No 2
Circolazioni scambi ed esilio. ISSN 2532-7623 (online) – ISSN 2532-7364 (stampa)
Fabio D’Angelo è borsista post-dottorato presso la
Scuola superiore di studi Storici dell’Università della
Repubblica di san Marino. Collabora alla cattedra di
storia moderna e contemporanea presso l’Università
degli studi di Napoli suor Orsola Benincasa.
Le sue ricerche vertono sulla storia del viaggio tra
Sette e Ottocento, delle relazioni scientifiche tra il
regno di Napoli e alcune paesi europei.
Si interessa inoltre al rapporto tra esilio politico e
innovazione tecnico-scientifica.
No 2
Viaggiatori. Circolazioni scambi ed esilio. ISSN 2532-7623 (online) ISSN 2532-7364 (stampa)
Vite di esuli
Percorsi artistici, politici e professionali
dal Cinquecento al Novecento
a cura di Fabio D’Angelo
prefazione di Niccolò Guasti
Viaggiatori. Circolazioni scambi ed esilio. ISSN 2532-7623 (online) ISSN 2532-7364 (stampa)
VIAGGIATORI. CIRCOLAZIONI SCAMBI ED
ESILIO
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Vicedirettore: Pierre-Marie Delpu
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Segreteria di redazione: Luisa Auzino
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Luogo di pubblicazione: Napoli, Via Nazionale 33, 80143
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Direttore della pubblicazione/Editore: Fabio D’Angelo
ISSN 2532-7623 (online) ISSN 2532-7364 (stampa)
Pubblicazione: Anno 1, Numero 2, 1° marzo 2018
Deposito legale:____________________________
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Fincardi, Vittoria Fiorelli, Myriam Houssay-Holzschuch, Mario
Infelise, Maurizio Isabella, Phyllis Lassner, Brunello Mantelli
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Ezio Vaccari, Sylvain Venayre, Éric Vial
Comitato di lettura: Irini Apostolou, Étienne Bourdeu, Andrea
Candela, Rosa Maria Delli Quadri, Alejandrina Falcón, Roberto
Ferreira García, Thomas Haddad, Peter Konečný, Ildikó Kristóf
Gilles Montègre, Khyati Nagar, Christophe Poupault, Pierrick
Pourchasse, Gabriele Proglio, Frédéric Sallée, Duran Saltuk
Romy Sanchez, Luis Teixeira, Helge Wendt
Comitato di redazione: Marco Bernardi, Marco Bettassa
Marianna Calabretta, Alessia Castagnino, Antonio D’Onofrio
Angela Falcetta, Giuseppe Greco, Matthieu Magne, Alessandra
Orlandini Carcreff, Elisabetta Serafini
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Laboratoire Universitaire Histoire Cultures Italie Europe
Université Grenoble-Alpes
Scuola Superiore di Studi Storici
Università della Repubblica di San Marino
Università degli studi di Napoli Suor Orsola Benincasa
VIAGGIATORI
CIRCOLAZIONI SCAMBI ED ESILIO
2
Vite di esuli. Percorsi artistici,
politici e professionali tra
Cinquecento e Novecento
A cura di Fabio D’Angelo
Prefazione di Niccolò Guasti
Indice
Prefazione
di Niccolò Guasti
p. 1
Introduzione
di Fabio D’Angelo
p. 58
Dossier monografico
La maeïutique de l’exil, 1540. Naissance bellifontaine d’un
sculpeteur toscan: Benvenuto Cellini
di Véronique Mérieux
p. 64
Una famiglia di esuli: i Gicca nel Regno di Napoli
di Antonio D’Onofrio
p. 110
Tracce per un’estetica dell’esilio in Jacques-Louis David
di Laura Fanti
p. 136
«L’aratro e la spada». Gli esuli italiani oltre la frontiera
argentina, 1855-1859
di Alessandro Bonvini
p. 195
Ranavalona III et Mohammed Ben Youssef: deux exils en effet
de miroir dans l’Empire colonial français
di Frédéric Garan
p. 242
Accueillir les réfugiés ardennais à Paris entre 1914 et 1918
di Nicolas Charles
p. 315
Robert Fano e il coraggio di vivere il “non luogo”
di Benedetta Campanile
p. 353
Una storia di accoglienza e solidarietà: il caso degli esuli
argentini in Italia negli anni Settanta e Ottanta
di Giulia Calderoni
p. 387
De l’immigration clandestine à l’exil improvisé. Une esthétisation du rêve hypothéqué dans Le paradis du Nord de Jean-Roger
Essomba
di Pierre Suzanne Eyenga Onana
p. 429
Varia
Estancia e imagen de Portugal, según el viajero alemán - Jerónimo Münzer - en su periplo por la Península Ibérica (14941495). El caso de Lisboa
di Alice Tavares
p. 461
Nell’andare e venire per fuori Napoli, per le fiere, e piazze di
questo Regno: produzione e circolazione di ori e argenti nel Regno di Napoli nel XVIII secolo
di Diego Davide
p. 493
Le ticket d’autobus à Paris : la marginalisation inaboutie d’un
objet pratique et gênant
di Arnaud Passalacqua
p. 517
Fonti
Per curare la mente e il corpo, per conoscere. Il viaggio a Venezia di Giosuè Sangiovanni (1818)
di Fabio D’Angelo
p. 551
Recensioni
L. Fournier Finocchiaro, Les exilés politiques espagnoles, italiens et portugais en France au XIXe siècle: questions et
perspectives, Paris, L’Harmattan, 2017
di Pierre-Marie Delpu
p. 696
O. Dard, La révolution culturelle en Chine et en France, Paris,
Riveneuve, 2017
di Paola Paderni
p. 699
Prefazione
1
Prefazione
Il primo esilio spagnolo del Settecento: gli austracistas1
di Niccolò GUASTI
Università degli studi di Foggia
DOI 10.26337/2532-7623/GUASTI
Riassunto: La storia spagnola è da sempre caratterizzata da un gran numero
di esili dovuti a cause politiche. L’emigrazione dei sostenitori degli Asburgo
durante la Guerra di Successione spagnola, i cosiddetti austracistas, fu una
delle più consistenti: dal 1705 in poi decisero di abbandonare la Spagna circa
30.000 esuli. Nonostante le difficoltà iniziali, questa comunità di spagnoli
riuscì a integrarsi all’interno della monarchia asburgica grazie al decisivo sostegno finanziario fornito loro dai territori italiani allora passati sotto il controllo di Carlo VI. La sopravvivenza di una memoria collettiva degli austracistas fu comunque possibile grazie allo sviluppo di alcune strategie culturali,
politiche e sociali. Come ogni emigrazione, anche quella degli spagnoli che
avevano parteggiato per Carlo d’Asburgo finì per arricchire la patria adottiva.
Abstract: Spanish History, during Early Modern and Modern ages, is marked
with a great number of political exiles. From 1705, the so called austracistas,
that is the supporters of the Habsburg cause during the Spanish War of Succession, were compelled to emigrate: it was one of the most important exiles
in Spanish History, since almost 30.000 refugees left Spain. Though they had
to face some troubles, the austracistas succeeded to integrate themselves within the Habsburg Monarchy thanks to the decisive economic help received
1
Questo saggio si inserisce nell’ambito del progetto di ricerca spagnolo La
redefinición del Espacio europeo y mediterráneo en el siglo XVIII. Política,
diplomacia y conflictos (num. HAR2015-65987-P), coordinato dalla prof.ssa
Virginia León Sanz dell’Università Complutense di Madrid.
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Prefazione
from the Italian territories Charles VI gained. However the emergence of a
common austracista identity dipended on some cultural, political and social
strategies they carried out. As every single exile, also Spanish austracista
diaspora made rich the adopted country.
Keywords: Exile, Political dissidents, Wars of Succession
Sommario: Introduzione – L’esilio austracista: la cronologia – Gli esiliati
austracistas: tra sopravvivenza, controllo politico e integrazione – Stato, patria e identità nell’esilio austracista – Conclusione
Introduzione
Una delle costanti più macroscopiche della storia spagnola
tra l’età moderna e quella contemporanea è indubbiamente la
continua presenza di emigrazioni dovute a cause politiche. È
stato infatti calcolato che dal 1492 fino alla Guerra Civile del
1936-1939 la Spagna abbia conosciuto almeno quattordici
grandi esodi politici, tra i quali quelli cui furono oggetto gli
ebrei, i moriscos, gli austracistas, i gesuiti (espulsi, tra il 1767 e
il 1936, in ben cinque occasioni), gli afrancesados e gli ilustrados, i liberali (di più orientamenti e in più momenti dell’Ottocento), i carlisti, i repubblicani (tra l’ultimo venticinquennio
dell’Ottocento e l’avvento del regime franchista)2. Per certi
versi, come ha sottolineato Clara E. Lida, la storia iberica si configura come una «larga historia de destierros» e quindi può essere interpretata, nel suo complesso, come una successione di
2
Tale calcolo, elaborato da Gregorio Marañón nel suo Españoles fuera de
España (Buenos Aires, Espasa-Calpe 1947), potrebbe essere ulteriormente
aumentato: si pensi, ad esempio, all’esilio dei filo-borbonici dall’Italia (e, tra
il 1705 e il 1713, dalle zone spagnole controllate dall’esercito asburgico) a
seguito della Guerra di Successione spagnola.
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esili3. Detto in altri termini, «el pasado español resultaría incomprensibile sin prestar atención al fenómeno de las emigraciones
políticas»4. Una tesi, questa, che ha trovato un’evidente e dolorosa conferma anche nella recente storia spagnola: più che
all’auto-esilio che l’ex presidente della Generalitat de Catalunya, Carles Puigdemont, si è auto-imposto dopo la sua deposizione nell’ottobre 2017, penso piuttosto ai tanti intellettuali e politici baschi che, fino alla tregua del 2011 e all’addio alle armi
sancito l’8 aprile 2017, sono stati costretti ad emigrare all’estero
per sfuggire alle intimidazioni e alla violenza omicida dell’ETA.
Ha quindi ragione José Luis Abellán, uno dei maggiori
esperti iberici del fenomeno, ad affermare che
La reiteración de exilios es una constante de la historia de España desde el
momento mismo en que se constituye el Estado moderno con la unión de
Fernando de Aragón e Isabel de Castilla en 1469, produciéndose al poco
tiempo – 1492 – la expulsión de los judíos. El fenómeno se repite después en
los siglos XVI, XVII, XVIII, XIX y XX, sin que haya ninguna excepción5.
Partendo da tale affermazione, Abellán individua l’origine
della ripetizione di esili di natura politica in una causa «strutturale» di tipo «costituzionale» dell’identità nazionale spagnola,
ossia nell’identificazione tra «la unidad política con la unidad
religiosa, puesto que el Estado moderno se constituye en España
sobre la base del catolicismo»6. In altri termini, la lunga serie di
espulsioni ed emigrazioni che dal 1492 in poi costella la storia
3
C. E. LIDA, Inmigración y exilio. Reflexiones sobre el caso español, México,
Siglo Veintiuno, 1997.
4
J. CANAL, Los exilios en la historia de España, in ID. (ed.), Exilios. Los
éxodos políticos en la Historia de España. Siglos XV-XX, Madrid, Sílex,
2007, pp. 11-35, spec. p. 14.
5
J. L. ABELLÁN, El exilio como constante y como categoría, Madrid, Biblioteca Nueva, 2001, p. 17.
6
Ibidem.
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Prefazione
iberica scaturirebbe dalle radici cattoliche della «nacionalidad
española», come conferma il fatto che tutte le minoranze religiose (ebrei, alumbrados, erasmisti, protestanti e moriscos) furono le prime ad essere oggetto di misure d’espulsione7. A ben
vedere i due elementi basilari di questa interpretazione – da una
parte il nesso esistente tra gli esili e la formazione dello Stato
moderno, dall’altra il carattere intollerante di un’identità nazionale fondata su una fede intransigente – erano già emersi nella
cultura storiografica spagnola nella prima metà del Novecento
grazie alle opere di Carles Rahola e Gregorio Marañón, per essere poi ulteriormente sviluppati dalle ricerche di due esuli antifranchisti, Ferran Soldevila e Vicente Llorens8. Tale cornice interpretativa ha trovato la propria consacrazione in un’importante
opera collettiva, curata dallo stesso Abellán, apparsa tra la scomparsa di Franco e l’entrata in vigore della costituzione democratica, El exilio español de 19399.
Vale la pena soffermare l’attenzione sulla tesi espressa da
Abellán. Essa non è priva di fascino per la sua capacità di spiegare alcuni dei più rilevanti episodi di emigrazioni/espulsioni/diaspore/deportazioni dovute a ragioni politico-religiose;
7
Ivi, p. 18.
Su questi autori si veda CANAL, Los exilios, pp. 14-33. Negli ultimi venti
anni circa sono apparsi vari volumi collettivi dedicati agli esili spagnoli tra
età moderna e contemporanea. Oltre al libro curato da Canal già citato, mi
limito a ricordare A. MESTRE SANCHÍS, E. GIMÉNEZ LÓPEZ (eds.), Disidencias
y exilios en la España moderna, Alicante, Universidad de Alicante, 1997; E.
LEMUS (ed.), Los exilios en la España contemporánea, n. mon. di «Ayer», 47
(2002); J.B. VILAR (ed.), La España del exilio. Las emigraciones políticas
españolas en los siglos XIX y XX, Madrid, Síntesis, 2006 (2a ed. 2012).
9
J.L. ABELLÁN (ed.), El exilio español de 1939, 6 voll., Madrid, Taurus,
1976-1978. Il primo volume, eleborato da uno dei maggiori intellettuali antifranchisti vissuti in esilio, Vicent Llorens, contiene una sintesi storica degli
esili spagnoli tra l’età moderna e quella contemporanea dal titolo Emigaciones de la España moderna, ivi, pp. 95-200.
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d’altra parte è innegabile che la politica dei monarchi spagnoli,
almeno nella prima età moderna, seguisse criteri confessionali
tipici della mentalità e della cultura del periodo. Detto questo,
mi sembra però che l’interpretazione generale proposta dallo storico iberico contenga anche alcuni aspetti problematici e rischi
di generare non pochi fraintendimenti. In primo luogo l’elemento religioso, e cioè il nesso esistente tra il cattolicesimo e la
formazione della “nazione” spagnola, non spiega tutti gli esili di
natura politica verificatisi in Spagna tra l’età moderna e quella
contemporanea, a cominciare da quelli avvenuti durante il XVIII
secolo: i sostenitori dell’arciduca Carlo d’Asburgo non furono
certo esiliati da Filippo V di Borbone per ragioni legate alla fede
o perché rinnegarono le matrici religiose della loro identità politica10, né i gesuiti, per quanto ecclesiastici, vennero espulsi nel
1767 per ragioni d’eterodossia (sebbene la propaganda antigesuitica insistesse sulle tante devianze della loro teologia o della
loro politica religiosa).
Secondariamente l’interpretazione di Abellán, se ipostatizzata, rischia indirettamente di avallare alcuni luoghi comuni persistenti circa la storia e la stessa identità spagnola: l’identificazione della Spagna con l’intolleranza religiosa simboleggiata
dall’Inquisizione è, infatti, uno dei topoi più potenti della cosiddetta leyenda negra antispagnola e, parallelamente, del paradigma delle “due Spagne” (la prima clericale, imperialista, antimoderna, la seconda laica, liberale, moderna) irrimediabilmente
10
Nonostante tutto, occorre ricordare che la Guerra di Successione spagnola
è stata considerata l’ultima guerra di religione europea poiché la fede venne
utilizzata dai due bandi, in particolare dai filo-borbonici, come una potente
arma ideologica e retorica: cfr. al riguardo J.-P. AMALRIC, La elección de un
bando: hugonotes y jacobitas en la Guerra de Sucesión de España, in «Manuscrits», 19 (2001), pp. 59-79; D. GONZÁLEZ CRUZ, Guerra de religión entre
príncipes católicos: el discurso del cambio dinástico en España y América
(1700-1714), Madrid, Ministero de la Defensa, 2002.
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Prefazione
in lotta tra loro11. Fin dal XVI secolo, dapprima gli “apologeti”
della Spagna e, successivamente, i pensatori conservatori e nazionalisti iberici (si pensi a Marcelino Menéndez y Pelayo)
hanno orgogliosamente rivendicato come fondante dell’hispanidad proprio quell’elemento – la perfetta compenetrazione tra
cattolicesimo e nazione spagnola – che i detrattori e gli oppositori dello Stato spagnolo (fossero essi stranieri o meno) contestavano o condannavano12. Il fatto poi che la propaganda franchista abbia recuperato e adottato tale paradigma, non ha certo
contribuito al suo superamento: ancora oggi, anche a causa del
riemergere degli egoismi nazionali, gli studiosi che si occupano
della nascita del concetto e del discorso retorico della nazione
spagnola fanno fatica a non schierarsi e a non sottoscrivere uno
dei due punti di vista. Di per sé tale slittamento della riflessione
11
Il tema, attualmente oggetto di un intenso dibattito pubblico dai toni sempre
più ideologici, sta conoscendo una rinnovata fortuna storiografica in Spagna
e Sudamerica. Oltre al classico lavoro di R. GARCÍA CÁRCEL, La leyenda negra. Historia y opinión, Madrid, Alianza, 1992, mi limito a citare R. D. CARBIA, Historia de la leyenda negra hispano-americana, Madrid, Marcial Pons,
2004; N. SORIANO MUÑOZ, Bartolomé de Las Casas, un español contra
España, Valencia, Intistució Alfons el Magnànim, 2015; Y. RODRÍGUEZ
PÉREZ, A. SÁNCHEZ JIMÉNEZ, H. DEN BOER (eds.), España ante sus críticos:
las claves de la Leyenda Negra, Madrid-Frankfurt am Main, IberoamericanaVervuert, 2015; M.J. VILLAVERDE RICO, F. CASTILLA URBANO (eds.), La
sombra de la leyenda negra, Madrid, Tecnos, 2016.
12
Antonio Mestre e Francisco Sánchez Blanco, pur adottando prospettive diverse, hanno dimostrato come il momento di svolta nella formazione dei due
paradigmi, quello della leyenda negra e della leyenda rosada legati alla storia
della Spagna, debba essere individuato nel ‘700 grazie all’Illuminismo: A.
MESTRE SANCHÍS, Apología y crítica de España en el siglo XVIII, Madrid,
Marcial Pons, 2003; F. SÁNCHEZ-BLANCO, El Absolutismo y las Luces en el
Reinado de Carlos III, Madrid, Marcial Pons, 2002; F. SÁNCHEZ-BLANCO,
La Ilustración goyesca. La cultura en España durante el reinado de Carlos
IV (1788-1808), Madrid, CSIC-Centro de Estudios Políticos y Constitucionales, 2007.
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Prefazione
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storiografica sulla nazione spagnola verso la Public History non
è negativo, a patto di non considerare accessoria una rigorosa
contestualizzazione di concetti, idee, termini e pratiche discorsive utilizzati nella ricerca storica13.
Infine, l’interpretazione che Abellán offre della storia degli esili spagnoli è rappresentativa di una tendenza, spesso inconscia, della riflessione storiografica iberica. L’esilio a cui furono sottoposti i repubblicani a seguito della Guerra civile è stato
certamente il più ingente quantitativamente e il più devastante,
da un punto di vista socio-culturale, che la Spagna abbia mai conosciuto: l’indubbia centralità di quell’esodo politico ha perciò
provocato un’involontaria distorsione dell’analisi storica. Da
una parte, infatti, «la comparación de los exilios anteriores a
1936-1939 […] ha comportando una cierta subestimación – involuntaria, frequentemente – de los primeros», come sottolinea
giustamente Jordi Canal14; dall’altra, le categorie individuate per
spiegare le ragioni e gli effetti dell’esilio degli anti-franchisti
sono state applicate per interpretare tutti gli altri esili precedenti.
Il rischio evidente è quello, ancora una volta, di subordinare
l’analisi del contesto in cui si realizzò uno specifico esilio alla
13
Anche l’analisi della semantica relativa ai termini della lingua castigliana
collegati al concetto di esilio («exilio», «destierro», «diáspora», «transtierro»,
«emigración», ecc.) fa parte di questo sforzo di contestualizzazione: da questo
punto di vista la “storia dei concetti” può essere di grande aiuto. Non essendo
possibile in questa sede affrontare tale riflessione, rimando a V. LLORENS,
Estudios y Ensayos sobre el exilio repubblicano de 1939, a cura di M. Aznar
Soler, Sevilla, Editorial Renacimiento, 2006, pp. 46-54; J.Á. ASCUNCE (ed.),
El exilio: debate para la historia y la cultura, San Sebastián, Editorial Saturrarán, 2008. Sulla recente tendenza a dilatare il significato semantico del concetto/termine di «diaspora» in relazione allo sviluppo della Global History,
cfr. M. ISABELLA, K. ZANOU (eds.), Mediterranean Diasporas. Politics and
Ideas in the Long 19th Century, London-New Delhi-New York-Sidney,
Blooomsbury, 2016.
14
CANAL, Los exilios, p. 13.
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Prefazione
cornice ideologica o, nella migliore delle ipotesi, a schemi interpretativi generali che risultano calati dall’alto non senza forzature. L’impegno civile e la necessità di svolgere una funzione
pubblica fanno certamente parte del mestiere dello storico che,
comunque, per essere tale, ha anche l’obbligo di evitare ogni
anacronismo e teleologismo. Quindi, fermo restando la necessità
degli studiosi di trarre dalla propria contemporaneità le domande
da porre al passato, ogni emigrazione/espulsione deve essere necessariamente studiata all’interno del suo contesto.
Partendo da queste premesse metodologiche, vorrei offrire
una breve riflessione sul primo esilio di tipo politico verificatosi
in Spagna durante il XVIII secolo, quello dei sostenitori degli
Asburgo durante e dopo la Guerra di Successione spagnola
(1701-1714)15. Tra le emigrazioni frutto di espulsioni verificatesi nel corso del Settecento deve essere ovviamente inserito il
lungo «destierro» italiano dei padri dell’Assistenza spagnola
della Compagnia di Gesù (1767-1815)16, ma si potrebbero forse
comprendere anche l’emigrazione degli afrancesados dopo il
15
Sul significato della definizione di austracismo cfr. J. ARRIETA ALBERDI,
Austracismo. ¿Qué hay detrás de ese nombre?, in P. FERNÁNDEZ ALBALADEJO (ed.), Los Borbones. Dinastía y memoria de nación en la España del
siglo XVIII. Actas del coloquio internacional celebrado en Madrid, mayo de
2000, Madrid, Marcial Pons-Casa de Velázquez, 2001, pp. 177-216.
16
La storiografia sull’espulsione dei gesuiti dalla Spagna di Carlo III ha conosciuto, negli ultimi venti anni, un rapido sviluppo. Mi limito a ricordare: E.
GIMÉNEZ LÓPEZ (ed.), Expulsión y exilio de los jesuitas españoles, Alicante,
Universidad de Alicante, 1997; E. GIMÉNEZ LÓPEZ, Jesuitas, in Exilios. Los
éxodos políticos, pp. 113-136; I. FERNÁNDEZ ARRILLAGA, El destierro de los
jesuitas castellanos (1767-1815), Salamanca, Junta de Castilla y León, 2004;
N. GUASTI, Lotta politica e riforme all’inizio del regno di Carlo III. Campomanes e l’espulsione dei gesuiti dalla monarchia spagnola (1759-1768), Firenze, Alinea, 2006; J. A. FERRER BENIMELI, Expulsión y extinción de los jesuitas (1759-1773), Mensajero, Bilbao, 2013; La expulsión de los jesuitas de
los dominios de Carlos III, in http://www.cervantesvirtual.com/portales/expulsion_jesuitas (ultima consultazione: 11-2-2018).
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1814 e quella dei liberali successiva alla seconda restaurazione
dell’assolutismo nel 1823: non solo perché queste ultime furono
la conseguenza del rigetto della cultura illuminista di fine Settecento da parte dei settori più conservatori della società iberica,
ma anche perché gli attuali studi sulla crisi dell’Antico Regime
spagnolo utilizzano abbondantemente la categoria di “lungo Settecento”, il cui arco temporale si colloca tra l’inizio del secolo e
il Trienio liberal del 1820-182317.
L’esilio austracista: la cronologia
Come è noto, la prima guerra di successione settecentesca
portò i Borbone sul trono di Spagna e produsse una massiccia
emigrazione dei sostenitori del bando perdente e cioè del ramo
austriaco degli Asburgo18. L’esodo degli austracistas iniziò di
17
Sulla diversa periodizzazione dell’Ilustración spagnola rispetto all’Illuminismo europeo ha recentemente insistito Jesús Astigarraga sottolineando
come gli ultimi effetti del riformismo iberico legato ai Lumi (non solo francesi, ma anche italiani) possono essere individuati proprio nel triennio liberale: cfr. J. ASTIGARRAGA, Introduction: admirer, rougir, imiter. Spain and
the European Enlightenment, in J. ASTIGARRAGA (ed.), The Spanish Enlightenment revisited, Oxford, Voltaire Foundation, 2015, pp. 1-17, spec. pp.
8-9. Anche una recente sintesi sulla Spagna del Settecento conclude l’analisi
sulla cultura illuminista iberica con un paragrafo dedicato agli afrancesados:
cfr. T.A. MANTECÓN, España en tiempos de Ilustración. Los desafíos del siglo XVIII, Madrid, Alianza, 2013, pp. 241-252.
18
La bibliografia sulla Guerra di Successione è ingente. Per una rassegna sul
tema mi permetto di rimandare al mio La Guerra di Successione spagnola:
un bilancio storiografico, in S. RUSSO, N. GUASTI (eds.), Il Viceregno austriaco (1707-1734). Tra capitale e province, Roma, Carocci, 2010, pp. 1742. Da integrare con V. LEÓN SANZ (ed.), La guerra de Sucesión Española,
n. mon. di «Cuadernos di Cuadernos dieciochistas», 15 (2014) e con J. ALBAREDA (ed.), El declive de la monarquía y del imperio español. Los tratados
de Utrecht (1713-1714), Barcelona, Crítica, 2015. I recenti bicentenari relativi alla caduta di Barcellona e alle paci di Utrecht (1713) e Rastatt (1714),
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Prefazione
fatto nel 1705, allorquando, dopo lo sbarco dell’esercito dell’arciduca Carlo – III per i suoi sostenitori iberici, VI dopo la sua
incoronazione imperiale – la contesa dinastica assunse le caratteristiche di una vera e propria guerra civile vuoi in Spagna, che
negli altri territori europei della monarchia (Sardegna, Sicilia,
Regno di Napoli, Ducato di Milano e Paesi Bassi)19. Si trattò in
realtà di una serie di esili o, se si preferisce, di diverse ondate di
un unico consistente esilio che interessò ogni ceto sociale (dai
grandi e dalla nobiltà titolata fino agli artigiani e mercanti, passando per il mondo ecclesiastico) e ogni territorio della “monarchia composita” spagnola: sebbene quantitativamente gli esuli
provenienti dall’ex Corona d’Aragona costituissero la netta
maggioranza, vi furono anche numerosi emigrati originari della
Corona di Castiglia (in particolare delle due Castiglie, dell’Andalusia e del Regno di Murcia)20.
anche per la valenza ideologica che il tema continua a possedere in Spagna,
hanno ulteriormente arricchito il quadro storiografico: cfr. al riguardo B.
GARCÍA GARCÍA, El tricentenario de los tratados de Utrecht, Rastatt y Baden
(1712-1715), in «Cuadernos de Historia Moderna», 41, I (2016), pp. 199-224.
19
Casi di defezione di singole personalità a favore dell’arciduca, in particolare aristocratici ed ecclesiastici, si erano verificati fin dal 1702: nell’ottobre
di quell’anno, ad esempio, l’Almirante de Castilla, Juan Enríquez de Cabrera
si era rifugiato (insieme a tre gesuiti e al conte de la Corzana) a Lisbona in
dissenso con la «tiranía» di Filippo V. Dal 1704 fino al 1714 la capitale portoghese, insieme a Genova e Gibilterra, rappresentarono i centri di riferimento dei profughi filo-asburgici.
20
F. DURÁN I CANYAMERAS, Els exiliats de la Guerra de Successió, Barcelona, R. Dalmau, 1964; V. LEÓN SANZ, Los españoles austracistas exiliados
y las medidas de Carlos VI (1713-1725), in «Revista de Historia Moderna»,
10 (1991), pp. 165-176; V. LEÓN SANZ, “Abandono de patria y hacienda”.
El exilio austracista valenciano, in «Revista de Historia Moderna – Anales
de la Universidad de Alicante», 25 (2007), pp. 235-255; V. LEÓN SANZ, La
oposición a los Borbones españoles: los austracistas en el exilio, in MESTRE
SANCHÍS, GIMÉNEZ LÓPEZ (eds.), Disidencias y exilios, pp. 469-499; V. LEÓN
SANZ, Austracistas, in CANAL (ed.), Exilios. Los éxodos políticos, pp. 75-115;
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Tale varietà sociale e territoriale di coloro che decisero di
emigrare permette di definire «el exilio austracista […] el primer
gran exilio político peninsular»21. Dopo la caduta di Barcellona
(11 settembre 1714), si verificò un cambiamento non solo di tipo
quantitativo, ma soprattutto di natura “psicologica” dell’esilio
austracista, dal momento che i sostenitori iberici degli Asburgo
presero coscienza del fatto che «el abandono de la patria y de la
hacienda» non sarebbe stata una condizione temporanea, ma definitiva. In effetti il flusso di esiliati non terminò con la fine delle
ostilità. Se durante il conflitto l’emigrazione dei fautori di Carlo
VI era stata tendenzialmente volontaria, incentivata dal timore
di rappresaglie da parte dei militari e funzionari borbonici, dopo
la caduta della Catalogna la scelta dell’esilio fu una costrizione;
a seguito dell’editto emanato da Filippo V a Hospitalet nel 1715,
infatti, il nuovo sovrano spagnolo comminò «el exterminio y destierro» a tutti i sostenitori degli Asburgo: in quanto rei di lesa
maestà e di «disafección y disidencia» verso i Borbone, essi
erano banditi e spogliati delle loro proprietà e dei titoli ad essi
connessi22. Si trattò solo di una delle varie misure repressive
V. LEÓN SANZ, El Archiduque Carlos y los austracistas. Guerra de Sucesión
y exilio, Sant Cugat, Editorial Arpegio, 2014, pp. 231-327; C. PÉREZ APARICIO, A. FELIPO ORTS, Una drama personal i col·lectiu. L’exili austriacista
valencià, in «Pedralbes. Revista d’Història Moderna», XVIII, 2 (1998), pp.
329-343; A. ALCOBERRO, L’exili austriacista (1713-1747), 2 voll., Barcelona, Fundació Noguera, 2002; A. ALCOBERRO, El primer gran exilio político
hispánico: el exilio austracista, in ALBAREDA (ed.), El declive de la monarquía, pp. 173-224.
21
Ivi, p. 178.
22
LEÓN SANZ, Austracistas, p. 78. Queste stesse accuse giustificarono, fin dal
1707, l’abolizione dei fueros degli Stati che componevano la Corona d’Aragona e cioè il Regno di Valenza, il Regno d’Aragona, il Principato catalano
e le Baleari.
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Prefazione
messe in atto dalla nuova dinastia per punire i singoli sudditi e,
nel complesso, i territori ribelli, in particolare la Catalogna23.
Dalla fine del conflitto fino agli anni Trenta, in coincidenza con le nuove congiunture belliche causate dalla “politica
revisionista” o mediterranea di Filippo V (come l’occupazione
della Sardegna del 1717, la Guerra della Quadruplice alleanza
del 1718-1720 e, infine, la Guerra di Successione polacca del
1733-1738), il governo borbonico elaborò non solo numerose le
liste di banditi e di indesiderati (donne comprese)24, ma effettuò
anche continue confische di beni che di per sé ostacolarono il
processo di rientro degli esiliati. Per cui, nonostante la stipula
della pace di Vienna (1725) avesse normalizzato i rapporti tra le
monarchie spagnola e austriaca, buona parte degli esili degli austracistas si realizzò tra il 1713 e il 1738 come conseguenza di
specifiche misure repressive assunte dalle autorità borboniche.
La valenza politica dell’emigrazione di numerosi sostenitori spagnoli degli Asburgo – in particolare di tanti aristocratici,
23
J. ALBAREDA, Represión y disidencia en la Cataluña borbónica (17141725), in MESTRE SANCHÍS, GIMÉNEZ LÓPEZ (eds.), Disidencias y exilios, pp.
543-555; J. ALBAREDA, Felipe V y Cataluña, in J. FERNÁNDEZ GARCÍA, M.A.
BEL BRAVO, J.M. DELGADO BARRADO (eds.), El cambio dinástico y sus repercusiones en la España del Siglo XVIII. Homenaje al Dr. Luis Coronas
Tejada, Jaén, Universidad de Jaén-Exc.ma Diputación Provincial de Jaén,
2000, pp. 93-108; V. LEÓN SANZ, Represión borbónica y exilio austracista al
finalizar la Guerra de Sucesión española, in A. ÁLVAREZ-OSSORIO ALVARIÑO, B.J. GARCÍA-GARCÍA, V. LEÓN SANZ (eds.), La pérdida de Europa. La
guerra de Sucesión por la Monarquía de España, Madrid, Fundación Carlos
de Amberes, 2007, pp. 567-589; J. M. TORRAS I RIBÉ, Felip V contra Catalunya: testimonis d’una repressió sistemàtica, (1713-1715), Barcelona, Rafael
Dalmau, 2005; R. SÁEZ ABAD, La Guerra de Sucesión española: 1702-1715,
Madrid, Almena Ediciones, 2007.
24
LEÓN SANZ, Austracistas, p. 96; J. C. SAAVEDRA ZAPATER, Entre el castigo
y el perdón. Felipe V y los austracistas de la Corona de Castilla, 1706-1715,
in «Espacio, Tiempo y Forma. Historia Moderna», 13 (2000), pp. 469-503.
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funzionari e religiosi che scelsero l’esilio – non deve essere individuata esclusivamente nell’elemento della fedeltà dinastica,
ma anche in una diversa concezione dello Stato: a cominciare
dall’abolizione decretata da Filippo V dei fueros del Regno di
Valenza (1707), primo passo della cosiddetta Nueva Planta borbonica, apparve infatti chiaro che una delle poste in gioco del
conflitto era anche la sopravvivenza del cosiddetto pactismo o
foralismo catalano-aragonese su cui si era retta, fino ad allora, la
monarchia composita o policentrica spagnola.25 In sostanza una
delle chiavi di lettura che i giuristi e gli intellettuali austracistas
in esilio dettero della Guerra di Successione e, in maniera esplicita, della loro scelta di vivere in esilio deve essere individuata
nel rigetto del modello assolutista francese di Stato, considerato
alieno alla tradizione giuridico-politica ispanica26.
25
J. ALBAREDA, Felipe V y el triunfo del absolutismo. Cataluña en un conflicto europeo (1700-1714), Barcelona, Generalitat de Catalunya, 2002; E.
GIMÉNEZ LÓPEZ, Gobernar con una misma ley. Sobre la Nueva Planta borbónica en Valencia, Alicante, Universidad de Alicante, 1999; E. GIMÉNEZ
LÓPEZ, La Nueva Planta y la Corona de Aragón, in FERNÁNDEZ GARCÍA, BEL
BRAVO, DELGADO BARRADO (eds.), El cambio dinástico, pp. 29-42; J.-P. DEDIEU, La Nueva Planta en su contexto. Las reformas del aparato del Estado
en el reino de Felipe V, in «Manuscrits», 18 (2000), pp. 113-139; P. FERNÁNDEZ ALBALADEJO, Materia de España. Cultura política e identidad en la España moderna, Madrid, Marcial Pons, 2007, pp. 65-91, 177-244; J.Mª. IÑURRITEGUI, Gobernar la ocasión. Preludio político de la Nueva Planta de 1707,
Madrid, Centro de Estudios Políticos y Constitucionales, 2008; C. PÉREZ
APARICIO, Canvi dinàstic i Guerra de Successió. La fi del Regne de València,
2 voll., Valencia, Edicions Tres i Quatre, 2008.
26
Occorre comunque osservare che la più recente storiografia francese ha
messo in dubbio non solo l’esistenza di un modello autoctono di assolutismo,
ma anche la tesi secondo cui Filippo V e i suoi consiglieri (molti dei quali
italiani e fiamminghi) avessero applicato una coerente riforma di orientamento assolutista delle istituzioni della monarchia ereditata dagli Austrias.
Cfr. soprattutto J.-F. SCHAUB, La France espagnole. Les racines hispaniques
de l’absolutisme franças, Paris, Éditions de Seuil, 2003; A. DUBET, ¿La imViaggiatori. Circolazioni scambi ed esilio, Anno 1, Numero 2, marzo 2018
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Prefazione
Gli esiliati austracistas: tra sopravvivenza, controllo politico
e integrazione
Passando agli aspetti materiali dell’esilio austracista, è opportuno analizzare brevemente i suoi tre elementi essenziali:
l’entità quantitativa e qualitativa del processo emigratorio, le
principali occupazioni o fonti di reddito degli esuli e, infine, il
livello di integrazione raggiunto dagli emigrati nei luoghi
dell’esilio (nel nostro caso, nell’ambito della monarchia austriaca)27. Si tratta in realtà di aspetti che appaiono connaturati a
qualsiasi emigrazione originata da cause politiche.
Partendo dalla prima questione, incrociando i dati forniti
dai cronisti del periodo (in particolare dal catalano Francesc de
Castellví, autore delle straordinarie Narraciones históricas) con
le liste di proscrizione borboniche e i censimenti asburgici, gli
specialisti hanno calcolato che tra il 1713 e il 1725 abbandonarono la Spagna tra le 25.000 e le 30.000 persone, di cui il 75% 80% proveniva dai territori dell’ex Corona d’Aragona, in particolare dalla Catalogna e dal Regno di Valenza28. Come abbiamo
portación de un modelo francés? Acerca de algunas reformas de la adminisración española a principios del siglo XVIIII, in «Revista de Historia Moderna – Anales de la Universidad de Alicante», 25 (2007), pp. 207-233; A.
DUBET, ¿Francia en España? La elaboración de los proyectos de reformas
político-administrativas de Felipe V (1701-1703), in ÁLVAREZ-OSSORIO ALVARIÑO, GARCÍA-GARCÍA, LEÓN SANZ (eds.), La pérdida de Europa, pp. 293311; A. DUBET, Un estadista francés en la España de los Borbones. Juan
Orry y las primeras reformas de Felipe V (1701-1706), Madrid, Biblioteca
Nueva, 2008.
27
Nel corso di questo paragrafo propongo una sintesi dei dati offerti dalle
ricerche sopra citate, in particolare quelle di Alcoberro e León Sanz.
28
G. STIFFONI, Un documento inédito sobre los exiliados españoles en los
dominios austríacos después de la Guerra de Sucesión, in «Estudis. Revista
d’Història Moderna», 17 (1991), pp. 7-55; ALCOBERRO, L’exili austriacista,
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accennato in precedenza, gli esuli appartenevano a tutti i ceti
della società spagnola: Grandi, titolati, nobili di provincia, patrizi, giuristi-magistrati-funzionari (i cosiddetti letrados), militari, ecclesiastici (secolari e regolari), mercanti, professionisti,
artigiani, popolani. Numerosi furono tra i transfughi anche le
donne e i minori, dato che l’esilio interessò molto spesso interi
nuclei familiari29. Questo ingente numero di esiliati andò scemando nel corso degli anni non solo a causa dei decessi naturali,
ma anche per il rientro in patria di numerosi esuli a seguito di
disposizioni ad personas o collettive emanate dalle autorità borboniche, soprattutto a seguito della pace di Vienna30.
Per quanto invece riguarda le destinazioni definitive degli
esiliati, la maggioranza dei 30.000 austracistas emigrati si stabilì nei territori italiani che la monarchia austriaca aveva acquisito grazie ai trattati di Utrecht e Rastatt: i Regni di Napoli e di
vol. 2, pp. 107-155; ALCOBERRO, El primer gran exilio, p. 180; LEÓN SANZ,
Austracistas, p. 80.
29
L’amministrazione borbonica produsse una legislazione specifica riguardante le donne austracistas, a conferma del fatto che il numero della presenza
femminile nelle file degli esiliati, in particolare di quelli provenienti dalla Catalogna, era piuttosto elevato: ad esempio, le catalane titolari di beni confiscati rappresentavano il 21% del totale. Già con il decreto di Aranjuez del 12
luglio 1715 Filippo V sospendeva il bando alle donne che avevano seguito i
consorti prima a Barcellona e poi in esilio, anche se erano escluse coloro che
appartenevano a casate di Grandi e di titolati; si vietava comunque loro di
risiedere a corte. Cfr. LEÓN SANZ, Austracistas, p. 96.
30
LEÓN SANZ, El Archiduque Carlos, pp. 298-305; V. LEÓN SANZ, Acuerdos
de la paz de Viena de 1725 sobre exiliados de la Guerra de Sucesión, «Pedralbes. Revista d’Història Moderna», XII (1992), pp. 293-312.
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Sardegna (e, dal 1720, la Sicilia)31, lo Stato di Milano e Mantova32. Non si trattava certo di paesi “stranieri”, dato che per i
sudditi del legittimo re di Spagna, come continuavano a considerarsi i sostenitori di Carlo III d’Asburgo, i territori italiani
erano da secoli parte della monarchia composita spagnola: oltre
a permettere possibilità di impiego ai membri del ceto togato ed
occasioni imprenditoriali ai vari gruppi della borghesia, molte
famiglie aristocratiche iberiche possedevano solide relazioni familiari con importanti lignaggi italiani. In vari casi, come quello
esemplare dei Pignatelli, l’esilio permise il ricongiungimento dei
due rami della medesima famiglia. Peraltro il castigliano continuò ad essere la lingua ufficiale dell’amministrazione e della
giurisprudenza “austriache” in Italia, per cui i tanti funzionari
che trovarono impiego nelle magistrature degli stati italiani della
monarchia asburgica, di fatto, continuarono la routine interrotta
in Spagna. Lo stesso ragionamento può essere fatto per quelle
decine di esuli austracistas che decisero di stabilirsi nelle Fiandre.
Detto in altri termini, per uno spagnolo d’inizio Settecento
l’Italia, non solo quella sottoposta alla sovranità dagli Asburgo,
possedeva un’indubbia familiarità culturale (anche in senso lato)
che la rendeva, quasi naturalmente, il luogo più adatto da dove
31
Nel 1717 gli austracistas catalani che si erano rifugiati in Sardegna dovettero nuovamente fuggire a causa dell’invasione borbonica dell’isola. Il loro
spostamento divenne definitivo a seguito dello scambio dell’isola con il Regno di Sicilia, effettuata nel 1720 con i Savoia, a seguito della pace dell’Aja.
32
Sulle conseguenze politiche, sociali, economiche e culturali che la Guerra
di Successione ebbe sull’Italia cfr. M. VERGA (ed.), Dilatar l’Impero in Italia.
Asburgo e Italia nel primo Settecento, n. mon. di «Cheiron», 21 (1994); ANTONIO ÁLVAREZ-OSSORIO ALVARIÑO (ed.), Famiglie, nazioni e Monarchia:
il sistema europeo durante la Guerra di Successione spagnola, n. mon. di
«Cheiron», 39-40 (2003); G. GALASSO, Storia del Regno di Napoli, vol. 3,
Torino, Utet, 2008.
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ricostruire un’esistenza, uno status, una carriera o una professione. In effetti gli studiosi hanno rilevato comunità di austracistas attive anche in altri stati italiani. Alcuni, in particolare coloro che esercitavano la mercatura, rimasero in pianta stabile a
Genova, città che nelle prime fasi dell’esilio (specie nel 17131714) assolse alla funzione di centro di raccolta e di passaggio
obbligato dei transfughi; Roma, invece, venne scelta come residenza di numerosi ecclesiastici fin dal 1709 non solo per la possibilità di reperire benefici ed uffici, ma anche per l’atteggiamento accondiscendente dimostrato da Clemente XI nei confronti della causa dell’arciduca e per le pessime relazioni diplomatiche che la nuova Spagna di Filippo V intrattenne con la
Santa Sede33.
Ovviamente gli esuli si distribuirono anche negli altri territori della monarchia asburgica che, per la sua natura composita,
somigliava non poco a quella del ramo spagnolo appena estinto.
Vienna, per la presenza della corte, degli uffici dell’amministrazione centrale e di vari centri di aggregazione della comunità
spagnola rappresentò la destinazione privilegiata degli aristocratici, dei funzionari più rilevanti, dei militari e di tutti coloro che
desiderassero avanzare delle petizioni al sovrano. La concentrazione di postulanti nella capitale divenne immediatamente oggetto della preoccupazione del governo asburgico anche per ragioni di ordine pubblico: già il 9 ottobre 1714 Carlo VI emanò
un primo decreto con il quale si intimava agli esuli spagnoli che
non avessero un’occupazione stabile nella capitale di abbandonare entro tre giorni Vienna e di tornare nei territori italiani dove
gli sarebbe stata versata una pensione. La continua ripetizione di
33
D. MARTÍN MARCOS, El Papado y la Guerra de Sucesión, Madrid, Marcial
Pons, 2011. Ad esempio Álvaro Cienfuegos, uno dei tre gesuiti che avevano
accompagnato nel 1702 l’ammiraglio di Castiglia a Lisbona, nel 1720 ottenne
il cappello cardinalizio.
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Prefazione
tale ordine perentorio negli anni successivi dimostra che le severe pene previste per gli inadempienti non avevano sortito il
risultato sperato, anche se da subito l’amministrazione asburgica
approntò un capillare sistema di concessione di permessi di viaggio e di residenza (licencias) per tutti i sudditi spagnoli che, residenti in Italia o nei Paesi Bassi, volessero raggiungere la capitale. È stato calcolato che ancora nel 1734 l’1% della popolazione complessiva della capitale (circa 1.500 persone) fosse costituita dalla colonia di spagnoli residenti. Sicuramente a Vienna
vissero in maniera stabile alcuni nobili appartenenti alle principali casate di Grandi e titolati iberici, oltre ai funzionari delle
istituzioni di governo di più alto grado: essi non tardarono a diventare uno degli assi portanti della politica della monarchia
asburgica, coagulandosi in un vero e proprio “partito” che divenne protagonista della lotta fazionaria di corte34.
Occorre ricordare che Carlo VI si sentì sempre in obbligo
verso coloro che avevano perso «patria y hacienda» combattendo fino alla fine per la sua causa, per cui si impegnò a garantire loro, in particolare agli aristocratici, ai funzionari e ai militari, uno status e un reddito consono a quelli che avevano posseduto in Spagna. Naturalmente le prime misure furono dettate
dall’emergenza e, quindi, dalla necessità di garantire una minima
sussistenza ai transfughi che giungevano, in ondate successive,
a Genova, in Lombardia, in Sardegna, a Napoli e a Vienna. Anche a tal fine, il 29 dicembre 1713 Carlo VI decise di fondare il
Consejo Supremo de España (alla cui presidenza venne posto
34
Sulle dinamiche della lotta fazionaria presente a Vienna tra i vari partiti –
quello tedesco (forte nelle istituzioni imperiali come la Camera Aulica e la
cancelleria imperiale), quello boemo e quello spagnolo (entrambi legati alle
magistrature territoriali come la Cancelleria Boema e il Consiglio di Spagna
cfr. LEÓN SANZ, El Archiduque Carlos, pp. 240-276; V. LEÓN SANZ, Al servicio de Carlos VI. El partido español en la corte imperial, in ALBAREDA
(ed.), El declive de la monarquía, pp. 225-275.
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l’ex arcivescovo di Valencia, Antonio Folch de Cardona) e la
Secretaría de Estado y del Despacho per gli affari italiani e fiamminghi (presieduta fino al 1734 da Ramón de Vilana Perlas, marchese di Rialp): si trattava di due istituzioni tipiche della monarchia polisinodale spagnola che Carlo VI, in attesa di riconquistare la Spagna, trasferiva e riproduceva a Vienna con lo scopo
di governare un pezzo della sua monarchia35. Il Consiglio di Spagna, diviso in quattro segreterie – Napoli, Sardegna (sostituita
dal 1720 con quella della Sicilia), Milano e Fiandre (fino
all’aprile del 1717, quando venne eretto il Consejo de Flandes
presieduto da Josep de Cardona y Erill) –, aveva il compito di
coadiuvare il sovrano nell’amministrazione dei territori italiani,
mentre la Segreteria di Stato si occupava della loro politica
estera. Ovviamente il castigliano continuò ad essere la lingua ufficiale di entrambi i ministeri, nei quali trovarono impiego una
35
Cfr. LEÓN SANZ, El Archiduque Carlos, pp. 240-266. La sede viennese del
Consiglio di Spagna fissò la propria residenza nel palazzo Caprara. Sul ruolo
giocato da tale consiglio, mutuato dall’organigramma polisinodale spagnolo,
nel rinnovamento istituzionale della monarchia austriaca cfr. M. VERGA, Il
“sogno spagnolo” di Carlo VI. Alcune considerazioni sulla monarchia
asburgica e i domini italiani, in C. MOZZARELLI, G. OLMI (eds.), Il Trentino
nel ‘700 fra Sacro Romano Impero e antichi Stati italiani, Bologna, Il Mulino,
1985, pp. 203-261; M. VERGA, Le istituzioni politiche, in G. GRECO, M. ROSA
(eds.), Storia degli antichi stati italiani, Roma-Bari, Laterza, 1990, pp. 3-58,
spec. pp. 37-53; M. VERGA, Sotto l’ala dell’aquila. Gli Asburgo e l’Italia, in
«Storia e dossier», VIII (1993), pp. 67-97; M. VERGA, Il “Bruderzwist”, la
Spagna, l’Italia. Dalle lettere del duca di Moles, in «Cheiron», 21 (1994), pp.
13-53; M. VERGA, Tra Sei e Settecento: un’“età delle pre-riforme”?, in
«Storica», 1 (1995), pp. 89-121; M. VERGA, Appunti per una storia del
Consiglio di Spagna, in G. BIAGIOLI (ed.), Ricerche di Storia Moderna in
onore di Mario Mirri, vol. IV, Pisa, Pacini Editori, 1995, pp. 561-576; V.
LEÓN SANZ, La influencia española en el reformismo de la monarquía
austriaca del Setecientos, in «Cuadernos dieciochistas», 1 (2000), pp. 107132.
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Prefazione
discreta quantità di funzionari (tesoreros, contadores, escribanos, ecc.) di origine iberica36. Oltre a presentarsi come un vero e
proprio governo in esilio, le due istituzioni vennero dotate di autonomia finanziaria e, quindi, nei primi anni dell’esilio austracista vennero incaricate di provvedere al mantenimento degli emigrati e di esaminare le singole richieste di aiuto economico da
loro provenienti. Già nel 1714 il Consiglio di Spagna decise di
creare una commissione speciale la cui principale incombenza
sarebbe stata quella di pagare delle pensioni ai sudditi spagnoli
di Carlo VI, la cui entità venne commisurata al loro status: gli
esuli vennero infatti divisi in sei categorie in base al loro rango
(Grandi, titolati, cavalieri, ecclesiastici, ecc.). Negli anni successivi questa giunta ristretta del Consiglio di Spagna amministrò
un fondo specifico, denominato Providencia o Delegación General de Españoles, i cui proventi giungevano dai beni confiscati
ai sostenitori di Filippo V nei territori italiani e nelle Fiandre, poi
assorbiti dal Real Patrimonio37. In altri termini, il peso del mantenimento degli esuli spagnoli venne sostenuto dalle rendite provenienti dalle province italiane e fiamminghe, in particolare da
quelle del Regno di Napoli. Il Viceregno acquisì quindi una posizione strategica non solo nell’ambito della politica mediterranea degli Asburgo, ma, più prosaicamente, anche per garantire
un peso politico al “partito” spagnolo presente a Vienna e per il
mantenimento dell’intera comunità austracista in esilio38. Le
36
V. LÉON SANZ, Los funcionarios del Consejo supremo de España en Viena
(1713-1725), in L.M. ENCISO RECIO (ed.), La burguesía española en la Edad
Moderna, vol. 2, Valladolid, Universidad de Valladolid, 1996, pp. 893-904.
37
V. LEÓN SANZ, Los españoles autracistas exiliados y las medidas de Carlos
VI, 1713-1725, in «Revista de Historia Moderna», 10 (1991), pp. 162-173;
LEÓN SANZ, El Archiduque Carlos, pp. 231-276.
38
Alcoberro fa notare che, soprattutto nel decennio 1725-1734, «el reino de
Nápoles se había convertido en el primer contribuidor neto del Consejo de
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sovvenzioni, che oscillarono tra gli 8.000 e i 100 ducati annuali,
vennero quindi calcolate in funzione dello stamento e della consistenza del nucleo familiare dei richiedenti39. Tale sistema assistenziale e di patronage, che durò fino alla perdita dei Regni di
Napoli e Sicilia a seguito della Guerra di Successione polacca,
permise quindi agli esuli di superare le difficoltà economiche patite durante i primi anni dell’esilio, certamente i più difficili. Resta comunque il fatto che, superata la fase d’emergenza verso il
1720, i consiglieri del sovrano (in particolare i membri della camera Aulica, in primis Eugenio di Savoia, che si opponevano al
“partito” spagnolo) chiesero agli esuli spagnoli di vivere delle
proprie rendite e di trovare delle occupazioni consone al loro status: le pensioni, infatti, erano state concepite come una misura
straordinaria e temporanea, sebbene continuassero ad essere erogate ai soggetti più indigenti o non in grado di lavorare. Solitamente ogni esiliato cercò gradualmente di recuperare quel tenore
di vita (nel caso degli aristocratici) e quelle occupazioni
(nell’ambito del clero e delle professioni liberali o manuali) goduto prima dell’esilio.
Da questo punto di vista i letrados e i militari furono certamente avvantaggiati. I primi, come abbiamo visto, trovarono
impiego negli uffici e nelle magistrature sia dell’amministrazione centrale, che di quella periferica: nel primo caso il personale burocratico che trovò spazio negli uffici dei Consigli di Spagna, in quello delle Fiandre e nella Segreteria di Stato aveva già
fatto parte dell’amministrazione regia a Barcellona. Anche nelle
province, solitamente gli uffici più rilevanti assegnati dal Consiglio di Spagna, a cominciare da quelli di Viceré di Napoli e Si-
España, y también en la primera fuente de ingresos de los exiliados» attraverso vari strumenti: incarichi, pensioni, concessione di feudi o benefici, elemosine. Cfr. ALCOBERRO, El primer gran exilio, p. 210.
39
LEÓN SANZ, Austracistas, pp. 80-86.
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cilia o di governatore di Milano, vennero considerati appannaggio dei sudditi originari della penisola iberica o che avevano relazioni di parentela con essi: è il caso, ad esempio, del vicerè
D’Althann, marito della contessa catalana Marianna Pignatelli i
d’Aimerich.
Invece i militari furono inizialmente dislocati a Vienna,
Buda e Esseck. Occorre a questo proposito ricordare due dati: in
primo luogo i soldati costituivano di gran lunga la categoria e il
gruppo più consistente di esiliati poiché tra il 1713 (quando ben
2.500 tra ufficiali e truppe erano stati evacuati da Barcellona a
seguito dell’accordo sottoscritto ad Hospitalet da Filippo V) e il
1715-1717 (quando i contingenti locali avevano abbandonato
prima Maiorca e poi la Sardegna) migliaia di militari di ogni età
e grado avevano preso la via dell’esilio. In secondo luogo le
truppe di origine spagnola non erano agli ordini unicamente del
Consiglio di Spagna, ma anche del Consiglio Aulico di Guerra
presieduto dal principe Eugenio di Savoia: uno dei principali oppositori del “partito” spagnolo a corte, quindi, si trovò a gestire
i militari iberici e, successivamente, quelli provenienti dai territori italiani annessi alla monarchia. Già nel 1713 gli ufficiali e i
soldati spagnoli vennero inquadrati in tre reggimenti di cavalleria e due di fanteria di 1500 uomini ciascuno40. Questi contingenti vennero impiegati nel corso della Terza Guerra turca
40
ALCOBERRO, El primer gran exilio, pp. 194-200; A. ALCOBERRO, Presència i ecos de l’exili austriacista hispànic a la Tercera Guerra Turca. L’Epopeia panegírica de Vicent Díaz de Sarralde (Nàpols, 1718), in «Aguaits», 2425 (2007), pp. 73-96; A. ALCOBERRO, Catalans a les guerres turques (segles
XVI-XVIII), in Princeses de terres llunyanes. Catalunya i Hongria a l’edat
mitjana, Barcelona, Generalitat de Catalunya, 2009, pp. 433-449. A questi
7.500 uomini inquadrati nei ranghi dell’esercito imperiale devono però sommarsi quelli dislocati nei territori italiani e nelle Fiandre, oltre che i militari
non più in servizio attivo (perché mutilati o ritirati per anzianità). Le liste
elaborate in questi anni dall’amministrazione asburgica, in effetti, dividono i
soldati iberici in tre categorie: quelli in servizio attivo, i congedati e coloro
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(1714-1718), distinguendosi nella battaglia di Peterwardein,
nell’assalto di Temesvar e nell’assedio di Belgrado; i due reggimenti rimanenti vennero poi impiegati nella successiva Guerra
austro-turca (1737-1739), meno fortunata da un punto di vista
strategico. Proprio in quegli anni, durante la Guerra di Successione polacca (1734-1738), venne formata in Italia tra gli esiliati
iberici una compagnia di volontari, al comando del colonello
Pere Joan Barceló (detto Carrasquet, protagonista tra il 1719 e il
1720 di una feroce guerrilla antiborbonica sulla dorsale pirenaica e in Catalogna meridionale) che rimase attiva fino alla
Guerra di Successione austriaca (1740-1748), quando essa era
composta da 64 uomini (di cui 16 di provenienza italiana)41. Ancora nel 1796 continuava ad essere in attività nella fanteria
asburgica un reggimento spagnolo.
Oltre alle pensioni e agli stipendi elargiti dal Consiglio di
Spagna grazie alla Delegación de Españoles, anche la segreteria
di Stato poté contare su un fondo specifico per venire incontro
alle esigenze finanziarie degli austracistas: si trattò del cosiddetto Real Bolsillo Secreto42. Si trattava di un fondo addizionale,
che avevano perso per varie ragioni (ad esempio per indisciplina) lo status di
militare. Ai membri dei primi due gruppi veniva versato un salario, mentre a
quelli del terzo veniva comunque assicurata una pensione o un’occupazione
di rango inferiore poiché avevano pur sempre abbandonato «sus casas por
seguir el real nombre».
41
ALCOBERRO, El primer gran exilio, pp. 199-201.
42
V. LEÓN SANZ, La Secretaría de Estado e del Despacho Universal del Consejo de España, in «Cuadernos de Historia Moderna», XVI (1995), pp. 239257; V. LEÓN SANZ, Patronazgo político en la Corte de Viena: los españoles
y el Real Bolsillo Secreto de Carlos VI, in «Pedralbes. Revista d'Història Moderna», XVIII, 2 (1998), pp. 577-598; V. LEÓN SANZ, De rey de España a
emperador de Austria: el archiduque Carlos y los austracistas españoles, in
E. SERRANO MARTÍN (ed.), Felipe V y su tiempo. Congreso internacional, vol.
1, Zaragoza, Institución Fernando el Católico, 2004, pp. 747-774.
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dipendente da un punto di vista contabile della tesoreria del Consiglio di Spagna e sovvenzionato con i proventi di mercedi e uffici venduti nei territori italiani e fiamminghi, pensato per assistere specificamente gli esiliati. In realtà il Real Bolsillo, fino
agli anni Trenta del Settecento, divenne lo strumento essenziale
del patronage esercitato dai capi del “partito” spagnolo a
Vienna, in particolare dal marchese di Rialp: il denaro, infatti,
venne da lui impiegato per costruire una ramificata clientela politica, anche se venne spesso utilizzato per ridurre con sovvensioni straordinarie la situazione d’indigenza di quelle centinaia
di esiliati la cui pensione “ordinaria” o i cui salari risultavano
insufficienti. In parte questi fondi vennero impiegati anche per
migliorare le condizioni di vita dei prigionieri austracistas
(come gli ultimi difensori di Barcellona) ancora rinchiusi nelle
carceri borboniche43.
Naturalmente i consiglieri di Carlo VI erano coscienti che
la migliore opzione per limitare le spese di mantenimento degli
esuli austracistas era quella di creare le condizioni politiche per
un loro rientro in patria, iniziando dallo spinoso nodo delle confische dei beni. È pur vero che alcuni aristocratici filo-asburgici
erano riusciti a mantenere parte dei loro patrimoni grazie al fatto
43
Carlo VI si preoccupò della sorte degli austracistas catturati durante la
guerra, solitamente militari e funzionari, i quali erano stati rinchiusi nelle
principali carceri borboniche, soprattutto a La Coruña, nell’Alcázar di Segovia e nel castello di Pamplona: la situazione venne continuamente monitorata
dall’ambasciatore imperiale a Lisbona, al quale giunsero periodiche lettere di
cambio finalizzate all’assistenza dei prigionieri. Nell’aprile del 1720, a margine della pace dell’Aja, venne effettuato uno scambio di prigionieri: vari austracistas furono quindi trasportati a Genova, dove vennero aiutati da una
rimessa di denaro giunta da Vienna dal Consiglio di Spagna. Ma ancora nel
1724 non erano pochi i reclusi, come confermò a Carlo VI il generale Nebot
(uno degli ufficiali che avevano guidato la resistenza di Barcellona nel 1714),
dopo una rocambolesca fuga dal castello di Pamplona. Cfr. LEÓN SANZ, Austracistas, pp. 86, 93-94.
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che, allo scoppio del conflitto successorio, si era verificata una
spaccatura “tattica” all’interno dei vari rami dei lignaggi o all’interno della stessa famiglia tra i sostenitori dei Borbone e degli
Asburgo: per cui spesso i parenti che avevano dimostrato una
sicura fedeltà alla dinastia vincitrice, sia in Spagna che nei territori italiani passati agli Asburgo, avevano potuto subentrare
nell’amministrazione dei patrimoni per conto dei legittimi possessori (in particolare le donne) che erano stati banditi. Resta comunque il fatto che occorreva una trattativa diplomatica specifica su tale questione poiché entrambi i sovrani avevano ampiamente espropriato i propri oppositori e avevano premiato i loro
sostenitori con quei beni44. A tale problema si univa anche quello
dello scisma del Tosone d’oro, del reciproco riconoscimento dei
titoli nobiliari ed dei vari onori concessi fin dallo scoppio delle
ostilità da Carlo VI45. Così, dal congresso di Cambray in poi, le
44
Nella Spagna borbonica per effettuare e gestire gli espropri dei beni degli
austracistas era stati creati un Juzgado de Confiscaciones (abolito nel 1725)
e una Contaduría de Bienes confiscados (estinta solo nel 1727). A queste due
istituzioni si sommava una Junta de Dependencias de extrañados deterrados,
eretta nel 1715, che aveva il compito di esaminare le richieste degli austracistas che chiedevano di tornare in Spagna: possibilità comunque negata a coloro che avevano difeso Barcellona. È stato calcolato che il valore maggiore
di beni confiscati si concentrò nella Corona di Castiglia (2.931.350 reales di
vellón contro 1.112.430 della Catalogna), anche se il maggior numero di
espropriati si verificò nel Principato catalano, il che significa che in quest’ultima regione l’impatto sociale delle confische fu superiore.
45
E. ESCARTÍN, Las confiscaciones de bienes a los partidarios del Archiduque de Cataluña, bajo el reinado de Felipe V, in Studia historica et philologica in honorem M. Batllori, Roma, Instituto Español de Cultura, 1984, pp.
229-240; V. LEÓN SANZ, J. A. SÁNCHEZ BELÉN, Confiscación de bienes y represión borbónica en la Corona de Castilla a comienzos del siglo XVIII, in
«Cuadernos de Historia Moderna», 21 (1998), pp. 125-175; A. SPAGNOLETTI,
Principi italiani e Spagna nell’età barocca, Milano, Bruno Mondadori, 1996,
pp. 238-246; S. SÁNCHEZ GARCÍA, Noticias sobre austracistas aragoneses y
el secuestro de sus bienes in «Revista de Historia Moderna – Anales de la
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due diplomazie iniziarono a discutere su questi argomenti, raggiungendo una soluzione definitiva solo con il trattato stipulato
a Vienna il 30 aprile 1725, nel quadro di un complessivo riavvicinamento tra gli Asburgo e i Borbone. L’articolo IX dell’accordo prevedeva un’amnistia generale, il riconoscimento degli
onori concessi dai due sovrani fino ad allora e la reciproca restituzione dei beni, dei titoli (solitamente legati ai feudi) e delle
dignità confiscati dal 1713 in avanti46. Nonostante il processo di
restituzione delle proprietà degli austracistas si rivelasse piuttosto lungo e complesso – sia per gli inevitabili ricorsi dei nuovi
possessori, che per le ben calcolate resistenze delle autorità borboniche –, la normalizzazione dei rapporti tra i due ex contendenti creò le condizioni per il rientro in Spagna di alcuni aristocratici di rilievo, tra cui i conti di Oropesa, Cifuentes, Aranda,
Galve, la marchesa del Carpio e il marchese di Rafal. Comunque
tra i titolati e, soprattutto, tra i ceti togato e militare, la decisione
Universidad de Alicante», 25 (2007), pp. 257-301. Ma vedi anche il caso contrario, e cioè gli espropri a danno dei “filippisti”: C. PÉREZ APARICIO, La política de represalias y confiscaciones del Archiduque Carlos de Austria, in
«Estudis. Revista de Historia Moderna», 17 (1991), pp. 149-196; J. SOLÍS
FERNÁNDEZ, Las Juntas de Secuestros y Confiscaciones del Archiduque Carlos en Cataluña, Aragón y Valencia, in «Anuario de Historia del Derecho
Español», LXIX (1999), pp. 426-447; E. GIMÉNEZ LÓPEZ, El exilio de los
borbónicos valencianos, in «Revista de Historia Moderna – Anales de la Universidad de Alicante», 25 (2007), pp. 11-51; E. GIMÉNEZ LÓPEZ, El exilio de
los magistrados borbónicos de la Audiencia foral valenciana (1705-1707), in
ÁLVAREZ-OSSORIO ALVARIÑO, GARCÍA-GARCÍA, LEÓN SANZ (eds.),La pérdida de Europa, pp. 551-566.
46
LEÓN SANZ, Austracistas, pp. 94-99; LEÓN SANZ, El Archiduque Carlos,
pp. 292-305. Che quella della restituzione dei beni degli esiliati fosse una
questione davvero spinosa lo conferma il fatto che nel settembre 1725 le due
diplomazie aggiunsero una dichiarazione supplementare all’articolo IX, in
cui si specificavano minuziosamente le modalità di restituzione.
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di rimanere nei territori asburgici si rivelò l’opzione di gran
lunga maggioritaria47.
Stato, patria e identità nell’esilio austracista
Uno degli ambiti di studio più affascinanti dell’esilio degli
austracistas concerne l’analisi degli strumenti – concreti, ma anche di tipo culturale – da essi utilizzati per preservare una memoria condivisa: si tratta, in realtà, di un aspetto che accomuna
le emigrazioni che coinvolgono intere comunità nazionali o
gruppi caratterizzati da una forte identità culturale: la preservazione di una memoria collettiva che si suppone certa, oggettiva
e data una volta per sempre, va di pari passo con una continua
rielaborazione degli aspetti peculiari delle proprie radici, finendo spesso per incontrarsi ed ibridarsi con altre tradizioni culturali, in particolare quelle del luogo in cui si vive l’esilio48. Fu
ciò che avvenne anche agli esuli austracistas.
Partendo dagli aspetti più immediati, perché connessi
all’esistenza quotidiana, un primo strumento funzionale alla preservazione dell’identità collettiva degli austracistas deve essere
individuato nel tentativo di mantenere un legame informativo
con la patria perduta. Alcuni epistolari clandestini recentemente
individuati dimostrano l’esistenza di contatti diretti tra alcuni
47
Ivi, pp. 307-320. Nonostante l’accordo relativo alla restituzione dei beni
raggiunto nel trattato del 1725, durante la Guerra di Successione polacca le
autorità borboniche effettuarono nuovi espropri a danno degli austracistas (o
supposti tali), in particolare nel 1734 e nel 1737. Vedi al riguardo ALCOBERRO, El primer gran exilio, pp. 185, 211; LEÓN SANZ, Austracistas, p. 101.
Ovviamente, dopo la conquista del Meridione continentale e della Sicilia da
parte di Don Carlos, i sostenitori dei Borbone che erano stati oggetto di confische venti anni prima reclamarono la restituzione dei loro beni e titoli.
48
Su tali concetti si vedano i contributi contenuti nel già citato El exilio: debate para la historia.
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esuli e i loro amici o parenti rimasti in Spagna49. Al di là del
desiderio di lenire la “melanconia” tipica della condizione esistenziale dell’esilio e di intere famiglie smembrate dopo la fine
del conflitto successorio, tali corrispondenze svolsero un chiaro
significato politico: non a caso le leggi borboniche non solo proibivano i contatti epistolari con gli esuli, ma punivano i contravventori con la pena di morte in quanto rei di tradimento. L’obiettivo immediato degli epistolari segreti era infatti duplice: da una
parte, infatti, i simpatizzanti austracistas presenti nelle varie regioni spagnole, soprattutto in Catalogna, passavano ai loro interlocutori informazioni sulla situazione politica generale della
Spagna e, all’occorrenza, sulle misure intraprese dai comandi
militari borbonici (informazioni che potevano rilevarsi utili alla
resistenza attuata dai guerrilleros austracistas presenti in Catalogna); in cambio gli esuli si sforzavano di mantenere viva nei
parenti e negli amici la speranza di un prossimo cambiamento
del quadro politico internazionale e nazionale. La presenza di
una vasta rete informativa nelle regioni dell’ex Corona d’Aragona è attestata almeno fino agli anni Trenta, come dimostrano
le lettere intercorse tra Gregorio Mayans e il professore dell’Università di Cervera Josep Ignaci Graells: di questo epistolario colpisce non solo la persistente speranza di una restaurazione
dell’antico statuto politico delle province “aragonesi”, ma soprattutto l’approfondita conoscenza delle trattative diplomatiche
in corso e dei coevi dibattiti politici dell’ambiente austracista
viennese. Tale sistema informativo, secondo alcuni studiosi, dimostrerebbe l’esistenza di un «esilio interno», parallelo a quello
49
ALCOBERRO, El primer gran exilio, pp. 200-203.
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«esterno», presente almeno in Catalogna e nel Regno di Valenza50. Sebbene la categoria di «exilio interior» sia stata recentemente contestata da alcuni specialisti dell’esilio repubblicano
antifranchista, pare indubbio che gli esuli spagnoli filo-asburgici
che erano riparati in Italia e in Austria potessero contare in patria
su non pochi nuclei di simpatizzanti e di fiancheggiatori; nello
stesso tempo è anche evidente che un vasto settore della società
catalano-valenzana, in particolare le sue élites intellettuali, continuò a lungo (almeno fino alla Guerra di Successione polacca)
a coltivare la speranza di una rivincita militare di Carlo VI e,
quindi, della restaurazione dei fueros cancellati con la Nuova
Planta borbonica e l’instaurazione del regime assolutista da
parte della dinastia francese51.
Tornando agli esuli e alle strategie da loro attuate per mantenere viva la propria identità “ispanica” plurale, una delle ragioni che convinse molti di loro a rimanere nella monarchia
asburgica dopo il 1725 (oltre al fatto che buona parte degli esiliati era faticosamente riuscita a ricostruirsi un’esistenza e una
carriera) fu la consapevolezza di aver ufficialmente ottenuto,
nell’ambito dello Stato che li aveva accolti, il rango di “nazionalità”: una «nazione» la cui identità e i cui diritti erano tutelati non
solo da istituzioni centrali come il Consiglio di Spagna e da una
50
A. ALCOBERRO, Exili interior i exili exterior: una correspondència austriacista inèdita (1721-1724), in «Estudis històrics i documents dels Arxius de
Protocols», XXI (2003), pp. 321-360; G. MAYANS Y SISCAR, Epistolario, vol.
XXI (Mayans y los austracistas), a cura di A. Mestre Sanchís, Valencia,
Ayuntamiento de Oliva, 2006; A. MUÑOZ, J. CATÀ, Repressió borbònica i
resistència catalana (1714-1736), Barcelona, Muñoz Catà Editors, 2005.
51
Alcoberro fa giustamente notare che anche tra i sostenitori dei Borbone non
mancarono coloro, in particolare tra i nobili appartenenti all’ex Corona
d’Aragona, che si mostrarono contrari all’assolutismo e favorevoli alla restaurazione di un regime pattista.
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specifica fazione cortigiana, ma anche da ben precisi spazi di socialità collettiva che non tardarono a ricevere una sanzione ufficiale, soprattutto nella capitale52.
A Vienna, infatti, la nutrita comunità di esuli spagnoli si
coagulò intorno a determinate strutture e istituzioni, a cominciare da specifici luoghi di culto. Il monastero di Montserrat, la
cui prima sede era sorta fin dal 1632 in ossequio alla nota devozione per la Vergine di Montserrat, divenne il luogo delle più
importanti cerimonie collettive degli austracistas viennesi, oltre
a fungere come loro parrocchia di riferimento. Ad esso di affiancò la chiesa dei trinitari scalzi sita in Alser Strasse, nella cui
cripta vennero tumulati un discreto numero di emigrati di origine
nobile e benestante, e quella dei cappuccini (Minoriternkirche):
in quest’ultima trovò accoglienza il cosiddetto Tercer Orden
Seráfico de los Españoles, una sorta di confraternita francescana
che accoglieva laici che avevano fatto voto di castità, fondato dal
frate catalano Josep Ballart53.
Ma l’istituzione più rilevante della comunità iberica di
Vienna fu certamente l’Ospedale degli Spagnoli, con l’annessa
chiesa consacrata alla Virgen de la Merced, patrona di Barcellona. Costruita tra il 1717 e il 1718 con il decisivo sostegno finanziario dell’imperatore, la struttura sanitaria venne concepita
con lo scopo di assistere gli emigrati spagnoli, in particolare gli
anziani, gli infermi e i militari feriti, che rischiavano di non essere assistiti (in quanto stranieri) presso il locale Ospedale municipale; a questo scopo anche il personale che vi lavorava, dal
direttore (Nicolau Cerdanya) ai medici e agli infermieri, era di
origine spagnola o, comunque, parlava castigliano. Poiché al
52
Sulla questione cfr. ALCOBERRO, El primer gran exilio, pp. 191-194; LEÓN
SANZ, Austracistas, pp. 106-107.
53
L’Ordine arrivò a includere, tra il 1729 e il 1739, 339 uomini e 261 donne.
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progetto e alla successiva direzione dell’Ospedale degli Spagnoli concorsero molti medici e docenti che erano appartenuti
agli enti assistenziali o alle università dell’ex Corona d’Aragona,
gli statuti della struttura ricalcarono quelli degli ospedali di Barcellona, Saragozza e Valenza: l’edificio venne perciò diviso in
tre ali, destinate ad ospitare uomini, donne e malati mentali.
Dopo quindici anni di attività, l’ospedale aveva assistito quasi
2.500 pazienti “spagnoli” di ogni sesso, età e condizione sociale.
Alcuni di essi provenivano certamente anche dai territori italiani
e fiamminghi poiché gli altari laterali presenti nella chiesa annessa erano consacrati a S. Gennaro, S.a Rosalia, S. Carlo Borromeo e S. Pietro (santo protettore dei valloni). Il che, ancora
una volta, ci conferma l’ampiezza semantica che il termine
español continuava a possedere: nella monarchia asburgica, ancora all’inizio del Settecento, con quell’aggettivo si qualificavano tutti i sudditi del re di Spagna e, quindi, di tutti i territori
della monarchia composita spagnola. Poiché Carlo VI si considerò sempre l’unico sovrano legittimo di Spagna, è ovvio che
fossero considerati sudditi “spagnoli” anche quei napoletani, siciliani e lombardi allora sottoposti alla sua sovranità.
D’altra parte quest’ultimi non sempre dimostrarono di accettare tale ampia identità politica, per cui, di fronte allo sfruttamento finanziario esercitato dal Consiglio di Spagna e dalla Segreteria di Stato sui territori italiani, non mancarono di chiedere
il rispetto delle leges patriae e delle loro peculiari autonomie:
fatto, questo, che risulta alquanto paradossale, dal momento che
ad essere criticati dai sudditi italiani non erano degli arrabbiati
campioni dell’assolutismo francese, ma quegli spagnoli che avevano scelto l’esilio in quanto sostenitori degli antichi fueros
della Corona d’Aragona. Uno degli effetti del drenaggio delle
risorse dalle province italiane fu quindi lo sviluppo di una corrente d’opinione antispagnola che trovò una certa eco anche
nella pubblicistica coeva. In particolare ad essere criticate erano
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Prefazione
due pratiche, sopra illustrate, volte a garantire il mantenimento
degli esuli: il finanziamento delle pensioni e la concessione di
uffici o di feudi/proprietà a detrimento dei sudditi locali.
In realtà, soprattutto nel caso del Regno di Napoli, la diffusione di una leggenda nera antispagnola non poteva certo dirsi
una novità, quanto piuttosto il riemergere di una riflessione antica che, fin dal Seicento, criticava lo sfruttamento, la corruzione
e il mal governo attuato dagli spagnoli sulle popolazioni locali:
uno dei settori più attivi della cultura napoletana del primo Settecento (si pensi ai testi di Paolo Mattia Doria) aveva censurato
proprio il malgoverno del ramo spagnolo degli Austrias54. Sebbene molti di questi intellettuali e giuristi avessero aderito alla
causa asburgica durante la Guerra di Successione, la tesi della
rapacità e del fiscalismo degli spagnoli non era solamente un
giudizio storico, ma poteva trovare una spiacevole conferma
nelle cattive prassi attuate dal Consiglio di Spagna e dal marchese di Rialp nel Viceregno austriaco: per fare un solo esempio
significativo, le proteste del ceto togato per l’abusiva assegnazione a «spagnuoli» di uffici destinati ai «nazionali» furono piuttosto frequenti. Quindi, le diffuse lamentele relative all’avidità
degli spagnoli nell’acquisire prebende, uffici, pensioni, onori,
dignità e titoli, sostenute dai giudizi che un settore consistente
dell’intellighenzia italiana dell’epoca (pur filo-asburgica, come
nel caso paradigmatico di Ludovico Antonio Muratori) dette
54
Sull’antispagnolismo italiano tra età moderna e contemporanea cfr. i saggi
contenuti in A. MUSI (ed.), Alle origini di una nazione. Antispagnolismo e
identità italiana, Milano, Guerini e Associati, 2003. Sul rafforzamento dei
principali topoi della leyenda negra antispagnola nel corso del XVIII secolo
cfr. anche M. VERGA, Decadenza italiana e idea d’Europa (XVII-XVIII secc),
in «Storica», 22 (2001), pp. 7-33; M. VERGA, Tra decadenza e risorgimento.
Discorsi settecenteschi sulla nazione degli italiani, in B. ALFONZETTI, M.
FORMICA (ed.), L’idea di nazione nel Settecento, Roma, Edizioni di storia e
letteratura, 2013, pp. 87-109; A. SPAGNOLETTI, Il dibattito politico a Napoli
sulla successione di Spagna, in «Cheiron», XX, 39-40 (2003), pp. 267-310.
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della passata dominazione spagnola sull’Italia, finirono per cristallizzarsi in un topos della cosiddetta leyenda negra antispagnola: sarà poi la storiografia nazionalista austro-tedesca ed italiana, durante il XIX secolo, a trasformare il tema del malgoverno e della corruzione degli spagnoli in una vulgata i cui tratti
essenziali sono sopravvissuti fino a pochi decenni fa55.
Ma al di là della formazione di pervicaci paradigmi ideologici, appare comunque indubbio che ampi settori della società
italiana, in particolare del Mezzogiorno, avessero reagito negativamente all’arrivo degli esuli, in particolare dei cosiddetti
«nuovi gelsomini di Catalogna», a causa dell’evidente tendenza
da parte di Carlo VI e del Consiglio di Spagna a favorirli in ogni
ambito, specie nell’assegnazione delle cariche amministrative
più prestigiose, e della loro accondiscendenza nel consentirgli di
sfruttare le risorse locali: aspetto, quest’ultimo che era stato stigmatizzato anche da numerosi consiglieri e funzionari asburgici,
sia a Vienna che altrove, fin dall’inizio della Guerra di Successione, come dimostra in maniera evidente la corrispondenza del
duca di Moles56. L’altra faccia della medaglia, come abbiamo
visto, era rappresentata dal fatto che quegli “spagnoli”, all’apparenza così rapaci ed avidi, erano pur sempre degli esuli che avevano perso tutto e che, quindi, cercavano di ricostruirsi uno status, una carriera, un patrimonio e un’esistenza in territori che, di
fatto, consideravano la loro seconda patria.
Un ulteriore strumento utilizzato dagli esuli austracistas
per mantenere viva una memoria collettiva condivisa deve essere
individuato nella loro riflessione politica. Già durante la Guerra
di Successione si era sviluppato un dibattito storico-politico che,
al di là degli scopi propagandistici immediati, aveva come obiet-
55
56
LEÓN SANZ, Austracistas, pp. 83-84, 90.
VERGA, Il “Bruderzwist”, pp. 37-42.
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tivo essenziale quello di mantenere viva la tradizione istituzionale e giuridica dell’ex Corona d’Aragona fondata sui fueros e
sul “pattismo” di origine medievale. La concezione statuale di
tipo “federale” sostenuta dagli esuli filo-asburgici non era solo
una forma di governo, ma anche una ben specifica cultura giuridico-politica, la cui memoria venne pervicacemente mantenuta
dai principali statisti e intellettuali austracistas durante l’esilio,
in particolare da Juan Amor de Soria, Ramón Vilana Perlas, Josep Plantí e svariati autori anonimi57. Fino agli anni Quaranta del
Settecento questo pensiero chiaramente anti-assolutista fu
tutt’altro che un esercizio astratto o nostalgico. Al di là del richiamo polemico di tanti pamphlets austracistas all’impegno di
difendere i fueros “aragonesi”, poi disatteso, che il governo inglese e lo stesso Carlo VI si erano assunti, si trattò di un pensiero
vivo e «persistente», che, come hanno sostenuto Ernest Lluch e
Joaquín Albareda, venne continuamente rielaborato, «purificato» e declinato attraverso più forme, generi o tradizioni: il
proyectismo economico, il cameralismo, la teoria della “Ragion
di Stato”, il pensiero contrattualista di matrice giusnaturalista, la
letteratura utopistica, il repubblicanesimo58. Certamente, il trat-
57
J. ARRIETA ALBERDI, L’antítesi pactisme-absolutisme durant la guerra de
Successió a Catalunya, in J. ALBAREDA (ed.), Del patriotisme al catalanisme:
societat i política (segles XVI-XIX), Vic, Eumo Editorial, 2001, pp. 105-128;
J. ALBAREDA, La Corona di Aragona durante la Guerra di Successione alla
corona spagnola (1705-1714), in «Annali di Storia Moderna e Contemporanea», 13 (2007), pp. 9-24; J.J. VIDAL, La Guerra de Sucesión a la Corona de
España. España dividida, in J.L. PEREIRA IGLESIAS (ed.), Felipe V de Borbón,
1701-1746. Actas del congreso de San Fernando (Cádiz) de 27 de noviembre
a 1 de diciembre de 2000, Córdoba, Universidad de Córdoba, 2002, pp. 519580.
58
J.A. MARAVALL, Las tendencias de reforma política en el siglo XVIII
español, in «Revista de Occidente», 52 (1967), pp. 53-82; J. M. TORRAS I
RIBÉ (ed.), Escrits polítics del segle XVIII, 4 voll., Vic, Eumo Editorial, 1996Viaggiatori. Circolazioni scambi ed esilio, Anno 1, Numero 2, marzo 2018
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tato di Londra (1718) prima e la pace di Vienna (1725) poi rappresentarono un duro colpo per i sostenitori dei fueros dell’ex
Corona d’Aragona perché in quelle occasioni Carlo VI aveva di
fatto rinnegato gli impegni precedentemente assunti con i catalani in relazione alla restaurazione delle loro autonomie. Per cui,
da questo memento in poi, iniziò a svilupparsi all’interno della
riflessione politica austracista una corrente critica nei confronti
dell’operato dell’imperatore (e della Gran Bretagna), che nel
caso di alcuni pensatori – come il già ricordato Plantí – giunse
fino a proporre la costituzione di una Repubblica catalana protetta dalle armi britanniche59. L’austracismo catalano, quindi,
giunse a formulare un patriottismo in chiave repubblicana rispettoso del carattere plurinazionale e composito della “nazione”
spagnola.
2006; E. LLUCH (ed.), Aragonesimo austracista. Conde Juan Amor de Soria,
Zaragoza, Institución «Fernando el Católico», 2000; E. LLUCH (ed.),
L’alternativa catalana (1700-1714-1740). Ramon de Vilana Perlas i Juan
Amor de Soria: teoria i acció austriacistes, Vic, Eumo Editorial, 2000; E.
LLUCH, Escritos aragoneses, a cura di A. Sánchez Hormigo, Zaragoza,
Sansueña, 2005, pp. 109-216; J. ALBAREDA, Memòria, història i pensament
polític a l’exili austracista. La crònica de la Guerra de Successió de Josep
Plantí, in «Pedralbes. Revista d’Història Moderna», 23, II (2003), pp. 325344; J. ALBAREDA, Il movimento filo-asburgico. Il progetto di una Spagna
alternativa (1705-1741), in «Cheiron», 39-40 (2003), pp. 79-104; J.
ALBAREDA, El “cas dels catalans”. La conducta dels aliats arran de la
Guerra de Successió (1705-1742), Barcelona, Fundació Noguera, 2005; J.
ALBAREDA, La Guerra de Sucesión de España, Barcelona, Crítica, 2010, pp.
475-481; V. LEÓN SANZ, El conde Amor de Soria: una imagen austracista de
Europa después de la Paz de Utrecht, in A. GUIMERÁ RAVINA, V. PERALTA
RUIZ (eds.), El equilibrio de los imperios: de Utrecht a Trafalgar. Actas de la
VIIIª reunión científica de la Fundación Española de Historia moderna
(Madrid, 2-4 de junio 2004), vol. 2, Madrid, Fundación Española de Historia
Moderna, 2005, pp. 133-154.
59
Cfr., oltre alla bibliografia citata nella nota precedente, cfr. ALCOBERRO,
El primer gran exilio, pp. 203-210, 218-222.
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Proprio all’opinione pubblica inglese si rivolgevano alcuni
degli ultimi manifesti dell’austracismo «persistente» e più radicale come la Via fora als adormits (1734) e il Record de l’Aliança (1736) nel tentativo di dimostrare che l’applicazione dell’accordo stipulato a Genova nel 1705 tra gli emissari catalani e i
diplomatici inglesi circa la nascita di uno Stato catalano indipendente era ancora valido e realizzabile. Si trattava, in realtà, del
canto del cigno di un discorso politico di grande interesse perché
variegato al suo interno e legato alla coeva riflessione teorica
europea.
Proprio la Guerra di Successione polacca rappresentò un
indubbio spartiacque del lungo esilio austracista. Il conflitto,
come è noto, si concluse con la cessione dei regni di Sicilia e di
Napoli a Don Carlos di Borbone. Già durante il primo anno di
guerra, la conquista militare borbonica del Mezzogiorno produsse una nuova ondata di esuli (la sesta, secondo Alcoberro),
del tutto simile per consistenza quantitativa e caratteristiche
“qualitative” a quella che si era verificata nel 1713-1714: infatti,
gli austracistas spagnoli che allora si erano rifugiati nel Meridione furono costretti nuovamente a emigrare. Stavolta ad essi
di aggiunsero migliaia di italiani filo-asburgici, in particolare nobili, militari e giuristi, i quali condivisero da allora in poi il destino degli austracistas di origine iberica. Per certi versi la situazione materiale dei nuovi esuli fu anche peggiore di quella sperimentata venti anni prima: la perdita dei territori dell’Italia del
Sud provocò infatti non solo il collasso delle istituzioni centrali
che avevano amministrato questo pezzo della monarchia asburgica (in particolare il Consiglio di Spagna, che smise di fatto di
funzionare fin dal gennaio 1734, per poi essere sciolto definitivamente due anni dopo), ma soprattutto l’interruzione di
quell’essenziale apporto finanziario su cui, fino ad allora, si era
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retto il sistema pensionistico e di patronage ad uso e consumo
degli austracistas60.
Nel tentativo di affrontare la grave crisi socio-economica
e di ordine pubblico creatasi con il massiccio afflusso di esuli in
Lombardia e in Austria, in quella congiuntura il governo di
Vienna riesumò alcuni progetti, discussi negli anni precedenti
dal Consiglio di Spagna, che prevedevano l’utilizzo dei esuli
spagnoli per popolare alcune regioni periferiche della monarchia, in particolare l’Ungheria, la Slavonia e i territori recentemente strappati all’Impero Ottomano61. Il progetto più interessante giunse però dall’esterno delle cancellerie imperiali: si tratta
della Nueva colonia española eleborato da Plantí, significativamente rinvenuto presso la Biblioteca Braidense di Milano62. Qui
l’intellettuale catalano, ibridando il genere utopico con il pensiero politico pattista di matrice “aragonese”, giungeva a proporre la fondazione di una colonia di austracistas in Ungheria,
configurandola come uno stato indipendente, retto da istituzioni
rappresentative elette a suffragio universale.
La «Nuova Barcellona» vagheggiata da Plantí sull’esempio della Roma di Enea vedrà effettivamente la luce qualche
anno dopo, anche se con caratteristiche sociali e politiche molto
diverse. Infatti il nuovo esilio causato dalla perdita dei Regni di
Napoli e Sicilia rese improvvisamente attuali le precedenti proposte, anche perché, rispetto alla mera accettazione dell’assolutismo borbonico e alle opzioni politiche prospettate dalla trattatistica politica austracista dal 1725 in poi, esisteva effettivamente una terza via e cioè la fondazione di una nuova patria in
una delle terre di frontiera conquistate ai turchi. Quest’ultima
60
Ivi, pp. 185, 201-211; LEÓN SANZ, El Archiduque Carlos, pp. 320-327.
ALCOBERRO, El primer gran exilio, pp. 206-207; ALCOBERRO, L’exili austriacista, vol. 2, pp. 38-41.
62
Il testo è stato pubblicato ivi, vol. 2, pp. 155-205. Vedi anche ALCOBERRO,
El primer gran exilio, pp. 208-210.
61
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eventualità si realizzò effettivamente tra il 1735 e il 1736 nel
Banato di Temesvar63.
Il 4 ottobre 1734, nel corso di una riunione ministeriale, si
decise di destinare un certo numero di esiliati spagnoli alla fondazione di una colonia nella regione del Banato conquistata
all’Impero Ottomano durante la Terza Guerra turca: significativamente i due ministri spagnoli che parteciparono alla conferenza, il marchese di Rialp e il presidente del Consiglio di Spagna, il marchese di Villasor, espressero seri dubbi sulla riuscita
del progetto. Una prima lista di “coloni” comprendeva 352 austracistas, anche se alla fine vennero individuati più di ottocento
soggetti tra uomini, donne e bambini. È probabile che la scelta
delle autorità asburgiche (le liste dei coloni vennero redatte da
un funzionario del Consiglio di Spagna) cadesse su quegli esuli
la cui esistenza dipendeva dalla carità statale e, quindi, erano
considerati un peso per le finanze pubbliche: in effetti un documento del periodo afferma che i prescelti «casi todos son de
aquellos que siempre han ido y van a pedir la limosna de Su Majestad Cesárea Católica, y deben mendigar para no morir de
hambre»64. Lo scopo, quindi, era quello di ripopolare una zona
scarsamente abitata di recente acquisizione per far sviluppare le
attività agro-pastorali ed artigianali locali, in linea con le idee
economiche popolazioniste tipiche del mercantilismo e del cameralismo dell’epoca. Tra i selezionati figuravano anche numerosi napoletani e siciliani recentemente giunti in Austria a causa
della Guerra di Successione polacca: è stato calcolato che circa
il 15% della popolazione finale della colonia fosse composta da
italiani. Tra l’autunno del 1735 e l’estate del 1737 nel luogo prescelto per la fondazione della nuova città, l’attuale Zrenjanin in
63
Ivi, pp. 206-217; A. ALCOBERRO, La “Nova Barcelona” del Danubi (17351738). La ciutat del exiliats de la Guerra de Successió, Barcelona, Rafael
Dalmau, 2011; LEÓN SANZ, Austracistas, p. 104.
64
ALCOBERRO, El primer gran exilio, p. 213.
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Voivodina, giunsero 852 individui, in larga maggioranza catalani, tra cui 250 bambini.
L’esistenza della nuova comunità, che contava anche
serbi, tedeschi e rumeni, fu da subito difficile: l’età media piuttosto elevata dei coloni e l’alto numero di vedovi e di celibi non
permise di incrementare la popolazione, né di far decollare la
produzione agricola. Lo scoppio della Quarta Guerra turca
(1737-1739) fece il resto. Durante il conflitto, infatti, si sviluppò
in tutta la Serbia settentrionale un’epidemia di peste che falcidiò
anche la popolazione di Zrenjanin. Così già nel corso del 1737
iniziò una penosa re-emigrazione in direzione dell’Austria; alla
fine del conflitto rientrarono dal Banato 347 esuli, molti dei quali
bambini orfani.
La vicenda della «Nuova Barcellona del Danubio» può essere considerata, anche simbolicamente, l’epilogo del lungo esilio austracista. Come tutti gli esili, anche quello dei sostenitori
spagnoli di Carlo VI terminò, nel corso degli anni Quaranta-Cinquanta del Settecento, con la scomparsa della prima generazione
di emigrati, con il ritorno di un certo numero di essi nello Stato
che li aveva espulsi e con la definitiva integrazione dei loro figli
(la seconda generazione) nelle varie province della monarchia
asburgica. Come spesso capita agli esiliati in ogni periodo e in
ogni contesto, molti austracistas finirono per accettare la loro
condizione e, quindi, si adattarono a vivere in una nuova patria,
affidando ad essa la loro eredità ideale e materiale. Nel caso degli emigrati spagnoli filo-asburgici gli esempi di tale processo di
adattamento e di trasmissione “culturale” potrebbero essere molteplici. Per tutti valga quello dell’attuale Biblioteca Nazionale di
Vienna, figlia della Hofbibliotek: se oggi essa possiede tante pregevoli collezioni di libri, segnatamente iberici, lo si deve anche
al fatto che il nucleo librario originario provenne dalla fusione,
decretata da Carlo VI nel 1723, delle “librerie” personali del
principe Eugenio di Savoia e dell’ex arcivescovo di Valencia e
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primo presidente del Consiglio di Spagna in esilio, Antonio
Folch de Cardona65.
Conclusioni
Nel corso del mio contributo ho cercato di passare in rassegna i tratti salienti dell’esilio degli austracistas spagnoli. A
conclusione del saggio desidero elencare, in forma empirica e
del tutto rapsodica, gli aspetti che lo rendono, a mio parere, un
tema di grande interesse, mettendone in rilievo anche alcuni elementi metastorici che appaiono ricorrenti in qualsiasi “diaspora”. Credo che quest’ultima operazione sia di una certa utilità
per chi voglia leggere la storia spagnola, europea e mondiale attraverso il prisma dell’esilio: si tratta, quindi, di riprendere alcune delle indicazioni metodologiche da cui sono partito all’inizio del mio testo.
Quella austracista fu, in primo luogo, un’emigrazione di
tipo politico perché scaturì da una guerra civile, da una sconfitta
militare e da una serie di misure repressive attuate dai vincitori
(almeno nella penisola iberica), i Borbone. Come spesso accade
ai transfughi, la confisca delle loro proprietà fu la misura punitiva che più di ogni altra venne utilizzata dal nuovo regime per
rendere vigente ed operativa l’esclusione degli oppositori politici dalla società a cui appartengono.
Secondariamente, gli esuli spagnoli filo-asburgici dimostrarono una straordinaria capacità non solo nell’integrarsi
all’interno della monarchia composita asburgica, ma anche nel
preservare una memoria collettiva condivisa attraverso una serie
di strategie culturali, politiche, sociali ed economiche. In particolare gli austracistas, specie le loro élites intellettuali, seppero
65
Ivi, p. 219; LEÓN SANZ, Austracistas, p. 107.
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reagire allo sradicamento, all’alienazione e alla nostalgia prodotti dall’esilio elaborando un pensiero politico originale, fondato su un patriottismo rispettoso dei caratteri plurali della “nazione” spagnola e delle loro autonomie politiche. Questo tipo di
risposta, comunque, è piuttosto comune tra gli esiliati di ogni
tempo e contesto. Molto spesso, infatti, la riscoperta (o la rielaborazione) delle proprie radici “nazionali” ed identitarie viene
stimolata proprio dalla condizione esistenziale legata all’emigrazione e dal confronto-scontro con la cultura autoctona del contesto in cui si vive l’esilio (che molto spesso diventa una seconda
patria): fu ciò che avvenne anche ai gesuiti spagnoli espulsi (per
ironia della sorte, soprattutto a quelli valenzano-catalani) i quali,
una volta giunti in Italia, si trasformarono in arrabbiati apologeti
delle Glorias de España in polemica con i letterati italiani e i
philosophes. È probabile che anche l’iniziale rigetto che l’arrivo
degli austracistas spagnoli aveva suscitato a più livelli – presso
i circoli di potere a Vienna, ma anche tra la popolazione – abbia
accentuato la tendenza a ripensare e rivendicare una propria
identità; come spesso accade ai rifugiati politici, anche i sostenitori spagnoli di Carlo VI vennero considerati dei “privilegiati”
dalle popolazioni che li accolsero: essi vennero accusati essere
dei parassiti e di drenare indebitamente le risorse finanziarie
della monarchia asburgica che li aveva accolti, segnatamente dei
suoi territori italiani. La realtà cambia se ci poniamo dal punto
di vista dei transfughi: dopo aver perso tutto, interi nuclei familiari di ogni estrazione sociale cercarono faticosamente di ricostruirsi in Austria, Italia, Ungheria un’esistenza, cominciando da
un reddito e uno status minimi. Il potere pubblico, come solitamente succede (anche in epoche più recenti) agli esiliati che
giungono da scenari di guerra, accompagnò tale processo organizzando un sistema assistenziale e “pensionistico” necessario a
superare l’iniziale situazione di emergenza causata dal massiccio
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arrivo di esuli nullatenenti. Con il tempo la macchina amministrativa che somministrava gli aiuti economici e le prassi che la
guidavano si stabilizzarono, suscitando le inevitabili proteste di
chi si sentiva escluso o sfruttato da esse: fu il caso, come abbiamo visto, del ceto togato napoletano.
Infine, quello degli austracistas fu indubbiamente uno degli esodi più massicci, da un punto di vista quantitativo e qualitativo, della storia spagnola: da questo punto di vista, fatte le debite proporzioni, si trattò di un esilio comparabile a quello cui
furono costretti i repubblicani anti-franchisti dopo il 1939. Naturalmente Filippo V non è Franco, né appare corretto associare
la Nueva Planta borbonica all’instaurazione della dittatura franchista. Eppure, come ha recentemente sottolineato Bernardo
García García, un settore dell’attuale cultura storiografica catalana, vicina alle posizioni dei nazionalisti e degli indipendentisti,
tende a leggere in chiave attualizzante e ideologica la Guerra di
Successione spagnola e l’esilio degli autracistas che da essa scaturì: si tratta di una tendenza che, sostenuta con forza dalla politica culturale della Generalitat catalana fin dalle celebrazioni del
tricentenario della caduta di Barcellona (1714-2014), rischia di
conoscere una pericolosa radicalizzazione dopo il referendum
indipendentista dell’ottobre 2017.
Fermo restando la necessità che lo storico tragga dalla propria contemporaneità le domande da porre al passato, nel momento in cui si forniscono delle risposte di taglio anacronistico,
attualizzanti o condizionate dalla vis ideologica, egli abdica al
suo ruolo. Che è poi quello di spiegare e interpretare il passato;
nulla poi impedisce di provare una naturale empatia per persone,
vissute trecento anni fa, di cui si ricostruisce la vita con l’apporto
della documentazione archivistica.
Il recente successo conosciuto dalla Public History in Europa e nel mondo intero dimostra il ruolo centrale che la nostra
disciplina continua ad avere nella formazione di un consapevole
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spirito critico contro ogni forma di intolleranza e di nazionalismo.
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Introduzione
di Fabio D’ANGELO
Vite di esuli. Percorsi artistici, politici e professionali dal
Cinquecento al Novecento propone nuovi contributi sul tema
dell’esilio mettendo al centro della riflessione, rispetto al primo
numero di Viaggiatori, l’analisi dei percorsi biografici di quanti
vissero quell’esperienza. La categoria di individuo si è rivelata
infatti particolarmente funzionale a descrivere e a comprendere
meglio l'intensa circolazione di donne e di uomini costretti ad
abbandonare le loro patrie d’origine e a cercare accoglienza altrove. Focalizzando l'attenzione sugli studi, sull'attività artistica,
scientifica, nonché politica di singole persone si è potuto risalire
a questioni più generali quali ad esempio le modalità di accoglienza e di gestione degli esuli e dei rifugiati politici, le interazioni con le società d’arrivo.
Nel racconto autobiografico di Benvenuto Cellini (Véronique Mérieux, La maïeutique de l’exil, 1540. Naissance bellifontaine d’un sculpteur toscan : Benvenuto Cellini) l’esperienza
dell’incarcerazione e dell’esilio rappresenta un momento decisivo in cui iniziano a maturare e a manifestarsi i suoi talenti di
scultore. In esso, il narratore Cellini rivive la storia della metamorfosi profonda e imminente del suo essere artista-orafo, annunciando la nascita della nuova figura di scultore. Un processo
che ha origine durante la prigionia ma che matura completamente in seguito al confronto di Cellini con l'ostile società di
corte di Fontainebleau durante l’esilio. Un clima di ostilità che
spinge l'artista fiorentino a mobilitare risorse inedite che lo renderanno uno scultore di grande spessore.
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L’esilio come momento determinante di trasformazione
artistica caratterizza, qualche secolo più tardi rispetto a Benvenuto Cellini, pure il percorso di Jacques-Louis David (Laura
Fanti, Tracce per un’estetica dell’esilio in Jacques-Louis David). L’analisi della produzione realizzata durante il soggiorno
forzato a Bruxelles permette di far emergere l’idea di libertà concepita dal pittore parigino e di comprendere inoltre se le sue
opere siano testimonianza «di uno straniamento o di una nuova
estetica».
In un’Europa di importanti trasformazioni culturali e politiche, a partire dagli anni Quaranta del Settecento, una famiglia
di nobili veneziani decaduti parte in esilio verso il Regno di Napoli (Antonio D’Onofrio, Una famiglia di esuli. I Gicca nel Regno di Napoli). Da evento penalizzante, l’emigrazione forzata
diventa per il conte Strati Gicca e i suoi familiari l’occasione per
rilanciare le carriere legando i propri destini a quelli di un regno
che con Carlo di Borbone ambisce a imporsi nel consesso delle
potenze europee. Il caso Gicca mette inoltre in evidenza come in
alcuni casi l’esilio possa concludersi con il ritorno in patria, seppur sotto altra veste: se Strati Gicca abbandona Venezia per raggiungere Napoli, l’erede del console, Michele, ritorna nella città
lagunare in qualità di agente diplomatico dello Stato che l’ha accolto.
A partire dall’analisi di diverse fonti, corrispondenze epistolari, memorie, diari di viaggio, giornali, relazioni diplomatiche, e soffermandosi sulla creazione della Legione Agricola-Militare, attiva in Argentina tra il 1855 e il 1859, è stato possibile
individuare nell’esilio post-quarantottesco un’esperienza emblematica di diaspora transnazionale (Alessandro Bonvini, «L’aratro e la spada». Gli esuli italiani oltre la frontiera argentina,
1855-1859). Descrivendo inoltre le origini e gli sviluppi della
colonia Nuova Roma, a partire da alcuni percorsi biografici
come quelli di Silvino Olivieri, è stato possibile inserire la storia
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della mobilità politica del secondo Ottocento verso l’Argentina
nel più ampio contesto delle emigrazioni politiche transnazionali
e, soprattutto, atlantiche di fine XIX secolo. Soffermarsi sul progetto di fondazione della colonia Nuova Roma ha permesso pure
riflettere sul problema della frontiera interna argentina, sulla presenza di civiltà indigene e sulla colonizzazione delle aree rurali
remote.
Negli anni Settanta del Novecento la stessa regione del
Cono Sud, già meta privilegiata di emigrati politici provenienti
dall’Europa nella seconda metà dell’Ottocento, fu teatro di numerosi colpi di Stato, preludio di feroci dittature (Giulia Calderoni, Una storia di accoglienza e solidarietà: il caso degli esuli
argentini in Italia negli anni Settanta e Ottanta). L’unica possibilità per sfuggire a sequestri, torture, sparizioni e violenze, fu
l’esilio volontario. Tanti argentini scelsero l’Italia. E le loro storie raccontano delle numerose difficoltà affrontate nella Penisola
non potendo contare sul diritto all’asilo politico e su altri sostegni da parte dello Stato italiano, ricevendo tuttavia una solidarietà dal basso. Altri attori si mobilitarono infatti a sostegno della
causa argentina: membri di alcuni partiti politici, sindacati, partigiani.
I percorsi biografici di Ranavalona III, regina del Madagascar costretta all’esilio in Algeria nel 1897, e di Mohammed V,
sultano del Marocco che compie il tragitto inverso raggiungendo
come esule nel 1953 la città malgascia di Antisirabe, illustrano
come l’esilio dei due sovrani abbia caratterizzato le società colonizzate del Madagascar e del Marocco (Frédéric Garan, Ranavalona III et Mohammed Ben Youssef: deux exils en effet de miroir dans l’Empire colonial français). Nel primo caso, la destituzione di un sovrano apre la strada ad altre opzioni politiche.
Tuttavia, se Ranavalona III, il suo Primo ministro e altri dignitari
partono in esilio restando lontano dal Madagascar fino alla
morte, altri malgasci si spostano in Francia per rafforzare il loro
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status, oppure si servono del soggiorno in Europa per esplorare
nuove forme di mobilitazione. Nel caso invece di Mohammed
V, l’esilio è di breve durata e si compie in due momenti compresi
tra la guerra d’Indocina (1946 – 1954) e quella d’Algeria (1954
– 1962) prefigurando così una traiettoria e un percorso completamente differenti rispetto a quello della regina Ranavalona III.
In aiuto dei rifugiati politici provenienti dalle Ardenne
corre l’associazione parigina Fraternelle Ardennaise che attraverso il giornale L’Ardennais de Paris, creato a sostegno di
donne e di uomini costretti ad abbandonare le loro terre d’origine
di fronte all’avanzata tedesca durante la Grande Guerra (Nicolas
Charles, Accueillir les réfugiés ardennais à Paris entre 1914 et
1918), si impegnò a facilitare l’arrivo e la sistemazione dei rifugiati durante il conflitto.
L’esilio come trasformazione di un’esperienza negativa,
determinata dalla pubblicazione in Italia delle leggi razziali, in
occasione di crescita professionale individuale, nonché di importanti risvolti scientifici, economici e culturali per il paese
ospitante caratterizza la storia di Robert Fano, scienziato italoamericano di origini ebraiche, fondatore della Computer Science
al Massachusetts Institute of Technology di Boston (Benedetta
Campanile, Robert Fano e il coraggio di vivere il “non luogo”).
Il sogno infine di fare fortuna altrove rappresenta il racconto delle disavventure di due giovani camerunensi, Jojo e
Charlie, che raggiungono la Francia dopo numerose peripezie
(Pierre Suzanne Eyenga Onana, De l’immigration clandestine à
l’exil improvisé. Une esthétisation du rêve hypothéqué dans Le
paradis du Nord de Jean-Roger Essomba).
L'attenzione riservata all'individuo, alla sua formazione,
alla partecipazione politica è stata considerata in ultima analisi
elemento centrale del secondo numero per la possibilità di mettere in risalto la poliedricità di singole persone e di accogliere
argomenti, aspetti e problematiche interdisciplinari. La scelta di
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utilizzare lo studio del percorso biografico di alcuni emigrati forzati è stata inoltre funzionale alla ricostruzione dei diversi rapporti tra l’ambiente originario e il contesto culturale, politico e
professionale di accoglienza.
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Mérieux, La maïeutique de l’exil
DOSSIER MONOGRAFICO
ARTICOLI
La maïeutique de l’exil, 1540. Naissance bellifontaine
d’un sculpteur toscan : Benvenuto Cellini
di Véronique MERIEUX
Université de Nice Sophia Antipolis, Membre de l’Université
Côte d’Azur
DOI 10.26337/2532-7623/MERIEUX
Riassunto : L’articolo analizza nella celebre autobiografia di Benvenuto Cellini le tre tappe del processo d’identificazione dell’orefice alla propria identità
di scultore, dalla partenza da Roma nel 1540 all’esilio parigino di cinque anni
al servizio di Francesco fino al ritorno fiorentino nel 1545. L’articolo osserva
i meccanismi complessi della metamorfosi avviata dall’esilio e la successiva
identificazione dell’artista alla propria identità di scultore compiutasi a Firenze dalla statua del Perseo.
Abstract: Benvenuto Cellini arrived in Fontainebleau in 1540 at the François
Ier's court, as a simple silversmith and medalmaker. The hostility he met upon
his arrival motivated his ambition to stand out as a sculptor of large format.
His autobiography narrative delivers us the complex mechanisms of this painful fulfillment sketched during and because of his exile, and which only his
Perseus in Florence his native city achieved.
Keywords: Cellini - Fulfillment - Fontainebleau
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Mérieux, La maïeutique de l’exil
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Sommario: Introduction – En chemin vers l’identité de sculpteur : l’étape
avortée premier voyage vers la France – Le préalable de l’incubation du
sculpteur dans le vase clos carcéral romain – La poursuite heureuse du processus de gestation : l’installation française révélatrice d’un autre lui-même
– Les limites du sculpteur en herbe confronté au contexte parisien – L’identification ultime : la naissance concomitante dans la douleur du Persée et du
sculpteur – Conclusion – Bibliographie
Saggio ricevuto in data 2 maggio 2017 – Versione definitiva ricevuta in data
23 dicembre 2018
Introduction
Lorsqu’en 1540, Benvenuto Cellini quitte Rome pour Fontainebleau à l’invitation de François Ier, il n’est encore qu’un
simple et talentueux orfèvre cantonné à la fabrication de vases,
chandeliers et médailles au service de Paul III. Parti une première fois en France en 1537, puis soupçonné à son retour à
Rome de vol et emprisonné en 1538 au château Saint-Ange, son
second départ suit immédiatement ses deux années d’incarcération. Le récit que Cellini nous livre dans sa célèbre autobiographie1 de la douloureuse expérience de son emprisonnement romain, apparaît comme celui d’une radicale mue, d’une “incarcération libératrice” à la paradoxale vertu maïeutique. Ce récit préfigure à nos yeux la profonde et imminente métamorphose française de simple orfèvre à sculpteur, dont l’exil parisien qui suit
son emprisonnement sera le catalyseur et dont le récit autobiographique fait état.
C’est en effet dès sa sortie de prison que Cellini, comme
délesté de sa dépouille d’orfèvre, prend en 1540 le chemin de la
cour de François Ier où officient déjà le Rosso et Primatice.
1
B. CELLINI, La Vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino,
scritta, per lui medesimo, in Firenze (1558), Einaudi, Torino, 1973.
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Mérieux, La maïeutique de l’exil
Amorcé par la métamorphose carcérale, le processus de transformation de l’artiste se poursuivra à la faveur de la nouvelle
dynamique artistique de la société parisienne qui l’accueille.
C’est là, dans un relatif isolement de ses compatriotes installés à
Fontainebleau et stimulé par les commandes royales sur lesquelles nous reviendrons que l’artiste débute, sans toutefois l’accomplir, sa transformation en sculpteur de grand format et inaugure une carrière de sculpteur dont la réalisation du Persée viendra postérieurement confirmer à Florence la concrétisation.
En prenant pour objet les récits successifs de son incarcération romaine puis de sa confrontation à l’exil français et de son
retour toscan, notre étude examinera les mécanismes complexes
qui cisèlent dans l’autobiographie de Cellini les contours de sa
figure naissante de sculpteur. Précisons qu’il ne s’agira pas ici
de vérifier la véracité des dires de Cellini relatifs à ses séjours.
La critique littéraire a déjà amplement exploré les liens existant
entre la construction romanesque2 du récit de mémoire de l’artiste et le démenti rigoureux de l’histoire qui vient parfois contredire sa véracité, révélant la fréquente rupture chez Cellini du
2
A. BIANCOFIORE, Benvenuto Cellini artiste-écrivain: l'homme à l'œuvre, Paris, L’Harmattan, 2000.; C. TERREAUX-SCOTTO, Les nouvelles dans la Vita
de Benvenuto Cellini, « Cahiers d’études italiennes », 10 (2010), pp. 129-155.
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pacte autobiographique défini par Lejeune3. Les travaux d’historiens ont par ailleurs tour à tour contesté (Limier4) ou, plus récemment, partiellement attesté la véracité des dires de l’artiste
(Pope Henessy5, Calamandei6, Jestaz7).
Nous nous intéresserons à la reconstitution autobiographique que l’artiste nous livre de son exil à la cour de France,
mais notre curiosité se focalisera principalement sur sa perception du “déplacement” qu’il peine à opérer alors vers son identité
de sculpteur en herbe et sur les défaillances que seul le défi du
retour en terre toscane permettra de résoudre. Nous observerons
ainsi les étapes de l’itinéraire décrit, telles que formulées par
l’artiste, vers sa finale transformation libératrice. La première
étape observée sera celle de la dislocation romaine et carcérale
de son identité première d’orfèvre. Nous y constaterons que Cellini nous rend alors témoin d’une première transfiguration, préalable à celle dont le séjour de 4 ans à Paris constituera la seconde étape. Nous observerons ensuite l’accomplissement artistique que l’artiste dit vivre à la faveur de l’exil français auquel il
est contraint par la défiance de ses mécènes italiens. C’est dans
le récit de cette expatriation “palliative” que nous en décèlerons
3
P. LEJEUNE, Le Pacte autobiographique, Paris, Seuil, coll. « Poétique »,
1975.
4
L. DIMIER, Benvenuto Cellini à la cour de France, in « Revue archeologique », 32, Paris, (1898), pp. 241- 276.
5
J. POPE-HENESSYJ, Benvenuto Cellini, Paris, Hazan, 1985 [or. anglais
1949].
6
« Il serait aisé de conduire dans cette documentation une sorte de vérification
systématique de la véracité de la Vita, qui trouverait dans ces documents
beaucoup plus de confirmations que de démentis. », P. CALAMANDREI, Scritti
inediti celliniani, Florence, Nuova Italia, 1971.
7
B. JESTAZ, Benvenuto Cellini et la cour de France (1540-1545), in « Bibliothèque de l'école des chartes », Paris-Genève, Librairie Droz, Volume 161, 1,
(2003). pp. 71-132.
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Mérieux, La maïeutique de l’exil
les paramètres complexes et les perceptibles failles de son accomplissement. Ce seront enfin les mécanismes de l’affirmation
de son identité de sculpteur, ébauchée mais inachevée dans
l’exil, et avérée lors du retour en Toscane qui occuperont le dernier temps de notre étude. L’identité de sculpteur de Cellini s’affirmera ainsi au terme de notre étude non comme une donnée
avérée dès son déplacement en France mais comme le fruit d’un
long et progressif processus d’identification8 dont l’exil ne fut
pour l’artiste qu’un puissant révélateur.
En chemin vers l’identité de sculpteur : l’étape avortée premier voyage vers la France.
Avant que de cheminer vers cet autre lui-même et de rencontrer son identité de sculpteur à l’occasion de la fonte du Persée, il fallait à Cellini se délivrer de son enveloppe première
d’orfèvre pour entamer son long processus d’“identification”.
Ce terme, emprunté au sociologue Daniel Fassin, cristallise le
paradoxal cheminement que l’individu doit emprunter pour résoudre les potentialités multiples de son identité, située au carrefour de celle qu’il revendique, de celle à laquelle il est assigné
et de celle qui le désigne et qualifie selon les observateurs extérieurs. Il nous semble que les paradoxes dialectiques de cette
identité complexe, entre assignation, adhésion à une assignation
et revendication propre de son identité, constituent le socle de la
construction complexe de l’identité revendiquée de sculpteur de
Cellini à laquelle l’exil français l’autorisa en quelque sorte.
8
M. CASTRA, Identité, Les 100 mots de la sociologie, Paugam Serge (dir.),
Paris, PUF, coll. « Que Sais-Je ? », 2010, pp. 72-73. R. GALLISSOT, Sous
l’identité, le procès d’identification, in « L'Homme et la société », Volume
83, 1, Paris, 1987, pp. 12-27.
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Mérieux, La maïeutique de l’exil
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Les circonstances de la genèse de son autobiographie relatées par Cellini au chapitre XII de son Traité Dell’oreficeria9,
nous livrent à ce sujet une première clé. Cellini y fait état du
sentiment de frustration et d’inaccomplissement qui accompagne alors l’exercice de son métier. Cellini nous confie commencer à rédiger sa vie en avril 1554, après qu’a été dévoilée à
Florence sa statue du Persée sur la place de la Seigneurie. Après
plusieurs mois d’un travail acharné semé d’obstacles financiers
et techniques, Cellini espère alors de ses pairs toscans et de
Cosme Ier de Médicis, une reconnaissance à la hauteur de
l’œuvre réalisée de haute lutte. Il ne reçoit en retour que l’inexplicable hostilité du Duc qui l’assigne au désœuvrement. C’est
sur le fond de ce sentiment d’entrave et de frustration, mêlé d’un
désespoir exprimé par Cellini, que sont donc couchées les premières lignes de la première version de La Vita. L’impossibilité
de faire y motive, selon les termes de l’artiste, la décision de dire.
Le récit est éclairant.
Passato che fu dua giorni, io viddi turbato il mio signore sanza mai avergline
dato causa nessuna; e, se bene io gli ho domandato molte volte licenzia, egli
non me l’ha data, né manco m’ha comandato nulla: per la qual cosa io non ho
potuto servire né lui né altri, né manco ho saputo mai la causa di questo mio
gran male. Se non che, standomi così disperato, ho reputato che questo mio
male venissi dagli influssi celesti che ci predominano, però io mi messi a
scrivere tutta la mia vita e l’origine mio e tutte le cose che io avevo fatte al
mondo: […] Solo per giovare al mondo e per essere lasciato da quello scioperato, veduto che m’è impedito il fare, essendo desideroso di render grazie a
Dio in qualche modo dell’essere io nato uomo, da poi che m’è impedito il
fare, così io mi son messo a dire10.
9
Ce traité fut rédigé en 1554 puis 1558 et publié en 1568. B. CELLINI,
Dell’oreficeria, (1558), in Opere, C.G. FERRERO (éd.), Turin, UTET, Classici
Italiani, 1971.
10
« Deux jours plus tard, je vis mon seigneur troublé sans que je ne lui en aie
donné en aucun cas motif ; et, bien que je lui aie demandé à plusieurs reprises
l’autorisation de vaquer, il ne me la donna pas, mais ne passa pas non plus de
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Mérieux, La maïeutique de l’exil
À l’aveu explicite s’ajoute le laborieux processus de rédaction, de réécritures et de collages11 qui suivra, confirmant que
le cadre d’écriture cristallise le tumultueux parcours de l’artiste,
frustré dans son impérieux désir de créer et d’être reconnu
comme sculpteur à part entière. C’est sur une base similaire que
sont développés les récits des deux séjours successifs de Cellini
à la cour de France qui occuperont le premier temps de notre
étude. Une même impossibilité de créer génère ses tourments
puis l’“anéantissement” carcéral avant l’expatriation française.
Examinons les faits. Cellini part pour Paris à deux reprises.
Le premier voyage, entrepris en 1537, se limite à un bref allerretour dont les circonstances relatées ont toutefois leur importance. Cellini, installé à Rome depuis 1535 comme médailleur et
orfèvre attitré de Paul III, dit assumer alors pleinement son statut
de modeste orfèvre (« io sono un povero orefice, il quale servo
chi mi paga »12) au service du Pape. Mais des concurrents orfèvres alimentent l’hostilité de Paul III à son égard, entachent sa
commande je n’ai de ce fait pu servir ni lui ni quiconque, et n’ai pas non plus
jamais connu la raison de cette grande infortune qui fut la mienne. Si ce n’est
que, étant dans cet état de désespoir, j’ai cru que cette infortune provenait des
influx célestes qui nous gouvernent, et me mis ainsi à écrire l’intégralité de
ma vie ainsi et de mes origines ainsi que toutes les choses que j’avais faites
en ce monde […]. Uniquement pour être utile au monde et pour être laissé
désoeuvré vu que faire m’est interdit, étant désireux de rendre de quelque
manière grâce à Dieu d’être né homme, puisque le faire m’est interdit, ainsi
je me suis mis à dire». CELLINI, Dell’oreficeria, p.680.
11
« [...] Con gran passione, e non senza lacrime, io gli stracciai e gittagli al
fuoco con salda intenzione di non mai più scrivergli. ».
« [...] Avec une profonde douleur et non sans larmes je les déchirai et les jetai
au feu avec la ferme intention de ne plus jamais les écrire », Ibidem. Cfr. à ce
sujet l’éclairant article de C. LUCAS FIORATO, La genèse douloureuse et la
réception difficultueuse des écrits de Benvenuto Cellini, in « Seizième siècle,
Volume 5, 1, (2009), pp. 299-318.
12
« [...] Io sono un povero orefice, il quale servo chi mi paga [...] ». CELLINI,
La vita, I, ch. 89, p.195. « Je ne suis qu’un pauvre orfèvre, je sers ceux qui
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réputation et dissuadent bientôt le pape de lui passer commande.
Se sentant trahi13, Cellini décide alors de partir pour la France,
fuyant l’humiliation de ne plus être sollicité. L’assignation à
l’inactivité motive donc au premier chef sa quête d’un ailleurs
plus prometteur (« miglior fortuna »). Cellini part par dépit.
Essendomi risoluto, come io dissi poco fa, di andarmene alla volta di Francia,
sí per aver veduto che il Papa non mi aveva in quel concetto di prima, ché per
via delle male lingue m’era stato intorbidato la mia gran servitú, e per paura
che quelli che potevano non mi facessin peggio; però mi ero disposto di cercare altro paese, per veder se io trovavo miglior fortuna, e volentieri mi andavo con Dio, solo14.
La narration puissamment dramatisée de ce premier déplacement d’une semaine vers Paris transpose dans la description
de la topographie accidentée traversée, les entraves artistiques
qui l’ont motivé. Entrepris dans les circonstances difficiles de la
guerre opposant alors dans le Piémont Charles V et François Ier
(1537), il contraint Cellini à passer par le canton suisse des grisons pour les éviter15. Après l’hostilité romaine, l’artiste et ses
me paient », B. CELLINI, La vie de Benvenuto Cellini écrite par lui-même
(1500-1571), coll. Le temps retrouvé, Traduction et notes de Nadine Blamoutier, Paris, Ed. Mercure de France, 2009, p.188. Toutes les traductions seront
extraites de cette édition française.
13
La vita, I, ch. 92, pp. 200-202.
14
Ivi, ch. 94, p. 207. « J’avais donc résolu de partir pour la France : il était
visible que le pape avait changé d’attitude envers moi à la suite des calomnies
qui avaient annulé le poids des services rendus. Je craignais en outre que mes
ennemis ne me fassent encore plus d’ennuis. Je voulais m’établir dans un autre pays pour voir si j’aurais plus de chance et je comptais partir seul et d’un
cœur joyeux à la grâce de Dieu. », La vie, p. 199.
15
« Presi il cammino per terra di Grigioni, perché altro cammino non era
sicuro, rispetto alle guerre [...] ». La vita, I, ch. 95, p. 210. « Je traversai les
Grisons car les autres chemins n’étaient pas sûrs à cause de la guerre. », La
vie, p. 201.
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Mérieux, La maïeutique de l’exil
accompagnateurs affrontent alors tour à tour, la neige abondante
qui rend périlleux le passage des montagnes16, le risque de
noyade dans les eaux déchaînées d’un lac et l’escalade sous une
pluie battante d’une montagne escarpée17. La guerre qui sévit
non loin renvoie à celle que Cellini, harnaché tel un soldat, en
arme et tenue de combat18, mène alors contre les embûches de
ce voyage, au péril de sa vie19. La narration de l’infernale pérégrination émaillée d’apparitions de diables germaniques20, conduite pour partie sur la frêle barque chancelante (de Caron diraiton) qui les transporte d’une rive à l’autre d’un lac21, n’est pas
sans évoquer au lecteur les heures du jugement dernier qui menace à plusieurs reprises d’engloutissement et de mort l’artiste,
16
« [...] Era gli otto di maggio ed era la neve grandissima. », La vita, I, ch.
95, pp. 210-211. « C’était le 8 mai et la neige était très épaisse», La vie, p.
202 ; « Pure messi che noi fummo in terra, bisognava salire due miglia su per
quel monte, il quale era più difficile che salire su per una scala a piuoli ».
« Une fois à terre, il nous fallut grimper pendant deux milles sur une montagne plus difficile à escalader qu’une échelle. », La vie, p. 204 ; « [...] Crepavamo di fatica a farli salire quella difficil montagna.», La vita, op. cit., I, ch.
96, p. 213. « [...] Nous crevions de fatigue à leur faire gravir des pentes aussi
rudes. », La vie, p. 204.
17
Ibidem.
18
« Io ero tutto armato di maglia con istivali grossi e con uno scopietto in
mano [...] », La vita, I, ch. 96, p. 213. « J’étais cuirassé dans ma cotte de ailles,
j’avais de grosses bottes et mon escopette à porter [...]», Ivi, p. 204.
19
« Con grandissimo pericolo della nostra vita passammo queste due montagne. », La vita, I, ch. 95, p. 210-211. « Nous passâmes ces deux sommets au
péril de notre vie.», La vie, p. 202 ; « Così andammo innanzi [...] con questo
gran pericolo. », La vita, I, ch. 95, p. 213. « Nous parcourûmes ainsi quelques
milles [...] en perpétuel danger de mort », La vie, p. 204.
20
« Quei diavoli di quei gentiluomini », La vita, I, ch. 96, p.213. « Ces diables
de gentilhommes allemands », La vie, p. 204.
21
« [...] Volevamo smontare, il barcherolo non voleva per niente. », Ibidem. « Quand nous voulûmes débarquer, le patron de la barque s’y opposa
catégoriquement », Ibidem.
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qui se dit pétri de peur de bout en bout du voyage22. Jusqu’aux
abords immédiats de Paris, où il manque en outre d’être assassiné par une bande de brigands, le voyage se déroule donc dans
d’exécrables conditions. Le paysage et les circonstances climatiques hostiles, l’âpreté des montagnes dressées sur son parcours,
la peur affrontée, tout évoque chez le lecteur un périple vécu et
décrit comme un combat, aux accents parfois bibliques, évoquant l’enfer vécu en chemin vers le paradis français promesse
de salut. L’arrivée dans la capitale royale, salutaire destination,
est décrite telle la fin immédiate des précédentes turpitudes endurées.
Di poi ce ne andammo insino a Parigi sanza un disturbo al mondo: sempre
cantando e ridendo giugnemmo a salvamento23.
Mais après l’adversité du voyage, Cellini doit affronter
d’autres obstacles. Dès l’arrivée, le mauvais accueil du Rosso,
au service du roi François Ier depuis 1530, le déçoit. Cellini le
contacte, confiant et convaincu de recevoir de lui l’aide et les
commodités qu’il lui avait lui-même prodiguées lors du séjour
de ce dernier à Rome24. Mais l'hospitalité que Cellini pouvait
espérer en retour à son arrivée à Paris fait place à l’accueil revêche du Rosso25. Cellini l’accuse même de dissuader le roi de
22
« Per paura », La vita, I, ch. 94, p. 207. « Par peur », La vie, p. 202.
La vita, I, ch. 97, p. 216. « Plus aucune anicroche jusqu’à Paris où nou
arrivâmes sains et saufs, toujours dans les rires et les chansons », La vie, p.
207.
24
« [...] Egli l’aveva condotto a morirsi di fame; per la qual cosa io gli prestai
di molte decine di scudi per vivere. ». La vita, I, ch. 98, p. 217. « [...] le réduisant à crever de faim. C’est alors que je lui prêtai des dizaines d’écus pour
vivre. », La vie, p. 207.
25
« [...] Lo andai, come ho detto, a visitare: non tanto pensavo che lui mi
rendessi li mia dinari, ma pensavo che mi dessi aiuto e favore per mettermi al
servizio di quel gran Re ». La vita, I, ch. 98, p. 216.
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le recevoir26. La première déconvenue parisienne est donc d’autant plus aiguë qu’elle émane d’un compatriote. À Paris comme
à Rome, la solidarité de la communauté des artistes, fussent-ils
italiens, ne va d’évidence pas de soi en ces temps de concurrence
accrue. Cellini arrive de plus au pire moment : le conflit qui a
contrarié son voyage est toujours en cours. Lorsque Sguazzella,
disciple d’Andrea del Sarto alors dans la capitale, intercède pour
lui obtenir une audience, Cellini n’obtient du roi que de faire
partie de son cortège royal jusqu’à Lyon d’où il repart guerroyer,
et d’y attendre son retour. Dès l’arrivée à Lyon, “souffrant” au
propre et au figuré de l’inertie à laquelle il se retrouve à nouveau
assigné, et malgré les faveurs du cardinal de Ferrare Hyppolite
d’Este qui l’installe dans l’une de ses propriétés, Cellini tombe
« [...] J’allai, comme je l’ai dit, lui rendre visite: non tant pour qu’il me rende
mon argent, mais je pensais qu’il m’apporterait aide et faveur pour entrer au
service du Roi. », La vie, p. 208.
26
« E non gli avendo ancora riauti, sapendo che gli era al servizio del Re, lo
andai, come ho detto, a visitare: non tanto pensavo che lui mi rendessi li mia
dinari, ma pensavo che mi dessi aiuto e favore per mettermi al servizio di quel
gran Re. », « [...] subito si turbò e mi disse: - Benvenuto, tu se venuto con
troppa spesa innun cosí gran viaggio, massimo di questo tempo, che s’attende
alla guerra e non a baiuccole di nostre opere. », « Di poi cercai di parlare al
Re [...]. A questo io soprastetti assai, perché io non sapevo che il Rosso operava ogni diligenza, che io non parlassi al Re. », Ibidem. «Et il ne me les avait
pas encore restitués quand j’allai, comme je l’ai dit, lui rendre visite, pensant
qu’il me rembourserait et surtout qu’il m’aiderait grâce à son influence à entrer au service du grand souverain », « À ma vue, il se troubla et s’écria : Benvenuto, tu n’aurais pas dû dépenser tant d’argent pour un si long voyage,
surtout en ce moment où l’on ne pense qu’à la guerre et pas aux bricoles que
nous pouvons faire. », « Je cherchai à parler au roi [...]. Cela prit beaucoup de
temps car Rosso faisait tout pour que je ne puisse pas accéder auprès de lui,
ce que j’ignorais. », La vie, p. 207-208.
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malade et décide de repartir à Rome27. Quitte à mourir, écrit-t-il,
autant que cela soit en Italie.
Giunti che noi fummo a Lione, io mi ero ammalato, […] di sorte che m’era
venuto a noia i franciosi e la lor Corte, e mi parea mill’anni di ritornarmene a
Roma. […] e molto desideravo di arrivare in Italia, desideroso di morire in
Italia e non in Francia28.
À l’évidence ce premier déplacement avorté en France est
inutile. Le roi n’a pas besoin d’un orfèvre (or c’est comme tel
que l’artiste se présente à lui) et ne lui laisse espérer qu’une évasive possibilité de créer « des œuvres selon ses vœux »29. Le projet de l’artiste apparaît ici imprécis. Une conquête ne se gagne
pas sans objet. Il repart donc aussitôt.
Mais le retour à Rome en décembre 1537 s’avère moins
satisfaisant qu’attendu. Huit ouvriers travaillent sous ses ordres
et il emménage dans un nouvel atelier plus spacieux30, mais Cellini se dit insatisfait. Il ploie sous les commandes31, mais ne met
aucun plaisir au détail comptable des pièces d’orfèvreries alors
produites. Tenaillé par ses contradictions, il dit regretter que le
27
« [...] Molto desideroso di arrivare in Italia, desideroso di morire in Italia e
non in Francia [...] », Ibidem. « [...] Je soupirais après l’arrivée en Italie où
j’aimais mieux mourir qu’en France. », La vie, p. 209.
28
Ivi, p. 218. « À mon arrivée à Lyon, j’étais malade […] de sorte que j’en
avais par-dessus la tête des Français et de leur cour et mon retour à Rome me
semblait renvoyé à la nuit des temps […] », La vie, p. 209.
29
« [...] Per la strada si ragionerebbe di alcune belle opere, che Sua Maestà
aveva in animo di fare. », ibidem. « [...] Pour me parler en route de plusieurs
ouvrages qu’il avait en tête. », La vie, p. 208.
30
La vita, I, ch. 100, p. 222.
31
« Avevo otto lavoranti e molte faccende d’oro e d’argento [...] lavoravo il
giorno e la notte. », Ibidem. « J’avais beaucoup d’ouvriers et une quantité
d’objets d’or et d’argent à exécuter. », La vie, p. 212.
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Mérieux, La maïeutique de l’exil
roi l’ait oublié32. Et lorsqu’enfin ce dernier le fait contacter par
le cardinal de Ferrare et lui propose mille écus d’or pour venir le
servir, l’ambassadeur chargé de lui signifier les termes de son
contrat crée un premier retard dans la procédure33. Au chapitre
suivant le sort s’acharne à contrecarrer son départ lorsque ses
concurrents l’accusent d’avoir dérobé or et joyaux du trésor pontifical lors du sac de Rome de 152734. Cellini est aussitôt emprisonné (octobre 1538). Le roi tente alors d’intercéder auprès du
pape pour faire libérer Cellini, mais le pontife refuse. Le récit
livré par Cellini de son incarcération dans les geôles du château
St-Ange et sur lequel nous nous attarderons à présent, décrit la
transfiguration préalable au second séjour parisien. François Ier,
qui réclame alors régulièrement au pape la libération de l’artiste,
s’invite à plusieurs reprises dans l’épisode35, par ses missives et
envoyés diplomatiques, anticipant en quelque sorte ainsi l’imminente libération française.
Le préalable de l’incubation du sculpteur dans le vase clos
carcéral romain.
Les treize chapitres (I, 115-128) consacrés par l’artiste, au
terme du Livre I, à sa transfiguration carcérale marquent un
32
« [...] E mi pensavo che quel gran Re Francesco non si avessi a ricordar di
me », Ibidem. « Je pensais que le grand roi François ne se souviendrait plus
de moi. », La vie, p. 212.
33
« Ma fu tanto iscimunito da poi, che non mi avviso’ di nulla. », La vita, I,
ch. 101, p.223. « Mais cette espèce d’abruti ne m’avertit de rien. », La vie, p.
214.
34
« Ora avvertisca il mondo e chi vive in esso, quanto possono le maligne
stelle coll’avversa fortuna in noi umani ! », La vita, I, ch. 101, p.223. « Que
le monde et ses habitants observent le pouvoir des étoiles néfastes conjuguées
avec l’action de la mauvaise fortune contre nous, pauvres humains. », La vie,
p. 213.
35
La vita, I, ch. 101, p. 223 ; ch. 104, p. 229 ; ch. 127, p. 277.
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temps fort de l’autobiographie et une étape décisive dans la
transformation de l’orfèvre. La mutation décrite débute immédiatement après son incarcération : la boutique romaine de Cellini est fermée36, son apprenti Ascanio l’abandonne et l’artiste se
voit ainsi délesté de tout ce qui le rattachait à son statut d’orfèvre
à Rome. Autorisé ensuite, lors du séjour carcéral, à façonner des
pièces d’orfèvrerie37 par le maître florentin des lieux, Cellini manifeste un soudain dégoût pour le travail de « figurette »38, indice
précieux à nos yeux qu’a déjà commencé la métamorphose de
l’orfèvre. Mais la véritable alchimie transfiguratrice s’opère
quelques temps après, dans le vase clos du cachot romain.
Rattrapé et livré au pape par le cardinal Cornaro après une
rocambolesque évasion, c’est en effet durant son assignation de
deux années au cachot que Cellini situe la transmutation la plus
significative qui prépare son second voyage vers Paris dont les
premiers chapitres du Livre II racontent les circonstances. Le récit de cette décisive étape de la maïeutique carcérale qui le libèrera de son enveloppe première, est dramatiquement jalonnée
d’accès mystiques, de visions et hallucinations christiques, de
tentations de suicide et résurrection symbolique. Autant d’épisodes aboutissant à la paradoxale vertu libératrice du cachot,
36
La vita, I, ch. 105, p. 235.
« [...] Veniva Ascanio mio garzone in Castello, e portavami alcune cose da
lavorare. », La vita, I, ch. 104, p. 230. « Mon apprenti Ascaniao venait au
Château m’apporter un peu d’ouvrage. », La vie, p. 220.
38
« Il castellano [Giorgio degli Ugolini] ancora mi lasciava lavorare di tutto
quello che io volevo, sí d’oro e d’argento e di cera; e [...], trovandomi affastidito dalla prigione, m’era venuto annoia il lavorare quelle tale opere; e solo
mi lavoravo, per manco dispiacere, di cera alcune mie figurette. », La vita, I,
ch. 105, p. 233. « Le gouverneur me laissait travailler à ma guise, avec l’or,
l’argent et la cire. [...] mais, dégoûté par la prison, j’en avais assez de ce travail. Pour combattre le cafard, je me contentais de modeler des figurines de
cire. », La vie, p. 223.
37
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chantée par Cellini dans le chapitre composé pour Luca Martini
qui conclut l’ultime chapitre du Livre I.
[...] Buon per colui che lungo tempo iace
’n una scura prigion, e po’ alfin n’esca:
sa ragionar di guerra, triegua e pace.
Gli è forza che ogni cosa gli riesca;
ché quella fa l’uom sí di virtú pieno [...]39.
Cellini sort ainsi de prison (décembre 1539) autre, transfiguré, en martyre purifié (« santo e savio »40), l’esprit et l’âme
« dégrossis »41, et auréolé à l’en croire d’un visible halo de lumière, stigmate de sa catharsis carcérale (que la transparence de
l’air français rendra à ses dires plus perceptible42). L’artisan orfèvre n’est plus. Il s’est fait or, matière précieuse : « Non vo’ dir
piú: son diventato d’oro »43. Serti de la diaphane auréole qui le
désigne parmi les élus, l’artiste quitte l’enfer du cachot transformé par cette libératrice alchimie. Une nouvelle étape autobiographique autant qu’artistique peut alors s’ouvrir au Livre II.
39
La vita, I, ch. 128, p. 278. « Heureux celui qui gît pendant un très longtemps
dans une prison sombre et puis en sort enfin: il sait parler de guerre, de trêve
et de paix. Il est fatal que toute chose lui réussisse ; la prison rend l’homme
si riche de talents [...]. », La vie, p. 268.
40
La vita, I, ch. 128, p. 281. « sain et sage », ibidem.
41
« Qua s’affinisce l’alma, e ’l corpo, e’ panni; ed ogni omaccio grosso si
assottiglia, e vedesi del Ciel fino agli scanni. », Ibidem. « Là s’affinent l’âme,
le corps, les vêtements et tout cerveau obtus y devient aiguisé, montera au
ciel jusqu’aux sièges des élus. », La vie, p. 267.
42
« [...] Che d’allora in qua, che io tal cosa vidi, mi restò uno isplendore, cosa
maravigliosa!. », « [...] Me ne avveddi in Francia in Parigi, perché l’aria in
quella parte di là è tanto più netta dalle nebbie, che là si vedeva espressa molto
meglio che in Italia [...] », ivi, p. 279. « Depuis mes visions, il m’est resté, ô
prodige ! une auréole autour de la tête », « Je le remarquai en France, à Paris,
où on la voyait beaucoup mieux qu’en Italie [...] », La vie, p. 265.
43
Ivi, p. 282. « Je n’en dirai pas plus : je suis devenu d’or », Ivi, p. 269.
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La transmutation ébauchée dans l’obscur secret du cachot
se poursuit aux deux premiers chapitres du Livre II par l’immédiat changement de perspective professionnelle dont l’artiste
prend acte. Le Cardinal de Ferrare44, intermédiaire de François
Ier qui a fait libérer Cellini, lui confie aussitôt l’exécution du
modèle d’une somptueuse salière destinée au roi45. Cette commande scelle à la fois l’engagement moral qui lie l’artiste désormais au monarque qui l’a fait libérer et le changement imminent
de statut de l’orfèvre. D’une taille exceptionnelle plusieurs fois
soulignée dans le texte 46, le modèle de cette salière qui réunit
sur un socle d’or Mars (poivrier) et Vénus (salière), est le premier indice tangible de la mutation advenue en prison. Cellini
relève en effet là un défi qui, par la taille de la pièce, déborde du
cadre de l’orfèvrerie classique. Deux artistes mis en concurrence
avec lui pour en confectionner le modèle confirment dans le
texte l’ambition hors norme de ce travail surdimensionné47. Le
projet de salière hisse ainsi par anticipation l’œuvre et son créateur dans la sphère supérieure des commandes royales qu’il part
44
Les tractations et circonstances sont détaillées par Bertrand Jestaz (Benvenuto Cellini, p. 76).
45
Bertrand Jestaz émet l’hypothèse que cette commande, puis celle du bassin
et du pot, que le cardinal le laisse travailler à Ferrare alors qu’il part permettent au Cardinal de s’assurer que l’artiste n’a pas perdu la main en prison
avant de le conduire en France. Ivi, pp. 78-79.
46
« Io feci una forma ovata, di grandezza di più d’un mezzo braccio assai
bene, quasi dua terzi, e sopra detta forma, [...] feci dua figure grande più d’un
palmo assai bene le quale stavano a sedere entrando colle gambe l’una nell’altra [...] », La vita, II, ch. 2, p. 291. « J’établis uen forme ovale longue de plus
d’une demi-brasse, presque de deux tiers ; sur cette base, [...] je plaçai deux
figures hautes de plus d’un palme, assises les jambes entrelacées [...] », La
vie, p. 277.
47
« - Questa è un’opera da non si finire innella vita di dieci uomini ; [...] a
vita vostra non l’aresti mai finita [...] », ivi., p.292. « - Voilà un ouvrage auquel ne suffirait pas la vie de dix hommes ! », La vie, p.278.
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réaliser au chapitre suivant. Cette salière constitue un banc d’essai tout autant qu’un blanc-seing et est d’ailleurs pour lui l’occasion d’une probante profession de foi préalable à son départ.
[...] Dico che, questa opera io spero di farla più ricca l’un cento che ‘l modello ; e spero che ci avanzi ancora assai tempo da farne di quelle molto maggiori di questa48.
La poursuite heureuse du processus de gestation : l’installation française révélatrice d’un autre lui-même.
Le second voyage de Cellini pour Paris débute donc le 22
mars 1540, sous ces nouveaux et prometteurs auspices. Le récit
inscrit d’ailleurs ce départ dans le prolongement de l’itinéraire
de transfiguration dont le séjour au cachot fut la première étape
statique. Cellini dit partir un lundi Saint49, six jours avant la
transfiguration et résurrection pascale imminente, renvoyant à
celles que l’artiste s’apprête à vivre à Paris (au ch. 4 où Cellini
précise ensuite arriver le jeudi Saint et passer le vendredi Saint
au relais postal de Sienne). Installé un temps à Ferrare en résidence chez le cardinal qui le devance à Paris en mai, Cellini part
en septembre pour Lyon puis Paris50.
L’écart de traitement narratif entre le récit de ce voyage et
celui du premier est flagrant. La guerre ne sévit plus, le voyage
suit en Italie le confortable itinéraire du relais postal. L’artiste
croise bien quelques individus mal intentionnés, mais rien n’est
48
Ibidem. « J’espère faire cet ouvrage cent fois plus riche que le modèle.
J’espère aussi qu’il me restera beaucoup de temps pour en faire d’autres, plus
importants encore. », Ibidem.
49
« Essendomi partito el lunedi’ santo di Roma [...] », La vita, ivi, p. 294.
« J’étais parti de Rome le le lundi saint [...] », La vie, p.279.
50
JESTAZ, Benvenuto Cellni, p. 78.
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comparable aux diables qui entravaient sa première pérégrination. Le récit de ce voyage de plusieurs jours est ici synthétisé en
quelques lignes subsidiaires et les rares difficultés rencontrées
sont écartées pour insignifiantes (« avemmo per la strada
qualche disturbo, ma non fu molto notabile. »51). Le trajet entre
Ferrare et Lyon puis Fontainebleau où Cellini retrouve le roi,
occupe ainsi une quinzaine de lignes contre plusieurs chapitres
relatifs au précédent. Lors de ce second voyage, l’artiste se dit
enfin dans une très favorable disposition physique et mentale52.
Ce deuxième déplacement s’inscrit clairement sous de
plus positifs auspices. Cellini part cette fois avec l’assurance
qu’un contrat royal l’attend. Le lieu même de son arrivée, non
plus Paris mais Fontainebleau où sont déjà à l’œuvre plusieurs
artistes italiens, plante le décor des perspectives artistiques favorables de ce second séjour. Cellini reste évasif sur la date de leur
première entrevue. La présence attestée du roi à Paris le 15 novembre confirme qu’elle ne fut pas immédiate, comme il le
laisse entendre et eut sans doute lieu à la mi-décembre53. Il donne
en revanche force détails sur l’accueil attentif et bienveillant du
roi et rend très précisément compte des marques de considération du monarque qui ne tarit pas d’éloges sur son talent d’orfèvre (devant la carafe et le pot apportés) et lui promet aussitôt
des commandes à la hauteur de son talent, tout en lui faisant
l’honneur de s’adresser à lui en italien54. La suite confirmera la
51
La vita, II, ch. 9, p.307. « Le voyage fut marqué par quelques incidents,
mais rien d’important. », La vie, p.291.
52
« [...] quando l’altro giorno io fu’ fuora dal ferrarese n’ebbi grandissimo
piacere [...]. Trovammo la corte de Re a Fontana Beleo [...] quella sera
stemmo bene », Ibidem. « [...] J’avais quitté le territoire de Ferrare et j’en fus
ravi [...] Nous trouvâmes la cour royale à Fontainebleau [...]. Ce fut une bonne
soirée. », La vie, p.292.
53
JESTAZ, Benvenuto Cellini, p. 79.
54
« Queste parole il ditto re le parlava in francese al cardinale di Ferrara [...].
Di poi voltosi a me mi parlò in italiano », La vita, II, ch. 9, p. 308. « Le roi
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première impression décrite. Le « rêve français » auquel ont succombé alors de nombreux autres artistes italiens installés à Fontainebleau55 semble prendre aussitôt corps pour Cellini avec
cette seconde expérience parisienne. Il rejoint l’idyllique tableau
que Giorgio Vasari nous brosse en 1568, au Livre V de ses Vite
dei più eccellenti artisti56, des treize années de l’expatriation bellifontaine du Rosso (1527-1540).
[...] se in Roma et in Fiorenza non furono da quei che le potevano rimunerare
sodisfatte, trovò egli pure in Francia chi per quelle lo riconobbe, di sorte che
la gloria di lui poté spegnere la sete in ogni grado d'ambizione che possa 'l
petto di qualsivoglia artefice occupare. Né poteva egli in quell'essere
conseguir dignità, onore o grado maggiore, poiché sopra ogn'altro del suo
mestiero da sì gran re come è quello di Francia fu ben visto e pregiato molto57.
parlait en français au cardinal de Ferrare [...]. Puis il s’adressa à moi en italien.
», La vie, p.292.
55
Exercent alors à Fontainebleau : Rustici, Serlio, Vignole, Matteo del Nassaro, Luca Penni, Bartolomeo Miniati, Francesco Caccianimici, Giovambatista da Bagnacavallo, Primatice, Girolamo della Robbia, Francesco Salviati.
Pour le détail exhaustif de leur présence et de leurs œuvres, cfr. S. BÉGUIN,
L'école de Fontainebleau : le maniérisme à la cour de France, Paris, Gonthier, Seghers, 1960.; J.-J. LEVEQUE, L’école de Fontainebleau, Neuchâtel,
Ides et Calendes, 2001. ; X. SALMON, Fontainebleau : le temps des Italiens,
Heule, Snoeck, 2013.
56
G. VASARI, Le vite de'più eccellenti pittori, scultori ed architettori, in Le
Opere di Giorgio Vasari, IX t. V, Vita del Rosso», Florence, Sansoni, 1981,
p. 155.
57
Ibidem. « S’il n’a trouvé ni à Rome ni à Florence la récompense qu’il pouvait en attendre, du moins rencontra-t-il en France quelqu’un pour les apprécier à leur juste valeur. La gloire qu’il obtint était suffisante pour apaiser la
soif de n’importe quel artiste. Il ne pouvait en vérité gravir un échelon plus
élevé dans l’échelle des honneurs, puisque, plus que tout autre peintre, il sut
gagner l’estime et la faveur d’un aussi grand souverain que le roi de France. »,
G. VASARI, Les vies des meilleurs peintres sculpteurs et architectes, Vol. 6,
Paris, Ed. Arts, Berger Levraut, 1984, p. 181.
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Cellini, comme Vasari, confirme que l’expérience française palie la crise conjoncturelle italienne et offre aux artistes la
situation digne et stable qu’ils attendent. Le roi reçoit ses artistes
en personne et avec déférence. Il les paie d’avance et rubis sur
l’ongle58 : un trésorier florentin, Giuliano Buonaccorsi, est spécialement chargé des artistes transalpins. Remarquons que Cellini dit à cet égard apprécier autant la promesse d’une rémunération à la hauteur de son talent que l’effort du roi de parler sa
langue. Dans les deux cas, la considération inédite pour sa personne est attestée. Le « Mon ami » dont le roi le gratifiera
quelques semaines plus tard parfait le tableau.
[Il Re] me dette in su la spalla con la mana, dicendomi: – Mon ami (che vuol
dire “amico mio”), io non so qual s’è maggior piacere, o quello d’un principe
l’aver trovato un uomo sicondo il suo cuore, o quello di quel virtuoso l’aver
trovato un principe che gli dia tanta comodità, che lui possa esprimere i sua
gran virtuosi concetti – 59.
58
JESTAZ, Benvenuto Cellini, p. 78.
La vita, II, ch. 22, p. 333. « [Le roi] me mit la main sur l’épaule en me
diasant: “Mon ami, je ne sais qui est le plus heureux des deux : le prince qui
trouve un homme selon son coeur ou l’artiste de telent à qui un prince fournit
tous les moyens d’exprimer les vastes conceptions de son esprit”», La vie, p.
315.
59
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Tout laisse donc augurer une intégration rapide et lucrative, similaire à celle du Rosso60. Après une première proposition de contrat de trois-cents écus qu’il estime sous-évaluée61, le
roi lui aurait octroyé une pension annuelle de sept-cents écus
(égale à celle du grand Léonard62), cinq-cents écus pour son installation, en plus du paiement ponctuel de chacune des œuvres.
Ces largesses (« grande offerte »63) se poursuivent, quelques semaines après son arrivée, par l’attribution du prestigieux Hôtel
de Nesle où il installe domicile et atelier. Les conditions de travail parisiennes sont indéniablement inédites et motivantes pour
l’artiste habitué à des mécènes italiens moins généreux. Mais le
véritable premier pas décisif vers la pleine réalisation du rêve
français évoqué est marqué par l’assignation immédiate au travail d’œuvres majeures que le roi offre naturellement à l’artiste
en faisant d’emblée confiance à ses aptitudes de sculpteur. Le
cadre en est posé dans le texte par la kyrielle de superlatifs (« [...]
il Re aveva preso grandissimo piacere del mio arrivo; ») qui
donne la mesure de l’ambition majeure des œuvres que le roi dit
60
VASARI, « Il re, adunque, avendogli subito ordinato una provisione di quattrocento scudi, e donatogli una casa in Parigi, la quale abitò poco per starsi il
più del tempo a Fontanableò, dove aveva stanze e vivea da signore, lo fece
capo generale sopra tutte le fabriche, pitture et altri ornamenti di quel
luogo. », Le Vite, V, «Vita del Rosso», p. 155. « Le roi aussitôt lui fit une
rente de quatre cents écus, lui donna une maison à Paris qu’il habita peu pour
résider le plus souvent à Fontainebleau où il avait un appartement et vivait en
grand seigneur. Il fut nommé responsable de tous les bâtiments, peintures et
décors du château. », VASARI, Les vies, pp.188-189.
61
Ibidem.
62
Cellini aurait exagéré ses gains pour se flatter. Les sept-cents écus (mille
quatre cent soixante livres tounois) perçus le plaçant au-dessus des gains du
Rosso (1200) du Primatice (600) de Della Robbia (240). Cfr. JESTAZ, Benvenuto Cellini, p. 80.
63
La Vita, II, ch. 12, p. 313. « L’importance de offres royales », La vie, p.
296.
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vouloir lui faire réaliser (« la voglia di fare certe grandissime
opere [...]»64).
La métamorphose de l’orfèvre en sculpteur commence
ainsi de facto, presque malgré lui (l’artiste ne réclame à aucun
moment de réaliser des sculptures) à s’opérer avec la commande
de douze statues candélabres d’argent en pied destinées à la Galerie de Fontainebleau. Le projet (six dieux et six déesses d’argent de la taille du monarque qui mesurait près de 2 mètres65),
lui est confié fin décembre 1540, avec l’avance de l’argent nécessaire à leur confection. L’ambition créatrice de Cellini, frustrée en Italie, est devancée à Paris par la prompte sollicitude du
roi à lui passer commande et à le financer66. Aucune préalable
discussion n’examine la pertinence de ce projet ou la capacité de
l’orfèvre à le réaliser. Avec cette première commande des statues
candélabres puis celle de la salière pour laquelle mille écus d’or
lui sont aussitôt versés, Cellini rencontre le mécénat confiant et
stimulant du roi qui aussitôt l’incite à se dépasser67. Indéniablement l’écart de traitement offert par l’exil lui permet de faire en
quelque sorte peau neuve et d’assumer sans état d’âme l’ambition majeure des commandes reçues. Il saisit et relève aussitôt le
défi et exprime très lucidement le potentiel dynamique de ce
nouvel espace-temps français de création.
[...] andai a ringraziare il Re, il quale m’impose che io gli facessi i modelli di
dodici statue d’argento, le quali voleva che servissino per dodici candelieri
64
La vita, II, ch. 10, p. 308. « [...] Le roi avait vu mon arrivée d’un très bon
œil. [...] le désir de faire des choses de très grande envergure », La vie, p. 293.
65
JESTAZ, Benvenuto Cellini, note 30, p. 81.
66
« [Il Re] disse che presto mi darebbe ordine dove io avessi a lavorare, [...]
quasi che si potria dire l’esser peccato a far perder tempo a un simil virtuoso.
», Ivi, p. 309. « [Le roi] déciderait bientôt où je devrais travailler, [...] car on
pourrait dire que c’est un péché de faire perdre son temps à un tel artiste. »,
La vie, p. 293.
67
La vita, II, ch. 16, p. 320.
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intorno alla sua tavola: e voleva che fussi figurato sei Iddei e sei Iddee, della
grandezza appunto di Sua Maestà, quale era poco cosa manco di quattro braccia alto. Dato che egli m’ebbe questa commessione, si volse al tesauriere de’
risparmi e lo domandò se lui mi aveva pagato li cinquecento scudi68.
Le contexte français et la confiance du roi élargissent ainsi
aussitôt l’horizon des possibles, en contrepoint de l’espace clos
et contraignant de l’exigüité du cachot romain où Cellini a initié
sa mue. L’amplification soudaine des perspectives professionnelles offertes est sensible dans la dilatation spatiotemporelle qui
encadre les descriptions des premiers temps de l’installation
française. Un perceptible gigantisme s’invite alors dans le récit
et se prolonge, hors les murs du château, dans la taille extravagante du cortège royal qu’il rejoint dès son arrivée, et qui préfigure la nouvelle échelle de démesure où l’artiste a à présent l’opportunité de s’exprimer. Le royaume de France voit et fait les
choses en grand. Il lui offre un cadre à la hauteur des nouvelles
ambitions de sculpteur et dessine la nouvelle identité d’assignation dans laquelle le roi l’invite à se glisser69.
Cellini, aussitôt stimulé par cette démesure, écrit alors travailler sans relâche, frénétiquement, sans perdre un instant,
68
La vita, II, ch. 12, p. 313. « [...] J’allai remercier le roi. Il me commanda
les modèles de douze statues d’argent, six dieux et six déesses, qui devaient
servir de porte-flambeaux autour de sa table et avoir exactement la taille du
roi, à peine moins de quatre brasses. », La vie, p. 297.
69
« [...] Noi andavamo drieto alla Corte, puossi dire tribulando (il perché si è
che il traino del Re si strascica continuamente drieto dodici mila cavalli; e
questo è il manco: perché quando la Corte in e’ tempi di pace è intera, e’ sono
diciotto mila, di modo che sempre vengono da essere piú di dodici mila; [...])
», La vita, II, ch. 10, p. 308. « [...] nous suivions la cour, non sans tourments,
on peut bien le dire. Le roi traîne toujours derrière lui douze mille chevaux.
En temps de paix, quand la cour est au complet, cela monte jusqu’à dix-huit
mille, en tout cas, jamais moins de douze mille », La vie, p. 293.
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comme pour rattraper le temps perdu en Italie, saisi d’une insatiable soif de travail70. Au roi qui s’inquiète même de sa santé et
veut le ménager en lui allouant davantage d’apprentis, Cellini
rétorque que se réfréner le rendrait malade71. Tout est dit. Le
premier facteur de l’accomplissement de l’artiste en France est
donc cette salutaire liberté d’action72. L’artiste exprime très lucidement, à propos de la commande de la salière, le lien étroit
qu’il perçoit entre la confiance mise en son identité supposée de
sculpteur et la facilité à la satisfaire en retour.
Allora io dissi: - Tutti e’ principi che danno animo ai servitori loro, in quel
modo che fa e che dice Sua Maestà, tutte le grande imprese si vengono a
facificare; e poi che Dio m’ha dato un cosí maraviglioso padrone, io spero di
dargli finite di molte grande e meravigliose opere73.
70
« Con grandissimo sollecitudine giorno e notte non restavo di lavorare »,
La vita, II, ch. 15, p. 317, « La mattina seguente subito detti principio alla
gran saliera, e con sollecitudine quella con l’altre opere facevo tirare innanzi. » ; « Subito detti principio, [...] e con sollecitudine facevo tirare
inanzi », « [...] io gli sollecitavo di sorte che per il continuo affaticarsi [...] »,
La vita, II, ch. 18, p. 323. « J’engageai beaucoup d’ouvriers et ne cessais de
travailler jour et nuit », La vie, p. 301 ; « Dès le lendemain matin, je commençai la grande salière et j’eus soin de la faire avancer de front avec les
autres travaux. » ; « J’entrepris en hâte [...] et je faisais avancer les travaux
avec une grande sollicitude. », La vie, p. 307.
71
« Risposi a Sua Maestà, che subito io mi ammalerei se io non lavorassi,
[...]. », La vita, II, ch. 15, p. 319. « Je lui répondis que, sans travailler, je
tomberais tout de suite malade [...]. », La vie, p. 302.
72
« [...] Lavorare poco e assai, secondo la mia volontà. », Ibidem. « [...] travailler peu ou beaucoup, à ma convenance. », Ibidem.
73
La vita, II, ch. 16, p. 320. « Je repris alors - Tout Prince qui encourage ses
serviteurs, comme le fait et le dit Sa Majesté, favorise les grandes entreprises.
Puisque Dieu m’a donné un patron si extraordinaire, j’espère bien lui remettre
achevés nombre de chef-d’œuvre.- », La vie, p. 303.
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Délivré de l’inertie et des freins financiers italiens, identifié pour la première comme sculpteur à part entière, l’artiste relève dès lors le défi et s’approprie (étape nécessaire de tout procès d’identification) les ambitions majeures qui lui sont assignées. Elles prennent peu à peu corps, par étapes successives. La
réalisation de celle que Cellini dénomme la grande salière74 constitue dans le récit un premier pas décisif vers sa nouvelle étoffe de sculpteur. C’est d’ailleurs au chapitre 18 qui en
relate la confection, qu’est pour la première fois osé par l’artiste
le terme de sculpture. Évoquant, les apprentis italiens français et
allemands qu’il engage pour sa confection, leurs compétences en
« arte della scultura » priment sur leur « arte dell’oreficeria75 ».
Cette inversion d’apparence anodine marque un sensible tournant, dès après confirmé dans le récit par son soudain désir de
couler un Jupiter en bronze, à partir du modèle en terre réalisé
pour la statue d’argent commandée. Cellini paraît là investi
d’une mission ou vocation qui le dépasse76. Ce premier défi de
fondeur sculpteur monumental, savamment dramatisé dans le récit, met en scène Cellini aux prises avec deux fondeurs français
expérimentés et convaincus de détenir la bonne technique77. Le
néophyte Cellini leur propose la sienne (« io volevo gittare al
modo mio dell’Italia »78) mais finit par leur confier la fonte. La
74
« Gran saliera », La vita, II, ch. 18, p. 323. « Grande salière », La vie, p.
306.
75
Ibidem. « En sculpture comme en orfèvrerie », La vie, p. 306.
76
« Ancora mi venne voglia di gittare di bronzo quel modello grande che io
avevo fatto per il Giove d’argento; messo mano a tal nuova impresa, quale io
non avevo mai piú fatta [...]. », La vita, II, ch. 18, p. 324.
77
« [...] e conferitomi con certi vecchioni di quei maestri di Parigi, dissi loro
tutti e’ modi che noi nella Italia usavono fare tal impresa. », La vita, II, ch.
18, p. 324. «J’en discutai avec de vieux maîtres parisiens et leur descrivis en
détail la technique employée en Italie. », La vie, p. 307.
78
« Je voulais jeter selon ma technique italienne », Ibidem. Les techniques de
fonte alors utilisées par les artistes italiens de Fontainebleau sont détaillées
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fonte du Jupiter est ratée, défectueuse79, tandis que Cellini mène
à côté à terme et avec succès la fonte d’une tête de César et de
femme80. Le roi cautionne alors Cellini qui avait prédit l’échec
des vieux sculpteurs. Cellini devra certes recommencer la fonte
du Jupiter en bronze puis y marteler des plaques d’argent81. Mais
le maintien de la commande et la rétribution aussitôt accordée
encouragent l’artiste à entreprendre des œuvres de grande
échelle82. Dans ce même chapitre, il dit travailler simultanément
à plusieurs pièces, signalées pour leur taille remarquable83. La
première pièce monumentale du Jupiter d’argent (II, ch. 18) confirmée par le roi, autorise Cellini à utiliser le terme de « statue »
pour la Junon alors commencée (« ne feci un’altra […] per porvi
sopra la statua di Iunone [...] »84). Le pas est donc franchi, du
moins sur le papier : Cellini se conforme à l’assignation royale
et se revendique sculpteur. L’empressement créatif décrit n’en
par Bernard JESTAZ (Benvenuto Cellini, p. 86), et Thomas CLOUET (Fontainebleau, p. 215). Cellini voulait couler dans le moule en terre un modèle en
bronze sur lequel marteler ensuite les plaques d’argent selon la technique du
“repoussé”. Cellini agit en orfèvre modeleur et non en sculpteur. Sa technique
est propre à l’orfèvrerie.
79
La vita, II, ch. 18, p. 324.
80
Ibidem.
81
JESTAZ, Benvenuto Cellini, pp. 83-84.
82
« Queste cose m’accrebbono tanta benivolenzia con quei tesaurieri e con
quei ministri del Re, che fu inistimabile. Tutto si scrisse al Re, il quale unico
liberalissimo, comandò che si facessi tutto quello che io dicevo. », La vita, II,
ch. 18, p. 326. « Mon attitude accrut énormément la bienveillance des trésoriers et des ministres du roi à mon égard. On écrivit au roi dont la générosité
était inégalable. Il ordonna de m’écouter en tout. », La vie, p. 309.
83
« gran saliera » ; « gran fatiche » ; « un vaso grande » ; « una testa di Iulo
Cesare grande molto più del naturale » ; « un’altra testa della medesima grandezza », La vita, II, ch. 18, p.324. « grande salière» ; « gands efforts » ; « un
buste de Jules César beaucoup plus grand que nature », La vie, p. 307.
84
La vita, II, ch. 20, p. 328. « Je fis un autre piédestal du même genre pour la
statue de Junon », La vie, p. 311.
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est alors que plus soutenu85. Les recoupements des comptes et
archives attestent qu’en réalité les délais d’exécution de l’artiste
furent moins expéditifs qu’il ne le prétend86. La technique du repoussé (ou martelage) qu’il choisit d’adopter, allonge considérablement les temps de réalisation87. Par ailleurs, les faits montrent que, derrière son flatteur autoportrait du bourreau de travail, l’artiste s’éparpille, tâtonne, multiplie les expériences de
fonte, les essais incertains (il mettra en réalité quatre ans à terminer son Jupiter et ne le livrera qu’en janvier 154588).
Toutefois, au-delà de ces bémols, la part déterminante de
la confrontation au contexte français dans la mue artistique décrite reste indéniable. Les ambitions que le roi projette pour lui,
la stimulation du contexte artistique français (incarné par les
deux sculpteurs) qui révèle en creux à Cellini sa spécificité technique, les facilités matérielles mêmes, participent à révéler le
sculpteur. Le processus d’identification ainsi amorcé est soutenu
par ailleurs par la nouvelle identité qui vient entériner au plan
juridique le changement d’identité artistique en cours. Ses lettres
de naturalisation89 lui sont en effet gracieusement accordées en
85
« [...] sollecitamente si lavorava [...]. Ancora ne feci un’altra [...]. Lavorando sollecitamente avevo messo di già insieme [...] ancora avevo messo
insieme [...] il vaso era molto inanzi ; le due teste di bronzo erano già finite
[...]. Ancora avevo fatto parecchi operette [...] di più un vasetto [...] e a molti
altri avevo fatto di molte opere [...] tirando inanzi benissimo queste opere.»,
Ibidem. « [...] on s’en occupait activement [...]. J’en fis une autre [...]. Grâce
à ma rapidité, j’avais déjà assemblé [.... Le vase était bien avancé, les deux
bustes terminés. J’avais fait de menus ouvrages [...], un petit vase d’argent
[...] et beaucoup d’autres ouvrages et beaucoup avancé ces commendes », La
vie, pp. 310-311.
86
T. CLOUET, Fontainebleau de 1541 à 1547. Pour une relecture des Comptes des Bâtiments du roi, in « Bulletin Monumental », Volume 170, 3, (2012),
pp. 195-234.
87
JESTAZ, Benvenuto Cellini, p. 86.
88
Ivi, p. 88.
89
La lettre est conservée à la BNC de Florence.
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juillet 1542 par le roi90, sans même qu’il ne les réclame. Remarquons qu’à nouveau, sa nouvelle identité lui est assignée par le
roi, plus qu’elle n’est choisie par l’artiste, même s’il s’en dit
flatté.
Les limites du sculpteur en herbe confronté au contexte parisien.
Le projet de la Nymphe de Fontainebleau91 dont le roi lui
confie, sur une idée de Madame d’Étampes, la conception et la
réalisation en janvier 1542, suit immédiatement la naturalisation
et confirme le procès artistique en cours. Pour ce relief monumental semi-circulaire de plus de quatre mètres, devant servir de
tympan à la Porte dorée, l’entrée principale du château de Fontainebleau, le roi exige une réalisation d’une exceptionnelle
beauté. L’artiste doit donc là faire preuve, au-delà de ses capacités techniques, de son génie. La beauté du modèle qu’il réalise
pour la Nymphe est à ses dires incontestable et émerveille le
90
« Questo segretario [...] mi disse innella lingua mia, cioè in italiano, quello
che voleva dire “lettere di naturalità” quale era una delle maggior degnità che
si dessi a un forestiero; e disse: - Questa è altra maggiore cosa che esser fatto
gentiluomo veniziano - [...] che un tal favore non s’era mai piú fatto in quel
regno. », La vita, II, ch. 19, p. 327. « Le secrétaire [...] m’expliqua dans ma
langue, en italien, ce qu’étaient ces fameuses lettres, à savoir une des plus
grandes dignités qu’on puisse conférer à un étranger. - C’est beaucoup mieux
que d’être fait gentilhomme vénitien - », La vie, p. 310.
91
« Quella figura di mezzo si è cinquanta quatto piedi [...] », La vita, II, ch.
22, p.332. « La figure du milieu aura cinquante-quatre pieds de haut », La vie,
p. 314. Le relief reprend l'iconographie d'une fresque du Rosso (connue par
la gravure), au centre de la galerie François Ier, et représente la légende qui
donne son nom à Fontainebleau. La source est personnifiée par une nymphe
qui enlace le cou d'un cerf, emblème de François Ier, évoquant la vocation du
lieu à l’accueillir.
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roi92. Pourtant, Cellini ne le conduisit pas à son terme. L’assemblage de la Nymphe qui devait être montée en cinq pièces rencontre des difficultés et plus d’un an plus tard, deux fondeurs
français sont chargés de leur assemblage, puis de la reparure93.
Le projet resta en l’état quand il quitta la France en juillet 1545
et ne fut jamais mis en place après son départ. Les comptes attestent par ailleurs que l’on paya à Primatice et non à Cellini le
moule en stuc de la nymphe devant être fondue94. Cellini a donc
failli. À cet échec fit suite le projet également avorté de la Fontaine de Mars, dont Cellini ne réalisa qu’un modèle de un mètre
cinquante. puis la tête du colossal Mars à l’effigie du roi95 qui
devait culminer à vingt-deux mètres. L’examen pointilleux des
comptes de Fontainebleau que nous livre Thomas Clouet confirme que la fontaine (dite alors Fontaine d’Hercule) fut entièrement réalisée par Primatice96. Face à un Cellini lent et dispersé,
Primatice travaille à l’inverse vite et bien et tire son épingle de
la situation97. Il travaille sans relâche pour le roi à fondre ses
bronzes d’après l’antique (Laocoon, Vénus, Apollon, hercule,
Sphinx, Ariane endormie) avec les plus grands sculpteurs français98.
92
« gli pareva bellissimo » ibidem. « lui paraissait très beau », La vie, p. 314.
JESTAZ, Benvenuto Cellini, p. 104.
94
Primatice aurait repris le projet de Cellini après son départ. Le roi renonça
peu après à sa réalisation. CLOUET, Fontainebleau, pp. 195-234, p. 215.
95
Ivi, p. 200.
96
« La fontaine construite entiérement sous la direction de Primatice fut remplacée dès le règne de Henri IV par une autre portant une statue de Persée »,
Ivi, p. 199.
97
Les Comptes citent plusieurs statues réalisées concomitamment dans un
même paiement, CLOUET, Fontainebleau, p. 201.
98
Ibidem.
93
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Bertrand Jestaz émet enfin à ce propos de sérieuses réserves quant à la réelle maîtrise technique et au talent de sculpteur de Cellini99. Cellini, installé à Paris, à l’écart de Fontainebleau où est située la fonderie royale, n’est pas de ces projets.
L’artiste ne trahit rien des éventuels doutes et ratés dont ses
œuvres inachevées attestent. Pourtant, Nymphe et Fontaine relativisent et hypothèquent grandement l’accomplissement de l’artiste, aux ambitions sans doute démesurées pour ses capacités
d’orfèvre. Ces deux œuvres causent de plus le début sa disgrâce
progressive. La favorite du roi, furieuse que Cellini dévoile son
modèle de Nymphe au roi et non à elle qui en avait suggéré
l’idée, devient dès lors sa pire ennemie. L’animosité que la
« velenosa » ou « crudel » duchesse d’Étampes lui témoigne replonge l’artiste dans les affres des antagonismes passés, un
temps oubliés sur le sol français. Elle devient bientôt un insurmontable obstacle à ses projets professionnels : elle intrigue auprès de Primatice et du roi pour faire retirer à Cellini la commande de la Nymphe, incriminant ses temps d’exécution100. Le
roi résiste un temps, mais lui cède finalement et, nous l’avons
dit, Primatice en eut la charge. Cellini rapporte ces faits en mettant en avant à l’occasion de ce litige l’inconfort de sa position
99
JESTAZ, Benvenuto Cellini, pp. 120-123.
« Potettono tanto quelle argute ragione, con il grande aiuto di madama di
Tampes e con il continuo martellare giorno e notte, or Madama, ora il Bologna, agli orecchi di quel gran Re. [...] lei e il Bologna d’accordo dissono: Come è ’gli possibile, sacra Maestà, che, volendo quella che Benvenuto gli
faccia dodici statue d’argento, per la qual cosa non n’ha ancora finito una? »,
La vita, II, ch. 26, p.338. « Ses arguments malins, appuyés par madame
d’Etampes qui le relayait pour casser les oreilles du roi jour et nuit prirent le
dessus. [...] Mais le plus décisif fut le discours qu’ils lui tinrent ensemble : Comment sera-t-il possible, Majesté sacrée, que benvenuto fasse pour vous
les douze statues d’argent ? Il n’en a pas encore fini une seule ! - », La vie,
p. 320.
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d’étranger, qu’il n’est pourtant plus depuis sa naturalisation, gravitant dans un contexte français hostile. Ce revers invertit brutalement sous sa plume la précédente spirale vertueuse. L’antagonisme de la favorite semble contaminer dans les chapitres suivants l’ensemble de la malveillante communauté française et le
renvoyer à son identité italienne. Attaqué en justice pour un litige de voisinage (II, ch. 27), puis par un jeune modèle pour sodomie et viol (II, ch. 29), Cellini plaide l’innocence et déverse
au fil des pages son fiel contre les Français, se posant en victime
de leur roublardise. Il les déclare tour à tour coutumiers d’adultère101 et de perfidie chroniques, et experts dans l’art de monter
à seules fins lucratives des procédures en justice contre des innocents, de préférence étrangers102. La sentence du juge devant
lequel il comparaît et qui lui signifie que malgré son prénom il
sera dès lors « mal venuto »103, paraît sonner la fin de l’intégration et de l’identification heureuses et lui tendre l’envers du royal
miroir aux alouettes français. Le voici rebaptisé, stigmatisé. La
mue se poursuit donc mais en sa défaveur.
101
« [...] era il costume di Francia, [...] che non era marito che non avessi le
sue cornetta. », La vita, II, ch. 35, p. 355. « [...] c’était l’habitude en France
où, c’est sûr, on ne rencontre pas de mari sans quelques petites cornes. », La
vie, p. 335.
102
« Hanno per usanza in Francia di fare grandissimo capitale d’una lite che
lor cominciano con un forestiero o con altra persona che ’e veggano che sia
alquanto istraccurato allitigare; e subito che lor cominciano a vedersi qualche
vantaggio innella ditta lite, truovano da venderla; [...]. E a me intravenne questi ditti accidenti. », op. cit., II, ch. 27, p. 339. « C’est une habitude des Français de tirer de gros profits de procès engagés contre des érangers ou des
personnes peu versées dans la chicane. À peine entrevoit-on un avantage à
tirer d’un litige, on trouve à le vendre. [...] Toutes ces mésaventures m’arrivèrent. », La vie, p. 320.
103
« [...] - Se bene tu hai nome Benvenuto, questa volta tu sarai il mal venuto. », La vita, II, ch. 30, p. 346. « Tu as beau t’appeler Bienvenu, cette foisci tu sers le malvenu. », La vie, p. 320.
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Occupé d’un côté à régler ses ennuis judiciaires, l’artiste
en découd de l’autre avec Primatice, qu’il surnomme la « bestia
di Bologna »104 et qui incrimine Cellini d’avoir plagié le Rosso
en s’inspirant d’une de ses fresques pour réaliser son Jupiter.
Leurs rapports s’enveniment de page en page jusqu’aux menaces
de mort105. On note l’absence de solidarité de la diaspora italienne dans ce climat de concurrence : aucun artiste n’intervient
alors pour régler leur conflit. Comble d’infortune, Charles V envahit la France en juillet 1544 et menace Paris106. Des restrictions financières s’imposent. Le roi continue un temps de rétribuer l’artiste pour ses œuvres (deux mille écus lui sont versés
pour la salière et pour la statue du Jupiter) malgré cette conjoncture dégradée et Cellini entreprend alors la « grande statua » du
« gran colosso » de Mars destinés à la fontaine107. Mais le modèle de la « gran porta » avance peu108. Litiges, restrictions et
retards ont peu à peu raison de la patiente bienveillance du roi.
Lors d’une visite à son atelier en novembre 1544 (II, ch. 44), il
accuse Cellini longuement de n’en faire qu’à sa tête, de ne pas
104
La vita, II, ch. 37, p. 357.
« Vi dico cosí, che se io sento mai in modo nessuno che poi parliate di
questa mia opera, io subito vi ammazzerò come un cane: e perché noi non
siamo né in Roma, né in Bologna, né in Firenze [...] - io vi ammazzerò a ogni
modo. », La vita, II, ch. 32, p. 350. « Je vous déclare que, si jamais j’apprends
d’une façon ou d’une autre que vous parlez de cet ouvrage qui m’appartient,
je vous tue sur-le-champ comme un chien. Nous ne sommes ni à Rome, ni à
Bologne, ni à Florence [...] je vous tuerai net. », La vie, p. 330.
106
« [...] fu nel tempo che Imperadore con il suo grandissimo esercito veniva
alla volta di Parigi. Veduto il Cardinale che la Francia era in gran lo penuria
di danari, [...] », La vita, II, ch. 38, p. 359. « Ce fut le moment où l’empereur
marcha sur Paris avec une puissante armée. Devant la pénurie d’argent en
France, le cardinal [...]. », La vie, p. 339.
107
La vita, II, ch. 42, p. 367. « [...] grande statue [...] grand colosse », La vie,
p. 345.
108
La vita, II, ch. 44, p. 370. « [...] grande porte », La vie, p. 349.
105
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Mérieux, La maïeutique de l’exil
honorer les commandes prioritaires (les douze statues). La confiance du roi est rompue et avec elle, instantanément, celle de
Cellini en ses propres capacités. L’artiste formule ainsi son intention de repartir en Italie109 dès après le réquisitoire du roi.
Sans le miroir tendu du roi, l’identification paraît tourner court.
Les choses s’accélèrent avec le début du conflit, significativement concomitant, qui oppose alors François Ier à Henri VIII
(septembre 1544 à juin 1546). Le roi n’est plus disponible aux
plaisirs des arts : Cellini en prend acte (« era veramente tempo
da militare, e non da statuare »110). Ce retour à l’inertie lui est
insupportable. Il achève son Jupiter en janvier 1545 et en juillet
1545, laissant tout en plan, il part définitivement pour l’Italie.
Era passato parecchi mesi che io non avevo aùto danari né ordine nessuno di
lavorare; [...] io pregai Sua Maestà che fussi contento di farmi tanto di grazia,
che io potessi andare a spasso infino in Italia [...]111.
C’est donc ce faisceau de circonstances dégradées, d’animosités et d’entraves françaises nouvelles qui justifie dans
l’autobiographie son départ inopiné. Nous partagerons ici les
questionnements de Bertrand Jestaz quant à ses véritables motivations. La subite décision de Cellini de quitter Paris a des airs
de fuite face à ses propres failles, comme Jestaz en émet l’hypothèse. Cellini n’aurait en somme pas été à la hauteur des attentes
que le roi fondait en lui quant à son étoffe de sculpteur, sans
109
« [...] perché in questo punto, non facendomi degno di tal cose, mi partirò
tornandomi in Italia [...] », La vita, II, ch. 45, p. 373. « [...] car si Votre Majesté n’accède pas à mes requêtes, je retournerai sur l’heure en Italie [...] »,
La vie, p. 351.
110
La vita, II, ch. 48, p. 376. « [...] les temps se prêtaient plus à faire la guerre
que des statues. », La vie, p. 354.
111
Ivi, p. 375. « Je restai plusieurs mois sans recevoir ni argent ni commandes
[...] je le suppliai de m’accorder la grâce d’aller faire un tour en Italie. », La
vie, p. 353.
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doute surévaluée par les ambitions royales112. Nous l’avons dit,
plusieurs des œuvres monumentales brandies dans le texte pour
preuve de ses capacités ont en réalité avorté. Le Jupiter (disparu)
de la Galerie de Fontainebleau, dévoilé (sous son pudique voile
posé là selon Jestaz pour dissimuler de probables imperfections
techniques), est la seule véritable œuvre de sculpture aboutie,
que la gravure qui en laisse trace révèle peu convaincante. Les
salière, pots, vases et reliefs qui demeurent de ce séjour ne relèvent pas de la statuaire. Le soin que met Cellini à décrire dans
les derniers chapitres cités le délitement du contexte français
pourrait donc n’être qu’habile subterfuge narratif pour masquer
au lecteur (autant qu’à lui-même) son impuissance à relever le
défi de la sculpture et de l’expérience française.
Les conditions et opportunités privilégiées de l’exil n’ont
pas suffi à faire adhérer l’artiste à la nouvelle identité dont le roi
l’investit d’office à divers titres (commandes, largesses, lettres
de naturalisation). La “conformation” que Cellini aurait dû accomplir pour se couler dans le moule royal prêt à poser ne s’est
pas produite. Celle-ci aurait pu s’appuyer sur les interactions sociales113, mais l’installation parisienne, à l’écart de la communauté bellifontaine de ses pairs italiens et français sur lesquels il
ne s’appuie pas, le laisse isolé, face à ses propres limites, et sans
doute excessivement dépendant de la seule confiance du monarque en ses ambitions projetées. Cellini ne saisit pas l’opportunité bellifontaine qui lui aurait permis de faire ses armes dans
l’art de la sculpture. Le huis clos de l’atelier parisien dans lequel
il crée et dévoile ses œuvres pour le seul roi et sa suite est l’indice
de ce processus d’identification raté, car exclusif du contexte
d’accueil. Aucune curiosité pour l’école bellifontaine alors en
112
JESTAZ, Benvenuto Cellini, pp. 86 ss.
E. GOFFMAN, Les relations en public, II, La mise en scène de la vie quotidienne, Paris, Minuit, coll. « Le sens commun », Paris, 1973.
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plein essor n’est jamais évoquée dans l’autobiographie, hormis
pour dénigrer la qualité des fondeurs ou de Primatice. L’isolement et le soutien constant du roi jusqu’au désaveu final empêchent une rencontre de l’artiste avec cette nouvelle ébauche de
sculpteur monumental qui reste comme atrophiée. L’expatriation française confirme en somme que la véritable ressource de
son génie artistique ne tient pas aux seules contingences favorables extérieures. Elle ne pourra sourdre que d’une adhésion intime entre l’identité assignée et sa propre capacité se mesurer à
ces ambitions projetées. Les caractéristiques assignées et les
conditions contingentes qui auraient dû faire de lui le sculpteur
espéré par le roi semblent réunies en France. Mais il semble
qu’ait manqué alors à l’artiste l’articulation entre les attentes
royales et la sienne propre, entravée par ailleurs par la perception
hostile de ses pairs, de la favorite et des Français, qui le traitent
en imposteur, voire en usurpateur (« mal venuto »). Le schéma
d’analyse du sociologue Claude Dubar nous paraît à cet égard
utile pour éclairer, au-delà de l’anachronisme, le paradoxal
échec de Cellini en France. Il décrit en effet tout processus
d’identification (à un statut, à une communauté nouvelle)
comme le nécessaire point de jonction entre les trois facettes
complexes de toute identité114: l’« identité pour soi » qui renvoie
à l’image intime que chaque individu a de lui-même et de ses
ambitions projetées, l’« identité pour autrui », produit de la construction de l’image que l’individu souhaite renvoyer aux autres,
et « l’identité par autrui » qui rejoint l’identification et la qualification extérieures que les autres nous attribuent. Cellini, nous
l’avons dit, se montre en France défaillant à opérer la jonction
harmonieuse entre ces trois facettes. La reconnaissance des
autres, mise à part celle du roi qui finira également par être défaillante, lui est niée. Rejeté par les sculpteurs et pairs italiens
114
C. DUBAR, La crise des identités, Paris, PUF, coll. « Le lien social », 2000.
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Mérieux, La maïeutique de l’exil
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établis à Fontainebleau, par des Français qui le renvoient régulièrement à son statut d’étranger et d’imposteur face à ses incapacités de sculpteur, Cellini ne peut s’identifier qu’à la projection du roi qui croit en ses capacités et le fait tout à la fois sculpteur, Français, ami. Mais lorsque disparaît cette reconnaissance
sur laquelle reposait tout le processus d’identification, Cellini se
retrouve au point de départ, comme au sortir du cachot, sans
identité acquise, et tout reste à reconstruire.
L’identification ultime : la naissance concomitante dans la
douleur du Persée et du sculpteur.
C’est en Toscane, malgré des conditions exécrables, que
l’artiste parvient à accomplir grâce à la réalisation du Persée le
dernier temps du processus qui n’avait pas été possible en France
et qui occupera le dernier temps de notre étude.
Lorsqu’il quitte Paris et rentre à Florence en août 1545,
Cellini court sans tarder proposer ses services à Cosme I (« risposi al mio Duca che volentieri, o di marmo o di bronzo, io gli
farei una statua grande »115) qui, trop heureux de récupérer un
artiste que le roi a laissé partir, lui confie aussitôt le défi de réaliser une statue de Persée. Les termes de leur entretien révèlent
aussitôt un décalage entre Cellini qui n’hésite plus désormais à
se qualifier de sculpteur de grand format et Cosme I qui, à l’inverse de François Ier, émet de très vives réserves quant à ses
réelles capacités de sculpteur116, préférant le cantonner un temps
115
La vita, II, ch. 53, p. 385. « Je répondis volontiers à mon duc que j’entreprendrais volontiers une grande statue de marbre ou de bronze pour mettre
sur sa belle place », La vie, p. 362.
116
« Il Duca, che più volte l’era venuta a vedere, aveva tanta gelosia (sospetto)
che la non mi venissi di bronzo, che egli arebbe voluto che io avessi chiamato
qualche maestro che me la gittassi. » La vita, II, ch. 61, p. 399 ; « [...] gli fece
pensare, che se bene io gittavo qualcuna di queste statue, che mai io non le
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Mérieux, La maïeutique de l’exil
à des commandes d’orfèvrerie. Le retour en mère patrie ne résout
donc en rien la complexité du processus d’identification déjà
rencontrée en France. Cellini franchit une étape décisive lors
d’une seconde entrevue. Il vante au duc ses compétences, dans
une sorte de curriculum vitae qui résume les étapes du parcours
de sa métamorphose et revendique pour finir son nouveau statut.
[...] e cosí vi farei de’ vasi grandi d’oro e d’argento, sí come io ne ho fatti
tanti a quel mirabil re Francesco di Francia, solo per le gran comodità che ei
m’ha date, né mai s’è perso tempo ai gran colossi né all’altre statue – [...]. La
Duchessa mi diceva spesso che io lavorassi per lei di oreficerie: alla quale io
piú volte dissi, che ’l mondo benissimo sapeva, e tutta la Italia, che io ero
buono orefice; ma che la Italia non aveva mai veduto opere di mia mano di
scultura. 117
C’est la première fois que l’artiste exprime de manière
aussi explicite son ambition d’être tenu pour sculpteur, en Italie.
Le projet du Persée constitue son vatout et accepte pour cela les
pires conditions118. Aucun contrat n’est signé, un simple engagement oral, plus tard trahi par le duc, sanctionne la commande.
metterei insieme, perché l’era in me arte nuova [...] » La vita, II, ch. 63, pp.
403-404. « Le duc qui était venu plusieurs fois l’examiner craignait tellement
de me voir rater la fonte qu’il aurait voulu faire venir un maître bronzier pour
la couler à ma place. », La vie, p. 374 ; « [...] le convaincre que, malgré la
réussite d’une ou deux fontes, je n’arriverais jamais à tout assembler car
j’étais nouveau dans cet art. », La vie, p. 378.
117
La vita, II, ch. 65, p. 408. « Sans compter de grands vases d’or et d’argent
semblables à tous ceux que j’ai exécutés pour l’admirable roi François de
France uniquement grâce aux grandes facilités qu’il m’assurait, sans rien
prendre sur le temps prévu pour les statues colossales et le reste. [...] La duchesse me demandait souvent des travaux d’orfèvrerie. Plusieurs fois je lui
fis remarquer : on sait très bien dans toute l’Italie que je suis un bon orfèvre
mais on n’y a encore jamais vu de sculpture de ma main. », La vie, p. 383.
118
« [...] con queste difficoltà, poi con mia danari, avevo segnato il sito della
bottega », La vita, II, ch. 54, p. 388 ; « [...] un poco di botagaccia, fatta con
tanta miseria, che troppo mi offende il ricordarmene. », La vita, II, ch. 57, p.
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Cellini attendra des semaines l’attribution d’un atelier qu’il finit
par payer de ses deniers119, puis l’argent des matériaux qu’il doit
avancer, et les apprentis qu’on l’empêche de recruter. Le duc le
disperse de plus en commandes d’orfèvrerie, ne jurant que par le
sculpteur Bandinelli dont Cellini incrimine pourtant plusieurs
fois devant lui le style médiocre120. L’entreprise prend en somme
tournure de bras de fer et fait à plusieurs reprises regretter à Cellini l’exil français121. Privé de toute aide, il est alors contraint à
un dépassement dont il prend explicitement acte122.
Ces difficultés florentines, contrepoints du favorable contexte français, vont paradoxalement conduire Cellini au terme de
392. « [...] avec ces difficultés, et aussi grâce à mon argent, je réussis à délimiter sur le terrain les fondations de mon atelier » ; « [...] monter brique après
brique un bout de ce taudis d’atelier, bâti si chichement que le souvenir m’en
rend malade », La vie, p. 368.
119
Ivi, p. 388.
120
« - Signor mio, [...] Baccio Bandinelli si è composto tutto di male, e cosí
ei è stato sempre [...] » La vita, II, ch. 70, p. 414. « Monseigneur [...] Baccio
Bandinelli est tout pétri de mal ; il l’a toujours été. », La vie, p. 388.
121
« io non mi curavo più di servire il Duca e che io me en tronerei nella
Francia, dove io liberamente potevo ritornare. » ; « mi tornava in memoria il
mio bello stato che io avevo lasciato in Parigi sotto ’l servizio di quel maraviglioso re Francesco, con el quale mi avanzava ogni cosa, e qui mi mancava
ogni cosa. [...] », La vita, II, ch. 55, p. 390. ; « e io disperato, poverello, che
mi ero ricordato del mio bello stato che io avevo in Francia, cosí mi affliggevo », La vita, II, ch. 74, p. 421. « je ne me souciais plus de servir le duc ;
j’allais retourner en France où j’avais toute la liberté de rentrer. » ; « me revenait en mémoire la belle situation que j’avais laissée à Paris au service de
ce merveilleux roi François, auprès de qui j’avais tout en surplus et ne manquais de rien », La vie, p. 388. « Moi je me rappelais avec désespoir ma belle
situation en France et cela me plongeait dans l’affliction. », La vie, p. 395.
122
« Cercavo di pigliar de’ lavoranti per ispedir presto questa mia opera, e
non ne potevo trovare, [...] io mi disposi di far da me quanto io potevo.»,
Ibidem. « Je tentai de trouver des apprentis pour terminer rapidement mon
œuvre mais ne parvenais pas en trouver [...] je me résolus à faire par moimême tout ce que je pouvais », Ibidem.
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Mérieux, La maïeutique de l’exil
sa métamorphose. Après avoir restauré pour le duc un Ganymède
en marbre123, il entreprend de fondre la tête de la Méduse, sorte
d’échantillon du Persée qu’il s’apprête à couler, contre l’avis réticent du duc, toujours convaincu qu’il ne peut qu’échouer124. Ce
nouveau miroir ducal de défiance conforte paradoxalement Cellini dans sa propre confiance125. C’est cette assurance rageuse et
intime de l’artiste en ses propres capacités (« Fattomi da per me
stesso sicurtà di buono animo126») qui stimulera le dépassement
décisif de ses limites passées. L’héroïque et épique fonte du Persée peut alors commencer, semée de hauts faits et de difficultés
techniques. Sur la page autobiographique comme dans le moule
ou s’écoule le bronze, Cellini façonne alors pour la postérité sa
figure de sculpteur en même temps que celle du splendide Persée, terrassant à la fois la Méduse et l’orfèvre. Nous ne revien-
123
Ganymède, fut selon le mythe enlevé par Jupiter métamorphosé en aigle
et transporté dans le ciel, afin qu'il serve d'échanson à Jupiter et demeure
toujours parmi les immortels.
124
« Avendo gittata la Medusa, ed era venuta bene, con grande speranza tiravo il mio Perseo a fine, che lo avevo di cera, e mi promettevo che cosí bene
e’ mi verrebbe di bronzo [...]. [Il Duca] mi disse: - Benvenuto, questa figura
non ti può venire di bronzo, perché l’arte non te lo promette -. », La vita, II,
ch. 73, p. 420. « J’avais jeté la Méduse et elle était bien venue. Le cœur débordant d’espoir, je poursuivis le modèle de cire de mon Persée, me jurant
qu’il viendrait aussi bien en bronze [...]. [Le duc] me dit –Benvenuto tu ne
peux réussir cette figure en bronze, les règles de l’art ne te le permettent pas
- », La vie, p. 394.
125
« [...] io mi risenti’ grandemente, dicendo: - Signore, io conosco che Vostra Eccellenzia illustrissima m’ha questa molta poca fede: o sí veramente lei
non se ne intende -. », Ibidem. « Très vexé, je répliquai : -Monseigneur, je
vois que Votre Excellence ne me fait guère confiance, ou alors c’est que vous
n’y entendez vraiment rien -.», ibidem.
126
CELLINI, La vita, II, ch. 75, p. 423.
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Mérieux, La maïeutique de l’exil
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drons pas ici sur le registre épique de l’épisode, passage d’anthologie maintes fois commenté127. Nous n’en retiendrons que la
conversion de l’artiste explicitée pour la première fois comme
telle dans le récit. Chaque ligne tend à superposer la résurrection
de la statue (menacée de perte quand un incendie gagne l’atelier)
et la sienne propre, marquant l’étape ultime de son adhésion à
son identité de sculpteur. La conversion s’avère et s’exprime
alors dans la promesse que Cellini se fait à lui-même de se dépasser en affrontant le défi d’immortaliser par son oeuvre son
génie de sculpteur (« io [non avevo] piú paura di morte. »).
Fattomi da per me stesso sicurtà di buono animo, e scacciato tutti quei pensieri che di ora innora mi si rappresentavano innanzi […], con tutto questo io
certamente mi promettevo che, finendo la mia cominciata opera del Perseo,
che tutti i mia travagli si doverriano convertire in sommo piacere e glorioso
bene. Io [non avevo] piú paura di morte128.
Or veduto di avere risuscitato un morto, […]. O Dio, che con le tue immense
virtú risuscitasti da e’ morti, e glorioso te ne salisti al cielo! - di modo che
innun tratto e’ s’empié la mia forma; per la qual cosa io m’inginochiai e con
tutto ’l cuore ne ringraziai Iddio […]129.
La célèbre description de ce moule qui se remplit soudain
en creux du bronze en fusion, façonnant le Persée en même
temps que sa figure de sculpteur de génie (« à l’instant mon
127
TERREAUX-SCOTTOC, Benvenuto Cellini, pp. 95-123. BIANCOFIORE, Benvenuto Cellini.
128
Ibidem. « Je me redonnai tout seul du courage en chassant le tourbillon
incessant de mes idées […] Mais malgré tout cela je me promettais de voir, à
la fin de mon Persée, tous mes tourments se convertir en joies ineffables et en
glorieuses récompenses. Je [n’avais] plus peur de la mort. », La vie, p. 400.
129
La vita, II, ch. 77, p. 422« J’avais ressuscité un mort […]. - Ô Dieu qui es
ressuscité des morts par Ta toute-puissance et es monté aux cieux dans la
gloire !- À l’instant, mon moule s’emplit : à cette vue, je tombai à genoux et
remerciai le Seigneur de tout mon coeur. », La vie, p. 401.
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Mérieux, La maïeutique de l’exil
moule s’emplit »), confirme que la maïeutique de l’incarcération
puis celle de l’exil français trouvent leur accomplissement final
dans cette étape de la naissance du sculpteur de génie, dont seule
l’adhésion de Cellini à sa propre identité a garanti l’avènement.
Conclusion
Le déplacement parisien de Cellini n’aura donc guère offert à Cellini qu’une étape, un tremplin décisif vers son envol
florentin de Ganymède. En regard de la sublime réalisation de
son Persée florentin, la qualité discutable des ouvrages que Cellini conduisit en France serait difficilement explicable, si n’entrait précisément en compte la tension dynamique du lent processus d’identification et de métamorphose décrit.
Sa stature de sculpteur de grand format ne naît pas du seul
exil français comme cela est communément acquis, mais du
complexe déplacement intime vers sa propre identité dont nous
avons ici tenté de révéler les principaux jalons. Amorcée par la
mue carcérale qui le déleste de sa précédente peau d’orfèvre, elle
se construit et s’ébauche incomplètement à Paris, essentiellement dans le reflet du miroir flatteur et grossissant tendu par
François Ier. Mais si les ambitions royales stimulent chez l’artiste le processus de sa propre identification comme sculpteur, le
véritable processus maïeutique ne se produisit que dans le feu
brulant de son précaire atelier florentin. Là, ne “s’en remettant”
alors plus qu’à lui-même, sans plus aucune facilité contingente,
la fonte du Persée met à l’épreuve ses propres capacités à satisfaire les critères communs objectifs et identificatoires attestant
son statut de sculpteur. La seule assignation d’office du roi
n’avait pas suffi à parfaire le processus. Il lui restait à se mettre
à l’épreuve dans le secret de son atelier, comme il l’avait fait une
première fois dans le secret de son cachot au début du processus.
Ce fut chose faite avec le Persée qui brandit fièrement en même
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Mérieux, La maïeutique de l’exil
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temps que celle de la Méduse sa dépouille d’orfèvre et le propulse tel Ganymède au Panthéon des sculpteurs universellement
reconnus.
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Mérieux, La maïeutique de l’exil
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Mérieux, La maïeutique de l’exil
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D’Onofrio, Una famiglia di esuli
Una famiglia di esuli: i Gicca nel Regno di Napoli
di Antonio D’ONOFRIO
Università degli studi di Napoli “L’Orientale”
DOI 10.26337/2532-7623/D’ONOFRIO
Riassunto: Il saggio concentra la sua attenzione sulla famiglia Gicca, esuli
albanesi a Napoli. Il conte Stratti Gicca recluta illegalmente uomini per conto
di Carlo di Borbone. Condannato a morte da Venezia, arriva con le reclute a
Capua, dove assume il comando del nuovo reggimento Real Macedonia, ripartendo con una nuova vita in un nuovo regno. Il viaggio di “ritorno” è compiuto dal figlio, Michele Gicca, repubblicano, inviato come console napoletano a Corfù dal nuovo re Giuseppe Bonaparte nel 1806.
Abstract: The essay focuses on the Gicca family, of Albanian origins, exiled
to Naples. The count Stratti Gicca illegally recruits men on behalf of Charles
of Bourbon. Condemned to death by Venice, he reaches Capua with the recruits, where he assumes the command of the new Real Macedonia regiment,
starting a new life in a new kingdom. The “return” trip is made by his son,
Michele Gicca, a republican, sent to Corfu in 1806 as a consul of Naples by
the new king Giuseppe Bonaparte.
Keywords: Exile - Recruitment - Consulate
Sommario: Introduzione – Il reclutatore di militari – Il rivoluzionario – Il
console – Conclusione: una famiglia di esuli – Fonti – Fonti a stampa – Bibliografia
Saggio ricevuto in data 1° dicembre 2017. Versione definitiva ricevuta in data
13 gennaio 2018
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D’Onofrio, Una famiglia di esuli
111
Introduzione
L’esilio è spesso una punizione, sia esso una condanna o
una costrizione autoinflitta. Condannare all’esilio significa sradicare completamente un individuo dalle sue radici, gettarlo
fuori da quelle mura che sono i confini nazionali. Quell’individuo, all’improvviso, diventa superfluo per lo Stato, fastidioso e
pericoloso se tenuto nel grembo in cui è nato e vissuto e, per
questo motivo, da cacciare e tenere lontano, spesso per il resto
dei suoi giorni.
Quei confini che sembrano così rassicuranti nella loro apparente impermeabilità, si trasformano improvvisamente per
l’esiliato in un muro invalicabile, un qualcosa da odiare e da desiderare allo stesso tempo.
Sono innumerevoli i casi di vite distrutte dall’esilio, di persone per cui l’allontanamento dal proprio stato si è sovrapposto
a disgrazie di vario genere, persino alla morte. Tuttavia, talvolta,
l’esperienza dell’allontanamento dalla propria patria può trasformarsi in una nuova occasione di vita, in un’opportunità di ripartire, di ricominciare. E non si può in questa sede pensare e immaginare la vita di un esule contemporaneo: sia che si tratti di
fuga da guerre, fame e disperazione, sia che si tratti di un esilio
motivato da fattori economici e lavorativi, il mondo odierno, caratterizzato dall’apparente quanto effimera assenza di confini, limiti e barriere non ha le sembianze dell’Europa del XVIII secolo.
Questo saggio si colloca in un dibattito storiografico
quanto mai attuale com’è quello sull’esilio, prendendo spunti e
riferimenti da lavori fondamentali come quello di Anna Maria
Rao sugli esuli italiani in Francia negli anni appena successivi
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D’Onofrio, Una famiglia di esuli
alla rivoluzione francese1 o ancora, partendo dallo stesso periodo
storico, al lavoro di Sylvie Aprile, in cui l’autrice mostra attenzione alle diverse forme di esilio e a quello che spesso è un difficile adattamento ad un paese straniero2. Allo stesso modo, il
lavoro di Fabio di Giannatale dimostra come l’esilio sia in realtà
un fenomeno da inscrivere nalla longue durée dell’Europa e
della pratica politica europea, dagli stati italiani al risorgimento,
passando per la Francia di ancien régime3.
La direttrice seguita in questo saggio è però leggermente
diversa, prendendo in considerazione un esilio non definibile
esattamente volontario, ma neanche assimilabile ad una forma
tradizionale di esilio come è quello imposto da un potere centrale. È l’esilio di un uomo che in patria è condannato a morte
per aver commesso un reato su commissione di uno stato estero
nel quale, al contrario, viene accolto e ricostruisce una vita per
sé e la propria famiglia. È un esilio su una rotta particolare che
non parte dall’Italia o da un grande stato europeo e non nasce
per ragioni di dissidenza politica, ma che bensì ha come punto
di partenza l’Albania e punto di arrivo il regno di Napoli. Ma è
anche e soprattutto un esilio fatto di ritorni: ritorni che impiegano una generazione per essere messi in pratica, che nascono e
si sviluppano in un regno di Napoli e in una Albania, oltre che,
ovviamente, in una Europa, completamente diversi da quelli degli anni in cui l’esilio ha avuto luogo.
Il Settecento fu infatti, com’è noto, un secolo di stravolgimenti significativi per il continente europeo e l’Europa che si
presentò al traguardo del 1800 era solo una lontana parente di
1
A.M. RAO, Esuli. L’emigrazione politica italiana in Francia (1792-1802),
Napoli, Guida, 1992.
2
S. APRILE, Le siècle des exilés. Bannis et proscrits de 1789 à la Commune,
Paris, CNRS Éditions, 2010.
3
F. DI GIANNATALE (ed.), Escludere per governare. L’esilio politico fra Medioevo e Risorgimento, Firenze, Le Monnier, 2011.
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quella che aveva aperto il nuovo secolo nel 1701. Le guerre di
successione avevano cambiato la fisionomia del continente:
Utrecht (1713)4 e Vienna e Parigi (1738 e 1739)5 avevano ridisegnato un’Europa di stravolgimenti e di schieramenti contrapposti, nei quali si ineriscono le dinamiche che qui si vogliono
descrivere e le “storie di vita” che si vogliono narrare: quelle di
una famiglia di nobili veneziani decaduti che legò i suoi destini
a quelli di un nuovo regno, governato da un sovrano ambizioso,
desideroso di equiparare questa nuova entità territoriale alle
grandi potenze dell’epoca.
Il regno in questione è appunto il regno di Napoli. Il sovrano Carlo di Borbone.
4
Nel 1713, con il trattato di Utrecht, Filippo di Borbone cedeva all’Austria i
Paesi Bassi spagnoli, il regno di Napoli con annessi i Presìdi di Toscana e la
sovranità sul principato di Piombino, e il ducato di Milano; all’Inghilterra
andavano invece la rocca di Gibilterra, l’isola di Minorca e il monopolio del
commercio degli schiavi neri verso l’America. La corona di Spagna era inoltre ufficialmente separata da quella di Francia, che a sua volta cedeva molti
territori in Nord America all’Inghilterra. Si vedano J. ALBAREDA SALVADO,
La guera de sucesión de España, Barcelona, Critica, 2010; P. BIANCHI (ed.),
Guerra di successione spagnola, Milano, Corriere della Sera, 2016; H. KAMEN, The war of succession in Spain, 1700-1715, London, Weidenfield &
Nicolson, 1969.
5
Con i due trattati l’Europa cambiava nuovamente i propri equilibri: Stanislao Leszczynski, candidato perdente al trono polacco, veniva compensato
con la Lorena, motivo per il quale a Francesco Stefano di Lorena era assegnato, come compensazione, il granducato di Toscana (dopo la morte di
Giangastone, ultimo rappresentante della dinastia de’ Medici); il viceregno di
Napoli veniva elevato al rango di regno autonomo e passava a Carlo di Borbone, già duca di Parma e Piacenza, insieme ai Presìdi di Toscana e alla sovranità sul principato di Piombino; l’Austria, infine, si vedeva riconosciuta la
Prammatica Sanzione del 1713. Si veda J.L. SUTTON, The King’s Honor and
the King’s Cardinal: The War of the Polish Succession, Lexington, The University Press of Kentucky, 2015.
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D’Onofrio, Una famiglia di esuli
Il reclutatore di militari
Al suo arrivo sul trono partenopeo, Carlo di Borbone deve
prima di tutto preoccuparsi della legittimità della sua posizione.
Fino al 1738, infatti, la sua sovranità sul regno non è riconosciuta
ufficialmente da potenze come l’Austria ed è solo a seguito della
guerra di successione austriaca che la situazione si normalizza,
anche grazie a vittorie fondamentali riportate in battaglie campali per il regno, come la battaglia di Velletri del 17446.
Proprio questa battaglia vede l’apporto del Reggimento
Real Macedonia, un reggimento di fanteria creato pochi anni
prima e composto da soldati albanesi, montenegrini e macedoni.
È la genesi di questo reggimento ad intrecciarsi con le vicende
personali del primo protagonista di questa storia: il conte Stratti
Gicca, suddito veneziano, originario di Drimades, nella regione
albanese di Cimarra, ex tenente della Repubblica di Venezia, poi
degradato a bandito e cacciato fuori dai confini della Serenissima7.
6
La battaglia di Velletri è da molti storici vista come un momento fondatore
della legittimità dei Borbone sul trono di Napoli. Sebbene Carlo di Borbone
fosse sul trono partenopeo dal 1734, Gran Bretagna, Austria e Sardegna non
avevano intenzione di lasciare il più grande regno della penisola ai Borbone,
già famiglia regnante di Spagna e Francia. Con un nuovo patto di famiglia e
l’invio delle truppe spagnole, che giunsero in Italia dai porti dei Presìdi di
Toscana, gli schieramenti si affrontarono in diverse battaglie campali. La vittoria di Velletri sancì definitivamente il possesso del regno di Napoli da parte
di Carlo di Borbone. Si veda in proposito il sempre fondamentale G. GALASSO, Storia del Regno di Napoli, Novara, Istituto Geografico De Agostini,
2008-2011, 6 volumi.
7
Archivio di Stato di Venezia (d’ora in avanti ASV), Provveditori di Terra e
di Mar, filza 81, 15 settembre e 10 novembre 1737, filza 1293, 25 novembre
1738.
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D’Onofrio, Una famiglia di esuli
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È il 1735, il regno di Napoli si affaccia per la prima volta
sul palcoscenico europeo, guidato da un sovrano che ha l’ambizione di elevarlo tra le grandi potenze e staccarlo dall’egemonia
spagnola, dotandolo di apparati amministrativi, economici e militari moderni, in un certo senso desiderando portare questo regno del sud all’interno del ristretto club dell’Europa del nord. In
quegli anni, infatti, Napoli non disdegna il reclutamento, anche
irregolare, di truppe straniere per aumentare i ranghi del proprio
esercito e poter così tentare di competere con le grandi potenze.
Al termine della rivolta corsa del 1736, culminata nella dichiarazione di indipendenza dell’isola da Genova e la sua costituzione (anche se per pochi mesi) in regno autonomo8, è ad esempio proprio a Napoli che molti esuli corsi9 riparano in esilio dopo
il ripristino del potere genovese sull’isola. L’anno è il 1739 e
8
Nel 1736, a seguito di anni di rivolta, venne proclamato in Corsica un regno
indipendente con a capo il barone tedesco Theodor Stephan von Neuhoff con
il nome di re Teodoro I di Corsica. Il regno durò dal marzo al novembre del
1736, quando sull’isola venne ristabilita l’autorità genovese, già con il fondamentale aiuto francese. È però nelle rivolte che culminarono con la proclamazione del regno che si ritrovano i segnali più diretti di quella che poi fu la
rivolta corsa del 1755 che costrinse Genova a cederla, dopo tredici anni di
tentativi infruttuosi di ristabilire in qualche modo il proprio potere, alla Francia. Sulle vicende del regno di Corsica e l’interessante figura di Theodor von
Neuhoff si veda A.-M. GRAZIANI, Le roi Théodore, Paris, Tallandier, 2005.
9
Tra i quali anche Giacinto Paoli, padre del più noto Pasquale. Negli anni
della rivolta corsa guidata da quest’ultimo (1755-1768) vi fu un altro massiccio reclutamento “abusivo” da parte del regno di Napoli. In una fitta rete di
attività illecite, materie prime e armi finivano sull’isola in rivolta in cambio
di uomini, corsi o disertori dell’esercito genovese, che venivano poi inquadrati nell’esercito napoletano. Per i dettagli sul reclutamento e in generale sui
traffici tra il regno di Napoli e la Corsica in questi anni mi permetto di rimandare a A. D’ONOFRIO, Un piccolo spazio Mediterraneo. I Presìdi di Toscana
nel XVIII secolo, Università degli studi di Napoli “L’Orientale”, dottorato di
ricerca in Studi Internazionali - Université Côte d’Azur, École doctorale «Sociétés, Humanités, Arts et Lettres», 2018, pp. 169-193.
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D’Onofrio, Una famiglia di esuli
questo è il primo spostamento di esuli dalla Corsica a Napoli con
il conseguente inquadramento di questi nell’esercito reale, nel
neonato Reggimento Corsica, creato proprio per l’occasione10.
Ciò che accade per mano dell’esule Stratti Gicca, però, non
è uno esodo di massa, non è un esilio volontario di oppositori
politici quale quello corso, bensì una vera operazione di reclutamento sul posto, un’azione all’epoca criminale portata avanti
con l’ausilio di un personaggio, il conte Gicca, quantomeno particolare, di fatto un faccendiere il cui unico compito era quello
di fornire quanti più uomini possibile al servizio della corona,
con tutti i mezzi necessari e senza alcun compito ufficiale. Reclutare in territori di sovranità straniera non era infatti consentito, anche se si trattava di una pratica in realtà comune a molti
stati europei e che proseguì per tutto il XVIII secolo e anche oltre11.
10
I riferimenti al Reggimento Corsica sono numerosi e presenti in quasi tutte
le opere inerenti la figura di Pasquale Paoli. Dal punto di vista del regno di
Napoli, si veda M. SCHIPA, Il regno di Napoli al tempo di Carlo di Borbone,
Milano, Soc. ed. Dante Alighieri, 1923, vol. I. o anche l’interessante analisi
sulla situazione corsa in relazione a Napoli di F. BARRA, Il regno delle Due
Sicilie: 1734-1860. Le relazioni internazionali. Volume I: Le premesse, Avellino, Il terebinto edizioni, 2017.
11
Ancora in piena epoca napoleonica sbarcano sulle coste albanesi navi battenti bandiera inglese, russa e infine francese facenti proposte di reclutamenti
agli abitanti dei luoghi, ufficialmente sudditi ottomani. Si è avuto modo di
affrontare l’argomento nei precedenti lavori di ricerca. A. D’ONOFRIO, Il consolato del regno di Napoli a Corfù (1806-1808), Napoli, Università degli
studi di Napoli “L’Orientale”, laurea in Scienze politiche e delle relazioni
internazionali, A.A. 2011/2012; ID., Le isole Ionie negli equilibri del Mediterraneo napoleonico, Napoli, Università degli studi di Napoli “L’Orientale”,
laurea magistrale in Studi Internazionali, A.A. 2013/2014, 2 Volumi. Nel
caso di specie è stato possibile verificarlo attraverso alcuni documenti
dell’Archivio di Stato di Napoli (d’ora in avanti ASNa), Ministero degli Affari esteri, b. 5319, Fascicolo Esteri 5316/III.
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Attraverso il conte, quindi, viene intrapresa un’operazione
di reclutamento nei territori di Albania, Macedonia e Grecia, le
cui popolazioni sono ritenute bellicose e adatte al combattimento, seppur poco disciplinate per poter far parte di reggimenti
regolari. Gicca, però, non si limita ai territori ottomani, sconfinando in quelli veneziani, reclutando anche in Dalmazia. Con
queste azioni e l’attenzione veneziana su di sé, il conte si guadagna una condanna a morte che lo costringe ancora di più ad abbandonare la sua patria. Sulla sua testa il governo veneziano
pone infatti una taglia di cento zecchini e a causa sua viene catturata una nave di reclute da parte di corsari dulcignoti nella convinzione che si trovasse a bordo della stessa12.
Stratti Gicca, nonostante l’opposizione ufficiale del residente veneziano a Napoli13, riesce a condurre a Capua, dopo essere sbarcato a Bari, il corpo di volontari reclutato14. Da Napoli,
il residente di Venezia Cesare Vignola, teneva infatti informata
la Serenissima sugli spostamenti di albanesi verso il regno attraverso il canale d’Otranto e parla di un reggimento di cinquecento
uomini, arruolati dal conte Gicca per l’esercito napoletano15. Nel
1737, nella piazza di Capua, viene ufficialmente istituito il Battaglione Real Macedonia (in seguito denominato Reggimento
Real Macedonia e diviso in due battaglioni), il cui comando
12
P. PRETO, I servizi segreti di Venezia. Spionaggio e controspionaggio ai
tempi della Serenissima, Milano, Il Saggiatore, 1994, p. 503.
13
M. INFELISE (ed.), Corrispondenze diplomatiche veneziane da Napoli. Dispacci. XVI (10 giugno 1732 - 4 luglio 1739), Roma, Istituto Italiano di Studi
Filosofici, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1992.
14
A. LEH, Cenno storico dei servigi militari prestati nel Regno delle Due
Sicilie dai Greci, Epiroti, Albanesi e Macedoni in epoche diverse, Corfù,
1843, p. 15.
15
INFELISE, Corrispondenze diplomatiche veneziane p. 382.
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D’Onofrio, Una famiglia di esuli
viene assegnato allo stesso Gicca16, posizione in cui resta, seppur
con alterne fortune, fino alla sua morte.
Un esule in qualche modo volontario, quindi, un uomo che
ha scelto di abbandonare la propria patria per inseguire fortuna
altrove e che, sulla sua esperienza di esule, costruisce la nuova
fortuna della sua famiglia, tutta inquadrata all’interno del reggimento che egli stesso ha contribuito a creare. Alla sua morte,
infatti, è il figlio, Attanasio Gicca, a succedergli nel ruolo di tenente generale.
Il rivoluzionario
Negli anni che seguono, i Gicca vivono la loro vita all’interno della capitale del regno, continuando la propria attività nel
Reggimento Real Macedonia, che diventa il primo mezzo di sostentamento per i membri della famiglia, considerando come, oltre ad Attanasio, faccia parte dello stesso reggimento anche l’altro vero “protagonista” di questa famiglia di esuli, colui che in
qualche modo compie il viaggio di ritorno verso la madrepatria
Albania, quando ormai la Serenissima è diventata un discorso di
un passato cancellato da Campoformio: Michele Gicca, fratello
di Attanasio17.
16
Alla creazione del Reggimento, in realtà, il comando dello stesso viene
affidato al conte Giorgio Corafà, anch’egli suddito veneziano, autore del progetto di divisione dello stesso in due battaglioni distinti aventi ciascuno tredici compagnie. Gicca rimane comunque tenente generale, come riportato in
LEH, Cenno storico dei servigi militari p. 17.
17
Il livello di parentela in realtà non è chiaro. Non viene mai menzionato
direttamente il nome di Stratti Gicca, ma dai documenti dell’ASNa presi in
esame (Ministero degli Affari esteri, b. 5319, f. Esteri 5316/III) viene citato
Attanasio Gicca come fratello di Michele Gicca. Quest’ultimo, inoltre, viene
citato come conte, esattamente allo stesso modo di Stratti. A meno di un particolare caso di omonimia, quindi, bisogna supporre che Michele sia effettivamente il figlio minore del conte Stratti Gicca.
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Prima del suo ritorno in patria, come detto, anche Michele
milita nel reggimento di famiglia, con il grado di maggiore18. È
con questo grado che, durante la rivoluzione napoletana del
1799, viene mandato, dal comandante borbonico di Pescara Prichard a Napoli, in qualità di «Parlamentario per trattare alla resa
di quella piazza»19.
In questo momento si trova il punto di svolta della vita del
conte, poiché è in questa occasione che il Gicca borbonico si trasforma nel Gicca rivoluzionario, fervente sostenitore delle idee
della repubblica e strenuo difensore della sua indipendenza. A
Napoli, infatti, il conte conosce il generale Duhesme e si lascia
sedurre dagli ideali della Repubblica: tradisce l'esercito borbonico e si schiera con il popolo napoletano. Poco dopo viene nominato Generale di brigata della Repubblica, divenendo Capo di
Battaglione della prima Legione Napoletana e Comandante della
Piazza d'Acerra con il grado di maggiore20.
Ancora non può saperlo, ma questo cambio di bandiera
rappresenta per lui il primo passo verso un ritorno in Albania che
ancora nel 1799 non è pensabile.
Gicca si distingue durante la breve vita della repubblica
per la sua partecipazione a molti degli avvenimenti di rilievo che
ne caratterizzano l'esistenza. È del 26 febbraio 1799, infatti, l'edizione del Monitore Napoletano riportante la notizia della partenza in nottata del «Capo di Battaglione Gicca» per raggiungere
«per la via di Benevento il Capo Brigata Ettore Carafa, già Conte
di Ruvo», diretto in Puglia per unirsi alle truppe francesi21. Ed è
18
LEH, Cenno storico dei servigi militari p. 47.
Ibidem.
20
Cfr. F. PEZZELLA, Note e documenti per la Storia di Orta di Atella, Frattamaggiore, Istituto di Studi Atellani, 2006.
21
Cfr. Monitore Napoletano Num. 8, Napoli martedì 26 febbraio 1799. È possibile visionare l'intero numero all'indirizzo http://www.repubblicanapoletana.it/mon8.htm (Ultima consultazione 27-11-2017).
19
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D’Onofrio, Una famiglia di esuli
di meno di un mese dopo, 16 marzo 1799, un'altra edizione del
Monitore, riportante stavolta la seguente notizia:
La sera del dì 11 del corrente, il Capo di Battaglione della prima Legione
Napoletana Michele Gicca, Comandante della Piazza d'Acerra, ritornando da
Napoli unitamente al secondo Tenente Stratti Gicca22, suo fratello, per partire
il dì seguente col suo Battaglione in soccorso di Ettore Carafa in Solofra, fu
assalito alle vicinanze di Acerra da molti insurgenti ed assassini, che gli tirarono varie fucilate, restando il detto Comandante ferito in due diverse parti
nel braccio sinistro, ed il fratello nel dritto: ma invece di fermarsi gridò Viva
la Repubblica, grido per quale gli furono tirate varie altre fucilate, senza però
averlo colpito. Il detto Comandante fece partire pochi giorni dopo il suo Battaglione da Acerra per Foggia ove si forma la prima Legione Napoletana di
cui è capo Ettore Carafa.
Gicca Comandante23.
A causa della sua partecipazione alla resistenza di Castel
Nuovo e del suo tradimento alla corona borbonica, il conte, al
termine della Repubblica napoletana, è condannato a morte. Tuttavia, «Il Maggiore D. Michele Gicca, antico Ufficiale del Reggimento Macedonia» viene salvato dai suoi connazionali albanesi. Questi, infatti, «disperando» della sua vita
E temendo di potergli esser troncata la testa dalle mani del carnefice, perché
reo di alto tradimento (essendosi implicato nella resistenza del Castel-nuovo
al decadimento della repubblica), implorarono il Re Ferdinando IV la grazia
della vita di quel traviato in premio dei di loro servigi, e della di loro fedeltà.
Il Re annuendo all'inchiesta di quei bravi glie la donò, con Real Rescritto del
22
Questa pagina del Monitore Napoletano è l’unica fonte il cui Stratti Gicca
compare come nome del fratello di Michele, cosa che potrebbe far supporre
ad una parentela differente con il fondatore del Reggimento Real Macedonia.
Come già detto, però, nei documenti dell’ASNa è chiaro come sia Attanasio
il fratello di Michele.
23
Cit. Monitore Napoletano Num. 13, Napoli sabato 16 marzo 1799. È possibile visionare l'intero numero all'indirizzo http://www.repubblicanapoletana.it/mon13.htm (Ultima consultazione 27-11-2017)
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3 Maggio 1800, e disse che, venendo condannato a morte, gli avrebbe commutata la pena in detenzione nel Castello di S. Caterina dell'isola di Favignana. In fatti essendosi ciò verificato in seguito di un regolare giudizio, fu
menato in quel Castello, e vi rimase infino alla Pace di Firenze»24.
L'esperienza del conte Michele Gicca in quanto repubblicano napoletano termina con la sua incarcerazione. È la pace di
Firenze del 1801 a sancire la fine della prigionia per l’ex militare
del Reggimento Real Macedonia. Il trattato infatti, oltre ad una
serie di concessioni territoriali del regno di Napoli alla Francia
(i Presìdi di Toscana e il principato di Piombino, compresa tutta
l’isola d’Elba) e di altre concessioni (il ritiro delle truppe napoletane dallo Stato Pontificio, la chiusura dei porti del regno alle
navi inglesi e ottomane, la garanzia di commerci privilegiati con
la Francia e la presenza di un contingente francese, pagato dal
regno di Napoli, a Pescara e in Terra d’Otranto per un anno),
prevede la scarcerazione di tutti i prigionieri di guerra da ambo
le parti e una amnistia da parte del regno di Napoli verso tutti i
prigionieri e gli esiliati giacobini di cui Gicca, in virtù delle sue
azioni durante la rivoluzione del 1799, fa pienamente parte.
L’amnistia gli dona nuovamente la libertà, ma rimane pur
sempre un uomo bollato di giacobinismo e il regno di Napoli non
è certo il luogo migliore dove poter vivere per un uomo con i
suoi ideali politici. Al conte non resta altro da fare che seguire la
via paterna e ritirarsi, partire in esilio. Il paradosso, però, è che
l’esilio non è verso un luogo lontano, né verso una nuova terra
in cui continuare a vivere, bensì verso la propria patria25. Gicca,
infatti, passa gli anni che vanno dal 1801 al 1806 a Drimades, in
Albania, dove si trova la residenza di famiglia. Non è però un
semplice albanese ritornato a casa, ma un esule del regno di Napoli e, come tale, attende l’occasione di poter riabbracciare la
24
25
LEH, Cenno storico dei servigi militari p. 52.
Ibidem.
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D’Onofrio, Una famiglia di esuli
sua patria. Tuttavia, come spesso accade negli intrecci della storia, il ritorno del conte non dipende solo dalla sua volontà. È la
Francia napoleonica e il suo sistema di stati satelliti a dare a Michele Gicca l’occasione di lasciare il suo esilio.
Il console
Tra il 1801 e il 1802 la Francia non sigla solo la pace di
Firenze con il regno di Napoli, ma una serie di trattati con le
potenze europee che devono significare una fine delle ostilità a
tutto vantaggio francese, l’ultimo dei quali è il trattato di Amiens
del 25 marzo 1802.
Questa effimera “pace” europea dura però appena un anno,
dopo il quale riprendono le ostilità tra Gran Bretagna e Francia,
seguite, nel 1805, dalla cosiddetta Guerra della Terza coalizione.
Per il regno di Napoli questo significa un nuovo tentativo antifrancese e, conseguentemente, una nuova disfatta. Sono celebri
le parole di Napoleone contenute nel cosiddetto proclama di
Schönbrunn del 27 dicembre 1805:
Soldati, per dieci anni ho fatto il possibile per salvare il Re di Napoli, ed egli
ha fatto tutto quel che poteva per rovinarsi. [...] mi sono fidato della parola di
questo Principe e l'ho trattato generosamente. Quando a Marengo si sciolse la
seconda coalizione contro la Francia, il Re di Napoli, che era stato il primo
ad iniziare questa guerra ingiusta, abbandonato a Lunéville dai suoi alleati,
rimase solo e senza difesa. Si rivolse a me, e gli perdonai per la seconda volta.
Alcuni mesi fa, voi eravate alle porte di Napoli. Avevo sufficienti ragioni per
sospettare il tradimento che si stava preparando, e per vendicarmi delle offese
che mi aveva fatto; ma fui generoso e riconobbi la neutralità di Napoli. Vi
ordinai di ritirarvi da questo Regno, e, per la terza volta, la Casa di Borbone
rimase sul trono e fu salva. Perdoneremo noi per la quarta volta? Ci fideremo
ancora di una Corte senza lealtà, senza onore, senza criterio? No, no. La dinastia di Napoli ha finito di esistere: la sua esistenza è incompatibile con la
pace di Europa e con l'onore della mia corona. Soldati, avanti! Annegate, se
vi aspettassero, quei deboli battaglioni dei tiranni del mare! Che il mondo
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veda come noi puniamo gli spergiuri! [...] Mio fratello vi guiderà: conosce i
miei piani: ha la mia autorità e la mia piena fiducia; dategli la vostra!26.
In queste parole dell’ormai imperatore dei francesi è racchiusa tanto la fine del regno di Napoli che il suo nuovo inizio
sotto i vessilli francesi. Alla conquista del regno, infatti, segue
l’instaurazione sul trono di Napoli di Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone e l’inizio di un periodo noto nella storiografia
come Decennio francese. Perché questo lungo excursus è importante nelle vicende della famiglia Gicca è presto detto: il 17 ottobre 1806, pochi mesi dopo la nomina a re di Giuseppe, il conte
Michele Gicca viene nominato console presso la Repubblica
delle Sette Isole Unite27, una nuova entità territoriale nata nel
1800 a seguito della conquista russo-ottomana delle isole Ionie,
strappate al controllo francese seguito al trattato di Campoformio, che comprendeva le sette isole Ionie maggiori (Cefalonia,
Cerigo, Corfù, Itaca, Paxò, Santa Maura e Zante) e le altre isole
minori28.
Corfù non è la patria del conte, ma dalla sua costa orientale
è possibile vedere ad occhio nudo quell’Albania che il padre,
non molti anni prima, aveva lasciato e in cui lui è stato costretto
26
H. ACTON, I Borboni di Napoli (1734-1825), Firenze, Giunti, 1997, pp.
584-585.
27
ASNa, Ministero degli Affari Esteri, b. 5319 - f. Esteri 5316/I. Anno 1806.
28
La repubblica viene in realtà ricordata con diversi appellativi: Repubblica
delle Sette Isole Unite, Repubblica delle Isole Ionie, Repubblica Settinsulare,
Eptaneso, Stato Ionio. Sull’argomento si veda G. PAULINI, Memorie storiche
sulla fondazione della Repubblica Jonica ossia delle sette isole unite. Roma,
Libreria G. Gallarini, 1802; E. RODOCANACHI, Bonaparte et les Iles Ioniennes, un épisode des conquétes de la République et du premier Empire
(1797-1816), Parigi, Félix, 1899; ma soprattutto R.M. DELLI QUADRI, Il Mediterraneo delle costituzioni. Dalla repubblica delle Sette Isole Unite agli
Stati Uniti delle Isole Ionie, Milano, Franco Angeli, 2017.
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a rifugiarsi. La nomina di Gicca avviene senza alcuna carica ufficiale, con l’espressa raccomandazione di trasferirsi immediatamente sul posto e rimanere in segreto, evitando comportamenti
che avrebbero potuto dare nell’occhio o attirare attenzioni e sospetti.
Le istruzioni consegnate al neo-console sono molto precise:
«Sign.r. Conte Michele Gicca
1.
2.
3.
4.
[...] Il suo incarico attuale consiste in tenermi segretam.e informato,
e colla maggior possibile diligenza delle forze terrestri e marittime,
che li Russi hanno radunato in Corfù, e nelle altre Isole Ionie, come
anche nel Continente opposto, e di quella che a mano a mano vi si
potranno trasportare; de' loro preparativi di guerra, e dove siano, o
possano esser diretti, de' loro disegni, mire e tentativi; in fino di tutto
ciò che abbia rapporto all'uso e allo sviluppo della loro forza così di
terra che di mare.
È perciò V.S.Ill.ma autorizzata a portarsi in Albania, nelle Bocche
di Cattaro, in Ragusa [...]. Stimerà espedienze ad opportuno, o a
mandarvi anche delle persone sue affidate, per osservar da vicino, e
per verificare le loro reali forze, le loro disposiz.i ad apparecchi,
come tutte le loro intenzioni ad operazioni di guerra.
Sarà egualmente diligente e sollecita in ragguagliarmi de' maneggi e
pratiche de' Russi co' Montenegrini, cogli Albanesi, e con altre Popolaz.i, che essi abbiano potuto, o possano successivamente interessare a loro favore.
Darà esatto conto, e colla maggior possibile sollecitudine di tutte le
azioni e fatti militari, che succederanno nel territorio di Ragusa, e
nelle Bocche, o in qualunq. altro luogo di quei paraggi, colle truppe
Francesi, e di tutte le misure possibili, che li Russi impiegheranno
29
contro le medes.e» .
29
Nomina del conte S. Michele Gicca a console generale in tutti gli stati dipendenti della Repubblica Settinsulare del 17 ottobre 1806. ASNa, Ministero
degli Affari Esteri, b. 5319, f. Esteri 5316/I.
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Per questo servizio, il console avrebbe ricevuto dal Re
«come Reg.o Console presso la Repub.ca Settinsolare annui Ducati Seicento per Soldo, ad altri annui Duc.i Trecento per le spese
di Cancelleria e Segret.a; fuori dalla spesa della Posta, che [gli]
verrà bonificata a parte»30. Viene inoltre allegata alla nomina
«una cifra della quale potrà far uso al bisogno, quando possa
farlo con sicurezza, e senza compromettersi»31.
Un lavoro da spia, senza alcuna patente ufficiale, che è di
grande importanza per il regno di Napoli data la presenza di un
numero allora sconosciuto di truppe russe di stanza a Corfù, minaccia immediata per il corpo di occupazione francese presente
sul territorio del regno, insieme ovviamente alle truppe inglesi
presenti in Sicilia. Venire informati dei movimenti dei nemici
prima che fossero effettivamente messi in atto, è una priorità imprescindibile per il nuovo re di Napoli.
Il regno, inoltre, non è stato riconosciuto dalle potenze europee, motivo per il quale non è possibile inviare in via ufficiale
un console su un territorio controllato, di fatto, da uno stato, la
Russia, che non riconosce la sovranità di Giuseppe Bonaparte
sui territori partenopei e con cui, tra l'altro, si è in costante stato
di guerra. È anche e soprattutto per questo motivo che la scelta
ricade sul conte Gicca, albanese di nascita, ricco possidente in
patria e cittadino proprio di Corfù, iscritto per diritto di nascita
al Libro d’oro della nobiltà corfiotta e quindi, secondo la costituzione del 1803, al Sinclito della Repubblica Settinsulare per
l’Isola di Corfù32.
30
Ibidem.
Ibidem.
32
Come riferisce il console stesso nel suo Rapporto numero 51 dell’8 luglio
1807. ASNa, Ministero degli Affari Esteri, b. 5319, f. Esteri 5316/III. Anno
11. Novembre 1806 - dicembre 1807. Il Sinclito era l’assemblea dei nobili
costituzionali. Si riuniva una volta ogni due anni nel mese di gennaio ed eleggeva i Rappresentanti del Corpo Legislativo e del Senato.
31
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Nelle intenzioni del regno, questo avrebbe comportato una
maggiore libertà di movimento del conte che, anche grazie alle
sue conoscenze in patria, avrebbe potuto essere facilmente informato sugli avvenimenti inerenti Corfù, ma soprattutto, per i motivi strategici di cui sopra, le Bocche di Cattaro, vero obiettivo
dello spionaggio militare napoletano. Nei compiti, tra l’altro, è
espressamente richiesto di vigilare sui possibili, e probabili, tentativi di reclutamento di albanesi da parte russa o inglese. Un
parallelismo forse involontario delle autorità francesi, che chiedono quindi ad un diretto discendente di colui che poco più di
sessant’anni prima aveva reclutato illegalmente in quei territori,
di evitare la medesima pratica da parte straniera.
Già alla fine del mese, il neo console Gicca comincia a inviare in maniera costante i suoi rapporti alla segreteria di stato
del regno di Napoli, intestando però le lettere al suo «Caro fratello»33.
Talvolta queste lettere, quando contengono informazioni
particolari e di importanza rilevante, sono in parte, anche considerevole, cifrate; talvolta, invece, sono brevi aggiornamenti su
situazioni o spostamenti del conte stesso.
La situazione del console, però, è problematica fin dal
principio. L’espulsione e l’esilio sono forse nel destino dei Gicca
e il conte non riesce neppure a mettere piede sul suolo di Corfù:
nel suo rapporto numero 334, infatti, riferisce di essere stato
espulso dall’isola appena sbarcato insieme a suo fratello e di essergli stato intimato dall'Alta Polizia di prendere il primo corriere per Otranto e di tornarvi con tutta la sua famiglia. Sostenendo di essere sull'isola per degli affari personali e protestando
contro quell'ordine di espulsione al quale non si adduce alcun
33
Così il console Gicca intesta ogni sua lettera dal 1806 fino al luglio del
1807.
34
Rapporto numero 3 dell'11 novembre 1806. ASNa, b. 5319, f. Esteri
5316/III. Anno 11. Novembre 1806 - dicembre 1807.
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motivo, il console riesce a restare a Corfù per otto giorni, nei
quali carpisce le prime notizie, inviandole a Napoli attraverso il
console francese Vigoroux, che rimette i rapporti alla segreteria
di stato del regno.
Costretto poi a lasciare l'isola, il console noleggia delle
barche per recarsi in Albania, dove intraprende nel mese di novembre 1806 un viaggio per raggiungere Ragusa e le Bocche di
Cattaro per adempiere alle istruzioni della segreteria di stato e
riportare comunque le informazioni richiestegli nonostante gli
intoppi. Scortato, quindi, come riporta lui stesso da «otto bravi a
cavallo»35, parte da Drimades, sua città di residenza, spostandosi
verso nord, attraversando la regione di Valona.
Questo strano nuovo esilio in madrepatria vissuto dal console dura circa un anno, dal momento della sua nomina nell’ottobre 1806 sino al suo effettivo insediamento a Corfù nell’agosto
1807: 10 mesi in cui il conte Michele Gicca gira in lungo e in
largo la sua Albania ancora una volta non come un esule di ritorno, ma come un uomo cacciato dal luogo in cui era diretto, in
cui avrebbe dovuto ricoprire un incarico. 10 mesi in cui riesce
ad informare il regno di Napoli degli spostamenti dei russi e di
tutto ciò che accade in quelle zone.
Gicca è mosso, come visto, da un sincero ardore per gli
ideali della rivoluzione e le libertà personali di cui la stessa rivoluzione si è fatta promotrice. Nell’arco dei suoi rapporti manifesta spesso la sua indignazione per la condotta russa nelle isole,
lasciandosi andare talvolta a pesanti esternazioni:
Il cittadino pacifico non è sicuro nel suo domicilio, li vien proibito di ragionare, anche di pensare. Si puniscono, si condannano all'esilio o in carcere
sopra semplici sospetti! [...] Dove sono le Costituzioni! Ov'è la Libertà Civile! Quale è il rifuggio dell'infelici Greci!36.
35
36
Rapporto numero 5 del 22 novembre 1806. Ivi.
Rapporto numero 6 del 24 novembre 1806. Ivi.
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D’Onofrio, Una famiglia di esuli
L’attenzione nelle sue lettere è sempre a quella che sente
la sua patria, Napoli, e al popolo. Si dimostra preoccupato per la
situazione delle Ionie, poiché sa che l’aristocrazia greca isolana
è schierata dalla parte dei russi, così come afferma che il popolo
è compatto nella sua avversione tanto verso l'aristocrazia quanto
verso gli stessi russi, definiti «barbari, oppressori, e Tartari»37.
Si dice convinto che gli ideali della rivoluzione potrebbero aiutare queste popolazioni, spera nell’arrivo francese e in diverse
occasioni chiede l’autorizzazione per iniziare un reclutamento di
albanesi da porre al servizio del re di Napoli.
Più volte tanto i russi quanto gli inglesi tentano di reclutare
uomini tra le popolazioni albanesi. Nel dicembre 1806, infatti,
subito dopo la dichiarazione di guerra dell’impero ottomano alla
Russia38, una nave inglese giunge sulle coste dell’Albania per
cercare di reclutare uomini utili alla sua causa per l’imminente
guerra39. Gicca racconta di generose offerte da parte degli ufficiali inglesi che fanno titubare la popolazione, ma racconta anche di come egli si sia adoperato per impedire che il progetto
andasse in porto. E non è con la “semplice” politica che riesce
ad impedire il reclutamento, ma con leve differenti e più efficaci,
in qualsiasi epoca o parte del mondo ci si trovi:
Conobbi che qualunque discorso, qualunque raggione, che tanto io, quanto i
nostri amici avessimo esposto, non avrebbe prodotto il suo effetto, senza
37
Ibidem.
La guerra russo-turca scoppiò a seguito della sconfitta russa ad Austerlitz
(2 dicembre 1805), ma deflagrò nel corso del 1807. L’impero ottomano era,
in questo conflitto, alleato della Francia, che nel corso della guerra occupò la
Dalmazia. La guerra russo-turca si concluse solo nel 1812 con il Trattato di
Bucarest.
39
La cosiddetta Quarta coalizione si costituì nel 1806. Il conflitto si concluse
un anno dopo con la pace di Tilsit. Per le Isole Ionie questo significò il passaggio all’impero francese.
38
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l'aiuto di qualche mezzo più efficace. L'oro può tutto ed una forma di zecchini, che ho ripartita in segreto ai Moderatori, ossia vecchiardi di questi paesi
più prossimi al mare, ha obbligato l'Inglesi a partire, senza aver ottenuto altro,
che l'insinuazione di salpar l'ancora al più presto e partire da un Luoco, che li
potrebbe esser fatale. Che l'Albanesi, erano Sudditi del Sultano, quantunque
sembravano libberi; e che l'Inglesi dovevano conoscere quanto era delicato
l'Articolo di Reclutare nell'altrui Stato [...]40.
La questione economica diventa un problema importante
per il console: più di una volta egli è costretto ad utilizzare mezzi
finanziari privati per riuscire a portare avanti le istruzioni ricevute, ma le interruzioni delle comunicazioni via mare a causa
della guerra e dei corsari inglesi che infestano lo Ionio e l'Adriatico41, gli rendono ormai difficile reperire i fondi necessari.
In diversi rapporti, infatti, tenta di ricordare alla segreteria
di stato napoletana la necessità di ricevere quanto promesso, necessità che si fa sempre più pressante dato che nel giro di pochi
mesi è costretto a ipotecare beni di sua proprietà, da case a terreni, e persino a vendere i gioielli della moglie e i mobili che ha
in casa a Corfù finendo «a secco» pur di avere il denaro utile per
elargire doni e comprare i favori necessari42.
40
Rapporto numero 18 del 7 gennaio 1807. Come riportato nel rapporto numero 20 del 11 gennaio 1807. ASNa, Ministero degli Affari Esteri, b, 5319,
f. Esteri 5316/III. Anno 11. Novembre 1806 - dicembre 1807.
41
Il problema viene segnalato nel rapporto numero 23 del 25 gennaio 1807,
in cui il console si rammarica per non poter far pervenire le sue lettere spesso
alla segreteria di stato. Come riporta, infatti, nel suo rapporto numero 36 del
23 marzo 1807, i rapporti che vanno dal numero sedici sino al trentacinque
vennero spediti insieme in un’unica volta, cosa che rendeva, di fatto, per nulla
immediata la ricezione delle informazioni al regno di Napoli. Ivi.
42
Il conte riporta queste informazioni nei numeri 15 del 19 dicembre 1806,
16 del 28 dicembre 1806 e poi di nuovo nel numero 53 del 12 luglio 1807.
Ivi.
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D’Onofrio, Una famiglia di esuli
È solo con la cessione alla Francia delle isole Ionie dopo
la pace di Tilsit che il console riesce a sbarcare nuovamente
sull’isola, restando in carica fino alla fine del decennio francese.
Da Corfù egli afferma di essere «assediato giornalmente
da' Napoletani, che ricorrono per i loro differenti affari»43. Ed è
allo stesso modo da Corfù che porta avanti il suo progetto di reclutamento, seguendo quella che pare diventata una tradizione di
famiglia:
In una delle Conferenze ch'ebbi con S.E. il Gov.r Gen.le44 Li presentai i due
Deputati della Provincia di Cimarra, i quali esposero in nome de' Loro Comitenti, il desiderio di formare un Reggim.to di Nazzione Albanese, al Servizio
di S.M. il nostro Augusto Sovrano45.
43
Rapporto numero 62 del 16 settembre 1807. Ivi.
All’arrivo francese venne nominato governatore delle isole Ionie César
Berthier, fratello del maresciallo di Francia Louis Alexandre. Durò poco in
carica, a causa del suo temperamento e dei suoi ripetuti errori. Lo stesso Napoleone lo rimproverò più volte, così come più volte scrisse a Louis Alexandre affinché intercedesse con il fratello. (È possibile trovare le lettere dell’imperatore in N. BONAPARTE, Correspondance générale publiée par la Fondation Napoléon - Tome septième: Tilsit, l'Apogée de l'Empire. 1807, Parigi,
Fayard, 2010. In particolare vi è una lettera a Giuseppe, re di Napoli del 6
ottobre 1807, pp. 1167-1169, una al generale Clarke, ministro della guerra
dell’impero, dello stesso giorno, pp. 1164-1165, o ancora una lettera al Maresciallo Louis Alexandre Berthier del 12 ottobre 1807, p. 1180). Inoltre, la
fitta corrispondenza del generale César Berthier è conservata agli ANP,
Fonds Général Berthier (an IX-1879), Répertoire (33AP/01-33AP/43). Le
lettere riguardanti la permanenza a Corfù negli anni 1807-1808 sono contenute nelle unità 33AP/12 e 33AP/13.
45
L’occupazione francese delle Ionie è un caso particolare. Basti dire, in questa sede, che le Ionie sono poste dall’imperatore sotto il comando del re di
Napoli, non in quanto re, ma in quanto capo militare delle guarnigioni presenti sulle stesse. Il governatore generale César Berthier è la massima carica
presente sulle isole, sulle quali Napoleone non instaura né un regno vassallo
né alcuna forma di potere civile, non applicando i codici e non esportando
ideali ed istituzioni tipiche del suo modus operandi imperiale ed europeo. Per
questo motivo, Berthier è un sottoposto del re di Napoli a cui deve, quindi,
44
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S.E. Li assicurò che ne avrebbe scritto con tutta La premura in Napoli, e ch'era
persuaso della Favorevole risposta di S.M., invitandoli di trattenersi fin all'arrivo della medesima.
Nel mio Soggiorno in Albania, ebbi L'avvertenza di preparare L'animi a questo oggetto. Il risultato ha corrisposto alla mia aspettativa. Oltre L'infiniti vantaggi che seco porta questa Leva per il Servizio dello Stato, e L'Influenza
nell'Albania, vedremo sciogliersi in Sicilia, il Corpo de' Cacciatori Albanesi,
e venire ad incardinarsi in questa nuova formazione46.
Conclusione: una famiglia di esuli
Michele Gicca è ormai un suddito del re di Napoli, sente il
regno come la sua patria e ha nei suoi ideali rivoluzionari la sua
personale stella polare. Ma è allo stesso tempo un albanese che
sente una profonda appartenenza alla sua regione natale. Qui ha
reti di relazioni, contatti, conoscenze e si cura delle popolazioni
più di quanto competa ad un semplice console spia quale è fino
alla fine del 1807. Accanto al lavoro del Gicca console napoletano vi è infatti il dovere che il Gicca albanese sente di avere, il
dolore per quelle «brave popolazioni»47 di quelle terre che egli
sente maltrattate.
Dall’inizio dell’azione del conte Stratti, la famiglia Gicca
si trasforma in una famiglia di esuli: il conte parte da un esilio
forzato da Venezia, si costruisce una nuova vita nel regno di Napoli, una vita per sé e per i propri figli che ne seguono le orme
chiedere le diverse autorizzazioni e ai cui ordini deve sottostare. Per i dettagli
si veda D. MOSCHOPOULOS, Administration publique et idées politiques dans
les Iles Ioniennes pendant la seconde domination française (1807-1814),
Lille, ANRT, 1991; DELLI QUADRI, Il Mediterraneo delle costituzioni. Mi
permetto di rinviare anche a D’ONOFRIO, Le isole Ionie negli equilibri del
Mediterraneo napoleonico.
46
Rapporto numero 58 del 30 agosto 1807. ASNa, Ministero degli Affari
Esteri, b. 5319, f. Esteri 5316/III. Anno 11. novembre 1806 - dicembre 1807.
47
Rapporto numero 18 del 7 gennaio 1807. Come riportato nel rapporto numero 20 del 11 gennaio 1807. Ivi.
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D’Onofrio, Una famiglia di esuli
nel Reggimento da lui costituito. Ma i figli sono ormai napoletani, non (solo) albanesi. E ne seguono le orme anche nella sofferenza dell’esilio, nella costrizione a lasciare la propria casa.
Michele Gicca vive un esilio di ritorno, chiude il cerchio ritornando in Albania da esule giacobino ma non gli basta, assume
l’incarico di console del regno di Napoli durante il decennio
francese e ancora ritorna in Albania, stavolta come agente del
suo “Stato di adozione”. Ed è in questo stato che torna al termine
del Decennio francese e del suo incarico di console, in questo
stato che muore di cause naturali nel 181848.
48
LEH, Cenno storico dei servigi militari p. 52.
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Fonti
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5319
Archivio di Stato di Venezia, Provveditori di Terra e di Mar,
filza 81 e filza 93
Monitore Napoletano Num. 8, Napoli martedì 26 febbraio 1799,
http://www.repubblicanapoletana.it/mon8.htm (Ultima consultazione 27-11-2017)
Monitore Napoletano Num. 13, Napoli sabato 16 marzo 1799,
http://www.repubblicanapoletana.it/mon13.htm (Ultima consultazione 27-11-2017)
Fonti a stampa
LEH A., Cenno storico dei servigi militari prestati nel Regno
delle Due Sicilie dai Greci, Epiroti, Albanesi e Macedoni in epoche diverse, Corfù, 1843
PAULINI G., Memorie storiche sulla fondazione della Repubblica
Jonica ossia delle sette isole unite. Roma, Libreria G. Gallarini,
1802
RODOCANACHI E., Bonaparte et les Iles Ioniennes, un épisode
des conquétes de la République et du premier Empire (17971816), Parigi, Félix, 1899
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D’Onofrio, Una famiglia di esuli
Bibliografia
ACTON H., I Borboni di Napoli (1734-1825), Firenze, Giunti,
1997
D’ONOFRIO A., Il consolato del regno di Napoli a Corfù (18061808), Napoli, Università degli studi di Napoli “L’Orientale”,
laurea in Scienze politiche e delle relazioni internazionali, A.A.
2011/2012
D’ONOFRIO A., Le isole Ionie negli equilibri del Mediterraneo
napoleonico, Napoli, Università degli studi di Napoli “L’Orientale”, laurea magistrale in Studi Internazionali, A.A. 2013/2014,
2 Volumi
DELLI QUADRI R.M., Il Mediterraneo delle costituzioni. Dalla
repubblica delle Sette Isole Unite agli Stati Uniti delle Isole Ionie, Milano, Franco Angeli, 2017
GALASSO G., Storia del Regno di Napoli, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 2008-2011, 6 volumi
INFELISE M. (ed.), Corrispondenze diplomatiche veneziane da
Napoli. Dispacci. XVI (10 giugno 1732 - 4 luglio 1739), Roma,
Istituto Italiano di Studi Filosofici, Istituto Poligrafico e Zecca
dello Stato, 1992
Note e documenti per la Storia di Orta di Atella, Frattamaggiore,
Istituto di Studi Atellani, 2006 (F. PEZZELLA, Fonti e Documenti
per la Storia Atellana)
PRETO P., I servizi segreti di Venezia. Spionaggio e controspionaggio ai tempi della Serenissima, Milano, Il Saggiatore, 1994
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D’Onofrio, Una famiglia di esuli
135
SCHIPA M., Il regno di Napoli al tempo di Carlo di Borbone,
Milano, Soc. ed. Dante Alighieri, 1923, vol. I
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Fanti, Tracce per un’estetica dell’esilio
Tracce per un’estetica dell’esilio in Jacques-Louis
David*
di Laura FANTI
Université Libre de Bruxelles
DOI 10.26337/2532-7623/FANTI
Riassunto: L'articolo è una rilettura degli anni vissuti in esilio da JacquesLouis David. Si prendono in esame la produzione, gli incontri, le mostre curate dall'artista stesso e si propone un'analisi originale di alcuni dipinti, letti
come manifestazione di ricerca di pace e tranquillità ma anche di una moderazione che a volte si traduce in un'astensione e in una epoché, rivelatrici di
uno stile che va oltre il Neoclassicismo.
Abstract: The article is a new interpretation of the years spent in exile by
Jacques-Louis David. His production, the encounters and the exhibitions curated by the artist himself, are investigated. An original exam of some of his
paintings is proposed. They are considered as expression of his need for peace
and tranquillity, but also for a restraint, which sometimes becomes abstention
and epoché, both revealing of a style that goes further Neoclassicism.
Keywords: Neoclassicism, Jacques-Louis David, Aestethics of Exile
Sommario: Introduzione – Produzione, incontri e strategie espositive – Estetica dell'esilio: 1) Metamorfosi del Neoclassicismo – 2) Il pastiche italiano
*
Un ringraziamento particolare allo staff del Kimbell Art Museum di Fort
Worth in Texas e alla Fondation Custodia di Parigi per la loro preziosa collaborazione. L'opera Mars desarmé par Vénus et les Grâces sarà chiamata per
esteso solo una prima volta e ad inizio paragrafo e quindi solo Mars, lo stesso
vale per La colère di Achille che sarà chiamata La colère.
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Fanti, Tracce per un’estetica dell’esilio
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dell'esilio – 3) Epoché e modération – Conclusioni – Figure – Fonti – Fonti a
stampa – Bibliografia
Saggio ricevuto in data 13 maggio 2017. Versione definitiva ricevuta in data
11 gennaio 2018
Introduzione
J'aime, comme vous savez, la vie méditative
et je veux m'y livrer ici plus qu'ailleurs1
Car je marche comme autrefois ce qui étonne tout le monde
J. -L. David2
Da pochi anni gli studiosi hanno iniziato ad interessarsi
all'ultimo stile di Jacques-Louis David, ossia a quello stravagante oggetto di studio che è la produzione dell'artista francese
nell'ultimo decennio di vita trascorso a Bruxelles3. Con la caduta
1
Lettera di David agli zii, Bruxelles, 29 gennaio 1816, pubblicata in J.L.J.
DAVID, Le peintre Louis David, 1748-1825: souvenirs et documents inédits,
Paris, 1880, p. 526, e in D. e G. WILDENSTEIN, Louis David, Recueil de documents complémentaires au catalogue complet de l'œuvre de l'artiste, Fondation Wildenstein, Paris, 1973, n. 1763, p. 202.
2
Lettera inedita di David a sua moglie, Bruxelles, 29 ottobre 1825, Fondation
Custodia, collezione Frits Lugt, Paris, num. inv. 1992-A. 326 (Fig. 1). Si tratta
molto probabilmente dell'ultima lettera scritta da David, da questo momento
in poi e fino alla morte avvenuta il 29 dicembre dello stesso anno, l'artista
scriverà solo sotto dettatura.
3
Jacques-Louis David (1748-1825) visse gli ultimi dieci anni di vita in esilio
volontario a Bruxelles. Alla fine dell'Impero napoleonico, riparò per un breve
periodo in Svizzera, per far ritorno in Francia ad agosto del 1815, quando gli
venne concessa l'amnistia. L'artista preferì, tuttavia, auto-esiliarsi: dopo il rifiuto di Pio VII alla sua domanda di trasferimento a Roma, decise di recarsi
con la moglie a Bruxelles. Qui incontrò altri regicidi della convenzione, come
Charles-Jean-Marie Alquiet, Bertrand Barère e Emmanuel-Joseph Sièys, al
quale dedicherà un intenso ritratto (1817, Harvard Art Museum). L'accoglienza calorosa di alcuni ex-allievi belgi, tra cui François-Joseph Navez, Joseph-Denis Odewaere, Joseph Paelinck, Michel-Ghislain Stapleaux, e il
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Fanti, Tracce per un’estetica dell’esilio
di Napoleone e il rientro dei Borbone, il 27 gennaio del 1816,
l'artista lascia definitivamente la Francia, per far ingresso nella
città guidata da Guglielmo I, divenuta centro di accoglienza dei
proscritti francesi4. Aperta e tollerante, non lontana da Parigi e
parlante francese, Bruxelles permette a David di non sentirsi
troppo estraneo e di godere di uno stato di pace e di libertà, pur
continuando a curare i propri interessi, le proprie amicizie e la
propria attività artistica.
Lo stato dell'arte degli studi rivela attenzione per alcuni
lavori e per la corrispondenza, nel tentativo di rintracciare le
fonti stilistiche ed iconografiche e di ricostruire la personalità
dell'artista5. Riteniamo che ci sia ancora molto da indagare all'in-
clima tollerante della città gli permisero di continuare a lavorare assiduamente e di insegnare a una nuova generazione di artisti, tra cui un non trascurabile numero di donne.
4
Come è noto, in seguito al Congresso di Vienna, il Belgio venne annesso al
Regno dei Paesi Bassi, guidato da Guglielmo I. Da despota illuminato, costui
si adoperò con convinzione per lo sviluppo economico e culturale e per l'unità
di due territori lontani per cultura e religione. Le ostilità dei Paesi Bassi meridionali nei suoi confronti porteranno alla Rivoluzione del 1830, con la quale
il Belgio dichiarerà la propria indipendenza.
5
Tra gli studi recenti segnaliamo: S. PADIYAR, Last Words: David's “Mars
Disarmed by Venus and the Graces”(1824). Subjectivity, Death, and Postrevolutionary Late Style, in «RIHA Journal», n. 23 (1 June 2011) (URL:
http://www.riha-journal.org/articles/2011/2011-apr-jun/padiyar-last-words
(ultimo accesso 23-03-2017); H. KOHLE, Arts et société, essais sur l'art
français, Norderstedt, BOD, 2009; David After David, essays on the Later
Work, atti del convegno, Jacques-Louis David: Empire to Exile, Getty Museum Research Institute and Sterling and Francine Clark Art Institute, 24-25
giugno 2005, Clark in Williamstown, Massachussets, New Haven and London, Yale University Press, 2007; David, Empire to Exile, catalogo della mostra, Los Angeles, The J. Paul Getty Museum, 1 febbraio - 24 aprile 2005;
Williamstown, Sterling and Francine Clark Art Institute, 4 giugno - 5 settembre 2005, a cura di P. Bordes, Yale University Press and Sterling and Francine
Clark Art Institute, 2005.
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Fanti, Tracce per un’estetica dell’esilio
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terno del nucleo più intimo di queste opere, sebbene al loro contatto si provi una sorta di effetto blow up, quanto più ci si avvicina, tanto più la visione appare opaca e distante.
In questo articolo è meno la ricostruzione storica ad interessarci, e neanche la genesi e l'iconografia della tarda produzione, quanto ripercorrere il filo sottile che lega i dipinti e forma
lo spirito di David in esilio. Vogliamo capire se la condizione di
relativo isolamento gli ha consentito di dar vita a un nuovo stile
e quale ne sono le caratteristiche, e se si può arrivare a parlare di
un'estetica dell'esilio e quali ne sono le linee principali.
Si presentano una serie di ostacoli. In primis, la materia
essenziale allo storico dell'arte, ossia le opere, alcune in Musei e
in collezioni private, e altre che stanno lentamente riemergendo
dal mercato: una visione anche vagamente completa è dunque al
momento impossibile. Rispetto alle fonti scritte, rileviamo l'esistenza di una ricca corrispondenza, sebbene riguardi sostanzialmente lettere di David e non a lui indirizzate. Nei confronti dei
documenti è necessario mantenere acceso lo spirito del tempo,
che porta a parlare in un determinato modo di sé, della propria
arte e del proprio entourage. Il primo quarto del XIX secolo è
denso di formalismi e di etichette, di cui si deve tener conto, sin
dal modo di presentare la propria condizione di esiliato, che in
David equivale spesso a una condizione di benessere. Più volte
l'artista parla di esilio felice, di pace, di calma, arrivando persino
a scrivere in occasione di una sua mostra a Gand:
Heureux exil qui m'a fait rencontrer des rivaux et des amis dans les arts. Aussitôt que l'exposition aura cessé, je volerai dans vos bras à tous, pour vous
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Fanti, Tracce per un’estetica dell’esilio
témoigner la satisfaction que j'éprouve d'avoir l'honneur d'appartenir à une
société de véritables artistes6.
Volendo dimostrare una benevolenza e un'abnegazione
che a volte appaiono forzate, e rilasciando, al contrario, dichiarazioni di sofferenza in frasi sbrigative, che paiono aforismi7. Il
Belgio, pur accogliente, resta sempre il luogo dello sradicamento, non a caso Quinet scrisse: «Je suis dans Bruxelles comme
dans un bois, où je rencontre de loin en loin, perdus, isolés
comme moi, mes compagnons»8.
Vogliamo, inoltre, rileggere le caratteristiche dell'ultimo stile di David, capire se è lecito parlare di anacronismo, se
di un nuovo volto del Neoclassicismo, o piuttosto di uno stile a
sé che non trova simili.
Sopra a tutte queste questioni se ne trova una, forse non
la principale, ma essenziale, che riguarda il dialogo tra classicismo, rivolte sociali e senso morale. Come è stato detto, «Classicismo, rivoluzione dall'alto e il presentimento della guerra civile
avevano molto a che vedere tra loro. Dietro ogni avidità ed orrore, e al di là di ogni frattura, i rivolgimenti del 1789 furono
6
Lettera di David a Cornelissen, 9 giugno 1818, pubblicata in DAVID, Le
peintre Louis David, 1748-1825, pp. 548-549, e in WILDENSTEIN, Louis David, p. 211, n. 1825.
7
Un campione di questa duplicità si può estrarre dalla seguente frase: «Moi
je travaille comme si je n'avais que trente ans; j'aime mon art comme je l'aimais à seize ans, et je mourrai, mon ami, en tenant le pinceau. Il n'y a pas de
puissance, telle malveillante qu'elle soit, qui peut m'en priver: j'oublie toute
la terre; mais la palette à bas, je pense à mes enfants, à mes amis, aux braves
gens.» (Lettera a Navez, 13 maggio 1817, in WILDENSTEIN, Louis David, p.
206, n. 1799 bis).
8
E. QUINET, Lettres d'exil à Michelet et à divers amis, Paris, Calmann - Lévy,
1885-1886, vol. I, p. 232 (lettera a Martin), citata in S. LUZZATTO, Mémoire
de la Terreur: vieux montagnards et jeunes républicains au XIXe siècle, Lyon,
Presses universitaires de Lyon, 1991, p. 194 (ed. or. Il Terrore ricordato. Memoria e tradizione dell'esperienza rivoluzionaria, Genova, Marietti, 1988).
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mossi da una grande spinta sociale e morale»9. David porta a
Bruxelles l'orrore della Rivoluzione o sta cercando una nuova
pace? Trova forse una via più autentica per esprimere il suo classicismo, più a-temporale del primo? La condizione di esiliato, i
contatti con i suoi allievi, a volte più potenti e stimati di lui, cosa
comporta? David, con dipinti, chiamati spesso alienanti, stravaganti, al limite del kitsch e del cattivo gusto per molti, sta forse
parlando un linguaggio che ancora non abbiamo compreso? A
questi interrogativi tentiamo di rispondere con il presente articolo.
Produzione, incontri e strategie espositive
Quant aux ouvrages qu'il acheva en exil, quoique dans tous on retrouve des
détails et parfois des parties importantes, où tantôt l'accent de la nature et
tantôt l'élévation du style ne le cèdent pas aux qualités analogues qui brillent
dans des productions beaucoup plus complètes de lui, il faut avouer cependant
que pris dans leur ensemble, ce que David a peint à Bruxelles est inférieur
aux grands ouvrages qu'il acheva plusieurs années avant son exil10.
Questo il giudizio lapidario del biografo di David, Delécluze, sugli ultimi lavori dell'artista. David a Bruxelles racconta di sentirsi libero e sereno. L'insistenza sul suo benessere
appare a volte forzata e induce a pensare che la situazione non
fosse così perfetta11. Bruxelles era una città aperta e tollerante,
9
M. STÜRMER, Frammenti di felicità. Classicismo e rivoluzione, Il Mulino,
Bologna, 1989, p. 61 [ed. or. Scherben des Glücks. Klassizismus und Revolution, Berlin, 1987].
10
É.J. DELÉCLUZE, Louis David, son école & son temps: souvenirs, Paris,
1855, p. 363.
11
Come intuito da BORDES, David, Empire to Exile, p. 297. E anche da PADIYAR: «David's blithe assertions seem unconvincing to us, and not only because they contradict both ancient and modern understandings of the self in
exile as painful, tragic and wrenching. For even if David in Brussels is for the
first time free of any constraining external agent who might deprive him of
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ma è necessario ripensare questa presunta calorosa accoglienza
nei confronti dei regicidi12. Delécluze ci informa che gli amici
circondavano David di un'atmosfera di gloria che non gli faceva
percepire la durezza dell'esilio13. Tuttavia, difficilmente immaginiamo un artista che ha ricevuto tutti gli onori possibili nel proprio paese, vivere serenamente da esiliato. Incontra i suoi allievi
e continua a godere della stima di molti artisti in Francia, ma il
confronto con la produzione belga e ciò che si stava realizzando
nel suo paese, gli scambi epistolari e l'analisi delle opere dimostrano un disagio e un cambiamento netto rispetto al passato.
Guardando al complesso dei suoi lavori, contiamo numerosi ritratti, in particolare di esuli francesi, e opere mitologiche - chiamate da David ''opere storiche'' - anche la pratica del
disegno è tenuta viva e in modo frenetico. Nella ritrattistica utilizza una pasta ricca, quasi preannunciante Manet, e dà vita a
un'indagine psicologica molto più marcata rispetto al passato.
Il ricorso ad iconografie mitologiche potrebbe implicare una forma di resistenza rispetto al suo terribile vissuto,
come vedremo nell'ultimo paragrafo, ma anche un allineamento
ai valori e alle scelte dei suoi colleghi più giovani rimasti a Parigi. David continua a perseguire una politica di opportunismo
ma anche a salvaguardare la propria immagine e a dare ascolto
alla propria ambizione.
the newfound pleasure in his brush – free now from Napoleon, from the old
authoritarian Academy – can he nevertheless control the brush, or the crayon,
that continues to be haunted by the failure of his radical Revolutionary
hopes?» (Last words, § 9).
12
Cfr. LUZZATTO, Mémoire de la Terreur, in particolare p. 27.
13
«En effet, la plupart de ses élèves belges, MM. Odewaere, Navetz, Paelinck, Moll et Stapleaux, entre autres, n'ont pas manqué un seul instant, par
leurs efforts particuliers ou réunis, de rendre les dernières années de leur
maître aussi douces, aussi belles qu'il était possible qu'elles le fussent» (p.
363). Cfr. Anche il paragrafo seguente in questo contributo.
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Delécluze racconta in dettaglio le vicende del re di
Prussia14, il quale, alcune settimane dopo l'arrivo di David a Bruxelles, chiede all'artista di trasferirsi a Berlino e di diventare Direttore Generale delle Arti, promettendogli anche tutta una serie
di facilitazioni che in Francia non era riuscito ad ottenere. David
declina e risponde di trovarsi a suo agio in un paese dalla «constitution parfaitement en rapport avec les idées du siècle dans
lequel les traces d'une révolution sont effacées par le sentiment
du bien public dont le Roi est animé», e che necessitava di un
«repos moral»15. Repos moral è stato unanimemente interpretato
come bisogno di un'astensione politica, più che come un'esigenza di pace interiore, ma vi ritorneremo. In realtà, l'artista vorrebbe che fosse il re Guglielmo I a fargli proposte simili, ma il
sovrano non darà mai seguito alle sue richieste. È solo una delle
tante delusioni mascherate da pacificazione dei sensi da parte di
David, il quale, un anno dopo l'arrivo a Bruxelles, inizia ad organizzarsi per esporre le proprie opere a pagamento, come aveva
già fatto a Parigi con Les Sabines (1799-1805).
Il 10 agosto 1817 al Musée Royal presenta Amour et
Psyché (1817; fig. 2) a beneficio degli Istituti di cura di San Gertrude e delle Orsoline16. È un momento sul quale la critica non
si è focalizzata debitamente, anche a causa di lacune documentarie. Sappiamo, tuttavia, che la regina dei Paesi Bassi visitò la
mostra e ne rimase piacevolmente colpita17, e conosciamo il
14
Louis David, pp. 365 ss.
Lettera al conte Mercy d'Argenteau, governatore di Bruxelles, fine 1816
(WILDENSTEIN, Louis David, pp. 205-206, n. 1797).
16
Ivi, p. 207, n. 1804. Tutte le informazioni su questo evento sono prese dalla
pubblicazione di Wildenstein.
17
La notizia è riportata da «Le Constitutionnel» del 19 agosto (Ivi, p. 207, n.
1805).
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committente dell'opera, Giambattista Sommariva18, uomo politico vicino a Napoleone, riscoperto come collezionista illuminato da Francis Haskell19.
Anche Les adieux de Télémaque et Eucharis (1818; fig.
20
3) trova spazio, sia a Gand sia a Bruxelles. A Gand vediamo
David agire in prima persona. Il 20 maggio del 1818 scrive a
Van Huffel, presidente della Società di Belle Arti, a proposito
dell'esposizione dell'opera in una mostra a profitto della classe
operaia: «Mais ce que, je vous avoue avec franchise, c'est que si
on me fait pas une sorte de violence je ne me déciderai jamais de
moi-même à vous en faire l'envoi»21. A luglio il dipinto si trova
a Bruxelles, su richiesta del sindaco della città, ancora una volta
nelle sale del Museo, e di nuovo a profitto degli Ospizi delle Orsoline e di San Gertrude. A marzo del 1824, David, settantaseienne e malato, espone a Bruxelles il suo ultimo capolavoro,
Mars désarmé par Vénus et les Grâces (1824; fig. 4), incassando
1349 franchi (il prezzo del biglietto ne valeva due), da quanto ci
racconta suo nipote22. L'opera si trova accanto a La colère d'Achille (1819; fig. 5), prima a Bruxelles, poi a Parigi (da maggio
1824 al 4 marzo 1825), grazie all'intercessione del figlio Eugène
e di Michel Stapleaux (1799-1881). Quest'ultimo fece installare
18
Giambattista Sommariva (1760?-1826) acquistò la villa Carlotta sul lago
di Como, dove si può ammirare parte della sua collezione. Il dipinto di David
si trova oggi al Cleveland Museum, negli Stati Uniti.
19
F. HASKELL, An Italian Patron of Neo-classic Art, The Zaharoff Lecture
for 1972, Oxford, Clarendon Press, 1972 e More about Sommariva, in «The
Burlington Magazine», Vol. 114, 835 (Ottobre 1972), pp. 691-669.
20
L'opera venne commissionata dal conte Franz Schönborn-Wiesentheid e
pagata 5000 franchi.
21
WILDENSTEIN, Louis David, p. 210, n. 1820.
22
DAVID, Le peintre Louis David, pp. 589-590.
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nella sala delle tende color verde oliva e uno specchio, dispositivo già adottato per le Sabines23. Queste mostre hanno un relativo successo, anche se nessuna equipara quello avuto dalle Sabines al Palais National des Sciences et des Arts, che si tenne dal
21 dicembre 1799 a maggio 1805, con entrata a pagamento, e
che permise all'artista di vivere agiatamente.
David, da solo o con l'aiuto di Gros, si occupa anche di
vendere i quadri rimasti nell'atelier parigino, e di vendere i diritti
di riproduzione delle sue opere24. Le delusioni arrivano presto, e
pressoché contemporaneamente, anche dal proprio entourage, a
cominciare dallo smacco subito per mano di Madame Récamier,
la quale nel 1818 gli preferisce François Gérard (1770-1837)
nell'esecuzione di un dipinto commemorativo di Madame de
Staël, celebrante l'eroina Corinne25. David chiese diciotto mesi
di lavoro e 40.000 franchi, mentre Gérard, interpellato dopo David, 18.000 franchi, e la promessa di lavorarci in minor tempo.
Vedersi passare avanti un allievo, anche molto più giovane, non
deve essere stato facile per David.
23
Ivi, p. 229, n. 1956.
SCHNAPPER, Jacques Louis David, p. 520. La storia delle esposizioni seguite direttamente da David è ancora in gran parte da ricostruire e non senza
difficoltà: ad esempio negli archivi dei Musées Royaux di Bruxelles non si
trova neanche una carta relativa all'esposizione di Mars désarmé par Vénus,
opera nelle collezioni dello stesso museo. Tutte le notizie relative alle mostre
sono ricavate dal catalogo di Wildenstein. L'esposizione del Mars a Parigi è
stata oggetto di studio di D. HARKETT, Exhibition Culture in Restoration Paris, PhD dissertation, Brown University, maggio 2005, UMI, Anne Arbor
2005.
25
Sull'importanza di questa opera, considerata il primo romanzo femminile
del XIX secolo, si veda l'ottimo studio di G. PACINI: Hidden Politics in Germaine de Staël's Corinne ou l'Italie, in «French Forum», vol. 24, 2 (maggio
1999), University of Pennsylvania Press, pp. 163-177, Stable URL:
http://www.jstor.org/stable/40552047.
24
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All'altro allievo, Antoine-Jean Gros (1771-1835), con
il quale si mostra spesso severo e rigido, David affida, invece, lo
studio parigino. Il rapporto tra i due è complesso. Delécluze ne
parla a lungo e, tra l'altro, scrive «pendant l'exécution du
Couronnement, David parla plus d'une fois de l'auteur de la Peste
de Jaffa comme d'un rival qui avait ranimé sa verve et étendu le
cercle de ses idées»26. David esercitava un'influenza tirannica
sugli allievi e Gros, fino all'ultimo giorno di vita (terminata con
il suicidio), si considerò un allievo, nonostante fosse a sua volta
un maestro. David ricambia la stima ma scrive continuamente
che alla pittura di Gros manca qualcosa, fino ad arrivare alla celebre lettera in cui gli suggerisce di fare una vera opera storica,
anche senza commissione27. David non dimentica che Les Pestiférés de Jaffa (1804) ricevette un'accoglienza migliore delle
Sabines e del Sacré (ossia il Couronnement)28 e non dimostra
apprezzamento per quell'opera napoleonica, sottolineando la sua
natura non di dipinto storico ma di circostanza. Una lettera ci
aiuta a vedere chiaro nel rapporto tra i due artisti:
Pour la promesse ou pour mieux, pour l'espérance que vous me donnez que
nous pourrons bien vous voir en Flandre, je ne vous presserai jamais de l'effectuer. Vous ne trouveriez pas en ce pays de quoi satisfaire votre curiosité.
D'ailleurs, ne l'avez-vous pas vus en France, ces tableaux qui attiraient les
étrangers en Belgique?
26
Louis David, p. 246.
Lettere del 27 dicembre 1818 (WILDENSTEIN, Louis David, p. 217, n. 1864)
e del 22 giugno 1819 (Ivi, p. 219, n. 1877).
28
Il 17 novembre 1810, Montalivet, ministro dell'interno, scrisse direttamente
all'Imperatore contraddicendo il responso della giuria sulla ripartizione dei
premi decennali alla classe des Beaux-Arts: «Il n'est pas de l'avis du jury, le
meilleur tableau français n'est pas le Sacre de David; il donne la préférence à
la Peste de Jaffa de Gros». (WILDENSTEIN, David, p. 185, n. 1589). Ricordiamo che l'opera di Gros risale al 1804.
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Produisez, mon ami, cela vaut mieux, et j'aime mieux sacrifier le plaisir que
j'aurais à vous embrasser ici, au plaisir de savoir qu'il est sorti un nouveau
chef-d'œuvre de votre main29.
Non è tanto l'eventuale presenza di Gros a Bruxelles
che sembra irritare David - tra l'altro l'allievo effettua un viaggio
a novembre, al quale David non fa cenno nelle lettere di quel
periodo che ci sono pervenute - quanto il timore che l'allievo
possa rubargli la scena anche in Belgio.
Qualcosa di simile era già accaduto con Anne-Louis Girodet (1767-1824), la cui Scène de déluge (1806) venne coronata
come migliore opera storica francese nel 1810 dalla giuria creata
da Napoleone nella distribuzione dei premi decennali. Si può immaginare la reazione di David, primo pittore dell'imperatore e
stimato, nonostante le vicende del passato, come il più grande
artista di Francia. Napoleone annullò il concorso, ma forse David non dimenticherà l'evento.
Due donne artiste occupano un ruolo importante nella
vita di David a Bruxelles. Il rapporto con la prima, un'artista solo
recentemente rivalutata, la talentuosa Sophie Rude-Frémiet
(1798-1867)30 meriterebbe uno spazio adeguato e a sé. Frémiet
29
Ivi, p. 221, n. 1891.
Nata a Dijon da una famiglia dedita alle arti, nel 1815 per via del bonapartismo del padre Louis, si trasferisce a Bruxelles dove incontra David, del
quale diviene l'allieva. Costui riconosce immediatamente le doti artistiche
della ragazza e le affida molte copie di suoi celebri dipinti. Nel 1821 sposa a
Bruxelles lo scultore Alphonse Rude (protetto dal padre), con in quale nel
1826 si stabilisce definitivamente a Parigi. Il nome della pittrice è assente sia
in Delécluze Journal de Delécluze, a cura di R. BASCHET, 1824-1828, Paris,
Grasset, 1948 e in Louis David, son école & son temps: souvenirs. Paris,
1855. Una prima monografia sull'artista è stata redatta solo negli ultimi anni
da Monique Geiger (Sophie Rude peintre et femme de sculpteur, une vie d'artiste au XIXe siècle, Dijon - Bruxelles - Paris, Société des amis des Musées de
Dijon, Dijon, 2004). Mentre una mostra che ha ricostruito il legame artistico
30
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è una delle prime donne artiste ad ottenere riconoscimenti ufficiali: una delle sue opere più importanti, La belle Anthia (1820;
fig. 6), dove gli influssi di La Colère sono evidenti, ottiene l'accessit all'Esposizione di Gand del 182031, e permette all'artista di
divenire membro dell'Accademia della città. La tela viene esposta anche a Bruxelles, dove non attira un pubblico numeroso, anche se viene acquistata immediatamente da un privato, M. Bortier32. L'operato di Sophie Frémiet e del marito, lo scultore François Rude (1744-1855), in Belgio, subirà una rapida damnatio
memoriae33, tanto che nessuno dei due farà parte del comitato
per le esequie a David né della commissione per l'erezione di un
monumento in suo onore! In una lettera Sophie scrive che non
aveva mai parlato della rottura con David perché «il y a des
détails qui ne peuvent s'écrire»34.
L'altra artista è Charlotte Bonaparte (1802-1834). Nipote di Napoleone, figlia del fratello Joseph e di Julie Clary,
Charlotte si trova in Belgio tra il 1820 e il 182135. Meno dotata
con il marito François Rude e con il milieu brussellese risale al 2012 (François et Sophie Rude, un couple d'artistes au XIXe siècle, citoyens de la Liberté, Dijon, Musée des Beaux-Arts, Musée Rude et à la Nef, 12 ottobre 2012
- 28 gennaio 2013, a cura di S. Jugie, Paris, Simogy Editions d'art, 2012). Era
artista anche la sorella Véronique, che sposerà Henri Van der Haert (17901846), pittore, incisore e scultore originario di Leuven.
31
A. LIEVIN, M. DE BAEST, Annales du salon de Gand et de l'école moderne
des Pays-Bas: Recueil de morceaux choisis parmi les ouvrages de peinture,
sculpture, architecture et gravure, exposés au Musée en 1820, P. F. de Goesin-Verhaeghe, 1823, p. 46.
32
A. JACOBS, Les rapports du couple Rude-Frémiet avec le milieu artistique
belge (1815-1829), in François et Sophie Rude, p. 60.
33
Ivi, pp. 62-63.
34
Lettera a Céline Moyne del 4 febbraio del 1823 in WILDENSTEIN, p. 227,
n. 1939.
35
Julie Clary (1802-1839) va in esilio a Francoforte ma chiede a Guglielmo
I di poter risiedere a Bruxelles, costui concede il permesso nell'agosto del
1820. La città tedesca era per la figlia Charlotte «insupportable» (lettera di
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della Frémiet, gode comunque della stima del maestro, il quale
ricorda la delicatezza della sua figura e delle sue opere, principalmente acquerelli. Charlotte parla di Bruxelles come di una
città accogliente e vivace culturalmente, e apprezza la quantità
di esuli francesi36. David realizza per lei e la sorella Zénaïde un
noto ritratto (di cui esistono tre versioni), che la critica ha sempre
visto come eccessivamente rigido, ma che recentemente è stato
letto sotto una luce nuova, connessa alla tematica dell'esilio,
dove si intrecciano autore, soggetto, committente e destinatario
della lettera in mano alle donne ritratte37.
Charlotte Bonaparte a Charlotte Boulay de la Meurthe, Francfort, 25 mai
1820, Roma, Museo Napoleonico, MN 10328/3, pubblicata in G. GORGONE,
Charlotte Bonaparte, une vie en fuite, Portrait à la pointe de la plume d'une
princesse romantique, in Charlotte Bonaparte 1802-1839, une princesse artiste, catalogo della mostra, Roma, Museo Napoleonico, 4 febbraio - 30 maggio 2010; Isola d'Elba, Museo Nazionale delle Residenze Napoleoniche, 15
giugno - 30 settembre 2010; Musée National des chateâux de Malmaison et
Bois-Préau, 19 ottobre - 10 gennaio 2011, a cura di G. Gorgone - M. E. Tittoni
Paris, Rmn, 2010, p. 14 dell'edizione francese).
36
Dalle Memorie di Mathilde Bonaparte risulta che in realtà Julie e le figlie
conducevano una vita molto ritirata (Souvenirs des années d'exil, in «Revue
des Deux Mondes», t. XLII, 15 décembre 1927, p. 740).
37
Scrive Marco Pupillo: «Tema principale del dipinto, spesso frainteso, è
quello dell’esilio, dolorosa condizione che accomuna il pittore con le due ritrattate e con la committente dell’opera. Nella composizione viene evocato
anche l’esilio di Joseph, autentico convitato di pietra, che era emigrato negli
Stati Uniti al termine della parabola napoleonica. Le sorelle Bonaparte si
fanno vicine l’una all’altra sul divano per poter meglio leggere la lettera che
il padre ha inviato loro da Philadelphia (sulla missiva è leggibile tanto il nome
della città, quanto l’affettuoso indirizzo alle figlie). In questo senso il senso
di disagio trasmesso dal loro sguardo smarrito è un effetto voluto dal pittore
che vuole così certificare lo spaesamento delle due principesse, da intendersi
in senso letterale, innanzitutto, come stato oggettivo di chi ha perso la possibilità di abitare nella propria patria e in secondo luogo come quella condizione psicologica che ne è diretta conseguenza» (Alla scuola di JacquesViaggiatori. Circolazioni scambi ed esilio, Anno 1, Numero 2, marzo 2018
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Fanti, Tracce per un’estetica dell’esilio
Una visita, forse inaspettata, raggiunge David il 16 novembre del 1820. Anche Théodore Géricault (1791-1824), più
giovane di quarantatré anni e apparentemente agli antipodi di
David, subisce il fascino del maestro. L'artista romantico è interessato principalmente ai disegni e non è certo un caso se, come
è stato scritto, i noti studi degli alienati seguono il soggiorno a
Bruxelles38: David realizza numerosi studi di teste e di fisiognomica in Belgio.
Questo sembra essere l'ultimo evento di rilievo per l'artista: tra il 1819 e il 1820 lo immaginiamo sempre più deluso,
amareggiato e isolato. Dipinge pochissimo e anche la scrittura
rallenta39. Si sente tradito dai suoi allievi, e la vena romantica, il
neo-medievalismo, la moda trobadour, la rappresentazione degli
stati dell'anima, trovano presso l'ormai anziano artista, una accesa forma di resistenza. Sente che i suoi insegnamenti vengono
disattesi. E quando inizia a dipingere Mars è un artista dimenticato e da dimenticare.
Louis David: le poetiche dell’esilio, in Charlotte Bonaparte 1802-1839, une
princesse artiste, p. 58 dell'edizione italiana del catalogo).
38
D. JOHNSON, Jacques-Louis David. Art in Metamorphosis, Princeton, Princeton University Press, 1993, p. 235.
39
Inizia a soffrire di reumatismi come scrive a Gros il primo aprile del 1819
(WILDESTEIN, Louis David, p. 221, n. 1890).
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Estetica dell'esilio
1) Le metamorfosi del Neoclassicismo
David est un composé singulier de réalisme et d'idéal
Eugène Delacroix40
Quelquechose de tendre et poignante à la fois
Charles Baudelaire41
Jacques-Louis David ha attraversato ascesa, apogeo e
declino del Neoclassicismo. Già come pittore di Napoleone inizia a cambiare stile e a porre una serie di interrogativi che raggiungeranno l'acme a Bruxelles.
David studiava in modo maniacale l'antico e parlava
spesso dell'esigenza di trasporre grazia e leggerezza, non tanto
al fine di rendere esteticamente il «bello», quanto per un'esigenza morale di verità. Furono i romantici a chiamarlo «classico», nel senso dispregiativo del termine, ossia falso, ritenendo
la sua arte qualcosa di finto, di ricalcato su altro, di poco originale. Senza addentrarci in questioni più grandi di questo saggio,
ci limitiamo ad alcune considerazioni relative all'estetica dell'artista. Egli è anti-winckelmanniano, non vede gli antichi come
fonte di una nuova religione, e forse non è il solo, visto ciò che
già Hugh Honour scrisse relativamente all'eredità del tedesco
presso gli artisti plastici42. L'assunto winckelmanniano, divenuto
40
E. DELACROIX, Journal, 22 février 1860, Paris 1980, p. 767 [1a ed. Paris
1893].
41
Scrisse Baudelaire a proposito de La mort de Marat (1795) in Le Musée
classique du Bazar Bonne-Nouvelle, 1846.
42
«Winckelmann's direct influence was probably stronger on writers and patrons than artists. It is felt even in the writings of some who were violently
opposed to his beliefs.», H. HONOUR, Neo-classicism: style and civilisation,
London, Penguin Books, 1968, p. 61.
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Fanti, Tracce per un’estetica dell’esilio
Leitmotiv del Neoclassicismo, «eine edle Einfalt und eine stille
Grösse»43, nobile semplicità e quieta grandezza, è solo tangente
all'idealismo di David. Egli appare più interessato agli ideali di
eroismo e di crescita spirituale che a rappresentare una nostalgica calma. Delécluze riporta il seguente ricordo e ci restituisce
l'idea di Neoclassicismo presso David, all'epoca di Le Sabine:
Je veux faire du grec pur; je me nourris les yeux des statues antiques, j'ai
l'intention même d'en imiter quelques-unes. Les Grecs ne se faisaient nullement scrupule de reproduire une composition, un mouvement, un type, déjà
reçus et employés. Ils mettaient tous leurs soins, tout leur art, à perfectionner
une idée que l'on avait eue avant eux. Ils pensaient, et ils avaient raison, que
l'idée dans les arts est bien plus dans la manière dont on la rend, dont on
l'exprime, que dans l'idée elle-même. Donner une apparence, une forme parfaite à sa pensée, c'est être artiste; on ne l'est que par là. Enfin je fais de mon
mieux, et j'espère arriver à mes fins44.
Delle opere realizzate a Bruxelles, David, invece,
scrive: «Si j'en crois ce que l'on ne cesse de me répéter, jamais
je n'aurais fait de meilleurs ouvrages et plus décidemment [sic]
dans le goût simple et énergique de l'antique Grèce»45. Gusto
semplice ed energico. Ma non sono forse due termini antitetici?
Dall'analisi del catalogo ragionato dei disegni risulta
una passione per l'arte romana classica e per la pittura italiana
rinascimentale e manierista e un interesse vago per il Partenone
e per l'Ellenismo. Queste notizie ci informano di un fatto non
trascurabile, il concetto davidiano di semplicità non corrisponde
43
Ricordiamo che si è appena celebrato il quarto centenario della nascita di
Joachim Winckelmann (9 dicembre 1717- 8 giugno 1768) e che Napoli gli ha
dedicato un convegno dal titolo Winckelmann e l’archeologia a Napoli, all'Università L'Orientale (1 marzo 2017).
44
DELÉCLUZE, Louis David, p. 61.
45
Lettera al figlio Jules, 1 gennaio 1819 (WILDENSTEIN, Louis David, pp.
212-213, n. 1841).
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a quello di razionalità che siamo soliti associare all'Illuminismo
né a quello neoclassico tout court, se l'artista considera le proprie
tele belghe pervase dello spirito dell'antica Grecia.
All'immediatezza del proprio messaggio, David antepone una stratificazione, una pluralità di letture e una continua
sperimentazione, che gli è stata riconosciuta solo recentemente46, e alla quale dobbiamo rivolgerci per analizzare le sue
ultime opere. In questo senso, come è stato suggerito da Schnapper, David, volendo educare con il sentimento e con lo sguardo,
raccoglie l'eredità dell'estetica del Laocoonte di Lessing, che ha
liberato le arti visive dal motto ut pictura poesis47. Sulla stratificazione dobbiamo interpellare anche il pensiero massonico, al
quale David era vicino48 e al quale in questa sede facciamo dei
rapidi rimandi. Scrive Boime:
Les références maçonniques dans l'œuvre de David démontrent que l'artiste
structurait sa pensée autour d'un ensemble de codes, qui avaient pour but de
toucher des groupes différents. Par l'intermédiaire de signes maçonniques, il
s'adresse bien sûr à un public d'initiés, mais il ne s'en tient pas là, puisqu'en
46
Johnson parla di sperimentazione, esplorazione, innovazione come tratti
comuni all'ultima fase dell'artista (D. JOHNSON, Jacques-Louis David. Art in
Metamorphosis, Princeton, Princeton University Press, 1993, p. 222).
47
«À l'époque des Lumières, que domine le sensualisme philosophique, David ambitionne d'éduquer le peuple par le regard et par le sentiment. Il faut
donc résister à la tentation d'extraire du Marat, ou des Sabines un quelconque
texte-programme codé par le peintre. L'image véhicule ici une pensée qui s'élabore en elle, selon ses modalités spécifiques. Elle est image dans les deux
sens du terme: représentation visuelle, et métaphore prégnante» (A. SCHNAPPER, David, La politique et la révolution, Paris, Gallimard, 2013, p. 12).
48
Albert Boime ha trovato un documento attestante la partecipazione di David alla loggia della Modération (1787), discusso nel saggio Les thèmes du
serment, David et la Franc-maçonnerie in David contre David, actes du colloque au Musée du Louvre, 6-10 dicembre 1989, a cura di R. Michel, Paris,
La documentation française, 1993, t. I, pp. 259-291.
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donnant à ces signes une coloration universelle, il parvient à élargir son public. Cette méthode rappelle les messages à double portée de ses œuvres néoclassiques, qui s'adressaient aussi à plusieurs publics à la fois49.
Queste intuizioni andrebbero approfondite con maggiori testimonianze alla mano, tuttavia, troviamo incredibile che
lo studioso non accenni neanche di sfuggita all'esilio dell'artista
e a un eventuale interessamento per la massoneria in Belgio, che
era ben presente già all'epoca. Al ruolo dell'atelier di David nella
genesi di una complessa rete di stili che ancor oggi non è chiarita
hanno accennato fino ad ora Levitine50 e Bordes51, sottolineando
come ci sia una tendenza negli studi recenti a focalizzarsi sulle
relazioni, gli scambi, mettendo da parte le questioni più squisitamente stilistiche.
Quale era dunque l'idea di classicità che aveva a mente
David durante l'esilio brussellese? Non è possibile definirlo con
precisione. Sebbene parlasse di energia, i panneggi sono rigidi,
le ambientazioni claustrofobiche, la pittura è magistrale, ma non
ha richiami immediati, vuole piuttosto diventare essa stessa un
modello. E una nostalgia, ma non ben definita, aleggia sui suoi
49
Ivi, p. 280.
G. LEVITINE, The Dawn of Bohemianism. The “Barbu” Rebellion and Primitivism in Neoclassical France, University Park and London, Pennsylvania
State University Press, 1978 (trad. it. All'alba della Bohème, Carocci, Roma,
1985).
51
«L’histoire de l’atelier de David ici esquissée reste largement à écrire. Non
pas celle, morcelée, des quelque quatre cents artistes ayant profité de ses
leçons, mais celle du rôle déterminant de cette institution dans une construction historique de l’art entre 1780 et 1820 en phase avec les termes des contemporains. Cette histoire n’opposerait plus classicisme, romantisme et réalisme, mais transcenderait le principe réducteur d’une succession de styles et
parviendrait à tenir compte de l’ensemble des forces contradictoires qui
s’exercent sur les créations», P. BORDES, Jacques-Louis David et ses élèves:
les stratégies de l’atelier, in «Perspective», INHA, 1 giugno 2014, pp. 99112; p. 109.
50
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lavori. L'antichità non può tornare52, siamo lontani dalle utopie
del XVIII secolo e dalla nostalgia proto-romantica. David si
trova a fare i conti con il proprio passato, che non rinnegherà
mai, e a proiettarsi nel futuro, nonostante la tarda età. La percezione a tratti proto-surrealista che abbiamo di alcuni lavori nasce
direttamente da tutto questo. L'esilio segna il momento della cattività, ma al contempo della libertà da vincoli e da committenti,
la mente e il pennello possono scorrere senza sosta, e i messaggi
si fanno via via più complessi.
2) Il pastiche italiano dell'esilio
Les adieux de Télémaque et Eucharis, La colère d'Achille, e Mars désarmé par Vénus et les Grâces sono i capolavori
realizzati da David a Bruxelles. L'artista abbandona la storia romana e quella contemporanea, così come la politica tout court,
per dedicarsi al mito.
Il ricorso alla mitologia può essere interpretato come un
forma di resistenza da parte dell'artista53, un'espressione di distacco, più che di evasione, una via per traslare la memoria, che
porta con sé una serie di scelte stilistiche. La critica ha parlato di
decadenza, di manierismo e anche di «acquired taste»54, di «relaxed pictorial standards» e di desiderio di compiacere un nuovo
pubblico; riteniamo, invece, che David stesse utilizzando un linguaggio che abbiamo appena iniziato a comprendere, dove l'arte
italiana, in particolare del tardo Rinascimento, occupa un ruolo
importante.
52
Cfr. LUZZATO, Mémoire de la Terreur.
Come già intuito da PADIYAR, Last words, § 18.
54
A. BROOKNER, Jacques-Louis David, London, Chatto & Windus, 1980, p.
181.
53
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Già in Amour et Psyché (1817)55 l'artista realizza un pastiche di Giorgione, Tiziano, Giulio Romano e Caravaggio (di
Amor vincitor in particolare)56. In altri lavori, numerosi sono i
modelli italiani anche per la messa in campo di quella «proximité
insistante» di cui parla Kohle57, non solo dipinti barocchi, ma
anche opere di autori meno noti all'epoca come Lorenzo Lotto,
ai quali l'artista guarda anche per l'uso dei colori accesi, si pensi
ad esempio alle Nozze Mistiche di Santa Caterina d'Alessandria
e Santi di Palazzo Barberini (1524; fig. 7). David potrebbe avere
a mente anche Paris Bordone, come già intuito da Bordes58 a
proposito della ripresa di immagini di coppie in pose languide,
anche se lo studioso non cita L'allegoria con amanti (1550; fig.
8) né Marte toglie l'arco a Cupido (1540-1550; fig. 9), entrambi
a Vienna, sui quali torneremo.
Il primo artista che rapisce David nel suo viaggio in Italia nel 1775 è Correggio: «voyant les ouvrages de Corrège, je me
trouvais déjà ébranlé; à Bologne je commençai à faire de tristes
reflexions [sic], à Florence je fus convaincu, mais à Rome je fus
55
D. JOHNSON parla di volontà di complessità da parte di David: «David rejected the neoclassical formula of the idealizing figure and chose instead to
depict an anticlassical god of love because he wanted to add greater complexity and subtlety to his interpretation of the myth, which, although inspired
by Apuleius and La Fontaine, can only be understood on its own pictorial
terms», Jacques-Louis David. Art in Metamorphosis, p. 252.
56
H.S. FRANCIS, Jacques-Louis David, “Cupid and Psyche”, in «The Bullettin of the Cleveland Museum of Art», febbraio 1963, p. 31. Una lettera del 22
maggio di Madame David ci permette di fissare una data post-quem (lettera
di M. Giroust, Bibliothèque de l'École des Beaux-Arts, Paris, Ms. 319, n. 18,
cit. in WILDENSTEIN, Louis David, n. 1801, p. 207. Sull'opera si veda anche
M. VIDAL, With a Pretty Whisper: Deception and Transformation in David’s
'Cupid and Psyche' and Apuleius’s 'Metamorphoses', in «Art History», vol.
22, 2 (1999), pp. 214-243.
57
KOHLE, Arts et société, p. 58.
58
BORDES, David, Empire to Exile, p. 248.
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honteux de mon ignorance»59. E a Correggio tornerà spesso per
le sue composizioni belghe, più che a Rubens, o tantomeno, ai
primitivi fiamminghi, come è stato ripetuto, spesso in modo infondato. Non basta l'uso del rosso o l'impasto ricco della pittura
a confermare un vero scambio culturale, David sicuramente
guarda ai capolavori fiamminghi (che in parte vide già in Francia), ma porta con sé tutto un bagaglio di arte italiana con il quale
si trova a dialogare.
Dimostra una propria stravaganza, preferendo Giulio
Romano, e altri artisti manieristi, a Raffaello e a Michelangelo60,
ha ben presente l'affresco di Mantova e si confronta più volte con
esso: prima di questo articolo non è stata notata la curiosa posizione del piede sinistro di Amore in Amour et Psyché, che è
come incastrato nel lenzuolo, in un modo che ricorda, con i dovuti distinguo, il cagnolino dell'opera dell'artista italiano (figg.
10 e 11). A Wicar David scrive: «Oh Mantue! Mantue! Que tu
m'est chère, je tamais [sic] parce que tu as donné la naissance à
Virgile, je t'aimais parce que tu renfermes dans tes murs les
chefs-d'œuvre de Jules Romain, je t'adore aujourd'hui»61. Non si
59
David citato in BROOKNER, Jacques-Louis David, p. 196. Delécluze scrive:
«Il paraît que les premiers ouvrages qui ébranlèrent et détruisirent même ses
préjugés à cet égard, furent les peintures dont Corrège a orné la coupole de la
cathédrale de Parme. David tomba dans une espèce d'enivrement à l'aspect de
ces peintures, à ce point même que Vien fut obligé de calmer son enthousiasme en lui conseillant d'attendre qu'il fût arrivé à Rome, pour faire encore
quelques comparaisons avant de fixer son admiration d'une manière aussi exclusive» (DELÉCLUZE, Louis David, p. 111).
60
«However many times David may invoke the name of Raphael, he remains
fundamentally in closer touch with painters in whom perfect balance is not
achieved. It is in any case the Raphael of the Transfiguration and the Fire in
the Borgo who most appeals to him and later in life he was to confess that he
had a weakness for Giulio Romano» (BROOKNER, Jacques-Louis David, p.
57).
61
Lettera a J.B. Wicar, 18 febbraio 1808, Paris, Fondation Custodia, coll.
Frits Lugt, inv. J 5541.
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tratta di una lettera dall'esilio, tuttavia uno studio analitico della
stessa ci informa dell'umor malinconico di David. Nomina Mantova all'improvviso, apparentemente senza un collegamento con
le frasi precedenti, perché sta parlando della mostra del Couronnement, del successo ricevuto, della difficoltà di incontrare l'Imperatore, e di suo figlio, che non riceveva aiuto da Roma dal governo, e poi aggiunge «il ne fait rien non plus pour moi», «beaucoup de gloire», ma «rien de profit». Probabilmente Wicar, che
sappiamo attivo a Mantova, si trova in città in quel momento (è
in Italia già dal 1800), e David si lascia andare alla malinconia
dei ricordi, dimostrando che la lezione di Giulio Romano era ancora viva.
3) Epoché e modération
Il poeta Joseph Brodskij (1940-1996) ci ha lasciato profonde riflessioni sulla condizione interiore dell'esiliato, l'uomo e
il letterato:
Per uno che fa il mio mestiere la condizione che chiamiamo esilio è, prima di
tutto, un evento linguistico: a uno buttato fuori dalla lingua non resta che ritirarsi in essa. Quella che era, per così dire, la sua spada, diventa il suo scudo,
la sua capsula. Quella che all’inizio era una liaison privata, intima, col linguaggio, in esilio diventa destino – prima ancora di diventare un’ossessione
o un dovere62.
Sebbene la pittura di David sia tutt'altro che privata e
dunque il parallelo tra la poesia di Brodskij e il suo lavoro possa
apparire forzata, riteniamo che anche presso l'artista francese,
negli ultimi anni, ci sia un ritrarsi e un sospendersi. David ha
62
I. BRODSKIJ, Dall’esilio, trad. it. di G. Forti - G. Buttafava, Milano, Adelphi, 1988, pp. 32-33 (ed. or. Sostojanie, kotoroe my nazyvaem izgnaniem in
Id., Sobranie sočinenij v 7 tomach, vol. VI, p. 93). Ringrazio Olga Truckhanova, esperta del poeta e attenta studiosa, per le segnalazioni su Brodskij.
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abbandonato la sua spada come Marte nel dipinto omonimo o
non sa se mettervi mano come Achille nel dipinto del Kimbell
Museum? Ma procediamo con ordine.
La colère d'Achille è realizzato nel 1819, anche se Delécluze lo postdata a novembre 1825, quando riporta le parole
pronunciate dall'artista, appena ripresosi da una malattia alla
mano: «Je rajeunis, je vais me remettre à peindre»63. Si tratta di
un'opera stravagante, il confronto tra Achille e Agamennone non
avviene nel primo canto dell'Iliade ma nella Iphigénie di Racine
(atto IV, scena VI), ma senza la presenza di Ifigenia e di Clitemnestra. Una lettera di David recentemente scoperta aiuta a chiarire l'iconografia del dipinto, l'artista vi precisa che nella mostra
a Gand vuole che sotto l'opera si scriva: «le peintre a choisi l'instant où Achille s'oppose à Agamemnon au moment qu'il conduit
sa fille Iphigénie pour être immolée. Cette fureur d'Achille suspend les larmes de Clytemnestre, et luis fait entrevoir une lueur
d'espérance en faveur de sa fille»64. David evita narratività di
tipo letterario, soffermandosi sull'autoreferenzialità del dipinto,
inteso come composizione bilanciata e riflettuta di schemi lineari
e organizzazione cromatica.
Forse David trasla dei contenuti, ossia rappresenta un
tema, in modo rivisitato, ma sta parlando di altro. Il controllo che
pervade l'opera potrebbe essere, ad esempio, una riflessione condotta dall'artista sul timore di impazzire, come Achille quando si
trova a trascinare il corpo di Ettore, altra storia che non è narrata,
ma evocata dalla presenza dell'eroe. La circolarità degli sguardi
suggerisce un senso di smarrimento e di sospensione, da Agamennone si passa ad Achille e Clitemnestra mentre Ifigenia
guarda altrove e non è neanche oggetto di osservazione. Difficile
63
DELÉCLUZE, Louis David, p. 375.
Lettera a M. Van Guffel, Bruxelles, 24 Luglio 1819, coll. privata, pubblicata in David after David, p. 136, nota 31.
64
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Fanti, Tracce per un’estetica dell’esilio
pensare a un'identificazione con uno di questi personaggi e non
è necessario far notare la drammaticità della scena, nonostante
la fissità degli sguardi di Achille e di Ifigenia. Per quest'ultima
si è parlato di derivazione botticelliana e, dunque di un protopreraffaellismo, non si è detto però da quale opera derivi. Pensiamo che la Pallade con centauro (1482; fig. 12) costituisca il
modello più prossimo.
Nonostante l'iconologia dell'opera sia da sempre discussa, nel gesto della donna (che sia Pallade o meno) inflitto al
centauro si riconosce quasi all'unanimità un invito alla prudenza
e alla moderazione, alla saggezza. Non era la loggia alla quale
apparteneva David proprio quella della Moderazione?65
In questa direzione, persino incastrata, quasi prigioniera a livello compositivo e prospettico, Ifigenia ha un ruolo
centrale nell'opera e potrebbe appartenere a tutta una serie di ritratti femminili realizzati da David in momenti molto distanti,
come il disegno La Douleur (1773), e i dipinti La Vestale (1787),
la Psyché abandonnée (1795?; fig. 13)66, tutti legati a un'estetica
del dolore, ma forse anche al pensiero massonico, sul quale sarebbe interessante ritornare. Infine, David ha scritto che la rabbia
di Achille «suspend» le lacrime di Clitemnestra, dunque al controllo aggiunge la sospensione, l'epoché.
Veniamo ora al Mars, uno dei rari dipinti di David
senza committente. L'opera è stata oggetto recente di un interes-
65
Infra, nota 48.
Sui legami tra La Vestale e La Psyché si veda L'antiquité rêvée, innovations
et résistances au XVIIIe siècle, catalogo della mostra, Paris, Musée du Louvre,
2 dicembre 2010 - 14 febbraio 2011; Houston, Museum of Fine Arts, 20
marzo -30 maggio 2011, a cura di G. Faroult, C. Leribault, G. Scherf, Paris,
Gallimard, 2010.
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sante articolo di Satish Padiyar, con il quale vogliamo confrontarci. Padiyar parla di «Claritas», «aesthetic of transparency»67 e
di richiami a Boucher mescolati a un'etica «trasparente» del
Neoclassicismo68. Secondo lo studioso il dipinto sigillerebbe un
ritorno alle radici, prima della scoperta dell'arte greca e romana.
Non condividiamo questa lettura, sia perché il dipinto è ambiguo
e complesso ma anche perché è necessario tener conto dei numerosi rimandi all'arte italiana, mentre nell'articolo è menzionato solo Raffaello. Le nuvole sarebbero un ritorno alla pittura
rococò degli esordi e al maestro François Boucher (1703-1770);
crediamo, invece che rimandino agli affreschi di Giulio Romano
a Mantova e alla pittura di Correggio, anticipatrice del Barocco,
ancor prima che del rococò, artisti che David apprezzava69. Sono
anche un omaggio all'allievo J.A. Dominique Ingres (17801867): così come il nudo potrebbe essere un richiamo a La
Grande odalisque (1814; fig. 14), anche se non si hanno prove
di una diretta visione da parte di David, perché l'opera sarà esposta per la prima volta al Salon solo nel 1819, le nubi potrebbero
derivare da Jupiter et Thétis (1811; fig. 15). L'opera di Ingres
potrebbe costituire il trait d'union tra Mars e Achille. Un contatto
con Jupiter et Thétis di Ingres per quanto riguarda Mars è stato
presto notato, ma non ci risulta che qualcuno si sia soffermato
sul fatto che Teti era la madre di Achille. Sicuramente David ha
guardato anche alla sua allieva prediletta, Sophie Frémiet e al
suo La mort de Cenchrée (1824; fig. 16), esposto al Salon di
Gand nel 1824.
La lettura psicoanalitica di Padyar, secondo la quale
David metterebbe in campo una politica di genere, è più convincente. Dopo una dissezione del dipinto, di tipo più analitico che
67
PADIYAR, Last words, § 5.
Ivi, § 21.
69
Infra, nota 95.
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filologico, scrive: «In David's Mars disarmed there is no consolatory embrace, and the hero is frozen in unyielding isolation»70.
Venere non lo seduce, secondo l'iconografia classica, è, invece,
distante, e i riferimenti fallici, spade, lance, ecc., rimandano ad
un altrove al di fuori del dipinto, mentre Marte sembra implicare
un'astensione. Emozioni connesse alla morte sono ugualmente
evocate. Ci colleghiamo a questa lettura per aggiungere che oltre
all'astensione è presente un'epoché, una forma di sospensione del
giudizio, del pensiero e dell'azione (come in La colère). Tutto si
muove ma tutto rimane fermo, e quello che ancor oggi ci lascia
interdetti è la volontà di fare tabula rasa ma allo stesso tempo di
riempire di citazioni, di storie e di ricordi. Gli attributi delle singole figure appaiono svuotati, così come alcuni elementi, come
le colombe o l'architettura sullo sfondo. Siamo nel trionfo e nella
morte del Classicismo.
Anche la varietà, barocca, delle posizioni e la predominanza degli elementi obliqui è un fattore su cui soffermarsi. Confrontiamo Mars con Sapho, Phaon et l'Amour (1809; fig. 17)71,
dove gli elementi verticali sono a dir poco ridondanti. A partire
dalla colonna a sinistra, alla quale fanno da pendant i due alberi,
fino all'ultima colonna, passando per la cetra, la lancia, e così
via. Saffo appare come bloccata, non libera, come saranno Ifigenia e altre figure femminili di David. Nonostante la sensualità
del tema, l'artista intromette una qualche forma di moralità, di
70
PADIYAR, Last words, § 34.
Il dipinto venne commissionato dal principe Nicolas Borissovitch Youssopoff (1750-1831) nel 1808 per 12.000 franchi. Nel XIX secolo in pochi ebbero occasione di vederlo. Resta nel castello d'Arkhangelskoïe. Nel 1917 è
preso dai sovietici e collocato al Museo Puskin. Nel 1925 è trasferito all'Ermitage di San Pietroburgo.
71
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pudore, di castigatezza quasi. Questa sovrabbondanza di elementi retorici è stata letta come debolezza72. Interessante che il
dipinto, sebbene sia del 1809, venga incluso da Pinelli tra le sue
opere tarde, significa aver compreso che già in Francia David
stava accennando a un nuovo percorso.
In Mars, se si esclude il tempietto immaginario sullo
sfondo, è pressoché assente la linea verticale. L'uso delle diagonali è stato estratto dall'Allegoria dei vizi (1531; fig. 18) di Correggio e dalla pittura veneta, soprattutto di Paris Bordone, dalle
opere già citate73, alle quali aggiungiamo Venere e Marte con
Cupido della Galleria Doria Pamphili (1559-1560; fig. 20) con
le quali David condivide uno stesso spirito, lo spirito non tanto
dello spaesamento, che potrebbe attribuirsi più naturalmente alla
condizione dell'esilio, ma quello della sospensione, dell'epoché,
e della ricerca della moderazione. In particolare nel dipinto di
Vienna, Venere è apatica, quasi anemica, così come lo sono i
personaggi di Mars ma anche de La colère. Un accostamento,
inedito finora, tra Ifigenia di La Colère e la Venere della Galleria
Doria Pamphili, ci permette di notare le affinità tra le due donne,
72
«Cette description quelque peu compliquée fait clairement comprendre
que, cette fois, David a peut-être trop compté sur son proverbial talent de
metteur en scène, concentrant dans le tableau une accumulation de situations
et de sentiments trop complexes et abusant, en outre, d'expédients pour disposer les protagonistes de manière à ce qu'ils regardent directement le spectateur. Cela a certainement nui à la lecture de l'œuvre et donc à son effet global. À cela s'ajoute la mièvrerie des poses et des expressions qui empêche
d'apprécier pleinement une toile pourtant admirable par la splendeur des couleurs et l'élégance des détails. Mais cette surabondance d'effets rhétoriques et
de maîtrise technique est sans doute le talon d'Achille de ce tableau et, en fin
de compte, de toutes les dernières œuvres, pourtant remarquable de David»,
A. PINELLI, David, Milano, Five Continents, 2004, p. 44.
73
Infra, p. 95.
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sebbene castissima la prima e decisamente più sensuale la seconda. Le espressioni sono intraducibili, quasi muti i personaggi.
In David si va oltre, e l'anti-narrazione si fa più evidente.
In Mars non si può parlare esattamente di un disarmo,
non abbiamo un'azione diretta da parte delle Grazie e neanche
da parte di Venere. C'è una sospensione, un'insinuazione del
dubbio. Se non conoscessimo il titolo non potremmo arrivare a
intuire il soggetto. Anche Cupido ha deposto le armi, Marte sembra arrendersi spontaneamente74.
Anche in Les adieux de Télémaque et Eucharis (1818)
le linee curve sono predominanti, ma più controllate. David
scrisse di aver concepito l'opera come pendant della Psyché75,
unanimemente interpretata come Amour et Psyché. La storia era
diffusa dal tempo di Luigi XIV, quando Fénelon scrisse Les
aventures de Télémaque (1699) per l'educazione del nipote del
re. Il libro era considerato un manifesto antiassolutismo ed era
molto citato dai filosofi illuministi, un inno alla moderazione. Di
nuovo rinveniamo la presenza, diretta o evocata, della moderazione. Corrisponde forse alla pace che l'artista cercava a Bruxelles e che secondo alcuni aveva trovato, insieme all'indipendenza76, e che forse ha sempre desiderato a partire dalla sua adesione alla loggia massonica omonima?
74
Johnson fa un confronto con Amour et Psyché. In Mars, la Venere sembra
riscattarsi rispetto alla Psiche dell'omonimo dipinto, che appare, piuttosto,
come schiava di Faone. Amore la vuole limitata all'esistenza terrena e quindi
la relega ad essere un mostro (Jacques-Louis David. Art in Metamorphosis,
p. 253).
75
Lettera a Ignace Van Brée, 20 ottobre 1817 (WILDENSTEIN, p. 209, n.
1808).
76
«Contre l'ordinaire, la vie de David a mieux fini qu'elle n'avait commencé,
et l'on serait tenté de croire que la peine de l'exil, si terrible ordinairement
pour les hommes, devait donner à celui-ci un calme d'esprit, une justesse de
jugement et une fermeté de résolution qu'il n'avait jamais montrées auparaViaggiatori. Circolazioni scambi ed esilio, Anno 1, Numero 2, marzo 2018
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Riteniamo che ci siano ulteriori studi da realizzare sul
pensiero dell'artista francese, soprattutto a causa della complessità del suo percorso e della sua arte. Elementi come equilibrio,
controllo ma anche esitazione, assenza, sono tutti tenuti insieme
nelle grandi opere finali.
Conclusioni
La produzione di David è segnata da esercizio e sperimentazione continui, che negli anni dell'esilio si fanno più intensi. Come si è visto, l'analisi della sua condizione di esiliato
non è completamente chiara, così come i legami con gli allievi e
con le istituzioni in Belgio.
La lettura dei singoli lavori si presenta scontata solo a
un rapido sguardo. Tutti sono, invece, indizi di una condizione
nuova per David, dove una poetica dell'esitazione e della sospensione entrano in gioco e dove l'arte italiana ha un peso notevole,
più di quella fiamminga. In questo, David ha dimostrato di essere
un artista complesso, ancora in grado di dialogare con la posterità. Ci auguriamo che questo articolo apra a nuove interpretazioni dei lavori belgi e che nuove ricerche si possano effettuare
in merito alla rete sociale dell'artista e ai meccanismi espositivi
dei suoi lavori. Riteniamo che ci siano ulteriori studi da effettuare sugli scambi, in particolare, con Sophie Frémiet. Insieme
al marito e a Henri Van der Haert, futuro marito della sorella di
lei, Véronique, essi lavorarono ai fregi del Pavillon de chasse de
Tervueren nel 1823, noto soltanto da alcuni disegni e moulages,
poiché venne completamente distrutto da un incendio nel 1879.
La decorazione prevedeva un ciclo dedicato alla vita di Achille
vant. Relativement à sa satisfaction intérieure d'artiste, peut-être n'a-t-il jamais exercé la peinture avec plus d'indépendance et d'agrément qu'à
Bruxelles» (DELECLUZE, Louis David, p. 371).
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e sarebbe utile capire se si può parlare di una derivazione da David e fare un confronto tra La colère, di tipo stilistico ma anche
allegorico (nel caso del pavillon la decorazione era volta ad esaltare i valori morali del re Guglielmo). Anche il rapporto con Géricault andrebbe rivisto: Johnson parla di «Panoply of emotions
and ideas»77 e non di semplici studi di espressione, relativamente
alle teste disegnate da David a Bruxelles. Studi di psicologia potrebbero fornire in questa direzione un ausilio importante, fornendo una chiave di lettura per i volti di David, contribuendo
allo studio dell'estetica dell'esilio presso l'artista, che in questo
articolo abbiamo appena abbozzato.
77
Jacques-Louis David. Art in Metamorphosis, p. 234.
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Figure
Figura 1, Lettera di David a sua moglie, 29 ottobre 1825, © Fondation Custodia, Collection Frits
Lugt, Paris
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Figura 2, Jacques-Louis David, Amour et Psyché, 1817, Museum of Contemporary Art,
Cleveland
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Figura 3, Jacques-Louis David, Les adieux de Télémaque et Eucharis, 1818, The Paul Getty
Museum, Malibu
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Figura 4, Jacques-Louis David, Mars désarmé par Venus et les Grâces, Musée Royaux des
Beaux-Arts de Belgique, Bruxelles
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Figura 5, Jacques-Louis David, The Anger of Achilles, 1819, Oil on canvas, 41 7/16 x 57 1/16
in. (105.3 x 145 cm), AP 1980.07, Kimbell Art Museum, Fort Worth, Texas
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Figura 6, Sophie Frémiet, La belle Anthia, 1820, collezione privata
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Figura 7, Lorenzo Lotto, Nozze mistiche di Santa Caterina d’Alessandria e Santi, 1524, Gallerie
di arte antica, Palazzo Barberini, Roma
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Figura 8, Paris Bordone, Allegoria con amanti, 1550, Kunsthistorisches Museum, Wien
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Figura 9, Paris Bordone, Marte toglie l'arco a Cupido, 1540-1550, Kunsthistorisches Museum,
Wien
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Figura 10, Giulio Romano, Il banchetto di Psiche, 1526-1528, Sala di Psiche, Palazzo Tè,
Mantova
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Figura 11, Giulio Romano, Banchetto di Amore e Psiche, 1526-1528, Sala di Psiche, Palazzo Tè,
Mantova
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Figura 12, Sandro Botticelli, Pallade con Centauro, 1482-1483, Galleria degli Uffizi, Firenze
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Figura 13, Jacques-Louis David, Psyché abandonnée, 1795?, collezione privata
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Figura 14, Jean-Auguste Dominique Ingres, La Grande Odalisque, 1814, Musée du Louvre,
Paris
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Figura 15, Jean Auguste Dominque Ingres, Jupiter et Thétis, 1811, Musée Mountauban, Aix-enProvence
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Figura 16, Sophie Frémiet, La mort de Cenchrée, 1824 c.a., localizzazione ignota
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Figura 17, Jacques-Louis David, Sapho, Phaon et l'Amour, 1809, Hermitage, San Pietroburgo
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Figura 18, Correggio, Allegoria dei vizi, 1531, Musée du Louvre, Paris
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Figura 19, Paris Bordone, Venere e Marte con Cupido, 1559-1560, Galleria Doria Pamphili,
Roma
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Figura 20, Jules Bailly, Ritratto di David, 1823, Fondation Custodia Paris, n.2000-A.551a_1
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Bonvini, «L’aratro e la spada»
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«L’aratro e la spada». Gli esuli italiani oltre la frontiera argentina, 1855-1859*
di Alessandro BONVINI
Università degli studi di Salerno
DOI 10.26337/2532-7623/BONVINI
Riassunto: L’8 marzo 1855, il governo di Buenos Aires ingaggiava l’esule
Silvino Olivieri per formare una compagnia di volontari. La Legión AgrícolaMilitar aveva il compito di occupare l’area di Bahía Blanca, sconfiggere la
resistenza delle popolazioni indigene e fondare una colonia agricola. Circa
500 uomini parteciparono alla missione che culminò con la nascita di Nuova
Roma. Il progetto ridefinì le traiettorie dell’esilio democratico, connettendo
il patriottismo diasporico italiano con il movimento repubblicano argentino.
Abstract: On 8th March 1855, Buenos Aires government hired the exile Silvino Olivieri to create a military force of volunteers. The Legión AgrícolaMilitar had the task of occupying the area of Bahía Blanca, defeating the resistance of indigenous peoples and establishing an agricultural colony. About
500 volunteers took part in the mission that culminated with the birth of
Nueva Roma. The project redefined the trajectories of the democratic exile,
connecting the patriotism of Risorgimento diaspora with the Argentine republican movement.
Keywords: Legión Agrícola-Militar, Republicanism, Military voluntarism
Sommario: Introduzione – Legionarismo atlantico – «Gobernar es poblar» –
Nuova Roma – Conclusioni – Fonti – Fonti a stampa – Bibliografia
*
AGNM = Archivo General de la Nación de Montevideo
AGNA = Archivo General de la Nación de Argentina
AST = Archivio di Stato di Torino
BNdL = Biblioteca Nazionale dei Lincei
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Bonvini, «L’aratro e la spada»
Saggio ricevuto in data 14 maggio 2017. Versione definitiva ricevuta in data
2 dicembre 2017
Introduzione
Londra, 29 gennaio 1856. Dalla capitale inglese, dove era
nuovamente riparato all’indomani di un breve soggiorno in Svizzera, così Giuseppe Mazzini scriveva all’amico e compatriota
Adriano Lemmi:
Silvino è incaricato di fondare una colonia a Bahia Blanca, un 200 miglia,
credo, da Buenos Aires. Ci dice ch’è la via alla realizzazione del suo disegno.
Ma io conosco la natura umana: per due o tre anni è perduto per l’azione. E
chiama i fratelli: invita a mandar famiglie: prenderà interesse all’impresa.
Forse, potrà dar qualche aiuto in denaro1
Alcuni mesi prima, l’8 marzo 1855, l’esule repubblicano
Silvino Olivieri – su incarico ufficiale del governo centrale della
provincia di Buenos Aires – veniva autorizzato a organizzare la
formazione di una compagnia militare per la colonizzazione
delle province orientali del paese. Secondo l’accordo generale,
la Legión Agrícola-Militar doveva «occupare l’intera area della
provincia di Bahía Blanca», «pacificare il territorio» dagli attacchi delle popolazioni indigene e «fondare un insediamento agricolo» abitato dagli stessi legionari2. Finanziato dall’amministrazione porteña e supportato dalla congrega rioplatense della Giovine Italia, il progetto culminò il 10 luglio 1859 con la nascita
della colonia di Nuova Roma.
Il fuoriuscitismo rivoluzionario in America Latina fu
un’esperienza cruciale durante l’Ottocento. Emigrazione e nazionalismo composero una diade che segnò i caratteri biografici,
1
A Adriano Lemmi, in Scritti editi ed inediti di Giuseppe Mazzini. Epistolario, vol. LVI, Imola, Cooperativa tipografico-editrice P. Galeati, 1940, p. 98.
2
BNdL, Fondo Cuneo, Lettera di Silvino Olivieri, c. 6, f. 1, n. 35.
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marcò appartenenze politiche e plasmò la formazione ideologica
dei patrioti italiani. Nel corso degli ultimi anni, studi e ricerche
hanno indagato il problema dell’esilio risorgimentale analizzando, da prospettive differenti, le attività intellettuali dei patrioti liberali nei luoghi dell’espatrio3, i circuiti internazionali del
volontarismo militare di tradizione democratica4, l’invenzione di
miti politici e la diffusione di immaginari moderni nell’Europa
ottocentesca5, nonché le dinamiche di incontro culturale transnazionale6 e le modalità di rimpatrio degli esuli italiani durante
la seconda metà del XIX secolo7. Questi lavori hanno messo in
luce la centralità del patriottismo diasporico in relazione all’elaborazione dell’identità nazionale italiana, il ruolo delle interconnessioni ideologiche che si crearono tra movimenti diversi e la
funzione dello stesso fuoriuscitismo nel processo di costruzione
degli stati-nazione nel mondo atlantico.
Le strategie dell’esilio repubblicano, tuttavia, non si limitarono alla mobilitazione dei gruppi diasporici, alla pianificazione
di campagne propagandistiche e, neppure, alla creazione di associazioni politiche trans-nazionali. La lotta patriottica si sviluppò attraverso una pluralità di iniziative con l’obiettivo di promuovere, all’estero, la questione cruciale dell’unificazione della
3
M. ISABELLA, Risorgimento in esilio. L’internazionale liberale e l'età delle
rivoluzioni, Roma-Bari, Editori Laterza, 2011.
4
G. PÉCOUT, The international armed volunteers: pilgrims of a transnational
Risorgimento, in «Journal of Modern Italian Studies», 14 (2009/4), pp. 413426.
5
L. RIALL, Garibaldi esule nelle Americhe, in M. GOTTARDI (ed.), Fuori
d’Italia. Manin e l’esilio, Venezia, Ateneo Veneto, 2009, pp. 347-362.
6
D. BIDUSSA, L'esperienza dell'esilio e la circolazione delle idee nelle correnti democratiche europee. A proposito del fondo William James Linton, Introduzione a Il sogno dell'Inghilterra. Società industriale, libertà politica e
democrazia, in P. POZZI, G. LOCATELLI Europa. Il Fondo William James Linton, Milano, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 2005, pp. 25-42.
7
A. BISTARELLI, Gli esuli del Risorgimento, Bologna, il Mulino, 2011.
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Bonvini, «L’aratro e la spada»
Penisola. Soprattutto dopo la sconfitta del biennio rivoluzionario
1848-49, i principali leader del movimento democratico lavorarono tra i luoghi dell’emigrazione italiana – nel Mediterraneo,
come nelle Americhe – per la formazione di alcune colonie di
rifugiati su base comunitaria. Nel 1849, ad esempio, l’esule Ferrari Rodigino intraprendeva con il governo sardo una corrispondenza ufficiale per la richiesta di aiuti al fine di fondare «una
colonia di emigrati» in Grecia8. L’anno dopo, invece, Cristina di
Belgioioso – dopo essersi stabilita «in un piccolo villaggio a due
miglia da Costantinopoli»9 – acquistò per «cinquemila franchi»
un appezzamento di terra in Anatolia, destinato allo stabilimento
di una fattoria per gli esiliati politici10. Il 10 maggio 1856, ancora, il governo messicano del liberale Ignacio Comonfort firmava un decreto per la creazione, tra le città di Xalapa e Veracruz, di «una colonia modello» per organizzare «l’immigrazione
italiana nella repubblica»11. Tra il 1852 e il 1860, infine, il radicale napoletano Giovanni Mosciari diresse in Algeria un esperimento di «colonizzazione agricola» finanziato dal principe Luciano Murat12. L’insieme di questi tentativi determinò la nascita
di uno spazio trans-continentale di comunità nazionali, al cui interno i fuoriusciti – in gran parte lavoratori, patrioti, combattenti
8
F. POGGI, Dall’armistizio Salasco al Proclama di Moncalieri, in ID. - M.
CIRAVEGNA - L.L. BARBERIS, L' emigrazione politica in Genova ed in Liguria
dal 1848 al 1857: fonti e memorie, Modena, STEM, 1957, p. 335.
9
C. DI BELGIOIOSO, Ricordi dell’esilio, a cura di L. Severgnini, Roma, Edizioni Paoline, 1978, p. 173.
10
ID., Vita intima e vita nomade in Oriente, O. ANTONINETTI, G. CUSATELLI
(eds.), Como, Ibis, 1993, p. 29.
11
Legislación mejicana: ó sea colección completa de las leyes, decretos y
circulares, México, Imprenta de Juan R. Navarro, 1856, p. 56.
12
E. MICHEL, Esuli italiani in Algeria (1815-1861), Bologna, L. Cappelli,
1935, p. 91.
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–, pur mantenendo saldi i vincoli con la terra d’origine, si adoperarono per la creazione di progetti di patria alternativa13.
Il tramonto dell’utopia quarantottesca aveva dato vita ad un
«esilio di terza generazione» dalla Penisola italiana. Il Cono Sud
divenne una delle principali mete d’accoglienza per la diaspora
di orientamento repubblicano. Tra Montevideo, Buenos Aires e
le aree interne del Río de la Plata, micro-collettività e gruppi di
rifugiati animarono una pluralità di programmi e iniziative non
solo per riorganizzare l’apparato del movimento nazionale diasporico, ma anche – come sostenuto da Donna Gabaccia – per
diffondere la «cultura italiana» nelle repubbliche latino-americane14. In questa direzione, tra il 1855 e il 1857, un gruppo di
esuli legato ufficialmente alla Giovine Italia diresse la fondazione di una colonia di nella provincia di Bahía Blanca. La colonizzazione agricolo-militare fu un fenomeno complesso che rispose, contemporaneamente, a logiche di tipo politico e militare
attorno alle quali si mossero diplomazie, apparati logistici, forze
inter-statali, reti segrete. Questo tipo di emigrazione incrociò sia
le rotte della mobilità individuale, sia i percorsi dell’esilio politico, intersecando tra loro una pluralità di esperienze esistenziali,
politiche e professionali e connettendo il patriottismo risorgimentale italiano con quello delle nuove repubbliche dell’America Latina.
L’articolo, a partire dallo studio di scritti privati, giornali,
corrispondenze consolari e carte diplomatiche, intende ricostruire il caso della Legione Agricola-militare per ampliare la
prospettiva tradizionale sull’esperienza dell’esilio risorgimentale e ricollocare la dimensione dell’esilio democratico all’in13
R. COHEN, Global Diasporas. An Introduction, Seattle, University of
Washington Press, 1997, pp. 1-20.
14
D. GABACCIA, Emigranti: le diaspore degli italiani dal Medioevo a oggi,
Torino, Einaudi, 2003, p. 32.
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Bonvini, «L’aratro e la spada»
terno del più ampio contesto atlantico. Il volontarismo internazionale fu un vettore importante per la circolazione di idee, la
diffusione di progetti istituzionali e l’intreccio politico di tra la
Penisola italiana e i territori del Cono Sud. Gli uomini in armi
operarono quali connettori tra mondi ideologici ed esperienze di
guerra geograficamente lontane, ma accomunate da simboli, valori e paradigmi di riferimento comuni. Tanto che, nell’estate del
1857, l’intellettuale argentino Domingo Faustino Sarmiento
avrebbe celebrato le gesta della colonia di Nuova Roma come
«la più nobile impresa che il genio umano avesse potuto concepire [al fine di] estendere ovunque la sfera della civilizzazione
umana»15.
Legionarismo atlantico
Montevideo, 10 aprile 1843. Nel corso della sanguinosa
Guerra Grande, sotto la direzione e l’ispezione del Ministro della
Guerra uruguayano, nasceva la Legione Italiana. La formazione
– primo corpo autonomo di italiani in armi all’estero – contava
317 uomini, venne posta sotto la guida di tre comandanti, Giuseppe Garibaldi, Napoleone Castellini e Pasquale Frugoni, e divisa inizialmente in tre divisioni 16. Di fronte all’assedio della
capitale, lo stato maggiore del Partido Colorado autorizzò il reclutamento di corpi o legioni straniere da affiancare all’esercito
guidato da Fructuoso Rivera. La trasformazione dello scontro
uruguayano – prima in guerra civile regionale tra federales e unitarios, alleati della Confederazione rosista; poi in conflitto transatlantico con l’intervento di Francia, Gran Bretagna e Impero del
15
BNdL, Fondo Cuneo, Discurso de Sarmiento, c. 7, f. 1, n. 40.
AGNM, Archivo General Administrativo de Montevideo, Fundo Guerra y
Marina, Autorización del Ministerio de la Guerra, c. 1339.
16
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Brasile – aveva attivato la mobilitazione di centinaia di combattenti di origine spagnola, francese, argentina (di tendenza unitaria) e italiana17. Nel Cono Sud, per quasi dieci anni, esuli e volontari provenienti da paesi differenti lottarono fianco a fianco
per la difesa delle libertà repubblicane.
Le legioni – come formazioni militari specifiche – possedevano una solida tradizione nella pratica bellica rioplatense. Già
nel marzo 1829, durante lo scontro tra federalisti unitari, un decreto firmato da Guillermo Brown e José María Paz aveva stabilito la nascita del Batallón Amigos del Orden formato da tutti gli
stranieri, ad eccezione degli inglesi e dei nordamericani, che risiedevano sul territorio argentino18. Dieci anni dopo, nel 1839,
nel corso della sfortunata campagna contro Rosas nella provincia di Buenos Aires, il generale unitario Juan Lavalle aveva guidato una Legión Libertadora, composta da unità europee e americane19. Nel febbraio 1843, l’ex ufficiale napoleonico Jean
Chrysostome Thiébaut, a capo di 2500 uomini, diede vita alla
Legione Francese che operò fino all’aprile 1844, quando venne
sciolta nell’esercito uruguayano20. Successivamente si formò
pure una Legione Argentina, organizzata dagli esuli repubblicani della Joven Argentina, che venne dispiegata durante la di-
17
L. R. MAIZTEGUI CASAS, Orientales. Una Historia Política del Uruguay,
Montevideo, Planeta, 2005; M. TERRA, Montevideo durante la Guerra
Grande: formas de vida, convivencia y relacionamientos, Montevideo,
Byblos, 2007; J.P. BARRÁN, Apogeo y crisis del Uruguay pastoril y
caudillesco:1839-1875, Montevideo, Ediciones de la Banda Oriental, 2011.
18
G. BROWN, El Gobierno a los Individuos que componen el batallon de
Amigos del Orden, Buenos Aires, s.l., 1829.
19
T. DE IRIARTE, Historia trágica de la expedición libertadora de Juan
Lavalle, Buenos Aires, Ediciones Argentinas, 1949.
20
J-A. DUPREY, Jean-Chrysostome Thiébaut et Montevideo assiégé (18431851), Montevideo, Ediciones del Bichito, 2002.
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Bonvini, «L’aratro e la spada»
fesa di Montevideo e nella campagna della provincia di Corrientes21. Questi corpi, al cui interno circolavano progetti politici,
risorse economiche e discorsi ideologici dal respiro globale, contribuirono – secondo Mario Etchechury Barrera – a connettere la
lotta liberale e repubblicana tra le due sponde dell’Atlantico22.
L’esplosione rivoluzionaria quarantottesca consolidò il fenomeno del legionarismo in tutto il mondo atlantico. In particolare,
fu l’apparato della Giovine Italia a dirigere l’organizzazione di
corpi militari, su base nazionale, da arruolare nelle file dei vari
eserciti o forze repubblicane. L’apertura del fronte americano
aveva allargato lo spazio operativo del mazzinianesimo e determinato la nascita di nuove reti trans-nazionali di espatriati, ridefinendo – come ricordato da Arianna Arisi Rota – i confini del
generale networking cospirativo ottocentesco23. Il coinvolgimento diretto degli esuli nelle «questioni nazionali» innescò l’arruolamento in armi di centinaia di individui provenienti dalla Penisola italiana. Non a caso, Giuseppe Mazzini, in una circolare
diretta ai militanti dell’associazione, scriveva:
Le Americhe, dove la Giovine Italia è già tanto potente, daranno all’insurrezione italiana, per nostro mezzo, forze materiali d’armi e danaro, occorrendo,
per la guerra24.
21
I. ZUBIZARRETA, Una sociedad secreta en el exilio: los unitarios y la
articulación de políticas conspirativas antirrositas en el Uruguay, 18351836, in «Boletín del Instituto de Historia Argentina y Americana Dr. Emilio
Ravignani», 31 (2009/2), pp. 43-78.
22
M. ETCHECHURY BARRERA, La “causa de Montevideo”. Inmigración,
legionarismo y voluntariado militar en el Río de la Plata, 1848-1852, in
«Nuevo Mundo Mundos Nuevos», [En ligne], Débats.
23
A. ARISI ROTA, World History, società internazionale e Ottocento: la prospettiva di Mazzini, in «Memoria e Ricerca», 43 (2013/2), pp. 127-143.
24
MAZZINI, Scritti editi ed inediti di Giuseppe Mazzini. Politica, vol. XXV,
1916, pp. 283-284.
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Bonvini, «L’aratro e la spada»
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Durante il biennio 1848-49, una quarantina dei combattenti provenienti dall’esperienza uruguayana presero parte alla
Prima guerra d’indipendenza, prima di dare vita a una legione
sul modello uruguayano per la difesa della Repubblica Romana25. Tra il gennaio e il marzo del 1851, poi, 171 volontari
provenienti dalla Penisola giungevano a Montevideo, dove formarono la Compagnia dei Lombardi26. Nel 1855, lo stesso Giuseppe Mazzini intraprendeva una corrispondenza con Benito
Juárez per la creazione di una Legione Repubblicana Europea da
schierare in Messico contro le armate francesi di Napoleone
III27. Alcuni garibaldini, tra il 1858 e il 1861, parteciparono
nelle file delle forze liberali alla Guerra de Reforma28. Ancora
nei primi mesi del 1860, la dirigenza del movimento repubblicano riponeva speranze nella possibilità di costituire un esercito
nel Río de la Plata da mobilitare per la lotta contro l’Austria.
Nel corso dell’Ottocento, molti protagonisti del movimento
patriottico parteciparono attivamente alla lotta rivoluzionaria e
repubblicana del mondo atlantico e, come ha di recente evidenziato Gilles Pécout, la stessa penisola italiana fu «il punto di partenza di volontari che [combatterono] nelle varie guerre del XIX
25
E. LOEVINSON, Giuseppe Garibaldi e la sua legione nello Stato Romano:
1848-49, Roma, Società editrice Dante Alighieri, 1902.
26
AGNM, Archivo General Administrativo de Montevideo, Fundo Guerra y
Marina, Relación nominal de la Compañía destinada a formar parte de la
Legión Italiana en Armas en Montevideo; c. 1750; c. 3; AST, CNM,
Relazione del console Gaetano Gavazzo del 30 luglio 1851, m. II, n. 121.
27
L.D. HANSON, Voluntarios extranjeros en los ejércitos liberales
mexicanos, 1854-1867, in «Historia Mexicana», 37 (1987/2), pp. 205-237.
28
F.G. BOHME, The Italians in Mexico: A Minority’s Contribution, in «Pacific
Historical Review», 28 (1959/1), pp. 1-18.
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Bonvini, «L’aratro e la spada»
secolo»29. Il legionarismo repubblicano, sostenuto da una precisa costruzione ideologica, nonché da una vigorosa campagna
propagandistica, attraverso la pubblicazione di odi, proclami e
romanzi, attivò forme e pratiche di trans-nazionalismo in armi.
Durante gli anni Cinquanta, le traiettorie del volontariato garibaldino si intersecarono con i circuiti del repubblicanesimo rioplatense, alimentando un’intensa diffusione di miti, simboli e
progetti politici tra le due sponde dell’Atlantico. La formazione
della Legione Italiana, in tal senso, inaugurò un intenso processo
di militarizzazione all’interno della collettività di emigrati e offrì
un nuovo modello di associazionismo politico-militare che servì
da esempio per la formazione di corpi di volontari in Argentina,
la mobilitazione in favore degli eserciti della Triple Alianza e la
creazione di battaglioni italiani durante la guerra civile statunitense. Mercenari, esuli e volontari ridefinirono modi e forme
della guerra del XIX secolo, ricollocando le singole lotte locali
o nazionali all’interno di un più ampio contesto globale. Gli uomini in armi che si mossero tra Europa e Americhe erano consapevoli che la loro esperienza fosse profondamente integrata
all’interno del contesto internazionale. La lotta armata itinerante,
dunque, segnò il corso delle guerre civili e indipendentiste, oltre
a influenzare anche la formazione ideologica dei vari patriottismi, definire nuovi meccanismi di politicizzazione e determinare
la creazione di comunità politiche transnazionali pienamente inserite nelle dinamiche globalizzanti del XIX secolo30.
Secondo uno dei primi censimenti, nella Repubblica uruguayana, risiedevano circa «2500 sudditi di Sua Maestà [del Regno
29
G. PÉCOUT, The international armed volunteers: pilgrims of a transnational Risorgimento, in «Journal of Modern Italian Studies», 14 (2009/4), p.
14.
30
G. MOSSE, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, RomaBari, Laterza, 1990, pp. 3-14.
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Bonvini, «L’aratro e la spada»
205
di Sardegna]»31; mentre almeno «8000 persone» si trovavano a
Buenos Aires32. Nel complesso, le autorità sarde di stanza oltreoceano stimavano che oltre «10.000 soggetti del Re» si fossero trasferiti sulle due rive del Plata»33. La loro esperienza fu
direttamente connessa all’attività della comunità mazziniana.
Gli esuli della Giovine Italia costituirono un’élite molto attiva
che si sforzò di promuovere una coscienza nazionale e nello
stesso tempo politica tra gli emigrati, animando reti associative
e fondando istituzioni di vario genere (scuole, ospedali, giornali). Oltre al tradizionale lavoro di propaganda, i fuoriusciti italiani nel Cono Sud strinsero relazioni e stabilirono alleanze assai
strette con i gruppi repubblicani rioplatensi. Questo fenomeno
era, in accordo con Martin Wright, l’esplicita manifestazione di
una «vocazione collettiva» che marcò la dimensione politicoideologica del mazzinianesimo, in Europa e non solo34.
La fine della Guerra Grande aveva sancito il crollo della dittatura di Juan Manuel de Rosas. Nel 1851, il generale Justo José
de Urquiza, con l’appoggio degli unionisti e dei governi di Brasile e Uruguay, iniziò una lunga marcia contro l’esercito di Rosas che si concluse vittoriosamente il 3 febbraio 1852 con la battaglia di Caseros35. Soprattutto a Buenos Aires, gli ultimi mesi
31
AST, Materie politiche per rapporto all’estero, Consolati nazionali, Montevideo, Rapporto di Marcello Pezzi a Sua Eccellenza il Signor Conte della
Margarita, m. I.
32
F. DEVOTO, Historia de los italianos en la Argentina, Buenos Aires, Biblos,
2008, p. 31.
33
AST, Materie politiche per rapporto all’estero, Consolati nazionali, Buenos
Aires, Rapporto di Picolet d’Hermillon a Sua Eccellenza il Signor Conte
della Margarita, m. I.
34
M. WRIGHT, Four seminal thinkers in international theory: Machiavelli,
Grotius, Kant and Mazzini, G. WRIGHT, B. PORTER (eds.), Oxford, Oxford
University Press, 2005 p. 103.
35
M. SÁENZ QUESADA, La república dividida: 1852-1855, Buenos Aires,
Astrea, 1974; J.H. RUBE, Hacia Caseros, Buenos Aires, La Bastilla, 1975;
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Bonvini, «L’aratro e la spada»
della dittatura rosista furono connotati da un altissimo livello di
violenze. Scontri, rivolte e tumulti attraversarono tutti i quartieri
della città argentina. I leader del movimento unitario, di tendenza repubblicana, si impegnarono per arruolare corpi volontari da impiegare, a livello urbano, per il mantenimento dell’ordine pubblico di Buenos Aires e, a livello provinciale, per l’inquadramento nelle file dell’esercito di Urquiza. Come ha messo
in luce Miguel Ángel De Marco, gli esuli repubblicani non solo
appoggiarono politicamente la generale opposizione anti-rosista,
ma vi presero parte direttamente attraverso una intensa partecipazione in armi: l’esperienza del legionarismo, che già durante
gli anni della difesa di Montevideo aveva instaurato i primi legami tra gli esuli italiani e gli unitarios argentini, si affermò definitivamente in questo decennio delineando lo spazio di accoglienza per l’arrivo dei fuoriusciti della generazione quarantottesca36.
Tra il 1851 e il 1852 operò il Batallón Orden che, agli ordini
del generale César Díaz, venne impegnato nella campagna
dell’Ejército Grande contro le province indipendentiste della
Confederazione. Comandato inizialmente dal colonnello Antonio Susini, passò poi sotto la guida del maggiore Eugenio Abella
e degli ufficiali Giovanni Battista Ciarlone, Silvino Olivieri e
Lorenzo Pieroti. Il corpo, formato da 280 uomini in prevalenza
liguri e lombardi, si richiamava direttamente alla precedente
esperienza della legione garibaldina di Montevideo, da cui mutuò la bandiera, il vestiario e gli armamenti37. Successivamente,
dopo la battaglia di Caseros, il governo municipale della città,
C.M. MARTÍNEZ, Urquiza en el Uruguay: los orientales en Caseros, Buenos
Aires, Instituto Urquiza de Estudios Históricos, 2001.
36
M.A. DE MARCO, Los italianos en las luchas por la organización nacional
argentina, in «Affari sociali internazionali», 5 (1987/2), p. 76.
37
Diario de sesiones de la Cámara de Senadores de la República Oriental
del Uruguay, vol. 172, Montevideo, Imprenta Nacional, 1941, p. 287.
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per far fronte ai disordini cittadini, ordinò l’arruolamento di milizie volontarie destinate al mantenimento dell’ordine pubblico:
tra queste il corpo dei Volontari de la Boca, composto in gran
parte da ex garibaldini, fuoriusciti mazziniani e commercianti liguri residenti in città. La compagnia, composta inizialmente di
200 uomini suddivisi in una decina di corpi mobili, era impegnata nel pattugliamento dei quartieri cittadini, in compiti di sorveglianza dei luoghi pubblici e di prevenzione nel confronto di
rivolte e insurrezioni. Guidata inizialmente dal capitano Giuseppe Maggiolo, dopo la rivoluzione dell’11 settembre 1852 –
con la separazione di Buenos Aires dal resto della Confederazione – passò ai comandi di Silvino Olivieri38. Il 7 dicembre
1852, invece, nasceva la Legione Italiana, inizialmente denominata Legión Voluntarios Italianos. Di fronte all’avanzata delle
forze di Urquiza – che nel frattempo avevano rotto l’alleanza con
i repubblicani porteños – il governo di Buenos Aires ordinò un
arruolamento massiccio di unità argentine e straniere per la difesa della città. In poche settimane, circa 200 volontari di origine
italiana risposero alla chiamata del generale Pinto, acquartierandosi a plaza de Mayo39. Il battaglione, poi integrato dall’arrivo
di nuovi combattenti, fu impiegato con successo, sul fronte interno cittadino, fino all’autunno successivo, tanto da acquisire il
titolo ufficiale di «Valiente»40. Parallelamente nel gennaio 1853,
a causa delle necessità imposte dal conflitto, il governo decise di
creare una Compañía de Infantería de Marina, composta quasi
interamente da emigrati italiani e guidata dal capitano Manuel
38
AGNA, Legione Italiana, Alemana, Española, Correntina, sala X, c. X.
18.8.2.
39
BNdL, Fondo Cuneo, Condiciones principales para la organización de una
Legión Italiana, c. 6, f. 3, n. 138.
40
BNdL, Fondo Cuneo, Documenti ufficiali, c. 7, f. 1, n. 21.
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Bonvini, «L’aratro e la spada»
Vialardi41. Il protrarsi del conflitto civile, durante tutto il decennio degli anni Cinquanta, rinnovò la formazione di nuovi corpi
e battaglioni, determinando una costante mobilitazione di combattenti arruolati o in congedo. Nel 1861, infine, la Legión Valiente fu riorganizzata e schierata nella decisiva battaglia di Pavón, che sancì l’unione definitiva di Buenos Aires al resto della
Confederazione42.
La comune affiliazione al repubblicanesimo fu un vettore decisivo per la composizione di corpi in armi, nonché l’alleanza
politico-militare tra i volontari della comunità italiana e l’élite
del governo di Buenos Aires. Anche dopo il 1848, il Río de la
Plata continuò ad essere uno spazio di accoglienza per le correnti
democratiche e repubblicane. L’eroica resistenza di Montevideo
dei garibaldini della Legione Italiana – evocata con grande enfasi dall’apparato della Giovine Italia, e non solo – promosse
all’estero la rappresentazione dell’immagine dell’esule combattente, regolarmente alimentata dalla propaganda mazziniana attiva nel Cono Sud. Nonostante le fratture politiche in seno agli
organi di governo argentini e le crescenti interferenze da parte
dell’entourage consolare sardo, il movimento repubblicano riuscì a coordinare i vari gruppi di fuoriusciti, occupando, tra la collettività italiana, una posizione egemonica almeno fino agli inizi
degli anni Settanta.
«Gobernar es poblar»
Valparaíso, 31 maggio 1852. Nell’introduzione al saggio
Bases y puntos de partida para la organización política de la
República Argentina, Juan Bautista Alberdi scriveva:
41
AGNA, Brigada de Marina 1859, sala X, c. X. 40.4.6.
Archivo del General Mitre, Campaña de Pavón, v. 8, Buenos Aires,
Biblioteca de la Nación, 1911.
42
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Bonvini, «L’aratro e la spada»
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Governare significa popolare bene; però popolare è una scienza, e questa
scienza non è cosa diversa dalla economia politica, che considera la popolazione come strumento di ricchezza e elemento di prosperità43.
L’opera, ripubblicata alcune settimane più tardi con l’integrazione di un progetto costituzionale, costituì il fondamento
teorico-istituzionale dell’Argentina moderna. Dopo la battaglia
di Caseros, che aveva sancito la definitiva caduta di Juan Manuel
de Rosas, le nuove élite al potere – eredi delle vecchie fazioni
unitarie e liberali – si adoperarono per una difficile, quanto necessaria opera di organizzazione nazionale, volta a configurare
la fisionomia istituzionale di uno stato moderno, ristrutturare
l’apparato economico-produttivo in senso liberale, estendere il
controllo giurisdizionale a tutte le province interne44. In particolare, di fronte a un paese in gran parte disabitato, Alberdi avanzava la proposta di un intervento governativo in favore dell’immigrazione europea. Lavoro, capitale straniero e terra – secondo
l’intellettuale repubblicano in esilio – dovevano costituire la
triade concettuale alla base del nuovo stato. Non a caso, assai
polemicamente, si chiedeva: «Chi farebbe sposare sua sorella o
sua figlia con un signorotto della Araucanía invece che, mille
43
J.B. ALBERDI, Bases y puntos de partida para la organización política de
la República Argentina, Buenos Aires, La Cultura Argentina, 1915, p. 19.
44
N. BOTANA, El federalismo liberal en Argentina: 1852-1930, in M.
CARMAGNANI Federalismos latinoamericanos, México D.F., Fondo de
Cultura Económica, 1993, pp. 224-262; E. GALLO, Las ideas liberales en la
Argentina, in A. ITURRIETA (ed.), El pensamiento político argentino
contemporáneo, Buenos Aires, Grupo Editor Latinoamericano, 1994, pp.
151-176; E. ZIMMERMAN, El Poder Judicial, la construcción del estado, y el
federalismo: Argentina, 1860-1880, in E. POSADA CARBÓ (ed.), In Search of
a New Order: Essays on the Politics of Nineteenth-Century Latin America,
London, ILAS, 1998, pp. 131-152.
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Bonvini, «L’aratro e la spada»
volte, con un calzolaio inglese?»45.
A partire dalla fine delle guerre di indipendenza, i governi
latino-americani, tra spinte moderniste e persistenze di tradizione coloniale, avviarono un articolato processo di costruzione
statuale e nazionale46. A causa della scarsità di risorse pubbliche,
le amministrazioni delle ex colonie ispaniche stipularono la ratifica di prestiti o finanziamenti internazionali e incentivarono anche l’arrivo di stranieri in grado di contribuire al progresso delle
repubbliche. Nella visione liberal-costituzionale della prima
metà del XIX secolo, gli immigrati dovevano formare parte della
nazione, stabilirsi definitivamente e porre le basi per la crescita
della popolazione. La definizione della cittadinanza, in rottura
con la prassi di Antico Regime, includeva i nuovi membri della
comunità nazionale sulla base di precisi parametri di carattere
politico. Già nel 1826, comparando le differenti costituzioni latino-americane, il futuro presidente ecuadoriano Vicente Rocafuerte ancorava il corpus legislativo in materia migratoria ai criteri di «convenienza pubblica» e «prudenza civica»47. I governanti interpretarono diritti e doveri degli immigrati in analogia
con quelli dei nativi. Come ricordato da Tobia Schwarz, l’incorporazione di individui stranieri nella società venne sancita secondo un quadro normativo che definiva automaticamente la
rappresentazione di cittadino ideale, in relazione ai vantaggi e ai
45
ALBERDI, Bases y puntos, p. 62.
H-J. KÖNIG, M. WIESEBRON (eds.), Nation Building in Nineteenth Century
Latin America: Dilemmas and Conflicts, Leiden, Research School CNWS,
1998; W.G. ACREE JR., J.C. GONZÁLEZ ESPITIA (eds.), Building nineteenthcentury Latin America: Re-rooted cultures, identities, and nations, Nashville,
Vanderbilt University Press, 2009; M.A. CENTENO, Sangre y deuda:
ciudades, Estado y construcción de nación en América Latina, Bogotá,
Universidad Nacional de Colombia, 2014.
47
V. ROCAFUERTE, Examen analítico de las Constituciones formadas en
Hispanoamérica, in «Ocios de los españoles emigrados», t. 5, Londres,
Imprenta de A. Macintosh, 1826, p. 410.
46
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Bonvini, «L’aratro e la spada»
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benefeci che lo stesso avrebbe apportato al paese d’accoglienza48.
In Argentina, i tentativi di colonizzazione delle regioni interne da parte degli apparati di governo furono abbastanza precoci, seppur fallimentari. Una prima legione agricola venne istituita nel 1816, ma fu presto disciolta; nel 1825, l’ufficiale Barber
Beaumont stabilì a San Pedro un’effimera colonia di contadini
britannici; nel 1828, Manuel Dorrego tentò di edificare nuovi insediamenti nell’area di Puerto de la Esperanza, per difendere la
frontiera orientale dalle mire espansionistiche dell’Impero brasiliano.
La questione del popolamento del territorio con l’arrivo di
emigrati europei divenne centrale a partire dagli anni Quaranta
del XIX secolo. Vari intellettuali di formazione repubblicana
come Esteban Echeverría, Juan María Gutiérrez, Vicente Fidel
López avevano sollevato, sulla scia di precedenti dibattiti, la
questione della guerra di frontiera, facendo leva sul paradigma
classico di «civilizzazione e barbarie». Nella loro visione, profondamente permeata dal liberalismo sansimoniano e dal positivismo comtiano, la generale modernizzazione del paese era impossibile senza una progressiva occupazione del deserto, delle
coste e delle pampas49. In contrapposizione al modello di sviluppo rosista, le élite che si succedettero al potere nel decennio
successivo – come ha sottolineato Oscar Ozlak – aggiornarono
l’agenda governativa a partire da una nuova articolazione della
relazione tra interessi rurali e urbani, nonché rimodulando la
combinazione tra le varie possibilità di integrazione economica
48
T. SCHARWZ, Políticas de inmigración en América Latina: el extranjero
indeseable en las normas nacionales, de la independencias hasta los años de
1930, in «Procesos. Revista Ecuatoriana de Historia», 36 (2012/2), p. 43.
49
T. HALPERÍN DONGHI, Una nación para el desierto argentino, Buenos
Aires, Taurus, 1982.
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Bonvini, «L’aratro e la spada»
del territorio50.
Rispetto al problema della geografia territoriale, nelle prime
pagine del Facundo, Domingo Faustino Sarmiento scriveva significativamente:
Il male che affligge la Repubblica Argentina è l’estensione: il deserto la circonda da tutte le parti e si insinua nelle viscere; la solitudine, il vuoto senza
abitazioni umane sono, in generale, i limiti indiscutibili tra l’una e le altre
province51.
Allo stesso modo, Alberdi non mancava di segnalare la
questione, domandandosi:
Che nome dareste, che nome merita una paese composto da duecentomila
leghe di territorio su una popolazione di ottocentomila abitanti? Un deserto52.
Tanto ad est, come nel sud del paese, l’idea di frontiera –
secondo Mónica Quijada – nascondeva un’intrinseca forza simbolica che delineava, quasi automaticamente, una contrapposizione dicotomica tra progresso e arretratezza53. Oltre al pluri-secolare problema razziale, era soprattutto la necessità di fissare
uno spazio statuale preciso e ordinato a imporre una progressiva
occupazione delle province, da integrare nei circuiti dello sviluppo generale del paese.
A partire dagli anni Cinquanta, funzionari ministeriali, uffi-
50
O. OZLAK, La formación del estado argentino, Buenos Aires, Editorial de
Belgrano, 1985, p. 24.
51
D.F. SARMIENTO, Facundo o civilización y barbarie en las pampas
argentinas, Santiago, El Progreso, 1845, p. 1.
52
ALBERDI, Bases y puntos, p. 140.
53
M. QUIJADA, La ciudadanización del “indio bárbaro”. Políticas oficiales
y oficiosas hacia la población indígena de la Pampa y la Patagonia, 18701920, in «Revista de Indias», 59 (1999/217), p. 677.
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Bonvini, «L’aratro e la spada»
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ciali dell’esercito e imprenditori privati, utilizzando fondi pubblici e investimenti stranieri, pianificarono una lunga serie progetti di espansione agricola e colonizzazione interna, in un contesto di riequilibrio dei poteri tra lo stato di Buenos Aires e il
resto della Confederazione. La nazionalizzazione delle immense
aree deserte e periferiche, all’interno dei confini statuali e non
solo, occupò diffusamente i programmi dei governi continentali
della seconda metà del secolo. Come sostenuto da Pierre-Luc
Abramson, la questione della «terra da popolare» si affermò presto come una delle principali battaglie politico-sociali che marcarono l’idea generale di «progresso umano» in America Latina54. A questi progetti, seguì anche un convinto sforzo propagandistico – in termini culturali e divulgativi – che impegnò funzionari, geografi e intellettuali nel diffondere un’immagine «deindigenizzata» dell’Argentina moderna al fine di attrarre, soprattutto dall’Europa, l’arrivo di immigrati e di investimenti finanziari. Il 26 settembre 1854 venne varata la Ley sobre contratos
de inmigrantes che disciplinava giuridicamente pratiche e condizioni per l’arrivo di cittadini stranieri55.
.
Tra i più attivi nel dirigere queste iniziative vi era il governatore porteño Manuel Guillermo Pinto. Convinto della necessità
di rafforzare il controllo territoriale, salvaguardare l’ordine delle
frontiere e occupare le province interne, rilanciò l’organizzazione di questi progetti promuovendo l’arrivo di emigrati europei, incentivando il ritorno in patria di migliaia di espatriati antirosisti, stabilendo contatti istituzionali con agenzie e compagnie
di investimento del Vecchio Continente. D’altra parte, le stesse
amministrazioni dei regni europei, già ufficialmente integrate
nelle reti dei commerci rioplatensi, mostrarono un certo interesse
54
P-L. ABRAMSON, Las utopías sociales en América Latina en el siglo XIX,
México D.F., Fondo de Cultura Económica, 1999.
55
Camara de senadores del estado de Buenos Aires. Diario de Sesiones de
1854, Buenos Aires, Imprenta del Orden, 1861, p. 487.
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Bonvini, «L’aratro e la spada»
verso la possibilità di ampliare i propri affari nell’area atlantica
attraverso nuove colonie agricole-militari.
Secondo la prassi generale, i governi provinciali consegnavano le terre da coltivare e fornivano le risorse finanziarie e materiali per l’impresa. Norme e ingaggio dei volontari erano pattuite secondo accordi privati e, nella gran parte dei casi – sulla
base del coevo modello brasiliano –, le colonie venivano affidate
alle stesse compagnie. Questi programmi puntavano all’acquisizione di evidenti vantaggi di tipo politico, strategico e militare,
fondamentali sia per la protezione delle zone di confine per la
crescita della popolazione, sia per la creazione di avamposti di
controllo dove dislocare piccoli eserciti attivi nella lotta contro
le comunità indigene56. A favorirne la pianificazione, infine, fu
l’inizio di un ciclo economico espansivo che, durante i decenni
Cinquanta e Sessanta, caratterizzò l’intera area rioplatense57.
In questa fase, quello di Bahía Blanca fu il più ambizioso progetto di colonizzazione interna. L’impresa impegnò forze intellettuali, mobilitò apparati politici, richiamò l’interesse di governi
e diplomazie straniere, oltre a marcare i caratteri del nuovo progetto di costruzione nazionale. I preparativi della spedizione suscitarono grande entusiasmo tra le file dell’élite repubblicana
porteña. Il 17 ottobre 1855, il giornale «La Tribuna» annunciava
l’ufficializzazione della missione, sollevando – all’interno
56
R. SCHOPFLOCHER, Historia de la colonización agrícola en Argentina,
Buenos Aires, Raigal, 1955; K. KAERGER, La agricultura y la colonización
en hispanoamérica, Buenos Aires, Academia Nacional de la Historia, 2004;
J.C. DJENDEREDJIAN, La colonización agrícola en Argentina, 1850-1900:
problemas y desafíos de un complejo proceso de cambio productivo en Santa
Fe y Entre Ríos, in «América Latina en la Historia Económica», 30 (2008/2),
pp. 129-157.
57
E. GALLO, La pampa gringa, Buenos Aires, Sudamericana, 1983, pp. 3436.
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dell’opinione pubblica della provincia di Buenos Aires – l’urgenza della «questione degli indios» in relazione all’ordine interno della Confederazione58. A qualche mese di distanza, anche
il foglio repubblicano «El Nacional» interveniva sul tema, definendo la «colonia agricola» il principale strumento per sconfiggere «i selvaggi» e suggeriva l’urgenza di un’«altra rivoluzione
d’idee»59 utile alla modernizzazione delle zone interne del paese.
Il 28 novembre 1855, ancora «La Tribuna» evidenziava, a proposito della missione italiana, «i benefici che [avrebbe offerto]
allo sviluppo»60. Nel frattempo, i rappresentanti del governo cittadino si attivavano per garantire la stipulazione del contratto, la
concessione delle licenze e la gestione delle risorse. Il ministro
Bartolomé Mitre, fedele alla vecchia affiliazione al gruppo mazziniano, si impegnò in prima persona per supportare l’organizzazione della legione, dando vita a una società protettrice che
aveva il compito di coordinare le offerte generali, raccogliere
bestiame e inviare strumenti per la coltivazione delle terre. Anche i leader della comunità della Giovine Italia si adoperarono
prontamente per cooperare con i legionari. L’anziano esule piemontese Carlo Pellegrini, attivo da oltre due decenni a Buenos
Aires come ingegnere, offrì sostegno tecnico alla spedizione,
proponendosi come intermediario con il governo61. Giovanni
Battista Cuneo, invece, lanciò una nuova campagna propagandistica dando vita al giornale «La Legione agricola». Il foglio, nato
con l’obiettivo di «raccogliere e dare alla luce i documenti relativi alla formazione della colonia e al suo sviluppo»62, uscì dal
gennaio al settembre 1856 e diffuse costantemente, all’interno
della comunità installata a Buenos Aires, notizie e cronache delle
58
«La Tribuna», 17 ottobre 1855.
«El Nacional», 10 febbraio 1856.
60
«La Tribuna», 28 novembre 1855.
61
BNdL, Fondo Cuneo, Lettera di Silvino Olivieri, c. 6, f. 1, n. 39.
62
«La Legione agricola», 24 gennaio 1856.
59
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Bonvini, «L’aratro e la spada»
attività dei legionari, oltre a pubblicare commenti generali
sull’attualità politica italiana. Contemporaneamente, al fine di
finanziare il progetto e implementare la disposizione finanziaria,
lanciava una sottoscrizione volontaria per lo stesso giornale63.
A coordinare i preparativi della Legione fu richiamato l’esule
abruzzese Silvino Olivieri. Formatosi nell’accademia militare
della Nunziatella, aveva combattuto prima in Lombardia durante
la prima guerra di indipendenza e poi in Sicilia durante l’insurrezione anti-borbonica del ’49. Ricercato dalla polizia, si trasferì
a Buenos Aires dove, assieme ad altri 300 fuoriusciti repubblicani, comandò la Legión Valiente nel conflitto contro le truppe
dei provinciales. Nel dicembre 1853, dopo un breve ritorno sulla
Penisola per organizzare una rivolta nello Stato Pontificio, fu arrestato a Roma e condannato a 15 anni di carcere. Grazie alla
mediazione della diplomazia argentina, Olivieri ottenne la commutazione della pena in esilio e fece ritorno oltreoceano, dove si
mise nuovamente a disposizione del governo porteño. L’eco
della sua esperienza di esule e rivoluzionario fece breccia
nell’universo della diaspora repubblicana. Da Londra Giuseppe
Mazzini, che lo considerava un «remplaçant» di Garibaldi64, riponeva grande fiducia nelle sue capacità di combattente, tanto
da proporlo come «incaricato dell’organizzazione militare»65 del
partito d’azione in America Latina. Il 21 settembre 1854, invece,
lo stesso «eroe dei due mondi» scriveva a Cuneo, dicendosi «veramente superbo dei fatti del nostro Olivieri e dei suoi compagni»66.
63
BNdL, Fondo Cuneo, Elenco degli associati al giornale Legione Agricola,
c. 6, f. 3, n. 140.
64
A Felice Floresti, in Scritti editi ed inediti di Giuseppe Mazzini. Epistolario, vol. LIII, 1929, p. 297.
65
ID., Scritti editi ed inediti di Giuseppe Mazzini, vol. LIV, 1930, p. 297.
66
BNdL, Fondo Cuneo, Lettera di G. Garibaldi, c.1, f. 9, n. 13.
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Bonvini, «L’aratro e la spada»
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Per circa otto mesi, l’esule abruzzese – sfruttando i rapporti
con l’amministrazione di Buenos Aires e la fitta rete all’interno
della comunità italiana – lavorò all’organizzazione della Legione Agricola-Militare. Il contratto costitutivo prevedeva un arruolamento minimo di tre anni, la sottoscrizione di una paga, la
concessione del vestiario ordinario e il diritto alla proprietà di un
appezzamento di terra e di una fattoria per ogni volontario. Allo
stesso governo centrale, poi, spettavano i compiti di gestione logistica, coordinamento politico e finanziamento economico
dell’impresa67. Tra i primi a mobilitarsi figuravano molti emigrati in cerca di un impiego, dopo lo scioglimento delle varie
milizie urbane. A questi cui si aggiunsero presto diversi combattenti, in prevalenza liguri e lombardo-veneti che provenivano
dalla lunga esperienza della Legione Italiana di Montevideo, e
nuovi fuoriusciti di filiazione repubblicana, come Eduardo Clerici e Filippo Caronti, maggiore e capitano della Legione, che
avevano lasciato la Penisola dopo la fine della I guerra d’indipendenza. Il corpo iniziale della spedizione era composto di 286
uomini. Tra questi 109 originari del Regno di Sardegna, 35 del
Lombardo-Veneto, 39 della Confederazione germanica, 35 della
Francia, 18 della Spagna, 8 del Cono Sud, 5 della Toscana, 6
della Svizzera, 3 di Piacenza, 3 di Parma, 2 del Portogallo, 2
della Romagna, 1 dell’Irlanda, 1 dell’Olanda, 1 della Danimarca,
1 del Perù, 1 del Messico68. In pochi giorni, prima della partenza,
si integrarono altri 66 uomini già residenti, oltre alle famiglie di
molti legionari decise a trasferirsi nella nuova colonia.
A fine gennaio del 1856, anche gli ultimi preparativi erano
ultimati. Il giorno della partenza, la spedizione fu salutata con
67
BNdL, Fondo Cuneo, Contratto costitutivo della Colonia, c. 6, f. 3, n. 151.
BNdL, Fondo Cuneo, Elenco nominativo della Legión Agrícola-Militar, c.
6, f. 3, n. 138.
68
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Bonvini, «L’aratro e la spada»
una celebrazione ufficiale, a cui prese parte l’intero organigramma del governo di Buenos Aires e alcuni capi del movimento repubblicano. Tra tutti, comune era la convinzione che il
successo dell’impressa avrebbe sugellato l’inizio di una nuova
fase di progresso per l’Argentina moderna:
«Con la fondazione della Nuova Roma si inaugurerà una
nuova era per l’occupazione della terra in questo paese, ed in
luogo del bestiame per attivare ed alimentare la cupidigia dei
selvaggi, fonderemo città, uomini e muraglie, che arrestino i
loro passi ed impongano loro rispetto per l’uomo civile»69.
Nuova Roma
Bahía Blanca, 3 febbraio 1856. In un proclama rivolto alle
popolazioni della pampa nord-orientale, Silvino Olivieri annunciava:
Abitanti di Bahia Blanca. Inviato dal governo dello stato per fondare una colonia agricola militare in uno dei punti di questa parte della frontiera, calpestiamo il vostro terreno, animati dal più vivo desiderio di stabilire con voi i
vincoli di amicizia fraterna, che consideriamo come una delle basi del futuro
successo della nostra impresa. I primi a collocare la pietra fondamentale che
ha inaugurato il nuovo sistema di difesa della frontiera contro le aggressioni
dei selvaggi; noi non siamo che i continuatori del vostro pensiero e della vostra opera, che poi nuovi compagni di imprese e avventure verranno a portare
più avanti. Dateci dunque la mano!70
Così, a poco più di una settimana dall’arrivo, la Legione
Agricola-Militare cominciava una lunga marcia verso l’area prestabilita per la fondazione di Nuova Roma.
69
D.F. SARMIENTO, Obras de D.F. Sarmiento: Inmigración y colonización,
Buenos Aires, Mariano Moreno, 1899, p. 336.
70
BNdL, Fondo Cuneo, Proclama, c. 6, f. 1, n. 41.
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Bonvini, «L’aratro e la spada»
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La spedizione era iniziata il 24 gennaio 1856 tra gravi difficoltà. Dal porto della capitale, alla presenza del governatore Pastor Obligado e di tutto l’entourage della commissione, i legionari si erano imbarcati a bordo dei brigantini da guerra Rio
Bamba, Antonito, San José e Paulista, comandati dal capitano
Vincenzo Pierallini. Già durante la breve attraversata, il corpo
militare aveva dovuto registrare la «disgrazia della perdita» di
una delle navi e, a pochi giorni dalla partenza, una «malattia assai crudele» stava contagiando alcuni volontari71. Con lo sbarco,
poi, «una parte del carico» era andata persa e, a causa delle avverse condizioni metereologiche, lo stato maggiore della legione
ordinò l’installazione di una «caserma provvisoria» per il ricovero dei combattenti72. Solo una settimana più tardi, Olivieri ordinava di riprendere l’avanzata. Le operazioni, guidate sostanzialmente dal corpo di cavalleria, si protrassero per circa tre
mesi, alternando brevi soste a uscite esplorative spesso segnate
da piccole scaramucce con gruppi di indios armati.
I territori circostanti all’area erano abitati dalla popolazione
degli Araucani: un gruppo indigeno di origine andina, stabilitosi
da tempo tra le fertili pianure di Salinas Grandes. Leader della
collettività era il cacique Juan Calfucurá che, durante gli anni
’40 e ’50, aveva formato una fitta rete di alleanze intertribali con
le principali comunità locali e stabilì un’alleanza strategica con
Juan Manuel de Rosas. In poco tempo, si era messo a capo di un
esercito di circa 6000 unità, raggiungendo un dominio pressoché
incontrastato nelle pampas sud-orientali73. Dopo la caduta dello
stesso Rosas, Calfucurá aveva rotto l’alleanza con il governo
della Confederazione riacquistando il controllo di una vasta
71
BNdL, Fondo Cuneo, Lettera di Alessandro Galliera, c. 6, f. 2, n. 98.
BNdL, Fondo Cuneo, Lettera di Giulio Rosset, c. 6, f. 2, n. 118.
73
J.O. SULÉ, Rosas y sus relaciones con los indios, Buenos Aires, Corregidor,
2007.
72
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Bonvini, «L’aratro e la spada»
parte della Patagonia orientale. Nella primavera del 1855, Bartolomé Mitre – intenzionato a liquidare la resistenza indigena e
nazionalizzare le pianure fuori dal controllo centrale – organizzò
una compagnia professionale di 3000 soldati, guidata dal generale Manuel Hornos. L’Ejército de Operaciones del Sur, tuttavia,
andò incontro a una serie di rocambolesche sconfitte che permisero agli Araucani di occupare le città di Cabo Corrientes, Azul
e Bahía Blanca74.
La questione della pacificazione, oltre al problema del riequilibrio dei poteri nelle pampas orientali, costituì un obiettivo fondamentale per la Legione di Silvino Olivieri. Nelle intenzioni
iniziali del governo di Buenos Aires, il popolamento attraverso
l’occupazione militare e l’insediamento coloniale di tipo agricolo aveva il duplice scopo di annientare le resistenze indigene
e riscattare il controllo delle regioni interne del paese. L’invio di
unità di origine italiana, da questo punto di vista, aveva un chiaro
richiamo mitopoietico: erano i «concittadini dell’immortale Colombo» – come proclamava il governatore di Buenos Aires poco
prima della partenza – a dover guidare la «conquista delle terre
vergini» in nome della «grandezza della patria» e per «la diffusione della civiltà»75.
Gruppi e bande indigene infestavano l’intera pianura orientale e, già alla fine dell’aprile, lo stato maggiore della Legione vi
stabiliva un primo contatto, incontrando il «nipote di Calfucurá»
che, in compagnia di «diversi indi», portava la replica una lettera
inviatagli «alcuni giorni avanti» dal maggiore Eduardo Clerici.
A causa del lungo conflitto a cui era stata obbligata in seguito
alla vasta operazione ordinata dal ministro Mitre, la tribù degli
Araucani spingeva per una tregua durevole. E solo qualche
74
A. YUNQUE, Calfucurá: la conquista de las pampas, Buenos Aires, Antonio
Zamora, 1956.
75
N. CUNEO, Storia dell’emigrazione italiana in Argentina: 1810-1870, Milano, Garzanti, 1940, p. 217.
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giorno dopo, una piccola delegazione partiva alla volta di Buenos Aires per accogliere «la risposta di Urquiza»76. Fino al raggiungimento di un accordo formale, scontri e tafferugli continuarono per oltre un mese. Il 6 giugno 1856, il volontario Giuseppe
Cassani denunciava l’invasione di una fattoria di Patacones, seguita da un acceso combattimento che aveva causato «10 prigionieri e 5 morti»77.
Ciononostante, le ultime battute della spedizione seguirono
senza grossi problemi. Oltre alla definitiva estinzione della presunta epidemia di colera, il ritrovamento di nuove provviste di
cibo e il miglioramento delle condizioni atmosferiche facilitarono l’arrivo a Bahía Blanca. Qui, ai piedi della Sierra de la Ventana, tra i fiumi Sauce Chico e Napostá Grande, i legionari passarono all’edificazione dei ranchos, allo scavo di un pozzo, alla
costruzione di un fortino e all’allestimento di una rudimentale
tipografia in legno, usata per stampare i buoni di consegna che
circolarono come moneta cartacea. Successivamente, venne pianificata l’edificazione di un ospedale e di un deposito per i viveri, mentre – nel perimetro circostante – si lavorava per l’apertura di strade e valichi per collegare la colonia alla città di Buenos Aires78. In breve tempo, cominciò anche l’aratura dei terreni
per la coltivazione, venne ordinata la suddivisione delle mansioni lavorative e si pianificò lo stabilimento di tutte le famiglie.
Il governo porteño rispose prontamente con il varo delle leggi
84 e 85 del 6 giugno 1856, che dichiaravano lo status di «porto
franco» per l’area di Nuova Roma. Tale decreto disponeva che
le imbarcazioni di grande cabotaggio fossero libere di circolare
nelle acque di Bahía Blanca, oltre ad assicurare l’esenzione dei
76
BNdL, Fondo Cuneo, Lettera di Giuseppe Cassani, c. 6, f. 2, n. 94.
BNdL, Fondo Cuneo, Lettera di Giuseppe Cassani, c. 6, f. 2, n. 95.
78
BNdL, Fondo Cuneo, A la comisión protetora, c. 6, f. 1, n. 52.
77
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Bonvini, «L’aratro e la spada»
pagamenti per il commercio con la colonia79. L’inizio delle operazioni per la creazione della colonia suscitarono, tra i membri
della legione come nelle file del governo centrale, un’indiscussa
euforia. Da Buenos Aires, il giornale «Legione Agricola» – pubblicando una corrispondenza – non mancava di esaltare l’impresa dei volontari italiani:
Qui tutto s’è conciliato, l’agricoltore è soldato, il soldato è coltivatore e difende la sua proprietà che gli avrà costato sudore e sangue ad acquistare. La
disciplina militare riunisce in un fascio tutte quelle forze che isolate sarebbero
deboli contro il barbaro80.
Alcuni mesi più tardi, il 4 luglio, uno dei legionari – Alessandro Galliera – entusiasticamente scriveva:
Ecco finalmente gettate le radici della città che da noi già si chiama Roma;
ed ecco realizzato al fine un pensiero che parve quasi impossibile ad effettuarsi, ma cui dall’uomo di cuore ed onore venne dato corpo ed esistenza materiale81.
Domingo Faustino Sarmiento, infine, salutava il successo
della spedizione elogiando lo spirito patriottico dei volontari italiani:
La prima iniziativa per fondare un centro popolato nei nostri deserti appare
con il nome augusto di Roma; designazione che non è figlia del capriccio, ma
frutto di un’idea. Roma è, per il patriottismo italiano, la parola di unione per
tutte le frazioni di quel popoli che, simile al gigante dell’Ariosto, vive in ciascuno dei suoi membri distaccati82.
79
Colección de las principales leyes y decretos promulgados por el gobierno
de Buenos Aires, Buenos Aires, Imprenta de «El Orden», 1856, p. 43.
80
«La Legione Agricola», 26 marzo 1856.
81
BNdL, Fondo Cuneo, Lettera di Alessandro Galliera, c. 6, f. 2, n. 101.
82
SARMIENTO, Obras de D.F. Sarmiento: Inmigración y colonización, p. 336.
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Una volta terminato l’insediamento, Silvino Olivieri pubblicò poi un manifesto rivolto ai «fratelli di sventura» in cui li
invitava, con le rispettive famiglie, a raggiungere la colonia per
sfuggire «la servitù e la prepotenza»83 dei monarchi della Penisola. Il progetto di colonizzazione di Bahía Blanca, nelle intenzioni originarie dell’esule mazziniano, costituiva infatti un ambizioso disegno di emigrazione repubblicana organizzata, con
l’obiettivo di raggruppare nelle pampas argentine i patrioti italiani colpiti dalla restaurazione post-quarantottesca. L’idea di
nazione – quale comunità di destino, cementata dal sangue della
lotta e dai valori della fratellanza, – era plasmata sul modello di
terra da conquistare e civilizzare sulla base dei grandi valori democratici. Per la prima volta, gli itinerari dell’avventura in armi
furono slegati dall’ideale di lotta internazionale per la patria, o
per le patrie, e immaginati funzionalmente alla creazione di colonie nazionali stabili dove offrire cittadinanza alla diaspora repubblicana. Nuova Roma, la cui fondazione venne seguita con
attenzione dagli apparati dirigenziali del Partito d’Azione, appariva come l’ultima impresa per rilanciare il movimento colpito
dalla repressione del ’48 e dalla sconfitta del moto milanese del
’53. Anche la stampa in lingua italiana, seppur timidamente,
provò a seguire la vicenda. Giornali e riviste – come «Il Saggiatore» o «Il Monitore Toscano» – riportarono, sulle proprie pagine, le notizie principali relative allo sviluppo della colonia o
brevi stralci di cronache estrapolati dai fogli argentini. Si trattava
di un interessamento abbozzato che, a distanza di un solo decennio, avrebbe catalizzato le attenzioni generali dell’opinione pubblica nazionale, oltre a richiamare ambienti politici ed economici
83
G. BERNARDI, Un patriota italiano nella Repubblica argentina, Bari, Laterza, 1946, pp. 70-71.
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Bonvini, «L’aratro e la spada»
della Penisola interessati alle possibilità dell’emigrazione transoceanica84.
L’esperienza della Legione-Agricola Militare, tuttavia, si rivelò presto un fallimento. Da un lato, il diffondersi tra le file
delle truppe di «angosce, inquietudini e dolori»85 per la durezza
delle condizioni provocò gravi malumori e una prima serie di
diserzioni. Dall’altro, la negligenza del governo di Pastor Obligado, che disattese agli aiuti finanziari pattuiti, aggravò lo sbandamento dei volontari italiani. Lo stesso Silvino Olivieri veniva
accusato di mantenere una «disciplina eccessivamente severa»86
e di esercitare «troppo rigore»87; mentre «La Tribuna» denunciava, tra le file dei legionari, la moltiplicazione di «odi inesplicabili e volgari»88. La situazione precipitò presto e la notte del
29 settembre, in seguito a una cospirazione interna, Olivieri
venne pugnalato da alcuni commilitoni.
Per alcune settimane, il caos e il disordine imperversarono.
Oltre al vuoto di potere creatosi con la scomparsa del colonnello
mazziniano, la mancanza di risorse e nuove aggressioni da parte
del gruppo di Calfucurá stavano mettendo a repentaglio l’incolumità della colonia. Il 2 novembre 1856, quindi, Filippo Caronti
sollecitava Giovanni Battista Cuneo ad intervenire:
Andare alla Nuova Roma sarebbe impossibile, si manca di
tutto ed ora siamo pochissimi. A quei che partono si garantì la
persona, e che saranno svincolati da tutti i servizi. Mi pare che
la commissione non abbia intenzione di mantenere questi patti,
parlatene al governo e particolarmente a Muratori. Si puniscano
84
F. SURDICH, I giornali savonesi della seconda metà dell'Ottocento di fronte
al problema dell'emigrazione, in «Studi e Ricerche di geografia», 8 (1985/2),
pp. 153-154.
85
BNdL, Fondo Cuneo, Lettera di Filippo Caronti, c. 6, f. 2, n. 79.
86
BNdL, Fondo Cuneo, Lettera di G.B. Cuneo, c. 6, f. 1, n. 66.
87
BNdL, Fondo Cuneo, Lettera di Giuseppe Cassani, c. 6, f. 2, n. 96.
88
«La Tribuna», 15 ottobre 1856.
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se vi sono ancora dei colpevoli perché dovete sapere che la maggior parte di essi si è salvata fuggendo per terra ma gli altri mi
pare che non debbano essere ingannati89.
Dopo la morte di Silvino Olivieri, il governo decise di inviare a Bahía Blanca una commissione d’inchiesta composta da
Ignazio Rives, Giuseppe Muratori e Filippo Caronti – che assunse la guida della Legione Agricola-Militare. Giunto nella
pampa orientale, ordinò una riforma generale della compagnia,
scorporando le competenze amministrative e quelle militari in
due comandi differenti. Nel frattempo, infatti, Bahía Blanca
aveva raggiunto alcune migliaia di abitanti e necessitava di
nuovi servizi pubblici e moderne infrastrutture logistiche, oltre a
un corpo militare per la difesa dagli attacchi delle popolazioni
indigene. Per facilitare i commerci con la capitale, Caronti ordinò la costruzione di un molo sul fiume Napostá, promosse una
prima scuola pubblica e tracciò un piano urbanistico per lo sviluppo edilizio della città. Successivamente diresse, in prima persona, la fondazione di un osservatorio astronomico90. Nel frattempo Antonio Susini – ex volontario garibaldino a Montevideo,
nominato a capo del reparto militare – riprendeva le operazioni
militari contro le tribù indigene91. Dopo aver pubblicato un proclama in cui deplorava i disordini interni alla compagnia di colonizzazione, annunciava l’inizio di una «nuova era» in cui i
«coraggiosi e bravi figli della patria» erano chiamati a dare prova
di un rinnovato patriottismo92. Guidò la formazione per circa un
anno, prima di lasciare i comandi a Giovanni Battista Ciarlone.
Nel 1858, il governo di Buenos Aires, incalzato dalla recrudescenza delle insorgenze indigene, rispose inviando a Bahía
89
BNdL, Fondo Cuneo, Lettera di Filippo Caronti.
A. MONTI, La vita e le memorie del patriota comasco Filippo Caronti, Lugano, Casa editrice del Coenobium, 1918.
91
BNdL, Fondo Cuneo, Lettera di Antonio Susini, c. 6, f. 1, n. 120.
92
BNdl, Fondo Cuneo, Proclama, c. 6, f. 1, n. 123.
90
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Bonvini, «L’aratro e la spada»
Blanca la Legión Ejército del Sud del generale Wenceslao Paunero, che affiancò i volontari italiani nelle fortunate spedizioni
nell’area di Salinas Grandes e Pigué che assicurarono la difesa
della frontiera orientale.
Il 6 maggio 1859, con la dichiarazione di guerra della Confederazione a Buenos Aires, l’amministrazione porteña ordinava
la riorganizzazione della Legión Valiente. In pochi mesi, centinaia di combattenti italiani furono nuovamente mobilitati, sia tra
i reparti cittadini che sui vari fronti che si aprirono a difesa della
capitale. Il protrarsi della permanenza nel Río de la Plata determinò un progressivo inserimento dei volontari italiani nella società argentina, attraverso la concessione di carte di naturalizzazione. Contemporaneamente, il declino della colonia di Bahía
Blanca spinse molti legionari ad abbandonare qualsiasi filiazione diretta con la causa nazionale italiana per abbracciare, più
o meno convintamente, quella repubblicana argentina. Questa
transizione politica, per mezzo dell’istituto militare, comportò
l’arruolamento di centinaia di emigrati – in particolare ex mazziniani – nelle file dell’esercito porteño e argentino: prima nella
nuova fase di guerre civili rioplatensi, poi guerra della Triple
Alianza contro il Paraguay.
Tra la fine degli anni Cinquanta e Sessanta, il crescente peso
dell’apparato consolare sardo – nonché dei suoi tentativi di fidelizzare la collettività italiana ormai stabilitasi nel Cono Sud –
provocarono un evidente scontro per la leadership con il movimento repubblicano. Il gruppo di formazione mazziniana, rinnovando il suo discorso ideologico per rivolgersi alla composita
costellazione di emigrati, rilanciò il messaggio patriottico per
diffondere il sentimento di identità nazionale debilitato dalla
convergenza filo-cavouriana sulla Penisola. L’iniziale successo,
sostenuto dalla fondazione di associazioni mutualistiche, la promozione di iniziative di carattere assistenzialistico e la ripresa
della tradizionale attività propagandistica, era il prodotto di una
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strategia vincente che, almeno per un decennio, consolidò
un’egemonia di lungo periodo93. A rinsaldarla, d’altra parte, furono le stesse élite del governo argentino: eredi di una organica
tradizione repubblicana, ne esaltarono costantemente la stretta
affiliazione ideologica, sugellata con l’inaugurazione della
prima statua mondiale di Giuseppe Mazzini, installata a Buenos
Aires il 17 marzo 187894.
Conclusioni
Buenos Aires, 6 aprile 1857. In un martirologio pubblicato
sulle pagine de «El Nacional», il ministro porteño Bartolomé
Mitre elogiava gli italiani «figli dell’eroismo e della gloria» che,
nelle file della Legione Agricola-Militare, stavano contribuendo
all’opera di civilizzazione del «deserto contro le barbarie»95. Nonostante la tragica morte di Silvino Olivieri, la compagnia italiana continuò – almeno fino al 1861 – ad operare per l’organizzazione politica, lo sviluppo economico e la difesa militare della
colonia. Nuova Roma costituì, a tutti gli effetti, uno dei primi
insediamenti diasporici italiani prima dell’unificazione della Penisola.
Nel corso del XIX secolo, gli uomini in armi furono tra i principali protagonisti della costruzione di stati-nazione nel mondo
atlantico. Mercenari, combattenti e legionari, come dimostrato
dal caso rioplatense, erano al centro di un complesso sistema di
accordi e alleanze, che incrociava trasversalmente Buenos Aires
93
G. DORE, La democrazia italiana e l’emigrazione in America, Brescia,
Morcelliana, 1964, pp. 113-115.
94
M. AGUERRE, Espacios simbólicos, espacios de poder: los monumentos
conmemorativos de la colectividad italiana en Buenos Aires, in D.B.
WECHSLER (ed.) Italia en el horizonte de las artes plásticas. Argentina, siglos
XIX y XX, Buenos Aires, Asociación Dante Alighieri, 2000, pp. 76-79.
95
«El Nacional», 6 aprile 1857.
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Bonvini, «L’aratro e la spada»
e Montevideo agli stati italiani. Il fenomeno del volontarismo
repubblicano congiunse i processi di nazionalizzazione tra le due
sponde dell’Atlantico, connettendo pratiche militari, solidarietà
ideologiche e prospettive politiche delle guerre di indipendenza
risorgimentali a quelle dei conflitti civili del Río de la Plata, oltre
a promuovere dinamiche di entanglement tra gruppi ed élite politiche di diversa provenienza96.
In questo contesto, il movimento mazziniano – grazie, soprattutto, alla fitta rete di affiliati, speakers e attivisti radicata
nelle Americhe – coordinò una molteplicità di progetti volti alla
creazione ex nihilo o alla mobilitazione in loco di emigrati. Gli
esuli della Giovine Italia, convinti sostenitori dell’idea di «fratellanza repubblicana universale», animarono reti diplomatiche,
sostennero imprese associative e propagandistiche, incoraggiarono la lotta anti-assolutistica97. La loro dimensione individuale
fu incorporata all’interno di un progetto collettivo che – come
sostenuto da Maurizio Isabella – assunse la proiezione teleologica di missione finalistica per il progresso democratico italiano,
e non solo98. Congiunture temporali, contesti geografici e fattori
culturali plasmarono il modo stesso di vivere l’esilio fuori
dall’Italia: così patriottismo, nazionalismo e cosmopolitismo
96
G. PÉCOUT, Le rotte internazionali del volontariato, in M. ISNENGHI – E.
CECCHINATO (eds.), Gli italiani in guerra. Conflitti, identità, memorie dal
Risorgimento ai giorni nostri, vol. 1, a cura di, Torino, Utet, 2008, pp. 188196.
97
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of democratic nationalism: 1830-1920, Oxford, Oxford University Press,
2008; S. LACHENICHT, K. HEINSOHN (eds.), Diaspora Identities: Exile, Nationalism and Cosmopolitanism in Past and Present, New York, Campus,
2009; C. BRICE, S. APRILE (eds.), Exile et Fraternité en Europe au XIXème
siècle, Bordeaux, Edition Bière, 2013.
98
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dell’esilio tra cultura europea e Risorgimento, in M. GOTTARDI (ed.) Fuori
d’Italia, Manin e l’esilio, Venezia, Ateneo Veneto, 2009, pp. 61-83.
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confluirono parallelamente formando una triangolazione di intenti che definì itinerari e rotte dell’impegno politico trans-nazionale. Per molti fuoriusciti, infatti, il Río de la Plata si trasformò in vera e propria patria d’adozione, immagine riflessa e
artificiale di quella originaria, su cui proiettare rappresentazioni
e ideali ormai sbiaditi dal progressivo riflusso rivoluzionario
sulla Penisola.
Il biennio ’48-’49 segnò una cesura centrale, che influenzò
forme e significati dell’esilio risorgimentale. Le cocenti sconfitte maturate sui campi di battaglia e il contestuale allineamento
del movimento nazionale sulle posizioni cavouriane attivarono
una nuova, seppur più contenuta, diaspora oltreoceano. L’America Latina era da tempo una terra d’accoglienza per il patriottismo italiano. La proiezione mitica della lotta legionaria durante
la Guerra Grande, la diffusione romantica dell’avventura in
armi, l’affermazione del Cono Sud quale terra di opportunità politiche e possibilità economiche furono artifici performanti in
grado di mobilitare, intorno alla metà del secolo, forze e uomini
dalle coste mediterranee. La presenza nell’area rioplatense di ex
combattenti, infine, agevolò il loro inserimento nella società locale.99
Negli anni Cinquanta, Legione Agricola-Militare fu uno dei
maggiori corpi di volontari, su base nazionale, che operò in
America Latina. Intorno alla sua formazione, si mossero una pluralità di forze trans-nazionali politicamente collegate all’uni-
99
S. CANDIDO, L’emigrazione politica e di élite nelle Americhe (1810-1860),
in Il movimento migratorio italiano dall'Unità nazionale ai nostri giorni, a
cura di F. Assante, Napoli, Droz, 1978, pp. 113-50; L’Italia nella società argentina: contributi sull’emigrazione italiana in Argentina, a cura di F. Devoto - G. Rosoli, Roma, Centro Studi Emigrazione, 1988; L. Incisi di Camerana, L’Argentina, gli italiani, l’Italia: un altro destino, Tavernerio, ISPI,
1998.
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Bonvini, «L’aratro e la spada»
verso atlantico del movimento repubblicano. Non solo agenti diplomatici e funzionari di governo argentini, ma anche giornalisti
della Giovine Italia e rappresentanti di rilievo dell’esilio italiano
si impegnarono per la riuscita del progetto di colonizzazione.
L’eco della fondazione di Nuova Roma, abilmente divulgato
dalla pubblicistica mazziniana, concorse alla diffusione del mito
del «fare l’Italia fuori dall’Italia». In tal senso, il combattentismo
itinerante divenne un punto di coagulo delle correnti espatriate
ed in lotta per l’unificazione italiana all’estero. Come ha sottolineato Lucy Riall, infatti, i corpi di legionari svolsero ruolo fondamentale nella definizione delle strategie del movimento nazionale e divennero un riferimento ideologico per fare del Risorgimento una «storia di fondazione»100.
Tuttavia, a differenza dei decenni precedenti in cui il volontariato internazionale venne interpretato come un «noviziato alla
guerra italiana»101, l’esperienza della Legione Agricola-Militare
rispose a logiche alternative di costruzione comunitaria. L’ideale
di guerra oltre la frontiera fu re-immaginato all’interno di un processo originale di organizzazione diasporica, che faceva da sostegno a programmi di colonizzazione e popolamento. A Bahía
Blanca la diade metaforica di «aratro» e «spada» – simboli dal
forte impatto mitopoietico nel discorso nazionalista – arricchirono il repertorio identitario-patriottico dell’esilio risorgimentale, rilanciando il paradigma del primato della civiltà italiana.
Nel corso del XIX secolo, la guerra costituì un fattore decisivo per la composizione di affiliazioni politiche, la costruzione
di identità nazionali e la definizione di processi di state e nation100
L. RIALL, Eroi maschili, virilità e forme della guerra, in Storia d’Italia. Il
Risorgimento, vol. 22, a cura di A.M. Banti - P. Ginsborg, Torino, Einaudi,
2007, pp. 253-88.
101
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Bonvini, «L’aratro e la spada»
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building. Combattenti e volontari, agendo quali political transfers tra contesti continentali differenti, ricollocarono le singole
lotte locali o nazionali all’interno di un più ampio panorama globale. La circolazione di uomini in armi, da questo punto di vista,
offre una prospettiva per ampliare gli spazi della geografia politica risorgimentale e rivalutare l’esperienza patriottica alla luce
dei grandi processi di modernizzazione nel mondo atlantico durante l’Ottocento.
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Bonvini, «L’aratro e la spada»
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Materie politiche per rapporto all’estero. Consolati nazionali,
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Garan, Ranavalona III et Mohammed Ben Youssef
Ranavalona III et Mohammed Ben Youssef : deux exils
en effet de miroir dans l’Empire colonial français
di Frédéric GARAN
Université de la Réunion
DOI 10.26337/2532-7623/GARAN
Riassunto : Gli esili di Ranavalona III e di Mohammed V sembrano essere
due facce della stessa medaglia. La prima passa dal Madagascar al Maghreb,
mentre il secondo compie cinquant’anni più tardi un percorso simile ma in
direzione opposta. Ma se Mohammed esce trionfante dall’esilio, Ranavalona
III incarna invece una monarchia Merina schiacciata dal colonizzatore.
L’esilio di Mohammed V è spesso evocato, quello di Ranavalona III di meno,
al punto da farlo cadere nell’oblio dopo la conquista del Madagascar e l’abolizione della monarchia. Tuttavia, in entrambi i casi, il quotidiano, e soprattutto le condizioni materiali imposte dalla Francia, sono spesso ignorate.
Abstract : The exiles of Ranavalona III and Mohammed V seem to respond
by mirror effect. The one goes from Madagascar to the Maghreb, when the
second makes a similar journey 50 years later in the opposite direction. But,
if Mohammed V comes out triumphant of the exile, Ranavalona III embodies
a merina monarchy crushed by the colonizer. If the use of symbolic exile at
the beginning of the twentieth century the power of the colonial empire, half
a century later, it represents only an anachronistic and breathless system.
Mohammed V's exile is often mentioned. The one of Ranavalona III much
less so, as the queen fell into oblivion after the conquest of Madagascar and
the abolition of the monarchy. However, in both cases, daily life, and especially the material conditions imposed by France, are often ignored.
It is these two exiles that we will follow in parallel.
Keywords : Madagascar, Morocco, Mohammed V, Ranavalona III, French
Colonial Empire
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Garan, Ranavalona III et Mohammed Ben Youssef
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Sommario: Introduction – Toujours plus loin… L’éloignement géographique,
un élément essentiel – Isoler politiquement – Les conditions du retour – Conclusion
Saggio ricevuto in data 31 luglio 2017. Versione definitiva ricevuta in data
19 dicembre 2017
Introduction
Après la conquête de Madagascar…, les Colonialistes français ont aboli leur
pacte avec Ranavalona III en l’expatriant à la Réunion dans le courant du
mois de Janvier 1897… Et voilà qu’actuellement, après 57 ans de cet acte
d’infériorité, ce bouleversant événement se renouvelle dans la destitution du
Sultan Sidi Ben Youssef du Maroc. Maintenant, il est chez nous en exil avec
ses femmes et enfants, destitué de son trône royal et éloigné de sa patrie dans
le but de museler le peuple marocain de revendiquer leur liberté et leur indépendance […]. Cet état de choses nous rappelle les douloureux événements
survenus à Madagascar en 1947 mais n’allons pas secouer la boue qui dort.
L’indépendance nationale est une œuvre commune de tout le peuple. A
l’heure actuelle, le peuple marocain est justement dans ce rude labeur, mais
malgré les maintes entraves suscitées par les Impérialistes-colonialistes-fascistes, il parviendra à bout coûte que coûte1.
Le rapprochement opéré par le journal nationaliste malgache Lalam-Baovao entre l’exil de la reine Ranavalona III et
celui du sultan Mohammed Ben Youssef semble aller de soi. Il
y a des similitudes géographiques. La reine, après avoir séjourné
à La Réunion, est finalement envoyée en Algérie. Le sultan fait
un voyage comparable dans l’autre sens. Après être passé par la
Corse, il finit à Antsirabe, petite ville thermale malgache.
Dans les deux cas, il s’agit de monarques théoriquement
couverts par des accords de Protectorat unilatéralement violés du
1
Traduction par la police de Majunga d’un article du Lalam-Baovao n°43 du
5 février 1954. ANOM Madagascar pm266.
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Garan, Ranavalona III et Mohammed Ben Youssef
fait de véritables complots ourdis par les résidents généraux représentant la France. Mais, au-delà de ces éléments pouvant permettre d’écrire des histoires parallèles, les époques ne sont plus
les mêmes. L’exil de Ranavalona III intervient après la conquête
de la Grande Île, dans le cadre d’un colonialisme triomphant.
Celui de Mohammed V se déroule au moment où la France
cherche à maintenir son influence au Maroc, dans les affres de
la décolonisation du Maghreb2. Ainsi, il est troublant que malgré
des contextes très différents, la méthode semble être toujours la
même…
Nous suivrons ces deux exils en parallèle. Il conviendra
tout d’abord de mettre en évidence la nécessité pour la France de
contraindre ces deux monarques à un exil lointain. Cet isolement
structure la vie de l’exilé, toujours en quête de contacts avec son
pays : Des contacts qui seront finalement assez intenses pour le
sultan du Maroc, illusoires pour la reine de Madagascar. Nous
terminerons sur les modalités du retour, triomphal pour Mohammed V, ou orchestré à des fins de propagande par le colonisateur,
pour les cendres de Ranavalona III.
2
La crise marocaine est très suivie par la presse coloniale à Madagascar (Tana
Journal ; France-Madagascar), entre août 1953 et novembre 1955. Le choc
de 1947 n’est pas loin, et les Français de Madagascar projettent leurs angoisses sur les événements du Maroc. Pour plus de détails, voir F. GARAN, Mohammed V à Madagascar, histoire d’un exil (titre provisoire), en attente de
publication chez Vendémiaire (collection Empires).
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Toujours plus loin… L’éloignement géographique, un élément essentiel
Les monarques auxquels nous nous attachons sont tous
deux victimes d’un véritable complot colonial3.
Couronnée en pleine guerre franco-malgache en 1883, le
règne de Ranavalona III s’inscrit intégralement dans le contexte
des tensions avec la France. Le pouvoir réel est, depuis 1865,
entre les mains du Premier ministre Rainilaiarivony qui épouse
la jeune reine. En décembre 1885, l’issue de cette guerre voit la
mise en place d’un « protectorat fantôme »4. Les tensions perpétuelles entre le Premier ministre et les résidents français sont à
l’origine d’une nouvelle expédition qui aboutit à la prise de Tananarive par les troupes du général Duchesne, le 30 septembre
1895. Un nouveau traité de Protectorat est imposé et Rainilaiarivony est envoyé en exil en Algérie. Malade, il meurt à Alger
quelques mois plus tard, en juillet 1896.
A Tananarive, le Résident Général Laroche tente de faire
fonctionner le nouveau protectorat, mais il est confronté à la révolte Menalamba5. Les militaires reprochent à Laroche son indulgence envers Ranavalona III en qui ils voient, à tort, l’âme de
la révolte. C’est dans ce contexte que Gallieni est nommé en
remplacement de Laroche. En violation du traité de protectorat,
3
Nous reprenons ici le titre de l’ouvrage de S. ELLIS, Un complot colonial à
Madagascar. L’affaire Rainandriamampandry, Ambozontany, Karthala-Ed,
1990. Ellis établit la volonté de Gallieni d’éliminer physiquement, pour
l’exemple, deux notables merina, ce qui permet d’écarter la reine et de proclamer Madagascar « colonie ».
4
H. DESCHAMPS, Histoire de Madagascar, Paris, Berger-Levrault, 1960, pp
182-189.
5
Voir S. ELLIS, L’insurrection des menalamba, une révolte à Madagascar
(1895-1896), Paris, Karthala, 1998.
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Gallieni impose la loi d’annexion du 6 août 1896, qui fait de Madagascar une colonie. La monarchie est dès lors en sursis. Craignant que l’insurrection ne cristallise en s’appuyant sur le nom
de la reine, et bien que celle-ci ne joue aucun rôle, Gallieni estime le départ de cette dernière nécessaire. Elle doit quitter nuitamment Tananarive le 28 février 1897. Le 14 mars, l’arrivée sur
l’île voisine est difficile, la reine devant faire face à l’hostilité de
la population qui la considère « comme responsable de tout le
sang versé, […] la guerre malgache [ayant] coûté la vie à nombre
de volontaires de La Réunion »6.
Le lendemain de l’arrivée à Saint-Denis, naissait la petite
princesse Marie-Louise, fille de la nièce de la reine. Cet événement n’est pas anecdotique (nous pouvons d’ailleurs le mettre en
parallèle avec la naissance de la petite lala Amina, fille de Mohammed V). Cette naissance est symboliquement l’occasion
d’opérer un rapprochement avec la France, le lieutenant Durand,
qui a escorté la reine depuis Tananarive, étant choisi comme parrain. Source de joie, cette naissance porte aussi un drame, la
mère de la petite Marie-Louise décédant des suites de l’accouchement. Dès lors, la reine apparait comme la mère de la jeune
princesse, qui est omniprésente sur les photographies. S’occuper
de cette enfant était certainement un moyen de supporter cet exil
difficile. C’est pour la propagande coloniale l’occasion de changer l’image de la reine. Plus qu’une reine en exil, elle devient
une mère, une femme. Il y a une sorte de normalisation de son
6
G. BABIN, L’enlèvement de Ranavalo, «L’Illustration», 3040 (1901). Cet
article, écrit à l’occasion de sa venue à Paris, présente la reine de manière
plutôt positive, tout en validant l’analyse de Gallieni quant à la situation à
Madagascar au moment du départ en exil. Si les Réunionnais ont effectivement participé aux opérations sur la Grande Île, ils sont loin d’en être
l’élément principal. Les pertes furent très lourdes au sein du corps expéditionnaire, mais surtout du fait des maladies plutôt que des combats.
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image par la vie domestique, qui permet de faire disparaitre pratiquement toute référence aux activités politiques passées. Tout
est en place pour faire que l’ancienne souveraine devienne aux
yeux des Français une reine d’opérette, ce qui sera le cas,
presque au sens propre du terme, avec l’épisode d’Arcachon.
Malgré tout, la reine trouve dans la petite maison qu’on lui
a attribuée à Saint-Denis une certaine sérénité. Ce n’est pas le
cas de Gallieni qui, depuis Madagascar, continue à voir en Ranavalona un danger potentiel. Il semble que pour être efficace
l’exil se doive d’être lointain, et par la même occasion, définitif.
Profitant de la crise de Fachoda, le gouverneur général reprend
l’offensive contre la reine. Le 1er novembre 1898, il contacte le
ministère des Colonies : « Je demanderai, en cas de guerre, que
Ranavalo soit immédiatement éloignée de La Réunion, car son
retour à Madagascar serait [le] signal [d’un] soulèvement général »7. Certes la reine est encore populaire à Madagascar, et la
politique qu’avait menée son Premier ministre pouvait être qualifiée de pro-anglaise mais, en cette fin d’année 1898, il n’y a
plus de danger. La ˮpacificationˮ a fait son œuvre et les révoltes
ont été écrasées quasiment partout. Surtout, ces révoltes que l’on
peut qualifier de nationalistes, sont sans le moindre lien avec
l’Angleterre et la politique de l’ancien Premier ministre. Enfin,
comment la reine pourrait-elle rentrer à Madagascar, sauf à imaginer une très improbable opération anglaise sur La Réunion
pour la délivrer. Aussi surprenant que cela puisse paraitre, c’est
ce chiffon rouge que Gallieni agite, laissant croire à son homo-
7
ANOM Série géographique Réunion, carton 414 d 4008 « Ranavalona à la
Réunion », télégramme de Gallieni du 1er novembre 1898 (Merci à Claude
Bavoux qui nous a transmis ce dossier).
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logue que c’est lui qui doit s’inquiéter de la présence de Ranavalona à La Réunion8. Il obtient ainsi satisfaction... Dès le 4 novembre, le ministère l’avait autorisé à préparer un éventuel départ et la décision tombe le 23 novembre 1898. Le ministre informe alors le gouverneur de La Réunion
Que le Général Gallieni ayant appelé son attention sur le danger que pourrait
présenter en cas de guerre la présence à la Réunion de la reine Ranavalo, j’ai
autorisé le gouverneur de Madagascar à faire envoyer celle-ci dans une de
nos autres possessions, dans le cas où son séjour à St-Denis occasionnerait
des inquiétudes pour la sérénité et la défense de la Grande Île.9
Ce sera l’Algérie… On imagine la détresse de la reine en
apprenant qu’elle part pour le pays qui a déjà vu mourir son mari,
le Premier ministre Rainilaiarivony. Elle quitte aussitôt La Réunion. Les instructions aux capitaines des navires sont formelles,
pour ne « laisser Ranavalo communiquer aux diverses escales ni
avec des Malgaches ni avec des personnalités de nationalité
étrangère »10. Elle arrive à Marseille le 24 février 1899, avant de
rejoindre Alger, où elle est installée « dans les conditions les plus
favorables et les plus économiques possibles »11.
C’est une reine très affaiblie moralement et politiquement
qui s’installe à Alger. Dans les mois qui suivent, Gallieni réalise
un coup de maître : il autorise le retour des cendres de Rainilaiarivony. Gallieni vient d’effectuer en métropole, de mai 1899 à
juillet 1900, une tournée durant laquelle il a bien défendu les intérêts de la colonie et obtenu un prêt pour la construction d’un
8
Ibidem, télégramme de Gallieni au Gouverneur de la Réunion, novembre
1898.
9
Ibidem, lettre du ministre au gouverneur de La Réunion, 23 novembre 1898.
10
ANOM, 6 (2) d 9, Instructions du ministère datées du 21 février 1899, cité
par S. RANDRIANJA, Société et luttes anticoloniales à Madagascar (1896 à
1946), Paris, Karthala, 2001, p. 101.
11
Ibidem.
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chemin de fer. Il revient avec dans ses malles les trois premières
automobiles qui circuleront à Madagascar. Dans un territoire
maintenant calme, il peut pleinement incarner, dans le cadre de
la mission civilisatrice, la modernité que la France apporte à Madagascar. De plus, dans les semaines qui suivent son retour, il
autorise que les restes mortels de Rainilairivony puissent rejoindre le tombeau familial12. Un rapatriement sans danger, l’ancien Premier ministre n’étant pas spécialement populaire, mais
qui permet au gouverneur général de s’installer dans la posture
du père bienveillant pour la population malgache, attentif aux
traditions, et sachant pardonner à ses anciens ennemis. Le discours qu’il prononce lors de la cérémonie en octobre 1900 est
très révélateur. Les choix politiques du Premier ministre sont vivement critiqués. La France n’a fait que défendre ses droits et,
en exilant le vieux chef, elle s’est montrée « généreuse et clémente », lui offrant « une résidence princière » en Algérie, et le
traitant « avec les plus grands égards »13. La suite est édifiante :
Et maintenant que la paix règne complètement dans l’île, le Gouvernement
de la République voulut que Rainilaiarivony dormit son dernier sommeil sur
la terre où il est né, dans le tombeau qu’il avait lui-même fait construire. Il a
pris à sa charge tous les frais de transport des restes du Premier Ministre, et
c’est le délégué de ce Gouvernement qui préside aujourd’hui à cette cérémonie, en présence des fonctionnaires civils et militaires de la Colonie et d’un
grand nombre de colons. Et vous pouvez témoigner, Malgaches, des honneurs
qui sont rendus à Rainilaiarivony, après sa mort.
Il n’est, du reste, pas un acte du Gouvernement de la République qui ne
prouve que, si la France sait faire respecter ses droits quand il est nécessaire,
elle sait également se montrer clémente après la victoire, et que, là où elle
12
Le convoi quitte Tamatave le 21 septembre 1900. Les cérémonies auront
lieu au tombeau d’Isotry dès l’arrivée à Tananarive prévue le 5 octobre. Journal officiel de Madagascar, 29 septembre 1900, p. 4823.
13
Discours du gouverneur général Gallieni, Journal officiel de Madagascar,
6 octobre 1900, pp. 4853 ss.
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plante son drapeau, elle cherche en même temps à implanter des idées de civilisation et de progrès.
Il y a un mois, vous assistiez à la mise en liberté des rebelles, auxquels leurs
crimes eussent mérité la peine de mort. Nous nous étions contentés de les
envoyer en exil à la Réunion, et nous venons de leur pardonner définitivement14.
Référence aux chefs menalamba exilés mais pas un mot
dans ce discours sur la reine qui vient d’être envoyée en Algérie.
Ranavalona sait maintenant en son for intérieur, qu’elle ne reverra jamais Madagascar de son vivant.
Un peu plus d’un demi-siècle plus tard, c’est également
d’un coup de force dont est victime le sultan du Maroc. Mohammed ben Youssef a pourtant été d’un loyalisme sans faille durant
la Seconde Guerre mondiale, ce qui lui vaut d’être élevé au rang
de Compagnon de la Libération par le général De Gaulle.
Les relations entre le Maghzen et la Résidence se dégradent après l’arrivée du général Juin qui considère que le sultan
doit rentrer dans le rang15. Son départ en 1951 ne change rien
puisqu’il impose le général Guillaume pour lui succéder, et continue à tirer les ficelles au Maroc. L’objectif est de discréditer
Mohammed V en s’appuyant sur Thami El Glaoui, Pacha de
Marrakech, qui est supposé incarner l’intérêt de la France. Cette
ligne politique que suit la Résidence conduit tout droit à la crise
du 20 août 1953.
14
Ibidem.
Le sultan est le symbole de l’opposition à la puissance coloniale depuis le
discours de Tanger, le 10 avril 1947.
Pour une première approche du règne de Mohammed V, voir P. VERMEREN,
Mohammed V, le père du Maroc indépendant, «L’Histoire» 307 (mars 2006),
pp. 68-74. Voir également D. RIVET, Le Maroc, de Lyautey à Mohammed V,
Paris, Denoël, 1999 ; ainsi que P. VERMEREN, L’Histoire du Maroc depuis
l’indépendance, Paris, La Découverte, 2010.
15
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Avec le soutien du Président du Conseil Joseph Laniel, et
surtout de son ministre des Affaires Étrangères, Georges Bidault,
le complot mené par Guillaume a pour objectif d’obtenir l’abdication de Mohammed V, en échange d’une retraite en France librement consentis, où il bénéficiera d’une haute considération.
Le prince Hassan est témoin du chantage qu’exerce le résident général sur son père, en violation complète des principes
du protectorat.
- Rien dans mes actes et mes paroles ne saurait justifier l’abandon d’une mission dont je suis le dépositaire légitime. Si le gouvernement français considère la défense de la liberté et du peuple comme un crime qui mérite châtiment, je tiens cette défense pour une vertu digne d’honneur et de gloire…
- Si vous n’abdiquez pas immédiatement de votre plein gré, j’ai mission de
vous éloigner du pays afin que l’ordre soit maintenu.
- Je suis le souverain légitime du Maroc. Jamais je ne trahirai la mission dont
mon peuple confiant et fidèle m’a chargé. La France est forte, qu’elle agisse
comme elle l’entend16.
Le sultan et ses deux fils sont alors conduits dans un avion
qui décolle pour une destination inconnue… Dès lors, c’est Ben
Arafa, une créature du Pacha de Marrakech, qui devient pour la
France le sultan légitime.
L’exil de Mohammed V commence, d’abord en Corse, à
la grande stupéfaction du préfet qui doit l’accueillir en cette fin
d’après-midi du 20 août 1953. Mohammed V pense que le passage en Corse sera de courte durée. Il espère une installation rapide en France métropolitaine, où ses réseaux pourront jouer
pour négocier avec le gouvernement français.
16
Témoignage d’Hassan II, cité par Ch. LAUVERNIER, Exil d’un roi à Madagascar, Mohammed V sultan du Maroc, mémoire de DEA, Université de La
Réunion, 1994, p. 77.
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Garan, Ranavalona III et Mohammed Ben Youssef
Le Comte Clauzel, ami du sultan et ancien conseiller chérifien17, est dépêché en Corse. Mohammed V lui fait part de ses
protestations à transmettre à Georges Bidault, sans résultat. Visiblement, le gouvernement veut l’installer dans un exil contraignant. C’est ce que constate le docteur Dubois-Roquebert, médecin personnel du sultan, qui le rejoint le 30 septembre.
A Zonza même, le fonctionnaire chargé de la surveillance de la Famille
Royale et qui avait échangé ses fonctions de contrôleur civil au Maroc pour
celles de geôlier, n’avait rien trouvé de mieux que d’éclairer, la nuit venue,
les fenêtres de l’hôtel par de puissants projecteurs. Ce « jeu de lumière »,
assez sinistre, n’avait d’autre résultat que de gêner le sommeil de ceux qui s’y
reposaient18.
Le sultan a cru que cette visite serait porteuse de bonne
nouvelle mais Dubois-Roquebert l’informe que l’optimisme
n’est pas de mise et qu’aucun transfert en France n’est envisageable. Pire, le gouvernement actionne deux leviers pour faire
pression sur celui qui est maintenant pour la France « l’ex-sultan ».
D’un côté, une campagne de presse dénonce le train de vie
de Mohammed V et surévalue grossièrement sa fortune. On espère que l’ancien sultan, afin d’obtenir un exil doré en métropole
et surtout, par crainte de se voir dépossédé de ses biens, acceptera d’abdiquer. D’autre part, le gouvernement français, prenant
prétexte des tensions avec l’Espagne qui exerce le protectorat sur
le nord du Maroc et qui conteste la déposition du Sultan, agite le
17
Le Comte Clauzel remplit les fonctions de Conseiller du Gouvernement
chérifien, c’est-à-dire d’intermédiaire entre la Résidence générale et le Palais,
d’août 1949 à octobre 1951. Jugé trop proche du Sultan, le général Juin demanda son rappel à Paris.
18
H. DUBOIS-ROQUEBERT, Mohammed V, Hassan II, tel que je les ai connus,
chapitre « L’exil à Zonza en Corse ». www.maroc-lodge.com/livre/Livre/index.htm#top (Consulté en juin 2011).
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spectre d’une évasion afin de justifier la perspective d’un éloignement plus radical.
En janvier 1954, Mohammed V veut voir le retour en
Corse du Comte Clauzel comme un espoir. Il n’en est rien.
Georges Bidault lui a confié la délicate tâche d’annoncer au sultan son départ pour un exil plus lointain,
En raison de l’agitation existant au Maroc et de la position prise en sa faveur
par le Gouvernement espagnol [...] Il a protesté contre la mesure qui le frappait et contre le caractère inhumain d’une décision en vertu de laquelle sa
famille était transportée d’un point à l’autre du globe comme un simple bétail.
Il était injuste d’aggraver son sort sous prétexte d’une déclaration du Général
Franco. L’enverrait-on au pôle sud, a t-il ajouté, la prochaine fois que la
France aurait à se plaindre de l’Espagne ?19
Il informe également le sultan du chantage financier que la
France exerce.
L’inscription à son passif des frais de séjour en Corse, soit 500 000 francs de
l’époque par jour, plus qu’il ne dépensait pour lui-même et sa famille lorsqu’il
régnait sur le Maroc, la perspective de se voir infliger dans l’autre hémisphère
des dépenses ruineuses, achevèrent d’accabler Sidi Mohammed. N’oublions
pas qu’il était supposé être un invité de marque de la France... Le Sultan, vêtu
d’une djellaba grise, prostré, mal rasé, paraissait sensiblement plus que les 44
ans de son âge. Depuis son arrivée en Corse, cet homme habitué à une vie
active et à la pratique des sports, refusait de prendre l’air, et, à juste titre, se
considérait comme un persécuté20.
Le 26 janvier 1954, Mohammed V quitte la Corse sans que
la destination finale ne soit définitivement arrêtée. Le journal
19
Témoignage du Comte Clauzel, sur le site officiel du gouvernement marocain, « Feu sa Majesté le Roi Mohammed V », www.mohammedV.ma (consulté en 2011).
20
Ibidem
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Garan, Ranavalona III et Mohammed Ben Youssef
France-Madagascar titre que « L’ex-sultan du Maroc est attendu à Madagascar », dans le cadre de ce qui ne semble être
qu’une étape pour un voyage plus lointain.
L’ancien sultan Sidi Mohammed Ben Youssef est arrivé hier matin à Brazzaville… L’avion militaire spécial DC4 … avait fait escale à Fort Lamy à minuit dans la nuit de Lundi à Mardi. Le souverain, accompagné d’une dizaine
de personnes dont ses fils et ses femmes, avait pris une collation au bar de
l’aérodrome dans une stricte intimité. L’avion spécial étant tombé en panne,
a été remplacé par un DC4 d’Air France qui a décollé à 3 heures locales et a
amené l’ex-sultan à Brazzaville. De Brazzaville, l’ex-sultan se rendra à Madagascar, ou il séjournera avant de gagner sa résidence définitive qui se situerait à Tahiti ou en Nouvelle Calédonie21.
Sur la même page, un autre article intitulé « les milliards
du Sultan » traduit bien l’importance des pressions financières.
L’auteur appelle les agents du fisc à « se mettre en chasse »
contre « un certain Mohammed Ben Youssef que la patience et
la générosité françaises ont trop longtemps toléré sur le trône du
sultan du Maroc ».
L’arrivée de Mohammed V met la colonie malgache en effervescence. Le 27 janvier, le Haut-commissaire Robert Bargues
informe ses collaborateurs que les intempéries rendent un atterrissage sur Tananarive incertain. Dans la perspective d’un repli
sur un aéroport de province, il transmet ses directives pour l’accueil de l’« ex sultan » afin de respecter les ordres de Paris. Aucun honneur ne doit lui être rendu. Il faut le placer « sous surveillance stricte police et garde éventuellement troupe sans communication avec l’extérieur »22. C’est bien un prisonnier qui est
confié aux autorités françaises de Madagascar.
21
Quotidien France-Madagascar, Mercredi 27 janvier 1954, Archives de la
République de Madagascar (ARM).
22
ANOM, Madagascar, PM 266, Télégramme du Haut-Commissaire à Tananarive, aux provinces de Tuléar, Diego-Suarez et Majunga.
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Garan, Ranavalona III et Mohammed Ben Youssef
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Bien que l’on soit dans des contextes très différents, on ne
peut qu’être troublé par la similitude des scenarii. D’abord un
véritable complot faisant fi des traités ; un départ précipité et
brutal destiné à briser l’exilé ; l’espoir d’un exil proche permettant de maintenir des contacts avec le pays ; la relégation vers
une terre lointaine et la contrainte financière.
L’exil se doit d’être géographiquement lointain pour imposer un isolement politique qui permettra à la France d’arriver
à ses fins. La France a certainement développé un ˮsyndrome de
l’île d’Elbeˮ qui la conduit à imaginer les exils les plus éloignés
possibles. Mais, si cette politique a un sens au début du XXe
siècle, en plaçant Ranavalona à trois semaines de mer de sa terre
natale, comment ne pas être surpris par l’anachronisme de la mesure, cinquante ans plus tard, alors que les « Constellations »
d’Air France ne mettent plus que 22h30 pour rejoindre Tananarive depuis Paris.
Isoler politiquement
En Algérie, la petite Marie Louise permet une vie de famille qui est sans doute fondamentale pour l’équilibre de la
reine23. Contrairement à l’impression que le Petit Journal peut
donner, Ranavalona vit un exil sans faste. N’a-t-on pas donné
ordre qu’il soit « le plus économique possible » ?
23
La sœur de Ranavalona, grand-mère de Marie Louise, décède en 1901. Elle
est enterrée à Alger, au cimetière Saint-Eugène
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Garan, Ranavalona III et Mohammed Ben Youssef
Figura 1, Ranavalona III et la princesse Marie Louise, 1901, Supplément illustré Petit Journal
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Garan, Ranavalona III et Mohammed Ben Youssef
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L’ensemble des biens de la souveraine a été confisqué par
la France et Ranavalona vit chichement, « d’une pension prélevée sur le budget du gouvernement de Madagascar »24.
Les distractions sont rares et la reine rêve de découvrir Paris. Elle devra attendre deux ans avant de franchir la Méditerranée et de débarquer à Marseille, le 29 mai 1901. Ce voyage lui
permet d’avoir quelques contacts avec des Malgaches, comme
Charles Ranaivo, étudiant en médecine, qui lui est affecté
comme traducteur. Mais ce dernier, proche de Gallieni, est autant interprète que chargé de la surveillance de la reine durant
son séjour25. Ce voyage est l’un des rares moments de l’exil où
la souveraine est traitée selon son rang. Arrivée à Paris en train
le 30 mai aux cris de « vive Ranavalona ! », elle est reçue un
mois plus tard à l’Élysée par le président de la République Émile
Loubet. Entre temps, elle a pu visiter Versailles, Fontainebleau,
Notre-Dame… et a été accueilli à l’Hôtel de ville de Paris. Partout, la petite Marie-Louise qui est à ses côtés remporte un franc
24
Voir RANDRIANJA, Société et luttes anticoloniales à Madagascar, p. 102.
Charles Ranaivo fut étudiant à la Medical Missionary Academy (avant la
conquête française) avant d’intégrer l’École de Médecine fondée en 1897. Il
est ensuite au service particulier de Gallieni, avant de le suivre en France en
mai 1899 et d’être admis à la faculté de médecine de Paris. Il est l’un des
premiers malgaches à obtenir la nationalité française. Charles Ranaivo est
aussi l’incarnation de ces échanges et voyages au sein de l’empire, dans un
contexte autre que l’exil. Dans un cadre idéologique très différent, c’est aussi
le cas le Jean Ralaimongo, figure du nationalisme malgache, qui vient en
France en 1910 pour préparer son brevet élémentaire afin d’être instituteur
(voir J.P. DOMINICHINI, Jean Ralaimongo ou Madagascar au seuil du nationalisme, «Revue Française d’Histoire d’Outre-Mer», 204 (1969), pp. 236287).
25
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succès. La reine est elle-même très populaire, et reçoit des présents du tout Paris (dons de la comédienne Cécile Sorel, du poète
François Coppée… et un saphir du bijoutier Nitzel)26.
Le lendemain de sa visite élyséenne, Ranavalona part pour
Arcachon. La reine devait pour sa santé effectuer un séjour dans
une station balnéaire. Pourquoi Arcachon ? On a dit que son
choix s’était porté sur la ville de la côte atlantique du fait d’un
petit spectacle joué en 1896, qui la mettait en scène. L’anecdote
est séduisante, mais il nous parait plus raisonnable de penser que
la connexion avec une représentation donnée par les élèves
d’une école s’est faite une fois sur place. Un spectacle inspiré
par le passage à Arcachon en décembre 1895 des soldats blessés
du corps expéditionnaire à Madagascar, un contexte pas particulièrement favorable à la reine27. Toujours est-il que Ranavalona
rencontre Mlle Roumagnac, la directrice d’école qui a imaginé
cette petite pièce chantée par les enfants de l’école maternelle.
L’épisode du spectacle enfantin est charmant, mais va contribuer
à installer auprès des Français l’image d’une reine d’opérette…
qui se confirme plus tard avec l’apparition de la photographie de
Ranavalona sur des boîtes de biscuits.
26
www.7lameslamer.net/les-flamboyants-de-l-exil-3eme.html (consulté en
mai 2017)
27
L’expédition de Madagascar en 1895 a été très médiatisée. Un régiment
métropolitain, le 200e d’infanterie, est spécialement créé pour l’occasion, afin
d’associer symboliquement la nation à cette conquête. Les pertes seront très
importantes, essentiellement du fait des maladies et de l’impréparation de ce
régiment à l’action outremer.
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Figura 2, Boite Biscuit LU, collection privée
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La reine a ému lors de son passage. Le 3 juillet, le conseil
général de la Seine demande dans une requête « que la Reine ait
liberté de séjourner où elle voudra sur le territoire de la République »28, ce qui inclut par là-même Madagascar. Après consultation de ses conseillers, Gallieni, toujours en poste sur la Grande
Île, s’y oppose. Cela ne l’empêchera pas, après avoir quitté ses
fonctions de gouverneur général, de se donner le beau rôle dans
ses relations avec la souveraine malgache. A l’occasion d’une
inspection en Algérie, en 1910, il lui rend visite et note dans son
journal qu’elle est « très émue, puis heureuse de me voir »29.
Le séjour métropolitain, entre Paris et Arcachon, a été une
parenthèse agréable. Il faut maintenant replonger dans la vie de
l’exilée à Alger la Blanche, si différente de Tananarive la Rouge,
pour reprendre une opposition que l’on trouve fréquemment
dans la presse de l’époque. En cette fin de mois de juillet 1901,
Arcachon fait ses au revoir :
A peine est-elle dans le wagon, qu’il lui est apporté une corbeille de fleurs
naturelles données par le Grand-Hôtel, et aussi des gerbes et bouquets offerts
par les dames. Le train s’ébranle, la foule se découvre, on crie : Vive la reine !
Celle-ci répond : Au revoir !
Ranavalo se rend à Marseille où elle passera deux jours. Jusque-là seulement
elle est accompagnée par MM. Le lieutenant Bruyères et le docteur Ranaivo,
interprète, qui la quitteront à Marseille pour retourner à Paris, leur mission
ayant pris fin. Ranavalo s’embarquera le 28 pour Alger, où elle retourne habiter sa villa : le bois de Boulogne, située à Mustapha ; dans la même province, où nous détenons un autre prisonnier illustre, Ham-Nhi, le roi de l’Annam30.
28
Cité par RANDRIANJA, Société et luttes anticoloniales à Madagascar, p.
101.
29
M. MICHEL, Gallieni, Paris, Fayard 1989, p. 249.
30
L’avenir d’Arcachon, 2538 (28 juillet 1901), https://mcmparis.wordpress.com/2015/06/16ranavalona-iii-exil-a-alger-video-mankamiadana/ (consulté le 14 mai 2017).
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Elle n’est en effet pas la seule exilée de l’empire à Alger.
Ham-Nghi31 était déjà là depuis 1888. Ils sont rejoints par Béhanzin32, en avril 1906.
Figura 3, Carte postale, 1906, collection privée
On ne peut cependant pas parler d’une communauté d’exilés. Chacun vit de son côté, dans son domaine, avec des moyens
assez limités. Lorsque la situation de l’un d’eux s’améliore, les
réactions sont immédiates, comme le souligne cet échange entre
Paul Beau, gouverneur général de l’Indochine, Etienne Clémentel, ministre des Colonies, et Francis Laloë, président de la
31
Voir la thèse d’A. DABAT, Ham Nghi (1871-1944) Empereur en exil, artiste
à Alger, sous la direction d’E. PARLIER-RENAULT, Université Paris-Sorbonne,
décembre 2015.
32
Roi du Dahomey, Béhanzin est déporté en Martinique en mars 1894. En
avril 1906, il vient pour la première fois en France. Il est ensuite envoyé à
Alger, où il meurt en décembre 1906.
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Garan, Ranavalona III et Mohammed Ben Youssef
Chambre à la cour d’Alger, dont la fille a épousé Ham-Nghi
quelques mois plus tôt :
Mr Beau – Le Prince ne peut pas se plaindre avec la dotation que je lui ai
fixée.
Pdt Laloë – Il vous en est reconnaissant.
Mr Beau – Cela a été de notre part une grande faute politique.
Mr Clémentel – Oui, car depuis je suis assailli des réclamations de Ranavalo
et de Béhanzin, ce dernier dans la misère noire. On ne s’explique pas le motif
de la différence […]33.
Le regroupement des exilés facilite le travail pour la
France qui peut ainsi mieux les surveiller. C’est aussi un moyen
d’exercer une pression supplémentaire, leur présence réciproque
rappelant à chacun la toute puissance de la France. Les événements tragiques, comme la mort de Béhanzin le 10 décembre
1906 et son enterrement sur place au cimetière Saint-Eugène, ne
peuvent que confirmer le caractère irréversible de l’exil34.
L’exil algérois de Ranavalona sera entrecoupé par sept
nouveaux déplacements en métropole, de 1903 à 191535. Le dernier voyage, en juillet 1915, la conduit à Fréjus. Il redonne un
33
Retranscription d’une conversation entre P. Beau, E. Clémentel et F. Laloë.
LR 21.9, Fonds Ham Nghi. Cité par A. DABAT, Exil d’empires : du trône de
Huế aux collines d’Alger. Hàm Nghi (1871-1944), Master 2, sous la direction
d’E. POISSON, Paris VII Diderot, 2014, p. 99.
34
Voir le compte-rendu dans «L’Illustration», 3330 (22 décembre 1906), p.
428.
35
La pension dont bénéficie la reine est prise sur le budget du gouvernement
de Madagascar. « Plusieurs fois, le gouvernement général d’Algérie tenta
d’intercéder en faveur de la reine, pour que sa situation financière soit améliorée et pour qu’elle puisse avoir quelques loisirs. Il n’obtint gain de cause
qu’à partir de 1911 car la pension annuelle de Ranavalona fut sensiblement
augmentée et elle fut autorisée à se rendre à Paris une fois l’an » (RANDRIANJA, Société et luttes anticoloniales à Madagascar, p. 102).
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rôle politique à une reine bien oubliée. Elle visite les soldats malgaches fraichement débarqués36. Un soutien hautement symbolique de la colonie à la Mère Patrie en ces temps de guerre.
Figura 4, Ranavalona visite les troupes malgaches à Fréjus, 1915, collection privée
Pouvait-elle en espérer une clémence de la France lui permettant de revoir Madagascar ? Nous ne le saurons jamais. La
dernière reine de Madagascar meurt soudainement le 23 mai
1917, à 55 ans. Elle est enterrée aux côtés de sa sœur, au cimentière Saint Eugène d’Alger.
36
Déracinés comme elle, ces soldats ont pour certains été contraints. D’autres
sont de vrais volontaires, comme Jean Ralaimongo, qui s’engage en 1916 par
patriotisme (voir J.P. DOMENICHINI, op. cit.). Il en tirera l’espoir déçu d’une
France ouvrant généreusement le droit à la citoyenneté.
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En cet été austral 1954, Mohammed V a t-il le souvenir de
cette reine qui a fait un voyage en sens inverse ? Non, sans doute.
Son esprit est certainement plus tourné vers Abdelkrim, le combattant du Rif, exilé à La Réunion de 1926 à 194737.
Le sultan résidera à Antsirabe. La salubrité du climat de la
station thermale doit assurer le bien-être du ˮvisiteurˮ. Mohammed V aurait certainement préféré Tananarive. Mais, la ˮVichy
malgacheˮ permet d’isoler un peu plus l’exilé, de rendre sa surveillance plus facile et plus discrète aux yeux du monde38.
Dans l’improvisation, le Colonel Touya, Commandant des
forces de gendarmerie, est chargé de l’accueil du sultan. Cet
homme sera une chance pour Mohammed V, et surtout pour la
France, en évitant que le scénario corse ne se reproduise, comme
le souligne Jean Lacouture :
Les arrivants, en dépit de leur fatigue, de leurs préventions, de leur tristesse,
purent constater que l’officier auquel était confié leur sort était un honnête
homme, à l’intelligence ouverte et au cœur loyal. Ici encore, le pire était évité.
L’exilé retrouvait l’esprit d’une France amicale39.
Les autorités françaises espèrent que Mohammed V achètera une propriété dans la campagne antsirabéenne mais, « L’exsouverain ne voulait engager aucune activité, telle que par
exemple la création et la gestion d’un domaine, qui fût de nature
37
Voir Th. MALBERT, L'exil d'Abdelkrim El-Khattabi à La Réunion : 19261947, Saint Denis, Orphie, 2016.
38
Les condamnations internationales à l’encontre de la politique de la France
sont multiples. Voir par exemple les organisations syndicales américaines :
D. STENNER, « le coup de pouce de l’Oncle Sam », Zamane mai 2013.
39
J. LACOUTURE, Cinq hommes et la France, Paris, Le Seuil, 1961, p. 234.
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à laisser supposer à ses sujets qu’il se résignait à se fixer définitivement dans la Grande Île. »40
La question financière est le premier problème que Mohammed V doit régler car la France continue à utiliser cette arme
qui a déjà fait preuve de son efficacité en Corse. Ainsi,
Des articles de presse réclamaient la confiscation totale ou partielle de ses
biens. Un dahir du 10 octobre 1953 les avait placés sous un régime d’administration particulier. Un administrateur avait été désigné […]. Pour l’éclairer
sur sa situation financière, Sidi Mohammed […] avait d’ailleurs demandé,
dans un message adressé à M. Vincent Auriol le 10 novembre 1953, qu’il lui
soit possible de se défendre en justice contre les accusations dont il avait été
l’objet de la part du Comité France-Afrique du Nord.
L’ex-Sultan voulait pouvoir se défendre sur tous ces points et souhaitait confier la défense de ses intérêts à deux avocats du Barreau de Paris Me Paul
Weill et Me Georges Izard41.
Ces deux hommes jouent dans les mois qui suivent un rôle
capital, évitant l’isolement du sultan grâce à leurs réseaux. Me
Weill est un ami de Georges Bidault et de Pierre Mendès-France,
des amitiés essentielles pour défendre les intérêts du souverain.
Me Izard est pour sa part vice-président de l’association FranceMaghreb, ce qui fait de lui un très bon connaisseur des affaires
tunisiennes et marocaines42.
Les deux avocats obtiennent rapidement que le Docteur
Dubois-Roquebert gère les liquidités du sultan, mais les biens se
trouvant au Maroc restent sous contrôle d’un administrateur-séquestre, autant dire entre les mains du gouvernement français.
C’est en partie pour sauver ses biens au Maroc qu’il s’engage à
40
H. DUBOIS-ROQUEBERT, Mohammed V, Hassan II, tel que je les ai connus,
chapitre « La défense des intérêts privés de Sa Majesté Mohammed V et la
gestion des Liquidités Royales durant l’exil ».
41
Ibidem.
42
Voir G. IZARD, Le secret d’Antsirabe, dans «Études Méditerranéennes», 4
(1958), pp. 61-75.
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Garan, Ranavalona III et Mohammed Ben Youssef
s’abstenir de toute activité politique. Il obtient également que
toutes dépenses à l’hôtel des Thermes lui soient soumises avant
règlement. Les dépenses pour la vie quotidienne sont évaluées
de 80 000 francs par le Colonel Touya, bien loin des 500 000
francs par jour qui ont été facturés en Corse.
Figura 5, Hôtel des thermes, photographie de Frédéric Garan
La ˮnominationˮ de son geôlier est un autre sujet d’inquiétude. Sidi Mohammed redoute l’affectation d’un officier des affaires musulmanes comme ce fut le cas à Zonza. Cela le maintiendrait sous le contrôle direct de la Résidence à Rabat. C’est
effectivement le scénario que la France a prévu. Mohammed V
s’en remet alors au colonel Touya. Ce dernier sera être persuasif
auprès de son autorité de tutelle. L’argument est renforcé par le
fait que Mohammed V a sollicité, le 5 février 1954, de rester à
Madagascar.
Le gouvernement Laniel pense avoir gagné son pari, avec
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un ex-sultan qui « s’installe » et se coupe des affaires marocaines. Il ne sera donc plus question d’envoyer un officier des
affaires musulmanes, la mission étant confiée au colonel Touya.
Mohammed V a évité le pire. Oublié également une installation
à Tahiti ou en Nouvelle Calédonie. Il est officiellement placé
sous le contrôle de Tananarive et non de Rabat. La France n’en
a pas conscience (pas plus que Mohammed V sans doute, à ce
moment) mais, dans la partie d’échec qui s’engage, la position
de l’exilé vient de se renforcer considérablement.
Durant ces premiers mois à Madagascar, le fils ainé du sultan, le futur Hassan II, décrit son père comme très affecté par la
situation, voir presque dépressif. Il faut être prudent avec un tel
témoignage, à la fois épopée familiale et hagiographie de Mohammed V. Il ne s’agit aucunement de minimiser le poids de
l’exil : il fut difficile en Corse, beaucoup plus correct à Madagascar, comme l’atteste la vie quotidienne que peuvent mener
les enfants du sultan. Mais, ne sous-estimons pas la force de caractère de Mohammed V qu’il a à maintes reprises montré depuis
1940. De plus, il est parfaitement conscient que le coup d’état du
20 août est rejeté par l’immense majorité des Marocains, et qu’il
s’est retourné « contre le protectorat, désormais honni, en faveur
du sultan de l'indépendance »43.
Cependant, Mohammed V sait qu’il doit être vigilant
quant à l’image qu’il envoie, le gouvernement Laniel n’ayant
pour seul objectif que de le décrédibiliser. Face à lui, Ben Arafa,
43
VERMEREN, L’Histoire du Maroc depuis l’indépendance, p. 17. « Une violence urbaine se répand durant deux ans pendant lesquels sont commis près
de 6 000 attentats par une base en déshérence, qui suscite un « contre-terrorisme » européen (on relève 761 morts marocains et 159 européens dans les
villes). En août 1955, alors que l'Algérie est entrée en guerre, une nouvelle
forme de résistance se fait jour avec l'émergence d'une Armée de libération
marocaine (ALM) qui passe à l'action dans le Rif et le Moyen-Atlas. ».
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Garan, Ranavalona III et Mohammed Ben Youssef
le sultan installé par la France, est rejeté par la population marocaine. Victime d’une tentative d’assassinat, il vit reclus dans son
palais. La presse ne tarde pas à s’en faire l’écho et Mohammed V
le sait. Pour remporter cette guerre de l’image, il se doit donc
d’être en toutes circonstances un monarque en exil, et non un
prince en villégiature. Prisonnier, il se sait observé, épié, et a
conscience que toute photographie d’un sultan paraissant trop
insouciant serait utilisée par la France, et pourrait avoir un effet
désastreux dans un Maroc où tensions, attentats et répressions se
développent.
L’image qu’il donnera, et que transmettront tous les visiteurs d’Antsirabe, sera donc celle d’un souverain austère, se consacrant à sa famille, à la religion et aux problèmes politiques de
son pays, pour le bien de son peuple. A cet effet, il renonce à la
pratique du tennis à Antsirabe.
L’accouchement imminent de l’une de ses épouses requiert la présence d’un médecin. Mohammed V demande que ce
soit le Docteur Dubois-Roquebert, ce que les autorités françaises
acceptent. Il débarque à Antsirabe le 4 avril 1954.
L’heureux événement dont la date ne pouvait être prévue avec précision eut
lieu le 14 avril, à 13h30. Lalla Bahia, épouse de S.M. Sidi Mohammed Ben
Youssef, donnait le jour à un beau bébé de sexe féminin que Sa Majesté prénomma Lalla Amina44.
44
DUBOIS-ROQUEBERT, Mohammed V, Hassan II, tel que je les ai connus,
chapitre « Mon premier séjour auprès de S. M. Sidi Mohammed ».
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Figura 6, Mohammed V et Lala Amina, couverture du livre Mohammed Ben Youssef, tel que je
l’ai vu, Max Jalade, 1956
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Garan, Ranavalona III et Mohammed Ben Youssef
La petite princesse est « la joie de l’exil », pour reprendre
la formule que le journaliste Max Jalade, qui suit de près Mohammed V à Antsirabe, met dans la bouche du sultan lorsqu’il
parle sa fille. La dimension ˮpère de familleˮ devient capitale,
voir même scénarisée :
L’enfant joue … puis revient en larmes. Dès lors il n’y a plus de sultan, de
Commandeur des Croyants, Sidi Mohammed n’est plus qu’un homme en babouches, un père affolé, inquiet, qui examine son enfant sur toutes les coutures… Sidi Mohammed respire enfin. [On] vient de découvrir la cause des
tourments d’Amina. Elle vient de percer une dent.
[L’interview peut reprendre] Puis-je demander à Votre Majesté ce qu’Elle
pense de la position que vient de prendre le pacha de Marrakech ?45
Finalement, ces éléments donnent l’impression, d’une
communication bien construite. L’exil se doit d’affirmer son caractère mythique. Il en est de même pour la dimension religieuse.
Mohammed V, Commandeur des Croyants, trouve dans la
religion un réconfort à l’exil, et tisse des liens avec la communauté musulmane d’Antsirabe, « Sa piété et sa tendresse semblent avoir conquis les Musulmans de la communauté comorienne. Il se rend à la mosquée chaque vendredi, lit le Coran en
arabe, mais le commente en français »46.
45
M. JALADE, Mohammed Ben Youssef tel que je l’ai vu, Paris, Rabat, 1956,
pp. 116-117.
46
Ivi, p. 41.
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Figura 7, Lecture à la mosquée, in Max Jalade, Mohammed Ben Youssef tel que je l’ai vu, Paris
1956.
Cette relation entre frères d’une même religion est source
de suspicions pour les autorités françaises qui sont hantées par
le spectre d’un complot des musulmans de la Grande Ile pour
libérer Mohammed V47. Mais, au-delà de la paranoïa du colonisateur, il est pour les musulmans d’Antsirabe le commandeur des
croyants, comme en témoigne l’attitude de ce commerçant syrien qui « se mettait à genoux devant le roi, et lui embrassait les
mains pour le saluer »48.
La monotonie de la vie à Antsirabe est interrompue par de
courts déplacements à Tananarive, pour consulter son oculiste
ou se rendre chez son tailleur. Le sultan aime se promener au
47
Voir GARAN, Mohammed V à Madagascar.
Témoignage de M. Francis Core, recueilli par LAUVERNIER, Exil d’un roi
à Madagascar, p. 99.
48
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Garan, Ranavalona III et Mohammed Ben Youssef
Zoma, ce qui laisse supposer une surveillance relativement
souple.
Enfin, même s’ils se plaignent d’une vie qui ne leur apporte plus le luxe auquel ils étaient habitués au Maroc, les
Princes et Princesses sont loin de mener une existence recluse.
En général, leurs déplacements ne passent pas inaperçus dans les
rues d’Antsirabe, particulièrement ceux des princes Moulay
Hassan, Moulay Abdallah, et de leur cousin Moulay Ali. Les
princes ont beaucoup d’amis, ce que ne manque pas de rappeler
le Malagasy Vaovao, signalant d’ailleurs avec une certaine ironie que la presse métropolitaine souligne que leur départ procurera un certain soulagement pour la population. N’adhérant pas
sans preuve à cette affirmation, le journal nationaliste s’engage
à vérifier cette information sur place49.
Les princesses se rendent fréquemment au lac Andraikiba.
« Elles ne dédaignent pas d’y taquiner la carpe et le blackbass »50. Le club nautique est l’un de ces endroits où la colonie
a recréé un coin d’Europe. Plus encore qu’à l’hôtel des Thermes,
on peut se croire dans le Massif Central. Les princesses s’y baignent, quand les photographes ne sont pas trop importuns. Ceuxci sont à leur tour traqués par la sécurité, qui redoute tout contact
avec la presse.
49
Malagasy Vaovao, 6 septembre 1955, article « Tonga any Antsirabe ireo
nasionalista marokana. Frantsa sa Rabat no handray an’i ben Youssef » (Les
nationalistes marocains sont arrivés à Antsirabe. Qui de la France ou de Rabat va recevoir ben Youssef ? Traduction Lanto R.).
50
M. JALADE, Mohammed Ben Youssef tel que je l’ai vu, p. 39.
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Figura 8, Club nautique aujourd’hui, photographie de Frédéric Garan
Pour la France, le seul ˮdangerˮ véritable serait un contact
avec les nationalistes malgaches51. Comme le laisse supposer
l’article du Lalam-Baovao (voir introduction), les milieux nationalistes de la Grande île ont souhaité entrer en relation. Cependant, il est quasiment certain qu’aucune rencontre n’a eu lieu,
malgré la présence à Antsirabe du docteur Émile Rasakaiza, figure majeure du nationalisme malgache52. La personnalité de
Mohammed V, son sens de l’honneur et tout simplement son intérêt vont dans ce sens. Il s’est engagé à n’avoir aucune action
51
N’oublions pas que Madagascar sort péniblement de l’insurrection de 1947.
Les parlementaires du MDRM (Mouvement Démocratique de Rénovation
Malgache) ont été condamnés en octobre 1948, dans des conditions juridiquement inadmissibles. Les campagnes pour leur libération se succèdent au
début des années 1950.
52
Le docteur Émile Rasakaiza est alors en poste à l’hôpital de Antsirabe.
L’historien N. Ralison a inventorié ses papiers. Il n’a trouvé aucune référence
à Mohammed V (conversation avec l’auteur).
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Garan, Ranavalona III et Mohammed Ben Youssef
politique. Contacter les nationalistes malgaches ne serait pour le
sultan qu’une prise de risque inutile, et même dommageable. En
effet, dès son arrivée à Antsirabe, Mohammed V prend ses habitudes à la terrasse de l’hôtel Truchet où il lit les journaux métropolitains (ainsi que la presse malgache qui se passionne pour la
crise marocaine) qui lui permettent de suivre les événements. Il
dispose également à l’hôtel des Thermes d’une radio qu’il écoute
quotidiennement. Il sait qu’il a le soutien de son peuple, ainsi
que d’une partie de la communauté internationale. Entrer en contact avec les nationalistes malgaches, qui ne pourraient lui apporter qu’un soutien symbolique, ce serait prendre le risque d’un
éloignement plus radical. Affecté par le transfert de la Corse à
Madagascar, Mohammed V a tout de suite fait part de sa volonté
de rester sur la Grande Ile, pour limiter les dégâts… Il n’a aucun
intérêt à compromettre ce statu quo.
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Figura 9, Mohammed V à l’hôtel des thermes, in Max Jalade, op. cit
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Garan, Ranavalona III et Mohammed Ben Youssef
L’exil a plongé Ranavalona dans l’isolement par rapport à
la vie politique malgache. La situation est très différente pour
Mohammed V. Si le processus conduisant à l’exil a été très comparable, cela ne fait que montrer qu’en un demi-siècle, la politique coloniale de la France n’a pas évolué contrairement aux
moyens de transport et d’information. Mohammed V peut facilement savoir ce qu’il se passe au Maroc, et ses proches peuvent
aisément et rapidement faire le voyage. Alors que Ranavalona
est morte en exil, la possibilité d’un retour favorable pour le sultan est de plus en plus probable. C’est ce que nous allons voir,
tout en découvrant que la question du retour se posera également, en d’autres termes pour Ranavalona.
Les conditions du retour
Dès le début de la crise marocaine, la France est en échec
puisque le général Guillaume n’a pas obtenu l’abdication de Mohammed V. Si les premiers mois d’exil en Corse sont des mois
d’isolement dans des conditions pénibles par contre, dès l’arrivée à Antsirabe, la situation évolue favorablement. Ben Arafa
est rejeté par les Marocains et l’aura de Sidi Mohammed ne fait
que grandir. Il est évident qu’aucune solution ne sera possible
sans « l’ex-sultan ». Antsirabe devient de fait la capitale du Maroc !
En Mars 1954, le gouvernement envoie à Antsirabe M. Lemarle avec rang de ministre plénipotentiaire pour obtenir l’abdication de Mohammed V contre une installation en France avec
tous les honneurs. Dans ce but, le gouvernement opère un véritable chantage sur les biens du sultan, comme nous l’avons déjà
évoqué. Lemarle comprend très vite qu’il n’obtiendra rien. Il en
résulte un compromis, nouvel échec pour le gouvernement Laniel. La question du statut de « l’ex-sultan » n’est pas réglée et
ce que l’on appelle maintenant la « question du trône » devient
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le cœur de la crise marocaine, les nationalistes de l’Istiqlal
comme du PDI en faisant un préalable à toute discussion53. Mohammed V est devenu incontournable, à l’inverse de ce que souhaitaient Juin, Guillaume et Bidault. Le blocage est patent lors du
remplacement du général Guillaume par Francis Lacoste, lui aussi
poussé par le clan Juin. Sans instruction officielle54, sa tâche se
limite à ne « rien faire qui puisse engager l’avenir » sous le gouvernement Mendès-France55.
De son côté, Mohammed V s’est simplement engagé à ne
pas avoir « d’activité politique ». Dans la pratique, s’il n’a effectivement plus aucune fonction officielle, il dirige la vie politique
marocaine « en coulisse avec une facilité étonnante »56. Le Docteur Dubois-Roquebert et Maître Izard peuvent venir le voir assez librement, assurant ainsi le lien avec les milieux parisiens, ce
que certains dénoncent : « … comment ne pas voir qu’il existe à
Paris un groupe d’hommes et un groupe de journaux qui se sont
donnés pour tâche … la défense de la personne et des intérêts de
Mohammed Ben Youssef… »57.
Les réseaux d’Izard, Weil et Dubois-Roquebert sont importants. Nous avons évoqué les liens de Me Weil avec Bidault
53
Voir par exemple la conférence de presse du PDI (Parti Démocratique de
l’Indépendance), ANOM, disponible en ligne : (consulté en décembre 2017)
http://www.cvce.eu/obj/conference_de_presse_du_parti_democratique_de_l_independance_sur_la_solution_du_probleme_franco_marocain_paris_19_octobre_1954-fr-d2eda977-010f-4f9f-a6f402069dafb341.htm
54
Lacoste est nommé quelques jours avant que le gouvernement Laniel, dont
Bidault est ministre des Affaires étrangères, ne soit renversé, puis remplacé
par le gouvernement Pierre Mendès-France.
55
J. VALETTE, La France et l’Afrique, Tome 2 L’Afrique française du Nord
1914-1962, Paris, SEDES 1993, p. 194.
56
Ibid. p. 184.
57
Cité par J. VALETTE, La France et l’Afrique, p. 186, d’après V. AURIOL,
Journal du Septennat, VII, p. 732, note 57.
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Garan, Ranavalona III et Mohammed Ben Youssef
et Mendès-France. Me Izard est en relation avec François Mauriac par le comité France-Maghreb. Dubois-Roquebert qui fréquente lui aussi les salons parisiens, est l’ami de Lemaigre-Dubreuil, directeur de presse au Maroc. Ils gravitent autour de
Pierre Clostermann, député et entrepreneur au Maroc, qui signale dès août 1954 « que la chambre de commerce de Casablanca et le patronat français en sont venus à changer d’opinion
sur la validité de l’opération du 20 août 1953 »58. En d’autres
mots, il considère que la situation créée par la déposition de Mohammed V est néfaste aux affaires. Cela les amène à entrer en
contact l’Istiqlal (ce qui sera la cause de l’assassinat de Lemaigre-Dubreuil le 11 juin 1955) et à souhaiter un retour rapide
de Mohammed V.
En plus de ses avocats que le sultan rencontre pour la première fois fin avril 1954, Mohammed V reçoit la visite prestigieuse du professeur Louis Massignon, le grand islamologue. De
son côté, le général De Gaulle lui fait part de son soutien : « …
je ne saurais oublier l’amitié et le loyalisme témoignés à la
France à l’heure de l’épreuve par Sa Majesté Sidi Mohammed
Ben Youssef ». Si Bekkaï59 est chargé de transmettre la réponse
58
Cité par J. VALETTE, La France et l’Afrique, p. 192, d’après P. JULY, Une
république pour un Roi. Histoire de l’indépendence marocaine, Paris, Fayard, 1974, p. 81.
59
Ancien pacha de Séfrou, Si Bekkaï, « Colonel de l’Armée française, a laissé
une jambe devant Sedan en 1940. Depuis la guerre, l’attachement à son Souverain l’a emporté chez lui sur toute autre considération et il a mieux aimé, en
1953, renoncer à son pachalik et se condamner à l’exil en même temps que
Mohammed V que de couvrir sa déposition » (G. GRANDVAL, Ma mission au
Maroc, Paris, Plon, 1956, p. 21). « Son rôle est déterminant. C’est un personnage complexe. Il est bien connu de tous ses anciens camarades [de l’armée],
qui ont servi au Maroc. Par eux […], il touche le secrétaire d’État chargé de
l’Afrique du Nord, July ... Tous l’écoutent, notent ses propos et les rapportent
aux membres du gouvernement… » (VALETTE, La France et l’Afrique, p. 187).
Soutenu par Me Izard, c’est lui que Gilbert Grandval rencontre pour préparer
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du sultan :
Notre majesté a été on ne peut plus sensible au sentiment exprimé par le général
De Gaulle qui a su dans ce moment pénible et douloureux lui manifester sa
sympathie et sa solidarité. Qu’il soit assuré de notre gratitude, nous n’attendions
pas moins de son cœur généreux et de notre fraternité d’armes60.
De Gaulle réaffirme sa position auprès de Gilbert Grandval qui vient le consulter à la veille de sa prise de fonction au
Maroc en juin 1955. Le Général estime que quelle que soit l’approche de la crise marocaine, « il n’y a d’autre issue que la réinstallation de Sidi Mohammed Ben Youssef sur le trône chérifien »61.
La chute de Laniel et l’arrivée de Mendès-France à la tête
du gouvernement français en juin 1954 pourraient ouvrir des
perspectives nouvelles mais le dossier marocain n’est pas prioritaire pour le chef du gouvernement par rapport aux problèmes
indochinois et tunisien. Plusieurs mois passent donc sans avancée notable. De plus, le nouveau président du Conseil est assez
ignorant du dossier, ce qui explique sans doute la curieuse initiative qui va suivre.
A la mi-octobre 1954, le gouvernement sollicite le docteur
Dubois-Roquebert à l’occasion d’un de ses voyages à Antsirabe.
La solution envisagée par le gouvernement Mendès-France est
pour le moins surprenante : placer un nouveau sultan (un troisième !) sur le trône, mais cette fois avec l’aval de Mohammed V ! Moins surprenante fut la réponse de l’exilé qui « refusât
sa prise de fonction, puis pour préparer les négociations avec l’Istiqlal et le PDI,
lui-même n’étant membre d’aucun parti. (Voir GRANDVAL, Ma mission au Maroc, pp. 21, 89, 98 et 100).
60
Cité par LAUVERNIER, Exil d’un roi à Madagascar, p. 115.
61
GRANDVAL, Ma mission au Maroc, p. 8.
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Garan, Ranavalona III et Mohammed Ben Youssef
catégoriquement le fait de cautionner un nouveau Sultan ». Sentant cependant qu’il y avait une carte à jouer, il indiquât au Docteur Dubois-Roquebert qu’
Il était disposé à accorder son concours le plus large au Gouvernement
Français afin d’étudier avec lui toute solution susceptible d’éclaircir la
situation. Toutefois, avant d’entreprendre une telle étude, le Souverain posait
comme condition essentielle son retour en France et cela, moins pour des
raisons de convenance personnelle que pour des raisons politiques.62
Curieuse mission confiée à cet intime du sultan, et perdue
d’avance. Imaginer la nomination d’un troisième sultan est la
preuve de l’échec de la politique française construite autour de
Ben Arafa. Ainsi, même si la situation semble inchangée, une
fois de plus, c’est l’exilé d’Antsirabe qui sort renforcé.
Dans la foulée, le gouvernement a cette fois recourt à Me
Izard pour négocier, mais Pierre Mendès-France lui fait comprendre qu’il est obligé de suivre le maréchal Juin, celui-ci
l’ayant soutenu dans les affaires tunisiennes. La marge de manœuvre est donc plus que réduite63.
Il en sort le Plan Izard (ou Plan du 26 décembre) accepté
par le sultan64 car, sur le fond, c’est son retour qui est programmé. Hélas, lorsque l’avocat rencontre le 30 décembre le
62
DUBOIS-ROQUEBERT, Mohammed V, Hassan II, tel que je les ai connus,
chapitre « Ma mission officielle pour le Gouvernement Français auprès de Sa
Majesté Mohammed V à Madagascar ».
63
Pour le plan Izard, voir G. IZARD, Le secret d’Antsirabe.
64
« … à la lumière des entretiens que Nous avons eus avec vous, cher maître,
une possibilité de solution est apparue et nous nous sommes mis d’accord sur
un plan constructif dont l’avantage réside dans le fait qu’il rassemblera autour
de lui une certaine convergence d’opinions, ce qui n’était pas le cas pour les
plans élaborés auparavant.
Ce plan comprend : une phase de négociations officieuses et secrètes à Madagascar et une phase ultérieure de négociations ouvertes, libres et finalement
publiées en France. L’articulation de ce plan est la suivante :
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Président du Conseil, la situation politique française a changé et
Mendès-France sait déjà son gouvernement condamné. La question marocaine passe entre les mains d’Edgar Faure, qui ne reprend véritablement le dossier qu’en juin. Six mois perdus, six
mois dramatiques si l’on considère la dégradation de la situation
au Maroc65.
Pourquoi ce délai ? « Edgar Faure refusa à plusieurs reprises d’aborder le sujet »66. Pour lui, une solution n’a de sens
que si elle est « parlementairement possible », or il sait qu’aucune majorité ne pourrait se dégager sur un changement d’orientation politique au Maroc. « M. Edgar Faure, selon son expression, laissait donc au frigidaire le règlement de l’affaire marocaine par des voies nouvelles ». Ce n’est qu’après l’assassinat de
Lemaigre-Dubreuil qu’Edgar Faure ouvre le dossier.
I Création d’un Conseil gardien du Trône, avec possibilité pour Nous de désigner personnellement un de ses membres. Ce conseil aurait pour rôle d’être
dépositaire, provisoirement, des attributs du souverain.
II Institution d’un gouvernement marocain provisoire de négociations…
Son rôle serait triple : 1°) Il aurait pour but de négocier avec le gouvernement
de la République les bases d’un nouvel accord… garantissant au Maroc l’intégrité de sa souveraineté et admettant l’interdépendance du Maroc et de la
France… 2°) … promouvoir les réformes institutionnelles en vue d’établir au
Maroc un régime de monarchie constitutionnelle… 3°) [définir et défendre
les droits des Français au Maroc]… » Extrait de la lettre du 26 décembre, de
Mohammed à Me Izard, citée par LAUVERNIER, Exil d’un roi à Madagascar,
p. 120. Fonds Paret. Maroc. Carton n°II, Archives de l’Institut d’Histoire du
temps présent. Paris.
65
N’oublions pas parallèlement les bouleversements que connait l’empire durant cette période. Depuis le départ en exil de Mohammed V, il y a eu le
traumatisme de Dien Bien Phu. Pierre Mendès-France a dû traiter les questions Indochinoise et Tunisienne. Depuis le 1er novembre 1954, l’Algérie est
devenue le problème majeur. Autant d’éléments qui expliquent à la fois le
retard dans le traitement de la crise marocaine, et la nécessité à la régler maintenant au plus vite.
66
G. IZARD, Le secret d’Antsirabe.
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Le 29 août 1955, Me Izard porte « officiellement à la connaissance du gouvernement » la lettre du 26 décembre. « Le plan
du sultan était ainsi entre les mains du gouvernement avant la
mission de Catroux ».
A Rabat, Lacoste n’a pas eu connaissance du plan. Grandval67, qui s’apprête à le remplacer est mis « au courant des
grandes lignes du plan. Il ne […] cacha pas ses réserves envers
le Souverain exilé et parut assuré que ses talents personnels lui
permettraient de trouver une autre issue ». Nommé résident général au Maroc le 20 juin 1955, Grandval est un homme à poigne
mais il ne connaît pas l’Afrique du Nord. C’est pour cela qu’Edgar Faure l’a nommé, voulant limiter le jeu des coteries. L’attitude du président du conseil est cependant pour le moins ambiguë. Dans sa lettre de mission, il est dit que le nouveau Résident
Général
Conservera toute latitude pour présenter au Gouvernement telle solution qui
lui paraîtrait de nature à lever, dans des conditions acceptables, les difficultés
actuelles étant entendu que le retour de Mohammed Ben Youssef sur le Trône
chérifien doit être résolument écarté. Toutefois, comme nous ne pouvons faire
abstraction du crédit dont Mohammed V dispose encore au Maroc… le Gouvernement serait disposé à envisager favorablement l’installation en France
du souverain exilé… dès que la question du Trône aura pu recevoir une solution satisfaisante, qu’un gouvernement marocain aura été constitué et que
l’apaisement sera intervenu au Maroc68.
Autant dire que la mission est impossible. Mais Grandval
n’est que le chiffon rouge que le président du conseil agite. Ed-
67
Résistant, il commande les Forces françaises de l’Intérieur de huit départements de l’Est. Dans Nancy libéré, il accueille le général de Gaulle. En Sarre
de 1946 à 1955, il exerce les fonctions successives de Gouverneur, Hautcommissaire et Ambassadeur.
68
GRANDVAL, Ma mission au Maroc, p. 27.
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gar Faure a un autre scénario en tête : créer une vacance du pouvoir au Maroc en obtenant le retrait de Ben Arafa sans que cela
n’apparaisse comme la politique officielle du gouvernement, les
députés se trouvant mis devant le fait accompli d’un retour de
Mohammed V, qu’il considère comme la seule solution viable.
Ne se sachant pas ˮmanipuléˮ, Grandval se jette dans le
chaudron marocain, avec un réel succès auprès des mouvements
nationalistes et de la population marocaine, mais rejeté par les
militaires proches de Juin, et vite détesté par les Français qui lui
imputent la persistance des attentats. Grandval prend vite la mesure du caractère incontournable de Mohammed V, pour lequel
il a de la sympathie : n’est-il pas son Compagnon dans l’Ordre
de la Libération et surtout le seul souverain que le peuple acclame, alors que ses rapports avec Ben Arafa sont peu cordiaux.
Cependant, en fonctionnaire loyal, il exclut toute solution de retour de l’exilé, avec lequel il n’a pas de contact. Inquiet à l’approche du deuxième anniversaire de l’exil, il propose au gouvernement un plan d’action69.
Il imagine un départ de Ben Arafa librement consenti, la
mise en place d’un Conseil de régence pour éviter la question
d’un troisième homme dans l’immédiat, et l’annonce simultanée
de grandes réformes politiques, économiques et sociales, créant
un véritable électrochoc au Maroc, rendant par là même l’initiative à la France. La faiblesse du plan est qu’il imagine pouvoir
obtenir également le consentement de Mohammed V, « la publication du plan devant être précédée de consultations assez nombreuses, dont l’une se situe à Antsirabe ». Le gouvernement doit
se prononcer très vite, avant le 5 août, pour que le plan soit révélé
avant le 20.
69
Les initiatives de Grandval sont commentées, et critiquées par la presse
coloniale. Le 5 août, 1955, France-Madagascar titre « Dans une lettre au
président du conseil, le Glaoui rejette la solution du conseil de régence qui
aurait été envisagée par le Résident Grandval ».
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Garan, Ranavalona III et Mohammed Ben Youssef
Edgar Faure a ce qu’il veut. Grandval peut engager les négociations pour le retrait de Ben Arafa, mais rien de plus pour
l’instant. Le 12 août, Grandval s’oppose à Edgar Faure : « Votre
politique, lui dit-il, va ramener Ben Youssef sur le Trône ». La
réponse fuse : « En avez-vous jamais douté ? »70 La surprise est
totale. Le Résident général s’étonne « qu’il puisse envisager la
restauration de Ben Youssef, alors que le Gouvernement n’est
même pas disposé à tolérer son retour en France ». Ne comprenant toujours pas la manipulation, Grandval se contente d’insister pour que l’on « renonce à la comédie qu’[il est] chargé de
faire jouer à Moulay Arafa ». Meurtri par les massacres de Oued
Zem71, qu’il impute à la lenteur de réaction du gouvernement, et
opposé aux négociations d’Aix les bains, il préfère démissionner
le 23 août 1955.
Quelques jours plus tôt, Edgar Faure, Antoine Pinay, le général Koenig72 et Gilbert Grandval avaient mis sur pied la mission devant se rendre à Antsirabe. Elle est dirigée par le général
Catroux (proche du comité France-Maghreb), qui entretient une
vieille relation d’amicale confiance avec Mohammed V. Pinay
doit l’accompagner, mais Edgar Faure choisit de ne pas exposer
directement son ministre des Affaires étrangères. C’est Henri
Yrissou, le directeur de cabinet de Pinay, qui se rendra à Madagascar.
Les discussions d’Aix les Bains s’ouvrent le 22 août 1955.
Un comité de cinq ministres (Edgar Faure, Antoine Pinay, Maurice Schuman, Pierre July et le général Koenig) consulte de nombreuses personnalités marocaines, pour trouver une solution à la
70
GRANDVAL, Ma mission au Maroc, p. 201.
« Des dizaines d’Européens sont abattus à Oued Zem [le 20 août 1955],
entrainant une répression très brutale et, par contrecoup, la naissance de l’Armée de libération marocaine (ALM) ». VERMEREN, L’Histoire du Maroc depuis l’indépendance, p. 72.
72
Pinay, ministre des Affaires étrangères, et Koenig, ministre de la Défense.
71
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question du Trône et constituer un gouvernement marocain représentatif. Cela permet, comme le veut Edgar Faure, de mettre
en avant que Mohammed V est incontournable. Le président du
conseil a son prétexte pour négocier directement avec l’exilé
d’Antsirabe, le gouvernement ne faisant que répondre aux attentes exprimées à Aix.
A Antsirabe, les entretiens débutent, la délégation française étant partie en grand secret le 2 septembre.
A l’entrée de l’Hôtel Thermal dont une aile est mise à Sa disposition, nous
sommes reçus sur le perron par Son Altesse le Prince Moulay Hassan,
souriant et détendu, qui nous conduit dans un salon vert, aux parois nues,
hormis deux glaces murales, et où se tient le Roi. Assis sur un divan, portant
des lunettes noires, le Roi nous accueille calmement, Il s’exprime en français,
d’une voix progressivement affermie, qui traduit parfois une certaine
amertume à l’évocation de l’exil. C’est dans ce cadre que nous allons nous
retrouver, au long d’une semaine, pour étudier en profondeur, dans toutes
leurs implications, des sujets essentiels : celui du retour du Roi en France,
celui de l’évolution des relations franco-marocaines. Sur ces thèmes,
sensibles et délicats, le Roi s’exprime de préférence en Arabe, la traduction
rapide et pesée étant l’œuvre de Son Altesse le Prince Moulay Hassan. Au
détour de chaque phrase, le Roi nous donne l’occasion d’apprécier sa finesse
naturelle, la flexibilité de sa pensée, la fermeté de son caractère, son goût pour
la démonstration rationnelle qui n’exclut jamais le recours à l’expression
imagée73.
C’est l’effervescence à Antsirabe. Max Jalade arrive le
jour même de l’ouverture des négociations. Il a voyagé dans le
même avion que la délégation marocaine, qui comprend Si Bekkaï, Ben Slimane et Ben Hassan Driss74. Les journalistes cherchent le scoop. La protection autour du sultan est de plus en plus
stricte,
73
Témoignage de Henry Yrissou, sur le site officiel du gouvernement marocain, « Feu sa Majesté le Roi Mohammed V », www.mohammedV.ma.
74
Ben Slimane : ancien pacha de Fès, président du conseil du Trône en 1955 ;
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Garan, Ranavalona III et Mohammed Ben Youssef
Surtout depuis que Jean Mangeot, de Paris-Match75, a été surpris dans les
arbres avec son téléobjectif… Nous formons maintenant une équipe qui empêche de dormir le service de sécurité. De nouveaux confrères sont venus
nous rejoindre… A tour de rôle nous prenons le quart, occupant nos loisirs à
la visite des environs…76
Le sultan mène en parallèle les entretiens avec les deux
délégations. Cela permet aux uns et aux autres de se promener
dans les rues d’Antsirabe, entretenant ainsi l’espoir des journalistes. Le 7 septembre, les journalistes sont enfin récompensés.
Le général Catroux et M. Yrissou nous reçurent en compagnie du colonel
Touya… Nous entendîmes un vif éloge des pachas de Séfrou et de Fès.
- Ce sont de vrais amis de la France, dit le général. Ils ont le désir, la volonté
de travailler à la communauté franco-marocaine.
Et, tirant sur sa pipe d’ajouter :
- Naturellement, ils veulent leur indépendance et on ne peut leur donner tort77.
Les négociations progressent vite. Dans une lettre à Pinay,
le Roi se félicite
Que le Gouvernement français ait décidé de sortir de l’impasse actuelle, afin
de replacer les rapports entre le Maroc et la France dans leur cadre véritable,
celui de l’amitié et de la confiance… Votre Directeur de Cabinet, M.Yrissou
s’est constamment efforcé, en plein accord avec Notre Majesté, de rechercher
les solutions aptes à assainir les rapports entre nos deux Pays et à leur assurer
un avenir commun, à la mesure de leur glorieux passé.
C’est dans un climat cordial et ouvert que la délégation
française prend congé du sultan, le 9 septembre. Le soir même,
75
En août 1955, Paris-Match publie un grand article récapitulant l’ensemble
de la crise marocaine. Un des intertitres résume bien l’image que l’on donnera
de l’exil : « Madagascar : Devant son feu de bois l’exilé écoute à la radio les
premiers coups de la guerre civile ».
76
JALADE, Mohammed Ben Youssef tel que je l’ai vu, pp. 26-27.
77
Ivi, pp. 47-48.
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le général Catroux s’adresse à la presse, faisant état du succès
des négociations :
[Mohammed V] a pris ses décisions délibérément et a souligné qu’il ne voulait pas que le sang coule à nouveau. A aucun moment, les négociations n’ont
cédé à la précipitation. Il n’y a eu ni ultimatum, ni marchandages78.
Le gouvernement approuve le plan de Catroux le 12 septembre. On peut s’attendre à un déplacement rapide de Mohammed V vers la France pour finaliser officiellement l’accord. Mais
il faut auparavant régler la question Ben Arafa. Cela s’avère plus
délicat que prévu. Sidi Mohammed et sa famille vont donc encore passer près de deux mois à Antsirabe.
C’est durant cette période que Max Jalade a l’occasion de
rencontrer fréquemment les jeunes princes, qui finissent par le
mettre en contact direct avec le sultan.
Catroux, Yrissou et Touya rentrés en France dès le 10 septembre, Mohammed V ne manque cependant pas de visites. En
premier lieu, ce sont les représentants du Parti Démocratique de
l’Indépendance et de l’Istiqlal qui s’installent en ville. Le séjour
à Antsirabe n’a plus d’exil que le nom.
Le départ de Ben Arafa n’est pas facile à obtenir. Le
Glaoui et le clan Juin joue leurs dernières cartes et le nouveau
Résident général va dans leur sens. Le général Boyer de Latour
était
Un Vieux Marocain (commandant de Goum pendant la guerre). Cet officier
venait de s’acquitter en Tunisie de la mission difficile d’ouvrir les voies à
l’autonomie interne, en accord avec les nationalistes. Cette activité émancipatrice, il sembla n’avoir d’autre objectif en arrivant à Rabat que de se la faire
pardonner par les cadres de l’armée et les milieux de la colonisation. Il n’eut
de cesse qu’il ne rendit caducs les accords d’Antsirabe, soit en empêchant
l’hôte du palais de Rabat de faire retraite, soit en suscitant la désignation par
78
JALADE, Mohammed Ben Youssef tel que je l’ai vu, p. 54.
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Garan, Ranavalona III et Mohammed Ben Youssef
Moulay Arafa d’un successeur, soit en tentant de faire nommer un partisan
du Glaoui comme membre du conseil du trône.79
Le 1er octobre, l’heure du dénouement semble arrivée.
« Moulay Hassan commente avec une joie qu’il a peine à contenir les nouvelles parvenues de Rabat. Au cours d’une nuit mouvementée, le sultan Ben Arafa aurait accepté de se retirer à Tanger »80, mais tout n’est pas si simple. Les informations contradictoires se succèdent. Ben Arafa n’aurait pas laissé la place à
un Conseil de régence, mais voudrait transmettre le trône à un
troisième homme. En fait, la situation est moins catastrophique.
Il a délégué à son cousin (et gendre) le « soin de s’occuper des
affaires relatives à la couronne ». Le soir même, grâce à la complicité du prince Hassan et du colonel Touya, Max Jalade rencontre pour la première fois Mohammed V.
Nous nous connaissons depuis longtemps, dit Mohammed ben Youssef avec
un sourire où perce l’ironie. J’entends souvent parler de vous par mes enfants
et par le colonel. Je n’ai pas eu toujours à me louer des journalistes ; on a été
très injuste envers Nous-même et les membres de ma famille. La vérité
triomphe toujours. Je comprends les exigences de votre métier et je voudrais
pouvoir vous aider. … Il y a deux ans que j’ai quitté le Maroc. Je ne puis donc
vous donner aucune indication précise. Ce que je puis vous dire, c’est ce que
je connais, ce que tout le monde connaît, des accords passés entre le général
Catroux, représentant officiel du Gouvernement français, et moi-même. Je ne
connais que cela. Je m’y tiens81.
Edgar Faure est dans les mêmes dispositions. Il veut en
79
LACOUTURE, Cinq hommes et la France, pp. 242-243. Pour un éclairage
récent sur Boyer de la Tour, tant pour son action en Tunisie qu’au Maroc,
voir D. RIVET, Un acteur incompris de la décolonisation : le général Édouard
Méric (1901-1973), Saint Denis, Éditions Bouchene, 2015.
80
JALADE, Mohammed Ben Youssef tel que je l’ai vu, p. 67.
81
Ivi, p. 71.
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finir, d’autant que la majorité qui soutient les accords d’Antsirabe est fragile. Il obtient le 8 octobre un vote favorable de l’assemblée. Pari gagné, mais il se sait maintenant en sursis : il faut
donc régler la question marocaine au plus vite82.
Le 25 octobre, considérant que Juin ne peut plus rien pour
lui et que le choix de la ˮcarteˮ Mohammed V est irréversible du
côté du gouvernement, le Pacha de Marrakech, Thami El Glaoui,
pivot de la conjuration du 20 août, choisit le ralliement au sultan
exilé. C’était là sans doute le seul moyen pour sauver ses intérêts
au Maroc.
De Paris, mon journal insiste pour que j’obtienne une déclaration de Sa Majesté.
Un scoop ! Mohammed V me recevra sur la terrasse où il prend parfois ses
repas. A côté du fauteuil où il est assis, le poste de radio qui l’a relié au Monde.
Ses premiers mots seront pour me dire de sa voix douce : Eh bien, je crois que
votre exil touche à sa fin.
Je l’avoue, je fus décontenancé83.
Plus rien n’empêche maintenant le départ de Mohammed V, qui s’était déjà vu signifier deux jours plus tôt par le colonel Touya la fin officielle de son exil. Le voyage pour la France
est fixé au 28 octobre, le jour de la fête du Mouloud. Le sultan y
voit un symbole pour les croyants : l’exil commença à l’Aïd el
Kébir, elle se termine pour l’anniversaire du prophète (Mais le
départ sera repoussé au 30 octobre pour raisons météorologiques).
Les derniers jours à Antsirabe sont consacrés aux préparatifs du départ. Mohammed V avait imaginé rentrer par bateau, la
82
En décembre, fait unique sous la IVe République, Faure obtient du président
de la république Renée Coty la signature d’un décret de dissolution et de nouvelles élections. Il échoue… Guy Mollet prendra la présidence du conseil le
31 janvier 1956.
83
Témoignage de Max Jalade, sur le site officiel du gouvernement marocain,
« Feu sa Majesté le Roi Mohammed V », www.mohammedV.ma
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Garan, Ranavalona III et Mohammed Ben Youssef
durée du voyage faisant office de transition. Voyager par les airs
ne lui plait guère, le mauvais souvenir des conditions du voyage
à l’aller est encore présent, mais le temps presse : c’est par avion
qu’il gagnera la France, avec le strict minimum (trente kilos pour
chacun des membres de la famille royal), les 10 tonnes de bagages étant chargées en gare d’Antsirabe pour Tamatave, avant
de prendre la mer. Une partie des affaires reste à Antsirabe, entretenant ainsi pendant quelques années le souvenir de l’exilé.
Le prince Hassan laisse sa bibliothèque à la Fondation des Vieux
Coloniaux, ne gardant avec lui que l’essentiel : les Mémoires
d’Outre-Tombe et la Bible84. Les jouets de la petite princesse
sont distribués aux enfants de la domesticité, et les machines à
coudre des femmes du roi sont données pour les lépreux.
Figura 10, Mosquée vu hôtel des Thermes, photographie de Frédéric Garan
84
JALADE, Mohammed Ben Youssef tel que je l’ai vu, p. 119.
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Le sultan laissera à la population le souvenir d’un homme
respectable, courtois et pieux. Le 28 octobre, comme chaque
vendredi, il se rend à la mosquée. L’après-midi, il fait ses adieux
aux fournisseurs, avant de retourner à la mosquée pour la célébration du Mouloud et faire une dernière lecture.
Max Jalade espère une interview. Mais, les accords d’Antsirabe sont encore informels et Mohammed V ne peut rien révéler officiellement. Le journaliste négocie alors une photo de famille :
Vous avez de moi assez de photographies clandestines pour que vous puissiez
en faire de bonnes…
Avant de montrer à Amina le petit oiseau qui va sortir, Ben Youssef, père de
famille, tient à choisir lui-même, comme il le fait chaque matin, la robe de
l’enfant. Et le voilà fouillant dans la collection que présente la
gouvernante…85
Les clichés partent par avion le lendemain matin pour être
publiées par Paris-Presse, premières photos de famille prises depuis deux ans…
85
Ivi, p. 118.
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Garan, Ranavalona III et Mohammed Ben Youssef
Figura 11, Mohammed V et ses enfants, in Max Jalade, op. cit.
Le 30 octobre au petit matin, après un dernier regard sur
l’hôtel des thermes, Mohammed V s’engouffre à bord d’une
grosse Ford conduite par le prince Hassan.
Précédé par une jeep à flancs blancs montée par deux gendarmes, le cortège
gagne à toute allure, au milieu d’un lourd nuage de poussière, le terrain
d’Antsirabe. La barrière blanche, protégeant l’accès de l’hôtel des Thermes
devant lequel un gendarme, en baudrier et guêtres blancs, veillait nuit et jour
dans sa guérite, est levée pour la dernière fois... Les gendarmes se figent au
garde à vous. Un important service d’ordre est en place le long du parcours.
Tous les cent mètres, un garde malgache, en short et chéchia rouge,
mousqueton à la bretelle, rectifie la position86.
Le contraste avec l’arrivée en proscrit vingt et un mois plus
tôt est saisissant. A l’aéroport, le prince Abdallah fixe sur la pellicule toutes les étapes de l’embarquement de la famille royale.
86
Ivi, pp. 127-128.
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Garan, Ranavalona III et Mohammed Ben Youssef
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A Tananarive, le Haut-Commissaire André Soucadaux accueille
celui qui est maintenant un auguste visiteur, et lui tient compagnie le temps du transit. Il est 7h20 et, avant de quitter Madagascar, le sultan a ces mots :
J’emporte un bon souvenir des gens que j’ai côtoyés, tant à Antsirabe qu’à
Tananarive. J’ai apprécié leur grande courtoisie et leur grande amabilité. Ce
souvenir eût été naturellement meilleur, je vous l’ai dit, si les circonstances
de mon séjour avaient été autres. J’aurais préféré rentrer en France par bateau,
mais les conditions de transport aujourd’hui ne sont pas celles de mon arrivée.
L’avion qui m’amena était petit et non pressurisé ; ce n’est pas le cas aujourd’hui, c’est un très bel appareil…87.
Le 31 octobre, le sultan arrive en France. Les événements
se précipitent, Edgar Faure est pressé d’en finir. Les négociations qui s’engagent, aboutissent rapidement au retour triomphal
de Mohammed V le 16 novembre. Deux jours plus tard, il annonce l’Indépendance du Maroc, qui sera effective le 2 mars
1956.
Madagascar n’est pas absente des cérémonies du 18 novembre. Déjà la veille au soir, Moulay Abdallah avait projeté à
la famille le film tourné depuis le départ d’Antsirabe. Le jour de
la fête du Trône, quelques acteurs clés de la crise sont honorés.
Le Docteur Dubois-Roquebert, le Comte Clauzel, Pierre Clostermann, et les avocats Maître Izard et Maître Weil sont décorés
du Ouissam Alaouite, la plus haute distinction marocaine.
S’ajoute une ˮpromotionˮ d’anciens d’Antsirabe : le médecincommandant Cléret, médecin du sultan à Madagascar, M. Vandenboomgaerde, chef de la sécurité, et l’inspecteur Mas, qui suivit si souvent les pas du sultan dans les rues d’Antsirabe et de
Tananarive. Le Colonel Touya, qui deviendra conseiller de Mohammed V, fait bien évidemment partie du groupe.
87
Ivi, pp. 132-133.
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Garan, Ranavalona III et Mohammed Ben Youssef
Le 30 octobre 1938, le retour de Ranavalona III est d’une
toute autre nature. Loin d’être anecdotique, ce retour d’exil postmortem que le pouvoir colonial feint de considérer comme une
simple formalité, a pour but de souligner la bienveillance de la
France pour ses sujets malgaches. Derrière le calme de façade,
les enjeux sont importants, tant pour les Français que pour les
Malgaches.
Ranavalona III a été enterrée à Alger en mai 1917. L’exil
continue alors dans le même dénuement. La tombe est mal entretenue, à tel point que le préfet et le maire d’Alger contactent
le gouverneur général de Madagascar en 1925, sans résultat
puisqu’ils sont obligés de le relancer l’année suivante. Le gouverneur général de l’Algérie intervient à son tour pour que la sépulture de « SM Ranavalona, ex-reine de Madagascar, fut entretenue de façon permanente avec un soin tout particulier pour éviter que le souvenir de la défunte souveraine ne s’efface avec les
ans ». Sans enthousiasme, la colonie de Madagascar accepte de
subvenir au coût de 300 francs annuel.88
Si sa mort n’a pas suscité de réaction à Madagascar, le
maintien de la défunte dans une sépulture loin de la terre des
ancêtres, en contradiction totale avec la tradition malgache, suscite des réclamations, sans que les autorités ne s’en soucient.
Ainsi, en 1935, l’Opinion de Tananarive interpelle-t-il les Malgaches : « Peuple malgache ! Qu’attendons-nous pour l’exhumation des restes mortels de notre ancienne souveraine pour les réinhumer à Madagascar ? »89 Le Journal convoque à cet effet Napoléon Ier, rappelant que les Français ont obtenu des Anglais
88
Bulletin municipal officiel de la ville d’Alger, 20 octobre 1926, p. 355
(source : gallica.bnf.fr)
89
ANOM, 6(2) D 8-11, Madagascar (Gouvernement général), chemise
« Transfert des restes mortels de la reine Ranavalona III », extrait L’Opinion
de Tananarive du 12 juillet 1935, repris par Mongo du 6 septembre 1938.
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Garan, Ranavalona III et Mohammed Ben Youssef
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« conquérants » le retour de leur Empereur, mort prisonnier à
Sainte-Hélène. Mais la France, sujette au syndrome de l’île
d’Elbe, n’est pas prête à la mansuétude. Malgré cet appel (un
parmi d’autres), le retour de la Reine ne sera pas le fait d’une
initiative malgache. C’est Georges Mandel, ministre des Colonies qui interroge sur ce sujet le gouverneur général Cayla en
juin 193890 :
Il me revient que l’autorisation du retour des cendres de la reine Ranavalo à
Madagascar serait appréciée des populations indigènes. On m’assure que ce
geste, qui n’aurait aucune portée politique, serait interprété comme le respect
que nous avons des traditions locales auxquelles les Hovas91 sont particulièrement attachés. Avant toute décision, je désirerai avoir votre avis sur la question92.
Pour Cayla93 qui dirige depuis des années la colonie d’une
main ferme, rien ne s’y oppose :
La période de calme complet qui a suivi [à partir de 1937] et la manifestation loyaliste du 28 mai dernier ont créé une ambiance très favorable au
retour des cendres de la Reine. Il sera facile d’éviter toute interprétation tendancieuse de cet évènement et de faire savoir qu’en la circonstance le Gouvernement de la République entend témoigner sa sympathie à la population
tout entière en honorant la vieille coutume de l’inhumation des morts dans la
terre des ancêtres94.
90
Pour plus de détails, voir F. GARAN, Le retour des cendres de la reine Ranavalona III à Madagascar, in J. GRÉVY (ed.), Reliques politiques, en attente
de publication aux PUR.
91
Le pouvoir colonial a pour habitude d’utiliser hova pour désigner les merina.
92
ANOM, 6(2) D 8-11, op. cit., Lettre du Ministre des colonies au GG de
Madagascar, 23 juin 1938.
93
Voir J. FREMIGACCI, État, économie et société coloniale à Madagascar (fin
XIXe siècle-1940), Paris, Karthala, 2014. On se reportera en particulier au
chapitre 3 « L’administration coloniale, les aspects oppressifs », pp. 55-85.
94
Ibidem, Télégramme d’État envoyé le 29 août 1938 par le GG Léon Cayla.
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Garan, Ranavalona III et Mohammed Ben Youssef
Les choses vont alors très vite. Georges Mandel lance
l’opération le 2 septembre, sans prévenir la famille de la défunte
reine, ce qui en confirme son caractère très politique. Mongo informe ses lecteurs le 6 septembre en relayant le communiqué de
presse du Gouvernement Général :
Les restes mortels de la reine Ranavalona III qui reposent actuellement dans
le cimetière d’Alger seront prochainement transférés à Tananarive. En décidant cette mesure, le Gouvernement de la République a entendu marquer une
fois de plus le souci que la France a toujours eu de respecter la coutume familiale des Malgaches. La population tout entière, sans distinction de race et
en dehors de tout esprit de caste, verra dans l’évènement annoncé un témoignage des sentiments que lui porte la Mère Patrie95.
Respect de la « coutume familiale » mais sans avertir la
famille…, ce qui n’empêche pas cette dernière, maintenant au
courant, d’« adresser l’expression de [sa] profonde reconnaissance », cette décision faisant « ressortir une fois de plus l’esprit
libéral empreint d’humanité de la grande nation française envers
ses colonies96… ». Il n’y a donc pas de risque de contestation du
côté de la famille.
Le transfert des restes mortels de la Reine s’organise très
vite entre Cayla et son homologue à Alger. L’exhumation a lieu
le 23 septembre 1938. Ranavalona III qui a vécu si chichement
en exil, est maintenant traitée avec tous les honneurs par la République. Le Maire et le Préfet d’Alger ainsi que le Général Catroux assistent aux cérémonies, en l’absence du Gouverneur Général Georges Lebeau qui n’est pas en Algérie. Quelques personnalités ayant un lien avec Madagascar sont invitées : M. Dan-
95
Ivi, Lettre du GG de Madagascar au Ministre des Colonies.
Ivi, Lettre de « Rakotofiringa, comptable chez M. Abel Louys (Ambalavoa)
et sa femme, fille de feu Ratsimamanga prince, cousine de la Reine Ranavalona III » au GG de Madagascar.
96
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Garan, Ranavalona III et Mohammed Ben Youssef
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gerfield de Tananarive, Mme Krajewski de Tamatave, « qui assista S.M. la reine à ses derniers moments », et M. Delgove,
« commissaire de Police Spéciale originaire de Madagascar ».
Durant le trajet qui mène de la chapelle ardente au paquebot, les
couronnes du gouvernement de la République, du gouvernement
général de l’Algérie, de la mairie d’Alger et des « protestants
d’Algérie » accompagnent le cercueil couvert du drapeau tricolore. La chapelle installée dans le navire est également aux couleurs bleu/blanc/rouge. Ce n’est pas le moindre des paradoxes
pour une reine exilée parce qu’ennemie de la France.
C’est cette photo du cercueil avec le drapeau tricolore que
la presse coloniale Algéroise diffuse, une presse pour laquelle
Ranavalona redevient une reine à part entière et qui semble oublier qu’elle était en exil :
Le 24 septembre a eu lieu, au cimetière de Saint-Eugène, l’exhumation des
cendres de S.M. Ranavalona Manjaka III décédée à Alger en 1917, dans la
résidence princière que lui avait réservée le Gouvernement français.
C’est à l’instigation de M. Cayla, Gouverneur général de Madagascar que M.
Mandel97, ministre des Colonies, a pris la décision de renvoyer les restes de
la dernière reine de Madagascar dans son pays d’origine où ils seront accueillis avec une profonde émotion par le peuple malgache98.
97
Mais c’est bien à l’instigation du Ministre des Colonies que le rapatriement
a été organisé.
98
ANOM, 6(2) D 8-11, op. cit., « Le transfert des cendres de Ranavalo »,
revue Algeria, octobre 1938.
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Garan, Ranavalona III et Mohammed Ben Youssef
Figura 12, Revue Algeria, octobre 1938 (ANOM 6(2) D8-11)
L’entreprise de réhabilitation se poursuit lors du passage
en métropole de la dépouille royale à l’image du long article de
Pierre Mille99, dans le Petit Marseillais du 22 octobre 1938100.
Certes, il n’y a pas de remise en cause du bienfondé de la politique française, « l’ordre de destitution et d’exil qu’avait pris
Gallieni avait été sage », mais la Reine est complètement blanchie de toute responsabilité dans la révolte des Menalamba.
Pierre Mille souligne qu’elle se logeait « fort modestement » à
Paris, lorsqu’elle était autorisée à s’y rendre et qu’à Alger, si on
continua « à ouvrir toutes les lettres qu’elle recevait de Madagascar. On n’y trouva jamais rien de compromettant […] Elle
99
Pierre Mille est grand connaisseur du monde colonial et de Madagascar (il
est l’auteur du fascicule sur Madagascar dans la série « La France lointaine »,
édité en 1929).
100
La presse a globalement relayé l’événement. Le Figaro rapporte l’exhumation le 25 septembre 1938, mais en se contentant d’un entrefilet en page 3.
Le contexte international, en pleine crise des Sudètes et dans l’attente des
accords de Munich, n’y est pas étranger.
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Garan, Ranavalona III et Mohammed Ben Youssef
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avait pris l’accoutumance de la soumission, et demeura soumise
jusqu’à son dernier jour ». Cette attitude exemplaire justifie que
la France puisse désormais être clémente. Une nouvelle fois Napoléon est invoqué, mais pour relativiser l’importance de l’événement :
Aujourd’hui ses cendres vont regagner le sol de ses ancêtres. Ceci n’aura pas
les inconvénients du retour des dépouilles de Napoléon Ier pour Louis-Philippe. L’influence du souvenir de la dernière reine sur ses sujets n’a rien de
comparable à celle qu’avait conservée celui du vainqueur d’Austerlitz. Elle
est à cette heure absolument nulle.
Madagascar est maintenant une terre française, la page est
tournée ! Le Prolétariat malgache précise d’ailleurs qu’à Marseille, « un détachement de garde nationale a rendu les honneur »101.
C’est bien une Reine réhabilitée, intégrée au roman national de la construction de la plus Grande France, qui revient sur
la terre de ses ancêtres, une terre maintenant française, d’une
France qui sait se montrer magnanime. Les cérémonies s’organisent donc à Madagascar autour de ce paradigme.
Cependant, ce retour pose des questions politiques, à commencer par s’entendre sur le statut de cette reine. En Algérie, on
a célébré une alliée, un grand serviteur de la France, le drapeau
tricolore couvrant son cercueil. Il n’est pas possible de faire de
même à Madagascar. C’est « recouvert d’un drap rouge bordé
d’or »102 que le cercueil quitte Tamatave par train spécial. Le
convoi est accueilli à Tananarive par un seul coup de canon alors
101
ANOM, 6(2) D 8-11, op. cit., Le Prolétariat malgache, « organe d’unité
ouvrière et de défense des intérêts généraux de Madagascar », vendredi 11
novembre 1938.
102
Ivi, Communiqué (non daté, vers 30 octobre 1938).
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Garan, Ranavalona III et Mohammed Ben Youssef
que Tantely en demandait vingt-et-un103. Pour les autorités coloniales, il n’est pas question d’accéder à cette demande qui donnerait à la reine le rang de chef d’État.
Dans son discours officiel, Cayla présente l’exil comme
ayant été formateur car il a permis à Ranavalona de s’ouvrir à la
France, en lui faisant « connaitre toutes les profondeurs de l’âme
française et le génie créateur de la vieille nation qui avait résolu
de faire de Madagascar une des plus belles provinces de son immense empire »104. L’exil était nécessaire à la mission civilisatrice et à la prise de conscience de la reine qu’il fallait qu’elle
confie son pays à la France. « Elle avait vu croître et s’embellir
Alger-la-Blanche […] et sans doute se plaisait-elle à imaginer
l’œuvre qui se poursuivait, dans une atmosphère apaisée, à Tananarive-la-Rouge et jusqu’aux confins de son pays natal »105.
Le GG insiste également sur le loyalisme des Malgaches :
« Elle donne ainsi aux Malgaches, dont le loyalisme s’affirmait
récemment encore d’une façon si émouvante, un nouveau témoignage de sa sollicitude maternelle »106. Il fait bien référence à
l’engagement des Malgaches durant la Grande Guerre, tout
comme l’avait fait Le journal de Madagascar en rappelant le
dernier passage en France de la reine :
Les survivants du 12e Bataillon Malgache demandent notamment à ce qu’on
ne les oublie pas dans les délégations au cortège, car ils gardent vivace en eux
le souvenir des paroles de Ranavalona à qui ils furent présentés au moment
103
Ibidem, traduction d’un article du journal Tantely, « Transfert des restes
mortels de Ranavalona III ». Porte la mention manuscrite : « Cet article
présenté à la censure le 8 septembre 1938 n’est pas paru in extenso. »
104
ANOM, 6(2) D 8-11, op. cit., compte rendu officiel tapuscrit des cérémonies, « La translation et la ré-inhumation des cendres de Ranavalona III »,
page 3.
105
Ivi, page 4.
106
Ivi, page 3.
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de monter au front : Allez mes enfants, marchez pour la France et que Madagascar soit fière de vous. C’est en obéissant à cet ordre que ce fameux bataillon se fit hacher héroïquement, accomplissant les prouesses que l’Histoire a
enregistrées107.
L’Écho Malgache voit lui dans le retour de la reine, une
sorte de compensation pour les soldats tombés en France, qui ne
retrouveront jamais la terre de leurs ancêtres. Les exils s’entrecroisent… :
Nous ne pouvons nous empêcher de penser en cette circonstance aux poilus
malgaches tombés au champ d’honneur, connus et inconnus et dont les taolambalo se trouvent sous la terre généreuse de la France qu’ils avaient arrosée
de leur sang pour la sauvegarde du droit et de la liberté. Les cendres de ces
braves tirailleurs ne parviendront jamais dans le tombeau rituel au Nord du
village. Nous les confions à votre garde, frères Français de la Métropole108.
Si l’opération est une réussite du côté malgache, il n’en est
pas de même du côté des colons qui ne cachent pas leur mécontentement :
Nous avons l’impression qu’on fait un peu trop de bruit autour du retour à
Madagascar des restes mortels de l’ex-reine Hova Ranavalona III. Je ne désapprouve pas la générosité du geste qui permet à la famille de l’exilée de
satisfaire à ses coutumes funéraires […] Mais de là à en faire une manifestation telle que celle qui se prépare je trouve qu’on exagère un peu109.
Ils ne veulent pas que l’on oublie que Ranavalona III était
avant tout une ennemie de la France et « il semblerait qu’on
107
ANOM, 6(2) D 8-11, op. cit., Le Journal de Madagascar, « Le retour des
cendres de la Reine Ranavalo III à Madagascar », 14 octobre 1938.
108
ANOM, 6(2) D 8-11, op. cit., L’Écho malgache, 23 septembre 1938.
109
ANOM, 6(2) D 8-11, op. cit., Le Colon de Madagascar, « Un geste », 16
octobre 1938.
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Garan, Ranavalona III et Mohammed Ben Youssef
veuille aller jusqu’à une sorte de réhabilitation qui serait le désaveu tacite des mesures prises par le gouvernement français le
28 Février 1897 »110.
Le succès de l’opération n’empêche pas le pouvoir d’avoir
recours à des indicateurs chargés d’espionner la population.
Quelques critiques remontent ainsi. D’aucuns reproches à la
France une bienveillance de façade, « pour que les Malgaches
soient attachés aux Français ». D’autres laissent entendre que
cette générosité est tardive : « l’administration française aurait
dû renvoyer Ranavalona à son pays natal avant sa mort, car
même un criminel reçoit pendant son vivant une libération » 111.
Le 22 novembre 1938, Mongo publie un long article112, qui
reprend à la fois l’histoire de Ranavalona III, son exil et le déroulement des cérémonies. L’article est sans grande originalité
et très respectueux, remerciant Georges Mandel. En fait, c’est la
conclusion qui est étonnante :
Ce que l’on peut dire après le compte-rendu des honneurs rendus à la Reine
soit au-delà de la mer, soit à Madagascar, à la gare de Tananarive et au moment de la ré-inhumation en présence des milliers d’assistants, c’est que les
cloisons étanches se sont écroulées, les Malgaches et les Français ont la même
patrie, ils ont les mêmes droits, tous les habitants de Madagascar sont citoyens
français.
Les cérémonies devraient donc être le point de départ
d’une nouvelle concorde, de l’unité entre Malgaches et Français,
dans la citoyenneté. Un message très politique, qui ne fait que
reprendre ce que Jean Ralaimongo revendique depuis son retour
à Madagascar, après avoir servi la France durant la Grande
Guerre.
110
Ibid.
ANOM, 6(2) D 8-11, ibid.
112
ANOM, 6(2) D 8-11, op. cit., Traduction du journal Mongo, « Ranavalona
III, d’Alger à Madagascar », 22 Novembre 1938.
111
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Le Prolétariat malgache avait été encore plus explicite le
11 novembre 1938 (la date n’étant pas un hasard…). Deux articles sont en parallèle : « la ré-inhumation des restes mortels de
Ranavalona III à Tananarive » et « Après la ré-inhumation de
Ranavalona III… ». Le premier article reprend la version officielle du déroulement des cérémonies. Le deuxième se place sur
un tout autre plan. Parlant des jeunes qui n’ont pas connu la monarchie, il les confronte à la situation actuelle. « Lorsqu’on a
évoqué officiellement le souvenir de l’ancien régime malgache,
ils ne pouvaient pas s’empêcher de faire d’amères réflexions sur
leur statut individuel actuel qui est bien amoindri par rapport à
celui des anciens sujets de Ranavalona III113 », et de poursuivre
par une attaque directe du système colonial : « En effet, sous le
régime bâtard actuel de l’indigénat, les habitants de l’Ile ne sont
ni malgaches ni français. » Et de demander pour tous les Malgaches la citoyenneté française, la « naturalisation en masse » !
La loi d’annexion de 1897 est utilisée pour justifier cette revendication, puisqu’elle aurait dû faire de tous les Malgaches des
« citoyens français de droit ». Le retour de la Reine doit être le
prélude à la réparation de cette injustice. La reine retrouve un
rôle politique que l’exil lui avait enlevé depuis longtemps, mais
le pouvoir colonial refuse de donner cette dimension à l’évènement et en reste à la simple cérémonie :
Jusqu’à 23 heures on vit défiler devant lui plusieurs dizaines de milliers de
Malgaches. C’est le jour suivant qu’eut lieu, dans l’après-midi, la cérémonie
de la ré-inhumation.
Devant la terrasse qui domine la cour du Palais et au bord de laquelle s’élèvent les tombeaux royaux, la bière, revêtue de son linceul pourpre, était placée sur un large socle entouré de gerbes de roses et d’œillets.
Depuis plusieurs heures déjà le flot humain avait submergé les terre-pleins
qui dominent la plaine de Mahamasina lorsque le chef de la Colonie, pénétrant à son tour dans le Rova, vint se placer au centre du carré que formaient
113
ANOM, 6(2) D 8-11, op. cit., Le Prolétariat malgache, 11 novembre 1938.
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les troupes. Et ce fut de nouveau la plainte émouvante des clairons, suivis
d’une minute de recueillement114.
C’est alors que Cayla prononça son discours. Il fut suivi
par le pasteur Peyrot qui récita les prières liturgiques.
L’heure était venue de la montée vers le tombeau. Au rythme de la marche
funèbre de Chopin, dix gardes indigènes, portant le cercueil sur leurs épaules,
gravirent les degrés de l’escalier qui prolongeait le catafalque.
Un instant après une salve de mousqueterie annonçait que Ranavalona III
était entrée, comme disent les Malgaches, dans la maison froide et que le rite
ancestral était accompli.
Le retour d’exil de Ranavalona a finalement été le dernier
acte politique de la monarchie malgache… depuis longtemps
supplantée par un nationalisme moderne115.
Conclusion
L’exil à Antsirabe a servi les intérêts de Mohammed V,
mais aussi ceux de la France qui a pu négocier avec le sultan sans
être sous la pression des résidents généraux issus de la mouvance
du Maréchal Juin. Les intérêts de la France ont sans doute ainsi
été mieux défendus. Il est affligeant que ce bon choix ait été
complètement involontaire et relève d’une politique coloniale
complètement archaïque. En ce milieu du XXème siècle, le bannissement s’avère inutile car, si l’éloignement physique est réel,
les moyens de communication comme de transport rendent caduques le principe même de l’exil. La politique coloniale de la
France est d’un autre temps…
114
ANOM, 6(2) D 8-11, op. cit., compte rendu officiel tapuscrit des cérémonies, « La translation et la réinhumation des cendres de Ranavalona III », 5
pages.
115
Voir RANDRIANJA, Société et luttes anticoloniales à Madagascar.
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Alors que l’exil de Mohammed V fut un des ultimes soubresauts d’un système à l’agonie, il a paradoxalement favorisé
l’accession à l’indépendance. De son côté, le retour de Ranavalona fut un rendez-vous manqué, un de plus pour le régime colonial, qui ne saisit pas l’opportunité de l’accession à la citoyenneté pour les Malgaches.
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Figura 13, Retour de Mohammed V à Madagascar en 1957, collection privée
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En 1957, Mohammed V revint à Madagascar, comme on
fait un pèlerinage. Bien qu’il ne se soit jamais senti proche de la
culture malgache, avouant même à Catroux ne pas être passionné
par le retournement des morts (contrairement à son interlocuteur), il sait qu’entre janvier 1954 et octobre 1955, plus qu’à Rabat, et peut-être même plus qu’à Paris, l’histoire de son pays
s’est joué à Madagascar. Un lien affectif indissoluble s’est créé,
comme le rappelle en 2005 son petit fils Mohammed VI, à l’occasion de la visite de Marc Ravalomanana à Rabat.
Il m’est particulièrement agréable, Monsieur le Président, de recevoir en votre
Excellence le magistrat suprême de la République malgache, une grande
nation à laquelle tous les Marocains portent des sentiments très affectueux et
de profonde estime […] A la joie de vous recevoir au Maroc, s’ajoute la
résurgence de souvenirs forts et d’une émotion sincère. En effet, Madagascar
a toujours été associée, pour le peuple marocain, à l’épopée héroïque de sa
lutte pour sa libération. Les marques de solidarité que le peuple malgache a
témoignées à mon auguste grand-père, sa majesté le roi Mohammed V et à la
famille royale, ainsi que les égards dont ils ont été entourés pendant leur exil
à Antsirabe, resteront à jamais gravés dans notre mémoire collective. C’est
d’ailleurs avec une vive émotion que les Marocains avaient suivi la visite
effectuée, en 1957, par mon auguste grand-père dans votre pays, pour
exprimer au peuple malgache frère sa profonde reconnaissance pour la
sollicitude dont il fit l’objet avec sa famille durant les vingt-et-un mois qu’ils
passèrent à Antsirabe…116.
Cependant, sur place, il ne reste du séjour de Mohammed V qu’une suite portant son nom à l’hôtel des thermes et une
mosquée sur une petite place étonnamment clinquante, entretenue par le royaume chérifien. En novembre 2016, Mohammed
116
Allocution prononcée par SM le Roi Mohammed VI lors du dîner officiel
offert, le 5 avril 2005 au palais royal à Rabat, en l’honneur du président de la
république de Madagascar, M. Marc Ravalomanana. Site du Ministère des
affaires Étrangères et de Coopération, Maroc : www.maec.gov.ma/en signet
« discours royaux » le 05/04/2005.
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Garan, Ranavalona III et Mohammed Ben Youssef
VI a profité du sommet de la francophonie à Antananarivo pour
faire une visite à Antsirabe. Un pèlerinage rapide pour lancer les
travaux d’un hôpital financé par le Maroc, qui devrait réactiver
la mémoire de l’exilé auprès de la population. Par contre, de
l’autre côté de notre histoire parallèle, le souvenir de la « petite
reine » à Alger s’évapore inexorablement117.
Figura 14, La mosquée d’Antsirabe, entretenue par le Maroc, photographie de Frédéric Garan
117
C’est paradoxalement la maison où la reine séjourna à Fontainebleau qui
porte aujourd’hui une plaque commémorative.
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Série géographique Réunion, carton 414 d 4008 « Ranavalona à
la Réunion »
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« Transfert des restes mortels de la reine Ranavalona III »
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Madagascar, pt 172, Informations aux provinces sur le Sultan
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Madagascar, ds 494, Informations aux provinces sur le Sultan
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(PDI) dresse un état des lieux des négociations franco-marocaines
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Presse
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Charles, Accueillir les réfugiés ardennais
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Accueillir les réfugiés ardennais à Paris entre 1914 et
1918
di Nicolas CHARLES
Université de Paris 1 Panthéon-Sorbonne
DOI 10.26337/2532-7623/CHARLES
Riassunto : Nel 1914, numerosi civili abbandonarono il loro territorio di
fronte all’avanzata tedesca : da quel momento divennero rifugiati. Fu una
condizione particolarmente difficile che stimolò l’organizzazione di una rete
di solidarietà simili a quella proposta a Parigi dall’associazione « la Fraternelle Ardennaise ». Quest’ultima creò un giornale « L’Ardennais de Paris »,
un modo concreto di sostenere i rifugiati facilitando la loro integrazione nella
società durante il conflitto.
Abstract : In 1914, many civilians fled the German invasion of their territory :
they became refugees. That situation was very difficult for those who experienced it, this is why, when they arrived in free France, associations like « la
Fraternelle Ardennaise » in Paris are created specially for them. This association created a paper, « L'Ardennais de Paris » and organized many things in
order to help refugees who arrived in Paris during all the war.
Keywords: Refugees, “Ardennais de Paris”, World War I
Sommario : Introduction – Pourquoi fuir ? – L'arrivée en France. L'accueil
et l'aide aux réfugiés : l'exemple à Paris – L'Ardennais de Paris : un journal
crée pour aider les réfugiés – Le fonctionnement de l'aide apportée par l'Ardennais de Paris aux réfugiés – Conclusion – Annexes – Liste des sources –
Bibliographie
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15 gennaio 2018.
Viaggiatori. Circolazioni scambi ed esilio, Anno 1, Numero 2, marzo 2018
ISSN 2532-7623 (online) – ISSN 2532–7364 (stampa)
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Charles, Accueillir les réfugiés ardennais
Introduction
Quelques jours après le début du conflit, les Allemands envahissent le royaume de Belgique, pourtant neutre. En peu de
temps, la petite armée belge qui se bat avec courage, est submergée, la majeure partie du pays occupée. Les troupes de Guillaume II foncent ensuite vers la frontière française, poussant devant eux un flot de réfugiés qui colporte de nombreuses atrocités1 commises par les armées du Kaiser. En arrivant en France,
un mouvement de panique se crée, formant ainsi une première
émigration vers Paris ou le sud du pays afin de trouver une zone
de repli loin des combats. Il s'agit surtout ici de personnes relativement aisées2 qui ont les moyens de fuir et surtout de la famille pouvant les accueillir loin du front. Dès le début des combats, les réfugiés et déplacés sont des acteurs à part entière de ce
conflit, victimes collatérales de l'invasion puis de l'occupation
allemande. En effet, une fois le front stabilisé à l'automne 1914,
le flot de réfugiés en provenance des zones de combat ne s'est
pas tarit, il a même augmenté à partir de 1915-1916 au moment
où les Allemands ont évacué toutes les bouches inutiles afin de
limiter les problèmes de ravitaillement. Nous allons donc, dans
ce présent article, parler des réfugiés ardennais durant toute la
guerre et de leur accueil à leur arrivée à Paris pour ceux qui
choisissent de demeurer ou de transiter par la capitale. Des
1
Viols, meurtres de civils, mais aussi mains coupées et autres mutilations.
Nous y reviendrons plus loin. Voir J. HORNE, A. KRAMER (eds.), German
Atrocities, 1914. A History of Denial, New Haven et Londres, Yale University Press, 2001, 608 p. (trad. française 1914, les atrocités allemandes, Tallandier, 2005, 640 p.). Voir aussi A. KRAMER, Les « Atrocités allemandes »
: mythologie populaire, propagande et manipulation dans l’armée allemande, in J.J. BECKER (ed.), Guerre et culture, 1914-1918, Paris, Armand
Colin, 1994, pp 147-164.
2
Comme le maire de Charleville (Ardennes), Bouchez-Leheutre, qui fait partie de la bourgeoisie locale.
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malheureux du temps de l'invasion qui ont du tout abandonner
pour fuir les Allemands : telle est l'image que les réfugiés renvoient auprès du reste de la population. C'est pour cette raison
qu'une solidarité inter-réfugiés se créée dès l'invasion de 1914.
Ainsi, à Paris, des organisations d'aide aux réfugiés, à l'image de
la Fraternelle Ardennaise pour les Ardennes, se mettent en
place. Elles sont souvent constituées par des réfugiés originaires
du même département. Nous verrons, à travers l'étude de la Fraternelle Ardennaise et de son journal « L'Ardennais de Paris »
comment l'entraide entre réfugiés fonctionne et pourquoi, plus
que l’État, c'est ce type d'association qui a essayé d'améliorer les
conditions de vie de ceux qui ont fui, entre 1914 et 1918 leur
région occupée par l'ennemi.
Pourquoi fuir ?
Sont qualifiés de réfugiés tous ceux qui sont partis, de
leur propre initiative, de leur région d'origine lors de l'invasion
germanique en août-septembre 1914. Fuir les monstres, les hordes de barbares ou de Huns, telles sont les images véhiculées par
les réfugiés quand ils arrivent à l'arrière du front. En effet, la peur
est la première motivation qui pousse les civils à quitter leur lieu
de résidence lorsque celui-ci est proche de la zone des combats.
La peur pour sa vie et celle des membres de sa famille est une
raison essentielle dans le choix de nombreuses personnes de laisser leur maison et une partie de leur biens à la merci des ennemis.
Ainsi les premiers réfugiés qui quittent les régions du nord-est
menacées par l'arrivée des troupes de Guillaume II appartiennent
la plupart du temps aux catégories sociales les plus élevées, nous
en reparlerons plus loin. Revenons quelques instants sur la peur
de l'ennemi en nous posant la question de sa représentation chez
les civils français. En août 1914, les armées franco-anglaises
sont malmenées par les soldats germaniques, représentés dans la
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presse alliée comme des barbares ou des animaux qui violent un
territoire neutre3, pillent ses habitations, assassinent, violentent
et torturent ses habitants. Cette image désastreuse des troupes
allemandes s'explique de plusieurs manières. Il s'agit tout d'abord de l'ennemi, il convient donc de lui donner une image déplorable qui doit renforcer la haine de tous ceux qui s'opposent
à eux. La propagande alliée des débuts du conflit insiste donc sur
les champs lexicaux et visuels de la barbarie et de l'animalité.
Ceci est d'autant plus d'actualité lors de l'invasion allemande que
des rumeurs folles circulent sur des exactions germaniques visà-vis des civils : viols, meurtres, mais surtout des scènes de tortures sont colportées par les réfugiés, ce qui terrorise les populations. C'est le cas par exemple de la rumeur autour des enfants
belges qui auraient eu des mains coupées. John Horne et Alan
Kramer, spécialistes des exactions lors de l'invasion allemande
de 1914 ont bien étudié le processus de diffusion des rumeurs et
ses conséquences sur les populations civiles4.
Des massacres de civils ont toutefois bien été perpétrés par
les Allemands, de nombreux cartons d'archives leurs sont consacrés, que ce soit aux Archives nationales ou au SHD5. Les réfugiés à leur arrivée à l'arrière du front, puis les évacués à leur arrivée en France sont systématiquement interrogés sur les massacres éventuels de 1914. Il s'agit pour les autorités françaises, tout
au long du conflit, de constituer des dossiers à charge contre les
Allemands qui peuvent servir après-guerre pour d'éventuels
3
Le royaume de Belgique
Voir HORNE, KRAMER, German Atrocities, 1914. A History of Denial.
5
Service Historique de la Défense, situé au château de Vincennes près de
Paris, qui regroupe les archives de l'armée de terre française de la Grande
Guerre.
4
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procès6, mais aussi pour influer sur les négociations de paix au
moment où elles seront engagées. Il convient ici de s'arrêter sur
les exactions allemandes, car leur impact sur l'imaginaire collectif des civils français se perpétue tout au long de la guerre7. L'exemple du village de Haybes-sur-Meuse8 est très significatif
pour expliciter dans quel état d'esprit se trouvent civils français
et soldats allemands après quelques semaines de conflit. En effet, la commune a été totalement incendiée et une soixantaine
d'habitants sont exécutés par les soldats allemands qui venaient
de perdre un des leurs dans des combats aux alentours de la localité. Comme en Belgique, notamment à Dinant9, la population
civile est tenue responsable du meurtre de soldats allemands :
ces derniers agissent en représailles sur les civils accusés d'être
des francs-tireurs qui ralentissent l'avancée des troupes germaniques. Bercés par les récits de leurs pères passés par là lors de la
guerre de 1870-1871, les armées de Guillaume II se méfient
énormément des civils qui pourraient agir contre eux comme ils
l'avaient déjà fait lors du précédent conflit. C'est sans doute cela
qui explique l'extrême brutalité avec laquelle ils agissent lors de
l'invasion en Belgique et dans le nord de la France. Cela engendre donc de véritables scènes de panique dans les territoires français les plus septentrionaux qui voient déferler sur eux ces ennemis honnis depuis 1870 venant une nouvelle fois les asservir
6
C'est le cas du procès de Leipzig en 1921 où des soldats et officiers allemands sont jugés pour crimes de guerre. La tenue de ce procès était une des
clauses du traité de Versailles du 28 juin 1919.
7
Et sera même mis en avant à la libération pour renforcer le côté tyrannique
des Allemands.
8
Haybes est située au nord du département des Ardennes, sur la Meuse, à
quelques kilomètres de la frontière belge.
9
Bataille du 15 au 23 août 1914 où 674 civils ont été exécutés par les Allemands en représailles.
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et les massacrer10. La répétition des invasions en à peine plus de
quarante ans, conjuguée aux rumeurs sur les massacres réels ou
supposés explique le départ de nombreux civils en août-septembre 1914.
Qui sont donc ces réfugiés qui affluent des départements
frontaliers avec l'Allemagne ou la Belgique ?
Dans la majorité des cas, il s'agit de personnes aisées qui
ont les moyens de financer leur départ puis leur installation dans
la localité de repli : à ce titre, beaucoup de familles bourgeoises
font partie de ces cohortes de réfugiés à l'image du maire de
Charleville dans les Ardennes, Bouchez-Leheutre, membre de la
bonne bourgeoisie de la commune. Dès les premières nouvelles
de l'invasion allemande en Belgique, il quitte, avec sa famille, la
cité carolopolitaine, comme beaucoup d'autres qui ont les
moyens à la fois de fuir, mais aussi de vivre loin de chez eux. En
effet, les réfugiés devaient posséder une certaine fortune personnelle ou compter sur les solidarités familiales ou amicales dans
leur localité d'accueil, car dès les débuts des combats, l'État français légifère sur les aides à fournir aux personnes qui ont quitté
leur domicile à cause du conflit.
L'instruction ministérielle du 12 décembre 1914 sur « le rapatriement des
réfugiés et évacués » disposant dans son paragraphe 3 que les familles françaises évacuées de leur résidence par l'autorité militaire11 seront rapatriées
aux frais du département de la guerre […].
10
Cette remarque est encore plus vraie pour l'invasion de 1940 : l'énorme
exode déclenché en mai 1940 pour l'avancée des troupes d'Hitler est en grande
partie dû aux invasions précédentes : les civils du nord-est de la France ne
voulant alors pas revivre une troisième occupation en soixante-dix ans se jettent massivement sur les routes pour fuir vers le sud.
11
Il s'agit ici de l'armée française qui a évacué, lors de la stabilisation du front
à l'automne 1914, de nombreux civils français dont le domicile se situait à
proximité immédiate des combats.
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J'ai l'honneur de vous faire connaître que c'est aux familles intéressées, qui
sollicitent le bénéfice de ces décisions, qu'il appartient de faire la preuve (par
production d'ordres écrits ou de témoignages officiels), qu'elles ont bien été
évacuées de leur résidence par ordre.
Si la preuve ci-dessus n'est pas faite par elles, les familles devront être considérées comme ayant abandonné leur domicile de leur propre initiative et
dans ce cas, subvenir elles-mêmes aux dépenses de leur rapatriement12.
Nous le voyons donc ici, l'administration française définit
clairement le statut d'évacué : il s'agit de personnes obligées de
quitter leur domicile sur ordre de l'armée. Les réfugiés sont eux
partis d'eux-mêmes au moment de l'invasion allemande en aoûtseptembre 1914. Ces deux statuts sont donc totalement différents
aux yeux des autorités françaises, puisque seul le statut d'évacué
par l'armée française donne droit à des aides. Celles-ci sont destinées à faciliter l'évacuation puis l'installation des civils évacués dans leur région de repli. Les allocations distribuées par l'État pour les autres personnes qui ont quitté leur région envahie
existent, elles sont fournies suite à la mise en place d'un dossier
administratif. Il s'agit d'un soutien financier institutionnel destiné à faciliter la vie dans la région de repli. Dans tous les cas,
chez les plus démunis, souvent des ouvriers ou personnes de faible qualification, elles ne suffisent pas pour faire vivre toute la
famille, ce qui pousse les exilés à trouver des solutions alternatives pour subsister. Le plus souvent, ce sont des gens originaires de la même région se trouvant dans la localité d'accueil qui
les aident ou qui mettent en place des réseaux d'entraide, nous le
verrons plus loin avec l'exemple de l'Ardennais de Paris où, à
travers ce journal, nous pouvons voir une véritable solidarité endogamique se mettre en place entre tous les Ardennais qui ont
quitté leur département à cause du conflit.
12
Lettre du général Graziani, sous-chef d'état major de l'armée, 17 mai 1915.
Archives Nationales, 7 N 143.
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Quels chiffres pour les ceux qui ont quitté les combats ou
l'occupation entre 1914 et 1918 ?
Il convient de voir tout d'abord le nombre de personnes
évacuées par les Allemands à partir de 1915. Aux vues de
différentes sources, il semble que le chiffre de 500 000 personnes13 évacuées par les Allemands entre 1914 et 1918 soit crédible. Le nombre d'évacués varie bien sûr selon les différents
départements. Dans les Ardennes, seul département entièrement
occupé, 70 000 personnes14 sont évacuées entre 1915 et 1918. Il
s'agit ici d'un département majoritairement rural où la population
est moins élevée que dans le Nord. Ainsi, à Lille, plus de 30 000
personnes15 font partie des convois envoyés vers la France via la
Suisse sur la durée du conflit. La grande ville du Nord, du fait de
la mobilisation en 1914, du départ de nombreux réfugiés en 1914
puis des évacuations entre 1915 et 1918, a perdu la moitié de sa
population entre 1913 et 191816. Cette baisse démographique est
très visible dans de nombreuses villes des Ardennes : Rethel,
proche du front, n'a plus que 1600 habitants en novembre 191717,
Mézières la préfecture du département 4000 et Charleville, la
plus grande ville des Ardennes est passée à la fin de 1917 en
dessous de 9000 habitants18. En 1918, les territoires occupés ont
donc perdu, entre la mobilisation des hommes en 1914 puis les
13
P. NIVET, La France occupée, 1914-1918, Paris, Armand Colin, 2011, p.
311.
14
Ibidem.
15
Ibidem.
16
Lille avait 217 000 habitants avant la guerre, il n'en reste plus que 112 000
à la libération de la ville en octobre 1918.
17
Rethel possède 5187 habitants au recensement de 1911.
18
Pour ces chiffres sur les Ardennes, voir Les Ardennes durant la Grande
Guerre, Charleville-Mézières, 1994 (ouvrage collectif).
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différentes vagues de départs tout au long de la guerre, la majorité de leur population d'avant-guerre. Nous le voyons donc, entre les départs volontaires au moment de l'invasion, puis ceux
dus aux bombardements et à la stabilisation du front et enfin les
évacuations pratiquées par les Allemands durant la suite du conflit, deux millions environ de civils français ont quitté leur domicile19. Il s'agit d'un mouvement de population majeur dans
l'histoire de la France au XXème siècle après bien sûr celui de
l'exode20 massif de mai-juin 1940. Face à ces grands déplacements de population, les Français s'organisent dès le mois d'août
1914 pour accueillir toutes les personnes qui ont fui les Allemands. L'exemple de Paris, premier lieu d'accueil, est très représentatif.
L'arrivée en France. L'accueil et l'aide aux réfugiés : l'exemple à Paris
Une fois arrivés en lieu sûr à l'arrière du front, les réfugiés peuvent compter sur une certaine solidarité pour pouvoir vivre et s'installer durablement dans leur localité d'accueil. Nous
l'avons vu plus haut, la majorité des réfugiés en provenance des
zones de combats arrive à Paris. Si pour la plupart d'entre eux,
la capitale française n'est qu'une étape avant de rejoindre leur
point de chute définitif, beaucoup plus loin (Bretagne ou le Midi
par exemple), de nombreux réfugiés décident de rester à Paris ou
en banlieue. À cela plusieurs raisons : la relative proximité avec
le front et les régions envahies en sont les principales : beaucoup
19
P. NIVET, Les réfugiés français de la Grande Guerre, 1914-1920, les « Boches du Nord », Paris, Economica, 2004, 598.
20
Cet exode reste le plus massif et le plus marquant dans l'imaginaire collectif
français du XXème siècle : tous les départements de la frontière nord-est de
la France ont été en mai 1940 quasiment vidés de leur population, ce qui n'est
pas le cas durant le premier conflit mondial.
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de réfugiés ont espoir que la guerre sera courte et qu'ils pourront
rentrer vite chez eux. Pour eux il ne sert donc à rien de trop s'éloigner : Paris est un excellent compromis. Ensuite, du fait du
développement industriel parisien depuis le siècle précédent, de
nombreuses personnes avaient quitté le Nord ou les Ardennes
par exemple pour aller chercher du travail à Paris : ces anciens
émigrés économiques sont, pendant la Première Guerre mondiale, un groupe d'accueil potentiel pour les réfugiés. Dans ce
cas là, la solidarité familiale fonctionne joue un rôle très important : parmi ceux qui ont fui l'avancée des troupes allemandes,
beaucoup trouvent refuge chez un membre de leur famille à Paris. C'est même parfois une des raisons de la fuite : parmi les
réfugiés qui sont partis dès les premiers jours de la guerre, beaucoup l'ont fait parce qu'ils savaient où aller. Si Paris est le premier lieu d'accueil des réfugiés en France, c'est à cause des facilités que peuvent y trouver les émigrés pour réorganiser leur vie.
Il y a tout d'abord la présence du pouvoir : ministères et administrations y développent des structures destinées à la fois à secourir tous les réfugiés, mais aussi à les interroger. Sous l'égide du
ministère de l'Intérieur (et donc des préfets dans chaque département), ces structures sont peu à peu délocalisées dans tout le
pays qui n'est pas concerné par les combats. Le but est clairement
de désengorger la capitale qui croule sous le flot des réfugiés dès
la fin de l'été 1914.
Le grand nombre de réfugiés présents à Paris fait que, dès
les débuts du conflit, une solidarité endogamique se met en
place : les réfugiés s'entraident. Celle-ci revêt d'ailleurs un caractère géographique : des associations21 de réfugiés sont créées
dès le mois d'août 1914 à Paris pour faciliter l'accueil des nouveaux arrivants. Le cas de la Fraternelle ardennaise à Paris et
21
Leur création est rendue possible par la loi de 1901 qui, à la fois réglemente,
mais surtout simplifie, la création des associations en France.
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de son journal L'Ardennais de Paris et de la banlieue fondé à
l'attention des réfugiés en provenance de ce département illustre
très bien ce phénomène. Pour ce petit département majoritairement rural, il y a durant la durée du conflit, deux journaux à destination des réfugiés22 : L'Ardennais de Paris23 que nous allons
étudier, et le Bulletin Ardennais. La différence est essentiellement politique : le premier est de tendance radical-socialiste, le
second est plus conservateur. Le but premier de ces deux journaux est de servir de bulletin de liaison entre tous les réfugiés
originaires du département se trouvant dans l'agglomération parisienne.
L'Ardennais de Paris : un journal crée pour aider les réfugiés
L'Ardennais de Paris est un journal bi-hebdomadaire publié sous l'égide de la Fraternelle Ardennaise. Celle-ci est une
société de secours mutuels24 et de retraite fondée en 1889. Elle
servait à payer les soins de santé et les retraites de ses adhérents25
ardennais vivant à Paris ou dans sa région. Avec le début des
hostilités en 1914, son rôle se diversifie. Avec l'afflux massif de
réfugiés, la Fraternelle Ardennaise décide de prendre en charge
une grande partie des besoins de ces derniers : fourniture de
22
Pour des journaux de réfugiés concernant d'autres départements, voir aux
Archives nationales : F 23/4 : Le Rémois, Reims à Paris, Le petit Rémois, La
Fraternelle des combattants roubaisiens, La Picardie, Le Bulletin Halluinois,
Le bulletin mensuel de la société amicale des originaires de l’Oise.
23
Archives Départementales des Ardennes, Per H 27. La série ne comporte
pas l'ensemble des numéros. D'autres numéros sont visibles au Service Historique de la Défense : 5 N 377 .
24
Pour une étude approfondie des sociétés de secours mutuels dans les Ardennes, voir J. DUPUY, Histoire de la mutualité dans les Ardennes, éditions
Terres Ardennaises, Charleville-Mézières, 2006.
25
Avant la création de la sécurité sociale à la fin de la Seconde Guerre mondiale.
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Charles, Accueillir les réfugiés ardennais
moyens de subsistance, de vêtements voire location de logements. Pour fédérer toutes ses actions, elle publie un journal,
l'Ardennais de Paris26. Celui-ci est domicilié au café des Folies
Dramatiques27 puis, à la fin de la guerre, ses locaux déménagent
au 17 rue Château Landon, toujours à Paris. Le fondateur du
journal est le docteur Doizy, son rédacteur en chef est G. Sagebin28, remplacé ensuite par Lucien Dauven, un réfugié, professeur avant-guerre au lycée de Charleville. Paul Landoy29 est
rédacteur en chef-adjoint et M.Agobert trésorier : nous voyons
donc que le journal destiné aux réfugiés est dirigé par le bureau
directeur de la société de secours mutuels qui l'a fondé. L'équipe
de rédaction du journal est, au niveau politique, de gauche modérée, c'est-à-dire proche des radicaux-socialistes. Ralliés à l'Union Sacrée dès les premiers jours du conflit, cette équipe dirigeante se met rapidement au service de ceux qui en ont le plus
besoin : les réfugiés. Pour tous les membres de la Fraternelle
Ardennaise, s'occuper des civils fuyant les Ardennes, c'est à la
fois faire la guerre et soulager le malheur de ceux qui se sont
enfuis. Il s'agit d'actions philanthropiques, mais, dans le contexte
d'une guerre en voie de totalisation, l'accueil et le secours des
réfugiés est un acte militant de concitoyens soudés pour aider
des victimes du conflit. Le journal, de quatre pages, est fabriqué
par l'imprimerie Ch. Ronsin au 63 boulevard Montparnasse à Paris. Le prix de vente du numéro est de 10 centimes puis 15 centimes quand le format change et que la parution devient hebdomadaire. Le journal est assez largement diffusé à Paris30, surtout
26
Voir annexe n°1.
40, rue de Bondy à Paris.
28
Président de la Fraternelle Ardennaise.
29
Secrétaire général de la Fraternelle Ardennaise.
30
Les points de vente parisiens sont : 19, rue Pajol, Kiosque 120, gare SaintLazare, gare de l'Est, gare de Lyon, gare Montparnasse, place de la République.
27
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dans les gares, points névralgiques puisque la plupart des réfugiés arrivent à Paris par le chemin de fer. Devant le succès parisien et la dissémination progressive des réfugiés ardennais dans
tout le territoire français, l'Ardennais de Paris acquiert rapidement une diffusion nationale31. Le fait que ce journal destiné aux
réfugiés soit disponible sur la majorité du territoire révèle qu'il y
a des réfugiés accueillis un peu partout en France et que des journaux du type l'Ardennais de Paris sont des sources d'informations essentielles pour ces derniers. Ils permettent de pouvoir
communiquer entre eux par le biais des petites annonces et surtout d'avoir des nouvelles spécifiques des territoires occupés, ce
que ne font pas forcément les journaux nationaux. Pour développer un réseau de diffusion d'un ampleur nationale, nous pouvons
supposer que la Fraternelle Ardennaise possède une réelle puissance financière qui lui permet de payer un tirage de 9000 exemplaires à chaque numéro32. Dans une période de restrictions aussi
importante, notamment pour le papier qui était contingenté et
diffusé au compte-goutte par l'armée, la « valeur patriotique » de
ce type de journal était donc jugée très importante par l’état-major. Nous y reviendrons plus loin, mais il semble que le choix de
certains articles dans le journal soit guidé par la nécessité de
plaire à l'armée afin que celle-ci continue de livrer du papier au
31
D'après le n°18 du 3 décembre 1914, l'Ardennais de Paris est disponible
dans les villes suivantes : Bordeaux, Troyes, Nantes, Saint-Nazaire, Marseille, Plouagat, Verdun, Rouen, Orléans, Moulins, Montluçon, Chatelaudren, Guingamp, Rennes, Tours, Trouville, Les Aubrayes, Noisy-le-Sec,
Versailles, Vannes, Châlons-sur-Marne, Reims, Epernay, Beauvais, VillersCotterêt, Châteauroux, Toulouse, Ancenis, Le Mans et Lyon dans un premier
temps à l'automne 1914. Quelques mois plus tard, la diffusion s'étend encore
aux villes suivantes : Auxerre, Limoges, Saint-Etienne, Vichy, Poitiers, Barle-Duc, Nancy, Fougères, Vierzon, Nevers, Saint Dizier, Angers, Meaux,
Bourges, Clermont-Ferrand.
32
Son concurrent, le Bulletin Ardennais, dispose à la même période de chiffres de parution quasi identiques.
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Charles, Accueillir les réfugiés ardennais
combien nécessaire à la vie du journal. Même si tout au long du
conflit son tirage diminue et sa parution devient hebdomadaire,
signe de la difficulté à se procurer de la matière première qu'est
le papier, il faut bien avouer que la détermination des rédacteurs
et journalistes à faire paraître cette publication de façon continue
tout au long du conflit est une vraie preuve de l'implication de
toute l'équipe à aider et renseigner les réfugiés, mais aussi de
faire la guerre à leur façon ; preuve de l'importance de l'implication des civils dans la Première Guerre mondiale. Il convient
maintenant de nous poser la question du lectorat de ce type de
journal. Celui-ci est relativement important sur Paris où il est lu
par la majorité des réfugiés. Avancer des chiffres précis concernant le nombre exact de lecteurs est un exercice délicat. Si l'Ardennais de Paris est très lu chez les réfugiés, cela ne veut pas
dire que le journal est acheté par tous, loin s'en faut. En effet, son
prix est assez élevé pour l'époque puisqu'il est de 10 puis 15 centimes33, ce qui conduit sans doute, non pas à diminuer son lectorat, mais ses acheteurs potentiels. Le prêt de l'Ardennais de Paris
entre les réfugiés est une pratique courante pour limiter les dépenses chez ces derniers dont les moyens sont souvent très modestes. Cela permet au plus grand nombre de réfugiés d'accéder
à de nombreuses informations vitales. Chaque numéro passait
donc entre plusieurs mains. Si la lecture de ce journal est importante en « France libre », celui-ci n'est pas du tout lu en France
occupée à cause de l'imperméabilité du front : dans les territoires
soumis à l'administration allemande, tout journal français est interdit, hormis le journal collaborationniste francophone La Gazette des Ardennes34.
33
Alors que la majorité des grands quotidiens nationaux sont vendus 5 centimes.
34
Journal rédigé à Charleville et diffusé dans toute la zone française occupée.
Il s'agit d'un journal écrit en français, contrôlé par l'armée allemande et servant à diffuser les informations de celle-ci.
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Comme la plupart des journaux nationaux de l'époque,
l'Ardennais de Paris traite dans ses premières pages des informations générale, c'est à dire de politique et de guerre. Ainsi
dans le numéro 635 en première page est évoquée la visite de
Maurice Braibant, député de Rethel, près du front en Champagne, au nord de Reims, c'est à dire aux limites de sa circonscription36. Comme l'immense majorité des hommes politiques ardennais, Maurice Braibant a fuit dès l'invasion allemande et se
retrouve à Paris. C'est donc lui aussi un réfugié. Dans cette visite
qu'il effectue après la victoire de la Marne qui dégage Paris et
stabilise le front au nord de Reims, le député ardennais rend
compte de ce qu'il voit, et insiste en particulier sur les destructions allemandes qui ont émaillé la plaine champenoise et mutilé
en particulier la ville de Reims37, surtout sa cathédrale, lieu symbolique dans l'histoire de France38. C'est un article très intéressant pour les réfugiés car il les renseigne sur la situation de leur
département, mais pas seulement. L'idée du journaliste en écrivant cet article est de s'inscrire dans la lignée éditoriale des
grands journaux nationaux : il s'agit de se placer dans l'Union
sacrée face à l’envahisseur qui doit être présenté et décrit comme
un barbare venant détruire la France et ses habitants. Le but de
cette propagande, soutenue par l'État français, est de mobiliser
toute l'opinion publique contre les Allemands. Nous le voyons
donc ici, même si l'Ardennais de Paris est un journal qui s'adresse en priorité aux réfugiés, mais pas uniquement. Son but est
aussi, comme tous les journaux français, de participer à « l'effort
35
L'Ardennais de Paris, 22 octobre 1914.
Rethel est une sous-préfecture située au sud du département des Ardennes,
c'est-à-dire à la limite du front, mais dans la zone occupée par les Allemands
depuis la fin du mois d'août 1914.
37
L'Ardennais de Paris, n°20, du 10 décembre 1914
38
C'est dans cette cathédrale qu'ont été sacrés la quasi totalité des rois de
France jusqu'en 1824.
36
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de guerre » en mobilisant l'opinion publique contre l'ennemi.
C'est pour cela que dans tous les numéros, comme une litanie,
les bombardements et les destructions occasionnées par l'armée
du Kaiser sont évoqués39 pour forger un sentiment anti-germanique dans la population et de ce fait renforcer le soutien du peuple français auprès du gouvernement et de l'armée. Les atrocités
allemandes des premiers temps du conflit sont évoquées pendant
plusieurs mois : à l'instar de la presse nationale et internationale,
elles sont ici aussi largement amplifiées toujours dans une visée
de propagande contre les Allemands. Ainsi, plusieurs numéros
sont consacrés à des évocations des massacres qui ont eu lieu en
août 1914 à Haybes, Gué d'Hossus, Rethel ou Hannogne-SaintMartin40 dans les Ardennes. À chaque fois, des témoignages de
réfugiés sont repris par les rédacteurs pour étayer leur propos.
Dans le numéro 641, sur la première page, un encart traite de la
visite de élus des départements envahis aux réfugiés de leur département d'élection qui affluent massivement sur Paris. Cela
doit montrer aux lecteurs l'importance de ne pas oublier les populations passées sous le joug germanique de l'autre côté du
front, mais aussi de mobiliser l'opinion publique en France sur
le sort des malheureux réfugiés, souvent miséreux car ils ont du
tout laisser avant de fuir devant l'avancée des troupes de Guillaume II. D'ailleurs, les numéros 8, 14 et 2142 renforcent cette
idée puisque à chaque fois, l'article à la Une est consacré aux
populations réfugiées en provenance des départements envahis43. Ces articles ont donc pour but d'informer les populations
39
L'Ardennais de Paris, n°20, du 10 décembre 1914
L'Ardennais de Paris, n°31, du 31 janvier au 6 février 1915.
41
L'Ardennais de Paris, n°31, du 31 janvier au 6 février 1915.
42
Respectivement des 29 octobre, 19 novembre et 13 décembre 1914.
43
La majorité des exemples cité est bien sûr les Ardennais, cœur de cible du
lectorat du journal, mais pas que, preuve de la volonté des rédacteurs du jour40
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de l'arrière sur le sort de tous ceux qui fuient les combats. Le
portrait brossé des réfugiés est à chaque fois assez larmoyant, il
insiste sur leur situation précaire et bien souvent miséreuse. Le
but est donc clairement pour les rédacteurs de l'Ardennais de Paris de créer autour d'eux un élan de solidarité44 des populations
de l'arrière envers leurs compatriotes qui ont choisi de fuir leur
maison devant la menace germanique. Cette ligne éditoriale continue tout au long du conflit puisque le numéro 19545 traite par
exemple toujours des mauvaises conditions de vie des réfugiés
alors que nous sommes dans la quatrième année de guerre. Nous
pouvons donc même dire que leur sort se dégrade puisque les
dons de vêtements par exemple ont tendance à se raréfier, ce que
nous pouvons voir à travers les distributions annoncées dans le
journal qui se font en 1918 de façon épisodique et non plus régulières. L'élan de solidarité s'est donc essoufflé à cause de la durée
du conflit, tous les civils souffrant désormais en 1918 de restrictions dues à la guerre.
Comme tous les autres journaux de l'époque, l'Ardennais
de Paris évoque donc une série de sujets généraux : le but est
que les lecteurs, qui sont majoritairement des réfugiés, trouvent
aussi au sein de leur journal des informations plus générales. Le
périodique se veut donc relativement complet afin de répondre
au mieux aux attentes des réfugiés. Ainsi, dans les premiers numéros, les articles généraux sont de véritables panégyriques à la
gloire des soldats français et de leur sacrifice pour le pays. Des
descriptions des techniques de combat de l'armée française sont
nal de montrer aux lecteurs la convergence de tous les témoignages en provenance de toutes les zones du front. Cela permet d'insister sur l'unité du caractère allemand, qui commet partout des actes de barbarie.
44
Ainsi, nous verrons plus loin que le journal fait systématiquement appel
aux dons, que ce soit de l'argent ou des vêtements, qui sont servent ensuite à
aider les réfugiés bénéficiaires.
45
Du 14 au 20 mars 1918.
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présentées46 dans le but de présenter à l'arrière une vision idyllique. Il s'agit de rassurer les lecteurs sur la fin proche des combats, sur le fait que les Allemands vont bientôt être repoussés, ce
qui devrait hâter le retour des réfugiés chez eux. Nous sommes
ici dans du « bourrage de crâne », dans de la propagande à l'instar
de ce que fait toute la presse alliée au moins jusqu'en 1915. La
déformation de l'information est donc utilisée par les journalistes, avec la bénédiction des autorités, pour soutenir le moral des
réfugiés dont la majorité se retrouvent de plus en plus démunis
au fur et à mesure que la durée de la guerre s'allonge.
À l'image de toute la presse de son temps, l'Ardennais de
Paris sert aussi à diffuser les informations officielles provenant
du gouvernement ou de l'administration. Ainsi, régulièrement,
des décrets officiels sont diffusés par voie de presse pour informer la population (et principalement les réfugiés). Ainsi, dans le
numéro 1947, est publié le décret sur la réquisition forcée par l'État des logements en France des ressortissants des Empires centraux pour loger des réfugiés. Les différents emprunts de guerres
mis en place par l'État tout au long de la guerre sont systématiquement relayés dans le journal48, preuve de l'implication
idéologique de celui-ci. Même s'il diffuse des informations officielles, comme ses confrères, le journal doit soumettre sa maquette avant la parution aux autorités de censure. Dans plusieurs
numéros, à l'image de ce que l'on peut voir dans la première page
du numéro 3949 où tous les articles qui devaient s'y trouver ont
été interdits, la censure touche donc aussi ce périodique pourtant
destiné à informer un groupe social nécessiteux en temps de
guerre : les réfugiés et les rapatriés. Mais, la censure ne touche
46
L'Ardennais de Paris, n°20, 10 décembre 1914.
L'Ardennais de Paris, n°19, 6 décembre 1914.
48
Voir annexe n°2.
49
L'Ardennais de Paris, n°39, du 28 mars au 3 avril 1915.
47
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pas les rubriques « pratiques », celles dont l'utilisation est quotidienne pour les réfugiés. Elle touche surtout les premières pages,
tournées en général vers la guerre ou la politique (nationale ou
internationale) ; autant de sujet sensibles dans cette période de
conflit. Les rédacteurs de l'Ardennais de Paris veulent, malgré
tout, maintenir une certaine liberté de parole au sein de leur journal. Ainsi, après l'exemple du numéro 39 où les autorités ont interdit publication de toute la première page, dans le numéro suivant50, le rédacteur en chef, Lucien Dauven, s'exprime de façon
assez ouverte et critique envers la censure dans son éditorial. Il
y a donc parmi l'équipe éditoriale du journal une volonté de servir son pays, d'aider les réfugiés, mais pas à n'importe quel prix.
Il s'agit là d'une mentalité de gauche, tout à fait en adéquation
avec l'état d'esprit des fondateurs de la société de secours mutuels la Fraternelle Ardennaise et de l'Ardennais de Paris qui
sont radicaux-socialistes.
Comme dans les autres journaux, la politique intérieure
est évoquée dans de nombreux articles tout au long des parutions, même si ceux-ci sont plus développés et étayés lorsqu'il
s'agit de sujets sur des lois ou des arrêtés qui concernent directement les réfugiés ou les régions occupées. Ainsi, dans le numéro
2351, le journal prend position sur le vote par le parlement d'une
loi qui doit indemniser les réfugiés selon les préjudices subis lors
de leur exil. Il s'agit donc bien ici d'un acte militant, qui va beaucoup plus loin que le simple aspect informatif. Le but des rédacteurs du journal est donc clairement d'aider ses lecteurs, les réfugiés, par tous les moyens, y compris en servant de lobby auprès
du gouvernement. D'ailleurs, dès janvier 1915, alors que la
guerre est loin d'être terminée et surtout gagnée, le journal s'engage dans une série d'articles, régulièrement répétés jusqu'au
50
51
L'Ardennais de Paris, n°40, 4 au 11 avril 1915.
L'Ardennais de Paris, n°23, 24 au 31 décembre 1914.
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traité de Versailles, ayant pour thème la question des réparations52 que les Allemands devront payer lorsqu'ils auront été
vaincus, à la France et surtout aux régions sinistrées, d'où sont
originaires les réfugiés. Une série d'articles intitulée « ponctualité », diffusée en 1915, a pour but d'interpeller régulièrement
des fonctionnaires ministériels sur ce sujet épineux dès les mois
de mai et de juin 1915. Le journal tient donc tout au long du
conflit une ligne patriotique. Celle-ci s'entend bien sûr dans le
sens de la défense des intérêts de la France. Nous pouvons aussi
y voir un autre patriotisme, celui de la défense des intérêts de la
« petite patrie », les Ardennes. En effet, nous l'avons vu, le credo
du journal est de venir en aide aux réfugiés, sans oublier les civils restés dans les territoires occupés : le journal consacre dans
tous ces numéros une rubrique53 à ces derniers en diffusant des
nouvelles des Ardennes à partir des propos recueillis chez les
nouveaux arrivants. En 1915, agissant en tant que véritable
lobby, les rédacteurs du journal interpellent les membres du parlement pour qu'ils enquêtent sur plusieurs généraux coupables à
leurs yeux d'avoir en 1914 mal mené plusieurs batailles décisives
qui ont conduit à l'occupation des Ardennes comme celle de Lille
et surtout de Reims54. Vers la fin du conflit, à partir d'août 1918,
lorsque les Allemands commencent à reculer, les éditoriaux concernent de plus en plus le règlement du conflit, le retour des réfugiés chez eux et donc la question des réparations. Nous avons vu
plus haut que cette dernière question est présente de façon régulière dans l'Ardennais de Paris tout au long du conflit. Le but
était alors de donner une raison supplémentaire de faire la
guerre, pour reprendre les territoires perdus et rendre leur dignité
aux réfugiés qui affluent vers la capitale, souvent démunis de
52
Voir annexes n°3 et 4.
Intitulée « En pays envahis »
54
L'Ardennais de Paris, n°28, 10 au 16 janvier 1915.
53
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tout. Cette politique de lobby se perpétue après la guerre où, contre toute attente puisque les exilés commencent à rentrer chez
eux, le journal continue de paraître afin de servir de porte-voix
aux victimes de l'invasion allemande puisque de nombreuses
questions sur ces dernières ne sont réglées qu'au moment du
traité de Versailles en juin 1919. Le journal se fait donc entendre
auprès des autorités française ; il se veut un soutient fort et sans
faille à la politique intransigeante menée par Clemenceau vis-àvis de l'Allemagne. Beaucoup d'éditoriaux traitent alors de la reconstruction des zones de combats et des régions occupées où
les Allemands ont pillé sans vergogne55. Il s'agit alors réellement
d'influencer sur les négociations de paix avec l'Allemagne vaincue en incitant l'opinion publique française à maintenir une ligne
dure contre celle-ci, afin d'obtenir le maximum de réparations
pour les sinistrés (et donc en premier lieu les anciens réfugiés).
C'est le cas par exemple du numéro 24056 qui traite de la « reconstruction agricole » du département des Ardennes, dont le
sud, essentiellement rural, a été largement détruit par les combats et pillé par les réquisitions germaniques tout au long du conflit57. Devant cette volonté populaire, que soutient par une longue campagne éditoriale l'Ardennais de Paris, l'Allemagne est
reconnue coupable d'avoir déclenché la guerre et d'avoir pillé et
détruit les territoires qu'elle a occupé pendant près de cinquante
mois. Elle doit donc payer des réparations à la France, réparations qui vont en grande partie aux anciens réfugiés au titre de
dommages de guerre. Il s'agissait là du dernier combat du journal
55
La majeure partie des usines est hors service, il n'y a plus de fer ou de cuivre
(les cloches sont systématiquement volées et fondues par les Allemands par
exemple), beaucoup de biens sont détruits par les Allemands.
56
L'Ardennais de Paris, n°240, 12 au 19 mai 1919.
57
La plupart du cheptel ardennais a été volé par les Allemands pour alimenter
leur armée en nourriture ou en animaux de trait. Beaucoup de bois ont été
rasés afin de servir de bois d'ouvrage dans les tranchées germaniques.
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qui par la suite disparaît. Il venait de passer plus de cinq années
à aider ceux qui, victimes civiles de la guerre, en avaient un
énorme besoin.
Le fonctionnement de l'aide apportée par l'Ardennais de Paris aux réfugiés
À travers la lecture de ce journal, nous pouvons étudier
le fonctionnement de l'accueil des réfugiés dans une ville par une
association privée, ici la société de secours mutuels la Fraternelle Ardennaise. Celle-ci organise en priorité des collectes de
vêtements redistribués aux réfugiés se trouvant sur Paris. Dans
le journal la rubrique « le vestiaire de la Fraternelle » a pour but
d'informer les personnes intéressées sur les collectes, mais aussi
les réfugiés sur les distributions vestimentaires. Tous les mois,
le journal diffuse la liste des personnes donataires d'argent ou de
vêtements pour redistribuer aux réfugiés. Le nombre, important
en 191458, se maintient les années suivantes puis diminue fortement à partir de 1917, sans doute à cause des effets de la durée
du conflit sur l'économie qui conduit au durcissement général
des conditions de vie en France. Il se peut aussi que la cause des
réfugiés, qui a ému le pays dans les premières semaines du conflit, s'essouffle peu à peu, simplement par le fait que tout le
monde est touché par les conséquences meurtrières de la guerre.
Ces distributions à l'intention des réfugiés se font tous les jours,
au siège du journal59, entre 10 heures et midi puis de 14 h 30 à
17 heures. Face à la pénurie de dons à la fin de la guerre, la fréquence des distributions diminue aussi. Tous les dimanche dans
les locaux du journal, des réunions entre réfugiés sont organi-
58
59
L'Ardennais de Paris, n°11, 8 novembre 1914.
40 rue de Bondy à Paris.
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sées : elles servent de comité de liaison dont les délégués diffusent ensuite au plus près des familles les informations reçues le
dimanche. La première réunion est organisée le dimanche 20
septembre 1914 : elles peuvent accueillir jusqu'à trois ou quatre
mille personnes et se tiennent alors dans la rue60. Nous pouvons
ici supposer que le public n'est pas composé uniquement de réfugiés ardennais, certains doivent être originaires d'autres départements occupés et cette affluence importante est la preuve de l'influence de la Fraternelle Ardennaise et de son journal L'Ardennais de Paris. La santé est une des raisons d'être des sociétés de
secours mutuels61 : même en temps de guerre, la Fraternelle Ardennaise ne déroge pas à la règle. Dès les débuts du conflit, elle
organise auprès des réfugiés des campagnes de vaccinations sous
l'égide des autorités sanitaires. En temps de guerre, face à de vastes mouvements de population et à cause des dégradations des
conditions de vie, il s'agit là d'une politique préventive nécessaire. En effet, sous l'égide du gouvernement sont lancées plusieurs campagnes prophylactiques qui doivent éviter le développement d'épidémies susceptibles d'affaiblir la nation. La plupart
des pays européens mènent des campagnes vaccinatrices identique, ce qui n'empêche toutefois pas la pandémie de grippe espagnole de faire des millions de victimes à travers la planète en
1918-1919. La mise en contact des réfugiés avec leur famille est
une action fondamentale du journal où une rubrique, « recherches dans l'intérêt des familles »62 est créée à cet effet. Celle-ci
est d'ailleurs à l'origine du succès du journal, puisque en ce début
de XXème siècle, la presse est le seul média d'information voire
de communication, surtout lorsqu'on ne sait pas où se trouvent
60
Ardennais de Paris, numéro 64, 19 au 25 septembre 1915.
DUPUY, Histoire de la mutualité dans les Ardennes.
62
Voir annexe n°5.
61
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les personnes à qui on souhaite s'adresser. En créant cette rubrique, les rédacteurs de l'Ardennais de Paris ont permis la diffusion d'informations à la fois publiques et privées dont les réfugiés sont aussi bien destinataires qu'informateurs. C'est ce fonctionnement à double sens, tout à fait novateur, qui est la clé du
succès du journal. La rubrique fonctionne comme un système de
petites annonces répertoriées par commune63, cela permet aux
lecteurs de connaître rapidement des personnes de leur commune
ou des environs qui cherchent ou donnent des informations. La
plupart du temps, il s'agit pour les réfugiés d'avoir des nouvelles
de leur famille logée dans une autre ville : afin de permettre le
regroupement familial ou tout du moins de rassembler les personnes selon leur commune d'origine, l'Ardennais de Paris diffuse des listes de réfugiés ardennais en précisant la commune
d'accueil. Cela permet aussi à ceux qui sont partis d'obtenir des
informations sur les régions occupées : celles-ci sont collectées
par le journal auprès des réfugiés (puis à partir de 1915 des évacués) lorsqu'ils arrivent en France. Pendant tout le conflit, l'Ardennais de Paris retranscrit de nombreuses offres d'emplois à
destination des réfugiés. Celles-ci émanent la plupart du temps
d'Ardennais qui ont du travail à offrir à leurs compatriotes : la
solidarité locale fonctionne ici pleinement et permet d'aider des
personnes qui, en quittant leur domicile dans les régions occupées, ont aussi perdu toute source de revenu. Ces emplois sont
donc une bouffée d'oxygène pour beaucoup de familles qui n'ont
souvent pas assez de l'allocation versée par l'État aux réfugiés
pour vivre. À partir de 1916 et jusqu'à la fin de la guerre arrivent
des personnes évacuées qui sont dans une situation financière
difficile : la Fraternelle Ardennaise essaie donc, avec ses
moyens, de les aider au mieux et supplée ainsi les services de
63
Voir annexes n°6 et 7.
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l'État. Le but du journal est aussi de servir de relais entre réfugiés, notamment pour trouver du travail. Des petites annonces
sont présentes dans tous les numéros où l'on retrouve des annonces d'emploi : ce sont des réfugiés qui cherchent des employés
auprès d'autres réfugiés. Nous le voyons, la solidarité endogamique fonctionne pleinement. Dans les annonces pour vendre des
produits ou dans les publicités, les commanditaires de ces dernières font apparaître leur commune d'origine64 : ils veulent
montrer qu'ils sont réfugiés pour s'attirer peut être la sympathie
des habitants de Paris mais surtout pour que les autres réfugiés,
éventuels acheteurs de leurs produits qui auront d'autant plus
confiance qu'il s'agit d'un compatriote originaire de la même
« petite patrie ». La solidarité entre réfugiés est donc ici un argument de vente.
Après l'armistice du 11 novembre 1918, une nouvelle rubrique apparaît dans le journal : il s'agit de l'organisation du rapatriement vers leur région d'origine. Cette rubrique est avant
tout informative : elle donne des renseignements précis sur les
moyens de rentrer chez soi, sur les personnes à qui s'adresser
pour réintégrer son domicile, sur l'état des communes et des
voies de communications après le départ des Allemands. Nous
venons de le voir, l'accueil des personnes qui ont quitté les territoires occupés a été géré en partie par des associations qui ont dû
faire face à un afflux massif et continu de gens tout au long du
conflit. Elles sont ainsi des auxiliaires de l'État qui, pour sa part,
mène avant tout la guerre : le sort des réfugiés importe peu.
64
Voir annexes n°8 et 9.
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Conclusion
Entre 1914 et 1918, près de deux millions personnes ont
fui les territoires passés sous le contrôle des troupes de Guillaume II dans le nord et l'est de la France. Que ce soit des réfugiés qui, en 1914, sont partis à cause de l'invasion allemande, ou
des évacués qui ont pu quitter les zones administrées par l'ennemi à partir de 1915, elles ont en commun d'avoir été déracinées
par la guerre et poussées, durant la durée du conflit tout du
moins, sur les routes de l'exil. Ce chiffre de « déracinés » est une
estimation d'après les travaux du spécialiste de la question Philippe Nivet65. L'historiographie française de la Première Guerre
mondiale les a longtemps laissé de côté : ils ont été, pour paraphraser Annette Becker, dont les travaux sont pionniers sur le sujet,
les « oubliés de la Grande Guerre66 ». Les travaux de Philippe
Nivet, nous l'avons vu, sont aussi précurseurs que novateurs sur
ce même sujet. Si de nombreuses études sur l'occupation allemande sortent dans les années 1920, elles sont à charge car elles
traitent généralement des exactions allemandes et ont un écho
uniquement local. Les Français des autres régions, touchés par
la perte d'un des leurs au combat, s'intéressent peu au sort des
habitants des anciennes régions occupées qui leur paraissent
lointaines. Le sort de tous ceux qui ont quitté ces espaces sous
domination ennemie est donc secondaire par rapport aux préoccupations de l'ensemble des Français qui cherchent avant tout à
avoir des nouvelles de leurs proches mobilisés au front. La plupart de ceux qui ont quitté ces régions meurtries rentrent dès la
fin des combats, au plus tard dans le courant de l'année 1919. Ils
trouvent des communes détruites par les combats et les pillages
65
NIVET, Les réfugiés français de la Grande Guerre, 1914-1920.
A. BECKER, Oubliés de la Grande Guerre, humanitaire et culture de
guerre, Paris, Pluriel, 1998.
66
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de l'armée allemande. Les quatre années de guerre ont laissé une
marque indélébile dans les paysages mais aussi dans les esprits.
D'ailleurs, dans plusieurs journaux intimes écrits durant le conflit par des civils qui ont dû fuir leur région occupée, l'amertume
domine : celle d'avoir laissé les siens et ses biens aux mains de
l'ennemi mais, plus encore, celle d'être mal reçus à leur arrivée
en « France libre » par des compatriotes qui ne comprennent pas
leur situation. Après-guerre malgré de nombreuses campagnes
de presse dans67 les journaux qui leurs sont dédiés, ils ne pas être
reconnus, comme des victimes à part entière, à l'égal des poilus.
En effet, si des récompenses sont créées par l’État en France
pour les civils, peu ont été remises à des réfugiés ou à des rapatriés ; preuve que leur sort, aussi bien pendant qu'après le conflit,
a peu ému la population française.
67
Médaille des victimes de l'Invasion, surtout remise pour des actes de résistance ou de déportation ; Médaille de la Reconnaissance française, donnée
aux civils qui ont servi le pays, surtout dans le cadre d'actes de résistance ou
pour des missions médicales.
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ANNEXES
Annexe 1 : Une de l'Ardennais de Paris, n°24, 24 décembre 1914, Archives
départementales des Ardennes, PER H27
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Annexe 2 : Une de l'Ardennais de Paris, emprunt national, n°179, 2-9 décembre 1917, Archives départementales des Ardennes, PER H27
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Annexe 3 : Article pour la défense des intérêts des réfugiés auprès du reste de
la population française afin d'obtenir des aides supplémentaires, notamment
lors des négociations de paix à venir. Ardennais de Paris, n°240, 2-9 février
1919, Archives départementales des Ardennes, PER H27
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Annexe 4 : Article en faveur de la reconstruction des territoires touchés par
la guerre et l'occupation allemande, ici l'économie agricole. Le but du journal
est de servir de lobby pour défendre les intérêts des régions occupées. Ardennais de Paris, n°240, 2-9 février 1919, Archives départementales des Ardennes, PER H27.
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Charles, Accueillir les réfugiés ardennais
Annexe 5 : Rubrique régulière dans le journal : les « recherches dans l'intérêt
des familles ». Classées par commune d'origine dans les Ardennes, les
réfugiés interrogent les lecteurs pour avoir des nouvelles de personnes de leur
famille ou de leur commune, réfugiés eux aussi. Le journal sert donc
d'intermédiaire. Ardennais de Paris, n°179, 2-9 décembre 1917, Archives
départementales des Ardennes, PER H27.
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Annexe 6 et annexe 7 : rubrique régulière dans le journal : l'adresse des
réfugiés dans leur commune de séjour en France. Ces adresses sont classées
selon la commune d'origine dans les Ardennes. Ardennais de Paris, n°168, 310 octobre 1917, Archives départementales des Ardennes, PER H27.
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Charles, Accueillir les réfugiés ardennais
Annexe 8 : publicité pour un atelier de chaudronnerie tenu par un Ardennais
réfugié à Paris. Il faut noter que l'origine du chaudronnier est mise en avant
pour attirer vers lui la clientèle des autres réfugiés présents dans la capitale.
Ardennais de Paris, n°118, 18-25 octobre 1916, Archives départementales
des Ardennes, PER H27.
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Annexe 9 : Publicité pour une vente de pommes de terres en région
parisienne. Là encore le vendeur met en avant sa commune d'origine dans les
Ardennes pour montrer son statut de réfugié et ainsi attirer une clientèle
composée par d'autres déracinés. Ardennais de Paris, n°128, 18-25 octobre
1916, Archives départementales des Ardennes, PER H27.
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Charles, Accueillir les réfugiés ardennais
Liste des sources
Archives Nationales :
F 23/2 : réfugiés, recherches de familles
F 23/3 : Réfugiés : circulaires et instructions (1914-1919), libérés et rapatriés (1917-1919)
F 23/4 : journaux de réfugiés
F 23/12 : rapatriement, généralités
F 23/15 : rapatriement d’enfants français
Série AJ 4 : interrogatoires de rapatriés dans leur département
d'accueil
Service Historique de la Défense :
5 N 367 : rapatriés (coupures de presse)
5 N 377 : L’Ardennais de Paris
6 N 81 : rapatriés (fonds Clemenceau)
7 N 143 : rapatriés (circulaire sur les rapatriés)
7 N 550-551 : rapatriés (statistiques)
16 N 669 : interrogatoires des réfugiés évacués par les allemands, notes sur les habitants des pays envahis
16 N 1226-1227 interrogatoires de rapatriés (1917-1918)
16 N 1583 : rapatriés (correspondance, centres de rapatriement)
17 N 441-442 évacuations des populations du Nord et du Pas de
Calais
18 N 191-192 : interrogatoires des rapatriés
19 N 355-356 : renseignements fournis par les rapatriés sur l’organisation défensive allemande
19 N 360 : renseignements recueillis par la sûreté auprès des civils rapatriés
Archives Départementales des Ardennes : Per H 27
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Charles, Accueillir les réfugiés ardennais
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Bibliographie
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Première Guerre mondiale, France, Grande-Bretagne, PaysBas, Bruxelles, éditions de l’Université, 2008
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2001, [trad. française 1914, les atrocités allemandes, Tallandier,
2005]
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Occupation of Northern France, 1914-1918, Londres-New
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2011
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le jour entre 1914 et 1918, Paris, Hachette-Pluriel, 1995 [1ère
éd. 1994]
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Charles, Accueillir les réfugiés ardennais
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sacrée, in «Annales de Bretagne», 105 (1998-4)
STIBBE M., The Internement of Civilians by Belligerent States
during the First World War and the Response of the International Commitee of the Red Cross, in «Journal of the Contemporary History», 41 (janvier 2006), pp. 5-19
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Campanile, Robert Fano
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Robert Fano e il coraggio di vivere il “non luogo”
di Benedetta CAMPANILE
Università degli studi di Bari “Aldo Moro”
DOI 10.26337/2532-7623/CAMPANILE
Riassunto: L’esperienza dell’esilio di Roberto Fano è uno dei casi a “lieto
fine” che accomuna i figli degli intellettuali ebrei italiani integratisi nel contesto scientifico statunitense tanto da essere determinanti per il posizionamento mondiale degli USA. In questo articolo si analizza il viaggio dalla denazionalizzazione alla ri-nazionalizzazione alla luce dell’attività scientifica
di Fano e del mutamento del senso di appartenenza della comunità del MIT
unita dagli ideali di libertà e creatività.
Abstract: Robert Mario Fano, in his exile experience, positively integrated
himself in the US context as many of Italian Jewish intellectuals did. He
strongly contributed in the global scientific positioning of the hosting country. In this article, we analyze Fano’s journey, the impact of his scientific
production and the change in the national belonging sense of MIT’s scientific
community.
Keywords: Robert Fano, Project MAC, Computer Science, Jewish
Sommario: Introduzione – Esule o immigrato? – Un “giob” al MIT – La realtà
del laboratorio di ricerca – Il valore della discontinuità – Projet MAC e il
“non luogo” – La Computer Science – Conclusione – Fonti – Bibliografia
Saggio ricevuto in data 15 maggio 2017. Versione definitiva ricevuta in data
15 gennaio 2018
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Campanile, Robert Fano
La su per le montagne / fra boschi e valli d´or /
tra l´aspre rupi echeggia / un cantico d´amor.
Làssù sui monti / dai rivi d´argento /
una capanna cosparsa di fior.
Era la piccola / dolce dimora /
di Soreghina / la figlia del Sol.
(La Montanara, T. Ortelli, L. Pigarelli, 1927)
Introduzione
Considerato l’inno internazionale della montagna, La
Montanara è la canzone nostalgica cara a un amante delle Alpi,
quale fu Roberto Mario Fano (1917-2016), esule da Torino
all’età di ventidue anni a causa delle Leggi razziali. In questo
canto dall’accento nazional-popolare, che narra la storia della
principessa Soreghina, la cui vita dipendeva dalla luce del sole,
si celano i sentimenti di memoria e provocazione che l’allontanamento forzato dai luoghi d’origine ha rappresentato per questo
scienziato italiano: il ricordo del buio del periodo nazi-fascista e
la rivincita per la luce ritrovata negli Stati Uniti (USA). Qui accoglienza e tolleranza riattivarono le sue energie per realizzare
un futuro di successo, senza mai spegnere l’amore per l’Italia.
All’età di novantacinque anni, infatti, del viaggio americano conclusosi positivamente con il raggiungimento degli
obiettivi professionali, la costituzione di una famiglia e il compiacimento di aver lasciato un segno nella storia della scienza
americana e mondiale, Roberto, americanizzato Robert o Bob, si
sentiva pienamente appagato1. Il ritorno in Italia in fondo non lo
aveva mai interessato, poiché la nazione lasciata aveva perso
gran parte del suo fascino rimanendo indietro in quasi tutti i
1
B. CAMPANILE, Intervista a R. Fano, Concord.
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Campanile, Robert Fano
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campi in cui primeggiava nel lontano ’39: economico, sociale,
culturale e scientifico. Con la sua attività, invece, Bob aveva
contribuito a determinare il primato tecnologico-scientifico
mondiale della nuova patria, creando lo spazio per un ambito
scientifico totalmente nuovo, la Computer Science, e aveva dato
i natali a quella “patria globale”, il “non luogo”, che oggi chiamiamo Internet, in cui la comunicazione supera i confini geografici, i pregiudizi razziali e i colori politici.
Questo giudizio positivo rientra nella consapevolezza maturata nel dopoguerra da molti scienziati europei americanizzati
di aver contribuito al ribaltamento del primato scientifico tra
USA ed Europa in favore dei primi. Di certo l’ambiente liberale
statunitense, reso attrattivo dalla disponibilità di lavoro in ambiente accademico, favorì le menti europee affinché esprimessero visioni “transculturali” e “transnazionali”2. Ma lo slittamento a Ovest fu conseguenza della reciproca influenza tra le
pratiche introdotte nel contesto statunitense dagli scienziati europei emigrati per sfuggire al nazi-fascismo e l’impegno economico del Governo Federale nel rifondere, attraverso i militari,
svariati indirizzi di ricerca. Si trattò di un processo lento e non
sempre lineare, che assunse diverse sfumature a seconda della
provenienza dell’emigrazione3. Anche se ciò non è sufficiente a
disegnare uno scenario «funzionale a una qualsivoglia nozione
2
S.J. PATTERSON, A comparison between the development of number theory
in the USA and the UK, in Emigration of Mathematicians and Transmission
of Mathematics: Historical Lessons and Consequences of the Third Reich, in
«Mathematisches Forschungsinstitut Oberwolfach Reports», 51(2011), pp.
2955-2957 (p. 2957).
3
M.G. ASH, Forced migration and scientific change in the Nazi era, in Emigration of Mathematicians and Transmission of Mathematics, p. 2899.
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Campanile, Robert Fano
di umanesimo»4, può essere utile analizzare l’esperienza di Roberto Fano, in parte analoga a quelle di altri intellettuali ebrei
europei esuli in USA5, per impostare una possibile interpretazione.
Esule o immigrato?
A ottobre del ’39, in partenza verso gli USA, il quasi ingegnere torinese Roberto si considerava un “immigrato”, come
dire un “emigrante volontario”6, in cerca di un ambiente meno
ostile di quell’Italia che precludeva di fatto la sua realizzazione
sociale. L’entusiasmo dei vent’anni, la determinazione a perseguire gli obiettivi personali per mantenere alto il prestigio familiare, la familiarità con un ambiente conosciuto in vacanza e la
certezza di ricongiungersi con il fratello Ugo (1912-2001)7, costituivano gli elementi con i quali mitigare la sofferenza per
l’inevitabile separazione dai parenti, dagli amici, dai luoghi e dagli studi. Gli ebrei italiani giunti in America alla vigilia dell’immensa tragedia della guerra, infatti, «si dividevano in due gruppi,
quelli che erano venuti come immigrati e quelli che erano venuti
4
E.W. SAID, Riflessioni sull’esilio, tratto da ID., Reflection on Exile and
Other Essays, Cambridge, Harvard University Press, 2003, pp. 173-186,
<http://www.sagarana.net/rivista/numero33/saggio5.html> (30-03-2017).
5
G. ISRAEL, A. MILLÁN GASCA, Von Neumann. La matematica per il dominio
della realtà, in «I grandi della scienza», 26, aprile 2002, pp. 44-50; Emigration of Mathematicians and Transmission of Mathematics, p. 2939.
6
R. SIEGMUND-SCHULTZE, Mathematicians Fleeing from Nazi Germany. Individual Fates and Global Impact, Princeton, University Press, 2009, pp. 112 (p. 5).
7
R. M. FANO, In Loving Memory of my Father Gino Fano, in A. COLLINO,
A. CONTE, M. MARCHISIO (eds.), Proceedings of the Fano Conference, 29
September - 5 October 2002, Torino, 2004, pp. 1-4 (p. 2).
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Campanile, Robert Fano
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come rifugiati»8. I primi cercavano di integrarsi nel nuovo
mondo, mentre gli altri erano sempre pronti a tornare in patria.
Roberto, detto Tuccio, proveniva da un ambiente “speciale”, Torino, che era una delle quattro città in Italia dove si
erano formate le più grandi comunità di ebrei. Quella torinese,
in particolare, era caratterizzata da peculiari dinamiche d’integrazione favorite dallo Stato sabaudo che avevano creato una
tradizione culturale scientifica quantitativamente e qualitativamente importante per la formazione scolastica locale. Principalmente connessa al sapere matematico applicato, ingegneristico o
finanziario, visto in prospettiva occupazionale, questa tradizione
era mutata a partire da metà Ottocento quando in alcune famiglie ̶ Segre, Levi, Loria, Padoa, Artom ̶ i giovani avevano intrapreso indirizzi di ricerca pura, guidati dal puro desiderio di
conoscenza ed erano approdati alle cattedre universitarie.9 Tra
questi giovani era anche il padre di Roberto, Gino (18711952)10, prima studente e poi docente di Matematica dell’Università di Torino. La famiglia di Gino era originaria di Mantova
8
G. PONTECORBOLI, America nuova terra promessa. Storie di italiani in fuga
dal fascismo, Milano, Francesco Brioschi, 2013, p. 144.
9
E. LUCIANO, Mathematics and Race in Turin: The Jewish community and
the local context of education (1848-1945), in “Dig where you stand” 4, Proceedings of the Fourth International Conference on the History of Mathematics Education, September 23-26, 2015, University of Turin, Roma, Nuova
Cultura, 2017, pp. 189-201 (p. 189).
10
F. LERDA, Fano, Gino, in Dizionario Biografico degli Italiani, v. 44, 1994;
A. Terracini, Commemorazione del socio G. F., in «Rendiconti dell’Accademia Nazionale dei Lincei», classe di scienze fisiche matematiche e naturali,
s. 8, XIV (1953), pp. 702-715; Id., Necrologio: Gino Fano, in «Bollettino
dell’Unione Matematica Italiana», s. 3, v. 7, n. 4, 1952, pp. 485-490.
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Campanile, Robert Fano
dove gli avi, simpatizzanti dei Savoia, avevano acquisito un’ottima posizione economica e sociale grazie prima al commercio
di tessuti di lana e poi agli affari bancari11.
Mentre Gino fu espulso dall’Università di Torino in seguito al R. D. Legge n. 1390 del 5 settembre del 1938, la stessa
legge consentì a Roberto di terminare la frequenza del corso di
Ingegneria del Politecnico di Torino. Ma le prospettive disegnate
dallo scoppio della guerra indussero la famiglia Fano a valutare
concretamente la possibilità di lasciare l’Italia. Il fratello Ugo,
già fisico al seguito di Enrico Fermi, e la sua fidanzata, Camilla
Lattes, erano incitati da parenti ed amici a raggiungere la Francia
o l’Argentina12, mentre il cugino Giulio Racah (1909-1965), già
docente di Fisica all’Università di Pisa, partiva per la Palestina.
In realtà un primo segnale del clima politico ostile fascista
era stata l’esclusione del professor Fano, insieme ad altri candidati ebrei, dall’ammissione all’Accademia d’Italia13. Per il matematico, che apparteneva alla generazione di ebrei che aveva
realizzato la propria integrazione sociale studiando e coronando
con successo la carriera14, l’idea di allontanarsi dalla patria per
11
U. FANO, The Memories of an Atomic Physicist for my Children and Grandchildren, in «Physics Essays», 13, 2-3 (2000), pp. 176-197 (pp. 176-177).
12
PONTECORBOLI, America nuova terra promessa, p. 63.
13
A. CAPRISTO, L’esclusione degli ebrei dall’Accademia d’Italia, in «La Rassegna mensile di Israel», 67, 3 (2001), p. 18.
14
Nel 1848 il Regno Sabaudo aveva aperto per primo l’accesso alle università
agli ebrei e ai valdesi. E. LUCIANO, L’impegno dei matematici dell’Università
di Torino al progresso scientifico e il contributo della comunità ebraica, in
F. FERRARA, L. GIACARDI, M. MOSCA (eds.), Conferenze e Seminari 20082009, Torino, Kim Williams Books, 2009, pp. 217-227; ID., “Illustrare la
Nazione col senno e colla mano”. Ebraismo e istruzione nel Piemonte risorgimentale, in C.S. ROERO (ed.), Contributi dei docenti dell’Ateneo di Torino
al Risorgimento e all’Unità, Torino, DSSP, 2013, pp. 315-354.
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Campanile, Robert Fano
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la quale suo padre si era battuto da convinto garibaldino era inaccettabile15. Infatti nelle ricche ed emancipate famiglie ebree torinesi l’identità religiosa si era fusa con gli ideali patriottici e il
culto dello Stato era diventato un valore16. Roberto ricordava che
lo sconforto del Professore era profondo, poiché vedeva crollare
contemporaneamente i tre ideali della sua vita: la famiglia, la
patria e la professione17. I successi professionali, in particolare,
dei giovani matematici ebrei epurati dalle leggi razziali erano
evidenti nelle carriere di Corrado Segre, Beppo Levi, Gino Loria, Azeglio Bemporad, Ida Terracini e Costantia Levi. L’espulsione andava a sconvolgere, quindi, l’importante impianto di ricerca e di insegnamento accademici a Torino che avevano costituito un ponte tra i due stili di ricerca e di insegnamento della
“scuola di Segre” e dei seguaci di Peano18.
Gino alla fine riuscì a considerare come possibile destinazione temporanea Losanna. Nella Svizzera che offriva ancora un
transito libero in Europa19, infatti, si ritrovarono molte famiglie
ebree borghesi, poiché riuscirono a esportare parte del proprio
patrimonio in attesa di una stabilizzazione sicura. Usando abilmente il contrabbando, anche Roberto riuscì a trasferire fuori
dall’Italia il denaro necessario per ottenere il visto per l’Ame-
15
Allievo di Guido Castelnuovo, nel 1899 Gino Fano aveva rinunciato alla
cattedra di Geometria a Gottinga per quella di Algebra e geometria analitica
all’Università di Messina. Dal 1901 era passato su quella di Geometria proiettiva e descrittiva con disegno all’Università di Torino. FANO, In Loving
Memory of my Father Gino Fano, p. 2.
16
LUCIANO, Mathematics and Race in Turin, p. 190.
17
Ivi, p. 3; FANO, The Memories of an Atomic Physicist for my Children and
Grandchildren, pp. 176-197.
18
LUCIANO, Mathematics and Race in Turin, p. 199.
19
Sull’emigrazione degli ebrei in Svizzera si veda R. BROGGINI, La frontiera
della speranza. Gli ebrei dall’Italia verso la Svizzera, 1943-1945, Milano,
Mondadori, 1998.
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Campanile, Robert Fano
rica, così non ebbe bisogno dell’aiuto dei comitati che finanziavano i rifugiati europei20. Ma la mancanza del passaporto gli impediva di raggiungere il porto francese d’imbarco per gli USA.
Nel raggiungere Gino e sua moglie Rosetta che erano a Losanna
da gennaio del ’3921, incrociò il cugino Leo Wollemborg, che,
grazie alla fortuita intermediazione di un alto prelato presso
l’ambasciatore francese in Svizzera, riuscì ad ottenere un lascia
passare per la Francia22.
Roberto raggiunse infine Ugo, che aveva trovato appoggio
a Washington come ricercatore non pagato per il Department of
Terrestrial Magnetism della Carnegie Institution23. Il primo approccio con la realtà americana, come quello di molti giovani
esuli/emigranti, fu caratterizzato da «disperati tentativi di stringere un contatto soddisfacente con il nuovo contesto»24, cercando di acquisire le «regole di comportamento per inserirsi
nella società americana, il cosiddetto american way of life». Per
la sua educazione non strettamente osservante dei dogmi religiosi, infatti, era desideroso di uscire al più presto dalla mentalità
chiusa del ghetto25.
20
In Gran Bretagna fu costituita una delle società più attive nell’assistenza ai
rifugiati accademici europei vittime delle persecuzioni anti-Semite e politiche, la Society for the Protection of Science and Learning. R. NOSSUM, Refugee mathematicians from non-German academia assisted by the Society for
the Protection of Science and Learning, in Emigration of Mathematicians and
Transmission of Mathematics: Historical Lessons and Consequences of the
Third Reich, pp. 2938-2939.
21
Gino Fano rimase in Svizzera fino al ’46, dove tenne conferenze al Circle
Mathematique e insegnò Geometria descrittiva all’École d’Ingénieurs. Tornato in Italia, trascorreva l’inverno in America dai figli e i mesi estivi nella
casa di famiglia in Veneto.
22
CAMPANILE, Intervista a R. Fano, Concord.
23
FANO, The Memories of an Atomic Physicist, p. 190.
24
SAID, Riflessioni sull’esilio, pp. 173-186.
25
G. PONTECORBOLI, Robert Fano, il padre di Internet in fuga da Mussolini,
in «Lastampa.it», 23-04-2010, <www1.lastampa.it> (11-01-2013).
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Campanile, Robert Fano
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Un “giob” al MIT
L’integrazione passava innanzitutto per il riconoscimento
ufficiale della conoscenza della lingua. Al liceo Roberto aveva
studiato l’inglese, che dagli inizi degli anni Trenta era diventata
la lingua più usata in ambito bibliografico scientifico al posto del
tedesco. Questo processo, iniziato subito dopo la Prima Guerra
Mondiale, era stato la conseguenza della scissione tra gli schieramenti belligeranti che non aveva risparmiato la comunità
scientifica26. Così erano state progressivamente abbandonate le
mete tradizionali della mobilità di studio, Gottinga e Berlino,
dove si erano diretti i giovani matematici europei e d’oltralpe più
promettenti 27, come Gino Fano, fluency in francese e tedesco,
John von Neumann (1903 – 1957) o lo statunitense Oswald Veblen (1880 – 1960)28 non solo per acquisire la tecniche più nuove
ma anche per inserirsi negli indirizzi di ricerca internazionali più
innovativi. Le nuove generazioni come quella di Robert erano
cresciute, invece, considerando l’inglese come lingua franca per
la circolazione di conoscenze tra le nazioni alleate. I giovani
guardavano agli Stati Uniti come nuova meta di viaggio istruttivo per le interessanti novità tecnologiche e non solo. Ad esempio in Spagna, dinanzi alla svolta dittatoriale seguita alla Guerra
Civile, la pur minima mobilità che aveva caratterizzato i giovani
scienziati matematici, si orientò verso mete più liberali come gli
26
R. FOX, Science without Frontier, Corvallis, Oregon State University Press,
2016, pp. 57-64.
27
PATTERSON, A comparison between the development of number theory in
the USA and the UK, in Emigration of Mathematicians and Transmission of
Mathematics, p. 2956.
28
A. GUERRAGGIO, P. NASTASI, Italian Mathematics Between the Two World
Wars, in «Science Networks. Historical Studies», 29 (2006), pp. 243-281; G.
BALEY PRICE, The Mathematical Scene, 1940-1965, in P.L. DUREN, R. ASKEY, U.C. MERZBACH (eds.), A Century of Mathematics in America, Part I,
Providence, RI, American Mathematics Society, 1988, pp. 379-404.
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Campanile, Robert Fano
USA e la Gran Bretagna29, che potevano assicurare ancora un
modello di scienza cosmopolita e non nazionalista30. Infatti, bisogna ricordare che l’adesione agli obiettivi della nazione americana e la rinuncia ad ogni forma di condizionamento da parte
della patria d’origine erano obbligatorie per gli emigrati che
giungevano in America perché era una delle dichiarazioni della
“Declaration of Intention” che l’Immigration dava da compilare
ai nuovi arrivati prima di rilasciare il visto d’ingresso.
In questo spostamento linguistico precedente alla guerra si
può dunque cogliere un primo segnale del movimento verso
Ovest degli scienziati europei, che le persecuzioni naziste
avrebbe poi accelerato31. Un movimento quindi non solo forzato
ma anche guidato, come nel caso di Roberto, dalla volontaria
scelta di un ambiente più moderno, ritenuto già in partenza più
interessante e consono alle proprie attitudini.
Il livello di conoscenza dell’inglese richiesto per l’ammissione ai corsi americani passava per il giudizio di un test di valutazione e Roberto, suo malgrado, dovette frequentare un corso
per colmare le sue lacune. Comunque il giovane italiano fu sorpreso dalla «gentilezza» degli insegnanti e dalla differenza
dell’ambiente culturale americano; il pragmatismo poteva addirittura risultare offensivo e l’antisemitismo era latente ma diffuso. La società americana era profondamente divisa tra ebrei e
non ebrei, mentre in Italia questa classificazione non esisteva
prima delle leggi razziali32. Con la crescita del nazi-fascismo,
però, i college americani furono pronti ad accogliere gli studiosi
29
J. M. PACHECO, Mobility and migration of Spanish mathematicians during
the years around the Spanish civil war and WWII, in Emigration of Mathematicians and Transmission of Mathematics, pp. 1-27.
30
FOX, Science without Frontier, p. 97.
31
Emigration of Mathematicians and Transmission of Mathematics, p. 2899.
32
PONTECORBOLI, America nuova terra, pp. 147-148.
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espulsi dai regimi europei, i cosiddetti emigrés scholars33, che in
un primo tempo erano stati accettati ma discriminati a insegnare
in scuole per afro-americani34. La reazione iniziale di Robert al
cambiamento culturale fu di spaesamento, ma ben presto la determinazione prevalse sullo sradicamento35.
Infatti, desideroso di «costruirsi da solo», senza dover contare su un cognome prestigioso e sui privilegi di cui godeva in
Italia la sua famiglia36, rivolse l’attenzione alle elitarie università
americane per iscriversi a un corso di ingegneria e terminare gli
studi. Le barriere d’ingresso lo intimorivano ma la determinazione della cognata lo convinse a scegliere il Massachusetts Institute of Technology (MIT)37, che all’epoca rappresentava il politecnico più prestigioso negli USA38. Con grande sorpresa fu
ammesso al quarto anno del corso di Ingegneria elettrica e ottenne anche il riconoscimento dei corsi umanistici svolti al liceo
classico39.
Robert si stabilì a Brookline, a Boston, dove risiedevano
molte famiglie ebree40. Al MIT notò subito l’alta qualità dell’organizzazione, la grande disponibilità dei docenti a dialogare con
33
C.-D. KROHN, L’esilio degli intellettuali tedeschi negli Stati Uniti dopo il
1933, in «Memoria e Ricerca», 31(2009), p. 14.
34
R. NOSSUM, Refugee mathematicians from non-German academia assisted
by the Society for the Protection of Science and Learning, in Emigration of
Mathematicians and Transmission of Mathematics, p. 2939.
35
PONTECORBOLI, America nuova terra promessa, p. 72.
36
Ivi, p. 164.
37
Ivi, p. 166.
38
Il MIT era stato fondato da William Barton Rogers con il preciso intento di
emulare i politecnici europei. B. CAMPANILE, Vannevar Bush da scienziato a
tecnologo. La nascita della Società dell’Informazione, Roma, Aracne, 2016,
pp. 32-33.
39
PONTECORBOLI, America nuova terra, p. 167.
40
L’insediamento ebreo in Massachusetts e in particolare a Boston trovò giustificazione prima nelle opportunità occupazionali del territorio e poi nella
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gli studenti e il ritardo della matematica americana rispetto a
quella europea. Infatti, era stato allievo del matematico Guido
Fubini (1879-1943), ebreo e collega di Gino all’Università di
Torino, e conosceva i suoi interessi che spaziavano dalla geometria differenziale all’analisi41.
Il ’40 fu un anno particolare al MIT. Le vacanze estive furono contratte per consentire agli studenti di concludere gli studi
prima di essere chiamati al fronte42. Così a febbraio del ’41 Robert era già laureato. Il neo ingegnere rifiutò l’offerta di rimanere
al MIT come assistente e preferì inseguire il sogno di un lavoro
in azienda, con uno stipendio più alto. All’epoca i giovani italiani in cerca di lavoro, di “giobbi”, erano numerosi43, ma l’occupazione era ridotta dalla Grande Depressione e con l’entrata
in guerra degli USA, gli italiani erano percepiti come nemici, se
non erano fascisti c’era il rischio che fossero filo-comunisti. Per
gli ebrei, per di più, era preclusa l’assunzione in molte aziende e
studi professionali così come nelle accademie della Ivy League44, che rifiutavano i non wasp, white anglo-saxon protestant,
salvezza dalle persecuzioni razziali. Le difficoltà d’inserimento iniziali furono superate solo verso la metà del diciannovesimo secolo. A. WOODLE,
Jewish History and Settlement Patterns in Massachusetts, Jewish Genealogical Society of Greater Boston, 2010, <http://jgsgb.org/pdfs/> (4-03-2017), p.
4. Dagli anni Trenta Brookline assunse il ruolo di centro religioso di Boston
contando circa 8.000 abitanti ebrei. J.D. SARNA, E. SMITH, S.- M. KOSOFSKY,
The Jews of Boston, New Haven, Yale University Press, 2005, p. 139.
41
P. SPEZIALI, Fubini Guido, in Dictionary of Scientific Biography, New
York, 1970-1990.
42
MIT, President’s Report 1940-41, Cambridge (MA), MIT, 77, I(October
1941), MIT Archives and Special Collections, Reports to the President, p. 8.
43
A. CAPRISTO, Il decreto legge del 5 settembre 1938 e le altre norme antiebraiche nelle scuole, nelle università e nelle accademie, in «Rassegna mensile di Israel», 73, 2 (2007), pp. 131-167.
44
PONTECORBOLI, America nuova terra, p. 66.
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cioè coloro che non fossero cittadini statunitensi discendenti dai
coloni originari inglesi.
Robert accettò quindi un impiego alla General Motors,
nello stabilimento di Gran Rapids, in Michigan, ma se ne pentì
e a settembre tornò al MIT, dove servivano insegnanti perché
molti docenti erano partiti per la guerra. Si trasferì ad abitare a
Beacon Street e iniziò l’attività didattica che avrebbe terminato
solo nel ’61. Raccontava, infatti: «Mi sono dovuto mettere a fare
lezione, non avevo neppure avuto il tempo di finire il master che
insegnavo già agli studenti della graduate school»45.
La realtà del laboratorio di ricerca
Argomento delle lezioni erano le nuove tematiche di comunicazione che stavano emergendo dalla ricerca svolta nei laboratori mobilitati per lo sviluppo di tecnologie militari. Fu proprio il potenziamento di questi laboratori con i fondi federali a
dare nuova vitalità all’occupazione e al progresso scientifico46.
Ma Roberto non potè lavorare in laboratorio fino al ’44, quando
l’Italia uscì dall’alleanza con la Germania, e l’Immigration concesse la security clearance (autorizzazione di sicurezza) necessaria per operare sui progetti militari segreti. Nel campus del
MIT, infatti, era stato insediato il Radiation Laboratory (Rad
Lab), dove si svolgevano le ricerche segretissime sul radar47.
Qui, sotto la direzione del fisico e chimico teorico John C. Slater
(1900-1976), il giovane ingegnere iniziò lo studio dei sistemi radar a microonde, che servirono a produrre frequenze basse per
45
Ivi, p. 168.
Ivi, p. 77.
47
D. DOUGLAS, MIT and War, in D. KAISER (ed.), Becoming MIT. Moments
of decision, Cambridge (MA), MIT Press, 2010, p. 88.
46
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intercettare i sottomarini tedeschi48. Partecipò quindi allo sviluppo delle innovazioni ingegneristiche che furono pubblicate
poi nel volume 9 della Radiation Laboratory Series.
L’esperienza del radar fu particolarmente significativa per
la trasformazione dell’ambiente di formazione del MIT e per
Fano, poiché caratterizzò il mutamento veloce della scienza e la
necessità di trasformare gli ingegneri in scienziati con corsi di
alta formazione teorica. Per questo, al termine della guerra,
l’orientamento del MIT fu quello di rinnovare i curricula e indirizzare i migliori ingegneri al dottorato e Robert fu tra questi49.
Si iscrisse, infatti, al dottorato del Research Laboratory of Electronics (RLE), diretto da J. A. Stratton e A. G. Hill e si trovò a
lavorare sugli argomenti che aveva insegnato durante la guerra.
Conseguì il dottorato il 16 maggio 1947, con una tesi innovativa
dal titolo Theoretical limitations on the broadband matching of
arbitrary impedances, sul calcolo dell’impedenza50. Il suo supervisore, l’ingegnere elettrico Ernst A. Guillemin, fu per lui non
solo una guida umana e scientifica ma anche colui che lo iniziò
alla teoria delle reti: «“open mind and open door” policy (to) the
knowledge of network theory»51.
Terminato il dottorato, Roberto fu trattenuto ancora al MIT
come insegnante secondo i piani del nuovo direttore del Department of Electric Enginnering (DEE), Gordon Brown (190748
K. L. WILDES, N. A. LINDGREN (eds.), A Century of Electrical Engineering
and Computer Science at MIT, 1882-1992, Cambridge (MA), MIT Press,
1986, p. 207.
49
J. GUTTAG, P. PENFIELD, Jr., One Hundred Years of Transformation, The
Centennial Celebration of the MIT Department of Electrical Engineering and
Computer Science, Cambridge (MA), May 23, 2003; P. PENFIELD, Jr., The
Electron and the Bit. An essay in seven parts, <http://www-mtl.mit.edu/~penfield/pubs/eb-03.html> (18-04-2017).
50
R. M. FANO, Theoretical limitations on the broadband matching of arbitrary impedances, PhD thesis, 01/01/1947, MIT Library.
51
FANO, Theoretical limitations, p. V.
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1996), che voleva incrementare la formazione delle nuove generazioni. Condivise con quest’ultimo l’idea di promuovere il libero scambio con le altre accademie delle nuove conoscenze
prodotte al MIT e contribuì alla pubblicazione di manuali teorico-applicativi distribuiti gratuitamente, i Green Books52.
La cittadinanza statunitense, ottenuta nel ’46, fu la convalida dell’appartenenza alla sua nuova patria, paladina dei valori
di democrazia e di libertà di culto, ma formalmente l’ebraismo
era ancora un segno di diversità53. La comunità ebraica rimaneva, infatti, chiusa al suo interno, esclusa da alcune zone della
città e dai servizi. Ma le accademie e le aziende aprivano a neri
ed ebrei e il MIT fu il primo istituto ad assumere stabilmente un
ebreo, Jerome B. Wiesner (1915-1994), futuro Presidente
dell’Istituto. Qui Robert mantenne una posizione politica neutrale protetta, mentre cresceva una nuova forma di discriminazione, il maccartismo, che nel periodo della Guerra Fredda colpì
molti scienziati ebrei, tra i quali forse anche suo fratello Ugo,
sospettati di essere “comunisti”54.
Il valore della discontinuità
Dopo il dottorato Robert decise di cambiare nuovamente
ambito di ricerca per avere nuovi stimoli e fu affascinato dalle
indagini del vicino di stanza, Norbert Wiener (1894-1964), che
tra i principi della Cibernetica esplorava il concetto di entropia,
52
Il programma iniziato nel 1952 da Gordon Brown per diffondere le tecniche
ingegneristiche adattate ad ogni disciplina scientifica ha portato nel 2002
all’istituzione del MIT OpenCourseWare, che consente l’accesso libero in Internet ad alcuni corsi istituzionali già svolti e registrati. Fano divenne uno dei
primi sostenitori al mondo dell’open-source. P. PENFIELD, Jr., The Electron
and the Bit.
53
PONTECORBOLI, America nuova terra, pp. 146-147.
54
Ivi, p. 149.
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sostenendo che l’«Information is entropy»55. Su questo nuovo
tema dell’“informazione” e sulle tecniche di codifica nei canali
di trasmissione egli sviluppò il suo lavoro teorico più importante,
Transmission of Information: A Statistical Theory of Communications (1949)56, il manuale in due volumi edito in diverse lingue, che avrebbe formato diverse generazioni di giovani57. Questo lavoro lo portò ad avvicinarsi alle ricerche di Claude A.
Shannon (1916-2001), dell’Institute of Radio Engineers, autore
della più famosa A Mathematical Theory of Communication
(1948). Dalla loro collaborazione derivò la tecnica di codifica
Shannon-Fano per la compressione dei dati tuttora usata.
La carriera proseguì con la nomina a capo del Radar Technique Group, dal ’50 al ’53, nei Lincoln Laboratories che avevano assorbito gran parte del personale del Rad Lab, ma il clima
politico della Guerra Fredda ridusse di fatto la libertà che si respirava inizialmente nei laboratori di ricerca, poiché i militari
condizionavano gli indirizzi dei progetti finanziati58. Il MIT
escluse deliberatamente dal campus gran parte della ricerca militare, anche se alcuni docenti erano consulenti per i segretissimi
progetti di ricerca spaziale al Pentagono. Nonostante ciò Robert
ebbe l’occasione di avviare un nuovo laboratorio con un importante finanziamento federale per lo sviluppo tecnologico militare
in un ambito a lui solo marginalmente familiare, i computer services.
55
CAMPANILE, Intervista a R. Fano, Concord.
R. M. FANO, Transmission of Information: A Statistical Theory of Communications, Research Laboratory of Electronics, 2 voll., Cambridge (MA),
MIT, 1949-1950.
57
CAMPANILE, Intervista a R. Fano, Concord.
58
A questo proposito si veda la storia del Project SCOOP (Project for the
Scientific Computation of Optimum Programs) in How Reason almost lost its
Mind. The strange career of Cold War rationality, Chicago, The University
of Chicago Press, 2013, pp. 51-53.
56
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Project MAC e il “non luogo”
Nel ’63, con contratto dell’Office of Naval Research n.
4102(01), Fano avviò il Project MAC59, il progetto che avrebbe
reso la computazione interattiva e accessibile a tutti e nel 2003
sarebbe divenuto l’attuale Computer Science and Artificial Intelligence Laboratory (CSAIL)60. Il progetto era finanziato
dall’Advanced Research Projects Agency (ARPA)61, l’agenzia
59
R. M. FANO, Proposal for a Research and Development Program on Computer Systems, submitted to the ARPA, Cambridge (MA), MIT, 1963; ID.,
The MAC System: The Computer Utility Approach, in «IEEE Spectrum», Jan.
1965, pp. 56-64; ID., The MAC System: A Progress Report, in M.A. SASS,
W.D. WILKINSON (eds.), Symposium on Computer Augmentation of Human
Reasoning, Washington, DC, Spartan Books, 1965, pp. 131-150; ID., F.J.
CORBATÓ, The Time-Sharing of Computers, in «Scientific American», 215, 3
(Sept. 1966), pp. 128-140; ID., Project MAC, in Encyclopedia of Computer
Science and Technology, New York, Marcel Dekker, 12 (1979), pp. 339-360;
ID., P. ELIAS, Project MAC 25th Anniversary, Cambridge (MA), MIT Laboratory for Computer Science, 1989; J.A.N. LEE, Project MAC (time-sharing
computing project), «Annals of the History of Computing», 14, 2 (1992), pp.
9-13; ID., The Project MAC Interviews, «Annals of the History of Computing», IEEE, 14, 2 (Apr-Jun 1992), pp. 14-35.
60
A. CONNER-SIMONS, R. GORDON, Robert Fano, computing pioneer and
founder of CSAIL, dies at 98, CSAIL, MIT, July 15, 2016,
<http://news.mit.edu/2016/robert-fano-obituary-0715> (15-02-2017).
61
L’ARPA fu costituita nel 1958 per monitorare gli sviluppi tecnologici militari russi e assunse una connotazione insolita perché fu gestita da scienziati
dislocati a grandi distanze tra loro. L’Agenzia sviluppò alcune delle tecnologie più innovative nel campo della Computer Science: il sistema operativo
time-sharing (MIT Project MAC); la rete a commutazione di pacchetto (ARPANET); il primo sistema di Ipertesto (oNLineSistem); e altri lavori di intelligenza artificiale per il riconoscimento vocale. H. HENDERSON, Encyclopedia of Computer Science and Technology, New York, Facts on File, 2008,
revised edition, p. 212.
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federale del dipartimento della difesa e dalla National Science
Foundation e coinvolgeva diversi laboratori del MIT62.
L’idea era maturata l’anno precedente durante il viaggio di
ritorno in treno da una conferenza a Hot Spring in Virginia63,
insieme con lo psicologo J. C. R. Licklider (1915-1990)64, che
lavorava all’Information Processing Techniques Office
dell’ARPA ed era intenzionato a fondare «un centro di ricerca
per offrire accesso a informazioni online per scopi militari e civili»65.
In quel periodo «i computer c’erano già da alcuni anni, ma
erano degli enormi macchinari che non comunicavano tra di
loro». Robert non se ne occupava, ma vide possibile la combinazione delle due idee proposte da Licklider. La prima, esplicitata dallo psicologo ad agosto del ’62, consisteva nella creazione
di una Galactic network, un insieme di computer interconnessi a
livello globale, attraverso i quali qualunque utente avrebbe potuto accedere a dati e programmi velocemente ovunque si trovasse. Licklider aveva da poco pubblicato il suo testo-manifesto
della Human-Machine Interaction, Man-Machine Symbiosis66,
62
Partecipavano le seguenti unità: School of Engineering, Civil Engineering
Department, Research Laboratory of Electronics, School of Humanities and
Social Science, Social School of Management, School of Science, Computer
System Research, Computer Communication Structures, Artificial Intelligence, Library Research, Electronic Systems Laboratory, Lincoln Laboratory. DEFENSE DOCUMENTATION CENTER, MIT Project MAC Progress Report, prof. R. M. Fano, Alexandria (VA), Document Service Center, July
1964.
63
A. L. NORBERG, An interview of Robert M. Fano conducted by Arthur L.
Norberg on 20-21 April 1989, Charles Babbage Institute, OH 165.
64
R.M. FANO, Joseph Carl Robnett Licklider 1915-1990. A Biographical
Memoir, Washington (DC), National Academies Press, 1998, pp. 1-25.
65
PONTECORBOLI, America nuova terra, p. 168.
66
J.C.R. LICKLIDER, Man-Computer Symbiosis, «IRE Transactions on Human Factors in Electronics», HFE-1 (March 1960), pp. 4-11.
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nel quale aveva auspicato un ampio sviluppo di applicazioni del
computer in ambiti diversi dalla classica computazione.
La seconda idea, definita time-sharing system, era stata
avanzata da John McCarthy (1927-2011), che lavorava ai progetti di intelligenza artificiale del Computation Center. Consisteva in un nuovo metodo di accesso alle funzioni del nuovo
computer a transistor dell’IBM installato al MIT, il 709. McCarthy ne aveva parlato nel 1959 e proponeva che gli utenti comunicassero direttamente con il computer invece di portare le
schede perforate ad un operatore per l’elaborazione. Ciascun
utente avrebbe inviato online i suoi codici al computer, il quale
li avrebbe eseguiti in successione, concedendo a ciascuno l’unità
di elaborazione per brevi intervalli di tempo. Questo metodo era
alternativo a quello tradizionale, batch processing, con il quale
era gestito il grande computer del Center da operatori che facevano eseguire i lavori degli utenti uno alla volta, costringendo
questi ultimi a lunghi periodi di attesa per i risultati, mentre la
macchina rimaneva inoperosa durante le operazioni di input e
output.
Philip M. Morse (1903-1985), direttore del Computation
Center, aveva affidato al fisico teorico Fernando Corbató, suo
assistente, la realizzazione del primo prototipo, che fu chiamato
Computation Center Compatible Time-Sharing System (CTSS),
perché lavorava in entrambe le modalità.
Fano conosceva il CTSS perché collaborava insieme a Philip Morse e Jerome Wiesner al nuovo Center of Communications
Science, costituito nel 1958-59 e diretto da Albert J. Hill. Visti
gli impegni dei colleghi, diede quindi a Licklider la propria disponibilità ad assumere il carico del progetto che avrebbe messo
insieme la tecnologia del CTSS e l’idea della rete. Considerò
questa sua nuova attività di ricerca come l’ennesima discontinuità della sua vita, una sfida che avrebbe affrontato sapendo di
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poter contare sui colleghi dei laboratori del dipartimento, specializzati sia nella componentistica elettronica sia nel software. La
sua esperienza nella redazione di progetti federali avrebbe facilitato gli avanzamenti della ricerca sollevando i giovani ricercatori dagli oneri amministrativi.
Così nel breve tempo del weekend del Thanksgiving del
1962, Robert scrisse il progetto che presentò al rettore, Charles
Townes, e al presidente del MIT, Julius Stratton67. Strategica fu
l’individuazione di due elementi cruciali: la tecnologia e lo spazio dove ospitare il nuovo gruppo di ricerca. La tecnologia, rappresentata dal CTSS di Corbató, avrebbe permesso di comunicare a distanza con il computer centrale. Lo spazio era, tuttavia,
un problema non secondario, perché il MIT non aveva né fondi
né terreni per costruire nuovi edifici. La soluzione a costo zero
fu l’utilizzo di un locale vuoto al 545 di Technology Square (ora
200 Tech Square), in un edificio appena restaurato ma abbandonato del campus, il Building NE43. Qui si poteva costituire la
sola direzione del laboratorio, poiché era previsto che ciascun
membro del progetto rimanesse nel proprio laboratorio68.
La proposta fu accettata e classificata come una Fano’s
Folly, perché non fu possibile attribuirle la connotazione di laboratorio con un nome preciso, come avrebbero voluto Fano e
Licklider sul modello dell’RLE. L’Amministrazione del MIT,
infatti, non consentiva al personale di appartenere a più laboratori, che invece era la peculiare innovazione dell’organizzazione
di questo gruppo che avrebbe lavorato senza una sede fisica comune e lontano da Washington. Tuttavia la mancanza di
un’identificazione precisa della sede mise in difficoltà l’attribuzione dell’unico impiegato, un assistente di Fano, perché l’Amministrazione non poteva assegnare personale a una sede senza
67
68
CAMPANILE, Intervista a R. Fano, Concord.
WILDES - LINDGREN, A Century of Electrical, p. 168.
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nome, cioè formalmente a un “non luogo”. Il Professore allora
fu costretto a regolarizzare l’esistenza di questo laboratorio-“non
luogo” assegnandogli il nome di Project MAC69. L’acronimo
aveva il duplice significato di Multiple Access Computer e di
Machine Aided Cognition e acquisì, scherzosamente, anche
quello di Minsky Against Corby, alludendo alla rivalità tra i due
“giganti” del progetto, Corbató, direttore del Computer Science
Lab e Marvin L. Minsky (1927-2016), direttore dell’Artificial
Intelligence Laboratory, autonomo dal 1970.
Project MAC fu quindi una prova di grande coraggio, portata avanti da Fano tra difficoltà burocratiche e tecnologiche dovute all’introduzione di un cambiamento nei tradizionali stereotipi di lavoro perché modificava i tempi, i modi e gli spazi del
fare ricerca. Esso prese il via ufficialmente il 1º luglio 1963 grazie ai due milioni di dollari concessi dall’ARPA. Al Department
of Defense, dove presentò la proposta del MIT per l’idea di Licklider, Fano aveva ritrovato l’amico d’infanzia Gene, Eugene G.
Fubini (1913-1997), figlio di Guido, anche lui esiliato. In Italia
le due famiglie si erano frequentate stabilendo una salda amicizia. Robert e Gene avevano condiviso la stessa passione per le
arrampicate in montagna70 e una vacanza negli USA. Guido
Fubini era fuggito prima dei Fano, sistemandosi a Princeton su
invito dell’Institute for Advanced Study, così si erano persi di
vista. Anche Gene aveva terminato gli studi negli USA e dopo
una lunga esperienza nello sviluppo di tecnologie radar e di ingegnerizzazione dei sistemi radio ed elettronici per la difesa, era
69
CAMPANILE, Intervista a Fano, Cambridge.
D.G. FUBINI, H. BROWN, Let Me Explain. Eugene G. Fubini’s Life in Defense of America, Santa Fe, Sunstone Press, 2015, p. 56.
70
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Campanile, Robert Fano
entrato in politica. Dal ’63 era assistente del Segretario della Difesa, Robert S. McNamara, per il Presidente John F. Kennedy71.
Apprezzò subito l’idea di Licklider di sviluppare il time-sharing
per l’Human-Computer Interaction per il Governo federale e
disse che «could be revolutionary»72.
Nel ’63, Corbató dimostrò il funzionamento del CTSS al
quale erano collegati venti terminali, cioè postazioni indipendenti che lavoravano condividendo lo stesso sistema e una parte
di memoria. In quest’ultima gli utenti potevano depositare i loro
programmi per condividerli. Era iniziata una nuova era per il
software, che avrebbe indirizzato la creazione dei sistemi operativi, dal Multiplexed Information and Computing Service (1969)
fino allo Unix73.
Il Project MAC permise a docenti e studenti del MIT di
lavorare con maggiore efficienza e, cosa del tutto nuova, di condividere i programmi. Gli utenti iniziarono a dialogare tra loro e
con altre università. Questa innovazione assimilò l’uso del computer a quello del telefono, uno strumento di comunicazione, e
questo uso divenne una consuetudine lavorativa, ma non solo.
71
Eugene era stato chiamato a Washington dal direttore del Defense Research
and Engineering del Pentagono e iniziatore della DARPA, Herb York, che
era stato allievo di Emilio Segré all’UC Berkeley. Ivi, pp. 160-161.
72
WILDES, LINDGREN, A Century of Electrical, p. 173.
73
Il primo time-sharing fu implementato al MIT nel ’58 con un “real-time
package” fornito dall’IBM per semplificare la comunicazione tra l’operatore
e un computer 704. Nel ’61 Corbató dimostrò il funzionamento del time-sharing su un IBM 709 e da questo fu sviluppato nel ’62 il CTSS sull’IBM 7090.
Anche la BB&N implementò il time-sharing sul suo PDP-1, con la collaborazione di McCarthy, Fredkin e Licklider. R. M. FANO, The MAC System:
The Computer Utility Approach, «IEEE spectrum», 1965, pp. 56-64.
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Una serie di applicazioni create per questo sistema, come il servizio di Mailboxes74, trasformò gli utenti «into a community».
Era nata la «prima immagine» della rete di individui interconnessi tramite computer che sarebbe diventata prima ARPANET
e poi Internet75.
In questo cambio di paradigma comunicativo possiamo
leggere le conseguenze del coraggio di Robert Fano di istituire
un “non luogo” o luogo virtuale di lavoro, del quale erano solo
implicite le potenzialità. Per Fano era ben chiara la percezione
che il computer poteva diventare lo strumento di accesso ad una
serie di servizi digitali, basilari come l’acqua e l’elettricità, che
avrebbe trasformato il modo di lavorare e di organizzare la vita
quotidiana. Egli vedeva quindi convertita «la perdita irrecuperabile di un passato» nella costruzione di un futuro possibile per
tutti.
La Computer Science
Fano lasciò il Progetto nel ’71 per dirigere il nuovo Department of Computer Science76, in cui era stato avviato il primo
corso di laurea in Computer Science e nel ’75 il Progetto assunse
la sua reale connotazione di Laboratory for Computer Science.
74
E. MORRIS, Did My Brother Invent E-Mail With Tom Van Vleck?, in «The
New
York
Times»,
23-06-2011,
<http://opinionator.blogs.nytimes.com/2011/06/23/did-my-brother-invent-e-mail-with-tom-van-vleckpart-five/?_r=0# more-96615> (2-05-2017).
75
R. M. FANO, Project MAC Celebration, allegato a Lettera di R. M. Fano a
B. Campanile, Boston (MA), 30 maggio 2014.
76
I direttori del Project MAC e CSAIL sono stati: R.M. Fano (1963-1968),
J.C.R. Licklider (1968-1971), M. Minsky (1970-1972), E. Fredkin (19711974), P.H. Winston (1972-1997), M.L. Dertouzos (1974-2001), R. Brooks
(1997-2007), V. Zue (2001-2011), A. Agarwall (2011-2012) e D. Rus (2012now).
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Campanile, Robert Fano
Libero dall’insegnamento, Fano si fece promotore con conferenze e interviste in USA e in Europa del valore comunicativo
sociale del computer. L’eco delle sue iniziative arrivò anche in
Italia, ma il tentativo di “ricongiungimento culturale” con la patria d’origine fallì a causa della distanza intellettuale con un
paese in cui prevaleva una burocrazia clientelare77. Fano tornò
in Italia non solo per le vacanze con la famiglia. Tra gli altri interventi scientifici78, partecipò all’importante convegno organizzato dall’Accademia dei Lincei nel 1967 sul tema del futuro
dell’informatica. L’Italia aveva vissuto in affanno l’avvento
dell’informatica per il ritardo tecnologico dovuto alle difficoltà
economiche della ricostruzione seguita alla Seconda Guerra
Mondiale79. Dopo l’ingresso delle teorie cibernetiche in ambito
puramente scientifico e dopo il primo dibattito tra tecnologi e
studiosi di “scienze umane” sull’“informatica”, nel XXI Congresso Nazionale di Filosofia, “L’Uomo e la Macchina”, svoltosi
a Pisa, ad aprile del 196780, le questioni di più ampio respiro furono affrontate nel convegno organizzato a ottobre dello stesso
77
CAMPANILE, Intervista a R. Fano, Concord.
Insieme al più noto Norbert Wiener (1894-1964) e ad altri colleghi, Robert
Fano fu a Varenna (Como) tra i relatori delle lezioni del Corso sulla Teoria
dell’Informazione, tenuto dal 7 al 19 luglio del 1958, organizzato a cura della
Scuola internazionale di Fisica della Società italiana di Fisica e diretto dal
fisico teorico Eduardo Caianiello fondatore a Napoli del Laboratorio di cibernetica del CNR. C. POGLIANO, Alla periferia del nascente Impero: il caso
Italia (1945-1968), in F. BIANCHINI, S. FRANCHI, M. MATTEUZZI (eds.), Discipline Filosofiche (2007-1): Verso un’archeologia dell’intelligenza artificiale, Macerata, Quodlibet, 2007, pp. 85-120 (p. 103 nota 47).
79
A. LEPSCHY, Prefazione, in La cultura informatica in Italia: riflessioni e
testimonianze sulle origini, 1950-70, (Pubblicazioni della Fondazione
Adriano Olivetti), Torino, Bollati Boringhieri, 1993, pp. IX-XXIII.
80
V. SOMENZI, Cibernetica, informatica e filosofia della scienza, in La cultura informatica in Italia, pp. 161-190.
78
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Campanile, Robert Fano
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anno a Roma dall’Accademia dei Lincei su iniziativa di Marcello Conversi. Il tema, “L’Automazione elettronica e le sue implicazioni scientifiche, tecniche e sociali”, trattò tutti gli aspetti
dell’Informatica e diede il rilievo culturale a un fenomeno emergente tenuto ancora in secondo piano dall’aspetto prettamente
tecnologico-industriale81. Le problematiche sociali e morali
strettamente connesse alla nuova tecnologia del time-sharing furono esposte da Robert Fano nel suo intervento. La sua profonda
fiducia nella capacità intellettuale della comunità scientifica di
tutelare libertà e diritti dell’individuo con un uso corretto della
tecnologia, nonostante i suoi effetti talvolta indiretti e indesiderati, pose in risalto il rischio degli abusi che la burocrazia poteva
attuare in assenza di una posizione politica chiara82. Ma in Italia
la contrapposizione tra cultura scientifica e umanistica era ancora molto forte e, se pure attenuata da questo primo confronto,
non trovò nella politica l’elemento equilibratore capace di favorire un dialogo continuo.
Conclusione
Non abbiamo elementi per affermare che i riconoscimenti
alla carriera ricevuti da Fano - tra gli altri il Claude E. Shannon
Award nel 1976 e la laurea ad honorem in Ingegneria delle Telecomunicazioni dal Politecnico di Torino nel 1999 -, pur configurandosi come un appagamento per il lavoro svolto, abbiano
81
A. CUZZER, La diffusione dell’informatica in Italia, in La cultura informatica in Italia, pp. 5-36 (p. 33).
82
R. M. FANO, Time-Sharing: uno sguardo al futuro, in Atti del Convegno
L’automazione elettronica e le sue implicazioni scientifiche, tecniche e sociali, «Accademia Nazionale dei Lincei», Roma 16-19 ottobre 1967, Quaderno n. 110, Roma, 1968, p. 249.
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Campanile, Robert Fano
costituito un giusto risarcimento della sofferenza causata dal distacco forzato dalla patria originaria83. Secondo Robert, infatti,
il suo impegno scientifico sarebbe stato ugualmente massimo in
Italia84, ma in America produsse una “rivoluzione”: «I hope I
persuaded you that Project MAC did indeed make the first step
of the computer revolution»85. Un cambiamento epocale, come
annunciava Charles Percy Snow nella conferenza celebrativa dei
cento anni del MIT nel 196186, che è rappresentato anche fisicamente dall’architettura colorata e fuori dai canoni tradizionali
dell’edificio che ospita oggi il CSAIL, il Ray and Maria Stata
Center. Questo «magnificient symbol», di cui Fano andava
molto fiero, è sorto sullo spazio che fu del Rad Lab, il «magical
incubator» nel quale Bob vide riconosciuto per la prima volta il
diritto di fare ricerca scientifica, quel diritto che avrebbe sancito
il credo che l’uguaglianza inizia dall’uguaglianza di opportunità
culturali87. Esso esprime «la libertà, lo sconfinamento, la reciproca e mutua integrazione delle sue discipline»: computer
science, artificial intelligence, communications, control, linguistics and philosophy88.
In questa demolizione e ricostruzione edilizia fisica e virtuale, il “non luogo” è diventato uno spazio civico nuovo, regolato dalla freedom of choice, in cui si creano innovazioni volte a
migliorare l’accesso ai servizi digitali89. Afferma, infatti, l’attuale direttore del CSAIL Daniela Rus: «Bob ha fatto un lavoro
83
R. CAMURRI, Idee in movimento: l’esilio degli intellettuali italiani negli
Stati Uniti (1930-1945), in «Memoria e Ricerca», 31 (2009), pp. 43-62.
84
PONTECORBOLI, Robert Fano.
85
FANO, Project MAC Celebration.
86
M. GREENBERGER (a cura di), Management and Computers of the Future,
Cambridge (MA), MIT Press, 1962, p. 8.
87
LUCIANO, Mathematics and Race in Turin, p. 193.
88
MIT, Living in the Stata, DEE and CS, 2004, <https://eecs-newsletter.mit.edu/articles/2004-fall/living-in-the-stata> (18-04-2017).
89
FANO, Project MAC Celebration.
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pionieristico in informatica in un momento in cui la maggior
parte delle persone considerava l’applicazione ai computer come
una curiosità piuttosto che una disciplina accademica rigorosa»
e aggiunge: «niente del nostro lavoro qui sarebbe stato possibile
senza la sua passione, l’intuizione e la [sua] guida»90.
In conclusione si può osservare che la produzione scientifica e la narrazione diretta di Robert Fano di un esilio trasformato in un’esperienza felice, analoga a quella di altri geniali
emigranti europei91, ci forniscono l’immagine di un’America accogliente e tollerante che premia il merito, ma non fanno cenno
alla condizione straniante derivante dal muoversi in una frontiera
al limite tra demolizione del passato e costruzione del futuro che,
paradossalmente, ha finito per essere un mondo globalizzato in
cui tutti sono stranieri in patria e in cui domina, parafrasando
Robert Fox, una “science without frontier” 92.
90
CONNER-SIMONS - GORDON, Robert Fano.
ISRAEL, MILLÁN GASCA, Von Neumann, pp. 44-50.
92
FOX, Science without Frontier, p. XV.
91
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Calderoni, Una storia di accoglienza e solidarietà
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Una storia di accoglienza e solidarietà: il caso degli
esuli argentini in Italia negli anni Settanta e Ottanta
di Giulia CALDERONI
IHEAL – CREDA, Université Paris 3 Sorbonne-Nouvelle
DOI 10.26337/2532-7623/CALDERONI
Riassunto: Negli anni Settanta migliaia di argentini lasciarono il proprio
paese per scappare dalla feroce repressione statale. L’Italia fu uno dei paesi
che accolse questi esuli, anche se il governo italiano non riconobbe mai legalmente la loro condizione di esiliati. In assenza di politiche di accoglienza
promosse dallo Stato, la popolazione si mobilitò per aiutare queste persone,
dando vita a importanti reti di solidarietà.
Abstract: During the 1970s thousands of Argentinians fled their country due
to harsh state repression targeting any kind of political dissidence. Italy has
been a main recipient of these refugees, yet the Italian government has never
legally recognized their condition as such. However, despite the lack of welcoming policies, large sections of the Italian population mobilized to support
the Argentinean exiled, building significant solidarity networks.
Keywords: Exil, Solidarity, Italy
Sommario: Introduzione – In fuga da un contesto violento – Le difficoltà nel
lasciare l’Argentina – L’arrivo in Italia e l’impatto con un mondo nuovo – La
ricezione degli argentini da parte dell’Italia e degli italiani – La ricerca
dell’alloggio – L’apprendimento della lingua e l’inserzione dei bambini nelle
scuole – La ricerca di un lavoro – Il caso del PRT-ERP nell’Italia settentrionale – Le madri argentine e la parrocchia della Trasfigurazione – Conclusione
– Fonti – Bibliografia
Saggio ricevuto in data 2 novembre 2017. Versione definitiva ricevuta in data
16 gennaio 2018
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Calderoni, Una storia di accoglienza e solidarietà
Introduzione
Negli anni Settanta la regione del Cono Sud latinoamericano fu teatro di alcuni violenti colpi di stato. Ogni golpe è stato
il preludio di feroci dittature, fra le più crudeli mai inflitte alla
regione e centinaia di migliaia di persone abbandonarono il proprio paese per riparare all’estero. In questo articolo ci occuperemo di un caso che non è ancora stato studiato in modo approfondito, quello degli esiliati argentini in Italia negli anni Settanta
e Ottanta. A partire dagli anni 2000 il campo di studi sull’esilio
ha acquisito un peso sempre più importante. In presenza di ricerche sugli esiliati argentini in Spagna, Messico, Francia, Belgio o
Svezia1, l’assenza di studi sull’esperienza in Italia si manifesta
come un pesante vuoto.
Il caso dell’esilio argentino in Italia richiede un’attenzione
particolare per diversi motivi. Innanzitutto, per il vincolo storico-culturale creatosi in seguito alle grandi ondate migratorie di
1
Per il caso messicano: P. YANKELEVICH, Ráfagas de un exilio: argentinos
en México, Città del Messico, El Colegio de México, 2009. Per il caso
spagnolo: S. JENSEN, La huida del Horror no fue olvido. El exilio político
argentino en Cataluña 1973-1983, Barcelona, M.J. Bosch-Cosofam, 1998;
G. MIRA, La singularidad del exilio argentino en Madrid: entre las
respuestas a la represión de los ’70 y la interpelación a la Argentina
postdictatorial, in P. YANKELEVICH (ed.), Represión y Destierro. Itinerarios
del exilio argentino, Buenos Aires, Ediciones Al Margen, 2004. Per il caso
francese: M. FRANCO, El exilio : argentinos en Francia durante la dictadura,
Buenos Aires, Siglo XXI Editores Argentina, 2008. Per il caso belga: M. VAN
MEERVENNE, Buscar refugio en un lugar desconocido. El exilio argentino en
Bélgica, Tesi di dottorato in Studi latino-americani sotto la direzione di Marina Franco, Universidad Nacional de San Martin, Buenos Aires, 2013. Per il
caso svedese: B. CANELO, Cuando el exilio fue confinamiento: argentinos en
Suecia, in P. YANKELEVICH, S. JENSEN (eds.), Exilios. Destinos y experiencias
bajo la dictadura militar, Buenos Aires, Libro del Zorzal, 2007, pp. 103-126.
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Calderoni, Una storia di accoglienza e solidarietà
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italiani in Argentina fra il XIX e il XX secolo2, che ha avuto un
peso non indifferente nella ricezione e nell’accoglienza di questi
esuli, molti dei quali di origine italiana. In secondo luogo, per le
difficoltà affrontate dagli esiliati rifugiatisi nel Bel Paese: lo
Stato italiano non solo non concesse loro lo status di rifugiati
politici, ma negò ogni tipo di aiuto. Infine, per il contesto sociopolitico dell’Italia dell’epoca, che viveva una stagione di violenza politica, quella degli “anni di piombo3”.
Per queste ragioni, è interessante osservare in che modo
gli esiliati argentini siano riusciti a riorganizzare le proprie vite
nel contesto italiano e capire quali attori lo abbiano reso possibile. In un Paese in cui non era riconosciuta loro la condizione
di rifugiati politici, da chi hanno ricevuto aiuto? Qual è stata la
linea politica adottata dallo Stato italiano nei loro confronti? E
qual è stato l’atteggiamento della popolazione entrata in contatto
con queste persone provenienti dall’altra parte del mondo? Cercheremo di rispondere a queste domande, mettendo l’accento
sull’interazione fra gli esuli argentini e la popolazione italiana,
con un’attenzione particolare al ruolo rivestito dalla combinazione di affinità socio-culturali, storiche e politiche. Una tale ottica permetterà di comprendere in maniera più adeguata le dinamiche relazionali fra italiani e argentini.
2
A partire dalla seconda metà dell’Ottocento fino alla Seconda Guerra Mondiale, si calcola che siano emigrati 18 milioni di italiani, 2,5 milioni dei quali
diretti in Argentina (Dati ISTAT – Serie Storiche). Per un approfondimento
sull’emigrazione italiana in Argentina, uno dei testi fondamentali è F. DEVOTO, Storia degli italiani in Argentina, Roma, Donzelli, 2007.
3
Per un approfondimento sugli anni di piombo, si vedano M. LAZAR, M.-A.
MATARD-BONUCCI, L’Italie des années de plomb. Le terrorisme entre histoire et mémoire, Paris, Editions Autrement, 2010; G. PAVINI, Ordine nero,
guerriglia rossa. La violenza politica nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta, 1966-1975, Einaudi, Torino, 2009; D. DELLA PORTA (ed.), Terrorismi
in Italia, Il Mulino, Bologna, 1984.
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Calderoni, Una storia di accoglienza e solidarietà
Prima di iniziare occorre sottolineare le difficoltà che comporta lo studio dell’esilio argentino in Italia. Il problema principale è costituito dalla penuria di lavori scientifici su questo tema.
Quest’insufficienza di fonti scritte è però compensata dall’abbondanza di testimonianze, scritte e orali, di chi ha vissuto l’esilio. Nell’articolo vengono citate otto testimonianze orali, facenti
parti di un corpus più ampio di interviste, raccolte dall’autrice in
Italia e in Argentina fra il 2015 e il 2017. Si tratta delle interviste
a Enrico Calamai, vice console a Buenos Aires nei primi anni
della dittatura, e a sette ex-esiliati, alcuni rimasti in Italia, altri
tornati in Argentina. Quando si lavora con materiale di questo
tipo bisogna essere molto cauti, occorre sempre tenerne in considerazione i limiti e fare attenzione ai rischi. Il campione di testimonianze non è sempre rappresentativo dell’intero insieme
che fa l’oggetto del nostro studio, poiché per esempio alcuni individui sono più predisposti di altri a parlare della loro esperienza. In particolare, nel nostro caso, le persone che sono state
più propense a raccontare la loro storia sono coloro che durante
l’esilio hanno mantenuto il loro attivismo politico e/o si sono
battuti in difesa dei diritti umani violati dalla dittatura argentina.
Inoltre si tratta di eventi accaduti a 40 anni di distanza dal momento in cui la testimonianza è stata registrata o trascritta: è
quindi possibile che i filtri della memoria abbiano modificato alcuni ricordi o informazioni. A ciò si aggiunge il fatto che ogni
intervista è un prodotto che si costruisce nel momento stesso in
cui la si realizza, in funzione dell’interlocutore, del luogo in cui
trova, del legame che si crea fra intervistato e intervistatore4. Ciò
nonostante, prendendo le dovute precauzioni, questo tipo di fonti
4
L’analisi delle interviste orali è stata fatta seguendo la metodologia proposta
da Alessandro Portelli nei suoi saggi raccolti nel libro Storie orali: racconto,
immaginazione, dialogo, Roma, Donzelli Editore, 2007.
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Calderoni, Una storia di accoglienza e solidarietà
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è di una ricchezza enorme, poiché permette di ottenere informazioni a cui altrimenti sarebbe impossibile avere accesso. Se combinate e confrontate con articoli di giornale, archivi ufficiali e
altri tipi di fonti, o paragonate a casi di studi maggiormente approfonditi, permettono di accrescere la qualità del lavoro di ricerca intorno all’esilio argentino in Italia. Sono altresì una fondamentale porta d’accesso al tema della solidarietà italiana verso
gli argentini, che è il fil rouge del presente articolo.
In fuga da un contesto violento
A partire dalla seconda metà degli anni settanta, l’Italia divenne una delle destinazioni degli esiliati argentini in fuga dalla
violenza e dalla repressione che ormai affliggevano il loro
paese5. Malgrado i profili socio-politici degli esuli presentino
una grande eterogeneità, è proprio in questo clima di violenza
che va ricercato il minimo comun denominatore che determinò
la decisione di abbandonare l’Argentina per cercare rifugio altrove. L’esilio argentino si iscrive in uno dei momenti più repressivi della storia del paese, quello della dittatura militare, iniziato con il colpo di stato del 24 marzo 1976 e terminato con le
elezioni democratiche del 19836. Il clima di terrore si era tuttavia
inasprito già nel triennio 1973-1976, a causa della repressione
anticomunista da parte di gruppi parastatali e/o paramilitari, fra
cui spiccò la Tripla A7, fondata dal Ministro del Bienestar Social
5
M.A. BERNARDOTTI, B. BONGIOVANNI, Aproximaciones al estudio del exilio
argentino en Italia », in YANKELEVICH, Represión y destierro, p. 49-89.
6
Per un approfondimento sulla dittatura militare argentina: M. NOVARO, V.
PALERMO (eds.), La dictadura militar 1976-1983 del golpe de estado a la
restauración democrática, Historia Argentina, IX, Buenos Aires, Paidós,
2003.
7
Alianza Anticomunista Argentina, strumento parastatale e parapoliziesco del
governo di Isabel Perón.
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Calderoni, Una storia di accoglienza e solidarietà
José López Rega8, braccio destro di María Estela “Isabel”
Martínez de Perón9. Questa “lotta alla sovversione” si diresse
contro intellettuali, giornalisti, professori universitari considerati
dei “pericolosi sovversivi marxisti” e, in maniera massiccia, contro i membri di quelle organizzazioni politico-militari che nel
frattempo erano passate alla clandestinità, come ad esempio il
PRT-ERP10 o Montoneros11. Il golpe non arrivò inaspettatamente, ma si inserì in una “tradizione” già consolidata in Argentina: il paese, fin dagli anni trenta, aveva vissuto in una spirale
di violenza in cui ogni governo democratico – o presunto tale –
finiva per essere rovesciato da un colpo di stato. Il golpe del 1976
fu quindi accolto dalla maggior parte della popolazione senza
sorpresa o addirittura, in certi casi, con un sospiro di sollievo,
con la speranza che ponesse fine alle lotte intestine e che riportasse l’ordine. Facendosi schermo di un programma indicato con
8
La figura di López Rega nei primi anni Settanta divenne il simbolo della
destra peronista. Dopo la morte di Juan Domingo Perón nel 1974, durante la
presidenza di Isabel Perón, condusse de facto il governo fino al momento del
colpo di stato. Era iscritto alla loggia massonica P2 di Licio Gelli. Morì a
Buenos Aires nel 1989, aspettando di essere giudicato per i crimini commessi
dagli squadroni della morte della Tripla A.
9
Isabel Martínez de Perón fu la terza moglie di Juan Domingo Perón. Alla
morte del marito, allora presidente dell’Argentina, gli succedette in quanto
vice-presidente.
10
Partito Rivoluzionario dei Lavoratori (Partido Revolucionario de los Trabajadores). Fu un partito argentino di sinistra, fondato nel 1965 e nato dalla
fusione di due organizzazioni rivoluzionarie, una di ispirazione guevarista e
l’altra trotskista. L’ERP, l’Esercito Rivoluzionario del Popolo (Ejercito Revolucionario del Pueblo) era un gruppo guerrigliero di ispirazione marxista e
guevarista, considerato il braccio armato del PRT.
11
Organizzazione politico-militare peronista creata a metà degli anni Sessanta a Cordoba, Argentina. Nacque dalla convergenza dei cattolici di sinistra
e dell’ala progressista del Movimento Peronista. Lottarono in favore del ritorno di Perón in Argentina. Quando gli fu concesso di tornare in patria, Perón
li rinnegò e Montoneros passò alla clandestinità.
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Calderoni, Una storia di accoglienza e solidarietà
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il nome di Proceso de Reorganización Nacional, il regime volle
presentarsi come il legittimo difensore della sicurezza nazionale,
che secondo i militari era minata dagli attentati dei guerriglieri
che seminavano il terrore in Argentina. La Giunta era formata
dal generale Jorge Rafael Videla, l’ammiraglio Emilio Eduardo
Massera e il brigadiere Orlando Ramon Agosti. Una volta deposta la Presidentessa Isabel Martínez de Perón, la massima carica
fu conferita a Videla.
In realtà, la presa di potere dei militari non fece che istituzionalizzare l’apparato repressivo che era stato collaudato nel
triennio precedente. La legittimazione (o meglio: l’autolegittimazione) del regime si basò sull’annichilimento dell’opposizione12 e la violenza divenne di fatto il principale strumento politico di governo: ecco il principio di base della guerra sucia
(“guerra sporca”). Ciò che provocò maggiormente la paura fu
l’indeterminatezza della repressione. Chiunque poteva finire nel
mirino dei militari, non solo i membri delle organizzazioni armate, ma qualsiasi individuo sospettato di non appoggiare pienamente il regime, come si evince dalle parole di Iberico SaintJean, governatore militare di Buenos Aires: «prima uccideremo
tutti i sovversivi, poi i loro collaboratori, quindi i simpatizzanti,
poi gli indifferenti e infine chi esita»13.
12
A.G, SCHWARTZ, Disparadores del exilio. Violencia y cultura política en
la Argentina de los años ’70, in III Jornadas de Historia de las Izquierdas:
Exilio politicos, Argentina y Latinoamericanos, CEDINCI, Buenos Aires,
2005, p. 52.
13
Traduzione personale dallo spagnolo: « Primero mataremos a todos los
subversivos, luego mataremos a sus colaboradores, después a sus
simpatizantes, enseguida a aquellos que permanecen indiferentes y,
finalmente, mataremos a los tímidos ». Tali parole furono pronunciate da Ibérico Saint-Jean durante una cena con altri ufficiali il 25 maggio del 1977.
Citato in A. ABOS, El poder carnívoro, Buenos Aires, Sudamericana, 1985,
p. 23.
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Calderoni, Una storia di accoglienza e solidarietà
Non si possono comprendere le dinamiche dell’esilio argentino se non si tiene in considerazione questo contesto, in cui
è possibile ritrovarne le cause. Furono migliaia coloro che, nel
timore di diventare vittime della repressione statale, preferirono
lasciare il paese e riparare all’estero. Va sottolineato che la
Giunta militare non istituzionalizzò mai una pena d’esilio, proprio per evitare che l’opinione pubblica mondiale guardasse al
Proceso de Reorganización Nacional come a una dittatura. Ciò
nonostante, l’esilio terminò col divenire comunque una forma di
repressione, anche se indiretta14. Indiretta perché di fatto lo Stato
non obbligava i suoi cittadini ad abbandonare il territorio nazionale (ad eccezione di alcuni casi particolari, come quello dell’opción, che approfondiremo più tardi), ma la scelta di lasciare il
paese fu personale, pur essendo percepita dai chi partiva come
una costrizione. Occorre specificare che, seppur l’esilio vada
considerato come un prodotto del libero arbitrio dell’individuo,
si trattò di una decisione quasi obbligata, presa con un margine
di scelta assai ridotto. In molti casi, restare equivaleva ad andare
incontro a un destino già scritto, quello della morte o della desaparición.
Le difficoltà nel lasciare l’Argentina
Una volta deciso di partire, affioravano una serie di questioni da risolvere, prima fra tutte la scelta della destinazione.
Questa decisione – nei casi in cui la scelta fu possibile e non
obbligata – dipese dalla congiuntura di vari fattori: il momento
in cui gli esiliati abbandonarono il paese, il loro impegno politico, le reti di appoggio in altri paesi, etc.
14
La storica Silvina Jensen è stata la prima ricercatrice a studiare il fenomeno
dell’esilio in relazione al terrorismo di Stato in Argentina, considerandolo una
pratica repressiva. S. JENSEN, La huida del horror no fue olvido.
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Spagna e Messico furono i paesi che accolsero il maggior
numero di argentini, mentre in minor misura troviamo Francia,
Svezia, Paesi Bassi, Italia, Venezuela, Israele15. Gli Stati limitrofi non rappresentarono un luogo sicuro in cui rifugiarsi, dal
momento che anch’essi, come l’Argentina, erano retti da regimi
autoritari. Si stima che il totale di argentini che lasciarono il
paese fra il 1973 e il 1983 oscilli fra le 300.000 e le 500.000
persone16. Fra questi, sarebbero fra i 14.000 e i 20.000 coloro
che arrivarono in Italia17. Delle cifre così approssimative mostrano quanto sia complicato ottenere dei dati certi quando si studia un fenomeno come l’esilio. Nel caso dell’Italia, questa stima
diventa ancora più complessa se si tiene in considerazione che ci
fu chi entrò nel paese con documenti italiani (coloro che avevano
la doppia nazionalità) o con documenti falsi, altri con visti turistici, altri clandestinamente. Lo Stato italiano, inoltre, non riconosceva il diritto di rifugio politico agli argentini, pertanto non
esistono registri ufficiali che attestino la presenza di rifugiati politici provenienti da questo paese e diretti in Italia. Alcuni non
scelsero l’Italia, ma furono formalmente espulsi dall’Argentina
con l’obbligo di essere trasferiti nel Bel Paese (ad altri toccò la
Francia, la Svezia, il Belgio o altri paesi europei): così iniziò
l’esilio di quelli che uscirono dal paese grazie all’opción18,
15
M. SZNAJDER, L. RONIGER, La política del destierro y del exilio en América
Latina, México, FCE, 2013, p. 256.
16
L. MARMORA, J. GURRIERI, El ritorno en el Río de la Plata, in «Estudios
Migratorios», Buenos Aires, 10 (1988), p. 475.
17
M.A. BERNARDOTTI, Andata e ritorno. I paradossi degli immigrati argentini in Italia, in Storia e problemi contemporanei, IX, n°18, 1996, pp. 61-90,
pp. 85 ss. Va sottolineato che l’articolo di Bernardotti prende in considerazione tutti gli argentini andati in Italia negli anni della dittatura, senza distinguere le ragioni che li hanno spinti a tale scelta. Risulta quindi difficile fare
una distinzione fra migranti politici, migranti economici e rimpatriati.
18
L’opción era un diritto previsto dalla Costituzione Nazionale (art. 23). In
caso di dichiarazione dello stato d’emergenza, l’Esecutivo ha la prerogativa
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l’“opzione”. L’opción si applicò soprattutto ai casi di prigionieri
politici aventi la doppia nazionalità (o un’altra nazionalità che
non fosse quella argentina): grazie alle pressioni dei familiari, di
alcune organizzazioni non governative e del governo dello Stato
di origine, la Giunta militare argentina al potere si vide obbligata
a espellere alcuni prigionieri verso i loro paesi di origine.
Il colpo di stato del 24 marzo 1976 segnò un punto di
svolta: coloro che riuscirono a fuggire prima del golpe, lo fecero
coi loro passaporti e con visti turistici. Anche dopo il colpo di
stato ci fu chi uscì dall’Argentina in questo modo ma fu più difficile ricorrere a tale strategia a causa dell’incremento dei controlli di frontiera e perché chiunque poteva essere fermato se
considerato un potenziale sovversivo in fuga. Tenendo in considerazione questa divisione, coloro che partirono in esilio fra il
1973 e il 1976 lo fecero per paura della repressione e/o perché
avevano ricevuto delle minacce dai gruppi paramilitari di
estrema destra. Grazie alle reti familiari e socio-professionali poterono arrivare in Italia e stabilirvisi, cercare un lavoro, una casa.
Si trattò soprattutto – come nel caso degli argentini arrivati negli
anni Sessanta – di professori universitari, giornalisti, intellettuali, sindacalisti e liberi professionisti che in Italia avevano potuto riprendere l’attività interrotta in Argentina. Molti di loro furono attratti dalla realtà politica del Bel Paese, dove il Partito
Comunista era uno dei più importanti d’Europa e il movimento
sindacale aveva una certa rilevanza.
Diversa fu la situazione di quelli che lasciarono l’Argentina dopo il 1976 e che incontrarono maggiori difficoltà: negli
di trasferire i detenuti considerati pericolosi all’interno del paese o eventualmente dar loro la possibilità di andare all’estero. Fu sospeso nel 1976 e reintrodotto l’anno dopo, con alcune modifiche, perché per i militari era più conveniente che i prigionieri restassero in territorio argentino per avere un maggiore controllo su di loro. L’opción convertì così un diritto costituzionale in
una pena d’esilio.
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anni che seguirono il golpe, ad andarsene furono soprattutto i
membri delle organizzazioni armate, mentre verso il 1979 iniziarono a partire anche i familiari dei desaparecidos e delle vittime della repressione, spinti dalla volontà di denunciare quello
che era successo ai loro cari, alla ricerca di una qualche forma di
giustizia nei paesi democratici.
Per coloro che provenivano da organizzazioni armate perseguitate dal governo, la situazione fu critica. Per loro, le possibilità di abbandonare l’Argentina erano limitate: chiedere l’asilo
politico in un altro paese, ricorrere a un passaporto straniero o
ottenere dei documenti falsi e cercare di passare per i paesi limitrofi (in particolare Uruguay e Brasile). Ci fu chi riuscì a chiedere l’asilo politico nell’ambasciata svedese, olandese o belga,
mentre non fu così con quella italiana. L’ambasciata italiana di
Buenos Aires non si mostrò per nulla solidale con queste persone, anzi; qualche giorno prima del golpe l’ambasciatore Enrico Carrara, a conoscenza dei piani dei militari, diede l’ordine
di far alzare il muro dell’ambasciata e di cambiare l’entrata con
una doppia porta19. Questa misura obbligava chiunque volesse
entrare a identificarsi, in maniera tal che si potesse accedere unicamente con l’autorizzazione del personale dell’ambasciata.
Ogni richiedente asilo era considerato come un potenziale sovversivo da consegnare alle Forze Armate, per evitare ciò che era
successo a Santiago de Chile tre anni prima, quando nei locali
dell’ambasciata furono accolti centinaia di cileni perseguitati dai
19
Intervista con Enrico Calamai, Roma, luglio 2015. La testimonianza di Calamai coincide con quella di altri membri dell’ambasciata, vedasi ad esempio
quella di Bernardino Osio o del prete Enzo Giustozzi in Il silenzio infranto,
Il dramma dei desaparecidos italiani in Argentina, C. TALLONE, V. VIGEVANI
JARACH (eds.), Torino, Silvio Zamorani Editore, 2005, p. 187. Per ulteriori
approfondimenti sul caso dell’ambasciata italiana a Buenos Aires, vedi E.
CALAMAI, Niente asilo politico. Diario di un console italiano nell’Argentina
dei desaparecidos, Roma, Editori Riuniti, 2003.
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Calderoni, Una storia di accoglienza e solidarietà
militari. Nel caso dell’Argentina, il timore che l’ambasciata italiana venisse presa d’assalto era ancora più forte, dal momento
che gli argentini di origine italiana avrebbero potuto richiedere
il passaporto italiano e utilizzarlo per lasciare il Paese20.
Se la legislazione aveva offerto una scappatoia ai perseguitati argentini, il modus operandi dell’ambasciata italiana – e
quindi del governo stesso – ostacolava lo svolgimento delle procedure che avrebbero permesso a più persone di salvarsi. Un
comportamento discutibile, se consideriamo che l’Argentina
ospitava (e ospita tutt’ora) una delle più grandi comunità di italiani all’estero. Non bisogna tuttavia generalizzare, poiché ci fu
chi si comportò diversamente, come il vice console Enrico Calamai. Con l’aiuto del giornalista Giangiacomo Foà, del sindacalista Filippo Di Benedetto e di altri membri del consolato e
dell’ambasciata, Calamai permise a circa 300 persone in pericolo di vita di lasciare l’Argentina. Grazie al loro intervento fu
possibile ottenere passaporti italiani e biglietti aerei in tempi celeri. Spesso Calamai si occupava personalmente di accompagnare i perseguitati fino alla porta dell’aereo, per impedire un
eventuale intervento della polizia e garantirne la partenza. Tale
meccanismo doveva funzionare il più rapidamente possibile, dal
momento che il consolato non godeva del principio di extra-territorialità di cui beneficiava l’ambasciata, pertanto si conside-
20
All’inizio degli anni Settanta l’Argentina ratifica un accordo con l’Italia riguardo la nazionalità. Tale accordo, ufficializzato con la legge ordinaria n.
282 del 18 maggio 1973, prevede la possibilità per i cittadini argentini e italiani di acquisire entrambe le nazionalità, senza perdere quella d’origine. Ciò
è possibile perché in Italia la nazionalità si attribuisce in base allo ius sanguinis, cioè si trasmette dal padre al figlio nonostante quest’ultimo non sia nato
né abbia vissuto in Italia. In Argentina, invece, vige lo ius soli, per il quale si
considera cittadino argentino chiunque sia nato all’interno dei confini dello
stato.
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rava come territorio argentino. Poliziotti in borghese controllavano il perimetro del consolato e si rischiava di essere catturati
proprio nel luogo in cui si andava a chiedere aiuto.
A un anno dal colpo di stato, nel maggio del 1977, Calamai
fu trasferito a Roma, in anticipo rispetto alla durata del suo mandato. Qualche mese prima, Giangiacomo Foà aveva dovuto abbandonare Buenos Aires dopo aver ricevuto minacce di morte.
Il giornale per cui lavorava, il Corriere della Sera, lo aveva così
trasferito in Brasile, proibendogli di scrivere articoli riguardanti
la situazione argentina. La macchina della solidarietà aveva ricevuto un duro colpo.
L’arrivo in Italia e l’impatto con un mondo nuovo
Oltre all’operato di Calamai, Foà e Di Benedetto, un altro
meccanismo di solidarietà si mise in moto quando gli esuli arrivarono in Italia. Più che sulle istituzioni, l’esilio argentino si organizzò intorno alle reti familiari, affettive, professionali, politiche. Queste reti permisero agli esuli di risolvere i problemi di chi
è costretto a lasciare il proprio paese: dove andare? dove stabilirsi? dove vivere? In un primo momento, quelli che avevano
mantenuto un qualche tipo di contatto con i familiari italiani tornarono nei villaggi dei loro nonni o bisnonni. In vari casi, però,
si trattò di una soluzione temporanea, soprattutto per i giovani
che a stento riuscirono ad adattarsi ai nuovi ritmi di vita. Un
esempio concreto di questa difficoltà ci è dato dalla storia di
Wanda21, nata in Italia ma trasferitasi a Buenos Aires all’inizio
21
Nata in Italia, a 3 anni va in Argentina con la madre e le sorelle per raggiungere il padre, emigrato lì un paio d’anni prima. Qualche settimana prima
del golpe viene fermata dalla polizia in un bar di Buenos Aires e imprigionata
senza processo. Nel 1979 esce dal paese tramite l’opción e arriva in Italia.
Dapprima si reca con sua madre a Roseto Capo Spulico, il paese da cui erano
emigrati i suoi genitori. Dopo una settimana si trasferisce a Roma, dove resta
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Calderoni, Una storia di accoglienza e solidarietà
degli anni Cinquanta, quand’era solo una bambina. Espulsa
dall’Argentina nel 1979, grazie al consolato italiano ottenne i
documenti necessari per tornare in Italia, anche se per lei fu uno
shock passare dalla vita porteña a quella del piccolo paese calabrese di cui era originaria la sua famiglia:
Quando arrivai in Italia, avemmo la pessima idea di tornare a Roseto Capo
Spulico, il paese di mia madre, perché lì c’erano i miei nonni, i fratelli e le
sorelle di mia madre. […] La prima reazione dei miei nonni fu che se tornavo
in Italia non avevo il corredo e che inoltre bisognava sistemarmi. […] Nel
gran fenomeno della migrazione, colui che se ne è andato ha perso, quindi a
mia madre non le era toccato nulla dell’eredità dei miei nonni. Quindi la mia
presenza era una cosa abbastanza irritante perché metteva nuovamente in
gioco tutta la questione dell’eredità di mio nonno. E niente, resistetti una settimana a Roseto Capo Spulico, inoltre non avevo niente da fare perché è un
paesino che ha 1500 abitanti e se non partecipi ai pettegolezzi, non hai niente
da fare…niente da fare perché oltre ad andare di casa in casa non c’è
nulla…[…] Così dopo una settimana tornammo a Roma con mia madre e
andammo al ministero a vedere Calamai22.
Molti, come Wanda, si appoggiarono alla rete familiare
solo in un primo momento, per poi trasferirsi nelle grandi città
(Roma, Milano, Torino) dove c’erano maggiori possibilità di trovare un lavoro. Oltre alla famiglia, un importante punto di appoggio fu quello degli amici, sia italiani che argentini stabilitisi
in Italia precedentemente. Essi diedero un aiuto concreto ai
nuovi arrivati, ospitandoli o dandogli consigli di natura pratica.
Anche le reti professionali furono determinanti nella scelta
del luogo in cui andare a vivere: per esempio, molti giornalisti
scelsero Roma, dove si trovava l’Inter Press Service (IPS),
un’agenzia stampa nata negli anni Sessanta come cooperativa di
giornalisti italiani e argentini e che negli anni successivi si era
fino al 1986 quando, grazie a un decreto emanato dal neo-presidente Raul
Alfonsín, può rientrare in Argentina. Attualmente vive a Buenos Aires.
22
Intervista con Wanda, Buenos Aires, maggio 2016.
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ingrandita molto. Altri utilizzarono le reti politiche, come nel
caso dei militanti del PRT-ERP o di Montoneros. I primi si riorganizzarono nell’Italia settentrionale, creando delle piccole
scuole di formazione dei quadri dirigenti dell’organizzazione.
Tutto ciò non sarebbe stato possibile senza l’appoggio della popolazione locale, in particolare di alcuni membri del PCI o – inaspettatamente – della DC e anche grazie al sostegno di ex-partigiani. Molti militanti dell’organizzazione Montoneros, invece,
andarono a Milano o a Roma; nella capitale viveva Juan Gelman,
celebre poeta argentino, con sua moglie Lili Massaferro e l’ex
governatore di Buenos Aires Oscar Bidegain. Oltretutto Roma
era il centro della vita politica nazionale e molti argentini scelsero la capitale per portare avanti le denunce contro la violenza
del regime dittatoriale e contro la repressione di cui erano vittime
i loro connazionali. Fu per questi motivi che proprio a Roma
nacque il CAFRA, il Comitato Antifascista contro la Repressione in Argentina, fondato nel 1974 da alcuni esuli arrivati in
Italia prima del golpe del 1976 e che si erano mobilitati per denunciare la situazione del loro paese. L’Italia attirò gli argentini
anche grazie alla sua vivacità socio-politica, che entusiasmò
quegli esiliati che erano stati politicamente molto attivi. Era il
momento di auge del PCI e i livelli di riflessione dell’epoca affascinarono non pochi esuli, malgrado l’aria tesa che si respirava
nell’Italia degli anni di piombo. Gli argentini arrivarono infatti
in un momento in cui andava crescendo la violenza dei gruppi
armati dell’estrema destra e dell’estrema sinistra italiane. Questo
contesto non giovò alla condizione degli esiliati e fu particolarmente nocivo per tutti coloro che arrivavano da una militanza,
spesso armata, e che rischiavano quindi di essere considerati
come l’equivalente latino-americano delle Brigate Rosse o di altre organizzazioni. Gli argentini dovettero lavorare duramente
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Calderoni, Una storia di accoglienza e solidarietà
per evitare che si creassero analogie di questo tipo, che avrebbero potuto minare l’importante lavoro che si stava portando
avanti riguardo alla denuncia della repressione in Argentina.
Per molti esiliati però l’Italia non rappresentava solo una
base da cui far partire le azioni di denuncia contro il regime argentino: per alcuni, l’arrivo nel Bel Paese rappresentò un vero e
proprio viaggio alla scoperta delle proprie origini, anche se non
sempre si concluse con un riavvicinamento alle famiglie rimaste
in Italia. Quando gli argentini arrivarono in Italia, si confrontarono con una realtà che spesso avevano immaginato ma che raramente conoscevano sul serio. Per esempio, il cinema
Divulgò stereotipi su che cos’era l’Italia del dopoguerra […]Le immagini
dell’Italia che la produzione cinematografica proiettava in Argentina rimanevano come detto ambigue. Per un verso esse parevano enfatizzarne, con la
loro tendenza al caricaturale, i tratti più eccessivi e di fatto anche triviali. Per
l’altro, generavano una corrente di simpatia nel pubblico, che si convinceva
esistessero straordinarie similitudini tra le due società. Lo spettatore argentino, insomma, vedendo l’Italia di celluloide si sentiva come a casa23.
L’immagine che gli argentini avevano dell’Italia era
quindi molto caricaturale, basata su stereotipi. Tuttavia la conoscenza del Bel Paese non passava solamente attraverso il cinema,
la letteratura o la televisione, perché la presenza italiana sembrava essere ovunque. In Argentina, nel corso di due secoli, gli
italiani «avevano contribuito a trasformare la società argentina,
dandole un’aria di famiglia ben evidente. […] Tutto pareva italiano in Argentina (e in qualche modo lo era), per quanto fosse
difficile precisare e indicare esattamente cosa e come»24.
23
F. DEVOTO, Storia degli italiani in Argentina, Roma, Donzelli, 2007, pp.
467-468.
24
DEVOTO, Storia degli italiani in Argentina, p. 470.
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Calderoni, Una storia di accoglienza e solidarietà
403
Il contatto con la realtà italiana permise loro di rendersi
conto dell’influenza – più o meno profonda, a seconda dei casi
– che questa cultura aveva avuto nelle loro vite fin dalla nascita,
come spiega Dora25:
In definitiva il caos italiano mi risultava familiare, perché io vengo da una
famiglia italiana da parte di mia madre, la mia famiglia è calabrese. Più che
mia madre, che lavorava, mi ha cresciuto mia nonna e l’impronta dell’italianità fu molto forte. Io non lo sapevo, questa questione dell’identità la scoprii
quando arrivai in Italia. Pero va beh, era molto forte. Quando mi chiedono
dell’Italia, io dico sempre due cose: che lì potei tornare a sorridere e che in
Italia scoprii la mia identità, o almeno il 50% o più della mia identità [ride].
Perché, altra cosa che dico sempre, cresciuta all’italiana senza saperlo, in un
paese che non era l’Italia, pensavo che la mia famiglia fosse pazza. La mia
visione da bambina e da adolescente, era che la mia famiglia era pazza. Arrivando in Italia mi accorsi che no, la mia famiglia non era pazza, era italiana!
[ride]26.
Malgrado questa “familiarità” della società italiana, l’impatto con il Bel Paese fu, in un certo senso, deludente a causa
25
Dora, argentina, ha origini calabresi. Dopo aver lasciato l’Argentina, si sposta fra vari paesi europei fino a stabilirsi in Italia nel 1979. Qui ha lavorato
come giornalista e professoressa di spagnolo. Attualmente vive a Buenos Aires, dov’è tornata nel 1986.
26
Intervista con Dora, Buenos Aires, maggio 2016. Traduzione personale.
Testo in lingua originale: « En definitiva el caos italiano me resultaba familiar. Porque yo soy de familia italiana por parte de mi madre, mi familia es
calabresa. A mí me crió mi abuela, más que mi mamá que trabajaba, y la
impronta de la italianidad fue muy fuerte. Yo no lo sabía, esta cuestión de la
identidad yo la descubrí llegando a Italia. Pero bueno, evidentemente era muy
fuerte. Yo siempre, cuando me preguntan de Italia, digo dos cosas: que allá
pude volver a sonreír y que en Italia descubrí mi identidad, por lo menos el
50% de mi identidad o más [ríe]. Porque – otra cosa que siempre digo – criada
acá a la italiana sin saberlo, en un país que no es Italia, yo sentía que mi
familia era loca. Mi visión de niña y de adolescente era que mi familia era
loca. Llegando a Italia me dí cuenta que no, que mi familia no era loca, era
italiana! [ríe] ».
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Calderoni, Una storia di accoglienza e solidarietà
dell’arretratezza sociale, di usi e costumi italiani che gli argentini consideravano obsoleti. L’idea dell’Italia come un paese socialmente arretrato era presente in alcuni di loro quand’erano ancora in Argentina, soprattutto coloro che provenivano da famiglie in cui le tradizioni italiane si erano mantenute forse ancor
più che in Italia. Arrivati a questo punto bisogna sottolineare che
l’esilio argentino, nonostante la sua eterogeneità, si caratterizzò
per aver avuto un carattere di classe abbastanza marcato: molti
degli esiliati erano giovani di classe media fra i 20 e i 40 anni,
che avevano frequentato l’università e che vivevano in grandi
città, per i quali il passaggio alla realtà italiana, segnata dalla vita
di quartiere, di paese, poteva essere pesante. Racconta Diana27:
Quando arrivammo mi sembrò stranissimo perché Roma a quei tempi era diversa, pensa che le farmacie chiudevano fra l’una e le quattro del pomeriggio,
dopo una cert’ora era tutto chiuso! Noi eravamo abituati alle grandi città
dell’Argentina, era un’altra cosa…in Argentina puoi cenare a qualsiasi ora e
fare colazione a qualsiasi ora, i chioschi sono aperti tutta la notte, puoi comprarti i lacci delle scarpe o le sigarette alle 3 di notte, que sé yo…Qua a Roma,
quando stavamo nella pensione Claudia28, ci davano la cena alle 7:30 di sera
mentre noi eravamo abituati a mangiare molto tardi. Io alle 7:30 posso bermi
un the, fare merenda, ma cenare…proprio no! [ride] Però era così, dopo cena
tutto era chiuso, nella zona dove vivevamo c’era solo un bowling, a Regina
Margherita, e andavamo lì perché era l’unico bar aperto dove si potesse chiacchierare un po’. Le trattorie di Trastevere in quegli anni non ti facevano mangiare dopo le 9:30-10 perché c’erano ancora i vecchi italiani trasteverini che
ti guardavano male quando gli chiedevi un piatto di spaghetti alle 9:30 di sera
e ti cacciavano! Trastevere, Campo de’ Fiori…era un’altra Roma!29.
27
Argentina, di Buenos Aires, membro del PRT-ERP. Il suo esilio comincia
nel 1977, quando lascia l’Argentina con suo figlio. Attualmente vive a Roma.
28
Pensione finanziata dalla Regione Lazio dove erano stati accolti cileni, uruguayani, argentini, russi, vietnamiti ecc durante gli anni Settanta.
29
Intervista con Diana, Roma, settembre 2015.
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Calderoni, Una storia di accoglienza e solidarietà
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Le aspettative degli argentini non corrispondevano completamente alla realtà che trovarono davanti ai loro occhi quando
arrivarono in Italia. Vediamo adesso quale fu la risposta degli
italiani di fronte all’arrivo di queste persone.
La ricezione degli argentini da parte dell’Italia e degli italiani
Gli esiliati argentini non avevano diritto allo status di rifugiato politico e pertanto non potevano neanche accedere a servizi
statali che offrivano altri paesi30 come corsi di lingua, aiuti economici, assistenza medica o facilitazioni nell’inserzione lavorativa. In Italia dovevano vivere come tutti i cittadini, senza però
essere italiani. Inoltre, coloro che non avevano la nazionalità italiana vivevano in una “clandestinità tollerata31”, senza aiuto né
persecuzione da parte dello Stato italiano: erano quasi invisibili.
Tranne rare eccezioni, non fu presa alcuna misura contro questi
clandestini: il governo era a conoscenza della loro situazione ma
non procedette mai né a concedergli il rifugio politico né ad
espellerli. Miguel Ángel García32, esiliato argentino, descrive
con queste parole l’attitudine del governo italiano nei loro confronti:
30
Paesi come in Francia, Svezia e Belgio. Per il caso francese: FRANCO, El
exilio : argentinos en Francia durante la dictadura. Per il caso belga: VAN
MEERVENNE, Buscar refugio en un lugar desconocido. Per il caso svedese:
CANELO, Cuando el exilio fue confinamiento: argentinos en Suecia.
31
M. A. BERNARDOTTI, B. BONGIOVANNI, Aproximaciones al estudio del
exilio argentino en Italia, p. 49.
32
Argentino. Giornalista e scrittore, lascia l’Argentina con sua moglie Susana
Bonaldi nel 1974. Sono fra i fondatori del CAFRA. Qualche anno dopo abbandonano il comitato e Miguel Ángel fonda la rivista Debate. Negli anni
successivi lavora nella cooperazione internazionale, in particolare sul tema
dell’immigrazione. Dopo aver vissuto a Roma e Bologna, tornano definitivamente a Buenos Aires nel 2010.
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Calderoni, Una storia di accoglienza e solidarietà
L’Italia ha avuto rispetto all’esilio argentino una politica che può essere definita “italiana”: non ci ha dato nulla, ma ci ha lasciato fare le cose. Pero non
ha formalizzato nulla: non ha riconosciuto l’esilio, ma non ci ha rotto le scatole per i permessi di soggiorno, la gente sapeva tutto, le cose che si facevano;
ci teneva sott’occhio, pero, diciamo, ha avuto una politica di tolleranza. […].
Mentre nei paesi nordici, fondati sulle democrazie nordiche, Svezia, Olanda,
sono stati dati una sorta di numeri chiusi. Ma era gente che veniva accettata,
veniva dato un documento di esiliato politico, poi gli davano una sovvenzione, la scuola per i ragazzini […]. Se ti devo dire, pochissime volte ci e
toccato intervenire per qualcuno che stavano mandando via […]. Arrivava
molta gente senza documenti, c’e gente scappata in qualsiasi maniera. Questa
gente poi continuava a essere “indocumentata”33.
In altri lavori34 abbiamo analizzato le ragioni che hanno
portato il governo italiano ad agire in questa maniera: il contesto
globale della Guerra Fredda; i forti interessi economici dell’Italia in Argentina; l’operato della loggia massonica P2 (Propaganda 2), vero attore transnazionale; la mancanza di informazione in Italia riguardo alle questioni argentine; il clima di tensione degli anni di piombo in cui gli esiliati argentini potevano
essere facilmente assimilati ai terroristi italiani di estrema sinistra o di estrema destra. Stando così le cose, non era nell’interesse del governo italiano espellere i clandestini argentini, perché ciò avrebbe potuto sollevare domande riguardo alla condizione di queste persone, alle ragioni della loro presenza in Italia
33
Intervista con Miguel Angel García, 2007, in A. LOLICATO, Movilidad
transnacional y movimientos sociales : las organizaciones solidarias de
argentinos en Roma y Barcelona, tesi di dottorato in Antropologia,
Universitat Rovira I Virgili Tarragona, 2011, p. 368.
34
G. CALDERONI, La recepción de los exiliados argentinos en Italia entre la
indiferencia del Estado y la solidaridad de la sociedad civil, presentato nelle
3° Jornadas de Trabajos sobre los Exilios Políticos del Cono Sur en el siglo
XX (Santiago de Chile, Museo de la Memoria, 9-11 novembre 2016).
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Calderoni, Una storia di accoglienza e solidarietà
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e, di rimando, alla realtà argentina di quegli anni. Il governo italiano scelse così la strada del “non vedo, non sento, non parlo”.
La reazione della società civile fu invece molto diversa e
si oppose all’ignavia del governo. Evidentemente non facciamo
riferimento alla popolazione italiana in toto, ma a quella parte di
essa che entrò in contatto con gli esuli argentini e che, colpita
dalle loro vicende, cercò di aiutarli con ogni mezzo. Per molti
argentini, l’interazione con gli italiani resta uno dei ricordi più
felici di quell’epoca: non solo le relazioni con le persone più politicizzate, come i membri dei partiti di sinistra (e a volte dell’ala
progressista della DC) ma soprattutto con la gente comune, che
non sapeva molto di politica e che li aiutava per solidarietà. Il
supporto della società civile fu enorme: molti italiani aiutarono
gli argentini a cercare un lavoro, una casa, arrivando persino a
regalar loro cibo o vestiti.
Le prime preoccupazioni degli esiliati argentini non riguardarono il riconoscimento del loro status giuridico in territorio italiano, bensì questioni da risolvere nell’immediato, come la
ricerca di un lavoro e di un alloggio. Si trovavano in un paese
praticamente sconosciuto, dove si parlava una lingua diversa e
che – nonostante una certa vicinanza culturale – aveva costumi
e codici sociali distinti, che non sempre corrispondevano a quelli
argentini. Persino quelli che erano nati in Italia (e che si erano
trasferiti in Argentina quand’erano molto piccoli) avevano difficoltà, soprattutto con l’idioma. Spesso non conoscevano l’italiano, perché in casa si parlava solo il dialetto del paese d’origine: erano frequenti i casi di argentini che parlavano calabrese
o piemontese ma che non erano in grado di esprimersi correttamente in italiano.
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Calderoni, Una storia di accoglienza e solidarietà
La ricerca dell’alloggio
Per quanto riguarda la ricerca dell’alloggio, non vi fu alcun
aiuto o agevolazione da parte dello Stato, salvo rare eccezioni,
legate a iniziative personali o associative35. In mancanza di politiche statali mirate a risolvere queste questioni, furono gli
amici, i parenti o gli agganci politici che permisero agli esiliati
di trovare una casa. Coloro che arrivarono prima del colpo di
stato poterono beneficiare del loro numero esiguo e della loro
posizione intellettuale, nella più parte dei casi riconosciuta anche
in Italia. Tuttavia, non poterono contare su un collettivo di argentini, come fecero coloro che raggiunsero l’Italia negli anni
successivi.
Miguel Ángel García e sua moglie Susana Bonaldi, arrivati nel 1974, raccontano di aver passato i primi mesi in un albergo di Roma nel quartiere Coppedè, dove «vivevamo di pizza
e supplì!36», arrangiandosi come potevano. Coloro che giunsero
negli anni successivi invece poterono contare sull’aiuto dei loro
compatrioti arrivati precedentemente e di quegli italiani sensibili
alla causa argentina. Questa solidarietà si rivelò fondamentale
affinché i neo-arrivati potessero cavarsela nei primi tempi.
Laura, trasferitasi a Roma all’età di 16 anni con i genitori e i
fratelli, racconta che nella casa affittata dalla sua famiglia venivano spesso accolti numerosi amici dei suoi genitori, o amici di
amici. Diana, scappata dall’Argentina con il suo bambino di due
anni appena, si trasferì in un appartamento lasciato da un amico
del suo compagno. Dora e i suoi due figli vissero per qualche
mese in un monolocale appartenente a Roberto Savio, direttore
di IPS, presso cui Dora lavorava. Si tratta solo di una manciata
35
36
Una di queste eccezioni è il caso della Pensione Claudia, si veda la nota 28.
Intervista con Miguel Ángel García, Buenos Aires, maggio 2016.
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di esempi, che riescono però a mostrare in che modo il vuoto
istituzionale fu colmato da altri attori.
Nonostante i primi contatti fossero con dei compatrioti, il
fatto di non risiedere in alloggi destinati esclusivamente agli esiliati e di essere costantemente in relazione con la popolazione
locale permise agli argentini di non rinchiudersi in un ghetto37,
come successe ai loro concittadini esiliati in altri paesi38. Una
delle specificità dell’esilio argentino in Italia risiede proprio negli scambi continui fra gli esuli e la popolazione locale e nella
sensibilizzazione degli italiani alla causa argentina. Oltre ai sindacalisti o ai politici interessati alla situazione degli argentini, è
necessario sottolineare la risposta attiva di numerosi italiani.
Questi, grazie al contatto con gli esiliati, impararono molto sulla
realtà argentina e sulle problematiche latino-americane, di cui
all’epoca in Italia non si sapeva molto.
L’apprendimento della lingua e l’inserzione dei bambini
nelle scuole
In tutti i paesi di accoglienza, fatta eccezione per quelli latino-americani e per la Spagna, gli esiliati argentini affrontarono
il problema dell’apprendimento di una lingua straniera. Non si
37
Il termine “ghetto” è usato in questo contesto non con l’accezione di isolamento forzato o imposto, ma inteso come la tendenza volontaria ad isolarsi
nel vincolo e nell’interazione con i connazionali. Vedi M. FRANCO, Los emigrados políticos argentinos en Francia (1973-1983), tesi in Storia, Università
di Buenos Aires e Università di Paris 7, 2006, p. 235. Vedi anche gli articoli
di S. JENSEN, p. 152 e di G. MIRA, p. 91 in YANKELEVICH (ed.), Represión y
destierro: itinerarios del exilio argentino.
38
Questo discorso vale non soltanto per i paesi del nord-Europa, le cui società
erano molto diverse da quella argentina, ma anche per regioni come la Catalogna che erano culturalmente più vicine alla società di partenza degli esiliati.
Vedi S. JENSEN, La provinica flotante El exilio argentino en Cataluña (19762006), Barcelona, KM 13.774, 2007.
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Calderoni, Una storia di accoglienza e solidarietà
deve sottovalutare il peso di questo elemento, fondamentale per
stabilire delle relazioni o più semplicemente per comunicare con
la popolazione locale. In paesi come la Svezia, i Paesi Bassi o il
Belgio fiammingo, l’incontro con l’idioma locale fu uno shock
per gli esiliati, a causa delle difficoltà legate all’enorme décalage
esistente fra queste lingue e lo spagnolo. Un discorso simile va
fatto per il francese: pur essendo una lingua neo-latina e pur essendo studiato da alcuni a scuola, causò non pochi problemi agli
argentini per la sua complessità39. Al contrario, nel caso dell’italiano l’apprendimento fu più rapido che negli altri paesi, grazie
alla vicinanza con la lingua madre. Italiano e spagnolo si somigliano molto a livello fonetico e la variante argentina dello spagnolo è sicuramente quella che più si avvicina per intonazione
all’italiano. Nel corso delle varie interviste realizzate con ex-esiliati argentini, molti hanno affermato di non parlare perfettamente l’italiano, ma di esprimersi correttamente in itagnolo40.
La lingua…noi argentini l’italiano lo parliamo, perché si impara. Lo svedese
lo devi studiare proprio seriamente…l’italiano anche, perché per scriverlo è
una lingua difficile ma è bellissima. Io amo la lingua italiana. Però a orecchio
allo svedese, come al tedesco o al danese, dovevi dedicargli del tempo. E
quello fa sì che tu ti rinchiuda perché non potendo comunicare immediatamente, il bisogno che uno ha di comunicare ti fa creare un ghetto41.
Un altro elemento da non sottovalutare è la prossemica: sia
in Italia che in Argentina è molto comune “parlare con le mani”
39
Per un approfondimento sui problemi degli esiliati argentini con la lingua
francese : FRANCO, El exilio.
40
“Itagnolo” ou “itañolo”: crasi fra le parole “italiano” e “spagnolo”. Il termine indica una lingua immaginaria ibrida che nasce dalla combinazione
delle due lingue.
41
Intervista con Diana.
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Calderoni, Una storia di accoglienza e solidarietà
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ed è interessante notare come, per delle ragioni storiche, la maggior parte dei gesti argentini e italiani coincidano42. Ciò spiega
la relativa facilità degli argentini nel comunicare con gli italiani,
più di quanto non sia accaduto in Francia, ad esempio. Gli argentini appresero la lingua per strada, da autodidatti, o grazie
alla lettura e alla televisione. Pur non essendoci corsi di italiano
organizzati dal governo, altri organismi si incaricarono dell’insegnamento della lingua italiana, in particolare la CGIL o la
Croce Rossa, oppure delle organizzazioni come la Fondazione
Basso.
Passavamo ore davanti alla televisione, è un buon modo per imparare una
lingua […]. E leggevamo molto. Imparammo anche il linguaggio della strada,
con conseguenze sorprendenti. […] Il fatto è che molte volte facevo delle
conferenze e mischiavo il linguaggio colto con quello della strada, per di più
romano! [ride]43.
L’apprendimento della lingua passò anche per altri canali,
come la creazione progressiva di legami amorosi o di amicizia
fra italiani e argentini. Tuttavia, furono i bambini che rappresentarono una porta d’accesso all’universo linguistico italiano: i figli degli esiliati iniziarono ad andare a scuola, luogo di socializzazione per eccellenza, socializzazione che avveniva in italiano
e non in spagnolo. L’inserzione dei bambini a scuola, contrariamente alle preoccupazioni degli adulti, si svolse senza problemi.
Dora, intervistata a Buenos Aires, si emoziona ancora quando
racconta di come i suoi figli siano stati accettati alla scuola Vittorino da Feltre, a Roma, pur non avendo i documenti necessari
per l’iscrizione.
42
V. CASTAGNA, Argentina e Uruguay: linguaggi non verbali. Sezione:
Corpo, Mappa della comunicazione interculturale, http://www.mappainterculturale.it/?page_id=128.
43
Intervista con Miguel Ángel García.
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Calderoni, Una storia di accoglienza e solidarietà
Avevo dei bambini molto piccoli. Uno aveva quattro anni e l’altro tre, però
per lavorare avevo bisogno di mandarli all’asilo. Così mi raccomandano una
scuola, la Vittorino da Feltre, che era proprio davanti al Colosseo. Vado a
parlare con la direttrice, ma mi servivano tutta una serie di documenti che non
avevo e la sua risposta fu: “a me non interessano le storie degli adulti. Io so
che qui ci sono due bimbi che devono stare con altri bambini, quindi domattina me li porta”. La maestra, quando i bambini andarono a scuola il primo
giorno, li presentò agli altri bambini dicendo che venivano da molto lontano,
da un paese che si chiama Argentina. Ovviamente i bambini non parlavano
italiano, come non lo parlavo nenach’io. E la maestra disse agli altri bambini:
“adesso loro non parlano, però non parlano non perché sono muti, ma perché
parlano un’altra lingua, lo spagnolo, quindi voi e io gli insegneremo l’italiano
e loro possono insegnare a voi e a me lo spagnolo”44.
Nel racconto di Dora, così come in quelli di altri esuli, si
mette l’accento sulla grande solidarietà delle persone del quartiere, degli insegnanti, dei datori di lavoro, dei preti, cioè di una
parte della popolazione che fece da palliativo allo stato di abbandono istituzionale in cui versavano gli argentini.
44
Intervista con Dora. Traduzione personale dallo spagnolo: « Yo tenía dos
niños muy chiquitos, Uno tenía cuatro años y el otro tenía 3, pero para trabajar
tenía que mandarlos al jardín de infantes. Entonces me recomiendan una
escuela, la Vittorino da Feltri, que estaba justo frente al Coliseo. Voy a hablar
con la directora, pero me pedía una serie de documentos que yo no tenía y la
respuesta fue a mi no me interesan las historias de los adultos. Yo sé que acá
hay dos niñitos que tienen que estar con otros niños, así que mañana me los
trae”. La maestra, cuando los nenes fueron el primer día, los presentaron a los
otros niños diciéndoles que venían de muy lejos, de un país que se llama Argentina. Obviamente los niños no hablaban italiano, como no lo hablaba yo.
Y la maestra les dijo a los otros niños: “ahora ellos no hablan, pero no hablan
porque son mudos, no hablan porque ellos hablan otro idioma, el español,
entonces ustedes y yo vamos a enseñarles el italiano y ellos les pueden enseñar a ustedes y a mi a hablar español” »
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La ricerca di un lavoro
La ricerca del lavoro fu un momento cruciale nella vita degli esiliati argentini in Italia perché segnò ulteriormente il progressivo distacco dalla patria: implicava il prolungamento di un
soggiorno che inizialmente gli argentini consideravano una soluzione temporanea, di qualche mese. Per alcuni, iniziare a lavorare in Italia equivaleva ad abbandonare l’idea dell’imminente
ritorno in Argentina e segnava un passo in avanti verso la consolidazione della loro condizione di esiliati. Oltretutto, la ricerca
di un lavoro non era un’impresa semplice: gli esuli dovettero
adattarsi spesso a lavori precari e al declassamento professionale. Ciò dipese in gran parte dal fatto che molti titoli stranieri
non erano riconosciuti in Italia. Avvocati, ingegneri, professori
universitari, psicologi e psicoanalisti riuscirono difficilmente a
continuare l’attività professionale svolta in Argentina. Facendo
di necessità virtù, gli argentini non ebbero altra scelta se non
quella di adattarsi ad impieghi meno qualificati, quali: collaboratrice domestica, baby-sitter o badante, lavoro di sorveglianza,
venditore ambulante, muratore, etc.
A mo’ di esempio, citiamo la prima esperienza lavorativa
di Wanda in Italia come collaboratrice domestica e badante di
una signora anziana. Così racconta le sue avventure nello svolgimento di mansioni che esulavano dalla sua competenza:
Mi ricordo del mio primo lavoro che era occuparmi di una signora che stava
per morire. Requisiti per essere assunta: saper cucinare, saper stirare. Siccome sono figlia di persone povere, siccome nacqui per diventare dottoressa,
mi madre non mi insegnò mai a stirare, non mi insegnò a pulire perché io
dovevo studiare. Allora mi ricordo che la prima volta che mi dicono di cucinare, mi dicono di fare il pollo. Io non avevo la minima idea di cosa fare con
un pollo! E la signora dal letto sentiva che il pollo voleva da tutte le parti
perché non sapevo dove tagliarlo, non avevo la minima idea, finché la vecchia
se ne accorse e mi insegnò a tagliare il pollo.
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Calderoni, Una storia di accoglienza e solidarietà
Stirare. La prima volta che mi fecero stirare una camicia pensai di morire
perché in vita mia non avevo mai stirato, aveva stirato sempre mia madre. E
gli italiani avevano questo dono, che ti possono insegnare, che hanno molta
solidarietà, no? Mi vestivano, mi regalavano cose per me, sempre…per questo dico che il ricordo della convivenza con gli italiani fu molto buono45.
Il caso del PRT-ERP nell’Italia settentrionale
Tutti gli esiliati argentini dovettero confrontarsi con la ricerca del lavoro, inclusi i membri delle organizzazioni armate.
Per loro, la situazione era più delicata. Innanzitutto, accettare la
condizione di “esiliati” significava ammettere la sconfitta, l’impossibilità di riprendere la lotta in Argentina. Per lungo tempo i
membri delle organizzazioni armate considerarono l’esperienza
dell’esilio non come un abbandono del campo di battaglia, ma
come una ritirata strategica. L’esilio doveva essere una parentesi, un momento di preparazione per tornare in Argentina e continuare a combattere contro la dittatura. Il caso delle escuelitas
del PRT-ERP nell’Italia settentrionale ne è un esempio. Fra il
1977 e il 1979 furono create quattro scuole di formazione per i
dirigenti del partito, con lo scopo di riflettere sugli errori commessi in passato ed essere pronti a tornare in Argentina quando
il momento sarebbe stato propizio. L’incarico di organizzare e
gestire queste scuole venne affidato a Julio Santucho, fratello di
Mario Roberto Santucho, leader del PRT-ERP e morto nel luglio
del 1976 per mano dei militari argentini. La prima scuola ospitava un gruppo di 12 persone che si installarono in un piccolo
paese in provincia di La Spezia, a Follo. Qui un amico di Santucho, Luigi Rossi, che gestiva da tempo attività di solidarietà con
l’America latina, aveva offerto la casa di sua madre per ospitare
gli argentini. Questo gruppo si spostò poi a Sarzana, in un ex
struttura ospedaliera concessagli da Flavio Bertone, all’epoca
45
Intervista con Wanda.
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Calderoni, Una storia di accoglienza e solidarietà
415
senatore del PCI per la provincia di La Spezia. L’esperienza ligure aprì la strada alla formazione di altre escuelitas: fra il 1977
e il 1979 erano attive quattro scuole del PRT-ERP: a Sarzana
(SP), in Liguria; a Ivrea (TO) e Naviante (CN), in Piemonte; a
Palazzolo sull’Oglio (BS), in Lombardia. È interessante sottolineare che, mentre le scuole di Sarzana, Ivrea e Naviante si trovavano in zone sotto l’influenza del PCI, Palazzolo rappresentava un caso a sé. La cittadina si trovava infatti in una “zona
bianca”, cioè dove la DC era preminente rispetto al PCI. Ciò mostra come la solidarietà verso gli argentini dipese da ragioni che
oltrepassavano la mera dimensione politica. Luis Mattini, dirigente del PRT-ERP, riconosce alla popolazione italiana un ruolo
di prim’ordine nell’aiuto dato agli argentini in quei difficili momenti:
La solidarietà della popolazione italiana – non dello Stato italiano, della popolazione italiana – probabilmente è stata la più forte che abbiamo ricevuto
rispetto a qualsiasi paese nel mondo. Pensa che per esempio in Svezia hai il
sistema svedese in cui tu arrivi come rifugiato e loro pensano a tutto, lo Stato
svedese risolve tutto, nessuno si può lamentare. Però non è la stessa cosa che
la popolazione. […] Gli italiani avevano più disinvoltura46.
In queste zone, il rapporto instauratosi fra gli esuli e la popolazione locale fu ancor più forte che altrove. Ciò dipese in
parte dal fatto che si trattasse di piccoli gruppi, che raramente
raggiungevano le 30 persone e che vivevano tutti insieme, nella
stessa struttura, in piccoli centri. Il loro stile di vita suscitava la
46
Intervista a Luis Mattini, Buenos Aires, maggio 2016. Traduzione dallo
spagnolo: «La solidaridad de la población italiana – no del Estado italiano, de
la población italiana – probablemente ha sido la más fuerte que nosotros hemos vivido en cualquier país del mundo. Mira que por ejemplo en Suecia
tenés el sistema sueco donde vos caés como refugiado y te resueleven todo,
el estado sueco te resuelve todo, nadie se puede quejar. Pero no es lo mismo
que la población. [...] Los italianos tenian más soltura ».
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Calderoni, Una storia di accoglienza e solidarietà
curiosità della popolazione: gli argentini si svegliavano alle 5 di
mattina, studiavano fino a mezzogiorno e nel pomeriggio lavoravano. Di solito si trattava di lavori stagionali, come la raccolta
di nocciole o la vendemmia. Spesso, dopo cena, alcuni abitanti
del paese si univano agli argentini per ascoltare le loro storie, per
condividere le loro idee. Va detto che, soprattutto nei primi
tempi, era raro che gli esuli dichiarassero apertamente la loro
appartenenza politica: in un momento teso e delicato come
quello degli anni di piombo in Italia, non era conveniente presentarsi come membri di un’organizzazione che aveva fatto ricorso alla lotta armata. Per tale motivo, e per evitare di essere
rintracciati dai servizi segreti argentini, gli esiliati continuavano
ad usare i loro nomi di guerra e a servirsi di documenti falsi,
proprio come facevano in Argentina durante la clandestinità.
Molto spesso le autorità locali erano al corrente di questa situazione, ma non fecero mai nulla che potesse pregiudicare la sicurezza degli esiliati. Racconta Susi Fantino:
La gente arrivava in Italia portandosi dietro situazioni difficili, no? Con la
grandissima rete di solidarietà attivata in quegli anni sia dall’amministrazione
locale, sia dai partiti, sia dalle persone, dai compagni che abitavano nella
zona, si cominciò ad aiutarli anche per le cose di prima necessità, dai vestiti
alle risorse economiche per mangiare e per sopravvivere. Tra l’altro, una
buona parte di questi nostri compagni, dal punto di vista legale, non tutti con
documenti propri. Questa cosa il PCI la sapeva benissimo e su questo ci coprì,
insomma. Parlo del PCI non perché fosse l’unica organizzazione che ci appoggiava ma ovviamente era la più forte, più sedimentata dal punto di vista
delle amministrazioni e dunque la copertura poteva essere molto più efficace47.
Al di là del supporto del partito, anche gli abitanti dei paesi
mostrarono una grande solidarietà verso i gruppi di argentini:
47
Intervista con Susi Fantino, Roma, marzo 2016.
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Calderoni, Una storia di accoglienza e solidarietà
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Ci aiutarono in tutto, ci portavano cibo, ci trovavano qualche lavoro, partecipavano alle nostre riunioni, discussioni…la solidarietà della gente fu straordinaria. […] Lo Stato faceva la sua parte, eravamo stranieri…la gente no, la
gente ci aiutava e ci proteggeva. E noi fummo corretti e responsabili, molto
responsabili…e anche molti solidali, perché lavoravamo con loro, li aiutavamo. […] come dire, una cosa di solidarietà straordinaria48.
Il legame che si instaurò con la popolazione locale fu
molto forte, in particolare con gli ex-partigiani. Mano a mano
che aumentava la confidenza reciproca, gli esuli iniziarono a raccontare chi erano veramente, contro cosa lottavano, a cosa aspiravano. Molto spesso si definivano “combattenti antifascisti”,
per far sì che gli italiani comprendessero il loro punto di vista, la
loro concezione della lotta armata, che dicevano essere di tutt’altra natura rispetto a quella che alcune organizzazioni italiane
portavano avanti negli anni di piombo. Gli esiliati cercavano di
mettere la loro lotta contro la dittatura argentina sullo stesso
piano della lotta combattuta dagli antifascisti contro la Repubblica di Salò durante la Seconda Guerra Mondiale, conquistando
così le simpatie degli ex-partigiani. La rivendicazione dell’antifascismo fu una delle strategie più efficaci per entrare in contatto
con la popolazione italiana, ma non fu la sola. Passiamo ad illustrarne un'altra, legata alla questione della maternità.
48
Intervista con María. Traduzione dallo spagnolo: «Totalmente nos
ayudaron, nos traían comida, nos conseguian algun trabajo, participaban de
nuestras reuniones, discusiones..la solidaridad de la gente fue
extraordinaria...[...] El estado hacia lo suyo, éramos extranjeros...no, la gente
nos ayudaba y nos protegia. y nosotros fuimos correctos y responsables, muy
responsables...este...y muy solidarios también porque trabajambamos con
ellos, los ayudambamos...[...] bueno que sé yo, una cosa de solidaridad
extraordinaria».
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Calderoni, Una storia di accoglienza e solidarietà
Le madri argentine e la parrocchia della Trasfigurazione49
Come abbiamo visto, l’empatia degli italiani nei confronti
degli esuli è uno degli elementi che ritorna maggiormente nel
corso delle interviste raccolte per questa ricerca. Quel che colpì
maggiormente gli argentini fu il fatto che non si trattò solo di
amici e parenti, o di persone ideologicamente vicine a loro, ma
anche e soprattutto di persone che non avevano forti legami con
la politica e che spesso non erano nemmeno aggiornati sui tristi
eventi riguardanti l’Argentina. A mo’ di esempio, parleremo del
caso della parrocchia della Trasfigurazione, nel quartiere Monteverde, a Roma. Questa chiesa, oltre ad aver fatto suo il messaggio del Concilio Vaticano II, si era sempre distinta per la sua
solida tradizione di solidarietà e accoglienza.
Nel 1979, la vita della parrocchia e quella degli argentini
entrarono in contatto. Questo primo incontro diede luogo a una
delle più importanti esperienze di lotta per la difesa dei diritti
umani in Argentina. Nel maggio del 1979, un gruppo di madri
argentine, fra cui Lita Boitano50, Juana Bettanín e Marta Bettini,
arrivò a Roma, per parlare con il papa Giovanni Paolo II di ciò
che stava succedendo in Argentina e delle tristi sorti toccate ai
49
L’elaborazione di questa parte si basa principalmente sul testo di V. CATrasfigurazione. Una storia di desaparecidos, accoglienza e solidarietà, Roma, CENRI, 2006.
50
Angela “Lita” Paolin Boitano è attualmente presidentessa dell’associazione
Familiares de Desaparecidos y Detenidos por Razones Políticas. I suoi due
figli, Miguel Ángel e Adriana Silva, militanti della Juventud Peronista, furono sequestrati fra il 1976 e il 1977. La ricerca dei figli scomparsi la portò a
Roma, dove iniziò la sua attività di denuncia della situazione argentina. Negli
anni 2000 il suo impegno è stato riconosciuto ufficialmente dal Presidente
della Repubblica Italiana Carlo Azeglio Ciampi, che le ha conferito l’onorificenza di Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. Fra
il 1979 e il 1983 è stata il punto di riferimento di buona parte degli esiliati
argentini a Roma, in particolar modo delle madri dei desaparecidos.
VALLETTI,
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loro figli, desaparecidos, di cui non avevano più notizie. In
realtà, la visita dal Papa non ebbe mai luogo; si trasformò, invece, in un lungo soggiorno a Roma, durato fino alla fine della
dittatura nel 1983. Fu il senatore Raniero La Valle51, anch’egli
abitante del quartiere di Monteverde, a mettere in contatto Lita e
le altre madri con i sacerdoti della parrocchia della Trasfigurazione. L’obiettivo delle madri era quello di attirare l’attenzione
dei media, dell’opinione pubblica – in particolare del Vaticano
– per denunciare i crimini della dittatura e per far conoscere la
situazione in cui versava l’Argentina. Per raggiungere tale
scopo, il 28 settembre 1979 occuparono simbolicamente la parrocchia e iniziarono uno sciopero della fame che durò qualche
giorno. Contemporaneamente organizzarono, sempre nella parrocchia, una mostra fotografica per denunciare la sparizione dei
loro figli. Tutto ciò non sarebbe stato possibile senza l’appoggio
dei preti della Trasfigurazione, a cui si aggiunse il sostegno della
comunità di esiliati argentini a Roma, del CAFRA, dei fedeli
della parrocchia e degli abitanti del quartiere. Nei giorni seguenti, durante l’omelia, don Andrea Santoro mise sull’altare la
lista con i nomi dei desaparecidos e iniziò a leggerla. Fu un gesto
simbolico estremamente importante, indice di una presa di coscienza riguardo i tristi eventi in Argentina e che, al tempo
stesso, mostrò una volontà ben precisa: queste persone scomparse non dovevano essere dimenticate, ma il loro ricordo doveva sopravvivere. Leggendo la trascrizione del discorso, le sue
intenzioni appaiono più che chiare:
51
Senatore della Sinistra Indipendente, fu uno dei politici che più si impegnò
nella denuncia della repressione in Argentina. Durante un’interrogazione in
Senato lesse una lista contenente i nomi di 800 desaparecidos di origine italiana. Tale atto non ebbe effetti concreti e immediati, ma fu un gesto simbolico affinché quei nomi potessero sfuggire all’oblio restando in un atto parlamentare.
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Calderoni, Una storia di accoglienza e solidarietà
Certo noi non siamo nulla per chiedere qualcosa al governo argentino, ma lo
facciamo lo stesso: chiediamo notizie, chiediamo elenchi e ogni altro
tipo di informazioni circa gli scomparsi. Chiediamo al governo argentino la
possibilità di rivederli: possibilmente liberi e vivi. Chiediamo che dia loro la
possibilità di esercitare quella libertà che Dio ci ha dato. […] Chiediamo che
il nostro Vescovo, il Papa si faccia mediatore di questa richiesta. Che il governo italiano, dal momento che molti scomparsi sono italiani o di origine
italiana, faccia propria questa richiesta, come ha fatto qualche giorno fa il
Parlamento Europeo. Noi vogliamo che questi scomparsi siano ricordati non
domani, dai nostri figli, sui libri di storia, ma oggi e che oggi possano comparire, non sulle pagine di un libro, ma sotto gli occhi nostri.
Oltre ad appellarsi al governo argentino affinché le famiglie dei desaparecidos potessero avere delle notizie sui propri
cari, Don Andrea interpellava anche il Papa – sperando in un suo
intervento come mediatore – e il governo italiano. Il sostegno di
don Andrea e degli altri sacerdoti a una causa così politicizzata
non fu ben vista dal resto della comunità ecclesiastica. L’esperienza della Trasfigurazione è infatti emblematica dell’opposizione fra la solidarietà delle piccole cellule religiose e l’ostilità
della gerarchia ecclesiastica cattolica. I sacerdoti della parrocchia monteverdina erano conosciuti come «i preti rossi, i preti
comunisti», come racconta Don Franco:
A noi ci chiamavano i preti comunisti. Ma te lo ripeto, comunisti perché se
comunista significava stare vicino ai poveri, agli ultimi, ai diseredati, e a sentire dentro di noi, o almeno tentare di sentire dentro de noi quello che gli altri
soffrivano, quello che gli altri sentivano, allora se può risponne de sì, io non
c’ho paura manco de dillo insomma52.
Ma non erano solo i « preti rossi » a sostenere le madri,
che si integrarono rapidamente al tessuto sociale del quartiere,
52
V. CAVALLETTI, Trasfigurazione. Una storia di desaparecidos, accoglienza e solidarietà, Roma, CENRI, 2006, p. 68.
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diventando parte della comunità che ruotava intorno alla Trasfigurazione. Lo slancio solidale della comunità della parrocchia
dipese principalmente dai sentimenti suscitati dalla situazione in
cui si trovavano questi esiliati, come si evince dalle parole di
Andreina, una donna del quartiere Monteverde, molto vicina a
Lita Boitano : « la mia casa era aperta a tutti, poi io non sono
stata a guardare di che colore politico erano »53.
Su consiglio dei preti, le madri iniziarono a raccontare le
loro storie drammatiche in altre parrocchie, con l’obiettivo di ottenere il loro supporto per inviare una lettera al Papa, firmata dai
parroci di tali chiese. Tutti questi sforzi diedero i loro frutti:
nell’Angelus del 28 ottobre 1979 Giovanni Paolo II parlò degli
scomparsi argentini. Questo evento segnò un punto di svolta
nell’esperienza monteverdina delle madri e l’inizio di una nuova
fase di lotta per la verità e la giustizia. Il raggiungimento
dell’obiettivo tanto agognato venne festeggiato con un asado
sulla terrazza della parrocchia, che si trasformò in un momento
di scambio reciproco a livello politico, ideologico, culturale e
sociale54. Nonostante ciò, per le madri argentine il tanto atteso
discorso del Papa non fu altro che una vittoria di Pirro, poiché si
trattò di un intervento tardivo. Nell’ottobre del 1979 la dittatura
aveva infatti annientato la maggior parte di coloro che erano considerati “dissidenti” o “sovversivi”, anche se all’epoca tali dati
non erano ancora noti e si aveva la speranza di ritrovare i propri
cari.
Occorre sottolineare che questa campagna di sensibilizzazione non sarebbe stata possibile senza l’aiuto di alcuni politici
della Sinistra Indipendente, in particolare Raniero La Valle,
53
54
Ivi, p. 80.
Ivi, p. 85.
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Calderoni, Una storia di accoglienza e solidarietà
Giancarla Codrignani55 e Ettore Masina56. Senza il loro supporto
le donne argentine non sarebbero mai potute entrare in contatto
con importanti personaggi del mondo politico e religioso. I tre
parlamentari contattarono ripetutamente sia l’Ambasciata argentina che la Farnesina, nel tentativo di ottenere liste più precise
con i nomi degli scomparsi e le ragioni della detenzione.
Nonostante la scarsa attenzione da parte delle istituzioni,
le madri riuscirono ad incontrare due personaggi di primo piano
della scena politica italiana: il presidente del Senato Amintore
Fanfani e il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, che le
ricevettero per ascoltare le loro storie. Nel discorso presidenziale
del 31 dicembre 1981, Pertini parla di questi incontri: « Io qui,
proprio da dove vi parlo, ho ricevuto due o tre volte madri che
venivano dall'Argentina, clandestinamente. E le ho sentite piangere disperate perché da anni non avevano più notizie dei loro
figlioli che erano stati, che sono stati indubbiamente uccisi57 ».
L’empatia verso le madri fu più immediata, il loro caso
ebbe una maggiore visibilità e una maggiore risonanza nell’opinione pubblica, pur essendo il loro arrivo posteriore a quello dei
militanti politici. Qual è stato il punto di forza di queste donne?
«Sembra certo che la qualità di madri che soffrivano la scomparsa dei figli e la loro unione in questa sofferenza che diventa
collettiva costituiscono, di per sé, un ampio fattore esplicativo
55
Scrittrice, giornalista e politica italiana. Deputata della Sinistra Indipendente, impegnata nel movimento per la pace, andò più volte in America latina
in missione parlamentare.
56
Deputato della Sinistra Indipendente, negli anni Ottanta fu a capo del Comitato Permanente dei Diritti Umani. Inoltre, fu lui a scrivere la prefazione
della versione italiana del Nunca Más.
57
PERTINI Sandro, Discorso presidenziale del 31 dicembre 1981.
https://www.youtube.com/watch?v=gjtg7bDYJok (sito consultato il 16 giugno 2017).
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dell’irriducibile forza di questo movimento»58. Già il solo status
di madri alla ricerca dei figli spiega le ragioni del sostegno solidale della comunità che le ricevette. Ciò non toglie che nelle
azioni di queste donne si potesse osservare un messaggio politico ben preciso, anche se nascosto dietro la loro condizione di
“madri”: la ricerca dei figli, della verità, della giustizia, dell’opposizione alla dittatura e ai suoi crimini hanno una volontà politica implicita. Pur mettendo l’accento sull’aspetto etico di questa
lotta, l’aspetto politico resta presente, seppur latente.
Conclusione
In questo articolo abbiamo mostrato come la società civile
italiana abbia avuto un ruolo prominente nell’accoglienza degli
esiliati argentini in Italia, a differenza al ruolo rivestito dal governo italiano che, pur avendone i mezzi, non si è attivato in loro
aiuto. Con questa affermazione si corre però il rischio di dare
una visione dicotomica della situazione, con uno Stato assente e
una società civile prodiga e solidale. Non tutti i rappresentanti
del governo hanno chiuso occhi e orecchie di fronte alle richieste
degli argentini, né la popolazione nella sua totalità si è dedicata
alla causa degli esiliati. Bisogna osservare, inoltre, l’esistenza di
attori che hanno giocato il ruolo di “intermediari” fra governo e
esiliati, fra esiliati e popolazione, fra esiliati e esiliati. Si tratta di
sindacalisti, membri dei partiti politici, giornalisti, deputati, intellettuali, religiosi che hanno avuto un’importanza strategica rilevante. Il quadro è dunque ben più complesso e non si può ridurre la questione della solidarietà italiana verso gli esuli argentini a un’opposizione manichea fra Stato e popolazione.
58
T. DANGY, Maternité et politique : la place et le rôle du mouvement des
mères de la Place de Mai dans la démocratisation de l’Argentine, Toulouse,
Institut d’Etudes Politiques de Toulouse, 2006, p. 2.
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Detto ciò, non si può negare l’esistenza – e la ricchezza –
di questa rete solidale che si sviluppò intorno al caso argentino
e che impedì l’isolamento degli esuli in comunità di compatrioti.
La relazione fra italiani e argentini è stata uno scambio continuo,
in cui gli uni hanno appreso dagli altri, soprattutto in campo politico e di difesa dei diritti umani. Inoltre, l’affinità culturale fra
i due paesi e la (ri)scoperta dei luoghi e delle famiglie di origine
hanno avuto svolto un ruolo centrale nell’accoglienza degli esuli
e nella loro maniera di relazionarsi con il Bel Paese. L’esperienza dell’esilio in Italia non è stata – e non avrebbe potuto essere – la stessa che in Svezia o in Belgio o in Olanda, nazioni in
cui gli Argentini hanno potuto beneficiare del rifugio politico ma
in cui, per ragioni culturali, è stato più difficile integrarsi alla
popolazione. Gli esempi che abbiamo mostrato rappresentano
casi estremamente diversi, dai militanti marxisti del PRT-ERP
rifugiati in piccoli paesi sperduti sulle Alpi alle madri che bussano a tutte le porte di Roma per denunciare la scomparsa dei
loro figli in Argentina. Ciò che li unisce non è solo la fuga
dall’Argentina, la denuncia delle atrocità compiute nel loro
paese, il comune destino di esiliati: ad accomunare le loro esperienze in Italia è anche quella solidarietà informale ricevuta nel
Bel Paese. Non sarebbe stato possibile comprendere le dinamiche relazionali fra italiani e argentini senza tenere in considerazione la combinazione di affinità socio-culturali, storiche e politiche che ha rivestito un ruolo fondamentale nell’accoglienza degli esuli argentini in Italia.
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Eyenga Onana, De l’immigration clandestine à l’exil improvisé
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De l’immigration clandestine à l’exil improvisé. Une
esthétisation du rêve hypothéqué dans Le Paradis du
Nord de Jean Roger Essomba
di Pierre Suzanne EYENGA ONANA
Université de Yaoundé I
DOI 10.26337/2532-7623/ONANA
Riassunto : Le Paradis du Nord di Jean Roger Essomba racconta le disavventure di due giovani camerunensi che sognano di vivere in Francia. Come vengono ricevuti nel nuovo paese e cosa caratterizza i loro rapporti con il popolo
francese ? Ispirandosi al sociocriticismo di Pierre Barbéris, l’articolo esamina
in quattro parti l’accoglienza riservata ai due esuli all’estero. Analizza quindi
gli specifici strumenti di scrittura di Essomba nel postulare che l’immigrazione clandestina appaia infine un progetto suicida per i giovani.
Abstract : Jean Roger Essomba's Le Paradis du Nord accounts the misadventures of two young Cameroonians dreaming to live in France. How are they
received in that area and what characterizes their relations with the French
population ? Based on Pierre Barbéris’s sociocriticism, the study examines,
in four parts, the reception given to the exiles abroad. Then, it scrutinizes
Essomba’s specific writing devices in postulating that illegal immigration, in
the end, appears a suicidal project for the youth.
Keywords: Broken dream, Exile, Sociocriticism
Sommario : Introduction – L’explicite ou les déclinaisons d’un projet ambigu – 1) Une logistique dérisoire – 2) Les affres d’une parodie de filiation –
Les ressorts du désenchantement des clandestins – 1) La discrimination de la
race noire – 2) La traque des immigrés clandestins – 3) Une collaboration
mitigée – 4) La gestation des fronts de soutien et d’entraide – Implicite et
significativité du récit : de l’écriture du sens au sens de l’écriture – 1) L’enjeu
des anachronies narratives – 2) L’analepse ou les prémisses d’un exil improViaggiatori. Circolazioni scambi ed esilio, Anno 1, Numero 2, marzo 2018
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Eyenga Onana, De l’immigration clandestine à l’exil improvisé
visé – 3) Les prolepses dans la dynamique de prédiction de l’errance nostalgique – 4) Les figures de rhétorique au service de l’écriture : ironie et questions de style – Le sens d’une écriture – 1) Le Paradis du Nord ou la
métaphore d’un rêve brisé – 2) L’allégorie d’un exil hypothéqué – Conclusion
– Bibliographie
Introduction
L’immigration clandestine reste un fait d’actualité qui se
renouvelle sans cesse dans la littérature contemporaine. On a en
mémoire la vague récriminatoire qu’a soulevée ce phénomène
en Lybie en novembre 2017 avec la recrudescence de l’esclavage qu’elle a engendrée et le tollé qui s’en est suivi dans les
pays monde entier. Force est alors d’établir que ce corpus connaît une ampleur dévastatrice tant il alimente les débats les plus
houleux quant aux solutions définitives pouvant enfin conduire
à son éradication. Si cette pratique obsédante continue toutefois
de séduire des aventuriers de tous bords, force est de constater
qu’elle n’inquiète pas moins les politiques. Ceci se justifie par le
fait qu’elle entraîne des conséquences préjudiciables sur la personne du clandestin, sa famille et son pays d’origine. Tous les
jours en effet, les médias annoncent, à grand renfort d’images
insoutenables, le nombre toujours grandissant de cargos et bateaux de fortune chargés de clandestins qui échouent au large de
la Méditerranée. C’est dire qu’émigrer clandestinement ne s’assimile à rien de plus qu’un acte suicidaire, puisque ses contours
ne comblent pas toujours les attentes du clandestin africain affecté du syndrome de l’ailleurs.
Au regard des postulats qui précèdent, il convient de se
demander si l’ailleurs tant rêvé par les immigrés clandestins se
révèle véritablement un espace propice à la reconstruction identitaire voire à l’enracinement décomplexé ou si, a contrario, il
apparaît comme un univers maudit enclin à l’errance nostalgique
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et à l’exil improvisé ? Autrement dit, quelles relations lient l’immigré clandestin à sa nouvelle terre d’accueil ? Comment s’intègre-t-il dans cet espace mythique très souvent hostile mais auquel il s’accroche parfois au péril de sa vie ?
Pour apporter une réponse à ce questionnement, nous convoquons la théorie sociocritique de Pierre Barbéris. Dans son
mode opératoire, le théoricien soutient que la sociocritique
s’opère « à partir d’une recherche et d’un effort tâtonnant et découvreur qui invente un nouveau langage, fait apparaître de nouveaux problèmes et pose de nouvelles questions »1. Deux étapes
définissent ce référentiel de lecture : l’explicite et l’implicite.
Notre travail comporte quatre parties. La première et la
deuxième montrent comment l’explicite est à l’œuvre dans le
texte. Il s’agit de l’illustration du contraste criard entre un projet
enchanteur de vivre une existence confortable ailleurs et les déclinaisons d’un rêve brisé. La troisième partie porte sur les aspects esthétiques qui sous-tendent la thématique mise en relief
par le romancier. Justifiant du statut de l’écrivain comme producteur de discours de par la qualité du langage qui éclaire son
message, la dernière partie s’intéresse à la signification ou la dimension éthique du récit. Elle décrypte notamment les divers
axes qui sous-tendent la vision du monde de J. R. Essomba sur
la question de l’immigration clandestine.
L’Explicite ou les déclinaisons d’un projet ambigu
Dans son approche critique, Pierre Barbéris entend par
“explicite”, l’ensemble des « références claires à restituer, […]
qui peuvent être disséminées »2 dans le texte littéraire. C’est
1
P. BARBERIS, Sociocritique, in D. BERGEZ, P. BARBÉRIS, P.-M. DE BIASI
(eds.), Introduction aux méthodes critiques pour l’analyse littéraire, Paris,
Bordas, 1990, pp. 121-153, en particulier p. 124
2
Ivi, p. 140.
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d’ailleurs dans cette perspective qu’il « importe [pour lui,] de
traquer ce qui, dans le texte, se trouve “dit” et dénoté »3. Quant
à l’immigration clandestine, elle se décrit comme le passage
résolu par un clandestin d’un espace rebuté vers un espace sublimé. Un tel projet migratoire rejoint la visée qu’accorde Daniel
Sibony au concept de voyage en affirmant que :
Tout projet de faire, toute technique riche et consistante met en jeu un transfaire, une traversée de ses propres limites, un voyage où l’objet de départ se
dissout dans l’objet d’arrivée, celle-ci devenant un nouveau départ; le ressort
du voyage étant le désir de se “refaire”, de produire quelque chose d’autre
que soi où l’on puisse se reconnaître, se méconnaître, à travers quoi on puisse
fuir l’horreur de soi, apaiser sa soif d’autre, d’autre chose, et pourtant donner
au soi une certaine consistance4.
Plus souvent, les conditions de vie jugées exécrables par
le clandestin motivent son transfert de son espace de vie habituel, ordinaire, pour un espace étranger où il devient un exilé par
la force des choses. Objet de toutes les aberrations, l’espace premier apparaît comme maudit, parce que dépeint comme un enfer
qu’il faut impérativement fuir. La vieille Zita, ex-voisine de Bernadette Kodock, la mère de Jojo, appréhende son quartier
comme une géhenne qu’elle décrit par ces mots : « quand on a
la chance de quitter cet enfer, pourquoi y revenir ? »5. Mais avant
même de franchir le seuil de la terre d’accueil, l’immigré déchante bien vite au regard des conditions de voyage déplorables
qui lui laissent supposer que vivre ailleurs n’est pas du tout une
sinécure.
3
Ibidem.
D. SIBONY, Entre-deux, l’origine en partage, Paris, Seuil, 1991, p. 302.
5
J.R. ESSOMBA, Le Paradis du Nord, Paris, Présence Africaine, 1996, p. 35.
4
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1) Une logistique dérisoire
En rêvant de vivre en Europe, le clandestin s’imagine baignant dans un confort princier. Mais, contrairement à ses aspirations résidentielles oniriques, il n’a droit qu’à un vulgaire abri de
refuge. Autant reconnaître que l’offre d’hébergement dont il bénéficie se réduit à un repère de fortune. En situation de transit en
Espagne, les clandestins Charlie et Jojo sont logés dans une couchette atypique : une vulgaire chaudière qui pue le fuel. D’ailleurs, les deux compères palissent à l’idée de savoir que ce cadre
circonstanciel les abritera pour la nuit avant de repartir pour la
France. Dans la pièce, « il y avait des outils de jardinage dans un
coin […] A côté des outils de jardin, on avait étalé un vieux matelas et une couverture »6.
De plus, dans l’échiquier professionnel du pays d’accueil,
l’immigré est positionné comme un sujet dangereux, c’est-à-dire
une menace pour ses concurrents du pays hôte. Il est suspecté de
mettre en péril la sécurité de l’emploi de ceux qui l’accompagnent dans son projet. Face à cette situation, les passeurs ont recours à tous les stratagèmes possibles pour éviter d’ébranler leur
réseau. Pour un clandestin, le séjour en Europe est parsemé
d’embûches dont le plus grand consiste à se faire démasquer par
les autorités policières locales. Abandonnés à leur sort, tributaires d’un destin compromettant, les immigrés cheminent alors le
cœur battant dans les dédales de l’incertain, n’étant plus maîtres
de leur sort. L’on comprend pourquoi lors de leur départ de
l’Espagne pour la France, les clandestins consentent à s’installer
dans « une remorque à moitié pleine de cageots d’oranges [dont]
6
ESSOMBA, Le Paradis du Nord, p. 48.
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la profondeur du double fond […] ne dépassait pas quarante centimètres »7. Les positions inconfortables qu’ils occupent pendant
le voyage illustrent à quel point ils sont désormais considérés
comme des pseudo-individus. Leurs droits fondamentaux sont
bafoués, y compris celui de satisfaire les besoins naturels. En
proie à un besoin vital pressant, les immigrés sont invités « à [le]
faire dans [leurs] frocs »8.
Force est donc de reconnaître que les stratégies de déplacement imposées aux clandestins font l’objet d’une attention vigilante de la part des passeurs rompus à la tâche. D’ailleurs,
lesdits déplacements n’ont lieu qu’à des moments bien indiqués :
soit la nuit, soit très tôt le matin. C’est assurément pour cette
raison que les exilés attendent la nuit avant de rejoindre Toulouse. C’est également la nuit qu’épie le passeur espagnol pour
prendre congé de ses hôtes de fortune. Répondant à Charlie au
sujet de cette attention curieuse et soutenue, le passeur espagnol
déclare : « je ne veux pas que vous puissiez décrire mon camion
si on vous arrête un jour »9. L’errance nostalgique qui accompagne désormais les clandestins se lit aussi à la stature des prétendus bienfaiteurs qui les côtoient.
2) Les affres d’une parodie de filiation
Dans le circuit de la déportation des clandestins vers le lieu
tant rêvé, s’active une chaîne dont fait partie une bande de bonimenteurs rodés. Leur mission secrète consiste à nourrir d’espoir
le clandestin en lui promettant monts et merveilles à son arrivée
en terre étrangère. Le circuit qu’empruntent les clandestins pour
se rendre en France se révèle complexe à plus d’un titre. Si d’une
7
Ivi, p. 50.
Ivi, p. 50.
9
Ivi, p. 12.
8
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part, il se compose de passeurs méfiants, force est de dire, d’autre part, qu’il se trouve truffé d’opportunistes en col blanc. Cette
autre catégorie de personnages profite de l’extrême naïveté des
immigrés pour ruiner leur ambition de faire fortune en Europe.
Aussi l’accueil que réservent Modeste et Bernardin, les soi-disant compatriotes de Jojo et Charlie, s’avère-t-il en tous points
fatal pour eux. Tirant avantage de leur expérience de malfrats,
les deux malfaiteurs promettent du travail aux inconnus avec lesquels ils prétendent partager la même nationalité. Mais une fois
de plus, le rêve des clandestins se révèle un cauchemard puisque
les deux menteurs profitent de la rencontre improvisée avec leurs
hôtes pour les droguer dans une Mercedes luxueuse volée, avant
de les délester de leur argent. Par la suite, ils les abandonnent
dans un parking souterrain des Hauts-de-Seine. Lorsque le lendemain Jojo découvre le traquenard, il révèle à son ami Charlie
qu’ils se retrouvent dans un véhicule immatriculé 31(Paris), au
lieu de 92 : « nos deux compatriotes nous ont drogués et ils nous
ont abandonnés ici après nous avoir pris tout notre argent »10. A
l’instar des mirages de Paris11 dont parlent Ousmane Socé dans
son roman, ou encore du nègre à Paris12 auquel fait allusion Bernard Dadié dans son récit, le désenchantement des clandestins
revêt des formes encore plus diverses qu’ils ne l’imaginent à leur
arrivée à Toulouse.
Les ressorts du désenchantement des clandestins
La malédiction que connaît l’immigré clandestin naît du
rejet dont il fait les frais dans un espace dysphorique qui le vo-
10
Ivi, p. 59.
O. SOCE, Mirages de Paris, Paris, NEI, 1937.
12
B. DADIE, Un nègre à Paris, Paris, Présence Africaine, 1959.
11
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mit. Les déclinaisons de ce rejet sont entre autres le discrimination de la “race” noire, la traque des clandestins et une collaboration mitigée avec les clandestins.
1) La discrimination de la race noire
Celle-ci se perçoit dans le traitement raciste infligé aux
clandestins de “couleur” par les résidents français. Elle se manifeste en ceci qu’aucune attention ne leur est accordée, même lorsqu’il s’agit pour eux d’engranger la moindre information susceptible de les aider à s’orienter dans une France qui leur paraît
labyrinthique. Charlie et Jojo sont victimes de rejet de la part
d’une dame blanche qui vient récupérer son véhicule dans le parking.
Adossé à un mode de communication emphatique et pour
le moins alarmiste, le rejet des clandestins par la dame s’opère à
travers la mise en relief d’un discours itératif. De nature à ameuter le voisinage, ce discours interpellateur laisse effectivement
croire à une agression. De plus, la description que donne la
femme de ses prétendus agresseurs dévoile sa ferme volonté à
leur créer de sérieux ennuis. C’est dans cette veine que des êtres
humains sont comparés à des animaux en ces termes : « c’étaient
deux grands Noirs… Vous auriez dû les voir, on aurait dit des
bêtes sauvages. J’allais prendre ma voiture lorsqu’ils ont foncé
sur moi »13. Amplifiant les faits en les arrosant de mensonges
bien choisis, la dame évoque le danger encouru par d’éventuels
chauffeurs qui s’aventureraient dans le parking. Le mensonge
devient pour elle une compétence linguistique raciste actionnée
dans le but de discriminer ou de susciter le rejet des clandestins
dans la nouvelle terre d’accueil. Interrogée sur la véracité des
13
ESSOMBA, Le Paradis du Nord, p. 64.
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événements narrés, la dame en question ne s’offusque pas de déclarer que les hommes noirs l’ayant abordée lui voulaient du
mal. Sa réponse ravive la colère des hommes :
Puisque je vous le dis ! Il y en a même un qui a couru après moi. Heureusement […] je ne suis pas de ces femmes qui se laissent violer ainsi sans réagir.
Lorsque celui qui me poursuivait m’a rattrapée, et qu’il m’a tenue fermement
aux hanches, je lui ai donné un coup de genoux dans les testicules. Pendant
qu’il se tordait de douleur, je me suis enfuie14.
Le rejet de la race noire se manifeste également à travers
la profération de paroles racistes à l’adresse des néo-immigrés.
Il s’agit dans ce cas de jeter l’opprobre sur toute une race à cause
du présumé viol d’une femme blanche. Le chef d’accusation formulé à l’intention de Charlie et Jojo vise à pointer un doigt accusateur sur la politique gouvernementale française relative à la
question de l’immigration. Dirigeants politiques et politiques
d’immigrations sont respectivement taxés de laxistes et de complaisants par les adeptes du racisme anti-noir en ces termes :
« c’est effrayant ! Mais que voulez-vous ? C’est le résultat de la
politique qui est menée dans ce pays »15.
La haine nourrie à l’endroit des personnages de race noire
est poussée au point où des vœux entiers sont formulés en faveur
de la prise de pouvoir en France par des radicaux. Cet avènement
éviterait le séjour dans ce pays de clandestins et marquerait la fin
des cotisations pour leur assurer une sécurité sociale. La sympathisante du Front National affirme ainsi ses récriminations contre des Noirs qu’elle taxe de racaille, et surtout contre un système
qu’elle juge antipathique et carrément lymphatique : « Vivement
que le Front National16 prenne le pouvoir et qu’il nous mette
14
Ibidem.
Ivi, p. 66.
16
Parti politique français d’extrême droite fondé en 1972. Dans ses engagements n° 24 à 27 communiqués lors de la présidentielle de 2017, ce parti a
15
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cette racaille à la porte. Bon, ce n’est pas tout, il faut que j’aille
travailler, moi, pour payer la sécurité sociale à des immigrés.
Ah ! Quelle triste vie tout de même ! »17. La traque des immigrés
clandestins est l’autre stratégie adoptée par les résidents occidentaux pour manifester leur rejet de la “race” noire.
2) La traque des immigrés clandestins
Si, implicitement, la traque s’inscrit dans la logique de
répulsion de l’Autre, elle a ceci de particulier qu’elle sert de ferment à la rancune. Secrétant des motifs de vengeance, la traque
des “indésirables” noirs vise alors à démontrer au Noir qu’il incarne le danger permanent dans une société qui l’appréhende
comme un paria. Il importe, à cet égard, de le débusquer du trou
où il se terre pour éviter qu’il ne multiplie des larcins. Voilà
pourquoi une femme souligne l’urgence à retrouver les exilés,
où qu’ils se cachent : « il faut les retrouver […] Ils sont dangereux ! Je vous assure qu’ils sont dangereux »18. Marquée par la
fouille systématique des coins et recoins où se blottissent les
Noirs, la traque mobilise les Blancs et vise à les dresser, sans
aucune forme possible de réparation, contre les Noirs. Ceci justifie pourquoi Charlie et Jojo étaient « tapis dans la voiture depuis
environ cinq minutes, lorsque des pas se firent entendre. D’après
le bruit, les poursuivants devaient être nombreux. Ils s’arrêtèrent
pour slogan : « les droits des étrangers diminués, une immigration réduite au
maximum ». En effet, son président, Marine Le Pen, veut sortir la France de
l’espace Schengen qui permet la libre circulation des citoyens entre les frontières des 26 Etats-membres. Elle souhaite « rendre impossible la régularisation ou la naturalisation des étrangers en situation illégale » et « simplifier et
automatiser leur expulsion ». ˂http://www.20minutes.fr/elections/206043920170502-presidentielle-trois-axes-forts-programme-front-national-inspiresextreme-droite˃ (Consulté le : 12-01-2018).
17
ESSOMBA, Le Paradis du Nord, p. 66.
18
Ibidem.
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à côté de la voiture dans laquelle les deux clandestins étaient cachés »19.
Un autre trait caractéristique de la traque réside dans le fait
qu’elle dure tout le temps nécesaire pour contraindre les clandestins à sortir de leur cachot. Ainsi, quelles que soient les difficultés auxquelles ils restent confrontés, les traqueurs n’abandonnent guère leurs recherches ni leur cible. La fougue qui les
anime n’a d’égales que les déclarations d’un poursuivant, convaincu que les deux clandestins se sont cachés à une endroit précis du large parking qui leur sert finalement de refuge : « ils sont
sûrement quelque part, dans une voiture ou sous une voiture. Le
parking est grand, nous aurons du mal à les retrouver »20. Autant
dire que l’un des enjeux de la traque repose sur le fait qu’elle
s’étale sur une durée indéterminée et couvre un espace géographique indéfini, tant que les deux Noirs restent introuvables.
Voilà pourquoi la traque de Charlie et Jojo s’étend de Toulouse
jusqu’au Boulevard de Ménilmontant. Elle incite les deux “fugitifs” à une fuite en avant à la vue des policiers sûrement aidés
par des automobilistes qui croisaient le chemin des clandestins
dans leur fuite folle.
Par ailleurs, la traque a ceci de particulier qu’elle se distingue des autres formes de recherche des fugitifs par la quantité et
la qualité des moyens mobilisés par les policiers en vue de parvenir à leurs fins. En dehors des moyens humains qu’elle capitalise, à l’instar du nombre impressionnant de poursuivants volontaires prenant fait et cause pour la plaignante, on relève le
concours des policiers et des chiens féroces sollicités pour mettre
rapidement la main sur les clandestins. L’un des poursuivants
rassure ainsi la plaignante et prétendue violée : « calmez-vous,
madame, nous les retrouverons. La police sera là dans quelques
19
20
Ivi, p. 63.
Ivi, p. 64.
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instants avec des chiens. Ils auront vite fait de les débusquer »21.
A côté des chiens qui accompagnent les policiers, l’usage de
bombes lacrymogènes et des pistolets est évoqué. Ce dispositif
de choc vise à rendre les fugitifs vulnérables aux assauts des traqueurs, à les confondre et semer en eux le doute. C’est l’effet
que produit le gaz lacrymogène sur les deux clandestins qui les
pousse à quitter précocément leur refuge sous un pont. Le narrateur omniscient rappelle que « les poumons en feu et les yeux
larmoyants, ils franchirent la butte et dévalèrent à toute vitesse
une pente engazonnée. […] Derrière eux, les policiers aussi
s’étaient mis à courir. L’un d’entre eux cria : - Arrêtez-vous sinon on tire »22.
L’un des objectifs non avoué suscité par la traque est la
mise des clandestins hors d’état de “nuire”, y compris par des
tirs de balles réelles. Cet effet est obtenu grâce aux coups de pistolet tirés en l’air qui font paniquer Charlie. Ayant trébuché, il
se fait abattre sans toutefois manquer d’encourager son ami à
poursuivre l’aventure : « ne t’arrête pas, Jojo ! Va-t-en ! »23.
L’autre effet induit du phénomène de la traque sur les clandestins
se voit dans les réactions diverses manifestées par ces derniers.
La traque les plonge dans un état complexe fait de regrets,
d’amertume et de panique.
La panique naît quand les poursuivants viennent s’arrêter
à côté de la voiture à l’intérieur de laquelle les deux immigrés
clandestins trouvent refuge. Les deux interrogations rhétoriques
qui suivent dévoilent l’état d’esprit dans lequel se trouvent les
deux compères suite à l’alerte lancée par la plaignante blanche :
« pourquoi s’étaient-ils arrêtés là ? Avaient-ils découvert leur
21
Ivi, pp. 63-64.
Ivi, p. 84.
23
Ivi, p. 85.
22
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cachette ? »24. Il faut dire que les battements de cœurs des deux
amis qui s’ensuivent alimentent un sentiment de vive amertume.
S’agissant du sentiment d’amertume, il trouve sa justification dans le questionnement interne qui ronge les clandestins. Se
projetant dans l’avenir, ils caricaturent le destin qui deviendrait
le leur au cas où on leur mettait la main dessus deux jours seulement après leur arrivée en France. Le narrateur révèle le sentiment assommant que ressent Jojo suite aux mensonges impénitents de la prétendue violée lorsqu’il déclare : « il y avait tellement de conviction dans la voix de la dame que Jojo lui-même
ne savait plus où était la vérité. Charlie avait raison, si on leur
mettait la main dessus, ils seraient sûrement condamnés pour
tentative de viol »25.
Quant au sentiment de regret, il se voit dans la double attitude qu’affichent les clandestins. D’une part, l’exil secrète en
eux un arrière-goût d’amertume, lequel les entraîne à développer
des aptitudes controversées pour se tirer d’affaire face à la pugnacité des poursuivants. Ils revêtent sans transiger la camisole
de l’agresseur invétéré aux fins de s’éloigner du périmètre urbain
où ils se sentent en insécurité. Parce qu’elle induit chez les clandestins des postures mitigées, la traque les pousse à changer de
statut et à compliquer une situation suffisamment problématique. L’un des exilés, Charlie, devient agresseur. Furetant dans la
serrure de la portière d’un véhicule parqué, il l’ouvre et invite
Jojo à l’y retrouver. Tassés à l’arrière du véhicule, tous deux
contraignent alors l’occupante à démarrer si elle tient à sa vie.
Ils la menacent par ces mots : « si vous ne démarrez pas tout de
suite, je vous fais cracher vos intestins […] allez-y doucement,
madame, si vous tenez à la vie […] vous allez nous déposer très
loin d’ici, […] mais si vous tentez de nous jouer un mauvais tour,
24
25
Ivi, p. 63.
Ivi, p. 64.
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nous vous abattons sur-le-champ »26. Bien que déposés aux
Champs Elysées, le lieu recommandé, les deux immigrés ne
baissent pas la garde face à une menace qui s’avère désormais
établie. A madame Cordeau, ils profèrent un supplément de menaces qui se confondent au chantage, ayant au préalable pris le
soin de fouiller dans le sac à main de la femme apeurée : « Ecoutez-moi bien madame Cordeau […] si vous allez à la police, nous
vous retrouverons vite »27.
L’autre effet de panique naît chez les clandestins quand ils
se rendent compte que le lot de leur nouvelle vie en France n’est
que course folle et fuite en avant. Pour résorber ce malaise, l’un
d’eux estime qu’il serait pertinent de leur part de se résigner dans
l’échec et se faire rapatrier. Tandis que Charlie veut poursuivre
le combat, au péril de sa vie, Jojo se montre plus réaliste. Comparant sa nouvelle misère à celle endurée de longue date au pays,
il préfère la dernière forme de souffrance et se confie ainsi à son
ami : « j’ai passé sept années de mon enfance dans la rue. Pourtant je n’ai jamais souffert comme je souffre depuis quelques
heures. Chez nous au moins les rues étaient chaudes »28.
Le dernier sentiment de regret émerge quand le poids du
combat existentiel se fait insupportable pour les clandestins.
Pressentant un échec cuisant en France, ils sont traversés par la
volonté de tout abandonner ou animés du désir de se laisser simplement supprimer par la mort. Pris dans un tourbillon de lassitude, poursuivi par des policiers surarmés et des chiens surentraînés, tous près à le mettre sous l’éteignoir, Jojo ressent l’urgence de se laisser tout simplement mourir. D’abord, il plonge
dans les eaux noires de la Seine, comme pour connecter l’ombre
de sa vie à la noirceur de l’eau. Sa lassitude envahissante naît de
26
Ivi, p. 67.
Ivi, p. 68.
28
Ivi, p. 82.
27
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l’idée qu’il sait son combat perdu d’avance. Aussi ne consent-il
plus du tout à lutter. Parce qu’il veut tout lâcher, il émet alors le
vœu de retrouver une liberté désormais compromise : « ce serait
tellement simple si tout s’arrêtait… Ne plus vivre, ne plus courir,
ne plus souffrir, mourir. Oui, c’était ça la solution : mourir ! »29.
L’usage par deux fois du verbe “mourir” dans ce fragment est
significatif. Si d’une part, il informe le lecteur du désenchantement d’un clandestin quelques jours après son arrivée en Europe,
il affiche davantage la volonté de ce dernier à abréger son calvaire, à conjurer son traumatisme. Autant voir dans cette stratégie, un élan mortifère, le désir manifeste de se suicider. D’ailleurs, pour joindre le vœu à l’acte, Jojo adopte dans la Seine une
posture suicidaire, comme l’attestent ces mots du narrateur : « il
arrêta de nager, ferma les yeux, bloqua sa respiration et se laissa
couler »30.
Au regard de ce qui précède, il convient de dire que la panique dans laquelle baignent les deux clandestins se définit
comme un aveu d’échec. Elle montre la capacité qu’ont certains
d’eux à pouvoir admettre que l’idée de l’exil est infructueuse
voire inopérante. Voilà pourquoi la panique produit sur les immigrés des effets corrosifs graduels. Ces effets successifs traduisent le désenchantement de rêveurs patentés qui, au fil du temps,
déchantent en se disant que l’équation de départ a certainement
été mal posée. Par le biais d’une interrogation rhétorique adressée à Charlie, Jojo manifeste une longue complainte destinée à
dissuader son ami de revenir à la raison :
Pourquoi continuer à nous mentir à nous-mêmes ? […] nous nous sommes
trompés, il faut l’admettre. C’est le commandant du bateau qui avait raison
lorsqu’il disait que nous courions après une illusion. Nous avons payé pour
avoir des papiers et du travail ; mais nous sommes tombés sur une véritable
29
30
Ivi, p. 83.
Ivi, pp. 86-87.
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Eyenga Onana, De l’immigration clandestine à l’exil improvisé
bande organisée. Nous pouvons encore nous estimer heureux qu’ile ne nous
aient pas assommés et balancé à la mer … Si tu veux mon avis, Charlie, je
crois que nous n’avons qu’une solution : laisser tomber !31.
3) Une collaboration mitigée
L’accueil réservé aux clandestins varie très souvent selon
une perspective double : le contexte où ils se trouvent, d’une
part, et l’interlocuteur auquel ils ont affaire, d’autre part.
S’agissant du contexte, il agit négativement sur le destin
des immigrés en leur offrant d’assister à leur propre déchéance
grâce à la conjonction fructueuse entre les automobilistes et la
police en quête de “malfrats”. Cette synergie manifeste entre les
citoyens et les forces de l’ordre atteste que la France n’a ménagé
aucun espace pour abriter des hommes en situation problématique ou irrégulière. En outre, elle traduit l’antipathie d’une communauté face à des “malfaiteurs” en aventure. Alors qu’ils cheminent dans les dédales de l’inconnu, Charlie et Jojo constatent
que des « regards curieux »32 d’automobilistes leur sont jetés
avec récurrence. Lesdits automobilistes finiront par signaler la
présence des deux immigrés frauduleux à la police. Flairant le
danger qui les guette, Jojo appréhende cette collaboration
comme une menace préjudiciable à leur accalmie. Il partage ses
suspicions avec le naïf Charlie au sujet d’une possible trahison
de la part des automobilistes curieux : « ils peuvent signaler notre présence à la police […] Tu oublies les deux femmes de ce
matin ? »33.
Quant aux relations des immigrés avec leurs interlocuteurs, elles sont autant dominées par le mépris racial et les antagonismes multiformes que par la solidarité humaniste rarement
31
Ivi, p. 82-83.
Ivi, p. 79.
33
Ivi, p. 80.
32
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manifestée à leur endroit. Mépris racial, dans la mesure où l’appartenance à une même race ne garantit en rien la collaboration
entre les immigrés et leurs divers interlocuteurs. Préoccupés par
la recherche d’Anatole, le cousin de Jojo, les deux clandestins
butent contre l’hostilité d’un Noir qu’ils considèrent pourtant
comme leur frère de race. Les regardant approcher avec « une
certaine hauteur »34, l’homme enragé déclare ne point être leur
frère. D’ailleurs il n’hésite pas à les renier ouvertement : « mon
frère, mon frère, […] Je suis peut-être noir comme vous, mais je
ne suis pas votre frère ! Je ne suis pas Africain ! »35. L’indignation de l’homme, teintée d’énervement, repose sur l’usage du ton
emphatique dont la dominante est le lexème “frère”. Le reniement de ceux de sa race traduit le manque cruel de collaboration
auquel fait souvent face l’immigré clandestin. L’attitude de cet
interlocuteur s’assimile à celle vécue par les deux clandestins à
Château Rouge. Si dans leurs rêves colorés Château Rouge apparaît comme le repère de la solidarité noire en France, dans la
réalité malheureusement, cet espace s’identifie à un haut lieu du
désenchantement. Dépouillé de la flamme de solidarité africaniste qu’il est supposé sécréter, cet espace traîne sa triste renommée auprès des clandestins désespérés. Voilà pourquoi les
attitudes adoptées par les personnages y rencontrés restent
dénuées de tout élan de générosité africaine dont les caractéristiques essentielles sont la courtoisie et la fraternité agissantes. Le
narrateur relate que : « quelques personnes [...] leur parurent
abordables. […] d’autres s’étaient enfuies comme si les clandestins avaient la peste »36.
Les clandestins sont ainsi confondus à des sujets indésirables, des reclus d’Europe, les gueux de la société française en
34
Ivi, p. 70.
Ibidem.
36
Ivi, p. 77.
35
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particulier. Tant et si bien que pour leur céder le passage, ils doivent souscrire, à prix d’or, une sorte de laissez-passer. C’est cette
rançon instituée par les jeunes habitants des étages sales et
puants du 113, où résidait Anatole, le cousin de Charlie, qui est
exigée aux clandestins, du fait que leur visage ne soit pas familier aux résidents. C’est donc ce péage qui pousse Charlie à la
bagarre avec ces jeunes prétentieux dont le leader dévoile ainsi
les termes de son chantage : « si vous voulez passer, vous nous
filez chacun cinquante balles »37.
Par contre, chaque fois que les clandestins reçoivent
réponses à leurs inquisitions, celles-ci sont l’œuvre d’un vieil
homme de race blanche. Autant croire qu’il s’agit d’un personnage ayant une certaine expérience de la vie. Se sentant solidaires des clandestins, imaginant leur peine au quotidien, il n’hésite
pas à leur proposer l’assistance sollicitée. Dans le premier cas de
figure, l’homme blanc âgé justifie l’inconduite de l’homme noir
par la pression constante inhérente au milieu professionnel au
sein de la société française capitaliste. Assorties d’une verve
consolatrice, les paroles du vieil homme rassurent les clandestins : « vous savez, ici les gens vivent constamment sous pression. Alors ils se défoulent comme ils peuvent. Puis-je vous être
d’une quelconque utilité ? »38. Il leur indique par la suite comment se rendre à Saint-Denis.
Dans le second cas, le même vieil homme consent à échanger avec les clandestins pour dissiper les aprioris qui alimentent
leurs convictions avant leur arrivée en France. Il les entretiendra
sur les stratégies à adopter pour se tirer d’affaire dans son pays
quand on est en mal de repères sûrs. Ainsi leur propose-t-il, dans
un premier temps, de se constituer prisonnier en provoquant un
incident susceptible d’induire leur arrestation par la police: « il
37
38
Ivi, p. 73.
Ivi, p. 71.
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suffit de ramasser la pavé qui traine là, de le balancer contre la
vitrine de la boutique en face et d’attendre la police »39. Par la
suite, il les instruit au sujet des foyers d’hébergements que convoitent ces derniers et les informe que ces espaces n’accueillent
que des personnes en règle. Enfin, en leur faisant savoir que les
Restaurants de Cœur ont fermé et n’ouvrent à nouveau que l’hiver d’après, il leur prodigue ce conseil : « croyez-moi, la prison
est une bonne solution. Avec un peu de chance, ils vous renverront peut-être chez vous »40. Si cette dernière offre fait les affaires d’Anatole, le cousin de Charlie, qui opte résolument pour “la
Santé”, c’est-à-dire la prison, elle se révèle davantage une issue
de sortie pour des immigrants clandestins confus auxquels s’offre la possibilité de revêtir le statut d’exilé.
4) La gestation des fronts de soutien et d’entraide
L’immigré clandestin n’apparaît pas toujours comme un
sujet infortuné dans la trame de Jean Roger Essomba. Il lui arrive
parfois de tirer consolation de la générosité d’un autre personnage auquel il aura par le passé rendu un service quelconque. Le
lien secret liant Jojo à Flora, une jeune meurtrière de circonstance, conduit cette dernière à faire une offre de logement à Jojo
qui se blesse en voulant lui sauver la vie. Croyant le mettre en
contact avec l’une de ses amis camerounaise, elle le connecte à
Nina, alias Jacquie, sa sœur aînée, dont il avait perdu la trace au
Cameroun. La promesse à lui faite par Nina participe de ces retrouvailles bienfaisantes entre immigrés africains hors de leur
continent. Pour parfaire le tout, Nina promet à son frère de le
sortir du squat devenu son logis : « de toutes les façons, tu peux
39
40
Ivi, p. 78.
Ibidem.
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me faire confiance, tu ne resteras pas longtemps dans ce squat.
Je te trouverai autre chose de plus convenable »41.
Le squat en question est un gîte qui abrite des Camerounais
exilés aux fortunes diverses. Ils forment un front de solidarité
compact au sein duquel rigueur et discipline sont de mise. En
mettant sur pied ce front d’entraide, Anselme sentait l’impératif
pour des exilés d’une même patrie de se serrer les coudes à
l’étranger. Ce modus vivendi constitue pour eux un moyen sûr
pour renforcer la chaleur fraternelle africaine et repousser les limites de l’adversité occidentale. Le squat donne à voir la manifestation d’une générosité opérante pour des exilés déboussolés,
certes, mais animés d’un vif esprit d’autodiscipline, ainsi que le
précise Anselme : « Nous occupons ces lieux illégalement : cela
veut dire que nos entrées et nos sorties doivent être très discrètes. C’est pour cette raison que nous partons très tôt le matin,
et que nous ne rentrons que plus tard dans la nuit. Pour des raisons de sécurité, il faut éviter de sortir d’ici le jour42 ». Autant
dire, à cet égard, que l’accueil réservé à un exilé par un autre est
des plus convivial. Parfois les fronts de solidarité se traduisent
par l’offre, à un clandestin, d’une résidence plus commode, des
faux papiers d’identité et un emploi. Voilà pourquoi Jojo finit
par loger dans un studio qui « était situé au troisième étage d’un
immeuble ancien dans une rue calme »43. Bien plus, il reçoit de
son futur employeur une fausse carte d’identité et un nouveau
nom : il se nomme désormais Jean-Philippe Sainpré. Certes, le
travail de livreur de journaux qui lui et proposé scelle sa descente
aux enfers, avec notamment son arrestation à la fin du récit ; mais
il oblige d’avancer que la solidarité régissant les rapports entre
41
Ivi, pp. 107-108.
Ivi, p. 111.
43
Ivi, p. 143.
42
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Eyenga Onana, De l’immigration clandestine à l’exil improvisé
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exilés suscite un tel élan de cœur qu’il les nourrit, un temps soit
peu, d’espoir.
Quoique les seuls moments de joie que connaisse Jojo dans
le récit de sa mésaventure émanent des rares instants vécus en
compagnie de sa sœur Nina, le moins qu’on puisse dire est que
l’exilé est globalement mal en point dans sa terre d’accueil. Tel
est le cas lorsqu’il se trouve confronté à la justice étrangère. Bien
qu’innocent dans les faits à lui reprochés, l’exilé se voit automatiquement inculpé par des juges racistes. Il rencontre d’énormes
difficultés pour assurer sa défense face à une justice biaisée dont
les juges corrompus sont décidés à lui régler ses comptes. Il devient la cible toute trouvée d’accusations erronées et sans fondements. Dans un réquisitoire bien ciblé visant à incriminer Jojo,
l’avocat général le dépeint en des termes péjoratifs et pour le
moins inhumains :
Cet homme est incapable d’éprouver le moindre sentiment [de repentir ou de
compassion] de cet ordre-là ! C’est une brute qui, si vous la laissez sortir d’ici,
recommencera à tuer pour vivre. […] Je sais qu’il est de plus en plus difficile
de nos jours de juger en toute sérénité quelqu’un d’une autre race. Mais s’il
faut relâcher un criminel parce que nous avons peur qu’on nous accuse de
racisme, alors ce pays sombrera dans le chaos. Je ne doute pas un seul instant
que vous saurez vous montrer à la hauteur de la tâche qui vous est dévolue en
châtiant comme il se doit ce criminel. Je demande la réclusion à perpétuité44.
Mais comme on le sait, le sense de la littérature réside
moins dans sa force reproductrice, la mimésis ou « compétence
narrative »45 de l’écrivain, que dans sa capacité à produire un
discours, la sémiosis, à travers le style bien particulier du romancier. C’est en tout cas l’idée que soutient Roland Barthes en affirmant que « c’est moins dans le fait qu’il utilise la langue que
44
45
Ivi, p. 166.
H. MITTERAND, Le Discours du roman, Paris, PUF, 1980, p. 10.
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dans la façon dont il le fait que l’écrivain se trouve impliqué
comme tel. La littérature est d’abord une action formelle »46.
Implicite et significativité du récit : de l’écriture du sens au
sens de l’écriture
Pour Pierre Barbéris, l’implicite vise à montrer qu’ « un
texte n’est pas fait que de chose en clair et qu’on n’avait pas pu
ou voulu voir. Un texte est aussi une arcane qui dit le sociohistorique par ce qui peut ne paraître qu’esthétique, spirituel ou moral »47. De la sorte, le roman déploie une onde productrice signifiante qui établit le romancier comme un inventeur de discours.
Henri Mitterand affirme dans cette perspective que par le travail
de l’écriture, le roman médiatise un autre sens. Il « modifie
l’équilibre antérieur du sens »48. Les manœuvres esthétiques
adoptées dans le récit étudié visent à styliser des pratiques migrantes caduques ainsi que les conséquences néfastes qui en dérivent, tant sur les sujets africains eux-mêmes que pour le continent africain tout entier.
1) L’enjeu des anachronies narratives
Par anachronies narratives, Gérard Genette entend « toutes
les formes de distorsion ou de discordance entre deux ordres
temporels »49. Dans le roman analysé, deux cas de figures voisinent, conférant au récit un mouvement de va et vient. Le rythme
en vagues cadencées du récit se justifie par l’inscription dans son
46
R. BARTHES, Introduction à l’analyse structurale du récit, Paris, Seuil,
1966, p. 17.
47
BARBERIS, Sociocritique, p. 140.
48
MITTERAND, Le Discours du roman, p. 7.
49
G. GENETTE, Figures III, Paris, Seuil, 1972, p. 89.
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sein des analepses et des prolepses qui bousculent toute monotonie narrative.
2) L’analepse ou les prémisses d’un exil improvisé
Grâce à « l’évocation après coup d’un événement antérieur
au pont de l’histoire où l’on se retrouve »50, le texte étudié donne
à voir la mutation de l’immigré du statut de clandestin à celui
d’exilé. Dans cette perspective, le clandestin d’hier devenu exilé
aujourd’hui n’envisage plus de retourner dans son pays à cause
du sentiment de honte qui le parcourt. L’analepse est donc convoquée par les exilés lorsque ces derniers racontent avec une
teinte de nostalgie, l’itinéraire pathétique les ayant conduits jusqu’en France. Jojo apprendra par exemple du passé camerounais d’Anselme au moment où les deux personnages font
connaissance : « moi aussi avant de venir en France, je travaillais
dans un hôtel à Yaoundé. Mais moi je n’avais pas l’idée obsessionnelle de venir ici »51. Par contre, l’histoire de Prisca révèle
que c’est sa tante qui l’a emmenée en France pour « lui apprendre le métier de coiffeuse et […] l’employer plus tard dans son
salon »52. Une fois en Europe, cette parente transforme sa nièce
en mère-porteuse puis l’expulse de chez elle en récupérant au
préalable l’enfant métis né de l’union adultérine entre son mari
et ladite nièce. La dernière rétrospection digne d’intérêt dans le
texte examiné est relative à la présence en France de Nina, alias
Jacquie. C’est par les soins de monsieur Duval, un Blanc, qu’elle
fut entraînée dans ce pays, prétendument pour des besoins de
mannequinat. Une fois embarquée dans l’organisation de ce proxénète, elle est réduite à danser, nue, dans les Peep Show pour
50
ESSOMBA, Le Paradis du Nord, p. 89.
Ivi, p. 118.
52
Ivi, p. 121.
51
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éviter de retourner les mains vides au Cameroun. Nina relate sa
peine à Jojo en lui dévoilant que « tout a commencé un soir dans
une boîte de nuit à Douala »53. Le récit d’Essomba regorge également de structures narratives qui prédisent aux exilés les contours de leur malheur en Europe : les prolepses.
3) Les prolepses dans la dynamique de prédiction de l’errance nostalgique
Sollicitée dans la trame narrative, la prolepse sert à décrire
« toute manœuvre narrative consistant à raconter ou évoquer
d’avance un événement ultérieur »54. Les prédictions visent ainsi
à mettre en garde le clandestin face aux dangers futurs qui le
guettent. Tel est le cas de la prédiction formulée par le commandant du bateau à l’endroit des deux clandestins qui partent de
Douala jusqu’au large de Carthagène. Comme un devin, cet
homme évoque l’échec d’une entreprise qu’il sent suicidaire et
décourage Charlie et Jojo, alors qu’ils sont encore maîtres de
leur destin en Afrique. Dans les fragments qui suivent, l’usage
du futur simple à effet immédiat, « allez courir, serez », de même
que l’emploi du présent de l’indicatif révélateur d’un état permanent, « êtes condamnés », traduisent des situations appelées à
se réaliser dans un temps relativement proche.
S’adressant par exemple à Charlie, dont l’efficacité à travailler sur le pont avant du bateau séduit, le commandant de bord
prédit l’échec d’une aventure insensée vouée à la déconfiture.
Cette aventure métaphorise une course éternelle que le rompu
des voyages maritimes ne cache pas aux jeunes rêveurs : « reste
53
54
Ivi, p. 139.
GENETTE, Figures III, p. 82.
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avec moi, cela vaudra mieux pour toi et ton ami que d’aller courir après une illusion »55. La suite du récit donnera raison à ce
visionnaire qui ajoute à l’adresse des deux clandestins : « mais
vous deux, qu’allez-vous faire ? Vous êtes condamnés à fuir
éternellement »56. Bien que déclinée au présent, l’expression «
êtes condamnés » articule une forte charge prospective tant elle
renvoie à un futur proche. De fait, la vie en France de Charlie et
Jojo n’est que course folle et fuite en avant : courir pour se loger
la nuit dans un squat, fuir les chiens qui flairent la drogue dissimulée dans les journaux innocemment transportés par Jojo, fuir
les policiers et se cacher à leur approche après l’alerte du
présumé viol donnée par madame Cordeau. Suite à cette dynamique de fuite interminable, le récit scruté devient un questionnement ironique sur le sens d’une immigration finalement
perçue comme un « voyage à l’envers57 ».
4) Les figures de rhétorique au service de l’écriture : ironie
et questions de style
L’ironie renvoie à un « énoncé par lequel on dit autre chose
que ce que l’on pense en faisant comprendre autre chose que ce
que l’on dit »58. Cette figure de rhétorique se donne à lire lorsque
le commandant souhaite dire aux clandestins, sans tout à fait le
leur montrer clairement, que ne sont appelés à réussir en Europe
que ceux qui ont fait de bonnes études, les sportifs de haut niveau
ou encore les artistes de haut vol. Ce faisant, il amène Charlie et
Jojo à réaliser le danger assorti à la vaine entreprise migratoire
55
ESSOMBA, Le Paradis du Nord, p. 42.
Ivi, p. 42.
57
J.B. EVOUNG FOUDA, La décivilisation du migrant colonial, in «Ecritures»
9 (2012), pp. 215-227.
58
P. LEJEUNE, L’autobiographie. De la littérature aux médias, Paris, Seuil,
1980, pp. 24-25.
56
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qu’ils entendent mener en direction de la France. S’adressant
particulièrement à Charlie, il ironise alors de la sorte :
- Tu as fait des hautes études ?
- Non
- tu es un sportif de haut niveau ?
- Non plus, mais pourquoi ces questions ?
- Je veux juste te faire comprendre que ton aventure est insensée59.
L’ironie réside dans l’obstination des clandestins à persévérer dans un choix de vie hasardeux. Elle devient ainsi l’une
des modalisations visant à subvertir l’option pour l’immigration
clandestine à travers des questions rhétoriques. Mode d’écriture
obsédant chez J. R. Essomba, l’interrogation rhétorique ou question de style « n’appelle même pas de réponse, tant la réaction
attendue du public est considérée, même de manière forcée,
comme évidente »60. Elle dégage les marques du désenchantement qui anime Jojo dès son arrivée en France. Elle traduit en
outre le contraste ahurissant qui s’établit entre ses préjugés mélioratifs sur la terre d’accueil et les réalités déstabilisatrices qu’il
vit sur le terrain. Les questions que pose le commandant à Charlie visent implicitement à lui faire comprendre qu’il n’est pas
éligible pour voyager pour la France : il n’en a pas le profil requis.
De même, au premier jour de leur séjour français, Charlie
et Jojo déchantent lorsque madame Cordeau les suspecte de vouloir la violer. L’accueil refroidissant auquel ont droit les deux
compères apparaît dans cette méditation dominée par la tonalité
interro-exclamative qui traverse Jojo : « la police ! Les chiens !
59
60
ESSOMBA, Le Paradis du Nord, p. 42.
J.-J. ROBRIEUX, Rhétorique et argumentation, Paris, Nathan, 2000, p. 116.
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Etait-ce possible qu’en cherchant le paradis, ils se soient retrouvés en enfer ? »61. Par contre, en retrouvant en France sa sœur
Nina, la promesse d’un travail bien rémunéré ainsi qu’un logis
confortable, Jojo pense son rêve enfin devenu réalité. L’interrogation rhétorique qu’utilise le narrateur omniscient dépeint la sérénité apparente qui, au fond, augure des lendemains attristants
pour l’infortuné clandestin : « le paradis avait-il enfin décidé de
lui ouvrir ses portes ? »62. La réponse négative à cette question
trouve son origine dans l’inculpation puis la condamnation de
Jojo à la fin du récit ouvrant ainsi la voie au sens d’une écriture.
Le sens d’une écriture
Pour J.- L. Dufays, L. Gemenne et D. Ledur, « tant qu’il
n’est pas soumis au filtre de la lecture-construction, le texte littéraire n’est qu’un pur artefact dénué de toute signification »63.
Autrement dit, le texte littéraire prend tout son sens lorsqu’il favorise l’éclosion d’un homme neuf et d’une société nouvelle.
C’est assurément pourquoi l’« œuvre s’enlève du fond opaque
de vivre, de l’agir et du souffrir pour être donnée par un auteur à
un lecteur qui la reçoit et ainsi change son agir »64. De ce point
de vue, le roman d’Essomba apparaît à lafois comme la
métaphore du rêve brisé et l’allégorie d’un exil hypothéqué.
61
ESSOMBA, Le Paradis du nord, p. 65.
Ivi, p. 144.
63
J.-L. DUFAYS, L. GEMENNE, D. LEDUR (eds.), Pour une lecture littéraire,
Bruxelles, De Boeck, UPF, 2005, p.71.
64
P. RICŒUR, Temps et récit (Tome 1), Paris, Seuil, 1983, p. 86.
62
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1) Le Paradis du Nord ou la métaphore d’un rêve brisé
Dès le titre de son roman, J.R. Essomba énonce sa volonté
à théoriser la problématique de l’illusion qui plonge continuellement la jeunesse africaine dans les travers du désenchantement
migratoire. Celle-ci est ainsi réduite à nourrir des rêves démesurés qui n’ont d’égale que son ambition illégitime. Pour le romancier, le rêve de rejoindre absolument l’Europe ne doit en aucun
cas s’accommoder de postures contraires à l’éthique comportementale. Le vol, doublé du meurtre, que commettent Charlie et
Jojo peu avant leur voyage, n’est pas pour eux une marque de
bénédiction. Traînant avec eux les stigmates de la malchance et
les séquelles des échecs successifs acumulés sur le sol africain,
ils ne sauraient envisager de bâtir un rêve sur les traces purulentes du sang versé. D’ailleurs, Charlie périt deux jours seulement
après son arrivée en France après avoir sacrifié un homme innocent et délester un planteur de son argent en Afrique en vue de
son voyage pour la France.
Autant le dire, l’Occident ne représente en rien la
métaphore du vrai paradis postulé par les deux compères, au regard de la cohorte de malheurs qui rythme leur quotidien en
France. Pour s’y sentir à l’aise, comme dans un paradis authentique, il convient à l’avance de se conformer à la législation en
vigueur : il importe de tenir à jour ses papiers officiels. Dépourvu
de papiers, à l’instar des résidents du squat, le clandestin devient
un sujet fragile, enclin à la manipulation, puisqu’étant en instance permanente de survie. Il doit alors se livrer au bon vouloir
de ses protégés, ceux qui dans l’ombre tirent les ficelles qui le
connectent à son avenir. Autrement il devra oublier la vie et
mourir, à l’exemple d’une Flora assassinée par le clan du proxénète Duval. A défaut de voir sa vie sacrifiée à l’autel de manipulations interminables, le clandestin se doit de compromettre sa
liberté, de sacrifier son corps et même de perdre son identité.
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Jacquie devient ainsi Nina, afin de mieux coller à sa nouvelle vie
de prostituée professionnelle et séduire les nombreux accrocs du
peep show français. En acceptant de subir une chirurgie du nez,
elle consent à faire don de son “nouveau” corps à des organisations mafieuses. Elles la soumettent régulièrement à des pratiques humiliantes exacerbant la réification multiforme de la
femme. Lieu des illusions perdues donc, la France symbolise finalement le cimetière des rêveurs. Voilà en quoi le parcours de
Charlie et Jojo est comparable à une allégorie : celle d’un exil
hypothéqué.
2) L’allégorie d’un exil hypothéqué
Le premier motif d’hypothèque repose sur l’incapacité
pour le clandestin à mûrir son projet dès le départ. Du fait qu’il
ne se donne pas les moyens de mener à bon port sa politique
migratoire, il s’offre en pâture à tous les errements qui ne peuvent que dégénérer en échec ou causer sa perte. Pour cette catégorie d’immigrés, la France apparaît comme une terre inhospitalière qui régurgite continuellement les immigrés clandestins.
L’autre motif d’hypothèque est relatif à la honte qui s’empare de l’exilé aussitôt que son échec en France est établi. La
honte décrit l’impossibilité pour l’immigré à retourner au pays
les mains vides. Elle le pousse alors à s’éterniser en France, parfois au péril de sa vie, aux fins de se détourner du regard railleur
des Africains restés au pays. Ayant découvert la trame de l’imposture dans l’attitude de monsieur Duval, Nina préfère “mourir” en France. C’est pour cette raison qu’elle confie à son frère :
« retourner chez moi voulait dire rentrer au Cameroun vivre dans
un taudis au milieu des marécages »65. Dans la même veine, Anselme ne consent plus à retourner au Cameroun. Dépourvu de
65
ESSOMBA, Le Paradis du Nord, p. 140.
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Eyenga Onana, De l’immigration clandestine à l’exil improvisé
papiers, voici ce qu’il déclare à Jojo : « la honte ! J’aurais trop
honte. D’ici, je les entends déjà à murmurer qu’avant son départ
[…] Non, j’aurais trop honte de retourner là-bas »66.
Il y a enfin l’auto-culpabilisation. Elle se révèle une forme
de plaidoirie en vue de sauver la jeunesse des eaux troubles de
l’exil clandestin. Elle vise à dire qu’il est vain de défendre une
cause perdue, en se fondant sur une série de préjugés déstabilisateurs. En rédigeant en prison ses mémoires pour les mettre à la
disposition de la postérité par le biais de Maître Maillot, son avocat, Jojo achève de jeter une passerelle entre le passé et l’avenir.
Les mots qu’il destine à la postérité revêtent à cet effet une résonance éthique : « si vous voulez m’aider, servez-vous de mon
cas comme illustration pour leur faire comprendre que çà n’existe pas, le paradis »67.
Conclusion
Le Paradis du Nord de Jean Roger Essomba apparaît au
demeurant comme la métaphore d’un rêve brisé et l’allégorie
d’un exil hypothéqué à plus d’un titre. Dans un premier temps,
le clandestin se positionne comme un rêveur impénitent. Son initiative téméraire ne lui génère aucun autre intérêt que celui de le
plonger dans une amertume lassante. Force est de constater que
la clandestinité dans laquelle baigne son “beau” rêve se bute contre une ambition démesurée et finalement hypothéquée de laquelle se dégage un vif sentiment de déception une fois que le
clandestin affronte les dures réalités du terrain. L’œuvre de Jean
Roger Essomba s’exhibe in fine comme un espace discursif militant, c’est-à-dire, un véritable plaidoyer en vue de la gestation
66
67
Ivi, p. 120.
Ivi, p. 163.
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Eyenga Onana, De l’immigration clandestine à l’exil improvisé
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de liens conviviaux opérants fondés sur une dynamique humaniste du vivre ensemble entre résidents du Nord et ceux du Sud.
Autant croire que le romancier appelle de tous ses vœux l’émergence des échanges collatéraux Nord-Sud plus fructueux pour
l’épanouissement de la race humaine tout entière, dans le strict
respect des droits de l’homme et des règlementations en vigueur.
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Eyenga Onana, De l’immigration clandestine à l’exil improvisé
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Tavares, Estancia e imagen de Portugal
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DOSSIER VARIA
ARTICOLI
Estancia e imagen de Portugal, según el viajero alemán - Jerónimo Münzer - en su periplo por la Península Ibérica (1494-1495). El caso de Lisboa
di Alice TAVARES
Universidad Nova de Lisboa
DOI 10.26337/2532-7623/TAVARES
Riassunto: L’articolo si propone di studiare il viaggio e il soggiorno del tedesco Jerónimo Münzer nella penisola iberica alla fine del XV secolo (14941495), in particolare in Portogallo. Si intende, da un lato, mettere in risalto la
visione del viaggiatore, concentrando l'attenzione sulla città di Lisbona, sottolineando inoltre l'importanza della città e la presenza di elementi faunistici
e botanici nel racconto del viaggio. D'altra parte, si analizzano le descrizioni
e le esperienze quotidiane delle comunità straniere ed etnico-religiose incontrate dal Münzer.
Abstract: This text aims to study the travel and journey of the German,
Jerónimo Münzer, by the Iberian Peninsula, at the end of the 15th century
(1494-1495), especially in Portugal. It is intended, on the one hand, to
publicize the traveler's vision, stopping our focus on the city of Lisbon,
underlining the importance of the aforementioned city and the presence of
faunal and botanical elements. On the other hand, we will analyze the
descriptions and daily experiences of the foreign and ethnic-religious
communities.
Keywords: Iberian Peninsula, Portugal, Jerónimo Münzer
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Tavares, Estancia e imagen de Portugal
Sommario: Introduction – Jerónimo Münzer en Portugal: su estancia en Lisboa – Fauna y flora de Portugal: el caso lisboeta – Lisboa de Münzer: una
ciudad cosmopolita – Conclusión - Bibliografía
Versione definitiva ricevuta in data 2 febbraio 2018
Introduction
Jerónimo Münzer (Hieronymus Monetarius), viajero de
origen alemán, se desplazó a la Península Ibérica, supuestamente
al servicio del Emperador Maximiliano I (1459-1519), del Sacro
Imperio Romano Germánico, a finales del siglo XV, en 14941495, con la misión de dar a conocer y de aportar informaciones
sobre los acontecimientos políticos; las características geográficas, antrópicas y socioeconómicas de los reinos ibéricos (en especial de Castilla y Aragón y Portugal).
Sobre esta obra y las motivaciones que llevaron a Jerónimo
Münzer a viajar y a permanecer dos años en tierras ibéricas poco
se sabe, llevándonos a entrar en el campo de las suposiciones.
Una de las hipótesis que se suele plantear es que tenía el objectivo de traer una epístola del Emperador Maximiliano I al rey
portugués, D. Juan II (1455-1495), incitándole a llegar a Asia,
por vía marítima, a través del Atlántico. Posiblemente con apoyo
alemán. De hecho, a partir de la narrativa de Münzer, podemos
acceder a las descripciones del perfil del soberano portugués, en
Évora, donde estaba su corte. Disponemos de informaciones sobre las relaciones familiares de D. Juan II, la receptividad y los
contactos necesarios para entablar determinadas entrevistas con
él y para conocer ciertos lugares e infraestructuras lisboetas,
como la Casa de la Mina, donde se almacenaban y se hacían los
negocios con productos europeos, del Norte de África y de Guinea. Sin embargo, como podemos comprobar a través del relato
objecto de estudio, sigue siendo una incógnita el contenido de
las conversaciones y de la supuesta misiva de Maximiliano I,
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Tavares, Estancia e imagen de Portugal
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pues el propio Münzer no proporciona al lector los detalles y las
temáticas de las conversaciones que motivaron las referidas citas.
Otra de las razones más tradicionales que se suele atribuir
a las salidas de Münzer de Núremberg, consiste en la huída provocada por los brotes de peste. Es fácil asociar esta línea de raciocinio a su viaje por la Península Ibérica, una vez que fue probable que Münzer se desplazara a Italia y a Holanda por este
mismo motivo. A estas dos suposiciones, son probables los intereses y las potencialidades de negocio que Portugal y Castilla
podrían ofrecer al emperador Maximiliano y a las familias de
banqueros y mercadores, entre los cuales destacamos el hermano
de Münzer – Ludwig Münzer -, con el objectivo de desarrollar
sus investimentos económicos1.
Como ya se sabe, Portugal fue pionero de las iniciativas
exploratorias hacía el sur de África, con el sentido de abrir un
nuevo camino hacía las Indias Orientales en búsqueda de especias asiáticas, mientras entablaba y consolidaba nuevas formas
de negocio en la costa occidental africana, fundamentales para
el desarrollo del comercio del oro proveniente de Guinea y para
la adquisición de nuevos productos (esclavos, animales exóticos,
marfil y especias). Estos emprendimientos mercantiles, experimentales y de conocimiento de las condiciones climáticas y marítimas de la costa atlántica del continente africano culminaron,
años más tarde, en distintas expediciones. Destacamos, entre
ellas, la misión de Barlomeu Dias que contornó el Cabo de las
1
P. MARTÍNEZ GARCÍA, El Sacro Imperio y la diplomacia atlántica: el Itinerario de Hieronymus Münzer, in J. SOLÓRZANO TELECHEA, B. ARIZAGA BOLUMBURO Y L. SICKING (eds.), Diplomacia y comercio en la Europa Atlántica
Medieval, Logroño, Instituto de Estudios Riojanos, 2015, p. 117; P. MARTÍNEZ GARCÍA, El cara a cara con el otro: la visión de lo ajeno a fines de la
Edad Media y a comienzos de la Edad Moderna a través del viaje, Frankfurt,
Peter Lang GmH, 2015.
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Tavares, Estancia e imagen de Portugal
Tormentas (1487), el viaje de Pêro da Covilhã que llegó a la
costa oriental de África y al Golfo Pérsico (1488) y, por fin, la
llegada de Vasco da Gama a la India (1497-1498), en el reinado
de D. Manuel I (1469-1521), concretizando el proyecto de su
antecesor, D. Juan II. Gracias a estas expediciones, Portugal
abrió la ruta marítima y comercial con el Oriente. Este hecho
propició un nuevo eje económico entre Europa y Asia, en perjuicio del monopolio mercantil de la República de Venecia y del
Imperio Mameluco de Egipto y Siria, pues dominaban, sobre
todo el comercio de lujo, sin olvidar las especias asiáticas, por
vía terrestre. Recordamos también que por parte de Castilla y
Aragón, Cristóbal Colón llegó a América, en 1492, a servicio de
los Reyes Católicos, Da. Isabel y D. Fernando, con el sentido de
descubrir una ruta alternativa para llegar a las supuestas Indias.
Estamos delante de otra etapa representativa de los movimientos
expansionistas ibéricos, que proporcionó una nueva configuración del espacio y además, impulsó el contacto y la colonización
europea del continente americano.
Es en este breve contexto peninsular de descubrimientos,
expansión y colonización por parte de los reinos de Portugal y
de Castilla, que Münzer recorrió parte de Europa a camino de la
Península Ibérica. Conocemos su periplo, todo él hecho por tierra y, posiblemente, con sus compañeros, a través de la publicación de su relato, llevada a cabo por L. Pfandl en la revista, Revue Hispanique, en 1920, con el título Itinerarium Hispanicum2.
Este texto, que nos llegó hasta los días de hoy, es un fragmento
de la descripción de su viaje por Europa, una vez que disponemos de indicaciones de que el autor estuvo anteriormente en
2
L. PFANDL, Itinerarium Hispanicum Hieronymi Monetarii. 1494-1495, in
«Revue Hispanique», vol. XLVIII, 113 (1920), pp. 1-179. Es conviente señalar que este artículo resulta de la edición, en latín, del manuscrito que se puede
encontrar en Múnich (Alemania), en la Bayerische Staatsbibliothek, MARTÍNEZ GARCÍA, El Sacro Imperio, p. 104.
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Francia y en la actual Alemania. No obstante, utilizaremos en
nuestro análisis otra versión del referido texto del viajero alemán, más reciente, de 1924, cuya edición fue de la responsabilidad de Julio Puyol3, publicada por la Real Academia de la Historia (Madrid).
Poco se sabe del perfil de Münzer. De origen austríaco e
hijo de Heinrich y Elisabeth Münzer, el autor nació en Feldkirch,
en 1437. A pesar de las escasas indicaciones, no nos detendremos demasiado en delinear su biografía, aunque sepamos que
ejerció un papel multifacético. Fue geógrafo, astrónomo y médico humanista de la corte imperial romano germánica de finales
del siglo XV, llegando a estudiar en Leipzig y, años más tarde,
a doctorarse en la Universidad de Pavía, en 1479. Mantuvo una
relación estrecha y un papel preponderante en la corte del Emperador Maximiliano I, llegando este último al punto de confiarle, supuestamente, la misión de averiguar las potencialidades
y las características físicas e humanas de la Península Ibérica.
Subrayamos que esta zona de Europa despertaría fácilmente el
interés y la curiosidad en las demás unidades políticas del viejo
continente, debido a los fenómenos expansionistas, descubridores, colonizadores y científicos de que fue pionera.
Las narrativas de viajes medievales y de principios de la
época moderna han merecido especial atención por parte de la
historiografía portuguesa. Podemos encontrar algunas ediciones
y traducciones al portugués de periplos y misiones de otros viajeros europeos llevados a cabo tanto por tierra, como por mar.
3
J. PUYOL, Jerónimo Münzer, Viaje por España y Portugal en los años de
1494 y 1495, in «Boletín de la Real Academia de la Historia», 84 (1924), pp.
32-88, < http://www.cervantesvirtual.com/obra/jeronimo-munzer-viaje-porespana-y-portugal-en-los-anos-1494-y-1495/> (Consultada en el: 15-092017).
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Disponemos, a modo de ejemplo, el relato del holandés, Jan Taccoen de Zillebeke4, que pasó, años más tarde, por Portugal,
mientras reinaba el rey D. Manuel I y las descripciones del viaje
del veneciano, Luís Cadamosto y Pero de Sintra5, caballero del
Infante D. Henrique y descubridor de Sierra Leona. Registramos, recientemente, un interés en el desarrollo de investigaciones a partir de los libros de viajes, proporcionándonos, en especial datos sobre los paisajes (fauna y flora)6, las distintas comunidades, sus vivencias y los distintos modos de observar a las
gentes7.
Con éste artículo tenemos el objectivo de dar a conocer el
viaje de Münzer por la Península Ibérica, centrando nuestro enfoque en su instancia en Portugal, en especial, en la ciudad de
Lisboa, antes de partir hacia el norte, en dirección a Santiago de
4
J. FONSECA (ed.), Lisboa em 1514. O relato de Jan Taccoen vab Zillebeke,
Lisboa, Centro de História da Cultura da Universidade Nova de Lisboa y
Edições Húmus, 2014.
5
Viagens de Luís de Cadamosto e de Pedro de Sintra, Lisboa, Academia
Portuguesa de Historia, 1988.
6
P. LOPES, O animal na Literatura: Dos Bestiários aos Livros de Viagens, in
I. DRUMOND BRAGA, P. DRUMON BRAGA (eds.), Animais & Companhia na
História de Portugal. Fazer a História dos Animais, Lisboa, Círculo de Leitores, 2015, pp. 393-435.
7
P. LOPES, Viajar na Idade Média – A visão ibérica do mundo no Livro do
Conhecimento, Lisboa, Círculo de Leitores, 2015; L. ALBUQUERQUE, Introdução à História dos Descobrimentos Portugueses, Mem Martins, Publicações Europa-América, 2001; B. TAYLOR, Los libros de viajes de la Edad
Media Hispánica: bibliografía y recepción, in Atas do IV Congresso da Associação Hispânica de Literatura Medieval, Lisboa, Ed. Cosmos, 1993, pp.
57-70; M.H. GARVÃO, O livro Marco Paulo impresso por Valentim Fernandes: genealogia textual, leitura tipográfica e aspetos discursivos. Tesis
de doctorado en Estudos Literários. Especialização em Literatura Portuguesa
sob orientação do Professor Doutor João Dionísio, Lisboa, Universidade de
Lisboa, 2010, URL < http://repositorio.ul.pt/handle/10451/2467 > (Consultada en el: 15-12-2017).
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Compostela (Galicia, España). Este será el objecto de estudio de
nuestra investigación. En este sentido, organizaremos este artículo en tres apartados. En el primer ítem, señalaremos la importancia de Lisboa como un centro portuario neurálgico de
atracción y de desarrollo de las actividades marítimas y socioeconómicas, sobre todo mercantiles, entre el Norte de Europa, el
Mediterráneo y la costa africana. A continuación, analizaremos
la flora y la fauna endógena y exógena originaria de las islas
atlánticas (Azores, Madeira y Canarias) y del continente africano. En tercer lugar, dedicaremos nuestra atención al estudio de
las descripciones y las vivencias cotidianas de las distintas comunidades extranjeras (alemanes, por ejemplo) y étnico-religiosas (judíos, conversos y moros). No nos olvidaremos de enfocar
el problema de la llegada masiva de judíos y cristianos nuevos
exilados, provenientes de Castilla, en búsqueda de una nueva
vida en tierras portuguesas, resultante de conflictos sociopolíticos que culminaron con la expulsión de las minorías religiosas
(mora y judía), decretada por los Reyes Católicos, en 1492. A lo
largo de este texto y, por cuestiones metodológicas, recurriremos
a otro tipo de fuentes como las de naturaleza jurídica local (fueros extensos, ordenanzas y actas de vereación8), otros libros de
8
Portugaliae Monumenta Historica. Leges et Consuetudines, vol. II, Lisboa,
Academia Real das Ciências de Lisboa, 1856; M.T. RODRIGUES, Livro das
Posturas Antigas, Lisboa, Câmara Municipal de Lisboa, 1974; J.P. COSTA,
Vereações da Câmara Municipal o Funchal. Século XV, Funchal, Centro de
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Câmara Municipal da Ribeira Grande, 2006; F. MORALES PADRON, Ordenanzas del concejo de Gran Canaria (1531), Gran Canaria, Ediciones del Excelentísimo Cabildo Insular de Gran Canaria, 1974.
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Tavares, Estancia e imagen de Portugal
viaje9 y de conocimiento10, con la finalidad de entablar comparaciones, reforzar y de aportar otros datos sobre las características y las vivencias cotidianas de Lisboa.
Jerónimo Münzer en Portugal: su estancia en Lisboa
Después de su estancia en España, donde se detuvo en varias ciudades, entre ellas Barcelona, Valencia, Alicante, Granada, Málaga, Cádiz y Sevilla, Jerónimo Münzer llegó a Portugal, en el día 13 de noviembre de 1494. Su primera etapa en tierras lusas fue Serpa, villa localizada en Alentejo, donde permaneció poco tiempo, antes de seguir en dirección a Évora. En esta
ciudad, el autor fue recibido varias veces en audiencia por el rey
D. Juan II. Este incluso llegó a recibir a los compañeros de viaje
de Münzer y, entre los cuales, armó caballero a Antonio Herwart, también de origen alemán, en la capilla regia de la misma
ciudad, en las vísperas del dia de Santa Catalina (25 de noviembre)11. Las entrevistas regias son prueba de la facilidad que los
viajeros disponían para citarse y entablar relaciones de cierta
cortesía y afabilidad con el rey portugués.
Desconocemos las motivaciones que llevaron Münzer a
entrevistarse con el soberano portugués, aunque podamos tener
algunas suposiciones como ya hemos dicho anteriormente. Lo
mismo se puede decir, meses más tarde, con los Reyes Católicos,
en Madrid12. En este apartado no nos detendremos sobre las varias conjeturas que llevaron a Jerónimo Münzer a entablar con-
9
Viagens de Luis Cadamosto e de Pedro de Sintra, pp. 83 ss; FONSECA Lisboa
em 1514, pp. 122 ss.
10
D.P. PEREIRA, Esmeraldo de Situ Orbis, Lisboa, Academia Portuguesa de
Historia, 1988.
11
PUYOL, Jerónimo Münzer, p. 206.
12
Ivi, pp. 257-260.
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tacto con los reyes de Portugal y Castilla y Aragón, aunque merezcan un estudio más detenido, con el objectivo de aclarar y de
llegar a nuevas conclusiones más palpables sobre las relaciones
y los intereses entre los reinos peninsulares y el Sacro Imperio
Romano Germánico, a finales del siglo XV. Sobre todo, en un
momento clave de expansión, de descubierta y de colonización
de los territorios ultramarinos, en África y América. En este sentido, todas las informaciones que se pudieran obtener sobre Península Ibérica serían fundamentales para el conocimiento más
minucioso de esta zona de Europa. Por otro lado, serían imprescindibles para colmatar cualquier duda sobre los nuevos objectivos territoriales de Portugal y de Castilla en el Nuevo Mundo.
Además, aparte de las intenciones del viaje de Münzer, señalamos que sería plausible la curiosidad y el interés por los reinos
de la Península Ibérica y en sus pretensiones en los nuevos continentes por parte de las demás unidades políticas europeas. No
es, igualmente, de descartar cualquier hipótesis de carácter diplomático y económico en querer entablar contacto y apoyar a
los reinos peninsulares, una vez que vivían una fase de esplendor
con la apertura de nuevas rutas marítimas y comerciales.
Desde Évora, Münzer se desplazó a Lisboa y pasado algún tiempo emprendió su viaje por el centro y Norte de Portugal,
deteniéndose en Coimbra y Oporto, a camino de la ciudad sagrada de Santiago de Compostela (Galicia, España). Al observar
la narrativa, nos percatamos de un rasgo característico de este
tipo de relatos: la minucia de las descripciones de todo aquello
que el autor ve y, claro está, señala aquello que supuestamente
le llama más la atención o que le convenía registrar. Las informaciones que nos proporciona el viajero van más allá de sencillas descripciones del trayecto y de los lugares por donde pasa,
deteniéndose en pormenores sobre los paisajes, los recursos y
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Tavares, Estancia e imagen de Portugal
potencialidades de las distintas zonas peninsulares; las características de las ciudades, sus edificios, sus gentes y sus modos de
vida.
Sus descripciones suelen ser comparativas13 y claro está,
con puntos de referencia que eran conocidos del autor. Es lo que
ocurre con las ciudades visitadas por Münzer. Por ejemplo, Lisboa es comparada con Núremberg siendo ésta última más pequeña y menos populosa14. Es uno de los primeros impactos que
el alemán tiene cuando llega a Lisboa, procediendo a detallar su
“aspecto” y las distintas formas de organización del espacio de
ésta ciudad. Es decir, el paisaje urbano lisboeta estaba organizado del siguiente modo:
No es sino tres ciudades: primeramente, hay un monte altísimo, en cuya cúspide álzanse dos castillos o alcázares del rey, y bajo ellos y por las laderas,
las casas, monasterios, y demás edificios; a occidente, hay otro monte, cuya
parte oriental está, asimismo, poblada y, finalmente, en medio de estos dos
montes extiéndese una dilatada llanura, poblada también, que llega hasta el
mar15.
Lo mismo sucede con otras descripciones. Tal es el caso del
río Tajo que pasa por la ciudad de Santarém16 siendo comparado
con el río Mein (Meno), que atraviesa la ciudad alemana de
Frankfurt17. A parte de estos elementos, tenemos el registro de
13
MARÍNEZ GARCÍA, El Sacro Imperio, p. 108.
PUYOL, Jerónimo Münzer, p. 207.
15
Ibidem.
16
Ciudad portuguesa localizada en la orilla del Rio Tajo, al Norte de Lisboa.
17
“En este recorrido desde Lisboa a Santarém muy fecundo en todo y principalmente en aceite, vino, sal en la costa, como no hay nada más de desear.
Santarém está situada en la orilla del aurífero y famoso río Tajo, que es mayor
que el Mein por Fránckfort, y la riega hasta desembocar em aquel brazo de
mar.” PUYOL, Jerónimo Münzer, p. 216.
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que Münzer fue más lejos al enaltecer las potencialidades agrícolas y los recursos acuíferos y minerales del Tajo, tan importantes para el desarrollo de la ciudad de Santarém18.
Tras leer el relato del viaje de Jerónimo Münzer, podemos
observar que la ciudad de Lisboa ejerció un papel decisivo en el
desarrollo de las actividades marítimas y económicas, pues funcionaba como un punto geoestratégico en el Atlántico, de unión
entre el Norte de Europa y el Mediterráneo y también con el
Nuevo Mundo (África, en este caso, con la costa occidental, y
años más tarde, Asia y América, Brasil)19. Esta ciudad portuaria
actuaba como un centro de confluencia de rutas marítimas, distribución y redistribución de productos y mercancías de distintos
orígenes. Prueba de esto, son los comentarios de Münzer sobre
la capacidad emprendedora del rey, D. Juan II, en potenciar los
negocios20. En este sentido, comprobamos el dinamismo mercantil de la plaza lisboeta a través del testimonio del viajero, una
vez que nos aporta indicaciones sobre las rutas y las operaciones
comerciales desarrolladas con las ciudades portuarias italianas.
Es decir, llegaban a Lisboa productos provenientes de distintas
partes como telas de lana de colores, tejidos indiferenciados; capas, paños, utensilios de cobre y latón (salvas y calderas) procedentes de las islas del Atlántico Norte, Inglaterra e Irlanda y del
Norte de África (Túnez). Todas estas mercancías eran, posteriormente, reenviadas a Génova y a “Etiopia”, más en concreto, al
Norte del continente africano y a los entrepuestos comerciales
de la África Negra, Guinea y Sierra Leona.
18
Ibidem.
T. WALKER, Lisbon as a Strategic Haven in the Atlantic World, in W.
KLOOSTER, A.L. PADULA (eds.), Atlantic Perspectives, New Yorker, Prentice
Hall, 2000, pp. 60-75, C. BOXER, O Império Marítimo Português. 1415-1825,
Lisboa, Edições 70, 2001.
20
PUYOL, Jerónimo Münzer, p. 205.
19
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Si tenemos atención a la noticia del naufragio del navío,
bautizado de Águila, a consecuencia de un temporal en la desembocadura del Tajo, poco después de salir de Lisboa, con destino
a Italia, nos percatamos de la pérdida de un cargamento de azúcar21. Estamos delante de una mercancía codiciada en Europa y
bastante lucrativa para el reino portugués. Portugal jugó un papel
fundamental en este tipo de comercio como productor y exportador, porque disponía de plantaciones de azúcar de caña en los
archipiélagos atlánticos, en un primer momento, en Madeira y
Azores22 y, años más tarde, en Cabo Verde y en las islas de San
Tomé y Príncipe. Por otro lado, esta mercancía fue de especial
interés sobre todo por parte de mercaderes extranjeros, entre los
cuales se destacan los italianos23. Estos tenían plantaciones azucareras en la isla Madeira y además, eran consorcios, disponían
21
“El 20 de diciembre salieron cuatro naves como la real con ochocientos
marranos, y otro navío, llamado Águila, cargado con gran cantidad de azúcar
y doscientos hombres, mercaderes y peregrinos, con buen patrón.” Ibidem.
22
Otras fuentes nos testimonian la existencia de plantaciones de caña de azúcar y la importancia del comercio de estos productos. Subrayamos las siguientes: el relato del veneciano, Viagens de Luis Cadamosto e de Pedro de Sintra,
P. 93; G. FRUTUOSO, As saudades da terra., voll. II, III y IV, Ponta Delgada,
Instituto Cultural de Ponta Delgada, 1998, p. 53 y la documentación jurídica
de naturaleza local, las actas de las vereación de Funchal (Madeira) y de Ribeira Grande (isla de San Miguel, Azores), COSTA, Vereações da Câmara
Municipal do Funchal, pp. 2 ss.; SANTOS, Ribeira Grande, pp. 2 ss.
23
Sin ser exhaustiva, una vez que sobre los mercaderes italianos y su presencia en Lisboa es una temática conocida por parte de la historiografía portuguesa y extranjera, mencionaremos algunos ejemplos: M.J.F. TAVARES, Das
sociedades comerciais de judeus e italianos às sociedades familiares de
cristãos novos. Exemplos, in N. ALESSANDRINI, M. RUSSO, G. SABATINI, A.
VIOLA (eds.), Di Buon Affetto e Commerzio. Relações luso-italianas na Idade
Moderna, Lisboa, CHAM, 2012, p. 28; F.G. BRUSCOLI, Bartolomeo Marchioni “Homem de grossa a Lisboa e l’Impero portoghese, Firenze, Leo S.
Olschki, 2014; ID., I mercanti italiani, Lisbona e l’Atlantico (XV-XVI secolo)”, in J. SOLORZANO TELECHEA, B. ARIZAGA BOLUMBURO, L. SICKING
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de participaciones y tenían el usufructo de derechos reales en las
transacciones de determinados productos, entre ellos el azúcar.
Asimismo, solían contar con la colaboración de otros mercaderes, entre ellos los judíos, invirtiendo en desarrollo de redes de
negocios.
El testimonio de Münzer sobre el comercio de Lisboa demuestra, de forma clara, la existencia de rutas marítimas ya consolidadas, sobre todo, entre la plaza lisboeta y Génova, Irlanda e
Inglaterra. Sin querer detenernos demasiado en los negocios de
la comunidad italiana, estos hechos evidencian la preponderancia de sus miembros en el desarrollo de sociedades mercantiles,
desde el siglo XIV, con la llegada del genovés, Pesaña, en el
reinado de D. Dinis (1261-1325). Con él vinieron marineros,
corsarios y otros mercaderes (venecianos, florentinos, milaneses, a modo de ejemplo) dispuestos a entablar ejes comerciales,
aprovechando el beneplácito y los privilegios reales para que pudieran arraigarse en Lisboa y desenvolver la economía portuguesa volcada, en particular hacía al mar24.
(eds.) Diplomacia y comercio en la Europa Atlántica Medieval, Logroño, Instituto de Estudios Riojanos, 2015, pp. 57-80; ID, Bartolomeo Marchionni:
um mercador-banqueiro florentino em Lisboa (séculos XV-XVI), in N. ALESSANDRINI, P. FLOR, M. RUSSO, G. SABATINI (eds.), Le nove son tanto e tanto
buone, che dir non se pò. Lisboa dos italianos: História e Arte (sécs. XIVXVIII), Lisboa, Cátedra de Estudos Sefarditas «Alberto Benveniste», 2013,
pp. 39-60.
24
Subrayamos algunos ejemplos bibliográficos, con el objectivo de no ser
exhaustivos: G. VAIRO, La Lisbona di Manuel Pessanha, in N. ALESSANDRINI, P. FLOR, M. RUSSO, G. SABATINI (eds.), Le nove son tanto e tanto
buone, che dir non se pò. Lisboa dos italianos: História e Arte (sécs. XIVXVIII), Lisboa, Cátedra de Estudos Sefarditas «Alberto Benveniste», 2013,
pp. 19-37; V. RAU, Uma familia de mercadores italianos em Portugal no século XV: os Lomellini, in «Revista da Faculdade de Letras», vol. XXII, 2
(1957), pp. 57-80; ID., Bartolomeo Di Iacopo di Ser Vanni mercadorbanqueiro florentino «estante» em Lisboa nos meados do século XV, «Do
Tempo e da História», 4 (1971), pp. 97-117.
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Tavares, Estancia e imagen de Portugal
A Lisboa era frecuente llegar bienes originarios de la costa
occidental africana, tales como especias – pimienta y grana del
paraíso (cardamomo) -, oro, esclavos y colmillos de elefantes25
(marfil). Eran normalmente canalizados y transaccionados en la
Casa de la Mina, una especie de almacén, localizado en la zona
portuaria lisboeta, donde se concentraban, mayormente, las mercancías europeas y africanas26.
Fauna y flora de Portugal: el caso lisboeta
Cabe también señalar la presencia de indicaciones referentes a elementos faunísticos y botánicos que han llegado a sorprender a Münzer tanto en Évora, como en Lisboa. En ambos
centros urbanos, encontramos registros de pieles y de animales
exóticos embalsamados provenientes de la África Negra (Guinea), en exhibición en locales visibles para que todos pudieran
contemplarlos. Fue lo que pasó con la piel de serpiente27 colocada en la Iglesia de San Blas, en Évora.
En esta ciudad, podemos, igualmente, encontrar el registro
de un camello28, de tierna edad, en el patio del palacio real, proveniente del Norte de África. Sobre este ejemplar traído del continente africano, al mando del rey, podemos decir que se trata de
un animal ya conocido en Portugal, en el periodo medieval. Tenemos registros de camellos anteriores al siglo XV. Para ser más
25
PUYOL, Jerónimo Münzer, p. 205.
PEREIRA, Esmeraldo de Situ Orbis, p. 91; I. GONÇALVES, Na Ribeira de
Lisboa, em finais da Idade Média. ID., Um olhar sobre a cidade medieval,
Cascais, Patrimónia, 1996, p. 69; ID., Posturas municipais e vida urbana na
baixa Idade Média: o exemplo de Lisboa, in «Estudos Medievais», 7 (1986),
pp. 171-172; A.V. SILVA, As muralhas da Ribeira de Lisboa, vol. I, Lisboa,
Câmara Municipal, 1940, p. 98.
27
PUYOL, Jerónimo Münzer, p. 204.
28
Ivi, p. 205.
26
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exactos, en la documentación jurídica local de la ciudad de Torres Novas, en un apartado dedicado exclusivamente a la población mora29. Es decir, en los fueros extensos de este centro urbano, los camellos aparecen relacionados con las tributaciones
que la población musulmana tenía que pagar al rey30, por poseer
determinadas cabezas de ganado (vacas, ovejas, cabras, corderos, carneros y camellos). Estamos hablando del azaqui. O sea,
deberían entregar un animal por la posesión de cada cuarenta cabezas de ganado31. A parte del valor fiscal de los camellos, estos
animales fueron posiblemente utilizados en el transporte de mercancías, bien como los equinos32.
En los arrabaldes de Lisboa, registramos la posibilidad de
vislumbrar una cabeza de pelicano que se encontraba en la zona
de Santa María de la Luz. Veamos la descripción del ave y el
impacto que causó al autor:
Salimos a una milla de Lisboa, a Santa María de la Luz, muy conocida por
sus milagros, donde vimos un pico de pelícano, que es como el del onocrótalo,
pero no tan ancho, tiene una bolsa delante del orificio del estómago; es menos
29
“Item todollos mouros ou mouras que gados uacariis teuerem ou ouelhas
ou cabras e carneiros ou cordeiros ou camellos pagam azaqui que he chamado
a quarentena a saber de quarenta cabeças huma e sse menos ou mais forem
será aualiado todo a dinheirs. E delles pagará de quarenta huum a elRei e do
que ssonegarem pagaram em dobro e nom aueram outra pena nenhuma.”,
Portugaliae Monumenta Historica. Leges et Consuetudines, vol. II, Lisboa,
Academia Real das Ciências de Lisboa, 1856, p. 99, Título [12].
30
Ivi, pp. 88-100; M.S. SILVA, A. TAVARES, Animais Utilizados como Instrumentos de Trabalho e de Transporte, I. DRUMOND BRAGA, P. DRUMOND
BRAGA (eds.), Animais & Companhia na História de Portugal. Fazer a
História dos Animais, Lisboa, Círculo de Leitores, 2015, p. 90.
31
Portugaliae Monumenta Historica, p. 99, Título [12]; M.F. BARROS, A
Comuna muçulmana de Lisboa. Séculos XIV e XV, Lisboa, Hugin, 1998, p.
64; SILVA, TAVARES, Animais Utilizados, p. 91.
32
Ivi, p. 90.
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que el cisne y mayor que el ganso, y todas las plumas son cenicientas. Abunda
en Guinea33.
Además del pelicano, Münzer y sus compañeros pudieron
contemplar los dientes de un pez enorme, como si fueran unas
sierras, afamadas por cortar cualquier tipo de objectos34. A pesar
de estas referencias, desconocemos el tipo de pez que pudiera
ser, con estas características. Asimismo, en el coro del monasterio de frailes menores de la Santísima Trinidad35, en Lisboa, los
viajeros tuvieron la oportunidad de admirar un cocodrilo momificado de grandes dimensiones.
Otro ejemplo de animales exóticos que se podían apreciar
en Lisboa fue una pareja de leones36. Es probable que estos animales hubieran sido traídos del Norte de África o de Guinea, una
vez que, al cotejar otras fuentes, como el tratado de geografía Esmeraldo de Situ Orbis -, del portugués Duarte Pacheco Pereira, nos percatamos de la existencia de esta especie de felinos,
a propósito de la amenaza y de la peligrosidad de estos animales
para con los habitantes de la villa de Almancora37, en las cercanías del rio Salé (Marruecos), despoblándola. Ya la narrativa del
viaje de Luis Cadamosto nos ofrece otro panorama, puesto que
tenemos acceso a la descripción de la fauna que componía el paisaje de la isla de Arguin, (archipiélago del Golfo de Arguin, en
Mauritania), en la cual se podían apreciar leones, bien como leopardos y avestruces38.
33
PUYOL, Jerónimo Münzer, p. 209.
Ibidem.
35
Ibidem.
36
Ibidem.
37
PEREIRA, Esmeraldo de Situ Orbis, p. 59.
38
Viagens de Luis Cadamoso e de Pedro de Sintra, p. 103.
34
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Añadimos, por fin, el almizclero39, que fue utilizado como
materia prima para la confección de una bolsa, objecto de regalo
a Münzer, por parte de su anfitriona – la esposa de Martín
Bohemo de Brujas y capitán de las islas azorinas (Fayal y Pico)
-, igualmente, de origen alemán y residente en Lisboa. Sin embargo, este animal era ya conocido de Münzer, desde su instancia
en Barcelona40, ciudad donde lo vio por primera vez, en la casa
del Infante D. Enrique (hermano de D. Fernando de Aragón),
cerca de la zona de San Francisco. Lo describió de la siguiente
forma:
Un animal mayor que el zorro; cabeza, boca y orejas semejantes a las de armiño; color gris con manchas blancuzcas y oscuras; cola y pies de perro, bicho colérico y furioso. Estaba en una jaula de madera, sujeto con una cadena41.
Y, en la misma casa, Münzer tuvo la oportunidad de contemplar dos aves: un tordo de color azul y un papagayo gris. Fijémonos en las características de esta última ave:
Del tamaño de un grajo o de una urraca, con plumas blancas y grises en todo
el cuerpo, y especialmente en el cuello, como los halcones y gavilanes de
Alemania; tenía la cola de la longitud de la de un grajo, pero roja como el
minio, y el pico y las patas como todos los demás papagayos; habla también
como los otros, porque es verdadero papagayo, aunque de distinto género que
los verdes42.
Estos animales, como podemos constatar, ejercieron no
solo un papel importante de admiración, representación y exhibición, pues eran considerados exóticos y raros para las gentes
39
PUYOL, Jerónimo Münzer, p. 47.
Ibidem.
41
Ibidem.
42
Ibidem.
40
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de finales del siglo XV y, asimismo, eran vistos como pruebas
de la grandiosidad y de riquezas, entre las cuales las faunísticas,
que se podían encontrar en tierras extrañas del Nuevo Mundo,
desconocidas para los europeos. Por otra parte, los animales exóticos no dejaron de ser elementos simbólicos de ostentación de
poder y status43. Estamos delante de una forma de expresión con
matiz medieval, que dejó huella en las primeras décadas de la
Edad Moderna44. No es por acaso que los leones se encontraban
cerca de la residencia real.
A par de los animales exóticos, tenemos acceso a outras
informaciones sobre los recursos faunísticos endógenos de Portugal, que se podían encontrar en los ríos y en su costa atlántica.
Estamos hablando de especies piscícolas (pescados, sardinas y
atunes) y de cetáceos (delfines). Los peces eran primordiales
para el desarrollo comercial y para el suministro de las comunidades locales. Es el caso de las sardinas capturadas cerca de Setúbal. A partir del relato de Münzer podemos darnos cuenta de
la gran abundancia de esta especie, aunque debamos subrayar
que tal vez hubiera de la parte del autor una cierta confusión al
confundir este tipo de pescado con el arenque. Posiblemente, se
tratara de una comparación o de una manera de referirse a la sardina, llamándola de arenque45, una vez que este último pez es
43
A. PEREZ DE TUDELA, A.J. GSCHWEND, Renaissance Menageries. Exotic
animals and pets at the Habsburg courts in Iberia and Central Europe, in K.
ENENKEL Y P. SMITH (eds.), Early Modern Zoology: The construction of animals in Science, Literature and Visual Arts, Leiden, Brill, 2007, p. 423.
44
C. SIMÕES, The symbolic importance of the “Exotic” in the Portuguese
court in the Late Middle Ages, in « Anales de Historia del Arte », 24, (2014),
pp. 518-519.
45
“Oh, qué variadas clases de pescados, de arenques, que llaman sardinas,
que se cogen a cuatro millas en la ciudad marítima de Setúbal, en tanta abundancia, que hay bastantes para todo Portugal, para España, Roma, Nápoles y
Constantinopla. No hablo de los atunes, delfines y otros pescados.”, PUYOL,
Jerónimo Münzer, p. 211.
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característico del Atlántico Norte y del mar Báltico, llegando fácilmente a los mercados del Sacro Imperio Romano-Germánico.
Por otro lado, señalamos que se trata de una especie que existió
en gran cantidad, al igual que la sardina, refiriéndose a ella como
suficiente para suministrar las Penínsulas Ibérica e Itálica y
Constantinopla. Se puede también interpretar el interés de Münzer por la sardina con fines mercantiles ya que había de forma
copiosa en las aguas portuguesas, lueg podría ser una mercancía
rentable.
Ahora bien, podemos seguir nuestro análisis, refiriéndonos a la flora que llamó la atención a Münzer y a sus compañeros. Empecemos con los dragos que estaban ubicados en el monasterio de San Agustín y en el de frailes menores de la Santísima Trinidad. Estos árboles, además de ser originarios de Guinea como nos informa Münzer, eran característicos del paisaje
de los archipiélagos de la Macaronesia (Azores – isla de San Miguel46 -, Madeira47 y Canarias48). El viajero los describe como
unos árboles de grandes proporciones, proporcionándonos detalles sobre sus características y las propiedades de la madera y de
sus frutos. O sea: es un arbol
Alto como un pino, y su copa se divide en muchas ramas grandes con internodios, como la raíz del ácoro, del último de los cuales sale un gran haz de
hojas que se parecen a las del ácoro o a las del jaramago, gruesas y espesas.
Da racimos grandes y espesos, como los del datilero, con muchos granos
como avellanas, de color cetrino49.
46
FRUTUOSO, As saudades da terra, vol. IV, p. 307.
Ivi, vol. II, pp. 10 ss; Viagens de Luis de Cadamosto y de Pedro de Sintra,
p. 90.
48
Ivi., vol. I, pp. 52-53.
49
PUYOL, Jerónimo Münzer, pp. 208-209.
47
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Tavares, Estancia e imagen de Portugal
Cabe comentar las propiedades del drago, pues de su
tronco se puede obtener una resina («un jugo bermejo»50), de
color rojo, más conocida por sangre del drago. Si cotejamos otra
documentación, por ejemplo las descripciones isleñas del Atlántico, podemos observar que, en Canarias, este líquido, tipo goma,
se utilizaba normalmente para fins medicinales y para limpiar las
armas51. Tenemos aún la indicación de que los palillos de sauce,
cocidos en vino blanco, mezclado con sangre de drago, eran utilizados para limpieza de los dientes en España continental52. De
otro modo, en la isla de Porto Santo (archipiélago de Madeira),
la madera del drago tenía otros fines: fabricación de artículos de
menaje, construcción naval y gamellas utilizadas para el transporte de cereales53. Ya en Canarias, en el concejo de Gran Canaria (Las Palmas), la madera de este árbol solía ser utilizada en la
elaboración de pesas y medidas, aunque estuviera prohibida54,
según las ordenanzas municipales.
Por otra parte, podemos encontrar otro ejemplo referente
a la flora apreciada por Münzer. O sea, las cañas que solían ser
llevadas por las corrientes a las Azores y a Madeira a causa de
malas situaciones climatéricas en el Atlántico. Según nos elucida
el viajero, eran utilizadas en el fabricación de lanzas y de otros
artefactos que solían ser utilizados por las poblaciones africanas55.
50
Ibidem.
FRUTUOSO, As saudades da terra., vol. I, pp. 52-53.
52
Ibidem
53
“E em muitas partes desta ilha produziu a Natureza muitos dragoeiros, do
tronco dos quais se faz muita louça, e muitos são tão grossos, que se fabricam
de um só pau barcos que hoje em dia há, que são capazes de seis, sete homens,
que vão pescar neles, e gamelas que levam um moio de trigo.” Ivi, vol. II, p.
26.
54
MORALES PADRÓN, Ordenanzas del concejo, p. 109.
55
PUYOL, Jerónimo Münzer, p. 209.
51
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Lisboa de Münzer: una ciudad cosmopolita
Lisboa no fue solo un centro de atracción de productos y
de mercancías de distintas partes, sino también una ciudad cosmopolita, de confluencia de diversas gentes de distintos puntos
de Europa y de África. No obstante, en este apartado, no enfocaremos la presencia de determinados grupos asociados al comercio, como italianos, ingleses e irlandeses, puesto que ya los hemos mencionado anteriormente. Es, igualmente, importante señalar que en esta ciudad convivían varias comunidades étnicoreligiosas, entre las cuales los judíos y los musulmanes. Este hecho se puede apreciar, a través de una de las descripciones del
viajero:
La gente de ambos sexos es muy educada. Los más ricos, por lo general, son
alemanes y holandeses. Viven en la plaza y en la rúa Nova, que está construída al estilo alemán. La mayor parte se dedica al comercio. Se encuentran
aquí judíos inmensamente ricos, casi todos los mercaderes, y que sólo viven
del trabajo de sus esclavos56.
Al analizar la narrativa de Münzer, es, en primer lugar,
fácil detectar la presencia de la comunidad alemana en Lisboa,
tanto las personas residentes, como militares, marineros y mercaderes57, que estuvieron de forma puntual en la referida ciudad.
A modo de ejemplo, podemos, en primer lugar, señalar los contactos alemanes que Münzer poseía en Lisboa, entre los cuales,
sus anfitriones, Don Jodoco de Hurder, capitán de las islas azorinas (Fayal y Pico), socio y pariente de Don Martín Behaim
56
Ivi, pp. 213-214.
Sobre la comunidad alemana, más conocida por hanseática, en Lisboa, sabemos muy poco. Se trata de una temática que requiere estudios más minuciosos sobre sus actividades y modos de vida. En este sentido, recomendamos
el siguiente trabajo: A. MARQUES, Hansa e Portugal na ldade Média, Lisboa,
Editorial Presença, 1993.
57
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(1459-1507), cosmógrafo y constructor de los primeros globos
terrestres58.
La presencia alemana se hizo sentir más allá de la esfera
mercantil, llegando incluso Portugal a contar con la participación de bombarderos en las empresas militares, en el Norte de
África, en Alcácer Quibir. Encontramos, a modo de ejemplo, la
mención a Jacobo Suewus, natural de Waiblingen (condado de
Wiiemberg)59, según informaciones del viajero.
Asimismo, subrayamos la convivencia de Münzer con
marineros alemanes y las visitas a los barcos anclados en el
puerto de Lisboa. De esta forma, el autor del relato tuvo la posibilidad de visitar la nave de Bernardo Fechter, natural de Dánzig,
donde comió y confraternizó con sus conterráneos. En este sentido, podemos presentar otro ejemplo relacionado con la visita a
la nave, Regina, donde viajarían bombarderos alemanes, cuyo
capitán se llamaba Gregorio Piet, con destino al Reino de Nápoles. El objectivo de este viaje consistió también en llevar judíos
y conversos expulsos de Castilla, por los Reyes Católicos
(1492), hacía otros destinos lejos de la Península Ibérica, en búsqueda de una nueva vida, donde pudieran seguir sus preceptos
religiosos y sus costumbres en libertad60.
A partir de la afirmación del viajero alemán, estamos delante de una etapa de la migración forzada en masa de la población sefardí, con parada en Portugal, aunque esta situación ya se
hubiera hecho sentir unos años antes, con la implementación de
la inquisición en Castilla, en la década de 1480. Los judíos y
58
MARTÍNEZ GARCÍA, El Sacro Imperio, p. 113.
PUYOL, Jerónimo Münzer, p. 215.
60
F. SOYER, King Manuel I and the expulsion of the Castilian Conversos and
Muslims from Portugal in 1407: new perspectives, in «Cadernos de Estudos
Sefarditas» 8 (2008), p. 36; ID., King João II of Portugal “O Príncipe Perfeito” and the Jews (1481-1495), in «Sefarad», vol. 69, n. 1, (2009), pp. 8081.
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conversos castellanos se refugiaron en Portugal y permanecieron
en sus fronteras, provocando situaciones de conflicto no solo con
la mayoría cristiana, sino también con la comunidad judía residente en tierras lusas. A estos incidentes hay que subrayar la proliferación de epidemias, sobre todo en las ciudades de Lisboa y
Oporto que sirvieron para agudizar los momentos de tensión entre ambas comunidades.
Sin embargo, este problema nos lleva a plantear otras cuestiones sobre este caso de conflicto socioreligioso que involucró
a Portugal, con el rey D. Juan II. Con una simple lectura de la
fuente objecto de análisis, percibimos fácilmente que las afirmaciones de Münzer resultantes de su viaje a la Península Ibérica
(1494-1495), no coinciden con la fecha de la expulsión definitiva
de los judíos y de los musulmanes de Portugal, por el rey D. Manuel I (1469-1521), en octubre de 1497, decretada meses antes,
en 5 de diciembre de 1496. Este procedimiento fue fundamental
para la concretización del matrimonio de D. Manuel I con la Infanta Doña Isabel (1470-1498), hija de los Reyes Católicos, D.
Fernando de Aragón y Doña Isabel. No obstante, desconocemos
el registro de esta condición en el contracto matrimonial61. Si
61
Es bien posible que fuera cordada oralmente o que quedara redactada en
algún documento que, de igual forma, no tenemos conocimiento de él. D.
NOGALES RINCÓN, Em torno dos casamentos de D. Manuel I com as infantas
de Castela D. Isabel e D. Maria, in A.M. RODRIGUES, M.S. SILVA, AL. FARIA
(eds.), Casamentos da Família Real Portuguesa. Diplomacia e ceremonial.
vol. I, Lisboa, Círculo de Leitores, 2017, p. 316; F. SOYER, The persecution
of the Jews and Muslims of Portugal: King Manuel I and the End of Religious
Tolerance (1496-1497), Leiden-Boston, Brill, 2007, p. 177; M.J.F. TAVARES,
A expulsão dos judeus de Portugal: conjuntura peninsular, in «Oceanos», 29
(1997), pp. 11-20; ID., Os judeus em Portugal no século XV, vol. I, Lisboa,
Universidade Nova de Lisboa. Faculdade de Ciências Sociais e Humanas,
1982, pp. 159-203; M. KEYSERLING, História dos judeus em Portugal, São
Paulo, Livraria Pioneira Editora, 1971, pp. 74-104.
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cotejamos otras fuentes, como las ordenanzas de Lisboa, tenemos disposiciones concernientes a la salida de los judíos del
reino, fechadas de 1497, haciendo alusión a la disponibilidad de
embarcaciones existentes en el puerto para transportar las personas rumbo a las repúblicas italianas, Francia, Inglaterra, Flandes
y para el Sacro Imperio Romano Germánico62.
Es decir, Münzer nos describe una situación de expulsión
de los judíos y cristianos nuevos castellanos de suelo portugués,
en 1494, tres años antes de la salida forzada, determinada por D.
Manuel. Observemos:
Tienen un profundo temor al destierro, pues el rey de España ordenó al de
Portugal que exterminase a los marranos, lo mismo que a los judíos, o entraría
en guerra con él. El rey de Portugal, siguiendo el comportamiento del rey de
España mandó que antes de la fiesta de la Natividad del Señor salieran de su
reino todos los marranos, quienes han contratado la nave Regina, hermosísimo navío, y a mediados de diciembre marcharán a Nápoles. En cuanto a los
judíos, el rey les ha concedido una tregua de dos años íntegros para que vayan
saliendo del reino reposadamente. Tomando esto en consideración, los judíos
salen continuamente y buscan en el extranjeros lugares para vivir63.
Ahora bien, no resulta anómalo que los judíos y conversos
castellanos quisieran desplazarse a otros destinos, aunque que
hubiera embarcaciones disponibles para el debido efecto, desde
su expulsión otorgada por los Reyes Católicos. Según las palabras de Soyer64, resulta importante profundizar estas problemáticas para no caer en contradicciones y para conocer de forma
más minuciosa la política de D. Juan II ante los grupos étnicoreligiosos. Por otro lado, es pertinente evaluar las formas de control de la migración de refugiados judíos y conversos de Castilla,
en particular en la frontera portuguesa. Queda aún por aclarar los
62
RODRIGUES, Livro das Posturas Antigas, pp. 172-175.
PUYOL, Jerónimo Münzer, p. 256.
64
SOYER, King João II, pp. 80-93.
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procedimientos y las vivencias de estas personas en Portugal,
que fueron más allá de la necesidad de obtener permiso para salir
del reino y del pago de tributaciones al rey. A estas premisas, es
pertinente analizar y comparar la relación que el soberano D.
Juan II tenía con los judíos portugueses, los judíos y cristianos
nuevos castellanos.
Sobre esta minoría religiosa, el viajero alemán nos proporciona otra visión de la comunidad judía portuguesa, en Lisboa. Son descritos como poseedores de carácter insolente, dedicados al sector mercantil, a la trata y al cobro de los tributos
reales. Además, nos da a conocer su entorno, sobre todo de los
judíos más ricos. Con esta obra, nos enteramos que los judíos
más ricos vivían en la Rúa Nova juntamente con otros mercaderes de otras naciones65. Estos vivían en barrios propios, las juderías, donde disponían sus estructuras administrativas, jurídicas y
sus espacios de culto. Incluso Münzer nos evidencia su experiencia al visitar una sinagoga, demostrando en su relato las características del espacio y los ritos de esta comunidad religiosa. Veamos, entonces, con más detalle la descripción de la sinagoga:
Frente a la sinagoga hay un grande edificio, que cubre una gran vid, cuyo
tronco tenía cuatro palmos de circunferencia. ¡Oh, qué bellísimo lugar y cátedra para predicar, como en las mezquitas! Ardían en la sinagoga diez grandes candelabros, y en cada uno de ellos cincuenta o sesenta lámparas, sin
contar las otras. Las mujeres tenían una sinagoga aparte, en la cual ardían
también muchas lámparas66.
De igual forma, Münzer tuvo igualmente la oportunidad
de convivir con la minoría musulmana. Visitó su barrio, localizado junto a las murallas del castillo, la morería, y la mezquita67.
65
PUYOL, Jerónimo Münzer, p. 213.
Ivi, p. 207.
67
Ivi, p. 208.
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Conclusión
Esta obra, Viaje por España y Portugal en los años de
1494 y 1495, del alemán – Jerónimo Münzer - presupone un
desafío para el investigador, una vez que se trata de un relato que
requiere un estudio más pormenorizado de carácter interdisciplinar, contando, sobre todo con la participación de especialistas de
historia, literatura, lingüística, geografía, por ejemplo. La colaboración de distintos campos de conocimiento nos permitirá
ayudar, por un lado, a resolver las problemáticas y las diversas
hipótesis que todavía siguen latentes sobre esta obra y las motivaciones del autor y, por otro lado, proporcionar un analisis más
detallado de las descripciones, de los paisajes y de las vivencias
cotidianas de la Península Ibérica, de finales del siglo XV, en un
contexto particular de expansionismo, descubrimiento y de conocimiento de nuevos mundos más allá del Mediterráneo y del
océano Atlántico (África, América y, posteriormente, Asia).
Con este texto pretendemos dar a conocer el viaje de
Münzer por la Península Ibérica, enfocando, sobre todo su estancia en el reino portugués. Para cumplir nuestros objectivos,
tomamos como punto de partida su estadía en la ciudad Lisboa,
una vez que se trata de la urbe portuguesa donde el viajero permaneció más tiempo, proporcionando al lector más detalles sobre sus experiencias. Debido a la localización geoestratégica,
Lisboa funcionó como un punto neurálgico de confluencia de
productos y de personas de distintas orígenes de Europa y
África. Destacamos, a modo de ejemplo, la presencia de las comunidades de italianos, ingleses, irlandeses, flamencos y alemanes. Además, llamamos la atención para la convivencia de Münzer con las minorías étnico-religiosas, judíos y musulmanes. Relativamente a las mercancías, seleccionamos algunos ejemplos
de animales y de plantas provenientes de los nuevos territorios
oceánicos, de Portugal y de España.
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Davide, Nell’andare e venire per fuori Napoli
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Nell’andare e venire per fuori Napoli, per le fiere, e
piazze di questo Regno: produzione e circolazione di
ori e argenti nel Regno di Napoli nel XVIII secolo
di Diego DAVIDE
Università degli studi di Napoli “Suor Orsola Benincasa”
DOI 10.26337/2532-7623/DAVIDE
Riassunto: Nel XVIII secolo le botteghe orafe napoletane raggiungono un
primato artistico e professionale che gli consente di espandere il loro mercato
di riferimento alle province del Regno. A tal fine vengono costituite specifiche società per commerciare “fuori della capitale”. La varietà delle produzioni offerte è accompagnata da molteplici livelli qualitativi, necessari per
venire incontro alle esigenze di una clientela molto diversificata. Proprio in
provincia, inoltre, gli orafi napoletani si rifornivano di ori vecchio o rotti da
sciogliere e riutilizzare come materia prima per nuove produzioni.
Abstract: During the XVIII century, the neapolitan goldsmith workshops attained a professional and artistic record, which allowed them to expand their
target market to the provinces of the Kingdom. To reach the most distant locations, they established companies to trade «outside the capital». The variety
of jewels offered for sale is accompanied by multiple levels of quality capable
of intercepting the preferences of different kind of consumers. Furthermore,
in the provinces, the neapolitan goldsmiths supplied themselves with old or
broken gold to be solved and reused as raw material for new productions.
Keywords: Craft guilds, Pedlars, Goldsmiths
Sommario: Introduzione – Il mercato orafo del Regno: un monopolio napoletano? – Il commercio ambulante – Carriere orafe di successo: il sodalizio
Ursi Milano – Conclusioni – Fonti – Bibliografia
Versione definitiva ricevuta in data 30 gennaio 2018
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Davide, Nell’andare e venire per fuori Napoli
Introduzione
Nelle società di Ancien Regime, in cui la comunicazione
non verbale è una componente essenziale dell’interazione tra
ceti, suppellettili e accessori in oro e argento, percepiti da un
pubblico vasto ed eterogeneo come indicatori di benessere e ricchezza, sono posizionati al vertice delle preferenze dei consumatori1. La loro diffusione è stata documentata tra i ceti egemoni, che vi affidano la rappresentazione del proprio status e
della propria superiorità2, tra quelli medi che emulano i comportamenti ostentativi adottati dalla classe aristocratica3, presso la
Chiesa che trova nello sfarzo lo strumento con il quale sollecitare
la devozione4 e persino tra le classi subalterne5. Tutt’altro che
secondaria è poi la loro funzione economica: in quanto denaro
1
«L’acquisto di semiofori equivale - scrive Pomian - a quello del biglietto di
ingresso in un ambiente chiuso e al quale non si può accedere senza aver ritirato una parte di quello che si possiede dal circuito utilitario». K. POMIAN,
Collezione, in AAVV, Enciclopedia Einaudi, vol.I, Torino, Einaudi 1978, p.
352. Per un maggiore approfondimento sul tema del valore simbolico e comunicativo del consumo si veda M. DOUGLAS, B. ISHERWOOD, Il mondo delle
cose. Oggetti, valore, consumo, Bologna, Il Mulino, 1984.
2
Cfr. R. AGO, Costumi e ricchezze in età moderna, in A. ARRU, M. STELLA
(eds.) I consumi. Una questione di genere, Roma, Carocci, 2003, p. 37.
3
Cfr. A. CLEMENTE, Note sulla legislazione suntuaria napoletana in età moderna, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», (1) 2011, p. 134.
4
M. PAONE, I lunghi secoli dell’argento, in A. CASSIANO (a cura di), Il barocco a Lecce e nel Salento, Lecce, Galatina 1995, p. 174.
5
Secondo l’economista Ludovico Bianchini, già nel periodo normanno federiciano «molto argento ed oro lavorato […] possedettero quei popoli, talché
non si ristanno quasi tutti gli scrittori dal ricordare che fin le donne nell’infimo volgo se ne ornavano la testa, il collo, il petto». L. BIANCHINI, Storia
delle finanze nel Regno di Napoli, edizione a cura di L. De Rosa, Napoli,
Edizioni Scientifiche Italiane, 1971, p. 54.
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Davide, Nell’andare e venire per fuori Napoli
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fungibili, i beni in metallo prezioso costituiscono, per il possessore, una riserva alla quale attingere nei momenti di particolare
bisogno.
Con l’arrivo a Napoli di Carlo di Borbone (1734), il lusso
diventa intrumentum regni6 e l’intera città, nelle sue varie componenti, è chiamata a prendere parte a eventi pubblici di grande
valenza simbolica, in cui abbondano l’ostentazione e lo sfarzo7.
La politica di prestigio del nuovo sovrano si traduce in una
straordinaria occasione di crescita per l’artigianato orafo cittadino i cui esercenti sono riuniti, fin dal 1380, nella Nobile Arte
degli Orefici che é, insieme con la Nobile Arte della Seta e la
Nobile Arte della Lana, tra le più ricche e influenti del panorama
cittadino8.
Fatta questa breve premessa, volta a inquadrare sia l’oggetto sia il contesto di riferimento del presente lavoro, nelle seguenti pagine si illustrano le dinamiche di circolazione di oro e
argento lavorati nel mercato orafo napoletano a cavallo della
metà del Settecento9. La ricostruzione si è basata, quasi esclusi-
6
Cfr. A. CLEMENTE, Il lusso “cattivo”. Dinamiche del consumo nella Napoli
del Settecento, Roma, Donzelli, 2011, pp. 52, 192-193.
7
E. PAPAGNA, La Corte di Carlo di Borbone il re “proprio e nazionale”,
Napoli, Guida, 2011, pp. 12-13.
8
Indipendentemente dalla loro specializzazione, sono iscritti alla Nobile Arte
degli Orefici di Napoli con la qualifica generica di “orefici”, orafi e argentieri,
sia negozianti sia fabbricanti, gioiellieri, fabbricanti di galloni con esclusione
dei tiratori d’oro e argento e dei battitori di oro e argento che afferiscono a
corporazioni autonome.
9
Si veda a tal proposito B. BLONDE, E. BRIOT, N. COQUERY, L. VAN AERT
(eds.), Retailers and consumer changes in Early Modern Europe. England,
France, Italy and low countries, Tours, Presses Universitaires François Rabelais, 2005, pp. 5-6, nonché il breve saggio sui consumi scritto da Renata
Ago che sottolinea «sappiamo cosa la gente aveva in casa ma ignoriamo in
che modo quegli oggetti siano stati acquistati». AGO, Consumi, pp. 35-36.
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Davide, Nell’andare e venire per fuori Napoli
vamente, sui documenti di due fondi archivistici: i catasti onciari, che contengono significativi elementi di conoscenza della
struttura socioeconomica e professionale della popolazione del
Regno10, e i registri del notaio Quirizio Ioele. La scelta del notaio
non è casuale. Ioele roga a Napoli dal 1745 al 1787 in via della
Loggia di Genova, adiacente piazza degli Orefici. Per circa quarant’anni è il riferimento della corporazione, di cui dal 1772 è
anche cancelliere e segretario, e di alcune famiglie di negozianti
orafi, gli Ursi e i Milano in particolare, per i quali stende numerosi atti di costituzioni di società, compravendita e fornitura.
L’indagine condotta ci ha consentito di allargare le conoscenze
relative ai luoghi delle vendite, alla tipologia delle merci vendute, all’estrazione sociale degli acquirenti.
Il mercato orafo del Regno: un monopolio napoletano?
Secondo un orientamento storiografico ormai consolidato,
a partire dal XVII secolo Napoli diventa un grande centro di
esportazione di opere d’arte e di manifatture di lusso. Le botteghe orafe della capitale, concentrate nella “piazza” degli Orefici,
situata a ridosso della marina e delimitata a nord dalla Piazza
Portanova e dalla Giudeca Grande e a sud dalla Loggia di Genova11, in numero mai inferiore alle 200 unità12, conseguono nel
Regno, un indiscusso primato professionale e mercantile13.
10
M. MAFRICI (ed.), Il Mezzogiorno settecentesco attraverso i catasti onciari,
Salerno, ESI, 1986.
11
Archivio di Stato di Napoli (da ora in avanti ASNa), Pandetta Corrente, F.
1008, f. 13
12
Archivio Notarile di Napoli (da ora in avanti ANNa), notaio Quirizio Ioele,
registro anno 1776, atto 37.
13
Cfr. V. PACE, Per la storia dell’oreficeria abruzzese, in «Bollettino
d’Arte», 2 (1972), p. 84; E. MATTIOCCO, Gli antichi marchi dell’oreficeria
abruzzese, in «Quaderni di Archeologia, storia e arte» 1 (1997), p. 6; R.
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Davide, Nell’andare e venire per fuori Napoli
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Al fine di scoprire se tale primazia si sia tradotta in una
scomparsa delle botteghe di provincia o se, pure tra le enormi
difficoltà dovute a condizioni ambientali sfavorevoli, all’isolamento per inadeguatezza della rete viaria14, alla miseria delle popolazioni, un artigianato autoctono era presente e si opponeva
all’aggressiva invadenza dei prodotti provenienti dalla capitale,
è stato effettuato un saggio dei registri del catasto carolino.
Nell’impossibilità di interrogare la fonte per tutte le università del Regno, più di un migliaio, si è cercato di individuare
sulla base della letteratura secondaria, un certo numero di centri
in cui più alta era la provabilità che si fossero insediate botteghe
orafe15. Seguendo tali tracce sono stati individuate 58 università
e per 42 di esse la documentazione ha dato un riscontro positivo.
In ben 9 casi Rivello, Sulmona (9 addetti), Agnone, Pescocostanzo, Salerno (11 addetti), Bari (19 addetti), Chieti (23 addetti), Monteleone (50 addetti), Lecce (57 addetti) si può parlare
di una presenza orafa molto significativa. Con l’eccezione di Teramo (7 addetti), Brindisi (6 addetti), Barletta e L’Aquila (5 addetti), le restanti 29 Università presentano un numero di orafi
compreso tra 1 e 4 unità (Tabella 1). Il dato empirico dice però
poco o nulla se non viene letto alla luce della particolare condizione in cui versa il Regno in pieno Settecento. Il primo aspetto
che va considerato è quello demografico: a Napoli, capitale e
spose montanare, in A.M. TRIPPUTI, R. MAVELLI (eds.), Ori del Gargano,
Foggia, Grenzi, 2005, p. 85; S. DI SCIASCIO, Maestri argentieri napoletani
nella diocesi di Bari (secc. XVII-XVIII) in «Napoli Nobilissima» vol. XXXI,
fasc. I-II, (1992), p. 75.
14
G. CIRILLO, Protoindustrie mediterranee: città, verlagsystem nel Regno di
Napoli nell'età moderna, Volume IV, Roma, Ministero per i beni e le attività
culturali, 2012, p. 31.
15
Il termine bottega è qui utilizzato in accezione ampia e si riferisce, in generale, alla presenza di attività connesse all’artigianato orafo. Sui molteplici significati della parola “bottega” si veda N. COQUERY, Tenir boutique a Paris au
XVIIIe siècle. Luxe et demi-luxe, Paris, CTHS, 2011, pp. 23-29.
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Davide, Nell’andare e venire per fuori Napoli
metropoli europea vive circa 1/5 della popolazione regnicola16.
Da un punto di vista economico e produttivo, poi, alla Napoli
città di consumo e crocevia di scambi internazionali, fa da contraltare un contesto provinciale in cui prevale un’economia di
sussistenza e dove l’artigianato coinvolge una percentuale della
popolazione attiva non superiore all’8%. Fatte tali considerazioni ci sembra di poter affermare che il dato di maggiore evidenza emerso dallo spoglio dei catasti, ossia l’abissale differenza
esistente tra le duecento e oltre botteghe operative a Napoli e il
resto del Regno, esca fortemente ridimensionato e il numero degli esercenti, per quanto esiguo, potrebbe costituire una presenza
artigianale di quale peso. Dall’analisi abbiamo conferma della
capacità dell’aggregato urbano di fare da sprone allo sviluppo
delle attività secondarie oreficieria compresa. Ciò spiega come
mai a Lecce, che ha una popolazione numerosa e dove le manifestazioni mondane e religiose tengono alta la domanda, sia di
generi di consumo sia di ornamenti, vi sia una ragguardevole
presenza di orefici. Stesso discorso può essere fatto per Monteleone e per Chieti che, sede di Regia Udienza dal 1520 e arcidiocesi dal 1526, è la residenza di importanti famiglie aristocratiche
non solo del patriziato chietino ma anche di importanti casate
settentrionali17.
È opportuno chiedersi, a questo punto, quale sia il ruolo
delle botteghe provinciali, in che rapporto siano con le omologhe
della capitale, se è lecito parlare di antagonismo o è più giusto
esprimersi nei termini di collaborazione.
Le indicazioni fornite dai documenti, sembrano suggerire
che le botteghe di provincia operino come rivendite delle meglio
16
CIRILLO, Protoindustrie, p. 15.
Il dato napoletano va a corroborare la tesi di Daniel Roche per il quale:
«l’urbanisation et sa capacité transformatrice ont précedé l’industrie créant
l’espace d’une consommation plus vaste». D. ROCHE, Préface in COQUERY,
Tenir boutique, p. 13.
17
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Davide, Nell’andare e venire per fuori Napoli
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attrezzate botteghe della capitale. Facciamo qui alcuni esempi:
Domenico e Antonio Autieri, con bottega nella città di Reggio,
stipulano con il negoziante orefice18 Francesco Canonico, di Napoli, un accordo in base al quale quest’ultimo si impegna a rifornirli di ori, argenti e gioie, “bollati con i marchi dei consoli
dell’arte degli orefici della città di Napoli” per un totale di ducati 2876,93. Tra le merci acquistate troviamo: calici, sottocoppe, candelieri, caffettiere, incensiere, saliere, spade indorate,
spade d’argento, orecchini ed anelli di varia fattura19. Canonico
è anche il fornitore di Pasquale Iannucci, orefice di Campobasso
“di passaggio in Napoli” che acquista ori e argenti lavorati per
un totale complessivo di 2000 ducati20. A lui si rivolgono pure
Gasparo e Francesco Ferro, “orefici commoranti nella città di
San Severo, et al presente in Napoli per causa dell’infrascritto
[negozio]” che acquistano per circa 1143 ducati “fioccagli, coretti, catenaccelli, anelli, perle, abitelli, posate […] tutti mercati
con bulli dei magnifici consoli”21.
Dall’orefice napoletano Giuseppe Fumo invece, nel luglio
del 1787 Giuseppe Lombardi dell’università di S. Germano, in
Terra di Lavoro, acquista 133 anelli d’argento, 134 anelli di rubini e altri piccoli oggetti per una spesa complessiva di 300 ducati22. Il rapporto commerciale tra i due è ben consolidato. Il
Lombardi dichiara, infatti, di essersi, negli anni, ripetutamente
rivolto al Fumo per l’acquisto non solo di gioielli ma anche di
18
A differenza dei “fabbricanti” non si dedica alla realizzazione di oggetti in
oro ed argento ma esclusivamente alla vendita.
19
ANNa, notaio Quirizio Ioele, registro anno 1778, atto 29.
20
ANNa, notaio Quirizio Ioele, registro anno 1781, atto 25.
21
ANNa, notaio Quirizio Ioele, registro anno 1783, atto 22.
22
ASNa, Sacro Regio Consiglio, Ordinamento Zeni, F. 134, anno 1787.
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Davide, Nell’andare e venire per fuori Napoli
“ferri per il mestiere” per una spesa complessiva di circa 6.200
ducati23.
Anche il catasto carolino fornisce interessanti indicazioni
in tal senso. Nella bottega del leccese Domenicantonio Pascali,
sita al Portaggio di San Martino, si trovano ori e argenti, lavorati
e non lavorati, per un ammontare di 1200 ducati. La quasi totalità
di queste merci è di proprietà del suo corrispondente napoletano
l’orefice Nicola Innocenzio Viva. Ci sono poi Giuseppe Ranieli
e suo figlio Rosario, di Monteleone, nella cui bottega sono in
vendita gioie in oro e argento per un capitale complessivo di
1000 ducati, la metà dei quali sono, però, dell’orafo napoletano
Andrea Cappuccio24.
Sarebbe tuttavia riduttivo pensare alla provincia esclusivamente nei termini di frontiera di espansione commerciale, poiché
questa costituisce un ampio bacino di approvvigionamento della
materia prima. Da un documento di bilancio fatto presentare alla
Regia Corte di Trani dall’orefice negoziante Nicola Ursi a seguito del decesso dell’orefice Mengia, suo partner commerciale,
emerge che il defunto era solito ricevere da Napoli, tramite i procacci, fibbie, anelli, collane, e a sua volta inviava nella capitale,
cassette di ori e argenti vecchi destinati alla fusione e al riutilizzo25. A dimostrazione che la pratica fosse diffusa anche in
altre province c’é la supplica inviata al Re Ferdinando IV da tale
Fortunato de Felice; costui si oppone alla richiesta del ceto orafo,
che sulla scorta di un aumento del prezzo delle monete estere
chiede un adeguamento del prezzo di vendita dei preziosi, e sottolinea come la materia prima utilizzata per la creazione di nuovi
lavori non sia costituita da monete forestiere, ma da ori vecchi o
23
ASNa, Sacro Regio Consiglio, Ordinamento Zeni, f. 134, “Maestro Giuseppe Fumo cum Maestro Giuseppe Lombardi”, anno 1787.
24
ASNa, Catasti onciari, Monteleone, voll. 6622 a 6626.
25
ANNa, notaio Quirizio Ioele, registro anno 1777, atto 26.
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Davide, Nell’andare e venire per fuori Napoli
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rotti inviati dalle province a Napoli affinché siano fusi e riutilizzati26. Una conferma arriva, infine, da Raffaele Pepe, studioso di
economia e redattore, per il Molise, della statistica murattiana,
che parla della capitale come del luogo gli orefici molisani provvedono a cambiare l’oro vecchio con il nuovo.
Il commercio ambulante
A contribuire alla diffusione dei prodotti partenopei in provincia, vi sono quei negozianti orafi napoletani che, riempiti i
loro forzieri, raggiungono personalmente i luoghi di commercio.
Nei registri del notaio Quirizio Ioele le società “di orefici negozianti, e ferianti” costituite nella capitale con il precipuo scopo
di “andare e venire […] per le fiere e Piazze di questo Regno
secondo gli ordini di lettere messive” sono numerose27. Tali negozi “ambulanti” sono, sotto il profilo giuridico, delle societas
in cui un socio finanziatore si lega a uno o più soci minoritari
che si accollano l’onere di viaggiare con le merci e di commerciarle.
È il socio principale a decidere “il cammino [che] devono
fare per fuori […] Napoli” gli altri soci, che investono nella società esclusivamente “le loro proprie persone, esercizij personali, fatiche [per] vendere, comprare, barattare i lavori”28.
Il loro rapporto, destinato a concludersi generalmente
dopo un anno, è regolato da una serie di “patti” che riguardano
sia la gestione del negozio, sia quella del tempo libero. I soci
minoritari devono “unitamente e non divisamente negoziare la
dote di questa suddetta [società e] devono essere intesi in tutti li
26
ASNa, Pandetta Nuova II, F. 1008, f. 14, fol. 57 vº.
Sulle società per la vendita in provincia si veda anche A. MASSAFRA (ed.),
Produzione, mercato e classi sociali nella Capitanata moderna e contemporanea, Foggia, Amministrazione centrale, 1984, pp. 82-84.
28
Ibidem.
27
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negozi […] restando con ciò proibito a ciascuno di essi di giocare a qualunque sorta di gioco tanto in bottega quanto in casa
terza, né tener conversazione, o pure andarci, anzi li medesimi
s’obbligano a non partirsi dalla lor bottega così di giorno come
di notte”29. Hanno inoltre l’onere di documentare tutte le vendite
effettuate e, a richiesta, renderne conto al finanziatore. I frutti
della società sono divisi tra i soci, in proporzione all’impegno
profuso, all’atto di scioglimento della stessa. In allegato all’atto
di costituzione troviamo l’elenco di tutti i lavori consegnati dal
finanziatore agli orefici “ferianti”30. Vale la pena sottolineare la
massiccia presenza di gioielli e accessori femminili (piogge,
pioggini, ficocelle, cannacche, verghette, indirizzi con diamanti,
croci ed orecchini), seguiti da suppellettili liturgiche (acquasantiere con e senza aspersore, candelieri, ostiere, reliquiari, crocifissi, incensiere, pissidi), accessori da uomo (fibbie per cravattini, bastoni, spade e sciabole di varie dimensioni e fattura, le
diffusissime tabacchiere), e ancora anelli “da creatura”, “da figliola”, ciappe, bottoni, pettenesse, anelli con “fede, santi, serpe,
cristi e morte” insieme a un gran numero di apparati quali sottocoppe, giare per sorbetto, bicchieri “alla marocchina”, saliere
“ad uso di Boemia” caffettiere, cucchiaroni nuovi e usati e gli
immancabili “nettadenti”.
La varietà delle merci, non dissimili da quelle che troviamo nelle botteghe napoletane, fa pensare, oltre a un’uniformità di gusto, a una clientela che, proprio come quella partenopea, si presenta varia e composita: non solo famiglie aristocratiche o classe media, ma anche cappelle, monasteri, e nelle aree
manifatturiere piccoli artigiani e lavoratori alla giornata31. Basta
dare una lettura alla lista dei debitori della società Milano-Ursi
29
ANNa, notaio Quirizio Ioele, registro anno 1776, atto 20.
Così vengono chiamati i negozianti orefici dediti alla vendita ambulante.
31
Sui salari dei lavoratori dei poli manifatturieri del Mezzogiorno, CIRILLO,
Protoindustrie, p. 17.
30
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del 1756, per avere conferma di quanto appena affermato: accanto ai notai Francesco Antonio del Conte e Gervasio Pacileo
di Foggia, al conte Angrissola di Trani, troviamo Diomede Valentino doganiere di Castel di Sangro, il “tavernaro” Michele Garofalo di Foggia, il barbiere Pietro Pascale di Canosa, il cocchiere Pietro Litterio, la serva del governatore di Canosa e il
servo dell’abate Ciancarella.
Tra i committenti di maggiore prestigio troviamo invece il
capitolo della chiesa di S. Cataldo della città di Barletta che affida all’orefice Saverio Manzone, per il tramite di Nicola Ursi,
la realizzazione della statua del “glorioso San Cataldo”. L’argentiere si impegna a realizzare nella sua bottega, insieme con i suoi
“mastri e lavoranti”, ed a consegnare nell’arco di un anno una
statua in argento del peso di 65 libbre e del valore di 1383.62
ducati32. Il santo, a figura intera, sostenuta da uno scheletro in
ferro, con “pastorale con sua mazza tutta indorata, ed alcuni fogliami d’argento framischiati”, doveva essere poggiato su una
pedana con ossatura in legno rivestita di rame dorato33
Carriere orafe di successo: il sodalizio Ursi Milano
Il negoziante orefice Domenico Milano è, tra quelli presenti nelle carte del Ioele, uno dei più attivi finanziatori di società
per la vendita ambulante. Vi compare per la prima volta l’8 ottobre 1745 quando costituisce con Nicola Ursi34 una societas per
32
ANNa, notaio Quirizio Ioele, registro anno 1775, atti 37 e 63.
ANNa, notaio Quirizio Ioele, registro anno 1773, atto 56 e registro anno
1774, atto 12.
34
Nicola Ursi deriva le sue fortune dalla costituzione di società per la vendita
a Napoli ed in provincia di ori, argenti e gioie. Alla morte del padre Francesco, anch’egli orefice, ne eredita insieme ai fratelli Carl’Antonio e Antonino
33
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la vendita di oro, argento e gioielli presso “le fiere e le piazze del
Regno”35. Dei 10.137,28 ducati di cui è composto il capitale,
804,88 sono crediti concessi da Nicola in varie località della
Terra d’Otranto e di Terra di Bari36 nell’ambito di una società
tra loro costituita nell’anno precedente, per mano del notaio Antonio Castellano. Le parti si accordano affinché i profitti vengano uniti a quelli realizzati da Gennaro Tortorella, finanziato
dal Milano con un capitale di 10.315 ducati di cui 1.087, 25 in
crediti da lui concessi nell’ambito di un’altra società stipulata
pure questa l’anno precedente, sempre per mano del notaio Castellano. Questa volta però le merci risultano essere state vendute
tra la Capitanata, il Molise e l’Abruzzo, la qual cosa lascerebbe
intendere che Milano, nel finanziare le due società abbia avuto
un’unica strategia di vendita. Egli da un lato, facendo percorrere
ai soci direttrici diverse, punta a non creare concorrenza tra loro
e dall’altro tenta di raggiungere, nello stesso arco temporale, più
luoghi del Regno. Un altro particolare interessante riguarda poi
la dislocazione di questi centri che, pur con qualche eccezione,
sono situati lungo due delle principali direttrici del Regno, la
strada delle Puglie e la strada degli Abruzzi e ciò dimostrerebbe
lo stretto legame esistente tra sviluppo della rete viaria e stato
dei commerci. Le società sono rinnovate, nelle medesime forme,
nel 1746 e nel 1747 mentre nel 1748 si stabilisce che i profitti
dovranno essere prima uniti a quelli spettanti a Milano dalla società Miliano-Lisiano-Pino e poi divisi tra lui, Ursi e Tortorella.
l’attività: al primo dei tre, Carl’Antonio, è affidata la conduzione della bottega paterna, ma è insieme al secondo che Nicola realizza i primi “negozi”.
ANN, notaio Quirizio Ioele, registro 1770, atto 47.
35
Vedi tabella 2, società stipulata in data 8. 10. 1745.
36
Risultano documentate vendite a Barletta, Bitonto, Altamura, Medugno,
Minervino, Venosa, Andria, Corato, Terlizzi.
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Se nel 1749 e nel 1750 i tre negozianti si rivolgono, per il rinnovo delle società, al notaio Giovan Battista D’Aveta37, nel 1751
ritornano da Ioele per la firma di una conventio38 in base alla
quale Domenico Milano si obbliga a rinnovare per sei anni continui la società con Ursi e Tortorella, restando proibito a questi
ultimi di associarsi con altri negozianti orefici o vendere lavori
di altri. Nel 1756, alla morte di Gennaro Tortorella prende il suo
posto Giovan Battista Milano, figlio di Domenico, che 14 anni
più tardi suggella il sodalizio professionale sposando Gaetana
Ursi, figlia di Nicola. Di grande interesse è anche il contratto
prematrimoniale rogato in occasione di tale matrimonio. Ben
2000 ducati, dei 2500 che compongono la dote, sono rigirati da
Giovan Battista a Nicola affinché li investa, per i successivi tre
anni, nelle sue attività di orefice pagando semestralmente ai coniugi un interesse del 5%39. Nell’agosto del 177240, del 1773, del
1774, suocero e genero si legano in nuove societas, fino a
quando il 9 settembre 1775 fondano la “Ragion cantante Nicola
Ursi e Giovan Battista Milano”, una tipica societas omnium bonorum per la gestione della bottega napoletana e di quelle ambulanti41. Nella nuova società, Ursi investe le intere sue sostanze,
circa 64.000 ducati mentre Giovan Battista vi pone un credito di
808 ducati che vanta nei confronti di Nicola, i 2.000 ducati portati in dote da sua moglie Gaetana, nonché il proprio impegno
nel condurre personalmente le attività commerciali a Napoli e in
provincia. Dal documento si evince anche che la famiglia gode
di una condizione agiata: i due nuclei convivono in un appartamento al quarto piano di un palazzo di proprietà dell’Ursi sito
37
È questa la ragione per cui non sono presenti nella tabella 2.
ANNa, notaio Quirizio Ioele, registro anno 1751, atto 40.
39
ANNa, notaio Quirizio Ioele, registro anno 1770, atto 33.
40
ANNa, notaio Quirizio Ioele, registro anno 1773, atto 39.
41
ANNa, notaio Quirizio Ioele, registro anno 1775, atto 41.
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nel Largo degli Orefici, hanno a disposizione un cavallo, un calesse, diversi servitori, facchini, donne di servizio, una nutrice.
La società dura ben più a lungo dei due anni stabiliti ed è ancora
operativa nel 1779, quando, poco prima di morire, Nicola Ursi
fa testamento42 nominando la figlia come sua erede universale.
Oltre agli investimenti paterni, Gaetana entra in possesso di un
intero edificio situato nel Largo degli orefici e composto da 4
appartamenti grandi, 5 botteghe per uso di orefice e di un palazzo
con giardino e cappella sita a Resina. La scomparsa di Nicola
non muta le strategie commerciali della famiglia anzi l’attività
resta florida e Gaetana partecipa attivamente ai negozi, facendo
le veci del marito in sua assenza da Napoli43. Tra il 1786 ed il
1787 Giovan Battista Milano ricopre il ruolo di governatore e
tesoriere del Conservatorio di Santa Maria della Purità e dei
Monti gestiti all’Arte degli Orefici44.
Conclusioni
Dal XVI secolo il nuovo ruolo assunto da Napoli crea un indotto
tale da fare da volano allo sviluppo delle botteghe cittadine che
raggiungono una affermazione professionale e artistica che consente loro di monopolizzare il commercio regnicolo. La Napoli
corpo privilegiato, mercato internazionale, centro politico amministrativo, “testa che esangua il corpo”, con il suo straordinario potere di attrazione chiama a sé uomini ma anche idee e competenze, privando la provincia di risorse economiche ma anche
artistiche e di un notevole spirito di intraprendenza. Sono le
stesse condizioni per cui Napoli fagocita e schiaccia il resto del
42
ANNa, notaio Quirizio Ioele, registro anno 1779, atto 90.
ANNa, notaio Quirizio Ioele, registro anno 1780, atti 25 e 26.
44
ASNa, Pandetta Prima Istanza, F. 6, f. 3.
43
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Regno a mettere il ceto nelle condizioni ideali per realizzare l’indiscusso primato. Tra Sei e Settecento le botteghe di provincia
non solo non riescono a esprimere propri stilemi ma non sono né
strutturalmente, né artisticamente attrezzate per competere o
solo operare parallelamente con quelle della capitale. L’abilità
dei maestri si giova, per le commesse più prestigiose, della collaborazione di artisti del calibro del Vaccaro, del Sammartino,
del Solimena che non disdegnano di realizzare modelli e seguire
personalmente la realizzazione delle opere. L’abilità dei maestri
si giova, per le commesse più prestigiose, della collaborazione
di artisti del calibro del Vaccaro, del Sammartino, del Solimena
che non disdegnano di realizzare modelli e seguire personalmente la realizzazione delle opere45. A Napoli ogni officina è un
cosmo sinergico di conoscenze, competenze ed è questo che
manca in provincia e che segna inevitabilmente la fine “artistica”
di quelle esperienze. A ciò si aggiunga una legislazione in materia che, sin dall’epoca vicereale, al fine di controllare la circolazione dei metalli preziosi, limita fortemente la lavorazione fuori
dalla capitale. Ciò detto, se lontano da Napoli non troviamo maestri in grado di operare con la stessa perizia dei Guariniello e dei
Manzone, non tutte le officine della capitale raggiungono livelli
di eccellenza. Un folto gruppo opera allo stesso livello di quelle
provinciali, come rivenditori di botteghe più ampie e fornite, o
per la fattura di piccoli lavori per i quali è necessario un quantitativo non cospicuo di metallo fino, a volte fornito dallo stesso
committente che richiede la fusione di oggetti o ornamenti non
più al passo con la moda del tempo.
45
Sulla collaborazione tra il Solimena e alcune affermate botteghe napoletane
si veda E. CATELLO, Francesco Solimena disegni e invenzioni per argentieri,
in «Napoli Nobilissima», 24 (1985), 3-4.
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È poi necessario sottolineare come le botteghe di provincia, condotte da orafi del luogo, pur essendo la titolarità ascrivibile all’orafo napoletano, configurano un rapporto di “filiazione” che va a frantumare gli obblighi di residenza nella
“piazza”. Crolla l’immagine della bottega abitata da lavoratori
rigidamente inquadrati nei tre gradi di maestro-lavorante-garzone, etichette queste che mal si adattano ai molteplici ruoli e
mansioni dei lavoratori che popolano l’atelier. Una realtà quindi
che non è contemplata nello statuto dell’Arte, ma che esiste e
che attesta anche per la Nobile Arte degli Orefici di Napoli
quella flessibilità, quella capacità di adattamento, che gli storici
hanno oramai riconosciuto al mondo corporativo.46
Ben più ampio dei confini segnati dalle mura cittadine, il
mercato di riferimento degli orefici napoletani è, quindi, per dimensioni spaziali e per tipologie di consumatori, ampio e segmentato. Se da un lato, la gamma dei prodotti messi in vendita
fa pensare a un’uniformità di gusto, dall’altra la notevole diffusione di preziosi di oro e argento di qualità inferiore a quella stabilita delle leggi del Regno, ci induce a credere che la vera discriminante di acquisto, tra una clientela facoltosa e una di scarse
potenzialità economiche, sia nella quantità di metallo fino contenuto nell’oggetto acquistato e nell’accuratezza della manifattura. E’ stato accertato che i preziosi in circolazione nel Regno
di Napoli nella seconda metà del secolo XVIII rispondano a più
livelli qualitativi. Mentre nel caso di clienti facoltosi, che si rivolgono a botteghe affermate, sono essi stessi a chiedere il rispetto delle norme di produzione, negli altri casi le botteghe sono
costrette ad adattare la loro offerta a una domanda che, pur di
contenere la spesa, si accontenta di una manifattura grossolana
46
F. TRIVELLATO, Fondamenta dei vetrai. Lavoro, tecnologia e mercati a Venezia tra Sei e Settecento, Roma, Donzelli, 2000, pp. 1-16.
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o di una qualità più bassa. Ciò dimostra che, nonostante la specialità della merce oggetto della trattazione, le dinamiche di vendita e consumo non sono dissimili da quelle di molte altre manifatture di età moderna.
Tab. 1: Sintesi riepilogativa catasti Carlo di Borbone47
Provincia
Università
Addetti
Abruzzo cit.
Chieti
23
Abruzzo cit.
Ortona
4
Abruzzo cit.
Vasto
4
Abruzzo cit.
Pescara
2
Abruzzo cit.
Castiglione M.M.
1
Abruzzo cit.
Lanciano
3
Abruzzo cit.
Pescocostanzo
11
Abruzzo cit.
Sulmona
9
Abruzzo cit.
Teramo
7
Totale provinciale
65
Abruzzo Ult.
Penne
2
Abruzzo Ult.
L’Aquila
5
Totale provinciale
Molise
Molise
Totale provinciale
Capitanata
Capitanata
Capitanata
Totale provinciale
Basilicata
Basilicata
Basilicata
Basilicata
Basilicata
Basilicata
Totale provinciale
47
Campobasso
Agnone
S.Marco Lamis
Troia
Foggia
Matera
Rivello
Potenza
Genzano
S. Chirico Raparo
Senise
8
3
11
14
1
1
2
4
2
9
3
1
1
1
17
Anno
1754
1751
1747
1754
1752
1749
1748
1754
1756
1754
1747
1753
1753
1745
1741
1754
1753
1753
1748
1749
1753
Rielaborazione da ASN, Regia Camera della Sommaria, Catasti Onciari.
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Terra di Bari
Terra di Bari
Terra di Bari
Totale provinciale
Terra Otr.
Terra Otr.
Terra Otr.
Terra Otr.
Totale provinciale
Principato cit
Principato cit
Principato cit
Principato cit
Principato cit
Totale provinciale
Terra Lavoro
Terra Lavoro
Totale provinciale
Calabria cit.
Calabria cit.
Totale provinciale
Calabria ult.
Calabria ult.
Calabria ult.
Calabria ult.
Totale provinciale
Totale complessivo
Trani
Bari
Barletta
Lecce
Brindisi
Taranto
Otranto
Salerno
Padula
Agerola
Sanseverino
Cava
Piano Sorrento
Vico Equense
Cosenza
Rossano
Catanzaro
Monteleone
Reggio
Oppido mam.
1
19
5
25
57
6
3
3
69
11
1
1
3
1
15
3
1
4
11
1
12
2
50
1
4
56
281
Tab. 2: Società per la vendita in provincia48
Data
FiParti
DuMerci
nanrata
ziatore
1753
1753
1754
1754
1754
1755
1744
1755
1749
1752
1755
1755
1754
1756
1743
1749
1746
1742
1755
Crediti
48
Tot.
Cap.
Rielaborazione dai registri di Quirizio Ioele. ASN, notaio Quirizio Ioele,
aa. 1745-1756.
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Davide, Nell’andare e venire per fuori Napoli
8-10-1745
15-101745
8-10-1746
19-101746
27-7-1747
22-8-1747
7-10-1747
7-11-1747
22-8-1748
d. milano
d. milano
d. milano
d. milano
g.
scarpato
d. milano
nicola
ursi
g. tortorella
n. ursi
d. milano
d. milano
d. milano
g.tortorella
nicola
ursi
n. lisiano
ignazio
pino
g. tortorella
n. ursi
a. sellari
23.8.1749
d. milano
1.10.1749
d. milano
19.4.1750
ignazio
pino
20.10.175
3
d. anzalone
g. tortorella
m. sorica
n. lesiano
n.ursi
g.tortorella
m.buo
nomo
g. buonomo
t. ascolese
511
1
anno
1
anno
1
anno
1
anno
1
anno
9332.40
804,88
9228.61
10570.06
1.087,2
5
753,09
8700.35
680,01
10.137,2
8
10.315,8
6
11.323,1
5
93.80,36
2.700,00
-
2.700,00
1
mes
e
1
anno
1
anno
non
stabilita
6890.00
81,16
6.971,45
9203.07
507,41
9.710,48
9.772,47
162,62
5.892,54
-
10.137,2
8
5.892,54
1
mes
e
1
anno
8.383,51
-
8.353,51
15.138,5
3
1.701,6
2
1.6840,1
5
1
anno
-
-
14.123,7
5
1
anno
11.705,3
2
1.001,5
8
11.705,3
2
Viaggiatori. Circolazioni scambi ed esilio, Anno 1, Numero 2, marzo 2018
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512
17-3-1754
Davide, Nell’andare e venire per fuori Napoli
g.
ascolese
a. starace
s. starace
18-9-1754
a. starace
s. starace
21-101754
d.azal
one
g.
ascolese
D.
milano
d. anzalone
g.
ascolese
d. milano
g.
milano
11-4-1755
29-101755
1756
n.
ascolese
s. desiderio
g.
scarpati
s. desiderio
g.
scarpati
t. ascolese
n.
ascolese
n. ursi
g. tortorella
t. ascolese
n.
ascolese
nicola
ursi
g.b.mil
ano
5
mesi
11.145,6
7
-
11.145,6
7
10
mesi
12.647,3
8
89,21
12.736,5
9
1
anno
11.835,6
3
847,25
10.988,3
8
1
anno
24.780,0
6
-
24.780,0
6
1
anno
10.425,2
7
-
10.425,2
7
1
anno
16.633,1
5
2843,58
19.476,7
3
Viaggiatori. Circolazioni scambi ed esilio, Anno 1, Numero 2, marzo 2018
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Davide, Nell’andare e venire per fuori Napoli
513
Fonti
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Registro anno 1751, atto 40
Registro anno 1770, atto 33, 47
Registro anno 1773, atto 39, 56
Registro anno 1774, atto 12
Registro anno 1775, atti 37, 41 e 63
Registro anno 1776, atto 20, 37
Registro anno 1777, atto 26
Registro anno 1778, atto 29
Registro anno 1779, atto 90
Registro anno 1780, atti 25 e 26
Registro anno 1781, atto 25
Registro anno 1783, atto 22
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Davide, Nell’andare e venire per fuori Napoli
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Davide, Nell’andare e venire per fuori Napoli
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Davide, Nell’andare e venire per fuori Napoli
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Passalacqua, Le ticket d’autobus à Paris
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Le ticket d’autobus à Paris : la marginalisation
inaboutie d'un objet pratique et gênant
di Arnaud PASSALACQUA
Université Paris Diderot
DOI 10.26337/2532-7623/PASSALACQUA
Riassunto : L’articolo propone una storia di questo oggetto banale che è il
biglietto dell'autobus parigino. Oggetto di minore attenzione economica rispetto al biglietto della metropolitana, con cui si fonde nel 1967, questo piccolo rettangolo di cartone è al centro di diverse tensioni. La sua apparente
semplicità oggi non dovrebbe farci dimenticare che era il supporto di una griglia tariffaria complessa, specifica per una rete di superficie immersa nella
città. Ha anche ricoperto il ruolo di un sesamo tra un folto spazio pubblico e
uno spazio a bordo conosciuto sotto il controllo della compagnia. Di conseguenza, è al centro della lotta contro la frode, prima quella degli agenti e poi
dei viaggiatori. Ma il biglietto è anche un oggetto simbolico, primo supporto
delle relazioni tra l'operatore e le autorità pubbliche prima di essere più ampiamente una delle icone di Parigi, probabilmente per la sua alta malleabilità
che gli permette di essere l'oggetto di molteplici usi oltre il suo utilizzo nel
trasporto.
Abstract : This article proposes a history of this banal object that is the Parisian bus ticket. Less invested than the metro ticket, with which it merged in
1967, this small rectangle cardboard is at the heart of different tensions. Its
apparent simplicity today should not make us forget that it was the support of
a complex tariff grid, specific to a surface network immersed in the city. He
also held the role of a sesame between a bushy public space and a space on
board known under the control of the company. As a result, it is at the center
of the fight against fraud, first that of agents before it is more towards travelers. But the ticket is also a symbolic object, first support of relations between
the operator and the public authorities before being more widely one of the
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Passalacqua, Le ticket d’autobus à Paris
icons of Paris, probably because of its high malleability that offers it to be the
object of multiple uses beyond its use in transport.
Keywords : Urban transport, Paris, Ticket
Sommario : Introduction – L'omnibus hippomobile et ses tickets... de correspondance – Le ticket, conséquence politique de la motorisation – Le ticket
en carnet et le déplacement de la fraude – De la Deuxième Guerre mondiale
aux Trente Glorieuses : la fusion des réseaux mais pas des tickets – Le ticket
d'autobus devenu ticket de métro – Conclusion – Sources – Bibliographie
Versione definitiva ricevuta in data 3 ottobre 2017
Introduction
En France, le prix du ticket de métro parisien fait office de
révélateur de ce que serait le pouvoir d'achat des citadins, au
même titre que cette autre icône de la proximité qu'est la baguette. Pourtant, depuis les années 1970, le quotidien de nombre
d'habitants de la région parisienne est plutôt rythmé par leur recours à un abonnement, si bien que le ticket est devenu l'apanage
des touristes et de ceux qui n'empruntent qu'occasionnellement
le réseau. Si le débat politique s'est bel et bien déplacé du prix
du ticket vers celui des abonnements1, la question rituelle posée
en période électorale reste attachée au ticket lui-même2. L'hypocrisie évidente d'une question posée par des journalistes adeptes
du deux-roues motorisé à des politiques habitués aux voitures de
1
Comme en témoignent les débats récents autour de l'adoption d'un tarif unique pour le passe Navigo.
2
L'une des dernières occurrences de cette question récurrente a impliqué Nathalie Kosciusko-Morizet, pourtant ancienne ministre en charge des transports, qui a estimé le coût d'un ticket de métro parisien à plus du double de
son tarif réel, lors de la campagne présidentielle de 2012 (« NKM voit le ticket de métro à “4 euros” », Lemonde.fr, 24 février 2012, en ligne).
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Passalacqua, Le ticket d’autobus à Paris
519
fonction, vient paradoxalement souligner l'ancrage du ticket
dans les mentalités. Ce que le succès récent d'un ouvrage grand
public vient d'ailleurs confirmer3.
Il est pourtant rarement mentionné que, depuis 1967, le ticket de métro est en fait un objet multimodal, c'est-à-dire également un ticket d'autobus, de RER intra-muros et de tramway. La
domination symbolique du métro sur l'autobus, ancrée dans les
mentalités parisiennes depuis la Deuxième Guerre mondiale, ne
doit pourtant pas masquer l'intérêt historique du ticket d'autobus
face au ticket de métro. Alors que le métro a fait initialement le
choix décisif d'un tarif uniforme pour tout trajet, le monde de la
surface présente une complexité tarifaire, qui reflète un caractère
général souvent plus artisanal qu'industriel. Plongé dans un
espace public partagé, l'autobus est un système technique profondément ouvert, marqué par une dimension sociale que le
métro laisse bien souvent oublier du fait de la maîtrise de ses
espaces souterrains. Dans ce système de mobilité, le passage de
l'espace de la rue à celui du véhicule est donc un enjeu tout particulier. C'est l'une des missions du ticket que d'assurer ce rôle
de sésame.
Le ticket est le support de plusieurs usages, au cours du
voyage – contrôle des agents par la compagnie, contrôle des
voyageurs par les agents, contrat liant les voyageurs à la compagnie – comme après dans ce qui peut être qualifié de deuxième
vie d'un ticket devenu marque-page ou pense-bête, entré dans
une collection4 ou réutilisé pour un usage frauduleux. Porteur
3
G. THONNAT, Petite histoire du ticket de métro parisien, Paris, Éditions
Télémaque, 2010.
4
Cette collection semble moins répandue en France qu'au Royaume-Uni, où
existe une très active Transport Ticket Society. L'appellation ésitériophilie,
que l'on trouve pour désigner cette collection, n'est pas attestée par des dictionnaires établis.
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Passalacqua, Le ticket d’autobus à Paris
d'un tarif, le ticket révèle les représentations sociales d'un système de transport qui offre par exemple des réductions aux frères franciscains avant 1914, aux mutilés de la Grande Guerre ou
aux occupants allemands de la Seconde Guerre mondiale. Il est
aussi un moyen d'exercer une pression morale sur les fraudeurs,
de la part de la compagnie comme de certains voyageurs en règle.
L'enjeu du ticket tient également à sa valeur marchande. À
l'image d'un timbre, le ticket, objet couramment employé par les
Parisiens avant l'arrivée d'abonnements efficaces au milieu des
années 1970, présente une valeur transactionnelle, du fait de l'utilité banale qu'il revêt. Tel un billet de banque, il doit se protéger
contre toute forme de contrefaçon. Cet objet au format relativement stable mais aux couleurs multiples, bien que le jaune l'emporte dans la mémoire, est aussi un support de représentations.
Lieu de souveraineté disputé entre l'exploitant et l'autorité publique finançant le service, il est un objet de tension entre modes
dès lors qu'il sert à plusieurs d'entre eux. Il est aussi devenu une
icône de Paris, probablement plus comme ticket de métro que
d'autobus.
Enfin, le dernier enjeu autour de ce petit rectangle cartonné
est qu'il est devenu un obstacle au déplacement lui-même. Pratique pour le voyageur, il est gênant pour l'exploitant. La vente à
bord est en effet perçue comme pénalisant la progression de l'autobus, tandis que la multiplication des tarifs et modalités d'utilisation complexifie un système qui souffre déjà d'une image confuse face à la réputation de clarté du métro. Cette problématique,
spécifique à l'autobus, le rend particulièrement intéressant : l'exploitant souhaite en vendre le moins possible et travaille à sa disparition, tout en étant contraint d'en faire la publicité, puisque
c'est une source de recettes.
À partir de ces éléments problématiques, l'hypothèse de
cet article est de montrer l'ancrage du ticket comme objet social
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Passalacqua, Le ticket d’autobus à Paris
521
au-delà de son caractère technique, pour éclairer sa résistance,
malgré la dynamique d'uniformisation et le danger de disparition
qui le guette depuis plusieurs décennies sans avoir réussi à le
faire disparaître5. Après une approche généalogique permettant
de comprendre le fonctionnement d'un réseau sans ticket avant
1910, la mise en place d'un système de tickets sera étudiée
(1910-1925), puis celle des carnets, marquée par la contestation
et la traque de la fraude (1925-1945). Enfin, la fusion avec le
ticket de métro (1945-1967) ouvre un nouvelle ère pour un objet
qui semble devenu obsolète depuis lors.
L'omnibus hippomobile et ses tickets... de correspondance
Aujourd'hui encore, l'utilisation de tickets à bord des transports en commun n'est pas généralisée : plusieurs grands
réseaux d'Amérique du Nord, comme à Toronto, fondent leurs
recettes sur la vente de jetons que le voyageur doit insérer dans
un appareil pour pouvoir accéder au service de transport, qu'il
s'agisse d'un autobus, d'un tramway ou d'un métro. En Europe,
le ticket est bien plus courant, même si certains métros même
récents emploient le système du jeton, tel celui de Kiev. Le ticket
est donc bien un dispositif dissociable du service de transport, ce
que confirme son histoire à Paris.
L'objectif d'un exploitant n'est pas de vendre des tickets
mais d'enregistrer une recette, ce qui peut se faire selon différentes modalités. Inventé à la fin des années 1820, ce premier système de transport de la ville industrielle qu'est l'omnibus hippomobile s'implanta rapidement en Europe. De multiples compa5
Cet article s'appuie sur des recherches doctorales, en partie publiées dans A.
PASSALACQUA, L'Autobus et Paris. Histoire de mobilités, Paris, Economica,
2011 (Archives nationales : AN ; Archives de Paris : AP ; Archives de la
RATP : ARATP).
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Passalacqua, Le ticket d’autobus à Paris
gnies se lancèrent alors sur ce marché prometteur, avant qu'à Paris un monopole soit accordé en 1855 à la CGO6. À bord des
omnibus, deux agents : le cocher n'avait aucun contact avec le
public, tandis que le conducteur s'occupait des voyageurs et procédait notamment à l'enregistrement de la recette.
Pour cela, il disposait d'un cadran installé à l'arrière du
véhicule, qu'il devait incrémenter à chaque fois qu'un voyageur
payait son accès à bord, ce qui faisait retentir une sonnette, d'où
l'expression sonner un voyageur. La recette du conducteur et
l'indication portée par le cadran, vérifiée et remise à zéro par un
contrôleur au terminus, devaient ainsi correspondre7. Le cadran,
visible et audible par tous, devait normalement contribuer à
réduire la fraude des conducteurs, qui pouvaient toutefois ne pas
faire sonner leur cadran face à un voyageur peu expérimenté ou
de connivence.
Pour accélérer les échanges de monnaie à bord, qui retardaient la marche des véhicules, la CGO avait introduit dès 1871
la vente de tickets à l'extérieur, dans ses propres bureaux ou dans
des bureaux de tabac8. Vendus à l'unité, ils ne présentaient
néanmoins aucun avantage pécuniaire pour les voyageurs, si
bien qu'ils restèrent marginaux. À Londres, le constat est similaire : La LGOC9 vendit des tickets pré-payés dès les années
1850, mais ils furent fort peu utilisés10.
6
Compagnie générale des omnibus.
Dès l'épisode des carrosses à cinq sols au XVIIe siècle, un employé marchant
à côté du carrosse était chargé du contrôle de la recette, alors perçue directement par le cocher (voir N. PAPAYANIS, Horse-Drawn Cabs and Omnibuses
in Paris. The Idea of Circulation and the Business of Public Transit, Baton
Rouge, Londres, Louisiana State University Press, 1996, p. 20).
8
Voir L. LAGARRIGUE, Cent ans de transports en commun dans la région
parisienne, Paris, RATP, 1956, vol. 1, p. 61.
9
London General Omnibus Company.
10
Voir O. GREEN, S. TAYLOR, The Moving Metropolis, A History of London's
Transport since 1800, Londres, Laurence King Publishing, 2002, p. 85.
7
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Passalacqua, Le ticket d’autobus à Paris
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Ainsi, s'il était question de tickets à bord des omnibus, c'était à propos des tickets de correspondance. Passer d'une ligne à
une autre était effectivement extrêmement courant sur un réseau
très enchevêtré. Aux lieux de connexion, des bureaux permettaient aux voyageurs d'attendre leur correspondance. Un voyageur désirant effectuer un trajet avec correspondance devait donc
la demander au conducteur, sans supplément tarifaire. Celui-ci
lui remettait un ticket de correspondance tiré de sa planche à
billets et validé à l'aide d'un timbre sec. Le voyageur devait alors
prendre sa correspondance tout en se montrant patient au vu de
la succession courante de véhicules passant complets devant les
bureaux.
Toutefois, afin d'éviter aux conducteurs de déchiffrer les
indications portées par les tickets et donc pour faciliter la montée
à bord, ils suivaient un code de couleurs en fonction de l'heure
de la journée. D'un simple coup d’œil, le conducteur pouvait
ainsi repérer si la correspondance était immédiate ou tentait de
se faire après une pause de plusieurs heures, ce qui fut interdit à
partir de 1894.
Ce système pouvait paraître complexe et sa maîtrise faisait
d'ailleurs partie des compétences à acquérir par les voyageurs11.
Néanmoins, il présentait une réelle efficacité par rapport à d'autres solutions. Toronto, par exemple, expérimenta un système
sans ticket dans lequel la correspondance se faisait sur simple
déclaration du voyageur, ce qui dut rapidement être abandonné
du fait de fraudes12.
11
C'est l'une des quelques recommandations importantes formulées dans les
guides à l'attention des visiteurs de l'Exposition de 1900 (voir, par exemple,
A. DA CUNHA, M. DE NANSOUTY, L. GUILLET, H. JARZUEL, H. LAPAUZE, G.
VITOUX, Le Guide de l'Exposition de 1900, Paris, Flammarion, 1900, p. 22).
12
Voir R.B. FLEMING, The Trolley Takes Command, 1892 to 1894 , «Urban
History Review/Revue d'histoire urbaine», vol. 19, 3 (février 1991), p. 220221.
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Passalacqua, Le ticket d’autobus à Paris
Du point de vue sémantique, le terme ticket était couramment employé à la Belle Époque. Son adaptation depuis l'anglais
fut confortée par son usage dans les chemins de fer comme pour
les Expositions universelles, tous deux d'origine britannique,
même si le Littré rappelle qu'il s'agit étymologiquement d'un dérivé du français étiquette. Il rejoignit néanmoins le terme billet,
anciennement ancré dans la langue française, notamment pour
désigner le titre de transport à bord des trains. Dans le monde
des transports urbains, ticket devint peu à peu prépondérant, devant billet, voire bulletin pour désigner les bulletins de correspondance, mentionnés par le Littré.
Le ticket, conséquence politique de la motorisation
L'introduction de titres de transport sous la forme de tickets fut une conséquence de la révolution qui toucha la mobilité
parisienne entre 1900 et 191413. Ouverture du métro, motorisation des tramways et arrivée de l'automobile imposèrent à la
CGO de remplacer ses omnibus hippomobiles plus que vieillissants par de nouveaux omnibus automobiles, vite appelés autobus. Elle attendit le renouvellement de sa concession, dont l'échéance arrivait en 1910, pour motoriser rapidement l'ensemble
de son parc.
Ce renouvellement fut précédé d'une discussion qui remit
à plat les modalités de fonctionnement du service. Le Conseil
municipal profita de la situation pour reprendre la main face à la
CGO. Au vu des réductions de coût permises par la motorisation
et de la hausse de fréquentation constatée, les élus réformèrent
la grille tarifaire : la correspondance, trop compliquée et sujette
13
Voir A. PASSALACQUA, Innovation, concurrence et émulation dans la mobilité parisienne, de l'omnibus à l'autobus (1900-1914), «Ricerche storiche»,
vol. 37, 2 (mai-août 2007), p. 285-316.
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Passalacqua, Le ticket d’autobus à Paris
525
à des fraudes, fut supprimée au profit d'un fonctionnement par
section, qui permit de mettre en place une relative proportionnalité entre le trajet effectué et le prix payé14. Ces tarifs, en baisse,
avantageaient notamment les petits parcours, justement ceux sur
lesquels l'autobus était pertinent face à la nouvelle offre du
métro.
Cette politique de l'offre, qui fut vite couronnée de succès,
supposait donc une révision de la perception : elle imposa l'introduction de tickets correspondant au nombre de sections à parcourir ainsi qu'aux différents cas particuliers inscrits dans la
grille tarifaire (1re ou 2e classe, services ouvriers, services de
nuit, etc.). Le développement des services spéciaux, engagé
avant 1914 et accentué au cours des années 1920, conduisit également à la multiplication de tickets spéciaux, comme ceux pour
les autobus menant aux champs de courses, ornés d'une tête de
cheval.
L'idée de ticket était connue, puisque les tramways, exploités par différentes compagnies dont la CGO, en faisaient usage
depuis 1873. De couleur, ils portaient de nombreuses indications
écrites ou dessinées qui avaient tendance à en rendre la lecture
complexe. Il est possible que la proximité du monde du tramway
avec le monde du chemin de fer ait facilité l'importation de cet
objet. À Londres, les premiers systèmes de tickets furent aussi
introduits dans les tramways15. La LSTC16 fut la première à les
utiliser à partir de 1875, dans le but de contrôler la recette, mais
aussi de générer des revenus grâce aux publicités inscrites sur
les tickets, dont le caractère attractif visait également à inciter
les voyageurs à conserver leur ticket afin d'éviter toute réutilisation.
14
Pour le détail de ces tarifs, voir LAGARRIGUE, Cent ans de transports en
commun, vol. 1, p. 111-114.
15
Voir GREEN, TAYLOR, The Moving Metropolis, p. 78-87.
16
London Street Tramways Company.
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Passalacqua, Le ticket d’autobus à Paris
Reste que l'introduction de tickets sur un réseau existant
pouvait être problématique du fait que cet objet pouvait révéler
des petits arrangements. Ce qu'illustre le cas de Londres17 : lorsque la LGOC décida de mettre en place un système de tickets
sur ses omnibus en 1891, elle se heurta à une grève dure. Les
conducteurs n'inscrivaient pas systématiquement chaque passager et conservaient ainsi une partie de la recette, partagée avec
les cochers et palefreniers, malgré le contrôle par des mouches.
Les tickets, au contraire, supposaient l'utilisation d'une pince qui
conservait les résidus colorés de la perforation, ce qui permettait
de vérifier les comptes18.
À Paris, la généralisation de l'usage du ticket ne posa pas
de problème aussi notable. Peut-être du fait que la remise à plat
du système alla bien au-delà de la réforme de la perception en
prévoyant notamment un nouveau statut protégé pour le personnel, dans un contexte de recettes croissantes. Matériellement, les
receveurs furent dotés d'une planche portant des carnets à souches, desquels ils pouvaient découper 2000 tickets, tous numérotés afin de permettre des contrôles, aussi bien du voyageur que
du receveur19. La couleur variait selon les tarifs. Initialement, les
tickets portaient même l'indice de chaque ligne. Il s'agit donc
bien d'un arsenal complexe déployé en réaction à la situation
floue qu'avait permise le système antérieur de la correspondance.
Ces nouveaux supports attirèrent rapidement les publicitaires qui
purent y inscrire leurs réclames dès avant 1914, comme celle
17
Voir T.C. BARKER, M. ROBBINS, A History of London Transport, Passenger Travel and the Development of the Metropolis, The Nineteenth Century,
Londres, George Allen & Unwin Ltd, 1963, p. 254-255 et 285-288.
18
Voir GREEN, TAYLOR, The Moving Metropolis, p. 87.
19
Pour des exemples, voir Le Patrimoine de la RATP, Charenton-le-Pont,
Flohic, 1996, p. 74-75.
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pour des terrains à acheter dans la station balnéaire de Franceville-Plage20.
Le format des tickets se conforma à un standard ferroviaire : le format Edmondson21. Ancien ébéniste employé de la
compagnie Manchester and Leeds Railway dans les années
1830-1840, Thomas Edmondson avait mit au point un système
de tickets imprimés sur des petits cartons (1 3/16 pouces x 2 1/4
pouces, soit 30 mm x 57 mm) portant un numéro de série et une
date d'impression et dont la couleur indiquait le tarif. Ce qui permit une fluidification du stockage et de la vente des tickets, jusqu'alors écrits à la main. La CGO reprit ce format que la CMP22,
son concurrent, avait adopté depuis 1900 pour le métro.
En revanche, les discussions n'entérinèrent pas l'idée de
carnets de tickets, ce que le métro vendait depuis son ouverture,
sans réduction de prix, mais afin d'éviter aux voyageurs de faire
la queue. L'idée de cartes d'abonnement fut également repoussée, par peur de trop faibles recettes. Malgré ces limites, ce fut
donc un réseau modernisé, offrant des tarifs abordables et à la
fréquentation en forte progression qui entra dans la guerre en
1914. Les autobus se trouvèrent immédiatement mobilisés et Paris privé de tout service pendant près de deux ans. Lorsque les
lignes rouvrirent progressivement, la perception elle-même suscita de nouveaux enjeux : le manque de disponibilité de la monnaie métallique, appelé crise du billon, rendit sensible tout
échange monétaire, comme l'achat de tickets. L'accroissement de
la tension à bord, lié notamment au refus courant de voyageurs
ne pouvant faire l'appoint, s'accompagna de trafics organisés par
20
Ibidem.
Voir S. DE BEAUMONT, M. RICKARDS, A. TANNER, M. TWYMAN (eds.),
The Encyclopedia of Ephemera. A Guide to the Fragmentary Documents of
Everyday Life for the Collector, Curator, and Historian, Londres, The British
Library, New York, Routledge, 2000, p. 262-263.
22
Compagnie du métropolitain de Paris.
21
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Passalacqua, Le ticket d’autobus à Paris
le personnel, notamment les receveuses, qui remplacèrent les
hommes pendant le conflit23.
Après l'armistice, le manque de monnaie divisionnaire
conduisit l'exploitant à frapper des jetons en aluminium de
différentes valeurs, qu'il était possible d'acheter par dix24. Les
voyageurs purent donc payer leur trajet avec des jetons de la
compagnie, portant sur l'avers un dessin d'autobus. L'usage de
jetons métalliques était courant dans les bateaux omnibus, ce qui
put inspirer ce choix, abandonné en 1923, lors du retour à la normale de la disponibilité monétaire.
La décennie 1910 vit donc l'instauration du ticket dans les
autobus parisiens, non sans difficultés et limites. À l'exception
de quelques privilégiés bénéficiant d'une carte de circulation signée de la main même du directeur général de la CGO, les 250
millions de voyageurs annuels empruntant le réseau à la veille
de la guerre comme à sa sortie avaient intégré l'utilisation du ticket. Toutefois, cet objet était essentiellement une unité de
compte, en réponse aux difficultés liées à la correspondance, et
un support de contrôle des receveurs, plus qu'un objet destiné à
faciliter l'accès au réseau. À partir de 1921, le tournant commercial engagé par la nouvelle compagnie exploitante, la STCRP25,
renouvela son statut.
Le ticket en carnet et le déplacement de la fraude
Le réseau exploité par la jeune STCRP connut une forte
augmentation de sa fréquentation, de 166 à 366 millions de
voyageurs de 1920 à 1930, ce qui provoqua plusieurs dysfonc23
Voir P. DARMON, Vivre à Paris pendant la Grande Guerre, Paris, Fayard,
2002, réédition 2004, p. 194-195.
24
Pour des exemples, voir Le Patrimoine de la RATP, p. 213.
25
Société des transports en commun de la région parisienne.
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tionnements auxquels la compagnie s'efforça de faire face. Différents dispositifs furent ainsi introduits afin de réguler l'attente,
la montée et les comportements à bord, qui eurent également
pour effet de normaliser les pratiques d'un système artisanal qui
devenait industriel.
L'une des principales mesures prises fut l'introduction de
carnets de tickets. Le 7 juillet 1926, le Conseil général de la
Seine autorisa son exploitant à en vendre, d'abord à titre expérimental. L'objectif était de simplifier la tâche du receveur, qui devait annoncer les sections et les arrêts, devenus en partie facultatifs depuis 1910 et procéder à un encaissement complexe du
fait des sections. À partir du 5 décembre 1927, la vente de carnets de 20 tickets est généralisée, dans les bureaux de la STCRP
mais aussi dans différentes boutiques : il s'agit bien d'une opération d'externalisation visant à protéger l'exploitation. Dès ses débuts, la publicité s'empare de ce nouvel objet, comme celle pour
Javel La Croix qui s'étale sur des pochettes également décorées
de vues de paysages, de châteaux ou de personnages historiques
en héliogravure.
À cette occasion, les receveurs furent dotés d'un appareil
oblitérateur-enregistreur, vite appelé moulinette. Elle imprimait
sur le ticket plusieurs informations liées au voyage. Elle permettait de valider plusieurs tickets d'un coup, en raison du système
des sections et comportait des compteurs pour la recette. Le receveur devenait ainsi un simple « agent pointeur », comme l'écrit
l'organe officiel de la compagnie, L’Écho de la STCRP en
192926.
Ce nouveau système se heurta à un double mouvement de
résistance. D'abord celle des receveurs qui jugeaient les 2,5 kg
26
P. FITZNER, La STCRP pendant la Deuxième Guerre mondiale, maîtrise
d'histoire sous la direction de Noëlle Gérôme et Antoine Prost, Université
Paris I Panthéon-Sorbonne, 1993, p. 21.
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Passalacqua, Le ticket d’autobus à Paris
de la machine trop lourds. Cet outil de contrôle accru du travail
ne fut évidemment pas bien accueilli, mais finit par devenir l'attribut attendu du receveur. Ensuite celle de certains voyageurs.
La proportion de passagers n'utilisant pas les carnets de tickets
atteignit 17 à 18 % sur les lignes à bord desquelles ils furent expérimentés, puis 23 à 33 % lors de leur généralisation27 : des
habitués choisirent de ne pas avoir recours aux carnets. Cette réticence se fondait notamment sur l'idée que l'achat de carnets de
tickets constituait « un emprunt forcé sans intérêts »28 concédé à
la STCRP, une compagnie dirigée par une figure des milieux
d'affaires, André Mariage. Et ce malgré l'économie d'environ 17
% qu'offraient les tickets en carnet par rapport à ceux à l'unité.
Le refus par les voyageurs d'une systématisation des carnets de tickets se lit dans l'échec d'une opération lancée par la
STCRP en 1931. La compagnie mit alors en circulation de nouveaux véhicules à entrée latérale et à tarifs simplifiés à bord desquels seuls les voyageurs munis de tickets étaient acceptés. Si
leur exploitation s'avéra fluide, l'opération suscita un mécontentement des voyageurs, mettant en cause la rareté des lieux de
vente des carnets mais aussi le concept lui-même. L'expérience
fut suspendue sur les longues lignes à fort trafic et maintenue, de
façon marginale, en banlieue où la clientèle était plus souvent
abonnée.
Ainsi, si la compagnie ne parvint pas à imposer l'usage systématique des carnets, cet objet se trouva néanmoins rapidement massivement utilisé, si bien que les réticences idéologiques
semble s'être effacées assez rapidement. En réduisant ainsi les
échanges à bord, la STCRP réussit également à apaiser les tensions. L'opposition récurrente entre voyageurs et agents, comme
27
Séances du conseil d'administration de la STCRP des 11 janvier, 19 septembre et 12 décembre 1928 (ARATP, 1G 8).
28
« Encore les carnets de tickets », ca. 1928 (ARATP, 1G 8).
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lorsqu'en octobre 1922 un receveur traita un voyageur achetant
un ticket de 1re classe de « fainéant [et] sale bourgeois »29, semble ainsi s'être estompée.
Cette diffusion des tickets achetés avant la montée à bord
peut se lire dans les déviances dont ils firent l'objet. Ainsi, lorsque se développèrent des services illégaux de taxis collectifs,
au milieu des années 1930, les agents de la STCRP furent frappés de constater que les tickets de la compagnie étaient acceptés
par ces chauffeurs de taxi30. Ce qui laisse supposer que des receveurs devaient être impliqués dans des opérations de blanchiment. Comme le timbre, le ticket acheté en avance pouvait donc
se trouver déconnecté du déplacement lui-même, jusqu'à atteindre le statut de monnaie d'échange, dans le monde de la mobilité.
Ce nouveau fonctionnement déplaça la question de la
fraude du personnel vers les voyageurs. Contrôlés par la moulinette et ayant moins d'occasion de vendre des tickets, les receveurs virent leur capacité à frauder se réduire fortement31, tandis
que la fraude des voyageurs put trouver de multiples formes, décrites par les rapports internes de la STCRP et les journaux : tickets falsifiés, tickets couverts de corps gras, demande de tarifs
réduit non justifiés, etc32.
La STCRP dut ainsi intégrer la figure du voyageur fraudeur, plus difficile à appréhender que celle d'un agent dérogeant
au règlement et s'exposant à une sanction. Alors que diverses
29
La Victoire, 7 octobre 1922.
Voir A. PASSALACQUA, Les taxis collectifs aux marges de la mobilité parisienne des années 1930, «Transports urbains», 117 (juin 2010), p. 28-32.
31
Il semble néanmoins que certains procédaient à la revente à l'unité de tickets achetés en carnets.
32
Voir notamment Un voyage dans le “30” avec le contrôleur secret, «L'Intransigeant», 12 août 1926 et Les façons de ces messieurs de la S.T.C.R.P. ,
«Le Figaro», 9 février 1927.
30
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Passalacqua, Le ticket d’autobus à Paris
institutions s'interrogeaient sur les moyens de contrôle et de falsification de documents33, la STCRP lança une politique intensive de répression de la fraude. Elle chercha d'abord à rendre ses
titres de transport infalsifiables par des procédés chimiques : un
stylo à réactif confié aux contrôleurs permit de révéler le caractère authentique d'une partie du ticket portant une encre
spéciale34. La compagnie chercha également à repérer les faux à
partir de tickets usagés récoltés à bord. Un véritable laboratoire
produisait des rapports réguliers sur le matériel collecté. Toutefois, si de 1929 à 1936 la compagnie vérifia de 400 à 500 tickets par jour – soit environ un million en tout –, les cas de tickets
contrefaits furent extrêmement marginaux35.
La fraude avait en fait trouvé d'autres voies. Parmi celles
mentionnées dans les archives et confirmées par des entretiens
avec d'anciens agents, le fait de recouvrir de collodion ou de paraffine d'authentiques tickets, ce qui permettait d'effacer aisément les indications portées lors de la validation, la moulinette
ne perforant pas les tickets36. Surtout, les flux massifs de fraudeurs étaient constitués de voyageurs sans tickets, profitant d'un
système de perception défaillant : afin de permettre la progression rapide de l'autobus, les voyageurs montaient à bord
immédiatement tandis que le receveur passaient faire la recette
alors que le véhicule avançait. Dès lors un voyageur sans ticket
pouvait toujours assurer qu'il attendait le passage du receveur,
33
L'administration s'intéresse à des questions similaires touchant à l'immigration (voir G. NOIRIEL, Le Creuset français. Histoire de l'immigration, XIXeXXe siècle, Paris, Le Seuil, 1988, réédition 2006, p. 95-107).
34
Voir les notes STCRP/DEC/1185 du 26 juillet 1929 et STCRP/DEC/3358
du 7 mars 1930 (ARATP, 1R 149).
35
Voir les rapports STCRP du 15 mars 1935 et RATP/R/10635 du 30 juin
1965 (ARATP, 1R 149).
36
Voir la note STCRP/DEC du 7 octobre 1935 (ARATP, 1R 149).
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Passalacqua, Le ticket d’autobus à Paris
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quitte à s'être arrangé pour ne pas être repéré, au milieu de la
foule.
La STCRP choisit donc de se doter d'importants effectifs
de contrôleurs. En 1930, 558 agents en uniforme renforçaient la
présence des receveurs, tandis que 90 en civils pouvaient procéder à des contrôles au moment de la descente du voyageur,
mais avant qu'il ne redevienne simple piéton37. Cette pratique
particulièrement ambivalente ralentissait la marche des autobus
et fut jugée dangereuse pour les voyageurs par la Préfecture de
police, qui rappela régulièrement son interdiction. Néanmoins,
la STCRP demanda à ses contrôleurs en civil de la maintenir
dans leurs habitudes38. La compagnie finit par obtenir son autorisation en 1927, à l'arrivée de Jean Chiappe à la Préfecture de
police, au moment où les carnets de tickets entraînèrent une intensification du contrôle des voyageurs.
Les résultats de ces dispositifs de contrôle furent probablement discutables. La direction de la STCRP en était très satisfaite, mais les taux de fraude rapportés semblent trop faibles
pour être réalistes : cette politique aurait permis de faire chuter
la fraude à moins de 1 % au début de 193439. Le fait que plusieurs
trucs aient été conservés par les archives écrites comme par la
mémoire orale et qu'une connivence tacite ou occasionnelle ait
pu s'instaurer entre les voyageurs et les receveurs, qui n'avaient
aucun intérêt à forcer un voyageur récalcitrant au risque de susciter un esclandre, laisse penser que le contrôle était en réalité
bien moins efficace que ne l'estimait la direction.
Cette période vit également l'invention de différentes figures récurrentes : celle des voyageurs réputés les plus fraudeurs,
comme les jeunes ; celle des lignes où la fraude serait la plus
37
Rapport STCRP/DEC/2382 du 14 février 1930 (ARATP, 1R 149).
Lettre de la Préfecture de police à l'inspection des VFIL du 27 avril 1927
(ARATP, 1R 145).
39
Voir la note STCRP/DEC/1998 du 21 février 1934 (ARATP, 1R 149).
38
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Passalacqua, Le ticket d’autobus à Paris
forte, en banlieue ; celle du fraudeur occasionnel opposé au récidiviste invétéré ; celle de la fraude délibérée face à la fraude
involontaire résultant d'une mauvaise compréhension des tarifs,
etc. Cette structuration d'un champ nouveau connaît de lourds
ressorts moraux, explicités par la STCRP, par exemple lorsqu'elle incita les voyageurs en règle à aider le receveur dans son
travail, par le biais d'affiches à bord.
Si la fraude est un thème des années 1930, c'est également
en raison de la crise économique, qui incita également les acteurs
à trouver des voies d'économie. À l'heure de la coordination des
transports40, une évolution des tickets parut être une piste possible. Un déjeuner entre André Mariage et Paul Martin, patron de
la CMP, aborda cette question le 28 janvier 1936 en envisageant
d'abord le principe de tickets communs pour les grands monuments41. Toutefois, les rivalités entre les deux compagnies
empêchèrent toute réelle avancée sur le sujet, comme sur d'autres. Le cas de Londres fut également étudié42. La ville apparaissait très en avance dans la conception d'une grille tarifaire
adaptée aux usages et à la diversité de la population : tarifs pour
écoliers le dimanche, tickets illimités en soirée, tarifs réduits aux
heures creuses, etc. Malgré cela, les blocages parisiens l'emportèrent.
De la Deuxième Guerre mondiale aux Trente Glorieuses : la
fusion des réseaux mais pas des tickets
40
Sur la coordination, voir N. NEIERTZ, La Coordination des transports en
France de 1918 à nos jours, Paris, Comité pour l'histoire économique et financière de la France, 1999.
41
« Déjeûner du 28 janvier 1936 (M.M. A.Mariage, Labussière, P.Martin) »
(ARATP, 1G 7).
42
« Mesures susceptibles d'accroître le nombre de voyageurs », ca. 1938
(ARATP, 1R 288).
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Passalacqua, Le ticket d’autobus à Paris
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Comme en 1914, le conflit qui s'ouvrit en 1939 eut un impact durable sur les transports parisiens, dans le sens d'une unification de leur fonctionnement. Les conditions particulières
d'une ville en guerre puis occupée produisirent d'abord des effets
conjoncturels. Alors que les tickets se multipliaient (habillement, charbon, tabac, alimentation...), la pénurie de papier conduisit le métro à proposer des tickets valables pour deux voyages
successifs, alors que la fréquentation du réseau était massive, du
fait de la forte réduction de l'offre en surface. L'autobus assura
en effet essentiellement des services en banlieue, sans avoir à
toucher à ses tickets.
La création d'un ticket écrit en français et en allemand au
prix unique pour les militaires et fonctionnaires allemands, tandis que leur trajet en métro était gratuit, montre que le réseau de
surface n'était pas un enjeu majeur43. La présence allemande à
Paris offrit, par ailleurs, l'occasion à l'un des dirigeants des tramways de Munich d'analyser le système des tickets à bord des autobus parisiens : très impressionné, il releva que « 7 secondes
suffis[ai]ent pour la perception d'une place »44, grâce aussi bien
à la configuration des véhicules, au système de tarification, qu'à
la discipline des voyageurs. Dépassant les préjugés du vainqueur
sur le vaincu, son article, paru en allemand dans une revue professionnelle, rend compte de l'ancrage d'un dispositif efficace à
Paris.
Mais le conflit eut surtout des conséquences structurelles
de long terme : le gouvernement de Vichy choisit en effet de
fusionner en 1942 l'exploitation du métro et celle de la surface,
43
Notons qu'à Londres à la même époque, un ticket réservé aux forces américaines vit le jour.
44
« La prise en charge des voyageurs aux point d'arrêt des omnibus à Paris
par l'Oberbaurat Hans Huebs, des Tramways de Munich », traduction de l'article paru dans le n° 20 de la revue Verkehrstechnik du 20 octobre 1942
(ARATP, 1R 250).
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Passalacqua, Le ticket d’autobus à Paris
sous l'égide de la CMP. Pour ce qui est de la tarification, des
discussions en amont avaient déjà eu lieu entre la STCRP et la
CMP et, dès le 4 août 1941, des cartes combinées permirent
d'emprunter l'autobus en banlieue et le métro, ce qui répondait à
la configuration alors minimaliste de l'offre de transport. Tandis
que des cartes hebdomadaires de travail offrirent six allers-retours par semaine, sans correspondance entre réseaux.
Si l'idée de carnets de tickets communs fut envisagée en
amont de la réforme, la fusion ne retint finalement pas cette option : les tickets restèrent différents, malgré une base commune
de calcul45. Au final, cette nouvelle tarification, qui supprime
également la 1re classe en surface, reflète l'esprit de la réforme :
en s'accompagnant d'une réduction de la longueur des sections,
elle produisit un renchérissement explicite de l'autobus, afin de
garantir au métro une fréquentation la plus forte possible46.
Les premiers carnets sortis par la CMP pour le réseau de
surface portaient de la propagande pour le Secours national, tandis que le nom de la compagnie disparut à la Libération, au profit
du sigle RR, pour rappeler le réseau routier de l'autorité provisoire qui lui succède. Les publicités traduisirent cet esprit nouveau d'après-guerre, comme en 1949, lorsque le film Le 84 prend
des vacances s'afficha sur les carnets. Un tarif réduit vint faciliter
la vie des familles nombreuses du baby boom à partir de décembre 1948. Tandis que les grandes grèves de 1953 offrirent l'occasion d'utiliser des tickets spéciaux pour accéder aux services
de remplacement par camions.
Alors que la vie du réseau reprenait son cours, le thème
ancien de la fraude et la figure connue du receveur alimentèrent
45
« Note sur les nouveaux tarifs de transports dans la région parisienne »,
juillet 1941 (AN, F/14/13 623).
46
Voir « Rapport du président du Conseil des transports parisiens à Monsieur
le secrétaire d'État aux communications » du 15 février 1941 (AP, Pérotin/10
331/56/1/272).
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de nouveau images et discours. Comme l'écrivait le conseiller
général Roger Degornet à la direction du nouvel exploitant unique, la RATP47, en 1957, « il faudrait que les usagers soient des
saints pour payer ce qu'ils doivent »48. Si ce jugement d'un cheminot habitué aux modes de perception ferroviaires est peut être
sévère, il convient de noter que plusieurs documents incriminèrent la fraude sur le nombre de sections dans la période d'aprèsguerre49. Les trajets effectués étaient plus longs que ceux payés,
en moyenne d'1,1 section, selon une étude de la RATP de 195550.
Un ancien agent confirme cette focalisation sur ce type de
fraude, à propos d'une catégorie, forgée alors, de vieilles dames
fraudeuses : « elles avaient beau être riches, quelquefois, elles
changeaient de place, en douce, ou elles nous disaient qu'elles
venaient de monter pour ne donner qu'un seul ticket [...]! »51.
Féminisé au cours du conflit – comme en 1914-1918 – le
métier de receveur le resta durablement. Des expressions comme
« c'est cocotte qui fait la recette » ou « les receveuses à ticket »
témoignent de cette présence féminine dans un milieu fortement
masculin et non dénué de machisme. Receveurs et receveuses
tinrent une place centrale dans le Paris des années 1950, à bord
d'un matériel vieillissant. La démocratisation de l'automobile, au
cours de la décennie 1955-1965, leur conféra progressivement
une image surannée. Contrairement à leur alter ego du réseau
ferré, le poinçonneur – réputé exercer l'un des « sots métiers »
consistant à « [faire] des trous dans les billets » et à renseigner
47
Régie autonome des transports parisiens.
Lettre de Roger Degornet au directeur général de la RATP du 14 avril 1957
(ARATP, 1R 148).
49
Voir le carton ARATP, 1R 149.
50
Séance du 23 mai 1955 du conseil d'administration de la RATP (ARATP,
1R 149).
51
« 50 ans d'histoire à la RATP », Entre les lignes, octobre 1999, p. 11.
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Passalacqua, Le ticket d’autobus à Paris
sur les correspondances – les receveurs remplissaient de multiples fonctions52. Au-delà des activités de recette et de validation
des tickets, ils géraient les flux, annonçaient les stations, donnaient des informations sur un réseau plus complexe et moins
connu que celui du métro, régulaient les tensions à bord, voire
s'intéressaient à la circulation.... Le ticket n'était donc qu'une de
leurs raisons d'être.
Le ticket d'autobus devenu ticket de métro
La massification de l'usage de l'automobile se traduisit par
un effondrement de la fréquentation de l'autobus et une forte
dégradation de son image, à Paris plus qu'en banlieue. La chute
des recettes fit de cette situation un problème financier pour des
transports parisiens, qui avaient déjà peu bénéficié de la modernisation des Trente Glorieuses53. Les solutions efficaces qui permirent de sortir de cette ornière furent d'abord fondées sur un
aménagement de l'espace public – les couloirs réservés – mais
une dynamique parallèle d'intégration tarifaire tenta également
de résoudre le problème, de façon plus ou moins heureuse.
En 1967, après plusieurs années de déficit, le ministère des
Finances imposa à la RATP une réforme tarifaire visant à atteindre une vérité des prix, dans le sillage des idées développées par
le rapport Nora54. Elle se traduisit en une forte augmentation,
notamment sur les petits parcours, ce qui eut pour effet de faire
de nouveau chuter la fréquentation, puisque l'autobus était un
système compétitif sur de telles distances.
52
Voir « Le poinçonneur des lilas » dans SERGE GAINSBOURG, Du chant à la
une !, Mercury, 1958.
53
Sur la RATP à cette époque, voir M. MARGAIRAZ, Histoire de la RATP,
Paris, Albin Michel, 1989.
54
Rapport sur les entreprises publiques, Paris, La Documentation française,
1968.
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539
Plus attendue fut l'introduction simultanée de tickets communs à l'autobus et au métro, 25 ans après la fusion ! S'ils ne
permettaient pas de correspondance entre réseaux, ils rendirent
encore plus intéressant l'achat de carnets, puisque les occasions
de les utiliser étaient plus nombreuses. Comme le soulignait encore l'exploitant sur ses plans de réseau en 1963, « [v]ous réaliserez une économie importante en utilisant des tickets de carnet »55.
En 1967 puis 1973, les tickets furent légèrement allongés
afin de favoriser leur oblitération à bord des autobus, que les
voyageurs apprirent alors à effectuer eux-mêmes56. Le receveur,
métier ancien du réseau, disparut définitivement en 1971, dans
un souci de réduction des coûts autant que de modernisation du
matériel57. Plus exactement, le machiniste, devenu machinistereceveur, fut désormais chargé des missions de son collègue disparu. Mais, afin de les réduire au minimum pour ne pas retarder
le véhicule, l'oblitération fut reportée sur le voyageur qui dut y
procéder à l'aide d'un nouvel appareil imprimant et perforant58.
De position variable, les trous ainsi réalisés permettaient d'identifier les tickets oblitérés en même temps, correspondant à des
trajets à plusieurs sections.
Désormais, tout voyageur monté à bord se devait d'être en
règle et pouvait être sujet à un contrôle avant la descente sans
contestation possible. Pour sa part, le machiniste-receveur se
trouva pris dans un jeu complexe de logiques opposées (con-
55
Autobus Paris, Paris, RATP, 1963.
Leur longueur passe à de 57 à 66 mm.
57
Voir M. PRÉVOST, La Suppression du poste de receveur dans les autobus
parisiens, Paris, RATP, 1985.
58
Voir Instruction professionnelle relative aux appareils de validation des
tickets et coupons de cartes hebdomadaires, Paris, RATP, 1971.
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Passalacqua, Le ticket d’autobus à Paris
duite, service, contrôle) qui affaiblirent un métier pourtant enrichi59. Les agents, jusqu'alors isolés à l'avant du véhicule, y gagnèrent néanmoins un contact nouveau avec les voyageurs, pour
les renseigner ou leur vendre des tickets. L'idée ancienne du cocher bourru ne parlant qu'à ses chevaux s'effaçait, tandis que la
bande magnétique introduite en 1973, témoignait de la disparition simultanée, en souterrain, des poinçonneurs.
Ces réformes débouchent donc sur une déshumanisation
du réseau, ce phénomène étant notamment dû à la volonté parallèle de la direction d'externaliser au maximum la vente de tickets, aussi assurée par des appareils automatiques en certains
pôles. L'introduction, au cours des années 1980, des autobus articulés à bord desquels le passager put monter par n'importe
quelle porte, porta cette logique à son extrême puisqu'il était
désormais possible de voyager sans interférer avec aucun agent.
La cohérence de cette nouvelle vision du service de transport fut acquise avec la création, en 1975, de la Carte orange, à
l'initiative du STP60 et en réponse à des mouvements d'usagers.
Ce titre de transport multimodal révolutionna les pratiques :
conçue en cohérence avec la création du RER61, cette carte mensuelle permettait de voyager sans limite sur tous les systèmes
collectifs de zones choisies à l'avance. Elle eut pour conséquence
la reprise de la fréquentation du réseau de surface : nombre de
voyageurs montèrent alors à bord par opportunité, l'autobus remplaçant un trajet à pied, du fait de sa simplicité d'usage. Aux
arrêts, le rôle du machiniste-receveur devint celui de contrôler
visuellement les cartes que devaient présenter les voyageurs. Rituel d'entrée qui réactiva des ambiguïtés anciennes. Quel intérêt
pouvait avoir un agent à contraindre un voyageur à montrer sa
59
Voir I. JOSEPH, Le temps partagé : le travail du machiniste-receveur , «Sociologie du travail», vol. 34, 1 (1992), p. 3-22.
60
Syndicat des transports parisiens.
61
Réseau express régional.
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Passalacqua, Le ticket d’autobus à Paris
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carte ou à acheter un ticket, alors qu'il devait surtout veiller à
l'avancée de son véhicule et pouvait souhaiter éviter tout esclandre ?
Alors que le ticket se trouvait marginalisé par cette innovation dont ce fut aussi l'un des objectifs, il connut au cours des
années 1980 un véritable engouement médiatique, lié à son utilisation à des fins publicitaires. Lancée dans la promotion du
transport depuis le milieu des années 1970, la RATP utilisa paradoxalement son ticket pour faire parler de réseaux sur lesquelles elle souhaitait surtout transporter des abonnés. Cet objet,
perçu comme multimodal alors qu'il n'offrait pas de correspondance entre les modes, fit un excellent support de communication, spécifique à l'entreprise, là où la Carte orange était partagée
avec d'autres opérateurs. Le ticket devint ainsi l'icône d'un exploitant prenant progressivement conscience de l'unité de ses
réseaux et, au-delà, de Paris elle-même. Sa couleur jaune, introduite en 1978, et sa bande magnétique étaient pourtant récentes.
Tandis qu'il ne s'agissait en fait pas d'un objet quotidien, mais
justement d'un objet relevant de l'exception, là où l'abonnement
était devenu la norme. D'un point de vue esthétique, la très
grande malléabilité du ticket permit des utilisations très diverses
qui offrirent des renouvellements au sein d'une campagne au
long cours, Ticket chic, ticket choc62.
Le ticket permit à la RATP de dépasser le complexe qu'elle
entretenait vis-à-vis de l'automobile, lisible dans la campagne
qui domina la fin des années 1970, 2e voiture, dont le slogan
montrait déjà la volonté d'unifier les réseaux. Dans ce contexte,
il est sûr que l'autobus s'effaçait derrière le métro, le ticket étant
identifié comme un ticket de métro, dont l'utilisation par Yves
62
Voir H. LAMBINET, Ticket chic, ticket choc. Référence et mythologie d'une
image publicitaire, maîtrise d'arts plastiques, sous la direction de Pascal Bonafoux, Université Paris VIII Saint-Denis, 1994, 134 p.
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Passalacqua, Le ticket d’autobus à Paris
Montand dans le Salaire de la peur63 avait d'ailleurs inspiré les
publicitaires. Cette campagne permit toutefois à l'autobus de
combler son retard d'image lorsqu'elle fut déclinée en un slogan
spécifique Le bus a le ticket, en 1982. Tandis que sur le réseau,
le processus de marginalisation s'accentuait, avec la vente à l'unité de tickets spécifiquement réservés aux autobus, à partir de
1986.
Conclusion
Le ticket d'autobus est d'abord un objet matériel, dont la
taille et la matière reflètent une configuration sociale et technique, ainsi que les usages auxquels il s'adapte. Mais il s'agit également d'un territoire partagé, entre opérateurs et avec les autorités qui en assument le financement, même si la RATP est parvenue à capter à elle l'image unifiée du ticket jaune, masquant
bien des différences entre les réseaux. Enfin, le ticket est aussi
le support de la relation entre les voyageurs et l'exploitant : il
incarne l'idée d'une coproduction des transports, qui fait du
voyageur un acteur de son propre déplacement, sans quoi les
véhicules roulent à vide.
Support matériel, le ticket est aussi devenu un espace de
création et de communication, que ce soit pour des raisons
esthétiques ou publicitaires, ou pour lutter contre la fraude. Cette
dimension lui a même conféré le statut d'icône, sous la forme du
ticket jaune et après fusion avec le ticket de métro. La force identitaire de cette couleur est lisible dans les aléas qui suivirent sa
disparition en 1992 : dans le cadre d'un remaniement global de
la RATP et de son image, le ticket se teinta alors d'un vert qualifié de jade, avant de passer au violet en 2003, à l'occasion d'une
simplification tarifaire, puis au blanc en 2007, dans le cadre
63
H.-G. CLOUZOT, Le Salaire de la peur, 1953.
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Passalacqua, Le ticket d’autobus à Paris
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d'une reprise en main par l'autorité organisatrice, le STIF64, passé
peu avant sous l'autorité d'une Région soucieuse de marquer ses
territoires. Le ticket accrut encore sa facilité d'utilisation, puisqu'il offrit alors la possibilité de correspondances multiples.
Toutefois, la frontière ancienne entre le ferré et le routier demeure encore aujourd'hui bien tangible : aucune correspondance
n'est possible de l'un à l'autre, trace d'une distinction ancrée dans
l'approche de ce qu'est le transport public, celle qui oppose un
métro transport de masse du XXe siècle, à l'autobus, héritier de
l'omnibus hippomobile.
De même, il est étonnant de constater que le ticket à l'unité
survit aujourd'hui encore. Pourtant, dès la fin des années 1920,
le but de l'exploitant en développant les carnets de tickets était
d'extérioriser les échanges financiers à bord, afin de gagner du
temps et de réduire les incidents susceptibles de survenir avec
les receveurs. La fusion avec le réseau ferré permit de développer les infrastructures commerciales, chaque station de métro devenant un possible bureau de vente. Le développement de formules combinées entre les réseaux, dont la Carte orange est la
plus aboutie, et l'utilisation ancienne de cartes hebdomadaires de
travail contribuèrent à rendre secondaire l'achat de tickets à bord.
Mais impossible de le faire disparaître. L'exploitant s'est
en fait trouvé bien vite prisonnier de ce petit morceau de papier
dont le fonctionnement s'avéra entraver la progression de ses
véhicules. Il est dès lors rentré dans une relation ambiguë avec
cet objet, les voyageurs étant incités, par divers moyens, à se
munir de carnets ou d'abonnements. Sans pour autant qu'il soit
possible de cesser toute vente à bord, même après la disparition
des receveurs, au début des années 1970. Celui-ci n'est-il pas né-
64
Syndicat des transports d'Île-de-France.
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Passalacqua, Le ticket d’autobus à Paris
cessaire comme signe de la recette et comptabilisation de la fréquentation ? Ou comme double rite d'entrée65, celui de la montée
à bord mais aussi de la découverte du réseau ?
La lutte contre le ticket d'autobus se poursuit, notamment
avec l'introduction, en 2007, d'un ticket d'accès à bord, vendu
par le machiniste-receveur et portant comme mention principale
« sans correspondance ». Alors que l'esprit dominant le réseau
routier depuis les années 1970 est le sentiment d'avoir atteint une
réelle homogénéité du réseau, le ticket semble être le dernier
élément de résistance à cette vague d'homogénéisation, qui se
traduit, en matière tarifaire, par la faveur donnée à l'abonnement.
La direction du réseau est parvenue à faire disparaître le receveur, mais pas le ticket.
La lutte contre la fraude, pour sa part, s'est largement concentrée sur les abonnements, notamment avec l'introduction progressive du passe Navigo, à partir de 2001, au format d'une carte
de crédit, concurrent en vogue du format Edmondson. Ce support doté d'une puce électronique facilita la validation en montant à bord et permit à la RATP de renforcer le caractère systématique de ce geste attendu de ses voyageurs, à travers l'imposante campagne Bus Attitude des années 2000, au nom révélateur
d'ambitions morales. Du fait du son produit par la validation, qui
rappelle le cadran du conducteur, le contrôle s'élargit à l'ensemble des voyageurs à bord : le thème ancien et probablement illusoire d'un auto-contrôle des voyageurs fait ainsi de nouveau surface.
Le Navigo n'est qu'un support, ce qui explique qu'il fut
possible à ses débuts de disposer d'une Carte orange violette,
65
Sur cette notion, voir, par exemple, É. LE BRETON, Les compromis fragiles
du traitement des conflits publics dans les transports urbains, «Sociologie du
travail», vol. 43, 4 (2001), p. 515-531.
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Passalacqua, Le ticket d’autobus à Paris
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couleur du passe, absurdité sémiologique qui manifeste les tensions perceptibles autour de cet objet. Le ticket, passé sur de
nouvelles technologies, n'en demeure pas moins un puissant objet moral. Tandis que l'équipement du voyageur, qui peut désormais renouveler son abonnement de chez lui ou utiliser son
téléphone comme support, laisse penser que le système devient
autonome de l'exploitant lui-même. La vente à l'unité de tickets
d'autobus à bord est néanmoins toujours possible, gênante mais
fortement ancrée dans le contexte parisien.
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Passalacqua, Le ticket d’autobus à Paris
Sources
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Archives de Paris
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1941, Pérotin/10 331/56/1/272
Archives de la RATP
Déjeûner du 28 janvier 1936 (M.M. A.Mariage, Labussière,
P.Martin), 1G 7
La prise en charge des voyageurs aux point d'arrêt des omnibus
à Paris par l'Oberbaurat Hans Huebs, des Tramways de Munich », traduction de l'article paru dans le n° 20 de la revue Verkehrstechnik du 20 octobre 1942, 1R 250
Lettre de Roger Degornet au directeur général de la RATP du
14 avril 1957, 1R 148
Mesures susceptibles d'accroître le nombre de voyageurs ca.
1938, 1R 288
Note STCRP/DEC/1998 du 21 février 1934,1R 149
Note STCRP/DEC du 7 octobre 1935, 1R 149
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Passalacqua, Le ticket d’autobus à Paris
Notes STCRP/DEC/1185 du 26 juillet
STCRP/DEC/3358 du 7 mars 1930, 1R 149
547
1929
et
Rapport STCRP/DEC/2382 du 14 février 1930, 1R 149
Rapports STCRP du 15 mars 1935 et RATP/R/10635 du 30 juin
1965, 1R 149
Séances du conseil d'administration de la STCRP des 11 janvier,
19 septembre et 12 décembre 1928, 1G 8
Séance du 23 mai 1955 du conseil d'administration de la RATP,
1R 149
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Passalacqua, Le ticket d’autobus à Paris
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PASSALACQUA A., L'Autobus et Paris. Histoire de mobilités, Paris, Economica, 2011
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Passalacqua, Le ticket d’autobus à Paris
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THONNAT G., Petite histoire du ticket de métro parisien, Paris,
Éditions Télémaque, 2010
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
551
FONTI
Per curare la mente e il corpo, per conoscere. Un viaggiatore di diporto nell’Italia di primo Ottocento*
di Fabio D’ANGELO
Università degli studi della Repubblica di San Marino
DOI 10.26337/2532-7623/D’ANGELO
Riassunto : Il saggio propone un’analisi sui passaggi chiave del diario del
viaggio in Italia effettuato dallo zoologo Giosuè Sangiovanni da febbraio a
giugno 1818. Dal récit de voyage emergono alcuni interessanti elementi che
contraddistinguono i viaggi di primo Ottocento: l’affermazione delle istanze
culturali romantico-sensitive, la partecipazione alla comunità politica liberale, la richiesta di servizi di accoglienza e di ospitalità.
Abstract: The paper offers an analysis of the key passages in the diary written
by zoologist Giosuè Sangiovanni about his voyage to Italy from February to
June 1818. Sangiovanni’s récit de voyage contains some interesting elements
that distinguish early nineteenth century travel: the affirmation of romanticsensitive cultural issues, participation in the liberal political community, the
demand for hospitality.
Keywords: Naples, Italy, Recreational Travel
*
La nota introduttiva è una versione riformulata del saggio apparso in A.
BERRINO, «Storia del Turismo. Annale», 10 (2016), Milano, Franco Angeli,
pp. 11-21.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
Sommario: Introduzione – Il viaggio come cura e necessità – La socialità di
un viaggiatore – Un viaggiatore di diporto – Conclusioni – Fonti – Bibliografia – Giornale del mio viaggio da Napoli a Venezia, eseguito nell’anno 1818
Versione definitiva ricevuta in data 6 febbraio 2018
Introduzione
La fine dell’epopea napoleonica e il ritorno dei Borbone a
Napoli (1815) alimentarono un flusso di viaggiatori verso la capitale, ma è pur vero che non pochi abitanti del Regno lasciarono
temporaneamente Napoli e raggiunsero altre città italiane. Tra di
essi lo scienziato Giosuè Sangiovanni, per il quale viaggiare e
visitare «città tanto care» costituì anche l’occasione per «allontanar[si] per qualche tempo da un paese [Napoli] troppo funesto»1. Egli affidò il racconto di quell’esperienza e dei lunghi soggiorni presso i grandi e i piccoli centri urbani della Penisola a un
diario di viaggio.
Questo contributo propone dunque un’analisi del manoscritto inedito, nonché la sua edizione critica con note e commento, di Giosuè Sangiovanni, Giornale del mio viaggio a Venezia eseguito nell’anno 1818, conservato presso la Biblioteca
di Zoologia del Dipartimento di Biologia dell’Università degli
studi di Napoli Federico II. Il documento è un volume rilegato
che contiene anche alcune note autografe relative all’esilio in
Francia dello stesso Sangiovanni tra il 1800 e il 1818; queste ultime recentemente pubblicate in edizione critica da Vittorio Martucci2.
1
Su Giosuè Sangiovanni si rimanda a F. D’ANGELO, Giosuè Sangiovanni, ad
vocem «Dizionario Biografico degli Italiani», vol. 90 (2017), pp. 207-2010.
2
Per l’esilio in Francia di Sangiovanni mi permetto di suggerire F. D’ANGELO, Les hommes de science napolitains en exil en France, des passeurs
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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Questo lavoro si inserisce nel filone storiografico che considera il primo Ottocento come un momento a sé nella storia del
viaggio e del turismo; quel periodo presenta infatti caratteri propri rispetto al secondo Settecento da una parte e al turismo di
secondo Ottocento dall’altra. Nel diario di Sangiovanni appaiono evidenti alcuni elementi caratterizzanti questa fase di
transizione: le istanze culturali romantico-sensitive, il credo politico liberale, la richiesta di servizi di accoglienza e di ospitalità.
Il viaggio come cura e necessità
Io accettai con molto piacere la sua onorevole e generosa offerta, che mi presentava nel tempo medesimo la favorevole occasione di rivedere città tanto a
me care, e quella, ancor più grata, di allontanarmi per qualche tempo da un
paese per me troppo funesto3.
Così Giosuè Sangiovanni, professore di anatomia comparata all’Università di Napoli, ricorda la decisione di aver accolto
l’invito di Gaetano Bellelli, un ex generale di Gioacchino Murat,
ad accompagnarlo nella visita ad alcune città d’Italia al fine di
individuare i migliori istituti formativi della Penisola presso i
quali iscrivere i figli Raffaele e Pasquale.
Il viaggio in Italia, iniziato il 10 marzo e conclusosi il 14
giugno 1818, si configurava come momento di sollievo, occasione necessaria per allentare la sorveglianza del governo borbonico, poiché Sangiovanni aveva sostenuto la Repubblica napoletana nel 1799 e successivamente il governo di Murat a partire
dal 1808. La visita delle città italiane era inoltre un momento di
scientifiques et politiques, in «Revue d’Histoire du XIXe siècle», 53/2 (2016),
pp. 39-59. Sul diario del viaggio in Francia si veda invece G. SANGIOVANNI,
Diari, V. MARTUCCI (ed.), Napoli, ISPF, 2014.
3
G. SANGIOVANNI, Giornale del mio viaggio a Venezia eseguito nell’anno
1818, 10 marzo 1818.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
compensazione delle fatiche dell’attività di scienziato che egli
svolgeva a Napoli tra numerose difficoltà.
Giosuè Sangiovanni infatti aveva aderito con grande entusiasmo ala breve parentesi repubblicana a Napoli del 1799 ed era
stato poi condannato all’esilio al rientro dei Borbone nel Regno.
Come molti suoi compatrioti aveva riparato in Francia dove
aveva avuto la possibilità di continuare gli studi interrotti in patria4. Richiamato a Napoli da Murat nel 1808 nell’ambito di un
intenso programma di riforme, che aveva coinvolto anche le istituzioni scientifiche, egli aveva effettuato importanti ricerche.
Aveva sviluppato, muovendosi sul sentiero scientifico tracciato
da Jean-Baptiste Lamarck, suo maestro a Parigi negli anni
dell’esilio, una delle idee chiave degli studi dello scienziato transalpino, l’ereditabilità dei caratteri acquisiti5.
Con la fine della dominazione dei Napoleonidi nel 1815,
l’attività lavorativa e la vita quotidiana di Sangiovanni proseguirono con difficoltà e sofferenza. Prima giacobino, poi murattiano
egli era inviso ai Borbone che erano tornati a occupare il trono
di Napoli. Costantemente sorvegliato dalla polizia, fu per pochi
mesi allontanato dall’Università e privato dei fondi stanziati per
la gestione del Museo zoologico. Il viaggio a Venezia diventava
quindi una possibilità per «godere un poco di libertà e di piacere,
che in un paese straniero quantunque sia la forma del suo governo giammai si nega al viaggiatore» e per poter «arricchire
l’animo mio di altre nuove ed utili conoscenze, cose tutte le quali
4
Sull’esilio in Francia alla fine del Settecento degli italiani si veda A.M. RAO,
Esuli. L’emigrazione politica italiana in Francia, 1792-1802, Napoli, Guida,
1992. Su quello degli scienziati del Regno di Napoli, tra i quali Sangiovanni,
si rimanda invece a F. D’ANGELO, Dal Regno di Napoli alla Francia. Viaggi
ed esilio tra Sette e Ottocento, Napoli, Dante&Descartes, 2017.
5
P. CORSI, Lamarck en Italie, in «Revue d’histoire des sciences», 37 (1984),
pp. 47-64.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
555
insieme unite debbono non poco contribuite al miglioramente
della mia ben alterata salute»6.
Che il viaggio debba essere considerato come terapia e che
esso arrechi benefici effetti sono idee che in Sangiovanni ricorrono spesso, come peraltro nei viaggiatori europei di primo Ottocento7: il viaggio è momento di evasione, cura per il corpo e la
mente. A riguardo egli ricorda che a Roma fu sufficiente «la vista dei dominii dei successori di S. Pietro» per ottenere, «forse
per virtù soprannaturale, subitaneo sollievo»8.
Spostarsi in Italia e in Europa nella prima metà dell’Ottocento comprtava nuove esigenze. Le reti di relazioni che i giovani rampolli dell’aristocrazia del vecchi continente avevano
sfruttato nei secoli precedenti per ottenere accoglienza e agevolazioni durante il viaggio formativo non erano più valide9. I
nuovi viaggiatori, che la recente storiografia per i primi decenni
dell’Ottocento definisce di diporto10, erano espressione dell’alta
borghesia che non disponeva degli stessi canali dei viaggiatori
del secolo precedente per avere ospitalità privata. Essi avevano
bisogno di servizi e di informazioni utili che permettessero di
orientarsi e di gestire gli imprevisti. A tale necessità l’editoria
rispondeva con prontezza, immettendo sul mercato librario delle
guide che fornivano indicazioni pratiche per trovare una sistemazione e visitare città e paesi11.
6
SANGIOVANNI, Giornale del mio viaggio, 10 marzo 1818.
Si veda ad esempio L. MELIGRANA, Il viaggio: la più bella ginnastica dello
spirito. Esperienze di un turista del 1820, in «Storia del turismo. Annale», 7
(2008), pp. 11-45.
8
SANGIOVANNI, Giornale del mio viaggio, 11 marzo 1818.
9
C. DE SETA, L’Italia del Grand Tour: da Montaigne a Goethe, Napoli,
Electa, 1996; G. BERTRAND, Le grand tour revisité: pour une archéologie du
tourisme: le voyage des français en Italia, Roma, École française, 2008.
10
A. BERRINO, Storia del turismo in Italia, Bologna, Il Mulino, 2011, p. 11.
11
G. TORTORELLI, Viaggiare con i libri. Saggi su editoria e viaggi nell’Ottocento, Bologna, Pendragon, 2012.
7
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
Gli ostelli erano punti di ristoro e di riposo e si configuravano anche come luoghi di rifugio temporaneo in paesi non sicuri, nonché di salvezza dai briganti. A Mola di Gaeta lo scienziato «giunge a salvamento in un albergo sul lido del mare» dopo
aver passato città pericolose12; fermarsi presso una locanda a
Terracina, in cui egli soggiornò durante il ritorno a Napoli, fu
l’unico modo per liberarsi «dai briganti che infestano i nostri
maledetti confini»13.
Le guide, «non più un’opera erudita ma strumento agevole»14, diventavano un mezzo efficace per rispondere alle sollecitazioni e alle domande di servizi dei viaggiatori. Esse annotavano con sempre maggiore precisione i nomi, gli indirizzi, i
servizi, i proprietari, i gestori e naturalmente i prezzi praticati
dagli albergatori. In questo modo registrarono la nascita e l’affermazione dell’imprenditoria alberghiera che agli inizi dell’Ottocento muoveva i primi passi15.
Sangiovanni, giunto a Roma il 14 marzo, guida alla mano,
scelse inizialmente di sistemarsi all’albergo della Sibilla presso
la Porta del Popolo. Cambiò successivamente alloggio, trasferendosi alla locanda della Monaca a Tor Sanguigna a pochi metri
da piazza Navona e nei pressi della Basilica di Sant’Apollinare,
poiché il precedente «era caro e situato nel luogo più cospicuo
della principale strada di Roma [strada del Corso]»16. Come per
molti altri viaggiatori di questi anni, individuare la struttra meno
cara era uno dei criteri di scelta degli alberghi. Anche per lo
scienziato la tenue disponibilità economica non consentiva di
avere vasta scelta. A Venezia la prima opzione fu il Leon Bianco
12
SANGIOVANNI, Giornale del mio viaggio, 10 marzo 1818.
Ivi, 13 marzo 1818.
14
BERRINO, Storia del turismo, p. 29.
15
E. KAWAMURA, Alberghi e albergatori svizzeri in Italia tra Ottocento e
Novecento, in «Storia del turismo. Annale», 4 (2004), pp. 11-39.
16
SANGIOVANNI, Gioranle del mio viaggio, 13 e 15 marzo 1818.
13
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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situato sul Canal Grande; dopo qualche giorno cambiò albergo
poiché il Leon Bianco anche «se nobile era caro»17.
Nel Giornale troviamo l’indicazione dei prezzi praticati da
alcuni alberghi d’Italia, ma anche giudizi, seppure sintetici, sulla
qualità del servizio. Per questi aspetti probabilmente il diario doveva essere destinato alla stampa, proponendosi infatti anche
come guida e supporto a quanti desiderassero viaggiare in Italia.
Sangiovanni sconsiglia l’albergo della Posta a Forlì in quanto
gestito da pessimi locandieri, così come suggerisce di non soggiornare a Serravalle del Chienti, oggi comune in provincia di
Macerata, poiché era un paese «detestabile» dove i vinadanti
erano «malissimamente trattati»18. Sangiovanni offre così una
panoramica su alcuni albergi in Italia, indicando la loro ubicazione, i prezzi e dando un giudizio sintetico sui servizi offerti.
Non mancano poi informazioni sulle strade da percorrere
per spostarsi sul territorio italiano e sul trattamente riservato ai
viaggiatori alle dogane. L’autore annota ad esempio che la strada
che conduceva da Bologna e Ferrara era una delle migliori in
Italia: il tragitto, non dissestato e di agevole percorrenza, era
maggiormente apprezzabile perché costeggiato ai due lati da pinatagioni di pioppo. La strada che collegava Tolentino a Belforte
del Chienti, oggi entrambe nella provincia di Macerata, era invece orribile e rovinata. Altrettanto danneggiato era il tratto dal
Belfrote del Chienti a Serrevalle del Chienti composta «di continue salite e discese»19.
Il riferimento ai percorsi citati in alcuni passaggi del Giornale si inserisce in un discorso più ampio sullo stato delle vie di
comunicazione in Italia. La dominazione napoleonica aveva no-
17
Ivi, 8 maggio 1818.
Ivi, 1 giugno 1818.
19
Ibidem.
18
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
tevolmente contribuito a migliorare l’impianto viario della Penisola, ristrutturando la rete stradale, o costruendo nuovi percorsi20. Gli interventi di manutenzione e costruzione delle strade
operati dagli ingegneri erano indispensabili per ragioni militari
ed economiche: favorire un più rapido spostamente degli eserciti, stimolare una maggiore e migliore circolazione delle derrate
e delle materie prime21. Un impianto viario potenziato era inoltre
necessario a fronteggiare e a favorire il numero crescente di
viaggiatori che, soprattutto durante la Restaurazione, valicava le
Alpi e giungeva in Italia.
Tuttavia, secondo Sangiovanni, gli spostamente sul territorio italiano oltre che dal miglioramento della rete stradale, dovevano essere facilitati da un più agevole controllo alle frontiere.
Egli racconta che gli ufficiali della dogana all’ingresso nei domini pontifici avevano perpetrato maltrattamenti e soprusi ai
suoi danni e che tale atteggiamento era stato adottato pure nei
confronti di altri viaggiatori22.
Il comportamento della polizia degli Stati pontifici, che
non si differenziava da quello assunto da altre dogane, si collocava in un contesto in cui, negli anni immediatamente successivi
all’epopea napoleonica, gli Stati europei cercavano di controllare e di limitare la mobilità degli uomini.
Percorse le strade più agevoli, superati i controlli alle frontiere, individuato l’albergo migliore, allo scienziato non restava
che intraprendere la visita delle città che di volta in volta toccava. A Roma per muoversi con maggiore agilità, per orientarsi
meglio nella visita e apprezzare pienamente le bellezze artistiche
20
A. DI BIASIO, Strade e vie di comunicazione nell’Italia napoleonica, Napoli, ESI, 2001.
21
F. D’ANGELO, Scienze e viaggio. Ingegneri e architetti del Regno delle Due
Sicilie, Villasanta, Limina mentis, 2014.
22
SANGIOVANNI, Giornale del mio viaggio, 23 maggio 1818.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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che l’Urbe offriva, lo zoologo acquistò l’Itinerario di Roma antica e moderna prodotto da Mariano Vasi, la guida italiana più
diffusa in questi anni. Recandosi alla tipografia di Vasi, egli ebbe
peraltro la possibilità di conoscere personalmente l’autore
dell’Itinerario, che definisce «letterato distinto»23. L’Itinerario
di Vasi fu uno strumento di grande utilità poiché permise a Sangiovanni di esaminare accuratamente i quadri, le pitture, le statue
di marmo e di bronzo dislocati in punti diversi della città.
Nel corso dell’Ottocento le guide cominciavano a imporsi
come oggetto irrinunciabile del viaggio. Laddove mancavano,
soprattutto per i centri minori della Penisola e per quelli meno
battuti dai viaggiatori, venivano rimpiazzate da accompagnatori
locali. In alcuni casi erano persone di giovane età, più o meno
istruite sulla storia del loro paese. A Papigno, oggi frazione del
comune di Terni, lo scienziato racconta che fu un ragazzino di
soli nove anni, tale Matteo Moccadelli, ad accompagnarlo a visitare la cascata delle Marmore. Il fanciullo, dotato di eloquenza
e precisione ciceroniana, fornì al suo ospite tutte le informazioni
sull’origine e sulle caratteristiche della cascata, che gli mostrò
da diversi punti24. Il talento del giovane cicerone impressionò a
tal punto Sangiovanni, che questi avrebbe voluto portarlo con sé
a Napoli per farlo studiare. Rinunciò però al suo proposito per
l’opposizione della madre25.
Le guide, oppure gli accompagnatori occasionali come il
giovane Moccadelli, furono elementi importanti del viaggio in
Italia di Sangiovanni. Altrettanto indispensabili furono i rapporti
di amicizia e di conoscenza che agevolarono il soggiorno dello
scienziato nelle diverse città visitate.
23
Ivi, 17 marzo 1818.
Ivi, 3 giugno 1818.
25
Ibidem.
24
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
La socialità di un viaggiatore
Negli anni dell’esilio parigino, dal 1800 al 1808, Sangiovanni aveva avuto la possibilitàdi incontrare e di discutere con
altri emigrati, con gli scienziati francesi e i suoi compatrioti e
questo alleviò le difficoltà e le sofferenze proprie dell’esilio.
Condividere opinioni e incontrare uomini che sperimentavano la
medesima sorte costituivano i requisiti fondamentali per sopravvivere in terra straniera.
Durante il viaggio in Italia del 1818 la socialità, intesa
come forma di aggregazione volontaria e non casuale, offrì allo
zoologo napoletano le stesse occasioni sperimentate nel periodo
del soggiorno forzato in Francia. Si presentava come momento
in cui «si discute liberamente, si formano opinioni, si leggono
libri e giornali, si tengono conferenze e mostre, si ascoltano relazioni di viaggio e rapporti scientifici»26. Frequentare gli scienziati era un modo per aggiornarsi sulle recenti ricerche nella medicina, zoologia e mineralogia; discutere con gli artisti era necessario per conoscere i monumenti e le opere d’arte; incontrare
i compatrioti, in alcuni casi esuli, era l’occasione per riflettere
sulle sorti del Regno di Napoli e sul governo dei Borbone, soprattutto all’indomani della fine di Gioacchino Murat.
Il viaggio in Italia fu un’opportunità che consentì a Sangiovanni di riallacciare i rapporti con uomini che per ragioni prevalentemente politiche avevano abbandonato Napoli, definitivamente o temporaneamente. È possibile inoltre ipotizzare che gli
incontri con alcuni compatrioti costituirono un momento di discussione, preludio alla partecipazione ai moti del 1820 e al parlamento nazionale27.
26
A. BERRINO, Forestieri a Napoli nell’Ottocento: attrazioni, socialità e cultura, in «Memoria e ricerca», 46 (2014), pp. 13-28, p. 16.
27
Sulla partecipazione di Sangiovanni ai moti del 1820 e sulla nomina a membro del parlamento napoletano si rimanda a F. D’ANGELO, Il Mezzogiorno,
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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Certamente volontaria fu la decisione di accompagnare,
fino a Firenze, Gaetano Bellelli, uomo di spicco dell’esercito
murattiano, poi protagonista durante i moti del 1820 e infine
capo del governo provvisorio di Salerno. A Firenze il generale
Bellelli decise di rientrare a Napoli per sbrigare alcuni affari personali, mentre Sangiovanni proseguì il viaggio fino a Venezia in
compagnia di Francesco Muscettola. Non casuale fu la visita a
Firenze a Giuseppe Poerio, uno dei più autorevoli rappresentanti
del governo repubblicano nel 1799 e successivamente deputato
al parlamento napoletano nel 1820. Avevano poi cadenza quotidiana le riunioni in casa di Giuseppe Zurlo, appuntamenti, come
emerge chiaramente dal Giornale di Sangiovanni, che avevano
un ritmo serrato e che rappresentavano una consuetudine piacevole e importante. Attraverso i dialoghi con il conte Zurlo, che
era stato ministro dell’Interno al tempo di Murat, Sangiovanni
riviveva gli anni del governo napoleonico, i più fecondi, a suo
dire, per la ricerca scientifica nel Regno. La sera del 24 marzo
presso l’appartamento di Zurlo, egli incontrò pure Alessandro
Begani, generale d’artiglieria dell’esercito di Murat.
Gli appuntamenti con i compatrioti esuli, gli ex murattiani,
i ministri del governo francese furono di natura politica, di altro
genere quelli con i colleghi incontrati durante il viaggio in Italia.
La socialità scientifica, in cui comunque la conversazione non
trascurava aspetti mondani e apparentemente di secondaria importanza, era un modo per proporre un più intenso scambio di
idee e di riflessioni puramente scientifiche. Prendere parte ai ritrovi con uomini di scienza di altre città rappresentava un’opportunità per farsi apprezzare, giudicare e soprattutto per aggiornarsi.
l’Europa, il Mediterraneo. Il carteggio Sangiovanni, Roma, Aracne, 2018 (in
corso di pubblicazione).
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
A Fondi, durante il viaggio da Napoli a Venezia, Sangiovanni discusse con un medico, tale Zecca, delle origini del “tifo
nervoso” e della “febbre petecchiale”, termine con cui si identificava il tifo esantematico, e dei possibili rimedi atti ad arginare
le loro conseguenze. A Firenze lo zoologo napoletano si intrattenne con il medico Antonio Nanula, anch’egli di Napoli. Per
incontrare Francesco Aglietti, consigliere del governo austriaco
a Venezia e protomedico di Stato, fu necessaria la lettera di raccomandazione rilasciata da Zurlo. Aglietti, che fece ricerche
sulla litiasi delle arterie evidenziando l’importanza delle lesioni
anatomiche nella formazione degli aneurismi, era medico di
grande reputazione e di prestigio a Venezia e in Italia. Sangiovanni avrebbe potuto frequentarlo soltanto esibendo una lettera
commendatizia. Le lettere di raccomandazione, alle quali lo
scienziato napoletano ricorreva spesso durante i suoi spostamenti in Italia, contribuivano a garantire l’identità e la legittimità
del viaggiatore. Raccolte prima della partenza o durante il tragitto, permisero di attivare a suo profitto un insieme di conoscenze indirette e di abbreviare così il tempo necessario per accedere alle risorse materiali, sociali e intellettuali delle città attraversate. Le lettere di raccomandazione servirono inoltre in diverse occasioni per procurare una guida per visitare una città,
accedere alle sfere della socialità urbana, oppure ad alcune comodità materiali come ad esempio un alloggio.
Il viaggio in Italia fu l’occasione per discutere non soltanto
di medicina. A Roma Sangiovanni si interessò agli studi matematici di Bartolomeo Gandolfi, che conobbe al Collegio Nazareno grazie ala lettera di presentazione di Teodoro Monticelli,
studioso di mineralogia all’Università di Napoli. Sempre a
Roma, accompagnato dalle lettere di Carlo Giuseppe Gismondi
docente di mineralogia a Napoli per pochi mesi, Sangiovanni visitò la farmacia di tale Conti, presso la Basilica di Sant’Eusta-
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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chio, e prese parte come uditore alla Sapienza alle lezioni di Domenico Morichini sulla magnetizzazione dell’ago d’acciaio. Il
25 marzo in caso dello stesso Conti, si intrattenne con Luigi Metaxà, professore di veterinaria alla medesima scuola. L’incontro
con Girolamo de’ Bardi, direttore dell’Istruzione pubblica e del
Gabinetto di fisica di Firenze, fu l’occasione per ricordare gli
anni di studio a Parigi sotto l’influenza di Georges Cuvier. A
Ferrara infine conobbe personalmente Antonio Campana, docente di chimica e di farmacia all’università.
Il Giornale conferma che uno dei luoghi maggiormente caratteristici della socialità ottocentesca fu il salotto, accanto al
quale si affermarono in maniera sempre più evidente altri luoghi
di ritrovo e di incontro: associazioni, club, caffè, circoli, società
filantropiche, gabinetti di lettura. Come surrogato di associazionismo politico, al tempo vietato, il salotto era momento di confronto tra posizioni e opinioni diverse. In esso si dibatteva pure
di scienza, di arte, di letteratura. È quanto appare dal diario del
viaggio in Italia: in caso di un certo abate Pennoni la sera del 17
marzo si discusse delle visite alla Colonna Antonina e al Colosseo, effettuate al mattino. Il giorno seguente, il 18 marzo, in
compagnia di Gaetano Bellelli e di Francesco Muscettola, Sangiovanni fece visita allo studio di Antonio Canova che conobbe
personalmente: lo scultore mostrò ai suoi ospiti alcune realizzazioni, le Tre Grazie e la statua di Ferdinando I di Borbone. Con
il pittore Agostino Tofanelli lo scienziato dialogò sul Colosseo
e sul Campidoglio. Il dopocena del 27 marzo, sempre accompagnato dall’abate Pennoni, si recò presso la dimora di un poeta,
Scrucci, ad ascoltare alcune sue composizioni: «su temi dati dagli astanti e tirati a sorte [Scrucci] ha improvvisato La morte di
Saffo, Le nozze di Psiche ed Amore nel cielo, La morte di Socrate, della quale egli ha formato una tragedia»28.
28
SANGIOVANNI, Giornale del mio viaggio, 27 marzo 1818.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
In Toscana gli appuntamenti presso la dimora del duca di
Diano avevano ancora come oggetto di discussione l’arte. Al dopopranzo del 25 aprile si ricordava la visita effettuata alla Villa
Medicea del Poggio Imperiale, sul colle di Arcetri; la sera del 27
invece si parlava della fabbrica di porcellana fondata a Doccia
da Carlo Ginori nel 1737.
Momenti di svago e di incontro furono pure le serate trascorse a teatro. Al Valle di Roma, presso Sant’Eustachio, Sangiovanni apprezzò la rappresentazione dell’Agnese di Ferdinando Paër, mentre al San Benedetto di Venezia, «bellissimo e
più grande del nostro Fondo», ammirò la rappresentazione del
Barbiere di Siviglia29.
Un viaggiatore di diporto
Il viaggio in Italia e il Giornale che raccoglie le esperienze
e le sensazioni provate in quella occasione consentono di elaborare alcune riflessioni. Negli anni della Restaurazione, un periodo in cui gli Stati preunitari italiani sono alla ricerca di un
nuovo equilibrio dopo gli sconvolgimenti rivoluzionari e napoleonici, il movimento dei viaggiatori riprende, anche se sotto un
controllo serrato effettuato alle frontiere.
A partire dagli ultimi anni del Settecento, ma soprattutto
dagli inizi dell’Ottocento, l’esperienza del viaggio si arricchisce
della sensibilità romantica: l’inquietudine e l’irrequietezza interiore. Il viaggiatore è attento ai paesaggi naturali e ai monumenti
creati dall’uomo, così come prova ammirazione per la cultura
popolare e i suoi costumi. L’Ottocento inaugura inoltre «la
29
Ivi, 13 maggio 1818.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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grande stagione del sublime naturale, letterario e artistico, veicolato dal sentire romantico»30. Lo stimolo alla partenza non
viene più soltanto da ragioni scientifiche, politiche, ma anche
dalle istanze romantiche, tra le quali lo spleen con cui si «intende
la malinconia che connota il Romanticismo [o] una sorta di ansia
melanconica senza motivo»31.
Con ritmo serrato e tono malinconico Sangiovanni racocnta nel suo giornale l’emozione suscitata dai resti della civiltà
romana. Alle rovine dell’antica città di Minturno seguiva sulla
strada per Formia il mausoleo di Cicerone, che ricordava il luogo
in cui era stato assassinato32.
Il sentimento della rovina era tipico del sentire romantico.
Le rovine ispiravano in Sangiovanni la sensazione del disfacimento dele cose prodotte dall’uomo, dando allo spettatore la
commozione del tempo che scorre. Le testimonianze delle civiltà
passate, anche se aggredite dalla corrosione del tempo, erano comunque presenti nelle rovine. Ed esse, per lo spirito romantico,
erano più emozionanti e piacevoli di un edificio, di un manufatto
intero. Ad Albano Laziale, alla vista di tombe e altri monumenti
antichi andati in rovina, lo scienziato confessava che
L’animo dell’osservatore all’aspetto del loro prodifioso numero [dei monumenti antichi], meditando sull’estraordinaria potenza del popolo che li edificò
passa per gradi dalla contemplazione all’ammirazione, dall’ammirazione alla
sorpresa, dalla sorpresa allo spavento, e da questo all’avvilimento33.
30
R. BODEI, Paesaggi sublimi. Gli uomini davanti alla natura selvaggia, Milano, Bompiani, 2008.
31
BERRINO, Storia del turismo, p. 22. Sul concetto di spleen si rimanda a M.
BOYER, Histoire générale du tourisme. Du XVIe au XXIe siècle, Paris, L’Harmattan, 2005.
32
SANGIOVANNI, Giornale del mio viaggio, 11 marzo 1818.
33
Ivi, 13 marzo 1818.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
Al sentimento della rovina si affianca una categoria estetica, il pittoresco, che connota il Romanticismo. I punti di veduta
che offrivano le colline senesi «sono estremamente pittoresche»,
così come il Valico della Somma, tra Spoleto e Terni, presentava
«luoghi circonvicini tutti cinti da montagne coverte di boschi
molto pittoreschi»34. Un piccolo bosco e la cascata nelle sue vicinanze rappresentavano altrettanti punti di veduta molto interessanti e pittoreschi. Il pittoresco era la categoria estetica dei
paesaggi che pure in Sangiovanni si configurava come il rifiuto
della precisione geometrica, per ritrovare la sensazione gradevole nella irregolarità e nel disordine spontaneo della natura.
Nella cultura romantica accanto alla categoria del pittoresco si impone pure quella del sublime. Agli occhi dello zoologo
la montagna di San Casciano in Val di Pesa, oggi comune italiano della provincia di Firenze, era «orribilmente aspra»35. Sgomento e paura egli provava alla vista in lontananza delle Alpi.
La catena degli Appennini, ammirata dal versante adriatico, appariva, in contrapposizione ossimorica, bella e orribile. Senso di
smarrimento provocava la cascata delle Marmore, «nulla di più
ammirabile, di più maestoso» che «si frange, s’imbianca, si cambia in ischiuma, in nube, in vapore e poi risale e sorpassa la sua
origine; ed infine, che quando la sua collera è calmata, rientra
nel letto del fiume e corre pacificamente verso il suo destino»36.
Tuttavia non soltanto i paesaggi naturali suscitavano spavento e
meraviglia: un uomo poteva provare stupore e irrequietezza nel
vedere Venezia edificata sull’acqua, città paragonata a un’immensa flotta di navi da guerra che «maestosamente galleggia sul
mare, sprezzando ogni tempesta»37.
34
Ivi, 16 aprile e 3 giugno 1818.
Ivi, 16 aprile 1818.
36
Ivi, 3 giugno 1818.
37
Ivi, 7 maggio 1818.
35
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Al bello, categoria estetica propria del neoclassicismo e
che doveva ispirare sensazioni gradevoli, si opponeva il sublime
romantico. Esso non nasceva dal piacere della misura e della
forma bella, né dalla contemplazione disinteressata dell’oggetto,
ma aveva la sua radice nei sentimenti di paura e di orrore suscitati dall’infinito, dalla dismisura, da tutto ciò che è terribile o che
riguarda cose terribili, il vuoto, l’oscurità, la solitudine, il silenzio. Il sublime era in ultima analisi quel sentimento misto di sgomento e di piacere determinato sia dall’assolutamente grande e
incommensurabile, sia dallo spettacolo dei grandi sconvolgimenti e fenomeni naturali che provocavano nell’uomo il senso
della sua fragilità e finitezza.
Nelle pagine del Giornale, oltre al richiamo ai canoni estetici del pittoresco e del sublime, appare evidente l’inquietudine
interiore del viaggiatore, il cui animo spesso si lascia attrarre
dalla malinconia e dalla morte come soluzione necessaria a placare i dissidi dell’inconscio. Il senso d’inquietudine, d’insoddisfazione e di malinconia spingeva Sangiovanni a cercare conforto o nella contemplazione della natura, sentita come proiezione dello stato d’animo, o nella propria interiorità, o nella
morte. Ai padri del convento di San Lazzaro degli Armeni a Venezia egli «diede un eterno addio»; grande sofferenza interiore
provò al momento della partenza da Venezia: «Io cesserò di essere infelice quando finità la mia esistenza, imperocché infelicità
ed esistenza per me sono sinonimo». La visita al cimitero di Bologna «se non fa venire il desiderio di morire, diminuisce almeno
il terrore della morte e la fa meno temere. Felice colui che essendo già preso al termine di sua vita, può andare a morire in
Bologna!!»38.
Il Giornale è dunque lo specchio di un’anima, il ritratto di
una moralità che in Sangiovanni non è difficile scorgere seria e
38
Ivi, 19, 20, 25 maggio 1818.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
schiva, a tratti ombrosa e intransigente, che gli fa biasimare
aspramente l’ipocrita e indifferente condotta dei cattolici e delle
gerarchie ecclesiastiche in occasione delle celebrazioni della
Santa Pasqua. Chi partecipò alla messa pasquale nella Basilica
di San Pietro, egli si chiede:
Era attento alle sacrosante funzioni che con indicibile pompa e solennità vi si
celebravano? Niente affatto: non ve n’era alcuna. La chiesa di S. Pietro era in
tumulto, in rumore, in confusione, in lascivia. Tutti portavano a braccio le
loro innamorate, scandalosamente vestite e scoverte quasi fino all’ombelico
ed ai seni. I cardinali, i prelati ed i vescovi, erano ancor essi confusi nella
folla, tenendo a braccio le loro drude, scelte, come ben si comprende, fra le
più belle e lascive dame romane, ancor queste più oscenamente vestite e
chiassavano, ridevano, squasiavano. I principali attori di questa scandalosa
commedia erano i primi ministri di Cristo39.
Ancor più duro è il commento all’attività commerciale degli abitanti di Loreto che consisteva nella vendita di oggetti sacri
legati al santuario della città: essa non era altro che il frutto di
«una maleintesa religione!»40. Se i lauretani erano da condannare, da ammirare erano invece i paesani che organizzavano ogni
anno la festa popolare presso il Parco delle Cascine, vicino Firenze.
Una gran quantità di gente popolare, galantemente vestita, desina, balla, canta
e suona. Non puol’idearsi una festa popolare più dilettevole che mostri quanto
contribuisca la pubblica educazione rendere un popolo civile, costumato, manieroso ed istruito41.
A Le Maschere, piccolo contado oggi frazione del comune
di Barberino del Mugello, lo zoologo prese parte a una festa popolare che si svolse i primi tre giorni di maggio in cui «diversi
39
Ivi, 19 marzo 1818.
Ivi, 31 maggio 1818.
41
Ivi, 30 aprile 1818.
40
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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drappelli di amabili donzelle, ornate di corone di fiori recitavano
a coro le loro canzoni di Maggio». Un canto in particolare lo
colpì, quello che derise il «tumulo fungo fetido ed inetto Vecchione», che nel periodo dei moti del 1820-1821 fu ministro
dell’Interno a Napoli42.
L’attenzione dell’autore del Giornale alle manifestazioni
popolari di alcuni paesi dell’Italia si inserisce nel nuovo clima
culturale della fine del Settecento e dei primi decenni dell’Ottocento, in cui fu forte l’interesse conoscitivo verso gli usi, i costumi e le credenze popolari. Gli stessi che nei secoli precedenti
erano considerati consuetudines non laudabiles, devianze e sopravvivenze di un’antichità pagana, nella cultura romantica invece le manifestazioni culturali del vulgus diventavano oggetto
di osservazione e non di giudizio, di conoscenza, di descrizione.
A un’antica mentalità che vedeva negli strati più umili della società l’espressione di rozzezza e di inciviltà, si opponeva quella
ottocentesca: il popolo e la cultura da esso espressa rappresentavano i referenti irrinunciabili ai quali ispirarsi in cerca di un principio unificatore in grado di far affiorare un senso di unità interna da contrapporre alla frammentarietà politica. Il popolo, che
in precedenza era stato vituperato e condannato per i suoi atteggiamenti devianti, era l’anima della nazione, culla dei valori autentici e puri cui attingere per costruire un’identità nazionale.
Altro aspetto interessante del Giornale è il continuo confronto, mai però apertamente dichiarato ma comunque riconoscibile a una lettura profonda del diario, tra le città italiane visitate e quelle del Regno di Napoli. Ai pessimi abitanti di Itri «inclinati al furto e al massacro, tendenze le quali vengono sicura-
42
Ivi, 2 maggio 1818.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
mente in loro generate fin dal nascere dalla orrenda conformazione del luogo ove dimorano»43, si opponevano le gioiose popolazioni della Toscana. Alle redditizie campagne dell’alto Lazio, della Toscana, dell’Umbria e della Romagna coltivate con
tecniche moderne si contrapponevano quelle del Mezzogiorno.
Alle università italiane, dotate di efficienti laboratori e di strumenti scientifici adeguati, facevano da contraltare quelle napoletane spesso alle prese con difficoltà economiche, burocratiche
e amministrative.
Ma il paragone operato tra Napoli e il resto d’Italia non
voleva essere fine a se stesso, né tantomeno voleva presentarsi
come sterile critica, come l’invettiva di chi era stato espulso per
motivi politici dalla sua patria ed era stato poi sempre sotto
stretta sorveglianza. Voleva essere in realtà un monito, o meglio
un incitamento, non tanto al governo quanto alla società civile,
a ispirarsi ai modelli politici, economici, culturali, scientifici, i
migliori della Penisola.
Conclusione
Sangiovanni si avvicina alle bellezze naturali, artistiche e
paesaggistiche dei luoghi visitati con un approccio non più soltanto scientista, bensì dando libero sfogo alle sensazioni e senza
nascondere l’aspetto ludico. Il viaggio in Italia è inoltre un momento necessario di evasione, di riposo. Per l’attiva partecipazione alla Repubblica napoletana e al Decennio francese, Sangiovanni è stato posto sotto stretta sorveglianza dai Borbone durante la Restaurazione; l’allontanamento temporaneo da Napoli
è quindi anche un’esigenza psicologica, un’occasione per ritemprare la mente e il corpo.
43
Ivi, 11 marzo 1818.
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Ma la partenza per qualche mese dalla capitale diventa
pure un’occasione di formazione scientifica e di educazione intellettuale. Roma, Firenze, Bologna, Venezia appaiono nel diario
di viaggio il cuore pulsante della cultura italiana di primo Ottocento e rappresentano i centri propulsori del sapere scientifico. I
nomi prestigiosi, le istituzioni, le ricche biblioteche, i grandi musei della Penisola, citati frequentemente nel Giornale sono modelli ai quali il Regno di Napoli avrebbe potuto e forse dovuto
ispirarsi per conseguire altri risultati eccellenti nel campo
dell’astronimia, della fisica e della medicina e stabilizzarli sulla
lunga durata.
Seguire Sangiovanni lungo le strade d’Italia permette di
annotare le curiosità storiche e geografiche di città, di piccole
contrade, di borghi, di fiumi. Ma soprattutto di conoscere i fremiti di uno spirito romantico dinanzi ai paesaggi naturali.
Occorre ancora sottolineare che il viaggio in Italia è un’importante opportunità di discussione politica in un momento storico rilevante, come quello della Restaurazione. Gli incontri con
i compatrioti, gli esuli napoletani, gli ex murattiani servono a
mantenire vivo «le souvenir de Murat»44 e del riformismo francese del Decennio. In particolare, il modello amministrativo, burocratico e tecnico-scientifico impiantato dai napoleonidi nel
Mezzogiorno doveva essere mantenuto, secondo lo zoologo, nonostante il ritorno dei Borbone.
E infine l’obiettivo del viaggio, apparantemente non dichiarato, sembra essere esplicito sin dalle prime battute: occorre
proclamare alla patria d’origine, a Napoli, che il riscatto può trovarsi solo nella conoscenza di altre città, nel confronto con altri
44
P.-M. DELPU, De l’État muratien à l’État bourbon: la transition de l’appareil étatique napolitain sous la Restauration (1815-1822), in J.-C. CARON, J.P. LUIS (eds.), Rien appris, rien oublié ? Les Restaurations dans l’Europe
postnapoléonienne (1814-1830), Rennes, PUR, 2015, 37-50, p. 45.
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uomini, nell’assimilazione di altre culture, nell’apprendimento
di una nuova scienza e di nuove tecniche.
Qualche anno più tardi, nel 1845, gli scienziati dell’Italia
ancora divisa si riuniranno per elaborare mappe comuni del loro
sapere45.
Essi avranno sempre più la consapevolezza, maturata anche da Sangiovanni alla fine del viaggio in Italia, che il risorgimento delle scienze e della cultura può e deve essere prologo di
quello politico e morale.
45
M. MERIGGI, Prove di comunità. Sui congressi preunitari degli scienziati
italiani, in C. POGLIANO, F. CASSATA (eds.), Storia d’Italia. Annali 26.
Scienza e cultura dell’Italia unita, Torino, Einaudi, 2011.
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Fonti
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studi di Napoli Federico II
Giornale del mio viaggio da Napoli a Venezia, eseguito
nell’anno 1818, mobile metallico – libri antichi
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2011
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tourisme: le voyage des français en Italie, Roma, École française, 2008
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BOYER M., Histoire générale du tourisme. Du XVIe au XXIe siècle, Paris, L’Harmattan, 2005
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37 (1984), pp. 47-64
D’ANGELO F., Les hommes de science napolitains en exil en
France, des passeurs scientifiques et politiques, in «Revue d’histoire du XIXe siècle», 53/2 (2016), pp. 39-59
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D’ANGELO F., Scienze e viaggio. Ingegneri e architetti del Regno delle Due Sicilie, Villasanta, Limina mentis, 2014
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DE SETA C., L’Italia del Grand Tour: da Montaigne a Goethe,
Napoli, Electa, 1996
DELPU P.-M., De l’État muratien à l’État bourbon: la transition
de l’appareil étatique napolitain sous la Restauration (18151822), in J.-C. CARON, J.P. LUIS (eds.), Rien appris, rien oublié
? Les Restaurations dans l’Europe postnapoléonienne (18141830), Rennes, Presses Universitaires de Rennes, pp. 37-50
KAWAMURA E., Alberghi e albergatori svizzeri in Italia tra Ottocento e Novecento, in «Storia del turismo. Annale», 4 (2004),
pp. 11-39
MELIGRANA L., Il viaggio: la più bella ginnastica dello spirito.
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scienziati italiani, in C. POGLIANO, F. CASSATA (eds.), Storia
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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TORTORELLI G., Viaggiare con i libri. Saggi su editoria e viaggi
nell’Ottocento, Bologna, Pendragon, 2012
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Giornale del mio viaggio a Venezia eseguito
nell’anno 1818
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Oggetto del viaggio
Venne in pensiero al Signor Colonnello Don Gaetano Bellelli46
di Capaccio, mio caro e stimabile amico, il lodevole divisamento
di eseguire un viaggio infino a Firenze, in unione dei due suoi
primi figli, Raffaele e Pasquale, per farlo servire alla istruzione
di questi e per osservar da vicino gli stabilimenti di educazione
di Roma, di Siena e di Firenze, onde poterne avvalere per la
scientifica e morale educazione degli altri suoi figli di più tenera
età.
Mi comunicò egli questo suo saggio disegno e vedendolo da me
con elogio ed applauso approvato m'invitò a volerlo accompagnare per essergli di aiuto durante il viaggio e di consiglio nella
scelta dell'Istituto di educazione sopra mentovato. Io accettai con
molto piacere la sua onorevole e generosa offerta che mi presentava nel tempo medesimo la favorevole occasione di rivedere
città tanto a me care e quella, ancor più grata, di allontanarmi per
qualche tempo da un paese per me troppo funesto. Mi accinsi
perciò sollecitamente al viaggio.
Siccome era prossima l'epoca della Pasqua, si decise tra noi di
profittare ancora di questa favorevole circostanza per esser presenti alle magnifiche cerimonie della Settimana Santa e veder
Roma nei principali giorni della sua attuale grandezza. Fu perciò
stabilito il 10 marzo pel giorno della nostra partenza.
__________________________________________
46
Gaetano Bellelli (1780 – 1838) durante il Decennio francese fu creato barone da Gioacchino Murat. Fu inoltre colonnello della Legione provinciale di
Salerno e dopo la fine del regno murattiano partecipò ai moti del 1820 e diventò capo del governo provvisorio di Salerno. R. RAIMONDI, Degas e la sua
famiglia in Napoli, Napoli, Sav, 1958, p. 154.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
10 Marzo
Siamo partiti in posta da Napoli alle 8 del mattino col cattivo
tempo. Io sono stato fortunatissimo di potermi allontanare per
qualche tempo dal luogo ove ho tanto sofferto durante dieci anni,
di andare a godere un poco di libertà e di piacere che in paese
straniero, qualunque sia la forma del suo governo, giammai si
nega al viaggiatore e di potere infine arricchire l'animo mio di
altre nuove ed utili conoscenze, cose tutte le quali insieme unite
debbono non poco contribuire al miglioramento della mia ben
alterata salute47.
Giunti in Capua, siamo andati a far colazione in casa del Signor
de Filippi48, Intendente di quella provincia, molto amico del Signor Bellelli, uomo amabile, buono e molto affezionato.
Siamo quindi partiti da Capua, passati per Sparanise49 e giunti
poi a Sant’Agata50, ove abbiamo lasciato i cavalli di posta ed
attaccato i nostri che si erano fatti precedere. Si osservano quivi
i resti dell'antica città di Minturno51. Al di là di Sant'Agata vedesi
il Monte Falerno, tanto celebre presso gli antichi Romani per la
squisitezza dei suoi vini.
47
Dopo aver partecipato alla Rivoluzione del 1799, Giosuè Sangiovanni fu
condannato all’esilio per sette anni. Rientrato a Napoli dalla Francia nel 1808
fu uno degli scienziati più importanti della Napoli murattiana. Al ritorno dei
Borbone a Napoli dopo la fine del Decennio francese fu tenuto sotto stretta
sorveglianza dalla polizia per i suoi trascorsi politici.
48
Costantino de Filippi, intendente di Terra di Lavoro tra il 1818 e il 1819.
L. RUSSO, Francesco di Ruggiero, sindaco carbonaro di San Prisco e consigliere distrettuale, in «Rassegna storica dei Comuni», 176-181 (gennaio-dicembre 2013), pp. 118-122.
49
In provincia di Caserta.
50
In provincia di Benevento.
51
Nel 1818 Minturno, attualmente nella provincia di Latina, apparteneva al
Regno delle Due Sicilie.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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Siamo giunti dopo al Garigliano che si passa su di un ponte di
legno [sostenuto] da tredici barche. Esso è navigabile.
Al di là di questo fiume veggonsi, sulla dritta della strada, i resti
ben conservati di un antico acquedotto composto di moltissimi
archi e sulla sinistra, rimpetto l'acquedotto, quelli di un picciolo
Colosseo o Circo.
Era già tardi e noi avevamo ancora molto cammino a fare. I luoghi che si dovevano passare non erano molto sicuri e noi abbiamo perciò temuto non poco, quantunque avessimo ritrovato
da tratto in tratto dei piccioli posti di guardia. Era già notte
quando abbiamo incontrato, non molto lungi da Mola di Gaeta52,
due altre carrozze da viaggio, la di cui vista ci ha rincorati alquanto.
Siamo finalmente giunti a salvamento a Mola di Gaeta verso le
8 della sera ed abbiamo preso alloggio nell'albergo che è sul lido
del mare.
Abbiamo fatto in questo giorno 48 miglia napoletane.
11 Marzo
Siamo partiti per tempo da Mola di Gaeta. Al di là di Castellone53
abbiamo raggiunto due altre carrozze napoletane dirette ugualmente per la volta di Roma, la prima della Signora Donna Marianna Savaresi la quale con uno dei suoi figli andava a ritrovare
52
Borgo del comune di Formia. Nel 1818 apparteneva al Regno delle Due
Sicilie.
53
Borgo del comune di Formia. Nel 1862 dall'unione di Mola di Gaeta e di
Castellone nacque la città di Formia.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
il Conte Zurlo54, l'altra del Signor Don Francesco Muscettola55,
il quale accompagnava in viaggio la sua figlia Donna Nicoletta
ed il marito di costei Don Nicola Vecchione figlio del tanto famoso per ogni genere di nequizia e di perfidia, Giovan Battista
Vecchione56. Siamo andati da costoro istruiti che bisognava far
vistare il nostro passaporto a Mola di Gaeta, altrimenti a Fondi57
ci sarebbe stato impedito di passar oltre e saremmo stati obbligati
di ritornare a Mola di Gaeta per farlo eseguire. Vi abbiamo perciò spedito il nostro cocchiere.
Frattanto abbiamo continuato a piedi il nostro cammino infino al
luogo ove veggonsi in un podere presso la strada gli avanzi di un
edificio romano in forma di piramide quadrangolare di smisurata
grandezza che dicesi essere il Mausoleo di Cicerone, il quale fu
in questo sito assassinato. Io penetrato da religioso rispetto per
la memoria di sì grand'uomo e da profondo orrore pel modo infelice col quale terminò egli la sua luminosa carriera, l'ho attentamente contemplato e più volte percorso.
La carrozza che avevamo lasciata ci ha finalmente raggiunti col
cocchiere, reduce da Mola di Gaeta col passaporto vidimato, ed
abbiamo continuato il nostro viaggio verso Itri58. Lungo la strada
incontrasi molti avanzi di antichi edifici.
54
Giuseppe Zurlo (1757 – 1828), ministro delle Finanze sotto Ferdinando IV
di Borbone, poi dell’Interno durante il Decennio francese. Su Giuseppe Zurlo
ad vocem Dizionario biografico degli italiani.
55
Probabilmente appartenente alla celebre famiglia dei Muscettola. Si veda
M.A. VISCEGLIA, Formazione e dissoluzione di un patrimonio aristocratico:
la famiglia Muscettola tra XVI e XIX secolo, in «Mélanges de l'École française de Rome», (1980), pp. 555-624.
56
Giovanbattista Vecchione è stato ministro dell'Interno del Regno delle Due
Sicilie tra il 1821 e il 1822. Si veda L. SANSONE VAGNI, Una dimora filosofale in Pozzuoli del nobile puteolano Giovanbattista Vecchione, Foggia, Bastogi Editrice italiana, 1994.
57
In provincia di Latina. Nel 1818 apparteneva al Regno delle Due Sicilie.
58
Ibidem.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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Itri è situato nella gola di due monti, tutti coverti di randi e floridi
alberi di olivo. Il paese è grande abbastanza. Gli abitanti sono
pessimi ed inclinati al furto ed al massacro, tendenze le quali
vengono sicuramente in loro generate fin dal nascere dalla orrenda conformazione del luogo ove essi dimorano la quale completamente favorisce il furto e l'assassinio59. Al di là di Itri incontrasi l'antica strada consolare sui lati della quale veggonsi infiniti avanzi di edifici romani. Fra questi due se ne osservano
costruiti su i due lati della strada, i quali sembrano essere stati
addetti a due grandi mausolei, ovvero ad una fortificazione che
fiancheggiava la strada consolare.
Usciti appena dalle montagne d'Itri si entra nella grande e bella
pianura di Fondi, la quale è in parte coverta di aranci. Presso
all'altra estremità della pianura trovasi Fondi. Questa città è piccola e poco popolata, a cagione dell'aria cattiva che vi regna durante le stagioni estiva ed autunnale prodotta dalle acque stagnanti della pianura che la circonda. Le mura e le porte di questa
città sono antiche. Essa è traversata dalla via Appia.
Ho qui ritrovato il medico mio amico Signor Zecca che vi è condottato dal quale sono stato istruito che il tifo nervoso e la febbre
petecchiale fanno in questo paese grande strage durante le indicate stagioni.
Continuando il cammino siamo giunti a Portelle, ovvero alla
Torre dei Confini60 e finalmente siamo entrati negli Stati Papali.
59
Nel 1816 Sangiovanni condusse alcune ricerche sugli abitanti di Laurino,
suo paese natale, nelle quali associava la tendenza al furto e a commettere atti
delinquenziali alla conformazione del territorio. Una teoria, quest’ultima, non
nuova. L’ingegnere militare murattiano Francesco Costanzo, impegnato agli
inizi della dominazione dei Napoleonidi a sedare in Calabria le rivolte antifrancesi, spiegava l’inclinazione delle popolazioni locali alle azioni criminose, nonché le precarie condizioni economiche delle province del Regno con
la particolare struttura orografica di quelle zone.
60
Il riferimento è alla Torre dell'Epitaffio e alla Portella che segnavano il
confine tra lo Stato Pontificio e il Regno delle Due Sicilie.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
Quantunque l'atmosfera che regna nei domini dei successori di
San Pietro non sia al certo troppo benefica e salutare, pure la sua
prima influenza, forse per virtù soprannaturale, ci ha arrecato subitaneo sollievo al corpo ed alla mente.
Gli avanzi di antichi edifici sono frequentissimi su questa strada.
Siamo finalmente giunti a Terracina61, antica città dei Volsci,
ove abbiamo pernottato. Questa città è divisa in antica ed in moderna. Quest'ultima, che è traversata dalla strada rotabile, è situata sul lido del mare. Al di là della porta d'ingresso, vedesi
sulla dritta una montagna a piè della quale evvi un immenso macigno, isolato da ogni lato e di figura quasi conica, al quale è
stato dato il nome di Gran Sasso d'Italia, che leggesi scolpito
sulla sua base. Vi sono, inoltre, dei belli edifici.
La città antica è fabbricata a dritta sulla montagna al di là della
nuova. Vi si entra per una porta di antica costruzione. Evvi una
spaziosa piazza in fondo alla quale è situata una gran chiesa con
un bel portico, composto con antiche colonne di marmo e di granito, sulla cornice del quale veggonsi dei belli bassi rilievi.
Nel portico evvi una gran vasca di granito orientale, nella quale,
al dire degli abitanti, i pagani scannavano i cristiani.
Nell'interno della chiesa si ammirano delle belle colonne ed un
pulpito in mosaico simile a quello che esiste nella chiesa di San
Matteo in Salerno.
Abbiamo pernottato in Terracina nell'albergo presso la porta di
Napoli.
12 Marzo
Siamo partiti per tempo da Terracina.
Poco di là di questa città principiano le Paludi Pontine che si
traversano sulla strada detta Linea Pia, fatta sotto il pontificato
61
In provincia di Latina. Nel 1818 apparteneva allo Stato Pontificio.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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dell'ottimo e santo papa Pio VI, la quale è lunga 25 miglia. Le
acque delle Paludi sono raccolte da molti piccioli canali i quali
si riuniscono man mano in altri maggiori e quindi in due più
grandi i quali fiancheggiano la grande strada e finalmente si riuniscono in un solo che va a metter foce nel mare presso Terracina.
A Rocca di Fiume62 vedesi un antico ponte romano tutto intero
sul quale passava la Via Appia che costeggia le falde delle montagne essendo forse in quel tempo la sottoposta pianura una profonda palude. È questo formato di grandi pezzi cubici di travertino che altri viaggiatori, male a proposito, han creduto essere di
marmo. Sventuratamente questo ponte tra poco non esisterà più
giacché oggi vi abbiamo veduto molti operai che vi travagliavano per demolirlo e che disponevano lungo la strada quei belli
macigni lavorati forse per destinarli, d'ordine superiore, ad altro
uso.
La Linea Pia finisce a Torre dei Tre Ponti63 ove abbiam fatto
colazione. Vi sono due colonne miliare con iscrizioni ed altri
avanzi di antichi edifici.
Siamo quindi giunti a Cisterna64, piccolo abitato, situato in un
luogo piacevole. Le campagne sono piene della specie di quercia
che produce il sughero (Quercus suber).
Finalmente verso le due dopo mezzogiorno siamo giunti a Velletri65.
Da Terracina infino a Velletri s'incontrano continui avanzi di antichi monumenti.
62
Si tratta di una località nei pressi di Terracina.
Ibidem.
64
In provincia di Latina.
65
In provincia di Roma.
63
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
La città di Velletri è situata su di un'altura ed in una posizione
alquanto ripida. È ancora cinta in parte dalle antiche mura romane. È abbastanza grande e contiene circa 1500 abitanti. Vi
sono dei belli edifici.
Fra gli altri è degno di osservazione il palazzo di Lancellotti66,
altra volta di Ginetti, il quale è costruito su di un disegno magnifico. Vi è attaccato un giardino ornato a ribocco di belle statue
di marmo e di tre antichi mausolei situati su di piedistalli di
marmo. Evvi una bella loggia o corridoio con fini bassi rilievi in
stucco. Ma sventuratamente è in pessimissimo stato, giacché non
se ne prende più alcuna cura e le statue sono in parte mutilate e
tutte rovinate. Nella corte scoverta vi è la statua di un papa, quasi
colossale. La piazza che vi è davanti è spaziosa ed elegante, ed
è ornata di molte fontane.
Il palazzo del cardinale67 è anche bello.
13 Marzo
Siamo partiti per tempo da Velletri. Il cielo era coverto di densissima nebbia che mi ha impedito di potere attentamente osservare i luoghi che vi sono scorsi durante le prime ore del mattino.
Il primo luogo abitato che abbiamo incontrato è stato Genzano68,
paese ben fabbricato, ornato di belle strade nell'interno e di passeggiate che s'incrociano ancor più belle al di fuori.
Poco lungi da Genzano incontrasi la Riccia69, paese ameno abbastanza, situato su di un promontorio. Poco discosto dalla Riccia vedesi un monastero di Benedettini dell'ordine di quei del
nostro Montecassino.
66
Si tratta di Palazzo Lancellotti che apparteneva alla famiglia Ginetti.
Marzio Ginetti (1586 – 1671) ciambellano d’onore di Papa Paolo V fu
creato cardinale da Papa Urbano VIII nel concistoro del 19 gennaio 1626.
68
In provincia di Roma.
69
Ibidem.
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Prima di giungere ad Albano70 incontrasi vicino la strada la
tomba dei Curiazi71, tanto celebri nella storia, la quale conservasi
ancora quasi intatta.
Siamo quindi giunti ad Albano, piccola e bella città edificata
sulle rovine di Alba Longa, ornata di strade regolari e spaziose.
Questa è l'ultima città che s'incontra prima di giungere a Roma.
Essa forma il luogo di piacere e nel tempo stesso di villeggiatura
della nobiltà romana. Abbiamo qui ritrovato il Signor Conte
Zurlo, il quale vi si è recato per incontrare la nostra compagna di
viaggio Donna Marianna Savaresi.
I due lati della strada che si percorre da Albano infino a Roma
sono quasi interamente coverti di avanzi di tombe e di altri antichi monumenti più o meno andati in rovina. L'animo dell'osservatore, all'aspetto del loro prodigioso numero, meditando sulla
straordinaria potenza del popolo che li edificò, passa per gradi
dalla contemplazione all'ammirazione, dall'ammirazione alla
sorpresa, dalla sorpresa allo spavento e da questo all'avvilimento.
Cinque miglia prima di giungere in Roma, s'incontrano sulla
dritta gli avanzi di due antichi acquedotti; il più picciolo dei quali
porta ancora l'acqua in Roma. Il più grande ed il più magnifico
è in vari punti rotto ed in parte rovinato.
Siamo finalmente giunti all'antica capitale del mondo per la
porta di San Giovanni. Abbiamo traversato l'estesa piazza e
siamo entrati nella chiesa di San Giovanni in Laterano, la quale
per la nobile e singolare sua architettura, per la magnificenza e
profusione delle dorature, per il gran numero di preziose e vaste
colonne che lo adornano, pel suo delicato frontespizio, per la
70
Ibidem.
Nei pressi di Albano Laziale si trova un sepolcro tardo-repubblicano detto
degli Orazi e dei Curiazi figure leggendarie della Roma antica.
71
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
squisitezza dei quadri che vi si contengono, ecc. viene a ragione
proclamato come uno dei più belli tempi di Roma.
Proseguendo il cammino, siamo andati a fermarci alla Piazza
Colonna, ove siamo giunti alle 11 antimeridiane, e di là noi
siamo andati ad alloggiare all'Albergo della Sibilla, nella strada
del Corso, presso la Porta del Popolo, e gli altri nostri compagni
di viaggio in abitazioni per loro anticipatamente preparate.
Questa sera sono andato a visitare il Signor Conte Zurlo dal
quale sono stato abbracciato ed accolto con singolare affettuosa
distinzione.
14 Marzo
Siamo rimasti nello stesso albergo.
15 Marzo
Essendo troppo caro l'alloggio, durante questi giorni, nell'albergo della Sibilla, per esser situato nel luogo più cospicuo della
principale strada di Roma, siamo andati questa mattina ad alloggiare nell'albergo della Monaca a Torsanguigna, presso Sant'Apollinare.
Dopo ci siamo recati a Montecavallo per vedere la cappella del
Papa ove questa mattina ha officiato. Davanti la piazza a lato
delle statue colossali di Castore e di Polluce abbiamo veduto la
gran vasca o tazza di granito orientale che vi si sta situando, ritrovata non ha guari.
Sono quindi andato col Signor Bellelli a desinare in casa del
Duca di Eboli, figlio del Principe di Angri, il quale si è qui volontariamente rilegato (sic) per motivo di gelosia con la sua cochetta, presuntuosa ed antipatica consorte.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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16 Marzo
La mattina siamo andati a vedere il colossale e magnifico tempio
di San Pietro ove abbiamo ammirato tutte le sue magnificenze e
quelle della piazza che gli è davanti. Ci siamo poi recati nel vicino quartiere detto il Trasteverino, che abbiamo scorso infino al
ponte che segue quello di Sant’Angelo, vicino la Fontana detta
degli Specchi.
Sono andato a desinare in casa del Signor Abate Pennoni, sulla
strada del Corso, insieme con la famiglia Muscettola.
Il dopo pranzo, in unione del detto Signor Pennoni, siamo andati
a vedere la Colonna Antonina, il Colosseo, gli Archi di trionfo e
le altre antichità che s'incontrano sulla strada al di là del Campidoglio. Infine siamo andati al Palazzo Farnese.
Le ore della sera le abbiamo passate in casa del signor Abate
Pennoni.
17 Marzo
Ho comprato l'Itinerario72 e le piante di Roma antica e moderna
del Signor Vasi73. Questa circostanza mi ha procurato l'opportunità di fare la grata conoscenza dell'autore il quale è un uomo di
avanzata età, e dotato di una bontà e schiettezza senza pari. Egli
è di professione calcografo ed è nel tempo stesso letterato distinto. Ha in sua casa un negozio di carte geografiche e topografiche, di rami, di disegni, di quadri, di libri, ecc.; ed ha ancora
per suo uso una tipografia.
Ho passato le ore della sera in casa del Signor Conte Zurlo.
72
Si tratta dell'Itinerario di Mariano Vasi. M. VASI Itinerario istruttivo di
Roma antica e moderna ovvero Descrizione generale dei monumenti antichi
e moderni, e delle opere le più insigni di pittura, scultura, ed architettura di
quest'alma città e delle sue adjacenze, Roma, presso l'autore, 1807.
73
Mariano Vasi (1744 – 1820) editore e tipografo romano.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
18 Marzo
La mattina di mercoledì santo sono andato insieme con i Signori
Bellelli e Muscettola a vedere lo Studio di scultura del signor
Canova74. E con questa occasione ho avuto il piacere di conoscere da vicino quest'uomo, decoro della nostra Italia, tanto celebre nella sua arte, le di cui opere rivaleggiano con le più rare e
pregiate dei primi scultori dell'antica Grecia. Vi ho ammirato fra
le altre statue: 1° il gruppo in un sol pezzo delle Tre Grazie, nel
quale, per un accidente che non poteva prevedersi, il marmo
della Grazia di mezzo presenta alcune venature piombine nelle
gambe ed in qualche altra parte del corpo; 2° Il Giudizio di Paride; 3° La Ninfa risvegliata da Amore, che suona la lira; 4° La
Statua colossale del nostro re Ferdinando 1°; 5° L'Ercole che uccide il centauro.
Siamo quindi andati a vedere la nuova e bella passeggiata fatta
dai Francesi in Santa Maria dei Monti la quale è sull'altra che
esiste a dritta della Piazza del Popolo. E finalmente ci siamo recati a vedere l'Accademia Francese, che è al di sopra della Piazza
di Spagna.
La sera siamo andati a San Pietro per assistere alle Tre ore di
tenebre, nella Cappella Sistina, ed al Miserere nell'interno del
tempio di San Pietro. Ho qui incontrato molti napoletani che si
sono recati in Roma per vedervi le funzioni della Settimana
Santa.
Siamo quindi andati a passare le ultime ore della sera in casa del
Signor Pennoni.
74
Antonio Canova (1757 – 1822) pittore e scultore, ritenuto il massimo esponente del Neoclassicismo.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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19 Marzo
La mattina di giovedì Santo ci siamo nuovamente recati in San
Pietro per assistere alle funzioni che si celebrano nella Cappella
Sistina, alla Cena ed alla Lavanda. Il Papa, verso la fine della
funzione, è stato portato su di una specie di sedia o palanchina
alla cinese sulla loggia o gran balcone che è sulla porta di mezzo
del tempio di Ssn Pietro, ha buttato sulla piazza varie proteste,
secondo il solito, ed ha fatto una classica benedizione all'immenso numero di uomini di ogni nazione che erano nella sottoposta piazza.
Ho ammirato la magnificenza con la quale sono state eseguite le
sacre funzioni nell'interno del tempio di San Pietro, la bella tenuta della truppa di linea e della cavalleria che erano di parata
nella piazza del tempio, e la quantità immensa del popolo che
tutta la riempiva.
Sono andato in seguito ad esaminare attentamente le cosiddette
Logge di Raffaello d'Urbino le quali veramente sorprendono.
Il dopopranzo sono andato al Museo del Vaticano. Ho ivi percorso gli estesissimi corridoi delle antiche iscrizioni o lapidi in
marmo, le Sale delle Statue, dei Mosaici, delle Carte geografiche
o topografiche, quelle ancor numerose delle pitture, ove è Carlo
Magno, l'immensa, bella e ricca biblioteca e le stanze delle medaglie. Ho principalmente ammirato, fra un milione di preziosi e
rarissimi oggetti di antichità, la superba tazza o vasca di bellissimo granito orientale ed il Cocchio tirato da due cavalli, se non
erro di un sol pezzo, in marmo.
La sera sono andato con la solita compagnia dei Signori Bellelli,
Muscettola e Pennoni nella chiesa di San Pietro, per vedere la
Gran Croce illuminata, la quale, essendo sospesa in mezzo alla
croce del tempio, lo illumina interamente. È essa composta di
circa 700 piccole lampade ad olio, maestrevolmente disposte su
tutta la superficie.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
È inutile il dire che, durante questa notte non si accende alcun
altro lume in tutta l'immensa estensione del tempio.
Ecco un breve cenno di ciò che osservasi in questo vasto tempio
la notte di giovedì santo, il quale non riuscirà certo di scarso a
chi leggerà queste succinte notizie.
In vari punti della chiesa si celebrano le sacre e mistiche funzioni
che si fanno in questo giorno con straordinaria magnificenza e
dignità. Fra le altre, su di una piccola loggia con parapetto davanti di un picciolo santuario, diremmo così, scavato nella spessezza dei pilastri, nella parte più elevata dell'edificio, ove conservasi centinaia di sacre reliquie, vedesi un prelato passare continuamente da un lato all'altro della cennata loggia, e mostrare
una dopo l'altra tutte le reliquie che vi si contengono, e fare con
ognuna di queste una solenne benedizione al popolo sottoposto.
Giova l'avvertire che questo nascondiglio di sacre ossa è talmente elevato su del pavimento della chiesa, che non scorgersi
affatto da colui che ne ignora il sito, ed a quello che n'è istruito,
il sacerdote che vi funziona sembra un uccello bianco che frettolosamente passeggia da un angolo all'altro della sua gabbia.
Il tempio intanto era pieno d'una immensa quantità di gente di
ogni nazione e di ogni culto, che giungeva a circa le 5000 persone. Ma erano esse tutte devotamente intente alle sacrosante
funzioni che con indicibile pompa e solennità vi si celebravano?
Niente affatto: non ve n'era alcuna, giacché anche le più cattoliche ne venivan distolte da uno spettacolo il quale, anche involontariamente, attirar doveva la loro costante attenzione, e distoglierla dalla meditazione dei divini e luttuosi misteri che vi si
rappresentano.
La chiesa di San Pietro era in questa notte simile ad un luogo di
pubblico passeggio, o, meglio ancora, al Palazzo Reale di Parigi
dal quale solo differiva perché era coverto, e perché la gente vi
stava a testa nuda. In tutto il resto era simile ai citati luoghi, se
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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pur non voglia dirsi maggiore, in tumulto, in rumore, in confusione, in lascivia. Tutti, passeggiando dall'uno all'altro estremo
del tempio, portavano a braccio le loro innamorate, scandalosamente vestite e scoverte quasi infino all'ombelico ed ai seni, che
solo adombravano di nero velo.
I cardinali, i prelati ed i vescovi, erano ancor essi confusi nella
folla, tenendo a braccio le loro drude, scelte, come ben si comprende, fra le più belle e lascive dame romane, ancor queste più
oscenamente vestite, e chiassavano, ridevano, squassavano, maniavano, come se stati fossero soli e da alcun vivente osservati.
Quelli poi che non avevan compagna, tra quali contavansi quasi
tutti gli stranieri, seguivan da presso le coppie più scelte per ammirar le bellezze delle impudiche dame romane, e per osservare
con sorpresa la impudente temerarietà e la lascivia dei loro drudi
porporati. Io ed il Signor Bellelli abbiam fatto parte, come ben
si comprende, di quest'ultima classe.
Ma neanche ciò bastava a render completa la turpe scena e la
nostra sorpresa. Il caso vi ha ancor esso concorso a mettervi il
colmo. Nel mentre che sì strane cose si stavano da noi attonitamente osservando, due inglesi, per cagioni ancora impudiche e
che la decenza non permette di specificare, si sono battuti e feriti
a sangue a colpi di bastone in un angolo del tempio, dietro le
colonne; e con ciò il tempio di S. Pietro è restato interdetto né
giorni più classici delle sue fondamentali liturgie.
All'aspetto di tante sì strane ed inaspettate scene, io ed il signor
Bellelli siamo restati grandemente sorpresi e scandalizzati, considerando che simili lubriche cose si permettevano e si eseguivano in Roma, nel principale tempio del cattolicesimo e durante
la celebrazione delle più sacre e luttuose funzioni della Settimana Santa e che i principali attori di questa scandalosa commedia erano i primi ministri di Cristo, gli essenziali sostegni del
Santuario. Basti il dire, per tutto dire, che io ed il signor Bellelli
ci siamo scandalizzati all'eccesso e che concordemente abbiamo
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
conchiuso d'esser questa capitale della Santa ed Apostolica
chiesa cattolica, la più lubrica, la più immorale e la più irreligiosa di quante ne esistono nel cristianesimo, e mille volte ancora più incredula ed ipocrita della stessa Napoli, che infino ad
ora avevamo creduto di non essere in ciò seconda ad alcuna. O
tempora, o mores! O quantum est in rebus inane!
20 Marzo
Venerdì santo. La mattina, in unione di Signori Pennoni e Muscettola, siamo andati a visitare i santi sepolcri nelle Chiese di
Sant’Antonio dei Portoghesi, di Sant’Andrea delle Fratte, ecc.
Sono quindi andato al Collegio Nazareno ove ho fatto la conoscenza del Signor Abate Gandolfi75 che vi dimora e pel quale
aveva delle lettere del Cavalier Monticelli76.
Questa mattina si è dovuto consacrar nuovamente, o benedire il
tempio di San Pietro, a cagione del sangue che vi avevano sparso
nella scorsa notte i due inglesi, battendosi. Non so se questa funzione sia stata fatta dal Papa, o da qualche Cardinale a ciò da lui
delegato.
La sera siamo andati in San Pietro per vedere nuovamente la illuminazione della Gran Croce, e la solita modesta e religiosa
passeggiata nell'interno del tempio di numerosissima gente, la
quale, senza ripeterlo, è riuscita simile in tutto a quella di ieri la
notte.
L'avvenimento della scorsa notte dei due inglesi che si batterono,
ha obbligato il governo ad apporre delle guardie di truppa di li-
75
Bartolomeo Gandolfi (1753 – 1824) dal 1779 docente di filosofia nel collegio Barberini degli Scolopi di Ravenna, poi professore di filosofia, matematica e teologia al Nazareno di Roma.
76
Teodoro Monticelli (1759 – 1845) mineralista e autore di un’importante
opera di vulcanologia vesuviana, Prodomo della Mineralogia Vesuviana.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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nea dietro le colonne ed in tutti gli angoli più reconditi del tempio e non illuminati dalla Gran Croce per evitare simili sconcerti
ed altri del pari, o anche più osceni.
21 Marzo
Mattina di Sabato Santo, siamo andati alla Chiesa detta la Scala
Santa77. Per ascendervi si sale in ginocchioni una bella ed elegante gradinata coverta, non molto spaziosa, composta di gradini
di marmo, e per ogni gradino deve dirsi, se non erro, un'Ave Maria e fare orazione durante qualche minuto. Da ciò ben si comprende che non vi vuol poco tempo, allorquando vuol farsi con
la dovuta devozione il cennato tragitto.
È questa la così detta Scala Santa, per la quale non è affatto permesso di salire su piedi, né per conseguenza di scendere. Un'altra
ve n'è posta lateralmente destinata a quest'uopo. Se non erro, la
Scala Santa si apre solo in questo giorno.
Giunto sopra, trovasi la Chiesa e varie stanze o cappelle, che ne
dipendono, ove conservansi gli oggetti più rari e preziosi in fatti
di religiosa antichità. In una di queste cappelle conservasi il ritratto di Gesù Cristo, dipinto da San Luca, ed una delle spine
della sua corona, che vi si conserva con molta cura e religiosità.
In questa cappella, non so perché, non è permesso l'ingresso alle
donne. Nella cappella laterale detta di San Domenico, ho ammirato il bello e prezioso quadro della Vergine.
Siamo quindi andati alla magnifica e divina chiesa di San Giovanni in Laterano, ove abbiamo sulle prime assistito al battesimo
di due ebrei che si son fatti cristiani. Ho colà esaminato la Cappella dei Corsini, ove vedesi il superbo ed antico sarcofago di
porfiro, trovato sotto il Panteon di Agrippa, ed il bel quadro in
77
Si tratta del Santuario della Scala Santa nelle immediate adiacenze della
basilica di San Giovanni in Laterano.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
mosaico della cappella. Sono disceso nel succorpo della stessa
cappella, nel quale sono le tombe di tutti gl'individui della famiglia Corsini, ed una bella statua di marmo.
Ci siamo infine recati al Colosseo, al Giardino botanico ed al
Campidoglio, per esaminarvi i Musei delle Statue e dei quadri,
sotto la guida del pittore Tofanelli78.
La sera sono andato con i Muscettola dal Signor Conte Marescotti79, e dopo cena in casa dell'abate Pennoni.
22 Marzo
Giorno di Pasqua. La mattina sono andato in San Pietro per vedervi le funzioni che vi si celebrano in questo giorno. Il Papa vi
ha assistito con tutti i cardinali. Egli era assiso sul suo magnifico
trono, e circondato su i due lati dai cardinali e dagli altri grandi
della sua corte. Non potendo officiare Sua Santità, attese le sue
gravi indisposizioni, ed il grande edema ch'egli soffre alle
gambe, ha celebrato la messa in suo luogo il cardinale Mattei80,
sull'altare che è sotto il baldacchino di bronzo, sostenuto da quattro colonne torte di bronzo corinzio, e sopra l'altare di argento,
ove dicesi d'essere sepolto il corpo di S. Pietro, il quale è il piano
del succorpo del tempio. Ho veduto il Papa molto da presso, ed
ho più volte ricevuto le sue sante benedizioni.
La cerimonia è stata bellissima: ricchezza eccessiva, magnificenza straordinaria, grandezza senza limiti, dignità patriarcale,
78
Agostino Tofanelli (1770 – 1834), pittore romano, frequentò i corsi
dell’Accademia del Nudo di Roma dal 1781. Alcune sue opere sono nel Palazzo Spada e in alcuni appartamenti del Quirinale.
79
Pietro Abbati Marescotti (1768 – 1842) matematico modenese si dedicò
alle ricerche nei campi delle equazioni algebriche, del calcolo delle probabilità e della teoria dei gruppi.
80
Potrebbe trattarsi del cardinale Alessandro Mattei (1744 – 1820), oppure
del cardinale Lorenzo Girolamo Mattei (1748 – 1833).
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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profusione infinita, tutte han fatto a gara per renderla classica ed
imponente. Vi è stata un'immensa quantità di gente di ogni nazione e molta truppa di linea e le guardie del corpo, riccamente
vestite. La funzione è stata terminata con la benedizione che il
Papa ha data sopra la loggia di mezzo della facciata del tempio.
Siamo andati a desinare con i Signori Muscettola dal Signor
Abate Pennoni.
Il dopopranzo siamo andati al passeggio nella Strada del Corso,
ove ho ammirato il lusso della nobiltà romana, e più di tutto la
bellezza dei cavalli attaccati ai loro cocchi. In seguito siamo andati alla nuova ed amena passeggiata che è sopra la Piazza del
Popolo.
La sera, con la stessa compagnia, ci siamo recati a vedere l'illuminazione del tempio di San Pietro, che principia dai portici infino alla sommità della croce dell'altissima cupola. La piccola
illuminazione principia appena fatto notte: essa è fatta con piccioli lumi. La grande comincia ad un'ora di notte precisa, ma in
un modo sì pronto che in un istante tutto il tempio vedesi illuminato. Questo colpo d'occhio è veramente inconcepibile, è sorprendente.
Siamo dopo andati a veder la Girandola, ovvero il fuoco di artificio che si fa sul Castello Sant’Angelo. Esso è stato bellissimo,
ma questo non mi ha tanto sorpreso, perché io ne aveva già veduto dei simili ed anche migliori in Parigi principalmente ed in
Napoli.
Le ultime ore della sera le abbiamo passare in casa del Signor
Abate Pennoni.
23 Marzo
La mattina sono andato a meglio osservare la Piazza e la Porta
del Popolo, l'Obelisco e la fontana che trovansi nel mezzo di
questa piazza, la Chiesa di Santa Maria del Popolo, la chiesa di
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
Santa Maria de' Miracoli e quella di Santa Maria di Monte Santo,
che sono, da questo lato, al principio della strada del Corso. Con
l'Itinerario del signor Vasi alla mano, ho accuratamente esaminato tutti i quadri, le pitture, le statue di marmo e di bronzo, ed i
mausolei che trovansi in questi tempi.
Il dopopranzo, ho scorso la Città dal lato del Campo di Fiore, ed
anche più lungi. Sono quindi andato a vedere il paesaggio al
Corso. Le ore della sera le ho passate in casa del Signor Abate
Pennoni.
24 Marzo
La mattina ho recato la lettera del Padre Gismondi81 al signor
Conti, farmacista in Sant’Eustachio e professore alla Sapienza.
Sono andato a vedere le esperenze sulla magnetizzazione
dell'ago di acciaio per mezzo del raggio cilestre, fatte alla Sapienza dal signor Morichini82, che con questa occasione ho personalmente conosciuto, e dal quale sono stato accolto con molte
gentilezze. Ho fatto quindi conoscenza ancora, in casa del Signor
Conti, del Signor Metaxà83 professore di Veterinaria nella scuola
medesima, il quale mi ha fatto infiniti complimenti e molte civiltà. Ho conosciuto altresì il professore di fisica nello stesso Archiginnasio, Signor....... [Sangiovanni non riporta il nome].
Il dopopranzo al passeggio.
81
Carlo Giuseppe Gismondi (1762 – 1824), mineralogista, nel 1814 viene
chiamato a Napoli a occupare la cattedra di mineralogia all'Università.
82
Domenico Lino Morichini (1773- 1836) chimico e medico romano introdusse a Roma le teorie di Lavoisier e fu in contatto con i più importanti scienziati europei quali Joseph-Louis Gay-Lussac, Georges Cuvier e Humphry
Davy.
83
Luigi Metaxà (1778 – 1842) fu uno dei primi docenti di medicina veterinaria a Roma e in generale in Italia.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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La sera sono andato dal Signor Conte Zurlo, ove ho ritrovato il
Signor Generale Begani84, e poi in casa del Signor Abate Pennoni.
25 Marzo
La mattina ho veduto la Piazza della Minerva, l'Archiginnasio
della Sapienza, il Palazzo Madama, il Palazzo Giustiniani, e la
Chiesa di San Luigi de' Francesi.
Il dopopranzo sono andato a vedere le chiese di Sant’Agostino,
di Sant’Antonio dei Portoghesi, di Sant’Apollinare, di San Salvatore in Lauro, di Santa Maria in Vallicella, chiamata la Chiesa
Nuova, e la Piazza Navona.
La sera da Zurlo e dal Duca di Eboli.
26 Marzo
La mattina sono salito sulla Colonna Antonina, che è situata nel
centro della Piazza Colonna. Essa è composta, se non erro, di 28
pezzi cilindrici di marmo, tutti di uguale altezza e diametro, e
messi l'uno sull'altro come i pezzi metallici della Pila Voltaica.
Nell'asse di questi pezzi è scalpellata la scala a lumaca, composta
di 191 gradini, e nella circonferenza, da tratto in tratto, vi sono
praticate delle finestrine a guisa di saettiere, per illuminarla.
Sulla sommità della colonna vi è uno spazio quadrato ben
grande, circondato da una solidissima balconata di ferro, che la
rende simile ad un'altissima trave cilindrica che avesse in cima
una gabbia quadrata due volte più larga del diametro della trave
84
Alessandro Begani (1770 – 1837) generale d’artiglieria nell’esercito della
Repubblica Cisalpina seguì poi Gioacchino Murat durante l’occupazione del
Regno di Napoli. Nel 1820, dopo aver preso parte ai moti, fu costretto a riparare in Toscana.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
istessa. In mezzo a questo spazio elevasi la statua colossale di.....
[Sangiovanni non riporta il nome].
Da questo sito vedesi sotto i piedi l'intera Città di Roma. Quest'altezza spaventa l'osservatore, massime quando si affaccia
sulla balconata e si sforza di vedere la sottoposta colonna. Gli
sembra allora che questa macchina colossale, aggravata dal lato
ove egli si trova dal peso del suo picciolo corpo, vada insensibilmente a piegarsi, ad uscir di equilibrio e quindi rovesciarsi sul
suolo. Il Signor Bellelli non ha avuto il coraggio di affacciarvisi:
appena avvicinato alla balconata, ha tremato ed è fuggito a prender fiato ed a mettersi in sicurezza nella vicina scala. Infatti, allorquando si guarda nel modo sopra indicato, vedendosi tanto
elevato dal suolo sottoposto, e situato sulla cima di una colonna,
la quale sembra piegarsi sotto i piedi per quindi crollare, la testa
gira ed il timore è immenso, a malgrado che siasi sicuro che,
tranne per forza di destino, niun sinistro accidente possa in quel
momento avvenire.
Sulla esterna superficie di questa colonna veggonsi scolpite a
basso rilievo su di una larga fascia spirale, tutte le gesta dell'Imperatore Antonino. Questa colonna è fuor di dubbio una delle più
belle e sorprendenti opere dell'antichità, ed una delle più pregiate
e rare cose che possegga la moderna Roma. Ardimentoso e vasto
fu il disegno di quel gran popolo nell'immaginarlo, quanto sicuro
e felice il successo nell'eseguirla!
27 Marzo
Il dopopranzo ho percorso la Strada Ripetta dal suo principio,
ove essa porta un altro nome infino alla Piazza del Popolo, ed ho
attentamente esaminato tutti gli edifici che vi si trovano.
La sera sono andato all'accademia data dal Signor Scrucci, poeta
estemporaneo straordinariissimo. Egli, su temi dati dagli astanti
e tirati a sorte, ha improvvisato: 1° Sulla morte di Saffo; 2° Sulle
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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nozze di Psiche ed Amore nel cielo; 3° Sulla morte di Socrate,
della quale egli ha formato una tragedia. È inesprimibile la facilità, e nel tempo medesimo la celerità con la quale il giovine
Scrucci improvvisa, nonché l'unità che serba nell'esporre l'argomento impostogli, l'elevatezza del pensiero e la purità della lingua che impiega. La sorpresa diviene ancora maggiore nella tragica composizione, ove diversi sono gli attori ch'egli fa entrare
in scena.
28 Marzo
Il dopopranzo sono andato a vedere la Chiesa di S. Agnese,
quella di S. Giacomo degli Spagnoli; il palazzo Braschi, dove
evvi una scala magnifica; la Piazza Pasquino, e la celebre statua
che porta questo nome; la chiesa di S. Pantaleone; il Palazzo; la
Chiesa di S. Andrea della Valle; la Piazza ove era altra volta il
Teatro di Pompeo; il palazzo Stoppani; il Palazzo Mattei, edificato sulle fondamenta e su parte delle mura del Circo Flaminiano.
La sera dal Signor Abate Pennoni.
29 Marzo
La mattina sono andato nuovamente col Signor Bellelli ad alloggiare nell'Albergo della Sibilla, nella Strada del Corso, presso la
Piazza del Popolo.
Il dopopranzo ho veduto nella Strada del Corso, la Chiesa di
Santa Maria di Montesanto; quella di Gesù e di Maria; il Palazzo
Torlonia; quello di Verospi; l'altro di Chigi; la Piazza ed il palazzo di Montecitorio; il tempio di Antonino il Pio nella Piazza
di Pietra, ove attualmente è la Dogana; la chiesa di Sant'Ignazio;
il Collegio ed il Seminario Romano; il Palazzo Sciarra; il Palazzo Simonetti; la Chiesa di San Marcello.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
La sera da Pennoni, e quindi al Teatro della Valle, ove si è rappresentata Agnese Fitzhenry.
30 Marzo
La mattina sono nuovamente asceso sulla Colonna Antonina, e,
col favore del buon tempo, ho esaminato la Città ed i luoghi che
la circondano. Sono dopo andato a San Pietro, ho esaminato l'interno del tempio, quindi la Cupola, ed infine sono salito per la
terza volta fin entro la palla. Sono entrato ancora su i balconi che
sono nell'interno della Gran Cupola. Infine sono nuovamente andato a vedere il Museo delle Iscrizioni ovvero delle Lapidi,
quello dei Busti, l'altro delle Statue, ed infine quello degli
Arazzi.
La sera sono andato in casa della Signora Clelia, e dopo da Pennoni.
31 Marzo
La mattina sono andato in sulle prime a vedere gli avanzi colossali dei pilastri del Ponte Trionfale, e quindi mi sono recato in
San Pietro per osservare l'esteso succorpo e l'immenso numero
di tumoli di Papi e di Re che vi si conservano; la magnifica Sagrestia, ove veggonsi due grandissimi moderni sarcofagi di porfido, ed una gran tazza del più bello granito d'oriente; la gran
Biblioteca, ricca di antichi codici, e l'immenso Museo pieno di
preziosi e rarissimi quadri.
Il dopopranzo sono andato col Signor Pennoni a vedere la sua
bella vigna, che produce graziosissimo vino, la quale è attaccata
alla Villa Albani, fuori la Porta...... [Sangiovanni non riporta il
nome]. In un angolo della sua cantina vedesi un'apertura o entrata delle antiche catacombe, che si estendono sotterra per alcune miglia al di là. Consistono queste in un lungo ed angusto
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corridoio scavato nella rocca, con nicchie laterali, ove seppellivansi i cadaveri, e che dopo si fabbricavano. Vi si veggono ancora delle ossa.
La sera da Pennoni.
1 Aprile
La mattina ho veduto il Palazzo di Costaguti; la Chiesa di Santa
Maria de' Funari; quella di Santa Maria in Campitelli; le tre
grandi colonne che sono nella corte di una casa la quale è vicino
a questa chiesa, e che credesi avere appartenuto al Tempio di
Giove; il Portico di Ottavia; il Teatro di Marcello, ora Palazzo
Corsini; la Chiesa di San Nicola in Carcere; quella di Santa Maria della Consolazione; l'altra di San Giovanni decollato; l'Arco
di Giano Quadrifronte; la Chiesa di San Gregorio in Velabro;
l'Arco di Settimio Severo; la Gran Cloaca, ovvero Cloaca Maxima; la Sorgente di acqua che è vicino alla Gran Cloaca, e che
credesi essere la celebre antica sorgente di Saturna; la Chiesa di
Sant’Anastasia, vicino la quale Romolo principiò il solco della
sua nuova città; il Gran Circo.
2 Aprile
La mattina sono andato a vedere la Basilica di San Paolo; la
Porta di San Paolo; la Piramide di Caio Cestio, vicino la quale è
il Cimitero dei protestanti; Monte Testaccio, formato in tempo
degli antichi romani dai rottami dei vasi di creta cotta d'ogni specie, che in quel luogo esclusivamente andavano a buttarsi; l'antico Arco di San Lazzaro; le Navalia; gli avanzi del Ponte Sublicio; i ruderi degli antichi Magazzini di sale; il Monte Aventino;
il Tempio di Vesta, al di sopra del quale la Gran Cloaca va a
scaricarsi nel Tevere, sotto il Ponte rotto; il Colosseo; il Foro; il
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
Tempio del Sole e della Luna, la di cui estensione, se giudicar
sen voglia dagli avanzi, doveva essere immensa.
Il dopopranzo sono andato nuovamente ad osservare nel Campidoglio il Museo delle Statue e dei quadri. Nella corte di questo
edificio ho veduto i due piedi di marmo che appartennero ad una
statua colossale di 30 cubiti, una coscia e gamba, come pure due
teste, una di bronzo e l'altra di marmo, appartenute ugualmente
a statue di straordinaria grandezza.
Sono quindi andato a vedere un giardino vicino al Campidoglio,
la ben alta ed erta Rupe Tarpeia85, la quale dalla elevazione del
Campidoglio giunge infino al lido del sottoposto Tevere.
Infine sono andato a vedere il Palazzo Doria; il Palazzo di Venezia; la Chiesa di Gesù, e quella di Santa Maria Ara Coeli.
La sera sono andato dal Conte Zurlo, e poi dal Signor Abate Pennoni.
3 Aprile
La mattina sono andato a vedere il Ghetto degli Ebrei, il Ponte
Fabrizio, o Ponte a quattro capi; l'isola del Tevere; la Chiesa di
San Sebastiano; il Ponte Cestio, o di San Bartolomeo; il Ponte
Palatino, ovvero Ponte rotto; la Chiesa di Santa Cecilia martire,
appartenente a nobile stirpe romana, ove è la sua bella statua di
marmo, sdraiata di lato sul letto di morte, dietro colpo di pugnale
ricevuto alla gola, la di cui vista intenerisce oltremodo e fa piangere, la camere del martirio, le stufe, il calderone, ecc., ove essa
in vari modi era tormentata; la Chiesa di Santa Maria dell'Orto;
il Ponte di Ripa grande; il Grande Ospizio di San Michele; la
Dogana; il Ponte Portese; la Chiesa di San Francesco; quella dei
Quaranta Santi; l'altra di Santa Maria in Trastevere, ove evvi una
ricchissima soffitta dorata, per la quale l'oro è stato a larga mano
85
Rupe Tarpea, parete rocciosa posta sul lato meridionale del Campidoglio.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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profuso; la Chiesa di San Crisogono; quella di Santa Maria della
Scala; il Monta Gianicolo, o Montorio; la Chiesa di San Pietro
in Montorio, d'onde vedesi tutta la città, ed ove evvi una superba
veduta; la Fontana Paulina, detta di San Pietro in Montorio; la
Porta San Pancrazio; la Villa Giraud; la Villa Corsini; il Palazzo
Corsini; la Casina Farnese, detta Farnesina; la Chiesa di
Sant’Onofrio; la Porta di Santo Spirito; il Ponte Sisto, la Strada
Giulia.
Il dopopranzo sono andato a vedere la Chiesa di Santa Maria
Maggiore ove, nella Cappella del Sacramento, conservansi sedici once del fieno, la fascia e i lini che servono a Gesù bambino
nella grotta di Betlemme; l'Obelisco, che è dal lato della Tribuna;
la Colonna che è davanti la gran facciata di Santa Maria Maggiore; l'Arco di Gallieno; la piccola, ma bella chiesa di Santa
Praxede, ove conservasi il braccio con la mano di questa santa,
con la spugna ch'ella impiegava per assorbire e raccogliere il
sangue dei martiri, rinchiuso in un braccio di argento; il pozzo,
ove ella buttava il sangue raccolto dei martiri; la pietra che le
serviva di letto; la colonna sulla quale Cristo fu flagellato; un
pezzo della cute di San Carlo Borromeo, come pure la tavola
sulla quale egli dava da mangiare ai poveri, e la sedia sulla quale
egli sedeva. Davanti l'altare maggiore di questa chiesa vi sono
molti gradini di rosso antico, ben lunghi e larghi, di un sol pezzo.
La sera dal signor Abate Pennoni.
4 Aprile
La mattina, a malgrado del pessimo tempo che ha fatto, il quale
mi ha impedito di girar molto per la Città, come avrei voluto,
pure, per tutto osservare prima di partire, sono uscito ed ho veduto il Tempio di Pallade; il Tempio ed il Foro di Nerva; l'Arco
dei Pantani; il Mausoleo di Augusto.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
Il dopopranzo sono andato a prender congedo dai Signori Conti
e Metaxà.
5 Aprile
La mattina ho veduto la Fontana di Trevi; la Piazza ed il Palazzo
Barberini; il Convento dei Cappuccini ed il loro Cimitero, ove
delle ossa assortite dei defunti frati se ne son costruite con ammirabile maestria e pazienza colonne, piramidi, archi, tempi, testoni, fiori, ecc., che rendono quel luogo per sua natura luttuoso
e triste, oggetto di curiosità e di grande ammirazione. Sono
quindi andato a vedere nello stesso Convento il quadro del distinto pittore francese, Signor Gravet che rappresenta un coro di
Cappuccini che officiano, il quale è di un effetto meraviglioso.
Allorquando si guarda alla dovuta distanza e direzione, attraverso di un piccolo cono di carta, si veggono le persone e gli altri
oggetti del Coro uscire a rilievo sul piano del quadro. L'autore si
è piaciuto di ritrattarvi al naturale tutti gli attuali frati di questo
convento, e le immagini sono similissime agli originali.
Ho infine veduto la Piazza delle quattro Fontane; la Piazza ed il
Palazzo di Montecavallo; la Chiesa di Sant’Andrea; quella di
San Bernardo, e l'altra di Santa Susanna.
Ho incontrato questa mattina per istrada il mio caro amico, Signor Marperger, capitano tedesco, del quale feci la conoscenza
ai bagni d'Ischia. Egli mi ha messo alle strette perché fossi andato a dimorare insieme con lui, ma io, trovandomi in compagnia
del Signor Bellelli, non ho potuto accettare la sua affettuosa offerta.
Il dopopranzo sono andato a vedere la Fontana dell'Acqua Felice, detta ancora di Mosè; le Terme di Diocleziano; la imponente Chiesa di Santa Maria degli Argioli, ove è la bella Specola,
ed ove, in parte sepolte sotto il pavimento del tempio, veggonsi
le immense colonne di bellissimo granito orientale; il Convento
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dei Certosini, il Castrum Praetorium, presso la Porta Pia; la Porta
Pia; la Villa Patrizi; la Porta Salara.
6 Aprile
La mattina sono andato a vedere il Tempio di Antonio e di Faustina, ora Chiesa di San Lorenzo in Miranda, il Tempio di Remo,
attualmente vestibolo della Chiesa dei Santi Cosmo e Damiano;
la Basilica di Costantino, volgarmente detta il Tempio della
Pace; la Chiesa di S. Francesca Romana.
Il dopopranzo ho veduto l'arco di Tito; il Tempio di Venere e di
Roma (del Sole e della Luna); il Monte Palatino; il Palazzo dei
Cesari; i Giardini Farnesiani; l'Arco di Costantino; l'Anfiteatro
di Flavio, volgarmente detto Colosseo.
La sera in casa del Signor Pennoni.
7 Aprile
La mattina sono andato a vedere la Chiesa di Santa Croce di Gerusalemme; quella di San Clemente; l'altra di San Giovanni in
Fonte, ovvero il Battistero di Costantino; la Scala Santa e la Cappella del Salvatore, detta Sancta Sanctorum; la Porta di San Giovanni; la Basilica di Santa Croce di Gerusalemme; il Sestorium86, volgarmente chiamato il tempio di Venere e di Cupido.
Il dopopranzo ho veduto l'Anfiteatro Castrense; la Porta Maggiore; il Tempio di Minerva Medica; il Castello dell'Acqua Giulia, detto i Trofei di Mario; la Porta di San Lorenzo.
La sera sono andato al Teatro della Valle, e quindi in casa di
Pennoni.
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Sessorium complesso residenziale di epoca imperiale.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
8 Aprile
La mattina sono andato alla Legazione di Napoli, e poi alla Polizia per separare il mio passaporto da quello del Signor Bellelli,
col quale era riunito, e per aver quindi la carta di soggiorno per
rimanere in Roma.
La sera in casa del Signor Pennoni.
9 Aprile
Questa mattina sono partiti per la volta di Napoli il Signor Bellelli con i suoi figli, il marchese Cesa87 e la sua moglie, e la signora Angelina Pennoni, nipote del Signor Abate. Io e la famiglia Muscettola li abbiamo accompagnati infino alla Porta di San
Giovanni. Dopo siamo andati a vedere la Chiesa di Santa Croce
di Gerusalemme ed il Battistero di Costantino il Grande, che i
Signori Muscettola, dietro la mia favorevole relazione, desideravano di osservare.
Ho desinato in casa dei Signori Muscettola; ed il dopopranzo,
insieme con essi, sono andato alla Chiesa di Santa Maria in Trastevere ed a quella di Santa Cecilia, che io aveva egualmente
indotti a vedere, in seguito della narrazione loro fatta delle cose
interessanti che vi sono da osservare.
In esecuzione dell'appuntamento fatto ieri col Signor Marperger,
sono andato questa sera a dimorare, per la prima volta, in sua
casa, situata Vico Cenci alla Regola, n° 1°, vicino il Ghetto degli
Ebrei.
87
Potrebbe trattarsi di uno degli esponenti della famiglia dei Palomba, marchesi di Cesa, attualmente comune italiano della provincia di Caserta.
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10 Aprile
Questa mattina sono andato a vedere i quadri del Palazzo Farnese; le statue in gesso ed i quadri degli allievi napoletani, e posti
nello stesso palazzo; la Farnesina, e le belle pitture a fresco che
vi si conservano; le Sale di quadri del Palazzo Corsini, alla Longare, rimpetto la Farnesina, e la Villa dello stesso Principe.
Ho desinato con i signori Muscettola.
11 Aprile
Io era deciso di restare un altro mese in Roma per meglio osservare, e forse per l'ultima volta, le sue rarità, e per questo oggetto
ho lasciato la compagnia del mio ottimo amico, Signor Bellelli,
il quale peraltro, quantunque avesse avuto in progetto di giungere infino a Firenze, pure le sue domestiche cure lo hanno obbligato a subito ritornare in Napoli. Intanto, avendo legato stretta
amicizia col migliore degli uomini, Signor Francesco Muscettola durante la nostra comune permanenza in Roma, ed avendo
egli avuto campo di scorgere in me l'uomo, la di cui amicizia e
compagnia poteva essergli di molto aiuto o conforto nel suo malaugurato viaggio, dopo avermi più e più volte inutilmente sollecitato ad accompagnarlo, è giunto infino alle commoventi preghiere per indurmi a seguirlo. Mi è allora convenuto di condiscendere alle sue voglie, a condizione che sarei anche io entrato
per la mia parte nel ratizzo delle spese del viaggio. Avendo egli,
dopo molto stento, di ciò convenuto, si è tra noi deciso di partire
la mattina del 13 corrente.
Mi ho spedito il passaporto per Firenze.
Ho desinato in casa di Muscettola.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
12 Aprile
Mi sono occupato a prepararmi tutto il bisognevole per la partenza.
13 Aprile
Alle 6 del mattino sono partito da Roma con la famiglia Muscettola.
Passando per la Piazza del Popolo vi abbiamo veduto la ghigliottina preparata per giustiziare questa mattina uno scellerato che
uccise suo padre e poi lo seppellì in luogo nascosto. Egli è delle
vicinanze di Roma.
Poco al di là di Ponte Molle, sulla dritta della strada, s'incontra
l'avanzo di un picciolo mausoleo, che dicesi essere di Nerone.
Abbiamo fatto riposo a Bracciano88. Alle 5 della sera siamo
giunti a Ronciglione89, ove abbiamo pernottato. Questo paese è
distante 40 miglia da Roma. Sulla strada s'incontrano diversi
avanzi di antichi edifici. Tutto il suolo che si percorre da Roma
infino a Ronciglione è vulcanico: ne sono chiare prove le lave
durissime, il tufo vulcanico di varia consistenza, i lapilli a strati
ed a masso, che dappertutto s'incontrano.
Le campagne che abbiamo oggi traversate, presentano tutte delle
vedute piacevoli ed amene. I terreni sono piani e composti di
circa sei palmi di terra vegetale, quindi suscettibili di facilissima
coltura, ed atti a somministrare più che abbondanti prodotti. Ma
a che giova la loro naturale fertilità, se essi sono tutti incolti o
boscosi, e destinati soltanto a produrre pinguissimi erbaggi?
Tranne un mezzo miglio di estensione intorno Roma, che è perlopiù sottoposto a lussuose colture, tutto il resta della terra felice
88
89
Bracciano in provincia di Roma.
Ronciglione è attualmente un comune italiano della provincia di Viterbo.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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che le appartiene è abbandonato a se stesso, è incolto, derelitto,
selvoso e disabitato! Il primo paese che incontrasi dopo Roma
n'è per circa venticinque miglia distante. Egli è vero che questo
Stato li manca del numero necessario di uomini per sottoporre
ad utili colture tutta la estensione delle sue terre, ma ben se ne
potrebbe coltivare una parte dagli abitanti che vi sono, se la indolenza dei proprietari e la poltroneria del popolo, prodotte e
mantenute da politiche cagioni, le quali altri mezzi men lodevoli
somministrano alla loro esistenza, non ne fosse l'unica, la vera e
la criminosa sorgente.
14 Aprile
La mattina siamo partiti alle 4 da Ronciglione. Abbiamo passato
la montagna di Viterbo, la di cui salita è molto aspra. Tutta questa montagna è vulcanica. Siamo giunti a Viterbo, città piacevole
ed ornata di molte fontane, e dopo, a Lago divino90.
Continuando il cammino si arriva a Montefiascone91, ove abbiamo fatto riposo. Questo paese è situato sul lato orientale del
Lago di Bolsena. Da sopra la piazza, posta al suo Occidente, vi
è un bel punto di veduta, presentato dalla sottoposta e vasta pianura che è sul lato del lago, verso Montefiascone.
Il Lago di Bolsena ha circa diciotto miglia di larghezza, cinque
di lunghezza e circa quaranta di circonferenza. Il suo lato settentrionale è formato da una serie di alte montagne, ovvero, se si
vuole, da una sola montagna lunga, dritta, tutta composta di sostanze vulcaniche, e principalmente di lave durissime, brune, basaltiche.
90
Si tratta in realtà del Lago di Vico di origine vulcanica situato nella provincia di Viterbo.
91
Montefiascone è attualmente un comune italiano nella provincia di Viterbo.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
Non vi è dubbio che il Lago di Bolsena sia stato il cratere di un
grandissimo vulcano che arse in tempi remotissimi. Che vasta
estensione, che immensa profondità dovette esso avere nel
tempo di sua esistenza! Mi è sembrato che una parte della montagna che limita il lago al Settentrione, sia calcare, ma essa fu
tutta calcinata dal fuoco del vicino vulcano. La disposizione degli strati, dei lapilli, del tufo e della lava, chiaramente mostra che
questo lago, Iddio sa in quale epoca fu il cratere di un colossale
vulcano, come ad evidenza lo mostra l'immensa estensione delle
terre vulcaniche che lo circondano.
Poco prima di giungere a Bolsena, vicino la strada, si vede su
questa montagna una lava basaltica divisa in tanti prismi, inclinati all'orizzonte, sotto un dato angolo, e che hanno, tuttalpiù, un
palmo e mezzo di spessezza. Essi presentano un colpo d'occhio
ammirabile.
Vicino Montefiascone ho ritrovato sulla strada un pezzo di granito talmente cotto dal fuoco, che toccandolo cadeva in polvere.
Siamo infine giunti a Bolsena, paese edificato sulle rovine
dell'antica città dallo stesso nome, e vicino il gran lago di cui
abbiam fatto parola. Uscendo dall'abitato, veggonsi nelle sue vicinanze, gli avanzi degli antichi edifici Etruschi.
Proseguendo il cammino, si giunge a San Lorenzo vecchio92, il
quale è andato in rovina, e quindi, dopo una difficilissima e penosa salita, si perviene in San Lorenzo nuovo, piccolo villaggio,
con una piazza ottagonale, ove abbiamo pernottato.
Da Ronciglione infino a San Lorenzo nuovo vi sono 36 miglia.
92
Ibidem.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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15 Aprile
Alle 4½ del mattino siamo partiti da S. Lorenzo. Il primo paese
che incontrasi sulla strada è Acquapendente93, patria del celebre
anatomico Fabricius ab Aquapendente94. Qui veggonsi dei
grandi ammassi di lava dura e fuori della porta, verso Firenze,
trovasi altresì un pezzo della vicina montagna di lava tutta divisa
in prismi inclinati.
Qui finisce la lunga estensione del suolo vulcanico, il quale principia da Velletri, se pur con più esattezza non voglia dirsi da Napoli. Si passa in seguito il bel ponte costruito sul fiume Paglia,
si giunge poi a Ponte Centino e poco al di là si esce dagli Stati
Papali.
Si principia quindi la salita di Radicofani95, la quale è asprissima.
Da questo lato il monte è tutto composto d'una immensa quantità
di ciottoli, non saprei dire se di mare o di fiume, che è molto al
di sopra dell'attuale livello del fiume sottoposto. Il resto della
montagna è composto di gran quantità di terra argillosa, in modo
che presenta dappertutto degli scoscendimenti (falanghe), i quali
in alcuni siti sono spaventevoli. Si giunge dopo al castello di Radicofani, al di sotto del quale, sulla grande strada, trovasi la Dogana. Poco di là, per lo spazio di circa un quarto di miglia, incontrasi sulla strada un immenso ammasso di pietre cotte, o murcie smosse dal loro luogo nativo, alcune di color rosso, altre di
color nero, altre grigie, ecc. Io credo che ciò sia stato prodotto
da tremende scosse di tremuoti avvenuti in tempi da noi remotissimi. Al di là, la montagna è benanche argillosa durante tutta
93
Ibidem.
Girolamo Fabrici d'Acquapendente (1533 – 1619) medico, allievo di Gabriele Falloppio, insegnò anatomia e chirurgia a Padova tra la fine del Cinquecento e i primi anni del Seicento.
95
Radicofani in provincia di Siena.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
la discesa; finita la quale si sale a San Quirico96, ove abbiamo
pernottato.
Da S. Lorenzo nuovo infino a San Quirico vi sono 40 miglia.
16 Aprile
Alle 5 del mattino siamo partiti da San Quirico. Dopo passato il
fiume Ombrone si giunge a Buonconvento97, villaggio gaio e ben
situato.
I poderi di questo paese, posti in una bella ed amena pianura,
sono buoni e ben coltivati. Ecco ciò che di preferenza mi è piaciuto nella agricoltura di queste contrade. Per sostenere le viti
nei loro arbusti gli agricoltori adoperano la stessa specie di ontano, che impiegasi per lo stesso oggetto, per quanto è a mia conoscenza, soltanto nella mia patria, e che colà volgarmente chiamano occhiano (Acer [Monspessulanum]), con la sola differenza
ch'essi ad ogni piede di ontano, invece di quattro rami, come praticasi nella mia patria, ne lasciano infino a venti, dividendo per
ben due volte i quattro principali rami dell'albero, fino in guisa
ch'esso ha la forma di un cono rovescio a larga base, e vuoto nel
mezzo. Ognuno di questi rami serve per sostenere un sarmento
(da noi detto testa) delle viti che dipendono da quell'ontano.
Questa specie di piantagione, nel mentre che è vantagiosissima
per la perfetta maturazione delle uve, produce un effetto meravigliosissimo.
Al di là di Buonconvento, il terreno è ancora buono per qualche
spazio; dopo incontrasi nuovamente il suolo sterile ed argilloso,
il quale è totalmente inetto alla vegetazione.
96
97
Ibidem.
Ibidem.
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Proseguendo intanto il cammino ci siamo avvicinati a Siena. I
dintorni di questa città offrono da tutti lati un orizzonte estesissimo, e dei punti di veduta sorprendenti e variatissimi.
Alle 12 siamo giunti in Siena.
Questa città è piacevole ed ornata di bellissimi edifici. Meritano
soprattutto d'essere osservati: 1° la Piazza Circolare, concava ed
in pendio, a guisa di lumaca; 2° il Palazzo della Signoria, che è
nel fondo di questa piazza, attaccato al quale trovasi la Torre
svelta ed elevata, che vedesi da lontano; 3° il Duomo, coverto
esternamente ed internamente di marmo bianco e nero, disposto
alternativamente a guisa di fasce; 4° il Battistero di San Giovanni, fatto sullo stesso gusto; 5° il Collegio Tolomei; 6° e moltissimi belli edifici e palazzi.
I grandi edifici sono costruiti in pietra di taglio, il resto delle case
è fabbricato a mattoni, come anco i muri dei poderi e dei giardini
presso la città. Il pavimento delle strade è anche fatto a mattoni.
Questa eleganza di costruzione non è prodotta dal lusso, ma
bensì dalla necessità, giacché il terreno delle vicinanze di Siena
si presta a questo modo di costruzione, e si nega a qualunque
altro, giacché è tutto composto di buonissima argilla, e manca
assolutamente di pietra.
Da San Quirico infino a Siena vi sono 26 miglia. Alle 4 pomeridiane siamo partiti da questa città.
Sei miglia circa fuori Siena, la strada presenta delle bellezze di
situazione che rapiscono: i punti di veduta che si offrono allo
sguardo dell'osservatore sono estremamente pittoreschi. Più di
là, si lascia sulla man dritta il vasto territorio di Chianti, celebre
per la squisitezza de' suoi vini. Si giunge dopo a Castiglioncello98, e quindi a Poggibonsi99, borgo ben grande, situato alle
falde di una collina.
98
99
Ibidem.
Ibidem.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
Passato Poggibonsi, a circa dodici miglia distante da Siena, trovasi la montagna di San Martino, la sommità della quale è coverta di grandissime conchiglie fossili avvolte e conservate, in
alcuni siti negli strati argillosi, ed in altri in strati di terra limosa
mobile. Cammin facendo, ho raccolto delle ostriche, dei balani,
delle veneri, ecc. La estensione di terra nella quale questi fossili
si ritrovano è di alcune miglia, giacché se ne rinvengono infino
alle Tavernelle100, ed anche più oltre.
Dopo alle Tavernelle, il terreno argilloso finisce, e principiano
gl'immensi ammassi di ciottoli marini, dei quali sono composte
tutte le colline, le pianure e le montagne di questa parte della
Toscana, infino a circa cinque miglia prima di giungere a Firenze.
Si trova in seguito la celebre salita di San Casciano101, ch'è di
circa un miglio e mezzo, la quale è tutta dritta ed orribilmente
aspra, e poi si giunge in San Casciano, borgo ben grande, che si
traversa.
Tre miglia prima di arrivare in Firenze, il terreno principia ad
abbassarsi in vallate, costeggiate da montagne elevatissime e
ravvicinate, nude, sterili e composte di gres a strati di ogni spessezza, i quali facilmente si prestano ad ogni specie di lavoro. Di
questa pietra è fabbricata la città di Firenze, e con i suoi fogli
larghi e levigati sono ancora maestrevolmente lastricate le sue
strade. In alcuni luoghi questa pietra trovasi nello stato di decomposizione.
Andando più oltre si perviene al Convento della Certosa, e
quindi al sobborgo della città, che è piacevolissimo, e finalmente
alla città istessa, ove siamo giunti alle 7 della sera.
100
Tavernelle Val di Pesa è attualmente un comune italiano della provincia
di Firenze.
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Ibidem.
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Siamo andati ad alloggiare all'Albergo dello Scudo di Francia,
Strada dei Leoni, presso il Palazzo Vecchio del re.
È impossibile che possano descriversi o dipingere le bellezze che
presenta la parte della Toscana che finora abbiamo trascorsa, risultanti dalla immensa varietà dei punti di veduta che offre, dal
gran numero di colline di varia forma ed in diverso modo disposte, dalle apriche e fertili vallati che queste racchiudono, dalla
maniera ammirabile con la quale è coltivata, e dalla quantità degli edifici rurali e di piacere che l'adornano.
Bisogna vederla se se ne vuole avere la vera idea.
17 Aprile
Ha piovuto continuamente. Sono uscito appena un poco verso la
sera.
18 Aprile
Il pessimo tempo che ha fatto anche quest'oggi, mi ha permesso
appena di uscire un momento verso la sera.
19 Aprile
La mattina sono andato a visitare il Signor Duca di Diano, il
quale da qualche tempo dimora con suo figlio in questa città. Il
dopopranzo sono andato insieme con lui alla passeggiata alle Cascine che è stata bellissima, a causa della quantità del popolo e
della gente distinta che vi si è radunata. Ho qui incontrato il nostro compatriota Signor Antonio Nanula102, che aveva lasciato in
Roma.
102
Antonio Nanula (1780 – 1846), professore di anatomia all'Università di
Napoli.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
La sera sono andato al Teatro della Pergola.
20 Aprile
Ho desinato in casa del Signor Duca di Diano. Il dopopranzo
siamo andati nuovamente insieme alla passeggiata alle Cascine.
La sera sono andato a visitare il nostro compatriota, Signor Poerio103, il quale, esiliato da Napoli, si è qui stabilito.
21 Aprile
La mattina sono andato ad osservar nuovamente il Gabinetto Fisico e Zoologico, di cui tralascio di far parola per averne già dato
qualche cenno in altro mio viaggio.
Il dopopranzo sono andato a visitare il signor Ricci e la sua moglie, da me conosciuto in Napoli, il quale dimora nella sua campagna, che è due miglia fuori Firenze, uscendo dalla Porta di San
Gallo. Ci siamo dati mille baci di tenerezza e di amicizia.
La sera sono andato, insieme col Signor Duca di Diano, in casa
della Signora Sofia, conosciuta per mezzo del detto Signor Duca.
22 Aprile
La mattina sono andato a vedere la Chiesa di Santa Maria del
Fiore; il Duomo in tutte le sue parti, ove conservasi, sulla piccola
porta a man sinistra, l'antico quadro di Dante; il Campanile; la
Compagnia della Misericordia; la Chiesa di San Giovanni, antico Battistero; il Bigallo; il Palazzo dell'Arciduca; la Chiesa di
San Salvatore; la Basilica di San Lorenzo in tutte le sue parti; la
103
Giuseppe Poerio (1775 – 1843) partecipò alla Rivoluzione napoletana e
successivamente ebbe importanti cariche amministrative durante il governo
di Giuseppe Bonaparte a Napoli. Nel 1823 partì in esilio per la Toscana.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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celebre Biblioteca Medico Laurenziana, ove conservasi religiosamente, sotto piccola campana di cristallo il dito indice della
mano dritta dell'Immortale Galileo Galilei, per ordine del Governo. Io l'ho baciato ben due volte con rispetto e venerazione.
Il dopopranzo ho veduto la Compagnia delle Stimate; la Chiesa
di San Jacopo in Campo Corbolini, ove, sulla porta da centro la
chiesa, vedesi un piccolo quadro che rappresenta un fanciullo il
quale sostiene le armi della famiglia Antella, dipinto su di un
mattone da Giovanni di Sangiovanni; la Chiesa di Sant’Onofrio;
quella di San Giuliano; l'altra di Sant’Antonio; il Castello San
Giovanni Battista.
23 Aprile
La mattina ho veduto il Palazzo Vecchio del Gran Duca; la Gran
Galleria con molte statue e belle pitture; la Galleria ove sono i
ritratti degli individui della famiglia dei Medici; quelli dei Gran
duchi, ed i sorprendenti lavori in avorio ed in ambra; la Loggia
che è sulla piazza, con tutte le belle statue che vi sono; la stupenda Fontana della Piazza; la statua equestre di Cosimo 1°; l'Edificio, o Palazzo degli Officii, cioè la Zecca, la Biblioteca Magliabechiana, la Galleria dei quadri e delle statue.
Sono quindi andato a desinare dal Signor Ricci, nella sua villa,
che apparteneva altra volta al Signor Sassi, sotto il cui nome è
essa ancora oggi conosciuta.
La sera sono andato in casa del Signor Duca di Diano.
24 Aprile
Durante le ore del mattino ho veduto la Chiesa di Santa Croce,
che è ricchissima in belli quadri ed in Mausolei di marmo, tra
quali distinguonsi quello dell'immortale Galileo Galilei, quello
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
del celebre Alfieri, fatto con impegno dall'egregio Canova, l'altro di Buonarroti, ecc.; la Chiesa di San Giuseppe; il Monastero
e la Chiesa dei Cappuccini; la Vecchia Zecca; la Chiesa di San
Francesco; quella di Sant’Ambrogio; l'altra di S. Teresa; la Casa
dei Buonarroti; il Palazzo Spinelli, ove è la fontana dell'acqua di
Santa Croce; il Palazzo Strozzi; le Prigioni, chiamate Stinche.
Il dopopranzo sono andato alle Cascine, e la sera dal Duca di
Diano.
25 Aprile
Il dopopranzo sono andato, in compagnia del Signor Duca di
Diano, a Poggio Imperiale, ove, mediante i suoi rapporti, ho
avuto l'agio di minutamente vedere tutte le stanze degli appartamenti di questo magnifico sovrano edificio, la Sala delle Statue,
il Giardino e la Cappella. È questo un Palazzo che incanta. Vi si
ammirano principalmente le Statue di Apollo e di Bacco; le pitture della galleria e delle vicine camere del secondo piano; l'altare della Cappella, tutto composto di pietre dure e di camei;
molti cesti (coffres) egualmente ornati di vari disegni in pietre
dure, e quella macchina cinese fatta in cristallo filato, destinata
a dividere una camera a guisa di cortina.
La sera sono andato in casa del Signor Duca di Diano
26 Aprile
Il dopopranzo sono andato a passeggiare alle Cascine, in unione
del Signor Duca di Diano e la Signora Sofia.
27 Aprile
La mattina, in compagnia del Duca di Diano, della Signora Sofia, del Signor Ricci e di sua moglie, dopo aver fatto colazione
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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nella casa di campagna di quest'ultimo, sono andato a vedere la
Fabbrica di porcellana del Conte Ginori, che è quattro miglia distante da Firenze. Ho così avuto l'opportunità di esaminare attentamente tutte le parti di questa bella e rinomata fabbrica, e
tutte le operazioni necessarie per fare le porcellane.
Tutte le campagne che abbiamo percorse sono piacevoli, amene
e ben coltivate.
28 Aprile
La mattina sono andato a vedere la bella fabbrica di alabastro del
Signor Pisani, sul Prato, n° 1; la Chiesa di San Marco; quella
dell'Annunciata, che è bella e ricchissima, principalmente per la
rinomata particolare cappella dell'Annunciata, ove veggonsi, in
puro metallo di argento, quaranta lampade, quaranta vasi per
contener fiori; l'altare ed una trave al di sopra per sospendere le
cortine che vi sono davanti. Accanto a questa vi è un'altra piccola
cappella, di cui non mi ricordo il nome, i di cui muri sono tutti
coverti con lamine di pietre dure, come corniole, agate, calcedonie, ecc. e guernite di altre pietre ancor più preziose.
Ho veduto ancora la Casa ed il Convento degli Innocenti; l'Accademia di Belle Arti, ricchissima in preziosi quadri; lo Studio
del Pittore, Signor Marchese Benvenuti; quello di Scultura in
marmo ed in alabastro del Signor Bartolini, che è bellissimo; l'altro dello stesso genere del Signor Giovanni Insom104, che è bello
ancor esso; la Farmacia di Santa Maria Novella, ammirabile per
la sua proprietà, per la eleganza, per la sua estensione, e pel gran
numero e sceltezza dei semplici, e particolarmente per le medesime composte d'ogni genere che vi si preparano.
Ho desinato in casa del Signor Duca di Diano.
104
Giovanni Insom (1775 – 1855) scultore trentino fu un apprezzato alabastraio e scultore del marmo. Si formò artisticamente in Toscana.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
30 Aprile
La mattina, giovedì della Ascensione, sono andato alle Cascine
per vedere la festa popolare che si fa ogni anno. Una gran quantità di gente popolare, galantemente vestita, vi accorre, la quale,
distribuita in vari drappelli fa colazione, desina, balla, canta e
suona in mezzo alle fratte e sotto l'ombra degli alberi. Le amabili
contadine toscane, accompagnate dai loro genitori e dai loro
amanti, sono modestamente gaie e festose. Non può idearsi una
festa popolare più dilettevole di questa, e che mostri nel tempo
medesimo quanto contribuisca la pubblica educazione, ben diretta dalla saggia mano del governo, rendere un popolo civile,
costumato, manieroso ed istruito.
Il dopopranzo sono ritornato alle Cascine per vedere il resto della
festa, e la passeggiata dei nobili in carrozza ed a piedi. Distinguevasi fra questi Sua Altezza Reale il Granduca105, il quale disceso dal suo cocchio passeggiava confuso con la folla, rispondendo affabilmente a chiunque se gli avvicinava per parlargli, e
godendo all'eccesso della gioia e della felicità del suo amato popolo, dal quale, con ripetuti evviva, era affettuosamente salutato
come padre e come re. E voi monarchi tutti, se non della terra,
almeno della nostra colta Europa, perché non imitate la condotta
di sì grand'uomo, per essere adorati come lui, o almeno men detestati e più sicuri?
Il popolo intanto, diviso in vari crocchi, continuava come questa
mattina a mangiare sotto l'ombra degli alberi, a cantare, a ballare
ed a darsi ad altri onesti piaceri ed all'allegria. Il tempo che ha
ancor esso concorso per la sua pubblica gioia, giacché la giornata
è stata sempre calma, serena e di calore moderato.
105
Ferdinando III d'Asburgo Lorena, (1769-1824), Granduca di Toscana dal
1790 al 1801 e dal 1814 al 1824.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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Questo giorno, per me sempre memorando, ha messo il sigillo al
mio piacevole soggiorno in Firenze. Io sarei fortunatissimo se
potessi passarvi il resto dei giorni miei! Ma, oimè, io sono nato
per essere sempre infelice!
1 Maggio
Sono stato occupato a dar sesto ai miei affari per prepararmi alla
partenza. Ho preso congedo dai miei compatrioti, Signori Poerio
e Mandrini, dalla Signora Sofia e da suo marito, dalla Signora
Della Lena, alla quale aveva già prescritto con vantaggio un metodo di cura per le sue infermità, e dal Signor Duca di Diano.
Questi ultimi addio hanno molto interessato il mio cuore. I rapporti procurano dei piaceri e delle pene insieme. Questa è la vita
umana!
La sera ho ricevuto la visita del Signor Conte Bardi106, Direttore
dell'Istruzione Pubblica e del Gabinetto di Fisica, il quale desiderava di conoscermi in seguito del modo favorevole col quale
gli fu parlato di me dal mio illustre maestro, Signor Cuvier107,
allorquando si recò in Firenze per organizzare l'istruzione pubblica della Toscana sotto l'Imperatore Napoleone. Egli mi ha
trattato con molta distinzione. Sono restato dispiaciuto non poco
di averlo conosciuto sì tardi.
106
Girolamo de' Bardi (1777 – 1829) socio dell’Accademia dei Georgofili si
occupò prevalentemente di geologia e di mineralogia. Attraverso le sue numerose escursioni sull’Appennino raccolse diversi minerali che incrementarono le collezioni del Museo di fisica e di storia naturale di Firenze.
107
Georges Cuvier (1769 – 1823) uno dei più importanti scienziati francesi
ed europei degli anni a cavallo tra Sette e Ottocento, professore di anatomia
comparata al Muséum d’histoire naturelle di Parigi, paleontologo fu maestro
di Giosuè Sangiovanni durante l’esilio a Parigi dello scienziato napoletano
agli inizi dell’Ottocento. Sull’esempio di Cuvier, Sangiovanni chiese l’introduzione della cattedra di anatomia comparata all’Università di Napoli. La richiesta fu accolta con regio decreto di Giuseppe Bonaparte nel 1806.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
2 Maggio
Alle 5 del mattino siamo partiti da Firenze, uscendo per la Porta
di San Gallo, ove è l'Arco Trionfale. Ho lasciato questa città con
pena indicibile.
Una nebbia densissima ha durato infino alle 7½ del mattino, in
guisa che non ho potuto godere delle bellezze dei dintorni di questa capitale. Dopo la giornata è stata bellissima. Siamo passati
per Trespiano, ove è il Cimitero pubblico di Firenze. Le campagne sono amene e ben coltivate infino a cinque miglia al di là
della città. Dopo esse sono per qualche tratto sterili, e la maggior
parte incolte. Ho percorso la bella villa del Signor Marchese Gerini, composta di lunghi viali di cipressi. Da questo luogo si gode
di una veduta bellissima.
A sei miglia distante da Firenze si lascia sulla dritta la bella e
magnifica Villa Reale, detta Pratolino.
Ci siamo fermati alle Maschere, piccolo contado composto di un
albergo e di poche case, ove siamo stati accompagnati e festeggiati da diverse drappelli di amabili donzelle, ornate di corone di
fiori, le quali recitavano a coro le loro canzoni di maggio, feste
che presso i toscani si celebrano durante i primi tre giorni di questo mese. Esse, su due piedi, compongono e cantano, in modo
gaio e festevole, ad ogni passeggero delle lusinghiere canzoni di
lode, e ciò per avere qualche moneta. Era bello il sentire le lodi
menzognere che han recitato, beffando e deridendo, a quel tumulo fungo del fetido ed inetto Vecchione, il quale accerchiato
dalle donzelle, stava a guisa di gufo nel centro, e stoltamente
compiacendosene si aggirava dintorno. Qui le campagne sono
belle e ben coltivate.
Si passa quindi per Fontebuona, Cafaggiolo, Martecarelli, che
sono piccioli contadi composti di poche case.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
623
Prima di giungere a Covigliaio108, si trova la montagna chiamata
il Giogo, la più alta degli Appennini, ove veggonsi slamamenti
di terra.
Siamo giunti a Covigliaio, ove abbiamo pernottato. Abbiamo
fatto circa 32 miglia. La mattina ha fatto grande nebbia; il giorno
gran calore, la sera freddo sensibilissimo.
La strada è bellissima da Firenze infino a Covigliaio. Principiando da Firenze, tutte le montagne sono composte di una specie di gres, per lo spazio di circa venti miglia, dopo esse sono di
calce carbonata argillosa, di color palombino.
3 Maggio
Siamo partiti da Covigliaio alle 5 del mattino. Il cielo era coverto
di densissima nebbia. Passata Firenze ed i suoi dintorni, non si
trovano più alberi di olivi.
Si giunge a Pietramala109. Ad un mezzo miglio di distanza da
questo piccolissimo villaggio, sulla montagna detta Monte di Fo,
vi è un voluto picciolo vulcano, il quale, or più, or meno, brucia
continuamente. Io però penso che ciò sia dovuto al semplice gas
idrogeno che si accende, uscendo in quel luogo dalle viscere
della terra, imperocché non vi è né cratere, né lava all'intorno, né
vi è mai stata esplosione alcuna, e la fiamma fievole e bassa vedesi silenziosamente uscire attraverso una maceria di sassi.
Abbiamo principiato la difficile salita della montagna che porta
il nome di Scaricalasino, con un freddo eccessivo. Fin qui le
montagne sono di pietra calcare argillosa, di color piombino. Il
mare Adriatico si principia a vedere prima di giungere sulla vetta
di Scaricalasino.
108
109
Covigliaio frazione del comune di Firenzuola.
Ibidem.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
Giunti a Scaricalasino110 siamo stati crudelmente visitati dalla
Dogana. Si giunge in seguito alle Filigara, e quindi a Loiano111;
durante quel tratto si gode di una bellissima veduta.
Da Loiano infino a Pianoro112 la veduta è bella ed estesissima.
Sulla man dritta vedesi l'Adriatico; sulla sinistra scorgonsi le
Alpi d'Ivrea, le quali coverte di neve, si presentano da lungi nella
loro maestosa grandezza; in linea retta scovronsi le pianure di
Milano, di Verona, di Padova e quelle del Po. Qui le montagne
sono di gres molto fragile.
Si giunge a Pianoro. Da qui infino a Bologna la strada è quasi
sempre nel fondo d'una larga vallata.
Da Covigliano [Covigliaio] infino a cinque miglia prima di giungere a Bologna non vi sono vigneti: il suolo è ineguale, arido,
nudo, argilloso, poco fertile e freddo: vi sono solamente querce
ed erbaggi da pascolo. Verso Pianoro, si trovano degli arbusti
fatti con olmi, che han pochi rami, vigneti, bassi ad un dipresso
come i nostri.
Circa tre miglia prima di arrivare in Bologna, le terre sono fertili
e mirabilmente coltivate. Vi sono dei bellissimi casini di campagna, edificati con molta magnificenza, fra le quali principalmente distinguesi quello di Aldrovandi Marescotti113. Nelle vicinanze vi sono delle grandi cartiere e dei belli molini.
Siamo giunti infine a Bologna alle 3 dopo il mezzogiorno abbattuti da un calore eccessivo, dopo 34 miglia di strada. Siamo andati ad alloggiare nell'Albergo dei Tre Moretti, Contrada de' Vetturini.
110
Scaricalasino identificava l'attuale comune di Monghidoro della provincia
di Bologna.
111
Loiano in provincia di Bologna.
112
Ibidem.
113
Carlo Filippo Aldrovandi Marescotti (1763 – 1823) poeta e autore di commedie.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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Dirò qualche cosa intorno alle bellezze e rarità di questa città al
ritorno da Venezia, quando avrò più l'agio di esaminarle.
4 Maggio
Alle 5 del mattino siamo partiti da Bologna.
Uscendo da questa città si entra in una vasta pianura, continuazione di quella del Milanese. Giammai in mia vita ho veduto in
alcun'altra parte ove io ho viaggiato una strada rotabile più bella
di quella che conduce da Bologna a Ferrara. Essa non è solamente bella in se stessa, ma lo diviene maggiormente per esser
sempre costeggiata dai due lati da piantagioni per lo più di pioppi
ed in parte di olmi; e ciò per lo spazio di trenta miglia.
Poco discosto da Bologna principiano i ristagni di acqua scavati
a bella posta in mezzo alle terre, vicino alla strada rotabile, per
raccogliere le acque della pianura, le quali vanno poi a scaricarsi
e raccogliere in un gran canale, che è a lato della strada medesima. Più oltre s'incontrano delle risaie e dei ristagni pieni a ribocco di giunchi e di canne selvagge, da noi volgarmente dette
cannogne (Arundo phragmites). In ragione che si avvicina a Ferrara i ristagni delle acque crescono e si estendono. Ciò deve di
necessità produrre in queste contrade la cattiva condizione
dell'aria durante la stagione estiva. Egli è vero che purtroppo vi
vorrebbe per totalmente distruggere questo nocivissimo inconveniente, ma è vero altresì che un governo più umano potrebbe
al certo diminuirlo.
Verso Bologna le campagne sono ben coltivate: vi sono degli
arbusti di ontani (occhiano) e di olmi, con due soli rami, e disposti in larghe e lunghissime fila. La terza è seminata a grano.
Le case di campagna non sono così belle come quelle che vidi
ieri, ma esse sono tutte di costruzione adattata agli usi rurali; ma,
ciononostante, sono edificate con disegni eleganti e tenute con
molta proprietà.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
Si passa per Capodargine114 e quindi per Malalbergo115. Alcune
miglia prima di giungere in quest'ultimo paese, incontrasi, sulla
sinistra della strada rotabile, il canale navigabile detto di Malalbergo, il quale principia a Bologna e termina qui. Passato Malalbergo incontrasi il fiume chiamato Reno, il quale si valica su di
una scafa, sostenuta da barche.
Subito che si entra nel tenimento di Ferrara vedesi l'agricoltura
ancor più negletta. Si traversano, per lo più, delle vaste estensioni di erbaggi infino alla posta della città, davanti la quale trovasi una vasta pianura, continuazione della prima, senza alcun
albero.
La sera siamo andati a visitare Sua Eminenza il Cardinale
Arezzo116, nostro compatriota, Delegato e Governatore del Ferrarese, pel quale il Signor Muscettola aveva delle lettere di raccomandazione. È questi un uomo di bella statura e di aspetto
molto avvenente e, sopra ogni credere, amabile, gentile affezionato e buon vivente. Egli è venuto personalmente a renderci la
visita questa sera istessa.
Siamo quindi andati al Gran Teatro ove si è rappresentata la tragedia intitolata Metello prigioniere in Cartagine nuova composizione di un canonico ferrarese.
Siamo andati ad alloggiare nell'Antico Albergo dei Tre Mori,
Contrada di Bocca-Leone.
114
Capo d'Argine fa parte di Meolo attualmente comune italiano della provincia di Venezia.
115
Malalbergo in provincia di Bologna.
116
Tommaso Arezzo (1756 – 1833) cardinale, aveva avuto nel 1806 importanti incarichi diplomatici a San Pietroburgo, a Dresda e a Berlino da Papa
Pio VII.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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5 Maggio
Restato in Ferrara per osservarne le cose che meritano l'attenzione del viaggiatore.
Questa città che ben contenere 20.000 abitanti, ne conta appena
22.000. Essa è tutta fabbricata in mattoni. Vi è una bella piazza
chiamata Piazza Nuova, ove sono il Duomo, il Palazzo, ovvero
il Castello del Cardinale Governatore ed il Gran Teatro.
Fra le cose che esistono in Ferrara, e che meritano particolare
menzione, sono: il Duomo, o Cattedrale; il Castello, o Palazzo
del Cardinale Delegato; il Gran Teatro; la Chiesa di Santa Maria
in Vado; l'Università, o Liceo; la Certosa, o attuale Cimitero; la
Casa dell'Ariosto; la Chiesa dei Benedettini; l'Ospedale di
Sant’Anna; e Montagnoni, ossia la Pubblica passeggiata.
1° Il Duomo, Cattedrale è di architettura gotica. La facciata è
bella: l'interno e a croce greca e latina. Vi sono dei bellissimi
quadri di primi maestri nell'arte, del Caraccio cioè, del Guercino117 e del Garofalo118, ed un'antica immagine a fresco in
mezzo busto della Vergine, che tiensi per molto miracolosa. Le
pitture a fresco della cupola sono ancora di mano maestra. Vi si
vede benanche la pietra sepolcrale di Lelio Giraldi119, dotto
uomo ferrarese.
2° Il Castello, o Palazzo del Cardinale Delegato, governatore del
Ferrarese è grandissimo. Esso è circondato ed incrociato da un
largo e profondo fosso pieno di acqua stagnante, ma che si rinnova da quando in quando. Vi si entra mediante ponti di legno.
Esso deve essere molto malsano. Vi è molto pesce. L'interno è
117
Giovanni Francesco Barbieri, detto il Guercino (1591 – 1666), pittore,
considerato uno dei migliori artisti della fase più matura del Barocco.
118
Benvenuto Tisi da Garofalo (1481 – 1559) esponente della Scuola ferrarese fu uno dei pittori più rappresentativi del Rinascimento italiano.
119
Lilio Gregorio Giraldi (1479 – 1552), umanista ferrarese autore del trattato
di mitologia De deis gentium.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
assai vasto, ma non in bonissimo stato. L'attuale delegato, Cardinale Arezzo, lo ha accomodato in parte. Vi sono alcuni buoni
quadri e tre pitture a fresco.
3° Il Gran Teatro è, senza dubbio, uno dei più belli d'Italia, fra
quelli di secondo ordine. Esso è molto più grande di quello del
Fondo, ha una bella forma, ed è molto armonico. Dovrebbe solamente esser meglio dipinto.
4° La Chiesa di Santa Maria in Vado è bella. La maggior parte
delle bellissime pitture che vi si veggono sono del distinto pittore
Bologna. Vi è ancora un'antica cupola, sulla quale veggonsi le
stille di sangue uscite en jaillissant dall'ostia, durante la consacrazione, il giorno di Pasqua, del 28 marzo 1174.
5° L'Università, o Liceo si compone di una Biblioteca, di un Gabinetto di Fisica, di un Giardino botanico, di una Sala di quadri
e di busti antichi in marmo, di un Gabinetto di Statue antiche in
bronzo, e di un altro di Medaglie.
a) La Biblioteca è ricca abbastanza: essa contiene circa 80.000
volumi, fra quali molti codici manoscritti e molte edizioni del
1400. I manoscritti sono in pergamena ed in carta. Si contano fra
i primi: 1° Diciotto volumi autentici dei salmi, ornati di bellissime miniature di colori vivissimi e ricche di oro; 2° Quattro volumi atlantici della Bibbia; 3° Un trattato di Canonica in folio,
ornato egualmente di miniature dorate, ecc. ecc.
Fra i secondi si numerano: 1° Il manoscritto autografo del Pastor
Fido di Guerini; 2° I manoscritti autografi del Tasso: cioè, a) La
Gerusalemme Liberata; b) Il suo Testamento, fatto quando egli
doveva partire per la Francia, nel quale, tra le altre cose, egli
raccomanda principalmente ad un suo amico la conservazione e
la cura dei suoi manoscritti. Lo prega inoltre di fare anticipatamente esaminare e correggere, da alcuni letterati suoi amici,
quelli che egli aveva destinati ad essere impressi. Infine, egli raccomanda a questo stesso suo amico i suoi miserabili mobili, fra
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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quali alcune cortine, ecc. Io l'ho baciato con molto rispetto e venerazione; c) alcune lettere, fra le quali quella scritta ad un
grande di Ferrara, con la quale lo supplica di fargli ottenere la
grazia di farlo uscire dalla tenebrosa e malsana prigione di
Sant’Anna e mandare nell'Ospedale dello stesso stabilimento,
ove sarebbe stato meglio trattato.
3° Vi si conservano ancora quarantacinque pagine autografe
dell'Orlando Furioso dell'Ariosto; una parte delle sue lettere, e la
Commedia intitolata La Scolastica.
Conservasi nella stessa biblioteca: il calamaio di bronzo dell'Ariosto; una medaglia con la sue effigie, ritrovato sul suo corpo,
allorquando, negli scorsi anni, fu dissotterrato per ordine del Generale Miollis120; la sedia tutta in legno, ove egli sedeva; e finalmente la sua tomba ornata di belle iscrizioni.
b) Nello stesso locale vi è un meschino Gabinetto di Fisica, un
piccolo Giardino botanico, una sala miserabile di quadri e di busti antichi, in marmo, un Gabinetto assai ben fornito di piccole
statue antiche di bronzo, ed altre simili cose, ed un mediocre Gabinetto di medaglie.
Nel gabinetto dei bronzi antichi si conserva un basso rilievo di
ferro fuso, del 1004, ritrovato nel Ferrarese, sul quale, nella data,
veggonsi impiegate le cifre arabe, fra le quali distinguesi particolarmente il 4, d'onde deducesi d'esser falso ciò che si è finora
creduto, cioè, che Leonardo Pisano, il quale visse nel XIII secolo, al quale questa invenzione si è finora riportata, sia stato
quello che il primo inventò le dette cifre. Il meritevole direttore
di questo Museo, ha pubblicato su tale interessante argomento
una memoria pregevolissima.
120
Sextius Alexandre François de Miollis (1759 – 1828) generale francese
partecipò alla Prima campagna d’Italia di Napoleone tra il 1796 e il 1797
segnalandosi nell’assedio di Mantova al comando delle sue truppe.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
In questo Liceo s'insegnano i diversi rami di Scienze. Il Signor
Campana121, che ho ora personalmente conosciuto, v'insegna la
Chimica e la Farmacia.
6° La Certosa, o attuale Cimitero. Quest'edificio si compone
della Chiesa e del Monastero.
a) La Chiesa è grande, bella e luminosa. Vi sono dei bellissimi
quadri del Bononi122, dello Scarsellino123, del Cignaroli124, di
Avanzi125, del Ghedini126, del Bastaroli127, del Turchi128, del Roselli129, del Caracci130, del Venturini131, ecc. Del pittore Bononi,
121
Antonio Campana (1753 – 1832) medico e chimico ferrarese istituì privatamente un’Accademia di fisica e di chimica. Il cardinale Giovanni Riminaldi
lo nominò professore straordinario di fisica sperimentale all’Archiginnasio.
122
Carlo Bononi (1569 – 1632) pittore, è considerato uno degli artisti preminenti della Scuola ferrarese.
123
Ippolito Scarsella, detto Scarsellino (1550 – 1620), pittore ferrarese esponente dello stile tardo manierista.
124
Giambettino Cignaroli (1706 – 1770) pittore la cui produzione si estesa
alla pittura celebrativa, fu pure scrittori di testi d’arte. Il suo gusto pittorico è
collocato a metà strada tra l’ultimo raffaellismo e l’inizio del classicismo.
125
Jacopo Avanzi (metà XIV secolo – 1416) pittore bolognese fu attivo soprattutto a Padova dove iniziò ad affrescare la Cappella di San Giacomo nella
Basilica di Sant’Antonio.
126
Giuseppe Ghedini (1707 – 1791) pittore, fu direttore dell’Accademia di
Ferrara. È considerato un importante esponente del Barocco ferrarese.
127
Giuseppe Mazzuoli, detto il Bastarolo (1536 – 1589) pittore la cui produzione artistica si fonda sulla tradizione figurativa ferrarese.
128
Alessandro Turchi (1578 – 1649) pittore veronese che riscosse un notevole
successo presso l’aristocrazia scaligera.
129
Niccolò Roselli (1556 – 1580) artista di riferimento del Rinascimento ferrarese.
130
Annibale Carracci (1560 – 1609), pittore bolognese, la sua produzione artistica si realizzò in antitesi a quella del tardo manierismo e propose un recupero della grande tradizione della pittura italiana del Cinquecento. Con Caravaggio e Rubens pose le basi per la nascita della pittura barocca.
131
Gaspare Venturini (1575 – 1593) si formò nell’ambiente del Manierismo
ferrarese.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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che fu brigante, se ne vede il ritratto sotto l'immagine di un personaggio del quadro da lui fatto.
b) Tutto il monastero, comprese le varie corti, i chiostri, i corridoi e le stanze in pian terreno ed i giardini, sono stati destinati
ad uso di Cimitero della città. È ammirabile la decenza che si è
serbata nella distribuzione di questo luogo di eterno riposo. In
generale il cimitero delle donne è diviso da quello degli uomini:
separato da ogni altro è il luogo di sepoltura delle monache, che
non quello dei monaci e dei sacerdoti. Molti particolari si han
comprato nello stesso locale le stanze a pian terreno per la sepoltura degli individui delle loro rispettive famiglie, e le hanno adattate all'uso a cui sono destinate.
7° Casa dell'Ariosto.
Entrando la porta dell'abitazione di questo sommo poeta, ritrovasi sul primo arco interno del corridoio coverto, che le serve di
corte, il distico seguente: “[...] Ludovici vastis imago, Nomine
divini qualis Homerus erat”.
Questa casa, che fu edificata dallo stesso Ariosto, è composta di
tre sole stanze messe di seguito, ben grandi e luminose. Essa
conservasi ancora, per Municipale disposizione, tal quale era a
suo tempo: è stata soltanto internamente restaurata e biancheggiata dal Podestà del Comune. Nell'ultima stanza, dove egli dormiva, ed ove scrisse le sue opere immortali, vi sono due finestre
ed un camino da fuoco, sul quale leggesi scritto di recente in
caratteri cubitali la notizia seguente “Lodovico Ariosto in questa
camera scrisse, e questa casa da lui edificata abitò; la quale duecento ottant'anni dopo la morte del divino poeta fu da Girolamo
Cicognara, Podestà, co' denari del Comune comprata e restaurata, perché alla venerazione delle genti si mantenesse”.
Vi è a tale uopo addetto un custode, il quale la tiene continuamente aperta, perché possa da ognuno esser visitata, né si permette che alcuno vi abiti.
È essa sita in Contrada Mirasole.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
8° Chiesa dei Benedettini. Questa chiesa è bella e ricca di ottimi
quadri di eccellentissimi autori.
9° Ospedale di Sant’Anna. È ben diviso, molto aerato, ben tenuto
e capace di 700 letti. Vi è una sala divisa per le donne, la Pozzeria, una collezione d'istrumenti chirurgici, ecc.
Nel pianterreno di questo Spedale, sotto di un arco, vedesi sulla
dritta, la portellina d'ingresso alla tetra stanza che servì di prigione del Tasso. Su di una lapide, messa sulla porta della medesima, leggesi scolpito: “In questo carcere restò rinchiuso il Tasso
durante anni sette e mesi due”.
Consiste questa prigione in un'angusta stanza a lamia, orribile,
oscura ed umida in modo che stentasi non poco a credere che
abbia colà potuto restar prigione, non dico il Tasso, ma l'uomo
più selvaggio e montagnaro del globo, senza perirvi dopo pochi
giorni. È essa una specie di larga e spaventevole tomba, la di cui
volta, le mura ed il pavimento di nuda terra, grondano acqua. In
un angolo della medesima vedesi una piccola nicchia scavata nel
muro, ove egli teneva la sua tetra lampada, e scorgesi ancora in
un altro sito il luogo ove egli accendeva del fuoco per riscaldarsi.
Questa fu la sorte del Gran Tasso! Serva la conoscenza delle sue
grandi e continuate sventure di consolo a tanti altri infelici al par
di lui, ma al certo di lui illustri e meritevoli!
10° Montagnoni. Porta questo nome una gran passeggiata pubblica, situata fuori le mura della città. È essa composta di spaziosi e lunghi viali, fiancheggiati da vigorosi e giovani alberi.
Siamo andati quest'oggi a desinare da Sua Eminenza il Cardinale
Arezzo, dal quale siamo stati trattati con molta decenza ed affezione.
La sera siamo stati al passeggio a Montagnoni.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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6 Maggio
Alle 5 del mattino siamo partiti da Ferrara. Non molto discosto
da questa città, e quasi infino al Po, s'incontrano da tratto in tratto
dei grandi ristagni di acqua. Giunti a Ponte Lago scuro132 abbiamo passato il Po su di una grande scafa, in sei minuti, a malgrado della sua larghezza, che qui è di un quarto di miglio. Questa scafa nel modo singolare com'essa è costruita, non descrive
una linea retta, camminando, ma bensì un segmento di un
grand'arco di cerchio. Qui finisce il territorio Ferrarese e principia il Rovigiano. Si costeggia quindi il suo lido sinistro durante
circa due miglia. Qui le campagne sono fertili. Incontransi degli
arbusti a fila lunghe e molto larghe, per fare i quali s'impiegano
anche i noci, e da tratto in tratto delle belle abitazioni rurali. Vi
sono molte piantagioni di meli e di peri, e belle seminagioni di
grano e di canape. In queste contrade s'impiegano infino a quattro paia di buoi per tirare un aratro, il quale è attaccato ad una
specie di carro con ruote e singolarmente costruito. Vi sono
molti ristagni di acqua a lato della strada rotabile.
Si giunge dopo al piccol villaggio di Tonaro, ove veggonsi dei
grandi canali per raccogliere le acque, e quindi a Canale Bianco,
fiume cosìddetto, il quale si costeggia per un miglio e mezzo e
poi si passa sulla scafa. Dal Po infino qui la strada è pessima: qui
diviene migliore. L'aspetto di estesi pascoli e di fertilissime pianure, rallegra e consola il viaggiatore che le traversa. La struttura
degli edifici fatti per conservare il fieno che vi si raccoglie, merita d'essere imitata, per ciò che riguarda la perfetta conservazione del genere e la sua sicurezza. Da Bologna infino qui s'incontrano delle estese piantagioni di salci, particolarmente nelle
vicinanze del canale, sul lato dritto del quale ve ne sono dei bo-
132
Pontelagoscuro frazione del comune di Ferrara.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
schi d'una estensione immensa. Proseguendo il cammino, si arriva ad Avenà, contado fabbricato a mattoni, ove si ammira ancora, ed anche dopo, la bella coltura delle campagne.
Dopo si giunge a Rovigo, città ben grande, tutta edificata in mattoni che ha delle belle strade e dei portici. Il Duomo è bello e
grande: il quadro che è sull'altare maggiore è bellissimo. La
chiesa della Presentazione è di figura ottagonale: essa è bellissima. I muri sono tutti coverti di ottimi quadri, fatti fare dalle
diverse Podestà della Città, e da qualche doge di Venezia. La
madonna che vi si osserva è dipinta a fresco, e dicesi d'essere
miracolosissima. Vi è una bella piazza con una colonna. Il palazzo del Podestà è sulla piazza. Le donne hanno vantaggiosa
statura, sono di un bel colorito, vivaci e ben pettinate.
Uscendo da Rovigo, ed anche dopo, s'incontrano dei belli poderi,
delle padule e dei giardini fruttiferi. Circa tre miglia al di là, trovasi la Bovara, ove si passa l'Adige, sul quale vi sono venti molini a grano. Dopo Rovigo si ha sempre bellissima strada. Si
giunge quindi al piccolo fiume Ozzo, ove si paga un dazio per le
vetture. Dall'Adige infino a Baselice vi è una stupenda strada
nuova, fatta da Bonaparte, tutta dritta e lunga dieci miglia. Si
giunge infine a Baselice, ove abbiamo pernottato.
Sull'altra collina che è sulla dritta di Baselice, e poco da esso
discosto, nel podere del Signor Dodu, Veneziano, vi è un santuario composto di sette cappelle separate, fatte a foggia di
grandi nicchie, situate l'un a dopo l'altra sulla strada che conduce
al suo palazzo. In ognuna di queste nicchie vi è una statua in
marmo di grandezza naturale. Questo podere, nel quale si ammirano dei superbi viali, si estende su tutta la collina. Il palazzo è
magnifico e bello. Qui vi sono degli alberi di olivo.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
635
7 Maggio
Alle 5 del mattino siamo partiti da Baselice. Appena uscito
dall'abitato, incontrasi sulla sinistra della strada il canale che
conduce da Baselice a Padova. Qui le campagne sono fertili, e la
strada è fiancheggiata da piantagioni di pioppi. Gli agricoltori di
queste contrade fanno uso ancor essi dell'aratro a ruote, tirato da
tre o quattro paia di buoi. S'incontrano ancora delle estese piantagioni di salci.
Due miglia circa fuori di Baselice, sulla dritta della strada, incontrasi il canale che va a Venezia. Prima di giungere a Battaglia133 e poco da esso discosto, sulla sinistra, sono i bagni in un
bello edificio. Si giunge dopo a Battaglia, che è traversata dal
canale di Baselice, e quindi ai Bagni di Sant’Elena. Questo paese
è proprio elegante. Fuori dell'abitato incontrasi una bella casa di
campagna. La grande strada che si batte è bellissima. Più oltre,
vedesi sulla sinistra della strada un'altra superbissima casa di
campagna. Dopo si arriva a Montegrotto134, piccolo villaggio,
ove è la strada che conduce ai Bagni di questo nome.
Si giunge quindi a Padova, e se ne traversa una parte. Fuori della
città la strada e le campagne sono bellissime. Appena uscito da
Padova, trovasi sulla dritta il famoso e bel Canale della Brenda,
che da qui va a Venezia. La prima Villa rimarchevole che incontrasi, ornata di un bel Casino di Campagna, è quella della famiglia Giovanci. La strada rotabile costeggia la Brenda, ed ha lateralmente, da tratto in tratto dei ristagni di acqua. Si giunge dopo
al bel villggio di [Sangiovanni non riporta il nome] circondato,
dai due lati della Brenda, di bellissime case di campagna e di
133
Battaglia Terme è attualmente un comune italiano della provincia di Padova.
134
Montegrotto Terme in provincia di Padova.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
ville nobilissime, tutte ornate di statue di marmo, fra le quali altamente distinguesi quella dell'Imperatore, la quale è immensa,
bellissima, circondata da estesi parchi, e più di ogni altra ricca di
gran numero di statue di marmo, di fontane, di giardini, ecc. Che
luoghi deliziosi! Che magnificenza! Che lusso! Tutto v'inspira
piacere e voluttà.
Più oltre incontrasi Dolo135, paese grande ed ameno, diviso ed in
gran parte circondato e bagnato dalla Brenda. Vi sono delle piccole isole, delle tintorie e dei molini.
Fuori Dolo, i due lidi della Brenda sono coverti, quasi senza interruzione di bellissime case di campagna e di Ville. Si giunge
dopo a Mira Vecchia136, ove continua la serie non interrotta di
case di campagna, di abitazioni particolari, di ville, di poderi, di
frutteti, di giardini, ecc., in mezzo ai quali maestosamente signoreggia la Brenda. Più giù, la strada è fiancheggiata da una lunga
linea di robusti castagni d'India (Hypocastanum caballinum).
Continuando il cammino, si giunge a Mira, che è una continuazione non mai interrotta di edifici, divisi dalla Brenda, la quale
in questo luogo forma una specie di porto, ove veggonsi riunite
molte barche di quelle che sono addette al traffico del canale. Un
mezzo miglio al di là della Mira, le abitazioni o finiscono, o ve
ne sono pochissime, ed i terreni sono men buoni. Dalla Mira in
poi, il canale della Brenda è sporco. Anche qui impiegasi tre paia
di buoi per ogni aratro a ruote.
Circa tre miglia prima di giungere a Mestre, la Brenda si allontana dalla strada rotabile. Da questo punto scovresi per la prima
volta Venezia che somiglia ad un'immensa flotta di navi da
guerra, la quale maestosamente galleggia sul mare, sprezzando
ogni tempesta. Le terre vicino Mestre sono mediocri. Da tratto
135
136
Dolo è attualmente un comune italiano della provincia di Venezia.
Ibidem.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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in tratto veggonsi dei piccioli ristagni di acqua, che debbono rendere l'aria di queste contrade non troppo sana.
Alle 4 dopo mezzogiorno siamo giunti a Mestre, ove abbiamo
pernottato.
Mestre è un paese ben grande e fabbricato a mattoni, come Ferrara e Rovigo, ed è traversato da diversi canali. Le strade hanno
anch'esse dei portici, sono larghe, aerate ed amene. Vi è una bella
piazza ed una buona chiesa. È, infine, una piccola città piacevole
ed amena. Qui principia il canale che conduce al mare, per andare a Venezia.
8 Maggio
Alle 7½ del mattino siamo partiti da Mestre, imbarcati sul canale. Cammin facendo, si passa attraverso di fortificazioni e di
canali. Si principia quindi a vedere Venezia con più distinzione.
L'aspetto di una città che galleggia sulle acque sorprende non
poco colui che non ha idea di simili costruzioni, e che per la
prima volta la vede.
Dopo due miglia, si giunge all'Anconetta137, ove si lasciano i
passaporti con ricevuta, per averli poi l'indomani alla Direzione
di Polizia in Venezia. Qui principia la Gran Laguna. Dopo altre
due miglia si trova un'altra guardia doganale.
Tre miglia sulla dritta di Venezia, al suo mezzogiorno, vedesi
l'isola di San Giorgio, e sulla sinistra, verso il Settentrione,
quelle di Burano e di Murano più vicine a Venezia. Dopo Murano, sulla sinistra, vedesi l'isola di San Lorenzo di Murano, più
vicina a questa città, e ad un miglio e mezzo da essa distante
trovasi l'altra di S. Secondo.
Dall'ultimo posto della Dogana, che è sul canale, infino a Venezia, vi è sulla laguna una serie di fittoni o piccole travi, piantati
137
Anconetta frazione del comune di Vicenza.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
da tratto in tratto sul fondo del mare, che sortono fuori dall'acqua, e che chiamasi la Guida di notte. Serve questa ad indicare il
luogo più profondo del mare, il quale, a malgrado di qualunque
bassa marea, non resta mai privo di acqua, e ne rende perciò
sempre sicuro il tragitto.
Nel mezzo di questa Guida di notte, due miglia circa distante da
Venezia, trovasi, situata su quattro o cinque fittoni, una piccola
cappella di legno simile ad una gran cassa, entro la quale conservasi la Madonna della Marina per la quale in ogni anno si fa in
questo medesimo sito dai marinai e dai gondolieri una festa brillante, in guisa che una grande estensione di mare ne resta all'intorno tutta coverta di barche e di gondole. Assistono a questa
festa le primarie autorità della città, e vi accorre con grande lasso
tutta la nobiltà di quella capitale, nonché un numero immenso di
popolo.
Alle 9 del mattino siamo giunti a Venezia entrando pel Gran Canale, il quale è larghissimo e divide la città curvandosi a modo
di un grande S. Si passa sotto il primo ponte, e poi sotto il secondo, chiamato Ponte Rialto composto di un solo anco e coverto di botteghe. È questo certamente un ponte magnifico, ed
unico nel suo genere: è tutto costruito in pezzi di pietra di taglio.
Siamo andati ad alloggiare al Leon bianco, albergo posto sul
Gran Canale, nobile ma caro.
La mattina sono andato frettolosamente a vedere la gran piazza
e la chiesa di San Marco.
Il dopopranzo sono andato a visitare il Signor Aglietti138, Consigliere del Governo Austriaco, Protomedico dello Stato, e medico
138
Francesco Aglietti (1757 – 1836) medico, studiosi di anatomia fu nominato nel 1814 protomedico del governo. Nel 1783 aveva fondato il Giornale
per servire alla storia ragionata della medicina di questo secolo e nel 1793
le Memorie per servire alla storia letterale e civile. In quest’ultima opera
assunse una posizione conservatrice e antilluministica che poi abbandonò
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
639
di riputazione in città, pel quale io aveva lettera di raccomandazione del Signor Conte Zurlo. Egli mi ha accolto con grande affezione, e con paterna bontà si è offerto di prestarmi qualunque
assistenza durante il mio soggiorno in questa città.
Mi sono quindi recato ai Giardini Pubblici, fatti sotto il governo
di Bonaparte, i quali sono grandi e bellissimi.
Era già notte quando mi sono ritirato all'albergo per le strade di
terra accompagnato dal nostro domestico. Vicino a giungere alla
porta, sono stato frettolosamente avvertito dal domestico di fermarmi all'istante se non voleva precipitarmi nel Gran Canale. Infatti, non ne era che due altri passi lontano. Serva ciò di avviso
agli stranieri, i quali, prima di conoscere la bizzarra struttura
delle strade di questa singolare città, osano camminarvi soli di
notte, giacché in alcuni siti le strade vanno a terminare nel Gran
Canale, ed in altri, come sulla Riviera degli Schiavoni, la grande
strada di terra è traversata in più punti da canali di acqua a livello
della terra, per cui riesce impossibile di avvedersene prima di
cadervi.
9 Maggio
La mattina ho scorso la maggior parte di Venezia, per formarmene un’idea generale, che apporrò sommariamente al termine
del mio soggiorno in questa città.
Sono andato a vedere le Chiesa di San Salvatore; di San Cassano; di Sant’Eustachio; di San Giacomo dell'Orio; di San Glorioso de' Fari, la quale è ricchissima in statue ed in superbi mausolei; di San Paolo; di San Silvestro; di San Leone.
Ho ben esaminato il ponte di Rialto. Il giorno alle due siamo
andati ad abitare al Campiello de' Pignoli, n° 295 in casa della
dopo la caduta della Serenissima nel 1797. In campo medico effettuò diverse
ricerche sulla litiasi delle arterie.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
Signora Maria Susi, dietro l'Orologio della Piazza di San Marco.
Sono quindi andato alla Piazza di San Marco.
10 Maggio
La mattina sono salito sulla chiesa di San Marco, e l'ho percorsa
internamente ed esternamente. Ho veduto da vicino le pitture in
mosaico che sono nella sua parte interna, ed i quattro cavalli di
bronzo tanto rinomati, i quali sono posti sulla parte esterna ed
anteriore del tempio. Ho osservato in movimento il Grande orologio che è davanti la piazza di San Marco, ove le ore sono battute da statue automate di bronzo, di statue più grande della naturale, e dove in ogni ora si vede uscire da una porta, che anticipatamente si apre, un angelo con la trompetta, seguito da tre
Magi. Tutti quattro, passando davanti la statua della Vergine, inclinano la testa, presentano i loro omaggi, passano ed entrano in
un'altra porta, che è dall'altro lato della Vergine. Diletta non
poco l'osservare in movimento questo bello e complicato meccanismo.
Sono quindi salito sul Campanile, o cosiddetta Torre di S.
Marco. Questa è eccessivamente alta. Quando si è nel portico o
nel corridoio di questo edificio, vedesi tutta Venezia, il di cui
edificato è senza dubbio molto grande, in seno alle acque. L'immaginazione si spaventa nel vedere sotto un sol colpo di occhio
una città sì grande edificata in mezzo alle onde.
Il dopopranzo ho veduto la Chiesa di San Pietro di Castello; di
San Francesco di Paola; di San Pietro e Paolo; di San Giuseppe;
di San Francesco della Vigna; di San Martino. Sono stato ancora
a vedere il Giardino Pubblico.
La sera sono andato a passeggiare sulla Piazza di San Marco.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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11 Maggio
La mattina sono andato a vedere le chiese di San Giovanni di
Bragora; di Sant’Antonino; di San Giorgio degli Schiavoni; di
San Giorgio dei Greci; di Santa Maria della Pietà; di San Zaccaria; di San Giovanni in Oleo, o nuovo; dei Santi Giovanni e
Paolo, che è una delle più belle chiese di Venezia, per la sua
architettura ed amenità e per la sua ricchezza in quadri, in altari,
in marmi ed in mausolei.
Il dopopranzo sono andato di bel nuovo ad osservare con attenzione internamente ed esternamente il Duomo di San Marco.
12 Maggio
La mattina ho veduto l'Ospedale Militare; l'Ospedaletto; le
Chiese di Santa Maria Formosa; di San Leone; di Santa Maria
della Consolazione, o della Fava; il Palazzo Savorgnan; quello
del Signor Santo Lombardi, e l'altro del Signor Grimanzi, che è
il migliore.
Mi sono quindi recato nel Palazzo Pubblico o Sovrano per osservarlo. È questo composto:
della sala delle quattro Porte; dell'Anti-Collegio, ora Anticamera
del Tribunale di Appello; della Sala del Collegio, ora Prima Camera di Appello; della Vecchia Sala dei Pregati, ora Stanza
dell'Appello; di una stanza presso la Cappella; della Cappella;
della Sala dei Consigli de' Dieci, ora Cancelleria dell'Appello;
della Sala della Bussola; della Sala del Maggior Consiglio, ora
luogo della Biblioteca e del Museo; della Sala dello Scudo; della
Sala de' Filosofi, ora Polizia Generale; della Sala de' Banchetti;
della Sala dello Scrutinio, ora de' dibattimenti.
Tutte queste Sale e la Biblioteca sono riempite di un'immensa
quantità di quadri, grandi e bene ornati, opera dei migliori pittori,
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
e per ciò di una perfezione ammirabile. È questo, fuor d'ogni
dubbio, il miglior edificio che esiste in Venezia.
Sotto il Rio, ovvero Canale del Palazzo Ducale o Sovrano, che è
fra questo Palazzo e le prigioni, vi sono dei criminali, ove, sotto
il Governo aristocratico di questa città chiudevansi i detenuti per
reati di Stato. Il pavimento o letto del Canale e di pietre tagliate
e ben connesse, e quindi coverto con lamine di piombo, perché
l'acqua non possa penetrare nelle sottostanti prigioni. Questo
edificio è molto rimarchevole pel modo singolare come è costruito, e per le idee di orrore che risveglia nell'animo. Povera
umanità!
Il dopopranzo sono andato a vedere le Prigioni; le colonne della
Piazzetta; la Vecchia Libreria, ora Palazzo del Sovrano; la
Zecca; il Campanile e la loggetta di S. Marco; le Procuratorie
nuove; le Procuratorie vecchie; la Torre dell'Orologio; gli Stendardi; il Palazzo Trevisan.
13 Maggio
Il mattino ho veduto le Chiese di San Mosè, la cui facciata è carica di Statue e di colonne; di San Gallo; di San Giuliano; la Porta
di Guglielmo Bergamasco; la piccola Chiesa di Santa Croce degli Armeni; la Parrocchia del Santissimo Salvatore; la Chiesa di
San Bartolomeo; la Parrocchia di San Luca; l'Officio delle Poste;
la Chiesa di San Benedetto; il Teatro di San Luca; quello di San
Benedetto; la Parrocchia di San Stefano; il Palazzo Morosini;
quello Pisano; l'altro di Loredani; la Chiesa di San Vitale; quella
di San Samuele; il Palazzo Falier; la Chiesa di San Maurizio;
quella di Santa Maria Zobenigo, la cui facciata è carica di Statue
e di colonne.
Il dopopranzo ho veduto il Palazzo Duodo; la Chiesa di San Fantino; l'Ateneo, altra volta Scuola di San Girolamo, il quale è ric-
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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chissimo in belli quadri; il Teatro della Fenice, il quale è magnifico. Esso, per quanto mi sembra, deve seguire quello della Scala
di Milano; la Sala o Ridotto, ove tengonsi le Accademie una
volta per mese, la quale è bellissima come lo sono ancora le camere a lato; infine, ho veduto la Parrocchia dei Santi Apostoli.
La sera sono andato al Teatro di San Benedetto, ove si è rappresentato il Barbiere di Siviglia. Questo Teatro è bellissimo, è
meno grande di quello della Fenice di qui, e più grande del nostro Fondo. È esso composto di tre ordini di logge: ogni ordine
ha trentasei logge, eccetto l'ultima che ne ha trenta, ed il 1° e il
2° ordine i quali mancano di ciò che occupa la porta d'ingresso
ed il Palco Reale.
14 Maggio
Il mattino ho veduto il Palazzo Valmarana; le Chiese di San Canciano; di San Giovanni Crisostomo; di Santa Maria dei Miracoli;
dei Santi Apostoli, che è bellissima; di Santa Maria dei Gesuiti,
che è estremamente bella, e l'altare maggiore è ornato di un superbo tabernacolo di marmo con molte statue e dieci colonne
torte di verde antico, grandissime; l'Ospedaletto; il bello Palazzo
Zen, il quale è però in pessimo stato; la piccola Chiesa di Santa
Caterina; il Liceo Convitto, che è il primo luogo d'insegnamento
di Venezia; la Chiesa di San Felice; quella di San Marziale o
Marciliano; l'Oratorio di San Girolamo; l'Oratorio di San Filippo
Neri; il Palazzo Contarini e quello di Rizzo Patarol. Sono andato
infino a vedere la Chiesa di Santa Maria dell'Orto, altra volta di
San Cristoforo, ove è il bel quadro della Presentazione di Nostro
Signore all'Orto, del Tintoretto, il Giudizio universale, e Mosè,
il quale riceve la legge delle dodici tavole sul Monte Sinai da
Dio, dello stesso autore, i quali due quadri sono senza dubbio
qualche cosa di preziosissimo.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
15 Maggio
La mattina ho veduto le Chiese di San Lodovico, o Sant’Alviso;
di Santa Maria della Misericordia; l'Edificio della Scuola della
Misericordia; il Palazzo Da-Lezzo; la Chiesa dei Santi Ermagora
e Fortunato, detta San Marcuola; di San Fosca; di Santa Maria
Maddalena; il Palazzo di Andrea Tirali; l'Oratorio detto le Cappuccine a San Girolamo; la Chiesa di San Geremia; il Ghetto
nuovo e vecchio; il Palazzo Cominelli139; quello di Manfrin; l'altro di Savorgnan; la Chiesa di San Giacobbe, che è bellissima; il
Giardino Botanico; l'Oratorio dell'Ospedaletto di San Giobbe;
Santa Maria delle Penitenti; Santa Maria in Nazaret, detta degli
Scalzi, chiesa bellissima, ricca in marmi di Carrara, di quadri, di
dieci colonne torte al grande altare, e di un frontespizio magnifico, essa rimane sul Gran Canale; l'Oratorio di Santa Lucia; il
Palazzo Leon-Covazza; la Scuola detta dei Nobili.
Da qui si passa il Gran Canale e si va a vedere le Chiese di San
Nicola Tolentino, che è bellissima; quella di Sant’Andrea; di San
Simeone Profeta, volgarmente grande; dei Santi Simeone e
Giuda, o San Simone picciolo; di San Jacopo dall'Orio; il Palazzo Foscari.
16 Maggio
Il mattino sono andato a vedere il Palazzo Baglioni; il Palazzo
Corner; le Chiese di San Cassiano; di Santa Maria Mater Domini; quella di Sant’Eustachio, volgo San Stae; di San Silvestre;
di San Giovanni di Rialto; di San Jacopo di Rivoalto; di Santa
Maria Gloriosa de' Frari, chiesa molto magnifica, ricca di statue,
139
Palazzo Labia.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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di grandi mausolei, di belli altari e di superbi quadri. Qui è sepolto il gran Tiziano Vecellio140 sotto il pavimento della chiesa,
vedesi scolpito il seguente distico: “Qui giace il Gran Tiziano de'
Vecelli, Imitator de' Zeusi e degli Apolli”.
Questa chiesa è su di una piazza che è la più grande di Venezia
dopo quella di San Marco.
Sono andato dipoi ad osservar attentamente la Chiesa e la Scuola
di San Rocco. Il frontespizio e la chiesa di questo edificio sono
bellissimi. Ma ciò che lo rende più interessante sono i quadri ben
conservati dei migliori pittori, cioè del Tiziano, di Solimena141,
del Tintoretto142, di Fossati143, di Rizzi, di Trevisani144, di Pordenone145, di Fontebasso146 ecc., e le bellissime statue di marmo.
La scuola della stessa Arciconfraternita di San Rocco, che è a
lato della chiesa, ha una facciata bellissima. Questa Arciconfraternita è composta di due grandi sale, una inferiore e l'altra superiore, e di un'altra stanza chiamata l'Albergo. Non vi è nulla di
più bello di queste due grandi sale e della Scala di comunicazione tra loro. L'oro vi è stato sparso con disprezzo: l'architettura, il disegno, le dorature, i bassorilievi, ecc., sono sorprendenti. Ma ciò che le rende ancora più interessanti sono i quadri
140
Tiziano (1488 – 1576).
Francesco Solimena (1657 – 1747) pittore napoletano considerato uno degli artisti più importanti della cultura tardo-barocca italiana.
142
Jacopo Robusti, detto Tintoretto (1519 – 1594).
143
Domenico Fossati (1743 – 1784) pittore veneziano si specializzò nella
produzione scenografica. Dipinse le scene per i maggiori teatri veneziani tra
gli anni Sessanta e Ottanta del Settecento.
144
Francesco Trevisani (1656 – 1746) pittore e poeta affiliato all’Accademia
dell’Arcadia.
145
Giovanni Antonio de' Sacchis, detto il Pordenone (1484 – 1539) è considerato il massimo pittore friulano del Rinascimento. All’inizio della sua attività artistica fu vicino al gusto pittorico di Raffaello e di Michelangelo.
146
Francesco Fontebasso, (1707 – 1769) pittore veneziano, è stato definito
uno dei massimi rappresentanti della pittura veneta del periodo del Rococò.
141
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
che vi si conservano, fatti espressamente per quel luogo, e secondo la dimensione dei muri, dai primi pittori di quel tempo,
del Tiziano, cioè, del Tintoretto, di Pellegrini147, di Zanchi148, di
Pietro Negri149. La maggior parte di questi però è del Tintoretto,
ma essi sono dei più perfetti di questo autore, giacché furono
fatti pel sito, ed a spese dei fratelli dell'Arciconfraternita, i quali
sono dei ricchi negozianti della città. A loro spese furono anche
edificate la Chiesa e la Scuola. Ma quando si entra nella piccola
Sala, che chiamasi Salotto, si resta colto dalla ricchezza e profusione dell'oro della soffitta, e dai quadri che vi si conservano,
particolarmente da quello che è dirimpetto la porta d'ingresso, il
quale rappresenta la Crocifissione, quadro d'una immensa grandezza e di una esecuzione divina. Esso è pure del Tintoretto.
Questo edificio è fuor d'ogni dubbio uno dei primi di Europa. In
Venezia, esso rivaleggia solo col Palazzo di San Marco per la
scelta e la perfezione dei quadri. Ed a dire il vero, non possono
descriversi, bisogna vederli per acquistare l'idea.
Sono andato ancora a vedere la Chiesa di S. Tommaso, volgarmente detta San Tomà. Qui vedesi la statua in marmo di Santa
Teodosia che interessa moltissimo. Fu questa la prima ed ultima
opera pubblica di un giovine scultore, il quale morì poco tempo
dopo di averla finita. Essa è finemente fatta, ed interessa quasi
altrettanto quanto quella di S. Cecilia in Roma, che vedesi, come
abbiam detto, nella sua chiesa.
147
Giovanni Antonio Pellegrini (1675 – 1741) esponente di punta del Rococò
veneto, fu molto attivo anche a Londra, Düsseldorf, Anversa, Parigi e Vienna.
148
Antonio Zanchi (1631 – 1722) sulla scia di Luca Giordano diventa uno
degli esponenti di spicco della poetica “dei tenebrosi” che nella sua produzione artistica si espresse in un ampio impiego della tecnica del chiaroscuro
e nel ricorso a composizioni pittoriche drammatiche.
149
Pietro Negri (1628 – 1679) pittore veneziano del tardo Barocco anch’egli
appartenente alla cosiddetta corrente “dei tenebrosi”.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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Ho veduto inoltre, la Chiesa di San Paolo, vulgo San Polo, la di
cui piazza è larghissima, il Palazzo Mocenigo, altra volta di Correr; quello di Capello, e la Chiesa di San Giovanni Evangelista.
La sera sono andato al Teatro San Luca. È questo bello, poco più
picciolo di quello di San Benedetto, ma non così bello. Vi sono
cinque ordini di logge, composto ognuno di quarantuno logge,
in tutto 404. I tre teatri di Venezia che ho veduti finora sono di
bella forma, e quasi tutti simili tra loro: essi son spaziosi, armonici. Le sedie della platea son ben spaziose, vi si resta comodissimamente. Il terzo posteriore della platea è vuoto, cioè è senza
sedie. Le logge di tutti gli ordini si continuano fin sotto l'arco di
tutti scenico, ove ve ne sono tre per ogni ordine, da ciascun lato,
almeno per quello di San Luca, di cui meglio mi ricordo il numero.
17 Maggio
La mattina ho veduto le Chiese di San Pantaleone, la cui soffitta
è ricchissima in doratura; di Santa Maria del Carmine, situata su
di una gran piazza: essa è molto grande, bellissima, e ricchissima
in quadri, statue, mausolei, ornamenti ecc.; la Scuola della Madonna del Carmine; la Chiesa di Santa Barbera; di San Raffaello
Arcangelo; il Palazzo Toscarini e de' Zenobio; la Chiesa di San
Nicolò; quella di Santa Teresa, ove è, tra gli altri il bel quadro
della Maddalena, di Langellotti; l'altra de' Santi Gervasio e Protosio; l'Eremita, ora Scuola di Carità per le fanciulle; il Palazzo
de' Sangiantofetti; quello de' Nani; la Chiesa d'Ogni Santi; di San
Sebastiano, ove vedesi la bella statua della Vergine in marmo,
col figlio Gesù ed il Battista della stessa età, opera bellissima ed
interessantissima di Tommaso Lombardo; di Santa Maria del
Rosario; detta de' Gesuiti, che è moderna e bellissima; quella
dello Spirito Santo; l'Ospedale civico e la sua chiesa; il Palazzo
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
Zustinian150; quello di Orsato; l'altro di Recanati; la Scuola di
Carità per li fanciulli. Ho veduto ancora la chiesa di Santa Maria
della Salute. Questo tempio moderno è senza dubbio uno dei più
belli di questa città, sia per l'architettura che per li marmi, per le
statue e per li quadri. Questi ultimi sono per la maggior parte del
Tiziano, del Giordano151, di Triva152, di Prudenti153, di Salviati154, di Pietro Liberi155, del Padovanino156, di Cordella157, di
Palma158, del Tintoretto, di Zanchi. Giusto le Court159 ha fatto il
blocco in marmo del grande altare, che è qualche cosa di bello.
Questa chiesa è situata sull'orlo del Gran Canale, detto Canalazzo. Ho veduto ancora la Dogana Marittima.
150
Palazzo Giustinia.
Luca Giordano (1634 – 1705) pittore napoletano conosciuto anche con il
soprannome di “Luca Fapresto” assegnatogli mentre stava lavorando nella
chiesa di Santa Maria del Pianto a Napoli quando dipinse in due giorni le tele
della crociera. Il soprannome deriva anche dalla sua sorprendente velocità nel
copiare i grandi artisti del Cinquecento, tra i quali Raffaello e Annibale Carracci.
152
Antonio Domenico Triva (1626 – 1699) figura rilevante all’interno
dell’arte veneziana del XVII secolo la cui pittura riprende una base barocca.
La sua attività comprende tele, ornamento per le residenze e le chiese della
Baviera, ma anche una serie di incisioni ad acquaforte.
153
Bernardino Prudenti (1631 – 1694) pittore veneziano di cui le testimonianze attestano numerose opere in chiese e palazzi pubblici di Venezia.
154
Francesco Salviati (1510 – 1563) pittore fiorentino uno dei massimi esponenti del periodo del manierismo.
155
Pietro Liberi (1614 – 1687), pittore padovano fu attivo, dopo aver viaggiato in Italia e Europa, prevalentemente a Venezia. Subì gli influssi della
pittura del Padovanino, ma fu affascinato anche dall’arte di Raffaello, di Michelangelo di Annibale Carracci e di Tiziano. Particolarmente famose le sue
opere di soggetto mitologico, Diana e Atteone, di soggetto religioso e storico,
La battaglia dei Dardanelli.
156
Alessandro Varotari, detto il Padovanino (1588 – 1648).
157
Giovanni Cordella [?].
158
Jacopo Nigretti de Lavalle, detto Palma il Vecchio (1480 – 1528).
159
Giusto le Court (1627 – 1679).
151
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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Il dopopranzo sono andato nuovamente sul campanile di San
Marco, per farmi un'idea più esatta della grandezza e forma della
città, e della posizione delle isole che la circondano. È questo un
edificio di figura quadrata. Vi si sale per una rampa che costeggia i quattro muri del campanile, ma non è a lumaca. Bisogna
fare 37 tese, o lati di questa rampa per salire infino al luogo ove
sono le campane: le tese piane, cioè senza gradini. Ma dal sito
ove sono le campane infino alla sommità del campanile, che finisce in piramide quadrangolare, vi è almeno un altro quarto di
altezza. Esso è tutto edificato in mattoni dalle fondamenta infino
alla sommità.
18 Maggio
Il mattino sono andato a vedere l'isola di San Giorgio Maggiore,
che è rimpetto il Palazzo Sovrano. Ho veduto il bel porto costruito per ordine di Napoleone, e la bella chiesa di San Giorgio
Maggiore, che dà il nome a questa piccolissima isola, ma che è
una delle più belle di Venezia.
Di là sono passato all'isola vicina della Giudecca, e l'ho percorsa
dall'uno all'altra estremità. Ho esaminato la Chiesa delle Zitelle,
appartenente ad un conservatorio di figlie di negozianti veneziani; quella del Redentore, che è una delle più ragguardevoli di
Venezia, per la forma, per l'architettura e per alcuni buoni quadri. Mi sono state qui mostrate moltissime reliquie di Santi. Sono
quindi andato a vedere la Chiesa di Sant’Eufemia, ove sono dei
belli quadri, fra quali si ammira quello di San Rocco e della Madonna messi in un campo di oro, che è opera del pittore Vivarino160. Vi è ancora una bella ed interessante statua in marmo
dell'Addolorata, fatta da Giovanmaria Morlatier161. Le Chiese di
160
161
Bartolomeo Vivarini (1430 – 1491).
Giovanni Maria Morlaiter (1699 – 1781).
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
San Blasio e di San Giacomo sono chiuse e servono di magazzini.
Quest'isola è lunga circa un miglio, e nel suo mezzo è sufficientemente larga. Vi sono dei forni per cuocere mattoni, e molti
giardini fatti sulle rovine di antiche abitazioni.
Rimpetto quest'isola vedesi la Gran Muraglia, ovvero il Lido,
che serve per riparare la città di Venezia verso il lato orientale
dalle onde del mare Adriatico. È questa diretta dal Sud al Nord,
dalla lunghezza di circa sei miglia.
Essa principia da... [Sangiovanni non riporta il nome] e va a terminare a Barlocco. Sul mare, dal lato di Venezia vi è sull'isola
della Giudecca una bellissima strada (quai). Quest'isola è molto
piacevole.
Il dopopranzo sono andato nuovamente a vedere la Chiesa dei
Santi Giovanni e Paolo. Questo tempio è grandissimo e ricco a
ribocco di superbi mausolei, di quadri e di statue. È questa fuor
di dubbio una delle più belle chiese di Venezia. Nel mezzo della
piazza ch'è davanti questo tempio, vi è la statua equestre in
bronzo di Bartolomeo Coleono162.
19 Maggio
Quest'oggi ho percorso le altre isole che si trovano nelle lagune
di Venezia. Sono partito dalla città alle 6 del mattino. Dopo aver
traversato la città dalla Piazza di San Marco, vicino le colonne
infino alle Fondamenta Nuove, sono andato a vedere:
1° L'Isola della Certosa, ovvero di San Cristoforo, sulla quale da
pochi anni in qua è stato fatto il Cimitero per la città di Venezia,
il quale, in proporzione della popolazione, non è grande abbastanza. Altresì il governo municipale di questa città si propone
di farne un altro su di una piccola isola che giace rimpetto San
162
Bartolomeo Colleoni, 1395 – 1475.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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Cristoforo. Si vede in questo cimitero un bel mausoleo in marmo
fatto per una dama che non è ancora morta.
2° Di là sono passato all'Isola vicina di San Michele, che attualmente è deserta. La chiesa è chiusa, ed il collegio che vi era è
passato in città.
3° Murano è la terza isola che ho visitata. Sono andato a vedere
le fabbriche dei vetri e dei cristalli, e mi sono istruito del modo
come si fanno i vetri e le lastre per le finestre, ed altri oggetti
dello stesso materiale. La fabbrica delle margheritine non è sfuggita alla mia attenzione. Si sono tirati avanti di me dei fili di vetro
di diversi colori e differente diametro. È cosa veramente sorprendente il vedere filare il vetro e ridurlo alla sottigliezza di un filo
di seta, e della lunghezza di circa cento palmi, avendo nel mezzo,
in tutta la sua lunghezza, un forame sottilissimo. Dopo aver filato
in tal modo gran quantità di vetro di un sol colore della cennata
lunghezza, e distesi i fili per terra, gli uni su gli altri, li rompono
alla lunghezza di circa tre palmi, ne riempiono le casse e li mandano in Venezia, ove si fanno poi le margheritine, tagliandole
tutte ad uguale lunghezza, e quindi arrotondandole al fuoco dai
due lati. Questi fili si fanno di differenti diametri, principiando
da quelli della grossezza di un filo di seta, infino a quella di una
penna da scrivere. Quei di maggior diametro si fanno per ispedirli in Turchia, ove sono molto desiderati.
È impossibile il descrivere il modo e la celerità con cui si fa un
filo di questo vetro, lungo, come abbiam detto, circa cento palmi.
Basta solo il dire che non vi s'impiega mezzo minuto di tempo!
Ecco ad un dipresso come vi si procede.
Un operaio attinge dalla vasca del vetro fuso, con la punta di un
bastone di ferro bucato nel mezzo, una piccola palla di vetro liquefatto, e leggermente la gonfia, nel mentre che un altro uomo,
che sta dirimpetto al primo, attacca l'estremità di un altro bastone
di ferro anche riscaldato, al punto opposto della cennata palla di
vetro, e fugge velocissimamente in senso opposto, e giunto al
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
termine della sua corsa, posano entrambi il filo per terra. Questo
filo riesce tanto più sottile quando il secondo operaio più velocemente fugge.
Il paese di Murano è grandissimo. Esso potrebbe contenere i
ventimila abitanti, ma ora ne conta circa cinquemila. È anch'esso
traversato da canali navigabili. Vi sono tre chiese, quella di San
Pietro, ove veggonsi dei belli quadri; l'altra di San Giovanbattista, e quella di Santa Chiara, che è stata cambiata in Magazzino.
Quest'isola è in gran parte circondata di muri.
Prima di giungere a Burano, vedesi sulla sinistra il picciolo Castello di Campalto, costruito sotto Napoleone. Veggonsi dallo
istesso lato, ad una giusta distanza, le montagne del Tirolo cariche di nervi.
In questo sito incontransi molte secche, che al mio ritorno vi
sono passato per sopra con la gondola, perché erano state allora
già coverte dalle acque.
Nelle lagune, per effetto della marea, le acque del mare crescono
e si abbassano due volte per ogni ventiquattro ore. Vi è da osservare che questo fenomeno ritarda ogni giorno di una mezz'ora.
4° Più vicino Burano, sulla dritta, vi è la piccolissima isola di
San Giacomo della Palude, sulla quale vi era un convento ed una
chiesa, ma ora tutto è andato in rovina.
5° Mazzorbo. Si giunge a Mazzorbo, isola lontana sette miglia
da Venezia. Il monastero e la chiesa sono chiusi. La chiesa delle
Cappuccine è ruinata. Quest'isola è grande abbastanza, ma deserta, imperocché il paese, quantunque grande è poco abitato. Vi
è un bel canale in forma di Y, il ramo a conduce a Torsello ed a
Burano. Vi sono due chiese, Sant’Eufemia e l'Albaverde, ove
sono dei soldati ed alcuni pezzi di cannone. Vi sono ancora moltissimi giardini e molte terre.
6° Torsello. Poco distante da Mazzorbo, ed al suo nord-est, trovasi l'isola di Torsello. Il paese contiene pochissimi abitanti. Il
convento di S. Giovanni è chiuso. Il Duomo è bello e grande: vi
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sono dei preziosi antichi mosaici, imperocché la chiesa è antichissima. Vi sono quattro grandi finestre che hanno le porte di
marmo. Un sacerdote mi ha detto che ciò era stato fatto dagli
antichi ai tempi di Attila per difendersi da quel conquistatore che
tutto devastava, e per mettere in salvo dal suo furore i santi e le
reliquie, ch'essi avevano rinchiuse in questo tempio.
Il campanile è altissimo e fatto sul disegno di quello di San
Marco. Vi sono tre campane, fra quali una grandissima. Io vi
sono salito. Dalla sua cima si scorre tutt'altro intorno una grande
estensione di terre, tanto esso si eleva sul livello del mare.
7° Burano. Poco lontano da Torsello trovasi Burano. Quest'isola
è ben grande. Il paese è anche esteso, ma men grande di Murano.
Ciò non pertanto è ben popolato, giacché fa circa sedicimila abitanti, i quali sono tutti pescatori e poverissimi. I canali del paese
sono sporchissimi, ed i loro muri tutti rovinati. Vi sono due
chiese. Il Duomo contiene dei buoni quadri ed un bello altare
maggiore.
8° Andando verso il Lido, incontrasi una piccola isoletta chiamata la Certosa, sulla quale evvi un solo Convento.
9° Vicino la Certosa vedesi il Forte di Sant’Andrea del Lido, anche poco esteso.
10° Sulla dritta vedesi la piccola Isola di Sant’Elena, ove è la
fabbrica del biscotto per la truppa
11° Si giunge quindi al Lido, ovvero alla gran duna che divide il
mare Adriatico dalle lagune di Venezia.
Vi è la ricevitoria e la Chiesa di San Nicolò, che è bella. Più giù
incontrasi una piacevole piccola strada che conduce direttamente
sull'Adriatico. Desideroso di vedere per la prima volta questo
mare, ho superato il gran ciglione, e vi sono giunto all'una e
mezza dopo mezzogiorno. Da questo punto scovresi una grande
estensione di mare.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
12° Lazzaretto. Si giunge al Lazzaretto, che è una piccola isola
ove fanno la quarantena gli uomini e le mercanzie che vengono
dall'Oriente, perciò non vi si può salire.
13° S. Clemente. Più sotto trovasi San Clemente, piccola isola,
ove è la Polveriera. Questa si vede, ma non è permesso di avvicinarvisi.
14° Da questo punto vedesi da lungi l'isola della Grazia, ove evvi
una chiesa e dei soldati.
15° L'isola di San Giorgio.
16° San Lazzaro degli Armeni. Ritornando un poco indietro, si
va a San Lazzaro degli Armeni, piccola isola sulla quale vi è un
convento di preti armeni. È impossibile il descrivere la proprietà,
l'eleganza e la semplicità di questo convento. Bisogna vederlo
per ammirarlo. Esso inspira il desiderio di restarvi. I religiosi
sono istruiti, avvenenti ed affezionati. Essi sono tutti indefessamente occupati all'esercizio del loro culto religioso, all'istruzione dei giovani armeni nei loro offici religiosi, nei loro studi,
nell'arte della tipografia, nella coltura del loro giardino e nella
direzione della loro piccola società. Vi sono circa quaranta monaci, compresi i laici, ed otto giovani allievi anche armeni. Essi
hanno una bella Biblioteca composta di libri impressi, che versano su diverse materie, ed un'altra più piccola di codici manoscritti e stampati, tutti in lingua armena, diversa da ogni altra
lingua per li caratteri e per la pronunzia. Vi conservano ancora
molti classici armeni, principalmente in materia di religione, i
quali tutti sono stati impressi nella loro stamperia, e da loro medesimi.
Hanno essi inoltre un picciolo, ma bel Gabinetto di mineralogia,
di macchine fisiche ed astronomiche per la istruzione dei loro
allievi, disposto con ordine e ammirabile eleganza. La loro stamperia è piccola, ma ben ordinata ed elegante. Essi debbono ora
ingrandirla, avendo guadagnato molto spazio sulle secche, parte
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del quale servirà ancora per estendere di molto il loro giardino
che è attaccato al monastero.
La chiesa è ammirabile: essa è ornata di belli quadri e di alcune
statue.
Ma lo spirito di eleganza, di semplicità e di pulitezza di questi
venerandi padri si è applicato in grado eminente nel formare questa casa di Dio. Vi si resterebbe sempre per adorarla ed ammirarla. Nel picciolo atrio della Chiesa si veggono due mausolei in
marmo, uno antico e l'altro moderno, il quale è stato fatto per
ordine di una persona ancora vivente: questi sono sospesi al
muro: il moderno è semplice ed elegante.
Nel mezzo del chiostro del Convento vi è un picciolo giardino di
piacere.
I fiori delle rose e dei gelsomini vi fanno un bel contrasto col
parterre, il quale è ben distribuito e diligentemente coltivato.
Il loro refettorio rivaleggia con l'eleganza e proprietà degli altri
luoghi di questo convento. Vi sono ancora dei belli quadri.
Le stanze addette all'insegnamento, le abitazioni degli studenti,
ognuna delle quali ha un picciolo quadro di giardino pel divertimento del giovine nelle ore del suo riposo, le abitazioni dei padri
e degli altri religiosi, offrono la stessa semplicità ed eleganza. I
pavimenti dei corridoi, delle sale, delle celle, delle Biblioteche,
della Chiesa, della Stamperia, ecc. sono tanti specchi seducenti.
Infine, tutto si somiglia, imperocché tutto è stato diretto dallo
stesso spirito di religione, di uguaglianza, di bontà, di amore e di
unione.
I padri mi han fatto un'accoglienza distinta. Io ho lasciato questo
luogo con molta pena e con le lagrime agli occhi. Ho abbracciato
tutti questi buoni e pii padri, dando loro un eterno addio, e sono
partito.
17° San Servolo. Ritornando verso Venezia, ho visitato l'ultima
isola, quella di San Servolo, ove è la Casa dei Matti. Vi è una
bella chiesa. La casa dei matti è tenuta con molta proprietà ed
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
eleganza. Essi vi sono ben trattati: vi sono ancora dei piccioli
giardini.
Alle 6 pomeridiane sono giunto di ritorno a Venezia; cioè dopo
dodici ore di viaggio.
20 Maggio
Il mattino mi sono occupato a fare spedire i passaporti. Il dopopranzo sono nuovamente salito sul campanile di San Marco.
Sono andato quindi a vedere l'Accademia di Belle Arti. Non si
può descrivere la bellezza e la perfezione di alcuni quadri che
qui si conservano: essi rivaleggiano solo con quelli che veggonsi
nel Palazzo Sovrano.
La sera sono andato a prendere congedo dal Signor Consigliere
Aglietti e da sua moglie.
21 Maggio
La mattina ho veduto la processione del Corpus Domini, che è
stata bellissima. Ogni Chiesa di Venezia v'invia una piccola società di confratelli, composta di circa dodici individui, i quali
portano ognuno un gran candeliere acceso, dei gonfaloni o candelabri che hanno una lanterna alla sommità, delle piccole statue
in legno di Santi i quali indicano la Chiesa alla quale la società
di confratelli appartiene, ed una croce. Alcune chiese mandano
ancora una specie di baldacchino. Seguono i preti ed i fratelli di
differenti congregazioni vestiti alla paesana, con candele accese.
La società di ogni chiesa porta ancora delle grossissime candele
o ceri, che pesano per lo meno sessanta libbre ognuna, giacché
vi abbisogna un vigoroso facchino per portarlo quando è intero.
La processione ha fatto il giro della piazza di San Marco sotto
bellissime tende per ciò fatte, e quindi si è fatta la benedizione
nella chiesa di San Marco.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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Il dopopranzo mi sono occupato a prepararmi per la partenza che
avrà luogo domenica. Io lascio con moltissima pena questa città
singolare, dopo esservi restato quattordici giorni completi. Non
vi resto amici, tranne la frivola conoscenza della famiglia
Aglietti.
Io vi ho esaminato minutamente tutto ciò che essa offre di piacevole, di bello e d'istruttivo; e posso assicurare, senza mentire,
che finora non ho esaminato mai con tanta attenzione alcuna città
come questa. Sono stato maggiormente a ciò fare dalla quasi certezza di non più rivederla. Terribile considerazione! Felice colui
che nulla ha mai veduto in sua vita, che non desidera di vedere
alcuna cosa, che non ha l'anima sensibile per soffrire quando egli
vede, e che non soffre quando poi abbandona per sempre il suolo
ove ha vissuto e le amicizie che vi ha contratte. Riguardo a me,
la natura non mi ha fatto così. Io soffro quando godo come
quando non godo affatto. Mi affeziono a tutto ciò che presenta
la menoma qualità che merita di essere apprezzata, sia oggetto
vivente o inorganico. Quando me ne divido, il mio spirito si abbatte: se veggo una montagna che per le sue fisiche qualità attira
la mia attenzione, io soffro, allorquando debbo allontanarmene.
Io cesserò per conseguenza di essere infelice quando finirà la
mia esistenza, imperocché infelicità ed esistenza per me sono sinonimo
“Notizie succinte sulla Città di Venezia”.
Questa città è tutta edificata in mattoni, tranne i grandi palazzi
ed alcune chiese che sono costruite in marmo d'Istria, il quale è
una specie del nostro travertino di Gaeta.
Tutte le strade che servono al commercio intorno della città sono
di tre specie diverse, di terra cioè, di acque e miste.
a) Strade di terra. Queste sono interamente lastricate, come
quelle di ogni altra città, e sono le più piccole.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
b) Canali. Questi riempiono perfettamente di acqua lo spazio fra
le linee delle case situate su i due lati, e si traversano o scorrono
in gondola.
c) Strade miste. Queste da un lato o sopra una linea delle case
hanno il canale e dall'altra il pavimento, ossia, una metà è di acqua e l'altra è di terra, ovvero, che hanno il canale nel mezzo, e
sui i due lati la strada lastricata.
Quasi tutte le abitazioni di Venezia hanno due porte d'ingresso,
una che sporge sul canale di acqua e l'altra sulla strada di terra.
D'ordinario, massime i palazzi nobili e qualche teatro, come
quello della Fenice, hanno la porta principale che sporge sul canale e la piccola che mette sulla strada di terra o sulla mista.
Perché la circolazione nell'interno della città sia egualmente libera, tanto se voglia tutta scorrersi a piedi ovvero in gondola, su
tutti punti ove le strade di terra s'incontrano coi canali vi sono
dei piccioli ponti di fabbrica per farne la continuazione. S'immagini una serie di corde parallele messa l'una a qualche distanza
dall'altra, tinta di color nero, messa su di un'altra simile serie di
color bianco, in modo che le corde dell'una intersechino ad angolo retto quelle dell'altra, e così si avrà ad un dipresso l'idea
dell'intreccio dei canali e delle strade della città di Venezia.
Le strade sono sempre nettissime. Non vi sono immondezze, né
pietre. Non vi sono carrozze, né cavalli, né asini, perché la costruzione della città vi si oppone, e perciò proibiti. Non si veggono neanche molti cani. La notte, quando fa bel tempo, nei luoghi più commercianti della città, ed ove le strade sono più anguste, sembra come se si passeggiasse all'interno di una casa, tanta
è la nettezza delle strade e l'eleganza delle botteghe tutte illuminate. In generale queste sono più piccole delle nostre, ma esse
sono più proprie, più elegantemente messe, e le mercanzie sono
più visibili, quantunque ben conservate.
Questa città contiene attualmente centoquaranta mila abitanti.
Questi sono docili, socievoli, civilizzati ed amanti del travaglio.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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Non vedesi alcun povero in mezzo alle strade. Essi sono, ciononostante, interessati, qualità peraltro che non è loro esclusiva.
I viveri vi sono a bonissimo prezzo, tranne i salami, che sono
cari, ed i vini che sono pessimi e carissimi.
“Modo di edificare nelle lagune di Venezia”.
Il fondo delle lagune o del mare sul quale è fabbricata la città di
Venezia, è o di roccia, o di fango, o di terra altra volta coltivata,
o di canneto, o di boschi sepolti sotto le acque. Egli è facilissimo
di edificare su tutte queste specie di fondi, tranne su quello di
roccia, il quale offrendo resistenza, rende più difficile e penosa
questa specie di costruzione sotto acqua.
Quando si vuole edificare si circonda in sulle prime lo spazio che
si vuole occupare con una palizzata fatta a doppio ordine di tavole sostenute da fittoni o travi di legno, ben conficcati nel fondo
del mare, che restano tra loro uno spazio vuoto della spessezza
del muro. Si riempie questo vuoto con fango o limo dello stesso
mare, in guisa che l'acqua non possa più penetrarvi. Questa palizzata che deve toccare con le due estremità la terra, ovvero ad
altri edifici, esce tanto fuori dell'acqua da non poter essere superata dalla più alta marea che regna in quei luoghi. Fatta la palizzata o cassa, si vuota con le trombe tutta l'acqua contenuta nel
chiuso infino a che questo resti a secco. Si lascia in tal guisa il
fondo scoverto per qualche tempo, perché si asciughi e prenda
consistenza.
Si conficcano allora su questo fondo, principiando da un lato
dello spazio, e seguendo una linea retta, l'uno a contatto dell'altro
dei grossi fittoni di legno o travicelli, battendo fortemente
ognuno di questi pezzi con un grosso pistone sostenuto da due
barche laterali, per farlo entrare il più che è possibile nel fondo
del mare, e dopo si sega a circa mezzo palmo sopra il fondo scoverto, allorquando questo è orizzontale. In tal modo operando,
tutto lo spazio sul quale deve basarsi l'edificio resta coverto dalle
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
teste di questi fittoni, i quali formano una superficie piana e continuata. Vi si gettano dopo dei ruderi di antiche fabbriche, dei
rottami o dell'arenaccio per riempire perfettamente tutti gli spazi
che sono restati vuoti fra le teste dei cennati fittoni. Quindi sulla
superficie formata dalle teste dei cennati fittoni, appianata dai
rottami, si appongono con cemento delle pietre molto larghe e
piane, dai Veneziani dette lastre, e si covre tutto lo spazio restato
a secco. Su di questo pavimento di pietre si disegna in seguito
l'edificio che vuol costruirsi e si principia a fabbricare con mattoni o con pietra e cemento, infino a che i muri siano usciti fuori
dall'acqua. Si lascia in questo stato l'edificio durante due stagioni, per farlo ben assodare e per vedere se esso produca delle
fenditure o crepacci. Dopo si continua infino a che sia terminato.
La cassa o palizzata resta in sito infino a tanto che l'edificio sia
bene rassodato ed il cemento indurito, e se scorgesi che in qualche punto penetra dell'acqua fra la palizzata ed il muro di fabbrica, si cerca di ripararvi battendo fortemente con grossi pistoni
in quel punto il materiale che è dentro il cassone, e se neanche si
giunge si vuota continuamente l'acqua con le trombe. Quando
poi giudicasi che le fondamenta siano ben assodate, si toglie la
palizzata, che forma il chiuso, e l'acqua del mare si mette allora
in contatto con l'edificio.
Questa specie di costruzione è molto solida, imperocché il legno
che rimane sempre nell'acqua del mare, si consolida e si conserva per moltissimi secoli. Dal fin qui detto chiaro comprendesi
quanto debba riuscir costoso ai Veneziani questo modo singolarissimo di edificare.
Tutte le strade di terra sono perfettamente riempite di ruderi, di
pietre e di altri simili materiali. Per farle, si chiudono in sulle
prime le due estremità di un rivo ossia canale di acqua e dopo si
vuota l'acqua con le trombe, e quindi si riempie e vi si fa il pavimento.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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Alcuni di questi schiarimenti li debbo alla bontà del Signor
Conte Carli163 da me conosciuto in casa del Consigliere aulico,
Signor Aglietti; e gli altri, che sono in maggior numero, li ho
rilevati io stesso sui luoghi ove ora si sta edificando in Venezia.
22 Maggio
Alle 5 del mattino siamo partiti da Venezia e, passando per Mestre, siamo giunti alle 3 dopo mezzogiorno in Padova.
La città di Padova è tutta edificata in mattoni; ed è fuor d'ogni
dubbio una delle più belle città d'Italia, fra quelle di second'ordine. Essa è grande e ben popolata; ha larghe strade, molte belle
piazze, magnifici palazzi, superbi tempi, grandi edifici, e dei
porticati come quei di Bologna.
Meritano principalmente singolare attenzione:
1° Chiesa di Sant’Antonio di Padova, qui chiamata la Chiesa del
Santo. Essa è grande, gaia, ha tre navi con quattro cupole coverte
in piombo. È ricca di superbi mausolei e di altari di marmo di
Carrara, di molti bassi rilievi di buoni autori e di quadri non spregevoli. L'altare del Santo è fra tutti il più magnifico. Esso è tutto
in marmo, ed ha la forma di una gran tribuna, sulla quale si
ascende per una grande scala anche di marmo.
Il Tesoro del Santo è ricchissimo. Consiste questo in tre grandi
[illeggibile] chiusi con porte di bronzo a coulisse, pieni di un
numero immenso di reliquie di Sant’Antonio e di molti altri
santi, tutte in argento, in oro ed in pietre preziose. Vi si conserva
la testa, la lingua e molte ossa del Santo. Il grande altare del Tesoro è ancora ricco e magnifico.
2° La Chiesa di Santa Giustina, che è la più grande di tutte le
chiese di Padova, ha tre navi. Essa è meno ricca in marmi, ma è
più gaia di quella di Sant’Antonio. Non vi è alcun mausoleo.
163
Agostino Carli Rubbi (1748 – 1825).
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
Tutti gli altari sono appaiati dai due lati della Chiesa. Essa ha
benanche molte cupole coverte in piombo come quelle di
Sant’Antonio. L'altare maggiore, dietro il quale conservasi il
corpo di Santa Giustina è tutto di bel marmo coverto di pietre
dure, di agate, di lapislazzuli, di coralli, di calcedoni e di cose
simili, che formano diversi disegni. Su di alcuni altari laterali vi
sono dei pregevoli blocchi di statue. In una cappella vedesi un
pozzo, ove, dicesi, si conservano dei corpi degl'innocenti. Vi è
un bel quadro della Strage degli Innocenti, di autor napoletano,
ed un altro dirimpetto, anche bellissimo e di buono autore. Vi
sono dei belli organi. Il coro e due armari laterali all'altare maggiore, in legno di noce, offrono un lavoro in basso rilievo sorprendente. Esso ha costato molte centinaia di scudi.
3° Il Giardino Botanico è ben grande, ricco di piante e benissimo
mantenute. Vi sono delle belle statue. È situato fra le due antecedenti chiese.
4° La Gran Piazza che è davanti la Chiesa di Santa Giustina è la
più bella che possa immaginarsi. Essa è grandissima, ed ha nel
mezzo molte statue in marmo, disposte su di una curva ellittica,
con un piccolo ponte che passa su di un canale.
5° Il Gran Salone. Fra la grande piazza, che è nel mezzo della
città, ed un'altra piazza laterale, vi è un grande edificio composto
di una sola stanza lunghissima e larghissima, chiamata il Gran
Salone, con due logge laterali, che si stendono lungo i due lati.
Vi si sale per quattro scalinate che mettono nelle piazze, situate
agli angoli dei lati più brevi. È coverto il Salone con una volta di
legno in forma di embrici, vestita di lame di piombo. I muri sono
dipinti a fresco. Vi sono circa ventiquattro finestre sulla parte
superiore di ciascuno dei lati lunghi, d'onde penetra la luce. Si
entra nelle logge per due grandi porte da ogni lato.
6° Piazza dei Signori. È ancor questa una gran piazza sulla quale
evvi un gran Palazzo, appartenente altra volta al Podestà della
città, ed ora è destinato ad uso di caserma.
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7° Il Fiume che traversa la città su di uno dei suoi lati, sul quale
evvi un ponte bellissimo, a tre archi.
8° Il Duomo. È una gran Chiesa, ma non però così grande come
lo sono le due altre già descritte; ciononostante è sufficientemente bello.
9° L'Università. Ne ho veduto solamente l'edificio, che è quasi
rimpetto il Gran Salone. Esso è bello e grande. Ho alloggiato
nell'Albergo della Stella d'Oro, sulla Piazza della Posta.
La sera verso le 10, dopo essermi coricato, ho conosciuto alla
sua voce, il Signor Emidio Gregorio, nel mentre che egli passava
davanti la stanza ove io era coricato.
23 Maggio
Avrei dovuto restare anche oggi in Padova per meglio scorrerla
e vedere i suoi stabilimenti d'istruzione pubblica, i suoi Musei,
le sue Biblioteche, ecc., ma essendo in compagnia, ha bisognato
cedere alle circostanze e partire.
Mi sono alzato perciò alle 3 del mattino. Sono andato ad abbracciare nel suo letto il Signor Emidio Gregorio e gli ho dato un
ultimo addio. Mi sono trattenuto con lui appena cinque minuti, e
sono stato obbligato di partire alle 3½ del mattino.
Siamo giunti a Monselice164 alle 7 del mattino, ed a Rovigo alle
11½. Abbiamo sulle prime passato il piccolo fiume Orrio, dopo
l'Adige, quindi il Canale bianco, e finalmente il Po. Quest'ultimo
ha attualmente 40 piedi di acqua nel mezzo del suo fluente, ed in
un punto piuttosto stretto, come quello ove è la scafa, ha più di
un quarto di miglio di larghezza.
Alla Dogana del Papa, che è sul Po, abbiamo subìto la visita su
gli effetti a mezz'ora di notte in un modo molto noioso. In alcun
164
Monselice in provincia di Padova.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
luogo d'Italia si è così maltrattato relativamente alle dogane
come in tutti gli Stati del Santo Padre.
È un oggetto che cruccia ed irrita oltremodo, imperocché la visita non ha altro scopo che quello di affliggere e tormentare i
viaggiatori, e di ritardarli nel loro cammino. Io rendo giustizia
alla mia patria: a malgrado della sua orribile depravazione, ritrovo che essa lo è meno di questi paesi d'Italia che io ho scorsi
finora. Qui si è scorticato nei Burò dei passaporti, maltrattato
nelle dogane, rubato negli alberghi e presso i mercadanti, e malmenato dappertutto. Io scuso ora gli uomini, i quali, essendo stati
ben formati dalle mani della natura, si sono dopo corrotti. Infatti,
o non bisognerebbe vivere nel mezzo di queste razze infami di
oggigiorno, ovvero, vivendovi, essere sacrificato, o per salvarsi,
fare come esse fanno. Morale terribile, ma sventuratamente è per
lo appunto quella di oggi.
Siamo giunti in Ferrara alle 10½ della notte, dopo essere stati
digiuni fin dalle tre pomeridiane del giorno precedente, ciò che
ci ha reso più piacevole la visita della dogana papale sul lido
sinistro del Po, il ritardo per la visita del passaporto, e l'apertura
della porta di Ferrara, che a quest'ora era già chiusa.
Siamo andati ad alloggiare nell'Albergo dei Tre Mori.
24 Maggio
Siamo partiti alle 10 del mattino da Ferrara. In queste contrade
le siepi dei poderi si fanno di prugni selvaggi (trigne), di piccioli
olmi, di rami di salcio e di altri piccioli arbusti che crescono lentamente, piantati così [Sangiovanni disegna il modo in cui sono
piantati gli alberi]. Nel Polesine si fanno soltanto di rami di salcio.
La strada rotabile che da qui conduce a Bologna è tutta fiancheggiata di olmi o di pioppi, piantati l'un dall'altro distante circa
dieci palmi.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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Abbiamo passato il Po sulla scafa. Dopo siamo giunti a Malalbergo, ove è il canale. Abbiamo continuato il nostro cammino, e
siamo giunti alle 7 della sera in Bologna, in giorno di domenica.
La Parrocchia che abbraccia il quartiere della città nel quale è
l'albergo ove noi andavamo ad abitare, faceva la festa del Corpus
Domini, che qui dura otto giorni. Questa festa si celebra principalmente nelle due domeniche che seguono il Corpus, e si fa da
due parrocchie per anno. In tale circostanza tutte le case e le
strade della parrocchia sono guarnite di drappi in seta di diversi
colori, e le strade per le quali passa la processione sono coverte
con tende. La sera, nella strada più bella della parrocchia vi è
illuminazione fatta con candele di cera, ed un'immensa quantità
di nobiltà e di popolo vi passeggia.
Ciò è avvenuto precisamente davanti il nostro albergo. In questo
giorno tutte le famiglie della parrocchia, anche le più povere,
sono in festa ed in pranzo, ove invitano i loro amici e parenti.
Questa festa, pel modo come si celebra, è senza dubbio bellissima, ed offre un bel colpo di occhio. Noi ne abbiam goduto dai
balconi del nostro albergo.
La sera sono andato a ritrovare il Signor Duca di Diano, il quale
qui ci attendeva.
25 Maggio
Siamo restati in Bologna.
Io sono andato a vedere:
1° L'Accademia di Belle Arti, ove, fra tanti belli quadri, meritano
particolare attenzione, la Vestizione di San Guglielmo, prima
maniera del Guercino; San Bruno, seconda maniera dello stesso
autore; il quadro di Nostro Signore il quale invita San Matteo a
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
seguirlo del Caracci; il Martirio di Sant’Agnese, del Domenichino165; la Pietà, di Guido Reni166; Nostra Signora del Rosario
con due putti che risaltano sulla tela come se fossero di marmo;
del Domenichino; San Petronio e Sant’Alò; la Beata Vergini, di
Vincenzo da Imola; la Beata Vergine in gloria; San Matteo, San
Francesco e San Geronimo dell'Albano167; l'Assunzione della
Vergine del Caracci; la Deposizione della Croce, di Alessandro
Tiarini168; la Nascita, di Francesco Francia169; Santa Cecilia di
Raffaele d'Urbino (opera stupenda)170; Santa Margherita, del
Parmigianino171; la Strage degl'Innocenti, di Guido [Reni]; la
Maddalena del Perugino172; San Pietro martire, del Domenichino; il famoso Cristo de' Cappuccini di Bologna, di Guido
Reni.
Qui vedesi ancora la statua in marmo di Virginia uccisa da suo
padre, opera del professore di scultura, Signor Di Maria. È questa bellissima, e tale è stimata dagl'intendenti.
2° La Chiesa di Santa Maria de' Servi, di architettura gotica, che
è grandissima e ricca in marmi.
3° Il Teatro della Comune è di giusta grandezza. Esso è tutto
costruito in fabbrica, incluso le logge ed i corridoi. La parte anteriore delle logge è di marmo, lavorato a foggia di balaustrata.
4° Il Palazzo della famiglia Ercolani è nuovo, grande, ha una
bella scala e belle corti. La Galleria è ricca in quadri. Fra i più
pregiati possono annoverarsi il quadro di San Francesco, del
Viano. È desso spirante su una stuoia lacera: è impossibile di
165
Domenico Zampieri, detto il Domenichino (1581 – 1641).
Guido Reni (1575 – 1642).
167
Francesco Albani (1578 – 1660).
168
Alessandro Tiarini (1577 – 1668).
169
Francesco Francia (1450 – 1517).
170
Raffaello Sanzio (1483 – 1520).
171
Girolamo Francesco Maria Mazzola, detto il Parmigianino (1503 – 1540).
172
Pietro di Cristoforo Vannucci, detto il Perugino (1448 – 1523).
166
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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descrivere la naturalezza del volto moribondo del Santo e quella
dei giunchi della vecchia stuoia. Un inglese, per averlo, ha offerto un peso d'oro uguale a quello del quadro. La Carità di Franceschini173, trasportata su di un'altra tela senza punto danneggiarla. I Giganti fulminati da Giove, di Guido Reni; la Resurrezione, di Simon di Pesaro174; il San Rocco del Caracci; il Loth di
Gherardo delle notti175.
Vi sono inoltre moltissimi grandi paesaggi cinesi dipinti su tavola, e due piccole tavole anche cinesi, ed una tavola in pietra
dura e preziose di Europa.
5° La Certosa. È questo un immenso e bello edificio che rimane
due miglia fuori della città, verso il suo ponente. Vi è una bella
chiesa con ottimi quadri e molte statue in marmo. Vi sono ancora
circa cinquanta camere sullo stesso piano della chiesa, che comunicano fra loro, ove sono delle cappelle, delle immagini e dei
bassi rilievi antichi con iscrizioni indicative attaccati ai muri e
molto ben conservati, i quali sono stati presi da altre chiese.
Nei giardini, nei corridoi e nelle stanze accanto ai corridoi, di cui
ve n'è un gran numero, vi è il Cimitero della Città, colà stabilito
fin dal 1800, ove veggonsi molte pietre sepolcrali. Vi sono delle
camere intere destinate per famiglie particolari, ove le tombe in
varie serie disposte sono scavate entro il muro come piccole camere lunghe e basse, le une poste sulle altre.
In alcuni corridoi veggonsi già retti dei belli mausolei in marmo
di personaggi distinti, trapassati dopo la costruzione di questo
cimitero. Ve n'è, tra gli altri, uno bellissimo, che è piaciuto ad
una dama di qualità Bolognese, di farsi eseguire prima di morire,
per averlo fatto a suo piacimento, e perché si trovi pronto a rice-
173
Marcantonio Franceschini (1648 – 1729).
Simone Cantarini, detto il Pesarese (1612 – 1648).
175
Gerard van Honthorst, detto Gherardo delle notti (1592 – 1656).
174
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
verla quando sarà estinta. Vi si legge scolpita benanche l'iscrizione, tranne il giorno e l'anno della morte. Questo divisamento
non ordinario della dama Bolognese, che in sulle prime sembra
strano e bizzarro, ben ponderato trovasi saggio e filosofico. Esso
giova a raddolcire in gran parte la tristezza che in noi produce
l'idea ben dura del nostro ultimo fine, allorquando con sì fredda
e costante risoluzione si è disposto ad attenderlo.
Dappertutto vi sono dei vasi con fiori e degli alberi sepolcrali.
Questo grande ed immenso locale è mantenuto con una pulitezza
ed eleganza che non possono descriversi. Basti il dire che la veduta di questo cimitero, se non fa venire il desiderio di morire,
diminuisce almeno il terrore della morte e la fa meno temere.
Felice colui che essendo già preso al termine di sua vita, può
andare a morire in Bologna!!
26 Maggio
Questa mattina ho veduto:
1° La Torre degli Asinelli. Questa torre singolare è di forma quadrata. Essa è tutta costruita in mattoni. La sua altezza totale è di
366 piedi. Vi si ascende per una scala di legno composta di 450
gradini che scorre i quattro lati della torre. È stata edificata da
700 anni. L'architetto fu il Signor Asinelli, di cui essa ha preso
il nome. Dalla sua cima si scorre un orizzonte estesissimo e tutta
la città. È pericolosissimo il salirvi e molto più ancora il discenderne, come ho sperimentato io stesso, imperocché la meschina
costruzione della scala, in parte tarlata e l'aspetto dell'altezza da
cui si discende, produce lo spavento, anche perché manca di
spalliera. Fa quindi stupore che questa colta città non ripari un
tanto pericolo, e non curi questo edificio tanto raro nel genere
suo e tanto utile alle scienze ed alle belle arti di una scala agiata
e sicura.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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2° La Torre Garrisanti [Garisenda], che è pochissimo discosta
dalla precedente, è ancora più singolare e sorprendente. Essa è
ancora di forma quadrata, è costruita del pari in mattoni, ed ha
circa 180 piedi di altezza. È stata costruita in modo che la perpendicolare calata giù dalla sua cima, esce nove piedi fuori della
sua base. Questa sua inclinazione o pendenza fa supporre a colui
che ignora d'essere essa stata fatta ad arte, che la torre stia cadendo, e l'illusione è tanto grande, ch'egli prende precipitosamente la fuga per non esser sepolto sotto le sue rovine. È anche
costruita in mattoni e vi si ascende egualmente per una scala di
legno.
3° La Madonna di San Luca.
È questo un Santuario situato su di un monte discosto tre miglia
dalla città. Vi si va per un porticato di fabbrica continuato composto di circa 680 archi, il quale principia dalla città e va infino
alla porta della chiesa. La metà di questo porticato è in piano e
l'altra metà in salita molto aspra. Questo edificio è stato fatto a
spese delle varie confraternite e delle famiglie ricche della città.
La chiesa è bella abbastanza, ma non vi sono quadri di pregio,
né vi è alcuna statua allorquando si è sulla sommità della montagna, si scorre tutta la città ed i suoi dintorni, e vi si gode di un
bel punto di veduta.
4° La Fontana della Piazza a San Petronio. Vi è una bella statua
di Nettuno, in marmo; opera dello scultore Gaetano Bologna.
5° Il Duomo. È questo grande ed alla gotica, ma bensì luminoso.
Vi sono dei buoni quadri e delle belle statue in marmo. Sul
grande altare vi è un superbo baldacchino composto di diversi
marmi.
6° Quadreria Marescalchi. Fra la gran quantità di quadri che contiene, vi si ammirano principalmente: la pittura sul coverchio del
cembalo di [illeggibile]; la Venere di Tiziano; il quadro che rappresenta l'uomo e la donna nel fiore della loro beltà, da un lato,
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e questi stessi individui nello stato di morte, imputriditi e verminosi, fatto da Ligozzi176; la circoncisione di Palma seniore; i due
putti del Correggio177; il Salvatore del Correggio; quadro rarissimo, bellissimo, preziosissimo, il migliore di tutta la collezione.
È stato pagato ventimila franchi, e si sono assegnati, durante la
sua vita, duecentocinquanta franchi al mese all'antico padrone;
San Pietro e San Paolo, del Caravaggio178; il Simone con giudici;
il Lamone e Tamari del Guercino; il filosofo del Rembrandt179;
la morte di Abele di Guido Cagnacci180; il Discepolo ed il Maestro del Caravaggio; il Ratto di Proserpina di Guido Reni; la Regina d'Otaiti, di Ledeis; di S. Girolamo, del Guercino, seconda
maniera; il ritratto di Aldovrandi, di Annibale Caracci, il ritratto
di un olandese, di Rembrand[t].
7° Quadreria Zambeccari. Vi si ammirano principalmente i quadri seguenti: la Cena di Scarsellino; il Cristo deposto e morto di
Luca Giordano; la Testa di S. Giovanni di Valentino; il Bacio di
Giuda a Cristo di Torelli181; la nascita della Vergine di Caravaggio; Tizio divorato dall'avvoltoio dello Spagnoletto182; la Maddalena di Sirani183; il San Girolamo della stessa; la Giuditta del
Calvari184; la Vergine col bambino dell'Albano; la Giuditta del
Caravaggio; Loth e le figlie del Guercino; la Vergine del Fran-
176
Jacopo Ligozzi (1547 – 1627).
Antonio Allegri, detto il Correggio (1489 – 1534).
178
Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio (1571 – 1610).
179
Rembrandt (1606 – 1669).
180
Guido Cagnacci (1601 – 1633).
181
Felice Torelli (1667 – 1748).
182
Jusepe de Ribera, detto lo Spagnoletto (1591 – 1652).
183
Giovanni Andrea Sirani (1610 – 1670).
184
Denjis Calvaert, detto Dionisio Fiammingo (1540 – 1619).
177
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ceschini; il Cristo di avorio, lungo circa due palmi dell'Algardi185; San Pietro del Tiarini; la Maddalena del Soti; la Lucrezia del Tibaldi186; la Maddalena del Guercini; il San Girolamo
dello stesso; San Pietro del Tiarini; Ercole e Iole del Guercini; il
San Francesco del Domenichini; Abramo con gli angeli del Caracci; Mosè dello stesso; San Francesco di Guido Reni; la Vergine in gloria di [illeggibile]; San Sebastiano di Tiziano.
8° Teatro della Comune è situato su di una bella strada. Esso è
ben costruito. L'interno è tutto in fabbrica: le logge hanno la
parte anteriore in marmo, a guisa di balaustrata. È però troppo
basso relativamente alla sua larghezza. È questo il primo teatro
che io ho veduto in mia vita costruito tutto in fabbrica.
9° Istituto, o Università. Questo edificio è grande e bellissimo.
Esso contiene gli stabilimenti seguenti:
a) Un gabinetto di pietre sepolcrali o iscrizioni antiche, alcune
statue ed alcuni busti ben mediocri;
b) Un Museo di mineralogia e di geologia abbastanza e mediocremente distribuito, ma ora si principia a classificarlo secondo
i metodi moderni.
c) Un Museo di zoologia, sufficientemente ricco in oggetti, ma
mal distribuito e confuso, imperocché gli stessi oggetti spesso si
trovano tra loro disgiunti e messi in diversi luoghi della serie. La
classe delle conchiglie è ben ricca in ispecie ed in individui.
Quella dei pesci è poverissima. I mammiferi sono per la maggior
parte male impagliati. Vi è un cranio intero di un cetaceo senza
denti, di cui non mi ricordo ora il nome, il quale è lungo circa
quattro palmi.
d) Un Gabinetto anatomico, il quale contiene molte preparazioni
in natura conservate nello spirito di vino, alcuni scheletri, delle
preparazioni e due statue in cera, una dell'uomo e l'altra della
185
186
Alessandro Algardi (1598 – 1654).
Pellegrino Tibaldi (1527 – 1596).
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
donna, che è bellissima; molte preparazioni miologiche, quelle
degli organi dei sensi, della generazione, ecc. parte in cera e
parte in natura.
e) Un Gabinetto patologico, molto ricco in pezzi di malattie interessantissime, conservate nello spirito di vino, ed altri ancora
in cera. Vi si conserva un pezzo singolarissimo di un'ovaia di
donna, divenuta idropica e distesa a segno da contenere infino a
settanta libbre di acqua. Questa si conserva gonfiata ed a secco.
Vi sono ancora differenti mostri di animali e della nostra specie,
come pure una serie di feti di differenti età.
f) Un Gabinetto di preparazioni in cera, e d'istrumenti chirurgici
relativi all'ostetricia, come pure un'altra serie di feti. Queste preparazioni presentano tutti possibili casi che possono avvenire
g) Un Gabinetto di fisica ricchissimo in macchine d'ogni sorta,
ed acquistate senza risparmio, giacché vi sono circa dieci macchine elettriche di diverse specie e di differente grandezza, e
quasi altrettante macchine pneumatiche. Vi è pure una pila di
Volta gigantesca. Vi sono delle macchine per l'[illeggibile] delle
forze, pel moto dei corpi, ecc.
h) Un Gabinetto di antichità, come medaglie, utensili antichi e
di selvaggi, tre belle mummie egizie ben conservate, due delle
quali sono fasciate. Vi si conservano molte opere di selvaggi
scolpite su frutti di cocco, benissimo lavorate ed anche dorate.
k) Una sala di quadri rappresentanti la maggior parte letterati di
Bologna. Fra questi vi è il quadro ed una statua in marmo più
grande del naturale, di Marsigli, fondatore di questo bellissimo
stabilimento.
l) Una biblioteca sufficientemente ricca di classici, di edizioni
antiche e di libri moderni. N'è bibliotecario il Signor Mezzofanti,
uomo dottissimo in letteratura e filologia, il quale conosce e
parla (come mi si è detto) trentaquattro lingue antiche e moderne!!
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m) Un Gabinetto di fossili, la maggior parte spettanti all'elefante,
qualche pezzo al rinoceronte, ai pesci, ecc. Ma è ben limitato.
Vi è inoltre un bell'Anfiteatro, ove s'insegna la Chimica.
Vi sono alcuni coccodrilli, delle grandi testuggini di mare, alcuni
serpenti boa abbastanza grandi, ecc.
Evvi infine un custode urbano ed educato, ed istruito di tutto ciò
che nello stabilimento si contiene, in modo che egli spiegava da
scienziato tutto ciò che mi mostrava spettante alla mineralogia,
alla zoologia, alla fisica, all'anatomia, ecc.
Quante collezioni scientifiche, e quanti mezzi di pubblica istruzione nella capitale di una semplice provincia, qual è Bologna, e
di una provincia degli Stati del Santo Padre! Dovrebbe Bologna
servir di esempio, se non di scorno, alla metropoli dalla quale
dipende, ed a talune altre capitali di grandi Stati d'Italia.
27 Maggio
Siamo partiti da Bologna alle 5½ del mattino, in compagnia del
Signor Duca di Diano. Le campagne che si traversano sono tutte
pianure fertili, ben coltivate e piacevoli. Gli arbusti sono ancora
piantati a linee larghissime. Le strade sono belle ed amene. Da
tratto in tratto incontransi delle case di campagna. La strada rotabile è costeggiata da molti piedi di quercia. Si passa per Castel
San Pietro187.
Alle 11½ del mattino siamo giunti ad Imola, discosta 20 miglia
da Bologna. Il Duomo di questa città è nuovo e bello, ed ha tre
navi. Si sale al coro ed all'altare maggiore per quattro scalinate.
Al di sotto vi è un bellissimo succorpo, con tre tombe e degli
angeli. Davanti la chiesa ed all'interno vi è una strada bella e
larghissima. La Piazza Maggiore ha i portici su due lati, sul terzo
lato vi è la Chiesa del Suffragio, e sul quarto il Palazzo della
187
Castel San Pietro in provincia di Bologna.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
Municipalità. La Chiesa di Santa Maria è di mediocre grandezza.
Essa ha una sola nave, ed è bella abbastanza. Vi sono alcuni quadri mediocri. La Chiesa di Sant’Agostino ha una sola nave, ed è
passabilmente bella. Vi è un quadro di Cristo in Croce, del Franceschini. Il quadro delle anime purganti è anche bello; quello di
Sant’Agostino è buono ma rovinato.
Questa città è piccola, ma gaia. I muri sono larghi. Vi sono dei
palazzi sufficientemente buoni. Fuori la porta incontrasi il fiume
Santerno, il quale si passa su di un ponte di legno ben lungo. Le
campagne continuano ad essere amene e ben coltivate.
Si giunge poi al picciolo paese detto Castel Sant’Angelo.
Alle 4½ pomeridiane siamo giunti nella bella città di Faenza. Vi
si entra per una porta magnifica. Vi è una bella piazza e dei palazzi ed edifici superbi. Prima di entrare in città vi è un sobborgo
ed un altro ve n'è all'uscita, chiamato Borgo Durbecca. Le campagne circonvicine sono bellissime e ben coltivate. Vi sono delle
pianure estesissime. Gli arbusti sono simili agli altri che abbiamo
descritti.
Continuando il cammino, si approssima a Forlì. Qui le campagne
sono ridenti, e la coltura è ben diretta. La strada che conduce a
Forlì è buonissima ed un poco in pendio.
Si entra nella città di Forlì per una porta. È questa grande, e le
sue strade sono spaziose ed amene. Il Duomo è grande e ha tre
navi. L'altare maggiore è bello. La cappella della Vergine del
Fuoco è ricca in marmi ed in stucchi dorati. La cupola è stata
dorata da Carlo Cignani188, il quale vi lavorò venti anni continui.
La sua forma è elegantissima.
La piazza è una delle più belle d'Italia. Vi è la Chiesa di San
Mercuriale, nella quale conservasi il suo corpo. Vi sono ancora
i palazzi del Magistrato, di Albicini, di Merenda e di Piazza. Vi
è accanto anche il Monte di Pietà.
188
Carlo Cignani (1628 – 1719).
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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La strada che da Bologna conduce infino a Forlì è dritta e bella.
Le campagne sono piane, amene e ben coltivate. Dappertutto vi
sono degli arbusti piantati a linee molto distanti l'una dall'altra.
Vi sono pochissimi casini di campagna, ma diverse case rurali.
Siamo giunti a Forlì alle 7 della sera, ove abbiamo pernottato
nell'Albergo della Posta, nel quale vi sono dei pessimi osti.
Uscendo dalla città, verso la strada di Roma, vedesi una bella
villa o passeggiata fatta in quest'anno. Vi sono delle colonne e
altri piccioli edifici.
28 Maggio
Alle 5 del mattino siamo partiti da Forlì. Fuori della porta la
strada è bonissima, ed è fiancheggiata di pioppi. Le campagne e
la loro agricoltura qui continuano ad essere le stesse. Si passa il
fiume [Sangiovanni non riporta il nome] su di un ponte di legno,
quello di fabbrica essendo rotto. Al di là del fiume evvi un bel
punto di veduta somministrato da una pianura estesissima, circondata sul lato meridionale da una catena di colline e di montagne della Toscana.
La strada continua ad essere amenissima. Incontrasi sulla sinistra
una bella casa di campagna con villa.
Si giunge a Forlipopoli189, piccolo contado che ha una bella
piazza. Poco al di là, alla distanza di un miglio e mezzo, vedesi
sulla dritta Partenore, paese edificato su di una piccola montagna.
Si perviene al fiume Savio, il quale si passa su di un ponte magnifico a tre grandi archi, e quindi si entra a Cesena, città grande
abbastanza, con buoni edifici e grandi chiese. La piazza è estesa
ed ha una bella fontana di marmo nel mezzo. La strada continua
ad esser bonissima.
189
Forlimpopoli in provincia di Forlì-Cesena.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
Si arriva quindi a Savigliano190, paese allegrissimo, con larghe
strade, con portici ed una piazza.
Le siepi di spine sono qui molto più belle che altrove. Si giunge
dopo a Sant’Arcangelo191, paese posto su di una piccola collina,
che si traversa nella sua parte inferiore. È questo un paese ben
grande e sufficientemente bello. Le campagne che seguono sono
egualmente amene.
Si arriva a Rimini, appena passato il fiume Marecchia, su di un
antico ponte romano, e quando si sorte dalla città, si passa sotto
di un arco di marmo, egualmente di costruzione romana, fatto in
onore di Augusto. Sulla piazza evvi la statua in bronzo di Paolo
V. Questa antica città è sul mare. Essa è tutta fabbricata in mattoni, vi è una bella piazza, dei belli edifici, e delle eccellenti costruzioni.
Si perviene alla Cattolica192, ove abbiamo passato la notte. È
questo un picciolo e mediocrissimo paese, circondato da pessimi
terreni.
29 Maggio
Alle 5 del mattino siamo partiti da Cattolica. Poche miglia dopo
finisce la pianura e principiano le colline e le piccole montagne.
Si traversano due villaggi e quindi si trova sulla sinistra una bella
casa di campagna con grandi viali. Dopo poco si giunge alla città
di Pesaro, davanti la quale scorre il fiume Foglia.
Pesaro è una città ben grande, situata presso il mare e molto popolata, giacché contiene circa diecimila abitanti. Ha lunghe e
belle strade con porticati, ed una grande piazza, ed è inoltre ornata di belle chiese e di magnifici edifici. Il fiume Sauro le scorre
190
Ibidem.
Santarcangelo in provincia di Rimini.
192
Ibidem.
191
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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da lato. È anch'essa edificata in mattoni. I luoghi che circondano
la città, e la città istessa sono molto ridenti.
Dopo la Cattolica s'incontrano delle campagne bellissime e ben
coltivate. Gli arbusti hanno i correnti come i nostri.
Però lungi da Pesaro la strada si eleva sopra il livello del mare.
Essa è piacevole come quella che da Vietri conduce a Salerno.
Nulla può immaginarsi di più ridente e più ameno. Il mare è sulla
sinistra costeggiato da una larga strada e sulla dritta vi è una catena continuata di colline ridentissime e ben coltivate.
Continuando la stessa strada, sempre amena e piacevole, si
giunge a Fano, città situata anch'essa sul mare e che ha un porto.
È cinta di muri e fortificata. Sul davanti della città, entrando dal
lato di Pesaro, vi è un fiume che offre una cascata. Vi sono molti
edifici e belle chiese.
La strada è sempre costeggiata dal mare, che n'è più o meno lontano, e dalla catena di colline.
Si giunge quindi a Sinigaglia193. In un lato di questa città vi è un
gran canale navigabile, che parte dal mare, sul quale canale vi è
un ponte. Alla sua estremità vi è il molo, che inoltrasi molto nel
mare e protegge il canale. All'estremità del porto vi è una lanterna molto elevata, sostenuta da una macchina di legno. Da sopra il molo si gode di una bella veduta: da un lato vedesi un mare
estesissimo, e dall'altro veggonsi delle colline ridenti e ben coltivate. Lungo la parte del canale che è dentro la città vi sono dei
grandi edifici con portici spaziosi, per uso della celebre fiera di
Sinigaglia.
Questa piccola città è tutta murata e fabbricata a mattoni, in gran
parte scoverti, cioè senza stucco. Essa è regolarmente edificata,
in certo modo come Torino, giacché le strade sono larghe, dritte,
e si tagliano ad angolo retto. Gli edifici ed i palazzi sono grandi
e belli. Fuori le porte vi sono dei borghi. Evvi una gran piazza
193
Senigallia è attualmente un comune italiano della provincia di Ancona.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
circondata da grandi e belli edifici, i quali in parte hanno dei portici. Fra questi vi è il Duomo, o chiesa cattedrale, il quale è di
recente costruzione, è ben grande e di bella forma. Vi sono alcuni quadri.
Ho qui veduto davanti all'Albergo della Posta, ove ho pernottato,
giungere verso le 7 della sera, il Sig. De Angelis, napoletano e
mio intimo amico, il quale va in Parigi in compagnia della Signora Contessa Orloff194. Ci siamo tenerissimamente abbracciati
e forse per l'ultima volta.
30 Maggio
Siamo partiti da Sinigaglia alle 5 del mattino. I dintorni di Sinigaglia sono piacevolissimi; le campagne fertili e ben coltivate.
La strada che da qui conduce ad Ancona è sempre sul lido del
mare, ed è bellissima. Quest'ultima città scorgesi molto da lungi.
Le colline che costeggiano il mare sono composte tutte di argilla
purissima con la quale si fanno i mattoni per la costruzione degli
edifici.
Si giunge quindi in Ancona, città edificata sul lido del mare ed
alle falde di un monte elevato, sul pendìo del quale essa anche si
estende. Questa città è tutta murata e fortificata con cura. La
strada d'ingresso fra le due porte è bellissima.
Sulla gran piazza evvi il tempio di San Domenico ad una sola
nave. Esso è grande, luminoso e bello. Vi è un elegante battistero, sul quale è posto un bel quadro di San Giovanbattista che
battezza Gesù, un altare maggiore ed un pregevole quadro di
Gesù crocifisso, nel coro. Nelle cappelle laterali vi sono dei
buoni quadri, fra quali quelli dell'Ascensione, della Resurre-
194
Anna Orloff (1781 – 1824).
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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zione, ecc. Attualmente si sta facendo una magnifica scala davanti la chiesa, con una fontana. Nel mezzo vi è la statua colossale di Innocenzo XIV195, in travertino, fatta di recente.
Il molo è lunghissimo e molto bello. Nel principio vi è un arco
trionfale in marmo di costruzione romana.
L'Ospedale di San Francesco è sufficientemente buono.
La Chiesa del Gesù è bella, e contiene dei quadri alquanto buoni.
È costruita ad una sola nave con cappelle laterali. Il monastero
dei Gesuiti, che ne dipende, è ora addetto ad uso di Seminario.
La Chiesa degli Scalzi è piccola, di forma rotonda e piacevole.
Vi sono alcuni quadri passabili.
La Cattedrale è situata sulla cima del monte, sul pendio del quale
è fabbricata Ancona, e per conseguenza alla sommità della Città.
La sua porta è gotica: dai due lati vi sono due Leoni e delle colonne di marmo giallo, che io credo di Egitto. La Chiesa è a croce
greca, con navi laterali. Gli altari del Sacramento e del Cristo
sono bellissimi. Vi sono dei buoni quadri, molti sarcofagi e pietre sepolcrali. Sotto le due citate cappelle vi sono due succorpi:
quello che è sotto la cappella del Sacramento contiene tre urne,
due di belli marmi stranieri e la terza di bronzo; questa, che è
dietro l'altare del succorpo contiene il corpo di San Ciriaco; nelle
altre due messe lateralmente a questa, si conservano i corpi di
Libero e di San Marcellino.
Dalla piazza del Duomo si ha un punto di veduta estesissimo e
bello. Veggonsi, sotto lo stesso colpo di occhio una gran parte
della città, le fortezze, il mare e le colline adiacenti.
La Chiesa del Sacramento è piccola ed a croce latina. È elegantissima, molto luminosa e contiene dei belli quadri.
La Chiesa di Sant’Agostino ha una sola nave. È grande, luminosa ed ha dei buoni quadri, particolarmente i tre che sono nel
195
Si tratta invece della statua di Papa Clemente XII (1652 – 1740).
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
coro. Davanti la chiesa vi è una bella piazza, ornata di eleganti
palazzi.
Tutta la città, come le altre vedute finora è fabbricata in mattoni.
Appena uscito da questa città trovasi sulla sinistra una grande
estensione di terre ben coltivate e limitate da colline. Sulla strada
di Loreto196 incontrasi sulla dritta una bella casa di campagna.
Seguono dei pendii e delle pianure ben coltivate e coverte di
piante di ogni genere. La strada che conduce a Loreto è buona,
ma essa si compone tutta di salite e di discese orribili. Si sale
infino ad Osimo197, ove si ha una veduta estesissima di mare, di
terre e di paesi. Dopo nuovamente si scende. Avvicinandosi a
Loreto trovasi una salita terribile che continua infino al paese,
ove siamo giunti alle 7½ di sera. Ho qui veduto dei semenzai di
occhiani e di alberi fruttiferi, che meritano d'essere imitati.
31 Maggio
Siamo restati in Loreto infino all'una dopo mezzogiorno, per vedere il Santuario ed il paese.
Questo paese è abbastanza grande. È desso fabbricato su di una
montagna sulla quale si sale, come abbiam detto, per una strada
ripidissima. Sulla sinistra della porta esiste una torre bassissima,
di figura rotonda e di un grandissimo diametro.
Il principale commercio degli abitanti consiste in oggetti di devozione, spettanti principalmente al loro santuario, come corone,
reliquie, medaglie di diversi santi e di varia forma, abitini, immagini, cartoline contenenti la polvere che si raccoglie nella
stanza della Madonna, ed altri simili oggetti. Non vi è bottega,
né punto di strada ove non si vendano simili cose.
196
197
Loreto in provincia di Ancona.
Ibidem.
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Gli abitanti, o sono realmente tutti poveri, o fingono di esserlo,
imperocché uomini e donne di ogni età, e principalmente i fanciulli, restano tutti in mezzo le strade per domandare l'elemosina
ai viaggiatori, ma in modo insultante e noioso, giacché essi si
gettano per terra davanti le carrozze, gridano come ossessi,
fanno smorfie orribili e disgustevoli, e vi accompagnano in tal
guisa senza punto stancarsi, infino a che per liberarsi da questa
noiosa vessazione si è, suo malgrado, e contro ogni politica, obbligato di batterli. Ecco quali sono gli effetti di una malintesa
religione! La poltroneria, la miseria e la degradazione!
La Chiesa della Madonna è grande e bella. Nella parte interna e
superiore della medesima evvi una piccola stanza isolata e coverta, di rozza costruzione, ove conservarsi l'immagine della
Vergine, che dicesi essere quella stessa stanza ove la Vergine
dimorava in Palestina, e che per opera di miracolo, fu, insieme
con quella sua effigie da lei trasportata di notte sulla cima di
quell'aspro monte. In seguito del quale miracoloso avvenimento
vi fu edificato il Santuario. In questa medesima stanza conservasi il piatto di cui servivasi la Vergine in questa sua dimora, il
Cristo, il tesoro, ecc.
Sul davanti della Chiesa vi è una piazza grande e magnifica, e su
i due lati di questa, un grande edificio, appartenente al Santuario,
ove dimorano i canonici, i preti e le altre persone destinate al
servizio del medesimo, ed all'amministrazione delle sue rendite.
Vi è ancora un appartamento per ricevere le persone di alto
rango, che potrebbero giungere in Loreto, come monaci, Papi,
principi reali, cardinali, ecc. In questo magnifico appartamento
vi sono dei belli quadri, e dei mobili analoghi.
Nei sotterranei di questo edificio, evvi un gran magazzino destinato a conservare il grano, ed un grandissimo cellaio per deporvi
il vino delle rendite del Santuario, ed altri magazzini per uso
della stessa chiesa.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
Sotto lo stesso edificio e sulla piazza, vi è una farmacia della
stessa chiesa, che contiene circa trecento vasi di Faenza per conservarvi le medicine, di varia grandezza, e tutti dipinti a smalto
da Giulio Romano198, con i disegni di Raffaello. Vi è dipinta
tutta la storia della Bibbia e le metamorfosi di Ovidio, dipinti in
un modo ammirabile.
Da una loggia dell'appartamento nobile si gode di una bella veduta, e si scorre una gran parte delle sottoposte possessioni del
Santuario che giungono a molte migliaia di moggia.
Per istruirsi completamente di tutto ciò che riguarda questo Santuario, bisogna leggerne la descrizione fattane in un libro scritto
a tale uopo.
Siamo partiti da Loreto all'una dopo mezzogiorno. Le campagne
che si traversano sono amene e ben coltivate. La strada che da
Loreto conduce a Macerata199 si compone di continue ed orribili
salite e discese. Si giunge a Recanati200 per una salita asprissima,
e se ne esce per una discesa orribilissima. Recanati è situato su
di un piccolo monte elevatissimo. Il paese è ameno, e vi è una
bella piazza.
Si giunge quindi al fiume Potenza che è tre miglia discosto da
Macerata.
Di qua dal fiume veggonsi i resti di un antico anfiteatro costruito
in mattoni, che io credo essere opera romana.
Passato il fiume si principia la terribile salita di Macerata, che è
lunga tre miglia.
Si perviene a Macerata, città situata su di un'altra collina. Questa
città ha una superba porta, e quindi una bella strada, che continua
infino all'altra sua porta opposta. Essa ha un orizzonte esteso in
198
Giulio Romano (1499 – 1546).
Macerata in provincia di Ancona.
200
Ibidem.
199
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modo che vedesi anche l'Adriatico. Le strade sono larghe. I palazzi belli e grandi, fra quali principalmente si distingue quello
di Palomba. Evvi una bella piazza, sulla quale è la chiesa dei
Barnabiti201 che ha una sola nave, con cappelle ed alcuni buoni
quadri.
La Chiesa di San Filippo è di forma ellittica. Vi sono dei belli
altari, ricchi in colonne di marmo di diversi colori ed in buoni
quadri.
La Chiesa di San Giovanni ha una sola nave a croce latina, con
cappelle. Abbiamo alloggiato nell'Albergo della Posta.
1 Giugno
Siamo partiti alle 6 del mattino da Macerata. La strada si compone di salite e di discese continue. Le campagne di questa parte
delle Marche sono meno fertili. Si hanno egualmente delle terre
piane, circondate di colline. La coltura dei gelsi bianchi vi abbonda, e per conseguenza l'industria dei bachi da seta.
Si giunge a Tolentino202, paese situato in cima di un colle, e
molto mediocre. I suoi edifici sono piuttosto infelici. Vi è una
piazza ben larga, ed il Santuario di San Nicola detto Tolentino.
La salita per andarvi è terribile, ma la discesa per uscirne, che
principia davanti la porta di uscita è mille volte peggiore.
Poche miglia al di là di Tolentino si entra nelle montagne che
compongono la catena degli Appennini. Le strade sono orribili e
rovinate. Si passo sotto Belforte203, piccolo paese posto sulla
cima di un monte. Abbiamo fatto riposo a Balcimora.
201
Si tratta della Chiesa di San Paolo.
In provincia di Macerata.
203
Ibidem.
202
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
Appena uscito da Balcimora ha principiato a piovere dirottissimamente. La pioggia ci ha accompagnato senza la minima interruzione infino a Serravalle204. La strada, che si compone di continue salite e discese, è tutta rovinata. Questa parte degli Appennini, che durante il bel tempo ci avrebbe incantati con l'aspetto
dei suoi belli orrori, passata in compagnia di un diluvio di acqua,
circondati da tutti disagi e pericoli del viaggio, ci è sembrata orribile.
A malgrado ciò, io ho ammirato più che ho potuto le sue bellezze. Vi si osservano da per tutto gli angoli rientranti e gli sporgenti delle diverse montagne che compongono questa catena degli Appennini. Vi sono dei piccioli villaggi miserabili e spaventevoli. Siamo giunti, ciò nonostante tutti salvi a notte avanzata al
detestabile paese di Serravalle, dove abbiamo pernottato, ed ove
siamo stati malissimamente trattati. Consiste questo paese in una
lunga serie di casolari spaventevoli sparsi di qua e di là.
2 Giugno
Alle 6 del mattino siamo partiti da Serravalle. Appena uscito
dall'abitato, si sale un poco e dopo si trova una pianura molto
estesa e circondata di montagne tutte coverte di erbaggi, ed in
parte coltivate. Si giunge quindi ad un altro miserabile villaggio,
chiamato Corfiorito205, al di sopra del quale vi è un'altra pianura
alquanto estesa, ed un picciolo lago, il quale, forse, durante l'estate si dissecca.
Tutt'all'intorno vi sono delle montagne coverte di boschi ridenti.
Si perviene in seguito alla discesa di Corfiorito, che è lunga circa
un miglio ed un quarto, e rapidissima. I luoghi circondanti orribili e selvaggi, le montagne che la circondano e le valli che la
204
205
Ibidem.
Frazione montana del comune di Foligno
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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fiancheggiano divertono e piacciono oltremodo al viaggiatore
che le trascorre.
Si giunge quindi in un altro contado, ove principia la discesa, la
quale va infino ad un miglio presso Foligno. È questa lunga circa
due miglia e mezzo, ed è orribile e pessima. Finita la discesa,
trovasi una strada larga, piana, bella e dritta, lunga circa un miglio, che conduce infino alla porta di Foligno.
Questa città è piacevole. Le sue strade sono dritte e larghe a sufficienza; ma il pavimento della maggior parte delle medesime è
pessimo. Le case sono, per lo più, fabbricate in pietre mescolate
con mattoni. Pochissime sono interamente costruite in mattoni,
e queste sono le più antiche. Vi sono molte piazze, cioè la Piazza
Grande, ove è il Duomo, la Piazza San Domenico, ove è la
Chiesa dello stesso nome, la Piazza Gregori, ove sono dei buoni
edifici. Vi sono ancora dei belli palazzi, fra quali il Palazzo Brunetti. Non più di questo mi è stato permesso di osservare durante
le due ore che mi sono fermato in questa città.
Uscendo da Foligno, su di una bella strada, che continua infino
a Spoleto, si entra in una pianura estesissima e ben coltivata.
Essa si estende sulla dritta a molte miglia. Ad una certa distanza
si passa al di sotto di Trevi206, che è edificato su di una piccola
montagna quasi conica. Essa resta sulla sinistra della strada.
Questa gran pianura è circondata più o meno da montagne e da
colline. Continuando il cammino, si passa per molti piccioli villaggi e per li luoghi di posta.
Finalmente, dopo diciotto miglia si giunge a Spoleto207, piccola
città edificata alle falde di una montagna.
Essa si presenta sotto un aspetto piacevole, imperocché non è in
un piano, ma bensì su di un pendio. Contiene circa ottomila abitanti. Vi siamo giunti alle 8 della sera.
206
207
In provincia di Perugia.
Ibidem.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
Abbiamo avuto durante dieci miglia di strada una pioggia dirottissima, ed io che conduceva una carrozza, mi sono completamente bagnato.
Davanti la porta di Spoleto, che è sul torrente, vedesi sotto la
sabbia un ponte a due archi costruito con grandi pietre di taglio,
sopra del quale passa la strada che conduce nella città. È stato
scoverto da poco, nel mentre che si accomodava la strada. Giudicandone dalla sua costruzione, sembra un'opera antica.
La città è grande abbastanza: vi sono delle buone chiese, e delle
strade sufficientemente belle. Nella maggior parte del suo recinto scorgonsi degli antichi muri.
3 Giugno
Siamo partiti da Spoleto alle 6 del mattino. Uscendo dall'abitato,
la strada è sufficientemente bella. Le campagne sono fertili e ben
coltivate. Vi sono molti querceti.
Dopo alcune miglia principia la salita della montagna di Somma,
che è asprissima, e che è lunga circa un miglio e mezzo. La discesa è ancor più lunga e più aspra. I luoghi circonvicini, tutti
cinti da montagne coverte di boschi, sono molto pittoreschi. La
strada diviene quindi buonissima. Dopo diciotto miglia si giunge
a Terni, città ben grande e bella. Abbiamo avuto la pioggia durante buona parte del viaggio. Il fiume Velino passa su di un lato
della città, davanti la porta che conduce alla cascata, ove si passa
su di un ponte. Esso è grande quanto lo è il Liri vicino Sora208.
Su questo fiume vi sono molti canali per animare mulini ed altre
macchine.
La Chiesa di San Salvatore era nei tempi antichi un tempio pagano dedicato al Sole [Sangiovanni disegna a mano uno schizzo
del Tempio del Sole di Terni]. È questo un edificio rotondo con
208
In provincia di Frosinone.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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una sala oblunga nel davanti. Il tondo aveva anticamente, tutto
all'intorno, delle aperture a forma d'archi. Si veggono oggi in alcune specie di piccole scuderie, che restano sotto il tempio, le
sue fondamenta fatte con grandi pietre di taglio. Sembra che vi
erano ancora dei sotterranei. La parte che è fuori terra è fabbricata ancora in pietre di taglio, ma piccole, perché esse hanno i
lati meno lunghi di un palmo. L'interno dell'antico tempio fu coverto con stucco, e gli archi furono chiusi quando si adattò ad
uso di chiesa cattolica.
Non ho avuto il tempo di osservare gli avanzi dell'Antico Anfiteatro nel giardino dell'Episcopio, ne' i resti degli antichi bagni
nella Villa Spada, che ora, per quel che mi si è detto, è divenuto
un semplice giardino, che appartiene ad un certo signor Camillo,
mercadante. Chiamasi attualmente il Giardino di S. Giuseppe.
Alle 2 dopo mezzogiorno sono partito da Terni per andare a vedere la celebre cascata di tal nome, che è distante cinque forti
miglia dalla città. Nell'andare si hanno tre miglia di buona strada,
un miglio di salita mediocre ed un altro miglio di salita aspra.
Ho fatto tutto questo cammino in un'ora e 35 minuti, accompagnato dalla pioggia e battendo strade rovinate.
Un miglio circa prima di giungere nel luogo d'onde l'acqua si
precipita, trovasi un piccolo villaggio chiamato Papingi, o Papigni209. Colà ho preso per guida un piccolo ragazzo, per nome
Matteo Moccadelli, di nove anni di età. Non può lodarsi abbastanza la destrezza, il talento e la sagacità di questo povero buon
fanciullo. Egli mi ha guidato in modo da farmi ben vedere tutto
e da tutti lati della cascata, e col più grande risparmio di tempo
possibile, istruendomi nel tempo stesso con una eloquenza e precisione ciceroniana di tutte le notizie necessarie.
Sono andato a vedere sulle prime il volume dell'acqua del fiume,
che deviata dal suo fluente, scorre per un piccolo canale scavato
209
Papigno frazione del comune di Terni.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
sulla parte piana del monte, si dirige verso il suo orlo elevato e
tagliato a perpendicolo, e forma la cascata. Dopo sono andato a
vedere la gran cascata in questione, da un luogo poco distante e
laterale alle medesime. Continuando quindi il cammino, e scendendo un poco dalla cima del monte, l'ho esaminata da diversi
punti. E finalmente sono andato a vederla dal punto migliore,
che è dal Casotto, piccola stanza con logge edificata su di un
piccolo promontorio che è quasi rimpetto la cascata. Da questo
sito osservasi questa, il più che sia possibile, dalla sommità della
montagna infino al fondo della sottoposta valle ove va a terminare. Vedesi il gran volume dell'acqua precipitarsi con impetuosità da alto in basso e divenire fin dal principio vaporosa e
bianca, per effetto della gran resistenza che le viene offerta
dall'aria, in modo che sembra un'immensa nube di finissima
neve.
Giunta l'acqua nel fondo della valle, si eleva in gran parte in vapori bianchi e leggeri, ed in tal guisa nuovamente risale non solo
infino alla sommità del monte donde era pochi istanti prima partita, ma benanche molto al di sopra, e colà estendendosi tutto
all'intorno e molto lontano nella sovrapposta pianura, si cambia,
raddensandosi, in una leggera e continuata pioggia.
La scossa che produce questo immenso volume di acqua, cadendo da una sì grande altezza, fa continuamente tremare una
grande estensione della sommità del monte.
Sono andato in seguito a vedere il Ponte Lagoratore, che è fabbricato sul gran canale, il quale forma la cascata di mezzo, che
non cessa mai di fluire. Sono andato poi a veder la cascata dal
fondo della valle sottoposta, e sono passato sul ponte di tufo formato dal sedimento calcare delle acque dello stesso fiume; il
quale ponte, nel suo mezzo, non è più largo di un piede, su tre
piedi di larghezza. Sulla dritta di questo ponte fatto dalla natura
tutta l'acqua di questo gran fiume si sprofonda e perde sotterra,
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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producendo un gran turbine, e sulla sinistra vedesi uscire bollendo in molti punti dello stesso gorgo. È perciò pericolosissimo
il passarvi, imperocché, se sventuratamente si venisse a cadere
nel fiume la morte sarebbe inevitabile.
Continuando la strada, sono salito sul monte che è dirimpetto la
cascata, e l'ho considerata di fronte. Essa è realmente sorprendente! Non è nulla di più ammirabile, di più maestoso! Vedesi
da questo punto un enorme volume di acqua che si precipita da
un'altezza di mille e sessantacinque piedi, che si rompe, si
frange, s'imbianca, si cambia in schiuma, in nube, in vapore, e
che poi risale e sorpassa la sua origine; ed infine, che quando la
sua collera è calmata, rientra nel letto del fiume e corre pacificamente verso il suo destino.
Di là sono andato a vedere le due grotti naturali nel tufo, che
contengono molte finissime e variate stalattiti. La prima chiamasi Grotte delle Marmore. Nel mezzo della seconda vedesi sospesa una stalattite in forma di campana di grandissima dimensione.
Sulla strada che conduce alla Cascata s'incontrano delle estesissime piantagioni di olivi. Questa provincia ne abbonda moltissimo. Chi potrebbe mai descrivere i sentimenti che eccita nello
spirito questo spettacolare fenomeno della natura e dell'arte?
Riesce sempre insufficiente il nostro linguaggio allorché trattasi
di pennellare al completo le sensazioni che riceve il nostro animo
dai complicati e sublimi fenomeni della natura. Pel nostro oggetto basti il dire che la veduta della ben celebre Cascata di
Terni, osservata da tutti gli enunciati punti, produce sorpresa,
ammirazione, piacere, timore e spavento.
Sarei restato più tempo per considerare il Niagara della nostra
Europa, ma la notte si avvicinava ed il tempo minacciava il mio
sicuro ritorno.
Mi sono quindi mosso verso la patria di Tacito (Terni). Ho traversato un boschetto di elci, da un lato limitato da una rocca ben
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
erta ed elevata, dall'altro da una montagna meno ripida e traversata dal fiume. Questo piccolo bosco e la cascata presentano dei
punti di veduta molto interessanti e pittoreschi: infatti i pittori ne
prendono continuamente i disegni.
Sono giunto a Terni, in compagnia del mio picciolo mentore,
Matteo Moccadelli, alle 7 della sera.
Sorpreso dai talenti non ordinari e dalla naturale eloquenza del
povero giovine Moccadelli, non che dal suo carattere docile ed
avvenente, mi era deciso di condurlo meco in Napoli, per farlo
istruire e riguardarlo come figlio. Gli ho manifestato in istrada
questo mio pensiero, ed egli, come se avesse pur conosciuto il
mio carattere, mi ha promesso di volermi seguire, a condizione
che la sua povera madre vi avesse acconsentito. Giunti in Terni,
è andato a tenere discorso con sua madre, ed insieme sono quindi
da me venuti. Anche la madre ha condisceso di buon grado a
darmi il suo figlio, e sono andati via; ma non potendo resistere
all'amor filiale, dopo avervi alquanto riflettuto, è ritornata da me
a notte avanzata, e mi ha detto ch'ella non si sentiva il coraggio
di rinunciare per sempre al proprio figlio. Tocco da simile commovente spettacolo, nel quale era interessato anche il mio cuore,
ho lodato la madre, ed ho fatto qualche donativo al figlio, il quale
era tocco da doppia passione.
4 Giugno
Alle 6 del mattino siamo partiti da Terni. Uscendo dalla città si
trova una pianura estesissima, fertile e ben coltivata, che continua infino alle vicinanze di Narni210.
Quest'ultimo paese rimane sulla sommità di un piccolo monte.
Vi si sale per una strada asprissima. L'abitato è mediocre; vi è
210
In provincia di Terni.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
691
però una bella strada su gli [illeggibile] del precipizio della vallata che lo fiancheggia, la quale trovasi uscendo da Narni. Sulla
montagna che è all'altro lato di questa valle vedesi una grotta,
ove rimane un eremita, il quale è tenuto in grande venerazione
nel paese e ne' luoghi vicini.
Uscendo da Narni si entra in colline ed in montagne piacevoli,
coverte di boschi e di fratte. Vi sono ancora delle pianure, ma
sterili.
Continuando la strada si giunge su di una lunga catena di altre
colline, le quali si estendono infino ad Otricoli211. Dalla sommità
di queste colline godesi da tutti lati di una veduta estesissima di
montagne, di colline, di pianure e di paesi che seduce ed incanta
il viaggiatore.
Otricoli, ove ci siamo alquanto riposati è un picciolo paese che
ha un bello orizzonte e delle buone possessioni all'intorno. La
principale coltura di questo paese è l'olivo, gli arbusti, il frumento. Vi sono ancora dei ricchi pascoli.
Appena uscito da Otricoli, dopo una lunga discesa, trovasi una
gran pianura in mezzo alla quale veggonsi gli avanzi di tre antichi monumenti fra quali un mausoleo di forma conica quasi intero. Dopo un'altra discesa, si trova un'altra pianura molto più
grande della prima e fertilissima, alla estremità della quale incontrasi il Tevere, che si passa sul Ponte Felice, di antica costruzione romana, composto di tre archi, il quale è grande, nobile e
maestoso. Al di là del ponte vi è il picciolo villaggio chiamato
Borghetto, fuori del quale principia una salita molto lunga e rapidissima, che è un'antica strada romana. Terminata la salita, si
entra in una gran pianura incolta, destinata per pascolo. Sulla sinistra vedesi la montagna di San Silvestre, la quale è altissima e
di figura quasi conica. Dal mezzo di questa pianura godesi di una
bella ed estesissima veduta.
211
Ibidem.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
Proseguendo il cammino, si giunge a Civita Castellana212, dopo
aver passato un ponte su di un piccolo fiume, il quale scorre davanti i muri di questa piccola città, nel seno di una profonda
valle, che serve da questo lato di fortificazione. Questa città è
piacevole e bella. È tutta murata ed ha un bel castello. Vi è una
piazza e dei buoni edifici. Dal lato di Roma vi è un altro ponte.
Uscendo da Civita Castellana si entra in una gran pianura coverta
di erbaggi e di fratte. La strada che la traversa è bella e dritta.
Avvicinandosi a Nepi213, trovasi una strada ben lastricata. Si traversa un bosco ed infine si giunge a Nepi.
Questa piccola città ha un bello orizzonte. Essa è cinta di antichi
muri, di torri, e di bastioni. Sul davanti, verso Civita Castellana,
vi è una valle profonda scavata nella rocca, come quella cennata
città, per la quale scorre un piccolo fiume.
Nell'interno della città vi sono due piazze: nella prima vi è una
bella fontana, che è attaccata ad un grande edificio del governo;
nella seconda vi è un'altra fontana nel mezzo. L'acqua che anima
queste fontane viene da tre miglia lontano, e propriamente da
Valle Oscura, nel Ronciglione, ed è qui portata da un antico condotto ad archi, i quali vicino Nepi sono altissimi.
5 Giugno
Siamo partiti da Nepi alle 8 del mattino. Fuori del paese vi sono
delle belle pianure, coverte in gran parte di querceti e seminate
a frumento. Vi sono ancora degli abbondanti pascoli. La strada,
in gran parte è dritta e piana.
Si giunge infine a quel punto della strada di Roma, ove vi si unisce quella di Loreto, il che avviene a 27 miglia lontano da Roma.
212
213
In provincia di Viterbo.
Ibidem.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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Si arriva infino a Monterosi214, quindi a Baccano, dopo alla
Storta215 ed infine a Roma, ove siamo giunti alle 3 dopo mezzogiorno. La strada da Nepi a Roma è sempre lastricata.
6 e 7 Giugno
Abbiamo pranzato in casa del Signor Abate Pennoni.
8 Giugno
Ho pranzato in casa del Signor Conte Zurlo.
9 e 10 Giugno
Sono stato occupato per prepararmi alla partenza.
11 Giugno
Siamo partiti da Roma ad un'ora dopo mezzogiorno, in compagnia del Signor Duca di Diano e della Signora Principessa
Sciarra, nata Cassano.
La strada che da Roma conduce ad Albano è senza dubbio interessantissima. Essa traversa una pianura estesissima ed uniforme
tutta seminata di avanzi di tombe, di antichi monumenti e di lunghissimi condotti di acqua, di costruzione anche remota. Il piccolo contado di Castel Gandolfo è situato alla sommità di una
collina, verso la sua faccia meridionale, tendente all'occidente,
ove l'aria è molto salubre.
214
215
Ibidem.
La Storta frazione del comune di Roma.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
Albano è una bella piccola città. Essa è anche elevata sulla pianura. Vi è un magnifico palazzo di recente costruzione, appartenente a Carlo IV re di Spagna. All'estremità di Albano, sulla
strada rotabile, si trovano gli avanzi della tomba degli Orazii e
dei Curiazi. Da questo punto in poi la strada è bellissima, imperocché essa è circondata dai due lati di alberi, ed in tal modo essa
continua infino alla Riccia. I boschi che covrono le colline di
questi luoghi sono incantevoli. Essi invitano al piacere.
Proseguendo il cammino si avvicina a Velletri. Qui le vigne sono
piantate come le nostre. In generale tutte le terre scorse quest'oggi sono fertili, ed alquanto ben coltivate, tranne quelle delle
vicinanze di Roma che sono poco o affatto messe a coltura.
Siamo giunti a Velletri alle 7 della sera ed abbiamo alloggiato
nell'Albergo Ginetti.
Velletri è lontano 26 miglia da Roma.
12 Giugno
Siamo partiti da Velletri alle 7 del mattino. Abbiamo passato,
non senza pena, le Paludi Pontine, per effetto del calore eccessivo, che ci soffogava, e siamo giunti alle 5 pomeridiane in Terracina, ove abbiamo pernottato.
13 Giugno
Alle 5 del mattino siamo partiti da Terracina in compagnia di
altre quattro vetture di viaggio, e scortati da quattro gendarmi
per causa dei briganti che infestano i nostri maledetti confini. La
scorta ci ha accompagnati infino al Garigliano. Felicemente l'abbiamo campata. Siamo giunti alle 8½ della sera a Sant’Agata.
Ha fatto caldo eccessivo.
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D’Angelo, Per curare la mente e il corpo
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14 Giugno
Ultimo giorno del mio piacevole ed istruttivo viaggio.
Alle 5 del mattino abbiamo fatto partenza da Sant’Agata. A mezzodì siamo giunti in Capua, ed alle 6 della sera in Napoli, in casa
del degno e benemerito uomo, Cavaliere Francesco Muscettola.
Abbiamo avuto una pessimissima giornata. Il calore è stato soffogante, e la polvere, a cagione delle strade che sono rovinate, a
guisa di nube, ci ha sempre avvolti ed accompagnati infino a Napoli. Oltre a ciò, dodici miglia distante dalla capitale, si è rotto il
collo d'oca della nostra carrozza. Si è accomodata nel miglior
modo che è stato possibile, ed in tal guisa siamo stati trascinati
infino a Napoli. Entrando nella città ci siamo divisi dagli altri
compagni di viaggio.
Questo è il giro delle cose umane!
Fine.
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Recensioni
Laura Fournier-Finocchiaro, Cristina Clímaco (eds.), Les exilés
politiques espagnols, italiens et portugais en France au XIXe
siècle. Questions et perspectives, Paris, L’Harmattan, 2017
di Pierre-Marie DELPU
Il volume collettaneo, che raccoglie dieci contributi di
storici e specialisti di letteratura francesi, spagnoli, italiani e portoghesi, si propone di mettere a confronto le esperienze
dell’esilio di tre spazi politici e culturali dell’Europa meridionale, studiandoli in relazione a un terreno di analisi comune, la
Francia, nell’Ottocento uno dei principali paesi d’accoglienza di
esuli politici. Il libro si colloca nel solco di una ricca storiografia
che, non limitandosi al solo studio dell’esilio nei movimenti politici del XIX secolo, ha evidenziato la pluralità delle esperienze,
le forme d’integrazione nelle società locali e le inflessioni che
ha prodotto nei percorsi individuali e collettivi degli attori coinvolti. La scelta di privilegiae questo osservatorio si spiega con il
numero e la diversità delle migrazioni politiche dirette verso la
Francia, la loro continuità nel lungo Ottocento, la capacità del
paese di creare dispositivi d’accoglienza e di controllo nuovi, tematiche ampiamente dibattute in lavori recenti1. Queste migra-
1
Si veda ad esempio D. DIAZ, Un asile pour tous les peuples ? Exilés et réfugiés en France au cours du premier XIXe siècle, Parigi Armand Colin, 2014 ;
C. MONDONICO-TORRI, Les réfugiés en France sous la Monarchie de Juillet :
l’impossible statut, «Revue d’histoire moderne et contemporaine», 47 (
2000/4), pp. 731-745. Si rimanda anche ai lavori collettivi, su scala internazionale, del programma di ricerca nazionale francese : https://asileurope.huma-num.fr/ [consultato il 25 gennaio 2018].
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zioni hanno implicato culture politiche diverse, lontane dal limitarsi ai soli rivoluzionari ai quali sono state a lungo ridotte, una
diversità che viene chiaramente affrontata nel libro.
Il volume è suddiviso in due parti principali. Viene inizialmente tracciato un bilancio delle storiografie proprie a
ognuna delle tre comunità di esuli, sul tempo lungo dell’età contemporanea. Sono in seguito esposti alcuni dei cantieri di ricerca
relativi alla tematica. I contributi qui raccolti danno successivamente risalto al ruolo dell’esilio nella formazione dei movimenti
democratici spagnoli (J. Roca i Vernet, Fl. Peyrou), agli esuli
come mediatori letterari e linguistici (L. Fournier-Finocchiaro,
I. Gabbani), alla varietà dei percorsi degli esuli italiani a Parigi
(P. Benvenuto), agli esuli italiani nel Portogallo (M.M. Tavares
Ribeiro) e alla comunità degli esuli portoghesi in Francia (A.
Leblay). Gli autori analizzano in tal modo diversi settori sconosciuti della storia delle migrazioni politiche nella letteratura francofona – principalmente per quelle portoghesi, meglio conosciute per il Novecento2 –, e la scelta dei casi studiati permette un
confronto fruttuoso tra storiografie nazionali raramente collegate tra esse.
Malgrado l’ambizione di fornire uno studio nazionale, il
libro è essenzialmente centrato sul caso parigino. La capitale
francese è effettivamente stata uno dei principali ricevitori delle
migrazioni politiche, ma le zone di provincia vengono marginalmente afforntati, seppur da diversi contributi, particolarmente
quelli attenti al caso spagnolo. (J. Canal, J. Roca i Vernet e A.
Leblay). Lavori recenti hanno invece dimostrato come i dipartimenti di provincia abbiano accolto una frazione significativa
2
V. PEREIRA, La dictature de Salazar face à l’émigration. L’État portugais
et ses migrants en France (1957-1974), Parigi, Presses de Sciences po, 2012.
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degli esuli europei, appoggiandosi su un ampio dispositivo d’inquadramento organizzato dallo Stato centrale3. Il ruolo delle colonie, particolarmente dell’Algeria, viene peraltro sottovalutato.
Questa focalizzazione quasi esclusivamente parigina, che dipende dalle fonti letterarie e di stampa che sono il materiale principale della maggior parte dei contributi, conduce a centrare la
prospettiva sui fenomeni ideologici, intellettuali e letterari. Gli
autori valorizzano così le figure meglio conosciute poiché hanno
costituito mediatori culturali di prim’ordine (tra gli Italiani, Giuseppe Mazzini, Guglielmo Pepe o Daniele Manin). Ma questa
scelta tende a trascurare gli esuli ordinari, mentre le fonti di polizia, di giustizia e dell’amministrazione – consultate da alcuni
autori (J. Roca i Vernet, P. Benvenuto) – ne descrivono i percorsi
individuali e collettivi.
Infine, i contributi propongono l’analisi dei casi di studio
considerandoli come tre realtà parallele, affrontando invece in
maniera marginale le relazioni tra di esse. Un solo contributo,
che verte sui proscritti italiani nel Portogallo, concepisce l’esilio
come un fenomeno connesso, ma è lontano dal contesto francese
annunciato dal titolo e dalla premessa del libro.
Il libro fornisce comunque delle chiavi di lettura importanti che alimentano un dibattito già ricco4 e informano utilmente sulla formazione delle mobilitazioni politiche trasnazionali nell’Ottocento.
3
Oltre D. DIAZ, Un asile pour tous les peuples ?, si rimanda ad esempio a G.
BRON, Révolution et nation entre le Portugal et l’Italie : les relations politiques luso-italiennes des Lumières à l’Internationale libérale de 1830, thèse
de doctorat, EPHE, 2013.
4
Ad esempio e sul caso italiano M. ISABELLA, Risorgimento in esilio.L’iInternazionale liberale e l’età delle rivoluzioni, Bari, Laterza, 2011 [2009], e
A. BISTARELLI, Gli esuli del Risorgimento, Bologna, il Mulino, 2011.
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La Révolution culturelle en Chine et en France. Expérience, savoirs, mémoires. Miao Chi, Olivier Dard, Béatrice Fleury et Jacques Walter (eds.), Paris, Riveneuve éditions, 2017
di Paola PADERNI
Il libro raccoglie diciannove saggi di studiosi cinesi e francesi ed è il risultato di un seminario di alcuni giorni dedicato alla
Rivoluzione culturale (RC) nel cinquantesimo anniversario dalla
data in cui il movimento politico prese ufficialmente avvio, in
Cina, nel 1966. Non è solo, però, il movimento cinese della Rivoluzione culturale ad essere preso in esame. Nell’approssimarsi
di un altro anniversario, quello del cosiddetto ‘maggio del 68’, i
promotori del progetto hanno voluto interrogarsi su quanto e
come la RC cinese, con il suo armamentario ideologico e i suoi
simboli, abbia influenzato il movimento del ’68 francese e più in
generale la Francia nel decennio a cavallo tra gli anni ‘60 e ‘70.
L’approccio scelto dai curatori è multidisciplinare, con una prevalenza di esperti in scienza della comunicazione e storici, questi
ultimi prevalgono con poche eccezioni tra i ricercatori cinesi.
Per quanto il tema della ‘rivoluzione culturale’ possa essere trasversale nella Cina e nella Francia della seconda metà del XX
secolo, appare subito chiaro che per modalità formali, metodologiche e contenuti, il libro si compone di due parti che finiscono
per avere pochi punti in comune. Da una parte, infatti, vi sono
sei o sette studiosi cinesi, se includiamo anche Miao Chi, che
lavora presso l’Université de Lorraine, che affrontano aspetti diversi della RC, soprattutto le origini del movimento, e che soprattutto ci offrono la possibilità di accedere a ricerche definite
indipendenti per la loro circolazione fuori dai canali ufficiali, e
tuttora soggette a controllo. Gli altri saggi invece, ossia i due
terzi del libro, sono interamente dedicati alla Francia e alle sue
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connessioni con la Cina e divisi secondo tre diverse tematiche:
cultura/controcultura, destra/sinistra, raccontare/raccontarsi.
Delle tre parole usate nel sottotitolo del libro, memoria è
forse quella che più di ogni altra serve a caratterizzare le ricerche
degli studiosi cinesi che spesso sono stati protagonisti del movimento politico di cui oggi si occupano come studiosi. Molte
delle riviste indipendenti, quasi tutte non cartacee ma reperibili
in rete, dedicate alla storia della RC, richiamano nel loro nome
alla necessità di conservare memoria di avvenimenti le cui conseguenze incidono tuttora sul presente. Yang Jisheng, noto anche in occidente per il suo libro sulla grande carestia che colpì la
Cina negli anni ’60 provocando decine di milioni di morti, ritiene che tra i danni causati dalla RC vi sia anche quello della
mancanza di memoria, negata da una burocrazia che così conserva il suo potere e difende i propri interessi. Proprio per non
dimenticare, in tanti provano a ricostruire momenti salienti, congiunture, o anche solo liste di nomi di persone morte per morte
violenta, grazie a testimonianze orali, documenti di archivio o
privati messi insieme a volte da collezionisti che li hanno scovati
in mercatini dell’usato. Non mancano analisi che ricostruiscono
i rapporti sociali del periodo, come quella di Sun Peidong sulle
letture dei giovani istruiti che non solo mostra che i libri non
scomparvero durante la RC ma che l’accesso e l’interesse verso
l’istruzione e la cultura rimasero appannaggio di taluni appartenenti a classi privilegiate. Nell’insieme, anche se pochi, questi
studi testimoniano la vitalità di un settore scientifico che ha anche un alto valore politico, come sottolineano i curatori nella
loro introduzione.
I saggi che vanno sotto il tema cultura/controcultura hanno
come primo oggetto di analisi alcuni prodotti cinematografici di
quegli anni, compresa la cinematografia cinese di cui si occupa
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Wu Di, redattore della rivista Jiyi (Memoria) ed esperto di cinema cinese che giudica la produzione degli anni della RC, inferiore per numeri e diversa per modelli tematici da quella del
periodo precedente, come un “prezioso fossile politico, museo
di una corrente di estrema sinistra, enciclopedia di una corrente
di pensiero”, ma nondimeno, almeno per alcuni di loro, come
testimonianza di “uno stato d’animo di cui sono depositari”.
Sono però le analisi di Kristian Feigelson sui film francesi che
hanno per tema la Cina o quelle dedicate da Vincent Lowy ai
documentari sulla Cina che risultano interessanti per comprendere al meglio quanto ciò che accadeva in quegli anni avesse
origini e motivazioni tutte interne, nonostante l’ispirazione potesse provenire da diecimila kilometri di distanza. Nel caso del
film di Jean-Luc Godard, La Chinoise, fu, secondo Feigelson, il
modo per il regista di radicalizzare la sua posizione rispetto al
cinema tanto dal punto di vista politico che artistico; nel caso del
film di René Viénet La dialectique peut-elle casser des briques?
ispirato ad un film popolare di Hong Kong si trattava di parodiare la logorrea maoista, in uno stile anche di Pop Art, forte
della appartenenza politica situazionista e della conoscenza della
Cina del suo autore. Sono, però i due documentari, quello di Michelangelo Antonioni, Chung Kuo, La Cina del 1973, autorizzato ma poi criticato dalla dirigenza cinese per motivi di lotte
politiche interne, e Comment Yukung déplaça les montagnes del
1976 voluto e realizzato da Joris Ivens e sua moglie Marceline
Loridan-Ivens come risposta ad Antonioni, a dividere il pubblico
francese più secondo appartenenze politiche che su giudizi estetici. Lo stesso si può dire del clamoroso insuccesso del film preso
in esame da Françoise Audiger, Les Chinois à Paris di Jean
Yanne del 1974, cineasta allora popolare, che utilizzando il genere fantapolitico descrive una Francia occupata dall’armata comunista cinese, tratteggiata in modi caricaturali, con l’intento di
denunciare ‘le storture della società francese e in particolare
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delle sue élite’. Il titolo del saggio Révolution Culturelle et
contre-culture en France, un exemple de malentendu di Matthieu Remy indica chiaramente quanto l’idea di “rivoluzione culturale” che si era andata sviluppando in circoli, movimenti,
gruppi studenteschi di sinistra, pur partendo a volte da premesse
marxista-leniniste, si sia sempre più allontanata dal movimento
lanciato da Mao Zedong, preferendo spingere per la trasformazione della vita quotidiana che consentisse una rivoluzione nei
costumi sociali e contro le discriminazioni di genere e sessuali.
Una idea di “rivoluzione culturale” decisamente libertaria che
apriva la strada ai movimenti femministi, gay e queer. E per questo anche molto distante dagli esiti della RC cinese.
Il secondo gruppo di saggi raccolti sotto l’etichetta sinistra/destra è dedicato a quanto e come gruppi di estrema sinistra,
destra ed estrema destra si rivolsero all’armamentario ideologico
del maoismo per confermare propri convincimenti o per utilizzarlo per battaglie pregresse, il cui unico obiettivo principale in
genere era spesso, sia a destra sia a sinistra, l’URSS. Marion
Fontaine si occupa della Gauche Prolétarienne, Hugo Melchior
dei trotskisti, Olivier Dard della estrema destra (destra radicale),
Kaixuan Liu dei marxisti-leninisti dell’Associazione di amicizia
franco-cinese, e Gilles Richard del viaggio in Cina di un gruppo
di giovani giscardiani nel 1976. Gli ultimi due saggi vanno oltre
lo specifico della Rivoluzione culturale per allargarsi alla storia
delle relazioni anche ufficiali tra la Francia e la Cina.
In questa stessa sezione, il saggio di Érik Neveu Trois registres
d’usage de la Révolution culturelle au sein des maoïsmes français è quello che a mio parere da’ conto in modo migliore del
perché tante persone, anche molto diverse tra loro, poterono rimanere affascinate dalla Cina di quel tempo. Il modello cinese
alternativo al comunismo sovietico è il primo dei tre registri individuati da Neveu, che prese avvio prima dell’inizio della RC,
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grazie anche alla filiera italiana rappresentata dagli scritti di Maria Antonietta Maciocchi e Rossana Rossanda, e che si richiamava alla necessità di combattere il sorgere di una classe dominante, privilegiando il ruolo delle masse. Un secondo registro,
ossia la RC come rivoluzione nella sovrastruttura che attaccava
l’autorità era in sintonia con lo spirito di rivolta degli studenti
contro un sistema universitario giudicato mandarinale. Terzo registro, la RC come vettore per legittimare una “vocazione di eterodossia” che intendeva sovvertire ruoli sociali e situazioni date:
superamento dell’opposizione tra città e campagna, rifiuto della
differenza tra lavoro intellettuale e manuale, abolizione del sapere teorico e pratico. Che tutto ciò fosse vero solo sul piano
teorico o per nulla veritiero è stato per lungo tempo difficile da
capire, nonostante qualcuno lo avesse indicato fin da subito,
come ad esempio Simon Leys nel suo libro del 1971, Les Habits
neufs du président Mao. Chronique de la Révolution culturelle.
Autore tra i più citati in quasi tutti i saggi del volume e che forse
avrebbe meritato uno studio a sé per arricchire la storia di quegli
anni aventi come tema la Cina e la sua influenza sulla Francia.
La difficoltà di leggere e capire quanto stesse succedendo
nella Cina degli anni della RC, - come chi scrive può testimoniare avendo vissuto come studentessa nella Cina di quegli anni,
dal 1974 al 1976, - è in parte il tema di uno degli articoli della
terza ed ultima sezione dedicata alle testimonianze, al raccontare
e raccontarsi. Jacques Walter dedica il suo saggio a tre donne,
Annette Wieviorka, Suzanne Citron, e Marceline Loridan-Ivens
che hanno in comune l’essere ebree, per almeno due di loro aver
subito l’internamento e la deportazione e allo stesso tempo aver
vissuto in Cina e averla raccontata in termini tali da “legittimare
uno stato autoritario” ma ad avere avuto difficoltà ad ammetterlo. Analizzando gli scritti di queste scrittrici con biografie diverse nonostante i tratti comuni, connotati da forte riflessività,
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consente a Walter di circoscrivere i modi di costruzione delle
diverse identità narrative, di misurare l’impatto del tempo sulla
configurazione o riconfigurazione delle esperienze, e soprattutto
di valutare quanto la sfera intima abbia avuto un ruolo determinante nella modalità di mettere in relazione due sistemi forieri di
morte, come la Shoah e i momenti più tragici della storia cinese
del XX secolo. Ultimo in questa sezione un articolo di Beatrice
Fleury che ricostruisce la storia di Jean-Luc Einaudi, noto in
Francia per aver svelato aspetti salienti di alcuni episodi della
storia francese recente che nulla hanno a che fare con la Cina
(manifestazione del 17 ottobre 1961) grazie anche, secondo
Fleury, al suo passato maoista.
Nell’insieme il libro ha il merito di aver tentato una lettura
trasversale di un momento storico particolare che tocca due luoghi distanti ma investiti entrambi da un sovvertimento politico e
sociale che può andare sotto il nome comune di “rivoluzione culturale”. É un esempio di histoire croisée che punta ad arricchire
e a leggere molte vicende sotto punti di vista diversi. Se è apprezzabile la presentazione della ricerca degli storici cinesi sulla
RC troppo poco conosciuta in Occidente al di fuori degli addetti
ai lavori, l’aspetto più interessante del libro rimane l’insieme dei
saggi dedicati alla storia francese nei suoi incroci con la Cina,
ricchi di spunti e di problematiche che potrebbero essere estese
ad altri contesti, ad esempio quello italiano per gli stessi anni,
sulla scia di ricerche già avviate da studiosi italiani come il volume collettaneo La Cina di Mao, l’Italia e l’Europa negli anni
della Guerra fredda, a cura di Carla Meneguzzi Rostagni e
Guido Samarani, Bologna, 2014.
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