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Il popolo del libro

Il popolo dei libri Come è noto, il Corano definisce gli ebrei il "popolo del libro". Rav Sacks non esita a considerarla una grande affermazione. L'intera storia del giudaismo può essere considerata la storia d'amore fra un popolo e un libro, che ogni anno, durante Simchàt Torà, viene concluso e immediatamente iniziato di nuovo. L'ultima lettera della Torà è una lamed, la prima una bet, che assieme formano la parola lev (cuore): sino a che il popolo ebraico continuerà a studiare la Torà, il suo cuore non smetterà di battere (Sacks 2012). Rav Soloveitchik (Soloveitchik 1989, 154) scrive che la Torà conduce la Presenza Divina «nell'arena mondana di spazio e tempo, nel mezzo della vita terrena». La Torà non rimane in un iperuranio mondo, ma fa discendere, anche se imperfettamente, il mondo eterno nelle nostre vite, svolgendo un ruolo fondamentale e dirimente. Il re Shelomò nei Mishlè (Pv 3, 18) la definisce «etz chayìm», l'albero della vita. Nota è l'affermazione di Ben Bag Bag nei Pirqè Avot (5,21): «voltala e rivoltala, perché tutto è in essa». E' noto quanto Rambàn scrive nell'introduzione al suo commento alla Torà: il testo biblico è formato da infinite combinazioni del Nome divino. La vita ebraica è pertanto una vita piena di letture, e una casa ebraica è solitamente piena di libri. Rav Steinsaltz in un video non esita a definire l'ebreo colui che bacia i libri (Chighel 2016). Mosè, con un tocco di poesia, tiene per ultimo il comandamento in base al quale ciascuno è tenuto a scrivere per sé il rotolo della Torà; non è sufficiente dire di aver ereditato la Torà da Moshè, ciascuno è tenuto a renderla nuova e trasmetterla alle generazioni successive (Sacks 2012). Gli studiosi di religioni comparate hanno molta dimestichezza con la definizione del popolo ebraico come popolo del libro, ma non si tratta di una definizione esclusiva, dal momento che è condivisa con varie altre religioni, come il cristianesimo e l'Islam (Halbertal 1997, 2). Preliminarmente è opportuno far notare che è più giusto definire il popolo ebraico come popolo dei libri, dal momento che il suo canone autoritativo è composito e non si riduce al solo Tanàkh, ma comprende altri testi come la Mishnà e il Talmùd, il Midràsh, gli altri testi della letteratura rabbinica e la letteratura mistica. Il Rabbino Capo di Francia R. S. Sirat diceva che la Bibbia accompagna l'ebreo dalla nascita alla morte, e dalla morte all'eternità (citato in Attias 2015, 28). Non è possibile immaginare un ebraismo che prescinda dai libri neppure nell'aldilà: Halbertal, introducendo People of the Book, racconta di un suo insegnante che lo aveva introdotto ad un nuovo concetto di paradiso e inferno: nessuna pena o punizione, ma tutti racchiusi in una sala con l'ordine di studiare il Talmùd; per alcuni si sarebbe rivelato un paradiso, per altri un inferno (Halbertal 1997, 1).

‫בס"ד‬ Torino, 5 Shevat 5779 (10.1.2019) Il popolo del libro Ariel Di Porto Il popolo dei libri Come è noto, il Corano definisce gli ebrei il “popolo del libro”. Rav Sacks non esita a considerarla una grande affermazione. L’intera storia del giudaismo può essere considerata la storia d’amore fra un popolo e un libro, che ogni anno, durante Simchàt Torà, viene concluso e immediatamente iniziato di nuovo. L’ultima lettera della Torà è una lamed, la prima una bet, che assieme formano la parola lev (cuore): sino a che il popolo ebraico continuerà a studiare la Torà, il suo cuore non smetterà di battere (Sacks 2012). Rav Soloveitchik (Soloveitchik 1989, 154) scrive che la Torà conduce la Presenza Divina «nell’arena mondana di spazio e tempo, nel mezzo della vita terrena». La Torà non rimane in un iperuranio mondo, ma fa discendere, anche se imperfettamente, il mondo eterno nelle nostre vite, svolgendo un ruolo fondamentale e dirimente. Il re Shelomò nei Mishlè (Pv 3, 18) la definisce «etz chayìm», l’albero della vita. Nota è l’affermazione di Ben Bag Bag nei Pirqè Avot (5,21): «voltala e rivoltala, perché tutto è in essa». E’ noto quanto Rambàn scrive nell’introduzione al suo commento alla Torà: il testo biblico è formato da infinite combinazioni del Nome divino. La vita ebraica è pertanto una vita piena di letture, e una casa ebraica è solitamente piena di libri. Rav Steinsaltz in un video non esita a definire l’ebreo colui che bacia i libri (Chighel 2016). Mosè, con un tocco di poesia, tiene per ultimo il comandamento in base al quale ciascuno è tenuto a scrivere per sé il rotolo della Torà; non è sufficiente dire di aver ereditato la Torà da Moshè, ciascuno è tenuto a renderla nuova e trasmetterla alle generazioni successive (Sacks 2012). Gli studiosi di religioni comparate hanno molta dimestichezza con la definizione del popolo ebraico come popolo del libro, ma non si tratta di una definizione esclusiva, dal momento che è condivisa con varie altre religioni, come il cristianesimo e l’Islam (Halbertal 1997, 2). Preliminarmente è opportuno far notare che è più giusto definire il popolo ebraico come popolo dei libri, dal momento che il suo canone autoritativo è composito e non si riduce al solo Tanàkh, ma comprende altri testi come la Mishnà e il Talmùd, il Midràsh, gli altri testi della letteratura rabbinica e la letteratura mistica. Il Rabbino Capo di Francia R. S. Sirat diceva che la Bibbia accompagna l’ebreo dalla nascita alla morte, e dalla morte all’eternità (citato in Attias 2015, 28). Non è possibile immaginare un ebraismo che prescinda dai libri neppure nell’aldilà: Halbertal, introducendo People of the Book, racconta di un suo insegnante che lo aveva introdotto ad un nuovo concetto di paradiso e inferno: nessuna pena o punizione, ma tutti racchiusi in una sala con l’ordine di studiare il Talmùd; per alcuni si sarebbe rivelato un paradiso, per altri un inferno (Halbertal 1997, 1). 1 Proprio per via di questa considerazione dei libri, la politica cristiana contro gli ebrei si scagliò anche contro di essi, con sequestri di volumi, principalmente il Talmùd, censure e roghi. Ad esempio la bolla di Giulio III nel 1553 condusse al rogo del Talmùd in Campo de’ Fiori a Roma e in altre città italiane, principalmente emiliane e lombarde. Già in precedenza la cacciata degli ebrei dalla Spagna e dal Portogallo aveva avuto come effetto collaterale quello della distruzione e della perdita di numerosi manoscritti e libri ebraici (Roth 2014). Una società fondata sui testi Uno degli aspetti maggiormente caratterizzanti dell’ebraismo, a dispetto di una superficiale diversità nelle forme, è la centralità dei testi. Questa particolarità ha permesso di accogliere all’interno dello stesso alveo concezioni diverse e spesso incompatibili, ad esempio circa la natura della divinità, ma discendenti dalle diverse interpretazioni dei medesimi testi (Halbertal 1997, 1-2). La centralità del testo comporta varie conseguenze all’interno della società ebraica: 1. conferisce potere, potere, religioso e politico, a coloro che sono considerati autorizzati a interpretare i testi; lo studioso, protagonista di una vera e propria rivoluzione culturale all’interno della società dell’epoca del Secondo Tempio, assume un ruolo centrale all’interno della gerarchia ebraica, rimpiazzando gradualmente il sacerdote e il profeta (Halbertal 1997, 6); l’ascesa dello studioso crea una nuova situazione, in cui tutti possono prendere parte al rito, mentre l’autorità dell’esperto deriva delle sue qualità di interprete dei testi (Halbertal 1997, 23). Sino ad allora la scrittura dei testi sacri, così come la preservazione e l’insegnamento del testo era principalmente appannaggio dei sacerdoti (Bar-Ilan 1990, 22). 2. tramuta lo studio in un ideale religioso che coinvolge tutti i membri della comunità. Gradualmente l’obbligo religioso di studiare la Torà ha investito la totalità della comunità. Tuttavia in vari casi la lingua dei testi non coincide con quella parlata dalla comunità; in tal caso diviene cruciale il controllo delle traduzioni da parte degli esperti (vedi Halbertal 1997, 7). 3. la Torà diviene in questo modo il luogo principale dell’esperienza religiosa, un Tempio portatile, il Santuario degli studiosi (Halbertal 1997, 8), o, usando le parole di Heinrich Heine “la patria portatile degli ebrei” tanto che, come dice George Steiner “il testo è la casa, ogni commentario un ritorno” (Sacks 2012). Si noti che il genere privilegiato nella tradizione ebraica, a differenza di quella cristiana, in cui i trattati teologici hanno un ruolo centrale, è quello del commento. 4. l’accordo su un determinato testo plasma i limiti della comunità e le conferisce coesione (Halbertal 1997, 8). Il libro ebraico – i codici La storia del libro ebraico fa parte più in generale della storia della cultura, e permette di comprendere più a fondo il ruolo dei vari strumenti all’interno della trasmissione del sapere (Schrijver 2017, 291). Si tratta di una storia lunga e affascinante, di cui si potranno accennare solo alcuni passaggi: come detto, sino a un determinato periodo, l’attività di scriba era svolta principalmente dai sacerdoti. La formazione di uno scriba, che iniziava intorno ai 14-15 anni per via della necessità di acquisire numerose competenze, in modo particolare per la preparazione dei materiali, era infatti estremamente dispendiosa (Bar-Ilan 1990, 22). La maggior parte delle persone 2 sapevano leggere, ma non scrivere. Con la distruzione del Tempio il prestigio sociale ed economico dei sacerdoti diminuì per ovvi motivi, e l’attività dello scriba subì una liberalizzazione abbastanza generalizzata. Alcuni dei tannaìm, fra cui ad esempio R. Meìr, furono scribi (Bar-Ilan 1990, 24). Nei secoli successivi, anche per via di influenze derivanti dal mondo greco, testimoniate dall’utilizzo di numerosi termini tecnici di origine greca (ad esempio kolmòs) nell’ambito della scrittura, accanto alla produzione di rotoli, utilizzati in ambito cultuale, iniziò la produzione di codici, usati principalmente nello studio (Bar-Ilan 1990, 24-25). In tal senso fu fondamentale l’opera dei masoreti, che attraverso la loro opera fissarono il testo biblico così come lo conosciamo oggi. I codici, esemplari della Bibbia prodotti nel Vicino Oriente fra l’inizio del X e la metà dell’XI secolo, sono una miniera di informazioni. I codici hanno attratto ampiamente l’attenzione degli studiosi, in modo particolare il Codice di Leningrado (risalente in base al suo colophon al 10081009), l’unico codice sopravvissuto a contenere l’intero Tanàkh, e il Codice di Aleppo. I codici peraltro costituiscono un materiale importante per lo studio dell’arte ebraica, perché contengono i primi esempi medievali di illustrazione e decorazione di libri ebraici (Stern 2008, 163-165), con elementi che richiamano il gusto islamico delle origini, per via dell’uso della micrografia. In generale il termine testo masoretico si riferisce a un manoscritto accompagnato dalla masorà. Ai margini dei codici era presente infatti, sotto forma di brevi note, la masorà, che si occupava di vari aspetti, la ricorrenza dei vari termini nel canone, le particolarità grafiche del testo (a.e. lettere più piccoli o più grandi, o i kerè ketìv, che testimoniavano tradizioni differenti di lettura e di scrittura). Le principali espressioni della masorà sono la masorà parva e la masorà magna, che solitamente espande la masorà parva. Sotto certi aspetti la masorà rappresenta una forma di midràsh visuale, basato secondo alcuni, come il Machazòr Vitry (XII sec.), sull’affermazione della mishnà (Avot 3,13) secondo la quale massòret seyag laTorà (la massòret è un recinto per la Torà) (Stern 2008, 189). La masorà pone le fondamenta per alcune caratterizzazioni dell’esegesi medievale basata sull’interpretazione piana del testo (peshàt), come quella di Sa’adià Gaòn, di Avrahàm ibn ‘Ezrà, e del Rashbàm (Stern 2008, 199). Codici e rotoli Mentre in tutto il mondo la scrittura dei codici ha rapidamente soppiantato quella dei rotoli, nel mondo ebraico l’introduzione dei codici si è verificata molto più tardi, non prima del periodo arabo (Beit -Arié 1988, 35). Rashì nel suo commento al trattato Meghillà (19a) attesta che tutti i libri dei tempi dei chakhamìm erano sotto forma di rotoli. Questa particolarità, che non si è riscontra nel mondo cristiano, ha generato, principalmente per via dell’uso di seppellire i testi sacri inutilizzabili, un buco di circa otto secoli a livello documentario. Gli esemplari di questo periodo sono infatti scarsissimi, se non inesistenti. Difatti i rotoli del Mar Morto risalgono ad un periodo compreso fra il III sec. A.e.v. e il I sec., mentre i manoscritti medievali più antichi in nostro possesso risalgono al IX sec. (Perani 2016, 347-348). Altro motivo determinante per tale fenomeno fu l’estrema mobilità, spontanea o coatta, della popolazione ebraica, che non permise di conservare i manoscritti, molto delicati, nelle biblioteche dei conventi o delle abbazie come avveniva nel mondo cristiano; non da ultimo si deve considerare l’opera di confisca, censura, distruzione di manoscritti e libri a stampa ad opera dell’Inquisizione. Si calcola che, per via di questi motivi, siano sopravvissuti solo circa il 5% dei manoscritti ebraici medievali (Perani 2016, 349). 3 Il Sèfer Torà Per via della attenzione riservata ai testi, il Sefèr Torà, che contiene, mai separatamente, i cinque libri del Pentateuco, è oggetto di particolare devozione e di una regolamentazione molto particolareggiata. Una delle fonti principali in merito è il trattato Soferìm, che in 14 dei suoi 21 capitoli affronta tematiche relative al Sèfer Torà. I primi nove capitoli sono destinati in modo particolari agli scribi, per definirne le caratteristiche, professionali e religiose, e fornire loro le nozioni per la scelta e la preparazione dei materiali necessari per la scrittura. I capitoli successivi affrontano il tema della lettura in pubblico del Sèfer Torà e degli altri libri biblici. Il capitolo 14 esamina l’argomento della santità della Torà e degli usi correlati (Fishbane 2016, 219-220). Tradizionalmente il Sèfer Torà è scritto su pelle. Due sono i tipi di pelle considerati adatti per la scrittura del Sèfer Torà , il ghevìl e il kelaf. Il ghevil “viene conciato con sostanze vegetali a forte concentrazione tannica… si presenta coriaceo con sfumature di colore dall’avana chiaro al marrone scuro, prevalentemente lucido sul lato pelo e vellutato dalla parte della carne” (Spagnoletto 2003, 238). Il qelàf è invece una pelle conciata con la calce, “chiara, con sfumature dal bianco al giallo che va scritta sul lato carne”. Quest’ultimo è stato nettamente preferito a partire dalla metà del XVII sec. (Spagnoletto 2003, 239). Negli ultimi anni l’Italia è salita alla ribalta per via del ritrovamento presso la Biblioteca dell’Università di Bologna, di un Sefer Torà risalente al XII secolo. In una lezione tenuta nel giugno 2016 ad Aix En Provence il professor Mauro Perani ha illustrato le caratteristiche di questo incredibile testo, considerato il più antico Sèfer Torà intero al mondo. Questo Sèfer Torà riflette la tradizione Babilonese di scrittura, che differisce da quella di Eretz Israèl. La particolarità di questo stile di scrittura è legato all’uso dei tagghìn, gli abbellimenti delle lettere che ornavano sette lettere in particolare, memorizzabili per mezzo della sigla ‫שעטנז גץ‬. Ai tagghìn nella tradizione mistica verrà attribuito un’incredibile significato. Ogni segno aggiuntivo, unito alle lettere della Torà, rivela incredibili segreti sull’universo e sul creato. Altro aspetto caratteristico è rappresentato sino al XVI sec. dall’uso di lettere melupafòt o aqumòt, che tendono a sparire nei due secoli successivi (Spagnoletto 2003, 238). Sino al periodo di Maimonide (XII sec.), i vari stili di scrittura convissero, comportando tuttavia, anche per via del prolungato esilio del popolo ebraico, una sempre maggiore differenziazione nelle tradizioni, tanto che venne considerata la possibilità di eliminare i tagghìn, cosa che non venne fatta, dal momento che questi elementi non inficiano la validità del rotolo (Maimoide, Responsa 68). Nei secoli successivi vennero stabilite delle norme più stringenti sulla questione, che portarono gradualmente ad una uniformazione nella scrittura. Il canone ebraico Nella tradizione rabbinica la Bibbia viene generalmente chiamata miqrà (ciò che viene letto) o katùv (scritto), in relazione a ciò che non è scritto. Quando si parla di canonicità di un testo si intende attribuirgli uno status speciale, che può essere compreso in vari sensi: 1. come canone normativo, che viene seguito; 4 2. come canone formativo, che non è necessariamente seguito, ma è studiato, trasmesso e interpretato, contribuendo alla formazione di un vocabolario condiviso per un popolo o dei professionisti; 3. come canone esemplare, che funge da modello di imitazione. Ciascun testo può essere oggetto di diverse forme di canonizzazione; il Talmùd per esempio rientra in un canone normativo, ma anche formativo, essendo oggetto di infiniti dibattiti (Halbertal 1997, 3). Il tema della canonizzazione dei testi ha profonde implicazioni di ordine politico: può conferire autorità e potere, stabilisce chi deve essere ascoltato e chi no, sino a spaccare delle comunità in determinate circostanze (Halbertal 1997, 3): ad esempio il mancato accoglimento del Talmùd ha portato i Caraiti a formare una comunità separata (Halbertal 1997, 9). L’aspetto che ha maggiormente turbato i Caraiti è la presenza, all’interno del corpus talmudico, di controversie fra i Maestri, intese come un segno della non autenticità dell’opera (Halbertal 1997, 46). Ci sono dei canoni aperti e chiusi. Non tutte le medesime tradizioni religiose mostrano lo stesso atteggiamento: ad esempio la tradizione Hindu mostra un approccio più fluido rispetto alle altre. La Bibbia al contrario è l’esempio più evidente di un canone chiuso ed esclusivo (Halbertal 1997, 16). Quello della cronologia della canonizzazione dei libri biblici è un tema molto spinoso. Dopo la distruzione del secondo Tempio i Saggi di Yavneh hanno discusso sulla canonicità, o piuttosto sul grado di santità, di determinati libri, per lo più degli Agiografi. Ad esempio nel trattato Shabbàt del Talmùd (30b) si narra dell’intenzione di togliere dalla circolazione i libri biblici Mishlè e Qohèlet, considerati da alcuni chakhamìm eretici. Sono stati trovati, fra i Rotoli del Mar Morto, esemplari di tutti i libri biblici, all’infuori del Libro di Ester (Halbertal 1997, 16; Merlo 2008, 20-21). La Bibbia ebraica è costituita da tre sezioni, indicate con la sigla TaNàKH: Torà (Pentateuco), Neviìm (Profetì) e Ketuvìm (scritti). Questo termine non ha un significato particolare, ma denota una differenziazione di fondo all’interno del corpus biblico, che non traspare dal termine bìblia (Attias 2015, 6). Nella visione rabbinica queste tre sezioni non hanno infatti la medesima autorità. Il brano fondamentale circa la canonicità dei libri biblici è contenuto nel trattato Bavà Batrà (14b): “Il canone dei Profeti è: Giosuè, Giudici, Samuele, Re, Geremia, Ezechiele, Isaia, Dodici. Il canone degli Scritti è: Rut, il libro dei Salmi, Giobbe, Proverbi, Qohelet, Cantico dei cantici, Lamentazioni, Daniele, il rotolo di Ester, Esdra, Cronache”. Complessivamente, sommando i cinque libri del Pentateuco, si arriva ad un totale di 24 libri. Flavio Giuseppe nel Contro Apione (I, 39-40) parla di 22 libri, ma non è detto che vi sia contraddizione fra le due fonti, dal momento che è plausibile che abbia contato in modo diverso i medesimi libri (Merlo 2008, 19-20). L’ispirazione del testo è un criterio indispensabile, ma non sufficiente, per includere un testo all’interno del canone: per esempio sono state accolte solo quelle profezie che avevano una rilevanza per le generazioni future (Halbertal 1997, 17). La conformazione che il Tanàkh assume, una volta fissato, non può non risvegliare una serie di dubbi e domande, in modo particolare sul “lato umano” (Lawee 1996, 65) della Rivelazione, su chi siano gli autori dei libri, quali materiali abbiano utilizzato, che tipo di ispirazione abbiano avuto. 5 Fra gli autori classici probabilmente quello che più si è occupato di queste domande, anche per via dell’influenza dell’ambiente iberico e italiano in cui operò, è Ytzhàq Abravanel, che in varie delle sue introduzioni ai suoi commenti dei libri biblici, si è confrontato con le questioni, ad esempio riguardo la tripartizione del Tanàkh, la preminenza dell’aspetto legale già nel nome della Torà, la differenza fra parole della profezia e del ruach ha-qodesh contenute rispettivamente nei Neviìm e nei Ketuvìm, e molte altre (vedi Lawee 1996, 65-66). La Mishnà e il Talmùd La Mishnà, composta da R. Yehudà ha-nasì alla fine del secondo secolo, è il primo testo canonico a trasmettere la tradizione per mezzo di controversie. Emerge in questo modo una dissonanza fra la parola divina, ontologicamente indipendente, e la capacità e l’obbligo degli uomini di interpretare quella parola (Rosenzweig 1992, 4). Gli studiosi mostrano perplessità: si tratta di un’antologia di varie opinioni, un codice che comprende le opinioni discordanti, o una via di mezzo (Halbertal 1997, 45)? E’ interessante vedere, come all’interno di questa opera, le opinioni minoritarie non siano oggetto di censura, né vengano armonizzate con il resto dell’impianto (Halbertal 1997, 45), venendo canonizzate a loro volta (Halbertal 1997, 50). Nella Mishnà tuttavia non vengono accolte tutte le controversie sorte nella società ebraica dell’epoca, e viene accolto il dibattito interno a un particolare gruppo, mentre le posizioni proprie di altri gruppi, come i cristiani, gli gnostici, gli Esseni, i Sadducei, sono assenti. Tutti questi gruppi si riconoscono nella Bibbia, ma non sono menzionati nella Mishnà come legittimi interlocutori (Halbertal 1997, 50). Nel Talmùd i tratti fondamentali della Mishnà vengono esasperati, tanto da trovare un brano come quello che in massekhèt ‘Eruvìn (13b), sulla discussione fra la scuola di Shammày e quella di Hillèl, che si protrasse per tre anni, sino a che una voce celeste dichiarò che entrambe le posizioni sono parole del D. vivente. Questa affermazione ricorda quella che poi verrà chiamata nella filosofia medievale, riguardo ai conflitti fra fede e ragione, dottrina della doppia verità (Rosenzweig 1992, 5). Alcuni in questa affermazione riconoscono l’affermazione di principio del pluralismo halakhico, altri la riferiscono ad ambiti più limitati (Yadin Israel 2017, 568). Il Chidà (Petach ‘Enayim su Bavà Metzià 59b, citato in Yadin Israel 2017, 570-571) ritiene che vi siano varie ragioni per l’affermazione di questo principio: 1. Non si può percepire la luce se non in presenza del buio, e la verità non può risultare tale senza la falsità; per questo in varie circostanze una questione non può essere risolta se non per mezzo del suo opposto; 2. a volte, rispetto a un caso specifico, una ragione è maggiormente pertinente, altre volte ne è maggiormente pertinente un’altra, e così, in base a minimi cambiamenti, la logica di una determinata norma può cambiare; 3. il Signore ha fornito a Moshè 49 aspetti per i quali una certa cosa può essere dichiarata pura e 49 per cui può essere dichiarata impura, e quindi la legge si accorda con il consenso dei saggi di una certa generazione. 6 I cambiamenti del mondo moderno Nel mondo moderno la centralità del testo subisce un declino, e il pensiero ebraico è considerato tale solo in quanto prodotto da ebrei. Questo è il sintomo di una crisi all’interno della vita ebraica, che ha portato alla costruzione di un’alternativa alla comunità costruita attorno a dei testi, costituita dall’identità nazionale. Ciò comporta dei cambiamenti all’interno del curriculum: sino al XVIII secolo il Talmùd era al centro dello studio; gli studi biblici si riducevano sostanzialmente a quelle parti che erano incluse nella liturgia sinagogale (il Pentateuco e le Haftaròt), corredate dai commenti di Rashì, largamente basato a sua volta su testi rabbinici. Sino ad allora non esisteva lo studio della lingua ebraica come disciplina separata (Halbertal 1997, 130131). Stern sostiene che prima della produzione dei grandi codici masoretici la trasmissione dello stesso testo biblico avvenisse principalmente oralmente per mezzo delle letture sinagogali: per questo i brani che venivano letti pubblicamente (la Torà, le sezioni profetiche lette come haftaròt, le cinque meghillòt) erano maggiormente citati; d’altro canto la copiatura dei testi era un’operazione estremamente costosa, non accessibile a tutti (Stern 2008, 179-180). La stessa produzione dei codici è il segno di un approccio differente, che valorizza l’esperienza visuale; non sarebbe immaginabile immagazzinare il tipo di conoscenza del testo biblico propria dei masoreti solo tramite l’ascolto. Lo studio non era indirizzato alla conoscenza contenutistica del testo, bensì alla creazione di collegamenti intertestuali in un sistema in cui ogni singola parola viene amorevolmente catalogata e classificata (Stern 2008, 187-188). Questo tipo di lettura era propedeutica per i lavori, grammaticali ed esegetici, che sarebbero stati sviluppati di lì a poco. Con la Haskalà il peso del Talmùd nell’organizzazione dello studio diminuisce, invocando di contro un ritorno alla Bibbia, volto a valorizzare la dimensione universale dell’ebraismo, considerata fondamentale per condurre gli ebrei, emancipati, nelle società circostanti (Halbertal 1997, 131). Nella società israeliana contemporanea, negli ambienti secolari, la tradizione biblica riveste un ruolo molto importante, maggiore di quello assunto negli ambienti religiosi. Bibliografia Attias 2015 J. C. Attias, The Jews and the Bible, Stanford 2015 Bar-Ilan 1990 M. Bar-Ilan, Scribes and Books in the Late Second Commonwealth and Rabbinic Period, in M. J. Mulder (a cura di), Text, Translation, Reading and Interpretation of the Hebrew Bible in Ancient Judaism and Early Cristianity, Assen/Maastricht 1990, pp. 21-38 Beit-Arié 1988 M. 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