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frica
e Mediterraneo
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I
Pubbl. Semestrale n. 1/16 (84) luglio 2016 - Edizioni Lai-momo, Bologna- Poste It. Spa, sped. in abb. post. D.L. 353/2003
(conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, c. 1 DCB-BO
n. 84 | Sport
e immigrazione
E
T
À
DOSSIER
La cittadinanza sportiva in
Italia: mito o realtà?
Beyond Intolerance through
Sports
Sport et immigration.
Changements sociaux et
pratiques d’intégration en
Europe
Stelle nere, calcio bianco.
Calcio, capitale e razzismo
nell’Italia contemporanea
rica
Mediterraneo
Cultura
e
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E Ar D Fi Si
DOSSIER
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Editoriale.
La posta in gioco: sport
e attività fisica risorse per
una “società delle culture”
di Giovanna Russo
L’
Italia da alcuni decenni è territorio di frontiera per le migrazioni: il
continuo flusso di persone di origini
differenti delinea ormai il Bel Paese
come una “società delle culture” in
itinere, in un quadro di mobilità europea e nazionale di non facile gestione. Nel contesto europeo il ruolo dell’Italia è però soprattutto quello di “Paese di transito” per i flussi migratori (UNHCR 2015): come
emerge dal 21° Rapporto sulle Migrazioni ISMU è plausibile
pensare che il fenomeno migratorio in Italia sia in continua
trasformazione, tanto da poter parlare di un nuovo ciclo
le cui dinamiche sono principalmente collegate alle trasformazioni geopolitiche e ai conflitti dei Paesi del Medio
Oriente e dell’Africa sub-sahariana e, sul fronte domestico,
all’impatto della crisi economica sul mercato del lavoro
italiano. Tale scenario, complesso e diversificato, è frutto
delle seguenti motivazioni: notevole incremento dei flussi
migratori; forte riduzione delle persone che entrano nel
Paese per cercare lavoro; consolidamento delle unità familiari; aumento complessivo dell’emigrazione dall’Italia;
presenza significativa dei migranti provenienti dai nuovi
Paesi dell’Unione europea in Italia (Cesareo 2016, p. IX).
In un quadro così delineato, l’Italia sta cambiando volto:
con 5.014.000 stranieri residenti che rappresentano l’8,2%
dei suoi abitanti, oggi è al secondo posto, assieme al Regno
Unito (5 milioni) e dopo la Germania (7 milioni), tra i Paesi
che in Europa ospitano il maggior numero assoluto di immigrati (Centro studi e ricerche Idos 2015).
Le ragioni che sostengono i flussi migratori riguardano nello specifico motivi di lavoro (52,5%), di famiglia (34,1%), e
dal 2014 anche richieste di asilo (7%), che rispetto agli anni
precedenti hanno sopravanzato il motivo dello studio.
Ma la questione migratoria non è importante solo per la sua
dimensione numerica e strutturale: la rilevanza degli aspetti socio-culturali è di primario interesse ai fini dell’integrazione sociale degli immigrati, costituendo una risorsa e una
sfida per il Paese ospitante (Martelli 2015). Si tratta infatti
di un fenomeno problematico, da indagare in profondità
con approcci multidimensionali in grado di fare luce sugli
immigrati quali nuovi attori della società civile globale. Se è
vero quindi che studiare l’integrazione è oggi una questione ineludibile, ciò avviene in virtù non solo di una migliore
conoscenza delle dinamiche d’interazione con l’economia,
1
E Ar DEDITORIALE
Fi Si S
è infatti il tipo di identità che si riesce e a costruire a partire
ma soprattutto delle politiche territoriali di inclusione sodalle posizioni sociali disponibili nelle diverse realtà» (Zoletto
ciale e culturale volte al benessere delle comunità locali e
2010, p. 45). Il gioco dell’integrazione è dunque una partita
dei suoi protagonisti.
– una battaglia? – nella quale si tenta di superare un confine,
Con una prospettiva che privilegia il punto di vista dell’altro e
colmare una differenza fra un “noi” e un “loro”, capovolgere
aperta alla scoperta, questo dossier intende esplorare le prauno stigma, oltrepassare le discriminazioni. Lo sport è infatti
tiche socio-culturali che informano il quotidiano dei migranti
un campo culturale nel quale, come ha affermato Pierre Bournel Paese di accoglienza facendo attenzione ai legami sociali
dieu (1998), si affrontano attori con interessi specifici legati
che si creano e si rigenerano nel tempo libero. L’occasione
alla posizione che occupano nello spazio sociale: un campo di
è quindi utile per riflettere su uno spazio sociale innovativo,
competizione, il cui traguardo oggi si trasforma in un segno di
come lo sport, adatto a osservare le occasioni di incontro fra
convivenza civile. Lo sport e l’attività fisica sono infatti «capaautoctoni e immigrati per le sue capacità di generare capitale
ci di integrare, di convertire simbolicamente “quelli di fuori”
sociale, favorendo – o contrastando – l’integrazione (ibidem,
in “quelli di dentro” […] strumenti capaci di dare identità, di
p. 216). Lo sport offre infatti straordinarie possibilità di conogenerare identificazione negli individui […] di renderli parscenza, di incontro tra culture, di contaminazione di pratiche
tecipi, anche simbolicamente, di una stessa realtà, di condisportive “socialmente responsabili”. In quest’ottica può esvidere, di sentirsi
sere inteso come
parte di qualcosa
veicolo di valori
di comune: in depositivi, esercifinitiva di convivezio di civiltà e di
re» (Xavier Mediumanità, arena
na 2002, p. 22).
di socializzazione
ma anche di eduI contributi mulcazione e apertutidisciplinari qui
ra all’“altro diverpresentati ruoso da me”.
tano attorno a
Sui rapporti fra
questo focus illusport e integrastrando, da diffezione dei mirenti punti di vigranti l’impegno
sta, come lo sport
delle politiche e
possa essere un
dei progetti euluogo generativo
ropei è da tempo
di intercultura o,
evidente: il Libro
all’opposto, uno
bianco (2007) afspazio di discriferma esplicitaminazione e/o di
mente che sport e
r ivendic azione
attività fisica sono
culturale.
L’instrumenti di intento è di andare
Live, Love, Refugee. «Through this project, I was able to rediscover my story through their stories.
I’m a Syrian refuge myself, and we are making one team.» © Omar Imam
clusione sociale,
oltre gli stereotidi partecipazione
pi, i luoghi comucivile, di socializni, i paradossi e
zazione, di interazione positiva fra i migranti e i membri delle
le ambiguità che la realtà migratoria e le sue pratiche sociali
società che li accolgono. Le evidenze empiriche a sostegno di
pongono quotidianamente alla riflessione contemporanea.
tali tesi però sono ancora piuttosto scarse, almeno nel nostro
In questa cornice teorica si sviluppano i primi tre saggi:
Paese. Ciononostante, allo sport e all’attività fisica da tempo
Siebetcheu espone la questione della cittadinanza sportisi riconoscono le funzioni di cartina al tornasole capace di
va in Italia come sviluppo di una cultura civica necessaria
illustrare i meccanismi su cui si basa una società, di fattore
a costruire uno stile di vita in assenza di pregiudizi presendi civilizzazione e globalizzazione della modernità (Martelli,
tando i dati di una ricerca qualitativa sulla pratica calcistica
Porro 2015), di linguaggio comune e universale atto a favorire
svolta da richiedenti asilo; Bottoni, Masullo, Mangone
l’integrazione sociale del “diverso”.
illustrano invece i dati inediti di una ricerca quantitativa
Dunque, oltre le possibili ideologie, qual è la posta sui campi
sullo sport come strumento di inclusione per gli stranieri
da gioco? Lo spazio sociale dello sport rivela oggi una complesallo scopo di indagare il grado di diffusione/accettazione
sità che rimanda a segni, pratiche, linguaggi, immagini diffedegli stereotipi della diversità fra gli adolescenti della regiorenti di un contesto che si pone il difficile obiettivo dell’interne Campania. Con uno sguardo oltre i confini nazionali, lo
culturalità1 e che, di fatto, è alla continua ricerca di identità.
sport è discusso nelle vesti di strumento d’integrazione nelCredo sia questa la scommessa che si vive sui campi da calcio,
le politiche europee nell’intervista al sociologo dello sport
da basket, da cricket… Negli stadi, nelle palestre, negli spazi
W. Gasparini (Russo), svelando le potenzialità e i paradospubblici dove si pratica attività fisica e/o sportiva, in realtà si
si del modello di integrazione francese messo a confronto
giocano soprattutto «partite per l’identità. La posta in gioco
con le esperienze sportive di Italia, Germania e Inghilterra.
2
"GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP
EDITORIALE
I contributi successivi si concentrano sul calcio – the beautiful game – ambito privilegiato per indagare dinamiche di
un mercato globale in grado di replicare le strutture sociali
e le difficoltà di integrazione dei suoi protagonisti “etnici”.
L’analisi di Pedretti esplora le strategie impiegate dall’industria del calcio nella costruzione di brand progressisti,
di fatto lontani dalle logiche eurocentriche delle strutture
di potere che governano i campi da gioco e dai fenomeni
di razzismo che li abitano; mentre il caso dei Black italians
(Caccamo) evidenzia la difficile affermazione degli atleti
stranieri in Italia, tra percorsi di etichettamento e un lento
processo di riconoscimento dell’italianità. Su questa scia, il
contributo di Kyeremeh propone un’analisi di genere del
mondo sportivo, illustrando il difficile cammino di affermazione delle atlete black a livello agonistico e dilettantistico. Il
corpo femminile nello sport diviene così terreno di lotta, di
contestazione e di affermazione di un’identità continuamente rinegoziata, fra percorsi di inclusione sociale e di discriminazione. L’approccio di analisi “intersezionale”, volto a
evidenziare la multidimensionalità vissuta dai soggetti marginalizzati, si rivela utile finestra di osservazione capace di
fare emergere la funzione di mobilità sociale dello sport non
solo per le atlete nere, ma per tutte le persone migranti che
risiedono in Italia. In linea di continuità, il saggio di Bifulco
e Del Guercio presenta il caso dell’Afro-Napoli United, associazione sportiva nata con l’intento di creare una squadra di
calcio amatoriale “melting pot”, spazio di incontro per atleti
immigrati e italiani, osservando nei vari aspetti della vita degli atleti migranti come l’esperienza calcistica risulti positiva
e propedeutica all’inserimento sociale nei Paesi ospitanti e
utile anche alla costruzione di un sentimento di appartenenza. Un aspetto poco indagato emerge invece nel contributo di Berthoud, il quale – con taglio etnografico – analizza
l’influenza delle strutture familiari nei percorsi dei calciatori
migranti camerunesi (pre e post carriera) rilasciando un’immagine dei giocatori africani come “vittime” di un sistema
di parentela nel quale prevale la dimensione della “sopravvivenza” collettiva a quella del singolo individuo. I termini
di parentela, così come le singole carriere degli atleti, appaiono dunque integrati in un unico sistema che obbedisce a
leggi universali, agendo anche a livello inconscio.
Nel segno dell’happening Martone illustra la manifestazione ventennale dei Mondiali antirazzisti, nella quale lo
“sport per tutti” emerge come “bene relazionale” capace di
produrre a livello di gruppo un forte senso di appartenenza
fra i membri coinvolti. In quest’ottica viene descritta l’esperienza performativa e mediatica nella quale migranti (tra i
quali negli ultimi anni sono presenti diverse squadre di richiedenti asilo) e ultras, attori sociali solitamente all’opposto sulla scena sportiva, coesistono all’insegna di un unico
obiettivo di convivenza civile.
Ulteriori testimonianze della valenza sociale, inclusiva della
pratica sportiva – o al contrario del suo potere discriminante – emergono dagli interventi a chiusura del dossier: dalla
storia di “Musta”, campione di arti marziali la cui ascesa è
simbolo del legame fra Italia e Marocco (Bini, Bondi), all’evoluzione del lessico del calcio in swahili a testimonianza
delle interferenze e dei mutamenti semantici che il gioco
più bello del mondo è capace di veicolare (Sidraschi). Il
E E Ar D
calcio è inoltre teatro “atteso” dai media per la narrazione
di episodi di razzismo attraverso parole, gesti e gestacci di
un linguaggio ormai universale (Germano); oppure vero
campo di battaglia, nei Mondiali del 1998, per l’indipendenza della nazionale croata nel racconto del documentario
Vatreni (Valle Baroz). La dimensione politica dello sport
emerge, infine, sia nella storica partita della Rugby World
Cup del 1995, episodio spettacolare della storia sudafricana,
momento epico di un difficile processo di unificazione non
ancora concluso (Paci), sia nell’analisi della presenza dei
Paesi africani alle Olimpiadi nel corso del ’900, rivelando
un percorso costellato da boicottaggi internazionali e molteplici difficoltà proprie di questo continente (Armillotta).
In questi ultimi mesi in cui, a fronte della crescente presenza di richiedenti asilo ospiti nei centri di accoglienza dei territori, la società italiana si confronta in maniera inedita con
persone di origini culturali differenti e percorsi di vita particolarmente difficili, osservare le relazioni fra sport e immigrazione significa cogliere l’importanza e la multidimensionalità che le pratiche motorie possono mettere in gioco
all’interno delle culture e delle società contemporanee. Alla
base vi è un pregio indiscutibile: lo sforzo di far “cambiare
la pelle alla cultura”, laddove lo studio dello sport e dell’attività fisica si fa portavoce di nuove istanze sociali per fornire
risposte concrete a una differente domanda di qualità della
vita per autoctoni e immigrati.
BIBLIOGRAFIA
P. Bourdieu, Program for a Sociology of Sport, in «The Sociology of Sport
Journal», V, n. 2, 1998, 153-161
Commissione europea, Libro Bianco sullo sport, 2007, disponibile al
sito: http://ec.europa.eu/sport/index_en.html
P. Donati, Riconoscersi con la ragione relazionale, in «Atlantide. Un mondo che fa parlare altri mondi», n. 14, 2008, pp. 59-64
V. Cesareo (ed.), The New scenario of Migrations, in Fondazione ISMU
The Twenty- first Italian Report on Migrations 2015, McGraw-Hill Education, Milan-London 2016, pp. IX-XXIX
Centro studi e ricerche IDOS, Dossier statistico 2015, IDOS, Roma 2015
ISTAT, Rapporto del Paese 2016, ISTAT, Roma 2016
S. Martelli, Religions and sports: are they resources for the integration of
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S. Martelli, N. Porro, Manuale di Sociologia dello sport e dell’attività fisica,
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UNHCR, Syria Regional Refugee Response, 2015, reperibile al sito: http://
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F. Xavier Medina, Deporte, immigraçión, e interculturalidad, in «Apunts», Deporte e immigraçión, Generalitat de Cataluniya, INEFC, n. 68,
2002, pp. 18-23
D. Zoletto, Il gioco duro dell’integrazione. L’intercultura sui campi da gioco, Cortina, Milano 2010
NOTE
1 - Nella misura in cui pone l’accento sulla «semantica relazionale,
secondo la quale le differenze (anche quelle culturali) sono modi
diversi di formare la nostra identità che si basano su relazioni le quali
si formano non per opposizione o esclusione dell’altro, ma attraverso
circuiti di dono e quindi di riconoscimento reciproco» (Donati 2008,
p. 62).
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rica
Mediterraneo
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U L T U R A
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Direttrice responsabile
Sandra Federici
Segreteria di redazione
Elisabetta Degli Esposti Merli, Claudia Marà
Comitato di redazione
Fabrizio Corsi, Simona Cella, Silvia Festi, Andrea
Marchesini Reggiani, Iolanda Pensa, Pietro Pinto,
Massimo Repetti, Mary Angela Schroth
Comitato scientifico
Stefano Allievi, Mohammed Arkoun †, Ivan
Bargna, Giovanni Bersani †, Jean-Godefroy
Bidima, Salvatore Bono, Carlo Carbone,
Giuseppe Castorina †, Giancarla Codrignani,
Vincenzo Fano, Khaled Fouad Allam †, Marie-José
Hoyet, Justo Lacunza, Lorenzo Luatti, Dismas
A. Masolo, Pierluigi Musarò, Francesca Romana
Paci, Giovanna Parodi da Passano, Irma Taddia,
Jean-Léonard Touadi, Alessandro Triulzi,
Itala Vivan, Franco Volpi
Collaboratori
Luciano Ardesi, Joseph Ballong, G. Marco
Cavallarin, Aldo Cera, Antonio Dalla Libera,
Tatiana Di Federico, Fabio Federici, Mario Giro,
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Meloni, Gianluigi Negroni, Beatrice Orlandini,
Giulia Paoletti, Blaise Patrix, Sara Saleri, Edgar
Serrano, Daniel Sotiaux,
Flore Thoreau La Salle, Elena Zaccherini,
George A. Zogo †
Africa e Mediterraneo
Semestrale di Lai-momo cooperativa sociale
Registrazione al Tribunale di Bologna n. 6448
del 6/6/1995
Direzione e redazione
Via Gamberi 4 - 40037 Sasso Marconi - Bologna
tel. +39 051 840166 fax +39 051 6790117
redazione@africaemediterraneo.it
www.africaemediterraneo.it
Progetto grafico
e impaginazione
Giovanni Zati
Editore
Edizioni Lai-momo
Via Gamberi 4, 40037 Sasso Marconi - Bologna
www.laimomo.it
Finito di stampare
il 31 agosto 2016 presso
LITOSEI srl
Rastignano - Bologna
La direzione non si assume alcuna responsabilità
per quanto espresso dagli autori nei loro
interventi
Africa e Mediterraneo è una pubblicazione
che fa uso di peer review
In copertina
Kenya. Refugees and aid workers in Dadaab
run in support of #TeamRefugees and stand
#WithRefugees. © UNHCR
Indice
n.84
© Fabrizio Pompei
Editoriale
1
La posta in gioco:
sport e attività fisica risorse per
una “società delle culture”
di Giovanna Russo
Dossier:
Sport e immigrazione
a cura di Giovanna Russo
8
La cittadinanza sportiva in Italia:
mito o realtà?
di Raymond Siebetcheu
13 Beyond Intolerance through Sports
by Gianmaria Bottoni, Giuseppe
Masullo, Emiliana Mangone
18 Sport et immigration.
Changements sociaux et pratiques
d’intégration en Europe
Entretien avec W. Gasparini recueilli
par Giovanna Russo
23 Stelle nere, calcio bianco. Calcio,
capitale e razzismo nell’Italia
contemporanea
di Roberto Pedretti
28 Calcio e identità.
I Black Italians tra interdizione
razziale e integrazione
di Giorgio Caccamo
34 Il calcio come strumento di
integrazione:
il caso dell’Afro-Napoli United
di Luca Bifulco e Adele Del Guercio
41 Entre contraintes et soutiens:
l’implication de la famille dans
les parcours de footballeurs
camerounais
par Jérôme Berthoud
46 Sportive nere in maglia azzurra.
Un approccio intersezionale allo
sport italiano
di Sandra Agyei Kyeremeh
51 Nella rete
dei Mondiali
di Vittorio Martone
55 Sport praticati dai richiedenti asilo
nella Città Metropolitana di Bologna
56 FOCUS/ARTI MARZIALI
Mustapha Haida, la storia di un
campione sportivo e del profondo
legame che unisce l’Italia al Marocco
di Eugenio Bini
e Danilo Bondi
58 FOCUS/LINGUA
Lessico del calcio in swahili
di Diego Sidraschi
AFRICA E MEDITERRANEO n. 84 / 2016 ~ Sport e immigrazione
© Milumbe Haimbe
60 FOCUS/LINGUA
Parole, gesti e gestacci del razzismo nello sport
di Ivo Stefano Germano
62 FOCUS/IDENTITÀ
Vatreni. La Nazionale croata tra il
sogno dei mondiali e l’incubo della
guerra
di Valentina Valle Baroz
64 FOCUS/IDENTITÀ
Invictus: combattere per capirsi
di Francesca Romana Paci
66 FOCUS/OLIMPIADI
La presenza olimpica del continente
nero e i boicottaggi africani
di Giovanni Armillotta
Scuola
69 Enea: un profugo. Viaggi nel
passato e nel presente
a cura di Donatella Iacondini
Arte
73 Addio al maestro e amico George
Abraham Zogo
di Andrea Marchesini Reggiani
© Giovanna Amore
75 Prayer
di Giacomo Rambaldi
89 Coraggio e libertà: il Biografilm
Festival va oltre i confini
di Elisabetta Degli Esposti Merli
77 “Triumphs and Laments”:
a Project for the City of Rome by
William Kentridge
by Mary Angela Schroth
91 Formazione dei rifugiati
nell’artigianato per la moda
Eventi
92 Summer School on Forced
Migration:
a Multidisciplinary Approach
81 Dak’art 2016:
nel blu dipinto di blu
di Simona Cella
84 When Things Fall Apart.
Critical Voices
on the Radars
par Sandra Federici
86 Quand le Nigéria
s’invite à Venise :
une architecture visionnaire
audelà de tous les formalismes
par Flore Thoreau
La Salle
88 Designing Futures.
Il 26° Festival del Cinema Africano,
d’Asia e America Latina
di Milano
di Simona Cella
93 Accoglienza, sport e buone
pratiche:
la campagna 2016
di Bologna cares!
94 Sport, integrazione
e diritti umani al cinema
di Marina Mantini
Libri
95 African Power Dressing:
il corpo in gioco.
(Giovanna Parodi da Passano)
di Cecilia Pennacini
96 D’ici jusque là-bas –
Van hier tot daar.
Dessins de réfugiés en Belgique
E Ar D Fi SiDOSSIER
S
Mondiali antirazzisti 2016.
© Vincenzo Valentino Ventura
6
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E Ar D Fi Si
DOSSIER
DOSSIER
Sport
e immigrazione
7
E Ar D Fi SiDOSSIER
S
La cittadinanza sportiva in Italia:
mito o realtà?
L’importanza del calcio come strumento di integrazione. Una ricerca, basata su interviste e
osservazioni dirette, dimostra che lo sport può aiutare i migranti nell’inserimento nella società di
accoglienza e nel superamento di eventuali traumi, in un clima di tolleranza e rispetto.
di Raymond Siebetcheu
8
"GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP
E Ar D Fi Si
DOSSIER
«L
o sport ha il potere di cambiare il
A fianco: Democratic Republic of Congo. As War Drags on, Athletes Cry Foul.
© UNHCR
mondo. Ha il potere di ispirare. Esso
ha il potere di unire le persone in un
modo in cui poche altre cose lo fanno. Parla ai giovani in una lingua che
all’attività sportiva da parte di chiunque in condizioni di parità e
comprendono. Lo sport può portain armonia con l’ordinamento sportivo nazionale e internazionare speranza dove una volta c’era solo disperazione». Prendendo
le». Nonostante tale normativa, molti minori di origine straniera si
spunto da questa bella cornice definitoria che ci suggerisce Nelson
sono spesso visti negare il diritto di partecipazione all’attività sporMandela, lo sport nel suo valore globale e olistico è un fenomeno
tiva nelle squadre nazionali e nei tornei internazionali. A nostro
di grande importanza capace di abbracciare tanto la dimensione
avviso si tratta di un vero e proprio “spreco di talenti” e di una
meramente competitiva e ludica quanto quella socio-culturale ed
“doppia cittadinanza negata” (né italiana, né del Paese di origine).
educativa. In questo senso, riesce a promuovere valori come la soA confermare questa tesi sono le premesse del seminario dal titolo
Cittadinanza sportiva: opportunità ed ostacoli per una piena cittalidarietà, l’unità, lo spirito di gruppo, la tolleranza, l’uguaglianza,
l’integrazione, il rispetto delle regole e l’accettazione delle diffedinanza, tenutosi ad Arezzo il 17 dicembre 2012: «I meccanismi
di tesseramento di ragazzi che non hanno la cittadinanza italiana
renze. Facendo riferimento al contesto migratorio, dove identità
nelle società sportive sono farraginosi e spesso inefficaci, e di fatdiverse s’incontrano e, in alcuni casi, si scontrano, secondo il Libro bianco europeo sullo sport
to li escludono da gran parte
(2007),1 lo sport costituisce uno
delle competizioni dei loro coIl concetto di cittadinanza sportiva è prima di tutto etanei: è frequente vedere un
strumento efficace per facilitare
lo sviluppo di una cultura civica e sportiva capace ragazzo allenarsi con impegno
l’integrazione degli immigrati
nella società, attraverso il diae risultati, e poi non giocare in
di costruire uno stile di vita che superi ogni forma
partita o non poter partecipare
logo interculturale e un senso
di pregiudizio e discriminazione.
alle competizioni. Questo da un
comune di appartenenza e di
lato costituisce un’importante
partecipazione. Senza voler
discriminazione, e dall’altro
perdere di vista alcuni casi ecimpoverisce lo sport nostrano di talenti ed introiti» (www.meltincellenti, come quello della squadra di rugby di Casale Monferrato,
quasi esclusivamente composta da richiedenti asilo e che milita
gpot.org, 12 dicembre 2012).
Un passo decisivo verso la cittadinanza sportiva è stato fatto con la
in C2, in questa sede focalizzeremo l’attenzione sul calcio, inteso
come il paradigma, il laboratorio sociale ideale della manifestaLegge n. 12 del 20 gennaio 2016 che ha introdotto lo ius soli sportivo. Secondo tale legge «I minori di anni diciotto che non sono citzione simbolica dello sport come strumento di aggregazione e di
integrazione. La scelta del calcio è legata alla sua capacità di unire
tadini italiani e che risultano regolarmente residenti nel territorio
italiano almeno dal compimento del decimo anno di età possono
ma anche al fatto che è uno degli sport più amati, più praticati e
più seguiti al mondo. In Italia, secondo il Report Calcio 2015, il calessere tesserati presso società sportive appartenenti alle federazioni nazionali o alle discipline associate o presso associazioni ed
cio incide per circa il 25% sui tesserati, italiani e stranieri, e sulle
enti di promozione sportiva con le stesse procedure previste per
società sportive nelle 45 Federazioni affiliate al CONI. Non a caso
il tesseramento dei cittadini italiani». Premettiamo che anche se
Valeri (Valeri 2005, p. 382) considera questa disciplina come «una
tale legge non prende in considerazione alcuni aspetti importanti
buona cartina al tornasole di ciò che avviene, più in generale, a
come la possibilità per i ragazzi di origine straniera di indossare la
livello sociale». Riflettendo in modo specifico sul ruolo del calcio in
maglia azzurra, essa costituisce comunque l’anticipazione di una
contesto migratorio, Gasparini osserva che si tratta di un «terreno
risposta che si aspetta ancora rispetto alla revisione della Legge
di studio particolarmente interessante per riflettere sulle espressiosulla cittadinanza (L. 91/1992).3 Tuttavia, il concetto di cittadinanza
ni identitarie e ripensare l’integrazione dei migranti attraverso lo
sport» (Gasparini 2013). Per Avila et al «l’impatto di questo gioco
sportiva è, a nostro avviso, prima di tutto lo sviluppo di una cultusulla vita di ogni giorno lo rende un forte strumento per potenziare
ra civica e sportiva capace di costruire uno stile di vita che superi
le questioni importanti dell’apprendimento permanente e dell’inogni forma di pregiudizio e discriminazione. Gli episodi di razzitegrazione» (Avila et al 2011, p. 2). Sulla scia di queste premesse
smo negli stadi testimoniano che lo ius soli sportivo non riguarda
teoriche, che ci suggeriscono che il calcio ha cessato da molto
soltanto l’atleta di origine straniera, ma deve coinvolgere famiglie,
tempo di rappresentare soltanto un gioco e che oggi costituisce un
scuole, società sportive, tifosi e politici. Inoltre i cori razzisti invero e proprio sistema culturale (Porro 2008), questo contributo si
dirizzati ai giocatori di alto livello, e in alcuni casi già in possesso
prefigge di osservare quanto lo sport riesca concretamente a condella cittadinanza italiana, sono la testimonianza che non basta
il riconoscimento da parte del Parlamento così come non è suffitribuire ai processi di inclusione sociale, soprattutto nei confronti
dei richiedenti asilo che spesso versano in condizioni di evidente e
ciente essere in possesso del passaporto italiano per parlare di una
preoccupante vulnerabilità.
cittadinanza sportiva effettiva.
La questione della cittadinanza sportiva in Italia
In Italia il principio di cittadinanza sportiva e di educazione democratica attraverso lo sport è chiaramente sancito dall’art. 16, comma 1, D.lgs 242/19992 che recita: «Le federazioni sportive nazionali sono rette da norme statutarie e regolamentari sulla base del
principio di democrazia interna, del principio di partecipazione
Profilo dei giocatori e delle squadre composte
da richiedenti asilo
Il numero sempre più crescente degli sbarchi di immigrati sulle coste italiane nell’ultimo decennio e la conseguente distribuzione di
questi ultimi nelle varie regioni della Penisola hanno dato nascita a
diversi percorsi innovativi di integrazione, tra cui quelli attraverso
9
E Ar D Fi SiDOSSIER
S
il calcio, mai sperimentati prima in modo sistematico. In realtà, in
risposta alle ripetute richieste dei rifugiati e al talento che sanno di
poter esprimere sui campi, sono nate numerose squadre di calcio
all’interno dei centri di accoglienza, tanto nell’ambito di eventi occasionali, quanto per la partecipazione ai tornei amatoriali o federali. Sulla base della nostra ricognizione, in Italia sono al momento
sei le squadre di profughi che partecipano ai campionati federali
organizzati dalla Federazione italiana di giuoco calcio (FIGC).
Nell’ambito della nostra indagine, abbiamo preso in considerazione dodici squadre principalmente composte da “migranti forzati”
(costretti a scappare dai loro Paesi in seguito a guerre, conflitti e
persecuzioni), collocate in varie aree geografiche (dal Piemonte
alla Sicilia) per avere un’idea dell’“integrazione targata sport” in
tutto il Paese. Sono squadre prevalentemente composte da giocatori dell’Africa subsahariana, tra cui spiccano Senegal, Gambia,
Nigeria, Ghana, Mali e Costa d’Avorio. Notiamo però che tra le
squadre analizzate, l’Afro Napoli e la RFC Lions Ska sono composte
anche da italiani. Queste squadre, con giocatori dai 17 ai 40 anni,
sono gestite e sostenute da volontari che credono nei valori dello
sport, inteso non solo come competizione ma anche come strumento di integrazione. Status giuridico incerto, distanza tra i centri di accoglienza e la città, dinamiche organizzative e abitative dei
centri molto diverse dall’organizzazione socio-familiare dei Paesi
di origine (orari di ingresso e di uscita, orario di pranzo e di cena,
ecc.), stress da sradicamento, incertezza rispetto al futuro, “sindrome del sopravvissuto” (disagio psicologico legato ad un evento
traumatico con un senso di colpa) o “sindrome di Ulisse” (disturbo
psicosomatico che spesso colpisce gli immigrati), difficoltà linguistiche, pregiudizi e stereotipi negativi, in alcuni casi impossibilità
di trovare un lavoro: sono questi i principali elementi che caratterizzano il disagio socio-economico di cui sono vittime i richiedenti
asilo e di fronte al quale il calcio vuole dare una risposta.
Rifugiati in Italia: barriere nell’accesso alle attività sportive
Barriere burocratiche
Per essere tesserati e giocare in un campionato della Lega Nazionale Dilettanti (LND), i richiedenti asilo devono essere in possesso
del permesso di soggiorno, del certificato di residenza e in alcuni
casi di un’autorizzazione da parte della federazione estera di riferimento. Inoltre, ogni squadra può solo «tesserare e schierare
in campo due soli calciatori extra-comunitari [ma] un numero illimitato di calciatori/calciatrici di cittadinanza comunitaria» (art.
40 quater delle N.O.I.F).4 Queste lungaggini burocratiche e questi
passaggi complessi costringono le squadre a tesserarsi nei campionati amatoriali. Tuttavia, la squadra Afro - Napoli United è
un esempio di come sia opportuno perseverare nonostante le
barriere. Dai campionati amatoriali iniziali, l’Afro-Napoli, dopo
la sua ammissione alla più bassa categoria del campionato federale (Terza categoria), è reduce da una scalata vincente che
in tre anni l’ha portata alla categoria “Promozione” (avvenuta
alla fine della stagione 2015-2016). Degna di nota è inoltre l’autorizzazione concessa da Carlo Tavecchio, allora presidente della
LND (oggi presidente della FIGC), alla squadra Pagi di Sassari.
I giocatori di questa squadra, tutti africani, sono stati pertanto
tesserati, anche se non in possesso di residenza definitiva in Sardegna, purché non provenienti da federazioni calcistiche straniere. Nonostante tutte le barriere un’altra bella pagina sportiva
è stata scritta dalla squadra Migranti San Francesco di Siena: già
campione provinciale, regionale e interregionale nei rispettivi
campionati CSI di calcio a 7 nell’anno 2016, la squadra di Siena ha chiuso le finali nazionali al secondo posto, con un po’ di
rammarico per la finale persa, ma con grande soddisfazione e
orgoglio per la lezione di vita trasmessa in tutte le città italiane
dove ha giocato.
La questione linguistica
La questione della lingua per i rifugiati implica da una parte
l’apprendimento della lingua italiana e dall’altra parte l’uso delle
loro lingue di origine. In riferimento alla lingua italiana, la barriera è legata a tre aspetti principali:
- a causa delle spesso discutibili politiche linguistico-educative
dei Paesi di partenza dei richiedenti asilo, l’arricchimento culturale e il valore strumentale legati all’apprendimento formale
dell’italiano non sono sempre percepiti come lo vorrebbero gli
enti formativi in cui sono inseriti;
- per molti profughi l’Italia è solo un luogo di transito e, per que-
ITALIA. Squadre dei rifugiati coinvolte nell’indagine
SQUADRE
CITTÀ
DATA DI CREAZIONE
CAMPIONATO 2015-2016
ASD Liberi Nantes
Roma
2007
3° Categoria (FIGC-LND)
Afro Napoli United
Napoli
2009
1° Categoria (FIGC-LND)
Survivor
Torino
2009
Amatoriale (UISP)
RFC Lions Ska
Caserta
2011
3° Categoria (FIGC-LND)
Hearts of Eagle
Torino
2012
Amatoriale (UISP)
ASD Cara Mineo
Catania
2013
1° Categoria (FIGC-LND)
Leoni di Biella
Biella
2013
Amatoriale (ACS)*
ASD Koa Bosco
Rosarno
2013
2° Categoria (FIGC-LND)
Atletico Ubuntu
Arezzo
2014
Amatoriale (UISP)
ASD Opti Pobà
Potenza
2014
Amatoriale (OPES)
Migranti San Francesco
Siena
2014
Amatoriale (CSI)
SS Pagi
Sassari
2015
2° Categoria (FIGC-LND)
* La squadra Leoni di Biella non si è iscritta al Campionato del 2015-2016 per assenza di finanziamento.
10
"GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP
E Ar D Fi Si
DOSSIER
sto motivo, alcuni non ritengono necessario investirsi nell’apprendimento della lingua italiana;
- anche se la pratica sportiva è già di per sé un linguaggio comune, la terminologia calcistica non è sempre alla portata dei
neo-arrivati. Di fronte a queste tre esigenze, nella squadra di Migranti San Francesco, sono stati attivati dei percorsi di apprendimento dell’Italiano durante gli allenamenti. Obiettivo di queste
attività è imparare divertendosi, senza rinunciare alla propria passione e senza sentire il “peso” dell’apprendimento, mantenendo
così motivazione e impegno. Considerando invece le lingue dei
rifugiati, si può affermare che, attraverso esse, i rifugiati rivendicano con forza il diritto all’asilo linguistico, il diritto di esistere e di
rendersi visibili. Tali lingue immigrate sono quindi «laceranti urla
di aiuto, richieste di soccorso nell’identità, auspicio della fine del
conflitto fra lingue, culture ed identità. Sono urla nel silenzio delle
lingue dominanti, ma anche, a volte auspicabilmente, segni della
pace linguistica, della serena convivenza delle lingue, delle culture, delle identità» (Barni 2004, p. 15). Il campo di calcio diventa
così un luogo di contatto e di confronto, uno spazio di ricreazione
e ricostruzione di identità linguistico–culturale.
Barriera culturale
Il fatto che le squadre dei rifugiati siano prevalentemente composte da africani non significa che costituiscono necessariamente
dei gruppi omogenei. Oltre al colore della pelle e alla situazione
giuridico-psicologica, che possono costituire dei punti in comune, è opportuno notare che dietro all’etichetta “Africa” si nascondono ben 54 Paesi, oltre duemila lingue e migliaia di culture diverse che fanno sì che gli abitanti di tale continente non possono
essere considerati identici e con le stesse esigenze. Serve quindi
un notevole lavoro di mediazione culturale per costruire delle
squadre molto diverse dal punto di vista delle nazionalità, delle
lingue, dei costumi e delle religioni ma nel contempo molto unite
in campo e fuori dal campo.
Difficoltà logistiche
La carenza di risorse economiche per gestire gruppi così diversi,
come ricorda Roberto Pareschi dei Leoni di Biella, la carenza e/o
l’inadeguatezza delle infrastrutture e del materiale sportivo costituiscono altre barriere che rendono meno evidente l’accesso a
strutture sportive idonee e facilmente raggiungibili all’interno delle quali i ragazzi possono competere ed esprimere il loro gioco in
tutta sicurezza e serenità. Il divieto di allenarsi allo stadio comunale di Mortara, imposto ad una squadra di richiedenti asilo nel 2015,
è solo un esempio di questo tipo di barriera. Di fronte a queste
situazioni e in assenza di sponsor, come è il caso della squadra di
Koa Bosco di Rosarno, gestita da Don Meduri, queste squadre sono
aiutate da altre società (caso dell’AS Roma nei confronti dei Liberi
Nantes di Roma) con la donazione di materiale sportivo, ma anche
con il supporto tecnico di alcuni (ex) giocatori professionisti.
Il calcio come simbolo di rifugio e di asilo
nell’ottica dell’integrazione
Inclusione sociale
Gli stadi costituiscono dei luoghi d’incontro, di contatto e di aggregazione che consentono di creare dei circoli virtuosi di solidarietà
con i compagni provenienti da altri Paesi, di ricostruire un’identità
smarrita nonché di ritrovare il sorriso (Siebetcheu 2015). Il difen-
sore Omar della squadra Migranti San Francesco osserva in questo
senso: «Sono contento quando sono in campo. Mi diverto, rido e
scherzo con i miei compagni. Ho l’impressione di essere in Mali».
Il calcio per i rifugiati è anche uno strumento di inclusione sociale
con le comunità autoctone e straniere. I rifugiati partecipano con
disinvoltura alle attività ricreative di beneficenza o di solidarietà organizzate nelle città in cui vivono. Tale partecipazione ha un valore
simbolico in quanto si lega ad alcuni segni esteriori caratteristici
del Paese di origine (ad esempio indossare la maglietta di calcio
della propria nazionale, organizzare, in concomitanza alle partite,
feste con cucina e musica del proprio Paese). Questi segni, indice
di riferimento nostalgico, sono anche alla base di ciò che Gasparini chiama «Lo sport “fai da te”», cioè non solo espressione di un
forte sentimento di identità, ma anche una risposta contro le discriminazioni vaghe e quotidiane, reali o simboliche che subiscono gli immigrati (Gasparini 2013). «In realtà, più gli immigrati sono
situati in basso nella scala sociale, subendo discriminazioni (reali o
percepite), più il sentimento di identità comunitaria si rinforza». Di
fronte alla stigmatizzazione e alla discriminazione, per alcuni rifugiati il calcio costituisce forse l’unica e/o l’ultima carta da giocare
per sconfiggere gli stereotipi e farsi valere. Ecco perché vincere una
semplice partita amichevole (con determinazione, grinta e passione) assume un valore che va al di là della vittoria conquistata sul
campo. Si tratta di una vittoria che è sintomo di consapevolezza del
proprio valore, una vittoria che smentisce ogni discorso sull’inferiorità della propria cultura, una vittoria che sa di riscatto rispetto
ai funesti episodi che hanno preceduto l’arrivo in Italia; una vittoria, infine, che vuole trasmettere una buona e nuova immagine di
sé reclamando rispetto in campo e fuori dal campo.
Educazione civica e inserimento professionale
Il calcio è lo strumento ideale che consente da una parte alle
squadre di presentare in modo naturale la società di arrivo ai
loro giocatori e dall’altra parte ai rifugiati-giocatori di presentarsi
senza troppi imbarazzi, risvegliando invece le coscienze per superare ogni forma di discriminazione. In questo senso, un giocatore di Liberi Nantes sottolinea: «spesso di fronte agli italiani mi
presento come un calciatore. E questo mio profilo porta i miei interlocutori ad avere un certo interessamento nei miei confronti».
Nell’ambito delle varie trasferte, i giocatori hanno l’opportunità
di scoprire con serenità la loro società di adozione, cambiando
così non solo la loro geografia mentale del territorio, ma soprattutto la loro percezione del viaggio, questa volta molto più piacevole e con rischi minori.
Il calcio costituisce un’occasione ideale per conoscere e rispettare le regole della società ospitante senza vedere la propria dignità
calpestata. Il contatto frequente con gli italiani (allenatori e dirigenti), con i quali gli stranieri hanno un rapporto di fiducia molto
forte, porta i rifugiati-calciatori ad acquisire, in modo spontaneo
e guidato, delle nozioni di cultura civica legate al contesto italiano. Ad esempio la puntualità, la precisione e la costanza acquisite
dai giocatori di Hearts Eagle (Torino) sono state importanti anche
nell’ottica dell’inserimento professionale dei ragazzi. Come ci racconta Tommaso Pozzato, presidente della detta squadra, «in seguito alla chiusura dei centri di accoglienza l’obiettivo del nostro
progetto è mutato per seguire le esigenze dei nostri atleti aiutandoli a trovare un lavoro. Per quattro di loro, ad esempio, si sono
aperte le porte di uno stage presso L’Oréal di Settimo Torinese».
Un’esperienza simile si verifica nelle altre squadre: Roberto Arena,
11
E Ar D Fi SiDOSSIER
S
presidente di Survivor sottolinea che nella sua squadra «lo sport
è la palestra per raggiungere altri percorsi. Grazie ai progetti di
reinserimento sociale, decine di ragazzi sono riusciti a trovare
un lavoro stabile e una casa». Nella squadra di Opti Pobà i giocatori vengono coinvolti in attività di laboratori creativi, come
sottolinea il referente Francesco Giuzio. Partendo dall’analisi dei
bisogni effettivi, l’obiettivo della squadra Migranti San Francesco,
osserva Don Doriano, è quello di accompagnare i giocatori anche
in diversi percorsi professionalizzanti. Molti giocatori di questa
squadra hanno in effetti trovato lavoro in varie strutture ricettive
nel senese e in altri settori.
BIBLIOGRAFIA
AREL, FIGC, Report Calcio 2015, Roma 2015, www.figc.it
V. Avila et al., Manuale di Hattrick per la formazione degli allenatori, dieBerater,
2011, http://cesie.org/media/HATTRICK_Trainer_Manual_IT.pdf
M. Barni, Lingue immigrate: un nuovo elemento dello spazio linguistico italiano, in
C. Bagna, M. Barni, R. Siebetcheu, Lingue immigrate in provincia di Siena, Guerra,
Perugia 2004, pp. 7-18
Commissione europea, Libro Bianco sullo sport, in «Rivista di Diritto ed Economia dello sport», vol. 3, fasc. 2, 2007, pp. 177-200
W. Gasparini, Ripensare l’integrazione attraverso lo sport: la partecipazione sportiva a livello comunitario dei migranti turchi in Francia, in «M@gm@», vol. 11, n.
1, 2013
Sogno e speranza di diventare campioni
Prima di sbarcare in Italia, molti rifugiati aspirano a diventare
calciatori professionisti. Un giocatore osserva infatti che: «noi
sappiamo e vogliamo giocare, ma non c’è nessuno che ci porta
a fare dei provini». Per non fare svanire il loro sogno, i campionati amatoriali e dilettantistici nei quali militano questi
giocatori sono considerati solo come un punto di partenza per
raggiungere tali obiettivi. Ibra, l’attuale capitano di Migranti
San Francesco, originario del Gambia, non ha perso tempo al
suo arrivo in Italia: il primo giorno in cui ha incontrato il suo
allenatore gli ha subito detto che il calcio è il suo biglietto da
visita. Oltre al caso del nigeriano Gabho, che ha iniziato con la
squadra di Cara Mineo (Catania) e poi è approdato in Bundesliga (Germania) nella squadra dell’Hoffenheim, l’esempio emblematico è quello del guineano Salim Cissé. In realtà, da Borgo
Massimina (squadra romana di prima categoria) Cissé, dopo un
passaggio nella squadra di Arezzo, è attualmente un giocatore della nazionale guineana e dello Sporting Lisbona, club che
milita nella massima divisione portoghese. Anche se tutti non
avranno la fortuna di arrivare ai livelli di Cissé e Gabho, a tutti
si deve garantire il diritto di sognare, di essere felice correndo
dietro a una palla e di conservare la passione dell’infanzia per
affrontare ambiziosamente il futuro.
Salute fisica e mentale
Superare lo stress da sradicamento, dimenticare le preoccupazioni e ansie legate alle sfide da realizzare ma anche al tragico passato, sono queste le principali motivazioni legate agli
aspetti psicologici che spingono i rifugiati a giocare a calcio. Il
campo di calcio si presenta quindi come uno spazio nel quale
si sviluppa una sana attività fisica e mentale. È in questo senso
che Alain, giocatore di Liberi Nantes, osserva: «Il martedì (uno
dei giorni di allenamento) per me è un giorno di festa. Il calcio
è la mia droga. Non riesco a vivere senza giocare».
Considerazioni conclusive
Dai risultati illustrati in questo contributo, emerge che lo sport
consente di abbattere i muri e di costruire dei ponti, abbracciando la dimensione competitiva, ludica e socio-educativa.
Nel contesto italiano, dove all’immigrazione vengono ancora
associati i concetti di insicurezza sociale ingabbiandola in pericolose generalizzazioni, lo sport rappresenta per i migranti,
norme burocratiche e senso comune permettendo, una valvola
di sfogo per uscire dall’isolamento logistico e mentale, uno degli spiragli per ritagliarsi uno spazio nella società ma anche per
rispettare le regole promuovendo i valori linguistici e culturali
a beneficio della società italiana.
12
"GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP
N. Porro, Sociologia del calcio, Carocci, Roma 2008
R. Siebetcheu, Lo sport come strumento di integrazione, in Centro Studi e Ricerche
Idos, Dossier Statistico Immigrazione 2015, Roma 2015, pp. 227-230
M. Valeri, La razza in campo. Per una storia della Rivoluzione Nera nel calcio,
Edup, Roma 2005
NOTE
1 - Libro bianco sullo sport, dell’11 luglio 2007, presentato dalla Commissione europea al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato delle regioni e al Comitato economico e sociale europeo.
2 - Legge del 20 gennaio 2016, n. 12, intitolata “Disposizioni per favorire l’integrazione sociale dei minori stranieri residenti in Italia mediante l’ammissione nelle
società sportive appartenenti alle federazioni nazionali, alle discipline associate
o agli enti di promozione sportiva”.
3 - Il 13 ottobre 2015 la Camera ha approvato un testo in materia di cittadinanza
con due novità: ius soli temperato (cittadinanza a chi è nato in Italia da genitori
stranieri, sulla base di alcune condizioni) e ius culturae (cittadinanza in seguito a
un certo percorso scolastico).
4 - Norme organizzative interne della FIGC (Federazione italiana giuoco
calcio).
ABSTRACT EN
This paper aims to shed light on the importance of football as
a tool for the integration and citizenship of immigrants. Based
on interviews and direct observation, the research focuses on
twelve refugee teams from different Italian cities. According
to the results of this study, football can foster social integration and identity-building of immigrants. It can also promote
tolerance, help foreign citizens overcome trauma and allow
them to interact in a positive way with Italian society.
Raymond Siebetcheu
è docente presso l’Università per Stranieri di Siena. Le sue
attività di ricerca vertono intorno ai temi dell’immigrazione
straniera in Italia e dell’emigrazione italiana in Africa nel loro
legame con lo sport, il contatto linguistico e la mediazione
linguistico-culturale.
E Ar D Fi Si
DOSSIER
Beyond Intolerance through Sports
Sport contributes to the social construction of reality: it creates a social order and helps to
convey the image of the “other”, and in some cases to solidify “stereotypes” or to confirm a
meaning of normality, thus helping to marginalise certain social categories, such as immigrants.
For these reasons, this paper presents research which gives an account, through sport, of
the relationship between the acceptance of immigrants and secondary school pupils in the
Campania region.
by Gianmaria Bottoni, Giuseppe Masullo, Emiliana Mangone
S
port, like any other cultural practice, actively
contributes to the social construction of reality
«because sport reflects society and social reality reflects sport culture» (Germano 2012, p. 35).
Sport reproduces a given social order – for example, by observing the rules of the game – in
the form of ideals and values specific to a particular group, but
not exclusive to it.1 Moreover, we must not forget how sports
– both in the past and today – help to convey the image of the
“other”, and in some cases to solidify certain “stereotypes” of
the “other” or to confirm a given sense of normality, thus help-
ing to marginalize certain social categories, such as foreigners.
Contemporary sports are criticized for focusing on competition, efficiency, and the pervasiveness of market logic. Whereas, on the contrary, if sport wants to be an answer to the current
problems and concerns posed by differences, it must be guided
by the values of well-being, cooperation and tolerance.
A new paradigm in sport culture is thus being established, as
demonstrated today explicitly in the slogan “sport for all”. A
new way of understanding sports which, according to Russo
and Meglioli, can be traced back to the 70s with «the invasion
of the inclusion of feminine athletes first and foremost, and
Un momento di riposo di una squadra di richiedenti asilo partecipante ai Mondiali Antirazzisti 2016. © Vincenzo Valentino Ventura
13
E Ar D Fi SiDOSSIER
S
egorization process;
the one underpinning
the construction of
stereotypes and social representations
of the foreigner. The
identification process
is that mechanism
which, in taking into
2,608
Sport has nothing to do with skin colour
8,96
account the stranger
Beyond differences:
2,538
Supporters insulting black players are wrong
8,96
we are relating to, rethe inclusion of
2,478
Athletes' skin colour is not important,
8,49
fers to their specific
foreigners through
what matters is their ability
characteristics which
sport
2,664
It's not fair for a black player to be part
1,20
emerge during the
How does one look
of the Italian national team
very interaction with
for a higher-order
2,056
I would not care for a black coach
,91
them and therefore
egalitarian content in
,90
2,221
My favourite champion will never be a black one
those that are not atsport? In fact, there
,69
1,889
It would bother me to have a black teammate
are already numertributable to previous
schemes and ideas
ous cases where sport
(Masullo 2015). It is
is used as a means
no coincidence that the White Paper on Sport (European Comof stimulating contact with the “other”, helping to overcome
certain stereotypes and promoting inclusion and integration
mission 2007) envisages a set of actions and measures to tackle
processes of those who are different – in this case, of the forviolence and racism and particularly the racism which still widely exists within the world of sports today. Racism, which in some
eigner. For example, sports calling for “team spirit” that bring
sporting contexts – such as football, for example – is not only
together local and foreign youngsters are good examples of
associated with hostility towards the other as a “foreigner”, but
how differences – linked to skin colour, linguistic and cultural
also exists as a general feeling of intolerance towards all forms of
diversity, and religious beliefs, etc. – are overcome thanks to the
diversity, as has recently been shown in the news of widespread
“cooperation” and sense of belonging resulting from the game.
homophobia in sports. It will therefore be up to the institutions
This is because sport, in the words of Xavier Medina, «is an into promote a new conception of sport as a useful tool aimed
strument capable of giving identity, of generating identification
not only at competition, but also at the promotion of new forms
in individuals and, therefore, of enabling them to participate,
of openness as well as reciprocity towards the foreigner. These
also symbolically, in the same reality, to share and feel part of
ideas – which find wide application in the non-profit world –2
something common; ultimately, to live together» (Xavier Medina 2002, p. 22).
must be more widely spread in the school context, starting with
physical education (PE) lessons, which must not only be a fun
Sport activities oriented in this way, are also paramount in protime, but also a laboratory for testing new forms of citizenship,
moting the fundamental step concerning interaction with the
of open-mindedness and of opposition to discrimination by
stranger which, according to Mucchi Faina, is needed in order
those presenting themselves as “normal”.
to overcome certain social stereotypes guiding the relationship
with the other; namely the transition from the process of “categorization” to that of “identification” (Mucchi Faina 2005).
The attitude towards the “stranger” in sports: a case study
Sports, when oriented towards the integration and inclusion of
Against this backdrop, the present paper analyses the existing
the foreigner, can oppose the identification process with the catrelationships between the acceptance of diversity and junior
then gradually with
that of the elderly,
the disabled, and of
immigrants who see
sport as an active and
specific answer to
their needs» (Russo,
Meglioli 2011, p. 118).
Tab. 1 – How much do
you agree with the
following statements?
MEAN
STANDARD
DEVIATION
Fig. 1 - The three indexes by gender
0,4
Male
0,3
Female
0,2
0,1
0
-0,1
Racial intolerance
Intolerance of sexual diversity
-0,2
-0,3
14
"GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP
Disability intolerance
E Ar D Fi Si
DOSSIER
Fig. 2 - The three indexes by cultural capital
,2000000
Low
-,1500000
-,1000000
Average
High
-,0500000
-,0000000
-,0500000
Racial intolerance
-,1000000
-,1500000
Disability intolerance
Intolerance of sexual diversity
-,2000000
-,2500000
high school pupils in the Campania region. This territory has
been the object of research aimed at analyzing sporting activities in pre-adolescent subjects, starting with the current
literature and, in particular, with the most recent empirical
research on the subject (Grimaldi 2011; Pioletti and Porro,
2013). The specific aim has been to verify whether and to
what extent certain common misconceptions about the other have roots. The concept of “otherness” is here considered
only as “the foreigner”, while the research in its entirety also
involved the analysis of disability and homosexuality, and this
supposed diversity proves to be a criterion for evaluating the
skills and performance of athletes.
The respondents’ age group is of major importance, for it is
during this development phase that the value and thought
systems of the subjects start to take shape. Numerous studies
have shown that the overall level of ethnic prejudice has gradually declined since the 70s, and that this decline is due to the
apprehension, in childhood and adolescence, of those social
norms oriented towards eliminating prejudices and fostering
the feeling of tolerance (Brown 2011; Rutland et al. 2005). Indeed, young people, compared with adults, show lower levels of prejudice and intolerance against persons perceived as
Tab. 2 – The “Closed” ones
and the “Friendly” ones
according to gender and
cultural capital
CLOSED
FRIENDLY
Male
21,9
78,1
Female
10,9
89,1
Low cultural capital
21,4
78,6
Avg. cultural capital
12,6
87,4
High cultural capital
10,5
89,5
different (Pettigrew and Meertens 1995; Vala and Costa-Lopes
2010). The debate about teens and prejudice is still open, although there is a substantial agreement among scholars that
younger subjects are more open to diversity and less prone to
prejudice than adults.
The surveyed population is made up of students from the final
year of secondary school in the school year 2013-2014 of all secondary schools in the Campania Region. The sampling plan allowed us to obtain a representative sample of the population in
order to allow the detection of valid information to then answer
the cognitive objectives of the project. The gathering of the
sample was carried out through a mixed sampling procedure:
first a multistage sampling method, which allowed us to identify
the municipalities hosting the schools for each province of the
Campania region, and then a cluster sampling. This led to us extracting the municipalities (first stage) and then extracting the
educational establishments from these groups (second stage).
In summary, the sample size was composed of 804 cases: of
which 49,6% were male and where the average age was 13.
Clearly the analysis will not consider the age of the subjects as
an explanatory factor, since, as stated above, the unit of analysis is determined by pupils from secondary schools, thus making it impossible to compare them with older individuals. But
an indirect confirmation of the greater openness of youngsters
with respect to adults towards persons perceived to be different stems from an analysis of the answers to a series of questions designed to detect the degree of acceptance of “different”
individuals in sports. Considering the open attitude towards
diversity in sports makes the survey even more significant given the numerous and constant episodes of intolerance periodically occurring, mainly on the football pitch, but also in other
sports. As we can see in Tab. 1, the statements with which the
respondents tend to agree on more all concern accepting subjects of a different skin colour.
The sample is therefore highly homogenized towards a total
acceptance of differences as well as individuals with such differences. But the analysis of univariate distribution does not
allow for a reading of the studied phenomenon. Therefore, we
employed the multiple factor analysis by applying the method of principal component analysis in order to obtain a less
fragmented image. The analysis revealed the presence of three
15
E Ar D Fi SiDOSSIER
S
Oltre l’intolleranza
con la pratica sportiva
L
a pratica sportiva contribuisce alla costruzione sociale della realtà: lo sport riproduce un
ordine sociale e contribuisce a veicolare le
immagini dell’altro, e in taluni casi a solidificare “stereotipi” o a confermare un’accezione di normalità contribuendo a mettere ai margini alcune categorie
sociali come gli immigrati.
Si afferma così un nuovo paradigma nella cultura sportiva, che oggi trova esplicitazione nello slogan lo “sport
per tutti”. In realtà, sono numerose le esperienze che
utilizzano lo sport come mezzo per stimolare il contatto con l’altro, favorendo processi di integrazione dei
migranti. Gli sport che richiamano “spirito di squadra”,
unendo giovani autoctoni e giovani stranieri, costituiscono dei validi esempi per cogliere come le differenze si annullino, grazie alla “cooperazione” e il senso di
appartenenza che scaturisce dal gioco. Non è un caso
che il Libro Bianco sullo Sport preveda un insieme di
azioni volte a contrastare il razzismo che emerge fortemente all’interno del mondo sportivo. Spetterà dunque
alle istituzioni favorire un nuovo concetto dell’attività
sportiva come strumento utile e finalizzato non solo
all’agonismo, ma anche a promuovere nuove forme di
apertura e reciprocità verso l’immigrato.
Sulla base di queste premesse, il contributo presenta
una ricerca che dà conto, attraverso la pratica sportiva,
delle relazioni tra l’accettazione dell’immigrato e i ragazzi delle scuole medie nella regione Campania. L’obiettivo è stato quello di verificare se e in quale misura
sono diffusi alcuni pregiudizi sul diverso (soggetti di
pelle nera, gay/lesbiche, diversamente abili), qui considerato solo nella fattispecie dei soggetti di “pelle nera”.
Lo studio ha fatto ricorso alla multiple factor analysis
per la costruzione di un indice di intolleranza. Dai dati
emerge che anche il capitale culturale incide sul grado di rifiuto/accettazione di soggetti di “pelle nera”:
al crescere del capitale culturale degli intervistati l’atteggiamento di rifiuto nei confronti di questi soggetti
decresce progressivamente. L’indice ottenuto è servito
per realizzare una cluster analysis che ha prodotto una
tipologia di soggetti basata sull’orientamento di chiusura o apertura verso soggetti di “pelle nera”: i “chiusi”
e i “disponibili”.
I dati emersi dalla ricerca mettono in luce come gli
alunni delle scuole medie campane si mostrano disponibili nei confronti dei soggetti “etnicamente” diversi.
Questo è un risultato di notevole importanza in quanto
intervenendo sulla dimensione dell’accettazione delle
differenze, attraverso la pratica sportiva, si potranno
scongiurare episodi di razzismo e discriminazione che
periodicamente si consumano.
16
"GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP
components accounting for 43% of the total variance. These
components refer to the subjects included in the total batch; in
particular, the second one concerns the refusal/acceptance of
black people and includes items such as “[m]y favourite champion will never be black” and “[i]t’s not fair for a black player
to be part of the Italian national team”. In order to overcome
some of the constraints inherent in the technique adopted, we
employed the “principal component analysis in two stages” (Di
Franco, Marradi 2003). It is a long iterative procedure, aimed at
selecting a few clusters of variables identifying the most significant relationships among them and producing a more refined
summary of the information. The variables selected by the technique of the two stages were subsequently combined into three
indices through the single factor analysis (intolerance of sexual
diversity, racial intolerance and disability intolerance). The bivariate analysis comparing the three indices reveals interesting
aspects: women, for example, are the gender with positive values of “intolerance level” with regard to black subjects (Fig. 1).
Also cultural capital – constructed by reducing the space of the
attributes of the variables related to the level of education of
the parents of the boys interviewed – affects the degree of rejection/acceptance of diversity: an increase in the cultural capital of the respondents leads to a progressive decrease in the
attitude towards “different” individuals. As we can see in Fig.
2, in particular, a low level of cultural capital appears to have
a significantly negative impact on the degree of openness and
acceptance of the subjects perceived as different.
The three indexes seen above, obtained through the analysis
of the main components in two stages, subsequently helped in
realizing a cluster analysis; the technique used is the “non-hierarchical clustering with K-means”. The cluster analysis reveals the existence of two exclusive groups that we might call
“closed” and “friendly”. The first one, representing only 16,3%
of the sample, shows positive scores (please note that the three
indices spot positive polarity in the rejection dimension and
negative polarity in the opposite acceptance dimension) on
all three indices of rejection/acceptance, thereby showing a
clear attitude of narrow mindedness against those individuals
identified as “carriers of diversity” (gay/lesbian, black people,
the disabled). On the opposite side, the “friendly” ones, which
make up 83,7% of the sample, show negative scores on all the
indices, thereby revealing an attitude of total acceptance towards “different” subjects. This essentially indicates that the
three groups of intolerance identified by the principal component analysis, namely towards black people, sexuality and
disability, actually underlie a single general factor of second order which could be considered as a general attitude of narrow
mindedness / openness towards diversity which influences the
three identified sub-groups.
Interestingly, although the sample of respondents was highly
prone to display an attitude of acceptance, female students are
more willing and open to diversity than male students. Infact,
78% of males fit into the “friendly” category, compared to 89%
of girls, while of course the opposite is the case for the “closed”
category (22% males vs. 11% females, Tab. 2). Here, too, cultural capital emerges as a factor which has significant influence
over the attitude of rejection/acceptance of diversity: together
with cultural capital, the percentage of subjects belonging to
the “friendly” category gradually increases, going from 78,6%
E Ar D Fi Si
DOSSIER
among those with low cultural capital to almost 90% for students who enjoy a high cultural capital.
Interestingly, being “closed” or “open” towards having black
people as teammates or coaches, or being willing to have them
as one’s favourite athletes or not being against them playing
in the Italian national team can influence the attitude and values associated with sports. In summary, it can be said that the
“friendly” ones concerning the values associated with sports
show an attitude more oriented towards respect for others,
where sport is not intended as a means of achieving wealth but
as a tool for sharing moments with others without the pressure
of having to win, or even resorting to illegal means.
The dimension of equality is also of great importance, as well
as the power that sports can exercise in dismantling all the
differences between individuals through its “homogenizing”
effect which sees the eradication of all dysfunctional identities
in favour of a common feeling, whose vehicle is sport. Asked
whether sport makes people equal, the sample focuses on three
response options, “Yes”, “No”, “I do not know”, with a slight
prevalence of “No” – 37% “No”, 32% “Yes” – while the rest of the
sample does not state an opinion. The equality front is affected
not only by gender differences, meaning that boys believe more
than girls that sport makes people equal; an opinion held also
by teenagers with the lowest sporting capital and those who
have a very positive opinion about the benefits of sport.
In this regard, those falling into the “friendly” category appear more optimistic, arguing that sport can help erase differences. Indeed, 33% of the “friendly” ones declare that sport
makes all equal, as opposed to 23% who think the same in the
“closed” category.
acknowledged by bodies promoting sport, as associations of social promotion of national importance» (2011, p. 123).
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cross-national analysis, in «Análise social», 45(195), 2010, pp. 255-275
Conclusions
The analysis highlighted how students in secondary schools in
the Campania region show remarkable levels of acceptance of
diversity.
Another interesting aspect emerging from the data is that a
higher acceptance level is given to “ethnic” diversity. In other
words, if in general the respondents are very open and friendly
with regard to all of the three categories analysed (black people,
gays/lesbians, the disabled), they appear to be a bit more open
to “ethnically” different subjects.
This seems a remarkably important achievement for, by intervening with the acceptance of differences, perhaps through
specific lessons devoted to the theme of diversity and the respect for others, in the future – given that our respondents are
secondary school pupils – we will be able to ward off the many
incidents of racism and discrimination regularly occurring and
which in the most extreme cases – in the form of what we commonly call “bullying” – often lead to the extreme consequence
of death, sometimes self-inflicted, of those who suffer this
abuse.
Gianmaria Bottoni
is PhD student in methodology of social sciences at Sapienza University of Rome (Italy) and he is visiting scholar
at Department of methodology and statistics of University of
Utrecht (Netherlands).
Giuseppe Masullo
is a researcher in sociology at University of Salerno (Italy). His
research has focused on the disadvantaged situations resulting from the interplay of the psychological and social vulnerability characterizing migration and those relating to gender.
Emiliana Mangone
NOTES
1 - As Germano further states: «Sport influences society and vice versa, in the
sense of an orderly system of meanings and symbols according to which social interaction takes place, i.e. a precise symbolic order for the ever more
active sporting publice» (2012, p. 36).
is associate professor of sociology of culture and communication at University of Salerno (Italy) and she is a director of
International Centre for Studies and Research Mediterranean
Knowledge.
2 - In this regard, Russo and Meglioli state that «the philosophy of sport reflects, for all, in fact a universal nature and a solidarity mission legitimately
17
E Ar D Fi SiDOSSIER
S
Sport et immigration.
Changements sociaux et pratiques
d’intégration en Europe
Dans quelle mesure le sport joue-t-il un rôle déterminant dans le processus d’intégration des
migrants dans les sociétés européennes?
Un sociologue français apporte quelques éléments de réponse.
Entretien avec W. Gasparini recueilli par Giovanna Russo
L
e sport est l’une des activités les plus populaires et largement répandues dans la société
contemporaine. En plus d’améliorer le bienêtre de la population en termes de bonne santé, il joue un rôle important dans la cohésion
sociale en offrant des possibilités de rencontres
et d’échanges entre personnes de différentes ethnies, sexes, capacités, nationalités et cultures, renforçant ainsi la « culture du
vivre ensemble » (Conseil de l’Europe 2013, doc. 1, p. 2).
Le fait de reconnaitre au sport la capacité d’être un véhicule
de l’intégration de la diversité – en confirmation du dialogue
interculturel à niveau européen (ibid.) – en atteste son importance dans le débat actuel sur l’intégration et le multiculturalisme, dont les dilemmes apportent des nouvelles quotidiennes aux médias.
Dans cette optique, il est légitime de se poser certaines questions, par exemple : Existe-t-il un lien entre la construction
d’une société multiculturelle et la diffusion des activités sportives ? Quelles significations, valeurs et paradoxes coexistent
aujourd’hui dans l’intégration de la culture sportive européenne ? Dans quelle mesure le sport peut-il décrire une société multiculturelle ? À cet égard, l’habitus « sportif » (Bourdieu
1975, 1998)1 fonctionne-t-il comme un domaine de compétition
entre migrants et autochtones ou bien, dans la société contemporaine, est-il un espace d’intégration pour des nouvelles générations de citoyens ?
De ces questions et d’autres, j’ai discuté avec William Gasparini,
professeur de sociologie du sport à l’Université de Strasbourg,
et titulaire de la Chaire Jean Monnet en Sociologie européenne
du sport (pour la période 2015-2018), engagé sur ces questions
de recherche depuis de nombreuses années.
Dans l’interview qui suit, le sociologue français met en évidence quelques points clés de l’expérience sportive en France,
en la confrontant avec celles italienne, allemande et anglaise.
Discuter de sports et immigration met en évidence la nature
multidimensionnelle du sport, sa nature de « fait social total »
(Mauss 1965), là où il apparaît comme un lieu d’inclusion, et au
18
"GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP
contraire, de discrimination et de «racisme ordinaire ».
Donc, le sport se révèle un miroir pour montrer une société
multiculturelle comme celle de la France. En effet, au cours du
vingtième siècle s’établit dans ce pays un modèle d’intégration
culturelle laïc à travers les deux grandes agences d’enseignement : l’école et le sport. Un modèle qui, tout en reconnaissant
la « double identité » des immigrants, a aussi montré ses limites:
la présence de forts stéréotypes ou bien la tentative manquée
de reconnaître l’égalité et la diversité pour tous les groupes ethniques de la nation.
Tout ceci n’a pas arrêté la naissance d’une culture sportive de
l’intégration qui a trouvé sa scène principale dans les terrains
de jeux: le football, plus que les autres sports, est une voie d’ «
ethnicisation » pour la société française.
G. R. – Le sport est-il un fait social qui porte à la
discrimination ?
W. G. – Il y a deux façons de répondre à la question, le sport est
un espace où il y a moins de discrimination à partir du moment
où les joueurs ont un bon niveau de pratique. Par exemple,
dans le football, dans toutes les équipes, il y a des joueurs qui
viennent de différents pays et de l’immigration (africaine subsaharienne, algérienne etc.) parce que ce qui est mis en avant
dans le sport c’est la capacité sportive et ce n’est pas l’origine.
Mais, par contre, parmi les amateurs il y a plus de discrimination. J’ai en effet constaté dans mes enquêtes sur le sport dans
les petits villages que, là, il y a plus de discrimination. Par
exemple, dans les petits villages d’Alsace, du fait de la proximité de l’Allemagne, il y a beaucoup de Turcs qui jouent au
football. Ils entendent des insultes raciales de la part des spectateurs, comme « sale Turc », c’est une forme de « racisme
ordinaire » ; de l’autre coté, parmi les joueurs entre eux, il y
a souvent des petites insultes, surtout de la part des Alsaciens
qui accueillent des Turcs, des Maghrébins. Ce qui fait que les
Turcs, par exemple, ont créé leurs propres clubs – on appelle
cela des « clubs communautaires » – où ils jouent entre Turcs.
On ne trouve pas le phénomène des clubs communautaires à
E Ar D Fi Si
DOSSIER
haut niveau, parce que dans les clubs, comme le Paris St. Germain, le Lyon etc., il y a des immigrés, des Algériens et des
Africains subsahariens. Je dis toujours: lorsqu’on est bon, l’intégration marche bien, c’est lorsqu’on est amateur qu’il y a des
problèmes d’intégration.
C’est pareil dans tous les espaces sociaux, les universités, etc.
Il n’y a pas plus de discrimination dans le sport que dans la
société. S’il y a de la discrimination dans la société, il y en a
dans le sport.
G. R. – Quelle est, à votre avis, la raison des insultes
racistes adressées à Mario Balotelli, dirigées directement
vers sa personne ?
W. G. – En France aussi, il y a eu des insultes visant des joueurs
noirs de haut niveau, mais actuellement, les lieux où il y a le
plus d’insultes contre les joueurs noirs, sur le terrain, ce sont
la Russie et la Pologne. En effet, cela se passe souvent dans les
pays qui n’ont pas eu d’immigration. En France, par exemple,
on est davantage habitués à avoir des joueurs noirs parce que
dans les colonies françaises il y avait des gens noirs: nous avions
les Algériens, les Marocains, les Tunisiens, on est un peu plus
habitué… Le sport, en France, a contribué à contraster le racisme : le fait de voir des footballeurs africains a contribué à
supprimer des stéréotypes. Cela ne veut pas dire qu’en France
il n’y a pas de racisme, au contraire, il y a du racisme, par
exemple il y a le Front national qui est un parti raciste, mais le
sport à aidé quand même, en ce qui concerne la population générale, à admettre plus facilement les Noirs dans le travail. En
Italie, vous avez moins de tradition d’immigration, et donc les
joueurs noirs c’est quelque chose qui dans la tête des supporteurs, mais pas tous, peut-être les supporteurs de droite, n’est
pas admissible.
Il faut peut-être chercher à comprendre qui sont ceux qui
lancent les bananes… En France, nous savons que, parmi les
fans, ceux qui adoptent des gestes racistes, appartiennent dans
la prévalence aux partis de l’extrême-droite.
Donc ce phénomène de rejet pour la couleur de la peau existe
dans beaucoup de pays, mais il est beaucoup plus fort dans les
Zinedine Zidane. CC BY-SA 2.0 by Raphaël Labbé
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E Ar D Fi SiDOSSIER
S
pays qui n’ont pas eu la tradition de l’immigration, comme l’Italie qui a été longtemps un pays d’émigration et plus récemment
d’immigration. C’est peut-être une des explications.
G. R. – Si j’ai bien compris, la politique du président Chirac
en 1998, quand l’équipe a gagné la Coupe d’Europe de
football, et après la Coupe du Monde, était une opération
de communication pour montrer que la société française
est ouverte et accueille tout le monde.
W. G. – Oui,… « Black, blanc, beur », c’était le slogan… 1998
est un événement important pour la politique et le sport, parce
qu’il faut noter que l’équipe que les journalistes disent “multiculturelle”, c’était surtout une équipe française. En effet,
l’équipe de France est le symbole de cent ans d’immigration, la
constitution de l’équipe c’est l’histoire, en raccourci, et le résultat de la politique française des cent dernières années…
G. R. – En comparaison avec l’expérience française, peuton dire qu’il existe une politique d’intégration à travers le
sport à partir de la présidence de Jacques Chirac ?
W. G. – D’abord, il faut dire que la France, avec les USA, est
le pays au monde qui a connu la plus grande vague d’immigration : depuis le XIX siècle elle a accueilli de nombreuses
vagues d’immigrés. C’est important de le dire, parce que le modèle d’intégration se base sur cette histoire de l’immigration.
Le plus grand pays-cible c’est les Etats-Unis, puis la France.
Depuis 1890 nous avons reçu des Italiens, des Espagnols, des
G. R. – En novembre 2005, toutes les banlieues protestent,
Portugais et après, avec la deuxième vague, les Maghrébins,
il y a des violences, pendant beaucoup de semaines, dans
puis avec la troisième vague,
toutes les villes de France,
encore des Italiens, Algériens
pourquoi donc ?
et des Africains subsahariens.
W. G. – Alors… en 1998 il y a
L’Allemagne a reçu des imeu beaucoup d’instrumentaliJe crois que le sport, notamment le football, est
migrés seulement à partir de
sation politique de ce résultat
le laboratoire de l’ethnicisation de la société
1960, avec l’arrivée des Turcs,
sportif pour montrer que la
française.
l’immigration la plus forte en
France était un pays multiAllemagne. En plus, la France
culturel et qu’il n’y avait pas
n’est pas un pays d’émigrade problèmes, alors que, au
contraire, il y avait des cas de
tion : les Français ne sont pas
discrimination, qui avaient été un peu cachés. Le sport a été
partis, n’ont pas émigré.
le “paravent”, on a mis en avant la réussite dans le sport et on
Donc, le modèle d’intégration français s’est construit sur cette
a oublié de dire qu’au niveau des amateurs et dans le champ
base historique et sur la base de la laïcité. Pour cela il est impordu travail il y avait des discriminations. Le sport a donc été
tant de parler du modèle français d’intégration avant de parler
utilisé pour communiquer à propos du “vivre ensemble”, qui
du sport, car le sport s’intègre dans ce fond historique et soexiste, mais qui, en même temps, n’est pas la réalité. La réalité
ciologique. La laïcité c’est la séparation entre l’Etat et l’Eglise,
en France c’est qu’il y a des ghettos dans les banlieues, surtout
à partir de 1905. Donc, quand les immigrés sont arrivés, tant
dans les banlieues des grandes villes, Paris, Lyon, Marseille…
qu’ils étaient italiens ou espagnols il n’y avait pas de problème,
Le terme “banlieu” n’existe qu’en France, en Italie vous dites
car c’était la même religion, mais l’intégration par le sport des
« periferia » mais cela n’a pas le même sens… et en Allemagne
Italiens et des Espagnols dans les équipes nationales était diffiil n’y a pas de banlieues.2
cile. Il y avait du racisme anti-Italiens, ce n’était pas un racisme
Qu’est-ce que ce sont, les banlieues? Jusqu’en 1970, l’immigrade religion mais un racisme ethnique. Il y avait des stéréotypes
tion était masculine, basée sur les travailleurs qui venaient pour
sur les Italiens, donc, au début, on ne les accueillait pas dans
travailler. Les familles ne pouvaient pas venir. En 1970, l’immiles clubs. Dans les années 1910, 20 et 30, en France on avait
gration a été ouverte au regroupement familial, en autorisant
beaucoup de clubs italiens de sport, football, cyclisme et boxe.
les familles à venir en France. Toutes ces familles avaient besoin
L’intégration passe par l’école et par le sport. En France il y a un
d’être hébergées, et on a construit, dans les “périphéries”, les
modèle d’intégration qui passe par l’école, c’est un paradigme
banlieues. Mais le but de ces tours, de ces logements, au délaïc. Jusqu’en 1970/80, on parlait d’un modèle d’ “assimilation“,
mais après 1980 on a parlé d’un modèle d’“intégration” : qu’estpart, c’était de donner une maison aux ouvriers et aux classes
ce que cela veut dire? “Intégration”, pour la France, signifie
moyennes, selon une idée assez visionnaire: ces banlieues ont
“oublier” les origines géographique mais pas l’identité sociale et
créé les tours d’appartements mais aussi la crèche pour les enculturelle. En France, il y a beaucoup de Franco-Algériens, Franfants, l’école, les terrains de football. C’était une vision adressée au vivre ensemble, d’abord. Mais, lorsque les immigrés sont
co-Marocains, on reconnaît donc les deux identités. L’intégraarrivés, les Français ont quitté ces quartiers, progressivement.
tion à la française c’est : on est français par les valeurs, mais on
Ils sont allés acheter des petites maisons plutôt dans les petites
a une origine qui vient d’ailleurs, et cette double identité est une
villes et donc progressivement les banlieues sont restées des
richesse. Une identité double, une nationalité double. Zidane
lieux de résidence pour les immigrés, elles sont devenues des
pouvait choisir de jouer dans l’équipe algérienne, mais il est né
ghettos, ainsi que leurs écoles, alors qu’avant il y avait mixité.
en France, il est français… En France, la majorité des Français
Cette séparation s’est accentuée, avec une spirale du chômage
issus de l’immigration, Algériens et Marocains, travaillent ou
à partir de 1980, alors que la décision des regroupements avait
vont à l’école. Il y a des discriminations dans le travail, c’est
été en 1970, quand il y avait beaucoup de travail. En 1980, on
vrai, par exemple pour trouver un travail et un logement, mais
a eu la crise, qui a créé le chômage, le chômage a créé le Front
pas dans le sport car les jeunes algériens, ou français d’origine
National. Le FN est né en 1982, en jouant sur les peurs. Dans
algérienne, font du sport, et il n’y a aucun problème pour jouer,
ces années nous avons eu les premières émeutes dans les banle problème vient après, quand ils sont adultes…
20
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E Ar D Fi Si
DOSSIER
lieues où des voitures ont brûlé, et où il y a eu plus d’actes de
violence. Les émeutes ont commencé en 1982, d’abord à Minguettes, la banlieue de Lyon, et ensuite dans d’autres villes,
jusqu’en 2005, quand deux mineurs se sont refugiés dans une
cabine électrique est y sont morts.
Après 2005, il y a eu des mouvements de la part des jeunes, des
chômeurs, mais aussi de gens violents. Donc il y a eu ces mouvements des banlieues en 2005, un moment pendant lequel en
France il y avait aussi une société qui se transformait, il y avait
en effet aussi un vide politique en relation au référendum européen, lorsque la société française a refusé le traité européen. À
cette époque, la France ne voulait plus continuer à rester dans
l’Union européenne, parce que l’Europe devenait trop libérale
et aussi parce qu’il y avait des problèmes sociaux en France. Il y
avait un grand débat en France autour de ces questions, on dit
qu’à partir de ce moment la crise du modèle d’intégration “à la
française” est devenue évidente.
Les facteurs de crise sont plusieurs : le modèle de l’Etat ne
marche plus bien, il y a beaucoup de discriminations, le chômage augmente et l’école ne fonctionne plus comme un ascenseur social. En France c’était important le modèle d’ascenseur
social représenté par l’école : les immigrés, comme moi par
exemple, qui avaient fait des études ont atteint un haut niveau
social grâce à l’école publique. Et on constatait que cela, en
2005, ne fonctionnait plus, il y avait une panne.
G. R. – Y a-t-il maintenant d’autre modèles d’intégration
ou bien il n’y a aucun modèle ?
W. G. – Dans toute l’Europe on réfléchit sur des nouveaux
modèles de citoyenneté. En France on est allé vers un modèle
basé sur l’égalité avec la diversité, qui est un modèle qui n’est
pas français mais anglo-saxon. Le modèle de la diversité signifie faire de la discrimination positive, par exemple réserver des
postes de travail pour les minorités. On a essayé de mettre en
place cette formule, mais je pense que ce n’est pas le bon modèle. Les attaques terroristes de 2015 montrent que ce modèle
est en fait très loin de reconnaître et d’accepter la diversité.
On est allé trop loin sur le modèle de la diversité en France,
parce qu’on a reconnu trop de pouvoir aux religions, quand
le modèle laïc ne reconnaît en France aucune religion, toutes
sont au même niveau. Cependant, de plus en plus, il y a eu des
revendications religieuses en France, de plus en plus depuis
2005/2010, selon l’idée que, pour avoir la paix sociale dans
les banlieues, il faut donner du pouvoir aussi aux groupes religieux, aux leader religieux dans les banlieues et aussi dans le
sport, car on a des clubs de sport avec des bases de religion,
basés sur la religion. Il s’agit d’une minorité dans les banlieues,
mais on a donné un peu de pouvoir pour avoir la paix sociale,
comme en Belgique.
G. R. – Organisent-ils des championnats entre eux ?
W. G. – Non, pas en France. Il y a eu des expériences, mais en
Allemagne où, pendant 4 ou 5 ans, il y a eu un championnat
de football seulement pour les Turcs, pendant les années 1990.
Maintenant cela n’existe plus, car l’Allemagne applique plutôt
le modèle français. Avant, l’Allemagne avait le modèle multiculturel, elle reconnaissait les communautés religieuses. À Berlin, par exemple, il y a un quartier qui s’appelle “Kreutzberg”,
où il y a beaucoup de Turcs, et il y a 3 ou 4 clubs de football
seulement de Turcs. Il y a des écoles turques, des commerces
turcs, c’est pratiquement une ville turque. Ici on suit un modèle
allemand, mais maintenant, depuis 10/15 ans, les choses sont
en train de changer. Avant, vers l’an 2000, les Turcs ne pouvaient pas avoir la nationalité allemande, seul le droit du sang
était en vigueur, c’est-à-dire que pour être allemand il fallait
avoir du sang allemand. Depuis l’an 2000 c’est fini, maintenant
c’est comme en France, la citoyenneté est liée au droit du sol.
Maintenant l’Allemagne est encore plus ouverte que la France
pour accueillir les réfugiés syriens, parce qu‘en Allemagne il
y a une baisse démographique, le pays est en train de vieillir,
et accueillir des immigrés c’est une manière aussi d’avoir de la
main d’œuvre et de rajeunir. La France n’est pas dans la même
situation et, en effet, le président Hollande ne veut pas accueillir beaucoup d’immigrés.
Donc dans le sport, les meilleures équipes nationales sont maintenant mixtes. Mais il faut distinguer: en France, il y a les immigrés et il y a les Français des territoires d’outre-mer, comme la
Martinique et la Guadeloupe. Les habitants de ces îles ne sont
pas des immigrés, ce sont des Français des territoires d’outremer. Dans l’athlétisme, tous les champions viennent de la Martinique ou de la Guadeloupe, ce ne sont pas des immigrés, mais
cela dépend aussi du type de sport. Par exemple, dans la course
d’endurance, ce sont plutôt des Français originaires de l’immigration algérienne et marocaine, alors que dans la course de
vitesse ils viennent plutôt de la Martinique et de la Guadeloupe.
Dans le football, par exemple, actuellement il y a des joueurs
principalement algériens comme Benzema, ou Zidane.
Dans le basketball il y en a peu des deux origines, dans le cyclisme il n’y a pas d’immigrés, et dans la natation non plus.
Dans les sports populaires nous avons beaucoup de fils d’immigrés: le football, par exemple, est très populaire en France,
dans l’équipe nationale ils sont tous fils des classes populaires.
Dans le tennis il y a Yannick Noah, qui est fils de Camerounais,
mais son père appartenait au plus haut niveau social.
Donc, la question est plutôt sociale, il faut toujours relier le social avec le culturel pour étudier le sport et l’immigration. Dans
les sports bourgeois, par exemple l’équitation, il n’y a pas d’immigrés, dans le ski non plus nous n’avons pas d’immigrés. Il faut
donc regarder de près dans quelle pratique sportive il y a des
enfants d’immigrés, Français issus de l’immigration, normalement ce sont des sports populaires et si nous avons quelques
exceptions ce sont plutôt des enfants qui viennent des milieux
sociaux élevés.
Par exemple, à Strasbourg nous avons une communauté turque
qui est de très haut niveau. Ce sont des fonctionnaires du
Conseil de l’Europe, nous avons aussi des professeurs d’université qui sont turcs, les fils de cette élite turque pratiquent des
sports tels que le tennis, l’équitation. Donc, c’est un problème
social plutôt qu’un problème d’immigration. Mais les Turcs qui
sont des travailleurs, des ouvriers, ils font du football dans les
clubs. J’ai fait une recherche sur les clubs turcs et j’ai remarqué
que tous ceux qui pratiquent le foot dans les clubs des Turcs
sont ouvriers ; les Turcs d’un plus haut niveau social ne jouent
pas au football, ils jouent au tennis, au golf, etc.
Donc, c’est un problème de capital social et capital économique… et culturel. Ce n’est pas un problème d’origine, c’est
une question culturelle liée à la famille.
Je crois que le sport, notamment le football, est le laboratoire
21
E Ar D Fi SiDOSSIER
S
Sport e immigrazione.
Cambiamenti sociali e pratiche
di integrazione in Europa
L
o sport è una delle attività più diffuse nella
società contemporanea: nell’essere strumento
atto a migliorare il benessere psico-fisico della
popolazione in termini di stili di vita sani, esso riveste
anche un importante ruolo di coesione sociale fornendo
opportunità di incontri e scambi fra persone di differenti
generi, culture, capacità, nazionalità, rafforzando in
tal modo la “cultura del vivere insieme”. Riconoscere
allo sport la capacità di essere veicolo d’integrazione
delle diversità – a conferma dell’attenzione al dialogo
interculturale a livello europeo – ne attesta l’importanza
nel dibattito attuale su integrazione e multiculturalismo,
le cui problematiche alimentano quotidianamente lo
storytelling mediatico.
In quest’ottica è legittimo porsi alcuni interrogativi, per
esempio: quale nesso produttivo esiste fra la costruzione di una società multiculturale e la diffusione delle
pratiche sportive? Quali significati, valori e paradossi
coesistono oggi nella cultura di integrazione sportiva
europea? Quale efficacia ha lo sport nel descrivere
una società multiculturale? In questo contesto, l’habitus “sportivo” funge da campo di competizione tra
migranti e autoctoni oppure, nella società contemporanea, è spazio di integrazione per generazioni di nuovi
cittadini?
Nell’intervista al sociologo William Gasparini (professore di Sociologia dello sport presso l’Università di
Strasburgo e titolare della cattedra J. Monnet) vengono
argomentati alcuni punti chiave dell’esperienza sportiva in Francia, comparandola a quella italiana, tedesca
e inglese. Il modello di integrazione culturale francese,
laico nella sua essenza, e trasmesso attraverso le due
agenzie educative principali – la scuola e lo sport – ha
nel tempo evidenziato pregi e difetti.
L’esplosione delle rivolte nelle periferie francesi, create
per ospitare le famiglie degli operai ma poi abbandonate dai francesi e lasciate nel degrado, ha fatto emergere improvvisamente il problema.
Il razzismo e la discriminazione si osservano soprattutto nel calcio giocato dagli adulti “a basso livello”, mentre tra i bambini e nelle grandi équipe non lo si rileva.
Si registra però, soprattutto nello sport amatoriale, la
persistenza di forti stereotipi e l’impossibilità di riconoscere l’uguaglianza fra i vari gruppi presenti nella nazione. Dall’altro lato si sperimenta, soprattutto attraverso il
calcio, l’attuazione di una cultura di integrazione sportiva, laboratorio di “etnicizzazione” per la società francese.
Infatti, secondo Gasparini, nel calcio di alto livello si
utilizzano con naturalezza i termini come etnia, neri, differenze, mentre il resto della società non sembra ancora preparato al tema.
22
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de l’ethnicisation de la société française. C’est ma thèse, maintenant: dans le football de haut niveau on parle de façon naturelle d’ethnie, de Blacks, de différences, tandis que le reste de la
société ne paraît encore pas préparé à la question. Des grands
entraîneurs, en France, ont dit, par exemple, que les Blacks son
plus forts que les Blancs, les Blacks sont meilleurs en défense
qu’à l’attaque… Ces types de discours sont normalement acceptés de la part des professionnels du football de haut niveau,
mais je crois qu’il faut dire que ce ne sont que des stéréotypes
racistes ordinaires.
NOTES
1 - L’habitus selon Bourdieu [1983] est un moyen de se déplacer dans l’espace
social dans lequel chaque individu est inséré. Il est le moteur de pratiques
sociales considérées comme un ensemble de stratégies et de dispositions
durables qui guident les agents sociaux dans la reproduction de la réalité
environnante.
2 - Le terme désigne les zones périphériques des grandes agglomérations
françaises, qui se sont développés à partir de 1970 en raison du grand
nombre d’immigrants provenant principalement des anciennes colonies qui,
à ce moment-là prenaient leur indépendance de la France.
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Giovanna Russo
Giovanna Russo, Phd in Sociologia e Politiche Sociali, è attualmente Assegnista di ricerca presso l’Università di Bologna “AMS”, dove insegna Sociologia dello sport e della comunicazione e Problematiche sociali delle diversità culturali
e religiose. Dal 2010, è membro di SportComLab – Centro
Studi e ricerche sulla comunicazione sportiva e del comitato
editoriale della collana “Sport, Corpo, Società” (Franco Angeli ed., Milano). Fra le sue pubblicazioni: 2016, Il Mondiale
delle meraviglie. Calcio, media e società da Italia ’90 ad oggi
(con N. Porro, S. Martelli); 2013, Questioni di ben-essere.
Pratiche emergenti di cultura, sport, consumi; 2011, La società della wellness. Corpi sportivi al traguardo della salute.
E Ar D Fi Si
DOSSIER
Stelle nere, calcio bianco.
Calcio, capitale e razzismo
nell’Italia contemporanea
Oggi, il calcio rappresenta in tutto il mondo un’industria economica e finanziaria capace di
influenzare molti altri settori (moda, media, pubblicità), i cui dirigenti conducono strategie di
gestione attente alla mediazione tra immagine politicamente corretta e interessi economici.
di Roberto Pedretti
I
l calciatore francese Lilian Thuram, campione
del mondo con i Bleus nel 1998 e giocatore per
le squadre italiane del Parma e della Juventus,
afferma che «si diventa neri con lo sguardo degli
altri».1 Thuram è un giocatore che si è speso, e si
spende, contro il razzismo e in particolare contro
il razzismo nel calcio. Ha osservato e vissuto questa realtà dalla posizione privilegiata di calciatore di successo, maturando
la consapevolezza della vastità di un fenomeno di cui spesso
si sottovaluta la portata culturale, politica e istituzionale. Secondo il calciatore francese quello che accade negli stadi di
tutta Europa altro non è che lo specchio della realtà sociale
in cui viviamo, una realtà che il mondo del calcio si ostina a
minimizzare adottando strategie auto-assolutorie.
La società riflessa in un campo sportivo
Per molti spettatori che ancora oggi affollano gli stadi italiani,
nonostante l’aumento del costo dei biglietti e la fatica di dover
superare gli ostacoli legati alle politiche di securitizzazione,
l’esperienza dei novanta minuti della partita rappresenta ancora un momento di grande partecipazione emotiva.2 Questo
avviene malgrado o forse in reazione alle trasformazioni radicali (economiche, istituzionali, burocratiche) che il calcio ha
conosciuto a partire dalla fine degli anni Settanta del secolo
scorso. Consapevoli o inconsapevoli di tali cambiamenti, molti appassionati di calcio che si sottomettono alle dinamiche
economiche e ideologiche che definiscono la natura del calcio
contemporaneo esperiscono la partita e i momenti che la precedono e la seguono con modalità che cercano di riprodurre
un passato idealizzato, una possibilità di mettere in atto forme di resistenza e di opposizione.
Questa reazione “romantica” al processo di espropriazione e di mercificazione totalizzante e alla trasformazione in
prodotto di consumo di massa del calcio si inserisce in un
contesto complesso e contraddittorio che riflette la natura
polimorfa delle formazioni culturali che tendono a riprodurre le tensioni e i meccanismi di negoziazione che defini-
scono provvisoriamente lo stato dei rapporti sociali. Il calcio rappresenta un’esperienza significativa per centinaia di
milioni di persone (praticanti e non), una fonte di profitto
per il capitale, un veicolo di costruzione del consenso politico, ma non può essere considerato solamente come una
sovra-determinazione delle relazioni sociali ed economiche
o un luogo in cui si riproducono meccanismi di alienazione
ed espropriazione. Dalla prospettiva degli Studi Culturali si
tratta di guardare il calcio cercando di rintracciare l’insieme di determinazioni, relazioni e interazioni costitutive del
fatto che anche il calcio possa essere assimilato a qualsiasi
altra pratica culturale. Mappare questa complessità significa
collocare il calcio all’interno del contesto storico e sociale in
cui si articola e concretizza caricandosi di significati spesso
contraddittori e ambigui, sottolineando come esso sia anche
un luogo di possibilità, uno spazio dove mettere in pratica
forme di resistenza, di autonomia e di agency. Riprendendo
le riflessioni di Antonio Gramsci, Stuart Hall scrive – a proposito della categoria del “popolare” – che la dialettica della
lotta culturale produce continuamente complesse relazioni
di resistenza e accettazione, rifiuto e capitolazione.3
La progressiva egemonia esercitata dal capitale sullo sport,
determinata dalla necessità di sfruttarne le potenzialità economiche, ha incentivato competizione, burocratizzazione e
istituzionalizzazione, non riuscendo tuttavia a sanitanizzare
e sterilizzare interamente lo spazio sportivo, spazio che resta
politicamente sensibile e al cui interno si riproducono – in forme diverse – le contraddizioni e le tensioni che attraversano
la società nel suo complesso. In questa prospettiva il calcio
rappresenta un caso esemplare di pratica e spazio culturali
che nel corso della sua evoluzione ha riflesso contraddizioni e
tensioni legate a specifiche congiunture che ha, di volta in volta, cercato di nascondere, superare o risolvere ambiguamente. È questo il caso della complessa relazione tra calcio e razzismo, una relazione che offre la possibilità di osservare come
si declinino narrazioni ideologiche e istituzionali che cercano
di articolare soluzioni e risposte a un fenomeno sociale di-
23
E Ar D Fi SiDOSSIER
S
Mondiali antirazzisti 2016. © Nicola Fossella
rompente, diffuso in ogni livello del mondo del football.4
Alcuni cambiamenti strutturali che hanno radicalmente
trasformato the beautiful game proiettandolo interamente
nell’orbita del capitale sono coincisi con l’affermarsi di politiche repressive e di controllo attivate a partire dagli anni Ottanta, inizialmente in Gran Bretagna.5 Nel giro di pochi anni,
la convergenza di interessi economici, finanziari, mediatici
e politici ha condotto il calcio nell’orbita dell’egemonia neoliberista trasformandolo in una merce globale in grado di
generare fatturati e profitti impensabili nel passato. Questo
processo ha condotto – come scrive il sociologo Richard Giulianotti – a una iper-mercificazione dello sport che plasticamente si riflette anche nelle modalità di fruizione e consumo
e nell’organizzazione degli spazi e dei luoghi sportivi.6 Basti
pensare ai processi di ristrutturazione degli stadi calcistici,
trasformati in luoghi di estrema razionalizzazione progettuale legata a complessi modelli di consumo e intrattenimento,
luoghi che riflettono precise distinzioni di classe e capacità
reddituale.7 La società di Deloitte – un player importante nel
settore delle consulenze sportive – pubblica annualmente un
rapporto circostanziato sulla situazione finanziaria dei cinque
maggiori campionati e delle venti maggiori società di calcio in
Europa. Nell’ultima analisi finanziaria relativa all’anno sportivo 2014-2015, i venti top-club del continente hanno generato
24
"GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP
6,6 miliardi di Euro di fatturato con un incremento dell’8% e
una previsione di abbattere il muro dei 7 miliardi nell’anno
sportivo 2015-2016.8
Il calcio contemporaneo si presenta oggi come un fenomeno di dimensioni globali ed è una delle industrie più floride
del pianeta, contribuendo ad alimentare significativamente altri comparti economici (moda, media, pubblicità) e
il circuito di produzione e consumo delle merci più varie
attraverso sponsorizzazioni di squadre e singoli giocatori.
I principali protagonisti dell’industria calcio sono così trasformati in icone globali, veicolo in/consapevole di interessi
economici e ideologici che riflettono l’ambiguità della narrazione neo-liberista. In particolare il tema del razzismo
diviene occasione di politiche di branding e marketing che
sono utilizzate per trasmettere un’immagine positiva del sistema nel suo complesso.
Persistenza delle logiche e narrazioni razziste
Come in altre pratiche culturali, anche nello sport si sono articolati discorsi complessi in riferimento alla razza e al razzismo che hanno favorito la diffusione di stereotipi e cliché utili per naturalizzare e istituzionalizzare relazioni di potere e
dominio reiterate nel tempo. Questi processi di adattamento
alle trasformazioni sociali ed economiche iniziati nella seconda metà dell’Ottocento hanno contribuito a sostenere e diffondere – soprattutto in epoca coloniale – un’aggressiva ideologia euro-centrica e imperialista che ancora oggi incide sui
meccanismi che determinano le politiche e il funzionamento
E Ar D Fi Si
DOSSIER
altro che una conferma dell’impossibilità di guardare il razzidelle istituzioni sportive. Nonostante gli sforzi per eliminare
smo fuori da meccanismi auto-assolutori. Questi meccanismi
o diminuire i fattori di discriminazione ed emarginazione, la
derivano anche da una visione priva di prospettiva storica e
logica della razza gioca ancora un ruolo determinante nello
rigida del razzismo, incapace di cogliere le trasformazioni nei
strutturare la pratica sportiva e nel costruire la narrazione
suoi modi di declinarsi materialmente, il che non ha mancadello sport. In questa prospettiva il calcio rappresenta un
to anche di influenzare – rendendole poco efficaci e confuse
caso esemplare ove i temi della razza e del razzismo si de– le strategie e le politiche antirazziste. Non va dimenticato
clinano in narrazioni ideologiche, a livello sia popolare che
che i ritardi e le negligenze nel contrastare questi fenomeni
istituzionale, che cercano di formulare risposte e soluzioni
si possono cogliere anche nelle lentezze mentali e culturali
ambigue e contraddittorie, spie della costante presenza di
che hanno accompagnato la riscrittura dello statuto del CONI
strutture di pensiero fortemente condizionate da pregiudizi
la cui prima redazione risale al 1942: solo con le modifiche
etnici e razziali.9
introdotte nel 1999 si sono eliminati i riferimenti alla razza e
In questo contesto vanno collocate anche molte delle campaal suo miglioramento fisico e morale (art.2). Ciò che colpisce
gne antirazziste messe in atto da organismi istituzionali come
nell’atteggiamento delle istituzioni calcistiche italiane nell’ala FIFA10 e l’UEFA11 che oggettivamente paiono servire più a
zione di contrasto al diffondersi di episodi di razzismo è antrasmettere un’immagine politicamente corretta dell’istituche l’utilizzo dei meccanismi
zione piuttosto che incidere
sanzionatori: la somministrasulla presenza più o meno vezione di multe e squalifiche,
lata di forme di razzismo ed
più che una procedura oggetesclusione strutturali.12 Ciò
I principali protagonisti dell’industria calcio sono
tiva, è una variabile legata a
appare ancora più evidente
così trasformati in icone globali, veicolo in/
fattori soggettivi che tendono
se si considera come il neoconsapevole di interessi economici e ideologici
ad articolare la narrazione
liberismo agisca nel riformuche riflettono l’ambiguità della narrazione neodel razzismo all’interno di
lare i concetti stessi di razza
liberista. In particolare il tema del razzismo diviene una prospettiva di gestione
e di razzismo cercando di sioccasione di politiche di branding e marketing
dell’ordine pubblico. A quelenziarli e mimetizzarli all’insto proposito bisogna ricorterno di pratiche che negano
che sono utilizzate per trasmettere un’immagine
dare che è ancora la Legge
la presenza strutturale di forpositiva del sistema nel suo complesso.
Mancino in vigore dal 1993
me di discriminazione.13 Nel
a fungere da modello fondamondo del calcio, attraverso
mentale per combattere il fequeste strategie si cerca di rinomeno: nonostante i buoni propositi, la normativa risente
durre le manifestazioni più evidenti di razzismo a una dimendel clima politico dell’epoca in cui è stata approvata, un consione patologica espressa da individui o gruppi organizzati,
testo sociale ancora poco consapevole delle profondità delle
isolandolo dalla dimensione storica e sociale in cui si produtrasformazioni in atto. Mentre le norme che puniscono l’uso
ce. Oppure, come spesso accade quando episodi di razzismo
di linguaggio e comportamenti razzisti sui campi di gioco e
coinvolgono figure pubbliche di rilievo, si innescano processi
negli stadi sono formalmente severe (anche se in realtà sono
di minimizzazione e banalizzazione che ambiguamente relei meccanismi procedurali annacquati a rendere complicato
gano questi episodi nell’ambito dell’infortunio lessicale, della
formulare l’accusa di razzismo), le opinioni espresse dai rapsuperficialità, della provocazione maldestra. Alcuni episodi
presentanti istituzionali, anche in sedi ufficiali e pubbliche,
recenti che hanno coinvolto esponenti di punta delle istitugodono di un trattamento diverso e di una sorta di impunità.
zioni calcistiche italiane sono segnali di queste ambiguità che
In questa prospettiva si collocano anche le numerose prese di
rifiutano di riconoscere come discriminazione e razzismo
posizione delle società calcistiche che, sulla base delle preocsi possano produrre anche in forme apparentemente banacupazioni per danni economici e patrimoniali, sono riuscite
li. Le affermazioni del luglio 2014 del presidente della FIGC
a ottenere significative riduzioni delle sanzioni e a limitare le
Carlo Tavecchio sul numero di calciatori stranieri nelle serie
fattispecie cui applicarle. Così gli stakeholders che gestiscono
maggiori (con particolare riferimento ai giocatori africani) e
il mondo del calcio italiano tendono ad articolare strategie in
quelle di carattere omofobo pronunciate del presidente della
cui si incrociano le necessità di offrire un’immagine politicaLega Nazionale Dilettanti Felice Belloli nel maggio 2015 sul
mente corretta e di proteggere i propri cospicui interessi macalcio femminile sono rivelatrici di queste modalità di penteriali ed economici. A ben guardare, un esempio significativo
siero. Non sono da meno i titoli dei media e gli interventi di
in tal senso è l’uso che è stato fatto dalle istituzioni calcistiche
alcuni opinionisti nazionali che confermano l’arretratezza e
delle norme relative alla “discriminazione territoriale”, quella lentezza culturali che coinvolgono il sistema calcio nel cola serie di comportamenti e atteggiamenti che alcuni grupgliere e fare propri i cambiamenti strutturali con cui anche la
pi di tifosi mettono in atto per offendere e denigrare i tifosi
società italiana è chiamata a confrontarsi.14 In realtà, ciò che il
avversari e che hanno come oggetto la provenienza o alcune
mondo del calcio mostra in maniera evidente – anche grazie
presunte specificità culturali e/o comportamentali. Al di là
all’enorme visibilità e interesse pubblico che genera – è prodell’evidente difficoltà nel definire chiaramente i contenuti
prio la generale difficoltà di accettare il fatto che il razzismo e
delle norme in questione, il dibattito e l’interesse mediatico
la discriminazione siano un problema diffuso e complesso, e
sviluppati su questo tema hanno oggettivamente contribuito
che la reticenza e le difficoltà di comprensione che spesso acad alimentare l’impressione che il razzismo e le discriminacompagnano i discorsi pubblici su episodi specifici non sono
25
E Ar D Fi SiDOSSIER
S
zioni di genere o di orientamento sessuale non rappresentassero una priorità da affrontare.15 Così la retorica dispensata
dalle istituzioni sportive si caratterizza per essere un misto di
severità, strategie di minimizzazione e auto-assoluzione, una
miscela di ingredienti che alimenta quei discorsi sulla razza e
sul razzismo i cui contenuti vengono naturalizzati e veicolati
nel senso comune. Questi discorsi vanno collocati all’interno
della produzione e riproduzione sociale di significati – di cui
lo sport è un tramite – che prendono forma nel contesto di
complesse relazioni e interessi sociali, politici ed economici.
La presunta irrilevanza o marginalità del fattore razziale nello
sport e nei discorsi costruiti intorno a esso sono rivelatori della
funzione egemonica che esercita il neoliberismo nell’elaborare
una strategia che individualizza il razzismo, lo riduce a fatto episodico, depoliticizzandolo e negandone il carattere strutturale.16
In sostanza si può affermare che la storia recente del sistema
calcio italiano sia significativamente rappresentativa delle difficoltà e delle resistenze che attraversano il Paese nel passaggio
da una società percepita come etnicamente omogenea a un modello più problematico, aperto ai flussi e alla circolazione globali. Non va dimenticato che l’impatto dei fenomeni migratori
che dalla fine degli anni Ottanta investono il Paese si inserisce in
una tradizione culturale che fatica a fare i conti con le avventure
coloniali del passato, con il razzismo e la retorica romano-imperiale del fascismo. L’assenza di un dibattito pubblico chiaro
e trasparente su questo momento della nostra storia impedisce
di riflettere sul contesto contemporaneo e comprendere il ruolo
che la nazione svolge in questa complessa partita, e inoltre favorisce il permanere di narrazioni che assolvono il Paese dall’avere
praticato o praticare forme di discriminazione e razzismo.17
Fuori dall’orbita delle forme istituzionalizzate e burocratizzate del calcio esistono comunque decine di realtà che operano
per pensare e praticare modalità diverse di calcio. Queste forme di resistenza e lotta si articolano in strategie che attivano
pratiche antirazziste e che cercano di costruire spazi liberi da
intolleranza e discriminazione. Spesso queste iniziative prendono forma proprio nei luoghi problematici dove il razzismo
si manifesta concretamente. Attraverso l’organizzazione di
manifestazioni sportive aperte alle minoranze etniche e la
fondazione di squadre di calcio multietniche si attivano strategie micro-politiche ove è possibile coltivare l’integrazione e
difendere i diritti umani. È il caso dei Mondiali Antirazzisti,18
una manifestazione che si svolge del 1997 grazie al sostegno
dell’UISP (Unione Italiana Sport per Tutti) che coinvolge centinaia di realtà sportive che partecipano non per vincere ma
come occasione di conoscenza, integrazione e solidarietà. Ad
Ancona, dal 2002, si gioca il Mundialito Antirazzista Assata
Shakur,19 a Palermo ha preso il via il Mediterraneo Antirazzista,20 un’occasione di incontro attraverso lo sport che si è
diffusa in altre città italiane. A Lecce e nel Salento si giocano
Calciosenzaconfini21 e Noracismcup.22
La caratteristica comune di queste manifestazioni è l’essere il risultato di processi reticolari diffusi sul territorio che
coinvolgono realtà sociali e politiche diverse ma accomunate
dall’obiettivo di utilizzare lo sport come pratica di liberazione
e integrazione.23 Accanto a queste iniziative va ricordato che
la capacità di agency – intesa come capacità di declinare bisogni e soddisfare desideri concorrenti con i meccanismi del
consumo di massa – si coglie nel proliferare di iniziative legate
26
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allo sport e al calcio che propongono politiche radicali di rifiuto dei meccanismi di mercificazione e marketing, attivando
forme di partecipazione diffusa volte a restituire a queste pratiche un vero contenuto popolare.24
«Non ci sono neri italiani» è il coro che spesso ha accompagnato l’ingresso in campo di Mario Balotelli, il calciatore italiano che più di altri rappresenta, grazie alla propria storia
e all’enorme notorietà, le trasformazioni che stanno trasformando l’Italia. Balotelli è l’obiettivo dello scherno razzista
perché non solo è nero, ma è anche italiano. L’atteggiamento
verso questo calciatore è rivelatore della fragilità identitaria
della nazione, un’identità che oscilla tra narrazioni che rivendicano la necessità di difendere un’idea di Italianità dai contorni piuttosto vaghi e riflessioni che auspicano una lettura
articolata dei cambiamenti in atto. Perché, come cantano i
napoletani Almamegretta, «Siamo figli di Annibale».25
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E Ar D Fi Si
DOSSIER
NOTE
16 - La presenza di forme strutturali di discriminazione nel calcio si mani-
1 - http://www.repubblica.it/la-repubblica-delle-idee/firen-
festa chiaramente fuori dal campo di gioco, nella quasi totale assenza di
ze2013/2013/06/09/news/thuram-60710622/.
tecnici e dirigenti appartenenti a minoranze etniche. Anche l’arrivo in Se-
2 - A questo riguardo si vedano l’introduzione della tessera del tifoso, dei
rie A del nuovo proprietario indonesiano del F.C. Internazionale di Milano
biglietti nominali, delle limitazioni alle trasferte, i filtri preventivi di acces-
è stato accompagnato da commenti rozzi rivelatori dei pregiudizi e degli
so agli impianti, l’introduzione dei tornelli agli ingressi, i controlli interni,
stereotipi diffusi ad ogni livello del calcio italiano. Al contrario, l’entrata di
ecc.
investitori americani e canadesi di origini italiane nel calcio di alto livello
3 - S. Hall, Sport without final guarantees, in B. Carrington e I. Mcdonald,
non ha provocato alcuna reazione negativa.
(a cura di), Marxism, Cultural Studies and Sport, Routledge, London 2009,
17 - Una sintesi efficace delle relazioni tra calcio, razzismo e imperialismo
p. 19.
fascista si trova nel romanzo ucronico di Enrico Brizzi L’inattesa piega degli
4 - Si veda il saggio di R. Pedretti, Il colore del denaro, il colore della pelle.
eventi pubblicato nel 2009 per i tipi di Baldini Castoldi Dalai.
Marketing, razzismo e capitale nel calcio: le ambiguità del caso Balotelli, in
18 - http://www.mondialiantirazzisti.org/.
«Altre Modernità. Rivista di studi letterari e culturali», n.14, 2015, pp.25-45.
19 - https://polisportivassatashakur.wordpress.com/.
http://riviste.unimi.it/index.php/AMonline/article/view/6531.
20 - http://www.mediterraneoantirazzista.org/.
5 - Non è un caso che questo processo avvenga durante gli anni del tha-
21 - http://calciosenzaconfini.blogspot.it/.
tcherismo. Il duro confronto ideologico-sociale e la domanda di interventi
22 - http://noracismcup.blogspot.it/.
draconiani nel campo dell’ordine pubblico si abbattè sugli stadi inglesi mu-
23 - Sono processi che - come suggerisce Nicola Porro - possono essere col-
tandone indelebilmente l’atmosfera e la composizione sociale.
locati in dinamiche che utilizzano lo sport come occasione per espandere
6 - R. Giulianotti, Sport. A Critical Sociolology, Politi Press, Cambridge,
i diritti di cittadinanza. N. Porro, Identità, nazione, cittadinanza, Edizioni
2005, p. 52.
Seam, Roma 1995, p. 168.
7 - Sebbene con ampio ritardo rispetto ad altri Paesi europei, anche in Ita-
24 - Si veda la diffusione di società calcistiche nate in tutta Europa che, con
lia si stanno imponendo modelli gestionali degli stadi fortemente orientati
l’obiettivo di restituire al calcio la sua natura popolare, si pongono in posi-
al business attraverso l’acquisizione di stadi di proprietà dei club (spesso
zione fortemente critica nei confronti delle istituzioni ufficiali.
sponsorizzati da aziende multinazionali), l’apertura di spazi commerciali
25 - Almamegretta, Siamo figli di Annibale, 1993, Anagrumba/BMG.
e la realizzazione di aree separate riservate a un pubblico privilegiato di
manager ed executive (le cosiddette aree VIP).
8 - Il report, ironicamente ma significativamente intitolato “Top of the
Table. Football Money League” è disponibile in versione pdf su http://
ABSTRACT EN
www2.deloitte.com/uk/en/pages/sports-business-group/articles/deloitte-football-money-league.html.
9 - R. Giulianotti, op.cit. pp. 74-79.
10 - La FIFA (Federation International du Football Association) è l’organismo
che governa il calcio mondiale. Fondata nel 1904, ha sede a Zurigo e l’ultimo
bilancio disponibile (2014) indica entrate per oltre 2 miliardi di dollari. Nel
2015 la FIFA è stata travolta da una serie di scandali che ne hanno azzerato
i vertici storici.
11 - La Union of European Football Associations è l’organo di governo del
calcio europeo che riunisce le federazioni nazionali. Fondata nel 1954, ha
sede in Svizzera (Nyon). L’ultimo bilancio pubblico (2013/14) certifica entrate per 1,7 miliardi di euro.
12 - Anche l’Unione europea segnala attraverso l’Agenzia per i diritti fon-
Nowadays, football is a worldwide economic and financial
industry which contributes to the revenue of many other
economic sectors (fashion, media, advertising, luxury and
mass products, etc.). The footballers – the leading figures
in this industry – have become global icons who convey
strong ideological and economic interests.
This essay investigates – with particular reference to Italian
football – how neo-liberal capitalistic interests ambiguously
use race and racism to articulate strategies and narratives
aimed at offering a positive image of football and its institutions while, at the same time, structural racism remains intact.
damentali (FRA) che nelle strutture e nelle istituzioni sportive dell’Unione
le minoranze sono sottorappresentate, in particolare nei ruoli direttivi e
manageriali. fra.europa.eu/sites/…/fra…/1199-Report.
13 - D. Bursday, One week in October: Luis Suarez, John Terry and the turn to
racial neoliberism in English men’s professional football, in «Identities: Global Studies in Culture and Power», Vol. 21, No. 5, 2014, pp. 429–447, http://
Roberto Pedretti
dx.doi.org/10.1080/1070289X.2014.924415.
14 - Si veda, a titolo di esempio, la polemica scatenata dalle affermazioni dell’ex-allenatore Arrigo Sacchi sulla presenza eccessiva di calciatori
di colore nelle squadre giovanili. «L’Italia è oramai senza dignità né orgoglio perché fa giocare troppi stranieri anche nelle Primavere: nei nostri
settori giovanili ci sono troppi giocatori di colore. » (Gazzetta dello Sport,
16/2/2015).
15 - Va ricordato che nel 2014, su pressione delle società calcistiche, le norme sulla discriminazione territoriale sono state di fatto cancellate. Declassata a semplice oltraggio, viene punita con sanzioni pecuniarie. Inoltre, va
sottolineato che la tipologia in questione era ed è del tutto assente nelle
ha insegnato per diversi anni Cultura Inglese all’Università di
Milano. Ha pubblicato saggi e articoli sulla storia e sulla cultura del Sudafrica, sullo sport e sulle sottoculture. Nel 2009
ha pubblicato (con Itala Vivan) il libro Dalla lambretta allo
skateboard. Teorie e storia delle sottoculture giovanili britanniche. 1950-2000 (2009). Nel 2012 ha curato (con Lidia De
Michelis, Claudia Gualtieri e Itala Vivan) la pubblicazione del
libro Prisma Sudafrica. La nazione arcobaleno a vent’anni
dalla liberazione. 1990-2010. Vive e lavora a Milano.
normative delle altre federazioni europee.
27
E Ar D Fi SiDOSSIER
S
Calcio e identità. I Black Italians
tra interdizione razziale
e integrazione
In Italia per decenni gli atleti stranieri o discendenti da stranieri sono stati interdetti dallo sport. In
un Paese che a lungo ha negato il proprio passato coloniale, negli ultimi anni si sta assistendo a
un cambiamento verso processi di reale integrazione, dove lo sport gioca un ruolo decisivo.
di Giorgio Caccamo
C
on oltre 33mila tesserati stranieri nei settori giovanili della FIGC (Federazione italiana giuoco calcio), il calcio svolge da
qualche decennio in Italia un importante
ruolo di promozione dell’integrazione,
anticipando l’evoluzione della società in
senso più inclusivo. La stessa integrazione nelle scuole – insieme all’insegnamento della lingua italiana per gli studenti
di origine straniera – può essere favorita dalla pratica sportiva: proprio il calcio si è rivelato uno strumento valido e
un’opportunità per promuovere l’intercultura e il dialogo tra generazioni e culture diverse (Caon, Ongini 2008).
In una nazione che non ha mai fatto i conti con il suo passato coloniale e assegna ai legami di sangue (ius sanguinis) il primato per l’assegnazione dei diritti di cittadinanza
– principio che nel calcio si è tradotto nella creazione della
figura singolare dell’“oriundo” – le regole di Federcalcio
e Lega calcio, che considerano italiani i minori stranieri
il cui primo tesseramento in una società sportiva avviene in Italia, anticipano la legge e l’apparato burocratico.
Tuttavia è solo a partire dagli anni Novanta che lo sport più
diffuso, praticato e popolare si è fatto testimone, non sempre
consapevole, delle graduali trasformazioni della società italiana, dopo lunghi decenni di conservatorismo. Infatti la stessa
definizione di “calcio” – vigente tuttora in luogo dell’inglese
football – fu adottata nel 1909 in una prima opera di italianizzazione che poi il regime fascista avrebbe spinto all’eccesso.
È proprio durante il Ventennio, e in particolare negli anni
Trenta, che “calcio” diventa sinonimo di identità nazionale e
nazionalista: le vittorie della nazionale ai Mondiali del 1934 e
del 1938, nonché ai Giochi Olimpici del 1936 nella Berlino nazista, furono propagandate come l’emblema vincente di una
nuova Italia imperiale e il trionfo dello stesso Fascismo sulla
scena internazionale. La stampa di regime, dopo una vittoria
con il Brasile, esaltò «il trionfo dell’italica intelligenza contro
la forza bruta dei neri» (Galeano 1997, p. 79).1 L’autarchia era
allora rappresentata sui campi di calcio dall’aderenza ai principi che vennero formalizzati nel 1938 con le «leggi per la di-
28
"GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP
fesa della razza», con il criterio dello ius sanguinis che fornì
l’escamotage per naturalizzare campioni argentini figli o più
spesso nipoti dell’emigrazione italiana in Sudamerica.
Il colore dei giocatori
Italiano è chi ha sangue italiano, secondo il Fascismo. L’identità nazionale non era in discussione: di certo non meritavano
di essere considerati italiani i popoli delle colonie, nel Corno
d’Africa e in Libia. E da questa politica apertamente segregazionista, mai oggetto di seria autocritica, derivano alcuni
dei pregiudizi storici e culturali che per lungo tempo hanno
tenuto ai margini gli italiani di colore, negandone persino
l’esistenza, nella vita quotidiana come sui campi di calcio.
Ma la marginalizzazione dei calciatori neri è un fenomeno che
riguarda anche gli stranieri: il campionato italiano dovrà attendere il 1947 per il primo giocatore di colore, l’uruguayano
Roberto La Paz del Napoli, il cui scarso rendimento servì da
pretesto per giustificare ulteriormente l’interdizione razziale
ai neri. I confronti con altri Paesi sono impietosi: l’aristocratico
Raoul Diagne aveva esordito nella nazionale francese già nel
1931 e addirittura nel 1885 l’inglese Arthur Wharton era stato
il primo calciatore nero professionista al mondo (ma solo nel
1979 Viv Anderson debuttò da black nella nazionale britannica).
Il bacino cui attingeva l’Italia all’estero continuò a essere al
contrario il Sudamerica, perché, come ricorda Guido Bolaffi,
«la cultura dominante del Paese, nonostante la sua inarrestabile trasformazione in terra di immigrati in arrivo e non più
in partenza, rimaneva quella della Grande Proletaria abbandonata dai suoi figli costretti a cercare fortuna Oltrefrontiera»
(Valeri 2005, p. 9). Il ricorso agli oriundi durò almeno, in una
prima fase, fino al 1962: dopo il deludente Mondiale in Cile fu
deciso di non naturalizzare più calciatori stranieri, strumentalmente identificati come responsabili della disfatta. Allo stesso modo, il fallimento della nazionale nella Coppa del Mondo
del 1966 portò, come reazione immediata, alla chiusura, durata fino al 1980, del campionato italiano all’acquisto di calciatori stranieri. Lo straniero faceva da capro espiatorio, veniva
identificato come elemento corruttore dello spirito e dell’ar-
E Ar D Fi Si
DOSSIER
alcuni almanacchi figura come l’unico calciatore del continenmonia, una minaccia per l’equilibrio dell’identità nazionale.
te nero presente negli anni Settanta in serie A (Bonizzoni 1989).
Fino a quel momento, però, la pratica dell’“italianizzazione”
Il primo calciatore a tutti gli effetti africano, l’ivoriano
era continuata anche con tentativi goffi come quello che nel
François Zahoui, arriverà invece in Italia solo nel 1981, all’A1961 aveva portato l’Inter di Milano a “inventare” un padre
scoli, dopo la riapertura delle frontiere ai giocatori stranieri.
italiano per il portoghese Jorge Humberto Gomes Nobre de
Un’altra esperienza mediocre che servirà da pretesto per l’ulMorais, nato nell’arcipelago africano di Capo Verde. Negli alteriore radicamento di pregiumanacchi sarebbe diventato
dizi e stereotipi nei confronti
Giorgio Raggi detto HumberLa copertina della rivista Time dedicata a Mario Balotelli, novembre 2012.
dei neri nel calcio. Tuttavia le
to oppure Humberto-Raggi,
basi culturali di questa interdidopo che un signore milazione non cadranno del tutto
nese contattato dalla società
neanche quando nei campio“nerazzurra”, Vittorio Ragnati italiani, ad esempio negli
gi, ne rivendicò una pateranni Novanta, approderanno
nità che in realtà non poteva
campioni africani o di coloessere provata. La naturalizre. È infatti pregiudizio cozazione non fu mai portata
mune che le vittorie sportive
a termine e l’Italia non ebbe
costituiscano un’esperienza
il suo primo oriundo nero
a sé, mentre negli altri am– che tuttavia sarebbe stato
biti della vita sociale i neri
“inventato” solo per aggisono destinati a permanere
rare i limiti di tesseramenin una condizione di emarto dei calciatori stranieri.
ginazione e sfruttamento.2
Il pregiudizio di fondo in
questo caso è che il nero sia
Del resto «già la semplice painferiore, anche sui campi
rola “Africa” appartiene al
da calcio, e che non esistano
repertorio delle classiche inné possano esistere italiani
giurie che i tifosi delle squadre
di colore. Paradossalmente
del Nord […] lanciano contro
anche l’attuale definizioquelle del Sud […]. D’altra parne di Black Italians nasce
te “Napoli come Africa” pro«in senso dispregiativo per
clamava anche uno striscione
indicare e discriminare gli
[…] quando nei giorni fastosi
emigranti italiani, negli Stadello scudetto e del “suo” Mati Uniti come in Australia.
radona l’autoidentificazione di
Il fatto di essere più scuri
una squadra e di una città con
della media era considerato
il continente nero suonava
un segnale inconfutabile –
come una tromba di riscossa.
perché visibilmente evidenBlack is beautiful! Uno sterete – di una similitudine tra
otipo può anche essere rovegli italiani e le popolazioni
sciato» (Gallini 1996, p. 37).3 È
dalla pelle nera, ritenute, proprio per il colore, irrimediaquesto uno degli aspetti più problematici del “volto pubblibilmente “inferiori”» (Valeri 2006, p. 9). E l’Italia ha a sua
co” del calcio, nel quale «l’identificazione eccessiva spesso si
volta considerato inferiori i “meticci”, in particolare quelli
trasforma in xenofobia militante» (Bausinger 2006, p. 108) e
nati nelle colonie, non degni di essere pienamente italiani.
l’insulto all’avversario serve a «creare steccati, barriere, incoCosì, sempre nel 1962, negli stessi anni della nuova autarchia
municabilità tra “noi” e “loro”» (Barba 2007, p. 99).4
calcistica e di episodi grotteschi come quello di Humberto,
in Africa trionfavano quali migliori calciatori del continenL’emergenza delle seconde generazioni
te i fratelli Italo e Luciano Vassallo, nati in Eritrea da padre
Solo a metà dei Novanta, finalmente, prende avvio nel
italiano, figli dell’imperialismo di casa nostra e protagonisti
calcio il lento processo di integrazione e riconoscimendella conquista della Coppa d’Africa da parte della nazionale
to dell’italianità delle “seconde generazioni” e dei citdell’Etiopia. Luciano ne era addirittura il capitano. Vittima
tadini di origine straniera, nonostante i ritardi culturadi un doppio razzismo, insultato e discriminato tanto dagli
li e i radicati sentimenti razzisti e xenofobi negli stadi.5
Etiopi quanto dai bianchi, divenne italiano solo nel 1978,
È lo stesso periodo in cui la multietnicità nel calcio trova
trasferitosi a Roma dopo aver abbandonato il calcio giocato.
la sua massima espressione con la vittoria della Francia ai
L’esser nato in Libia (da famiglia siciliana) e la carnagione meMondiali del 1998, celebrati come la riscossa della nazioditerranea, poco più scura della media, saranno invece il fattonale delle “tre B” (Black-blanc-beur, nera, bianca e araba),
re che, agli occhi di alcuni osservatori, renderanno “africano”
simbolo di una società multiculturale e assimilazionista il
Claudio Gentile, campione del mondo con la nazionale nel 1982
cui fallimento è stato però drammaticamente certificato
e negli anni Duemila allenatore vincente dell’Under 21: anzi, in
con le stragi terroristiche del 13 novembre 2015 che hanno
29
E Ar D Fi SiDOSSIER
S
Mondiali antirazzisti 2016. © Fabrizio Pompei
preso di mira anche quello Stade de France di Saint-Denis
teatro del trionfo dei vari Thuram, Deschamps e Zidane.6
Il primo ad abbattere questo muro in Italia è stato invece Joseph Dayo Oshadogan, figlio di un nigeriano e di un’italiana:
il 3 ottobre 1996 indossa la maglia della nazionale giovanile
di calcio (Under 21). L’esser diventato un “pioniere” non è
tuttavia sufficiente. Al contrario, Oshadogan viene spesso
insultato, non solo da ultrà e avversari ma anche dai suoi
stessi tifosi, da un compagno di squadra in allenamento e
addirittura da un arbitro. Il 13 dicembre 1998, Oshadogan denuncia infatti di essere stato insultato in campo dall’arbitro
Vincenzo Ferone, che durante Ancona-Foggia avrebbe detto
«lasciate stare, è un marocchino, non capisce». È la prima
volta che in Italia un arbitro viene coinvolto in casi di razzismo: Ferone si difende dichiarandosi «estremamente cattolico e amante delle persone del Terzo mondo». Una debole
autodifesa che comunque tradisce pregiudizi e stereotipi.7
D’altra parte le esperienze dei Black Italians sono tutte accomunate non solo da episodi più o meno espliciti di discriminazione e razzismo, ma anche dalla rivendicazione del loro sentirsi
italiani. È una questione di identità, antropologica: tutti i calciatori italiani di colore respingono qualsiasi interpretazione
30
"GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP
semplicistica che ne sottolinei solo le origini “esotiche” (spesso
in chiave orientalista ed etnocentrica), contro l’utilizzo disinvolto e insistente di categorie “razziali”, comprese le “metafore del corpo” – DNA, sangue, genetica – che diventano elementi
definitori di un’identità prettamente culturale. Si tratta dunque di «una concezione modernamente razzista, che assegna
alla cultura le stesse caratteristiche di ereditarietà che un tempo si assegnavano alla natura biologica» (Gallini 1996, p. 104).8
Come spiega Oshadogan, «la differenza è per chi ti guarda, sono
gli altri a sentirla. Quando la gente mi incontra, rimane sorpresa perché parlo con l’accento toscano e non l’inglese o il francese» (Valeri 2006, p. 327). Ritornano qui alla mente le parole
di Frantz Fanon, quando sostiene che per il “Negro” l’identità
razziale supera qualunque altro aspetto dell’esistenza; quando
viene rivelata la sua “negritudine”, la persona di colore si sente quasi responsabile del suo corpo, della sua razza, delle sue
origini e reagisce indossando una maschera bianca che possa
nascondere la sua identità (Fanon 2015). È però evidente che si
tratta di un’attribuzione identitaria forzata, perché la differenza viene avvertita specialmente da chi guarda, non da chi viene osservato. Effettivamente Oshadogan è “nero” perché così
viene percepito da coloro che lo osservano, i quali non si interrogano sulla sua reale identità, svelata infine solo dalla lingua.
Dopo Oshadogan arriveranno calciatori come Fabio Liverani,
nel 2001 primo a vestire in assoluto la maglia della nazionale
maggiore, uno dei rari figli del colonialismo (madre somala)
a ottenere un riconoscimento di “italianità” sui campi di calcio; Matteo Ferrari, medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Atene
2004 («Non sapevo di avere la pelle nera», la sua risposta a un
editoriale del settimanale Sportweek); Stefano Chuka Okaka,
il più giovane italiano ad aver esordito in un torneo ufficiale
europeo; Stephan Kareem El Shaarawy, soprannominato “Faraone” per le origini egiziane, che rivendica la sua identità di
italiano e musulmano (non praticante); Ibrahiman Scandroglio, ivoriano di nascita e adottato in Lombardia, pioniere effimero con una sola presenza in serie A con l’Empoli nel 1999, la
prima di un Black Italian; Sara Gama, capitana della nazionale
femminile; per finire con quello che certamente ha rappresentato con più prepotenza l’emergere di una nuova generazione
di calciatori italiani di origini straniere, Mario Balotelli.9
Il caso Balotelli
L’affermazione dei Black Italians e di altri giocatori di origine straniera matura in un nuovo contesto socio-demografico: «Basta sfogliare le fotografie delle squadre Primavera, e
ancor più degli Allievi e dei Giovanissimi, per vedere piccoli
calciatori dalla pelle scura. […] Difficile pensare che si tratta di minorenni importati per giocare al pallone. Assai più
probabile è che siano figli di quell’immigrazione che è oggi
una realtà significativa. […] La maggiore presenza di minori
di origine straniera non deve essere intesa come un fattore di
“pericolosa concorrenza”, ma come una conferma del potere
che ha il calcio nel favorire l’incontro» (Valeri 2005, p. 675).
Mario Barwuah nasce a Palermo nel 1990 da genitori ghanesi ma dopo pochi anni viene dato in affido alla famiglia
bresciana dei Balotelli. I ritardi della legislazione italiana
sono evidenti, non solo sulla concessione della cittadinanza condizionata dallo ius sanguinis e dal requisito del compimento della maggiore età, ma anche perché l’affido non
E Ar D Fi Si
DOSSIER
si è tramutato automaticamente in adozione. Mario Balotelli, come spiega la sua famiglia, si è sempre sentito profondamente italiano, nonostante per troppo tempo sui documenti sia risultato ancora come Barwuah (il cognome dei
genitori naturali che lo hanno abbandonato da piccolo).10
Ecco la testimonianza originale della sorella Cristina: «Abbiamo vissuto come un’ingiustizia il fatto che lui non potesse ottenere la cittadinanza italiana fino ai 18 anni. Ha
vissuto per anni una situazione di disagio: ha visto partire i suoi compagni per gli appuntamenti con le nazionali minori mentre lui restava a casa, non poteva andare all’estero. E poi il disagio del rinnovo periodico del
“permesso di soggiorno” con lunghe code in Questura, insieme ai genitori affidatari. Come un extracomunitario».11
I cavilli giuridici legati allo status ritarderanno fino al com-
pimento dei 18 anni l’esordio di Mario Balotelli in nazionale,
a differenza di altri atleti di origine straniera che nell’ultimo
decennio hanno vestito la maglia “azzurra” già da minorenni. La differenza è ancora più marcata, ma all’opposto,
con quei giovani calciatori – come i “marocchini” Mattia
El Hilali e Hachim Mastour – che dopo la trafila nei settori
giovanili della FIGC hanno optato per la nazionale del Paese di origine della famiglia: il senso di appartenenza può
essere condizionato da ragioni di opportunità, come accade con le naturalizzazioni di comodo di molti oriundi.12
Mario resta tuttavia un simbolo, a tal punto che “generazione Balotelli” è diventata una comune sintesi pubblicistica: il “nuovo Balotelli” è Moises Kean Bioty, capitano della nazionale Under 17, lo scrittore Antonio Dikele
Distefano è il “Balotelli dei romanzieri” e così via. Ed è
Stadio Renato Dall’Ara: Saphir Taider, centrocampista franco-algerino del Bologna F.C., viene intervistato da un richiedente asilo durante un laboratorio di
giornalismo organizzato nell’ambito della campagna Bologna cares!, in collaborazione con NettunoTV e TRC. © Africa e Mediterraneo
31
E Ar D Fi SiDOSSIER
S
care ed è diventato un business man, Pelé viene criticato per l’avidità, la
naturalmente il colore della pelle a rappresentare sempresunzione, il cinismo. […] Non scalda più i cuori, non suscita passioni,
plicisticamente un’identità che si presume collettiva.13
è distante, opaco, ricco. Persino la sua negritudine è quasi nascosta, somProsegue Cristina Balotelli: «Quando i media parlano di origini ghanesi di Mario, questo per noi significa molto poco.
messa. Il sillogismo è automatico: Pelé sposa donne bianche, Pelé apparLui si sente solo italiano, perché è nato qui e non conosce
tiene allo star system, Pelé vive a New York, Pelé “è un bianco”» (Barba
l’Africa. I dibattiti dei tifosi sulla sua partecipazione nella
2007, p. 117).
3 - Clara Gallini dà a queste manifestazioni razziste e discriminatorie il
Nazionale italiana spesso rivelano una ignoranza di fondo».
nome di gephyrismi, mutuando il concetto dalle ingiurie rituali che i cittaLa vicenda di Mario Balotelli, pur con le sue caratteristiche
individuali peculiari, presenta tratti comuni a quella degli
dini ateniesi iniziati a Eleusi rivolgevano agli stranieri, e ne sottolinea «la
altri ragazzi italiani di origine straniera, soprattutto africacaratteristica di rito definitorio di identità etnica», come già colto negli
na, che in questi venti anni si sono affermati nel calcio. Ai
anni Trenta da Ernesto De Martino (Gallini 1996, p. 45).
tempi della sua militanza nel settore giovanile dell’Inter, per
4 - Già nel 1931, un rapporto a firma del questore di Napoli spiegava che la
passione dei tifosi di calcio «trascendeva gli abituali limiti di quella sporesempio, l’attenzione dei media su Balotelli si concentrava,
non sempre consapevolmente, sulle questioni identitarie letiva, per attingere ad una vera e propria affermazione e rivendicazione
gate all’essere nero e italiano contemporaneamente. «Può far
di razza». Certamente sono significative in questo senso le parole con cui
sorridere sentire un ragazzo di colore parlare in perfetto diaClifford Geertz critica le contrapposizioni identitarie: «L’alterità non si
letto bresciano», recitava un servizio del telegiornale Studio
profila sulla riva del mare, ma sull’orlo della pelle. L’idea che gli sciiti, […]
Sport il 19 novembre 2007. A causa di una identità nazionale
per esempio, essendo “altri” presentino un problema, ma i tifosi di calcio,
di per sé debole per quella che, in altro contesto, Clara Gallini
essendo parte di noi, non presentino problema, o almeno non uno dello
ha definito «la forte significatività di quei diversi localismi e
stesso tipo, è semplicemente sbagliata. Il mondo sociale non si articola
in perspicui “noi” da un lato, con cui possiamo empatizzare per quanto
regionalismi in cui spesso sembra dissolversi» (Gallini 1996,
grande sia la differenza fra noi, ed enigmatici “loro” dall’altro, con cui
p. 66), si arriva al paradosso di un riconoscimento immedianon possiamo empatizzare per quanto ci si sforzi di difendere fino alla fine
to dell’appartenenza a “piccole patrie”, locali o regionali, in
il loro diritto di essere diversi da noi» (Geertz 2001, p. 93).
cui il fattore linguistico-dialettale concorre al cortocircuito
5 - Un elenco parziale dei calciadi identità. Prima di essere
italiano Balotelli è bresciano,
tori italiani di colore degli ultimi
El Shaarawy ligure, Okaka
venti anni comprende: Fabio LiTutti i calciatori italiani di colore respingono
umbro, Angelo Ogbonna ha
verani, Joseph Dayo Oshadogan,
un accento marcatamente
Matteo Ferrari, Mario Balotelli,
qualsiasi interpretazione semplicistica che ne
ciociaro e non nigeriano. D’alStefano Chuka Okaka, Ibrahiman
sottolinei solo le origini “esotiche”.
tra parte, la difficoltà di amScandroglio, Christian Manfredini,
mettere l’italianità dei neri si
Whellington Fabiano Santacroce,
accompagna ad attribuzioni
Angelo Obinze Ogbonna, Patrick
identitarie forzate e talvolta improbabili, quasi “esclusive”:
Kalambay, Claudio De Sousa, Sara Gama, Ana Carolina Cannone, Moises
«Sangue africano, anima siciliana», titolava nel 2008 un inserKean Bioty, Michael Ntube, Elio Capradossi, Nicolao Dumitru, Melkamu
to del quotidiano La Sicilia… Ma, conclude Cristina Balotelli,
Taufer, Kingsley Boateng, Alfred Gomis, William Jidayi, Christian Jidayi,
«è paradossale il fatto che si insista molto su una presunta
Massimo Virou Goh N’Cede, Zakaria Sdaigui, Nigel Kyeremateng, Mama“appartenenza a Palermo” di Mario per il solo fatto che è nato
dou Bara Ngom, Stefano Layeni, Jérémie Broh Tonye. Di origine nordafriin quella città. Come dimostra anche il suo accento, Mario è
cana sono, tra gli altri, Stephan Kareem El Shaarawy, Adam Masina, Karim
cresciuto a Brescia e di Palermo ricorda ben poco perché era
Laribi, Zakaria Hamadi.
troppo piccolo. Se ha un certo legame con una città, questa è
6 - Il termine beur indica i discendenti degli immigrati nordafricani
senz’altro Brescia». E la sua patria – calcistica e non – è l’Italia.
in Francia. Deriva dal verlan, un linguaggio gergale urbano basato
sull’inversione delle sillabe (beur è contrazione di beu-ra-a, le sillabe di
NOTE
arabe lette al contrario). È singolare che il simbolo principale di quella
1 - Nel 2006, dopo il trionfo dell’Italia contro la Francia ai Mondiali di
squadra multietnica, in rappresentanza degli “arabi”, fosse Zinédine
calcio, il vicepresidente del Senato Roberto Calderoli (Lega Nord)
Zidane, franco-algerino appartenente però a una minoranza berbera che
rivendicò analogamente «una vittoria della nostra identità, […] contro
non ha nulla a che fare con la cultura araba. Ma il fallimento di questa
una squadra che ha perso, immolando per il risultato la propria identità,
retorica è stato certificato, almeno nel ristretto ambito sportivo, ben prima
schierando negri, islamici e comunisti». Le dichiarazioni di Calderoli,
delle stragi del 2015. Per esempio già nel 2006, nel dibattito francese
minimizzate nel dibattito italiano, suscitarono al contrario sdegno tra i
spuntò una lettura alternativa delle “tre B”: Banlieue-Bobo-Bankable, cioè
francesi, come testimoniò l’allora ambasciatore transalpino Yves Aubin de
una società divisa in ricchi e poveri piuttosto che in bianchi, neri e arabi
La Messuzière: «Queste affermazioni non possono che provocare reazioni
(Calinon e Geraud 2006).
di odio razziale».
7 - Lo stesso termine “marocchino” è legato a uno stereotipo linguistico e
2 - È la tesi – ascientifica – di Jon Entine, secondo cui i “neri” sono biologi-
razziale di cui ancora oggi i dizionari danno conto: il concetto di “maroc-
camente e geneticamente fatti per eccellere nello sport; ma la mentalità
chinare”, inteso come “violentare, stuprare”, con riferimento agli episodi
progressista e politically correct si rifiuta di ammetterlo, perché dovrebbe
di violenza compiuti dai soldati dell’esercito francese reclutati in Maroc-
altrimenti accettare serenamente anche la superiorità intellettuale dei
co ai danni di donne dell’Italia centro-meridionale. Solo nel 2006, non
bianchi (cfr. Entine 2000). Lo stigma dell’atleta “nero” è quello del po-
senza polemiche, la Corte di Cassazione ha messo al bando l’espressione
vero, analfabeta, con innate doti naturali: «Da quando ha smesso di gio-
“marocchino” quando viene utilizzata con atteggiamento di scherno e di-
32
"GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP
E Ar D Fi Si
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leggio, considerandola appunto una ingiuria «di chiaro intento di discrimi-
T. Calinon, A. Geraud, En huit ans, le mythe « black-blanc-beur » a fondu, in
nazione razziale», anche se riferita a persona effettivamente proveniente
«Libération», 7 juillet 2006
dal Marocco (Valeri 2006, p. 158).
F. Caon, V. Ongini, L’intercultura nel pallone. Italiano L2 e integrazione attra-
8 - Nonostante l’evidenza scientifica dell’inesistenza delle razze, resta fre-
verso il gioco del calcio, Sinnos editrice, Roma 2008
quente l’uso di «etichette arbitrarie che non possono essere prese sul serio
J. Entine, Taboo: Why Black Athletes Dominate Sports and Why We’re Afraid
se vogliamo capire la biodiversità umana», per citare le parole con cui il
to Talk About It, Public Affairs, New York 2000
genetista Guido Barbujani ha definito le artificiose classificazioni “razzia-
F. Fanon, Pelle nera, maschere bianche, Edizioni ETS, Pisa 2015
li” usate dalle polizie dei Paesi anglosassoni. La citazione non è casuale:
E. Galeano, Splendori e miserie del gioco del calcio, Sperling & Kupfer, Mi-
Barbujani smaschera l’incoerenza di tali “sistemi di classificazione dell’u-
lano 1997
manità” proprio con l’esempio di un calciatore di colore, l’uruguayano
C. Gallini, Giochi pericolosi. Frammenti di un immaginario alquanto razzista,
Marcelo Zalayeta. «In Inghilterra lo definirebbero afro-caraibico; l’Uru-
Manifestolibri, Roma 1996
guay non si affaccia proprio sul mar dei Caraibi, ma pazienza. In Ame-
C. Geertz, Antropologia e filosofia. Frammenti di una biografia intellettuale,
rica, invece, Zalayeta sarebbe afro-americano se stesse zitto, ma appena
il Mulino, Bologna 2001
aprisse bocca cambierebbe razza diventando ispanico» (Barbujani 2006,
M. Valeri, La razza in campo. Per una storia della Rivoluzione Nera nel calcio,
p. 156). Ma nel dibattito italiano è altrettanto frequente un uso disinvolto
EDUP-Edizioni Psicoanalisi Contro, Roma 2005
e improprio del termine “etnia”, secondo una visione “primordialista” e
M. Valeri, Black Italians. Atleti neri in maglia azzurra, Palombi Editori,
falsamente oggettiva della nozione di identità etno-culturale (Amselle e
Roma 2006
M’Bokolo 2008).
9 - Nel 2001 Scandroglio rivelò di essere tifoso della Lazio, ma di non voler andare nella curva Nord dell’Olimpico per paura di essere insultato. È
però interessante che nella stagione 2004-05, la stessa Lazio, «con una tifoseria spesso accusata di comportamenti razzisti, è la formazione di serie
A (ma non solo) con più Black Italians: ben tre», Fabio Liverani, Christian
Manfredini e Claudio De Sousa (Valeri 2005, p. 674).
10 - Nel 2012 l’UEFA, la Federcalcio europea, comunicò che nella lista consegnata dalla FIGC per gli Europei di calcio l’attaccante “azzurro” era stato
registrato come “Mario Barwuah Balotelli”; in realtà poi scese in campo
con il solo cognome adottivo. Invece nel 2014 è stato paradossale che
Enock Barwuah, fratello naturale di Balotelli, calciatore dilettante, abbia
partecipato a un torneo con la “nazionale” della Padania, iniziativa sportiva della Lega Nord.
11 - Le dichiarazioni di Cristina Balotelli qui e di seguito riportate sono la
rielaborazione – senza sostanziali modifiche – delle risposte a un questio-
ABSTRACT EN
nario via e-mail fornite dalla sorella di Mario (nella primavera del 2008).
12 - Il calcio italiano continua tuttora a fare ricorso agli oriundi sudamericani, spesso naturalizzazioni di comodo di calciatori scartati dalla
selezione del Paese natale. Il caso più eclatante è quello del calcio a 5
(“calcetto”): a partire dai primi anni Duemila la nazionale italiana ha
schierato molti brasiliani naturalizzati e, addirittura, ai Mondiali del
2008 si presentò con l’intera rosa composta da giocatori nati nel Paese
sudamericano. Sulla italianizzazione di comodo, vale la pena ricordare
che nel marzo 2010, in Under 21 furono convocati Balotelli, Okaka e Ogbonna; con loro anche Ezequiel Schelotto, argentino di nascita, italianizzato in virtù di un bisnonno genovese. I tre Black Italians cantarono
l’inno di Mameli, rivendicando la piena adesione culturale alla loro pa-
This paper deals with the role of football as a means of social integration in Italy, after decades of racial interdiction of
athletes of foreign descent. In a country that has long denied
its colonialist past, the rise and integration of “Black Italians”
in this most popular sport has featured some complex anthropological issues concerning identity and citizenship.
From the autarkical Fascist football to the rise of players such
as Mario Balotelli and Stephan El Shaarawy, the practice of
sport is able to facilitate cross-cultural dialogue, foreseeing
the evolution of Italy into a more integrated country.
tria. Schelotto no.
13 - La carica simbolica e pop dell’esperienza di Balotelli ha coinvolto
anche il mondo dell’arte italiana. Il calciatore è stato infatti immortalato
come un mito popolare provocatorio e contraddittorio in opere di Flavio
Lucchini, Paolo D’Alessandro, Wainer Vaccari e Livio Scarpella.
Giorgio Caccamo
BIBLIOGRAFIA
J. L. Amselle, E. M’Bokolo (a cura di), L’invenzione dell’etnia, Meltemi,
Roma 2008
specializzato in cooperazione internazionale e diritti umani presso l’Uni-
B. Barba, L’antropologo nel pallone, Meltemi, Roma 2007
versità di Bologna, è giornalista professionista. Attualmente al Quotidiano
G. Barbujani, L’invenzione delle razze, Bompiani, Milano 2006
Nazionale, si è occupato di esteri e sport per PeaceReporter e Lettera43.
H. Bausinger, La cultura dello sport, Armando Editore, Roma 2008
Ha collaborato con le riviste Studi Culturali (il Mulino) e Diacronie-Studi
L. Bonizzoni, Calciatori stranieri in Italia ieri e oggi, Società Stampa Spor-
di Storia Contemporanea.
tiva, Roma 1989
33
E Ar D Fi SiDOSSIER
S
Il calcio come strumento
di integrazione:
il caso dell’Afro-Napoli United
L’esperienza dell’Afro-Napoli United, squadra nata nel 2009 nel capoluogo campano
e composta da migranti e italiani. Creata per promuovere una cultura multi-etnica, ha
influenzato le vite dei giocatori, le loro relazioni con il tessuto sociale
e ha aumentato il loro prestigio situazionale.
di Luca Bifulco e Adele Del Guercio
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DOSSIER
C
ome è stato evidenziato dalla Commissione
europea nel Libro bianco del 2007, lo sport
dovrebbe contribuire a creare una società
più integrata e, per tale ragione, promuovere la partecipazione dei gruppi meno rappresentati, tra cui anche i migranti, per i quali
esso può costituire un importante strumento di integrazione.1
È proprio in tale cornice che può essere collocata e letta l’esperienza dell’Afro-Napoli United, un’associazione sportiva
nata nel 2009 nel capoluogo campano da un’idea di Antonio
Gargiulo, presidente di un gruppo di imprese sociali, e due
mediatori culturali senegalesi, Sow Hamath e Watt Samba Babaly. L’intenzione che ha mosso i suoi fautori è stata quella di
andare oltre il contesto delle loro consuete partite tra amici,
per costituire una vera e propria squadra di calcio dilettantistica in cui potessero giocare atleti immigrati e italiani, in
modo da favorire e incentivare processi di integrazione, accoglienza e riconoscimento reciproco, facendosi al contempo
portavoce di messaggi di promozione culturale.
Si tratta di una realtà calcistica piuttosto specifica – dal momento che sono poche le esperienze simili in Italia – che, per
l’attività che svolge e gli obiettivi che si pone, ha stimolato
un progetto di ricerca sul rapporto tra calcio, migranti e integrazione, ancora in itinere, al quale partecipano ricercatori
del Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università degli Studi
di Napoli Federico II e del Dipartimento di Scienze Umane e
Sociali dell’Università degli Studi di Napoli L’Orientale. Una
ricerca che ha un orizzonte multidisciplinare e mette insieme in particolare l’analisi sociologica, realizzata secondo un
approccio qualitativo, e quella giuridica. La domanda di ricerca generale, che assume poi diverse articolazioni, si pone
l’obiettivo di comprendere come e in che termini il calcio in
questa esperienza riesca a incidere sui, o a contribuire ai, più
complessi processi di inserimento sociale dei migranti.
La Campania e Napoli, almeno dagli anni ’70 in poi, hanno visto
incrementare il numero di immigrati che tendono a radicarsi
sul territorio, in modo più stabile e meno temporaneo rispetto al passato, con una maggiore incidenza sociale. Gli stranieri presenti oggigiorno in regione e nella provincia partenopea
provengono da molteplici Paesi e vanno a comporre un quadro eterogeneo, che va dall’Ucraina – il paese di provenienza
più rappresentato, almeno stando alle registrazioni ufficiali – al
Marocco e allo Sri Lanka, con diverse comunità, come quella
capoverdiana ad esempio, che godono di pochi innesti recenti
ma risultano ormai piuttosto radicate.2 Questa presenza ha prodotto nella regione e nella provincia napoletana un aumento
della pressione migratoria, intesa come rapporto tra immigrati
residenti e popolazione totale, che, seppur in misura in genere
minore rispetto al valore medio nazionale,3 pone all’attenzione
pubblica i problemi legati all’integrazione dei migranti.
Se diciamo integrazione e capitale sociale
L’integrazione è un fenomeno complesso che incide tanto sulla società che riceve gli immigrati quanto, ovviamente, su chi
arriva. Possiamo parlare di integrazione efficace quando una
società riesce ad alimentare e potenziare pratiche di inclusione e di convivenza che fanno perno sulla capacità di garantire
all’immigrato il godimento dei diritti fondamentali in termini
di dignità umana, libertà, sicurezza, giustizia e indipendenza,
A fianco: Arcelino Dos Santos (detto Linò), giocatore capoverdiano dell’AfroNapoli United.
© Giovanna Amore, responsabile comunicazione e video dell’A.S.D. AfroNapoli United
in modo tale da comportare un livello pieno e soddisfacente di
cittadinanza e di responsabilità consapevole.4 Ciò vuol dire, in
ultima istanza, garantire opportunità ma anche oneri sociali,
economici, culturali, politici, consentendo al contempo la possibilità di non abdicare alla propria identità culturale.
Secondo Alastair Ager e Alison Strang – che in verità ragionano
più specificamente sulla condizione dei rifugiati – gli indicatori di un’integrazione soddisfacente risiedono in alcuni domini
pubblici fondamentali: l’occupazione, indispensabile per fornire la possibilità di pianificare il futuro ed essere autonomi sotto
il profilo economico, ma anche per acquisire uno status sociale
riconosciuto e aumentare la propria autostima; l’educazione,
che fornisce competenze linguistiche e professionali, alimenta i
contatti con la comunità locale e la possibilità, per chi va a scuola o per i genitori, di entrare in un adeguato circuito informativo
utile anche per fini pratici, come nel caso di notizie e indicazioni di ordine burocratico; la salute, con tutte le facilitazioni per
accedere ai servizi sanitari e consentire di garantire un appropriato livello di benessere fisico e mentale; la sfera abitativa, che
garantisce una certa sicurezza e la possibilità di stringere legami
solidi con i residenti.5
Anche i policy-makers sembrano condividere tale impostazione:
ad avviso della Commissione europea, ad esempio, le politiche
di integrazione vanno elaborate secondo un «autentico approccio dal basso, a contatto con la realtà locale, in modo da sostenere l’apprendimento della lingua, i percorsi introduttivi, l’accesso
all’impiego, all’istruzione e alla formazione professionale e la
lotta alla discriminazione, tutti fattori che mirano a incrementare la partecipazione dei migranti alla società».6
Affinché i diritti di cittadinanza e gli elementi di base della qualità della vita appena esposti abbiano una loro idonea concretizzazione, diventa fondamentale – oltre alla rimozione delle
barriere linguistiche – l’instaurarsi di legami sociali validi e vantaggiosi. Possiamo parlare in tal senso di capitale sociale, vale a
dire di relazioni consolidate, basate sull’affidamento e il sostegno reciproco, capaci di apportare benefici altrimenti difficili da
raggiungere, ma anche, in alcuni casi, di promuovere senso civico e fiducia generalizzata.7 Un insieme di risorse, insomma, che
possono aiutare, sebbene non obbligatoriamente, a contrastare meccanismi di esclusione sociale, economica, politica, così
come la distanza dalle istituzioni pubbliche o dagli enti privati.
Tra le relazioni sociali proficue possiamo annoverare quelle
all’interno delle stesse comunità di immigrati, quando non
producono distacco e isolamento, ma anche e forse soprattutto quelle tra i migranti e la comunità locale, nella misura in
cui esse risultino utili a definire riconoscimento e accettazione reciproca, oltre che coinvolgimento attivo degli stranieri
nelle attività locali e benefici spendibili negli ambiti occupazionali, formativi, abitativi, sanitari.8 Un fenomeno grossomodo corrispondente al concetto di bridging social capital,
fondamentale proprio per legare l’integrazione funzionale
dei migranti – economica, formativa, ecc. – a un più completo
senso di radicamento effettivo.9
35
E Ar D Fi SiDOSSIER
S
2012. La squadra in quel momento partecipa ancora al campionato amatoriale dell’AICS (Associazione Italiana Cultura
Sport), ma l’incontro con il mondo dell’associazionismo politico – in particolare con gli attivisti del centro sociale Insurgencia – crea una significativa sinergia e l’idea di iscriversi al
campionato della FIGC, in terza categoria.
Un momento della vittoria dell’Afro-Napoli United.
© Giovanna Amore
Tale connessione “ponte”, quando ben realizzata, può contribuire così ad accrescere il senso di sicurezza del migrante e
anche ad attenuare conflitti e pregiudizi. Non secondarie, poi,
sono quelle relazioni che consentono di accedere a risorse
fornite da istituzioni formali – che possono garantire facilitazioni per confrontarsi con gli apparati burocratici, le strutture
ospedaliere, ecc. –, in altre parole il cosiddetto linking social
capital.10 Parliamo, dunque, di vantaggi altrimenti difficilmente acquisibili, che agiscono sul livello di benessere individuale e di conseguenza sulla convivenza tra gruppi di migranti e
locali. Ed è in questo modo che il processo di integrazione, di
reciproco accordo e disponibilità, può rivelarsi più efficace.
Sulla scorta di quanto detto, vale la pena, a questo punto,
chiedersi allora quale beneficio il calcio possa produrre nella
vita delle persone e nell’integrazione dei migranti. Il contributo dello sport è, infatti, valido nella misura in cui non solo
offre la possibilità di fare attività fisica, ma partecipa al miglioramento delle condizioni biografiche e relazionali.
Per questo è interessante, tornando al nostro specifico oggetto
d’indagine, comprendere l’apporto fornito dall’Afro-Napoli United, sia nelle ricadute sulle vite degli atleti, sia negli effetti determinati sulla società nel suo complesso. Vale a dire, capire in che
misura le reti di relazioni, che questa realtà sportiva compone,
possano diventare, con il capitale sociale messo in campo, una
risorsa importante per arginare l’esclusione socio-economica di
membri di gruppi potenzialmente emarginati.
Come accennato in precedenza, l’esperienza dell’Afro-Napoli
United nasce in occasione di partite di calcio amicali, da cui si
delinea poco alla volta l’idea di definire un percorso calcistico
più strutturato, con una squadra mista capace di partecipare,
in prima istanza, ai tornei messi in piedi da leghe amatoriali
nel territorio campano.
In una delle interviste da noi condotte con calciatori e testimoni privilegiati, Pietro, dirigente del club, ci racconta come
la vita dell’Afro-Napoli United si trasformi energicamente nel
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L’Afro-Napoli United e le problematiche connesse
al tesseramento
Il problema principale diventa, a quel punto, il tesseramento,
limitato dalle normative in vigore in Federazione. Per questo
l’Afro-Napoli United partecipa attivamente alla campagna
“Gioco Anch’io”,11 lanciata nel 2012 da un’assemblea di polisportive antirazziste e palestre popolari con lo scopo di far
pressione sulla FIGC perché modifichi i requisiti per l’accesso
alla pratica sportiva dei migranti e dei loro figli. Il successo
della campagna, ci riferisce Pietro, ha consentito di tesserare
e iscrivere al campionato campano di terza categoria diciotto migranti, tra maggiorenni e minorenni. Peraltro, alcune di
queste persone hanno in tal modo regolarizzato la loro condizione giuridica, con l’ottenimento di un permesso di soggiorno per attività sportiva dilettantistica.12
Precedentemente alle modifiche, intervenute nel 2013, alle
Norme organizzative interne (NOIF) della FIGC,13 la disciplina
in materia di tesseramento dei cittadini di Paesi non dell’Unione europea era estremamente restrittiva, giacché veniva
richiesta, tra le altre cose, la residenza in Italia da almeno 12
mesi e la validità del permesso di soggiorno almeno fino alla
fine della stagione sportiva. Peraltro, malgrado le modifiche
intervenute,14 le procedure continuano ad essere particolarmente complesse. Innanzitutto, sia agli adulti, sia ai minori di
età superiore ai 16 anni, viene richiesto di presentare alla FIGC
il certificato di residenza in Italia e il permesso di soggiorno,
che dovrà avere scadenza non anteriore al 31 gennaio dell’anno in cui termina la stagione sportiva per la quale il calciatore
richiede il tesseramento. Tale ultimo requisito appare discriminatorio, come ha sostenuto anche il tribunale di Lodi che, nel
caso Kolou del 2010, ha tra l’altro collocato il diritto allo sport
tra i diritti fondamentali della persona.15 Nel caso dei minori di
16 anni deve essere dimostrata la residenza da almeno 6 mesi
nella regione in cui ha sede la società per la quale si chiede il
tesseramento. Qualora tale condizione non sia ottemperata, il
tesseramento potrà essere autorizzato dal Settore per l’Attività
Giovanile e Scolastica, previa presentazione della certificazione
relativa alla frequenza scolastica del calciatore. Il tesseramento
dei minori è inoltre subordinato al rispetto delle disposizioni
della FIFA,16 che sono pensate per prevenire il trafficking di
calciatori minorenni ma che rischiano di ostacolare l’esercizio
del diritto allo sport, giacché subordinano il tesseramento alla
presentazione di numerosi documenti – tra cui il contratto di lavoro/iscrizione scolastica del giocatore, il contratto di lavoro e il
permesso di soggiorno dei genitori, la documentazione relativa
alla formazione scolastica del giocatore.17
È utile evidenziare come, tra i requisiti per il tesseramento
dei minori, ci sia l’iscrizione scolastica, che in tal modo si converte da diritto a strumento di esclusione, almeno in quelle
situazioni in cui ci siano dei ritardi nel rilascio del certificato
da parte della scuola o difficoltà nell’inserimento scolastico,
ad esempio perché il minore è arrivato in corso d’anno.18 Più
E Ar D Fi Si
DOSSIER
Sopra: Il cerchio di giocatori è un rituale pre-partita dei calciatori dell’AfroNapoli United.
A fianco: festeggiamenti per la promozione.
© Giovanna Amore
in generale, appare discriminatoria la richiesta del permesso
di soggiorno dei genitori, che potrebbero esserne privi: in tal
modo verrebbe a determinarsi l’impossibilità di tesserare il
giovane calciatore, che subirebbe un trattamento pregiudizievole rispetto ai minori italiani. Peraltro, va ricordato che
al minore straniero deve essere rilasciato un permesso di
soggiorno valido fino al raggiungimento della maggiore età,19
pertanto lo stesso non può mai essere considerato «irregolare» e deve poter beneficiare di tutti i diritti garantiti dall’ordinamento italiano ai minorenni, indipendentemente dalla
cittadinanza.20 Ulteriori difficoltà incontrano i minori non
accompagnati (MNA), i quali, benché si trovino sottoposti a
tutela o ad affido, in numerose occasioni si sono visti rifiutare
il tesseramento, alla luce di una lettura restrittiva della normativa in vigore.21
Con l’approvazione della proposta di legge sullo jus soli sportivo,22 in vigore dal mese di febbraio 2016, i minori stranieri regolarmente residenti in Italia dal compimento del decimo anno
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S
no in previsione del salto di categoria, ormai acquisito con la
vittoria dell’attuale campionato, che renderà obbligatoria la dotazione di una squadra giovanile – si può invece intraprendere
una politica più specifica al riguardo. Parliamo di ragazzi tra i
15 e i 18 anni e, ci spiega Francesco, un altro dirigente da noi
intervistato, con loro c’è una più marcata «impronta pedagogica», nel senso che i risultati scolastici sono essenziali per poter
scendere in campo il giorno della partita. Anche perché intorno
Reti sociali e Afro-Napoli United:
alla squadra «c’è ormai un certo clamore mediatico e i ragazzi
benefici e problematiche
devono saper parlare bene l’italiano». Va detto, comunque, che
Le difficoltà che incontrano i migranti che vogliano praticala politica della dirigenza, in quest’ambito come in quelli precere attività sportiva a livello dilettantistico non derivano solo
dalla normativa in materia, ma riguardano più in generale
dentemente chiamati in causa, è quella di fornire gli strumenti
l’inserimento nella società. L’Afro-Napoli United fornisce,
e l’orientamento necessario, evitando però di cadere in modelli
laddove possibile e quando necessario, un aiuto ai potenziali
assistenzialisti/paternalistici. Ciò perché l’eccesso di supervisioatleti per districarsi tra le articolate maglie della burocrazia.
ne assistenziale potrebbe diminuire l’autonomia e la capacità
In alcuni casi, come quello di Sassah, un apolide con un visdi far fronte personalmente ai problemi, trasformando un posuto complesso, i dirigenti si sono industriati per procurare
tenziale beneficio di connessioni e legami sociali in un danno.
una folta documentazione, soprattutto in merito alla sua atL’ambito lavorativo è invece quello in cui l’Afro-Napoli United
tività scolastica e alla residenza sul territorio, e fargli avere la
ha minore incidenza. La relativa portata del loro supporto in
cittadinanza. L’attività in tal senso del club è di mediazione,
questo caso, però, dipende dal più ampio contesto socio-ecoinformazione, al limite di supporto, almeno quando si può e
nomico in cui le diverse biografie e le relazioni si inseriscono.
se si palesa l’urgenza.
La provincia di Napoli sconta una consistente debolezza ecoIl supporto, sebbene non continuo e organico, nel gestire
nomica, con un tasso di attività, che comprende gli occupati e
i diversi problemi burocratici e la difficoltà di rapporto con
chi cerca lavoro, nel 2015 pari al 48,2%.23 Si tratta di un valore
l’amministrazione pubblica
che rileva un notevole grado
o l’accesso a differenti servidi scoramento e scarsa fiducia nei confronti del mercato
zi erogati pubblicamente o
Il contributo dello sport è valido nella misura in cui del lavoro, dal momento che
da privati, può incidere nella
circa la metà della popolaziodefinizione del linking social
non solo offre la possibilità di fare attività fisica,
capital: ovvero, come abbiane abile non vi prende parte
ma partecipa al miglioramento delle condizioni
ed evidentemente non crede
mo detto in precedenza, la
biografiche e relazionali.
di poterlo fare.24 D’altronde, il
capacità di acquisire risorse
dalle istituzioni riuscendo a
tasso di occupazione si è atterelazionarsi con i suoi rapprestato nel 2015 al 37,4%, contro
il 56,7% del dato nazionale.25
sentanti. Ed è di sicuro un beneficio a cui i giocatori possono
accedere anche tramite la mediazione del club.
Questo è il contesto generale, un contesto problematico in terUn discorso simile, se vogliamo ancora meglio strutturato,
mini di occupazione e insicurezza lavorativa. La difficoltà compuò essere fatto per l’assistenza sanitaria. Tramite i contatplessiva in ambito lavorativo nel territorio napoletano incide
ti e l’interessamento costante di Mario, il fisioterapista della
giocoforza sulle possibilità occupazionali anche per gli atleti
squadra, i calciatori vengono seguiti e indirizzati in caso di
dell’Afro-Napoli United. La maggior parte di loro, come d’alproblemi legati alla salute. Non solo per gli “acciacchi” legati
tronde avviene per diversi coetanei napoletani, si arrangia con
all’attività da calciatore, ma anche per tutte le eventuali ulpiccoli lavori saltuari e, non di rado, in nero. Certo, attraverso
teriori esigenze mediche. Vengono accompagnati nelle strutconoscenze che gravitano attorno al club, che non è ovviamente
ture sanitarie adeguate, messi in contatto con specialisti di
un ufficio di collocamento, può capitare che emergano sporadiconoscenza del fisioterapista, guidati nel loro difficoltoso
che e temporanee opportunità lavorative, in genere attività di
rapporto con i meccanismi burocratici della sanità italiana
manovalanza della durata di qualche giorno. Troppo poco per
e aiutati nella comprensione dei termini medici e dei trattagarantire una consistente indipendenza economica e contrastamenti da seguire. Una vera e propria attività di mediazione,
re l’insicurezza lavorativa. L’Afro-Napoli United, ci dicono vari
che consente di affrontare il rapporto con i problemi di salute
dirigenti intervistati, porta prestigio ai calciatori, tante strette di
con maggiore fiducia e sicurezza.
mano, ma non un lavoro stabile.
Nel caso dell’ambito educativo la situazione è più problematica.
È interessante, nell’ambito dei ponti sociali tra differenti
I calciatori della prima squadra sono quasi tutti a bassa scolarizcomunità che la partecipazione comune ad attività sportive
può garantire,26 valutare quanto l’esperienza dell’Afro-Napoli
zazione, tranne Diego, sudamericano, che studia all’Università.
United consenta di stabilire comunque una relazione di inI dirigenti del club, che svolgono la loro mansione su base voterscambio reciproco tra immigrati e abitanti locali, favorenlontaria, confessano di non avere le forze per seguirli continuado, almeno in linea di principio, momenti di accettazione e
mente nei loro percorsi formativi. C’è un tentativo di indirizzarmutua comprensione. Va ricordato che, tra juniores e prima
li, di indicare loro modalità e contatti per migliorare la qualità
squadra, il club oggi conta circa cinquanta tesserati, italiani e
formale e sostanziale della loro formazione, ma i risultati sono
stranieri. In prima squadra giocano ventitré calciatori – cenpoco incoraggianti. Con la squadra juniores – attiva da quest’andi età potranno essere tesserati presso le federazioni sportive
con le stesse procedure previste per i cittadini italiani. In tal
modo verranno superati alcuni degli ostacoli evidenziati nel
corso della trattazione, non da ultimo quelli che incontrano i
minori non accompagnati, limitatamente a coloro che abbiano
fatto ingresso prima del compimento del decimo anno di età.
38
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troafricani, maghrebini, sudamericani, perfino un inglese, e
ovviamente italiani, che sono meno di dieci.
Gli allenamenti e le partite sono intervallati da momenti ludici, come cene sociali e altre attività aggregative che coinvolgono atleti – della prima squadra e juniores – e tifosi italiani e
stranieri. La vita di campo e questi momenti aggregativi rinforzano il miglioramento delle competenze linguistiche dei
migranti, per altro già favorite da un certo radicamento nella
città, e hanno l’indubbio vantaggio, almeno nel ristretto contesto squadra-tifosi che è comunque già sensibile in tal senso,
di incrementare forme di cooperazione e fiducia reciproca.
Vale a dire creare rapporti di lungo termine capaci di strutturare vicendevoli tipologie di supporto, non solo materiale.
Anche alcune forme di pregiudizio iniziale vengono così messe in discussione. Francesco ci racconta due casi esemplari:
1) un ragazzino cingalese della squadra juniores porta del
cibo tipico del suo Paese ad una cena sociale, che viene tanto
apprezzato da smentire pubblicamente lo stigma che, anche
all’interno della squadra, screditava la comunità cingalese,
spesso dipinta come in possesso di abitudini culinarie strane e antigieniche; 2) uno dei calciatori in rosa, italiano e inizialmente con diversi pregiudizi nei confronti delle comunità
islamiche residenti nel territorio, nel tempo stringe legami di
simpatia reciproca con compagni di squadra e tifosi di fede
islamica, con cui condivide ormai momenti di svago.
L’Afro-Napoli United, inoltre, da quest’anno organizza, con
l’ausilio di associazioni che si occupano di migranti e che operano nella provincia napoletana, anche stage per chi vuole allenarsi con la squadra. Da un lato questa è un’opportunità per
visionare potenziali atleti da inserire in rosa, dall’altro questa
iniziativa consente di offrire ai partecipanti, italiani e stranieri, momenti di svago sportivo utili comunque a integrare e
consolidare le loro reti sociali.
La squadra ha poi un seguito di tifosi numeroso. Le partite casalinghe a cui abbiamo assistito hanno goduto della partecipazione di diverse centinaia di fan, un quantitativo non irrilevante
se pensiamo alla categoria. La composizione del tifo che ha presenziato a questi incontri era molto variegata. Molti stranieri,
soprattutto africani e sudamericani, e altrettanti italiani, non
di rado provenienti dal mondo dell’associazionismo politico,
sociale, studentesco. La condivisione del rituale della partita
incide, ovviamente, sul senso di appartenenza comune e sulla
sensazione di solidarietà e partecipazione a un destino unitario.27 Momenti dunque capaci di sostenere, con il forte corredo
emozionale legato alla partita, l’adesione a una cultura multietnica e la promozione civica complessiva, sebbene la comunità
di fan sia in questo senso per lo più già ben predisposta.
I calciatori, in virtù anche della riconoscibilità del loro status
di atleti dell’Afro-Napoli United, vedono sovente accresciuto il
loro livello di prestigio situazionale, almeno all’interno della
stretta cerchia di tifosi e della porzione di comunità locale che
conosce le sorti della squadra o si sente addirittura coinvolta.
Ciò, a detta dei giocatori da noi interpellati, incide significativamente sull’autostima ed espressione del sé, garantendo quanto
meno un’accresciuta percezione del successo dell’integrazione
e del senso di radicamento. Ragioniamo, in questo caso, di una
loro percezione e rappresentazione che, però, apre il campo a
potenziali forme di partecipazione sociale più ampia.
A tal proposito, Adama, giovane calciatore di origini ivoriane,
ci racconta di come il rapporto tra alcuni atleti e vari tifosi
vicini al progetto della squadra, in entrambi i casi sia italiani
che stranieri, possa spingersi al di là della vita del club. Serate
ludiche e feste, ad esempio quelle organizzate dalla comunità capoverdiana di Napoli, vedono una simile partecipazione
congiunta, sebbene la cosa coinvolga solo alcuni giocatori.
Inoltre, il legame tra il club e alcuni centri sociali cittadini
allarga la partecipazione e le relazioni di lungo periodo tra
stranieri e italiani legati alla squadra all’interno della sfera
dell’impegno politico.
In conclusione, tornando alla domanda iniziale su quanto e
come il calcio incida sui processi di integrazione, va detto che
lo sport non ha una sua intrinseca, connaturata influenza che
prescinde dalle persone, dai contesti e dalla loro interazione.
Le diverse realtà calcistiche possono avere effetti benefici, ma
non obbligatoriamente, e le relazioni stimolate possono essere inclusive ma anche esclusive e conflittuali.28 L’esperienza
dell’Afro-Napoli United,29 come abbiamo visto, nasce con evidenti intenti inclusivi, di dialogo multietnico e promozione
sociale. E non è di secondo piano la volontà ad agire concretamente sui percorsi biografici degli atleti, aiutandoli a sviluppare relazioni vantaggiose e benefiche. Ciò non sempre è possibile, però, dal momento, ad esempio, che le caratteristiche
del più ampio contesto socio-economico hanno un’incidenza
rilevante. Lo stesso dicasi per la meritoria attività di promozione civica, che si confronta con le difficoltà, le resistenze,
ma anche le disponibilità culturali del contesto.
Proprio per la natura articolata e complessa di questi fenomeni, rimane importante, ad ogni modo, analizzare approfonditamente il lavoro di simili realtà, che possono fornire anche ai
policy-makers stimoli e una maggiore consapevolezza delle problematiche e delle aree di intervento su cui andare a operare.
NOTE
1 - Commissione europea, Libro bianco sullo sport, COM(2007) 391 definitivo
dell’11 luglio 2007, p. 7.
2 - Cfr. F. Amato, «Profilo delle migrazioni internazionali», in L. Rossomando
(a cura di), Lo stato della città. Napoli e la sua area metropolitana, Monitor,
Napoli 2016, pp. 247-257.
3 - Il valore medio nazionale è dell’8%, 3,7% quello regionale, 5% quello riferito al territorio cittadino. Cfr. F. Amato, «Profilo delle migrazioni internazionali», op. cit., pp. 253-254.
4 - Cfr. A. Ager, A. Strang, Understanding Integration: A Conceptual Framework, in «Journal of Refugee Studies», Vol. 21, n° 2, 2008.
5 - Ibidem.
6 - Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio,
al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, Agenda
europea per l’integrazione dei cittadini di Paesi terzi, COM(2011) 455 definitivo
del 20 luglio 2004.
7 - In merito al capitale sociale inteso come risorsa capace di apportare benefici pratici, che però possono favorire anche le disuguaglianze, cfr. P. Bourdieu, «The Forms of Capital», in J. Richardson (a cura di), Handbook of Theory
and Research for the Sociology of Education, Greenwood, New York 1986, pp.
241-258; sul capitale sociale e la sua potenziale rilevanza sul senso di fiducia
generalizzata cfr. il seppur discusso testo di R. Putnam, La tradizione civica
delle regioni italiane, Mondadori, Milano 1993.
8 - A. Ager, A. Strang, Indicators of Integration: Final Report, Home Office Development and Practice Report, 28, 2004.
9 - Cfr. anche M. Korac, Integration and How We Facilitate It: A Comparative
39
E Ar D Fi SiDOSSIER
S
Study of the Settlement Experiences of Refugees in Italy and the Netherlands, in
th-Heinemann, Oxford 2008
«Sociology», 37, 2003.
L. Bifulco, F. Pirone, A tutto campo. Il calcio da una prospettiva sociologica,
10 - Cfr. M. Woolcock, The Place of Social Capital in Understanding Social and
Guida, Napoli 2014
Economic Outcomes, in «Canadian Journal of Policy Research», n. 2, 2001.
P. Bourdieu, The Forms of Capital, in J. Richardson (a cura di), Handbook of
11 - http://www.sportallarovescia.it/.
Theory and Research for the Sociology of Education, Greenwood, New York
12 - La disciplina relativa al permesso di soggiorno per attività sportiva dilet-
1986
tantistica è reperibile al sito http://www.coni.it/it/sportivi-non-comunitari-in-
M. Korac, Integration and How We Facilitate It: A Comparative Study of the Sett-
gresso-e-permesso-di-soggiorno-in-italia/circolare-riepilogativa.html.
lement Experiences of Refugees in Italy and the Netherlands, Sociology, 37, 2003
13 - C.U. n. 194/A del 12/06/2013, consultabile sul sito FIGC.
G. Orientale Caputo, Il mercato del lavoro. Lontani dalla ripresa, in L. Ros-
14 - Abrogazione dei commi 11 e 11bis dell’art. 40 delle NOIF, e modifica dei
somando (a cura di), Lo stato della città. Napoli e la sua area metropolitana,
commi quater e quinques della stessa disposizione.
Monitor, Napoli 2016
15 - Ordinanza del Tribunale di Lodi del 13 maggio 2010.
R. Putnam, La tradizione civica delle regioni italiane, Mondadori, Milano 1993
16 - Nello specifico artt. 19 e 19bis.
L. Rossomando (a cura di), Lo stato della città. Napoli e la sua area metropoli-
17 - Così dispone l’allegato 2 al regolamento FIFA, rubricato Procedure per le
tana, Monitor, Napoli 2016
richieste di primo tesseramento e di trasferimento internazionale di minori (Art.
M. Woolcock, The Place of Social Capital in Understanding Social and Economic
19 paragrafo 4).
Outcomes, in «Canadian Journal of Policy Research», n. 2, 2001
18 - ASGI, Minori stranieri e diritto al gioco. Una ricerca giuridica sul diritto al
gioco in Italia, 2015.
19 - Art. 28, comma 1, lett a), D.P.R. 394/99.
20 - Ancora, l’art. 6, par. 2, del T.U. sull’immigrazione esclude espressamente
l’obbligo di esibire i documenti relativi al soggiorno per i provvedimenti riguardanti attività sportive e ricreative a carattere temporaneo.
21 - Nota della FGCI-Lega Nazionale Dilettanti del 23 giugno 2015, Primo
tesseramento in Italia dei calciatori minori stranieri in affido/tutela, reperibi-
ABSTRACT EN
le al link http://www.asgi.it/wp-content/uploads/2016/01/Minori-stranieri-n-a-1%5E-tesseramento.pdf. Di avviso contrario, ASGI, ASGI/FIGC: accesso
dei minori stranieri non accompagnati (MNSA) al tesseramento, 15 gennaio
2016, documento reperibile al sito www.asgi.it.
22 - Legge n. 12 del 20 gennaio 2016 concernente «disposizioni per favorire
l’integrazione sociale dei minori stranieri residenti in Italia mediante l’ammissione nelle società sportive appartenenti alle federazioni nazionali, alle
discipline associate o agli enti di promozione sportiva».
23 - Fonte: ISTAT.
24 - G. Orientale Caputo, Il mercato del lavoro. Lontani dalla ripresa, in L. Rossomando (a cura di), Lo stato della città. Napoli e la sua area metropolitana,
cit., p. 167.
25 - Fonte: ISTAT.
26 - A. Ager, A. Strang, Indicators of Integration: Final Report, op. cit., p. 18.
27 - Cfr. L. Bifulco, F. Pirone, A tutto campo. Il calcio da una prospettiva socio-
This paper analyses the reality of Afro-Naples United, a Neapolitan football team with migrant and Italian players, established to encourage integration and promote a multi-ethnic
culture. The research, which has both sociological and legal
foundations, aims to understand how – in the context of the
new rules concerning the recruitment of migrant athletes ,
together with all its complications – this football experience
has influenced the lives of the players, their social capital,
and the relational networks useful in accessing economic and
social resources and in increasing their local prestige as well
as general trust. To put it simply, footballs ability to favour
integration which restrains socio-economic exclusion of disadvantaged groups.
logica, Guida, Napoli 2014, pp. 20-36.
28 - Cfr. a tal proposito le riflessioni di C. Auld, Volountary sport clubs: the potential for the development of social capital, in M. Nicholson, R. Hoye (a cura di),
Sport and Social Capital, Butterworth-Heinemann, Oxford 2008, pp. 143-164.
29 - È utile sottolineare che i dirigenti dell’Afro-Napoli United sono stati contattati da altre realtà calcistiche nate con gli stessi intenti, per un’ispirazione generale ma anche per consigli di ordine pratico-giuridico, per esempio sulle que-
Luca Bifulco
stioni relative al tesseramento e ai permessi di soggiorno degli atleti stranieri.
BIBLIOGRAFIA
A. Ager, A. Strang, Understanding Integration: A Conceptual Framework, in
è ricercatore in Sociologia Generale del Dipartimento di
Scienze Sociali dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, dove insegna Sociologia e Sociologia dello Sport.
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C. Auld, Volountary sport clubs: the potential for the development of social capital, in M. Nicholson, R. Hoye (a cura di), Sport and Social Capital, Butterwor-
40
"GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP
è ricercatrice a t. d. di Diritto Internazionale presso il Dipartimento di Scienze Umane e Sociali dell’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, dove insegna attualmente Diritto
dell’Unione europea, dopo aver insegnato per alcuni anni
Tutela internazionale dei migranti.
E Ar D Fi Si
DOSSIER
Entre contraintes et soutiens:
l’implication de la famille dans
les parcours de footballeurs
camerounais
La famille joue un rôle important pendant et après la carrière d’un footballeur: la recherche
a été conduite sur des joueurs camerounais vivant en France et quelques membres de leurs
familles au Cameroun.
par Jérôme Berthoud
D
epuis les travaux pionniers de Bale et Maguire (Bale et Maguire 1994), de nombreux
chercheurs en sciences sociales se sont
intéressés aux «migrants avec la balle»
(Lanfranchi et Taylor 2001), mettant généralement l’accent sur le rôle des structures
qui encadrent les mouvements des joueurs. Nous pensons premièrement au cadre institutionnel, représenté notamment par
les clubs (Poli 2008) et les centres de formation (Darby et al
2007) ou au cadre humain, en particulier les agents de joueurs
et membres de fédérations (Frenkiel 2014, Poli et Dietschy
2006). De nombreux travaux se sont également intéressés aux
structures immatérielles, le marché globalisé du football, tel
que l’on pourrait le nommer (Magee et Sugden 2002, Maguire
et Falcous 2011). Comme le souligne Darby (Darby 2013), les
travaux auxquels nous venons de faire allusion ont une forte
tendance à percevoir les mouvements de footballeurs comme
un processus étant à la fois une cause et une conséquence d’un
déséquilibre de la globalisation du sport. Les footballeurs africains sont ainsi souvent perçus comme les victimes d’un système, une main d’œuvre docile et bon marché.
Plusieurs travaux d’anthropologie des migrations appliqués à
d’autres catégories de migrants ont au contraire mis au centre
l’individu dans le parcours migratoire (Bredeloup 2014, Marie 1997). Gardant en tête l’observation de Norbert Elias (Elias
1991), selon laquelle les individus sont interdépendants les
uns des autres, nous proposons de réfléchir à l’inscription
de parcours migratoires d’individus au sein de leurs cadres
familiaux. Dès lors, nous souhaitons nous intéresser au rôle
de l’entourage des joueurs, dans leur parcours, suivant ainsi
le parti pris par Carter (Carter 2007, 2011) ou von der Meij
et Darby (von der Meij et Darby 2015). A partir de deux cas
d’étude, notre analyse met en avant l’ambiguïté du rôle de la
famille dans le parcours migratoire des joueurs, tantôt perçue
comme un soutien et tantôt comme un poids.
La question des structures familiales dans les parcours migratoires de footballeurs a émergé dans le cadre d’un travail de
thèse en cours, qui porte sur l’après-carrière de footballeurs
camerounais. Inspiré de la sociologie des carrières (Hughes
1958) et à l’aide d’entretiens sous forme de «récits de vie»
(Bertaux 2006), nous avons cherché à comprendre comment
se construit cette après-carrière. Des entretiens sont ressortis
une gêne, un sentiment de honte, et une tendance à «garder
la face» (Goffman 1974), en esquivant la question de l’ “après”,
évitant ainsi de parler d’éléments perçus par hypothèse
comme dévalorisants. La brièveté de l’échange mais aussi la
rigidité du cadre de la discussion ont considérablement réduit la possibilité d’entrer dans une relation de confiance, qui
aurait permis aux joueurs de se “livrer” de manière plus libre
et approfondie sur leur situation de vie actuelle.
Afin de mieux saisir la complexité des parcours des joueurs,
nous avons choisi de compléter les informations recueillies
durant les entretiens par une ethnographie multi-située
(Marcus 1995). Entre 2013 et 2014, des observations, parfois
participantes et des discussions plus informelles, avec d’anciens joueurs mais aussi avec leurs proches, en France et au
Cameroun ont été mis en place. Ce travail d’ethnographie a
notamment été entrepris avec deux anciens footballeurs camerounais qui vivent aujourd’hui en Normandie et dans la
région parisienne, ainsi qu’auprès de leur famille respective,
au Cameroun.
Gilbert: une famille en soutien
Nous avons fréquenté Gilbert entre 2012 et 2014. Un premier
entretien a été suivi de trois autres rencontres, plus informelles, entre Paris et la Normandie. Durant les mois de juillet et aout 2014, nous avons également rencontré plusieurs
membres de sa famille au Cameroun, bénéficiant notamment
de l’accueil du petit-frère de Gilbert à Douala.
Gilbert naît en 1974 et grandit principalement dans la pro-
41
E Ar D Fi SiDOSSIER
S
notamment grâce à ses frères, restés au Cameroun. Côtoyés à
vince du littoral au Cameroun. Jusqu’à l’âge de 14 ans, il
plusieurs reprises entre Douala et Yaoundé, Emile et Samuel
loge tantôt chez sa mère, enseignante primaire, et tantôt
jouissent d’une situation professionnelle qui leur permet d’être
chez sa tante maternelle, dont le mari est un employé dans
autonomes. Le premier possède une entreprise spécialisée
une bananeraie. Il termine sa scolarité à Yaoundé, chez un
dans l’électronique, et gagne près d’un million de CFA par mois
oncle maternel. Après avoir joué dans plusieurs clubs de
(environ 1.500 euros), soit plus que certains fonctionnaires,
deuxième puis de première division au Cameroun, il quitte
même haut placés. Quant au second, il travaille pour une enson pays pour l’Allemagne en 2001, en compagnie de quatre
autres jeunes Camerounais, par l’intermédiaire d’un agent de
treprise pétrolière à Douala, qui offre également des conditions
joueurs non-reconnu. Abandonné par cet intermédiaire après
d’emploi favorables. Tant l’un que l’autre se substituent ainsi à
quelques tentatives manquées de signer un contrat, il est acGilbert dans la prise en charge des plus jeunes. Samuel a ainsi
cueilli par une cousine en France. Quelques années plus tard,
permis à plusieurs neveux d’obtenir un stage au sein de son
il rejoint un club normand de cinquième division, qui l’aide
entreprise. Emile, qui héberge le fils d’un cousin à Yaoundé, est
à régulariser sa situation. Depuis 2010, suite à une relation
en outre à l’initiative d’une tontine4 au sein de la famille élargie.
de proximité entretenue avec le président de ce club, Gilbert
obtient un poste de responsable des infrastructures sportives
Jules: une famille dans l’attente
au sein du service des sports de la ville. Il est marié avec une
Nous avons rencontré Jules à plusieurs reprises durant l’année
femme française avec qui il a deux enfants en bas âge.
2014. La prise de contact s’est effectuée autour d’une partie de
Lorsque nous questionnons Gilbert au sujet des personnes
football organisée dans la banlieue parisienne par un groupe de
qui l’ont soutenu durant sa carrière, il pense immédiatement
migrants camerounais, à laquelle nous avons également partià son oncle maternel. Ce dernier a notamment joué un rôle
cipé. De longues discussions se sont alors engagées avec Jules,
important au début de sa carrière: «Mon oncle, il a une philodans le métro sur le chemin du retour. Peu avant notre départ
sophie un peu différente de ses frères et sœurs. Lui, il estime
au Cameroun, il nous met en relation avec sa mère et sa soeur,
que quand un enfant a du talent, peu importe le domaine,
que nous rencontrons à également durant l’été 2014 à Yaoundé.
il faut l’aider. [...] Donc moi je dirais que ça a plutôt été une
Né en 1992, Jules grandit entre Yaoundé et Douala avec sa
chance d’être allé chez mon oncle. Cela m’a permis, en même
mère, ses deux sœurs et ses deux frères. Sa mère, déléguée
temps, de continuer l’école et de jouer au foot».1 Gilbert voit
au Ministère des transports de la Province du Centre, tient à
ce que Jules fréquente une école privée. Il quittera néanmoins
son oncle comme un véritable conseiller: «Il était mon confil’établissement avant d’obtedent, qui me disait tout et qui
nir son Brevet de technicien
me soutenait dans tout ce que
supérieur (BTS) en manaje faisais, qui était toujours
à l’écoute et à qui je pouvais
La situation professionnelle des membres de la fa- gement. Sur le plan sportif,
dire tout ce que je pensais ».2
mille ou la position des joueurs dans la fratrie sont après avoir intégré un centre
de formation, puis l’équipe
Le soutien de son oncle ne
des éléments qui permettent de mieux saisir les
première du centre qui évos’arrête pas à un soutien mospécificités du vécu des joueurs en fin de carrière. lue en deuxième division caral. Lors d’une discussion
informelle avec ce dernier à
merounaise, il part tenter sa
Douala, il insiste beaucoup sur
chance à l’étranger. Son arriles sacrifices auxquels il a du
vée en Europe ne se passe pas
faire face pour financer le départ de Gilbert en Europe. Il nous
comme prévu puisque le présumé contact établi par son agent
avoue ainsi «s’être ruiné pour cela, avoir vidé tout son compte
ne s’avère pas concluant. Sa volonté de trouver un club le fait
et même essuyé le refus des gens de la tontine dans laquelle il
voyager dans le pays, avant de le mener à la Bulgarie. Après
était impliqué à ce moment».3
quelques mois, alors qu’il se retrouve en situation irrégulière,
il décide de rejoindre des membres de sa famille élargie étaLe départ de Gilbert est donc un projet “collectif”, qui, sans que
cela soit nécessairement mentionné, exige un contre-don. Dès
blis en région parisienne. Lors de notre dernière rencontre, au
qu’il se voit dans la possibilité de le faire, Gilbert commence à
mois de décembre 2014, Jules est toujours sans papiers. Il nous
fait part de l’échec de sa tentative de financement d’une reconrembourser aux membres de sa famille la «dette» (Marie 1997)
contractée auprès des membres de sa famille qui ont financé
naissance de paternité, qui lui aurait facilité un séjour légal et à
son départ en Europe. Lors d’une discussion informelle avec
long terme sur le territoire français.
Gilbert à la suite de notre retour du Cameroun, il nous rappelle
L’intégration en France est difficile pour Jules. Dès son arrià quel point il a contribué au bien-être de ses proches depuis
vée à Paris, les membres de sa famille censés l’accueillir lui
plusieurs années, mais aussi au poids que cette participation
font comprendre qu’il n’est pas vraiment le bienvenu. Jules
peut constituer. En parallèle du soutien apporté à ses frères et
nous raconte alors que «Personne ne m’attend à mon arrivée
sœur durant leurs études ou lorsqu’ils étaient sans emploi, il a
à l’aéroport. Ce n’est qu’après avoir attendu plusieurs heures
envoyé une voiture à sa mère, à son grand-frère Guy ainsi qu’à
que mon petit-cousin vient me recueillir. »5 Tour à tour, la
son oncle, payé le traitement médical d’un autre oncle malade
cousine de sa tante, chez qui il est hébergé en premier et sa
et financé les études de plusieurs neveux que les parents ne
cousine, qui l’héberge dans un second temps, font pression
pouvaient soutenir.
sur lui pour qu’il paie sa part du loyer. Quant à sa sœur, elle
Si la nécessité de rendre le soutien dont il a bénéficié n’est
lui reproche de partir jouer au football le dimanche, au lieu
pas vécue comme un poids insurmontable pour Gilbert, c’est
de chercher à travailler.
42
"GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP
E Ar D Fi Si
DOSSIER
Au Cameroun, sa famille attend de lui un “retour sur investissement”, expression employée par sa mère lorsque nous
la rencontrons à Yaoundé. Cette dernière insiste sur le fait
qu’elle l’a beaucoup aidé à réaliser son objectif en payant son
billet d’avion. Au-delà de lui avoir facilité son départ, sa mère
nous fait savoir qu’elle continue à lui envoyer régulièrement
de l’argent. Elle a par ailleurs financé la moitié de son projet
de reconnaissance de paternité avorté, soit 2000 euros. Désormais, elle attend de son fils qu’il trouve un travail et qu’il
lui envoie quelque chose en retour. Vivant seule et proche de
la retraite, elle estime que sa pension ne lui suffira pas pour
vivre décemment. La femme attend également de son fils qu’il
prenne le relais dans l’éducation de ses enfants: « J’ai envie de
me sentir à l’aise. J’aimerais m’acheter une voiture, changer
mes meubles, faire la peinture de ma maison. Je souhaiterais
également pouvoir aller lui rendre visite, quand il aura des papiers. En l’absence d’un père, il deviendra le chef de la famille
et devra prendre soin de ses frères et sœurs. »6
La sœur de Jules, qui est sur le point de terminer son brevet
d’avocat et qui travaille dans une petite étude à Yaoundé en parallèle, partage l’avis de sa mère. Si elle n’attend peut-être pas
de retour direct sur investissement de la part de son frère, elle
est d’avis que Jules doit rester en Europe. Il est désormais trop
tard pour reculer : « c’est un homme et en tant qu’homme il
doit se battre et donc il faut rester. Par la grâce de Dieu, les
L’enquêteur en compagnie du frère de Gilbert lors d’une visite au domicile d’un
des anciens du village. © Jérôme Berthoud
choses vont s’arranger. S’il devait arriver en Europe c’est que
c’était déjà écrit alors maintenant il faut se battre pour rester ».7
Que cela soit sa mère ou sa sœur, toutes deux sont d’avis que
Jules doit rester en France. Elles attendent en effet qu’il « joue
son rôle de migrant » en rendant ce qu’il a reçu et en se « comportant comme un homme ». Sa mère pense à son propre bienêtre matériel ainsi qu’à celui de ses enfants, alors que sa sœur
joue sur le devoir qu’implique ce départ en Europe en termes
de masculinité. L’idée d’un retour serait perçue comme peu
flatteuse pour son frère, et par conséquent pour elle-même.
Similarités et divergences dans les parcours migratoires
Les relations que Gilbert et Jules entretiennent avec leurs
proches possèdent premièrement quelques similarités. Les
deux joueurs grandissent dans une famille monoparentale,
avec une mère enseignante. Lorsque l’on s’intéresse aux
rapports entretenus par les deux joueurs et leur famille, on
constate également des ressemblances : ils partent en Europe
avec une dette importante, suite au financement de leur départ par plusieurs membres de la famille. Enfin, tous deux
43
E Ar D Fi SiDOSSIER
S
L’équipe vainqueur des rencontres sportives de Manengouba.
© Jérôme Berthoud
bénéficient d’un pied à terre en France, dans le but de rebondir, suite à un premier échec. Une autre similarité se situe au
niveau de leur parcours footballistique. Tous deux ont vécu
une arrivée en Europe tumultueuse. Les intermédiaires qui
ont facilité leur transport ont rapidement cessé de prendre
en charge leur séjour, et ils se sont retrouvés seuls face à euxmêmes, dans un environnement pour le moins inconnu. Ce
résultat va dans la direction des écrits qui mettent en avant
le contrôle du “capital sportif” (Faure et Fleuriel, 2010)
des joueurs par les intermédiaires du football (Darby 2010,
Ewanjé-Epée 2010, Dubus & Devalpo 2012).
Malgré les ressemblances dans les parcours de Gilbert et de
Jules, leur condition actuelle en France varie fortement d’un
cas à l’autre. Alors que Gilbert se trouve dans une situation
stable sur le plan administratif, professionnel et familial, Jules
est en pleine recherche d’un équilibre, qui passe en premier
lieu par la régularisation de son statut. Les clés d’interprétation de ces divergences, qui nous avaient parues peu évidentes à la suite des premiers contacts effectués avec les
joueurs, n’ont été trouvées qu’au prix d’une reformulation de
notre méthode d’investigation, qui nous a conduit à enquêter
directement auprès des familles.
Après avoir bénéficié de la situation socio-professionnelle de
ses frères, Gilbert n’est plus le seul à supporter le poids de
la redistribution. Il est notamment déchargé du la nécessité
de contribuer financièrement à la scolarisation des neveux et
nièces de la famille. De son côté, Jules est loin d’être libéré de
ce fardeau. En l’absence d’un père, en tant que fils ainé de
la famille, et avec une mère qui part à la retraite prochainement, Jules se voit chargé d’une lourde mission : jouer le rôle
de chef de famille, alors qu’il se trouve lui-même dans une situation d’extrême fragilité en France. Ainsi, des éléments tels
que la situation professionnelle des membres de la famille
ou la position des joueurs dans la fratrie, sont des éléments
qui permettent de mieux saisir les spécificités du vécu des
joueurs en fin de carrière.
des pistes de recherches, quant au rôle des interactions familiales dans la compréhension des parcours de footballeurs
migrants, qui complètent les outils d’analyse basés sur des
approches macro structurelles.
A partir des exemples de Gilbert et de Jules, il apparaît que
l’environnement familial des joueurs influence leur manière
de gérer leur carrière mais aussi l’« après-carrière ». La
prise en charge de cette dernière est en effet insérée dans et
contrainte par l’environnement familial, qui prend origine
dans le caractère collectif du projet migratoire et se poursuit
dans les interactions familiales durant toute la trajectoire du
joueur. Le joueur étant indissociablement lié à sa famille, la
sanction d’un manquement à son « rôle social » (Parsons,
1951) conduit probablement à l’isolement et la relégation.
Néanmoins, comme les exemples de Gilbert et de Jules ont
permis de le montrer, de grandes différences peuvent être
observées d’une famille à l’autre. Celles-ci sont tantôt être un
soutien, tantôt un poids, ce qui a d’inévitables conséquences
sur la trajectoire et la vie quotidienne des joueurs.
S’intéresser aux conditions de départ, ainsi qu’aux liens entre
le joueur et sa famille, s’articule bien évidemment aux conditions d’accueil des joueurs ainsi qu’au traitement qui leur est
parfois réservé. Aussi, ces articulations entre d’une part les
conditions socio-familiales de l’origine du projet migratoire,
les interactions constantes entre le joueur et sa famille durant et après la carrière et, d’autre part, l’évolution du marché international de la migration footballistique, les transformations des institutions du football en Europe et le rôle des
agents, autorise une lecture plus fine des migrations des footballeurs en provenance d’Afrique subsaharienne.
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Conclusion
Les deux exemples traités ci-dessus ne sont évidemment pas
représentatifs des rapports entretenus par les footballeurs
camerounais migrants avec leur famille. Ils n’ont d’ailleurs
aucunement la vocation de l’être. Ils visent plutôt à ouvrir
44
"GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP
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Il ruolo della famiglia nei
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camerunesi
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NOTES
1 - Extrait d’entretien avec Gilbert, 10 février 2012, Rouen.
2 - Ibid.
3 - Extrait d’un entretien informel avec l’oncle de Gilbert, 21 aout 2014, Douala.
4 - Pratique informelle et collective d’épargne et de crédit.
5 - Extrait d’un entretien informel avec Jules, 13 juin 2014, Paris.
6 - Extrait d’un entretien informel avec la mère de Jules, 26 aout 2014,
Yaoundé.
7 - Extrait d’un entretien informel avec la soeur de Jules, 26 aout 2014,
Yaoundé.
Jérôme Berthoud
est socio-anthropologue du sport, spécialiste de la migration
et de l’intégration. Il prépare une thèse de doctorat à l’Institut
des sciences du sport de l’Université de Lausanne (ISSUL)
sur l’après-carrière de footballeurs camerounais et vient de
publier Le football Suisse: des pionniers aux professionnels
aux Presses polytechniques et universitaires romandes.
I
l ruolo dei giocatori di origine africana nel mondo del calcio è al centro di numerose ricerche in
ambito sociale e antropologico.
In particolare l’interesse si è concentrato sui loro
movimenti dal Paese di origine al mondo occidentale.
Questo articolo riporta i risultati di una ricerca sul ruolo della famiglia di origine nel processo migratorio dei
giocatori, sia come “sostegno” che come “peso”.
Nei due casi studio qui presentati, ci si sofferma soprattutto sul “post-carriera” di due calciatori camerunesi che oggi vivono in Normandia e nella regione
parigina, mentre le loro famiglie risiedono in Camerun.
Gilbert, nato e cresciuto in un villaggio sulle coste camerunesi, a 21 anni è partito per la Germania e dopo
alcuni anni si è spostato in Francia, dove è stato ingaggiato in un club di quinta divisione. Nel 2010 ha
assunto il ruolo di responsabile delle strutture sportive
della città. La famiglia di origine, soprattutto lo zio, ha
contribuito in maniera sostanziale al suo percorso, sostenendolo sia moralmente che economicamente, nel
momento in cui decise di lasciare il Paese. Questo sostegno è stato ripagato da Gilbert: una volta ottenuto
un buon impiego in Europa, ha provveduto a soddisfare
i bisogni dei familiari (dall’iscrizione a scuola dei fratelli,
alle spese sanitarie di uno zio malato). Fortunatamente
per Gilbert la famiglia non è stata un “peso” eccessivo,
poiché anche due dei suoi fratelli sono riusciti ad ottenere all’estero buoni impieghi che hanno consentito
loro di contribuire al sostentamento economico della
famiglia di origine.
Jules invece è cresciuto tra Yaoundé e Douala: conclusi gli studi superiori e dopo aver giocato in una squadra
di seconda divisione, è partito in cerca di fortuna in
Europa. Numerose sono state le difficoltà per ottenere un permesso che gli consentisse di restare regolarmente sul suolo europeo (attualmente ne è privo),
altrettanto difficile trovare un lavoro, così come dura si
è presentata fin dall’inizio la convivenza con i parenti
che gli hanno offerto ospitalità. Allo stesso tempo, in
Camerun la madre aspetta da lui un sostegno economico, avendo lei investito e contribuito alla sua partenza. Nonostante queste difficoltà i familiari spingono
perché Jules resti in Europa, perché un ritorno sarebbe
una sconfitta per tutti.
Queste due storie paradigmatiche presentano aspetti simili (provenienza da una famiglia monogenitoriale,
presenza di parenti in territorio francese) così come
divergenze, soprattutto sul piano della stabilità: Gilbert
ha una casa, un lavoro, una moglie, Jules è alla ricerca
di un equilibrio, soprattutto della regolarizzazione della
sua presenza in Europa.
45
E Ar D Fi SiDOSSIER
S
Sportive nere in maglia azzurra.
Un approccio intersezionale
allo sport italiano
Corpi neri avvolti in bandiere italiane rappresentano una realtà dello sport italiano
oggi: interessante il caso delle atlete black che praticano sport a livello agonistico, che
continuamente devono negoziare la loro inclusione nel contesto sportivo. E così entrano in
gioco le multiple connessioni tra potere, identità e discriminazione.
di Sandra Agyei Kyeremeh
L
a nascita dello sport moderno costruisce e riproduce nel periodo vittoriano lo sport come
“naturale” dominio maschile. In un ordine
sociale patriarcale che cerca di mantenere il
controllo sulla mobilità e fisicità delle donne,
i corpi femminili diventano dei terreni di lotta (Sassatelli 2003), dei “luoghi” di contestazione.
Lo sport attraverso uno sguardo intersezionale
Sebbene lo sport rappresenti un «microcosmo di valori di
genere» (Creedon 1994, p. 4), Scraton (Scraton 2001, p. 177)
evidenzia l’assenza di materiale storico che lo consideri come
un sistema intrinsecamente razzializzato e genderizzato, nonostante esso costituisca «uno specchio della società» della
quale riflette i valori culturali e le norme sociali.
È proprio negli anni ’70 che alcune studiose decidono di dare
voce e spazio alle esperienze delle atlete rendendole soggetti
di ricerca, mettendone in luce la loro marginalizzazione in un
contesto tradizionalmente di dominazione maschile. Tali studi, partendo implicitamente e/o esplicitamente da prospettive
marxiste/socialiste e femministe, evidenziano però l’esistenza
di una visione monolitica ed essenzialista della donna bianca,
di classe media ed eterosessuale (Perilli e Ellena 2012, p. 131).
Il femminismo nero rifiuta l’etichettamento come “Altre” da
parte del movimento femminista occidentale criticandone la
tendenza eurocentrica e sostenendo come il razzismo e il classismo, al pari del genere e dell’orientamento sessuale, siano assi
di potere e di oppressione per le donne nere (McDonald 2014,
p. 152; Bandy 2014, p. 22).
Attraverso l’intersezionalità, termine coniato da Crenshaw
alla fine degli anni ’80, le femministe nere intendono mettere
in luce l’esperienza di multidimensionalità vissuta dai soggetti
marginalizzati (Crenshaw 1989, p. 139). Fin dalle sue origini,
l’intersezionalità pone particolare attenzione all’intersezione
tra “razza” e genere indagando i vari modi in cui queste ultime categorie sociali si intersecano per plasmare le molteplici
46
"GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP
dimensioni delle esperienze vissute dalle donne nere (Crenshaw 1991, p. 1244). L’intersezionalità, sfidando la concezione
universalistica e omogenea che mette al centro dell’analisi
il femminismo occidentale, dà voce e visibilità alla vita delle donne nere, spesso escluse dalle attività delle femministe
bianche e marginalizzate nelle lotte antirazziste incentrate
sugli uomini neri (McDonald 2014, p. 153).
L’intersezionalità, continua Crenshaw (2006, p. 7), rappresenta
uno strumento per mediare la tensione che può emergere tra
l’affermazione di identità multiple e le politiche messe in atto a
favore di gruppi sociali, azioni che spesso ignorando le differenze tra questi ultimi, ne aumentano la tensione (Ivi, p. 8).
L’adozione di un approccio intersezionale, ad esempio, diventa necessario quando intendiamo comprendere un contesto
razzializzato e genderizzato come lo sport. Il ricorso all’intersezionalità permette, infatti, di analizzare criticamente questioni riguardanti le interconnessioni multiple e simultanee
tra potere, identità e discriminazioni (Watson e Scraton 2013,
p. 35). Utilizzerò tale approccio per analizzare la presenza,
a livelli dilettantistici,1 nello sport italiano di atlete nere o di
origini straniere.
Negoziare l’appartenenza in spazi razzializzati.
Il caso delle Black Italians
In seguito ai mutamenti economici, sociali e culturali avvenuti
nel secondo dopoguerra in tutta Europa, si assiste a un generale e progressivo aumento della partecipazione alla pratica
sportiva. La maggiore disponibilità di tempo libero e gli investimenti nei servizi connessi al benessere fisico inducono sia
uomini che donne a praticare attività fisica. Per quanto riguarda l’Italia, fra la metà degli anni ’70 e la metà degli anni ’80,
si registra un graduale incremento delle persone praticanti
attività fisica riconosciute dal Coni (Sassatelli 2003). Nel 2015,
secondo un rapporto dell’ISTAT (2016, p. 3), le persone che
dichiarano di praticare sport nel tempo libero sono 19 milioni
e 600 mila, ovvero il 33,3% della popolazione. Il Coni, già nel
E Ar D Fi Si
DOSSIER
quanto persone con cittadinanza non europea. L’obiettivo di
2014 (p. 15), evidenzia un forte divario tra la partecipazione
eliminare le discriminazioni che ancora ostacolano l’accesso
maschile e femminile allo sport: le sportive costituiscono solaallo sport delle atlete di origini straniere è stato solo in parmente il 24% della popolazione. La scarsa adesione e rapprete ottemperato con la suddetta disposizione. Ad oggi, infatti,
sentazione delle atlete nello sport sono legate a una minore
persistono alcune questioni che non sono state risolte dalla
possibilità di fruizione del loro tempo libero e alla divisione
sopraccitata legge. Il pubblico al quale la norma si rivolge è
sociale e sessuale del lavoro, che attribuisce loro delle “naturistretto, dato che i destinatari sono rappresentati dalle giovarali” responsabilità in termini di produzione e di riproduzione
ni di origine straniera regolarmente residenti in Italia almeno
in un sistema patriarcale. L’apparente inadeguatezza sportiva
dal compimento del decimo anno d’età. Inoltre, nel calcio ad
delle donne è il frutto invece della presenza di diversi ostacoli
esempio, il tesseramento di un’atleta non comporta l’automache rendono difficile il loro accesso allo sport. Non solo l’esitica autorizzazione per la stessa di essere schierata in campo.
stenza di modelli egemonici di mascolinità e di femminilità che
La suddetta disposizione oltretutto non affronta il problema
vedono ancora oggi lo sport come ambiente non adatto alle
della cittadinanza per le giovani atlete, che non essendo andonne ed etichettano coloro che lo praticano come devianti,
ma si registrano anche barriere di tipo economico, materiale e
cora riconosciute come cittadine italiane, non possono gareginfrastrutturale. Tale situazione non rappresenta solo lo sport
giare con le nazionali maggiori e minori fino all’acquisizione
a livello amatoriale, ma anche quello a livello professionistico.
della cittadinanza italiana. «So che tanti (atleti), di colore,
Nell’aprile 2015, una squadra di giocatrici di rugby, la All Reds
hanno avuto la cittadinanza più tardi e certe volte, anche se
Rugby Roma, lancia una petizione pubblica on line “Donne
comunque erano campioni italiani, non potevano partecipanello sport? Dilettanti per regolamento!”,2 riaprendo così il dire alle gare internazionali perché non avevano la cittadinanza
italiana [...]» (Alice, 18 anni, cittadina italiana nata da una copbattito circa un’importante questione che tuttora non è stata
pia bi-nazionale italiana e congolese, atletica leggera).5
completamente affrontata dalle istituzioni sportive, ovvero le
discriminazioni di genere subite dalle atlete nello sport italiaIl sistema di contingentamento per le sportive di origine straniera e le limitazioni poste dai diversi regolamenti federali
no.3 Con tale petizione pubblica, le rugbiste chiedono al Coni
alle singole società mostrano la presenza nello sport italiano
di modificare in un senso inclusivo la legge 91/1981 che esclude
di quelle che Sibley definisce «geografie di esclusione» (Sibley
le donne dal professionismo sportivo,4 privandole così di im1995). Queste ultime rappresentano il risultato di processi di
portanti tutele nonostante pratichino sport ad alti livelli.
inclusione e di esclusione messi in atto attraverso il ricorso
Se da un lato lo sport riproduce e tende a mantenere le relaa simboli culturali, stili di vita
zioni di dominio presenti nele miti predominanti in difesa
la società, dall’altro lato esso
di uno spazio sociale (Ivi, p.
riflette anche le trasformazioni che avvengono in essa. Le misure attraverso le quali le federazioni sportive ix-x). Si tratta di «geografie
di esclusione» che tendono
Tailmoun, Valeri, Tesfaye
tentano di tutelare «la bianchezza dello sport» non
a preservare, soprattutto in
(2014) registrano la crescente
prendono di certo direttamente in considerazione
determinate discipline sporpresenza nello sport italiano
il colore della pelle o le origini, ma si appellano
tive quali ad esempio il calcio
delle figlie dell’immigrazione
alla necessità di preservare i vivai giovanili,6
e il nuoto in Italia, la whitenate e/o cresciute nel territoconsolidando però pratiche di esclusione
ness (bianchezza). Con tale
rio nazionale. Dall’analisi del
quotidiana che limitano l’accesso allo sport delle
termine intendiamo, in linea
panorama sportivo intraprecon i whiteness studies, quella
sa dagli autori, che prendono
figlie della migrazione.
costruzione sociale e culturain considerazione sia sport
le che il gruppo dominante
individuali che di squadra,
pone in essere attraverso un
emerge come lo sport italiaprocesso in cui esso «razzializza» se stesso o si pone come
no sia caratterizzato dall’esistenza di cosiddette «spazialità
neutro nei confronti di altri soggetti che esso definisce neri
razzializzate» (Harrison 2013, p. 315). Tali luoghi, secondo
e non bianchi (Giuliani e Lombardi-Diop 2013, pp. 1-2). Le
Harrison, sono il risultato di processi di razzismo quotidiano
misure attraverso le quali le federazioni sportive tentano di
che agiscono per assicurare e difendere uno spazio sociale,
tutelare «la bianchezza dello sport» non prendono di certo dinel caso della sua ricerca lo sci, come predominantemente
rettamente in considerazione il colore della pelle o le origini,
bianco, limitando in questo modo la partecipazione e la rapma si appellano alla necessità di preservare i vivai giovanili,6
presentazione di sciatori neri (Ibid.)
consolidando però pratiche di esclusione quotidiana che limiL’approvazione dello ius soli sportivo nel gennaio 2016, legge
tano l’accesso allo sport delle figlie della migrazione.7
che prevede che le atlete di origini straniere possano essere
Nonostante la suddetta situazione, le atlete nere o di origine
tesserate nelle società sportive come qualsiasi altro cittadino
straniera hanno progressivamente conquistato la scena naitaliano, secondo Valeri (Sebhat 2016), non costituisce una
zionale e internazionale con le loro gesta sportive. Dall’atletivera rivoluzione. Tra le maggiori discriminazioni evidenziate
ca al calcio fino ad arrivare al cricket e al judo, le Black Italians
già diversi anni fa dalla Commissione per le politiche di inte(Valeri 2006), ovvero sportive nere o di origine straniera che
grazione degli immigrati della Presidenza del Consiglio dei
vestono la maglia azzurra, riflettono le trasformazioni e il volMinistri (2000), risulta esserci il possesso o meno della citto di una società, quella italiana, che è mutata già da tempo
tadinanza europea da parte di tali giovani, mancanza che le
anche a livello sportivo.
espone al sistema delle quote che limita il loro tesseramento in
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E Ar D Fi SiDOSSIER
S
«Non esistono negri italiani», uno dei tanti cori diretti a Balogi è un super eroe, super Mario, mentre appena sbaglia, appetelli, calciatore italiano di origini ghanesi durante una partita,
na giustamente l’uomo, l’atleta, può sbagliare, cioè è umano,
evidenzia come il processo di definizione dell’italianità sia
sappiamo, cioè loro, queste persone che criticano, sanno dove
ancora oggi conflittuale e in progress. La presenza del corpo
andare a criticare» (Maria, 26 anni, cittadina italiana nata da
nero in uno spazio pubblico prettamente bianco viene peruna coppia bi-nazionale italiana e nigeriana, atletica leggera). I
cepita come inopportuna in taluni luoghi sociali, questo perprocessi di inclusione e di esclusione del corpo «razzializzato»
ché in presenza di «spazialità razzializzate» ci si aspetta che
all’interno di spazi privilegiati bianchi non sono fissi, ma sono
determinate figure «razzializzate» occupino solo certi spazi
soggetti a continue oscillazioni. È proprio in questi contesti che
(Carter 2008, p. 267). I corpi delle Black Italians, come quelli
le Black Italians cercano di risignificare i significati attribuiti
di Balotelli e Obama ad esempio, visti rispettivamente come
alle loro figure e negoziano la loro inclusione, rivendicano ap«il negretto di famiglia» e «il giovane, bello e abbronzato»,8
partenenze multiple, anche in un ambito come quello sportiirrompendo in luoghi di dominio bianchi, cercano di rivendivo. La presenza di atlete nere o di origini straniere nelle naziocare la legittimità della loro presenza in tali ambienti.
nali maggiori e minori induce il gruppo dominante non solo a
«Devi stra-dimostrarlo che in realtà, cioè può essere che alcune
riflettere sul nuovo colore dello sport, ma anche sulla necessità
persone (di origine straniera) si sentano più italiane degli italiadi una trasformazione del concetto di italianità in senso più
inclusivo, mettendo in luce i privilegi connessi alla bianchezza.
ni stessi [...] come le persone hanno l’Africa nel cuore, qualcun
altro può avere l’Italia nel cuore o comunque l’Europa nel cuo«Mamma mia, il batticuore, ogni volta che la indosso (la maglia azzurra), è un’emozione ogni volta, […] prima non vore [...] che poi cioè ovunque tu sia nata, se hai vissuto lì, se hai
levo sciupare la roba della nazionale, solo che adesso ne ho
avuto dei legami sarà sempre una parte di te, dipende da dove
accumulata un bel pacco, una bella pila e ho detto: “Va beh,
cresci proprio, dai legami che si creano [...]» (Gioia, 19 anni,
non posso lasciarla a prendere polvere in cantina!”, quindi
cittadina italiana di origini nigeriane, atletica leggera).
qualcosa la uso per fare allenamento, a volte magari se so che
Gioia reclama la legittimità della propria appartenenza, in
è il giorno che devo fare qualcosa di più difficile in allenamenquesto caso italiana, in un sistema nel quale il gruppo domito, magari mi metto una maglietta, piuttosto che i pantaloni
nante, in certi luoghi, esercita il potere di costruire la cultura
della nazionale per darmi una specie di incoraggiamento in
egemonica di quello spazio, tracciando delle linee nette tra
più, quindi cioè è una cosa veramente importante […] anche
chi vi appartiene e chi no (Watson e Ratna 2011, pp. 72-73). La
indossarla ad una gara importante la maglia della nazionacostruzione di tali confini rappresentati da simboli nazionali e
le, ti fa sentire addosso una
storici, ad esempio, è connesresponsabilità davvero imsa al processo di immaginazioportante, quindi tu cerchi di
ne della nazione. Tale sviluponorarla con tutto quello che
po avviene, secondo Puwar,
Gioia reclama la legittimità della propria
puoi, quindi lì in quel franin corrispondenza dell’immiappartenenza, in questo caso italiana, in un
gente… cioè davvero sarebbe
nente arrivo in determinati
sistema nel quale il gruppo dominante, in certi
un insulto se qualcuno mi vespazi pubblici privilegiati, di
luoghi, esercita il potere di costruire la cultura
nisse a dire che non ci sono
figure ritenute a esso estranee
egemonica di quello spazio, tracciando delle linee
italiani neri, cioè non ci pos(Puwar 2004, p. 5).
nette tra chi vi appartiene e chi no.
sono essere italiani neri: vuol
«[...] Poi è ovvio che magadire che non riescono davveri qualcheduno fa un po’ di
ro ad apprezzare quanto sia
battute: “Eh, ma questa qua –
importante per me indossare
dice – ha fatto il record italiaquella maglietta […]» (Gioia, 19 anni, cittadina italiana di orino giovanile, eh sì, è nera!”, come a dire, non è italiana, cioè,
gini nigeriane, atletica leggera). I corpi neri delle atlete avvolti
capito? Per dire sì, l’ha fatto il record italiano, però cioè, è
in maglie azzurre sfidano i concetti tradizionali di outsider e
nera, è come se non fosse italiana, quasi come se non valesse!
insider all’interno della comunità immaginata italiana, ribal[...]» (Melany, 29 anni, cittadina italiana di origini ivoriane,
tando i significati di subalternità e inferiorizzazione attribuiti
atletica leggera).
al corpo nero (Giuliani 2013, p. 256). Le Black Italians, conteLe abilità degli atleti neri sono spesso soggette a stereotipi
stando l’omogeneizzazione degli spazi pubblici, rivendicano
razziali largamente condivisi. I loro corpi infatti, vengono deal contempo la necessità di una maggiore complessificazione
scritti come “naturalmente” dotati e portati per determinati
del concetto di italianità.
sport (Coakley 2007, p. 292), come ad esempio l’atletica leggera. Inoltre in riferimento alle loro performance, viene spes«[…] Boh, secondo me, poi non lo so, magari nella loro testa
so utilizzato un immaginario animale ( Jackson 1998, p. 31).
[si riferisce ad alcuni tifosi] pensano che lei [riferendosi ad
un’altra atleta Black Italian vittima di un episodio di razziLe Black Italians, con le loro figure nere, violano spazi simbolici della nazione: esse vengono considerate come fuori posto,
smo] ha preso il posto di qualcun’altra delle loro figlie, per
rispetto ai luoghi e ai corpi che vengono immaginati politidirti, in francese si dice on se cherche, nel senso che magari
alcuni di loro pensano che ancora noi (italiani bianchi) dobcamente, storicamente e concettualmente nella costruzione
della nazione. Esse sono space invaders (Puwar 2004, p. 8). La
biamo ritrovarci e arrivano altri che ci fregano il posto, e
presenza di figure nere in contesti dominanti bianchi, causanquindi non so, nella testa della gente scattano questi meccado rotture della norma, spesso necessita di una giustificazione
nismi, che comunque negli sport di squadra quello è il nume(Carter 2008, p. 268). «Quando un atleta nero porta dei vantagro perciò, di persone che si possono mettere nella squadra,
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DOSSIER
il bello dell’atletica è che c’è posto per tutti! […]» (Melany, 29
anni, cittadina italiana di origini ivoriane, atletica leggera).
La costruzione del “noi italiani” da parte dei tifosi, evidenziata da Melany, avviene attraverso uno sguardo razzializzante
che esclude a priori i corpi neri dalla costruzione della comunità immaginata: le atlete nere o di origini italiane non
sono degli insider ma, essendo fuori posto, espropriano gli
italiani bianchi di posti a loro “naturalmente” destinati. Nel
continuo processo di costruzione del sé come comunità, la
condivisione di elementi simbolici, culturali, politici da parte
delle figlie della migrazione non costituisce un fattore rilevante per l’inclusione e il loro riconoscimento come membri
nello spazio pubblico bianco e dominante. Maria pretende il
riconoscimento della molteplicità delle posizioni soggettive
che le atlete nere o di origine straniera (Scraton 2001, p. 180)
possono presentare anche nello sport italiano, al quale rivendica di appartenere.
Il riconoscimento rivendicato dalle Black Italians nei confronti del gruppo dominante bianco si basa su una progressiva
«de-razzializzazione» e «de-territorializzazione» dell’identità
nazionale, ovvero richiedono una progressiva disconnessione
tra l’origine geografica dell’atleta, la sua residenza sportiva e
gli stati nazione che rappresentano. Le Black Italians sostengono inoltre di poter rappresentare dei modelli positivi sia
per il gruppo dominante che per le altre figlie dell’immigrazione. Per quanto riguarda i “primi”, pur individuando la difficoltà per alcuni di identificarsi in corpi ritenuti come “altri”
dalla società, evidenziano come le vittorie portate dalle atlete
nere possano costituire una sorta di esperienza comune condivisibile da tutti i membri della comunità immaginata. Per
quanto riguarda i secondi, invece, le atlete nere o di origini
straniere vedono nella loro blackness anche un elemento di
resistenza e non solo di oppressione (Maynard 1994, p. 11). Lo
sport, infatti, viene visto anche come uno strumento di mobilità sociale, non solo per le atlete nere, ma in generale per
tutte le persone di origine straniera in Italia. La visibilità delle
Black Italians, il vedere se stesse in un ambiente prettamente
bianco come lo sport italiano e l’essere viste (Brighenti 2010,
p. 39; Frisina 2011, p. 452) anche da altre persone nere o di
origine straniera costituisce parte della loro agency nel progetto di auto-soggettivizzazione in un tale contesto.
che gli atleti possono assumere, dall’altro lato la presenza delle
Black Italians nello sport italiano, luogo nel quale la comunità è
pensata come culturalmente omogenea, costringe a considerare
la complessità delle appartenenze e i termini di inclusione ed
esclusione all’interno di una comunità.
NOTE
1 - Si tratta di un «dilettantismo imposto» alle atlete che impedisce loro di
usufruire dei diritti tutelati dalla legge 91/1981. «Ad oggi – si legge nell’interrogazione parlamentare presentata dalla deputata Brignone l’11.03.2016
– tutte le atlete italiane indipendentemente dal loro livello tecnico-agonistico e dal fatto che pratichino lo sport come attività che produca per loro
reddito prevalente e continuativo sono definite dilettanti [...]», in http://
aic.camera.it/aic/scheda.html?numero=4/12495&ramo=CAMERA&leg=17.
2 - https://www.change.org/p/coninews-donne-nello-sport-dilettanti-per-regolamento-nowomannopro
3 - Per approfondimenti si veda la pagina Facebook: Assist-Associazione
Nazionale Atlete.
4 - La proposta di legge avanzata già nel novembre 2014 dall’On. Coccia è
stata presa in carico dalla VII Commissione della Camera (Cultura, Scienza
e Istruzione) a marzo 2016. Tale iniziativa ha l’obiettivo «di estendere anche alle atlete i diritti e le tutele dei colleghi uomini e quindi la previdenza
sociale, l’assistenza sanitaria, il trattamento professionistico e, perché no,
la maternità».
5 - Attraverso la mia ricerca di dottorato intendo indagare le discriminazioni in ambito sportivo, analizzando due casi studio, attraverso un approccio
teorico intersezionale che tenga in considerazione le «intersezioni fra assi
di potere» rappresentate principalmente dal genere, dalla “razza”, dall’orientamento sessuale e dalla classe. Mi propongo inoltre di investigare l’esistenza di tattiche e strategie di resistenza individuali e collettive delle atlete
nello sport italiano.
6 - Si vedano ad esempio le delibere del Coni n. 1276 del 15.07.2004 e n.
1314 del 23.11.2005.
7 - Tali pratiche ottemperano i compiti assegnati al Coni dall’articolo 32
della cosiddetta legge Bossi-Fini 189/2002.
8 - Le sopraccitate dichiarazioni sono rispettivamente di Paolo Berlusconi
(http://video.repubblica.it/sport/paolo-berlusconi--balotelli-il-negret-
to-della-famiglia/118374/116838, 4.02.2013) e di Silvio Berlusconi (https://
www.youtube.com/watch?v=5bJZKCps6bw, 6.11.2008).
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Conclusioni
La partecipazione delle atlete nello sport italiano, seppure soggetta a un progressivo aumento negli ultimi anni, evidenzia
come la possibilità per le donne di fruire del loro tempo libero e
quindi di fare sport sia ancora oggi legata alla divisione sessuale
del lavoro. Quest’ultima, che le dipinge come “naturali” nei loro
ruoli biologici e di produzione, spesso costituisce un ostacolo
al loro ingresso e alla permanenza nel mondo dello sport sia a
livello amatoriale che a livello professionistico. Lo sport italiano,
oltre a presentare spazi “genderizzati”, è caratterizzato anche
da luoghi predominantemente bianchi, che mirano a preservare gli spazi e i corpi immaginati dalla comunità. Quest’ultima,
infatti, crea un’immagine di un “noi” alla quale l’identità dell’individuo viene connessa in modo indissolubile (McCree 2010, p.
204). Se da un lato lo sport mira a riprodurre valori nazionalistici e conservatori soprattutto nell’ambito professionistico e spesso fatica a riconoscere la complessità delle posizioni identitarie
don 2010, p. 39
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Black bodies swaddled in Italian flags represent the reality
of Italian sport nowadays. Drawing on a doctorate degree,
ethnographical research among black and/or migrant background athletes playing sport at high levels. The research investigates how these athletes call into question the process
of defining Italian identity. Black Italians in predominantly
white spaces continuously negotiate their inclusion in sporting contexts. Using an intersectional approach, in a racialized
and gendered space like sport, can be useful for critically
analyzing the multiple and simultaneous interconnections between power, identity and discrimination.
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50
"GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP
è dottoranda in Scienze sociali, interazioni, comunicazioni,
costruzioni culturali presso il Dipartimento di Filosofia, sociologia, pedagogia e psicologia applicata dell’Università di
Padova, dove sta svolgendo una ricerca circa «Il genere e il
colore dello sport italiano. Una ricerca etnografica tra atlete
con e senza origini straniere».
E Ar D Fi Si
DOSSIER
Nella rete dei Mondiali
È il 1997: nasce una manifestazione chiamata Mondiali antirazzisti, con l’idea di unire, intorno
a un campo da calcio, migranti e ultras, attori agli antipodi nello scenario di discriminazioni
nel calcio e nella società. Dopo vent’anni l’evento continua ad avere successo: una storia di
inclusione che ha prodotto nuovi esperimenti sociali in tutta Italia e in Europa.
di Vittorio Martone
C
ala il volume della musica che introduce ogni
premio, poi l’annuncio. A consegnare la Coppa Invisibili è l’assessore allo sport di Castelfranco Emilia, Leonardo Pastore, il quale tra
impaccio e tristezza depone sul palco il trofeo, che nessuno ritirerà. Poi gli applausi e i
soliti cori da stadio. Il premio è dedicato alla memoria di Emmanuel Chidi Nnamdi, il nigeriano ucciso il 5 luglio a Fermo
durante una colluttazione con un ultras vicino a gruppi locali di
estrema destra scaturita da insulti di stampo razzista. Il contesto è quello della premiazione conclusiva dell’edizione 2016 dei
Mondiali antirazzisti, una manifestazione di sport contro tutte
le discriminazioni che dal 1997 viene organizzata dall’Unione
Italiana sport per tutti (UISP) in Emilia-Romagna e che ha tagliato di recente l’impegnativo traguardo dei vent’anni di storia.
L’evento si è svolto nel parco di Bosco Albergati a Castelfranco
Emilia, in provincia di Modena, dal 6 al 10 luglio.
«È una manifestazione – racconta Carlo Balestri, dirigente UISP,
ideatore e organizzatore dei Mondiali antirazzisti – nata da un’idea semplice ma anche un po’ geniale, quella di mettere insieme gruppi di ultras, che venivano e vengono considerati razzisti
e violenti e comunità di migranti. Per cui il carnefice e la vittima, secondo la vulgata. E noi sapevamo che non era così, abbiamo unito le due componenti, abbiamo messo insieme anche le
rivalità fra le tifoserie. Da questo mix, intorno a un pallone, con
un piccolo torneo di calcio sono nati i Mondiali antirazzisti».
Questa dunque la formula: le squadre si riuniscono dall’Italia e
dal mondo con la scusa di un torneo non competitivo di calcio
a 7, strutturato con partite autoarbitrate che si giocano tra formazioni miste per età, sesso, provenienza e capacità e che, per
ridurre il livello della competitività, dalle semifinali in poi vengono disputate ai rigori. Oltre a questo ci sono tornei di basket,
pallavolo, cricket, rugby ed esibizioni di discipline sconosciute
come il tchoukball, riconosciuto dall’ONU come «sport a sostegno della pace e della fratellanza». Poi i concerti, ogni sera, gratuiti, con band vicine alla cultura ultras, e infine ristoranti, un
campeggio, uno spazio per i dibattiti e un’area per i giochi. In
sostanza una piccola città, che negli anni ha imparato a prestare
sempre maggiore attenzione all’ambiente, consumando acqua
di rete al posto di quella in bottiglia e arrivando a differenziare
la cifra record del 78% dei rifiuti.
E poi questo nome, spesso confuso o distorto in “Mondiali antirazzismo”. Cosa che non sorprende, visto il tentativo di chi incontra l’iniziativa per la prima volta di caratterizzarla per l’op-
posizione contro l’ideologia, piuttosto che contro una categoria
di persone. «È una scelta legata al fatto – spiega Balestri – che
nella nostra riflessione non abbiamo mai voluto considerare il
razzismo come pensiero. Non credendo nell’esistenza delle razze, non pensavamo che il razzismo potesse esistere. Però esistono i razzisti, per cui i Mondiali sono contro i razzisti».
Il senso di comunità caratterizza molto i partecipanti a questa manifestazione che, all’apertura dell’edizione celebrativa
del suo quarto lustro, ha dovuto fare i conti con un pesante
episodio di recrudescenza razzista come la morte a Fermo di
Emmanuel Chidi Nnamdi. «Chiaramente per noi – afferma Daniela Conti, dirigente della UISP, da sempre nell’organizzazione dei Mondiali – la cosa è stata abbastanza forte. Quello che
è impressionante è l’uccisione di una persona che si ribella a
un’offesa razzista. Ed è stato un attimo poi dedicare i Mondiali
a Emmanuel. Quando i Mondiali sono cominciati il razzismo
era un problema forte, poi si è passati a una fase in cui sembrava di essere giunti a una normalizzazione. Negli ultimi anni
invece una recrudescenza pazzesca, dovuta all’attenzione al
fenomeno dei rifugiati. La morte di un uomo è un epilogo davvero molto triste, incomparabile rispetto a ciò a cui eravamo
abituati, come insulti o striscioni. E adesso ripartiamo da qui
con il nostro lavoro».
Ripartono da questa coppa, quella dedicata agli “invisibili”, che
in genere veniva consegnata a qualcuna delle squadre che, per
motivi di visti, non era riuscita a partecipare alla festa. I trofei
sono numerosi in questo torneo. Oltre a quelli riservati a chi vince ciascuna competizione, ci sono la Coppa Ultras, dedicata alla
tifoseria più coesa, la Coppa Fair Play, quella della Piazza antirazzista, per la squadra che ha prodotto il miglior materiale illustrativo del proprio lavoro contro le discriminazioni, e la Coppa
Bagna, riservata al miglior progetto di integrazione attraverso il
lavoro. Infine, la Coppa Mondiali antirazzisti, il premio più importante, che si fonda su un preciso progetto culturale e politico
ed è destinato alla squadra che nel corso dell’anno si è distinta
per il progetto di integrazione più interessante. Quest’anno è andata agli United Glasgow, una formazione scozzese che ha ideato
campagne contro il sessismo e l’omofobia, grazie a un progetto
che coinvolge quattro squadre, maschili e femminili, con un’alta presenza di rifugiati politici e richiedenti asilo.
Una rassegna complicata
Sono state 184 le squadre che hanno partecipato al torneo
di calcio dell’edizione 2016 dei Mondiali antirazzisti, per un
51
E Ar D Fi SiDOSSIER
S
A fianco: tre momenti dei Mondiali antirazzisti 2016.
totale di circa 5.000 persone che a vario titolo si sono unite
© Antonio Marcello
ai festeggiamenti del ventennale. Tra loro gruppi informali di
amici, comunità di migranti radicate sul territorio emiliano-romagnolo e nazionale, associazioni del Terzo settore, infine la
galassia dei centri sociali e dei gruppi ultras. Da diversi anni a
mondo ideale non si è concretizzato, grazie al lavoro annuale,
questa comunità si sono unite numerose squadre che operano
anche grazie alla rete FARE (Football Against Racism in Eurocon rifugiati politici e richiedenti asilo, collaborando con i cenpe, n.d.r.). E soprattutto per la volontà dei partecipanti, con
cui si riesce a costruire qualcosa di molto più grande, cercando
tri di accoglienza o partecipando direttamente allo SPRAR, il
sempre di fare rete tra tutti noi». A parlare è Daniela Conti,
Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati.
che abbiamo già conosciuto nelle vesti di organizzatrice dei
Per la prima volta gli organizzatori dei Mondiali hanno deciMondiali antirazzisti ma che da pochi anni è subentrata anche
so di monitorare il numero delle squadre caratterizzate dal
come vicepresidente dei Liberi Nantes. La cui storia, insieme a
coinvolgimento diretto di rifugiati politici o richiedenti asilo.
quella di altre due squadre, risulta rappresentativa del percorSono state 25 le realtà di questo tipo che hanno preso parte
all’edizione 2016: gruppi che, con l’eccezione del sud e delle
so di lavoro per l’inclusione attraverso lo sport che nei Monisole, provengono in maniera abbastanza omogenea da tutto
diali antirazzisti trova una vetrina nazionale e internazionale.
il territorio nazionale, con picchi dall’Emilia-Romagna. Se al
L’associazione, che ha ricevuto il riconoscimento dell’UNHCR,
nord gli estremi sono individuabili in Varese e Casale Monferha allargato negli anni il progetto iniziale, coinvolgendo il quarrato, al sud la località di provenienza più lontana risulta essetiere Pietralata di Roma, in cui i Liberi Nantes gestiscono un
re Caserta. Al centro invece le realtà rappresentate sono state
vecchio campo di periferia, e generando anche una scuola di
quelle di Anzio, Firenze, Macerata, Nettuno, Prato e Roma.
italiano e un gruppo escursionistico. Oggi la squadra è aperta
Tra le realtà emiliano-romagnole, infine, le comunità provenia 40 ragazzi, di cui solo sette, per difficoltà economiche, hanvano da Bologna e provincia, Modena, Parma e Reggio Emilia.
no preso parte ai Mondiali antirazzisti. «L’anno scorso – spiega
Conti – 200 persone hanno chiesto di partecipare, provenienti
Più complicato è invece il censimento del numero di profughi
dai circa 70 centri di accoche hanno effettivamente parglienza di Roma e provincia
tecipato alla manifestazione
con cui cooperiamo. Quando
(nella quale, essendo tutto
Da diversi anni a questa comunità si sono unite
ci riusciamo facciamo appunofferto gratuitamente ad eccenumerose squadre che operano con rifugiati politici
tamenti per tutti quelli che
zione di cibo e bevande, non
non fanno parte della squaci sono rilascio di biglietti o
e richiedenti asilo, collaborando con i centri di
procedure di “identificazione” accoglienza o partecipando direttamente allo SPRAR. dra maggiore, così da far gioda parte dell’organizzazione
care tutti e 200 i richiedenti».
che permettano un calcolo
La prima squadra disputa il
più accurato). Da un’indagine
campionato in terza divisioeffettuata contattando individualmente tutti i referenti delle 25
ne della Federazione italiana giuoco calcio (FIGC). «Si tratta di
squadre risulta che i rifugiati politici e richiedenti asilo presenti
un’azione decisa per spingere la FIGC a considerare alcune conai Mondiali antirazzisti 2016 siano stati circa 230. Una cifra che
traddizioni del suo regolamento. Noi siamo stati la prima squarappresenterebbe il 10% circa delle persone che hanno svolto
dra di rifugiati e richiedenti asilo a giocare in un campionato
nel corso dell’anno attività sportiva nei centri di accoglienza e
di terza categoria, seppur fuori classifica. Perché noi vogliamo
negli SPRAR in cui operano le associazioni che han partecipaarrivare al tesseramento di tutti, vorremmo che nei campionati
amatoriali si possa tesserare un ragazzo rifugiato o richiedente
to alla manifestazione. Tra queste è possibile segnalare, a titolo
asilo con i documenti che ha».
esemplificativo, il Gruppo umano di solidarietà di Macerata, che
opera con circa 100 persone e ne ha portate dieci a giocare ai
Accomunati ai Liberi Nantes da questa esperienza di parteMondiali o la UISP Varese, che tra il capoluogo e Busto Arsizio
cipazione ai campionati federali sono gli Rfc Ska Lions di Calavora con 80 ragazzi di cui otto sono stati a Castelfranco Emilia.
serta, vincitori nel proprio territorio della Coppa disciplina,
assegnata alla squadra più corretta. «È il primo anno – dice
Marco Proto, referente della squadra – che riusciamo a portaIl mondo perfetto per cinque giorni non basta
re i ragazzi dello SPRAR, che abbiamo avuto nel numero di 40
«Avevamo molta paura che i Mondiali diventassero un happein pianta stabile, fino a un massimo di 50. Ma ai Mondiali con
ning meraviglioso di cinque giorni in cui ti sembra di vivere nel
noi ce ne sono stati solo tre. Siamo nati nell’ottobre 2011, con
mondo ideale per poi tornare a casa. La cosa positiva successa
l’idea di fare sport e musica per promuovere l’integrazione
negli anni è che le associazioni che sono venute hanno deciso
tra comunità e le idee di antirazzismo. La nostra squadra si
di gemmare delle attività parallele. Sono quattro anni che porè consolidata coinvolgendo i gruppi casertani di senegalesi,
tiamo avanti la campagna “Aspettando i Mondiali”, in cui metstringendo rapporti con le realtà del territorio per arrivare,
tiamo insieme tutte le attività che vengono fatte. I Liberi Nantes
insieme ad ARCI, a impegnarci nella promozione sportiva
sono dei figli dei Mondiali, un’associazione nata nel 2007 da
in quattro SPRAR della provincia». E in riferimento al primo
un gruppo di amici di Roma che veniva tutti gli anni a giocare
risultato in FIGC, ottenuto al primo anno di partecipazione
e ha detto: “Belli, i Mondiali ci piacciono ma noi che possiamo
al campionato con la squadra dei rifugiati e richiedenti asilo,
fare sul nostro territorio?”. E si sono inventati la prima squaProto commenta: «È un bel traguardo, soprattutto se si pensa
dra di calcio destinata solo a rifugiati politici e richiedenti asilo.
al fatto che molti ragazzi, messi in campo all’inizio, vivono
Quindi il rischio che sentivamo un po’ tutti noi di avere questo
52
"GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP
E Ar D Fi Si
DOSSIER
53
E Ar D Fi SiDOSSIER
S
con estrema partecipazione la competizione e giocano sempre come se fosse una finale di Champions. E quindi vanno
anche educati nel modo di stare in campo, di rispettare gli avversari, di stringere la mano. Alla fine i nostri allenatori sono
riusciti a inculcare questo tipo di mentalità. E loro in campo era uno spettacolo vederli, perché pur rimanendo molto
competitivi sviluppavano poi un grande rispetto per gli altri».
Insieme agli Rfc sui campi di Bosco Albergati c’era anche il
gruppo più nutrito di profughi ai Mondiali antirazzisti. «Abbiamo partecipato con 5 squadre di calcio, 2 di pallavolo e una
di basket per un totale di 42 ragazzi. Caleidos – spiega Marco
Paganelli, operatore di questa cooperativa sociale di Modena – ha festeggiato a gennaio 2016 il ventennale. Abbiamo lo
SPRAR attivo dagli anni Novanta, poi il centro stranieri e il progetto Mare nostrum che impiega circa 60 operatori e vede 900
richiedenti asilo accolti nelle nostre strutture di accoglienza.
La parte sportiva nasce nel momento in cui aumentano gli
utenti e quindi il rischio di una maggiore emarginazione. Trenta persone possono essere assorbite facilmente, ma con una
così grande utenza è necessario trovare sempre più canali di
integrazione. In questo caso lo sport è un veicolo perfetto per
costruire relazioni e stare in mezzo ad altre persone».
Con un progetto finanziato dalla Fondazione Cassa di risparmio di Modena, Caleidos ha organizzato attività di atletica a
Castelfranco, coinvolgendo anche donne e mettendo in piedi
un torneo tra migranti e ragazzi dei centri psichiatrici dell’Emilia-Romagna. «Di questo ventennale ricordiamo con piacere diverse cose. Coinvolgere le donne che vengono da luoghi
in cui il loro ruolo è prettamente adibito all’attività domestica
o alla procreazione è stata una cosa potente. Poi i Mondiali
antirazzisti, che hanno fatto vedere anche un aspetto della
vita nell’Unione europea ai nostri ragazzi».
Aperture di comunità
Compiere vent’anni, per una manifestazione, è un traguardo enorme, perché il tempo logora con facilità le iniziative se
queste non sanno rinnovarsi, nella formula e nei contenuti.
«Per noi poi – afferma Balestri – questo traguardo è segnato anche da un evento speciale: il riconoscimento da parte
dell’UNAR come evento di pubblica utilità, che indica la nostra manifestazione come una delle migliori pratiche in Italia
e in Europa sulla lotta a discriminazioni e razzismo attraverso
le attività sportive».
Il crescente successo della manifestazione negli anni è innegabile. Quello che al principio rappresentava un piccolo torneo
di comunità nella sperduta provincia emiliana con otto squadre e 80 partecipanti, oggi è un evento di caratura nazionale e
internazionale, che catalizza l’attenzione dei media e coinvolge ospiti importanti. Tra questi c’è Mauro Valeri, sociologo e
scrittore, responsabile dell’Osservatorio sul razzismo e l’antirazzismo nel calcio e membro dell’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (UNAR). «La cosa positiva – sottolinea Valeri – è stata l’idea iniziale, di coinvolgere le tifoserie, evitando
anche la diffusione di una visione negativa sugli ultrà. Sono
stati poi inseriti e sviluppati i temi dell’ambiente, della lotta
al sessismo. Molto bella è stata l’esperienza di coinvolgimento
del territorio, all’indomani anche del terremoto in Emilia, con
i bambini dei centri estivi delle zone colpite dal sisma».
Ma il plauso nei confronti di questo modello di lavoro non
54
"GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP
è limitato a una valutazione degli aspetti positivi della manifestazione e si basa su una maggiore visione d’insieme. «Nel
mondo dello sport ci sono due correnti: una è quella della
denuncia, alla base dell’idea dell’Osservatorio, un po’ sul
modello FARE. L’altra modalità di azione prova invece a fare
delle politiche di valorizzazione della stessa componente antirazzista negli ultrà, esperienza europea diffusa dal St. Pauli in
giù ma che mai prima dei Mondiali era stata tentata in Italia.
Qui invece si sta rilanciando ancora, partendo dalle ultime
quattro edizioni, con le esperienze legate ai profughi».
«Chi partecipa all’evento – continua il sociologo romano – è poi
marcato, si capisce che ha fatto riflessioni sul luogo, che acquisisce punti di vista politici importanti. Per quanto riguarda il
mondo del calcio, noi abbiamo un momento in cui il razzismo
sta diminuendo nel mondo della Serie A e Serie B, per attività
repressive e altri fattori. Nelle serie minori si apre invece un
nuovo scenario, la cui quantificazione è complessa, ma che
non impedisce un’affermazione veritiera: molte tifoserie che
hanno partecipato ai Mondiali antirazzisti hanno messo poi in
piedi squadre antirazziste, coinvolte soprattutto nella seconda
e terza categoria. I Mondiali hanno dato impulso a una cosa
che era più comune in Europa. E non vedo il rischio che il forte
senso di comunità che caratterizza l’evento possa precluderne
sviluppi. Se tu partecipi a un torneo di calcio federale, affronti
altre squadre con cui entri in rapporto. E queste squadre poi
sicuramente acquisiscono una consapevolezza del lavoro che
porti avanti. Non vedo preclusione perché il principio dell’antirazzismo non è marcatamente ideologico, diversamente da
altre esperienze passate. Qui poi c’è una base esperienziale,
apertamente antirazzista, più facilmente accettabile anche da
chi non ha radici antiche in questo movimento».
ABSTRACT EN
It’s 1997: a demonstration event called Antiracist Worlds is
born with the aim of uniting, on a football pitch, migrants
and “others”, actors at both extremes of discrimination in
football and society. After 20 years the event continues to
have success: 5,000 participants in the 2016 edition, with
184 teams taking part of which 25 composed of political
refugees and asylum seekers. A story of inclusion which has
produced novel social experiments across Italy and Europe,
and which contrasts a terrible piece of news; the death at
Fermo di Emmanuel Chidi Nnamdi following aggression from
extreme right-wing hooligans.
Vittorio Martone
giornalista, dal 2007 dirige l’area stampa della UISP Emilia-Romagna e per 8 anni ha curato l’ufficio stampa dei Mondiali antirazzisti. Collabora alla trasmissione Tre Soldi di Radio3 Rai e
con diverse testate che si occupano di sport, politica e sociale.
Scuola
E Ar D
Fi Si
St M Li
n. 84
Sport e immigrazione
Africa e Mediterraneo
Gli sport praticati dai richiedenti asilo
nella Città Metropolitana di Bologna
Le età
dati in valori assoluti
56
16-19
92
64
21
20-29
4
3
7
2
2
2
22
1
9
Calcio
Cricket
Ginnastica
Basket
Arti
marziali
Atletica
Palestra
Pattinaggio
30- over 30
Dove si allenano?
Le nazionalità
Senegal
Costa d’Avorio
Mali
Gambia
Cameroon
Nigeria
Libia
Ghana
Burkina Faso
Bangladesh
Pakistan
Benin
Marocco
Somalia
Guinea
Guinea Bissau
Boxe
9
6
21
23
1
16
1
13
2
5
19
2
1
1
7
2
Associazioni/
Polisportive
Palestre/Palestre
popolari
Luoghi pubblici
In struttura
totale:
129
Tutti i dati qui presentati si riferiscono a un rilevamento che è stato condotto tra gennaio e aprile 2016,
all'interno del progetto Bologna cares! tra gli ospiti delle strutture di accoglienza CAS e SPRAR gestite
dagli enti gestori l'Arcolaio, MondoDonna, Camelot, Lai-momo e ASP.
55
DOSSIER
E Ar D Fi Si
S FOCUS/ Arti marziali
MUSTAPHA HAIDA, LA STORIA DI UN CAMPIONE
SPORTIVO E DEL PROFONDO LEGAME CHE UNISCE
L’ITALIA AL MAROCCO
di Eugenio Bini e Danilo Bondi
«S
ul ring la rabbia può essere controproducente.
Forse è per
questo che il
combattimento si adatta perfettamente
al mio carattere mite». Mustapha Haida
56
"GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP
ha lasciato la campagna marocchina nel
1999, quando ancora era un bambino.
Oggi “Musta” – come lo chiamano tutti in Valdarno – è sul tetto del mondo
grazie alla kickboxing e alla thai boxe.
«Avevo dieci anni quando sono partito
da Douar Sahrij per l’Italia: la scuola,
poi il lavoro in pelletteria e la squadra
di calcio a Figline Valdarno, provincia di
Firenze, prima di mollare e conoscere le
arti marziali».1
“Campione intercontinentale Wako
Pro”, “Campione del mondo ISKA”,
“Campione del mondo Venum”, vincitore dei tornei Thaiboxmania ed Oktagon e vincitore in Fight Code.2 Questo il
lungo palmares di Mustapha Haida, senza considerare la lunga serie di match
contro autentici mostri sacri della disciplina. Successi prestigiosi in tutte le
parti del mondo e qualche passo falso,
a causa di alcuni infortuni, in una carriera che è iniziata da pochi anni. Titoli
che per gli addetti ai lavori testimoniano uno status assolutamente elitario,
una carta di identità da campione vero.2
L’ascesa nella arti marziali, quasi un
esempio di serendipità, è avvenuta
grazie a un mecenate sui generis, Pa-
La concentrazione dell’artista marziale.
© Eugenio Bini
E Ar D Fi Si
DOSSIER FOCUS/ Arti marziali
olo Innocenti, che voleva introdurre
Mustapha negli ambienti sociali grazie all’attività fisica. «Era il mio datore
di lavoro, praticava attività sportiva
in palestra, e mi pagò il primo anno
di iscrizione» racconta il lottatore italo-marocchino. Da tagliatore in una delle numerose pelletterie dell’hinterland
fiorentino a campione intercontinentale il passo è breve: «Da lì – sottolinea il
campione di arti marziali – è iniziata l’ascesa sportiva in una disciplina in cui le
differenze etniche e sociali scompaiono
quando si combatte e ci si allena. Uno
sport in cui non ho mai incontrato episodi di discriminazione razziale».
Ad accompagnarlo in questa cavalcata,
gli allenatori Dimitri Monini e Fabio
Iaiunese, della Fight e Fitness Academy
di Figline e Incisa Valdarno: «È stata
una crescita costante sia a livello
sportivo che umano che spero di
poter proseguire a lungo. Il segreto
è stato quello di fissare ogni anno
delle asticelle che, senza eccessive
pressioni, sono riuscito a superare. Una
programmazione che permette anche
di preservarmi a livello fisico».
Da poche settimane ha ottenuto la
cittadinanza italiana: «Dopo aver
ricevuto la notifica del Presidente della
Repubblica, il 24 marzo ho ricevuto
la cittadinanza con una cerimonia in
Comune. È stato un percorso molto
lungo ma in questi anni ho sempre
combattuto sul ring con la doppia
bandiera: su un lato quella marocchina,
sull’altro il tricolore».
Insomma lo sport abbatte ancora una
volta le barriere, sia quelle culturali
come quelle socio-economiche, in un
territorio come quello fiorentino che
si inserisce a pieno titolo nel contesto
migratorio che ha interessato l’Europa
Meridionale alla fine degli anni ’90 e
che in Valdarno ha i suoi prodromi già
nel decennio precedente. Generazioni
di persone, come Haida, sono partite da
Elkelaa des Sraghna, città a 90 chilometri a est di Marrakech, per raggiungere
la Toscana: i primi gruppi sono arrivati
in Valdarno Fiorentino quasi 30 anni
fa e la componente marocchina è oggi,
di gran lunga, la più numerosa della
comunità araba. Anche in questo territorio «recenti tensioni toccano la sfera
della fruizione dei diritti civili. I conflitti
più clamorosi concernono l’esercizio
della libertà di culto, di manifestazione
della propria appartenenza religiosa e
del rispetto delle prescrizioni religiose
nell’ambito pubblico». Tuttavia nell’esperienza quotidiana locale «il multiculturalismo per vari aspetti sta diventando una componente normale e diffusa
della vita sociale, spesso in modo silenzioso, routinario e persino inavvertito»
(Colombo, Semi 2007).
In questa routine relazionale emerge
l’importanza non solo sportiva di una
disciplina in cui, come spiegano Dimitri Monini e Mustapha Haida, «chi pratica per fare il bullo si autoesclude» e
in cui «si impara a controllare l’aggressività, che in ambito agonistico diventa
uno svantaggio».
Dal punto di vista dell’atleta «è necessario avere pazienza per poter ottenere risultati, sia a livello agonistico che
per l’integrazione sociale». Dal punto
di vista dell’allenatore «è necessario il
dialogo continuo e l’individuazione precoce dei soggetti deleteri per il gruppo»
perché, anche se si tratta di uno sport
individuale, il contesto ambientale e la
socializzazione rappresentano fattori
quotidiani fondamentali.
Infine, dal punto di vista sportivo, dobbiamo prendere atto come i flussi migratori abbiano ampliato le possibilità
dei Paesi ospitanti di far crescere il proprio movimento e abbiano consentito
agli atleti stessi di emergere in contesti
più aperti. Nel caso delle arti marziali
infatti molti atleti di successo sono originari di Paesi come Albania, Romania,
Marocco e Tunisia: probabilmente,
come suggeriscono Dimitri e Mustapha,
«una storia personale permeata da difficoltà di vario tipo, affrontando difficoltà
e sofferenze, porta la persona a proporsi con più motivazione e dedizione verso una disciplina».
Pratica sportiva come possibilità di
crescita reciproca e come fattore
di inclusione sociale, un binomio
testimoniato anche dalla storia del
campione marocchino.
Diventa dunque prioritario, come ricordato dall’UNESCO, assicurare che
«la pratica di educazione fisica, attività
fisica e sport sia un diritto fondamentale per tutti» e che «la protezione e
promozione dell’integrità e dei valori
etici ad essi connessi rappresentino
per tutti una premura» (International
Charter of Physical Education, Physical Activity and Sport, 2015): questo
consentirebbe la promozione di principi anti-discriminatori e cooperativi a
livello mondiale.
BIBLIOGRAFIA
E. Colombo, G. Semi, Multiculturalismo quotidiano. Le pratiche della differenza, Franco Angeli, Milano 2007
G. Sciortino, Migrazioni e nuove eterogeneità etniche, in Loredana Sciolla (a cura di), «Processi e
trasformazioni sociali», Laterza, Bari 2015
M.Ambrosini, Multiculturalismo e cittadinanza,
in Loredana Sciolla (a cura di), «Processi e trasformazioni sociali», Laterza, Bari 2015
UNESCO, International Charter of Physical Education, Physical Activity and Sport, Conférence
Générale, 38e édition, Paris 2015, artt. 1 e 10
NOTE
1 - La kickboxing è uno sport da combattimento
che racchiude la tradizione orientale (in particolare giapponese) e l’agonismo occidentale (in
particolare statunitense), diffusosi nella seconda
metà del 20° secolo in tutto il mondo. La thai
boxe è uno sport da combattimento di origine
thailandese diffusosi a livello internazionale a
partire dagli anni ’70; le due discipline contano
adesso federazioni nazionali e internazionali,
diversi circuiti di combattimento, migliaia di palestre dedicate e milioni di praticanti.
2 - WAKO: World Association of Kickboxing organization (www.wakopro.org); ISKA:
International Sport Karate Association (www.
iskaworldhq.com); Oktagon, show marziale in
atto dal 1996, rappresenta un evento mediatico
internazionale (www.oktagon.it); per ulteriori
approfondimenti sui circuiti in cui si è distinto
Mustapha Haida visitare anche www.victoryws.
com e www.thaiboxemania.com
Eugenio Bini
è giornalista pubblicista, si è occupato della comunità araba fiorentina e
del Marocco.
Danilo Bondi
è chinesiologo, attivo nel settore
dell’inclusione sociale attraverso lo
sport.
57
DOSSIER
E Ar D Fi Si
S FOCUS/ Lingua
LESSICO DEL CALCIO IN SWAHILI
di Diego Sidraschi
L
’analisi del lessico della sfera semantica dei
termini che rimandano
al gioco del calcio in
swahili offre un osservatorio privilegiato per
osservare numerosi fenomeni di interferenza linguistica tra questa lingua (lingua replica) e l’inglese (lingua modello).
Quando dal mondo anglofono giunse il
gioco del calcio nei Paesi di lingua swahili, esso portò con sé la sua peculiare terminologia tecnica utile a designare referenti monoreferenziali molto specifici.
La necessità di designare queste realtà
nuove ha portato in moltissimi casi ad
adottare dei prestiti dall’inglese, come è
capitato anche in molte altre lingue (per
© UNHCR
58
"GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP
esempio, per rimanere in Africa, al wolof ) e, in misura minore, all’italiano: così
per esempio dall’inglese corner in italiano abbiamo un prestito non integrato,
corner appunto, liberamente alternato
a “calcio d’angolo”, di cui è sinonimo
perfetto, e in swahili troviamo il prestito
integrato (cioè modificato per adattarlo
al proprio sistema fonologico o morfologico) kona.1
Le poche parole autoctone rifunzionalizzate al gioco del calcio riguardano elementi che denotano realtà molto simili
dal punto di vista referenziale, come nel
caso di mpira “palla” (cfr. kucheza mpira
“giocare a palla / calcio”)2 o di bao “porta”. Il primo termine significa in prima
istanza “gomma, palla di gomma” e il
secondo “asse di legno”, due realtà che
sicuramente nel mondo swahili preesistevano alla diffusione del calcio.
I prestiti dall’inglese vengono general-
mente adattati fonologicamente alla lingua replica per quanto riguarda il sistema vocalico, consonantico e la struttura
sillabica. Il sistema vocalico dello swahili
è composto da cinque fonemi con valore distintivo /i, e, a, o, u/ a fronte del
sistema vocalico dell’inglese britannico che ne presenta 12.3 Pertanto parole
come forward [‘fɔ:wǝd] “attaccante”
vengono integrate come fowadi, dove il
vocoide centrale [ǝ] viene abbassato in
[a], e si sviluppa una vocale paragogica
i che permette alla parola di terminare
con una sillaba aperta, come previsto
dal sistema linguistico dello swahili. Altri esempi di prestiti integrati sono wingi
“ala” (in inglese wing), referii o refa “arbitro” (in inglese referee), peneti “calcio
di rigore” (in inglese penalty).
Anche in wolof, una delle lingue nazionali del Senegal, tutti i principali nomi
di sport sono termini di prestito adattati
fonologicamente o meno da lingue europee: fubball, vollè, basket, judo.4
I termini di prestito vengono inoltre integrati anche dal punto di vista morfologico e vengono accolti nelle classi 5/6 e
9/10. Come è già stato illustrato ai lettori
in questa stessa rivista in un numero precedente lo swahili è una lingua a classificatori.5 Attraverso i classificatori ogni
lessema viene categorizzato in una spe-
E Ar D Fi Si
DOSSIER FOCUS/ Lingua
cifica classe nominale contrassegnata da
uno specifico prefisso. Queste classi sono
organizzate a coppie (singolare/plurale)
e la loro determinazione è attribuibile al
protobantu. Le motivazioni alla base di
questa suddivisione sono tuttora oggetto
di dibattito e in questa sede ricorderemo
solo che l’arbitrarietà,6 la semantica e il
mutamento diacronico sono le tre forze
che hanno determinato in diversa misura l’assetto attestato sincronicamente, e
purtuttavia possiamo fare alcune generalizzazioni. Dal punto di vista semantico
le classi 5/6 contengono prevalentemente nomi di frutta, parti del corpo che
vanno in coppia, nomi deverbali, oltre a
consentire la designazione di un aumento della dimensione per la maggior parte
dei termini categorizzati in altre classi.
Non sorprende dunque che la parola
goal, che designa il culmine e il fine ultimo del gioco del calcio, ricada nelle classi
5/6: goli/magoli,7 e così accade anche per
i termini indicanti molti ruoli all’interno
della squadra: oltre a fowadi, wingi, referii, golikipa “portiere” (in inglese goalkeeper), pasi “passaggio” (in inglese pass).
Molti di questi termini infatti designano i
ruoli più importanti all’interno del gioco
e la salienza di queste figure fa sì che possano essere categorizzate nelle classi dei
referenti “grossi”, anche se molti prestiti di altre sfere semantiche integrati in
questa classe non portano con sé questa
connotazione. D’altro canto anche altri
titoli o nomi legati a posizioni sociali (es.
bwana “signore”, rais “presidente, waziri “ministro”) vengono categorizzati
spesso nella classe 5 piuttosto che nella
classe 1, che accoglie i nomi degli esseri
umani e che quindi si sarebbe potuta immaginare come categorizzazione naturale di questi termini.
Nelle classi 9/10, semanticamente più eterogenee, troviamo, oltre ai già citati kona
e peneti, kocha “allenatore” (in inglese
coach), timu “squadra” (in inglese team).
Un caso molto interessante è rappresentato dal verbo kukonesha “battere
un corner”. Questa forma verbale presenta il morfema -esh-, molto peculiare,
definito estensore dalla bantuistica. Gli
estensori rappresentano un caso di affissazione molto frequente e produttivo sia
nello swahili che nelle altre lingue bantu
e sono volti a modificare la configurazione semantica o la struttura argomentale
del verbo a cui sono affissati. In questo
caso abbiamo a che fare con un esten-
sore di causativo, che aumenta la valenza del verbo aggiungendo un ulteriore
argomento nel ruolo di agente e che in
italiano si esprime analiticamente con
perifrasi del tipo far fare X a Y: il verbo
kuandika “scrivere”, kuandikisha significherà “fare scrivere, dettare”. Dal momento però che non è attestato il verbo
*kukona dobbiamo dedurre che questo
morfema sia stato aggiunto direttamente
alla forma nominale kona. Questo fenomeno non sembra molto produttivo in
swahili e sembra ricordare sotto molti
aspetti il processo morfologico presente
in italiano e in altre lingue romanze noto
come parasintesi.8 I verbi parasintetici
sono «verbi denominali e deaggettivali
prefissati di cui non sono attestati né il
verbo non prefissato ottenuto per conversione né il nome o l’aggettivo di base
prefissato».9 In altre parole, mentre ad
esempio esistono e sono attestati sia burro sia imburrare, sia giallo sia ingiallire,
viceversa non sono attestati né *burrare
né *giallire. Ovviamente bisogna notare
che il prefisso ku- indica la flessione di
modo infinito (come il suffisso -are degli
esempi italiani) e che il prefisso italiano
in- (e il suo allomorfo im-) non si appone
a basi nominali e aggettivali esattamente
come accade per l’estensore di causativo
-ish- dello swahili. Il concetto di parasintesi è stato finora utilizzato solo nella descrizione della morfologia verbale
di alcune lingue romanze e non per le
lingue bantu, ma le affinità dei processi
descritti nelle due lingue inducono a più
di una riflessione.
Questa breve esposizione ci ha permesso di osservare come nel linguaggio settoriale del calcio in swahili sia pervasivo
l’influsso dell’interferenza dell’inglese
come lingua modello. Qualcosa di molto simile accade anche in wolof, anche
se in questo caso la lingua modello è il
francese. Ma da questa analisi è emerso
anche, seppure in maniera periferica,
come si possano trovare affinità di comportamento morfologico tra lingue tipologicamente, arealmente e storicamente
differenti come l’italiano e lo swahili.
BIBLIOGRAFIA
L. Canepari, Introduzione alla fonetica, Einaudi,
Torino 1979
M. Castagneto, Chicchi, semi, semolini in Swahili.
Categorie di genere e reduplicazione, in «Africa e
Mediterraneo», n. 81, 2014, pp. 525
1994, www2.iath.virginia.edu/swahili/swahili.html
G.G. Corbett, Gender, Cambridge University Press,
Cambridge 1991
J.P. Denny, C. Creider, The semantics of noun classes in Proto-Bantu, in «Studies in African Linguistics», n. 7/1, 1976, pp. 1-30
M. Guthrie, Gender, number and person in Bantu
languages, in «Bulletin of the School of Oriental
and African Studies», n. 12, 1948, pp. 847-56
C. Iacobini, Parasintesi, in M. Grossman e F. Rainer (a cura di), La formazione delle parole in italiano, Niemeyer, Tübingen 2004
V. Merlo Pick, Vocabolario kiswahili-italiano italiano-kiswahili, EMI, Bologna 1978
J. Mwalonya, A. Nicolle, S. Nicolle, J. Zimbu,
Mgombato. Digo-Swahili-English Dictionary, BTL,
Nairobi 2004
D. V. Perrott, Concise Swahili and English Dictionary, Hodder & Stoughton, London 1965
C. W. Rechenbach, Swahili-English Dictionary, The
Catholic University of America Press, Washington
DC 1968
NOTE
1 - Il corpus di ricerca consiste in quattro dizionari citati in bibliografia. Con “prestito integrato” si
intende una parola della lingua modello adattata
nella lingua replica sia dal punto di vista fonologico sia morfologico.
2 - Il gioco del calcio può essere designato anche
utilizzando prestiti integrati, come soka (da soccer)
o futboli.
3 - Cfr. Canepari 1979.
4 - Per il materiale relativo alla lingua wolof si ringrazia la dottoressa Nelly Diop.
5 - Cfr. Castagneto 2014.
6 - Cfr. Contini-Morava 1994, Corbett 1991, Denny e
Creyder 1976, Guthrie 1948.
7 - I classificatori delle classi 5/6 sono Ø / ma.
8 - Ma neanche raro, cfr. ad es. aibisha “far imbarazzare” da aibu “vergogna, imbarazzo” oppure
zeesha “far invecchiare” da zee “vecchio”.
9 - Cfr. Iacobini 2004, p. 167.
Diego Sidraschi
si è laureato in Filologia Classica,
Moderna e Comparata presso l’Università del Piemonte Orientale.
Attualmente è dottorando di ricerca
presso l’Università di Udine. I suoi
principali interessi sono la morfologia e la pragmatica, in particolare lo
studio dei complementi.
E. Contini-Morava, Noun Classification in Swahili,
59
DOSSIER
E Ar D Fi Si
S FOCUS/ Lingua
PAROLE, GESTI E GESTACCI DEL RAZZISMO
NELLO SPORT
di Ivo Stefano Germano
60
"GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP
U
na premessa: si
tratta di una serie
di spunti, probabilmente inefficaci. A cominciare
da una domanda:
viene prima il razzismo o lo sport? Intanto vi sono i media, che non sono
neutri e che non vanno né sottovalutati né sopravvalutati. Essi, in quanto
“costruttori della realtà”, incidono su
stereotipi e stigmatizzazione di simboli, su parole e concetti sportivi e
al contempo, grazie ai social media,
anche su rappresentazioni e miti di
un immaginario sportivo sempre più
caratterizzato da uno storytelling (Gili
2009) che attinge più a reazioni fuori
dai campi da gioco, che non alle regole del mainstream.
Il calcio in tv, oramai, è “ferializzato”,
spalmato, diluito e può offrire più di
un’occasione, a fronte di una proliferazione di attori extra-campo, espressioni, manifestazioni di odio razziale
e politico, offese, dileggio. Si tratta di
manifestazioni ricorrenti (se non pro-
E Ar D Fi Si
DOSSIER FOCUS/ Lingua
Mondiali antirazzisti 2016. © Nicola Fossella
prio ossessive), che destano la curiosità delle telecamere, ma vedono anche
una diffusione in rete tramite blog, forum, chat. Dagli spalti ai display, passando per i talk-show sportivi, come di
recente è capitato ad un ex giocatore,
Stefano Eranio, commentatore della
Champions League per la tv svizzera,
che ha espresso una serie di stereotipi sui giocatori di colore in difesa, la
cui forza fisica, a suo parere, non andrebbe di pari passo con la capacità
di concentrazione. Schernire, offendere, aggredire i giocatori di pelle o
origine diversa con allusioni a versi da
primate, con banane lanciate in campo, sono solo alcune esemplificazioni
“plastiche” di un preciso repertorio
di cui, in Italia, i media si accorgono
con un certo ritardo. Un caso clamoroso fu quello di Inter contro Messina, domenica 27 novembre 2006, nel
momento in cui Marc André Zoro,
giocatore della Costa d’Avorio, prese il
pallone in mano e minacciò di andarsene, qualora non si facesse qualcosa
contro i cori razzisti.
Dal folklore si può quindi passare a
qualcosa di estremamente degradante, pur in un contesto di maggiore
spinta globalizzante del calcio contemporaneo (Martelli 2012), dove le rose
dei giocatori sono sempre multinazionali e multietniche. Di riflesso, scatta
la litania verbosa, talvolta di facciata,
circa il fatto che non si tratti di veri
tifosi, ma di persone che abitano lo
stadio per altre ossessioni/suggestioni
identitarie. Zoro non fece altro che anticipare quanto compiuto da Samuel
Eto’o in Barcellona contro Saragozza,
guadagnando la via degli spogliatori a
causa di offese di stampo razzista. Per
non parlare della squadra del Treviso
calcio che, per reazione e solidarietà
al compagno di squadra di nazionalità nigeriana Akeem Omolade, si presentò in campo, nel 2001, con il volto
dipinto di nero, compreso l’allenatore
Mauro Sandreani. Fortunatamente,
di provvedimenti ne sono stati presi
con sempre maggior frequenza, come
ad esempio la proibizione di cori e
striscioni razzisti con la possibilità di
sospendere l’incontro. Kevin Prince
Boateng, nel 2013, è stato invitato dalle Nazioni Unite per commemorare la
Giornata internazionale per l’eliminazione delle discriminazioni razziali,
per avere abbandonato, assieme a tutto il Milan, il campo di Busto Arsizio
durante la partita “amichevole” contro la Pro Patria, i cui tifosi avevano
dato luogo a un continuo profluvio di
espressioni razziste.
Tuttavia parole, gesti, gestacci razzisti,
rendono possibile attrarre l’attenzione e caricare di risentimento, se non
proprio di odio, il significato stesso di
una partita, “producendo” titoli per la
stampa e non combattendo a fondo razzismo, omofobia, disprezzo per l’altro.
La differenza si gioca in termini di visibilità se si è circondati da più telecamere oppure se si legge il giornale
sul divano di casa. Nello sport vi sono
gesti con un particolare significato in
termini di accettazione o rifiuto, lode
e odio, che ledono la “sacralità” dello
stadio (Morris 1981). Il vociare, se razzista, è veramente volgare, osceno,
violento, disarmante. Parlarne sembra però un capriccio teorico, l’ennesima resa dei conti col e nel nulla.
Richiamati ad un maggior senso istituzionale dovremmo dire che una delle
spiegazioni più diffuse fa corrispondere alla cattiva qualità dello spettacolo calcistico, alle infrastrutture
inadeguate, la turbolenza e l’asprezza
dei fenomeni di razzismo nello sport.
Di solito, il gesto razzista (la gamma è
amplissima, banane agitate verso giocatori neri, urla, berciate) corrisponde ad una duplice pressione sociale e
culturale: l’ispirazione ad una supposta purezza della “comunità sportiva”
(Clifford 2010), oppure, una sorta di
richiamo “tribale” contro “l’altro/
gli altri” che starebbero invadendo il
campo (Zoletto 2010). Anche se apparentemente banale, è necessario
quindi ribadire che occorre avviare
un ragionamento sociologico e comunicazionale sempre più organizzato
su schemi interdisciplinari. Il razzismo nello sport è, infatti, un gesto
“quasi atteso” dai media: se lo sport,
in particolare il calcio, rappresenta
una delle forme di spettacolo e intrattenimento globale tra le più potenti e
incisive (Valeri 2010), per chi voglia
attingere a linguaggi, frasi, gesti di
tipo discriminatorio, se non proprio,
razzista, il proscenio (Villemus 2006)
diventa ampio per la rivendicazione,
del tutto immaginaria e inconsistente, di nuove e vecchie derive retoriche sull’intangibilità e la separatezza
fra gruppi codificati sempre più in
termini razziali. Ecco il problema.
Manca l’assunzione di responsabilità
e la convinzione da parte degli attori
protagonisti dei media e dello sport
della capacità formativa e socializzativa del gesto sportivo in epoca di
globalizzazione (Foer 2006). Repetita
iuvant. Forse.
BIBLIOGRAFIA
J. Clifford, I frutti puri impazziscono, Bollati
Boringhieri, Torino 2010
F. Foer, Come il calcio spiega il mondo: teoria
improbabile della globalizzazione, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2006
G. Gili, Le condizioni della comunicazione interculturale: una proposta di quadro concettuale,
in «Sociologia», n.1, 2009, pp. 7-41
S. Martelli, Lo sport globale. Le audience televisive di mondiali di calcio, Olimpiadi e Paralimpiadi invernali (2002-2010), FrancoAngeli,
Milano 2012
D. Morris, La tribù del calcio, Rizzoli, Milano
1981
M. Valeri, Che razza di tifo: dieci anni di razzismo nel calcio italiano, Donzelli, Roma 2010
P. Villemus, Le Dieu football: Ses origines - Ses
rites - Ses symboles, Eyrolles, Paris 2006
D. Zoletto, Il gioco duro dell’integrazione, l’intercultura sui campi da gioco, Raffaello Cortina, Milano 2010
Ivo Stefano Germano
è ricercatore e professore aggregato
di Sociologia dei processi culturali
e comunicativi, Università degli studi del Molise. Insegna Giornalismo
sportivo presso la Scuola di Scienze
Motorie, Università di Bologna.
61
DOSSIER
E Ar D Fi Si
S FOCUS/ Identità
VATRENI. LA NAZIONALE
CROATA TRA IL SOGNO
DEI MONDIALI E
L’INCUBO DELLA GUERRA
di Valentina Valle Baroz
Z
vonimir Boban percorre il corridoio degli
spogliatoi dello stadio
Maksimir e la sua voce
fuoricampo racconta i
fatti vissuti come capitano della Dinamo, quel mezzogiorno
del 13 maggio 1990. Il capitano ricorda
che dallo spogliatoio sentiva i tifosi delle
due squadre, la croata Dinamo Zagabria
e la serba Stella Rossa, che cantavano,
gridavano e s’insultavano dalle gradinate. Di lì a pochi minuti sarebbe iniziata
una partita storica, trasformatasi quasi
subito in battaglia campale.
Con quest’immagine inizia Vatreni, un
documentario che, nella visione del
messicano Edson Ramírez, racconta la
storia dell’indipendenza croata attraverso la voce dei calciatori che ai Mondiali del ’98 ebbero l’opportunità di vestire per la prima volta la bandiera della
loro nazione.
Il “calcio d’inizio”
Affermare che il calcio tirato dal capitano croato Boban a un poliziotto serbo,
per difendere un tifoso della sua quadra, abbia scatenato la guerra d’indipendenza croata, è eccessivo. Tuttavia,
è un dato di fatto che gli scontri del 13
maggio rimarranno nella memoria storica d’Europa e che quel gesto, immortalato dalla televisione e replicato un’infinità di volte sugli schermi di tutto il
continente, sia diventato in poco tempo
62
"GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP
il simbolo degli ideali separatisti di un
intero popolo.
In Jugoslavia lo scenario non avrebbe
potuto essere più complesso. La morte
di Tito aveva portato con sé una grave
crisi economica, esacerbando le tensioni da sempre esistenti tra i differenti
gruppi etnici presenti in una federazione che non era mai stata davvero unita.
Le velleità di supremazia della Serbia,
repubblica maggiormente rappresentata, avevano cominciato a ledere sempre di più non solo gli interessi politici
di Slovenia e Croazia, ma anche l’orgoglio dei cittadini delle due nazioni. Gli
ideali di “fratellanza e unità”, per anni
mantenutisi in vita grazie al rigore poliziesco imposto dal regime dell’ormai
defunto Maresciallo, lasciavano ora il
posto ai nazionalismi radicali di Slobodan Milosevic, con la sua proposta
di una “Grande Serbia” fondata sulla repressione delle minoranze, e di
Franjo Tudman, con una dialettica di
esaltazione della superiorità croata che
avrebbe portato, di lì a poco, a conseguenze non molto diverse.
Parallelamente all’ascesa del separatismo, in tutti gli stadi della regione
balcanica si registrava una scalata di
violenza che trasformava ogni partita
in una guerra in miniatura dai tratti
grotteschi, dove i cori erano inni all’odio e le gradinate trincee. Il calcio aveva
cominciato a rivestire un ruolo diametralmente opposto a quello dell’epoca
Intervista a Goran Vlaović, marcatore del secondo
goal contro la Germania nei quarti di finale del
Mondiale di Francia ’98. © Alfredo Sánchez
della “grande nazione”, quando era
elemento unificante di un Paese dai
mille volti, dove convivevano lingue,
ideologie, religioni e visioni della nazione molto diverse tra loro. Dal 13 maggio
del 1990 in poi, lo stesso sport che era
stato unione divenne quindi essenza
della divisione, spazio in cui l’odio e la
xenofobia raggiunsero livelli esorbitanti
e il calcio si trasformò, per usare le parole del sociologo Alessandro Dal Lago,
in un’esperienza capace di integrare i
vari attori sulla scena «in un groviglio di
realtà sociali, economiche, simboliche,
ludiche e politiche che fanno “sistema”
e trovano la propria espressione completa nello stadio», un «fatto sociale
totale», talmente totale da poter essere
addirittura preludio di una guerra.
Nel documentario Vatreni, sono i calciatori stessi a raccontare la surrealtà
di quei giorni. Dopo l’immagine iniziale
del capitano Boban, poco a poco appaiono sullo schermo gli altri futuri titolari della nazionale croata del ’98 che, al
principio degli anni Novanta, assistettero in prima persona al disgregarsi tanto
delle loro squadre quanto delle loro nazioni. Attraverso le interviste a Robert
Prosinecki, giovane promessa della
E Ar D Fi Si
DOSSIER FOCUS/ Identità
Stella Rossa di Belgrado, a Mario Stanic
e Miroslav Blazevic, entrambi di origine
bosniaca, e ad altri giocatori come Davor Suker, Robert Jarni e Goran Jurcic,
e con l’ausilio d’immagini di archivio e
documenti dell’epoca, gli autori della fiction ricostruiscono alcune delle tappe
emblematiche della crisi jugoslava, letta
attraverso la lente calcistica.
I giocatori raccontano dell’ultimo grande successo della nazionale jugoslava,
che nel 1987 vinse il mondiale giovanile
e si apprestava a entrare in competizione per i tornei successivi, in vista del
sogno dei mondiali del ’90. Le interviste evidenziano i loro sentimenti contrastanti, da un lato la frustrazione di
veder sfumare l’opportunità di appartenere a una squadra che poteva competere a livello internazionale, dall’altro
l’emozione di intravedere la possibilità
di difendere, per la prima volta, una
maglia che li facesse sentire davvero
identificati, nonostante la consapevolezza che l’unica via per l’indipendenza
era la guerra.
L’identità “nel pallone”
Edson Ramírez è un giovane messicano,
laureato in Comunicazione Sociale, attualmente specializzando in Direzione
Cinematografica. Vatreni è il suo primo
lungometraggio. Negli ultimi anni ha
diretto tre cortometraggi prodotti dal
Centro di Formazione Cinematografica
(http://www.elccc.com.mx/sitio/) e nel
2008 è stato direttore del documentario Noches de Generación, che racconta
la storia della rivista culturale alternativa Generación, diretta dallo scrittore
Carlos Martínez Rentería.
Quando lo incontriamo a Città del Messico, la prima e piuttosto scontata domanda che gli rivolgiamo è che cosa
esattamente ha attirato la sua attenzione in una storia tanto avulsa dalla sua
realtà, non solo quotidiana ma anche
storica. La sua risposta è tutta centrata
sulla ricerca identitaria che, nonostante
la lontananza geografica e temporale,
lui riconosce “identica in ogni popolo
che abita la terra”.
“Per tanto che ci abbia provato, Tito
non è mai riuscito a creare un’identità
jugoslava, ha sempre dovuto accettare
che le nazioni parte della federazione
cercassero costantemente il riconoscimento della loro completa autonomia.
La ricerca dell’identità è concettual-
mente ciò che mi ha spinto a sviluppare
questo progetto, pensando nell’identificazione che non solo i tifosi, ma anche
i giocatori, arrivano a sentire quando
giocano per la loro nazionale. Mi chiedevo cosa provavano i titolari di una fittizia Jugoslavia allo scendere in campo
con una maglia che non sentivano loro.
E mi tornavano in mente le parole di
Boban, quando diceva di aver giocato
onestamente per quella squadra che
però non smuoveva in lui nemmeno
una delle sensazioni che lo agitavano al
giocare per la Croazia”.
La riflessione che soggiace al documentario Vatreni va quindi oltre il racconto
di una storica battaglia nel “rettangolo
verde” e, nonostante la tematica della
guerra in Jugoslavia sia lo sfondo imprescindibile di tutta la narrazione,
include una considerazione valida in
ogni tempo e spazio: al varcare i cancelli di uno stadio si assume un’identità calcistica che trascende l’identità
personale ed è al tempo stesso ad essa
complementare.
Il già citato Dal Lago, nel suo testo Descrizione di una battaglia: i rituali del
calcio, analizza non solo la valenza sociale di questo popolarissimo sport ma
anche l’importanza emotiva dell’essere
tifoso, il sentimento di appartenenza
che l’affiliazione a una squadra è in
grado di generare. L’autore riflette, e fa
riflettere, sul ruolo centrale dell’eccitazione e della violenza, che sono state
gradualmente rimosse da giochi e feste
occidentali in un lavoro di progressiva “umanizzazione” degli sport, che
risponde all’esigenza formale e commerciale che le feste hanno assunto nel
mondo moderno ma anche all’addolcimento della “nostra” sensibilità sociale. L’effetto è stato, afferma Dal Lago,
la riduzione del carattere intenzionale
del pericolo o della violenza, ma non il
pericolo o la violenza in quanto tali. La
metafora dominante nel calcio è infatti
la divisione amico/nemico, variante della metafora bellica, che permette ai tifosi organizzati di vivere la partita come
un confronto rituale che può trasformarsi, in circostanze determinate, in
violenza reale, quando la metafora non
è compresa o quando, per esempio, gli
elementi identitari vanno oltre l’identificazione con la squadra del cuore e
assumono i tratti dello scontro ideologico di matrice nazionalista. Questo fu la
partita disputata a Zagabria il 13 maggio
del 1990, quando dalle gradinate entró
letteralmente in gioco non una rivalità
sportiva ma il cosiddetto “odio etnico”.
E questa è la riflessione a cui invita il
documentario Vatreni, per riconsiderare come e perché il nazionalismo di
quegli anni non sia scomparso non solo
dai parlamenti europei, ma nemmeno
dai campi di calcio, e persista nei cori
e negli attacchi razzisti che fanno dei
grandi stadi italiani ed europei, per usare le parole di Ramírez, “veri e propri
avamposti di trincee”.
BIBLIOGRAFIA
A. Dal Lago, Descrizione di una battaglia: i rituali
del calcio, Il Mulino, Bologna 1990, p. 170
Valentina Valle Baroz
è laureata in Lettere Moderne presso
l’Università di Bologna. Attualmente
vive in Messico dove lavora come
giornalista e frequenta un Master in
Scienze delle Risorse Naturali e Sviluppo Rurale.
Edson Ramírez
Il lavoro di Edson Ramírez viene diffuso prevalentemente nel circuito di
festival d’autore, messicani e internazionali. Un’anteprima del suo lavoro, che contiene anche immagini di
Vatreni, è consultabile a questo link
https://vimeo.com/169315139. Lo
staff che ha partecipato alla realizzazione di Vatreni è formato da giovani professionisti del settore, come il
direttore della fotografia Jorge Lineares, autore a sua volta di documentari come Por los caminos del Sur,
presentato in Italia al 56° Festival dei
Popoli di Firenze e nominato al premio Ariel dell’Accademia Messicana
a delle Arti e Scienze Cinematografiche (teaser su Vimeo all’indirizzo https://vimeo.com/120008907).
63
DOSSIER
E Ar D Fi Si
S FOCUS/ Identità
INVICTUS: COMBATTERE PER CAPIRSI
di Francesca Romana Paci
Q
uando in Sudafrica, tra
il novembre del 1989 e
il febbraio del 1990 –
Frederik de Clerk era
già presidente effettivo
dal settembre del 1989
– si decideva e si attuava la definitiva liberazione di Nelson Mandela e la legalizzazione dei partiti precedentemente fuori
legge, il rugby era ancora quasi esclusivamente uno sport dei bianchi. Makhenkesi Arnold Stofile, ministro presbiteriano,
studioso di teologia (Fort Hare University, Princeton University, Port Elizabeth
University), membro dello ANC, e lui
stesso forte giocatore di rugby (poi, dal
2004 al 2010, Ministro dello Sport) aveva
buone ragioni per dire che il rugby era
“the opium of the Boer”. La passione di
Stofile per il rugby era un’eccezione, perché allora, in generale, i neri non amavano
il rugby proprio perché era uno sport della
cultura bianca. Come lui, però, anche
Mandela, attento a qualunque aspetto
che potesse aiutare la sua aspirazione
di armonizzare le differenze e unificare
i sentimenti di appartenenza di tutti in
64
"GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP
un solo sentimento nazionale, mostrava
già da anni interesse e ammirazione per
lo sport favorito degli Afrikaner. Nel suo
famoso discorso inaugurale, pronunciato a Pretoria il 10 maggio 1994, Mandela
evoca insistentemente immagini di unificazione: «To my compatriots, I have no
hesitation in saying that each one of us is
as intimately attached to the soil of this
beautiful country as are the famous jacaranda trees of Pretoria and the mimosa
trees of the bushveld. […] That spiritual
and physical oneness we all share with
this common homeland explains the
pain we all carried in our hearts […]. The
moment to bridge the chasms that divide
us has come. […] We must therefore act
together as a united people, for national
reconciliation, for nation building, for
the birth of a new world.» (http://www.
anc.org.za/ancdocs/history/mandela/1994/inaugpta.html)
L’assegnazione del Nobel per la Pace a
lui stesso e a Frederik de Klerk nel 1993
indubbiamente contribuiva a conferire
ancora più peso al suo linguaggio. Era
un momento di ottimismo e, appunto,
di aspirazioni – “aspiration” è una parola
amata da Mandela, che quasi sicuramente
aveva già cominciato a vedere nella finale della Rugby World Cup del 1995, nella
quale gli Springboks avrebbero dovuto
affrontare i campioni del mondo, gli All
Blacks neozelandesi, una straordinaria
possibilità di rappresentazione allegorico-simbolica, e quindi di costruzione, di
un sentimento nazionale condiviso. Sta
di fatto che, il 17 giugno 1994 (poco più
di un mese dopo il discorso sopra citato),
Mandela e il ventisettenne capitano degli
Springboks, l’afrikaner François Pienaar,
si incontrano per la prima volta, su invito
dello stesso presidente Mandela, dando
inizio a un lungo episodio epico e spettacolare della storia sudafricana. Il contesto
spazio-temporale allargato della storica
partita di rugby del 24 giugno 1995 e la
partita stessa, giocata allo Ellis Park Stadium di Johannesburg, vinta dagli Springboks 15-12, sono stati resi universalmente
famosi dal film Invictus (2009), diretto da
Clint Eastwood. Lo screenplay, opera del
sudafricano Anthony Packham, è, come
noto, tratto dal libro del giornalista britannico John Carlin, Playing the Enemy,
sottotitolato Nelson Mandela and the Game
That Made a Nation (Penguin USA e UK
2008; Atlantic Books, London 2009). Eastwood non mantiene per il film il titolo di
Carlin, e sceglie, invece, Invictus, titolo di
una poesia del poeta scozzese William Ernest Henley (1849-1903) – in realtà, anzi,
titolo dato a quella poesia dal curatore
dello Oxford Book of English Verse (1900).
È una poesia che Mandela amava e recitava a se stesso durante gli anni di prigionia (Invictus non entra nel libro di Carlin
– sappiamo della predilezione di Mandela
per quella poesia da lui stesso e da Eddie
Daniels, detenuto a Robben Island nello
stesso periodo di Mandela). L’espressione
playing the enemy, in effetti, deve essere
parsa difficile da usare per un film, perché
contiene significati non univoci, affini ma
diversi, al potere allusivo di nessuno dei
quali Carlin vuole rinunciare. Carlin, anzi,
li usa tutti: quando il linguaggio sportivo è
mimetico di quello della guerra, enemy è
la squadra avversaria; ma qui, soprattutto, i nemici sono reciprocamente i bianchi
e i neri; enemy è il razzismo per l’antirazzismo, come l’apartheid per uguaglianza
e democrazia; il rancore per la riconciliazione; il rifiuto della coscienza per
la coscienza, e si potrebbe continuare;
playing, unito a enemy, è altrettanto ricco,
perché, mantenendo stabile un implicito
vettore di significato teso a culminare con
la vittoria, vira dal “giocare una partita
contro un avversario” a “mesmerizzare
un avversario”, “persuadere un avversario”, sedurlo, “portarlo dove si vuole”, e
anche, sommessamente, “raggirare un avversario”; fino a, con uno spostamento di
piano intellettuale, “combattere il nemico
che è in noi”. Il titolo dell’ultimo capitolo del libro, infatti, è un calco di Playing
the enemy, che si trasforma in Love thine
enemy (Ama il tuo nemico è il titolo scelto per la traduzione italiana). Eastwood
sceglie di privilegiare le note eroiche della
famosa partita, Carlin affronta il tutto in
modo più ampio, con la chiara volontà di
capire ed esercitare un’affilata facoltà di
critica. Egli è un giornalista e scrittore abbastanza complesso: figlio di padre scozzese e di madre spagnola, ha studiato in
Argentina e in Inghilterra e lavorato molto sia nel mondo ispanofono sia in quello
E Ar D Fi Si
DOSSIER FOCUS/ Identità
anglofono, particolarmente e lungamente in Sudafrica. È un giornalista attento,
che mostra di possedere anche competenza per la ricerca storica, ma, oltre a
questo, è un grande narratore, un grande
story teller. La sua capacità di affascinare i lettori, alternando all’informazione
frammenti di racconti, aneddoti, dialoghi
emozionanti, testimonianze dirette, e la
capacità di creare personaggi sono notevolissime – tanto che qualche volta i media hanno commesso l’errore di chiamare
Playing the enemy “romanzo”, facendo
torto agli anni di ricerca e interviste (dal
2000 al 2007) su cui appoggia il libro.
Carlin è tutt’altro che un ingenuo entusiasta. Se nell’Introduzione di Playing
the enemy dice che lo sport è «a powerful
mobilizer of mass emotions and a shaper
of political perceptions», e cita l’affermazione dello stesso Mandela, «Sport has
the power to change the world» (2009,
pp. 3-4), pure dissemina i capitoli seguenti di domande sul futuro. Inoltre,
se l’ammirazione di Carlin per l’intelligenza, la generosità, l’affettività umana,
persino il sorriso di Mandela è indubbia,
è anche screziata di osservazioni, garbate ma pungenti, circa le sue capacità
attoriali e di auto-regia, anche se assolutamente mai vengono usate parole crude
come “illusionista” o “istrione”. Carlin
non menziona neppure le esperienze teatrali di Mandela quando era a Robben
Island (Creonte in Antigone), ma insiste,
abilmente, su come Mandela prepara il
palcoscenico, struttura e interpreta le
vicende. Rileggere oggi il libro di Carlin porta a indugiare con turbamento
sulle domande di allora sul futuro della
straordinaria mass seduction operata da
Mandela, su quando la bella favola epica
della vittoria unificante si sarebbe scontrata con le durezze dell’economia, delle
disuguaglianze, dei pericoli di recessione
e dei mali della corruzione.
Seguendo l’uso giornalistico ben collaudato dell’anticipazione dei momenti di
suspense che precedono un momento
culminante e scegliendo l’ipotiposi e la
ripetizione per rappresentarli, Carlin inizia il racconto ricostruendo il risveglio di
Mandela alle quattro e mezza del mattino
del giorno della partita: «He awoke, as he
always did, at 4:30 in the morning; he got
up, got dressed, folded his pyjamas, and
made his bed. All his life he had been a
revolutionary, and now he was president
of a large country, but nothing would
make Nelson Mandela break with the rituals established during his twenty-seven
years in prison.» (p. 9) È quasi superfluo
far notare la funzione politica, materiale
e immateriale della parola “prison”. Seguono evocazioni del passato, ripetizioni
dei rituals, che mantengono alto il livello emozionale, e il parallelo risveglio di
Pienaar nel giorno della partita. Non è
possibile proseguire una lettura analitica
del libro, che, tra il risveglio di Mandela e
la partita, ripercorre in vari capitoli alcuni episodi della vita di Mandela e traccia
una linea dei prodromi politici e sociali
degli eventi del 1995. Ci si deve limitare
a segnalare alcuni dei passi più coinvolgenti. Carlin dedica al primo incontro di
Mandela e Pienaar le pagine iniziali del
capitolo The captain and the president –
sono pagine da vero testo teatrale, vivaci,
realistiche, dialogiche (anche quando usa
il discorso indiretto), ricche di dettagli
materiali e descrizioni dei movimenti dei
personaggi, dettagli e descrizioni che agiscono da puntuali didascalie. Ma è forse
più importante notare come quelle pagine siano introdotte dalla conclusione del
capitolo precedente, Adress their hearts,
dove Carlin riferisce una frase di Nicholas
Hayson, Consigliere Legale e Costituzionale durante il presidentato di Mandela:
«We called it nation-building. But Garibaldi has a quote that exemplifies it more
eloquently. [...] When he had finished his
military mission Garibaldi said, “We have
made Italy, now we must make Italians”»
(p. 158) – in realtà la frase è comunemente attribuita a Massimo D’Azeglio. Il progetto, riassunto nello slogan coniato da
Edward Griffiths (Chief Executive della
South African Rugby Union), “One team,
one country”, dunque, è soprattutto
quello di creare i sudafricani come tali.
La prima creazione di Mandela, allora,
è il capitano degli Springboks, François
Pienaar. La sua opera prosegue con
la creazione successiva, quella di una
squadra che rappresenti tutto il Paese.
Operazione non facile, perché solo uno
dei quindici giocatori, Chester Williams,
era nero. Nel capitolo immediatamente seguente, Springbok Serenade, Carlin
racconta di come quel fine sia raggiunto
convincendo tutta la squadra a imparare
e cantare quello che era un canto di resistenza panafricana dei neri, tutto in lingua xhosa, Nkosi Sikelel’ iAfrika. Da allora,
in combinazione con Die Stem van Suid
Africa e con i versi cantati in varie lingue
sudafricane (inclusi afrikaans e inglese)
Nkosi Sikelel’ iAfrica è diventato l’eccezionale ibrido che è oggi l’inno nazionale
sudafricano. Con la guida di una giovane
e attraente insegnante bianca di xhosa,
lei stessa stupita dal proprio successo, la
squadra, incluso l’unico giocatore nero,
che non conosce lo xhosa, impara a cantare un canto dei neri: «Then when the
time came to sing [...] they did so with
great feeling.» (p. 175) Tanto nel libro di
Carlin quanto nel film Invictus, una delle intuizioni più efficaci e scenografiche
di Mandela (in realtà il consiglio subito
accettato della sua guardia del corpo e
amico Linga Moonsamy) è quella di presentarsi allo stadio con indosso non solo
il berretto, ma anche la maglia verde bottiglia degli Springboks, con il numero sei
di François Pienaar sulla schiena. Quel
giorno, comunque, non solo Mandela
indossava la maglia degli Springboks,
ma anche molti sudafricani allo stadio e
fuori. Indossare la maglia di una squadra
diventava così non solo un atto sportivo,
non solo una moda, ma un atto di valore
politico e sociale. Nel 2013 una maglia di
Pienaar, autografata da Mandela, è stata
venduta all’asta per 8.500 sterline e lo
Evening Standard recentemente informa
che il suo valore odierno può essere stimato 50.000 sterline! La storica partita
degli Springbok contro gli All Blacks non
ha risolto i problemi di unificazione dei
sudafricani, non li ha resi per sempre un
solo popolo, ma certamente ha dato un
colpo magistrale al razzismo. Intervistato a caldo subito dopo la partita, Pienaar
a chi gli chiede: «What did it feel like to
have 62,000 fans supporting you here in
the stadium?», risponde «We didn’t have
62,000 fans behind us. We had 43 million South Africans.» (p. 242) Il problema, oggi, è come conservare o almeno
non tradire quel momento.
Francesca Romana Paci
è docente di Inglese e Letterature post-coloniali all’Università del
Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”. Le sue principali aree di
interesse sono il Romanticismo e
il Neo-Romanticismo, oltre a studi
contemporanei con particolare attenzione al contesto post-coloniale.
65
DOSSIER
E Ar D Fi Si
S FOCUS/ Olimpiadi
Il Camerun che sconfisse la Spagna in finale, alle
Olimpiadi 2000 di Sidney (www.fifa.com).
LA PRESENZA OLIMPICA DEL CONTINENTE NERO
E I BOICOTTAGGI AFRICANI
di Giovanni Armillotta
G
li esordi africani
alle Olimpiadi furono tre. Il Bianco
nel 1904 (Sudafrica),1 l’Arabo nel 1912
(Egitto) e il Nero nel
1952 (Costa d’Oro e Nigeria). Da allora
sono stati vinti 103 ori – anzi 87, tolti
i 16 del razzista Sudafrica (1908, 1912,
1920, 1924, 1928, 1932, 1948, 1952). Essi
corrispondono all’1,8% dei primi posti
olimpici. Una quantità bassa ma d’altro
canto miracolosa, considerate le difficoltà che attanagliano il Continente.
Però, nonostante la scarsa presenza sul
podio più alto, l’Africa ha detto autorevolmente la sua in sede olimpica e s’è
fatta rispettare.
La risoluzione 1761 (XVII) del 1962
Uno dei primi successi, pure in ambito sportivo, fu l’approvazione, presso
l’Assemblea generale (AG) dell’ONU,
il 6 novembre 1962 con 67 favorevoli,
66
"GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP
16 contrari e 23 astenuti della Ris. 1761
(XVII): The policies of Apartheid of the
Government of the Republic of South
Africa. Il progetto fu presentato da 28
Paesi afroasiatici.2 Vittoria diplomatica
contro il razzismo, specie in quanto fra
i Paesi dell’emisfero occidentale votarono contro Pretoria solo Giamaica,
Haiti, Messico e Trinidad e Tobago; l’Italia, bontà sua, si astenne. Fra i quattro assenti al voto, due Paesi africani
(Rep. Centrafricana e Gabon con Ecuador e Paraguay).3
Il documento comportò pure l’immediata sospensione del Sudafrica dal
Comitato internazionale olimpico (CIO)
nel 1963, e la successiva esplusione nel
1970. Non partecipò alle Olimpiadi dal
1964 al 1988.
I boicottaggi dal 1956 al 1988
Una prima avvisaglia afro-araba si ebbe
quando Israele non fu invitato a Londra
1948 in quanto Egitto, Iraq e Siria,
in piena I Guerra arabo-israeliana,
ventilarono il boicottaggio, e il CIO
attese il 1952 prima di riconoscere il
Comitato olimpico di Tel Aviv, che
avrebbe esordito quello stesso anno
(Egitto presente).
Il 29 ottobre 1956 Israele attaccava in
profondità le linee difensive egiziane
nella II Guerra arabo-israeliana. Il 31
le forze aeree di Francia e Gran Bretagna bombardavano i centri strategici
del Cairo. Il 2 novembre era approvata
all’AG dell’ONU la Ris. 997 (ES-I) – appoggiata da Washington e Mosca – che
invitava le parti al cessate-il-fuoco e a
interrompere lo spostamento delle
truppe nell’area. Alle Olimpiadi, inaugurate venti giorni dopo la Ris. 997, il
fronte afroasiatico arabo – Egitto, Iraq,
Libano e Siria – più il Ghana disertarono la manifestazione.
Per Città del Messico 1968 Avery Brundage, statunitense presidente del CIO,
era riuscito a convincere il Comitato
esecutivo a riammettere il Sudafrica
nel consesso olimpico.4 Però la Conferenza di Brazzaville dei 32 Stati del
Supreme Council for Sport in Africa
(SCSA), a cui si unirono Arabia Saudita,
Cuba, Iraq, Malaysia, Pakistan, Siria e
Somalia,5 minacciò il boicottaggio, e fu
appoggiata dai Paesi socialisti eurasiatici, che fecero temere il peggio.6 Brundage, temendo una defezione in massa
«reluctantly agreed to put the question
of a second vote on South Africa up to
his executive committee»,7 che ritornò
sulle proprie decisioni.
Una simile vicenda condizionò la vigilia di Monaco di Baviera 1972. L’11
novembre 1965 la Rhodesia Meridionale era fuoriuscita dal Commonwealth. Il 9 agosto 1972 a Lussemburgo si
stipulò un accordo, sottoscritto pure
dagli Stati africani, che accettava la
Rhodesia purché costituisse una rappresentativa multirazziale, rinnegasse
l’indipendenza, tornasse nel Commonwealth e si presentasse con inno,
bandiera e passaporto britannici. Il
Paese rispettò il patto formalmente,
però era privo dei passaporti di Londra e alla frontiera atleti e funzionari
presentarono la carta olimpica, che
non poteva essere riconosciuta. Il se-
E Ar D Fi Si
DOSSIER FOCUS/ Paese
1. I 54 Comitati olimpici
nazionali africani in
esordi olimpici, medaglie
e boicottaggi
SINTESI STORICA DEGLI EVENTI
MEDAGLIE
I BOICOTTAGGI
Comitato Olimpico
Sigla
Fon.
CIO
Eso.
O
A
B
56
76
80
84
88
Algeria
ALG
1963
1964
1964
5
2
8
—
A
P
P
P
Angola
ANG
1979
1980
1980
0
0
0
—
—
P
A
P
Benin (ex Dahomey)
BEN
1962
1963
1972
0
0
0
—
A
P
P
P
Botswana
BOT
1978
1980
1980
0
1
0
—
—
P
P
P
Burkina Faso (ex A.V.)
BUR
1965
1972
1972
0
0
0
—
A
A
A
P
Burundi
BDI
1990
1993
1996
1
0
0
—
—
—
—
—
Camerun
CMR
1963
1963
1964
3
1
1
—
A
P
P
P
Capo Verde
CPV
1989
1993
1996
0
0
0
—
—
—
—
—
Rep. Centrafricana
CAF
1964
1965
1968
0
0
0
—
A
A
P
P
Ciad
CHA
1963
1964
1964
0
0
0
—
A
A
P
P
Comore
COM
1979
1983
1996
0
0
0
—
—
—
A
A
Rep. Congo (Brazz.)
CGO
1964
1964
1964
0
0
0
—
A
P
P
P
RD Congo (Kinsh.)
COD
1963
1968
1968
0
0
0
—
A
A
P
P
Costa d’Avorio
CIV
1962
1963
1964
0
1
0
—
P
A
P
P
Egitto
EGY
1910
1910
1912
7
9
10
A
A
A
P
P
Eritrea
ERI
1996
1999
2000
0
0
1
—
—
—
—
—
Etiopia
ETH
1948
1954
1956
21
7
17
P
A
P
A
A
Gabon
GAB
1965
1968
1972
0
1
0
—
A
A
P
P
Gambia
GAM
1972
1976
1984
0
0
0
—
A
A
P
P
Ghana (a)
GHA
1952
1952
1952
0
1
3
A
A
A
P
P
Gibuti
DJI
1983
1984
1984
0
1
1
—
—
—
P
P
Guinea
GUI
1964
1965
1968
0
0
0
—
A
P
P
P
Guinea-Bissau
GBS
1992
1995
1996
0
0
0
—
—
—
—
—
Guinea Equatoriale
GEQ
1980
1984
1984
0
0
0
—
—
—
P
P
Kenya
KEN
1955
1955
1956
25
32
29
P
A
A
P
P
1964. Il Rhodesia Olympic Committee fu creato nel
Lesotho
LES
1971
1972
1972
0
0
0
—
A
P
P
P
1934, sospeso dal 1975 al 1979; ridenominato nel
Liberia
LBR
1954
1955
1956
0
0
0
P
A
A
P
P
1980 Zimbabwe Olympic Committee, partecipò
Libia
LBA
1962
1963
1964
0
0
0
—
A
P
A
P
alle Olimpiadi di Mosca dell’anno dopo, ove vinse
Madagascar
MAD
1963
1964
1964
0
0
0
—
A
P
P
A
l’oro nell’hockey su prato femminile.
Malawi
MAW
1968
1968
1972
0
0
0
—
A
A
P
P
Mali
MLI
1962
1963
1964
0
0
0
—
A
P
P
P
Marocco
MAR
1959
1959
1960
6
5
11
—
A
A
P
P
Mauritania
MTN
1962
1979
1984
0
0
0
—
—
A
P
P
Maurizio
MRI
1971
1972
1984
0
0
1
—
A
A
P
P
Mozambico
MOZ
1979
1979
1980
1
0
1
—
—
P
P
P
Namibia
NAM
1990
1991
1992
0
4
0
—
—
—
—
—
Niger
NIG
1964
1964
1964
0
0
1
—
A
A
P
P
Nigeria
NGR
1951
1951
1952
3
8
12
P
A
P
P
P
Ruanda
RWA
1984
1984
1984
0
0
0
—
—
—
P
P
São Tomé e Príncipe
STP
1979
1983
1996
0
0
0
—
—
—
A
A
Seicelle
SEY
1979
1979
1980
0
0
0
—
—
P
P
A
Senegal
SEN
1961
1963
1964
0
1
0
—
P
P
P
P
Sierra Leone
SLE
1964
1964
1968
0
0
0
—
A
P
P
P
Somalia
SOM
1959
1972
1972
0
0
0
—
A
A
P
P
Rep. Sudafricana (b)
RSA
1991
1908
1904
23
26
27
P
—
—
—
—
Sudan
SUD
1956
1959
1960
0
1
0
—
A
A
P
P
Sudan Meridionale
SSD
2015
2015
2016
0
0
0
—
—
—
—
—
Swaziland
SWZ
1971
1972
1972
0
0
0
—
A
A
P
P
Tanzania (c)
TAN
1967
1968
1964
0
2
0
—
A
P
P
P
Togo
TOG
1963
1965
1972
0
0
1
—
A
A
P
P
Tunisia
TUN
1957
1957
1960
3
3
4
—
A
A
P
P
Uganda
UGA
1950
1956
1956
2
3
2
P
A
P
P
P
Zambia (d)
ZAM
1964
1964
1964
0
1
1
—
A
P
P
P
Zimbabwe (e)
ZIM
1934
1980
1928
3
4
1
—
—
P
P
P
A: assenza;
P: partecipazione;
—: non iscrizione al CIO
Fon.: anno di fondazione del Comitato olimpico
CIO: anno di entrata nel Comitato
internazionale olimpico
Eso.: anno di esordio alle Olimpiadi
NOTA ALLA TABELLA 1
(a): Costa d’Oro: 1952, 1956
(b): Il South Africa National Olympic Committee
fu fondato il 3 gennaio 1908, ammesso nel CIO lo
stesso anno; sospeso nel 1962, esplulso nel 1970;
rifondato nel 1991 come South African Sports
Confederation and Olympic Committee e riammesso nel CIO.
(c): Il Tanganyika Olympic Committee fu fondato
nel 1963, e ammesso al CIO (disputò le Olimpiadi
1964); dopo l’unione con Zanzibar fu creato il Tanzania Olympic Committee nel 1967.
(d): Come Rhodesia Settentrionale: 1964 (quattordici giorni prima dell’indipendenza).
(e): Come Rhodesia Meridionale: 1928, 1960,
gretario del SCSA, Jean Claude Ganga
(Congo-Brazzaville) chiese l’allontanamento della Rhodesia non essendo gli
atleti cittadini britannici, ventilando
il boicottaggio col sostegno di Cuba,
Unione Sovietica e dei Paesi socialisti.
Il CIO votò l’estromissione con 36 voti
a 31. Anche in questo caso Brundage
era favorevole alla presenza dei segregazionisti.
Lo spettro del vero e proprio boicottaggio si estendeva sin da Berlino 1936
e – a causa del comportamento neozelandese – colpì per la prima volta in
modo massiccio quarant’anni dopo.8
La Federazione di rubgy della Nuova
Zelanda – infischiandosene del fatto
che in Sudafrica si praticasse l’Apartheid anche nello sport e il Paese fosse
fuori dal movimento olimpico – inviò
la propria Nazionale in tournée dal
67
DOSSIER
E Ar D Fi Si
S FOCUS/ Olimpiadi
3 luglio al 18 settembre 1976; al contempo le Olimpiadi si sarebbero svolte
dal 17 luglio al 1° agosto. La Tanzania
perciò avanzò la proposta di escludere la Nuova Zelanda da Montreal
1976.9 Mentre nel 1963 ad alcuni atleti era stato interdetto Tōkyō 1964 per
aver incontrato i colleghi della RP della Cina ai I Giochi delle Nuove Forze
Emergenti (GANEFO, Giacarta, 11-23
novembre) questa volta il CIO fece finta di non udire, accampando la scusa
che il Sudafrica fosse già fuori dalle
Olimpiadi e il rugby non vigesse nel
programma. Dar al-Salām trovò l’appoggio degli Stati africani, più quello
di Guyana e Iraq, ma non del CIO che
respinse il caso, e confermò i neozelandesi ai Giochi. A Wellington neppure il garbo di sospendere la trasferta
degli All Blacks durante le Olimpiadi!
La replica fu durissima: 30 Paesi africani disertarono i Giochi (cfr. Tabella
1); quattro si ritirarono dopo che i
propri atleti avevano iniziato a competere.10 Inoltre si ebbero le seguenti
assenze: Afghanistan, Albania (unico
Stato socialista a solidarizzare), Birmania, El Salvador, Giordania, Malta,
Siria, Srī Lanka e Tonga.11 Fra gli africani presero parte solamente Costa
d’Avorio e Senegal.
Dalla Casa Bianca Jimmy Carter – in
piena campagna elettorale – lanciò
un ultimatum all’URSS, minacciando
che se entro mezzogiorno e un minuto
del 20 febbraio 1980 non si fosse
ritirata dall’Afghanistan, gli Stati Uniti
d’America avrebbero boicottato la
manifestazione sovietica. Al silenzio
della controparte, il boicottaggio
fu reso ufficiale dal 21 marzo. Non
parteciparono a Mosca 1980, 21 Paesi
africani, ma furono presenti altrettanti
21 (cfr. Tabella 1).
A Los Angeles 1988, la vendetta sovietica – per pretesti di non sufficiente
sicurezza delle delegazioni propria ed
alleate – tirerà dalla sua parte cinque
Stati africani pro-Cremlino (cfr. Tabella 1). La Libia distinse la propria assenza in funzione antistatunitense e non
prosovietica.
La dolorosa parentesi delle rinunce
politiche si chiuse a Seul 1988, quando
il boicottaggio della Repubblica Popolare Democratica della Corea raccolse
lo sparuto consenso di cinque Stati
africani (cfr. Tabella 1) più Albania,
Cuba e Nicaragua.
2 - Africa: Algeria, Camerun, Rep. Centrafricana, Ciad, Congo (Brazzaville), Congo
(Léopoldville), Dahomey, Costa d’Avorio, Liberia, Libia, Mali, Mauritania, Marocco, Niger,
Nigeria, RAU (Egitto), Senegal, Sierra Leone,
Somalia, Sudan, Tanganica, Tunisia; Asia:
Afghanistan, Arabia Saudita, Iraq, Mongolia,
Pakistan, Siria.
3 - «Yearbook of the United Nations», Office of
Public Information, United Nations, New York
1962, Vol. XVI, pp. 99-100.
4 - M. Brichford, Avery Brundage and Racism,
in Global and Cultural Critique: Problematizing
the Olympic Games, Fourth International Symposium for Olympic Research, The University
of Western Ontario, London, Ontario, Canada
1998, pp. 129-134.
5 - Boycotting South Africa, «Time», 8 marzo
1968.
6 - S. Jacomuzzi, Storia delle Olimpiadi, Einaudi, Torino 1976, p. 355.
7 - Boycotting…, op. cit.
8 - Jacomuzzi, op. cit., pp. 157-160.
9 - In conformità con la Resolution on Sporting
Links with South Africa, CM/RES 488 (XXVII)
dell’Organizzazione dell’Unità Africana, in
data 3 luglio 1976: «CALLS UPON all Member
States of the OAU to reconsider their participation in this year’s Olympic Games in Canada
NOTE
if New Zealand participates».
1 - Le quattro colonie britanniche – Capo, Na-
10 - Camerun, Egitto, Marocco e Tunisia.
tal, Transvaal e Stato Libero d’Orange –parte-
11 - Africa and the XXIst Olympiad, in «Olympic
ciparono con una sola rappresentativa.
Review», f. 1894, IOC, 1976, pp. 584-585.
2016
2012
2008
2004
2000
1996
1992
1988
1984
1980
1976
1972
1968
1964
1960
1956
1952
1948
1936
1932
1928
1924
1920
1912
1908
1904
1900
1896
54
53
53
52
53
52
45
42
41
21
2
29
24
22
12
6
4
2
2
1
3
2
2
2
1
1
0
0
Rio de janeiro
Londra III
Pechino
Atene
Sidney
Atlanta
Barcellona
Seul
Los Angeles II
Mosca
Montreal
Monaco di Baviera
Città del Messico
Tokyo
Roma
Melbourne (a)
Helsinki
Londra II
Berlino
Los Angeles I
Amsterdam
Parigi II
Anversa
Stoccolma
Londra
Saint Lous
Parigi
Atene
2. I Paesi africani alle Olimpiadi moderne estive
NOTE ALLA TABELLA 2
(a) Una legge australiana prevedeva l’obbligo di quarantena semestrale ai cavalli importati per scongiurare il rischio di contaminazioni. La cosa strana era che la legge
non si applicava agli equini britannici ed irlandesi, come se questi fossero immuni per grazia divina. Le prove equestri furono svolte a Stoccolma a giugno (e l’Egitto
partecipò prima della II Guerra arabo-israeliana), mentre i GO veri e propri iniziarono a svolgersi a Melbourne il 22 novembre.
68
"GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP
Scuola
E Ar D
Fi Si St M Li
Enea: un profugo.
Viaggi nel passato
e nel presente
a cura di Donatella Iacondini
Lasciare la propria
terra, affrontare un
mare pericoloso,
avere la solidarietà
dei compagni,
scendere nell’Ade di
una prigione libica,
sbarcare salvo in
Italia. È la storia
di un migrante,
ispirata a memorie
di richiedenti asilo,
scritta da studenti
del Liceo Classico
Minghetti di Bologna
tenendo come
modello per la
narrazione uno degli
archetipi letterari
dei percorsi di
migrazione: il viaggio
di Enea raccontato da
Virgilio
I
l progetto “Enea: un profugo.
Viaggi nel passato e nel presente” è stato svolto nel corso
dell’a. s. 2015-16 da due classi
del secondo anno del liceo
Minghetti di Bologna: incentrato sulla figura di Enea, prevedeva di
affiancare alla lettura di brani dell’Eneide
varie attività, tra cui la lezione del professor Lentano dell’Università di Siena, che
è stata anche l’occasione per esporre nella meravigliosa cornice di Palazzo Leoni
i lavori degli studenti. Mentre la 2aD ha
studiato e illustrato le rappresentazioni
iconografiche dell’Eneide nel Rinascimento bolognese, la 2aG ha realizzato un
esperimento di scrittura di gruppo totalmente autogestita dagli studenti. Dopo la
presentazione in classe delle problematiche legate ai migranti, curata dall’Associazione Africa e Mediterraneo, e la lettura individuale del volume “Tutta la vita
in un foglio”,1 agli studenti di 2aG è stato
proposto un esercizio di riscrittura attualizzante.2 Dopo lunghe discussioni in
classe per stabilire le modalità di lavoro,
l’ideazione e la distribuzione degli episodi che ognuno avrebbe dovuto redigere,
gli studenti hanno costruito il racconto di
un viaggio moderno che si compie, per
così dire, senza la protezione del Fato,
e lo hanno letto pubblicamente in due
occasioni, con suggestivo accompagnamento musicale.
Il racconto è progettato in modo che gli
episodi risultano in parallelo con alcuni
famosi passaggi dell’Eneide: assistiamo
quindi alla partenza “senza idillio” di un
ragazzo somalo di nome Aynea’s, esitante
tra la speranza di un futuro migliore e
il dolore del distacco dai suoi affetti e
dalla sua terra. Egli compirà un viaggio
attraverso il Sahara, la Libia e il mar
Mediterraneo portando con sé l’oggetto
che gli garantisce la memoria della sua
appartenenza e del suo passato (una
fotografia), facendosi guida di compagni,
molti dei quali tuttavia non riusciranno
ad arrivare a destinazione e affrontando
tappe ignote, soste impreviste e scontri
con bande armate.
Può sorprendere l’assenza del riferimento
ad un episodio fondamentale, quello
di Didone, ma la descrizione di una
relazione d’amore è risultata per la
sensibilità degli studenti inopportuna.
Il finale è dolceamaro, perché Aynea’s è
salvo, ma non potrà mai dimenticare ciò
che ha passato durante il viaggio.
Qui di seguito viene riportato il racconto,
risultato del progetto.
NOTE
1 - Tutta la vita in un foglio è una pubblicata realizzata nel 2014, all’interno di Bologna cares!, la
campagna di comunicazione del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR) del
Comune di Bologna. Si tratta di una selezione di
53 memorie di richiedenti asilo transitati in Italia
tra il 2011 e il 2014.
2 - Dalla fusione delle ore di Orizzontalmente con
quelle di Coloritura (nel caso delle nostre due
classi “beni culturali” e “intercultura”) è nato il
nostro percorso. Orizzontalmente è un progetto
nato qualche anno fa dalla proposta di alcuni
studenti del Minghetti e consiste nell’affrontare
in classe autonomamente tematiche scelte dagli
studenti, evitando di impostare una tipica lezione frontale. Gli obiettivi del progetto sono di arrivare ad avere una maggior conoscenza dell’argomento scelto, imparando a discutere insieme agli
altri senza prevaricarsi e rispettando le opinioni
altrui. Le Coloriture sono attività laboratoriali
(da 10 a 20 ore annue per classe) guidate dagli
69
Fi Si St M LiSCUOLA
F
insegnanti durante il normale orario scolastico
su argomenti altrimenti non approfonditi dalle
materie scolastiche.
Enea: un profugo
La speranza e il distacco
Quando ti metterai in viaggio per l’Italia devi augurarti che la strada sia sicura, fertile in avventure ed esperienze. I
trafficanti di uomini e la furia del mare
non temere, non sarà questo il genere
di incontri se il pensiero resta alto e un
sentimento fermo guida il tuo spirito e
il tuo corpo.
In trafficanti di uomini – no certo – né
nell’irato mare incapperai se mai li porti
dentro, se l’anima non te li mette contro.
Devi augurarti che la strada sia certa e
che i mattini d’estate siano tanti quando
nei porti italiani finalmente – e con che
gioia! – toccherai terra per la prima volta.
Non dimenticare ciò che hai lasciato e
portalo nel cuore.
Impara una quantità di cose dai pericoli,
ma sempre devi avere in mente la meta!
«Cara Saraya,
finalmente ho trovato il coraggio per scriverti questa lettera; è probabile che quando la leggerai io sarò da qualche altra
parte nel mondo, lontano da te, dalla mia
famiglia, dai miei amici e dalla mia terra.
Da parecchi anni questo Paese non conosce più pace, la guerra ormai fa parte della
nostra quotidianità, la maggior parte dei
miei amici è morta nel tentativo di avere
un futuro migliore, di riportare la libertà.
Ripensando a tutti coloro che sono caduti,
sento che sarebbe disonorevole per il loro
valore partire, lasciare tutto, scappare da
questa violenza e da questo orrore che ha
preso il sopravvento e ha portato questa
terra alla deriva. Non credere che sia una
scelta facile la mia, Saraya. Io lascio tutto
questo per poi trovare che cosa? Ho paura, non so chi mi accompagnerà in questo
viaggio, non so dove arriverò, chi incontrerò… E non so nemmeno se arriverò.»
La partenza e la tappa al capannone
Appoggio la testa contro la parete dietro
di me, chiudo gli occhi e cerco di estraniarmi da ciò che mi circonda. Sento la
presenza di Nure vicino a me e so senza bisogno di aprire gli occhi che è certamente nella mia stessa posizione, ma
probabilmente sta tenendo la mano a
Samir per cercare di dargli conforto:
70
"GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP
in fondo Samir di anni ne ha solo sedici, non è strano che sia spaventato. Io
e Nure abbiamo la stessa età e ci siamo
conosciuti a scuola, quando ancora avevamo abbastanza soldi per andarci, invece Samir si è unito in seguito alla nostra “cricca” – sempre che di “cricca” si
possa parlare visto che eravamo solo in
due. Lo avevamo conosciuto una mattina mentre giocavamo sugli scalini di casa
mia; era arrivato con i suoi genitori e si
era presentato come il mio nuovo vicino
di casa, sembrava così indifeso ed io e
Nure non avevamo potuto fare a meno
di prenderlo sotto la nostra protezione:
da quel momento siamo diventati inseparabili, e ora ce ne stiamo andando da
Mogadiscio, per sempre. Ricordare come
ho conosciuto Nure e Samir non può che
farmi pensare anche a casa mia e ai miei
genitori, anche se in questo momento è
l’ultima cosa che dovrei fare, devo riuscire a scordarmi di tutto se voglio avere
quella speranza di andarmene da qui.
Tuttavia il mio corpo sembra non voler
collaborare e la mia mano destra scende
nella tasca dei pantaloni, come dotata di
vita propria, e incontra la superficie di
una fotografia, la fotografia. Saprei descriverla anche senza guardarla dal tanto
che l’ho fatto in passato, ma cosa dovrei
fare? È tutto ciò che mi rimane di casa
mia! L’ho presa furtivamente poco prima
di partire perché non potevo accettare di
trovarmi un giorno a non essere in grado
di ricordarmi del mio passato, no, l’idea
era del tutto inaccettabile. Non appena
la tocco però i ricordi mi assalgono e…
«Aynea’s! Lo devi fare, è per il tuo bene,
tesoro…» grida mia madre nella mia testa. «No, no, no non devo ripensarci, non
devo…» ma la voce continua implacabile. «Io e tuo padre ormai siamo troppo
vecchi per queste cose, ma tu no! E io
ti ordino di andare». «Non posso farlo
mamma, non posso, non posso lasciarvi
qui!» grida il me stesso del passato. «Invece puoi e devi! Non c’è altro modo».
Alla fine mamma aveva vinto, ed eccomi
qui insieme a Nure e Samir e tanti altri
ragazzi come noi che hanno dovuto abbandonare le famiglie e le loro case per
intraprendere un viaggio dall’esito incerto. Siamo partiti dalla Somalia, come delle bestie in una gabbia, tutti stipati in un
camion, sporchi e senza niente da bere e
da mangiare. Mi stendo. Dopo aver dormito qualche ora, sento un odore familiare: subito lo riconosco, è quell’odore
che sentivo a casa mia, quell’odore che
mi dava speranza perché stranamente
mi colmava; mi alzo in piedi e appena
mi giro vedo il mare, uno strano sorriso
passa per la mia bocca, ma poi, stanco
morto, mi sdraio di nuovo perché devo
conservare le energie. Mentre dormo,
improvvisamente il camion si ferma e mi
sveglio, e lentamente ci fanno scendere.
Ibant obscuri sola sub nocte
Che fatica questo viaggio… ho fame, ho
sete… ma non possiamo fermarci. Ecco,
finalmente si ferma. Ma… chi sono questi? Urlano, hanno i fucili e degli sguardi
feroci. Uno di questi mi afferra, mi trascina giù dal furgone e grida in una lingua
che non conosco. Insieme agli altri mi
costringono a salire su un camion spingendomi forte, con violenza. Siamo tutti
spaventati, non capiamo. Il camion parte, qualcuno piange, gli altri in silenzio si
aggrappano per non cadere… non capisco cosa stia succedendo… dove ci stanno portando? E penso improvvisamente
a casa mia… se fossi rimasto… sarei con
mia madre che anche sotto le bombe mi
teneva la mano. E adesso capisco l’importanza di quella stretta. Poi penso che
lei mi aveva detto di andare, di cercare
un futuro. Così stringo le mie mani e immagino che una sia la sua. Intanto il sole
sta calando, la polvere ci entra negli occhi e nel naso. Nessuno sa cosa ci aspetta. È freddo ora, la strada diventa sempre
più stretta e piena di buche. Mi sembra
che intorno nel buio non ci sia nulla. Vicino a me un uomo vomita, un bambino
si stringe nella gonna della mamma che
sta tremando forte. Nessuno parla. Solo
un uomo bisbiglia pregando. Il camion si
ferma, siamo davanti ad una grande baracca e urlando ci spingono dentro. Un
ragazzo cerca di scappare e improvvisamente esplode un rumore a me familiare… il ragazzo cade a terra, colpito.
È buio. Freddo. Sento delle voci, parlano
un dialetto arabo, hanno delle catene,
sento il rumore del loro strusciare contro
il cemento, sempre più vicino. Mi cade
dell’acqua sulla coscia e non so se siano
le mie lacrime o l’umidità che cola dal
tetto di questa cantina, di questo buco
nella terra che divora amore e speranza.
Da forse più di tre giorni ho la gola secca, lo stomaco ridotto ad una pallina da
golf, il cemento è bagnato, e non è acqua.
La luce? Beh, la luce la vedo; la vedo circa due volte al giorno, la prima quando
Scuola
E Ar D
Fi Si St M Li
entrano altre anime, altre speranze. La
seconda? In quel caso vorrei esser cieco,
o già morto: entra sempre una donna
anziana con una candela in mano o una
lanterna, cerca le bambine, le donne giovani, parla loro all’orecchio, sorridono,
rivedo la speranza nei loro occhi, i genitori ringraziano Dio e incitano la piccola anima ad andare. Chissà, chissà cosa
pensano, chissà quale promessa quel Caronte fa loro, chissà perché Dio ci ha dato
la possibilità di decidere di fare ciò che
vogliamo, che sia bene o male, ma Dio,
Dio mio, si fa sempre la scelta sbagliata.
Quelle anime verranno distrutte, private
di ciò che avevano anche non possedendo nulla, nessuna promessa, nessuna salvezza. Un sorriso alla morte.
L’attraversamento del Sahara.
Et Lybiae vertuntur ad oras
Abbiamo lasciato il deposito il giorno
dopo, con gli occhi pieni di polvere e
dimentichi del perché di questo viaggio, del perché ci ostiniamo ancora a
vivere. Ci hanno fatto salire in un pick
up, eravamo 26 persone in uno spazio
di tre uomini sdraiati. Davanti a noi solo
un’immensa distesa di sabbia e un sole
cocente che fa girare la testa. Partita la
macchina, ci fu ben chiaro che non ci
sarebbero state protezioni per evitare
che venissimo sbalzati fuori dal furgone e così le nostre mani si aggrappano
ai vestiti degli altri, alle maniglie… e
abbiamo viaggiato così per ore, concentrando le poche forze sulle mani,
che sono l’unico filo che può tenerci in
vita. Ad un certo punto le nostre orecchie hanno sentito un rumore sordo e
i nostri occhi hanno visto una vecchia
cadere ed una ragazza che urlava e si
protraeva in avanti, vedendo tutto ciò
che le rimaneva andarsene. E qualcuno
di noi ha avuto pure la forza di urlare
«Fermatevi, fermatevi!» ma nulla, la
macchina sembrava essere guidata da
fantasmi e abbiamo visto la vecchia dal
vestito rosso scomparire, piano piano.
E non ho avuto nemmeno la forza di
capire o di piangere per quella morte
che sarebbe potuta toccare a me. Poi,
dopo sabbia e sole siamo arrivati in una
città, e lì finiscono i miei ricordi, perché
quando ci hanno ordinato di scendere
da quella macchina che sapeva di vomito ed urina il sollievo è stato talmente
tanto che il mio corpo si è abbandonato
tra le dolci braccia di Morfeo.
Finalmente siamo arrivati in Libia. Siamo molto impauriti e spaventati, non
sappiamo dove andare e come muoverci. Intorno a noi c’è solo polvere. Dopo
essere riusciti ad uscire da quella nube
di terra e di persone, ci guardiamo negli occhi, cosa che non facevamo da parecchio tempo, e tiriamo un sospiro di
sollievo. Ce l’abbiamo fatta. Ora il nuovo
obiettivo consiste nel raggiungere la costa il più velocemente possibile, così da
imbarcarci e giungere in Italia. Abbiamo
chiesto ripetutamente informazioni a
diversi passanti senza ottenere risposta. Ci sentiamo esclusi, come rinchiusi
in una bolla d’aria dalla quale nessuno
può o vuole ascoltarci. Finalmente incontriamo un ragazzo più o meno della
nostra età, che ci dà le indicazioni per
dove dirigerci. Allora inizia l’ennesima
camminata, ma questa volta attraverso
la città. Per fortuna la costa si trova solo
ad una settimana di cammino. Più di
una volta ci siamo persi, abbiamo dormito per strada e ci è capitato anche di
rubare, frutta o semplicemente pane.
Otto giorni dopo siamo arrivati al porto,
dove abbiamo riconosciuto subito i tanto cercati trafficanti e abbiamo chiesto
quanto costasse il biglietto. Uno ci ha
risposto una cifra che nemmeno riuscivamo ad immaginare. Dopo aver sentito
quella cifra esorbitante abbiamo detto
al trafficante quale fosse la somma che
possedevamo, ma non ha cambiato idea.
«Datemi quei soldi e partirete, altrimenti resterete a terra. Ah, un’ultima cosa.
Non portate giubbotti di salvataggio, noi
ne abbiamo, ma tanto non serviranno».
Allora ce ne siamo andati. Nuovo obiettivo: trovare tutti quei maledetti soldi.
Abbiamo camminato per alcuni giorni
nei pressi del porto chiedendo informazioni a degli operai.
Ci avevano fatto il nome di un certo Talek
e lo avevano descritto come un omone
sulla cinquantina molto serio e con dei
grandi baffi sotto il naso.
Non è stato difficile riconoscerlo: se
ne stava seduto sulla ringhiera che si
affacciava sul mare, con aria rilassata,
tenendo tra le labbra un sigaro spento.
Vedendoci arrivare si è guardato intorno
e si è sistemato il colletto della camicia,
troppo stretto per quel collo robusto, e ci
è venuto incontro. «Salve, lei deve essere
Talek». «Si, sono io, ma voi chi siete?» ci
ha detto con aria arrogante. Un po’ scoraggiato ho risposto: «Io sono Aynea’s e
loro sono Nure e Samir. Veniamo dalla
Somalia». Il signor Talek ci ha offerto un
lavoro, se così si può chiamare, che consisteva nel ripulire le vasche in cui veniva
trasportato il pesce. Era un lavoro molto
faticoso ma potevamo dire di essere stati fortunati. Non avendo un posto in cui
dormire, ci aveva dato il permesso di trascorrere le notti nello scantinato.
Abbiamo lavorato per tre mesi consecutivi, senza mai fermarci un momento,
ma mancava ancora tanto denaro per
raggiungere la somma richiesta. Una
calda mattina, mentre io, Nure e Samir
eravamo intenti a lavare le vasche, si è
avvicinato a noi un giovane dalle belle
vesti, che ci ha detto che per le nostre
esili mani eravamo sprecati in quel rozzo
lavoro. Così ci ha offerto un posto come
tessitori di tappeti nella sua fabbrica,
proponendoci uno stipendio molto più
redditizio del precedente. Nure però,
troppo rozzo secondo il parere dell’uomo, non poteva seguirci, ma non potevamo permetterci di restare a lavare vasche
di pesce e, d’accordo con lui, abbiamo
accettato il nuovo impiego. Malgrado
l’iniziale titubanza, ci siamo ambientati
abbastanza presto. Infatti il lavoro procedeva a gonfie vele. Per questo siamo stati
ripagati e nel giro di pochi mesi abbiamo
raggiunto il nostro obiettivo.
Il viaggio sul barcone:
humilemque videmus Italiam
E ora sono qui, su uno dei tanti barconi che ogni giorno partono, portando
al loro interno persone che come me,
scappano dalla propria terra, le stesse
che come me desiderano avere una vita
migliore. Tutti noi siamo su questo barcone per combattere per una vita che
qualcuno ha deciso di rendere complicata senza alcun motivo. Mi chiedo solo
se sarò abbastanza forte per sopportare
tutto quello che mi succederà.
E ora sono qui, continuamente spintonato qua e là in mezzo a persone dai visi
scavati dalla paura e dagli occhi vitrei,
alcuni sono paralizzati, pensano a quello che potrà capitar loro, se il loro corpo
riposerà in pace o rimarrà disperso nelle
fredde acque. Chissà quanti uomini hanno passato e passeranno quello che sto
affrontando io. Quanti sono morti in queste acque e quanti ancora ne moriranno.
Quando finirà tutto questo? Fortunati
coloro che hanno un letto dove dormire,
un tetto dove ripararsi, una tavola bandi-
71
Fi Si St M LiSCUOLA
F
ta di cibo, una famiglia che li supporta.
Io sono qui e devo lottare per la mia
stessa vita.
Cerco di calmarmi ma il pensiero di aver
perso di vista Samir mi rende inquieto.
Il rombo di un tuono mi desta dai miei
pensieri, alzo gli occhi verso il cielo scuro e delle grosse gocce di pioggia scorrono sul mio viso. Solo adesso i rendo
conto che sono troppo vicino al bordo
del barcone e che al minimo scossone
sarei tra i primi a cadere di sotto. Cerco
istintivamente di ritrarmi verso l’interno
spintonando chiunque mi trovi davanti,
senza preoccuparmi della loro storia,
ora devo pensare solo a me stesso. In
quel momento uno scossone particolarmente violento fa cadere alcune persone
davanti a me e mi si libera la visuale. Eccolo! Ho visto Samir! È caduto in acqua e
annaspa con ansia. Senza pensarci troppo mi riavvicino al bordo del barcone
e inizio ad urlare: «Samir! Samir! Vieni
qui, avvicinati al gommone, tieni duro
ora arriveranno i salvagente! Avvicinati,
andrà tutto bene!».
Ma nello stesso momento in cui pronuncio queste parole capisco quanto siano
false, non siamo su una nave di lusso,
non ci sono bottiglie d’acqua per dissetarci, figuriamoci dei salvagente. Comprendo la situazione ma non voglio smettere di provare, urlo, chiedo aiuto ma le
mie parole sono soffocate dalle grida di
disperazione e dal forte scroscio delle
onde, che ci sbalzano da ogni parte come
palline dentro ad un flipper. Disperato ritorno sul fianco del barcone, quanto più
vicino a Samir mi è possibile, provo a
parlargli, ma mi accorgo che il mio amico
non ce la fa più e improvvisamente non è
più lì; sopraffatto dalla stanchezza e dalla
violenza delle onde non torna più a galla.
Siamo ancora tutti aggrappati l’uno
all’altro per non cadere e per avere
qualcuno a cui sostenerci. Il viaggio
è interminabile e ancora più difficile
per la fame e la sete che ci torturano
da giorni come ospiti non graditi. Per
questo il piccolo Rashid, un bambino
che avrà avuto circa sei anni, mi tiene
il braccio e comincia a piangere. Suo zio
Ahmed, che lo accompagna, mi racconta che i suoi genitori sono morti prima
della loro partenza. Una bomba è esplosa molto vicino alla loro casa e ha fatto
crollare gran parte dell’edificio, ma il
piccolo Rashid si è salvato per miracolo,
forse l’unico modo in cui anche noi ci
72
"GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP
saremmo potuti salvare, per miracolo.
Per sua fortuna infatti lo zio era subito
accorso alla casa distrutta di sua sorella
ed era riuscito a prendere il bambino
dalle macerie.
I suoi famigliari avevano deciso di far
partire per l’Europa Ahmed e avevano
raccolto tutti i soldi che avevano e che
sarebbero serviti a pagargli il viaggio.
I militari erano venuti a cercare rinforzi e
lo avevano chiamato tre volte. La prima
di queste, quando erano arrivati, lui aveva aperto la porta ma non aveva accettato di unirsi a loro. Quando erano tornati
lui aveva risposto di no ancora e questa
volta però lo avevano picchiato.
La terza volta avevano sfondato la porta
di casa e lo avevamo picchiato di nuovo
e avevano detto che fino ad allora erano
stati troppo gentili, quindi, se quando
sarebbero tornati, lui si fosse rifiutato di
seguirli, lo avrebbero ammazzato. Allora Ahmed decise di partire e alla svelta.
Stava prendendo le ultime cose per il
viaggio quando lo chiamarono perché
era scoppiata la bomba che aveva ucciso sua sorella.
Il resto della storia non me l’ha voluta
raccontare ma so che non sarà stata tanto diversa dalla mia e dalle altre storie
che ognuno di noi ha da raccontare e che
non ci scorderemo mai.
Non posso crederci, ce l’ho fatta:
sono in Italia
Appena arrivati al porto ci fanno alzare e
subito mi accorgo che le mie gambe fanno
fatica a reggermi in piedi. Provo a chiedere aiuto ma nessuno mi capisce. La gente
stipata in fondo comincia a spingere e ci
troviamo tutti all’uscita della nave dove
gli uomini vestiti di bianco che poco fa ci
hanno salvati in mezzo al mare ci indicano gesticolando dove andare: scendiamo
lentamente dalla nave; la luce del sole è
spaventosamente meravigliosa. Tante
persone ci vengono incontro per aiutarci, alcuni sostenendo chi ha difficoltà a
camminare, altri portando in braccio dei
bambini, altri ancora portando coperte
o vestiti asciutti. Una ragazza mi viene
incontro sorridente e comincia a parlarmi mettendomi una coperta sulle spalle:
la sua voce è rassicurante e sembra una
persona disponibile. Mi prende e mi accompagna davanti ad un tendone. All’interno c’è una lunga fila di brandine, molte
già occupate da altri profughi. Dopo una
serie di controlli esco dal tendone con la
ragazza che mi era venuta incontro al momento dello sbarco. I suoi occhi e il suo
modo di prendersi cura di me mi ricordano mia madre: sì, mia madre, devo trovare un modo per avvisarla che sono vivo e
che invece Samir non ce l’ha fatta…
Dopo due giorni passati in una struttura di fianco al porto finalmente riesco
a dire ad un operatore italiano, che conosce la mia lingua, che ho bisogno di
avvisare la mia famiglia in Somalia. Lui
mi procura un telefono: sentire di nuovo dopo così tanto tempo la voce di mia
madre è una sensazione così bella che
mi metto a piangere insieme a lei dalla
gioia. Non ho molto tempo a disposizione per raccontarle tutto quello che mi è
successo, ma non posso evitare di dirle
di Samir. Dopo che le ho dato la triste
notizia c’è un lungo attimo di silenzio
che mia madre interrompe dicendo che
ha da fare e ci salutiamo…
Rimango un’altra settimana in un camerone con un altro centinaio di persone e dopo aver dato i miei dati alla
polizia mi fanno partire in direzione
Bologna. Stavolta non sarà pericoloso,
stavolta non sono spaventato, è tutto
più comodo e facile e posso rilassarmi
un po’. Tengo ben stretta in mano la
fotografia della mia famiglia; chissà se
un giorno rivedrò tutti i miei amici e parenti, in Italia magari, o forse di nuovo
in Somalia se riuscirò a tornare a casa.
Ora vivo da un anno a Castello d’Argile,
in un centro di accoglienza, dove faccio
qualche lavoretto, imparo l’italiano e
aspetto ancora che accettino la mia richiesta d’asilo.
ABSTRACT EN
The “Aeneas: a refugee. Journeys in
the past and present” was developed
throughout the 2015-16 academic
year by two classes from Minghetti
secondary school in Bologna: centred on the figure of Aeneas. Scheduled as one of the various activities
was a group writing experiment in
which the students while reading
chapters of the Aeneid also read from
the volume entitled “All life in a page”,
collecting asylum seekers memories.
ARTE
E Ar D Fi
Addio al maestro
e amico George
Abraham Zogo
di Andrea Marchesini Reggiani
Scompare uno dei
più riconosciuti
artisti africani
presenti in Italia.
Punto di riferimento
per il dialogo
interculturale,
ha portato avanti
con coerenza una
ricerca artistica
basata sull’incontro
tra l’estetica del
Continente di
origine e l’arte
europea moderna e
contemporanea.
Olio su tea, cm 70x50, 1992.
D
omenica 5 giugno
2016,
all’età
di 81 anni, è
scomparso George
Zogo, artista del
Camerun. Nato a
Saha, aveva frequentato l’Accademia
di Belle Arti di Lione ed era arrivato
a Firenze nel 1966 con una borsa di
studio del governo del Camerun per
studiare in Italia. Faceva parte della
prima generazione di intellettuali
e artisti africani che arrivavano in
Europa nell’ambito della cooperazione
culturale con i Paesi neo-indipendenti.
Appena arrivato, accolto dall’ex
sindaco Giorgio Lapira, di cui divenne
amico personale, subito si impegnò
dando il suo contributo nei soccorsi
durante l’alluvione che causò forti
danni alla Città, culla del Rinascimento.
Ne era nato un grande amore e un
impegno, durante e dopo gli studi,
per la realizzazione di una sintesi tra
la sua identità africana e l’ispirazione
che la ricchezza contenutistica e
73
E Ar D FiARTESi S
Mostre
personali
(Selezione)
olio su cartoncino, cm 50x35, 2001.
formale dell’arte europea gli offrivano.
Affettuosamente chiamato “Le Doyen”
“il rettore”, era un punto di riferimento
per la comunità africana, e per tanti
che appena arrivati trovavano in lui
una persona gentile a cui rivolgersi per
cominciare il processo di inserimento
nella città. Il suo carisma contribuiva a
tessere reti e facilitare il dialogo, nella
vita quotidiana dell’immigrazione
africana a Firenze, segnata anche da
episodi drammatici, come l’attacco ai
commercianti ambulanti senegalesi,
avvenuto nel dicembre 2011 ad opera
di un neofascista, morto suicida dopo
avere ucciso due giovani.
Il maestro Zogo ha ricevuto nel
2002 il Premio Europeo “Lorenzo
il
Magnifico”
dell’Accademia
Internazionale Medicea di Firenze e
nel 2004 il gonfalone d’argento del
Consiglio Regionale della Toscana
«per l’originale e stimolante sintesi,
presente in tutta la sua opera,
dell’incontro tra Occidente e Africa».
La sua attività artistica ha avuto
importanti riconoscimenti, tra cui una
mostra personale a Palazzo Strozzi
nel 1976 e l’inserimento nella mostra
Transafricana. Artisti contemporanei
a Bologna nel 2000, curata da Mary
Angela Schroth e presentata da Simon
Njami.
74
"GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP
Le sue opere erano colte, sofisticate,
bellissime. Senza mai cedere a
quell’esotismo che ancora oggi spesso si
chiede agli artisti del continente, Zogo
aveva sempre ostinatamente espresso
una sua singolarità, offrendo con le sue
tele e i suoi segni una coerenza fatta
non di pienezze e solide costruzioni,
ma di vuoti, di punti sospesi, di linee
che vagabondavano prima di trovare
un punto d’arrivo, sempre provvisorio.
Quando, più di 15 anni fa, noi di Africa
e Mediterraneo e Coop. Lai-momo
cominciammo il lavoro di promozione
dell’arte contemporanea africana,
assieme a Mary Angela Schroth di Sala
Uno, George Zogo fu il primo artista
africano residente in Italia con cui
entrammo in contatto. Nel gruppo
degli artisti dispersi un po’ in tutta
Italia che venne riunito in occasione
di quella prima importante mostra,
George era una delle presenze più
costruttive e aperte agli altri. Da allora,
ha sempre dato il suo contributo,
ogni volta interessato a nuove idee e
progetti.
George era anche una persona
umanamente ricca, allegra, impegnata
nell’attivare progetti di aiuto per il
suo Paese. Anche per questo, lascia
un vuoto incolmabile. Restano le sue
opere, a riempire i nostri occhi.
1993: Palazzo Pretorio,
Sesto Fiorentino
(Firenze)
1990: Palazzo Vecchio e Palazzo
Panciatichi-Capponi Covoni (Firenze)
1989: Palazzo dei congressi, Yaoundé
(Camerun)
Socar Douala, Camerun
1988: Festival di Douala, Camerun
1983: Centro cultuale francese,
Yaoundé, Camerun
1981: Palazzo Rucellai (Firenze)
1977: Ambasciata del Camerun a
Roma
1976: Palazzo Strozzi, Firenze
1975: Movimento artistico
internazionale, Firenze
1974: Galleria Saletta Conti, Firenze
1973: Sala Comunale delle Arti, Trieste
1972: International Kreis, Wuppertal
(Germania)
1971: Galleria Porta, Wuppertal
1970: Palazzo Strozzi, Firenze
Galleria Alfani 43, Firenze
Mostre collettive
(Selezione)
2000: Transafricana. Artisti
contemporanei, Chiesa di San Giorgio
in Poggiale, Collezioni d’arte della
Cassa di Risparmio in Bologna,
Bologna
1998: Nuovi linguaggi dell’arte
contemporanea africana”. Istituto per
l’Africa e l’Oriente
1996: Al di là del mare – artisti
contemporanei africani, Castello OrsiniSoriano al Cimino (Viterbo)
Africana, Galleria Sala 1, Roma
La città ideale, Fiumara d’Arte di
Antonio Presti, Pettineo (Sicilia)
1990: Italia 90, in collaborazione con
l’ambasciata del Camerun, Torino
1979: Sala di Esposizione/Fiera di
Milano
1978: Sala di Esposizione/Fiera di
Milano
1976: Aurea 1976, Palazzo Strozzi,
Firenze
1972: Galérie Cité Internationale des
Arts, Paris Grand Palais, Paris
2004: AFRICA, Laboratori d’arte George Zogo, Shikhani, Scultori dello
Zimbabwe Villa Caldogno (VI)
ARTE
E Ar D Fi
Prayer
testo e fotografie di Giacomo Rambaldi
Alla Fattoria di Celle,
dove è esposta la
collezione Gori di
arte ambientale,
durante la
manifestazione “Onda
del Mediterraneo”
abbiamo incontrato
l’artista Giacomo
Rambaldi. Il suo
progetto Prayer
ha preso forma in
molti Paesi tra cui
Indonesia, India,
Cina, Dubai, Turchia,
Etiopia, Camerun,
Sudafrica, USA,
Cuba, con più di 800
ritratti di persone
che hanno tenuto
la stessa candela in
mano e tutte l’hanno
riconosciuta come un
simbolo di preghiera.
H
o cominciato a
viaggiare
giovanissimo, grazie a
nonni e genitori
viaggiatori e non
ho mai smesso.
Viaggiando sentivo che stavo sviluppando una sensibilità e una curiosità
che mi portavano sempre più lontano, cercando nuovi Paesi e soprattutto
nuove culture.
Viaggiare è l’unica attività che mi aiuta
a tenere la mia mente ferma. Viaggiare
mi rende meno solo.
Ogni viaggio è dedicato all’incontro e
allo scambio. Incontro di persone, luoghi, paesaggi e scambio del mio sguardo restituito agli altri. Ogni viaggio è un
progetto di vita.
L’idea di realizzare nei miei viaggi il
progetto Prayer è nata nel 2008, dopo
la nascita di mia figlia ed è un progetto
che non si è ancora concluso, per adesso condotto in una ventina di Paesi.
Prayer è già una raccolta di 800 scatti
fotografici, ritratti di altrettante persone a cui ho chiesto di lasciarsi fotografare con una candela accesa. Figure ritratte in piedi o sedute, a volte in pieno sole
o nella notte. La provenienza di queste
persone non si legge nell’ambiente che
li circonda: lo spazio resta per lo più
neutro; ma le loro origini spesso si intuiscono dagli abiti o dalle decorazioni
dei corpi. Questa moltitudine di persone sono i miei compagni di viaggio, le
ho scelte perché mi hanno colpito, incuriosito, toccato. Ognuna di loro ha in
mano la candela accesa: tanti sguardi
che fissano l’obiettivo e portano con sé
una piccola fiamma. Chi è ritratto è consapevole di esserlo e la candela, a volte,
sembra un elemento naturale in mano
al personaggio; altre volte, resta un elemento più distaccato e lontano. Ad uno
ad uno i ritratti parlano in modo diverso, ma quando dispongo tutte le foto in
gruppo, tutti i volti diventano un’opera
corale in cui la candela assume il ruolo
di conduttore e l’insieme emana una
scarica di energia.
Non c’è vita senza luce, la candela però
non è necessariamente tratta da un particolare credo o ambito religioso. Non
sarebbe sufficiente un’unica fede per
giustificare l’amore per la luce, perché,
come ha spiegato bene il cardinale Ravasi in occasione della cerimonia d’apertura dell’Anno Internazionale della luce
promossa dall’Unesco nel 2015, «in tutte
le civiltà la luce passa da fenomeno fisico ad archetipo simbolico, dotato di uno
sterminato spettro di iridescenze metaforiche, soprattutto di qualità religiose».
Nella Bibbia, ad esempio, si legge che
Dio prima di ogni cosa creò la luce. La
luce come simbolo divino, la luce apre
e chiude la Bibbia dalla creazione alla
descrizione dell’Apocalisse «Non ci sarà
più notte, non avranno bisogno di lampada, né di luce di sole perché il Signore
Dio illuminerà e regneranno nei secoli
dei secoli» (Apocalisse 22,5).
Apro il mio vecchio manuale scolastico
e rileggo le qualità fisiche della luce: la
75
E Ar D FiARTESi S
luce è un’onda elettromagnetica, il risultato di perturbazioni costituite da campi elettrici e magnetici oscillanti che si
propagano anche nel vuoto. La candela
è il corpo luminoso, la sorgente di luce, i
cui raggi luminosi si diffondono in tutte
le direzioni fino a raggiungere l’occhio,
il mio occhio, che si è affidato alla macchina fotografica e ha fermato in immagine il movimento della luce.
Prayer abbraccia entrambe le definizioni: la luce mi ha aiutato a percepire i
miei incontri amplificando la mia funzione visiva, ma allo stesso tempo ad evocare il simbolo religioso per essere intesa
come speranza di vita. È il coro delle
persone che ho ritratto a testimoniarlo,
è nella forza di quei volti così diversi, in
cui si può rintracciare la traccia di quella
speranza. In ognuno di loro c’è una vita,
una cultura diversa ma anche la consapevolezza di appartenere alla unica razza umana. È questo che procura in tutti
noi un comune senso di filiazione.
Sono stato invitato a presentare, per la
prima volta, il progetto Prayer nell’ambito di una manifestazione dal titolo “Onda
mediterranea “ in cui si chiedeva di riflettere sul tema della paura dell’altro. Mi si
chiedeva di raccontare la mia esperienza
di viaggiatore. Il pensiero è andato naturalmente a chi arriva in fuga attraverso il
mare Mediterraneo e in modo particolare al sentimento di chi deve intraprendere quella odissea. Ho pensato allora alla
luce delle candele e ho sentito la necessi-
76
"GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP
In queste pagine: foto da Prayer. © Giacomo Rambaldi
tà di aggiungere altri elementi, come una
vera e propria installazione. Prayer è diventato una forma di pellegrinaggio, nel
senso di portare qualcosa da un luogo a
un altro. Prayer è diventata un’esperienza sul significato della partenza. Così ho
selezionato le fotografie, le ho allineate
lungo un il muro di un corridoio e alla
fine del percorso ho invitato le persone a
tracciare un segno blu su una tela bianca,
come a lasciare traccia di un loro viaggio
immaginario attraverso il mediterraneo.
Ognuno lasciava il suo segno, tutti diversi fra loro. E tutti assieme sembravano i dettagli di una grande onda. A quel
punto lo spettatore si trovava di fronte a
un migliaio di bottiglie allineate. Dentro
ognuna di esse si vedeva un foglio colorato. Ogni foglio colorato corrispondeva
ad una preghiera, ognuna appartenente
a fedi diverse, ma con la caratteristica
comune di essere propiziatoria per lo
straniero che si mette in viaggio. Ognuno
poteva scegliersi una preghiera da portarsi via con la sua bottiglia. La bottiglia
è simile a quella di un naufrago che ha
affidato alle onde la sua richiesta di salvezza, di fronte alle difficoltà del viaggio
e allo scontro con l’ignoto.
Prayer non è un reportage, è una storia:
quella di aver cercato un equilibrio tra il
viaggio e il sacro, diversità e unione.
ARTE
E Ar D Fi
“Triumphs and
Laments”: a Project for
the City of Rome by
William Kentridge
by Mary Angela Schroth
“Triumphs and
Laments” is a largescale, 500 meter-long
frieze, erased from
the biological patina
on the travertine
embankment walls
that line Rome’s
urban waterfront.
Exploring dominant
tensions in the
history of the Eternal
City from past to
present, represents
Rome’s greatest
victories and defeats
from mythological
time to present.
O
ne of the most
ambitious public
art projects ever
made,
Triumphs
and Laments by renowned South African artist William Kentridge is assuredly his greatest work to date. It consists
of a 550 meter long and 10 meter high
frieze using a deceptively simple technique of power washing silhouettes of
figures from the biological patina on
the embankment walls that line Rome’s
Tiber River between Ponte Sisto and
Ponte Mazzini. It depicts 80 figures
that recount the greatest victories of
the Eternal City as well as its defeats
and tracing its history from ancient
times to the present. The work was produced by TEVERETERNO, a non-profit
association founded by the American
artist Kristin Jones and dedicated to
the creation of an openair place for
non-permanent contemporary art and
music on this very visible and public
section of the Tiber River.
The story of this project is complex and
reflects a collaboration that is both international and local, public and private,
political and apolitical. This particular
work has been in development for well
over a decade, but envisioned some 30
years ago and preceded by Jones herself
with her own series of power-washed
she wolves in 2006. Even then, Kristin
Jones was forced to overcome a series of
bureaucratic obstacles that seem minor
when compared to her initial success in
making this area of Rome a public arena
for culture. Kentridge himself, after being invited by Kristin to develop an artwork for the site, was both enthusiastic
and fearful. The sheer size and complexity of his concept meant years of
work, not to mention the research and
choices of the figures to be represented.
There was also the performance aspect
to be considered, and Kentridge here
has had immense experience in musical theater and performance. This is a
project that has a price tag of more than
US$ 800.000, which fortunately was
solved through the collaboration with
the artist’s major galleries: Lia Rumma in Milan, Marion Goodman in New
York/Paris and Kentridge’s first gallery
in Johannesburg Linda Goodman (no
relation to Marion). Kentridge himself
invested infinite hours in his studio as
well as numerous visits to Rome with
Kristin. Other underwriters included
major art benefactors such as Agnes
Gund (collector and patron of MOMA
in New York), Brenda R. Potter and the
Isambard Kingdom Brunel Society of
North America as well as major sponsorship by Etihad/Alitalia and Illycaffé.
The production is under the tutelage of
THE OFFICE performing arts + film.
But the worst nightmare of the city (and
77
E Ar D FiARTESi S
Dall’alto verso il basso:
Remus, 2015, Indian ink and coloured pencil on
ledger pages, 93,5x315 cm
Capitoline Wolf II, 2016, Indian ink and torn black
paper on Hahnemuehle paper, 78x107 cm
Drawing for Triumphs & Laments (#17), 2014,
Charcoal on Ledger pages 63x83x4 cm
Una parte dell’esposizione delle opere.
those of us who live and work in Rome
are privy to such situations) made itself
evident: the actual permits to execute
Kendridge’s oeuvre were continually
negated by both local city authorities
and the feared Beni Culturali itself. At
one point, it was stated that the work
was too invasive and should be produced in one of the peripheral neighborhoods of the city, where it would
not “disturb” the historic patrimony of
Rome’s center. Kristin Jones, tenacious
and often disliked for her persistence,
never took “no” for an answer. She
took her campaign to anyone who could
help, including the then-mayor of Rome
Ignazio Marino and influential architect
Luca Zevi. As Prime Minister Renzi’s
78
"GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP
power grew and new directors were
named in the Beni Culturali, the same
bureaucrat who had previously refused
the permits was forced to approve them
and the project was finally confirmed in
2015. This meant that the city of Rome
came on board in a big way, not only
issuing all the necessary permissions
and donating crews and equipment
to assist with the production but also
adopting it as one of the major cultural events of the year. The Lazio Region
provided support for a media campaign
and the Beni Culturali has decided to
underwrite the catalogue that will document the project. At this point, a kind
of “Kentridge-mania” began to emerge,
that took the project to an unprecedented level of public recognition, something extremely rare for contemporary
art in Rome but of course not the first
time a major artist has produced such
a large work. In the days before the official opening, some 6 conferences with
the artist (all sold out, with hundreds
turned away) were organized in various
institutions such as MACRO, MAXXI,
ARTE
the Accademia di Belle Arti, the British
School in Rome. The preliminary drawings as well as the first cut-outs made by
Kentridge as preparation for the project
were shown as a separate exhibition
in MACRO, who together with Maxxi,
has supported the project for the past
years. Jones curated a section of Italy’s
Pavilion for the 2013 Biennale in Venice
with Kentridge’s preliminary drawings.
This meant an arc of collaboration with
Italy for the artist, who first showed his
work in the South African Pavilion in
the Biennale in 1993 and later in Rome
at Sala 1 (who produced the exhibit with
William Kentridge, Drawing for Triumphs &
Laments, 2014, Charcoal on Ledger pages,
63x83x4 cm
the South African government and the
Lazio Region).
And all this was before the inauguration
on Rome’s birthday, April 21, 2016.
The frieze is astonishing and although
executed only using water, it has a
strong visual impact although the entire
work is in shades of grey. The story of
Rome in all its aspects is seen: scenes
from Etruscan and Roman periods such
as the famous “lupa” or wolf that nurtured Romulus and Remus, the enslaving of the Jews in the Roman ghetto, a
portrait of Cicero; depictions of Pope
Gregory III being pushed out by Henry
VIII, Bernini’s St. Theresa; a panorama
of images from modern cinema including Anita Eckberg in the Trevi Fountain,
Pina played by Anna Magnani in “Roma
città aperta”, the Vespa from “Roman
Holiday”. But as in much of Kentridge’s
E Ar D Fi
work, we find an almost melancholic
darkness. His choices of the body of a
massacred Pier Paolo Pasolini, the dead
body of Aldo Moro, the veiled figures
of Middle Eastern women refugees in
Lampedusa – all underline the seriousness and political implications of our
current contemporary life. The artist
produced the monumental work in 9
phases: first the conceptual creation
of the work in general, then the first
drafts of the figures in his studio in Johannesburg, the transfer of the drafts
to drawings. This was followed by the
creation of black heavy paper cut-outs
in small and medium dimensions (seen
in the current exhibition in MACRO),
their finishing into stencils, the digitalization of the stencils on large plastic
format, their application on the wall on
site, and then power-washed to create
79
E Ar D FiARTESi S
William Kentridge, Triumphs and Laments.
© Tevereterno/Andrea Onofri
the final figures. The process took more
than three years. Kentridge has always
privileged the medium of drawing
throughout his career; communicative,
easy and inexpensive to produce, and
often linked to the current phenomena
of Street Art. In short, Kentridge has
used the story of Rome to reflect today’s modern world but in a way that
is sustainable (the work will disappear
gradually over the next four years), intelligent, adapted to the site, and most
importantly representing a total availability to the public as well as an astonishing stage set for performances.
Kentridge is also a maker of theater and
opera and he has conceived, together
with composer Philip Miller, the premier of a once-in-a-lifetime theatrical
event on the site, bringing together
performers and music from both Italian folk tradition and from the city’s
large and multifaceted immigrant population. It is seen as a meeting place between different civilizations, a theme
that is recurrent in the history of Rome.
On April 21 and April 22, at sunset and
throughout the night, two processional
bands, representing diverse range of
instruments and traditions, combined
the various sounds and character of
each geographic region: from the soft
tones of the African kora to the live-
80
"GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP
ly Balkan rhythms of the cimbalom,
from the traditional songs of Salento
and Lazio to the Neapolitan tarantella,
with an original Triumphs and Laments
score composed by Miller and accompanied by choir and band instruments
such as the trumpet, trombone, tuba,
accordion, drums and organ. Live
shadow play, with cut-outs and costumes produced by the students of
Rome’s Accademia di Belle Arti, were
performed against the backdrop of the
frieze and provided a riot of color and
light. TEVERETERNO also presented
the first edition of its Young Composers
Commission, Liquid Volumi. This was
produced in collaboration with Italy’s
leading conservatories, G. Rossini of
Pesaro and Santa Cecilia in Rome. The
YCC is presenting original electronic
compositions created by emerging Italian composers – all inspired by the site
on the Tiber, and following in the initial
efforts of founder Kristin Jones. Tens of
thousands of the Roman public attended the two-day premier in April, causing not a few problems for the traffic
along the Lungotevere, but displaying
an extraordinary spectacle of sound,
art, and theater offered freely to the
many visitors (including a special appearance by the artist’s father Sir Sydney Kentridge, 92 years old, renowned
for his continued fight against apartheid and defense of Nelson Mandela
and Steve Biko). In short, a phenomenal success as well as an example of a
major international and cultural event
for the 2016 Jubilee year, one with deep
significance especially for its link with
South Africa, the Global South, and the
sense of trans-historical meaning.
A project such as this, beyond its cultural impact, is also about a revitalization of a grand-scale and central
section of the city’s currently underdeveloped urban waterfront. Some two
million people will be attracted to this
location in 2016 alone, thus bringing
both an economic and touristic boon to
this area. TEVERETERNO has achieved
the Herculean task of securing a longterm 19-year permit to produce public
programming on the “Piazza Tevere”.
The idea is to create a unique venue
for contemporary art programming
that can be experienced in the context
of classical Rome – the cornerstone of
a comprehensive “placemaking” project that re-imagines the river as an expansive public park running the entire
length of the City of Rome.
But, as Kentridge’s title states, Rome
is not only about Triumphs. Just this
week, another Lament was inserted
into the project. Each summer, the Tiber is invaded by a populous and commercial endeavor called Tevere Estate
and made up of some 50 associations
who have had their own permits for
previous editions: the unbelievable
construction of a veritable carnival of
tents, platform stages and restaurants,
already a contested summer event, are
being built in front of the Kentridge
freize. But the Triumphs and Laments
has achieved such fame and prestige
that the city managers are working on
a solution to liberate that section of the
Tiber. Although it probably won’t have
any practical effect, a media campaign
has been launched by various artists
and politicians as well as TEVERETERNO itself, in an attempt to convince
the city to alter the permits so that the
frieze again becomes visible to all.
As art critic Achille Bonito Oliva stated
in a recent TV interview in defense of
Triumphs and Laments: “Kentridge has
conceived a very original and special
work, made of ephemeral materials and
destined to disappear. Like life itself.”
For info: www.tevereterno.it
Link to the opening performances:
https://www.youtube.com/watch?v=n6Li1uMWsHA
EVENTI
Dak’art 2016:
nel blu dipinto di blu
I
l verso di una poesia di Senghor, La cité dans le jour bleu,
utopia di una città e di un continente libero è stato l’orizzonte che ha ispirato Simon Njami nella
direzione della 12a Biennale di Arte
contemporanea di Dakar, svoltasi dal 3
maggio al 2 giugno 2016.
Scrittore e curatore indipendente, alter ego francofono del nigeriano Okwui
Enwezor, Njami è stato chiamato all’ultimo per salvare una Biennale che, pur
longeva ed importante, è sempre sull’orlo della crisi economica e d’identità.
Coadiuvato da un comitato di 5 curatori,
Njami ha selezionato 66 artisti provenienti da 19 nazioni africane (Senegal, Burkina Faso, Camerun, Marocco, Kenya,
Mozambico, Ghana, Egitto, Sudafrica,
Nigeria, Congo, Etiopia, Tunisia, Costa
d’Avorio, Malawi, Sudan, Madagascar,
Algeria, Burundi) e cinque della Diaspora (Stati Uniti, Francia, Italia, Bahamas,
Portogallo). La scelta di formare un comitato di selezione internazionale con
curatori indipendenti provenienti da
India, Corea, Brasile, Camerun, Italia e
Canarie, dettata principalmente dall’intenzione di alzare la qualità degli artisti
selezionati e dall’ambizione di rafforzare
il carattere internazionale della Biennale, è stata occasione di scoperta di spazi
artistici non esplorati dall’Europa e ha
simboleggiato la rottura di un asse Nord/
Sud vissuto spesso come limitante. La
maggior parte delle opere è stata selezionata dai 327 dossier di candidatura ricevuti, mentre una ristretta rosa di artisti,
tra i quali Ouattara Watts, Bili Bidjocka,
Theo Eshetu, Kader Attia, è stata invitata
direttamente da Njami che ha rivendicato il carattere non democratico di un
curatore d’arte. Una Biennale ambiziosa
e non priva di fascino, che si è articolata
in tre nuclei tematici. Réenchantement,
scelto come titolo dell’esposizione internazionale e principio ispiratore della
manifestazione, è stato l’invito rivolto
In alto: Chanel Diagne, L’Allée de la Reine. In basso: Bili Bidjocka. © Simona Cella
agli artisti ad inventare nuove strade per
re-incantare il mondo e il continente e
per celebrare il sogno di un’Africa libera
e responsabile, recuperando lo spirito
di utopia delle Indipendenze. All’interno di Contours hanno trovato spazio le
esposizioni proposte dai curatori e dai
due Paesi ospiti: il Qatar, invitato a detta da Njami direttamente dal presidente
Macky Sall per ragioni di opportunità
economica e la Nigeria scelto invece, con
una vena di polemica, in quanto Paese
con grandi potenzialità economiche (è
uno dei finanziatori della Tate Gallery)
ma ancora poco attivo nella promozione
dell’arte contemporanea africana. Infine Bandung, riferimento alla città indonesiana che nel ’55 ospitò la storica
conferenza afroasiatica dei Paesi non
allineati, ha offerto un programma di
81
EVENTI
seminari e dibattiti, per riflettere su un
mondo dell’arte non appiattito sul sistema museale di stampo europeo. Intorno
a questi tre capitoli, una costellazione di
eventi tra i quali segnaliamo Hommages,
dedicata ad artisti scomparsi, una Carte
Blanche offerta a Doual’art e Urbi, curata dallo stesso Njami insieme a Delphine
Calmettes con l’obiettivo di costruire una
rete attraverso la città e trasformare artisticamente luoghi popolari come La Corniche, il Mercato, Place d’Independence.
Urbi è stato inoltre un ponte con la piattaforma Off che, giunta alla settima edizione e sostenuta da Eiffage, ha proposto
250 eventi di arte contemporanea popolare. Il Modello Off, promosso in tutta
la città con una guida gratuita fornita di
utili piantine, ha creato negli ultimi anni,
grazie alla guida di Mauro Petroni, ceramista e gallerista, un modello partecipativo vincente che ha dato vita ad altre iniziative indipendenti quali Partcours, rete
di gallerie d’arte che ogni anno propone
una settimana di mostre e vernissage.
Una Biennale popolare e internazionale
quindi che ha trasformato Dakar in
una città utopica reinventando alcune
architetture piene di fascino ma in stato
di abbandono.
In primis l’Ancien palais de Justice, esempio di monumentale architettura fine
anni ’50, inaugurato nel dicembre del
1958 e abbandonato nella seconda metà
del Duemila per questioni di sicurezza.
Una delle tante necropoli d’Africa, come
lo definisce Jean Pierre Bat in un bel fotoreportage su Libération che racconta
l’abbandono attraverso suggestive immagini delle aule di giustizia e della grande
corte centrale sommerse da montagne
di documenti, pezzi di arredamento e
vetusti computer. (http://libeafrica4.
blogs.liberation.fr/2015/12/20/les-grandes-necropoles-contemporaines-le-palais-de-justice-de-dakar/). Identificato
ormai solo come capolinea dei bus Dem
82
"GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP
A sinistra: Kader Attia, Les rhizomes infinis de la Révolution.
A destra: Youssef Limoud, Maqam. © Simona Cella
Dik, il Palais è stato scelto con geniale
intuizione come sede dell’esposizione
internazionale che ha ospitato installazioni, fotografie, video e opere di pittura.
Due installazioni, tra loro complementari, hanno colto in pieno il significato
della location, ricreando con un effetto
quasi cinematografico l’atmosfera di
un Palazzo che nel passato è stato un
luogo di messa in scena del Potere e
della Giustizia.
Maurice Monteiro (fabricemonteiro.
viewbook.com/p-residant),
fotografo
Belga-Beninese residente a Dakar, per
la sua installazione P(resident), Ceci
n’est pas une Phenix, Père de la Nation ha
utilizzato le pareti scrostate di un’aula
di giustizia come scenografia per una
beffarda rappresentazione del potere
autocelebrativo dei cosiddetti Padri
della Nazione. Fulcro dell’installazione
una sarcastica rievocazione del trono di
Bokassa, autoproclamatosi, nel Dicembre 1977, Imperatore del Centrafrica.
Del potere dell’Imperatore rimane qui
un trono vuoto, fedele replica della seduta che con un tripudio di oro e rosso rappresentava una fenice. Un trono
metaforicamente vuoto, ma animato
dagli altisonanti e ridicoli discorsi di dittatori del Continente, memoria storica
che non può essere cancellata dal gioco
dell’arte. Sullo stesso trono, in una serie
di grandi ritratti fotografici appesi alle
pareti che riecheggiano vagamente il lavoro in serie di Samuele Fosso, siedono
Le Président Fondateur, Le Guide Suprême, Le Père de la Nation, Le Grand
Timonier, ironiche variazioni sul tema.
Contraltare di questo potere gravido
di rosso sangue e oro, le scritte a spray
rosso e blu che rievocano le recenti rivoluzioni, da Y’en a marre in Senegal, alla
rivoluzione in Burkina Faso, proteste
spontanee e popolari che hanno spazzato via il vecchio potere prendendo in prestito idee ed energie da movimenti urbani e globalizzati come il rap e l’hip hop.
La Rivoluzione burkinabé è celebrata
anche in un’aula attigua dal camerunese Bili Bidjocka che ha ricostruito,
come in un set cinematografico, una
scena da una rivoluzione che ricorda
le immagini dell’assalto all’Assemblea
Nazionale riprese nel documentario
Une Revolution Africaine. Les dix jours
qui ont fait chuter Blaise Compaoré di
Gidéon Vink e Boubacar Sangaré.
Il pavimento coperto di terra e calcinacci ricorda la distruzione necessaria ad
una rivoluzione, mentre le frasi incastonate nei mosaici delle pareti reinterpretano la pratica della scrittura automatica surrealista che rivendicava un’arte
EVENTI
rivoluzionaria e irriverente. Così, intorno allo slogan revolution in ordine sparso, un ironico mix di concetti e parole
in libertà: cecinestpasmoncorpsvousnepouvezpaslesconsommer, accumulationdescorpsfetiches, #makeuspoorthenshootus, kapitalisme, tiersmond…
Un dittico, quello offerto da Monteiro e
Bidjocka, che riflette sul Potere e la Rivoluzione, completando il racconto delle
rivoluzioni africane contemporanee filmato recentemente da alcuni cineasti e
video artisti (il già citato Une revolution
africaine. Les dix jours qui ont fait chuter
Blaise Compaoré, The revolution won’t be
televised di Rama Thiaw, Opening Stellenbosch from assimilation to occupation
di Aryan Kaganof, Black president di
Mpumelelo Mcata).
Fantasmi delle rivoluzioni arabe aleggiano tra le pareti del palazzo nelle opere
di artisti di Maghreb ed Egitto. L’installazione Les rhizomes infinies de la révolution dell’algerino Kader Attia, introdotta
da una rassegna stampa internet su Intifada e Siria, ha ricreato una foresta di
alberi di ferro, quasi tumuli funerari a
ricordo di come le rivoluzioni nascano
spesso da un lancio di pietre.
Ma è Speak2Tweet, video di Heba Y.
Amin, che colpisce al cuore per rigore
stilistico e densità di contenuto. Un film
sperimentale che utilizza come colonna sonora i messaggi telefonici inviati
agli inizi del 2011 ad una piattaforma
sperimentale che, postando su Twitter,
aggirava il blocco Internet imposto dal
regime di Mubarak. Un archivio sonoro della Rivoluzione e dell’inconscio
collettivo che la regista giustappone ad
un’ipnotica esplorazione visiva di alcuni
edifici abbandonati dopo la caduta del
regime. Un lavoro che la videoartista e
ricercatrice egiziana, che investiga le
convergenze tra politica, tecnologia,
media, urbanismo, intende utilizzare
come strumento didattico e di riflessione sulle implicazioni politiche dell’uso
dei social network e sui destini degli attivisti nella post rivoluzione.
Altre rovine dalla Siria distrutta dalla
guerra hanno dato origine tre anni fa al
lavoro in progress Maqam dell’egiziano
Youssef Limoud, premiato con il Grand
Prix Léopold Sédar Senghor, che qui ha
preso la forma di una città polverosa,
miniatura di una Dakar immaginaria.
Allestita in tre giorni, utilizzando gli oggetti trovati nel palazzo, Maqam racconta
una Dakar in continua costruzione, che
dietro il cemento e la sabbia nasconde
una fragile armonia. L’aspetto narrativo
dell’opera, spiega l’artista, è enfatizzato
dal titolo Maqam, che in arabo ha più
significati: una casa, un posto dove ci si
sente bene ma che contiene nostalgia, un
altare, luogo sacro di sepoltura dove le
persone si recano in pellegrinaggio per
ricevere una benedizione, e infine un ritmo della musica araba.
Maqam è stato sopratutto un amorevole omaggio alla Cité dans le jour bleu,
perché camminare nel palazzo, dice Limoud cogliendo pienamente nel segno,
è come camminare attraverso Dakar.
Tra gli artisti senegalesi esposti l’opera
più interessante è Encyclopédie di Ndoye
Douts, 600 quadretti di 10 cm² che raccontano il mondo attraverso articoli di
giornale incollati su un fondo blu, colore scelto dall’artista alchimista per dare
speranza ad un mondo intriso di paura.
Al limite dell’impraticabile a causa dei
persistenti problemi tecnici, la sezione video si è invece rivelata deludente.
Tranne il già citato Speak2Tweet e Meditation Light, un lavoro del 2006 di Theo
Esethu, segnaliamo Lazi Nigel di Simon
Gush, artista di Johannesburg, che offre
una raffinata esplorazione del tema del
lavoro e del tempo libero.
Lo strumento video è stato al contrario bene utilizzato nel progetto “Dakar
Carrefour des cultures. Ces signes aux
murs”, dei gruppi Eunic Sénégal e Kër
Thiossane, che ha offerto la possibilità,
grazie a una residenza artistica, a 10 artisti senegalesi di studiare le tecniche del
videomapping e sperimentarle live in tre
luoghi di Dakar: L’Hotel de Ville, RondPoint Médina, la Gare, costruzione in stile
coloniale in disuso da anni ma sapientemente animata dal collettivo Afrosiders
con spazio bar e concerti. Mal utilizzato
invece “il nuovo che avanza”, incarnato
dal Centre international de conférences Abdou-Diouf, situato nella futuribile
Smart City di Diamniadio, che dovrebbe
sorgere prossimamente per decongestionare Dakar. Un’architettura iper moderna, catapultata nel vuoto e raggiungibile
con rare navette in stile afro vintage, ha
accolto in ordine sparso fotografie, sculture e oggetti di design selezionati da Salimata Diop. Un allestimento senza cura
che non ha saputo integrare la sezione
design con quella fotografica. Abbandonate a loro stesse le raffinate ceramiche
di King Houndekpinkou che fonde la
tradizione giapponese del Raku con le
sue origine beninesi e le grandi sedie di
Ousmane Mbaye, linee leggere, bianche,
essenziali che partono da una riflessione
sull’essere umano. Allestite malamente
anche le divertenti gigantografie di Captain Rugged, supereroe africano e alter
ego del musicista nigeriano Keziah Jones
presente alla Biennale con due concerti.
Riguardo a storici spazi espositivi della
Biennale, sorvoliamo sull’imbarazzante
collettiva senegalese alla Galerie National e la deludente Maison Sentimentale
presso la galleria Le Manège, poco interessante omaggio alla Revue Noire composta dall’artista malgascio Joël Andrianomeariso. Più pubblicità che arte, ha
dato spazio più alla auto celebrazione
della rivista e alla velleità poetica di JeanLuc Pivine che all’artista stesso.
Sempre a Le Manège, con un allestimento purtroppo sacrificato, è stato esposto
Les maggic, interessante lavoro fotografico di Adji Dieye che indaga con ironia
e occhio critico l’impatto del Maggi, popolare dado da cucina, all’interno della
società senegalese. Rielaborando la tradizione del ritratto resa celebre da Seydou Keïta, Mama Casset e Oumar Ly, ma
lasciando libertà di movimento alle donne fotografate, modelle disilluse e un po’
snob, Dieye ha ben colto l’invasività del
messaggio pubblicitario, creando fotografie sature dell’inquietante logo rosso
e giallo, onnipresente ormai nella cucina
di tutte le famiglie senegalesi.
Non ha deluso invece il dovuto omaggio
a Soly Cissé presso l’Atelier di Mauro Petroni e l’allestimento dell’Espace Médina,
che ha presentato la propria facciata ricoperta di abiti e accessori provenienti
da Europa, Asia e Stati Uniti e che in
Senegal vengono riempiti con nuove storie. Segnaliamo infine le belle sculture
lignee di Diagne Chanel che con L’Allée
de la Reine ha impregnato l’Hotel de Ville
di un’atmosfera alla Maigritte e la scelta
della Galleria Mame di Doula di esporre le proprie opere in due cantieri, con
operai al lavoro che sembravano comparse di un’installazione.
Scommessa vinta quindi da Dakar, che
per un mese si è trasformata in città
utopica in grado di fare incantesimi artistici e vitali.
Simona Cella
83
EVENTI
When Things Fall Apart.
Critical Voices on the Radars
Trapholt Museum 11 février au 23 octobre 2016
À gauche: Dinh Q. Lê, Erasure, 2011, video installation. Dimensions variable (minimum 5 m x 12 m). Commissioned by Sherman Contemporary Art Foundation,
Sydney. Supported by Nicholas and Angela Curtis. © Photo: Nagare Satoshi. Courtesy: the artist.
À droite: Milumbe Haimbe, Ananiya the Revolutionist, 2013, digital drawings, 29.7 cm x 42 cm Courtesy: the artist.
D
eux ans après l’exposition The Divine Comedy
au Museum für Moderne
Kunst de Francfort, pour
laquelle les auteurs africains se sont
inspirés d’un poème fondamental pour
la culture européenne, une autre exposition collective s’inspire d’un chef
d’œuvre littéraire, également d’envergure culturelle universelle, mais, cette
fois, africain: Le monde s’effondre, du
Nigérian Chinua Achebe. Ce roman,
considéré comme un classique de la
littérature du continent et traduit en
plus de 50 langues, a été proposé par
la commissaire d’exposition sénégalaise
Ngoné Fall et le dynamique collectif
d’art GawLab de Dakar en tant qu’inspiration pour l’exposition When things
fall apart. Critical voices on the radars,
qui se tient du 11 février au 23 octobre
84
"GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP
au Trapholt Museum au Danemark,
dans le cadre d’un festival consacré au
thème « L’artiste dans la société », et
qui réunit des artistes d’Afrique, Asie
Sud-orientale, Moyen Orient et Amérique Centrale.
L’épique de l’exploration, explique la
curatrice dans le catalogue, n’a pas pu
cacher les dommages économiques, sociaux et humains que la conquête violente de l’Europe a apporté en Afrique.
Une rencontre de civilisations qui n’a
cessé d’avoir des conséquences, même
actuellement que les sociétés contemporaines, qui sont nées d’une culture
« bâtarde » et globalisée, refusent de
reconnaître leurs origines métisses.
Le roman d’Achebe fait le portrait de
deux personnages paradigmatiques : le
« Western predator » et les « Non-Western victims ». Confrontés avec le
monde qui change, ils résistent obstinément à l’effondrement de leurs certitudes séculaires.
Une installation spectaculaire du Camerounais Pascale Marthine Tayou,
portant le même titre que le roman,
exprime l’inspiration centrale de cette
exposition, dans laquelle plusieurs artistes exposent leurs représentations
parfois provocantes au sujet de la crise
du monde contemporain, du manque
d’attention envers tous les signes de dégradation économique, environnementale, sociale et politique.
Nous avons posé quelques questions à
Ngoné Fall, l’une des premières femmes
à étudier et promouvoir l’art contemporain africain, d’abord, pendant les
années 90, dans l’équipe de la Revue
noire, puis avec Africalia et à l’occasion
de plusieurs Biennales de Dakar.
EVENTI
Pascale Marthine Tayou, Things fall apart, 2014, installation, 150 African masks, 20 school books, 12
plastic balls and chain, 100 wood piles, 41 drift wood pieces , 800 African brushes, 10 m x 6 m x 2.6 m
Courtesy: the artist
Sandra Federici – Actuellement,
l’inspiration des grands classiques
littéraires s’avère être une exigence assez puissante dans le
concept d’expositions. D’où vient
l’idée de prendre inspiration du
roman Things fall apart de Chinua
Achebe?
N’Goné Fall – Je pense que le monde s’effondre, comme dans le roman, avec la
montée des populismes, du protectionnisme et le rejet de la différence (comme
je l’explique dans le catalogue). En parlant avec Pascale Marthine Tayou en
2015, nous avons eu les mêmes conclusions et il m’a annoncé avoir fait une
grande installation inspirée du roman
et avec le même titre “Things fall apart”.
Alors cela m’a conforté dans mon idée et
j’ai décidé d’ouvrir l’exposition avec son
œuvre. L’exposition est une métaphore
du roman, qui raconte l’impossibilité
de la rencontre. Et quand je regarde la
situation géopolitique actuelle, avec
le Brexit, la campagne des présidentielles aux USA, la crise des migrants
en Europe, je pense que mon projet arrive au bon moment, comme un signal
d’alarme. J’ai eu beaucoup de retours de
journalistes politiques et d’enseignants.
S.F. – Le concept de l’exposition part
de la triste constatation que le monde
comme communauté d’hommes qui
respectent les droits de l’Homme est
une illusion, que l’intolérance et l’extrémisme augmentent, que l’empathie et la solidarité internationale
sont mises en question par les discours et les politiques des leaders et,
par conséquent, par les mouvements
populaires. Quelles réponses avezvous eu des artistes?
NG.F. – Tous les artistes étaient très enthousiastes et ont accepté de participer.
Ils adhèrent tous à cet état inquiétant
du monde. Et chacune de leurs œuvres
montre une facette de cet effondrement. Ensemble, les voix des artistes
sont comme une polyphonie: parfois
pessimiste, parfois humoristique et parfois optimiste.
S.F. – Quelle est la contribution du
professeur Stefano Harney à l’exposition? Dans les textes du catalogue,
sa réflexion propose de prendre
comme modèle la résistance que des
victimes de l’histoire, à l’instar des
femmes et des esclaves arrivaient à
mettre en place, au quotidien et grâce
à leur capacités pratiques, à l’intérieur des mondes d’oppression dans
lesquels ils étaient “emprisonnés”.
Comment ce concept a-t-il inspiré les
artistes ?
NG.F. – J’ai invité Stefano pour avoir un
point de vue purement intellectuel. Et
aussi le point de vue d’un occidental pour montrer que les questions
dans l’exposition ne concernent pas
uniquement les pays en développement. Cela concerne l’humanité toute
entière. J’ai passé commande à Stefano en lui envoyant le découpage de
l’exposition avec les 3 textes des entrées ( Justice Équitable, Changement
Social, Empathie) et les dossiers des
œuvres/artistes que j’avais sélectionnés. Stefano est arrivé à la fin, volontairement comme un contre point
intellectuel et philosophique des
créations artistiques. Les artistes ont
découvert les textes de Stefano dans
la publication, pas avant. Toutes les
œuvres existaient avant l’exposition,
il n’y a pas eu de production spéciale.
Il a fallu faire beaucoup de recherches
et de discussion avec les artistes pour
faire la sélection des œuvres.
S.F. – Pourquoi inclure la bande dessinée dans cette exposition? Quel est
le background de Milumbe Haimbe?
Elle ne semble pas appartenir au
champ de la BD, mais plutôt avoir
emprunté ce media pour produire
une œuvre pour un projet d’art et
briser des barrières formelles.
NG.F. – Milumbe est artiste avec une
formation en architecture. Cette BD
est la première qu’elle produit et c’est
la première partie de la saga de Anania la révolutionnaire. Milumbe utilise
la BD, un medium populaire, pour atteindre un public plus vaste. Je trouve
intéressant d’introduire un medium
“populaire” dans l’espace “sacré” d’un
musée. Il faut casser les barrière, au-delà des clichés et des tabous.
Artistes :
Nidaa Badwan (Palestine), Rehema Chachage (Tanzania), Tiffany Chung (Vietnam), Arahmaiani Feisal (Indonesia), Regina José Galindo (Guatemala), Milumbe
Haimbe (Zambia), Wambui Kamiru
(Kenya), Dinh Q. Lê (Vietnam), Babirye
Leilah (Uganda), Zen Marie (Afrique du
Sud), Thái Tuấn Nguyễn (Vietnam), Pascale Marthine Tayou (Cameroun)
Sandra Federici
85
EVENTI
Quand le Nigéria s’invite à Venise :
une architecture visionnaire audelà de tous les formalismes
L
a 15e édition de l’Exposition
Internationale
d’Architecture de la Biennale de Venise
s’inscrit cette année dans une
large perspective, annonçant son ambition de poser un regard caléidoscopique
sur le premier art. Prendre de la hauteur
“Teatro dell’Archivio”, Nigerian Pavilion, Ola-Dele
Kuku. © Barbara Rossi
86
"GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP
pour mieux observer et embrasser une
réalité plus riche, c’est le sens que le directeur artistique Alejandro Aravena a
voulu donner à cette édition, intitulée
«Reporting from the front». Il raconte
l’histoire inspirante de l’archéologue allemande Maria Reiche, qui parcourait le
désert avec son escabeau pour pouvoir
discerner les lignes Nazca dessinées par
les pierres: ce qui semblait un simple
regroupement de cailloux se révèle, du
dernier barreau de l’échelle, un oiseau,
un jaguar, un arbre ou une fleur. En parcourant les pavillons de la Biennale, on
prend ainsi de la distance avec l’architecture en s’offrant des détours du côté
de toutes les autres formes d’art, mais
aussi en allant au-delà des formes physiques des constructions en explorant
leurs implications sociales, environnementales et humaines.
C’est à l’occasion de cette 15e édition
que le Nigéria installe pour la première
fois un Pavillon national à la Biennale,
EVENTI
Nigerian Pavilion – 15th International Architecture
Exhibition La Biennale di Venezia 2016 – Ola-Dele Kuku
(architect – artist). © Filippo Peretti
avec l’exposition Diminished Capacity
de l’artiste et architecte Ola-Dele Kuku,
organisée en collaboration avec Camilla
Boemio de l’AAC Platform. L’installation
investit le bâtiment industriel de Punch
Space, sur l’île de la Giudecca, et va
jusqu’à effacer complètement les frontières poreuses entre les disciplines,
modelant l’espace à travers la sculpture
et les arts visuels.
Au cœur de l’œuvre de Kuku se trouve
toujours le conflit, un thème récurrent
dans son travail qui représente pour lui
l’une des énergies créatrices plus puissantes du monde: «le conflit a joué un
rôle crucial depuis la nuit des temps,
depuis les histoires du Big Bang jusqu’à
celle du paradis d’Adam et Eve»,1 déclaret-il. Le conflit qui anime «Diminished Capacity» porte sur la représentation historique de l’Afrique. Le pavillon se propose
en effet l’ambition de «réécrire l’histoire»
du continent afin de le libérer des images
stéréotypées dans lesquelles on l’enferme encore trop souvent, annonçant la
couleur dès le début en rappelant haut et
fort en lettres lumineuses de néon: «Africa is not a country!». Devant l’inconnu et
l’incompréhension, Ola-Dele Kuku ouvre
un espace de dialogue universel ouvert
à tous en transcrivant la Déclaration
Universelle des droits de l’Homme en
Braille, code tactile universel qui résout
les barrières linguistiques et propose
une forme tangible qui permet de dépasser les limites visuelles. La «capacité
diminuée» de l’aveugle est ici dépassée
par un contact sensoriel avec la réalité
qui nous entoure, et par le partage de ce
qu’il y a d’essentiel dans notre humanité
commune. De même, l’exposition pointe
du doigt la «capacité diminuée» de pays
africains faisant face à des problématiques complexes comme l’épuisement
des ressources et leur gestion, la migration, les changements globaux à petite
et grande échelle, ouvrant cependant
une fenêtre sur les multiples possibilités
d’amplification de cette capacité en fonction du regard qu’on lui porte.
L’artiste invite ainsi son public à aller
au-delà de ses représentations et à expérimenter l’espace de manière sensorielle,
à en découvrir les multiples applications
afin de permettre l’évolution de la représentation en transformant l’espace
même. C’est ce qui se produit lorsque
l’on appréhende le «Teatro dell’Archivio», une véritable bibliothèque circulaire extraite de la série «Opera Domestica» à laquelle l’artiste nigérian a
travaillé pendant plus de dix ans. Comme
les autres éléments de la série, le «Teatro dell’Archivio» constitue un objet qui
condense en soi toutes les propriétés de
la pièce d’une maison, en l’occurrence la
bibliothèque avec ses étagères, un siège
où l’on peut s’assoir pour lire les divers
livres éparpillés autour. Le visiteur peut
en faire le tour, saisir du regard cet espace au lieu d’entrer à l’intérieur.
C’est donc en mettant l’espace sens
dessus-dessous que le Nigéria est entré
à la Biennale de Venise. L’installation
d’Ola-Dele Kuku instaure un langage
tangible et sensible qui réinvente l’espace commun et renverse normes d’un
formalisme figé, dans une volonté de
délivrer le continent africain de représentations historiques rigides et erronées. Un début éclatant qui promet des
développements passionnants.
Flore Thoreau La Salle
NOTE
1 - Déclaration reportée dans le Communiqué de
Presse de l’exposition. Nous traduisons.
87
EVENTI
Designing Futures.
Il 26° Festival del
Cinema Africano,
d’Asia e America
Latina di Milano
American Beauty_ReMixing Hollywood by Omar Victoro Diop from LagosPhoto Festival 2015 (particolare).
D
esigning Futures è stato il
tema generante del 26° Festival del Cinema Africano,
d’Asia e America Latina di
Milano (www.festivaldelcinemaafricano.
org) che dal 4 al 10 aprile 2016 ha presentato, oltre alla selezione cinematografica,
la mostra Designing Africa 3.0, un’ampia
selezione di fotografie dalla VI edizione
del Lagos Photo Festival (http://www.
lagosphotofestival.com). Questo Festival nigeriano, fondato e diretto da Azu
88
"GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP
Nwagbogu e organizzato dalla African
Artists’ Foundation, dal 2010 si propone,
creando sinergie tra artisti locali ed internazionali, come piattaforma africana per
la promozione e l’educazione alle arti
visuali. La mostra, curata da Azu Nwagbogu e Martina Olivetti, ha offerto un
percorso articolato e pensato per riconsiderare il significato del design, inteso
non più solo come oggetto ma soprattutto come atto per ridisegnare il mondo
attraverso i linguaggi artistici della contemporaneità. Il cinema è stato grande
protagonista nell’opera esposta con la
serie [re-]Mixing Hollywood di Omar Victor Diop e Antoine Tempé (http://www.
remixing-hollywood.com/) e il progetto
The Plantation Boy (http://theplantationboy.blogspot.it).
[re-]Mixing Hollywood ha presentato la
rivisitazione fotografica di scene cult di
film americani ed europei che hanno fatto la storia del cinema: da Colazione da
Tiffany, passando per American Beauty,
Flashdance, Shining, Blow Up, Thelma e
Louise, per citare le foto presenti a Milano. Scene che appartengono all’immaginario collettivo universale, ricostruite
negli spazi degli OMONO Hotel di Dakar
e Abidjan e reinterpretate da protagonisti della scena culturale delle due città.
La metropoli e l’hotel, spazi naturalmente cinematografici e luoghi privilegiati
dell’incontro e della reinvenzione della
memoria e della contemporaneità, accolgono un ironico, anche se leggermente
didascalico, esercizio di traduzione culturale che ribalta, in un gioco di specchi
lo sguardo sul cinema e sull’Africa.
Un meccanismo simile sottende al lavoro
The Plantation Boy di Uche Okpa-Iroha,
artista visuale nigeriano che, attraverso 40 fotografie in un raffinato bianco e
nero, si reinventa ironico protagonista del
film Il Padrino-Parte 1. Un tributo, ma anche uno studio sull’influenza del cinema
sull’individuo e la società e sul concetto di
“estraneo”, “altro”, “straniero”. Inserendo un ritratto di se stesso all’interno delle
foto di scena del film, l’artista crea una
distrazione/distorsione, spostando l’attenzione sull’artista, lo “straniero/l’altro”
appunto. Un processo che modifica, almeno illusoriamente, l’azione e i dialoghi
del film e quindi il flusso cinematografico.
Interessante riflessione sul concetto di
design, inteso come oggetto che modifica il mondo e la memoria delle persone
è Unomgcana di Nobukho Nqaba, una
serie di fotografie ispirate alle borse di
plastica made in China, diventate simboli globali di migrazioni. Borse che nelle
foto della giovane artista sudafricana si
declinano in case, spazi di sopravvivenza e diventano riflessione sul proprio
passato personale. Un rapporto di amore e odio con un oggetto con la quale la
stessa fotografa è cresciuta. Oltre a questi
progetti, la mostra, corredata da catalogo, ha proposto riflessioni che spaziano
dalla moda alla guerra dall’Apartheid al
razzismo attraverso il lavoro di fotografi
attivi in tutto il continente (dal Sudafrica:
Andile Buka, Chris Saunders; dalla Nigeria: Ima Mfon, Kadara Enyeasi, William
Ukoh; dalla Francia: François Beaurain;
dall’Egitto: Owise Abuzaid; dalla Repubblica Democratica del Congo: Patrick Selemani; dal Marocco: Mehdi Sefrioui).
Riguardo alla selezione cinematografica,
come sempre di alto livello, segnaliamo
la rassegna Designing Futures, che ha
presentato in anteprima italiana film sui
movimenti rivoluzionari politici, sociali e
artistici dell’Africa contemporanea, dando voce alle nuove generazioni.
Continua così anno dopo anno il diario
cinematografico di un continente molto
visionario che regala capolavori come
Madame Courage di Merzak Allouache
e We’ve never been kids di Mahmood Soliman, meritati premi ex aequo, ma anche incursioni sperimentali che, come il
cortometraggio My window di Bahaa el
Gamal, raccontano con parole, immagini
e musica lo sconvolgimento del futuro.
Simona Cella
EVENTI
Coraggio e libertà:
il Biografilm Festival
va oltre i confini
“T
he brand new world - Raccontare la
civiltà
digitale”:
questo il tema della XII edizione del Biografilm Festival
– International celebration of lives, che
da anni porta nelle sale cinematografiche di Bologna racconti di vita.
In 10 giorni sono stati 100 gli ospiti nazionali e internazionali, 89 i film, di cui
26 anteprime europee e 21 anteprime
mondiali, 17 sono state le opere prime
e 10 i film in concorso.
Al centro della rassegna la narrazione di quanto le nostre esistenze siano
cambiate con l’avvento del digitale e di
come ognuno sia diventato oltre che
fruitore anche dispensatore di notizie.
Ma non solo. In contrapposizione alla
mancanza di confini che caratterizza
il mondo di Internet, è stata posta l’attualissima persistenza nel mondo reale
Un’immagine tratta da Sonita,
di Rokhsareh Ghaem Maghami, 2016.
di confini innalzati dagli uomini: a volte si tratta di limiti reali e territoriali,
altre volte di barriere teoriche o semplicemente convenzionali o culturali.
In questo scenario si collocano le pellicole che hanno raccontato alcune
coraggiose storie di migranti, intrappolati nelle maglie di queste assurde
barriere.
Tra questi il documentario della regista
tedesca Susanne Regina Meures Raving
Iran, il cui sottotitolo potrebbe essere
“la musica rende liberi”. I protagonisti
Anoosh e Arash, infatti, sono due dj
iraniani che hanno avuto l’ardire di trasgredire alle regole dello Stato e dell’Islam che, attraverso la polizia morale
e religiosa, proibiscono di ascoltare e
ballare qualsiasi tipo di musica che non
sia quella classica e tradizionale.
89
EVENTI
A fianco: un’immagine tratta da Raving Iran di
Susanne Regina Meures, 2016.
La “diabolica” musica occidentale, in
questo caso la techno-house, diventa
per i due musicisti il mezzo per gridare
e affermare la propria libertà e la propria identità: la regista, grazie a piccole
videocamere e all’iPhone che è riuscita
a portarsi in Iran e grazie ai due ragazzi
che hanno acconsentito a nascondere
sotto i propri vestiti i cellulari necessari a registrare i dialoghi nei vari uffici,
ha documentato vicende che noi occidentali stentiamo a credere. Non poter
ascoltare musica house, non poter incidere CD, né tantomeno venderli, non
poter ballare la techno: impossibilitati
a cambiare le cose da dentro, Anoosh e Arash trovano un escamotage per
raggiungere l’Europa. Pur obbligandoli
a diventare “clandestini”, questa fuga
si rivela (per ora) l’unica via per poter
realizzare il proprio sogno e per poter
affermare la propria identità.
Altrettanto coraggioso The Black Sheep,
il racconto intimo e profondo che il regista Antonio Martino fa di Ausman, la
pecora nera a cui allude il titolo, un ragazzo libico cresciuto secondo i precetti del Libro Verde, durante la dittatura
di Gheddafi. Ateo e fermamente convinto del suo diritto (in realtà negato
nella quotidianità) di poter manifestare le proprie idee, Ausman va in cerca
della propria libertà lontano dal suo
90
"GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP
Paese, prima in Marocco e poi a New
York, dove per la prima volta si trova
libero di esprimere i propri ideali. Allo
scoppio della rivoluzione in Libia nel
2011, animato dall’entusiasmo di poter
contribuire finalmente al cambiamento e alla liberazione del suo Paese, decide di rientrare a casa. Purtroppo le
speranze di Ausman cadono come le
macerie di un Paese distrutto, come i
sogni di una intera generazione delusa
da una rivoluzione che non ha portato
i cambiamenti sperati, ma ha dato spazio a fondamentalismo e intolleranza
verso il pensiero libero.
Seguendo da vicino le vicende del suo
protagonista e rischiando a ogni immagine ripresa di dare fastidio a chi non
vuole che queste scomode verità vengano portate alla luce, il regista in maniera delicata ed empatica racconta quali
sono i motivi concreti che spingono gli
individui a fare scelte di fuga e quanto
queste possano essere dolorose, pur
nella loro necessità. Sì perché, ormai
rassegnato, Ausman decide di lasciare
di nuovo il suo Paese.
Shu Aiello e Catherine Catella ci portano invece in Italia, a Riace, per un
altro racconto di gente che va e gente
che viene.
Un paese di Calabria racconta di questo
paesino che, dalla sua posizione pri-
vilegiata, aggrappata alle rocce delle
montagne, da sempre ha visto arrivare gente dal mare, dai Greci ai Mori, ai
Kurdi nel 1998 ai barconi partiti dalla
Libia degli ultimi anni.
Rimasto quasi disabitato in seguito alle
massicce migrazioni del dopoguerra,
quando i giovani seguivano il sogno di
un futuro migliore verso Nord o oltreoceano, negli ultimi 25 anni ha visto la
sua popolazione passare da 900 abitanti a 2.100. E questo grazie a un’amministrazione comunale che (oltre a erigersi
contro la malavita organizzata) ha aperto le porte all’accoglienza di richiedenti
asilo. Così Riace si è ripopolata – oggi
vivono e lavorano 400 rifugiati – mentre l’anestetizzata economia sta piano
piano tornando a girare.
Il documentario segue meticolosamente da vicino tutti i suoi protagonisti,
nell’intimità dei momenti che scandiscono l’anno: dalle feste di paese
al lavoro quotidiano. E ci mostra una
realtà dove l’integrazione sembra paragonabile a quando si toglie sabbia in
un punto sulla spiaggia e altra sabbia
riempie con naturalezza e immediatezza il buco creato.
Infine c’è Sonita: la regista iraniana
Rokhsareh Ghaem Maghami racconta
la storia di Sonita Alizadeh, una ragazza afgana di diciotto anni che sogna di
diventare rapper. A 8 anni fugge alla
guerra in Afghanistan e si stabilisce con
la famiglia a Tehran, in Iran: profuga,
senza documenti e senza nessun diritto
all’istruzione, Sonita inizia a frequentare un’associazione che, tra le varie
cose, la avvicina al mondo della musica. E la ragazza si innamora del rap: “Il
rap consente di raccontare la tua storia
ad altre persone. È una piattaforma
per condividere le parole che sono nel
mio cuore” dice Sonita in un’intervista.
Grazie ai social media e al suo spiccato
talento la sua musica (e la sua storia) fa
il giro del mondo: riesce a fuggire a un
matrimonio combinato e ora vive e studia negli Stati Uniti presso l’accademia
d’arte Wasatch.
Elisabetta Degli Esposti Merli
EVENTI
Formazione dei rifugiati
nell’artigianato
per la moda
Il polo formativo e di accoglienza di Lama di Reno (BO). © Giovanni Zati
L’
accoglienza dei richiedenti asilo avviene, in seguito
alla Conferenza Stato-Regioni-Enti locali di luglio
2014, secondo un modello di distribuzione regionale dei migranti nei territori di
tutta la penisola, in Centri di Accoglienza
Straordinari. Realizzata attraverso l’affidamento al privato sociale, essa prevede
la fornitura di servizi di base come vitto,
alloggio, abbigliamento e pocket money,
insegnamento dell’italiano L2 e assistenza alla presentazione della domanda di
asilo. Diversi enti gestori si attivano per
offrire anche orientamento lavorativo e
tutto quello che può favorire l’autonomia e l’integrazione del migrante nella
società. Non è un obiettivo facile e diversi sono i problemi: le piccole comunità
locali a volte si mostrano timorose se
non ostili, anche perché la crisi spinge
persone in difficoltà – e persone che in
difficoltà non lo sono per nulla – a provare rabbia nei confronti dei “poveri”
stranieri che verrebbero a rubare risorse
ai “poveri” italiani.
Tra i vari progetti, un modello che si sta
sperimentando in provincia di Bologna
si distingue dagli altri per il fatto di
unire nello stesso luogo l’accoglienza e
la formazione ad attività produttive e di
tenere in conto anche il problema dei
rientri nei Paesi di origine.
Il 16 luglio 2016 è stato aperto nella frazione di Lama di Reno a Marzabotto,
in Provincia di Bologna, un “Polo sperimentale di formazione e accoglienza”
promosso dalla cooperativa Lai-momo
e da Ethical Fashion Initiative (EFI), un
programma dell’agenzia delle Nazioni
Unite “International Trade Centre”.
Il progetto è nato per offrire un’opportunità di formazione laboratoriale nel
settore della moda (in particolare lavorazione della pelle per la confezione
di borse e accessori) a un gruppo di richiedenti asilo già accolti presso diverse
strutture dell’area metropolitana bolognese, e selezionati in base a competenze pregresse e motivazione.
L’idea è di avviare un’esperienza formativa e produttiva, integrando ai servizi
di accoglienza percorsi di qualificazione professionale e occasioni di impiego,
in Italia e, in caso di volontà o necessità
del rientro, nei Paesi di origine, dove il
programma delle Nazioni Unite ha in
corso differenti produzioni per il settore della moda etica.
EFI, infatti, a partire dal 2009 porta
grandi stilisti internazionali, come Vivienne Westwood, Stella McCartney
e Stella Jean, ma anche marchi come
Camper e MIMCO, a produrre parte delle loro collezioni in Africa e ad Haiti. Il
progetto garantisce standard di lavoro
etici in tutta la filiera lavorativa, che impiega principalmente donne. Attraverso il proprio lavoro e i salari giusti ricevuti, le lavoratrici e i lavoratori hanno la
possibilità di accedere al sistema sanitario nazionale e di garantire l’accesso
all’istruzione ai propri figli.
La collaborazione tra Ethical Fashion
Initiative e Lai-momo ha avuto inizio
nel gennaio di quest’anno con Generation Africa: nella cornice di Pitti Immagine Uomo, iniziativa di riferimento per
il mondo della moda, sono state presentate le creazioni di quattro stilisti africani e, tra gli indossatori professionisti,
91
EVENTI
In breve
“Summer School on Forced Migration: a
Multidisciplinary Approach”, Bologna 11th-17th 2016
D
F
al 11 al 17 luglio si è tenuta
a Bologna presso il Centro
Interculturale Zonarelli la prima edizione della Summer
School multidisciplinare sulle migrazioni
forzate, organizzata da Africa e Mediterraneo e Lai-momo con il supporto di BMW
Italia e della Fondazione del Monte.
La Summer School si è svolta con lezioni
frontali, seminari partecipati e visite guidate ad alcuni centri di accoglienza straordinaria (CAS) e all’Hub dell’Emilia-Romagna,
dove i cinquantadue partecipanti (selezionati tra 126 application ricevute) – ricercatori, lavoratori di ONG e di istituzioni internazionali provenienti da tutto il mondo, tra
cui gli Stati Uniti, il Giappone, la Germania,
Malta, la Francia – hanno avuto l’opportunità di fare esperienza diretta dei centri di
accoglienza per richiedenti asilo in Italia e
discutere di questioni pratiche e legali con
gli operatori che lavorano nei centri.
I seminari proposti all’interno del programma della scuola estiva, tenuti da
ricercatori ed esperti internazionali del
settore delle migrazioni forzate, hanno
seguito un impianto multidisciplinare che
varia dalla storia e geopolitica delle migrazioni forzate alla psicologia, dal diritto internazionale del mare al giornalismo etico.
rom July 11th to July 17th
Lai-momo and Africa e Mediterraneo organized the first
edition of the International
Summer School on Forced Migration,
which was held at the Intercultural Centre
Zonarelli in Bologna with the support of
BMW Italia and Fondazione del Monte.
The school, based on a multidisciplinary
and comprehensive approach, included
participative seminars and field-visits to
emergency receptions centres and the
Emilia-Romagna Regional Hub, where
the fifty-two attendants – researchers,
NGOs and International organizations’
practitioners from all over the world, such
as the USA, Japan, Germany, Malta and
France – had the chance to get first-hand
experiences of reception of asylum seekers in Italy and discuss practical and legal
issues with the social workers who run
the facilities.
The multidisciplinary approach was reflected on the sixteen seminars held by
well-known international professors,
practitioners and experts from the field of
forced migration, and ranging from history
and geopolitics of forced migration to psychology of trauma, from maritime law to
ethical communication of forced migration.
Per informazioni riguardo all’edizione
2016 della Summer School:
m.meloni@africaemediterraneo.it
www.migrationschool.eu
For information about the 2016
Summer School:
m.meloni@africaemediterraneo.it
www.migrationschool.eu
92
"GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP
sfilavano 3 richiedenti asilo “bolognesi”
selezionati con un casting in base all’altezza e all’aspetto fisico. In questa occasione il progetto è stato presentato alla
stampa” nazionale ed internazionale,
con una risonanza notevole.
Grazie alla filiera costruita da EFI in
Africa, alle persone che sceglieranno
di rientrare nei loro Paesi a causa del
diniego alla richiesta di protezione internazionale le persone potranno fare
rientro in patria con una formazione
acquisita e un sostegno alla creazione
di una micro impresa.
Andrea Marchesini Reggiani, Presidente
di Coop. Lai-momo, ha affermato durante l’inaugurazione: “Non è un progetto
facile, perché ha una componente di innovazione molto forte. Noi, intanto, abbiamo investito e lavorato perché oggi si
potesse aprire: vorremmo davvero che
si creassero occasioni di incontro con la
comunità locale e per questo proponiamo di realizzare attività di socializzazione con i cittadini e di volontariato per la
manutenzione del territorio.”
Il borgo di Lama di Reno, in cui si trova
il centro, ha perso molti posti di lavoro
in seguito alla chiusura di una grande
cartiera. Il nuovo centro formativo e
produttivo, abitato da persone provenienti da altre parti del mondo, potrebbe contribuire alla riqualificazione della
frazione di Marzabotto che si trova tra
il fiume Reno e le colline che, dopo l’8
settembre 1943, hanno visto uomini e
donne attivi contro l’occupazione nazista e che mantiene ancora fortissima
la memoria delle sofferenze subite in
particolare con la Strage di Monte Sole.
A luglio il primo gruppo di ospiti si è
trasferito nella struttura di accoglienza: si tratta di persone provenienti da
Pakistan, Senegal, Bangladesh, Guinea,
Burkina Faso e di età compresa tra i 19 e
i 30 anni, e sono già iniziate le attività di
laboratorio formativo, con un maestro
artigiano e con macchine per la lavorazione della pelle appositamente acquistate per il progetto.
“L’Africa è un continente popolato da
giovani, e i giovani, che guardano al
futuro, non potranno essere fermati da
nessun muro, mare o politica migratoria se non si creeranno le condizioni
perché essi stessi possano costruire
un futuro dignitoso”, ha affermato Simone Cipriani, direttore di Ethical Fashion Initiative.
EVENTI
Accoglienza, sport e buone pratiche:
la campagna 2016 di Bologna cares!
Illustrazione tratta dal video di animazione della
campagna Bologna cares! 2016, realizzato da
Bloomik e Lai-momo coop. sociale.
cares!
bologna
“A
ccoglienza: una scelta positiva!”, questo
il claim del video di
animazione realizzato da Bloomik e Lai-momo per l’edizione 2016 di Bologna cares!, la campagna
di comunicazione del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati
(SPRAR) del Comune di Bologna.
Abdou ed Emilia sono i protagonisti:
lui è un richiedente asilo maliano, lei
una zdaura (termine che nel dialetto
bolognese si riferisce alla massaia, alla
casalinga, la “reggitora” del focolare
domestico). Emilia ci racconta la storia
di Abdou dopo il suo sbarco in Italia (il
ragazzo rappresenta uno dei tanti richiedenti asilo che arrivano sulle nostre
coste ammassati nei barconi che salpano dal Nord Africa): in realtà la signora illustra due “opzioni” della storia di
Abdou, ovvero come poteva andare e
come è andata realmente.
Nel primo caso lo scenario è piuttosto
negativo, poiché rappresenta un conte-
sto dove il sistema di accoglienza non
c’è (o non funziona). Nel secondo, invece, la storia di Abdou segue un percorso
molto più positivo, grazie all’assistenza
legale e sanitaria, all’insegnamento
della lingua e all’inserimento lavorativo che gli vengono offerti. In casi
come questo si hanno ricadute positive
sull’intera società, sia per chi accoglie
che per chi è accolto.
Un esempio di questo “effetto positivo”
possiamo ritrovarlo anche nel mondo
dello sport: tra le varie iniziative del
progetto SPRAR del Comune di Bologna
è prevista la collaborazione con realtà
sportive del territorio, finalizzata al
coinvolgimento dei beneficiari in attività di volontariato, culturali e sportive. Lo sport è promosso, quindi, quale
sostegno ai percorsi di inserimento nel
tessuto sociale bolognese.
Nei mesi di gennaio e febbraio è stata
condotta una mappatura delle attività
sportive praticate degli ospiti di alcune strutture di accoglienza a Bologna:
quanti beneficiari, quali gli sport più
praticati, quale il coinvolgimento con
le realtà associative (per i dati esatti
si veda l’infografica a pagina 55). Una
volta raccolte queste informazioni
sono stati realizzati due video che raccontano alcune esperienze segnalate
dall’indagine.
Ahmed e Oumar sono i protagonisti di
Pregiudizi al tappeto: il primo pratica
boxe, il secondo thai boxe. Entrambi si
allenano presso la Palestrina Popolare
di Bologna, un luogo autogestito, popolare e aperto a chiunque voglia praticare uno sport: qui i due richiedenti asilo
hanno stretto relazioni e hanno potuto
dedicarsi alla loro passione.
In Calcio d’inizio le telecamere hanno seguito la Papa Giovanni Football
Club, una squadra di calcio composta
da richiedenti asilo ospiti in una struttura di accoglienza in provincia di Bologna. La squadra è nata grazie a un
operatore che ha stimolato i ragazzi ad
autorganizzarsi per giocare in maniera
strutturata e partecipare anche a piccoli tornei. Tra questi i Mondiali Antirazzisti, che da 20 anni richiamano
da tutta Europa appassionati di calcio,
migranti, tifoserie e tutti coloro che attraverso lo sport vogliono lanciare un
messaggio chiaro e deciso contro ogni
forma di discriminazione.
Tutti i video sono visibili sul canale
youtube di Bologna cares! o nella sezione “download” sul sito della campagna stessa.
Per maggiori informazioni sulla
campagna:
www.bolognacares.it
www.facebook.com/Bolognacares
93
EVENTI
Sport, integrazione
e diritti umani al cinema
L
o sport nel cinema è sempre
stato un’occasione per raccontare storie di superamento personale, lealtà, gloria
nazionale (ricordiamo fra tutti il memorabile Momenti di Gloria, reso immortale
anche dall’insuperabile colonna sonora)
ma anche di solidarietà e diritti umani
(bellissima la ricostruzione di Clint Eastwood su come Mandela utilizzò la nazionale di rugby per unificare un Sudafrica profondamente diviso, in Invictus). Lo
sport, nella realtà, è sempre stato fonte
di storie eccezionali, di individui ma soprattutto di comunità, per la capacità di
mettere in gioco l’essere umano e il suo
senso di appartenenza a un gruppo e ai
suoi valori. Il cinema documentario, che
da questa realtà prende spunto, non è
stato da meno. Per questo abbiamo deciso di dedicare una giornata del Terra di
Tutti Film Festival, rassegna bolognese
organizzata da GVC e COSPE,1 che in ottobre 2016 terrà la sua decima edizione,
proprio allo sport, raccontato dal punto
di vista del Sud del mondo. L’obiettivo,
perseguito ormai da 10 anni dal nostro
festival, è di aprire finestre diverse legate
alla solidarietà e ai diritti umani.
Proietteremo il documentario del Bologna FC, girato in Ghana, Godfred, che racconta la storia del centrocampista rossoblù Godfred Donsah, arrivato dal Ghana
ai campi della serie A. Nel video Godfred
torna in Ghana, e a parlarci di lui è la sua
famiglia, a partire da suo padre arrivato a
Lampedusa su un barcone passando per
il deserto in Libia. Una storia comune ad
altri giocatori africani, raccontata in prima persona e fra la sua gente (la citazione
finale recita «Lontano da casa un uomo
è stimato per come appare, a casa è stimato per ciò che è»), rivelando i propri
luoghi, la famiglia, le usanze della sua
terra. Sempre riguardo al calcio, ci spostiamo in Marocco, con Tangeri Goal di
Juan Gautier, che tra fiction e realtà narra
la storia delle “Gazzelle dello stretto”, la
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"GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP
GVC: SPORT E SOLIDARIETÀ INTERNAZIONALE
GVC, Gruppo di Volontariato Civile, che da più di 40 anni lavora in Italia e nel
mondo, partendo da Bologna, crede fortemente che sia possibile coniugare
sport e solidarietà. Per questo partecipa e sostiene diverse iniziative.
Da oltre 14 anni grazie alla Polisportiva Lame di Bologna organizza un torneo
di calcetto “Un bambino che gioca vince sempre”, in cui i bambini che scendono in campo vincono tutti, e insieme al premio viene spiegata loro l’importanza dello sport per la solidarietà.
Sempre in Emilia-Romagna, ogni anno il distretto delle ceramiche di Scandiano organizza un torneo per bambini e ragazzi: quest’anno si svolgerà il 10 e
l’11 settembre, a sostegno dei bambini siriani in fuga dalla guerra, assistiti da
GVC nel campo rifugiati in Libano nella valle della Beqaa. Infine, nel 2013, lo
staff di GVC in Palestina ha organizzato in Area C, nei territori occupati, nel villaggio di Dkaika, posto sulle colline a sud di Hebron, poco fuori la Firing Zone
918, una partita in collaborazione con la Palestinian Association of Sport for
All, in cui europei (cooperanti, diplomatici e rappresentanti dell’UE) si sono
scontrati con rappresentanti dell’Autorità Palestinese (fra cui l’allora ministro
della Cultura, Anwar Abu Eishe), giornalisti palestinesi e residenti delle colline
a Sud di Hebron. Con l’obiettivo ben preciso di portare sul posto, minacciato
dalle politiche di trasferimento forzato del governo di Tel Aviv, attivisti internazionali, giornalisti, membri del governo.
squadra di calcio femminile nata a Birchifa, un quartiere periferico di Tangeri, che
sogna di giocare contro l’Atletico di Madrid Feminas. Qui si aggiunge la tematica
di genere, che tocca uno sport, il calcio,
e un paese, il Marocco, che avrebbero entrambi molto bisogno di fare progressi in
questo ambito.
In concorso avremo anche altri documentari, sulla boxe e ancora sul calcio,
sempre provenienti dal Sud del mondo,
dove lo sport non è solo passione o un
modo per tenersi in forma, ma può essere una possibilità di salvezza da un destino spesso purtroppo già segnato.
NOTE
1 - COSPE ONLUS è attiva nella lotta contro le discriminazioni e fortemente impegnata nel campo
dell’antirazzismo, anche nello sport, sia in Italia
che in oltre 30 Paesi del mondo. Negli ultimi anni
ha portato avanti la campagna di informazione
“Mettiamo il razzismo in fuori gioco” in collaborazione con il Consiglio degli Stranieri del Comune di
Firenze inaugurata durante il Torneo di Viareggio
- Coppa Carnevale per sensibilizzare la pubblica
opinione e combattere i fenomeni di razzismo e discriminazione nel mondo del calcio. La campagna,
inserita all’interno dell’iniziativa europea “Stand
Up Speak Up” contro il razzismo nel mondo del
calcio, si è sviluppata anche attraverso il coinvolgimento delle emittenti toscane Radio Blu, ControRa-
Marina Mantini
dio, Novaradio e Radio Toscana Network.
LIBRI
Le affascinanti pratiche del vestire
in Africa
African Power Dressing:
il corpo in gioco
A CURA DI
GIOVANNA PARODI DA PASSANO
GENOVA UNIVERSITY PRESS
GENOVA 2015 PP. 240
I
l volume recentemente curato da
Giovanna
Parodi
da Passano, African
Power Dressing (Genova
University Press 2015), affronta il fenomeno affascinante dell’abbigliamento,
dimensione fondamentale
della vita culturale su cui
l’antropologia si è forse
troppo poco soffermata.
Già nel 1981 Ernesta Cerulli aveva dedicato a questo
tema un volume, Vestirsi,
spogliarsi, travestirsi (Sellerio), in cui delineava
– grazie all’analisi di un repertorio etnografico vasto
quanto variegato – il senso
di una pratica sociale uni-
versale dotata di potenti
funzioni comunicative. In
effetti, le parole con cui Cerulli chiudeva il suo saggio
ci introducono al percorso
con il quale Parodi riprende e rinnova l’interesse per
il vestirsi: «Il messaggio
dell’abbigliamento emerge
con particolare chiarezza,
pur nelle infinite varianti
[…]: strumento di comunicazione leggibile e al tempo
stesso ermetico; protettivo
ed elusivo; identificante e
ingannevole; estremamente mutevole e culturalmente determinato» (1981, 170).
E se negli anni Ottanta del
secolo scorso, la funzione
dell’abbigliamento
nelle
culture allora denominate
“di interesse antropologico” appariva soppiantata dall’imposizione degli
stracci e dei cenci con cui
gli europei avevano rivestito le nudità degli altri, oggi
la situazione appare molto
diversa. L’Africa contemporanea, su cui il volume di
Parodi si concentra, si sta
infatti riappropriando di
un’antica capacità di vestirsi, adornarsi e rappresentarsi, fondata su un’estetica
del corpo tra le più raffinate. Oggi il Power dressing,
il potere del vestirsi, ci appare dunque lo specchio
di una ritrovata agentività
africana.
Come sottolinea Ivan Bargna nel suo contributo, il
vestirsi è in primo luogo
una pratica estetica nel
senso etimologico del termine, cioè un modo per
dare al corpo una forma e
uno stile immediatamente percepibili allo sguardo
altrui. Una forma di comu-
nicazione eminentemente
visiva, come testimoniato
dalle numerose splendide immagini che corredano il volume. Utilizzando
il concetto gibsoniano di
affordance (Gibson 1979,
ripreso in Ingold 2000),
Bargna vede nell’abito un
elemento
fondamentale
nel processo di costruzione
dell’immagine di sé all’interno dell’ambiente naturale e sociale.
Un processo per sua natura dinamico e interattivo,
basato sulla posizione e sul
ruolo che ciascuno di volta
in volta assume nell’ambito delle relazioni sociali. Il
vestirsi è uno dei molteplici
dispositivi con cui le culture danno forma ai corpi,
contribuendo a costruire
la persona secondo specifiche “mode antropo-poietiche” (Remotti 2000): l’abito fa parte di quegli oggetti
esterni (insieme a calzature, copricapi, maschere,
gioielli, ecc.) che si possono
indossare e poi rimuovere,
a differenza di altre pratiche estetiche maggiormente invasive e irreversibili
come il tatuaggio, la scarificazione o la modificazione
di parti del corpo.
I vestiti e i tessuti sono stati
in primo luogo considerati
dall’antropologia come oggetti da museo, da collezionare, studiare ed esibire in
quanto esempi di rappresentazioni culturali.
African power dressing
adotta tuttavia una prospettiva diversa considerando il vestirsi come un
elemento della costruzione della persona che muta
secondo specifici modelli
storico-culturali. L’abito è
dunque visto come un attributo del corpo in azione
e in quanto tale può assumere svariati significati.
Diversi saggi del libro descrivono il vestirsi come un
atto politico. Mariano Pavanello indaga la società degli
Nzema del Ghana, dove i
capi e gli anziani utilizzano
abiti particolarmente sfarzosi per marcare ed esibire
il loro status, dando vita a
una vera e propria messa in
scena teatrale del potere. Il
“ritorno dei re” (Perrault, Fauvelle-Aymar 1999),
registrato in numerose società africane, è in effetti
spesso accompagnato da
una ritrovata attenzione al
corpo del sovrano, che riveste importanti significati
simbolici veicolati dall’abbigliamento. Gli abiti cerimoniali vengono utilizzati
per conferire alla persona
del capo un potere che è
allo stesso tempo politico
e mistico. Analogamente in
molte religioni africane gli
abiti rituali, nel momento
in cui vengono indossati,
conferiscono al corpo di
sacerdoti, medium e posseduti l’identità dello spirito
che dimora in loro.
Come osserva Alessandra
Brivio a proposito del vodu
praticato nelle aree costiere di Togo e Benin, il corpo
del posseduto necessita di
una trasformazione estetica che si ottiene anche
attraverso i costumi indossati. Il vestito possiede dunque il potere di trasformare l’identità della persona
agendo sul suo corpo, sulla
percezione che il soggetto e la comunità hanno di
esso. In questo senso l’abito possiede una sua propria
agentività, particolarmente
evidente nei contesti rituali
e religiosi.
Più in generale, l’atto di vestirsi svolge una funzione
fondamentale nei processi
di costruzione identitaria
sia a livello culturale sia a
livello individuale. Nella
gran parte delle società le
fasi del ciclo di vita, i gradi
di età, il genere, lo status
95
LIBRI
trovano espressione in specifici modelli di abbigliamento. Tuttavia sarebbe riduttivo pensare che gli abiti
si adattino semplicemente
ai cambiamenti esistenziali. Essi mostrano piuttosto
una funzione attivamente
trasformativa, che emerge
con chiarezza all’interno
dei riti di passaggio e più
precisamente dei riti puberali. In essi i novizi vivono spesso in condizione
di nudità, oppure si travestono assumendo fattezze
animali o invertendo le
loro caratteristiche di genere e di status. In questo
modo preparano il futuro
cambiamento di status che
modificherà anche la loro
immagine. L’atto di vestirsi,
insieme agli altri dispositivi
simbolici e rituali previsti
in queste occasioni, non si
limita dunque ad accompagnare la transizione ma
contribuisce a crearla.
Bisogna però sottolineare
come sia sempre possibile
cambiare d’abito, mutando
in questo modo il proprio
look, la propria posizione
sociale e in una certa misura la propria identità. I riti
forniscono spesso occasioni di travestimento che utilizzano maschere e costumi
per trasformare momentaneamente l’identità quotidiana in qualcos’altro. Ma
anche al di fuori dal contesto rituale, l’abbigliamento
consente di costruire creativamente identità multiple
che possono ispirarsi a una
molteplicità di modelli. A
questo proposito alcuni dei
saggi raccolti nel volume
partono dall’analisi delle
funzioni culturali dell’abito
per approdare alla considerazione delle dinamiche
globali e transculturali
che spesso determinano
le pratiche del corpo. Richiamando i lavori di Jean
Loup Amselle (1990, 2001),
96
nell’introduzione si sottolinea come l’Africa abbia
conosciuto forme antiche
di globalizzazione, fondate
sulla presenza di spazi di
scambio di natura economica, politica, linguistica e
religiosa, che hanno contribuito ad arricchire le culture locali e i loro modelli
estetici.
La varietà delle fogge dei
vestiti e dei materiali subì
poi un impoverimento, con
l’imposizione degli abiti occidentali conseguente alla
conquista coloniale. Oggi,
come si è detto, l’abbigliamento torna a essere oggetto di scelte creative, liberamente ispirate a modelli
eterogenei. Letizia Cassina,
nel suo saggio dedicato alla
storia dell’abbigliamento
nel regno del Buganda, mostra come uomini e donne
scelgano un abbigliamento
“tradizionale”, “africano”
oppure “occidentale” a
seconda delle circostanze,
laddove il richiamo alla
tradizione fa riferimento
in primo luogo al rispetto
dei locali modelli di genere che nell’abito trovano
un’espressione fondamentale. Così la concezione di
femminilità viene ribadita indossando il gomesi,
stretto abito fasciante che
rispecchia l’esigenza di
proteggere un corpo femminile disponibile a scoprirsi soltanto nell’intimità
della vita matrimoniale.
Accanto al gomesi, però, le
donne ganda attingono liberamente ad altri modelli:
il kikoy, versione locale del
pagne realizzato utilizzando i tessuti di cotone stampato di cui tratta l’articolo
di Parodi, oppure i jeans, i
pantaloni e le minigonne di
foggia europea.
Gli abiti sono dunque al
centro dei processi di globalizzazione, come mostra
anche il saggio di Monica
"GSJDBF.FEJUFSSBOFP "HPTUP
Blackmun Visonà sulla diffusione dei cappelli a cilindro in Africa occidentale. Prodotti in Italia, negli
Stati Uniti, in Inghilterra e
in Francia questi copricapi
vennero esportati in Africa alla fine del XIX secolo.
Qui si trasformarono in oggetti di prestigio, sorta di
elmetti capaci di conferire
particolari doti militari a
coloro che li indossavano.
In questo esempio ritroviamo ancora una volta
la caratteristica capacità
degli abiti di favorire l’embodiment di ruoli, funzioni
e poteri (mistici, politici o
militari), creando e consolidando identità. In questo
senso l’abito può essere in
definitiva considerato alla
stregua di un atto “performativo” che, dando forma
al corpo, produce significativi cambiamenti nello
status della persona inserendosi al tempo stesso nei
flussi comunicativi che attraversano le società nella
dimensione globale.
Cecilia Pennacini
BIBLIOGRAFIA
J. L. Amselle, Logiques métisses.
Anthropologie de l’identité en Afrique et ailleurs, Payot, Paris 1990
J. L. Amselle, Branchements. Anthropologie de l’universalité des
cultures, Flammarion, Paris 2001
E. Cerulli, Vestirsi, spogliarsi, travestirsi, Sellerio, Palermo 1981
J. Gibson, The ecological approach to visual perception, Houghton
Mifflin, Boston 1979
T. Ingold, The perception of the
environment: essays on livelihood, dwelling and skill, Routledge,
London 2000
C. H. Perrault, F. X. Fauvelle-Aymar, Le retour des rois, Karthala,
Paris 1999
F. Remotti, Prima lezione di an-
Carta e colori per
richiedenti asilo
D’ici jusque là-bas – Van
hier tot daar. Dessins de
réfugiés en Belgique
TESTI DI PHILIPPE VAN CAUTEREN, RUDI
VRANCKX E PHILIPPE VANDEKERCKHOVE
SMAK E MERCATORFONDS
GENT 2016, PP. 208
L
o staff del museo
SMAK ha preso
carta e matite e li
hanno portati nei
centri di accoglienza Maximilian Park, Poelkapelle, Sijsele, Koksijde, Leopoldsburg
e Holsbeek, invitando gli
ospiti a disegnare. I risultati
sono sorprendenti e delicati,
a volte leggermente cupi, ma
soprattutto rappresentativi di
una particolare e difficile realtà. Guerre, viaggi in mare, pericoli, rischi e dolore: questi
i soggetti maggiormente rappresentati, ma anche il calcio,
la natura e qualche momento
di felicità. Con questo libro
SMAK spera di contribuire a
sensibilizzare sull’asilo e sul
modo in cui nel nostro immaginario si forma la rappresentazione dei rifugiati.
I ricavati della vendita del
libro sono destinati alla Croce Rossa, per lo sviluppo di
progetti artistici nei centri di
accoglienza.
tropologia, Laterza, Roma-Bari
2000
E. D. E. M.
Elenco dei numeri arretrati
1/92 (1): Prospettiva sul Maghreb
2/92 (2): Democrazia per l’Africa?
Quaderno N. 1: Sindacato e
cooperazione internazionale.
3/92 (3): Il Mediterraneo inquinato
4/93 (4): Somalia e Somalie
Quaderno N. 2: Morire a Mogadiscio
5/93 (5): Kongo - Zaire - Kongo
6/93 (6): Politica e letteratura
7/93 (7): Dossier Mozambico
8/94 (8): Stato e potere in Africa
9/94 (9): Rwanda e ingerenza
umanitaria
10-11/94 (10-11): L’Africa aggiustata
1/95 (12): Mediterraneo:
cultura, tensioni e prospettive
2/95 (13): Etnie: politica, cultura e
manipolazione
3-4/95 (14-15): Insegnamento:
ultima priorità
1/96 (16): Italia - Africa, il rapporto da
ricostruire
2/96 (17): Storia e attualità
dell’Italia in Africa
3/96 (18): Poeti scomodi africani
4/96 (19): Comunicazioni in Africa
1/97 (20): Immigrazione e Africa:
rappresentazioni e
autorappresentazioni
2/97 (21): Lingue e politiche
linguistiche in Africa
3-4/97 (22): Democratizzazione e
transizione politica in Africa
Allegato: Tengenenge e la scultura
dello Zimbabwe
1/98 (23): Cambiament
politico e relazioni
internazionali in Africa
2/98 (24): Israele - Palestina:
la pace possibile
3-4/98 (25-26): Esilio e letteratura
1/99 (27): La città africana
2-3/99 (28-29): Arte africana
contemporanea
4/99 (30): Marocco Genesi
dell’arte contemporanea
1-2/00 (31-32): Migranti, musiche, feste.
L’occhio del fotografo, lo sguardo
dell’antropologo
3/00 (33): Artlink, l’arte come mezzo
di lotta all’esclusione sociale dei
cittadini immigrati
4/00 (34): La donna musulmana tra
internet e velo
1-2/01 (35-36): Africa economia
di povertà
3/01 (37): Danza africana
contemporanea
Il fumetto africano
4/01 (38): Sudafrica. Tra Rainbow
Nation e African Renaissance
1-2/02 (39-40): Mozambico:
media e cultura
3/02 (41): L’Africa e il Digital Divide
4/02 (42): Identità ricostruite: migrazioni
ed esili fuori e dentro l’Africa
1-2/03 (43-44): Arte contemporanea
del Nord Africa
3/03 (45): Il cinema africano
e il suo pubblico
4/03 (46): Il teatro in Africa
1-2/04 (47-48): Le industrie culturali
in Africa
3/04 (49): L’Offerta, inedito
di Nurrudin Farah
4/04 (50): Ars&Urbis
1-2/05 (51-52): Glocal Youth: media e
giovani nel Nord e nel Sud del mondo
3/05 (53): Filosofia in Africa
4/05 (54): Approdi: immigrazione
e allargamento europeo
1/06 (55): Sulla storia dell’arte
africana contemporanea
2-3/06 (56-57): Interculture map.
Azioni interculturali in Europa
4/06 (58): Esperienze per la
creazione di una scuola interculturale
europea
1/07 (59): In/Out. Giovani, migrazione
e società tra nord e sud del
Mediterraneo
2-3/07 (60/61): “Oggetti d’arte” nei
musei e nelle collezioni nell’Africa
contemporanea
4/07 (62): L’Africa nei musei e nelle
collezioni occidentali
1/08 (63): Città educativa, migrazione
ed educazione alla pace
2/08 (64): Medicina e migrazione
3-4/08 (65/66): Africa: turismo
e patrimonio
1/09 (67): Turismo e patrimonio:
il caso del Bénin
2/09 (68): Politiche culturali
nei Paesi ACP
3-4/09 (69-70): African fashion
1/10 (71): Storie e pratiche
del football in Africa
2-3/10 (72-73): Le sfide della
mediazione interculturale
1/11 (74): Il Senegal e la
diaspora senegalese
2/11 (75): Lewis Nkosi:
Sudafrica, esilio, scrittura
1/12 (76): L’arte crea legami
2/12 (77): Rifugiati: l’emergenza
Nord Africa in Italia
1/13 (78): Filantropia africana
2/13 (79): Donne nella migrazione
1/14 (80): L’Italia e il sistema europeo
comune di asilo
2/14 (81): Cibo, intercultura, Africa
1/15 (82): Immigrazione:
media e paura
2/15 (83): Oltre l’albero di Acacia:
natura e paesaggio in Africa
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