L’aquila di Aristotele.
Avventure simboliche dell’haliáetos nel mondo romano*
0. Le avventure cui allude il titolo del mio intervento, e che vorrei qui
succintamente ricostruire, hanno come protagonista l’aquila marina, o haliáetos,
un rapace la cui puntuale identificazione ha dato non poco filo da torcere ai
moderni ornitologi e resta tuttora congetturale1. Per fortuna, dall’ottica
particolare in cui esamineremo i testi antichi relativi a questo uccello la questione
risulta per noi secondaria: dell’aquila marina ci interessano infatti non tanto i
tratti anatomici o le caratteristiche etologiche, ma la vicenda simbolica, il suo
aver attraversato più di una stagione culturale rivelandosi di volta in volta “buona
per pensare” alcuni nodi centrali dei sistemi di pensiero che l’hanno via via
adottata.
1. In principio è Aristotele, naturalmente, nella cui Historia animalium
l’haliáetos è una delle sei specie in cui si articola il variegato universo delle
aquile:
Un’altra varietà è rappresentata dalle cosiddette aquile marine: esse hanno un collo
grande e pieno, le ali ricurve, la coda larga; abitano presso il mare e le coste; quando
capita loro di catturare una preda e non sono in grado di trasportarla, spesso ne sono
trascinate sul fondo del mare2.
Più avanti Aristotele integra questo profilo iniziale con la menzione di un
singolare comportamento dell’aquila marina:
L’aquila di mare ha la vista molto penetrante e costringe i propri piccoli, quando sono
ancora privi di piume, a puntare lo sguardo verso il sole, battendoli e volgendoli a forza
se rifiutano di farlo; e tra i due quello i cui occhi per primi si bagnano di lacrime viene
ucciso, l’altro invece è allevato3.
«Tra i due», afferma la Historia animalium: le aquile infatti, come Aristotele ha
già spiegato in precedenza, depongono tre uova, ma ne fanno schiudere di norma
solo due e allevano uno solo dei nuovi nati4.
Cosa induca nell’aquila marina questo particolare comportamento nei
confronti dei suoi piccoli Aristotele non lo dice in questa sede, ma il lettore può
ricavarlo agevolmente dalle informazioni altrove fornite sulle aquile nel loro
complesso: nel sesto libro della Historia animalium, ad esempio, Aristotele
afferma che tutte le aquile cacciano dal nido uno degli aquilotti perché infastidite
ἐ
dall’onere di nutrirlo (
φ
); nel nono libro si parla invece di
dell’aquila, uccello estremamente vorace e proprio per questo poco
incline a dividere il cibo con i pulcini allorché questi iniziano a crescere ed
entrano dunque in competizione con i genitori nella spartizione della preda5. In
ogni caso, il comportamento dell’haliáetos presenta una sua propria specificità
rispetto a quello delle specie congeneri: l’aquila marina non attende neppure che
i propri piccoli abbiano raggiunto una certa taglia per espellerli dal nido, ma
l’uccisione del nuovo nato avviene subito dopo la schiusa delle uova.
2. Nel mondo romano la trattazione aristotelica sull’haliáetos è ripresa da Plinio
il Vecchio, nella sezione ornitologica della Naturalis historia:
Solo l’aquila marina, battendo i suoi piccoli quando sono ancora implumi, li costringe
subito a fissare i raggi del sole e, se si accorge che uno di essi serra gli occhi o li bagna
di lacrime, lo getta giù dal nido come bastardo e degenere; alleva invece quello la cui
vista è rimasta salda6.
La dipendenza di Plinio dal trattato aristotelico è fuori discussione: tra l’altro
Plinio è l’unico, come vedremo, a rispettare la terminologia dello Stagirita,
traslitterando senz’altro il nome greco dell’aquila marina e coniando un haliaetus
che ha in latino rarissime attestazioni7. Anche le differenze con la fonte greca si
spiegano facilmente postulando che Plinio abbia tenuto conto del più ampio
contesto aristotelico, estendendo all’aquila marina caratteri o comportamenti che
la Historia animalium riferisce al genere delle aquile nella sua interezza: così,
l’affermazione secondo cui l’haliaetus si limita a precipitare dal nido il pulcino
che non riesce a fissare il sole, laddove Aristotele parla senz’altro di soppressione
del piccolo aquilotto ( π
ί
), risente probabilmente dei passi, cui abbiamo
fatto cenno, nei quali alle aquile in generale è attribuita l’abitudine di scacciare
precocemente dal nido i piccoli per la difficoltà di assicurare loro il nutrimento o
per evitare di dividerlo con essi8.
Anche la definizione del pulcino bandito dal nido come adulterinus risente
forse del più ampio contesto aristotelico: subito dopo la descrizione
dell’haliáetos la Historia animalium menziona infatti un’ultima specie di aquile
chiamate “pure”, gnésioi, per il fatto di essere le uniche a non nascere da incroci
con altre specie:
Esiste ancora un altro genere di aquila, vale a dire quella detta gnésios. Si dice infatti
che queste aquile si distinguano dalle altre aquile e anche dagli altri uccelli perché sono
le uniche ad essere, per l’appunto, gnésioi, vale a dire di razza pura. Gli altri generi sono
frutto di mescolamenti e di adulteri (
α α
ί υ α ) l’uno per mezzo
dell’altro, sia che si tratti di aquile, sia di sparvieri, sia di uccelli di taglia piccolissima9.
Come si vede, già Aristotele ricorre alla categoria di
ία, oltre a quella di
“mescolanza”, per indicare la tendenza delle aquile, con l’eccezione appunto
degli gnésioi, a riprodursi mediante fecondazione con altre specie o con uccelli
appartenenti a specie diverse10; è un uso estremamente interessante, che
introduce all’interno della trattazione scientifica un elemento esplicitamente
valutativo su un aspetto cruciale del comportamento animale come quello legato
alla riproduzione; la categoria è comunque abbastanza ben attestata in greco, ma
è nota anche a Plinio, che la adotta, tra l’altro, a proposito del cuculo, ancora una
volta riprendendo e rielaborando materiale aristotelico. Questo uccello infatti, a
causa della propria debolezza, è incapace di procedere alla schiusa delle proprie
uova; cerca perciò nidi in cui una femmina stia covando uova per quanto
possibile simili alle proprie e ve le mescola; in questo caso però l’“adulterio”
passa inosservato, anzi sortisce il paradossale effetto di determinare l’espulsione
della discendenza “legittima”:
La femmina alleva dunque il piccolo cuculo, che è stato introdotto così nel nido
contaminato (subditum adulterato [...] nido). [...] Questa si rallegra per il bell’aspetto
che ha, e si congratula con se stessa, perché ha generato un simile esemplare; i suoi
piccoli, paragonandoli con questo, li considera come bastardi (damnat ut alienos) e
lascia che alla sua presenza muoiano di fame, finché il cuculo, già capace di volare,
assale anche lei11.
Uccello debolissimo – l’unico, a dire di Plinio, ad essere ucciso dagli esemplari
della sua stessa specie –, pavido, proverbialmente pigro, costretto a riprodursi di
nascosto, il cuculo si pone per molti versi agli antipodi dell’aquila; eppure grazie
alla sua astuzia esso si prende la propria vendetta: non solo riesce a far schiudere
le proprie uova, ma i suoi pulcini si impongono sulla nidiata legittima e finiscono
persino per assalire la propria nutrice, in una sorta di rovesciamento speculare
dell’aggressività dimostrata dall’aquila nei confronti di uno dei due implumi che
ha generato12. Quel che più conta dal nostro punto di vista, Plinio ricorre ancora
una volta alla terminologia dell’adulterio, come aveva fatto pochi paragrafi prima
a proposito dell’aquila marina13.
La ricerca puntigliosa di corrispondenze e divergenze tra Aristotele e Plinio
rischia però di risultare un po’ sterile; più utile è semmai osservare come sia il
taglio complessivo della sezione sull’haliaetus a distinguere più marcatamente la
fonte greca dalla sua ripresa in ambito romano. Definendo adulterinum atque
degenerem il pulcino scacciato dal nido, Plinio finisce infatti per ribaltare il
punto di vista della Historia animalium: non è una colpa o un tratto caratteriale
dell’aquila – di volta in volta identificato nel “fastidio” o nell’“invidia” – a
determinare la scelta di bandire uno degli aquilotti, ma una mancanza o
insufficienza di quest’ultimo, che l’haliaetus si limita a identificare e sanzionare.
Ad essere in gioco, insomma, non è la presunta ingiustizia dell’aquila, la sua
malevola disposizione verso la prole, ma semmai un deficit imputabile alla sua
discendenza, allorché questa si rivela indegna del genus cui pretende di
appartenere.
Tutto questo, diciamolo subito, dà alla pagina della Naturalis historia un
sapore molto romano: l’aquila di Plinio ricorda infatti da vicino l’inflessibile
pater familias che di fronte ad atteggiamenti o comportamenti “degeneri” dei
figli li punisce relegandoli in campagna o allontanandoli dal proprio cospetto o
talora senz’altro mettendoli a morte14. Ma molto romana è anche l’ossessione per
la purezza della stirpe, il timore che il sangue paterno sia adulterato
dall’immissione di un seme estraneo, con il risultato di confondere e obliterare la
linea di discendenza proprio nel delicato momento di passaggio da una
generazione all’altra. Non a caso l’abusiva penetrazione all’interno di un albero
genealogico di un membro ad esso estraneo si esprime in latino attraverso termini
e immagini che rimandano alla pratica dell’innesto: una circostanza che da un
lato appare coerente con il più generale ricorso a metafore di tipo “arboreo” in
riferimento alla parentela, dall’altro sembra costituire il rovesciamento speculare
della definizione pliniana di innesto come “adulterio degli alberi”15.
In Plinio, insomma, l’esposizione dei piccoli aquilotti alla luce solare assolve
alla funzione di un vero e proprio test: per l’aquila marina si tratta di smascherare
l’eventuale presenza nella nidiata di un pulcino spurio, frutto di un
accoppiamento “adulterino” e proprio per questo “degenere”; a tale scopo
l’haliaetus imbastisce una prova che chiama in causa la più identificante fra le
caratteristiche di questa specie, la straordinaria acutezza della sua vista, una sorta
di marca identitaria la cui assenza basta da sola, evidentemente, a escludere
l’appartenenza del nuovo nato al genus di cui pretende di far parte16. Questa
griglia di lettura è del tutto assente, come si è visto, nella fonte aristotelica, che
preferisce semmai invocare una innata ostilità delle aquile nei confronti della
propria discendenza, ma trova invece puntuale riscontro nella cultura latina, dove
il motivo della “prova di legittimità” è presente e diffuso17.
3. E infatti Plinio non è il primo autore latino a imprimere questa curvatura alle
notizie aristoteliche sull’haliáetos; anzi, la loro riformulazione nei termini di una
prova di legittimità appare solidamente stabilita sin dall’ingresso dell’aquila
marina nella cultura romana. Lo stato della tradizione non ci consente purtroppo
di arretrare al di qua di una generazione rispetto all’enciclopedia pliniana: è
infatti nella Pharsalia di Lucano che la prova dell’aquila compare per noi nella
letteratura latina, in un bel passo in cui la menzione del rapace è accostata a
quella degli Psilli, una popolazione libica nota per essere immune dal veleno dei
micidiali serpenti del deserto. Anche gli Psilli, informa Lucano, adottano infatti
nei confronti della propria discendenza un comportamento non dissimile da
quello dell’haliáetos: per verificare la legittimità dei nuovi nati, essi li espongono
al contatto – o secondo altre fonti senz’altro al morso – dei micidiali rettili: se il
bambino muore, o anche semplicemente se si mostra spaventato dai serpenti,
questo è il segno della sua estraneità alla stirpe degli Psilli e insieme la prova
inoppugnabile di un adulterio commesso dalla madre del piccolo18. Tra l’altro il
costume degli Psilli è noto anche a Plinio: secondo la versione fornita dal
naturalista, i serpenti si allontanano dai neonati legittimi, mentre aggrediscono i
bambini adulterino sanguine natos19. Ecco dunque i versi della Pharsalia:
Tanto confidano nel sangue: / appena un loro piccolo viene al mondo, / se temono che ci
sia contaminazione d’amore adulterino, / sottopongono l’incerto figlio alla prova
dell’aspide velenoso; / come l’uccello di Giove, quando sgusciano i piccoli / implumi
dal caldo uovo, li espone verso oriente; / quelli che riescono a sopportare i raggi e
tollerano / la luce senza distogliere lo sguardo, li serbano alla vita / nel cielo;
abbandonano quelli che cedono a Febo. Così / gli Psilli si garantiscono della razza, se
l’infante non inorridisce al contatto / dei serpenti, e gioca con loro quando gli sono
donati20.
In Lucano la nozione di adulterio è espressa mediante il nesso mixtura externae
veneris: un’espressione pregnante, difficile da tradurre, ma chiaramente allusiva
alla mescolanza di semi che ogni adulterio, secondo la “biologia selvaggia” dei
Romani, finisce col determinare21. Ciò che gli Psilli intendono scongiurare,
attraverso la prova cui sottopongono i nuovi nati, è dunque proprio la possibile
infiltrazione di un discendente spurio, estraneo alla stirpe cui abusivamente
pretende di appartenere; e analoghe finalità ha evidentemente per il poeta latino il
comportamento delle aquile – aquile senza ulteriori specificazioni, perché il
poeta Lucano, al contrario del naturalista Plinio, non ha evidentemente interesse
a fornire precise distinzioni tassonomiche.
A questo punto, smarrito per strada il puntuale ma non indispensabile
riferimento all’haliáetos, il racconto sulla “prova dell’aquila” ha ormai assunto la
configurazione che manterrà stabilmente nell’immaginario dei secoli successivi:
per limitarsi alla sola antichità, il motivo torna con maggiore o minore ampiezza
in Silio Italico, in Luciano, Eliano, Temistio, nello pseudo-Giuliano, in
Claudiano e così via, senza considerare per il momento la sua cospicua presenza
presso gli scrittori cristiani, cui faremo cenno nella parte finale di questo
contributo. Né la fortuna del racconto cessa con il naufragio del mondo antico: la
ricorrenza della prova dell’aquila nella letteratura, nella trattatistica scientifica,
nelle rappresentazioni iconografiche, nel complesso mondo degli emblemi si può
seguire sino alle soglie dell’Ottocento22.
In questa ininterrotta presenza, il passaggio dal mondo greco a quello
romano sembra costituire una prima soluzione di continuità: è in questo
passaggio, a quando pare, che il comportamento dell’aquila di mare viene riletto
attraverso un modello familiare alla cultura di arrivo, quello della prova del
sangue. Naturalmente, non possiamo escludere con certezza che una tale
interpretazione fosse già presente in una fonte ellenistica intermedia, oggi
perduta; forte è però il sospetto che essa vada invece accreditata proprio alla
ricezione romana delle dottrine aristoteliche, sospetto reso più verosimile dal
fatto che anche in altri racconti in cui la prova del sangue entra in gioco, essa
sembra fare la sua prima comparsa in testi riferibili alla cultura romana.
Torniamo ad esempio al caso degli Psilli, che Lucano associa strettamente a
quello dell’aquila. A differenza di quanto accade con l’haliaetos, in questo caso
le fonti greche a nostra disposizione sono numerose e coprono in modo
abbastanza omogeneo l’arco cronologico compreso fra Erodoto e l’età ellenistica.
Se però le eccezionali virtù immunitarie degli Psilli e le loro capacità curative
sono già largamente citate in ambito greco, è solo a partire da Varrone che a
queste notizie si affianca la menzione della prova cui gli Psilli sottopongono i
propri neonati23. Ed è ancora un autore latino, Claudio Eliano, a interpretare
come prova di legittimità, volta a distinguere «i figli genuini dai bastardi», il
comportamento di un altro animale, il coccodrillo, il quale uccide, tra i propri
piccoli, quello che alla nascita non si è subito avventato su una preda, laddove
l’unica altra fonte che menziona questo comportamento, il greco Plutarco, ne
parla come di una semplice misura eugenetica volta a eliminare un esemplare che
si sia dimostrato fiacco e poco aggressivo24. Al dossier va infine aggiunto un caso
ulteriore, sul quale è opportuno indugiare maggiormente perché ancora una volta
esso prende le mosse da Aristotele.
Nella Politica il filosofo attribuisce ai Celti e ad altre popolazioni “barbare”
l’abitudine di esporre sin dall’infanzia i bambini a condizioni climatiche estreme,
in particolare immergendoli nelle acque gelide di un fiume:
Cosa utile sarebbe l’abituare i bambini al freddo fin dalla loro prima infanzia per i
vantaggi che ciò dà alla salute e alle capacità guerresche. Per questo molti popoli
barbari hanno l’abitudine di immergere i neonati in un fiume freddo, oppure di coprirli
con una veste sottile, come avviene tra i Celti. Bisogna prendere fin da principio e
gradatamente tutte le abitudini che è possibile prendere, e i bambini, per il loro naturale
calore, sono adatti ad esercitarsi al freddo25.
In Aristotele il costume si giustifica con l’intento di abituare precocemente il
corpo maschile alle fatiche militari; i popoli che lo adottano, infatti, sono proprio
quelli che mirano a sviluppare nei propri membri l’attitudine alla guerra, come il
filosofo ha spiegato poco prima26.
Nei secoli successivi questo dato aristotelico è all’origine di due linee di
sviluppo, parzialmente indipendenti: da un lato sta una lunga serie di testi, sia
greci che latini, nei quali il precoce contatto con l’acqua gelata diventa segno
distintivo e nobilitante di infanzie eroiche come quella di Ercole o tratto
caratterizzante di popolazioni guerriere come i Rutuli di Virgilio; parallelamente,
a partire dalla tarda antichità l’immersione dei neonati è registrata da un numero
crescente di fonti come prova di legittimità, di volta in volta attribuita ai Galli o
ai Germani: i piccoli vengono esposti alle acque del Reno o, secondo una
variante appena più benevola, adagiati su uno scudo per essere poi abbandonati
alla corrente del fiume. Chi sopravvive a questa prova, di chiaro sapore ordalico,
è considerato legittimo, spurio, invece, chi soggiace al freddo o viene travolto
dalle acque: al punto che in età tardo-antica e bizantina l’espressione «Il Reno
smaschera il bastardo» era divenuta proverbiale, ed è talora associata all’altra, «Il
sole rivela quello che non è figlio dell’aquila»27.
In realtà, l’esistenza di un nesso diretto tra le notizie di Aristotele sui Celti e
le testimonianze tardo-antiche sull’ordalia del Reno non è riconosciuta da tutti gli
studiosi, anche per via del grande iato cronologico che separerebbe il filosofo dai
suoi presunti e creativi interpreti tardo-antichi; io suppongo però che il nesso vi
sia e ho creduto in altra sede di rintracciarne le tappe intermedie nella trattatistica
medica, da Sorano a Galeno a Oribasio28. Va detto che sulla prova del Reno le
fonti a nostra disposizione sono quasi tutte greche, anche se i loro autori sono
spesso strettamente legati a Roma e alla sua cultura; ed è anche possibile che il
motivo abbia un’origine del tutto indipendente da Aristotele, ad esempio nella
letteratura etnografica, o che rispecchi, magari deformandola o fraintendendola,
una pratica effettivamente in uso presso i Germani della tarda antichità.
Tuttavia, anche a non voler tener conto di quest’ultimo caso, certo meno
nitido dei precedenti, la tendenza generale appare chiara: in almeno tre dei
quattro esempi che abbiamo esaminato – le aquile marine, i coccodrilli, gli Psilli
–, se non si può escludere a priori che già fonti greche perdute introducessero il
motivo della prova di legittimità, è però significativo che quella interpretazione
dei dati è a noi nota solo da testi provenienti dalla cultura romana o comunque ad
essa riferibili.
4. Io credo che questa circostanza sia tutt’altro che casuale, legata ai capricci e
alle lacune della documentazione testuale, e che si giustifichi invece alla luce
dell’importanza centrale che la legittimità della discendenza – e l’ossessione
dell’adulterio, ad essa strettamente legata – riveste nella cultura romana29. Ad
analoghe considerazioni si presta il tema della rassomiglianza, che a quello della
legittimità è a sua volta intimamente connesso, pur non dipendendone
necessariamente: nel mondo romano ad un figlio si chiede anzitutto di
assomigliare al proprio padre; e quando ciò non accade, il diritto e il costume
mettono a disposizione di quest’ultimo una serie di strumenti per sanzionare e
rimuovere la colpevole anomalia. Che poi tale rassomiglianza consista nel
possesso di un certo insieme di virtù o nella capacità di fissare senza distogliere
lo sguardo la luce del sole conta meno della sostanziale isotopia che emerge tra
mondo umano e mondo animale30.
Ecco perché la cultura romana trasforma l’aquila aristotelica che
malthusianamente dimezza la propria nidiata per ottimizzare la redistribuzione
delle risorse alimentari in un’aquila latina che va a caccia del pulcino “degenere”
per espellerlo dalla linea di discendenza: migrando da un contesto culturale ad un
altro, le notizie aristoteliche sull’aquila marina si caricano di significati nuovi,
che certo non entrano in contraddizione con i dati offerti dalla fonte greca, ma
che quella fonte non implicava in alcun modo e che vanno dunque giudicati come
frutto del “lavoro simbolico” messo in campo dell’ambiente che le recepisce31.
Che la mancata legittimità dell’aquilotto vada intesa in senso proprio, nei termini
di un’origine adulterina, o nel significato più generico di una mancata o
imperfetta rassomiglianza alla stirpe di provenienza, la prova dell’aquila, insieme
agli altri racconti che ne condividono la medesima struttura di fondo, come
quello degli Psilli, si offriva in ogni caso come “buona per pensare” un nodo
centrale del codice culturale; d’altra parte, proprio la centralità di quel nodo
induceva a interpretare nei termini di un apologo sulla legittimità e sulla
rassomiglianza un comportamento che in origine, nella fonte greca che per prima
ne dà notizia, aveva tutt’altra spiegazione e significato.
5. Mi sia però consentito, prima di chiudere il mio intervento, di indagare un altro
momento della lunga fortuna dell’“aquila di Aristotele” a Roma. Quella fortuna è
infatti assicurata anche, come si è accennato, dalla cultura cristiana, che si
appropria precocemente del motivo e ne propizia il successivo passaggio al
Medioevo, grazie alla presenza della prova dell’aquila in autori della rilevanza di
Ambrogio, Girolamo o Agostino: si tratta allora di capire che tipo di funzione
gioca la ripresa di quel racconto in un contesto culturale e simbolico in larga
parte diverso rispetto a quello della tradizione “pagana” che lo aveva per prima
elaborato; si tratta, in altri termini, di verificare se anche in questo ulteriore
passaggio si determini una ristrutturazione della storia dell’aquila affine a quella
che abbiamo creduto di identificare nel traghettamento del motivo dalla Grecia a
Roma32.
In effetti, dopo una succosa ma rapida apparizione in Tertulliano, è da
Ambrogio, nel IV secolo d.C., che prende le mosse la fortuna cristiana dell’aquila
e della sua prova di legittimità. Il grande patriarca, come vedremo, rievoca il
motivo a più riprese nel corso della sua opera: sono almeno quattro i passi in cui
Ambrogio allude al comportamento del rapace nei confronti dei propri piccoli,
ma è in particolare nell’Esamerone che il tema viene sviluppato con notevole
ampiezza.
Come si sa, questo vasto commento al racconto biblico sulla creazione del
cosmo è strettamente modellato sull’omonima e quasi coeva opera di Basilio di
Cesarea: anche se la fortissima dipendenza dalla fonte non impedisce talora ad
Ambrogio di prendere le distanze dal suo modello. Una di queste occasioni di
dissenso riguarda proprio le aquile, e risulta dunque per noi particolarmente
interessante.
Nel suo insieme, Basilio si mantiene rigorosamente fedele ad Aristotele:
torna ancora una volta il dato del rapace che espelle dal nido uno dei pulcini
(«quando ha dato alla luce due pulcini, uno di loro lo scaraventa a terra,
respingendolo a colpi di ali»); soprattutto, la motivazione di quel comportamento
è individuata nel fatto che l’aquila è «quanto mai ingiusta (
α
)
nell’allevamento dei suoi piccoli» e giunge a rifiutare uno di essi pur di non
sottoporsi alla «fatica di nutrirlo (
φ
ἐπ π
)», un’espressione che
costituisce di fatto una variazione sinonimica di quella presente nella Historia
animalium,
ἐ
. Tutt’al più Basilio approfitta della circostanza
per lanciarsi in un’appassionata requisitoria contro la pratica dell’esposizione dei
neonati, alla quale evidentemente il comportamento delle aquile gli appare
assimilabile e che è ovviamente del tutto estranea ad Aristotele33.
Ecco invece come la medesima sezione è ristrutturata da Ambrogio:
Dell’aquila hanno parlato moltissimi autori per il fatto che ripudia i propri nati, ma non
entrambi, bensì un solo pulcino fra due. Alcuni hanno imputato un simile
comportamento alla pena di raddoppiare gli alimenti, ma ritengo difficile dare credito a
questa versione dei fatti. […] Credo invece che la sua severità non dipenda da avarizia
nel prestare il nutrimento, ma da rigore nel giudicare. Si dice infatti che essa metta
sempre alla prova coloro che ha generato, per evitare che la maestà, per così dire, della
sua stirpe fra tutti gli altri volatili venga inquinata dalla vergogna di un parto degenere.
[...] Essa dunque condanna il suo [pulcino] non per la durezza della propria natura, ma
per l’incorruttibilità del proprio giudizio, e non lo ripudia quasi che lo considerasse suo,
ma lo respinge alla stregua di un estraneo34.
Come si vede bene, Ambrogio fa sua l’ormai consolidata versione latina della
prova dell’aquila per come aveva preso forma inizialmente in Plinio e Lucano:
esclude che il comportamento del rapace dipenda da fastidium geminandorum
alimentorum o da avaritia nutriendi, o ancora da acerbitas naturae, come
riteneva Basilio sulla scorta di Aristotele; l’espulsione del pulcino incapace di
fissare il sole costituisce piuttosto per l’esegeta latino la sanzione per la mancata
rassomiglianza e per la colpevole assenza, nel discendente, dei caratteri che
l’aquila considera propri del suo genus. Siamo insomma ancora una volta di
fronte ad un caso in cui il raffronto tra la fonte greca e la sua ripresa in ambito
romano – raffronto in questo caso particolarmente probante, data l’assenza di
fonti intermedie e la contiguità cronologica fra i due autori – segnala una vistosa
differenza35.
Ma c’è dell’altro. Maria Pia Ciccarese, una studiosa alla quale dobbiamo
molto di quello che oggi sappiamo sul “bestiario cristiano” e sulla relazione tra
sapere zoologico classico ed esegesi biblica, rileva il fascino esercitato sugli
autori cristiani dalla prova dell’aquila, un fascino cui essi non sarebbero riusciti a
sottrarsi e che li avrebbe indotti a inserire il relativo racconto anche in contesti
esegetici o teologici ai quali non sarebbe stato strettamente pertinente36. Io credo
tuttavia che almeno in alcuni casi questa impressione possa essere precisata,
individuando ragioni più stringenti per spiegare il recupero, da parte di teologi e
interpreti delle Scritture, di un motivo tanto documentato negli autori “pagani”
quanto invece estraneo alla tradizione riflessa nella Bibbia, che attiva a proposito
dell’aquila altre e diverse valenze simboliche: anche se per fare questo la nostra
argomentazione dovrà partire da lontano.
In una delle liriche che compongono il Peristephanon liber, databili a
cavallo tra IV e V secolo d.C., Prudenzio fa proclamare ad uno dei martiri di cui
celebra la gloria una nuova nozione di nobiltà, non più misurata attraverso i
tradizionali parametri del sangue, dell’appartenenza di ceto o dell’esercizio delle
magistrature, ma legata esclusivamente alla militanza nella secta Christi, come il
poeta la definisce:
Non voglio che sia il sangue dei miei avi / a rendermi nobile, oppure la legge del
Senato: / è la nobile scuola di Cristo a dare lustro agli uomini37.
Nei versi successivi l’affermazione è ripresa e argomentata in termini più
puntuali:
Se tu, risalendo sin dagli inizi la successione del nostro stemma genealogico, / vuoi
sapere quale sia la nostra origine ultima, / è dalla parola di Dio padre che tutti siamo
venuti all’esistenza. / Chi si pone al servizio di Dio è autenticamente nobile; / chi, al
contrario, si oppone al padre si rivela degenere. / Un nuovo onore, insomma, si
aggiunge all’albero genealogico / e una grande rinomanza sopraggiunge, alla stregua di
quella legata all’esercizio di una magistratura / [...] / Piegati pure sulle mie membra,
carnefice, affinché io sia nobile! / Se mi sarò arricchito di questa vittoria / non stimerò
più nulla la stirpe di mio padre e mia madre38.
A questa pagina prudenziana si può accostare un passo del De consolatione
Philosophiae di Boezio, di oltre un secolo successivo, in cui ad essere chiamati in
gioco sono nuovamente i temi della nobiltà e della discendenza e il nuovo
significato che essi assumono nel contesto culturale cristiano:
L’intera stirpe umana che è sulla terra nasce da un’origine simile; / uno solo infatti è il
padre di tutte le cose, uno solo colui che governa l’universo. / [...] / Un seme nobile ha
generato dunque tutti i mortali. / Perché andate strepitando di stirpe e di antenati? Se
guardate alle vostre origini / e fissate lo sguardo su Dio come capostipite, allora nessuno
è degenere, / a meno che, perseguendo il male attraverso il vizio, non tradisca la propria
origine39.
Come si vede, entrambi gli autori saccheggiano massicciamente il lessico
genealogico latino, da stemma ad auctor, da parens a degener, da ortus a nobilis
a generosus, per non considerare i più ovvi pater, mater, germen, genus:
Prudenzio e Boezio immaginano evidentemente un lettore cui i meccanismi e il
linguaggio della genealogia siano pienamente familiari, e perciò possono
invitarlo a risalire a ritroso lungo i “gradini” della discendenza, fino a giungere al
capostipite dal quale si dipartono tutte le linee dello stemma40. E proprio come
poteva accadere negli alberi genealogici delle grandi gentes romane – i Fabi
discendenti di Ercole, i Giuli di Venere e così via –, anche qui al vertice della
lignée si colloca una divinità, chiamata a nobilitare l’insieme dei suoi
discendenti.
Del tutto nuova è però la cornice concettuale al cui interno quel linguaggio e
quelle esperienze, così familiari alla tradizione romana, sono ora evocati: anche
se si continua a parlare di albero genealogico, anche se voci come textus o
stemma richiamano ancora la fitta trama di fili che nelle grandi domus
aristocratiche congiungeva le imagines maiorum, la stirpe cui tanto Prudenzio
quanto Boezio fanno riferimento non coincide più con l’antica lignée gentilizia,
ma con una famiglia allargata il cui capostipite (auctor) si identifica ora con Dio
stesso e i cui membri sono quanti da Dio hanno avuto origine, e dunque,
potenzialmente, l’intera umanità. Se tutti gli uomini condividono il medesimo
auctor generis, se la famiglia umana è riconducibile nel suo complesso ad un
unico capostipite e può essere ricompresa entro la medesima stirpe, allora
nessuno è degener, nessuno può collocarsi al di fuori di un genus che si dilata al
punto da coincidere di fatto con l’intero genere umano. Lo stesso precoce
impiego della locuzione “figli di Dio” per indicare i credenti in Cristo avrà
facilitato un simile riuso del lessico della parentela, anche se esso viene applicato
ora a referenti nuovi e assume una portata decisamente più ampia.
Dicevo che la nuova nozione di legittimità si estende potenzialmente a tutta
l’umanità; di fatto, però, nelle stesse formulazioni di Prudenzio e Boezio questo
allargamento è destinato a rimanere virtuale, ammette eccezioni e possibili
esclusioni: chi è rebellis rispetto a Dio padre, chi coltiva i vizi e persegue il male,
ripudia nei fatti la propria figliolanza divina, si pone al di fuori di una
discendenza cui pure avrebbe titolo ad appartenere; se in linea di principio
nessun uomo è degener, di fatto la scelta di rifiutare la propria origine – ovvero,
più concretamente, di non riconoscere la dottrina religiosa che ha rivelato quella
origine – si risolve in un’auto-esclusione dalla stirpe che ha in Dio il proprio
capostipite e che pure comprende a rigore l’intera umanità.
Ora, è proprio all’interno di questa cornice, in questo gioco di inclusioni ed
esclusioni, che la prova dell’aquila torna a rivelarsi un utile correlativo simbolico
del discorso dottrinario. Anzitutto, il termine degener, presente sia in Prudenzio
che in Boezio, è lo stesso che compare sin dalla pagina di Plinio sull’aquila
marina e ritorna poi pressoché invariabilmente in tutte le riproposizioni e
variazioni di quel passo negli autori latini: dall’antichità romana e poi via via
lungo tutto il Medioevo, ovunque il pulcino estromesso dal nido è per l’appunto
definito degener, in quanto privo delle caratteristiche che dovrebbero sancirne
l’appartenenza al genus delle aquile, e lo scopo della prova cui viene sottoposto è
proprio quello di smascherare la sua abusiva pretesa di essere accolto in quello
stesso genus.
Ma nei testi cristiani c’è molto di più del semplice reimpiego di un termine
pur così pregnante e ormai consolidato nella vulgata sulla prova dell’aquila: ad
essere recuperato e risemantizzato è piuttosto il racconto nella sua interezza.
Ecco ad esempio in che modo l’aquila e i suoi pulcini trovano posto
nell’appassionata parenesi di Clemente Alessandrino:
Chi è colui che fugge da Dio per convivere con i demoni? Chi, potendo essere figlio di
Dio, gode di essere schiavo? Ovvero chi, potendo essere cittadino del cielo, cerca invece
le tenebre? [...] Non facciamoci dunque, non facciamoci ridurre in schiavitù, ma come
figli legittimi figli della luce leviamo gli occhi e guardiamo in alto verso la luce,
badando che il Signore non ci smascheri come spuri come fa il sole con le aquile (
υ ἡ ᾶ ἐ
ῃ
ὥ π
ἥ
)41.
Tutti gli uomini sono chiamati a riconoscersi “figli della luce”, come Clemente
proclama citando una locuzione desunta dalla Lettera agli Efesini di Paolo; ed è
probabilmente questa immagine a suggerirgli l’evocazione dell’aquila, anch’essa
pronta a scacciare quanti della luce solare si mostrino invece indegni, rivelandosi
per questa via
, “bastardi”42. Il nuovo padre che sottopone i propri figli alla
prova di legittimità è dunque ora Dio stesso, e la prova si estende a tutti gli
uomini, mentre la posta in gioco non è più, banalmente, l’accoglienza in una
linea di discendenza, ma nientemeno che l’adozione entro la figliolanza divina.
In Ambrogio il motivo torna in termini simili:
il Signore ci ha preso su di sé quando ci ha modellati, ci prende su di sé quando ci mette
al mondo [...] ci prende su di sé come l’aquila, che ha l’abitudine di esaminare i propri
figli, per tenere in vita e allevare quelli cui riconosce una nascita autentica e una natura
incontaminata e per respingere quelli in cui ha sorpreso sin dalla più tenera età la
debolezza di un’origine degenere43.
Anche in Ambrogio, come in Clemente, l’aquila è assimilata al dio cristiano;
anche qui, però, il fatto che la paternità divina si estenda a tutti gli uomini,
nessuno dei quali potrebbe venire al mondo se non per volere di Dio, non esclude
che la divinità possa disconoscere quanti di quella paternità si siano dimostrati
immeritevoli.
Infine, sul medesimo punto torna con maggiore chiarezza uno dei Sermones
attribuiti ancora ad Ambrogio:
Così dunque anche Cristo ama una sola Chiesa, come l’aquila il proprio pulcino, e la
protegge dal fuoco delle persecuzioni con l’ombra delle sue ali; così dunque getta fuori
dalla Chiesa coloro nei quali il lume della fede è vacillante, coloro che, contaminati dai
vizi del mondo, non sono in grado di sostenere la luce fiammeggiante del vangelo44.
In questa ulteriore riformulazione della prova dell’aquila, la famiglia nella quale
si può essere accolti o esclusi coincide con la Chiesa, figlia legittima del suo
fondatore divino; allo stesso modo la degenerazione, come in Prudenzio e
Boezio, non è più legata alla mancata rassomiglianza tra padri e figli o alla
presenza in questi ultimi di un sangue spurio, frutto di adulterio, né denuncia più
l’estraneità ad un ceppo gentilizio, ma coincide con il rifiuto di riconoscere la
nuova verità di cui il cristianesimo si proclama portatore: la paternità mancata o
tradita è ora quella di Dio stesso, che si presenta infatti, nell’ultimo passo di
Ambrogio che abbiamo citato, come colui che imbastisce la prova di legittimità e
ne sanziona il mancato superamento.
6. Nel riprendere dalla cultura latina “pagana” il tema della prova dell’aquila,
insomma, il pensiero cristiano lo riadatta alle proprie categorie, ne risemantizza i
significati, ma ne lascia sostanzialmente intatta la struttura narrativa, tuttora
funzionale agli scopi di quel pensiero. Nella formulazione che assumeva a partire
da Lucano e Plinio, le questioni che la vicenda dell’aquila consentiva di mettere a
tema erano quelle relative alla contaminazione della stirpe legata alla possibile
mixtura di una externa venus o quelle della mancata rassomiglianza tra padri e
figli che minaccia la continuità fra le generazioni, uno dei capisaldi della cultura
aristocratica romana. I cristiani continuano a esprimersi attraverso il lessico della
paternità e della discendenza, ma i significati veicolati da quel lessico sono
profondamente mutati: esiste un unico auctor e parens collettivo, che coincide
con Dio stesso, i cui filii sono tutti gli uomini da lui creati, almeno nella misura
in cui accettino di riconoscersi come membri della Chiesa; questo mutamento,
però, non fa che riformulare in altri termini la paura dell’adulterio e spostare su
un piano più ampio il problema della degenerazione, la necessità di identificare
ed espellere dal gruppo quanti si mostrino a vario titolo indegni di farne parte45.
Insomma, l’antico racconto relativo all’aquila marina poteva rendere ancora
un utile servizio simbolico alla nuova cultura che lo impiegava: la purezza da
difendere non è più quella del sangue aristocratico, ma quella della retta fede, la
mixtura che si intende scongiurare non nasce più dall’immissione all’interno
della stirpe di un seme adulterino, ma dall’abbandono “adulterino” dell’unica
verità a favore di dottrine ad essa estranee; il fatto poi che la comunità ecclesiale
si percepisca secondo l’immagine e l’immaginario della famiglia facilita il
reimpiego di un racconto relativo in origine proprio alla difesa dell’integrità
familiare.
Ma con queste ultime osservazioni il volo dell’aquila di Aristotele nei cieli di
Roma fuoriesce definitivamente dalla portata del nostro sguardo; quel volo sarà
ancora lungo nella cultura europea, sino a giungere, come si è accennato, alle
soglie della piena modernità; ma illustrarne le tappe ulteriori esula dai confini di
questo convegno e potrà forse essere materia di un incontro a venire. Merci
beaucoup.
Mario Lentano
Università di Siena (Italia)
Note
* In apertura di questo contributo desidero ringraziare ancora una volta gli organizzatori
del colloquio strasburghese per il cortese invito che mi hanno rivolto; la mia gratitudine
va inoltre a Pietro Li Causi e a Luigi Spina per aver letto queste pagine con affettuosa
dottrina.
1. Cfr. in particolare W. G. Arnott, Peripatetic Eagles: A New Look at Aristotle,
Historia animalium 8 (9).32, 618b18-619a14, in A. F. Besson, W. Dominik (eds.),
Literature, Art, History: Studies on Classical Antiquity and Tradition in Honour of W. J.
Henderson, Frankfurt am Main 2003, pp. 225-34; Id., Birds in the Ancient World from A
to Z, London-New York 2007, s.v. haliaetos. Cfr. anche J. Pollard, Birds in Greek Life
and Myth, London 1970, pp. 77-78.
2. Historia animalium,
sono di chi scrive.
3. Historia animalium,
α
α
’
α
φ , α
ἐ
π
φ .
IX,
IX,
619a 4 ss. Quando non diversamente indicato, le traduzioni
620a 1 ss.:
ὰὄ απ
υ
π
υ π
’
ἥ
π
φ α
, α
α
α
ἐ
, α
υ
,
π
ὰ
π
ί ,
4. Cfr. Historia animalium, VI, 563a 16-19.
5. Cfr. rispettivamente VI, 563a 22 e IX, 619b 28.
6. Cfr. X, 10: Haliaetus tantum, implumes etiamnum pullos suos percutiens, subinde
cogit adversos intueri solis radios et, si coniventem umectantemque animadvertit,
praecipitat e nido velut adulterinum atque degenerem. Illum, cuius acies firma contra
stetit, educat (trad. di E. Giannarelli lievemente modificata).
7. In haliae(e)tus viene trasformato Niso secondo il mito raccontato, tra l’altro, nella
Ciris pseudo-virgiliana (dove lo zoonimo ricorre ai vv. 204 e 528), nelle Metamorfosi di
Ovidio (VIII, 146), in Igino (Fabulae, 198).
8. Si tratta dei passi aristotelici citati alla nota 5. Un confronto minuzioso e un po’
malevolo tra Plinio e la sua fonte aristotelica è condotto da F. Capponi, Le fonti del X
libro della Naturalis Historia di Plinio, Genova 1985, in particolare pp. 52-53 a
proposito del cap. 10; più in generale sulla presenza di Aristotele in Plinio cfr. ora P. Li
Causi, Le metamorfosi di un filosofo. Tracce, presenze e mutazioni di Aristotele nella
zoologia di Plinio, in “Annali on line Lettere-Ferrara”, 4.2, 2009, pp. 68-98. La notizia
aristotelica secondo la quale l’aquila marina si libera di uno degli aquilotti per il fastidio
di nutrirlo è ripresa da Plinio più avanti (x, 13: alterum expellunt taedio nutriendi), ma
viene attribuita alle aquile nel loro complesso; in X, 6 di afferma che l’“aquila nera”, o
melanaetos, è la sola ad allevare i propri piccoli, mentre ceterae, ut dicemus, fugant.
9. Aristotele, Historia animalium,
modificata).
IX,
619a 8-11 (trad. di P. Li Causi lievemente
10. Sul punto va consultato P. Li Causi, Generare in comune. Teorie e rappresentazioni
dell’ibrido nel sapere zoologico dei Greci e dei Romani, Palermo 2008, in particolare
pp. 76 ss. Ai passi citati da Li Causi si può aggiungere Basilio di Cesarea, Esamerone,
VII, 6, 1: «l’accoppiamnento della vipera con la murena è un adulterio (
ία) della
natura» (trad. di M. Naldini).
11. Plinio il Vecchio, Naturalis historia, X, 27 (trad. di E. Giannarelli). La fonte è anche
in questo caso aristotelica, cfr. Historia animalium, VI, 7, 563 b e Capponi, Le fonti del
X libro, cit., pp. 73 ss. Cfr. anche D. W. Thompson, A Glossary of Greek Birds, LondonOxford 1936 (rist. Hildesheim 1966), pp. 151 ss.; F. Capponi, Ornithologia Latina,
Genova 1979, pp. 169 ss.; Arnott, Birds in the Ancient World, cit., pp. 102 s.; sulla
percezione del cuculo nelle culture antiche cfr. ora M. Bettini, Voci. Antropologia
sonora del mondo antico, Torino 2008, pp. 137 ss.
12. Ben diversamente vanno le cose in uno dei mirabilia raccolti negli Otia imperialia
di Gervasio di Tilbury (circa 1215): «Racconterò una cosa straordinaria e arcinota a
tutta la gente della nostra città di Arles. Le cicogne hanno l’abitudine dai tempi più
antichi di nidificare nei muri e nelle torri della città. Nel periodo dunque della cova delle
uova deposte, qualcuno sconsideratamente aggiunse un uovo di corvo alle uova di
cicogna; così l’uovo, stimolato dal calore in mezzo alle altre, produsse debitamente,
secondo natura, un piccolo corvo. Il corvo crebbe, e quando la cicogna maschio si
avvide che il piccolo era del tutto dissimile da quelli della propria specie, lo proclamò a
gran voce al gruppo dei suoi simili. Le cicogne si radunarono, si introdusse l’imputata,
uno sbattere di becchi formulò l’accusa; venne mostrato il piccolo, discordante rispetto
a quella che avrebbe dovuto essere la sua natura e venne accolto come testimonianza
presuntiva, il che bastò per la condanna della supposta madre. Denudati quindi madre e
figlio putativo del loro piumaggio, furono fatti precipitare insieme secondo il verdetto
dall’alto di una torre e trovarono la morte» (III, 97, trad. di F. Latella).
13. Plinio ricorre alla categoria dell’adulterio anche in contesti diversi da quelli relativi
al mondo animale, ad esempio a proposito dell’innesto, una tecnica largamente praticata
dagli antichi, che mettendo a contatto piante di specie diversa produce un individuo
vegetale ibrido e non riducibile a nessuna delle sue matrici biologiche, cfr. Naturalis
historia, XVII, 8: ob hoc insita et arborum quoque adulteria excogitata sunt, ut nec
poma pauperibus nascerentur; cfr. anche IX, 139: set alia e fine initia, iuvatque ludere
inpendio et lusus geminare miscendo iterumque et ipsa adulterare adulteria naturae.
Non a caso in Ovidio, Metamorphoses, IV, 372 ss. l’immagine dell’innesto è evocata in
relazione alla fusione ormai inestricabile di Ermafrodito e della ninfa Salmacide. Cfr.
anche Tertulliano, De cultu feminarum, I, 8, 2 (sull’impiego delle tinture in ambito
tessile): quis enim est vestis honor iustus de adulterio colorum iniustorum? Altri passi
utili nel commento ad loc. di S. Isetta, in Tertulliano, L’eleganza delle donne, Bologna
2010.
14. Sul punto mi permetto di rinviare a M. Lentano, L’heautontimoroumenos di
Terenzio e quello di Valerio Massimo. Due note sulla paternità punita, in “Dioniso”, 5,
2006, pp. 82-93.
15. Cfr. L. Beltrami, Il sangue degli antenati. Stirpe, adulterio e figli senza padre nella
cultura romana, Bari 1998, pp. 38 ss.; Li Causi, Generare in comune, cit., pp. 93 ss.
16. Nel caso del corvo tale marca identitaria non può che essere, evidentemente, la
nerezza del piumaggio; ecco perché, secondo Isidoro, il corvo non nutre i propri piccoli
sin quando non li abbia riconosciuti per suoi dal colore; «quando, però, vede che il loro
piumaggio è nero, li riconosce definitivamente (in toto agnitos) e li alimenta con
maggiore abbondanza» (Etymologiae, XII, 7, 43, trad. di A. Valastro Canale). Da Isidoro
il motivo transita poi nei bestiari e nelle enciclopedie medievali, cfr. L. Morini (a cura
di), Bestiari medievali, Torino 1996, ad indicem; Brunetto Latini, Trésor, I, 157 ecc.
17. Di prove di legittimità nel mondo romano ho discusso a lungo nel mio La prova del
sangue. Storie di identità e storie di legittimità nella cultura latina, Bologna 2007, cui
mi permetto qui di rinviare.
18. Sugli Psilli e la loro “prova del sangue” ho raccolto fonti e bibliografia ivi, pp. 29 ss.
19. Plinio, Naturalis historia,
VII,
14: Horum corpori ingenitum fuit virus exitiale
serpentibus et cuius odore sopirent eas; mos vero liberos genitos protinus obiciendi
saevissimis earum eoque genere pudicitiam coniugum experiendi, non profugientibus
adulterino sanguine natos serpentibus.
20. Lucano, Pharsalia, IX, 898-908: Fiducia tanta est / sanguinis: in terras parvus cum
decidit infans, / ne qua sit externae Veneris mixtura timentes, / letifica dubios explorant
aspide partus; / utque Iovis volucer, calido cum protulit ovo / implumis natos solis
convertit ad ortus: / qui potuere pati radios et lumine recto / sustinuere diem, caeli
servantur in usus, / qui Phoebo cessere iacent: sic pignora gentis / Psyllus habet si quis
tactos non horruit angues, / si quis donatis lusit serpentibus infans.
21. Che il nesso externa venus alluda all’adulterio è confermato, se ce ne fosse bisogno,
da Ovidio, Metamorfosi, XIV, 380 (nec Venere externa socialia foedera laedam), dove
la “venere estranea” si contrappone espressamente ai socialia foedera del matrimonio
nelle parole di Pico sedotto da Circe (sul passo di Ovidio cfr. ora M. Bettini, C. Franco,
Il mito di Circe. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, Torino 2010, pp. 260 ss.).
Sulle convinzioni dei Romani in merito alla “mescolanza” del seme cfr. M. Bettini,
L’incesto di Fedra. Sulla “biologia selvaggia” dei Romani, ora in Id., Affari di
famiglia. La parentela nella letteratura e nella cultura antica, Bologna 2010, pp. 22138. Notiamo infine che l’espressione mixtura externae veneris riecheggia i termini
adottati da Aristotele in riferimento alle aquile gnésioi e che abbiamo poc’anzi
ricordato: se infatti mixtura rimanda al greco ί υ , il nesso externa venus riprende,
sul piano del significato se non su quello del significante, il verbo
presente
nella pagina aristotelica.
22. Rudolf Wittkower, il grande storico berlinese che ha ricostruito uno dei filoni di
questa fortuna, quello relativo alle espressioni artistiche del motivo, ne ha segnalato
infatti le manifestazioni più recenti nell’ultimo scorcio del XVIII secolo; cfr. R.
Wittkower, L’aquila e il serpente, in Id., Allegoria e migrazione dei simboli, Torino
1987, p. 78, nota 192. In relazione alla cultura francese cfr. anche E. Rolland, Faune
populaire de la France. Noms vulgaires, dictons, proverbs, légendes, contes et
superstitions, vol. IX, Oiseaux sauvages, Paris 1967, pp. 9 ss.
23. Per la relativa documentazione rimando ancora alle mie pagine citate alla nota 14.
Pace Ch. R. Raschle, Pestes harenae. Die Schlangenepisode in Lucans Pharsalia (IX
587-949), Frankfurt am Main 2001, pp. 70 e 351, da Eliano, La natura degli animali,
XVI, 27 non si deduce affatto che la notizia sulla prova di legittimità degli Psilli fosse
già nel filosofo, storico e geografo ellenistico Agatarchide di Cnido; Eliano delimita
chiaramente la sezione del capitolo in cui sta parafrasando Agatarchide, concludendo
poi in prima persona: «Ho già detto precedentemente che gli Psilli, per verificare se un
neonato sia loro figlio genuino oppure un bastardo ecc.» (trad. di F. Maspero). Il
rimando si riferisce al capitolo I, 57, dove Eliano non cita affatto Agatarchide come
fonte, ma un non meglio precisato lógos libico del quale dichiara peraltro di non fidarsi
pienamente («se queste cose che i Libici raccontano sono fanfaluche, sappiano che non
ingannano me, ma loro stessi»), laddove invece rispetto ad Agatarchide non si riscontra
mai una simile presa di distanza. Plinio menziona a sua volta Agatarchide a proposito
degli Psilli, ma ha presenti anche altre fonti (ad esempio Varrone, espressamente citato).
24. Si tratta rispettivamente di Claudio Eliano, La natura degli animali, IX, 3 e Plutarco,
L’intelligenza degli animali, 34, 981 c-d. Noto di passata che Eliano conosce anche il
comportamento dell’aquila, naturalmente nella sua interpretatio latina, cfr. La natura
degli animali, II, 26.
25. Aristotele, Politica, VII, 17, 1337a 12 ss. (trad. di C. A. Viano).
26. VII, 17, 1337a 6-7.
27. Sull’intera problematica rimando alla documentazione che ho raccolto in I Germani
e l’ordalia del Reno, un mito etnografico, in “Invigilata lucernis”, 28, 2006, pp. 109-31;
tra le numerose attestazioni della notizia mi limito a citare un frammento anonimo
conservato nell’Antologia palatina e databile anch’esso al IV secolo: «Fanno i Celti
animosi nell’onda gelosa del Reno / come un vaglio di figli, né padri si sentono ancora /
ove non vedano il bimbo dall’acqua divina lavato. / Ché non appena, sgusciando dal
grembo materno, l’infante / versa la lacrima prima, da sé sollevandolo il padre / colloca
sopra uno scudo suo figlio né d’altro si cura: / del genitore il cuore non ha né la mente:
provarlo / prima dovrà nei lavacri del fiume che vaglia le nozze. / Dopo il parto la
madre, dolore sommando a dolori, / anche se il padre del bimbo sa bene chi sia,
nell’attesa / trema – non sa che disegno quell’onda mutevole celi» (IX, 125, trad. di F.
M. Pontani).
28. I Germani e l’ordalia del Reno, cit. Il recentissimo commento ad una delle fonti
sulla prova dei Germani (il cosiddetto Paradossografo vaticano) non aggiunge ulteriori
dati: alludo a J. Stern, Paradoxographus Vaticanus, in “Trends in Classics”, 2.1, 2010,
pp. 437-66, in particolare p. 455.
29. Una sola, autorevole testimonianza per tutte: «Un cittadino romano [...] era
perseguitato da due fantasmi: che gli si “attribuisse” un figlio – e contro questo terrore il
diritto moltiplicò il numero dei “guardiani del ventre” – ma anche che il “ventre”
dissimulasse l’erede sottraendolo così al padre» (Y. Thomas, Roma: padri cittadini e
città di padri (II secolo a.C.-II secolo d.C.), in Storia universale della famiglia, vol. I,
Antichità, Medioevo, Oriente antico, trad. it. Milano, pp. 200-201).
30. Anche sulla questione della rassomiglianza nella cultura romana mi limito ad un
unico rimando tra i molti possibili: M. Bettini, Il ritratto dell’amante, Torino 1992, pp.
211 ss.
31. Una circostanza che ci ricorda una volta di più come nel titolo prescelto per questo
convegno, Aristoteles Romanus, l’aggettivo conta almeno tanto quanto il sostantivo.
32. Un elenco certamente non esaustivo delle fonti cristiane tardo-antiche e medievali
che riprendono la prova dell’aquila ho fornito in La prova del sangue, cit., p. 26, nota
30.
33. Basilio di Cesarea, Esamerone, VIII, 6, 1-2: «L’aquila è quanto mai ingiusta
nell’allevamento dei suoi piccoli. Quando ha dato alla luce due pulcini, uno di loro lo
scaraventa a terra, respingendolo a colpi di ali; e accetta solo l’altro e lo riconosce per
suo (
ῦ α ), rifiutando quel che ha generato per la fatica di nutrirlo» (trad. di M.
Naldini lievemente modificata).
34. Ambrogio, Hexaemeron, V, 18, 60: Aquila quoque plurimo sermone usurpatur quod
suos abdicet fetus, sed non utrumque, verum unum ex pullis duobus. Quod aliqui fieri
putaverunt geminandorum alimentorum fastidio. Sed id non arbitror facile credendum.
[…] puto non avaritia nutriendi eam inclementem fieri, sed examine iudicandi. Semper
enim fertur probare quos genuit; ne generis sui inter omnes aves quoddam regale
fastigium degeneris partus deformitas decoloret. [...] Non ergo eum [scil. suum pullum]
acerbitate naturae, sed iudicii integritate condemnat nec quasi suum abdicat, sed quasi
alienum recusat. Al successivo par. 61 Ambrogio riprende, più sobriamente, la
polemica basiliana contro l’esposizione dei neonati: Aquila vero si proicit, non quasi
suum proicit, sed quasi degenerem non recognoscit: nos, quod peius est, quos nostros
recognoscimus abdicamus.
35. Particolarmente interessante è anche l’impiego da parte di Ambrogio di un verbo
come abdicare (quod suos abdicet fetus, ripreso poi alla fine del par. 60 e nel par. 61 a
proposito degli uomini, cfr. nota 34): la abdicatio è infatti nella cultura romana il
provvedimento del padre che allontana dal proprio cospetto, espellendolo dal nucleo
familiare, il figlio che si sia dimostrato indegno della propria famiglia e dei propri
antenati. In questo senso, abdicatio e “degenerazione” sono strettamente connesse: è
proprio la constatazione della seconda a far scattare nel padre la decisione di procedere
alla prima. Ho raccolto pensieri e bibliografia sulla abdicatio in Signa culturae. Saggi di
antropologia e letteratura latina, Bologna 2009, pp. 61 ss. e in G. Brescia, M. Lentano,
Le ragioni del sangue. Storie di incesto e fratricidio nella declamazione latina, Napoli
2009, pp. 76 ss.
36. Cfr. M. P. Ciccarese, Il simbolismo dell’aquila. Bibbia e zoologia nell’esegesi
cristiana antica, in “Civiltà classica e cristiana”, 13.3, 1992, pp. 295-333, in particolare
pp. 300-13; Ead., Animali simbolici. Alle origini del bestiario cristiano, vol. I, Agnellogufo, Bologna 2002, pp. 109-38.
37. Prudenzio, Peristephanon liber, X, 123-125: absit, ut me nobilem / sanguis parentum
praestet aut lex curiae; / generosa Christi secta nobilitat viros.
38. Vv. 126-140: Si, prima nostris quae sit incunabulis / origo, textu stemmatis
recenseas, / dei parentis esse ab ore coepimus. / Cui quisque servit, ille vere est nobilis,
/ patri rebellis invenitur degener. / Honos deinde stemmati accedit novus / et splendor
ingens ut magistratus venit / […] incumbe membris, tortor, ut sim nobilis! / His
ampliatus si fruar successibus, / genus patris matrisque flocci fecero.
39. Boezio, De consolatione Philosophiae,
III,
carm. 6: Omne hominum genus in terris
simili surgit ab ortu; / unus enim rerum pater est, unus cuncta ministrat. / […] /
Mortales igitur cunctos edit nobile germen. / Quid genus et proauos strepitis? Si
primordia vestra / auctoremque deum spectes, nullus degener exstat, / ni vitiis peiora
fovens proprium deserat ortum.
40. Su lessico e struttura dello stemma gentilizio cfr. M. Bettini, Antropologia e cultura
romana. Parentela, tempo, immagini dell’anima, Roma 1986, pp. 176 ss.
41. Clemente Alessandrino, Protrettico, 10.
42. Cfr. Paolo, Lettera agli Efesini, 5, 6-8: «Nessuno vi inganni con vani ragionamenti:
per queste cose infatti piomba l’ira di Dio sopra coloro che gli resistono. Non abbiate
quindi niente in comune con loro. Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel
Signore. Comportatevi perciò come i figli della luce».
43. Ambrogio, De interpellatione Iob et David, IV, 5, 21: Suscepit ergo nos dominus,
quando nos finxit; suscipit et quando iubet nasci. [...] Sicut aquila suscipit, quae fetus
suos examinare consuevit; ut teneat atque enutriat, quibus veri indolem partus et
incorruptae gratiam naturae astipulari adverterit; aut repellat, in quibus degeneris
originis infirmitatem in tenera adhuc aetate deprehenderit.
44. Ambrogio, Sermones, 46, 5: Ita ergo et Christus Dominus unam diligit Ecclesiam,
ut aquila nidum suum; quam ab aestu persecutionum alarum suarum defendit
umbraculo: sic quoque extra ecclesiam proicit, in quibus fidei lumen infirmum est, qui
igneam evangeliorum lucem vitiis aecularibus inquinati ferre non possunt. La quarta e
ultima ricorrenza, salvo errore, della prova dell’aquila in Ambrogio è nella In Psalmum
David CVIII expositio, 19, 13, in cui merita di essere segnalato il fatto che la prova
dell’aquila è citata dal patriarca come testimonianza della giustizia divina che pervade
tutta la natura e si manifesta anche nel mondo animale: siamo ancora una volta agli
antipodi di Basilio, che giudicava invece
α
il comportamento del rapace.
45. Proprio la nozione di “adulterio” può essere utilizzata infatti dagli autori cristiani per
indicare la scelta di seguire dottrine diverse da quella ortodossa – un’immagine che
nasce come conseguenza dell’interpretazione in termini nuziali del rapporto fra Cristo e
la Chiesa –, come accade ad esempio in Homiliae Clementinae, 3, 28: «Bisogna dunque
ascoltare l’unico e solo profeta della verità, sapendo che il discorso seminato da una
persona diversa, comportando l’accusa di adulterio (
α
α), sarà cacciato
dal suo regno come dallo sposo» (ma anche il seguito del paragrafo è interessante nel
senso che qui ci riguarda). Per l’ambito latino è sufficiente il rimando a Tertulliano, De
idololatria, 1: Nam qui falsis deservit, sine dubio adulter est veritatis, quia omne falsum
adulterium est.