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Vite magmatiche intorno al Vesuvio - il lavoro culturale
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Vite magmatiche intorno al Vesuvio
di Giovanni Gugg (https://www.lavoroculturale.org/author/giovanni-gugg/)
18 Marzo 2019
Polisemia di un simbolo che trascende il senso comune
Sul versante occidentale del Vesuvio, a 608 metri sul livello del mare, c’è il colle del Salvatore, una collina che è l’ultimo residuo occidentale dell’antico
edificio vulcanico. Qui, tra il 1841 e il 1848 venne costruito il Reale Osservatorio Meteorologico Vesuviano, il primo istituto vulcanologico al mondo,
progettato dall’architetto Gaetano Fazzini e diretto inizialmente da Macedonio Melloni. È una palazzina di tre piani molto elegante che ospita il museo
dell’Osservatorio Vesuviano, la cui sede scientifica nel frattempo è stata trasferita a Bagnoli. L’edificio ha varie terrazze, una delle quali rivolta verso il
Gran Cono: a sinistra la Valle del Gigante con il fiume di lava del 1944 ancora visibile, a destra il vasto bosco dell’Alto Tirone, in gran parte bruciato due
anni fa. Di fronte, invece, il cratere del Vesuvio, un possente cono il cui condotto sembra direttamente collegato col centro della terra o con fantastici
mondi paralleli. Personalmente, su questa terrazza ho avvertito spesso una sensazione singolare, quella di trovarmi davanti a qualcosa di vivo; ed è qui
che, sollecitato da un’intervista televisiva non andata in onda, ho riflettuto su determinate tematiche.
Il Vesuvio visto dal Suor Orsola Benincasa. Foto di Alessio D’Auria, 12 marzo 2019.
La voce del Vesuvio
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Nei secoli il Vesuvio è stato spesso personificato e anche noi, oggi, usiamo dei termini che lo descrivono in forme antropiche: i fianchi della montagna, la
bocca del cratere, il respiro delle mofete, i borbottii delle sue viscere, come se si trattasse di un enorme stomaco. Spesso nelle leggende popolari è
descritto come un gigante raggomitolato sotto la crosta terrestre, altre volte è un giovane bello e passionale che si infuria per non avere a sé la sua
innamorata Capri, l’isola al di là del golfo. In una poesia dialettale, l’autore Gennaro Di Paola dà del tu al vulcano e gli rivolge una preghiera: «lo so che ti
stanno disturbando il sonno, ma quando ti sveglierai, per favore non colpire tutti» 1. Così è anche in alcuni canti tradizionali, ad esempio gli Zezi in una
loro canzone parlano col Vesuvio (https://youtu.be/QOoSE5fNEzI) gli dicono che fa paura, eppure non possono andare altrove. Queste modalità sono
state introiettate anche dal campo scientifico. Per lo storico Giuseppe Galasso il Vesuvio è una «personalità storica»2, mentre alcuni secoli fa addirittura
Giordano Bruno definì questo vulcano come «il padre della Campania»3, una metafora poi ripresa da geologi e vulcanologi in saggi più recenti4.
Ebbene, proprio come un padre, il Vesuvio è storicamente considerato amorevole ma severo, spesso generoso (ad esempio per
l’agricoltura), ma talvolta irascibile fino a essere violento. Ultimamente il Vesuvio è anche su Twitter, dove qualcuno ha aperto a
suo nome un account e ogni giorno pubblica un unico tweet con un’unica parola: «Dormo» (https://twitter.com/Vulcano_Vesuvio).
Nel mio lavoro sul campo, questa confidenza col vulcano l’ho incrociata spesso e mi ha aiutato in un percorso di studio che è tipico dell’antropologia
culturale, ossia il guardare con gli occhi dei nativi. Questa è la disciplina del cambio del punto di vista, perché ha come obiettivo il mettersi dall’altra
parte, nei panni dell’altro. Ciò mi ha permesso di cogliere lo sguardo, anzi gli sguardi, di chi vive sulle pendici del vulcano e di capire che in loro – o,
almeno, in buona parte dei vesuviani – non c’è insensibilità o indifferenza al rischio, per cui diventa necessario ridefinire certi
schemi interpretativi e spiegare e usare determinati concetti con maggior attenzione. Per esempio, cosa vuol dire “consapevolezza”
in una popolazione che sa benissimo di vivere su un vulcano? Consapevoli di cosa? Per fare cosa? Oppure, cosa significa
“fatalismo” in un territorio abitato da millenni, ma in cui negli ultimi decenni la mobilità sociale è bloccata? Una struttura sociale
segnata da disuguaglianza strutturale tende ad insinuare l’ineluttabilità dello status quo nella routine giornaliera, finendo così per rallentare e poi
disincentivare ogni speranza di mutamento. O, ancora, cosa intendiamo per “resilienza” rispetto a un’emergenza futura che tutti qualificano come
apocalittica? Cosa si può fare contro l’apocalisse?
Ebbene, ecco perché bisogna riportare la riflessione sul Vesuvio ad una dimensione più pragmatica, così da cominciare ad agire sul livello urbano, anzi di
quartiere, e sulle reali condizioni di vita delle persone.
Il Vesuvio visto dal Faito. Foto di F.S. Gargiulo, 2015.
Irresponsabili o prometeici?
Il Vesuvio dunque non è solo un’espressione della natura, ma – come si dice in antropologia – è un oggetto culturale, “buono da pensare”. Nel corso
degli ultimi due millenni, ma soprattutto negli ultimi 4 secoli, il Vesuvio è diventato un simbolo. In quanto tale, il suo significato varia a seconda del
contesto e in base a quel che gli si vuole far dire: è simbolo di autenticità e di fantasia, di distruzione e morte, ma anche di potenza e di resistenza, di
allegria e intraprendenza. Nell’immaginario collettivo occidentale, il Vesuvio è quasi il metro di paragone di qualsiasi altro fenomeno
naturale: se erutta un vulcano in Islanda, quasi istantaneamente ci si chiederà «E se succedesse col Vesuvio?». Da sempre e in tutto il
mondo, i vulcani sono stati abitati dagli esseri umani. In una società di tipo rurale questo è piuttosto ovvio grazie alla fertilità delle aree vulcaniche, che
favorisce un’agricoltura abbondante e di qualità. Ma i vulcani si sono frequentati anche per altre ragioni, per esempio per i benefici delle acque termali,
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dei fanghi, delle saune. Infine, più di recente, i vulcani sono anche degli straordinari attrattori, per cui li si scala col trekking o col turismo verde o,
ancora, si raggiunge la loro cima in auto, laddove possibile, per provare un brivido controllabile, non solo di paura, ma per il senso del tempo e della
storia.
Accanto a questo discorso è presente anche quello del rischio, ossia della costante valutazione individuale e sociale del pericolo. Si tratta di un concetto
complesso, nel senso che è il prodotto di elementi diversi, osservabile da prospettive disciplinari diverse. Nella formula più ricorrente nei manuali, il
rischio è il prodotto di tre fattori essenziali: l’agente d’impatto (l’evento fisico difficilmente controllabile dagli esseri umani), l’esposizione (che riguarda
essenzialmente i beni materiali, dunque per esempio la dimensione urbana), e infine la vulnerabilità (che è un elemento essenzialmente sociale, cioè la
fragilità delle persone, la povertà, l’assenza o l’insufficienza di servizi essenziali che, di conseguenza, si riflettono anche sullo spazio fisico, perché molti
non sono in grado di manutenere la casa in cui vivono o di cercare alternative abitative).
Su questa base insistono, poi, ulteriori elementi come il discorso pubblico tra comunicazione e percezione. Nel primo caso le notizie possono essere più o
meno accurate, talvolta sensazionalistiche e allarmistiche, altre troppo tecniche e ostiche; nel secondo caso ci si riferisce alla sfera più intima che, per
quanto possa risultare assurda a chi osserva dall’esterno, ha sempre delle ragioni che variano in base ai contesti e ai momenti: le persone non sono folli,
ma agiscono in base a quel che credono sia reale o realistico.
Il rischio, pertanto, è un prodotto sociale, perché è soggetto a dinamiche storiche, a tensioni di potere, a specifiche convinzioni; è, cioè, un concetto
gerarchico perché ne attribuiamo la solerzia in base a priorità. E le scienze sociali indagano proprio quest’attribuzione di urgenza: come comunità, cosa
temiamo di più adesso, e perché?
Sul concetto di fatalismo
Si tratta di un termine ambiguo e controverso: è una parola passe-par-tout che attribuiamo a molte dimensioni psicologiche e
sociali. Dinanzi ai rischi le persone possono avere essenzialmente tre atteggiamenti: si può essere ottimisti, pessimisti o, appunto,
fatalisti. Costoro sono i più problematici, specie perché vengono raccolti tutti sotto un termine-ombrello che copre cose molto
diverse tra loro. Proviamo a ragionarci proprio in relazione agli abitanti dell’area vesuviana: i fatalisti sono coloro che rimuovono il rischio o che lo
negano? Sono quelli che, credendo che qualsiasi sforzo di mitigazione del rischio sia inutile, restano immobili in attesa dell’apocalisse? I vesuviani sanno
di trovarsi sulle pendici di un vulcano e conoscono i drammatici effetti delle sue eruzioni, eppure continuano a viverci. Non negano il rischio, né l’hanno
rimosso: davanti ai loro occhi svetta un cratere di 1200 metri, come potrebbero dimenticare? Quindi ci troviamo a cospetto di un paradosso: loro sanno
e, allo stesso tempo, non sanno; loro vedono e, contemporaneamente, non vedono. Tecnicamente, questa è una “strategia di coping”, cioè è un modo per
evitare ciò che è potenzialmente angosciante. È un processo del tutto comprensibile e, a suo modo, razionale: vivere col pensiero della fine, della morte
sarebbe un non-vivere, per cui è necessario metterlo da parte; non lo si cancella, ma in qualche modo lo si oggettivizza. Se un giornalista televisivo fa un
servizio sul Vesuvio o un antropologo raccoglie interviste in merito al vulcano, i residenti della zona rispondono senza problemi, non cadono dalle nuvole
come se non sapessero dove vivono. Eppure, nella quotidianità, quel pensiero lascia spazio ad altre priorità, banali finché si vuole, ma essenziali per
ciascuno di noi: portare i bambini a scuola, fare la spesa, occuparsi del proprio lavoro. D’altra parte, si può non pensare costantemente al Vesuvio, anche
perché viene ripetuto frequentemente che si tratta del vulcano «più monitorato al mondo», per cui è legittimo ritenere, come effettivamente ritengono
gli abitanti, che «gli scienziati ci avvertiranno».
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Villa delle Ginestre, 2019. Foto di Giovanni Gugg.
Una metafora del mondo
Come un campanile o un faro, il vulcano aiuta a orientarsi spazialmente, eppure la sua azione principale avviene in una dimensione più profonda, quella
del Lebensraum, dice Ernesto de Martino, ossia della “patria esistenziale”5. Ragionando su questa interpretazione, nel corso degli anni mi sono accorto
di aver compiuto un ulteriore cambiamento del punto di vista, perché ho cominciato a mettermi nei panni del Vesuvio, se così posso dire. Il vulcano
napoletano, in effetti, è un interlocutore perché attraverso il paesaggio racconta di come lo trattiamo e rivela la relazione che negli ultimi decenni
abbiamo instaurato con lui. In tal modo è possibile cogliere la domanda che pone a ciascuno di noi, una questione di portata locale, naturalmente, ma
anche più generale: nazionale e, come dice Maria Pace Ottieri, universale6. Il Vesuvio non ci domanda (solo): «Quanto tempo impiegate a mettervi in
salvo prima che io esploda?», ma ci chiede soprattutto: «Che tipo di sviluppo avete portato avanti? Che tipo di città abitate? Che idea di ecosistema
avete? Cosa state facendo per ricucire la frattura che avete causato nel corso del Novecento?». Questo dialogo col vulcano, questo mettersi nei suoi
panni ci consente di capire molto su di noi, che è esattamente quel che fa l’antropologia: studia svariate comunità umane “altre”, ma poi trova molte
risposte sul “noi”. Ecco, dunque, il rischio Vesuvio non ci dice quanto è “cattivo” il vulcano, ma quanto siamo arroganti noi con la
natura, quanto possiamo rapinare l’ecosistema e, di conseguenza, erodere la nostra stessa sicurezza e sopravvivenza. In questo
senso, il Vesuvio è più di se stesso, perché il Vesuvio è una metafora più ampia sul rapporto tra cultura e natura, tra esseri umani e
ambiente.
È un discorso che viene da lontano, perché il Vesuvio è un simbolo antico e longevo: sono secoli che il suo profilo è presente nel quotidiano degli abitanti
e non solo, a più livelli, infatti da Plinio ad Andy Warhol il suo carisma iconografico è cresciuto e si è consolidato, dall’arte al branding. Oggi, trasformato
in logo, lo ritroviamo in tantissime declinazioni: stemmi, souvenir, insegne, locandine, marchi, biglietti da visita, pagine web, brand dalla natura più
varia (aziendali, istituzionali, sportivi, associativi, enogastronomici e così via); è sia un simbolo che una merce. Parallelamente è diventato la location di
innumerevoli storie, specie al cinema, che è una straordinaria macchina di produzione di immaginario collettivo: è ovviamente il protagonista di film
catastrofici, ma è anche lo sfondo di vicende narrate dal neorealismo e dalla commedia, è metafora del disastro bellico e della povertà, ma anche della
passione amorosa e dell’esuberanza comica o della fatica politica7. In musica è metafora introspettiva sia per la canzone classica napoletana, sia per il
nuovo cantautorato nord-americano8.
Emergenza e oltre
Se tra individui e cittadini è ovvio evitare il pensiero della catastrofe e dunque della morte, il discorso è diverso per le istituzioni. Le istituzioni non
possono essere fataliste. Teoricamente, il loro sguardo è più lungo nel tempo, più profondo nelle questioni e più distaccato dalle contingenze del
presente. In altre parole, le istituzioni hanno responsabilità più ampie in merito allo stallo attuale: sono loro – ciascuna per il suo livello e grado – a non
dover mai dimenticare quale sia la natura del territorio e, pertanto, a dover affrontare il rischio nella sua interezza. Ciò significa procedere lungo due
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strade principali: una è la pianificazione dell’emergenza, l’altra è la mitigazione del rischio. Sono due strade diverse, con tempi e modalità differenti, che
risolvono problemi distinti, eppure l’una è collegata all’altra. Dal 1995 l’area vesuviana ha un Piano di Emergenza
(http://www.protezionecivile.gov.it/jcms/it/view_dossier.wp?contentId=DOS37087) e dal 2016 un Piano di Evacuazione
(http://www.protezionecivile.gov.it/resources/cms/documents/delibera_giunta_campania_8_17gennaio2017.pdf) elaborati in base alla prima delle due
strade a cui facevo riferimento, quella “emergenziale”. Questi strumenti hanno delle criticità, sia perché considerano le persone come semplici corpi da
spostare, senza conoscere e considerare esigenze specifiche, sia perché si basano su un’idea di gemellaggi tra i comuni della “zona rossa” e le altre regioni
italiane che è ancora puramente teorica. La pianificazione dell’emergenza va fatta e va fatta al meglio, tuttavia resta una modalità sicuramente parziale e
insufficiente per rispondere alla grande questione del rischio vesuviano. Non basta organizzare la fuga per un evento che avverrà in un futuro ignoto,
perché è necessario lavorare anche sulla seconda strada, quella della mitigazione, che riguarda urbanisti, socio-antropologi, massmediologi, nonché
l’elaborazione di nuove forme democratiche e di partecipazione. In 25 anni di pianificazione dell’emergenza, quel che è diventato chiaro è che i residenti
non conoscono e non credono a strumenti calati dall’alto, formulati senza incontri con la popolazione, senza coinvolgimento delle realtà locali, senza che
sia mai stato avviato un dialogo tra abitanti e istituzioni. Gli scienziati ci stanno provando e, da poco, anche la Protezione Civile, attraverso dei canali
social in cui non solo si apre la comunicazione a mezzi più alla portata di tutti, ma si dà anche la possibilità di eventuali interazioni. Non basta, ma è un
inizio. Bisognerebbe intensificare questo dialogo e allargarlo, recuperando e alimentando un linguaggio pacato e informato che permetta di elaborare
buone pratiche e nuove forme di comunità. Affrontare il rischio, cioè, non è necessariamente un modo per tener lontano brutte eventualità, ma è anche
una maniera per aprirsi a belle opportunità di futuro e di vita.
Giovanni Gugg (https://www.lavoroculturale.org/author/giovanni-gugg/)
https://taccuinoaltrove.wordpress.com/ (https://taccuinoaltrove.wordpress.com/)
Note
1. Gennaro di Paola, 2010: Care Vesuvio, famme nu favore, in Gente ‘e Massa
2. Giuseppe Galasso, 2006: Ire funeste e ingannevoli torpori, in AA.VV., Alla scoperta del Vesuvio, Electa, Napoli.
3. Giordano Bruno, 1591: De maximo et immenso (libro III, cap. 1), in “De innumerabilibus, immenso et
in gurabili, seu de universo et mundis”, Johann Wechel – Peter Fischer, Francoforte.
4. Antonio Nazzaro, 2009: Il rischio Vesuvio. Storia e geodiversità di un vulcano, Guida, Napoli.
5. Ernesto de Martino, 2011: La ne del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali [1977], a cura di C.
Gallini, Einaudi, Torino
6. Maria Pace Ottieri, 2018: Il Vesuvio universale, Einaudi, Torino.
7. Sul genere catastro co, si va da “Gli ultimi giorni di Pompei” (ne esistono varie versioni, da quella del 1913 di
Mario Caserini a quella del 1959 di Mario Bonnard) ai recenti “Pompeii” (2014, di Paul W. S. Anderson) e
“Apocalypse Pompeii” (2014, di Ben Demaree). Il Vesuvio è sfondo denso di signi cato in tantissimi altri lm,
spesso appartenenti a generi anche molto diversi tra loro: dal neorealismo di “Paisà” (1946, di Roberto
Rossellini) alla commedia romantica di “Pane, amore e…” (1955, di Dino Risi), dalla comicità de “L’oro di Napoli”
(1954, di Vittorio De Sica) alla metafora politica de “La salita” (1997, di Mario Martone), no al biogra co de “Il
giovane favoloso” (2014, sempre di Mario Martone) e al documentaristico di “Sul vulcano” (2014, di Gianfranco
Pannone).
8. Tra i brani più celebri dedicati al Vesuvio: “Funiculì funiculà” (1880, sicuramente la canzone più nota, con
innumerevoli interpreti nel corso del tempo), “O Visuvio” (1906, Francesco Daddi), “’O Vesuvio, ‘o gigante da
muntagna” (1967, Sergio Bruni), “Vesuvius” (2005, Vic Chesnutt), “Quann ‘o Vesuvio” (2007, Enzo Avitabile),
“Vesuvius” (2010, Sufjan Stevens).
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