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L'aquila di Aristotele. Avventure simboliche dell'haliáetos nel mondo romano

2013

L’aquila di Aristotele. Avventure simboliche dell’haliáetos nel mondo romano* 0. Le avventure cui allude il titolo del mio intervento, e che vorrei qui succintamente ricostruire, hanno come protagonista l’aquila marina, o haliáetos, un rapace la cui puntuale identificazione ha dato non poco filo da torcere ai moderni ornitologi e resta tuttora congetturale1. Per fortuna, dall’ottica particolare in cui esamineremo i testi antichi relativi a questo uccello la questione risulta per noi secondaria: dell’aquila marina ci interessano infatti non tanto i tratti anatomici o le caratteristiche etologiche, ma la vicenda simbolica, il suo aver attraversato più di una stagione culturale rivelandosi di volta in volta “buona per pensare” alcuni nodi centrali dei sistemi di pensiero che l’hanno via via adottata. 1. In principio è Aristotele, naturalmente, nella cui Historia animalium l’haliáetos è una delle sei specie in cui si articola il variegato universo delle aquile: Un’altra varietà è rappresentata dalle cosiddette aquile marine: esse hanno un collo grande e pieno, le ali ricurve, la coda larga; abitano presso il mare e le coste; quando capita loro di catturare una preda e non sono in grado di trasportarla, spesso ne sono trascinate sul fondo del mare2. Più avanti Aristotele integra questo profilo iniziale con la menzione di un singolare comportamento dell’aquila marina: L’aquila di mare ha la vista molto penetrante e costringe i propri piccoli, quando sono ancora privi di piume, a puntare lo sguardo verso il sole, battendoli e volgendoli a forza se rifiutano di farlo; e tra i due quello i cui occhi per primi si bagnano di lacrime viene ucciso, l’altro invece è allevato3. «Tra i due», afferma la Historia animalium: le aquile infatti, come Aristotele ha già spiegato in precedenza, depongono tre uova, ma ne fanno schiudere di norma solo due e allevano uno solo dei nuovi nati4. Cosa induca nell’aquila marina questo particolare comportamento nei confronti dei suoi piccoli Aristotele non lo dice in questa sede, ma il lettore può ricavarlo agevolmente dalle informazioni altrove fornite sulle aquile nel loro complesso: nel sesto libro della Historia animalium, ad esempio, Aristotele afferma che tutte le aquile cacciano dal nido uno degli aquilotti perché infastidite ἐ dall’onere di nutrirlo ( φ ); nel nono libro si parla invece di dell’aquila, uccello estremamente vorace e proprio per questo poco incline a dividere il cibo con i pulcini allorché questi iniziano a crescere ed entrano dunque in competizione con i genitori nella spartizione della preda5. In ogni caso, il comportamento dell’haliáetos presenta una sua propria specificità rispetto a quello delle specie congeneri: l’aquila marina non attende neppure che i propri piccoli abbiano raggiunto una certa taglia per espellerli dal nido, ma l’uccisione del nuovo nato avviene subito dopo la schiusa delle uova. 2. Nel mondo romano la trattazione aristotelica sull’haliáetos è ripresa da Plinio il Vecchio, nella sezione ornitologica della Naturalis historia: Solo l’aquila marina, battendo i suoi piccoli quando sono ancora implumi, li costringe subito a fissare i raggi del sole e, se si accorge che uno di essi serra gli occhi o li bagna di lacrime, lo getta giù dal nido come bastardo e degenere; alleva invece quello la cui vista è rimasta salda6. La dipendenza di Plinio dal trattato aristotelico è fuori discussione: tra l’altro Plinio è l’unico, come vedremo, a rispettare la terminologia dello Stagirita, traslitterando senz’altro il nome greco dell’aquila marina e coniando un haliaetus che ha in latino rarissime attestazioni7. Anche le differenze con la fonte greca si spiegano facilmente postulando che Plinio abbia tenuto conto del più ampio contesto aristotelico, estendendo all’aquila marina caratteri o comportamenti che la Historia animalium riferisce al genere delle aquile nella sua interezza: così, l’affermazione secondo cui l’haliaetus si limita a precipitare dal nido il pulcino che non riesce a fissare il sole, laddove Aristotele parla senz’altro di soppressione del piccolo aquilotto ( π ί ), risente probabilmente dei passi, cui abbiamo fatto cenno, nei quali alle aquile in generale è attribuita l’abitudine di scacciare precocemente dal nido i piccoli per la difficoltà di assicurare loro il nutrimento o per evitare di dividerlo con essi8. Anche la definizione del pulcino bandito dal nido come adulterinus risente forse del più ampio contesto aristotelico: subito dopo la descrizione dell’haliáetos la Historia animalium menziona infatti un’ultima specie di aquile chiamate “pure”, gnésioi, per il fatto di essere le uniche a non nascere da incroci con altre specie: Esiste ancora un altro genere di aquila, vale a dire quella detta gnésios. Si dice infatti che queste aquile si distinguano dalle altre aquile e anche dagli altri uccelli perché sono le uniche ad essere, per l’appunto, gnésioi, vale a dire di razza pura. Gli altri generi sono frutto di mescolamenti e di adulteri ( α α ί υ α ) l’uno per mezzo dell’altro, sia che si tratti di aquile, sia di sparvieri, sia di uccelli di taglia piccolissima9. Come si vede, già Aristotele ricorre alla categoria di ία, oltre a quella di “mescolanza”, per indicare la tendenza delle aquile, con l’eccezione appunto degli gnésioi, a riprodursi mediante fecondazione con altre specie o con uccelli appartenenti a specie diverse10; è un uso estremamente interessante, che introduce all’interno della trattazione scientifica un elemento esplicitamente valutativo su un aspetto cruciale del comportamento animale come quello legato alla riproduzione; la categoria è comunque abbastanza ben attestata in greco, ma è nota anche a Plinio, che la adotta, tra l’altro, a proposito del cuculo, ancora una volta riprendendo e rielaborando materiale aristotelico. Questo uccello infatti, a causa della propria debolezza, è incapace di procedere alla schiusa delle proprie uova; cerca perciò nidi in cui una femmina stia covando uova per quanto possibile simili alle proprie e ve le mescola; in questo caso però l’“adulterio” passa inosservato, anzi sortisce il paradossale effetto di determinare l’espulsione della discendenza “legittima”: La femmina alleva dunque il piccolo cuculo, che è stato introdotto così nel nido contaminato (subditum adulterato [...] nido). [...] Questa si rallegra per il bell’aspetto che ha, e si congratula con se stessa, perché ha generato un simile esemplare; i suoi piccoli, paragonandoli con questo, li considera come bastardi (damnat ut alienos) e lascia che alla sua presenza muoiano di fame, finché il cuculo, già capace di volare, assale anche lei11. Uccello debolissimo – l’unico, a dire di Plinio, ad essere ucciso dagli esemplari della sua stessa specie –, pavido, proverbialmente pigro, costretto a riprodursi di nascosto, il cuculo si pone per molti versi agli antipodi dell’aquila; eppure grazie alla sua astuzia esso si prende la propria vendetta: non solo riesce a far schiudere le proprie uova, ma i suoi pulcini si impongono sulla nidiata legittima e finiscono persino per assalire la propria nutrice, in una sorta di rovesciamento speculare dell’aggressività dimostrata dall’aquila nei confronti di uno dei due implumi che ha generato12. Quel che più conta dal nostro punto di vista, Plinio ricorre ancora una volta alla terminologia dell’adulterio, come aveva fatto pochi paragrafi prima a proposito dell’aquila marina13. La ricerca puntigliosa di corrispondenze e divergenze tra Aristotele e Plinio rischia però di risultare un po’ sterile; più utile è semmai osservare come sia il taglio complessivo della sezione sull’haliaetus a distinguere più marcatamente la fonte greca dalla sua ripresa in ambito romano. Definendo adulterinum atque degenerem il pulcino scacciato dal nido, Plinio finisce infatti per ribaltare il punto di vista della Historia animalium: non è una colpa o un tratto caratteriale dell’aquila – di volta in volta identificato nel “fastidio” o nell’“invidia” – a determinare la scelta di bandire uno degli aquilotti, ma una mancanza o insufficienza di quest’ultimo, che l’haliaetus si limita a identificare e sanzionare. Ad essere in gioco, insomma, non è la presunta ingiustizia dell’aquila, la sua malevola disposizione verso la prole, ma semmai un deficit imputabile alla sua discendenza, allorché questa si rivela indegna del genus cui pretende di appartenere. Tutto questo, diciamolo subito, dà alla pagina della Naturalis historia un sapore molto romano: l’aquila di Plinio ricorda infatti da vicino l’inflessibile pater familias che di fronte ad atteggiamenti o comportamenti “degeneri” dei figli li punisce relegandoli in campagna o allontanandoli dal proprio cospetto o talora senz’altro mettendoli a morte14. Ma molto romana è anche l’ossessione per la purezza della stirpe, il timore che il sangue paterno sia adulterato dall’immissione di un seme estraneo, con il risultato di confondere e obliterare la linea di discendenza proprio nel delicato momento di passaggio da una generazione all’altra. Non a caso l’abusiva penetrazione all’interno di un albero genealogico di un membro ad esso estraneo si esprime in latino attraverso termini e immagini che rimandano alla pratica dell’innesto: una circostanza che da un lato appare coerente con il più generale ricorso a metafore di tipo “arboreo” in riferimento alla parentela, dall’altro sembra costituire il rovesciamento speculare della definizione pliniana di innesto come “adulterio degli alberi”15. In Plinio, insomma, l’esposizione dei piccoli aquilotti alla luce solare assolve alla funzione di un vero e proprio test: per l’aquila marina si tratta di smascherare l’eventuale presenza nella nidiata di un pulcino spurio, frutto di un accoppiamento “adulterino” e proprio per questo “degenere”; a tale scopo l’haliaetus imbastisce una prova che chiama in causa la più identificante fra le caratteristiche di questa specie, la straordinaria acutezza della sua vista, una sorta di marca identitaria la cui assenza basta da sola, evidentemente, a escludere l’appartenenza del nuovo nato al genus di cui pretende di far parte16. Questa griglia di lettura è del tutto assente, come si è visto, nella fonte aristotelica, che preferisce semmai invocare una innata ostilità delle aquile nei confronti della propria discendenza, ma trova invece puntuale riscontro nella cultura latina, dove il motivo della “prova di legittimità” è presente e diffuso17. 3. E infatti Plinio non è il primo autore latino a imprimere questa curvatura alle notizie aristoteliche sull’haliáetos; anzi, la loro riformulazione nei termini di una prova di legittimità appare solidamente stabilita sin dall’ingresso dell’aquila marina nella cultura romana. Lo stato della tradizione non ci consente purtroppo di arretrare al di qua di una generazione rispetto all’enciclopedia pliniana: è infatti nella Pharsalia di Lucano che la prova dell’aquila compare per noi nella letteratura latina, in un bel passo in cui la menzione del rapace è accostata a quella degli Psilli, una popolazione libica nota per essere immune dal veleno dei micidiali serpenti del deserto. Anche gli Psilli, informa Lucano, adottano infatti nei confronti della propria discendenza un comportamento non dissimile da quello dell’haliáetos: per verificare la legittimità dei nuovi nati, essi li espongono al contatto – o secondo altre fonti senz’altro al morso – dei micidiali rettili: se il bambino muore, o anche semplicemente se si mostra spaventato dai serpenti, questo è il segno della sua estraneità alla stirpe degli Psilli e insieme la prova inoppugnabile di un adulterio commesso dalla madre del piccolo18. Tra l’altro il costume degli Psilli è noto anche a Plinio: secondo la versione fornita dal naturalista, i serpenti si allontanano dai neonati legittimi, mentre aggrediscono i bambini adulterino sanguine natos19. Ecco dunque i versi della Pharsalia: Tanto confidano nel sangue: / appena un loro piccolo viene al mondo, / se temono che ci sia contaminazione d’amore adulterino, / sottopongono l’incerto figlio alla prova dell’aspide velenoso; / come l’uccello di Giove, quando sgusciano i piccoli / implumi dal caldo uovo, li espone verso oriente; / quelli che riescono a sopportare i raggi e tollerano / la luce senza distogliere lo sguardo, li serbano alla vita / nel cielo; abbandonano quelli che cedono a Febo. Così / gli Psilli si garantiscono della razza, se l’infante non inorridisce al contatto / dei serpenti, e gioca con loro quando gli sono donati20. In Lucano la nozione di adulterio è espressa mediante il nesso mixtura externae veneris: un’espressione pregnante, difficile da tradurre, ma chiaramente allusiva alla mescolanza di semi che ogni adulterio, secondo la “biologia selvaggia” dei Romani, finisce col determinare21. Ciò che gli Psilli intendono scongiurare, attraverso la prova cui sottopongono i nuovi nati, è dunque proprio la possibile infiltrazione di un discendente spurio, estraneo alla stirpe cui abusivamente pretende di appartenere; e analoghe finalità ha evidentemente per il poeta latino il comportamento delle aquile – aquile senza ulteriori specificazioni, perché il poeta Lucano, al contrario del naturalista Plinio, non ha evidentemente interesse a fornire precise distinzioni tassonomiche. A questo punto, smarrito per strada il puntuale ma non indispensabile riferimento all’haliáetos, il racconto sulla “prova dell’aquila” ha ormai assunto la configurazione che manterrà stabilmente nell’immaginario dei secoli successivi: per limitarsi alla sola antichità, il motivo torna con maggiore o minore ampiezza in Silio Italico, in Luciano, Eliano, Temistio, nello pseudo-Giuliano, in Claudiano e così via, senza considerare per il momento la sua cospicua presenza presso gli scrittori cristiani, cui faremo cenno nella parte finale di questo contributo. Né la fortuna del racconto cessa con il naufragio del mondo antico: la ricorrenza della prova dell’aquila nella letteratura, nella trattatistica scientifica, nelle rappresentazioni iconografiche, nel complesso mondo degli emblemi si può seguire sino alle soglie dell’Ottocento22. In questa ininterrotta presenza, il passaggio dal mondo greco a quello romano sembra costituire una prima soluzione di continuità: è in questo passaggio, a quando pare, che il comportamento dell’aquila di mare viene riletto attraverso un modello familiare alla cultura di arrivo, quello della prova del sangue. Naturalmente, non possiamo escludere con certezza che una tale interpretazione fosse già presente in una fonte ellenistica intermedia, oggi perduta; forte è però il sospetto che essa vada invece accreditata proprio alla ricezione romana delle dottrine aristoteliche, sospetto reso più verosimile dal fatto che anche in altri racconti in cui la prova del sangue entra in gioco, essa sembra fare la sua prima comparsa in testi riferibili alla cultura romana. Torniamo ad esempio al caso degli Psilli, che Lucano associa strettamente a quello dell’aquila. A differenza di quanto accade con l’haliaetos, in questo caso le fonti greche a nostra disposizione sono numerose e coprono in modo abbastanza omogeneo l’arco cronologico compreso fra Erodoto e l’età ellenistica. Se però le eccezionali virtù immunitarie degli Psilli e le loro capacità curative sono già largamente citate in ambito greco, è solo a partire da Varrone che a queste notizie si affianca la menzione della prova cui gli Psilli sottopongono i propri neonati23. Ed è ancora un autore latino, Claudio Eliano, a interpretare come prova di legittimità, volta a distinguere «i figli genuini dai bastardi», il comportamento di un altro animale, il coccodrillo, il quale uccide, tra i propri piccoli, quello che alla nascita non si è subito avventato su una preda, laddove l’unica altra fonte che menziona questo comportamento, il greco Plutarco, ne parla come di una semplice misura eugenetica volta a eliminare un esemplare che si sia dimostrato fiacco e poco aggressivo24. Al dossier va infine aggiunto un caso ulteriore, sul quale è opportuno indugiare maggiormente perché ancora una volta esso prende le mosse da Aristotele. Nella Politica il filosofo attribuisce ai Celti e ad altre popolazioni “barbare” l’abitudine di esporre sin dall’infanzia i bambini a condizioni climatiche estreme, in particolare immergendoli nelle acque gelide di un fiume: Cosa utile sarebbe l’abituare i bambini al freddo fin dalla loro prima infanzia per i vantaggi che ciò dà alla salute e alle capacità guerresche. Per questo molti popoli barbari hanno l’abitudine di immergere i neonati in un fiume freddo, oppure di coprirli con una veste sottile, come avviene tra i Celti. Bisogna prendere fin da principio e gradatamente tutte le abitudini che è possibile prendere, e i bambini, per il loro naturale calore, sono adatti ad esercitarsi al freddo25. In Aristotele il costume si giustifica con l’intento di abituare precocemente il corpo maschile alle fatiche militari; i popoli che lo adottano, infatti, sono proprio quelli che mirano a sviluppare nei propri membri l’attitudine alla guerra, come il filosofo ha spiegato poco prima26. Nei secoli successivi questo dato aristotelico è all’origine di due linee di sviluppo, parzialmente indipendenti: da un lato sta una lunga serie di testi, sia greci che latini, nei quali il precoce contatto con l’acqua gelata diventa segno distintivo e nobilitante di infanzie eroiche come quella di Ercole o tratto caratterizzante di popolazioni guerriere come i Rutuli di Virgilio; parallelamente, a partire dalla tarda antichità l’immersione dei neonati è registrata da un numero crescente di fonti come prova di legittimità, di volta in volta attribuita ai Galli o ai Germani: i piccoli vengono esposti alle acque del Reno o, secondo una variante appena più benevola, adagiati su uno scudo per essere poi abbandonati alla corrente del fiume. Chi sopravvive a questa prova, di chiaro sapore ordalico, è considerato legittimo, spurio, invece, chi soggiace al freddo o viene travolto dalle acque: al punto che in età tardo-antica e bizantina l’espressione «Il Reno smaschera il bastardo» era divenuta proverbiale, ed è talora associata all’altra, «Il sole rivela quello che non è figlio dell’aquila»27. In realtà, l’esistenza di un nesso diretto tra le notizie di Aristotele sui Celti e le testimonianze tardo-antiche sull’ordalia del Reno non è riconosciuta da tutti gli studiosi, anche per via del grande iato cronologico che separerebbe il filosofo dai suoi presunti e creativi interpreti tardo-antichi; io suppongo però che il nesso vi sia e ho creduto in altra sede di rintracciarne le tappe intermedie nella trattatistica medica, da Sorano a Galeno a Oribasio28. Va detto che sulla prova del Reno le fonti a nostra disposizione sono quasi tutte greche, anche se i loro autori sono spesso strettamente legati a Roma e alla sua cultura; ed è anche possibile che il motivo abbia un’origine del tutto indipendente da Aristotele, ad esempio nella letteratura etnografica, o che rispecchi, magari deformandola o fraintendendola, una pratica effettivamente in uso presso i Germani della tarda antichità. Tuttavia, anche a non voler tener conto di quest’ultimo caso, certo meno nitido dei precedenti, la tendenza generale appare chiara: in almeno tre dei quattro esempi che abbiamo esaminato – le aquile marine, i coccodrilli, gli Psilli –, se non si può escludere a priori che già fonti greche perdute introducessero il motivo della prova di legittimità, è però significativo che quella interpretazione dei dati è a noi nota solo da testi provenienti dalla cultura romana o comunque ad essa riferibili. 4. Io credo che questa circostanza sia tutt’altro che casuale, legata ai capricci e alle lacune della documentazione testuale, e che si giustifichi invece alla luce dell’importanza centrale che la legittimità della discendenza – e l’ossessione dell’adulterio, ad essa strettamente legata – riveste nella cultura romana29. Ad analoghe considerazioni si presta il tema della rassomiglianza, che a quello della legittimità è a sua volta intimamente connesso, pur non dipendendone necessariamente: nel mondo romano ad un figlio si chiede anzitutto di assomigliare al proprio padre; e quando ciò non accade, il diritto e il costume mettono a disposizione di quest’ultimo una serie di strumenti per sanzionare e rimuovere la colpevole anomalia. Che poi tale rassomiglianza consista nel possesso di un certo insieme di virtù o nella capacità di fissare senza distogliere lo sguardo la luce del sole conta meno della sostanziale isotopia che emerge tra mondo umano e mondo animale30. Ecco perché la cultura romana trasforma l’aquila aristotelica che malthusianamente dimezza la propria nidiata per ottimizzare la redistribuzione delle risorse alimentari in un’aquila latina che va a caccia del pulcino “degenere” per espellerlo dalla linea di discendenza: migrando da un contesto culturale ad un altro, le notizie aristoteliche sull’aquila marina si caricano di significati nuovi, che certo non entrano in contraddizione con i dati offerti dalla fonte greca, ma che quella fonte non implicava in alcun modo e che vanno dunque giudicati come frutto del “lavoro simbolico” messo in campo dell’ambiente che le recepisce31. Che la mancata legittimità dell’aquilotto vada intesa in senso proprio, nei termini di un’origine adulterina, o nel significato più generico di una mancata o imperfetta rassomiglianza alla stirpe di provenienza, la prova dell’aquila, insieme agli altri racconti che ne condividono la medesima struttura di fondo, come quello degli Psilli, si offriva in ogni caso come “buona per pensare” un nodo centrale del codice culturale; d’altra parte, proprio la centralità di quel nodo induceva a interpretare nei termini di un apologo sulla legittimità e sulla rassomiglianza un comportamento che in origine, nella fonte greca che per prima ne dà notizia, aveva tutt’altra spiegazione e significato. 5. Mi sia però consentito, prima di chiudere il mio intervento, di indagare un altro momento della lunga fortuna dell’“aquila di Aristotele” a Roma. Quella fortuna è infatti assicurata anche, come si è accennato, dalla cultura cristiana, che si appropria precocemente del motivo e ne propizia il successivo passaggio al Medioevo, grazie alla presenza della prova dell’aquila in autori della rilevanza di Ambrogio, Girolamo o Agostino: si tratta allora di capire che tipo di funzione gioca la ripresa di quel racconto in un contesto culturale e simbolico in larga parte diverso rispetto a quello della tradizione “pagana” che lo aveva per prima elaborato; si tratta, in altri termini, di verificare se anche in questo ulteriore passaggio si determini una ristrutturazione della storia dell’aquila affine a quella che abbiamo creduto di identificare nel traghettamento del motivo dalla Grecia a Roma32. In effetti, dopo una succosa ma rapida apparizione in Tertulliano, è da Ambrogio, nel IV secolo d.C., che prende le mosse la fortuna cristiana dell’aquila e della sua prova di legittimità. Il grande patriarca, come vedremo, rievoca il motivo a più riprese nel corso della sua opera: sono almeno quattro i passi in cui Ambrogio allude al comportamento del rapace nei confronti dei propri piccoli, ma è in particolare nell’Esamerone che il tema viene sviluppato con notevole ampiezza. Come si sa, questo vasto commento al racconto biblico sulla creazione del cosmo è strettamente modellato sull’omonima e quasi coeva opera di Basilio di Cesarea: anche se la fortissima dipendenza dalla fonte non impedisce talora ad Ambrogio di prendere le distanze dal suo modello. Una di queste occasioni di dissenso riguarda proprio le aquile, e risulta dunque per noi particolarmente interessante. Nel suo insieme, Basilio si mantiene rigorosamente fedele ad Aristotele: torna ancora una volta il dato del rapace che espelle dal nido uno dei pulcini («quando ha dato alla luce due pulcini, uno di loro lo scaraventa a terra, respingendolo a colpi di ali»); soprattutto, la motivazione di quel comportamento è individuata nel fatto che l’aquila è «quanto mai ingiusta ( α ) nell’allevamento dei suoi piccoli» e giunge a rifiutare uno di essi pur di non sottoporsi alla «fatica di nutrirlo ( φ ἐπ π )», un’espressione che costituisce di fatto una variazione sinonimica di quella presente nella Historia animalium, ἐ . Tutt’al più Basilio approfitta della circostanza per lanciarsi in un’appassionata requisitoria contro la pratica dell’esposizione dei neonati, alla quale evidentemente il comportamento delle aquile gli appare assimilabile e che è ovviamente del tutto estranea ad Aristotele33. Ecco invece come la medesima sezione è ristrutturata da Ambrogio: Dell’aquila hanno parlato moltissimi autori per il fatto che ripudia i propri nati, ma non entrambi, bensì un solo pulcino fra due. Alcuni hanno imputato un simile comportamento alla pena di raddoppiare gli alimenti, ma ritengo difficile dare credito a questa versione dei fatti. […] Credo invece che la sua severità non dipenda da avarizia nel prestare il nutrimento, ma da rigore nel giudicare. Si dice infatti che essa metta sempre alla prova coloro che ha generato, per evitare che la maestà, per così dire, della sua stirpe fra tutti gli altri volatili venga inquinata dalla vergogna di un parto degenere. [...] Essa dunque condanna il suo [pulcino] non per la durezza della propria natura, ma per l’incorruttibilità del proprio giudizio, e non lo ripudia quasi che lo considerasse suo, ma lo respinge alla stregua di un estraneo34. Come si vede bene, Ambrogio fa sua l’ormai consolidata versione latina della prova dell’aquila per come aveva preso forma inizialmente in Plinio e Lucano: esclude che il comportamento del rapace dipenda da fastidium geminandorum alimentorum o da avaritia nutriendi, o ancora da acerbitas naturae, come riteneva Basilio sulla scorta di Aristotele; l’espulsione del pulcino incapace di fissare il sole costituisce piuttosto per l’esegeta latino la sanzione per la mancata rassomiglianza e per la colpevole assenza, nel discendente, dei caratteri che l’aquila considera propri del suo genus. Siamo insomma ancora una volta di fronte ad un caso in cui il raffronto tra la fonte greca e la sua ripresa in ambito romano – raffronto in questo caso particolarmente probante, data l’assenza di fonti intermedie e la contiguità cronologica fra i due autori – segnala una vistosa differenza35. Ma c’è dell’altro. Maria Pia Ciccarese, una studiosa alla quale dobbiamo molto di quello che oggi sappiamo sul “bestiario cristiano” e sulla relazione tra sapere zoologico classico ed esegesi biblica, rileva il fascino esercitato sugli autori cristiani dalla prova dell’aquila, un fascino cui essi non sarebbero riusciti a sottrarsi e che li avrebbe indotti a inserire il relativo racconto anche in contesti esegetici o teologici ai quali non sarebbe stato strettamente pertinente36. Io credo tuttavia che almeno in alcuni casi questa impressione possa essere precisata, individuando ragioni più stringenti per spiegare il recupero, da parte di teologi e interpreti delle Scritture, di un motivo tanto documentato negli autori “pagani” quanto invece estraneo alla tradizione riflessa nella Bibbia, che attiva a proposito dell’aquila altre e diverse valenze simboliche: anche se per fare questo la nostra argomentazione dovrà partire da lontano. In una delle liriche che compongono il Peristephanon liber, databili a cavallo tra IV e V secolo d.C., Prudenzio fa proclamare ad uno dei martiri di cui celebra la gloria una nuova nozione di nobiltà, non più misurata attraverso i tradizionali parametri del sangue, dell’appartenenza di ceto o dell’esercizio delle magistrature, ma legata esclusivamente alla militanza nella secta Christi, come il poeta la definisce: Non voglio che sia il sangue dei miei avi / a rendermi nobile, oppure la legge del Senato: / è la nobile scuola di Cristo a dare lustro agli uomini37. Nei versi successivi l’affermazione è ripresa e argomentata in termini più puntuali: Se tu, risalendo sin dagli inizi la successione del nostro stemma genealogico, / vuoi sapere quale sia la nostra origine ultima, / è dalla parola di Dio padre che tutti siamo venuti all’esistenza. / Chi si pone al servizio di Dio è autenticamente nobile; / chi, al contrario, si oppone al padre si rivela degenere. / Un nuovo onore, insomma, si aggiunge all’albero genealogico / e una grande rinomanza sopraggiunge, alla stregua di quella legata all’esercizio di una magistratura / [...] / Piegati pure sulle mie membra, carnefice, affinché io sia nobile! / Se mi sarò arricchito di questa vittoria / non stimerò più nulla la stirpe di mio padre e mia madre38. A questa pagina prudenziana si può accostare un passo del De consolatione Philosophiae di Boezio, di oltre un secolo successivo, in cui ad essere chiamati in gioco sono nuovamente i temi della nobiltà e della discendenza e il nuovo significato che essi assumono nel contesto culturale cristiano: L’intera stirpe umana che è sulla terra nasce da un’origine simile; / uno solo infatti è il padre di tutte le cose, uno solo colui che governa l’universo. / [...] / Un seme nobile ha generato dunque tutti i mortali. / Perché andate strepitando di stirpe e di antenati? Se guardate alle vostre origini / e fissate lo sguardo su Dio come capostipite, allora nessuno è degenere, / a meno che, perseguendo il male attraverso il vizio, non tradisca la propria origine39. Come si vede, entrambi gli autori saccheggiano massicciamente il lessico genealogico latino, da stemma ad auctor, da parens a degener, da ortus a nobilis a generosus, per non considerare i più ovvi pater, mater, germen, genus: Prudenzio e Boezio immaginano evidentemente un lettore cui i meccanismi e il linguaggio della genealogia siano pienamente familiari, e perciò possono invitarlo a risalire a ritroso lungo i “gradini” della discendenza, fino a giungere al capostipite dal quale si dipartono tutte le linee dello stemma40. E proprio come poteva accadere negli alberi genealogici delle grandi gentes romane – i Fabi discendenti di Ercole, i Giuli di Venere e così via –, anche qui al vertice della lignée si colloca una divinità, chiamata a nobilitare l’insieme dei suoi discendenti. Del tutto nuova è però la cornice concettuale al cui interno quel linguaggio e quelle esperienze, così familiari alla tradizione romana, sono ora evocati: anche se si continua a parlare di albero genealogico, anche se voci come textus o stemma richiamano ancora la fitta trama di fili che nelle grandi domus aristocratiche congiungeva le imagines maiorum, la stirpe cui tanto Prudenzio quanto Boezio fanno riferimento non coincide più con l’antica lignée gentilizia, ma con una famiglia allargata il cui capostipite (auctor) si identifica ora con Dio stesso e i cui membri sono quanti da Dio hanno avuto origine, e dunque, potenzialmente, l’intera umanità. Se tutti gli uomini condividono il medesimo auctor generis, se la famiglia umana è riconducibile nel suo complesso ad un unico capostipite e può essere ricompresa entro la medesima stirpe, allora nessuno è degener, nessuno può collocarsi al di fuori di un genus che si dilata al punto da coincidere di fatto con l’intero genere umano. Lo stesso precoce impiego della locuzione “figli di Dio” per indicare i credenti in Cristo avrà facilitato un simile riuso del lessico della parentela, anche se esso viene applicato ora a referenti nuovi e assume una portata decisamente più ampia. Dicevo che la nuova nozione di legittimità si estende potenzialmente a tutta l’umanità; di fatto, però, nelle stesse formulazioni di Prudenzio e Boezio questo allargamento è destinato a rimanere virtuale, ammette eccezioni e possibili esclusioni: chi è rebellis rispetto a Dio padre, chi coltiva i vizi e persegue il male, ripudia nei fatti la propria figliolanza divina, si pone al di fuori di una discendenza cui pure avrebbe titolo ad appartenere; se in linea di principio nessun uomo è degener, di fatto la scelta di rifiutare la propria origine – ovvero, più concretamente, di non riconoscere la dottrina religiosa che ha rivelato quella origine – si risolve in un’auto-esclusione dalla stirpe che ha in Dio il proprio capostipite e che pure comprende a rigore l’intera umanità. Ora, è proprio all’interno di questa cornice, in questo gioco di inclusioni ed esclusioni, che la prova dell’aquila torna a rivelarsi un utile correlativo simbolico del discorso dottrinario. Anzitutto, il termine degener, presente sia in Prudenzio che in Boezio, è lo stesso che compare sin dalla pagina di Plinio sull’aquila marina e ritorna poi pressoché invariabilmente in tutte le riproposizioni e variazioni di quel passo negli autori latini: dall’antichità romana e poi via via lungo tutto il Medioevo, ovunque il pulcino estromesso dal nido è per l’appunto definito degener, in quanto privo delle caratteristiche che dovrebbero sancirne l’appartenenza al genus delle aquile, e lo scopo della prova cui viene sottoposto è proprio quello di smascherare la sua abusiva pretesa di essere accolto in quello stesso genus. Ma nei testi cristiani c’è molto di più del semplice reimpiego di un termine pur così pregnante e ormai consolidato nella vulgata sulla prova dell’aquila: ad essere recuperato e risemantizzato è piuttosto il racconto nella sua interezza. Ecco ad esempio in che modo l’aquila e i suoi pulcini trovano posto nell’appassionata parenesi di Clemente Alessandrino: Chi è colui che fugge da Dio per convivere con i demoni? Chi, potendo essere figlio di Dio, gode di essere schiavo? Ovvero chi, potendo essere cittadino del cielo, cerca invece le tenebre? [...] Non facciamoci dunque, non facciamoci ridurre in schiavitù, ma come figli legittimi figli della luce leviamo gli occhi e guardiamo in alto verso la luce, badando che il Signore non ci smascheri come spuri come fa il sole con le aquile ( υ ἡ ᾶ ἐ ῃ ὥ π ἥ )41. Tutti gli uomini sono chiamati a riconoscersi “figli della luce”, come Clemente proclama citando una locuzione desunta dalla Lettera agli Efesini di Paolo; ed è probabilmente questa immagine a suggerirgli l’evocazione dell’aquila, anch’essa pronta a scacciare quanti della luce solare si mostrino invece indegni, rivelandosi per questa via , “bastardi”42. Il nuovo padre che sottopone i propri figli alla prova di legittimità è dunque ora Dio stesso, e la prova si estende a tutti gli uomini, mentre la posta in gioco non è più, banalmente, l’accoglienza in una linea di discendenza, ma nientemeno che l’adozione entro la figliolanza divina. In Ambrogio il motivo torna in termini simili: il Signore ci ha preso su di sé quando ci ha modellati, ci prende su di sé quando ci mette al mondo [...] ci prende su di sé come l’aquila, che ha l’abitudine di esaminare i propri figli, per tenere in vita e allevare quelli cui riconosce una nascita autentica e una natura incontaminata e per respingere quelli in cui ha sorpreso sin dalla più tenera età la debolezza di un’origine degenere43. Anche in Ambrogio, come in Clemente, l’aquila è assimilata al dio cristiano; anche qui, però, il fatto che la paternità divina si estenda a tutti gli uomini, nessuno dei quali potrebbe venire al mondo se non per volere di Dio, non esclude che la divinità possa disconoscere quanti di quella paternità si siano dimostrati immeritevoli. Infine, sul medesimo punto torna con maggiore chiarezza uno dei Sermones attribuiti ancora ad Ambrogio: Così dunque anche Cristo ama una sola Chiesa, come l’aquila il proprio pulcino, e la protegge dal fuoco delle persecuzioni con l’ombra delle sue ali; così dunque getta fuori dalla Chiesa coloro nei quali il lume della fede è vacillante, coloro che, contaminati dai vizi del mondo, non sono in grado di sostenere la luce fiammeggiante del vangelo44. In questa ulteriore riformulazione della prova dell’aquila, la famiglia nella quale si può essere accolti o esclusi coincide con la Chiesa, figlia legittima del suo fondatore divino; allo stesso modo la degenerazione, come in Prudenzio e Boezio, non è più legata alla mancata rassomiglianza tra padri e figli o alla presenza in questi ultimi di un sangue spurio, frutto di adulterio, né denuncia più l’estraneità ad un ceppo gentilizio, ma coincide con il rifiuto di riconoscere la nuova verità di cui il cristianesimo si proclama portatore: la paternità mancata o tradita è ora quella di Dio stesso, che si presenta infatti, nell’ultimo passo di Ambrogio che abbiamo citato, come colui che imbastisce la prova di legittimità e ne sanziona il mancato superamento. 6. Nel riprendere dalla cultura latina “pagana” il tema della prova dell’aquila, insomma, il pensiero cristiano lo riadatta alle proprie categorie, ne risemantizza i significati, ma ne lascia sostanzialmente intatta la struttura narrativa, tuttora funzionale agli scopi di quel pensiero. Nella formulazione che assumeva a partire da Lucano e Plinio, le questioni che la vicenda dell’aquila consentiva di mettere a tema erano quelle relative alla contaminazione della stirpe legata alla possibile mixtura di una externa venus o quelle della mancata rassomiglianza tra padri e figli che minaccia la continuità fra le generazioni, uno dei capisaldi della cultura aristocratica romana. I cristiani continuano a esprimersi attraverso il lessico della paternità e della discendenza, ma i significati veicolati da quel lessico sono profondamente mutati: esiste un unico auctor e parens collettivo, che coincide con Dio stesso, i cui filii sono tutti gli uomini da lui creati, almeno nella misura in cui accettino di riconoscersi come membri della Chiesa; questo mutamento, però, non fa che riformulare in altri termini la paura dell’adulterio e spostare su un piano più ampio il problema della degenerazione, la necessità di identificare ed espellere dal gruppo quanti si mostrino a vario titolo indegni di farne parte45. Insomma, l’antico racconto relativo all’aquila marina poteva rendere ancora un utile servizio simbolico alla nuova cultura che lo impiegava: la purezza da difendere non è più quella del sangue aristocratico, ma quella della retta fede, la mixtura che si intende scongiurare non nasce più dall’immissione all’interno della stirpe di un seme adulterino, ma dall’abbandono “adulterino” dell’unica verità a favore di dottrine ad essa estranee; il fatto poi che la comunità ecclesiale si percepisca secondo l’immagine e l’immaginario della famiglia facilita il reimpiego di un racconto relativo in origine proprio alla difesa dell’integrità familiare. Ma con queste ultime osservazioni il volo dell’aquila di Aristotele nei cieli di Roma fuoriesce definitivamente dalla portata del nostro sguardo; quel volo sarà ancora lungo nella cultura europea, sino a giungere, come si è accennato, alle soglie della piena modernità; ma illustrarne le tappe ulteriori esula dai confini di questo convegno e potrà forse essere materia di un incontro a venire. Merci beaucoup. Mario Lentano Università di Siena (Italia) Note * In apertura di questo contributo desidero ringraziare ancora una volta gli organizzatori del colloquio strasburghese per il cortese invito che mi hanno rivolto; la mia gratitudine va inoltre a Pietro Li Causi e a Luigi Spina per aver letto queste pagine con affettuosa dottrina. 1. Cfr. in particolare W. G. Arnott, Peripatetic Eagles: A New Look at Aristotle, Historia animalium 8 (9).32, 618b18-619a14, in A. F. Besson, W. Dominik (eds.), Literature, Art, History: Studies on Classical Antiquity and Tradition in Honour of W. J. Henderson, Frankfurt am Main 2003, pp. 225-34; Id., Birds in the Ancient World from A to Z, London-New York 2007, s.v. haliaetos. Cfr. anche J. Pollard, Birds in Greek Life and Myth, London 1970, pp. 77-78. 2. Historia animalium, sono di chi scrive. 3. Historia animalium, α α ’ α φ , α ἐ π φ . IX, IX, 619a 4 ss. Quando non diversamente indicato, le traduzioni 620a 1 ss.: ὰὄ απ υ π υ π ’ ἥ π φ α , α α α ἐ , α υ , π ὰ π ί , 4. Cfr. Historia animalium, VI, 563a 16-19. 5. Cfr. rispettivamente VI, 563a 22 e IX, 619b 28. 6. Cfr. X, 10: Haliaetus tantum, implumes etiamnum pullos suos percutiens, subinde cogit adversos intueri solis radios et, si coniventem umectantemque animadvertit, praecipitat e nido velut adulterinum atque degenerem. Illum, cuius acies firma contra stetit, educat (trad. di E. Giannarelli lievemente modificata). 7. In haliae(e)tus viene trasformato Niso secondo il mito raccontato, tra l’altro, nella Ciris pseudo-virgiliana (dove lo zoonimo ricorre ai vv. 204 e 528), nelle Metamorfosi di Ovidio (VIII, 146), in Igino (Fabulae, 198). 8. Si tratta dei passi aristotelici citati alla nota 5. Un confronto minuzioso e un po’ malevolo tra Plinio e la sua fonte aristotelica è condotto da F. Capponi, Le fonti del X libro della Naturalis Historia di Plinio, Genova 1985, in particolare pp. 52-53 a proposito del cap. 10; più in generale sulla presenza di Aristotele in Plinio cfr. ora P. Li Causi, Le metamorfosi di un filosofo. Tracce, presenze e mutazioni di Aristotele nella zoologia di Plinio, in “Annali on line Lettere-Ferrara”, 4.2, 2009, pp. 68-98. La notizia aristotelica secondo la quale l’aquila marina si libera di uno degli aquilotti per il fastidio di nutrirlo è ripresa da Plinio più avanti (x, 13: alterum expellunt taedio nutriendi), ma viene attribuita alle aquile nel loro complesso; in X, 6 di afferma che l’“aquila nera”, o melanaetos, è la sola ad allevare i propri piccoli, mentre ceterae, ut dicemus, fugant. 9. Aristotele, Historia animalium, modificata). IX, 619a 8-11 (trad. di P. Li Causi lievemente 10. Sul punto va consultato P. Li Causi, Generare in comune. Teorie e rappresentazioni dell’ibrido nel sapere zoologico dei Greci e dei Romani, Palermo 2008, in particolare pp. 76 ss. Ai passi citati da Li Causi si può aggiungere Basilio di Cesarea, Esamerone, VII, 6, 1: «l’accoppiamnento della vipera con la murena è un adulterio ( ία) della natura» (trad. di M. Naldini). 11. Plinio il Vecchio, Naturalis historia, X, 27 (trad. di E. Giannarelli). La fonte è anche in questo caso aristotelica, cfr. Historia animalium, VI, 7, 563 b e Capponi, Le fonti del X libro, cit., pp. 73 ss. Cfr. anche D. W. Thompson, A Glossary of Greek Birds, LondonOxford 1936 (rist. Hildesheim 1966), pp. 151 ss.; F. Capponi, Ornithologia Latina, Genova 1979, pp. 169 ss.; Arnott, Birds in the Ancient World, cit., pp. 102 s.; sulla percezione del cuculo nelle culture antiche cfr. ora M. Bettini, Voci. Antropologia sonora del mondo antico, Torino 2008, pp. 137 ss. 12. Ben diversamente vanno le cose in uno dei mirabilia raccolti negli Otia imperialia di Gervasio di Tilbury (circa 1215): «Racconterò una cosa straordinaria e arcinota a tutta la gente della nostra città di Arles. Le cicogne hanno l’abitudine dai tempi più antichi di nidificare nei muri e nelle torri della città. Nel periodo dunque della cova delle uova deposte, qualcuno sconsideratamente aggiunse un uovo di corvo alle uova di cicogna; così l’uovo, stimolato dal calore in mezzo alle altre, produsse debitamente, secondo natura, un piccolo corvo. Il corvo crebbe, e quando la cicogna maschio si avvide che il piccolo era del tutto dissimile da quelli della propria specie, lo proclamò a gran voce al gruppo dei suoi simili. Le cicogne si radunarono, si introdusse l’imputata, uno sbattere di becchi formulò l’accusa; venne mostrato il piccolo, discordante rispetto a quella che avrebbe dovuto essere la sua natura e venne accolto come testimonianza presuntiva, il che bastò per la condanna della supposta madre. Denudati quindi madre e figlio putativo del loro piumaggio, furono fatti precipitare insieme secondo il verdetto dall’alto di una torre e trovarono la morte» (III, 97, trad. di F. Latella). 13. Plinio ricorre alla categoria dell’adulterio anche in contesti diversi da quelli relativi al mondo animale, ad esempio a proposito dell’innesto, una tecnica largamente praticata dagli antichi, che mettendo a contatto piante di specie diversa produce un individuo vegetale ibrido e non riducibile a nessuna delle sue matrici biologiche, cfr. Naturalis historia, XVII, 8: ob hoc insita et arborum quoque adulteria excogitata sunt, ut nec poma pauperibus nascerentur; cfr. anche IX, 139: set alia e fine initia, iuvatque ludere inpendio et lusus geminare miscendo iterumque et ipsa adulterare adulteria naturae. Non a caso in Ovidio, Metamorphoses, IV, 372 ss. l’immagine dell’innesto è evocata in relazione alla fusione ormai inestricabile di Ermafrodito e della ninfa Salmacide. Cfr. anche Tertulliano, De cultu feminarum, I, 8, 2 (sull’impiego delle tinture in ambito tessile): quis enim est vestis honor iustus de adulterio colorum iniustorum? Altri passi utili nel commento ad loc. di S. Isetta, in Tertulliano, L’eleganza delle donne, Bologna 2010. 14. Sul punto mi permetto di rinviare a M. Lentano, L’heautontimoroumenos di Terenzio e quello di Valerio Massimo. Due note sulla paternità punita, in “Dioniso”, 5, 2006, pp. 82-93. 15. Cfr. L. Beltrami, Il sangue degli antenati. Stirpe, adulterio e figli senza padre nella cultura romana, Bari 1998, pp. 38 ss.; Li Causi, Generare in comune, cit., pp. 93 ss. 16. Nel caso del corvo tale marca identitaria non può che essere, evidentemente, la nerezza del piumaggio; ecco perché, secondo Isidoro, il corvo non nutre i propri piccoli sin quando non li abbia riconosciuti per suoi dal colore; «quando, però, vede che il loro piumaggio è nero, li riconosce definitivamente (in toto agnitos) e li alimenta con maggiore abbondanza» (Etymologiae, XII, 7, 43, trad. di A. Valastro Canale). Da Isidoro il motivo transita poi nei bestiari e nelle enciclopedie medievali, cfr. L. Morini (a cura di), Bestiari medievali, Torino 1996, ad indicem; Brunetto Latini, Trésor, I, 157 ecc. 17. Di prove di legittimità nel mondo romano ho discusso a lungo nel mio La prova del sangue. Storie di identità e storie di legittimità nella cultura latina, Bologna 2007, cui mi permetto qui di rinviare. 18. Sugli Psilli e la loro “prova del sangue” ho raccolto fonti e bibliografia ivi, pp. 29 ss. 19. Plinio, Naturalis historia, VII, 14: Horum corpori ingenitum fuit virus exitiale serpentibus et cuius odore sopirent eas; mos vero liberos genitos protinus obiciendi saevissimis earum eoque genere pudicitiam coniugum experiendi, non profugientibus adulterino sanguine natos serpentibus. 20. Lucano, Pharsalia, IX, 898-908: Fiducia tanta est / sanguinis: in terras parvus cum decidit infans, / ne qua sit externae Veneris mixtura timentes, / letifica dubios explorant aspide partus; / utque Iovis volucer, calido cum protulit ovo / implumis natos solis convertit ad ortus: / qui potuere pati radios et lumine recto / sustinuere diem, caeli servantur in usus, / qui Phoebo cessere iacent: sic pignora gentis / Psyllus habet si quis tactos non horruit angues, / si quis donatis lusit serpentibus infans. 21. Che il nesso externa venus alluda all’adulterio è confermato, se ce ne fosse bisogno, da Ovidio, Metamorfosi, XIV, 380 (nec Venere externa socialia foedera laedam), dove la “venere estranea” si contrappone espressamente ai socialia foedera del matrimonio nelle parole di Pico sedotto da Circe (sul passo di Ovidio cfr. ora M. Bettini, C. Franco, Il mito di Circe. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, Torino 2010, pp. 260 ss.). Sulle convinzioni dei Romani in merito alla “mescolanza” del seme cfr. M. Bettini, L’incesto di Fedra. Sulla “biologia selvaggia” dei Romani, ora in Id., Affari di famiglia. La parentela nella letteratura e nella cultura antica, Bologna 2010, pp. 22138. Notiamo infine che l’espressione mixtura externae veneris riecheggia i termini adottati da Aristotele in riferimento alle aquile gnésioi e che abbiamo poc’anzi ricordato: se infatti mixtura rimanda al greco ί υ , il nesso externa venus riprende, sul piano del significato se non su quello del significante, il verbo presente nella pagina aristotelica. 22. Rudolf Wittkower, il grande storico berlinese che ha ricostruito uno dei filoni di questa fortuna, quello relativo alle espressioni artistiche del motivo, ne ha segnalato infatti le manifestazioni più recenti nell’ultimo scorcio del XVIII secolo; cfr. R. Wittkower, L’aquila e il serpente, in Id., Allegoria e migrazione dei simboli, Torino 1987, p. 78, nota 192. In relazione alla cultura francese cfr. anche E. Rolland, Faune populaire de la France. Noms vulgaires, dictons, proverbs, légendes, contes et superstitions, vol. IX, Oiseaux sauvages, Paris 1967, pp. 9 ss. 23. Per la relativa documentazione rimando ancora alle mie pagine citate alla nota 14. Pace Ch. R. Raschle, Pestes harenae. Die Schlangenepisode in Lucans Pharsalia (IX 587-949), Frankfurt am Main 2001, pp. 70 e 351, da Eliano, La natura degli animali, XVI, 27 non si deduce affatto che la notizia sulla prova di legittimità degli Psilli fosse già nel filosofo, storico e geografo ellenistico Agatarchide di Cnido; Eliano delimita chiaramente la sezione del capitolo in cui sta parafrasando Agatarchide, concludendo poi in prima persona: «Ho già detto precedentemente che gli Psilli, per verificare se un neonato sia loro figlio genuino oppure un bastardo ecc.» (trad. di F. Maspero). Il rimando si riferisce al capitolo I, 57, dove Eliano non cita affatto Agatarchide come fonte, ma un non meglio precisato lógos libico del quale dichiara peraltro di non fidarsi pienamente («se queste cose che i Libici raccontano sono fanfaluche, sappiano che non ingannano me, ma loro stessi»), laddove invece rispetto ad Agatarchide non si riscontra mai una simile presa di distanza. Plinio menziona a sua volta Agatarchide a proposito degli Psilli, ma ha presenti anche altre fonti (ad esempio Varrone, espressamente citato). 24. Si tratta rispettivamente di Claudio Eliano, La natura degli animali, IX, 3 e Plutarco, L’intelligenza degli animali, 34, 981 c-d. Noto di passata che Eliano conosce anche il comportamento dell’aquila, naturalmente nella sua interpretatio latina, cfr. La natura degli animali, II, 26. 25. Aristotele, Politica, VII, 17, 1337a 12 ss. (trad. di C. A. Viano). 26. VII, 17, 1337a 6-7. 27. Sull’intera problematica rimando alla documentazione che ho raccolto in I Germani e l’ordalia del Reno, un mito etnografico, in “Invigilata lucernis”, 28, 2006, pp. 109-31; tra le numerose attestazioni della notizia mi limito a citare un frammento anonimo conservato nell’Antologia palatina e databile anch’esso al IV secolo: «Fanno i Celti animosi nell’onda gelosa del Reno / come un vaglio di figli, né padri si sentono ancora / ove non vedano il bimbo dall’acqua divina lavato. / Ché non appena, sgusciando dal grembo materno, l’infante / versa la lacrima prima, da sé sollevandolo il padre / colloca sopra uno scudo suo figlio né d’altro si cura: / del genitore il cuore non ha né la mente: provarlo / prima dovrà nei lavacri del fiume che vaglia le nozze. / Dopo il parto la madre, dolore sommando a dolori, / anche se il padre del bimbo sa bene chi sia, nell’attesa / trema – non sa che disegno quell’onda mutevole celi» (IX, 125, trad. di F. M. Pontani). 28. I Germani e l’ordalia del Reno, cit. Il recentissimo commento ad una delle fonti sulla prova dei Germani (il cosiddetto Paradossografo vaticano) non aggiunge ulteriori dati: alludo a J. Stern, Paradoxographus Vaticanus, in “Trends in Classics”, 2.1, 2010, pp. 437-66, in particolare p. 455. 29. Una sola, autorevole testimonianza per tutte: «Un cittadino romano [...] era perseguitato da due fantasmi: che gli si “attribuisse” un figlio – e contro questo terrore il diritto moltiplicò il numero dei “guardiani del ventre” – ma anche che il “ventre” dissimulasse l’erede sottraendolo così al padre» (Y. Thomas, Roma: padri cittadini e città di padri (II secolo a.C.-II secolo d.C.), in Storia universale della famiglia, vol. I, Antichità, Medioevo, Oriente antico, trad. it. Milano, pp. 200-201). 30. Anche sulla questione della rassomiglianza nella cultura romana mi limito ad un unico rimando tra i molti possibili: M. Bettini, Il ritratto dell’amante, Torino 1992, pp. 211 ss. 31. Una circostanza che ci ricorda una volta di più come nel titolo prescelto per questo convegno, Aristoteles Romanus, l’aggettivo conta almeno tanto quanto il sostantivo. 32. Un elenco certamente non esaustivo delle fonti cristiane tardo-antiche e medievali che riprendono la prova dell’aquila ho fornito in La prova del sangue, cit., p. 26, nota 30. 33. Basilio di Cesarea, Esamerone, VIII, 6, 1-2: «L’aquila è quanto mai ingiusta nell’allevamento dei suoi piccoli. Quando ha dato alla luce due pulcini, uno di loro lo scaraventa a terra, respingendolo a colpi di ali; e accetta solo l’altro e lo riconosce per suo ( ῦ α ), rifiutando quel che ha generato per la fatica di nutrirlo» (trad. di M. Naldini lievemente modificata). 34. Ambrogio, Hexaemeron, V, 18, 60: Aquila quoque plurimo sermone usurpatur quod suos abdicet fetus, sed non utrumque, verum unum ex pullis duobus. Quod aliqui fieri putaverunt geminandorum alimentorum fastidio. Sed id non arbitror facile credendum. […] puto non avaritia nutriendi eam inclementem fieri, sed examine iudicandi. Semper enim fertur probare quos genuit; ne generis sui inter omnes aves quoddam regale fastigium degeneris partus deformitas decoloret. [...] Non ergo eum [scil. suum pullum] acerbitate naturae, sed iudicii integritate condemnat nec quasi suum abdicat, sed quasi alienum recusat. Al successivo par. 61 Ambrogio riprende, più sobriamente, la polemica basiliana contro l’esposizione dei neonati: Aquila vero si proicit, non quasi suum proicit, sed quasi degenerem non recognoscit: nos, quod peius est, quos nostros recognoscimus abdicamus. 35. Particolarmente interessante è anche l’impiego da parte di Ambrogio di un verbo come abdicare (quod suos abdicet fetus, ripreso poi alla fine del par. 60 e nel par. 61 a proposito degli uomini, cfr. nota 34): la abdicatio è infatti nella cultura romana il provvedimento del padre che allontana dal proprio cospetto, espellendolo dal nucleo familiare, il figlio che si sia dimostrato indegno della propria famiglia e dei propri antenati. In questo senso, abdicatio e “degenerazione” sono strettamente connesse: è proprio la constatazione della seconda a far scattare nel padre la decisione di procedere alla prima. Ho raccolto pensieri e bibliografia sulla abdicatio in Signa culturae. Saggi di antropologia e letteratura latina, Bologna 2009, pp. 61 ss. e in G. Brescia, M. Lentano, Le ragioni del sangue. Storie di incesto e fratricidio nella declamazione latina, Napoli 2009, pp. 76 ss. 36. Cfr. M. P. Ciccarese, Il simbolismo dell’aquila. Bibbia e zoologia nell’esegesi cristiana antica, in “Civiltà classica e cristiana”, 13.3, 1992, pp. 295-333, in particolare pp. 300-13; Ead., Animali simbolici. Alle origini del bestiario cristiano, vol. I, Agnellogufo, Bologna 2002, pp. 109-38. 37. Prudenzio, Peristephanon liber, X, 123-125: absit, ut me nobilem / sanguis parentum praestet aut lex curiae; / generosa Christi secta nobilitat viros. 38. Vv. 126-140: Si, prima nostris quae sit incunabulis / origo, textu stemmatis recenseas, / dei parentis esse ab ore coepimus. / Cui quisque servit, ille vere est nobilis, / patri rebellis invenitur degener. / Honos deinde stemmati accedit novus / et splendor ingens ut magistratus venit / […] incumbe membris, tortor, ut sim nobilis! / His ampliatus si fruar successibus, / genus patris matrisque flocci fecero. 39. Boezio, De consolatione Philosophiae, III, carm. 6: Omne hominum genus in terris simili surgit ab ortu; / unus enim rerum pater est, unus cuncta ministrat. / […] / Mortales igitur cunctos edit nobile germen. / Quid genus et proauos strepitis? Si primordia vestra / auctoremque deum spectes, nullus degener exstat, / ni vitiis peiora fovens proprium deserat ortum. 40. Su lessico e struttura dello stemma gentilizio cfr. M. Bettini, Antropologia e cultura romana. Parentela, tempo, immagini dell’anima, Roma 1986, pp. 176 ss. 41. Clemente Alessandrino, Protrettico, 10. 42. Cfr. Paolo, Lettera agli Efesini, 5, 6-8: «Nessuno vi inganni con vani ragionamenti: per queste cose infatti piomba l’ira di Dio sopra coloro che gli resistono. Non abbiate quindi niente in comune con loro. Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come i figli della luce». 43. Ambrogio, De interpellatione Iob et David, IV, 5, 21: Suscepit ergo nos dominus, quando nos finxit; suscipit et quando iubet nasci. [...] Sicut aquila suscipit, quae fetus suos examinare consuevit; ut teneat atque enutriat, quibus veri indolem partus et incorruptae gratiam naturae astipulari adverterit; aut repellat, in quibus degeneris originis infirmitatem in tenera adhuc aetate deprehenderit. 44. Ambrogio, Sermones, 46, 5: Ita ergo et Christus Dominus unam diligit Ecclesiam, ut aquila nidum suum; quam ab aestu persecutionum alarum suarum defendit umbraculo: sic quoque extra ecclesiam proicit, in quibus fidei lumen infirmum est, qui igneam evangeliorum lucem vitiis aecularibus inquinati ferre non possunt. La quarta e ultima ricorrenza, salvo errore, della prova dell’aquila in Ambrogio è nella In Psalmum David CVIII expositio, 19, 13, in cui merita di essere segnalato il fatto che la prova dell’aquila è citata dal patriarca come testimonianza della giustizia divina che pervade tutta la natura e si manifesta anche nel mondo animale: siamo ancora una volta agli antipodi di Basilio, che giudicava invece α il comportamento del rapace. 45. Proprio la nozione di “adulterio” può essere utilizzata infatti dagli autori cristiani per indicare la scelta di seguire dottrine diverse da quella ortodossa – un’immagine che nasce come conseguenza dell’interpretazione in termini nuziali del rapporto fra Cristo e la Chiesa –, come accade ad esempio in Homiliae Clementinae, 3, 28: «Bisogna dunque ascoltare l’unico e solo profeta della verità, sapendo che il discorso seminato da una persona diversa, comportando l’accusa di adulterio ( α α), sarà cacciato dal suo regno come dallo sposo» (ma anche il seguito del paragrafo è interessante nel senso che qui ci riguarda). Per l’ambito latino è sufficiente il rimando a Tertulliano, De idololatria, 1: Nam qui falsis deservit, sine dubio adulter est veritatis, quia omne falsum adulterium est.