impegno in quella sede, procedeva il suo personale itinerario politico. 49. Atti della commissione ministeriale…, cit., p. LXXXV. 50. Masucci, Esposizione analitica…, cit., pp. 9 ss. 51. La legge sull’estradizione…, cit. 52. Atti della commissione ministeriale…, cit., p. II. 61 Legge del Ritorno e cittadinanza in Israele: Il delicato rapporto tra ebraicità e democrazia dopo la ine della stagione di Oslo (2000-16) Arturo Marzano Introduzione Questo articolo intende rilettere sulla deinizione di Israele come «Stato ebraico e democratico»1 e sui cambiamenti avvenuti nel rapporto tra «ebraicità» e «democrazia» negli ultimi anni, impiegando un prisma che mi sembra particolarmente utile, vale a dire la cittadinanza e, in particolare, le leggi che prevedono come questa venga attribuita. Ritengo infatti che la questione dell’attribuzione della cittadinanza israeliana e il dibattito intorno a questo tema siano utilissime cartine al tornasole per valutare il percorso compiuto da Israele negli ultimi due decenni, caratterizzati a mio avviso dalla volontà della politica di far prevalere il carattere «ebraico» dello Stato rispetto a quello «democratico». L’articolo è diviso in tre parti. Dopo una prima parte in cui analizzo le principali posizioni di sociologi e scienziati politici che si sono interrogati sul rapporto tra «ebraicità» e «democrazia», le pagine successive sono dedicate a presentare il modo in cui viene regolamentata l’attribuzione della cittadinanza in Israele, partendo dalla Legge sulla cittadinanza del 1952 e la Legge del Ritorno del 1950 e inendo con i cambiamenti intervenuti nei decenni seguenti. Inine, l’articolo si occupa del dibattito relativo all’attribuzione della cittadinanza israeliana negli ultimi quindici anni, dopo la ine della stagione di Oslo. Da un lato, mi soffermo sulla Legge sulla cittadinanza e l’ingresso in Israele, approvata temporaneamente nel 2003 ma da allora 1. Nella Legge fondamentale sulla dignità e la libertà della persona del 1992 si legge: «L’obiettivo di questa legge è proteggere la dignità e la libertà della persona per fondare in questa Legge fondamentale i valori dello Stato di Israele come stato ebraico e democratico». Cfr. il testo in inglese, http://www.mfa.gov.il/MFA/MFA-Archive/1992/Pages/Basic%20 Law-%20Human%20Dignity%20and%20Liberty-.aspx, accesso del 25.06.2016. 62 sempre prorogata, che vieta il ricongiungimento familiare e la cittadinanza ai coniugi dei cittadini israeliani che provengano dai Territori occupati Palestinesi e da altri paesi arabi. Dall’altro, analizzo il dibattito relativo alle proposte di cambiamento o abolizione della Legge del Ritorno che dopo il 2000 sono state portate avanti da organizzazioni non governative, associazioni, e intellettuali israeliani. La discussione relativa tanto alla legge del 2003 quanto alle proposte della società civile, infatti, mettono in luce come la cittadinanza sia uno degli ambiti in cui si registra maggiormente lo scontro tra coloro che intendono accentuare il carattere «ebraico» di Israele a discapito di quello «democratico» e chi, invece, mira al processo opposto. Deinire Israele: democrazia etnica o etnocrazia? Nel novembre del 2002, Ahmed Tibi, uno dei dieci parlamentari arabi eletti alla Knesset nelle elezioni del 1999, rilasciò un’intervista in cui, utilizzando un gioco di parole relativo alla ricordata deinizione di Israele come Stato «ebraico e democratico», dichiarava: «Israele è democratico per i suoi cittadini ebrei ed ebraico per quelli arabi»2. L’obiettivo di Tibi era mettere in luce la dificoltà di conciliare due elementi differenti: quello «ebraico», che vede Israele come lo «Stato degli ebrei» cui pensava già Theodor Herzl nel 1896 e come «la raccolta degli esiliati», per usare le parole della Dichiarazione di indipendenza del 14 maggio 19483, e quello «democratico», che vede Israele come uno Stato che garantisce i pieni diritti sia formali sia sostanziali a tutti i suoi cittadini senza alcuna distinzione. Non pochi tuttavia sono gli autori che, in linea con quanto ha affermato Tibi, ritengono che la democrazia israeliana non sia completa, per l’impossibilità di conciliare questi due principi, tanto da impiegare le deinizioni di «democrazia etnica» o «etnocrazia». Il sociologo Sammy Smooha, ad esempio, deinisce Israele una «democrazia etnica». Smooha ha più volte, infatti, sostenuto come Israele rappresenti una novità rispetto ai vari tipi di democrazia conosciuti. Non essendo né una democrazia liberale, come gli Stati Uniti, né una democrazia “conso2. In Identity Crisis. Israel and Its Arab Citizens, International Crisis Group Middle East Report N. 25, 4 marzo 2004, p. 11, http://www.crisisgroup.org/~/media/Files/Middle%20 East%20North%20Africa/Israel%20Palestine/Identity%20Crisis%20Israel%20and%20 its%20Arab%20Citizens.pdf, accesso del 25.06.2016. 3. Il testo in inglese si trova in http://www.mfa.gov.il/MFA/Peace%20Process/ Guide%20 to%20the%20Peace%20Process/Declaration%20of%20Establishment%20of%20State%20 of%20Israel, accesso del 25.06.2016. 63 ciazionale”, che include nella propria costituzione la presenza di due comunità nazionali etniche differenti, come il Belgio, né una democrazia razziale, un Herrenvolk, come il Sud Africa, è necessario utilizzare un neologismo, che tenga conto della nuova tipologia di democrazia, quella «etnica»4. Per «democrazia etnica», Smooha intende un sistema politico che combina l’esistenza di istituzioni democratiche con la presenza di un gruppo etnico maggioritario in posizione dominante rispetto ad uno o più gruppi etnici minoritari. Al contempo, però, proprio perché democratico, un sistema politico del genere prevede che questo o questi gruppi etnici minoritari possano utilizzare le istituzioni democratiche esistenti per cambiare la situazione esistente e trasformare il sistema politico. Altre autori hanno, invece, preferito utilizzare il termine «etnocrazia» per deinire Israele. Tra questi, As’ad Ghanem, Nadim Rouhama, e Oren Yiftachel, che riiutano il concetto di «democrazia etnica» sostenendo che «concetti come “etnocrazia” e “Stato etnico” colgano meglio l’essenza della struttura politica di Israele, rafigurando un regime che non è né democratico, né autoritario»5. Ritengono, infatti, errata la posizione teorica in base alla quale vengono accostati due concetti distinti, quello di etnos, cioè di un gruppo che per deinirsi opera una selezione in base ad un’appartenenza originaria, e quello di demos, di un gruppo che, al contrario, si deinisce includendo soggetti diversi in base alla residenza o alla cittadinanza. Il loro timore, infatti, è che la deinizione di Israele come «democrazia etnica» possa in qualche modo rappresentare una legittimazione ad uno status quo politico e giuridico. Questi tre autori sottolineano una distinzione essenziale tra un «nucleo etnico» e un «involucro democratico». Gli elementi democratici, rappresentati dalle elezioni, da un potere giudiziario indipendente, da una stampa libera, e dalla tutela delle libertà personali, rappresentano soltanto l’involucro di una struttura niente affatto democratica, perché fondata su 4. S. Smooha, Ethnic Democracy: Israel as an Archetype, in «Israel Studies», 2, 2, 1997, pp. 198-241 (pp. 206-207). Cfr. anche Id., The Model of Ethnic Democracy: Israel as a Jewish and Democratic State, in «Nations and Nationalism», 8, 4, 2002, pp. 475-503. 5. A. Ghanem, N. Rouhama, O. Yiftachel, Questioning “Ethnic Democracy”: A Response to Sammy Smooha, in «Israel Studies», 3, 2, 1998, pp. 253-267 (p. 265). Cfr. anche A. Ghanem, State and Minority in Israel: The Case of Ethnic State and the Predicament of Its Minority, in «Ethnic and Racial Studies», 21, 3, 1998, pp. 428-448; N. Rouhama, The Test of Equal Citizenship: Israel Between Jewish Ethnocracy and Binational Democracy, in «Harvard International Review», 20, 2, 1998, pp. 74-78; O. Yiftcahel, Israeli Society and Jewish-Palestinian Reconciliation: Ethnocracy and Its Territorial Contradictions, in «Middle East Journal», 51, 4, 1997, pp. 1-16; Id., «Etnocrazia». La politica della giudaizzazione di Israele-Palestina, in J. Hilal e I. Pappe (a cura di), Parlare con il nemico. Narrazioni palestinesi e israeliane a confronto, Bollati Boringhieri, Torino 2004, pp. 96-131. 64 una rigida gerarchia etnica, sulla mancanza di una cittadinanza inclusiva e su un eccessivo potere esercitato delle istituzioni religiose. In questo modo, dunque, Israele legittima una discriminazione fondata sull’appartenenza etnica, perché i palestinesi, sebbene cittadini a pieno titolo, possono godere solo dei diritti previsti dall’«involucro democratico», ma non di quelli che il «nucleo etnico» riserva solo agli ebrei. Per questa ragione, a loro avviso, la deinizione più appropriata è quella di «etnocrazia». A metà tra le due posizioni si colloca quella di Yoav Peled che ritiene come a partire dal 2000 Israele, ino ad allora una «democrazia etnica», si sia «costantemente mosso […] verso una forma di Stato che assomiglia fortemente ad una etnocrazia»6. Peled ricorre proprio al prisma della cittadinanza per argomentare la sua tesi e sottolinea come, nel tentativo di combinare tre diversi principi costituzionali, repubblicanesimo, liberalismo ed etnicità, Israele abbia inito per dare origine a due diversi tipi di cittadinanza: una «repubblicana» per gli ebrei, e una «liberale» per gli arabi7. Ciò signiica che, mentre ciascun membro di entrambi i gruppi etnici può godere dei diritti di cittadinanza, solo gli ebrei possono esercitare tali diritti per il raggiungimento del bene comune. Secondo Peled, le tradizioni liberale e repubblicana, infatti, divergono laddove per la prima la cittadinanza si risolve nel garantire uguali diritti a ciascun individuo, inteso come un’entità politica astratta, mentre per la seconda la cittadinanza presuppone l’appartenenza ad una comunità morale che ha già individuato un concetto di bene comune che tutti gli individui parte di questa comunità contribuiscono a realizzare. È evidente come stabilire chi possa appartenere alla comunità morale diventi fondamentale per capire di quali diritti il cittadino possa godere o meno. Israele è, da questo punto di vista, un esempio molto interessante. Secondo Peled, infatti, Israele è nato come Stato per gli ebrei, per realizzare un bene comune, quello del popolo ebraico, che è stato dunque riconosciuto come prioritario. L’appartenenza etnica al popolo ebraico è l’elemento determinante per poter avere accesso alla cittadinanza «repubblicana», da cui i non ebrei sono stati esclusi perché etnicamente non appartengono a tale comunità. Dal momento, però, che Israele intendeva comunque essere uno Stato che 6. Y. Peled, Citizenship Betrayed: Israel’s Emerging Immigration and Citizenship Regime, in «Theoretical Inquiries in Law», 8, 2, 2007, pp. 333-358 (p. 337). 7. Una distinzione simile viene utilizzata da Uri Davis, che impiega i termini in arabo jinsiyya e muwatama per indicare l’esistanza in Israele di due cittadinanza: la prima, che riconosce principalmente il «diritto di residenza» nello Stato di cui sono cittadini, per gli arabi, e la seconda, che garantisce la pienezza dei diritti, per gli ebrei. Cfr. U. Davis, Jinsiyya versus Muwatama: the Question of Citizenship and the State in the Middle East: the cases of Israel, Jordan and Palestine, in «Arab Studies Quarterly», 17, 1/2, 1995, pp. 19-50. 65 garantisse l’uguaglianza di tutti i propri cittadini, agli arabi israeliani è stato garantito il godimento dei diritti di una cittadinanza «liberale». Ed è proprio la modalità di attribuzione della cittadinanza israeliana in maniera differente per ebrei e non ebrei che Peled ritiene sia come la “prova provata” della compresenza di due tipologie di cittadinanza, «republicana» e «liberale»8. Le modalità di attribuzione della cittadinanza in Israele Sulla base della Legge sulla cittadinanza, entrata in vigore il 14 luglio 1952, quattro sono i modi in cui può essere acquisita la cittadinanza israeliana: per nascita, attraverso la Legge del Ritorno, per residenza, e per naturalizzazione9. La prima modalità è per nascita, sulla base del principio dello ius sanguinis. Diventa, dunque, cittadino israeliano chiunque sia iglio di cittadino israeliano, sia questi nato nel territorio di Israele o fuori di esso. Se qualcuno, invece, nasce in Israele, ma non è iglio di cittadino israeliano, ha diritto alla cittadinanza nel caso in cui ne faccia richiesta tra i 18 e i 25 anni, e sia stato residente in Israele consecutivamente per i cinque anni precedenti la richiesta. In secondo luogo, la cittadinanza israeliana si acquista attraverso la cosiddetta Legge del Ritorno, approvata dalla Knesset [Parlamento israeliano] nel 1950 e su cui tornerò nelle prossime pagine. Un terzo modo per acquisire la cittadinanza è in base alla residenza. Fu questa la modalità attraverso cui ottennero la cittadinanza israeliana i palestinesi che risiedevano in Israele negli anni del mandato britannico e che rimasero in Israele dopo il 1948. In realtà, la cittadinanza venne immediatamente data soltanto a 63.000 abitanti10, dal momento che per la maggioranza degli arabi palestinesi rimasti in Israele fu molto dificile dimostrare di essere in possesso della cittadinanza mandataria11 o soddisfare gli altri criteri previsti dalla legge. Molti di questi riuscirono ad ottenere la cittadinanza solo nel 1980, quando un nuovo emendamento ne rese più facile l’acquisizione12. La legge del 1952 prevede, 8. Y. Peled, Ethnic Democracy and the Legal Construction of Citizenship: Arab Citizens of the Jewish State, in «American Political Science Review», 86, 2, 1992, pp. 432-443. 9. Il testo della legge in inglese si trova in http://www.israellawresourcecenter.org/ israellaws/fulltext/nationalitylaw.htm, accesso del 25.06.2016. 10. Il dato si trova in S. Robinson, Citizen Strangers. Palestinans and the Birth of Israel’s Liberal Settler State,Stanford University Press, Stanford 2013, p. 100. 11. Sulla cittadinanza palestinese negli anni del Mandato britannico, cfr. L. Banko, The creation of Palestinian citizenship under an international mandate: legislation, discourses and practises, 1918-1925, in «Citizenship Studies», 16, 5-6, 2012, pp. 641-655. 12. In A.F. Kassim, The Palestinians. From Hyphenated to Integrated Citizenship, in N. 66 inine, l’acquisizione della cittadinanza per naturalizzazione. Fatta salva la discrezione del ministero degli interni, la naturalizzazione si applica ai casi in cui una persona si trovi in Israele, risieda in Israele almeno tre anni nei cinque precedenti il momento della domanda di naturalizzazione, abbia il permesso di residenza permanente, si sia stabilita o abbia intenzione di stabilirsi in Israele, abbia qualche conoscenza di ebraico, e abbia rinunciato o intenda rinunciare alla propria cittadinanza originaria. È quest’ultima modalità che ci interessa maggiormente ai ini di questo articolo, perché è in questo modo che il coniuge non-israeliano di un cittadino israeliano ha diritto ad ottenere la cittadinanza. Naturalmente, se il coniuge di un cittadino israeliano è ebreo, questi ha diritto alla cittadinanza in base alla Legge del Ritorno. Se, invece, non è ebreo, si aprono due possibilità. Nel caso in cui sia coniuge di una persona che è in procinto di ottenere la cittadinanza in virtù della Legge del Ritorno, avrà diritto alla cittadinanza nello stesso modo, come dirò nel paragrafo successivo. Nel caso in cui sia coniuge di un cittadino israeliano che ha già la cittadinanza israeliana, seguirà invece le regole della naturalizzazione. Teoricamente, non c’è differenza se il coniuge israeliano è ebreo o non-ebreo. In pratica, però, le procedure sono piuttosto diverse, e i controlli per motivi di sicurezza sono di gran lunga inferiori nel caso in cui il cittadino israeliano sia ebreo, rispetto all’ipotesi in cui non lo sia. La Legge del Ritorno La Legge del Ritorno del 1950 prevedeva che chiunque fosse ebreo/a avesse diritto a immigrare in Israele e ad acquistare la cittadinanza israeliana in qualsiasi momento della propria vita. In questo modo, pertanto, si dava la possibilità ad ogni ebreo/a – sebbene la deinizione di “ebreo” non fosse inclusa nella legge e sarebbe stata chiarita solo molti anni più tardi – di ottenere la cittadinanza israeliana13. Per comprendere la ratio della legge, è utile citare quanto l’allora Primo ministro israeliano, David Ben Gurion, dichiarò in occasione del voto parlamentare che avrebbe dato via libera alla legge. Agli occhi di Ben Gurion, il diritto di ogni ebreo alla cittadinanza non era Butenschon, U. Davis e M. Hassassian (a cura di), Citizenship and the State in the Middle East: Approaches and Applications, Syracuse University Press, Syracuse-New York 2000, pp. 201-224. 13. Per il testo della legge in inglese, cfr. http://www.mfa.gov.il/mfa/mfa-archive/ 1950-1959/pages/law%20of%20return%205710-1950.aspx, accesso del 25.06.2016. 67 concesso dallo Stato, perché tale diritto precedeva in realtà l’esistenza dello Stato; era il diritto dello Stato alla terra a derivare dal diritto degli ebrei a quella terra, e non viceversa14. Non è questa la sede per approfondire in chiave comparata la Legge del Ritorno, sebbene sarebbe interessante analizzare il caso israeliano confrontandolo con altri casi nazionali. Molti altri Stati, infatti, hanno nel corso della loro storia adottato leggi che prevedono la concessione della cittadinanza a un particolare gruppo etnico, come è il caso di vari paesi europei, come Finlandia, Grecia, Germania, Irlanda, Ungheria15. Ci interessa maggiormente in queste pagine mettere in luce le modiiche apportate alla Legge nei decenni successivi. Tralasciando un primo emendamento più di natura formale che sostanziale, introdotto dalla Knesset nel 1954, fu nel 1970 che un secondo emendamento introdusse due importanti cambiamenti16. In primo luogo, venne data una deinizione di «ebreo», stabilendo che ai ini della Legge del Ritorno per «ebreo» si sarebbe inteso «una persona che era nata da madre ebrea o si è convertita all’ebraismo e non è membro di un’altra religione». In questo modo, il legislatore recepiva quanto alcuni anni prima era stato affermato nel 1962 dalla Corte Suprema, in occasione del famoso caso di Oswald Rufeisen. Questi era un ebreo polacco che durante la Seconda guerra mondiale si era rifugiato in un convento cattolico per sfuggire alla persecuzioni naziste, dopo aver contribuito a salvare numerosi ebrei, grazie al suo impiego nella polizia polacca. Terminata la guerra, aveva preso i voti diventando sacerdote carmelitano, col nome di Padre Daniel, ed era giunto in Israele chiedendo la cittadinanza israeliana sulla base della Legge del Ritorno. Tuttavia, la sua domanda era stata respinta perché nel frattempo si era convertito al cattolicesimo. A quel punto Padre Daniel aveva ricorso alla Corte Suprema, ma questa aveva deliberato che il sacerdote, avendo abbracciato un’altra religione, non avesse diritto alla cittadinanza israeliana tramite la Legge del Ritorno. Una soluzione di compromesso fu poi trovata allorché Padre Daniele ottenne la cittadinanza per naturalizzazione: in tal modo, veniva garantita la possibilità di vivere in Israele ad un «giusto delle nazioni», ma al contento veniva introdotto il principio in base 14. In Y. Hazony, The Jewish State. The Struggle for Israel’s Soul, Oxford, Basic books, 2001, p. 56 e segg. 15. Cfr. A. Yakobson, A. Rubinstein, Israel and the Family of Nations. The Jewish nationstate and human rights, Routledge, London-New York 2009, in particolare pp. 126-131. 16. Per il testo dell’emendamento, cfr. http://www.mfa.gov.il/mfa/mfa-archive/1950-1959/ pages/law%20of%20return%205710-1950.aspx, accesso del 25.06.2016. 68 al quale non avrebbe avuto diritto alla cittadinanza israeliana sulla base della Legge del Ritorno una persona che, pur nata ebrea, si fosse convertita ad un’altra religione17. In secondo luogo, il secondo emendamento allargava notevolmente le maglie dell’attribuzione della cittadinanza israeliana: il diritto ad ottenere la cittadinanza israeliana sulla base della Legge del Ritorno veniva infatti garantito a «il/la iglio/a e il/la nipote di un/a ebreo/a, il coniuge di un/a ebreo/a, il coniuge del/la iglio/a di un/a ebreo/a, il coniuge del/la nipote di un/a ebreo/a , con l’eccezione di una persona che è stata ebrea e ha volontariamente cambiato la propria religione». Veniva in questo modo ribadito come l’adesione ad una religione differente dall’ebraismo fosse ritenuta una delle motivazioni per escludere dalla concessione della cittadinanza chi pure ne aveva diritto sulla base della Legge. Ancora più signiicativa però era l’estensione del diritto alla cittadinanza anche a chi non è ebreo secondo la halakha [legge ebraica], includendo pertanto anche igli e nipoti di possibili matrimoni misti. Come ricorda Amnon Rubinstein, che a quel tempo prese parte alla discussione sull’emendamento in qualità di giovane docente di legge all’Università di Tel Aviv, tale scelta va compresa alla luce delle persecuzioni naziste. La decisione di estendere la possibilità di immigrare alla seconda generazione fu presa perché le Leggi di Norimberga, approvate dalla Germania nazista nel 1935, colpivano chiunque avesse anche un solo nonno ebreo18. In tal modo, la Legge del Ritorno si poneva in diretta relazione con quelle di Norimberga e confermava come la possibilità data ad ogni persona ebrea di immigrare in Israele venisse considerata una fondamentale garanzia per salvarla da subire possibili persecuzioni. Tuttavia, la conversione che permetteva ad una persona di essere deinita ebrea era soltanto quella avvenuta presso il Rabbinato ortodosso (o ultraortodosso), mentre non venivano ritenute accettabili conversioni presso istituzioni riconducibili all’ebraismo riformato o conservatore. Soltanto a partire dagli anni Novanta, dopo l’ondata migratoria degli ebrei russi, molti dei quali non ebrei secondo la halakha, la Corte Suprema ha – con due sentenze – messo in discussione la supremazia del Rabbinato ortodosso, stabilendo nel 1995 che il governo era obbligato a riconoscere le conversioni non-ortodosse, incluse quelle riformate, all’estero. Inine, nel 2002, la Corte Suprema ha messo ulteriormente in discussione la prevalenza del 17. Cfr. N. Tec, In the Lion’s Den: The Life of Oswald Rufeisen, Oxford University Press, Oxford 1990. 18. In A. Rubinstein, The Curious Case of Jewish Democracy, «Azure», 41, 2010: http:// azure.org.il/include/print.php?id=545#xkcd21, accesso del 25.06.2016. 69 Rabbinato ortodosso, stabilendo che anche le conversioni riformate fatte in Israele sarebbero state valide per la registrazione di una persona come ebreo nel registro di residenza in Israele19. Esula da questo articolo una rilessione sul rapporto tra l’ebraismo ortodosso, che rappresenta la stragrande maggioranza della popolazione ebraica in Israele, e quello riformato e conservatore, che accoglie invece la maggioranza degli ebrei americani. Basti sottolineare come, anche da questo punto di vista, la cittadinanza (e le modalità per l’attribuzione) rappresenti un terreno di indagine molto interessante per comprendere i cambiamenti in atto nella politica e nella società israeliana. La Legge sulla cittadinanza e l’ingresso in Israele (provvedimento temporaneo) 5763-2003 Come conseguenza della Legge del Ritorno, c’è dunque una differenza fondamentale tra coniugi ebrei di cittadini israeliani, poiché possono ottenere la cittadinanza israeliana in virtù dell’essere ebrei, e i coniugi non ebrei di cittadini israeliani, che possono ottenere la cittadinanza solo per naturalizzazione. È a questa seconda categoria di persone che si applica la cosiddetta Legge sulla cittadinanza e l’ingresso in Israele (provvedimento temporaneo) 5763-2003, adottata in via temporanea dalla Knesset il 27 luglio 200320. Tale disposizione ha stabilito che tutti gli abitanti che risiedessero in Giudea e Samaria (cioè la Cisgiordania) o nella striscia di Gaza – fatta eccezione per gli abitanti degli insediamenti israeliani, cioè ebrei, che possono ottenere la cittadinanza israeliana, nel caso in cui non la abbiano, tramite la Legge del Ritorno – non avrebbero più potuto ottenere la cittadinanza israeliana sulla base della Legge sulla cittadinanza del 1952, risiedere in Israele sulla base della stessa legge, e soggiornarvi secondo quanto previsto da una serie di leggi in materia di sicurezza. La legge prevedeva due eccezioni: la possibilità che un residente nei Territori Occupati potesse entrare in Israele per motivi di lavoro o medici per un periodo non superiore a sei mesi; e la possibilità di risiedere in Israele per i bambini inferiori a 12 anni di età, nel caso in cui un loro genitore risiedesse legalmente in Israele. La legge non veniva applicata ai collaboratori o alla famiglia dei collaboratori; 19. G. Barzilai, Who is a Jew? Categories, Boundaries, Communities, and Citizenship Law in Israel, in S.A. Glenn, N.B. Sokoloff (a cura di), Boundaries of Jewish Identity, University of Washington Press, Seattle-London 2010, pp. 27-42 (p. 31). 20. Per il testo in inglese, cfr. http://www.knesset.gov.il/laws/special/eng/citizenship_ law.htm, accesso del 25.06.2016. 70 a quei palestinesi, cioè, residenti nei Territori, che collaborano con Israele per garantire il successo delle operazioni militari nei confronti di singoli o di organizzazioni considerate terroristiche e, dunque, un pericolo per la sicurezza dello Stato ebraico. La legge, rinnovata annualmente da allora, l’ultima volta nel giugno 201621, prevede, nella sua versione modiicata a metà 2005, che non possano più ottenere la cittadinanza israeliana e il permesso di residenza in Israele quei coniugi di cittadini israeliani che siano residenti nei Territori Palestinesi Occupati e che abbiano meno di 25 anni, se donne, e meno di 35 anni, se uomini. Allo stesso tempo, nel marzo 2007 è stato introdotto un emendamento che estende il divieto ad ottenere la cittadinanza israeliana a persone di «paesi nemici», vale a dire cittadini di Iran, Iraq, Libano e Siria. Tale legge è stata la prima adottata dalla Knesset a compiere una discriminazione nella concessione della cittadinanza per motivi di ricongiungimento familiare su base etnica, dal momento che impedisce sostanzialmente di ottenere la cittadinanza israeliana ai palestinesi dei Territori Occupati e agli abitanti di paesi arabi. In tutti gli altri casi, la legge non prevede alcuna restrizione. Questa disposizione, inoltre, intacca pesantemente i diritti dei palestinesi israeliani, e in misura ridottissima quelli degli ebrei israeliani, dal momento che sono soprattutto i primi a sposare persone residenti nei Territori Palestinesi Occupati o nei «paesi nemici» e a subirne, perciò, le drammatiche conseguenze. La posizione uficiale dello Stato di Israele su tale disposizione venne per la prima volta espressa a seguito di una serie di petizioni contro il governo presentate alla corte suprema da privati cittadini, membri della Knesset, e varie organizzazioni non governative palestinesi22. Il governo affermò che la sicurezza dei cittadini e dei residenti israeliani sarebbe stata messa fortemente in pericolo nel caso in cui, data la situazione di conlitto esistente, si fosse continuato a consentire la residenza o il soggiorno in Israele o si fosse garantito il conseguimento della cittadinanza a «residenti in un’entità politica in conlitto armato con Israele». Il governo sosteneva dunque che la disposizione era stata adottata per pure ragioni di sicurezza, «soltanto a causa […] del […] conlitto armato». D’altronde, il 31 marzo 2002, un 21. J. Lis, Law Restricting Palestinian Family Reuniication Extended at Shin Bet’s Request, in «Haaretz», 2 giugno 2016. 22. Sul ruolo di tali organizzazioni per tutelare i diritti della minoranza palestinese, cfr. S. Payes, Palestinian NGOs in Israel: A Campaign For Civic Equality in a Non-Civic State, in «Israel Studies», 8, 1, 2003, pp. 60-90, e O. Haklai, Palestinian NGOs in Israel: A Campaign for Civic Equality or “Ethnic Civil Society”?, in «Israel Studies», 9, 3, 2004, pp. 157-168. 71 palestinese israeliano, Shadi Tubasi, si era fatto esplodere in un ristorante di Haifa, uccidendo sedici israeliani. Subito dopo l’attentato terroristico, l’allora ministro degli interni, Eli Yishai, aveva deciso di congelare tutte le pratiche di riuniicazione familiare inoltrate da cittadini israeliani a favore dei propri coniugi palestinesi residenti nei Territori Occupati, in attesa che una nuova politica venisse adottata in tale materia. Nel maggio del 2002, il governo israeliano sposò la linea di Yishai e tutte le pratiche di riuniicazione vennero sospese in attesa dell’adozione di nuove regolamentazioni «per ragioni di sicurezza»23. Nell’incontro avvenuto il 4 aprile 2005 tra il primo ministro Ariel Sharon, il ministro della giustizia Tzipi Livni, il ministro degli interni Ophir Pines-Paz, il consigliere per la sicurezza nazionale, e il capo dei servizi di sicurezza per discutere del rinnovo della disposizione, però, Sharon smentì la posizione che il governo aveva mantenuto ino ad allora. In quell’occasione, infatti, Sharon dichiarò apertamente come fossero considerazioni di natura demograica più che di sicurezza a giustiicare l’adozione della legge, dal momento che l’obiettivo essenziale della legge era garantire l’esistenza di Israele come Stato ebraico24. Questa dichiarazione ha confermato quanto da tempo una serie di organizzazioni non governative israeliane andavano sostenendo, che non fossero ragioni di sicurezza a motivare l’adozione della legge temporanea, quanto l’obiettivo di mantenere il controllo della composizione etnica del paese. Già nel gennaio del 2004, ad esempio, la Ong israeliana B’tselem aveva fatto notare come l’aspetto demograico fosse la ragione essenziale per cui tale disposizione era stata adottata. In alcune dichiarazioni, infatti, sia il ministro Yishai, sia il suo successore, Avraham Poraz, avevano sottolineato la necessità che lo Stato di Israele intervenisse per porre un freno all’eccessivo utilizzo che del matrimonio con cittadini israeliani veniva fatto dai palestinesi residenti nei Territori Occupati. L’acquisto della cittadinanza tramite il ricongiungimento familiare stava infatti diventando, agli occhi del governo, una modalità per realizzare concretamente quel “diritto al ritorno” rivendicato dai profughi palestinesi, e che costituisce uno degli scogli più dificilmente superabili per giungere ad una pace stabile tra israeliani e palestinesi. 23. Y. Stein (a cura di), Forbidden Families. Family Uniication and Child Registration in East Jerusalem, Rapporto congiunto di B’tselem – The Israeli Information Center for Human Rights in the Occupied Territories e Ha Moked: Center for the Defence of the Individual, 2004, pp. 11-13. In https://www.btselem.org/download/200401_forbidden_families_eng. pdf, accesso del 25.06.2016. 24. A. Benn, Y. Yoaz, PM extends law meant to maintain Jewish demographic edge, in «Haaretz», 4 april 2005. 72 Considerazioni demograiche hanno dunque avuto un ruolo fondamentale nella decisione politica israeliana di modiicare la legge in materia di attribuzione della cittadinanza tramite naturalizzazione25. Quale futuro per la Legge del Ritorno? Negli stessi anni in cui veniva approvata e poi rinnovata la Legge sulla cittadinanza e l’ingresso in Israele, sono stati pubblicati alcuni documenti, frutto della rilessione di organizzazioni non governative israeliane, che ponevano l’accento sulla questione del rapporto tra «ebraicità» e «democrazia», mettendo in discussione la reale compatibilità tra i due aspetti e giungendo a chiedere cambiamenti nella modalità di attribuzione della cittadinanza, a partire dalla Legge del Ritorno26. Ad esempio, il documento intitolato La visione futura degli arabi palestinesi in Israele, scritto da alcuni intellettuali palestinesi e pubblicato nel dicembre 2006, ha messo in discussione la «deinizione di Israele come uno Stato ebraico», affermando come l’«utilizzo della democrazia a vantaggio dell’ebraicità» non facesse che «escludere» i cittadini palestinesi e proponendo pertanto la trasformazione di Israele in uno Stato pienamente «democratico», che riconoscesse «la presenza di due gruppi, gli ebrei e i palestinesi». Dal punto di vista concreto, tale documento rivendicava la «piena eguaglianza» tra ebrei e non-ebrei in una serie di questioni, «in particolare la cittadinanza, l’immigrazione», e richiedeva che la cittadinanza e non l’etnicità diventasse il principio chiave su cui fondare la piena uguaglianza di tutti gli israeliani, ebrei e arabi27. In linea con questo documento si è posta la Costituzione democratica, pubblicata dall’organizzazione palestinese Adalah nel febbraio 2009 per festeggiare il decimo anniversario della sua fondazione. Anche la Costituzione è fortemente critica nei confronti delle discriminazioni della minoranza palestinese che si fondano sulla «deinizione dello Stato come ebraico», proponendo la sua sostituzione con quella di uno «Stato democratico, basato sui valori di dignità umana, libertà e uguaglianza», con la piena uguaglianza di tutti i cittadini e una speciica tutela per i diritti della minoranza araba. E 25. Y. Stein, Forbidden Families…, cit., pp. 17-20. 26. Sul tema, cfr. D. Waxman, Israel’s other Palestinian problem: the Future Vision Documents and the demands of the Palestinian monority in Israel, in «Israel Affairs», 19, 1, 2013, pp. 214-229. 27. Cfr. il testo in inglese, http://reut-institute.org/data/uploads/PDFVer/ENG.pdf, accesso del 25.06.2016. 73 anche questo documento si occupa di cittadinanza, auspicando che le future «leggi di cittadinanza e immigrazione si basino sul principio della nondiscriminazione», indicando così – pur senza farne menzione – l’intenzione di cancellare la Legge del Ritorno28. Inine, la Dichiarazione di Haifa, pubblicata il 15 maggio del 2007 per commemorare il 59° anniversario della Nakba [catastrofe], si poneva assolutamente sulla stessa lunghezza d’onda, avendo come obiettivo la «creazione di uno Stato democratico basato sull’uguaglianza dei due gruppi nazionali». Chiaramente, anch’essa partiva dalla richiesta di «un cambiamento nella deinizione di Israele da uno Stato ebraico a uno democratico» e sottolineava la necessità, per fare questo, di «invalidare tutte le leggi che discriminano direttamente o indirettamente sulla base di nazionalità, etnicità o religione – a partire dalle leggi di immigrazione e cittadinanza – e promulgare leggi basate sui principi di giustizia e uguaglianza»29. Nel mondo politico israeliano, tali proposte sono state accolte in maniera piuttosto negativa. Nessun partito politico, eccetto quelli sostenuti dai cittadini palestinesi di Israele, si è detto d’accordo sull’idea di eliminare la Legge del Ritorno. L’attuale presidente della Repubblica Reuven Rivlin, ad esempio, da presidente del Parlamento si dichiarò contrario ad ogni cambiamento dal momento che la Legge del Ritorno era a suo avviso «una legge che ha un valore morale e storico». Anche il presidente della Corte Suprema Aharon Barak, una delle voci più autorevoli in Israele a favore della parità di diritti tra arabi ed ebrei, ritiene la Legge del Ritorno un elemento cardine dello Stato di Israele, tanto da averne proposto la trasformazione in una delle Leggi fondamentali. Allo stesso tempo, vi sono proposte per accentuare il carattere «ebraico» della Legge del Ritorno, eliminando cioè la cosiddetta “clausola del nipote”, vale a dire l’emendamento del 1970 che permetteva al/la iglio/a del/la iglio/a di una persona ebrea di poter immigrare in Israele. Tizpi Livni, ex ministro degli esteri e della giustizia, ed esponente del centro-sinistra israeliano, è tra coloro che si è espressa in questi termini, con l’obiettivo di evitare che un/a nipote non-ebreo/a (secondo la halakha) di una persona ebra possa immigrare in Israele30. Soltanto alcuni intellettuali si sono schierati accanto alle organizzazioni non governative. Tra questi, vale la pena ricordare il sociologo israelia28. Cfr. il testo in inglese, http://www.adalah.org/uploads/oldiles/Public/iles/ democratic_constitution-english.pdf, accesso del 25.06.2016. 29. Cfr. il testo in inglese, http://mada-research.org/en/iles/2007/09/haifaenglish.pdf accesso del 25.06.2016. 30. S. Ilan, A Political Sacred Cow No More, «Haaretz», 13 maggio 2005. 74 no Baruch Kimmerling, che ha descritto la Legge del Ritorno «non solo come una violazione dell’eguaglianza civile, ma anche come l’ostacolo centrale per la trasformazione di Israele in una democrazia propriamente funzionante»31. Conclusioni La Legge sulla cittadinanza e l’ingresso in Israele (provvedimento temporaneo) 5763-2003 e il dibattito intorno ai possibili cambiamenti alla modalità di attribuzione della cittadinanza israeliana analizzati nelle pagine precedenti vanno inseriti all’interno di un più ampio contesto, quello che ha visto negli ultimi anni i partiti di governo presentare proposte legislative che vanno chiaramente nella direzione di una restrizione del carattere democratico di Israele. Nel 2007 è stata approvato in prima lettura un emendamento che prevedeva la revoca della cittadinanza a persone «accusate di tradire il paese (…) semplicemente sulla base di quanto viene affermato dallo Shin Bet», lo sherut ha-bitachon ha-klali [servizio di sicurezza generale]32. Sebbene tale legge sia poi stata ritirata, il principio che ne era alla base è sostanzialmente conluito due anni dopo nello slogan con cui Avigdor Liebermann, attualmente ministro degli esteri – ha conquistato alle elezioni politiche del febbraio 2009 ben 15 seggi. Durante la campagna elettorale, lo slogan «senza fedeltà, non c’è cittadinanza» – rivolto ai palestinesi cittadini di Israele – campeggiava su tutti i manifesti e i volantini di Yisrael Beitenuy [Israele casa nostra], a testimonianza della sua importanza all’interno del programma del partito. L’obiettivo di Liebermann era far passare un messaggio politico chiaro: senza una piena adesione ad Israele, i palestinesi cittadini di Israele avrebbero potuto essere privati dei diritti di cittadinanza. E se tale progetto non è certamente realizzabile, il fatto che sia diventato parte integrante del discorso politico pubblico pone un’ombra preoccupante sulla tenuta democratica di Israele. Ancora più signiicativa è la richiesta da parte di varie forze politiche di subordinare il carattere democratico a quello ebraico, come dimostra il disegno di legge Israele come lo Stato-nazione del popolo ebraico, approvato dal governo nel novembre 2014, il cui obiettivo è «deinire il carattere di Israele come Stato nazionale del popolo ebraico», e trasformare Israele da 31. In Yakobson, Rubinstein, Israel and the Family of Nations, cit., p. 125. 32. Cfr. S. Ilan, Bill to revoke citizenship passes irst reading, in «Haaretz», 18 ottobre 2007. 75 «Stato «democratico» a «Stato con un regime democratico»33. Ed è sostanzialmente riconducibile a questa impostazione ideologica la pretesa da parte del governo israeliano negli ultimi anni all’Olp afinché questo riconosca Israele come «Stato ebraico»34. L’attribuzione – o meno – della cittadinanza israeliana è dunque un prisma molto interessante perché mette in luce più e meglio di altre questioni come l’uguaglianza nel godimento dei diritti sia rimasta coninata alla Dichiarazione di indipendenza, il cui testo includeva tale principio tra gli obiettivi del neonato Stato di Israele. A due anni dall’ottantesimo anniversario della sua creazione, non solo tale principio non è stato realizzato, ma la situazione è ulteriormente peggiorata negli ultimi due decenni per una progressiva deriva nazionalistica della politica israeliana35 e la crescente incapacità della società civile israeliana, pur sempre molto attiva, a contrastare tale discorso etno-nazionalista. Il modo in cui l’attribuzione della cittadinanza verrà disciplinata in futuro potrà dunque dirci molto per quanto concerne la tenuta democratica di Israele e la direzione che lo Stato prenderà relativamente alla prevalenza del suo carattere ebraico su quello democratico. 33. Israel’s Jewish nation-state bill: a primer, «Haaretz», 25 novembre 2014. 34. M. Mualem, Lieberman: PA must accept Israel as Jewish state, in «Haaretz», 15 novembre 2007. 35. Cfr. The most racist Knesst in Israel’s history, in «Haaretz», 26 giugno 2015. 76 II L’idea di cittadinanza nella storia del pensiero contemporaneo Là «où l’égalité respire»: Pétion de Villeneuve all’Assemblea Nazionale Costituente, 11 agosto 1791 Cristina Cassina La deinizione di un nuovo soggetto politico, il cittadino-elettore, ha conosciuto punte di aspra conlittualità all’ombra delle rivoluzioni atlantiche. Gli ultimi vent’anni del Settecento – capitolo fondamentale di una storia in cui la cittadinanza igura al contempo come «strumento di indagine» e «oggetto-di-analisi»1 – costituiscono, anche per questo, un ambito di studio tra i più frequentati. La rilevanza della letteratura, d’altro canto, non esaurisce gli spazi per la ricerca. Anzi, non è raro che la profondità delle analisi faccia sorgere nuove domande, come quella da cui muove questo contributo. Esso riguarda un aspetto dei lavori della prima Costituente francese discusso durante l’opera di revisione inale, nel corso di un’estate particolarmente calda. 1. I nodi al pettine È nella fase conclusiva del primo processo costituente dell’Europa moderna che tanti nodi emersi nel corso di due anni di lavoro vengono inine al pettine. Tra questi, in primo piano, campeggia la necessità di rivedere alcuni requisiti per l’esercizio dei diritti politici. La complessità della questione, strettamente intrecciata alle ultime accelerazioni del processo rivoluzionario, consiglia di soffermarsi in prima battuta su fasi, problemi e attori coinvolti. Per cominciare un passo indietro, ino a dicembre del 1789; a quando, cioè, l’Assemblea Nazionale Costituente, al termine di una lunghissima discussione originata da una partizione suggerita dall’abate Sieyès2, giunge a 1. P. Costa, Cittadinanza, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 4. 2. Cfr. [E.-J. Sieyès], Observations sur le rapport du comité de Constitution, concernant la nouvelle organisation de la France, Badouin, Versailles 2 ottobre 1789, pp. 22-23. 79 decretare le regole fondamentali per l’accesso alla cittadinanza politica. È il celebre decreto del 22 dicembre 1789. Con esso i cittadini francesi si scoprono divisi tra attivi e passivi. Ai secondi sono riconosciuti i diritti naturali e civili – una protezione che la Nazione estende indistintamente a tutti i suoi membri – ma non l’accesso alla sfera politica3. Tra gli esclusi, oltre alle donne e ai minori, igurano i senza issa dimora, i lavoratori stagionali e l’ambigua classe dei serviteurs à gages, nonché tutti coloro che non soddisfano alla condizione di pagare una contribuzione diretta minima, pari all’equivalente di 3 giornate lavorative. L’insieme di queste norme, per riprendere la nota espressione di Pierre Rosanvallon, disegna infatti una cittadinanza «inclusiva», volta in realtà a includere nel gioco politico (quasi) tutti i maschi proprietari o lavoratori, senza calcare (troppo) la mano su barriere di tipo censitario4. Lo stesso decreto traccia a grandi linee il funzionamento del corpo elettorale, organizzandolo secondo un sistema a più gradi. Disegna, cioè, una piramide a base larga: il primo grado è formato dalle assemblee primarie, dove i cittadini attivi eleggono, a livello locale, funzionari amministrativi, giudiziari e religiosi scegliendoli tra chi, come loro, riunisce i requisiti per la cittadinanza attiva; eleggono poi i membri delle Assemblee elettorali di secondo grado tra coloro che, invece, pagano una contribuzione di almeno 10 giornate lavorative. A questi ultimi spetta di eleggere alle cariche pubbliche a livello dipartimentale nonché i deputati dell’Assemblea Legislativa, con una differenza: mentre alle prime può essere eletto chiunque superi la soglia delle 10 giornate, per l’accesso alla rappresentanza nazionale si richiede il possesso di una proprietà e una contribuzione diretta superiore al marco d’argento, soglia quantiicabile in circa 50 giornate lavorative5. L’insieme di tali misure – sul momento – riesce a passare, nonostante un’accanita opposizione tanto in aula quanto, e forse più, nel prosieguo del dibattito pubblico. Non c’è dunque da stupirsi se la prima fase della rivoluzione è stata ricostruita anche sulla base delle posizioni – pro o contro – rispetto al primo 3. Sul punto si veda P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, vol. ii, L’età delle rivoluzioni, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 37 ss. 4. Mi riferisco al capitolo I, intitolato L’impératif de l’inclusion (P. Rosanvallon, Le sacre du citoyen. Histoire du suffrage universel en France, Gallimard, Paris 1992). 5. Guardando da una prospettiva leggermente diversa, si può dire che il sistema ritagliava cinque igure nel grande insieme degli attivi: due tra gli elettori e tre tra gli eleggibili. Ci sono infatti elettori di primo (3 giornate) e di secondo grado (10 giornate); eleggibili a funzioni locali (3 giornate), a funzioni dipartimentali (10 giornate), a funzioni nazionali (una proprietà e il marco d’argento). 80 tentativo di tradurre in legge il droit de cité: i mutevoli schieramenti in aula, le scissioni interne ai club, ma anche la nascita di nuovi giornali, possono infatti essere letti alla luce di questa frattura originaria. Come è inutile aggiungere che l’elaborazione del decreto del 22 dicembre è una tra le pagine più studiate, in passato come oggi, della fase all’ombra della monarchia costituzionale. In realtà lo stesso rilievo potrebbe calzare per la sua riformulazione nell’estate del 1791. Tanto più che l’attenzione degli studiosi verso questo secondo passaggio è legata a un contesto peculiare: la revisione costituzionale va a cadere in un quadro profondamente mutato, per molte e diverse ragioni. In primo luogo il Paese si trova sotto il fuoco incrociato di molteplici urgenze. La fuga di Varennes, 20-21 giugno, ha fatto balenare la possibilità di una svolta repubblicana, richiesta a gran voce dai gruppi più radicali, come i cordiglieri, e in tono più velato dai futuri capi girondini, Brissot e Condorcet. La prospettiva di un’ulteriore deriva produce immediate ripercussioni: ad essa si risponde con la scissione dei foglianti dai giacobini, sul piano politico, e con la fucilata al Campo di Marte, il 17 luglio, sul piano dell’ordine pubblico. Il contesto, sotto tutti i punti di vista, si annuncia dunque particolarmente movimentato6. Un’altra ragione da tenere presente è che i lavori dell’Assemblea Nazionale non si muovono più su un terreno vergine. Il decreto del 22 dicembre 1789 ha conosciuto una prima applicazione con l’elezione di amministratori, giudici e cariche ecclesiastiche, a livello locale e dipartimentale, nell’anno successivo al varo. Nell’estate del ‘91 è la volta delle prime votazioni per la futura Assemblea Legislativa, secondo le regole ulteriormente precisate nella legge 29 maggio 17917. Ai primi di giugno le assemblee primarie hanno eletto i membri delle Assemblee elettorali. Le notizie di Varennes ne hanno però fatto ritardare la convocazione, sicché le assemblee di secondo grado si tengono proprio mentre l’Assemblea Nazionale Costituente si avvia a concludere i propri lavori. Cosa più semplice a dirsi che a farsi. Nel corso di due anni l’Assemblea ha infatti prodotto una grande mole di decreti, non sempre di natura strettamente costituzionale. Per ultimare e perfezionare l’opera, nell’ottobre del 1790 Le Chapelier ha proposto di afiancare al Comitato di costituzione, il secondo, un Comitato di revisione di sette membri8: ad esso spetta di fare la cernita tra i diversi decreti, isolare 6. M. Vovelle, La chute de la monarchie 1777-1792, Points, Paris 1999, pp. 179-184. 7. M. Edelstein, The French Revolution and the Birth of Electoral Democracy, Ashagate, Farnham 2014. 8. Fanno parte del Comitato di revisione Adrien Du Port, Antoine Barnave, Alexandre 81 quelli di contenuto costituzionale e riunirli in un articolato logico e coerente, senza modiicarne i termini, a meno di sviste, errori o lacune sostanziali. Questo è dunque il quadro: la maggioranza che guida la Francia, la stessa che ha deciso di coprire la fuga del re e avallare la fucilata al Campo di Marte, ha in mano le redini della redazione inale della Costituzione grazie al cospicuo numero di uomini che siedono nei due Comitati. La tentazione di rivedere le regole di accesso alla cittadinanza politica è forte e appare più urgente dopo una prima valutazione sull’operato delle Assemblee elettorali: le preferenze degli elettori di secondo grado (coloro che pagano una contribuzione di 10 giornate lavorative), nella scelta di giudici, amministratori civili e religiosi, si sono riversate su igure considerate per molti aspetti pericolose o inafidabili, come Pétion, Robespierre, Roederer e Grégoire9. L’esito di questa prima applicazione delle regole elettorali fa temere, agli occhi della maggioranza, il rischio di un’impennata di estremisti sui banchi delle future assemblee legislative. 2. Riformare, sì, ma cosa? Una riforma s’impone, dunque, ma il punto è: cosa riformare? quale tassello di un sistema che cerca di tenere insieme le maglie larghe dell’inclusione (contribuzione di 3 giornate lavorative) e le barriere censitarie dell’esclusione (in oltre il marco d’argento)? Malouet, uno tra gli ultimi monarchiens ancora presenti in aula, avrebbe in mente di sferrare un attacco frontale all’opera dei costituenti; ci prova nella seduta dell’8 agosto, quando la discussione non è ancora entrata nel vivo, ferma com’è sull’ordine dei lavori. Ma la maggioranza dell’Assemblea si fa forte dell’impossibilità di tornare sui contenuti, deliberata in precedenza, per non ammettere critiche alla Costituzione, soprattutto non ammetterle da parte dei sostenitori del modello inglese. Infatti, per tagliare corto, gli toglie la parola10. de Lameth (che formano il cosiddetto Triumvirato), Stanislas Clermont-Tonnerre e Albert de Briols-Beaumetz (vicini ai monarchiens), Jerôme Pétion de Villeneuve e François-Nicolas Buzot (in rappresentanza dei gruppi più radicali). 9. A. Aulard, Histoire politique de la Revolution française, Armand Colin, Paris 19215, p. 160. 10. Il discorso, come da prassi, è comunque riportato per esteso negli Annexes delle Archives Parlementaires de 1787 à 1860, recueil complet des débats législatifs et politiques des Chambres françaises, sous la direction de M.-J. Mavidal, M.-E. Laurent, Première série (1789-1799), tome xxix, Dupont, Paris 1888, pp. 274-278. 82 Dopo questo primo incidente i lavori procedono in maniera piuttosto spedita, fatta eccezione per singoli punti e molte, necessarie precisazioni. Un primo segnale che lo scontro è solo rimandato si coglie quando il lavori giungono al Titolo III «Dei Pubblici Poteri» e, più precisamente, agli articoli che formano la Sezione seconda, «Assemblee primarie. Nomina degli elettori». L’articolo 2, relativo ai requisiti necessari per accedere alla cittadinanza attiva, passa veloce, senza intoppi. Nessuno si oppone, nessuno alza la voce contro questa misura su cui, invece, sono stati versati iumi d’inchiostro. E il fatto, in sé, è inequivocabile. Tutti sanno che i Comitati si sono espressi per abolire il cosiddetto marco d’argento innalzando, però, in modo vertiginoso, l’accesso al secondo grado: si vocifera dell’introduzione di una soglia paragonabile al marco d’argento, benché calcolata su un diverso asse contributivo. Dubbi e sospetti sono sciolti l’11 agosto quando il relatore Thouret presenta le ragioni che hanno indotto a rivedere parte del decreto 22 dicembre 1789. Le «garanzie» necessarie al buon funzionamento del sistema rappresentativo, egli afferma, possono essere soddisfatte in due modi: restringendo l’eleggibilità alla funzione di rappresentante della Nazione oppure restringendo l’accesso alle Assemblee elettorali di secondo grado. Il primo modo ha suscitato approvazioni ma anche un largo fronte di critiche, tant’è che la città di Parigi ne ha chiesto l’annullamento. Il secondo offre migliori garanzie: […] è negli elettori che riposa la base più essenziale della cosa pubblica perché è grazie ad essi che la società ottiene non solamente i suoi rappresentanti che fanno le leggi, ma ancora tutti i funzionari pubblici che agiscono per essa per il mantenimento dell’ordine in tutte le parti dell’amministrazione politica: poiché sono gli elettori stessi che danno gli amministratori, i giudici, anche i ministri di culto11. Ciliegina sulla torta, le Assemblee elettorali avranno la più ampia libertà di scelta e potranno eleggere alle diverse funzioni pubbliche tutti coloro che «meritano la loro iducia», anche semplici cittadini attivi. Per tutto questo, conclude Thouret a nome dei due Comitati, «abbiamo pensato, Signori, che la condizione di eleggibilità degli elettori dovesse essere una contribuzione del valore di 40 giornate di lavoro»12. Lo scontro a cui i costituenti si stanno preparando verte dunque sull’elettore di secondo grado, igura intermedia della piramide elettorale assurta 11. J.-G. Thouret, 11 agosto 1791, Archives Parlementaires…, cit., p. 356. Qui, e d’ora in avanti, la traduzione dei testi citati in lingua francese è mia. 12. Ibid. 83 – inaspettatamente – al ruolo di policy maker. Anche se nelle parole di Le Chapelier, membro del Comitato di costituzione, le modiiche proposte riguarderebbero in realtà ambiti qualitativamente diversi: […] è alle due estremità che io pongo il diritto del popolo: alla qualità di cittadino attivo che elegge nelle assemblee, e alla facoltà di essere eletto per l’Assemblea rappresentativa della nazione. Ma quanto alla funzione di elettore, è una funzione come quella di essere giudice e di essere amministratore: non c’è affatto in essa un diritto politico13. 3. I tre giorni dell’elettore Il tentativo di sottrarre l’elettore all’ambito politico non è che una delle tante forzature a cui si assisterà nel corso di un importante dibattito, quello che impegna l’Assemblea Nazionale Costituente per tre lunghe sedute, l’11, il 12 e il 27 agosto. Rendere conto dei singoli interventi potrebbe essere un esercizio avvincente se vincoli temporali e ragioni espositive non lo sconsigliassero. Si procederà dunque per sommi capi, a parte un accenno all’andamento dei lavori in aula (riassunto in appendice) tanto per non perdere il ilo della narrazione. L’11 agosto i lavori, iniziati il 5 con il lungo rapporto introduttivo di Thouret e ino allora proseguiti, si è detto, con andamento spedito, s’incagliano sull’articolo 714 relativo ai nuovi requisiti necessari per essere nominati elettori. Thouret ha presentato la proposta dei Comitati calcando la mano sul fatto che tutti i cittadini attivi potranno essere eletti alla rappresentanza nazionale. Ma la soluzione non riesce a mascherare la reale portata della misura, e la reazione è immediata. I più rilevanti oratori della sinistra, a partire da Pétion e Robespierre, argomentano contro; i più arguti rappresentanti della maggioranza, in particolare Barnave, difendono la proposta dei Comitati. Dopo nove ore ininterrotte di discussione, dopo ininite prove e controprove circa l’ammissibilità o meno della misura, l’Assemblea, stremata, decide di rimandare l’esame al giorno seguente. Il 12 si riparte, con una successione interminabile di interventi pro e contro, di mozioni d’ordine, di richiesta di andare immediatamente ai voti mentre, via via, la discussione inisce per ingarbugliarsi su questioni procedurali e aspetti particolari. Sembra che non se ne possa uscire ino a quando, su proposta del deputato Vernier, motivata in base all’importanza della norma 13. I.-R.-G. Le Chapelier, 12 agosto 1791, Archives Parlementaires…, cit., p. 386. 14. Come altre carte di ine Settecento, la Costituzione del 1791 non ordina gli articoli secondo una numerazione progressiva: l’articolo 7 a cui si farà più volte riferimento è l’ultimo della Seconda sezione in cui si ripartisce il Capitolo primo del Titolo terzo. 84 per l’intero disegno costituzionale, è deciso un ulteriore rinvio; questa volta, però, si tratta di attendere la conclusione dell’opera di revisione. Di qui lo slittamento al 27 agosto, quando l’Assemblea Nazionale Costituente, ormai a ine corsa15, ritorna sul punto. Di nuovo interventi pro e contro, ma la proposta dei Comitati, presentata con una nuova redazione e alcune integrazioni, è inine approvata. La prima impressione, da uno sguardo d’insieme, è quella di un andamento serrato, rigoroso e comunque senza colpi di scena: se sostenitori e oppositori appaiono irremovibili, è perché ciascuno ha vagliato, a lungo, le ragioni e gli argomenti da portare all’Assemblea. Manca l’illusione di poter convincere gli avversari e le posizioni sembrano espresse più per (ri) affermare la propria linea politica all’esterno che non per incidere in modo sostanziale sui lavori in aula. Molte considerazioni che si possono trarre dalla schermaglia oratoria sono state rilevate dai diversi interpreti della storia politica della grande rivoluzione. Aulard, quasi due secoli fa, individuava nella nuova deinizione dell’elettore «un episodio notevole della lotta di classe»16, coagulata nello scontro tra popolari e borghesi. Ed è questo, in effetti, uno dei punti su cui ribattono gli oppositori. Le parole infuocate di Robespierre – «che importa al cittadino che non vi siano più blasoni se vede, ovunque, la distinzione dell’oro»17 – non fanno che annunciare un iume in piena: con questa norma «vedrete rinascere una nuova nobiltà; vedrete dei patrizi, e venti milioni di plebei alle loro dipendenze»18 lamenta Grégoire; vi è infatti il rischio di fondare una «aristocrazia dei ricchi»19, gli fa eco Rewbell. Più recentemente Bernard Manin ha parlato di una via francese per rafforzare, attraverso un intervento istituzionale, quel principio di distinzione in realtà sempre operante nelle competizioni elettorali: un principio che i Comitati perseguono calcando sul secondo livello della barriera censitaria, dunque in modo diverso rispetto ai sistemi coevi adottati in Gran Bretagna (barriera unica e assai più consistente) e nella giovane Unione americana (assenza di barriere nel testo costituzionale e rinvio, per questo, alle singole leggi statuali)20. 15. Le restano da votare tre decreti e decidere il protocollo per la presentazione della Costituzione al sovrano: anche per questo l’articolo 7, l’ultimo a suscitare una grande battaglia, assume un valore liminare all’interno dei lavori dell’Assemblea Nazionale Costituente. 16. Aulard, Histoire politique…, cit., p. 163. 17. Discorso dell’11 agosto 1791, Archives Parlementaires…, cit., p. 360. 18. Discorso del 12 agosto 1791, Archives Parlementaires…, cit., p. 384. 19. Discorso del 27 agosto 1791, Archives Parlementaires…, cit., p. 749. 20. B. Manin, Principi del governo rappresentativo (1992), tr. it. di V. Ottonelli, il Mulino, Bologna 2010, pp. 110-113. 85 A dire il vero anche altri aspetti meriterebbero attenzione. A partire dal fatto che le tre giornate rappresentano una pagina signiicativa per la storia costituzionale. Nel corso del dibattito emergono parecchi aspetti procedurali; ci si chiede, ad esempio, se è lecito o meno tornare su una norma precedentemente approvata. Ma sotto questo proilo l’Assemblea Nazionale non ha operato linearmente: si era ripromessa di non cambiare nulla e, difatti, in virtù di tale decisione, non ha ammesso interventi critici, come quello di Malouet. Tuttavia ha inito per modiicare l’architettura dei poteri stravolgendo l’articolo 7 in modo sostanziale. Per altro è a tutti chiaro che sulla materia si dovrebbe deliberare con la massima cautela. Sempre nel corso del dibattito, infatti, emergono posizioni consapevolmente contrarie alla costituzionalizzazione delle leggi elettorali: legare le condizioni per l’esercizio del droit de Cité alla legge fondamentale, si argomenta, ne mette in pericolo la durata. Di più, apre necessariamente alla revisione21. Anche per la storia elettorale l’esame dell’articolo sugli elettori ha un respiro fondativo. La discussione porta alla luce la frattura, mai rimarginata e mai risolta, tra campagna e città. Su due punti, in particolare, ci s’infervora. Sul fatto che i livelli contributivi e le attività prevalenti del mondo rurale sono, e continuano ad essere, segnatamente diversi rispetto a quelli urbani, e che da tale diversità – quasi inevitabilmente – discende un divario incolmabile in termini di concreta possibilità di accedere alla grande politica. La redazione inale terrà conto, in una certa misura, di queste differenze: al posto della condizione unica (40 giornate lavorative) proposta in prima battuta dal Comitato, si sceglierà di modulare la barriera a seconda che l’elettore abiti in campagna, in una città piccola o in una città grande22. Ma neppure questo potrebbe risolvere il divario morale, che è poi quello su cui maggiormente s’insiste. Per capire chi è il lavoratore che paga una contribuzione di 10 giornate lavorative, di quale statura morale è fatto e da quale spirito civico è mosso; per capire, cioè, a chi il Comitato sta negando il diritto di voto, argomenta un avversario, «bisogna uscire dalle città, respirare l’aria pura delle campagne»: Non bisogna avere sempre gli occhi issi sulle città, e sul bene e il male che dicono di voi i giornalisti che esse racchiudono. Bisogna uscire dalle città, respirare l’aria pura delle campagne. E che cosa vi vedrete? […] Vi vedrete pochi coltivatori che aspirano a essere deputati, ma una moltitudine di cittadini che si credono tagliati per essere elettori 21. J.-F. Rewbell, 27 agosto 1791, Archives Parlementaires…, cit., p. 749. 22. Cfr. Le Costituzioni di democrazia. Testi 1689-1850, a cura di E. Rotelli, il Mulino, Bologna 2008, pp. 217-218. 86 perché, per essere tali, è suficiente avere della probità e la iducia della maggioranza dei cittadini con cui si vive abitualmente23. Parole che, a dire il vero, potrebbero introdurre un altro ambito a cui il dibattito apporta contributi signiicativi, quello della retorica parlamentare. Ma il vero imbarazzo, a quest’altezza, è il numero eccessivo degli esempi. Proprio per questo non si andrà oltre due rilievi. Uno verte sull’assunzione di posizioni estremiste da parte degli oppositori: tant’è che parecchi24 – ma non Robespierre – arriveranno a chiedere di mantenere il marco d’argento pur di non accettare la nuova misura, lesiva dei diritti di un numero più che considerevole di cittadini. Una stranezza che, del resto, non sfuggirà a un autorevole membro del Comitato di costituzione25. L’altro riguarda ancora il fronte degli oppositori, dove alcuni si rallegrano nello scoprirsi più attaccati alle regole di quanto lo siano gli avversari. Sono proprio loro, gli oppositori, coloro che durante la crisi innescata da Varennes sono stati accusati di «repubblicanesimo»26, che ora chiedono di mantenere il contenuto dei decreti votati o, meglio, solennemente giurati dalla stessa Assemblea Nazionale. 4. Realismo… e … idealità Se contenuti, strategie e retoriche dell’una e dell’altra parte formano, nell’insieme, un materiale ben studiato, minore attenzione è stata prestata a un ulteriore livello discorsivo. L’intero dibattito può essere ripercorso separando le affermazioni vocate al realismo dalle posizioni in cui preminente appare invece la difesa delle idealità. Seguendo questo ilo – lo stesso di un importante convegno tenutosi a Perugia nel 201327 – non sembra possibile, però, ascrivere il realismo ai soli fautori dell’innalzamento della soglia né 23. Rewbell, 27 agosto 1791, Archives Parlementaires…, cit., p. 749. 24. A questa conclusione arrivano Pétion, Roederer e Buzot nella seduta dell’11 agosto, Goupil-Préfeln il giorno seguente, anche se lista è molto più lunga. 25. «E permettemi, signori, di fare un’osservazione. C’è ch’è in troppo strano che siano quelli che hanno fatto ininiti reclami contro il marco d’argento, coloro che non hanno smesso di alzare la voce per la riforma di quel decreto, coloro che per primi ci hanno illuminato sui vizi di quella disposizione, che siano proprio loro, io dico, che oggi vengono a reclamarne la conservazione!» (Le Chapelier, 12 agosto 1791, Archives Parlementaires…, cit., p. 386). 26. «Ed è davvero sorprendente, in verità, che coloro che sono stati sì a lungo accusati di repubblicanesimo siano i primi a combattere per mantenere la Costituzione tale e quale» (F.-N. Buzot, 11 agosto 1791, Archives Parlementaires…, cit., p. 364). 27. A. Campi, S. De Luca (a cura di), Il realismo politico. Figure, concetti, prospettive di ricerca, Rubbettino, Soveria Mannelli 2014. 87 agli altri un’esclusiva sul piano delle idealità. L’impressione che si ricava, a conclusione della lettura, non può che essere diversa, ed è su questo che si vuole riferire. Anche perché essa non collima con alcune osservazioni di Pierre Rosanvallon. Non tanto perché lo studioso francese non usa il metro del realismo e del suo contrario. A Rosanvallon preme mostrare che in quel frangente l’idea inseguita dai costituenti – da tutti i costituenti – è quella di un’«eguaglianza simbolica». Ma nel far questo inisce per affastellare momenti diversi e, soprattutto, scivola via sulle aspre contrapposizioni che, di fatto, scandiscono le tre giornate28. Ciò non signiica che il registro simbolico non sia fondamentale (non potrebbe essere altrimenti), tuttavia non è l’unico a operare. Accanto ad esso, o grazie ad esso, ne giocano altri non meno rilevanti, come per l’appunto la convinzione di dare voce alla realtà delle cose: un registro, è bene ripetere, non sempre riconducibile agli schieramenti in aula. In realtà chi vorrebbe restringere l’accesso al secondo grado elettorale spesso si esprime per mezzo di un realismo addirittura crudo, per altro favorito dalla concomitanza della discussione con le operazioni elettorali che stanno interessando il Paese. I lavori delle Assemblee di secondo grado, sostengono i sostenitori del Comitato, sono complessi e vanno a rilento a causa del sistema elettorale adottato, uno scrutinio di lista semplice a tre turni29. Ma gli uomini che superano di misura la soglia delle 10 giornate lavorative non possono permettersi di soggiornare nei rispettivi capoluoghi di dipartimento tralasciando il proprio lavoro. Ed ecco che arriva la richiesta di essere pagati per svolgere quello che, allora, è ritenuto più un dovere che non un diritto. Briols-Beaumetz, uno dei più strenui difensori delle nuove condizioni, nonché membro del Comitato di revisione, batte forte su questo punto. Ma, si dice, voi state per privare i cittadini di un diritto di cui sono gelosi. Amerei crederlo. Tuttavia, bisogna dirlo, non avete notato che una gran parte degli elettori, lungi da guardare quest’onorevole distinzione come un favore, come una prova di stima dei loro concittadini, avevano considerato tale funzione come onerosa e vi avevano pregato di accordare loro un trattamento? (Applausi) Che mi sia permesso di osservarlo, è a questo che si deve attribuire la diserzione delle assemblee elettorali, poiché in questa stessa capitale, nel seno del patriottismo, si è visto delle scelte risultanti da soli 200 elettori. Non è a un difetto di patriottismo che bisogna attribuirlo, dato che il suo felice 28. Al punto da chiedersi «per quale motivo l’opposizione inalmente vittoriosa al marco d’argento non si è riprodotta quando le condizioni restrittive furono spostate sull’elettore?» (Rosanvallon, Le sacre du citoyen…, cit., p 85). L’esame del dibattito, invece, mostra che l’opposizione in aula ci fu, e che anch’essa fu ampia, lunga e tenace. 29. Cfr. S. Aberdam et al., Voter, élire pendant la Révolution française 1789-1799. Textes oficiels organisant l’activité électorale, Paris, Cths 2006, p. 239. 88 giuramento agita ancora tutti gli spiriti. A cosa dunque attribuirlo? Al fatto che avete sottoposto a questa funzione delle persone che in tal modo distogliete dalle loro cure giornaliere; e perché non vi sia permesso di dubitarne, essi hanno inito per chiedervi un’indennità per il tempo del loro spostamento30. La necessità di restringere l’accesso al grado di elettore, conclude l’oratore della maggioranza, è dunque una logica conseguenza del comportamento di molti cittadini: desertando le Assemblee elettorali, sono essi stessi a decretare che per essere elettori di secondo grado è necessario trovarsi in ben altre disponibilità, in primo luogo economiche. Non minor realismo, in ogni modo, si riscontra nelle ile degli oppositori. L’abolizione del marco d’argento, nelle parole del relatore Thouret, costituirebbe una «compensazione»31 rispetto alla perdita di accesso alle Assemblee di secondo grado. È come se si chiudesse una porta e se ne aprisse un’altra, del resto ben più importante. Questa argomentazione inisce sotto il fuoco di molti oratori. Realisticamente, si chiedono i Pétion, i Robespierre, i Roederer, dove andrà a cadere la scelta di elettori ricchi se non su chi, come loro, è in grado di offrire quelle garanzie che il Comitato, a torto, individua nel possesso? Una possibilità immaginaria non sostituisce affatto un diritto reale. Proporre alla maggioranza della nazione la prospettiva poco fondata di essere deputato, per privarla del diritto reale e molto esteso di essere elettore, è prendersi gioco di essa e volerla pascerla con un’illusione32. Barnave, a capo della maggioranza che vuole imprimere alla revisione costituzionale una piega moderata e conservatrice33, è un politico troppo accorto per non inciampare in modo altrettanto maldestro. Proprio l’11 agosto 1791 tiene uno dei suoi discorsi più celebri, spesso citato. In questo magazzino dell’oratoria politica c’è infatti di tutto. Un esame che sfocia nella distinzione tra governo rappresentativo e democrazia; l’indice puntato contro il maggiore rischio per il governo rappresentativo, vale a dire la corruzione; 30. A. Briols-Beaumetz, 11 agosto 1791, Archives Parlementaires, tomo xxix, cit., p. 362). Sulla stessa linea anche l’intervento di Le Chapelier (ibid., p. 387 ss.). 31. Thouret, 11 agosto 1791, Archives Parlementaires…, cit., p. 357; Pétion, che interviene subito dopo il relatore, stigmatizza invece il maldestro tentativo di «indennizzo» (ibid., p. 358); espressioni simili si ritrovano negli interventi di quasi tutti gli oppositori. 32. Rewbell, 27 agosto 1791, Archives Parlementaires…, cit., p. 748. 33. Dopo la morte di Mirabeau, è Barnave che intrattiene rapporti segreti con i sovrani, in particolare con la regina a cui va ripetendo, in questo mese d’agosto, che la Constitution est très monarchique: «l’aristocrazia è abbattuta, ma il principio monarchico vi è profondamente e solidamente radicato» (A. Barnave alla regina, s.n, s.d, in Marie-Antoniette, Correspondance, tomo iii: Correspondance secrète avec Barnave juillet 1791-janvier 1792, Éditions paleo, Paris 2005, p. 39). 89 una stoccata contro i nemici del buon governo tra cui, in bella vista, igurano giornalisti e «pamphlettisti». Un vero arsenale di argomenti, frugando nel quale, però, si capisce come Barnave ben si guardi dal prospettare l’elezione di umili cittadini, cioè uomini che contribuiscono alla spesa pubblica per sole 3 giornate lavorative, alla sommità della rappresentanza politica. Più concretamente, egli afferma, il buon cittadino lavoratore sa perfettamente che non sarà scelto, ma saprà comunque accontentarsi, anzi sarà orgoglioso della possibilità che ora gli viene offerta. C’è da aggiungere che è a Pétion de Villeneuve, più che ad altri, che Barnave sembra indirizzare il suo intervento. Dopo aver combattuto le nuove disposizioni in qualità di membro del Comitato di revisione, Pétion – primo degli oppositori a prendere la parola – smonta pezzo per pezzo il rapporto di Thouret facendo sfoggio di tutta la sua arte oratoria. È nelle Assemblee elettorali, sostiene il futuro sindaco di Parigi, in quelle assemblee dove si fanno le scelte importanti, che «l’egalité respire»: perché è lì che l’uomo che paga l’equivalente di 10 giornate lavorative ha la possibilità di trovarsi accanto ai possidenti, ai più istruiti, a chi nella scala sociale occupa i gradini superiori. È nelle Assemblee elettorali, rincara, che risiede «la vera fonte della rappresentanza». Organizzare i corpi elettorali secondo le «condizioni disastrose» proposte dal Comitato equivale dunque a decretare che «la rappresentanza non è più reale, la rappresentanza non è più intera, la rappresentanza non è più nazionale»34. 5. Aporie della cittadinanza L’eguaglianza che respira è un’immagine forte e riccamente allusiva. Di primo acchito verrebbe da ascriverla al piano delle idealità se l’associazione al verbo «respirare» – a sua volta sinonimo di «vivere» – non invitasse a complicare l’interpretazione, a sottrarre quest’immagine a un solo registro esplicativo. Più letture, a ben vedere, potrebbero infatti coesistere. Una è legata a ragioni fattuali. Riguarda il modo in cui a quel tempo si svolgevano le elezioni: il modo assembleare, prolungato, a volte anche per parecchi giorni. Non si trattava di un attimo fugace, del mero gesto di mettere un foglio in un’urna, ma della reale compresenza di alcune decine di uomini in un dato luogo per un arco di tempo non indifferente. Nel corso del quale si discuteva, si contrattava, talvolta si iniva per prendere decisioni 34. J. Pétion de Villeneuve, 11 agosto 1791, Archives Parlementaires…, cit., p. 358. 90 anche su altre questioni: in questo senso, allora, è molto realistica l’immagine proposta da Pétion. Altre possibili letture chiamano in causa un prima e un dopo: un prima che è gia passato (la sociabilità ai tempi dei Lumi) e un dopo che si proporrà molto più avanti, pur affondando le radici nelle esperienze del prima tanto lontano. È all’annoso problema della ricerca di una democrazia migliore, fondata su una deliberazione partecipata e condivisa – pratica che Jürgen Habermas individua per l’appunto nelle società borghesi di ine Settecento35 – che si vuole alludere. Con l’immagine di un’eguaglianza che respira – ossia vitale e vivace, dunque pulsante, senziente, agente – Pétion sembra preigurare, se non i dilemmi dell’oggi, molti nodi che si vanno ponendo nell’immediato. Essere elettore per lui vuol dire far parte realmente, in modo isico, corporale, dell’assemblea: un essere che signiica esser-ci. Per molte ragioni, in primo luogo ideali: «essere elettore è una qualità ambita, desiderata»; «gli uomini di tutte le professioni amano ritrovarsi in queste assemblee», vale a dire nei luoghi in cui le diseguaglianze non contano. E invece «voi state per privarli all’istante del diritto di ritrovar-ci-si»36. L’eguaglianza simbolica ha dunque un suo peso, indubitabile, ma non è tutto. Quello che è in gioco è anche il reale funzionamento della macchina rappresentativa, un avversario assai più temibile del Comitato di revisione. Il vero antagonista di Pétion, per l’appunto, sono quei terribili vuoti che inevitabilmente vanno creandosi nel passaggio, anzi, nell’istituzionalizzazione del governo rappresentativo. Si può dire che nella seduta dell’11 agosto egli dia voce a un pericolo che non sarebbe sfuggito a Thomas Jefferson e che, di lì a poco, sarà al centro del Plan de Constitution di Condorcet. Ovviamente a modo suo. Mentre Jefferson e Condorcet paventano la possibilità di un irrigidimento costituzionale (non a caso entrambi insistono sulla revisione periodica della Legge fondamentale), Pétion è ancora tutto dentro gli ingranaggi della rivoluzione e si muove in difesa delle più recenti conquiste, messe a repentaglio dai Comitati. Utilizzando la sua stessa prosa, l’innalzamento della soglia per accedere alla qualità di elettore soffocherebbe, di fatto, l’eguaglianza che respira. Più in generale, è da chiedersi se e in quale misura i tre giorni dedicati all’esame dell’articolo 7 abbiano lasciato un segno nella storia della cittadinanza politica francese. 35. J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica (1961), tr. it. di A. Illuminati, F. Masini, W. Perretta, Laterza, Roma-Bari 20155. 36. Pétion de Villeneuve, 11 agosto 1791, Archives Parlementaires…, cit., p. 358. Corsivi e l’aggiunta di segni di interpunzione sono miei. 91 Sull’immediato la risposta è negativa. Le nuove disposizioni non erano state pensate per le elezioni all’Assemblea legislativa allora in corso, ma in vista della tornata successiva, quella che sarebbe dovuta cadere nell’estate del 1793. Com’è noto, l’andamento della guerra e nuove insurrezioni spazzarono via la Costituzione del 1791, e non solo, ben prima di quell’appuntamento elettorale. Ma il pezzo forte dell’architettura avrebbe resistito per qualche tempo: con la sola eccezione dell’inattuata Costituzione montagnarda37, l’articolo 7 fu riproposto praticamente alla lettera nella Costituzione termidoriana38 e in termini piuttosto simili nei sistemi napoleonici, ino al suo deinitivo accantonamento ad opera delle leggi elettorali della restaurazione. Resta che l’articolo 7 conigura un sistema elettorale peculiare, dove una grande apertura, in basso e in alto, si fonde con un giro di vite particolarmente stretto a livello intermedio, cioè nella scelta degli elettori. Si tratta di un modello inedito e, salvo errori, mai più riproposto dopo la lunga stagione rivoluzionaria d’oltralpe. Nei sistemi censitari, infatti, lo sbarramento di solito cresce salendo di grado. L’anomalia, d’altra parte, si chiarisce calando la misura nel suo tempo: in essa si rilettono paure (il proilarsi di una maggioranza democratico-repubblicana), tensioni (lo scontro tra popolari e borghesi) ma anche ambizioni (riaffermare l’eguaglianza quantomeno simbolica) e vaghe intuizioni (la presenza di un principio di distinzione nelle competizioni elettorali) che, nell’insieme, hanno impresso una curvatura peculiare alla traduzione costituzionale del droit de cité nell’estate del 1791. Anche per questo, dopo aver ricordato le ragioni dei fautori e degli avversari, piace restituire la parola a chi era stata tolta. L’intenzione di Malouet era di mostrare subito, senza attendere la discussione sull’articolo 7, le contraddizioni del nuovo sistema costituzionale. Per questo, facendo prova di vero realismo (in entrambe le accezioni), l’oratore dei monarchiens puntava dritto al cuore del problema: Voi avete voluto, attraverso un cammino retrogrado di venti secoli, avvicinare il popolo alla sovranità, e di continuo gliene date la tentazione senza afidargliene direttamente l’esercizio39. 37. La quale, però, prevede il ricorso ad Assemblee elettorali, cioè di secondo grado, per la nomina di amministratori e la scelta di una rosa di eleggibili al Consiglio esecutivo (cfr. articoli 37 e 38). 38. Costituzione del 1795 o dell’anno III, Titolo IV, articolo 35. 39. P.-V. Malouet, 8 agosto 1791, Archives Parlementaires…, cit., p. 264. 92 Assemblea Nazionale Costituente, agosto 1791 Principali interventi sull’art. 7 della sezione II (cap. I, Titolo III): «Assemblee primarie. Nomina degli elettori» 11 Thouret agosto relatore Pétion Prugnon Robespierre Roederer Briol-Beaumetz Buzot Barnave [diversi interventi] contro pro contro contro pro contro pro Thouret [diversi interventi] relatore Freteau-Saint-Just contro RINVIO ALL’INDOMANI 12 Thouret Grégoire Guillaume Goupil-Préfeln Merlin Le Chapelier D’André [diversi interventi] Venier agosto relatore contro pro contro contro pro contro, mozione: AGGIORNAMENTO a ine lavori 27 Démeurier Rewbell La Rochefoucauld Goupilleau D’Allarde Buzot Démeurier Dubois-Crancé [diversi interventi] Démeurier agosto relatore contro pro pro pro [non può parlare] contro relatore pro relatore VOTAZIONE Roederer Goupil-Préfeln Grégoire 93 chiede integrazioni chiede integrazioni contro [non può parlare] Questioni di cittadinanza in un «eclettico meticcio politico»: Tom Paine (1737-1809) Thomas Casadei 1. La cittadinanza come spazio di tensioni Il termine “cittadinanza”, è ormai consuetudine rilevarlo, «è evocativo di un universo semantico sommamente complesso e poliforme. Affermare che essere “cittadini” ha a che fare con l’appartenenza a una civitas, ossia a una comunità di individui che condividano diritti e doveri e si riconoscono reciprocamente una medesima identità politica, è sicuramente corretto, e tuttavia non pienamente soddisfacente. Le diverse idee attorno alle ragioni di quell’appartenenza, alle modalità di costituzione di quella comunità e soprattutto alla giustiicazione delle regole in base a cui sono issati di volta in volta i termini dell’inclusione e dell’esclusione, producono signiicati molto diversi tra di loro, proili identitari estremamente variegati, in deinitiva “registri del discorso” non sempre comunicanti»1. Come è stato notato in una delle opere più complete e organiche sul tema, una vera e propria storia del pensiero politico e istituzionale sub specie civitatis, «cittadinanza è divenuto un crocevia di suggestioni variegate e complesse che coinvolgono l’identità politico-giuridica del soggetto, le modalità della sua partecipazione politica, l’intero corredo dei suoi diritti e dei suoi doveri»2. Diverse sono dunque le modalità di ricostruzione, analisi, narrazione di questo concetto, diversiicate le intenzionalità che fanno da sfondo al suo utilizzo in ambito accademico ma anche nella retorica politica. 1. E. Grosso, Una cittadinanza funzionale. Ma a cosa? Considerazioni sull’acquisto della cittadinanza iure soli, a partire da una suggestione di Patricia Mindus, in «Materiali per una storia della cultura giuridica», 2, 2015, pp. 477-501, p. 477. 2. P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, 4 voll., Laterza, Roma-Bari 1999-2001, vol. I: p. VII. 94 Rispetto a questo scenario sono venuti a consolidarsi, in generale, due atteggiamenti. Da un lato, vi è quello che, partendo dalla nozione convenzionale marshalliana3, anche al ine di criticarla, si propone un’actio inium regundorum nel tentativo di fare chiarezza, distinguere piani e, come è stato tentato con grande rigore recentemente da Patricia Mindus, proporre una teorizzazione che possa fare presa sulla realtà attraverso standard e criteri di valutazione4. Dall’altro lato, quello che mira a cogliere, in una chiave critica, tensioni e antinomie, aporie e asimmetrie5, come ha suggerito, tra gli altri, Étienne Balibar nei suoi scritti; a partire da quest’angolazione c’è chi ha proposto di abbandonare l’uso del concetto per una supposta «impossibilità deinitoria»6, o, d’altro canto, di individuarne nuove possibilità di utilizzo. In questa categoria si rinviene una forma tipica della modernità, che meglio di altre ne rispecchia le «tensioni»7; ancora, si rileva come dietro alla logica della cittadinanza ci siano una serie di fatti contingenti e/o mere questioni di opportunità tipiche della Realpolitik. Sotto questo proilo, «non si può non partire dalla considerazione che le leggi sulla cittadinanza rappresentano la risultante di relazioni di potere e sono l’espressione di un’élite di un dato momento storico». Esse non sarebbero altro che «lo strumento essenziale attraverso cui lo stato […] racconta e rappresenta la sua idea dell’estensione della comunità politica»8. In entrambi i casi, l’odierna complessiicazione della cittadinanza, la varietà di «strutture di signiicato» a essa sottese, le sue molte facce, esigono un numero crescente di «competenze»9 per studiarla; di qui l’utilità, 3. Cfr. D. Zolo (a cura di), La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Laterza, Roma-Bari 1994. 4. P. Mindus, Cittadini e no. Forme e funzioni dell’inclusione e dell’esclusione, Firenze University Press, Firenze 2014 (a cui si rimanda anche per l’ampia letteratura recente in materia di citizenship studies). In un altro scritto, generato da una discussione a più voci del volume, l’autrice precisa ulteriormente il suo intento: «lo standard che propongo […] ci fornisce un metodo per scegliere una regolazione dell’accesso alla cittadinanza che sia funzionale (o adeguata) al ruolo svolto dalla cittadinanza all’interno dell’ordine costituzionale» (P. Mindus, Ancora sulla teoria funzionale della cittadinanza. Risposta ai critici, in «Materiali per una storia della cultura giuridica», 2, 2015, pp. 521-541, p. 541). 5. É. Balibar, La cittadinanza, Bollati Boringhieri, Torino 2012. 6. Sempre P. Grosso, Una cittadinanza funzionale, cit., p. 477. 7. E. Gargiulo, Leggere la modernità e le sue tensioni: la cittadinanza come chiave di lettura simmeliana, in C. Corradi, D. Pacelli, A. Santambrogio (a cura di), Simmel e la cultura moderna, voll. II: Interpretare i fenomeni sociali, Morlacchi, Perugia 2010, pp. 49-70. 8. P. Grosso, Una cittadinanza funzionale, cit., p. 479. 9. Cfr. P. Raciti, La cittadinanza e le sue strutture di signiicato, FrancoAngeli, Milano 2004; E. Gargiulo, L’inclusione esclusiva. Sociologia della cittadinanza sociale, FrancoAn- 95 di recente ribadita con dovizia di argomenti, di uno studio interdisciplinare10. La cittadinanza, sotto questo proilo, rappresenta un ineludibile «mezzo di costituzione dell’identità»11 ma anche, come emerso in una serie di studi critici degli ultimi anni, un formidabile «meccanismo di differenziazione»12. Con riferimento a quest’ultimo aspetto, essa assume un rilievo straordinariamente problematico: tramite la sua igura si attua una distinzione netta tra chi appartiene a una certa comunità politica e possiede una certa identità ben precisa (mediante la quale rivendicare il rispetto e la tutela dei diritti fondamentali e umani) e chi, invece, è escluso da tale perimetro e possiede un’identità che risulta, rispetto a essa, del tutto eterogenea, altra; lo attestano i recenti fenomeni migratori e, con essi, lo spezzarsi del consenso «sui “valori” costitutivi dello stato democratico»13. I tratti di questa alterità possono, tuttavia, conoscere conigurazioni differenti che è bene distinguere in modo analitico, come ha opportunamente proposto Mindus. Si possono, in prima battuta, individuare tre diverse dicotomie: quella cittadino/suddito (con riferimento allo spazio politico); quella cittadino/straniero (con riferimento allo spazio giuridico); quella cittadino/ emarginato (con riferimento allo spazio sociale)14. geli, Milano 2008; Su questi proili: S. Caruso, Una nuova ilosoia della cittadinanza, Firenze University Press, Firenze 2012, p. 81. 10. E. Gargiulo, G. Tintori, Giuristi e no. L’utilità di un approccio interdisciplinare allo studio della cittadinanza, in «Materiali per una storia della cultura giuridica», 2, 2015, pp. 503-519 11. «La cittadinanza, con tutti i condizionamenti che derivano a livello di libertà di movimento delle persone in Europa, rappresenta la vera “macchina discriminante” contribuendo a determinare non solo i conini concettuali tra differenti classi di individui, ma anche l’appartenenza degli stessi alle relative classi» (D. Ruggiu, Cittadinanza e processi formalizzati di costituzione dell’identità in Europa, in «Ragion pratica», 2, 2012, pp. 225-257, p. 233). 12. Si veda, a titolo esempliicativo, O. Giolo, Status in trasformazione. Il diritto alla cittadinanza nell’esperienza europea, in Ead., Diritti e culture. Retoriche pubbliche, rivendicazioni sociali, trasformazioni giuridiche, Aracne, Roma 2012, pp. 23-55. 13. Si vedano, in proposito, i contributi di Clelia Bartoli, Come il diritto inventa le identità e di P. Mindus, Cittadinanza, identità e il sovrano potere di escludere in «Ragion pratica», 2, 2012, rispettivamente alle pp. 335-356 e 477-494. Sulle trasformazioni cui è soggetta la categoria della cittadinanza in seguito alle pressioni migratorie e allo svolgersi delle dinamiche della globalizzazione si vedano gli studi condotti da S. Mezzadra: Diritto di fuga: migrazioni, cittadinanza, globalizzazione, ombre corte, Verona 2001; S. Mezzadra e A. Petrillo (a cura di), I conini della globalizzazione: lavoro, culture, cittadinanza, Manifestolibri, Roma 2000. Come ulteriore sviluppo di questo approccio, si veda É. Balibar, S. Mezzadra, Ranabir Samaddar (eds.), The Borders of Justice, Temple University Press, Philadelphia 2012. 14. Oltre allo studio monograico citato in precedenza, si veda P. Mindus, Anatomia del cittadino. Tre modi di intendere la cittadinanza e alcuni problemi indesiderati, in «Analisi e Diritto», 2009, pp. 73-97. 96 A queste tre declinazioni si può però aggiungere una più ampia dicotomia tra emancipazione/esclusione che rinvia ad uno spazio, lato sensu, culturale e ideologico (ovvero, entro certi approcci, normativo, nel senso di ‘valoriale’15). Un proilo, questo, su cui torneremo nelle rilessioni conclusive di questo contributo. Per cogliere le odierne «antinomie» della cittadinanza16, prendendo sul serio la tripartizione sopra menzionata, può essere certamente fecondo uno scavo di tipo genealogico17, specie se condotto – come sarà in questa sede mediante il pensiero e l’impegno politico di Paine – nel periodo in cui il concetto di cittadinanza è indissociabile dalla promessa di eguaglianza, per lo meno nella sua formulazione: il lasso di tempo che va dalla Declaration of Indipendence del 1776 alla Déclaration des Droits de l’Homme e du Citoyen del 1789, con la cesura epocale che ne consegue nel discorso sulla cittadinanza. Da questo punto di vista risultano interessanti le connessioni tra l’idea di cittadinanza e le ideologie politiche; basti pensare, solo per fare un esempio, ai diversi liberalismi che si delineano tra la seconda metà del Settecento e il corso dell’Ottocento (‘aristocratico’, “moderato”, “umanitario”, “radicale”, “progressivo”18) e alle loro forme di giustiicazione dell’inclusione/ esclusione; ma anche, con riferimento allo stesso lasso di tempo, il sempre problematico legame tra cittadinanza e cosmopolitismo19 o, ancora, quello a lungo rimosso tra cittadinanza e genere20. 15. Si veda, ad esempio, S. Veca, La cittadinanza. Rilessioni ilosoiche sull’idea di emancipazione, Feltrinelli, Milano 1990. 16. É. Balibar, Cittadinanza, cit., in part. p. 80. 17. È questa la via praticata, con grande rigore, nell’opera di Costa come è stato rilevato in varie recensioni al primo volume (P.P. Portinaro, Genealogia della cittadinanza, in «Teoria politica», 2, 2000, pp. 177-179; L. Scuccimarra, I sentieri della cittadinanza, in «Storica», 16, 2000, pp. 173-189; F. Soia, Archeologia della cittadinanza, in «Passato e presente», 53, 2001, p. 165) nonché in una sua discussione complessiva (C. Malandrino, Sulle retoriche politiche del discorso sulla cittadinanza, in «Il Pensiero Politico», 1, 2004, pp. 126-132). 18. A titolo esempliicativo si vedano, in questo volume, i contributi di Polsi e Breccia sul pensiero di Pierantoni (liberalismo progressivo), quello di Minuto su Meale (liberalismo umanitario), di Lenci sul liberalismo moderato di Gioberti e, ancora, quello di Calabrò che compara il liberalismo radicale e progressivo di Mill con quello aristocratico di Bagehot. Ma da tratti aristocratici, come è ormai noto, non era immune il pensiero dello stesso Mill: cfr., sul punto, R. Giannetti, L’utopia di un liberale aristocratico: saggi sul pensiero politico di John Stuart Mill, ETS, Pisa 2002. 19. Per una visione d’insieme si veda K. Hutchings, R. Dannreuther (eds.), Cosmopolitan Citizenship, St. Martin’s Press, New York 1999. Cfr. anche il contributo di De Federicis in questo volume. 20. Su questo punto speciico si tornerà in seguito. 97 Dietro la promessa di eguaglianza si combinava, sotto un velo invisibile, la produzione di status differenti: la condizione di eguaglianza di accesso ai diritti civili e politici, nella pratica, escludeva chiunque non fosse maschio, bianco, proprietario e capofamiglia21. È questo uno snodo chiave nella storia della cittadinanza ma, per molti versi, anche nel suo stato presente. Come si osserva con forza nell’ambito delle teorie critiche del diritto, infatti, «la razza, la classe, il genere, continuano a funzionare come fattori determinanti di una cittadinanza ineguale, che deprivano le persone dell’opportunità di partecipare a numerose forme di associazione e di lavoro cruciali allo sviluppo dei talenti e delle capacità – talenti e capacità che a loro volta mettono in grado gli esseri umani di contribuire in modo signiicativo alle (e di trarre beneicio dalle) possibilità collettive della vita nazionale»22. Il processo di “naturalizzazione” di certe differenze, sedimentato attraverso sistematiche giuridiche diverse a seconda dei contesti23, struttura forme di cittadinanza che determinano gerarchie e trattamenti, ingiustamente, differenziati (la cittadinanza diseguale, appunto). La naturalizzazione costituisce, oggi come in passato, l’atto di consacrazione della visione del gruppo dominante, la sua piena legittimazione: naturalizzandosi, esso fa sì che i suoi dogmi restino impliciti, che i conini imposti al pensiero, al linguaggio e all’azione siano invisibili, che abbia più resistenza di un impedimento creato da un corpo isico in quanto non riconoscibile. Sul piano giuridico-istituzionale ne deriva ciò che Balibar deinisce «cittadinanza imposta» (ascriptive citizenship), quella concezione della cittadinanza che anche i protagonisti della Critical Race Theory (CRT) hanno stigmatizzato, mettendo in evidenza il residuo di imposizione che è proprio di ogni “cittadinanza”, nonché il suo «sovrano potere di escludere»24. 21. Cfr. F. Belvisi, Cittadinanza, in A. Barbera (a cura di), Le basi ilosoiche del costituzionalismo, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 117-144. 22. Così C.L. Harris e U. Narayan: L’azione affermativa e il mito del trattamento preferenziale (1994), in Legge, razza e diritti, La Critical Race Theory negli Stati Uniti, Diabasis, Reggio Emilia 2005, p. 177. Per una disamina di questi aspetti, con particolare attenzione al dibattito contemporaneo, sia consentito rinviare al mio Il rovescio dei diritti umani. Razza, discriminazioni, schiavitù, DeriveApprodi, Roma 2016, in part. cap. II. 23. Ne costituiscono due interessanti esempi i «processi di naturalizzazione degli stranieri» nella Spagna liberale descritti da Aglietti e la «legge del ritorno» che connota la cittadinanza in Israele così come descritta da Marzano. 24. Mutuo l’espressione da P. Mindus, Cittadinanza, identità e il sovrano potere di escludere, cit. 98 Se queste linee di demarcazione e di sviluppo dell’ordine politico, sociale ed economico si sedimentano alle origini della modernità, è anche vero che questi processi legittimavano, in nuce, i membri subalterni della comunità politica come agenti di trasformazione dei conini del demos e della cittadinanza stessa25; in secondo luogo, tali processi venivano a connotare quest’ultima non tanto nel segno della dicotomia ma, a ben vedere, della polarità, generando deinizioni luttuanti, scandite per graduum, dalle rivendicazioni per allargarne gli spazi (e dalle reazioni ad esse); tutte lotte ispirate dalle promessa – e dal potente mito – dell’eguaglianza26. L’itinerario intellettuale e politico di Tom Paine (1737-1809)27, connesso a un vero e proprio peregrinare tra Inghilterra, Stati Uniti e Francia, costituisce una signiicativa via di accesso a queste problematiche e agli spazi di discorso che le connotano. 2. Un caso emblematico, nel fuoco delle rivoluzioni: Tom Paine La vita di Paine è incastonata tra le rivoluzioni: si potrebbe dire a cavallo tra due rivoluzioni… e mezzo. La Rivoluzione americana, il cui compito precipuo è «fare ricominciare il mondo daccapo» (nell’intenzione profonda dei rivoluzionari americani la sottrazione dello spazio al nemico britannico corrispondeva ad un’appropriazione radicale del tempo), e quella francese28, prima di tutto. Ma non va dimenticato – aspetto, invece, spesso lasciato in ombra nell’ambito degli studi critici29 – che in nome dei diritti universali, Paine dichiarò guerra alla tradizione costituzionale inglese, monarchica e 25. Si veda, in proposito, E. Fahri. Isin, Being Political. Genealogies of Citizenship, University of Minnesota Press, Minneapolis 2002. 26. Il contesto francese, in cui lo stesso Paine agì insieme ai girondini, è emblematico di questa tensione come mostra il contributo di Cassina in questo volume. Su questi aspetti è fondamentale P. Rosanvallon, La rivoluzione dell’uguaglianza: storia del suffragio universale in Francia, Anabasi, Milano 1994. Dello stesso autore si veda anche, più di recente, La società dell’eguaglianza (2011), Castelvecchi, Roma 2013. 27. In una letteratura molto ampia: M. Griffo, Thomas Paine. La vita e il pensiero poltico, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2011; W.A. Speck, A Political Biography of Thomas Paine, Pickering & Chatto, London 2013. 28. Cfr., tra gli studi monograici, J. Lessay, L’Américain de la Convention. Thomas Paine: professeur de révolutions, député du Pas-de-Calais, Perrin, Paris 1987. Più in generale: M. Griffo, Thomas Paine’s Idea of Revolution: Between the New and the Old World, in «Il Pensiero Politico», 2, 2014, pp. 237-243. 29. Lo rileva molto esplicitamente J. Keane, Tom Paine. A Political Life, Bloomsbury, London 1995, pp. XIX-XX. 99 aristocratica, ponendo al centro della sua rilessione proprio la questione della cittadinanza repubblicana e democratica30. Alle sue spalle sta del resto la rivoluzione del ’600, e in particolare stanno i Levellers; costantemente davanti ai suoi occhi sta il tentativo – mai portato a termine – di una rivoluzione del sistema inglese. La fortuna posteriore della sua opera sui Diritti dell’uomo (1791-1792) e la stessa immagine storica di Paine sono state profondamente inluenzate da questo evento non realizzato, da questa promessa di cambiamento radicale non mantenuta31. Paine si identiicava con il common people (un aspetto enfatizzato in modo affascinante, tra gli altri, da Eric Hobsbawm e, prima di lui, da William Parrington ma pure problematizzato da un acuto scienziato politico come Carl J. Friedrich32): «Paine era la gente per cui scriveva, gente che si era fatta da sé, che si era formata da sé, che contava solo su di sé», gente che era alla ricerca di un pieno ingresso nella sfera pubblica, nella dimensione – orizzontale33 – della cittadinanza34. Paine considerava tutti gli individui, di tutti i paesi, come potenziali cittadini. Come cittadini, egli argomentava, essi dovevano essere titolari di certi diritti ma anche impegnati nel rispetto di certi doveri, entro una struttura di governi costituzionali che “massimizzasse” la libertà civile e politica e, al tempo stesso, garantisse la giustizia sociale (aspetto che emerge nel fuoco degli eventi in terra di Francia ma che l’autore di Agrarian Justice affronta con uno sguardo anche alle condizioni e alle trasformazioni della società inglese). L’affermazione universale dei diritti, la scrittura di una costituzione che ne sancisca il pieno riconoscimento e la possibilità di reale applicazione orientando le scelte del governo, possono dunque essere visti come un ples30. Cfr. P. Leech, The Language of Controversy: Burke, Paine, and the French Revolution, Editrice Compositori, Bologna 1990. 31. T. Magri, Thomas Paine e il pensiero politico della rivoluzione borghese, Introduzione a Th. Paine, Scritti politici, Editori Riuniti, Roma 1978, p. 17. Sulla «distruzione creatrice» del radicalismo di Paine: G. La Neve, «Thomas Paine and the Idea of Human Rights». Discussione sul lascito intellettuale di Thomas Paine, in «Storia e Politica», 1, 2016, pp. 171187, il quale ricostruisce alcune linee del dibattito più recente a partire da R. Lamb, Thomas Paine and the Idea of Human Rights, Cambridge University Press, Cambridge 2015. 32. C.J. Friedrich, L’uguaglianza politica e l’uomo comune, in Id., Introduzione alla teoria politica: dodici lezioni a Harvard, ILI, Milano 1971, in part. pp. 160-161. 33. Su questo punto emerge la netta contrapposizione con Burke, teorico invece della gerarchia sociale e della «verticalità»: cfr. G. Claeys, Thomas Paine. Social and Political Thought, Unwin Hyman, Boston 1988, pp. 110 ss. 34. P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, cit., vol. II: L’età delle rivoluzioni, cap. 2. 100 so che ha nella cittadinanza il suo sbocco: una cittadinanza repubblicana concepita in modo democratico e sociale. Di qui scaturisce la necessità di indagare sia le proposte di Paine per la deinizione delle regole generali dello Stato democratico e repubblicano (e quindi della cittadinanza all’interno dei suoi conini), ovvero il proilo giuridico-costituzionale della sua opera, sia le sue proposte per la realizzazione di una democrazia sostanziale, oltre che formale; rilevante è, entro il suo itinerario, la pluralità di piani, politico, economico e sociale, e le loro interrelazioni35. Emerge qui quel proilo «materiale» della cittadinanza36 che rimanda alla questione dell’emarginazione messa a fuoco dalla sua rafigurazione sociologica37; nell’ottica di Paine, tale condizione accomuna orfani e giovani privi di istruzione, anziani, disabili. A questi proili si connette strettamente anche l’intento ideologico di Paine, la sua visione della cittadinanza come progetto di emancipazione universale. La “ricerca della cittadinanza”, della sua completa e più ampia realizzazione, si situa davvero su uno scenario «mondiale» e si connette alla vita di Paine e al suo muoversi entro la “geograia delle rivoluzioni”38; non a caso una delle deinizioni più ricorrenti in letteratura è quella che fa di Paine «il cittadino del mondo»39. La problematicità di questo progetto costruttivo, architettonico, è, d’altra parte, attestata ad un doppio livello. A livello individuale, prima di tutto. Quando Paine venne arrestato nel 1793, con la singolare accusa di «straniero» da parte dei giacobini guidati da Robespierre40, la cittadinanza “mondiale” divenne la sua trappola: cittadino britannico di nascita, cittadino americano per meriti rivoluzionari, 35. Sia consentito a questo proposito rinviare a T. Casadei, Tra ponti e rivoluzioni. Diritti, costituzione, cittadinanza in Thomas Paine, Giappichelli, Torino 2012; Id., I diritti sociali. Un percorso ilosoico-giuridico, Firenze, Firenze University Press 2012, cap. I . 36. L’espressione è di L. Grifone Baglioni, Formale e materiale: la cittadinanza alla prova nella società che cambia, in E. Recchi, M. Bontempi, C. Colloca (a cura di), Metamorfosi sociali. Attori e luoghi del mutamento nella società contemporanea, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2013, pp. 266-276. 37. Cfr. P. Mindus, Cittadini e no, cit., pp. 165-228. 38. Cfr. B. Vincent, The Transatlantic Republican. Thomas Paine and the Age of Revolutions, Rodopi, Amsterdam-New York 2005. 39. Da ultimo si veda il Convegno “Citizen of the World. The Use and Abuse of Thomas Paine” organizzato il 29 e 30 novembre 2013 a Manchester e di cui ha dato conto M. Griffo, Uso (e abuso) di Thomas Paine: un Convegno a Manchester, in «Le Carte e la Storia. Rivista di Storia delle Istituzioni», 1, 2014, pp. 197-198. 40. Sulle complicate vicende di Paine nel contesto francese si può vedere, ora, J. Israel, La rivoluzione francese. Una storia intellettuale dai Diritti dell’uomo a Robespierre (2014), Einaudi, Torino 2015, passim. 101 cittadino francese honoris causa, si trovò respinto da tutti i governi dei tre paesi41. Ad un livello più generale, egli si impegnò nel costruire e ampliare gli spazi della cittadinanza nei paesi in cui visse e condusse le sue lotte politiche, coniugando slancio utopico e realismo politico, ma sempre incontrò avversari e ostacoli che resero ardua, piena di traversie e sofferenze, la realizzazione dei suoi intenti. Rispetto a questo scenario, Costa ha opportunamente rilevato che «[l]a cittadinanza rivoluzionaria è una delle immagini di cittadinanza che negli anni Novanta del Settecento circolano nel mondo occidentale: l’immagine, se si vuole, più impressionante e coinvolgente a causa dell’estremo assottigliarsi» – come dimostra l’intera vicenda painiana – «tra parola ed evento, ma pur sempre un’immagine accanto alle altre»42. Un’immagine che peraltro porta con sé tensioni e coni d’ombra. Paine ha cercato di farne un’immagine universale, cimentandosi per tutta la vita nella costruzione di ponti tra i diversi paesi dell’occidente, alla ricerca di una «cordiale concordia»43 tra tutti gli esseri umani, andando oltre i diversi contesti di appartenenza geograica e culturale. La sua idea di una cittadinanza repubblicana, senza frontiere, conserva a tutt’oggi un notevole fascino e, tuttavia, è accompagnata da un’inevitabile serie di processi che muovono in direzioni ostinatamente contrarie. Lo slancio costruttivo painiano non ha ancora trovato effettiva e completa realizzazione, anzi, al di là di aspettative e slanci, si è visto come sia rafforzata la forza escludente della cittadinanza stessa. Scaturisce anche di qui, tra periodi di oblio e ricorrenti riscoperte, il perdurante interesse per la sua opera44. Essa reca con sé l’idea, caratteristica delle costituzioni radicali, di «una cittadinanza che non è solo contenitore attributivo di diritti, ma anche vincolo […], condivisione dei principi e dei valori della repubblica»45, progetto nazionale e internazionale, politico e sociale. 41. Su questa condizione paradossale di straniero: S. Wahnich: Thomas Paine, éternel étranger, in Thomas Paine citoyen du monde, textes réunis par G. Kantin, Créaphis, Paris 1990, pp. 65-73; Id., Thomas Paine, de l’étranger identique au citoyen hétérogène, réception par la République d’une voix autre, in Thomas Paine ou la république sans frontières, études réunies par B. Vincent, préface de M. Rebérioux, postface de M. Vovelle, Presses Universitaires de Nancy, Nancy – Ligue des droits de l’homme, Paris 1993, pp. 58-65. 42. Cfr. P. Costa, Civitas, cit., vol. II, p. 95. 43. L’espressione usata da Paine è, precisamente, cordial unison: Rights of Man, II, p. 555. 44. B. Vincent lo ha deinito «un homme des XVIIIe et XXIe siècles», poiché i secoli compresi tra queste epoche gli furono «fondamentalement étrangers» (B. Vincent, Introduction a Id. [études réunies par], Thomas Paine ou la république sans frontières, cit., p. 16). 45. M. Fioravanti, Costituzionalismo. Percorsi della storia e tendenze attuali, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 75. 102 Il costituzionalismo di Paine sembra mostrare una visione della cittadinanza e dell’ordine politico di notevole spessore anche con riferimento ad alcuni nodi del dibattito contemporaneo46. L’unità e la volontà della nazione sono il presupposto, la base dinamica del costituzionalismo di Paine, che così si riallaccia alle celebri tesi elaborate da Sieyès. La distanza che separa questa visione da quella di Burke è evidente: nei due autori vi è, al fondo, una concezione completamente diversa della sovranità. Attraverso una forma rappresentativa che possa garantire l’effettiva corrispondenza tra governo e volontà della nazione si viene ad instaurare, secondo Paine, il vero governo del popolo: ad esso spetta la sovranità, mentre ai rappresentanti spetterà soltanto l’esercizio di tale sovranità, realizzando così una concreta forma democratica di governo e di cittadinanza attiva che intende abolire la igura del suddito (declinazione prettamente politica). Il sistema repubblicano – che abbraccia l’intera nazione – collega, nella prospettiva di Paine, la rivoluzione americana e quella francese ed esprime «a renovation of the natural order of things». Esso rimanda costitutivamente al popolo e alla nazione, fonti di ogni sovranità. Nessun individuo o corpo di uomini (lo sguardo di Paine è rivolto ancora a Burke) può essere investito di alcuna autorità che non derivi espressamente dalla nazione. La teoria radicale della sovranità popolare, legata a doppio ilo con una teoria storica dell’incivilimento progressivo, ha nella concezione painiana della costituzione il suo momento di congiunzione. Ciascuna rivendicazione della quale Paine si fece portavoce, nella sua ininterrotta battaglia per l’emancipazione, si fondava sul riconoscimento della naturale eguaglianza dei diritti degli uomini. L’idea dell’eguaglianza muove e orienta già i suoi primi scritti in «The Pennsylvania Journal»: quelli di condanna per la schiavitù dei neri (African Slavery in America47); si tratta 46. Cfr., sul punto, C. Martinelli, Le radici del costituzionalismo. Idee, istituzioni e trasformazioni dal Medioevo alle rivoluzioni del XVIII secolo, Giappichelli, Torino 2009, pp. 134-135. 47. L’articolo, scritto nel 1774 e pubblicato l’anno successivo, si inseriva nel solco della tradizione umanitaria quacchera. In esso si sosteneva non solo il diritto naturale alla libertà dei neri in quanto igli di Dio, ma anche che gli ex proprietari di schiavi avrebbero avuto il dovere di offrire assistenza a quegli schiavi vecchi o infermi, del cui lavoro avevano in passato goduti i frutti. Sull’anti-schiavismo di Paine si vedano A. Truyol y Serra, Thomas Paine y la esclavitud de los negros, in Aa.Vv., Studi in memoria di Giovanni Ambrosetti, 2 voll., Giuffrè, Milano 1989, vol. I, pp. 374-385; J.V. Lynch, The Limits of Revolutionary Radicalism: Tom Paine and Slavery, in «Pennsylvania Magazine of History and Biography», 3, 1999, pp. 177-199. Paine fu uno dei fondatori dell’“American Anti-Slavery Society” e lavorando come segretario per l’Assemblea legislativa della Pennsylvania contribuì a stendere un primo testo di legge che prevedeva l’abolizione della tratta. 103 di testi che hanno anticipato fondamentali battaglie civili della storia americana, come storia di espansione dei conini della cittadinanza, ben oltre il tempo di Paine48 e che toccano il rapporto tra deinizione del periplo della cittadinanza e igura dello straniero (caratterizzato anche in senso razziale). Siamo così all’interno dello spazio giuridico-istituzionale. Sullo stesso giornale Paine pubblica le sue rilessioni contro la discriminazione femminile (An Occasional Letter on the Female Sex). Vale la pena a questo punto notare, come la prospettiva painiana sull’ordine sociale e politico – radicalmente alternativa rispetto a quella di Burke e attentissima alla deinizione delle forme del bisogno e dall’emancipazione da esso –, pur non riservando un’attenzione speciica ai diritti delle donne, restituisca la tensione ad aprire spazi all’emancipazione femminile e quindi ad una inedita collocazione della donna nello spazio civile e politico della cittadinanza. È questo uno snodo chiave che peraltro sta alla base anche delle critiche femministe al modello marshalliano; quest’ultimo analizza il rapporto problematico tra cittadinanza e classe ma non quello tra cittadinanza e dipendenza dalla famiglia. Il sexual contract è il contenuto rimosso del social contract49, l’ombra di una cittadinanza declinata tutta al maschile. Chi coglie questo punto è Mary Wollstonecraft, moglie di William Godwin e a stretto contatto con Paine negli ambienti radicali e repubblicani inglesi50. La sua intenzione segna, per molti e importanti aspetti, le origini del femminismo teorico51. Il suo dialogo serrato con Paine nel contesto radicale restituisce il portato di una tensione che all’epoca non trovò l’esito della cittadinanza paritaria ma che, appunto, segnò un’inedita apertura, capace di inserirsi perfettamente, come mostrano recenti studi52, nel solco della tradizione repubblicana. Proprio l’innervatura della questione di genere nel discorso repubblicano diventa, con Wollstonecraft, un’occasione 48. Sul punto: P. Grosso, Una cittadinanza funzionale, cit., pp. 483-488. 49. C. Pateman, Il contratto sessuale. I fondamenti nascosti della società moderna (1988), con un’introduzione di O. Guaraldo, Moretti&Vitali, Bergamo 2015. In precedenza: Gillian Pascall, Social Policy: A Feminist Analysis, Tavistock Publications, London-New York 1986, p. 9. 50. Cfr. G.J. Barker Benield, Mary Wollstonecraft: Eighteenth-Century Commonwealthwoman, in «Journal of the History of Ideas», 50, 1989, pp. 95-116; e, soprattutto, W. Godwin, Ricordo dell’autrice de «I diritti della donna», a cura di S. Bertea, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2003. 51. Cfr. N. Urbinati, Alle origini del femminismo teorico, introduzione a J.S. Mill, H. Taylor, Sull’uguaglianza e l’emancipazione femminile, a cura di N. Urbinati, Einaudi, Torino 2001, pp. V-LI. 52. Si veda in particolare L. Halldenius, Mary Wollstonecraft and Feminist Republicanism. Independence, Rights and Experience of Unfreedom, Pickerling and Chatto, London 2015. 104 per riformulare i riferimenti teorici che lo stesso Paine aveva contribuito a far circolare in Inghilterra. É l’esperienza delle donne, infatti, che dimostra come la repubblica sia una condizione necessaria ma non suficiente per garantire libertà ed eguaglianza: anche nell’America democratica, e lo accenna già Paine nella citata Occasional Letter on the Female Sex, la soggiogazione delle donne è la prova della falla nel sistema. La libertà, intesa in senso repubblicano come assenza di dipendenza, non può essere scissa dall’uguaglianza, e quest’ultima potrà dirsi compiuta solo quando avrà spinto i suoi conini verso un universalismo autentico, comprensivo di entrambi i generi. Il “nodo delle generazioni” che Paine aveva posto al centro della sua visione costituzionale, connotandola in un senso progressivo, allarga con Wollstonecraft la sua portata alle questioni interne alla famiglia. L’antica famiglia aristocratica viene descritta nella Vindication of Rights of Woman come luogo di rapporti freddi, centrati sull’interesse, ove in nome della perpetuazione della proprietà – e dunque dell’ordine stabilito – i igli minori vengono sacriicati, costretti a matrimoni combinati, rinchiusi in conventi, sempre per il buon nome della famiglia, del rango. Al contrario per la Wollstonecraft, così come non è potere dei morti decidere per conto dei vivi (secondo la prospettiva painiana), non è potere dei genitori decidere della morte o della vita dei propri igli. Recuperando da Locke l’idea dei limiti del potere parentale, la Wollstonecraft pone il tema della “rottura delle catene” tra generazioni anche all’interno della famiglia, sostenendo che alla ine del dispotismo politico (nell’ambito del quale, secondo la teoria delle forme di governo di Paine, è assorbita anche la monarchia, strutturata sul principio dell’ereditarietà) deve seguire la ine del dispotismo paterno all’interno della famiglia. Emerge così il riiuto della riduzione burkeana dell’ordine politico gerarchico ad un ordine naturale, riduzione operata proprio mediante l’analogia tra l’ordine politico e l’ordine familiare, e vengono preigurate nuove relazioni sociali all’insegna dell’eguaglianza fra tutti gli individui, comprese – per la prima volta nella storia dell’umanità – le donne53, coloro che già Olympe de 53. Cfr. B. Casalini, Introduzione a M. Wollstonecraft, I diritti degli uomini. Risposta alle Rilessioni sulla Rivoluzione francese di Edmund Burke, introduzione, traduzione e note di B. Casalini, Plus, Pisa 2003. Fu Condorcet che, negando radicalmente l’esistenza di differenze morali tra uomini e donne, elaborò uno dei primi progetti in epoca moderna in favore dei diritti civili e politici delle donne (anche se, forse scoraggiato dalla freddezza con la quale fu accolta, non la incluse nel progetto girondino di riforma costituzionale): cfr. G. Magrin, Condorcet: cittadinanza politica e riforma istituzionale nella crisi dell’antico regime, in «Il Pensiero politico», 2, 1996, pp. 215-237, p. 232. Cfr. L. Hunt, La forza dell’empatia. Una storia dei diritti dell’uomo (2007), Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 135-141. 105 Gouges, aveva “osato” deinire – isolatissima nel contesto della rivoluzione francese – «cittadine»54. Il tema della cittadinanza in Wollstonecraft non può dunque essere disgiunto da quello della libertà, che a sua volta conduce alla rilessione sui diritti. Come la liberazione dal dispotismo politico e paterno è una via di accesso alla virtù e all’indipendenza, specularmente la rivendicazione dei diritti civili e politici implica, per la pensatrice inglese (così come per Paine), il necessario contraltare dei doveri. É in questo che si sostanzia, in deinitiva, la sua idea di cittadinanza paritaria. Già nel secondo Settecento, grazie a donne audaci e isolate come Olympe de Gouges e Mary Wollstonecraft ma anche a uomini che lottavano per molte giuste cause (abolizione della tortura e della schiavitù, oltre che della discriminazione tra i sessi) come Paine e soprattutto Condorcet, la questione dei diritti delle donne rimette in discussione l’intera concezione della cittadinanza, e questo sia perché induce a reinterrogarsi sui suoi presupposti ilosoici ed esistenziali, quali quelli dei concetti di essere umano e di umanità, quelli del rapporto tra i sessi e del rapporto tra sesso e diritto, sia perché scompiglia le ripartizioni tradizionali delle categorie dei diritti, avanzando l’interrogativo se e in che senso sia conigurabile una categoria a sé stante dei “diritti delle donne” e se e in che senso i processi di estensione della cittadinanza siano effettivamente riconducibili alle dicotomie cittadino/suddito, cittadino/straniero, cittadino/emarginato già ben chiari agli occhi di Paine. Come afferma Costa, «negli anni della rivoluzione l’eguaglianza aveva sprigionato la sua simbolica valenza propulsiva inducendo a contestare ogni differenziazione che apparisse, insieme, come una deprivazione dei soggetti e uno schermo tra essi e la nazione. L’obiettivo dell’estensione massima dei diritti politici (un obiettivo caratteristico della crescente radicalizzazione dello slancio rivoluzionario) è stimolato dalla doppia esigenza di valorizzare i soggetti ‘come tali’ e di sottolineare la loro eguale e immediata appartenenza alla nazione; e, anche nel corso dell’Ottocento, tanto prima quanto dopo il 1848, la lotta per la democrazia politica torna insistentemente ad avvalersi della forza suggestiva del simbolo egualitario»55. Si potrebbe af54. O. De Gouges, Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina (1791), Il Melangolo, Genova 2007. Su queste igure-chiave, spiccano, nella letteratura italiana, gli accurati studi di A. Loche: Mary Wollstonecraft e i diritti delle donne, in «Annali della Facoltà di Lettere e Filosoia dell’Università di Cagliari», 1991, pp. 249-278; I diritti delle donne e la rivoluzione possibile. La Déclaration di Olympe de Gouges, ivi, 2010-2011, pp. 117-132; Moderatismo politico, radicalismo sociale, femminismo in Olympe de Gouges, in A. Loche, M. Lussu (a cura di), Saggi di ilosoia e storia della ilosoia. Scritti dedicati a Maria Teresa Marcialis, FrancoAngeli, Milano 2011, pp. 103-121. 55. P. Costa, Civitas, cit., vol. III, pp. 363-364. 106 fermare, dunque, che gli effetti del “richiamo dell’eguaglianza”, nell’epoca di Paine e in qualche modo anche con il suo contributo insieme a quello, soprattutto, dei radicali come Wollstonecraft e Condorcet, iniziano a delinearsi non solo per quanto riguarda la deinizione dei diritti, ma anche nei termini della deinizione dei soggetti. In questo senso, il discorso sulla cittadinanza si fa discorso sui cittadini e le cittadine. 3. Attraverso più spazi: la cittadinanza come movimento Il costituzionalismo progressivo che l’opera di Paine preigura, la sua connessione con una speciica idea dei diritti e della loro autorità, lo conduce a mettere a fuoco l’idea dei diritti sociali e un’idea di cittadinanza sociale, che coglie la condizione della povertà e individua possibili forme di contrasto. È questa un’ulteriore conferma del fatto che la sua opera travalica le coordinate del tempo in cui fu scritta, assegnando al costituzionalismo un’apertura che va ben oltre i conini del liberalismo56. Alla base di questi percorsi sta un’idea di individuo che, peraltro, può fungere da strutturale elemento di congiunzione – ovvero da ponte – tra repubblicanesimo e apertura cosmopolitica. Connettendo il piano d’indagine più propriamente storico-politico con quello teorico e ilosoico-politico e con quello giuridico-istituzionale, mi pare allora possibile indicare, paradossalmente, nel “meticciato” la chiave interpretativa dell’intera rilessione painiana sulla cittadinanza: e del resto egli costituisce un esempio paradigmatico di «eclettico meticcio politico»57. Dai suoi scritti emerge una idea complessa, soggetta a varie declinazioni, politica, sociale, cosmopolitica, come si è visto, ma restituisce anche il tratto dinamico della sua articolazione, aspetto fecondo, questo, nel contesto del dibattito odierno58. Si potrebbe forse azzardare che un ritorno al pensiero di Paine possa contribuire ad un rinnovato slancio per quei nuclei valoriali posti alle radici 56. In questo senso la mia interpretazione si discosta dalle tesi di Griffo che conclude la sua assai accurata ricostruzione del pensiero politico di Paine, descrivendolo come «un proilo esemplare nella storia del costituzionalismo liberale» (Thomas Paine. La vita e le opere, cit., p. 497). 57. Così P. Colombo, Governo, il Mulino, Bologna 2003, p. 112. Per un approfondimento sia consentito rinviare a Il repubblicanesimo “meticcio” di Thomas Paine: democrazia, socialità, felicità, in «Cosmopolis», luglio 2016. 58. Più in generale, sulla visione dei diritti di Paine: T. Casadei, Tra ponti e rivoluzioni, cit., cap. II. 107 del pensiero democratico moderno (libertà, eguaglianza e fraternità) e che sostanziano l’idea stessa dei diritti – a cominciare da quelli civili, politici, sociali, ritenuti «fondamentali» e «indivisibili»59 – per tutti gli esseri umani, e questo nei diversi contesti degli Stati nazionali, dell’Europa, del mondo intero. Un “ritorno alle origini”, si potrebbe dire, seguendo l’andamento argomentativo del Paine più impegnato nella rilessione ilosoica, un gesto intenzionale che rappresenta, anche, un «volgersi indietro, al tempo delle rivoluzioni»60. Una rilettura della sua opera, entro uno scavo genealogico, ci restituisce la conferma che vi sono più «spazi di cittadinanza» da attraversare, e che la cittadinanza va intesa nella sua concretezza, come complesso di funzioni sociali che spettano ai singoli cittadini e alle singole cittadine ma anche come forza collettiva potenzialmente capace di opporsi a poteri che generano, a vari livelli, esclusione61. Un’esclusione che, ancora oggi, assume vari tratti, compreso quello, lambito da Paine, del genere che discrimina ed emargina. Ma lo stesso Paine ci mostra come la cittadinanza sia uno spazio, certo caratterizzato da tensioni, ma anche, e ancora, aperto. Il punto non è allora rinunciare al suo lessico e alle sue retoriche, o limitarsi ad una sua apologia, quanto piuttosto, consapevoli dello spazio di tensioni che la segna, rilanciarne la sua carica ideologica. 59. Un importante documento come il Preambolo alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, richiama esplicitamente l’idea di valori indivisibili, a cui ancorare i diritti fondamentali deinendo i contorni di una «cittadinanza europea». Sui proili comunque problematici di questa conigurazione: C. Margiotta, Cittadinanza europea. Istruzioni per l’uso, Laterza, Roma-Bari 2013. Cfr., inoltre, M. Barberis, “Civis europæus sum”. Una ragionevole apologia della cittadinanza, in «Filosoia politica», 2, 2015, pp. 317-331, che riprende la distinzione tra i tre sensi della parola cittadinanza proposti da Mindus: sociale, politico, giuridico (p. 318). In precedenza: M. La Torre, Cittadinanza e ordine politico. Diritti, crisi della sovranità e sfera pubblica: una prospettiva europea, Giappichelli, Torino 2004. 60. Sull’utilità di questa mossa nei tempi odierni ha argomentato Fioravanti, Costituzionalismo, cit., p. 85. 61. Riprendo qui alcune delle suggestioni che caratterizzano l’ultima parte di Caruso, Per una nuova ilosoia della cittadinanza, cit., in part. pp. 70, 81-83. 108 L’idea di cittadinanza nel pensiero politico dei moderati italiani, 1815-1861 Mauro Lenci Il saggio vuole prendere in esame l’idea di cittadinanza nel pensiero politico dei moderati italiani, un lemma questo che, non a caso, non igura neppure nel recente Atlante culturale del Risorgimento1 curato da Alberto M. Banti; e vuole mostrare come la galassia degli autori moderati abbia usato tale termine con prudenza, forse perché rimandava direttamente all’epopea rivoluzionaria e soprattutto alla concezione democratica dei giacobini nel periodo del terrore2. Ovviamente una posizione del genere, per i moderati, 1. A.M. Banti, A. Chiavistelli, L. Mannori, M. Meriggi (a cura di), Atlante culturale del Risorgimento. Lessico del linguaggio politico dal Settecento all’Unità, Roma-Bari, Laterza, 2011. Tra gli autori presenti nel libro, Pietro Costa avrebbe potuto occuparsi della voce cittadinanza durante il Risorgimento (periodo al quale aveva già dedicato una parte della sua fondamentale monograia: Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, 4 voll., Laterza, Bari 2000-2002). A riprova della spigolosità del termine in quel contesto, Costa ha optato invece per la voce diritti/doveri. D’altronde è proprio dal rapporto di cittadinanza che scaturiscono quest’ultimi, cioè a dire dal rapporto tra l’individuo e l’ordine politico-giuridico di cui fa parte. 2. Sarebbe stato il famoso discorso di Robespierre alla Convenzione, nel febbraio 1794, a rappresentare chiaramente un punto di svolta in questa percezione, facendo afiancare chiaramente il termine democrazia all’operato dei giacobini. La concezione di Robespierre, sebbene non era mai stata concepita organicamente, andava intesa come un’alternativa sia alla démocratie absolue che al despotisme représentatif, e avrebbe trovato una sua realizzazione nella costituzione dell’anno I (M. Robespierre, Discours sur les principes de morale politique qui doivent guider la convention nationale dans l’administration intérieure de la république [1794], e Discours sur le gouvernement représentatif (1793), in Id., Textes choisis, ed. Jean Poperen, Paris, 1956-58, vol. III, p. 113, vol. II, p. 147.). Fu però il fortunato libro di Filippo Buonarroti sulla congiura degli eguali a far identiicare i sostenitori del partito “democratico” con i fautori di una maggiore uguaglianza sociale. Buonarroti avrebbe scritto: «La Rivoluzione francese è stata soltanto la premessa di un’altra rivoluzione, più grande e solenne, che sarà l’ultima» (F.M. Buonarroti, Conspiration pour l’égalité, dite de Babeuf (1828), Éditions Sociales, Paris 1957, pp. 94-95). Cfr. J. Dunn, Il mito degli uguali. La lunga storia della democrazia (2005), Egea, Milano 2006, pp. 129-161. 109 non implicava necessariamente pensare che l’esperienza francese andasse respinta in blocco; essa rimaneva uno snodo cruciale nella storia della civiltà umana, stabilendo che il popolo non poteva più rinunciare a interpretare un ruolo fondamentale nella condivisione del potere legislativo. Al popolo, soprattutto dopo il tornante degli anni Quaranta, si sarebbe venuto ad afiancare il concetto di nazione italiana, ma negli autori moderati non sembrò prevalere quella concezione di Blut und boden che Banti ritiene invece essere la base del cosiddetto canone risorgimentale3. Il richiamo al popolo o alla nazione non signiicava certo ritenere che ogni uomo, secondo il diritto naturale, potesse accedere al voto. Né signiicava accettare in senso assoluto e astratto il concetto di sovranità popolare. La concezione di cittadinanza dei moderati italiani ruotò, infatti, intorno al rapporto tra libertà civile e libertà politica, e fu la prima che per loro diventò la meta irrinunciabile degli stati moderni. Essa doveva essere estesa universalmente, mentre la seconda, la libertà politica, assumeva contorni più incerti: la plebe doveva essere certamente innalzata alla dignità di popolo, per partecipare al potere politico, ma questo doveva avvenire gradualmente nel corso del tempo. Nel frattempo sarebbe divenuto importante instaurare delle forme di governo rappresentativo fondate su un’opinione pubblica diretta dalla classe più colta. Tale lettura vorrebbe contribuire a restituirci un’immagine dei moderati italiani non attardati su battaglie di retroguardia, opinione questa radicata nella storiograia italiana sull’argomento4. Un moderatismo cioè perfettamente 3. A.M. Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Einaudi, Torino 2000. 4. Guido de Ruggiero ne Il pensiero politico meridionale nei secoli XVIII e XIX, Laterza, Bari 1954, pp. 217-218, parlando dei liberali napoletani protagonisti del moto del 1820-21, aveva scritto che sin dall’inizio essi rivelarono «una tendenza schiettamente conservatrice e moderata, che spesso contrasta[va] con la realtà dell’azione rivoluzionaria». Quel liberalismo non aveva «nessuno di quegli ardimenti, di quelle pregiudiziali antistatali, di quelle insofferenze verso ogni vincolo, di quegli accenti individualistici: niente insomma di quel fermento rivoluzionario che caratterizza[va] il liberalismo straniero, specialmente inglese, da cui prende[va] il nome». Rosario Romeo ha parlato «di distacco dall’impostazione moderata», dopo il 1848, per opera di Massimo d’Azeglio e Camillo Cavour, quell’impostazione che lo rendeva dubbioso sulla possibilità che uomini come Alessandro Manzoni od Antonio Rosmini potessero «rientrare nella deinizione di liberalismo» (R. Romeo, Il giudizio storico sul Risorgimento, Bonanno Editore, Catania, 1966, pp. 111-113). Sergio La Salvia ha approfondito questa prospettiva, rincarando la dose, ed affermando che dopo il 1848 vi fu «il tracollo deinitivo ed irreversibile della proposta politica moderata», la cui ideologia divenne «totalmente conservatrice». Secondo La Salvia «l’opera di Cavour e poi quella della Destra indicarono che l’Italia avrebbe battuto altre vie per giungere a costituirsi nazione», quel liberalismo, infatti, attingeva «a principi e dottrine fondamentalmente diversi» dal semplice «stare in mezzo» tra chi voleva conservare e chi voleva mutare, in esso vi era «la schietta accettazione del sistema rappresentativo» e della «libertà dei moderni» (S. La Salvia, Il mo- 110 in linea con quello europeo più avanzato, inglese o francese, come anche gli studi di Luca Mannori, Maurizio Isabella e Roberto Romani ci hanno mostrato. Mannori per esempio si è chiesto: se quello che ci viene spesso descritto è il quadro di una cultura liberale italiana chiusa e asittica, perché la mobilitazione nei confronti della costituzione «divenne una realtà in tutti gli Stati della penisola nei primi mesi del 1848»?5 Com’era potuto accadere tutto questo? È chiaro che la risposta a questa domanda passa attraverso una maggiore contestualizzazione delle battaglie politico-ideologiche in cui furono coinvolti gli scrittori moderati durante il Risorgimento. Prendendo una suggestione che sempre Pietro Costa ha ricavato dall’antropologo Francesco Remotti, cercherò anch’io di usare il concetto di “cittadinanza” come «un sacco vuoto»6. Che cosa s’intende con questa espressione? Dietro tale metafora sta l’idea che le convinzioni cognitive dello storico debbano stare dietro le procedure euristiche e non dentro di esse. Questa avvertenza metodologica perciò ci spinge, prima di tutto, ad esplorare un campo semantico più vasto e quindi a cercare parole, espressioni lessicali od deratismo in Italia, in U. Corsini, R. Lill, Istituzioni e ideologie in Italia e in Germania tra le rivoluzioni, il Mulino, Bologna 1987, pp. 175-177). Per Raffaele Romanelli addirittura sarebbe improprio parlare di liberalismo «in mancanza di ordinamenti costituzionali e di sistemi rappresentativi» e il pensiero dei moderati prima del 1848 essendo «del tutto privo di sensibilità costituzionale e ben povero di rilessioni dottrinarie sull’argomento» si allontanava dal contemporaneo liberalismo europeo (R. Romanelli, Nazione e costituzione nell’opinione liberale avanti il ’48, in P. L. Ballini (a cura di), La rivoluzione liberale e le nazioni divise, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Venezia, 2000, pp. 280-284). 5. L. Mannori, Il dibattito istituzionale in Italia al tornante degli anni Quaranta, in M. L. Betri (a cura di), Rileggere l’Ottocento. Risorgimento e nazione, Carocci, Torino, 2010, p. 64. Maurizio Isabella e Roberto Romani hanno rivisto letture come quelle di Romanelli o La Salvia. Isabella nel suo studio su Cesare Balbo, ha cercato, contrariamente al primo, «di collocare il pensiero politico di Balbo e dei suoi colleghi al centro dei dibattiti europei contemporanei, in particolare francesi, su libertà e aristocrazia» (M. Isabella, Aristocratic Liberalism and Risorgimento: Cesare Balbo and Piedmontese Political Thought after 1848, «History of European Ideas», 6, 2013, p. 835). Romani ci ha mostrato che, benché fosse certamente vero che il moderatismo, e in particolare quello piemontese, si aggiornasse in un certo senso col 1848, mantenne il suo volto conservatore: «il compito che affrontò il Piemonte negli anni Cinquanta dell’Ottocento fu formidabile. Esso consistette nel consolidamento del governo costituzionale interno e, allo stesso tempo, nel sovvertimento dell’equilibrio di potere europeo, e probabilmente del potere temporale del Papa, senza scatenare la democrazia, o peggio ancora, il socialismo» (R. Romani, Reluctant Revolutionaries: Moderate Liberalism in the Kingdom of Sardinia, 1849-1859, «The Historical Journal», 1, 2012, p. 49, vedi anche Id., Political Thought in Action: the Moderates in 1859, «Journal of Modern Italian Studies», 5, 2012, pp. 593-607, e Liberal Theocracy in the Italian Risorgimento, «European History Quarterly», 4, 2014, pp. 620-650). 6. P. Costa, La cittadinanza: un “Geschichtlicher Grundbegriff”?, in S. Chignola, G. Duso (a cura di), Sui concetti giuridici e politici della costituzione dell’Europa, FrancoAngeli, Milano, 2005, pp. 255-256. 111 altri concetti che siano riconducibili a quello di cittadinanza. Pertanto non ci occuperemo solo di libertà civile e politica, di diritti civili o politici, ma anche di democrazia, sovranità popolare, governo rappresentativo, popolo e nazione. Come ho appena accennato è proprio la parola cittadinanza a rivelarsi subito un problema perché dietro di essa stava l’ombra inquietante della Rivoluzione francese, che, nel caso italiano, rimandava direttamente all’esperienza del Triennio giacobino. Nella tradizione repubblicana, da quella classica attraverso il Medioevo e il Rinascimento sino a Rousseau e Mably, come eficacemente avrebbe riassunto il giurista Giuseppe Compagnoni nel 1797, con la parola cittadino si doveva intendere «colui che godeva di tutti i diritti della città» e quindi anche della libertà politica. Questa accezione era quella di città e di cittadinanza che avevano avuto gli antichi romani, i quali avevano goduto di una «costituzione libera». Di essa, in parte, si era persa memoria prima della Rivoluzione francese, perché i nostri padri, continuava Compagnoni, «attaccava[no] a questo nome» solo l’idea «di una certa politezza di costumi ed usi». In ogni caso l’esercizio effettivo della sovranità sarebbe spettato solo a quei cittadini che potevano dirsi «padroni di sé» (sui juris), i quali, «tutti insieme» andavano a costituire «uno stato libero»7. Luciano Guerci ha mostrato come, durante il triennio vi fosse sempre stato un vaglio attento per stabilire a chi spettasse, o meno, la cittadinanza8. Inoltre in quel periodo si sarebbero ripresentate le dinamiche politiche che avevano caratterizzato la Francia post-termidoriana. Da una parte c’erano cioè i fautori di una democrazia più partecipata, egalitaria, universalistica, dall’altra i sostenitori di un governo fondato sul principio rappresentativo9. Un governo, come avrebbe scritto Vincenzo Cuoco, che andava afidato «agli ottimi», o a «un congresso di savj», e non certo «al popolo inetto». Sempre lo stesso Cuoco, rivolgendosi a Vincenzio Russo, avrebbe scritto che «il popolo dotato di cittadinanza politica non è mai stato (e non è) sinonimo di tutti»10. 7. G. Compagnoni, Elementi di diritto costituzionale democratico (1797), Cet, Firenze 1987, pp. xxxiii-xxxiv, 43-44. 8. L. Guerci, Istruire nelle verità repubblicane. La letteratura politica per il popolo nell’Italia in rivoluzione (1796-1799), il Mulino, Bologna 1999, p. 199. 9. L. Guerci, “Democrazia rappresentativa”: deinizioni e discussioni nell’Italia del triennio repubblicano (1796-1799), in P. Alatri (a cura di), L’Europa tra illuminismo e restaurazione. Scritti in onore di Furio Diaz, Bulzoni, Roma 1993, pp. 230-275. 10. V. Cuoco, Frammenti di lettere dirette a Vincenzio Russo (1799), in Id., Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli, Sonzogno, Milano 1806, p. xxviii, N. di Maso, Il repubblicanesimo di Vincenzo Cuoco. A partire da Machiavelli, Cet, Firenze 2005, p. 207. Scriveva ancora Cuoco contro l’astratta concezione rivoluzionaria: «non amo quella cittadinanza chimerica 112 Tra i sostenitori del governo rappresentativo in opposizione alla democrazia giacobina vi era stato anche Giandomenico Romagnosi il quale aveva distinto la nazionalità, come «cittadinanza subalterna», dalla quale discendevano determinati diritti e competenze, dall’altra cittadinanza, quella «eminente» cioè a dire la facoltà di esercitare il potere popolare. Questo era sì aperto, in linea teorica, a tutti i «nazionali» ma non era riservato ad ognuno di essi, perché sottintendeva la contestuale presenza della capacità, dell’indipendenza, della padronanza di sé, della proprietà. L’idea che dalla prima cittadinanza derivasse necessariamente la seconda, «ipso jure» era il frutto di una sorta di «democratismo sbrigliato». Per Romagnosi andava perciò evitata ogni forma di «specolativa dogmatica uguaglianza»11. Anche Carlo Botta, in alcune delle pagine che più avrebbero ispirato i patrioti del Risorgimento, aveva ricordato che i repubblicani italiani volevano fare dell’Italia un patriziato con una potenza popolare moderata che prevedesse, nello stesso tempo, «l’egualità dei diritti civili» e l’«inegualità di diritti politici». Nessuno stato, infatti, poteva fondarsi se non sul dominio degli uomini autorevoli e la stessa opinione dei popoli alla lunga avrebbe fuggito gli «esagerati» per seguitare i «savj»12. Il primo storico italiano della Rivoluzione francese, Lazzaro Papi, si sarebbe espresso in linea con Botta: nel momento in cui si entrava in una società si doveva godere di un’uguaglianza non più «naturale» ma «civile» nei diritti, lasciando quindi perdere qualsiasi dichiarazione astratta di questi. Per essere un cittadino a tutti gli effetti si doveva quindi fare una distinzione preliminare tra proprietari e non proprietari: solo i primi, infatti, avevano interesse a conservare e difendere il territorio. Questa la ragione per cui, secondo il classico topos repubblicano e rousseauviano, si doveva fare il possibile per estendere il numero dei proprietari, escludendo però dalla cittadinanza piena sia gli eccessivamente ricchi che i poveri13. Fin qui le opinioni di autorevoli scrittori che avevano simpatizzato o aderito ai rivolgimenti originati dalla Rivoluzione francese, ma che senza dubbio avevano ripiegato verso forme di sostegno più moderate al governo rappresentativo. per cui un uomo appartiene ad una nazione intera, mentre non appartiene a veruna sua parte: vorrei che ogni uomo prima di avere una nazione avesse una patria» (V. Cuoco, Frammenti di lettere dirette a Vincenzio Russo, cit., p. xlvii). 11. G.D. Romagnosi, Istituzioni di civile ilosoia ossia di giurisprudenza teorica (postumo), in Id., Opere, Piatti, Firenze 1845, vol. III, pp. 251-253. 12. C. Botta, Storia d’Italia dal 1789 al 1814 (1824), Giachetti, Prato 1862, pp. 225-226. 13. L. Papi, Lettere inedite di Pietro Giordani e Lazzaro Papi con un frammento inedito di quest’ultimo, Baccelli, Lucca 1851, pp. 133-146. 113 Se volessimo sintetizzare come il problema della cittadinanza si presentò agli autori moderati del periodo che va dalla ine dell’epopea napoleonica alla ine degli anni Trenta, potremmo utilizzare le parole che il ilosofo Pasquale Galluppi aveva rivolto al parlamento napoletano nel 1820: «Io cerco dunque: quale è quella libertà civile, di cui deve godere il cittadino, in rapporto al potere politico in generale, prescindendo da qualunque forma di governo?»14 Ricongiungendosi alla grande tradizione ilosoica napoletana del Settecento, quella per intenderci dei Genovesi e dei Filangeri egli aveva proclamato «l’eguaglianza de’ cittadini in faccia alla legge, la libertà del pensiero, quella della coscienza, quella della persona, quella de’ propri beni e della propria industria». La Rivoluzione aveva portato la democrazia ma la nazione non era ancora pronta, nonostante si fosse cercato di imitare perfettamente i francesi, si sarebbe scatenato come reazione a questi il furore popolare e solo la storia successiva avrebbe prodotto il bisogno reale di un regime costituzionale, di un monarca in concerto con la nazione15. Per Pietro Colletta la libertà politica portata dai francesi era stata «scienza di pochi dotti, appresa dai libri moderni, (…) troppo lontana dal vero». Negli ordini civili e nella storia napoletana non si trovavano «pratica o segno di uguaglianza» politica, nel 1799 perciò il popolo non la poteva neppure concepire, «solamente l’ultima plebaglia inse d’intendere in quella voce l’uguale divisione delle ricchezze e de’ possessi»16. Gli eventi napoletani del 1820 secondo Luigi Blanch non avevano fatto che sostituire il principio della dominazione con quello dell’associazione, tenendo conto di uno spirito che allora pervadeva tutta l’Europa. I protagonisti della Rivoluzione francese, continuava Blanch in chiara sintonia con Benjamin Constant, non avevano capito le differenze tra la libertà degli antichi e quella dei moderni. Quest’ultima aveva tratto la propria «spinta dallo spirito commerciale» per il quale l’individuo stava al centro e la patria e le leggi politiche avevano lo scopo di proteggere le sue libertà ed i suoi interessi17. Anche per l’esule Giovanni Battista Marochetti nel 1837, sempre sulla scia di Constant, la libertà politica non poteva essere che un mezzo per raggiungere quel ine che i popoli allora perseguivano, e cioè quello della liber14. P. Galluppi, Della libertà di stampa (1820), in Id., Opuscoli politico-ilosoici sulla libertà, Morano, Napoli 1976, p. 35. 15. P. Galluppi, Lo sguardo dell’Europa sul Regno di Napoli (1820), in Id., Opuscoli politico-ilosoici sulla libertà, cit., pp. 86, 89-93. 16. P. Colletta, Storia del reame di Napoli (1834), Utet, Torino 1975, pp. 301-303. 17. L. Blanch, La rivoluzione del 1820 e la reazione che ne seguì, in Id., Scritti storici, Laterza, Bari 1945, vol. II, pp. 170, 172. 114 tà e dell’uguaglianza civile. La sovranità popolare perciò non poteva essere considerata come un diritto astratto ma bisognava regolarne l’esercizio18. Al principio degli anni Quaranta molti scrittori moderati avrebbero raccolto l’invito che Niccolò Tommaseo aveva formulato nel 1839: preparare cioè «un’opinione concorde» su libertà, indipendenza ed unità d’Italia19. Secondo Luca Mannori, essi decisero di abbandonare proprio la prospettiva giacobina, facendo leva su un nuovo pubblico pre-politico per creare quel necessario consenso a quelle trasformazioni costituzionali che venivano invocate20. La nazione, l’italianità iniziarono così a essere considerate il presupposto per la creazione di un popolo moderno, per la concessione dei diritti politici, in altre parole di una cittadinanza in senso stretto, là dove, in senso lato, avrebbe poi scritto Vincenzo Gioberti, «la cittadinanza patria» era una sola e ne era alla base21. Nel dibattito che si sarebbe sviluppato in seguito alla pubblicazione del Primato, l’Italia doveva recuperare prima di tutto la sua vita come nazione e questo per Gioberti poteva avvenire solo attraverso l’unione politica, perché c’era sì una stirpe italiana comune, ma era irrimediabilmente divisa22. Anche Cesare Balbo avrebbe parlato di «un’antica ed incontrastabile Italia»23, e per Massimo D’Azeglio alla nazione italiana era stata «rapita la celeste eredità lasciatele dal padre comune di tutti gli uomini, l’indipendenza», tale questione rappresentava perciò «una gran mina scavata sotto l’intera penisola», ma a differenza di Grecia e Spagna l’Italia mancava ancora del «corpo di nazione»24. Popolo e nazione dunque dal punto di vista dell’indipendenza erano identici ma quando lo sguardo si rivolgeva all’interno dei singoli stati si afiancava, a quest’ultima accezione di popolo, una più ristretta. Per essa, infatti, nelle parole di Balbo, il popolo non era altro che «la parte inferiore e meno 18. G.B. Marochetti, L’Italie. Ce qu’elle doit faire pour igurer inin parmi les nations indépendentes et libres (1837), Lamoin, Marseille 1838, pp. 236-238. 19. N. Tommaseo, Un affetto. Memorie politiche (1839), Edizioni di storia e letteratura, Roma 1974, p. 32. 20. L. Mannori, Il dibattito istituzionale in Italia al tornante degli anni Quaranta, cit., pp. 69-71. 21. V. Gioberti, Del rinnovamento civile d’Italia, Bocca, Parigi-Torino 1851, vol. I, p. 305. 22. V. Gioberti, Del primato morale e civile degli italiani (1843), Meline, Cans Brusselle 1845, p. 50. 23. C. Balbo, Delle speranze d’Italia (1843), Tipograia elvetica, Capolago 1844, p. 37. 24. M. d’Azeglio, Degli ultimi casi di Romagna, Tipograia della Svizzera italiana, Lugano 1846, pp. 3, 20. 115 educata della nazione» e quindi l’espressione «sovranità del popolo» non poteva essere che un’espressione dogmatica, in quanto, se si doveva fare appello al popolo si doveva intendere quello «de’ colti e sodi» a cui si era rivolto anche Gioberti25. Questi pure, infatti, aveva considerato il dogma della sovranità popolare contrario al «tenore generale della scienza». Se tutti i cittadini avessero partecipato ugualmente ai diritti politici, non ci sarebbe mai stata libertà, perché non ci sarebbe stato freno agli abusi di potere. L’America rappresentava «un’oligarchia spaventevole, dove una razza di uomini opprimeva crudelmente due altre razze». All’uguaglianza civile doveva corrispondere la diseguaglianza nel merito, «il giure politico» doveva emanare direttamente dal principe che avrebbe comunicato «un raggio della sua maestà»26. In egual modo la pensava Balbo secondo cui le esperienze repubblicane, da quelle antiche a quelle della Svizzera e dei Paesi Bassi, prevedevano la libertà solo per alcuni signori in mezzo a molti schiavi, oppure semplicemente stabilivano la tirannia di una classe; anche la repubblica americana non era immune dal peggiore dei vizi politici dell’antichità, quello della schiavitù. Era proprio riguardo a queste esperienze che Balbo pensava che, solo attraverso il sistema rappresentativo, saremmo arrivati a un’equa distribuzione dei diritti politici27. D’Azeglio avrebbe rilevato come le parole «sovranità del popolo» suscitassero disordine e fossero furiosamente combattute. Per questo proponeva di sostituirle con l’espressione «consenso generale». Era pertanto innegabile che, ormai, si dovesse concedere al popolo una parte attiva nella direzione dei propri interessi e la nazione dovesse rappresentare la più sicura base per i troni, ma era comunque un errore pensare che gli ordinamenti fossero il frutto della volontà degli uomini. Erano, infatti, gli individui più «potenti» che dovevano dirigere l’opinione pubblica e consigliare i principi; in ciò consisteva l’effettiva restaurazione del sistema rappresentativo28. In questo dibattito Giacomo Durando avrebbe cercato di esorcizzare lo spettro della rivoluzione francese facendo notare come ogni volta che si parlava di libertà politica i suoi avversari vi vedevano il popolo dei «berretti frigi». In realtà era solo attraverso questa libertà che si poteva dare nuovo vigore alla monarchia, non solo essa era il frutto dei tempi, ma costituiva un nesso imprescindibile nel raggiungimento dell’indipendenza, e lo strumento 25. C. Balbo, Della monarchia rappresentativa in Italia (postumo), Le Monnier, Firenze 1857, p. 181, Id., Delle speranze d’Italia, cit., 202. 26. V. Gioberti, Del primato morale e civile degli italiani, cit., pp. 174, 315-317, Id., Lettre sur les doctrines philosophiques et politiques de M. de Lamennais (1840), MelineCans, Bruxelles 1845, p. 72. 27. C. Balbo, Della monarchia rappresentativa in Italia, cit., pp. 39-48, 177. 28. M. d’Azeglio, Degli ultimi casi di Romagna, cit., p. 99, Id., Proposta d’un programma per l’opinione nazionale italiana, Le Monnier, Firenze 1847, pp. 18, 44. 116 stesso della coesione nazionale. Il guazzabuglio delle vecchie concezioni di libertà che avevano caratterizzato il mondo antico ma anche quello delle vecchie repubbliche italiane del medioevo doveva essere sostituito dalla nuova concezione del governo rappresentativo, la «sola capace di confondere in una nazionalità comune le sub-nazionalità, riluttanti e anche nemiche»29. Una posizione particolare fu certamente quella espressa da Antonio Rosmini che scrisse sull’onda degli avvenimenti del 1848-49 e parve cercare una sorta di terza via tra la concezione democratica e quella espressa dai “dottrinari” che tanto avevano inluenzato i moderati italiani30. Rosmini dunque da una parte respingeva il dogma della sovranità popolare perché questo prevedeva che a ciascun uomo competesse di avere una parte uguale nel governo: quasiché la sovranità fosse annessa alla natura dell’uomo e non fosse una conseguenza delle relazioni sociali. Gli uomini erano «certamente uguali per ciò che riguarda il diritto naturale», ma questo non signiicava che dovessero esserlo anche «in una società che string[evano] tra loro». La sovranità per Rosmini dipendeva dalla proprietà e doveva rilettere la sua distribuzione. Dall’altra egli mostrava di capire come l’intento dei dottrinari fosse stato certamente quello «di allargare la base del governo» sperando di poterla migliorare e rinforzare «con una maggiore capacità di lumi», garantendo «senno e probità», ma anche «senza riconoscere nei governati alcun diritto d’inluenza nel governo medesimo e di sindacarlo». Questa scelta inoltre non scioglieva il gran problema dell’ordinamento costituzionale degli stati, e riconduce[va] presto o tardi la nazione indebitamente al primo sistema, quello della sovranità popolare, che poi non era altro che il «dispotismo del basso popolo»31. Quello che certamente premeva di più a Rosmini era, sia la protezione dei diritti naturali, che l’uguaglianza civile di fronte alla legge; su questi aspetti, infatti, si fondava «il comune diritto di cittadinanza» che 29. G. Durando, Della nazionalità italiana. Saggio politico-militare, Bonamici e Compagni, Losanna 1846, pp. 163, 172, 176. 30. La posizione dei dottrinari ebbe una notevole inluenza sui “moderati” italiani, come ha ben documentato Maurizio Isabella nel suo saggio sulla libertà di stampa e l’opinione pubblica durante il periodo del Risorgimento. (M. Isabella, Freedom of the press, public opinion and liberalism in the Risorgimento, «Journal of Modern Italian Studies”, 5, 2012, pp. 551-567). 31. A. Rosmini-Serbati, La costituzione secondo la giustizia sociale con un’appendice sull’unità d’Italia, Giuseppe Radaelli, Milano 1848, pp. 49, 56. 117 apriva a tutti gli italiani la possibilità di accedere «agli impieghi di ciascun stato», a tutti gli italiani di un’Italia caratterizzata dalla «varietà delle sue stirpi non fuse ancora in una sola», dalle «differenze dei suoi climi, delle sue consuetudini, delle sue educazioni, dei suoi governi, dei suoi cento dialetti»32. La protezione delle libertà che riguardava ogni cittadino senza alcuna distinzione era meglio garantita da una costituzione monarchica, nella quale doveva trovare posto il tribunale politico, un’istituzione eletta da una sorta di suffragio universale che doveva tutelare i diritti umani nella società33. Nel campo moderato ebbe ripercussioni importanti la svolta democratica di Gioberti, che prese piede nel dicembre del 1848. Il discorso che egli fece alla camera in occasione della formazione del suo ministero, un ministero che voleva riprendere le ostilità contro l’Austria, dopo l’armistizio di Salasco, divenne esempliicativo del nuovo ruolo che la parola democrazia sarebbe venuta ad assumere nel contesto italiano. Per Gioberti essere democratici signiicava innalzare la plebe alla dignità del popolo, rispettare l’uguaglianza dinnanzi alla legge, curare l’interesse della metropoli come quello delle province, costituire una guardia nazionale a difesa della libertà. «La democrazia intesa in questi termini», continuava Gioberti, non poteva «ingelosire nessuno». Essa è la sola che risponda al suo nome e sia degna veramente del popolo, come quella che virtuosa, generosa, amica dell’ordine, della proprietà, del trono, è alienissima dalla licenza, dalle violenze, dal sangue; e non che ripulsar quelle classi che in addietro chiamavansi privilegiate, stende loro amica la mano, e le invita a congiungersi seco nella santa opera di salvare e felicitare la patria34. Nel Rinnovamento del 1851 Gioberti avrebbe criticato Balbo, D’Azeglio ma anche Guizot per non aver capito che la questione della forma di governo era secondaria una volta che il regno fosse stato informato dalla democrazia. La nazionalità rappresentava la base per ogni franchigia e non si doveva temere la libertà politica, in quanto tale, «di per se stessa non era buona né rea», scriveva Gioberti, essa certamente non doveva essere concessa con una 32. Ibid., pp. 99, 103. 33. Con il “tribunale politico” Rosmini apriva dunque all’idea di suffragio universale, perché mentre la proprietà avrebbe dovuto essere tutelata dal parlamento che ne curava e ne proteggeva gli interessi, la libertà riguardava tutti indistintamente. Questa la ragione per cui tale organo poteva «dirsi democratico, in quel modo che è democratica la giustizia: poiché questa esige (...) che tutti gli uomini e le persone morali si considerino eguali quando vengono ad essa innanzi per essere giudicati» (A. Rosmini-Serbati, Della naturale costituzione della società civile, Grigoletti, Rovereto, 1887, p. 332). Vedi anche G. Campanini, Rosmini politico, Giuffrè, Milano 1990, pp. 49-66, 109-143. 34. In G. Rumi, Gioberti, il Mulino, Bologna 1999, pp. 22-23. 118 funzione livellatrice, ma in modo «graduale ed armonico», tenendo conto che era uno strumento «per ordinare a civiltà». Si doveva accordare con virtù e scienza, sfumando i conini tra le classi stesse. La rappresentanza prevedeva «la parità essenziale di tutti gli uomini» e «la disparità individuale e accidentale del valore». La proprietà e la ricchezza non potevano più essere il vero discrimine. Nel «voto universale» la plebe inalmente avrebbe scelto i migliori, si sarebbe così salvata «l’uguaglianza senza scapito della cultura». In tale concezione, gli Stati Uniti assurgevano ora, a dispetto di quanto scritto qualche anno prima, a modello di vera democrazia rappresentativa35. Ovviamente la maggior parte dei moderati non si sarebbe riconosciuta pienamente nella svolta di Gioberti. Col 1848 quasi tutti, anche quelli più restii, come il conte Ilarione Petitti di Roreto, avrebbero alla ine accettato in via di principio la necessità del governo rappresentativo36, ma avrebbero contrastato comunque il principio della sovranità popolare, già deinita da Gino Capponi, «legal menzogna e nome vano»37. Cavour continuò a considerare il voto concesso a tutti un grave errore che si fondava sulla fallace dottrina, conseguenza di uno dei più pericolosi soismi dei tempi moderni, che proclamava il diritto di partecipazione al governo della società, diritto di natura38. Per il conte Filippo Linati conferire alla moltitudine la somma dei diritti privati, per quanto li considerassimo «sacri e legittimi», di fatto li annullava tutti, perché li rendeva soggetti non solo alla «norma della comune utilità» ma anche «al piacere della plebe dominatrice». L’autorità sociale doveva rimanere «intrinsecamente libera ed indipendente dalla parziale volontà dei soci»; il suffragio universale non era altro che l’applicazione del libero esame alla vita pubblica, ed «una tal dottrina trasportata nella politica dovea necessariamente trar seco perniciosissime conseguenze»39. Nel 1852 Domenico Carutti avrebbe scritto che il vizio radicale del giusnaturalismo stava «nel derivare l’origine autoritativa dei doveri nella decisione umana», senza 35. V. Gioberti, Del rinnovamento civile d’Italia, Bocca, Parigi-Torino 1851, vol. I, pp. 30-31, 155, 187, vol. II, pp. 274-283. 36. Petitti aveva scritto che «la tendenza democratica» era ormai «passata nel comune convincimento» e non era affatto «inconciliabile con la forma della monarchia rappresentativa, la quale [poteva] benissimo ordinarsi a modo democratico» (C.I. Petitti di Roreto, Sull’attuale condizione del Risorgimento italiano. Pensieri (1848), in Id., Opere scelte, Fondazione Luigi Einaudi, Torino 1969, vol. II, pp. 945-946. 37. In R. Romanelli, Nazione e costituzione nell’opinione liberale avanti il ’48, cit., p. 287. 38. C. B. Cavour, Tutti gli scritti di Camillo Cavour, Centro studi piemontesi, Torino, 1976, vol. III, pp. 1104-1105. Cfr. M. Salvadori, Il liberalismo di Cavour, in U. Levra (a cura di), Cavour, l’Italia e l’Europa, il Mulino, Bologna 2011, pp. 81-83, L. Salvatorelli, Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870, Einaudi, Torino 1941, pp. 299-300, 310. 39. F. Linati, Nuova teoria del sistema rappresentativo (1848), Pomba, Torino 1848, pp. 8, 17, 42. 119 riconoscere alcun «imperativo superiore e preesistente». La sovranità non poteva essere riposta solo nel popolo, «la sola qualità d’uomo non [dava] diritto al comando», questo spettava all’intelligenza e darla vinta al «numero» signiicava abbandonarsi «al primato dell’ignoranza e alla imbecillità intellettiva»40. Anche Terenzio Mamiani avrebbe sottolineato la «razionalità» del governo rappresentativo, poiché «la saggezza civile non [poteva] dimorare nel cuor della moltitudine che è la parte più passionata ed ignorante del genere umano»; la plebe era infatti incapace «di conoscere e di giudicare del generale», di fare astrazione da quel «poco e male» che conosceva. Per queste ragioni «i soli ottimi d’intelletto e di cuore [dovevano] esercitare l’impero e dettar le leggi», dovevano «reggere la cosa pubblica», perché non ricevevano un mandato dal popolo, bensì «dalla natura e da Dio». Il popolo doveva solo riconoscerli attraverso il suffragio, disponendosi così a obbedirli. La sovranità, dunque, non poteva risiedere che «nella ragione e non mai nelle creature umane», quindi, in sostanza, doveva scemare «la diretta partecipazione del cittadino al governo». Queste considerazioni, comunque, non dovevano far mettere in discussione «la perfetta uguaglianza giuridica». In fondo, ricordava Mamiani, in polemica con i repubblicani, in quelle esperienze passate le libertà civili erano esistite solo nel raggio stabilito da un tratto di balestra scoccato dalle mura cittadine. L’Italia, come altre nazioni avevano fatto prima di lei, aveva riconosciuto di appartenere a una sola grande cittadinanza. Prima di tutto la lingua volgare scritta aveva fatto sviluppare il senso della propria dignità, ma anche l’amore per la libertà e l’indipendenza e la comunanza d’interessi avevano contribuito a costruire la nazione. Nonostante si riconoscessero come aventi origini in un sol ceppo, le genti d’Italia, sembravano scaturite da schiatte diverse, per secoli confuse tra loro, ma da ultimo si erano inalmente congiunte, uniicandosi «spiritualmente con una specie stessa di tradizioni, di lettere, d’arti, di religione, d’indole, d’inclinazione, di proponimenti e di ini»41. Ci sembra quindi evidente, per concludere, che, a partire dal triennio giacobino, sino all’unità d’Italia, si possa intravedere una linea di pensiero moderato che andò gradualmente accettando la necessità del governo rappresentativo e la tutela della cosiddetta “libertà dei moderni”, rimanendo scettica e dubbiosa sull’utilità del suffragio universale, se non addirittura ostile, una linea moderata che certamente aveva due frange una più conservatrice e l’altra più progressista ma che poneva comunque al centro della cittadinanza l’individuo con tutti i suoi diritti. 40. D. Carutti, Dei principi del governo libero (1852), Stabilimento tipograico, Napoli 1860, pp. 32, 84, 108. 41. T. Mamiani, D’un nuovo diritto europeo, Italia, 1860, pp. 238-241, 48, 251-252. 120 La cittadinanza in Inghilterra da The English Constitution al Welfare State Carmelo Calabrò L’oggetto della mia sintetica ricostruzione storico-critica è il discorso sulla cittadinanza1 in Inghilterra tra Ottocento e Novecento; o meglio, i diversi discorsi sulla cittadinanza, giacché dall’età vittoriana al secondo dopoguerra il rapporto tra soggetto e ordine, cittadino e stato, individuo e società, è stato declinato secondo traiettorie ideologiche e interpretative differenti. Il mio tentativo è stato quello di dare ordine prospettico a «una trama dall’esito non scontato in ogni sua parte»2, e che tuttavia si snoda in corrispondenza con il progressivo ampliarsi e rafforzarsi dello statuto della cittadinanza. La dificoltà di un’operazione del genere è consistita nel delineare un processo a tappe, evitando, per quanto possibile, sempliicazioni eccessivamente schematiche, senza tuttavia dimenticare che alcuni luoghi comuni storiograici possono contenere una parte di verità. Seguire le metamorfosi della cittadinanza lungo l’arco temporale qui considerato signiica dover fare preliminarmente i conti con due stereotipi strettamente collegati. Il primo consiste nell’identiicazione dell’età vittoriana con l’individualismo liberale e la fede nel mercato. Il secondo, nell’idea di uno spartiacque, tanto decisivo nella sua portata quanto cronologicamente luttuante, oltre il quale si avrebbe un rovesciamento di Zeitgeist, con l’abbandono del liberalismo classico in favore di una visione organicista e statalista dell’ordine sociale. I due stereotipi interconnessi trovano riscontro nelle pagine di autorevoli interpreti, che osservano in presa diretta il compimento della transizione. 1. P. Costa, Cittadinanza, Laterza, Roma 2005, p. 5. 2. C. Palazzolo, La cultura politica britannica tra Ottocento e Novecento. Scenari interpretativi, Ets, Pisa 2014, p. 7. 121 Per il celebre giurista Albert Venn Dicey, è a partire dalle «agitazioni politiche del biennio 1866-1867»3, volàno del Reform Act del 1867, che comincia la virata dall’egemonia del liberalismo all’affermarsi del collectivism, sospinta dall’istituzione a tappe della democrazia. Nel signiicato attribuitogli da Dicey, l’espressione collectivism non designa la collettivizzazione dei mezzi di produzione, bensì la graduale affermazione della «scuola di opinione» chiamata anche «“socialismo”, favorevole all’intervento dello stato, anche a costo di qualche sacriicio per la libertà individuale, allo scopo di garantire dei beneici alla massa del popolo»4. Dicey individua in quattro tendenze della legislazione il segno di un diverso modo di concepire il ruolo dello stato in rapporto ai cittadini: ampliamento della protezione pubblica, limitazione della libertà di contratto, prevalere dell’azione collettiva su quella individuale, riequilibrio nella distribuzione dei vantaggi economici e sociali. Si tratta di un “socialismo” light, estraneo alla versione rivoluzionaria, avallato da classi dirigenti di comprovata fedeltà al sistema e di orientamenti anche opposti: un “socialismo” che ha trovato terreno fertile tanto nell’«umanitarismo dei tories»5, quanto nell’idealismo liberale del «prof. T.H. Green»6. Dieci anni dopo, nel suo classico Political Thought in England. From Herbert Spencer to the Present Day, Ernest Barker sposterà al 1880 l’eclissarsi della dottrina che «postula il non intervento come dovere supremo dello Stato», con effetti che non riguardano solo la sfera delle idee, ma anche il terreno concreto dei «fatti»7. L’individuazione di scansioni epocali è tanto inevitabile a ini “narrativi” quanto aleatoria sotto il proilo analitico. Dalle stesse pagine di Dicey e Barker si evince peraltro chiaramente che la rappresentazione di un dominio liberale soppiantato dall’ideologia “collettivista” è una sempliicazione dietro la quale è facile scorgere qualcosa di più complesso e sfumato. Lo stereotipo 3. A.V. Dicey, Diritto e opinione pubblica nell’Inghilterra dell’Ottocento (1905), il Mulino, Bologna 1997, p. 270. 4. Ivi, pp. 120-121. Come ha notato Claudio Palazzolo, «un uso siffatto del termine “socialismo” o “collettivismo” rinvia a una consuetudine che la cultura politica inglese aveva maturato da tempo…per esprimere lo scandalo (degli avversari) o lo stupore compiaciuto (dei simpatizzanti) davanti al risultato complessivo dei Factory Acts e all’impegno sociale accessorio di ogni nuova riforma del diritto del lavoro» (Dal Fabianesimo al Neofabianesimo. Itinerari di storia della cultura socialista britannica, Giappichelli, Torino 1999, p. 12). 5. A.V. Dicey, Diritto e opinione pubblica nell’Inghilterra dell’Ottocento, cit., p. 243. 6. Ivi, p. 399. 7. E. Barker, Political Thought in England. From Herbert Spencer to the Present Day, Williams and Norgate, London 1915, p. 20. In realtà, Barker aggiunge che già dal 1870 lo Stato ha ampliato la sua sfera di intervento, in particolare nel campo dell’educazione (Ibid.). 122 del turning point non è fuorviante, a patto di considerarlo alla stregua di uno schema generalizzante; solo così è possibile cogliere la natura contrastata dell’egemonia liberale e le metamorfosi del liberalismo stesso, insieme di tendenze culturali irriducibili a un corpus dottrinario omogeneo. The English Constitution e la cittadinanza diseguale Il lungo cammino dell’Inghilterra in direzione della democrazia trova nel Reform Act del 1832 il suo punto simbolico d’avvio. Un inizio molto timido, in termini di allargamento del suffragio8, che in concreto non costituisce l’effetto più rilevante della riforma. Il 1832 scaturisce in primo luogo dalla volontà di modiicare gli equilibri costituzionali alla luce di nuovi rapporti di forza caratterizzati dall’ascesa della borghesia inanziaria e imprenditoriale. La rideinizione dei collegi elettorali registra lo spostamento dell’ago della bilancia sociale dalla terra alla città9, a dire il vero in misura molto limitata. Senza dubbio la «proprietà reale» e la «rispettabilità reale» concentrata nei nuovi centri urbani assumono maggior peso politico10, ma con sacriicio contenuto da parte dell’aristocrazia terriera11. La middle class (più correttamente la upper middle class) comincia a esprimere un proprio ceto politico, senza che la composizione sociale del Parlamento subisca stravolgimenti strutturali. In sostanza, la riforma del 1832 estromette gli strati po8. La legge estendeva il diritto di voto ai proprietari e agli afittuari di una casa del valore annuo di 10 sterline, i ten-pounds householders (Reform act of 1832, in Selected documents of English constitutional history, 1901, articolo XVIII, p. 515). 9. Com’è noto, la riforma colpiva in particolare i rotten boroughs, villaggi di campagna spopolati, la maggior parte dei quali era sotto l’inluenza di un patrono locale. La legge privava di rappresentanza 56 borghi con meno di 2000 abitanti e dimezzava i seggi assegnati in 30 borghi con meno di 4000 abitanti (Reform act of 1832, in Selected documents of English constitutional history, cit., articolo I, p. 514). I seggi liberati andavano in parte a costituire nuove circoscrizioni in centri urbani industriali come Londra, Manchester, Leeds, Birmingham. 10. A. Briggs, L’età del progresso. L’Inghilterra fra il 1783 e il 1867, il Mulino, Bologna 1993, p. 274. 11. Di fatto, il ridimensionamento dei borghi scarsamente popolati era compensato dall’aumento dei seggi appannaggio delle contee, dove il voto ino ad allora «limitato a liberi possessori di terre con un’entrata di quaranta scellini, fu esteso ai ittavoli con un emendamento che il ministero era stato obbligato ad accettare per la pressione dei proprietari terrieri whig che componevano il nucleo più importante del partito della riforma alla Camera. Nessuno avrebbe potuto criticare l’estensione del suffragio ai ittavoli, se fosse stata accompagnata della protezione del voto segreto. Ma col sistema del voto “aperto” questa nuova categoria d’elettori non aveva alcuna indipendenza, e il loro nuovo diritto elettorale non faceva altro che aumentare il dominio dei loro signori sui seggi delle contee, ora cresciuti di numero» (G.M. Trevelyan, Storia dell’Inghilterra nel secolo XIX, Einaudi, Torino 1971, p. 251). 123 polari dalla cittadinanza politica e risponde all’esigenza di dare al sistema una curvatura favorevole alle classi emergenti senza metterne a repentaglio i principi cardine: difesa della proprietà e accesso ai diritti politici a base censitaria. Tuttavia, il primo Reform Act innesca un processo di cambiamento nella percezione della English Constitution sotto l’aspetto cruciale dei principi di legittimazione del potere. Lentamente ma in profondità, il rispetto delle «istituzioni venerabili», consacrate da consuetudini immemoriali, cede il posto all’idea che la volontà nazionale possa materializzarsi esclusivamente mediante l’elezione dei rappresentanti12. È il grimaldello della democrazia. Esponente esemplare del whiggism uscito trionfante dal 1832 è Walter Bagehot. Figlio dell’élite inanziaria in ascesa, dal 1861 direttore dell’«Economist», Bagehot incarna il liberalismo aliere della modernità incentrata sull’economia di mercato, che prende le distanze dalla paludata cultura tory e difida al contempo delle imprudenti aperture nei confronti della democrazia13. Le valutazioni di Bagehot sul Reform Act testimoniano eficacemente tale sentiment. A distanza di un trentennio dalla sua introduzione, la riforma è cosiderata «successful»14. È vero che il riequilibrio tra le ragioni delle «growing parts» (borghesia emergente) e le ragioni delle «stationary parts» (aristocrazia terriera)15 è stato molto parziale, ma proprio l’estrema cautela del cambiamento ha impedito che le maglie del sistema fossero deformate dalla pressione democratica. Bagehot non ha dubbi nell’individuare tra le ila delle «growing parts» la presenza dei «fairly instructed men»16 adatti a governare una società sempre più sviluppata e complessa. Uomini istruiti, competenti e pratici, che offrono le maggiori garanzie di buon governo, poiché costituiscono la parte «più disinteressata, la più indipendente»17 del paese. Ma l’autolegittimazione della propria classe, votata naturaliter a governare la modernità, è accompagnata dal riconoscimento della funzione vantaggiosamente stabilizzatrice svolta dalle «stationary parts». È opportuno, e inevita12. A.V. Dicey, Diritto e opinione pubblica nell’Inghilterra dell’Ottocento, cit., p. 102. 13. Sul pensiero politico di Bagehot, mi permetto di rinviare a C. Calabrò, Tra equilibrio ed esclusione: classi dominanti, élite delle ‘fairly intelligent persons’ e interessi sociali in Walter Bagehot (1859-1872), in Classe dominante, classe politica ed élites negli scrittori politici dell’Ottocento e del Novecento, Volume I, Dal 1850 alla prima guerra mondiale, Centro Editoriale Toscano, Firenze 2008, pp. 227-248. 14. W. Bagehot, Parliamentary Reform, in Collected Works, Harvard University Press, Cambridge 1968, vol. VI, p. 187. 15. Ivi, p. 193. 16. Ivi, p. 188. 17. Ivi, p. 222. 124 bile, che le cosiddette parti «nobili» della Constitution cedano sempre più il controllo effettivo della macchina governativa, ma esse rimangono indispensabili nell’assolvimento di un compito cruciale: «stimolano e mantengono la reverenza del popolo»18. Il concetto di deferenza, e la retorica che lo identiica con il national chararcter, rivela il côté disegualitario dei «moderate Liberals»19. Nella concezione di Bagehot, il popolo è prevalentemente, e invariabilmente, composto di soggetti mediocri – i «membri dei pub»20 – che si sottomettono volentieri all’ordine costituito proprio in virtù dello spirito di deferenza nei confronti delle classi superiori. L’idea di democrazia contrasta con il national character e corrompe la deferenza illudendo il popolo di potersi autogovernare. Il Reform Act del 1867 voluto dal conservatore Disraeli introduce un ampliamento del suffragio che va proprio nella direzione avversata da Bagehot21. Finora formato da «persone scelte, selezionate»22 con adeguati iltri censitari, il Parlamento rischia di essere stravolto nella composizione e snaturato nella vocazione. Non più corpo tendenzialmente «neutrale, omogeneo ed imparziale»23, animato dalla dialettica tra conservatori e liberali entro una cornice di valori fondamentali condivisi, ma tempio sconsacrato dalle pretese della classe lavoratrice. Il timore del liberale Bagehot è alimentato da un fenomeno prorompente: l’organizzazione sempre più eficace delle forze del lavoro, volto minaccioso del positivo processo di industrializzazione dell’economia. I «membri dei pub» non sono più moltitudine sciolta; sono lavoratori afiliati a Trade Unions che intralciano la dinamica virtuosa del libero mercato e l’«useful selishness»24, propellente indispensabile del progresso. Aprire le porte alla democrazia signiica correre il serio pericolo che le istituzioni del paese 18. W. Bagehot, La Costituzione inglese, il Mulino, Bologna 1995, p. 47. 19. Id., Collected Works, cit., vol. VII, p. 229. 20. Id., La Costituzione inglese, cit., p. 154. 21. La riforma produsse di fatto un raddoppiamento del numero degli elettori. La Legge conferiva a ogni hauseholder occupante, sia come proprietario sia come inquilino, una casa di qualsiasi valore, purché domiciliato nel borgo da un anno e iscritto alla tassa dei poveri e alle municipali, e a chiunque tenesse a pigione da un anno un appartamento del valore locativo netto di 10 sterline l’anno. Nelle parole della legge: «deve possedere il titolo per essere registrato come elettore, e, una volta elettore, votare per uno o più membri rappresentanti una contea in Parlamento, ogni uomo che sia qualiicato come segue: egli in qualità di afittuario deve avere, in tale contea, occupato dei possedimenti per almeno un anno, e avervi risieduto, parimenti, per almeno un anno» (Reform Act of 1867, in Selected documents of English Constitution history, cit., p. 533-34). 22. W. Bagehot, La Costituzione inglese, cit., p. 65. 23. Ivi, p. 63. 24. W. Bagehot, Collected Works, cit., vol. VIII, p. 23. 125 siano asservite agli interessi della classe numericamente maggioritaria. Due le ipotesi poco rassicuranti avanzate nelle Conclusioni aggiunte nel 1872 a La Costituzione inglese. La prima vede i partiti tradizionali fare dissennatamente «a gara per conquistare l’appoggio dei lavoratori»25. La seconda corrisponde a uno scenario per certi aspetti più inquietante: la tentazione che spinge gli «operai all’unione di classe»26 e la conseguente creazione di un partito anti-sistema. Libertà e cooperazione: l’idea di cittadinanza in John Stuart Mill Nella seconda metà dell’Ottocento, diviene sempre più evidente il nesso che lega democrazia, questione sociale e centralità del lavoro. John Stuart Mill è senza dubbio l’esponente di maggior spicco della cultura inglese dell’epoca. Nella sua opera sterminata ritroviamo il tentativo di gettare un ponte tra idee e valori potenzialmente in conlitto, coniugando i principi classici del liberalismo con la disponibilità a prendere sul serio la questione sociale e i diritti del lavoro. Esclusione delle masse dall’agone politico e «good-government»27, esercitato con moderazione ed equilibrio da coloro che si presume sappiano interpretare correttamente il bene nella nazione, sono il binomio inscindibile del liberalismo à la Begehot. Con Mill, il governo rappresentativo si apre all’esigenza di integrare gli interessi dei soggetti inora esclusi. Giusta la prospettiva evoluzionista tipica del positivismo della seconda metà dell’Ottocento, il regime rappresentativo è per Mill la forma ideale di governo dei popoli civilizzati28. Nelle Considerations pubblicate nel 1861, è espressa con chiarezza una convinzione: il representative government rispecchia gli orientamenti della nazione in proporzione alla molteplicità delle istanze sociali che è in grado di integrare e difendere. Fedele all’impostazione utilitaristica, Mill perora l’ampliamento del suffragio conside25. Id., La Costituzione inglese, cit., p. 275. 26. «Si deve ricordare che l’unione politica delle classi inferiori, sia di per sé che per i suoi obiettivi, costituisce un male di prim’ordine. Una loro aggregazione permanente (adesso che hanno il diritto di voto) le renderebbe onnipotenti; e questa supremazia, nelle condizioni in cui attualmente si trovano, signiicherebbe il dominio dell’ignoranza sull’istruzione e della forza dei numeri sulla competenza» (Ivi, p. 276). 27. W. Bagehot, Collected Works, vol. VI, p. 340. 28. Figlio del suo tempo, per quanto geniale e progressista, Mill sostiene con pari convinzione sia che «la miglior forma ideale di governo non potrà essere rintracciata che entro i vari modelli del regime rappresentativo», sia che «un popolo non può avviare la civilizzazione se prima non apprende l’arte dell’obbedienza» (Considerazioni sul governo rappresentativo, a cura di M. Prospero, Editori Riuniti, Roma 1997, pp. 39 e 34). 126 rando ingiustiicata l’esclusione degli interessi popolari dalle garanzie della rappresentanza29. La coerenza dell’impianto teorico è corroborata da una visione progressiva della società inglese: a differenza di Bagehot, Mill ritiene che si possano creare le condizioni per trasformare le masse incolte in un insieme di cittadini mediamente istruiti, capaci di partecipare con consapevolezza alla vita politica. Inoltre, l’ideale del self-development acquisisce in Mill un’accezione sociale che integra i canoni del liberalismo classico: l’affrancamento dei cittadini dal governo paterno passa non solo da una via individuale, ma si realizza anche attraverso l’associazione30. L’idea di cittadinanza che si può ricavare dalla lunga e travagliata rilessione teorica dell’autore di On Liberty è complessa e dinamica. Non occorre richiamare lo spettro del dispotismo della maggioranza, temuto sulla scia dell’amico Tocqueville, per aver presente quanto il sostegno all’inclusione politica della classe lavoratrice conviva in Mill con l’esigenza di tutelare le minoranze e preservare il governo dei migliori. Sotto questo proilo, le considerazioni sul riconoscimento dei diritti politici e le proposte in materia elettorale si intrecciano a deinire una trama bicromatica. La democrazia non è una forma ideale di governo da istaurare ex abrubto, bensì un processo che va governato con lungimiranza e cautela. È, questo, un assunto da tenere ben presente per comprendere le tensioni tra l’indicazione del suffragio universale come meta da perseguire e l’esclusione temporanea di chi non ha determinati requisiti per usare il voto correttamente; tra la necessità di non estromettere il punto di vista degli strati popolari dalle istituzioni rappresentative e l’opportunità di ricorrere al “voto plurimo”31 per aumentare il gradiente qualitativo della classe politica. Allo stesso modo, i riferimenti alle politiche pubbliche sono formulati in un’ottica per certi aspetti pre-welfarista, ma senza che venga meno 29. Con molta nettezza, Mill ritiene che i «desideri e gli interessi di chi non ha suffragio non rientrano nelle preoccupazioni di chi governa. Anche se ben intenzionati, niente obbliga chi ha il potere a perdere tempo dietro interessi che possono impunemente trascurare» (Ivi, p. 130). 30. Soprattutto nei Principi di economia politica, pubblicati per la prima volta nel 1848, Mill elogia lo spirito associativo. Nelle associazioni la disciplina deriva dalla consapevolezza di agire per un ine collettivo e condiviso. Questo comporta «senso di valore e di dignità personale» (Principi di economia politica, a cura di B. Fontana, Utet, Torino 1983, vol. II, pp. 1029-1031). 31. Secondo Mill, «la persona dotata di qualità superiori ha diritto a esercitare una inluenza superiore». In teoria, «il voto plurimo è aperto anche all’individuo più povero che, a dispetto degli ostacoli, può affermarsi in virtù della sua intelligenza» (Considerazioni sul governo rappresentativo, cit., pp. 134 e 137). È tuttavia evidente che solo un incisivo investimento in istruzione pubblica, fortemente auspicato da Mill, può consentire all’intelligenza del più povero di svilupparsi. 127 la difidenza liberale nei confronti degli effetti perversi derivanti dal paternalismo assistenziale. Istruzione, sanità, interventi in difesa dei soggetti deboli e bisognosi sono un dovere dello Stato, nella misura in cui soddisfano un interesse sociale senza ledere le libertà individuali. Tuttavia, chi governa dovrebbe sempre porsi il problema di «come dare il massimo aiuto necessario, insieme al minimo incoraggiamento a fare su di esso un indebito afidamento»32. Inine, Mill è il primo liberale ad affrontare senza pregiudizi il tema della cittadinanza industriale. Se l’individuo rimane il protagonista del progetto di sviluppo autonomo delle facoltà umane, la cooperazione è la risorsa che lascia intravedere l’auspicabile transizione della civiltà da una condizione dominata dall’obiettivo di incrementare indeinitamente la ricchezza, allo «stato stazionario», orizzonte ideale in cui il benessere sostituisca la crescita come ine socialmente condiviso33. Dai Principi di economia politica agli ultimi scritti sul socialismo34, le pagine di Mill sono punteggiate di elogi alla classe lavoratrice e stoccate contro i pregiudizi che la dipingono come pericolosa, inafidabile e antinazionale35. Colpito dagli esperimenti, a dire il vero di rado duraturi, delle imprese cooperative, Mill esprime aperta ammirazione per la tenacia e il sacriicio con cui umili lavoratori riescono a raggiungere risultati produttivi non scontanti, sviluppando al contempo la propria personalità morale e intellettuale di cittadini autonomi e integrati36. La versione del socialismo che riscuote la simpatia di Mill echeggia le suggestioni di Owen, Fourier e del sansimonismo, il tutto con una riserva di individualismo che non viene mai meno. La cooperazione può condurre alla quadratura del cerchio, contrastando le diseguaglianze più intollerabili37 32. J. S. Mill, Principi di economia politica, cit., vol. II, p. 1255. 33. Sotto il proilo morale, per Mill, «la condizione migliore per la natura umana è quella in cui, mentre nessuno è povero, nessuno desidera di essere più ricco, né ha ragione di temere che qualcun altro lo respinga indietro per sopravanzarlo» (Ivi, p. 1000). 34. I Chapters on Socialism furono pubblicati sulla «Fortnightly Review» nel 1879 a cura di Helen Taylor, che aveva rinvenuto il manoscritto incompiuto tra le carte di Mill. Sul punto, si veda l’Introduzione di Stefan Collini a On Liberty and other writings, Cambridge University Press, Cambridge 2012, p. XXII. 35. Nelle Considerazioni sul socialismo, Mill sosterrà che i lavoratori salariati sono la categoria che ha più a cuore l’interesse nazionale: le «classi che nel vocabolario dei ceti alti, sono dette non avere alcun interesse per la nazione. In realtà esse hanno primario interesse poiché il loro pane quotidiano dipende dalla prosperità della nazione» (Considerazioni sul socialismo, Introduzione e traduzione di E. Marino, Aracne, Roma 2012, p. 85). 36. J.S. Mill, Principi di economia politica, cit., p. 1024. 37. Distinguendo tra leggi della produzione – equiparabili a leggi di natura – e leggi della distribuzione – che è bene siano regolate dagli uomini in funzione delle esigenze sociali, Mill 128 senza pregiudicare né il rendimento produttivo38 né la libertà in tutte le sue manifestazioni. L’impresa di lavoratori associati è la terza via potenzialmente in grado di sanare le iniquità del capitalismo padronale ed evitare a un tempo la deriva illiberale del collettivismo statale. E tuttavia Mill semina tracce di scetticismo sul radioso futuro delle società cooperative, indica rischi e dificoltà. I rischi rinviano al prevalere dell’appiattimento egualitario: è dificile mantenere vivo il senso del merito individuale là dove i lavoratori tendono a riconoscersi pari dignità e anche pari autorità nelle decisioni concernenti la redistribuzione dei proitti. Le dificoltà riguardano l’esigenza, per Mill imprescindibile, di incoraggiare tutte le forme di cooperazione a patto che non neghino la concorrenza del libero mercato39, garanzia di stimolo al lavoro e all’intraprendenza non solo economica. La cittadinanza della libertà sociale In Mill, la cittadinanza è un campo dialettico in divenire. Con Thomas Hill Green, il più noto esponente della cosiddetta scuola idealistica di Oxford, il liberalismo esprime il tentativo di risoluzione a carattere organicistico del rapporto tra individuo e società. La ilosoia morale è la base teorica su cui Thomas Hill Green poggia l’operazione di riscatto del liberalismo inglese dal monopolio dell’individualismo di marca utilitarista. Al principio edonistico della massima felicità per il maggior numero, Green contrappone il principio universalistico della dignità umana. La sensibilità verso la questione sociale riposa su premesse distanti da quelle di John Stuart Mill. Non è l’individuo il centro intorno a cui far gravitare le decisioni collettive. La legislazione deve identiicarsi con il punto di vista dello Stato, di cui si postula la capacità di trascendere e riritiene necessario rimediare alle tendenza che vede «il prodotto del lavoro…distribuito come noi vediamo attualmente, cioè praticamente in proporzione inversa al lavoro – le quote maggiori a favore di quelli che non hanno mai lavorato del tutto, quelle appena un po’ più piccole a coloro il cui lavoro è puramente nominale, con la remunerazione che diminuisce sempre di più via via che il lavoro diventa più gravoso e sgradevole» (Ivi, vol. I, p. 346). 38. Mill afferma che il motivo per cui «la cooperazione tende…ad accrescere la produttività del lavoro, consiste nel potente stimolo conferito alle energie produttive, mettendo la massa dei lavoratori in una condizione tale rispetto al loro lavoro, da far sì che diventi loro principio e loro interesse – contrariamente a quanto avviene attualmente – di fare il massimo possibile, invece del minimo possibile, in cambio della loro remunerazione» (Ivi, pp. 10421043). 39. Ivi, p. 1046. 129 comporre gli interessi particolari dei singoli individui40 in vista del bene comune41. Lo stato al servizio della dignità umana: questa la combinazione tra hegelismo e morale kantiana che sottende il pensiero di Green. Ne derivano una serie di conseguenze che modiicano in profondità la conigurazione della cittadinanza liberale. A mutare è innanzitutto l’idea stessa di libertà, che si realizza solamente all’interno di una società regolata al ine di valorizzarla. Sia su un piano morale che civile, la possibilità di soddisfare i propri desideri individuali è subordinata al dovere di “sintonizzarsi” con il bene comune, dal quale dipende il bene dei singoli. La coincidenza tra libertà e dovere rimanda dunque alla corrispondenza tra diritto alla free life e funzione sociale da assolvere: il «riconoscimento di un diritto alla vita libera per ogni uomo, in quanto uomo, deve logicamente implicare la concezione che tutti gli uomini formano una società in cui ogni individuo ha qualche servizio da rendere, un organismo in cui ognuno ha una funzione da adempiere»42. Seconda conseguenza, connessa alla prima: se lo Stato deve farsi carico di sostenere i progetti di free life di tutti i cittadini, intesi come comunità, ogniqualvolta l’interesse dei singoli contrasta con il bene pubblico, il primo può essere sacriicato per consentire la salvaguardia del secondo. Sul piano del rapporto tra Stato e società civile, ciò implica che la libertà di contratto e il godimento della proprietà privata, valori assoluti nella visione liberale classica, assumono un rango relativo e subordinato43. Calata nella dimensione concreta dei rapporti tra le classi sociali, l’argomentazione concettuale che giustiica la riduzione della proprietà privata da ine in sé a mezzo per assicurare una cittadinanza inclusiva ha immediate implicazioni redistributive. Non è suficiente l’assenza di impedimenti for40. Lo Stato è per Green l’interprete migliore dei principi morali che provengono dalle forme originarie di organizzazione sociale, a partire dalla famiglia: «È un errore pensare allo stato come a un aggregato di individui sotto un sovrano…uno stato presuppone altre forme di comunità, con i diritti che da loro scaturiscono, ed esiste solo in quanto le sostiene, conferisce loro sicurezza, le completa» (Lectures on the Principles of Political Obligation, Longsman, London 1950, p. 139). 41. In Bernard Bosanquet, continuatore dell’opera di Green al Balliol college, tale impostazione è ancora più accentuata in senso comunitario. Nella sua opera principale, The Philosophical Theory of the State, pubblicata nel 1899, è il Rousseau del Contrat il punto di riferimento per individuare la via di ricomposizione del dissidio tra pubblico e privato, ricomposizione che si realizza nella igura del «popolo» (The Philosophical Theory of the State, McMillan, London 1951). 42. T.H. Green, Lectures on the Principles of Political Obligation, cit., p. 157. 43. A titolo di esempi, Green evidenzia l’opportunità di applicare la limitazione delle libertà contrattuale «a quei tipi di contratto o di affare che colpiscono la salute e la condizione popolare» (Ivi, p. 209). 130 mali ad acquisire i beni necessari a condurre una vita dignitosa, se il sistema economico risponde a criteri di appropriazione che impediscono a una parte consistente della popolazione di «acquisire i mezzi per una vita morale libera»44. Spetta alla legislazione intervenire a ini di riequilibrio. Green è un ilosofo, e non entra nei dettagli tecnici delle politiche redistributive. Si limita a invocare l’intervento dello Stato nel campo non solo dell’educazione degli strati più poveri della popolazione, che a partire da Smith non costituiva un tabù per i liberali, ma anche nelle dinamiche interne alla distribuzione del reddito: difesa dei salari e aggressione della rendita sono strumenti legittimi, coerenti con il principio morale per cui «l’incremento di ricchezza di un individuo non deve provocare una diminuzione di ricchezza in un altro»45. È evidente che con tali posizioni il liberalismo subisce una virata che rende quanto meno plausibile attribuire agli attacchi di Green contro l’individualismo un eficace contributo al diffondersi delle «simpatie socialiste»46. Eppure Green non è un caso isolato. La cittadinanza della libertà eguale Il New Liberalism, che trova in Leonard T. Hobhouse la igura di maggior spicco, si afferma in concomitanza con la stagione dei governi liberali che all’inizio del Novecento accelerano il processo di ampliamento della legislazione sociale47. Hobhouse procede sul solco tracciato da Green e propone una revisione del liberalismo a partire dal concetto di proprietà funzionale, deinito mediante la distinzione teorica tra “proprietà d’uso” e “proprietà di potere”. La “proprietà d’uso” equivale al «controllo di cose, che dà libertà e sicurezza»; la “proprietà di potere” investe invece le relazioni sociali ed economiche e consente «il controllo di persone attraverso le cose, che dà potere al padrone»48. Senza interventi regolatori esterni, il capitalismo tende a produrre disuguaglianze che comportano la riduzione ai danni della grande maggioranza della “proprietà d’uso”, coincidente con la possibilità di godere dei frutti del pro44. Ivi, p. 219. E Green aggiunge: l’«uomo che non possiede altro che la propria forza lavoro e che ha da venderla al capitalista per la propria nuda sussistenza, può…vedersi negati del tutto i diritti di proprietà» (ibid.). 45. Ivi, p. 224. 46. A.V. Dicey, Diritto e opinione pubblica nell’Inghilterra dell’Ottocento, cit., p. 399. 47. M. Pugh, Storia della Gran Bretagna. 1779-1990, Nis, Roma 1997, pp. 155 e ss. 48. L.T. Hobhouse, The historical evolution of property, in Sociology and Philosophy, G. Bell and sons LTD, London 1966, p. 89. 131 prio lavoro, di cui dovrebbero beneiciare tutti i cittadini; al contempo, una ristretta minoranza inisce per beneiciare dell’«accumulazione di una vasta massa di “proprietà di potere”»49, spesso non generata da attività produttive. È compito della politica contrastare il privilegio, ampliando l’accesso ai beneici economici, posto che per Hobhouse è nell’interesse dell’intera società far sì che ciascun cittadino abbia un’«opportunità di lavoro,…ai frutti del suo lavoro, e inine a ciò che può usare di questi frutti»50. Senza timore di tradire la fedeltà ai principi liberali, Hobhouse non ha remore a invocare il “diritto al lavoro”, equiparandolo in dignità ai diritti civili: «il diritto al lavoro e al salario minimo è altrettanto valido quanto i diritti civili o di proprietà, ed è quindi il presupposto fondamentale di un buon ordine sociale»51. In una simile versione, il liberalismo differisce solo in termini di gradi dal laburismo, i cui esponenti politici e culturali non a caso provengono spesso dal mondo liberale. Questo è vero in particolare per la componente riformista, in netta maggioranza nel gruppo parlamentare così come ai vertici delle Trade Unions52. Non che nell’ambito del dibattito d’idee la sinistra inglese d’inizio Novecento sia stata aliena da decise tendenze radicali, anche tra coloro che non si riconoscevano in ideali rivoluzionari estremi. Basti pensare a Richard Henry Tawney, uno dei padri ideologici del Welfare State britannico, che dalle pagine del diario precedenti la prima guerra mondiale53 ino alle sue opere maggiori non smetterà mai di puntare il dito contro i mali morali, prima ancora che materiali, prodotti dal materialismo egoistico sotteso all’economia capitalistica54. Eppure, la versione del socialismo che troverà la sua acme con il governo Attlee nell’immediato secondo dopoguerra sarà sostanzialmente espressione del progetto fabiano55. Anche se inizialmente piuttosto spurio per composizione ideologica, il fabianesimo acquisirà un proilo sempre più ispirato al riformismo statalista, soprattutto 49. Ivi, p. 98. 50. Ivi, p. 102. 51. Id., Liberalismo, Introduzione di F. Sbarberi, Vallecchi, Firenze 1995, p. 159. 52. È un dato assunto polemicamente dallo storico marxista Ralph Miliband come ilo rosso della sua storia del laburismo, non a caso intitolata Parliamentary Socialism. A Study in the Politics of Labour, Allen & Unwin, London 1961. 53. R.H. Tawney’s Commonplace Book, Edited and with an Introduction by J.M. Winter and D.M. Joslin, Cambridge University Press, Cambridge 1972. 54. Le tre opere più importanti di Tawney ai ini del nostro discorso sono senza dubbio The Acquisitive Society, Religion and the Rise of Capitalism e Equality, pubblicate in prima edizione rispettivamente nel 1920, 1926, 1931, 55. Come ha notato Vittorio Foa, dal punto di vista ideologico, le politiche adottate dal governo Attlee erano già indicate dal documento Labour and the New Social Order, scritto da Sidney Webb per il congresso laburista del 1918 (V. Foa, La Gerusalemme rimandata. Domande di oggi agli inglesi del primo Novecento, Einaudi, Torino 2009, p. 309). 132 in virtù dell’inluenza di Sidney e Beatrice Webb. Un riformismo che punta alla graduale transizione dalla cittadinanza politica alla cittadinanza sociale tramite l’ampliamento progressivo della rete di tutele e protezioni e la nazionalizzazione dei grandi servizi pubblici e dei settori strategici dell’economia nazionale56. Tramite l’azione congiunta del partito e dei sindacati, saranno questi gli obiettivi concreti della via laburista al socialismo. Gradualismo, via parlamentare alle riforme, nazionalizzazioni: prassi e ini che, sebbene contrastati anche a sinistra, soprattutto negli anni Dieci, da posizioni cooperativiste-libertarie57 o corporative, diventano ragioni di convergenza lib-lab e trovano terreno fertile nella percezione collettiva. Tra le due guerre, sono diversi i fattori che concorrono a creare un clima adatto afinché la presenza dello Stato nell’economica e il welfare mettano radici. Senza dubbio, l’impianto teorico su cui poggiano le fondamenta del sistema di welfare contiene l’idea di convertire a ini di pace e progresso sociale l’ingerenza dello Stato nell’economia sperimentata a ini bellici58. Nonostante la revanche del grande capitale privato dopo la prima guerra mondiale – non va dimenticato che dal 22 al 45 i conservatori stanno al governo 20 anni su 23 – l’assetto complessivo della legislazione sociale maturata a partire da metà ’800 non viene smantellato, anzi, si espande e consolida. La iducia nell’intervento statale si radica, nella classe politica, negli intellettuali, non solo socialisti, e sempre più diffusamente nel senso comune. William Beveridge, che continuò sempre a dirsi orgogliosamente liberale, coglieva con acutezza come alla ine della seconda guerra mondiale prevalesse il bisogno di liberarsi dalla paura: paura della guerra, dell’indigenza, della disoccupazione. Per questo l’opinione pubblica approvava il ruolo sociale dello Stato59. Con la convinzione di affermare qualcosa di mero buon senso, scriveva: «chiedere che sia attuata la piena occupazione mentre si sollevano obiezioni contro l’estensione dell’attività statale signiica volere il ine e riiutare i mezzi»60. 56. Già in Industrial Democracy, uscito in prima edizione nel 1897 e poi più volte ripubblicato ino al 1926, sono presenti le linee fondamentale della concezione sostenuta dai Webb. 57. È il caso della corrente gildista (il cui esponente di punta è G. D. H. Cole), ma anche di pensatori come Laski e Tawney, assestati negli anni Dieci su posizioni pluralistiche ostili all’accentramento statalista, e simpatizzanti con il gildismo. 58. Come scrisse Keynes: «l’organizzazione della produzione socializzata durante la guerra ha lasciato in chi l’ha osservata da vicino la smania ottimistica di ripetere l’esperienza in condizioni di pace» (J.M. Keynes, La ine del laissez-faire, in Sono un liberale? E altri scritti, a cura di G. La Malfa, Adelphi, Milano 2010, p. 216). 59. W. Beveridge, Il piano Beveridge: introduzione e sommario, in La libertà solidale. Scritti 1942-1945, a cura di M. Colucci, Donzelli, Roma 2010, p. 21. 60. Id., Relazione sull’impiego integrale del lavoro in una società libera, in La libertà solidale, cit., p. 103. 133 III Cittadinanza cosmopolitica Un polic(t)eman? Il liberalismo umanitario di Gaetano Meale (1888-1900) Emanuela Minuto 1. Un invisibile Sotto lo pseudonimo di Umano s’è acquistata la dovuta notorietà nel mondo intellettuale milanese un giovane meridionale di forte intelletto e di spirito largo e moderno, v’era anima d’apostolo per saldezza e irruenza di convinzioni umanitarie meditate e sviscerate1. Così, nel 1891, il quotidiano repubblicano «L’Italia del popolo» presentava l’autore di un pamphlet contro l’ode «La guerra» di Carducci, di cui forniva contestualmente uno stralcio. In effetti, già da due anni la irma Umano apposta a scritti paciisti propugnanti un nuovo ordine europeo circolava negli ambienti della democrazia lombarda e che dietro quello pseudonimo si nascondesse l’identità del magistrato Gaetano Meale era ormai noto a molti, compresi i superiori del pubblicista. All’indomani della pubblicazione dell’estratto da parte del giornale infatti i più alti gradi del tribunale di Milano attivarono una segnalazione al ministro della giustizia ricca di dettagli sull’autore e le sue ultime opere2. Meale era giunto a Milano nel 1889 come aggiunto giudiziario. Fino all’anno prima il suo percorso non era stato certo differente da quello di molti colleghi provenienti da famiglie del sud di modeste condizioni economiche. Nato ad Avellino nel 1858, si laureò a Napoli nel 1881 per poi iniziare lo stesso anno la carriera in magistratura in qualità di uditore. Tre anni dopo superò l’esame da aggiunto giudiziario e tra il 1884 e il 1888 svolse l’incarico nei tribunali di Napoli, Genova e Firenze3. 1. «La guerra» del prof. Carducci lagellata da Umano, in «L’Italia del popolo», 20-21 novembre 1891. 2. Archivio centrale dello Stato (d’ora in avanti Acs), Ministero di Grazia e Giustizia, fascicoli personali dei magistrati, I versamento 1860-1905, b. 317, fasc. 38224, procuratore generale e primo presidente al ministro di Grazia e Giustizia e dei culti, 23 novembre 1891. 3. In merito ai meccanismi di carriera nella magistratura e al peso rivestito dalla “scuola” 137 La promozione fu accompagnata dall’esordio editoriale senza ricorso ad alcun nome d’arte. Il debutto pubblicistico avvenne sotto forma di divulgazione e promozione del liberalismo britannico contemporaneo che certo non imponeva l’anonimato. Fu l’arrivo a Milano a segnare l’inizio di un attivismo paciista che necessitò quella copertura rivelatasi assai fragile e che produsse un duplice esito: la rapida emarginazione all’interno della magistratura e una crescente popolarità nell’universo della democrazia e del socialismo del centro-nord e in alcuni circuiti paciisti internazionali. La fama del tempo non ha trovato ampi riscontri storiograici. Di Meale restano poche tracce disseminate in varie pubblicazioni, alcuni cammei di amici e una biograia scritta da Edgar e Lilian Mowrer per la Philosophical Library di New York nel 1973 che ad alcuni pregi associa evidenti limiti4. Il testo dei Mowrer infatti è soprattutto un omaggio a Meale connotato da toni encomiastici e da immagini del magistrato nei termini di santo, mistico, apostolo dell’umanità, immagini elaborate dai suoi contemporanei. Inoltre, pur fornendo alcuni preziosi elementi biograici, sono assai ridotti i riferimenti agli studi, alla carriera in magistratura intrapresa tra gli anni ottanta e novanta dell’Ottocento, alle reti di relazione, alle congiunte attività maturate a Milano. Il lavoro peraltro offre quasi esclusivamente sintesi entusiaste delle pubblicazioni di Meale. Le dificoltà di reperimento di una signiicativa documentazione hanno senz’altro ostacolato le indagini su Meale. Al contempo, le note direttrici della storia politica praticate in Italia sino agli anni novanta del Novecento costringevano in una dimensione di anonimato o quasi personaggi come il magistrato. La tenace focalizzazione sugli aspetti ideologici e partitici ha lasciato a lungo vasti coni d’ombra sulla tipologia del giurista-politico-scrittore democratico o liberal-democratico, sul cui peso hanno invece insistito ricerche successive. La nuova stagione storiograica ha invece messo in risalto la centralità di tale igura, privilegiando peraltro un approccio di rete concentrato sulla rappresentanza politica rispetto a una prospettiva metodologica culturale. Ne è un esempio la signiicativa storiograia sulla Napoli di ine Ottocento, città dove Meale studiò e lavorò ino al 18875. La ricostruziodi Napoli nell’Italia liberale cfr. A. Meniconi, Storia della magistratura italiana, il Mulino, Bologna 2012, pp. 57-61. Per le note di carriera di Meale, Acs, Ministero di Grazia e Giustizia, fascicoli personali dei magistrati, I versamento 1860-1905, b. 317, fasc. 38224. 4. E.A. Mowrer, L.T. Mowrer, Umano and the Price of Lasting Peace, Philosophical Library, New York 1973. 5. Per la network analysis applicata alla realtà meridionale e al caso napoletano in particolare si ricordano i lavori pionieristici di L. Musella, Relazioni, clientele, gruppi e partiti nel controllo e nell’organizzazione della partecipazione politica (1860-1914), in P. Macry e P. Villani (a cura di), Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi, La Campania, Einaudi, Torino 1990, pp. 731-790; L. Musella, Individui, amici, clienti. Relazioni personali e circuiti politici 138 ne di importanti tasselli della galassia democratica partenopea si combina infatti con la persistenza di limitate ricerche di taglio culturale o di vecchi giudizi su igure anche di primissimo piano quali quella di Giovanni Bovio. Stella politica della scapigliatura napoletana, interprete fondamentale della democrazia nazionale e ‘maestro’ di almeno una generazione di giovani meridionali, compreso Meale, Bovio ha acquisito più nitidi contorni solo grazie a pochissimi studi attenti alla dimensione culturale, studi che permettono di superare la classiicazione del democratico nei termini di semplice epigono di un tardo e ingenuo sentimentalismo6. Se questo è stato il destino del deputato meridionale, si possono intuire le ragioni della mancata fuoriuscita di Meale dall’oblio o la persistente riproposizione delle qualiicazioni adoperate dai suoi contemporanei. D’altronde, dopo anni di vuoto storiograico, il recente interesse manifestato da più studiosi per il paciismo italiano di ine Ottocento non ha consentito una ricomposizione della parabola del magistrato. Le riletture delle vicende di alcuni grandi esponenti, in primis Ernesto Teodoro Moneta che di Meale fu promotore, e più in generale le recenti analisi del paciismo democratico non contengono riferimenti al magistrato7. in Italia meridionale tra Otto e Novecento, il Mulino, Bologna 1994. Nell’ambito delle nuove ricerche dedicate ai giuristi-politici-letterati si vedano per esempio P. Villani, Carlo Del Balzo tra letteratura e politica, Edizioni Scientiiche Italiane, Napoli 2001; R. Della Fera (a cura di), Carlo Del Balzo: un intellettuale moderno, Centro Guido Dorso, Avellino 2010. Il bel libro di Barbagallo sulla Napoli in de siècle, che restituisce i contorni di una metropoli europea, dedica però uno spazio limitato al mondo culturale e politico democratico. Cfr. F. Barbagallo, Napoli, Belle époque, Laterza, Roma-Bari 2015. Tra gli studi più fertili sulla democrazia italiana di ine Ottocento cfr. E. Mana, La “democrazia” italiana. Forme e linguaggi della propaganda politica Tra Ottocento e Novecento, in M. Ridoli (a cura di), Propaganda e comunicazione politica. Storia e trasformazioni nell’età contemporanea, Bruno Mondadori, Milano 2004, pp. 147-164; E. Mana, La democrazia radicale italiana e le forme della politica, in M. Ridoli (a cura di), La democrazia radicale nell’Ottocento europeo. Forme della politica, modelli culturali, riforme sociali, Annali della Fondazione Gian Giacomo Feltrinelli (Anno Trentanovesimo 2003), Feltrinelli, Milano 2005, pp. 189-218. 6. Cfr. in particolare P. Finelli, “E la Repubblica verrà come le stagioni...” Giovanni Bovio e l’estrema sinistra meridionale tra politica e cultura, tesi di laurea, relatore A.M. Banti, Università di Pisa, aa. 1995-1996; P. Finelli, Un collegio moderno. Reti notabilari, discorso politico e strutture organizzative nella costruzione del «partito boviano» in Terra di Bari (1882-1890), in «Società e Storia», 88, 2000, pp. 269-296; P. Finelli, Costruzione dell’identità politica e questione religiosa nei “Drammi sacri” di Giovanni Bovio, in F. Bertolucci (a cura di), Galilei e Bruno nell’immaginario dei movimenti popolari tra Otto e Novecento, Bfs, Pisa 2001, pp. 127-141. Utili notizie su Bovio e l’enorme inluenza esercitata sui circoli universitari napoletani e sulla stampa democratica e socialista della città si trovano in A. Alosco, Radicali Repubblicani e Socialisti a Napoli e nel Mezzogiorno tra Otto e Novecento 1890-1902, Pietro Laicata Editore, Manduria-Bari-Roma 1996, pp. 9-26, 38, 53-60, 71. 7. Negli ultimissimi anni Moneta è stato oggetto di un’abbondante produzione. A titolo esempliicativo si ricordano i seguenti titoli: B. Pisa, Ernesto Teodoro Moneta: storia di un 139 Pur essendo una igura minore rispetto a un Bovio o a un Moneta, la ricognizione di alcune fonti rivela in effetti, come accennato, che Meale fu una voce ascoltata, evocata e trasigurata dalle cerchie giornalistiche e dagli intellettuali ai vertici delle correnti democratiche, socialiste e perino anarchiche. L’accoglienza e la circolazione in questi circuiti si legano principalmente a tre componenti rappresentate dallo stato professionale, dalle reti di relazione e dai registri del discorso politico. Il proilo di magistrato liberal-democratico oppositore dei governi di ine Ottocento costituì senz’altro un elemento di fascinazione da agitare all’evenienza in varie sedi. Al contempo, il percorso formativo e professionale così come il successivo patronage di Moneta ne fecero un membro a pieno titolo di un itto reticolo di giuristi-politici-scrittori che, al di là delle appartenenze “partitiche” formali, avrebbe continuato a maturare esperienze condivise sul piano municipale, nazionale e internazionale. A questo reticolo, Meale offrì un discorso politico altamente attraente. Il decennale sforzo di articolazione di un disegno di cittadinanza europea e italiana si snodò attraverso registri discorsivi che incorporavano caratteri, motivi e umori dominanti nelle cerchie democratiche e socialiste di ine secolo. Al contempo, la declinazione di tale disegno avvenne con l’impiego di stili comunicativi “effervescenti” ed evocativi corrispondenti a una sensibilità assai diffusa. Seppur in forma parziale, il presente contributo mira quindi a rileggere alcuni aspetti della igura di Meale e della sua notorietà nella fase compresa tra il 1888 e il 1900, privilegiando l’analisi dei testi, delle reti di relazione e della circolazione degli scritti. 2. L’Inghilterra ad uso della democrazia italiana Il grande esordio di Meale nel circuito editoriale italiano si ha con l’uscita nel 1888 dell’opera Moderna Inghilterra, Educazione alla vita politi“paciista con le armi in mano”, in B. Pisa (a cura di), Percorsi di pace e di guerra fra Ottocento e Novecento: movimenti, culture e appartenenze, in «Giornale di Storia Contemporanea», 12, 2, 2009, pp. 21-56; F. Canale Cama, La pace dei liberi e dei forti. La rete di pace di Ernesto Teodoro Moneta, Bononia University Press, Bologna 2012; A. Castelli, Il paciismo alla prova. Ernesto Teodoro Moneta e il conlitto italo-turco, in G. Angelini (a cura di), Nazione democrazia e pace tra Ottocento e Novecento, FrancoAngeli, Milano 2012, pp. 111-141; A. Castelli, Il discorso sulla pace in Europa 1900-1945, FrancoAngeli, Milano 2015, pp. 1532. Tra i più recenti contributi dedicati al paciismo democratico si ricordano le ricerche di Lucio D’Angelo e Renato Girardi. L. D’Angelo, Il paciismo democratico italiano dalla ine dell’Ottocento alla prima guerra mondiale, in O. De Rosa, D. Verrastro, (a cura di), Pensare il Novecento. Fatti, problemi e idee di un secolo denso di suggestioni storiche, Laterza, RomaBari 2012, pp. 283-310; L. D’Angelo, Il paciismo democratico italiano dalla guerra di Libia alla nascita della Società delle Nazioni, il Mulino, Bologna 2016; R. Girardi, Né pazzi né sognatori. Il paciismo democratico in Italia tra Otto e Novecento, Pacini Editore, Pisa 2016. 140 ca per i tipi dei fratelli Bocca grazie anche alla mediazione di Lombroso8. Come noto, poco dopo l’unità, si registrò in Italia un proluvio di pubblicazioni tese ad esaltare il sistema politico-istituzionale britannico al ine anche di indicare una via d’uscita al sempre più lamentato parlamentarismo. A partire soprattutto dagli anni Ottanta dell’Ottocento però alla denuncia del grande “male” il moderatismo associò sempre più spesso la richiesta di rafforzamento del potere regio ino a teorizzare in alcuni casi l’abbandono del sistema parlamentare. In questo clima, Meale scriveva un’opera che indicava tutt’altra direzione, proponendo a modello di rigenerazione nazionale la contemporanea Inghilterra e il liberalismo radicale di Joseph Chamberlain. Pur essendo presentata come pedagogia nazionale, l’Educazione alla vita politica costituisce soprattutto un itto dialogo-scontro interno alla dimensione culturale e politica di Napoli. La lunga introduzione all’opera si gioca infatti sul ilo della polemica con Ruggiero Bonghi e Giovanni Bovio secondo direttrici che risentono di alcune suggestioni del Francesco De Sanctis pensatore politico degli anni settanta dell’Ottocento9. La degenerazione sistemica dell’Italia politica era prevalentemente ricondotta a quei motivi desanctisiani relativi ai deicit di libertà sostanziale, alla incompleta conciliazione tra liberalismo e democrazia, alla mancanza di partiti e alle responsabilità in questo senso della frazione repubblicana10. Meale mutuava la critica di De Sanctis nei confronti del dottrinarismo-formalismo della componente repubblicana; tuttavia, nonostante i prudenziali elogi al binomio Zanardelli-Crispi, afidava una funzione redentrice proprio al leader del repubblicanesimo partenopeo Bovio. Se Bonghi costituiva l’acerrimo ‘nemico’, Bovio era il maestro rispetto al quale Meale si poneva in una posizione di discepolo deluso e al contempo idente in una sua trasformazione secondo il «modello Chamberlain» da lui confezionato11. Il libro assumeva così le vesti di un prontuario diviso in due parti, l’una dedicata alle scuole inglesi di libertà e l’altra ai discorsi della campagna elettorale del 1885. Almeno due terzi del volume era rappresentato dalla riproduzione di decine di discorsi estratti dal «Times», con una netta prevalenza dell’oratoria di Chamberlain, di cui peraltro negava la parabola ormai in corso rispetto ai conservatori e all’imperialismo. Il Chamberlain di Meale era quello delle libertà, dei diritti e delle riforme sociali all’interno del paese 8. G. Meale, Moderna Inghilterra. Educazione alla vita politica, Fratelli Bocca, Torino 1888. 9. Si fa qui riferimento all’interpretazione fornita da Mario Mirri nel volume Francesco De Sanctis politico e storico della civiltà moderna, G. D’Anna, Messina-Firenze 1961. 10. G. Meale, Moderna Inghilterra…, cit., pp. XL-XLVIII, LX-LXXII. 11. G. Meale, Moderna Inghilterra…, cit., pp. LXVII-LXII. 141 e quello del federalismo imperiale letto attraverso il prisma dell’ultimo stadio di una politica di civilizzazione tanto mite quanto necessaria che aveva il suo contrario nell’africanismo italiano. Queste direttrici avrebbero lasciato una forte impronta anche nella produzione successiva. Nonostante la radicalizzazione di stili e contenuti, l’abbondo delle accortezze e le torsioni, il discorso di Meale infatti si sarebbe snodato attraverso tre assi in relazione alla sfera nazionale e a quella internazionale: la genuina rivendicazione di un sistema di diritto e di libertà per l’Italia plasmato sull’ideale inglese, la creazione di una federazione europea delle nazioni più civili, l’assegnazione ad essa tra l’altro di una missione di patronato. Queste direttrici costituirono l’oggetto di tre lavori comparsi per la prima volta in occasione di anni emblematici per la storia internazionale e nazionale: La ine delle guerre (1889), Il discorso di un policeman nel cinquantenario dello Statuto italiano (1898), Patria lex (1900). 3. La violenta ine delle guerre di un paciista La ine delle guerre uscì con lo pseudonimo Umano in un anno chiave per il paciismo italiano e internazionale. Nel 1889 parallelamente alla nascita della Seconda Internazionale, si strutturava in forma permanente un movimento internazionale per la pace di segno borghese, lontano dal tolstoismo e in generale del paciismo assoluto. Con felice espressione è stato deinito da Cooper Patriotic Paciism12. In quell’anno fu convocato a Parigi il primo Universal Peace Congress e contemporaneamente si tenne il primo meeting della Unione Interparlamentare votata alla ricerca di forme conciliative, mentre l’Associazione di Roma per l’Arbitrato e per la Pace internazionale diretta da Bonghi organizzò nella capitale un incontro nazionale13. Nel 1889 così come negli anni successivi il movimento continentale per la pace si concentrò sulla promozione dell’arbitrato internazionale, in modo più faticoso sul disarmo, mentre alcuni leader rilanciavano periodicamente forme più incisive di cooperazione regionale14. Il programma del congresso italiano riprodusse questa agenda, limitando le prospettive di integrazione 12. Sandi E. Cooper, Patriotic Paciism. Waging War on War in Europe 1815-1914, Oxford University Press, New York-Oxford 1991. 13. Per il congresso di Parigi cfr. Sandi E. Cooper, Patriotic Paciism…, cit., pp. 8, 5859, 75; in merito alle vicende dell’Unione Interparlamentare cfr. L. Tedoldi, Understanding Globalization. The Inter-Parliamentary Union from the Late Nineteenth to Early Twentieth Century, in «History Research», 2014, vol. 4, n. 1, pp. 21-30. 14. Sandi E. Cooper, Patriotic Paciism…, cit., pp. 60-139. 142 alle suggestioni di Vilfredo Pareto sull’unione doganale quale strumento di miglioramento delle relazioni politiche15. Nonostante la direzione moderata, il congresso di Roma fu caratterizzato dal primato di adesioni di società e personalità della galassia democratica lombarda e dalla partecipazione del deputato socialista Andrea Costa. Dall’inizio dell’anno, proprio questa galassia, insieme ai socialisti, era promotrice di comizi e opuscoli contro la guerra stimolati dal timore di un conlitto con la Francia e gli appuntamenti erano spesso dominati dalle suggestioni federative del garibaldino comunardo Amilcare Cipriani e dai riferimenti al Garibaldi presidente del congresso ginevrino della pace del 186716. La ine delle guerre maturava in questo clima all’indomani del trasferimento a Milano di Meale. La genesi del pamphlet ha radici nell’avversione agli orientamenti emersi a Parigi così come a Roma e nel consueto slancio pedagogico in direzione di un’«educazione alla vita politica» ad uso dei democratici17. Il testo è suddivisibile in due parti e la cifra è rappresentata dalla combinazione di radicalismo critico e di umanitarismo liberal-democratico che ne consentirono la trasformazione in piccolo best-seller in Italia e in un prodotto esportabile nel circuito del paciismo internazionale. Molte delle iniziali pagine costituiscono un atto di accusa nei confronti delle politiche di nazionalizzazione e dei nazionalismi. Il serrato attacco del magistrato si articolava attraverso proiezioni evoluzioniste e un sistema di contrapposizioni entrambi fondati sull’uso di igure inscritte nel lessico della democrazia e del socialismo e tutt’altro che in via di esaurimento. Al culto della nazione opponeva la visione del progresso per stadi lungo l’asse barbarie-nazione/patriaumanismo e, al contempo, contro lo chauvinismo-nazionalismo ricorreva alle formule tanto vaghe quanto diffuse della fratellanza e dell’unione dei popoli e ancora dell’umanismo. In aggiunta, alla critica era abbinato un vademecum antimilitarista ricco di espressioni e consigli contro governi, poteri costituiti e pubblicisti suscettibili di letture radicali. Peraltro, nella seconda parte del te15. Atti del Congresso di Roma per la pace e per l’arbitrato internazionale (12-16 maggio 1889), S. Lapi Tipografo-Editore, Città di Castello 1889, pp. 83-94. Sono molti i lavori che fanno riferimento al Congresso della pace di Roma. Oltre al volume di Cooper, si vedano per esempio B. Pisa, Ernesto Teodoro Moneta…, cit., p. 27. F. Canale Cama, La pace dei liberi e dei forti…, cit., pp. 36-38; R. Girardi, Né pazzi né sognatori…, cit., pp. 35-40. 16. Si vedano a titolo esempliicativo i seguenti articoli pubblicati da «La Giustizia» di Prampolini: Contro la guerra, 10 febbraio 1889; Il comizio contro la guerra, 5 maggio 1889; Contro la guerra, 9 giugno 1889. Sulla partecipazione italiana al congresso di Ginevra del 1867 si rinvia al lavoro pionieristico di F. Pieroni Bortolotti, La donna la pace, l’Europa. L’Associazione internazionale delle donne dalle origini alla prima guerra mondiale, FrancoAngeli, Milano 1985, pp. 26-36. 17. Umano, La ine delle guerre, Libreria editrice Galli, Milano 1889, p. 28. 143 sto, l’antimilitarismo e l’umanismo si sarebbero risolti in un disegno riformatore federalista. L’architettura paciista di Meale si concretizzava in soluzioni federative fondate su una tradizionale geograia/gerarchia delle nazioni. Sulla base del criterio di «una civile maniera» di condursi, Meale prospettava un ordine ideale al cui vertice stavano Europa e Stati Uniti, seguiti dai paesi asiatici in via di civilizzazione e da un continente africano in attesa di educazione. Aspettando un’inevitabile maturazione delle condizioni per un’unione di tutti, il magistrato elaborava la proposta di una Federazione degli Stati d’Europa con Parlamento internazionale per gli affari comuni e Parlamenti nazionali per le questioni locali. Nella cornice accennata, il progetto presentava in relazione alla sistemazione un modello di integrazione che vagamente evocava la federazione statunitense (unione doganale, uniformità delle comunicazioni e delle politiche sanitarie, primato delle autorità federali); un’integrazione che continuava a fondarsi su una precisa gerarchia interna e che rispetto alla conservazione della pace regionale prevedeva meccanismi chiaramente non ascrivibili al paciismo integrale. Tra le funzioni assegnate al Parlamento europeo igurava l’elaborazione di un diritto con modalità di applicazione militare nel caso di contenziosi tra Stati. In questo senso, la conservazione della pace all’interno della federazione si fondava su tre elementi: diritto internazionale, tribunali federali e coercizione afidata a una polizia europea, pur in una cornice di disarmo dei singoli paesi aderenti all’organizzazione. Dalla critica all’agenda del movimento continentale sino al disegno riformatore, il testo si conigura come una rivisitazione del programma del congresso di Ginevra del 1867 e un aggiornamento delle tesi originarie di Charles Lemonnier, regista di quel consesso e successivamente della corrente federalista del paciismo europeo organizzata intorno alla Ligue internationale de la Paix et de la Liberté e al giornale «Les Etas Unis d’Europe»18. Meale era già entrato in contatto con Lemonnier nel 1881 durante un meeting della International Arbitration and Peace Association tenutosi a Bruxelles. Allora insieme ad altri ne aveva sposato la linea dell’urgenza della costruzione degli Stati Uniti d’Europa rispetto a prospettive favorevoli all’arbitrato19. Nel 1889, in sintonia d’altronde con umori sempre più diffusi nella corrente, Meale si mantenne fedele alla posizione espressa a Bruxelles, ritenendo però fondamentale il superamento della pregiudiziale repubblicana che aveva costituito uno dei fondamenti dei progetti di Lemonnier. Sotto quest’ultimo aspetto, il magistrato si attestava così lungo la linea compromissoria di Moneta che da 18. Cfr. M. Petricioli, D. Cherubini, A. Anteghini (a cura di), Les Etas Unis d’Europe. Un Projet Paciiste, Peter Lang, Berna 2004; A. Anteghini, Pace e federalismo. Charles Lemonnier, una vita per l’Europa, Giappichelli, Torino 2005. 19. Sandi. E. Cooper, Patriotic Paciism…, cit., p. 54. 144 anni predicava allo stesso Lemonnier la necessità dell’accantonamento della questione istituzionale e degli elementi ideologicamente più marcati del disegno europeista20. Peraltro, elementi di non poco conto avrebbero continuato a separare il magistrato dal direttore del «Secolo» a partire dalle valutazioni dei movimenti e dei motivi nazionalisti europei sino agli obiettivi da promuovere. 4. Storia di un best-seller (o quasi) Nonostante le diversità e la corrosiva critica di Meale nei confronti del congresso di Roma, fu proprio Moneta la chiave fondamentale di circolazione dell’opuscolo. Tra il 1889 e il 1896 La ine delle guerre conobbe tre edizioni italiane e una inglese. Nel 1889, Moneta lanciò l’opuscolo attraverso il «Secolo», il più diffuso giornale lombardo, ma anche la sede per alcuni anni ancora di potenti intersezioni tra universi politici e organizzazioni operaie. Contemporaneamente, il periodico democratico «La Lombardia» fornì una recensione, mentre lo scapigliato Ferdinando Fontana plaudiva a stile e contenuti dell’opuscolo dalle pagine dell’«Italia» ancora guidata da Dario Papa, prossimo direttore de «L’Italia del popolo», il giornale che nel 1891 tornò a incoraggiarne la lettura in nuova edizione nel pieno della polemica sollevata dall’ode di Carducci21. Una prima edizione del 1889 e la ristampa ampliata del 1891 furono opera della casa editrice milanese Carlo Aliprandi, che sul inire del secolo avrebbe annoverato in catalogo alcune penne del «Secolo», Fontana e Papa, e l’almanacco «L’Amico della pace» di Moneta. La seconda uscita del pamphlet ben si disponeva nello scenario anti-africanista e anti-triplicista di queste realtà e nella cornice dei fermenti connessi con il terzo congresso internazionale della pace tenutosi a Roma. Non a caso, la riedizione della Aliprandi era accompagnata dal supporto di Moneta e del suo almanacco «L’Amico della pace», il periodico del paciismo italiano22. In aggiunta, Moneta inserì La ine delle guerre nella lista delle pubblicazioni da pro20. Sull’idea federativa di Moneta cfr. C. Ragaini, Giù le armi! Ernesto Teodoro Moneta e il progetto di pace internazionale, FrancoAngeli, Milano 1999, pp. 83-93; B. Pisa, Ernesto Teodoro Moneta…, cit., pp. 24-27. 21. Per le recensioni del 1889 cfr. Umano, La ine delle guerre. Edizione popolare ampliata, Carlo Aliprandi Editore, Milano 1991. In merito alla promozione del 1891 ad opera del giornale «L’Italia del popolo» cfr. «La guerra» del prof. Carducci…, cit. 22. La casa editrice milanese infatti disponeva a chiusura del testo la ristampa di una nota di Meale dichiaratamente estratta dall’almanacco di Moneta del 1891. Cfr. Umano, La ine delle guerre (1891). Più in generale, Moneta negoziò con la Aliprandi la pubblicazione dell’almanacco dietro assicurazione di un suo impegno per garantire alla casa editrice scritti di personaggi di primo piano, quali Dario Papa. Cfr. R. Girardi, Né pazzi né sognatori…, cit., p. 58 e p. 244. 145 muovere da parte del Bureau International de la paix istituito proprio nel 1891 e guidato dal belga La Fontaine23. Lo scritto entrò così nell’Essai de bibliographie de la paix compilato da La Fontaine nel 1891, continuando a comparire nella letteratura consigliata almeno ino al 190424. In questa data, ancora La Fontaine avrebbe citato nella Bibliographie de la paix et de l’arbitrage international, pubblicata dall’Institut International de la paix, la terza edizione del 1896 e la traduzione in inglese dell’opuscolo ad opera di Monica Mangan, igura centrale del paciismo britannico e moglie di Hodgson Pratt, fondatore dell’Unione Lombarda per la Pace e l’Arbitrato Internazionale di Moneta25. Se nel 1891 La ine delle guerre scosse il mondo dell’associazionismo paciista lombardo26, la consacrazione ad opera dei circuiti del «Secolo» e dell’«Italia del popolo» servì a inserire il pamphlet nell’agenda comunicativa di alcuni leader del socialismo e dell’anarchismo nella fase di strutturazione dei ‘partiti’, ma ancor più nei due passaggi critici rappresentati dal 1898 e dalla guerra di Libia. L’innesto dello scritto di Meale nelle galassie socialiste e anarchiche si deve principalmente a Camillo Prampolini e a Pietro Gori. Entrambi erano avvocati e avevano un potente debito formativo nei confronti degli ambienti politico-culturali milanesi; come Meale, poi, si guadagnarono in quegli anni gli epiteti di santi e apostoli dell’umanità per poi essere a lungo liquidati sul piano storiograico come propagandisti ingenui e sentimentali. Più di recente, in merito a Prampolini e Gori si è dato conto dell’enorme fortuna attraverso la ricostruzione di quelle che furono vere e proprie strategie comunicative dettate dall’esigenza di “andare al popolo”27. 23. A partire almeno dal 1891, Moneta fornì a La Fontaine indicazioni bibliograiche in lingua italiana da inserire nelle pubblicazioni promosse dal senatore belga. Cfr. Mundaneum, Papiers personnels d’Henri La Fontaine, HLF 189-1. Société belge de l’arbitrage et de la paix. Correspondance 1889-1892, lettere di E.T.Moneta a H. La Fontaine del 22 gennaio 1891, 28 marzo 1892, 17 giugno 1892. 24. Essai de bibliographie de la paix par H. Lafontaine, Imprimerie Th. Lombaerds, Bruxelles 1891, p. 15. 25. Bibliographie de la paix et de l’arbitrage international par H. La Fontaine, Tome Premier, Mouvement paciique, Institut International de la paix, Monaco 1904, p. 120. 26. All’indomani del terzo congresso internazionale per la pace, l’Unione lombarda per la pace si riunì per dare conto dell’appuntamento. Angelo Mazzoleni, membro del neo-nato Bureau International de la paix, presentò la relazione per l’Unione lombarda, discutendo tra l’altro le tesi de La ine delle guerre. Cfr. I quattro discorsi di ieri sul congresso della pace, in «L’Italia del popolo», 14-15 dicembre 1891. 27. Per Prampolini cfr. per esempio S. Bianciardi, Camillo Prampolini costruttore di socialismo, il Mulino, Bologna 2012. In merito a Gori cfr. M. Antonioli, Pietro Gori il cavaliere errante dell’anarchia, Bfs, Pisa 1996; M. Manfredi, Una cultura politica fortemente emotiva. L’anarchismo italiano all’inizio del Novecento, in P. Morris, F. Ricatti, M. Seymour 146 La leadership carismatica di Gori si strutturò durante la permanenza milanese iniziata alla ine del 1890. Anche in questo caso, la visibilità iniziale fu assicurata da «L’Italia del popolo»; in aggiunta il giornale mantenne per tutto il 1891 una benevola disposizione verso l’avvocato, il cui apprendistato milanese passò dalla partecipazione agli appuntamenti dell’Unionedemocratica sociale di Turati e Papa, che riuniva parte dei repubblicani e dei radicali e i socialisti28. A questa fase risale la maturazione da parte di Gori di una strategia che identiicava nell’avvocatura un canale di azione politica fondamentale. Sul inire dell’Ottocento, tutta l’Estrema sfruttava l’oratoria del tribunale per ini pedagogici e di formazione di un consenso personale e di partito. I processi penali erano uno dei maggiori spettacoli dell’epoca e il genere giudiziario a stampa una letteratura diffusissima e popolare29. Fino alla morte, Gori ne fece un’asse della sua azione politica e nel 1898 lo strumento fu quasi la sola arma a disposizione per propagandare il progetto gradualista dei malatestiani inalizzato alla riconnessione con le classi popolari e alla costruzione di alleanze con democratici e socialisti in primo luogo sulla base della difesa dei diritti civili e politici30. Nel corso del 1898, Gori calcò i palcoscenici dei tribunali a ianco di repubblicani, socialisti e radicali, seguendo un costante schema visivo e narrativo. In aula si sedeva (a cura di), Politica ed emozioni nella storia d’Italia dal 1848 a oggi, Viella, Roma 2011, pp. 89-111; M. Antonioli, Pietro Gori. La nascita del mito, in M. Antonioli, F. Bertolucci, R. Giulianelli (a cura di), Nostra patria è il mondo intero. Pietro Gori nel movimento operaio e libertario italiano e internazionale, Bfs, Pisa 2012, pp. 19-33; E. Minuto, Una battaglia per la libertà. Pietro Gori e il domicilio coatto (1897-1898), in M. Antonioli, F. Bertolucci, R. Giulianelli (a cura di), Nostra patria…, cit., pp. 161-175. 28. «L’Italia del popolo» fece della cancellazione dell’anarchico dal registro dei procuratori un vero caso politico con il coinvolgimento di Turati. Cfr. Un avvocato socialista cancellato dall’albo dei procuratori e Una lettera di Filippo Turati, 5-6 aprile 1891. In relazione all’Unione cfr. L. A. Tilly, Politics and Class in Milan 1881-1901, Oxford University Press, New York 1992, pp. 217-218 29. G. Alessi, Il processo penale. Proilo storico, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 183-191; L. Lacchè, Una letteratura alla moda. Opinione pubblica, «processi ininiti» e pubblicità in Italia tra Otto e Novecento, in M.N. Miletti (a cura di) Riti, tecniche, interessi. Il processo penale tra Otto e Novecento, Giuffrè, Milano 2006, pp. 459-513; L. Lacchè, «L’opinione pubblica saggiamente rappresentata». Giurie e Corti d’Assise nei processi celebri tra Otto e Novecento, in P. Marchetti Inchiesta penale e pre-giudizio. Una rilessione interdisciplinare, ESI, Napoli 2007, pp. 89-147; F. Colao, L. Lacchè e C. Storti, Processo penale e opinione pubblica in Italia tra Otto e Novecento, il Mulino, Bologna 2008. Sull’importanza dei tribunali per i socialisti M. Ridoli, Il Psi e la nascita del partito di massa. 1892-1922, Laterza, RomaBari 1992, pp. 162-163; E. D’Amico, Strategie di manipolazione dei giurati: Enrico Ferri e la coscienza popolare, in F. Colao, L. Lacchè e C. Storti Processo penale e opinione pubblica…, cit., pp. 265-290. 30. Per il progetto malatestiano cfr. D. Turcato, Making Sense of Anarchism: Errico Malatesta’s Experiments with Revolution, 1889-1900, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2012. 147 disponendo «tutta una biblioteca» che comprendeva invariabilmente La ine delle guerre31. Inoltre, nell’arringa tenuta durante il più importante processo antecedente alla relazione di maggio, ossia quello a Malatesta, Gori utilizzò diffusamente La ine delle guerre. Come di consueto, l’avvocato allestì una sorta di contro-processo alle istituzioni liberali e ai suoi garanti, i giudici in primis. In modo funzionale a tale pratica, oppose al magistrato un altro magistrato, Meale, e alle «tirate patriottarde del primo», le accuse al nazionalismo e la visione del progresso lungo l’asse barbarie-patria-umanismo del secondo, assegnando ovviamente il ruolo di apostoli agli anarchici32. Tacendo la parte propositiva di Meale, le tante versioni a stampa della difesa maturate entro e fuori i conini nazionali conservarono il passaggio indicato. La ine delle guerre si proilava in generale come un’arma da tempi di crisi. All’opuscolo ricorse per esempio Prampolini nel pieno della guerra di Libia, del travaglio del socialismo italiano e del trauma nel movimento paciista nazionale prodotto dall’interventismo di Moneta. Il socialista, peraltro, ne avrebbe fatto un uso decisamente meno spregiudicato di quello di Gori, rilanciando le proposte di creazione degli Stati Uniti d’Europa. Le idee di Meale relative alle sistemazioni internazionali erano al centro dell’attenzione di Prampolini da più di un decennio tanto che la rivisitazione delle tesi compiuta dal magistrato nello scritto Patria lex non era passata inosservata33. Ancor prima però Prampolini ne aveva fatto il campione di un liberalismo esemplare da inserire nell’agenda socialista. 5. Hear, hear! Nel pieno della battaglia contro la reazione di ine secolo, dalle pagine della «Giustizia», Prampolini aveva raccomandato a tutti i propagandisti socialisti di leggere Il discorso di un policeman di Umano34. L’opuscolo, pubblicato nel dicembre 1898 sotto forma di traduzione, costituisce una formidabile denuncia nei confronti del governo e della classe dirigente liberale in merito ai recenti avvenimenti e alla più generale condotta della cosa pubblica. La requisitoria rivela una visione schiettamente liberale con pochi 31. Si veda per esempio una testata locale che seguì un intero processo ad anarchici e socialisti per un attentato ad un delegato di pubblica sicurezza, Supplemento straordinario all’Eco del Carrione, 53, 15 aprile 1898. 32. Processo a Malatesta e Compagni innanzi al tribunale penale di Ancona, Buenos Aires, 1899, p. 95. 33. S. Bianciardi, Camillo Prampolini…, cit., pp. 413-414, pp. 423-424. 34. Uno, Per la libertà. La nostra battaglia, in «La Giustizia», 10 febbraio 1899. 148 eguali in quella fase articolata però attraverso uno stile aspro al limite del violento. L’ineducazione al regime rappresentativo igura come la chiave di lettura dell’intera vicenda dell’ultimo anno, in particolare dei moti rivoluzionari, mentre già dal titolo l’Inghilterra era di nuovo proposta come il «più alto grado di civiltà umana»35. Pur non mancando durissime accuse ai repubblicani per gli esiti violenti di una retorica anti-sistemica, gran parte della responsabilità dei moti era ricondotta ai governanti e a una classe politica che da lungo tempo aveva calpestato i principi dello Stato di diritto: le libertà di espressione, di associazione e di voto. Quello che delineava era un costante processo di eversione della legge e delle libertà e un’educazione alla violenza attraverso le politiche di nazionalizzazione, da cui scaturivano ribellioni, corruzione, illegalismo di magistrati e polizia, elusioni delle norme da parte dei cittadini36. La mancanza di certezza da parte della legge e di garanzie di libertà insomma erano all’origine di una durevole frode che aveva trovato il suo acme negli stati d’assedio, considerati da Meale «un sovvertimento assai più grande del moto rivoluzionario»37. Il durissimo j’accuse, come accennato, fu subito raccolto da Prampolini che successivamente ne fece un caposaldo di uno scritto di grande diffusione. Nel 1900, dopo l’incarcerazione causata dal noto episodio del rovesciamento delle urne in Parlamento, il deputato reggiano diede alle stampe un’autodifesa mai pronunciata per la mancata celebrazione di un processo che peraltro aveva già assunto i contorni di un appuntamento sensazionale38. Senza signiicative torsioni, Il Resistete agli arbitrii! riprese dal Discorso di un policeman le principali linee di sviluppo e di interpretazione39. Intanto, a ridosso di questi prestiti e promozioni, «La Giustizia» attingeva all’ultima fatica di Umano, ossia Patria lex, questa volta glissando del tutto sulle tesi e sfruttando la funzionalità dell’ormai ex ruolo dallo scrittore e di un gusto stilistico iperbolico, tagliente e beffardo verso le autorità40. Patria lex costituiva una nuova rilessione sul paciismo e sulla necessità di un ordine internazionale. Ancor più de La ine delle guerre, il pamphlet era farcito di radicalismo nei confronti dei paciisti e dei governi, che includeva proiezioni volutamente surreali, di immagini di fraternità e di rinvii a 35. Il discorso di un policeman nel cinquantenario dello Statuto italiano prefazione e traduzione di Umano, Casa editrice libraria L. Battistelli, Milano 1898, p. 8. 36. Il discorso di un policeman…, cit., pp. 24-34. 37. Il discorso di un policeman…, cit., p. 40. 38. C. Prampolini, Resistete agli arbitrii! (Che cosa avrei detto ai giurati), Libreria Garagnani e Pagliani, Modena 1900. 39. S. Bianciardi, Camillo Prampolini…, cit., pp. 279-290. 40. Per gli stralci pubblicati dal giornale socialista cfr. «La Giustizia», 13 gennaio 1901. 149 un futuro di socialismo cristiano. Lo scritto (male) si muove su un piano di caustica contestazione della parabola del movimento internazionale per la pace e dell’iniziativa della Conferenza dell’Aja, deinita una «farsa diplomatica» messa in scena «a beneicio dei fanciulli» delle società per la pace41. A cadere sotto i colpi della penna di Umano furono tutte le soluzioni circolanti in questi consessi – arbitrato obbligatorio e facoltativo, accordi per il disarmo, la nazione armata tanto cara a Moneta –, così come però l’antimilitarismo socialista o le campagne di entrambi i movimenti a favore dei boeri42. A beneicio questa volta della Unione interparlamentare, che peraltro annoverava molti dei membri delle società per la pace, Umano riformulava l’idea di un’Assemblea internazionale in un senso differente rispetto a La ine delle guerre. L’Europa non costituiva il nucleo del discorso e una generica Federazione internazionale era concepita solo in termini di coordinamento economico e sociale e di regolazione degli affari internazionali. Nella sostanza, il modello di Meale non differiva poi molto dalle organizzazioni del ventesimo secolo. La Federazione non era preclusa ad alcun Stato, al di là del regime esistente; l’Assemblea per gli affari internazionali doveva agire a maggioranza, ma in un quadro di «prevalenza delle nazioni» più forti «per intelligenza industriosa, per popolazione, per ricchezza»43. Una sistemazione di questo tipo per Umano era l’antidoto alle carneicine del Sud Africa e della Cina, ma in un senso che coniugava umanità e accoglimento del colonialismo di tipo britannico. La condanna della brutalità in Sud Africa, che per ammissione di Meale lo spingeva a scrivere Patria lex, si associava a una strenua difesa dell’Inghilterra in guerra con le repubbliche boere44. L’ordine armato internazionale guidato dai più civili assumeva così la isionomia di una struttura razionalizzatrice in grado di far convivere la legittima espansione dei forti con la tutela delle popolazioni dalle barbariche violenze del caos. Il discorso di un policeman e Patria lex si proilano in questo senso come un’espressione del liberalismo umanitario occidentale, suscettibile di una recezione ad ampio raggio che sarebbe andata di pari passo con l’emarginazione di Meale ino all’uscita dalla magistratura. Dopo trasferimenti punitivi e anni di aspettativa, il giudice consegnò le dimissioni nel momento in cui licenziò Il discorso di un policeman. All’epoca di Patria lex, Meale era ormai solo un pubblicista libero di spingersi ino al dileggio delle autorità45. 41. Per la citazione cfr. Umano, Patria lex, Società editrice lombarda, Milano 1900, p. 14. 42. Umano, Patria lex…, cit., pp. 6-16. 43. Umano, Patria lex…, cit., p. 5. 44. Umano, Patria lex…, cit., pp. 14-15. 45. Acs, Ministero di Grazia e Giustizia, fascicoli personali dei magistrati, I versamento 1860-1905, b. 317, fasc. 38224. 150 Problemi e prospettive della cittadinanza oltre lo stato Nico De Federicis 1. Introduzione A partire da un notissimo saggio di Thomas H. Marshall, poi raccolto e arricchito in un volume del 19501, il discorso sulla cittadinanza ha assunto un proilo peculiare all’interno delle discipline teoriche della politica, imponendosi in seguito, soprattutto nel corso degli anni settanta e ottanta, dapprima in ambiente angloamericano, e poi sempre più progressivamente, ma inesorabilmente, da noi, come uno speciico e autonomo settore di ricerca, anche accademico. In questo caso, tuttavia, ciò che vale per la teoria non vale per la storia, perché quella di un tale concetto va cercata molto più indietro negli anni, e in un certo senso la data sopracitata rischia di essere persino fuorviante; infatti, gli storici hanno ben ricostruito come la lunga marcia verso la cittadinanza nella società moderna parta da molto più lontano2, e pur volendo sorvolare sulle sue origini remote – che in occidente rinviano alle esperienze politiche del medioevo – si dovrebbe retrocedere almeno all’età della Grande Rivoluzione. Ma lo scopo di questo intervento non è quello di ricostruire il quadro storico – come ho detto, un compito già lodevolmente assolto da altri – bensì di rilettere sulle più recenti trasformazioni del paradigma, e su come oggi si tenda a mettere in primo piano il sempre più pervasivo allargamento dello spazio politico e culturale da una dimensione nazionale a una dimensione transnazionale o globale; di 1. T.H. Marshall, Citizenship and Social Class, and other Essays, Cup, Cambridge 1950 (trad. it. di P. Maranini, a cura di S. Mezzadra, Cittadinanza e classe sociale, Laterza, RomaBari 2002). 2. Cfr. P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa. 4 voll., Laterza, RomaBari 1999-2001. Cfr. anche D. Zolo, La cittadinanza. Storia di un concetto teorico-politico, «Filosoia politica», 14, 1, 2000, pp. 5-18. 151 tali trasformazioni intendiamo analizzare i rilessi (in effetti, di larghissima portata) sulle forme della cittadinanza3. 2. La teoria (I): il “continuismo” di David Held Le attuali teorie della cittadinanza «oltre lo stato» devono molto del loro attuale accreditamento (almeno in ambito accademico) ai lavori di David Held, già studioso di teoria democratica in dagli anni ottanta, il quale a partire dalla metà degli anni novanta del novecento iniziò a proporre una rivisitazione dell’idea classica di cosmopolitismo alla luce di un progetto istituzionalista per una democrazia mondiale4. Tra i capisaldi della democrazia cosmopolitica (cosmopolitan democracy) promossa da Held c’è anche l’idea di cittadinanza, declinata ora in chiave sovranazionale. Chiamerò questo modello «continuista», per porre in risalto gli elementi di continuità con l’antico paradigma, quello cioè della cittadinanza nazionale inaugurato da Marshall. Tali elementi, naturalmente, non si trovano nel legame con la base nazionale, ma nello stile in cui la cittadinanza è pensata, nonostante – ed anzi direi proprio in virtù – della sua estensione oltre lo stato. Il modello continuista afferma che – fatte salve le necessarie differenze poste dal fatto di far riferimento a una dimensione globale, anziché semplicemente nazionale – le aspettative politiche di una cittadinanza estesa oltre lo stato, e potenzialmente cosmopolitica, devono e possono essere le stesse. In altri termini, il senso e il valore della cittadinanza – storicamente, lo strumento più potente di implementazione della democrazia nella sua accezione normativa – rimane sostanzialmente immutato dopo la sua proiezione globale. Anzi, per i continuisti il senso ultimo di una siffatta proiezione è di garantire la realizzazione su scala mondiale di quei princìpi e di quei valori affermatisi solamente in una parte del mondo (quello cioè che Samuel P. Huntington ha chiamato occidente5), e che oggi, proprio per poter sopravvivere alle straor3. Tra la ormai ampia letteratura sul tema cfr. K. Hutchings, R. Dannreuther (ed. by), Cosmopolitan Citizenship, Palgrave/Macmillan, Basingstoke/New York 1999; A. Carter, The Political Theory of Global Citizenship, Routledge, London 2001; N. Dower, J. Williams (ed. by), Global Citizenship. A Critical Introduction, Routledge, London and New York 2002; N. Dower, An Introduction to Global Citizenship, Edinburgh University Press, Edinburgh 2003. 4. D. Held, Democracy and the Global Order. From the Modern State to Cosmopolitan Governance, Polity Press, Cambridge 1995; cito dalla versione americana Stanford, Stanford University Press, 1995, rist. 2013 (trad. it. di A. De Leonibus, Democrazia e ordine globale: dallo stato moderno al governo cosmopolitico, Asterios, Trieste 1999). 5. S. Huntington, The Clash of Civilization and the Remaking of the World Order, Simon 152 dinarie trasformazioni imposte dalla globalizzazione, devono poter contare su una instaurazione universale. Come abbiamo anticipato, a nostro avviso l’autore che meglio ha interpretato una tale prospettiva rimane David Held6. Held giunge all’elaborazione dei problemi della cittadinanza cosmopolitica passando attraverso la propria rilessione sulla democrazia come peculiare forma di governo. Gran parte della sue proposte di estensione del governo politico oltre i tradizionali conini degli stati nazionali muove proprio dall’esigenza di riorganizzare la teoria democratica, adeguandola alle grandi trasformazioni della società attuale. Per far questo, a suo avviso, il modello democratico necessita di una separazione dalla sua tradizionale associazione alla nazionalità7. Realizzare questo obiettivo sarà il compito di quel che egli chiama «diritto cosmopolitico democratico». Una tale estensione spaziale della democrazia muove innanzi tutto dalla volontà di difenderla negli ordini interni; ciò perché oggi le nuove side mondiali mettono in pericolo le conquiste democratiche degli ultimi due secoli. Per questa ragione – egli afferma – «le democrazie nazionali hanno bisogno di una democrazia cosmopolitica internazionale»8. All’interno di una prospettiva siffatta, il discorso condotto in Democrazia e ordine globale investe direttamente il tema della cittadinanza, ino a prevederne – come abbiamo anticipato – un modello ampliato in sostanziale continuità col modello della cittadinanza nazionale. Per comprendere bene l’importanza concessa alla relazione tra cittadinanza e democrazia cosmopolitica dobbiamo fare riferimento a un luogo speciico dell’opera, nel quale, riprendendo una tesi di John Dunn, Held parla di una «cristallizzazione della cittadinanza» in Europa. Tale morfogenesi della cittadinanza è stato il risultato dell’interazione di tre fattori: 1) l’introduzione di un principio di reciprocità del potere, secondo il quale il quest’ultimo deve provenire dalla cooperazione di quanti gli sono assoggettati; 2) la deinitiva crisi di un principio di legittimità politica fondato sopra un ordine trascendente; 3) la separazione del politico dall’economico9. Il risultato speciico di questa & Schuster, New York 1996 (trad. it. di S. Minucci, Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2001). 6. Più di recente si vedano D. Held, Cosmopolitanism: Ideals and Realties, Polity Press, Cambridge 2010; di prossima uscita, il volume Global Political Theory, ed. by D. Held, P. Maffettone, Polity Press, Cambridge 2016. 7. D. Held, Democracy and the Global cit., p. 22. 8. Ibid., p. 23. Per una dettagliata analisi delle ragioni della crisi dello stato nazionale, e della conseguente necessità di prospettare una nuova forma di democrazia sovranazionale cfr. ibid., pp. 89-94. 9. Cfr. J. Dunn (ed. by), Democracy: The Uninished Journey, 508 B.C. to A.D. 1993, Oup, Oxford 1992. 153 grande trasformazione all’interno della storia occidentale fu l’affermarsi di uno speciico paradigma politico, ovvero quello dell’autonomia (autonomy), nel quale – secondo Held – dev’essere ricompreso il signiicato della democrazia moderna. L’autonomia è il cuore della teoria democratica di Held; ma cosa presuppone questo concetto? In realtà, esso copre vari ambiti, tanto quelli di tradizionale natura pubblicistica (gli aspetti cioè relativi all’autogoverno della comunità politica, ovvero la sfera che tradizionalmente era di pertinenza della libertà positiva), quanto quelli di natura privatistica (come la libertà politica negativa, e dunque la sfera dei diritti individuali, ma anche l’autonomia morale degli individui); inine, l’autonomia comprende anche la nondipendenza: non-dipendenza dal potere politico, certamente, ma anche dalla fame e dal bisogno. In altri termini, il concetto di autonomia cui Held fa riferimento abbraccia l’intero complesso della marshalliana «strategia della cittadinanza»10, portando a sintesi le tre distinte (ma strutturalmente unite) famiglie dei diritti civili, politici, e sociali. È chiaro, dunque, che il principio dell’autonomia si avvale dello strumento della cittadinanza moderna. Ma quali speranze può nutrire questo antico e nobile concetto in un mondo divenuto globale? Ciò che a Held appare certo è il fatto che, nella situazione presente, lo stato nazione non è più in grado di garantire molti dei diritti tradizionalmente ricondotti sotto lo status della cittadinanza democratica11. Pertanto, la sua proposta si muove verso un tentativo di empowerment della democrazia e della cittadinanza democratica stessa attraverso un innalzamento dell’ordine di grandezza della sua applicazione. Ma è proprio vero che i diritti di cittadinanza, nati in un contesto particolare, possono essere riconvertiti in diritti universali, come ad esempio i diritti umani? Larga parte delle argomentazioni condotte nella seconda parte di Democrazia e ordine globale paiono volte a dimostrare come l’accelerazione della globalizzazione sia un potente vettore di riorganizzazione anche dei diritti di cittadinanza all’interno della struttura del diritto internazionale (ponendo quindi all’ordine del giorno il problema della sua trasformazione in senso cosmopolitico)12. Allo stesso tempo, tuttavia, se è vero che la completa assicurazione dei diritti umani costituisce una delle ambizioni fondamentali della democrazia cosmopolitica, a Held non sfugge neppure il fatto che, da un altro punto di vista, è l’idea stessa di diritti umani a presentarsi come 10. Cfr. D. Zolo, La strategia della cittadinanza, in La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 3-46. 11. D. Held, Democracy and the Global, cit., p. 222. 12. Ibid., p. 223. 154 problematica. Visti nella prospettiva della cittadinanza classica, si innescano forti tensioni tra gli elementi che hanno garantito i presupposti per la loro formulazione e per il loro riconoscimento (come l’identità nazionale, l’appartenenza religiosa), da un lato, e i presupposti della sovranità statale e del diritto internazionale, dall’altro. D’altra parte, è pur vero – sostiene Held – che democrazia e paradigma dei diritti appaiono fortemente interconnessi, e pertanto il loro punto di vista, così come il loro progressivo ampliamento oltre la dimensione nazionale, può essere difeso e valorizzato indipendentemente dall’appartenenza nazionale13. In questa prospettiva, dunque, i diritti umani possono trovare una piena implementazione anche nel contesto del diritto pubblico cosmopolitico. Alla luce di queste considerazioni, la strategia proposta da Held appare in modo più nitido: egli conferisce un signiicato piuttosto debole al concetto di cittadinanza, rispetto a quello dei diritti. E laddove il primo viene riferito essenzialmente all’elemento nazionale, direi quasi nazionalistico, il secondo serve invece a caratterizzare lo strumento fondamentale per la tutela delle libertà personali; e perciò se ne sottolinea l’aspetto universale. In effetti, si tratta di una strategia che potrebbe essere deinita in senso lato kantiana. In un tale contesto, sono i diritti stessi a essere considerati intrinsecamente democratici, indipendentemente da quali cluster di cittadinanza li abbiano generati, e questo permette a Held di allargare notevolmente l’estensione della loro polity di riferimento. Pertanto, è l’accountability democratica ad essere il pernio di un tale incastro; il suo ‘continuismo’ si giustiica a partire da qui. Tutto ciò è garantito proprio dalla natura aperta del concetto moderno di comunità politica, la quale in tal modo permette una profonda rideinizione dello spazio politico tradizionale. Come scrive Held, il «bene politico democratico» (democratic political good) passa attraverso delle comunità di sovrapposizione (overlapping communities), interne e internazionali, che interagiscono al loro interno e verso l’esterno. Pertanto, la revisione operata da Held dell’idea moderna di polity produce una continuità rispetto al passato: essa rende il modello cosmopolitico fortemente intriso dei presupposti del paradigma moderno, che – come si è detto – ora accentua il suo legame strutturale con l’idea democratica, esaltando i princìpi di accountability da un lato, e di autonomia dall’altro, indipendentemente dalla relazione alla nazione. Ma tutto ciò ha come esito il fatto di rendere piuttosto problematica – se non controversa – l’identiicazione del luogo peculiare della politica, come 13. Ibid., p. 224. 155 invece non accadeva per il modello della statualità classica14. Di conseguenza, la proposta di Held si presenta innanzi tutto come una sida alla teoria politica moderna, nella misura in cui quest’ultima si era fatta interprete di una visione costruttivistica dello stato. A tale visione faceva seguito tanto la convinzione – più o meno resa esplicita – che la cittadinanza risultasse nient’altro che un epifenomeno del processo di nation building, quanto l’assunzione che il concetto stesso del diritto fosse da identiicare tra i prodotti speciici del razionalismo occidentale. In questo senso peculiare, la democrazia cosmopolitica non è altro da una ulteriore articolazione di quella medesima forma di razionalità politica. 3. La teoria (II): democrazia cosmopolitica, cittadinanza, sovranità Vediamo ora la speciica modalità in cui Held costruisce la cittadinanza cosmopolitica. La prima regola fondamentale si riferisce ai luoghi (o siti) del potere: essi devono essere costruiti seguendo uno schema multi-livello, rispetto al quale possono caratterizzarsi come nazionali, transnazionali o internazionali15. In ogni caso, il diritto pubblico democratico ha bisogno di essere sostenuto da una struttura sovranazionale, alla quale si dà il nome di «diritto cosmopolitico democratico». Il riferimento teorico, inanche obbligato, è a Kant, che fu il primo autore a teorizzare la igura del diritto cosmopolitico (weltbürgerliches Recht), conferendole una propria autonomia nello sviluppo sistematico delle forme del diritto pubblico. Nel nostro caso, ciò che importa non è tanto la fedeltà ilologica di Held al cosmopolitismo kantiano – in effetti, si potrebbero sollevare delle riserve su più di un punto, anche se, complessivamente, egli resta fedele allo spirito del kantismo politico –; ad essere rilevanti qui sono soprattutto le novità apportate all’interno delle teorie contemporanee. E l’autentico aspetto innovativo è dato dal fatto che Held stabilisce il principio secondo il quale, per essere davvero affermato, il diritto pubblico democratico deve passare attraverso il diritto cosmopolitico democratico. Una questione parimenti importante nell’impalcatura concettuale schizzata da Held è data da quella dimensione del diritto cosmopolitico che coinvolge il diritto di ospitalità. Ma su questo punto non vorrei intrattenermi di più16. Mi soffermerò invece su un aspetto particolare della discussione 14. Ibid., p. 225. 15. Ibid., p. 227. 16. Mi limito a rimandare alle pp. 228 ss. del volume. 156 sull’ospitalità, che solleva la questione del suo rapporto con il principio di autonomia. Held sostiene che per garantire una forma di «ospitalità universale», la quale si realizza, sostanzialmente, attraverso una universale attribuzione dei diritti umani fondamentali e l’azionabilità di tali diritti di fronte ai molteplici fori della democrazia cosmopolitica, il principio fondamentale da difendere è il mutuo rispetto delle sfere di autonomia. Il perseguimento di «progetti individuali o collettivi – scrive – richiede un’autonomia di potere e una nautonomia da cogliere in modo tale che possano essere stimati i conini legittimi dell’autonomia degli uni e degli altri»17. Anche in questo caso, insomma, si fa ritorno alla formula kantiana della reciprocità universale, affermata dall’idea di giustizia e garantita dal concetto del diritto. Se è chiaro che, in via generale, il principio di reciprocità implicito nell’idea di giustizia prescrive uguale rispetto per eguali diritti legittimi, tuttavia, nel caso dell’ospitalità, ad essere in questione non c’è soltanto la tradizionale ascrizione basata sui requisiti della cittadinanza (con i diritti politici e quelli sociali in prima ila), ma anche l’attualissimo tema dell’accesso a tali cluster da parte di quei terzi che se ne trovano esclusi sulla base di una condizione di estraneità alla comunità politica particolare (ad es. stranieri, apolidi, ecc.). Ciò sposta i termini del confronto molto più avanti, perché il riferimento alla dimensione cosmopolitica pone stabilmente l’accento dalla dimensione affermativa a quella negativa della cittadinanza, cioè fa riferimento alla sfera privatistica degli individui. Pertanto, prima di rivendicare diritti positivi (come il diritto all’assistenza, al welfare, il diritto al lavoro o ad altri titoli economici), è necessario richiedere un eguale rispetto dei diritti fondati sulla reciprocità semplice, che sono poi i diritti di prima generazione. Infatti, anche in Held i diritti positivi sono differentemente stabiliti in virtù delle differenze nazionali, nelle quali giocano un ruolo sensibile elementi identitari quali l’appartenenza religiosa, la speciica cultura ecc. In questo senso, è vero che la democrazia cosmopolitica riporta la cittadinanza all’interno di una dimensione prevalentemente legata alla libertà negativa; si potrebbe persino affermare che, in qualche modo, li riporta all’interno del suo originario contesto liberale18. D’altra parte, anche quando si afferma la necessità di una profonda integrazione democratica tra le varie regioni del mondo, tra i vari popoli e tra i vari stati, non può sfuggire il fatto che l’effettiva implementazione di queste politiche attraverso la tipologia delle azioni affermative resta necessariamente legata a presuppo17. Ibid., p. 228. 18. È anche l’argomentazione di David Miller, Citizenship and National Identity, Polity Press, Cambridge 2000, p. 92. 157 sti culturalisti, che non fanno che riproporre la versione occidentale della razionalizzazione. Quest’ultima considerazione solleva problemi di ordine etico. In molti si sono interrogati sulla legittimità morale della pretesa della democrazia cosmopolitica di andare oltre la dimensione comunitaria della cittadinanza, inendo per riiutare le rivendicazioni dell’egualitarismo globale19. Dinanzi a queste obiezioni, la posizione di Held appare una via intermedia tra due versioni opposte del cosmopolitismo morale: la prima è infatti quella degli autori più vicini al comunitarismo, ma anche a una certa tipologia di repubblicanesimo; la seconda, invece, è la prospettiva dei teorici della giustizia globale, i quali, in nome del primato dei diritti umani, contestano i presupposti istituzionali del diritto cosmopolitico democratico. A differenza di costoro, Held segue una via al cosmopolitismo prettamente politica, che unisce cittadinanza e diritti attraverso le istituzioni democratiche. Al contrario, laddove i critici del globalismo si muovono sostanzialmente in linea con la prospettiva particolaristica dello stato-nazione, relegando i doveri cosmopolitici a doveri genericamente ilantropici, i teorici della giustizia globale seguono la via della teoria morale normativa, e pertanto fanno riferimento a modelli universalistici all’interno dei quali la dimensione classica, marshalliana, della cittadinanza è interamente superata. L’ultima questione da comprendere è di natura sostantiva, e risponde alla domanda seguente: in quale luogo si colloca la rideinizione cosmopolitica della cittadinanza operata da Held? Il cuore della proposta dell’autore è una forma di cittadinanza «multi-livello», deinita anche «cittadinanza multipla» (multiple citizenship)20. Come abbiamo detto, in un tale contesto il signiicato originario del concetto tende inevitabilmente a essere indebolito, soprattutto perché inisce per perdere i suoi presupposti identitari. Ma in concreto a che cosa conduce una tale divisione degli attributi della cittadinanza? Nei suoi esperimenti più avanzati, com’è il caso della cittadinanza europea, i cittadini sono chiamati ad esprimersi secondo una duplice veste (ad esempio, nelle elezioni nazionali si esprimono i cittadini della varie patrie, e in quelle europee i cittadini d’Europa). Allo stesso modo, ma in maniera enormemente più complessa, dovrebbe funzionare il sistema di ascrizioni della cittadinanza cosmopolitica. In tale contesto, le strutture cosmopolitiche democratiche dovrebbero garantire la possibilità di una tale coesistenza, sicuramente problematica, perché tra i differenti livelli di identità possono insinuarsi 19. È di nuovo Miller che ha espresso con più nettezza una tale avversione: cfr. D. Miller, National Responsibility and Global Justice, Oup, Oxford 2007, p. 53. 20. Ibid., p. 233. 158 varie forme di conlitto, anche potenti (basti pensare a quello che, in forma molto più circoscritta rispetto al modello mondiale proposto da Held, stiamo vivendo noi europei in quest’ultima fase della storia della nostra integrazione). Held stesso si esprime in modo molto poco deinito; egli parla genericamente di «diverse forme di potere politico» e di diverse «entità», e ciò pone già qualche problema, perché, per essere tale, la democrazia cosmopolitica non dovrebbe riproporre una forma di neo-medievalismo (prospettiva che infatti l’autore riiuta esplicitamente)21; e se ciò inisse per accadere, la sua immagine di continuatore, nonostante tutto, della teoria della cittadinanza moderna ne risulterebbe immediatamente sbiadita. Perciò, non sorprende il fatto che Held si difenda da tali critiche rivendicando il ruolo ancora positivo degli stati nazionali22, anche se ogni dottrina autenticamente cosmopolitica deve comunque assumere come proprio punto di partenza la ine della loro centralità23. Ne consegue tanto l’inattualità di una politica incentrata sulla esclusiva rivendicazione degli interessi nazionali, quanto l’inevitabile opposizione tra questi ultimi e gli interessi cosmopolitici (e ancora una volta, l’esperienza della nostra Europa appare per molti versi esempliicativa). Di fronte a tale scelta, la preferenza per un modello statuale di tipo cosmopolitico, alternativo a quello classico, non è affatto semplice, né scontata; eppure, nemmeno quest’ultimo potrà garantire totalmente dai rischi di nuovi conlitti. Le storie nazionali, il ricordo delle loro conquiste progressive – delle quali il lungo cammino verso la cittadinanza fa parte a pieno titolo – l’insicurezza generata dal rischio della loro perdita, giocheranno ancora per molto tempo un ruolo signiicativo per le sorti dell’occidente. Se è vero che l’esperienza storico-politica che le ha rette, la sovranità applicata all’idea di nazione, è stata espressione di particolarismo politico (e nelle sua manifestazioni peggiori di egoismo nazionale), al contempo un tale contesto particolaristico ha dato attuazione a quello stesso universalismo dei diritti sul quale i popoli contemporanei continuano a fondare la legittimità del proprio universo politico. Possiamo dunque concludere che la soluzione favorita da Held non è che l’antica idea di sovranità divisa (o addirittura frammentata)? Certamente, il progetto della democrazia cosmopolitica potrà realizzarsi soltanto attra21. Tuttavia, un tale riiuto non costituisce una ragione suficiente per fugare interamente le critiche in tal senso; si veda ad esempio la discussione sulla presenza di presupposti anarchici nella teoria heldiana: cfr. A. Prichard, David Held is an Anarchist. Discuss, in «Millennium», 39, 2, 2010, pp. 439-59. 22. D. Held, Democracy and the Global cit., p. 233. 23. Infatti, l’autore precisa che sicuramente essi non saranno più l’unica fonte del potere legittimo. Cfr. ibid. 159 verso un frazionamento (splitting) delle funzioni statali, dividendole tra i vari livelli del potere: locale, nazionale, regionale e internazionale24. Tuttavia, almeno per Held un tale progetto signiica ricostruire, assieme ai limiti, anche il senso originario della sovranità statale, tenendo conto della sua storia – che dalle prime forme dello stato moderno (di tipo rigorosamente monista) giunge allo stato democratico di diritto. Ripercorrere la storia della statualità signiica perciò adattarne il paradigma alle side poste da un mondo fortemente interconnesso, com’e l’attuale; ciò richiede un profondo rinnovamento di quello stesso concetto di personalità icta dal quale ha preso le mosse la modernità politica. Per operare un tale rinnovamento, occorre ripensare la statualità stessa alla luce del primato del diritto e della legalità internazionale, ovvero degli elementi che costituiscono l’architettonica del diritto cosmopolitico democratico. Per questa ragione, la politica oltre lo stato impone la presenza di una moltitudine di istituzioni diverse dallo statonazione, operanti nei vari livelli della polity sovranazionale. Nel modello della democrazia cosmopolitica è allora possibile individuare tanto una continuità, quanto una frattura rispetto al paradigma speciicamente moderno. A conclusione di questa silhouette di quello che ho chiamato il ‘continuismo’ di Held, mi limiterò a puntualizzare unicamente gli elementi di frattura. Non v’è dubbio sul fatto che il teorico inglese sia convinto della possibilità di produrre un mutamento della natura della sovranità moderna. Essa – egli scrive – può essere «spogliata (stripped away) dell’idea di conini e territori preissati e pensata […] come entità (clusters) spazio-temporali malleabili»25. L’idea dell’autore è che la sovranità sopravviva come attributo fondamentale del diritto democratico, ma che possa essere attuata (entrenched) attraverso differenti forme associative autonome, che vanno dagli stati, alle città, alle corporations26. Tuttavia, non possono essere evitati né un certo grado di subordinazione tra i vari livelli dell’ordine cosmopolitico, né una forma di garanzia della partecipazione democratica in tutti i livelli; per questa ragione, Held prevede una «struttura comune di azione politica», che nel lungo periodo dovrebbe poter assumere la veste di assemblee pubbliche a livello mondiale, con l’intervento di città, nazioni e degli altri soggetti dei vari ordini di costituency27. A ciò va aggiunto il principio che stabilisce la necessità di relazioni non coercitive nella risoluzione delle controversie tra cluster, nell’orizzonte del quale l’uso della forza resta una opzione collettiva 24. Ibid., p. 234. 25. Ibid. 26. Cfr. ibid., pp. 270-72. 27. Ibid., pp. 278-79. 160 solamente di ultima istanza28. Il modello cosmopolitico della democrazia potrà essere così il fondamento di un’autorità globale e diversiicata, incentrata su differenti e sovrapposti centri di potere, che saranno modellati e al contempo delimitati dal diritto democratico. Tutto ciò diverrà dunque lo strumento di una rinnovata e più complessa articolazione dell’appartenenza democratica, nella quale la cittadinanza potrà essere estesa dal locale al globale29. 3. La pratica: esperienze e problemi Dopo questa escursione teorica, è necessario chiedersi se, e in che misura, quella della cittadinanza sia una teoria davvero praticabile oltre lo stato. Per farlo occorre ripartire da una delle domande dalle quali avevamo preso le mosse: a che serve (oppure, a cosa è servita) la cittadinanza? Come sappiamo, una delle risposte più convincenti è quella che ne sottolinea il ruolo di veicolo fondamentale per l’implementazione della democrazia30. Se questo è vero, la cittadinanza sovranazionale potrà mai svolgere la medesima funzione? Se il nodo del problema è di andare oltre lo stato, anche nel senso di un superamento della teoria politica a cui quest’ultimo inora ha fatto riferimento, non v’è dubbio sul fatto che le nuove versioni sovranazionali, potenzialmente cosmopolitiche, della cittadinanza iniscono in qualche modo per trascenderne il proilo classico. Infatti – almeno in prima istanza – il paradigma classico della cittadinanza appare costruito con il ine di produrre un’attuazione completa della democrazia. Come sappiamo, essa nasce in stretta associazione con l’idea di una comunità di eguali che si auto-rappresenta, ma che lo fa sulla base di una qualche forma di restrizione dello spazio politico di riferimento; in questo senso, la parabola del progetto politico moderno è inesorabilmente connessa alla storia dello stato nazione. D’altra parte, estendere la democrazia oltre lo stato signiica trascendere proprio quest’ultima dimensione: una tale operazione può richiedere il riconoscimento di una differenza costitutiva tra due diverse forme di sovranità (quella dello stato, da un lato, e quella sovrastatuale, dall’altro), comportando la necessità di introdurre una differenziazione nel modo di concepire princìpi come la libertà, l’uguaglianza, la solidarietà e la giustizia. Ciò non 28. Ibid., p. 271. 29. Ibid., p. 272. 30. Cfr. N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1990, p. 68, pp. 70-71; ma anche D. Held, Democracy and the Global Order cit., pp. 22-23. 161 è assolutamente necessario, ma è comunque un’opzione in gioco, che apre un bivio rispetto al quale il cosmopolitismo contemporaneo è costretto a operare delle scelte sostanziali. Ma in qui ancora la teoria. A tutt’oggi, nelle sue esperienze concrete la cittadinanza oltre lo stato ha fatto riferimento a tipologie aventi un rilievo eminentemente internazionalistico, piuttosto che autenticamente cosmopolitico. Un esempio lampante è il caso della cittadinanza europea. Com’è noto, essa non costituisce un’alternativa allo status delle cittadinanze nazionali, ma ne rappresenta una speciica integrazione. Essa, infatti, si costruisce tanto attraverso condizioni di sostituzione della cittadinanza nazionale (il diritto alla protezione diplomatica ne è un caso esemplare31), quanto attraverso dispositivi di ampliamento, che prevedono il riconoscimento al cittadino europeo di prerogative aggiuntive rispetto a quelle dei cittadini dei meri stati nazionali32. D’altra parte, anche nel caso europeo, che senza alcun dubbio rappresenta il tentativo più signiicativo mai effettivamente tentato di dar vita a una cittadinanza sovranazionale, non si giunge all’affermazione di una primazia gerarchica di quest’ultima rispetto a quella nazionale. Il testo dei trattati (ad esempio, il trattato di Amsterdam) precisa esplicitamente che «la cittadinanza dell’Unione costituisce un completamento della cittadinanza nazionale e non si sostituisce a quest’ultima»33. Ma è pur vero che una tale clausola di salvaguardia delle prerogative nazionali è stata e continua a essere oggetto di costanti processi di trasformazione. È peculiarità delle istituzioni politiche il fatto che, una volta che è stata data loro vita, esse siano capaci di un proprio potenziale performativo, il quale è in grado di rimodellare le varie realtà e le relative prassi. Questo è avvenuto anche per la cittadinanza europea, la quale – soprattutto attraverso la forza della dottrina e l’opera interpretativa delle corti – ha manifestato allo stesso tempo una diversa e opposta tendenza, che tende a conferire sempre più forza e autonomia alla igura del cittadino europeo, spingendo il nostro continente verso un’autentica dimensione federale. Fondamentale in questo senso è stata una sentenza della Corte di Giustizia, attraverso la quale è stata respinta la revoca della cittadinanza nazionale di uno stato membro (che pure della cittadinanza europea costituisce il presupposto), perché lesiva di diritti previsti dallo status di cittadino dell’Unione34. Una tale qualiicazio31. Tfue, art. 23. 32. Quest’ultimo può essere il caso del diritto di petizione al Parlamento o all’Ombdusman europeo, oppure il diritto a iniziative per richiedere nuova legislazione europea. Cfr. Tfue, art. 24. 33. Tce, art. 17, § 1. 34. Sentenza «Rottmann» del 2 marzo 2010 (causa C 135/08). 162 ne aggiuntiva attribuita dalla cittadinanza sovranazionale rispetto a quella nazionale ha spinto alcuni ad affermare che in Europa quest’ultima oggi è da intendere non più come una condizione sussidiaria, ma come una vera e propria seconda cittadinanza, e come tale dotata di una propria autonomia35. Resta vero, però, che in entrambi i casi, cioè quello di una cittadinanza integrativa e quello di una cittadinanza sovrapposta e indipendente rispetto alla nazionale, siamo in una situazione che si pone al di fuori della igura di tipo analogico. E veniamo così ai problemi. Riiutare l’analogia non signiica aver trovato la chiave di volta per tutte le dificoltà. In primo luogo, l’esistenza di un solco teorico (di una differenza ontologica, appunto) che separa la cittadinanza oltre lo stato da quella all’interno dello stato non pregiudica il fatto che di cosmopolitismo si possa parlare dal punto di vista del suo ideale normativo, ovvero quello della giustizia globale. In questo caso, il superamento della prospettiva teorica ediicata tra ottocento e novecento dalle grandi dottrine dello stato va ricercata non tanto nello spazio istituzionale, quanto in quello concettuale, ovvero in una visione normativa della politica pronta a emanciparsi dal paradigma – speciicamente occidentale e moderno – di ciò che i ilosoi politici hanno chiamato «teologia politica», e con essa dal modello di sovranità che le è proprio. Quando si sollevano questioni peculiarmente normative, come quelle sulla giustizia, non bisogna stupirsi se i problemi posti dal paradigma della cittadinanza divengono sempre più onerosi; a ben guardare, il lungo cammino della cittadinanza nazionale prese le mosse proprio a partire da qui. Pertanto, nella misura in cui la si voglia distinguere dalla mera membership, la cittadinanza resta democratica per antonomasia, pur non invocando direttamente la dimensione della comunità (nel senso di ciò che i tedeschi chiamano Gemeinschaft), ma piuttosto la sua giustiicazione normativa. In questo senso si può comprendere facilmente perché, dal punto di vista concettuale, nella modernità la cittadinanza si sia presentata come una proiezione nel mondo delle istituzioni della illuministica idea di giustizia. Ma con ciò facciamo ingresso in un ambito dominato dal rapporto tra mezzi e ini, e la statualità stessa, strumento della «strategia della cittadinanza», diviene il mezzo peculiare per perseguire il ine della giustizia. Già nel caso interno allo stato, questo mezzo appariva funzionale a uno scopo eminentemente politico: la sida dei nostri tempi riguarda il progetto della trasformazione cosmo-politica di una tale giustizia realizzata all’interno dello stato democratico di diritto. Come abbiamo già messo in rilievo, un tale 35. E. Triggiani, L’Unione europea secondo la riforma di Lisbona, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 31 ss. 163 percorso appare irto di insidie; e qui mi limito a far notare soltanto come, proprio su questo punto, si inneschi una fortissima tensione di nuovo con la statualità, igura concettuale che ha dominato la politica moderna. Infatti, se è vero – come affermava Carl Schmitt – che lo stato è il luogo del politico, e dunque dei suoi speciici ini, oggi tutto pare spostarsi al di fuori della sfera di competenza di quest’ultimo36. Ancora una volta, l’esempio del vecchio continente riassume la questione nei suoi termini essenziali. Se vogliamo avere uno squarcio sul futuro, è forse utile guardare nuovamente a quel che accade nel nostro continente. Che fortuna avrà la cittadinanza europea? Può davvero funzionare come, al netto dei problemi emersi nel corso della sua tutto sommato breve storia, ha in qualche modo funzionato la cittadinanza nazionale? Se i cosmopoliti si pronunciano in senso positivo, replicando ai loro critici il classico argomento che pure gli stati nazionali sono stati il frutto artiiciale di un’opera di invenzione, e che dunque – in linea di principio – lo stesso può esser valido per le nuove formazioni postnazionali, nessuno è tuttavia disposto a cedere a un facile ottimismo. Certo è che anche le identità nazionali (impiego qui il termine con molta prudenza e nessuna enfasi) sono emerse da conlitti sociali potentissimi, da quelli religiosi ed etnici dell’origine, a quelli economici e sociali più recenti. Conlitti che nessuno sembra voler riproporre per le realtà sovranazionali, se non altro perché tutto ciò sarebbe ben lontano da quello stesso spirito irenico col quale la nuova costellazione postnazionale intende esplicitamente legittimarsi, e che si è rivelato una delle componenti essenziali della costruzione europea. Un tale spirito, infatti, dovrebbe garantire lo sviluppo a venire della nuova cittadinanza oltre lo stato, mettendola al riparo dalle dure esperienze della vecchia Europa. Ma proprio perché la nuova Europa non ha inteso battere il medesimo sentiero percorso dal nazionalismo (e non è per nulla casuale il fatto che abbia impiegato come propri strumenti privilegiati il linguaggio dei diritti e la giurisprudenza), la cittadinanza europea non può semplicemente sostituirsi alle prima, e in via di principio deve proporsi come una igura non costruttivistica. Tutto ciò è ancora più vero quando dall’esperienza del nostro continente ci si proietta verso la dimensione globale. L’estensione cosmopolitica della cittadinanza, nel senso in cui l’abbiamo conosciuta in occidente negli ultimi due secoli, richiederebbe un’unica impalcatura istituzionale, qualsiasi vorrà essere la forma attraverso la quale interpretarla; inoltre, avrebbe bisogno di affermare come jus cogens alcuni standard minimi riguardo ai diritti umani 36. Cfr. C. Galli, Spazi politici. L’età moderna e l’età globale, il Mulino, Bologna 2001. 164 fondamentali (siano essi civili, politici, di welfare ecc.)37. Da qui mi pare consegua, come quintessenza della cittadinanza oltre lo stato, il fatto che essa inisca con l’acquistare un proilo differente da quella marshalliana. La sua funzione primaria sembra essere non tanto la spinta verso l’uguaglianza e l’integrazione, ma quella di «mettere in relazione», e di ediicare spazi di condivisione per aspetti anche soltanto parziali della convivenza politica. Essa mira innanzi tutto alla creazione di speciiche sfere di competenza, affrancandosi dall’immagine del cittadino «totale»38, che invece mi pare il presupposto della cittadinanza moderna di tipo tradizionale. In questo senso, la cittadinanza oltre lo stato tende anche ad allontanarsi da quello stesso principio di emancipazione sociale che ha esercitato una potente spinta propulsiva per tutto l’ottocento politico, ed è proseguita poi nel secolo successivo. Più di ogni altro segnale, ciò mi pare rappresenti la riprova del fatto che la sola rivendicazione della cittadinanza sia lontana dall’essere la soluzione deinitiva ai problemi della politica del nostro tempo39. Ma se la risposta alle nuove side, almeno in Europa e negli altri paesi della nostra porzione occidentale di mondo, dovrà essere quella di costruire un quadro istituzionale nel quale garantire il dominio della politica al di là delle particolarità nazionali, allora lavorare per una cittadinanza oltre lo stato sarà un compito col quale, probabilmente, iniremo per confrontarci seriamente. 37. Hdhr, art. 25. 38. Cfr. N. De Federicis, Gli imperativi del diritto pubblico, Plus, Pisa 2005, p. 76. 39. Una lucida ricostruzione in R. Bellamy, Citizenship: A Very Short Introduction, Oup, Oxford 2008. 165 La cittadinanza di genere nella distopia: i romanzi di Katharine Burdekin e George Orwell Laura Muzzetto L’idea di cittadinanza come partecipazione alla gestione della comunità costituisce senz’altro uno dei fondamenti delle democrazie moderne e ha radici lontane e profonde, anche se nel corso dei secoli il concetto ha subito evoluzioni e modiiche, sia a livello teorico-ilosoico sia politico. Storicamente la cittadinanza si è basata sull’inclusione nella comunità religiosa o sui legami familiari, è dipesa dal censo, dalla classe sociale, o dal genere. Filosoicamente ha sempre rappresentato un nodo problematico e dificile da sciogliere: è stata pensata come appartenenza, come garanzia di libertà ed eguaglianza, come modalità di organizzazione delle relazioni sociali, come attributo giuridico di tutela o di esclusione1, ed anche come chiave di universalizzazione della civiltà. Insomma, indubbiamente la cittadinanza è dirimente per la democrazia, che senza di essa rimane incompiuta, imperfetta. Ed è proprio per questo che, guardando alle logiche di inclusione/esclusione determinate proprio dalla cittadinanza, non si può non fare riferimento a un fenomeno che è stato storicamente onnipresente nel percorso del genere umano verso il raggiungimento dei diritti civili, politici e sociali: la questione della cittadinanza femminile2. In questa sede ci si propone di farlo da una prospettiva letteraria, quella della tradizione distopica, da cui, sia in positivo che in negativo, emerge una caratterizzazione importante della visione delle donne in società immaginate. La distopia, in quanto drammatizzazione catastroica delle tendenze già in atto nella società contemporanea, dovrebbe enfatizzare il problema della scarsa inclusione delle donne in quel contratto sociale che sta alla base della 1. S. Veca, Cittadinanza. Rilessioni ilosoiche sull’idea di emancipazione, Feltrinelli, Milano 1990, pp. 22-26. 2. P.L. Di Viggiano, R. Bufano, Donne e società. Partecipazione Democratica e Cittadinanza Digitale, «Tangram Edizioni Scientiiche», Trento 2013, pp. 93-95. 166 democrazia. I generi utopico e distopico, invece, pur facendo della lungimiranza un proprio tratto distintivo, raramente si fanno portavoce delle istanze femminili, ed alle donne, anche nell’utopica società ideale o nel terribile futuro distopico, viene solitamente riservata una condizione di cittadinanza incompleta. L’utopia, nella sua intrinseca ipotesi di società perfetta, dovrebbe includere l’umanità intera nel progetto di estensione dei diritti e di sovversione dell’ordine sociale esistente; invece il suo progressismo si arresta spesso e volentieri di fronte all’ipotesi, anche solo teorica, dell’abolizione o di una riduzione del potere maschile3. Pure nelle «terre visionarie delle possibilità perfette4», dove i disagi delle diverse epoche storiche vengono risolti almeno attraverso proiezioni immaginarie, la disparità della condizione femminile, una prevaricazione sociale perpetuata attraverso i secoli, non trova risposta né soluzione, a parte poche eccezioni. La vita delle donne che popolano i mondi utopici si ripropone generalmente secondo modelli culturali assodati; dificilmente troveremo in queste società cittadine che godono di pari diritti e doveri o che si autodeterminano in base a libere scelte, a conferma della dificoltà di elaborazione, anche meramente romanzesca, di un modello sociale egualitario. A partire dall’utopia di Platone ino ai romanzi di Wells, le donne vengono escluse, sfruttate, disprezzate, poste alternativamente a servizio dell’uomo o dello Stato, e sottoposte a legami familiari coercitivi o a regimi di comunione dalle sfumature poligamiche. A dispetto dei cambiamenti che l’utopia produce nei più svariati ambiti sociali, dalla politica alla religione, la donna rimane legata ad un solido stereotipo culturale che privilegia la sua funzione biologica, e di conseguenza viene rafigurata come generatrice e allevatrice di igli, deputata ai compiti di cura e di gestione domesticofamiliare. Quando invece la denuncia di una realtà oppressiva e pericolosa, quella contemporanea, avviene attraverso le proiezioni distopiche, uomini e donne sembrano essere accomunati da una stessa, terribile, sorte. Lo specchio deformante della distopia non prospetta nessuna soluzione ai mali del mondo, bensì ammonisce sui rischi insiti nel destino dell’uomo, che prepara più o meno coscientemente per sé e per il mondo un futuro catastroico5. Qui tutti 3. G. Pezzuoli, Prigioniera in Utopia, Edizioni il Formichiere, Trento 1978, p. 13. 4. E. Hoffman Baruch, A Natural and Necessary Monster: Women in Utopia, in «Alternative Futures», 2, 1, 1979, p. 29. 5. R. Bianchi, I Parametri della Controutopia, in Aa.Vv., Utopia e Fantascienza, Giappichelli, Torino 1975, pp. 159-161. 167 sono solitamente vittime della stessa barbarie, schiacciati da un sistema autoritario autoperpetuantesi, e privati delle più elementari libertà. Ma anche in questo caso possiamo individuare delle differenze di genere signiicative, riscontrabili sia nella caratterizzazione dei personaggi che nella descrizione della condizione femminile. Le principali distopie novecentesche, quelle di Zamjatin, Huxley e Orwell, non prevedono per le loro società totalitarie un cambiamento sostanziale del ruolo riservato alle donne, cittadine di second’ordine anche in un mondo in nessun modo desiderabile. Ma negli anni Trenta e Quaranta, quando l’Europa scricchiola sotto il peso dei totalitarismi, il genere distopico ispira anche la penna di alcune autrici, i cui romanzi non avranno altrettanta risonanza, ma presentano senz’altro una maggiore sensibilità nei confronti della secolare “questione femminile”. Tra queste la scrittrice inglese Katharine Burdekin, che negli anni Trenta dà alla luce diverse opere distopiche: Proud Man (1934), The End of This Day’s Business (1935) e la più famosa Swastika Night (1937); e la poetessa svedese Karyn Boye, che nel 1940 si cimenta nell’inquietante distopia Kallocaina. Questi romanzi aiutano ad avere una percezione maggiormente accurata dell’atmosfera dell’epoca, delle ansie e dei timori di un periodo buio e complesso della storia contemporanea, visti anche da una prospettiva femminile. In questa sede verranno analizzati due romanzi antitetici ma esempliicativi della rappresentazione della cittadinanza di genere all’interno della tradizione distopica: 1984 di George Orwell e il già menzionato Swastika Night di Katharine Burdekin. George Orwell, scrittore dall’indiscussa lungimiranza politica espressa soprattutto in Animal Farm e 1984, viene spesso tacciato di misoginia dalla critica femminista. Nella sua opera emergono igure femminili marginali, sottomesse e votate al sacriicio, la cui condizione è secondaria e accessoria rispetto a quella dell’uomo, capace invece di combattere, lottare, opporsi al dominio. L’unico dissenso, l’unica contestazione ammessa per le donne avviene per motivi egoistici e supericiali, per una ricerca personale della felicità o per il soddisfacimento di un desiderio, mai per sete di giustizia o per l’affermazione di un pensiero politico, di un’idea6. I protagonisti dei romanzi di Orwell sono solitamente igure maschili e le donne presenti sono personaggi secondari e di poco spessore. Elisabeth, di cui è innamorato John Flory in Burmese Days è bella ma stupida, e la Figlia del Reverendo, Do6. G.M. Bravo, Orwell. Le contraddizioni politiche di un impolitico, in M. Ceretta (a cura di), George Orwell. Antistalinismo e Critica del Totalitarismo, Atti del Convegno, Torino, 24-25 febbraio 2005, Leo Olschki Editore, Firenze, p. 81. 168 rothy, bigotta e irrazionale. Gordon Comstock, protagonista di Keep the Apidistra Flying si dimostra sarcastico e maschilista nei confronti delle rivendicazioni di genere della sua idanzata Rosemary, e Hilda, la moglie di George Bowling in Coming Up for Air è descritta come spilorcia e insopportabile7. Come i romanzi precedenti, la famosa distopia orwelliana presenta alcune discriminazioni di genere facilmente percepibili. Nell’Oceania del 1984, tenuta sotto scacco dal totalitarismo, la condizione femminile non è poi così diversa da quella dell’Europa del 1948, anno di stesura del romanzo, ma ciò non sembra destare le preoccupazioni dell’autore. Tra le critiche al regime non spicca infatti nessuna considerazione di genere, nessuna disapprovazione per un sistema che continua a riproporre e a riprodurre uno schema di ruoli sempre identico a se stesso. Winston Smith, per molti aspetti controigura dell’autore come gli altri protagonisti dei romanzi di Orwell, non fa mistero della sua misoginia: non sapeva tollerare, in genere, quasi nessuna donna, e in particolare le giovani e piacenti. Erano sempre le donne, particolarmente le più giovani, che fornivano le aderenti più bigotte del Partito, che si nutrivano di slogans, di frasi fatte, le spie dilettanti, le scopritrici dell’eterodossia8. Nell’Oceania di Orwell nessuna cittadinanza intesa come pienezza di diritti civili e politici è riconosciuta né agli uomini né alle donne, mentre in tutti i modi si cerca di infondere negli individui un profondo senso di appartenenza alla comunità, o meglio al Partito. E coloro che più di tutti subiscono le conseguenze di questo indottrinamento massivo sono proprio le donne, facili vittime di un sistema al quale quasi mai oppongono resistenza. Nel romanzo quasi tutte le igure femminili sono dipinte come fanatiche e incredibilmente ortodosse promotrici del Socing: incontriamo esaltate sostenitrici della Lega Antisesso, segretarie, mogli, o prostitute prolet, secondo uno stereotipo poco futurista e molto consolidato, che relega le donne ad un modello di cittadinanza incompleto, non consentendo loro di accedere a condizioni sociali egualitarie. La rappresentazione dei personaggi fornisce un quadro abbastanza chiaro: l’unica igura femminile tutto sommato positiva è la madre di Winston, animata da spirito di sacriicio e da un amore genitoriale dificilmente riscontrabile ai tempi del Socing. Katherine, ex moglie del protagonista, di cui si narra che avesse «il cervello più vuoto, stupido e volgare [...] mai incontrato9», è l’esempio più tragico della cate7. C. Hitchens, Orwell’s Victory, The Penguin Press, London 2002, pp. 104-105. 8. G. Orwell, 1984, Mondadori Editore, Milano 1989, pp. 13-14. 9. G. Orwell, 1984…, cit., p. 13. 169 chizzazione del regime, un gelido fantoccio senza più tracce di umanità, addestrato a ripetere senza sosta slogans e frasi propagandistiche dalla logica discutibile. Katherine ha soffocato sia la ragione che l’istinto per amore del Partito, unica fonte motivazionale della sua vita ripetitiva e minuziosamente programmata. E poi c’è Julia. Giovane, bella, e tanto furba da mascherare la sua indisciplina con un apparente morboso attaccamento al regime. Winston la crede inizialmente una fanatica seguace del Partito e delle norme del Socing, ma si rivelerà un’abile simulatrice, che inge di essere ligia alle regole per guadagnare, in segreto, un po’ di libertà. Peccato però che Julia sia una «ribelle solo dalla cintola in giù10», la sua moralità politica è inesistente, il suo fervore rivoluzionario si limita ad un egoistico libertinaggio, praticato più per diletto personale che come atto sovversivo. È complice di Winston, ma a differenza dell’antieroe orwelliano, non è animata da alcun intento politico, non ha nessun interesse a cospirare contro il sistema per rovesciarlo, non cerca di entrare a far parte della mitica organizzazione clandestina, la Fratellanza. Julia non condivide le illusioni rivoluzionarie del suo amante, vuole solo riuscire a imbrogliare il Partito per ritagliarsi un piccolo spazio di autonomia. La dimostrazione del suo scarso interesse politico, Orwell la dà in una scena decisiva del romanzo, quando Winston entra inalmente in possesso del tanto agognato libro segreto di Goldstein, La Teoria e la Pratica del Collettivismo Oligarchico, e legge a Julia le sue rivelazioni, ma lei, proprio sul più bello, si addormenta dando prova di un totale disinteresse per le sorti di una possibile rivoluzione. Anche se dimostra un livello di consapevolezza indubbiamente superiore rispetto alle igure adoranti di fronte ai teleschermi col faccione del Grande Fratello, la sua emancipazione dal sistema rimane comunque incompleta; si può sostenere che Julia abbia recuperato l’istinto, ma non il raziocinio. La dote della razionalità, propria unicamente delle specie evolute, è riservata nel romanzo solo a due personaggi, due uomini, due intellettuali: Winston, il ribelle, e O’Brien, il più subdolo dei carneici. Sono signiicativamente, uomini, protagonisti del romanzo di Katharine Burdekin, Swastika Night, aspra denuncia distopica del regime nazista scritta con lo pseudonimo maschile di Murray Constantine e pubblicata da Victor Gollanz, editore progressista inglese che proprio in quegli anni dava alle stampe, non senza esitazione, le opere irriverenti11 di George Orwell. 10. G. Orwell, 1984…, cit., p. 165. 11. Tra cui Down and Out in Paris and London (1933), Burmese Days (1935), The Road to Wigan Pier (1937). 170 Nel 1937, anno di uscita del romanzo, la Germania nazista è una nazione in ripresa economica e Hitler un dittatore dal carisma magnetico che raccoglie un largo consenso, dando forma al suo delirio razzista ed espansionistico. Burdekin ha già colto l’essenza reazionaria e ideistica di una follia xenofoba e misogina, che trascinerà il mondo intero verso una catastrofe di proporzioni mai viste prima, e così dipinge uno scenario dalle tinte foschissime. Siamo nell’anno 720 dopo la morte del “Nostro Signore Hitler”, di cui si narra che sia esploso dalla testa di suo padre; l’impero Nazista ha conquistato l’Europa intera e l’Africa, e ha come unico rivale mondiale l’impero Giapponese, che governa invece su Asia e Americhe. Come spesso accade nei romanzi distopici, la società hitleriana non conserva nessuna traccia del passato, e il presente è un medioevo desolante in cui lo Stato Nazista ripropone un modello feudale: il potere appartiene alla casta dei Cavalieri Teutonici, che lo esercitano in modo violento e arbitrario sugli stranieri e sulle categorie più deboli, considerate intoccabili, cristiani e donne. Come la donna è superiore al verme così l’uomo è superiore alla donna Come la donna è superiore al verme così il verme è superiore al cristiano12. Ma le donne sono senza dubbio quelle che pagano il prezzo più alto di questa involuzione storica, poiché, private dei più elementari diritti civili, sono ridotte ad una terribile schiavitù: segregate in appositi quartieri, hanno la testa rasata e indossano uniformi che le abbruttiscono e le ridicolizzano. Il loro unico compito è quello di garantire la sopravvivenza della specie, perciò vengono sistematicamente violentate, e poi private dei loro igli maschi perché non contaminino la loro crescita. In questo mondo dove l’amore eterosessuale è inconcepibile, le donne vengono considerate alla stregua degli animali, senz’anima; si crede pertanto che non abbiano sentimenti e non possano provare sofferenza per la loro condizione. Non più docili interpreti del sistema, quindi, come Lenina nel Brave New World di Huxley, non frivole ribelli come Julia in 1984; per sottolineare la pericolosità della situazione contemporanea Burdekin propone igure femminili il cui status sociale è così inimo da non consentire alle donne neanche di assurgere alla dignità di personaggi13. Per questo i protagonisti del 12. K. Burdekin, La Notte della Swastika, Editori Riuniti, Roma 1993, p. 5. 13. C. Pagetti et alii, In the Year of Our Lord Hitler 720: Katerine Burdekin’s “Swastika Night”, in «Science Ficton Studies», vol. 17, n. 3, 11, 1990, p. 361. 171 romanzo non possono che essere uomini, gli unici appartenenti di diritto ad una società da cui le donne sono state totalmente escluse. Una triade insolita ci guida attraverso questa landa desolata, composta dal guerriero Hermann, omosessuale ottuso e profondamente ortodosso, dall’inglese Alfred, curioso e ribelle, e dal Cavaliere von Hess, malinconico e solitario membro sovversivo della casta governante. Il Cavaliere è in possesso di un antico libro tramandato nella sua famiglia di generazione in generazione, che rivela verità storiche impensabili e smaschera le menzogne costruite nei secoli dal regime. Un libro nel libro, come quello di Goldstein in 1984, letto anch’esso in un tempo in cui la storia è inita o è solo uficiale, anch’esso afidato da un uomo di potere ad un potenziale ribelle14. In mancanza di eredi, infatti, von Hess decide di afidare il prezioso manoscritto ad Alfred, considerandolo come un suo discendente spirituale. Sebbene dotato di intelligenza e perspicacia nettamente superiori alla media, tanto da intuire quasi tutte le assurdità della terribile società nazista, Alfred è comunque iglio di questo medioevo futurista, inizialmente impassibile di fronte alla più incivile delle atrocità, quella che concerne la condizione femminile e che viene denominata “Riduzione delle Donne”. In questo tempo distopico le bambine vengono educate in da piccole ad essere inferiori e insigniicanti, a subire ingiustizie e prevaricazioni, e a fare sempre ciò che gli uomini impongono loro. Ma la “Riduzione” alla loro funzione biologica si esprime soprattutto, dopo i sedici anni, nell’istituzionalizzazione della violenza sessuale, una pratica di routine che ricorda incessantemente alle donne la loro scarsa importanza, la mancanza di autonomia, la carenza di personalità, e le obbliga ad una disponibilità incondizionata che implica la rinuncia alla facoltà di scegliere e al potere di opporsi15. Dal libro di von Hess scopriamo che la rovina delle donne fu deliberatamente orchestrata dagli uomini tedeschi, che consideravano un insulto alla Virilità la vita familiare, il controllo che le madri avevano sui igli e, principalmente, il potere sessuale che le donne esercitavano sugli uomini, congiuntamente al rischio di essere respinti senza possibilità di appello. Il passaggio da una condizione di cittadinanza incompleta ad una di sudditanza assoluta, in cui le donne devono sottostare a doveri e comandi, avviene soprattutto grazie a Rupprecht von Wied, che seicento anni addietro fu il principale sostenitore 14. G. MacKey, Metapropaganda: Self-Reading Dystopian Fiction: Burdekin’s “Swastika Night” and Orwell’s “Nineteen Eighty-Four”, in «Science Fiction Studies», vol. 21, n. 3, 11, 1994, pp. 302-304 15. D. Patai, Orwell’s Despair, Burdekin’s Hope: Gender and Power in Distopia, in «Women’s Studies Int. Forum», vol. 7, n. 2, Autumn, 1996, p. 89. 172 della campagna antifemminile, e nelle cui idee retrograde risuona la critica di Burdekine a Otto Weininger16. La responsabilità delle donne rispetto alle dinamiche descritte è quella di essersi incondizionatamente piegate, di essersi sacriicate al volere degli uomini ino al completo annullamento di loro stesse. «La donna non è nulla, se non l’incarnazione di un desiderio di accontentare l’uomo17» scrive Burdekin, ma questa concezione dell’identità femminile, questa condiscendenza autolesionista, non ci viene presentata come naturale, bensì come prodotto socio-culturale, in questo caso un prodotto dell’ideologia nazista e patriarcale. Durante le sue rilessioni sul regime, dettate dalle nuove scoperte storiche rivelate dal libro, Alfred intravede una speranza per il futuro della sua iglia neonata, cerca un modo per salvarla dalla terribile sorte che il mondo le riserva in quanto donna, in quanto priva di qualunque diritto di cittadinanza. Egli spera dunque di trasformarla in una “donna vera” proprio perché intuisce che «non è nel grembo che avviene il danno18», anticipando così Simone de Beauvoir che scriverà più di dieci anni dopo «donna non si nasce, lo si diventa19». Ed è proprio questa la denuncia più aspra che Burdekin rivolge al Reich: la socializzazione programmata delle donne come esseri inferiori, che rischia di determinare mondi assolutamente distopici come quello descritto in Swastika Night. La lucidità del romanzo sta nell’individuare il legame tra totalitarismo e maschilismo, tra il culto della virilità e il conseguente immiserimento della componente femminile20. Da un lato gli uomini, con la loro personalità, il loro potere, il loro ego tronio; e dall’altra le donne, ridotte a meri corpi, senz’anima, senza la dignità di esseri umani. Un mondo talmente asimmetrico quale quello su cui impera la croce uncinata diventa inevitabilmente distopico: così fu per quello storicamente esistito del Nazismo e così è per quello descritto nel romanzo di Katharine Burdekin. Con il termine “culto della mascolinità” l’autrice identiica il dominio, il potere, e la violenza, che saranno anche i presupposti su cui Orwell baserà la strategia politica e ideologica del Partito ad Oceania. Gli eroi fragili che Burdekin ci presenta sono il risultato di una società composta da soli uomini per secoli, basata anche in tempo di pace su valori d’ispirazione milita16. K. Holden, Formation of Discipline and Manliness: Culture, politics and 1930s women’s writing, in «Journal of Gender Studies», vol. 8, n. 2, 1999, p. 150. 17. K. Burdekin, La Notte della Swastika…, cit., p. 93. 18. Ivi, p. 181. 19. S. De Beauvoir, Il Secondo Sesso, Il Saggiatore, Milano 1961, p. 15. 20. C. Pagetti, Cittadini di un assurdo universo, Editrice Nord, Milano 1989, p. 118. 173 re, quali l’aggressività, l’obbedienza cieca e la prestanza isica. E se queste sono considerate le più lodevoli virtù sociali, non c’è da meravigliarsi che le donne arrivino sempre seconde, che si affannino inutilmente per cercare di raggiungere un ideale sociale modellato su canoni estranei, non inclusivi delle loro speciicità. Razza, sangue, culto del capo, nel romanzo danno vita a superuomini patetici e goffamente ingenui, bulli medievali che mascherano una grande debolezza sotto una maschera di spacconeria e xenofobia, costretti a vivere in una notte perenne creata da loro stessi. Gli uomini hitleriani hanno creato il mondo a loro immagine e somiglianza, deinendo autonomamente virtù e debolezze, e poiché le donne non hanno partecipato a questa grottesca creazione, risulta un mondo totalmente privo dei valori femminili che porterebbero stabilità ed equilibrio. La violenza e la guerra sono solo alcune delle manifestazioni del loro potere, un potere fortemente genderizzato, totalmente sbilanciato21. Quando la componente maschile invade ogni aspetto della vita, quando non esiste più alcun rifugio, alcuna intimità, allora l’elemento femminile, personale, viene ghettizzato ed emarginato in una sfera privata, esclusa dal mondo reale, politico, pubblico, maschile appunto. Sarebbe forse azzardato sostenere che quando questo avviene siamo di fronte ad una distopia, ma sicuramente questo è ciò che avviene nelle principali distopie: nel Nuovo Mondo di Huxley segnato dall’asetticità dei rapporti umani; nel 1984 di Orwell in cui sempre, costantemente, «il Grande Fratello ti guarda22»; nel romanzo di Karin Boye, Kallocaina, dove anche il pensiero diventa perseguibile; ed anche in Swastika Night, in cui l’assenza delle donne trasforma il mondo in un inferno terreno23. Un’umanità che voglia prendere le distanze dalla distopia dovrebbe quindi porsi il problema di come includere le donne nella società, ma non attraverso la loro incorporazione in un mondo totalmente maschile, bensì con il ripensamento della società stessa, creata non solo «a misura d’uomo» ma anche «a misura di donna», attraverso un ripensamento dei diritti e doveri di cittadinanza. L’estensione di una piena cittadinanza alle donne, come «diritto di essere nel diritto e di avere dei diritti24» è ancora oggi una questione irrisolta. La 21. R. Baccolini, I Romanzi di Burdekin, Boye e Bryher, in George Orwell. Antistalinismo e Critica del Totalitarismo…, cit., pp. 43-49. 22. G. Orwell, 1984…, cit., p. 8. 23. G. Pezzuoli, Prigioniera in Utopia..., cit., pp. 58-59. 24. E. Baeri Parisi, Dividua. Femminismo e Cittadinanza, Il Poligrafo, Padova 2013, p. 108. 174 situazione di soggezione politica e giuridica in cui sono state coninate per secoli ha origini molto antiche, sin da quando, affacciate all’uscio della polis, potevano solo stare a guardare gli uomini che decidevano delle sorti della comunità. Già Aristotele teorizzava la realizzazione dell’uomo all’interno della collettività come piena espressione di civiltà, e contemporaneamente l’estromissione della donna dalla gestione della vita pubblica e il suo coninamento nella sfera privata, più consona a chi presenta un’intrinseca inferiorità biologica25. Questa “naturale” gerarchia tra i sessi è stata perpetuata per secoli dalla cultura patriarcale, ino ad apparire ontologica, metastorica, immutabile. Da qui la convinzione di Locke che la soggezione della moglie avesse il suo fondamento nella Natura26 e la mancata inclusione delle donne da parte di Rousseau in quel patto tra eguali che avrebbe sancito l’origine della democrazia27. Neanche le forze rivoluzionarie francesi si fecero portavoce delle istanze femminili, escludendo ancora una volta le donne dalla conquista dell’universalità dei diritti dell’uomo, appunto. Tanto da spingere Olympe de Gouges a redigere nel 1791 la Dichiarazione dei Diritti della Donna e della Cittadina, per rivendicare come naturali i diritti civili e politici che la cultura patriarcale aveva sempre negato al genere femminile. La fraternitè, pilastro portante della rivoluzione, era il segno che il patriarcato tradizionale cedeva il passo ad una moderna fratellanza, che vedeva inalmente gli uomini liberi e uguali, ma ancora una volta le donne sottomesse ed escluse, deliberatamente. Non-cittadine, invisibili pilastri della struttura sociale, unpersons per dirla nell’orwelliana neolingua di 1984, “vaporizzate” non con l’eliminazione isica ma attraverso il mancato accesso ad uno status che garantisca libertà, eguaglianza, e l’appartenenza a tutti gli effetti ad una comunità28. A distanza di secoli la cittadinanza continua ad essere appannaggio di pochi ed a rappresentare un traguardo irraggiungibile per alcune categorie di persone29, poiché di fatto viene ancora intesa come bianca, occidentale, maschile, eterosessuale e non disabile. Coloro che non appartengono a questa minoranza si vedono spesso negati alcuni dei diritti fondamentali che lo status di cittadino garantisce. Spesso, nel caso delle donne ad esempio, il 25. Aristotele, La Politica. Libro I, Le Monnier, Firenze 1853, pp. 33-39. 26. C. Pateman, The Fraternal Social Contract, in The Disorder of Women: Democracy, Feminism and Political Theory, Standford University Press, Standford 1989, p. 39. 27. J.J. Rousseau, Il Contratto Sociale, RCS Libri, Milano 2010. 28. T. Man Ling Lee, Rethinking the Personal and the Political: Feminist Activism and Civic Engagement, in «Hypatia», vol. 22, n. 4, Democratic Theory, 2007, p. 166. 29. K. Bhavanani; J. Foran, Feminist Future: From Dystopia to Eutopia?, University of California 2007, p. 320. 175 raggiungimento dei diritti politici non presuppone quello dei diritti civili, contrariamente al modello evolutivo elaborato da Marshall, che paventava la progressiva acquisizione di diritti civili, politici e sociali30. L’esclusione delle donne dal godimento di una cittadinanza piena, pur variando nello spazio e nel tempo, si basa ancora essenzialmente sulla categorizzazione di qualità e capacità maschili e femminili. Secondo una ripartizione che vede l’uomo naturalmente razionale, imparziale, attivo e indipendente, e la donna naturalmente emozionale, volubile, passiva e debole, quest’ultima risulta non qualiicata per l’ottenimento dello status di cittadina. Come nella distopia di Burdekin, la secolare genderizzazione del potere determina un’assoluta distorsione di pregi e difetti, virtù e mancanze, e una loro attribuzione arbitraria e pregiudizievole. Fino ai sostanziali cambiamenti sociali determinati negli anni ’70 del Novecento dalle battaglie dei movimenti femministi, una tale suddivisione dei compiti ha determinato una altrettanto netta divisione degli spazi: una sfera privata, in cui svolgere le attività considerate naturali, riservata alle donne; e arene di cittadinanza quali lo Stato, il campo di battaglia o il mercato, ad esclusiva frequentazione maschile, in cui era possibile governare, combattere, lavorare, comprare e vendere proprietà31. Attività di carattere sociale considerate per gli uomini non solo un diritto, ma anche un dovere di cittadinanza. L’esclusione delle donne dalla comunità politica è stata determinata infatti non solo dalla presunta incapacità di essere titolari di diritti, ma anche da quella di assolvere determinati doveri. Tradizionalmente le chiavi di accesso allo status di cittadino sono state lo svolgimento di un impiego e l’abilità di prendere parte ad un esercito, attività di dominio esclusivamente maschile ino a non molto tempo fa32. La mancanza di forza isica fu tra l’altro una delle principali argomentazioni utilizzate dal movimento anti-suffragio, forte del timore che l’estensione della cittadinanza alle donne avrebbe potuto costituire un pericolo per lo Stato. Anche la struttura del welfare state, dal quale derivano i diritti sociali teorizzati da Marshall, si è sempre basata sulla contribuzione dei lavoratori, e quindi degli uomini, per lungo tempo unici percipienti di un salario, breadwinners per dirla con Esping-Andersen. Il lavoro non retribuito femminile, invece, indispensabile per la nazione e principale supporto del welfare, è rimasto orfano di cittadinanza politica33. 30. R. Lister, Citizenship. Feminist Perspectives, Macmillan, 2003, p. 49. 31. M. Friedman, Women and Citizenship, Oxford University Press, 2005, p. 106. 32. N. Yuval-Davis, Women, Citizeship and Difference, in «Feminist Review», n. 57, Citizeship: Pushing the Boundaries, Autumn, 1997, p. 20 33. D. Sainsbury, Gender and Welfare State Regimes, Oxford University Press, 1999, p. 24. 176 È un dovere di cittadinanza a cui non è corrisposto alcun diritto, una semina che non ha dato frutti, una fatica non ricompensata. D’altro canto il dovere politico femminile riconosciuto come indispensabile alla sopravvivenza dello Stato, il principale vincolo di cittadinanza per le donne ino a tempi molto recenti, è stata la maternità. Private della possibilità di contribuire allo sviluppo economico nazionale e di combattere e morire per la patria, le donne hanno avuto il compito di servire lo Stato mettendo al mondo nuovi cittadini e nuove nate34. Un ruolo fortemente limitativo poiché teneva conto unicamente della funzione biologica, ricordando un po’ quella “Riduzione” che in Swastika Night veniva ampliicata ino alle conseguenze più disumane. La preoccupazione degli Stati per le tendenze demograiche ha fatto sì che, in alcuni periodi storici, coloro che avevano compiuto il proprio dovere politico con risultati eccellenti potevano addirittura essere insignite di medaglie al valore, come veri soldati. Inoltre, le politiche demograiche statali non prestano attenzione solamente alla quantità di popolazione, ma anche alla qualità; ed ecco che, ancora una volta, questo dovere femminile di cittadinanza subisce delle limitazioni, essendo valido solo per le donne bianche, occidentali, della classe media. Le politiche nataliste della Germania nazista, ad esempio, riguardavano solo le donne ariane, mentre l’elogio del valore della maternità lasciava facilmente il posto a sterilizzazioni forzate e aborti obbligati per le donne slave, ebree o gitane. Oggi la cittadinanza è senz’altro un concetto in via di rideinizione a causa di complesse dinamiche internazionali e transnazionali35, e si assiste alla riproposizione sotto nuove spoglie di vecchie forme di oppressione e colonizzazione del corpo e della sessualità femminile, veicolate attraverso la retorica della libertà di scelta. Nel nostro tempo la diseguaglianza si cela dietro un’apparente e appagante equità sociale, dietro le pari opportunità, sotto la trasparenza di un sofitto di cristallo che non consente alle donne di raggiungere una cittadinanza piena. Le porte della polis si sono aperte, ma il tessuto culturale continua ad essere impregnato di una disparità atavica, determinata da quella ripartizione “naturale” di qualità e capacità. Il linguaggio, i messaggi veicolati dai media, le dinamiche sociali e politiche, l’inadeguatezza delle leggi o la loro sistematica disapplicazione, continuano a evidenziare un modello di cittadinanza a una dimensione. 34. G. Bock, S. James, Beyond Equality and Difference. Citizenship, Feminist Politcs and Female Subjectivity, Routledge, London 2005, p. 20. 35. N. Berekovitch, From Motherhood to Citizenship: Women’s Rights and International Organizations, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1999, pp. 9-15. 177 Per colmare inalmente questo deicit di democrazia si dovrebbe poter disporre di un’effettiva eguaglianza tra uomo e donna, sia in termini di iscrizione nel diritto di cittadinanza che di equità nell’accesso alle risorse. Eguaglianza signiica rideinizione del lavoro, come lavoro di cura e cura del lavoro, che garantisca un equilibrio tra la sfera pubblica e quella privata. Ma vuol dire anche inviolabilità del corpo femminile e sovranità delle donne su se stesse, ancora controversa, sempre reversibile, messa costantemente in discussione. Già Burdekin, nel 1937, forse nel tentativo di aprire uno spiraglio di luce nella sua tetra distopia, spiega che: Ci sono due cose che stimolano l’evoluzione del proprio Io e che le donne, al contrario degli uomini, non hanno mai avuto. Una è l’invulnerabilità sessuale, l’altra è l’orgoglio del proprio sesso, che è il più indiscutibile dei diritti di nascita anche del più umile dei bambini. […] L’intimo potere che nasce dalla consapevolezza della propria identità, identità di donna36. L’utopia di un nuovo genere di cittadinanza non può non tener conto delle differenze, se vuole ambire a quell’universalità suggellata storicamente da libertà, uguaglianza e fraternità37. Non può non ripensare il contratto sociale in modo da includervi anche le donne, al di là dei ruoli sociali che esse ricoprono, in quanto attrici e non come mere spettatrici della vita pubblica. Se è vero, come asseriva John Stuart Mill, che la condizione della donna è «in assoluto[...]la misura più indicativa della civilizzazione di un popolo o di un’era38», allora il civilissimo e modernissimo Occidente dovrebbe aver trovato da tempo un equilibrio paritario. La politica dall’alto, quella del potere che si confronta solo con se stesso, la politica del dominio maschile descritta da Orwell, non ha inora consentito di trovare un equilibrio soddisfacente. Burdekin aveva intuito che la vita quotidiana è determinata da giochi di potere che affondano le proprie radici nelle strutture sociali e non nelle caratteristiche individuali, che “il personale è politico” come molti anni dopo avrebbero urlato le femministe39, ma la sua denuncia non ha avuto grande risonanza. La cittadinanza di genere nella tradizione utopica e distopica ha avuto dificoltà a trovare una sua piena realizzazione, come del resto è avvenuto storicamente, nella realtà. 36. K. Burdekin, La Notte della Swastika…, cit., p. 123 37. A. Del Re, J. Heinen, Quale cittadinanza per le donne? La crisi dello Stato Sociale e della rappresentanza politica in Europa, FrancoAngeli, Milano 1996, pp. 25-40. 38. J.S. Mill, The Subjection of Women, D. Appleton and Company, New York 1869, p. 38. 39. M. Friedman, Women and Citizenship…, cit., p. 109. 178 Fortunatamente, il paragone tra distopie e realtà risulta problematico; ma non è il confronto il senso intrinseco della distopia, è l’avvertimento, è il monito che dovrebbe spingere l’essere umano nella direzione opposta, quella della giustizia, della libertà, in questo caso, della cittadinanza universale. Burdekin e Orwell hanno disegnato la loro visione del futuro in un tempo in cui il presente appariva spaventoso; mondi diversi, ma ugualmente inquietanti. Per raccogliere la loro eredità, per ascoltare la loro voce lungimirante, bisognerebbe percorrere la strada che porta verso la pluralità e l’universalizzazione dei diritti, in modo da non incorrere negli errori che portarono alle catastroi del passato, anzi, in questo caso, del futuro. 179 Limiti contemporanei alla cittadinanza: la questione del digital divide Roberta Bracciale Technology is neither good nor bad; nor is it neutral. (Kranzberg1, 1985) 1. L’esclusione digitale dai diritti di cittadinanza La vague culturale relativa alla diffusione di Internet nelle società contemporanee ha alimentato, in parte, una utopia democratica rispetto alle capacità che la rete avrebbe di garantire nuovi e più solidi diritti di cittadinanza. Non è inusuale, infatti, rintracciare letture che prevedono la possibilità di ricostruire una sorta di nuova agorà ateniese “digitale”, in cui il ritorno alla democrazia diretta garantisca la ridistribuzione del potere decisionale e dei diritti a tutti i cittadini, in egual maniera2. Se è indiscutibile che le ICTs (Information and Communication Technologies) possano favorire una migliore organizzazione dei processi di partecipazione alla res publica, tale retorica ottimistica è messa in crisi da tensioni e criticità che afliggevano già la cittadinanza “analogica”. Le disuguaglianze nella disponibilità di capitale economico, sociale e culturale, infatti, producono un divario tra i gruppi sociali che non si attenua con il passare del tempo e che, anzi, inisce con il generare sempre nuovi e più profondi gap tra i cittadini e tra i diritti di cittadinanza cui possono accedere. Infatti, la tensione insita nel compromesso della cittadinanza, tra inclusione di alcuni ed esclusione di altri3, trova nelle reti una ulteriore spinta all’accelerazione, non una sua risoluzione: i soggetti più ricchi diventano 1. M. Kranzberg M., The Information Age: evolution or revolution?, in Guile B.R. (a cura di), Information Technologies and Social Transformation, National Academy Press, Washington 1985, pp. 33-53. 2. Per una ricostruzione puntuale sul tema cittadini digitali e cittadinanza on line, cfr. L. Ceccarini, La cittadinanza online, il Mulino, Bologna 2015; R. De Rosa, Cittadini digitali. L’agire politico al tempo dei social media, Apogeo, Milano 2014. 3. I. Wallerstein, Utopistics. Or, Historical Choices of the Twenty-irst Century, The New Press, New York 1998. 180 sempre più ricchi, mentre i soggetti più poveri diventano sempre più poveri4. Questa dicotomia, tra inclusione ed esclusione, si associa alla preclusione dalle opportunità di uguaglianza sociale tout court, poiché i processi di ineguaglianza digitale sono fortemente sovrapponibili alle disuguaglianze sociali correlate a caratteristiche ascrittive, come la razza, il genere, l’etnia, l’età, e così via5. La questione delle disuguaglianze di natura digitale è dunque strettamente connessa alla esclusione di soggetti già titolari di cittadinanze svantaggiate: cittadini che restano in solitudine ad abitare il Quarto Mondo, un mondo «costituito dai molteplici buchi neri dell’esclusione sociale6». In questo modo, si producono nuove forme di ghettizzazione sociale per gli esclusi dai circuiti che permettono di esercitare i propri diritti di cittadinanza politica e culturale, sempre meno connessi ai rapporti di produzione, ma più dipendenti dalle effettive capacità di gestire i lussi informativi7 nella società dell’informazione. Infatti, nell’ultimo decennio, la rilevante diffusione delle ICTs ha ridisegnato modi e tempi nell’accesso e nella condivisione delle informazioni, trasferendo il potere a chi è in grado di controllare l’accesso alle reti o comunque di governarne i lussi (informativi, inanziari, etc.)8. In questo contesto, l’esclusione dai network di computer è diventata una delle forme più dannose e più pericolose di esclusione nella network society9 perché le reti stanno alimentando sempre più ampi «vuoti di informazione10» tra i diversi gruppi sociali. Il rischio in tale processo è che la sottoclasse dei poveri di informazione possa diventare ancora più marginale nelle società in cui le competenze informatiche di base stanno diventando 4. D. Rigney, The Matthew Effect: How Advantage Begets Further Advantage, Columbia University Press, New York 2010. 5. K. Mossberger, C.J. Tolbert, R.S. McNeal, Digital Citizenship. The Internet, Society, and Participation, MIT, Cambridge 2008. 6. M. Castells, Volgere di millennio, Egea, Milano 2003; ed. or. End Of Millennium. The Information Age: Economy, Society and Culture, Blackwell, Oxford 2000. 7. S. Lash, La rilessività e i suoi doppi: struttura, estetica, comunità in U. Beck, A. Giddens e S. Lash (a cura di), Modernizzazione rilessiva. Politica, tradizione ed estetica nell’ordine sociale della modernità, Asterios, Trieste 1999, pp. 161-227; ed. or. Relexive Modernization: Politics, Tradition and Aestetics in the Modern Social Order, Polity Press, Cambridge 1994. 8. M. Castells, La nascita della società in rete, Egea, Milano 2002; ed. or. The Rise of Network Society. The Information Age: Economy, Society and Culture, Blackwell, Oxford 1996. 9. M. Castells, Galassia Internet, Feltrinelli, Milano 2002; ed. or. Internet Galaxy, Oxford University Press, Oxford 2001. 10. J.A.G.M. van Dijk, The Network Society. An Introduction to the Social Aspects of New Media, SAGE, London 2006. 181 essenziali per garantire migliori occasioni formative, successo economico, possibilità di carriera, accesso ai networks sociali e opportunità di partecipazione sociale11. Le ICTs, dunque, non solo presentano una infrastruttura profondamente connessa alle disuguaglianze sociali già esistenti ma sono in grado di determinare un inasprimento di tali disparità12, facendo venir meno i presupposti di uguaglianza insiti nel concetto stesso di cittadinanza. Infatti, è proprio l’ascesa del capitalismo informazionale in sé a essere «caratterizzata dalla compresenza di sviluppo e sottosviluppo economico, inclusione ed esclusione sociale»13. 2. Il digital divide e l’effetto San Matteo I cittadini digitali sono quelli che usano «Internet regularly and effectively14». Per comprendere una società a velocità multiple, in cui alcuni soggetti traggono vantaggio dalle opportunità di cittadinanza digitale e altri invece sono svantaggiati perché non accedono a tali possibilità, è necessario analizzare attentamente i presupposti sulla base dei quali tali nuove cittadinanze possono svilupparsi. Una eguale opportunità di accesso a Internet, per esempio, diventa il prerequisito per valutare i margini in base ai quali si articolano le diverse opportunità di abitare la società informazionale. Gli ostacoli principali all’inclusione possono essere ricondotti a due declinazioni del concetto di divario digitale: (i) il digital divide di primo livello15 e (ii) il digital divide di secondo livello o digital inequalities16. Il digital divide di primo livello si riferisce alla contrapposizione binaria tra information have e information have nots, ovvero la dicotomia tra co11. P. Norris, Digital Divide: Civic Engagement, Information Poverty, and the Internet Worldwide, Cambridge University Press, Cambridge 2001. 12. S. Sassi, Cultural Differentiation or Social Segregation? Four Approaches to the Digital Divide, in «New Media & Society», 7, 5, 2005, pp. 684-700. 13. M. Castells, Volgere di millennio, Egea, Milano 2003, p. 90; ed. or. End Of Millennium. The Information Age: Economy, Society and Culture, Blackwell, Oxford 2000. 14. K. Mossberger, C.J. Tolbert, R.S. McNeal, Digital Citizenship. The Internet, Society, and Participation, MIT, Cambridge 2008, p. 1. 15. P. Norris, Digital Divide: Civic Engagement, Information Poverty, and the Internet Worldwide, Cambridge University Press, Cambridge 2001. 16. P. DiMaggio, E. Hargittai, From the “digital divide” to “digital inequality”: Studying Internet use as penetration increases, Center for Arts and Cultural Policy Studies, Woodrow Wilson School Princeton University, 15, 2001; E. Hargittai, Second-level digital divide: Differences in People’s Online Skills, in «First monday», 7, 4, 2002, pp. 1-17. 182 loro che hanno accesso alle nuove tecnologie e coloro che non lo hanno17. L’inclusione o l’esclusione, in questo caso, si basa sulla contrapposizione binaria tra connessione vs disconnessione. Ovviamente l’accesso alla rete dipende da numerosi fattori che costituiscono una precondizione per superare la barriera preliminare dell’inclusione digitale. Tali fattori includono da un lato motivazioni e attitudini personali, dall’altro disponibilità di device personali e una connessione di buona qualità18. Il digital divide di secondo livello, invece, si concentra sulle differenze tra gli information have, i soggetti che accedono a Internet, rispetto alle capacità di processare adeguatamente le informazioni disponibili online per trarne beneici per l’empowerment personale e sociale19. Tale capacità dipende da tre aspetti speciici, che si muovono lungo un continuum con innumerevoli nuance tra i diversi utenti: (i) la frequenza nell’uso di Internet e l’incorporazione del medium nelle pratiche della vita quotidiana; (ii) le competenze digitali possedute dagli individui e la loro capacità di interagire con le informazioni online in maniera eficace ed eficiente; (iii) le attività di navigazione che si compiono nel network nelle declinazioni che equilibrano l’impegno nel loisir personale e relazionale con le opportunità di uso strategico e strumentale20. 17. NTIA (National Telecommunication and Information Administration Us Department of Commerce), Falling Through the Net: Deining the Digital Divide, [http://www.ntia.doc. gov/legacy/ntiahome/fttn99/contents.html]. 18. W. Chen, B. Wellman, The global digital divide-within and between countries, in «It & Society», 1, 7, 2004, pp. 39-45; P. DiMaggio, E. Hargittai, C. Celeste, S. Shafer, Digital inequality. From Unequal Access to Differential Use, in K.M. Neckerman (a cura di), Social inequality, Russell Sage Foundation, New York 2004, pp. 549-566; J.E. Katz, R.E. Rice, Social consequences of Internet use. Access, involvement, and interaction, MIT, Cambridge 2002; H. Ono, M. Zavodny, Digital inequality: A ive country comparison using microdata, in «Social Science Research», 36, 3, 2007, pp. 1135-1155; N. Selwyn, Reconsidering Political and Popular Understandings of the Digital Divide, in «New Media & Society», 6, 3, 2004, p. 341-362; J.A.G.M. van Dijk e A.J.A.M. van Deursen, Digital Skills. Unlocking the Information Society, Palgrave Macmillan, New York 2014; J.A.G.M. van Dijk, Digital divide research, achievements and shortcomings, in «Poetics», 34, 4-5, 2006, pp. 221-235. 19. R. Bracciale, Donne nella rete. Disuguaglianze digitali di genere, FrancoAngeli, Milano 2010; E. Hargittai, Y.P. Hsieh, Succinct Survey Measures of Web-Use Skills, in «Social Science Computer Review», 30, 1, 2011, pp. 95-107; S. Bentivegna, Disuguaglianze digitali. Le nuove forme di esclusione nella società dell’informazione, Laterza, Roma-Bari 2009. 20. R. Bracciale e I. Mingo, La e-inclusion e le competenze digitali: il contesto Europeo e il caso dell’Italia, in I. Mingo, Concetti e quantità. Percorsi di statistica sociale, Bonanno, Acireale-Roma 2009, pp. 179-214; E. Hargittai, Y.P. Hsieh, Digital Inequality, in William H. Dutton (a cura di), The Oxford Handbook for Internet Studies, Oxford University Press, Oxford 2013, pp. 129-150; E.J. Helsper, A Corresponding Fields Model for the Links Between Social and Digital Exclusion, in «Communication Theory», 22, 4, 2012, pp. 403426; K. Mossberger, C. Tolbert, M. Stansbury, Virtual Inequality, Georgetown University 183 L’articolo «From the “Digital Divide” to «Digital Inequality”»21 può essere considerato lo spartiacque che segna questa nuova angolatura del problema: non più il riferimento esclusivo al concetto unidimensionale e binario di divario digitale, impostato intorno alla dimensione dell’accesso alle tecnologie, ma la disarticolazione del problema. Quindi, l’adozione di un nuovo concetto multidimensionale, quello di disuguaglianze digitali, in grado di restituire centralità alle diverse variabili che intervegno a disegnare le innumerevoli gradazioni in cui si declina concretamente l’uso della rete. Sostanzialmente, l’analisi delle disuguaglianze si concentra su quello che sanno fare e su quello che fanno online gli utenti quando navigano in rete. Tale paradigma interpretativo si concentra speciicamente sulle disuguaglianze prodotte dal differente radicamento tecnologico nella everyday life22, per comprendere come differenti gruppi sociali possono arrivare a trarre beneici dall’uso di Internet e nuove opportunità di partecipazione sociale, mentre altri ne sono sistematicamente esclusi23. Se l’attenzione alle digital inequalities è stata quanto mai opportuna per iniziare a ragionare sui profondi gap che si determinano anche tra i soggetti che sono già online, allontanando l’idea di una inclusione legata e dipendente esclusivamente dallo scoglio dell’accesso, c’è da dire che tali differenze hanno inito con il monopolizzare l’attenzione di studiosi e policy maker, relegando il digital divide di primo livello a un ruolo di secondo piano. Gli esiti di tale processo hanno in parte sbiadito le criticità connesse alle questioni legate all’accesso, almeno nei paesi occidentali24 in cui tali gap sembrano essere diventati meno evidenti. Al contrario, però, sembra opportuno continuare a focalizzare l’attenzione sul gruppo dei disconnessi poiché l’acPress, Georgetown 2003; A.J.A.M. Van Deursen, J.A.G.M. van Dijk, O. Peters, Rethinking Internet skills: The contribution of gender, age, education, Internet experience, and hours online to medium- and content-related Internet skills, in «Poetics», 39, 2, 2011, pp. 125144; M. Warschauer, Technology and Social Inclusion: Rethinking the Digital Divide, MIT, Cambridge 2003. 21. P. DiMaggio, E.Hargittai, From the “digital divide” to “digital inequality”: Studying Internet use as penetration increases, Center for Arts and Cultural Policy Studies, Woodrow Wilson School Princeton University, 15, 2001. 22. B. Wellman, C. Haythornthwaite (a cura di), The Internet in Everyday Life, Blackwell, Malden 2002; M. Bakardjieva, Internet Society. The Internet in Everyday Life, Sage, London 2005; L. Haddon, Information and communication technologies in everyday life: A concise introduction and research guide, Berg, Oxford 2004; N. Selwyn, Apart from technology: understanding people’s non-use of information and communication technologies in everyday life, in «Technology in Society», 25, 1, 2003, pp. 99-116. 23. E. Hargittai, S. Shafer, Differences in Actual and Perceived Online Skills: The Role of Gender, in «Social Science Quarterly», 87, 2, 2006, pp. 432-448. 24. A livello mondiale ci sono 4.3 miliardi di information have nots. Più del 90% vive in paesi in via di sviluppo (ITU, Measuring the Information Society Report, Ginevra 2014). 184 cesso alle ICTs funziona da moltiplicatore delle chance di cittadinanza per i privilegiati e da moltiplicatore delle disuguaglianze per i meno privilegiati, e ampliica gli esiti delle disuguaglianze sociali creando nuovi social cleavage, oltre che rafforzare i vecchi25. Entrambi gli aspetti, dunque, sono altrettanto rilevanti e riguardano contesti sociali e territoriali eterogenei, in differenti momenti storici, indipendentemente dal livello di accesso alla rete raggiunto tra la popolazione, perché «when the Internet matures, it will increasingly relect known social, economic and cultural relationships of the ofline world, including inequalities»26. Gli esiti di tali dinamiche di disuguaglianza, che minano dal profondo le opportunità di cittadinanza digitale, sono strettamente connessi alle caratteristiche strutturali dei network e ai loro effetti27: raramente le reti riescono a colmare le distanze tra soggetti, molto più spesso invece iniscono con l’esacerbare le differenze tra i diversi gruppi sociali28. Tale processo, che può considerarsi connaturato alle società contemporanee, proprio per la struttura reticolare che le caratterizza, può essere descritto e analizzato ricorrendo al cosiddetto effetto San Matteo29 che spiega i meccanismi di riproduzione o di ampliamento delle disuguaglianze nel corso del tempo30. L’effetto prende il nome da un versetto del Vangelo secondo Matteo (13:12) che recita: «poiché a chi ha verrà dato, ed egli avrà in abbondanza: ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha». In ambito digitale31, è stato utilizzato per predire che 25. J. De Haan, A multifaceted dynamic model of the digital divide, «It & Society», 1, 7, 2004, pp. 66-88; S. Sassi, Cultural differentiation or social segregation? Four approaches to the digital divide, in «New Media & Society», 7, 5, 2005, pp. 684-700. 26. A.J.A.M. van Deursen, J.A.G.M. van Dijk, The digital divide shifts to differences in usage, in «New Media & Society», 16, 3, 2013, pp. 507-526, p. 507. 27. Sul tema, cfr. A.L. Barabási, Link. La scienza delle reti, Einaudi, Torino 2004. 28. P. DiMaggio, F. Garip, Network Effects and Social Inequality, in «Annual Review of Sociology», 38, 1, 2012, pp. 93-118. 29. Inizialmente l’etichetta è stata utilizzata per spiegare i meccanismi di diffusione della notorietà nella comunità accademica, R.K. Merton, The Matthew Effect in Science, in «Science», 159, 3810, 1968, p. 56-63; R. K. Merton, The Sociology of Science: Theoretical and Empirical Investigation, University of Chicago Press, Chicago 1973. 30. D. Rigney, The Matthew Effect: How Advantage Begets Further Advantage, Columbia University Press, New York 2010; T.A. DiPrete, G.M. Eirich, Cumulative Advantage as a Mechanism for Inequality: A Review of Theoretical and Empirical Developments, in «Annual Review of Sociology», 32, 1, 2006, pp. 271-297. 31. Le etichette “rich to get richer” (R. Kraut, S. Kiesler, B. Boneva, J. Cummings, V. Helgeson, A. Crawford, Internet Paradox Revisited, in «Journal of Social Issues», 58, 1, 2002, pp. 49-74.) e “accumulation of advantage (AOA) hypothesis” (J. De Haan, A multifaceted dynamic model of the digital divide, in «It & Society», 1, 7, 2004, pp. 66-88) individuano modelli simili all’effetto San Matteo in ambito digitale. 185 i soggetti privilegiati, ovvero coloro che sono più ricchi in termini di risorse culturali, sociali ed economiche, non solo saranno più inclusi nella network society ma godranno appieno dei beneici generati dall’uso di Internet, mentre i soggetti meno privilegiati rimarranno progressivamente sempre più esclusi32. Nel contesto digitale, a fronte di un generalizzato aumento nella diffusione delle ICTs tra la popolazione, è possibile registrare un effetto San Matteo di tipo “relativo”. Tale effetto relativo si rileva quando sia i ricchi che i poveri diventano più ricchi, ma i ricchi lo diventano con un ritmo talmente più elevato che le differenze con i poveri si ampliano nel corso del tempo, anziché diminuire33. Tali dinamiche di arricchimento e impoverimento della popolazione dipendono da gap nell’accesso, nelle competenze e nell’utilizzo della rete che sono strettamente connessi al “capitale” di cui dispongono i cittadini34. L’effetto San Matteo si radica su un modello cumulativo e ricorsivo delle disuguaglianze, in un meccanismo che si alimenta a partire da differenze di natura sociale, che si riverberano su quelle digitali che, a loro volta, impattano sul contesto sociale nel quale sono inseriti gli individui35. Su queste basi, Helsper36 ipotizza una stretta interrelazione tra inclusione digitale 32. J. Hunsinger, M. Allen, L. Klastrup (a cura di), International handbook of internet research, Springer, London-New York 2010; J.A.G.M. van Dijk, One Europe, digitally divided, in A. Chadwick, P.N. Howard (a cura di), Routledge handbook of Internet Politics, Routledge, London-New York 2009, pp. 288-304; N. Zillien, E. Hargittai, Digital Distinction: Status-Speciic Types of Internet Usage, in «Social Science Quarterly», 90, 2, 2009, pp. 274291; J. Harambam, S. Aupers, D. Houtman, The Contentious Gap. From Digital divide to cultural beliefs about online interactions, in «Information, Communication & Society», 2012, pp. 1-22; R. Bracciale, Donne nella rete. Disuguaglianze digitali di genere, FrancoAngeli, Milano 2010; E. Hargittai, The digital divide and what to do about it, in D.C. Jones (a cura di), New economy handbook, Academic Press, San Diego 2003, pp. 821-841; S. Bentivegna, Disuguaglianze digitali. Le nuove forme di esclusione nella società dell’informazione, Laterza, Roma-Bari 2009; D. Rigney, The Matthew Effect: How Advantage Begets Further Advantage, Columbia University Press, New York 2010; J. De Haan, A multifaceted dynamic model of the digital divide, «It & Society», 1, 7, 2004, pp. 66-88. 33. D. Rigney, The Matthew Effect: How Advantage Begets Further Advantage, Columbia University Press, New York 2010. 34. P. Bourdieu, The Forms of Capital, in J. Richardson (a cura di), Handbook of Theory and Research for the Sociology of Education, Greenwood, Westport 1986, pp. 241-258; E. Hargittai, The digital reproduction of inequality, in D. Grusky (a cura di), Social stratiication, Westview Press, Boulder 2008, pp. 936-944; A.J.A.M. van Deursen, E.J. Helsper, The ThirdLevel Digital Divide: Who Beneits Most from Being Online?, in L. Robinson, S. R. Cotten, J. Schulz, T.M. Hale, A. Williams (a cura di), Communication and Information Technologies Annual (Studies in Media and Communications, Volume 10), Emerald Group Publishing Limited, 2015, pp. 29-52. 35. S. Bentivegna, Disuguaglianze digitali, Laterza, Roma-Bari 2009. 36. E.J. Helsper, A Corresponding Fields Model for the Links Between Social and Digital Exclusion, in «Communication Theory», 22, 4, 2012, pp. 403-426. 186 e inclusione sociale individuando una dinamica di inluenza che, a partire dagli elementi di esclusione ofline, incide su quelli online come l’accesso, le competenze, le attitudini o le motivazioni. Allo stesso tempo, la qualità, la disponibilità e l’impegno con le risorse digitali incide sulle dinamiche di esclusione ofline. Dunque, le ICTs si sommano alle fonti di disuguaglianza già esistenti, legate al benessere, alle relazioni sociali e al successo professionale37, rendendo Internet non solo un riproduttore ma un potenziale acceleratore delle ineguaglianze38. Gli ostacoli alla cittadinanza digitale in Europa e in Italia La persistenza dei processi di esclusione digitale, e i segnali del loro allargamento registrati dall’effetto San Matteo nella dimensione costitutiva dell’accesso alla rete, ha riportato l’attenzione di alcuni studiosi sulle differenze che ancora si determinano a livello macro (tra i paesi) in Europa39 e a livello micro (tra individui) all’interno dei paesi più ricchi40. La situazione dell’Italia sia a livello macro, in confronto ad altri paesi, che a livello micro, tra i cittadini italiani, segna una evidente arretratezza digitale, tanto da rappresentare ormai da tempo un caso anomalo in Europa e, più in generale, tra i paesi sviluppati41. Infatti, il paese è etichettato in modo sistematico come “in ritardo digitale42”, tanto da essere incluso stabilmente nel gruppo dei “fanalini di coda” nei ranking europei43. L’Italia, dunque, fa parte di un cluster a “esclusione digitale crescente”, insieme a Grecia, Cipro, Ro37. J. De Haan, A multifaceted dynamic model of the digital divide, «It & Society», 1, 7, 2004, pp. 66-88. 38. J.C. Witte, S.E. Mannon, The Internet and Social Inequalities, Routledge, New YorkLondon 2010. 39. M.R. Vicente, A.J. López, Assessing the regional digital divide across the European Union-27, in «Telecommunications Policy», 35, 3, 2011, pp. 220-237. 40. C. Campos-Castillo, Revisiting the First-Level Digital Divide in the United States: Gender and Race/Ethnicity Patterns, 2007-2012, in «Social Science Computer Review», 33, 4, 2015, pp. 423-439. 41. P. Guerrieri, S. Bentivegna, The Economic Impact of Digital Technologies (a cura di), Edward Elgar, Cheltenham (UK) 2011. 42. P.B. Brandtzæg, J. Heim, A. Karahasanović, Understanding the new digital divide – A typology of Internet users in Europe, in «International Journal of Human-Computer Studies», 69, 3, 2011, pp. 123-138. 43. M.R. Vicente, A.J. López, Assessing the regional digital divide across the European Union-27, in «Telecommunications Policy», 35, 3, 2011, pp. 220-237; C. Campos-Castillo, Revisiting the First-Level Digital Divide in the United States: Gender and Race/Ethnicity Patterns, 2007-2012, in «Social Science Computer Review», 33, 4, 2015, pp. 423-439. 187 mania e Bulgaria, caratterizzato da alti livelli di marginalità sociale e effetti di impoverimento più evidenti a causa della crisi economica degli ultimi anni44. Per ancorare la rilessione teorica sul digital divide e sull’effetto San Matteo alla situazione attuale, si è scelto di prestare attenzione al livello macro e al livello micro analizzando i dati Eurostat45 relativi agli individui tra i 16 e i 74 anni che dichiarano di non aver mai utilizzato Internet. Tale analisi è stata condotta in una prospettiva diacronica, dal 2007 al 2015, per veriicare le dinamiche di chiusura, stabilità o ampliamento dei gap nell’accesso nel corso del tempo. Uno sguardo generale ai dati rivela una decrescita sostanziale del numero dei soggetti che non hanno mai utilizzato Internet nei paesi dell’Unione Europea, tanto che la quota di non utenti passa dal 37% del 2007 al 16% del 2015 (cfr. tab. 1). Tale dato, che apparentemente potrebbe far pensare a una riduzione del divario digitale, perlomeno nella dimensione dell’accesso, in realtà rischia di nascondere una differenza abbastanza marcata tra i diversi paesi. Infatti, mentre le possibilità di accedere a Internet in alcune aree geograiche sono molto al di sotto della media europea, in altri paesi sono molto superiori, con uno scarto signiicativo che arriva a più di 30 punti percentuali. Un esempio su tutti è rappresentato dalla differenza tra il Lussemburgo, in cui la quota di cittadini che non ha mai avuto accesso alla rete è solo il 2% della popolazione nel 2015, e la Bulgaria, in cui tale percentuale raggiunge addirittura il 35% della popolazione nello stesso anno. C’è un evidente divario tra il nord e il sud dell’Europa che dipende da diversi fattori tra cui la disponibilità di infrastrutture e i costi della tecnologia e dei device per la connessione; il livello di istruzione; la conoscenza della lingua inglese per accedere ai contenuti; la diffusione di una cultura informatica e della tecnologia a partire dai percorsi formativi; le policy a promozione e sostegno delle motivazioni per la partecipazione alla società dell’informazione, specialmente tra le categorie più a rischio per mancanza di competenze speciiche46 (es. gli anziani). 44. R. Bracciale, I. Mingo, Digital Divide in Time of Crisis in Europe: do the Rich get Richer, the Poor get Poorer?, in A. Borghini, E. Campo (a cura di), Exploring the crisis: theoretical perspectives and empirical investigation, Pisa University Press, Pisa 2015, pp. 41-57. 45. Per l’analisi sono stati utilizzati i dataset dell’Eurostat, l’istituto Europeo di statistica. L’istituto fornisce dati armonizzati a livello europeo che permettono agevolmente la comparazione di un indicatore tra diversi paesi. L’analisi è stata svolta sui 27 stati che componevano l’Unione Europea nel primo anno in analisi. 46. J.A.G.M. van Dijk, One Europe, digitally divided, in A. Chadwick, P.N. Howard (a cura di), Routledge Handbook of Internet Politics, Routledge, London-New York 2009, pp. 288-304; F. Cruz-Jesus, T. Oliveira, F. Bacao, Digital divide across the European Union, in «Information Management», 49, 6, 2012, pp. 278-291; M.R. Vicente, A.J. López, Assessing the regional digital divide across the European Union-27, in «Telecommunications Policy», 35, 3, 2011, pp. 220-237. 188 Il confronto tra i paesi dell’unione europea e tra i cittadini italiani, e l’evoluzione nel corso del tempo, può essere letta solo grazie a una misura ad hoc che renda comparabili i dati e restituisca il peso dei differenti gap. Il Digital Exclusion Relative Index47 (Deri) è un indice relativo che rapporta la quota di non utenti – presente in un sottoinsieme del totale considerato – alla quota media della popolazione di riferimento al tempo t. Tale indice funziona a livello macro e a livello micro, a seconda dei gruppi o sottogruppi che si analizzano e si comparano (es. Italia vs EU27; donne in Italia vs popolazione Italiana; etc.). L’indice ha il vantaggio di essere molto semplice da calcolare e da interpretare poiché quando il punteggio è uguale a 1, la situazione di esclusione in quel sottogruppo è simile a quella registrata nella popolazione di riferimento; se il valore è superiore a 1, l’esclusione è maggiore; se il valore è inferiore a 1, l’esclusione è minore. Quindi, più il punteggio del sottogruppo si avvicina allo zero, più la categoria può considerarsi inclusa da un punto di vista digitale. L’analisi del Deri in Europa rileva la presenza ingombrante dell’effetto San Matteo, ovvero un processo di progressivo e crescente impoverimento dei paesi già poveri nel corso del tempo, a fronte di una crescita generalizzata della connettività. In alcuni paesi, le quote di esclusione, già elevate nel 2007, addirittura si incrementano nel 2015, evidenziando un gap che diventa più profondo tra i diversi contesti territoriali. In particolare, il valore dell’indice supera il punteggio di 1,5 in Romania, Bulgaria, Grecia, Portogallo, Cipro, e Italia, fotografando un processo di distanziamento nell’inclusione digitale dei cittadini che risiedono in quei paesi da quelli che abitano nel Regno Unito, Lussemburgo, Finlandia, Svezia, Paesi Bassi, Danimarca, in cui il Deri è addirittura inferiore al punteggio di 0,5 (ig. 1). In questo quadro generale, la traiettoria dell’Italia è indicativa di un divario nell’accesso che la allontana sempre più dalla media Europea (Deri 2007 = 1,46; Deri 2015 = 1,75) (cfr. tab. 2). L’arretratezza digitale italiana pone il Paese in una situazione di debolezza in merito alla capacità di sfruttare appieno le opportunità economiche connesse allo sviluppo della network society. Infatti, le ICTs sono «crosscutting enablers for achieving the three pillars of sustainable development: economic growth, environmental balance and social inclusion»48. Il loro 47. Per ulteriori applicazioni e speciiche sull’indice Deri, cfr. R. Bracciale, I. Mingo, Digital Divide in Time of Crisis in Europe: do the Rich get Richer, the Poor get Poorer?, in A. Borghini, E. Campo (a cura di), Exploring the crisis: theoretical perspectives and empirical investigation, Pisa University Press, Pisa 2015, pp. 41-57; R. Bracciale, I. Mingo, Social Inequalities in Digital Skills: The European framework and the Italian case, in J. Servaes, T. Oyedemi (a cura di), The Praxis of Social Inequality in Media: A Global Perspective, Lexington Books, Lanham 2016, pp. 81-111. 48. ITU, Measuring the Information Society Report, Ginevra, 2014, p. 25. 189 Fig. 1 – Digital Exclusion Relative Index (Deri) nei paesi dell’Unione Europea (16-74 anni, 2007-2015) 2,5 Esclusione Digitale Crescente Bulgaria 2,0 Romania Grecia Portogallo Italia Polonia Cipro Lituania 1,5 Malta Slovenia Ungheria 1,0 Spagna Lettonia Slovacchia Irlanda Belgio Rep. Ceca Austria Francia Germania Estonia Regno Unito Svezia Finlandia Paesi Bassi Danimarca Lussemburgo EU27 0,5 0,0 Esclusione Digitale Decrescente 2007 2015 Fonte: Elaborazione su dati Eurostat, 2016. inadeguato sviluppo genera una Europa frammentata e a velocità profondamente ineguali in merito alle opportunità individuali di diventare a pieno titolo cittadini digitali nella società dell’informazione. L’analisi macro relativa alla comparazione tra i diversi paesi europei restituisce dunque un quadro in cui l’Italia, a partire dalla basilare dimensione dell’accesso alla rete, sconta un processo di progressivo ampliamento dei gap che la separano dagli altri paesi europei. Questo elemento non deve ingannare: in termini generali, la quota di utenti cresce per via di una maggiore diffusione delle tecnlogie nella società, in termini relativi cresce più velocemente in alcuni paesi tanto che lo scarto di connettività si allarga anziché diminuire. Si radica così un modello di stratiicazione, anziché un modello di normalizzazione. Passando all’analisi micro, dunque, è evidente che l’esclusione digitale complessivamente intesa diminuisce nel corso degli anni, passando dal 54% di esclusi totali nel 2007 al 28% del 2015 (media Eu27 = 16%) (cfr. tab. 3). Una analisi più dettagliata permette di individuare alcuni elementi che segnano la distanza tra i diversi gruppo sociali. Tali debolezze sono ben note an190 che alla commissione europea che sin dalla Conferenza ministeriale di Riga49 “ICT for an Inclusive Society” dell’11 giugno 2006 ha individuato alcuni segmenti di popolazione come più deboli e a rischio rispetto alle dinamiche di impoverimento digitale e sociale. In questo cluster a rischio sono inserite le persone anziane, quelle con disabilità, le donne, i soggetti con un livello di istruzione basso, i disoccupati e i soggetti che vivono nelle regioni meno sviluppate. Sulla base di queste categorie, i dati della popolazione italiana relativamente agli esclusi digitali sono stati declinati rispetto al genere (maschi/ femmine); la classe di età (16-24, 25-34, 35-44, 45-54, 55-64, 65-74); il livello di istruzione (basso, medio, alto); la condizione professionale (occupato, disoccupato, studente, pensionato); il luogo di residenza (aree poco popolate, meno 100 ab./Km²; aree mediamente popolate, 100-499 ab./Km²; aree densamente popolate, 500 ab./Km²). All’analisi, inoltre, è stata aggiunta una combinazione tra due variabili di rischio, per evidenziare come la combinazione di più fattori di criticità ampliichi in maniera evidente le distanze tra i gruppi sociali. Nello speciico, la combinazione ha riguardato i soggetti tra i 55 e i 74 anni, quindi con una età più avanzata, rispetto al genere, poiché le donne subiscono maggiormente i processi di marginalizzazione digitale50, e al livello di istruzione, considerato lo stretto legame con le competenze individuali. A colpo d’occhio i punteggi dell’indice di esclusione digitale relativo (Deri, ig. 2) evidenziano molto chiaramente la dinamica di stratiicazione sociale in atto, confermando anche a livello micro l’esistenza dell’effetto San Matteo. Al top dell’esclusione digitale, inseriti in una dinamica di estromissione crescente, si trovano alcuni proili di soggetti che, pur se variamente combinati, sono composti da anziani, donne, con un basso livello di istruzione e inattivi da un punto di vista lavorativo. Per questi cittadini, l’indice di esclusione relativa passa da un punteggio mediamente vicino al 1,6 del 2007 ad oltre il 2,3 nel 2015 (cfr. tab. 4). Questo dato chiarisce con evidenza che i processi di estromissione dalla società dell’informazione si acuiscono per i soggetti che si trovano in una situazione già a rischio di marginalità sociale. La combinazione, poi, di più fattori critici insieme, per esempio età avanzata e basso livello di istruzione, produce un ulteriore aggravamento della situazione di esclusione. A questo punto, sembra chiaro che le nuove opportunità di cittadinanza offerte dai media digitali sono precluse a molte fasce della popolazione51, 49. European Commission, Measuring progress in e-Inclusion. Riga Dashboard, 2007. 50. R. Bracciale, Donne nella rete. Disuguaglianze digitali di genere, FrancoAngeli, Milano 2010. 51. Un elemento che potrebbe in futuro mitigare tali considerevoli gap, almeno nell’accesso, è dato dalla diffusione degli smartphone e della banda larga mobile la cui adozione fa 191 Fig. 2 – Digital Exclusion Relative Index (Deri) per categorie di persone in Italia (16-74 anni, 2007-2015) 3,0 Esclusione Digitale Crescente 55-74, bassa istruzione 65-74 anni 2,5 F, 55-74 pensionati 2,0 bassa istruzione M, 55-74 55-64 1,5 1,0 aree poco popolate donne 55-74, media istruzione aree mediamente popolate 45-54 anni aree popolate disoccupati occupati 35-44 anni media istruzione 55-74, alta istruzione 25-34 anni alta istruzione studenti 16-24 anni Italia 0,5 Esclusione Digitale Decrescente 0,0 2007 2015 Fonte: Elaborazione su dati Eurostat, 2016. disegnando, di converso, un proilo di incluso digitale al maschile, giovane, con un titolo di studio elevato e occupato. Rilessioni conclusive La ricognizione dei limiti alla cittadinanza contemporanea si è concentrata sulla questione del digital divide di primo livello, ovvero sulla possibilità per i cittadini di accedere al nuovo bouquet delle offerte di cittadinanza disponibile in formato digitale. Tale analisi ha evidenziato come, già a partire dalla distinzione binaria tra chi accede e chi non accede alla rete, le società contemporanee appaiono estremamente stratiicate sia a livello macro, nelle differenze tra paesi, sia a livello micro, ovvero tra i cittadini. La dinamica registrare una crescita consistente negli ultimi anni e un valore (32%) nel 2014 in linea con la media europea (31%) (Istat-Fub, «Internet@Italia 2014. L’uso di Internet da parte di cittadini e imprese», 2015). 192 che sottostà a tale processo di marginalizzazione è più vicina a una ipotesi di stratiicazione e approfondimento delle differenze, piuttosto che all’ipotesi di una progressiva normalizzazione. Detto in altri termini, la persistenza dell’effetto San Matteo nel corso degli anni sottoscrive l’esistenza di un meccanismo di differenziazione sociale per il quale “the rich get richer, the poor get poorer”. La contrapposizione che si registra sembra muovere sulla scacchiera della differenziazione gli information have e gli information have nots, traducendo le disuguaglianze tra i cittadini in una nuova dicotomia tra chi potrà e chi non potrà accedere ai nuovi diritti di cittadinanza. Infatti, si assiste a un progressivo ampliamento dei gap che suggerisce un marcato impoverimento dei settori più deboli della popolazione nel corso del tempo. Sullo sfondo rimangono le questioni legate al secondo livello di digital divide, ovvero alle differenze che permangono anche tra chi accede a Internet, in termini di possibilità di empowerment personale e sociale in relazione ai diversi usi della rete che si fanno e che si è in grado di fare. Naturalmente le questioni legate alle digital inequalities sono altrettanto importanti per la piena fruizione dei diritti di cittadinanza, sia online che ofline, e chiamano in causa ulteriori rilessioni sul nucleo ristretto e altamente caratterizzato di chi partecipa la sua cittadinanza sfruttando le opportunità offerte dalla rete e chi non lo fa perché non è in grado di farlo. Ancora diversa, poi, è la situazione tra gli inclusi digitali che però non hanno interesse a esprimere la propria partecipazione sociale online o ad accedere a nuovi e più personalizzati diritti di cittadinanza. Da questo punto di vista, se è vero che «internet is an inherently democratising technology, so it is bound to democratise governance»52, tale capacità è più facilmente rintracciabile nelle opportunità che offre in termini di accountability per il cittadino monitorante53, più che di civic engagement. Inoltre, se già con i media analogici, si parlava di disfunzione narcotizzante indotta dall’overload informativo, nuove e più variegate forme di catalessi radicate nello slacktivism si registrano con la diffusione della rete54. Di tali elementi, non si potrà non tener conto nel valutare il bacino delle cittadinanze coinvolte nei processi di digitalizzazione in atto nelle società contemporanee, prima di dare ottimisticamente per assodata l’esistenza di nuove opportunità rivolte alla popolazione tout court. 52. S. Coleman, J.G. Blumler, The Internet and democratic citizenship: Theory, practice and policy, Cambridge University Press, Cambridge 2009, p. 166. 53. M. Schudson, The Good Citizen, Free Press, New York 1998. 54. E. Morozov, L’ingenuità della rete. Il lato oscuro della libertà di internet, Codice, Torino 2011. 193 Tab. 1 – Cittadini che non hanno mai utilizzato Internet nei paesi dell’Unione Europea (1674 anni, 2007-2015, v. %) Geo/Time 2007 2015 Bulgaria 65 35 Romania 69 32 Greece 62 30 Italy 54 28 Portugal 56 28 Poland 48 27 Croatia 56 26 Cyprus 56 26 Lithuania 49 25 Malta 51 22 Slovenia 39 22 Hungary 46 21 Spain 43 19 Latvia 39 18 Ireland 35 16 Slovakia 35 16 Belgium 29 13 Czech Republic 46 13 Austria 28 13 France 34 11 Germany (until 1990 former territory of the FRG) 23 10 Estonia 32 9 United Kingdom 22 6 Finland 17 5 Sweden 15 5 Netherlands 13 4 Denmark 12 3 Luxembourg 20 2 European Union (27 countries) 37 16 Fonte: Elaborazione su dati Eurostat, 2016. 194 Tab. 2 – Digital Exclusion Relative Index (Deri) nei paesi dell’Unione Europea (16 -74 anni, 2007-2015) 2007 2015 Bulgaria 1,7568 2,1875 Romania 1,8649 2,0000 Grecia 1,6757 1,8750 Portogallo 1,5135 1,7500 Cipro 1,5135 1,6250 Italia 1,4595 1,7500 Malta 1,3784 1,3750 Lituania 1,3243 1,5625 Polonia 1,2973 1,6875 Ungheria 1,2432 1,3125 Rep. Ceca 1,2432 0,8125 Spagna 1,1622 1,1875 Slovenia 1,0541 1,3750 Lettonia 1,0541 1,1250 Irlanda 0,9459 1,0000 Slovacchia 0,9459 1,0000 Francia 0,9189 0,6875 Estonia 0,8649 0,5625 Belgio 0,7838 0,8125 Austria 0,7568 0,8125 Germania 0,6216 0,6250 Regno Unito 0,5946 0,3750 Lussemburgo 0,5405 0,1250 Finlandia 0,4595 0,3125 Svezia 0,4054 0,3125 Paesi Bassi 0,3514 0,2500 Danimarca 0,3243 0,1875 Fonte: Elaborazione su dati Eurostat, 2016. 195 Tab. 3 – Cittadini che non hanno mai utilizzato Internet in Italia per categorie sociodemograiche(16 -74 anni, 2007-2015, v. %) Geo/Time 16-24 25-34 35-44 45-54 55-64 65-74 Uomini Donne bassa istruzione media istruzione alta istruzione pensionati occupati studenti disoccupati Totale 2007 2015 23 36 47 56 74 90 49 59 76 33 17 84 41 12 50 54 4 10 15 26 43 71 24 32 49 14 5 59 15 2 23 28 Fonte: Elaborazione su dati Eurostat, 2016. Tab. 4 – Digital Exclusion Relative Index (Deri) in Italia per categorie socio-demograiche (16 -74 anni, 2007-2015) 55-74 bassa istruzione 65-74 anni F, 55-74 pensionati bassa istruzione M, 55-74 55-64 anni Donne aree poco popolate (meno 100 ab/Km²) 55-74 media Is aree medie (100-499 ab./Km²) 45-54 anni aree popolate (500 ab./Km²) Uomini disoccupati 35-44 anni occupati media istruzione 55-74 alta istruzione 25-34 anni alta istruzione 16-24 anni studenti Fonte: Elaborazione su dati Eurostat, 2016. 196 2007 2015 1,69 1,67 1,61 1,56 1,41 1,39 1,37 1,09 1,11 1,11 1,04 1,04 0,93 0,91 0,93 0,87 0,76 0,61 0,81 0,67 0,31 0,43 0,22 2,68 2,54 2,25 2,11 1,75 1,64 1,54 1,14 1,14 1,11 1,00 0,93 0,89 0,86 0,82 0,54 0,54 0,50 0,50 0,36 0,18 0,14 0,07 Autori e Autrici Marcella Aglietti insegna Storia delle Istituzioni politiche presso l’Università di Pisa. Ha al suo attivo numerosi volumi e saggi dedicati alla storia dei ceti dirigenti, alle istituzioni parlamentari e rappresentative, tra età moderna e contemporanea, con particolare attenzione per la storia spagnola e di area euro-mediterranea. Tra i suoi contributi più recenti, si ricordano le monograie: Cortes, nazione e cittadinanza. Immaginario e rappresentazione delle istituzioni politiche nella Spagna della Restauración (1874-1900) (2009); L’istituto consolare tra Sette e Ottocento. Funzioni istituzionali, proilo giuridico e percorsi professionali nella Toscana granducale (2012) e le co-curatele di Los cónsules de extranjeros en la Edad moderna y a principios de la Edad contemporánea (2013); Élites e reti di potere. Strategie d’integrazione nell’Europa di età moderna (2016) e La città delle nazioni. Livorno e i limiti del cosmopolitismo (sec. XVI-XIX) (2016). Roberta Bracciale è docente di Sociologia dei nuovi media presso l’Università di Pisa. I suoi interessi di ricerca sono attinenti all’impatto sociale dei nuovi media, con particolare attenzione alle prospettive metodologiche connesse ai media studies (es. Digital Methods); alle implicazioni delle Digital Inequalities nella vita quotidiana; alle relazioni tra social media e comunicazione politica. Tra i suoi contributi più recenti, si segnalano i saggi: Social Inequalities in Digital Skills: The European Framework and the Italian Case (2016); Political Information on Twitter: #elezioni2013 and the role of gatekeeper citizens (2016); Digital Divide in Time of Crisis in Europe: do the Rich get Richer, the Poor get Poorer? (2015), e la monograia: Donne nella rete. Disuguaglianze digitali di genere (2010). Alessandro Breccia è docente di Storia delle Istituzioni politiche e sociali presso l’Università di Pisa. Ha pubblicato numerosi studi e ricerche sulla 197 storia dei ceti dirigenti e funzionariali nella Toscana pre-unitaria, sull’istituzione universitaria in Italia tra Otto e Novecento e sulle istituzioni parlamentari in età liberale e repubblicana. Tra i suoi contributi si ricordano la monograia Fedeli servitori. Le onorate carriere dei Giorgini nella Toscana dell’Ottocento (2006), la curatela del volume Le istituzioni universitarie e il Sessantotto (2013) e l’edizione critica dei Discorsi parlamentari di Bettino Ricasoli (2012). Carmelo Calabrò insegna Storia delle dottrine politiche e Storia del pensiero politico e sociale contemporaneo presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. I suoi interessi di ricerca si sono concentrati soprattutto sulla storia della cultura socialista nel Novecento. È autore di Il socialismo mite. Rodolfo Mondolfo tra marxismo e democrazia (2007); Liberalismo, democrazia, socialismo. L’itinerario di Carlo Rosselli (2009); Storia e Rivoluzione. Saggio su Antonio Gramsci (2012). Thomas Casadei è docente di Filosoia del diritto e di Teoria e prassi dei diritti umani presso l’Università di Modena e Reggio Emilia. Tra i suoi contributi più recenti, si ricordano le monograie: Tra ponti e rivoluzioni. Diritti, costituzioni, cittadinanza in Thomas Paine (2012); Il sovversivismo dell’immanenza. Diritto, morale, politica in Michael Walzer (2012); I diritti sociali. Un percorso ilosoico-giuridico (2012); Il rovescio dei diritti umani. Razza, discriminazioni, schiavitù (2016); nonché le curatele di Diritti umani e soggetti vulnerabili. Violazioni, aporie, trasformazioni (2012); Donne, diritto, diritti. Prospettive del giusfemminismo (2015); e, inine, della selezione di lettere di Sarah M. Grimké, Poco meno degli angeli. Lettere sull’eguaglianza dei sessi (2016). Cristina Cassina insegna Storia del pensiero politico presso l’Università di Pisa. Le culture politiche e gli assetti istituzionali dell’Otto e del Novecento sono al centro dei suoi interessi di ricerca. Fa parte del comitato editoriale di «Storia del Pensiero Politico» (il Mulino) e del comitato scientiico di «Politics. Rivista di Studi Politici» (A.I.C. – Labrys). Tra i suoi libri: Il bonapartismo o la falsa eccezione (2001), Parole vecchie parole nuove. Ottocento francese e modernità politica (2007), Soglie nel tempo. Storie di prefazioni ai classici del Pensiero politico moderno (2015). Nico De Federicis insegna Teoria cosmopolitica presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. I suoi interessi sono concentra198 ti sulla ilosoia dell’idealismo classico e sulla sua eredità contemporanea, sulla teoria democratica e cosmopolitica, sulla storia del diritto naturale moderno. È autore dei volumi Moralità ed eticità nella ilosoia politica di Hegel (2001), Gli imperativi del diritto pubblico. Rousseau, Kant e i diritti dell’uomo (2005); ha curato con M.C. Pievatolo l’opera postuma di G. Marini, La ilosoia cosmopolitica di Kant (2007), e con C. Palazzolo, Storicità del diritto, dignità dell’uomo, ideale cosmopolitico. Atti in memoria di Giuliano Marini (2008). Mauro Lenci è docente di Storia delle dottrine politiche presso l’Università di Pisa, e fa parte del gruppo di ricerca «Re-Imagining Democracy in the Mediterranean, 1750-1860», con base all’Università di Oxford. Ha pubblicato numerosi saggi sul pensiero di Burke, sull’illuminismo e sulla storia dell’opinione pubblica. Tra i suoi lavori: Il Leviatano invisibile. L’opinione pubblica nella storia del pensiero politico (2012); Le metamorfosi dell’antilluminismo: Aspetti ed itinerari del dibattito sui Lumi nella storia del pensiero politico moderno (2007); Individualismo democratico e liberalismo aristocratico nel pensiero politico di Edmund Burke, Istituti Editoriali e Poligraici Internazionali (1999). Arturo Marzano insegna Storia del Medio Oriente presso l’Università di Pisa. È stato Visiting Fellow alla Hebrew University di Gerusalemme e all’American University di Beirut; Senior Research Fellow all’Université Panthéon-Assas (Paris 2); Marie Curie Fellow all’Istituto Universitario Europeo. Si occupa di storia del sionismo, dello Stato di Israele, del conlitto israelo-palestinese e dei rapporti fra Europa e Medio Oriente. Tra le sue pubblicazioni più recenti, si ricordano i volumi Leo Levi. Contro i dinosauri. Scritti civili e politici (1931-1972), 2011; Attentato alla Sinagoga. Roma, 9 ottobre 1982. Il conlitto israelo-palestinese e l’Italia, 2013 (con G. Schwarz); Onde fasciste. La propaganda araba di Radio Bari (193443), 2015. Ha pubblicato numerosi articoli su riviste italiane e straniere, tra cui «Contemporanea», «Passato e Presente», «Italia Contemporanea», «The Journal of Conlict Studies», «Israel Studies», «European Journal of Jewish Studies», «The International Spectator». Emanuela Minuto è docente di Storia contemporanea presso l’Università di Pisa. Si occupa di movimenti politici in età contemporanea. Negli ultimi anni ha dedicato particolare attenzione all’universo anarchico e alle manifestazioni di protesta veriicatisi durante il primo conlitto mondiale. Tra i suoi 199 contributi più recenti si ricordano: The Reception of Thomas Moore in Italy in the Nineteenth Century, in C. Barr, M. Finelli and A. O’ Connor (edited by), Nation/Nazione. Irish Nationalism and the Italian Risorgimento (2014), pp. 193-205; Rilessioni sul seminario “Metodi e temi della storiograia sull’anarchismo”, «Italia contemporanea» (2014), pp. 372-379; Parma, in F. Cammarano (a cura di) Abbasso la guerra. Neutralisti in piazza alla vigilia della Prima guerra mondiale in Italia (2015), pp. 345-356; Assenze. Giovani anarchici negli anni Cinquanta, in G. Berti e C. De Maria (a cura di), L’anarchismo italiano. Storia e storiograia (2016), pp. 179-191. Laura Muzzetto si è addottorata presso la Scuola di dottorato in Scienze Giuridiche, indirizzo in Giustizia costituzionale e Diritti fondamentali, presso l’Università di Pisa con una tesi dal titolo Distopia e Utopia nel Pensiero Politico di Aldous Huxley. È attualmente assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze politiche della stessa università con un progetto in Storia delle Dottrine politiche dal titolo «Dalla cittadinanza politica alla cittadinanza sociale: proili critici». Alessandro Polsi è docente di Storia delle Istituzioni politiche e di Relazioni Internazionali presso l’Università di Pisa. Si è occupato di storia dell’amministrazione in Italia e di storia delle istituzioni internazionali nel XX secolo. È autore di Storia dell’ONU (2006) e ha pubblicato negli ultimi anni articoli e saggi sulla giustizia internazionale e la genesi dei movimenti associativi transnazionali a partire dalla ine del XIX secolo. 200 Indice dei nomi Aberdam, Serge, 88 Aglietti, Marcella, 8, 20, 31, 98 Aimerito, Francesco, 38-39 Alàez Corral, Benito, 19, 32 Alatri, Paolo, 112 Alessi, Giorgia, 147 Allen, Matthew M., 186 Alosco, Antonio, 139 Ambrosetti, Giovanni, 103 Andrés Topete, Juan, 29 Angelini, Giovanna, 140 Anteghini, Alessandra, 144 Antonioli, Maurizio, 146-147 Arisi Rota, Arianna, 55 Aristotele, 175 Ascheri, Mario, 24 Asser, Tobias, 45-46 Augeron, Mickaël, 18 Aulard, François-Alphonse, 82, 85 Aupers, Stef, 186 Bacao, Fernando, 188 Baccolini, Raffaella, 174 Baeri Parisi, Emma, 174 Bagehot, Walter, 97, 124-127 Baglioni, Lorenzo Grifone, 101 Bakardjieva, Maria, 184 Balbo, Cesare, 111, 115, 116, 118 Balibar, Étienne, 95-98 Ballini, Pier Luigi, 111 Banko, Lauren, 66 Banti, Alberto Mario, 109-110, 139 Barabási, Albert-László, 185 Barak, Aharon, 74 Barbagallo, Francesco, 139 Barbera, Augusto, 98 Barberis, Maurizio, 108 Barker-Benield, Graham John, 104 Barker, Ernest, 122 Barnave, Antoine, 81, 84, 89-90, 93 Barsanti, Pietro, 55 Bartoli, Clelia, 96 Bartolomei, Arnaud, 17 Barzilai, Gad, 70 Beccaria, Cesare, 54 Beck, Ulrich, 181 Belvisi, Francesco, 98 Bellamy, Richard, 165 Ben Gurion, David, 67 Beneduce, Pasquale, 48 Benn, Aluf, 72 Bentivegna, Sara, 183, 186-187 Berekovitch, Nitza, 177 Bersani, Carlo, 49 Bertea, Stefano, 104 Bertolucci, Franco, 139, 147 Bertran de Lis, Manuel, 25 Betri, Maria Luisa, 111 Beveridge, William, 133 Bhavanani, Kum-Kum, 175 Bianchi, Ruggero, 167 Bianciardi, Silvia, 146, 148-149 Blanc, Alberto, 59 Blanch, Luigi, 114 Blumler, Jay G., 193 Bobbio, Norberto, 161 Bock, Gisela, 177 Boggio, Pier Carlo, 48 Boneva, Bonka, 185 Bonghi, Ruggiero, 141-142 201 Bontempi, Marco, 101 Bourdieu, Pierre, 186 Borghini, Andrea, 188-189 Borsi, Luca, 48, 54 Bosanquet, Bernard, 130 Botta, Carlo, 113 Bovio, Giovanni, 139-141 Bracciale, Roberta, 11, 183, 186, 188189, 191 Brandtzaeg, Petter Bae, 187 Bravo, Gian Mario, 168 Breccia, Alessandro, 9, 97 Briggs, Asa, 123 Briols-Beaumetz, Albert de, 82, 88-89 Brissot, Jacques-Pierre, 81 Brizzi, Gian Paolo, 50 Bufano, Rossella, 166 Buonarroti, Filippo Giuseppe Maria Ludovico, 109 Burdekin, Katharine, 11, 168, 170-174, 176, 178-179 Burke, Edmund, 100, 103-105 Butenschon, Nils A., 67 Buzot, François-Nicolas, 82, 87, 93 Calabrò, Carmelo, 10, 97, 124 Campanini, Giorgio, 118 Campi, Alessandro, 87 Campo, Enrico, 188-189 Campos-Castillo, Celeste, 187 Canale Cama, Francesca, 140, 143 Canonico, Tancredi, 59 Cánovas del Castillo, Antonio, 26 Capponi, Gino, 119 Caravale, Mario, 49 Cardim, Pedro, 16 Carducci, Giosuè, 137, 145 Carmignani, Giovanni, 54 Carrara, Francesco, 56 Caruso, Sergio, 96, 108 Carutti, Domenico, 119-120 Casadei, Thomas, 10, 101, 107 Casalini, Brunella, 105 Casorati, Luigi, 59 Cassina, Cristina, 10, 99 Cassinis, Giovanni Battista, 36, 42-44 Castelli, Alberto, 140 Castells, Manuel, 181-182 Cavour, Camillo, 38, 44, 110, 119 Cazzetta, Giovanni, 50 Ceccarini, Luigi, 180 Celeste, Coral, 183 Ceretta, Manuela, 168 Chadwick, Andrew, 186, 188 Chamberlain, Joseph, 141 Chen, Wenhong, 183 Cherubini, Donatella, 144 Chiavistelli, Antonio, 109 Chignola, Sandro, 111 Cipriani, Amilcare, 143 Claeys, Gregory, 100 Clermont-Tonnere, Stanislas, 82 Cobo del Rosal, Gabriela, 16, 26 Colao, Floriana, 55, 147 Cole, George Douglas Howard, 133 Coleman, S., 193 Colletta, Pietro, 114 Collini, Stefan, 128 Colloca, Carlo, 101 Colombo, Paolo, 107 Compagnoni, Giuseppe, 112 Condorcet, Nicolas de, 81, 91, 105-107 Constant, Benjamin, 114 Cooper, Sandi E., 142-144 Corsini, Umberto, 111 Cortés y Morales, Balbino, 15 Costa, Andrea, 143 Costa, Pietro, 24, 79-80, 94, 97, 100, 102, 106, 109, 111, 121, 151 Cotten, Sheila, 186 Cousin, Victor, 34 Crawford, Anne, 185 Crespo Solana, Ana, 17-18 Crispi, Francesco, 59, 141 Cruz-Jesus, Frederico, 188 Cummings, Jonathan, 185 Cuoco, Vincenzo, 112-113 Curti, Pietro Andrea, 55 D’Amico, Elisabetta, 147 D’Angelo, Lucio, 140 D’Azeglio, Massimo, 110, 115-116, 118 Dannreuther, Roland, 97, 152 Davis, Uri, 65, 67 De Augustinis, Matteo, 33 De Beauvoir, Simone, 173 202 De Federicis, Nico, 11, 97, 165 De Haan, Jos, 185-186 De Leonibus, Aurora, 152 De Luca, Stefano, 87 De Rosa, Ornella, 140 De Rosa, Rosanna, 180 De Ruggiero, Guido, 110 De Sanctis, Francesco, 141 Del Re, Alisa, 178 Della Fera, Raffaele, 139 Della Villa, Alessandro, 37-38 Della Villa, Cesare, 36-38 Depretis, Agostino, 56 Di Carlo, Eugenio, 39 Dimaggio, Paul, 182-185 Di Maso, Nunzia, 112 Di Viggiano, Pasquale Luigi, 166 Diaz, Furio, 112 Dicey, Albert Venn, 122, 124, 131 DiPrete, Thomas A., 185 Dower, Nigel, 152 Droetto, Antonio, 40 Du Port, Adrien, 81 Dudley Field, David, 49 Dunn, John, 109, 153 Durando, Giacomo, 116-117 Duso, Giuseppe, 111 Dutton, William H., 183 Edelstein, Melvin, 81 Eirich, Gregory M., 185 Ellero, Pietro, 59-60 Esperson, Pietro, 45 Even, Pascal, 18 Fieschi, Guido, 40 Filangeri, Gaetano, 114 Filippo V di Borbone, 18, 27 Finelli, Pietro, 139 Fiocchi Malaspina, Elisabetta, 49 Fioravanti, Maurizio, 102, 108 Firpo, Luigi, 34 Foa, Vittorio, 132 Fontana, Bianca Maria, 127 Fontana, Ferdinando, 145 Foran, John, 175 Fourier, Charles, 128 Friedman, Marylin, 176, 178 Friedrich, Carl Joachim, 100 Galli, Carlo, 164 Galluppi, Pasquale, 114 García-Montón G.-Baquero, Isabel, 29 Gargiulo, Enrico, 95-96 Garibaldi, Giuseppe, 45, 48, 143 Garip, Filiz, 185 Genovesi, Antonio, 114 Gentile, Francesco, 33 Ghanem, As’ad, 64 Giannetti, Roberto, 97 Giddens, Anthony, 181 Gioberti, Vincenzo, 97, 115-116, 118-119 Giolo, Orsetta, 96 Girardi, Renato, 140, 143, 145 Giulianelli, Roberto, 147 Glenn, Susan A., 70 Godwin, William, 104 Gómez de la Serna y Tully, Pedro, 23-24 Gori, Pietro, 146-148 Gouges, Olympe de, 106, 175 Goupil-Préfeln, Guillaume de, 87, 93 Green, Thomas Hill, 122, 129-131 Grégoire, Henri, 82, 85, 93 Griffo, Maurizio, 99, 101, 107 Grosso, Enrico, 94-95, 104 Grusky, David, 186 Guaraldo, Olivia, 104 Guerci, Luciano, 112 Guerrieri, Paolo, 187 Guile, Bruce R., 180 Guizot, François Pierre Guillaume, 118 Habermas, Jürgen, 91 Haddon, Leslie, 184 Haklai, Oded, 71 Halldenius, Lena, 104 Harambam, Jaron, 186 Hargittai, Eszter, 182-184, 186 Harris, Charles Luke, 98 Hassassian, Manuel, 67 Haythornthwaite, Caroline, 184 Hazony, Yoram, 68 Heim, Jan, 187 Heinen, Jacqueline, 178 Held, David, 152-161 Helgeson, Vicki, 185 203 Helsper, Ellen, 183, 186 Hernández Iglesias, Fermín, 26-28 Herzl, Theodor, 63 Herzog, Tamar, 16-17 Hilal, Jamil, 64 Hitchens, Christopher, 169 Hobhouse, Leonard Trelawny, 131-132 Hobsbawm, Eric, 100 Hoffman Baruch, Elaine, 167 Holden, Kate, 173 Holtzendorff, Franz, 41, 51 Houtman, Dick, 186 Howard, Philip N., 186, 188 Hsieh, Yuli Patrick, 183 Hunsinger, Jeremy, 186 Hunt, Lynn, 105 Huntington, Samuel P., 152 Hutchings, Kimberly, 97, 152 Ilan, Shahar, 74-75 Isabella, Maurizio, 111, 117 Isin, Engin Fahri, 99 Israel, Jonathan, 101 Jaime, Erik, 34, 40 James, Susan, 177 Jefferson, Thomas, 91 Jones, Derek C., 186 Kant, Immanuel, 156 Kantin, George, 102 Karahasanovic, Amela, 187 Kassim, Anis F., 66 Katz, James E., 183 Keane, John, 99 Keynes, John Maynard, 133 Kiesler, Sara, 185 Kimmerling, Baruch, 75 Klastrup, Lisbeth, 186 Kluber, Johann Ludwig, 37 Koskenniemi, Martti, 49, 52 Kranzberg, Melvin, 180 Kraut, Robert, 185 La Farina, Giuseppe, 43 La Fontaine, Henri, 146 La Malfa, Giorgio, 133 La Neve, Giorgio, 100 La Salvia, Sergio, 110-111 La Torre, Massimo, 41, 108 Labrador, Pedro, 19-20 Lacchè, Luigi, 34, 55, 147 Lamb, Robert, 100 Lamennais, Hugues-Félicité Robert de, 116 Lameth, Alexandre de, 82 Lanchester, Fulco, 51 Lash, Scott, 181 Laski, Harold, 133 Le Chapelier, Isaac-René-Guy, 81, 84, 87, 89, 93 Leech, Patrick, 100 Lemonnier, Charles, 144-145 Lenci, Mauro, 10, 97 Lessay, Jean, 99 Levra, Umberto, 119 Liebermann, Avigdor, 75 Lill, Rudolf, 111 Linati, Filippo, 119 Lis, Jonathan, 71 Lister, Ruth, 176 Livni, Tzipi, 72, 74 Lobbia, Cristiano, 55 Locke, John, 105, 175 Loche, Annamaria, 106 Lombroso, Cesare, 141 Lon y Alvareda, José, 29 López-Menéndez, Ana, 187-188 Lorimer, James, 41 Los Ríos Rosas (de), Antonio, 24 Lussu, Marialuisa, 106 Mably, Gabriel Bonnot de, 112 Machiavelli, Niccolò, 112 MacKey, George, 172 Macry, Paolo, 138 Maffettone, Pietro, 153 Magri, Tito, 100 Magrin, Gabriele, 105 Malandrino, Corrado, 97 Malatesta, Errico, 147-148 Malouet, Pierre-Victoire, 82, 86, 92 Mamiani, Terenzio, 33-34, 40, 120 Man Ling Lee, Theresa, 175 Mana, Emma, 139 Mancini, Pasquale Stanislao, 9, 33-46, 4850, 54-55, 58-59, 61 204 Manfredi, Marco, 146 Mangan, Monica, 146 Manin, Bernard, 85 Mannon, Susan E., 187 Mannoni, Stefano, 40 Mannori, Luca, 8, 109, 111, 115 Manzini, Vincenzo, 56 Manzoni, Alessandro, 110 Maranini, Paolo, 151 Marchetti, Paolo, 147 Marcialis, Maria Teresa, 106 Margiotta, Costanza, 108 Maria-Antonietta d’Asburgo, 89 Marino, Enrico, 128 Marochetti, Giovanni Battista, 114-115 Marshall, Thomas H., 151-152, 176 Martens, Georg Friedrich, 37 Martinelli, Claudio, 103 Marzagalli, Silvia, 18 Marzano, Arturo, 9, 98 Mastellone, Salvo, 34 Masucci, Luigi, 59-61 Mazzacane, Aldo, 48 Mazzini, Giuseppe, 40 Mazzoleni, Angelo, 146 McNeal, Ramona S., 181-182 Meale, Gaetano (pseudonimo Umano), 11, 97, 137-146, 148-150 Mele, Franca, 43 Meniconi, Antonella, 138 Meriggi, Marco, 109 Merton, King Robert, 185 Mezzadra, Sandro, 96, 151 Miletti, Marco Nicola, 147 Miliband, Ralph, 132 Mill, John Stuart, 97, 104, 126-129, 178 Miller, David, 157-158 Mindus, Patricia, 94-96, 98, 101, 108 Mingo, Isabella, 183, 188-189 Minucci, Sergio, 153 Minuto, Emanuela, 11, 97 Mirabeau, Honoré-Gabriel Riqueti de, 89 Mirri, Mario, 141 Mittermaier, Karl, 34, 39 Moneta, Ernesto Teodoro, 139-140, 143146, 148, 150 Montalbán, Manuel Juan, 23 Montojo Montojo, Vicente, 18 Morozov, Evgenij, 193 Morris, Penelope, 146 Moscati, Laura, 34 Mossberger, Karen, 181-183 Mowrer, Edgard, 138 Mowrer, Lilian, 138 Mualem, Mazal, 76 Mura, Eloisa, 47, 49 Muro Castillo, Alberto, 16, 26 Musella, Luigi, 138 Nadelmann, Kurt H., 40-41, 46 Napoleone Bonaparte, 35 Narayan, Uma, 98 Neckerman, Kathryn, 183 Nissim Samama, Caid, 58 Nocito, Pietro, 59 Norris, Pippa, 182 Nuzzo, Luigi, 40, 45, 49 Ojeda Mata, Maite, 32 Oldrini, Guido, 34 Oliva, Cesare, 59 Oliveira, Tiago, 188 Oliveros, Antonio, 20 Ono, Hiroshi, 183 Orwell, George, 11, 166, 168-170, 172174, 178-179 Owen, Robert, 128 Oyedemi, Toks, 189 Ozanam, Didier, 18 Padre Daniel, 68 Pagetti, Carlo, 171, 173 Paine, Thomas, 10, 94, 97, 99-108 Palazzolo, Claudio, 121-122 Palma, Luigi, 45, 48 Paoli, Baldassarre, 59 Papa, Dario, 145, 147 Papi, Lazzaro, 113 Pappafava, Vladimir, 44 Pappe, Ilan, 64 Pardo de Seixas, José María, 19 Pareto, Vilfredo, 143 Parrington, William, 100 Pascall, Gillian, 104 Patai, Daphne, 172 Pateman, Carole, 104, 175 205 Payes, Shany, 71 Peiroleri, Augusto, 59 Peled, Yoav, 65-66 Pene-Vidari, Gian Savino, 35 Pérez Sarriòn, Guillermo, 18 Pessina, Enrico, 59, 60 Pétion de Villeneuve, Jerôme, 10, 79, 82, 84, 87, 89-91, 93 Petitti di Rorero, Carlo Ilarione, 34, 119 Petricioli, Marta, 144 Petrillo, Agostino, 96 Pezzuoli, Giovanna, 167, 174 Pierantoni, Augusto, 9, 47-61, 97 Pieroni Bortolotti, Franca, 143 Pines-Paz, Ophir, 72 Pisa, Beatrice, 139-140, 143, 145 Pisanelli, Giuseppe, 38-39, 43-44 Polenghi Simonetta, 51 Polsi, Alessandro, 9, 48, 97 Poraz, Avraham, 72 Porciani, Ilaria, 50 Portalis, Jean-Étienne-Marie, 38 Portinaro, Pier Paolo, 97 Prampolini, Camillo, 143, 146, 148-149 Pratt, Hodgson, 146 Prichard, Alex, 159 Puccioni, Emilio, 59-60 Pugh, Martin, 131 Raciti, Paolo, 95 Ragaini, Claudio, 145 Rattazzi, Urbano, 34, 36 Rebérioux, Madeleine, 102 Recchi, Ettore, 101 Recio Morales, Oscar, 19, 27 Rewbell, Jean-François, 85-87, 89, 93 Ricatti, Francesco, 146 Rice, Ronald E., 183 Richardson, John, 186 Ridoli, Maurizio, 139, 147 Rigney, Daniel, 181, 185-186 Rivlin, Reuven, 74 Robespierre, Maximilien de, 82, 84-85, 87, 89, 93, 101, 109 Robinson, Laura, 186 Rocca, Leone, 36 Rocco, Nicola, 38 Rodogno, Davide, 41 Roederer, Pierre-Louis, 82, 87, 89, 93 Romagnosi, Gian Domenico, 54, 113 Romanelli, Raffaele, 111, 119 Romani, Roberto, 111 Romeo, Rosario, 110 Rosanvallon, Pierre, 80, 88, 99 Rosmini-Serbati, Antonio, 110, 117, 118 Rossi, Pellegrino, 54 Rottmann, Janko, 162 Rouhama, Nadim, 64 Rousseau, Jean-Jacques, 112, 130, 175 Rubinstein, Amnon, 68-69, 75 Rufeisen, Oswald (vedi Padre Daniel) 6869 Ruggiu, Daniele, 96 Rumi, Giorgio, 118 Russo, Vincenzio, 112-113 Sainsbury, Diane, 176 Salvadori, Massimo Luigi, 119 Salvagnoli, Vincenzo, 43 Salvatorelli, Luigi, 119 Samaddar, Ranabir, 96 Saporiti, Marcello, 38 Saredo, Giuseppe, 34 Sassi, Sinikka, 182, 185 Savigny, Friedrich Karl, 34, 38, 40 Sbarberi, Franco, 132 Sbriccoli, Mario, 56 Schmitt, Carl, 164 Schudson, Michael, 193 Scialoja, Antonio, 34, 38-39 Sclopis, Federico, 34-36 Scuccimarra, Luca, 97 Seijas Lozano, Manuel, 21-22 Selwyn, Neil, 183-184 Servaes, Jan, 189 Seymour, Mark, 146 Shafer, Steven, 183-184 Sharon, Ariel, 72 Sieyès, Emmanuel-Joseph, 79, 103 Sigismondi, Francesca Laura, 49 Silvela y Corral, Eugenio, 29 Smooha, Sammy, 63-64 Soia, Francesca, 97 Sokoloff, Naomi B., 70 Solimano, Stefano, 42-44 Speck, William Arthur, 99 206 Stein, Yael, 72-73 Storti, Claudia, 55, 57, 147 Tajani, Diego, 59 Tavoni, Maria Grazia, 50 Tawney, Richard Henry, 132-133 Taylor, Harriet, 104 Taylor, Helen, 128 Tec, Nechama, 69 Tecci, Raffaele, 33 Tedoldi, Leonida, 142 Thouret, Jacques-Guillaume, 83-84, 8990, 93 Tibi, Ahmed, 63 Tilly, Louise A., 147 Tintori, Giorgio, 96 Tolbert, Caroline J., 181-183 Tommaseo, Niccolò, 115 Tonolo, Sara, 58 Trevelyan, George Macaulay, 123 Triggiani, Ennio, 163 Trombetta, Vincenzo, 50 Truyol y Serra, Antonio, 103 Tubasi, Shadi, 72 Turati, Filippo, 147 Turcato, Davide, 147 Urbinati, Nadia, 104 Van Deursen, Alexander J.A.M., 183-186 Van Dijk, Jan A.G.M., 181, 183-186, 188 Varè, Giambattista, 59 Varela Suanzes-Carpegna, J., 26 Vattel, Emer, 37 Veca, Salvatore, 97, 166 Ventura, Montserrat, 32 Vernier, Théodore, 84 Vicente, Maria, 187-188 Villa, Tommaso, 59 Villani, Paola, 139 Villani, Pasquale, 138 Vincent, Bernard, 101-102 Vovelle, Michel, 81, 102 Wahnich, Sophie, 102 Wallerstein, Immanuel Maurice, 180 Waxman, Dov, 73 Webb, Sidney, 132-133 Wellman, Barry, 183-184 Williams, John, 152 Witte, James C., 187 Wollstonecraft, Mary, 104-107 Yakobson, Alexander, 68, 75 Yiftachel, Oren, 64 Yishai, Eli, 72 Yoaz, Yuval, 72 Yuval-Davis, Nira, 176 Zanardelli, Giuseppe, 141 Zavodny, Madeline, 183 Zecchino, Ortensio, 33 Zillien, Nicole, 186 Zolo, Danilo, 95, 151, 154 207 CITTADINANZE NELLA STORIA DELLO STATO CONTEMPORANEO Cittadinanze offre una nuova prospettiva sulla storia dello Stato, inteso aristotelicamente come l’insieme dei suoi cittadini. Il volume raccoglie dodici saggi dedicati ai possibili modi in cui la cittadinanza ha preso forma durante l’età contemporanea, analizzandone le diverse concrezioni storiche. Non una cittadinanza singola dunque, ma plurale, oggetto e insieme strumento epistemologico dalle molte declinazioni – istituzionali, teorico-politiche, giuridiche, filosofiche – qui riprese in un dialogo a più voci, attingendo a fonti inedite e innovative, variegate ma non incompatibili. Una ricostruzione condotta attraverso luoghi e tempi differenti, che vanno dalle rivoluzioni francese e americana sino all’immaterialità del digital divide, attraverso i dibattiti parlamentari e politici per l’accesso ai diritti, le diatribe sui meccanismi di inclusione e esclusione, le teorie della nazionalità e le ombre delle discriminazioni di genere, di religione, di etnia. Un esame originale che interroga le storie, le prassi e i simboli che hanno legato gli individui alle loro comunità politiche, sul filo rosso di un concetto poliedrico e controverso. Marcella Aglietti è professore ordinario in Storia delle istituzioni politiche presso l’Università di Pisa. Ha pubblicato numerosi saggi in Italia e all’estero sui temi della costruzione delle élite, sulle istituzioni rappresentative e parlamentari spagnole, sulle riforme in materia di cittadinanza e naturalizzazione in età moderna e contemporanea. Carmelo Calabrò è professore associato in Storia delle dottrine politiche presso l’Università di Pisa. I suoi interessi di ricerca si sono concentrati soprattutto sulla storia della cultura socialista nel Novecento, ed è autore di molti scritti, tra articoli, volumi e curatele, dedicati alla storia dell’idea democratica e del liberalismo. FrancoAngeli La passione per le conoscenze