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Parole, gesti e gestacci del razzismo nello sport

Live, Love, Refugee. «Through this project, I was able to rediscover my story through their stories. I'm a Syrian refuge myself, and we are making one team.» © Omar Imam BIBLIOGRAFIA P. Bourdieu, Program for a Sociology of Sport, in «The Sociology of Sport Journal», V, n. 2, 1998, 153-161 Commissione europea, Libro Bianco sullo sport, 2007, disponibile al sito: http://ec.europa.eu/sport/index_en.html P. Donati, Riconoscersi con la ragione relazionale, in «Atlantide. Un mondo che fa parlare altri mondi», n. 14, 2008, pp. 59-64 V. Cesareo (ed.), The New scenario of Migrations, in Fondazione ISMU FrancoAngeli, Milano 2015 UNHCR, Syria Regional Refugee Response, 2015, reperibile al sito: http:// data.unhcr.org/syrianrefugees/regional.php F. Xavier Medina, Deporte, immigraçión, e interculturalidad, in «Apunts», Deporte e immigraçión, Generalitat de Cataluniya, INEFC, n. 68, 2002, pp. 18-23 D. Zoletto, Il gioco duro dell'integrazione. L'intercultura sui campi da gioco, Cortina, Milano 2010 NOTE 1 -Nella misura in cui pone l'accento sulla «semantica relazionale, secondo la quale le differenze (anche quelle culturali) sono modi diversi di formare la nostra identità che si basano su relazioni le quali si formano non per opposizione o esclusione dell'altro, ma attraverso circuiti di dono e quindi di riconoscimento reciproco» (Donati 2008, p. 62).

A frica e Mediterraneo C U L T U R A E S O C I Pubbl. Semestrale n. 1/16 (84) luglio 2016 - Edizioni Lai-momo, Bologna- Poste It. Spa, sped. in abb. post. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, c. 1 DCB-BO n. 84 | Sport e immigrazione E T À DOSSIER La cittadinanza sportiva in Italia: mito o realtà? Beyond Intolerance through Sports Sport et immigration. Changements sociaux et pratiques d’intégration en Europe Stelle nere, calcio bianco. Calcio, capitale e razzismo nell’Italia contemporanea rica Mediterraneo Cultura e Seguici su Facebook www.facebook.com/rivista.africaemediterraneo Società Abbonamento a 2 numeri consecutivi con in omaggio un volume delle edizioni Lai-momo Annuale (privati) Annuale (enti) Annuale biennale (enti) Estero Numero arretrato euro 40 euro 50 euro 80 euro 75 euro 22 Sono a disposizione 83 numeri arretrati (alcuni dei quali in fotocopia) È possibile abbonarsi online ad Africa e Mediterraneo sul sito www.laimomo.it Versare la quota di abbonamento con assegno bancario o sul c/c post. 26365403 specificando i propri dati a: È online il nuovo sito Il sito dell’associazione Africa e Mediterraneo è online con una nuova veste grafica. Iscriviti alla newsletter per essere aggiornato sulle nostre attività! www.africaemediterraneo.it cares! La nostra città fa la sua parte bologna Questo numero della rivista è stato co-finanziato nell’ambito di Bologna cares!, la campagna di comunicazione curata da Lai-momo all’interno del progetto SPRAR - Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati del Comune di Bologna realizzato da: SPRAR Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati Africa e Mediterraneo Via Gamberi, 4 40037 Sasso Marconi (Bologna) Info: tel. + 39 051 840166 fax + 39 051 6790117 www.africaemediterraneo.it Per gli abbonati Ai sensi dell’Art. 10 L.675/96 si comunica agli abbonati che i dati da loro forniti all’atto della sottoscrizione sono contenuti in un archivio idoneo a garantire la sicurezza e la riservatezza. Tali dati saranno utilizzati, salvo divieto espresso per iscritto dagli interessati, oltre che per rispetto delle norme contrattuali di abbonamento, per le proprie attività istituzionali ivi comprese la comunicazione, l’informazione e la promozione, nonché per eseguire obblighi di legge. E Ar D Fi Si DOSSIER E Editoriale. La posta in gioco: sport e attività fisica risorse per una “società delle culture” š di Giovanna Russo L’ Italia da alcuni decenni è territorio di frontiera per le migrazioni: il continuo flusso di persone di origini differenti delinea ormai il Bel Paese come una “società delle culture” in itinere, in un quadro di mobilità europea e nazionale di non facile gestione. Nel contesto europeo il ruolo dell’Italia è però soprattutto quello di “Paese di transito” per i flussi migratori (UNHCR 2015): come emerge dal 21° Rapporto sulle Migrazioni ISMU è plausibile pensare che il fenomeno migratorio in Italia sia in continua trasformazione, tanto da poter parlare di un nuovo ciclo le cui dinamiche sono principalmente collegate alle trasformazioni geopolitiche e ai conflitti dei Paesi del Medio Oriente e dell’Africa sub-sahariana e, sul fronte domestico, all’impatto della crisi economica sul mercato del lavoro italiano. Tale scenario, complesso e diversificato, è frutto delle seguenti motivazioni: notevole incremento dei flussi migratori; forte riduzione delle persone che entrano nel Paese per cercare lavoro; consolidamento delle unità familiari; aumento complessivo dell’emigrazione dall’Italia; presenza significativa dei migranti provenienti dai nuovi Paesi dell’Unione europea in Italia (Cesareo 2016, p. IX). In un quadro così delineato, l’Italia sta cambiando volto: con 5.014.000 stranieri residenti che rappresentano l’8,2% dei suoi abitanti, oggi è al secondo posto, assieme al Regno Unito (5 milioni) e dopo la Germania (7 milioni), tra i Paesi che in Europa ospitano il maggior numero assoluto di immigrati (Centro studi e ricerche Idos 2015). Le ragioni che sostengono i flussi migratori riguardano nello specifico motivi di lavoro (52,5%), di famiglia (34,1%), e dal 2014 anche richieste di asilo (7%), che rispetto agli anni precedenti hanno sopravanzato il motivo dello studio. Ma la questione migratoria non è importante solo per la sua dimensione numerica e strutturale: la rilevanza degli aspetti socio-culturali è di primario interesse ai fini dell’integrazione sociale degli immigrati, costituendo una risorsa e una sfida per il Paese ospitante (Martelli 2015). Si tratta infatti di un fenomeno problematico, da indagare in profondità con approcci multidimensionali in grado di fare luce sugli immigrati quali nuovi attori della società civile globale. Se è vero quindi che studiare l’integrazione è oggi una questione ineludibile, ciò avviene in virtù non solo di una migliore conoscenza delle dinamiche d’interazione con l’economia, 1 E Ar DEDITORIALE Fi Si S è infatti il tipo di identità che si riesce e a costruire a partire ma soprattutto delle politiche territoriali di inclusione sodalle posizioni sociali disponibili nelle diverse realtà» (Zoletto ciale e culturale volte al benessere delle comunità locali e 2010, p. 45). Il gioco dell’integrazione è dunque una partita dei suoi protagonisti. – una battaglia? – nella quale si tenta di superare un confine, Con una prospettiva che privilegia il punto di vista dell’altro e colmare una differenza fra un “noi” e un “loro”, capovolgere aperta alla scoperta, questo dossier intende esplorare le prauno stigma, oltrepassare le discriminazioni. Lo sport è infatti tiche socio-culturali che informano il quotidiano dei migranti un campo culturale nel quale, come ha affermato Pierre Bournel Paese di accoglienza facendo attenzione ai legami sociali dieu (1998), si affrontano attori con interessi specifici legati che si creano e si rigenerano nel tempo libero. L’occasione alla posizione che occupano nello spazio sociale: un campo di è quindi utile per riflettere su uno spazio sociale innovativo, competizione, il cui traguardo oggi si trasforma in un segno di come lo sport, adatto a osservare le occasioni di incontro fra convivenza civile. Lo sport e l’attività fisica sono infatti «capaautoctoni e immigrati per le sue capacità di generare capitale ci di integrare, di convertire simbolicamente “quelli di fuori” sociale, favorendo – o contrastando – l’integrazione (ibidem, in “quelli di dentro” […] strumenti capaci di dare identità, di p. 216). Lo sport offre infatti straordinarie possibilità di conogenerare identificazione negli individui […] di renderli parscenza, di incontro tra culture, di contaminazione di pratiche tecipi, anche simbolicamente, di una stessa realtà, di condisportive “socialmente responsabili”. In quest’ottica può esvidere, di sentirsi sere inteso come parte di qualcosa veicolo di valori di comune: in depositivi, esercifinitiva di convivezio di civiltà e di re» (Xavier Mediumanità, arena na 2002, p. 22). di socializzazione ma anche di eduI contributi mulcazione e apertutidisciplinari qui ra all’“altro diverpresentati ruoso da me”. tano attorno a Sui rapporti fra questo focus illusport e integrastrando, da diffezione dei mirenti punti di vigranti l’impegno sta, come lo sport delle politiche e possa essere un dei progetti euluogo generativo ropei è da tempo di intercultura o, evidente: il Libro all’opposto, uno bianco (2007) afspazio di discriferma esplicitaminazione e/o di mente che sport e r ivendic azione attività fisica sono culturale. L’instrumenti di intento è di andare Live, Love, Refugee. «Through this project, I was able to rediscover my story through their stories. I’m a Syrian refuge myself, and we are making one team.» © Omar Imam clusione sociale, oltre gli stereotidi partecipazione pi, i luoghi comucivile, di socializni, i paradossi e zazione, di interazione positiva fra i migranti e i membri delle le ambiguità che la realtà migratoria e le sue pratiche sociali società che li accolgono. Le evidenze empiriche a sostegno di pongono quotidianamente alla riflessione contemporanea. tali tesi però sono ancora piuttosto scarse, almeno nel nostro In questa cornice teorica si sviluppano i primi tre saggi: Paese. Ciononostante, allo sport e all’attività fisica da tempo Siebetcheu espone la questione della cittadinanza sportisi riconoscono le funzioni di cartina al tornasole capace di va in Italia come sviluppo di una cultura civica necessaria illustrare i meccanismi su cui si basa una società, di fattore a costruire uno stile di vita in assenza di pregiudizi presendi civilizzazione e globalizzazione della modernità (Martelli, tando i dati di una ricerca qualitativa sulla pratica calcistica Porro 2015), di linguaggio comune e universale atto a favorire svolta da richiedenti asilo; Bottoni, Masullo, Mangone l’integrazione sociale del “diverso”. illustrano invece i dati inediti di una ricerca quantitativa Dunque, oltre le possibili ideologie, qual è la posta sui campi sullo sport come strumento di inclusione per gli stranieri da gioco? Lo spazio sociale dello sport rivela oggi una complesallo scopo di indagare il grado di diffusione/accettazione sità che rimanda a segni, pratiche, linguaggi, immagini diffedegli stereotipi della diversità fra gli adolescenti della regiorenti di un contesto che si pone il difficile obiettivo dell’interne Campania. Con uno sguardo oltre i confini nazionali, lo culturalità1 e che, di fatto, è alla continua ricerca di identità. sport è discusso nelle vesti di strumento d’integrazione nelCredo sia questa la scommessa che si vive sui campi da calcio, le politiche europee nell’intervista al sociologo dello sport da basket, da cricket… Negli stadi, nelle palestre, negli spazi W. Gasparini (Russo), svelando le potenzialità e i paradospubblici dove si pratica attività fisica e/o sportiva, in realtà si si del modello di integrazione francese messo a confronto giocano soprattutto «partite per l’identità. La posta in gioco con le esperienze sportive di Italia, Germania e Inghilterra. 2 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP EDITORIALE I contributi successivi si concentrano sul calcio – the beautiful game – ambito privilegiato per indagare dinamiche di un mercato globale in grado di replicare le strutture sociali e le difficoltà di integrazione dei suoi protagonisti “etnici”. L’analisi di Pedretti esplora le strategie impiegate dall’industria del calcio nella costruzione di brand progressisti, di fatto lontani dalle logiche eurocentriche delle strutture di potere che governano i campi da gioco e dai fenomeni di razzismo che li abitano; mentre il caso dei Black italians (Caccamo) evidenzia la difficile affermazione degli atleti stranieri in Italia, tra percorsi di etichettamento e un lento processo di riconoscimento dell’italianità. Su questa scia, il contributo di Kyeremeh propone un’analisi di genere del mondo sportivo, illustrando il difficile cammino di affermazione delle atlete black a livello agonistico e dilettantistico. Il corpo femminile nello sport diviene così terreno di lotta, di contestazione e di affermazione di un’identità continuamente rinegoziata, fra percorsi di inclusione sociale e di discriminazione. L’approccio di analisi “intersezionale”, volto a evidenziare la multidimensionalità vissuta dai soggetti marginalizzati, si rivela utile finestra di osservazione capace di fare emergere la funzione di mobilità sociale dello sport non solo per le atlete nere, ma per tutte le persone migranti che risiedono in Italia. In linea di continuità, il saggio di Bifulco e Del Guercio presenta il caso dell’Afro-Napoli United, associazione sportiva nata con l’intento di creare una squadra di calcio amatoriale “melting pot”, spazio di incontro per atleti immigrati e italiani, osservando nei vari aspetti della vita degli atleti migranti come l’esperienza calcistica risulti positiva e propedeutica all’inserimento sociale nei Paesi ospitanti e utile anche alla costruzione di un sentimento di appartenenza. Un aspetto poco indagato emerge invece nel contributo di Berthoud, il quale – con taglio etnografico – analizza l’influenza delle strutture familiari nei percorsi dei calciatori migranti camerunesi (pre e post carriera) rilasciando un’immagine dei giocatori africani come “vittime” di un sistema di parentela nel quale prevale la dimensione della “sopravvivenza” collettiva a quella del singolo individuo. I termini di parentela, così come le singole carriere degli atleti, appaiono dunque integrati in un unico sistema che obbedisce a leggi universali, agendo anche a livello inconscio. Nel segno dell’happening Martone illustra la manifestazione ventennale dei Mondiali antirazzisti, nella quale lo “sport per tutti” emerge come “bene relazionale” capace di produrre a livello di gruppo un forte senso di appartenenza fra i membri coinvolti. In quest’ottica viene descritta l’esperienza performativa e mediatica nella quale migranti (tra i quali negli ultimi anni sono presenti diverse squadre di richiedenti asilo) e ultras, attori sociali solitamente all’opposto sulla scena sportiva, coesistono all’insegna di un unico obiettivo di convivenza civile. Ulteriori testimonianze della valenza sociale, inclusiva della pratica sportiva – o al contrario del suo potere discriminante – emergono dagli interventi a chiusura del dossier: dalla storia di “Musta”, campione di arti marziali la cui ascesa è simbolo del legame fra Italia e Marocco (Bini, Bondi), all’evoluzione del lessico del calcio in swahili a testimonianza delle interferenze e dei mutamenti semantici che il gioco più bello del mondo è capace di veicolare (Sidraschi). Il E E Ar D calcio è inoltre teatro “atteso” dai media per la narrazione di episodi di razzismo attraverso parole, gesti e gestacci di un linguaggio ormai universale (Germano); oppure vero campo di battaglia, nei Mondiali del 1998, per l’indipendenza della nazionale croata nel racconto del documentario Vatreni (Valle Baroz). La dimensione politica dello sport emerge, infine, sia nella storica partita della Rugby World Cup del 1995, episodio spettacolare della storia sudafricana, momento epico di un difficile processo di unificazione non ancora concluso (Paci), sia nell’analisi della presenza dei Paesi africani alle Olimpiadi nel corso del ’900, rivelando un percorso costellato da boicottaggi internazionali e molteplici difficoltà proprie di questo continente (Armillotta). In questi ultimi mesi in cui, a fronte della crescente presenza di richiedenti asilo ospiti nei centri di accoglienza dei territori, la società italiana si confronta in maniera inedita con persone di origini culturali differenti e percorsi di vita particolarmente difficili, osservare le relazioni fra sport e immigrazione significa cogliere l’importanza e la multidimensionalità che le pratiche motorie possono mettere in gioco all’interno delle culture e delle società contemporanee. Alla base vi è un pregio indiscutibile: lo sforzo di far “cambiare la pelle alla cultura”, laddove lo studio dello sport e dell’attività fisica si fa portavoce di nuove istanze sociali per fornire risposte concrete a una differente domanda di qualità della vita per autoctoni e immigrati. BIBLIOGRAFIA P. Bourdieu, Program for a Sociology of Sport, in «The Sociology of Sport Journal», V, n. 2, 1998, 153-161 Commissione europea, Libro Bianco sullo sport, 2007, disponibile al sito: http://ec.europa.eu/sport/index_en.html P. Donati, Riconoscersi con la ragione relazionale, in «Atlantide. Un mondo che fa parlare altri mondi», n. 14, 2008, pp. 59-64 V. Cesareo (ed.), The New scenario of Migrations, in Fondazione ISMU The Twenty- first Italian Report on Migrations 2015, McGraw-Hill Education, Milan-London 2016, pp. IX-XXIX Centro studi e ricerche IDOS, Dossier statistico 2015, IDOS, Roma 2015 ISTAT, Rapporto del Paese 2016, ISTAT, Roma 2016 S. Martelli, Religions and sports: are they resources for the integration of immigrants in the host society?, in «Italian Journal of Sociology of Education», a. 7; n. 3, 2015, pp. 215-238 S. Martelli, N. Porro, Manuale di Sociologia dello sport e dell’attività fisica, FrancoAngeli, Milano 2015 UNHCR, Syria Regional Refugee Response, 2015, reperibile al sito: http:// data.unhcr.org/syrianrefugees/regional.php F. Xavier Medina, Deporte, immigraçión, e interculturalidad, in «Apunts», Deporte e immigraçión, Generalitat de Cataluniya, INEFC, n. 68, 2002, pp. 18-23 D. Zoletto, Il gioco duro dell’integrazione. L’intercultura sui campi da gioco, Cortina, Milano 2010 NOTE 1 - Nella misura in cui pone l’accento sulla «semantica relazionale, secondo la quale le differenze (anche quelle culturali) sono modi diversi di formare la nostra identità che si basano su relazioni le quali si formano non per opposizione o esclusione dell’altro, ma attraverso circuiti di dono e quindi di riconoscimento reciproco» (Donati 2008, p. 62). 3 rica Mediterraneo C U L T U R A E S O C I E T À Direttrice responsabile Sandra Federici Segreteria di redazione Elisabetta Degli Esposti Merli, Claudia Marà Comitato di redazione Fabrizio Corsi, Simona Cella, Silvia Festi, Andrea Marchesini Reggiani, Iolanda Pensa, Pietro Pinto, Massimo Repetti, Mary Angela Schroth Comitato scientifico Stefano Allievi, Mohammed Arkoun †, Ivan Bargna, Giovanni Bersani †, Jean-Godefroy Bidima, Salvatore Bono, Carlo Carbone, Giuseppe Castorina †, Giancarla Codrignani, Vincenzo Fano, Khaled Fouad Allam †, Marie-José Hoyet, Justo Lacunza, Lorenzo Luatti, Dismas A. Masolo, Pierluigi Musarò, Francesca Romana Paci, Giovanna Parodi da Passano, Irma Taddia, Jean-Léonard Touadi, Alessandro Triulzi, Itala Vivan, Franco Volpi Collaboratori Luciano Ardesi, Joseph Ballong, G. Marco Cavallarin, Aldo Cera, Antonio Dalla Libera, Tatiana Di Federico, Fabio Federici, Mario Giro, Rossana Mamberto, Umberto Marin, Marta Meloni, Gianluigi Negroni, Beatrice Orlandini, Giulia Paoletti, Blaise Patrix, Sara Saleri, Edgar Serrano, Daniel Sotiaux, Flore Thoreau La Salle, Elena Zaccherini, George A. Zogo † Africa e Mediterraneo Semestrale di Lai-momo cooperativa sociale Registrazione al Tribunale di Bologna n. 6448 del 6/6/1995 Direzione e redazione Via Gamberi 4 - 40037 Sasso Marconi - Bologna tel. +39 051 840166 fax +39 051 6790117 redazione@africaemediterraneo.it www.africaemediterraneo.it Progetto grafico e impaginazione Giovanni Zati Editore Edizioni Lai-momo Via Gamberi 4, 40037 Sasso Marconi - Bologna www.laimomo.it Finito di stampare il 31 agosto 2016 presso LITOSEI srl Rastignano - Bologna La direzione non si assume alcuna responsabilità per quanto espresso dagli autori nei loro interventi Africa e Mediterraneo è una pubblicazione che fa uso di peer review In copertina Kenya. Refugees and aid workers in Dadaab run in support of #TeamRefugees and stand #WithRefugees. © UNHCR Indice n.84 © Fabrizio Pompei Editoriale 1 La posta in gioco: sport e attività fisica risorse per una “società delle culture” di Giovanna Russo Dossier: Sport e immigrazione a cura di Giovanna Russo 8 La cittadinanza sportiva in Italia: mito o realtà? di Raymond Siebetcheu 13 Beyond Intolerance through Sports by Gianmaria Bottoni, Giuseppe Masullo, Emiliana Mangone 18 Sport et immigration. Changements sociaux et pratiques d’intégration en Europe Entretien avec W. Gasparini recueilli par Giovanna Russo 23 Stelle nere, calcio bianco. Calcio, capitale e razzismo nell’Italia contemporanea di Roberto Pedretti 28 Calcio e identità. I Black Italians tra interdizione razziale e integrazione di Giorgio Caccamo 34 Il calcio come strumento di integrazione: il caso dell’Afro-Napoli United di Luca Bifulco e Adele Del Guercio 41 Entre contraintes et soutiens: l’implication de la famille dans les parcours de footballeurs camerounais par Jérôme Berthoud 46 Sportive nere in maglia azzurra. Un approccio intersezionale allo sport italiano di Sandra Agyei Kyeremeh 51 Nella rete dei Mondiali di Vittorio Martone 55 Sport praticati dai richiedenti asilo nella Città Metropolitana di Bologna 56 FOCUS/ARTI MARZIALI Mustapha Haida, la storia di un campione sportivo e del profondo legame che unisce l’Italia al Marocco di Eugenio Bini e Danilo Bondi 58 FOCUS/LINGUA Lessico del calcio in swahili di Diego Sidraschi AFRICA E MEDITERRANEO n. 84 / 2016 ~ Sport e immigrazione © Milumbe Haimbe 60 FOCUS/LINGUA Parole, gesti e gestacci del razzismo nello sport di Ivo Stefano Germano 62 FOCUS/IDENTITÀ Vatreni. La Nazionale croata tra il sogno dei mondiali e l’incubo della guerra di Valentina Valle Baroz 64 FOCUS/IDENTITÀ Invictus: combattere per capirsi di Francesca Romana Paci 66 FOCUS/OLIMPIADI La presenza olimpica del continente nero e i boicottaggi africani di Giovanni Armillotta Scuola 69 Enea: un profugo. Viaggi nel passato e nel presente a cura di Donatella Iacondini Arte 73 Addio al maestro e amico George Abraham Zogo di Andrea Marchesini Reggiani © Giovanna Amore 75 Prayer di Giacomo Rambaldi 89 Coraggio e libertà: il Biografilm Festival va oltre i confini di Elisabetta Degli Esposti Merli 77 “Triumphs and Laments”: a Project for the City of Rome by William Kentridge by Mary Angela Schroth 91 Formazione dei rifugiati nell’artigianato per la moda Eventi 92 Summer School on Forced Migration: a Multidisciplinary Approach 81 Dak’art 2016: nel blu dipinto di blu di Simona Cella 84 When Things Fall Apart. Critical Voices on the Radars par Sandra Federici 86 Quand le Nigéria s’invite à Venise : une architecture visionnaire audelà de tous les formalismes par Flore Thoreau La Salle 88 Designing Futures. Il 26° Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina di Milano di Simona Cella 93 Accoglienza, sport e buone pratiche: la campagna 2016 di Bologna cares! 94 Sport, integrazione e diritti umani al cinema di Marina Mantini Libri 95 African Power Dressing: il corpo in gioco. (Giovanna Parodi da Passano) di Cecilia Pennacini 96 D’ici jusque là-bas – Van hier tot daar. Dessins de réfugiés en Belgique E Ar D Fi SiDOSSIER S Mondiali antirazzisti 2016. © Vincenzo Valentino Ventura 6 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP E Ar D Fi Si DOSSIER DOSSIER Sport e immigrazione 7 E Ar D Fi SiDOSSIER S La cittadinanza sportiva in Italia: mito o realtà? L’importanza del calcio come strumento di integrazione. Una ricerca, basata su interviste e osservazioni dirette, dimostra che lo sport può aiutare i migranti nell’inserimento nella società di accoglienza e nel superamento di eventuali traumi, in un clima di tolleranza e rispetto. di Raymond Siebetcheu 8 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP E Ar D Fi Si DOSSIER «L o sport ha il potere di cambiare il A fianco: Democratic Republic of Congo. As War Drags on, Athletes Cry Foul. © UNHCR mondo. Ha il potere di ispirare. Esso ha il potere di unire le persone in un modo in cui poche altre cose lo fanno. Parla ai giovani in una lingua che all’attività sportiva da parte di chiunque in condizioni di parità e comprendono. Lo sport può portain armonia con l’ordinamento sportivo nazionale e internazionare speranza dove una volta c’era solo disperazione». Prendendo le». Nonostante tale normativa, molti minori di origine straniera si spunto da questa bella cornice definitoria che ci suggerisce Nelson sono spesso visti negare il diritto di partecipazione all’attività sporMandela, lo sport nel suo valore globale e olistico è un fenomeno tiva nelle squadre nazionali e nei tornei internazionali. A nostro di grande importanza capace di abbracciare tanto la dimensione avviso si tratta di un vero e proprio “spreco di talenti” e di una meramente competitiva e ludica quanto quella socio-culturale ed “doppia cittadinanza negata” (né italiana, né del Paese di origine). educativa. In questo senso, riesce a promuovere valori come la soA confermare questa tesi sono le premesse del seminario dal titolo Cittadinanza sportiva: opportunità ed ostacoli per una piena cittalidarietà, l’unità, lo spirito di gruppo, la tolleranza, l’uguaglianza, l’integrazione, il rispetto delle regole e l’accettazione delle diffedinanza, tenutosi ad Arezzo il 17 dicembre 2012: «I meccanismi di tesseramento di ragazzi che non hanno la cittadinanza italiana renze. Facendo riferimento al contesto migratorio, dove identità nelle società sportive sono farraginosi e spesso inefficaci, e di fatdiverse s’incontrano e, in alcuni casi, si scontrano, secondo il Libro bianco europeo sullo sport to li escludono da gran parte (2007),1 lo sport costituisce uno delle competizioni dei loro coIl concetto di cittadinanza sportiva è prima di tutto etanei: è frequente vedere un strumento efficace per facilitare lo sviluppo di una cultura civica e sportiva capace ragazzo allenarsi con impegno l’integrazione degli immigrati nella società, attraverso il diae risultati, e poi non giocare in di costruire uno stile di vita che superi ogni forma partita o non poter partecipare logo interculturale e un senso di pregiudizio e discriminazione. alle competizioni. Questo da un comune di appartenenza e di lato costituisce un’importante partecipazione. Senza voler discriminazione, e dall’altro perdere di vista alcuni casi ecimpoverisce lo sport nostrano di talenti ed introiti» (www.meltincellenti, come quello della squadra di rugby di Casale Monferrato, quasi esclusivamente composta da richiedenti asilo e che milita gpot.org, 12 dicembre 2012). Un passo decisivo verso la cittadinanza sportiva è stato fatto con la in C2, in questa sede focalizzeremo l’attenzione sul calcio, inteso come il paradigma, il laboratorio sociale ideale della manifestaLegge n. 12 del 20 gennaio 2016 che ha introdotto lo ius soli sportivo. Secondo tale legge «I minori di anni diciotto che non sono citzione simbolica dello sport come strumento di aggregazione e di integrazione. La scelta del calcio è legata alla sua capacità di unire tadini italiani e che risultano regolarmente residenti nel territorio italiano almeno dal compimento del decimo anno di età possono ma anche al fatto che è uno degli sport più amati, più praticati e più seguiti al mondo. In Italia, secondo il Report Calcio 2015, il calessere tesserati presso società sportive appartenenti alle federazioni nazionali o alle discipline associate o presso associazioni ed cio incide per circa il 25% sui tesserati, italiani e stranieri, e sulle enti di promozione sportiva con le stesse procedure previste per società sportive nelle 45 Federazioni affiliate al CONI. Non a caso il tesseramento dei cittadini italiani». Premettiamo che anche se Valeri (Valeri 2005, p. 382) considera questa disciplina come «una tale legge non prende in considerazione alcuni aspetti importanti buona cartina al tornasole di ciò che avviene, più in generale, a come la possibilità per i ragazzi di origine straniera di indossare la livello sociale». Riflettendo in modo specifico sul ruolo del calcio in maglia azzurra, essa costituisce comunque l’anticipazione di una contesto migratorio, Gasparini osserva che si tratta di un «terreno risposta che si aspetta ancora rispetto alla revisione della Legge di studio particolarmente interessante per riflettere sulle espressiosulla cittadinanza (L. 91/1992).3 Tuttavia, il concetto di cittadinanza ni identitarie e ripensare l’integrazione dei migranti attraverso lo sport» (Gasparini 2013). Per Avila et al «l’impatto di questo gioco sportiva è, a nostro avviso, prima di tutto lo sviluppo di una cultusulla vita di ogni giorno lo rende un forte strumento per potenziare ra civica e sportiva capace di costruire uno stile di vita che superi le questioni importanti dell’apprendimento permanente e dell’inogni forma di pregiudizio e discriminazione. Gli episodi di razzitegrazione» (Avila et al 2011, p. 2). Sulla scia di queste premesse smo negli stadi testimoniano che lo ius soli sportivo non riguarda teoriche, che ci suggeriscono che il calcio ha cessato da molto soltanto l’atleta di origine straniera, ma deve coinvolgere famiglie, tempo di rappresentare soltanto un gioco e che oggi costituisce un scuole, società sportive, tifosi e politici. Inoltre i cori razzisti invero e proprio sistema culturale (Porro 2008), questo contributo si dirizzati ai giocatori di alto livello, e in alcuni casi già in possesso prefigge di osservare quanto lo sport riesca concretamente a condella cittadinanza italiana, sono la testimonianza che non basta il riconoscimento da parte del Parlamento così come non è suffitribuire ai processi di inclusione sociale, soprattutto nei confronti dei richiedenti asilo che spesso versano in condizioni di evidente e ciente essere in possesso del passaporto italiano per parlare di una preoccupante vulnerabilità. cittadinanza sportiva effettiva. La questione della cittadinanza sportiva in Italia In Italia il principio di cittadinanza sportiva e di educazione democratica attraverso lo sport è chiaramente sancito dall’art. 16, comma 1, D.lgs 242/19992 che recita: «Le federazioni sportive nazionali sono rette da norme statutarie e regolamentari sulla base del principio di democrazia interna, del principio di partecipazione Profilo dei giocatori e delle squadre composte da richiedenti asilo Il numero sempre più crescente degli sbarchi di immigrati sulle coste italiane nell’ultimo decennio e la conseguente distribuzione di questi ultimi nelle varie regioni della Penisola hanno dato nascita a diversi percorsi innovativi di integrazione, tra cui quelli attraverso 9 E Ar D Fi SiDOSSIER S il calcio, mai sperimentati prima in modo sistematico. In realtà, in risposta alle ripetute richieste dei rifugiati e al talento che sanno di poter esprimere sui campi, sono nate numerose squadre di calcio all’interno dei centri di accoglienza, tanto nell’ambito di eventi occasionali, quanto per la partecipazione ai tornei amatoriali o federali. Sulla base della nostra ricognizione, in Italia sono al momento sei le squadre di profughi che partecipano ai campionati federali organizzati dalla Federazione italiana di giuoco calcio (FIGC). Nell’ambito della nostra indagine, abbiamo preso in considerazione dodici squadre principalmente composte da “migranti forzati” (costretti a scappare dai loro Paesi in seguito a guerre, conflitti e persecuzioni), collocate in varie aree geografiche (dal Piemonte alla Sicilia) per avere un’idea dell’“integrazione targata sport” in tutto il Paese. Sono squadre prevalentemente composte da giocatori dell’Africa subsahariana, tra cui spiccano Senegal, Gambia, Nigeria, Ghana, Mali e Costa d’Avorio. Notiamo però che tra le squadre analizzate, l’Afro Napoli e la RFC Lions Ska sono composte anche da italiani. Queste squadre, con giocatori dai 17 ai 40 anni, sono gestite e sostenute da volontari che credono nei valori dello sport, inteso non solo come competizione ma anche come strumento di integrazione. Status giuridico incerto, distanza tra i centri di accoglienza e la città, dinamiche organizzative e abitative dei centri molto diverse dall’organizzazione socio-familiare dei Paesi di origine (orari di ingresso e di uscita, orario di pranzo e di cena, ecc.), stress da sradicamento, incertezza rispetto al futuro, “sindrome del sopravvissuto” (disagio psicologico legato ad un evento traumatico con un senso di colpa) o “sindrome di Ulisse” (disturbo psicosomatico che spesso colpisce gli immigrati), difficoltà linguistiche, pregiudizi e stereotipi negativi, in alcuni casi impossibilità di trovare un lavoro: sono questi i principali elementi che caratterizzano il disagio socio-economico di cui sono vittime i richiedenti asilo e di fronte al quale il calcio vuole dare una risposta. Rifugiati in Italia: barriere nell’accesso alle attività sportive Barriere burocratiche Per essere tesserati e giocare in un campionato della Lega Nazionale Dilettanti (LND), i richiedenti asilo devono essere in possesso del permesso di soggiorno, del certificato di residenza e in alcuni casi di un’autorizzazione da parte della federazione estera di riferimento. Inoltre, ogni squadra può solo «tesserare e schierare in campo due soli calciatori extra-comunitari [ma] un numero illimitato di calciatori/calciatrici di cittadinanza comunitaria» (art. 40 quater delle N.O.I.F).4 Queste lungaggini burocratiche e questi passaggi complessi costringono le squadre a tesserarsi nei campionati amatoriali. Tuttavia, la squadra Afro - Napoli United è un esempio di come sia opportuno perseverare nonostante le barriere. Dai campionati amatoriali iniziali, l’Afro-Napoli, dopo la sua ammissione alla più bassa categoria del campionato federale (Terza categoria), è reduce da una scalata vincente che in tre anni l’ha portata alla categoria “Promozione” (avvenuta alla fine della stagione 2015-2016). Degna di nota è inoltre l’autorizzazione concessa da Carlo Tavecchio, allora presidente della LND (oggi presidente della FIGC), alla squadra Pagi di Sassari. I giocatori di questa squadra, tutti africani, sono stati pertanto tesserati, anche se non in possesso di residenza definitiva in Sardegna, purché non provenienti da federazioni calcistiche straniere. Nonostante tutte le barriere un’altra bella pagina sportiva è stata scritta dalla squadra Migranti San Francesco di Siena: già campione provinciale, regionale e interregionale nei rispettivi campionati CSI di calcio a 7 nell’anno 2016, la squadra di Siena ha chiuso le finali nazionali al secondo posto, con un po’ di rammarico per la finale persa, ma con grande soddisfazione e orgoglio per la lezione di vita trasmessa in tutte le città italiane dove ha giocato. La questione linguistica La questione della lingua per i rifugiati implica da una parte l’apprendimento della lingua italiana e dall’altra parte l’uso delle loro lingue di origine. In riferimento alla lingua italiana, la barriera è legata a tre aspetti principali: - a causa delle spesso discutibili politiche linguistico-educative dei Paesi di partenza dei richiedenti asilo, l’arricchimento culturale e il valore strumentale legati all’apprendimento formale dell’italiano non sono sempre percepiti come lo vorrebbero gli enti formativi in cui sono inseriti; - per molti profughi l’Italia è solo un luogo di transito e, per que- ITALIA. Squadre dei rifugiati coinvolte nell’indagine SQUADRE CITTÀ DATA DI CREAZIONE CAMPIONATO 2015-2016 ASD Liberi Nantes Roma 2007 3° Categoria (FIGC-LND) Afro Napoli United Napoli 2009 1° Categoria (FIGC-LND) Survivor Torino 2009 Amatoriale (UISP) RFC Lions Ska Caserta 2011 3° Categoria (FIGC-LND) Hearts of Eagle Torino 2012 Amatoriale (UISP) ASD Cara Mineo Catania 2013 1° Categoria (FIGC-LND) Leoni di Biella Biella 2013 Amatoriale (ACS)* ASD Koa Bosco Rosarno 2013 2° Categoria (FIGC-LND) Atletico Ubuntu Arezzo 2014 Amatoriale (UISP) ASD Opti Pobà Potenza 2014 Amatoriale (OPES) Migranti San Francesco Siena 2014 Amatoriale (CSI) SS Pagi Sassari 2015 2° Categoria (FIGC-LND) * La squadra Leoni di Biella non si è iscritta al Campionato del 2015-2016 per assenza di finanziamento. 10 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP E Ar D Fi Si DOSSIER sto motivo, alcuni non ritengono necessario investirsi nell’apprendimento della lingua italiana; - anche se la pratica sportiva è già di per sé un linguaggio comune, la terminologia calcistica non è sempre alla portata dei neo-arrivati. Di fronte a queste tre esigenze, nella squadra di Migranti San Francesco, sono stati attivati dei percorsi di apprendimento dell’Italiano durante gli allenamenti. Obiettivo di queste attività è imparare divertendosi, senza rinunciare alla propria passione e senza sentire il “peso” dell’apprendimento, mantenendo così motivazione e impegno. Considerando invece le lingue dei rifugiati, si può affermare che, attraverso esse, i rifugiati rivendicano con forza il diritto all’asilo linguistico, il diritto di esistere e di rendersi visibili. Tali lingue immigrate sono quindi «laceranti urla di aiuto, richieste di soccorso nell’identità, auspicio della fine del conflitto fra lingue, culture ed identità. Sono urla nel silenzio delle lingue dominanti, ma anche, a volte auspicabilmente, segni della pace linguistica, della serena convivenza delle lingue, delle culture, delle identità» (Barni 2004, p. 15). Il campo di calcio diventa così un luogo di contatto e di confronto, uno spazio di ricreazione e ricostruzione di identità linguistico–culturale. Barriera culturale Il fatto che le squadre dei rifugiati siano prevalentemente composte da africani non significa che costituiscono necessariamente dei gruppi omogenei. Oltre al colore della pelle e alla situazione giuridico-psicologica, che possono costituire dei punti in comune, è opportuno notare che dietro all’etichetta “Africa” si nascondono ben 54 Paesi, oltre duemila lingue e migliaia di culture diverse che fanno sì che gli abitanti di tale continente non possono essere considerati identici e con le stesse esigenze. Serve quindi un notevole lavoro di mediazione culturale per costruire delle squadre molto diverse dal punto di vista delle nazionalità, delle lingue, dei costumi e delle religioni ma nel contempo molto unite in campo e fuori dal campo. Difficoltà logistiche La carenza di risorse economiche per gestire gruppi così diversi, come ricorda Roberto Pareschi dei Leoni di Biella, la carenza e/o l’inadeguatezza delle infrastrutture e del materiale sportivo costituiscono altre barriere che rendono meno evidente l’accesso a strutture sportive idonee e facilmente raggiungibili all’interno delle quali i ragazzi possono competere ed esprimere il loro gioco in tutta sicurezza e serenità. Il divieto di allenarsi allo stadio comunale di Mortara, imposto ad una squadra di richiedenti asilo nel 2015, è solo un esempio di questo tipo di barriera. Di fronte a queste situazioni e in assenza di sponsor, come è il caso della squadra di Koa Bosco di Rosarno, gestita da Don Meduri, queste squadre sono aiutate da altre società (caso dell’AS Roma nei confronti dei Liberi Nantes di Roma) con la donazione di materiale sportivo, ma anche con il supporto tecnico di alcuni (ex) giocatori professionisti. Il calcio come simbolo di rifugio e di asilo nell’ottica dell’integrazione Inclusione sociale Gli stadi costituiscono dei luoghi d’incontro, di contatto e di aggregazione che consentono di creare dei circoli virtuosi di solidarietà con i compagni provenienti da altri Paesi, di ricostruire un’identità smarrita nonché di ritrovare il sorriso (Siebetcheu 2015). Il difen- sore Omar della squadra Migranti San Francesco osserva in questo senso: «Sono contento quando sono in campo. Mi diverto, rido e scherzo con i miei compagni. Ho l’impressione di essere in Mali». Il calcio per i rifugiati è anche uno strumento di inclusione sociale con le comunità autoctone e straniere. I rifugiati partecipano con disinvoltura alle attività ricreative di beneficenza o di solidarietà organizzate nelle città in cui vivono. Tale partecipazione ha un valore simbolico in quanto si lega ad alcuni segni esteriori caratteristici del Paese di origine (ad esempio indossare la maglietta di calcio della propria nazionale, organizzare, in concomitanza alle partite, feste con cucina e musica del proprio Paese). Questi segni, indice di riferimento nostalgico, sono anche alla base di ciò che Gasparini chiama «Lo sport “fai da te”», cioè non solo espressione di un forte sentimento di identità, ma anche una risposta contro le discriminazioni vaghe e quotidiane, reali o simboliche che subiscono gli immigrati (Gasparini 2013). «In realtà, più gli immigrati sono situati in basso nella scala sociale, subendo discriminazioni (reali o percepite), più il sentimento di identità comunitaria si rinforza». Di fronte alla stigmatizzazione e alla discriminazione, per alcuni rifugiati il calcio costituisce forse l’unica e/o l’ultima carta da giocare per sconfiggere gli stereotipi e farsi valere. Ecco perché vincere una semplice partita amichevole (con determinazione, grinta e passione) assume un valore che va al di là della vittoria conquistata sul campo. Si tratta di una vittoria che è sintomo di consapevolezza del proprio valore, una vittoria che smentisce ogni discorso sull’inferiorità della propria cultura, una vittoria che sa di riscatto rispetto ai funesti episodi che hanno preceduto l’arrivo in Italia; una vittoria, infine, che vuole trasmettere una buona e nuova immagine di sé reclamando rispetto in campo e fuori dal campo. Educazione civica e inserimento professionale Il calcio è lo strumento ideale che consente da una parte alle squadre di presentare in modo naturale la società di arrivo ai loro giocatori e dall’altra parte ai rifugiati-giocatori di presentarsi senza troppi imbarazzi, risvegliando invece le coscienze per superare ogni forma di discriminazione. In questo senso, un giocatore di Liberi Nantes sottolinea: «spesso di fronte agli italiani mi presento come un calciatore. E questo mio profilo porta i miei interlocutori ad avere un certo interessamento nei miei confronti». Nell’ambito delle varie trasferte, i giocatori hanno l’opportunità di scoprire con serenità la loro società di adozione, cambiando così non solo la loro geografia mentale del territorio, ma soprattutto la loro percezione del viaggio, questa volta molto più piacevole e con rischi minori. Il calcio costituisce un’occasione ideale per conoscere e rispettare le regole della società ospitante senza vedere la propria dignità calpestata. Il contatto frequente con gli italiani (allenatori e dirigenti), con i quali gli stranieri hanno un rapporto di fiducia molto forte, porta i rifugiati-calciatori ad acquisire, in modo spontaneo e guidato, delle nozioni di cultura civica legate al contesto italiano. Ad esempio la puntualità, la precisione e la costanza acquisite dai giocatori di Hearts Eagle (Torino) sono state importanti anche nell’ottica dell’inserimento professionale dei ragazzi. Come ci racconta Tommaso Pozzato, presidente della detta squadra, «in seguito alla chiusura dei centri di accoglienza l’obiettivo del nostro progetto è mutato per seguire le esigenze dei nostri atleti aiutandoli a trovare un lavoro. Per quattro di loro, ad esempio, si sono aperte le porte di uno stage presso L’Oréal di Settimo Torinese». Un’esperienza simile si verifica nelle altre squadre: Roberto Arena, 11 E Ar D Fi SiDOSSIER S presidente di Survivor sottolinea che nella sua squadra «lo sport è la palestra per raggiungere altri percorsi. Grazie ai progetti di reinserimento sociale, decine di ragazzi sono riusciti a trovare un lavoro stabile e una casa». Nella squadra di Opti Pobà i giocatori vengono coinvolti in attività di laboratori creativi, come sottolinea il referente Francesco Giuzio. Partendo dall’analisi dei bisogni effettivi, l’obiettivo della squadra Migranti San Francesco, osserva Don Doriano, è quello di accompagnare i giocatori anche in diversi percorsi professionalizzanti. Molti giocatori di questa squadra hanno in effetti trovato lavoro in varie strutture ricettive nel senese e in altri settori. BIBLIOGRAFIA AREL, FIGC, Report Calcio 2015, Roma 2015, www.figc.it V. Avila et al., Manuale di Hattrick per la formazione degli allenatori, dieBerater, 2011, http://cesie.org/media/HATTRICK_Trainer_Manual_IT.pdf M. Barni, Lingue immigrate: un nuovo elemento dello spazio linguistico italiano, in C. Bagna, M. Barni, R. Siebetcheu, Lingue immigrate in provincia di Siena, Guerra, Perugia 2004, pp. 7-18 Commissione europea, Libro Bianco sullo sport, in «Rivista di Diritto ed Economia dello sport», vol. 3, fasc. 2, 2007, pp. 177-200 W. Gasparini, Ripensare l’integrazione attraverso lo sport: la partecipazione sportiva a livello comunitario dei migranti turchi in Francia, in «M@gm@», vol. 11, n. 1, 2013 Sogno e speranza di diventare campioni Prima di sbarcare in Italia, molti rifugiati aspirano a diventare calciatori professionisti. Un giocatore osserva infatti che: «noi sappiamo e vogliamo giocare, ma non c’è nessuno che ci porta a fare dei provini». Per non fare svanire il loro sogno, i campionati amatoriali e dilettantistici nei quali militano questi giocatori sono considerati solo come un punto di partenza per raggiungere tali obiettivi. Ibra, l’attuale capitano di Migranti San Francesco, originario del Gambia, non ha perso tempo al suo arrivo in Italia: il primo giorno in cui ha incontrato il suo allenatore gli ha subito detto che il calcio è il suo biglietto da visita. Oltre al caso del nigeriano Gabho, che ha iniziato con la squadra di Cara Mineo (Catania) e poi è approdato in Bundesliga (Germania) nella squadra dell’Hoffenheim, l’esempio emblematico è quello del guineano Salim Cissé. In realtà, da Borgo Massimina (squadra romana di prima categoria) Cissé, dopo un passaggio nella squadra di Arezzo, è attualmente un giocatore della nazionale guineana e dello Sporting Lisbona, club che milita nella massima divisione portoghese. Anche se tutti non avranno la fortuna di arrivare ai livelli di Cissé e Gabho, a tutti si deve garantire il diritto di sognare, di essere felice correndo dietro a una palla e di conservare la passione dell’infanzia per affrontare ambiziosamente il futuro. Salute fisica e mentale Superare lo stress da sradicamento, dimenticare le preoccupazioni e ansie legate alle sfide da realizzare ma anche al tragico passato, sono queste le principali motivazioni legate agli aspetti psicologici che spingono i rifugiati a giocare a calcio. Il campo di calcio si presenta quindi come uno spazio nel quale si sviluppa una sana attività fisica e mentale. È in questo senso che Alain, giocatore di Liberi Nantes, osserva: «Il martedì (uno dei giorni di allenamento) per me è un giorno di festa. Il calcio è la mia droga. Non riesco a vivere senza giocare». Considerazioni conclusive Dai risultati illustrati in questo contributo, emerge che lo sport consente di abbattere i muri e di costruire dei ponti, abbracciando la dimensione competitiva, ludica e socio-educativa. Nel contesto italiano, dove all’immigrazione vengono ancora associati i concetti di insicurezza sociale ingabbiandola in pericolose generalizzazioni, lo sport rappresenta per i migranti, norme burocratiche e senso comune permettendo, una valvola di sfogo per uscire dall’isolamento logistico e mentale, uno degli spiragli per ritagliarsi uno spazio nella società ma anche per rispettare le regole promuovendo i valori linguistici e culturali a beneficio della società italiana. 12 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP N. Porro, Sociologia del calcio, Carocci, Roma 2008 R. Siebetcheu, Lo sport come strumento di integrazione, in Centro Studi e Ricerche Idos, Dossier Statistico Immigrazione 2015, Roma 2015, pp. 227-230 M. Valeri, La razza in campo. Per una storia della Rivoluzione Nera nel calcio, Edup, Roma 2005 NOTE 1 - Libro bianco sullo sport, dell’11 luglio 2007, presentato dalla Commissione europea al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato delle regioni e al Comitato economico e sociale europeo. 2 - Legge del 20 gennaio 2016, n. 12, intitolata “Disposizioni per favorire l’integrazione sociale dei minori stranieri residenti in Italia mediante l’ammissione nelle società sportive appartenenti alle federazioni nazionali, alle discipline associate o agli enti di promozione sportiva”. 3 - Il 13 ottobre 2015 la Camera ha approvato un testo in materia di cittadinanza con due novità: ius soli temperato (cittadinanza a chi è nato in Italia da genitori stranieri, sulla base di alcune condizioni) e ius culturae (cittadinanza in seguito a un certo percorso scolastico). 4 - Norme organizzative interne della FIGC (Federazione italiana giuoco calcio). ABSTRACT EN This paper aims to shed light on the importance of football as a tool for the integration and citizenship of immigrants. Based on interviews and direct observation, the research focuses on twelve refugee teams from different Italian cities. According to the results of this study, football can foster social integration and identity-building of immigrants. It can also promote tolerance, help foreign citizens overcome trauma and allow them to interact in a positive way with Italian society. Raymond Siebetcheu è docente presso l’Università per Stranieri di Siena. Le sue attività di ricerca vertono intorno ai temi dell’immigrazione straniera in Italia e dell’emigrazione italiana in Africa nel loro legame con lo sport, il contatto linguistico e la mediazione linguistico-culturale. E Ar D Fi Si DOSSIER Beyond Intolerance through Sports Sport contributes to the social construction of reality: it creates a social order and helps to convey the image of the “other”, and in some cases to solidify “stereotypes” or to confirm a meaning of normality, thus helping to marginalise certain social categories, such as immigrants. For these reasons, this paper presents research which gives an account, through sport, of the relationship between the acceptance of immigrants and secondary school pupils in the Campania region. by Gianmaria Bottoni, Giuseppe Masullo, Emiliana Mangone S port, like any other cultural practice, actively contributes to the social construction of reality «because sport reflects society and social reality reflects sport culture» (Germano 2012, p. 35). Sport reproduces a given social order – for example, by observing the rules of the game – in the form of ideals and values specific to a particular group, but not exclusive to it.1 Moreover, we must not forget how sports – both in the past and today – help to convey the image of the “other”, and in some cases to solidify certain “stereotypes” of the “other” or to confirm a given sense of normality, thus help- ing to marginalize certain social categories, such as foreigners. Contemporary sports are criticized for focusing on competition, efficiency, and the pervasiveness of market logic. Whereas, on the contrary, if sport wants to be an answer to the current problems and concerns posed by differences, it must be guided by the values of well-being, cooperation and tolerance. A new paradigm in sport culture is thus being established, as demonstrated today explicitly in the slogan “sport for all”. A new way of understanding sports which, according to Russo and Meglioli, can be traced back to the 70s with «the invasion of the inclusion of feminine athletes first and foremost, and Un momento di riposo di una squadra di richiedenti asilo partecipante ai Mondiali Antirazzisti 2016. © Vincenzo Valentino Ventura 13 E Ar D Fi SiDOSSIER S egorization process; the one underpinning the construction of stereotypes and social representations of the foreigner. The identification process is that mechanism which, in taking into 2,608 Sport has nothing to do with skin colour 8,96 account the stranger Beyond differences: 2,538 Supporters insulting black players are wrong 8,96 we are relating to, rethe inclusion of 2,478 Athletes' skin colour is not important, 8,49 fers to their specific foreigners through what matters is their ability characteristics which sport 2,664 It's not fair for a black player to be part 1,20 emerge during the How does one look of the Italian national team very interaction with for a higher-order 2,056 I would not care for a black coach ,91 them and therefore egalitarian content in ,90 2,221 My favourite champion will never be a black one those that are not atsport? In fact, there ,69 1,889 It would bother me to have a black teammate are already numertributable to previous schemes and ideas ous cases where sport (Masullo 2015). It is is used as a means no coincidence that the White Paper on Sport (European Comof stimulating contact with the “other”, helping to overcome certain stereotypes and promoting inclusion and integration mission 2007) envisages a set of actions and measures to tackle processes of those who are different – in this case, of the forviolence and racism and particularly the racism which still widely exists within the world of sports today. Racism, which in some eigner. For example, sports calling for “team spirit” that bring sporting contexts – such as football, for example – is not only together local and foreign youngsters are good examples of associated with hostility towards the other as a “foreigner”, but how differences – linked to skin colour, linguistic and cultural also exists as a general feeling of intolerance towards all forms of diversity, and religious beliefs, etc. – are overcome thanks to the diversity, as has recently been shown in the news of widespread “cooperation” and sense of belonging resulting from the game. homophobia in sports. It will therefore be up to the institutions This is because sport, in the words of Xavier Medina, «is an into promote a new conception of sport as a useful tool aimed strument capable of giving identity, of generating identification not only at competition, but also at the promotion of new forms in individuals and, therefore, of enabling them to participate, of openness as well as reciprocity towards the foreigner. These also symbolically, in the same reality, to share and feel part of ideas – which find wide application in the non-profit world –2 something common; ultimately, to live together» (Xavier Medina 2002, p. 22). must be more widely spread in the school context, starting with physical education (PE) lessons, which must not only be a fun Sport activities oriented in this way, are also paramount in protime, but also a laboratory for testing new forms of citizenship, moting the fundamental step concerning interaction with the of open-mindedness and of opposition to discrimination by stranger which, according to Mucchi Faina, is needed in order those presenting themselves as “normal”. to overcome certain social stereotypes guiding the relationship with the other; namely the transition from the process of “categorization” to that of “identification” (Mucchi Faina 2005). The attitude towards the “stranger” in sports: a case study Sports, when oriented towards the integration and inclusion of Against this backdrop, the present paper analyses the existing the foreigner, can oppose the identification process with the catrelationships between the acceptance of diversity and junior then gradually with that of the elderly, the disabled, and of immigrants who see sport as an active and specific answer to their needs» (Russo, Meglioli 2011, p. 118). Tab. 1 – How much do you agree with the following statements? MEAN STANDARD DEVIATION Fig. 1 - The three indexes by gender 0,4 Male 0,3 Female 0,2 0,1 0 -0,1 Racial intolerance Intolerance of sexual diversity -0,2 -0,3 14 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP Disability intolerance E Ar D Fi Si DOSSIER Fig. 2 - The three indexes by cultural capital ,2000000 Low -,1500000 -,1000000 Average High -,0500000 -,0000000 -,0500000 Racial intolerance -,1000000 -,1500000 Disability intolerance Intolerance of sexual diversity -,2000000 -,2500000 high school pupils in the Campania region. This territory has been the object of research aimed at analyzing sporting activities in pre-adolescent subjects, starting with the current literature and, in particular, with the most recent empirical research on the subject (Grimaldi 2011; Pioletti and Porro, 2013). The specific aim has been to verify whether and to what extent certain common misconceptions about the other have roots. The concept of “otherness” is here considered only as “the foreigner”, while the research in its entirety also involved the analysis of disability and homosexuality, and this supposed diversity proves to be a criterion for evaluating the skills and performance of athletes. The respondents’ age group is of major importance, for it is during this development phase that the value and thought systems of the subjects start to take shape. Numerous studies have shown that the overall level of ethnic prejudice has gradually declined since the 70s, and that this decline is due to the apprehension, in childhood and adolescence, of those social norms oriented towards eliminating prejudices and fostering the feeling of tolerance (Brown 2011; Rutland et al. 2005). Indeed, young people, compared with adults, show lower levels of prejudice and intolerance against persons perceived as Tab. 2 – The “Closed” ones and the “Friendly” ones according to gender and cultural capital CLOSED FRIENDLY Male 21,9 78,1 Female 10,9 89,1 Low cultural capital 21,4 78,6 Avg. cultural capital 12,6 87,4 High cultural capital 10,5 89,5 different (Pettigrew and Meertens 1995; Vala and Costa-Lopes 2010). The debate about teens and prejudice is still open, although there is a substantial agreement among scholars that younger subjects are more open to diversity and less prone to prejudice than adults. The surveyed population is made up of students from the final year of secondary school in the school year 2013-2014 of all secondary schools in the Campania Region. The sampling plan allowed us to obtain a representative sample of the population in order to allow the detection of valid information to then answer the cognitive objectives of the project. The gathering of the sample was carried out through a mixed sampling procedure: first a multistage sampling method, which allowed us to identify the municipalities hosting the schools for each province of the Campania region, and then a cluster sampling. This led to us extracting the municipalities (first stage) and then extracting the educational establishments from these groups (second stage). In summary, the sample size was composed of 804 cases: of which 49,6% were male and where the average age was 13. Clearly the analysis will not consider the age of the subjects as an explanatory factor, since, as stated above, the unit of analysis is determined by pupils from secondary schools, thus making it impossible to compare them with older individuals. But an indirect confirmation of the greater openness of youngsters with respect to adults towards persons perceived to be different stems from an analysis of the answers to a series of questions designed to detect the degree of acceptance of “different” individuals in sports. Considering the open attitude towards diversity in sports makes the survey even more significant given the numerous and constant episodes of intolerance periodically occurring, mainly on the football pitch, but also in other sports. As we can see in Tab. 1, the statements with which the respondents tend to agree on more all concern accepting subjects of a different skin colour. The sample is therefore highly homogenized towards a total acceptance of differences as well as individuals with such differences. But the analysis of univariate distribution does not allow for a reading of the studied phenomenon. Therefore, we employed the multiple factor analysis by applying the method of principal component analysis in order to obtain a less fragmented image. The analysis revealed the presence of three 15 E Ar D Fi SiDOSSIER S Oltre l’intolleranza con la pratica sportiva L a pratica sportiva contribuisce alla costruzione sociale della realtà: lo sport riproduce un ordine sociale e contribuisce a veicolare le immagini dell’altro, e in taluni casi a solidificare “stereotipi” o a confermare un’accezione di normalità contribuendo a mettere ai margini alcune categorie sociali come gli immigrati. Si afferma così un nuovo paradigma nella cultura sportiva, che oggi trova esplicitazione nello slogan lo “sport per tutti”. In realtà, sono numerose le esperienze che utilizzano lo sport come mezzo per stimolare il contatto con l’altro, favorendo processi di integrazione dei migranti. Gli sport che richiamano “spirito di squadra”, unendo giovani autoctoni e giovani stranieri, costituiscono dei validi esempi per cogliere come le differenze si annullino, grazie alla “cooperazione” e il senso di appartenenza che scaturisce dal gioco. Non è un caso che il Libro Bianco sullo Sport preveda un insieme di azioni volte a contrastare il razzismo che emerge fortemente all’interno del mondo sportivo. Spetterà dunque alle istituzioni favorire un nuovo concetto dell’attività sportiva come strumento utile e finalizzato non solo all’agonismo, ma anche a promuovere nuove forme di apertura e reciprocità verso l’immigrato. Sulla base di queste premesse, il contributo presenta una ricerca che dà conto, attraverso la pratica sportiva, delle relazioni tra l’accettazione dell’immigrato e i ragazzi delle scuole medie nella regione Campania. L’obiettivo è stato quello di verificare se e in quale misura sono diffusi alcuni pregiudizi sul diverso (soggetti di pelle nera, gay/lesbiche, diversamente abili), qui considerato solo nella fattispecie dei soggetti di “pelle nera”. Lo studio ha fatto ricorso alla multiple factor analysis per la costruzione di un indice di intolleranza. Dai dati emerge che anche il capitale culturale incide sul grado di rifiuto/accettazione di soggetti di “pelle nera”: al crescere del capitale culturale degli intervistati l’atteggiamento di rifiuto nei confronti di questi soggetti decresce progressivamente. L’indice ottenuto è servito per realizzare una cluster analysis che ha prodotto una tipologia di soggetti basata sull’orientamento di chiusura o apertura verso soggetti di “pelle nera”: i “chiusi” e i “disponibili”. I dati emersi dalla ricerca mettono in luce come gli alunni delle scuole medie campane si mostrano disponibili nei confronti dei soggetti “etnicamente” diversi. Questo è un risultato di notevole importanza in quanto intervenendo sulla dimensione dell’accettazione delle differenze, attraverso la pratica sportiva, si potranno scongiurare episodi di razzismo e discriminazione che periodicamente si consumano. 16 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP components accounting for 43% of the total variance. These components refer to the subjects included in the total batch; in particular, the second one concerns the refusal/acceptance of black people and includes items such as “[m]y favourite champion will never be black” and “[i]t’s not fair for a black player to be part of the Italian national team”. In order to overcome some of the constraints inherent in the technique adopted, we employed the “principal component analysis in two stages” (Di Franco, Marradi 2003). It is a long iterative procedure, aimed at selecting a few clusters of variables identifying the most significant relationships among them and producing a more refined summary of the information. The variables selected by the technique of the two stages were subsequently combined into three indices through the single factor analysis (intolerance of sexual diversity, racial intolerance and disability intolerance). The bivariate analysis comparing the three indices reveals interesting aspects: women, for example, are the gender with positive values of “intolerance level” with regard to black subjects (Fig. 1). Also cultural capital – constructed by reducing the space of the attributes of the variables related to the level of education of the parents of the boys interviewed – affects the degree of rejection/acceptance of diversity: an increase in the cultural capital of the respondents leads to a progressive decrease in the attitude towards “different” individuals. As we can see in Fig. 2, in particular, a low level of cultural capital appears to have a significantly negative impact on the degree of openness and acceptance of the subjects perceived as different. The three indexes seen above, obtained through the analysis of the main components in two stages, subsequently helped in realizing a cluster analysis; the technique used is the “non-hierarchical clustering with K-means”. The cluster analysis reveals the existence of two exclusive groups that we might call “closed” and “friendly”. The first one, representing only 16,3% of the sample, shows positive scores (please note that the three indices spot positive polarity in the rejection dimension and negative polarity in the opposite acceptance dimension) on all three indices of rejection/acceptance, thereby showing a clear attitude of narrow mindedness against those individuals identified as “carriers of diversity” (gay/lesbian, black people, the disabled). On the opposite side, the “friendly” ones, which make up 83,7% of the sample, show negative scores on all the indices, thereby revealing an attitude of total acceptance towards “different” subjects. This essentially indicates that the three groups of intolerance identified by the principal component analysis, namely towards black people, sexuality and disability, actually underlie a single general factor of second order which could be considered as a general attitude of narrow mindedness / openness towards diversity which influences the three identified sub-groups. Interestingly, although the sample of respondents was highly prone to display an attitude of acceptance, female students are more willing and open to diversity than male students. Infact, 78% of males fit into the “friendly” category, compared to 89% of girls, while of course the opposite is the case for the “closed” category (22% males vs. 11% females, Tab. 2). Here, too, cultural capital emerges as a factor which has significant influence over the attitude of rejection/acceptance of diversity: together with cultural capital, the percentage of subjects belonging to the “friendly” category gradually increases, going from 78,6% E Ar D Fi Si DOSSIER among those with low cultural capital to almost 90% for students who enjoy a high cultural capital. Interestingly, being “closed” or “open” towards having black people as teammates or coaches, or being willing to have them as one’s favourite athletes or not being against them playing in the Italian national team can influence the attitude and values associated with sports. In summary, it can be said that the “friendly” ones concerning the values associated with sports show an attitude more oriented towards respect for others, where sport is not intended as a means of achieving wealth but as a tool for sharing moments with others without the pressure of having to win, or even resorting to illegal means. The dimension of equality is also of great importance, as well as the power that sports can exercise in dismantling all the differences between individuals through its “homogenizing” effect which sees the eradication of all dysfunctional identities in favour of a common feeling, whose vehicle is sport. Asked whether sport makes people equal, the sample focuses on three response options, “Yes”, “No”, “I do not know”, with a slight prevalence of “No” – 37% “No”, 32% “Yes” – while the rest of the sample does not state an opinion. The equality front is affected not only by gender differences, meaning that boys believe more than girls that sport makes people equal; an opinion held also by teenagers with the lowest sporting capital and those who have a very positive opinion about the benefits of sport. In this regard, those falling into the “friendly” category appear more optimistic, arguing that sport can help erase differences. Indeed, 33% of the “friendly” ones declare that sport makes all equal, as opposed to 23% who think the same in the “closed” category. acknowledged by bodies promoting sport, as associations of social promotion of national importance» (2011, p. 123). REFERENCES R. Brown, Prejudice: Its Social Psychology, John Wiley & Sons, New York 2011 European Commission, White Paper on Sport, Bruxelles 2007 G. Di Franco, A. Marradi, Analisi fattoriale e analisi in componenti principali, Bonanno, Acireale-Roma 2003 I.S. 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This seems a remarkably important achievement for, by intervening with the acceptance of differences, perhaps through specific lessons devoted to the theme of diversity and the respect for others, in the future – given that our respondents are secondary school pupils – we will be able to ward off the many incidents of racism and discrimination regularly occurring and which in the most extreme cases – in the form of what we commonly call “bullying” – often lead to the extreme consequence of death, sometimes self-inflicted, of those who suffer this abuse. Gianmaria Bottoni is PhD student in methodology of social sciences at Sapienza University of Rome (Italy) and he is visiting scholar at Department of methodology and statistics of University of Utrecht (Netherlands). Giuseppe Masullo is a researcher in sociology at University of Salerno (Italy). His research has focused on the disadvantaged situations resulting from the interplay of the psychological and social vulnerability characterizing migration and those relating to gender. Emiliana Mangone NOTES 1 - As Germano further states: «Sport influences society and vice versa, in the sense of an orderly system of meanings and symbols according to which social interaction takes place, i.e. a precise symbolic order for the ever more active sporting publice» (2012, p. 36). is associate professor of sociology of culture and communication at University of Salerno (Italy) and she is a director of International Centre for Studies and Research Mediterranean Knowledge. 2 - In this regard, Russo and Meglioli state that «the philosophy of sport reflects, for all, in fact a universal nature and a solidarity mission legitimately 17 E Ar D Fi SiDOSSIER S Sport et immigration. Changements sociaux et pratiques d’intégration en Europe Dans quelle mesure le sport joue-t-il un rôle déterminant dans le processus d’intégration des migrants dans les sociétés européennes? Un sociologue français apporte quelques éléments de réponse. Entretien avec W. Gasparini recueilli par Giovanna Russo L e sport est l’une des activités les plus populaires et largement répandues dans la société contemporaine. En plus d’améliorer le bienêtre de la population en termes de bonne santé, il joue un rôle important dans la cohésion sociale en offrant des possibilités de rencontres et d’échanges entre personnes de différentes ethnies, sexes, capacités, nationalités et cultures, renforçant ainsi la « culture du vivre ensemble » (Conseil de l’Europe 2013, doc. 1, p. 2). Le fait de reconnaitre au sport la capacité d’être un véhicule de l’intégration de la diversité – en confirmation du dialogue interculturel à niveau européen (ibid.) – en atteste son importance dans le débat actuel sur l’intégration et le multiculturalisme, dont les dilemmes apportent des nouvelles quotidiennes aux médias. Dans cette optique, il est légitime de se poser certaines questions, par exemple : Existe-t-il un lien entre la construction d’une société multiculturelle et la diffusion des activités sportives ? Quelles significations, valeurs et paradoxes coexistent aujourd’hui dans l’intégration de la culture sportive européenne ? Dans quelle mesure le sport peut-il décrire une société multiculturelle ? À cet égard, l’habitus « sportif » (Bourdieu 1975, 1998)1 fonctionne-t-il comme un domaine de compétition entre migrants et autochtones ou bien, dans la société contemporaine, est-il un espace d’intégration pour des nouvelles générations de citoyens ? De ces questions et d’autres, j’ai discuté avec William Gasparini, professeur de sociologie du sport à l’Université de Strasbourg, et titulaire de la Chaire Jean Monnet en Sociologie européenne du sport (pour la période 2015-2018), engagé sur ces questions de recherche depuis de nombreuses années. Dans l’interview qui suit, le sociologue français met en évidence quelques points clés de l’expérience sportive en France, en la confrontant avec celles italienne, allemande et anglaise. Discuter de sports et immigration met en évidence la nature multidimensionnelle du sport, sa nature de « fait social total » (Mauss 1965), là où il apparaît comme un lieu d’inclusion, et au 18 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP contraire, de discrimination et de «racisme ordinaire ». Donc, le sport se révèle un miroir pour montrer une société multiculturelle comme celle de la France. En effet, au cours du vingtième siècle s’établit dans ce pays un modèle d’intégration culturelle laïc à travers les deux grandes agences d’enseignement : l’école et le sport. Un modèle qui, tout en reconnaissant la « double identité » des immigrants, a aussi montré ses limites: la présence de forts stéréotypes ou bien la tentative manquée de reconnaître l’égalité et la diversité pour tous les groupes ethniques de la nation. Tout ceci n’a pas arrêté la naissance d’une culture sportive de l’intégration qui a trouvé sa scène principale dans les terrains de jeux: le football, plus que les autres sports, est une voie d’ « ethnicisation » pour la société française. G. R. – Le sport est-il un fait social qui porte à la discrimination ? W. G. – Il y a deux façons de répondre à la question, le sport est un espace où il y a moins de discrimination à partir du moment où les joueurs ont un bon niveau de pratique. Par exemple, dans le football, dans toutes les équipes, il y a des joueurs qui viennent de différents pays et de l’immigration (africaine subsaharienne, algérienne etc.) parce que ce qui est mis en avant dans le sport c’est la capacité sportive et ce n’est pas l’origine. Mais, par contre, parmi les amateurs il y a plus de discrimination. J’ai en effet constaté dans mes enquêtes sur le sport dans les petits villages que, là, il y a plus de discrimination. Par exemple, dans les petits villages d’Alsace, du fait de la proximité de l’Allemagne, il y a beaucoup de Turcs qui jouent au football. Ils entendent des insultes raciales de la part des spectateurs, comme « sale Turc », c’est une forme de « racisme ordinaire » ; de l’autre coté, parmi les joueurs entre eux, il y a souvent des petites insultes, surtout de la part des Alsaciens qui accueillent des Turcs, des Maghrébins. Ce qui fait que les Turcs, par exemple, ont créé leurs propres clubs – on appelle cela des « clubs communautaires » – où ils jouent entre Turcs. On ne trouve pas le phénomène des clubs communautaires à E Ar D Fi Si DOSSIER haut niveau, parce que dans les clubs, comme le Paris St. Germain, le Lyon etc., il y a des immigrés, des Algériens et des Africains subsahariens. Je dis toujours: lorsqu’on est bon, l’intégration marche bien, c’est lorsqu’on est amateur qu’il y a des problèmes d’intégration. C’est pareil dans tous les espaces sociaux, les universités, etc. Il n’y a pas plus de discrimination dans le sport que dans la société. S’il y a de la discrimination dans la société, il y en a dans le sport. G. R. – Quelle est, à votre avis, la raison des insultes racistes adressées à Mario Balotelli, dirigées directement vers sa personne ? W. G. – En France aussi, il y a eu des insultes visant des joueurs noirs de haut niveau, mais actuellement, les lieux où il y a le plus d’insultes contre les joueurs noirs, sur le terrain, ce sont la Russie et la Pologne. En effet, cela se passe souvent dans les pays qui n’ont pas eu d’immigration. En France, par exemple, on est davantage habitués à avoir des joueurs noirs parce que dans les colonies françaises il y avait des gens noirs: nous avions les Algériens, les Marocains, les Tunisiens, on est un peu plus habitué… Le sport, en France, a contribué à contraster le racisme : le fait de voir des footballeurs africains a contribué à supprimer des stéréotypes. Cela ne veut pas dire qu’en France il n’y a pas de racisme, au contraire, il y a du racisme, par exemple il y a le Front national qui est un parti raciste, mais le sport à aidé quand même, en ce qui concerne la population générale, à admettre plus facilement les Noirs dans le travail. En Italie, vous avez moins de tradition d’immigration, et donc les joueurs noirs c’est quelque chose qui dans la tête des supporteurs, mais pas tous, peut-être les supporteurs de droite, n’est pas admissible. Il faut peut-être chercher à comprendre qui sont ceux qui lancent les bananes… En France, nous savons que, parmi les fans, ceux qui adoptent des gestes racistes, appartiennent dans la prévalence aux partis de l’extrême-droite. Donc ce phénomène de rejet pour la couleur de la peau existe dans beaucoup de pays, mais il est beaucoup plus fort dans les Zinedine Zidane. CC BY-SA 2.0 by Raphaël Labbé 19 E Ar D Fi SiDOSSIER S pays qui n’ont pas eu la tradition de l’immigration, comme l’Italie qui a été longtemps un pays d’émigration et plus récemment d’immigration. C’est peut-être une des explications. G. R. – Si j’ai bien compris, la politique du président Chirac en 1998, quand l’équipe a gagné la Coupe d’Europe de football, et après la Coupe du Monde, était une opération de communication pour montrer que la société française est ouverte et accueille tout le monde. W. G. – Oui,… « Black, blanc, beur », c’était le slogan… 1998 est un événement important pour la politique et le sport, parce qu’il faut noter que l’équipe que les journalistes disent “multiculturelle”, c’était surtout une équipe française. En effet, l’équipe de France est le symbole de cent ans d’immigration, la constitution de l’équipe c’est l’histoire, en raccourci, et le résultat de la politique française des cent dernières années… G. R. – En comparaison avec l’expérience française, peuton dire qu’il existe une politique d’intégration à travers le sport à partir de la présidence de Jacques Chirac ? W. G. – D’abord, il faut dire que la France, avec les USA, est le pays au monde qui a connu la plus grande vague d’immigration : depuis le XIX siècle elle a accueilli de nombreuses vagues d’immigrés. C’est important de le dire, parce que le modèle d’intégration se base sur cette histoire de l’immigration. Le plus grand pays-cible c’est les Etats-Unis, puis la France. Depuis 1890 nous avons reçu des Italiens, des Espagnols, des G. R. – En novembre 2005, toutes les banlieues protestent, Portugais et après, avec la deuxième vague, les Maghrébins, il y a des violences, pendant beaucoup de semaines, dans puis avec la troisième vague, toutes les villes de France, encore des Italiens, Algériens pourquoi donc ? et des Africains subsahariens. W. G. – Alors… en 1998 il y a L’Allemagne a reçu des imeu beaucoup d’instrumentaliJe crois que le sport, notamment le football, est migrés seulement à partir de sation politique de ce résultat le laboratoire de l’ethnicisation de la société 1960, avec l’arrivée des Turcs, sportif pour montrer que la française. l’immigration la plus forte en France était un pays multiAllemagne. En plus, la France culturel et qu’il n’y avait pas n’est pas un pays d’émigrade problèmes, alors que, au contraire, il y avait des cas de tion : les Français ne sont pas discrimination, qui avaient été un peu cachés. Le sport a été partis, n’ont pas émigré. le “paravent”, on a mis en avant la réussite dans le sport et on Donc, le modèle d’intégration français s’est construit sur cette a oublié de dire qu’au niveau des amateurs et dans le champ base historique et sur la base de la laïcité. Pour cela il est impordu travail il y avait des discriminations. Le sport a donc été tant de parler du modèle français d’intégration avant de parler utilisé pour communiquer à propos du “vivre ensemble”, qui du sport, car le sport s’intègre dans ce fond historique et soexiste, mais qui, en même temps, n’est pas la réalité. La réalité ciologique. La laïcité c’est la séparation entre l’Etat et l’Eglise, en France c’est qu’il y a des ghettos dans les banlieues, surtout à partir de 1905. Donc, quand les immigrés sont arrivés, tant dans les banlieues des grandes villes, Paris, Lyon, Marseille… qu’ils étaient italiens ou espagnols il n’y avait pas de problème, Le terme “banlieu” n’existe qu’en France, en Italie vous dites car c’était la même religion, mais l’intégration par le sport des « periferia » mais cela n’a pas le même sens… et en Allemagne Italiens et des Espagnols dans les équipes nationales était diffiil n’y a pas de banlieues.2 cile. Il y avait du racisme anti-Italiens, ce n’était pas un racisme Qu’est-ce que ce sont, les banlieues? Jusqu’en 1970, l’immigrade religion mais un racisme ethnique. Il y avait des stéréotypes tion était masculine, basée sur les travailleurs qui venaient pour sur les Italiens, donc, au début, on ne les accueillait pas dans travailler. Les familles ne pouvaient pas venir. En 1970, l’immiles clubs. Dans les années 1910, 20 et 30, en France on avait gration a été ouverte au regroupement familial, en autorisant beaucoup de clubs italiens de sport, football, cyclisme et boxe. les familles à venir en France. Toutes ces familles avaient besoin L’intégration passe par l’école et par le sport. En France il y a un d’être hébergées, et on a construit, dans les “périphéries”, les modèle d’intégration qui passe par l’école, c’est un paradigme banlieues. Mais le but de ces tours, de ces logements, au délaïc. Jusqu’en 1970/80, on parlait d’un modèle d’ “assimilation“, mais après 1980 on a parlé d’un modèle d’“intégration” : qu’estpart, c’était de donner une maison aux ouvriers et aux classes ce que cela veut dire? “Intégration”, pour la France, signifie moyennes, selon une idée assez visionnaire: ces banlieues ont “oublier” les origines géographique mais pas l’identité sociale et créé les tours d’appartements mais aussi la crèche pour les enculturelle. En France, il y a beaucoup de Franco-Algériens, Franfants, l’école, les terrains de football. C’était une vision adressée au vivre ensemble, d’abord. Mais, lorsque les immigrés sont co-Marocains, on reconnaît donc les deux identités. L’intégraarrivés, les Français ont quitté ces quartiers, progressivement. tion à la française c’est : on est français par les valeurs, mais on Ils sont allés acheter des petites maisons plutôt dans les petites a une origine qui vient d’ailleurs, et cette double identité est une villes et donc progressivement les banlieues sont restées des richesse. Une identité double, une nationalité double. Zidane lieux de résidence pour les immigrés, elles sont devenues des pouvait choisir de jouer dans l’équipe algérienne, mais il est né ghettos, ainsi que leurs écoles, alors qu’avant il y avait mixité. en France, il est français… En France, la majorité des Français Cette séparation s’est accentuée, avec une spirale du chômage issus de l’immigration, Algériens et Marocains, travaillent ou à partir de 1980, alors que la décision des regroupements avait vont à l’école. Il y a des discriminations dans le travail, c’est été en 1970, quand il y avait beaucoup de travail. En 1980, on vrai, par exemple pour trouver un travail et un logement, mais a eu la crise, qui a créé le chômage, le chômage a créé le Front pas dans le sport car les jeunes algériens, ou français d’origine National. Le FN est né en 1982, en jouant sur les peurs. Dans algérienne, font du sport, et il n’y a aucun problème pour jouer, ces années nous avons eu les premières émeutes dans les banle problème vient après, quand ils sont adultes… 20 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP E Ar D Fi Si DOSSIER lieues où des voitures ont brûlé, et où il y a eu plus d’actes de violence. Les émeutes ont commencé en 1982, d’abord à Minguettes, la banlieue de Lyon, et ensuite dans d’autres villes, jusqu’en 2005, quand deux mineurs se sont refugiés dans une cabine électrique est y sont morts. Après 2005, il y a eu des mouvements de la part des jeunes, des chômeurs, mais aussi de gens violents. Donc il y a eu ces mouvements des banlieues en 2005, un moment pendant lequel en France il y avait aussi une société qui se transformait, il y avait en effet aussi un vide politique en relation au référendum européen, lorsque la société française a refusé le traité européen. À cette époque, la France ne voulait plus continuer à rester dans l’Union européenne, parce que l’Europe devenait trop libérale et aussi parce qu’il y avait des problèmes sociaux en France. Il y avait un grand débat en France autour de ces questions, on dit qu’à partir de ce moment la crise du modèle d’intégration “à la française” est devenue évidente. Les facteurs de crise sont plusieurs : le modèle de l’Etat ne marche plus bien, il y a beaucoup de discriminations, le chômage augmente et l’école ne fonctionne plus comme un ascenseur social. En France c’était important le modèle d’ascenseur social représenté par l’école : les immigrés, comme moi par exemple, qui avaient fait des études ont atteint un haut niveau social grâce à l’école publique. Et on constatait que cela, en 2005, ne fonctionnait plus, il y avait une panne. G. R. – Y a-t-il maintenant d’autre modèles d’intégration ou bien il n’y a aucun modèle ? W. G. – Dans toute l’Europe on réfléchit sur des nouveaux modèles de citoyenneté. En France on est allé vers un modèle basé sur l’égalité avec la diversité, qui est un modèle qui n’est pas français mais anglo-saxon. Le modèle de la diversité signifie faire de la discrimination positive, par exemple réserver des postes de travail pour les minorités. On a essayé de mettre en place cette formule, mais je pense que ce n’est pas le bon modèle. Les attaques terroristes de 2015 montrent que ce modèle est en fait très loin de reconnaître et d’accepter la diversité. On est allé trop loin sur le modèle de la diversité en France, parce qu’on a reconnu trop de pouvoir aux religions, quand le modèle laïc ne reconnaît en France aucune religion, toutes sont au même niveau. Cependant, de plus en plus, il y a eu des revendications religieuses en France, de plus en plus depuis 2005/2010, selon l’idée que, pour avoir la paix sociale dans les banlieues, il faut donner du pouvoir aussi aux groupes religieux, aux leader religieux dans les banlieues et aussi dans le sport, car on a des clubs de sport avec des bases de religion, basés sur la religion. Il s’agit d’une minorité dans les banlieues, mais on a donné un peu de pouvoir pour avoir la paix sociale, comme en Belgique. G. R. – Organisent-ils des championnats entre eux ? W. G. – Non, pas en France. Il y a eu des expériences, mais en Allemagne où, pendant 4 ou 5 ans, il y a eu un championnat de football seulement pour les Turcs, pendant les années 1990. Maintenant cela n’existe plus, car l’Allemagne applique plutôt le modèle français. Avant, l’Allemagne avait le modèle multiculturel, elle reconnaissait les communautés religieuses. À Berlin, par exemple, il y a un quartier qui s’appelle “Kreutzberg”, où il y a beaucoup de Turcs, et il y a 3 ou 4 clubs de football seulement de Turcs. Il y a des écoles turques, des commerces turcs, c’est pratiquement une ville turque. Ici on suit un modèle allemand, mais maintenant, depuis 10/15 ans, les choses sont en train de changer. Avant, vers l’an 2000, les Turcs ne pouvaient pas avoir la nationalité allemande, seul le droit du sang était en vigueur, c’est-à-dire que pour être allemand il fallait avoir du sang allemand. Depuis l’an 2000 c’est fini, maintenant c’est comme en France, la citoyenneté est liée au droit du sol. Maintenant l’Allemagne est encore plus ouverte que la France pour accueillir les réfugiés syriens, parce qu‘en Allemagne il y a une baisse démographique, le pays est en train de vieillir, et accueillir des immigrés c’est une manière aussi d’avoir de la main d’œuvre et de rajeunir. La France n’est pas dans la même situation et, en effet, le président Hollande ne veut pas accueillir beaucoup d’immigrés. Donc dans le sport, les meilleures équipes nationales sont maintenant mixtes. Mais il faut distinguer: en France, il y a les immigrés et il y a les Français des territoires d’outre-mer, comme la Martinique et la Guadeloupe. Les habitants de ces îles ne sont pas des immigrés, ce sont des Français des territoires d’outremer. Dans l’athlétisme, tous les champions viennent de la Martinique ou de la Guadeloupe, ce ne sont pas des immigrés, mais cela dépend aussi du type de sport. Par exemple, dans la course d’endurance, ce sont plutôt des Français originaires de l’immigration algérienne et marocaine, alors que dans la course de vitesse ils viennent plutôt de la Martinique et de la Guadeloupe. Dans le football, par exemple, actuellement il y a des joueurs principalement algériens comme Benzema, ou Zidane. Dans le basketball il y en a peu des deux origines, dans le cyclisme il n’y a pas d’immigrés, et dans la natation non plus. Dans les sports populaires nous avons beaucoup de fils d’immigrés: le football, par exemple, est très populaire en France, dans l’équipe nationale ils sont tous fils des classes populaires. Dans le tennis il y a Yannick Noah, qui est fils de Camerounais, mais son père appartenait au plus haut niveau social. Donc, la question est plutôt sociale, il faut toujours relier le social avec le culturel pour étudier le sport et l’immigration. Dans les sports bourgeois, par exemple l’équitation, il n’y a pas d’immigrés, dans le ski non plus nous n’avons pas d’immigrés. Il faut donc regarder de près dans quelle pratique sportive il y a des enfants d’immigrés, Français issus de l’immigration, normalement ce sont des sports populaires et si nous avons quelques exceptions ce sont plutôt des enfants qui viennent des milieux sociaux élevés. Par exemple, à Strasbourg nous avons une communauté turque qui est de très haut niveau. Ce sont des fonctionnaires du Conseil de l’Europe, nous avons aussi des professeurs d’université qui sont turcs, les fils de cette élite turque pratiquent des sports tels que le tennis, l’équitation. Donc, c’est un problème social plutôt qu’un problème d’immigration. Mais les Turcs qui sont des travailleurs, des ouvriers, ils font du football dans les clubs. J’ai fait une recherche sur les clubs turcs et j’ai remarqué que tous ceux qui pratiquent le foot dans les clubs des Turcs sont ouvriers ; les Turcs d’un plus haut niveau social ne jouent pas au football, ils jouent au tennis, au golf, etc. Donc, c’est un problème de capital social et capital économique… et culturel. Ce n’est pas un problème d’origine, c’est une question culturelle liée à la famille. Je crois que le sport, notamment le football, est le laboratoire 21 E Ar D Fi SiDOSSIER S Sport e immigrazione. Cambiamenti sociali e pratiche di integrazione in Europa L o sport è una delle attività più diffuse nella società contemporanea: nell’essere strumento atto a migliorare il benessere psico-fisico della popolazione in termini di stili di vita sani, esso riveste anche un importante ruolo di coesione sociale fornendo opportunità di incontri e scambi fra persone di differenti generi, culture, capacità, nazionalità, rafforzando in tal modo la “cultura del vivere insieme”. Riconoscere allo sport la capacità di essere veicolo d’integrazione delle diversità – a conferma dell’attenzione al dialogo interculturale a livello europeo – ne attesta l’importanza nel dibattito attuale su integrazione e multiculturalismo, le cui problematiche alimentano quotidianamente lo storytelling mediatico. In quest’ottica è legittimo porsi alcuni interrogativi, per esempio: quale nesso produttivo esiste fra la costruzione di una società multiculturale e la diffusione delle pratiche sportive? Quali significati, valori e paradossi coesistono oggi nella cultura di integrazione sportiva europea? Quale efficacia ha lo sport nel descrivere una società multiculturale? In questo contesto, l’habitus “sportivo” funge da campo di competizione tra migranti e autoctoni oppure, nella società contemporanea, è spazio di integrazione per generazioni di nuovi cittadini? Nell’intervista al sociologo William Gasparini (professore di Sociologia dello sport presso l’Università di Strasburgo e titolare della cattedra J. Monnet) vengono argomentati alcuni punti chiave dell’esperienza sportiva in Francia, comparandola a quella italiana, tedesca e inglese. Il modello di integrazione culturale francese, laico nella sua essenza, e trasmesso attraverso le due agenzie educative principali – la scuola e lo sport – ha nel tempo evidenziato pregi e difetti. L’esplosione delle rivolte nelle periferie francesi, create per ospitare le famiglie degli operai ma poi abbandonate dai francesi e lasciate nel degrado, ha fatto emergere improvvisamente il problema. Il razzismo e la discriminazione si osservano soprattutto nel calcio giocato dagli adulti “a basso livello”, mentre tra i bambini e nelle grandi équipe non lo si rileva. Si registra però, soprattutto nello sport amatoriale, la persistenza di forti stereotipi e l’impossibilità di riconoscere l’uguaglianza fra i vari gruppi presenti nella nazione. Dall’altro lato si sperimenta, soprattutto attraverso il calcio, l’attuazione di una cultura di integrazione sportiva, laboratorio di “etnicizzazione” per la società francese. Infatti, secondo Gasparini, nel calcio di alto livello si utilizzano con naturalezza i termini come etnia, neri, differenze, mentre il resto della società non sembra ancora preparato al tema. 22 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP de l’ethnicisation de la société française. C’est ma thèse, maintenant: dans le football de haut niveau on parle de façon naturelle d’ethnie, de Blacks, de différences, tandis que le reste de la société ne paraît encore pas préparé à la question. Des grands entraîneurs, en France, ont dit, par exemple, que les Blacks son plus forts que les Blancs, les Blacks sont meilleurs en défense qu’à l’attaque… Ces types de discours sont normalement acceptés de la part des professionnels du football de haut niveau, mais je crois qu’il faut dire que ce ne sont que des stéréotypes racistes ordinaires. NOTES 1 - L’habitus selon Bourdieu [1983] est un moyen de se déplacer dans l’espace social dans lequel chaque individu est inséré. Il est le moteur de pratiques sociales considérées comme un ensemble de stratégies et de dispositions durables qui guident les agents sociaux dans la reproduction de la réalité environnante. 2 - Le terme désigne les zones périphériques des grandes agglomérations françaises, qui se sont développés à partir de 1970 en raison du grand nombre d’immigrants provenant principalement des anciennes colonies qui, à ce moment-là prenaient leur indépendance de la France. BIBLIOGRAPHIE P. 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L’intercultura sui campi da gioco, Cortina Ed., Milano 2010 Giovanna Russo Giovanna Russo, Phd in Sociologia e Politiche Sociali, è attualmente Assegnista di ricerca presso l’Università di Bologna “AMS”, dove insegna Sociologia dello sport e della comunicazione e Problematiche sociali delle diversità culturali e religiose. Dal 2010, è membro di SportComLab – Centro Studi e ricerche sulla comunicazione sportiva e del comitato editoriale della collana “Sport, Corpo, Società” (Franco Angeli ed., Milano). Fra le sue pubblicazioni: 2016, Il Mondiale delle meraviglie. Calcio, media e società da Italia ’90 ad oggi (con N. Porro, S. Martelli); 2013, Questioni di ben-essere. Pratiche emergenti di cultura, sport, consumi; 2011, La società della wellness. Corpi sportivi al traguardo della salute. E Ar D Fi Si DOSSIER Stelle nere, calcio bianco. Calcio, capitale e razzismo nell’Italia contemporanea Oggi, il calcio rappresenta in tutto il mondo un’industria economica e finanziaria capace di influenzare molti altri settori (moda, media, pubblicità), i cui dirigenti conducono strategie di gestione attente alla mediazione tra immagine politicamente corretta e interessi economici. di Roberto Pedretti I l calciatore francese Lilian Thuram, campione del mondo con i Bleus nel 1998 e giocatore per le squadre italiane del Parma e della Juventus, afferma che «si diventa neri con lo sguardo degli altri».1 Thuram è un giocatore che si è speso, e si spende, contro il razzismo e in particolare contro il razzismo nel calcio. Ha osservato e vissuto questa realtà dalla posizione privilegiata di calciatore di successo, maturando la consapevolezza della vastità di un fenomeno di cui spesso si sottovaluta la portata culturale, politica e istituzionale. Secondo il calciatore francese quello che accade negli stadi di tutta Europa altro non è che lo specchio della realtà sociale in cui viviamo, una realtà che il mondo del calcio si ostina a minimizzare adottando strategie auto-assolutorie. La società riflessa in un campo sportivo Per molti spettatori che ancora oggi affollano gli stadi italiani, nonostante l’aumento del costo dei biglietti e la fatica di dover superare gli ostacoli legati alle politiche di securitizzazione, l’esperienza dei novanta minuti della partita rappresenta ancora un momento di grande partecipazione emotiva.2 Questo avviene malgrado o forse in reazione alle trasformazioni radicali (economiche, istituzionali, burocratiche) che il calcio ha conosciuto a partire dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso. Consapevoli o inconsapevoli di tali cambiamenti, molti appassionati di calcio che si sottomettono alle dinamiche economiche e ideologiche che definiscono la natura del calcio contemporaneo esperiscono la partita e i momenti che la precedono e la seguono con modalità che cercano di riprodurre un passato idealizzato, una possibilità di mettere in atto forme di resistenza e di opposizione. Questa reazione “romantica” al processo di espropriazione e di mercificazione totalizzante e alla trasformazione in prodotto di consumo di massa del calcio si inserisce in un contesto complesso e contraddittorio che riflette la natura polimorfa delle formazioni culturali che tendono a riprodurre le tensioni e i meccanismi di negoziazione che defini- scono provvisoriamente lo stato dei rapporti sociali. Il calcio rappresenta un’esperienza significativa per centinaia di milioni di persone (praticanti e non), una fonte di profitto per il capitale, un veicolo di costruzione del consenso politico, ma non può essere considerato solamente come una sovra-determinazione delle relazioni sociali ed economiche o un luogo in cui si riproducono meccanismi di alienazione ed espropriazione. Dalla prospettiva degli Studi Culturali si tratta di guardare il calcio cercando di rintracciare l’insieme di determinazioni, relazioni e interazioni costitutive del fatto che anche il calcio possa essere assimilato a qualsiasi altra pratica culturale. Mappare questa complessità significa collocare il calcio all’interno del contesto storico e sociale in cui si articola e concretizza caricandosi di significati spesso contraddittori e ambigui, sottolineando come esso sia anche un luogo di possibilità, uno spazio dove mettere in pratica forme di resistenza, di autonomia e di agency. Riprendendo le riflessioni di Antonio Gramsci, Stuart Hall scrive – a proposito della categoria del “popolare” – che la dialettica della lotta culturale produce continuamente complesse relazioni di resistenza e accettazione, rifiuto e capitolazione.3 La progressiva egemonia esercitata dal capitale sullo sport, determinata dalla necessità di sfruttarne le potenzialità economiche, ha incentivato competizione, burocratizzazione e istituzionalizzazione, non riuscendo tuttavia a sanitanizzare e sterilizzare interamente lo spazio sportivo, spazio che resta politicamente sensibile e al cui interno si riproducono – in forme diverse – le contraddizioni e le tensioni che attraversano la società nel suo complesso. In questa prospettiva il calcio rappresenta un caso esemplare di pratica e spazio culturali che nel corso della sua evoluzione ha riflesso contraddizioni e tensioni legate a specifiche congiunture che ha, di volta in volta, cercato di nascondere, superare o risolvere ambiguamente. È questo il caso della complessa relazione tra calcio e razzismo, una relazione che offre la possibilità di osservare come si declinino narrazioni ideologiche e istituzionali che cercano di articolare soluzioni e risposte a un fenomeno sociale di- 23 E Ar D Fi SiDOSSIER S Mondiali antirazzisti 2016. © Nicola Fossella rompente, diffuso in ogni livello del mondo del football.4 Alcuni cambiamenti strutturali che hanno radicalmente trasformato the beautiful game proiettandolo interamente nell’orbita del capitale sono coincisi con l’affermarsi di politiche repressive e di controllo attivate a partire dagli anni Ottanta, inizialmente in Gran Bretagna.5 Nel giro di pochi anni, la convergenza di interessi economici, finanziari, mediatici e politici ha condotto il calcio nell’orbita dell’egemonia neoliberista trasformandolo in una merce globale in grado di generare fatturati e profitti impensabili nel passato. Questo processo ha condotto – come scrive il sociologo Richard Giulianotti – a una iper-mercificazione dello sport che plasticamente si riflette anche nelle modalità di fruizione e consumo e nell’organizzazione degli spazi e dei luoghi sportivi.6 Basti pensare ai processi di ristrutturazione degli stadi calcistici, trasformati in luoghi di estrema razionalizzazione progettuale legata a complessi modelli di consumo e intrattenimento, luoghi che riflettono precise distinzioni di classe e capacità reddituale.7 La società di Deloitte – un player importante nel settore delle consulenze sportive – pubblica annualmente un rapporto circostanziato sulla situazione finanziaria dei cinque maggiori campionati e delle venti maggiori società di calcio in Europa. Nell’ultima analisi finanziaria relativa all’anno sportivo 2014-2015, i venti top-club del continente hanno generato 24 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP 6,6 miliardi di Euro di fatturato con un incremento dell’8% e una previsione di abbattere il muro dei 7 miliardi nell’anno sportivo 2015-2016.8 Il calcio contemporaneo si presenta oggi come un fenomeno di dimensioni globali ed è una delle industrie più floride del pianeta, contribuendo ad alimentare significativamente altri comparti economici (moda, media, pubblicità) e il circuito di produzione e consumo delle merci più varie attraverso sponsorizzazioni di squadre e singoli giocatori. I principali protagonisti dell’industria calcio sono così trasformati in icone globali, veicolo in/consapevole di interessi economici e ideologici che riflettono l’ambiguità della narrazione neo-liberista. In particolare il tema del razzismo diviene occasione di politiche di branding e marketing che sono utilizzate per trasmettere un’immagine positiva del sistema nel suo complesso. Persistenza delle logiche e narrazioni razziste Come in altre pratiche culturali, anche nello sport si sono articolati discorsi complessi in riferimento alla razza e al razzismo che hanno favorito la diffusione di stereotipi e cliché utili per naturalizzare e istituzionalizzare relazioni di potere e dominio reiterate nel tempo. Questi processi di adattamento alle trasformazioni sociali ed economiche iniziati nella seconda metà dell’Ottocento hanno contribuito a sostenere e diffondere – soprattutto in epoca coloniale – un’aggressiva ideologia euro-centrica e imperialista che ancora oggi incide sui meccanismi che determinano le politiche e il funzionamento E Ar D Fi Si DOSSIER altro che una conferma dell’impossibilità di guardare il razzidelle istituzioni sportive. Nonostante gli sforzi per eliminare smo fuori da meccanismi auto-assolutori. Questi meccanismi o diminuire i fattori di discriminazione ed emarginazione, la derivano anche da una visione priva di prospettiva storica e logica della razza gioca ancora un ruolo determinante nello rigida del razzismo, incapace di cogliere le trasformazioni nei strutturare la pratica sportiva e nel costruire la narrazione suoi modi di declinarsi materialmente, il che non ha mancadello sport. In questa prospettiva il calcio rappresenta un to anche di influenzare – rendendole poco efficaci e confuse caso esemplare ove i temi della razza e del razzismo si de– le strategie e le politiche antirazziste. Non va dimenticato clinano in narrazioni ideologiche, a livello sia popolare che che i ritardi e le negligenze nel contrastare questi fenomeni istituzionale, che cercano di formulare risposte e soluzioni si possono cogliere anche nelle lentezze mentali e culturali ambigue e contraddittorie, spie della costante presenza di che hanno accompagnato la riscrittura dello statuto del CONI strutture di pensiero fortemente condizionate da pregiudizi la cui prima redazione risale al 1942: solo con le modifiche etnici e razziali.9 introdotte nel 1999 si sono eliminati i riferimenti alla razza e In questo contesto vanno collocate anche molte delle campaal suo miglioramento fisico e morale (art.2). Ciò che colpisce gne antirazziste messe in atto da organismi istituzionali come nell’atteggiamento delle istituzioni calcistiche italiane nell’ala FIFA10 e l’UEFA11 che oggettivamente paiono servire più a zione di contrasto al diffondersi di episodi di razzismo è antrasmettere un’immagine politicamente corretta dell’istituche l’utilizzo dei meccanismi zione piuttosto che incidere sanzionatori: la somministrasulla presenza più o meno vezione di multe e squalifiche, lata di forme di razzismo ed più che una procedura oggetesclusione strutturali.12 Ciò I principali protagonisti dell’industria calcio sono tiva, è una variabile legata a appare ancora più evidente così trasformati in icone globali, veicolo in/ fattori soggettivi che tendono se si considera come il neoconsapevole di interessi economici e ideologici ad articolare la narrazione liberismo agisca nel riformuche riflettono l’ambiguità della narrazione neodel razzismo all’interno di lare i concetti stessi di razza liberista. In particolare il tema del razzismo diviene una prospettiva di gestione e di razzismo cercando di sioccasione di politiche di branding e marketing dell’ordine pubblico. A quelenziarli e mimetizzarli all’insto proposito bisogna ricorterno di pratiche che negano che sono utilizzate per trasmettere un’immagine dare che è ancora la Legge la presenza strutturale di forpositiva del sistema nel suo complesso. Mancino in vigore dal 1993 me di discriminazione.13 Nel a fungere da modello fondamondo del calcio, attraverso mentale per combattere il fequeste strategie si cerca di rinomeno: nonostante i buoni propositi, la normativa risente durre le manifestazioni più evidenti di razzismo a una dimendel clima politico dell’epoca in cui è stata approvata, un consione patologica espressa da individui o gruppi organizzati, testo sociale ancora poco consapevole delle profondità delle isolandolo dalla dimensione storica e sociale in cui si produtrasformazioni in atto. Mentre le norme che puniscono l’uso ce. Oppure, come spesso accade quando episodi di razzismo di linguaggio e comportamenti razzisti sui campi di gioco e coinvolgono figure pubbliche di rilievo, si innescano processi negli stadi sono formalmente severe (anche se in realtà sono di minimizzazione e banalizzazione che ambiguamente relei meccanismi procedurali annacquati a rendere complicato gano questi episodi nell’ambito dell’infortunio lessicale, della formulare l’accusa di razzismo), le opinioni espresse dai rapsuperficialità, della provocazione maldestra. Alcuni episodi presentanti istituzionali, anche in sedi ufficiali e pubbliche, recenti che hanno coinvolto esponenti di punta delle istitugodono di un trattamento diverso e di una sorta di impunità. zioni calcistiche italiane sono segnali di queste ambiguità che In questa prospettiva si collocano anche le numerose prese di rifiutano di riconoscere come discriminazione e razzismo posizione delle società calcistiche che, sulla base delle preocsi possano produrre anche in forme apparentemente banacupazioni per danni economici e patrimoniali, sono riuscite li. Le affermazioni del luglio 2014 del presidente della FIGC a ottenere significative riduzioni delle sanzioni e a limitare le Carlo Tavecchio sul numero di calciatori stranieri nelle serie fattispecie cui applicarle. Così gli stakeholders che gestiscono maggiori (con particolare riferimento ai giocatori africani) e il mondo del calcio italiano tendono ad articolare strategie in quelle di carattere omofobo pronunciate del presidente della cui si incrociano le necessità di offrire un’immagine politicaLega Nazionale Dilettanti Felice Belloli nel maggio 2015 sul mente corretta e di proteggere i propri cospicui interessi macalcio femminile sono rivelatrici di queste modalità di penteriali ed economici. A ben guardare, un esempio significativo siero. Non sono da meno i titoli dei media e gli interventi di in tal senso è l’uso che è stato fatto dalle istituzioni calcistiche alcuni opinionisti nazionali che confermano l’arretratezza e delle norme relative alla “discriminazione territoriale”, quella lentezza culturali che coinvolgono il sistema calcio nel cola serie di comportamenti e atteggiamenti che alcuni grupgliere e fare propri i cambiamenti strutturali con cui anche la pi di tifosi mettono in atto per offendere e denigrare i tifosi società italiana è chiamata a confrontarsi.14 In realtà, ciò che il avversari e che hanno come oggetto la provenienza o alcune mondo del calcio mostra in maniera evidente – anche grazie presunte specificità culturali e/o comportamentali. Al di là all’enorme visibilità e interesse pubblico che genera – è prodell’evidente difficoltà nel definire chiaramente i contenuti prio la generale difficoltà di accettare il fatto che il razzismo e delle norme in questione, il dibattito e l’interesse mediatico la discriminazione siano un problema diffuso e complesso, e sviluppati su questo tema hanno oggettivamente contribuito che la reticenza e le difficoltà di comprensione che spesso acad alimentare l’impressione che il razzismo e le discriminacompagnano i discorsi pubblici su episodi specifici non sono 25 E Ar D Fi SiDOSSIER S zioni di genere o di orientamento sessuale non rappresentassero una priorità da affrontare.15 Così la retorica dispensata dalle istituzioni sportive si caratterizza per essere un misto di severità, strategie di minimizzazione e auto-assoluzione, una miscela di ingredienti che alimenta quei discorsi sulla razza e sul razzismo i cui contenuti vengono naturalizzati e veicolati nel senso comune. Questi discorsi vanno collocati all’interno della produzione e riproduzione sociale di significati – di cui lo sport è un tramite – che prendono forma nel contesto di complesse relazioni e interessi sociali, politici ed economici. La presunta irrilevanza o marginalità del fattore razziale nello sport e nei discorsi costruiti intorno a esso sono rivelatori della funzione egemonica che esercita il neoliberismo nell’elaborare una strategia che individualizza il razzismo, lo riduce a fatto episodico, depoliticizzandolo e negandone il carattere strutturale.16 In sostanza si può affermare che la storia recente del sistema calcio italiano sia significativamente rappresentativa delle difficoltà e delle resistenze che attraversano il Paese nel passaggio da una società percepita come etnicamente omogenea a un modello più problematico, aperto ai flussi e alla circolazione globali. Non va dimenticato che l’impatto dei fenomeni migratori che dalla fine degli anni Ottanta investono il Paese si inserisce in una tradizione culturale che fatica a fare i conti con le avventure coloniali del passato, con il razzismo e la retorica romano-imperiale del fascismo. L’assenza di un dibattito pubblico chiaro e trasparente su questo momento della nostra storia impedisce di riflettere sul contesto contemporaneo e comprendere il ruolo che la nazione svolge in questa complessa partita, e inoltre favorisce il permanere di narrazioni che assolvono il Paese dall’avere praticato o praticare forme di discriminazione e razzismo.17 Fuori dall’orbita delle forme istituzionalizzate e burocratizzate del calcio esistono comunque decine di realtà che operano per pensare e praticare modalità diverse di calcio. Queste forme di resistenza e lotta si articolano in strategie che attivano pratiche antirazziste e che cercano di costruire spazi liberi da intolleranza e discriminazione. Spesso queste iniziative prendono forma proprio nei luoghi problematici dove il razzismo si manifesta concretamente. Attraverso l’organizzazione di manifestazioni sportive aperte alle minoranze etniche e la fondazione di squadre di calcio multietniche si attivano strategie micro-politiche ove è possibile coltivare l’integrazione e difendere i diritti umani. È il caso dei Mondiali Antirazzisti,18 una manifestazione che si svolge del 1997 grazie al sostegno dell’UISP (Unione Italiana Sport per Tutti) che coinvolge centinaia di realtà sportive che partecipano non per vincere ma come occasione di conoscenza, integrazione e solidarietà. Ad Ancona, dal 2002, si gioca il Mundialito Antirazzista Assata Shakur,19 a Palermo ha preso il via il Mediterraneo Antirazzista,20 un’occasione di incontro attraverso lo sport che si è diffusa in altre città italiane. A Lecce e nel Salento si giocano Calciosenzaconfini21 e Noracismcup.22 La caratteristica comune di queste manifestazioni è l’essere il risultato di processi reticolari diffusi sul territorio che coinvolgono realtà sociali e politiche diverse ma accomunate dall’obiettivo di utilizzare lo sport come pratica di liberazione e integrazione.23 Accanto a queste iniziative va ricordato che la capacità di agency – intesa come capacità di declinare bisogni e soddisfare desideri concorrenti con i meccanismi del consumo di massa – si coglie nel proliferare di iniziative legate 26 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP allo sport e al calcio che propongono politiche radicali di rifiuto dei meccanismi di mercificazione e marketing, attivando forme di partecipazione diffusa volte a restituire a queste pratiche un vero contenuto popolare.24 «Non ci sono neri italiani» è il coro che spesso ha accompagnato l’ingresso in campo di Mario Balotelli, il calciatore italiano che più di altri rappresenta, grazie alla propria storia e all’enorme notorietà, le trasformazioni che stanno trasformando l’Italia. Balotelli è l’obiettivo dello scherno razzista perché non solo è nero, ma è anche italiano. L’atteggiamento verso questo calciatore è rivelatore della fragilità identitaria della nazione, un’identità che oscilla tra narrazioni che rivendicano la necessità di difendere un’idea di Italianità dai contorni piuttosto vaghi e riflessioni che auspicano una lettura articolata dei cambiamenti in atto. Perché, come cantano i napoletani Almamegretta, «Siamo figli di Annibale».25 BIBLIOGRAFIA E. Brizzi, L’inattesa piega degli eventi, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2009 D. Bursday, One week in October: Luis Suarez, John Terry and the turn to racial neoliberism in English men’s professional football, in «Identities: Global Studies in Culture and Power», vol. 21, n. 5, 429–447, http://dx.doi.org/10.1080/1070289X.2014.924415 B. Carrington, I. Mcdonald, (a cura di), Marxism, Cultural Studies and Sport, Routledge, Londra 2009 Commissione europea, Libro Bianco sullo Sport, Bruxelles 2007 J. Foot, Calcio. 1898-2010, Storia dello sport che ha fatto l’Italia, RCS Libri, Milano 2010 R. Giulianotti, Sport. A Critical Sociolology, Politi Press, Cambridge 2005 A. Gramsci, Scritti giovanili, 1914-1918, Einaudi, Torino 1972 W. Hofmeister, M. Sarmah, (a cura di), More Than a Game. Sports, Society and Politics. Konrad Adenauer Stiftung, Singapore 2014 P. Kennedy, D. Kennedy, Football Supporters and the Commercialisation of Football, Routledge, Oxford 2013 R. Pedretti, Il colore del denaro, il colore della pelle. Marketing, razzismo e capitale nel calcio: le ambiguità del caso Balotelli, in «Altre Modernità. Rivista di studi letterari e culturali», n.14, 2015, pp.25-45 http://riviste.unimi.it/index.php/AMonline/article/view/6531P N. Porro, Identità, nazione, cittadinanza, Edizioni Seam, Roma 1995 L. Thuram, Le mie stelle nere, Add Editore, Torino 2013 A. Tomlinson, (a cura di), The Sport Studies Reader, Routledge, Londra 2007 J. Walvin, The Only Game, Pearson, Edimburgo 2001 SITOGRAFIA - http://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=CELEX:52007SC0935 - www2.deloitte.com/uk/en/pages/sports-business-group/articles/deloitte-football-money-league.html - www.fifa.com - http://www.fifa.com/mm/document/afsocial/anti-racism/02/08/56/92/ fifa-paper-against-racism-en-def_neutral.pdf - www.uefa.org - http://www.uefa.org/MultimediaFiles/Download/EuroExperience/uefaorg/Anti-racism/01/95/54/81/1955481_DOWNLOAD.pdf - http://ru.uefa.com/MultimediaFiles/Download/uefa/UEFAMedia/258797_ DOWNLOAD.pdf - www.fra.europa.eu - http://www.repubblica.it/la-repubblica-delle-idee/firenze2013/2013/06/09/ news/thuram-60710622/ E Ar D Fi Si DOSSIER NOTE 16 - La presenza di forme strutturali di discriminazione nel calcio si mani- 1 - http://www.repubblica.it/la-repubblica-delle-idee/firen- festa chiaramente fuori dal campo di gioco, nella quasi totale assenza di ze2013/2013/06/09/news/thuram-60710622/. tecnici e dirigenti appartenenti a minoranze etniche. Anche l’arrivo in Se- 2 - A questo riguardo si vedano l’introduzione della tessera del tifoso, dei rie A del nuovo proprietario indonesiano del F.C. Internazionale di Milano biglietti nominali, delle limitazioni alle trasferte, i filtri preventivi di acces- è stato accompagnato da commenti rozzi rivelatori dei pregiudizi e degli so agli impianti, l’introduzione dei tornelli agli ingressi, i controlli interni, stereotipi diffusi ad ogni livello del calcio italiano. Al contrario, l’entrata di ecc. investitori americani e canadesi di origini italiane nel calcio di alto livello 3 - S. Hall, Sport without final guarantees, in B. Carrington e I. Mcdonald, non ha provocato alcuna reazione negativa. (a cura di), Marxism, Cultural Studies and Sport, Routledge, London 2009, 17 - Una sintesi efficace delle relazioni tra calcio, razzismo e imperialismo p. 19. fascista si trova nel romanzo ucronico di Enrico Brizzi L’inattesa piega degli 4 - Si veda il saggio di R. Pedretti, Il colore del denaro, il colore della pelle. eventi pubblicato nel 2009 per i tipi di Baldini Castoldi Dalai. Marketing, razzismo e capitale nel calcio: le ambiguità del caso Balotelli, in 18 - http://www.mondialiantirazzisti.org/. «Altre Modernità. Rivista di studi letterari e culturali», n.14, 2015, pp.25-45. 19 - https://polisportivassatashakur.wordpress.com/. http://riviste.unimi.it/index.php/AMonline/article/view/6531. 20 - http://www.mediterraneoantirazzista.org/. 5 - Non è un caso che questo processo avvenga durante gli anni del tha- 21 - http://calciosenzaconfini.blogspot.it/. tcherismo. Il duro confronto ideologico-sociale e la domanda di interventi 22 - http://noracismcup.blogspot.it/. draconiani nel campo dell’ordine pubblico si abbattè sugli stadi inglesi mu- 23 - Sono processi che - come suggerisce Nicola Porro - possono essere col- tandone indelebilmente l’atmosfera e la composizione sociale. locati in dinamiche che utilizzano lo sport come occasione per espandere 6 - R. Giulianotti, Sport. A Critical Sociolology, Politi Press, Cambridge, i diritti di cittadinanza. N. Porro, Identità, nazione, cittadinanza, Edizioni 2005, p. 52. Seam, Roma 1995, p. 168. 7 - Sebbene con ampio ritardo rispetto ad altri Paesi europei, anche in Ita- 24 - Si veda la diffusione di società calcistiche nate in tutta Europa che, con lia si stanno imponendo modelli gestionali degli stadi fortemente orientati l’obiettivo di restituire al calcio la sua natura popolare, si pongono in posi- al business attraverso l’acquisizione di stadi di proprietà dei club (spesso zione fortemente critica nei confronti delle istituzioni ufficiali. sponsorizzati da aziende multinazionali), l’apertura di spazi commerciali 25 - Almamegretta, Siamo figli di Annibale, 1993, Anagrumba/BMG. e la realizzazione di aree separate riservate a un pubblico privilegiato di manager ed executive (le cosiddette aree VIP). 8 - Il report, ironicamente ma significativamente intitolato “Top of the Table. Football Money League” è disponibile in versione pdf su http:// ABSTRACT EN www2.deloitte.com/uk/en/pages/sports-business-group/articles/deloitte-football-money-league.html. 9 - R. Giulianotti, op.cit. pp. 74-79. 10 - La FIFA (Federation International du Football Association) è l’organismo che governa il calcio mondiale. Fondata nel 1904, ha sede a Zurigo e l’ultimo bilancio disponibile (2014) indica entrate per oltre 2 miliardi di dollari. Nel 2015 la FIFA è stata travolta da una serie di scandali che ne hanno azzerato i vertici storici. 11 - La Union of European Football Associations è l’organo di governo del calcio europeo che riunisce le federazioni nazionali. Fondata nel 1954, ha sede in Svizzera (Nyon). L’ultimo bilancio pubblico (2013/14) certifica entrate per 1,7 miliardi di euro. 12 - Anche l’Unione europea segnala attraverso l’Agenzia per i diritti fon- Nowadays, football is a worldwide economic and financial industry which contributes to the revenue of many other economic sectors (fashion, media, advertising, luxury and mass products, etc.). The footballers – the leading figures in this industry – have become global icons who convey strong ideological and economic interests. This essay investigates – with particular reference to Italian football – how neo-liberal capitalistic interests ambiguously use race and racism to articulate strategies and narratives aimed at offering a positive image of football and its institutions while, at the same time, structural racism remains intact. damentali (FRA) che nelle strutture e nelle istituzioni sportive dell’Unione le minoranze sono sottorappresentate, in particolare nei ruoli direttivi e manageriali. fra.europa.eu/sites/…/fra…/1199-Report. 13 - D. Bursday, One week in October: Luis Suarez, John Terry and the turn to racial neoliberism in English men’s professional football, in «Identities: Global Studies in Culture and Power», Vol. 21, No. 5, 2014, pp. 429–447, http:// Roberto Pedretti dx.doi.org/10.1080/1070289X.2014.924415. 14 - Si veda, a titolo di esempio, la polemica scatenata dalle affermazioni dell’ex-allenatore Arrigo Sacchi sulla presenza eccessiva di calciatori di colore nelle squadre giovanili. «L’Italia è oramai senza dignità né orgoglio perché fa giocare troppi stranieri anche nelle Primavere: nei nostri settori giovanili ci sono troppi giocatori di colore. » (Gazzetta dello Sport, 16/2/2015). 15 - Va ricordato che nel 2014, su pressione delle società calcistiche, le norme sulla discriminazione territoriale sono state di fatto cancellate. Declassata a semplice oltraggio, viene punita con sanzioni pecuniarie. Inoltre, va sottolineato che la tipologia in questione era ed è del tutto assente nelle ha insegnato per diversi anni Cultura Inglese all’Università di Milano. Ha pubblicato saggi e articoli sulla storia e sulla cultura del Sudafrica, sullo sport e sulle sottoculture. Nel 2009 ha pubblicato (con Itala Vivan) il libro Dalla lambretta allo skateboard. Teorie e storia delle sottoculture giovanili britanniche. 1950-2000 (2009). Nel 2012 ha curato (con Lidia De Michelis, Claudia Gualtieri e Itala Vivan) la pubblicazione del libro Prisma Sudafrica. La nazione arcobaleno a vent’anni dalla liberazione. 1990-2010. Vive e lavora a Milano. normative delle altre federazioni europee. 27 E Ar D Fi SiDOSSIER S Calcio e identità. I Black Italians tra interdizione razziale e integrazione In Italia per decenni gli atleti stranieri o discendenti da stranieri sono stati interdetti dallo sport. In un Paese che a lungo ha negato il proprio passato coloniale, negli ultimi anni si sta assistendo a un cambiamento verso processi di reale integrazione, dove lo sport gioca un ruolo decisivo. di Giorgio Caccamo C on oltre 33mila tesserati stranieri nei settori giovanili della FIGC (Federazione italiana giuoco calcio), il calcio svolge da qualche decennio in Italia un importante ruolo di promozione dell’integrazione, anticipando l’evoluzione della società in senso più inclusivo. La stessa integrazione nelle scuole – insieme all’insegnamento della lingua italiana per gli studenti di origine straniera – può essere favorita dalla pratica sportiva: proprio il calcio si è rivelato uno strumento valido e un’opportunità per promuovere l’intercultura e il dialogo tra generazioni e culture diverse (Caon, Ongini 2008). In una nazione che non ha mai fatto i conti con il suo passato coloniale e assegna ai legami di sangue (ius sanguinis) il primato per l’assegnazione dei diritti di cittadinanza – principio che nel calcio si è tradotto nella creazione della figura singolare dell’“oriundo” – le regole di Federcalcio e Lega calcio, che considerano italiani i minori stranieri il cui primo tesseramento in una società sportiva avviene in Italia, anticipano la legge e l’apparato burocratico. Tuttavia è solo a partire dagli anni Novanta che lo sport più diffuso, praticato e popolare si è fatto testimone, non sempre consapevole, delle graduali trasformazioni della società italiana, dopo lunghi decenni di conservatorismo. Infatti la stessa definizione di “calcio” – vigente tuttora in luogo dell’inglese football – fu adottata nel 1909 in una prima opera di italianizzazione che poi il regime fascista avrebbe spinto all’eccesso. È proprio durante il Ventennio, e in particolare negli anni Trenta, che “calcio” diventa sinonimo di identità nazionale e nazionalista: le vittorie della nazionale ai Mondiali del 1934 e del 1938, nonché ai Giochi Olimpici del 1936 nella Berlino nazista, furono propagandate come l’emblema vincente di una nuova Italia imperiale e il trionfo dello stesso Fascismo sulla scena internazionale. La stampa di regime, dopo una vittoria con il Brasile, esaltò «il trionfo dell’italica intelligenza contro la forza bruta dei neri» (Galeano 1997, p. 79).1 L’autarchia era allora rappresentata sui campi di calcio dall’aderenza ai principi che vennero formalizzati nel 1938 con le «leggi per la di- 28 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP fesa della razza», con il criterio dello ius sanguinis che fornì l’escamotage per naturalizzare campioni argentini figli o più spesso nipoti dell’emigrazione italiana in Sudamerica. Il colore dei giocatori Italiano è chi ha sangue italiano, secondo il Fascismo. L’identità nazionale non era in discussione: di certo non meritavano di essere considerati italiani i popoli delle colonie, nel Corno d’Africa e in Libia. E da questa politica apertamente segregazionista, mai oggetto di seria autocritica, derivano alcuni dei pregiudizi storici e culturali che per lungo tempo hanno tenuto ai margini gli italiani di colore, negandone persino l’esistenza, nella vita quotidiana come sui campi di calcio. Ma la marginalizzazione dei calciatori neri è un fenomeno che riguarda anche gli stranieri: il campionato italiano dovrà attendere il 1947 per il primo giocatore di colore, l’uruguayano Roberto La Paz del Napoli, il cui scarso rendimento servì da pretesto per giustificare ulteriormente l’interdizione razziale ai neri. I confronti con altri Paesi sono impietosi: l’aristocratico Raoul Diagne aveva esordito nella nazionale francese già nel 1931 e addirittura nel 1885 l’inglese Arthur Wharton era stato il primo calciatore nero professionista al mondo (ma solo nel 1979 Viv Anderson debuttò da black nella nazionale britannica). Il bacino cui attingeva l’Italia all’estero continuò a essere al contrario il Sudamerica, perché, come ricorda Guido Bolaffi, «la cultura dominante del Paese, nonostante la sua inarrestabile trasformazione in terra di immigrati in arrivo e non più in partenza, rimaneva quella della Grande Proletaria abbandonata dai suoi figli costretti a cercare fortuna Oltrefrontiera» (Valeri 2005, p. 9). Il ricorso agli oriundi durò almeno, in una prima fase, fino al 1962: dopo il deludente Mondiale in Cile fu deciso di non naturalizzare più calciatori stranieri, strumentalmente identificati come responsabili della disfatta. Allo stesso modo, il fallimento della nazionale nella Coppa del Mondo del 1966 portò, come reazione immediata, alla chiusura, durata fino al 1980, del campionato italiano all’acquisto di calciatori stranieri. Lo straniero faceva da capro espiatorio, veniva identificato come elemento corruttore dello spirito e dell’ar- E Ar D Fi Si DOSSIER alcuni almanacchi figura come l’unico calciatore del continenmonia, una minaccia per l’equilibrio dell’identità nazionale. te nero presente negli anni Settanta in serie A (Bonizzoni 1989). Fino a quel momento, però, la pratica dell’“italianizzazione” Il primo calciatore a tutti gli effetti africano, l’ivoriano era continuata anche con tentativi goffi come quello che nel François Zahoui, arriverà invece in Italia solo nel 1981, all’A1961 aveva portato l’Inter di Milano a “inventare” un padre scoli, dopo la riapertura delle frontiere ai giocatori stranieri. italiano per il portoghese Jorge Humberto Gomes Nobre de Un’altra esperienza mediocre che servirà da pretesto per l’ulMorais, nato nell’arcipelago africano di Capo Verde. Negli alteriore radicamento di pregiumanacchi sarebbe diventato dizi e stereotipi nei confronti Giorgio Raggi detto HumberLa copertina della rivista Time dedicata a Mario Balotelli, novembre 2012. dei neri nel calcio. Tuttavia le to oppure Humberto-Raggi, basi culturali di questa interdidopo che un signore milazione non cadranno del tutto nese contattato dalla società neanche quando nei campio“nerazzurra”, Vittorio Ragnati italiani, ad esempio negli gi, ne rivendicò una pateranni Novanta, approderanno nità che in realtà non poteva campioni africani o di coloessere provata. La naturalizre. È infatti pregiudizio cozazione non fu mai portata mune che le vittorie sportive a termine e l’Italia non ebbe costituiscano un’esperienza il suo primo oriundo nero a sé, mentre negli altri am– che tuttavia sarebbe stato biti della vita sociale i neri “inventato” solo per aggisono destinati a permanere rare i limiti di tesseramenin una condizione di emarto dei calciatori stranieri. ginazione e sfruttamento.2 Il pregiudizio di fondo in questo caso è che il nero sia Del resto «già la semplice painferiore, anche sui campi rola “Africa” appartiene al da calcio, e che non esistano repertorio delle classiche inné possano esistere italiani giurie che i tifosi delle squadre di colore. Paradossalmente del Nord […] lanciano contro anche l’attuale definizioquelle del Sud […]. D’altra parne di Black Italians nasce te “Napoli come Africa” pro«in senso dispregiativo per clamava anche uno striscione indicare e discriminare gli […] quando nei giorni fastosi emigranti italiani, negli Stadello scudetto e del “suo” Mati Uniti come in Australia. radona l’autoidentificazione di Il fatto di essere più scuri una squadra e di una città con della media era considerato il continente nero suonava un segnale inconfutabile – come una tromba di riscossa. perché visibilmente evidenBlack is beautiful! Uno sterete – di una similitudine tra otipo può anche essere rovegli italiani e le popolazioni sciato» (Gallini 1996, p. 37).3 È dalla pelle nera, ritenute, proprio per il colore, irrimediaquesto uno degli aspetti più problematici del “volto pubblibilmente “inferiori”» (Valeri 2006, p. 9). E l’Italia ha a sua co” del calcio, nel quale «l’identificazione eccessiva spesso si volta considerato inferiori i “meticci”, in particolare quelli trasforma in xenofobia militante» (Bausinger 2006, p. 108) e nati nelle colonie, non degni di essere pienamente italiani. l’insulto all’avversario serve a «creare steccati, barriere, incoCosì, sempre nel 1962, negli stessi anni della nuova autarchia municabilità tra “noi” e “loro”» (Barba 2007, p. 99).4 calcistica e di episodi grotteschi come quello di Humberto, in Africa trionfavano quali migliori calciatori del continenL’emergenza delle seconde generazioni te i fratelli Italo e Luciano Vassallo, nati in Eritrea da padre Solo a metà dei Novanta, finalmente, prende avvio nel italiano, figli dell’imperialismo di casa nostra e protagonisti calcio il lento processo di integrazione e riconoscimendella conquista della Coppa d’Africa da parte della nazionale to dell’italianità delle “seconde generazioni” e dei citdell’Etiopia. Luciano ne era addirittura il capitano. Vittima tadini di origine straniera, nonostante i ritardi culturadi un doppio razzismo, insultato e discriminato tanto dagli li e i radicati sentimenti razzisti e xenofobi negli stadi.5 Etiopi quanto dai bianchi, divenne italiano solo nel 1978, È lo stesso periodo in cui la multietnicità nel calcio trova trasferitosi a Roma dopo aver abbandonato il calcio giocato. la sua massima espressione con la vittoria della Francia ai L’esser nato in Libia (da famiglia siciliana) e la carnagione meMondiali del 1998, celebrati come la riscossa della nazioditerranea, poco più scura della media, saranno invece il fattonale delle “tre B” (Black-blanc-beur, nera, bianca e araba), re che, agli occhi di alcuni osservatori, renderanno “africano” simbolo di una società multiculturale e assimilazionista il Claudio Gentile, campione del mondo con la nazionale nel 1982 cui fallimento è stato però drammaticamente certificato e negli anni Duemila allenatore vincente dell’Under 21: anzi, in con le stragi terroristiche del 13 novembre 2015 che hanno 29 E Ar D Fi SiDOSSIER S Mondiali antirazzisti 2016. © Fabrizio Pompei preso di mira anche quello Stade de France di Saint-Denis teatro del trionfo dei vari Thuram, Deschamps e Zidane.6 Il primo ad abbattere questo muro in Italia è stato invece Joseph Dayo Oshadogan, figlio di un nigeriano e di un’italiana: il 3 ottobre 1996 indossa la maglia della nazionale giovanile di calcio (Under 21). L’esser diventato un “pioniere” non è tuttavia sufficiente. Al contrario, Oshadogan viene spesso insultato, non solo da ultrà e avversari ma anche dai suoi stessi tifosi, da un compagno di squadra in allenamento e addirittura da un arbitro. Il 13 dicembre 1998, Oshadogan denuncia infatti di essere stato insultato in campo dall’arbitro Vincenzo Ferone, che durante Ancona-Foggia avrebbe detto «lasciate stare, è un marocchino, non capisce». È la prima volta che in Italia un arbitro viene coinvolto in casi di razzismo: Ferone si difende dichiarandosi «estremamente cattolico e amante delle persone del Terzo mondo». Una debole autodifesa che comunque tradisce pregiudizi e stereotipi.7 D’altra parte le esperienze dei Black Italians sono tutte accomunate non solo da episodi più o meno espliciti di discriminazione e razzismo, ma anche dalla rivendicazione del loro sentirsi italiani. È una questione di identità, antropologica: tutti i calciatori italiani di colore respingono qualsiasi interpretazione 30 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP semplicistica che ne sottolinei solo le origini “esotiche” (spesso in chiave orientalista ed etnocentrica), contro l’utilizzo disinvolto e insistente di categorie “razziali”, comprese le “metafore del corpo” – DNA, sangue, genetica – che diventano elementi definitori di un’identità prettamente culturale. Si tratta dunque di «una concezione modernamente razzista, che assegna alla cultura le stesse caratteristiche di ereditarietà che un tempo si assegnavano alla natura biologica» (Gallini 1996, p. 104).8 Come spiega Oshadogan, «la differenza è per chi ti guarda, sono gli altri a sentirla. Quando la gente mi incontra, rimane sorpresa perché parlo con l’accento toscano e non l’inglese o il francese» (Valeri 2006, p. 327). Ritornano qui alla mente le parole di Frantz Fanon, quando sostiene che per il “Negro” l’identità razziale supera qualunque altro aspetto dell’esistenza; quando viene rivelata la sua “negritudine”, la persona di colore si sente quasi responsabile del suo corpo, della sua razza, delle sue origini e reagisce indossando una maschera bianca che possa nascondere la sua identità (Fanon 2015). È però evidente che si tratta di un’attribuzione identitaria forzata, perché la differenza viene avvertita specialmente da chi guarda, non da chi viene osservato. Effettivamente Oshadogan è “nero” perché così viene percepito da coloro che lo osservano, i quali non si interrogano sulla sua reale identità, svelata infine solo dalla lingua. Dopo Oshadogan arriveranno calciatori come Fabio Liverani, nel 2001 primo a vestire in assoluto la maglia della nazionale maggiore, uno dei rari figli del colonialismo (madre somala) a ottenere un riconoscimento di “italianità” sui campi di calcio; Matteo Ferrari, medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Atene 2004 («Non sapevo di avere la pelle nera», la sua risposta a un editoriale del settimanale Sportweek); Stefano Chuka Okaka, il più giovane italiano ad aver esordito in un torneo ufficiale europeo; Stephan Kareem El Shaarawy, soprannominato “Faraone” per le origini egiziane, che rivendica la sua identità di italiano e musulmano (non praticante); Ibrahiman Scandroglio, ivoriano di nascita e adottato in Lombardia, pioniere effimero con una sola presenza in serie A con l’Empoli nel 1999, la prima di un Black Italian; Sara Gama, capitana della nazionale femminile; per finire con quello che certamente ha rappresentato con più prepotenza l’emergere di una nuova generazione di calciatori italiani di origini straniere, Mario Balotelli.9 Il caso Balotelli L’affermazione dei Black Italians e di altri giocatori di origine straniera matura in un nuovo contesto socio-demografico: «Basta sfogliare le fotografie delle squadre Primavera, e ancor più degli Allievi e dei Giovanissimi, per vedere piccoli calciatori dalla pelle scura. […] Difficile pensare che si tratta di minorenni importati per giocare al pallone. Assai più probabile è che siano figli di quell’immigrazione che è oggi una realtà significativa. […] La maggiore presenza di minori di origine straniera non deve essere intesa come un fattore di “pericolosa concorrenza”, ma come una conferma del potere che ha il calcio nel favorire l’incontro» (Valeri 2005, p. 675). Mario Barwuah nasce a Palermo nel 1990 da genitori ghanesi ma dopo pochi anni viene dato in affido alla famiglia bresciana dei Balotelli. I ritardi della legislazione italiana sono evidenti, non solo sulla concessione della cittadinanza condizionata dallo ius sanguinis e dal requisito del compimento della maggiore età, ma anche perché l’affido non E Ar D Fi Si DOSSIER si è tramutato automaticamente in adozione. Mario Balotelli, come spiega la sua famiglia, si è sempre sentito profondamente italiano, nonostante per troppo tempo sui documenti sia risultato ancora come Barwuah (il cognome dei genitori naturali che lo hanno abbandonato da piccolo).10 Ecco la testimonianza originale della sorella Cristina: «Abbiamo vissuto come un’ingiustizia il fatto che lui non potesse ottenere la cittadinanza italiana fino ai 18 anni. Ha vissuto per anni una situazione di disagio: ha visto partire i suoi compagni per gli appuntamenti con le nazionali minori mentre lui restava a casa, non poteva andare all’estero. E poi il disagio del rinnovo periodico del “permesso di soggiorno” con lunghe code in Questura, insieme ai genitori affidatari. Come un extracomunitario».11 I cavilli giuridici legati allo status ritarderanno fino al com- pimento dei 18 anni l’esordio di Mario Balotelli in nazionale, a differenza di altri atleti di origine straniera che nell’ultimo decennio hanno vestito la maglia “azzurra” già da minorenni. La differenza è ancora più marcata, ma all’opposto, con quei giovani calciatori – come i “marocchini” Mattia El Hilali e Hachim Mastour – che dopo la trafila nei settori giovanili della FIGC hanno optato per la nazionale del Paese di origine della famiglia: il senso di appartenenza può essere condizionato da ragioni di opportunità, come accade con le naturalizzazioni di comodo di molti oriundi.12 Mario resta tuttavia un simbolo, a tal punto che “generazione Balotelli” è diventata una comune sintesi pubblicistica: il “nuovo Balotelli” è Moises Kean Bioty, capitano della nazionale Under 17, lo scrittore Antonio Dikele Distefano è il “Balotelli dei romanzieri” e così via. Ed è Stadio Renato Dall’Ara: Saphir Taider, centrocampista franco-algerino del Bologna F.C., viene intervistato da un richiedente asilo durante un laboratorio di giornalismo organizzato nell’ambito della campagna Bologna cares!, in collaborazione con NettunoTV e TRC. © Africa e Mediterraneo 31 E Ar D Fi SiDOSSIER S care ed è diventato un business man, Pelé viene criticato per l’avidità, la naturalmente il colore della pelle a rappresentare sempresunzione, il cinismo. […] Non scalda più i cuori, non suscita passioni, plicisticamente un’identità che si presume collettiva.13 è distante, opaco, ricco. Persino la sua negritudine è quasi nascosta, somProsegue Cristina Balotelli: «Quando i media parlano di origini ghanesi di Mario, questo per noi significa molto poco. messa. Il sillogismo è automatico: Pelé sposa donne bianche, Pelé apparLui si sente solo italiano, perché è nato qui e non conosce tiene allo star system, Pelé vive a New York, Pelé “è un bianco”» (Barba l’Africa. I dibattiti dei tifosi sulla sua partecipazione nella 2007, p. 117). 3 - Clara Gallini dà a queste manifestazioni razziste e discriminatorie il Nazionale italiana spesso rivelano una ignoranza di fondo». nome di gephyrismi, mutuando il concetto dalle ingiurie rituali che i cittaLa vicenda di Mario Balotelli, pur con le sue caratteristiche individuali peculiari, presenta tratti comuni a quella degli dini ateniesi iniziati a Eleusi rivolgevano agli stranieri, e ne sottolinea «la altri ragazzi italiani di origine straniera, soprattutto africacaratteristica di rito definitorio di identità etnica», come già colto negli na, che in questi venti anni si sono affermati nel calcio. Ai anni Trenta da Ernesto De Martino (Gallini 1996, p. 45). tempi della sua militanza nel settore giovanile dell’Inter, per 4 - Già nel 1931, un rapporto a firma del questore di Napoli spiegava che la passione dei tifosi di calcio «trascendeva gli abituali limiti di quella sporesempio, l’attenzione dei media su Balotelli si concentrava, non sempre consapevolmente, sulle questioni identitarie letiva, per attingere ad una vera e propria affermazione e rivendicazione gate all’essere nero e italiano contemporaneamente. «Può far di razza». Certamente sono significative in questo senso le parole con cui sorridere sentire un ragazzo di colore parlare in perfetto diaClifford Geertz critica le contrapposizioni identitarie: «L’alterità non si letto bresciano», recitava un servizio del telegiornale Studio profila sulla riva del mare, ma sull’orlo della pelle. L’idea che gli sciiti, […] Sport il 19 novembre 2007. A causa di una identità nazionale per esempio, essendo “altri” presentino un problema, ma i tifosi di calcio, di per sé debole per quella che, in altro contesto, Clara Gallini essendo parte di noi, non presentino problema, o almeno non uno dello ha definito «la forte significatività di quei diversi localismi e stesso tipo, è semplicemente sbagliata. Il mondo sociale non si articola in perspicui “noi” da un lato, con cui possiamo empatizzare per quanto regionalismi in cui spesso sembra dissolversi» (Gallini 1996, grande sia la differenza fra noi, ed enigmatici “loro” dall’altro, con cui p. 66), si arriva al paradosso di un riconoscimento immedianon possiamo empatizzare per quanto ci si sforzi di difendere fino alla fine to dell’appartenenza a “piccole patrie”, locali o regionali, in il loro diritto di essere diversi da noi» (Geertz 2001, p. 93). cui il fattore linguistico-dialettale concorre al cortocircuito 5 - Un elenco parziale dei calciadi identità. Prima di essere italiano Balotelli è bresciano, tori italiani di colore degli ultimi El Shaarawy ligure, Okaka venti anni comprende: Fabio LiTutti i calciatori italiani di colore respingono umbro, Angelo Ogbonna ha verani, Joseph Dayo Oshadogan, un accento marcatamente Matteo Ferrari, Mario Balotelli, qualsiasi interpretazione semplicistica che ne ciociaro e non nigeriano. D’alStefano Chuka Okaka, Ibrahiman sottolinei solo le origini “esotiche”. tra parte, la difficoltà di amScandroglio, Christian Manfredini, mettere l’italianità dei neri si Whellington Fabiano Santacroce, accompagna ad attribuzioni Angelo Obinze Ogbonna, Patrick identitarie forzate e talvolta improbabili, quasi “esclusive”: Kalambay, Claudio De Sousa, Sara Gama, Ana Carolina Cannone, Moises «Sangue africano, anima siciliana», titolava nel 2008 un inserKean Bioty, Michael Ntube, Elio Capradossi, Nicolao Dumitru, Melkamu to del quotidiano La Sicilia… Ma, conclude Cristina Balotelli, Taufer, Kingsley Boateng, Alfred Gomis, William Jidayi, Christian Jidayi, «è paradossale il fatto che si insista molto su una presunta Massimo Virou Goh N’Cede, Zakaria Sdaigui, Nigel Kyeremateng, Mama“appartenenza a Palermo” di Mario per il solo fatto che è nato dou Bara Ngom, Stefano Layeni, Jérémie Broh Tonye. Di origine nordafriin quella città. Come dimostra anche il suo accento, Mario è cana sono, tra gli altri, Stephan Kareem El Shaarawy, Adam Masina, Karim cresciuto a Brescia e di Palermo ricorda ben poco perché era Laribi, Zakaria Hamadi. troppo piccolo. Se ha un certo legame con una città, questa è 6 - Il termine beur indica i discendenti degli immigrati nordafricani senz’altro Brescia». E la sua patria – calcistica e non – è l’Italia. in Francia. Deriva dal verlan, un linguaggio gergale urbano basato sull’inversione delle sillabe (beur è contrazione di beu-ra-a, le sillabe di NOTE arabe lette al contrario). È singolare che il simbolo principale di quella 1 - Nel 2006, dopo il trionfo dell’Italia contro la Francia ai Mondiali di squadra multietnica, in rappresentanza degli “arabi”, fosse Zinédine calcio, il vicepresidente del Senato Roberto Calderoli (Lega Nord) Zidane, franco-algerino appartenente però a una minoranza berbera che rivendicò analogamente «una vittoria della nostra identità, […] contro non ha nulla a che fare con la cultura araba. Ma il fallimento di questa una squadra che ha perso, immolando per il risultato la propria identità, retorica è stato certificato, almeno nel ristretto ambito sportivo, ben prima schierando negri, islamici e comunisti». Le dichiarazioni di Calderoli, delle stragi del 2015. Per esempio già nel 2006, nel dibattito francese minimizzate nel dibattito italiano, suscitarono al contrario sdegno tra i spuntò una lettura alternativa delle “tre B”: Banlieue-Bobo-Bankable, cioè francesi, come testimoniò l’allora ambasciatore transalpino Yves Aubin de una società divisa in ricchi e poveri piuttosto che in bianchi, neri e arabi La Messuzière: «Queste affermazioni non possono che provocare reazioni (Calinon e Geraud 2006). di odio razziale». 7 - Lo stesso termine “marocchino” è legato a uno stereotipo linguistico e 2 - È la tesi – ascientifica – di Jon Entine, secondo cui i “neri” sono biologi- razziale di cui ancora oggi i dizionari danno conto: il concetto di “maroc- camente e geneticamente fatti per eccellere nello sport; ma la mentalità chinare”, inteso come “violentare, stuprare”, con riferimento agli episodi progressista e politically correct si rifiuta di ammetterlo, perché dovrebbe di violenza compiuti dai soldati dell’esercito francese reclutati in Maroc- altrimenti accettare serenamente anche la superiorità intellettuale dei co ai danni di donne dell’Italia centro-meridionale. Solo nel 2006, non bianchi (cfr. Entine 2000). Lo stigma dell’atleta “nero” è quello del po- senza polemiche, la Corte di Cassazione ha messo al bando l’espressione vero, analfabeta, con innate doti naturali: «Da quando ha smesso di gio- “marocchino” quando viene utilizzata con atteggiamento di scherno e di- 32 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP E Ar D Fi Si DOSSIER leggio, considerandola appunto una ingiuria «di chiaro intento di discrimi- T. Calinon, A. Geraud, En huit ans, le mythe « black-blanc-beur » a fondu, in nazione razziale», anche se riferita a persona effettivamente proveniente «Libération», 7 juillet 2006 dal Marocco (Valeri 2006, p. 158). F. Caon, V. Ongini, L’intercultura nel pallone. Italiano L2 e integrazione attra- 8 - Nonostante l’evidenza scientifica dell’inesistenza delle razze, resta fre- verso il gioco del calcio, Sinnos editrice, Roma 2008 quente l’uso di «etichette arbitrarie che non possono essere prese sul serio J. Entine, Taboo: Why Black Athletes Dominate Sports and Why We’re Afraid se vogliamo capire la biodiversità umana», per citare le parole con cui il to Talk About It, Public Affairs, New York 2000 genetista Guido Barbujani ha definito le artificiose classificazioni “razzia- F. Fanon, Pelle nera, maschere bianche, Edizioni ETS, Pisa 2015 li” usate dalle polizie dei Paesi anglosassoni. La citazione non è casuale: E. Galeano, Splendori e miserie del gioco del calcio, Sperling & Kupfer, Mi- Barbujani smaschera l’incoerenza di tali “sistemi di classificazione dell’u- lano 1997 manità” proprio con l’esempio di un calciatore di colore, l’uruguayano C. Gallini, Giochi pericolosi. Frammenti di un immaginario alquanto razzista, Marcelo Zalayeta. «In Inghilterra lo definirebbero afro-caraibico; l’Uru- Manifestolibri, Roma 1996 guay non si affaccia proprio sul mar dei Caraibi, ma pazienza. In Ame- C. Geertz, Antropologia e filosofia. Frammenti di una biografia intellettuale, rica, invece, Zalayeta sarebbe afro-americano se stesse zitto, ma appena il Mulino, Bologna 2001 aprisse bocca cambierebbe razza diventando ispanico» (Barbujani 2006, M. Valeri, La razza in campo. Per una storia della Rivoluzione Nera nel calcio, p. 156). Ma nel dibattito italiano è altrettanto frequente un uso disinvolto EDUP-Edizioni Psicoanalisi Contro, Roma 2005 e improprio del termine “etnia”, secondo una visione “primordialista” e M. Valeri, Black Italians. Atleti neri in maglia azzurra, Palombi Editori, falsamente oggettiva della nozione di identità etno-culturale (Amselle e Roma 2006 M’Bokolo 2008). 9 - Nel 2001 Scandroglio rivelò di essere tifoso della Lazio, ma di non voler andare nella curva Nord dell’Olimpico per paura di essere insultato. È però interessante che nella stagione 2004-05, la stessa Lazio, «con una tifoseria spesso accusata di comportamenti razzisti, è la formazione di serie A (ma non solo) con più Black Italians: ben tre», Fabio Liverani, Christian Manfredini e Claudio De Sousa (Valeri 2005, p. 674). 10 - Nel 2012 l’UEFA, la Federcalcio europea, comunicò che nella lista consegnata dalla FIGC per gli Europei di calcio l’attaccante “azzurro” era stato registrato come “Mario Barwuah Balotelli”; in realtà poi scese in campo con il solo cognome adottivo. Invece nel 2014 è stato paradossale che Enock Barwuah, fratello naturale di Balotelli, calciatore dilettante, abbia partecipato a un torneo con la “nazionale” della Padania, iniziativa sportiva della Lega Nord. 11 - Le dichiarazioni di Cristina Balotelli qui e di seguito riportate sono la rielaborazione – senza sostanziali modifiche – delle risposte a un questio- ABSTRACT EN nario via e-mail fornite dalla sorella di Mario (nella primavera del 2008). 12 - Il calcio italiano continua tuttora a fare ricorso agli oriundi sudamericani, spesso naturalizzazioni di comodo di calciatori scartati dalla selezione del Paese natale. Il caso più eclatante è quello del calcio a 5 (“calcetto”): a partire dai primi anni Duemila la nazionale italiana ha schierato molti brasiliani naturalizzati e, addirittura, ai Mondiali del 2008 si presentò con l’intera rosa composta da giocatori nati nel Paese sudamericano. Sulla italianizzazione di comodo, vale la pena ricordare che nel marzo 2010, in Under 21 furono convocati Balotelli, Okaka e Ogbonna; con loro anche Ezequiel Schelotto, argentino di nascita, italianizzato in virtù di un bisnonno genovese. I tre Black Italians cantarono l’inno di Mameli, rivendicando la piena adesione culturale alla loro pa- This paper deals with the role of football as a means of social integration in Italy, after decades of racial interdiction of athletes of foreign descent. In a country that has long denied its colonialist past, the rise and integration of “Black Italians” in this most popular sport has featured some complex anthropological issues concerning identity and citizenship. From the autarkical Fascist football to the rise of players such as Mario Balotelli and Stephan El Shaarawy, the practice of sport is able to facilitate cross-cultural dialogue, foreseeing the evolution of Italy into a more integrated country. tria. Schelotto no. 13 - La carica simbolica e pop dell’esperienza di Balotelli ha coinvolto anche il mondo dell’arte italiana. Il calciatore è stato infatti immortalato come un mito popolare provocatorio e contraddittorio in opere di Flavio Lucchini, Paolo D’Alessandro, Wainer Vaccari e Livio Scarpella. Giorgio Caccamo BIBLIOGRAFIA J. L. Amselle, E. M’Bokolo (a cura di), L’invenzione dell’etnia, Meltemi, Roma 2008 specializzato in cooperazione internazionale e diritti umani presso l’Uni- B. Barba, L’antropologo nel pallone, Meltemi, Roma 2007 versità di Bologna, è giornalista professionista. Attualmente al Quotidiano G. Barbujani, L’invenzione delle razze, Bompiani, Milano 2006 Nazionale, si è occupato di esteri e sport per PeaceReporter e Lettera43. H. Bausinger, La cultura dello sport, Armando Editore, Roma 2008 Ha collaborato con le riviste Studi Culturali (il Mulino) e Diacronie-Studi L. Bonizzoni, Calciatori stranieri in Italia ieri e oggi, Società Stampa Spor- di Storia Contemporanea. tiva, Roma 1989 33 E Ar D Fi SiDOSSIER S Il calcio come strumento di integrazione: il caso dell’Afro-Napoli United L’esperienza dell’Afro-Napoli United, squadra nata nel 2009 nel capoluogo campano e composta da migranti e italiani. Creata per promuovere una cultura multi-etnica, ha influenzato le vite dei giocatori, le loro relazioni con il tessuto sociale e ha aumentato il loro prestigio situazionale. di Luca Bifulco e Adele Del Guercio 34 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP E Ar D Fi Si DOSSIER C ome è stato evidenziato dalla Commissione europea nel Libro bianco del 2007, lo sport dovrebbe contribuire a creare una società più integrata e, per tale ragione, promuovere la partecipazione dei gruppi meno rappresentati, tra cui anche i migranti, per i quali esso può costituire un importante strumento di integrazione.1 È proprio in tale cornice che può essere collocata e letta l’esperienza dell’Afro-Napoli United, un’associazione sportiva nata nel 2009 nel capoluogo campano da un’idea di Antonio Gargiulo, presidente di un gruppo di imprese sociali, e due mediatori culturali senegalesi, Sow Hamath e Watt Samba Babaly. L’intenzione che ha mosso i suoi fautori è stata quella di andare oltre il contesto delle loro consuete partite tra amici, per costituire una vera e propria squadra di calcio dilettantistica in cui potessero giocare atleti immigrati e italiani, in modo da favorire e incentivare processi di integrazione, accoglienza e riconoscimento reciproco, facendosi al contempo portavoce di messaggi di promozione culturale. Si tratta di una realtà calcistica piuttosto specifica – dal momento che sono poche le esperienze simili in Italia – che, per l’attività che svolge e gli obiettivi che si pone, ha stimolato un progetto di ricerca sul rapporto tra calcio, migranti e integrazione, ancora in itinere, al quale partecipano ricercatori del Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università degli Studi di Napoli Federico II e del Dipartimento di Scienze Umane e Sociali dell’Università degli Studi di Napoli L’Orientale. Una ricerca che ha un orizzonte multidisciplinare e mette insieme in particolare l’analisi sociologica, realizzata secondo un approccio qualitativo, e quella giuridica. La domanda di ricerca generale, che assume poi diverse articolazioni, si pone l’obiettivo di comprendere come e in che termini il calcio in questa esperienza riesca a incidere sui, o a contribuire ai, più complessi processi di inserimento sociale dei migranti. La Campania e Napoli, almeno dagli anni ’70 in poi, hanno visto incrementare il numero di immigrati che tendono a radicarsi sul territorio, in modo più stabile e meno temporaneo rispetto al passato, con una maggiore incidenza sociale. Gli stranieri presenti oggigiorno in regione e nella provincia partenopea provengono da molteplici Paesi e vanno a comporre un quadro eterogeneo, che va dall’Ucraina – il paese di provenienza più rappresentato, almeno stando alle registrazioni ufficiali – al Marocco e allo Sri Lanka, con diverse comunità, come quella capoverdiana ad esempio, che godono di pochi innesti recenti ma risultano ormai piuttosto radicate.2 Questa presenza ha prodotto nella regione e nella provincia napoletana un aumento della pressione migratoria, intesa come rapporto tra immigrati residenti e popolazione totale, che, seppur in misura in genere minore rispetto al valore medio nazionale,3 pone all’attenzione pubblica i problemi legati all’integrazione dei migranti. Se diciamo integrazione e capitale sociale L’integrazione è un fenomeno complesso che incide tanto sulla società che riceve gli immigrati quanto, ovviamente, su chi arriva. Possiamo parlare di integrazione efficace quando una società riesce ad alimentare e potenziare pratiche di inclusione e di convivenza che fanno perno sulla capacità di garantire all’immigrato il godimento dei diritti fondamentali in termini di dignità umana, libertà, sicurezza, giustizia e indipendenza, A fianco: Arcelino Dos Santos (detto Linò), giocatore capoverdiano dell’AfroNapoli United. © Giovanna Amore, responsabile comunicazione e video dell’A.S.D. AfroNapoli United in modo tale da comportare un livello pieno e soddisfacente di cittadinanza e di responsabilità consapevole.4 Ciò vuol dire, in ultima istanza, garantire opportunità ma anche oneri sociali, economici, culturali, politici, consentendo al contempo la possibilità di non abdicare alla propria identità culturale. Secondo Alastair Ager e Alison Strang – che in verità ragionano più specificamente sulla condizione dei rifugiati – gli indicatori di un’integrazione soddisfacente risiedono in alcuni domini pubblici fondamentali: l’occupazione, indispensabile per fornire la possibilità di pianificare il futuro ed essere autonomi sotto il profilo economico, ma anche per acquisire uno status sociale riconosciuto e aumentare la propria autostima; l’educazione, che fornisce competenze linguistiche e professionali, alimenta i contatti con la comunità locale e la possibilità, per chi va a scuola o per i genitori, di entrare in un adeguato circuito informativo utile anche per fini pratici, come nel caso di notizie e indicazioni di ordine burocratico; la salute, con tutte le facilitazioni per accedere ai servizi sanitari e consentire di garantire un appropriato livello di benessere fisico e mentale; la sfera abitativa, che garantisce una certa sicurezza e la possibilità di stringere legami solidi con i residenti.5 Anche i policy-makers sembrano condividere tale impostazione: ad avviso della Commissione europea, ad esempio, le politiche di integrazione vanno elaborate secondo un «autentico approccio dal basso, a contatto con la realtà locale, in modo da sostenere l’apprendimento della lingua, i percorsi introduttivi, l’accesso all’impiego, all’istruzione e alla formazione professionale e la lotta alla discriminazione, tutti fattori che mirano a incrementare la partecipazione dei migranti alla società».6 Affinché i diritti di cittadinanza e gli elementi di base della qualità della vita appena esposti abbiano una loro idonea concretizzazione, diventa fondamentale – oltre alla rimozione delle barriere linguistiche – l’instaurarsi di legami sociali validi e vantaggiosi. Possiamo parlare in tal senso di capitale sociale, vale a dire di relazioni consolidate, basate sull’affidamento e il sostegno reciproco, capaci di apportare benefici altrimenti difficili da raggiungere, ma anche, in alcuni casi, di promuovere senso civico e fiducia generalizzata.7 Un insieme di risorse, insomma, che possono aiutare, sebbene non obbligatoriamente, a contrastare meccanismi di esclusione sociale, economica, politica, così come la distanza dalle istituzioni pubbliche o dagli enti privati. Tra le relazioni sociali proficue possiamo annoverare quelle all’interno delle stesse comunità di immigrati, quando non producono distacco e isolamento, ma anche e forse soprattutto quelle tra i migranti e la comunità locale, nella misura in cui esse risultino utili a definire riconoscimento e accettazione reciproca, oltre che coinvolgimento attivo degli stranieri nelle attività locali e benefici spendibili negli ambiti occupazionali, formativi, abitativi, sanitari.8 Un fenomeno grossomodo corrispondente al concetto di bridging social capital, fondamentale proprio per legare l’integrazione funzionale dei migranti – economica, formativa, ecc. – a un più completo senso di radicamento effettivo.9 35 E Ar D Fi SiDOSSIER S 2012. La squadra in quel momento partecipa ancora al campionato amatoriale dell’AICS (Associazione Italiana Cultura Sport), ma l’incontro con il mondo dell’associazionismo politico – in particolare con gli attivisti del centro sociale Insurgencia – crea una significativa sinergia e l’idea di iscriversi al campionato della FIGC, in terza categoria. Un momento della vittoria dell’Afro-Napoli United. © Giovanna Amore Tale connessione “ponte”, quando ben realizzata, può contribuire così ad accrescere il senso di sicurezza del migrante e anche ad attenuare conflitti e pregiudizi. Non secondarie, poi, sono quelle relazioni che consentono di accedere a risorse fornite da istituzioni formali – che possono garantire facilitazioni per confrontarsi con gli apparati burocratici, le strutture ospedaliere, ecc. –, in altre parole il cosiddetto linking social capital.10 Parliamo, dunque, di vantaggi altrimenti difficilmente acquisibili, che agiscono sul livello di benessere individuale e di conseguenza sulla convivenza tra gruppi di migranti e locali. Ed è in questo modo che il processo di integrazione, di reciproco accordo e disponibilità, può rivelarsi più efficace. Sulla scorta di quanto detto, vale la pena, a questo punto, chiedersi allora quale beneficio il calcio possa produrre nella vita delle persone e nell’integrazione dei migranti. Il contributo dello sport è, infatti, valido nella misura in cui non solo offre la possibilità di fare attività fisica, ma partecipa al miglioramento delle condizioni biografiche e relazionali. Per questo è interessante, tornando al nostro specifico oggetto d’indagine, comprendere l’apporto fornito dall’Afro-Napoli United, sia nelle ricadute sulle vite degli atleti, sia negli effetti determinati sulla società nel suo complesso. Vale a dire, capire in che misura le reti di relazioni, che questa realtà sportiva compone, possano diventare, con il capitale sociale messo in campo, una risorsa importante per arginare l’esclusione socio-economica di membri di gruppi potenzialmente emarginati. Come accennato in precedenza, l’esperienza dell’Afro-Napoli United nasce in occasione di partite di calcio amicali, da cui si delinea poco alla volta l’idea di definire un percorso calcistico più strutturato, con una squadra mista capace di partecipare, in prima istanza, ai tornei messi in piedi da leghe amatoriali nel territorio campano. In una delle interviste da noi condotte con calciatori e testimoni privilegiati, Pietro, dirigente del club, ci racconta come la vita dell’Afro-Napoli United si trasformi energicamente nel 36 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP L’Afro-Napoli United e le problematiche connesse al tesseramento Il problema principale diventa, a quel punto, il tesseramento, limitato dalle normative in vigore in Federazione. Per questo l’Afro-Napoli United partecipa attivamente alla campagna “Gioco Anch’io”,11 lanciata nel 2012 da un’assemblea di polisportive antirazziste e palestre popolari con lo scopo di far pressione sulla FIGC perché modifichi i requisiti per l’accesso alla pratica sportiva dei migranti e dei loro figli. Il successo della campagna, ci riferisce Pietro, ha consentito di tesserare e iscrivere al campionato campano di terza categoria diciotto migranti, tra maggiorenni e minorenni. Peraltro, alcune di queste persone hanno in tal modo regolarizzato la loro condizione giuridica, con l’ottenimento di un permesso di soggiorno per attività sportiva dilettantistica.12 Precedentemente alle modifiche, intervenute nel 2013, alle Norme organizzative interne (NOIF) della FIGC,13 la disciplina in materia di tesseramento dei cittadini di Paesi non dell’Unione europea era estremamente restrittiva, giacché veniva richiesta, tra le altre cose, la residenza in Italia da almeno 12 mesi e la validità del permesso di soggiorno almeno fino alla fine della stagione sportiva. Peraltro, malgrado le modifiche intervenute,14 le procedure continuano ad essere particolarmente complesse. Innanzitutto, sia agli adulti, sia ai minori di età superiore ai 16 anni, viene richiesto di presentare alla FIGC il certificato di residenza in Italia e il permesso di soggiorno, che dovrà avere scadenza non anteriore al 31 gennaio dell’anno in cui termina la stagione sportiva per la quale il calciatore richiede il tesseramento. Tale ultimo requisito appare discriminatorio, come ha sostenuto anche il tribunale di Lodi che, nel caso Kolou del 2010, ha tra l’altro collocato il diritto allo sport tra i diritti fondamentali della persona.15 Nel caso dei minori di 16 anni deve essere dimostrata la residenza da almeno 6 mesi nella regione in cui ha sede la società per la quale si chiede il tesseramento. Qualora tale condizione non sia ottemperata, il tesseramento potrà essere autorizzato dal Settore per l’Attività Giovanile e Scolastica, previa presentazione della certificazione relativa alla frequenza scolastica del calciatore. Il tesseramento dei minori è inoltre subordinato al rispetto delle disposizioni della FIFA,16 che sono pensate per prevenire il trafficking di calciatori minorenni ma che rischiano di ostacolare l’esercizio del diritto allo sport, giacché subordinano il tesseramento alla presentazione di numerosi documenti – tra cui il contratto di lavoro/iscrizione scolastica del giocatore, il contratto di lavoro e il permesso di soggiorno dei genitori, la documentazione relativa alla formazione scolastica del giocatore.17 È utile evidenziare come, tra i requisiti per il tesseramento dei minori, ci sia l’iscrizione scolastica, che in tal modo si converte da diritto a strumento di esclusione, almeno in quelle situazioni in cui ci siano dei ritardi nel rilascio del certificato da parte della scuola o difficoltà nell’inserimento scolastico, ad esempio perché il minore è arrivato in corso d’anno.18 Più E Ar D Fi Si DOSSIER Sopra: Il cerchio di giocatori è un rituale pre-partita dei calciatori dell’AfroNapoli United. A fianco: festeggiamenti per la promozione. © Giovanna Amore in generale, appare discriminatoria la richiesta del permesso di soggiorno dei genitori, che potrebbero esserne privi: in tal modo verrebbe a determinarsi l’impossibilità di tesserare il giovane calciatore, che subirebbe un trattamento pregiudizievole rispetto ai minori italiani. Peraltro, va ricordato che al minore straniero deve essere rilasciato un permesso di soggiorno valido fino al raggiungimento della maggiore età,19 pertanto lo stesso non può mai essere considerato «irregolare» e deve poter beneficiare di tutti i diritti garantiti dall’ordinamento italiano ai minorenni, indipendentemente dalla cittadinanza.20 Ulteriori difficoltà incontrano i minori non accompagnati (MNA), i quali, benché si trovino sottoposti a tutela o ad affido, in numerose occasioni si sono visti rifiutare il tesseramento, alla luce di una lettura restrittiva della normativa in vigore.21 Con l’approvazione della proposta di legge sullo jus soli sportivo,22 in vigore dal mese di febbraio 2016, i minori stranieri regolarmente residenti in Italia dal compimento del decimo anno 37 E Ar D Fi SiDOSSIER S no in previsione del salto di categoria, ormai acquisito con la vittoria dell’attuale campionato, che renderà obbligatoria la dotazione di una squadra giovanile – si può invece intraprendere una politica più specifica al riguardo. Parliamo di ragazzi tra i 15 e i 18 anni e, ci spiega Francesco, un altro dirigente da noi intervistato, con loro c’è una più marcata «impronta pedagogica», nel senso che i risultati scolastici sono essenziali per poter scendere in campo il giorno della partita. Anche perché intorno Reti sociali e Afro-Napoli United: alla squadra «c’è ormai un certo clamore mediatico e i ragazzi benefici e problematiche devono saper parlare bene l’italiano». Va detto, comunque, che Le difficoltà che incontrano i migranti che vogliano praticala politica della dirigenza, in quest’ambito come in quelli precere attività sportiva a livello dilettantistico non derivano solo dalla normativa in materia, ma riguardano più in generale dentemente chiamati in causa, è quella di fornire gli strumenti l’inserimento nella società. L’Afro-Napoli United fornisce, e l’orientamento necessario, evitando però di cadere in modelli laddove possibile e quando necessario, un aiuto ai potenziali assistenzialisti/paternalistici. Ciò perché l’eccesso di supervisioatleti per districarsi tra le articolate maglie della burocrazia. ne assistenziale potrebbe diminuire l’autonomia e la capacità In alcuni casi, come quello di Sassah, un apolide con un visdi far fronte personalmente ai problemi, trasformando un posuto complesso, i dirigenti si sono industriati per procurare tenziale beneficio di connessioni e legami sociali in un danno. una folta documentazione, soprattutto in merito alla sua atL’ambito lavorativo è invece quello in cui l’Afro-Napoli United tività scolastica e alla residenza sul territorio, e fargli avere la ha minore incidenza. La relativa portata del loro supporto in cittadinanza. L’attività in tal senso del club è di mediazione, questo caso, però, dipende dal più ampio contesto socio-ecoinformazione, al limite di supporto, almeno quando si può e nomico in cui le diverse biografie e le relazioni si inseriscono. se si palesa l’urgenza. La provincia di Napoli sconta una consistente debolezza ecoIl supporto, sebbene non continuo e organico, nel gestire nomica, con un tasso di attività, che comprende gli occupati e i diversi problemi burocratici e la difficoltà di rapporto con chi cerca lavoro, nel 2015 pari al 48,2%.23 Si tratta di un valore l’amministrazione pubblica che rileva un notevole grado o l’accesso a differenti servidi scoramento e scarsa fiducia nei confronti del mercato zi erogati pubblicamente o Il contributo dello sport è valido nella misura in cui del lavoro, dal momento che da privati, può incidere nella circa la metà della popolaziodefinizione del linking social non solo offre la possibilità di fare attività fisica, capital: ovvero, come abbiane abile non vi prende parte ma partecipa al miglioramento delle condizioni ed evidentemente non crede mo detto in precedenza, la biografiche e relazionali. di poterlo fare.24 D’altronde, il capacità di acquisire risorse dalle istituzioni riuscendo a tasso di occupazione si è atterelazionarsi con i suoi rapprestato nel 2015 al 37,4%, contro il 56,7% del dato nazionale.25 sentanti. Ed è di sicuro un beneficio a cui i giocatori possono accedere anche tramite la mediazione del club. Questo è il contesto generale, un contesto problematico in terUn discorso simile, se vogliamo ancora meglio strutturato, mini di occupazione e insicurezza lavorativa. La difficoltà compuò essere fatto per l’assistenza sanitaria. Tramite i contatplessiva in ambito lavorativo nel territorio napoletano incide ti e l’interessamento costante di Mario, il fisioterapista della giocoforza sulle possibilità occupazionali anche per gli atleti squadra, i calciatori vengono seguiti e indirizzati in caso di dell’Afro-Napoli United. La maggior parte di loro, come d’alproblemi legati alla salute. Non solo per gli “acciacchi” legati tronde avviene per diversi coetanei napoletani, si arrangia con all’attività da calciatore, ma anche per tutte le eventuali ulpiccoli lavori saltuari e, non di rado, in nero. Certo, attraverso teriori esigenze mediche. Vengono accompagnati nelle strutconoscenze che gravitano attorno al club, che non è ovviamente ture sanitarie adeguate, messi in contatto con specialisti di un ufficio di collocamento, può capitare che emergano sporadiconoscenza del fisioterapista, guidati nel loro difficoltoso che e temporanee opportunità lavorative, in genere attività di rapporto con i meccanismi burocratici della sanità italiana manovalanza della durata di qualche giorno. Troppo poco per e aiutati nella comprensione dei termini medici e dei trattagarantire una consistente indipendenza economica e contrastamenti da seguire. Una vera e propria attività di mediazione, re l’insicurezza lavorativa. L’Afro-Napoli United, ci dicono vari che consente di affrontare il rapporto con i problemi di salute dirigenti intervistati, porta prestigio ai calciatori, tante strette di con maggiore fiducia e sicurezza. mano, ma non un lavoro stabile. Nel caso dell’ambito educativo la situazione è più problematica. È interessante, nell’ambito dei ponti sociali tra differenti I calciatori della prima squadra sono quasi tutti a bassa scolarizcomunità che la partecipazione comune ad attività sportive può garantire,26 valutare quanto l’esperienza dell’Afro-Napoli zazione, tranne Diego, sudamericano, che studia all’Università. United consenta di stabilire comunque una relazione di inI dirigenti del club, che svolgono la loro mansione su base voterscambio reciproco tra immigrati e abitanti locali, favorenlontaria, confessano di non avere le forze per seguirli continuado, almeno in linea di principio, momenti di accettazione e mente nei loro percorsi formativi. C’è un tentativo di indirizzarmutua comprensione. Va ricordato che, tra juniores e prima li, di indicare loro modalità e contatti per migliorare la qualità squadra, il club oggi conta circa cinquanta tesserati, italiani e formale e sostanziale della loro formazione, ma i risultati sono stranieri. In prima squadra giocano ventitré calciatori – cenpoco incoraggianti. Con la squadra juniores – attiva da quest’andi età potranno essere tesserati presso le federazioni sportive con le stesse procedure previste per i cittadini italiani. In tal modo verranno superati alcuni degli ostacoli evidenziati nel corso della trattazione, non da ultimo quelli che incontrano i minori non accompagnati, limitatamente a coloro che abbiano fatto ingresso prima del compimento del decimo anno di età. 38 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP E Ar D Fi Si DOSSIER troafricani, maghrebini, sudamericani, perfino un inglese, e ovviamente italiani, che sono meno di dieci. Gli allenamenti e le partite sono intervallati da momenti ludici, come cene sociali e altre attività aggregative che coinvolgono atleti – della prima squadra e juniores – e tifosi italiani e stranieri. La vita di campo e questi momenti aggregativi rinforzano il miglioramento delle competenze linguistiche dei migranti, per altro già favorite da un certo radicamento nella città, e hanno l’indubbio vantaggio, almeno nel ristretto contesto squadra-tifosi che è comunque già sensibile in tal senso, di incrementare forme di cooperazione e fiducia reciproca. Vale a dire creare rapporti di lungo termine capaci di strutturare vicendevoli tipologie di supporto, non solo materiale. Anche alcune forme di pregiudizio iniziale vengono così messe in discussione. Francesco ci racconta due casi esemplari: 1) un ragazzino cingalese della squadra juniores porta del cibo tipico del suo Paese ad una cena sociale, che viene tanto apprezzato da smentire pubblicamente lo stigma che, anche all’interno della squadra, screditava la comunità cingalese, spesso dipinta come in possesso di abitudini culinarie strane e antigieniche; 2) uno dei calciatori in rosa, italiano e inizialmente con diversi pregiudizi nei confronti delle comunità islamiche residenti nel territorio, nel tempo stringe legami di simpatia reciproca con compagni di squadra e tifosi di fede islamica, con cui condivide ormai momenti di svago. L’Afro-Napoli United, inoltre, da quest’anno organizza, con l’ausilio di associazioni che si occupano di migranti e che operano nella provincia napoletana, anche stage per chi vuole allenarsi con la squadra. Da un lato questa è un’opportunità per visionare potenziali atleti da inserire in rosa, dall’altro questa iniziativa consente di offrire ai partecipanti, italiani e stranieri, momenti di svago sportivo utili comunque a integrare e consolidare le loro reti sociali. La squadra ha poi un seguito di tifosi numeroso. Le partite casalinghe a cui abbiamo assistito hanno goduto della partecipazione di diverse centinaia di fan, un quantitativo non irrilevante se pensiamo alla categoria. La composizione del tifo che ha presenziato a questi incontri era molto variegata. Molti stranieri, soprattutto africani e sudamericani, e altrettanti italiani, non di rado provenienti dal mondo dell’associazionismo politico, sociale, studentesco. La condivisione del rituale della partita incide, ovviamente, sul senso di appartenenza comune e sulla sensazione di solidarietà e partecipazione a un destino unitario.27 Momenti dunque capaci di sostenere, con il forte corredo emozionale legato alla partita, l’adesione a una cultura multietnica e la promozione civica complessiva, sebbene la comunità di fan sia in questo senso per lo più già ben predisposta. I calciatori, in virtù anche della riconoscibilità del loro status di atleti dell’Afro-Napoli United, vedono sovente accresciuto il loro livello di prestigio situazionale, almeno all’interno della stretta cerchia di tifosi e della porzione di comunità locale che conosce le sorti della squadra o si sente addirittura coinvolta. Ciò, a detta dei giocatori da noi interpellati, incide significativamente sull’autostima ed espressione del sé, garantendo quanto meno un’accresciuta percezione del successo dell’integrazione e del senso di radicamento. Ragioniamo, in questo caso, di una loro percezione e rappresentazione che, però, apre il campo a potenziali forme di partecipazione sociale più ampia. A tal proposito, Adama, giovane calciatore di origini ivoriane, ci racconta di come il rapporto tra alcuni atleti e vari tifosi vicini al progetto della squadra, in entrambi i casi sia italiani che stranieri, possa spingersi al di là della vita del club. Serate ludiche e feste, ad esempio quelle organizzate dalla comunità capoverdiana di Napoli, vedono una simile partecipazione congiunta, sebbene la cosa coinvolga solo alcuni giocatori. Inoltre, il legame tra il club e alcuni centri sociali cittadini allarga la partecipazione e le relazioni di lungo periodo tra stranieri e italiani legati alla squadra all’interno della sfera dell’impegno politico. In conclusione, tornando alla domanda iniziale su quanto e come il calcio incida sui processi di integrazione, va detto che lo sport non ha una sua intrinseca, connaturata influenza che prescinde dalle persone, dai contesti e dalla loro interazione. Le diverse realtà calcistiche possono avere effetti benefici, ma non obbligatoriamente, e le relazioni stimolate possono essere inclusive ma anche esclusive e conflittuali.28 L’esperienza dell’Afro-Napoli United,29 come abbiamo visto, nasce con evidenti intenti inclusivi, di dialogo multietnico e promozione sociale. E non è di secondo piano la volontà ad agire concretamente sui percorsi biografici degli atleti, aiutandoli a sviluppare relazioni vantaggiose e benefiche. Ciò non sempre è possibile, però, dal momento, ad esempio, che le caratteristiche del più ampio contesto socio-economico hanno un’incidenza rilevante. Lo stesso dicasi per la meritoria attività di promozione civica, che si confronta con le difficoltà, le resistenze, ma anche le disponibilità culturali del contesto. Proprio per la natura articolata e complessa di questi fenomeni, rimane importante, ad ogni modo, analizzare approfonditamente il lavoro di simili realtà, che possono fornire anche ai policy-makers stimoli e una maggiore consapevolezza delle problematiche e delle aree di intervento su cui andare a operare. NOTE 1 - Commissione europea, Libro bianco sullo sport, COM(2007) 391 definitivo dell’11 luglio 2007, p. 7. 2 - Cfr. F. Amato, «Profilo delle migrazioni internazionali», in L. Rossomando (a cura di), Lo stato della città. Napoli e la sua area metropolitana, Monitor, Napoli 2016, pp. 247-257. 3 - Il valore medio nazionale è dell’8%, 3,7% quello regionale, 5% quello riferito al territorio cittadino. Cfr. F. Amato, «Profilo delle migrazioni internazionali», op. cit., pp. 253-254. 4 - Cfr. A. Ager, A. Strang, Understanding Integration: A Conceptual Framework, in «Journal of Refugee Studies», Vol. 21, n° 2, 2008. 5 - Ibidem. 6 - Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, Agenda europea per l’integrazione dei cittadini di Paesi terzi, COM(2011) 455 definitivo del 20 luglio 2004. 7 - In merito al capitale sociale inteso come risorsa capace di apportare benefici pratici, che però possono favorire anche le disuguaglianze, cfr. P. Bourdieu, «The Forms of Capital», in J. Richardson (a cura di), Handbook of Theory and Research for the Sociology of Education, Greenwood, New York 1986, pp. 241-258; sul capitale sociale e la sua potenziale rilevanza sul senso di fiducia generalizzata cfr. il seppur discusso testo di R. Putnam, La tradizione civica delle regioni italiane, Mondadori, Milano 1993. 8 - A. Ager, A. Strang, Indicators of Integration: Final Report, Home Office Development and Practice Report, 28, 2004. 9 - Cfr. anche M. Korac, Integration and How We Facilitate It: A Comparative 39 E Ar D Fi SiDOSSIER S Study of the Settlement Experiences of Refugees in Italy and the Netherlands, in th-Heinemann, Oxford 2008 «Sociology», 37, 2003. L. Bifulco, F. Pirone, A tutto campo. Il calcio da una prospettiva sociologica, 10 - Cfr. M. Woolcock, The Place of Social Capital in Understanding Social and Guida, Napoli 2014 Economic Outcomes, in «Canadian Journal of Policy Research», n. 2, 2001. P. Bourdieu, The Forms of Capital, in J. Richardson (a cura di), Handbook of 11 - http://www.sportallarovescia.it/. Theory and Research for the Sociology of Education, Greenwood, New York 12 - La disciplina relativa al permesso di soggiorno per attività sportiva dilet- 1986 tantistica è reperibile al sito http://www.coni.it/it/sportivi-non-comunitari-in- M. Korac, Integration and How We Facilitate It: A Comparative Study of the Sett- gresso-e-permesso-di-soggiorno-in-italia/circolare-riepilogativa.html. lement Experiences of Refugees in Italy and the Netherlands, Sociology, 37, 2003 13 - C.U. n. 194/A del 12/06/2013, consultabile sul sito FIGC. G. Orientale Caputo, Il mercato del lavoro. Lontani dalla ripresa, in L. Ros- 14 - Abrogazione dei commi 11 e 11bis dell’art. 40 delle NOIF, e modifica dei somando (a cura di), Lo stato della città. Napoli e la sua area metropolitana, commi quater e quinques della stessa disposizione. Monitor, Napoli 2016 15 - Ordinanza del Tribunale di Lodi del 13 maggio 2010. R. Putnam, La tradizione civica delle regioni italiane, Mondadori, Milano 1993 16 - Nello specifico artt. 19 e 19bis. L. Rossomando (a cura di), Lo stato della città. Napoli e la sua area metropoli- 17 - Così dispone l’allegato 2 al regolamento FIFA, rubricato Procedure per le tana, Monitor, Napoli 2016 richieste di primo tesseramento e di trasferimento internazionale di minori (Art. M. Woolcock, The Place of Social Capital in Understanding Social and Economic 19 paragrafo 4). Outcomes, in «Canadian Journal of Policy Research», n. 2, 2001 18 - ASGI, Minori stranieri e diritto al gioco. Una ricerca giuridica sul diritto al gioco in Italia, 2015. 19 - Art. 28, comma 1, lett a), D.P.R. 394/99. 20 - Ancora, l’art. 6, par. 2, del T.U. sull’immigrazione esclude espressamente l’obbligo di esibire i documenti relativi al soggiorno per i provvedimenti riguardanti attività sportive e ricreative a carattere temporaneo. 21 - Nota della FGCI-Lega Nazionale Dilettanti del 23 giugno 2015, Primo tesseramento in Italia dei calciatori minori stranieri in affido/tutela, reperibi- ABSTRACT EN le al link http://www.asgi.it/wp-content/uploads/2016/01/Minori-stranieri-n-a-1%5E-tesseramento.pdf. Di avviso contrario, ASGI, ASGI/FIGC: accesso dei minori stranieri non accompagnati (MNSA) al tesseramento, 15 gennaio 2016, documento reperibile al sito www.asgi.it. 22 - Legge n. 12 del 20 gennaio 2016 concernente «disposizioni per favorire l’integrazione sociale dei minori stranieri residenti in Italia mediante l’ammissione nelle società sportive appartenenti alle federazioni nazionali, alle discipline associate o agli enti di promozione sportiva». 23 - Fonte: ISTAT. 24 - G. Orientale Caputo, Il mercato del lavoro. Lontani dalla ripresa, in L. Rossomando (a cura di), Lo stato della città. Napoli e la sua area metropolitana, cit., p. 167. 25 - Fonte: ISTAT. 26 - A. Ager, A. Strang, Indicators of Integration: Final Report, op. cit., p. 18. 27 - Cfr. L. Bifulco, F. Pirone, A tutto campo. Il calcio da una prospettiva socio- This paper analyses the reality of Afro-Naples United, a Neapolitan football team with migrant and Italian players, established to encourage integration and promote a multi-ethnic culture. The research, which has both sociological and legal foundations, aims to understand how – in the context of the new rules concerning the recruitment of migrant athletes , together with all its complications – this football experience has influenced the lives of the players, their social capital, and the relational networks useful in accessing economic and social resources and in increasing their local prestige as well as general trust. To put it simply, footballs ability to favour integration which restrains socio-economic exclusion of disadvantaged groups. logica, Guida, Napoli 2014, pp. 20-36. 28 - Cfr. a tal proposito le riflessioni di C. Auld, Volountary sport clubs: the potential for the development of social capital, in M. Nicholson, R. Hoye (a cura di), Sport and Social Capital, Butterworth-Heinemann, Oxford 2008, pp. 143-164. 29 - È utile sottolineare che i dirigenti dell’Afro-Napoli United sono stati contattati da altre realtà calcistiche nate con gli stessi intenti, per un’ispirazione generale ma anche per consigli di ordine pratico-giuridico, per esempio sulle que- Luca Bifulco stioni relative al tesseramento e ai permessi di soggiorno degli atleti stranieri. BIBLIOGRAFIA A. Ager, A. Strang, Understanding Integration: A Conceptual Framework, in è ricercatore in Sociologia Generale del Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, dove insegna Sociologia e Sociologia dello Sport. «Journal of Refugee Studies», vol. 21, n. 2, 2008 A. Ager, A. Strang, Indicators of Integration: Final Report, Home Office Deve- Adele Del Guercio lopment and Practice Report, 28, 2004 F. Amato, Profilo delle migrazioni internazionali, in L. Rossomando (a cura di), Lo stato della città. Napoli e la sua area metropolitana, Monitor, Napoli 2016 ASGI, Minori stranieri e diritto al gioco. Una ricerca giuridica sul diritto al gioco in Italia, 2015 C. Auld, Volountary sport clubs: the potential for the development of social capital, in M. Nicholson, R. Hoye (a cura di), Sport and Social Capital, Butterwor- 40 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP è ricercatrice a t. d. di Diritto Internazionale presso il Dipartimento di Scienze Umane e Sociali dell’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, dove insegna attualmente Diritto dell’Unione europea, dopo aver insegnato per alcuni anni Tutela internazionale dei migranti. E Ar D Fi Si DOSSIER Entre contraintes et soutiens: l’implication de la famille dans les parcours de footballeurs camerounais La famille joue un rôle important pendant et après la carrière d’un footballeur: la recherche a été conduite sur des joueurs camerounais vivant en France et quelques membres de leurs familles au Cameroun. par Jérôme Berthoud D epuis les travaux pionniers de Bale et Maguire (Bale et Maguire 1994), de nombreux chercheurs en sciences sociales se sont intéressés aux «migrants avec la balle» (Lanfranchi et Taylor 2001), mettant généralement l’accent sur le rôle des structures qui encadrent les mouvements des joueurs. Nous pensons premièrement au cadre institutionnel, représenté notamment par les clubs (Poli 2008) et les centres de formation (Darby et al 2007) ou au cadre humain, en particulier les agents de joueurs et membres de fédérations (Frenkiel 2014, Poli et Dietschy 2006). De nombreux travaux se sont également intéressés aux structures immatérielles, le marché globalisé du football, tel que l’on pourrait le nommer (Magee et Sugden 2002, Maguire et Falcous 2011). Comme le souligne Darby (Darby 2013), les travaux auxquels nous venons de faire allusion ont une forte tendance à percevoir les mouvements de footballeurs comme un processus étant à la fois une cause et une conséquence d’un déséquilibre de la globalisation du sport. Les footballeurs africains sont ainsi souvent perçus comme les victimes d’un système, une main d’œuvre docile et bon marché. Plusieurs travaux d’anthropologie des migrations appliqués à d’autres catégories de migrants ont au contraire mis au centre l’individu dans le parcours migratoire (Bredeloup 2014, Marie 1997). Gardant en tête l’observation de Norbert Elias (Elias 1991), selon laquelle les individus sont interdépendants les uns des autres, nous proposons de réfléchir à l’inscription de parcours migratoires d’individus au sein de leurs cadres familiaux. Dès lors, nous souhaitons nous intéresser au rôle de l’entourage des joueurs, dans leur parcours, suivant ainsi le parti pris par Carter (Carter 2007, 2011) ou von der Meij et Darby (von der Meij et Darby 2015). A partir de deux cas d’étude, notre analyse met en avant l’ambiguïté du rôle de la famille dans le parcours migratoire des joueurs, tantôt perçue comme un soutien et tantôt comme un poids. La question des structures familiales dans les parcours migratoires de footballeurs a émergé dans le cadre d’un travail de thèse en cours, qui porte sur l’après-carrière de footballeurs camerounais. Inspiré de la sociologie des carrières (Hughes 1958) et à l’aide d’entretiens sous forme de «récits de vie» (Bertaux 2006), nous avons cherché à comprendre comment se construit cette après-carrière. Des entretiens sont ressortis une gêne, un sentiment de honte, et une tendance à «garder la face» (Goffman 1974), en esquivant la question de l’ “après”, évitant ainsi de parler d’éléments perçus par hypothèse comme dévalorisants. La brièveté de l’échange mais aussi la rigidité du cadre de la discussion ont considérablement réduit la possibilité d’entrer dans une relation de confiance, qui aurait permis aux joueurs de se “livrer” de manière plus libre et approfondie sur leur situation de vie actuelle. Afin de mieux saisir la complexité des parcours des joueurs, nous avons choisi de compléter les informations recueillies durant les entretiens par une ethnographie multi-située (Marcus 1995). Entre 2013 et 2014, des observations, parfois participantes et des discussions plus informelles, avec d’anciens joueurs mais aussi avec leurs proches, en France et au Cameroun ont été mis en place. Ce travail d’ethnographie a notamment été entrepris avec deux anciens footballeurs camerounais qui vivent aujourd’hui en Normandie et dans la région parisienne, ainsi qu’auprès de leur famille respective, au Cameroun. Gilbert: une famille en soutien Nous avons fréquenté Gilbert entre 2012 et 2014. Un premier entretien a été suivi de trois autres rencontres, plus informelles, entre Paris et la Normandie. Durant les mois de juillet et aout 2014, nous avons également rencontré plusieurs membres de sa famille au Cameroun, bénéficiant notamment de l’accueil du petit-frère de Gilbert à Douala. Gilbert naît en 1974 et grandit principalement dans la pro- 41 E Ar D Fi SiDOSSIER S notamment grâce à ses frères, restés au Cameroun. Côtoyés à vince du littoral au Cameroun. Jusqu’à l’âge de 14 ans, il plusieurs reprises entre Douala et Yaoundé, Emile et Samuel loge tantôt chez sa mère, enseignante primaire, et tantôt jouissent d’une situation professionnelle qui leur permet d’être chez sa tante maternelle, dont le mari est un employé dans autonomes. Le premier possède une entreprise spécialisée une bananeraie. Il termine sa scolarité à Yaoundé, chez un dans l’électronique, et gagne près d’un million de CFA par mois oncle maternel. Après avoir joué dans plusieurs clubs de (environ 1.500 euros), soit plus que certains fonctionnaires, deuxième puis de première division au Cameroun, il quitte même haut placés. Quant au second, il travaille pour une enson pays pour l’Allemagne en 2001, en compagnie de quatre autres jeunes Camerounais, par l’intermédiaire d’un agent de treprise pétrolière à Douala, qui offre également des conditions joueurs non-reconnu. Abandonné par cet intermédiaire après d’emploi favorables. Tant l’un que l’autre se substituent ainsi à quelques tentatives manquées de signer un contrat, il est acGilbert dans la prise en charge des plus jeunes. Samuel a ainsi cueilli par une cousine en France. Quelques années plus tard, permis à plusieurs neveux d’obtenir un stage au sein de son il rejoint un club normand de cinquième division, qui l’aide entreprise. Emile, qui héberge le fils d’un cousin à Yaoundé, est à régulariser sa situation. Depuis 2010, suite à une relation en outre à l’initiative d’une tontine4 au sein de la famille élargie. de proximité entretenue avec le président de ce club, Gilbert obtient un poste de responsable des infrastructures sportives Jules: une famille dans l’attente au sein du service des sports de la ville. Il est marié avec une Nous avons rencontré Jules à plusieurs reprises durant l’année femme française avec qui il a deux enfants en bas âge. 2014. La prise de contact s’est effectuée autour d’une partie de Lorsque nous questionnons Gilbert au sujet des personnes football organisée dans la banlieue parisienne par un groupe de qui l’ont soutenu durant sa carrière, il pense immédiatement migrants camerounais, à laquelle nous avons également partià son oncle maternel. Ce dernier a notamment joué un rôle cipé. De longues discussions se sont alors engagées avec Jules, important au début de sa carrière: «Mon oncle, il a une philodans le métro sur le chemin du retour. Peu avant notre départ sophie un peu différente de ses frères et sœurs. Lui, il estime au Cameroun, il nous met en relation avec sa mère et sa soeur, que quand un enfant a du talent, peu importe le domaine, que nous rencontrons à également durant l’été 2014 à Yaoundé. il faut l’aider. [...] Donc moi je dirais que ça a plutôt été une Né en 1992, Jules grandit entre Yaoundé et Douala avec sa chance d’être allé chez mon oncle. Cela m’a permis, en même mère, ses deux sœurs et ses deux frères. Sa mère, déléguée temps, de continuer l’école et de jouer au foot».1 Gilbert voit au Ministère des transports de la Province du Centre, tient à ce que Jules fréquente une école privée. Il quittera néanmoins son oncle comme un véritable conseiller: «Il était mon confil’établissement avant d’obtedent, qui me disait tout et qui nir son Brevet de technicien me soutenait dans tout ce que supérieur (BTS) en manaje faisais, qui était toujours à l’écoute et à qui je pouvais La situation professionnelle des membres de la fa- gement. Sur le plan sportif, dire tout ce que je pensais ».2 mille ou la position des joueurs dans la fratrie sont après avoir intégré un centre de formation, puis l’équipe Le soutien de son oncle ne des éléments qui permettent de mieux saisir les première du centre qui évos’arrête pas à un soutien mospécificités du vécu des joueurs en fin de carrière. lue en deuxième division caral. Lors d’une discussion informelle avec ce dernier à merounaise, il part tenter sa Douala, il insiste beaucoup sur chance à l’étranger. Son arriles sacrifices auxquels il a du vée en Europe ne se passe pas faire face pour financer le départ de Gilbert en Europe. Il nous comme prévu puisque le présumé contact établi par son agent avoue ainsi «s’être ruiné pour cela, avoir vidé tout son compte ne s’avère pas concluant. Sa volonté de trouver un club le fait et même essuyé le refus des gens de la tontine dans laquelle il voyager dans le pays, avant de le mener à la Bulgarie. Après était impliqué à ce moment».3 quelques mois, alors qu’il se retrouve en situation irrégulière, il décide de rejoindre des membres de sa famille élargie étaLe départ de Gilbert est donc un projet “collectif”, qui, sans que cela soit nécessairement mentionné, exige un contre-don. Dès blis en région parisienne. Lors de notre dernière rencontre, au qu’il se voit dans la possibilité de le faire, Gilbert commence à mois de décembre 2014, Jules est toujours sans papiers. Il nous fait part de l’échec de sa tentative de financement d’une reconrembourser aux membres de sa famille la «dette» (Marie 1997) contractée auprès des membres de sa famille qui ont financé naissance de paternité, qui lui aurait facilité un séjour légal et à son départ en Europe. Lors d’une discussion informelle avec long terme sur le territoire français. Gilbert à la suite de notre retour du Cameroun, il nous rappelle L’intégration en France est difficile pour Jules. Dès son arrià quel point il a contribué au bien-être de ses proches depuis vée à Paris, les membres de sa famille censés l’accueillir lui plusieurs années, mais aussi au poids que cette participation font comprendre qu’il n’est pas vraiment le bienvenu. Jules peut constituer. En parallèle du soutien apporté à ses frères et nous raconte alors que «Personne ne m’attend à mon arrivée sœur durant leurs études ou lorsqu’ils étaient sans emploi, il a à l’aéroport. Ce n’est qu’après avoir attendu plusieurs heures envoyé une voiture à sa mère, à son grand-frère Guy ainsi qu’à que mon petit-cousin vient me recueillir. »5 Tour à tour, la son oncle, payé le traitement médical d’un autre oncle malade cousine de sa tante, chez qui il est hébergé en premier et sa et financé les études de plusieurs neveux que les parents ne cousine, qui l’héberge dans un second temps, font pression pouvaient soutenir. sur lui pour qu’il paie sa part du loyer. Quant à sa sœur, elle Si la nécessité de rendre le soutien dont il a bénéficié n’est lui reproche de partir jouer au football le dimanche, au lieu pas vécue comme un poids insurmontable pour Gilbert, c’est de chercher à travailler. 42 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP E Ar D Fi Si DOSSIER Au Cameroun, sa famille attend de lui un “retour sur investissement”, expression employée par sa mère lorsque nous la rencontrons à Yaoundé. Cette dernière insiste sur le fait qu’elle l’a beaucoup aidé à réaliser son objectif en payant son billet d’avion. Au-delà de lui avoir facilité son départ, sa mère nous fait savoir qu’elle continue à lui envoyer régulièrement de l’argent. Elle a par ailleurs financé la moitié de son projet de reconnaissance de paternité avorté, soit 2000 euros. Désormais, elle attend de son fils qu’il trouve un travail et qu’il lui envoie quelque chose en retour. Vivant seule et proche de la retraite, elle estime que sa pension ne lui suffira pas pour vivre décemment. La femme attend également de son fils qu’il prenne le relais dans l’éducation de ses enfants: « J’ai envie de me sentir à l’aise. J’aimerais m’acheter une voiture, changer mes meubles, faire la peinture de ma maison. Je souhaiterais également pouvoir aller lui rendre visite, quand il aura des papiers. En l’absence d’un père, il deviendra le chef de la famille et devra prendre soin de ses frères et sœurs. »6 La sœur de Jules, qui est sur le point de terminer son brevet d’avocat et qui travaille dans une petite étude à Yaoundé en parallèle, partage l’avis de sa mère. Si elle n’attend peut-être pas de retour direct sur investissement de la part de son frère, elle est d’avis que Jules doit rester en Europe. Il est désormais trop tard pour reculer : « c’est un homme et en tant qu’homme il doit se battre et donc il faut rester. Par la grâce de Dieu, les L’enquêteur en compagnie du frère de Gilbert lors d’une visite au domicile d’un des anciens du village. © Jérôme Berthoud choses vont s’arranger. S’il devait arriver en Europe c’est que c’était déjà écrit alors maintenant il faut se battre pour rester ».7 Que cela soit sa mère ou sa sœur, toutes deux sont d’avis que Jules doit rester en France. Elles attendent en effet qu’il « joue son rôle de migrant » en rendant ce qu’il a reçu et en se « comportant comme un homme ». Sa mère pense à son propre bienêtre matériel ainsi qu’à celui de ses enfants, alors que sa sœur joue sur le devoir qu’implique ce départ en Europe en termes de masculinité. L’idée d’un retour serait perçue comme peu flatteuse pour son frère, et par conséquent pour elle-même. Similarités et divergences dans les parcours migratoires Les relations que Gilbert et Jules entretiennent avec leurs proches possèdent premièrement quelques similarités. Les deux joueurs grandissent dans une famille monoparentale, avec une mère enseignante. Lorsque l’on s’intéresse aux rapports entretenus par les deux joueurs et leur famille, on constate également des ressemblances : ils partent en Europe avec une dette importante, suite au financement de leur départ par plusieurs membres de la famille. Enfin, tous deux 43 E Ar D Fi SiDOSSIER S L’équipe vainqueur des rencontres sportives de Manengouba. © Jérôme Berthoud bénéficient d’un pied à terre en France, dans le but de rebondir, suite à un premier échec. Une autre similarité se situe au niveau de leur parcours footballistique. Tous deux ont vécu une arrivée en Europe tumultueuse. Les intermédiaires qui ont facilité leur transport ont rapidement cessé de prendre en charge leur séjour, et ils se sont retrouvés seuls face à euxmêmes, dans un environnement pour le moins inconnu. Ce résultat va dans la direction des écrits qui mettent en avant le contrôle du “capital sportif” (Faure et Fleuriel, 2010) des joueurs par les intermédiaires du football (Darby 2010, Ewanjé-Epée 2010, Dubus & Devalpo 2012). Malgré les ressemblances dans les parcours de Gilbert et de Jules, leur condition actuelle en France varie fortement d’un cas à l’autre. Alors que Gilbert se trouve dans une situation stable sur le plan administratif, professionnel et familial, Jules est en pleine recherche d’un équilibre, qui passe en premier lieu par la régularisation de son statut. Les clés d’interprétation de ces divergences, qui nous avaient parues peu évidentes à la suite des premiers contacts effectués avec les joueurs, n’ont été trouvées qu’au prix d’une reformulation de notre méthode d’investigation, qui nous a conduit à enquêter directement auprès des familles. Après avoir bénéficié de la situation socio-professionnelle de ses frères, Gilbert n’est plus le seul à supporter le poids de la redistribution. Il est notamment déchargé du la nécessité de contribuer financièrement à la scolarisation des neveux et nièces de la famille. De son côté, Jules est loin d’être libéré de ce fardeau. En l’absence d’un père, en tant que fils ainé de la famille, et avec une mère qui part à la retraite prochainement, Jules se voit chargé d’une lourde mission : jouer le rôle de chef de famille, alors qu’il se trouve lui-même dans une situation d’extrême fragilité en France. Ainsi, des éléments tels que la situation professionnelle des membres de la famille ou la position des joueurs dans la fratrie, sont des éléments qui permettent de mieux saisir les spécificités du vécu des joueurs en fin de carrière. des pistes de recherches, quant au rôle des interactions familiales dans la compréhension des parcours de footballeurs migrants, qui complètent les outils d’analyse basés sur des approches macro structurelles. A partir des exemples de Gilbert et de Jules, il apparaît que l’environnement familial des joueurs influence leur manière de gérer leur carrière mais aussi l’« après-carrière ». La prise en charge de cette dernière est en effet insérée dans et contrainte par l’environnement familial, qui prend origine dans le caractère collectif du projet migratoire et se poursuit dans les interactions familiales durant toute la trajectoire du joueur. Le joueur étant indissociablement lié à sa famille, la sanction d’un manquement à son « rôle social » (Parsons, 1951) conduit probablement à l’isolement et la relégation. Néanmoins, comme les exemples de Gilbert et de Jules ont permis de le montrer, de grandes différences peuvent être observées d’une famille à l’autre. Celles-ci sont tantôt être un soutien, tantôt un poids, ce qui a d’inévitables conséquences sur la trajectoire et la vie quotidienne des joueurs. S’intéresser aux conditions de départ, ainsi qu’aux liens entre le joueur et sa famille, s’articule bien évidemment aux conditions d’accueil des joueurs ainsi qu’au traitement qui leur est parfois réservé. Aussi, ces articulations entre d’une part les conditions socio-familiales de l’origine du projet migratoire, les interactions constantes entre le joueur et sa famille durant et après la carrière et, d’autre part, l’évolution du marché international de la migration footballistique, les transformations des institutions du football en Europe et le rôle des agents, autorise une lecture plus fine des migrations des footballeurs en provenance d’Afrique subsaharienne. BIBLIOGRAPHIE J. Bale, J. Maguire (eds.), The global sports arena. Athletic talent migration in an interdependent world, Frank Cass, London 1994 D. Bertaux, Le récit de vie. L’enquête et ses méthodes, Armand Colin, Paris 2006 R. Besson, R. Poli, L. Ravenel, Demographic study of the footballers in Europe, Centre international d’étude du sport, Neuchâtel 2011 S. Bredeloup, Migration d’aventure. Terrains africains, Cths, Paris 2014 T. 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Ils visent plutôt à ouvrir 44 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP African football labor to Europe, in «Journal of sport and social issues», n. 31(2), 2007, pp. 143-161 A. Dubus, A. Devalpo, D’Afrique en Asie, la traite du foot, in «Libération», n. 9.250, 2011, pp. 30-31 N. Elias, La société des individus, Fayard, Paris 1991 E Ar D Fi Si DOSSIER M. Ewanjé-Epée, Les négriers du foot. Editions du Rocher, Monaco 2010 J.-M. Faure, S. Fleuriel, Excellences sportives. Economie d’un capital spécifique, Editions du croquant, Bellecombe-en-Bauges 2010 E. Goffman, Les rites d’interaction, Les éditions de Minuit, Paris 1974 S. Frenkiel, Une histoire des agents sportifs en France, Editions CIES, Neuchâ- Il ruolo della famiglia nei percorsi di vita dei giocatori camerunesi tel 2014 E. C. Hugues, Men at their Work, The free press, Glenoce 1958 P. Lanfranchi, M. Taylor, Moving with the ball: the migration of professional footballers, Berg, Oxford 2001 J. Magee, J. Sugden, The world at their fee. 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Noutcha (dir.), «Le Sport au pluriel. Approches sociologique et politique des pratiques», Imprimerie de l’université Marc Bloch, Strasbourg 2006, pp. 261-286 N. van der Meij, P. Darby, No one would burden the sea and then never get any benefit, family involvement in players’ migration to football academies in Ghana, in R. Elliott R.,J. Harris (dir.), «Football and migration. Perspectives, places, players», Routledge, London 2015, pp. 159-179 NOTES 1 - Extrait d’entretien avec Gilbert, 10 février 2012, Rouen. 2 - Ibid. 3 - Extrait d’un entretien informel avec l’oncle de Gilbert, 21 aout 2014, Douala. 4 - Pratique informelle et collective d’épargne et de crédit. 5 - Extrait d’un entretien informel avec Jules, 13 juin 2014, Paris. 6 - Extrait d’un entretien informel avec la mère de Jules, 26 aout 2014, Yaoundé. 7 - Extrait d’un entretien informel avec la soeur de Jules, 26 aout 2014, Yaoundé. Jérôme Berthoud est socio-anthropologue du sport, spécialiste de la migration et de l’intégration. Il prépare une thèse de doctorat à l’Institut des sciences du sport de l’Université de Lausanne (ISSUL) sur l’après-carrière de footballeurs camerounais et vient de publier Le football Suisse: des pionniers aux professionnels aux Presses polytechniques et universitaires romandes. I l ruolo dei giocatori di origine africana nel mondo del calcio è al centro di numerose ricerche in ambito sociale e antropologico. In particolare l’interesse si è concentrato sui loro movimenti dal Paese di origine al mondo occidentale. Questo articolo riporta i risultati di una ricerca sul ruolo della famiglia di origine nel processo migratorio dei giocatori, sia come “sostegno” che come “peso”. Nei due casi studio qui presentati, ci si sofferma soprattutto sul “post-carriera” di due calciatori camerunesi che oggi vivono in Normandia e nella regione parigina, mentre le loro famiglie risiedono in Camerun. Gilbert, nato e cresciuto in un villaggio sulle coste camerunesi, a 21 anni è partito per la Germania e dopo alcuni anni si è spostato in Francia, dove è stato ingaggiato in un club di quinta divisione. Nel 2010 ha assunto il ruolo di responsabile delle strutture sportive della città. La famiglia di origine, soprattutto lo zio, ha contribuito in maniera sostanziale al suo percorso, sostenendolo sia moralmente che economicamente, nel momento in cui decise di lasciare il Paese. Questo sostegno è stato ripagato da Gilbert: una volta ottenuto un buon impiego in Europa, ha provveduto a soddisfare i bisogni dei familiari (dall’iscrizione a scuola dei fratelli, alle spese sanitarie di uno zio malato). Fortunatamente per Gilbert la famiglia non è stata un “peso” eccessivo, poiché anche due dei suoi fratelli sono riusciti ad ottenere all’estero buoni impieghi che hanno consentito loro di contribuire al sostentamento economico della famiglia di origine. Jules invece è cresciuto tra Yaoundé e Douala: conclusi gli studi superiori e dopo aver giocato in una squadra di seconda divisione, è partito in cerca di fortuna in Europa. Numerose sono state le difficoltà per ottenere un permesso che gli consentisse di restare regolarmente sul suolo europeo (attualmente ne è privo), altrettanto difficile trovare un lavoro, così come dura si è presentata fin dall’inizio la convivenza con i parenti che gli hanno offerto ospitalità. Allo stesso tempo, in Camerun la madre aspetta da lui un sostegno economico, avendo lei investito e contribuito alla sua partenza. Nonostante queste difficoltà i familiari spingono perché Jules resti in Europa, perché un ritorno sarebbe una sconfitta per tutti. Queste due storie paradigmatiche presentano aspetti simili (provenienza da una famiglia monogenitoriale, presenza di parenti in territorio francese) così come divergenze, soprattutto sul piano della stabilità: Gilbert ha una casa, un lavoro, una moglie, Jules è alla ricerca di un equilibrio, soprattutto della regolarizzazione della sua presenza in Europa. 45 E Ar D Fi SiDOSSIER S Sportive nere in maglia azzurra. Un approccio intersezionale allo sport italiano Corpi neri avvolti in bandiere italiane rappresentano una realtà dello sport italiano oggi: interessante il caso delle atlete black che praticano sport a livello agonistico, che continuamente devono negoziare la loro inclusione nel contesto sportivo. E così entrano in gioco le multiple connessioni tra potere, identità e discriminazione. di Sandra Agyei Kyeremeh L a nascita dello sport moderno costruisce e riproduce nel periodo vittoriano lo sport come “naturale” dominio maschile. In un ordine sociale patriarcale che cerca di mantenere il controllo sulla mobilità e fisicità delle donne, i corpi femminili diventano dei terreni di lotta (Sassatelli 2003), dei “luoghi” di contestazione. Lo sport attraverso uno sguardo intersezionale Sebbene lo sport rappresenti un «microcosmo di valori di genere» (Creedon 1994, p. 4), Scraton (Scraton 2001, p. 177) evidenzia l’assenza di materiale storico che lo consideri come un sistema intrinsecamente razzializzato e genderizzato, nonostante esso costituisca «uno specchio della società» della quale riflette i valori culturali e le norme sociali. È proprio negli anni ’70 che alcune studiose decidono di dare voce e spazio alle esperienze delle atlete rendendole soggetti di ricerca, mettendone in luce la loro marginalizzazione in un contesto tradizionalmente di dominazione maschile. Tali studi, partendo implicitamente e/o esplicitamente da prospettive marxiste/socialiste e femministe, evidenziano però l’esistenza di una visione monolitica ed essenzialista della donna bianca, di classe media ed eterosessuale (Perilli e Ellena 2012, p. 131). Il femminismo nero rifiuta l’etichettamento come “Altre” da parte del movimento femminista occidentale criticandone la tendenza eurocentrica e sostenendo come il razzismo e il classismo, al pari del genere e dell’orientamento sessuale, siano assi di potere e di oppressione per le donne nere (McDonald 2014, p. 152; Bandy 2014, p. 22). Attraverso l’intersezionalità, termine coniato da Crenshaw alla fine degli anni ’80, le femministe nere intendono mettere in luce l’esperienza di multidimensionalità vissuta dai soggetti marginalizzati (Crenshaw 1989, p. 139). Fin dalle sue origini, l’intersezionalità pone particolare attenzione all’intersezione tra “razza” e genere indagando i vari modi in cui queste ultime categorie sociali si intersecano per plasmare le molteplici 46 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP dimensioni delle esperienze vissute dalle donne nere (Crenshaw 1991, p. 1244). L’intersezionalità, sfidando la concezione universalistica e omogenea che mette al centro dell’analisi il femminismo occidentale, dà voce e visibilità alla vita delle donne nere, spesso escluse dalle attività delle femministe bianche e marginalizzate nelle lotte antirazziste incentrate sugli uomini neri (McDonald 2014, p. 153). L’intersezionalità, continua Crenshaw (2006, p. 7), rappresenta uno strumento per mediare la tensione che può emergere tra l’affermazione di identità multiple e le politiche messe in atto a favore di gruppi sociali, azioni che spesso ignorando le differenze tra questi ultimi, ne aumentano la tensione (Ivi, p. 8). L’adozione di un approccio intersezionale, ad esempio, diventa necessario quando intendiamo comprendere un contesto razzializzato e genderizzato come lo sport. Il ricorso all’intersezionalità permette, infatti, di analizzare criticamente questioni riguardanti le interconnessioni multiple e simultanee tra potere, identità e discriminazioni (Watson e Scraton 2013, p. 35). Utilizzerò tale approccio per analizzare la presenza, a livelli dilettantistici,1 nello sport italiano di atlete nere o di origini straniere. Negoziare l’appartenenza in spazi razzializzati. Il caso delle Black Italians In seguito ai mutamenti economici, sociali e culturali avvenuti nel secondo dopoguerra in tutta Europa, si assiste a un generale e progressivo aumento della partecipazione alla pratica sportiva. La maggiore disponibilità di tempo libero e gli investimenti nei servizi connessi al benessere fisico inducono sia uomini che donne a praticare attività fisica. Per quanto riguarda l’Italia, fra la metà degli anni ’70 e la metà degli anni ’80, si registra un graduale incremento delle persone praticanti attività fisica riconosciute dal Coni (Sassatelli 2003). Nel 2015, secondo un rapporto dell’ISTAT (2016, p. 3), le persone che dichiarano di praticare sport nel tempo libero sono 19 milioni e 600 mila, ovvero il 33,3% della popolazione. Il Coni, già nel E Ar D Fi Si DOSSIER quanto persone con cittadinanza non europea. L’obiettivo di 2014 (p. 15), evidenzia un forte divario tra la partecipazione eliminare le discriminazioni che ancora ostacolano l’accesso maschile e femminile allo sport: le sportive costituiscono solaallo sport delle atlete di origini straniere è stato solo in parmente il 24% della popolazione. La scarsa adesione e rapprete ottemperato con la suddetta disposizione. Ad oggi, infatti, sentazione delle atlete nello sport sono legate a una minore persistono alcune questioni che non sono state risolte dalla possibilità di fruizione del loro tempo libero e alla divisione sopraccitata legge. Il pubblico al quale la norma si rivolge è sociale e sessuale del lavoro, che attribuisce loro delle “naturistretto, dato che i destinatari sono rappresentati dalle giovarali” responsabilità in termini di produzione e di riproduzione ni di origine straniera regolarmente residenti in Italia almeno in un sistema patriarcale. L’apparente inadeguatezza sportiva dal compimento del decimo anno d’età. Inoltre, nel calcio ad delle donne è il frutto invece della presenza di diversi ostacoli esempio, il tesseramento di un’atleta non comporta l’automache rendono difficile il loro accesso allo sport. Non solo l’esitica autorizzazione per la stessa di essere schierata in campo. stenza di modelli egemonici di mascolinità e di femminilità che La suddetta disposizione oltretutto non affronta il problema vedono ancora oggi lo sport come ambiente non adatto alle della cittadinanza per le giovani atlete, che non essendo andonne ed etichettano coloro che lo praticano come devianti, ma si registrano anche barriere di tipo economico, materiale e cora riconosciute come cittadine italiane, non possono gareginfrastrutturale. Tale situazione non rappresenta solo lo sport giare con le nazionali maggiori e minori fino all’acquisizione a livello amatoriale, ma anche quello a livello professionistico. della cittadinanza italiana. «So che tanti (atleti), di colore, Nell’aprile 2015, una squadra di giocatrici di rugby, la All Reds hanno avuto la cittadinanza più tardi e certe volte, anche se Rugby Roma, lancia una petizione pubblica on line “Donne comunque erano campioni italiani, non potevano partecipanello sport? Dilettanti per regolamento!”,2 riaprendo così il dire alle gare internazionali perché non avevano la cittadinanza italiana [...]» (Alice, 18 anni, cittadina italiana nata da una copbattito circa un’importante questione che tuttora non è stata pia bi-nazionale italiana e congolese, atletica leggera).5 completamente affrontata dalle istituzioni sportive, ovvero le discriminazioni di genere subite dalle atlete nello sport italiaIl sistema di contingentamento per le sportive di origine straniera e le limitazioni poste dai diversi regolamenti federali no.3 Con tale petizione pubblica, le rugbiste chiedono al Coni alle singole società mostrano la presenza nello sport italiano di modificare in un senso inclusivo la legge 91/1981 che esclude di quelle che Sibley definisce «geografie di esclusione» (Sibley le donne dal professionismo sportivo,4 privandole così di im1995). Queste ultime rappresentano il risultato di processi di portanti tutele nonostante pratichino sport ad alti livelli. inclusione e di esclusione messi in atto attraverso il ricorso Se da un lato lo sport riproduce e tende a mantenere le relaa simboli culturali, stili di vita zioni di dominio presenti nele miti predominanti in difesa la società, dall’altro lato esso di uno spazio sociale (Ivi, p. riflette anche le trasformazioni che avvengono in essa. Le misure attraverso le quali le federazioni sportive ix-x). Si tratta di «geografie di esclusione» che tendono Tailmoun, Valeri, Tesfaye tentano di tutelare «la bianchezza dello sport» non a preservare, soprattutto in (2014) registrano la crescente prendono di certo direttamente in considerazione determinate discipline sporpresenza nello sport italiano il colore della pelle o le origini, ma si appellano tive quali ad esempio il calcio delle figlie dell’immigrazione alla necessità di preservare i vivai giovanili,6 e il nuoto in Italia, la whitenate e/o cresciute nel territoconsolidando però pratiche di esclusione ness (bianchezza). Con tale rio nazionale. Dall’analisi del quotidiana che limitano l’accesso allo sport delle termine intendiamo, in linea panorama sportivo intraprecon i whiteness studies, quella sa dagli autori, che prendono figlie della migrazione. costruzione sociale e culturain considerazione sia sport le che il gruppo dominante individuali che di squadra, pone in essere attraverso un emerge come lo sport italiaprocesso in cui esso «razzializza» se stesso o si pone come no sia caratterizzato dall’esistenza di cosiddette «spazialità neutro nei confronti di altri soggetti che esso definisce neri razzializzate» (Harrison 2013, p. 315). Tali luoghi, secondo e non bianchi (Giuliani e Lombardi-Diop 2013, pp. 1-2). Le Harrison, sono il risultato di processi di razzismo quotidiano misure attraverso le quali le federazioni sportive tentano di che agiscono per assicurare e difendere uno spazio sociale, tutelare «la bianchezza dello sport» non prendono di certo dinel caso della sua ricerca lo sci, come predominantemente rettamente in considerazione il colore della pelle o le origini, bianco, limitando in questo modo la partecipazione e la rapma si appellano alla necessità di preservare i vivai giovanili,6 presentazione di sciatori neri (Ibid.) consolidando però pratiche di esclusione quotidiana che limiL’approvazione dello ius soli sportivo nel gennaio 2016, legge tano l’accesso allo sport delle figlie della migrazione.7 che prevede che le atlete di origini straniere possano essere Nonostante la suddetta situazione, le atlete nere o di origine tesserate nelle società sportive come qualsiasi altro cittadino straniera hanno progressivamente conquistato la scena naitaliano, secondo Valeri (Sebhat 2016), non costituisce una zionale e internazionale con le loro gesta sportive. Dall’atletivera rivoluzione. Tra le maggiori discriminazioni evidenziate ca al calcio fino ad arrivare al cricket e al judo, le Black Italians già diversi anni fa dalla Commissione per le politiche di inte(Valeri 2006), ovvero sportive nere o di origine straniera che grazione degli immigrati della Presidenza del Consiglio dei vestono la maglia azzurra, riflettono le trasformazioni e il volMinistri (2000), risulta esserci il possesso o meno della citto di una società, quella italiana, che è mutata già da tempo tadinanza europea da parte di tali giovani, mancanza che le anche a livello sportivo. espone al sistema delle quote che limita il loro tesseramento in 47 E Ar D Fi SiDOSSIER S «Non esistono negri italiani», uno dei tanti cori diretti a Balogi è un super eroe, super Mario, mentre appena sbaglia, appetelli, calciatore italiano di origini ghanesi durante una partita, na giustamente l’uomo, l’atleta, può sbagliare, cioè è umano, evidenzia come il processo di definizione dell’italianità sia sappiamo, cioè loro, queste persone che criticano, sanno dove ancora oggi conflittuale e in progress. La presenza del corpo andare a criticare» (Maria, 26 anni, cittadina italiana nata da nero in uno spazio pubblico prettamente bianco viene peruna coppia bi-nazionale italiana e nigeriana, atletica leggera). I cepita come inopportuna in taluni luoghi sociali, questo perprocessi di inclusione e di esclusione del corpo «razzializzato» ché in presenza di «spazialità razzializzate» ci si aspetta che all’interno di spazi privilegiati bianchi non sono fissi, ma sono determinate figure «razzializzate» occupino solo certi spazi soggetti a continue oscillazioni. È proprio in questi contesti che (Carter 2008, p. 267). I corpi delle Black Italians, come quelli le Black Italians cercano di risignificare i significati attribuiti di Balotelli e Obama ad esempio, visti rispettivamente come alle loro figure e negoziano la loro inclusione, rivendicano ap«il negretto di famiglia» e «il giovane, bello e abbronzato»,8 partenenze multiple, anche in un ambito come quello sportiirrompendo in luoghi di dominio bianchi, cercano di rivendivo. La presenza di atlete nere o di origini straniere nelle naziocare la legittimità della loro presenza in tali ambienti. nali maggiori e minori induce il gruppo dominante non solo a «Devi stra-dimostrarlo che in realtà, cioè può essere che alcune riflettere sul nuovo colore dello sport, ma anche sulla necessità persone (di origine straniera) si sentano più italiane degli italiadi una trasformazione del concetto di italianità in senso più inclusivo, mettendo in luce i privilegi connessi alla bianchezza. ni stessi [...] come le persone hanno l’Africa nel cuore, qualcun altro può avere l’Italia nel cuore o comunque l’Europa nel cuo«Mamma mia, il batticuore, ogni volta che la indosso (la maglia azzurra), è un’emozione ogni volta, […] prima non vore [...] che poi cioè ovunque tu sia nata, se hai vissuto lì, se hai levo sciupare la roba della nazionale, solo che adesso ne ho avuto dei legami sarà sempre una parte di te, dipende da dove accumulata un bel pacco, una bella pila e ho detto: “Va beh, cresci proprio, dai legami che si creano [...]» (Gioia, 19 anni, non posso lasciarla a prendere polvere in cantina!”, quindi cittadina italiana di origini nigeriane, atletica leggera). qualcosa la uso per fare allenamento, a volte magari se so che Gioia reclama la legittimità della propria appartenenza, in è il giorno che devo fare qualcosa di più difficile in allenamenquesto caso italiana, in un sistema nel quale il gruppo domito, magari mi metto una maglietta, piuttosto che i pantaloni nante, in certi luoghi, esercita il potere di costruire la cultura della nazionale per darmi una specie di incoraggiamento in egemonica di quello spazio, tracciando delle linee nette tra più, quindi cioè è una cosa veramente importante […] anche chi vi appartiene e chi no (Watson e Ratna 2011, pp. 72-73). La indossarla ad una gara importante la maglia della nazionacostruzione di tali confini rappresentati da simboli nazionali e le, ti fa sentire addosso una storici, ad esempio, è connesresponsabilità davvero imsa al processo di immaginazioportante, quindi tu cerchi di ne della nazione. Tale sviluponorarla con tutto quello che po avviene, secondo Puwar, Gioia reclama la legittimità della propria puoi, quindi lì in quel franin corrispondenza dell’immiappartenenza, in questo caso italiana, in un gente… cioè davvero sarebbe nente arrivo in determinati sistema nel quale il gruppo dominante, in certi un insulto se qualcuno mi vespazi pubblici privilegiati, di luoghi, esercita il potere di costruire la cultura nisse a dire che non ci sono figure ritenute a esso estranee egemonica di quello spazio, tracciando delle linee italiani neri, cioè non ci pos(Puwar 2004, p. 5). nette tra chi vi appartiene e chi no. sono essere italiani neri: vuol «[...] Poi è ovvio che magadire che non riescono davveri qualcheduno fa un po’ di ro ad apprezzare quanto sia battute: “Eh, ma questa qua – importante per me indossare dice – ha fatto il record italiaquella maglietta […]» (Gioia, 19 anni, cittadina italiana di orino giovanile, eh sì, è nera!”, come a dire, non è italiana, cioè, gini nigeriane, atletica leggera). I corpi neri delle atlete avvolti capito? Per dire sì, l’ha fatto il record italiano, però cioè, è in maglie azzurre sfidano i concetti tradizionali di outsider e nera, è come se non fosse italiana, quasi come se non valesse! insider all’interno della comunità immaginata italiana, ribal[...]» (Melany, 29 anni, cittadina italiana di origini ivoriane, tando i significati di subalternità e inferiorizzazione attribuiti atletica leggera). al corpo nero (Giuliani 2013, p. 256). Le Black Italians, conteLe abilità degli atleti neri sono spesso soggette a stereotipi stando l’omogeneizzazione degli spazi pubblici, rivendicano razziali largamente condivisi. I loro corpi infatti, vengono deal contempo la necessità di una maggiore complessificazione scritti come “naturalmente” dotati e portati per determinati del concetto di italianità. sport (Coakley 2007, p. 292), come ad esempio l’atletica leggera. Inoltre in riferimento alle loro performance, viene spes«[…] Boh, secondo me, poi non lo so, magari nella loro testa so utilizzato un immaginario animale ( Jackson 1998, p. 31). [si riferisce ad alcuni tifosi] pensano che lei [riferendosi ad un’altra atleta Black Italian vittima di un episodio di razziLe Black Italians, con le loro figure nere, violano spazi simbolici della nazione: esse vengono considerate come fuori posto, smo] ha preso il posto di qualcun’altra delle loro figlie, per rispetto ai luoghi e ai corpi che vengono immaginati politidirti, in francese si dice on se cherche, nel senso che magari alcuni di loro pensano che ancora noi (italiani bianchi) dobcamente, storicamente e concettualmente nella costruzione della nazione. Esse sono space invaders (Puwar 2004, p. 8). La biamo ritrovarci e arrivano altri che ci fregano il posto, e presenza di figure nere in contesti dominanti bianchi, causanquindi non so, nella testa della gente scattano questi meccado rotture della norma, spesso necessita di una giustificazione nismi, che comunque negli sport di squadra quello è il nume(Carter 2008, p. 268). «Quando un atleta nero porta dei vantagro perciò, di persone che si possono mettere nella squadra, 48 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP E Ar D Fi Si DOSSIER il bello dell’atletica è che c’è posto per tutti! […]» (Melany, 29 anni, cittadina italiana di origini ivoriane, atletica leggera). La costruzione del “noi italiani” da parte dei tifosi, evidenziata da Melany, avviene attraverso uno sguardo razzializzante che esclude a priori i corpi neri dalla costruzione della comunità immaginata: le atlete nere o di origini italiane non sono degli insider ma, essendo fuori posto, espropriano gli italiani bianchi di posti a loro “naturalmente” destinati. Nel continuo processo di costruzione del sé come comunità, la condivisione di elementi simbolici, culturali, politici da parte delle figlie della migrazione non costituisce un fattore rilevante per l’inclusione e il loro riconoscimento come membri nello spazio pubblico bianco e dominante. Maria pretende il riconoscimento della molteplicità delle posizioni soggettive che le atlete nere o di origine straniera (Scraton 2001, p. 180) possono presentare anche nello sport italiano, al quale rivendica di appartenere. Il riconoscimento rivendicato dalle Black Italians nei confronti del gruppo dominante bianco si basa su una progressiva «de-razzializzazione» e «de-territorializzazione» dell’identità nazionale, ovvero richiedono una progressiva disconnessione tra l’origine geografica dell’atleta, la sua residenza sportiva e gli stati nazione che rappresentano. Le Black Italians sostengono inoltre di poter rappresentare dei modelli positivi sia per il gruppo dominante che per le altre figlie dell’immigrazione. Per quanto riguarda i “primi”, pur individuando la difficoltà per alcuni di identificarsi in corpi ritenuti come “altri” dalla società, evidenziano come le vittorie portate dalle atlete nere possano costituire una sorta di esperienza comune condivisibile da tutti i membri della comunità immaginata. Per quanto riguarda i secondi, invece, le atlete nere o di origini straniere vedono nella loro blackness anche un elemento di resistenza e non solo di oppressione (Maynard 1994, p. 11). Lo sport, infatti, viene visto anche come uno strumento di mobilità sociale, non solo per le atlete nere, ma in generale per tutte le persone di origine straniera in Italia. La visibilità delle Black Italians, il vedere se stesse in un ambiente prettamente bianco come lo sport italiano e l’essere viste (Brighenti 2010, p. 39; Frisina 2011, p. 452) anche da altre persone nere o di origine straniera costituisce parte della loro agency nel progetto di auto-soggettivizzazione in un tale contesto. che gli atleti possono assumere, dall’altro lato la presenza delle Black Italians nello sport italiano, luogo nel quale la comunità è pensata come culturalmente omogenea, costringe a considerare la complessità delle appartenenze e i termini di inclusione ed esclusione all’interno di una comunità. NOTE 1 - Si tratta di un «dilettantismo imposto» alle atlete che impedisce loro di usufruire dei diritti tutelati dalla legge 91/1981. «Ad oggi – si legge nell’interrogazione parlamentare presentata dalla deputata Brignone l’11.03.2016 – tutte le atlete italiane indipendentemente dal loro livello tecnico-agonistico e dal fatto che pratichino lo sport come attività che produca per loro reddito prevalente e continuativo sono definite dilettanti [...]», in http:// aic.camera.it/aic/scheda.html?numero=4/12495&ramo=CAMERA&leg=17. 2 - https://www.change.org/p/coninews-donne-nello-sport-dilettanti-per-regolamento-nowomannopro 3 - Per approfondimenti si veda la pagina Facebook: Assist-Associazione Nazionale Atlete. 4 - La proposta di legge avanzata già nel novembre 2014 dall’On. Coccia è stata presa in carico dalla VII Commissione della Camera (Cultura, Scienza e Istruzione) a marzo 2016. Tale iniziativa ha l’obiettivo «di estendere anche alle atlete i diritti e le tutele dei colleghi uomini e quindi la previdenza sociale, l’assistenza sanitaria, il trattamento professionistico e, perché no, la maternità». 5 - Attraverso la mia ricerca di dottorato intendo indagare le discriminazioni in ambito sportivo, analizzando due casi studio, attraverso un approccio teorico intersezionale che tenga in considerazione le «intersezioni fra assi di potere» rappresentate principalmente dal genere, dalla “razza”, dall’orientamento sessuale e dalla classe. Mi propongo inoltre di investigare l’esistenza di tattiche e strategie di resistenza individuali e collettive delle atlete nello sport italiano. 6 - Si vedano ad esempio le delibere del Coni n. 1276 del 15.07.2004 e n. 1314 del 23.11.2005. 7 - Tali pratiche ottemperano i compiti assegnati al Coni dall’articolo 32 della cosiddetta legge Bossi-Fini 189/2002. 8 - Le sopraccitate dichiarazioni sono rispettivamente di Paolo Berlusconi (http://video.repubblica.it/sport/paolo-berlusconi--balotelli-il-negret- to-della-famiglia/118374/116838, 4.02.2013) e di Silvio Berlusconi (https:// www.youtube.com/watch?v=5bJZKCps6bw, 6.11.2008). BIBLIOGRAFIA A. Brighenti, Visibility in Social Theory and Social Research, Palgrave, Lon- Conclusioni La partecipazione delle atlete nello sport italiano, seppure soggetta a un progressivo aumento negli ultimi anni, evidenzia come la possibilità per le donne di fruire del loro tempo libero e quindi di fare sport sia ancora oggi legata alla divisione sessuale del lavoro. Quest’ultima, che le dipinge come “naturali” nei loro ruoli biologici e di produzione, spesso costituisce un ostacolo al loro ingresso e alla permanenza nel mondo dello sport sia a livello amatoriale che a livello professionistico. Lo sport italiano, oltre a presentare spazi “genderizzati”, è caratterizzato anche da luoghi predominantemente bianchi, che mirano a preservare gli spazi e i corpi immaginati dalla comunità. Quest’ultima, infatti, crea un’immagine di un “noi” alla quale l’identità dell’individuo viene connessa in modo indissolubile (McCree 2010, p. 204). Se da un lato lo sport mira a riprodurre valori nazionalistici e conservatori soprattutto nell’ambito professionistico e spesso fatica a riconoscere la complessità delle posizioni identitarie don 2010, p. 39 P.L. Carter, Coloured places and pigmented holidays: racialized leisure travel, in «Tourism Geographies», n. 10, 2008, pp. 275-298 J. Coakley, Sports in society: Issues and controversies, The McGraw-Hill Companies, New York 2007, p. 292 P.J. Creedon, Women, media and sport: challenging gender values, Sage Publications, Thousand Oaks, California 1994, p. 4 K. W. Crenshaw, Mapping the margins: intersectionality, identity politics, and violence against women of color, in «Stanford Law Review», n. 6, 1991, pp. 1241–1299 K.W. Crenshaw, Demarginalizing the intersection of race and sex: a black feminist critique of antidiscrimination doctrine, feminist theory, and antiracist politics, University of Chicago Legal Forum, n. 1, pp. 139-167 K.W. Crenshaw, Mapping the margins. 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Using an intersectional approach, in a racialized and gendered space like sport, can be useful for critically analyzing the multiple and simultaneous interconnections between power, identity and discrimination. SITOGRAFIA All Reds Rugby Roma, Donne nello sport? Dilettanti per regolamento!, 2015, in https://www.change.org/p/coninews-donne-nello-sport-dilettan- Sandra Agyei Kyeremeh ti-per-regolamento-nowomannopro Atto Camera. Interrogazione a risposta scritta 4/12495, in http://aic.camera.it/aic/scheda.html?numero=4/12495&ramo=CAMERA&leg=17 Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati, Secondo rapporto sull’integrazione degli immigrati in Italia, Dipartimento per gli Affari Sociali-Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma, 2000, in http://www. cestim.it/argomenti/31italia/rapporti-papers/commissione_integrazione/ integra2/integr2_g.htm Coni, Lo sport in Italia. Numeri e contesto 2014, Centro Studi e Osservatori 50 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP è dottoranda in Scienze sociali, interazioni, comunicazioni, costruzioni culturali presso il Dipartimento di Filosofia, sociologia, pedagogia e psicologia applicata dell’Università di Padova, dove sta svolgendo una ricerca circa «Il genere e il colore dello sport italiano. Una ricerca etnografica tra atlete con e senza origini straniere». E Ar D Fi Si DOSSIER Nella rete dei Mondiali È il 1997: nasce una manifestazione chiamata Mondiali antirazzisti, con l’idea di unire, intorno a un campo da calcio, migranti e ultras, attori agli antipodi nello scenario di discriminazioni nel calcio e nella società. Dopo vent’anni l’evento continua ad avere successo: una storia di inclusione che ha prodotto nuovi esperimenti sociali in tutta Italia e in Europa. di Vittorio Martone C ala il volume della musica che introduce ogni premio, poi l’annuncio. A consegnare la Coppa Invisibili è l’assessore allo sport di Castelfranco Emilia, Leonardo Pastore, il quale tra impaccio e tristezza depone sul palco il trofeo, che nessuno ritirerà. Poi gli applausi e i soliti cori da stadio. Il premio è dedicato alla memoria di Emmanuel Chidi Nnamdi, il nigeriano ucciso il 5 luglio a Fermo durante una colluttazione con un ultras vicino a gruppi locali di estrema destra scaturita da insulti di stampo razzista. Il contesto è quello della premiazione conclusiva dell’edizione 2016 dei Mondiali antirazzisti, una manifestazione di sport contro tutte le discriminazioni che dal 1997 viene organizzata dall’Unione Italiana sport per tutti (UISP) in Emilia-Romagna e che ha tagliato di recente l’impegnativo traguardo dei vent’anni di storia. L’evento si è svolto nel parco di Bosco Albergati a Castelfranco Emilia, in provincia di Modena, dal 6 al 10 luglio. «È una manifestazione – racconta Carlo Balestri, dirigente UISP, ideatore e organizzatore dei Mondiali antirazzisti – nata da un’idea semplice ma anche un po’ geniale, quella di mettere insieme gruppi di ultras, che venivano e vengono considerati razzisti e violenti e comunità di migranti. Per cui il carnefice e la vittima, secondo la vulgata. E noi sapevamo che non era così, abbiamo unito le due componenti, abbiamo messo insieme anche le rivalità fra le tifoserie. Da questo mix, intorno a un pallone, con un piccolo torneo di calcio sono nati i Mondiali antirazzisti». Questa dunque la formula: le squadre si riuniscono dall’Italia e dal mondo con la scusa di un torneo non competitivo di calcio a 7, strutturato con partite autoarbitrate che si giocano tra formazioni miste per età, sesso, provenienza e capacità e che, per ridurre il livello della competitività, dalle semifinali in poi vengono disputate ai rigori. Oltre a questo ci sono tornei di basket, pallavolo, cricket, rugby ed esibizioni di discipline sconosciute come il tchoukball, riconosciuto dall’ONU come «sport a sostegno della pace e della fratellanza». Poi i concerti, ogni sera, gratuiti, con band vicine alla cultura ultras, e infine ristoranti, un campeggio, uno spazio per i dibattiti e un’area per i giochi. In sostanza una piccola città, che negli anni ha imparato a prestare sempre maggiore attenzione all’ambiente, consumando acqua di rete al posto di quella in bottiglia e arrivando a differenziare la cifra record del 78% dei rifiuti. E poi questo nome, spesso confuso o distorto in “Mondiali antirazzismo”. Cosa che non sorprende, visto il tentativo di chi incontra l’iniziativa per la prima volta di caratterizzarla per l’op- posizione contro l’ideologia, piuttosto che contro una categoria di persone. «È una scelta legata al fatto – spiega Balestri – che nella nostra riflessione non abbiamo mai voluto considerare il razzismo come pensiero. Non credendo nell’esistenza delle razze, non pensavamo che il razzismo potesse esistere. Però esistono i razzisti, per cui i Mondiali sono contro i razzisti». Il senso di comunità caratterizza molto i partecipanti a questa manifestazione che, all’apertura dell’edizione celebrativa del suo quarto lustro, ha dovuto fare i conti con un pesante episodio di recrudescenza razzista come la morte a Fermo di Emmanuel Chidi Nnamdi. «Chiaramente per noi – afferma Daniela Conti, dirigente della UISP, da sempre nell’organizzazione dei Mondiali – la cosa è stata abbastanza forte. Quello che è impressionante è l’uccisione di una persona che si ribella a un’offesa razzista. Ed è stato un attimo poi dedicare i Mondiali a Emmanuel. Quando i Mondiali sono cominciati il razzismo era un problema forte, poi si è passati a una fase in cui sembrava di essere giunti a una normalizzazione. Negli ultimi anni invece una recrudescenza pazzesca, dovuta all’attenzione al fenomeno dei rifugiati. La morte di un uomo è un epilogo davvero molto triste, incomparabile rispetto a ciò a cui eravamo abituati, come insulti o striscioni. E adesso ripartiamo da qui con il nostro lavoro». Ripartono da questa coppa, quella dedicata agli “invisibili”, che in genere veniva consegnata a qualcuna delle squadre che, per motivi di visti, non era riuscita a partecipare alla festa. I trofei sono numerosi in questo torneo. Oltre a quelli riservati a chi vince ciascuna competizione, ci sono la Coppa Ultras, dedicata alla tifoseria più coesa, la Coppa Fair Play, quella della Piazza antirazzista, per la squadra che ha prodotto il miglior materiale illustrativo del proprio lavoro contro le discriminazioni, e la Coppa Bagna, riservata al miglior progetto di integrazione attraverso il lavoro. Infine, la Coppa Mondiali antirazzisti, il premio più importante, che si fonda su un preciso progetto culturale e politico ed è destinato alla squadra che nel corso dell’anno si è distinta per il progetto di integrazione più interessante. Quest’anno è andata agli United Glasgow, una formazione scozzese che ha ideato campagne contro il sessismo e l’omofobia, grazie a un progetto che coinvolge quattro squadre, maschili e femminili, con un’alta presenza di rifugiati politici e richiedenti asilo. Una rassegna complicata Sono state 184 le squadre che hanno partecipato al torneo di calcio dell’edizione 2016 dei Mondiali antirazzisti, per un 51 E Ar D Fi SiDOSSIER S A fianco: tre momenti dei Mondiali antirazzisti 2016. totale di circa 5.000 persone che a vario titolo si sono unite © Antonio Marcello ai festeggiamenti del ventennale. Tra loro gruppi informali di amici, comunità di migranti radicate sul territorio emiliano-romagnolo e nazionale, associazioni del Terzo settore, infine la galassia dei centri sociali e dei gruppi ultras. Da diversi anni a mondo ideale non si è concretizzato, grazie al lavoro annuale, questa comunità si sono unite numerose squadre che operano anche grazie alla rete FARE (Football Against Racism in Eurocon rifugiati politici e richiedenti asilo, collaborando con i cenpe, n.d.r.). E soprattutto per la volontà dei partecipanti, con cui si riesce a costruire qualcosa di molto più grande, cercando tri di accoglienza o partecipando direttamente allo SPRAR, il sempre di fare rete tra tutti noi». A parlare è Daniela Conti, Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. che abbiamo già conosciuto nelle vesti di organizzatrice dei Per la prima volta gli organizzatori dei Mondiali hanno deciMondiali antirazzisti ma che da pochi anni è subentrata anche so di monitorare il numero delle squadre caratterizzate dal come vicepresidente dei Liberi Nantes. La cui storia, insieme a coinvolgimento diretto di rifugiati politici o richiedenti asilo. quella di altre due squadre, risulta rappresentativa del percorSono state 25 le realtà di questo tipo che hanno preso parte all’edizione 2016: gruppi che, con l’eccezione del sud e delle so di lavoro per l’inclusione attraverso lo sport che nei Monisole, provengono in maniera abbastanza omogenea da tutto diali antirazzisti trova una vetrina nazionale e internazionale. il territorio nazionale, con picchi dall’Emilia-Romagna. Se al L’associazione, che ha ricevuto il riconoscimento dell’UNHCR, nord gli estremi sono individuabili in Varese e Casale Monferha allargato negli anni il progetto iniziale, coinvolgendo il quarrato, al sud la località di provenienza più lontana risulta essetiere Pietralata di Roma, in cui i Liberi Nantes gestiscono un re Caserta. Al centro invece le realtà rappresentate sono state vecchio campo di periferia, e generando anche una scuola di quelle di Anzio, Firenze, Macerata, Nettuno, Prato e Roma. italiano e un gruppo escursionistico. Oggi la squadra è aperta Tra le realtà emiliano-romagnole, infine, le comunità provenia 40 ragazzi, di cui solo sette, per difficoltà economiche, hanvano da Bologna e provincia, Modena, Parma e Reggio Emilia. no preso parte ai Mondiali antirazzisti. «L’anno scorso – spiega Conti – 200 persone hanno chiesto di partecipare, provenienti Più complicato è invece il censimento del numero di profughi dai circa 70 centri di accoche hanno effettivamente parglienza di Roma e provincia tecipato alla manifestazione con cui cooperiamo. Quando (nella quale, essendo tutto Da diversi anni a questa comunità si sono unite ci riusciamo facciamo appunofferto gratuitamente ad eccenumerose squadre che operano con rifugiati politici tamenti per tutti quelli che zione di cibo e bevande, non non fanno parte della squaci sono rilascio di biglietti o e richiedenti asilo, collaborando con i centri di procedure di “identificazione” accoglienza o partecipando direttamente allo SPRAR. dra maggiore, così da far gioda parte dell’organizzazione care tutti e 200 i richiedenti». che permettano un calcolo La prima squadra disputa il più accurato). Da un’indagine campionato in terza divisioeffettuata contattando individualmente tutti i referenti delle 25 ne della Federazione italiana giuoco calcio (FIGC). «Si tratta di squadre risulta che i rifugiati politici e richiedenti asilo presenti un’azione decisa per spingere la FIGC a considerare alcune conai Mondiali antirazzisti 2016 siano stati circa 230. Una cifra che traddizioni del suo regolamento. Noi siamo stati la prima squarappresenterebbe il 10% circa delle persone che hanno svolto dra di rifugiati e richiedenti asilo a giocare in un campionato nel corso dell’anno attività sportiva nei centri di accoglienza e di terza categoria, seppur fuori classifica. Perché noi vogliamo negli SPRAR in cui operano le associazioni che han partecipaarrivare al tesseramento di tutti, vorremmo che nei campionati amatoriali si possa tesserare un ragazzo rifugiato o richiedente to alla manifestazione. Tra queste è possibile segnalare, a titolo asilo con i documenti che ha». esemplificativo, il Gruppo umano di solidarietà di Macerata, che opera con circa 100 persone e ne ha portate dieci a giocare ai Accomunati ai Liberi Nantes da questa esperienza di parteMondiali o la UISP Varese, che tra il capoluogo e Busto Arsizio cipazione ai campionati federali sono gli Rfc Ska Lions di Calavora con 80 ragazzi di cui otto sono stati a Castelfranco Emilia. serta, vincitori nel proprio territorio della Coppa disciplina, assegnata alla squadra più corretta. «È il primo anno – dice Marco Proto, referente della squadra – che riusciamo a portaIl mondo perfetto per cinque giorni non basta re i ragazzi dello SPRAR, che abbiamo avuto nel numero di 40 «Avevamo molta paura che i Mondiali diventassero un happein pianta stabile, fino a un massimo di 50. Ma ai Mondiali con ning meraviglioso di cinque giorni in cui ti sembra di vivere nel noi ce ne sono stati solo tre. Siamo nati nell’ottobre 2011, con mondo ideale per poi tornare a casa. La cosa positiva successa l’idea di fare sport e musica per promuovere l’integrazione negli anni è che le associazioni che sono venute hanno deciso tra comunità e le idee di antirazzismo. La nostra squadra si di gemmare delle attività parallele. Sono quattro anni che porè consolidata coinvolgendo i gruppi casertani di senegalesi, tiamo avanti la campagna “Aspettando i Mondiali”, in cui metstringendo rapporti con le realtà del territorio per arrivare, tiamo insieme tutte le attività che vengono fatte. I Liberi Nantes insieme ad ARCI, a impegnarci nella promozione sportiva sono dei figli dei Mondiali, un’associazione nata nel 2007 da in quattro SPRAR della provincia». E in riferimento al primo un gruppo di amici di Roma che veniva tutti gli anni a giocare risultato in FIGC, ottenuto al primo anno di partecipazione e ha detto: “Belli, i Mondiali ci piacciono ma noi che possiamo al campionato con la squadra dei rifugiati e richiedenti asilo, fare sul nostro territorio?”. E si sono inventati la prima squaProto commenta: «È un bel traguardo, soprattutto se si pensa dra di calcio destinata solo a rifugiati politici e richiedenti asilo. al fatto che molti ragazzi, messi in campo all’inizio, vivono Quindi il rischio che sentivamo un po’ tutti noi di avere questo 52 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP E Ar D Fi Si DOSSIER 53 E Ar D Fi SiDOSSIER S con estrema partecipazione la competizione e giocano sempre come se fosse una finale di Champions. E quindi vanno anche educati nel modo di stare in campo, di rispettare gli avversari, di stringere la mano. Alla fine i nostri allenatori sono riusciti a inculcare questo tipo di mentalità. E loro in campo era uno spettacolo vederli, perché pur rimanendo molto competitivi sviluppavano poi un grande rispetto per gli altri». Insieme agli Rfc sui campi di Bosco Albergati c’era anche il gruppo più nutrito di profughi ai Mondiali antirazzisti. «Abbiamo partecipato con 5 squadre di calcio, 2 di pallavolo e una di basket per un totale di 42 ragazzi. Caleidos – spiega Marco Paganelli, operatore di questa cooperativa sociale di Modena – ha festeggiato a gennaio 2016 il ventennale. Abbiamo lo SPRAR attivo dagli anni Novanta, poi il centro stranieri e il progetto Mare nostrum che impiega circa 60 operatori e vede 900 richiedenti asilo accolti nelle nostre strutture di accoglienza. La parte sportiva nasce nel momento in cui aumentano gli utenti e quindi il rischio di una maggiore emarginazione. Trenta persone possono essere assorbite facilmente, ma con una così grande utenza è necessario trovare sempre più canali di integrazione. In questo caso lo sport è un veicolo perfetto per costruire relazioni e stare in mezzo ad altre persone». Con un progetto finanziato dalla Fondazione Cassa di risparmio di Modena, Caleidos ha organizzato attività di atletica a Castelfranco, coinvolgendo anche donne e mettendo in piedi un torneo tra migranti e ragazzi dei centri psichiatrici dell’Emilia-Romagna. «Di questo ventennale ricordiamo con piacere diverse cose. Coinvolgere le donne che vengono da luoghi in cui il loro ruolo è prettamente adibito all’attività domestica o alla procreazione è stata una cosa potente. Poi i Mondiali antirazzisti, che hanno fatto vedere anche un aspetto della vita nell’Unione europea ai nostri ragazzi». Aperture di comunità Compiere vent’anni, per una manifestazione, è un traguardo enorme, perché il tempo logora con facilità le iniziative se queste non sanno rinnovarsi, nella formula e nei contenuti. «Per noi poi – afferma Balestri – questo traguardo è segnato anche da un evento speciale: il riconoscimento da parte dell’UNAR come evento di pubblica utilità, che indica la nostra manifestazione come una delle migliori pratiche in Italia e in Europa sulla lotta a discriminazioni e razzismo attraverso le attività sportive». Il crescente successo della manifestazione negli anni è innegabile. Quello che al principio rappresentava un piccolo torneo di comunità nella sperduta provincia emiliana con otto squadre e 80 partecipanti, oggi è un evento di caratura nazionale e internazionale, che catalizza l’attenzione dei media e coinvolge ospiti importanti. Tra questi c’è Mauro Valeri, sociologo e scrittore, responsabile dell’Osservatorio sul razzismo e l’antirazzismo nel calcio e membro dell’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (UNAR). «La cosa positiva – sottolinea Valeri – è stata l’idea iniziale, di coinvolgere le tifoserie, evitando anche la diffusione di una visione negativa sugli ultrà. Sono stati poi inseriti e sviluppati i temi dell’ambiente, della lotta al sessismo. Molto bella è stata l’esperienza di coinvolgimento del territorio, all’indomani anche del terremoto in Emilia, con i bambini dei centri estivi delle zone colpite dal sisma». Ma il plauso nei confronti di questo modello di lavoro non 54 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP è limitato a una valutazione degli aspetti positivi della manifestazione e si basa su una maggiore visione d’insieme. «Nel mondo dello sport ci sono due correnti: una è quella della denuncia, alla base dell’idea dell’Osservatorio, un po’ sul modello FARE. L’altra modalità di azione prova invece a fare delle politiche di valorizzazione della stessa componente antirazzista negli ultrà, esperienza europea diffusa dal St. Pauli in giù ma che mai prima dei Mondiali era stata tentata in Italia. Qui invece si sta rilanciando ancora, partendo dalle ultime quattro edizioni, con le esperienze legate ai profughi». «Chi partecipa all’evento – continua il sociologo romano – è poi marcato, si capisce che ha fatto riflessioni sul luogo, che acquisisce punti di vista politici importanti. Per quanto riguarda il mondo del calcio, noi abbiamo un momento in cui il razzismo sta diminuendo nel mondo della Serie A e Serie B, per attività repressive e altri fattori. Nelle serie minori si apre invece un nuovo scenario, la cui quantificazione è complessa, ma che non impedisce un’affermazione veritiera: molte tifoserie che hanno partecipato ai Mondiali antirazzisti hanno messo poi in piedi squadre antirazziste, coinvolte soprattutto nella seconda e terza categoria. I Mondiali hanno dato impulso a una cosa che era più comune in Europa. E non vedo il rischio che il forte senso di comunità che caratterizza l’evento possa precluderne sviluppi. Se tu partecipi a un torneo di calcio federale, affronti altre squadre con cui entri in rapporto. E queste squadre poi sicuramente acquisiscono una consapevolezza del lavoro che porti avanti. Non vedo preclusione perché il principio dell’antirazzismo non è marcatamente ideologico, diversamente da altre esperienze passate. Qui poi c’è una base esperienziale, apertamente antirazzista, più facilmente accettabile anche da chi non ha radici antiche in questo movimento». ABSTRACT EN It’s 1997: a demonstration event called Antiracist Worlds is born with the aim of uniting, on a football pitch, migrants and “others”, actors at both extremes of discrimination in football and society. After 20 years the event continues to have success: 5,000 participants in the 2016 edition, with 184 teams taking part of which 25 composed of political refugees and asylum seekers. A story of inclusion which has produced novel social experiments across Italy and Europe, and which contrasts a terrible piece of news; the death at Fermo di Emmanuel Chidi Nnamdi following aggression from extreme right-wing hooligans. Vittorio Martone giornalista, dal 2007 dirige l’area stampa della UISP Emilia-Romagna e per 8 anni ha curato l’ufficio stampa dei Mondiali antirazzisti. Collabora alla trasmissione Tre Soldi di Radio3 Rai e con diverse testate che si occupano di sport, politica e sociale. Scuola E Ar D Fi Si St M Li n. 84 Sport e immigrazione Africa e Mediterraneo Gli sport praticati dai richiedenti asilo nella Città Metropolitana di Bologna Le età dati in valori assoluti 56 16-19 92 64 21 20-29 4 3 7 2 2 2 22 1 9 Calcio Cricket Ginnastica Basket Arti marziali Atletica Palestra Pattinaggio 30- over 30 Dove si allenano? Le nazionalità Senegal Costa d’Avorio Mali Gambia Cameroon Nigeria Libia Ghana Burkina Faso Bangladesh Pakistan Benin Marocco Somalia Guinea Guinea Bissau Boxe 9 6 21 23 1 16 1 13 2 5 19 2 1 1 7 2 Associazioni/ Polisportive Palestre/Palestre popolari Luoghi pubblici In struttura totale: 129 Tutti i dati qui presentati si riferiscono a un rilevamento che è stato condotto tra gennaio e aprile 2016, all'interno del progetto Bologna cares! tra gli ospiti delle strutture di accoglienza CAS e SPRAR gestite dagli enti gestori l'Arcolaio, MondoDonna, Camelot, Lai-momo e ASP. 55 DOSSIER E Ar D Fi Si S FOCUS/ Arti marziali MUSTAPHA HAIDA, LA STORIA DI UN CAMPIONE SPORTIVO E DEL PROFONDO LEGAME CHE UNISCE L’ITALIA AL MAROCCO di Eugenio Bini e Danilo Bondi «S ul ring la rabbia può essere controproducente. Forse è per questo che il combattimento si adatta perfettamente al mio carattere mite». Mustapha Haida 56 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP ha lasciato la campagna marocchina nel 1999, quando ancora era un bambino. Oggi “Musta” – come lo chiamano tutti in Valdarno – è sul tetto del mondo grazie alla kickboxing e alla thai boxe. «Avevo dieci anni quando sono partito da Douar Sahrij per l’Italia: la scuola, poi il lavoro in pelletteria e la squadra di calcio a Figline Valdarno, provincia di Firenze, prima di mollare e conoscere le arti marziali».1 “Campione intercontinentale Wako Pro”, “Campione del mondo ISKA”, “Campione del mondo Venum”, vincitore dei tornei Thaiboxmania ed Oktagon e vincitore in Fight Code.2 Questo il lungo palmares di Mustapha Haida, senza considerare la lunga serie di match contro autentici mostri sacri della disciplina. Successi prestigiosi in tutte le parti del mondo e qualche passo falso, a causa di alcuni infortuni, in una carriera che è iniziata da pochi anni. Titoli che per gli addetti ai lavori testimoniano uno status assolutamente elitario, una carta di identità da campione vero.2 L’ascesa nella arti marziali, quasi un esempio di serendipità, è avvenuta grazie a un mecenate sui generis, Pa- La concentrazione dell’artista marziale. © Eugenio Bini E Ar D Fi Si DOSSIER FOCUS/ Arti marziali olo Innocenti, che voleva introdurre Mustapha negli ambienti sociali grazie all’attività fisica. «Era il mio datore di lavoro, praticava attività sportiva in palestra, e mi pagò il primo anno di iscrizione» racconta il lottatore italo-marocchino. Da tagliatore in una delle numerose pelletterie dell’hinterland fiorentino a campione intercontinentale il passo è breve: «Da lì – sottolinea il campione di arti marziali – è iniziata l’ascesa sportiva in una disciplina in cui le differenze etniche e sociali scompaiono quando si combatte e ci si allena. Uno sport in cui non ho mai incontrato episodi di discriminazione razziale». Ad accompagnarlo in questa cavalcata, gli allenatori Dimitri Monini e Fabio Iaiunese, della Fight e Fitness Academy di Figline e Incisa Valdarno: «È stata una crescita costante sia a livello sportivo che umano che spero di poter proseguire a lungo. Il segreto è stato quello di fissare ogni anno delle asticelle che, senza eccessive pressioni, sono riuscito a superare. Una programmazione che permette anche di preservarmi a livello fisico». Da poche settimane ha ottenuto la cittadinanza italiana: «Dopo aver ricevuto la notifica del Presidente della Repubblica, il 24 marzo ho ricevuto la cittadinanza con una cerimonia in Comune. È stato un percorso molto lungo ma in questi anni ho sempre combattuto sul ring con la doppia bandiera: su un lato quella marocchina, sull’altro il tricolore». Insomma lo sport abbatte ancora una volta le barriere, sia quelle culturali come quelle socio-economiche, in un territorio come quello fiorentino che si inserisce a pieno titolo nel contesto migratorio che ha interessato l’Europa Meridionale alla fine degli anni ’90 e che in Valdarno ha i suoi prodromi già nel decennio precedente. Generazioni di persone, come Haida, sono partite da Elkelaa des Sraghna, città a 90 chilometri a est di Marrakech, per raggiungere la Toscana: i primi gruppi sono arrivati in Valdarno Fiorentino quasi 30 anni fa e la componente marocchina è oggi, di gran lunga, la più numerosa della comunità araba. Anche in questo territorio «recenti tensioni toccano la sfera della fruizione dei diritti civili. I conflitti più clamorosi concernono l’esercizio della libertà di culto, di manifestazione della propria appartenenza religiosa e del rispetto delle prescrizioni religiose nell’ambito pubblico». Tuttavia nell’esperienza quotidiana locale «il multiculturalismo per vari aspetti sta diventando una componente normale e diffusa della vita sociale, spesso in modo silenzioso, routinario e persino inavvertito» (Colombo, Semi 2007). In questa routine relazionale emerge l’importanza non solo sportiva di una disciplina in cui, come spiegano Dimitri Monini e Mustapha Haida, «chi pratica per fare il bullo si autoesclude» e in cui «si impara a controllare l’aggressività, che in ambito agonistico diventa uno svantaggio». Dal punto di vista dell’atleta «è necessario avere pazienza per poter ottenere risultati, sia a livello agonistico che per l’integrazione sociale». Dal punto di vista dell’allenatore «è necessario il dialogo continuo e l’individuazione precoce dei soggetti deleteri per il gruppo» perché, anche se si tratta di uno sport individuale, il contesto ambientale e la socializzazione rappresentano fattori quotidiani fondamentali. Infine, dal punto di vista sportivo, dobbiamo prendere atto come i flussi migratori abbiano ampliato le possibilità dei Paesi ospitanti di far crescere il proprio movimento e abbiano consentito agli atleti stessi di emergere in contesti più aperti. Nel caso delle arti marziali infatti molti atleti di successo sono originari di Paesi come Albania, Romania, Marocco e Tunisia: probabilmente, come suggeriscono Dimitri e Mustapha, «una storia personale permeata da difficoltà di vario tipo, affrontando difficoltà e sofferenze, porta la persona a proporsi con più motivazione e dedizione verso una disciplina». Pratica sportiva come possibilità di crescita reciproca e come fattore di inclusione sociale, un binomio testimoniato anche dalla storia del campione marocchino. Diventa dunque prioritario, come ricordato dall’UNESCO, assicurare che «la pratica di educazione fisica, attività fisica e sport sia un diritto fondamentale per tutti» e che «la protezione e promozione dell’integrità e dei valori etici ad essi connessi rappresentino per tutti una premura» (International Charter of Physical Education, Physical Activity and Sport, 2015): questo consentirebbe la promozione di principi anti-discriminatori e cooperativi a livello mondiale. BIBLIOGRAFIA E. Colombo, G. Semi, Multiculturalismo quotidiano. Le pratiche della differenza, Franco Angeli, Milano 2007 G. Sciortino, Migrazioni e nuove eterogeneità etniche, in Loredana Sciolla (a cura di), «Processi e trasformazioni sociali», Laterza, Bari 2015 M.Ambrosini, Multiculturalismo e cittadinanza, in Loredana Sciolla (a cura di), «Processi e trasformazioni sociali», Laterza, Bari 2015 UNESCO, International Charter of Physical Education, Physical Activity and Sport, Conférence Générale, 38e édition, Paris 2015, artt. 1 e 10 NOTE 1 - La kickboxing è uno sport da combattimento che racchiude la tradizione orientale (in particolare giapponese) e l’agonismo occidentale (in particolare statunitense), diffusosi nella seconda metà del 20° secolo in tutto il mondo. La thai boxe è uno sport da combattimento di origine thailandese diffusosi a livello internazionale a partire dagli anni ’70; le due discipline contano adesso federazioni nazionali e internazionali, diversi circuiti di combattimento, migliaia di palestre dedicate e milioni di praticanti. 2 - WAKO: World Association of Kickboxing organization (www.wakopro.org); ISKA: International Sport Karate Association (www. iskaworldhq.com); Oktagon, show marziale in atto dal 1996, rappresenta un evento mediatico internazionale (www.oktagon.it); per ulteriori approfondimenti sui circuiti in cui si è distinto Mustapha Haida visitare anche www.victoryws. com e www.thaiboxemania.com Eugenio Bini è giornalista pubblicista, si è occupato della comunità araba fiorentina e del Marocco. Danilo Bondi è chinesiologo, attivo nel settore dell’inclusione sociale attraverso lo sport. 57 DOSSIER E Ar D Fi Si S FOCUS/ Lingua LESSICO DEL CALCIO IN SWAHILI di Diego Sidraschi L ’analisi del lessico della sfera semantica dei termini che rimandano al gioco del calcio in swahili offre un osservatorio privilegiato per osservare numerosi fenomeni di interferenza linguistica tra questa lingua (lingua replica) e l’inglese (lingua modello). Quando dal mondo anglofono giunse il gioco del calcio nei Paesi di lingua swahili, esso portò con sé la sua peculiare terminologia tecnica utile a designare referenti monoreferenziali molto specifici. La necessità di designare queste realtà nuove ha portato in moltissimi casi ad adottare dei prestiti dall’inglese, come è capitato anche in molte altre lingue (per © UNHCR 58 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP esempio, per rimanere in Africa, al wolof ) e, in misura minore, all’italiano: così per esempio dall’inglese corner in italiano abbiamo un prestito non integrato, corner appunto, liberamente alternato a “calcio d’angolo”, di cui è sinonimo perfetto, e in swahili troviamo il prestito integrato (cioè modificato per adattarlo al proprio sistema fonologico o morfologico) kona.1 Le poche parole autoctone rifunzionalizzate al gioco del calcio riguardano elementi che denotano realtà molto simili dal punto di vista referenziale, come nel caso di mpira “palla” (cfr. kucheza mpira “giocare a palla / calcio”)2 o di bao “porta”. Il primo termine significa in prima istanza “gomma, palla di gomma” e il secondo “asse di legno”, due realtà che sicuramente nel mondo swahili preesistevano alla diffusione del calcio. I prestiti dall’inglese vengono general- mente adattati fonologicamente alla lingua replica per quanto riguarda il sistema vocalico, consonantico e la struttura sillabica. Il sistema vocalico dello swahili è composto da cinque fonemi con valore distintivo /i, e, a, o, u/ a fronte del sistema vocalico dell’inglese britannico che ne presenta 12.3 Pertanto parole come forward [‘fɔ:wǝd] “attaccante” vengono integrate come fowadi, dove il vocoide centrale [ǝ] viene abbassato in [a], e si sviluppa una vocale paragogica i che permette alla parola di terminare con una sillaba aperta, come previsto dal sistema linguistico dello swahili. Altri esempi di prestiti integrati sono wingi “ala” (in inglese wing), referii o refa “arbitro” (in inglese referee), peneti “calcio di rigore” (in inglese penalty). Anche in wolof, una delle lingue nazionali del Senegal, tutti i principali nomi di sport sono termini di prestito adattati fonologicamente o meno da lingue europee: fubball, vollè, basket, judo.4 I termini di prestito vengono inoltre integrati anche dal punto di vista morfologico e vengono accolti nelle classi 5/6 e 9/10. Come è già stato illustrato ai lettori in questa stessa rivista in un numero precedente lo swahili è una lingua a classificatori.5 Attraverso i classificatori ogni lessema viene categorizzato in una spe- E Ar D Fi Si DOSSIER FOCUS/ Lingua cifica classe nominale contrassegnata da uno specifico prefisso. Queste classi sono organizzate a coppie (singolare/plurale) e la loro determinazione è attribuibile al protobantu. Le motivazioni alla base di questa suddivisione sono tuttora oggetto di dibattito e in questa sede ricorderemo solo che l’arbitrarietà,6 la semantica e il mutamento diacronico sono le tre forze che hanno determinato in diversa misura l’assetto attestato sincronicamente, e purtuttavia possiamo fare alcune generalizzazioni. Dal punto di vista semantico le classi 5/6 contengono prevalentemente nomi di frutta, parti del corpo che vanno in coppia, nomi deverbali, oltre a consentire la designazione di un aumento della dimensione per la maggior parte dei termini categorizzati in altre classi. Non sorprende dunque che la parola goal, che designa il culmine e il fine ultimo del gioco del calcio, ricada nelle classi 5/6: goli/magoli,7 e così accade anche per i termini indicanti molti ruoli all’interno della squadra: oltre a fowadi, wingi, referii, golikipa “portiere” (in inglese goalkeeper), pasi “passaggio” (in inglese pass). Molti di questi termini infatti designano i ruoli più importanti all’interno del gioco e la salienza di queste figure fa sì che possano essere categorizzate nelle classi dei referenti “grossi”, anche se molti prestiti di altre sfere semantiche integrati in questa classe non portano con sé questa connotazione. D’altro canto anche altri titoli o nomi legati a posizioni sociali (es. bwana “signore”, rais “presidente, waziri “ministro”) vengono categorizzati spesso nella classe 5 piuttosto che nella classe 1, che accoglie i nomi degli esseri umani e che quindi si sarebbe potuta immaginare come categorizzazione naturale di questi termini. Nelle classi 9/10, semanticamente più eterogenee, troviamo, oltre ai già citati kona e peneti, kocha “allenatore” (in inglese coach), timu “squadra” (in inglese team). Un caso molto interessante è rappresentato dal verbo kukonesha “battere un corner”. Questa forma verbale presenta il morfema -esh-, molto peculiare, definito estensore dalla bantuistica. Gli estensori rappresentano un caso di affissazione molto frequente e produttivo sia nello swahili che nelle altre lingue bantu e sono volti a modificare la configurazione semantica o la struttura argomentale del verbo a cui sono affissati. In questo caso abbiamo a che fare con un esten- sore di causativo, che aumenta la valenza del verbo aggiungendo un ulteriore argomento nel ruolo di agente e che in italiano si esprime analiticamente con perifrasi del tipo far fare X a Y: il verbo kuandika “scrivere”, kuandikisha significherà “fare scrivere, dettare”. Dal momento però che non è attestato il verbo *kukona dobbiamo dedurre che questo morfema sia stato aggiunto direttamente alla forma nominale kona. Questo fenomeno non sembra molto produttivo in swahili e sembra ricordare sotto molti aspetti il processo morfologico presente in italiano e in altre lingue romanze noto come parasintesi.8 I verbi parasintetici sono «verbi denominali e deaggettivali prefissati di cui non sono attestati né il verbo non prefissato ottenuto per conversione né il nome o l’aggettivo di base prefissato».9 In altre parole, mentre ad esempio esistono e sono attestati sia burro sia imburrare, sia giallo sia ingiallire, viceversa non sono attestati né *burrare né *giallire. Ovviamente bisogna notare che il prefisso ku- indica la flessione di modo infinito (come il suffisso -are degli esempi italiani) e che il prefisso italiano in- (e il suo allomorfo im-) non si appone a basi nominali e aggettivali esattamente come accade per l’estensore di causativo -ish- dello swahili. Il concetto di parasintesi è stato finora utilizzato solo nella descrizione della morfologia verbale di alcune lingue romanze e non per le lingue bantu, ma le affinità dei processi descritti nelle due lingue inducono a più di una riflessione. Questa breve esposizione ci ha permesso di osservare come nel linguaggio settoriale del calcio in swahili sia pervasivo l’influsso dell’interferenza dell’inglese come lingua modello. Qualcosa di molto simile accade anche in wolof, anche se in questo caso la lingua modello è il francese. Ma da questa analisi è emerso anche, seppure in maniera periferica, come si possano trovare affinità di comportamento morfologico tra lingue tipologicamente, arealmente e storicamente differenti come l’italiano e lo swahili. BIBLIOGRAFIA L. Canepari, Introduzione alla fonetica, Einaudi, Torino 1979 M. Castagneto, Chicchi, semi, semolini in Swahili. Categorie di genere e reduplicazione, in «Africa e Mediterraneo», n. 81, 2014, pp. 525 1994, www2.iath.virginia.edu/swahili/swahili.html G.G. Corbett, Gender, Cambridge University Press, Cambridge 1991 J.P. Denny, C. Creider, The semantics of noun classes in Proto-Bantu, in «Studies in African Linguistics», n. 7/1, 1976, pp. 1-30 M. Guthrie, Gender, number and person in Bantu languages, in «Bulletin of the School of Oriental and African Studies», n. 12, 1948, pp. 847-56 C. Iacobini, Parasintesi, in M. Grossman e F. Rainer (a cura di), La formazione delle parole in italiano, Niemeyer, Tübingen 2004 V. Merlo Pick, Vocabolario kiswahili-italiano italiano-kiswahili, EMI, Bologna 1978 J. Mwalonya, A. Nicolle, S. Nicolle, J. Zimbu, Mgombato. Digo-Swahili-English Dictionary, BTL, Nairobi 2004 D. V. Perrott, Concise Swahili and English Dictionary, Hodder & Stoughton, London 1965 C. W. Rechenbach, Swahili-English Dictionary, The Catholic University of America Press, Washington DC 1968 NOTE 1 - Il corpus di ricerca consiste in quattro dizionari citati in bibliografia. Con “prestito integrato” si intende una parola della lingua modello adattata nella lingua replica sia dal punto di vista fonologico sia morfologico. 2 - Il gioco del calcio può essere designato anche utilizzando prestiti integrati, come soka (da soccer) o futboli. 3 - Cfr. Canepari 1979. 4 - Per il materiale relativo alla lingua wolof si ringrazia la dottoressa Nelly Diop. 5 - Cfr. Castagneto 2014. 6 - Cfr. Contini-Morava 1994, Corbett 1991, Denny e Creyder 1976, Guthrie 1948. 7 - I classificatori delle classi 5/6 sono Ø / ma. 8 - Ma neanche raro, cfr. ad es. aibisha “far imbarazzare” da aibu “vergogna, imbarazzo” oppure zeesha “far invecchiare” da zee “vecchio”. 9 - Cfr. Iacobini 2004, p. 167. Diego Sidraschi si è laureato in Filologia Classica, Moderna e Comparata presso l’Università del Piemonte Orientale. Attualmente è dottorando di ricerca presso l’Università di Udine. I suoi principali interessi sono la morfologia e la pragmatica, in particolare lo studio dei complementi. E. Contini-Morava, Noun Classification in Swahili, 59 DOSSIER E Ar D Fi Si S FOCUS/ Lingua PAROLE, GESTI E GESTACCI DEL RAZZISMO NELLO SPORT di Ivo Stefano Germano 60 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP U na premessa: si tratta di una serie di spunti, probabilmente inefficaci. A cominciare da una domanda: viene prima il razzismo o lo sport? Intanto vi sono i media, che non sono neutri e che non vanno né sottovalutati né sopravvalutati. Essi, in quanto “costruttori della realtà”, incidono su stereotipi e stigmatizzazione di simboli, su parole e concetti sportivi e al contempo, grazie ai social media, anche su rappresentazioni e miti di un immaginario sportivo sempre più caratterizzato da uno storytelling (Gili 2009) che attinge più a reazioni fuori dai campi da gioco, che non alle regole del mainstream. Il calcio in tv, oramai, è “ferializzato”, spalmato, diluito e può offrire più di un’occasione, a fronte di una proliferazione di attori extra-campo, espressioni, manifestazioni di odio razziale e politico, offese, dileggio. Si tratta di manifestazioni ricorrenti (se non pro- E Ar D Fi Si DOSSIER FOCUS/ Lingua Mondiali antirazzisti 2016. © Nicola Fossella prio ossessive), che destano la curiosità delle telecamere, ma vedono anche una diffusione in rete tramite blog, forum, chat. Dagli spalti ai display, passando per i talk-show sportivi, come di recente è capitato ad un ex giocatore, Stefano Eranio, commentatore della Champions League per la tv svizzera, che ha espresso una serie di stereotipi sui giocatori di colore in difesa, la cui forza fisica, a suo parere, non andrebbe di pari passo con la capacità di concentrazione. Schernire, offendere, aggredire i giocatori di pelle o origine diversa con allusioni a versi da primate, con banane lanciate in campo, sono solo alcune esemplificazioni “plastiche” di un preciso repertorio di cui, in Italia, i media si accorgono con un certo ritardo. Un caso clamoroso fu quello di Inter contro Messina, domenica 27 novembre 2006, nel momento in cui Marc André Zoro, giocatore della Costa d’Avorio, prese il pallone in mano e minacciò di andarsene, qualora non si facesse qualcosa contro i cori razzisti. Dal folklore si può quindi passare a qualcosa di estremamente degradante, pur in un contesto di maggiore spinta globalizzante del calcio contemporaneo (Martelli 2012), dove le rose dei giocatori sono sempre multinazionali e multietniche. Di riflesso, scatta la litania verbosa, talvolta di facciata, circa il fatto che non si tratti di veri tifosi, ma di persone che abitano lo stadio per altre ossessioni/suggestioni identitarie. Zoro non fece altro che anticipare quanto compiuto da Samuel Eto’o in Barcellona contro Saragozza, guadagnando la via degli spogliatori a causa di offese di stampo razzista. Per non parlare della squadra del Treviso calcio che, per reazione e solidarietà al compagno di squadra di nazionalità nigeriana Akeem Omolade, si presentò in campo, nel 2001, con il volto dipinto di nero, compreso l’allenatore Mauro Sandreani. Fortunatamente, di provvedimenti ne sono stati presi con sempre maggior frequenza, come ad esempio la proibizione di cori e striscioni razzisti con la possibilità di sospendere l’incontro. Kevin Prince Boateng, nel 2013, è stato invitato dalle Nazioni Unite per commemorare la Giornata internazionale per l’eliminazione delle discriminazioni razziali, per avere abbandonato, assieme a tutto il Milan, il campo di Busto Arsizio durante la partita “amichevole” contro la Pro Patria, i cui tifosi avevano dato luogo a un continuo profluvio di espressioni razziste. Tuttavia parole, gesti, gestacci razzisti, rendono possibile attrarre l’attenzione e caricare di risentimento, se non proprio di odio, il significato stesso di una partita, “producendo” titoli per la stampa e non combattendo a fondo razzismo, omofobia, disprezzo per l’altro. La differenza si gioca in termini di visibilità se si è circondati da più telecamere oppure se si legge il giornale sul divano di casa. Nello sport vi sono gesti con un particolare significato in termini di accettazione o rifiuto, lode e odio, che ledono la “sacralità” dello stadio (Morris 1981). Il vociare, se razzista, è veramente volgare, osceno, violento, disarmante. Parlarne sembra però un capriccio teorico, l’ennesima resa dei conti col e nel nulla. Richiamati ad un maggior senso istituzionale dovremmo dire che una delle spiegazioni più diffuse fa corrispondere alla cattiva qualità dello spettacolo calcistico, alle infrastrutture inadeguate, la turbolenza e l’asprezza dei fenomeni di razzismo nello sport. Di solito, il gesto razzista (la gamma è amplissima, banane agitate verso giocatori neri, urla, berciate) corrisponde ad una duplice pressione sociale e culturale: l’ispirazione ad una supposta purezza della “comunità sportiva” (Clifford 2010), oppure, una sorta di richiamo “tribale” contro “l’altro/ gli altri” che starebbero invadendo il campo (Zoletto 2010). Anche se apparentemente banale, è necessario quindi ribadire che occorre avviare un ragionamento sociologico e comunicazionale sempre più organizzato su schemi interdisciplinari. Il razzismo nello sport è, infatti, un gesto “quasi atteso” dai media: se lo sport, in particolare il calcio, rappresenta una delle forme di spettacolo e intrattenimento globale tra le più potenti e incisive (Valeri 2010), per chi voglia attingere a linguaggi, frasi, gesti di tipo discriminatorio, se non proprio, razzista, il proscenio (Villemus 2006) diventa ampio per la rivendicazione, del tutto immaginaria e inconsistente, di nuove e vecchie derive retoriche sull’intangibilità e la separatezza fra gruppi codificati sempre più in termini razziali. Ecco il problema. Manca l’assunzione di responsabilità e la convinzione da parte degli attori protagonisti dei media e dello sport della capacità formativa e socializzativa del gesto sportivo in epoca di globalizzazione (Foer 2006). Repetita iuvant. Forse. BIBLIOGRAFIA J. Clifford, I frutti puri impazziscono, Bollati Boringhieri, Torino 2010 F. Foer, Come il calcio spiega il mondo: teoria improbabile della globalizzazione, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2006 G. Gili, Le condizioni della comunicazione interculturale: una proposta di quadro concettuale, in «Sociologia», n.1, 2009, pp. 7-41 S. Martelli, Lo sport globale. Le audience televisive di mondiali di calcio, Olimpiadi e Paralimpiadi invernali (2002-2010), FrancoAngeli, Milano 2012 D. Morris, La tribù del calcio, Rizzoli, Milano 1981 M. Valeri, Che razza di tifo: dieci anni di razzismo nel calcio italiano, Donzelli, Roma 2010 P. Villemus, Le Dieu football: Ses origines - Ses rites - Ses symboles, Eyrolles, Paris 2006 D. Zoletto, Il gioco duro dell’integrazione, l’intercultura sui campi da gioco, Raffaello Cortina, Milano 2010 Ivo Stefano Germano è ricercatore e professore aggregato di Sociologia dei processi culturali e comunicativi, Università degli studi del Molise. Insegna Giornalismo sportivo presso la Scuola di Scienze Motorie, Università di Bologna. 61 DOSSIER E Ar D Fi Si S FOCUS/ Identità VATRENI. LA NAZIONALE CROATA TRA IL SOGNO DEI MONDIALI E L’INCUBO DELLA GUERRA di Valentina Valle Baroz Z vonimir Boban percorre il corridoio degli spogliatoi dello stadio Maksimir e la sua voce fuoricampo racconta i fatti vissuti come capitano della Dinamo, quel mezzogiorno del 13 maggio 1990. Il capitano ricorda che dallo spogliatoio sentiva i tifosi delle due squadre, la croata Dinamo Zagabria e la serba Stella Rossa, che cantavano, gridavano e s’insultavano dalle gradinate. Di lì a pochi minuti sarebbe iniziata una partita storica, trasformatasi quasi subito in battaglia campale. Con quest’immagine inizia Vatreni, un documentario che, nella visione del messicano Edson Ramírez, racconta la storia dell’indipendenza croata attraverso la voce dei calciatori che ai Mondiali del ’98 ebbero l’opportunità di vestire per la prima volta la bandiera della loro nazione. Il “calcio d’inizio” Affermare che il calcio tirato dal capitano croato Boban a un poliziotto serbo, per difendere un tifoso della sua quadra, abbia scatenato la guerra d’indipendenza croata, è eccessivo. Tuttavia, è un dato di fatto che gli scontri del 13 maggio rimarranno nella memoria storica d’Europa e che quel gesto, immortalato dalla televisione e replicato un’infinità di volte sugli schermi di tutto il continente, sia diventato in poco tempo 62 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP il simbolo degli ideali separatisti di un intero popolo. In Jugoslavia lo scenario non avrebbe potuto essere più complesso. La morte di Tito aveva portato con sé una grave crisi economica, esacerbando le tensioni da sempre esistenti tra i differenti gruppi etnici presenti in una federazione che non era mai stata davvero unita. Le velleità di supremazia della Serbia, repubblica maggiormente rappresentata, avevano cominciato a ledere sempre di più non solo gli interessi politici di Slovenia e Croazia, ma anche l’orgoglio dei cittadini delle due nazioni. Gli ideali di “fratellanza e unità”, per anni mantenutisi in vita grazie al rigore poliziesco imposto dal regime dell’ormai defunto Maresciallo, lasciavano ora il posto ai nazionalismi radicali di Slobodan Milosevic, con la sua proposta di una “Grande Serbia” fondata sulla repressione delle minoranze, e di Franjo Tudman, con una dialettica di esaltazione della superiorità croata che avrebbe portato, di lì a poco, a conseguenze non molto diverse. Parallelamente all’ascesa del separatismo, in tutti gli stadi della regione balcanica si registrava una scalata di violenza che trasformava ogni partita in una guerra in miniatura dai tratti grotteschi, dove i cori erano inni all’odio e le gradinate trincee. Il calcio aveva cominciato a rivestire un ruolo diametralmente opposto a quello dell’epoca Intervista a Goran Vlaović, marcatore del secondo goal contro la Germania nei quarti di finale del Mondiale di Francia ’98. © Alfredo Sánchez della “grande nazione”, quando era elemento unificante di un Paese dai mille volti, dove convivevano lingue, ideologie, religioni e visioni della nazione molto diverse tra loro. Dal 13 maggio del 1990 in poi, lo stesso sport che era stato unione divenne quindi essenza della divisione, spazio in cui l’odio e la xenofobia raggiunsero livelli esorbitanti e il calcio si trasformò, per usare le parole del sociologo Alessandro Dal Lago, in un’esperienza capace di integrare i vari attori sulla scena «in un groviglio di realtà sociali, economiche, simboliche, ludiche e politiche che fanno “sistema” e trovano la propria espressione completa nello stadio», un «fatto sociale totale», talmente totale da poter essere addirittura preludio di una guerra. Nel documentario Vatreni, sono i calciatori stessi a raccontare la surrealtà di quei giorni. Dopo l’immagine iniziale del capitano Boban, poco a poco appaiono sullo schermo gli altri futuri titolari della nazionale croata del ’98 che, al principio degli anni Novanta, assistettero in prima persona al disgregarsi tanto delle loro squadre quanto delle loro nazioni. Attraverso le interviste a Robert Prosinecki, giovane promessa della E Ar D Fi Si DOSSIER FOCUS/ Identità Stella Rossa di Belgrado, a Mario Stanic e Miroslav Blazevic, entrambi di origine bosniaca, e ad altri giocatori come Davor Suker, Robert Jarni e Goran Jurcic, e con l’ausilio d’immagini di archivio e documenti dell’epoca, gli autori della fiction ricostruiscono alcune delle tappe emblematiche della crisi jugoslava, letta attraverso la lente calcistica. I giocatori raccontano dell’ultimo grande successo della nazionale jugoslava, che nel 1987 vinse il mondiale giovanile e si apprestava a entrare in competizione per i tornei successivi, in vista del sogno dei mondiali del ’90. Le interviste evidenziano i loro sentimenti contrastanti, da un lato la frustrazione di veder sfumare l’opportunità di appartenere a una squadra che poteva competere a livello internazionale, dall’altro l’emozione di intravedere la possibilità di difendere, per la prima volta, una maglia che li facesse sentire davvero identificati, nonostante la consapevolezza che l’unica via per l’indipendenza era la guerra. L’identità “nel pallone” Edson Ramírez è un giovane messicano, laureato in Comunicazione Sociale, attualmente specializzando in Direzione Cinematografica. Vatreni è il suo primo lungometraggio. Negli ultimi anni ha diretto tre cortometraggi prodotti dal Centro di Formazione Cinematografica (http://www.elccc.com.mx/sitio/) e nel 2008 è stato direttore del documentario Noches de Generación, che racconta la storia della rivista culturale alternativa Generación, diretta dallo scrittore Carlos Martínez Rentería. Quando lo incontriamo a Città del Messico, la prima e piuttosto scontata domanda che gli rivolgiamo è che cosa esattamente ha attirato la sua attenzione in una storia tanto avulsa dalla sua realtà, non solo quotidiana ma anche storica. La sua risposta è tutta centrata sulla ricerca identitaria che, nonostante la lontananza geografica e temporale, lui riconosce “identica in ogni popolo che abita la terra”. “Per tanto che ci abbia provato, Tito non è mai riuscito a creare un’identità jugoslava, ha sempre dovuto accettare che le nazioni parte della federazione cercassero costantemente il riconoscimento della loro completa autonomia. La ricerca dell’identità è concettual- mente ciò che mi ha spinto a sviluppare questo progetto, pensando nell’identificazione che non solo i tifosi, ma anche i giocatori, arrivano a sentire quando giocano per la loro nazionale. Mi chiedevo cosa provavano i titolari di una fittizia Jugoslavia allo scendere in campo con una maglia che non sentivano loro. E mi tornavano in mente le parole di Boban, quando diceva di aver giocato onestamente per quella squadra che però non smuoveva in lui nemmeno una delle sensazioni che lo agitavano al giocare per la Croazia”. La riflessione che soggiace al documentario Vatreni va quindi oltre il racconto di una storica battaglia nel “rettangolo verde” e, nonostante la tematica della guerra in Jugoslavia sia lo sfondo imprescindibile di tutta la narrazione, include una considerazione valida in ogni tempo e spazio: al varcare i cancelli di uno stadio si assume un’identità calcistica che trascende l’identità personale ed è al tempo stesso ad essa complementare. Il già citato Dal Lago, nel suo testo Descrizione di una battaglia: i rituali del calcio, analizza non solo la valenza sociale di questo popolarissimo sport ma anche l’importanza emotiva dell’essere tifoso, il sentimento di appartenenza che l’affiliazione a una squadra è in grado di generare. L’autore riflette, e fa riflettere, sul ruolo centrale dell’eccitazione e della violenza, che sono state gradualmente rimosse da giochi e feste occidentali in un lavoro di progressiva “umanizzazione” degli sport, che risponde all’esigenza formale e commerciale che le feste hanno assunto nel mondo moderno ma anche all’addolcimento della “nostra” sensibilità sociale. L’effetto è stato, afferma Dal Lago, la riduzione del carattere intenzionale del pericolo o della violenza, ma non il pericolo o la violenza in quanto tali. La metafora dominante nel calcio è infatti la divisione amico/nemico, variante della metafora bellica, che permette ai tifosi organizzati di vivere la partita come un confronto rituale che può trasformarsi, in circostanze determinate, in violenza reale, quando la metafora non è compresa o quando, per esempio, gli elementi identitari vanno oltre l’identificazione con la squadra del cuore e assumono i tratti dello scontro ideologico di matrice nazionalista. Questo fu la partita disputata a Zagabria il 13 maggio del 1990, quando dalle gradinate entró letteralmente in gioco non una rivalità sportiva ma il cosiddetto “odio etnico”. E questa è la riflessione a cui invita il documentario Vatreni, per riconsiderare come e perché il nazionalismo di quegli anni non sia scomparso non solo dai parlamenti europei, ma nemmeno dai campi di calcio, e persista nei cori e negli attacchi razzisti che fanno dei grandi stadi italiani ed europei, per usare le parole di Ramírez, “veri e propri avamposti di trincee”. BIBLIOGRAFIA A. Dal Lago, Descrizione di una battaglia: i rituali del calcio, Il Mulino, Bologna 1990, p. 170 Valentina Valle Baroz è laureata in Lettere Moderne presso l’Università di Bologna. Attualmente vive in Messico dove lavora come giornalista e frequenta un Master in Scienze delle Risorse Naturali e Sviluppo Rurale. Edson Ramírez Il lavoro di Edson Ramírez viene diffuso prevalentemente nel circuito di festival d’autore, messicani e internazionali. Un’anteprima del suo lavoro, che contiene anche immagini di Vatreni, è consultabile a questo link https://vimeo.com/169315139. Lo staff che ha partecipato alla realizzazione di Vatreni è formato da giovani professionisti del settore, come il direttore della fotografia Jorge Lineares, autore a sua volta di documentari come Por los caminos del Sur, presentato in Italia al 56° Festival dei Popoli di Firenze e nominato al premio Ariel dell’Accademia Messicana a delle Arti e Scienze Cinematografiche (teaser su Vimeo all’indirizzo https://vimeo.com/120008907). 63 DOSSIER E Ar D Fi Si S FOCUS/ Identità INVICTUS: COMBATTERE PER CAPIRSI di Francesca Romana Paci Q uando in Sudafrica, tra il novembre del 1989 e il febbraio del 1990 – Frederik de Clerk era già presidente effettivo dal settembre del 1989 – si decideva e si attuava la definitiva liberazione di Nelson Mandela e la legalizzazione dei partiti precedentemente fuori legge, il rugby era ancora quasi esclusivamente uno sport dei bianchi. Makhenkesi Arnold Stofile, ministro presbiteriano, studioso di teologia (Fort Hare University, Princeton University, Port Elizabeth University), membro dello ANC, e lui stesso forte giocatore di rugby (poi, dal 2004 al 2010, Ministro dello Sport) aveva buone ragioni per dire che il rugby era “the opium of the Boer”. La passione di Stofile per il rugby era un’eccezione, perché allora, in generale, i neri non amavano il rugby proprio perché era uno sport della cultura bianca. Come lui, però, anche Mandela, attento a qualunque aspetto che potesse aiutare la sua aspirazione di armonizzare le differenze e unificare i sentimenti di appartenenza di tutti in 64 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP un solo sentimento nazionale, mostrava già da anni interesse e ammirazione per lo sport favorito degli Afrikaner. Nel suo famoso discorso inaugurale, pronunciato a Pretoria il 10 maggio 1994, Mandela evoca insistentemente immagini di unificazione: «To my compatriots, I have no hesitation in saying that each one of us is as intimately attached to the soil of this beautiful country as are the famous jacaranda trees of Pretoria and the mimosa trees of the bushveld. […] That spiritual and physical oneness we all share with this common homeland explains the pain we all carried in our hearts […]. The moment to bridge the chasms that divide us has come. […] We must therefore act together as a united people, for national reconciliation, for nation building, for the birth of a new world.» (http://www. anc.org.za/ancdocs/history/mandela/1994/inaugpta.html) L’assegnazione del Nobel per la Pace a lui stesso e a Frederik de Klerk nel 1993 indubbiamente contribuiva a conferire ancora più peso al suo linguaggio. Era un momento di ottimismo e, appunto, di aspirazioni – “aspiration” è una parola amata da Mandela, che quasi sicuramente aveva già cominciato a vedere nella finale della Rugby World Cup del 1995, nella quale gli Springboks avrebbero dovuto affrontare i campioni del mondo, gli All Blacks neozelandesi, una straordinaria possibilità di rappresentazione allegorico-simbolica, e quindi di costruzione, di un sentimento nazionale condiviso. Sta di fatto che, il 17 giugno 1994 (poco più di un mese dopo il discorso sopra citato), Mandela e il ventisettenne capitano degli Springboks, l’afrikaner François Pienaar, si incontrano per la prima volta, su invito dello stesso presidente Mandela, dando inizio a un lungo episodio epico e spettacolare della storia sudafricana. Il contesto spazio-temporale allargato della storica partita di rugby del 24 giugno 1995 e la partita stessa, giocata allo Ellis Park Stadium di Johannesburg, vinta dagli Springboks 15-12, sono stati resi universalmente famosi dal film Invictus (2009), diretto da Clint Eastwood. Lo screenplay, opera del sudafricano Anthony Packham, è, come noto, tratto dal libro del giornalista britannico John Carlin, Playing the Enemy, sottotitolato Nelson Mandela and the Game That Made a Nation (Penguin USA e UK 2008; Atlantic Books, London 2009). Eastwood non mantiene per il film il titolo di Carlin, e sceglie, invece, Invictus, titolo di una poesia del poeta scozzese William Ernest Henley (1849-1903) – in realtà, anzi, titolo dato a quella poesia dal curatore dello Oxford Book of English Verse (1900). È una poesia che Mandela amava e recitava a se stesso durante gli anni di prigionia (Invictus non entra nel libro di Carlin – sappiamo della predilezione di Mandela per quella poesia da lui stesso e da Eddie Daniels, detenuto a Robben Island nello stesso periodo di Mandela). L’espressione playing the enemy, in effetti, deve essere parsa difficile da usare per un film, perché contiene significati non univoci, affini ma diversi, al potere allusivo di nessuno dei quali Carlin vuole rinunciare. Carlin, anzi, li usa tutti: quando il linguaggio sportivo è mimetico di quello della guerra, enemy è la squadra avversaria; ma qui, soprattutto, i nemici sono reciprocamente i bianchi e i neri; enemy è il razzismo per l’antirazzismo, come l’apartheid per uguaglianza e democrazia; il rancore per la riconciliazione; il rifiuto della coscienza per la coscienza, e si potrebbe continuare; playing, unito a enemy, è altrettanto ricco, perché, mantenendo stabile un implicito vettore di significato teso a culminare con la vittoria, vira dal “giocare una partita contro un avversario” a “mesmerizzare un avversario”, “persuadere un avversario”, sedurlo, “portarlo dove si vuole”, e anche, sommessamente, “raggirare un avversario”; fino a, con uno spostamento di piano intellettuale, “combattere il nemico che è in noi”. Il titolo dell’ultimo capitolo del libro, infatti, è un calco di Playing the enemy, che si trasforma in Love thine enemy (Ama il tuo nemico è il titolo scelto per la traduzione italiana). Eastwood sceglie di privilegiare le note eroiche della famosa partita, Carlin affronta il tutto in modo più ampio, con la chiara volontà di capire ed esercitare un’affilata facoltà di critica. Egli è un giornalista e scrittore abbastanza complesso: figlio di padre scozzese e di madre spagnola, ha studiato in Argentina e in Inghilterra e lavorato molto sia nel mondo ispanofono sia in quello E Ar D Fi Si DOSSIER FOCUS/ Identità anglofono, particolarmente e lungamente in Sudafrica. È un giornalista attento, che mostra di possedere anche competenza per la ricerca storica, ma, oltre a questo, è un grande narratore, un grande story teller. La sua capacità di affascinare i lettori, alternando all’informazione frammenti di racconti, aneddoti, dialoghi emozionanti, testimonianze dirette, e la capacità di creare personaggi sono notevolissime – tanto che qualche volta i media hanno commesso l’errore di chiamare Playing the enemy “romanzo”, facendo torto agli anni di ricerca e interviste (dal 2000 al 2007) su cui appoggia il libro. Carlin è tutt’altro che un ingenuo entusiasta. Se nell’Introduzione di Playing the enemy dice che lo sport è «a powerful mobilizer of mass emotions and a shaper of political perceptions», e cita l’affermazione dello stesso Mandela, «Sport has the power to change the world» (2009, pp. 3-4), pure dissemina i capitoli seguenti di domande sul futuro. Inoltre, se l’ammirazione di Carlin per l’intelligenza, la generosità, l’affettività umana, persino il sorriso di Mandela è indubbia, è anche screziata di osservazioni, garbate ma pungenti, circa le sue capacità attoriali e di auto-regia, anche se assolutamente mai vengono usate parole crude come “illusionista” o “istrione”. Carlin non menziona neppure le esperienze teatrali di Mandela quando era a Robben Island (Creonte in Antigone), ma insiste, abilmente, su come Mandela prepara il palcoscenico, struttura e interpreta le vicende. Rileggere oggi il libro di Carlin porta a indugiare con turbamento sulle domande di allora sul futuro della straordinaria mass seduction operata da Mandela, su quando la bella favola epica della vittoria unificante si sarebbe scontrata con le durezze dell’economia, delle disuguaglianze, dei pericoli di recessione e dei mali della corruzione. Seguendo l’uso giornalistico ben collaudato dell’anticipazione dei momenti di suspense che precedono un momento culminante e scegliendo l’ipotiposi e la ripetizione per rappresentarli, Carlin inizia il racconto ricostruendo il risveglio di Mandela alle quattro e mezza del mattino del giorno della partita: «He awoke, as he always did, at 4:30 in the morning; he got up, got dressed, folded his pyjamas, and made his bed. All his life he had been a revolutionary, and now he was president of a large country, but nothing would make Nelson Mandela break with the rituals established during his twenty-seven years in prison.» (p. 9) È quasi superfluo far notare la funzione politica, materiale e immateriale della parola “prison”. Seguono evocazioni del passato, ripetizioni dei rituals, che mantengono alto il livello emozionale, e il parallelo risveglio di Pienaar nel giorno della partita. Non è possibile proseguire una lettura analitica del libro, che, tra il risveglio di Mandela e la partita, ripercorre in vari capitoli alcuni episodi della vita di Mandela e traccia una linea dei prodromi politici e sociali degli eventi del 1995. Ci si deve limitare a segnalare alcuni dei passi più coinvolgenti. Carlin dedica al primo incontro di Mandela e Pienaar le pagine iniziali del capitolo The captain and the president – sono pagine da vero testo teatrale, vivaci, realistiche, dialogiche (anche quando usa il discorso indiretto), ricche di dettagli materiali e descrizioni dei movimenti dei personaggi, dettagli e descrizioni che agiscono da puntuali didascalie. Ma è forse più importante notare come quelle pagine siano introdotte dalla conclusione del capitolo precedente, Adress their hearts, dove Carlin riferisce una frase di Nicholas Hayson, Consigliere Legale e Costituzionale durante il presidentato di Mandela: «We called it nation-building. But Garibaldi has a quote that exemplifies it more eloquently. [...] When he had finished his military mission Garibaldi said, “We have made Italy, now we must make Italians”» (p. 158) – in realtà la frase è comunemente attribuita a Massimo D’Azeglio. Il progetto, riassunto nello slogan coniato da Edward Griffiths (Chief Executive della South African Rugby Union), “One team, one country”, dunque, è soprattutto quello di creare i sudafricani come tali. La prima creazione di Mandela, allora, è il capitano degli Springboks, François Pienaar. La sua opera prosegue con la creazione successiva, quella di una squadra che rappresenti tutto il Paese. Operazione non facile, perché solo uno dei quindici giocatori, Chester Williams, era nero. Nel capitolo immediatamente seguente, Springbok Serenade, Carlin racconta di come quel fine sia raggiunto convincendo tutta la squadra a imparare e cantare quello che era un canto di resistenza panafricana dei neri, tutto in lingua xhosa, Nkosi Sikelel’ iAfrika. Da allora, in combinazione con Die Stem van Suid Africa e con i versi cantati in varie lingue sudafricane (inclusi afrikaans e inglese) Nkosi Sikelel’ iAfrica è diventato l’eccezionale ibrido che è oggi l’inno nazionale sudafricano. Con la guida di una giovane e attraente insegnante bianca di xhosa, lei stessa stupita dal proprio successo, la squadra, incluso l’unico giocatore nero, che non conosce lo xhosa, impara a cantare un canto dei neri: «Then when the time came to sing [...] they did so with great feeling.» (p. 175) Tanto nel libro di Carlin quanto nel film Invictus, una delle intuizioni più efficaci e scenografiche di Mandela (in realtà il consiglio subito accettato della sua guardia del corpo e amico Linga Moonsamy) è quella di presentarsi allo stadio con indosso non solo il berretto, ma anche la maglia verde bottiglia degli Springboks, con il numero sei di François Pienaar sulla schiena. Quel giorno, comunque, non solo Mandela indossava la maglia degli Springboks, ma anche molti sudafricani allo stadio e fuori. Indossare la maglia di una squadra diventava così non solo un atto sportivo, non solo una moda, ma un atto di valore politico e sociale. Nel 2013 una maglia di Pienaar, autografata da Mandela, è stata venduta all’asta per 8.500 sterline e lo Evening Standard recentemente informa che il suo valore odierno può essere stimato 50.000 sterline! La storica partita degli Springbok contro gli All Blacks non ha risolto i problemi di unificazione dei sudafricani, non li ha resi per sempre un solo popolo, ma certamente ha dato un colpo magistrale al razzismo. Intervistato a caldo subito dopo la partita, Pienaar a chi gli chiede: «What did it feel like to have 62,000 fans supporting you here in the stadium?», risponde «We didn’t have 62,000 fans behind us. We had 43 million South Africans.» (p. 242) Il problema, oggi, è come conservare o almeno non tradire quel momento. Francesca Romana Paci è docente di Inglese e Letterature post-coloniali all’Università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”. Le sue principali aree di interesse sono il Romanticismo e il Neo-Romanticismo, oltre a studi contemporanei con particolare attenzione al contesto post-coloniale. 65 DOSSIER E Ar D Fi Si S FOCUS/ Olimpiadi Il Camerun che sconfisse la Spagna in finale, alle Olimpiadi 2000 di Sidney (www.fifa.com). LA PRESENZA OLIMPICA DEL CONTINENTE NERO E I BOICOTTAGGI AFRICANI di Giovanni Armillotta G li esordi africani alle Olimpiadi furono tre. Il Bianco nel 1904 (Sudafrica),1 l’Arabo nel 1912 (Egitto) e il Nero nel 1952 (Costa d’Oro e Nigeria). Da allora sono stati vinti 103 ori – anzi 87, tolti i 16 del razzista Sudafrica (1908, 1912, 1920, 1924, 1928, 1932, 1948, 1952). Essi corrispondono all’1,8% dei primi posti olimpici. Una quantità bassa ma d’altro canto miracolosa, considerate le difficoltà che attanagliano il Continente. Però, nonostante la scarsa presenza sul podio più alto, l’Africa ha detto autorevolmente la sua in sede olimpica e s’è fatta rispettare. La risoluzione 1761 (XVII) del 1962 Uno dei primi successi, pure in ambito sportivo, fu l’approvazione, presso l’Assemblea generale (AG) dell’ONU, il 6 novembre 1962 con 67 favorevoli, 66 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP 16 contrari e 23 astenuti della Ris. 1761 (XVII): The policies of Apartheid of the Government of the Republic of South Africa. Il progetto fu presentato da 28 Paesi afroasiatici.2 Vittoria diplomatica contro il razzismo, specie in quanto fra i Paesi dell’emisfero occidentale votarono contro Pretoria solo Giamaica, Haiti, Messico e Trinidad e Tobago; l’Italia, bontà sua, si astenne. Fra i quattro assenti al voto, due Paesi africani (Rep. Centrafricana e Gabon con Ecuador e Paraguay).3 Il documento comportò pure l’immediata sospensione del Sudafrica dal Comitato internazionale olimpico (CIO) nel 1963, e la successiva esplusione nel 1970. Non partecipò alle Olimpiadi dal 1964 al 1988. I boicottaggi dal 1956 al 1988 Una prima avvisaglia afro-araba si ebbe quando Israele non fu invitato a Londra 1948 in quanto Egitto, Iraq e Siria, in piena I Guerra arabo-israeliana, ventilarono il boicottaggio, e il CIO attese il 1952 prima di riconoscere il Comitato olimpico di Tel Aviv, che avrebbe esordito quello stesso anno (Egitto presente). Il 29 ottobre 1956 Israele attaccava in profondità le linee difensive egiziane nella II Guerra arabo-israeliana. Il 31 le forze aeree di Francia e Gran Bretagna bombardavano i centri strategici del Cairo. Il 2 novembre era approvata all’AG dell’ONU la Ris. 997 (ES-I) – appoggiata da Washington e Mosca – che invitava le parti al cessate-il-fuoco e a interrompere lo spostamento delle truppe nell’area. Alle Olimpiadi, inaugurate venti giorni dopo la Ris. 997, il fronte afroasiatico arabo – Egitto, Iraq, Libano e Siria – più il Ghana disertarono la manifestazione. Per Città del Messico 1968 Avery Brundage, statunitense presidente del CIO, era riuscito a convincere il Comitato esecutivo a riammettere il Sudafrica nel consesso olimpico.4 Però la Conferenza di Brazzaville dei 32 Stati del Supreme Council for Sport in Africa (SCSA), a cui si unirono Arabia Saudita, Cuba, Iraq, Malaysia, Pakistan, Siria e Somalia,5 minacciò il boicottaggio, e fu appoggiata dai Paesi socialisti eurasiatici, che fecero temere il peggio.6 Brundage, temendo una defezione in massa «reluctantly agreed to put the question of a second vote on South Africa up to his executive committee»,7 che ritornò sulle proprie decisioni. Una simile vicenda condizionò la vigilia di Monaco di Baviera 1972. L’11 novembre 1965 la Rhodesia Meridionale era fuoriuscita dal Commonwealth. Il 9 agosto 1972 a Lussemburgo si stipulò un accordo, sottoscritto pure dagli Stati africani, che accettava la Rhodesia purché costituisse una rappresentativa multirazziale, rinnegasse l’indipendenza, tornasse nel Commonwealth e si presentasse con inno, bandiera e passaporto britannici. Il Paese rispettò il patto formalmente, però era privo dei passaporti di Londra e alla frontiera atleti e funzionari presentarono la carta olimpica, che non poteva essere riconosciuta. Il se- E Ar D Fi Si DOSSIER FOCUS/ Paese 1. I 54 Comitati olimpici nazionali africani in esordi olimpici, medaglie e boicottaggi SINTESI STORICA DEGLI EVENTI MEDAGLIE I BOICOTTAGGI Comitato Olimpico Sigla Fon. CIO Eso. O A B 56 76 80 84 88 Algeria ALG 1963 1964 1964 5 2 8 — A P P P Angola ANG 1979 1980 1980 0 0 0 — — P A P Benin (ex Dahomey) BEN 1962 1963 1972 0 0 0 — A P P P Botswana BOT 1978 1980 1980 0 1 0 — — P P P Burkina Faso (ex A.V.) BUR 1965 1972 1972 0 0 0 — A A A P Burundi BDI 1990 1993 1996 1 0 0 — — — — — Camerun CMR 1963 1963 1964 3 1 1 — A P P P Capo Verde CPV 1989 1993 1996 0 0 0 — — — — — Rep. Centrafricana CAF 1964 1965 1968 0 0 0 — A A P P Ciad CHA 1963 1964 1964 0 0 0 — A A P P Comore COM 1979 1983 1996 0 0 0 — — — A A Rep. Congo (Brazz.) CGO 1964 1964 1964 0 0 0 — A P P P RD Congo (Kinsh.) COD 1963 1968 1968 0 0 0 — A A P P Costa d’Avorio CIV 1962 1963 1964 0 1 0 — P A P P Egitto EGY 1910 1910 1912 7 9 10 A A A P P Eritrea ERI 1996 1999 2000 0 0 1 — — — — — Etiopia ETH 1948 1954 1956 21 7 17 P A P A A Gabon GAB 1965 1968 1972 0 1 0 — A A P P Gambia GAM 1972 1976 1984 0 0 0 — A A P P Ghana (a) GHA 1952 1952 1952 0 1 3 A A A P P Gibuti DJI 1983 1984 1984 0 1 1 — — — P P Guinea GUI 1964 1965 1968 0 0 0 — A P P P Guinea-Bissau GBS 1992 1995 1996 0 0 0 — — — — — Guinea Equatoriale GEQ 1980 1984 1984 0 0 0 — — — P P Kenya KEN 1955 1955 1956 25 32 29 P A A P P 1964. Il Rhodesia Olympic Committee fu creato nel Lesotho LES 1971 1972 1972 0 0 0 — A P P P 1934, sospeso dal 1975 al 1979; ridenominato nel Liberia LBR 1954 1955 1956 0 0 0 P A A P P 1980 Zimbabwe Olympic Committee, partecipò Libia LBA 1962 1963 1964 0 0 0 — A P A P alle Olimpiadi di Mosca dell’anno dopo, ove vinse Madagascar MAD 1963 1964 1964 0 0 0 — A P P A l’oro nell’hockey su prato femminile. Malawi MAW 1968 1968 1972 0 0 0 — A A P P Mali MLI 1962 1963 1964 0 0 0 — A P P P Marocco MAR 1959 1959 1960 6 5 11 — A A P P Mauritania MTN 1962 1979 1984 0 0 0 — — A P P Maurizio MRI 1971 1972 1984 0 0 1 — A A P P Mozambico MOZ 1979 1979 1980 1 0 1 — — P P P Namibia NAM 1990 1991 1992 0 4 0 — — — — — Niger NIG 1964 1964 1964 0 0 1 — A A P P Nigeria NGR 1951 1951 1952 3 8 12 P A P P P Ruanda RWA 1984 1984 1984 0 0 0 — — — P P São Tomé e Príncipe STP 1979 1983 1996 0 0 0 — — — A A Seicelle SEY 1979 1979 1980 0 0 0 — — P P A Senegal SEN 1961 1963 1964 0 1 0 — P P P P Sierra Leone SLE 1964 1964 1968 0 0 0 — A P P P Somalia SOM 1959 1972 1972 0 0 0 — A A P P Rep. Sudafricana (b) RSA 1991 1908 1904 23 26 27 P — — — — Sudan SUD 1956 1959 1960 0 1 0 — A A P P Sudan Meridionale SSD 2015 2015 2016 0 0 0 — — — — — Swaziland SWZ 1971 1972 1972 0 0 0 — A A P P Tanzania (c) TAN 1967 1968 1964 0 2 0 — A P P P Togo TOG 1963 1965 1972 0 0 1 — A A P P Tunisia TUN 1957 1957 1960 3 3 4 — A A P P Uganda UGA 1950 1956 1956 2 3 2 P A P P P Zambia (d) ZAM 1964 1964 1964 0 1 1 — A P P P Zimbabwe (e) ZIM 1934 1980 1928 3 4 1 — — P P P A: assenza; P: partecipazione; —: non iscrizione al CIO Fon.: anno di fondazione del Comitato olimpico CIO: anno di entrata nel Comitato internazionale olimpico Eso.: anno di esordio alle Olimpiadi NOTA ALLA TABELLA 1 (a): Costa d’Oro: 1952, 1956 (b): Il South Africa National Olympic Committee fu fondato il 3 gennaio 1908, ammesso nel CIO lo stesso anno; sospeso nel 1962, esplulso nel 1970; rifondato nel 1991 come South African Sports Confederation and Olympic Committee e riammesso nel CIO. (c): Il Tanganyika Olympic Committee fu fondato nel 1963, e ammesso al CIO (disputò le Olimpiadi 1964); dopo l’unione con Zanzibar fu creato il Tanzania Olympic Committee nel 1967. (d): Come Rhodesia Settentrionale: 1964 (quattordici giorni prima dell’indipendenza). (e): Come Rhodesia Meridionale: 1928, 1960, gretario del SCSA, Jean Claude Ganga (Congo-Brazzaville) chiese l’allontanamento della Rhodesia non essendo gli atleti cittadini britannici, ventilando il boicottaggio col sostegno di Cuba, Unione Sovietica e dei Paesi socialisti. Il CIO votò l’estromissione con 36 voti a 31. Anche in questo caso Brundage era favorevole alla presenza dei segregazionisti. Lo spettro del vero e proprio boicottaggio si estendeva sin da Berlino 1936 e – a causa del comportamento neozelandese – colpì per la prima volta in modo massiccio quarant’anni dopo.8 La Federazione di rubgy della Nuova Zelanda – infischiandosene del fatto che in Sudafrica si praticasse l’Apartheid anche nello sport e il Paese fosse fuori dal movimento olimpico – inviò la propria Nazionale in tournée dal 67 DOSSIER E Ar D Fi Si S FOCUS/ Olimpiadi 3 luglio al 18 settembre 1976; al contempo le Olimpiadi si sarebbero svolte dal 17 luglio al 1° agosto. La Tanzania perciò avanzò la proposta di escludere la Nuova Zelanda da Montreal 1976.9 Mentre nel 1963 ad alcuni atleti era stato interdetto Tōkyō 1964 per aver incontrato i colleghi della RP della Cina ai I Giochi delle Nuove Forze Emergenti (GANEFO, Giacarta, 11-23 novembre) questa volta il CIO fece finta di non udire, accampando la scusa che il Sudafrica fosse già fuori dalle Olimpiadi e il rugby non vigesse nel programma. Dar al-Salām trovò l’appoggio degli Stati africani, più quello di Guyana e Iraq, ma non del CIO che respinse il caso, e confermò i neozelandesi ai Giochi. A Wellington neppure il garbo di sospendere la trasferta degli All Blacks durante le Olimpiadi! La replica fu durissima: 30 Paesi africani disertarono i Giochi (cfr. Tabella 1); quattro si ritirarono dopo che i propri atleti avevano iniziato a competere.10 Inoltre si ebbero le seguenti assenze: Afghanistan, Albania (unico Stato socialista a solidarizzare), Birmania, El Salvador, Giordania, Malta, Siria, Srī Lanka e Tonga.11 Fra gli africani presero parte solamente Costa d’Avorio e Senegal. Dalla Casa Bianca Jimmy Carter – in piena campagna elettorale – lanciò un ultimatum all’URSS, minacciando che se entro mezzogiorno e un minuto del 20 febbraio 1980 non si fosse ritirata dall’Afghanistan, gli Stati Uniti d’America avrebbero boicottato la manifestazione sovietica. Al silenzio della controparte, il boicottaggio fu reso ufficiale dal 21 marzo. Non parteciparono a Mosca 1980, 21 Paesi africani, ma furono presenti altrettanti 21 (cfr. Tabella 1). A Los Angeles 1988, la vendetta sovietica – per pretesti di non sufficiente sicurezza delle delegazioni propria ed alleate – tirerà dalla sua parte cinque Stati africani pro-Cremlino (cfr. Tabella 1). La Libia distinse la propria assenza in funzione antistatunitense e non prosovietica. La dolorosa parentesi delle rinunce politiche si chiuse a Seul 1988, quando il boicottaggio della Repubblica Popolare Democratica della Corea raccolse lo sparuto consenso di cinque Stati africani (cfr. Tabella 1) più Albania, Cuba e Nicaragua. 2 - Africa: Algeria, Camerun, Rep. Centrafricana, Ciad, Congo (Brazzaville), Congo (Léopoldville), Dahomey, Costa d’Avorio, Liberia, Libia, Mali, Mauritania, Marocco, Niger, Nigeria, RAU (Egitto), Senegal, Sierra Leone, Somalia, Sudan, Tanganica, Tunisia; Asia: Afghanistan, Arabia Saudita, Iraq, Mongolia, Pakistan, Siria. 3 - «Yearbook of the United Nations», Office of Public Information, United Nations, New York 1962, Vol. XVI, pp. 99-100. 4 - M. Brichford, Avery Brundage and Racism, in Global and Cultural Critique: Problematizing the Olympic Games, Fourth International Symposium for Olympic Research, The University of Western Ontario, London, Ontario, Canada 1998, pp. 129-134. 5 - Boycotting South Africa, «Time», 8 marzo 1968. 6 - S. Jacomuzzi, Storia delle Olimpiadi, Einaudi, Torino 1976, p. 355. 7 - Boycotting…, op. cit. 8 - Jacomuzzi, op. cit., pp. 157-160. 9 - In conformità con la Resolution on Sporting Links with South Africa, CM/RES 488 (XXVII) dell’Organizzazione dell’Unità Africana, in data 3 luglio 1976: «CALLS UPON all Member States of the OAU to reconsider their participation in this year’s Olympic Games in Canada NOTE if New Zealand participates». 1 - Le quattro colonie britanniche – Capo, Na- 10 - Camerun, Egitto, Marocco e Tunisia. tal, Transvaal e Stato Libero d’Orange –parte- 11 - Africa and the XXIst Olympiad, in «Olympic ciparono con una sola rappresentativa. Review», f. 1894, IOC, 1976, pp. 584-585. 2016 2012 2008 2004 2000 1996 1992 1988 1984 1980 1976 1972 1968 1964 1960 1956 1952 1948 1936 1932 1928 1924 1920 1912 1908 1904 1900 1896 54 53 53 52 53 52 45 42 41 21 2 29 24 22 12 6 4 2 2 1 3 2 2 2 1 1 0 0 Rio de janeiro Londra III Pechino Atene Sidney Atlanta Barcellona Seul Los Angeles II Mosca Montreal Monaco di Baviera Città del Messico Tokyo Roma Melbourne (a) Helsinki Londra II Berlino Los Angeles I Amsterdam Parigi II Anversa Stoccolma Londra Saint Lous Parigi Atene 2. I Paesi africani alle Olimpiadi moderne estive NOTE ALLA TABELLA 2 (a) Una legge australiana prevedeva l’obbligo di quarantena semestrale ai cavalli importati per scongiurare il rischio di contaminazioni. La cosa strana era che la legge non si applicava agli equini britannici ed irlandesi, come se questi fossero immuni per grazia divina. Le prove equestri furono svolte a Stoccolma a giugno (e l’Egitto partecipò prima della II Guerra arabo-israeliana), mentre i GO veri e propri iniziarono a svolgersi a Melbourne il 22 novembre. 68 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP Scuola E Ar D Fi Si St M Li Enea: un profugo. Viaggi nel passato e nel presente a cura di Donatella Iacondini Lasciare la propria terra, affrontare un mare pericoloso, avere la solidarietà dei compagni, scendere nell’Ade di una prigione libica, sbarcare salvo in Italia. È la storia di un migrante, ispirata a memorie di richiedenti asilo, scritta da studenti del Liceo Classico Minghetti di Bologna tenendo come modello per la narrazione uno degli archetipi letterari dei percorsi di migrazione: il viaggio di Enea raccontato da Virgilio I l progetto “Enea: un profugo. Viaggi nel passato e nel presente” è stato svolto nel corso dell’a. s. 2015-16 da due classi del secondo anno del liceo Minghetti di Bologna: incentrato sulla figura di Enea, prevedeva di affiancare alla lettura di brani dell’Eneide varie attività, tra cui la lezione del professor Lentano dell’Università di Siena, che è stata anche l’occasione per esporre nella meravigliosa cornice di Palazzo Leoni i lavori degli studenti. Mentre la 2aD ha studiato e illustrato le rappresentazioni iconografiche dell’Eneide nel Rinascimento bolognese, la 2aG ha realizzato un esperimento di scrittura di gruppo totalmente autogestita dagli studenti. Dopo la presentazione in classe delle problematiche legate ai migranti, curata dall’Associazione Africa e Mediterraneo, e la lettura individuale del volume “Tutta la vita in un foglio”,1 agli studenti di 2aG è stato proposto un esercizio di riscrittura attualizzante.2 Dopo lunghe discussioni in classe per stabilire le modalità di lavoro, l’ideazione e la distribuzione degli episodi che ognuno avrebbe dovuto redigere, gli studenti hanno costruito il racconto di un viaggio moderno che si compie, per così dire, senza la protezione del Fato, e lo hanno letto pubblicamente in due occasioni, con suggestivo accompagnamento musicale. Il racconto è progettato in modo che gli episodi risultano in parallelo con alcuni famosi passaggi dell’Eneide: assistiamo quindi alla partenza “senza idillio” di un ragazzo somalo di nome Aynea’s, esitante tra la speranza di un futuro migliore e il dolore del distacco dai suoi affetti e dalla sua terra. Egli compirà un viaggio attraverso il Sahara, la Libia e il mar Mediterraneo portando con sé l’oggetto che gli garantisce la memoria della sua appartenenza e del suo passato (una fotografia), facendosi guida di compagni, molti dei quali tuttavia non riusciranno ad arrivare a destinazione e affrontando tappe ignote, soste impreviste e scontri con bande armate. Può sorprendere l’assenza del riferimento ad un episodio fondamentale, quello di Didone, ma la descrizione di una relazione d’amore è risultata per la sensibilità degli studenti inopportuna. Il finale è dolceamaro, perché Aynea’s è salvo, ma non potrà mai dimenticare ciò che ha passato durante il viaggio. Qui di seguito viene riportato il racconto, risultato del progetto. NOTE 1 - Tutta la vita in un foglio è una pubblicata realizzata nel 2014, all’interno di Bologna cares!, la campagna di comunicazione del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR) del Comune di Bologna. Si tratta di una selezione di 53 memorie di richiedenti asilo transitati in Italia tra il 2011 e il 2014. 2 - Dalla fusione delle ore di Orizzontalmente con quelle di Coloritura (nel caso delle nostre due classi “beni culturali” e “intercultura”) è nato il nostro percorso. Orizzontalmente è un progetto nato qualche anno fa dalla proposta di alcuni studenti del Minghetti e consiste nell’affrontare in classe autonomamente tematiche scelte dagli studenti, evitando di impostare una tipica lezione frontale. Gli obiettivi del progetto sono di arrivare ad avere una maggior conoscenza dell’argomento scelto, imparando a discutere insieme agli altri senza prevaricarsi e rispettando le opinioni altrui. Le Coloriture sono attività laboratoriali (da 10 a 20 ore annue per classe) guidate dagli 69 Fi Si St M LiSCUOLA F insegnanti durante il normale orario scolastico su argomenti altrimenti non approfonditi dalle materie scolastiche. Enea: un profugo La speranza e il distacco Quando ti metterai in viaggio per l’Italia devi augurarti che la strada sia sicura, fertile in avventure ed esperienze. I trafficanti di uomini e la furia del mare non temere, non sarà questo il genere di incontri se il pensiero resta alto e un sentimento fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo. In trafficanti di uomini – no certo – né nell’irato mare incapperai se mai li porti dentro, se l’anima non te li mette contro. Devi augurarti che la strada sia certa e che i mattini d’estate siano tanti quando nei porti italiani finalmente – e con che gioia! – toccherai terra per la prima volta. Non dimenticare ciò che hai lasciato e portalo nel cuore. Impara una quantità di cose dai pericoli, ma sempre devi avere in mente la meta! «Cara Saraya, finalmente ho trovato il coraggio per scriverti questa lettera; è probabile che quando la leggerai io sarò da qualche altra parte nel mondo, lontano da te, dalla mia famiglia, dai miei amici e dalla mia terra. Da parecchi anni questo Paese non conosce più pace, la guerra ormai fa parte della nostra quotidianità, la maggior parte dei miei amici è morta nel tentativo di avere un futuro migliore, di riportare la libertà. Ripensando a tutti coloro che sono caduti, sento che sarebbe disonorevole per il loro valore partire, lasciare tutto, scappare da questa violenza e da questo orrore che ha preso il sopravvento e ha portato questa terra alla deriva. Non credere che sia una scelta facile la mia, Saraya. Io lascio tutto questo per poi trovare che cosa? Ho paura, non so chi mi accompagnerà in questo viaggio, non so dove arriverò, chi incontrerò… E non so nemmeno se arriverò.» La partenza e la tappa al capannone Appoggio la testa contro la parete dietro di me, chiudo gli occhi e cerco di estraniarmi da ciò che mi circonda. Sento la presenza di Nure vicino a me e so senza bisogno di aprire gli occhi che è certamente nella mia stessa posizione, ma probabilmente sta tenendo la mano a Samir per cercare di dargli conforto: 70 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP in fondo Samir di anni ne ha solo sedici, non è strano che sia spaventato. Io e Nure abbiamo la stessa età e ci siamo conosciuti a scuola, quando ancora avevamo abbastanza soldi per andarci, invece Samir si è unito in seguito alla nostra “cricca” – sempre che di “cricca” si possa parlare visto che eravamo solo in due. Lo avevamo conosciuto una mattina mentre giocavamo sugli scalini di casa mia; era arrivato con i suoi genitori e si era presentato come il mio nuovo vicino di casa, sembrava così indifeso ed io e Nure non avevamo potuto fare a meno di prenderlo sotto la nostra protezione: da quel momento siamo diventati inseparabili, e ora ce ne stiamo andando da Mogadiscio, per sempre. Ricordare come ho conosciuto Nure e Samir non può che farmi pensare anche a casa mia e ai miei genitori, anche se in questo momento è l’ultima cosa che dovrei fare, devo riuscire a scordarmi di tutto se voglio avere quella speranza di andarmene da qui. Tuttavia il mio corpo sembra non voler collaborare e la mia mano destra scende nella tasca dei pantaloni, come dotata di vita propria, e incontra la superficie di una fotografia, la fotografia. Saprei descriverla anche senza guardarla dal tanto che l’ho fatto in passato, ma cosa dovrei fare? È tutto ciò che mi rimane di casa mia! L’ho presa furtivamente poco prima di partire perché non potevo accettare di trovarmi un giorno a non essere in grado di ricordarmi del mio passato, no, l’idea era del tutto inaccettabile. Non appena la tocco però i ricordi mi assalgono e… «Aynea’s! Lo devi fare, è per il tuo bene, tesoro…» grida mia madre nella mia testa. «No, no, no non devo ripensarci, non devo…» ma la voce continua implacabile. «Io e tuo padre ormai siamo troppo vecchi per queste cose, ma tu no! E io ti ordino di andare». «Non posso farlo mamma, non posso, non posso lasciarvi qui!» grida il me stesso del passato. «Invece puoi e devi! Non c’è altro modo». Alla fine mamma aveva vinto, ed eccomi qui insieme a Nure e Samir e tanti altri ragazzi come noi che hanno dovuto abbandonare le famiglie e le loro case per intraprendere un viaggio dall’esito incerto. Siamo partiti dalla Somalia, come delle bestie in una gabbia, tutti stipati in un camion, sporchi e senza niente da bere e da mangiare. Mi stendo. Dopo aver dormito qualche ora, sento un odore familiare: subito lo riconosco, è quell’odore che sentivo a casa mia, quell’odore che mi dava speranza perché stranamente mi colmava; mi alzo in piedi e appena mi giro vedo il mare, uno strano sorriso passa per la mia bocca, ma poi, stanco morto, mi sdraio di nuovo perché devo conservare le energie. Mentre dormo, improvvisamente il camion si ferma e mi sveglio, e lentamente ci fanno scendere. Ibant obscuri sola sub nocte Che fatica questo viaggio… ho fame, ho sete… ma non possiamo fermarci. Ecco, finalmente si ferma. Ma… chi sono questi? Urlano, hanno i fucili e degli sguardi feroci. Uno di questi mi afferra, mi trascina giù dal furgone e grida in una lingua che non conosco. Insieme agli altri mi costringono a salire su un camion spingendomi forte, con violenza. Siamo tutti spaventati, non capiamo. Il camion parte, qualcuno piange, gli altri in silenzio si aggrappano per non cadere… non capisco cosa stia succedendo… dove ci stanno portando? E penso improvvisamente a casa mia… se fossi rimasto… sarei con mia madre che anche sotto le bombe mi teneva la mano. E adesso capisco l’importanza di quella stretta. Poi penso che lei mi aveva detto di andare, di cercare un futuro. Così stringo le mie mani e immagino che una sia la sua. Intanto il sole sta calando, la polvere ci entra negli occhi e nel naso. Nessuno sa cosa ci aspetta. È freddo ora, la strada diventa sempre più stretta e piena di buche. Mi sembra che intorno nel buio non ci sia nulla. Vicino a me un uomo vomita, un bambino si stringe nella gonna della mamma che sta tremando forte. Nessuno parla. Solo un uomo bisbiglia pregando. Il camion si ferma, siamo davanti ad una grande baracca e urlando ci spingono dentro. Un ragazzo cerca di scappare e improvvisamente esplode un rumore a me familiare… il ragazzo cade a terra, colpito. È buio. Freddo. Sento delle voci, parlano un dialetto arabo, hanno delle catene, sento il rumore del loro strusciare contro il cemento, sempre più vicino. Mi cade dell’acqua sulla coscia e non so se siano le mie lacrime o l’umidità che cola dal tetto di questa cantina, di questo buco nella terra che divora amore e speranza. Da forse più di tre giorni ho la gola secca, lo stomaco ridotto ad una pallina da golf, il cemento è bagnato, e non è acqua. La luce? Beh, la luce la vedo; la vedo circa due volte al giorno, la prima quando Scuola E Ar D Fi Si St M Li entrano altre anime, altre speranze. La seconda? In quel caso vorrei esser cieco, o già morto: entra sempre una donna anziana con una candela in mano o una lanterna, cerca le bambine, le donne giovani, parla loro all’orecchio, sorridono, rivedo la speranza nei loro occhi, i genitori ringraziano Dio e incitano la piccola anima ad andare. Chissà, chissà cosa pensano, chissà quale promessa quel Caronte fa loro, chissà perché Dio ci ha dato la possibilità di decidere di fare ciò che vogliamo, che sia bene o male, ma Dio, Dio mio, si fa sempre la scelta sbagliata. Quelle anime verranno distrutte, private di ciò che avevano anche non possedendo nulla, nessuna promessa, nessuna salvezza. Un sorriso alla morte. L’attraversamento del Sahara. Et Lybiae vertuntur ad oras Abbiamo lasciato il deposito il giorno dopo, con gli occhi pieni di polvere e dimentichi del perché di questo viaggio, del perché ci ostiniamo ancora a vivere. Ci hanno fatto salire in un pick up, eravamo 26 persone in uno spazio di tre uomini sdraiati. Davanti a noi solo un’immensa distesa di sabbia e un sole cocente che fa girare la testa. Partita la macchina, ci fu ben chiaro che non ci sarebbero state protezioni per evitare che venissimo sbalzati fuori dal furgone e così le nostre mani si aggrappano ai vestiti degli altri, alle maniglie… e abbiamo viaggiato così per ore, concentrando le poche forze sulle mani, che sono l’unico filo che può tenerci in vita. Ad un certo punto le nostre orecchie hanno sentito un rumore sordo e i nostri occhi hanno visto una vecchia cadere ed una ragazza che urlava e si protraeva in avanti, vedendo tutto ciò che le rimaneva andarsene. E qualcuno di noi ha avuto pure la forza di urlare «Fermatevi, fermatevi!» ma nulla, la macchina sembrava essere guidata da fantasmi e abbiamo visto la vecchia dal vestito rosso scomparire, piano piano. E non ho avuto nemmeno la forza di capire o di piangere per quella morte che sarebbe potuta toccare a me. Poi, dopo sabbia e sole siamo arrivati in una città, e lì finiscono i miei ricordi, perché quando ci hanno ordinato di scendere da quella macchina che sapeva di vomito ed urina il sollievo è stato talmente tanto che il mio corpo si è abbandonato tra le dolci braccia di Morfeo. Finalmente siamo arrivati in Libia. Siamo molto impauriti e spaventati, non sappiamo dove andare e come muoverci. Intorno a noi c’è solo polvere. Dopo essere riusciti ad uscire da quella nube di terra e di persone, ci guardiamo negli occhi, cosa che non facevamo da parecchio tempo, e tiriamo un sospiro di sollievo. Ce l’abbiamo fatta. Ora il nuovo obiettivo consiste nel raggiungere la costa il più velocemente possibile, così da imbarcarci e giungere in Italia. Abbiamo chiesto ripetutamente informazioni a diversi passanti senza ottenere risposta. Ci sentiamo esclusi, come rinchiusi in una bolla d’aria dalla quale nessuno può o vuole ascoltarci. Finalmente incontriamo un ragazzo più o meno della nostra età, che ci dà le indicazioni per dove dirigerci. Allora inizia l’ennesima camminata, ma questa volta attraverso la città. Per fortuna la costa si trova solo ad una settimana di cammino. Più di una volta ci siamo persi, abbiamo dormito per strada e ci è capitato anche di rubare, frutta o semplicemente pane. Otto giorni dopo siamo arrivati al porto, dove abbiamo riconosciuto subito i tanto cercati trafficanti e abbiamo chiesto quanto costasse il biglietto. Uno ci ha risposto una cifra che nemmeno riuscivamo ad immaginare. Dopo aver sentito quella cifra esorbitante abbiamo detto al trafficante quale fosse la somma che possedevamo, ma non ha cambiato idea. «Datemi quei soldi e partirete, altrimenti resterete a terra. Ah, un’ultima cosa. Non portate giubbotti di salvataggio, noi ne abbiamo, ma tanto non serviranno». Allora ce ne siamo andati. Nuovo obiettivo: trovare tutti quei maledetti soldi. Abbiamo camminato per alcuni giorni nei pressi del porto chiedendo informazioni a degli operai. Ci avevano fatto il nome di un certo Talek e lo avevano descritto come un omone sulla cinquantina molto serio e con dei grandi baffi sotto il naso. Non è stato difficile riconoscerlo: se ne stava seduto sulla ringhiera che si affacciava sul mare, con aria rilassata, tenendo tra le labbra un sigaro spento. Vedendoci arrivare si è guardato intorno e si è sistemato il colletto della camicia, troppo stretto per quel collo robusto, e ci è venuto incontro. «Salve, lei deve essere Talek». «Si, sono io, ma voi chi siete?» ci ha detto con aria arrogante. Un po’ scoraggiato ho risposto: «Io sono Aynea’s e loro sono Nure e Samir. Veniamo dalla Somalia». Il signor Talek ci ha offerto un lavoro, se così si può chiamare, che consisteva nel ripulire le vasche in cui veniva trasportato il pesce. Era un lavoro molto faticoso ma potevamo dire di essere stati fortunati. Non avendo un posto in cui dormire, ci aveva dato il permesso di trascorrere le notti nello scantinato. Abbiamo lavorato per tre mesi consecutivi, senza mai fermarci un momento, ma mancava ancora tanto denaro per raggiungere la somma richiesta. Una calda mattina, mentre io, Nure e Samir eravamo intenti a lavare le vasche, si è avvicinato a noi un giovane dalle belle vesti, che ci ha detto che per le nostre esili mani eravamo sprecati in quel rozzo lavoro. Così ci ha offerto un posto come tessitori di tappeti nella sua fabbrica, proponendoci uno stipendio molto più redditizio del precedente. Nure però, troppo rozzo secondo il parere dell’uomo, non poteva seguirci, ma non potevamo permetterci di restare a lavare vasche di pesce e, d’accordo con lui, abbiamo accettato il nuovo impiego. Malgrado l’iniziale titubanza, ci siamo ambientati abbastanza presto. Infatti il lavoro procedeva a gonfie vele. Per questo siamo stati ripagati e nel giro di pochi mesi abbiamo raggiunto il nostro obiettivo. Il viaggio sul barcone: humilemque videmus Italiam E ora sono qui, su uno dei tanti barconi che ogni giorno partono, portando al loro interno persone che come me, scappano dalla propria terra, le stesse che come me desiderano avere una vita migliore. Tutti noi siamo su questo barcone per combattere per una vita che qualcuno ha deciso di rendere complicata senza alcun motivo. Mi chiedo solo se sarò abbastanza forte per sopportare tutto quello che mi succederà. E ora sono qui, continuamente spintonato qua e là in mezzo a persone dai visi scavati dalla paura e dagli occhi vitrei, alcuni sono paralizzati, pensano a quello che potrà capitar loro, se il loro corpo riposerà in pace o rimarrà disperso nelle fredde acque. Chissà quanti uomini hanno passato e passeranno quello che sto affrontando io. Quanti sono morti in queste acque e quanti ancora ne moriranno. Quando finirà tutto questo? Fortunati coloro che hanno un letto dove dormire, un tetto dove ripararsi, una tavola bandi- 71 Fi Si St M LiSCUOLA F ta di cibo, una famiglia che li supporta. Io sono qui e devo lottare per la mia stessa vita. Cerco di calmarmi ma il pensiero di aver perso di vista Samir mi rende inquieto. Il rombo di un tuono mi desta dai miei pensieri, alzo gli occhi verso il cielo scuro e delle grosse gocce di pioggia scorrono sul mio viso. Solo adesso i rendo conto che sono troppo vicino al bordo del barcone e che al minimo scossone sarei tra i primi a cadere di sotto. Cerco istintivamente di ritrarmi verso l’interno spintonando chiunque mi trovi davanti, senza preoccuparmi della loro storia, ora devo pensare solo a me stesso. In quel momento uno scossone particolarmente violento fa cadere alcune persone davanti a me e mi si libera la visuale. Eccolo! Ho visto Samir! È caduto in acqua e annaspa con ansia. Senza pensarci troppo mi riavvicino al bordo del barcone e inizio ad urlare: «Samir! Samir! Vieni qui, avvicinati al gommone, tieni duro ora arriveranno i salvagente! Avvicinati, andrà tutto bene!». Ma nello stesso momento in cui pronuncio queste parole capisco quanto siano false, non siamo su una nave di lusso, non ci sono bottiglie d’acqua per dissetarci, figuriamoci dei salvagente. Comprendo la situazione ma non voglio smettere di provare, urlo, chiedo aiuto ma le mie parole sono soffocate dalle grida di disperazione e dal forte scroscio delle onde, che ci sbalzano da ogni parte come palline dentro ad un flipper. Disperato ritorno sul fianco del barcone, quanto più vicino a Samir mi è possibile, provo a parlargli, ma mi accorgo che il mio amico non ce la fa più e improvvisamente non è più lì; sopraffatto dalla stanchezza e dalla violenza delle onde non torna più a galla. Siamo ancora tutti aggrappati l’uno all’altro per non cadere e per avere qualcuno a cui sostenerci. Il viaggio è interminabile e ancora più difficile per la fame e la sete che ci torturano da giorni come ospiti non graditi. Per questo il piccolo Rashid, un bambino che avrà avuto circa sei anni, mi tiene il braccio e comincia a piangere. Suo zio Ahmed, che lo accompagna, mi racconta che i suoi genitori sono morti prima della loro partenza. Una bomba è esplosa molto vicino alla loro casa e ha fatto crollare gran parte dell’edificio, ma il piccolo Rashid si è salvato per miracolo, forse l’unico modo in cui anche noi ci 72 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP saremmo potuti salvare, per miracolo. Per sua fortuna infatti lo zio era subito accorso alla casa distrutta di sua sorella ed era riuscito a prendere il bambino dalle macerie. I suoi famigliari avevano deciso di far partire per l’Europa Ahmed e avevano raccolto tutti i soldi che avevano e che sarebbero serviti a pagargli il viaggio. I militari erano venuti a cercare rinforzi e lo avevano chiamato tre volte. La prima di queste, quando erano arrivati, lui aveva aperto la porta ma non aveva accettato di unirsi a loro. Quando erano tornati lui aveva risposto di no ancora e questa volta però lo avevano picchiato. La terza volta avevano sfondato la porta di casa e lo avevamo picchiato di nuovo e avevano detto che fino ad allora erano stati troppo gentili, quindi, se quando sarebbero tornati, lui si fosse rifiutato di seguirli, lo avrebbero ammazzato. Allora Ahmed decise di partire e alla svelta. Stava prendendo le ultime cose per il viaggio quando lo chiamarono perché era scoppiata la bomba che aveva ucciso sua sorella. Il resto della storia non me l’ha voluta raccontare ma so che non sarà stata tanto diversa dalla mia e dalle altre storie che ognuno di noi ha da raccontare e che non ci scorderemo mai. Non posso crederci, ce l’ho fatta: sono in Italia Appena arrivati al porto ci fanno alzare e subito mi accorgo che le mie gambe fanno fatica a reggermi in piedi. Provo a chiedere aiuto ma nessuno mi capisce. La gente stipata in fondo comincia a spingere e ci troviamo tutti all’uscita della nave dove gli uomini vestiti di bianco che poco fa ci hanno salvati in mezzo al mare ci indicano gesticolando dove andare: scendiamo lentamente dalla nave; la luce del sole è spaventosamente meravigliosa. Tante persone ci vengono incontro per aiutarci, alcuni sostenendo chi ha difficoltà a camminare, altri portando in braccio dei bambini, altri ancora portando coperte o vestiti asciutti. Una ragazza mi viene incontro sorridente e comincia a parlarmi mettendomi una coperta sulle spalle: la sua voce è rassicurante e sembra una persona disponibile. Mi prende e mi accompagna davanti ad un tendone. All’interno c’è una lunga fila di brandine, molte già occupate da altri profughi. Dopo una serie di controlli esco dal tendone con la ragazza che mi era venuta incontro al momento dello sbarco. I suoi occhi e il suo modo di prendersi cura di me mi ricordano mia madre: sì, mia madre, devo trovare un modo per avvisarla che sono vivo e che invece Samir non ce l’ha fatta… Dopo due giorni passati in una struttura di fianco al porto finalmente riesco a dire ad un operatore italiano, che conosce la mia lingua, che ho bisogno di avvisare la mia famiglia in Somalia. Lui mi procura un telefono: sentire di nuovo dopo così tanto tempo la voce di mia madre è una sensazione così bella che mi metto a piangere insieme a lei dalla gioia. Non ho molto tempo a disposizione per raccontarle tutto quello che mi è successo, ma non posso evitare di dirle di Samir. Dopo che le ho dato la triste notizia c’è un lungo attimo di silenzio che mia madre interrompe dicendo che ha da fare e ci salutiamo… Rimango un’altra settimana in un camerone con un altro centinaio di persone e dopo aver dato i miei dati alla polizia mi fanno partire in direzione Bologna. Stavolta non sarà pericoloso, stavolta non sono spaventato, è tutto più comodo e facile e posso rilassarmi un po’. Tengo ben stretta in mano la fotografia della mia famiglia; chissà se un giorno rivedrò tutti i miei amici e parenti, in Italia magari, o forse di nuovo in Somalia se riuscirò a tornare a casa. Ora vivo da un anno a Castello d’Argile, in un centro di accoglienza, dove faccio qualche lavoretto, imparo l’italiano e aspetto ancora che accettino la mia richiesta d’asilo. ABSTRACT EN The “Aeneas: a refugee. Journeys in the past and present” was developed throughout the 2015-16 academic year by two classes from Minghetti secondary school in Bologna: centred on the figure of Aeneas. Scheduled as one of the various activities was a group writing experiment in which the students while reading chapters of the Aeneid also read from the volume entitled “All life in a page”, collecting asylum seekers memories. ARTE E Ar D Fi Addio al maestro e amico George Abraham Zogo di Andrea Marchesini Reggiani Scompare uno dei più riconosciuti artisti africani presenti in Italia. Punto di riferimento per il dialogo interculturale, ha portato avanti con coerenza una ricerca artistica basata sull’incontro tra l’estetica del Continente di origine e l’arte europea moderna e contemporanea. Olio su tea, cm 70x50, 1992. D omenica 5 giugno 2016, all’età di 81 anni, è scomparso George Zogo, artista del Camerun. Nato a Saha, aveva frequentato l’Accademia di Belle Arti di Lione ed era arrivato a Firenze nel 1966 con una borsa di studio del governo del Camerun per studiare in Italia. Faceva parte della prima generazione di intellettuali e artisti africani che arrivavano in Europa nell’ambito della cooperazione culturale con i Paesi neo-indipendenti. Appena arrivato, accolto dall’ex sindaco Giorgio Lapira, di cui divenne amico personale, subito si impegnò dando il suo contributo nei soccorsi durante l’alluvione che causò forti danni alla Città, culla del Rinascimento. Ne era nato un grande amore e un impegno, durante e dopo gli studi, per la realizzazione di una sintesi tra la sua identità africana e l’ispirazione che la ricchezza contenutistica e 73 E Ar D FiARTESi S Mostre personali (Selezione) olio su cartoncino, cm 50x35, 2001. formale dell’arte europea gli offrivano. Affettuosamente chiamato “Le Doyen” “il rettore”, era un punto di riferimento per la comunità africana, e per tanti che appena arrivati trovavano in lui una persona gentile a cui rivolgersi per cominciare il processo di inserimento nella città. Il suo carisma contribuiva a tessere reti e facilitare il dialogo, nella vita quotidiana dell’immigrazione africana a Firenze, segnata anche da episodi drammatici, come l’attacco ai commercianti ambulanti senegalesi, avvenuto nel dicembre 2011 ad opera di un neofascista, morto suicida dopo avere ucciso due giovani. Il maestro Zogo ha ricevuto nel 2002 il Premio Europeo “Lorenzo il Magnifico” dell’Accademia Internazionale Medicea di Firenze e nel 2004 il gonfalone d’argento del Consiglio Regionale della Toscana «per l’originale e stimolante sintesi, presente in tutta la sua opera, dell’incontro tra Occidente e Africa». La sua attività artistica ha avuto importanti riconoscimenti, tra cui una mostra personale a Palazzo Strozzi nel 1976 e l’inserimento nella mostra Transafricana. Artisti contemporanei a Bologna nel 2000, curata da Mary Angela Schroth e presentata da Simon Njami. 74 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP Le sue opere erano colte, sofisticate, bellissime. Senza mai cedere a quell’esotismo che ancora oggi spesso si chiede agli artisti del continente, Zogo aveva sempre ostinatamente espresso una sua singolarità, offrendo con le sue tele e i suoi segni una coerenza fatta non di pienezze e solide costruzioni, ma di vuoti, di punti sospesi, di linee che vagabondavano prima di trovare un punto d’arrivo, sempre provvisorio. Quando, più di 15 anni fa, noi di Africa e Mediterraneo e Coop. Lai-momo cominciammo il lavoro di promozione dell’arte contemporanea africana, assieme a Mary Angela Schroth di Sala Uno, George Zogo fu il primo artista africano residente in Italia con cui entrammo in contatto. Nel gruppo degli artisti dispersi un po’ in tutta Italia che venne riunito in occasione di quella prima importante mostra, George era una delle presenze più costruttive e aperte agli altri. Da allora, ha sempre dato il suo contributo, ogni volta interessato a nuove idee e progetti. George era anche una persona umanamente ricca, allegra, impegnata nell’attivare progetti di aiuto per il suo Paese. Anche per questo, lascia un vuoto incolmabile. Restano le sue opere, a riempire i nostri occhi. 1993: Palazzo Pretorio, Sesto Fiorentino (Firenze) 1990: Palazzo Vecchio e Palazzo Panciatichi-Capponi Covoni (Firenze) 1989: Palazzo dei congressi, Yaoundé (Camerun) Socar Douala, Camerun 1988: Festival di Douala, Camerun 1983: Centro cultuale francese, Yaoundé, Camerun 1981: Palazzo Rucellai (Firenze) 1977: Ambasciata del Camerun a Roma 1976: Palazzo Strozzi, Firenze 1975: Movimento artistico internazionale, Firenze 1974: Galleria Saletta Conti, Firenze 1973: Sala Comunale delle Arti, Trieste 1972: International Kreis, Wuppertal (Germania) 1971: Galleria Porta, Wuppertal 1970: Palazzo Strozzi, Firenze Galleria Alfani 43, Firenze Mostre collettive (Selezione) 2000: Transafricana. Artisti contemporanei, Chiesa di San Giorgio in Poggiale, Collezioni d’arte della Cassa di Risparmio in Bologna, Bologna 1998: Nuovi linguaggi dell’arte contemporanea africana”. Istituto per l’Africa e l’Oriente 1996: Al di là del mare – artisti contemporanei africani, Castello OrsiniSoriano al Cimino (Viterbo) Africana, Galleria Sala 1, Roma La città ideale, Fiumara d’Arte di Antonio Presti, Pettineo (Sicilia) 1990: Italia 90, in collaborazione con l’ambasciata del Camerun, Torino 1979: Sala di Esposizione/Fiera di Milano 1978: Sala di Esposizione/Fiera di Milano 1976: Aurea 1976, Palazzo Strozzi, Firenze 1972: Galérie Cité Internationale des Arts, Paris Grand Palais, Paris 2004: AFRICA, Laboratori d’arte George Zogo, Shikhani, Scultori dello Zimbabwe Villa Caldogno (VI) ARTE E Ar D Fi Prayer testo e fotografie di Giacomo Rambaldi Alla Fattoria di Celle, dove è esposta la collezione Gori di arte ambientale, durante la manifestazione “Onda del Mediterraneo” abbiamo incontrato l’artista Giacomo Rambaldi. Il suo progetto Prayer ha preso forma in molti Paesi tra cui Indonesia, India, Cina, Dubai, Turchia, Etiopia, Camerun, Sudafrica, USA, Cuba, con più di 800 ritratti di persone che hanno tenuto la stessa candela in mano e tutte l’hanno riconosciuta come un simbolo di preghiera. H o cominciato a viaggiare giovanissimo, grazie a nonni e genitori viaggiatori e non ho mai smesso. Viaggiando sentivo che stavo sviluppando una sensibilità e una curiosità che mi portavano sempre più lontano, cercando nuovi Paesi e soprattutto nuove culture. Viaggiare è l’unica attività che mi aiuta a tenere la mia mente ferma. Viaggiare mi rende meno solo. Ogni viaggio è dedicato all’incontro e allo scambio. Incontro di persone, luoghi, paesaggi e scambio del mio sguardo restituito agli altri. Ogni viaggio è un progetto di vita. L’idea di realizzare nei miei viaggi il progetto Prayer è nata nel 2008, dopo la nascita di mia figlia ed è un progetto che non si è ancora concluso, per adesso condotto in una ventina di Paesi. Prayer è già una raccolta di 800 scatti fotografici, ritratti di altrettante persone a cui ho chiesto di lasciarsi fotografare con una candela accesa. Figure ritratte in piedi o sedute, a volte in pieno sole o nella notte. La provenienza di queste persone non si legge nell’ambiente che li circonda: lo spazio resta per lo più neutro; ma le loro origini spesso si intuiscono dagli abiti o dalle decorazioni dei corpi. Questa moltitudine di persone sono i miei compagni di viaggio, le ho scelte perché mi hanno colpito, incuriosito, toccato. Ognuna di loro ha in mano la candela accesa: tanti sguardi che fissano l’obiettivo e portano con sé una piccola fiamma. Chi è ritratto è consapevole di esserlo e la candela, a volte, sembra un elemento naturale in mano al personaggio; altre volte, resta un elemento più distaccato e lontano. Ad uno ad uno i ritratti parlano in modo diverso, ma quando dispongo tutte le foto in gruppo, tutti i volti diventano un’opera corale in cui la candela assume il ruolo di conduttore e l’insieme emana una scarica di energia. Non c’è vita senza luce, la candela però non è necessariamente tratta da un particolare credo o ambito religioso. Non sarebbe sufficiente un’unica fede per giustificare l’amore per la luce, perché, come ha spiegato bene il cardinale Ravasi in occasione della cerimonia d’apertura dell’Anno Internazionale della luce promossa dall’Unesco nel 2015, «in tutte le civiltà la luce passa da fenomeno fisico ad archetipo simbolico, dotato di uno sterminato spettro di iridescenze metaforiche, soprattutto di qualità religiose». Nella Bibbia, ad esempio, si legge che Dio prima di ogni cosa creò la luce. La luce come simbolo divino, la luce apre e chiude la Bibbia dalla creazione alla descrizione dell’Apocalisse «Non ci sarà più notte, non avranno bisogno di lampada, né di luce di sole perché il Signore Dio illuminerà e regneranno nei secoli dei secoli» (Apocalisse 22,5). Apro il mio vecchio manuale scolastico e rileggo le qualità fisiche della luce: la 75 E Ar D FiARTESi S luce è un’onda elettromagnetica, il risultato di perturbazioni costituite da campi elettrici e magnetici oscillanti che si propagano anche nel vuoto. La candela è il corpo luminoso, la sorgente di luce, i cui raggi luminosi si diffondono in tutte le direzioni fino a raggiungere l’occhio, il mio occhio, che si è affidato alla macchina fotografica e ha fermato in immagine il movimento della luce. Prayer abbraccia entrambe le definizioni: la luce mi ha aiutato a percepire i miei incontri amplificando la mia funzione visiva, ma allo stesso tempo ad evocare il simbolo religioso per essere intesa come speranza di vita. È il coro delle persone che ho ritratto a testimoniarlo, è nella forza di quei volti così diversi, in cui si può rintracciare la traccia di quella speranza. In ognuno di loro c’è una vita, una cultura diversa ma anche la consapevolezza di appartenere alla unica razza umana. È questo che procura in tutti noi un comune senso di filiazione. Sono stato invitato a presentare, per la prima volta, il progetto Prayer nell’ambito di una manifestazione dal titolo “Onda mediterranea “ in cui si chiedeva di riflettere sul tema della paura dell’altro. Mi si chiedeva di raccontare la mia esperienza di viaggiatore. Il pensiero è andato naturalmente a chi arriva in fuga attraverso il mare Mediterraneo e in modo particolare al sentimento di chi deve intraprendere quella odissea. Ho pensato allora alla luce delle candele e ho sentito la necessi- 76 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP In queste pagine: foto da Prayer. © Giacomo Rambaldi tà di aggiungere altri elementi, come una vera e propria installazione. Prayer è diventato una forma di pellegrinaggio, nel senso di portare qualcosa da un luogo a un altro. Prayer è diventata un’esperienza sul significato della partenza. Così ho selezionato le fotografie, le ho allineate lungo un il muro di un corridoio e alla fine del percorso ho invitato le persone a tracciare un segno blu su una tela bianca, come a lasciare traccia di un loro viaggio immaginario attraverso il mediterraneo. Ognuno lasciava il suo segno, tutti diversi fra loro. E tutti assieme sembravano i dettagli di una grande onda. A quel punto lo spettatore si trovava di fronte a un migliaio di bottiglie allineate. Dentro ognuna di esse si vedeva un foglio colorato. Ogni foglio colorato corrispondeva ad una preghiera, ognuna appartenente a fedi diverse, ma con la caratteristica comune di essere propiziatoria per lo straniero che si mette in viaggio. Ognuno poteva scegliersi una preghiera da portarsi via con la sua bottiglia. La bottiglia è simile a quella di un naufrago che ha affidato alle onde la sua richiesta di salvezza, di fronte alle difficoltà del viaggio e allo scontro con l’ignoto. Prayer non è un reportage, è una storia: quella di aver cercato un equilibrio tra il viaggio e il sacro, diversità e unione. ARTE E Ar D Fi “Triumphs and Laments”: a Project for the City of Rome by William Kentridge by Mary Angela Schroth “Triumphs and Laments” is a largescale, 500 meter-long frieze, erased from the biological patina on the travertine embankment walls that line Rome’s urban waterfront. Exploring dominant tensions in the history of the Eternal City from past to present, represents Rome’s greatest victories and defeats from mythological time to present. O ne of the most ambitious public art projects ever made, Triumphs and Laments by renowned South African artist William Kentridge is assuredly his greatest work to date. It consists of a 550 meter long and 10 meter high frieze using a deceptively simple technique of power washing silhouettes of figures from the biological patina on the embankment walls that line Rome’s Tiber River between Ponte Sisto and Ponte Mazzini. It depicts 80 figures that recount the greatest victories of the Eternal City as well as its defeats and tracing its history from ancient times to the present. The work was produced by TEVERETERNO, a non-profit association founded by the American artist Kristin Jones and dedicated to the creation of an openair place for non-permanent contemporary art and music on this very visible and public section of the Tiber River. The story of this project is complex and reflects a collaboration that is both international and local, public and private, political and apolitical. This particular work has been in development for well over a decade, but envisioned some 30 years ago and preceded by Jones herself with her own series of power-washed she wolves in 2006. Even then, Kristin Jones was forced to overcome a series of bureaucratic obstacles that seem minor when compared to her initial success in making this area of Rome a public arena for culture. Kentridge himself, after being invited by Kristin to develop an artwork for the site, was both enthusiastic and fearful. The sheer size and complexity of his concept meant years of work, not to mention the research and choices of the figures to be represented. There was also the performance aspect to be considered, and Kentridge here has had immense experience in musical theater and performance. This is a project that has a price tag of more than US$ 800.000, which fortunately was solved through the collaboration with the artist’s major galleries: Lia Rumma in Milan, Marion Goodman in New York/Paris and Kentridge’s first gallery in Johannesburg Linda Goodman (no relation to Marion). Kentridge himself invested infinite hours in his studio as well as numerous visits to Rome with Kristin. Other underwriters included major art benefactors such as Agnes Gund (collector and patron of MOMA in New York), Brenda R. Potter and the Isambard Kingdom Brunel Society of North America as well as major sponsorship by Etihad/Alitalia and Illycaffé. The production is under the tutelage of THE OFFICE performing arts + film. But the worst nightmare of the city (and 77 E Ar D FiARTESi S Dall’alto verso il basso: Remus, 2015, Indian ink and coloured pencil on ledger pages, 93,5x315 cm Capitoline Wolf II, 2016, Indian ink and torn black paper on Hahnemuehle paper, 78x107 cm Drawing for Triumphs & Laments (#17), 2014, Charcoal on Ledger pages 63x83x4 cm Una parte dell’esposizione delle opere. those of us who live and work in Rome are privy to such situations) made itself evident: the actual permits to execute Kendridge’s oeuvre were continually negated by both local city authorities and the feared Beni Culturali itself. At one point, it was stated that the work was too invasive and should be produced in one of the peripheral neighborhoods of the city, where it would not “disturb” the historic patrimony of Rome’s center. Kristin Jones, tenacious and often disliked for her persistence, never took “no” for an answer. She took her campaign to anyone who could help, including the then-mayor of Rome Ignazio Marino and influential architect Luca Zevi. As Prime Minister Renzi’s 78 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP power grew and new directors were named in the Beni Culturali, the same bureaucrat who had previously refused the permits was forced to approve them and the project was finally confirmed in 2015. This meant that the city of Rome came on board in a big way, not only issuing all the necessary permissions and donating crews and equipment to assist with the production but also adopting it as one of the major cultural events of the year. The Lazio Region provided support for a media campaign and the Beni Culturali has decided to underwrite the catalogue that will document the project. At this point, a kind of “Kentridge-mania” began to emerge, that took the project to an unprecedented level of public recognition, something extremely rare for contemporary art in Rome but of course not the first time a major artist has produced such a large work. In the days before the official opening, some 6 conferences with the artist (all sold out, with hundreds turned away) were organized in various institutions such as MACRO, MAXXI, ARTE the Accademia di Belle Arti, the British School in Rome. The preliminary drawings as well as the first cut-outs made by Kentridge as preparation for the project were shown as a separate exhibition in MACRO, who together with Maxxi, has supported the project for the past years. Jones curated a section of Italy’s Pavilion for the 2013 Biennale in Venice with Kentridge’s preliminary drawings. This meant an arc of collaboration with Italy for the artist, who first showed his work in the South African Pavilion in the Biennale in 1993 and later in Rome at Sala 1 (who produced the exhibit with William Kentridge, Drawing for Triumphs & Laments, 2014, Charcoal on Ledger pages, 63x83x4 cm the South African government and the Lazio Region). And all this was before the inauguration on Rome’s birthday, April 21, 2016. The frieze is astonishing and although executed only using water, it has a strong visual impact although the entire work is in shades of grey. The story of Rome in all its aspects is seen: scenes from Etruscan and Roman periods such as the famous “lupa” or wolf that nurtured Romulus and Remus, the enslaving of the Jews in the Roman ghetto, a portrait of Cicero; depictions of Pope Gregory III being pushed out by Henry VIII, Bernini’s St. Theresa; a panorama of images from modern cinema including Anita Eckberg in the Trevi Fountain, Pina played by Anna Magnani in “Roma città aperta”, the Vespa from “Roman Holiday”. But as in much of Kentridge’s E Ar D Fi work, we find an almost melancholic darkness. His choices of the body of a massacred Pier Paolo Pasolini, the dead body of Aldo Moro, the veiled figures of Middle Eastern women refugees in Lampedusa – all underline the seriousness and political implications of our current contemporary life. The artist produced the monumental work in 9 phases: first the conceptual creation of the work in general, then the first drafts of the figures in his studio in Johannesburg, the transfer of the drafts to drawings. This was followed by the creation of black heavy paper cut-outs in small and medium dimensions (seen in the current exhibition in MACRO), their finishing into stencils, the digitalization of the stencils on large plastic format, their application on the wall on site, and then power-washed to create 79 E Ar D FiARTESi S William Kentridge, Triumphs and Laments. © Tevereterno/Andrea Onofri the final figures. The process took more than three years. Kentridge has always privileged the medium of drawing throughout his career; communicative, easy and inexpensive to produce, and often linked to the current phenomena of Street Art. In short, Kentridge has used the story of Rome to reflect today’s modern world but in a way that is sustainable (the work will disappear gradually over the next four years), intelligent, adapted to the site, and most importantly representing a total availability to the public as well as an astonishing stage set for performances. Kentridge is also a maker of theater and opera and he has conceived, together with composer Philip Miller, the premier of a once-in-a-lifetime theatrical event on the site, bringing together performers and music from both Italian folk tradition and from the city’s large and multifaceted immigrant population. It is seen as a meeting place between different civilizations, a theme that is recurrent in the history of Rome. On April 21 and April 22, at sunset and throughout the night, two processional bands, representing diverse range of instruments and traditions, combined the various sounds and character of each geographic region: from the soft tones of the African kora to the live- 80 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP ly Balkan rhythms of the cimbalom, from the traditional songs of Salento and Lazio to the Neapolitan tarantella, with an original Triumphs and Laments score composed by Miller and accompanied by choir and band instruments such as the trumpet, trombone, tuba, accordion, drums and organ. Live shadow play, with cut-outs and costumes produced by the students of Rome’s Accademia di Belle Arti, were performed against the backdrop of the frieze and provided a riot of color and light. TEVERETERNO also presented the first edition of its Young Composers Commission, Liquid Volumi. This was produced in collaboration with Italy’s leading conservatories, G. Rossini of Pesaro and Santa Cecilia in Rome. The YCC is presenting original electronic compositions created by emerging Italian composers – all inspired by the site on the Tiber, and following in the initial efforts of founder Kristin Jones. Tens of thousands of the Roman public attended the two-day premier in April, causing not a few problems for the traffic along the Lungotevere, but displaying an extraordinary spectacle of sound, art, and theater offered freely to the many visitors (including a special appearance by the artist’s father Sir Sydney Kentridge, 92 years old, renowned for his continued fight against apartheid and defense of Nelson Mandela and Steve Biko). In short, a phenomenal success as well as an example of a major international and cultural event for the 2016 Jubilee year, one with deep significance especially for its link with South Africa, the Global South, and the sense of trans-historical meaning. A project such as this, beyond its cultural impact, is also about a revitalization of a grand-scale and central section of the city’s currently underdeveloped urban waterfront. Some two million people will be attracted to this location in 2016 alone, thus bringing both an economic and touristic boon to this area. TEVERETERNO has achieved the Herculean task of securing a longterm 19-year permit to produce public programming on the “Piazza Tevere”. The idea is to create a unique venue for contemporary art programming that can be experienced in the context of classical Rome – the cornerstone of a comprehensive “placemaking” project that re-imagines the river as an expansive public park running the entire length of the City of Rome. But, as Kentridge’s title states, Rome is not only about Triumphs. Just this week, another Lament was inserted into the project. Each summer, the Tiber is invaded by a populous and commercial endeavor called Tevere Estate and made up of some 50 associations who have had their own permits for previous editions: the unbelievable construction of a veritable carnival of tents, platform stages and restaurants, already a contested summer event, are being built in front of the Kentridge freize. But the Triumphs and Laments has achieved such fame and prestige that the city managers are working on a solution to liberate that section of the Tiber. Although it probably won’t have any practical effect, a media campaign has been launched by various artists and politicians as well as TEVERETERNO itself, in an attempt to convince the city to alter the permits so that the frieze again becomes visible to all. As art critic Achille Bonito Oliva stated in a recent TV interview in defense of Triumphs and Laments: “Kentridge has conceived a very original and special work, made of ephemeral materials and destined to disappear. Like life itself.” For info: www.tevereterno.it Link to the opening performances: https://www.youtube.com/watch?v=n6Li1uMWsHA EVENTI Dak’art 2016: nel blu dipinto di blu I l verso di una poesia di Senghor, La cité dans le jour bleu, utopia di una città e di un continente libero è stato l’orizzonte che ha ispirato Simon Njami nella direzione della 12a Biennale di Arte contemporanea di Dakar, svoltasi dal 3 maggio al 2 giugno 2016. Scrittore e curatore indipendente, alter ego francofono del nigeriano Okwui Enwezor, Njami è stato chiamato all’ultimo per salvare una Biennale che, pur longeva ed importante, è sempre sull’orlo della crisi economica e d’identità. Coadiuvato da un comitato di 5 curatori, Njami ha selezionato 66 artisti provenienti da 19 nazioni africane (Senegal, Burkina Faso, Camerun, Marocco, Kenya, Mozambico, Ghana, Egitto, Sudafrica, Nigeria, Congo, Etiopia, Tunisia, Costa d’Avorio, Malawi, Sudan, Madagascar, Algeria, Burundi) e cinque della Diaspora (Stati Uniti, Francia, Italia, Bahamas, Portogallo). La scelta di formare un comitato di selezione internazionale con curatori indipendenti provenienti da India, Corea, Brasile, Camerun, Italia e Canarie, dettata principalmente dall’intenzione di alzare la qualità degli artisti selezionati e dall’ambizione di rafforzare il carattere internazionale della Biennale, è stata occasione di scoperta di spazi artistici non esplorati dall’Europa e ha simboleggiato la rottura di un asse Nord/ Sud vissuto spesso come limitante. La maggior parte delle opere è stata selezionata dai 327 dossier di candidatura ricevuti, mentre una ristretta rosa di artisti, tra i quali Ouattara Watts, Bili Bidjocka, Theo Eshetu, Kader Attia, è stata invitata direttamente da Njami che ha rivendicato il carattere non democratico di un curatore d’arte. Una Biennale ambiziosa e non priva di fascino, che si è articolata in tre nuclei tematici. Réenchantement, scelto come titolo dell’esposizione internazionale e principio ispiratore della manifestazione, è stato l’invito rivolto In alto: Chanel Diagne, L’Allée de la Reine. In basso: Bili Bidjocka. © Simona Cella agli artisti ad inventare nuove strade per re-incantare il mondo e il continente e per celebrare il sogno di un’Africa libera e responsabile, recuperando lo spirito di utopia delle Indipendenze. All’interno di Contours hanno trovato spazio le esposizioni proposte dai curatori e dai due Paesi ospiti: il Qatar, invitato a detta da Njami direttamente dal presidente Macky Sall per ragioni di opportunità economica e la Nigeria scelto invece, con una vena di polemica, in quanto Paese con grandi potenzialità economiche (è uno dei finanziatori della Tate Gallery) ma ancora poco attivo nella promozione dell’arte contemporanea africana. Infine Bandung, riferimento alla città indonesiana che nel ’55 ospitò la storica conferenza afroasiatica dei Paesi non allineati, ha offerto un programma di 81 EVENTI seminari e dibattiti, per riflettere su un mondo dell’arte non appiattito sul sistema museale di stampo europeo. Intorno a questi tre capitoli, una costellazione di eventi tra i quali segnaliamo Hommages, dedicata ad artisti scomparsi, una Carte Blanche offerta a Doual’art e Urbi, curata dallo stesso Njami insieme a Delphine Calmettes con l’obiettivo di costruire una rete attraverso la città e trasformare artisticamente luoghi popolari come La Corniche, il Mercato, Place d’Independence. Urbi è stato inoltre un ponte con la piattaforma Off che, giunta alla settima edizione e sostenuta da Eiffage, ha proposto 250 eventi di arte contemporanea popolare. Il Modello Off, promosso in tutta la città con una guida gratuita fornita di utili piantine, ha creato negli ultimi anni, grazie alla guida di Mauro Petroni, ceramista e gallerista, un modello partecipativo vincente che ha dato vita ad altre iniziative indipendenti quali Partcours, rete di gallerie d’arte che ogni anno propone una settimana di mostre e vernissage. Una Biennale popolare e internazionale quindi che ha trasformato Dakar in una città utopica reinventando alcune architetture piene di fascino ma in stato di abbandono. In primis l’Ancien palais de Justice, esempio di monumentale architettura fine anni ’50, inaugurato nel dicembre del 1958 e abbandonato nella seconda metà del Duemila per questioni di sicurezza. Una delle tante necropoli d’Africa, come lo definisce Jean Pierre Bat in un bel fotoreportage su Libération che racconta l’abbandono attraverso suggestive immagini delle aule di giustizia e della grande corte centrale sommerse da montagne di documenti, pezzi di arredamento e vetusti computer. (http://libeafrica4. blogs.liberation.fr/2015/12/20/les-grandes-necropoles-contemporaines-le-palais-de-justice-de-dakar/). Identificato ormai solo come capolinea dei bus Dem 82 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP A sinistra: Kader Attia, Les rhizomes infinis de la Révolution. A destra: Youssef Limoud, Maqam. © Simona Cella Dik, il Palais è stato scelto con geniale intuizione come sede dell’esposizione internazionale che ha ospitato installazioni, fotografie, video e opere di pittura. Due installazioni, tra loro complementari, hanno colto in pieno il significato della location, ricreando con un effetto quasi cinematografico l’atmosfera di un Palazzo che nel passato è stato un luogo di messa in scena del Potere e della Giustizia. Maurice Monteiro (fabricemonteiro. viewbook.com/p-residant), fotografo Belga-Beninese residente a Dakar, per la sua installazione P(resident), Ceci n’est pas une Phenix, Père de la Nation ha utilizzato le pareti scrostate di un’aula di giustizia come scenografia per una beffarda rappresentazione del potere autocelebrativo dei cosiddetti Padri della Nazione. Fulcro dell’installazione una sarcastica rievocazione del trono di Bokassa, autoproclamatosi, nel Dicembre 1977, Imperatore del Centrafrica. Del potere dell’Imperatore rimane qui un trono vuoto, fedele replica della seduta che con un tripudio di oro e rosso rappresentava una fenice. Un trono metaforicamente vuoto, ma animato dagli altisonanti e ridicoli discorsi di dittatori del Continente, memoria storica che non può essere cancellata dal gioco dell’arte. Sullo stesso trono, in una serie di grandi ritratti fotografici appesi alle pareti che riecheggiano vagamente il lavoro in serie di Samuele Fosso, siedono Le Président Fondateur, Le Guide Suprême, Le Père de la Nation, Le Grand Timonier, ironiche variazioni sul tema. Contraltare di questo potere gravido di rosso sangue e oro, le scritte a spray rosso e blu che rievocano le recenti rivoluzioni, da Y’en a marre in Senegal, alla rivoluzione in Burkina Faso, proteste spontanee e popolari che hanno spazzato via il vecchio potere prendendo in prestito idee ed energie da movimenti urbani e globalizzati come il rap e l’hip hop. La Rivoluzione burkinabé è celebrata anche in un’aula attigua dal camerunese Bili Bidjocka che ha ricostruito, come in un set cinematografico, una scena da una rivoluzione che ricorda le immagini dell’assalto all’Assemblea Nazionale riprese nel documentario Une Revolution Africaine. Les dix jours qui ont fait chuter Blaise Compaoré di Gidéon Vink e Boubacar Sangaré. Il pavimento coperto di terra e calcinacci ricorda la distruzione necessaria ad una rivoluzione, mentre le frasi incastonate nei mosaici delle pareti reinterpretano la pratica della scrittura automatica surrealista che rivendicava un’arte EVENTI rivoluzionaria e irriverente. Così, intorno allo slogan revolution in ordine sparso, un ironico mix di concetti e parole in libertà: cecinestpasmoncorpsvousnepouvezpaslesconsommer, accumulationdescorpsfetiches, #makeuspoorthenshootus, kapitalisme, tiersmond… Un dittico, quello offerto da Monteiro e Bidjocka, che riflette sul Potere e la Rivoluzione, completando il racconto delle rivoluzioni africane contemporanee filmato recentemente da alcuni cineasti e video artisti (il già citato Une revolution africaine. Les dix jours qui ont fait chuter Blaise Compaoré, The revolution won’t be televised di Rama Thiaw, Opening Stellenbosch from assimilation to occupation di Aryan Kaganof, Black president di Mpumelelo Mcata). Fantasmi delle rivoluzioni arabe aleggiano tra le pareti del palazzo nelle opere di artisti di Maghreb ed Egitto. L’installazione Les rhizomes infinies de la révolution dell’algerino Kader Attia, introdotta da una rassegna stampa internet su Intifada e Siria, ha ricreato una foresta di alberi di ferro, quasi tumuli funerari a ricordo di come le rivoluzioni nascano spesso da un lancio di pietre. Ma è Speak2Tweet, video di Heba Y. Amin, che colpisce al cuore per rigore stilistico e densità di contenuto. Un film sperimentale che utilizza come colonna sonora i messaggi telefonici inviati agli inizi del 2011 ad una piattaforma sperimentale che, postando su Twitter, aggirava il blocco Internet imposto dal regime di Mubarak. Un archivio sonoro della Rivoluzione e dell’inconscio collettivo che la regista giustappone ad un’ipnotica esplorazione visiva di alcuni edifici abbandonati dopo la caduta del regime. Un lavoro che la videoartista e ricercatrice egiziana, che investiga le convergenze tra politica, tecnologia, media, urbanismo, intende utilizzare come strumento didattico e di riflessione sulle implicazioni politiche dell’uso dei social network e sui destini degli attivisti nella post rivoluzione. Altre rovine dalla Siria distrutta dalla guerra hanno dato origine tre anni fa al lavoro in progress Maqam dell’egiziano Youssef Limoud, premiato con il Grand Prix Léopold Sédar Senghor, che qui ha preso la forma di una città polverosa, miniatura di una Dakar immaginaria. Allestita in tre giorni, utilizzando gli oggetti trovati nel palazzo, Maqam racconta una Dakar in continua costruzione, che dietro il cemento e la sabbia nasconde una fragile armonia. L’aspetto narrativo dell’opera, spiega l’artista, è enfatizzato dal titolo Maqam, che in arabo ha più significati: una casa, un posto dove ci si sente bene ma che contiene nostalgia, un altare, luogo sacro di sepoltura dove le persone si recano in pellegrinaggio per ricevere una benedizione, e infine un ritmo della musica araba. Maqam è stato sopratutto un amorevole omaggio alla Cité dans le jour bleu, perché camminare nel palazzo, dice Limoud cogliendo pienamente nel segno, è come camminare attraverso Dakar. Tra gli artisti senegalesi esposti l’opera più interessante è Encyclopédie di Ndoye Douts, 600 quadretti di 10 cm² che raccontano il mondo attraverso articoli di giornale incollati su un fondo blu, colore scelto dall’artista alchimista per dare speranza ad un mondo intriso di paura. Al limite dell’impraticabile a causa dei persistenti problemi tecnici, la sezione video si è invece rivelata deludente. Tranne il già citato Speak2Tweet e Meditation Light, un lavoro del 2006 di Theo Esethu, segnaliamo Lazi Nigel di Simon Gush, artista di Johannesburg, che offre una raffinata esplorazione del tema del lavoro e del tempo libero. Lo strumento video è stato al contrario bene utilizzato nel progetto “Dakar Carrefour des cultures. Ces signes aux murs”, dei gruppi Eunic Sénégal e Kër Thiossane, che ha offerto la possibilità, grazie a una residenza artistica, a 10 artisti senegalesi di studiare le tecniche del videomapping e sperimentarle live in tre luoghi di Dakar: L’Hotel de Ville, RondPoint Médina, la Gare, costruzione in stile coloniale in disuso da anni ma sapientemente animata dal collettivo Afrosiders con spazio bar e concerti. Mal utilizzato invece “il nuovo che avanza”, incarnato dal Centre international de conférences Abdou-Diouf, situato nella futuribile Smart City di Diamniadio, che dovrebbe sorgere prossimamente per decongestionare Dakar. Un’architettura iper moderna, catapultata nel vuoto e raggiungibile con rare navette in stile afro vintage, ha accolto in ordine sparso fotografie, sculture e oggetti di design selezionati da Salimata Diop. Un allestimento senza cura che non ha saputo integrare la sezione design con quella fotografica. Abbandonate a loro stesse le raffinate ceramiche di King Houndekpinkou che fonde la tradizione giapponese del Raku con le sue origine beninesi e le grandi sedie di Ousmane Mbaye, linee leggere, bianche, essenziali che partono da una riflessione sull’essere umano. Allestite malamente anche le divertenti gigantografie di Captain Rugged, supereroe africano e alter ego del musicista nigeriano Keziah Jones presente alla Biennale con due concerti. Riguardo a storici spazi espositivi della Biennale, sorvoliamo sull’imbarazzante collettiva senegalese alla Galerie National e la deludente Maison Sentimentale presso la galleria Le Manège, poco interessante omaggio alla Revue Noire composta dall’artista malgascio Joël Andrianomeariso. Più pubblicità che arte, ha dato spazio più alla auto celebrazione della rivista e alla velleità poetica di JeanLuc Pivine che all’artista stesso. Sempre a Le Manège, con un allestimento purtroppo sacrificato, è stato esposto Les maggic, interessante lavoro fotografico di Adji Dieye che indaga con ironia e occhio critico l’impatto del Maggi, popolare dado da cucina, all’interno della società senegalese. Rielaborando la tradizione del ritratto resa celebre da Seydou Keïta, Mama Casset e Oumar Ly, ma lasciando libertà di movimento alle donne fotografate, modelle disilluse e un po’ snob, Dieye ha ben colto l’invasività del messaggio pubblicitario, creando fotografie sature dell’inquietante logo rosso e giallo, onnipresente ormai nella cucina di tutte le famiglie senegalesi. Non ha deluso invece il dovuto omaggio a Soly Cissé presso l’Atelier di Mauro Petroni e l’allestimento dell’Espace Médina, che ha presentato la propria facciata ricoperta di abiti e accessori provenienti da Europa, Asia e Stati Uniti e che in Senegal vengono riempiti con nuove storie. Segnaliamo infine le belle sculture lignee di Diagne Chanel che con L’Allée de la Reine ha impregnato l’Hotel de Ville di un’atmosfera alla Maigritte e la scelta della Galleria Mame di Doula di esporre le proprie opere in due cantieri, con operai al lavoro che sembravano comparse di un’installazione. Scommessa vinta quindi da Dakar, che per un mese si è trasformata in città utopica in grado di fare incantesimi artistici e vitali. Simona Cella 83 EVENTI When Things Fall Apart. Critical Voices on the Radars Trapholt Museum 11 février au 23 octobre 2016 À gauche: Dinh Q. Lê, Erasure, 2011, video installation. Dimensions variable (minimum 5 m x 12 m). Commissioned by Sherman Contemporary Art Foundation, Sydney. Supported by Nicholas and Angela Curtis. © Photo: Nagare Satoshi. Courtesy: the artist. À droite: Milumbe Haimbe, Ananiya the Revolutionist, 2013, digital drawings, 29.7 cm x 42 cm Courtesy: the artist. D eux ans après l’exposition The Divine Comedy au Museum für Moderne Kunst de Francfort, pour laquelle les auteurs africains se sont inspirés d’un poème fondamental pour la culture européenne, une autre exposition collective s’inspire d’un chef d’œuvre littéraire, également d’envergure culturelle universelle, mais, cette fois, africain: Le monde s’effondre, du Nigérian Chinua Achebe. Ce roman, considéré comme un classique de la littérature du continent et traduit en plus de 50 langues, a été proposé par la commissaire d’exposition sénégalaise Ngoné Fall et le dynamique collectif d’art GawLab de Dakar en tant qu’inspiration pour l’exposition When things fall apart. Critical voices on the radars, qui se tient du 11 février au 23 octobre 84 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP au Trapholt Museum au Danemark, dans le cadre d’un festival consacré au thème « L’artiste dans la société », et qui réunit des artistes d’Afrique, Asie Sud-orientale, Moyen Orient et Amérique Centrale. L’épique de l’exploration, explique la curatrice dans le catalogue, n’a pas pu cacher les dommages économiques, sociaux et humains que la conquête violente de l’Europe a apporté en Afrique. Une rencontre de civilisations qui n’a cessé d’avoir des conséquences, même actuellement que les sociétés contemporaines, qui sont nées d’une culture « bâtarde » et globalisée, refusent de reconnaître leurs origines métisses. Le roman d’Achebe fait le portrait de deux personnages paradigmatiques : le « Western predator » et les « Non-Western victims ». Confrontés avec le monde qui change, ils résistent obstinément à l’effondrement de leurs certitudes séculaires. Une installation spectaculaire du Camerounais Pascale Marthine Tayou, portant le même titre que le roman, exprime l’inspiration centrale de cette exposition, dans laquelle plusieurs artistes exposent leurs représentations parfois provocantes au sujet de la crise du monde contemporain, du manque d’attention envers tous les signes de dégradation économique, environnementale, sociale et politique. Nous avons posé quelques questions à Ngoné Fall, l’une des premières femmes à étudier et promouvoir l’art contemporain africain, d’abord, pendant les années 90, dans l’équipe de la Revue noire, puis avec Africalia et à l’occasion de plusieurs Biennales de Dakar. EVENTI Pascale Marthine Tayou, Things fall apart, 2014, installation, 150 African masks, 20 school books, 12 plastic balls and chain, 100 wood piles, 41 drift wood pieces , 800 African brushes, 10 m x 6 m x 2.6 m Courtesy: the artist Sandra Federici – Actuellement, l’inspiration des grands classiques littéraires s’avère être une exigence assez puissante dans le concept d’expositions. D’où vient l’idée de prendre inspiration du roman Things fall apart de Chinua Achebe? N’Goné Fall – Je pense que le monde s’effondre, comme dans le roman, avec la montée des populismes, du protectionnisme et le rejet de la différence (comme je l’explique dans le catalogue). En parlant avec Pascale Marthine Tayou en 2015, nous avons eu les mêmes conclusions et il m’a annoncé avoir fait une grande installation inspirée du roman et avec le même titre “Things fall apart”. Alors cela m’a conforté dans mon idée et j’ai décidé d’ouvrir l’exposition avec son œuvre. L’exposition est une métaphore du roman, qui raconte l’impossibilité de la rencontre. Et quand je regarde la situation géopolitique actuelle, avec le Brexit, la campagne des présidentielles aux USA, la crise des migrants en Europe, je pense que mon projet arrive au bon moment, comme un signal d’alarme. J’ai eu beaucoup de retours de journalistes politiques et d’enseignants. S.F. – Le concept de l’exposition part de la triste constatation que le monde comme communauté d’hommes qui respectent les droits de l’Homme est une illusion, que l’intolérance et l’extrémisme augmentent, que l’empathie et la solidarité internationale sont mises en question par les discours et les politiques des leaders et, par conséquent, par les mouvements populaires. Quelles réponses avezvous eu des artistes? NG.F. – Tous les artistes étaient très enthousiastes et ont accepté de participer. Ils adhèrent tous à cet état inquiétant du monde. Et chacune de leurs œuvres montre une facette de cet effondrement. Ensemble, les voix des artistes sont comme une polyphonie: parfois pessimiste, parfois humoristique et parfois optimiste. S.F. – Quelle est la contribution du professeur Stefano Harney à l’exposition? Dans les textes du catalogue, sa réflexion propose de prendre comme modèle la résistance que des victimes de l’histoire, à l’instar des femmes et des esclaves arrivaient à mettre en place, au quotidien et grâce à leur capacités pratiques, à l’intérieur des mondes d’oppression dans lesquels ils étaient “emprisonnés”. Comment ce concept a-t-il inspiré les artistes ? NG.F. – J’ai invité Stefano pour avoir un point de vue purement intellectuel. Et aussi le point de vue d’un occidental pour montrer que les questions dans l’exposition ne concernent pas uniquement les pays en développement. Cela concerne l’humanité toute entière. J’ai passé commande à Stefano en lui envoyant le découpage de l’exposition avec les 3 textes des entrées ( Justice Équitable, Changement Social, Empathie) et les dossiers des œuvres/artistes que j’avais sélectionnés. Stefano est arrivé à la fin, volontairement comme un contre point intellectuel et philosophique des créations artistiques. Les artistes ont découvert les textes de Stefano dans la publication, pas avant. Toutes les œuvres existaient avant l’exposition, il n’y a pas eu de production spéciale. Il a fallu faire beaucoup de recherches et de discussion avec les artistes pour faire la sélection des œuvres. S.F. – Pourquoi inclure la bande dessinée dans cette exposition? Quel est le background de Milumbe Haimbe? Elle ne semble pas appartenir au champ de la BD, mais plutôt avoir emprunté ce media pour produire une œuvre pour un projet d’art et briser des barrières formelles. NG.F. – Milumbe est artiste avec une formation en architecture. Cette BD est la première qu’elle produit et c’est la première partie de la saga de Anania la révolutionnaire. Milumbe utilise la BD, un medium populaire, pour atteindre un public plus vaste. Je trouve intéressant d’introduire un medium “populaire” dans l’espace “sacré” d’un musée. Il faut casser les barrière, au-delà des clichés et des tabous. Artistes : Nidaa Badwan (Palestine), Rehema Chachage (Tanzania), Tiffany Chung (Vietnam), Arahmaiani Feisal (Indonesia), Regina José Galindo (Guatemala), Milumbe Haimbe (Zambia), Wambui Kamiru (Kenya), Dinh Q. Lê (Vietnam), Babirye Leilah (Uganda), Zen Marie (Afrique du Sud), Thái Tuấn Nguyễn (Vietnam), Pascale Marthine Tayou (Cameroun) Sandra Federici 85 EVENTI Quand le Nigéria s’invite à Venise : une architecture visionnaire audelà de tous les formalismes L a 15e édition de l’Exposition Internationale d’Architecture de la Biennale de Venise s’inscrit cette année dans une large perspective, annonçant son ambition de poser un regard caléidoscopique sur le premier art. Prendre de la hauteur “Teatro dell’Archivio”, Nigerian Pavilion, Ola-Dele Kuku. © Barbara Rossi 86 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP pour mieux observer et embrasser une réalité plus riche, c’est le sens que le directeur artistique Alejandro Aravena a voulu donner à cette édition, intitulée «Reporting from the front». Il raconte l’histoire inspirante de l’archéologue allemande Maria Reiche, qui parcourait le désert avec son escabeau pour pouvoir discerner les lignes Nazca dessinées par les pierres: ce qui semblait un simple regroupement de cailloux se révèle, du dernier barreau de l’échelle, un oiseau, un jaguar, un arbre ou une fleur. En parcourant les pavillons de la Biennale, on prend ainsi de la distance avec l’architecture en s’offrant des détours du côté de toutes les autres formes d’art, mais aussi en allant au-delà des formes physiques des constructions en explorant leurs implications sociales, environnementales et humaines. C’est à l’occasion de cette 15e édition que le Nigéria installe pour la première fois un Pavillon national à la Biennale, EVENTI Nigerian Pavilion – 15th International Architecture Exhibition La Biennale di Venezia 2016 – Ola-Dele Kuku (architect – artist). © Filippo Peretti avec l’exposition Diminished Capacity de l’artiste et architecte Ola-Dele Kuku, organisée en collaboration avec Camilla Boemio de l’AAC Platform. L’installation investit le bâtiment industriel de Punch Space, sur l’île de la Giudecca, et va jusqu’à effacer complètement les frontières poreuses entre les disciplines, modelant l’espace à travers la sculpture et les arts visuels. Au cœur de l’œuvre de Kuku se trouve toujours le conflit, un thème récurrent dans son travail qui représente pour lui l’une des énergies créatrices plus puissantes du monde: «le conflit a joué un rôle crucial depuis la nuit des temps, depuis les histoires du Big Bang jusqu’à celle du paradis d’Adam et Eve»,1 déclaret-il. Le conflit qui anime «Diminished Capacity» porte sur la représentation historique de l’Afrique. Le pavillon se propose en effet l’ambition de «réécrire l’histoire» du continent afin de le libérer des images stéréotypées dans lesquelles on l’enferme encore trop souvent, annonçant la couleur dès le début en rappelant haut et fort en lettres lumineuses de néon: «Africa is not a country!». Devant l’inconnu et l’incompréhension, Ola-Dele Kuku ouvre un espace de dialogue universel ouvert à tous en transcrivant la Déclaration Universelle des droits de l’Homme en Braille, code tactile universel qui résout les barrières linguistiques et propose une forme tangible qui permet de dépasser les limites visuelles. La «capacité diminuée» de l’aveugle est ici dépassée par un contact sensoriel avec la réalité qui nous entoure, et par le partage de ce qu’il y a d’essentiel dans notre humanité commune. De même, l’exposition pointe du doigt la «capacité diminuée» de pays africains faisant face à des problématiques complexes comme l’épuisement des ressources et leur gestion, la migration, les changements globaux à petite et grande échelle, ouvrant cependant une fenêtre sur les multiples possibilités d’amplification de cette capacité en fonction du regard qu’on lui porte. L’artiste invite ainsi son public à aller au-delà de ses représentations et à expérimenter l’espace de manière sensorielle, à en découvrir les multiples applications afin de permettre l’évolution de la représentation en transformant l’espace même. C’est ce qui se produit lorsque l’on appréhende le «Teatro dell’Archivio», une véritable bibliothèque circulaire extraite de la série «Opera Domestica» à laquelle l’artiste nigérian a travaillé pendant plus de dix ans. Comme les autres éléments de la série, le «Teatro dell’Archivio» constitue un objet qui condense en soi toutes les propriétés de la pièce d’une maison, en l’occurrence la bibliothèque avec ses étagères, un siège où l’on peut s’assoir pour lire les divers livres éparpillés autour. Le visiteur peut en faire le tour, saisir du regard cet espace au lieu d’entrer à l’intérieur. C’est donc en mettant l’espace sens dessus-dessous que le Nigéria est entré à la Biennale de Venise. L’installation d’Ola-Dele Kuku instaure un langage tangible et sensible qui réinvente l’espace commun et renverse normes d’un formalisme figé, dans une volonté de délivrer le continent africain de représentations historiques rigides et erronées. Un début éclatant qui promet des développements passionnants. Flore Thoreau La Salle NOTE 1 - Déclaration reportée dans le Communiqué de Presse de l’exposition. Nous traduisons. 87 EVENTI Designing Futures. Il 26° Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina di Milano American Beauty_ReMixing Hollywood by Omar Victoro Diop from LagosPhoto Festival 2015 (particolare). D esigning Futures è stato il tema generante del 26° Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina di Milano (www.festivaldelcinemaafricano. org) che dal 4 al 10 aprile 2016 ha presentato, oltre alla selezione cinematografica, la mostra Designing Africa 3.0, un’ampia selezione di fotografie dalla VI edizione del Lagos Photo Festival (http://www. lagosphotofestival.com). Questo Festival nigeriano, fondato e diretto da Azu 88 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP Nwagbogu e organizzato dalla African Artists’ Foundation, dal 2010 si propone, creando sinergie tra artisti locali ed internazionali, come piattaforma africana per la promozione e l’educazione alle arti visuali. La mostra, curata da Azu Nwagbogu e Martina Olivetti, ha offerto un percorso articolato e pensato per riconsiderare il significato del design, inteso non più solo come oggetto ma soprattutto come atto per ridisegnare il mondo attraverso i linguaggi artistici della contemporaneità. Il cinema è stato grande protagonista nell’opera esposta con la serie [re-]Mixing Hollywood di Omar Victor Diop e Antoine Tempé (http://www. remixing-hollywood.com/) e il progetto The Plantation Boy (http://theplantationboy.blogspot.it). [re-]Mixing Hollywood ha presentato la rivisitazione fotografica di scene cult di film americani ed europei che hanno fatto la storia del cinema: da Colazione da Tiffany, passando per American Beauty, Flashdance, Shining, Blow Up, Thelma e Louise, per citare le foto presenti a Milano. Scene che appartengono all’immaginario collettivo universale, ricostruite negli spazi degli OMONO Hotel di Dakar e Abidjan e reinterpretate da protagonisti della scena culturale delle due città. La metropoli e l’hotel, spazi naturalmente cinematografici e luoghi privilegiati dell’incontro e della reinvenzione della memoria e della contemporaneità, accolgono un ironico, anche se leggermente didascalico, esercizio di traduzione culturale che ribalta, in un gioco di specchi lo sguardo sul cinema e sull’Africa. Un meccanismo simile sottende al lavoro The Plantation Boy di Uche Okpa-Iroha, artista visuale nigeriano che, attraverso 40 fotografie in un raffinato bianco e nero, si reinventa ironico protagonista del film Il Padrino-Parte 1. Un tributo, ma anche uno studio sull’influenza del cinema sull’individuo e la società e sul concetto di “estraneo”, “altro”, “straniero”. Inserendo un ritratto di se stesso all’interno delle foto di scena del film, l’artista crea una distrazione/distorsione, spostando l’attenzione sull’artista, lo “straniero/l’altro” appunto. Un processo che modifica, almeno illusoriamente, l’azione e i dialoghi del film e quindi il flusso cinematografico. Interessante riflessione sul concetto di design, inteso come oggetto che modifica il mondo e la memoria delle persone è Unomgcana di Nobukho Nqaba, una serie di fotografie ispirate alle borse di plastica made in China, diventate simboli globali di migrazioni. Borse che nelle foto della giovane artista sudafricana si declinano in case, spazi di sopravvivenza e diventano riflessione sul proprio passato personale. Un rapporto di amore e odio con un oggetto con la quale la stessa fotografa è cresciuta. Oltre a questi progetti, la mostra, corredata da catalogo, ha proposto riflessioni che spaziano dalla moda alla guerra dall’Apartheid al razzismo attraverso il lavoro di fotografi attivi in tutto il continente (dal Sudafrica: Andile Buka, Chris Saunders; dalla Nigeria: Ima Mfon, Kadara Enyeasi, William Ukoh; dalla Francia: François Beaurain; dall’Egitto: Owise Abuzaid; dalla Repubblica Democratica del Congo: Patrick Selemani; dal Marocco: Mehdi Sefrioui). Riguardo alla selezione cinematografica, come sempre di alto livello, segnaliamo la rassegna Designing Futures, che ha presentato in anteprima italiana film sui movimenti rivoluzionari politici, sociali e artistici dell’Africa contemporanea, dando voce alle nuove generazioni. Continua così anno dopo anno il diario cinematografico di un continente molto visionario che regala capolavori come Madame Courage di Merzak Allouache e We’ve never been kids di Mahmood Soliman, meritati premi ex aequo, ma anche incursioni sperimentali che, come il cortometraggio My window di Bahaa el Gamal, raccontano con parole, immagini e musica lo sconvolgimento del futuro. Simona Cella EVENTI Coraggio e libertà: il Biografilm Festival va oltre i confini “T he brand new world - Raccontare la civiltà digitale”: questo il tema della XII edizione del Biografilm Festival – International celebration of lives, che da anni porta nelle sale cinematografiche di Bologna racconti di vita. In 10 giorni sono stati 100 gli ospiti nazionali e internazionali, 89 i film, di cui 26 anteprime europee e 21 anteprime mondiali, 17 sono state le opere prime e 10 i film in concorso. Al centro della rassegna la narrazione di quanto le nostre esistenze siano cambiate con l’avvento del digitale e di come ognuno sia diventato oltre che fruitore anche dispensatore di notizie. Ma non solo. In contrapposizione alla mancanza di confini che caratterizza il mondo di Internet, è stata posta l’attualissima persistenza nel mondo reale Un’immagine tratta da Sonita, di Rokhsareh Ghaem Maghami, 2016. di confini innalzati dagli uomini: a volte si tratta di limiti reali e territoriali, altre volte di barriere teoriche o semplicemente convenzionali o culturali. In questo scenario si collocano le pellicole che hanno raccontato alcune coraggiose storie di migranti, intrappolati nelle maglie di queste assurde barriere. Tra questi il documentario della regista tedesca Susanne Regina Meures Raving Iran, il cui sottotitolo potrebbe essere “la musica rende liberi”. I protagonisti Anoosh e Arash, infatti, sono due dj iraniani che hanno avuto l’ardire di trasgredire alle regole dello Stato e dell’Islam che, attraverso la polizia morale e religiosa, proibiscono di ascoltare e ballare qualsiasi tipo di musica che non sia quella classica e tradizionale. 89 EVENTI A fianco: un’immagine tratta da Raving Iran di Susanne Regina Meures, 2016. La “diabolica” musica occidentale, in questo caso la techno-house, diventa per i due musicisti il mezzo per gridare e affermare la propria libertà e la propria identità: la regista, grazie a piccole videocamere e all’iPhone che è riuscita a portarsi in Iran e grazie ai due ragazzi che hanno acconsentito a nascondere sotto i propri vestiti i cellulari necessari a registrare i dialoghi nei vari uffici, ha documentato vicende che noi occidentali stentiamo a credere. Non poter ascoltare musica house, non poter incidere CD, né tantomeno venderli, non poter ballare la techno: impossibilitati a cambiare le cose da dentro, Anoosh e Arash trovano un escamotage per raggiungere l’Europa. Pur obbligandoli a diventare “clandestini”, questa fuga si rivela (per ora) l’unica via per poter realizzare il proprio sogno e per poter affermare la propria identità. Altrettanto coraggioso The Black Sheep, il racconto intimo e profondo che il regista Antonio Martino fa di Ausman, la pecora nera a cui allude il titolo, un ragazzo libico cresciuto secondo i precetti del Libro Verde, durante la dittatura di Gheddafi. Ateo e fermamente convinto del suo diritto (in realtà negato nella quotidianità) di poter manifestare le proprie idee, Ausman va in cerca della propria libertà lontano dal suo 90 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP Paese, prima in Marocco e poi a New York, dove per la prima volta si trova libero di esprimere i propri ideali. Allo scoppio della rivoluzione in Libia nel 2011, animato dall’entusiasmo di poter contribuire finalmente al cambiamento e alla liberazione del suo Paese, decide di rientrare a casa. Purtroppo le speranze di Ausman cadono come le macerie di un Paese distrutto, come i sogni di una intera generazione delusa da una rivoluzione che non ha portato i cambiamenti sperati, ma ha dato spazio a fondamentalismo e intolleranza verso il pensiero libero. Seguendo da vicino le vicende del suo protagonista e rischiando a ogni immagine ripresa di dare fastidio a chi non vuole che queste scomode verità vengano portate alla luce, il regista in maniera delicata ed empatica racconta quali sono i motivi concreti che spingono gli individui a fare scelte di fuga e quanto queste possano essere dolorose, pur nella loro necessità. Sì perché, ormai rassegnato, Ausman decide di lasciare di nuovo il suo Paese. Shu Aiello e Catherine Catella ci portano invece in Italia, a Riace, per un altro racconto di gente che va e gente che viene. Un paese di Calabria racconta di questo paesino che, dalla sua posizione pri- vilegiata, aggrappata alle rocce delle montagne, da sempre ha visto arrivare gente dal mare, dai Greci ai Mori, ai Kurdi nel 1998 ai barconi partiti dalla Libia degli ultimi anni. Rimasto quasi disabitato in seguito alle massicce migrazioni del dopoguerra, quando i giovani seguivano il sogno di un futuro migliore verso Nord o oltreoceano, negli ultimi 25 anni ha visto la sua popolazione passare da 900 abitanti a 2.100. E questo grazie a un’amministrazione comunale che (oltre a erigersi contro la malavita organizzata) ha aperto le porte all’accoglienza di richiedenti asilo. Così Riace si è ripopolata – oggi vivono e lavorano 400 rifugiati – mentre l’anestetizzata economia sta piano piano tornando a girare. Il documentario segue meticolosamente da vicino tutti i suoi protagonisti, nell’intimità dei momenti che scandiscono l’anno: dalle feste di paese al lavoro quotidiano. E ci mostra una realtà dove l’integrazione sembra paragonabile a quando si toglie sabbia in un punto sulla spiaggia e altra sabbia riempie con naturalezza e immediatezza il buco creato. Infine c’è Sonita: la regista iraniana Rokhsareh Ghaem Maghami racconta la storia di Sonita Alizadeh, una ragazza afgana di diciotto anni che sogna di diventare rapper. A 8 anni fugge alla guerra in Afghanistan e si stabilisce con la famiglia a Tehran, in Iran: profuga, senza documenti e senza nessun diritto all’istruzione, Sonita inizia a frequentare un’associazione che, tra le varie cose, la avvicina al mondo della musica. E la ragazza si innamora del rap: “Il rap consente di raccontare la tua storia ad altre persone. È una piattaforma per condividere le parole che sono nel mio cuore” dice Sonita in un’intervista. Grazie ai social media e al suo spiccato talento la sua musica (e la sua storia) fa il giro del mondo: riesce a fuggire a un matrimonio combinato e ora vive e studia negli Stati Uniti presso l’accademia d’arte Wasatch. Elisabetta Degli Esposti Merli EVENTI Formazione dei rifugiati nell’artigianato per la moda Il polo formativo e di accoglienza di Lama di Reno (BO). © Giovanni Zati L’ accoglienza dei richiedenti asilo avviene, in seguito alla Conferenza Stato-Regioni-Enti locali di luglio 2014, secondo un modello di distribuzione regionale dei migranti nei territori di tutta la penisola, in Centri di Accoglienza Straordinari. Realizzata attraverso l’affidamento al privato sociale, essa prevede la fornitura di servizi di base come vitto, alloggio, abbigliamento e pocket money, insegnamento dell’italiano L2 e assistenza alla presentazione della domanda di asilo. Diversi enti gestori si attivano per offrire anche orientamento lavorativo e tutto quello che può favorire l’autonomia e l’integrazione del migrante nella società. Non è un obiettivo facile e diversi sono i problemi: le piccole comunità locali a volte si mostrano timorose se non ostili, anche perché la crisi spinge persone in difficoltà – e persone che in difficoltà non lo sono per nulla – a provare rabbia nei confronti dei “poveri” stranieri che verrebbero a rubare risorse ai “poveri” italiani. Tra i vari progetti, un modello che si sta sperimentando in provincia di Bologna si distingue dagli altri per il fatto di unire nello stesso luogo l’accoglienza e la formazione ad attività produttive e di tenere in conto anche il problema dei rientri nei Paesi di origine. Il 16 luglio 2016 è stato aperto nella frazione di Lama di Reno a Marzabotto, in Provincia di Bologna, un “Polo sperimentale di formazione e accoglienza” promosso dalla cooperativa Lai-momo e da Ethical Fashion Initiative (EFI), un programma dell’agenzia delle Nazioni Unite “International Trade Centre”. Il progetto è nato per offrire un’opportunità di formazione laboratoriale nel settore della moda (in particolare lavorazione della pelle per la confezione di borse e accessori) a un gruppo di richiedenti asilo già accolti presso diverse strutture dell’area metropolitana bolognese, e selezionati in base a competenze pregresse e motivazione. L’idea è di avviare un’esperienza formativa e produttiva, integrando ai servizi di accoglienza percorsi di qualificazione professionale e occasioni di impiego, in Italia e, in caso di volontà o necessità del rientro, nei Paesi di origine, dove il programma delle Nazioni Unite ha in corso differenti produzioni per il settore della moda etica. EFI, infatti, a partire dal 2009 porta grandi stilisti internazionali, come Vivienne Westwood, Stella McCartney e Stella Jean, ma anche marchi come Camper e MIMCO, a produrre parte delle loro collezioni in Africa e ad Haiti. Il progetto garantisce standard di lavoro etici in tutta la filiera lavorativa, che impiega principalmente donne. Attraverso il proprio lavoro e i salari giusti ricevuti, le lavoratrici e i lavoratori hanno la possibilità di accedere al sistema sanitario nazionale e di garantire l’accesso all’istruzione ai propri figli. La collaborazione tra Ethical Fashion Initiative e Lai-momo ha avuto inizio nel gennaio di quest’anno con Generation Africa: nella cornice di Pitti Immagine Uomo, iniziativa di riferimento per il mondo della moda, sono state presentate le creazioni di quattro stilisti africani e, tra gli indossatori professionisti, 91 EVENTI In breve “Summer School on Forced Migration: a Multidisciplinary Approach”, Bologna 11th-17th 2016 D F al 11 al 17 luglio si è tenuta a Bologna presso il Centro Interculturale Zonarelli la prima edizione della Summer School multidisciplinare sulle migrazioni forzate, organizzata da Africa e Mediterraneo e Lai-momo con il supporto di BMW Italia e della Fondazione del Monte. La Summer School si è svolta con lezioni frontali, seminari partecipati e visite guidate ad alcuni centri di accoglienza straordinaria (CAS) e all’Hub dell’Emilia-Romagna, dove i cinquantadue partecipanti (selezionati tra 126 application ricevute) – ricercatori, lavoratori di ONG e di istituzioni internazionali provenienti da tutto il mondo, tra cui gli Stati Uniti, il Giappone, la Germania, Malta, la Francia – hanno avuto l’opportunità di fare esperienza diretta dei centri di accoglienza per richiedenti asilo in Italia e discutere di questioni pratiche e legali con gli operatori che lavorano nei centri. I seminari proposti all’interno del programma della scuola estiva, tenuti da ricercatori ed esperti internazionali del settore delle migrazioni forzate, hanno seguito un impianto multidisciplinare che varia dalla storia e geopolitica delle migrazioni forzate alla psicologia, dal diritto internazionale del mare al giornalismo etico. rom July 11th to July 17th Lai-momo and Africa e Mediterraneo organized the first edition of the International Summer School on Forced Migration, which was held at the Intercultural Centre Zonarelli in Bologna with the support of BMW Italia and Fondazione del Monte. The school, based on a multidisciplinary and comprehensive approach, included participative seminars and field-visits to emergency receptions centres and the Emilia-Romagna Regional Hub, where the fifty-two attendants – researchers, NGOs and International organizations’ practitioners from all over the world, such as the USA, Japan, Germany, Malta and France – had the chance to get first-hand experiences of reception of asylum seekers in Italy and discuss practical and legal issues with the social workers who run the facilities. The multidisciplinary approach was reflected on the sixteen seminars held by well-known international professors, practitioners and experts from the field of forced migration, and ranging from history and geopolitics of forced migration to psychology of trauma, from maritime law to ethical communication of forced migration. Per informazioni riguardo all’edizione 2016 della Summer School: m.meloni@africaemediterraneo.it www.migrationschool.eu For information about the 2016 Summer School: m.meloni@africaemediterraneo.it www.migrationschool.eu 92 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP sfilavano 3 richiedenti asilo “bolognesi” selezionati con un casting in base all’altezza e all’aspetto fisico. In questa occasione il progetto è stato presentato alla stampa” nazionale ed internazionale, con una risonanza notevole. Grazie alla filiera costruita da EFI in Africa, alle persone che sceglieranno di rientrare nei loro Paesi a causa del diniego alla richiesta di protezione internazionale le persone potranno fare rientro in patria con una formazione acquisita e un sostegno alla creazione di una micro impresa. Andrea Marchesini Reggiani, Presidente di Coop. Lai-momo, ha affermato durante l’inaugurazione: “Non è un progetto facile, perché ha una componente di innovazione molto forte. Noi, intanto, abbiamo investito e lavorato perché oggi si potesse aprire: vorremmo davvero che si creassero occasioni di incontro con la comunità locale e per questo proponiamo di realizzare attività di socializzazione con i cittadini e di volontariato per la manutenzione del territorio.” Il borgo di Lama di Reno, in cui si trova il centro, ha perso molti posti di lavoro in seguito alla chiusura di una grande cartiera. Il nuovo centro formativo e produttivo, abitato da persone provenienti da altre parti del mondo, potrebbe contribuire alla riqualificazione della frazione di Marzabotto che si trova tra il fiume Reno e le colline che, dopo l’8 settembre 1943, hanno visto uomini e donne attivi contro l’occupazione nazista e che mantiene ancora fortissima la memoria delle sofferenze subite in particolare con la Strage di Monte Sole. A luglio il primo gruppo di ospiti si è trasferito nella struttura di accoglienza: si tratta di persone provenienti da Pakistan, Senegal, Bangladesh, Guinea, Burkina Faso e di età compresa tra i 19 e i 30 anni, e sono già iniziate le attività di laboratorio formativo, con un maestro artigiano e con macchine per la lavorazione della pelle appositamente acquistate per il progetto. “L’Africa è un continente popolato da giovani, e i giovani, che guardano al futuro, non potranno essere fermati da nessun muro, mare o politica migratoria se non si creeranno le condizioni perché essi stessi possano costruire un futuro dignitoso”, ha affermato Simone Cipriani, direttore di Ethical Fashion Initiative. EVENTI Accoglienza, sport e buone pratiche: la campagna 2016 di Bologna cares! Illustrazione tratta dal video di animazione della campagna Bologna cares! 2016, realizzato da Bloomik e Lai-momo coop. sociale. cares! bologna “A ccoglienza: una scelta positiva!”, questo il claim del video di animazione realizzato da Bloomik e Lai-momo per l’edizione 2016 di Bologna cares!, la campagna di comunicazione del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR) del Comune di Bologna. Abdou ed Emilia sono i protagonisti: lui è un richiedente asilo maliano, lei una zdaura (termine che nel dialetto bolognese si riferisce alla massaia, alla casalinga, la “reggitora” del focolare domestico). Emilia ci racconta la storia di Abdou dopo il suo sbarco in Italia (il ragazzo rappresenta uno dei tanti richiedenti asilo che arrivano sulle nostre coste ammassati nei barconi che salpano dal Nord Africa): in realtà la signora illustra due “opzioni” della storia di Abdou, ovvero come poteva andare e come è andata realmente. Nel primo caso lo scenario è piuttosto negativo, poiché rappresenta un conte- sto dove il sistema di accoglienza non c’è (o non funziona). Nel secondo, invece, la storia di Abdou segue un percorso molto più positivo, grazie all’assistenza legale e sanitaria, all’insegnamento della lingua e all’inserimento lavorativo che gli vengono offerti. In casi come questo si hanno ricadute positive sull’intera società, sia per chi accoglie che per chi è accolto. Un esempio di questo “effetto positivo” possiamo ritrovarlo anche nel mondo dello sport: tra le varie iniziative del progetto SPRAR del Comune di Bologna è prevista la collaborazione con realtà sportive del territorio, finalizzata al coinvolgimento dei beneficiari in attività di volontariato, culturali e sportive. Lo sport è promosso, quindi, quale sostegno ai percorsi di inserimento nel tessuto sociale bolognese. Nei mesi di gennaio e febbraio è stata condotta una mappatura delle attività sportive praticate degli ospiti di alcune strutture di accoglienza a Bologna: quanti beneficiari, quali gli sport più praticati, quale il coinvolgimento con le realtà associative (per i dati esatti si veda l’infografica a pagina 55). Una volta raccolte queste informazioni sono stati realizzati due video che raccontano alcune esperienze segnalate dall’indagine. Ahmed e Oumar sono i protagonisti di Pregiudizi al tappeto: il primo pratica boxe, il secondo thai boxe. Entrambi si allenano presso la Palestrina Popolare di Bologna, un luogo autogestito, popolare e aperto a chiunque voglia praticare uno sport: qui i due richiedenti asilo hanno stretto relazioni e hanno potuto dedicarsi alla loro passione. In Calcio d’inizio le telecamere hanno seguito la Papa Giovanni Football Club, una squadra di calcio composta da richiedenti asilo ospiti in una struttura di accoglienza in provincia di Bologna. La squadra è nata grazie a un operatore che ha stimolato i ragazzi ad autorganizzarsi per giocare in maniera strutturata e partecipare anche a piccoli tornei. Tra questi i Mondiali Antirazzisti, che da 20 anni richiamano da tutta Europa appassionati di calcio, migranti, tifoserie e tutti coloro che attraverso lo sport vogliono lanciare un messaggio chiaro e deciso contro ogni forma di discriminazione. Tutti i video sono visibili sul canale youtube di Bologna cares! o nella sezione “download” sul sito della campagna stessa. Per maggiori informazioni sulla campagna: www.bolognacares.it www.facebook.com/Bolognacares 93 EVENTI Sport, integrazione e diritti umani al cinema L o sport nel cinema è sempre stato un’occasione per raccontare storie di superamento personale, lealtà, gloria nazionale (ricordiamo fra tutti il memorabile Momenti di Gloria, reso immortale anche dall’insuperabile colonna sonora) ma anche di solidarietà e diritti umani (bellissima la ricostruzione di Clint Eastwood su come Mandela utilizzò la nazionale di rugby per unificare un Sudafrica profondamente diviso, in Invictus). Lo sport, nella realtà, è sempre stato fonte di storie eccezionali, di individui ma soprattutto di comunità, per la capacità di mettere in gioco l’essere umano e il suo senso di appartenenza a un gruppo e ai suoi valori. Il cinema documentario, che da questa realtà prende spunto, non è stato da meno. Per questo abbiamo deciso di dedicare una giornata del Terra di Tutti Film Festival, rassegna bolognese organizzata da GVC e COSPE,1 che in ottobre 2016 terrà la sua decima edizione, proprio allo sport, raccontato dal punto di vista del Sud del mondo. L’obiettivo, perseguito ormai da 10 anni dal nostro festival, è di aprire finestre diverse legate alla solidarietà e ai diritti umani. Proietteremo il documentario del Bologna FC, girato in Ghana, Godfred, che racconta la storia del centrocampista rossoblù Godfred Donsah, arrivato dal Ghana ai campi della serie A. Nel video Godfred torna in Ghana, e a parlarci di lui è la sua famiglia, a partire da suo padre arrivato a Lampedusa su un barcone passando per il deserto in Libia. Una storia comune ad altri giocatori africani, raccontata in prima persona e fra la sua gente (la citazione finale recita «Lontano da casa un uomo è stimato per come appare, a casa è stimato per ciò che è»), rivelando i propri luoghi, la famiglia, le usanze della sua terra. Sempre riguardo al calcio, ci spostiamo in Marocco, con Tangeri Goal di Juan Gautier, che tra fiction e realtà narra la storia delle “Gazzelle dello stretto”, la 94 "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP GVC: SPORT E SOLIDARIETÀ INTERNAZIONALE GVC, Gruppo di Volontariato Civile, che da più di 40 anni lavora in Italia e nel mondo, partendo da Bologna, crede fortemente che sia possibile coniugare sport e solidarietà. Per questo partecipa e sostiene diverse iniziative. Da oltre 14 anni grazie alla Polisportiva Lame di Bologna organizza un torneo di calcetto “Un bambino che gioca vince sempre”, in cui i bambini che scendono in campo vincono tutti, e insieme al premio viene spiegata loro l’importanza dello sport per la solidarietà. Sempre in Emilia-Romagna, ogni anno il distretto delle ceramiche di Scandiano organizza un torneo per bambini e ragazzi: quest’anno si svolgerà il 10 e l’11 settembre, a sostegno dei bambini siriani in fuga dalla guerra, assistiti da GVC nel campo rifugiati in Libano nella valle della Beqaa. Infine, nel 2013, lo staff di GVC in Palestina ha organizzato in Area C, nei territori occupati, nel villaggio di Dkaika, posto sulle colline a sud di Hebron, poco fuori la Firing Zone 918, una partita in collaborazione con la Palestinian Association of Sport for All, in cui europei (cooperanti, diplomatici e rappresentanti dell’UE) si sono scontrati con rappresentanti dell’Autorità Palestinese (fra cui l’allora ministro della Cultura, Anwar Abu Eishe), giornalisti palestinesi e residenti delle colline a Sud di Hebron. Con l’obiettivo ben preciso di portare sul posto, minacciato dalle politiche di trasferimento forzato del governo di Tel Aviv, attivisti internazionali, giornalisti, membri del governo. squadra di calcio femminile nata a Birchifa, un quartiere periferico di Tangeri, che sogna di giocare contro l’Atletico di Madrid Feminas. Qui si aggiunge la tematica di genere, che tocca uno sport, il calcio, e un paese, il Marocco, che avrebbero entrambi molto bisogno di fare progressi in questo ambito. In concorso avremo anche altri documentari, sulla boxe e ancora sul calcio, sempre provenienti dal Sud del mondo, dove lo sport non è solo passione o un modo per tenersi in forma, ma può essere una possibilità di salvezza da un destino spesso purtroppo già segnato. NOTE 1 - COSPE ONLUS è attiva nella lotta contro le discriminazioni e fortemente impegnata nel campo dell’antirazzismo, anche nello sport, sia in Italia che in oltre 30 Paesi del mondo. Negli ultimi anni ha portato avanti la campagna di informazione “Mettiamo il razzismo in fuori gioco” in collaborazione con il Consiglio degli Stranieri del Comune di Firenze inaugurata durante il Torneo di Viareggio - Coppa Carnevale per sensibilizzare la pubblica opinione e combattere i fenomeni di razzismo e discriminazione nel mondo del calcio. La campagna, inserita all’interno dell’iniziativa europea “Stand Up Speak Up” contro il razzismo nel mondo del calcio, si è sviluppata anche attraverso il coinvolgimento delle emittenti toscane Radio Blu, ControRa- Marina Mantini dio, Novaradio e Radio Toscana Network. LIBRI Le affascinanti pratiche del vestire in Africa African Power Dressing: il corpo in gioco A CURA DI GIOVANNA PARODI DA PASSANO GENOVA UNIVERSITY PRESS GENOVA 2015 PP. 240 I l volume recentemente curato da Giovanna Parodi da Passano, African Power Dressing (Genova University Press 2015), affronta il fenomeno affascinante dell’abbigliamento, dimensione fondamentale della vita culturale su cui l’antropologia si è forse troppo poco soffermata. Già nel 1981 Ernesta Cerulli aveva dedicato a questo tema un volume, Vestirsi, spogliarsi, travestirsi (Sellerio), in cui delineava – grazie all’analisi di un repertorio etnografico vasto quanto variegato – il senso di una pratica sociale uni- versale dotata di potenti funzioni comunicative. In effetti, le parole con cui Cerulli chiudeva il suo saggio ci introducono al percorso con il quale Parodi riprende e rinnova l’interesse per il vestirsi: «Il messaggio dell’abbigliamento emerge con particolare chiarezza, pur nelle infinite varianti […]: strumento di comunicazione leggibile e al tempo stesso ermetico; protettivo ed elusivo; identificante e ingannevole; estremamente mutevole e culturalmente determinato» (1981, 170). E se negli anni Ottanta del secolo scorso, la funzione dell’abbigliamento nelle culture allora denominate “di interesse antropologico” appariva soppiantata dall’imposizione degli stracci e dei cenci con cui gli europei avevano rivestito le nudità degli altri, oggi la situazione appare molto diversa. L’Africa contemporanea, su cui il volume di Parodi si concentra, si sta infatti riappropriando di un’antica capacità di vestirsi, adornarsi e rappresentarsi, fondata su un’estetica del corpo tra le più raffinate. Oggi il Power dressing, il potere del vestirsi, ci appare dunque lo specchio di una ritrovata agentività africana. Come sottolinea Ivan Bargna nel suo contributo, il vestirsi è in primo luogo una pratica estetica nel senso etimologico del termine, cioè un modo per dare al corpo una forma e uno stile immediatamente percepibili allo sguardo altrui. Una forma di comu- nicazione eminentemente visiva, come testimoniato dalle numerose splendide immagini che corredano il volume. Utilizzando il concetto gibsoniano di affordance (Gibson 1979, ripreso in Ingold 2000), Bargna vede nell’abito un elemento fondamentale nel processo di costruzione dell’immagine di sé all’interno dell’ambiente naturale e sociale. Un processo per sua natura dinamico e interattivo, basato sulla posizione e sul ruolo che ciascuno di volta in volta assume nell’ambito delle relazioni sociali. Il vestirsi è uno dei molteplici dispositivi con cui le culture danno forma ai corpi, contribuendo a costruire la persona secondo specifiche “mode antropo-poietiche” (Remotti 2000): l’abito fa parte di quegli oggetti esterni (insieme a calzature, copricapi, maschere, gioielli, ecc.) che si possono indossare e poi rimuovere, a differenza di altre pratiche estetiche maggiormente invasive e irreversibili come il tatuaggio, la scarificazione o la modificazione di parti del corpo. I vestiti e i tessuti sono stati in primo luogo considerati dall’antropologia come oggetti da museo, da collezionare, studiare ed esibire in quanto esempi di rappresentazioni culturali. African power dressing adotta tuttavia una prospettiva diversa considerando il vestirsi come un elemento della costruzione della persona che muta secondo specifici modelli storico-culturali. L’abito è dunque visto come un attributo del corpo in azione e in quanto tale può assumere svariati significati. Diversi saggi del libro descrivono il vestirsi come un atto politico. Mariano Pavanello indaga la società degli Nzema del Ghana, dove i capi e gli anziani utilizzano abiti particolarmente sfarzosi per marcare ed esibire il loro status, dando vita a una vera e propria messa in scena teatrale del potere. Il “ritorno dei re” (Perrault, Fauvelle-Aymar 1999), registrato in numerose società africane, è in effetti spesso accompagnato da una ritrovata attenzione al corpo del sovrano, che riveste importanti significati simbolici veicolati dall’abbigliamento. Gli abiti cerimoniali vengono utilizzati per conferire alla persona del capo un potere che è allo stesso tempo politico e mistico. Analogamente in molte religioni africane gli abiti rituali, nel momento in cui vengono indossati, conferiscono al corpo di sacerdoti, medium e posseduti l’identità dello spirito che dimora in loro. Come osserva Alessandra Brivio a proposito del vodu praticato nelle aree costiere di Togo e Benin, il corpo del posseduto necessita di una trasformazione estetica che si ottiene anche attraverso i costumi indossati. Il vestito possiede dunque il potere di trasformare l’identità della persona agendo sul suo corpo, sulla percezione che il soggetto e la comunità hanno di esso. In questo senso l’abito possiede una sua propria agentività, particolarmente evidente nei contesti rituali e religiosi. Più in generale, l’atto di vestirsi svolge una funzione fondamentale nei processi di costruzione identitaria sia a livello culturale sia a livello individuale. Nella gran parte delle società le fasi del ciclo di vita, i gradi di età, il genere, lo status 95 LIBRI trovano espressione in specifici modelli di abbigliamento. Tuttavia sarebbe riduttivo pensare che gli abiti si adattino semplicemente ai cambiamenti esistenziali. Essi mostrano piuttosto una funzione attivamente trasformativa, che emerge con chiarezza all’interno dei riti di passaggio e più precisamente dei riti puberali. In essi i novizi vivono spesso in condizione di nudità, oppure si travestono assumendo fattezze animali o invertendo le loro caratteristiche di genere e di status. In questo modo preparano il futuro cambiamento di status che modificherà anche la loro immagine. L’atto di vestirsi, insieme agli altri dispositivi simbolici e rituali previsti in queste occasioni, non si limita dunque ad accompagnare la transizione ma contribuisce a crearla. Bisogna però sottolineare come sia sempre possibile cambiare d’abito, mutando in questo modo il proprio look, la propria posizione sociale e in una certa misura la propria identità. I riti forniscono spesso occasioni di travestimento che utilizzano maschere e costumi per trasformare momentaneamente l’identità quotidiana in qualcos’altro. Ma anche al di fuori dal contesto rituale, l’abbigliamento consente di costruire creativamente identità multiple che possono ispirarsi a una molteplicità di modelli. A questo proposito alcuni dei saggi raccolti nel volume partono dall’analisi delle funzioni culturali dell’abito per approdare alla considerazione delle dinamiche globali e transculturali che spesso determinano le pratiche del corpo. Richiamando i lavori di Jean Loup Amselle (1990, 2001), 96 nell’introduzione si sottolinea come l’Africa abbia conosciuto forme antiche di globalizzazione, fondate sulla presenza di spazi di scambio di natura economica, politica, linguistica e religiosa, che hanno contribuito ad arricchire le culture locali e i loro modelli estetici. La varietà delle fogge dei vestiti e dei materiali subì poi un impoverimento, con l’imposizione degli abiti occidentali conseguente alla conquista coloniale. Oggi, come si è detto, l’abbigliamento torna a essere oggetto di scelte creative, liberamente ispirate a modelli eterogenei. Letizia Cassina, nel suo saggio dedicato alla storia dell’abbigliamento nel regno del Buganda, mostra come uomini e donne scelgano un abbigliamento “tradizionale”, “africano” oppure “occidentale” a seconda delle circostanze, laddove il richiamo alla tradizione fa riferimento in primo luogo al rispetto dei locali modelli di genere che nell’abito trovano un’espressione fondamentale. Così la concezione di femminilità viene ribadita indossando il gomesi, stretto abito fasciante che rispecchia l’esigenza di proteggere un corpo femminile disponibile a scoprirsi soltanto nell’intimità della vita matrimoniale. Accanto al gomesi, però, le donne ganda attingono liberamente ad altri modelli: il kikoy, versione locale del pagne realizzato utilizzando i tessuti di cotone stampato di cui tratta l’articolo di Parodi, oppure i jeans, i pantaloni e le minigonne di foggia europea. Gli abiti sono dunque al centro dei processi di globalizzazione, come mostra anche il saggio di Monica "GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP Blackmun Visonà sulla diffusione dei cappelli a cilindro in Africa occidentale. Prodotti in Italia, negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Francia questi copricapi vennero esportati in Africa alla fine del XIX secolo. Qui si trasformarono in oggetti di prestigio, sorta di elmetti capaci di conferire particolari doti militari a coloro che li indossavano. In questo esempio ritroviamo ancora una volta la caratteristica capacità degli abiti di favorire l’embodiment di ruoli, funzioni e poteri (mistici, politici o militari), creando e consolidando identità. In questo senso l’abito può essere in definitiva considerato alla stregua di un atto “performativo” che, dando forma al corpo, produce significativi cambiamenti nello status della persona inserendosi al tempo stesso nei flussi comunicativi che attraversano le società nella dimensione globale. Cecilia Pennacini BIBLIOGRAFIA J. L. Amselle, Logiques métisses. Anthropologie de l’identité en Afrique et ailleurs, Payot, Paris 1990 J. L. Amselle, Branchements. Anthropologie de l’universalité des cultures, Flammarion, Paris 2001 E. Cerulli, Vestirsi, spogliarsi, travestirsi, Sellerio, Palermo 1981 J. Gibson, The ecological approach to visual perception, Houghton Mifflin, Boston 1979 T. Ingold, The perception of the environment: essays on livelihood, dwelling and skill, Routledge, London 2000 C. H. Perrault, F. X. Fauvelle-Aymar, Le retour des rois, Karthala, Paris 1999 F. Remotti, Prima lezione di an- Carta e colori per richiedenti asilo D’ici jusque là-bas – Van hier tot daar. Dessins de réfugiés en Belgique TESTI DI PHILIPPE VAN CAUTEREN, RUDI VRANCKX E PHILIPPE VANDEKERCKHOVE SMAK E MERCATORFONDS GENT 2016, PP. 208 L o staff del museo SMAK ha preso carta e matite e li hanno portati nei centri di accoglienza Maximilian Park, Poelkapelle, Sijsele, Koksijde, Leopoldsburg e Holsbeek, invitando gli ospiti a disegnare. I risultati sono sorprendenti e delicati, a volte leggermente cupi, ma soprattutto rappresentativi di una particolare e difficile realtà. Guerre, viaggi in mare, pericoli, rischi e dolore: questi i soggetti maggiormente rappresentati, ma anche il calcio, la natura e qualche momento di felicità. Con questo libro SMAK spera di contribuire a sensibilizzare sull’asilo e sul modo in cui nel nostro immaginario si forma la rappresentazione dei rifugiati. I ricavati della vendita del libro sono destinati alla Croce Rossa, per lo sviluppo di progetti artistici nei centri di accoglienza. tropologia, Laterza, Roma-Bari 2000 E. D. E. M. Elenco dei numeri arretrati 1/92 (1): Prospettiva sul Maghreb 2/92 (2): Democrazia per l’Africa? Quaderno N. 1: Sindacato e cooperazione internazionale. 3/92 (3): Il Mediterraneo inquinato 4/93 (4): Somalia e Somalie Quaderno N. 2: Morire a Mogadiscio 5/93 (5): Kongo - Zaire - Kongo 6/93 (6): Politica e letteratura 7/93 (7): Dossier Mozambico 8/94 (8): Stato e potere in Africa 9/94 (9): Rwanda e ingerenza umanitaria 10-11/94 (10-11): L’Africa aggiustata 1/95 (12): Mediterraneo: cultura, tensioni e prospettive 2/95 (13): Etnie: politica, cultura e manipolazione 3-4/95 (14-15): Insegnamento: ultima priorità 1/96 (16): Italia - Africa, il rapporto da ricostruire 2/96 (17): Storia e attualità dell’Italia in Africa 3/96 (18): Poeti scomodi africani 4/96 (19): Comunicazioni in Africa 1/97 (20): Immigrazione e Africa: rappresentazioni e autorappresentazioni 2/97 (21): Lingue e politiche linguistiche in Africa 3-4/97 (22): Democratizzazione e transizione politica in Africa Allegato: Tengenenge e la scultura dello Zimbabwe 1/98 (23): Cambiament politico e relazioni internazionali in Africa 2/98 (24): Israele - Palestina: la pace possibile 3-4/98 (25-26): Esilio e letteratura 1/99 (27): La città africana 2-3/99 (28-29): Arte africana contemporanea 4/99 (30): Marocco Genesi dell’arte contemporanea 1-2/00 (31-32): Migranti, musiche, feste. L’occhio del fotografo, lo sguardo dell’antropologo 3/00 (33): Artlink, l’arte come mezzo di lotta all’esclusione sociale dei cittadini immigrati 4/00 (34): La donna musulmana tra internet e velo 1-2/01 (35-36): Africa economia di povertà 3/01 (37): Danza africana contemporanea Il fumetto africano 4/01 (38): Sudafrica. Tra Rainbow Nation e African Renaissance 1-2/02 (39-40): Mozambico: media e cultura 3/02 (41): L’Africa e il Digital Divide 4/02 (42): Identità ricostruite: migrazioni ed esili fuori e dentro l’Africa 1-2/03 (43-44): Arte contemporanea del Nord Africa 3/03 (45): Il cinema africano e il suo pubblico 4/03 (46): Il teatro in Africa 1-2/04 (47-48): Le industrie culturali in Africa 3/04 (49): L’Offerta, inedito di Nurrudin Farah 4/04 (50): Ars&Urbis 1-2/05 (51-52): Glocal Youth: media e giovani nel Nord e nel Sud del mondo 3/05 (53): Filosofia in Africa 4/05 (54): Approdi: immigrazione e allargamento europeo 1/06 (55): Sulla storia dell’arte africana contemporanea 2-3/06 (56-57): Interculture map. Azioni interculturali in Europa 4/06 (58): Esperienze per la creazione di una scuola interculturale europea 1/07 (59): In/Out. Giovani, migrazione e società tra nord e sud del Mediterraneo 2-3/07 (60/61): “Oggetti d’arte” nei musei e nelle collezioni nell’Africa contemporanea 4/07 (62): L’Africa nei musei e nelle collezioni occidentali 1/08 (63): Città educativa, migrazione ed educazione alla pace 2/08 (64): Medicina e migrazione 3-4/08 (65/66): Africa: turismo e patrimonio 1/09 (67): Turismo e patrimonio: il caso del Bénin 2/09 (68): Politiche culturali nei Paesi ACP 3-4/09 (69-70): African fashion 1/10 (71): Storie e pratiche del football in Africa 2-3/10 (72-73): Le sfide della mediazione interculturale 1/11 (74): Il Senegal e la diaspora senegalese 2/11 (75): Lewis Nkosi: Sudafrica, esilio, scrittura 1/12 (76): L’arte crea legami 2/12 (77): Rifugiati: l’emergenza Nord Africa in Italia 1/13 (78): Filantropia africana 2/13 (79): Donne nella migrazione 1/14 (80): L’Italia e il sistema europeo comune di asilo 2/14 (81): Cibo, intercultura, Africa 1/15 (82): Immigrazione: media e paura 2/15 (83): Oltre l’albero di Acacia: natura e paesaggio in Africa Consulta i sommari completi su www.laimomo.it ISSN 1 1 2 1 - 8 4 9 5 euro 20 (IVA compresa)