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Empowerment femminile: affinare lo sguardo

Questo articolo di rilettura del percorso compiuto attraverso le interveiste dei numeri precedenti offre alcuni spunti di riflessione su come l'espeienza femminile necessiti di essere valorizzata e integrata sempre di più con quella maschile in qualunque campo, in un'ottica di maggiore cooperazione.

dossier Empowerment femminile: affinare lo sguardo Chiara Tintori Redazione di Aggiornamenti Sociali, <chiara.tintori@aggiornamentisociali.it>, @chiartin Dopo aver ascoltato l’esperienza di sei donne che sono state o sono tutt’ora ai vertici di istituzioni imprenditoriali, accademiche, politiche e culturali, offriamo alcune coordinate entro le quali collocare la riflessione sull’empowerment femminile. Attraverso strumenti quantitativi e qualitativi, rileggiamo la condizione sociale ed economica della donna nel mondo del lavoro in Italia. Lontano da sterili rivendicazioni di qualche forma di parità, ci chiediamo: come far crescere relazioni sociali con uno stile attento alla diversità e all’integrazione tra il femminile e il maschile? T utto cominciò poco più di un anno fa, a un incontro dal titolo «I benefici economici dell’empowerment femminile», organizzato dal Comitato nazionale Italia UN Women e dall’Ufficio d’informazione del Parlamento europeo a Milano 1. Dagli interventi sugli aspetti giuridici ed economici, nonché dalla tavola rotonda con donne ai vertici di istituzioni pubbliche e private è sorta l’ispirazione del dossier pubblicato sulla nostra Rivista nei mesi scorsi (cfr Tintori 2018a, 2018b, 2018c). Da quel 24 marzo 2017 è seguito un lungo percorso di ascolto, confronto e ricerca, mosso da alcune domande: quali sono le caratteristiche della lea- 1 Cfr <www.aggiornamentisociali.it/Archivi/AGSO/Files/Conferenza_Milano_Flyer. pdf>. 278 Aggiornamenti Sociali aprile 2018 (278-287) dossier Dossier empowerment femminile dership “al femminile”? Esistono attese, Di quale modello di leadership possono ostacoli e condizionamenti quando una farsi portatrici le donne? Questa è la dodonna esercita le proprie responsabilimanda che ha ispirato il dossier sull’emtà come direttore generale, ministro o powerment femminile, che si conclude economista? In quale modo è possibi- in questo numero, dopo le interviste ad le conciliare la vita professionale con Alessandra Viscovi e Alessandra Smerilli (Aggiornamenti Sociali, 1, 14-26), a Elsa quella personale e familiare 2? Sono interrogativi che aprono a Fornero e Nadia Urbinati (Aggiornamenti Sociali, 2, 133-146), a Barbara Jatta e questioni antropologiche e sociali com- Chiara Daniele (Aggiornamenti Sociali, plesse, da trattare con cautela, sgom- 3, 223-234). Il dossier è disponibile sul brando il campo da almeno due equi- nostro sito: <www.aggiornamentisociali.it/ voci. Il primo è lessicale e rimanda alla empowerment-femminile/?IDLYT=8975>. necessità di utilizzare alcuni termini come “donna” o “al femminile” con la consapevolezza che esistono “le donne” al plurale, ciascuna con la propria esperienza soggettiva, un universo umano femminile non monolitico ma variegato; di conseguenza non possiamo riduttivamente pensare che esista un unico e ben definito modello di leadership “al femminile” (così come non esiste un modello unico di leadership maschile). La seconda ambiguità dalla quale rifuggire è che trattare di empowerment femminile equivalga a una rivendicazione femminista. Le donne non sono vittime a priori, né una categoria da proteggere o dalle quali proteggersi. Certamente la storia sociale e professionale consegna anche vissuti di ingiustizia, che vanno assunti e attraversati nel rispetto della sofferenza, ma desideriamo allontanarci il più possibile da stereotipi di genere, tanto sterili quanto dannosi, per aprirci a una prospettiva che coinvolga tanto le donne quanto gli uomini (Tintori 2014). I passi avanti sul versante dell’empowerment femminile saranno duraturi e realmente costruttivi per il buon vivere sociale solo se condivisi e integrati con la prospettiva maschile, cosicché donne e uomini possano autenticamente «abitare insieme l’intero dell’umano» (Cinque, Melfi et al. 2016, 6). Di seguito tracceremo la cornice del percorso fatto finora: dapprima con uno sguardo agli strumenti quantitativi che fotografano la situazione delle donne nel contesto economico italiano in relazione a quello europeo, poi rileggeremo alcuni passaggi delle sei interviste con l’attenzione a individuarne alcuni tratti comuni trasversali; 2 Il presente articolo è debitore, oltre alle donne intervistate nel dossier (Alessandra Viscovi, Alessandra Smerilli, Elsa Fornero, Nadia Urbinati, Barbara Jatta, Chiara Daniele) e alla redazione di Aggiornamenti Sociali, a: Chiara Bacchiega, Chiara Bisconti, Floriana Cerniglia, Marcella Corsi, Riccardo Fanciullacci, Andrea Orlandini, Paola Profeta, Susy Zanardo. A tutti loro il mio grazie. Empowerment femminile: affinare lo sguardo 279 infine apriremo a come la differenza sessuale, in una prospettiva integrale, possa rendere migliore la convivenza sociale. 1. Una fotografia “quantitativa” Negli ultimi decenni è cresciuta la presenza di donne manager in diversi ambiti professionali, pur con qualche contraddizione. Se si guarda, per esempio, al panorama internazionale della politica e delle istituzioni finanziarie, troviamo sempre più donne “ai vertici”: Angela Merkel, Teresa May e Christine Lagarde sono forse i volti più noti, ma vi sono anche le sindache di Barcellona, Madrid, Parigi, Roma, Stoccolma e Tokyo. Al contrario, da uno sguardo al settore bancario a livello globale, permane un divario nella presenza di uomini e donne in posizioni di potere: queste ultime in media non raggiungono il 2% nelle posizioni di CEO (amministratore delegato) e il 20% dei consiglieri di amministrazione (cfr Sahaya R., Cihak M. et al. 2017). Seppure con qualche squilibrio tra professioni e aree geografiche, siamo dinnanzi a un’evoluzione inarrestabile, con risvolti anche sul nostro territorio nazionale? In Italia assistiamo a progressi significativi della presenza femminile nelle posizioni di vertice di grandi aziende: le donne leader nelle grandi imprese superano il 30%, quasi nove punti percentuali in più rispetto alla media dell’Unione Europea (UE; cfr Casarico e Profeta 2017). Purtroppo però questi progressi non si accompagnano ad avanzamenti nella politica e più in generale nel lavoro (anche nei ruoli apicali), anzi questi sono i due ambiti in cui le disuguaglianze di genere sono particolarmente marcate. Infatti i dati più recenti mostrano che il tasso di occupazione femminile (a gennaio 2018 attestato al 49,3%) Nel marzo del 2000, a Lisbona, il Consiglio è ancora distante dall’obiettivo che la Europeo adottò l’obiettivo strategico di «distrategia di Lisbona indicava del 60% ventare l’economia basata sulla conoscenza per il 2010; siamo al penultimo posto più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica tra i Paesi UE, davanti solo alla Grecia. sostenibile con nuovi e migliori posti di laPer quanto riguarda la politica, vi è voro e una maggiore coesione sociale» (n. una situazione paradossale: nel nuo5). Tra gli obiettivi indicati, vi era quello di vo Parlamento siede poco più del 30% aumentare il numero delle donne occupate di donne, un record per la storia repubdalla media del 51% del 2000 a oltre il blicana, ma il Rosatellum impone una 60% entro il 2010 (n. 30). presenza minima in lista al 40% delle donne: se le elette sono di meno, qualcosa non ha funzionato (cfr Balduzzi, Casarico e Lisciandro 2018). Inoltre dal 1948 a oggi non abbiamo mai avuto una Presidente della Repubblica, una Presidente del Consiglio o del Senato e su oltre 1.500 incarichi di ministro, le donne ne hanno ricoperti solo 78 (Andreuccioli, Borsi e Frati 2018), 280 Chiara Tintori dossier a conferma del fatto che «la maggioranza delle donne, in politica, sta nelle retrovie» (cfr Grion 2017). Un altro indicatore che aiuta a mettere a fuoco la situazione contraddittoria in cui ci troviamo è il divario retributivo: dati Eurostat (2018) riferiti a imprese con oltre 10 addetti mostrano che nella UE i guadagni orari lordi delle donne sono in media inferiori a quelli degli uomini del 16,3%, mentre in Italia il gap è poco superiore al 5%; tale calcolo non tiene conto dell’insieme di fattori che lo influenzano, quali il grado di istruzione, l’esperienza lavorativa, le ore lavorate, il tipo di attività svolta, i bonus, i benefit e i premi di produzione percepiti. I dati INPS invece, riferiti all’intera storia contributiva dei lavoratori italiani nel settore privato, rilevano che il differenziale retributivo si è attestato in media attorno al 14,5%, con una forte eterogeneità lungo la carriera lavorativa (cfr Casarico e Lattanzio 2018). Tra i motivi di tale squilibrio vi è che le donne partecipano al mercato del lavoro spesso con lavori part time, carriere discontinue (a causa della maternità) e che sono impiegate in settori in cui hanno minori possibilità di progredire. Nella prima indagine nazionale sulle nuove imprese innovative (startup) emerge che la presenza femminile è minore tra i dirigenti (circa il 13%), maggiore tra gli operai e gli impiegati a tempo determinato (il 27%) e ancora superiore tra stagisti e tirocinanti (circa il 35%), ma le startupper italiane sono in media più giovani e più istruite dei loro colleghi uomini e sono concentrate al Centro-Sud (cfr ISTAT 2018). Complessivamente il Rapporto annuale del World Economic Forum, il Global Gender Gap Report 2017 – costruito su quattro indici: lavoro, politica, istruzione e salute –, non ci consegna una fotografia confortante: l’Italia è 82esima su 144 Paesi, in caduta libera di trentadue posti rispetto all’anno precedente (cfr World Economic Forum 2017). Una retrocessione di tale portata mette a rischio la crescita sostenibile e inclusiva del Belpaese: cosa manca alla nostra organizzazione sociale per permettere alle donne di essere più competitive a livello internazionale, in termini di possibilità economiche e di carriera? Il lavoro delle donne è stato interpretato come potenziale volano della ripresa economica italiana (cfr Ferrera 2008; Del Boca e Profeta 2018). Non solo, l’empowerment femminile produrrebbe alcuni vantaggi in termini di innalzamento della qualità del business e una nuova agenda, cioè una nuova direzione rispetto ad alcune istanze sociali (come la salute e l’educazione), sulle quali le donne leader tendono ad avere più attenzione. Più in generale, avere sia uomini sia donne ai vertici aumenta la creatività, diversifica le competenze, contribuisce a migliorare il processo decisionale Empowerment femminile: affinare lo sguardo 281 (cfr Profeta 2017). Sono alcuni degli effetti benefici della valorizzazione della differenza, che abbiamo toccato con mano nelle nostre interviste. 2. Una fotografia “qualitativa” Presentati i dati più significativi sull’empowerment femminile, ci concentriamo ora sulla rilettura, non esaustiva, di alcuni passaggi delle sei interviste; dal “quanto” al “come”. Alessandra Viscovi, Alessandra Smerilli, Elsa Fornero, Nadia Urbinati, Barbara Jatta e Chiara Daniele non sono donne scelte come campione statistico rappresentativo dell’universo femminile. Sono testimoni, selezionate perché hanno incarichi di responsabilità in campo economico, politico e culturale e perché hanno accettato con grande disponibilità di mettersi in gioco in un dialogo. Le loro sono storie di donne, ciascuna con uno sguardo unico e originale su quanto vive, sul proprio lavoro e sul mondo; sono donne realizzate e libere. Può essere che la loro libertà di espressione, comprensibilmente, sia stata talvolta limitata dai ruoli di responsabilità che ricoprono, oppure condizionata da passi falsi o da episodi di esclusione. Resta il fatto che hanno trasmesso la soddisfazione per le loro esperienze pacificatrici, pur in una quotidianità articolata; alcune sono apparse più profetiche di altre, altre a tratti disilluse, ma riconosco che ho incontrato donne felici. E di questi tempi non è poco. La rilettura delle interviste pubblicate sulla nostra Rivista si focalizza su tre ambiti trasversali: l’evoluzione e involuzione della presenza delle donne nel tempo, le donne nella Chiesa, l’originalità femminile e la conciliazione lavoro-famiglia. a) Evoluzione e involuzione nel tempo Nadia Urbinati, politologa della Columbia University di New York, attingendo alla sua storia personale ci consegna un passato in cui alle donne non era consentito l’accesso alle discipline “nobili” come la teologia e la filosofia; ora che «la professionalizzazione della filosofia ha aperto le porte anche alle donne […], il sistema dei valori (ideologici-politici-etici) è ancora resistente alla presenza» (Tintori 2018b, 141-142) delle stesse. Suor Alessandra Smerilli, docente universitaria ed economista, riporta l’originalità del suo vissuto da religiosa nella disciplina economica, per decenni appannaggio esclusivo degli uomini; ancora oggi registra la sorpresa da parte di alcuni professionisti quando si presenta, quasi sempre in abiti laici, a convegni pubblici. Sono due esperienze che mostrano come la presenza delle donne si sia evoluta nelle discipline filosofiche ed economiche, seppure ancora con qualche resistenza. 282 Chiara Tintori dossier Un’esperienza differente è quella di Chiara Daniele, già direttrice della Fondazione Feltrinelli e ora consulente presso diverse istituzioni culturali, che ha avuto la «consapevolezza di essere stata, in alcune circostanze, l’unica donna tra le persone sedute attorno a un tavolo» (Tintori 2018c, 229). Inoltre negli ultimi quindici anni in Italia ha «notato una diffusa regressione della possibilità per le giovani donne, seppure straordinariamente capaci, di raggiungere in breve tempo ruoli apicali, e più in generale, del rispetto verso le donne in quanto tali e in quanto professioniste» (ivi, 229-230), a fronte anche di un clima poco favorevole: «troppe volte si ha l’impressione che sia tutto lecito, dalle discriminazioni salariali a quelle di carriera in tutti i settori professionali, senza sollevare alcuno scandalo e alcuna vergogna sociale» (ivi, 230). Esperienza opposta è quella di Barbara Jatta, prima donna direttore dei Musei Vaticani (MV) in oltre 500 anni di storia, che ha la fortuna di lavorare in un ambiente disponibile e aperto, ma soprattutto di incontrare in contesti internazionali sempre più donne che ricoprono ruoli di responsabilità, che «iniziano ad avere voce, possono dare il loro apporto e il loro contributo» (ivi, 227). b) Le donne nella Chiesa Due delle nostre intervistate ci offrono alcune istantanee sulla Chiesa. Le loro esperienze sono dissimili. Per suor Alessandra Smerilli le donne nella Chiesa non devono ambire a occupare spazi o gestire poteri, è però convinta che «la Chiesa è meno Chiesa e l’umano è meno umano se le donne non partecipano ai processi decisionali, se non esercitano responsabilità» (Tintori 2018a, 25). Oggi talvolta le donne «dopo aver provato a dare il proprio contributo all’interno di strutture ecclesiastiche, preferiscono spendere la propria professionalità altrove, dove c’è meno da lottare per essere riconosciute alla pari degli uomini» (ivi). L’esperienza professionale di Barbara Jatta, da oltre vent’anni in Vaticano, «è bellissima e felicissima» (Tintori 2018c, 226). A proposito della sua nomina a direttrice dei MV afferma: «mi auguro di essere stata scelta per la mia professionalità e non per il fatto di essere donna!» (ivi, 225). Barbara Jatta ha sempre respirato un’aria di fiducia nei suoi confronti, senza discriminazioni o pregiudizi, sintomo di apertura e disponibilità da parte dei suoi diretti referenti (vescovi e cardinali), forse anche perché interpreta il suo ruolo non come di potere, ma di direzione e governo. Due esperienze agli antipodi, entrambe autentiche, che mostrano quanto sia articolata la questione del coinvolgimento delle donne nella Chiesa; si fanno passi avanti, alcuni più di valore simbolico Empowerment femminile: affinare lo sguardo 283 che d’impatto complessivo. Il sentiero è comunque tracciato dallo stesso papa Francesco: «il ruolo della donna nella Chiesa non è femminismo, è diritto! […] La donna vede le cose con una originalità diversa da quella degli uomini, e questo arricchisce: sia nella consultazione, sia nella decisione, sia nella concretezza» (papa Francesco 2016). Al di là dei complessi meccanismi culturali e strutturali, «rimane limitato e poco valorizzato l’apporto teologico delle donne; si è poco consapevoli del gender gap esistente in tutte le istituzioni ecclesiali e resta inevasa la domanda sul rapporto tra maschile e potere nella Chiesa» (Noceti 2018, 50). c) Originalità femminile e conciliazione Secondo Alessandra Viscovi, già direttore generale di Etica SGR, per far evolvere modelli di impresa al passo con i tempi occorrono pratiche collaborative che possano pienamente valorizzare le attitudini femminili. Sulla stessa lunghezza d’onda, Chiara Daniele rigetta il lavoro in solitaria e promuove «la capacità femminile di costruire reti» (Tintori 2018c, 232), nonché «l’attenzione a occuparsi della vita concreta delle persone, specie delle fasce più deboli della società: donne, bambini, anziani, chi non riesce a farcela in un mondo che continua a escludere chi non ritiene necessario» (ivi, 231). Anche Nadia Urbinati riconosce che nell’attuale fase di transizione populista e antipartitica, in un contesto politico dove prevale la logica amico-nemico, le donne – nelle proprie culture, religioni e tradizioni – possono essere promotrici di un’alleanza multietnica tra soggetti più deboli. Per suor Alessandra Smerilli le donne «hanno un compito fondamentale: porre l’attenzione sulla cura della nostra casa comune» (Tintori 2018a, 23); esse sono più inclini a risolvere dilemmi in gruppo e possono esercitare una leadership flessibile, creativa e inclusiva. Elsa Fornero, già Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali nel Governo Monti, ha vissuto il suo incarico politico con senso del dovere e delle istituzioni, ma anche con una grande spinta ideale, interpretando la sua partecipazione al «Governo tecnico come un’occasione per re-indirizzare il Paese verso una crescita non soltanto economica, ma anche civile e morale» (Tintori 2018b, 136). Tratto comune delle nostre voci è la necessità di una relazione collaborativa con il proprio compagno di vita, fatta di comunicazione, condivisione e suddivisione del lavoro in casa. Oltre a individuare adeguati sostegni familiari e innovativi strumenti legislativi e politiche sociali che contribuiscano a una migliore armonizzazione della vita familiare con quella personale e lavorativa, la prospettiva più promettente è quella integrale, accennata da suor Smerilli, quando afferma che dovremmo «tutti comprendere che una persona è meno 284 Chiara Tintori dossier persona se non si occupa della cura della famiglia e delle relazioni» (Tintori 2018a, 26), e ben esplicitata da Alessandra Viscovi: «essere donne, uomini, figli, madri e padri e professionisti contemporaneamente non richiede uno sdoppiamento della personalità. Per me l’ecologia integrale significa questo, un’attenzione a ogni aspetto della vita e una coerenza di fondo che si manifestano, con lo stile di ciascuno, dalla gestione del personale, all’organizzazione familiare e aziendale, alle relazioni» (Tintori 2018a, 21). 3. Per un percorso integrale I Rapporti e le indagini ci hanno permesso di conoscere qualcosa di più sulla partecipazione della donna al mercato del lavoro, mentre grazie alle sei interviste abbiamo indagato se e in che modo è stato possibile esprimere la propria originalità femminile. Riflettere sull’empowerment femminile è un’occasione preziosa per interpretare il senso simbolico della diversità. A questo riguardo intravediamo tre spunti per imboccare il sentiero di una convivenza integrale, dove tutto è in relazione e l’attenzione ai legami sociali si sviluppa in modo sistemico e poliedrico. Il primo è di metodo: «se si vuole raggiungere dei cambiamenti profondi, bisogna tener presente che i modelli di pensiero influiscono realmente sui comportamenti» (papa Francesco 2015, n. 215). Ecco perché abbiamo bisogno prima di tutto di riorientare il nostro sguardo, assumendo una coscienza e una consapevolezza di noi stessi. Vedere come siamo, donne e uomini, non le nostre proiezioni e i nostri timori, gli stereotipi e i luoghi comuni di cui – è inutile negarlo – siamo talvolta impregnati fino al midollo. Prima di suggerire accorgimenti organizzativi e normativi che facilitino l’empowerment femminile, è importante assumere uno sguardo “altro”, che interpreti il mondo in modo nuovo, libero e autentico. Auspico che il tempo delle rivendicazioni e delle rivoluzioni possa lasciare il passo al tempo della metamorfosi e della conversione, prima di tutto dello sguardo di ciascuno di noi per un nuovo modello di pensare l’essere umano e il suo abitare, da donna e da uomo, il mondo del lavoro. Quale può essere questo sguardo? E qui veniamo al secondo spunto. Il pensiero sulla differenza sessuale (cfr Fanciullacci e Zanardo 2016) può venirci in aiuto, in quanto esplicita l’originalità del maschile e del femminile, che non sono un’emanazione banale del solo dato biologico, ma «l’esito della convergenza di una pluralità di fattori, che hanno a che fare simultaneamente con la costruzione corporea, con la percezione del sé, con le mediazioni individuali e con dinamiche socio-culturali in cui ciascuno si trova inserito» (Petagine 2016, 31). Empowerment femminile: affinare lo sguardo 285 Lo stile della leadership può essere l’occasione per affermare il valore della diversità. Eppure spesso non è stato così. Noi donne siamo entrate nei luoghi di responsabilità con una modalità che non è nostra, equiparando i nostri comportamenti a quelli maschili. Ci affanniamo a vivere nel mondo del lavoro con uno stile che non sempre è femminile, in parte perché ci è richiesto, ma in parte perché fatichiamo a riconoscere cosa vuol dire esprimere la nostra autentica e originale femminilità in luoghi dove il potere è stato esercitato dagli uomini con il loro stile. Secondo l’attuale AD di Allianz Worldwide Partners Italia, «la mia generazione è stata quasi costretta a scimmiottare il modello maschile: diversamente non si veniva ascoltate. Io stessa mi sono trovata a battere i pugni sul tavolo: un gesto che non mi appartiene! Oggi le cose stanno cambiando. Bisogna rimanere se stesse perché è proprio con la nostra diversità che possiamo creare valore per il business e le persone» (D’Angelo 2018, 27). Quanto è importante riconoscere e valorizzarci reciprocamente per quello che siamo, recuperando lo sguardo della differenza sessuale, senza assolutizzarla e assumerla come modello monolitico del femminile e del maschile, ben sapendo che di essa «non si può dire tutto, neppure della propria, come non si può dire tutto dell’essere umano, perché è sempre oltre e altro rispetto a ciò che riusciamo a formulare» (Zanardo 2015, 837). Il terzo e ultimo spunto riguarda la necessità di giungere a una nuova alleanza socio-culturale tra l’uomo e la donna, «chiamata a prendere nelle sue mani la regia dell’intera società. Questo è un invito alla responsabilità per il mondo, nella cultura e nella politica, nel lavoro e nell’economia; e anche nella Chiesa. Non si tratta semplicemente di pari opportunità o di riconoscimento reciproco. Si tratta soprattutto di intesa degli uomini e delle donne sul senso della vita e sul cammino dei popoli» (papa Francesco 2017). Abbandonare l’egolatria e l’antropocentrismo è una vera e propria rivoluzione culturale, tanto per le donne quanto per gli uomini; sviluppare una nuova capacità di uscire da se stessi verso l’altro e assumere la prospettiva relazionale e integrale può essere un nuovo inizio, visto che il maschile e il femminile avranno sempre un modo diverso di vivere il lavoro, di approcciarsi al potere e alle responsabilità. La sfida culturale ed educativa che ci sta innanzi è di portata storica e non abbiamo ricettari. Possiamo ipotizzare percorsi personali e relazionali, comunitari e organizzativi, in cui assumere lo sguardo “altro” della differenza sessuale? Quali passi intraprendere affinché l’alleanza uomo-donna si rinnovi in un clima coraggioso di dialogo onesto e libero? Come condividere quanto già oggi si sperimenta di positivo negli ambienti di lavoro, perché la prospettiva 286 Chiara Tintori dossier ANDREUCCIOLI C. – BORSI L. – FRATI M. 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Avrò la mia educazione – che sia a casa, a scuola, o altrove. Non possono fermarmi». Questa frase rappresenta la personalità di Malala Yousafzai, la giovanissima ragazza pakistana ferita quasi fatalmente dai talebani nell’ottobre del 2012. Malala era divenuta una persona “scomoda” per aver curato un blog-diario per la BBC – in cui denunciava il regime oppressivo dei talebani nella valle dello Swat – e aver rilasciato alcune interviste in cui discuteva la mancanza di diritti delle donne pakistane e ribadiva il suo sostegno nei confronti dell’istruzione femminile. Il titolo originale del documentario (che racconta la vita di Malala dai quindici ai diciassette anni) è, significativamente, He named me Malala, “Mi ha chiamata Malala”. Come spiegato all’inizio del film, suo padre Ziauddin Yousafzai, insegnante e diplomatico, ha scelto per lei questo nome in riferimento a una leggenda locale, la cui protagonista è una coraggiosa bambina di nome Malalai, che avrebbe ispirato i propri connazionali a mantenere la resistenza durante un conflitto con l’Inghilterra, morendo in battaglia. Il nome e la leggenda sono elementi ricorrenti nel corso del documentario, che segue la vita di Malala in Inghilterra, a Birmingham, dove ha dovuto rifugiarsi dopo l’intervento che le ha salvato la vita, poiché è impossibile, per lei e per la sua famiglia, tornare in Pakistan sotto il regime talebano, che continua a minacciare la sua incolumità. Del documentario colpiscono il coraggio con cui questa ragazza ha affrontato avvenimenti tanto terribili e la grazia con cui concilia la sua vita di studentessa e le sue responsabilità di attivista e “influencer” a livello internazionale. Ma si è anche colpiti dal fatto che non è stato l’attentato, che ha reso insensibile metà del suo viso e le è costato buona parte delle sue facoltà intellettive, a renderla la personalità straordinaria e influente che è adesso. Malala infatti era già “Malala”; nata in una famiglia “moderna” da un raro matrimonio d’amore, è sempre stata intelligente e matura, appassionata di cultura e educazione, devota alla difesa dei diritti, come il padre, anche lui attivista. E, a chi le chiede se suo padre le abbia imposto una vita “diversa” (e pericolosa) con la scelta del nome e con i propri insegnamenti, risponde orgogliosamente: «[Mio padre] Mi ha chiamata Malala, ma non mi ha resa Malala». Malala ha raccontato la sua storia nel libro Io sono Malala, nel 2013, anno in cui ha fondato il Malala Fund, un’organizzazione benefica che lavora per garantire il diritto all’istruzione femminile e che dal gennaio 2018 estenderà i programmi di finanziamento anche all’India e all’America latina. Nel 2014, Malala è stata insignita del premio Nobel per la pace, la più giovane vincitrice di sempre. Chiara D’Agostino