John Locke
Lettera sulla tolleranza
Traduzione dal latino di Sergio Cremaschi
All’illustre Signor T.A.R.P.T.O.L.A. 1.
Scritta da P.A.P.O.I.L.L.A. 2
Illustre signore, a te che mi chiedi che penso della mutua tolleranza fra cristiani rispondo brevemente
che questo mi sembra il tratto distintivo della vera chiesa. Infatti, i vanti che alcuni accampano
sull’antichità di luoghi e nomi o sullo splendore del culto, altri sulla riforma della disciplina, e tutti
infine sull’ortodossia della fede (infatti ognuno è ortodosso per se stesso) e cose simili possono essere
distinzioni di uomini che lottano fra loro per il potere più che tratti distintivi della chiesa del Cristo.
Colui che possiede tutte queste cose, se viene privato della carità, della mansuetudine, della
benevolenza verso tutti gli uomini in generale, non solo quelli che professano la fede cristiana, non è
ancora cristiano. «I re comandano sui loro popoli […] Voi però non dovete agire così!”» (Luca 22),
dice il nostro Salvatore ai suoi. Altra è la sostanza della vera religione, nata per regolare la vita
secondo giustizia e pietà, non secondo il fasto esteriore, il potere ecclesiastico, e infine la coercizione.
È per prima cosa contro i propri vizi, la propria durezza di cuore e il proprio capriccio che deve
muovere guerra chi vuole arruolarsi nella chiesa del Cristo; in altro modo, senza santità di vita,
purezza di costumi, bontà e mitezza d’animo, invano aspira al nome cristiano. «E tu, quando sarai
tornato a me, da’ forza ai tuoi fratelli» (Luca 22) disse a Pietro il nostro Signore. Infatti, difficilmente
riuscirà far credere di essere straordinariamente sollecito della salvezza altrui chi trascura la sua:
nessuno può sinceramente dedicare tutte le sue forze a far sì che altri divengano cristiani se non ha
già lui stesso realmente abbracciato realmente la religione del Cristo. Se infatti si deve credere al
vangelo, agli apostoli, nessuno può essere cristiano senza carità, senza fede che agisce per mezzo
1
2
Theologiae Apud Remonstrantes Professorem Tyrannidis Osorem Limburgium Amstelodamensis.
Pacis Amico Persecutinis Osore Iohanne Lockio.
dell’amore, non della forza. Se coloro che, col pretesto della religione, sottopongono a vessazioni,
torturano, privano dei loro beni, uccidono gli altri lo facciano con animo amichevole e benevolo può
dirlo la loro stessa coscienza.; ci crederò soltanto quando vedrò quei fanatici correggere nello stesso
modo i propri amici e familiari che pecchino manifestamente contro i precetti del vangelo e aggredire
col ferro e col fuoco i propri seguaci toccati dalla corruzione dei vizi e certamente destinati a perire
se non iniziano a dare migliori frutti, e testimoniare il loro amore e il desiderio della salvezza delle
anime con ogni genere di crudeltà e tortura. Se infatti, come adducono a pretesto, è per carità e
preoccupazione per le loro anime che li privano dei beni, ne mutilano il corpo, li fanno macerare in
carcere nel sudiciume, e infine li privano della vita stessa perché divengano fedeli e salvati, perché
permettono di praticare impunemente fra i loro seguaci la frequentazione di prostitute, la furberia, la
frode e altre cose che sanno tanto palesemente di paganesimo, come dice l’apostolo (Romani 1)? Dato
che queste cose e cose simili sono tanto più contrarie alla gloria di Dio, alla purezza della chiesa e
alla salvezza delle anime che qualche convinzione di coscienza erronea contrastante con le decisioni
ecclesiastiche o una manchevolezza nel culto esterno accompagnata da innocenza di vita? Perché –
dico – un tale zelo per Dio, per la chiesa, per la salvezza delle anime, ardente fino al rogo, si applica
unicamente e con tutte le forze a correggere opinioni, e per lo più in cose sottili che vanno al di là
della comprensione del popolo, o a imporre cerimonie, ma che trascura senza punirle e senza
accorgersene quelle colpe morali che tutti sanno essere contrarie alla fede cristiana? Quale fra le parti
in dissidio sia più saggia a questo proposito, quale colpevole di scisma o di eresia, quella vincente o
quella perdente, risulterà chiaro solo quando si sarà esaminata la causa della divisione. Infatti, chi
segue il Cristo e abbraccia la sua dottrina e sia addossa il suo gioco, anche se abbandona padre e
madre, i riti tradizionali, la pubblica assemblea, e infine tutti gli uomini, non è eretico.
E se le divisioni fra sette ostacolano grandemente la salvezza delle anime, «l’adulterio, la
frequentazione di prostitute, impurità, lussuria, idolatria e cose simili» non sono meno opere della
carne, delle quali l’apostolo dichiara chiaramente che «quelli che fanno queste cose non saranno eredi
del regno di Dio» (Galati 5). Queste cose sono da estirpare completamente con sforzo non minore
che le sette, se uno avendo sinceramente a cuore il regno di Dio avrà seriamente valutato di dovere
operare per ampliarne i confini. E chi agirà diversamente, e mentre è duro con chi è di diversa
opinione intanto perdona peccati e vizi morali indegni del nome cristiano, dimostra palesemente che
pur riempiendosi la bocca della parola chiesa, cerca un regno che non è il regno di Dio.
Se qualcuno vorrà che un’anima la cui salvezza desidera grandemente spiri nella tortura anche se non
ancora convertita, mi meraviglierò un bel po’, e con me, credo, si meraviglieranno altri, ma si
meraviglieranno a tal punto che nessuno possa mai credere che una tal cosa possa originarsi da amore,
benevolenza, carità. Se si devono costringere ad abbracciare certe dottrine col ferro e col fuoco e li si
deve costringere con la forza al culto esteriore uomini dei cui costumi non si fa alcuna questione, se
qualcuno convertirà alla fede gli eterodossi in modo da costringerli a professare cose che non credono
e permetterà di fare quelle cose che il vangelo non permette ai cristiani, il fedele a se stesso, non
dubito che costui voglia un numeroso seguito di gente che professi ciò che egli professa, ma chi può
credere che voglia la chiesa del Cristo? Non c’è quindi da meravigliarsi se fanno uso di armi non
adatte alla milizia cristiana coloro che non militano (quali che siano i loro pretesti) per la vera
religione e la vera chiesa cristiana. Se, come la guida della nostra salvezza, desiderassero
sinceramente la salvezza delle anime, camminerebbero nelle sue orme e seguirebbero l’ottimo
esempio di quel principe della pace che mandò i suoi seguaci a soggiogare le genti e a farle entrare
nella chiesa non armati di ferro, di spada, di forza, ma muniti del vangelo, dell’annuncio della pace,
della santità di costumi e dell’esempio. E tuttavia per lui sarebbe stato più facilmente disponibile
l’esercito delle legioni celesti, se gli infedeli dovessero venire convertiti con la forza delle armi, se i
mortali accecati o ostinati dovessero venire distolti dagli errori da un soldato in armi, che per il capo
di qualsiasi chiesa, per quanto potente, sono le sue truppe.
La tolleranza nei confronti di coloro che hanno opinioni diverse in materia di religione è a tal punto
in accordo con il vangelo e la ragione che sembra uno spettacolo straordinario che degli uomini
possano comportarsi come ciechi in una luce tanto chiara. Non voglio qui dare la colpa all’ambizione
eccessiva di alcuni, allo smodato entusiasmo privo di carità e mansuetudine di altri: questi sono vizi
che non possono venire eliminati dalle cose umane, ma sono tuttavia tali che nessuno se li vuole
addossare esplicitamente; non vi è quasi nessuno che, deviato da questi vizi, non cerchi di fare bella
figura mascherandoli con un aspetto diverso e onorevole. E perché nessuno copra con la
preoccupazione per la cosa pubblica e il rispetto delle leggi una crudele persecuzione per nulla
cristiana, e perché d’altra parte altri, con il pretesto della religione, non pretendano per sé licenziosità
di costumi e impunità di delitti, perché nessuno – dirò – sia come fedele suddito del principe sia come
sincero adoratore di Dio, li imponga a se o ad altri, per prima cosa ritengo che si debba distinguere
fra le cose della società politica e quelle della religione e si debbano definire i debiti confini fra chiesa
e stato. Se ciò non viene fatto, non si può stabilire alcun termine alle liti fra coloro ai quali o sta
veramente a cuore o si finge stia a cuore la salvezza delle anime o la salvezza dello stato.
Ritengo che lo stato sia una società di uomini costituita esclusivamente per conservare e promuovere
i beni civili.
Chiamo beni civili la vita, la libertà, l’integrità corporea e l’assenza di dolore fisico e il possesso di
beni esteriori quali sono i terreni, il denaro, gli attrezzi ecc.
Di queste cose che servono per questa vita è compito del governante civile assicurare a tutto il popolo
in generale e ai singoli sudditi in particolare la protezione sicura del giusto possesso per mezzo di
leggi eguali per tutti; e se qualcuno ingiustamente vuole violarle, va dissuaso con la minaccia della
pena; e questa consiste nella privazione totale o parziale di quei beni di cui avrebbe potuto e dovuto
fruire in altro caso. Ma siccome nessuno spontaneamente si fa spossessare di una parte dei suoi beni,
per non parlare della libertà o della vita, per infliggere la pena ai violatori del diritto altrui il
governante è armato della forza, cioè di tutta la forza dei suoi sudditi.
Che poi tutta la giurisdizione del governante si estenda unicamente questi beni civili e che ogni diritto
e potere dell’autorità civile è circoscritto alla promozione di questi soli beni, e che non possa in alcun
modo estendersi alla salvezza delle anime, mi sembra che le considerazioni seguenti lo dimostrino.
In primo luogo. Perché la cura delle anime non è affidata al governante civile più che ad altri uomini.
Non da parte di Dio, perché non sembra che mai Dio abbia dato agli uomini una tale autorità sugli
uomini da potere costringere altri ad abbracciare la propria religione. Non dagli uomini può venire
attribuita al governante un potere di tal genere, perché nessuno può rinunciare alla cura della propria
salvezza eterna al punto di aderire necessariamente al culto e alla fede che un altro, sia principe sia
suddito, gli avrà indicato. Infatti, nessuno può, nemmeno se vuole, credere in base a un ordine altrui;
nella fede invece consiste la forza efficace della vera religione salvifica. Infatti, tutto ciò che
professerai con la bocca, ciò che compirai nel culto esterno, se non sarai anche interiormente persuaso
che ciò sia anche vero e grato a Dio, non solo non giova alla salvezza, ma al contrario vi nuoce, dato
che in questo modo agli altri peccati che con la religione si intende espiare si sommano la simulazione
della religione e il disprezzo della Maestà divina quando offri a Dio Ottimo Massimo un culto che
credi gli non gli sia grato.
In secondo luogo. La cura delle anime non può spettare al governante civile perché tutto il suo potere
risiede nella costrizione. Ma siccome la religione vera e salvifica consiste un una fede interiore
dell’animo, senza la quale nulla vale agli occhi di Dio, tale è la natura dell’intelletto umano che non
vi possa essere costretto da nessuna forza esterna. Si tolgano i beni, si ponga sotto pressione il corpo
con la carcerazione o la tortura, sarà vano se con questi tormenti vorrai mutare il giudizio della mente
sulle cose.
Ma dirai: il governante può fare uso di argomentazioni e in tal modo trascinare alla verità gli
eterodossi e farli salvi. Sia pure, ma ciò è una cosa che ha in comune con altri uomini: se insegna, se
istruisce, se richiama gli erranti con argomentazioni, fa proprio ciò che ci si attende da un uomo
dabbene; il governante non ha necessità di abbandonare il suo essere uomo o cristiano. Tuttavia altro
è persuadere, altro comandare, altro combattere con argomentazioni, altro con editti. E di queste cose
l’una è propria del potere civile, l’altra della benevolenza umana. Infatti, è facoltà di ogni mortale
ammonire, esortare, indicare gli errori, convincere della propria opinione con ragioni; ma è proprio
del governante comandare con editti, costringere con la spada. È proprio questo che dico, che il potere
civile non deve prescrivere con la legge civile articoli di fede o dogmi o modi di adorare Dio. Se
infatti non vi è connessa alcuna pena, viene meno la forza delle leggi; se vengono fissate delle pene,
queste chiaramente sono incapaci di persuadere.
Nel caso qualcuno voglia abbracciare in vista della salvezza dell’anima una qualche dottrina o culto
e creda in coscienza che la dottrina sia vera e il culto sia grato a Dio, qualsivoglia pena non può
instillare negli animi una convinzione di tal genere. Vi è bisogno di luce perché cambi la convinzione
interiore, e questa in nessun modo può essere strappata attraverso la tortura del corpo.
In terzo luogo. La cura della salvezza delle anime in nessun modo può essere di competenza del
governante civile: infatti, concesso che l’autorità delle leggi e la forza delle pene fosse efficace a
convertire le menti degli uomini, ciò tuttavia non sarebbe di alcuna utilità in vista della salvezza delle
anime. Essendo infatti una sola la vera religione, sola la via che conduce al luogo della beatitudine,
quale speranza vi è che un maggior numero di uomini vi giungerebbe se si desse una condizione dei
mortali tale che ognuno, trascurando i dettami della sua ragione e coscienza, dovesse abbracciare
ciecamente le dottrine del suo principe e adorare Dio in quel modo che è stabilito dalla leggi del suo
stato? Fra tante opinioni dei principi sulla religione sarebbe necessario che quella via stretta e quella
porta angusta che conducono in cielo fossero aperte a pochissimi, e ciò un solo paese e – ciò che più
di tutto sarebbe assurdo e indegno di Dio in questa cosa – l’eterna felicità o tormento sarebbero dovuti
unicamente alla sorte che ci ha fatto nascere in un luogo.
Queste, fra molte altre cose che si potrebbero aggiungere al proposito, mi sembra siano sufficienti per
concludere che tutto il potere dello stato riguarda quei beni e si limita alla cura delle cose di questo
mondo, e che in nessun modo tocca quelle cose che riguardano la vita futura.
Ora vediamo che cosa è la chiesa. Ritengo che la chiesa sia una società libera di uomini che si
radunano volontariamente per adorare pubblicamente Dio nel modo che credono sarà gradito a Dio
in vista della salvezza delle a..
Dico che è una società libera e volontaria. Nessuno nasce membro di una chiesa; in caso contrario
ognuno erediterebbe la religione del padre e degli antenati per diritto ereditario insieme ai terreni, e
ognuno dovrebbe la fede alla nascita, del che nulla di più assurdo si potrebbe pensare. Le cose stanno
perciò così: l’uomo non è reso parte per natura di alcuna chiesa o di alcuna setta; aderisce
volontariamente a quella società in cui crede di avere trovato la vera religione e il culto gradito a Dio.
La speranza di salvezza che vi ha trovato, come è l’unica ragione per entrare in una chiesa, così pure
è anche l’unico criterio per restarvi. È necessario che, se scoprirà o qualcosa di erroneo nella dottrina
o qualcosa di non concordante con questa nel culto, con la stessa libertà con cui è entrato gli resti
sempre aperta la via d’uscita; non vi possono essere infatti legami indissolubili se non quelli che sono
collegati a un’aspettativa certa della vita eterna. La chiesa è così composta di membri uniti
volontariamente e in vista di questo fine.
Passiamo ora a discutere quale sia il suo potere e a quali leggi sia soggetta.
Siccome nessuna società, per quanto libera o istituita per una ragione di poco conto – di dotti per la
ricerca intellettuale o di commercianti per gli affari o di pensionati per le chiacchiere il divertimento
– può stare in piedi senza dissolversi immediatamente se è priva di ogni legge, così è necessario che
anche la chiesa abbia le sue: perché si abbia una regola del luogo e del tempo nei quali avvengano le
adunanze, perché si stabiliscano le condizioni alle quali ognuno venga ammesso nella società o da
essa escluso, e infine perché venga stabilita la diversità dei carismi e la liturgia. E siccome (come si
è sostenuto) è una unione volontaria libera da ogni forza costrittiva, discende necessariamente che
nessun diritto di emanare leggi può essere in mano ad alcuno se non alla società stessa, o a coloro (il
che è si risolve nella stessa cosa) che la stessa società ha autorizzato con il suo consenso.
Ma, dirai, non vi può essere vera chiesa che non abbia presbitero o vescovo, dotato dell’autorità di
governare derivante dagli stessi apostoli per successione continua e non interrotta.
In primo luogo. Chiedo che mi mostri l’editto nel quale il Cristo ha stabilito questa legge per la sua
chiesa, e non sarà pretesa vana quella di esigere parole chiare su una cosa tanto importante. Sembra
suggerire altro il detto: «se due o tre si riuniscono per invocare il mio nome, io sono in mezzo a loro».
Vedi tu se a un’adunanza in mezzo alla quale sarà il Cristo può mancare qualcosa per la vera salvezza.
E questo basti.
In secondo luogo. Considera per favore che coloro che vogliono governanti della chiesa istituiti dal
Cristo in continuità di successione sono fra loro in totale dissenso. Ciò necessariamente permette
libertà di scelta, cioè che sia lecito a chiunque aderire alla chiesa che preferisce.
In terzo luogo. Abbi pure il reggitore di tal genere designato attraverso una lunga successione che
preferisci e che credi necessario; intanto io aderisco alla società in cui sono convinto che troverò ciò
che è necessario per la salvezza dell’anima. Così per entrambi è salva (come vuoi) la libertà
ecclesiastica, e nessuno dei due ha legislatore diverso da quello che si è scelto lui stesso.
Se poi ti preoccupi tanto della vera chiesa, mi sia permesso chiedere incidentalmente se non sia addica
più alla vera chiesa del Cristo stabilire condizioni della comunione che contengano quelle cose, e
soltanto quelle, che lo Spirito Santo ha insegnato esplicitamente nella Sacra Scrittura essere
necessarie per la salvezza, più che imporre come legge divina e sancire con leggi ecclesiastiche come
del tutto necessari alla fede cristiana i propri ritrovati o interpretazioni sulle quali la parola di Dio non
si pronuncia affatto o per lo meno non in modo definitivo? Chi richiede per la comunione ecclesiastica
quelle cose che il Cristo non richiede per la vita eterna ha forse istituito una società conforme alle sue
opinioni e ai suoi interessi. Ma in qual modo si può dire del Cristo quella chiesa che è stata stabilita
su altre base e dalla quale sono esclusi coloro che un giorno il Cristo accoglierà nel regno dei cieli?
Ma, dato che non è questa la sede per indagare i tratti caratteristici della vera chiesa, vorrei soltanto
ricordare a coloro che combattono tanto aspramente per i principi della loro società e si riempiono
sempre la bocca di null’altro che della chiesa, facendo non meno baccano, e forse spinti dallo stesso
istinto per cui i famosi argentieri di Efeso si riempivano la bocca con la loro Diana (Atti 19), che il
Vangelo in diversi luoghi afferma che i veri discepoli del Cristo devono aspettarsi e subire
persecuzioni; che la vera chiesa del Cristo debba perseguitare gli altri o costringere con la forza, il
ferro, il fuoco ad abbracciare la sua fede e le sue dottrine non ricordo di averlo mai letto nel Nuovo
Testamento.
Il fine della società religiosa (come si è detto) è il culto pubblico di Dio e attraverso di esso la ricerca
della vita eterna. Ad esso deve quindi adeguarsi tutta la disciplina, da questi confini devono essere
circoscritte tutte le leggi ecclesiastiche. Questa società non ha e non può avere per fine i beni civili o
il possesso di terreni; in essa non si può impiegare mai la forza che è di pertinenza del governante
civile; il possesso e l’uso dei beni esteriori è soggetto al suo potere.
Dirai: quale sanzione allora farà osservare le leggi ecclesiastiche, se ogni costrizione deve esserne
assente? Rispondo: quella che si addice a cose la cui professione e osservanza esterna non giova a
nulla se non sta in fondo all’animo e vi trovi pieno consenso della coscienza; e dunque le armi con
cui questa società può richiamare al dovere i suoi membri sono le esortazioni, gli ammonimenti, i
consigli. Se non si riesce con queste armi a ricondurre peccatori ed erranti sulla retta via, non resta
altro che espellere dalla società gli ostinati che non danno speranza di dare miglior frutto. Questa è
l’ultima risorsa del potere ecclesiastico, il quale non infligge altra pena se non la cessazione
dell’appartenenza del condannato a quella chiesa con la cessazione della relazione fra il corpo e il
membro amputato.
Giunti a questo punto, chiediamoci ora quali doveri e da parte di chi sussistano riguardo alla
tolleranza.
In primo luogo, dico che nessuna chiesa è tenuta in suo nome a conservare nel suo seno colui che
insiste a trasgredire anche dopo l’ammonimento le leggi stabilite in quella società; infatti se qualcuno
può violarle impunemente, la società è finita, perché queste sono le condizioni della comunione e il
legame che tiene unita la società. Bisogna però aver cura di non aggiungere al decreto di scomunica
un’ingiuria o una violenza che danneggi in qualche modo l’espulso nel corpo o nei beni. Infatti, (come
si è detto) la forza spetta totalmente al governante, e a nessun privato è permessa, se non per
respingere una violenza a lui fatta. La scomunica non toglie né può togliere alcunché dei beni civili
che possedeva privatamente. Tutte quelle cose riguardano la condizione civile e sono soggette alla
tutela del governante. La forza della scomunica consiste tutta nel fatto che, per dichiarazione della
volontà della società, si dissolve l’unione fra il corpo e una delle membra, e col venir meno di questa
relazione necessariamente cessa qualsiasi comunione in quelle cose di cui la società rende partecipi i
membri, cose a cui nessuno ha un diritto civile. Infatti, allo scomunicato non si fa nessun danno civile
se il ministro della chiesa non gli dà nella celebrazione eucaristica il pane e il vino, che sono comprati
non con il suo denaro ma con denaro altrui.
In secondo luogo, nessun privato deve in qualsiasi modo sottrarre ad un altro beni civili perché si
professa estraneo alla sua religione e suoi riti. Devono essere religiosamente rispettati tutti i diritti
che gli spettano come uomo e come cittadino: non sono queste cose dipendenti dalla religione, e che
sia cristiano o pagano, bisogna astenersi da ogni violenza. Ai doveri di giustizia va aggiunta una certa
misura di benevolenza e carità. Questo comanda il vangelo, suggerisce la ragione e la socialità umana
ispirata dalla natura. Il poveretto, se abbandona la retta via, fa danno solo a se stesso, ma per te è
innocuo, e quindi non deve essere punito da te venendo privato dei beni di questa vita perché credi
che sarà perduto nella vita a venire.
Ciò che ho detto della reciproca tolleranza fra privati in dissenso fra loro sulla religione voglio che
sia detto anche delle chiese particolari, che fra di loro sono in qualche modo persone private delle
quali l’una non ha alcun potere sull’altra, nemmeno nel caso (se ciò capita) che il governante civile
sia di questa o quella chiesa, dato che lo stato non può attribuire alcun nuovo diritto alla chiesa né
viceversa la chiesa allo stato; di modo che la chiesa, sia che il governante vi aderisca sia che
l’abbandoni, rimane sempre la stessa di prima, una società libera e volontaria e non acquisisce, per
l’adesione del governante, il potere della spada né, qualora questo l’abbandoni, perde il diritto che
prima aveva di insegnare e di scomunicare. Rimarrà sempre immutabile questo diritto di una società
volontaria di espellere quei suoi membri che riterrà necessario, ma non acquisisce alcuna
giurisdizione sugli estranei per l’adesione di chicchessia. E perciò la pace, l’equità e l’amicizia fra
chiese diverse, come fra privati, sono sempre ed equamente da coltivare senza prerogativa di alcun
diritto.
Per illustrare la cosa con un esempio, poniamo che a Costantinopoli vi siano due chiese, una di
rimostranti e un’altra di antirimostranti. Dirà forse qualcuno che una delle due ha il diritto di spogliare
della libertà o dei beni (ciò che vediamo fare altrove) o punire con l’esilio o la pena di morte quegli
altri che dissentono da lei (perché hanno diverse dottrine o riti)? E intanto i turchi tacciono e ridono,
mentre dei cristiani perseguitano altri cristiani con crudeli torture. Se una di queste chiese ha il potere
di incrudelire sull’altra, chiedo quale delle due e in base a quale diritto. Si risponderà senza dubbio:
quella ortodossa contro quella errante o eretica. Questo è non dire nulla con parole grandi e
appariscenti. Qualsiasi chiesa è ortodossa per se stessa e per le altre errante o eretica; se poi crede che
le cose che crede siano vere, condanna per i loro errori quelle che sostengono cose diverse. E così la
contesa fra le due sulla verità delle dottrine e sulla correttezza del culto è ad armi pari, e non può
essere risolta da nessuna sentenza di un giudice (inesistente a Costantinopoli come in ogni dove). La
soluzione della questione spetta unicamente al giudice supremo di tutti gli uomini, al quale soltanto
spetta anche il castigo dell’errante. Intanto pensino quanto più gravemente peccano coloro che
aggiungono, se non all’errore almeno alla superbia, l’ingiustizia, quando tormentano spudoratamente
i servi di un altro padrone che a loro non fanno alcun danno.
E se si potesse stabilire con certezza quale delle chiese in dissenso abbia le opinioni giuste sulla
religione, non per questo crescerebbe il potere della chiesa ortodossa di spogliare le altre, dato che
non vi è alcuna giurisdizione delle chiese sulle cose terrene e il ferro e il fuoco non sono strumenti
idonei per controbattere gli errori e per informare o convertire le menti degli uomini. Poni però che il
governante civile favorisca una delle parti e le voglia offrire la sua spada per castigare gli eterodossi
con il suo beneplacito nel modo che desidera. Forse qualcuno dirà che le chiese cristiane possono
ricevere dall’imperatore turco qualche diritto sui fratelli? Un infedele, che per sua autorità non può
punire dei cristiani per dottrine di fede, non può trasferire a una qualche società cristiana questa
autorità né dare un diritto che non ha. Pensa che la stessa regola valga in un regno cristiano. Il potere
civile è ovunque lo stesso e in mano a un principe cristiano può attribuire alla chiesa un’autorità non
maggiore che in mano a un pagano, cioè nessuna. Tuttavia è degno di nota che i più animosi fra questi
seguaci della verità e nemici degli errori, intolleranti degli scismi, non esprimono quasi mai questo
loro zelo per Dio di cui sono tutti infiammati se non quando hanno dalla loro parte il governante
civile. Solo se hanno il favore del governante, e quindi sono più forti, immediatamente va violata la
pace e la carità cristiana, altrimenti va coltivata la reciproca tolleranza. Quando sono più deboli sul
piano della forza civile, possono sopportare con pazienza il rischio di contagio dell’idolatria, della
superstizione, dell’eresia, dal quale in caso diverso temono tanto per sé e per la religione. E non si
dedicano intensamente a combattere gli errori che sono approvati dalla corte e dal governante, anche
se questo è il solo metodo di diffusione della verità, cioè con il peso delle ragioni e degli argomenti
unito a umanità e benevolenza.
Perciò né le persone né le chiese né infine gli stati possono avere alcun diritto di togliersi a vicenda i
beni civili e le cose mondane col pretesto della religione. Vorrei che chi è di altro parere riflettesse
quanta materia di contese e guerre offrono al genere umano, quanto incitamento a rapine, stragi, odi
eterni; non potrebbero stabilirsi o durare sicurezza e pace, non dico amicizia, fra gli uomini se dovesse
affermarsi l’opinione che il governo si fonda sulla grazia e che la religione va diffusa con la forza
delle armi.
In terzo luogo. Vediamo che cosa richieda il dovere della tolleranza a coloro che si distinguono per
qualche funzione ecclesiastica dal resto dei fedeli che chiamano laici, che siano vescovi, sacerdoti,
presbiteri, ministri, o qualunque altro nome assumano. Non è questa la sede per discutere l’origine
dell’autorità o della dignità del clero; dico però che, quale che sia l’origine della loro autorità, essendo
ecclesiastica deve restare confinata entro i limiti della chiesa e non può estendersi in qualsiasi modo
alle cose civili, dato che la chiesa è del tutto separata dallo stato e dalle cose civili. I confini sono fissi
e non modificabili da ambo i lati. Mescola cielo e terra, le cose più diverse, chi volesse confondere
queste due società completamente diverse per origine, fine, materia. E per questa ragione nessuno,
anche se rivestito di qualsivoglia funzione ecclesiastica, può privare col pretesto della religione un
uomo non appartenente alla sua chiesa o fede della vita, della libertà o di qualsiasi parte dei beni
terrestri. Ciò che infatti non è lecito alla chiesa non può essere lecito per diritto ecclesiastico a
qualsiasi membro.
E non è sufficiente che gli ecclesiastici si astengano dalla violenza e dalla rapina e da ogni forma di
persecuzione; chi si proclama successore degli apostoli e ha ricevuto il carisma del magistero è tenuto
piuttosto a ricordare ai suoi la pace e i doveri di benevolenza nei confronti di tutti gli uomini: sia gli
ortodossi sia gli erranti, sia coloro con cui sono d’accordo sia coloro che sono estranei alla loro fede
o ai loro riti, ed esortare alla carità, mansuetudine, tolleranza tutti, sia privati cittadini sia persone che
coprono cariche pubbliche (se ve ne sono nella loro chiesa), e smorzare tutta l’accesa avversione
contro gli eterodossi che ha acceso nelle menti o lo zelo degno di miglior causa di ognuno per la sua
religione e setta o la furberia altrui. Non dico come e quanto frutterebbe sia alla chiesa sia allo stato
che dai pulpiti risuonasse la dottrina della pace e della tolleranza perché non sembri che io abbia fatto
affermazioni pesanti contro coloro la cui dignità non vorrei fosse sminuita da nessuno, tanto meno da
loro stessi. Dico però che dovrebbe avvenire questo, e se qualcuno che si proclama ministro della
parola di Dio e nunzio della pace evangelica, insegna altre cose, non conosce o trascura il compito
che gli è stato affidato, del quale dovrà render conto un giorno al principe della pace. Se bisogna
esortare i cristiani ad astenersi dalla vendetta, anche se tormentati da ripetute offese fino a settanta
volte sette, quanto più coloro che non hanno subito nulla da un altro devono trattenersi da ogni ira e
violenza e aver somma cura di non fare danno in qualsiasi modo a coloro dai quali non sono stati in
nessun modo danneggiati, soprattutto di non fare del male ad altri che fanno soltanto i fatti loro e si
preoccupano solo di una cosa: adorare Dio nel modo che, non badando alle opinioni umane, credono
sarà più gradito a Dio stesso e abbracciano quella religione che prospetta loro la speranza più grande
di salvezza eterna? Se si tratta del patrimonio o della salute, ognuno ha diritto di decidere da sé che
fare delle cose sue e seguire quella che gli sembra la condotta migliore. Nessuno si lamenta della
cattiva amministrazione del patrimonio del vicino, nessuno si adira con chi sbaglia nel seminare i
campi o nell’accasare la figlia, nessuno richiama chi spende tutto all’osteria: che demolisca,
costruisca, spenda a modo suo è cosa lecita su cui non c’è da ridire; se invece non frequenta il tempio
pubblico e lì non si inginocchia nel modo dovuto, se non affida ai figli per l’istruzione religiosa a
questa o quella chiesa, si mormora, si grida, si accusa, e ognuno si nomina da sé vendicatore di così
grave delitto, e i fanatici a stento si trattengono dall’aggressione mentre lo si mette sotto processo e
la sentenza del giudice lo incarceri o gli espropri i beni. I predicatori di qualsiasi setta combattano gli
errori altrui per quanto possono con la forza delle argomentazioni ma risparmino gli uomini. E se
difettano della forza delle ragioni non ricorrano a strumenti scordati e di un’altra orchestra, su cui gli
ecclesiastici non devono esercitarsi; e non prendano a prestito dal governante i fasci e le scuri a
sostegno della loro eloquenza e dottrina perché, mentre si fanno del loro amore della verità, il loro
zelo troppo acceso dal ferro e dal fuoco non divenga indizio di desiderio di potere. Infatti, non sarà
facile convincere uomini prudenti che essi sinceramente e ansiosamente desiderano che il fratello sia
salvo dal fuoco della geenna nel mondo a venire quando ad occhi asciutti e con animo ben disposto
in questo mondo lo consegna al boia per bruciarlo vivo.
In quarto luogo. Bisogna da ultimo discutere i compiti del governante, che sulla tolleranza sono
certamente del massimo rilievo.
Abbiamo già dimostrato che al governante non spetta la cura delle anime, intendo una cura autorevole
(se si può così dire) cioè che si esercita comandando con le leggi e costringendo con le pene; una cura
caritatevole che consiste nell’insegnare, ammonire, persuadere non può essere negata a nessuno. E
quindi è e deve restare in mano a ciascuno la cura della propria anima. Dirai: e se trascura la cura
della propria anima? Rispondo: e se trascura la salute e il patrimonio, che sono cose più strettamente
di competenza del governante? Forse che il governante prenderà cura emanando un decreto in
proposito che non divenga povero o malato? Le leggi tentano per quanto è possibile di difendere i
beni e la salute dei sudditi dalla violenza e dalla frode altrui, non dalla negligenza e dissipazione dei
proprietari. Nessuno può essere costretto controvoglia a stare in buona salute e ad arricchire.
Controvoglia neppure Dio salverà nessuno. Poni però che il principe voglia costringere i sudditi ad
arricchirsi o ad aver cura del vigore del corpo. Forse che si stabilirà per legge che ci si debba far
visitare solo dai medici romani e ognuno sarà tenuto a vivere secondo le loro prescrizioni? Non si
potrà prendere alcun medicamento o pietanza che non siano stati preparati in Vaticano o usciti dal
laboratorio ginevrino? O perché le loro case siano ricche e fastose, forse saranno tutti obbligati per
legge a praticare il commercio o la musica? Ognuno diverrà oste o fabbro, mestieri con i quali alcuni
mantengono la famiglia piuttosto bene e si creano un patrimonio? Ma dirai: le arti del guadagno sono
mille, ma una sola la via della salvezza. Ben detto, specialmente da parte di coloro che vogliono
costringere a questa o quella via; infatti se ve ne fosse più di una non si troverebbe neppure il pretesto
per costringere. Ma se io secondo la geografia sacra mi dirigo con tutte le forse per la retta via a
Gerusalemme, perché vengo percosso perché cammino magari non calzando coturni o non lavato in
un certo modo o con un certo taglio di capelli, perché in viaggio mangio carne, o mi nutro in un modo
adatto allo stomaco e alla salute, perché evito certe vie laterali che mi sembra finiscano in precipizi o
roveti? O, fra i diversi percorsi che vi sono nella stessa via e che vanno alla stessa meta, scelgo quello
che sembra meno tortuoso o fangoso? O perché alcuni sono sembrati meno ragionevoli, altri più
troppo bisbetici per prenderli volentieri come compagni di strada, o perché ho o non ho una guida che
indossa la mitria e la stola bianca? Ora, se esaminano la questione nella giusta luce, vi sono molte
cose del genere di importanza marginale per le quali i fratelli cristiani che hanno le stesse giuste
opinioni sugli elementi essenziali della religione si scontrano così aspramente e che, fatta salva la
religione e la salvezza delle anime, purché non si dia spazio alla superstizione o all’ipocrisia,
potrebbero venire osservate o omesse.
Concediamo pure ai fanatici che condannano tutto ciò che è diverso da loro che da queste circostanze
traggono origine vie diverse che portano a mete diverse. Che ne discende? Sia pure una sola fra queste
la via che porta alla salvezza. Anche così, fra le mille che gli uomini imboccano, si resta in dubbio su
quale sia quella retta: né la preoccupazione per la cosa pubblica né il diritto di emanare leggi rende la
via che conduce al cielo nota con più certezza al governante di quanto la rende la sua indagine al
privato. Mi trascino un corpo indebolito e sofferente di una grave malattia, di cui supponiamo esistere
un’unica cura a me ignota. Spetta per questo al governante prescrivere una medicina, solo perché ne
esiste una sola e non si sa quale sia fra le tante? Siccome mi resta un’unica cosa da fare per evitare la
morte, sarà allora la cosa giusta da fare quella che mi indica il governante? Quelle cose che vanno
indagate da ognuno con cura, saggezza, giudizio, riflessione e sincerità non vanno lasciate a una
categoria particolare di uomini come se le appartenesse. I principi nascono superiori per potere ma
eguali per natura agli altri mortali e il diritto o l’arte di regnare non portano con sé conoscenza certa
di altre cose e tanto meno della vera religione. Se fosse così, come mai i signori dei diversi paesi
differiscono tanto fra loro in materia di religione?
Concediamo che fosse verosimile che la via verso la vita eterna fosse più nota al principe che ai
sudditi, o almeno che fosse più sicuro e conveniente in una materia tanto incerta attenersi ai suoi
comandi. Dirai allora: se ti comandasse di guadagnarti da vivere con il commercio, rifiuteresti perché
dubiteresti di guadagnare a sufficienza con questo mestiere? Rispondo: farei il commerciante per
ordine del principe, perché se andasse male egli ha il potere di risarcire abbondantemente in altro
modo l’investimento e la fatica perduti nel commercio; e se (come afferma) volesse tenere lontane da
me fame e povertà lo potrebbe fare facilmente se la cattiva fortuna nel commercio si fosse mangiata
tutte le mie sostanze. Ma ciò non si può fare a proposito della vita futura. Se in questo campo avrò
mal riposto la mia fatica, se avrò sperato ingiustificatamente, il governante non potrà mai risarcire il
danno, togliere il male, e ricompensarmi né in parte né tanto meno in tutto. Con quali garanzie si
potrà esser certi dell’accesso al regno dei cieli? Dirai forse che non è al governante civile che lasciamo
il giudizio certo che tutti devono seguire sulle cose sacre ma alla chiesa. Il governante civile ci
comanda e impone con la sua autorità che tutti si attengano a ciò che la chiesa ha stabilito e che non
facciano o credano nelle cose sacre null’altro che ciò che insegna la chiesa, di modo che il giudizio
spetti alla chiesa, e lo stesso governante le fa ossequio e lo pretende dagli altri. Rispondo: chi non
vede che il nome della chiesa era venerabile al tempo degli apostoli, ma che se ne è fatto uso non
raramente nei secoli successivi per fare confusione? Almeno in questa questione non ci è di nessun
aiuto. Io affermo che quell’unico angusto sentiero che conduce al cielo non è più nota al governante
che ai privati cittadini, e perciò non posso con tranquillità seguire come guida colui che, potendo
essere altrettanto ignaro della via, non può non essere certamente meno preoccupato della mia
salvezza di quanto lo sia io stesso. Fra tanti re del popolo ebraico quanto ve ne furono che non
avrebbero fatto deviare dal vero culto di Dio nell’idolatria un israelita che l’avesse seguito e che per
questa obbedienza cieca sarebbe caduto certamente nella rovina? Tu invece mi dici di stare di buon
animo, mi dici che la soluzione è sicura; infatti il governante emana e sancisce in materia di religione
non i decreti suoi ma quelli della chiesa. Ma chiedo: di quale chiesa? Di quella che il principe ha
ritenuto opportuno. E allora non mette in mezzo il suo giudizio in materia religiosa colui che mi
costringe a stare in questa o quella chiesa con la legge, la pena, la forza? Che differenza fa se egli
stesso mi guida o se mi affidi ad altri che mi guidino? In entrambi i casi dipendo egualmente dalla
sua volontà e decide lui sulla mia salvezza. Quanto più forte sarebbe stata la posizione di un ebreo
che per decreto del re si fosse fatto adoratore di Baal se gli si fosse detto che il suo re non aveva
deciso nulla in materia di religione a suo arbitrio, non aveva ingiunto nulla ai sudditi in fatto di culto
divino se non ciò che era stato approvato come volontà divina dal consesso dei sacerdoti di quella
religione? Se la religione di una chiesa fosse vera e salvifica solo perché capi, sacerdoti e fedeli di
quella setta la esaltano in ogni modo, allora quale mai sarà erronea, falsa e dannosa? Della fede dei
sociniani dubito, dei papisti e dei luterani mi è sospetto il culto: forse che è per me soluzione sicura
l’adesione a questa o quella chiesa per ordine del governante perché egli non stabilisce nulla in
materia di religione se non in base alle decisioni dei dottori di questa chiesa?
Tuttavia, a dire il vero, più facilmente si adatta la chiesa (se dobbiamo così chiamare i decreti di
un’assemblea di ecclesiastici) alla corte che la corte alla chiesa. Come si sia comportata la chiesa
sotto un principe ortodosso o ariano è ben noto. Ma se questi sono esempi troppo lontani, la storia
inglese ci offre esempi più recenti di come gli ecclesiastici con elegante solerzia adattavano le
decisioni, gli articoli di fede, il culto, ogni cosa a un cenno del principe sotto Enrico, Edoardo, Maria,
Elisabetta, principi che avevano opinioni e davano comandi tanto diversi in materia di religione che
nessuno che non sia pazzo (per no dire ateo) oserebbe dire che un uomo onesto e adoratore del vero
Dio possa, fatta salva la coscienza, fatta salva l’adorazione di Dio, adeguarsi ai loro decreti in materia
di religione. Ma che bisogno vi è di tante parole? Se il re, sia basandosi sul proprio giudizio sia
basandosi sull’autorità ecclesiastica e l’opinione altrui, volesse imporre leggi a una religione diversa
dalla sua sarebbe la stessa cosa. Il giudizio degli ecclesiastici, i cui dissensi e inimicizie sono ben
noti, non è più affidabile, e la loro approvazione, da qualunque parte provenga, non può aggiungere
alcuna forza al potere civile. Vale però la pena di notare che i principi non hanno l’abitudine di tenere
in alcun conto il parere degli ecclesiastici che non sostengono la loro fede e il loro culto. Ma, ciò che
è il punto principale e risolutivo, anche se l’opinione del governante sulla religione fosse migliore e
la via che comanda di intraprendere autenticamente evangelica, se di ciò non fossi persuaso in
coscienza, ciò non sarà per me salvifico. Nessuna via sulla quale mi incamminassi contro la mia
coscienza mi condurrà mai al paradiso. Posso arricchirmi con un mestiere che non mi piace, posso
guarire con medicine di cui dubito, ma con una religione di cui dubito, con un culto che non mi piace
non posso salvarmi. È inutile che colui che non vi crede assuma certe usanze esteriori, perché occorre
che sia gradito a Dio per la fede e la sincerità interiore. Inutilmente si propina una medicina, per
quanto eccellente, per quanto sperimentata su altri, se lo stomaco la rigetta non appena assunta, e non
bisogna fare assumere controvoglia un farmaco perché questo, per via della reazione di rifiuto
dell’organismo, si trasformerà in veleno. Per quanto si possa mettere in dubbio ogni cosa in materia
di religione, è certo per lo meno questo, che nessuna religione, che io non credo sia vera, mi può
essere vera o utile. E perciò è vano che il governante costringa i sudditi alla sua forma di culto con il
pretesto della salvezza dell’anima: se credono verranno spontaneamente, se non credono, anche se
verranno, saranno comunque dannati. E perciò per quanto tu dichiari di volere l’altrui bene, per
quanto ti dia da fare per la sua salvezza, l’uomo non può essere costretto alla salvezza: alla fin fine
va lasciato a sé stesso e alla sua coscienza.
In tal modo abbiamo infine uomini libero dal dominio altrui in materia di religione: che faranno
allora? Tutti riconoscono che Dio va adorato pubblicamente, perché in caso contrario perché mai ci
raccoglieremmo in adunanze pubbliche? Gli uomini quindi, riconosciuta la loro libertà, devono
entrare a far parte di una società ecclesiastica per tenere adunanze non soltanto per la reciproca
edificazione ma anche per professare pubblicamente di essere adoratori di Dio e praticare quel culto
alla maestà divina di cui siano convinti e che non credano sia sgradito a Dio, per allettare gli altri
all’amore della religione e della verità con la purezza della dottrina e la sobria bellezza dei riti, e
svolgere tutto ciò che non può essere svolto in privato dai singoli.
Chiamo chiese queste società religiose che il governante deve tollerare; infatti il popolo così radunato
non ricerca altro se non ciò che è lecito ricercare ai singoli uomini, cioè della salvezza dell’anima; e
su questo punto non vi è alcuna distinzione fra la chiesa di corte e le altre da lei diverse.
Ma, dato che in ogni chiesa bisogna considerare soprattutto due cose, cioè il culto esterno, ovvero i
riti, e i sogni, bisogna trattare separatamente le due cose, perché risulti con maggiore chiarezza quale
sia il fondamento della tolleranza universale.
In primo luogo. Il governante non può, né nella sua chiesa né (ciò che è molto meno lecito) nella
chiesa altrui stabilire con la legge civile che si debbano praticare certi riti ecclesiastici e cerimonie
nel culto di Dio; non solo perché sono libere società, ma qualunque cosa venga offerta a Dio nel culto
divino, essa è da ritenere plausibile per la sola ragione che i fedeli ritengono che sarà gradita a Dio.
Qualunque cosa venga compiuta con quella fiducia non è né lecita né gradita a Dio. È infatti
incompatibile che se a qualcuno si concede la libertà di religione, il cui fine è piacere a Dio, gli si
comandi di dispiacere a Dio nel culto stesso. Dirai: forse che quindi negherai al governante il potere
nelle cose indifferenti, un potere che viene ammesso da tutti e tolto il quale non resterà più alcuna
materia su cui legiferare? Rispondo: concedo che le cose indifferenti, e forse solo queste, sono
soggette al potere legislativo.
1. Non ne discende però che sia lecito al governante stabilire qualsiasi cosa voglia su qualsiasi cosa
indifferente. Il criterio della legislazione è l’utilità pubblica. Se qualcosa non è vantaggioso alla
collettività, per quanto sia cosa indifferente, non può di punto in bianco venire fatto oggetto di
legislazione.
2. Cose che sono per propria natura indifferenti sono poste al di fuori della giurisdizione del
governante quando vengono trasposte all’ambito della chiesa e del culto divino, perché in quell’uso
non hanno alcuna connessione con gli affari civili: laddove si tratta solo della salvezza delle anime,
non importa né al prossimo né allo stato che si pratichi questo o quel rito. L’osservanza o l’omissione
di cerimonie in adunanze religiose non va contro né può andar contro la vita, libertà, proprietà altrui.
Per esempio, poniamo che sia cosa per sua natura indifferente lavare un neonato con l’acqua. Si
conceda che sia lecito al governante legiferare in proposito, a patto che sia utile un lavaggio di tal
genere per guarire o prevenire una qualche malattia alla quale vadano soggetti i neonati, e che creda
anche che sia cosa di tanta rilevanza da legiferare in proposito. Forse che qualcuno dirà che sia
altrettanto lecito al governante stabilire per legge che anche che i neonati vadano lavati al sacro fonte
dal sacerdote per la purificazione delle anime? Oppure che siano iniziati a qualche culto? Chi non
vede a colpo d’occhio che queste cose sono del tutto diverse? Poni che sia figlio di un ebreo, e la cosa
parla da sé. Che cosa infatti vieta che un governante cristiano abbia sudditi ebrei? E se riconosci che
non va fatto a un ebreo questo torto, in una cosa per sua natura indifferente, cioè costringerlo a fare
nel culto religioso qualcosa di contrario alle sue convinzioni, affermi che questo va fatto a un
cristiano?
3.Le cose per loro natura indifferenti non possono essere rese parte del culto divino per una decisione
umana, e ciò per la ragione stessa che sono indifferenti. Infatti, dato che le cose indifferenti non sono
atte per alcuna loro qualità propria a propiziare la Maestà divina, nessuna autorità umana è in grado
di arrecare loro valore, di modo che possano servire a conciliarsi Dio. Nella vita comune è lecito
quell’uso delle cose per loro natura indifferenti che Dio non abbia proibito, di modo che in queste vi
è spazio per l’esercizio dell’autorità umana, ma non vi è la stessa libertà nelle cose della religione.
Nel culto divino le cose indifferenti non sono lecite per altra ragione se non che sono stati istituite da
Dio, e Dio ha attribuito loro con un decreto la dignità di fare parte di quel culto che la Maestà divina
si degnerà di approvare e di accettare da omiciattoli e peccatori. E a Dio che chiedesse indignato:
«Chi l’ha ordinato?» basterà rispondere che l’ha comandato il governante. Se la giurisdizione civile
si estendesse fino a questo punto, che cosa non sarà lecito in religione? Quale accozzaglia di riti, quali
scoperte superstiziose non dovranno venire adottate dai fedeli, soltanto perché sostenute dall’autorità
del governante, anche se disapprovate dalla coscienza, dato che la maggior parte di esse consiste
nell’uso a fini religiosi di cose per loro natura indifferenti e non pecca se non per il fatto di non avere
Dio come autorità che le ha stabilite? L’aspersione con acqua, l’uso di pane e vino, sono cose
sommamente indifferenti per loro natura e nella vita comune; forse che queste cose avrebbero potuto
venire introdotte nella liturgia e divenire parte del culto divino senza una disposizione divina? Se ha
potuto fare ciò un potere umano o civile, perché non avrebbe potuto anche comandare come parte del
culto divino che nell’assemblea liturgica si pasteggiasse a base di pesce e birra, si spargesse nel
tempio il sangue di bestie sgozzate, si purificasse con l’acqua o con il fuoco, e un’infinità di altre cose
del genere che, pur essendo indifferenti fuori della religione, se introdotte nella liturgia senza autorità
divina, sono altrettanto offensive a Dio dell’immolazione di un cane? Infatti, quale differenza c’è fra
un cane e un caprone rispetto alla natura divina, diverso in modo altrettanto infinito da ogni cosa
materiale, se non che Dio ha voluto che un genere di animali e non un altro venisse usato nelle
cerimonie sacre e per il suo culto? Vedi quindi che le cose che stanno in mezzo, per quanto soggette
al potere civile, non possono tuttavia solo per questo venire introdotte nella liturgia e venire imposte
alle adunanze religiose, perché nel culto sacro cessano immediatamente di essere indifferenti. Chi
pratica il culto di Dio, lo adora con l’animo, allo scopo di compiacerlo e propiziarselo; questa cosa
però non può farla colui che offre a Dio, per comando di un altro, ciò che crede che spiacerà alla
Maestà divina perché lei non l’ha comandato. Sfidare Dio di proposito non significa propiziarselo,
ma è una esplicita offesa incompatibile con la ragion d’essere del culto.
Dirai: se nulla nel culto divino è lasciato all’arbitrio umano, in quale modo si attribuisce alle chiese
stesse un potere di stabilire luoghi, tempi eccetera? Rispondo: nel culto religioso altra cosa è la parte,
altra cosa la circostanza. È parte ciò che si crede sia richiesto da Dio e a lui piaccia, ragion per cui
diviene necessario. Sono circostanze quelle cose che, anche se in genere non possono mancare nel
culto, tuttavia non ne è definito l’aspetto preciso, e quindi sono indifferenti: del qual genere sono il
luogo e il tempo, l’abito dell’officiante la posizione del corpo, dato che su queste cose la volontà
divina non ha comandato nulla; ad esempio il tempo e il luogo e l’abito dei celebranti presso gli ebrei
non erano mere circostanze, ma parte del culto, e se si fosse tolto o modificato qualcosa in queste
cose non avrebbero potuto sperare che i loro riti fossero graditi a Dio. Invece per i cristiani, per i quali
vige la libertà evangelica, queste sono pure circostanze del culto che la deliberazione di ogni chiesa
può mettere in uso, secondo che essa creda che queste in un modo o nell’altro servano più
all’edificazione con ordine e decoro. Tuttavia, per coloro i quali sono persuasi che anche dopo
l’annuncio evangelico il giorno domenicale sia stato da Dio riservato per il suo culto, questo tempo
non è una circostanza ma una parte del culto divino, che non può venire né mutata né trascurata.
In secondo luogo. Il governante non può non può proibire a qualunque chiesa i riti sacri e il culto in
essa accettati nelle adunanze religiose, perché in tal modo abolirebbe la chiesa stessa, il cui fine è
adorare liberamente Dio secondo il suo rito. Dirai: forse che volessero immolare un neonato, se
volessero (ciò che una volta fu falsamente detto dei cristiani) compiere stupri collettivi, forse che
queste e cose simili, perché vengono fatte in un’adunanza ecclesiastica, devono venire tollerate dal
governante? Rispondo: queste cose non sono lecite a casa e nella vita civile, e perciò anche in
un’adunanza o nel culto religioso. Se però volessero immolare un vitello, nego che ciò debba venire
proibito per legge. Melibeo, al quale appartiene il bestiame, può macellare a casa il suo vitello e
bruciarne la parte che vuole: non viene fatto danno a nessuno, non viene sottratto nulla alla proprietà
altrui. Perciò nello stesso modo nel culto divino è lecito immolare un vitello: stabilire poi che sia cosa
gradita a Dio è affar loro. Compito del governante è soltanto badare a che non avvenga nulla di annoso
allo stato, che non sia recato danno alla vita o ai beni altrui, e quindi ciò che si può destinare a un
banchetto, lo si può destinare anche a un sacrificio. E se fosse di pubblico interesse non spargere
sangue bovino per ricostituire gli armenti decimati da qualche epidemia, chi non vedrebbe che è lecito
al governante proibire a tutti i cittadini qualsiasi uccisione di vitelli per qualsiasi uso? Ma in tal caso
si farebbe una legge non in materia religiosa, ma politica, e non si proibirebbe il sacrificio del vitello,
ma il suo abbattimento. Vedi allora che differenza c’è fra la chiesa e lo stato. Ciò che è lecito nello
stato, non può venire proibito dal governante nella chiesa, e che ciò che è permesso agli altri sudditi
nella vita quotidiana, in nessun modo si può o si deve proibire per legge che sia fatto in un’adunanza
ecclesiastica e dagli iniziati di una o un’altra setta. E a casa uno può assumere pane o vino adagiato
o inginocchiato, la legge civile non deve vietare che lo si faccia nei riti, anche nel caso che lì l’uso
del vino e del pane sia diverso e in chiesa venga trasferito al culto divino e a sensi mistici. Quelle
cose che sono di per sé nocive alla città nella vita comune vengono proibite da leggi emanate in vista
del bene comune, e quelle stesse cose non possono essere lecite in chiesa in base alla liturgia e
guadagnarsi l’impunità. Ma le autorità civili devono badare in sommo grado a non opprimere la
libertà di qualche chiesa con il pretesto dell’utilità della società politica; invece quelle cose che nella
vita comune e fuori del culto di Dio sono lecite non possono venire proibite nel culto divino o nei
luoghi sacri dalla legge civile.
Dirai: e se una chiesa fosse idolatra, forse anch’essa va tollerata dal governante? Rispondo: quale
diritto si può dare al governante di reprimere una chiesa idolatra che a suo tempo e luogo non manderà
in rovina una chiesa ortodossa? Infatti, conviene ricordare che ovunque il potere civile è lo stesso e
che per ogni principe la sua religione è ortodossa. Quindi, se al governante va concesso a Ginevra il
potere in materia religiosa di sradicare con la violenza la religione ritenuta falsa e idolatra, nel paese
confinante con lo stesso diritto opprimerà quella ortodossa e nelle Indie quella cristiana. O il potere
civile può cambiare tutto nella religione secondo l’opinione del principe o non può cambiare nulla.
Se è lecito introdurre qualcosa nelle cose sacre con la legge, la forza, le pene, invano si cercherà un
limite: sarà lecito ottenere con le stesse armi ogni cosa secondo il criterio di verità che il magistrato
avrà stabilito. Nessuno degli uomini va spogliato dei suoi beni terreni a causa della religione, e
nemmeno i nativi americani sudditi di un principe cristiano vanno privati della vita o dei beni perché
non aderiscono alla religione cristiana. Se credono di compiacere Dio e salvarsi con i riti tradizionali
sono da lasciare a Dio e a se stessi. Riprenderò la cosa dall’inizio. Giunse in un territorio di pagani
un piccolo e debole gruppo di cristiani, privo di ogni cosa: gli stranieri chiedono agli indigeni, uomini
ad uomini, come è equo, le cose necessarie alla vita: vengono date le cose necessarie, vengono
concessi luoghi di abitazione e le due popolazioni si fondono in un popolo solo. La religione cristiana
mette radici, si diffonde, ma non diviene mai la più forte, e fino a questo punto si coltiva la pace,
l’amicizia, la fiducia e vengono rispettati eguali diritti: Infine, essendo passato il governante dalla
loro parte, i cristiani diventano più forti; allora alla fine i patti sono da violare, i diritti da non rispettare
perché si elimini l’idolatria, e pagani innocui e scrupolosamente osservanti del diritto, a meno che
vogliano abbandonare i loro antichi riti e passare a nuovi riti venuti da fuori, anche se non hanno
trasgredito in alcun modo i buoni costumi e la legge civile, vanno spogliati dei beni e delle terre dei
loro avi; e soltanto allora si rivela che cosa ispiri lo zelo per la chiesa – beninteso unito all’amore del
potere – e si mostra apertamente quanto la religione e la salvezza delle anime si presti a coprire la
rapina e l’intrigo.
Se credi che in qualche luogo si debba estirpare l’idolatria con le leggi, le pene, il ferro e il fuoco,
questa storia, con altro nome, racconta di te. I pagani in America non perdono le loro cose a maggior
diritto che in qualche regno europeo i cristiani in qualche modo dissenzienti dalla chiesa di corte: non
più qui che lì si debbono violare o modificare i diritti civili a causa della religione.
Dirai: l’idolatria è peccato, e perciò da non tollerare. Rispondo: se dici che l’idolatria è peccato, e
perciò da evitare con cura, fai un ragionamento giustissimo; ma non se dici che è peccato e quindi va
punita dal governante. Infatti, non è compito del governante mettere in guardia con le leggi o
impugnare la spada contro tutte le cose che crede siano peccato agli occhi di Dio. L’avarizia, il non
soccorrere il bisogno altrui, l’ozio e molte altre cose simili, sono a parere di tutti peccato, ma chi mai
le ha ritenute mai tali da essere punite dal governante? Siccome non si fa alcun danno alla proprietà
altrui, siccome non disturbano la pace pubblica, in quegli stessi luoghi dove le si riconosce come
peccati non le si punisce con le leggi: ovunque le leggi tacciono delle menzogne e perfino degli
spergiuri, se non in certi casi in cui non si considera l’offesa alla maestà divina o la nefandezza della
colpa, ma il danno causato o alla stato o al prossimo. E se a un principe pagano o maomettano
sembrerà che la religione cristiana sia falsa e non gradita a Dio, forse che con lo stesso diritto è da
estirpare anche la presenza dei cristiani?
Dirai: secondo la legge mosaica gli idolatri sono da sterminare. Rispondo: certamente secondo la
legge mosaica, ma questa non vincola i cristiani. Anche tu non porti ad esempio tutto ciò che viene
imposto per legge agli ebrei; e non ti gioverà ricorrere alla distinzione comune, ma irrilevante su
questo punto, fra legge morale, giudiziaria e rituale. Infatti, una qualsiasi legge positiva non obbliga
se non coloro riguardo ai quali è stata emanata. Lo «Ascolta Israele» limita a quel popolo
l’obbligazione della legge mosaica. Questo basterebbe contro coloro che vogliono giustificare la pena
di morte contro gli idolatri in base alla legge mosaica. È il caso però di svolgere un po’ più
ampiamente questo argomento.
Lo status degli idolatri nei confronti dello stato ebraico era duplice: in primo luogo, quello di coloro
che, iniziati al culto mosaico e divenuti cittadini di quello stato, avevano abbandonato il culto del Dio
di Israele. Questi venivano trattati da colpevoli di lesa maestà. Infatti, lo stato degli ebrei era di gran
lunga diverso dagli altri in quanto era fondato sulla teocrazia; e non vi fu e non poté mai essere alcuna
distinzione fra chiesa e stato come avvenne dopo Cristo; le leggi sul culto dell’unica e invisibile
Maestà divina furono per quel popolo leggi civili e parte di un regime politico nel quale Dio stesso
era legislatore. Se mi puoi mostrare qualche stato basato su un diritto di questo genere, ammetterò
che in esso le leggi ecclesiastiche divengono leggi civili e anche che tutti i sudditi possono e devono
venire tenuti lontani da un altro culto dalla spada del governante. Ma in base al Vangelo non esiste
alcuno stato cristiano. Ammetto che vi sono molte nazioni che sono passate alla fede cristiana,
conservando le antiche istituzioni politiche, sulle quali Cristo non stabilisce nulla con la sua legge.
Egli insegnò con quale fede e con quali costumi i singoli avrebbero ottenuto la vita eterna, ma non
istituì alcuno stato e non introdusse alcuna nuova costituzione politica peculiare per il suo popolo,
non armò magistrati con la spada con la quale costringere gli uomini alla fede o al culto che propose
ai suoi seguaci o tenerli lontani dagli insegnamenti di un’altra religione.
In secondo luogo, coloro che non facevano parte dello stato d’Israele non venivano costretti con la
forza a passare ai riti mosaici; anzi, nello stesso paragrafo in cui si commina la morte agli israeliti
idolatri (Esodo 22, 20-21), la legge proibisce di sottoporre a vessazioni gli stranieri. Ammetto che si
era comandato di sradicare i sette popoli che possedevano la terra promessa d’Israele, ma ciò non era
stato fatto perché erano idolatri, e infatti, se fosse così, perché si sarebbero dovuti risparmiare i
moabiti e altre popolazioni anch’esse idolatre? Ma siccome Dio era re in modo particolare del popolo
d’Israele, non si poteva tollerare l’adorazione di un’altra divinità (ciò che costituiva propriamente
crimine di lesa maestà) nel suo regno, cioè nella terra di Canaan: una simile aperta defezione non era
in alcun modo compatibile con il potere di Jehovah* che in questa terra era chiaramente politico. Si
doveva perciò bandire dai confini del regno ogni idolatria perché con questa si riconosceva un altro
re, ovvero un altro Dio, ledendo il suo diritto di sovranità. Erano da espellere anche gli abitanti perché
agli israeliti fosse consegnata una terra libera e non contaminata; chiaramente per questa ragione gli
emim e gli hurriti furono sterminati dai discendenti di Esaù e di Lot e i loro territori chiaramente per
la stessa ragione concessi da Dio agli invasori, ciò che risulterà chiaro al lettore del capitolo secondo
del Deuteronomio. È lecita perciò l’espulsione di ogni idolatria dalla terra di Canaan, non la punizione
di tutti gli idolatri. Giosuè si impegnò a risparmiare tutta la famiglia di Rahab e tutto il popolo dei
gibeoniti. Fra gli ebrei vi furono prigionieri idolatri di ogni provenienza. Furono anche sottomesse e
ridotte a province da Davide e Salomone regioni oltre i confini della terra promessa fino all’Eufrate.
Fra tutti questi schiavi, fra tanti popoli sottoposti al potere ebraico, nessuno mai (da quanto leggiamo)
fu castigato per l’idolatria di cui certamente erano tutti colpevoli: nessuno fu costretto alla religione
mosaica e al vero culto di Dio con la coercizione. Se qualche proselita desiderava la concessione della
cittadinanza, insieme abbracciava anche le leggi, cioè la religione, della cittadinanza israelitica; ma
lo faceva spontaneamente, non costretto dalla forza di chi comandava, lo desiderava come privilegio,
non lo subiva controvoglia come prova di sottomissione. Nel momento in cui riceveva la cittadinanza,
contemporaneamente era soggetto anche alle leggi dello stato, dalle quali l’idolatria era proibita entro
i confini della terra di Canaan. Quella legge non stabiliva nulla per le regioni estere e per i popoli al
di là di quei confini.
Fin qui si è trattato del culto esterno; si tratterà ora della fede.
Le dottrine delle chiese sono alcune pratiche, altre speculative, e benché entrambe consistano nella
conoscenza della verità, le une tuttavia concernono l’opinione e l’intelletto, le altre in qualche modo
la volontà e i costumi. E quindi la legge civile non può in alcun modo introdurre in una chiesa cose
che riguardino i dogmi speculativi e i cosiddetti articoli di fede, che non richiedono null’altro se non
che vi si creda; infatti a che pro stabilire per legge ciò che non può fare neppure chi lo volesse con
tutto il cuore? Non sta alla nostra volontà credere che questa o quella cosa sia vera. Ma di questo si è
già detto abbastanza. Professi almeno di credere. Certo, si mentirà a Dio e agli uomini per la salvezza
della propria anima. Bella religione. Se il governante vuole salvare gli uomini in questo modo, sembra
che capisca ben poco quale sia la via della salvezza; se non lo fa per la loro salvezza, perché si cura
tanto degli articoli della religione da imporli per legge?
Quindi il governante non deve proibire che in una chiesa si accettino e insegnino certe opinioni
speculative perché queste non toccano mai i diritti civili dei sudditi. Se un papista crede che sia
realmente il corpo di Cristo quello che altri chiamano pane, non fa alcun danno al prossimo. Se un
ebreo non crede che il Nuovo Testamento sia parola di Dio, non lede alcun diritto civile. Se un pagano
dubita di entrambi i Testamenti, non è per questo da punire come cattivo cittadino. Che uno creda o
non creda queste cose, restano tutelati il potere del governante e i beni dei cittadini. Concedo
volentieri che queste sono opinioni false e assurde; però le leggi si curano non della verità delle
opinioni ma della protezione dei beni di ognuno e dello stato. E di questa cosa chiaramente non c’è
da lamentarsi. Si agirebbe bene nei confronti della verità se la si lasciasse a se stessa. Poco aiuto le
ha portato o mai le porterà la dominazione dei potenti ai quali non sempre è nota o gradita la verità;
non vi è bisogno della forza perché trovi l’accesso alle menti degli uomini e non la sia insegna con la
voce delle leggi. Sono gli errori a regnare grazie ad appoggi esterni. La verità, se non conquista
l’intelletto per luce propria, non può farlo per forza altrui. Ma su queste cose si è detto a sufficienza.
Bisogna passare alle opinioni pratiche.
La rettitudine dei costumi, in cui consiste una parte non piccola della religione e della devozione
sincera, riguarda anche la vita civile, e su di essa si basa insieme la salvezza delle anime e dello stato,
e perciò le azioni morali ricadono sotto la giurisdizione di entrambi i tribunali, sia quello interno sia
quello esterno, e sono soggette a entrambi i poteri, sai del reggitore civile, sia di quello domestico,
ossia del governante e della coscienza. A questo proposito bisogna quindi badare che uno non violi il
diritto dell’altro e che non sorga un dissidio fra il custode dell’anima e quello della pace. Ma se si
terranno presenti quelle cose che si sono dette sui limiti di entrambi, si risolverà facilmente tutta
questa questione.
Ogni mortale ha un’anima immortale, capace di eterna beatitudine o dannazione, la cui salvezza
dipende dal fatto se quelle cose che l’uomo in questa vita avrà fatto come cose che vanno fatte, e
quelle cose che avrà creduto come cose che vanno credute, siano necessarie e prescritte da Dio per
conciliarsi la Maestà divina. Ne discende: 1) che l’uomo è tenuto anzitutto ad osservarle e deve porre
tutta la sua cura, sforzo e diligenza nell’esaminarle ed eseguirle, dato che questa condizione mortale
non può in alcun modo venir paragonata con la condizione eterna. Ne discende anche: 2) che siccome
un uomo non viola mai il diritto di altri uomini con il suo culto erroneo, non fa danno ad altri se non
condivide le loro corrette opinioni sulle cose divine, e la sua dannazione non è una sottrazione indebita
all’altrui prosperità perché soltanto ai singoli spetta la cura della propria salvezza. Non vorrei però
che ciò venisse inteso nel senso che io voglia escludere ogni ammonizione caritatevole e lo sforzo di
confutare gli errori (che sono i doveri più elevati dei cristiani). Ognuno può fare uso di quante
esortazioni e argomentazioni vuole per la salvezza altrui; ma bisogna astenersi da ogni coazione
violenta e nulla in queste cose va fatto per comando. Nessuno in questa cosa è tenuto ad adeguarsi
agli ammonimenti o all’autorità altrui al di là di quanto gli sembra giusto: ad ognuno spetta il giudizio
ultimo sulla propria salvezza, perché si tratta di una cosa soltanto sua, e quindi agli interessi altrui
non può essere di alcun detrimento.
Oltre a un’anima immortale, l’uomo ha una vita in questo mondo, fragile e di incerta durata, per
mantenere la quale c’è bisogno di agi terreni, che possono essere acquisiti con la fatica e l’operosità
o che si sono già acquisiti.
Infatti, le cose che servono per vivere in modo confortevole non nascono spontaneamente. E quindi
la seconda preoccupazione dell’uomo riguarda questi beni. Ma siccome tale è l’ingiustizia degli
uomini che i più preferiscono godere dei frutti della fatica altrui che procurarseli con la propria, allora,
allo scopo di difendere i prodotti, come beni e ricchezze, o i mezzi per produrli, come la libertà e la
forza del corpo, l’uomo deve entrare in società con altri perché, con l’aiuto reciproco e l’unione del
forze, sia resa sicura ad ognuno la proprietà individuale di queste cose utili per la vita, lasciando nel
frattempo ad ognuno la cura della sua salvezza eterna, dato che la sua conquista non può essere aiutata
dagli sforzi di un altro né la perdita andare a danno di un altro, né la speranza essere strappata con la
forza. Dato però che gli uomini, radunati nella condizione civile, pattuendo reciproco aiuto per la
difesa dei beni di questa vita, possono tuttavia venire privati delle loro cose o dalla rapina e dalla
frode dei concittadini, o da un’aggressione di nemici esterni, si è cercato un rimedio a questo male
nelle armi, nelle ricchezze e nel numero dei cittadini, e a quell’altro si è cercato rimedio con le leggi,
e di tutte queste cose si è demandata da parte della società la cura e il potere ai governanti. Questa fu
l’origine, per questa funzione fu istituito, da questi limiti fu circoscritto il potere legislativo che è il
potere più alto di qualsiasi stato: quello di sovrintendere alle proprietà dei privati così come al popolo
nel suo insieme e al suo benessere collettivo, perché si sviluppi nella pace e nella ricchezza e per
quanto possibile sia, grazie alla propria forza, al sicuro da invasioni stranieri.
Ciò posto, è facile comprendere a quali fini risponda la prerogativa del governante di legiferare (cioè
al bene pubblico terrestre o modano, perché esso è l’unica ragione di entrare in società e l’unico fine
della istituzione dello stato) e quale libertà resti ai privati nelle cose private riguardanti la vita futura:
quella di fare ognuno quelle cose che crede siano gradite a Dio, dalla cui volontà dipende la salvezza
degli uomini. Infatti, si deve in primo luogo obbedienza a Dio e poi alle leggi. Ma dirai: che fare se
il governante comanda ciò che alla coscienza appare illecito? Rispondo: se lo stato è amministrato in
buona fede e le decisioni del governante sono indirizzate realmente al bene comune dei cittadini, ciò
accadrà raramente; nel caso in cui accada, affermo che il privato deve astenersi da un’azione che per
lui, secondo il dettame della coscienza, è illecita, ma deve sottoporsi alla sanzione, che per lui non è
cosa illecita subire. Infatti, il giudizio personale di ognuno su una legge emanata per il bene pubblico
e in materia politica non cancella l’obbligazione e non ha diritto alla tolleranza. Se invece la legge
vertesse su cose che esulano dall’ambito di competenza del governante, cioè costringessero il popolo
o una sua parte ad aderire a un’altra confessione religiosa, questa legge non obbligherebbe i
dissenzienti; infatti si è entrati nella società politica soltanto per conservare il possesso delle cose di
questa vita e per nessun altro fine. La cura della propria anima e delle cose celesti (che non tocca la
società politica e non può esserle sottoposta) resta di competenza di ogni privato. La tutela della vita
e delle cose che servono a questa vita è affare della società politica, e compito del governante la
conservazione di queste cose ai loro proprietari. Queste cose mondane non possono infatti essere date
o tolte a questi o quelli ad arbitrio del governante, e la loro proprietà privata non può venire cambiata
fra cittadini (neppure con una legge) per via della religione, che non riguarda in nessun modo i
concittadini in quanto essa, vera o falsa, non reca alcun danno agli altrui cittadini nelle cose mondane
(le quali soltanto sono soggette allo stato).
Ma dirai: e se il governante ritiene di fare questo per il bene pubblico? Rispondo: nello stesso modo
in cui il giudizio personale di ciascuno, laddove sia falso, non lo esonera in alcun modo
dall’obbligazione nei confronti delle leggi, così il giudizio (per così dire) personale del governante
non gli conferisce un nuovo diritto di emanare leggi nei confronti dei sudditi perché questo non gli è
stato concesso con l’istituzione dello stato, e nemmeno potrebbe venire concesso; e meno che mai se
il governante agisce così per arricchire i seguaci della sua setta con le spoglie degli altri. Domandi: e
se il governante ritiene che ciò che comanda rientri nei suoi poteri e sia utile allo stato e i sudditi
invece credono il contrario chi sarà giudice fra loro? Rispondo: solo Dio, perché fra legislatore e
popolo non ci sarà nel mondo alcun giudice. Dirò che in questo caso il solo arbitro è Dio, che nel
giudizio finale ricompenserà ciascuno secondo i suoi meriti, nella misura in cui si è adoperato
sinceramente e secondo giustizia per il bene pubblico e la pace e la pietà. Dirai: che si fa intanto?
Rispondo: bisogna in primo luogo prendersi cura dell’anima e adoperarsi in somma misura per la
pace, anche se vi sono pochi a credere che vi sia pace là dove vedono che si è creato il deserto. I
metodi usati da coloro che risolvono le dispute fra gli uomini sono due: uno è il diritto, l’altro la forza,
e per loro natura dove cessa l’uno inizia l’altro. Non mi propongo qui di esaminare la diversa
estensione dei diritti del governante presso i diversi popoli: so soltanto ciò che si suole fare quando
sorge un dissidio senza che vi sia un giudice. Dirai: quindi il governante farà con la forza ciò che
riterrà più desiderabile dal suo punto di vista. Rispondo: dici bene; tuttavia qui si discute della norma
dell’azione retta, non della soluzione di fatto dei casi dubbi.
Ma per scendere più nei particolari, affermo in primo luogo che il governante non deve tollerare
alcuna dottrina contraria alla società umana o ai buoni costumi necessari per conservare la società
politica. Ma esempi di queste dottrine sono rari in qualsiasi chiesa; nessuna setta giunga tal punto di
follia da giudicare di dover insegnare come dottrine della religione quelle dottrine che palesemente
sovvertono i fondamenti della società e quindi sono condannate dal giudizio di tutto il genere umano,
e a causa delle quali non possono essere al sicuro gli interessi, la tranquillità, il buon nome dei propri
seguaci.
In secondo luogo. È certamente più nascosto ma anche più pericoloso allo stato il male fatto da coloro
che pretendono per sé e per gli uomini della propria setta qualche prerogativa peculiare contro il
diritto dello stato, nascosto sotto involucri di parole ingannevoli. Quasi mai troverai chi insegni
apertamente e brutalmente che non si deve mantenere la parola data, che il principe possa essere
deposto da qualche setta, che il dominio su ogni cosa spetti a questa soltanto. Infatti, queste dottrine
presentate apertamente desterebbero subito l’avversione dei governanti e immediatamente farebbero
rivolgere l’attenzione dello stato a evitare che si propaghi ulteriormente questo male nascosto nel suo
seno. Si trovano però coloro che dicono lo stesso con altre parole. Infatti, che altro intendono coloro
che insegnano che non si deve mantenere la parola data agli eretici? Vogliono che sia loro concesso
il privilegio di venir meno alla parola data, dato che tutti quelli che sono estranei alla loro comunione
sono dichiarati eretici o possono esserlo quando se ne presenti l’occasione. Che i re scomunicati
decadano dal regno a che altro tende se non ad arrogarsi il potere di spodestare i re, dato che quelli
rivendicano il diritto di scomunica solo alla propria gerarchia? Che il potere si fondi sulla grazia
attribuisce alla fine il possesso di tutto ai sostenitori di questa opinione, che non danneggeranno se
stessi al punto di credere o dichiarare di non essere autenticamente devoti. Perciò non hanno alcun
diritto a venire tollerati dal governante questi e i loro simili che attribuiscono un privilegio o un potere
in materia politica al di là degli altri mortali ai fedeli, ai religiosi, agli ortodossi, cioè a se stessi, che
rivendicano per sé con il pretesto della religione un qualche potere sugli uomini estranei alla loro
comunione ecclesiastica o in qualunque modo separati, come non l’hanno neppure quelli che non
vogliono insegnare che gli altri devono essere tollerati anche se dissentono da loro in materia
religiosa. Che cosa insegnano infatti questi e i tutti quelli a loro simili se non che prevaricheranno
all’occasione le leggi dello stato e la libertà e i beni dei cittadini, e chiedono al governante soltanto
che sia loro concessa libertà e indulgenza finché avranno abbastanza forse e truppe per fare questo?
In terzo luogo. Non può avere diritto di essere tollerata dal governante quella chiesa in cui chiunque
entra passa immediatamente a dipendere da un altro principe? A queste condizioni infatti il
governante lascerebbe spazio nel suo territorio a una giurisdizione straniera e permetterebbe che si
reclutassero fra i suoi cittadini soldati contro il suo stato. E a questo male non porta alcun rimedio la
famosa distinzione futile e capziosa fra corte e chiesa; essendo l’una e l’altra ugualmente soggetta al
potere dello stesso uomo il quale può convincere i membri della sua chiesa di qualsiasi cosa, o in
quanto spirituale o subordinata alle cose spirituali, o ingiungerla sotto pena del fuoco eterno.
Invano qualcuno direbbe di essere maomettano soltanto di religione e per il resto fedele suddito del
governante cristiano se professa di dovere cieca obbedienza al Mufti di Costantinopoli, che a sua
volta è agli ordini dell’imperatore ottomano ed emana verdetti religiosi confezionati su ordinazione.
Anche se quel turco residente fra i cristiani rifiuterebbe più apertamente lo stato cristiano se
riconoscesse che è la stessa persona ad essere capo della sua chiesa e del suo stato.
In quarto luogo. Infine, non devono essere tollerati in alcun modo coloro che negano che esista una
divinità. Infatti, per un ateo non possono essere stabili e inviolabili parola data, patto, giuramento che
sono i legami della società umana al punto che, eliminato Dio anche solo col pensiero, tutte queste
cose crollano. Inoltre, non può rivendicare per sé alcuna tolleranza in nome della religione chi elimina
completamente la religione con l’ateismo. Per quanto riguarda le altre opinioni pratiche, non si può
dare alcuna ragione perché non debbano essere tollerate anche se non sono esenti da ogni errore, se a
quelle chiese in cui non insegnate non si rivendica alcun potere né alcuna impunità civile della chiesa.
Resta da dire qualcosa sulle congregazioni che si crede creino la maggiore difficoltà per la dottrina
sulla tolleranza, perché corre voce che siano fomentatrici di rivolte e fazioni; e forse lo sono state un
tempo, ma non per una qualche loro natura peculiare ma per la disgrazia dell’oppressione o
dell’incertezza della libertà. Queste accuse cesserebbero immediatamente se per legge fosse concessa
la tolleranza a coloro ai quali è dovuta e tutte le chiese fossero tenute a insegnare e a porre come
fondamento della propria libertà che gli altri devono venire tollerati anche se in dissenso da loro in
materia religiosa, e che nessuno deve venire costretto in materia di religione dalla legge o dalla forza;
stabilita questa sola cosa, verrebbe eliminata ogni occasione di proteste in nome della coscienza.
Eliminate queste cause di irose proteste, non resta nulla che in queste congregazioni non sia più
pacifico che in altre e alieno dal turbare la vita politica. Prendiamo però in esame i capi d’accusa.
Dirai: le adunanze e gli assembramenti sono pericolosi per lo stato e rappresentano minacce per la
pace. Rispondo: se fosse così, perché vi sono quotidianamente affollamento in piazza, raduni nei
tribunali, riunioni delle corporazioni, folla nelle città? Dirai: queste sono adunanze civili, queste di
cui si tratta sono adunanze ecclesiastiche. Rispondo: come se quelle adunanze che sono le più lontane
dal trattare degli affari civili, fossero le più atte a turbare gli affari civili. Dirai: le adunanze civili
sono adunanze fra uomini con opinioni religiose diverse, quelle ecclesiastiche di uomini che sono
della stessa opinione. Rispondo: come se avere le stesse opinioni sulle cose sacre e la salvezza
dell’anima fosse cospirare contro lo stato, e non minore ma più acceso è il consenso fra loro quanto
minore è la libertà di convenire pubblicamente. Dirai: è libero a chiunque l’accesso alle adunanze
civili, nei conciliaboli dei religiosi si ha il luogo più adatto per trame occulte. Rispondo: nego che
tutte le adunanze civili, come quelle delle corporazioni, siano aperte a tutti, se poi le riunioni a scopi
di culto di alcuni sono clandestine, chi sono allora da accusare di questo fatto, coloro che favoriscono
o coloro che proibiscono le adunanze pubbliche? Dirai: la comunione religiosa lega vicendevolmente
gli animi degli uomini in sommo grado ed è perciò da temere in sommo grado. Rispondo: se le cose
stanno così, perché il governante non sta in guardia dalla sua stesa chiesa, e non proibisce quelle
adunanze come se rappresentassero minacce nei suoi confronti? Dirai: perché egli stesso è loro parte
e capo. Rispondo: come se egli stesso non fosse parte dello stato, e capo di tutto il popolo. Diciamo
perciò dove sta la questione: teme le altre chiese, la sua però non la teme, perché nei confronti di
questi è favorevole e benevolo, nei confronti degli altri severo e spietato; la condizione di questi è di
figli con i quali si è indulgenti fino alla sfrenatezza, la condizione di quelli è di servi per i quali sono
spesso ricompensa per una vita senza colpe i lavori forzati, il carcere, la perdita dei diritti civili, la
confisca dei beni: questi vengono favoriti, quelli bastonati per qualsiasi ragione. Se si invertono le
parti, o se hanno pari diritti con gli altri cittadini nelle cose civili, ti accorgerai che immediatamente
non ci sarà più da temere dalle adunanze religiose: se infatti gli uomini architettano progetti faziosi,
non è la religione che spinge a questo i suoi fedeli ma è la miseria che vi spinge gli oppressi. I governi
giusti e moderati ovunque vivono in pace e in sicurezza, a quelli ingiusti e tirannici i sudditi oppressi
sempre tenderanno a resistere. So che spesso avvengono ribellioni, e di queste la maggior parte in
nome della religione; e in effetti anche per via della religione i sudditi vengono spesso maltrattati e
vivono un destino iniquo ma, credimi, non sono questi costumi peculiari di alcune chiese o società
religiose, ma costumi comuni ovunque agli uomini che gemono sotto un peso iniquo e tentano di
scrollare un giogo che sta loro pesantemente sul collo. Che credi, se si trascurasse la religione e si
discriminasse in base all’aspetto corporeo, se si desse una condizione ineguale rispetto agli altri
cittadini a coloro che hanno capelli neri o occhi grigi di modo che non potessero vendere e comprare
liberamente, fosse loro proibito esercitare i mestieri, venisse tolta ai genitori l’educazione e la potestà
sui figli e la cura, non potessero accedere ai tribunali o avessero tribunali non eguali a quelli degli
altri cittadini, non pensi che il governante avrebbe tanto da temere da coloro che vengono uniti dal
solo colore dei capelli o degli occhi per il fatto che vi si aggiunge la persecuzione quanto da altri fra
i quali la religione ha creato coesione? Alcuni sono legati dalla condivisione di spese e guadagni in
vista degli affari, altri dal tempo libero in vista del divertimento; questi sono legati nel vicinato dalla
stessa città e dalla vicinanza delle abitazioni, questi dalla religione in vista del culto divino; ma vi è
una sola cosa che unisce il popolo in vista della rivolta: l’oppressione. Dirai: che vuoi allora, che le
adunanze a scopo di culto si tengano anche contro la volontà del governante? Rispondo: perché contro
la volontà? La cosa infatti è lecita e necessaria. Dici, contro la volontà del governante: questo è ciò
che contesto, questa è la fonte del male e la calamità che ha colpito i nostri campi. Perché è meno
gradito l’assembramento nel tempio che nel teatro o nel circo? Questa non è una folla più irregolare
né più turbolenta. Non si riduce infine tutta la questione a questo: che coloro che sono stati trattati
male per questo stesso motivo sono meno sopportabili. Togli l’iniqua differenza di diritti, cambia le
leggi in modo da togliere la pena di morte, e tutto sarà sicuro, e tanto più i governanti, tenendosi
lontani dalla religione, riterranno di doversi preoccupare della pace dello stato, tanto migliore sarà la
condizione di coloro di quanto la si trovi essere altrove; e tutte le chiese particolari e in dissenso fra
loro tanto più si controlleranno a vicenda come custodi della pubblica quiete, perché non si covino
progetti di rivoluzioni, perché non muti nulla nella forma del governo, non potendo sperare nulla di
meglio di ciò che già possiedono, cioè una sorte eguale a quella degli altri cittadini sotto un governo
equo e moderato. Se principale sostegno di un governo civile è considerata la chiesa che concorda
con il principe sulla religione, e ciò per la sola ragione che ha un governante a lei favorevole e leggi
a suo favore, quanto più sicuro sarà lo stato quando tutti i cittadini, a qualunque chiesa appartengano,
godranno della stessa benevolenza da parte del principe, della stessa eguaglianza di fronte alle leggi,
non essendovi alcuna distinzione in base alla religione ed essendo da tenere la severità delle leggi
solo ai facinorosi che violano la pace civile?
Per concludere a un qualche punto, chiediamo i diritti concessi agli altri cittadini. È lecito adorare
Dio secondo il rito romano? Sia lecito anche secondo quello ginevrino. È permesso parlare latino in
piazza? Sia permesso a coloro che lo vogliono anche nel tempio. È lecito a casa propria genuflettersi,
stare ritti, sedere, fare questo i quei gesti, indossare vesti bianche o nere, corte o lunghe? In chiesa
non sia vietato mangiare pane, bere vino, lavarsi con acqua; e le altre cose che nella vita comune sono
libere per legge, restino libero a ogni chiesa nel culto. Per queste cose a nessuno si toglie la vita o il
corpo, a nessuno si toglier la casa o il patrimonio. È permessa nel tuo paese la chiesa retta da
presbiteri; perché non anche quella retta da vescovi per coloro che lo desiderano? Il potere
ecclesiastico, che sia amministrato da uno o da più, è ovunque identico, e non ha giurisdizione sulle
cose civili né alcuna forza coercitiva, e non spettano al governo della chiesa né ricchezze né rendite
annue. Si è confermato che per il bene dello stato sono lecite le adunanze ecclesiastiche: se le
ammettete per i cittadini di una chiesa o setta, perché non per tutti? Se in un’adunanza religiosa si
trama qualcosa contro la pace pubblica, ciò è da reprimere nello stesso modo e non in modo diverso
che se lo si fosse fatto al mercato. Se si fa un atto o un discorso sedizioso in un’adunanza ecclesiastica,
è da punire nello stesso modo che se ciò fosse stato perpetrato in piazza. Queste non devono essere
rifugi né di faziosi né di infami; ma d’altra parte il radunarsi deve essere più illecito nel tempio che
nel senato, e i cittadini non vanno accusato di questa cosa più che di quella; ognuno può venire
additato all’odio o al sospetto solo per un suo crimine, non per la colpa di altri. Vengano castigati e
repressi sediziosi, omicidi, sicari, banditi, rapinatori, adulteri, ingiusti, calunniatori di qualunque
chiesa, sia quella di corte o no. Coloro che seguono una dottrina pacifica e buoni costumi siano messi
sullo stesso piano degli altri cittadini. E se agli altri sono permesse adunanze, convegni, celebrazioni
di festività, tutte queste cose lo siano a pari diritto al rimostrante, all’antirimostrante, al luterano,
all’anabattista, al sociniano. Anzi, se si può parlare apertamente, come è vero e come si dovrebbe fare
da uomo a uomo, nemmeno il pagano o l’islamico o l’ebreo vanno esclusi dallo stato per via della
religione; il vangelo non comanda alcunché di simile; non lo desidera la chiesa, che non giudica
coloro che ne stanno fuori (I Corinzi 5.12-13), non lo richiede lo stato che ammette gli uomini purché
onesti, pacifici, industriosi. Forse che permetti al pagano di commerciare da te, ma gli proibisci di
pregare o adorare Dio? Agli ebrei sono concesse case private, e perché viene negata la sinagoga?
Forse che la loro dottrina è più falsa, il culto più indegno, o la coesione più pericolosa in un’adunanza
pubblica che in case private? Se queste cose vanno concesse agli ebrei e ai pagani sarà peggiore in
uno stato cristiano la condizione di cristiani? Dirai: sì, perché sono più propensi ai disordini e alle
guerre civili. Rispondo: è forse questo un difetto della religione cristiana? Se è così, la religione
cristiana è certamente la peggiore di tutte, tale che tu non debba professarla e che lo stato non la tolleri
assolutamente. Infatti, se questo è lo spirito, se questa è la natura della stessa religione cristiana, di
essere sovversiva e nemica della pace civile, la stessa chiesa favorita dal governante non sarà mai
innocente. Ma ci si guardi bene dal dirlo di una religione che è contraria all’avarizia, all’ambizione,
alla discordia, alle contese e alle ambizioni terrene e fra tutte quelle che mai ci furono la più moderata
e pacifica. Va cercata ben altra causa dei mali che vengono imputati alla religione; e se consideriamo
bene la cosa, questa causa risulterà risiedere totalmente nella questione ora considerata. Non la
diversità di opinioni che non può essere evitata, ma la negazione della tolleranza a coloro che hanno
opinioni diverse, che si poteva concedere, ha prodotto la maggior parte delle guerre e delle contese
che sono nate nel mondo cristiano intorno alla religione: in quanto i capi della chiesa, spinti da
desiderio di ricchezza e potere, hanno in ogni modo aizzato contro gli eterodossi il governante, spesso
incapace di resistere all’ambizione, e il popolo, sempre reso stolto dalla superstizione, e hanno
predicato contro le leggi del Vangelo, contro i precetti della carità, che si dovevano privare dei loro
beni e sterminare gli scismatici e gli eretici, e hanno mischiato due cose diversissime, la chiesa e lo
stato. E se, come avviene, gli uomini non sopportano con pazienza di venire privati delle cose proprie
frutto di onesta fatica e che queste divengano preda della violenza rapina altrui contro il diritto umano
e divino, soprattutto qualora non li si accusi di null’altro e si tratti di cosa che riguarda non la legge
civile ma la coscienza di ognuno e la salvezza dell’anima di cui bisogna rendere conto solo a Dio.
Che altro ci si può attendere se non che degli uomini stanchi dei mali dai quali sono oppressi si
convincano infine che sia lecito respingere la forza con la forza, e difendere con le armi per quanto
potranno i diritti concessi loro da Dio e dalla natura, diritti che possono venire tolti non a causa della
religione, ma solo a causa di azioni infami. La storia attesta più che a sufficienza che è finora avvenuto
così, e la ragione dimostra che così avverrà in futuro, finché sarà in auge presso il governante o presso
il popolo quella opinione sulla persecuzione a causa della religione e così chiameranno alla armi e
suoneranno da ogni lato trombe di guerra coloro che devono essere araldi di pace. Che i governanti
abbiano sopportato incendiari e turbatori della pubblica quiete di tal genere sarebbe cosa di cui
meravigliarsi, se non fosse chiaro che essi, invitati alla spartizione del bottino, abbiano spesso
approfittato della rapacità altrui per accrescere il proprio potere. Chi non vede infatti che questi
uomini dabbene sono stati servitori non del vangelo ma del potere, e abbiano adulato l’ambizione dei
principi e il dominio dei potenti? E che con ogni sforzo si sono dati da fare che promuovere nello
stato quella tirannide che altrimenti invano avrebbero cercato di instaurare nella chiesa? In questo è
consistito per lo più l’accordo fra chiesa e stato, fra i quali, se entrambi restassero entro il proprio
ambito, non potrebbe neppure esistere alcuna discordia, in quanto l’uno curerebbe i ben mondani
della città, l’altra unicamente la salvezza delle anime. Ma ci si vergogna di questi obbrobri. Dio
Ottimo Massimo faccia sì che un giorno si predichi il Vangelo della pace, e che i governanti,
preoccupandosi molto di conformare la propria coscienza alla legge di Dio, e meno di legare la
coscienza altrui con leggi umane, come padri della patria indirizzino tutti i loro sforzi con saggezza
alla promozione della felicità pubblica. E gli ecclesiastici, che si dichiarano successori degli apostoli,
non più immischiandosi nella faccende politiche, si dedichino in pace e moderazione unicamente alla
salvezza delle anime! Sta’ bene.
Forse non sarà fuori tema aggiungere qualcosa sull’eresia e lo scisma. Un maomettano non è e non
può essere eretico o scismatico per un cristiano, e se qualcuno abbandonasse la fede cristiana per
l’Islam non per questo diverrebbe eretico o scismatico, ma apostata e infedele. Di ciò nessuno dubita.
Da qui discende che gli uomini non possono essere eretici o scismatici per uomini di diversa religione.
Bisogna perciò chiedersi quali siano della stessa religione. Su questo punto è chiaro che sono della
stessa religione quelli che hanno un’unica norma della fede e del culto divino e che sono di diversa
religione coloro che non hanno la stessa norma della fede e del culto. Infatti, dati che tutto ciò che
riguarda questa religione è compreso in quella norma, di necessità coloro che sono d’accordo sulla
stessa norma sono d’accordo anche sulla stessa religione e viceversa. Così i turchi e i cristiani sono
di diversa religione perché questi riconoscono come norma della propria religione la Sacra Scrittura
e quelli il Corano. Per lo stesso criterio vi possono chiaramente essere sotto la stessa denominazione
cristiana diverse religioni: i papisti e i luterani, anche se entrambi chiaramente cristiani, dato che
fanno professione di fede in nome di Cristo, non sono della stessa religione perché questi riconoscono
solo la Sacra Scrittura come norma e fondamento della propria religione, e invece quelli alla Sacra
Scrittura aggiungono le tradizioni e i decreti del Pontefice, e di questi fanno norma della propria
religione. Anche i cristiani di San Giovanni e i cristiani ginevrini sono di diversa religione (anche se
entrambi si chiamano cristiani) perché gli uni hanno come norma della loro religione la Sacra
Scrittura, gli altri tradizioni che non so bene quali siano. Ciò posto, segue:
1.Che l’eresia è una scissione operata in una comunità ecclesiastica, tra uomini della stessa religione,
a causa di dogmi che non sono compresi nella norma stessa.
2. Che fra coloro che riconoscono come norma della fede solo la Sacra Scrittura l’eresia è una
divisione introdotta nella comunione cristiana a causa di dottrine non contenute in parole esplicite
della Sacra Scrittura.
Questa divisione può avvenire in due modi:
1.Quando la parte maggiore della chiesa, o la più forte per via dell’appoggio del governante si separa
da altri escludendoli dalla comunione perché non vogliono professare di credere certe dottrine non
formulate nelle parole della Scrittura. Infatti, non sono il piccolo numero di coloro che si separano né
l’autorità del governante a poter rendere qualcuno colpevole di eresia, ma è eretico solo colui che a
causa di queste dottrine divide la chiesa in parti, introduce nomi e tratti distintivi di queste distinzioni
e opera la separazione di sua iniziativa.
2.Quando qualcuno si separa dalla comunione della chiesa, perché in essa non si fa pubblica
professione di qualche dottrina che la Sacra Scrittura non menziona esplicitamente.
Entrambi sono eretici perché errano nelle cose fondamentali ed errano ostinatamente con
deliberazione e consapevolezza. Infatti, avendo posto ad unico fondamento della fede la Sacra
Scrittura, pongono ciò nonostante un altro fondamento, ovvero affermazioni che nella Sacra Scrittura
non si trovano; e siccome altri rifiutano di riconoscere come necessarie e fondamentali e di assentire
a queste loro opinioni aggiunte alla Sacra Scrittura, compiono una secessione scacciando questi o
separandosi da loro. E non è a tema affermare che le proprie confessioni e articoli di fede sono
conformi alla Sacra Scrittura e all’analogia della fede: se infatti sono formulate nelle parole della
Sacra Scrittura, non può sorgere alcun problema, perché sono riconosciute da tutti come fondamentali
in quanto di ispirazione divina queste cose e tutte quelle simili. E nel caso che dicessi che quei tuoi
articoli di fede di cui esigi la professione sono deduzioni dalla Sacra Scrittura, fai bene se credi e
professi quelle cose che ti sembrano accordarsi con la norma della fede, ovvero la Sacra Scrittura, fai
male se vuoi imporle ad altri, ai quali non sembrano dottrine indubbie della Sacra Scrittura, e sei
eretico se introduci una separazione a causa di queste cose che non sono né possono essere
fondamentali. Non credo infatti che qualcuno sia giunto a tal punto di pazzia da osare spacciare per
dottrine di ispirazione divina le proprie deduzioni e interpretazioni della Sacra Scrittura ed equiparare
articoli di fede formulati secondo la sua opinione all’autorità della Sacra Scrittura. So che vi sono
alcune proposizioni tanto evidentemente in accordo con la Sacra Scrittura che nessuno possa dubitare
che ne discendano: su queste non vi potrà essere alcun dissidio. Ma ciò che a te sembra discendere
per legittima deduzione dalla Sacra Scrittura non devi imporlo a un altro come articolo di fede
necessario perché tu lo credi in accordo con la norma di fede; a meno che tu non giudichi giusto che
a te allo stesso titolo si impongano opinioni e tu sia costretto ad accettare e professare le dottrine
diverse e in conflitto fra loro di luterani, calvinisti, rimostranti, anabattisti e altre sette, che gli artigiani
specializzati nella fabbricazione di professioni di fede sono usi spacciare ai loro seguaci come
conseguenze necessarie e autentiche della Sacra Scrittura.
Non posso non meravigliarmi per l’arroganza di coloro che ritengono di potere insegnare quali cose
siano necessarie per la salvezza più chiaramente di quanto possa insegnarle l’infinita ed eterna
sapienza dello Spirito Santo.
Fin qui si è trattata l’eresia, termine che secondo l’uso comune si applica solo alle dottrine. Va ora
preso in esame lo scisma, errore affine all’eresia: entrambi i nomi mi sembrano infatti indicare una
divisione nella comunione ecclesiastica attuata senza ragione per via di cose non necessarie. Ma dato
che l’uso, in mano al quale sta l’arbitrio, il diritto e la norma del parlare, si è affermato di attribuire
all’eresia gli errori di fede, allo scisma quelli di culto o disciplina, questi vanno trattati sotto questo
titolo.
Lo scisma perciò, per le ragioni dette, non è altro che la divisione introdotta nella comunione della
chiesa per via di qualcosa di non necessario nel culto divino o nella disciplina. Nulla può essere
necessario per un cristiano nel culto divino o nella disciplina se non ciò che ha comandato
esplicitamente Cristo legislatore, o gli Apostoli per ispirazione dello Spirito Santo.
Per dirlo in una parola: chi non nega qualcosa che esplicitamente è detto dalla parola di Dio e non
mette in atto una divisione per via di qualcosa che non è esplicitamente contenuto nel testo sacro non
può essere eretico o scismatico, per quanto male dica di lui qualsivoglia setta che si professa cristiana
e per quanto venga dichiarato fuori dalla vera religione cristiana da parte di una di queste sette o da
tutte.
Queste cose avrebbero potuto essere dette meglio e più ampiamente, ma a te che sei tanto perspicace
sarà sufficiente averle esposte brevemente.