punti cardinali
Pensare la differenza
Saggio su Heidegger
Davide
Penna
professore
di filosofia e
storia al liceo
“carlo amoretti”
di imperia,
dottorando
del xxxi ciclo in
filosofia presso
il consorzio fino
(filosofia del
nord-ovest).
presidente
dell’associazione
culturale “arena
petri” di genova
e curatore della
rubrica a misura
d’uomo nella
rivista on-line
nipoti di maritain.
La presente riflessione vuole portare lo sguardo al
concetto heideggeriano di differenza ontologica, avvertito come intuizione fondamentale di un pensiero che
decide di rinunciare al dominio della tecnica, ovvero al
rischio, sempre insito nell’uomo, di ipertrofizzare, per
così dire, la ragione strumentale. Il pensiero della differenza è consapevole del proprio non-tutto e, in questa esperienza del limite, vuole riscoprire la centralità
dell’umano. In particolare si vuole analizzare la differenza ontologica alla luce di due categorie (se così è lecito
definirle) elaborate da Heidegger nell’ultima fase del
suo pensiero: quella del geben che esprime l’Es gibt, l’essere pensato nella dinamica della donazione e oltre l’essente, entro cui la metafisica lo ha costretto1; e quella di
gelassenheit, termine chiave, interessante notarlo, nella
tradizione mistica, tradotto per lo più con “abbandono”,
con il quale Heidegger designa l’autentica esistenza
dell’esserci che, nel rapportarsi alle “cose”, le rispetta
nel loro dis-velarsi2. Alla luce di quanto affermato dal filosofo tedesco, la presente riflessione si soffermerà, infine, ad analizzare brevemente la dimensione del dolore
che Heidegger approfondisce nel commento ad alcune
poesie; questa realtà, che da secoli ha spinto l’uomo a
interrogarsi sul senso della realtà, può essere avvertita,
grazie anche al pensiero heideggeriano (in questo vicino alla tradizione della mistica tedesca), come esperienza fondamentale dell’autenticità, come possibilità
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del dis-velamento della differenza che, se vissuta e accolta come tale, può
raccogliere l’esserci nell’unità della radura, termine che Heidegger utilizza
per indicare il luogo dell’esperienza del vero, se così ci si può esprimere.
L’uomo non può pretendere di essere la misura del vero, di esaurire in sé la
totalità del reale; ma se si accoglie come limite, può sperimentare il reale
come approfondimento del proprio non-tutto e, in questo, di ciò che è Altro
da sé, differente, ma, per questo, occasione di inveramento. Questa esperienza fondamentale per la costituzione dell’umano, rievoca l’importanza
di una cultura dell’unità, capace di approfondire il reale nelle sue sfaccettature, non per parcellizzarsi e disperdersi nelle molteplici pieghe del reale,
ma per nutrirsi, proprio attraverso l’approfondimento della differenza, alla
sorgente dell’Uno-molteplice.
pensiero della differenza come rinuncia alla metafisica
e sguardo sul rapporto essere-ente
Non è possibile in poche battute riferire la totalità del concetto di differenza ontologica in Heidegger. Cercheremo, così, di richiamare brevemente l’ambito di pensiero cui si riferisce il termine differenza nel filosofo di
Meßkirch.
Parlare di differenza in Heidegger significa riferirsi a un pensiero sull’essere, ovvero sul senso ultimo della realtà che, per esercitarsi autenticamente, si pone al di qua della metafisica interpretata come radice di quel
pensiero rappresentativo o calcolante, base della scienza moderna e dell’atteggiamento mentale che scaturisce dalla centralità della tecnica3. Esso è
segnato dall’oblio della differenza ontologica, ovvero della differenza tra
essere ed essente. In tale dimenticanza l’essere viene appiattito sull’essente e considerato come una cosa (was) tra le altre cose, un oggetto a totale
disposizione del soggetto. In altri termini il pensiero calcolante conduce a
considerare l’essere degli enti come semplice-presenza, cosa4, qualcosa su
cui poter imporre (ge-stell) il proprio dominio, da trattare come fondo da
esaurire: «Nasce in quest’epoca un modo di porsi completamente nuovo
dell’uomo nel mondo e rispetto al mondo. Ora il mondo appare come un
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oggetto, un oggetto a cui il pensiero calcolante sferra i suoi assalti, ai quali,
si ritiene, nulla è più in grado di opporsi»5. Siamo di fronte alla costituzione onto-teo-logica della metafisica6, ad una dottrina generale dell’essere a
partire dall’ente a cui corrisponde una dottrina di dio come ente supremo,
come causa originaria, causa sui. La metafisica è un discorso sull’essere
e su dio ridotti ad ente e causa prima, ossia a ciò che è funzionale (ecco il
pensiero calcolante e rappresentativo della tecnica) all’uomo, che intende la realtà come qualcosa di totalmente modificabile dall’uomo, a sua
totale disposizione. L’idea platonica, l’enérgheia aristotelica, l’ego cogitans
di Descartes, il concetto assoluto di Hegel, fino alla volontà di potenza
di Nietzsche fanno tutti parte del cammino della metafisica occidentale
come onto-teo-logia. Qual è il nome che abbraccia questa parabola del
pensiero occidentale? Per Heidegger è il nichilismo: «Il nichilismo, pensato nella sua essenza, è piuttosto il movimento fondamentale della storia
dell’Occidente»7. E ancora: «L’essenza del nichilismo risiede nella storia,
in virtù del quale, nell’apparire stesso dell’ente come tale nel suo insieme,
ne è nulla dell’essere come tale e della sua verità; sicché, la verità dell’ente
come tale passa per l’essere, mentre è assente la verità dell’essere […], il
nihil del nichilismo significa che l’essere è tenuto per nulla. L’essere non
entra nella luce della propria essenza»8 . Ecco, allora, ciò da cui Heidegger
vuole distaccarsi e contro cui vuole reagire: la riduzione dell’essere a funzione del soggetto.
Come si pone Heidegger di fronte a questo pensiero? Quali sono le strade da intraprendere per intravvedere l’essere nella luce della propria essenza? La prima cosa da evidenziare è la funzione indispensabile, in ordine ad
una reazione contro il pensiero calcolante, che il filosofo tedesco attribuisce
al linguaggio; cifra di questo è quanto scrive nel 1955 in La questione dell’essere, una lettera a Jünger sulla possibilità del superamento del nichilismo. In
un brano Heidegger propone di scrivere la parola essere barrata da una croce e spiega: «Questa barratura a forma di croce difende dall’abitudine, quasi
inestirpabile, di rappresentare l’“essere” come qualcosa che sta di fronte a
noi (l’ob-iectum, gegenstand) e che sta per sé, e che poi talvolta si fa innanzi
all’uomo»9.
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Inoltre, percorrendo il pensiero heideggeriano si possono notare due vie
che il filosofo tedesco tenta e che non sono da contrapporre ma da considerare come accenti differenti a cui egli fa riferimento in diversi momenti
del suo itinerario speculativo. La prima strada, che potremmo definire pars
destruens, si sofferma sul carattere di necessità destinale (geschick) della
metafisica e insiste sul fatto che il sentiero da essa intrapreso sull’oblio
dell’essere debba compiersi fino in fondo prima di lasciar-spazio ad un nuovo pensiero. Riferimento significativo di questa impostazione è lo scritto Oltrepassamento della metafisica raccolto nell’opera Saggi e discorsi: «Il tramonto della verità dell’essente accade necessariamente, e precisamente come
compimento della metafisica […]. Prima che l’essere possa accadere nella
sua verità principale bisogna che l’essere sia infranto come volontà, che la
terra sia ridotta alla devastazione e l’uomo costretto a essere puro lavoro.
Solo dopo questo tramonto accadrà in un lungo tempo la durata bruscamente iniziata del cominciamento. Nel tramonto, tutto, cioè l’essente nella
totalità della verità della metafisica, viene alla sua fine»10.
Un’altra strada, più costruttiva, è costituita dal tentativo di mettersi in
ascolto autentico dell’essere per rispettarlo nella sua alterità. In questa fase,
rinvenibile negli scritti In cammino verso il linguaggio, L’abbandono, Tempo ed
essere, Heidegger intende la riflessione sulla differenza ontologica come un
«passo indietro» rispetto alla metafisica, verso il rapporto, impensato dal
pensiero rappresentativo, tra essere ed ente, verso uno spazio che il filosofo
tedesco non tarda a definire «del Sacro», «del divino», che è altro rispetto al
dio della metafisica, e che solo ci può salvare. La differenza così intesa rappresenta ciò che è degno di essere pensato, in quanto luogo della possibilità
dell’essenza della verità e del significato relazionale del negativo11.
essere come dono
Come viene pensato l’essere da Heidegger, nell’ultima fase del suo pensiero e alla luce della differenza ontologica? Non esiste un solo termine, un
solo concetto in grado di definirlo. Il filosofo tedesco più volte sottolinea
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l’incapacità del linguaggio, nell’accezione che ha acquisito con la tradizione
metafisica di strumento in pieno possesso dell’uomo e che ha come unica
funzione quella di esprimerne i moti interiori, nel suo voler definire l’essere.
Si possono tuttavia utilizzare dei richiami, delle parole che aiutano il pensiero a lasciar-spazio, ad avvicinarsi, a sostare-nella-prossimità dell’essere.
In particolare uno dei pensieri che Heidegger propone e che mi sembra di
particolare interesse, è quello che fa riferimento al dono, allo Esgibt. Da qui
muove, ad esempio, una delle più brillanti e acute interpretazioni dell’ultimo
Heidegger, quella di Jean-Luc Marion12.
La dimensione della donazione è particolarmente significativa per due
motivi: 1) Heidegger vi fa riferimento in più scritti; 2) ritiene lo Es gibt la formula che, meglio di qualsiasi altra, sfugge ad ogni tentativo di cogliere l’essere attraverso il pensiero calcolante, rappresentativo. Cerchiamo di gettare
lo sguardo brevemente sulle dinamiche essenziali coinvolte dall’orizzonte
dell’essere come donazione.
Già nello scritto Lettera sull’umanismo (1947), Heidegger aveva indirizzato la riflessione verso l’orizzonte della donazione, precisando come
«l’Es che qui gibt (dona), è lo stesso Essere. Il gibt tuttavia pensa l’essenza dell’Essere che dona, che accorda la sua verità. Il donarsi nell’aperto
con questo stesso aperto è l’Essere stesso»13. Il filosofo tedesco sottolinea
come l’espressione Es gibt, si dà, sottolinei la differenza tra ente ed essere.
C’è un ente, ovvero tutto ciò di cui viene predicato l’essere, ma c’è anche
qualcosa di più originario, l’essere appunto, che non è un semplice predicabile, ma è un darsi.
In Tempo ed essere (1962) Heidegger sviluppa questa prospettiva; egli
cerca di «cogliere il luogo dove si raccoglie e da cui scaturisce ciò che è
dato nello “Es gibt”, cosa significa “essere”, che “c’è”, “si dà” (Es gibt) […].
Quindi noi tenteremo di gettare uno sguardo in avanti fino allo Es di questo “Es gibt Sein, Es gibt Zeit” allo Es che dà essere e tempo»14. Ora, come
si delinea l’essere ascoltato nella dimensione della donazione? Heidegger
in questo senso ci dice tre cose fondamentali. 1) L’essere non è una cosa,
intendendo con ciò qualcosa a nostra totale disposizione, funzionale-a:
«L’essere non è una cosa»15. 2) L’essere è pensato come un mostrarsi nella presenza, come un lasciar-essere-presente: «Essere è essere presente,
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ostendersi dell’essere nella presenza. Pensato in riferimento a ciò che così
è presente, l’essere presente si mostra come lasciar-essere-nella-presenza, lasciar-essere-presente. […] Nel disvelare (portare all’Aperto) gioca
un dare (Geben), quello appunto che nel lasciar-essere-nella-presenza dà
l’essere presente, cioè l’essere»16. 3) Infine, l’essere si mostra in definitiva
come un dare: «L’essere, in quanto è la donazione di questo Es gibt, trova il
suo luogo proprio nel dare»17.
Se la metafisica occidentale, intesa come onto-teo-logia, ha pensato la
dinamica della donazione muovendo dall’ente, da ciò che è donato, superare questa impostazione per attingere l’essere nella sua differenza, significa
pensare «un dare (Geben), che dà (gibt) solo la sua donazione (Gabe), ma
che in questo suo darsi allo stesso tempo si trattiene in sé e si ritrae»18.
Quindi, rispettando l’essere e l’ente nella loro verità, nella loro differenza
ontologica e pensando in questo orizzonte, viene alla luce la caratteristica
propria dell’essere come un donare che donando si ritrae. Commenta Piero
Coda: «Il proprio del donare è l’abbandonare il donato a se stesso – che altrimenti non si distinguerebbe nel suo esser donato dalla donazione che lo
dona –, ritraendosi in un’assenza che non è vuoto o nulla, ma Nulla inesauribile: pienezza che si fa “Nulla nascosto” per collocare nella luce ciò che è
donato, pienezza che è origine inesauribile di ogni donato nel suo essere
ciò che è»19. Ecco un’altra dinamica implicata dall’essere come donazione:
l’essere si ritrae nel donare, si fa vuoto o nulla, che non è il nihil di significato
cui sfocia necessariamente un pensiero calcolante e rappresentativo tipico
del mondo della tecnica, ma un pieno che si fa nulla per donare tutto, per
mettere in luce totalmente il dono, il donato; in altri termini potremmo definirlo un negativo relazionale, un non in vista del per. Non si può non notare
in tutto questo una chiara convergenza col pensiero della kenosi, ripreso da
una grande tradizione filosofica (su tutti Schelling) alla luce del capitolo 2
della Lettera ai Filippesi di Paolo20. Heidegger definisce questo ostendersi di
un’assenza, «das Ereignis», l’evento, l’alétheia per il mondo antico: «Se assumessimo incessantemente quello che è stato detto come punto di leva per
la meditazione e considerassimo che questo Medesimo (l’Ereignis) non è
nulla di nuovo, ma il più antico di ciò che è antico nel pensiero occidentale:
l’antichissimo che si nasconde nel nome Alétheia»21.
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esserci come abbandono
In tutto questo quale volto assume l’esistenza autentica del Da-sein?
Quale atteggiamento profondo restituisce all’uomo un’esistenza capace
di autenticità e realizzazione? Il che equivale a chiedersi: qual è l’essenza
dell’esserci? Negli ultimi scritti, in particolare in Per indicare il luogo dell’abbandono in cui vi è un dialogo tra un maestro, un erudito e uno scienziato, Heidegger parla di gelassenheit (da ge-lassen), che traduciamo con “abbandono, abbandonarsi”, per indicare l’autentica esistenza del Da-sein alla
luce dell’Es gibt, dell’orizzonte di donazione dell’essere. Per il filosofo, che
riprende il termine dalla tradizione della mistica speculativa tedesca modificandone in parte il significato come già era stato fatto nella modernità
da Schelling, Schopenauer e Nietzsche22, l’abbandonarsi dell’esserci all’essere è il contrario della volontà di potenza, ed è l’unica via per porsi sulle
tracce dell’essere senza voler-dominare l’essente, senza annullare la differenza ontologica23. È interessante notare come, nel dialogo richiamato,
il personaggio che parla di gelassenheit sia il maestro, mentre colui che fa
fatica a inserirsi in questo orizzonte sia lo scienziato, esponente del pensiero calcolante, rappresentativo, in ultima analisi metafisico. Ecco un brano
significativo del dialogo tra l’erudito, lo scienziato e il maestro, in cui si mostra con chiarezza la natura dell’abbandono, la sua estraneità al volere e al
rappresentare e il suo essere massima attività nella massima passività: «E
[Erudito] Certo io non so ancora cosa voglia dire il termine abbandono, ma
presentisco vagamente che esso si risveglia quando il nostro essere (Wesen) è disposto (zugelassen ist) a lasciarsi ricondurre (sich einlassen) a ciò
che non è un volere. S [Scienziato] Lei parla continuamente di un “lasciare”
(Lassen), cosicché può sorgere l’impressione che con ciò s’intenda una sorta
di passività. Credo invece di sapere che, quando parla di “lasciare”, quando
parla di abbandono, Lei non intende affatto un debole lasciar correre, un
lasciar andare le cose per il loro verso (ein kraftloses Gleiten-und Treibenlassen
der Dinge). E Forse in questo lasciare, nell’abbandono (in der Gelassenheit), si
cela un senso dell’agire ancora più elevato di quello che attraversa tutte le
azioni del mondo e l’agitarsi dell’umanità… M [Maestro] un agire ancora più
elevato che però non è affatto un’attività. E Perché l’abbandono non rientra
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affatto nell’ambito della volontà. S Passare dalla volontà all’abbandono mi
sembra la cosa più difficile. […] S Debbo dire però che, se mi è chiaro per
molti versi ciò che il termine abbandono non vuol dire, nello stesso tempo
so sempre meno di cosa stiamo parlando. Cerchiamo infatti di determinare
l’essenza del pensare: ora, cos’ha a che fare l’abbandono con il pensare? M
Nulla, se intendiamo il pensare in senso tradizionale, come rappresentare.
Ma forse l’essenza del pensare, il solo ed autentico scopo della nostra ricerca, è ricondotta all’abbandono. S Con tutta la mia buona volontà non riesco
a rappresentarmi questa essenza del pensare. M Perché glielo impediscono
proprio la sua buona volontà e quel modo di pensare che è il rappresentare.
S Allora cosa debbo mai fare? M Non dobbiamo fare nulla, soltanto restare in
attesa (warten)»24.
L’atteggiamento autentico che l’esserci deve assumere per porsi in rapporto alla verità dell’Essere, alla scaturigine del pensiero, prima di ogni pensato, è l’affidarsi-a, che si manifesta in un attendere. L’essenza dell’esserci si
mostra in pienezza quando è insistenza nell’abbandonarsi al Sein. Tutto questo è la radicale negazione della volontà di potenza, del pensiero rappresentativo che vuole impadronirsi dell’essere, obliandolo. Commenta Angelino:
«La Gelassenheit è la via che conduce il mortale sulle tracce dell’Essere, è il
cammino che porta la più universale delle forme del sapere prodotte dall’uomo, la filosofia, ad abbandonare la propria luciferina volontà di dominio della
realtà, per portarsi sulle soglie della Differenza, al di là della quale si apre la
contrada25 non mortale dell’Essere; la Gelassenheit è infine la guida che riporta il filosofo all’Origine, cioè a quella dimensione del Religioso che la metafisica nella sua storia ha preteso ora di cancellare, sostituendosi ad essa, ora di
dominare, riconducendola a sé come al suo fondamento»26. Porsi sul prolungamento dell’Essere che dona abbandonando è restare in attesa, fuggire la
rappresentazione, sostare nella prossimità, abbandonarsi al Sein.
Ma, andando oltre Heidegger e approfondendo le sue intuizioni, si può
anche affermare come questo abbandonarsi sia frutto, in qualche modo, di
una comunione, sperimentata con l’Altro, della differenza. Non c’è abbandono (nel senso transitivo e intransitivo del termine) che non sia il frutto di
un’esperienza di unità e che non si trasformi in profonda ricerca dell’Altro,
rispettato nella sua alterità, ma desiderato in quanto meta dell’esserci. Ecco
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l’esperienza che muove l’anima alla ricerca autentica: l’assenza e l’abbandono dell’Altro. In questa accezione assenza non significa semplicemente mancanza di un presente, ma uscita, esodo di esso. L’assenza si sperimenta se, e
solo se, il presente, in qualche modo, è stato oggetto di fruizione, non se non
c’è mai stato. In altri termini, l’esperienza autentica dell’assenza rimanda a,
testimonia una presenza fruita, non un’illusione o il vuoto27.
il dolore che contempla come via all’autenticità
Abbiamo visto come per Heidegger l’esistenza sia autentica quando si
rapporta all’Essere nell’abbandono. Mi sembra significativo sottolineare
come, da alcune pagine del filosofo tedesco, si sottolinei la forza del dolore
nel guidare l’esistenza all’abbandono e, dunque, all’autenticità. Questa volta
lo scritto significativo è la raccolta di conferenze che va sotto il nome di In
cammino verso il linguaggio (1959), in particolare lo scritto Q. Nella conferenza del 1950, Il linguaggio, Heidegger commenta la poesia di George Trakl,
Una sera d’inverno, nel tentativo di cogliere l’essenza del linguaggio, rifuggendo la concezione metafisica che ha ridotto questo a mero strumento
dell’uomo.
Nella poesia il verso che menziona il dolore recita così: «Il dolore ha pietrificato la soglia». Il filosofo tedesco spiega come la soglia sia «l’impalcatura
che regge il complesso della porta. Essa costituisce il punto nel quale i Due,
l’esterno e l’interno, trapassano l’uno nell’altro. La soglia regge il frammezzo»28. In questo frammezzo, in questo ponte tra interno ed esterno, ecco il
dolore che pietrifica. Capiremo meglio che cosa vuole dire il filosofo tedesco,
rifacendoci alla concezione del dolore che poco dopo riporta: «Il dolore spezza. È lo spezzamento. Ma esso non schianta in schegge dirompenti in tutte le
direzioni. Il dolore, sì, spezza, divide, però in modo che anche tutto insieme
attira a sé, raccoglie in sé. Il suo spezzare, in quanto dividere che riunisce,
è al tempo stesso quel trascinare, teso in opposte direzioni, che diversifica
e congiunge nello spezzamento che divide e aduna. […] Il dolore è la connessura dello strappo»29. Il dolore, nell’esistenza, è la manifestazione della
differenza ontologica perché spezza, apre e in questo ferire riporta al centro,
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unifica, laddove può splendere la luce della differenza al pensiero che insiste
nell’attesa: «Dove splende la pura luce? Sulla soglia, nel dolore che fonda e
compone. È la cesura della dif-ferenza che fa risplendere la pura luce»30.
Un’altra suggestiva pagina la possiamo trovare nella conferenza Il linguaggio nella poesia (1953), in cui Heidegger commenta diverse altre poesie di Trakl; queste pagine ci avvicinano ancora di più alla realtà del dolore
come manifestazione della differenza ontologica, e quindi possibilità di
autenticità.
Questa volta la poesia scelta è Il temporale e il verso su cui si sofferma Heidegger nella sua meditazione sul dolore è il seguente: «O dolore, tu
fiammeggiante contemplare/ della grande anima!». Commenta Heidegger:
“Fiammeggiando” il dolore strappa via. Il suo strappo inscrive l’anima peregrinante nel contesto del turbine che, dando l’assalto al
cielo, vorrebbe conquistare Dio. Sembra così che lo strappo debba
sopraffare ciò verso cui trascina, anziché lasciarlo regnare nella sua
luminosità occultante. Di questo però è capace il “contemplare”. Il
contemplare non estingue la fiamma dell’impeto che trascina via,
ma quell’impeto riporta e compone alla e nella docilità di una contemplazione che è accettazione. La contemplazione è, nel dolore,
lo strappo in senso inverso, quello in virtù del quale esso dolore
raggiunge la sua mitezza e da questa trae il suo potere di disvelamento e di guida. […] Bisogna aggiungere: solo nel dolore è verace
[l’anima], poiché è in forza del contrasto intrinseco al dolore che il
vivente può discoprire, nel modo della sua singolarità, quel che gli è
compagno nella presenza, lasciandone insieme inviolato il segreto:
rispettarlo nella sua verità31.
Qui è chiamato in causa il dolore che contempla; esso è come animato
da due forze: una, quella del dolore che trascina e cerca di im-possessarsi
del cielo, di dare l’assalto al mistero che la differenza ha dischiuso; l’altra,
quella della contemplazione, che non estingue la forza dell’epifania della
differenza ontologica, ma, al tempo stesso, lascia-essere l’altro, accetta la
differenza. Il dolore vissuto nell’accettazione che apre, vissuto come ferita
che attende è capace di verità, anzi è la radice stessa della capacità di verità.
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Questa intensa riflessione heideggeriana richiama alla mente la meditazione della tradizione mistica intorno alla passione e, ancor di più, al grido di
abbandono del Cristo sulla croce, «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?», che tanto ha interessato la teologia della croce luterana e, prima,
la mistica tedesca, nota a Heidegger attraverso Schelling e Böhme. La suggestiva proposta di affinità di temi tra due filoni di pensiero molto lontani,
nel tempo e nella sensibilità, non vuole essere una ricostruzione storica o
una pretesa connessione tutta da verificare; vuole soltanto suggerire una
consonanza teoretica che esprime un’intuizione fondamentale del pensiero.
Anche il grido di Cristo, visto in questa dimensione autenticante dell’insistenza-nell’attesa, si rivela molto più profondo e dis-velante di un “semplice” grido di disperazione. È quasi un contemplare che non toglie ma invera
la fiamma dell’impeto, per riprendere le parole di Heidegger e Schelling, e
che chiede conto dell’assurda realtà dello schiacciamento violento dell’innocente; questo contemplare impetuoso che non dà assalto al cielo scaturisce
da un “affidarsi” a una promessa di verità già sperimentata, ovvero è sintesi
feconda di impeto e accettazione, secondo le parole di Heidegger sopra richiamate, di attività e passività, di un agire plasmato dal lasciare-essere che
ha sostato nell’ascolto dell’Altro.
Cf. M. Heidegger, Tempo ed essere (trad. it. di E. Mazzarella), Guida Editori,
Napoli 1980, p. 126: «Pensare l’essere senza l’essente, significa: pensare l’essere
senza riguardo alla metafisica».
2
Per la traduzione del termine gelassenheit, cf. M. Heidegger, L’abbandono (introduzione di C. Angelino, trad. it. e note di A. Fabris), Il Melangolo, Genova 2012. In
particolare cf. nota 3, p. 84.
3
Sottolinea il filosofo tedesco nell’opera Oltrepassamento della metafisica: «L’epoca della metafisica compiuta sta per cominciare. La volontà di volontà impone a
forza come forme fondamentali del proprio manifestarsi il calcolo e l’organizzazione
totale (die Einrichtung von Allem) […]. La forma fondamentale di manifestazione sotto la quale la volontà di volontà si installa e si realizza calcolando nel mondo della
metafisica compiuta si può chiamare in una sola parola la “tecnica”. […] Il termine
“la tecnica” è qui inteso in modo così essenziale che il suo significato si identifica
1
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con quello di “metafisica compiuta”». M. Heidegger, Oltrepassamento della metafisica, in Id., Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, p. 52.
4
Rinvengo la fonte di questa visione nella critica di Schelling a Spinoza nello
scritto del 1809 Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana. Scrive il filosofo
tedesco: «L’errore del suo [di Spinoza] sistema non consiste nel fatto che egli pone
le cose in Dio, ma nel fatto che esse sono cose, nella sua concezione astratta degli
esseri del mondo, anzi della stessa infinita sostanza, che appunto non è per lui che
una cosa. […] Egli tratta anche la volontà come una cosa, e dimostra per via perfettamente naturale, che per ogni decisione ad agire essa deve venir determinata
da un’altra cosa, la quale è a sua volta determinata da un’altra, e così via all’infinito.
Di qui l’assenza di vita del suo sistema, l’aridità della forma, la povertà dei concetti
e delle espressioni, la spietata rigidezza delle determinazioni, che ottimamente si
accorda con la sua astratta maniera di pensare; di qui anche per conseguenza la sua
veduta meccanica della natura». F.W.J. Schelling, Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana, in Id., Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, a cura di L. Pareyson,
Mursia, Milano 1990, p. 90.
5
M. Heidegger, L’abbandono (trad. it. A. Fabris), Il Melangolo, Genova 2012, p. 37.
6
M. Heidegger dedica una sezione dell’opera del 1957, Identità e differenza, a
questo concetto. Interessante notare come questa parte sia la ripresentazione di
una trattazione che aveva concluso un seminario tenuto da Heidegger nel semestre
invernale ’56-’57. Tale riflessione riguardava la Scienza della Logica di Hegel, laddove
il filosofo idealista trattava della genesi del pensiero e della filosofia. È nel tentativo
di ripensare l’origine del pensare per attingere a un essere, o meglio, a una par-usia
(presenza) che è altra e allo stesso tempo si consegna al mio pensare, che va rinvenuto il da-dove teoretico che accomuna le intuizioni idealiste di Schelling e Hegel e
la riflessione heideggeriana intorno alla differenza ontologica.
7
M. Heidegger, La sentenza di Nietzsche: “Dio è morto”, in Id., Sentieri interrotti, a
cura di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 200.
8
Ibid., pp. 242-243.
9
M. Heidegger, La questione dell’essere, in Id., Segnavia, a cura di F. Volpi,
Adelphi, Milano 1987, p. 359.
10
M. Heidegger, Oltrepassamento della metafisica, cit., pp. 46-47.
11
Nella premessa alla terza edizione di L’essenza del fondamento (1949), Heidegger paragonando questo scritto a Che cos’è metafisica?, e per rimarcare il significato
essenziale della differenza e relazionale del negativo, così scrive: «Questa [Che cos’è
metafisica?] riflette sul niente, quello [L’essenza del fondamento] nomina la differenza
ontologica. Il niente è il “non” dell’ente, quindi l’essere esperito a partire dall’ente.
La differenza ontologica è il “non” tra ente ed essere. Ma, allo stesso modo in cui
l’essere come “non” relativo all’ente non è un niente nel senso del nihil negativum,
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così la differenza, come “non” tra ente ed essere, non è il semplice prodotto di una
distinzione dell’intelletto. Quel nientificante “non” del niente e questo nientificante
“non” della differenza, pur non essendo identici, sono la stessa cosa nel senso di
ciò che assieme rientra nell’essenzialità dell’essere dell’ente. Questa stessa cosa è
ciò che è degno di essere pensato». M. Heidegger, L’essenza del fondamento, in Id.,
Segnavia, cit., p. 79.
12
Egli scrive nell’opera L’idole et la distance: «Resta da prendere sul serio la ripresa cui proprio Heidegger, alla fine, aveva sottoposto (in Zeit und Sein) la differenza,
comprendendola a partire dalla donazione (anonima?) del dono». Cf. J.-L. Marion,
L’idolo e la distanza (trad. it. di A. Dall’Asta), Jaca Book, Milano 1979, p. 6.
13
M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano
1995, p. 97.
14
M. Heidegger, Tempo ed essere, cit., pp. 101 -102.
15
Ibid., p. 100.
16
Ibid., p. 102.
17
Ibid., p. 103.
18
Ibid., p. 106.
19
P. Coda, Gesù crocifisso e abbandonato e la Trinità. V. Dono e abbandono: sulle
tracce dell’essere heideggeriano, in «Nuova Umanità», 34-35 (1984/4-5), p. 34.
20
Cf. Fil 2, 5-8: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù
il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso (ekénosen) assumendo la condizione di servo e
divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso (etapeínosen)
facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce». A proposito del pensiero della kenosi nella filosofia di Schelling cf. F. Tomatis, Kenosis del logos: Ragione
e rivelazione nell’ultimo Schelling, Città Nuova, Roma 1994. Circa l’influenza della riflessione schellinghiana, ma anche della poesia di Hölderlin, sul pensiero di Heidegger, in riferimento alla kenosi, cf. H.U. von Balthasar, Nello spazio della metafisica, in
Id., Gloria, vol. 5 (trad. it. di G. Sommavilla), Jaca Book, Milano 1978.
21
M. Heidegger, Tempo ed essere, cit., p. 125.
22
Per un’introduzione a una storia del termine, dalla mistica speculativa di
Eckhart all’idealismo di Schelling attraverso il pensiero di Böhme, fino ad Heidegger,
cf. la nota 3 di Fabris in M. Heidegger, L’abbandono, cit., pp. 84-87. Cf. anche H.U.
von Balthasar, Nello spazio della metafisica, cit., in particolare, sul termine gelassenheit nella mistica di Taulero e Susone, pp. 57 -69.
23
Sottolinea Fabris: «Heidegger riconduce Gelassenheit alla sua radice, il verbo lassen, e contrappone questo e tutti i composti che il suo attento ascolto della
lingua riesce ad enucleare, all’ambito concettuale di wollen. Se il “volere” si ricollega alla dimensione della soggettività rappresentativa che domina l’età moderna,
nuova umanità 227
99
punti cardinali
Pensare la differenza. Saggio su Heidegger
il “lasciare” invece allude ad un rapporto con le cose che le rispetta nel loro disvelarsi». M. Heidegger, L’abbandono, cit., p. 86.
24
M. Heidegger, Per indicare il luogo dell’abbandono, in Id. L’abbandono, cit., pp. 54 -55
(corsivo mio).
25
Contrada è un termine centrale nell’ultimo Heidegger (che spesso usa la forma arcaica di “contrata”), ed è la radura, lo spazio, in cui si dà l’incontro tra Essere
ed ente. Significativo il fatto che il rappresentare, azione tipica del pensiero calcolante, non riesca a cogliere la realtà di questi concetti. Così dice lo scienziato al maestro: «Debbo confessare che tutto ciò che lei ha detto sulla contrada, la vastità e la
permanenza, sul rivolgersi e sull’acquietarsi, non riesco bene a rappresentarmelo».
A cui seguono le risposte dell’erudito: «Non bisogna affatto rappresentarlo, perché,
così facendo, tutte le cose che ci vengono incontro all’interno di un orizzonte sarebbero già considerate degli oggetti. […] Se restiamo in attesa, invece, tralasciamo
tutto questo, o meglio: l’attesa non si lascia affatto ricondurre alla rappresentazione. L’attesa in realtà non ha alcun oggetto. […] Non appena ci rappresentiamo o ci
facciamo un’idea di qualcosa, già non siamo più in attesa». Ibid., p. 60.
26
C. Angelino, Il Religioso nel pensiero di Martin Heidegger, in M. Heidegger, L’abbandono, cit., p. 24.
27
In questo senso il filone della teologia monastica medievale ha scritto pagine
importanti. Basti pensare a un autore come Guglielmo di Saint-Thierry, il quale definisce la ricerca autentica di Dio, quella che nasce dalla comunione d’amore in Cristo,
come desiderium absentis: «Dunque la Sposa una volta introdotta nelle dispense ha
imparato (didicit) molto sullo Sposo, e molto su se stessa. Lì appena si è avvicinata
allo Sposo le è stato dato tutto. […] Ma poi le è toccata un’azione purificatrice per
metterla alla prova […]. Infatti lo Sposo è uscito e se ne è andato, e lei ferita d’amore arde dal desiderio dell’assente (desiderio absentis)». Guglielmo di Saint-Thierry,
Commento al Cantico dei Cantici, 21, (trad. it. di M. Spinelli), Città Nuova, Roma 2002,
p. 63. Per un approfondimento dell’argomento mi permetto di rinviare a D. Penna,
«Amor ipse intellectus est». Amore di Dio e conoscenza in Guglielmo di Saint-Thierry,
in Atti del Convegno di ontologia trinitaria, Università Vita-Salute San Raffaele, 28-30
aprile, Feeria, Firenze 2015.
28
M. Heidegger, Il linguaggio, in Id., In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 2007, p. 38.
29
Ibid., p. 39.
30
Ibid., (corsivo mio).
31
M. Heidegger, Il linguaggio nella poesia, in Id., In cammino verso il linguaggio,
cit., pp. 64-65.
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