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Dall'identità all'armonia. Umanismo, progresso tecnico e idea di Europa

2016, Studium Philosophicum 7, Monography Supplement

Forse il percorso che porta dal pensiero dell’identità alla filosofia dell’armonia è l’ultimo ed anche il più difficile tratto di cammino che l’uomo delle società tecnologicamente avanzate, unificate nel pianeta dai mezzi di comunicazione istantanea, deve percorrere per uscire dalla disumanità del capitalismo indifferente e della dissacrazione della dimora naturale, e per entrare nella fraternità fra tutte le persone – gli individui geneticamente e naturalmente appartenenti alla specie umana – e nella cultura della cura e della custodia della Terra, per tutte le specie che la coabitano.

Gaetano Licata DALL’IDENTITA’ ALL’ARMONIA Umanismo, progresso tecnico e idea di Europa STUDIUM PHILOSOPHICUM Monografia di supplemento, Volume 7, anno XV INDICE Introduzione........................................................................................p. 5 1. L’identità storica dell’occidente nello sviluppo delle scienze e della tecnica fra alienazione ed umanismo…………………………….…p. 9 2. L’idea di Europa da Atene a Bruxelles attraverso Auschwitz…….p. 27 3. La scienza fra libertà di critica e responsabilità per la biosfera e per l’uomo…………………………………………………….…………….…………p. 83 Riferimenti bibliografici.....................................................................p. 99 3 Ringrazio sentitamente gli studenti del corso di laurea in Infermieristica dell’Università degli Studi di Palermo degli anni accademici fra il 2012 e il 2016: molte delle idee espresse in questa ricerca sono nate dalle lunghe e interessanti discussioni con loro. L’impostazione filosofica e morale di questo lavoro non sarebbe la stessa senza le appassionate conversazioni con Mario Gregorio, Francesco Antonio Tagliavia, lo storico Raimondo Lentini, il filosofo Tommaso Romano ed il professore Antonino Sala. Ringrazio di cuore Giuseppe Nicolaci e Marco Buzzoni per i loro preziosissimi consigli, non solo filosofici, e per la loro insostituibile guida nella mia ricerca. Sono profondamente grato ai miei familiari per il loro affetto e il loro sostegno. Un commosso ricordo va alla memoria del mio Maestro di Karate-do Toyozo Fujioka che con pratica assidua e affetto profondo mi ha comunicato, in tanti anni di amicizia, alcuni importanti aspetti della filosofia zen e della via del guerriero all’armonia. 4 Introduzione Forse il percorso che porta dal pensiero dell’identità alla filosofia dell’armonia è l’ultimo ed anche il più difficile tratto di cammino che l’uomo delle società tecnologicamente avanzate, unificate nel pianeta dai mezzi di comunicazione istantanea, deve percorrere per uscire dalla disumanità del capitalismo indifferente e della dissacrazione della dimora naturale, e per entrare nella fraternità fra tutte le persone – gli individui geneticamente e naturalmente appartenenti alla specie umana – e nella cultura della cura e della custodia della Terra, per tutte le specie che la coabitano. Un ultimo spazio da percorrere per ricoinvolgere i popoli extraeuropei in un nuovo cammino di rischiaramento umanistico, un nuovo illuminismo mondiale che, sotto la guida di una ragione illuminata dalla fede (qualsiasi fede socialmente costruttiva ed equa), non costruisca i discorsi di libertà ed eguaglianza al tepore di un ambiente arricchitosi grazie allo sfruttamento di territori lontani dai salotti, e non condanni pregiudizialmente la religione come atteggiamento irrazionale e oscurantista. Una ragione che non parli di libertà ed uguaglianza al riparo e lontano dalle sofferenze dei popoli che storicamente gli europei hanno soppiantato, ridotto in schiavitù e disperso insieme al loro inestimabile spirito di comunione con la dimora naturale. Quest’ultimo tratto di strada è ancora percorso dalla ragione, ma è il tratto in cui la ragione illuministica prende finalmente coscienza dei suoi limiti e si rassegna a sacrificare la (accumulazione di) conoscenza per attribuire valore a ciò che davvero importa dal punto di vista etico e politico. Il passare dall’identità all’armonia segna infatti il lasciarsi dietro quella che per la logica e per la scienza è la prima veritas, appunto l’identità – la più fondamentale e meno estesa fra le conoscenze, come sostiene Leibniz – per rientrare in un pensiero di unio mystica con la natura, col sé e cogli altri, e guadagnare finalmente il valore della convivenza pacifica con ciò che è altro da noi, con ciò che è estraneo, sconosciuto. La pesante accusa di violenza, rivolta al pensiero occidentale da Emanuelle Lévinas, è fra l’altro legata al carattere identitario della metafisica europea. Il muoversi dal pensiero dell’identità verso una filosofia dell’armonia è così un modo per tenere presente, in una certa 5 misura, il giudizio storico di Lévinas. Il richiamo che prospetteremo ad Eraclito e Leibniz, filosofi dell’armonia come Platone, sarà quindi funzionale ad una uscita dal pensiero dell’identità, inteso come pensiero unico e pratica dell’assimilazione monodimensionale, perpetrato dall’ideologia del progresso tecnico nei confronti di altri stili di pensiero e di esistenza (più imputabile in realtà alle scienze positiviste che alla filosofia). Questo richiamo ad Eraclito e Leibniz implicherà però anche una sostanziale assoluzione della filosofia occidentale dalla grave accusa di avere collaborato, nel corso della storia imperialista dell’Europa, alla cultura della guerra e del genocidio. Rispondere al giudizio di Lévinas e, se possibile, giustificare la filosofia europea di fronte ad esso è uno degli obiettivi della nostra analisi. Il rafforzamento della cultura del dialogo e la valorizzazione dello spirito di critica aperta, come esperienze proprie della filosofia, della cultura illuministica e della scienza, possono essere, a nostro modo di vedere, punti centrali della confutazione dell’accusa mossa da Lévinas contro la filosofia occidentale (e contro il pensiero di Heidegger) di essere un pensiero della sopraffazione e del dominio. Auschwitz pesa come una presenza terribile nella nostra memoria e nella nostra storia, pesa fino a toccare un ambito generico e astratto come il pensiero filosofico: non è possibile coltivare ancora questo pensiero, così fortemente legato alla storia europea, se non si è proceduto ad un’analisi razionale dei suoi fondamenti che ne appuri e ne discuta gli eventuali rapporti con una cultura del potere e della violenza, quale la cultura occidentale certamente è stata. Segnando un riambientamento delle scienze nella filosofia, il volgersi dall’identità all’armonia non indica però soltanto il consueto innalzamento (platonico e heideggeriano) del pensiero dianoetico ad uno stadio noetico nel rapporto fra uomo e natura: esso indica anche un approfondimento autocosciente (ed eventualmente autolimitante) delle conoscenze scientifiche, un ulteriore avanzamento tecnico finalmente prometeico, che dia realmente completezza a ciò che con espressione largamente criticabile, e a volte imbarazzante, viene chiamato oggi “progresso scientifico”. Infatti, l’indubitabile avanzamento delle conoscenze scientifiche e del potere tecnico, nella somma totale delle cause e degli effetti, ha finora portato al genere umano e alla vita sul pianeta più danni che vantaggi. La riumanizzazione della scienza non può non passare attraverso questa consapevolezza. Lo stadio di medioevo tecnologico in cui non riusciamo a liberarci dei devastanti effetti collaterali della tecnologia, badando soltanto a godere dei suoi vantaggi, può essere superato solo da un’ecologia profonda in cui le scienze, oltre a promuovere ricerche scientifiche finalizzate al benessere della biosfera, si impegnino a produrre previsioni di lunga e lunghissima durata riguardo a tutti gli interventi e agli impianti che la tecnica innesta negli eventi naturali. La green economy ed il potenziamento delle 6 energie rinnovabili sono solo un timido inizio di questo pensiero ecologico fondato sulla previsione e sul rispetto della compagine degli eventi naturali. Un’autocoscienza della tecnica, che finora è stata manchevole, è uno dei primi passi di questa considerazione filosoficoscientifica, più vasta e contestuale, dei rapporti fra uomo e natura che può essere la filosofia dell’armonia. Infine il pensiero dell’armonia, come passaggio dall’identità storica della cultura europea alla concordia geopolitica fra i popoli, che l’Europa potrebbe rappresentare per il futuro della civiltà globale, è il tentativo di sublimare lo spirito europeo di liberazione delle differenze e di sconfinamento, esplorazione e conquista (delle altre culture) in qualcosa di nuovo rispetto a ciò che è stato storicamente. E’ cioè il tentativo di trasformare l’impulso europeo di appropriazione territoriale e sottomissione delle altre culture nell’ideale dell’allargamento definitivo – all’intero globo – di spazi in cui possa vigere, in modo europeo per così dire, il rispetto del diverso e la difesa del più debole e in cui vengano cancellati scandali umanitari come la fame, la guerra e la mancanza di cure mediche. In modo che l’Unione europea, così come si propone nei trattati, si faccia davvero promotrice del rispetto dei diritti umani dentro e fuori dal suo territorio. Il passaggio dall’identità europea all’armonia globale può essere insomma il tentativo di estendere all’intero ecumene i privilegi un tempo riservati alla ricca Europa, come la convivenza civile e sicura fra gli uomini e strutture politiche adeguate (per ciascun popolo secondo la propria cultura) alle comunità che vogliano edificarle in pace, prosperità ed equità sociale, secondo i diritti di cui le persone e gli ecosistemi sono portatori. 7 1 L’identità storica dell’occidente nello sviluppo delle scienze e della tecnica fra alienazione ed umanismo L’abuso della tecnica contemporanea, ossia della scienza finalizzata all’impiego della natura nella produzione industriale sotto la gestione del capitalismo, pone oggi in una profonda disarmonia l’uomo e il proprio ambiente naturale e crea preoccupanti squilibri sociali ed economici. Di tali squilibri fra aree del pianeta – ed entro le stesse aree opulente – disastro ecologico, terrorismo globale, guerre per il petrolio, migrazioni di massa e nuove minacce atomiche sono effetti più o meno diretti. Questa idea della tecnica come impiego1 della natura è un’idea aristotelica che nella Grecia del quarto secolo a.C. non poneva, come oggi, la specie umana di fronte all’autodistruzione. Nello sviluppo estremo di questa idea, il capitalismo indifferente, connaturato alla governance politica delle potenze globali, istituisce una disarmonia insanabile nelle società umane e un andamento insostenibile dell’economia; l’ideologia del profitto, corresponsabile delle guerre nel terzo mondo, della povertà diffusa e, conseguentemente, della drammatica escalation del terrorismo, porta l’uomo di fronte alla propria rovina e alla distruzione della biosfera: è questo il risultato del trionfo dell’ideale dello sfruttamento della natura e dell’altro uomo che, nei secoli, si è silenziosamente saldato alla ricerca della verità scientifica e del successo tecnico, grazie al capitalismo e allo sviluppo industriale. Le pagine della Fisica di Aristotele in cui viene chiarito e teorizzato che la τέχνη è una φύσις plasmata e asservita a fini umani, però, sono le stesse in cui si prospetta un’alleanza e una stretta parentela fra φύσις e τέχνη, dove anzi si dice che la τέχνη può in alcuni casi rendere migliore la φύσις, dal punto di vista dei fini specifici della φύσις stessa. E’ allora importante cercare di capire se, e come, questo secondo aspetto pensato da Aristotele riguardo al rapporto fra φύσις e τέχνη possa ribaltare la Cfr. M. Heidegger, Die Frage nach der Technik, in M. Heidegger, Vorträge und Aufsätze, Pfullingen, Verlag Günther Neske, 1957; trad. it. di G. Vattimo, M. Heidegger, La questione della tecnica, in M. Heidegger, Saggi e discorsi, a cura di G.Vattimo, Milano, Mursia, 1976, pp. 5-27, d’ora in poi [FT]. 1 9 disastrosa situazione ecologica ed economica in cui versa oggi la biosfera. A questo tentativo di comprensione è dedicato questo studio. Per la complessità e la vastità delle questioni che affronteremo alcune direzioni di questa ricerca saranno solamente accennate e non percorse, ma, per la singolare semplicità delle possibili soluzioni ai problemi prospettati, nutriamo la speranza che questo lavoro presenti un quadro coerente ed unitario. Se l’ambito di soluzione ai disparati problemi economici, ecologici, sociali, geopolitici e di psicologia di massa che evidenzieremo sarà indicato grazie alla filosofia, riconducendo così ad unità il complesso, non c’è da stupirsi poiché la filosofia, a fronte della specializzazione dei settori di ricerca, rimane qualcosa di unitario. Pur cominciando e mantenendosi, per tradizione platonico-aristotelica, nella ricerca dell’uno, tale ricerca non era finalizzata all’eliminazione delle differenze o alla sopraffazione dell’altro, ma, fin da principio, alla comprensione delle differenze nell’accordo e nella pacificazione dei contrasti. Se pensiamo che la filosofia abbia la vitalità e la responsabilità di indicare l’ambito generale di soluzione dei più gravi problemi che si prospettano all’uomo del XXI secolo, è perché riteniamo conclusa l’epoca di una autocontraddittoria proclamazione della morte della filosofia e crediamo fortemente nell’atteggiamento e nella tradizione dialogica del pensiero occidentale, quale elemento vitale per superare i pericoli estremi generati dal sodalizio fra capitalismo indifferente e tecnica spersonalizzata nella πόλις globalizzata. La cultura occidentale2, nell’epoca della società “liquida” votata al consumo, ha una pesante responsabilità in queste disarmonie. La sua crisi, come caduta del modello di potere esportato dall’Europa nel globo, è la crisi dell’intera civiltà umana. L’Europa, terra di origine del capitalismo, dell’industrializzazione e della civiltà tecnico-scientifica, ha visto negli ultimi due secoli saldarsi l’ideologia del profitto e l’avanzamento tecnologico connesso alla ricerca scientifica: essa ha questa responsabilità storica nei confronti della specie umana, e prima ancora nei confronti degli ecosistemi3. Una delle tesi centrali della 2 Nelle espressioni più generiche utilizzerò la denominazione “occidente” come categoria geopolitica che include l’Europa e gli Stati Uniti d’America, per la genesi storica e la cultura politica di questa nazione, per il ruolo giocato nelle due guerre mondiali e per la funzione che essa assume nell’economia e nella geopolitica globale insieme all’Europa. Per la loro genesi e la loro cultura politica anche il Canada e l’Australia, come gli Stati Uniti, possono essere considerati occidente, territori europei d’oltreoceano. 3 Qualche decennio prima della globalizzazione del capitalismo, il pensiero filosofico aveva già preso coscienza di questi pericoli in relazione alle responsabilità della tecnica; come confermano le analisi di Husserl e Heidegger, è impossibile condurre un’analisi della tecnica senza riportarla alla storia europea. Scrive Jonas: “Il Prometeo irresistibilmente scatenato, al quale la scienza conferisce forze senza precedenti e l’economia imprime un impulso incessante, esige un’etica che mediante auto-restrizioni impedisca alla sua potenza di diventare una sventura per l’uomo. La consapevolezza che 10 riflessione heideggeriana sulla storia è che la civiltà tecnico-scientifica si sia sviluppata in occidente proprio a partire dalla φιλοσοφία dei greci. Com’è noto, uno dei testi in cui Heidegger ha elaborato più approfonditamente questa tesi è il Brief über den »Humanismus«4: la sua analisi storica di ciò che è stato l’umanismo fin dall’antichità e la proposta di un rinnovamento dell’umanismo europeo sono momenti decisivi della filosofia del ventesimo secolo e costituiranno uno dei motivi portanti di questo lavoro. La ricerca di una filosofia umanistica può essere un modo per indicare una risposta a questa crisi del capitalismo globale? In che modo? Un umanismo inteso come salvaguardia dal dominio e dallo sfruttamento nei confronti del più debole viene teorizzato da Marx già all’inizio dell’epoca industriale. Tale ricerca del pensiero marxiano darà un grande impulso all’impiego della categoria di “alienazione” per l’uomo della società tecnologicamente avanzata, da parte di filosofi, sociologi ed economisti. Se Marx, in stile positivista, ripone ancora piena fiducia nel progresso tecnico, inteso come via per la liberazione del lavoratore dall’oppressione, il nuovo umanismo indicato da Heidegger, invece, non può più essere un’esaltazione dell’uomo e del trionfo dell’agire tecnico dovuto alla scienza: esso deve restare un’ideale di salvaguardia e di responsabilità per gli ecosistemi e per l’uomo, praticate nell’umiltà del servizio e nell’apertura alla dimensione del “sacro” e del trascendente. E’ anzi in questa umiltà del servizio rispetto all’essere che l’uomo può ritrovare quella dignità storica che permette alla filosofia, malgrado le stragi delle guerre mondiali, di parlare ancora di “umanismo”. La dimensione del “sacro” e del trascendente, ci suggerisce Heidegger, sollecita il rispetto e la custodia per quell’ambito di valori che l’uomo sente connaturati alla propria vita e per il quale non sono da ricercare spiegazioni scientifiche o utilità economiche. L’apertura al sacro e al trascendente è un aspetto naturale della persona, non un aspetto le promesse della tecnica moderna si sono trasformate in minaccia, o che questa si è indissolubilmente congiunta a quelle, costituisce la tesi da cui prende le mosse questo volume. Essa va al di là della costatazione della minaccia fisica. La sottomissione della natura finalizzata alla felicità umana ha lanciato con il suo smisurato successo, che coinvolge ora anche la natura stessa dell’uomo, la più grande sfida che sia mai venuta all’essere umano dal suo stesso agire. Tutto qui è nuovo, dissimile dal passato sia nel genere che nelle dimensioni: ciò che l’uomo è oggi in grado di fare e, nell’irresistibile esercizio di tale facoltà, è costretto a continuare a fare, non ha eguali nell’esperienza passata, alla quale tutta la saggezza tradizionale sul comportamento giusto era improntata.” H. Jonas, Das Prinzip Verantwortung, Frankfurt am Main, Insel, 1979; trad. it. di P. Rinaudo, H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Torino, Einaudi, 1990, p. XXVII, d’ora in poi [PV]. 4 M. Heidegger, Brief über den »Humanismus«, in M. Heidegger, Wegmarken 19191958, Gesamtausgabe Bd. 9, Frankfurt am Main, Vittorio Klostermann, 1959; trad. it. di F. Volpi, M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», in M. Heidegger, Segnavia, a cura di F. Volpi, Milano, Adelphi, 1987, pp. 193-255, d’ora in poi [BH]. 11 retrogrado della cultura che l’avvento della scienza sperimentale debba o possa sopprimere. Il sacro è una dimensione che tocchiamo quando sperimentiamo la nostra debolezza rispetto alla natura o alla storia, quando l’incapacità di controllare la nostra vita, nell’alea degli eventi, ci raggiunge. Sebbene oggi vengano scritti libri contro il sacro a salvaguardia del libero pensiero scientifico, la dimensione del sacro non può essere sradicata o negata: essa ci mette di fronte alla nostra finitezza e costituisce un elemento caratterizzante dell’esistenza, ci fa avvertiti e ci mette in guardia, senza parole, su verità non dimostrabili della nostra natura. Non si trascuri inoltre il fatto che, nel momento in cui nel Brief über den »Humanismus« Heidegger analizza la nascita e lo sviluppo storico del concetto di umanismo, in effetti viene fuori da tale analisi anche la storia di come si è costituita ed imposta nel mondo la cultura europea, nell’auto-percezione della propria civiltà. Anzi il Brief, all’indomani della fine della seconda guerra euro-mondiale, è probabilmente il primo atto di pensiero in cui si comprende chiaramente che il tramonto dell’ideale umanistico nella condizione dell’alienazione umana è un fenomeno strettamente europeo e strettamente legato al modo in cui la scienza e la tecnica hanno finito per imporsi nelle società tecnologicamente avanzate, a partire dalla nascita in occidente dell’ideale scientifico rinascimentale e moderno, ma in continuità profonda con l’elaborazione dei concetti di τέχνη e di ἐπιστήμη della filosofia di Platone ed Aristotele. E’ questa condizione di alienazione e questo senso profondo di fallimento storico che portano Heidegger a ripensare il concetto di “umanismo” (ossia di cultura europea) talmente a fondo da rifiutarne quasi persino il nome5. Consideriamo dunque, in queste riflessioni, la Lettera sull’«umanismo» come un punto di partenza e un’ispirazione per il nostro tema: chiarire quali relazioni possono intercorrere fra l’idea di razionalità che è invalsa nella storia occidentale – sostanzialmente la razionalità tecnico-scientifica – e gli esiti sociologici, economici ed antropologici che oggi caratterizzano il villaggio globale. Riteniamo “L’«humanum» richiama la parola humanitas, l’essenza dell’uomo. L’«ismo» allude al fatto che l’essenza dell’uomo dovrebbe essere presa come essenziale. Questo è il senso che la parola «umanismo» ha in quanto parola. Restituirle un senso può significare solo rideterminare il senso della parola. Ma per questo è necessario che l’essenza dell’uomo sia esperita in modo più iniziale, e poi che si mostri in che misura questa essenza, a suo modo, divenga destino. L’essenza dell’uomo riposa nella sua e-sistenza. E’ questa ciò che importa in un senso essenziale, cioè a partire dall’essere stesso, in quanto è l’essere che fa avvenire (ereignet) l’uomo come e-sistente nella verità dell’essere, a guardia di tale verità. Allora, nel caso decidessimo di mantenere la parola, «umanismo» significa che l’essenza dell’uomo è essenziale per la verità dell’essere, così che, di conseguenza, ciò che importa non è più appunto l’uomo, preso semplicemente come tale. Noi pensiamo così un umanismo di una specie strana. La parola finisce per dare una denominazione che è un «lucus a non lucendo».” [BH: 297-298]. 5 12 infatti corretto pensare, con Heidegger, che la pre-condizione di tali esiti, in larga parte nefasti per le popolazioni umane e per gli ecosistemi, sia da cercare nel modo in cui si è costituita e si è sviluppata la cultura antropologica europea, proprio in concomitanza con lo sviluppo della φιλοσοφία e delle “scienze europee”6. Tenteremo in tal modo di delineare un’interpretazione storica e di esporre alcune idee che possano risultare utili a fermare o ad invertire la pericolosa spirale culturale (cioè economica e tecnologica) di cui la storia europea, con la mentalità che essa ha generato, è largamente responsabile. Lo sviluppo di queste idee mostrerà che l’umanismo cui facciamo riferimento è legato alla ricerca filosofica dell’armonia, ricerca che ha caratterizzato il pensiero della filosofia occidentale fin dai suoi albori e che dovrebbe oggi essere intesa come ideale etico e politico di integrazione dialogante delle differenze sottoposta allo scopo del buon governo. La parola “armonia”, spesso pronunciata in modo sbrigativo e così abusata, è divenuta una parola vuota, una parola della quale si ignora l’importanza per la politica, per l’economia ed il peso concettuale nel corso della storia della filosofia. Tentiamo dunque di dare contenuti concreti a questo ideale. Cominciamo col dire che uno dei sensi di armonia cui faremo riferimento è quello che nell’Etica nicomachea Aristotele intende come equilibrio, misura, causa ed effetto dell’ὀρθὸς λόγος in forza del quale l’uomo riesce a scegliere il bene: Poiché abbiamo detto in precedenza che è il giusto mezzo (μέσον) che bisogna segliere, e non l’eccesso né il difetto, e poiché il giusto mezzo è come la retta ragione (ὀρθὸς λόγος) dice, è di questo che dobbiamo trattare. Infatti, in tutte le disposizioni di carattere di cui abbiamo parlato, come pure negli altri casi, c’è una specie di bersaglio (σκοπὸς), mirando (ἀποβλέπων) al quale chi possiede la ragione tende e rilascia (ἐπιτείνει καὶ ἀνίησιν) la corda del suo arco, e c’è una determinata misura che definisce le medietà, che noi diciamo intermedie tra l’eccesso e il difetto, perché sono conformi alla retta ragione (ὀρθὸν λόγον). [Etica nicomachea, Z 1, 1138b 18-25] 6 Citando Heidegger, Derrida scrive: “Resta il fatto che per tutti e due [Husserl e Heidegger], «l’irruzione della filosofia» […] è il «fenomeno originario» che caratterizza l’Europa come «figura spirituale». Per ambedue, «l’espressione φιλοσοφία ci indica che la filosofia è qualche cosa che, in primo luogo e prima di tutto, determina l’esistenza del mondo greco. Meglio ancora – la φιλοσοφία determina anche nel suo fondamento il corso più intimo della nostra storia occidentale-europea.[…]». (M. Heidegger, Was ist das-die Philosophie, Günther Neske Pfullingen, 1956; […]).” J. Derrida, Violence et métaphysique, essai sur la pensée d’Emmanuel Levinas, in «Revue de Métaphysique et de Morale», 3-4, 1964, in J. Derrida, L’écriture et la différence, Paris, Editions du Seuil, 1967; trad. it. di G. Pozzi, J. Derrida, Violenza e metafisica. Saggio sul pensiero di Emmanuel Levinas, in J. Derrida, La scrittura e la differenza, a cura di G. Vattimo, Torino, Einaudi, 1990, p. 102, N. 2; d’ora in poi [VM]. 13 L’immagine dell’arco, τόξον, e della misura, μέσον, ci pare memore dell’arco e della lira di Eraclito, così legati metaforicamente all’armonia del cosmo, la potente e antica metafora che vede la meravigliosa varietà degli eventi naturali come sorretta da un principio manifesto e profondissimo che conferisce loro ordine, distinzione e bellezza: (Gli uomini) non comprendono in che modo ciò che diverge (διαφερόμενον) non di meno converge (συμφέρεται) con se stesso; c’è un rapporto di tensione (ἁρμονίη) retrograda, come quello dell’arco (τόξου) e della lira. [Eraclito DK 51]7 L’opposto (ἀντίξουν) concorde (συμφέρον) e dai discordi (διαφερόντων) bellissima armonia (ἁρμονίη). [Eraclito DK 8] Fin da queste citazioni e nel contesto in cui sono colte, l’umile parola “armonia” ci parla del movimento di soluzione dei contrasti (dell’anima) e di una qualche forma di gerarchia. La gerarchia cui vogliamo alludere qui, e a cui fa riferimento Aristotele lungo la complessa discussione dei libri Z ed H dell’Etica nicomachea, è quella del λόγος che, col fine della felicità, si pone (e deve porsi) a guida della parte irrazionale dell’anima, delle passioni, delle sensazioni e dei desideri (che costituiscono la sostanza stessa dell’esistenza) e conseguire in tal modo la saggia deliberazione, facendo convergere il desiderio sull’azione che il pensiero sa essere corretta. Tale schema, sostanzialmente analogo a quello delineato nella Repubblica di Platone – e “armonia” è motivo platonico per eccellenza –, è valido sia a livello dell’individuo che a livello della comunità8. Nello stato il λόγος, inteso come attitudine alla guida nelle Per l’edizione ciritca dei frammenti di Eraclito abbiamo utilizzato Die Fragmente der Vorsokratiker, griechisch und deutsch von H. Diels, 6. verbesserte Auflage herausgegeben von W. Kranz, Weidmann, Berlin 1951-2 (3 voll.) [DK], e Eraclito. Frammenti, introduzione, traduzione e commento di M. Marcovich, Firenze, La Nuova Italia, 1978. 8 Decisamente feconde le conseguenze che tale idea di armonia può avere sul piano politologico, piano che, notoriamente, Aristotele lega all’etica individuale. Il concetto di armonia, con le sue inevitabili conseguenze gerarchiche può essere visto (ma non necessariamente) in opposizione alla cultura democratica contemporanea. L’ideale democratico, dalle sue origini antiche fino alle più grandi teorizzazioni e realizzazioni storiche, ispira in profondità la cultura occidentale degli ultimi due secoli. L’avvento e il trionfo delle idee illuministiche e dei movimenti borghesi e popolari del diaciannovesimo e del ventesimo secolo – non ultimo per importanza il ’68 – segnano a fondo la nostra storia e la nostra esistenza; ha senso distaccarsene o sollevare discussioni sui suoi fondamenti? Scrive Nicolaci da una prospettiva fortemente antigerarchica: “E’ davvero possibile fondare la nozione di comunità su un tratto costitutivamente paritario, che escluda ogni rapporto di subordinazione e di dominio, come sembra esigersi nel progetto moderno di democrazia, dove la comunità politca è concepita dal principio come comunità di liberi ed eguali? Comunità e pluralismo possono coniugarsi insieme a tutto campo o esiste un larvato antagonismo fra i due concetti?[…] Il sospetto è che un tratto dispotico, un tratto di esclusione e di violenza, attraversi dall’origine l’idea di comunità, per quel che essa ha di peculiare e di decisivo nella tradizione di pensiero da cui 7 14 scelte che riguardano la società, è (dovrebbe essere, o ci si aspetta che sia) esercitato da coloro che, occupandosi della politica, si pongono a guida della πόλις, per ottenere la felicità dei cittadini. Uno dei temi principali della Lettera sull’«umanismo» è, notoriamente, la critica alla metafisica, nel senso di pensiero che è decaduto in “tecnica del pensiero”, e alla filiazione diretta della metafisica ossia al pensiero scientifico e tecnologico, in cui Heidegger vede lo strumento che ha permesso all’uomo di ergersi a “padrone dell’essente”. E’ questa la realizzazione di un dominio sulla natura che avrebbe totalmente travisato la particolare dignità dell’uomo nel contesto dell’essente.E’ questo umanismo della scienza e della tecnica, ammirato illuministicamente nella sua capacità di liberarsi dalle credenze religiose imposte dalla chiesa e di emancipare l’uomo e la sua ragione dalla centralità dell’idea di dio, l’umanismo nato e cresciuto in Europa di cui il filosofo di Messkirch – all’indomani delle immani stragi della guerra – enumera le responsabilità storiche e considera sostanzialmente deteriore. Le scienze, come aveva sottolineato Husserl ne La crisi delle scienze europee, sono un fenomeno sostanzialmente occidentale, nella loro genesi e nella loro struttura; è sulla base della proveniamo. Se così fosse, una ragione che non cedesse alla pigrizia, risoluta a ribellarsi alla fatalità o, se vogliamo, all’irreparabile delle tradizioni, avrebbe da scavare parecchio attorno a questa idea, tanto da metterne allo scoperto il punto di radicazione più tenace nel terreno della filosofia. E questo punto è certamente da cercare là dove si stabilisce il discrimine fra comunità statiche, costituite solo in forza di legami esterni, impersonali, costrittivi e comunità dinamiche, costituite in funzione di legami vitali, consapevolmente accolti e riconosciuti, dove l’avere in comune si fa esso stesso principio di libera associazione fra gli uomini. E’ in ragione di questa opposizione che l’idea di comunità entra non occasionalmente nella sfera d’interesse della filosofia. Ottimo esempio di un modo assai efficace di metterla a frutto potrebbe essere la politèia aristotelica, regola di governo di una comunità di liberi e uguali e insieme regola di vita all’interno di una tale comunità. Parliamo volentieri di “comunità”, là dove il principio di unificazione, il criterio che raccoglie i molti in un intero, è fatto risiedere nell’adesione all’accordo istitutivo non già immediatamente, quale che sia la materia, ma in riferimento a un insieme di valori che, pensato come vigente incondizionatamente, a monte e, per così dire al riparo da ogni accordo e da ogni dissenso, è in pari tempo, in forza dell’accordo, assegnato alla libera iniziativa di ciscun contraente come un bene da custodire, da proteggere o da promuovere, da realizzare nella prassi, nella vita, nella storia. E’ nota la tesi, da cui Aristotele fa discendere la propria idea della comunità politica, secondo la quale il possesso della parola consentirebbe agli uomini di distinguere e di comunicarsi a vicenda i valori del buono e del cattivo, del giusto e dell’ingiusto, e altri ancora. Precisamente «la koinonìa di queste cose», dice Aristotele, «costituisce l’oikìa e la polis», a quel modo, però, per cui a precedere è per natura la polis [Nota di Nicolaci: Pol. I, 2, 1253a 17]. Si delinea già nel suo modello qualcosa come una causa comune, un fine avvertito come compito imprescindibile, tale che nel suo adempimento non ne vada dell’occasionale benessere di qualcuno ma della tenuta stessa e dell’accordo fondativo, dunque della sussistenza stessa della comunità in quanto collettività, gruppo.” G. Nicolaci, Ritrattazione dell’illuminismo? Riflessioni introduttive su Comunità e pluralità, in “Giornale di Metafisica”, 1/2014, pp. 5-7, d’ora in poi [RI]. 15 storia europea, insomma, che l’uomo diviene animal scientificum: il possesso delle scienze è il tratto teoretico che distingue oggi l’uomo dalle altre specie animali9. La scienza non è un tratto fra gli altri della cultura e dello spirito umano, essa è l’evento decisivo del costituirsi del mondo in cui l’uomo moderno conduce la propria esistenza. La scienza ha oggi un’autorità pervasiva ed indiscussa sulla vita del singolo e sulla vita associata; nell’esistenza dell’uomo essa ha largamente preso quel posto di guida culturale che fino al XVI secolo apparteneva, in Europa, alla religione. Ecco come Heidegger tratta tale questione, alcuni anni dopo la Lettera, in Scienza e meditazione: La scienza è un modo, e un modo decisivo, in cui si presenta a noi tutto ciò che è. Per questo dobbiamo dire che la realtà, entro la quale l’uomo odierno si muove e si sforza di mantenersi, è codeterminata in misura crescente nei suoi tratti fondamentali da ciò che si usa chiamare la scienza occidentale o la scienza europea. Se riflettiamo su questo processo, vediamo che la scienza, nel mondo occidentale e nelle varie epoche della storia di questo, ha sviluppato una potenza mai prima conosciuta sulla terra ed è sul punto di estendere conclusivamente questa potenza su tutto il globo terrestre. Si può dire che la scienza sia solo un prodotto dell’uomo sviluppatosi fino a questo livello di dominio, così che ci si potrebbe aspettare che un giorno, con un atto di volontà dell’uomo, mediante decisioni di apposite commissioni, sia anche possibile rovesciare questo dominio? Oppure qui domina un destino di più ampia portata? Forse nella scienza c’è qualcos’altro che domina, oltre al puro voler-sapere dell’uomo? In effetti è proprio così. C’è qualcos’altro che qui domina. Ma questo altro ci si nasconde, fino a che rimaniamo attaccati alle rappresentazioni correnti della scienza. Questo altro è uno stato di cose che penetra e governa tutte le scienze, e che tuttavia resta loro nascosto.[…] Una tale rappresentazione potrebbe mostrare come le scienze, già da un pezzo, si sono incorporate, in modo sempre più decisivo e insieme meno appariscente, in tutte le forme di organizzazione della vita moderna: industria, economia, insegnamento, politica, tecniche belliche, pubblicistica di ogni genere. Riconoscere questa incorporazione è importante. Ma per potercela rappresentare, dobbiamo aver prima capito in che cosa consiste l’essenza della scienza. Questa si può esprimere in una frase concisa, e cioè: la scienza è la teoria del reale.[…] In via preliminare occorre rilevare che il termine «scienza», nella frase «la scienza è la teoria del reale», indica sempre e soltanto la scienza dell’epoca moderna. La frase «la scienza è la teoria del reale» non vale né per la scienza del Medio Evo, né per quella dell’antichità. La dottrina dei medievali resta essenzialmente distinta da una teoria del reale, e altrettanto nettamente si distingue, a sua volta, dall’antica ἐπιστήμη. E tuttavia, l’essenza della scienza moderna – che, in quanto europea, è intanto diventata un fenomeno planetario – resta fondata sul pensiero dei greci, che a partire da Platone si chiama filosofia. Questo riferimento non intende affatto disconoscere il carattere profondamente rivoluzionario del tipo Naturalmente, contemporaneamente l’uomo è anche animal technologicum, nel senso che il possesso della tecnologia è il tratto poietico che distingue il mondo umano da quello animale, ma anche animal ethicum, perché il possesso della morale (della libertà e della responsabilità) è il tratto pratico che distingue l’uomo dagli altri viventi, ed anche animal theologicum, perché l’apertura alla trascendenza è il tratto spirituale che rende unica la specie umana fra le altre. E’ chiaro che questi tratti rimandano ad una comune radice. 9 16 moderno di sapere; proprio all’opposto, la caratteristica del sapere moderno consiste nella decisiva messa in luce di un tratto che resta ancora nascosto nel modo greco di esperire il sapere, messa in luce della quale questo ha bisogno appunto per divenire un sapere diverso. Chi oggi si assume – con il domandare, il riflettere, e in tal modo già recando un contributo attivo – il rischio di seguire il movimento profondo dello sconvolgimento del mondo che viviamo di ora in ora, non deve solo tener conto del fatto che il nostro mondo odierno è completamente dominato dalla volontà di sapere della scienza moderna, ma deve anche e prima di ogni altra cosa considerare che ogni meditazione su ciò che è oggi può sorgere e svilupparsi solo se, mediante un dialogo con i pensatori greci e il loro linguaggio, affonda le radici nel fondamento della nostra esistenza storica. Questo dialogo aspetta ancora di essere iniziato. Esso è a malapena in via di preparazione, e rimane a sua volta la condizione per l’indispensabile dialogo con il mondo dell’oriente asiatico. [M. Heidegger, Wissenschaft und Besinnung, in M. Heidegger, Vorträge und Aufsätze, Pfullingen, Verlag Günther Neske, 1957; trad. it. di G. Vattimo, M. Heidegger, Scienza e meditazione, in M. Heidegger, Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Milano, Mursia, 1976, pp. 28-29, d’ora in poi WB] Heidegger dunque apre la via ad un possibile avvicinamento fra il pensiero orientale e il pensiero degli antichi greci10. Il fatto che ciò venga proposto in un saggio nel quale la scienza viene contrapposta alla Besinnung, alla meditazione, è decisamente illuminante. Il pensiero dell’essere della Lettera sull’«umanismo» si identifica con il Fragen de La questione della tecnica e con la Besinnung di Scienza e meditazione. Denken, Fragen e Besinnung sono in un certo modo sinonimi che indicano il contatto intuitivo con l’ordine nascosto, con l’armonia segreta dell’essere. Heidegger, sebbene i suoi riferimenti al pensiero orientale siano fugaci e rari, sa bene che taoismo e buddismo zen sono discipline mentali molto vicine alla sua idea di “pensiero”, e forse sono anche dei modelli per il suo pensiero; di certo sono tradizioni che intendono l’armonia come scopo del rapporto fra uomo e natura e come superamento di un’analisi esclusivamente razionale e dianoetica della realtà11. Non è questa la sede per analizzare i rapporti fra la filosofia occidentale ed il pensiero orientale, di fatto l’esercizio privilegiato (se non esclusivo) della ragione teoretica in Europa, dovuto anche ad una cultura della separazione fra conoscenza ed etica, e l’esercizio di una scienza senza finalità olisticamente e filosoficamente orientate ci ha condotti al possesso di un grande insieme di conoscenze e di un grande potere tecnico che, oltre a mettere in grave pericolo l’uomo e la biosfera, non risolvono, come sostiene Husserl dal 1937, i veri problemi Questo rivelativo avvicinamento lo individuammo a partire dal 2007 nel pensiero di Eraclito, proprio riguardo al pensiero dell’armonia; cfr. G. Licata, L’ordine nascosto. Natura e armonia all’origine del pensiero filosofico e scientifico, Milano, Franco Angeli, 2007, pp. 9-26. 11 Il che naturalmente non significa affatto che l’analisi razionale e scientifica della realtà, così superata, debba essere destituita del valore che gli è proprio. 10 17 dell’uomo12. Una crisi di responsabilità è anche una crisi di corrispondenza: di fatto abbiamo fallito nel corrispondere e nel rispondere, come Heidegger auspica nella Lettera [BH: 304-305], all’epoca della tecnica13. Responsabilità significa “dovere rispondere”, così come corrispondere significa “mettere in pari”, “mettere in simmetria”. Ciò che ci separa da un’etica tecnologica responsabile è ancora oggi ciò che marcava la differenza fra la scientificità utilitarista e temeraria di Icaro e la saggia scienza del padre Dedalo. La cultura occidentale ha oggi il dovere di mettersi in pari, di rispondere tanto al disastro ecologico quanto a quello economico. Questo dovere – mi sembra – non deve provenire, come vuole Jonas, dalla paura della fine della specie umana14, ma, come pensa Heidegger, dalla dignità (Wurd) che all’uomo appartiene in quanto unico ente “chiamato dall’essere stesso a custodia della sua verità” [BH: 295]. E’ qualcosa che ha più a che fare con l’onore e il rispetto di sé che con la paura, ha a che fare con una nobiltà morale che dobbiamo sentire in noi e senza la quale non ci può essere futuro per l’uomo. Noi agiamo in base a come siamo, e se abbiamo un’idea alta dell’uomo e del suo compito non possiamo che agire in conseguenza di questa idea. La nobiltà può essere solo effetto della virtù, e di nient’altro. In generale, la necessità di un inquadramento etico dell’agire tecnico, dell’indicazione di direzioni da seguire e di argini entro cui deve mantenersi la ricerca scientifica, rispetto ad alcuni valori morali connaturati all’esistenza umana e al valore della persona, non pare più negabile. La filosofia ha oggi il compito di trovare nel suo sviluppo storico il punto, o i momenti di snodo, a partire dai quali si è prodotto il distacco fra ricerca della verità e ricerca del bene comune, ossia della felicità della società. Tornare indietro rispetto a questi punti, riavvolgere il nastro per così dire, e riedificare un cammino per la scienza, per la tecnologia e per l’economia che si prefigga come fine prioritario la felicità dell’uomo, nel contesto dell’armonia dei viventi, è oggi un compito arduo e indifferibile. Anche in questo senso può essere inteso “il passo indietro” che Heidegger consiglia di fronte al progresso tecnico. Il punto focale in discussione, in cui la ricerca della verità scientifica si è distaccata dalle sue implicazioni morali è il momento in cui le scienze, Cfr. E. Husserl, Krisis der Europäischen Wissenschaften, 1937; trad it. La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 1961, d’ora in poi [KEW]. 13 Il motivo del corrispondere, come risposta dell’uomo, ai problemi posti dalla tecnica torna ne La questione della tecnica: “Noi poniamo il problema della tecnica per portare in luce il nostro rapporto alla sua essenza. L’essenza della tecnica moderna si mostra in ciò che chiamiamo im-posizione. Questa indicazione, però, non è ancora affatto la risposta alla domanda circa la tecnica, se rispondere significa «corrispondere», corrispondere cioè all’essenza di ciò su cui si pone la domanda.” [FT: 17]. 14 Cfr. [PV]. 12 18 distaccandosi dalla filosofia tramite la rivoluzione galileiana e newtoniana, hanno dimenticato l’originaria vocazione al bene e alla felicità che le contraddistingueva quando facevano ancora parte del grande progetto rinascimentale di ripresa della visione omnicomprensiva della filosofia greca. Questo distacco, prima di Heidegger e insieme ad Heidegger, come si sa, viene notato e tematizzato da Husserl nella Krisis der Europäischen Wissenschaften. Husserl ci ricorda che la ricerca della conoscenza ricade nell’ambito dell’agire, in tal senso essa è coinvolta profondamente nella sfera pratica. E’ nel mondo di oggi quantomai opportuno, seguendo Husserl [KE: 289290], vedere nella distinzione fra scienze teoretiche e scienze pratiche nulla più che un’espediente didattico e tassonomico, una separazione di ambiti utile alla scansione e alla sistemazione degli studi più che una ripartizione reale fra la sfera conoscitiva e la sfera pratica del nostro essere. La scienza, che è solo una forma di filosofia che si è data certi requisiti (logici ed empirici), in quanto filosofia, fin dai suoi primi passi con Platone e Aristotele, è stata pensata e si è sviluppata per lo più in concomitanza e senza separazione rispetto allo studio delle virtù etiche; la conoscenza della natura, entro cui era condotto lo studio dell’anima, era finalizzata alla felicità. Da questo punto di vista la tesi di Pierre Hadot, secondo cui le teorie filosofiche nell’antichità, anche quelle riguardanti la conoscenza, erano finalizzate alla vita filosofica, cioè alla conduzione di una vita saggia e virtuosa, è pienamente condivisibile15. Ma oggi, nell’epoca del disastro ecologico che la scienza, tramite la tecnica, ha contribuito grandemente a determinare, ebbene ancora oggi la scienza tende a muoversi a prescindere, e in modo neutrale, rispetto alle proprie responsabilità. Una delle ragioni chiave di questa neutralità della scienza rispetto alla vita dell’uomo, è il senso inconscio di separazione fra soggetto e oggetto determinato dal potenziamento del valore dell’oggettività prodottosi in epoca moderna e che ha coinciso con la nascita delle scienze naturali. La storia di questa vicenda è delineata da Husserl nella Crisi delle scienze europee, opera che vede nella filosofia di Cartesio l’origine della frattura fra obiettivismo fisicalista e soggettivismo trascendentale, e che imputa alle conseguenze di tale frattura la crisi in cui vengono travolte le scienze europee, e quindi l’umanità europea, alla vigilia del secondo conflitto mondiale. La frattura fra obiettivismo fisicalista e soggettivismo trascendentale causa infatti il distacco dell’agire delle scienze oggettive dal “mondo della vita” quotidiano in cui il soggetto è originariamente coinvolto. Eppure era proprio la felicità nell’esistenza quotidiana del soggetto umano il fine autentico per cui Cfr. P. Hadot, Qu’est-ce que la philosophie antique?, Paris, Éditions Gallimard, 1995; trad. it. di E. Giovanelli, P. Hadot, Che cos’è la filosofia antica?, Torino, Einaudi, 2010. 15 19 erano nate le scienze. Il problema della traumatica separazione fra soggetto e oggetto e del senso della conoscenza teoretica per l’esistenza umana, proprio nella filiazione dal pensiero di Husserl, preoccupò fortemente Martin Heidegger: in Sein und Zeit16 il filosofo di Messkirch lavorò con dedizione ad una filosofia che fosse esente da questa cesura. Tale filosofia, a nostro modo di vedere, costituisce un buon avvio per il superamento delle implicazioni culturali deleterie, prodotte dalla separazione fra soggetto e oggetto che è implicita nell’ideale del raggiungimento di conoscenze oggettive. Prima fra tutte è il disinteresse per l’integrità della biosfera che l’idea stessa di oggettività trascina inconsciamente con sè: se i fenomeni naturali, in quanto oggetto della scienza, sono per sé, validi per tutti ed osservabili dal di fuori da parte del soggetto conoscente essi, in un certo qual modo, rimangono esterni e separati dall’uomo, che è il soggetto che produce la scienza, e il loro andamento non ha conseguenze sulla vita umana. Un’implicazione del genere non cosituisce certamente un principio esplicito dei programmi di ricerca scientifica, esso è un implicito culturale dell’inconscio di massa che finisce per influenzare gli stessi scienziati e che ha ritardato di molto la nascita di una coscienza ecologica e la comprensione dell’importanza del ruolo del soggetto nelle conoscenze scientifiche – oggi riconosciuta, ma inserita nel metodo di ricerca con difficoltà. Ciò naturalmente non significherà rigettare la distinzione soggetto/oggetto, così feconda in campo scientifico, ma riprenderla neutralizzando gli effetti nocivi che tale distinzione ha causato alla nostra percezione del ruolo che l’uomo ha nel mondo naturale. E’ opportuno ricordare a questo punto che la teoria della complessità, nella stessa direzione in cui noi articoliamo la nostra proposta, ha fatto della considerazione del ruolo del soggetto, nel campo epistemico, uno dei punti salienti del proprio paradigma epistemologico. Questa considerazione si può riassumere nella tesi secondo cui qualsiasi verità, la più oggettiva possibile, è sempre un punto di vista parziale. Questa tesi, per quanto ovvia, è necessaria al relativismo che permette tanto il dialogo fra paradigmi scientifici quanto il dialogo interculturale, e rimane pursempre limitata, in modo non ovvio, dalle invarinati culturali che danno forma ad una comunità storica. La forma culturale di una comunità, la sua concezione di esistenza, può pur essere diveniente ma tende a chiudere il dialogo e a non mettere in discussione i suoi valori fondanti17. Questo vale anche per la comunità europea che ha Mi riferisco in particolare ai §§ 1-34 di Essere e tempo e in generale a tutta l’opera; cfr. M. Heidegger, Sein und Zeit, Tübingen, Max Niemeyer Verlag, 1927; trad. it. di P. Chiodi, M. Heidegger, Essere e tempo, Milano, Longanesi, 1976, d’ora in poi [SZ]. 17 Scrive Nicolaci sulla cooriginarietà fra ingresso/appartenenza ad comunità e difesa dei valori che fondano la comunità: “La configurazione del principio unificatore sul modello della causa finale, e dunque del progetto, dà luogo a una sorta di diallele: per un verso, il preliminare riconoscimento della causa comune è la condizione di sussistenza della 16 20 fondato largamente il suo sviluppo, specie negli ultimi quattro secoli, sulla dialogicità e sulla libertà di critica. In merito alla ripresa dell’unità di soggetto e oggetto, qual è ad esempio quella prospettata in Sein und Zeit, è utile tenere presente che tale unità può fondarsi su una tesi realistica della conoscenza in cui gli eventi del mondo (esterno!) sono considerati causa prima della forma degli atti conoscitivi, nell’accoglimento della posizione classica di Aristotele secondo cui veritas est adaequatio intellectus ad rem, e nel riposizionamento in istanza secondaria della concezione di Tommaso e Husserl secondo cui veritas est adaequatio intellectus et rei. La struttura della relazione epistemologico-veritativa è chiaramente complessa e di certo, nel suo adeguarsi alla realtà, il soggetto immediatamente adegua alle proprie strutture biologico-cognitive i fatti reali, ma questo venirsi incontro della realtà e del soggetto a metà strada, questo convergere sull’idea tanto soggettiva quanto oggettiva è un’operazione compiuta dalle strutture sensoriali del soggetto nel suo atto di andare incontro al mondo, dunque sempre come sottofunzione dell’adaequatio intellectus ad rem, che rimane il movimento fondamentale dell’atto epistemico. Questo modo di impostare il rapporto fra soggetto e oggetto non esclude il recupero dell’importante funzione della rappresentazione in epistemologia, concetto profondamente criticato nelle teorie epistemologiche del novecento; ma tale recupero può avvenire solo in senso rinnovato rispetto alla tradizione. La mente (o il soggetto, se si preferisce) rappresenta il mondo e lo condivide con gli altri. Come osserva Heidegger in Sein und Zeit [SZ: § 30-33], non può esservi alcuna “immagine mentale”, alcun “dato di senso” intermedio fra la mente e il mondo da paragonare e commisurare con la realtà per stabilire che tale immagine corrisponde (in caso di verità) o non corrisponde alla realtà (in caso di falsità); è però sostenibile che il soggetto si rappresenti il mondo, secondo quello che, a parere di Heidegger, sostiene la vera fenomenologia. Fondamentale a questo proposito è l’analisi condotta nel § 44 [SZ: 263-277]. Questa posizione heideggeriana, debitrice attraverso Husserl del concetto classico di intenzionalità, è stata ripresa e sviluppata, in filosofia della scienza, nell’ambito del realismo operazionista, proposto negli ultimi comunità ma, per un altro verso, l’esistenza in atto della comunità è la condizione di effettività di un tale riconoscimento. In questa figurazione il criterio di appartenenza alla comunità è dettato non solo dal riconoscimento incondizionato della causa comune ma anche dall’attitudine dei contraenti a riconoscersi, e a riconoscersi insieme, a partire da un tale riconoscimento con quel che comporta in termini di effettività, dunque di obblighi reciproci e di obblighi verso la causa. Il legame di rinvio fra appartenenza e causa passa dunque dall’accordo e al tempo stesso lo precede e lo fonda.” [RI: 7] . 21 anni in Italia da Agazzi18 e dalla sua scuola19. Il realismo operazionista confuta il “dualismo epistemologico” secondo cui la conoscenza consisterebbe in immagini che replicano gli stati di cose, e si oppone tanto al realismo ingenuo dei neopositivisti – secondo cui i fatti reali del mondo si imporrebbero così come sono in sé, e senza filtri linguisiticoculturali, alla nostra attività conoscitiva –, quanto al costruttivismo di matrice kantiana – secondo cui ciò che possiamo conoscere del mondo sono solo “fenomeni” ricostruiti nelle teorie e sostanzialmente svincolati Cfr. E. Agazzi, Scientific Objectivity and its Contexts, Heidelberg NewYork London, Springer, 2014. 19 M. Alai, M. Buzzoni, G. Tarozzi (eds), Evandro Agazzi in the Contemporary Scientific and Philosophical Debate, Heidelberg NewYork London, Springer, 2015. Una articolata versione di realismo operazionista è quella di Marco Buzzoni: “Real is that which can produce effects on our sense organs or instrumental apparatuses, and which we can influence causally by acting (where this attribution of reality would be impossible if it did not occur in reply to an experimental question raised within a particular theoretical perspective). Theoretical entities are real insofar as we can interact with them, albeit within certain perspectives and by means of certain instruments. That is, theoretical entities are real if we can intervene operatively on them, and if they are, in different ways, able to exert a concrete, albeit theoretically mediated, technical-causal influence on our life.[…] Without this interaction, the result of the subject’s operative intervention, we would have no access to the properties of the empirical world. Scientific objects never appear, and can never be grasped as atomistic isolated entities. Scientific objects are always in a network of potential relations with the other objects in the universe, and emerge, along with some of their real properties, in the course of interactions with other objects – where these interactions are either the result of deliberate human intervention or ‘spontaneous’ (but always conceivable as operative). Any object (even a single physical body, a glass or an insect) is a potential bundle of natural laws connecting it with the rest of the universe. Each of these laws becomes evident as the object is made to interact, within specific theoretical perspectives, with other real objects that perform the role of instruments. In this way, the nomic structure of the scientific object is the real basis of the reproducibility of operations; conversely, without reproducibility it would be impossible to discover the structure corresponding to the laws of reality. Accordingly, the reproducibility of operations does not simply follow from the law-like character of objects, but the two presuppose each other (epistemologically one way, ontologically the other). The ontology implicit here is relational.[...] Empirical objects (both so-called theoretical and ordinary) must not be conceived as unknown or indeterminate entities hidden behind the sense data: objects are simply the potentially open totality of their properties, made accessible by adopting specific points of view embodied in technical apparatuses, or in our body. The perceptible traces left by an electron in a cloud chamber in specific experimental conditions are not an atomistic reality (in an ontological sense) mysteriously connected with a second atomistic reality hidden behind the pure sense data: they are real aspects of the electron, that is modes of its objective manifestation.[…] Any empirical object, even a microphysical object, is conceptually manageable and in general knowable because it is not atomistic, unrelated or absolutely simple, but something which, even before exhibiting a causal connection with the rest of reality, is characterised by an internal connection involving its properties, some of which can be modified by intervening on others.” M. Buzzoni, New Experimentalism and Ontological Status of Theoretical Terms, in G. Licata, L. Sesta (eds), Philosophical Essays on Language, Ontology and Science, Milano, Franco Angeli, 2013, pp. 51-53. 18 22 dai fatti reali (noumeni) –. Posizione, quest’ultima, che costituisce la premessa di un in’accettabile idealismo. Oltre che dalla presa di coscienza e dal tentativo epocale di superare la frattura fra soggetto (conoscente) e oggetto (conosciuto), le filosofie di Husserl e Heidegger sono profondamente legate dalla denuncia della “perdita di senso” della ricerca filosofica e scientifica e dall’idea che un pensiero filosofico autentico può essere solo il tentativo di recupero di questo “senso” perduto nel corso della storia. La questione della Seinsvergessenheit, come accusa di perdita di autenticità rivolta ad una filosofia che, sull’esempio della scienza, era divenuta ormai soltanto un’attività tecnica e calcolante, risuonavano in nuce già nel pensiero e nella lezione dell’ultimo Husserl e trovavano ampio spazio proprio nella Krisis. Le argomentazioni husserliane imputano il fallimento storico delle scienze europee proprio alla perdita del radicamento delle pratiche scientifiche sulla vera base e sulla vera ragion d’essere del loro operare: il mondo-della-vita. Questa perdita di radicamento è vista da Husserl proprio come una dimenticanza del senso vero e della ragion d’essere delle scienze, che porta alla crisi delle scienze e all’alienazione dell’umanità europea20. Il vero senso e il vero scopo della conoscenza – e dunque anche delle scienze – secondo la visione rinascimentale del mondo, che riprendeva a sua volta la concezione della filosofia greca, era il raggiungimento della felicità. I più grandi pensatori della tradizione occidentale concordano, ma è anzitutto una sensazione naturale connessa all’esistenza di cui sempre E’ opportuno citare a questo proposito alcuni brani della Prefazione che Enzo Paci scrive nel 1968 alla terza edizione italiana della Krisis di Husserl (anche perché molto rivelativi di un periodo storico, quello delle contestazioni giovanili degli anni ’60, che ha messo sotto accusa l’alienazione delle società tecnologicamente avanzate e ha fatto dell’Uomo a una dimensione di Marcuse il suo testo simbolo): “Appena si è presentita l’importanza dell’ultimo Husserl si sono verificate due cose: o si è presa posizione in senso nettamente contrario, o si è accettata la precisa critica dell’alienazione scientifica, che è poi l’alienazione dell’uomo, che Husserl ha rivelato.[…] Una delle critiche più tipiche che in Italia hanno ripetuto, fino alla nausea, i professori che si credono depositari della verità, è stata quella di considerare e attaccare la fenomenologia come una fuga dalla realtà, come una teoria che mancava di praxis.[…] Quello che finora si è detto riguarda l’accusa di rifiuto della praxis e di fuga nella contemplazione attribuite alla fenomenologia. E’ augurabile che questa critica mantenga le sue posizioni, in attesa di una nuova dimostrazione del tipo di quella studentesca di cui abbiamo parlato. Di fatto, già da oggi, non si può e non si deve parlare di «idee che hanno fatto tremare la Francia», ma di idee che hanno fatto tremare il mondo e che lo faranno tremare ancora di più. Queste idee lo costringeranno ad una trasformazione radicale che instaurerà, positivamente, una società nella quale nessun uomo sarà sfruttato, e intenzionalmente una nuova dialettica di perfezionamento infinito. In Italia si è stati più radicali che in Francia. E’ stata proposta al marxismo la fenomenologia come suo fondamento e rinnovamento.” E. Paci, Prefazione alla terza edizione italiana di E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 1968 (1997), pp. 7-9. 20 23 abbiamo coscienza: la vita umana è finalizzata alla felicità. Non diremo dunque nulla di sorprendente, ma nemmeno di totalmente ovvio, se affermeremo che la prima responsabilità dell’uomo è il raggiungimento della felicità, se questa, classicamente, rimane effetto dell’agire bene e della virtù. Che il raggiungimento della felicità sia riservato alle comunità sociali nel contesto della salute degli ecosistemi, e non certo a singoli o ad esigui gruppi di privilegiati è una verità che porta Platone ed Aristotele a fare della felicità un obbiettivo da raggiungere nel contesto della πόλις e tramite l’attività politica. Sebbene le scienze abbiano ottenuto grandi successi conoscitivi non è difficile ammettere che da questo punto di vista, dal punto di vista del raggiungimento della felicità, la scienza, insieme al suo sviluppo tecnico, ha totalmente fallito la sua missione. Al contrario, nei suoi risvolti economici ed ecologici l’attività scientifica ha prodotto un nuovo formidabile ostacolo rispetto a quello che nell’antichità – come si vede nell’Etica nicomachea – era un lineare cammino verso la felicità: oggi, prima di permetterci il lusso di aspirare alla felicità, dobbiamo anzitutto ottenere la salute. Il raggiungimento della felicità per la πόλις umana è sottoposto al prioritario raggiungimento di una città in cui nessun cittadino sia minacciato dall’indigenza, dalle malattie e dalle guerre, i quali com’è noto sono per lo più prodotti collaterali, anche indiretti, proprio dell’attività tecnicoscientifica nel suo sodalizio con le politiche industriali ed economiche. Eppure la scienza era votata, per sua originaria vocazione, a portare la felicità agli uomini. Anche le filosofie positiviste attribuivano alla scienza il compito di salvare e rendere felice l’umanità; La crisi delle scienze europee, negli anni delle grandi guerre, è un primo epocale colpo a questa ingenua fiducia. Riteniamo dunque moralmente importante, in questa epoca di medioevo tecnologico, concepire la filosofia come una medicina, proprio nel senso banale per cui la cura dei mali evidenti è una mossa prioritaria in vista della ricerca della felicità. A questo proposito, l’idea di Marx che la filosofia debba essere intesa come una praxis, ossia come un tentativo concreto di trovare soluzioni ai mali delle comunità umane, costituisce un significativo antefatto di questa equiparazione fra riflessione filosofica e medicina, concezione che del resto è in linea coi fini politici che Platone indicò nell’attività filosofica. Come si vede fin dai Manoscritti economico-filosofici del 1844, quello che Marx prospetta come soluzione all’alienazione delle società capitalistico-industriali è un umanismo: una riflessione volta a liberare l’uomo dallo sfruttamento cui lo sottopone l’altro uomo. Sulla base di questa concezione intenderemo come “umanistica” qualsiasi filosofia o idea politica che si prefigge la cura dell’uomo e dell’umano come sua attività specifica. Da questo punto di vista riteniamo che, almeno da Socrate in poi, la filosofia sia stata o abbia cercato di essere un umanismo. Il fatto che, in epoca 24 contemporanea, due autori dalle sensibilità così diverse come Marx e Heidegger abbiano posto al centro della loro riflessione il tema dell’umanismo, e lo abbiamo entrambi considerato sullo sfondo delle questioni sollevate dalla tecnica, lascia alla nostra riflessione il compito di indagare in modo più specifico le caratteristiche che una filosofia umanistica può avere nella ricerca delle soluzioni ai problemi suscitati dalla tecnologia e dal capitalismo. 25 2 L’idea di Europa da Atene a Bruxelles attraverso Auschwitz La filosofia di Marx e le condizioni storiche in cui si è generata – il momento in cui il colonialismo delle potenze europee si trasformava in imperialismo – sono la prova che una delle caratteristiche più peculiari della storia europea, la fisionomia costante che l’essere europeo ha assunto nella storia delle relazioni fra i popoli, dal diffondersi della cultura greca e dell’espansione militare di Roma nel mediterraneo fino allo scontro fra blocchi di alleanze fra potenze nazionali, nella prima metà del ventesimo secolo, è stata l’ideologia del dominio e della conquista; all’ideologia del dominio si è affiancata sin dall’antichità la cultura dello scambio culturale e del commercio: i poemi omerici sono emblematici di questa anima bifronte della cultura europea già nel suo nascere21. Il fatto che Europa, nel mito greco (forse di origine cretese), sia la figlia di Agenore, re di Tiro, stabilisce l’inizio dell’avventura europea al limite orientale del mediterraneo, ma tutta rivolta ad occidente, nell’ambito di una cultura del commercio e della navigazione qual’era la cultura dei Fenici. La ricerca del profitto e l’avventura in mare, verso nuove terre da colonizzare, caratterizza fin d’allora l’essere europei22. Dunque, come i miti e la storia dimostrano, la cultura europea Scrive Martelli: “Violenza politica e militare ai danni dell’“altro” e interscambio culturale e ideale: ecco i due poli, negativo e positivo, tra cui si snoda tutta la storia successiva dell’Europa.” M. Martelli, L'idea di Europa. Problemi e presupposti storicoculturali, Atti del Convegno “Arriva l’Euro”, 6 dicembre 2001, Sansepolcro, Arezzo, p. 2, d’ora in poi [IE], al sito: <http://www.liceosansepolcro.it/Conv_Arriva_euro/Idea_di_Europa.asp> 22 Pienamente condivisibile l’interpretazione di Bauman di alcuni miti fondativi dello spazio geografico e culturale delle terre occidentali del mediterraneo (il ratto della principessa fenicia Europa, la fondazione di Tebe, l’eredità di Iafet, e i viaggi di Odisseo), che rappresentano anche il modo in cui i popoli antichi cominciarono a caratterizzare una certa antropologia dell’uomo europeo: “C’è un filo rosso che accomuna tutte le storie d’Europa: l’Europa non è qualcosa che si scopre, bensì una missione, qualcosa da fare, creare, costruire. Per compiere quella missione occorre un sacco di inventiva, determinazione e duro lavoro. Forse un lavoro che non finisce mai, una sfida a cui rispondere in toto, una prospettiva per sempre straordinaria. Sebbene le storie 21 27 del commercio, della navigazione e della colonizzazione planetaria (fin dalla fine del medio evo) è stata favorita dal fatto che i primi passi della storia della civiltà occidentale sono stati mossi e sperimentati nel mediterraneo; ed il mondo mediterraneo, in cui certe tecniche, certe attitudini e certe concezioni dell’esistenza si sono affinate, è il necessario presupposto della storia europea23. La storia di Roma, dunque la storia dell’unificazione politica fra le terre intorno al mediterraneo ed il continente europeo, chiudono l’antichità ed aprono il medioevo proprio all’insegna della trasmissione di questa eredità di unificazione e dominio. All’ideologia del dominio è connessa la pratica dello sfruttamento del dominato. Il dominio politico, culturale o economico sugli altri popoli è ciò che più ha caratterizzato nei secoli successivi al medioevo la storia europea. Sebbene nascosta dietro i nobili ideali di evangelizzazione prima e di diffusione di civiltà e libertà poi, e protetta dai più ingegnosi principi giuridici, la volontà di dominio rimane puramente una pulsione animale, un istinto irrazionale e primitivo della natura umana cui la ragione ubbidisce: nel caso dei regni e degli imperi che si sono succeduti in occidente il controllo del territorio è stato diffuso dallo spirito dell’esplorazione e dello scambio. Questo cammino comincia ad essere segnato fin dal particolare uso dei termini βάρβαρος e barbarus nel mondo greco e romano, connesso all’autopercezione della superiorità della propria civiltà (rispetto alle popolazioni confinanti) che, alla fine dell’età classica, aveva già portato Isocrate ad incitare Filippo il divergano, in tutte indistintamente l’Europa è un luogo d’avventure. Avventure come i viaggi interminabili intrapresi per scoprirla, inventarla o evocarla; o come quelli che riempivano la vita di Odisseo, riluttante a ritornare alla piatta sicurezza della natia Itaca in quanto attratto più dall’eccitazione di rischi mai affrontati che dalle comodità della vita casalinga, e acclamato (forse proprio per questo) come precursore, o antenato, o prototipo dell’europeo. Gli europei erano gli avventurieri rispetto agli amanti della pace e della tranquillità: nomadi compulsivi e instancabili rispetto agli schiavi e ai sedentari, vagabondi ed esploratori rispetto a quanti preferivano vivere in un mondo che finiva al recinto esterno del villaggio.” Z. Bauman, Europe. An Unfinished Adventure, Cambridge-Malden, Mass., Polity Press, 2004; trad. it. di M. Cupellaro, Z. Bauman, L’Europa è un’avventura, Roma-Bari, Laterza, 2012, pp. 4-5. Questa analisi sull’avventurosità (sempre connessa all’essere spericolati) è più coerente con una visione dell’europeo come eterno adolescente che con la visione dell’europeo come tipo umano invecchiato e reso saggio dalla storia, maturo oltre l’emozione della scoperta e dell’ignoto; vedere la cultura europea come affetta da un’eterna adolescenza è poi in sintonia col vedere questa stessa cultura come affetta da un’incontinenza atavica di ricchezze e di conoscenze (poi contagiata a tutti popoli colonizzati), la quale è proprio la matrice della cultura capitalistica. L’Europa, come civiltà caratterizzata da insaziabilità economica e conoscitiva, non avrebbe raggiunto l’equilibrio e il dominio di sé di una civiltà matura. 23 Impossibile non citare a questo proposito F. Braudel, La Méditerranée et le monde méditerranéen à l’époque de Philippe II, Parigi, A. Colin, 1949; trad. it. F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Torino, Einaudi, 2 Voll., 2010. 28 Macedone a conquistare l’impero persiano, considerato antropologicamente ed eticamente inferiore. Naturalmente questo complesso di superiorità in civiltà continuerà ad essere vissuto dai navigatori ed esploratori europei nei loro incontri con le popolazioni indigene dei nuovi mondi, considerate culture selvagge da soppiantare, assimilare o schiavizzare. Gli europei, grazie alle vicende politiche dell’antichità e alla commistione con culture lontane – si pensi allo scontro/incontro coi popoli pagani dell’est e della scandinavia lungo tutto l’alto medioevo –, avevano sperimentato con frequenza esponenziale il confronto, l’opposizione e l’assimilazione con visioni del mondo e dell’esistenza, con usi giuridici ed organizzazioni politiche che avrebbero fatto di loro gli abili diplomatici e strateghi che vediamo operare fino al XV secolo fra Europa, nord Africa e Asia (fino alla Cina), e dal XVI secolo in poi anche fra le sponde dell’atlantico. Dominio sugli eventi naturali, dominio sugli altri popoli e sfruttamento dei più deboli non tardano a saldarsi insieme, in una potente ideologia della conquista e del dominio, con l’avvento del capitalismo industriale alcuni secoli più tardi. Questo movimento teso alla conquista e al dominio, secondo il nostro parere, non è totalmente estraneo, come movimento psicologico inconscio, all’ideologia della ricerca e della scoperta scientifica invalsa in occidente24. Ora, affinché il “dominio e lo sfruttamento del territorio” si trasformino in “cura per l’οἶκος” è necessaria una profonda conversione antropologica, molto lavoro filosofico e una decisiva intensificazione di quelle pratiche educative e informative radicate sui valori della difesa della biosfera, della vita e della persona e sull’umiltà del sapere umano nei confronti dell’ordine naturale. E se il lavoro filosofico è stato già abbondantemente svolto da alcuni autori che citeremo in questo studio, la conversione antropologica e le pratiche educative sono ancora largamente in ritardo, come dimostrano i fatti. Il nostro studio, e in genere la riflessione filosofica che va in questo senso, deve allora assumere il ruolo che le premesse hanno in un sillogismo pratico, ossia in un ragionamento che abbia come conclusione delle azioni; esso è dedicato al tentativo di modificare le nostre condotte pratiche alla luce dei nostri ragionamenti e delle nostre posizioni teoriche; per quanto Questa tesi, come vedremo nel seguito della discussione, è in un certo modo legata all’idea espressa da Emanuelle Lévinas, secondo cui la conoscenza concettuale e scientifica (proprio a partire dalla filosofia occidentale) sarebbe una forma di “sopraffazione” e di assimilazione dell’oggetto conosciuto al soggetto conoscente, che cancella l’alterità irripetibile del conosciuto neutralizzandone l’individualità (cfr. Nota 69). Pur non condividendo questa tesi, riteniamo necessario lo sforzo di comprenderne lo spirito nell’ambito del pensiero di Lévinas; cfr. E. Lévinas, Totalité et Infini. Essai sur l’exteriorité, La Haye, Martinus Nijhof, 1961; trad. it. di A. Dell’Asta, E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Milano, Jaca Book, 1977, d’ora in poi [TI]. 24 29 possa sembrare assurdo, infatti, uno dei più deleteri aspetti dell’alienazione contemporanea è l’incapacità di fare seguire ai ragionamenti corretti più evidenti le consequenziali azioni correttive, come qualsiasi individuo o comunità davvero razionale farebbe. L’incapacità dell’occidente di condurre l’economia globale ad una diminuzione delle emissioni di anidride carbonica nella nostra atmosfera, o l’incapacità di gestire le guerre che continuano ad insanguinare i confini europei e l’Africa, sono prove di questa forma di alienazione. L’idea di una ricerca della verità sottoposta a fini pratici, finalizzata alla felicità, si discosta dall’ideale aristotelico di una ricerca della verità gratia veritatis e scevra da fini pratici, ma all’epoca di Aristotele la ricerca della verità nelle scienze non era monopolio di meccanismi ultrapotenti come quelli che agiscono oggi sulle masse tramite l’informazione istantanea e la monoculturalizzazione delle piazze digitali; non era quella di Aristotele l’epoca industriale del capitalismo globalizzato, né quella della liquefazione dei legami sociali. La duplice relazione che lega φύσις e τέχνη nel secondo libro della Fisica di Aristotele può fungere sia da segno di un cammino storico, quello dello sviluppo destinale della scienza e della tecnica, sia da indicazione per la ricerca di soluzioni ormai indifferibili all’alienazione tecnologica. Questa duplice relazione è così strutturata: in primo luogo la tecnica si configura come una natura di secondo grado, una natura umanizzata, in cui l’intervento umano consiste nell’inserire catene causa-effetto estrapolate dalla natura (fenomeni) entro azioni umane; in secondo luogo la tecnica, che può imitare la natura in funzione della somiglianza operativa con essa, può portare a compimento un percorso che la natura indica ma che non può ultimare da sola. Purtroppo troppi esempi sono occorsi nella storia della ricerca scientifica e delle innovazioni tecnologiche in cui questo aiuto, questo supporto che, secondo il testo aristotelico, la τέχνη doveva costituire per la φύσις, si è trasformato in stravolgimento, sfruttamento senza riguardo e senza lungimiranza. In questo senso è giocoforza abbracciare il punto di vista di Jonas, che vede nella responsabilità il fondamento del nostro agire scientifico e tecnico. La grande differenza fra Marx e Jonas, pur accomunati da questa visione pratica della riflessione filosofica, a più di un secolo di distanza e in condizioni tecnologiche e industriali radicalmente differenti, è che Marx accetta e rilancia l’entusiasmo positivistico per il mito del progresso tecnico, mentre Jonas traccia un’analisi dettagliata del crollo di questo mito, mettendo a nudo l’insostenibilità per il futuro del modo in cui si è realizzato e del modo in cui viene oggi concepito. Com’è noto, il progresso tecnico è per Marx uno strumento di dominio che, in mano ai capitalisti, permette il furto della vita e la schiavizzazione degli operai; in mano al proletariato giunto al potere, il progresso 30 porterà a quello stato di felicità e di giustizia che darà a ciascuno secondo i propri meriti e chiederà a ciascuno secondo le proprie possibilità. Il richiamo jonasiano alla responsabilità è in linea con le filosofie morali novecentesche che hanno sostituito la libertà con la responsabilità, nella funzione di fondamento etico dell’agire. E’ obbligatorio qui il riferimento alla filosofia di Emanuelle Lévinas. Come sappiamo questo atto epocale di sostituzione, nel pensiero di Lévinas, avviene proprio in concomitanza e a partire dall’immane colpa dell’olocausto (e di tutti i genocidi analoghi) che, a ben vedere, oltre ad essere stato un fenomeno “umano” (di indicibile barbarie umana) è stato anche un fenomeno “europeo”. Quanto suggerito anche implicitamente dalla riflessione del filosofo franco-lituano può apparire strano, ma ad un’attenta considerazione storico-filosofica non può sfuggire che sia l’olocausto sia il prodursi delle scienze siano fenomeni europei che, per quanto lontani e apparentemente eterogenei, recano in sè nitidi elementi di una comune radice storico-culturale25. L’ideologia del dominio che ha guidato la storia europea fino alle due grandi guerre, del resto, è la stessa che ha guidato il progresso tecnico e scientifico. Allora diviene chiaro che il passo che equipara la filosofia alla medicina, passo per il quale la filosofia dovrebbe farsi carico dello stesso agire responsabile del medico, è dunque prioritario e decisivo nel cammino che porta a riconnettere la filosofia e le scienze al loro fine originario che è quello di conseguire la felicità per la πόλις. E’ quindi opportuno favorire un legame fra l’agire scientifico e le responsabilità morali che esso comporta, prima fra le quali il raggiungimento della felicità per la comunità umana. Questo chiaramente è impossibile senza inserire i programmi di ricerca scientifica e di sviluppo tecnico entro una visione olistica progettuale della comunità, come sono ad esempio le visioni politiche proposte da Platone, Aristotele o Leibniz. E’ un fatto che per un lungo periodo della storia contemporanea una filosofia, nella forma di una dottrina economica e politica, si è posta come fine pratico la felicità dell’uomo, nella società industriale, ed ha inteso le scienze e la tecnica come lo strumento fondamentale per ottenere questo risultato. Tale dottrina ha avuto dunque un carattere umanistico26. Ci riferiamo al marxismo, che oggi, dopo un certo numero di anni dal suo fallimento politico e storico, può cominciare a ricevere Pensiamo alla sistematicità, alla esaustività, alla purezza, all’utilità e alla messa fuori causa dell’etica, che sono idee fondanti delle scienze e che, in ambito eterogeneo, hanno contraddistinto le pratiche del genocidio. Oltra a questo, l’interesse economico e di potere politico connessi all’olocausto non si discostano troppo dai fini capitalistici che oggi guidano le scienze. 26 Sebbene gli effetti concreti, come capita alle dottrine economico-filosofiche che divengono ideologie, siano stati spesso disumani. 25 31 valutazioni sufficientemente equidistanti. Fra i risultati positivi dell’analisi marxista della società capitalista non possiamo non annoverare lo studio e la denuncia dell’alienazione. Tutt’oggi, benché la spinta ideologica del marxismo sia conclusa, lo stato di alienazione continua a costituire una diagnosi valida per spiegare i problemi sociali ed esistenziali della società capitalista e industriale: i tentativi politici di attuare il socialismo reale sono terminati, ma i problemi causati dal capitalismo, che tali tentativi pretendevano di risolvere, si sono di contro acuiti. Dal momento che si è fatto riferimento alla Shoa, non possiamo dimenticare che Hannah Arendt sottolinea il legame causale fra società industriale alienata, genesi del totalitarismo e realizzazione dell’olocausto. Solo in una cultura in cui le persone sono considerate cose, sostiene Arendt, può essersi attuato lo sterminio del popolo ebraico: Il dominio totale che mira a organizzare gli uomini nella loro infinita pluralità e diversità come se tutti insieme costituissero un unico individuo, è possibile soltanto se ogni persona viene ridotta a un’immutabile identità di reazioni, in modo che ciascuno di questi fasci di reazioni possa essere scambiato con qualsiasi altro. Si tratta di fabbricare qualcosa che non esiste, cioè un tipo umano simile agli animali, la cui unica «libertà» consisterebbe nel «preservare la specie».[…] I Lager servono, oltre che a sterminare e a degradare gli individui, a compiere l’orrendo esperimento di eliminare, in condizioni scientificamente controllate, la spontaneità stessa come espressione del comportamento umano e di trasformare l’uomo in un oggetto, in qualcosa che neppure gli animali sono; perché il cane di Pavlov che, com’è noto, era ammaestrato a mangiare, non quando aveva fame, ma quando suonava una campana, era un animale pervertito. [H. Arendt, The Origins of Totalitarianism, New York, Harcourt, Brace & Co., 1951; trad. it. di A. Guadagnin, H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Torino, Einaudi, 2009, pp. 599-600, d’ora in poi OT]27 Aspetto certamente da apprezzare nella filosofia di Marx è quindi l’idea che la filosofia debba avere un fine pratico, che gli sforzi del pensiero debbano essere dedicati a migliorare la condizione umana: questo vale anche quando si trattano i più asettici problemi di filosofia della conoscenza. Il marxismo intende la filosofia come una forma di medicina da impiegare nella cura della civiltà capitalistico-industriale. Naturalmente bisogna subito aggiungere che, diversamente dai marxisti, non possiamo più sostenere l’idea che la chiave del miglioramento della condizione umana, cioè la ricetta della felicità, sia fondata su un De Le origini del totalitarismo si consideri in particolare il paragrafo I campi di concentramento, che chiude l’opera di Arendt e da cui traggo questa citazione, in cui il motivo della trasformazione dei prigionieri in “cose”, in individui privati di qualsiasi dignità umana, viene declinato in vari modi tramite un gergo che avvicina i Lager a “fabbriche”. 27 32 semplice e indiscriminato avanzamento del potere della tecnica28. Questa fiducia è un aspetto ancora positivistico ed ingenuo del pensiero di Marx; tale fiducia positivistica nella scienza è proprio l’aspetto centrale cui Husserl imputa la crisi delle scienze e dell’umanità europea. Naturalmente tutte le scienze, sia le pratiche conoscitive dotate di uno statuto epistemologico paradigmatico, che quelle dotate di uno statuto epistemologico meno rigido, hanno grandi responsabilità. Chiarisco che intendo tenere presente per il termine “responsabilità” il doppio significato, operante nella lingua italiana, di “richiamo al dovere” e “colpa”. Come sostiene Jonas, la scienza è un’attività fortemente legata al dovere morale, inoltre, nel secondo senso, la scienza è stata a volte praticata con lo scopo di commettere gravi crimini (pensiamo agli ordigni nucleari lanciati per risolvere la guerra fra Stati Uniti e Giappone) e/o producendo colpevolmente un’infinità di effetti collaterali dannosi che è necessario riconoscere. Se finora la scienza si è per lo più mossa contro o a prescindere dalle responsabilità etiche di cui è gravata in quanto potente attività dell’uomo, è oggi giunto il momento di invertire questa tendenza e promuovere una scienza che si muova verso le proprie responsabilità, che sappia agire per un miglioramento di quelle capacità tecniche che possono essere indirizzate ad un miglioramento effettivo delle condizioni di vita dell’uomo e sappia prendere provvedimento in difesa dell’ecosistema in cui l’uomo deve vivere oggi come custode. Ne La questione della tecnica [FT: 16-17] Heidegger scrive che quando nasce la scienza moderna il progetto tecnico era all’opera già da tempo, fin dall’antichità. Il pensatore tedesco individua un’anima ossia una costituzione tecnica nelle scienze e vede la storia della filosofia come sostanzialmente dominata dall’avvento della tecnica. E’ questa una tesi che merita una profonda e rinnovata riflessione nell’ambito della comprensione del fatto che le scienze e la tecnologia sono uno dei tratti caratterizzanti della cultura europea oggi globalizzata. Quello che Heidegger individua nella Lettera sull’«umanismo» e ne La questione della tecnica è evidentemente la tendenza decisa del pensiero occidentale ad una torsione in direzione della produzione tecnica. Se le cose stanno così, oggi bisogna avere il coraggio di operare una seconda, più difficile e più consapevole torsione: è necessario piegare il pensiero tecnico-scientifico alle esigenze psicologiche e morali più profonde delle comunità umane, per permettere una produzione sostenibile e una scienza che si faccia guidare dal valore della dignità della persona, al di fuori dell’alienazione che il mondo tecnologico-industriale guidato dal 28 E qui valgano le critiche che Jonas rivolge al marxismo e in particolare al saggio di E. Bloch Il principio speranza. Naturalmente la monodimensionalità che Marcuse ravvisa nell’uomo delle civiltà tecnologicamente avanzate è un’altra critica distruttiva a questo progressismo. 33 capitalismo causa di per sé. Il primo passo da muovere è allora una nuova posizione di valori; siamo costretti dalla nostra responsabilità a chiederci: “che cosa ha davvero valore per noi?”. Non c’è una scienza che con le proprie scoperte possa dare risposta a questa domanda, e questa è una consapevolezza che la politica e la scienza devono sempre tenere presente. Il secondo passo dovrebbe essere allora domandarsi “qual è la forma e la natura della comunità in vista della quale poniamo quei valori, a difesa dei quali deve operare non solo la scienza ma ogni altra attività costruttiva svolta da quanti fanno parte della comunità?”. E’ chiaro che a questa seconda domanda può rispondere solo una cultura con la sua storia. La tecnica è il destino dell’uomo, solo nell’ambito della tecnica l’uomo può operare per i propri fini: è questa la corrispondenza all’epoca della tecnica che Heidegger auspica nella Lettera [BH: 305] e ne La questione della tecnica [FT: 17], dicendo che essa ha a che fare con un pensiero meditativo (Denken, Besinnung) e non scientifico, con un domandare (Fragen) che si interroga non sulla tecnica ma su ciò che rende possibile e mette in atto la tecnica. Solo affinando e potenziando la nostra tecnologia, e mettendola al servizio dei valori fondanti delle nostre comunità, è prospettabile una liberazione dall’alienazione tecnologica e un’uscita dalla crisi delle scienze. Ciò che qui si configura è quindi una tecnica della natura, un’azione tecnica sulla natura (e la psiche) dell’uomo. Tale operazione è finalizzata a ripensare il modello capitalistico in modo profondo. Se il capitalismo è l’effetto naturale della storia dell’economia occidentale e della europeizzazione del pianeta, proprio la filosofia, in alleanza con le scienze europee che le sono affini, ha la responsabilità di indicare e configurare questa tecnica della natura, questa operazione del λόγος su se stesso. L’ecologia è un esempio di questo modo di operare del λόγος su se stesso e di un reale progresso tecnico, ma se l’atteggiamento di “ripensamento della tecnica”, che è proprio dell’ecologia, non viene esteso al capitalismo (e alle politiche che lo hanno lasciato sviluppare senza freno fino a consumare l’equilibrio del pianeta) ed alla centralità della persona, l’ecologia resterà un fragile argine travolto da forze irresistibili. Le rivoluzioni comuniste del XX secolo, con la parabola politica dell’Unione Sovietica, hanno abbondantemente dimostrato che non è sopprimendo la naturale aspirazione degli uomini ad una vita più agiata e alla ricchezza che il capitalismo può essere fermato: è innaturale e disumano prospettare una società in cui gli individui siano costretti alle medesime condizioni materiali e ai quali venga prospettato un tenore di vita omologato e predisposto dall’alto. Così come è una profonda ingiustizia non fornire a tutti i cittadini di uno stato analoghe opportunità formative e lavorative. L’esperimento del socialismo reale è stato un poderoso intervento tecnico sulla natura dell’uomo, un atto di scienza politica che ha operato 34 sulla psiche e sull’esistenza umana per estirpare gli effetti nefasti del libero mercato e della libera impresa. Se diamo credito alla ricostruzione storica di Braudel29, entro il libero mercato gli operatori più astuti, fra la fine del medioevo e lungo l’età moderna, hanno creato forti monopoli determinando la nascita del capitalismo europeo. Il fallimento dell’esperimento socialista ci insegna che il capitalismo, come risultato naturale di quell’istinto di dominio che la storia europea ha esaltato, non può essere estirpato o cancellato sic et simpliciter. Il capitalismo può solo essere curato. Il comunismo – ora lo vediamo con chiarezza – ha fallito perché l’intervento tecnico di cui si è fatto carico stravolgeva le linee di fondo della struttura psicologica naturale della società umana ed inibiva alcune caratteristiche innate e costitutive della persona. La specie umana, al pari delle altre specie animali, vive di competizione; l’etologia mostra che la competizione fra individui di una specie non è un istinto naturale fra gli altri, insieme alla cooperazione esso è il modo di stare insieme degli individui nel gruppo30. Nessuna dottrina politica che cerchi di appiattire o negare la competizione economica o la competizione per il potere (o altre caratteristiche profonde della natura umana) può avere successo nell’organizzare una comunità. Continuiamo a muoverci entro la prospettiva indicata da Aristotele: la tecnica a volte imita a volte porta a compimento ciò che la natura da sola non riesce a compiere (Fisica, B 8). La tecnica non deve – e in ogni caso non potrebbe – soppiantare, estirpare o ricreare la natura; l’attività razionale autocosciente ha solo la possibilità, e, in questo caso, la necessità di indirizzare, arginare e ottimizzare il corso degli eventi naturali. Se la competizione insita nel capitalismo è inestirpabile, tuttavia, come società civilizzate non possiamo permettere che persone umane come lo siamo noi periscano di fame o di guerra o di mancanza di cure. Il crollo del muro di Berlino nel 1989 e la fine della guerra fredda hanno consegnato agli Stati Uniti, all’Europa e al Giappone il ruolo di guida economica del pianeta, l’avvento di internet e lo sviluppo delle telecomunicazioni, insieme alla fine della cortina di ferro, ha portato ad una globalizzazione grazie alla quale nuove grandi potenze economiche sono emerse e in cui il capitalismo neoliberista rimane il meccanismo unico dello sviluppo del pianeta31. Eppure la cooperazione, la fraternità e la solidarietà, termine Cfr. F. Braudel, Civilisation matérielle, économie et capitalisme (XV-XVIII siécle), 3 Voll., Paris, Armand Colin, 1979; trad. it. di C. Vivanti, F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII), 3 Voll., Torino, Einaudi 2006 (1979). 30 Cfr. F. Capra, The Web of Life. A New Scientific Understanding of Living Systems, New York, Doubleday, 1996; trad. it. di C. Capararo, F. Capra, La rete della vita. Una nuova visione della natura e della scienza, Milano, Rizzoli, 2001. 31 Bauman incentra la sua analisi della globalizzazione sulla perdita di potere politico che le istituzioni tradizionali, in primo luogo gli stati nazionali, subiscono a favore delle 29 35 che indica etimologicamente il sentirsi uno stesso con l’altro uomo – che noi potremmo sostituire nelle sofferenze e che potrebbe sostituirci nel benessere – è una struttura psichica altrettanto naturale della competizione. L’umanitarismo, come aspetto dell’umanismo, è un sentimento naturale che la storia dell’occidente ha certamente promosso, anche se è rimasto di granlunga minoritario rispetto alla competizione per il dominio; esso costuituisce l’argine naturale che la cultura europea può impiegare per curare l’istinto alla sopraffazione del capitalismo indifferente. Riguardo ai pericoli e alle derive del libero mercato in cui si installano i monopoli tendenti alla crescita indefinita, movimenti naturali forse insoppiantabili nell’economia globalizzata, il precetto taoista del wei-u-wei, dell’agire senza agire, mai come in questo caso è preferibile per la governance politica: le regole di politica economica possono solo cavalcare le onde generate dai mercati, intuirne il movimento per tempo, farsi trasportare sapientemente da esse dove i centri decisionali cercano di arrivare, esse non possono certo essere cancellate, bloccate o ignorate. Ma l’applicazione di regole salutari di politica economica non sono possibili in un mondo geopoliticamente diviso e non dialogante; un mondo in cui, per parafrasare Bauman, le istituzioni locali non hanno più il potere, nello spazio tradizionale, di risolvere il problemi provenienti dall’iperspazio, ossia dalla libera circolazione dei capitali nel globo. E’ l’indirizzo di un movimento di capitali e risorse che le riunioni internazionali fra i leader delle potenze economiche, o gli incontri a porte chiuse come quelli del gruppo Bilderberg, o quelli totalmente segreti, dovrebbero cercare di rendere multinazionali e delle élites capitaliste che le guidano: il capitalismo globalizzato post guerra fredda ha un’ispirazione fortemente neoliberista. Scrive Floriduz: “Le politiche neoliberiste si avvalgono degli attuali processi di globalizzazione per incrementare in maniera pressochè illimitata le libertà personali, di associazione, di pensiero, di espressione.[…] Parafrasando Isaiah Berlin, Bauman sostiene che la libertà propugnata sia negativa, intesa cioè come assenza di limiti e di costrizioni, come deregolamentazione, come «riduzione, sul piano legislativo, dell’interferenza politica nelle scelte umane (meno Stato, più denaro in tasca)» (p. 77). Il mercato non è invece in grado di costruire una «libertà attiva fondata sulla ragione» (Ivi), strettamente connessa alla responsabilità individuale, atta a fungere da criterio di scelta e da guida per l’azione, una libertà che sappia coraggiosamente incidere ed elaborare (concettualmente e concretamente) il significato di bene comune. Dopo la caduta del muro di Berlino, il capitalismo si presenta come un dogma, come il paradigma economico vincente perché privo di alternative reali praticabili. Ne deriva una progressiva erosione della politica a vantaggio dell’economia: come sostiene Bauman: «al centro della crisi attuale del processo politico non è tanto l’assenza di valori o la loro confusione generata dalla loro pluralità, quanto l’assenza di un’istituzione rappresentativa abbastanza potente da legittimare, promuovere o rafforzare qualunque insieme di valori o qualunque gamma di opzioni coerente e coesa» (p. 79).” D. Floriduz, Recensione a Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, Milano, Feltrinelli, 2000, in <www.recensionifilosofiche.it/swirt/globalizzazione/bauman2.htm>. 36 salutare per tutti. Ecologia, Green economy e sviluppo sostenibile sono superficiali prese di coscienza di un capitalismo malato che comincia tardivamente a riflettere su se stesso. Prima che lo spirito europeo dell’esplorazione, dello scambio culturale e del dominio – reso ormai planetario dall’omogeneizzazione culturale della globalizzazione – rivolga la sua attenzione verso nuove frontiere, verso nuove occasioni di guadagno, il nostro sistema politico-economico deve darsi nuove regole e nuove consuetudini. Cosa ancor più importante, esso deve germogliare su una nuova cultura in cui la cura sostituisca l’indifferenza etica e l’incuria, in cui lo spirito di servizio per ciò che è essenziale soppianti la tendenza al dominio, in cui l’umiltà soppianti lo spirito d’impadronimento, senza per questo negare o stravolgere la natura umana. Come si vede, in questa necessità di trovare una via intermedia lontana dagli estremi cui ci espone la natura, ci troviamo in una situazione analoga a quella descritta nell’Etica nicomachea, in cui chi deve deliberare ricorre all’ὀρθὸς λόγος e alla mediazione per conseguire l’azione virtuosa. In senso concreto, regole globali di politica economica pensate in base alla cultura della cura dovrebbero portare all’istituzione di un vero e proprio Welfare state mondiale, un insieme di misure economiche estese a tutte le comunità umane che eviti la povertà assoluta, territori senza sanità, nuovi schiavismi, monopoli che si trasformano in dittature militari. Solo misure di protezione che salvaguardino tanto i diritti umani quanto i diritti della natura, e rendano prosperi (secondo le loro capacità) tutti gli individui, possono rendere sostenibile e non ingiusto il capitalismo naturale della nostra civiltà. Oggi, di fatto, la scienza si sviluppa grazie alla spinta commerciale prodotta dai prototipi tecnici, nel disinteresse per l’integrità degli ecosistemi o addirittura in contrasto con essa. Il fatto che, nel mondo forgiato dal capitalismo occidentale, una piattaforma petrolifera esploda a causa di un incidente e scarichi petrolio per mesi nel golfo del Messico, o che un maremoto distrugga in Giappone una centrale nucleare, causando lo sversamento in mare di acque radioattive, dovrebbe essere un segnale decisivo del disinteresse che ancora oggi, in epoca di consapevolezza ecologica, il capitalismo ha per la biosfera. A decenni dalla messa a punto di motori elettrici sufficientemente performanti, continuiamo a utilizzare automobili mosse dal motore a scoppio, immettendo nell’atmosfera CO2 e polveri sottili, con l’effetto di aggravare il riscaldamento climatico e aumentare l’incidenza del cancro. Sebbene la tecnologia per rendere operativo e conveniente il motore elettrico sia disponibile da anni, gli enormi interessi economici dei paesi produttori di petrolio, connessi agli interessi delle industrie automobilistiche, hanno causato un forte ritardo alla impiegabilità su larga scala di questa innovazione tecnica. Il disboscamento e la 37 costruzione di nuove strade asfaltate e nuove vie ferroviarie causa la riduzione, di anno in anno, dell’immissione di ossigeno in atmosfera, danneggia la vita delle specie animali e vegetali, sulla quale si fonda la vita dell’uomo e di altre specie, favorisce la desertificazione. L’industria dell’alimentazione, al fine di aumentare la mole di cibo disponibile, mette in atto tecniche che lo alterano e lo rendono spesso pericoloso per la nostra salute: la diffusione del morbo della mucca pazza e, conseguentemente, della variante umana dell’encefalopatia spongiforme bovina è stata causata dal tentativo di abbassare i costi di produzione della carne. Non sono noti gli effetti a lungo termine sull’alimentazione umana, o sull’equilibrio degli ecosistemi, dell’impiego indiscriminato di OGM; di certo esiste il pericolo che la base genetica degli organismi naturali, rimasta intatta per miliardi di anni, tramite la riproduzione in cui possono essere coinvolti OGM, subisca l’ingresso di catene di DNA alterate artificialmente. Le conseguenze non si possono oggi prevedere, ma l’incertezza non può lasciare tranquilli quanti sanno che l’equilibrio naturale fra organismo e ambiente è un’armonia delicatissima che la natura ha elaborato in tempi enormemente lunghi, grazie all’autoregolazione di un ordine ipercomplesso, che la biologia e la genetica attuali vedono solo in superficie e da punti di vista specifici. Se il capitalismo e la politica sono nelle mani di lobbies spregiudicate, di operatori che dai consigli di amministrazione, dalle aule e dalle commissioni politiche guidano lo sviluppo economico, l’appello etico di cui discutiamo è rivolto anzitutto, e non esclusivamente, a loro. Una sinistra indifferenza morale guida gli operatori della conoscenza e della tecnologia, essi trascurano il rapporto fra l’anima scientifica della nostra cultura e la sua anima etica. In questa epoca come è possibile non concepire la nostra filosofia come una medicina? L’ideale aristotelico che identifica la felicità con la vita conoscitiva, con una vita fatta di contemplazione della verità che non vede nella conoscenza altra utilità se non la conoscenza stessa, è un ideale troppo alto per il mondo contemporaneo, un ideale che oggi non possiamo permetterci. Prima di dedicarci alla pura speculazione dobbiamo risolvere le necessità della vita di milioni di umani che, quando ne hanno la forza, riescono a fuggire dalle guerre e dalla fame; inoltre, il mondo occidentale a cui si rivolgono queste masse di profughi, pur essendo una società pacifica, non è una società sicura o sana. Per quanto possiamo capire non abbiamo affatto compiuto progressi rispetto alla situazione che Heidegger descrive nella Lettera dicendo: Il desiderio di un’etica si fa tanto più urgente quanto più il disorientamento manifesto dell’uomo, non meno di quello nascosto, aumenta a dismisura. Al vincolo dell’etica occorre dedicare ogni cura, in un tempo in cui l’uomo della tecnica, in balìa della massificazione, può essere portato ancora a una stabilità 38 sicura solo mediante un raccoglimento e un ordinamento del suo progettare e del suo agire, nel loro insieme, che corrispondano alla tecnica. [BH: 304-305]32 La crisi dell’occidente, crisi della sua economia e della sua anima tecnica, ossia della scienza, è una crisi da non corrispondenza: il raccoglimento e l’ordinamento del progettare – unica via per giungere alla corrispondenza nei confronti dei problemi posti dalla tecnica33 – vengono connessi da Heidegger al pensiero dell’essere34. Diviene sempre più chiaro che la crisi della tecnica su cui il filosofo di Messkirch pone la questione nella Lettera e nella Frage, è strettamente legata alla crisi delle scienze europee rilevata da Husserl: si tratta della medesima linea di sviluppo degenerativo dalla quale non riusciamo a liberarci e che gli scritti di Bauman35 mettono impietosamente allo scoperto. La stessa Cui fa eco, ne La questione della tecnica, il passo [FT: 17]. La corrispondenza cui fa riferimento Heidegger è anche quella fra essere e linguaggio, alla quale la corrispondenza ai problemi della tecnica è strettamente legata, e di cui si parla nella Lettera: “Ma come nell’humanitas dell’homo animalis resta nascosta l’esistenza, e con essa il riferimento della verità dell’essere all’uomo, così l’interpretazione metafisica del linguaggio sul modello «animale» ne occulta l’essenza che secondo la storia dell’essere gli è propria. In riferimento a questa essenza, il linguaggio è la casa dell’essere fatta avvenire (ereignet) e disposta dall’essere. Perciò occorre pensare l’essenza del linguaggio a partire dalla sua corrispondenza all’essere, ed intenderla proprio come questa corrispondenza, cioè come dimora dell’essere umano” [BH: 286]. Per i primi passi riguardanti questa riflessione sul rapporto fra essere e linguaggio cfr. G. Licata, Heidegger e la differenza fra essere e linguaggio, in “Rassegna siciliana di storia e cultura”, 11, 2000, pp. 171-184. In questo passo della Lettera si vede che la differenza che allora si cercava fra essere e linguaggio si può caratterizzare come corrispondenza, un corrispondersi reciproco fra essere e linguaggio posto in essere dall’essere, è chiaro infatti che il linguaggio cui fa riferimento Heidegger in questo passo della lettera è il linguaggio dell’uomo; ma i riferimenti di Heidegger alla “voce” dell’essere, e all’“ascolto” che ad essa va prestato, per quanto metaforici, fanno pensare anche ad un linguaggio che non sta su un piano di trascendenza inferiore a quello dell’essere, come cercai di delineare in quel saggio del 2000. 34 Tema, questo del raccoglimento, che ritroviamo ne La questione della tecnica: “La minaccia per l’uomo non viene anzitutto dalle macchine e dagli apparati tecnici, che possono anche avere effetti mortali. La minaccia vera ha già raggiunto l’uomo nella sua essenza. Il dominio dell’im-posizione minaccia fondando la possibilità che all’uomo possa essere negato di raccogliersi ritornando in un disvelamento più originario e di esperire così l’appello di una verità più principale.” [FT: 21]. Questo disvelamento più originario, in cui si esperisce l’appello di una verità più principale ha a che fare col significato di τέχνη e di ποίησις intese come arte e creazione artistica, come Heidegger specifica alla fine della Frage [FT: 25-27]. 35 La crisi delle scienze e l’alienazione tecnologica convergono in una generale crisi antropologica dell’occidente. La società liquida descritta da Bauman è una società dell’incertezza, in cui la solidità dei legami sociali che interessavano l’individuo in epoca moderna vengono meno. Le risorse e le fonti energetiche tradizionali, e con esse la fiducia dei consumatori nelle istituzioni tradizionali, sono vicine all’esaurimento. La grande crisi finanziaria americana ed europea, sviluppatasi dal 2007, si somma pericolosamente a questo quadro preoccupante. La perdita di fiducia nelle risorse economiche, sommata all’acuirsi del terrorismo fin nel cuore delle capitali europee ed 32 33 39 “incuria” di cui parla Heidegger nella Lettera è pienamente protagonista di questa situazione. La scienza non è più in grado di rispondere alle necessità del mondo e dell’uomo derivanti dal modo in cui essa stessa le ha plasmate, i problemi sollevati dalla bioetica sono un chiaro esempio del vuoto etico che ha accompagnato la scienza nei suoi ultimi sviluppi. Cosa c’è da ascoltare, in effetti, nel detto heideggeriano “la scienza non pensa”? “In effetti”, cioè ai fini della liberazione effettiva della cultura occidentale dall’alienazione tecnologica che l’affligge. Forse il non pensare è connesso alla dimenticanza delle problematiche esistenziali e morali da cui la scienza, almeno fino a pochi anni fa, non può essere scagionata? La crisi delle scienze e dell’umanità europea di cui scrive Husserl fra le due grandi guerre non è affatto superata, è forse necessaria oggi una riformulazione proprio di quella crisi. Una delle tesi centrali della nostra riflessione è che la nascita, lo sviluppo e la specializzazione del concetto di causa, a partire dall’analogia aristotelica fra τέχνη e φύσις (Fisica, B 2), sia alla base della concezione che l’uomo occidentale, nel suo agire scientifico, ha del rapporto fra uomo e natura e dei rapporti economici fra esseri umani (dall’antichità fino al capitalismo contemporaneo). L’uomo occidentale, in quanto animal scientificum e technologicum concepisce questi rapporti come rapporti di impiego e sfruttamento. Il concetto di causa, interpretato alla luce della teoria manipolativa della causalità, può invece divenire la chiave concettuale per ricostruire un ponte fra responsabilità etica e scienza. La tecnica è un impiego36 umano della natura, un modo per produrre effetti previsti e voluti tramite le cause appropriate (cfr. [BH: 267]). La causa, come risulta dall’analisi dei primi testi in cui compare – in Aristotele e nei suoi contemporanei (soprattutto nelle Storie di Tucidide e nell’Antica medicina di Ippocrate di Cos) – è un concetto astratto, attinente alla sfera della conoscenza, pensato sulla base dell’azione consapevole e finalizzata del soggetto umano37. Come si evince dal libro B della Fisica di Aristotele, il concetto di causa nasce già connotato epistemologicamente e con un forte americane, determina la perdita di fiducia del consumatore occidentale in istituzioni come lo stato, le banche e la politica tradizionale. 36 Il termine “impiego” è qui pensato sulla base delle riflessioni di Heidegger in Die Frage nach der Techink, cit. 37 Sulla teoria manipolativa della causalità cfr. G. H. von Wright, Explanation and Understanding, Ithaca, New York, Cornell University Press, 1971; H. Price, Causal Perspectivalism, In H. Price, R. Corry (eds), Causation, Physics, and the Constitution of Reality: Russell’s Republic Revisited, Oxford, Oxford University Press, 2007, pp. 250292; M. Buzzoni, The Agency Theory of Causality, Anthropomophism and Simultaneity, in “International Studies in the Philosophy of Science”, Vol. 28, No. 4, 2014, pp. 375-395. 40 riferimento implicito all’agire umano38: è sulla base della nostra esperienza di agenti capaci di alterare il corso degli eventi che leghiamo fra loro fenomeni sequenziali ed interpretiamo in modo causale lo sviluppo degli eventi secondo il dipolo causa-effetto. Ciò implica che l’agire tecnico-scientifico non può essere separato dall’agire morale: uno e indivisibile è infatti il soggetto e l’agire umano, scientifico o etico che sia. E’ chiaro infatti che i soggetti umani, come modificatori consapevoli degli eventi naturali, non possono non tenere conto – come invece finora si è fatto – delle conseguenze a breve e lungo termine di tali intromissioni umane nel corso degli eventi naturali e delle implicazioni morali del loro agire (o del loro omettere). Uno dei bersagli polemici della nostra impostazione è, dunque, quel principio di Hume che costituisce il fondamento argomentativo di quanti propugnano come valore assoluto “la libertà della scienza”. In base a questo principio sarebbe impossibile trarre dalla descrizione ontologica dei fenomeni e degli oggetti regole di comportamento etico a cui l’uomo dovrebbe attenersi, nei loro confronti o in base ad essi. Tale posizione, che è stata storicamente uno dei capisaldi metodologici seguiti dai ricercatori e dai propugnatori del mito positivista dell’ “oggettività pura”, e dello svincolamento della ricerca scientifica dalla morale, appare oggi agli occhi di Jonas, nell’epoca del disastro economico ed ecologico, superata e pericolosa39. Di fronte al disastro ecologico e a pratiche biotecnologiche che mettono oggi in secondo piano, o trascurano del tutto, il valore della dignità della persona, appare più sensato, secondo il nostro parere, abbracciare proprio il rovesciamento di tale principio: “è necessario trarre dalla descrizione ontologica dei fenomeni e degli oggetti regole di comportamento etico per l’uomo, nei loro confronti o in base ad essi”. Se una delle acquisizioni fondamentali della scienza della complessità del XX secolo è l’ingresso del soggetto nelle discussioni scientifiche ed epistemologiche, allora non si può trascurare che il soggetto della scienza è portatore dei propri valori morali e che la sua visione scientifica del mondo ha sempre (se non soprattutto) una tonalità etica. L’analisi di Husserl nella Crisi va in questa stessa direzione: le scienze europee sono in crisi a causa (del mito) Cfr. a questo proposito gli studi del 2015 di cui il presente lavoro costituisce lo sviluppo: G. Licata, Definizione e significati della φύσις in Aristotele a partire dal confronto con la τέχνη. Il λόγος come apertura della φύσις alla τέχνη in Fisica B 1-2, in R. Caldarone (ed.), Natura della tecnica e tecnica della natura, Brescia, Morcelliana, 2015, pp. 11-29 e G. Licata, L’analogia φύσις-τέχνη in Aristotele (Fisica B, 3-9) e la teoria interventistica della causalità, in “Epistemologia”, 2, 2015, pp. 175-194. 39 Sul principio di Hume e sulla sua confutazione proposta da Jonas cfr. L. Sesta, The “IsOught Question” and the Needy Newborn Child in the Neo-Aristotelian Perspective of Hans Jonas, in G. Licata e L. Sesta (eds.), Philosophical Essays on Language, Ontology and Science, Milano, Franco Angeli, 2013, pp. 121-139. 38 41 dell’oggettivismo fisicalista che ha lasciato il soggetto fuori dalle scienze oggettive e chiuso le scienze fuori dal mondo-della-vita, in cui dimora effettivamente il soggetto. L’effetto di questa separazione è una scienza inerte ed estranea all’uomo. Ne consegue che, secondo Husserl, la filosofia deve farsi carico di ricongiungere in unità i due lati della conoscenza, soggetto e oggetto, che le scienze esatte, aventi come modello la fisica, hanno così profondamente separato. L’inerzia e l’estraneità delle scienze oggettive, ai tempi della Crisi, sono divenute oggi indifferenza morale e danno per gli ecosistemi e per l’uomo. Appare dunque necessario un approfondimento del concetto di causa nella ricerca scientifica e nel linguaggio dell’epistemologia. Lo sviluppo stesso della cultura scientifica e tecnologica, in occidente, ha proceduto di pari passo con la nascita e la trasformazione del concetto di causa. Il fatto che Heidegger, ne Il principio di ragione, ricolleghi il concetto di causa elaborato in occidente alla fabbricazione della bomba atomica40, è un fatto che può apparire singolare, ma che deve suscitare una riflessione. La scienza è scienza di leggi causali ed è grazie a (o per colpa di) questa circostanza che l’agire tecnologico ha conseguito tutti i suoi successi e ha amplificato enormemente il potere di incidenza della specie umana sulla vita del pianeta. E’ questo uno dei sensi della critica all’Handeln inautentico con cui Heidegger apre la Lettera: Noi non pensiamo ancora in modo abbastanza decisivo l’essenza dell’agire (Handeln). Non si conosce l’agire se non come il produrre un effetto la cui realtà è valutata in base alla sua utilità. L’essenza dell’agire, invece, è il portare a compimento (Vollbringen). [BH: 267] Nelle scansioni delle ere geologiche, a partire dalla rivoluzione industriale, è oggi arrivato il tempo dell’antropocene: l’era in cui l’intero pianeta prende l’aspetto che ha a causa dell’incidenza sugli ecosistemi delle azioni della specie umana, in forte crescita demografica. Secondo i calcoli M. Wackernagel sull’ “impronta biologica”41, se nel 1961 la specie umana utilizzava il 70% delle risorse naturalmente rigenerabili della biosfera, nel 1999 arrivava a consumarne il 120%; la velocità del consumo umano delle risorse, supera la velocità a cui esse si riproducono, intaccando il patrimonio naturale della Terra riservato al futuro. Il sovrasfruttamento delle risorse biologiche, dovuto alla produzione industriale ed agricola, com’è noto, è trainato dei paesi che in epoca contemporanea hanno visto maggiormente crescere il loro prodotto interno, cioè quei paesi del mondo occidentale a cui negli anni Cfr. M. Heidegger, Der Satz vom Grund, Pfullingen,Verlag Günther Neske, 1957; trad. it. F. Volpi e G. Gurisatti, M. Heidegger, Il principio di ragione, Milano, Adelphi, 1991. 41 Cfr. M. Wackernagel, W. Rees, Our Ecological Footprint: Reducing Human Impact on the Earth, Gabriola Island, New Society Publishers, 1996. 40 42 della globalizzazione si sono affiancate le nazioni economicamente emergenti. La cultura consumistica occidentale guida questo sovrasfruttamento, la storia e la cultura europea sono l’ambito specifico in cui si è realizzato questo squilibrio e questo sovradimensionamento dell’uomo rispetto alla dimora naturale. La filosofia occidentale, come linea di sviluppo della cultura europea, proprio a partire dalla genesi della scienza, che è di fatto lo strumento tramite cui l’uomo realizza questo smisurato impatto ecologico, può sentire la responsabilità di cercare soluzioni a questo squilibrio e a questo impiego estraniato e spersonalizzato della tecnica? Del resto, la prima rivoluzione industriale ha coinciso cronologicamente con quel rinnovamento della cultura europea, che si è concretizzato con l’ascesa del capitalismo ed è stato guidato dalla fiducia in una razionalità emancipata dalla fede religiosa (finalizzata alla concquista del potere politico) e che ha proclamato i diritti dei cittadini di fronte allo stato, in una parola, con l’illuminismo. Gottfried Wilhelm Leibniz42, iniziatore della tradizione filosofica tedesca, fu uno dei primi illuministi. Intellettuale orgogliosamente europeo, cercò e mantenne contatti coi più grandi scienziati del suo tempo, a prescindere dalla loro nazionalità e dalle rivalità politiche fra i loro stati, nelle principali capitali del vecchio continente. Il filosofo di Hannover non considerò il proprio studio filosofico come distinto dalle numerose e disparate ricerche che condusse in vari campi della scienza. Leibniz è il pensatore della “macchina” nell’epoca che prelude l’avvento della civiltà delle macchine e dell’industria, il pensatore di una razionalità meccanicisticamente perfetta che però è conscio, in quanto uomo di fede, dei limiti della ragione. Le sue dimostrazioni dell’esistenza di Dio si fondano proprio sullo scarto sussistente fra la perfezione meravigliosa e ipercomplessa della natura e la finitezza della conoscenza umana. Praticò le scienze particolari e considerò se stesso scienziato senza credere che tale pratica fosse qualcosa di diverso dalla filosofia; fu uno degli ultimi geni filosofici universali: nelle sue opere metafisica, logica, teologia ed etica sono interconnesse e logicamente coerenti; le scienze particolari come la fisica, la matematica, la biologia, l’economia e il diritto sono diramazioni consequenziali che si mantengono coerenti con una visione generale del mondo e dell’uomo. In Leibniz l’ideale C.I. Gerhardt (ed.), Die philosophieschen Schriften von Gottfried Wilhelm Leibniz, Berlin, Weidmannsche Buchhandlung, 1875-1890, 7 Voll. La nostra riflessione sulla filosofia di Leibniz è stata condotta facendo riferimento, in particolare, ai seguenti scritti: Confessio naturae contra atheistas (1668), Discours de métafisique (1686), Primae veritates (1686), Système nouveau de la nature et de la communication des substances, aussi bien que de l’union qui il’y a entre l’âme et le corps (1695), Essais de Théodicée sur la bonté de Dieu, la liberté de l’homme et l’origin du mal (1710), Principes de la nature et de la grâce fondés en raison (1714), Monadologie (1714). 42 43 rinascimentale a cui allude Husserl di una filosofia che, unitamente alla ricerca scientifica, sia finalizzata alla felicità dell’uomo è pienamente presente. Leibniz è uno dei maggiori teorizzatori del concetto di causa in filosofia, il suo principio di ragion sufficiente viene studiato da Heidegger ne Il Principio di Ragione. L’intento di Heidegger, in questo scritto, è quello di opporre al pensiero causale della metafisica – che ha di fatto generato la ricerca scientifica – un nuovo modo di pensare. La richiesta heideggeriana, che si esca da una razionalità esclusivamente e scientificamente causale, è importante di fronte alla crisi delle scienza e della tecnologia, ma non può essere l’ultima parola: è infatti necessario molto pensiero causale e molta razionalità tecnica per fronteggiare i disastri della tecnica. Il concetto di causa non può essere liquidato, nelle scienze, da una superficiale e ottusa ansia di rinnovamento iconoclasta che non vuole guardare ai problemi di contesto; del resto le critiche al concetto di causa, formulate da Russell43 e da Mach44 sulla base di una forma estrema di empirismo, o dovute ai paradossi della meccanica quantistica, presuppongono che il metodo della ricerca scientifica debba necessariamente seguire il modello della fisica, o addirittura di un suo campo specifico. Il concetto di causalità, invece, deve essere valorizzato e analizzato entro un pensiero che prende coscienza del fatto che l’uomo pensa filosoficamente e scientificamente la causa perché egli stesso è un ente causale. La teoria manipolativa della causalità, che vede il concetto di causa proprio in questo modo, diviene, come abbiamo chiarito, proprio un richiamo per l’ingresso della responsabilità morale nell’agire tecnologico e nella ricerca scientifica: responsabilità morale della scienza che la riflessione di Jonas comincia a chiarificare nel dibattito filosofico e che la filosofia heideggeriana, per quanto proposta nel suo linguaggio fortemente metaforico, già propugna con la questione del pensiero dell’essere. Sebbene Heidegger ci abbia insegnato che il pensiero causale è profondamente legato al disastro tecnologico45, è proprio tramite il concetto di causa, e dunque tramite la fiducia nell’umano operare tecnico, che possiamo sperare di oltrepassare la profonda crisi antropologica in cui il pianeta occidentalizzato si dibatte. Cfr. B. Russell, On the Notion of Cause, in “Proceedings of the Aristotelian Society”, new series, Vol. 3 (1912-1913), pp. 1-26. 44 Cfr. E. Mach, Die Mechanik in ihrer Entwicklung historisch-kritisch dargestellt, Lipsia, Borckaus, 1883. 45 “Noi non pensiamo ancora in modo abbastanza decisivo l’essenza dell’agire (Handeln). Non si conosce l’agire se non come il produrre un effetto la cui realtà è valutata in base alla sua utilità. L’essenza dell’agire, invece, è il portare a compimento (Vollbringen).” [BH: 267]. 43 44 In Oriente sono germogliate in passato nobili culture improntate ad un profondo rispetto della natura e all’equilibrio fra ambiente naturale e popolazione umana; tali culture negli ultimi due secoli sono state soppiantate da una violenta forma di occidentalizzazione esistenziale ed economica. Il Giappone, la Cina e la Corea sono i paesi che più di tutti hanno puntato sul progresso tecnologico per conseguire il benessere sociale. Il disinteresse da parte delle economie emergenti, in area asiatica, per le problematiche ecologiche sono una prova di questa occidentalizzazione della cultura, passata attraverso l’industrializzazione, la ricerca e lo sviluppo economico – a emulazione del capitalismo occidentale. Le conseguenze ecologiche di questa occidentalizzazione sono tristemente visibili sia su scala globale sia su scala locale. L’Europa è stata la culla del capitalismo e dell’imperialismo: oggi l’occidente non è più l’unica area del pianeta in cui la società è strutturata dal capitalismo. Gli imperialismi storicamente più recenti rispetto a quello europeo sono semplicemente una riproposizione e un’emulazione di quello originale. L’Europa affonda le sue radici nella cultura del dominio, e dello sfruttamento – in forma di commercio per essa conveniente – dei territori controllati. Fin dal dominio di Roma sul mediterraneo e sul continente, l’Europa si è evoluta come centro di esercizio del potere, la sua cultura politica e giuridica (e quindi anche antropologica) si è formata a partire da questa decisiva epoca e ha visto, nei secoli successivi, vari tentativi di riproposizione, alle condizioni che si andavano presentando, di questa forma di dominio universale. L’impero medioevale, il potere della chiesa e il colonialismo dei grandi stati nazionali moderni sono le tappe decisive di questo cammino politico e culturale. Gli imperialismi dell’ottocento e del novecento46, coi loro esiti 46 L’analisi di Bauman lega il dominio che l’Europa ha esercitato sulle popolazioni d’oltre oceano, proprio al mito del progresso e del consumo, esportati presso gli indigeni in cambio di territori e di materie prime; lungo la sua parabola economica, l’Europa ha svolto, con le sue scoperte ed il suo controllo politico, una vera e propria “missione globalizzante”: “A tutti coloro che incontravano nei loro viaggi per il mondo, i messaggeri dell’Europa chiedevano il sacrificio supremo: la cessione della sicurezza, poggiante sull’autonoma riproduzione di sé. […], l’Europa ha aperto la via alla tolleranza dell’alterità, e al tempo stesso ha dichiarato una guerra di logoramento contro qualsiasi alterità o identità che non riuscisse ad elevarsi agli standard che essa proponeva, o rifiutasse persino di provarci. Per l’Europa il resto del pianeta non era una fonte di minacce, ma una sala del tesoro colma di sfide. Per molti secoli l’Europa ha esportato appassionatamente il proprio surplus di storia, spronando/forzando il resto del pianeta a partecipare al suo consumo. Quei lunghi secoli di commercio unilaterale e ingiusto ora ricadono sull’Europa stessa, mettendola a confronto con il compito avvilente di consumare localmente il surplus di storia planetaria. Fin dall’inizio dell’avventura europea, ma in particolar modo durante i secoli più recenti della sua lunga storia, di cui abbiamo un ricordo più nitido, l’intero pianeta è stato il campo da gioco dell’Europa, o almeno così è sembrato agli spiriti, irrequieti, intrepidi e avventurosi. Quei secoli sono 45 bellici (strettamente intrecciati all’accelerazione tecnologica), hanno poi dimostrato abbondantemente dove porta questo atteggiamento. Le due guerre euro-mondiali, oltre ad essere state immani fabbriche di morte, hanno segnato le tappe decisive dell’avanzamento tecnico ed hanno portato, soprattutto, alla consacrazione finale dell’alleanza tra capitalismo e progresso tecnologico. Dopo ciò che è accaduto in Europa, negli Stati Uniti e in Asia nei primi cinquant’anni del XX secolo, il mondo è un luogo in cui, affinchè l’economia vada bene, è necessario che vengano consumate e vendute (fra miriadi di altri prodotti) grandi quantità di petrolio, automobili, computers, telefoni cellulari e armi; tutto questo avviene sulla base dell’innesco reciproco di obsolescenza e prototipicità, a causa del quale, inoltre, grandi quantità di rifiuti quasi mai biodegradabili vengono a gravare sull’ambiente. L’Europa porta dunque con sé l’ideale della sopraffazione dell’altro: il capitalismo, che si è sviluppato lungo questo cammino, è lo spirito stesso di questa sopraffazione, esso è ancora legge della giungla, status naturae vigente tramite mezzi tecnologici. L’Europa ha scoperto, passati alla storia dell’Europa come «l’età delle scoperte geografiche». Scoperte europee, naturalmente: fatte da inviati ed emissari dell’Europa e a vantaggio dell’Europa.[…]. [scoprire] Significava anche dischiudere spazi immensi, ma ancora deserti o fortemente trascurati, all’abitazione e all’impiego produttivo da parte dell’uomo. L’Europa aveva bisogno di/voleva entrambe: le ricchezze per rifornire i forzieri reali ormai vuoti, e le terre dove far vivere uomini e donne per la cui sopravvivenza fisica o per le cui ambizioni sociali non c’era abbastanza posto in patria.[…] Un pianeta con abbastanza vuoti che potessero fungere da discarica per i problemi (e, cosa ancor più importante, per coloro che li creavano). Ora, tutto sommato, potrà sembrare che l’esigenza costante di smaltirli sia stata una delle forze propulsive principali – forse addirittura la principale – dell’espansione planetaria dell’Europa, della sua «missione globalizzante». Per secoli l’Europa si è sentita il sovrano del pianeta e ha agito come tale. […]. La conquista europea era un atto nobilitante, che innalzava i conquistati alle altezze della vera conoscenza e della moralità superiore. O perlomeno, così credevano gli europei. Ad eccezione di poche nicchie di difficile accesso, l’intero pianeta è stato rifatto secondo il modello europeo: ha accettato di buon grado – o vi si è arreso riluttante – la modalità trasgressiva dell’esistenza che l’Europa aveva fatto sua, e poi disseminato fin nelle regioni più remote del pianeta. Verso la fine del XX secolo, la missione dell’Europa era ormai compiuta, anche se non necessariamente nella forma e con i risultati sognati dai profeti e paladini del mondo ‘civilizzato’, quello amichevole, pacifico, domestico e ospitale della «perfetta unificazione civile del genere umano» […] asserita da Immanuel Kant, del fulgido mondo dei philosophes francesi fatto di lumières, giustizia ed equità, Stato di diritto, ragione e solidarietà fra gli uomini. La ‘missione realmente compiuta’ si è dimostrata, più che ogni altra cosa, la diffusione globale di una spinta compulsiva, ossessiva e in cui si rimane invischiati a ordinare e riordinare (nome in codice: modernizzazione), e della pressione irresistibile a degradare e squalificare i modi attuali e contemporanei di vivere e guadagnarsi da vivere, spogliandoli del loro valore di sopravvivenza e della loro capacità di esaltare la vita (nome in codice: progresso economico): le due specialités de la maison européenne all’origine della nostra inesauribile riserva di ‘rifiuti umani’.” Z. Bauman, Europe. An Unfinished Adventure, cit., pp. 15-18. 46 colonizzato ed assimilato a sé: ha creato un mondo irreggimentato dalla guida della tecnica, volto alla produzione e all’impiego delle risorse naturali a fini di arricchimento, senza cura per i territori e per le culture delle popolazioni indigene che trovava. L’olocauso è l’orrendo e inevitabile figlio di questa cultura omnipervasiva del dominio – prima e più profondamente di questa cultura, che della filosofia dell’identità e della “tirannia del Medesimo” di cui parla Lévinas nelle sue opere. Probabilmente la filosofia dell’esaltazione dell’identità (che di fatto è molto forte nel pensiero occidentale) – che Lévinas vede come la spietata macchina che annulla le differenze, a partire dalla quale si sarebbe prodotta la cultura della sopraffazione dell’altro – è invece più dovuta al monoteismo della religione cristiana e al monismo dell’antica filosofia presocratica che influenzò fortemente Platone e Aristotele. Lévinas può portare avanti la sua nota analisi accusatoria sulla filosofia occidentale appunto perché il monismo/monoteismo filosofico e religioso (del cristianesimo) contraddistinguono la storia europea insieme alla verticalizzazione del potere politico-religioso, e alla cultura europea del dominio, che si è sviluppata a causa della centralizzazione del potere politico sul mediterraneo e sul continente europeo attuatasi tramite l’espansione di Roma. Però, così come Heidegger aveva fatto, anche Lévinas si pone – ma in aperta polemica con Heidegger – di fronte all’intera storia della filosofia, greca fin dall’origine, per metterla sotto accusa e sottrarre il proprio pensiero alle strutture concettuali della φιλοσοφία, ed oltrepassarne i suoi esiti, a suo giudizio, violenti e totalitari. Può avere successo un’operazione del genere? E’ possibile eccedere o scardinare il discorso filosofico senza essere riassorbiti al suo interno? E’ possibile “scavalcare” lo “scavalcamento” stesso, indicato da Heidegger, dell’intera storia della filosofia47? 47 Scrive Derrida: “Quando Heidegger, per esempio dice che «da molto tempo, già da troppo tempo, il pensiero è in secco», come un pesce sulla terra, l’elemento al quale intende restituirlo è ancora – già – l’elemento greco, il pensiero greco dell’essere, il pensiero dell’essere la cui irruzione o il cui appello avrebbero prodotto la Grecia. Il sapere e la sicurezza di cui noi parliamo non sono dunque nel mondo: sono piuttosto la possibilità del nostro linguaggio e la base del nostro mondo. E’ a questo grado di profondità che ci farebbe vibrare il pensiero di Emmanuel Levinas. In fondo all’aridità, in mezzo al deserto che cresce, questo pensiero che non vuole più essere per fondazione pensiero dell’essere e della fenomenicità, ci invita a pensare una demotivazione ed una espropriazione inaudite: 1. In greco, nella nostra lingua, in una lingua ricca di tutte le alluvioni della sua storia – e già qui si preannuncia il nostro problema – in una lingua che incolpa se stessa di un potere di seduzione di cui fa continuamente uso, essa ci invita alla dislocazione del logos greco; alla dislocazione della nostra identità e forse dell’identità in generale; ci invita ad abbandonare il luogo greco, e forse il luogo in generale, verso ciò che non è più nemmeno una sorgente o un luogo (troppo favorevole agli dèi), verso una respirazione, verso una parola profetica già effusa non solo a monte 47 Anche la logica e la metafisica di Leibniz, fondandosi sul principio d’identità, risultano pienamente rispondenti alla ricostruzione di Lévinas, secondo cui la storia della filosofia non sarebbe altro che il procedere del Medesimo nel progressivo annullamento delle differenze degli individui, dovuto alla mancanza di riguardo per l’alterità dell’Altro. Eppure la logica e la metafisica moderne, insieme alla filosofia occidentale, meritano di subire le pesanti accuse mosse loro dal pensatore franco-lituano? E’ davvero questa vocazione all’identità presente nel pensiero filosofico la ragione profonda dell’olocausto o delle sanguinose e continue guerre che hanno contribuito a forgiare la cultura degli europei? L’Europa è all’attenzione della storia e viene percepita come la fucina della storia universale, perché essa è stata in pochi secoli di Platone, non solo a monte dei presocratici, ma al di qua di ogni origine greca, verso l’altro del Greco (ma l’altro del Greco, sarà il non-Greco? Potrà soprattutto, chiamarsi il non-Greco? E il nostro problema si approssima). Pensiero per il quale il tutto del logos greco è già sopravvenuto, humus che si è posato non su di un terreno, ma intorno ad un vulcano più antico. Pensiero che, senza filologia, attraverso l’unica fedeltà alla nudità immediata ma svanita dell’esperienza stessa, vuole affrancarsi dalla dominazione greca dello Stesso e dell’Uno (altri nomi per la luce dell’essere e del fenomeno) come da un’oppressione, certo diversa da ogni altra esistente, oppressione ontologica o trascendentale, ma anche origine e alibi di ogni oppressione nel mondo. Pensiero infine che vuol affrancarsi da una filosofia affascinata dall’«aspetto dell’essere che si manifesta nella guerra» e che «si fissa nel concetto di totalità che domina la filosofia occidentale» (TI, X). 2. Questo pensiero vuole tuttavia definirsi, nella sua possibilità prima come metafisica (nozione greca tuttavia, se seguiamo il corso del nostro problema). Metafisica che Levinas vuole sollevare dalla sua subordinazione e di cui intende restaurare il concetto contro il tutto della tradizione derivata da Aristotele. 3. Questo pensiero si richiama alla relazione etica – rapporto non violento all’infinito come infinitamentealtro, ad altri – che sola potrebbe aprire lo spazio della trascendenza e liberare la metafisica. Tutto questo, senza basare l’etica e la metafisica su qualcosa di diverso da esse stesse e senza confonderle, al loro sorgere, con altre acque. Si tratta dunque di una volontà poderosa di spiegarsi con la storia della parola greca. Poderosa perché, anche se questo tentativo non è il primo del genere, raggiunge nel dialogo una altezza e una incisività nella quale i greci – e innanzitutto quei due Greci che ancora sono Husserl e Heidegger – sono costretti a rispondere.[…] Che cosa significano questa spiegazione e questo scavalcamento reciproco di due origini e di due parole storiche, l’ebraismo e l’ellenismo? […]Se si pensa che anche Heidegger intende aprire il passaggio ad una antica parola che, cercando un sostegno nella filosofia, conduca al di qua o al di là della filosofia, che significato hanno, qui, quest’altro passaggio e quest’altra parola? E soprattutto che cosa significa questo sostegno cercato dalla filosofia in cui esse dialogano ancora?” [VM: 103-105]. Impossibile non notare, riguardo all’ultimo interrogativo posto da Derrida, che il dialogo di Heidegger con la filosofia è più che giustificato, poiché le sue critiche alla metafisica, che secondo Heidegger comincia con Platone, comporterebbero il ritorno, coi presocratici, all’originale ed autentica filosofia greca; Al contrario, il dialogo di Lévinas con la filosofia, visto il suo tentativo di eccedere del tutto la parola filosofica tramite termini e filosofemi che rimangono appartenenti alla tradizione filosofica greca (metafisica, trascendenza, alterità, dialogo/faccia a faccia, ecc.), è ciò che rimane problematico fino al paradosso. E’ questo uno degli elementi che, a nostro modo di vedere, lascia la filosofia greca, e con essa la filosofia heideggeriana, indenne alle critiche proposte da Lévinas. 48 la patria della rivoluzione scientifica, della rivoluzione industriale e delle dichiarazioni d’indipendenza americana e dei diritti dell’uomo e del cittadino in Francia – dovute, queste ultime, alle complesse vicende politiche vissute dagli stati che in età moderna andavano colonizzando i territori d’oltreoceano. Queste vicende, insieme all’ascesa del capitalismo, hanno reso l’Europa protagonista della storia mondiale, ne hanno decretato il ruolo di entità politica dominatrice sul pianeta; non è a causa della filosofia e della metafisica del Medesimo che in Europa si è potuto realizzare il male assoluto della Shoa, esso è stato l’effetto di una cultura alienata, ostaggio dell’istinto di sopraffazione. E’ Braudel, con le sue ricerche sulla nascita del capitalismo dal mercantilismo, a indicarci una possibile ragione di questa particolare funzione dell’Europa nella storia. Del resto i commerci, la tecnologia e la cultura politica durante il medioevo si erano evoluti anche in altre parti del globo; si pensi alla Cina e al Pakistan, ad esempio. I territori europei, a differenza di altri territori del pianeta, avevano economie-mondo tanto vicine da compenetrarsi, tanto vicine da creare una rete dinamica largamente estesa. In Europa, dal XIV secolo in poi, le città decisive per il commercio cominciano ad essere tante e le vie che le collegano intensamente percorse. La vicinanza fra le città continentali (fra loro e con le città marittime) e le pratiche ereditate dal mercantilismo navale dell’impero romano, trasferite nel basso medioevo anche al mare del nord e al mar baltico, crea quel particolare movimento economico in cui la necessità di acquistare e vendere denaro porta alla nascita delle prime banche del mondo, i mercati delle città più importanti vengono affiancati dalle prime borse, le piazze in cui si riuniscono i mercanti con maggiore disponibilità finanziaria. La spinta demografica della cristianità continentale crea il bisogno di reperire nuove risorse, l’esplorazione e l’apertura di nuove rotte marittime sono le naturali risposte a queste necessità. Ma torniamo alla questione dell’identità e all’accusa di Lévinas secondo cui la filosofia europea si realizzerebbe come un imperialismo del Medesimo, in base al quale verrebbe negato rispetto e riconoscimento all’alterità dell’Altro. La fondazione della logica e della gnoseologia sul principio d’identità, così come l’univocità dell’essere heideggeriano, sono probabilmente effetti di lunga durata di uno dei testi che la filosofia (specialmente nelle riflessioni di Platone e di Aristotele) ha scelto di prendere come suo atto fondativo e – fatto probabilmente legato a questa scelta – effetti della rivoluzione monoteistica che, alla fine dell’impero romano, la religione ha subito con l’avvento del cristianesimo. Il testo a cui mi riferisco è il trattato Sulla Natura di Eraclito, in cui viene sviluppata una concezione della realtà a partire dall’idea secondo cui “tutto è uno”. A ventidue secoli dalla 49 scrittura del trattato di Eraclito, Leibniz, col suo principio di identità48 riprende questa idea di unità della realtà e la lega ad una teologia dell’Uno: Dio è l’Uno a causa del quale tutte le realtà mondane sono uno. Ciò che permette a Leibniz di dire che l’identità è la prima veritas – la proposizione vera su cui si fondano tutte le altre proposizioni vere – e di affermare che tutto l’essente è uno, è la teoria dell’intima connessione di tutte le cose, l’idea dell’armonia prestabilita. Nessuna filosofia pare prestare il fianco alle accuse rivolte da Lévinas al pensiero occidentale più di quella di Leibniz, col suo primato metafisico riservato all’unità; eppure andando in profondità si scopre che il pensiero di Leibniz, è un pensiero in cui le monadi, le anime di tutti i viventi, sono entità irrimediabilmente singolari, la loro separazione ed alterità non è meno abissale dell’alterità dell’Altro lévinasiano, la loro forza energetica è connessa alla loro chiusa e irripetibile individualità. Ciò che domina nello stile di pensiero del filosofo di Hannover è proprio il senso di stupore continuo per il nuovo che anima la ricerca scientifica e che ha animato al filosofia fin da Platone: la natura ci mette continuamente di fronte a qualcosa di inedito e ammirevole, è impossibile che la conoscenza, “fin dal primo raggio di luce”, come ci dice Lévinas, appiattisca e annulli l’alterità dell’oggetto conosciuto. Però, pare suggerirci la riflessione di Leibniz, in questa ricchissima varietà di differenze deve esserci un principio comune, profondissimo e inconoscibile, a cui tutti gli individui sono legati. Questo principio è un ordine in cui si ha fede, un’interconnessione silenziosa fra tutte le cose che non si può conoscere a causa della sua infinità e che però si intuisce in modo evidente, un ordine che è necessario postulare proprio a causa della parziale comprensione di cui partecipano, in gradi differenti, tutti gli esseri. Filosofo d’Europa, filosofo della città felice, cioè della comunità armonica degli spiriti liberi (monadi) che rispecchia l’infinita bellezza e perfezione del disegno divino, Leibniz è il filosofo della pre-formazione, del pre-stabilire – se seguiamo la sua idea logico-metafisica. Egli è il filosofo del progetto, che ha potuto apprezzare la rivoluzione scientifica senza assistere ancora ai guasti di una tecnica fuori controllo, in balia del capitalismo. Di certo agli occhi della scienza contemporanea l’interpretazione leibniziana dei fenomeni appare meccanicistica e determinista49, ma, per la scienza e per la filosofia contemporanee, del pensiero di Leibniz è fondamentale recepire la sua capacità di porre la forza dell’uomo nella razionalità logica e, insieme, il suo saper fare retrocedere la razionalità umana di fronte alla meraviglia manifesta Da cui scaturisce immediatamente il principio di ragion sufficiente, per la perfetta causalità che lega tutti gli eventi e per il nesso fra verità contingenti e verità necessarie. 49 Anche se, in effetti, egli è un precursore di quelle teorie della complessità che hanno permesso il superamento del determinismo. 48 50 dell’ordine naturale, costituendo la filosofia in umiltà come un pensiero della finitezza. La filosofia in Leibniz opera per la felicità dell’uomo; pur coltivando secondo una modalità già illuministica la scienza e la logica, il suo pensiero è aperto al sacro e alla trascendenza, egli non sente alcuna contraddizione fra le verità della scienza e quelle della fede, facendole anzi cooperare in un sistema logicamente coerente in cui non possono esistere le une senza le altre. Se l’operazione di fondare la conoscenza e la logica sul principio d’identità è anche il risultato storico del testo eracliteo, allora per Leibniz, l’identità da cui si prende avvio nelle leggi logiche e nella costruzione della conoscenza ha prima di sé, come fondamento inconoscibile e “ragione” ultima, l’armonia. Solo l’armonia per cui tutto è uno, solo la connessione interna fra tutte le cose può portare all’idea che un’astrazione, qual è l’identità perfetta, possa fungere da principio della conoscenza. L’armonia è effetto della perfezione del disegno divino; essa non nega ma riassume in se, giustifica e redime il contrasto, il male ed il negativo. Naturalmente, come dimostra il testo delle Categorie di Aristotele da cui Leibniz prende le mosse, il principio di identità è alla base del concetto di verità anche per il modo “naturale” in cui è strutturato il giudizio, la predicazione avviene infatti sulla base di una certa identità fra soggetto e predicato50: Verità prime sono quelle che enunciano la medesima cosa circa se stessa o negano l’opposto del suo opposto. Ad esempio, «A è A», oppure «A non è non A». Se è vero che A è B, è falso che A non è B, o che «A è non B». Analogamente, «ogni 50 Aristotele imposta lo studio della predicazione sull’identità (parziale) fra soggetto e predicato perché analizza la definizione, e dunque i generi subordinati l’uno all’altro: “Quando una cosa è predicata di un’altra come di un soggetto, tutte quelle cose che sono dette del predicato saranno dette anche del soggetto. Ad esempio uomo è predicato di un certo uomo, animale è predicato di uomo; pertanto animale sarà predicato anche di un certo uomo. Infatti un certo uomo è sia uomo che animale.” Categorie, 3, 1b 10-15; la traduzione italiana che ho utilizzato è Aristotele, Le categorie, a cura di M. Zanatta, Milano, BUR, 1989, p. 303; l’edizione critica è Aristotelis, Categoriae et Liber De Interpretatione, recognovit brevique adnotatione critica instruxit L. Minio-Paluello, Oxford, Oxford Classical Texts, 1949. Con la tesi del praedicatum inest subiecto Leibniz sostiene che in profondità anche le proposizioni sintetiche, dunque quelle in cui non vengono predicate del soggetto caratteristiche presenti nella definizione logica del soggetto, sono analitiche e riducibili ad identità in cui il soggetto viene ripetuto perfettamente nel predicato: ‘Pietro è Pietro’, ‘A è A’. Ciò è dovuto alla particolare tesi sostenuta da Leibniz sugli eventi contingenti e alla sua logica modale, secondo cui i predicati che contingentemente ineriscono ad un soggetto nel tempo sono anch’essi predicati necessari presenti ab aeterno nella definizione logica di tale soggetto, è solo il tempo e l’accadere temporale degli eventi a dare all’uomo l’illusione che essi siano contingenti e che possano non accadere; tale libertà in effetti esiste ed è esercitata dall’uomo, ma, sostiene Leibniz, solo nella mente di Dio, solo prima che di una serie di eventi possibili Dio decreti il passaggio alla realtà. La stretta connessione fra logica e metafisica (ma anche fra teologia ed etica) è uno dei tratti più interessanti e geniali della filosofia di Leibniz. 51 cosa è quale è». «Ogni cosa è simile od eguale a se stessa». «Niente è maggiore ‹o minore› di se stesso». Tutte queste affermazioni e le altre di tal genere, quali che siano i loro gradi di priorità, possono tuttavia essere comprese sotto lo stesso nome di identità. Tutte le rimanenti verità si riducono poi alle prime mediante definizioni, ossia attraverso la risoluzione dei concetti, nelle quali consiste la prova a priori, indipendente dall’esperienza.[…] Pertanto, il predicato o conseguente inerisce sempre al soggetto o antecedente. E in questo fatto – come anche Aristotele osservò – consiste la natura della verità in generale, ossia la connessione tra i termini di un enunciato. Nelle identità tale connessione e comprensione del predicato nel soggetto è invero esplicita, mentre in tutte le rimanenti proposizioni è implicita e va mostrata mediante l’analisi dei concetti, in cui consiste la dimostrazione a priori. Ciò è vero inoltre in ogni [proposizione] ‹verità› affermativa [sia necessaria] universale o singolare, necessaria o contingente ‹e nella denominazione sia intrinseca che estrinseca›. E qui si nasconde un segreto mirabile che contiene la natura della contingenza, ossia la distinzione essenziale tra le verità necessarie e contingenti ‹e toglie la difficoltà circa la necessità fatale ‹anche› delle cose libere›. Da queste cose non abbastanza considerate a causa della loro facilità derivano molte conseguenze di grande importanza. Infatti, nasce subito di qui l’assioma ben noto che nulla è senza ragione, ossia che nessun effetto è senza causa. Altrimenti, si darebbe una verità che non potrebbe essere provata a priori, ossia che non si risolverebbe in proposizioni identiche, il che è contro la natura della verità, la quale, esplicitamente o implicitamente, è ‹sempre› identica. [G.W. Leibniz, Primae Veritates, 1686; trad. it. di F. Barone, G.W. Leibniz, Le verità prime, in G.W. Leibniz, Scritti di logica, a cura di F. Barone, Laterza, Roma-Bari, 1992, 2 Voll., tomo primo, pp. 182-183] A ciò è dovuto dunque il forte risalto conferito da Leibniz al principio di identità. La dottrina logico-metafisica del praedicatum inest subiecto, secondo cui tutti i predicati di un soggetto sono essenziali ed ogni accadimento accidentale è contenuto nella definizione del soggetto, non è solo la dottrina che pone l’identità come struttura fondante della predicazione, essa è anche la chiave per comprendere la tesi dell’armonia, la quale in definitiva non fa che ripetere il detto di Eraclito, ἓν πάντα51, tutto è uno: Il concetto completo o perfetto della sostanza individuale implica tutti i suoi predicati passati presenti e futuri. Poiché certo è già vero ora che un predicato futuro sarà in futuro un predicato, ed è pertanto contenuto nel concetto della cosa. E quindi nel ‹perfetto› concetto ‹individuale› di Pietro o di Giuda, considerati sotto l’aspetto della possibilità ed astraendo dal decreto divino di creare i loro spiriti, sono presenti e sono visti da Dio tutti gli eventi che accadranno loro, sia necessari che liberi. E da ciò risulta manifesto che Dio sceglie tra gli infiniti individui possibili quelli che ritiene più convenienti ai ‹fini› supremi ed arcani della sua sapienza; cioè, per parlare esattamente, che Dio non stabilisce che Pietro pecchi o che Giuda sia dannato, bensì stabilisce soltanto che pervengano all’esistenza, sopra gli altri possibili, Pietro che peccherà (con certezza, non necessariamente tuttavia, ma liberamente) o Giuda che subirà la 51 “Se hai udito non me ma il Logos è saggio concordare che tutte le cose sono uno” [Eraclito: 50 DK]. 52 dannazione. Vale a dire, che il concetto possibile diventi attuale. E benché anche la salvezza futura di Pietro sia contenuta nell’eterno concetto possibile di lui, tuttavia la salvezza non è senza il concorso della grazia, poiché nel ‹medesimo› concetto ‹perfetto› di ‹questo› possibile Pietro sono contenuti anche, sotto il concetto di possibilità, gli aiuti della grazia divina che gli vanno portati. Ogni sostanza individuale nel suo concetto perfetto implica tutto l’universo, e tutte le cose passate presenti e future presenti in esso. Infatti, non vi è alcuna cosa a cui non possa essere imposta da qualche altra cosa una denominazione ‹vera›, almeno di confronto e relazione. […] Quindi tutte le sostanze individuali ‹create› sono espressioni diverse del medesimo universo, della medesima causa universale, cioè di Dio; ma le espressioni differiscono secondo la perfezione, come le rappresentazioni o scenografie della medesima città secondo i diversi punti di vista. [G. Leibniz, Primae Veritates, cit., pp. 185-186] Da questa argomentazione, ripresa da Leibniz in altri scritti, risulta chiaro che la tesi secondo cui il nostro mondo attuale sarebbe il migliore dei mondi possibili non fu sostenuta dal filosofo tedesco sulla base di un ottuso ottimismo. Voltaire, ad esempio, dileggiò la tesi di Leibniz nel Candido, considerandola espressione di superficialità. La ragione della tesi è invece che il calcolo che porta la mente di Dio a rendere attuale questo mondo, fra i possibili, non può che essere un calcolo perfetto. La perfezione di Dio, nella metafisica di Leibniz è uno degli assiomi costanti delle dimostrazioni. Attraverso questo argomento ex perfectione notiamo dunque che l’armonia perfetta e insondabile che regge la natura ha una forma matematica; il principio di identità, posto come prima e più salda fra le verità, insieme alla dottrina del praedicatum inest subiecto – ossia il fatto che tutte le cose sono connesse fra loro a prescindere dallo scorrere del tempo – rimandano tramite il principio di ragion sufficiente all’idea di una harmonia universalis, un ordine perfetto, profondamente sapiente e ignoto52, che la scienza umana può appena lambire. Questa visione filosofica, che agli occhi di molti scienziati contemporanei può apparire risibile, poco attuale o viziata dalla religione, ha il fondamentale vantaggio di fare dell’ordine naturale qualcosa che suscita rispetto e che pretende grande prudenza da parte dell’uomo. Se la scienza cerca di illuminarlo, in alcuni segmenti fenomenici e da punti di vista parziali e storici, essa deve sempre muoversi con grande circospezione e con spirito di previsione a lunghissimo termine53. Al contrario, l’idea che la natura sia per la scienza un campo sterminato di possibilità arbitarie – idea libertaria, materialista e utilitarista – è una delle ragioni più rilevanti dei disastri imputabili oggi alla tecnica. 52 L’impostazione leibniziana è in linea con la concezione di Eraclito, il quale vede nell’ordine naturale una potenza arcana della quale si intuisce la regolarità: “L’armonia nascosta è più potente di quella manifesta” [Eraclito: 54 DK]. 53 Previsione, quella degli effetti dell’impiego delle tecnologie, che però più è a lungo termine meno è accurata. 53 E’ opportuno, a questo punto, tracciare uno schema che possa rendere conto di alcune importanti distinzioni terminologiche riguardanti l’identità e la differenza. Nella letteratura che riguarda la filosofia della differenza – dunque riguardo ai testi di Lévinas, Derrida e Deleuze – non si tiene spesso conto del fatto che termini come “medesimo”, “identità”, “altro”, differenza”, ecc. presentano nella concettualità delle lingue occidentali che sono decisive per la filosofia, a partire dal greco, una distinzione semantica di questo genere: Un ente con sè Un ente rispetto ad altro Enti opposti Ente relazionale Medesimo Altro (in greco Altro fra due) Relazione fra enti Identità (differenza di grado zero) Differenza Alterità Diversità Contrarietà (differenza di grado massimo) Relazione di giudizi Tautologia Giudizi sintetici Contraddizione Questo schema, oltre a mettere in evidenza distinzioni che bisogna tenere presente nella lettura di opere come il Sofista di Platone o la Metafisica di Aristotele, ci permette di comprendere meglio cosa intende Eracilto quando fa riferimento all’armonia nel frammento 51 DK54, già citato. L’armonia, in questo fammento, è quella che si produce nel contrasto fra il διαφέρειν e il συμφέρεσϑαι, nell’aprirsi dell’identità alla differenza e nel richiudersi della differenza nell’identità; essa vige nel prodursi e nel tramontare dei fenomeni naturali dall’uno e nell’uno. Il divenire è in Eraclito non semplice trasformazione e cambiamento, ma divenire ordinato, regolato. Molti secoli prima della rivoluzione scientifica la filosofia greca nota la regolarità (intuibile da parte della ragione) degli eventi naturali. La visione fisico-religiosa di Eraclito accenna ad uno stadio di comprensione noetica o, se vogliamo, metafisica in cui l’uno-tutto, dunque il nodo io-mondo, è percepito come una realtà armonica. Questa originaria ed arcaica visione del mondo è l’elemento in cui può risultare comprensibile in che modo una filosofia dell’armonia possa trascendere e sublimare quel che è stato storicamente il pensiero occidentale, coi suoi esiti scientifici e tecnici, (Gli uomini) non comprendono in che modo ciò che diverge (διαφερόμενον) non di meno converge (συμφέρεται) con se stesso; c’è un rapporto di tensione (ἁρμονίη) retrograda, come quello dell’arco (τόξου) e della lira. [Eraclito DK 51]. 54 54 concepito e messo sotto accusa da Lévinas come pensiero dell’identità. Questo trascendimento dell’identità nell’armonia è una decisione per l’umiltà, un movimento che relativizza (senza certo abbandonare) il dato delle verità della scienza, per aprirsi ad un pensiero della finitezza del sapere umano nel contesto della superiore saggezza della natura. Tale sublimazione, o trascendimento, può essere intesa come una contestualizzazione e una umanizzazione filosofica delle scienze. il principio d’identità, infatti, seguendo Leibniz e Łukasiewicz55, può essere considerato dal punto di vista logico ed epistemologico il principio primo della conoscenza, mentre la filosofia dell’armonia diviene, in questo quadro, una visione di contesto svincolata dalla necessità del profitto economico e vincolata allo scopo etico della felicità dell’uomo, nella salvaguardia dell’ordine naturale. Naturalmente questo modo di vedere il mondo, la filosofia, le scienze e la logica, non sarebbero pensabili senza la grecità, e, in un certo senso, non si può tornare più indietro rispetto a questo sviluppo: la nostra cultura, come il nostro corpo, mantiene memoria degli stadi attraversati e risulta dal loro irreversibile sviluppo. L’Europa è la culla della filosofia e delle scienze ed è stata la prima area del globo in cui si è avuta una industrializzazione e una società industriale. Essa è la terra dell’olocausto e dei campi di concentramento dell’Unione Sovietica. L’Europa è l’area storico-geografica in cui sono state combattute due guerre devastanti, che hanno coinvolto diversi continenti, e nelle quali un enorme prezzo di sangue veniva pagato mentre comparivano le innovazioni tecniche che ancora oggi condizionano la nostra vita. Le guerre mondiali sono state guerre fra interessi capitalistici, fra stati nazionali che lasciavano già largamente filtrare nella loro politica gli interessi delle grandi aziende produttrici. Con la fine delle grandi guerre euro-mondiali le fabbriche di armi sono rimaste a corto di commesse: le guerre esportate nel terzo mondo, le guerre per il petrolio, le guerre contro il terrorismo assumono l’agghiacciante aspetto di situazioni create e fomentate più per alzare la produttività delle industrie belliche che dovute all’effettiva incapacità di pacificare i conflitti. Oggi le scienze sono pervasivamente diffuse nel globo, così come una concezione dell’esistenza umana fondata sulla tecnologia e sul consumo56, organica Cfr. J. Łukasiewicz, O zasadzie sprzeczności u Aristotelesa, 1910, in L. Borkowski (ed.), Jan Łukasiewicz Selected Works. Studies in logic and the foundations of mathematics, Amsterdam and London, North-Holland, 1970; trad. it. di G. Maszkowska, J. Łukasiewicz, Del principio di contraddizione in Aristotele, a cura di G. Franci e C.A. Testi, Macerata, Quodlibet, 2003. In questo saggio Łukasiewicz vede il principio di identità e la definizione di giudizio vero come i presupposti logici su cui si fonda il principio di non contraddizione, il quale è una regola di composizione del pensiero che opera su questi elementi più fondamentali. 56 Scrive Floriduz sulla figura del consumatore in Bauman: “L’epoca della globalizzazione del capitale considera i cittadini quasi unicamente come consumatori, i cui desideri sono 55 55 ad un modello economico sviluppatosi in occidente. Fin dalla rivoluzione industriale e in modo ancor più marcato dopo il crollo delle grandi ideologie, l’unico valore su cui si è regolato questo modello economico è stato l’arricchimento delle élites e il mantenimento del potere politico finalizzato a questo stesso arricchimento, permesso dal neoliberismo. Come terra di origine della tecnica e del capitalismo, l’Europa, con la sua cultura, ha la responsabilità storica di curare questo nichilismo aberrante, di fare germogliare nuovi valori morali in questo deserto, e di instillarli alla base dell’esistenza sociale del mondo europeizzato57. Il creati ad hoc dalla pubblicità e dal mercato. Le società occidentali sono paragonabili ad un negozio di dolciumi, poiché il sovraccarico di bisogni indotti e facilmente appagabili dal consumismo rende la vita «punteggiata di attacchi di nausea e dolori di stomaco» (p. 29), anche se i consumatori «non si curano di un’altra vita – una vita piena di rabbia e autodisprezzo – vissuta da quelli che, avendo le tasche vuote, guardano avidamente ai compratori attraverso la vetrina del negozio» (Ivi). Il consumismo produce nuove povertà: sempre meno persone hanno pari opportunità di istruzione, alimentazione, occupazione. Ci si rivolge ai poveri con compassione e turbamento, si tenta di esorcizzarne le ribellioni, la povertà compare spesso nelle piattaforme programmatiche dei vertici fra le potenze occidentali. In realtà, anche la povertà è funzionale al mercato, perché rappresenta, per così dire, la prova vivente di che cosa significhi essere liberi dall’incertezza, per cui «la vista dei poveri impedisce ai non poveri di immaginare un mondo diverso» (p. 181). Ma Bauman osserva che la parte più ricca della società non può essere liberata «dall’assedio della paura e dell’impotenza se la sua parte più povera non viene affrancata: non è questione di carità, di coscienza e di dovere morale, ma una condizione indispensabile (benchè soltanto preliminare) per trasformare il deserto del mercato globale in una repubblica di cittadini liberi» (p. 179) ” D. Floriduz, Recensione a Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, cit. 57 Scrive Floriduz sull’analisi antropologica proposta da Bauman riguardo all’epoca della globalizzazione: “[L’erosione della politca da parte dell’economia e la fine delle grandi ideologie] conduce a una generalizzata apatia da parte delle istituzioni e dei singoli cittadini, che hanno rinunciato alla prospettiva e alla promessa di “cambiare il mondo”, ad ogni dimensione progettuale, a ogni interrogazione del presente e vivono la «solitudine del conformismo» (p. 12). Tale atteggiamento di indifferenza, sfociante spesso nel cinismo e nel nichilismo, a ben guardare, si fonda su un generalizzato sentimento di diasgio esistenziale che può essere sintetizzato con il termine tedesco Unsicherheit, traducibile in inglese in una vasta gamma semantica, che va dall’uncertainty (incertezza), all’insecurity (insicurezza) e unsafety (precarietà). Come si vede, in italiano questi tre sostantivi risultano pressochè sinonimici, mentre per Bauman designano tre tipologie di esperienza piuttosto diverse, pur se convergenti nel terreno comune dell’angoscia e dell’incomunicabilità.[…] [insecurity]: «l’insicurezza odierna assomiglia alla sensazione che potrebbero provare i passeggeri di un aereo nello scoprire che la cabina di pilotaggio è vuota» (p. 28). E’ la situazione che si avverte nel mondo del lavoro, in cui dominano la flessibilità, i contratti a tempo determinato, in cui le aziende chiudono o convertono la produzione ed è impossibile per l’individuo spendere le proprie competenze in un mercato in continua evoluzione e specializzazione. Di qui la sfiducia nella politica, come testimonia il crescente astensionismo che accompagna le consultazioni elettorali nella maggior parte dei Paesi occidentali:[…][La uncertainty] riguarda i meccanismi stessi del liberismo: «Contrariamente a quanto suggerisce il supporto metafisico della mano invisibile, il mercato non persegue la certezza, né può evocarla, e tanto meno garantirla. Il mercato prospera sull’incertezza (chiamata, di volta 56 marxismo è stato un grande sogno di emancipazione dell’uomo dalla schiavitù economica e dal nichilismo capitalista, ma il fallimento della sua realizzazione effettiva è consumato ormai del tutto: sarebbe poco accorto non domandarsi le ragioni di tale fallimento. La fede cieca nel progresso tecnico, l’utopismo positivista e la repressione del sentimento religioso costituiscono aspetti decisamente superati del marxismo. Non si può dire la stessa cosa della denuncia contro l’imperialismo e contro le guerre capitalistiche di cui i movimenti marxisti e socialisti si sono fatti storicamente alfieri. L’occidente, dopo una storia di colonialismo e di imperialismo, è largamente responsabile delle guerre esportate e delle sacche di povertà che spingono migliaia di rifugiati verso i suoi confini; esso non può voltare le spalle alle richieste di aiuto provenienti dai poveri del mondo senza apparire disumano, cioè senza tradire la propria essenza storica. E’ stato proprio lo spirito di conquista e di conoscenza che ha ispirato lo sconfinamento dell’umanità europea e ha prodotto questa povertà: è stato il progetto di rendere le terre d’oltreoceano province d’Europa a creare ciò che ancora oggi è il terzo mondo. Attualmente le aree occidentali del globo (dunque anche il Nord America e l’Australia), con rare eccezioni e temporanee aperture, chiudono le porte alle masse di diseredati che cercano rifugio nei loro territori opulenti. Le fobie del multiculturalismo, e della modifica dei parametri culturali ed economici delle società privilegiate, provoca l’innalzamento di mura e il dispiegamento di militari alle frontiere. Eppure Bruxelles è la sede del Parlamento e della Commissione europea perché simbolo del multiculturalismo e della tolleranza religiosa, ed il motto dell’Unione Europea dal 2000 è “unita nella diversità”, In varietate concordia. Bruxelles, punto d’incontro fra cultura teutonica e cultura francese, è stata un esempio di multiculturalismo per la convivenza pacifica fra fiamminghi e valloni e per il fatto che, nella seconda metà del XVI secolo, la diffusione del calvinismo fu tollerata dalle rigide autorità cattoliche, con lo scopo di favorire i fiorenti commerci della regione. Forse l’interesse economico ha anche guidato passi di civiltà, e in un certo senso il capitalismo può essere considerato l’effetto di crescita esponenziale di una forma naturale di ordinamento della società e di in volta, competitività, flessibilità, rischio) e ne produce sempre di più per il proprio nutrimento» (p. 38). Mentre il temerario giocatore d’azzardo sceglie il rischio come un fatto ludico, l’economia politica dell’incertezza oggi imperante lo impone a tutti come un destino ineluttabile. L’uncertainty riguarda «la paura diffusa che emana dall’incertezza umana e il suo condensarsi in paura dell’azione;[…] la nuova opacità e impenetrabilità politica del mondo, il mistero che circonda il luogo da cui gli atacchi provengono e in cui si sedimentano come resistenza a credere nella possibilità di opporsi al destino e come sfiducia nei confronti di qualunque proposta di modo di vita alternativo» (p. 176)” D. Floriduz, Recensione a Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, cit. 57 esercizio del potere; ma se il multiculturalismo e la tolleranza del diverso, cioè valori che consideriamo identificanti della nostra civiltà, devono davvero essere ispirati dall’idea di Europa, allora l’innalzamento di mura e di filo spinato sui nostri confini è un’intollerabile contraddizione rispetto all’identità culturale dell’Unione e rispetto al sentire dei popoli europei. Popoli che fin dal 1950, con l’istituzione della Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo, hanno fatto propria la difesa dei diritti umani, a prescindere da qualsiasi distinzione di razza, etnia, religione o condizione economica58. Il problema è che accanto ai nobili ideali – si dice – nascono oggi problemi di spazi economici e fisici saturi di popolazione, nasce l’impossibilità che le moltitudini provenienti dal sud del mondo occupino l’esiguo territorio degli stati nazionali europei. Nasce la paura che i flussi migratori modifichino in maniera irreversibile la fisionomia della concezione europea dell’esistenza e della vita in comune. Come rispondere però a chi accusa l’occidente di avere una responsabilità diretta sull’impoverimento, la desertificazione, le guerre e le tragedie economiche che spingono i popoli all’emigrazione? Questo problema richiede una discussione complessa e non può essere risolto sulla base di un’acritica adesione a facili orientamenti ideologici dettati dalla paura, dalla xenofobia o da un’idea di accoglienza tanto assoluta da distruggere se stessa. Essendo probabilmente l’occidente, come terra della critica aperta, una delle ultime speranze per la salvezza dal disastro è necessario accogliere chi appartiene ad una tradizione culturale differente dalla nostra, rimanendo consci delle nostre tradizioni culturali e difendendole, se è il caso, da qualsiasi tentativo silenzioso o manifesto di sovvertimento. E’ necessario tenere presente che il cammino percorso dall’Europa, oltre al disastro economico ed ecologico, oltre all’olocausto e alle guerre mondiali, ha portato ad importanti conquiste civili, all’istaurazione di ordinamenti democratici59, alla rivendicazione e alla difesa di diritti umani fondamentali. L’Europa e gli Stati Uniti d’America sono la parte del mondo in cui sono state scritte le dichiarazioni dei diritti umani, dalla Dichiarazione d’Indipendenza negli Stati Uniti d’America del 1776, alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino in Francia del 1789, fino alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, 58 Diritti dell’uomo che, con l’entrata in vigore del trattato di Lisbona nel 2009, l’Unione Europea si impegna a rispettare all’interno del territorio degli stati membri, e a promuovere all’esterno dei suoi confini tramite la sua azione politica. 59 Ordinamenti democratici quantomeno nel loro progetto, ed anche il progetto è encomiabile. Le critiche di Marcuse ai meccanismi politici delle democrazie occidentali spiegano abbondantemente perché la realizzazione effettiva della democrazia, anche in occidente, è spesso un obiettivo mancato; cfr. H. Marcuse, One-Dimensional Man. Studies in the Ideology of Advanced Industrial Society, Boston, Beacon Press, 1964; trad. it. di L. Gallino, L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata, Torino, Einaudi, 1967, d’ora in poi [OM]. 58 promossa dall’ONU a causa dei terribili danni della guerra. Rivendicazione e difesa di diritti che – è giusto sottolineare anche questo – in culture non tormentate dalla storia e non propense alla critica come la cultura europea sono spesso svalutati e violati. La libertà di critica rivendicata dagli illuministi, l’esigenza del rispetto per tutte le posizioni dialogiche, la possibilità di esprimere le opinioni politiche ai livelli più alti dello stato sono conquiste culturali realizzate in Europa grazie ad un’interminabile e sanguinosa storia di battaglie e di barricate. Questa aspirazione al dialogo aperto, al diritto di critica e alla possibilità di contraddire i dogmi, richiama alla memoria il dialogo fra Galileo e i suoi inquisitori, in tal modo mostra che l’illuminismo europeo, in senso lato, può trovare la sua vera origine nella rivoluzione scientifica. Tale immagine, inoltre, ci fa comprendere che la scienza sperimentale e le battaglie condotte in Europa per i diritti e per la democrazia sono, alla loro radice, entità costituite da una stessa sostanza; l’aspirazione della scienza ad una libera contraddizione del principio di autorità e dei dettami esterni alla ragione umana non è distinta, nella sua essenza profonda, dalle rivendicazioni civili dei rivoluzionari che chiedono di partecipare alla vita politica: si tratta in entrambi i casi di aspirazione al dialogo, ricerca del confronto, tentativo di esprimere e di fare valere il proprio punto di vista in un ambiente libero. Questa aspirazione alla dialogicità è il cuore della nostra cultura, e la filosofia non è in ritardo rispetto ad essa, perché è proprio intorno alla filosofia che tale aspirazione ha cominciato a costituirsi. Perché questa tensione critica continui a svolgere il suo fondamentale compito, è necessario la cultura europea si conservi e conservi l’atteggiamento filosofico del Fragen e la cura per il rispetto delle opinioni contrarie nel dialogo. Dimenticare le nostre caratteristiche e la nostra identità significherebbe accogliere senza portare avanti l’ideale dell’accoglienza, allargare uno spazio multiculturale in cui culture della non libertà e della non dignità dell’uomo potrebbero approfittare di questo spazio stesso di critica per liquidarlo e divenire dominanti. Essere tolleranti con chi è intollerante ci rende complici dell’intolleranza60. 60 La società europea è, o dovrebbe essere, quello che Nicolaci, sulle orme di Jean-Luc Nancy, chiama “comunità in opera”, comunità aperta e fragile perché esposta alla discussione, ma anche organizzata intorno agli strumenti per proteggere se stessa: “Di tanto di quanto è in opera, la comunità rimane un progetto. Le comunità in opera sono costitutivamente a rischio perché concepite in tal modo da non postulare per sé (intendo, non necessariamente, non in prima battuta) alcuna forma di protezione “istituzionale” né alcun vincolo di coazione esterna. Sebbene già in salvo a monte di ogni storia, i valori cui fanno appello, proprio perché per intero impegnati, in forza di questo stesso appello, quale principio di convivenza fra quanti vi si riconoscono, sono esposti a una condizione peculiare di fragilità e di rischio; la comunità ne investe e ne mette alla prova la verità nella storia, facendosi carico di un compito incessante di ritraduzione e d’interpretazione in cui ne va infine di quella verità e, insieme, di se stessa.” [RI: 7-8]. 59 Per quanto profondamente meritoria riguardo alla tensione etica volta a creare una effettiva fratellanza fra gli uomini, limitatamente a questo aspetto della difesa dell’identità europea nei confronti dell’Altro, dello straniero che porta oggi in Europa la propria cultura, non mi pare che l’etica levinasiana possa essere accettata: non si può accettare che la cultura dell’accoglienza diventi dimenticanza di sé; dal momento che il rapporto fra l’identità dell’Europa che accoglie e l’Altro accolto, seguendo Lévinas, può divenire assoggettamento all’Altro, rinuncia a sé e puro farsi da parte, per lasciare il proprio spazio allo straniero, come risposta all’appello etico. Se crediamo che la cultura del dialogo, intesa come ascolto autentico dell’altro e aspirazione alla libertà di critica, sia l’unica speranza contro il disastro, noi abbiamo il dovere di difendere questa cultura61. Forse non esistono verità prestabilite, ma cosa dire Non ci pare fuori luogo leggere in questo senso le prime pagine di Violenza e metafisica in cui J. Derrida lega la cultura dell’interrogazione pura, del Fragen, alla comunità filosofica il cui spazio, libero per la critica, va sempre difeso. Sono pagine che risalgono al 1964 in cui Derrida parla di dignità e di responsabilità, e che le minacce, oggi riproposte dalla storia, rendono sorprendentemente attuali: “Che la filosofia sia morta ieri, dopo Hegel o Marx, Nietzshce o Heidegger – e la filosofia dovrebbe ancora errare verso il senso della sua more – o che sia sempre vissuta sapendosi moribonda, come viene riconosciuto in silenzio nell’ombra prodotta dalla parola stessa che dichiarò la philosophia perennis;[…] che la di là di questa morte o di questa mortalità della filosofia, e forse anche grazie ad esse, il pensiero abbia un avvenire o che, come oggi si asserisce, sia tutto ancora di là da venire a cominciare da quello che si riservava ancora nella filosofia;[…], sono tutte interrogazioni alle quali non si può dare risposta. Sono, per nascita e almeno per una volta, problemi che sono posti alla filosofia come problemi che essa non può risolvere.[…] Tuttavia dovrebbero essere gli unici oggi a poter fondare la comunità di coloro che nel mondo si chiamano ancora i filosofi per un ricordo, almeno,[…]. Comunità dell’interrogazione sulla possibilità dell’interrogazione. E’ poco – è quasi nulla – ma qui si rifugiano e si riassumono oggi una dignità e un dovere intangibile di decisione. Una intangibile responsabilità.[…]: c’è una storia dell’interrogazione, una memoria pura dell’interrogazione pura che forse autorizza nella sua possibilità ogni eredità ed ogni memoria pura in generale e come tale.[…] l’interrogazione deve essere conservata. Come interrogazione. La libertà della interrogazione (doppio genitivo) deve essere detta e difesa. Permanenza fondata, tradizione realizzata dell’interrogazione rimasta interrogazione. Se questo comandamento ha una significazione etica, non è quella di appartenere al dominio dell’etica, ma di autorizzare – ulteriormente – ogni legge etica in generale. Non c’è legge che non si dica, non c’è comandamento che non si rivolga ad una libertà di parola. Non c’è dunque legge e comandamento se non confermano e non includono – cioè se non celano presupponendola – la possibilità della interrogazione. L’interrogazione è così sempre inclusa, non si manifesta mai immediatamente come tale, bensì solamente attraverso l’ermetismo di una proposizione in cui la risposta ha già cominciato a determinarla. La sua purezza non fa mai altro se non rivelarsi o richiamarsi attraverso la differenza di un lavoro ermeneutico. Così, coloro che interrogano sulla possibilità, sulla vita e sulla morte della filosofia sono già presi, sorpresi nel dialogo della interrogazione su di sé e con sé, sono già in memoria di filosofia, impegnati nella corrispondenza della interrogazione con se stessa. Fa dunque parte essenzialmente del destino di questa corrispondenza il giungere a speculare, a riflettersi, a interrogare su di sé in sé. Ha inizio allora l’oggettivazione, l’interpretazione seconda e la determinazione della propria storia 61 60 della verità dei diritti umani? Cosa dire del principio tutto occidentale della laicità dello stato, stabilito proprio in vista della libertà religiosa? Come mettere in dubbio il nostro ideale di democrazia in politica? Chi mai regredirebbe dal principio della parità di genere? Siamo forse disposti a mettere facilmente in discussione queste verità? Per approfondire questa complicata discussione è necessario uno spazio di critica in cui vige il rispetto dell’altro, ma non per permettere all’altro, rispettato, di venire poi meno a questo rispetto e risospingerci indietro rispetto a conquiste civili già pagate a caro prezzo – e che costituiscono la forma della nostra comunità62. Compare forse qui il tratto violento (minimo) di una comunità e di un’identità storica, tratto che però corrisponde alla difesa di ciò che i cittadini di questa comunità sono per eredità culturale. Malgrado la sua travagliata storia, l’Europa non ha alcun primato sulle altre culture63: come la nostra riflessione cerca di mostrare, quanto di buono l’Europa ha prodotto per la civiltà è abbondantemente surclassato dal fatto che le due entità alienate e fuori controllo che nel mondo; ha allora inizio una battaglia che si colloca nella differenza tra l’interrogazione in generale e la «filosofia» come momento e modo determinati – finiti o mortali – della interrogazione stessa. Differenza tra la filosofia come potere o avventura della interrogazione stessa e la filosofia come avvenimento o svolta determinati nell’avventura”. [VM: 99-101]. Viene da chiedersi, riguardo a questo appello alla difesa della libertà di interrogazione e di critica, che cosa penserebbe (e cosa scriverebbe) J. Derrida se potesse vedere oggi la sua Parigi ferita a morte dal terrorismo e presidiata in qualunque angolo dalla Police nationale. 62 Scrive Nicolaci in riferimento alla “comunità in opera” che, con un movimento peculiare, si apre alla critica pur chiudendosi, sui suoi valori fondanti, nei confronti di chi è esterno: “Ma proprio qui, proprio in riferimento a questa condizione d’indigenza che è insieme anche la sua ricchezza, si fa strada il possibile risvolto autoritario della comunità in opera. Sebbene nel suo fondo più intimo essa non disponga di alcuna copertura istituzionale e non tolleri alcun vincolo di coazione esterna, il fronte dell’opposizione fra quanto si colloca all’interno del recinto di appartenenza – delineato dal sistema di valori condiviso e dall’insieme dei beni e delle persone che in atto vi si riferiscono – e quanto ne rimane fuori, chiede di essere custodito, protetto, preservato da ogni rischio di contaminazione. Non per nulla è sulla salda tenuta di questa opposizione che si decide della sussistenza in atto della comunità e dunque del progetto, ossia del senso stesso dell’essere insieme. E proprio perché il recinto non può e non deve essere chiuso, la preventiva custodia del limen, della soglia di accesso e di uscita, è assegnata essa stessa a ciascuno come compito inderogabile. Ma in quest’ottica, come pensare allora la condizione della non-appartenenza, la condizione non meno concettualmente rilevante di chi “sta fuori” e si rapporta dall’esterno al sistema, senza attribuirle un tratto di potenziale minaccia, di radicale antagonismo, che ovviamente diviene subito speculare.[…] Ogni “straniero” è un potenziale aggressore e il gesto di “riconoscerlo”, accoglierlo come visitatore, suppone la preliminare messa in opera di una strategia idonea a neutralizzare, a contenere e recingere questa potenzialità;[…].” [RI: 8]. 63 Scrive Martelli: “La valorizzazione dell’Europa, o del suo ruolo nel mondo, se piegata in senso eurocentrico, è una pura e illusoria costruzione ideologica, così come lo sarebbe un'eventuale sinocentrismo, o arabocentrismo, o afrocentrismo ecc.” [IE :3]. 61 pongono oggi l’uomo di fronte all’autodistruzione, cioè il capitalismo e la tecnica, sono creature genuinamente europee. E’ opportuno però e necessario che la terra di origine di eventi decisivi come la scienza, la democrazia, lo stato moderno e l’elaborazione dei diritti dell’uomo e della natura, rimanga la terra della critica e dell’autocritica, dell’accoglienza più che della tolleranza del diverso, di un’accoglienza però che non sia suicidio culturale e dimenticanza dell’identità di chi accoglie. E’ necessario che l’Europa, prima che la sua fisionomia ideale e storica scompaia del tutto nel villaggio globale europeizzato64, dia un ultimo segno della sua civiltà, e ripari ai più gravi atti contro l’uomo e contro la dimora naturale che la sua cultura capitalista e tecnologica ha comunque perpetrato. Ma per rimanere la terra della critica l’Europa deve rimanere Europa ancora in questa ultima epoca, un’Europa conscia della propria identità storica65, del pessimo, dell’intrepido e del Scrive Martelli: “Sul piano storico-politico e culturale, è vero però, come ha osservato Bernard Lewis, che “ “Europa” è un concetto europeo”, inventato dagli europei, così come europeo è il concetto di “Asia e Africa”, nonché quello di “America”, scoperta e così chiamata e fatta dagli europei. Imporre i nomi alle cose è uno dei privilegi tradizionali del potere. Fu l’Europa, nel corso della storia del colonialismo moderno, a delineare “a suo uso e consumo”, per i suoi scopi di dominio, “l'intero sistema geografico dei continenti”; a disegnare, spesso a tavolino, la carta geopolitica del pianeta. “Nord-Sud, Est-Ovest”, ha scritto Gramsci nei Quaderni, sono “riferimenti, rapporti reali” e insieme “costruzioni arbitrarie, convenzionali, cioè storiche, poiché fuori della storia reale ogni punto della terra è Est e Ovest nello stesso tempo” . È stata per l’appunto l’Europa, l’Europa occidentale, in virtù della sua supremazia politica, militare e culturale mondiale, di cui l’impresa di Colombo può essere assunta a simbolico punto di inizio, a creare quelle costruzioni arbitrarie e convenzionali e a trasformarle in riferimenti e rapporti reali. Una sorta di paradossale “creatio ex nihilo”, di entificazione dal nulla, che ha prodotto, suggellato e modellato di sé la realtà e la storia dei popoli extra-europei. Ma con due conseguenze opposte per l'Europa, l'una principale, e sicuramente negativa, l'altra secondaria, e relativamente positiva: a) la parziale distruzione fino all'annientamento, in taluni casi (è il caso degli Aztechi, dei Maya, dei pellerossa), oltre che delle risorse umane e materiali, anche della dignità, dell'autonomia e identità culturale di quei popoli; b) l'esperienza e la conoscenza del “diverso”, che, arricchendo spiritualmente l'Europa, l'ha forse particolarmente sensibilizzata e predisposta all'ipotesi della costruzione di una futura, inedita, grandiosa civiltà unitaria e inter-culturale mondiale.” [IE :4]. 65 Così Nicolaci individua il tratto violento, un punto cieco in cui la ragione si fa violenta, che può caratterizzare la relazione fra la comunità in opera e chi dall’esterno cerca di fare parte della comunità: “Che ne è dunque, in questo modello, dove è la fedeltà il valore guida, della pluralità, del molteplice, preso non semplicemente come il numerabile ma come apertura in linea di principio illimitata al proliferare delle differenze, cifra dell’esposizione a tutto campo alla ferita del “particolare”, all’alea della trasformazione, del capovolgimento, della dispersione? Quella che viene richiesta è in definitiva una strategia idonea a contenere (nel duplice senso di comprendere e arginare, tenere a bada) la pluralità, o meglio l’innumerabile della pluralità. In breve non si tratta di chiudersi al diverso ma di chiudersi sul diverso, di chiudere, accogliendolo, il diverso. Sta appunto in questa attitudine “inclusiva” l’aspetto più insidioso e inquietante. Nella comunità in opera il recinto dell’appartenenza sembra destinato a generare al suo 64 62 meraviglioso della sua tradizione. E’ necessario che l’Europa abbia la possibilità di riscattarsi da Auschwitz (oltre che di superare il trauma Auschwitz) e di uscire dalla propria disumanità nelle scelte politiche concrete più che nelle dichiarazioni e nei trattati, di superare l’alienazione tecnologica e sociale in cui l’ha gettata il capitalismo indifferente. Questo sarà però possibile solo se si mettono in pratica i valori della compassione e della fraternità per l’altro uomo, inteso come persona – dunque come “qualcosa che è come me” – e se si prende in carico la custodia dell’altro essere vivente, quale portatore di diritti propri entro l’ordine naturale. Sarà possibile solo se la sacralità di alcuni aspetti dell’esistenza e della natura verrà contemplata anche dalla scienza, oltre che, come è ovvio, dalle nostre legislazioni. Solo entro gli argini indicati da questo senso del sacro si potranno edificare una scienza e una politica che si confanno alla dignità e alla finitezza dell’uomo. Il riferimento al sacro è rinvenibile anche nella considerazione delle forme naturali prodotta da quella scienza che rivendica il suo libero operare rispetto a concezioni religiose dell’esistenza – si pensi alla bioetica laica o al personalismo empiristicofunzionalista66 –, ma diviene ancor più marcato nel momento in cui ci si richiama alla forma storica di una cultura, forma che stabilisce valori morali, priorità e senso (a volte religioso) all’esistenza. Il cammino da Atene a Bruxelles può significare allora il cammino verso il rispetto per l’opinione altrui a partire dal grande esempio dei dialoghi platonici, in cui l’interlocutore era ascoltato in profondità e secondo il senso del discorso da egli inteso. Questo cammino però non può non centrarsi anche sull’ideale di compassione per l’altro uomo che l’Europa laica eredita dalle sue radici cristiane, etica umanitaria passata attraverso gli ideali cavallereschi; ideale che si concretizza nell’accoglienza di chi fugge dalla guerra e dalla povertà. Parlare di radici cristiane, fondamentali nel costituirsi storico dell’Europa fin dalla tardoantichità, non significa certo dimenticare le gravi responsabilità che la interno (o al suo margine, che è lo stesso) un altro recinto dal carattere più delicato e inquietante, perché cieco, senza uscita;[…] L’intero che ne risulta non ha più alcun fuori, fuori di sé […] e dunque non ha più frontiere su cui improvvisare barricate; ma dentro si porta un tratto di sconfinata esclusione, di violenza e di conflittualità irrisolta, che non si lascia governare se non sotto la logica dei rapporti di dominio. Se si prende questa figura della comunità come una modalità primitiva dell’essere-insieme, allora il dominio ha in ultimo la sua legittimazione, quasi una “deduzione trascendentale”: ci sarà sempre, nelle trame dei nostri pensieri, un punto non visibile in cui, a dispetto delle proteste di Kant, la ragione viene a patti con la forza.” [RI: 8-9]. 66 Il personalismo emipiristico-funzionalista, pur accogliendo il principio di Hume che separa l’ontologia dalla deontologia, indica comunque limiti da non oltrepassare, ambiti entro cui mantenere la ricerca e l’impiego tecnologico. Su queste prospettive cfr. E. Agazzi (ed.), Quale etica per la bioetica?, Milano, Franco Angeli, 1990; H.T. Engelhardt, Manuale di bioetica, Milano, Il Saggiatore, 1991. 63 chiesa, come istituzione politicamente determinante in questo costituirsi, di fatto ha avuto. Ma c’è da domandarsi se fenomeni come le crociate o l’inquisizione non siano state causate dalla cultura politica e dalla concezione antropologica della civiltà feudale, piuttosto che dal messaggio cristiano, il quale, alla lettera, ha sempre posto l’accento sulla compassione per il prossimo. E’ sufficiente ricordare in modo più specifico la storia delle crociate per rendersi conto di quanto la contemporanea idea di Europa sia nata come senso di appartenenza alla Respublica Christiana, un senso di appartenenza ad una cultura e ad un territorio che erano già europei ben prima della comparsa degli stati nazionali e prima, dunque, che l’Europa potesse costituirsi come l’idea della loro unione pacifica e prospera. Il sostrato politico-culturale dell’Europa esiste prima che le grandi monarchie occidentali costituiscano lo stato moderno fra il XV ed il XVII secolo. In questo sostrato gioca un ruolo determinante il cristianesimo, una religione che, rispetto ad altri modi di sentire la trascendenza e il senso del sacro, valorizza la dignità dell’uomo e dell’operare umano, aprendosi ad un effettivo umanismo. Parlare di radici cristiane non significa certo esprimere alcuna rivendicazione di superiorità storico-culturale rispetto ad altre religioni, né farsi coinvolgere nel tentativo antistorico e grossolano di intendere le attuali stragi terroristiche come episodi di una nuova guerra di religione. La coloritura religiosa, che ad alcuni fa comodo attribuire alla violenza portata oggi in seno all’occidente, nasconde certamente ragioni economiche ed ha fra le sue cause scatenanti il gravissimo errore, da parte dell’occidente, di cercare maggiore controllo sui paesi produttori di petrolio tramite la “guerra al terrorismo”; operazione che ha generato morte e risentimento in quei paesi, oltre che commesse miliardarie alle fabbriche di armi. Se si dicesse che in atto vi è uno scontro di civiltà e che le civiltà sono anche plasmate dalla religione il ragionamento sarebbe più accettabile, ma in generale il sentimento religioso, come naturale aspirazione alla salvezza e alla felicità, quando connesso al normale pacifismo delle religioni, è sempre qualcosa che rende migliore le società umane67. Il problema è che lo scontro di civiltà di cui parliamo 67 Come Derrida fa notare, molto suggestivamente Lévinas chiama “religione”, attribuendogli dunque l’indiscutibilità e la sacralità dell’atteggiamento religioso, proprio il faccia-a-faccia della relazione etica (che non è una relazione): “[…], senza dubbio quest’incontro dell’imprevedibile per eccellenza è l’unica apertura possibile del tempo, l’unico avvenire puro, l’unico dispendio puro al di là della storia come economia. Ma questo avvenire, questo al di là, non è un altro tempo, un indomani della storia. E’ presente nel cuore dell’esperienza. Presente non come presenza totale, ma come traccia. L’esperienza stessa è dunque escatologica, nella sua origine e globalmente, prima di ogni dogma, prima di ogni conversione, di ogni articolo di fede o di filosofia. Faccia a faccia con l’altro in uno sguardo e in una parola che conservano la distanza e interrompono tutte le totalità, questo stare-insieme come separazione, precede e oltrepassa la società, 64 viene attuato fomentando la violenza di una larga parte di popolazione mondiale, la parte che corrisponde, nella sua maggioranza, alle nazioni più povere del mondo. Tornando alla questione della difesa di un multiculturalismo effettivo, bisogna ribadire che esso non può identificarsi con un’accoglienza in cui l’altro e la responsabilità per l’altro implichino un assoggettamento totale del soggetto accogliente. Sotto questo specifico riguardo la filosofia di Lévinas ci pare inattuale, troppo schiacciata sull’olocausto (e sul trauma Auschwitz) e poco adattabile alla situazione dell’Europa contemporanea. L’ondata emotiva suscitata dall’olocausto deve essere parte viva della memoria europea – la stessa Unione Europea nasce da quella immane lacerazione – ma il tempo porta sempre anche problemi nuovi e le filosofie devono essere pronte a rinnovarsi per affrontarli. Così di certe espressioni di Lévinas possiamo cogliere la profonda vibrazione umanitaria, ma, a causa del loro estremismo, non ci pare possano essere le espressioni adeguate ad una cultura dell’accoglienza che difende i propri valori storici. Scrive Lévinas: L’Altro metafisico è altro secondo un’alterità che non è formale, secondo un’alterità che non è un semplice rovescio dell’identità, né secondo un’alterità fatta di resistenza al Medesimo, ma secondo un’alterità anteriore ad ogni iniziativa, ad ogni imperialismo del Medesimo. […] Altro secondo un’alterità che non limita il Medesimo, perché, limitando il Medesimo, l’Altro non sarebbe rigorosamente Altro: avendo una frontiera comune, sarebbe, all’interno del sistema, ancora il Medesimo. L’assolutamente Altro è Altri. Non è sul mio stesso piano. La collettività nella quale dico «tu» o «noi» non è un plurale di «io». Io, tu, non si tratta qui di individui di un concetto comune. Né il possesso, né l’unità del piano, né l’unità del concetto, possono legarmi ad altri. Assenza di una patria comune che fa dell’Altro lo Straniero; lo Straniero che viene a turbare la mia casa. [TI: 36-37] Quando se non oggi, nel momento in cui la sanguinosa migrazione di massa verso un’Europa sempre meno opulenta modifica il tessuto culturale delle potenze economiche del nord del mondo, queste parole di Lévinas sono apparse davvero profetiche? Ad ascoltarle in profondità però, esse sono il racconto di un occidente post-bellico che non esiste la collettività, la comunità. Levinas lo chiama religione. Esso apre l’etica. La relazione etica è una relazione religiosa (DL). Non una religione, ma la religione, la religiosità del religioso. Questa trascendenza al di là della negatività non si realizza nell’intuizione di una presenza positiva, ma «instaura solamente un linguaggio in cui né il no né il si sono la prima parola» (TI), ma l’interrogazione. Interrogazione, tuttavia non teorica, problema totale, disperazione e miseria, supplica, preghiera pressante rivolta a una libertà, vale a dire, comandamento: l’unico imperativo etico possibile, l’unica nonviolenza incarnata in quanto è rispetto dell’altro. Rispetto immediato dell’altro come tale poiché esso non passa,[…], attraverso l’elemento neutro dell’universale e attraverso il rispetto – nel senso kantiano – della Legge.” [VM: 121]. 65 più. La relazione in cui l’Altro non è sullo stesso piano del Medesimo, e in cui esso, malgrado l’uscita fuori di sé del Medesimo, rimane trascendente al Medesimo, sottolinea la forza di una asimmetria, il dovere di un riguardo certamente ammirevole ma la cui retorica può causare la dimenticanza di sé e, per restare nella metafora, la perdita stessa della casa in cui lo Straniero viene a turbarmi. Continua Lévinas: Ma Straniero significa anche il libero. Su di lui non posso potere. Sfugge alla mia presa per un fatto essenziale, anche se dispongo di lui. Non è interamente nel mio luogo. Ma io, che non ho con lo Straniero un concetto comune, sono, come lui, senza genere. Siamo il Medesimo e l’Altro. La congiunzione e non indica qui né addizione, né potere di un termine sull’altro. Cercheremo di mostrare che il rapporto del Medesimo e dell’Altro – al quale sembriamo importare delle condizioni così straordinarie – è il linguaggio. Il linguaggio attua infatti un rapporto tale che i termini non sono limitrofi in questo rapporto, tale che l’Altro, malgrado il rapporto con il Medesimo, resta trascendente al medesimo. La relazione del Medesimo e dell’Altro – o metafisica – si dispiega originariamente come discorso nel quale il Medesimo, raccolto nella sua ipseità di «io» – di ente particolare unico ed autoctono – esce da sé. Una relazione i cui termini non formano una totalità, può dunque prodursi nell’economia generale dell’essere solo se è tale da andare dall’Io all’Altro, solo come faccia a faccia, solo se è tale da delineare una distanza in profondità – quella del discorso, della bontà, del Desiderio – irriducibile a quella che l’attività sintetica dell’intelletto stabilisce tra i termini diversi – altri gli uni rispetto agli altri – che si offrono alla sua operazione sinottica68. [TI: 37] Dopo una pars destruens, in cui l’impronta identitaria della filosofia occidentale viene accusata da Lévinas a causa (della violenza) della sintesi e dell’unità del concetto operata sull’irripetibilità dell’individuo, si passa ad una pars construens in cui il Medesimo, o l’io, esce da sé per andare verso l’Altro e così attuare la vera trascendenza indicata nella parola “metafisica”. L’uscita del sé verso l’Altro viene identificata col linguaggio fra gli uomini e col faccia a faccia, cioè col dialogo nella sua pura e libera essenza, in cui le frontiere che dividono gli individui vengono cancellate in nome della compenetrazione reciproca delle loro essenze. Il dialogo è però, dobbiamo aggiungere, anche il vincolo più solido al rispetto dell’interlocutore e alla comunanza con lui, dunque, in 68 Perché mai, ci domandiamo, la “distanza in profondità” può essere delineata solo come faccia a faccia da una relazione i cui termini non formano una totalità e solo se è irriducibile all’attività sintetica che l’intelletto stabilisce fra termini diversi? Cosa ha la dialogicità o la dialettica della filosofia in meno o di meno profondo del faccia a faccia cui fa riferimento il filosofo franco-lituano? Forse ciò che Lévinas critica senza rendersene conto, nella sua accusa alla filosofia di essere una “macchina della totalizzazione” e nell’alternativa epocale fra totalità e infinito, è semmai lo spirito alienante di omnicomprensione e di soluzione totale di cui sono vittime la scienza e la tecnica a partire dall’epoca industriale. Da questo punto di vista, La crisi delle scienze europee di Husserl è già una prima forte reazione a ciò che Lévinas combatte in Totalità e infinito. 66 definitiva, concludendo in un modo che Lévinas non accetterebbe, il dialogo è tale sulla base di una identità di fondo – approssimata – che non può non caratterizzare i dialoganti. Ora, se il faccia a faccia del linguaggio cui Lévinas allude qui, come unica via del riconoscimento all’Altro della propria alterità non assoggettabile, è, come è chiaro, quello che si produce nel dialogo, allora il filosofo francese emette in Totalità e infinito un giudizio troppo severo e generalizzante sulla filosofia e sul pensiero occidentale: un giudizio che non possiamo condividere69. Se, oggi come mai, l’Altro è lo Straniero che 69 Scrive Lévinas nella sua celebre critica contro la filosofia: “La filosofia occidentale è stata per lo più un’ontologia: una riduzione dell’Altro al Medesimo, in forza dell’interposizione di un termine medio e neutro che garantisce l’intelligenza dell’essere. Questo primato del Medesimo ha costituito la lezione di Socrate. Non ricevere nulla da Altri se non ciò che è in me, come se, da sempre, io possedessi ciò che mi viene dal di fuori. Non ricevere nulla o essere libero. La libertà non assomiglia alla capricciosa spontaneità del libero arbitrio. Il suo senso ultimo dipende da questa permanenza nel Medesimo, che è Ragione. La conoscenza è il dispiegarsi di questa identità. E’ libertà. E che la ragione sia in fin dei conti la manifestazione di una libertà, che neutralizza l’altro o lo ingloba, è fatto che non può sorprendere, poiché fu detto che la ragione sovrana conosce solo se stessa e che nient’altro la limita. La neutralizzazione dell’Altro, che diventa tema od oggetto – che appare, cioè, che si pone in trasparenza – è appunto la sua riduzione al Medesimo. Conoscere ontologicamente significa sorprendere nell’ente affrontato ciò per cui non è questo ente, questo straniero, ma ciò per cui si tradisce in qualche modo, si consegna, si dà all’orizzonte nel quale si perde e appare, dà presa, diventa concetto. Conoscere equivale ad impossessarsi dell’essere a partire da niente o a ridurlo a niente, privarlo della sua alterità. Questo risultato è raggiunto sin dal primo raggio di luce. Illuminare significa privare l’essere della sua resistenza, perché la luce apre un orizzonte e vuota lo spazio – consegna l’essere a partire dal niente. La mediazione (caratteristica della filosofia occidentale) ha senso solo se non si limita a ridurre le distanze. Infatti come è possibile che degli intermediari riducano gli intervalli tra termini infinitamente distanti? Non appariranno forse come spazi incolmabili all’infinito? Deve prodursi da qualche parte un grande «tradimento» perché un essere esteriore e straniero si consegni a degli intermediari. Per quanto riguarda le cose la loro resa si attua nella concettualizzazione. Per quanto riguarda l’uomo essa può essere ottenuta dal terrore che fa cadere un uomo libero sotto il dominio di un altro. Per le cose, l’opera dell’ontologia consiste nel cogliere l’individuo (che solo esiste) non nella sua individualità, ma nella sua generalità (la sola di cui ci sia scienza). La relazione con l’Altro si attua soltanto attraverso un terzo termine che io trovo in me. L’ideale della verità socratica si fonda dunque sull’essenziale sufficienza del Medesimo, nella sua identificazione di ipseità, sul suo egoismo. La filosofia è un’egologia.” [TI: 41-2]. Benché la creatività nelle metafore e la maestria letteraria di Lévinas ci trasportino alla piena comprensione della sua visione, in questo passo sono espresse tesi inaccettabili sui meccanismi della concettualizzazione e della conoscenza; esse possono avere una funzione nell’orchestrazione generale dell’opera di Lévinas, ma rimangono pure iperboli con un valore di esortazione morale più che posizioni da prendere alla lettera. La mediazione, ad esempio, ha esattamente la funzione di ridurre le distanze, e i termini da mediare non sono affatto infinitamente distanti, se non in base al discorso, suggestivamente etico e non logico, che Lévinas fa riguardo all’alterità assoluta di Altri. La mediazione non è affatto un tradimento operato da “intermediari” (che ricordano le spie e i collaborazionisti che permisero massacri nella seconda guerra mondiale), essa è 67 viene a turbare la mia casa – in senso non solo metaforico – e se il dialogo che produce il rapporto fra i volti, cioè l’attimo in cui l’Altro si rivolge a Me e avviene lo scambio delle visioni, è l’unica via per non violare o assoggettare la sua alterità, questo non si realizza senza (o addirittura contro) il portato storico del pensiero occidentale: sebbene lavori ad una sistematica decostruzione e confutazione della filosofia – e del pensiero heideggeriano in particolare – il pensiero di Lévinas, come Derrida mostra in Violenza e metafisica, è profondamente intriso delle strutture concettuali della filosofia classica70. Anche Derrida, nella sua un tentativo di pacificazione, un modo per valorizzare l’identità pur tenendo presente l’alterità fra gli enti. La mediazione è lo strumento fondamentale di una conoscenza che voglia coltivare l’armonia con l’oggetto della conoscenza; la dialettica hegeliana ne è una prova, solo che nella prospettiva dialettica di Hegel al fondo della mediazione, come sua verità, troviamo la negazione, per converso, in una filosofia dell’armonia, al fondo della negazione e della contraddizione, come suo fondamento, troviamo la mediazione, la conciliazione dell’alterità e del negativo. 70 Derrida indica Lévinas come un non-Greco che finge di parlare greco per portare a termine il vero ed effettivo parricidio nei confronti dell’essere parmenideo, dunque per scalzare il primato dell’identità e del Medesimo che ha reso violenta la filosofia. Anche da questo commento derridiano risulta chiara l’intenzione di Lévinas di pensare la differenza in una maniera analoga a quella seguita da Deleuze: entrambi i pensatori francesi sono confutatori dell’armonia del concetto aristotelico-hegeliano (in cui s’inscrive armonicamente la διαφορά), e tentano di pensare l’individuo come unicum irrelato, come “mostro”, puntando ad estromettere le relazioni ontologiche di somiglianza sussistenti fra gli individui e gli oggetti. Ma è possibile un’operazione del genere? Scrive Derrida: “[…], ad una profondità insolita – ma il fatto e l’accusa risultano per questo ancor più significativi – Heidegger avrebbe ulteriormente interrogato e ridotto il teoretismo nel nome e all’interno di una tradizione greco-platonica, controllata dall’istanza dello sguardo e dalla metafora della luce. Cioè dalla coppia spaziale del dentro-fuori (ma è proprio, per intero, una coppia spaziale?) di cui vive l’opposizione soggetto-oggetto.[…] «Noi vorremmo avviarci verso un pluralismo che non tenda a fondersi in unità; e se la cosa è mai possibile, rompere con Parmenide» (TA). Levinas ci esorta dunque a un secondo parricidio. E’ necessario uccidere il padre greco che ci impone tuttora la sua legge, gesto a cui un Greco come Platone non ha mai potuto sinceramente risolversi differendolo in un delitto allucinatorio. Allucinazione nell’allucinazione già della parola. Ma quello che qui un Greco non ha potuto fare, come riuscirà a farlo un non-Greco se non travestendosi da Greco, parlando greco, fingendo di parlare greco, per potersi avvicinare al re? E, dato che si tratta di uccidere una parola, si potrà mai sapere chi è l’ultima vittima di questo inganno? Si può fingere di parlare una lingua? Lo Straniero eleate e discepolo di Parmenide aveva dovuto dargli ragione per aver ragione di lui: piegando il non-essere, all’essere, era stato costretto a «dire addio a non so quale contrario dell’essere» e a confinare il non essere nella sua relatività all’essere, cioè nel movimento dell’alterità. Perché, secondo Levinas, era necessaria la ripetizione del delitto? Perché il gesto platonico continuerà a rimanere inefficace fino a quando la molteplicità e l’alterità non saranno intese come solitudine assoluta dell’esistente nel suo esistere.[…] Ora questa solitudine dell’«esistente» nel suo «esistere» sarebbe prima, non potrebbe essere pensata a cominciare dalla unità neutra dell’esistere […]. Dal fondo di questa solitudine ha origine il rapporto con l’altro. Senza di essa, senza questo primo segreto, il parricidio è una finzione teatrale della filosofia. Partire dall’unità dell’«esistere» per comprendere il segreto, con il pretesto che esso 68 serrata analisi del pensiero di Lévinas, tende ad avvicinare l’immagine del faccia a faccia al dialogo, e questo al pensiero dell’essere, il quale – non paia inopportuno ricordarlo – è considerato da Heidegger e Derrida come un aspetto del λόγος greco, magari il suo aspetto orginario, ma pursempre un aspetto di esso. Infine, se Derrida consente con Lévinas che la filosofia è stata storicamente anche violenta, e il pensiero dell’essere, all’inizio e alla fine della storia della pensiero occidentale, non si distingue in questo dalla filosofia, si tratta della minore violenza possibile che si possa chiedere all’uomo, la violenza connessa al dimorare dell’uomo entro il linguaggio, al teorizzare e al tentare di costruire una civiltà in cui cercare la realizzazione di sé, non certo la violenza specifica che ha portato alle guerre e ai genocidi: Implicato dal discorso di Totalité et Infini, in quanto solo permette di lasciar essere gli altri nella loro verità, in quanto libera il dialogo e il faccia a faccia, il pensiero dell’essere è quindi quanto mai vicino alla non-violenza. Noi non la definiamo non-violenza pura. Come la violenza pura, la non-violenza pura è un concetto contraddittorio.[…] La violenza pura, rapporto tra esseri senza volto, non è ancora violenza, è non-violenza pura. E reciprocamente la non-violenza pura, non rapporto dello stesso all’altro (nel senso che intende Levinas) è violenza pura. Solo un viso può fermare la violenza ma in primo luogo perché solo esso può provocarla. Levinas lo dice molto bene: «la violenza non può che rivolgersi a un viso» ([…]) (TI). Perciò senza il pensiero dell’essere che apre il viso, ci sarebbero solo non-violenza o violenza pure. Il pensiero dell’essere non è quindi mai, nel suo disvelamento, estraneo ad una certa violenza […] Un essere senza violenza sarebbe un essere che si produrrebbe fuori dell’essente: nulla; nonstoria; non-produzione; non-fenomenicità. Una parola che si producesse senza la minima violenza non determinerebbe nulla, non direbbe nulla, non offrirebbe nulla all’altro; non sarebbe storia e non mostrerebbe nulla: in tutti i sensi della parola, e prima di tutto nel suo senso greco, sarebbe una parola senza frase. Al limite, il linguaggio non-violento, nel senso di Levinas, sarebbe un linguaggio che si priverebbe del verbo essere, cioè di ogni predicazione. La predicazione è la prima violenza. Poiché il verbo essere e l’atto predicativo sono implicati in ogni altro verbo e in ogni nome comune, il linguaggio non-violento, sarebbe al limite un linguaggio di pura invocazione, di pura adorazione, proferirebbe soltanto nomi propri per invocare l’altro da lontano.[…] Un simile linguaggio meriterebbe ancora il suo nome?[…] Infine, per ritornare all’argomento di Levinas, che cosa offrirebbe all’altro un linguaggio senza frase, un linguaggio che non dicesse nulla? Il linguaggio deve dare il mondo all’altro, ci dice Totalité et Infini. Un maestro che si interdicesse la frase non darebbe nulla; non avrebbe discepoli, ma solo servi. […]. Così, nella sua più alta esigenza non violenta, denunciando il passaggio attraverso l’essere e il momento del concetto, il pensiero di Levinas non ci proporrebbe soltanto, come dicevamo prima, un’etica senza legge ma anche un esiste o che è il segreto dell’esistente, «significa rinchiudersi nell’unità e lasciare che Parmenide si sottragga ad ogni parricidio» (TA). Da questo punto, dunque, Levinas si dirige verso un pensiero della differenza. Questo pensiero è in contraddizione con le intenzioni di Heidegger? C’è una differenza tra questa differenza e la differenza di cui parla quest’ultimo? C’è tra di esse un accordo non soltanto verbale? E quale differenza, tra le due, è la più originaria?” [VM: 111-114]. 69 linguaggio senza frase. E ciò sarebbe del tutto coerente se il viso fosse soltanto sguardo, ma esso è anche parola; e nella parola, è la frase che fa accedere il grido del bisogno all’espressione del desiderio. Ora, non c’è frase che non determini, vale a dire, che non passi attraverso la violenza del concetto. La violenza si manifesta con l’articolazione. E quest’ultima non è aperta se non dalla circolazione (in primo luogo pre-concettuale) dell’essere. [VM: 188-190] Qualora poi si voglia affermare che la metafisica e il desiderio, come li pensa Lévinas, eccedono la struttura identitaria ed armonica dell’uno platonico e leibniziano, è sufficiente ricordare che l’eros, l’eccedenza e la dismisura sono metafore e motivi anzitutto platonici (che di certo Leibniz non ignora), e, per quanto possano essere ripensate e poste contro una certo percorso della tradizione (quello dell’identità e del Medesimo), esse non potranno mai uscire veramente dal discorso filosofico o indicare qualcosa che sia estraneo ad esso. Il fatto è che Platone, e con esso la grecità classica, concepì questi aspetti di dismisura e di eccedenza come momenti limite, istanti di ispirazione divina, legati ai culti misterici, certamente fecondi e suggestivi; ma anche per Platone, così come per Aristotele, il λόγος è soprattutto misura, equilibrio, armonia. La posizione e l’importanza che Lévinas assegna al dialogo, sebbene nella geniale e rinnovata versione del faccia a faccia, legata al motivo del volto e della fraternità, ne è una prova. In definitiva, se il dialogo, quando è autentico e improntato all’ascolto, è l’unico elemento che mi permette di lasciar essere l’Altro in quanto Altro, quando questi come straniero viene a disturbarmi in casa mia, e mi permette al contempo di restare me stesso durante le emergenze della storia (perché io sono la concrezione di una storia), ciò non può avvenire dimenticando che la filosofia occidentale è strutturata intorno alla dialogicità71, al gioco della tesi e della confutazione, alla dualità di contributo e ascolto come prassi della ricerca, al fatto che la filosofia ha generato le scienze proprio grazie alla libertà di critica e di espressione, grazie ad un sano e relativo Riguardo al problema della carenza di solidarietà nella società globale, Bauman punta proprio sulla dimensione della dialogicità pubblica, quella che, con riferimento alla cultura greca, il sociologo polacco chiama agorà; scrive Floriduz: “[Il meccanismo della globalizzazione] ha condotto al «raffreddamento del pianeta degli uomini» (p. 60): il tessuto della solidarietà umana si sta disgregando rapidamente e le nostre società sono sempre meno accoglienti. Bauman individua quale strategia risolutiva a questa situazione di disagio il recupero dell spazio privato/pubblico dell’agorà, la società civile.[…] Solo nell’agorà è possibile costruire una società autonoma, capace di autocritica, di autoesame, di discussione e ridefinizione del bene comune.[…] Gli intellettuali dovrebbero riappropiarsi della politica, inseguire le «tracce di paideia» (p. 104) disseminate qua e là all’interno della società civile, riformare, educare, stimolare, evitando di arroccarsi in una filosofia lontana dall’uso comune del linguaggio e del logos.” D. Floriduz, Recensione a Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, cit. 71 70 relativismo72. Infine, quand’anche la filosofia fosse fortemente un discorso sull’identità e sul medesimo, qualora fosse un discorso in gran parte (certo non del tutto) egologico, non è forse sulla base della conoscenza e del rispetto che ciascuno ha di sé che abbiamo rispetto e considerazione dell’altro? Non è forse a partire dalla conoscenza e dalla considerazione delle nostre sofferenze, e a partire dall’istinto di autoconservazione, che consideriamo gli altri, che vediamo simili a noi, degni della nostra salvaguardia? Cos’altro sarebbe la trascendenza dell’io verso l’Altro che Lévinas indica? Cos’è il principio di sostituzione etica se non, anzitutto, una difesa del sé? Così Derrida riprende il tema dell’alter ego husserliano per mostrare che la critica che Lévinas muove al pensiero filosofico, e alla filosofia husserliana in particolare, di teorizzare un mancato riconoscimento e rispetto dell’altro in quanto tale, è infondata73. La difesa che Derrida fa delle filosofie di Husserl e di Heidegger, dalle critiche distruttive di Lévinas, diventa così una difesa di tutta la tradizione occidentale, anche nel suo inconfondibile marchio identitario impresso da Paremenide. Se poi tale marchio implica violenza nel logos, questa, come chiarito, è la minor violenza possibile ed è la violenza come “origine del senso e del discorso nel regno della finitezza”, la violenza che mantenendo al differenza fra lo stesso e l’altro può concepire l’idea di pace: 72 Relativo relativismo poiché ogni punto di partenza, in filosofia come in scienza, implica sempre un atto di fede e la credenza in qualcosa dato per certo da cui cominciare. 73 Scrive Derrida: “Levinas scrive: «Altri, in quanto altri, non è soltanto un alter ego. E’ quello che io non sono» (EE e TA). La «decenza» e la «vita quotidiana» ci fanno credere a torto che «l’altro viene conosciuto con simpatia, come un altro me stesso, come l’alter ego» (TA). E’ precisamente quello che Husserl non fa. Husserl vuole soltanto riconoscerlo come altri nella sua forma d’ego, nella sua forma d’alterità che non può essere quella delle cose nel mondo. Se l’altro non fosse riconosciuto come alter ego trascendentale, sarebbe per intero nel mondo e non, come me, origine del mondo. Rifiutare di vedere in lui un ego in questo senso è, nell’ordine etico, il gesto stesso di ogni violenza. Se l’altro non fosse riconosciuto come ego, tutta la sua alterità svanirebbe. Sembra, quindi, che non sia possibile, senza travisare le sue intenzioni più costanti e dichiarate, supporre che Husserl faccia dell’altro un altro me-stesso (nel senso fattuale dell’espressione), una modificazione reale della mia vita.[…] L’altro come alter ego, significa l’altro come altro, irriducibile al mio ego, proprio perché è ego, significa l’altro come altro, irriducibile al mio ego, proprio perché è ego, ha la forma dell’ego. L’egoità dell’altro gli permette di dire «ego» come me e per questa ragione esso è altri e non una pietra o un essere senza parola nella mia economia reale. Per questa ragione, se vogliamo, esso è viso, può parlarmi, capirmi ed eventualmente comandarmi. Non sarebbe possibile alcuna dissimmetria, senza questa simmetria, che non è del mondo e che, non essendo nulla di reale, non pone alcun limite all’alterità, alla dissimmetria, ma anzi la rende possibile.” [VM: 159]. 71 Ci si accorgerà subito che se il Parmenide del Poema ci lascia credere che […] si è più di una volta prestato al parricidio, la grande ombra bianca e terribile che parlava al giovane Socrate continua a sorridere mentre noi intavoliamo grandi discorsi intorni agli esseri separati, all’unità, alla differenza, allo stesso e all’altro. A quali esercitazioni potrebbe abbandonarsi Parmenide in margine a Totalité et Infini se noi tentassimo di fargli intendere che ego è uguale a stesso e che l’Altro è quello che è solo in quanto assoluto, infinitamente altro assolto dal suo rapporto allo Stesso! Per esempio: I) l’infinitamente altro, forse direbbe, non può essere quello che è se non se è altro, cioè altro da. Altro da deve essere altro da me. Ma allora, non è più assolto dalla relazione con un ego. Quindi non è più infinitamente, assolutamente altro. Non è più quello che è. Se poi fosse assolto, anche in questo caso non sarebbe l’Altro, ma lo Stesso; 2) l’infinitamente altro può essere quello che è – infinitamente altro – solo se non è assolutamente lo stesso. Vale a dire, in particolare, se è altro da sé (non-ego). Poiché è altro da sé, non è quello che è. Quindi non è infinitamente altro, ecc. Questa esercitazione non sarebbe, al suo fondo, verbosità e virtuosismo dialettico nel «gioco dello Stesso». Significherebbe che l’espressione «infinitamente altro» o «assolutamente altro» non può, nello stesso tempo, essere detta e pensata; che l’Altro non può essere assolutamente esterno allo stesso, senza smettere di essere altro e che, di conseguenza, lo stesso non è una totalità chiusa su di sé, una identità che gioca con sé, con la sola apparenza dell’alterità, in ciò che Levinas chiama l’economia, il lavoro, la storia. Come potrebbe esserci un «gioco dello Stesso», se anche l’alterità non fosse già nello Stesso, in un senso dell’inclusione che l’espressione nello, senza dubbio tradisce? [VM: 159-160] Che l’altro non si manifesti come tale se non nel suo rapporto allo stesso è una evidenza che i Greci non avevano avuto bisogno di riconoscere nell’egologia trascendentale che la convaliderà più tardi, ed è la violenza come origine del senso e del discorso nel regno della finitezza.[…] Il discorso, se è originariamente violento, non può dunque che farsi violenza, negarsi per affermarsi, fare la guerra alla guerra che lo istituisce, senza mai potere, in quanto discorso, riappropriarsi di quella negatività. Senza dovere riappropriarsela perché, se lo facesse, l’orizzonte della pace svanirebbe nella notte (violenza peggiore come previolenza). Questa guerra seconda, come confessione, è la minor violenza possibile, la sola maniera di reprimere la violenza più grave, quella del silenzio primitivo e pre-logico, di una notte inimmaginabile che non sarebbe neppure il contrario del giorno, di una violenza assoluta che non sarebbe neppure il contrario della nonviolenza: il nulla o il non-senso puri. Il discorso si sceglie dunque violentemente contro il nulla e il non-senso puri e, nella filosofia, contro il nichilismo. Perché ciò non avvenisse,[…] Bisognerebbe che fosse stato instaurato il «trionfo messianico» «premunito contro la rivincita del male». Questo trionfo messianico, che è l’orizzonte del libro di Levinas, ma che ne «oltrepassa i limiti» (TI) non potrebbe abolire la violenza se non sospendendo la differenza (congiunzione o opposizione) tra lo stesso e l’altro, cioè sospendendo l’idea della pace. Ma questo orizzonte stesso non può qui ed ora (in un presente in generale) essere detto, la fine non può essere detta, l’escatologia è possibile solo attraverso la violenza. Questa attraversata infinita è quello che si chiama la storia. Ignorare l’irriducibilità di questa ultima violenza, significa ritornare nell’ordine del discorso filosofico che non si può voler rifiutare, se non rischiando la violenza più grave, al dogmatismo infinitista di stile pre-kantiano che non pone la questione della responsabilità del proprio discorso filosofico finito. [VM: 163-165] 72 Così, il sorriso di superiorità in cui rimane l’ombra di Parmenide mentre, inseguendo Lévinas, si tenta di uscire dall’essere o, cosa analoga, si tenta di configurare una alterità che non ricada nello stesso, è strettamente legato alla tesi leibniziana della identità come prima veritas, al riconoscimento di una tradizione filosofica che deve fare i conti cogli esiti violenti del suo teorizzare scientifico e filosofico, senza però attribuirsi più colpe di quelle che essa in effetti ha. L’identità come prima veritas e il “gioco dello stesso” eracliteo-heideggeriano (ma anche platonico, aristotelico ed hegeliano) sono conseguenze destinali della forma greca della filosofia europea. Sarebbe interessante appurare, da un punto di vista logico e psicologico, se il loro primato e la loro originarietà siano un carattere naturale del pensiero – come del resto suggerisce il fatto che le filosofie orientali, indipendenti e lontane dalla cultura europea, hanno elaborato filosofie sul principio primo come il Tao e l’aspirazione buddista al vuoto, simili al pensiero dell’essere in Heidegger. Il fatto rilevante è che, al punto in cui siamo, non possiamo non muovere a partire dall’identità e che una filosofia dell’alterità (o della differenza) assoluta e della consegna di sé all’altro, come Derrida dimostra in Violenza e metafisica, è teoreticamente impossibile e politicamente disastrosa. Il “gioco dello Stesso”, in cui l’alterità è interna allo stesso – se si vuole come ferita, ma anche come dialogo – è ciò che nel nostro linguaggio, legato consapevolmente alla tradizione greca, chiamiamo “armonia”. Armonia però è solo un’antica parola della filosofia che, per quanto nobile, può solo essere intesa come via da riprendere e da percorrere, come un compito, un principio che la filosofia ha tralasciato nel corso della sua storia e che oggi, come si vede in politica e in economia, rimane del tutto nascosto al pensiero. E’ una parola che regge bene il gioco dell’identità e della differenza74, dell’altro in seno al 74 Avevamo già toccato questo aspetto dialettico dell’armonia riferendolo alla logica di Hegel: “Nell’armonia è possibile sentire l’unità di tutte le cose pur percependo le differenze, l’armonia è anzi proprio questo mantenersi delle differenze nell’identità e nell’accordo dell’uno. Armonia è un modo per dire insieme identità e differenza ma non è un terzo che li media negandoli, non svolge cioè la funzione che la contraddizione ha nella dialettica hegeliana. Parlare di armonia come dell’elemento entro il quale pensare l’identità e la differenza può essere un modo per tornare a parlare di dialettica, ma non di una dialettica che si chiude in un sistema, come quello hegeliano, che pretende di essere esaustivo e di dire l’ultima parola sulla realtà, contravvenendo all’obbligo dell’umiltà: c’è un ordine nascosto che la conoscenza umana deve rispettare nella sua ascosità, nel quale l’uomo può avventurarsi solo a piccoli passi” G. Licata, L’ordine nascosto. Natura e armonia all’origine del pensiero filosofico e scientifico, cit., pp. 22-23. Nella riflessione di Derrida (come in quella di Deleuze) l’essere si produce già come differenza, ma negheremmo tutto il lavoro svolto in Violenza e metafisica se non ammettessimo che in Derrida l’istanza identitaria, quel Medesimo contro cui Lévinas scaglia la sua accusa di violenza, abbia una sorta di priorità sull’istanza differenziale; è a causa di questa priorità che parliamo di armonia. Identità e differenza, come relazioni logiche del confronto fra 73 medesimo, una parola che non soffre delle aporie che Derrida estrapola nella riflessione di Lévinas sull’Altro75. Proviamo ora, dopo questo percorso, a riconsiderare la distruttiva accusa che Lévinas muove e al pensiero dell’essere heideggeriano al carattere identitario del pensiero occidentale (che nel pensiero dell’essere storicamente si esprime), intendendolo come il meccanismo sotto traccia della cultura occidentale che avrebbe portato all’olocausto; ebbene, ecco la condivisibile difesa della filosofia heideggeriana che Derrida propone contro tale accusa: enti, rimangono assolutamente sullo stesso piano, e così come non si dà in natura l’identità assoluta – cosa che Leibniz sottolinea – lo stesso vale per la differenza assoluta; ma il riferimento all’armonia continua ad essere un riferimento alla priorità dell’istanza identitaria su quella differenziale, all’uno che regge le differenze. Certo, in questa rappresentazione hegeliana della questione, l’armonia è il primo vero contenuto concreto dei fenomeni, rispetto alla quale identità e differenza non sono altro che i suoi lati astratti. Ma questa rappresentazione mostra anche il carattere di mediazione dell’armonia, o, se vogliamo, il fatto che l’ordine nomico in cui l’uomo vede i fenomeni, che è epistemologico ma certamente anche ontologico, è di per sé un richiamo alla misura e alla medietà fra gli estremi che risuona nella vita interiore. L’armonia non è un terzo fra identità e differenza che li media negandoli, ma la seconda negazione del movimento della dialettica hegeliana, il passaggio dal momento negativo della ragione (antitesi) a quello razionale positivo del ritorno in sé e per sé (sintesi), dunque il movimento dell’Aufhebung, come doppia negazione che realizza l’affermazione, può assumere quell’aspetto di mediazione in cui si realizza l’armonia e la misura, anche nel senso di doppia negazione dell’eccesso e del difetto. La priorità dell’istanza identitaria su quella differenziale si riflette nella priorità dell’aspetto affermativo su quello negativo del mediare. Sono priorità su cui il pensiero di Leibniz e quello di Hegel hanno insistito, di certo sulle orme di Platone e Aristotele. 75 Aporie in Lévinas che porterebbero ancora una volta, nello svincolamento dell’autre dall’ἕτερον, all’impossibile/impensabile uscita della filosofia di Lévinas dalla tradizione greca e occidentale: “Confessiamo infine di essere completamente sordi a proposizioni di questo tipo: «l’essere si produce come multiplo e come scisso in Stesso e Altro. E’ la sua struttura ultima» (TI). Che cosa è mai la scissione dell’essere tra lo stesso e l’altro, una scissione tra lo stesso e l’altro, che non presupponga, almeno, che lo stesso sia l’altro dell’altro e l’altro lo stesso che sé? Non pensiamo più soltanto all’esercitazione di Parmenide che scherza con il giovane Socrate. Lo Straniero del Sofista che sembra rompere con l’eleatismo, come Levinas, in nome dell’alterità, sa che l’alterità non si pensa se non come negatività, non si dice, soprattutto, se non come negatività – cosa che Levinas rifiuta fin dal principio – e che, diversamente dall’essere, l’altro è sempre relativo, dice se stesso pros heteron, il che non gli impedisce di essere un eidos (o un genere in un senso non concettuale), cioè di essere lo stesso che sé («stesso che sé» presuppone già, come nota Heidegger in Identität und Differenz, proprio a proposito del Sofista, mediazione, relazione e differenza: ἕκαστον ἑαυτῷ ταὐτόν). Da parte sua, Levinas rifiuterebbe di assimilare l’altro con l’heteron di cui qui si parla. Ma in che modo pensare o dire «altri» senza riferimento – non diciamo riduzione – all’alterità dell’heteron in generale? Quest’ultima nozione non ha più allora il senso stretto che permette di contrapporla semplicemente a quella d’altri, come se essa fosse confinata nella regione dell’obbiettività reale o logica. L’heteron farebbe parte, quindi, di una zona più profonda e più originaria di quella in cui si dispiega questa filosofia della soggettività (cioè dell’obiettività), ancora implicata nella nozione d’altri. [VM: 161] 74 «Affermare la priorità dell’essere in rapporto all’essente, vuol dire pronunciarsi già sull’essenza della filosofia, subordinare la relazione con qualcuno che è un essente (la relazione etica), ad una relazione con l’essere dell’essente, che, impersonale, permette la presa, la dominazione dell’essente (ad una relazione di sapere), subordina la giustizia alla libertà.» […] Ma se l’«ontologia» non è un truismo, o almeno un truismo come gli altri, se la strana differenza tra l’essere e l’essente ha un senso, è il senso, si può parlare di «priorità» dell’essere in rapporto all’essente? Problema importante qui, poiché è questa pretesa «priorità» che sottometterebbe, secondo Levinas, l’etica all’«ontologia». Non può esserci ordine di priorità se non tra due cose determinate, due essenti. Poiché l’essere non è nulla fuori dell’essente, tema che Levinas aveva esaurientemente commentato poco prima – non può precederlo in alcun modo né in ordine di tempo, né in ordine di dignità, ecc. Il pensiero di Heidegger non è mai stato tanto chiaro come su questo punto. Ma allora non è possibile parlare legittimamente di «subordinazione» dell’essente all’essere, della relazione etica, per esempio, alla relazione ontologica. Pre-comprendere o esplicitare la relazione implicita con l’essere dell’essente, non singifica sottomettere violentemente l’essente (per esempio, qualcuno) all’essere. L’essere non è che l’essere-di quell’essente e non esiste fuori di esso come una potenza estranea, un elemento impersonale, ostile o neutro. La neutralità così spesso accusata da Levinas non può essere se non il carattere di un essere indeterminato, di una potenza ontica anonima, di una generaltà concettuale o di un principio. Ora l’essere non è un principio, non è un essente principale, una archia che permetta a Levinas di insinuare sotto il suo nome il volto di un tiranno senza volto. Il pensiero dell’essere (dell’essente) è radicalmente estraneo alla ricerca di un principio o perfino di una radice (per quanto alcune immagini possano talvolta farlo pensare), o di un «albero della conoscenza»: l’abbiamo visto, sta al di là della teoria, non è la parola prima della teoria. Sta al di là anche di ogni gerarchia. Se ogni «filosofia», ogni «metafisica» ha sempre cercato di determinare il primo essente, l’essente per eccellenza e l’essente autentico, il pensiero dell’essere dell’essente non è questa metafisica o questa filosofia prima. [VM: 171-174] In parziale disaccordo con Derrida, riteniamo che la filosofia heideggeriana spinga fortemente verso una «priorità» dell’essere rispetto all’ente76; il fatto è che – e in questo Derrida ha ragione – tale priorità non avviene numerando e distinguendo oggetti reali, non è stabilita fra cose reali, fra enti. L’essere heideggeriano è “principio”, ma non come genere concettuale rispetto agli individui o come causa prima degli enti. La priorità dell’essere è stabilita fra gli enti ed il loro senso d’essere, una priorità che non può essere estrapolata fuori dal testo di Heidegger e forzata fino a fare dire che il pensiero rivolto all’essere è disinteresse per l’Altro e per le persone. E’ un grave errore filosofico E’ sufficiente ricordare il brano della Lettera in cui Heidegger afferma: “[…], il linguaggio è la casa dell’essere fatta avvenire (ereignet) e disposta dall’essere.[…], il linguaggio è la casa dell’essere, abitando la quale l’uomo e-siste, appartenendo alla verità dell’essere e custodendola” [BH: 286-287]. Questo brano valga per tutti i luoghi testuali della Lettera, e delle altre opere di Heidegger, in cui l’essere appare come il destino che si serve dell’uomo nel divenire storico, rispetto al quale Heidegger auspica che l’uomo si ponga come servitore (custode, pastore, contadino), a difesa di ciò che davvero importa. 76 75 prendere in parola i testi degli autori e storcerli a proprio comodo. Il senso della priorità dell’essere sull’ente è proprio ciò che destituisce e lavora contro la dominazione sull’altro, perché l’uomo, nel pensiero dell’essere, deve smettere di agire come padrone dell’essente77 e riconoscersi finalmente come pastore dell’essere. Solo dedicando all’infinito essere questo primo pensiero noi possiamo prenderci cura dell’altro e di noi stessi, e della natura come abitazione delle specie viventi78. Il pensiero dell’essere è, nel senso del nostro lavoro, un modo 77 Per questa via Derrida torna ad insistere giustamente sul fatto che la comprensione heideggeriana e il pensiero dell’essere non sono atteggiamenti riconducibili alla θεωρία aristotelica: Lévinas ha quindi torto nel considerare la filosofia heideggeriana un ultimo capitolo della vecchia metafisica legata alla precedenza e alla priorità della conoscenza sulla morale: “[…]: la «relazione con l’essere dell’essente» che non ha nulla di una relazione, non è soprattutto una «relazione di sapere». Non è una teoria, l’abbiamo già visto, e non ci insegna nulla su ciò che è. Poiché non è una scienza, Heidegger le rifiuta talvolta perfino il nome di ontologia, dopo averla distinta dalla metafisica ed anche dalla ontologia fondamentale. Poiché non è un sapere, il pensiero dell’essere non si confonde con il concetto dell’essere puro come generalità indeterminata. Levinas ce l’aveva, in precedenza, fatto capire: «Proprio perché l’essere non è un essente, non bisogna coglierlo per genus et differentiam specificam», (EDE). Ora ogni violenza è, secondo Levinas, violenza del concetto; e L’ontologie est-elle fondamentale?, e poi Totalité et Infini interpretano il pensiero dell’essere come concetto dell’essere. Contrapponendosi a Heidegger, Levinas scrive, tra molti altri passi simili: «Nel nostro rapporto con altri, quest’ultimo non entra in contatto con noi a partire da un concetto…» (L’ontologie estelle fondamentale?). Secondo Levinas è il concetto assolutamente indeterminato dell’essere che espone infine altri alla nostra comprensione, vale a dire al nostro potere e alla nostra violenza. Ora Heidegger vi insiste a sufficienza: l’essere di cui parla non è il concetto a cui l’essente (per esempio qualcuno) sarebbe sottoposto (sussunto).” [VM: 177-178]. 78 Questa tesi è confortata pienamente da Derrida: “Non solo il pensiero dell’essere non è violenza etica, ma sembra che senza di esso, nessuna etica – nel senso di Levinas – possa aprirsi. Il pensiero – o almeno la pre-comprensione – dell’essere, condiziona (in un modo suo, che esclude ogni condizionalità ontica: principi, cause, premesse, ecc.) il riconoscimento dell’essenza dell’essente (per esempio qualcuno, essente come altro, come altro sé, ecc.). Condiziona il rispetto dell’altro come ciò che è: altro. Senza questo riconoscimento, che non è una conoscenza, diciamo senza questo «lasciar essere» di un essente (altri) come esistente fuori di me nell’essenza di ciò che è (prima di tutto nella sua alterità), non sarebbe possibile alcuna etica. «Lasciar essere» è una espressione di Heidegger che non significa, come sembra credere Levinas, lasciar-essere come «oggetto di comprensione, prima di tutto» e, nel caso di altri, come «interlocutore in secondo luogo». Il «lasciar essere» riguarda tutte le forme possibili dell’essente, ed anche quelle che, per essenza, non si lasciano trasformare in «oggetti di comprensione». Se appartiene all’essenza di altri essere innanzitutto e irriducibilmente «interlocutore» e «interpellato» (ibid.), il lasciar essere lo lascerà essere quello che è, lo rispetterà come interlocutore-interpellato.[...] Lasciar-essere l’altro nella sua esistenza e nella sua essenza d’altro, significa che accede al pensiero o (e) che il pensiero accede a ciò che è essenza e a ciò che è esistenza; a ciò che è l’essere che ambedue presuppongono. Senza ciò non sarebbe possibile alcun lasciar-essere e prima di tutto quello del rispetto e del comandamento etico che si rivolge alla libertà. La violenza regnerebbe a tal punto che non potrebbe nemmeno più manifestarsi e avere un nome. Non è quindi possibile una «dominazione» della «relazione all’essente» attraverso la «relazione all’essere 76 per uscire dal non-pensiero della produttività alienato e rivolto agli oggetti, un non-pensiero in cui la tecnica, ubbidiente al capitalismo, ha “imprigionato” l’esistenza dell’uomo. Appare evidente dunque che l’insegnamento da trarre dalla filosofia di Lévinas, che su questo aspetto è pienamente in linea col messaggio diffuso dal cristianesimo alle radici dell’Europa, portino ad intendere l’armonia in un modo ben preciso e concreto. Senza un ideale di fraternità reale fra gli uomini, senza una concezione diffusa di responsabilità e di superamento dell’indifferenza etica (soprattutto capitalistica), verso quanti chiedono aiuto all’occidente, non è pensabile un futuro di pace e di dignità per l’Europa e per gli Stati Uniti, e non è pensabile un superamento del terrorismo globale79. Il senso primario in cui bisogna intendere l’armonia nelle società e fra i popoli è dunque il senso della fraternità; per quanto diverse religioni possano propugnarla, la fraternità deve essere anzitutto un’ideale laico: essa non può essere patrimonio di alcuna “parte” specifica, contraddistinta da una religione o da una cultura specifica: la fraternità fra gli uomini è l’assioma della convivenza. La fraternità non è meno importante dei diritti umani, al contrario, essa è in un certo senso il loro fondamento, l’elemento in cui essi attingono il loro senso. Senza una fraternità diffusa, praticata e insegnata alle nuove generazioni, qualunque diritto registrato in una dichiarazione internazionale, a prescindere dal numero dei capi di stato che la sottoscrive, rimane muto per il cuore. Naturalmente, ai fini di un aiuto concreto alle aree povere (di cui beneficerebbe anche il capitalismo), è anzitutto nel senso di una fraternità economica che questa ricerca di armonia deve essere pensata. Il patrimonio dell’avventura europea è e non potrebbe non essere a disposizione di quanti vogliono collaborare alla prosecuzione del cammino storico dell’occidente, il dialogo aperto fino in fondo all’altro, al non europeo, è la prova di questa disponibilità. Ma non è pensabile un’accoglienza senza regole e senza progetto, in cui si finisce per cancellare lo spazio di chi ospita: questa infatti smetterebbe di essere accoglienza e diventerebbe solo la distruzione di una civiltà. Come sostiene Bauman, la civiltà europea ha la forte responsabilità di un dell’essente». Heidegger criticherebbe non soltanto la nozione di relazione all’essere, così come Levinas critica quella di relazione all’altro, ma anche quella di dominazione: l’essere non è l’altezza, non è il signore dell’essente, perché l’altezza è una determinazione dell’essente. Sono pochi i temi che hanno sollecitato come questo l’insistenza di Heidegger: l’essere non è un essente eccellente.” [VM: 175]. 79 Se tacessimo o negassimo il fatto che la religione cristiana, per quanto l’istituzione politica della chiesa sia incorsa nei gravi errori che la storia conosce, ha propugnato storicamente proprio questo ideale di fratellanza concreta fra gli uomini, faremmo un torto alla verità storica. Si pensi ad esempio al codice cavalleresco, nato nel medioevo in seno al cristianesimo, che ha promosso e concretizzato questo ideale nella difesa dell’inerme e del sofferente. 77 ultimo fondamentale compito da svolgere nel contesto della cultura politica ed economica globale: l’Unione europea, lasciandosi reclamare dall’appello morale che sente salire da un’umanità che vive in modo indegno del suo essere e da un mondo naturale che restituisce in termini di disastri e sconvlgimenti epocali l’impiego politicamente immaturo di una tecnica scientificamente immatura, può scegliere di promuovere la cultura delle soluzioni globalmente centralizzate dei problemi economici e geo-politici che si affacciano sulla scena della storia, fungere da laboratorio politico per forgiare quella cultura della cittadinanza mondiale che è l’unica via per sostenere una politica unitaria e consapevole – valida in ogni regione del pianeta – e per ottenere la pace perpetua sognata già dagli illuministi. In alternativa, l’Europa può lasciare cadere l’appello e richiudersi nel recinto di un territorio che diviene soltanto uno stato nazionale più ampio e più potente militarmente, perseguire la logica divisiva delle aree geo-politiche post guerra fredda e lasciare che il capitale, le banche e le burocrazie guidino questa ultima epoca di sviluppo malato, poco prima che il tracollo traumatico di questo modello economico porti conseguenze inimmaginabili80. 80 L’armonia è sempre un organizzare le differenze e i contrasti in vista dell’unità concorde, organizzare e contenere non significa misconoscere, negare o annientare ma accogliere e ascoltare sempre in vista di un arricchimento – come insegna Platone con la pratica della ὁμολογία nei dialoghi. L’armonia è il presupposto e il punto d’arrivo del dialogo. Scrive Bauman: “Per elevare e ricollocare i tratti fondamentali della solidarietà umana […] a un livello più alto di quello dello Stato-nazione è necessario poter contare su una struttura istituzionale di costruzione dell’opinione e formazione della volontà. L’Unione Europea aspira a dar vita […] a una forma rudimentale o embrionale di questa struttura,[…]. La spinta attuale risponde a due logiche diverse […]. Una è la logica dell’arroccamento locale; l’altra è la logica della responsabilità e delle aspirazioni globali. 1. La prima logica è quella dell’espansione quantitativa della base di territorio e di risorse a supporto della strategia della […] «concorrenza di posizione» […]. Il ruolo delle istituzioni europee non consiste nell’erodere la sovranità degli Stati membri e nell’esentare l’attività economica dall’ingerenza dei loro controlli […]. Esse hanno piuttosto la funzione di arginare la marea: di bloccare quei capitali e quelle attività fuggiti dalle stalle dello Stato-nazione e tenerli all’interno del recinto continentale per impedire che evaporino o filtrino oltre i confini dell’Unione. […] Tale strategia è ancora guidata dalla stessa logica della divisione, della separazione e dello sbarramento: della ricerca di franchigie territoriali nei confronti di regole e tendenze generali o, per dirla esplicitamente, di soluzioni locali a problemi generati a livello globale. 2. Dall’altra parte, la logica della responsabilità globale […]. Essa respinge […] la strategia di una difesa puramente locale dalle tendenze planetarie, e si astiene (per necessità, se non per ragioni di coscienza) dal ricadere in un’altra tradizionale strategia europea, quella che consiste nel trattare lo spazio planetario come un «hinterland» (o il Lebensraum) su cui scaricare i problemi che nascono ma non sono risolvibili al suo interno.[…] «A livello globale», avverte Habermas, «i problemi di armonizzazione esistenti a livello europeo si acuiscono di nuovo».[…] La «cultura politica della società mondiale non ha quella dimensione etico-politica comune che sarebbe necessaria a una globale socializzazione identificante». Ci troviamo in un vero e proprio circolo vizioso: la comunità che potrebbe 78 Se il senso primario da conferire ad una filosofia dell’armonia è l’appello ad una concreta fraternità fra gli uomini, il senso immediatamente conseguente a questo è l’armonizzazione e la centralizzazione delle politiche economiche, della facoltà di promulgare e fare rispettare regole che curino il capitalismo globale (e con esso l’uomo e gli ecosistemi) dalla sua tendenza naturale a vivere nell’eccesso. L’individuazione della corretta azione da compiere, colta nella mediazione fra l’eccesso e il difetto della dotazione naturale, e la forza d’animo necessaria ad indirizzare il desiderio verso tale azione corretta, oltre ad essere i due stadi in cui Aristotele scandisce la realizzazione dell’azione virtuosa, sono anche i punti fondamentali in cui articolare un programma di salvezza per l’economia; solo un sistema economico coeso e ben integrato può essere irregimentato in una politica che realizzi tale programma. Solo una cultura effettiva della cittadinanza mondiale può creare le premesse per una guida politica unitaria che oggi l’ONU non è in grado di applicare concretamente. Nella formazione di questa cultura della cittadinanza mondiale l’Europa, con la sua esperienza dello scambio e dell’apertura all’Altro e al diverso, ha un ruolo determinante come laboratorio culturale e politico. L’Europa è la terra della critica e del dialogo, della disposizione a discutere su tutto, come fa la filosofia; ma esiste, a nostro modo di vedere, qualcosa che rimane fuori discussione, una eccezione al relativo e al discutibile che potrebbe suscitare reazioni, e che però ci sentiamo di porre in termini espliciti: affinché questa libertà di dialogo venga preservata e continui a rischiarare il cammino dell’uomo noi dobbiamo difenderla, e, se crediamo in essa, non permettere che venga cancellata dall’intolleranza di culture che non l’hanno conquistata e che non ne comprendono il valore, dunque, in quest’unico caso, dobbiamo divenire intolleranti noi stessi. Solo rimaendo intolleranti verso i nemici della libertà e della pace è possibile preservare la libertà e la pace. Naturalmente per nemici della libertà e della pace non dobbiamo costituire la base di una comune sensibilità etica e rendere fattibile il coordinamento politico, creando in tal modo la condizione necessaria da raggiungere perché germogli e attecchisca una solidarietà sopranazionale e sopracontinentale, è difficile da ottenere proprio perché la «dimensione etico-politica» è stata finora assente, e probabilmente lo sarà ancora – o comunque sarà inadeguata alle esigenze – fintanto che la dimensione etico-politica rimarrà incompleta. Ciò che l’Europa ha di fronte adesso è la prospettiva di sviluppare, gradualmente e simultaneamente, forse attraverso una lunga serie di tentativi ed errori, sia gli obiettivi sia gli strumenti adatti ad affrontarli e risolverli. A rendere il compito ancora più arduo, la stessa meta finale di tutto questo lavoro – una politica planetaria efficace, basata su un poliloquio costante più che sul soliloquio di un unico governo planetario – non ha precedenti. Solo la prassi storica potrà dimostrarne (mai però smentirne) la fattibilità o, più correttamente, renderla fattibile.” Z. Bauman, Does Ethics Have a Chance in a World of Consumers?, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 2008; trad. it. di F. Galimberti, Z. Bauman, L’etica in un mondo di consumatori, Roma-Bari, Editori Laterza, 2011, pp. 217-221, d’ora in poi [EC]. 79 limitarci ad intendere i terroristi e quanti cooperano culturalmente e materialmente col terrorismo; possono essere nemici della società anche più deleteri capi di stato, ministri, manager industriali o bancari, leader religiosi ecc. Questa violenza, ma violenza per legittima difesa, è il modo per praticare la minore violenza possibile, ciò che Derrida intende quando parla di “economia della violenza”81. Questa tesi, che rappresenta una chiusura di dialogicità necessaria al dialogo82, la poniamo così com’è e la lasciamo alla libera riflessione: essa indica un punto cieco del vedere filosofico senza il quale nessuna luce sarebbe visibile. E’ la violenza minima che rifiuta l’assoggettamento dell’io all’altro, la violenza minima che opera il custode di una casa quando, accogliendo i meno fortunati, chiede loro di ricevere l’ospitalità con 81 Scrive Derrida: “E se la parola che deve instaurare e mantenere la separazione assoluta è per essenza radicata nello spazio che ignora la separazione e l’alterità assoluta? Se, come dice Levinas, solo il discorso può essere giusto (e non il contatto intuitivo) e se, d’altra parte, ogni discorso serba in sé essenzialmente lo spazio e lo Stesso, ciò non significa, forse, che il discorso è originalmente violento? E che la guerra abita il logos filosofico, il solo nel quale, tuttavia può essere dichiarata la pace? […] Non c’è guerra se non dopo l’apertura del discorso e la guerra non si spegne se non con la fine del discorso. La pace, come il silenzio, è la strana vocazione di un linguaggio chiamato fuori di sé da sé. Ma poiché anche il silenzio finito è l’elemento della violenza, il linguaggio deve necessariamente tendere indefinitamente verso la giustizia, riconoscendo e praticando la guerra in sé. Violenza contro violenza. Economia della violenza. Economia che non può ridursi a ciò che Levinas intende con questa parola. Se la luce è l’elemento della violenza, è necessario battersi contro la luce con una certa altra luce, per evitare la violenza peggiore, quella del silenzio e della notte che precede o reprime il discorso. Questa vigilanza è una violenza accettata come la violenza meno grave da una filosofia che prende sul serio la storia, cioè la finitezza; filosofia che si sa storica per intero (in un senso che non tollera né la totalità finita, né l’infinità positiva) e che si sa, come dice in un altro senso Levinas, economia. Ma una economia che per essere storia, non può ancora essere in casa sua né nella totalità finita che Levinas chiama lo Stesso, né nella presenza positiva dell’Infinto. La parola è senza dubbio la prima sconfitta della violenza, ma, paradossalmente, quest’ultima non esisteva prima della possibilità della parola. Il filosofo (l’uomo) deve parlare e scrivere in questa guerra della luce nella quale si sa sempre già impegnato e da cui sa che non potrebbe sfuggire, se non rinnegando il discorso, vale a dire rischiando la violenza peggiore. Ecco perché questo riconoscimento della guerra nel discorso, riconoscimento che non è ancora la pace, significa l’opposto di un bellicismo il cui miglior complice, nella storia, è, come sappiamo bene – e chi lo ha mostrato meglio di Hegel ? – l’irenismo.” [VM: 147-149]. 82 “Dialogo” è termine che continua a ricorrere, con tutto il senso ereditato dalla tradizione platonica, nel lavoro di Derrida, e che ricorre insieme a “differenza” in una modalità che riteniamo vicina a ciò che Heidegger indica nella Lettera sull’«umanismo» come “pensiero dell’essere” – anche se riferita al modo in cui Lévinas parla del rapporto ad altri: “[…], questa impossibilità di tradurre nella coerenza razionale del linguaggio il mio rapporto ad altri, questa contraddizione e questa impossibilità non sono segni d’«irrazionalità»: sono piuttosto il segno che qui non si respira più nella coerenza del Logos, ma che il pensiero si toglie il respiro nella regione dell’origine del linguaggio come dialogo e differenza. Questa origine, in quanto condizione concreta della razionalità, non è per nulla «irrazionale», ma non può essere «compresa» nel linguaggio. Questa origine è una inscrizione inscritta.” [VM: 162]. 80 rispetto per la casa e si attende da loro che collaborino con chi ha edificato quella casa e quella storia, senza cercare di sostituirsi a lui o lavorare alla rovina della dimora. Tema che può ben corrispondere al fatto che l’io, nella trascendenza verso l’altro, deve comunque rimanere (conscio di) sé stesso, pena l’implosione logica dell’intero impianto dell’importantissima riflessione di Lévinas sulla fraternità umana: Nessuna filosofia responsabile del suo linguaggio può rinunciare all’ipseità in generale, e meno di ogni altra, la filosofia o l’escatologia della separazione. Tra la tragedia originaria e il trionfo messianico sta la filosofia in cui la violenza si rivolge contro di sé nel sapere, in cui la finitezza originaria si manifesta a sé e in cui l’altro è rispettato nello stesso e attraverso lo stesso. Questa finitezza si manifesta a sé in una interrogazione irriducibilmente aperta come interrogazione filosofica in generale: perché la forma essenziale, irriducibile, assolutamente generale e incondizionata dell’esperienza come uscita verso l’altro è ancora l’egoità? […] O, in altri termini: perché la finitezza? La filosofia che è il discorso di questa ragione come fenomenologia non può per essenza risponedere a tale interrogazione perché ogni risposta può darsi solo in un linguaggio e il linguaggio è aperto dalla interrogazione. La filosofia (in generale) può solo aprirsi alla interrogazione, in essa e attraverso essa. Può solamente lasciarsi interrogare. [VM: 165-166] 81 3 La scienza fra libertà di critica e responsabilità per la biosfera e per l’uomo In tema di progresso tecnologico bisogna sollevare la questione: “la scienza deve essere libera?”. La domanda, posta in questi termini, si espone a fraintendimenti. Esiste almeno un senso in cui questa domanda suona in questo modo: “Il valore della libertà della ricerca scientifica deve essere salvaguardata dalle esigenze dell’etica?”. E su questa via, una volta individuate le linee-guida per indirizzare uno sviluppo tecnico che vada incontro alle più urgenti problematiche degli ecosistemi cui la scienza può rispondere, i programmi di ricerca e l’attività degli scienziati possono ritenersi liberi dagli obblighi dell’etica? In questa formulazione sono visibili due piani, uno più generale e uno culturalmente più specifico, in base ai quali la ricerca scientifica sarebbe legata a certi valori umani. Il piano più generico è evidente e non solleva particolari problemi teorici (pensiamo ad esempio al riscaldamento climatico, all’incremento demografico e alla scarsità di risorse naturali), il piano più specifico, riguardante i rapporti fra la ricerca e i valori morali delle diverse culture e delle diverse concezioni dell’esistenza umana, richiede una maturazione etica delle pratiche scientifiche che finora è stata largamente carente. Rigurado all’aspetto etico specifico, la scienza si è sostanzialmente mossa a prescindere dalle valutazioni morali e dalle filosofie di esistenza delle varie culture umane; è stata semplicemente portatrice di un umanismo indeterminato e incolore che ha sostanzialmente portato avanti l’ideale di un aumento del potere sulla natura perpetrato attraverso l’aumento delle conoscenze. Riguardo all’aspetto etico generico meno problematico, riguardo cioè a proposizioni del tipo “è necessario portare avanti ricerche che fermino il riscaldamento climatico” o “è necessario impiegare la tecnica col fine di risolvere il problema del consumo di energia”, per quanto non si possa affermare che non siano stati mossi passi nella direzione giusta, non si può certo affermare che questo tipo di etica conclamata sia, come dovrebbe essere, un’istanza fondamentale della scienza e della politica. Forti ragioni economiche, e politiche, guidano la ricerca scientifica e ne 83 deviano il percorso razionale, impediscono l’obbedienza all’assioma della convenienza per la biosfera e per l’uomo. La cultura scientista, a partire almeno dall’umanismo illuminista, parla di libertà della scienza in nome di un inopinato progresso della conoscenza fine a se stesso, di una forma di ulissismo che dovrebbe costituire la presunta grandezza dell’uomo in natura. Quando dovesse essere sollevata la domanda oggi necessaria “la scienza deve essere libera?” la prima risposta che dovrebbe farsi avanti, dopo Jonas, di fronte alla catastrofe ecologica e alla minaccia dell’energia nucelare, è: “La scienza non è libera, essa deve essere responsabile!”. Da più parti, con vari argomenti (più o meno legati al principio di Hume), si solleva l’esigenza della libertà della scienza in nome del progresso della conoscenza ma quasi sempre col segreto obiettivo di realizzazioni tecniche che prescindono dall’etica e che possono alzare la produttività. Dopo Hiroshima e Nagasaki (oltre che Chernobyl e Fukushima), dopo che il circolo vizioso fra riscaldamento climatico e desertificazione di sempre più ampie aree del pianeta si manifesta in modo indiscutibile, è chiaro che la scienza risulta legata a cogenti responsabilità, nei suoi metodi e nelle conseguenze, anche di lunga durata, derivanti dai programmi di ricerca scelti e dalle relative scoperte: la libertà della scienza, se con essa si intende l’indipendenza della scienza da qualunque progetto etico compatibile con la sopravvivenza dell’uomo (Jonas) e con la dignità storica dell’essenza dell’uomo (Heidegger), diviene così un idolo, uno strumento di perdizione e l’agire patologico di una specie alienata. La scienza deve essere libera rispetto al naturale sentimento di rispetto profondo che proviamo di fronte a ciò che è sacro83? Il sacro è qualcosa di necessariamente connesso al sentimento religioso, o ad un credo organizzato e supportato da qualche teologia? E’ legato, in quanto tale, ad una concezione dell’esistenza umana sottoposta ad una visione mitologica e prescientifica dell’uomo, oppure più semplicemente, e più fondamentalmente, il sacro apre di fronte all’uomo il campo sterminato della sua impotenza e di ciò che gli è ignoto, facendolo avvertito sul pericolo che minaccia quel che davvero e imprescindibilmete importa? E’ la sacralità dell’uomo (dell’Altro uomo) e della Terra solo un fardello che impedisce la ricerca, o il necessario senso del limite che la ragione prova di fronte alla propria ignoranza e al pericolo, già più volte concretizzatosi, che un’avventata ricerca della verità e del profitto abbia come esito la creazione di mostri e/o la generazione di enormi sofferenze? La scienza deve essere libera, e la sua linfa vitale è la possibilità di critica, ma in questa critica, in questo dialogo continuo fra Al “sacro”, e al rapporto fra il sacro, la divinità e Dio, Heidegger dedica, nella Lettera sull’«umanismo», importanti referimenti; cfr. Derrida [VM: 186-188]. 83 84 teorie, e fra teoria e natura nell’esperimento, non può lasciare fuori valori morali e visioni di progetto che mirino alla salvaguardia degli ecosistemi e alla protezione della specie umana. Anzi, sono questi fini che pongono in essere la scienza, prima ancora dell’aspirazione al sapere e della ricerca della verità. La scienza è dunque libera, ma non dal vincolo che la trattiene dal diventare disumana. Il superamento del principio di Hume, che pone una cesura insuperabile fra ontologia ed etica, implica così che la fondamentale libertà della scienza sia già un richiamo alle sue responsabilità sociali e politiche. In questo senso la responsabilità a cui facciamo riferimento è quella di uscire dalla crisi di corrispondenza di cui parla Heidegger nella Lettera; solo vincolando la scienza alla responsabilità è possibile “un raccoglimento e un ordinamento del progettare e dell’agire che corrispondano alla tecnica” ([BH: 304-305]). L’unico progresso che possiamo concepire è quello che porta all’armonia fra uomo e natura, alla salvaguardia degli ecosistemi, all’armonia economica fra i popoli: la tecnica deve farsi strumento di questo fine, non costituirsi essa stessa come fine alienato, nella forma di accumulazione delle conoscenze e di innalzamento della produttività. Il terzo senso che riteniamo necessario dare alla ricerca dell’armonia84, cui abbiamo dedicato queste riflessioni, è dunque il tentativo, sempre difficile da conseguire, di porre in equilibrio il progresso tecnico (latore di irrinunciabili vantaggi per l’uomo) con l’esigenza di non alterare il delicato equilibrio degli ecosistemi, che costituiscono la possibilità della vita umana sulla terra e che hanno di per sé il diritto, per il loro semplice esserci, di non essere danneggiati, in un’ideale di ecologia profonda che relativizza la posizione dell’uomo in natura85. Tale relativizzazione, che Heidegger propugna fortemente nella Lettera sull’«umanismo», non è un antiumanismo, come potrebbe apparire, ma il solo umanismo possibile ad un pensiero consapevole della finitezza dell’uomo. Insomma anche nell’etica della scienza, e nella considerazione filosofica della scienza, è opportuno che si produca quella stessa rivoluzione che nel XX secolo è stata portata avanti soprattutto da Lévinas e da Jonas: al valore della libertà deve essere sostituito, come fondamento, il valore della responsabilità86. Ciò non implica, si badi bene, abbandonare il principio di libertà che ha reso la ricerca potente e 84 Il primo senso era la fraternità solidale fra gli esseri umani (e della specie umana con le altre specie viventi), il secondo la centralizzazione di regole economiche valide globalmente dettate dalla solidarietà, che possa equilibrare i rapporti materiali fra i popoli e salvaguardarli dalla povertà. 85 Cfr. F. Capra, The Web of Life. A New Scientific Understanding of Living Systems, cit. 86 Ispiratore dell’idea di responsabilità come fondamento dell’etica, prima di Lévinas, fu nel novecento Dietrich Bonhoeffer. 85 produttiva, significa semplicemente iscriverlo come sua sottofunzione entro la ricerca politica del bene comune per le società tecnologiche. Il principio della libertà della scienza, della critica aperta delle idee, è una conseguenza della pratica del dialogo aperto in filosofia. La dialettica antica – strutturata in tesi, confutazione e accordo conclusivo87 – praticata nelle scuole filosofiche di Atene e poi nel mondo grecoromano nella forma della disputatio, attraverso le scuole tardo-antiche si era poi conservata nelle scholae filosofiche dell’occidente cristiano. Nelle più antiche università europee (Bologna, Parigi, Oxford, ecc.) l’insegnamento universitario avveniva tramite le lectiones, che davano occasione ai maestri di proporre ai discenti i temi della ricerca (quaestiones), e tramite le disputationes, che consistevano in una requisitoria del tema condotta tramite un dibattito pubblico. La pratica della libera confutazione e della messa in discussione del principio di autorità sono elementi che la scienza eredita dalla filosofia europea. La capacità di portare avanti un confronto antidogmatico, sorretto dalle esperienze e dalle osservazioni, è un portato genuino della filosofia. La scienza sperimentale, nel momento in cui nasce, non è nient’altro che philosophia naturalis, filosofia riguardante eventi naturali condotta col metodo innovativo delle esperienze sensibili sottoposte a misurazione quantitativa. Certo, è contro tutto un modo di interpretare le sacre scritture che Galileo aveva proposto le sue tesi considerandole dimostrate, dunque contro dogmi sostenuti dalla più importante autorità culturale del suo tempo; inoltre questa discussione, che Galileo sperava fosse aperta, avveniva in un momento in cui la controriforma portava la chiesa ad essere particolarmente restìa nell’accettare innovazioni. Lo scontro fra Galileo e i suoi inquisitori, a pochi anni dal rogo di Giordano Bruno, passa nella memoria collettiva (della cultura europea, degli illuministi) come lo scontro fra il libero pensiero di chi cerca la verità, tramite la ragione e l’osservazione della natura, ed il pensiero dogmatico della chiesa, che si arrocca nel suo tradizionalismo e ferma il progresso della ragione umana. Il rischio della vita e gli arresti del matematico pisano contribuirono poi a rafforzare l’immagine del carattere drammatico dello scontro e a sottolineare l’eroismo della ragione umanista. L’inserimento delle importanti scoperte astronomiche di Galileo, della sua formulazione delle leggi della meccanica e del suo principio di inerzia come primo assioma del moto88 nei Philosophiae Naturalis Principia Mathematica di Newton del 1687, consacrarono Galileo come padre della fisica e della scienza. Mi riferisco in particolare alla struttura dei dialoghi platonici che sono una importante testimonianza di questo metodo di ricerca. 88 Detto oggi “primo principio della dinamica”. 87 86 Tutta questa vicenda, così importante nello sviluppo della cultura europea, risuona nel principio della libertà della scienza e nelle sue frequenti rivendicazioni, sia per quanti sanno valutarlo nel suo significato storico sia per quanti tendono ad assolutizzarlo. Ma se il principio della libertà della scienza, che, ribadiamo, non concede alla scienza la libertà di agire indipendentemente dal fine della salvaguardia della biosfera e della dignità dell’uomo, è conseguenza diretta della aperta dialogicità della filosofia, allora la difesa della cultura del dialogo diviene un compito primario nella nostra età tecnologica, qualcosa di cui l’Europa deve farsi carico, anche come terra di origine di questa cultura. La riproposizione della cultura del dialogo, come genuina apertura all’altro e alle sue opinioni, e la valorizzazione della libertà di critica, come esperienza propria della filosofia e della cultura illuministica occidentale, è connessa al rifiuto dell’accusa di violenza mossa da Lévinas contro Heidegger e contro la filosofia occidentale, accusa contro l’ontologia, di cui Heidegger è l’ultimo grande esponente, che Derrida rigetta89. Le vicende personali del professor Heidegger, i suoi gravi errori politici e la sua imperdonabile adesione al nazismo in un Europa e in una Germania oggi così lontane e incomprensibili90, hanno sollevato enormi critiche e forte animosità contro la figura del filosofo di Messkirch91, fino quasi, nel giudizio di Lévinas, a trasferire queste critiche e questa animosità ai temi del pensiero di Heidegger e addirittura alla filosofia occidentale in generale. Filosofia nella quale, è bene sottolinearlo, Lévinas è pienamente compreso – sebbene, più che altro, come l’infiltrato dei racconti polizieschi92. L’accusa di “neutralità 89 Scrive Derrida: “La metafisica si apre quando la teoria critica se stessa come ontologia, come dogmatismo e spontaneità dello stesso, quando, uscendo fuori di sé, si lascia mettere in questione dall’altro nel movimento etico. Posteriore di fatto, la metafisica come critica dell’ontologia è di diritto e filosoficamente prima.” [VM: 122]. 90 Scelta conveniente che, in un tempo in cui un enorme numero di docenti universitari ebrei era costretto a lasciare la Germania, favorì enormemente la sua carriera universitaria, e dalla quale il pensatore non si dissociò formalmente, a suo dire, per ragioni di sicurezza. Naturalmente la paura non è una giustificazione morale. Fondamentale, per approfondire tale questione, lo scambio di epistole fra Marcuse e Heidegger avvenuto fra il 1947 e il 1948, consultabile in M. Calloni (ed.), MarcuseHeidegger: le lettere dell’anno zero, in <http://www.caffeeuropa.it/attualita/45marcuse-heidegger.html> 91 Scrive Derrida a questo proposito: “D’altra parte, Levinas ammette che le sue «riflessioni», dopo essersi lasciate ispirare dalla «filosofia di Martin Heidegge» «sono dominate dal bisogno profondo di abbandonare il clima di questa filosofia» (EE). Si tratta di un bisogno di cui noi saremo gli ultimi a contestare la legittimità naturale, e riteniamo anzi che il clima non è mai completamente esterno al pensiero stesso. Ma non è forse al di là del«bisogno», del «clima» e di una certa «storia» che si manifesta la verità nuda dell’altro? E chi ce lo insegna meglio di Levinas” [VM: 186]. 92 Scrive Derrida: “Vogliamo interrogarci sul senso di una necessità: quella di collocarsi nella concettualità tradizionale, per distruggerla. Perché questa necessità si è alla fine imposta a Levinas? E’ estrinseca? Riguarda solo uno strumento, una «espressione» che 87 dell’essere” in capo all’ontologia heideggeriana, e la connessa interpretazione della filosofia come cammino dell’identità, reale presupposto dell’origine del totalitarismo, ci pare davvero eccessiva. Inoltre, se la responsabilità per l’altro si spinge fino alla dimenticanza di sé, in una relazione in cui l’altro viene ipertrofizzato fino alla maestria e alla signoria, il soggetto, parallelamente, si consegnerà all’assoggettamento. Scrive Lévinas in un passo che chiarifica la sua concezione del dialogo: La transitività dell’insegnamento, e non l’interiorità della reminiscenza, manifesta l’essere. La società è il luogo della verità. Il rapporto morale con il Maestro che mi giudica, sottende la libertà della mia adesione al vero. Così inizia il linguaggio. Colui che mi parla e che, attraverso le parole, mi si propone conserva la fondamentale estraneità d’altri che mi giudica; le nostre relazioni non sono mai reversibili. Questa supremazia lo pone in sé, al di fuori del mio sapere, e, rispetto a questo assoluto, il dato prende un senso. La «comunicazione» delle idee, la reciprocità del dialogo, nascondono già l’essenza profonda del linguaggio. Questa risiede nell’irreversibilità della relazione tra Me e l’Altro, nella Maestria del Maestro che coincide con la sua posizione di Altro e di esteriore. Il linguaggio, infatti, può essere parlato solo se l’interlocutore è il principio del suo discorso, se resta, quindi, al di là del sistema, se non è sul mio stesso piano. L’interlocutore non è un Tu, è un Lei. Si rivela nella sua signoria. L’esteriorità coincide quindi con una maestria. La mia libertà è così messa in causa da un Maestro che può investirla. Allora, la verità, esercizio sovrano della libertà, diventa possibile. [TI: 100-101] Anche in questo caso, sebbene siano chiare le intenzioni teoretiche di questa esaltazione del ruolo dell’interlocutore nel dialogo – ossia l’affermazione della necessità del rispetto per l’interlocutore e della salvguardia dei suoi contributi – la “supremazia”, l’ “irreversibiltà” della relazione tra Me e l’Altro e la “signoria” dell’interlocutore non possono che riguardare reciprocamente entrambi i dialoganti, quindi, in definitiva dissolversi in una piena simmetria. Le proposizioni di Lévinas possono così essere rovesciate: il mio interlocutore è principio del discorso quanto lo sono io, io e il mio interlocutore siamo esattamente sullo stesso piano, non c’è Maestria che provenga da lui a me se non nell’equilibrio di quella che da me proviene a lui. Come se la filosofia non fosse nata proprio all’insegna dell’accoglimento dell’altro nella dimensione dialogica – proprio a partire dalla voglia di Socrate di interrogare tutti – e non avesse coltivato questo spirito critico del rispetto per l’opinione opposta e per la contraddizione dei dogmi o dell’autorità: amicus Plato sed magis amica veritas. Come se l’ascolto heideggeriano dell’essere non fosse in si potrebbe mettere tra virgolette? Oppure nasconde qualche risorsa indistruttibile ed imprevedibile del logos greco? Qualche potenzialità illimitata di coprimento, nella quale chi volesse respingerla sarebbe già sempre sorpreso?” [VM: 141]. 88 continuità ideale col profondo ascolto dell’interlocutore che caratterizza in modo radicale il dialogo platonico. Questo però senza alcuna asimmetria fra i dialoganti: il mio interlocutore è principio del mio discorso quanto io lo sono del suo; ed è necessario alla correttezza dello scambio, ed è il culmine della nostra civiltà, che gli interlocutori stiano esattamente sullo stesso piano. Se la tradizione occidentale fosse stata solo imperialismo del Medesimo, Lévinas non l’avrebbe neppure frequentata. L’essere heideggeriano appare invece come quell’ambito di ricerca della verità cui i dialoganti tendono senza dogmatismi, ma consci dei loro pregiudizi; ambito che fonda la stessa ricerca razionale che costituisce la scienza, che però, a differenza della scienza, non si acquieta nelle risposte, nella formulazione di teorie da applicare, per rimanere un puro domandare; un pensiero che riesca non a liquidare, o a rifiutare, ma ad inverare e indirizzare la ricerca scientifica. Questo è chiaro, ad esempio, nella celebre discussione del circolo ermeneutico proposta al paragrafo § 32 di Essere e tempo, intitolato “Comprensione e interpretazione”, discussione che ha influenzato per decenni la riflessione filosofica e poi, grazie alla svolta relativistica degli anni ‘60, anche la ricerca scientifica. La discussione heideggeriana del circolo ermeneutico non può essere considerata estrinseca alla ricerca scientifica e alla sua metodologia, essa è uno dei grandi ambiti di relativizzazione al soggetto della pratica della ricerca e la prima vera discussione del problema della theory ladenness: Anche la comprensione, in quanto apertura del Ci, riguarda sempre l’essere-nelmondo nella sua totalità. In ogni comprensione del mondo è con-compresa l’esistenza, e viceversa. Ogni interpretazione si muove nella struttura del «pre» che abbiamo descritta. L’interpretazione, che è promotrice di nuova comprensione, deve avere già compreso l’interpretando. Si tratta di un fatto già notato da tempo, benché solo nell’ambito di forme derivate di comprensione e di interpretazione come l’interpretazione filologica. Questa cade nel dominio della conoscenza scientifica. Un tal genere di conoscenza richiede la rigorosa giustificazione dei propri asserti. Il procedimento dimostrativo scientifico non può incominciare col presupporre ciò che si propone di dimostrare. Ma se l’interpretazione deve sempre muoversi nel compreso e nutrirsi di esso, come potrà condurre a risultati scientifici senza avvolgersi in un circolo, tanto più che la comprensione presupposta è costituita dalle convinzioni ordinarie degli uomini e del mondo in cui vivono? Le regole più elementari della logica ci insegnano che il circolo è circulus vitiosus. Ne deriva la rimozione a priori dell’interpretazione storiografica dal dominio del conoscere rigoroso. Poiché il costituirsi del circolo è un fatto che non può essere eliminato, la storiografia finisce per doversi accontentare di procedimenti conoscitivi meno rigorosi. Si crede di poter in qualche modo ovviare a questa mancanza di rigore facendo appello al «significato spirituale» dei suoi «oggetti». Anche secondo l’opinione dello storiografo, l’ideale sarebbe, certo, che il circolo vizioso potesse essere evitato e trovasse fondamento la speranza di poter un giorno costruire una storiografia indipendente dall’autore, come si presume lo sia la scienza della natura. Ma se si vede in questo circolo un circolo vizioso e se si mira ad evitarlo o semplicemente lo si «sente» come 89 un’irrimediabile imperfezione, si fraintende la comprensione da capo a fondo. Non è il caso di modellare comprensione e interpretazione su un particolare ideale conoscitivo, che, in ultima analisi, è pur sempre una forma derivata di conoscere, smarritasi nel compito in sé legittimo della conoscenza della semplicepresenza nella sua incomprensibilità essenziale. Il chiarimento delle condizioni fondamentali della possibilità dell’interpretazione richiede, in primo luogo, che non si disconosca in partenza l’interpretare stesso quanto alle condizioni essenziali della sua possibilità. L’importante non sta nell’uscire fuori dal circolo, ma nello starvi dentro nella maniera giusta. Il circolo della comprensione non è un semplice cerchio in cui si muova qualsiasi forma di conoscere, ma l’espressione della pre-struttura propria dell’Esserci stesso. Il circolo non deve essere degradato a circolo vitiosus e neppure ritenuto un inconveniente ineliminabile. In esso si nasconde una possibilità positiva del conoscere più originario, possibilità che è afferrata in modo genuino solo se l’interpretazione ha compreso che il suo compito primo, durevole e ultimo, è quello di non lasciarsi mai imporre pre-disponibilità, pre-veggenza e pre-cognizione dal caso o dalle opinioni comuni, ma di farle emergere dalle cose stesse, garantendosi così la scientificità del proprio tema. Poiché la comprensione, per il suo senso esistenziale stesso, è il poter essere dell’Esserci, le presupposizioni ontologiche del conoscere storiografico trascendono in modo essenziale l’idea di rigore delle scienze esatte. La matematica non è più rigorosa della storiografia, ma semplicemente più ristretta quanto all’ambito dei fondamenti esistenziali per essa rilevanti. Il «circolo» del conoscere appartiene alla struttura del senso, che è un fenomeno radicato nella costituzione esistenziale dell’Esserci, nella comprensione interpretante. L’ente per cui, in quanto esser-nel-mondo, ne va del suo essere stesso, ha una struttura circolare di carattere ontologico. [SZ: 193-195] Se la scienza non pensa, anche nel senso che ha dimenticato e non tiene presente l’aporia dovuta a questo circolo che la pone in essere, ciò non comporta una eliminazione della scienza e del pensiero calcolante ma un approfondimento filosofico della scienza: una contestualizzazione della scienza entro un progettare politico che tenga conto del bene comune, sia sul versante ecologico che sul versante economico ed umanitario. La possibilità positiva del conoscere più originario che si nasconde nel circolo, possibilità che corrisponde ad un’interpretazione che non deve lasciarsi mai imporre pre-disponibilità, pre-veggenza e pre-cognizione dal caso o dalle opinioni comuni, ma che fa emergere questo “pre” dalle cose stesse è il cuore dell’aporia. E’ proprio il concetto e la saldezza delle “cose stesse” che il circolo fa vacillare: cosa sono esse oltre ciò che impone il caso o le opinioni comuni? La chiusura aporetica di Heidegger sulle “cose stesse”, cioè sul mito del dato oggettivo, è proprio il punto in cui l’esigenza umana di scientificità e rigore viene meno per sua intrinseca finitezza e deve lasciare posto ad altro. Questo altro, questa base ineffabile dell’oggettività sempre storica e sempre relativa ai soggetti che propongono gli asserti scientifici, non può che essere una posizione di valori e una concezione dell’esistenza. Entrambi elementi fortemente indirizzati dalle tradizioni culturali e dal cammino storico dei popoli. 90 La tradizione occidentale, istituita sull’etica del dialogo aperto a partire dall’atteggiamento socratico che l’opera di Platone ci restituisce, porta con se un rispetto dell’altro che non dimentica il rispetto di sé, in cui l’ascolto e il contributo – i due inseparabili momenti del dialogare – possono strutturare un pensiero libero e responsabile, potente di relativismo ma legato all’assolutezza dell’apertura all’altro, della non violenza. Il termine assolutezza sta qui ad indicare che apertura all’opinione altrui, non-violenza e possibilità di critica sono valori da difendere e proteggere. La tradizione occidentale è poi una tradizione di pensiero fortemente caratterizzata dall’umanismo, ossia da un pensiero della cura e della savlaguardia dell’umano. Per ragioni storiche note, che in questa analisi abbiamo variamente ripreso, tale cultura della cura dell’umano è caduta in una alienazione tecnologica e antropologica in cui l’incuria e l’impossibiltà di organizzazione politica causano il disastro ecologico ed il profondo malessere economico dei popoli. L’umanismo europeo è vittima di una ricerca di avanzamento tecnico senza indirizzo che ha esautorato il pensiero filosofico e si è fondata su una scienza che è istituita sulla cesura fra soggetto e oggetto, e su un pensiero causale che ingloba e impiega i processi naturali e perpetra l’ideologia dello sfruttamento della natura. L’ideologia dello sfruttamento è poi analoga all’ideologia capitalista di sopraffazione e dominio dell’altro uomo e dell’altro popolo, in continuità col controllo geo-politico di territori che l’Europa ha reso periferie. Cerchiamo ora di riannodare alcune questioni e tracciare possibili conclusioni del nostro percorso. La riflessione dell’umanismo europeo trova, nel XX secolo, una delle sue espressioni più alte nella Crisi delle scienze europee; le linee di ricerca più fruttuose per il nostro percorso verso una filosofia dell’armonia, implicanti entrambe finalità ecologiche ed economiche molto chiare, sono individuabili nell’ultima opera di Husserl. La prima è una linea seguita fortemente da Husserl e da Heidegger, ed è un programma specifico di filosofia della conoscenza. Ci riferiamo al superamento della separazione fra oggettivismo e soggettivismo che Husserl tenta nella Crisi e che costituirà un’importante motivo della filosofia heideggeriana. Concepire il mondo sulla base dell’oggettità e dell’oggettività delle scienza ha via via causato il distacco del soggetto umano dal mondo in cui vive, con nefasti effetti di inavvertito disinteresse ecologico. Anche la seconda linea di ricerca proviene dall’ultimo Husserl e riguarda una considerazione generale del rapporto fra filosofia e scienze: è necessario favorire una autocomprensione della filosofia come fondamento delle scienze e parallelamente un’autocomprensione delle scienze specifiche come attività che germogliano sulla filosofia e che sono fortemente 91 contestualizzate in essa93. Il grande progetto rinascimentale, che guidò sia Galileo che Leibniz, in cui la filosofia nel suo farsi scienza non abbandona il progetto di una comprensione razionale totale dell’essente e in cui le scienze, pur nella loro estrema specializzazione, non misconoscano la loro origine filosofica, deve essere ripreso. Solo così, solo concependo ogni atto scientifico e tecnico – così come ogni riflessione sul metodo scientifico – quale atto finalizzato alla felicità degli ecosistemi è possibile riprendere, secondo l’idea di Husserl, il grande progetto rinascimentale di unità del sapere, erede del progetto filosofico della grecità. Il nostro punto di partenza non è distinto, dunque, da quello scelto da Husserl per aprire la Krisis: Adottiamo come punto di partenza il rivolgimento, avvenuto allo scadere del secolo scorso, nella valutazione generale delle scienze. Esso non investe la loro scientificità bensì ciò che esse, le scienze in generale, hanno significato e possono significare per l’esistenza umana. L’esclusività con cui, nella seconda metà del XIX secolo, la visione del mondo complessiva dell’uomo moderno accettò di venir determinata dalle scienze positive e con cui si lasciò abbagliare dalla «prosperity» che ne derivava, significò un allontanamento da quei problemi che sono decisivi per un’umanità autentica. Le mere scienze di fatti creano meri uomini di fatto. Il rivolgimento dell’atteggiamento generale del pubblico fu inevitabile, specialmente dopo la guerra, e sappiamo che nella più recente generazione esso si è trasformato addirittura in uno stato d’animo ostile. Nella miseria della nostra vita – si sente dire – questa scienza non ha niente da dirci. Essa esclude di principio proprio quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balìa del destino; i problemi del senso e del nonsenso dell’esistenza umana nel suo complesso. [KEW: 35] Come non leggere in queste parole di Husserl un senso analogo a quello dell’affermazione di Heidegger “la scienza non pensa”? Come non notare che l’uso di espressioni come “umanità autentica”, “esistenza umana”, “senso”, è pienamente in linea con gli intendimenti della riflessione Scrive Paci, a questo proposito, riguardo alla fenomenologia husserliana negli stessi anni in cui Marcuse scrive il suo fondamentale One-Dimensional Man: “La fenomenologia, infatti, tende ad una nuova enciclopedia che potremmo chiamare enciclopedia fenomenologica. Questa nuova enciclopedia non considera le scienze oggettivate, ma la fondazione delle scienze nella Lebenswelt e il loro telos: riguarda le azioni, le produzioni, le ipotesi, le culture, non separate dai soggetti umani. E’ profondamente attiva nelle relazioni tra i soggetti e i popoli che, in modi diversi, danno tutti un significato, un valore, un telos, alla vita e alla storia. E’ una enciclopedia come praxis che ha un telos, una praxis guidata dalla verità.[…] In rapporto alla visione e al telos della storia dell’umanità si può sempre dire che vedo di più di quello che so, ed è questa la ragione per cui la teoria delle idee criticata con tanta faciloneria dagli studiosi di Platone, è oggi più viva che mai. Perché è impossibile che ci siano un sapere, una conoscenza, un fare, senza che ci siano le correlative visioni, tutte convergenti alla verità come telos; si dovrà dire che ogni scienza e ogni praxis, nella totalizzazione della storia, sono guidate dall’idea della verità e che, quando ciò non accade, ogni scienza e ogni praxis si autodistruggono.” E. Paci, Prefazione alla terza edizione italiana di E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, cit., p. 12. 93 92 heideggeriana di quegli anni e degli anni successivi sul rapporto fra scienza ed esistenza? Oltre questa continuità di pensiero fra Husserl e Heidegger, che inaugura la grande riflessione sulla tecnica proseguita poi nella seconda metà del novecento da Marcuse94 e Jonas, è interessante per il nostro punto di vista notare come Husserl, citando con termine inglese la prosperty, faccia già riferimento agli interessi economici connessi al progresso tecnico-scientifico. Questo riferimento, a nostro modo di vedere, non è di poco conto. Marcuse e Jonas metteranno, l’accento sul fatto che i monopolismi capitalistici sono profondamente coinvolti nel progresso tecnico-scientifico: sono essi, di fatto, a guidarlo. Con l’avvento dall’epoca industriale, e specialmente con la seconda rivoluzione industriale dell’Europa di fine ottocento, l’economia capitalistica delle grandi potenze occidentali ha potenziato enormemente lo spirito scientifico, ma contemporaneamente lo ha asservito e costretto in binari rigidi e predeterminati. Da questo punto di vista la critica proposta da Marcuse alla società tecnologicamente avanzata si muove sullo stesso terreno della critica che Husserl muove alla scienza positivista. Ciò che era per l’uomo “ricerca della verità” si è via via trasformato in “ricerca della verità in ambiti specifici sottoposti alle urgenze dell’impiego tecnico, nel suo progredire in funzione dell’economia industriale”. Questo fenomeno storico non può non essere visto come una forma di alienazione della scienza95. Tale alienazione, Per il pensiero di Marcuse facciamo riferimento al fondamentale H. Marcuse, OneDimensional Man. Studies in the Ideology of Advanced Industrial Society, cit. 95 Scrive Paci a questo proposito, citando di seguito anche Idee per una fenomenologia pura: “Dunque l’economia politica può perdere la propria fondazione e quindi la propria genesi dalla Lebenswelt. Perdendo genesi e fondazione una scienza perde la propria funzione. Perdendo la propria funzione perde la sua pregnanza ideale e cioè il telos. Volendo aderire solo ai fatti, trasforma la verità infinita, e mai conquistabile dall’uomo, in un fatto, in una realtà. Qui la fenomenologia è entrata nell’economia politica che opera in se stessa la propria autopurificazione. Questa autopurificazione è affidata all’epochè, alla fondazione delle scienze e alla riscoperta del loro significato di verità. Ciò che allora si impone è di superare e negare, come Husserl fa, il valore puramente industriale delle scienze. Bisogna ricondurre le scienze e l’uomo al loro vero telos. Leggiamo, per limitarci ad un solo esempio, un passo del III volume di Idee nel quale si vede che Husserl condanna la scienza tecnico-industriale nella misura in cui essa è concepita come puro dominio sulla natura e sull’uomo: «L’arte di inventare sempre nuovi procedimenti simbolici, la cui razionalità è di ordine appunto meramente simbolico, e presuppone il lavoro conoscitivo del simbolo, senza alcun tentativo di comprensione evidente, viene praticata in modo sempre più perfetto; ciò che da un grado inferiore era relativamente evidente, a un grado superiore viene simbolizzato e viene privato dell’evidenza comprensiva (considerata un superfluo gravame per il pensiero) e così le scienze diventano quello che sono, fabbriche di proposizioni praticamente utili, in cui si può lavorare come operai o come tecnici scopritori, a cui, in veste pratica, si può attingere anche senza un’intima comprensione, cogliendo, nel migliore dei casi, semplicemente la razionalità tecnica. Gli specialisti, cioè gli ingegneri dell’arte scientifica, possono essere 94 93 dopo il crollo del muro di Berlino e con l’avvento della globalizzazione neoliberista tocca il vertice della sua intensità e pericolosità. Alcune critiche che Lévinas muove alla fenomenologia di Husserl – riportate da Derrida – ci danno occasione per cogliere un altro punto che riteniamo valido e vitale nel pensiero di Lévinas: l’anteriorità della sfera etica, rispetto alla sfera conoscitiva. Lévinas la vede nel fatto che l’intenzionalità aperta all’infinito del rapporto con l’Altro è più fondamentale dell’intenzionalità conoscitiva riguardante l’oggetto epistemico: Al di là del metodo, quello che Levinas intende conservare dell’«insegnamento essenziale di Husserl» (TI) non è soltanto la flessibilità e l’esigenza descrittiva, la fedeltà al senso dell’esperienza; è il concetto dell’intenzionalità. Di una intenzionalità estesa al di là della sua dimensione rappresentativa e teoretica, al di là della struttura noetico-noematica che Husserl avrebbe a torto riconosciuto come una struttura primordiale. La repressione dell’infinito avrebbe impedito a Husserl di accedere alla vera profondità dell’intenzionalità come desiderio e trascendenza metafisica verso l’altro, al di là del fenomeno o dell’essere. Questa repressione si attuerebbe in due modi. Da una parte, nel valore d’adeguazione. Visione e intuizione teoretica, l’intenzionalità di Husserl sarebbe adeguazione. Questa esaurirebbe ed interiorizzerebbe ogni distanza ed ogni vera alterità. «La visione, in effetti, è essenzialmente una adeguazione dell’esteriorità all’interiorità: l’esteriorità si riassorbe nell’anima che contempla e, in qualità di idea adeguata, si rivela a priori come risultato di una Sinngebung» (TI). Ora, «l’intenzionalità, in cui il pensiero resta adeguazione all’oggetto, non definisce… la coscienza al suo livello fondamentale». […] Husserl, nella lettera dei suoi testi, non avrebbe saputo riconoscere che «ogni sapere in quanto intenzionalità, presuppone già l’idea dell’infinito, l’inadeguazione per eccellenza» (TI). Così, anche supponendo che Husserl abbia presentito gli orizzonti infiniti che travalicano l’obiettività e l’intuizione adeguata, li avrebbe interpretati, alla lettera, come «pensieri rivolti verso oggetti»:[…]. [VM: 150] Se l’intenzionalità husserliana ha intrattenuto rapporti con l’infinito, questo è stato comunque concepito secondo una modalità conoscitiva, un punto cieco della rappresentazione, ma pur sempre una anche molto soddisfatti di questa situazione, consapevoli della sua grandezza e delle sue prestazioni, infinitamente feconde nell’ambito della collaborazione organizzata nella grande industria scientifica. Anche i tecnici in senso usuale possono essere soddisfatti, perché il loro scopo è quello di giungere a dominare la realtà. Per loro la conoscenza è fin dall’inizio equivalente ad una serie di industriose prestazioni nella prassi del dominio della natura e degli uomini.» [Cfr. Husserl, Idee per una fenomenologia pura, trad.it. di E. Filippini, Torino, Einaudi, 1965, p. 871] Ormai nessuno dirà che Husserl combatte la scienza come tale. E’ stato accettato il principio per cui la crisi non riguarda le scienze isolate dall’uomo, ma le scienze in quanto si pongono contro l’uomo. Di fronte alla scienza che si pone contro di loro, i soggetti si accorgono di essere diventati solo oggetti che devono essere utili all’apparato industriale, politico e militare.” E. Paci, Prefazione alla terza edizione italiana di E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, cit., pp.14-15. Nella citazione dalle Idee di Husserl è molto facile vedere il nesso con la discussione, che Heidegger conduce nella Lettera sull’«umanismo», sull’impadronimento dell’essente da parte dell’uomo della metafisica. 94 rappresentazione. Husserl e Heidegger sono, nella concezione di Lévinas, il punto di arrivo di una tradizione di pensiero che ha posto il motivo della conoscenza, anche tramite la metafora fotologica della “luce dell’essere”, come l’atteggiamento fondamentale e la risorsa suprema dell’uomo moderno96. E’ proprio nello sviluppo della critica a queste due grandi filosofie greche che nasce, nella riflessione di Lévinas, l’idea che il vero movimento della trascendenza e la vera metafisica, che implica l’apertura dell’infinito, sia il pensare all’Altro. Sebbene condividiamo poco l’analisi che Lévinas propone su Husserl97 e ancor meno quella che propone su Heidegger, siamo convinti che il primato dell’etica sulla teoretica, che è la tesi centrale della riflessione di Lévinas in Totalità e infinito, sia uno dei risultati più importanti della filosofia del ventesimo secolo, il viatico necessario per la governance delle società industriali tecnologicamente avanzate, l’inevitabile punto di arrivo della crisi nelle scienze europee che Husserl aveva messo in evidenza poco prima dello scoppio della seconda guerra euro-mondiale. Sotto questo specifico riguardo, più in accordo con Lévinas di quanto lo stesso Lévinas abbia pensato, le filosofie di Husserl98 e di Heidegger – e quella di Heidegger in modo più marcato – hanno mosso passi decisivi in direzione del primato dell’agire sul conoscere e dell’etica sulla teoretica. La riflessione di questi filosofi, in ogni caso, la direzione che essi indicano, rimane legata alla fondamentale mossa kantiana e pascaliana dell’accedere alla trascendenza e alle verità indicate dalla metafisica tramite l’agire morale, nel momento in cui tale accesso, nei fatti, si dimostra precluso alla conoscenza scientifica e al movimento specifico dell’ἐπιστήμη99. Come dimostrano le riflessioni di Marcuse sulla società industriale e tecnologica e quelle di Jonas sul potere fuori controllo della tecnica, ma come dimostrano, ancor prima della riflessione filosofica, il disastro ecologico e la disumanità economica del capitalismo indifferente, abbiamo oggi molte più ragioni, di quelle che ebbero Kant e Cfr. Derrida [VM: 105-120]. In questo disaccordo siamo vicini ad alcune pagine di Derrida: [VM: 152-153, 155-157]. 98 Come anche Derrida rileva, cfr. [VM: 158]. 99 Fermo restando naturalmente che tale mossa del prendere consapevolezza della precedenza dell’etica sulla teoretica è pursempre una mossa teoretica: “Per dire il vero, ci sono due sensi del teoretico: il senso corrente, preso di mira in particolare dalla protesta di Levinas; e il senso più nascosto nel quale si colloca il manifestarsi in generale, il manifestarsi del non-teoretico (nel senso primo) in particolare. In questo secondo senso, la fenomenologia è certo un teoretismo, ma nella misura in cui ogni pensiero e ogni linguaggio, in linea di fatto e in linea di diritto, partecipano del teoretismo. La fenomenologia misura questa misura. Io so con un sapere teoretico (in generale) quale è il senso del non-teoretico (per esempio l’etico, il metafisico nel senso di Levinas) come tale, e lo rispetto come tale, come quello che è, nel suo senso. Ho uno sguardo per riconoscere quello che non si guarda come una cosa, come una facciata, come un teorema. Ho uno sguardo per il viso stesso” [VM: 155]. Queste righe di Derrida, con semplicità, restituiscono alla teoretica il sacrificium intellectus di Lévinas. 96 97 95 Pascal, di ripetere il gesto di critica al primato eudaimonistico del conoscere e della teoresi proposto e consacrato da Aristotele. Alla luce di quanto detto, ancor più chiaro appare che la questione della Lebenswelt sollevata da Husserl, ossia della necessità di radicare la ricerca della verità in un ambito soggettivo e quotidiano, è analoga al movimento indicato da Kant tramite la dialettica trascendentale e la Critica della ragion pratica, ed influenza Lévinas più di quanto egli non ammetta: La caratteristica dell’obiettivismo è quella di muoversi sul terreno del mondo già dato come ovvio nell’esperienza e di perseguire la «verità obiettiva», ciò che in esso è incondizionatamente valido per ogni essere razionale, ciò che esso in se stesso è. La realizzazione universale di questo compito spetta all’episteme, alla ratio, cioè alla filosofia. Con ciò sarebbe già raggiunto l’essente ultimo, e un’indagine che volesse risalire al di là di esso non avrebbe più alcun senso razionale. Il trascendentalismo afferma invece: il senso d’essere del mondo-dellavita già dato è una formazione soggettiva, è un’operazione della vita esperiente, pre-scientifica. In essa si costruisce il senso e la validità d’essere del mondo, di quel mondo che vale realmente per colui che realmente esperisce. Per quanto riguarda il mondo «obiettivamente vero», quello della scienza, esso è una formazione di grado più alto fondata sull’esperienza e sul pensiero prescientifico, cioè sulle operazioni di validità. Soltanto un’indagine radicale che risalga alla soggettività, e cioè alla soggettività che in definitiva produce, nei modi scientifici come in quelli pre-scientifici, tutte le validità del mondo e i loro contenuti, e al che cosa e al come delle attuazioni razionali, può rendere comprensibile la verità obiettiva e raggiungere il senso d’essere ultimo del mondo. Quindi il primo in sé non è l’essere del mondo nella sua indubitabile ovvietà, ciò che occorre innanzitutto chiedersi non è che cosa obiettivamente gli inerisca; il primo in sé é bensì la soggettività, in quanto essa pone ingenuamente l’essere del mondo e poi lo razionalizza, oppure (il che è lo stesso) lo obiettivizza. [KEW: 9798] Allo stesso modo, in questo interessante passo notiamo la genesi della questione heideggeriana del senso dell’essere proprio a partire dal rifiuto dell’obiettivismo epistemico; una visione genealogica coglie in modo più chiaro dunque la forte vicinanza fra il pensiero dell’essere e la tesi secondo cui la scienza non pensa, fermo restando che sono ipotizzabili anche influenze di Sein und Zeit sulla Krisis. In definitiva per il disastro ecologico e il disastro economicoumanitario, a parte le macro cause contingenti note a tutti (ma nelle loro diramazioni specifiche e regionali solo a pochissimi), è possibile individuare – grazie alla riflessione sull’umanismo che dalla Crisi delle scienze europee, attraverso la Lettera sull’«umanismo», giunge alle analisi di Marcuse e Jonas – alcune cause profonde implicate da atteggiamenti di pensiero, da concezioni esistenziali tipicamente occidentali e dalla loro corruzione : a) il distacco della filosofia dal suo fine proprio che è la ricerca del bene comune e della felicità; b) la dimenticanza da parte delle scienze della loro provenienza filosofica; c) il configurarsi dell’oggettività scientifica come distacco e disinteresse etico 96 del soggetto per il mondo; d) il distacco dell’operare causale e del progettare umano dal senso di responsabilità ad essi connesso. A tali cause, legate al divenire storico della cultura europea, ne aggiungiamo altre risultanti dalla nostra analisi e dalla mutata situazione storica rispetto al periodo fra le due guerre e rispetto agli anni della guerra fredda: e) la perdita di rispetto per l’ambiente naturale e per gli ecosistemi, dovuta alla cesura fra soggetto e oggetto e al fraintendimento in cui l’uomo è caduto riguardo al suo potere tecnico nei confronti del mondo naturale; f) la perdita del valore della fraternità fra gli uomini come causa degli incolmabili squilibri economici nei quali attecchiscono le guerre, le divisioni geopolitiche e il terrorismo; g) lo smarrimento del valore della dignità della persona come fulcro etico e fondamento pratico dei diritti umani. E’ riflettendo su queste cause profonde del disagio contemporaneo, e in una certa forma di sacrificium intellectus per la scienza, che il pensiero (certamente più il pensiero politico che quello filosofico) dovrebbe operare per trovare una via d’uscita all’alienazione tecnologica ed applicare l’ὀρθὸς λόγος aristotelico, quel senso di equilibrio connaturato all’uomo, che è il risuonare dell’armonia, caratterizzante il mondo naturale, nel pensiero umano. Per tradurre in realtà i buoni propositi, dunque per portare a conclusione il sillogismo pratico che cerchiamo di delineare, è inoltre necessario un radicale rinnovamento del modo in cui l’etica è concepita e vissuta, e questa urgenza cresce al crescere delle responsabilità di cui ciascuno di noi è investito nella πόλις globale. Rimane dunque da chiarire quali sono le modalità e i presupposti di questo rinnovamento della concezione dell’etica e qual è la forma specifica e le caratteristiche peculiari dell’ ὀρθὸς λόγος, il senso innato dell’equilibrio che dobbiamo coltivare per conseguire l’azione virtuosa e la vera felicità. 97 Riferimenti bibliografici A) Fonti del pensiero antico e traduzioni italiane Eraclito, Die Fragmente der Vorsokratiker, griechisch und deutsch von H. Diels, 6. verbesserte Auflage herausgegeben von W. Kranz, Berlin, Weidmann, 1951-2 (3 voll.). Eraclito. Frammenti, introduzione, traduzione e commento di M. Marcovich, Firenze, La Nuova Italia, 1978. Platonis Opera, recognovit brevique adnotatione critica instruxit I. Burnet, Clarendon Press, Oxford 1900-1907, (5 voll.). In particolare: Platonis Respublica, edited by I. Burnet, Oxford, 1902. Platone, La Repubblica, a cura di M. Vegetti, Milano, BUR, 2006. 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