Academia.eduAcademia.edu

Sentirsi esistere: inconscio, coscienza, autocoscienza (Laterza, Roma-Bari 2013)

2013

Biblioteca di Cultura Moderna 1216 Massimo Marraffa Alfredo Paternoster Sentirsi esistere Inconscio, coscienza, autocoscienza Editori Laterza © 2013, Gius. Laterza & Figli Premessa www.laterza.it Prima edizione dicembre 2012 1 2 3 4 Edizione 5 6 Anno 2012 2013 2014 2015 2016 2017 Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da Martano editrice srl - Lecce (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-0522-1 È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura. Dall’interiorità dell’anima agostiniana al cogito di Cartesio, dall’io trascendentale di Kant allo Spirito hegeliano, la filosofia ci ha proposto una concezione forte del soggetto. Si parte dall’alto, dall’autoconoscenza introspettiva del filosofo, per poi guadagnare tutto il resto. Il soggetto è trasparente a sé stesso, e la consapevolezza riflessiva che la mente ha della sua struttura e dei suoi contenuti produce una conoscenza dotata di un particolare tipo di certezza, che si contrappone alla conoscenza del mondo materiale. Il libro che il lettore ha fra le mani lo invita a seguire il percorso inverso. Convinti che «colui che comprende il babbuino contribuirà alla metafisica più di Locke», procederemo dal basso verso l’alto, sforzandoci di ricostruire il processo che dalle funzioni psicologiche più elementari (indagabili nell’animale e nell’infante) conduce a quelle funzioni psicologiche più complesse che rendono possibile la mente autocosciente adulta. Il punto di approdo sarà una critica della soggettività autocosciente, in cui l’io da dato primario diviene costruzione, il precipitato di un fitto intreccio di componenti neurocognitive e psicosociali. Per dirla con le parole della fenomenologia esistenzialista, noi non possediamo un’essenza che precede la nostra esistenza: il nostro «esserci» è sempre l’esserci di un corpo, con una storia. E questo esserci si caratterizza innanzitutto per la sua precarietà. Privo di garanzia metafisica, l’io-costruito è costantemente assediato dal rischio del suo dissolvimento. Di qui – sosteniamo – la sua natura essenzialmente difensiva, il suo articolarsi in un insieme di manovre psicologiche che si sforzano di porre argine alla sua fragilità primaria. La cassetta degli attrezzi con cui intendiamo dare corpo a queste tesi è quella della filosofia della mente informata dalle scienze cognitive. È con questi strumenti che ci proponiamo di elaborare le premesse di una teoria naturalistica dell’autocoscienza, al cui interV no i temi della critica freudiana del soggetto – i temi dell’inconscio, dell’autoinganno e dei meccanismi di difesa – possano essere letti in una luce nuova e più rigorosa. Il saggio è articolato nel modo seguente. Nel primo capitolo si mostra come le scienze della mente degli ultimi cinquant’anni si siano occupate per lo più di funzioni inconsce. Lo scopo che si è proposta la scienza cognitiva è stato quello di ricostruire, alla luce di scarni dati comportamentali e (con tutte le cautele del caso) introspettivi, la struttura dei meccanismi che sono alla base delle nostre capacità percettive, riflessive, linguistiche. Questa enfasi sui processi «sommersi» ha finito tuttavia – così sostengono alcuni – per farci perdere di vista ciò che siamo portati a considerare come mentale per eccellenza: i contenuti del nostro «flusso di coscienza», la fantasmagorica costellazione di sensazioni ed emozioni che costituisce la nostra vita mentale. Insomma a smarrire l’io autocosciente. Ma come si può sostenere che stiamo parlando di mente se non parliamo della mente cosciente? Se è vero che la nozione di inconscio cognitivo è assolutamente irrinunciabile ai fini di comprendere le nostre capacità mentali, d’altra parte in questo quadro l’io e la coscienza hanno finito per costituire un residuo in qualche misura imbarazzante. Questo aspetto viene approfondito nel secondo capitolo, dove, sulla base di una distinzione tra l’esperienza «preriflessiva» e la concettualizzazione dell’esperienza, sosteniamo che l’io autocosciente origina nel controllo delle funzioni corporee elementari e si sviluppa in vari gradi di raffinatezza fino a sfociare, negli esseri umani, in una rappresentazione sofisticata di sé resa possibile dal linguaggio e dall’interazione sociale. È dunque la biologia stessa che ci porta a sviluppare rudimentali forme di io, quelle che sono verosimilmente alla base dell’esperienza di stati di piacere e di dolore. Sebbene l’esperienza in questa accezione non si accompagni a stati di (auto)coscienza riflessiva e concettuale, essa può nondimeno essere detta cosciente ed essere spiegata in un vocabolario completamente interno alle scienze della natura (ivi includendo, beninteso, la psicologia scientifica). Completato nel secondo capitolo l’esame delle forme primitive di autocoscienza, il terzo capitolo si rivolge all’autocoscienza psicologica, introspettiva. Le nostre capacità generali di introspezione, una volta esaminate con gli strumenti della psicologia scientifica, si rivelano assai meno efficienti di quanto siamo abitualmente portati a credere. La letteratura sull’attribuzione causale e la dissonanza cognitiva in psico- logia sociale e quella sul discorso confabulatorio in neuropsicologia cognitiva ci forniscono dati assai robusti che attestano l’esistenza di situazioni in cui gli individui, pur non avendo alcun accesso introspettivo alle motivazioni reali della loro condotta, confezionano storie causali immaginarie. Coniugando questi dati con la teoria dello «spazio di lavoro globale» (storicamente una delle prime teorie cognitive della coscienza), Peter Carruthers ha recentemente radicalizzato questa critica dell’introspezione. Fatta eccezione per una serie di eventi percettivi, non si danno – per questo filosofo – fenomeni mentali coscienti; certamente non si dà una fenomenologia del pensiero (di eventi quali il giudizio, l’intenzione o la decisione). La nostra interiorità consiste allora nel dispiegarsi di una lussureggiante fenomenologia percettiva, che incessantemente alimenta una macchina delle interpretazioni guidata da un apparato teorico (la cosiddetta «psicologia del senso comune») incompleto, parziale e spesso gravemente difettoso. Il terzo capitolo approda così alla tesi secondo cui l’autocoscienza introspettiva è un’attività di riappropriazione narrativa dei prodotti di elaborazioni cognitive inconsce. Ciò su cui il quarto capitolo appunta l’attenzione è il fatto che tale attività ha carattere autodifensivo. La concezione del soggetto umano che ci consegnano le scienze cognitive è quella di un sistema psicobiologico che fabbrica se stesso; e il suo io è un campo di effetti, l’esito del presentarsi alla coscienza di un insieme di funzioni, ovvero elaborazioni di informazione realizzate negli eventi biochimici del cervello. In questo quadro, la soggettività autocosciente si rivela una costruzione priva di garanzia metafisica, e proprio per questo stretta fra precarietà e malafede. L’io è qualcosa di primariamente inautentico in quanto è, per usare un termine di Freud, la «facciata» dell’inconscio computazionale. Ossia questo inconscio è un apparato che ha fra i suoi vari compiti quello di allestire un complesso autoinganno, vale a dire, la rappresentazione (o meglio la narrazione) di sé come una immaginaria entità unitaria, autonoma e primaria, libera, razionale, padrona della persona. La difensività è perciò immanente all’autocoscienza umana giacché questa si costituisce precisamente nell’atto di mettere in campo misure contro il proprio dissolvimento. VI VII Postilla e ringraziamenti Sebbene questa idea suoni sgradita a molte persone, la filosofia è un’impresa rigorosa e non priva di una sua specificità «tecnica», tanto più quando il suo esercizio coinvolge la comprensione di teorie e risultati scientifici. Non ci sono facili scorciatoie per cogliere tesi e argomentazioni nella loro autenticità. Tuttavia, poiché abbiamo l’ambizione di rivolgerci a un pubblico non ristretto agli addetti ai lavori, abbiamo fatto ogni sforzo per eliminare dalla nostra analisi tecnicismi eccessivi, distillando l’essenziale di ogni posizione o argomento. I lettori giudicheranno della bontà del risultato. Li ringraziamo anticipatamente per la pazienza. Questo libro è davvero frutto di un lavoro a quattro mani; ogni sua parte è stata dettagliatamente discussa da entrambi. I rituali del mondo accademico ci inducono tuttavia a dichiarare che Alfredo Paternoster può essere considerato il principale responsabile dei capitoli 1 e 2; Massimo Marraffa dei capitoli 3 e 4. Molte persone hanno contribuito in vari modi al libro. Michele Di Francesco, Diego Marconi e Cristina Meini hanno letto il manoscritto nella penultima stesura, fornendo importanti suggerimenti e proponendo una serie di opportune correzioni. Alfredo Tomasetta ha letto e acutamente commentato una precedente versione del primo capitolo. Luciano Arcuri ha discusso con noi l’impiego della letteratura psicologico-sociale nel terzo capitolo. Rossella Guerini e Stefano Meacci ci hanno fornito preziosi consigli sulle tematiche cliniche trattate nell’ultimo capitolo. Sergio Fabio Berardini ha messo a nostra disposizione la sua competenza sulla filosofia di Ernesto De Martino. Le inadeguatezze residue sono interamente di nostra responsabilità. Infine, un discorso a parte merita la profonda influenza che Giovanni Jervis ha esercitato su questo lavoro. Jervis è scomparso il 2 agosto 2009; un anno prima aveva deciso di scrivere insieme a uno di noi due un libro che avrebbe avuto a tema ciò che lui chiamava «il mito dell’interiorità», ossia il riferimento pertinace a una immaginaria entità unitaria, coerente, compatta, autogiustificata e in qualche modo «nobile». Di questo mito il libro avrebbe dovuto indagare soprattutto il carattere difensivo, la sua utilizzazione a sostegno di una autodescrizione d’identità a carattere rassicurante e autopromozionale. I capitoli 3 e (soprattutto) 4 del nostro testo sono il tentativo di portare a compimento almeno parte di quel progetto; e ci piace pensare che Jervis ne sarebbe stato soddisfatto. Torino-Roma, 18 ottobre 2012 Sentirsi esistere Inconscio, coscienza, autocoscienza Capitolo 1 La mente inconscia La scienza ha bisogno di tener le mani su tutta la realtà, anche quando su di essa sta praticando i tagli più radicali. Paolo Bozzi, Fisica ingenua 1. Mente e scienze cognitive Se il vostro io non sta troppo bene, andate, avendone i mezzi e l’inclinazione, dallo psicoterapeuta. Se qualcuno vi dice che di professione fa lo psicologo, ciò che pensate, ammesso che non siate degli specialisti, è che faccia lo psicoanalista. Insomma, per il senso comune se esiste una scienza della mente questa è la psicologia (ce lo dice il significato stesso della parola!), e la psicologia è Freud, Jung, Lacan (per limitarci ai nomi più altisonanti) ed epigoni. Eppure, né l’una né l’altra affermazione sono vere. Da un lato ci sono, come vedremo tra breve, diverse scienze della mente, anche se non è scorretto affermare che la psicologia occupa tra queste una posizione privilegiata; dall’altro, se parliamo, come stiamo parlando, di psicologia scientifica, questa è oggi la psicologia cognitiva, nelle sue diverse branche: la psicologia generale, la psicologia dello sviluppo, la psicologia sociale, e così via. Infatti, più che alla psicoanalisi, l’eredità scientificamente rispettabile di Freud, Jung ecc. appartiene alla psicologia dinamica (o «psicodinamica»), una disciplina, coltivata prevalentemente in ambito accademico, che si propone di analizzare e sviluppare le teorie psicoanalitiche a contatto con le altre correnti della psicologia moderna1. Oggi la psicodinamica si è avvicinata ulteriorCfr. G. Jervis, Psicologia dinamica, voce in Enciclopedia Italiana – Appendice 2000, edita dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2000, pp. 506-508. 1 3 mente alla «psicologia scientifica», dunque alla psicologia cognitiva, mentre la psicoanalisi, con differenze da indirizzo a indirizzo, resta in larga parte impermeabile alla ricerca scientifica. Il lettore è così avvertito che il percorso che gli proponiamo è tutto interno al territorio della psicologia cognitiva e (più marginalmente) della psicologia dinamica. Come accennavamo sopra, la psicologia cognitiva è la scienza della mente per eccellenza, anche se oggi, quando si parla di «scienza della mente», ci si riferisce a un ambito di studi più ampio, la scienza cognitiva (o, al plurale, scienze cognitive2): quel complesso di discipline che si propongono di spiegare come facciamo a percepire, ragionare, comprendere il linguaggio, operare scelte razionali, programmare ed eseguire azioni; insomma tutte le capacità che diremmo peculiarmente mentali. Si potrebbe dire che la scienza cognitiva ambisce a indagare a tutto campo la natura umana. In questa ambizione si cela un presupposto cruciale quanto discusso, che la natura umana, e specificamente la mente, sia appunto un fatto naturale, come tale soggetto a leggi inscritte nella biologia della nostra specie. Beninteso, non tutto il comportamento umano dipende dalla biologia, ma la sfida della scienza cognitiva – per vocazione e metodo – consiste proprio nell’allargare, per quanto possibile, l’orizzonte naturalistico, negando che le nostre scelte e azioni vadano integralmente ricondotte a fattori storici e interpretativi e cercando di superare la dicotomia, cara alla tradizione ermeneutica, tra scienze della natura e scienze dello spirito3. Un tratto caratteristico dello sviluppo della scienza cognitiva è costituito dalla progressiva e significativa crescita di importanza delle neuroscienze. Mentre negli anni sessanta e settanta dello scorso secolo i dati sul cervello svolgevano un ruolo marginale nelle spiegazioni delle capacità mentali, oggi ricoprono un ruolo preponderante. Molti lettori avranno sentito parlare di neuroetica, neuroestetica e persino di neuroteologia, dimostrazione eloquente di una «esplosio- Sulla rilevanza della distinzione tra l’uso del singolare e del plurale, cfr. M. Marraffa e A. Paternoster, Funzioni, livelli e meccanismi. La spiegazione in scienza cognitiva e i suoi problemi, in Idd. (a cura di), Scienze cognitive. Un’introduzione filosofica, Carocci, Roma 2011, pp. 13-55. Qui useremo indifferentemente singolare e plurale. 3 Uno degli assunti condivisi della scienza cognitiva è la continuità tra esseri umani e animali non umani. Anche se gli esseri umani hanno capacità che gli animali non hanno (ma si noti che vale anche il contrario), in primis il linguaggio, per la scienza cognitiva non c’è alcuna discontinuità radicale tra natura umana e non umana. Com’è ovvio, questo è un insegnamento di Darwin. 2 4 ne» degli studi sul cervello che ha fatto sollevare obiezioni del tutto ragionevoli relativamente a che cosa lo studio del cervello ci può dire sul funzionamento della mente4. Il fatto positivo che vi sia interazione (e, entro certi limiti, integrazione) tra psicologia e neuroscienza non smuove la convinzione di molti studiosi che i due rispettivi oggetti di studio siano ben distinti. Questa è anche l’intuizione del senso comune, per il quale tra mente e cervello vi è una relazione sotto certi aspetti oppositiva. Mentre non abbiamo difficoltà a distinguere tra cervello e persona – nella percezione dell’uomo comune il cervello resta, a dispetto della sua straordinaria importanza, un organo fisico, come il cuore o lo stomaco – abbiamo difficoltà a trovare una collocazione stabile alla mente, che non si può identificare né con la persona né con il suo cervello, pur essendo strettamente legata all’una e all’altro. Beninteso, non è detto che il senso comune sia la stella polare; e qui come in altri casi la scienza ne deve prendere, e di fatto ne ha preso, in una certa misura le distanze. Vedremo come e dove. Nell’impostazione cartesiana, che in parte informa tuttora il senso comune, la dimensione mentale coincide con la dimensione cosciente. Nulla che non sia nella nostra interiorità, nel «flusso» di coscienza, può essere considerato mentale. Inoltre la dimensione mentale è radicalmente distinta da quella corporea. Il corpo è vincolato da leggi di natura meccanica, è localizzato nello spazio ed è scomponibile in parti; la mente è libera e creativa, non ha una collocazione spaziale ed è un’unità inscindibile. La mente è l’interiorità di una persona e ciò che la caratterizza in prima istanza. Non sorprendentemente, l’idea di mente è il risultato di una sorta di laicizzazione di quella di anima; l’interiorità è concepita cioè come una garanzia metafisica: al pari dell’anima (la componente divina nell’uomo), l’interiorità è l’essenza identitaria dell’individuo, intorno alla quale si impernia la sua vicenda esistenziale. Ma nelle scienze della mente del Novecento entrambe le assunzioni cartesiane sono state respinte. La distinzione tra mente e corpo è radicalmente negata sul piano ontologico, perché ogni processo mentale dipende dal cervello ed è realizzato dal cervello; e la dimensione mentale non è più ristretta a quella cosciente, in quanto la gran parte dei fenomeni e processi mentali – tenuti per mentali dalle scienze cognitive – non sono coscienti. 4 Cfr. ad es. P. Legrenzi e C. Umiltà, Neuromania, il Mulino, Bologna 2009. 5 Per comprendere appieno questo rovesciamento della posizione cartesiana, con particolare riguardo alla dissociazione tra mente e coscienza, dobbiamo soffermarci su due assunti epistemologici che hanno svolto un ruolo cruciale nella gestazione delle odierne scienze della mente: 1) l’idea (riconducibile a Turing) che i processi mentali abbiano natura computazionale; 2) l’idea (riconducibile a Chomsky) che il comportamento sia mediato da rappresentazioni mentali. Questi due assunti, unitamente a quello dell’irrilevanza dell’introspezione come metodo sperimentale, implicano la tesi al centro della nostra discussione in questo capitolo: la dissociazione tra mente e coscienza. 1.1. La natura computazionale della mente Per Alan Turing, grande logico e matematico inglese, l’intelligenza poteva essere meccanizzata, ovvero anche le attività che noi giudicheremmo intelligenti e creative, quali ad esempio il ragionamento e la comprensione del linguaggio, sono alla portata di una macchina, di un dispositivo «stupido». L’idea guida è che un determinato compito intelligente può essere meccanicamente portato a termine se il compito viene scomposto in una successione di passi, ciascuno dei quali è ben definito, completamente specificato (privo di ambiguità) e sufficientemente elementare da poter essere svolto senza difficoltà da un «esecutore» qualsiasi. Si pensi ad esempio a una ricetta di cucina. Una persona non particolarmente dotata di talento culinario e creatività è in grado di cucinare una torta più che dignitosa seguendo puntualmente le istruzioni della ricetta. Si tratta, insomma, di specificare il compito intelligente tramite una sequenza di regole o istruzioni elementari. Lo stesso vale per il procedimento di moltiplicazione di due numeri che abbiamo imparato alla scuola elementare: anche in questo caso il procedimento consiste nell’applicazione successiva di regole semplici e ben definite. Procedimenti di questo tipo si chiamano computazioni (o algoritmi). Più precisamente, il concetto di computazione è la formalizzazione logico-matematica del concetto intuitivo di procedimento. Ma non è necessario, per i nostri scopi, essere molto rigorosi. Basta pensare a una computazione come a un programma per computer, come chiunque abbia un minimo di familiarità con l’informatica 6 si sarà già reso conto. I computer sono capaci di eseguire prestazioni intelligenti perché sono macchine a programma; altrimenti detto, qualunque attività intelligente può essere portata a termine attraverso una appropriata successione di operazioni elementari, il programma «giusto». L’idea è pertanto che i processi mentali sono descrivibili come computazioni, programmi5. Poiché siamo consapevoli che a molti l’idea sembrerà balzana, qualche precisazione ulteriore è opportuna. Il paradigma di computazione è il calcolo aritmetico; non a caso, storicamente i primi computer erano impiegati per fare calcoli. Oggi, tuttavia, i computer fanno ben altro che calcoli aritmetici; fanno un sacco di cose che proprio non sembrerebbero essere calcoli, nel senso che non sono elaborazioni di dati numerici. Nondimeno, dietro l’impressionante sofisticazione delle prestazioni degli attuali computer non vi sono altro che processi assimilabili a calcoli. Si pensi ad esempio ai giochi dell’attuale generazione o ai programmi di realtà virtuale: per quanto straordinari siano i loro effetti grafici e in generale il livello di raffinatezza dell’interazione con l’utente, essi sono in ultima analisi costituiti da una miriade di computazioni. Parole, immagini e suoni sono infatti codificati in vari tipi di formato che tuttavia vengono, in definitiva, cioè all’atto dell’esecuzione del programma, tradotti in sequenze di bit, 0 e 1. Qualcosa del genere potrebbe valere per la mente: svariati tipi di informazione (visiva, uditiva, linguistica ecc.) possono essere codificati e rappresentati (cfr. infra) «nella nostra testa» in un certo formato adatto alla loro elaborazione. Non abbiamo la minima idea, o abbiamo idee molto vaghe, su quali siano i processi cerebrali che, ad esempio, ci consentono di assegnare un significato a una successione di suoni linguistici o di riconoscere un oggetto posto di fronte a noi, ma il fatto che questi processi siano altamente automatici e pressoché istantanei rende l’ipotesi computazionale quantomeno degna di essere presa in considerazione. Come un programma per computer, un processo mentale elabora informazioni in ingresso producendo altre informazioni in uscita. Beninteso, non si vuole sostenere che il cervello funziona letteralmente come un computer – il che è semplicemente falso –, bensì che i processi che realizzano le nostre capacità cognitive possono, a un certo livello di 5 L’idea della mente come dispositivo di calcolo era stata avanzata già da Hobbes e da Leibniz. Ma solo con Turing questa intuizione diviene un’ipotesi concreta capace di alimentare un serio programma di ricerca. 7 astrazione, essere proficuamente modellizzati da processi computazionali. Approfondiamo questo punto. Una computazione, l’abbiamo detto, è assimilabile a un programma per computer. Ora, senza un computer che lo esegue, di un programma non ce ne facciamo niente: esso è un oggetto astratto e inerte, privo di poteri causali. Nondimeno, posto che ogni software richiede un hardware su cui «girare», l’essenza di un processo realizzato da un programma in esecuzione sta tutta nel software, non nell’hardware. Sono le istruzioni costitutive del programma, non le particolari modalità con cui queste vengono eseguite, che determinano il genere di funzione che il programma sta eseguendo. Inoltre il programma è logicamente indipendente dall’hardware, nel senso che esso può, almeno in linea di principio, essere eseguito da hardware diversi6. Analogamente chi si propone di studiare la mente non dovrà preoccuparsi (entro certi limiti, cfr. infra) dei meccanismi cerebrali: la struttura della mente è una cosa, quella del cervello un’altra. In questo senso la relazione tra hardware e software è stata considerata una buona metafora della relazione tra cervello e mente: come il software dipende dall’hardware per la sua efficacia causale, ma da questo è ben distinto, analogamente la mente dipende dal cervello senza coincidere con esso. Per questa ragione la caratterizzazione dei processi mentali in termini di processi di elaborazione di informazioni ha consentito di affrontare lo studio della mente in un modo empiricamente rigoroso anche quando le conoscenze sul cervello non erano sviluppate come oggi. La mente è un insieme di funzioni realizzate da programmi; quando studiamo le caratteristiche del programma, possiamo prescindere dall’«hardware cerebrale» che lo esegue. Questa tesi non deve essere interpretata come se implicasse che lo studio del cervello è del tutto irrilevante per la comprensione della mente (affermazione oggi considerata unanimemente inaccettabile): è importante conoscere i vincoli che la neurobiologia o la neurofisiologia impongono sulle spiegazioni, perché una computazione non eseguibile dal cervello non può aspirare ad essere un modello appropriato di una funzione mentale. Tuttavia non è molto importante conoscere nei dettagli, per esempio, la neurofisiologia della percezione visiva ai fini di spiegare come facciamo a vedere. Il punto è cioè che c’è un livello di descrizione dei processi mentali che non è cerebrale o neurofisiologico. Se il cervello è enormemente importante da un punto di vista ontologico (o metafisico), perché senza il cervello non c’è la mente, esso è tuttavia secondario da un punto di vista esplicativo, perché una spiegazione in termini esclusivamente neurofisiologici di un processo mentale di per sé non è illuminante. In tal modo il paradigma della mente come elaborazione di informazioni ha consolidato la vocazione della psicologia cognitiva a presentarsi come la scienza della mente, offrendole inoltre un nuovo vocabolario teorico, quello dell’informatica e specificamente della teoria della computazione. L’oggetto della psicologia, la mente, è qualcosa che si colloca a mezza via tra la persona e il suo cervello. 6 Infatti un programmatore non ha bisogno di conoscere i dettagli dell’hardware a cui il programma è destinato: un buon programma sarà «portabile», cioè «girerà» su qualsiasi macchina (gli informatici ci perdoneranno l’approssimazione, accettabile nella prospettiva della nostra discussione). 1.2. La natura rappresentazionale della mente Dire che un processo mentale è un processo computazionale equivale a dire che è un processo di elaborazione di informazioni. Come abbiamo visto sopra, non è obbligatorio che i dati su cui opera una computazione siano numerici: essi possono riguardare qualsiasi dominio di conoscenza, a condizione che le informazioni in questione siano codificate, cioè espresse in una descrizione comprensibile al sistema esecutore, per esempio, in un linguaggio di programmazione. Nel caso della mente, dunque, le informazioni relative al mondo che ci circonda e al nostro corpo dovranno essere codificate in qualche modo per poter essere «trattate», elaborate dai processi computazionali eseguiti dal cervello. I processi di percezione visiva, ad esempio, devono elaborare informazioni relative alla forma, al colore, alla distanza e all’eventuale movimento di un oggetto presente nel campo visivo. I processi di comprensione del linguaggio devono elaborare informazioni relative ai suoni linguistici, alla struttura grammaticale delle frasi, ai significati letterali e intesi delle frasi. Dunque i processi mentali manipolano – costruiscono e modificano – strutture informative che possiamo caratterizzare come rappresentazioni (mentali), in quanto sono «entità» che stanno per oggetti e proprietà del mondo. Come una fotografia o un’espressione linguistica rappresentano un oggetto del mondo esterno, per esempio una rosa rossa, veicolando informazioni su di esso, analogamente nella nostra testa ci sono strutture che rappresentano oggetti e proprietà del mondo. Abbiamo introdotto l’idea di rappresentazione mentale partendo dalla constatazione che un processo computazionale opera necessa- 8 9 riamente su certi dati o informazioni; ma il concetto di rappresentazione va considerato anche sotto un altro aspetto, più significativo in una prospettiva di storia della psicologia: il concetto di rappresentazione mentale ha segnato il passaggio dal comportamentismo al cognitivismo. Per il comportamentista la psicologia era la scienza del comportamento: lo scopo era spiegare perché ci comportiamo nel modo in cui ci comportiamo, senza invocare nella spiegazione enti teorici inosservabili (idee, immagini, intenzioni o ancora facoltà misteriose come la volontà). Ma in questo modo la psiche viene semplicemente cancellata «per decreto». Nella prospettiva comportamentista la parola «mente» del senso comune si riferisce a qualcosa di misterioso e insondabile; la mente va perciò bandita dal discorso scientifico o almeno riconcettualizzata, come mera potenzialità o disposizione dell’organismo a produrre un comportamento. Quando, con Edward Tolman, ci si è resi conto che persino il comportamento dei ratti in gabbia non poteva essere spiegato meramente in termini di reazioni a stimoli, richiedendo bensì alcune rappresentazioni interne – le mappe cognitive – dell’ambiente7, la psicologia è tornata a occuparsi di ciò che sta dentro la testa: per poter davvero spiegare il comportamento, la psicologia deve essere una scienza delle strutture mentali che lo mediano, cioè appunto una scienza della mente. Sono le rappresentazioni mentali, non le risposte condizionate agli stimoli, a spiegare il comportamento. Il possesso di rappresentazioni mentali potenzia le capacità di un organismo, rendendo il suo comportamento più flessibile, perché quando certe proprietà del mondo non sono presenti o manifeste, possono (in taluni casi) essere rappresentate: «qualcos’altro può stare per esse, con il potere di guidare il comportamento in loro vece»8. La tesi secondo cui il comportamento è guidato dalle rappresentazioni, oltre a essere la mossa decisiva per superare gli angusti limiti del comportamentismo, aprendo la strada a uno studio non meno rigoroso di quello che c’è dentro la testa, in un certo senso ha restituito alla psicologia l’oggetto che tradizionalmente ed etimologicamente le competeva, il «giocattolo» proibito dai comportamentisti. L’uso del termine «rappresentazione» in scienza cognitiva è stato introdotto da Noam Chomsky in riferimento alle regole della grammatica del linguaggio. Secondo Chomsky padroneggiamo la grammatica di una lingua perché nella nostra testa sono codificate, cioè rappresentate, le sue regole. Le regole della grammatica determinano quali successioni di parole danno luogo a una frase e quali no: una frase grammaticale o ben formata è una frase generata nel rispetto delle regole; una pseudo-frase, cioè una frase non grammaticale, non è generabile sulla base delle regole. Ad esempio, non ci sono regole (in italiano) che possono condurre a produrre o accettare «col corre Gianni cane». Non ha qui importanza quale forma abbiano esattamente queste regole. Due sono invece i punti importanti da sottolineare: a) postulare le regole è necessario per spiegare certi fatti del comportamento linguistico – in questo caso la capacità, padroneggiata già dai bambini di tre anni circa, di produrre e riconoscere frasi grammaticali; b) le regole sono «inscritte» nella struttura computazionale in quanto sono, come si suol dire, «cablate» nel cervello; ciò significa che i processi linguistici operano in conformità a queste regole e che noi non possiamo non seguirle, allo stesso modo in cui non possiamo impedirci di vedere l’armadio che abbiamo di fronte quando, al risveglio, apriamo gli occhi. Non avendo consapevolezza alcuna di queste regole, del resto, non potremmo scegliere di seguirle o non seguirle (cfr. infra). Qualcosa di simile vale per altri processi cognitivi, come la percezione o il ragionamento; essi seguono regole o rappresentazioni diverse, ma sempre di regole e rappresentazioni si tratta. In conclusione, il concetto di mente come insieme di processi computazionali (o di elaborazione di informazioni) si sposa perfettamente con quello di mente come sistema rappresentazionale. Le strutture informative manipolate dai «programmi mentali» sono rappresentazioni in quanto veicolano e codificano informazioni sul mondo. Una rappresentazione mentale è un’ipotesi esplicativa in una teoria della cognizione come elaborazione di informazioni9: una 7 Cfr. E. Tolman, Cognitive maps in rats and men, in «The Psychological Review», 55(4), 1948, pp. 189-208. Le mappe cognitive di Tolman puntavano nella stessa direzione dell’ipotesi formulata pochi anni prima da Kenneth Craik in The Nature of Explanation (Cambridge UP, Cambridge 1943), una pietra miliare nella storia della meccanicizzazione dei processi di pensiero. 8 J. Haugeland, Having Thought. Essays in the Metaphysics of Mind, MIT Press, Cambridge (MA) 1998. Cfr. R. Cummins, Representations, Targets and Attitudes, MIT Press, Cambridge (MA) 1997. 10 11 9 rappresentazione è qualcosa che un processo mentale descritto in termini di elaborazione di informazioni deve costruire – computare – per dare luogo a un certo comportamento. In alcuni casi, come in quello delle regole grammaticali, ci sono buone ragioni di ritenere che le rappresentazioni siano innate, già incorporate nel sistema. 1.3. La dissociazione tra mente e coscienza Non è difficile vedere come la nuova concezione della mente illustrata nei paragrafi precedenti porti a una rottura della stretta associazione tra mente e coscienza. I processi mentali studiati dalla scienza cognitiva e le rappresentazioni mentali che essa postula non sono coscienti. Si prenda ad esempio il caso della comprensione del linguaggio. La nostra comprensione di una frase è immediata. Sappiamo istantaneamente se abbiamo capito (come in genere avviene) oppure no quello che ci sta dicendo il nostro interlocutore. E tuttavia molte operazioni sono necessarie per arrivare a comprendere una frase: una sequenza pressoché continua di suoni deve essere segmentata in parole, cioè in unità dotate di significato; alla frase deve essere associata una struttura grammaticale, e non sempre tale struttura è l’unica possibile (cosicché bisogna scegliere quella giusta); le parole ambigue o polisemiche devono essere interpretate in modo appropriato al contesto ecc. Di tutti questi complicati processi non abbiamo consapevolezza alcuna, così come non abbiamo consapevolezza delle strutture di informazione – le rappresentazioni – che devono essere costruite per eseguire con successo questi processi. Non siamo coscienti di avere nella nostra testa le regole della grammatica e di applicarle sistematicamente durante i processi di comprensione. Un altro esempio: la percezione visiva, uno degli ambiti di indagine di maggior successo delle scienze cognitive. Una teoria computazionale della visione ambisce a rispondere alla domanda «come facciamo a vedere?». «Vedere» è un termine che si riferisce alla nostra esperienza visiva ordinaria; per esempio, sono sdraiato sul divano a occhi chiusi, apro gli occhi e posso dire di vedere un tavolo e una sedia. Ma, come nel caso del linguaggio, per arrivare a questo apparentemente semplice risultato, il nostro cervello deve svolgere una miriade di operazioni. L’esperienza visiva è l’esito finale di un processo straordinariamente complesso che comincia con la trasmissione lungo il nervo ottico, da parte dei fotorecettori presenti sulla retina, di segnali elettrici che codificano il livello di energia luminosa assorbita dai fotorecettori; successivamente hanno luogo 12 diversi stadi di elaborazione, realizzati da circuiti cerebrali distinti, che compongono in strutture via via più complesse le diverse informazioni visive relative alla forma, al colore, al movimento ecc., fino a integrarle in un unico «percetto» coerente. Nella teoria di Marr, il modello standard delle teorie computazionali della percezione visiva, si ipotizzano tre stadi di elaborazione ciascuno dei quali costruisce una certa rappresentazione delle proprietà visive; ad esempio il primo stadio di elaborazione costruisce una rappresentazione, detta schizzo primario, nella quale sono esplicitate le discontinuità di luminosità più forti (gli «sbalzi di luminanza») presenti nell’immagine retinica. Questo è importante perché c’è un’alta probabilità che tali discontinuità corrispondano ai contorni di un oggetto10. Ora, anche qui, come nel caso della comprensione di una frase, non abbiamo alcun sentore del dispiegarsi dei processi che presiedono alla costruzione del percetto. Non ci accorgiamo di ciò che avviene nell’occhio e nel cervello. Ciò di cui siamo consapevoli è il risultato finale, e il risultato finale è un mondo mirabilmente armonico e integrato che si presenta, anzi si impone alla nostra coscienza. Tutto ciò che possiamo fare consapevolmente è spostare l’attenzione visiva: decidere dove guardare, muoversi in modo tale da accedere a parti del mondo precedentemente fuori dal campo visivo (per esempio, alla parte posteriore dell’oggetto di fronte a noi). Pertanto, anche se gli explananda della scienza cognitiva sono fenomeni coscienti (la comprensione di una frase, l’esperienza visiva, la capacità di dedurre la corretta conclusione da due o più premesse ecc.), ciò che costituisce la loro spiegazione – processi e rappresentazioni – si colloca a un livello del tutto inconscio. Il compito della psi- 10 Cfr. M. Marraffa e A. Paternoster, Persone, menti, cervelli, Mondadori Università, Milano 2012, cap. 2. Sebbene le elaborazioni postulate dalla teoria di Marr siano tutte attività svolte dal cervello (occhio incluso), non è pensabile di descriverle in termini puramente neurofisiologici; solo una caratterizzazione di questi sistemi in termini di macrofunzioni, quali ad esempio la percezione del colore, la rilevazione dei contorni, la percezione del movimento ecc., consente di farsi un’idea di che cosa fa il sistema visivo. Come scriveva Marr, cercare di comprendere un processo cognitivo limitandosi a prendere in considerazione i neuroni sarebbe «come tentare di comprendere il volo degli uccelli limitandosi a studiare le piume: semplicemente non si può fare. Per comprendere il volo degli uccelli, dobbiamo capirne l’aerodinamica; solo allora la struttura delle piume e la forma delle ali divengono comprensibili» (D. Marr, Vision, Freeeman, San Francisco 1982, p. 27). 13 cologia cognitiva e più in generale delle scienze cognitive è proprio quello di scoprire questi meccanismi inconsci. I fenomeni coscienti non sono che frammenti sporadici di una incessante attività cerebrale. Inoltre, il fatto che alcune rappresentazioni possano emergere alla coscienza, come ad esempio avviene con la forma o geometria delle superfici visibili di un oggetto11, non ha alcun rilievo per la teoria: il ruolo che una rappresentazione svolge in un processo cognitivo non dipende dall’essere la rappresentazione cosciente o meno. È importante sottolineare che il carattere inconscio dei processi mentali studiati dalle scienze della mente resta tale attraverso l’evoluzione della disciplina. Oggi molti non si riconoscono più, o almeno non si riconoscono completamente, nel modello della mente ispirato al funzionamento del computer e abbiamo assistito, a partire dagli anni ottanta del secolo scorso, a una forte crescita dell’importanza del ruolo del cervello, da un lato, e del ruolo dell’ambiente, dall’altro12. Nondimeno la coscienza continua a svolgere un ruolo del tutto marginale nella caratterizzazione dei processi oggetto di studio. Ci limitiamo a un esempio. Secondo una teoria che incontra un favore crescente presso la comunità degli studiosi, comprendere un enunciato di azione (un enunciato come «Gianni correva» o «Maria ha afferrato saldamente la maniglia») comporta l’attivazione delle aree premotorie, quelle in cui sono presenti i neuroni specchio13. Questo fenomeno è stato interpretato come un’attività simulativa inconscia: per comprendere l’enunciato, le persone simulano, nella loro mente inconscia, l’esecuzione dell’azione cui l’enunciato fa riferimento. Si tratta solo di una simulazione perché l’azione in questione non viene davvero eseguita. In un certo senso, si tratta di un processo immaginativo – quando odo «Maria ha afferrato saldamente la maniglia» immagino di afferrare una maniglia, senza attuare alcun movimento – che tuttavia non emerge alla coscienza: di certo non è necessario immaginare consapevolmente di afferrare qualcosa per comprendere il verbo «afferrare». L’uso del termine «immaginare» appare tuttavia fuori luogo, perché nell’uso comune l’immaginazione è un’attività cosciente, e forse anche per questa ragione è stato preferito il termine «simulazione»14. Si vede bene, quindi, come l’oggetto di studio, anche nelle «nuove» scienze cognitive, continui ad essere costituito da processi non coscienti e come questi vengano considerati a pieno titolo mentali, a dispetto del ruolo preponderante svolto in questi studi da dati di neuroimmagine. E si vede bene come i dati fenomenici – i nostri contenuti di coscienza – siano perlopiù irrilevanti per la teoria. Riassumendo, le scienze cognitive si propongono di studiare i processi che realizzano le capacità alla base del comportamento intelligente (percezione, ragionamento, comprensione del linguaggio, e così via). Tali processi sono interni e in larga parte inconsci. Sono, come usano dire i filosofi della mente, subpersonali, in quanto, non emergendo al livello della coscienza, non sono «di proprietà» della persona, che non può accedere ad essi. Nondimeno essi sono considerati a pieno titolo mentali. Non è la coscienza, quindi, l’essenza costitutiva del mentale. 2. L’inconscio cognitivo e l’inconscio freudiano Abbiamo assegnato due «padrini», Turing e Chomsky, ai due assunti fondanti delle scienze cognitive (la mente come elaboratore e la mente come sistema rappresentazionale); volendo attribuirne uno anche alla tesi della dissociazione tra mente e coscienza, il lettore penserà immediatamente a Freud. Ma questo sarebbe un errore. Non tanto perché, come vedremo tra breve, a rigore storico non è vero che Freud sia stato lo scopritore dell’inconscio; quanto perché i fenomeni inconsci della scienza cognitiva sono qualcosa di radicalmente diverso dall’inconscio freudiano. Mettiamo meglio a fuoco questa distinzione tra inconscio cognitivo e inconscio freudiano. 11 Ray Jackendoff ha sostenuto a questo riguardo una tesi interessante quanto controversa: che ad emergere alla coscienza siano le rappresentazioni intermedie costruite dai processi, non quelle finali. Così, ad esempio, noi abbiamo consapevolezza visiva delle superfici degli oggetti anche se la funzione della percezione visiva è quella di farci riconoscere oggetti tridimensionali completi; oppure, in un processo di comprensione linguistica, noi siamo consapevoli delle immagini acustiche delle parole, non dei loro significati: il significato di una parola è rappresentato nella mente ma non vi accediamo; sappiamo soltanto che abbiamo capito quella parola. Cfr. R. Jackendoff, Consciousness and the Computational Mind, MIT Press, Cambridge (MA) 1987 (trad. it. Coscienza e mente computazionale, il Mulino, Bologna 1990). 12 Sono queste le cosiddette espansioni «verticale» e «orizzontale», su cui cfr. Marraffa e Paternoster, Persone, menti, cervelli cit., capp. 3 e 4. 13 I neuroni specchio sono cellule nervose che si attivano («scaricano») sia quando il loro «proprietario» è impegnato in un’azione (per esempio, afferra un oggetto), sia quando egli vede eseguire quella medesima azione da qualcun altro. Cfr. A. Paternoster, Le teorie simulative della comprensione e l’idea di cognizione incarnata, in «Sistemi Intelligenti», 22(1), 2010, pp. 131-61. 14 15 14 Il concetto di inconscio compare negli ultimi decenni dell’Ottocento. Prima di allora il paradigma di mente resta quello cartesiano. In particolare, un aspetto del punto di vista cartesiano appare inattaccabile: l’identificazione del mentale con l’ambito dell’esperienza in prima persona. Questa visione entra in crisi alla fine del diciannovesimo secolo perché diversi scienziati, tra cui Sigmund Freud, si trovano di fronte a una serie di fenomeni che intuitivamente sono classificabili come mentali e tuttavia non emergono alla soglia della coscienza. Basti citare la «grande isteria» convulsiva, la fuga e l’amnesia dissociative, il disturbo di personalità multipla (oggi «disturbo dissociativo di identità»)15. Dunque di subconscio e inconscio si parlava già al volgere dell’Ottocento, tanto in psicologia quanto in filosofia, anche se è indubbio che è con Freud che l’inconscio diventa «popolare». La questione dell’inconscio è del tutto estranea al comportamentismo, il cui rifiuto di cause mentali inosservabili colpisce tanto i fenomeni inconsci quanto l’introspezione, ma ritorna sulla scena con veemenza con la scienza cognitiva, che radicalizza la visione anticartesiana dilatando a dismisura l’ambito di ciò che è inconscio e nondimeno mentale. Alla luce di ciò, si potrebbe affermare che le odierne scienze cognitive sono più freudiane di Freud! E tuttavia, c’è una grande differenza tra l’inconscio della scienza cognitiva e l’inconscio freudiano. In particolare, due tratti peculiari dell’inconscio freudiano non trovano riscontro nelle odierne scienze della mente: la sessualità e la rimozione. Sul primo aspetto il genio viennese era in larga misura fuori strada: l’enfasi sull’aspetto sessuale è stata radicalmente ridimensionata, fra l’altro, dagli stessi sviluppi della psicoanalisi. Per quanto riguarda il secondo aspetto, invece, c’è nel concetto di rimozione un’intuizione profonda relativa al funzionamento della nostra mente, che tuttavia Freud declina in un modo che oggi non è più sostenibile, ovvero in associazione con la teoria del «trauma rimosso» (o del «segreto patogeno»). Alla base dell’inconscio, dice Freud, stanno le pulsioni (ossia energie, forze) – in primo luogo, proprio la pulsione sessuale (da lui detta «libidica»). Sul piano della storia della cultura l’idea di una sessualità dell’inconscio è un tassello importante in un processo di revisione materialista e pessimista del modello antropologico dell’etica della borghesia dell’Ottocento – modello che poggiava sul presupposto di una piena responsabilità dell’individuo nei confronti di una interiorità fatta di intenzioni consapevoli e autotrasparenti. Tale revisione era alimentata da un lato dal naturalismo darwiniano e dal biologismo medico del XIX secolo16; dall’altro da un’antropologia della crisi della ragione che, dopo essere stata in gestazione nel romanticismo e nel pensiero scettico dei secoli precedenti (soprattutto in quello di Hume), aveva trovato in Schopenhauer e Nietzsche i suoi principali teorici17. Tuttavia Freud si sforzò di arginare gli aspetti più distruttivi della crisi dell’immagine tradizionale della razionalità umana, proponendone una versione in cui, pur nell’ambito di una visione non ottimistica della natura umana, egli suggeriva che la sofferenza nevrotica è legata a una cattiva gestione dei rapporti con l’inconscio, una gestione che metteva capo a forme sbagliate di autorepressione. In quest’ottica, la terapia psicoanalitica offriva l’attraente prospettiva di una migliore gestione dei rapporti fra inconscio e coscienza, promuovendo nell’io cosciente la capacità di governare in modo più consapevole e razionale i propri rapporti con l’inconscio. Tuttavia, come tema non già culturale ma scientifico, la concettualizzazione della sessualità in termini pulsionali-istintuali è certamente la parte più datata dell’opera di Freud. (E non è un piccolo difetto, dal momento che la concezione energetico-pulsionale della mente è la principale premessa dottrinaria della psicoanalisi freudiana.) Il dibattito sul concetto di istinto, con le sue varianti (pulsioni, tropismi, drives ecc.), accompagna tutta la storia della psicologia. Criticata già a partire dagli anni venti, l’idea dell’istinto come quantità definita di energia che «si scarica» (secondo il cosiddetto «modello idrodinamico») si estinse negli anni cinquanta sia sul terreno biologico, per lo studio dei comportamenti in chiave di segnali ad opera della scuola etologica inglese, sia sul terreno sperimentale, prima in rapporto allo sviluppo degli studi sui meccanismi di apprendimento, e poi per l’entrata in scena della teoria dell’informazione (con la cibernetica e le teorie sistemiche, in seguito con l’informatica). A partire dagli Cfr. H. Ellenberger, The Discovery of the Unconscious, Basic Books, New York 1970 (trad. it. La scoperta dell’inconscio, Boringhieri, Torino 1972). 16 Cfr. F.J. Sulloway, Freud Biologist of the Mind, Basic Books, New York 1979 (trad. it. Freud biologo della psiche, Feltrinelli, Milano 1982). 17 Cfr. G. Jervis, Il secolo della psicoanalisi, in Id. (a cura di), Il secolo della psicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino 1999, pp. 21-22; Id., Psicologia dinamica, il Mulino, Bologna 2001, p. 51. 16 17 15 anni sessanta, con l’avvento del cognitivismo, le funzioni psicologiche (un concetto che Freud non possedeva) sono definite in termini di segnali e informazioni. Ma anche in campo psicoanalitico già in Michael Balint, negli anni trenta e quaranta, esiste una implicita crisi della centralità della pulsione, in rapporto alla teoria delle relazioni oggettuali. Secondo questo indirizzo la ricerca dell’oggetto – cioè in pratica la ricerca del rapporto con la madre da parte del bambino – non è secondaria alla necessità di «scaricare» la pulsione libidica, ma è primaria; il ruolo dell’istinto come energia ne è drasticamente ridimensionato. La critica al concetto di pulsione istintuale diverrà esplicita con la teoria dell’attaccamento di John Bowlby. Infine, l’attacco più organico e radicale all’idea freudiana di istinto verrà espresso negli Stati Uniti, nell’ambito dell’influenza della scuola di David Rapaport. A partire dagli anni ottanta è divenuta tema comune nel dibattito psicoanalitico l’idea che la teoria freudiana delle pulsioni non sia più sostenibile alla luce dei dati scientifici18. Il secondo tratto peculiare dell’inconscio freudiano è la rimozione, ovvero il meccanismo con cui il soggetto cancella attivamente dalla consapevolezza alcuni contenuti: tipicamente, il ricordo di un evento traumatico oppure una fantasia che non fa parte dell’universo mentale che la nostra cultura riconosce come legittimo. Questa operazione difensiva era considerata da Freud la causa di una serie di disturbi psichici; e scopo della terapia psicoanalitica era quindi quello di riportare alla coscienza almeno una parte dei contenuti rimossi. Oggi sappiamo, tuttavia, che il fenomeno a cui Freud si riferiva con il concetto di rimozione – la cancellazione totale dalla coscienza di un ricordo o di una fantasia (e in modo irreversibile a meno di ricorrere a particolari tecniche come l’ipnosi o la terapia psicoanalitica) –, se pure esiste, è rarissimo. Inoltre, non esiste alcuna prova sperimentale che un simile fenomeno provochi disturbi psichici di qualsiasi tipo19. Dopo Freud, però, si è affermato, anche a livello di senso comune, un senso più debole di rimozione. Si tratta di un significato che ritroviamo in frasi del tutto usuali, come ad esempio «mi sono ricor- dato di quell’appuntamento soltanto nel momento in cui ormai era troppo tardi». Se, come oggi è assai comune fare, si dicesse che quel tizio ha «rimosso» l’appuntamento, ciò che si vorrebbe dire è non già che ha cancellato quell’impegno dalla memoria bensì che lo ha temporaneamente messo da parte (in modo interessato: non voleva ricordare). Questo significato più debole di rimozione è importante in quanto organico a un modo di intendere la coscienza diverso da quello di Freud. Per quest’ultimo da un lato c’era la coscienza (ben separata dall’inconscio), dall’altro gli inciampi della coscienza (causati dall’infiltrarsi dell’inconscio nella coscienza). Tali inciampi si verificavano solo in pochi casi anomali e occasionali come, per l’appunto, le rimozioni (in senso forte). Oggi invece noi ci rendiamo conto, approfondendo e confermando l’idea di Freud ma rendendola più radicale, che la nostra coscienza è globalmente intrisa di inconscio, ovvero di una quantità di strategie difensive che si avvicinano molto alle rimozioni (in senso debole). Per esempio, nella teoria dell’esclusione selettiva (o difensiva) dell’informazione messa a punto da John Bowlby, la coscienza consiste in selezioni interessate dei dati, e molto spesso queste selezioni somigliano a rimozioni20. Si può pertanto affermare che se, per un verso, il concetto freudiano di rimozione è un pezzo da museo, per un altro verso contiene un rinvio a un tema ancora pienamente attuale, quello della malafede: i nostri processi di pensiero sono pervasi da una difensività autoapologetica, da una sistematica inclinazione all’autoinganno, da una tendenza cioè a fabbricare spiegazioni «di comodo» delle nostre condotte. Come vedremo nel terzo capitolo, esiste ormai da parecchi decenni un filone di ricerche sperimentali che si occupa di tutta questa tematica freudiana. Ciò che emerge da queste ricerche è che le spiegazioni che diamo delle nostre azioni sono spesso dimostrabilmente erronee. Noi crediamo di agire per determinate ragioni laddove invece agiamo per altre. Ciò avviene perché non siamo in grado di accedere ai processi di elaborazione dell’informazione che costituiscono i fattori causali delle nostre azioni; quello che facciamo è piuttosto razionalizzare, fabbricare giustificazioni a posteriori che obbediscono all’interesse di presentare le nostre azioni in modo da 18 Cfr. per es. R. Holt, Freud Reappraised. A Fresh Look at Psychoanalytic Theory, Guilford, New York 1989 (trad. it. Ripensare Freud, Bollati Boringhieri, Torino 1994); M. Macmillan, Freud Evaluated, MIT Press, Cambridge (MA) 19972. 19 Cfr. G. Jervis, Un commento ai due scritti di Morris Eagle e di Robert Holt, in «Rassegna di Psicologia», 19(2), 2002, p. 50; R.J. McNally, Remembering Trauma, Harvard UP, Cambridge (MA) 2003. 20 Cfr. Jervis, Il secolo della psicoanalisi cit., pp. 46-48; Psicologia dinamica cit., pp. 125-26. Il riferimento è a J. Bowlby, Attachment and Loss: Vol. 3. Loss: Sadness and Depression, Hogarth Press, London 1980, cap. 4 (trad. it. Attaccamento e perdita, vol. 3. La perdita della madre, Bollati Boringhieri, Torino 20002). 18 19 21 «In parte» in quanto non tutto l’inconscio freudiano è contenuto rimosso. Nella formulazione più matura, quella de L’Io e l’Es (1922), Freud definisce l’inconscio come Es, ovvero come parte primordiale della psiche, legata al corpo, agli istinti, alla sessualità, a fantasie di distruttività primitive, che in parte è inconoscibile e in parte può essere conosciuta direttamente. 22 A tale proposito si legga ciò che scrivono J. Laplanche e J.-B. Pontalis a proposito della seconda topica: «[in questo caso] il modello non è tratto più dalle scienze fisiche [come avveniva nel caso della prima topica], ma ha assunto un carattere antropomorfico: il campo intrasoggettivo tende a essere concepito secondo il modello delle relazioni intersoggettive, i sistemi si configurano come persone relativamente autonome nella personalità» (Vocabulaire de la psychanalyse, Presses Universitaires de France, Paris 1967; trad. it. Enciclopedia della psicoanalisi, RomaBari, Laterza 1993, p. 636). 23 S. Gardner, Psychoanalysis, contemporary views, in R.A. Wilson e F.C. Keil (a cura di), The MIT Encyclopedia of the Cognitive Sciences, MIT Press, Cambridge (MA) 1999, p. 684. psicoanalisi da ben note obiezioni metodologiche: al pari delle spiegazioni della psicologia del senso comune, le spiegazioni psicoanalitiche non sarebbero tenute a conformarsi ai canoni epistemologici e metodologici della scienza sperimentale. Il referente di questa concezione della psicoanalisi è Donald Davidson, per il quale il livello personale è autonomo e diverso da quello subpersonale e va studiato con metodi distinti: serve l’ermeneutica e non la ricerca di leggi di natura. L’impostazione davidsoniana è, sostanzialmente, una forma di antinaturalismo che priva la scienza del dominio del mentale, intendendo quest’ultimo come uno spazio delle ragioni piuttosto che delle cause. A questa posizione noi opponiamo una visione del rapporto tra psicologia del senso comune e scienza cognitiva che prescrive una sistematica revisione della prima sotto la guida della seconda. Una volta adottata questa prospettiva, non vi sono scappatoie ermeneutiche, e la psicoanalisi si presenta come una teoria che trasforma in oggettività, cioè in meccanismo, ciò che in realtà si fonda sull’introspezione: una psicologia personale mascherata da psicologia subpersonale. Su un livello di analisi autenticamente subpersonale può invece contare la scienza cognitiva. Di conseguenza, la coscienza non è più un assunto indiscutibile, un fatto non negoziabile; il concetto di inconscio cognitivo non è più modellato, come in Freud, sul concetto di conscio. Invece i processi subpersonali della scienza cognitiva hanno caratteri diversi dalla coscienza: dove questa si presenta come unitaria, seriale, linguistica e sensibile a proprietà globali, quelli sono molteplici, paralleli, non linguistici e orientati all’elaborazione di proprietà locali. Questa affermazione va tarata con la considerazione che in taluni casi anche i processi inconsci della scienza cognitiva sono un po’ troppo speculari rispetto all’idea intuitiva che se ne fa il senso comune; alcuni modelli della scienza cognitiva, e specificamente la teoria computazional-rappresentazionale della mente di Fodor, tendono a riprodurre il funzionamento dei processi di pensiero consapevoli. Così, ad esempio, nella teoria fodoriana si suppone che ci siano simboli dotati di contenuto; o che ci sia uno stato computazionale in corrispondenza di ogni stato di credenza del senso comune; o ancora che i processi cognitivi (inclusi quelli percettivi) siano assimilabili a catene deduttive. Nel complesso, tuttavia, possiamo affermare che, in ragione del modo stesso di pensare la mente nella scienza cognitiva, come qualcosa che si colloca a mezza via tra la persona e il cervello, l’inconscio cognitivo non rispecchia fedelmente il livello cosciente; e che i modelli dell’inconscio più aderenti 20 21 rafforzare una descrizione d’identità a carattere rassicurante e autopromozionale. Ma, e qui l’inganno diventa appunto autoinganno, non ci accorgiamo affatto di questo «trucco»: siamo sinceramente persuasi della bontà delle nostre spiegazioni. Il rapporto fra coscienza e inconscio, così come viene ad articolarsi nella teoria freudiana della rimozione, è la spia della principale differenza fra l’inconscio freudiano e l’inconscio della scienza cognitiva. Per Freud la coscienza resta un dato indiscutibile, anche se viene poi criticata e diminuita rispetto alla concezione tradizionale. Correlativamente, l’inconscio è un tipo diverso di conscio; è un contenuto più profondo ma che ha una similarità di struttura col conscio e che in parte è suscettibile di divenire conscio21. In breve, l’inconscio freudiano è il prodotto dell’ampliamento, o estensione, di una psicologia – quella del senso comune – che s’impernia sull’idea di persona capace di esperienze mentali coscienti. Di conseguenza, Freud tende a pensare l’inconscio come un soggetto che ha desideri e impulsi diversi dal soggetto conscio, ma è, appunto, assimilabile a un soggetto22. Alcuni studiosi non ritengono che questo sia un male; e anzi giudicano un punto di forza della teoria psicoanalitica la sua capacità di estendere la concezione ordinaria della mente, la «sua capacità di offrire una spiegazione unitaria di fenomeni (il sogno, la psicopatologia, il conflitto psichico, la sessualità ecc.) che la psicologia del senso comune non è in grado di spiegare – o quanto meno non è bene attrezzata a farlo»23. Questa impostazione è la base di una difesa della alla struttura della consapevolezza appartengono più al passato delle scienze cognitive che al suo presente. 3. L’inconscio della scienza cognitiva: una discussione critica Armati di questo confronto con Freud, torniamo a focalizzarci sulle scienze della mente. Le molte discussioni che sono state fatte sui fondamenti epistemologici del paradigma di ricerca cognitivista raramente si sono focalizzate su quello che pure è uno dei suoi postulati centrali, appunto il carattere mentale dei processi subpersonali. Studiare la mente, cioè studiare le capacità mentali, non può non comportare lo studio di questi processi. Non si può spiegare come facciamo ad avere un’esperienza visiva senza entrare nel merito, ad esempio, dei meccanismi di rilevazione degli sbalzi di luminanza, cioè dei passaggi repentini da una zona molto chiara a una zona molto scura nell’immagine retinica; non si può spiegare come facciamo a comprendere il linguaggio senza parlare di regole inconsce e di parsing, cioè dei processi di composizione e scomposizione di strutture grammaticali. E così via. Si potrebbe tuttavia sollevare un’obiezione: anche se la descrizione computazionale, quella in termini di programmi e rappresentazioni, di un processo cognitivo non è una descrizione neurobiologica, e dunque non stiamo parlando di cervello, in che senso essa è mentale? Perché quella che in effetti è un certo tipo di descrizione funzionale, «di alto livello», di un processo neurofisiologico dovrebbe essere considerata la descrizione di un fenomeno (processo, capacità) mentale? Che cosa in essa vi è di specificamente mentale? Non sarebbe più appropriato dire che la scienza cognitiva indaga, sia pure a un livello di descrizione funzionale e specificamente computazionale, i processi cerebrali che rendono possibili le nostre capacità o funzioni mentali; ovvero che per il cognitivismo il mentale è soltanto l’explanandum, ma non l’explanans? Non sarebbe più corretto sostenere, per esempio, che la percezione è una facoltà mentale resa possibile, inter alia, dal fatto che il cervello esegue certe operazioni? L’individuazione di uno sbalzo di luminanza, ad esempio, è un’operazione completamente a carico di certi aggregati neuronali dell’area visiva primaria. Dunque la teoria computazionale della visione spiega una facoltà mentale in termini di certi processi cerebrali. L’obiezione non è priva di fondamento e vi sono studiosi che hanno messo in discussione l’assunto secondo cui i processi subper22 sonali sono mentali. Alcuni sviluppi recenti delle scienze cognitive potrebbero essere interpretati sotto questo aspetto. Riprendendo le idee di uno psicologo della percezione ostile al cognitivismo «ortodosso» come James J. Gibson24, studiosi come Alva Noë e Kevin O’Regan hanno sostenuto che la percezione è un’attività dell’organismo preso nella sua interezza, non una funzione a carico di un «pezzo di cervello»25. Ciò suggerisce di pensare alla mente come a un insieme di capacità delle persone (o di animali sufficientemente evoluti), distinguendo chiaramente tra ciò che fa il cervello e ciò che fa (o, meglio, ciò che è) la mente: i fatti psicologici (nello specifico, percettivi) riguardano l’organismo nella sua interezza, e vanno tenuti ben distinti dai meccanismi cerebrali che contribuiscono a renderli possibili, meccanismi che, per quanto descritti in un vocabolario computazionale, appartengono esclusivamente alla neurofisiologia del sistema nervoso. Non è in discussione, beninteso, che il funzionamento della mente dipenda (inter alia) da quello del cervello; ma guardare alla mente come a un insieme di funzioni del (solo) cervello è un errore, una confusione di livelli esplicativi. Vediamo come si potrebbe replicare a tale obiezione, esplicitando quello che spesso resta implicito nei lavori degli scienziati cognitivi. La chiave della risposta, ci sembra, risiede nel significato profondo della critica cognitivista al comportamentismo. Per il comportamentista la psicologia era la scienza del comportamento (osservabile) e nulla di inosservabile poteva entrare nella spiegazione. Invece, per il cognitivista, per spiegare il comportamento è indispensabile chiamare in causa gli inosservabili; altrimenti, semplicemente, il comportamento non riusciamo a spiegarlo. E potremmo anche dire: la psicologia è la scienza di ciò che spiega il comportamento, non meramente la scienza del comportamento. Questa definizione della psicologia si attaglia assai meglio al termine: la psiche non è il comportamento, bensì è ciò che «sta dietro» al comportamento, o che ne è alla base. Ora, si dà il caso che gli inosservabili che spiegano il comportamento (i processi e le rappresentazioni) postulati dagli scienziati 24 J.J. Gibson, An Ecological Approach to Visual Perception, Houghton & Mifflin, Boston 1979 (trad. it. L’approccio ecologico alla percezione visiva, il Mulino, Bologna 1999). 25 Cfr. K. O’Regan e A. Noë, A sensorimotor account of vision and visual consciousness, in «Behavioral and Brain Sciences», 24(5), 2001, pp. 939-1031; A. Noë, Perception in Action, MIT Press, Cambridge (MA) 2004. 23 cognitivi siano in larga parte strutture inconsce, fatto non troppo sorprendente, altrimenti, in un certo senso, non sarebbero completamente inosservabili. Ma questo non li rende meno mentali, non sposta i termini del problema. Se, come abbiamo visto, l’oggetto proprio della psicologia sono le strutture che rendono possibile il comportamento intenzionale, cioè l’azione, non i meri riflessi, il fatto che tali strutture non siano coscienti non le rende meno psicologiche; non le rende cioè meno mentali26. Inoltre l’idea stessa di scienza cognitiva comporta che lo studio della mente richieda il concorso simultaneo di diversi livelli di spiegazione. Così come non riusciremmo a capire la mente studiando il solo cervello, analogamente le nostre spiegazioni risultano lacunose in assenza della specificazione di vincoli neurofisiologici sulle computazioni mentali. Beninteso, al critico della mente subpersonale restano margini di replica. Per esempio, potrebbe sostenere che ci sono virtualmente infiniti fattori che spiegano il comportamento ma di certo non li consideriamo tutti mentali. L’occhio fa parte del sistema visivo, ma l’occhio è un organo fisico che non ha nulla di mentale. In altre parole, possiamo certamente chiamare «mentali» molte forme di elaborazione dell’informazione che non sono accessibili alla coscienza; ma sembra naturale richiedere che esse debbano esibire una qualche forma di relazione con l’elaborazione cosciente27. Si dovrebbe allora poter tracciare una frontiera in qualche punto in modo da poter dire, per esempio, che le rappresentazioni costruite dai processi di visione primaria, nelle quali sono esplicitate soltanto proprietà locali degli oggetti (frammenti dei contorni di un oggetto e alcune zone chiaro-scure potenzialmente significative), non sono mentali affatto; esse sono infatti strutture neurobiologiche individuate a livello funzionale e descritte in un vocabolario computazionale. Possiamo cominciare a parlare di strutture mentali solo a un livello più alto, quando elementi di tali strutture codificano proprietà cui fanno ri- scontro elementi fenomenici, consci, ad esempio il colore. Tracciare questa frontiera è tuttavia una faccenda complessa e vedremo come questa sia una delle ragioni che induce il filosofo Galen Strawson a identificare il mentale con ciò che appartiene al flusso di coscienza. La questione che stiamo discutendo, se i processi subpersonali studiati dalla scienza cognitiva siano davvero mentali, può essere ricondotta a un problema più generale, quello della natura dell’inconscio. Come dobbiamo caratterizzare l’inconscio? 3.1. Searle contro l’inconscio cognitivo Secondo John Searle, bisogna distinguere tra qualcosa di inconscio che non è suscettibile in alcun modo di essere portato alla coscienza, e qualcosa di inconscio che invece ha la potenzialità di affiorare alla coscienza28. Il primo tipo di inconscio, che il filosofo di Berkeley suggerisce di chiamare «non conscio», non è mentale affatto, non c’è nessuna ragione di considerarlo sotto qualche aspetto mentale. I processi non consci, quali sono tipicamente i processi ipotizzati dalle scienze cognitive, sono operazioni del cervello, non della mente. In questo senso per Searle non c’è una mente subpersonale; la mente è cosa diversa dai processi cerebrali che la «producono» o, come egli preferisce dire, la causano. La tesi di Searle è pertanto che, propriamente parlando, qualcosa è inconscio (in opposizione a meramente non conscio) se, pur non emergendo attualmente alla soglia della coscienza, ha tuttavia la possibilità di diventare cosciente; e che ogni stato mentale è o inconscio in questa accezione (= potenzialmente conscio) o attualmente cosciente. L’argomento di Searle a sostegno di questa tesi è piuttosto complesso; cercheremo di catturarne i passaggi cruciali senza ricostruirlo punto per punto. Anche così, due chiarimenti preliminari sono indispensabili, relativamente al concetto di intenzionalità e a quello di forma aspettuale, che svolgono un ruolo decisivo nell’argomentazione. Uno stato o proprietà si definisce intenzionale se verte su, o è diretto verso, un oggetto. Vedere un gatto o pensare a George Clooney sono esempi di stati intenzionali i cui oggetti sono rispettivamente 26 Si può giungere alla stessa conclusione anche senza menzionare un comportamento esplicito: per esempio, anche se noi non sappiamo attraverso quali associazioni – o altri meccanismi – siamo passati dal pensiero che P al pensiero che Q, diamo per scontato che questo processo, in quanto processo di pensiero, sia mentale. 27 Cfr. M. Di Francesco e G. Piredda, La mente estesa, Mondadori Università, Milano 2012, cap. 4, par. 5. 28 J. Searle, Consciousness, explanatory inversion, and cognitive science, in «Behavioral and Brain Sciences», 13(4), 1990, pp. 585-96; Id., The Rediscovery of the Mind, MIT Press, Cambridge (MA) 1992, cap. 7 (trad. it. La riscoperta della mente, Bollati Boringhieri, Torino 1994). 24 25 quel gatto e George Clooney. Uno stato intenzionale può anche essere diretto verso oggetti astratti, cioè proposizioni o stati di cose, come nel caso di desiderare di andare in vacanza o credere che il governo durerà per l’intera legislatura. In questi casi ciò a cui è diretto lo stato intenzionale viene usualmente denominato contenuto (intenzionale): (di) andare in vacanza e (che) il governo duri l’intera legislatura sono i rispettivi contenuti del desiderio e della credenza in questione. Secondo Franz Brentano l’intenzionalità è la proprietà caratteristica degli stati mentali: se qualcosa è uno stato mentale, allora è uno stato intenzionale29. Infatti le esperienze, le credenze, i desideri sono sempre esperienze, credenze, desideri di qualche cosa. Searle emenda e qualifica la tesi di Brentano osservando (a) che non tutti gli stati mentali sono intenzionali, perché ci sono stati, come l’angoscia o la nausea, che non sono diretti a un oggetto; e (b) che solo gli stati mentali intenzionali possiedono un’intenzionalità originaria o intrinseca (= se qualcosa possiede intenzionalità originaria, allora è uno stato mentale): noi attribuiamo stati intenzionali anche a macchine e artefatti di vario genere, ma siamo appunto noi a «prestare» l’intenzionalità a stati che, di per sé, non la possiedono affatto. Per esempio, di una biografia di Charlie Parker potremmo dire che ha intenzionalità in quanto verte su qualcosa, Charlie Parker, ma ovviamente questa intenzionalità è integralmente ereditata dall’autore della biografia, è intenzionalità derivata. Quanto alla forma aspettuale, può essere definita come la prospettiva sotto la quale un oggetto o uno stato di cose è dato a un soggetto che intrattiene uno stato mentale. Per esempio, possiamo pensare ad Aristotele come al più grande filosofo dell’antichità o come al maestro di Alessandro Magno: questi sono due stati intenzionali, e specificamente due pensieri, che vertono sullo stesso oggetto sotto una diversa forma aspettuale. Oppure il desiderio di andare in vacanza può esserci dato come desiderio di viaggiare, o di andare al mare, o di prenderci quindici giorni di riposo. Sono tutti egualmente desideri di andare in vacanza, «visti» o meglio pensati sotto diverse forme aspettuali. Ogni stato mentale possiede una forma aspettuale perché non è possibile percepire o pensare a qualcosa se non da una certa prospettiva, sotto certi piuttosto che altri aspetti. Per esempio, nel vedere un’automobile la vediamo da un certo punto di vista, e la vediamo come qualcosa che ha una certa forma, un dato colore ecc. Bene, fatte queste precisazioni, la tesi di Searle è dedotta da due premesse: i) gli stati mentali inconsci, paradigmaticamente credenze e desideri, sono stati intenzionali, e questa loro intenzionalità è intrinseca, originaria; ii) non è possibile caratterizzare in modo completamente oggettivo (in terza persona) uno stato intenzionale, in quanto ogni stato intenzionale possiede una forma aspettuale. L’idea è che la prospetticità è qualcosa di intrinsecamente legato a un punto di vista, e un punto di vista è qualcosa di irriducibilmente soggettivo (anche se è possibile condividere dei punti di vista)30. Da queste due premesse Searle trae la conseguenza che uno stato inconscio può essere mentale solo a una condizione: avere la possibilità o disposizione di emergere alla coscienza. Infatti, in caso contrario (cioè, se uno stato non può emergere alla coscienza), non esisterebbe alcuna prospettiva sotto la quale quello stato è dato al soggetto; esso non avrebbe cioè una forma aspettuale, quindi (per la premessa ii) non sarebbe intenzionale e, di conseguenza (per la premessa i), nemmeno mentale: «l’unico senso che possiamo dare all’idea che [i fenomeni mentali inconsci] preservano la loro forma aspettuale [...] è che essi siano contenuti possibili di coscienza»31. Il problema di questa argomentazione è che, una volta esplicitati certi assunti di sfondo della posizione searliana, ambedue le premesse si espongono a un’obiezione. Ma, prima di fare qualche considerazione sulle premesse, vorremmo soffermarci su un punto importante da chiarire: che cosa vuol dire, esattamente, che uno stato inconscio può (o non può) emergere alla coscienza? Il concetto di possibilità che Searle ha in mente è, in prima istanza, quello di disposizione. Si consideri la credenza che Parigi è la capi- F. Brentano, La psicologia dal punto di vista empirico (ed. or. 1874), Laterza, Roma-Bari 1997. 30 Così Searle: «La caratteristica aspettuale non può essere caratterizzata in modo esaustivo o completo unicamente in termini di predicati in terza persona, comportamentali o neurofisiologici. Nessuno di questi è sufficiente a dare una illustrazione esaustiva della forma aspettuale» (The Rediscovery of the Mind cit., pp. 157-58). 31 Ivi, pp. 159-60. 26 27 29 tale della Francia. Questo è un tipico stato disposizionale, nel senso che noi attribuiamo tale credenza anche a persone immerse in un sonno profondo. Non c’è bisogno che una persona X intrattenga il pensiero esplicito («occorrente», «attuale») che Parigi sia la capitale della Francia per avere tale credenza. È sufficiente che in alcune circostanze, che potrebbero anche non verificarsi mai, questo contenuto si affacci alla ribalta della coscienza di X, come avviene, ad esempio, quando a X viene domandato qual è la capitale della Francia32. Le credenze e i desideri sono i tipici stati mentali inconsci per Searle: essi sono «dormienti», ma suscettibili, date le circostanze opportune, di emergere alla coscienza. Invece uno stato postulato in una teoria come quella di Chomsky, ad esempio lo stato di applicazione di una regola grammaticale durante il processo di comprensione di un enunciato (cfr. supra, par. 1), oppure il più volte menzionato stato di rilevamento di uno sbalzo di luminanza durante il processo visivo, sono stati non consci, perché è impossibile, per quanto possiamo constatare, che essi emergano alla coscienza. Si tratta di una impossibilità biologica, quindi fisica (in opposizione a logica o concettuale), che nondimeno Searle qualifica come una possibilità «in linea di principio». Data questa impostazione, Searle può asserire, in base all’argomento sopra illustrato, che tutti gli stati subpersonali postulati dalla scienza cognitiva sono non consci e quindi non mentali: le credenze e i desideri, per quanto «dormienti», cioè considerati come disposizioni, sono nondimeno stati personali, in quanto sono attribuiti a un soggetto. Uno stato subpersonale, invece, è per definizione qualcosa che non emerge mai alla coscienza. Ma che dire di uno stato neurofisiologico o computazionale che ha un correlato cosciente? Per esempio, secondo Ray Jackendoff, quando il cervello (o la mente computazionale) costruisce lo schizzo 2½-D – una delle rappresentazioni visive intermedie postulate dalla teoria computazionale della visione – i soggetti hanno una corri- spondente esperienza visiva in prima persona: vedono le superfici di un oggetto (cfr. supra, n. 11). Questo implica almeno che lo stato neurofisiologico/computazionale realizza lo stato cosciente (ed eventualmente che stiamo in effetti parlando di uno stesso e unico stato, sotto due diverse descrizioni). Ebbene, anche limitandoci a parlare di «stato neurofisiologico» (visto che per Searle l’idea che i processi mentali abbiano natura computazionale o possano essere riprodotti da programmi è totalmente erronea), per il filosofo di Berkeley l’idea che lo stato neurofisiologico possa essere cosciente è priva di senso, per due ragioni interdipendenti. Da un lato, dire che lo stato neurofisiologico ha un correlato cosciente può soltanto voler dire che lo stato neurofisiologico è la causa dello stato cosciente in questione; ma, se è così, i due stati restano ben distinti. Dall’altro, c’è una sorta di incommensurabilità ontologica tra i due stati, perché «la coscienza ha un’ontologia soggettiva, o in prima persona; la base causale neurobiologica della coscienza ha un’ontologia oggettiva o in terza persona»33. L’esistenza di una supposta correlazione con uno stato mentale non rende cosciente uno stato neurofisiologico né in atto né in potenza. 32 Se una persona crede che Parigi sia la capitale della Francia, almeno una volta deve aver intrattenuto il pensiero esplicito corrispondente, quando lo ha appreso (leggendo un libro o udendolo da qualcun altro). Nella misura in cui, tuttavia, tale circostanza è quella in cui la credenza si fissa, cioè si pone in essere, possiamo dire che, una volta fissata la credenza, potrebbe non esserci mai una circostanza in cui quella credenza diventa occorrente, allo stesso modo in cui diciamo di un vaso che è fragile (= ha la disposizione a rompersi) anche se questo vaso non cadrà e non si romperà mai. 33 J. Searle, Biological naturalism, in M. Velmans e S. Schneider, The Blackwell Companion to Consciousness, Blackwell, Oxford 2007, pp. 327-28. Qui, per la verità, è difficile farsi un’idea coerente della posizione di Searle, che sembra oscillare tra la tesi secondo cui quella neurofisiologica e quella personale sono due descrizioni o concetti di uno stesso e unico stato (non c’è una distinzione ontologica) e la tesi secondo cui i due stati hanno «due diverse ontologie». È possibile che ci sia una fallacia di equivocazione (uso di una stessa parola con due significati diversi) sui termini «ontologia/ontologico». Per una replica, cfr. ivi, pp. 332-33. 28 29 Siamo così pronti per discutere le premesse dell’argomento. A nostro giudizio gli aspetti maggiormente problematici sono due, peraltro interdipendenti: l’idea che ci sia qualcosa come un’intenzionalità intrinseca, e l’idea che ogni stato intenzionale abbia una forma aspettuale. Daniel C. Dennett, più di chiunque altro, ha contestato l’idea di intenzionalità intrinseca rilevando che l’intenzionalità è sempre qualche cosa che si attribuisce, cioè è un costrutto teorico o concetto esplicativo che applichiamo indistintamente a persone, animali ed artefatti. Non c’è nessuna intenzionalità «originaria» perché l’attribuzione di intenzionalità, tanto negli esseri umani quanto negli artefatti, è una strategia esplicativa che astrae dal tipo di strutture interne che rea- lizzano le diverse competenze cognitive, limitandosi a presupporre la razionalità dell’agente cui vengono ascritti gli stati intenzionali34. La dubbia cogenza della distinzione tra intenzionalità originaria e derivata, peraltro, può essere difesa anche scendendo sul terreno delle strutture interne, andando cioè alla ricerca di qualcosa di fisico che corrisponde all’intenzionalità: come sostiene lo stesso Searle, se gli stati mentali davvero possiedono una proprietà siffatta, ciò non può che dipendere da certe caratteristiche biologiche, ovvero dal fatto che il nostro cervello ha la capacità di essere ricettivo a certe proprietà ambientali. Questa ricettività si manifesta nei pattern di scarica di gruppi neuronali in corrispondenza di certe proprietà. Gruppi diversi sono sensibili a proprietà diverse. Questa caratteristica può essere considerata la base di una vera e propria capacità di codificare o rappresentare informazioni. Infatti, su una scala superiore di complessità, è plausibile supporre che ampi sistemi neuronali siano in grado di rappresentare oggetti e proprietà del mondo tramite vettori di attivazione, cioè i pattern globali dei valori di attivazione di tutti i neuroni della rete o sistema considerato35. Pertanto, l’intenzionalità di almeno alcuni stati mentali dipende, fondamentalmente, dal rapporto attivo che sussiste tra un organismo e il suo ambiente, relazione che si sostanzia tramite la costruzione di rappresentazioni di oggetti e proprietà dell’ambiente stesso. In questo senso, il mentale non è situato tutto all’interno del soggetto, ma ha un carattere relazionale e funzionale, nel senso che assolve certi scopi lato sensu biologici. Ebbene, questo tipo di capacità rappresentazionale non è più misteriosa o originaria della proprietà che un termostato ha di rilevare la temperatura, ma soltanto più sofisticata e complessa. In ambedue i casi sono in gioco dei sistemi fisici capaci di portare informazioni su (stati di) altri sistemi fisici. E in ambedue i casi c’è un «progetto» alla base, sviluppato da madre natura piuttosto che da un ingegnere. Quindi, se si accetta (come, ribadiamo, anche Searle è incline a fare) la tesi secondo cui l’intenzionalità degli stati mentali è una proprietà con una base biologica, l’idea che gli stati mentali abbiano una presunta intenzionalità originaria non sembra avere una base solida36. L’intenzionalità, a differenza di quanto ritiene Searle, è un fenomeno diffuso in natura. Non si potrebbe riformulare l’argomento searliano limitandosi a parlare di intenzionalità e abbandonando la distinzione tra originaria e derivata? No, perché se parliamo di intenzionalità tout court, senza qualificazioni ulteriori, diventa difficile per Searle giustificare perché, qua intenzionali, gli stati mentali hanno una forma aspettuale laddove, evidentemente, gli stati neurofisiologici o di un artefatto non ce l’hanno. Si potrebbe invocare il carattere personale degli stati mentali, ma verrebbe comunque a mancare l’anello di congiunzione tra la natura aspettuale e la natura mentale, che nell’argomentazione è proprio l’intenzionalità. Il problema maggiore dell’argomento di Searle è dunque la seconda premessa, quella secondo cui l’intenzionalità implica la prospetticità o aspettualità, sebbene si possa verosimilmente concedere a Searle che gli stati mentali del senso comune (credenze, desideri, esperienze percettive ecc.) hanno una forma aspettuale. Come abbiamo visto, per poter difendere tale premessa, Searle ha bisogno del concetto di intenzionalità originaria, che tuttavia, a dispetto della sua intuitività, non è molto solido. Pertanto l’argomento di Searle non può essere considerato concludente; e tuttavia bisogna ammettere che c’è qualcosa di persuasivo nella caratterizzazione searliana di inconscio, che potrebbe essere catturato dalla seguente considerazione, alla quale abbiamo già fatto allusione prima di introdurre la posizione dell’autorevole filosofo di Berkeley. È ovvio che la classe degli stati mentali inconsci deve essere ragionevolmente circoscritta, altrimenti qualsiasi stato o processo si candiderebbe a essere uno stato mentale, dalla mielinizzazione degli assoni al rilascio dei neurotrasmettitori, al «riconoscimento» da parte di un gruppo di cellule di un certo tipo di movimento. Tutti questi processi svolgono infatti un ruolo causale nella nostra esperienza visiva, o in un’attività di pensiero. Occorrono quindi dei criteri. Quello proposto da Searle è indubbiamente un criterio, discutibile quanto si vuole, 34 D.C. Dennett, Brainstorms, MIT Press, Cambridge (MA) 1978 (trad. it. Brainstorms, Adelphi, Milano 1991); Id., The Intentional Stance, MIT Press, Cambridge (MA) 1987 (trad. it., L’atteggiamento intenzionale, il Mulino, Bologna 1993). 35 Come avviene nelle reti neurali artificiali. Cfr. P.S. Churchland e T.J. Sejnowski, The Computational Brain, MIT Press, Cambridge (MA) 1992 (trad. it. Il cervello computazionale, il Mulino, Bologna 1996). 36 Le cose stanno diversamente se si ritiene, invece, che l’intenzionalità sia una nozione normativa; in questo caso le capacità rappresentazionali del cervello non esemplificano intenzionalità (cfr. per esempio A. Paternoster, Filosofia del linguaggio e della mente: a cavallo del secolo, in T. Burge, Linguaggio e mente, a cura di A. Paternoster, De Ferrari, Genova 2005, spec. pp. 81-83). 30 31 ma non privo di cogenza; i cognitivisti non hanno un vero e proprio criterio da offrire, anche se potrebbero ragionare nel modo seguente. Prendiamo due processi neurofisiologici, la mielinizzazione degli assoni e la detezione o rilevazione di uno sbalzo di luminanza effettuata dalle cellule «off-center» e «on-center» della corteccia visiva primaria37. Il primo non ammette alcuna descrizione computazionale utile a fini teorici; il secondo sì. Poiché tale descrizione computazionale svolge un ruolo teorico in un modello di spiegazione di una capacità mentale, allora quel processo è mentale. Altrimenti detto, sebbene la mielinizzazione degli assoni svolga un ruolo causale nella produzione di un qualsiasi stato o processo mentale, non esiste nessun livello descrittivo nel quale essa figuri in una spiegazione di una capacità mentale. Al contrario, la detezione di uno sbalzo di luminanza figura quale fattore causalmente significativo in una spiegazione computazionale della percezione visiva. Ciò rende tuttavia il concetto di mentale poco solido, oscillante a seconda delle teorie. Se, per esempio, in una differente teoria della visione (si badi bene, sempre all’interno del quadro teorico computazionalista) la detezione degli sbalzi di luminanza non fosse più considerata uno stadio rilevante della percezione visiva, allora quello stesso processo non sarebbe più considerato mentale38. Questo è un caso particolare del principio quineiano secondo cui sono le teorie della scienza a fissare l’ontologia: che cosa è mentale e che cosa no lo decide la teoria scientifica migliore in un dato momento, anche se una certa perdurante precarietà delle basi epistemologiche della psicologia cognitiva si riverbera sulla nozione di mentale (e si può leggere questa connessione anche nella direzione opposta). Torneremo ancora sulla questione, discutendo della posizione di Galen Strawson. Prima dobbiamo concludere la disamina della posizione di Searle, che ha alcune cose interessanti da dire sull’inconscio freudiano. Secondo Searle la concezione freudiana dell’inconscio è incoerente. Searle attribuisce a Freud la tesi secondo cui gli stati mentali coscienti non sono altro che stati (mentali) inconsci che ci capita di «percepire». Altrimenti detto: non vi è nessuna differenza di natura tra gli stati mentali consci e quelli inconsci: gli stati mentali sono quello che sono; talvolta ne facciamo esperienza, ma il più delle volte no. Si noti come ciò sia molto in sintonia col punto di vista della scienza cognitiva, per la quale in ogni istante hanno luogo nel nostro cervello molti processi pertinenti per le nostre capacità mentali; frammenti di tali processi emergono alla coscienza, ma non c’è nessuna differenza di natura tra i processi che emergono alla coscienza e quelli che non emergono. Fin qui non c’è nessuna incoerenza. Ma, prosegue Searle, Freud postula uno stato mentale inconscio quando deve spiegare un comportamento che sarebbe normalmente causato da un certo stato cosciente che tuttavia non è presente. E qui cominciano i problemi, perché, sostiene Searle, questo modello di spiegazione implica il dualismo mente-corpo: viene postulato uno stato mentale laddove basterebbe postulare uno stato neurofisiologico. Freud, il materialista e naturalista Freud, sarebbe così sottilmente dualista? Ci sembra che qui Searle corra un po’ troppo: è verosimile che Freud pensasse che lo stato inconscio postulato avesse una base neurofisiologica; ma una condizione neurofisiologica può in alcuni casi essere descritta più proficuamente in termini psicologici, senza che ciò debba essere inteso come una ontologizzazione della realtà psichica. Non è casuale che l’accusa di dualismo sia stata rivolta anche alla scienza cognitiva (un esempio paradigmatico, ma non isolato, di questa critica è Hilary Putnam39), benché nessuno scienziato cognitivo pensi che gli stati/processi inconsci postulati per spiegare un comportamento non siano neurofisiologici; lo sono eccome, ma sono individuati e descritti in un vocabolario psicologico. La questione in gioco, quindi, non è il dualismo, ma (nel caso delle scienze cognitive) se siamo giustificati nel sostenere che il vocabolario computazionale è un vocabolario autenticamente psicologico e (tanto nel caso di Freud quanto in quello delle scienze cognitive) se i rispettivi concetti di mente inconscia hanno un ruolo causale ed esplicativo. 37 Cfr. D. Hubel e T. Wiesel, Receptive fields, binocular interaction and functional architecture in the cat’s visual cortex, in «Journal of Physiology», 160, 1962, pp. 106-54. Cfr. anche Marraffa e Paternoster, Persone, menti, cervelli cit., cap. 2. 38 L’esempio è di fantasia. In realtà è più probabile che una teoria diversa interpreti in modo differente uno stesso processo neurofisiologico, per esempio non descrivendolo più come rilevazione di sbalzi di luminanza. Nondimeno l’eventualità descritta non è troppo irrealistica. 39 Putnam se la prende in prima istanza con una certa filosofia della mente sodale della scienza cognitiva (Fodor in particolare); ma anche la scienza cognitiva classica è un suo bersaglio polemico, come dimostra il riferimento esplicito alla teoria di Kosslyn. Cfr. H. Putnam, The Threefold Cord, Columbia UP, New York 1999 (trad. it. Mente, corpo, mondo, il Mulino, Bologna 2003, p. 161, n. 20). 32 33 Non è ancora emerso con chiarezza perché, secondo Searle, il concetto freudiano di inconscio è incoerente. Finalmente ci arriviamo. Il modello freudiano della coscienza, osserva Searle, è percettivo nel senso che uno stato cosciente è una sorta di percezione di uno stato di per sé inconscio. Altrimenti detto, per il Freud di Searle uno stato inconscio è come uno stato conscio a cui sottraiamo la coscienza. Ma l’analogia percettiva non funziona, perché, se dalla percezione di una bicicletta tolgo lo stato percettivo, resta la bicicletta (e se tolgo la bicicletta, resta un’esperienza allucinatoria), mentre, se dalla «percezione» cosciente di uno stato inconscio tolgo la percezione cosciente, non resta niente. Ad esempio, se dall’esperienza cosciente di pensare che oggi fa bello (ho il pensiero occorrente, esplicito, che oggi fa bello) tolgo l’esperienza cosciente, allora quel pensiero semplicemente non esiste più (se non come oggetto astratto). D’altra parte, se tolgo il contenuto fenomenico dell’esperienza cosciente, cioè, più o meno, l’immagine acustica di un enunciato che esprime quel pensiero, non resta niente di intelligibile: se ho un’esperienza cosciente di qualcosa, non posso togliere il qualcosa, perché senza quel qualcosa non esiste più l’esperienza. Inoltre, se prendiamo la metafora percettiva sul serio, l’atto del «percepire» lo stato inconscio è a sua volta uno stato mentale; sorge allora il problema di come caratterizzarlo (è conscio o inconscio?), ponendo un classico problema di regresso infinito della spiegazione. Si potrebbe discutere sulla correttezza di questa esegesi di Freud, specificamente dell’attribuzione di questa metafora percettiva della coscienza. Ma la conclusione di Searle più interessante per noi è un’altra: gli stati inconsci di Freud (paradigmaticamente, pensieri e desideri rimossi) sono di fatto stati di tanto in tanto coscienti e comunque suscettibili di emergere alla coscienza40. Quindi anche per Freud, incoerenze a parte, comprendiamo l’inconscio a partire dal conscio, non viceversa. Sotto questo aspetto l’inconscio cognitivo è diverso dall’inconscio freudiano e, secondo Searle, la differenza va a discapito delle scienze cognitive. Abbiamo così concluso la nostra disamina della critica searliana. Volendo riassumerne gli esiti in una frase, potremmo dire che la nozione di inconscio della scienza cognitiva regge all’attacco, ma al prezzo di rendere molto lasca la nozione di mentale, di «de-metafisicizzarla». Se è un prezzo che vale la pena pagare lo giudicherà il lettore strada facendo. 3.2. Il soggettivismo di Galen Strawson Anche il filosofo inglese Galen Strawson ha argomentato che la dimensione mentale coincide con la dimensione cosciente, propugnando così un ritorno a Cartesio. Per Strawson41 il modo più ovvio di caratterizzare l’ambito del mentale consiste nell’identificarlo con l’ambito dell’esperienza: non esiste qualcosa di mentale che non sia esperienziale: «I soli fenomeni peculiarmente mentali sono i fenomeni dell’esperienza cosciente»42. Ne segue che gli stati subpersonali della scienza cognitiva non sono affatto stati mentali43. Vediamo qual è il ragionamento di Strawson. Cominciamo con l’osservare che questa proposta impone requisiti ancora più forti sul concetto di mentale rispetto a quella di Searle: per Strawson nemmeno gli stati disposizionali sono mentali, perché le disposizioni, non essendo stati esperienziali, non sono coscienti. A differenza di Searle, tuttavia, il filosofo britannico non porta un vero e proprio argomento per l’identificazione tra mente e coscienza. Piuttosto egli delinea un quadro alternativo coerente nel quale la restrizione della mente alla dimensione dell’interiorità cosciente dovrebbe apparire come fortemente plausibile, preferibile alle alternative. E si deve ammettere che questo quadro neocartesiano non è privo di suggestione – il che non significa che sia del tutto convincente. Strawson comincia con l’osservare che l’uso del vocabolario mentalistico in filosofia della mente può indurre a far pensare agli stati mentali come a oggetti dentro di noi. Ma questo sarebbe un errore: gli stati mentali non sono «cose dentro la testa», sono condizioni in cui ci troviamo. Il soggetto di quel «ci troviamo» è «noi», noi in quanto persone. Gli stati mentali sono eventi che accadono alle persone e si attribuiscono alle persone e ciò suggerisce fin dall’inizio 40 Anche se – come si è accennato sopra, n. 21 – a partire dagli anni venti Freud tenta di postulare una parte dell’Es che è inconscia ma non in quanto rimossa, e che non può essere portata alla coscienza. Egli cerca dunque di andare oltre la prospettiva coscienzialistica, ma senza poterlo veramente fare. 41 G. Strawson, Mental Reality, MIT Press, Cambridge (MA) 1994 (II ed. 2009); cfr. anche Id., The Self, in «Journal of Consciousness Studies», 4(5-6), 1997, pp. 405-28. 42 Strawson, Mental Reality cit., p. XI. 43 Strawson preferisce parlare, giustamente, di stati «sub-esperienziali», perché non è ovvio che uno stato inconscio non possa essere considerato personale. 34 35 che non ci possono essere stati mentali subpersonali: se ci atteniamo all’uso standard dell’attributo «mentale», il concetto di stato mentale subpersonale è incoerente44. Ma, si potrebbe obiettare, la ricerca psicologica della seconda metà del Novecento ha fatto vedere che ci sono buone ragioni per rivedere in senso più ampio il concetto di mentale, applicandolo anche ad alcune macchine: una delle motivazioni e dei punti di forza della scienza cognitiva classica era proprio che gli stati mentali potevano essere condivisi da un essere umano, un animale e una macchina. Se una macchina è in grado di eseguire una prestazione cognitiva sofisticata, come dimostrare un teorema o raccogliere lattine e depositarle in un cestino, non vi è ragione di negare che essa condivide una proprietà mentale con gli esseri umani, quindi il possesso, almeno parziale, di una mente. Questo ragionamento, osserva tuttavia Strawson, presuppone che il concetto di mentale sia sufficientemente ben definito, ciò che non è. Al contrario, il concetto di mentale è molto sfuggente, come è dimostrato dal fatto che molti sono riluttanti ad attribuire capacità mentali alle macchine: il fatto che una macchina sia capace di eseguire prestazioni cognitive sofisticate spesso non è considerato una condizione sufficiente per attribuirle una corrispondente capacità mentale; occorre altresì una similarità «profonda» nelle modalità con cui la prestazione è eseguita. La proposta di Strawson è allora la seguente: per stabilire se una capacità (o un processo) è mentale, dobbiamo preventivamente stabilire se il sistema che la possiede ha una mente: prima si guarda al tutto e poi alla parte. A questo punto scatta l’assunzione secondo cui solo gli organismi o sistemi che hanno esperienze hanno una mente (mentale implica esperienziale). Ne segue che tutto ciò che fanno robot e computer delle attuali generazioni non è mentale; infatti nessuno sostiene che le macchine della generazione attuale hanno esperienze. In questo quadro, a dispetto della continuità evolutiva, c’è una cesura molto netta tra gli organismi che hanno una mente e quelli che non ce l’hanno: la mente comincia quando «compare» l’esperienza. Naturalmente è molto difficile individuare, sulla scala evolutiva, il punto in cui l’esperienza si manifesta, ma secondo Strawson questo punto c’è: avere esperienze oppure no è una questione tutto/ niente. O c’è, per quanto flebile, un «sentire», o non c’è. Questa affermazione pare quantomeno semplicistica (cfr. infra, cap. 2, par. 1), ma la questione cruciale è un’altra: come giustificare l’assunto che solo gli organismi che hanno esperienze hanno una mente? Come anticipato, Strawson non offre un argomento per questa tesi, né cerca di nasconderlo («I am expounding an intuition, not offering an argument»45). Prescindendo dalla discutibile inclinazione di molti filosofi analitici a chiamare «intuizioni» le loro convinzioni (credenze) o pregiudizi, forse il modo migliore di valutare la tesi di Strawson è, una volta assodata la sua coerenza interna, di vedere quali vantaggi teorici ne conseguono. Saremmo così nella situazione in cui si confrontano due paradigmi incommensurabili o comunque molto diversi e si sceglie in base al loro valore euristico, alla loro fertilità teorica. Una versione ragionevole di convenzionalismo in base alla quale, sulla falsariga di Carnap46, non c’è un significato di «mente» stabilito indipendentemente dalle teorie. Il principale vantaggio teorico della concezione esperienzialista della coscienza consisterebbe nel disporre di un criterio chiaro (almeno secondo Strawson) per stabilire che cosa è mentale e che cosa no. Gli scienziati cognitivi non sono disposti a considerare mentali tutti i processi neurofisiologici. Verosimilmente, tra questi sono considerati mentali solo quelli esplicativamente pertinenti per le capacità che tutti considerano mentali (percezione, pensiero ecc.); ma, al di là della circolarità del ragionamento, non si riesce a selezionare una classe di processi esplicativamente pertinenti, perché, più o meno direttamente, tutti lo sono: non è possibile separare chiaramente i processi cerebrali che nessuno classificherebbe come mentali dai processi cerebrali che, invece, sono candidati verosimili alla qualifica di «mentale», perché i primi si intersecano con i secondi o ne sono costitutivi. Quantomeno, è impossibile tracciare una distinzione ontologicamente fondata; la distinzione dipenderà inevitabilmente da considerazioni intrateoriche di natura euristica o dai nostri modi di descrivere i processi in questione47. Invece, se 44 Beninteso, Strawson non sta mettendo in discussione la legittimità dei costrutti teorici della scienza cognitiva; sta negando che tali costrutti teorici siano qualificabili come entità mentali. 45 Strawson, Mental Reality cit., p. 154; cfr. anche Id., Real intentionality, in «Phenomenology and the Cognitive Sciences», 3, 2004, pp. 296 e passim. 46 Cfr. R. Carnap, Empiricism, semantics, and ontology, in «Revue Internationale de Philosophie», 4, 1950, pp. 20-40 (trad. it. in AA.VV., Filosofia del linguaggio, Cortina, Milano 2003, pp. 87-105). 47 Cfr. Strawson, Mental Reality cit., p. 161. 36 37 la mente è identificata con l’esperienza, abbiamo una distinzione ontologica. A questo ragionamento si potrebbe replicare che non c’è nessun bisogno di una distinzione ontologica. Quello di mentale è un concetto del senso comune che non ha un ruolo rilevante da svolgere nelle teorie della scienza cognitiva, se non come indicatore relativamente vago di quali sono gli explananda. La commistione tra mentale e cerebrale non è una fonte di disagio per un’impresa teorica che si propone deliberatamente di rompere le barriere disciplinari e affrontare lo studio dei fenomeni mentali del senso comune a più livelli di descrizione/spiegazione. All’obiezione secondo cui ciò potrebbe minacciare l’assunto per il quale la categoria del mentale è un genere naturale si potrebbe replicare che possono esserci diversi possibili modi di ritagliare i confini dei generi naturali, una tesi che di recente è stata proposta per le specie biologiche48. Strawson corrobora il ragionamento sopra esaminato con il seguente argomento, senza peraltro dare mai l’impressione di voler condurre il lettore alla sua conclusione per forza deduttiva. P1) Tutti i fenomeni mentali sono intrinsecamente dotati di contenuto. P2) Tutte le esperienze (experiential phenomena) hanno intrinsecamente un contenuto. P3) Non ci sono fenomeni non esperienziali intrinsecamente dotati di contenuto. Quindi: C) Non ci sono fenomeni non esperienziali (e) mentali, ovvero, tutti i fenomeni mentali sono esperienze (mentale implica esperienziale). Infatti P2 e P3 insieme implicano che qualcosa è un’esperienza se e solo se ha un contenuto; ma, per P1, se qualcosa non ha un contenuto, allora non è mentale. È bene sottolineare come qui Strawson usi il termine «contenuto» in modo pre-teorico (intuitivo) e generico. L’idea è meramente che quando ci troviamo in uno stato mentale, per esempio, uno stato di dolore, qualcosa ci è dato, ci sembra di essere in una relazione con qualcosa49. In base a tale caratterizzazione P1 e P2 possono essere prese per buone. Invece la premessa P3 è ben lontana dal riscuotere un consenso unanime. Essa implica infatti, ad esempio, che gli stati di un robot dell’attuale generazione non hanno contenuto, che è un po’ come dire che non portano informazione. Se la nozione di contenuto in questione dovesse soddisfare requisiti particolari, allora se ne potrebbe anche discutere, ma l’accezione estremamente generica in cui essa è usata rende assai inverosimile negare che gli stati di un computer abbiano un contenuto. Essa implica altresì che gli stati mentali disposizionali di una persona profondamente addormentata non abbiano un contenuto. La premessa P3, quindi, dipende crucialmente da una «intuizione» di Strawson non sostenuta da alcuna ragione indipendente. Il neocartesianismo di Strawson è attraente perché è una visione semplice e molto aderente al senso comune. Ma non ha basi più solide della posizione a cui si oppone. 48 Cfr. E. Casetta, La sfida delle chimere. Realismo, pluralismo e convenzionalismo in filosofia della biologia, Mimesis, Milano-Udine 2009. 49 Se Strawson usasse «contenuto» in senso più tecnico (più o meno come ciò che rende vero o soddisfacibile uno stato mentale), la premessa P1 sarebbe fortemente a rischio: che cosa rende vero o soddisfacibile uno stato d’ansia? Tanto basti per la discussione della posizione di Strawson. Concludiamo questo paragrafo dedicato alla legittimità di connotare come mentale l’inconscio cognitivo con un brevissimo riepilogo e una considerazione critica. Chi si propone di giustificare la natura mentale di stati e processi subpersonali potrebbe appellarsi, come si è visto, a due ordini di considerazioni. In primo luogo, questi stati e processi sono ipotesi irrinunciabili ai fini di spiegare le nostre capacità mentali. In secondo luogo, queste ipotesi teoriche vengono formulate in uno specifico vocabolario, quello computazionale, che si colloca a un livello intermedio tra le persone, o più in generale gli organismi, e i cervelli. In questo vocabolario la capacità mentale da spiegare viene in prima istanza descritta come una funzione astratta dell’organismo; siamo ancora lontani dal cervello. Ciò sembra corrispondere abbastanza bene al «territorio» mentale. Si deve inoltre tener presente che questo modello di spiegazione consente di poter attribuire capacità mentali anche ad alcune macchine e a vari organismi non umani; in particolare, prestazioni cognitive intelligenti sono alla portata di certi dispositivi artificiali in virtù di determinate architetture funzionali, «software», indipendentemente da quale sia la loro composizione materiale. Molti considerano questo come un punto di forza (perché mai un computer che sconfigge a scacchi il campione del mondo non dovrebbe essere considerato incorporare un pezzo di mente?), sebbene, come si è visto discutendo la posizione di Strawson, il ragionamento possa essere rovesciato. 38 39 Possiamo quindi dire che le scienze cognitive, più che proporre una vera e propria revisione del concetto di mente, lo dilatano, conseguendone dei vantaggi teorici. Anche se le scienze cognitive qualificano come mentali stati e processi che certo non sono paradigmaticamente mentali, tali stati e processi sono direttamente rilevanti per i fenomeni mentali paradigmatici, di cui, per quanto ci è dato di vedere, abbiamo una comprensione più vera e profonda proprio grazie a questi modelli di spiegazione. Talora è stata sollevata un’obiezione riguardo alla «realtà psichica» delle strutture e processi postulati dalle teorie computazionali, che potremmo esprimere nella forma di un dilemma: o tali processi e strutture sono reali, hanno cioè una consistenza ontologica, e allora la scienza cognitiva incorre in una forma di dualismo mente-corpo; oppure non sono altro che descrizioni di alto livello di processi cerebrali, ma in questo caso presto o tardi le spiegazioni computazionali sono destinate ad essere eliminate in favore di teorie puramente neurofisiologiche; e se una teoria puramente neurofisiologica non può spiegare i fatti mentali, allora non lo potrà fare nemmeno la teoria computazionale. Questa critica appare eccessivamente severa, anche se essa allude a un classico problema di filosofia della scienza, relativo allo statuto delle entità teoriche e alle relazioni tra i diversi livelli di spiegazione. Vediamo che forma potrebbe assumere la risposta di un computazionalista. Riguardo al primo corno del dilemma, si può replicare che esso assolutizza indebitamente il concetto di reale, che è invece dipendente dal contesto teorico. Il caso della psicologia computazionale non è diverso da quello di qualsiasi altra disciplina in cui ricorrono termini teorici (esempio: i geografi non possono certo fare a meno di usare il concetto di equatore. C’è qualcuno, oltre ai metafisici di professione, che si chiede qual è lo statuto ontologico dell’equatore? L’equatore è reale oppure no? Fuori da un contesto teorico la domanda non sembra essere molto sensata). Sarebbe certamente sbagliato ontologizzare indiscriminatamente i costrutti teorici delle scienze cognitive: quando le relazioni tra proprietà mentali e proprietà cerebrali sono di realizzazione, come quando diciamo, per esempio, che l’algoritmo di rilevazione degli sbalzi di luminanza (il cosiddetto zero-crossing50) è realizzato dall’attività delle cosiddette 50 Cfr. Marraffa e Paternoster, Persone, menti, cervelli cit., cap. 2. 40 cellule semplici della corteccia striata, non stiamo aggiungendo alcuna nuova entità; stiamo descrivendo in un vocabolario computazionale un processo neurofisiologico. Ma in altri casi le entità del livello computazionale possono essere costrutti teorici più complessi, e parimenti complesse saranno le relazioni che questi intrattengono con le entità del livello inferiore, cosicché la questione della loro «realtà ontologica» deve essere lasciata aperta. Ma non più aperta di quanto non avvenga in altre discipline, come abbiamo illustrato con l’esempio dell’equatore. Insomma nulla di tutto ciò configura forme di dualismo (ontologico). Queste considerazioni sdrammatizzano anche il secondo corno del dilemma: esattamente come avviene in altri ambiti disciplinari stratificati in più livelli esplicativi, di fatto la spiegazione computazionale non è eliminabile, precisamente perché la spiegazione puramente neurofisiologica dei fatti mentali non è, da sola, illuminante. Per converso, se, per assurdo, una spiegazione computazionale fosse completamente riducibile a una spiegazione neurofisiologica, allora quello che dovremmo aspettarci è che la spiegazione neurofisiologica del fenomeno mentale sia del tutto esauriente, e potremmo fare a meno del livello psicologico. Per quanto queste repliche appaiano persuasive, la critica a cui esse rispondono nasce da una certa insoddisfazione per le spiegazioni computazionali che ha un suo fondamento: alle spiegazioni computazionali sembra sfuggire qualcosa di importante e di peculiarmente mentale. Ma questa è materia per il capitolo successivo. Capitolo 2 Corpo e coscienza Consciousness is rooted in the representation of the body. Antonio Damasio, The Feeling of What Happens 1. La coscienza: un imbarazzante residuo? come fondamento dell’intera vita psichica1. È ciò che chiamiamo una strategia dal «basso» (bottom-up). È chiaro tuttavia che questo può essere considerato un reale progresso epistemologico soltanto a condizione che l’illustrazione dei processi costitutivi della mente subpersonale offra una spiegazione cogente dei fenomeni coscienti. La domanda si pone perché, in realtà, fino a non molti anni fa la scienza cognitiva si è del tutto disinteressata della coscienza. E, quando ha cominciato a interessarsene, si è resa conto della formidabile difficoltà del problema, prendendo... coscienza (!) del fatto che, nell’impostazione adottata, lo scarto tra inconscio e conscio era molto più ampio di quanto non ci si potesse aspettare. Anche in quest’ottica vanno considerate le critiche discusse nel capitolo precedente. Searle si è spinto a sostenere che Dennett nega in modo puro e semplice l’esistenza della coscienza e che gli autori, come David Chalmers, sensibili al problema della coscienza ma collocati all’interno del computazionalismo, si trovano in una situazione letteralmente disperata, che li conduce a sposare inverosimili versioni di dualismo, quando non di panpsichismo2. Sebbene anche in questo caso le tesi di Searle dipendano da taluni assunti assai discutibili, è un fatto che la coscienza ponga un problema difficile alla scienza cognitiva. È quindi su tale difficoltà e sugli sforzi profusi per venirne a capo che spostiamo ora la nostra attenzione. Come abbiamo visto, le scienze cognitive hanno operato, come già aveva fatto Freud, un rovesciamento di priorità fra il livello inconscio e il livello conscio. Anzi, in questo sono andate molto oltre Freud, nel senso che questi si era immaginato l’inconscio sul modello dell’io cosciente, mentre le scienze cognitive hanno pensato l’inconscio come un insieme di meccanismi «ciechi» e automatici: i processi di elaborazione di informazione. Soltanto frammenti di questi processi e i loro output emergono alla coscienza, ma non c’è una differenza di natura tra gli stati e i processi che emergono alla coscienza e quelli che non emergono. Che uno stato o processo affiori o meno alla coscienza non è un dato particolarmente significativo per le scienze cognitive. È convinzione degli autori di questo libro che l’inversione di priorità tra processi inconsci e fenomeni coscienti operata dalle scienze cognitive sia un importante progresso nella comprensione dei fenomeni mentali e della natura umana. Dal punto di vista metodologico essa è conseguente all’applicazione di una strategia naturalistica e (lato sensu) evoluzionistica allo studio dei fenomeni mentali: si parte da ciò che è più semplice, primitivo, meno strutturato, per arrivare a ciò che è complesso, evoluzionisticamente tardo, strutturato, senza dare idealisticamente per scontata l’esistenza di un io autocosciente 1 Cfr. D.C. Dennett, Darwin’s Dangerous Idea, Simon & Schuster, New York 1995 (trad. it. L’idea pericolosa di Darwin, Bollati Boringhieri, Torino 2004). 2 Cfr. J. Searle, The Mystery of Consciousness, New York Review of Books, New York 1997, capp. 5 e 6 (trad. it. Il mistero della coscienza, Cortina, Milano 1998). 42 43 Preliminarmente è necessario chiarire che cosa si intende con «coscienza», nozione che abbiamo fin qui data superficialmente per scontata. È probabile che la maggior parte delle persone prive di familiarità con la letteratura specialistica sia incline a identificare la coscienza con l’autocoscienza, o almeno a pensare alla coscienza come a uno stato tipicamente introspettivo. Altrimenti detto, nell’uso linguistico ordinario la dimensione della coscienza coincide (nella grande maggioranza dei casi) con quella dell’interiorità. In realtà, ci sono buone ragioni per distinguere il concetto di autocoscienza da quello di coscienza, come dopotutto è suggerito dalla presenza stessa nel lessico della parola «autocoscienza», che si riferisce evidentemente a un caso particolare di coscienza: la coscienza che si rivolge verso sé medesima. In particolare, è importante sottolineare che in molti casi si dà coscienza in assenza di autocoscienza, mentre non vale il viceversa: gli stati autocoscienti costituiscono un sottoinsieme proprio di quelli coscienti. Beninteso, questo modo di mettere le cose non è teoricamente neutrale né scontato; e si può difendere una teoria secondo cui la coscienza implica l’autocoscienza; ci pare tuttavia che l’autonomia della coscienza dall’autocoscienza sia un’ipotesi abbastanza solida, più o meno esplicitamente incorporata in alcuni modelli empirici. Questo è un punto di grande importanza nell’economia del nostro lavoro e avremo quindi modo di tornarvi più avanti (nel par. 4). Qui basti dire che il fondamento metodologico di questa separazione ci viene da un certo modo di leggere la teoria dell’intenzionalità di Brentano. Se l’intuizione ordinaria fa della coscienza un fenomeno tutto «interno» alla mente, questo filosofo la concepisce invece in termini relazionali. Essa allora non è tanto una qualità o carattere primario ed essenziale della mente quanto piuttosto un insieme di forme eterogenee di rapporto attivo (di costruzione di Vorstellungen, rappresentazioni) da parte di un organismo animale (il soggetto) con il mondo ambiente (l’oggetto). Ciò comporta che si è sempre coscienti di qualcosa: una concezione «transitiva» della coscienza. È vero che vi è anche un uso intransitivo del termine «coscienza»: per esempio, di una persona che non sia profondamente addormentata, né in coma, né svenuta, diciamo che è cosciente (senza specificare di cosa). Va da sé tuttavia che, quando si è coscienti – ciò che i clinici chiamano «stato vigile» – si è sempre coscienti di qualcosa. Del resto, anche l’autocoscienza ha un oggetto: noi stessi o, meglio, l’immagine oggettivata di noi stessi3. La (semplice) coscienza è quindi assai simile a ciò che in filosofia tradizionalmente si chiama «esperienza», vale a dire il fenomeno per cui un organismo, nell’avere un contatto percettivo col mondo e col proprio corpo, prova sensazioni di vario genere. Percepire è, nello stesso tempo, recepire informazioni relative a stati esterni o interni all’organismo e «avvertirle», «viverle», in un certo modo. Quando il nostro sistema visivo «registra» la presenza di un pomodoro, abbiamo una sensazione di rosso, che è il modo in cui al nostro organismo è data la luce riflessa con una data lunghezza d’onda (circa 700 nanometri). Oltre che dei colori, siamo coscienti di forme, suoni, sapori, odori ecc.; e proviamo sensazioni di piacere e di dolore e altre quali fame, sete, paura, nausea ecc. Il filosofo Thomas Nagel ha definito la coscienza come l’effetto che fa (what it is like) a un organismo essere quell’organismo; la formulazione è suggestiva purché non venga intesa come se implicasse la consapevolezza riflessiva di essere un organismo: essere coscienti è semplicemente provare sensazioni per il mero fatto di essere al mondo, percependolo e agendo in esso. In base a questa caratterizzazione, la coscienza è una proprietà che gli esseri umani adulti verosimilmente condividono con molti animali, nonché con i bambini molto piccoli. Non dubitiamo del fatto che un animale dotato di un sistema nervoso sufficientemente complesso o un bambino di pochi mesi provino dolore, abbiano sensazioni visive, uditive, tattili ecc. In questo senso anche gli animali e i neonati hanno coscienza, questo tipo di coscienza, sebbene, naturalmente, non siano in grado di oggettivare tali stati di coscienza, facendone cioè oggetto di riflessione. Questa sarebbe già autocoscienza, una coscienza di ordine superiore. L’assimilazione della semplice coscienza all’esperienza di un organismo è una scelta teorica che richiede tuttavia precisazioni ulteriori. Nella letteratura filosofica contemporanea spesso si distingue la «coscienza fenomenica» dalla «coscienza d’accesso» o, con una sfumatura leggermente diversa, «coscienza psicologica». La prima si riferisce alla dimensione fenomenologica, soggettiva dell’esperienza, a evidenziare il fatto che stiamo parlando di ciò che appare, è dato, a un soggetto; la seconda verte invece sulla disponibilità dei contenuti mentali ai processi cognitivi di alto livello, come la verbalizzazione, il ragionamento, il controllo consapevole del comportamento. Secondo molti autori questi due aspetti della coscienza, normalmente compresenti, sono dissociabili4. Ned Block, il filosofo che ha proposto la distinzione tra coscienza fenomenica e coscienza d’accesso, ha suggerito, come esempio in 3 F. Brentano, La psicologia da un punto di vista empirico cit. Per questa messa a punto del concetto di intenzionalità, cfr. G. Jervis, Presenza e identità, Garzanti, Milano 1984, p. 142; Id., Fondamenti di psicologia dinamica, Feltrinelli, Milano 1993, p. 202; Id., Retoriche dell’interiorità, in Id., Il mito dell’interiorità, a cura di G. Corbellini e M. Marraffa, Bollati Boringhieri, Torino 2011, pp. 188-89. 4 Il copyright della distinzione spetta a N. Block, On a Confusion about a Function of Consciousness, in «Behavioral and Brain Sciences», 18(2), 1995, pp. 227-87; rist. in Id., Consciousness, Function, and Representation. Collected Papers, Volume 1, MIT Press, Cambridge (MA), cap. 9. 44 45 cui la prima è preservata in assenza della seconda, il caso seguente. Immaginate di essere profondamente assorti in un compito cognitivo complesso, quale ad esempio la soluzione di un difficile problema di matematica; a un certo momento udite un fastidioso rumore che cattura la vostra attenzione, rendendovi conto tuttavia che quel rumore non ha fatto improvvisamente irruzione proprio in quell’istante; esso era bensì presente già da un po’; l’avreste sentito anche prima se soltanto ci aveste posto attenzione. Ebbene, quando eravate assorti nel compito, avevate coscienza fenomenica del rumore, ma non coscienza d’accesso, in quanto, per un deficit di attenzione, quel rumore – l’informazione relativa a una fonte rumorosa, percepita come rumore – non era disponibile ad altri processi cognitivi. L’informazione è decaduta rapidamente, svanendo nell’indifferenza (se «nessuno» se ne accorge, è come se non esistesse: cfr. infra, la teoria di Dennett). Il caso inverso, coscienza d’accesso senza coscienza fenomenica, è assai difficile da documentare, e ciò riflette o forse giustifica la nostra riluttanza a qualificare come coscienti gli stati in cui manca l’effetto in prima persona. Qualcosa di simile a un caso del genere si verifica nella sconcertante sindrome del blindsight («visione cieca»), manifestata da alcuni soggetti affetti da lesioni dell’area visiva primaria (V1). A queste persone vengono assegnati diversi compiti di discriminazione visiva, richiedendo di esprimere un giudizio o di produrre un’azione sullo stimolo. Ad esempio, viene loro chiesto se due oggetti, fermi o in movimento, abbiano lo stesso colore, o la stessa inclinazione. I soggetti replicano di non essere in grado di eseguire il compito perché non vedono nulla. Tuttavia, sollecitati ulteriormente a dare comunque una risposta, essi forniscono prestazioni sorprendentemente buone, ben superiori a quella soglia del 50% che ci attenderemmo se tirassero a indovinare, come sostengono di fare. Questi dati mostrano che nei soggetti affetti da blindsight vi sono residui significativi di capacità visive, pur in assenza dell’esperienza in prima persona del vedere, ovvero della consapevolezza visiva di oggetti5. Secondo alcuni autori nel blindsight non vi è coscienza fenomenica (stando a ciò che i soggetti stessi riferiscono), ma vi è coscienza psicologica, in quanto certe informazioni sono in qualche modo disponibili ai soggetti, che le sfruttano per produrre un comportamento appropriato. Si potrebbe, d’altra parte, descrivere questo caso come un’esemplificazione della distinzione tra mente cosciente e mente non cosciente: i processi visivi dei soggetti del blindsight sono mentali ma non coscienti. Non c’è nessun bisogno di fare violenza al senso comune, per il quale quei soggetti non hanno coscienza visiva, punto: non si può parlare di coscienza degli stimoli visivi nel caso in questione, precisamente perché manca qualsiasi elemento fenomenico. Infatti nessuno negherebbe che il blindsight sia un disturbo della coscienza, della coscienza tout court. Beninteso, i soggetti non sono incoscienti simpliciter. Sono coscienti di qualcos’altro. In generale, nutriamo forti perplessità sulla distinzione tra coscienza fenomenica e coscienza d’accesso, perché riteniamo che uno stato mentale del tutto privo di rendimento fenomenico non possa essere considerato cosciente. Se al soggetto non appare nulla, come può essere detto cosciente di qualche cosa? Nella nostra nozione di coscienza la disponibilità dell’informazione ai processi cognitivi e la presenza di un rendimento fenomenico devono coesistere; altrimenti detto, la cosiddetta coscienza d’accesso senza fenomenologia non è una vera coscienza, e la cosiddetta coscienza fenomenica senza l’accesso è una nozione elusiva, dipendente da criteri traballanti, inaffidabili. Si consideri il caso di una persona che ha mal di testa, si addormenta e al suo risveglio «ritrova» il mal di testa. Mentre la persona sta dormendo, è cosciente del mal di testa? Alcuni, ad esempio Michael Tye6, rispondono positivamente, assimilando questo caso a quello sopracitato di fenomenologia senza accesso. Eppure c’è una differenza tra i due casi: nel caso del rumore inavvertito, il parlante riferisce, a posteriori, di avere in qualche modo avvertito la presenza del rumore; non così si può dire nel caso della persona addormentata. Se, da un lato, non possiamo basarci esclusivamente su ciò che riferiscono i parlanti, dati i noti limiti di affidabilità dell’introspezione7, dall’altro saremmo riluttanti ad attri6 7-8. M. Tye, Consciousness and Persons, MIT Press, Cambridge (MA) 2003, pp. 5 Se certe capacità di rilevare proprietà visive sono preservate, è chiaro che altri circuiti cerebrali hanno (parzialmente) surrogato le aree danneggiate. I circuiti in questione sono molto probabilmente quelli della via retino-collicolo-extrastriata. Cfr. A. Berti, Neuropsicologia della coscienza, Bollati Boringhieri, Torino 2010, cap. 3. 7 Dennett ha messo in luce meglio di chiunque altro i limiti del criterio della riferibilità (in Consciousness Explained, Little, Brown & Co., New York 1991; trad. it. Coscienza. Che cosa è, Laterza, Roma-Bari 2009), traendone conclusioni fortemente scettiche riguardo al concetto stesso di coscienza fenomenica. Avremo modo di tornare sulla questione dei limiti dell’introspezione, molto importante nell’economia complessiva del nostro lavoro. 46 47 buire coscienza di qualcosa a una persona addormentata che non sta sognando. Le difficoltà interpretative che questi casi sollevano sono indizi chiari della scarsa perspicuità della distinzione e della elusività della nozione di una coscienza fenomenica «pura». Molto meglio parlare di un’unica nozione di coscienza, che può tuttavia presentarsi in gradi diversi. Nel caso della persona addormentata e del blindsight, la coscienza, rispettivamente del dolore e dello stimolo visivo, è nulla o tendente allo zero; nel caso del rumore è modesta (proprio perché manca l’attenzione) ecc.8 Pertanto non useremo l’espressione «coscienza fenomenica» (salvo, ovviamente, quando si tratta di riferirsi ad altri autori); parleremo bensì semplicemente di «coscienza», o, in alcuni casi, ad esempio quando si tratta di sottolineare il contrasto con l’autocoscienza, di «coscienza primaria»9. Più che una dissociazione tra due presunti tipi di coscienza, la sindrome della visione cieca ci mostra un altro punto importante: essa rende molto concreta un’eventualità prefigurata dal quadro teorico delle scienze cognitive e nondimeno intuitivamente sconcertante, difficile da accettare, che la coscienza sia epifenomenica, sia cioè un «pendaglio» fine a se stesso, irrilevante dal punto di vista causale. Questa ipotesi è la logica conseguenza della congiunzione di due circostanze. La prima è che oltre il 90% dei processi cerebrali (e, per un cognitivista, mentali) non emerge alla coscienza; la seconda è che le spiegazioni della scienza cognitiva non hanno bisogno della coscienza. Oggi è così facile immaginare nonché realizzare dispositivi capaci di eseguire prestazioni cognitive sofisticate senza che tali prestazioni siano accompagnate da coscienza che è naturale domandarsi a che cosa serve la coscienza, perché mai essa dovrebbe essere necessaria. E sospettare che non lo sia affatto. Come abbiamo visto, i pazienti affetti da blindsight sono in grado di portare a termine con successo compiti visivi senza avere sensazioni visive, assomigliando sotto questo aspetto a quelle macchine a cui molti sono riluttanti ad attribuire capacità mentali autentiche. Dunque persino processi paradigmaticamente coscienti, come quello visivo, possono prodursi senza esperienza in prima persona (ammesso di voler parlare di «visione» in casi del genere). Si badi però che saltare da qui alla conclusione che la coscienza sia epifenomenica sarebbe assai superficiale; lo sviluppo di questo lavoro chiarirà che molti compiti cognitivi si giovano assai della coscienza, il cui valore adattivo è quindi fuori discussione. Ma sono in agguato guai ulteriori. Secondo diversi autori10, la scienza cognitiva – o perlomeno la scienza cognitiva odierna – non ha le risorse teoriche per spiegare la coscienza. Allo stato attuale, sostengono questi filosofi, non soltanto siamo ben lontani dall’avere una spiegazione di come e perché la coscienza insorge; non abbiamo nemmeno la minima idea di che forma dovrebbe assumere una siffatta spiegazione. La nostra incapacità di affrontare scientificamente il problema della coscienza è formulata tipicamente nei termini dell’esistenza della cosiddetta «lacuna esplicativa», che può essere espressa nel modo seguente. (LE) Quand’anche disponessimo di una spiegazione idealmente completa dei meccanismi alla base di uno stato di coscienza, ancora non saremmo in grado di rispondere alla domanda «perché quello stato di coscienza è sentito nel modo in cui è sentito, per esempio come dolore e non come solletico?». L’idea è che c’è uno scarto incolmabile tra le spiegazioni scientifiche, che sono spiegazioni in terza persona di fenomeni oggettivi pubblicamente osservabili, e i fenomeni in prima persona, che sono irriducibilmente soggettivi. Per esempio, quand’anche disponessimo di una spiegazione completa in ogni minimo dettaglio di come un pipistrello percepisce un ostacolo tramite il suo sistema di ecolocalizzazione, con ciò ancora non sapremmo se e che cosa prova 8 Cfr. A. Paternoster, Il soggetto cosciente, in M. Di Francesco e M. Marraffa (a cura di), Il soggetto. Scienze della mente e natura dell’io, Bruno Mondadori, Milano 2009, pp. 83-117. 9 «Coscienza primaria» è un’espressione del neuroscienziato Gerald Edelman: cfr. per es. Bright Air, Brilliant Fire. On the Matter of Mind, Basic Books, New York 1992, p. 112 (trad. it. Sulla materia della mente, Adelphi, Milano 1993). Il concetto di coscienza primaria di Edelman è molto simile a quello che stiamo tratteggiando. 10 Cfr. per es. D.J. Chalmers, The Conscious Mind: In Search of a Fundamental Theory, Oxford UP, Oxford 1996 (trad. it. La mente cosciente, McGraw-Hill, Milano 1999); C. McGinn, The Problem of Consciousness, Blackwell, Oxford 1991; T. Nagel, What is it like to be a bat?, in «Philosophical Review», 83, 1974, pp. 435-50 (trad. it. in A. De Palma e G. Pareti, a cura di, Mente e corpo, Bollati Boringhieri, Torino 2004). 48 49 «soggettivamente» un pipistrello nel caso in questione11. L’unico modo di «sapere» che cosa prova il pipistrello è essere il pipistrello. Analogamente, l’unico modo di sapere com’è il gusto del gelato alla fragola è di gustarlo, fare quell’esperienza in prima persona. In questo senso l’esperienza sembra essere, allo sguardo di un osservatore esterno, qualcosa di ineffabile. Se essere un io cosciente consiste essenzialmente nell’essere un soggetto di esperienza, i concetti di io e di esperienza cosciente sono irriducibili a qualsiasi analisi in terza persona, quali sono i resoconti scientifici. Questa tesi è stata difesa sulla base di diversi argomenti. Qui ne esponiamo succintamente uno solo, il cosiddetto argomento della conoscenza, o di Mary 12. Si immagini una persona, Mary, che è stata segregata fin dalla nascita in una stanza del tutto priva di colori. Mary è cresciuta avendo soltanto esperienze in bianco e nero con le diverse gradazioni intermedie di grigio. In questa stessa stanza Mary ha fatto studi approfonditi di neurofisiologia (e di quant’altro pertinente) del colore, cosicché sa tutto quel che c’è da sapere sulla percezione del colore. Con un ulteriore sforzo d’immaginazione il lettore supponga che Mary abbia una conoscenza idealmente completa della percezione del colore, perché nello scenario ipotizzato la scienza ha scoperto tutto ciò che c’era da scoprire al riguardo. Ebbene, un giorno la neuroscienziata viene liberata: esce dalla stanza e comincia a percepire i colori. Ignorando l’eventualità che le cellule retiniche sensibili al colore siano atrofizzate, non diremmo allora che, in aggiunta a tutto il sapere che già possedeva, Mary viene a conoscenza di qualcosa di nuovo? Mary impara com’è la sensazione del rosso, quella del blu ecc. Ciò che sapeva prima non la metteva in condizione di prevedere la qualità di tali sensazioni. Ma, se è così, i fatti di esperienza non sono deducibili dai fatti neurobiologici; nessuna conoscenza scientifica, pur completa, consente di prevedere la qualità della fenomenologia in prima persona. Questo esperimento mentale sembra pertanto avvalorare la tesi della non-spiegabilità della coscienza. Si tratta di un argomento cogente? La questione è controversa. Due sono, essenzialmente, le obiezioni che si possono sollevare. La 11 12 36. Nagel, What is it like to be a bat? cit. F. Jackson, Epiphenomenal qualia, in «Philosophical Quarterly», 32, pp. 127- 50 prima verte sulla legittimità stessa di trarre una conclusione così forte da uno scenario ai limiti della concepibilità. Secondo Dennett, per esempio, quando parliamo di una conoscenza idealmente completa della neurofisiologia del colore non sappiamo affatto di che cosa stiamo parlando. I filosofi, osserva argutamente il filosofo bostoniano, hanno la propensione a scambiare per necessità metafisiche i loro limiti di immaginazione. La seconda obiezione accetta la cogenza dell’esperimento mentale ma ne trae conclusioni diverse: quando Mary fa l’esperienza del colore, non sta imparando cose nuove; Mary sta bensì re-imparando cose che già conosceva sotto una prospettiva diversa. L’idea è cioè che i fatti fenomenici soggettivi e i fatti neurobiologici oggettivi potrebbero essere una stessa e unica classe di fatti, concettualizzata però in due modi diversi, sotto categorie scientifiche in terza persona in un caso e sotto categorie fenomeniche in prima persona nell’altro. In questa interpretazione si concede che sussista una lacuna epistemica, in ragione della profonda alterità, se non dell’incommensurabilità, dei due rispettivi punti di vista, ma si nega che sussista una lacuna metafisica, perché unica è la classe dei fatti in questione. Ne consegue che la coscienza è perfettamente parte del mondo naturale, ed è alla radice un fenomeno biologico. La lacuna epistemica non è una lacuna esplicativa, perché per essere tale dovrebbe esserci anche una lacuna metafisica. Semplificando alquanto un dibattito infinito e assai complesso, la controreplica dei sostenitori della lacuna esplicativa consiste nell’esigere una giustificazione della tesi secondo cui unica è la classe dei fatti. È ovvio che le tesi metafisiche potenti colmano i deficit di spiegazione, ma, quanto più sono potenti e impegnative, tanto più bisogna avere buone ragioni per credervi. Quali sono, nel caso in esame, queste ragioni? Non ci sono13. Si noti a questo proposito che, essendo quello di Mary un argomento epistemologico, non possiamo trarne conclusioni metafisiche affidabili: di per sé esso non dimostra né che la classe dei fatti sia unica né la tesi contraria. Sarebbe pretenzioso da parte nostra risolvere la questione in un senso o nell’altro. Il nostro pensiero è sintetizzabile nei due punti seguenti: (i) è indubbio che allo stato attuale i dati empirici non Cfr. ad es. l’argomento degli zombie, in Chalmers, The Conscious Mind cit., cap. 3. 13 51 giustificano la tesi secondo cui i fatti fenomenici sono deducibili da (o eventualmente identici a) fatti neurobiologici; ciò tuttavia non ci autorizza a escludere a priori che in futuro potremmo essere giustificati nel trarre deduzioni siffatte o, forse più realisticamente, essere soddisfatti da spiegazioni di forma non strettamente deduttiva. Infatti, (ii) non siamo inclini ad accettare conclusioni così impegnative da premesse basate su esperimenti di pensiero ai limiti dell’intelligibilità. Pertanto non scommetteremmo sul fatto che la coscienza non possa essere spiegata per ragioni di principio. Fare un’affermazione del genere ci sembra essere una forma di arroganza filosofica, quasi che un filosofo in poltrona fosse in grado di prevedere gli sviluppi e l’assetto futuro della neuroscienza. È in questo spirito che perseguiamo la nostra indagine. Pur con le difficoltà messe in evidenza, a partire dalla seconda metà degli anni ottanta le scienze cognitive hanno cominciato a mettere in agenda il problema della coscienza. Prima in psicologia e poi soprattutto in neuroscienza cognitiva sono stati proposti modelli esplicativi di almeno alcuni aspetti della coscienza. Tra i diversi modelli proposti ne prenderemo qui in considerazione uno, la teoria dello spazio di lavoro globale (GWT, Global Workspace Theory) di Bernard Baars14, perché, oltre a costituire una stella polare per la ricerca odierna, è un modello a cui fanno riferimento due autori, Daniel Dennett e Peter Carruthers, di cui dovremo parlare in seguito. L’idea guida del modello di Baars è che la coscienza è una sorta di «spazio di lavoro» al quale diversi sottosistemi di elaborazione specializzati possono o meno accedere. Quando un sottosistema vi accede, le informazioni che esso elabora diventano disponibili a – e processabili da – molti altri elaboratori di informazione. La funzione della coscienza consiste quindi nel rendere disponibili le informazioni elaborate da un sottosistema a molti altri sottosistemi («globalmente», per l’appunto). L’accesso allo spazio di lavoro può essere pensato come l’obiettivo per cui competono diverse coalizioni neuronali che coinvolgono le aree frontali e quelle sensoriali. Le coalizioni vincenti sono quelle che diventano coscienti (cfr. infra, par. 2, la teoria di Dennett). Questa descrizione è fondamentalmente funzionale, nel senso che astrae da molti dettagli neurofisiologici e descrive l’emergenza della coscienza in termini piuttosto astratti; tuttavia, di recente, la GWT è entrata in simbiosi con la neuroscienza cognitiva, soprattutto per merito di Stanislas Dehaene e i suoi collaboratori dell’INSERM-CEA di Parigi. Secondo questi ricercatori nel cervello sono presenti due spazi computazionali, ognuno caratterizzato da un diverso pattern di connettività. Il primo spazio è costituito dai sottosistemi di elaborazione ipotizzati dalla GWT, ognuno dei quali è specializzato nel trattare un particolare tipo di informazione – per esempio, nella corteccia occipito-temporale l’elaborazione del colore ha luogo in V4, l’elaborazione del movimento in MT/V5, l’elaborazione dei volti umani nell’area fusiforme delle facce. L’operare di questi elaboratori modulari si avvale di connessioni locali limitate e di medio raggio. Il secondo spazio è lo spazio di lavoro globale neuronale (per cui ora si parla di una Global Neuronal Workspace Theory, GNWT): esso è costituito da neuroni distribuiti, tenuti assieme da connessioni di lunga distanza, particolarmente densi nell’area prefrontale, nel cingolato e nelle regioni parietali. L’ingresso dell’informazione in questo spazio di lavoro è il correlato neuronale dell’accesso alla coscienza. Tra le connessioni di lunga distanza stabilite dai neuroni dello spazio di lavoro globale, quelle top-down svolgono un ruolo essenziale nella mobilitazione temporanea di un dato contenuto nella coscienza. Spieghiamo. Il principale fattore che determina la trasmissione globale è l’attenzione. Quest’ultima può essere bottom-up, causata da stimoli fortemente salienti, come improvvisi mutamenti dell’ambiente, o stimoli di rilevanza emozionale innati o appresi (per esempio, il proverbiale serpente nel prato, un forte rumore, un volto sorridente, il suono del proprio nome). Oppure può essere top-down, guidata dagli scopi di alto livello del soggetto e dai suoi interessi per il contesto. L’amplificazione attentiva top-down è il principale meccanismo in virtù del quale gli elaboratori modulari possono essere temporaneamente mobilitati e resi disponibili allo spazio di lavoro globale (fig. 2.1). Il modello GNWT ha ricevuto una serie di importanti conferme sperimentali. In uno studio fMRI, Dehaene e collaboratori15 han- 14 B. Baars, A Cognitive Theory of Consciousness, Cambridge UP, Cambridge 1988; Id., In the Theater of Consciousness: The Workspace of the Mind, Oxford UP, Oxford 1997. 15 S. Dehaene, L. Naccache, L. Cohen, D. Le Bihan, J.F. Mangin, J.B. Poline e D. Rivière, Cerebral mechanisms of word masking and unconscious repetition priming, in «Nature Neuroscience», 4(7), 2001, pp. 752-58; S. Dehaene, J.P. Changeux, L. Naccache, J. Sackyr e C. Sergent, Conscious, preconscious, and subliminal processing: A testable taxonomy, in «Trends in Cognitive Sciences», 10, 2006, pp. 204-11. 52 53 FIGURA 2.1. Gerarchia di connessioni fra elaboratori cerebrali (ciascuno raffigurato da un cerchio). I livelli superiori di questa gerarchia sono tenuti assieme da connessioni di lunga distanza, formando in tal modo lo spazio di lavoro globale neuronale. Uno stato di attività amplificato nello spazio di lavoro, che riunisce vari elaboratori periferici in un pattern di attivazione distribuito e coerente (cerchi neri), può coesistere con l’attivazione automatica di molte catene locali di elaboratori fuori dallo spazio di lavoro (cerchi grigi). Fonte: S. Dehaene e L. Naccache, Towards a cognitive neuroscience of consciousness: Basic evidence and a workspace framework, in «Cognition», 79, 2001, pp. 1-37. no utilizzato il paradigma del priming di mascheramento per porre a confronto l’elaborazione lessicale inconscia con quella cosciente. Una parola veniva proiettata su uno schermo per poche decine di millisecondi, subito seguita da un’altra immagine (la «maschera») che impediva al soggetto di percepire la parola a livello conscio. In genere la parola diviene cosciente quando l’intervallo fra essa e la maschera è di circa 50 ms. I risultati sono stati i seguenti. Le parole mascherate (inconsce) hanno indotto un’attività locale nelle parti della corteccia visiva deputate al riconoscimento di parole. Le parole visibili (coscienti) hanno generato un’intensa attività anche nei lobi parietale e frontale. Dunque, come vuole la GNWT, l’elaborazione di informazioni cosciente recluta risorse cerebrali fortemente distribuite, mentre l’elaborazione inconscia è più localizzata (fig. 2.2). Il modello di Baars e Dehaene ha diversi pregi, tra cui quello di dar conto di taluni aspetti relativi al funzionamento della coscienza sui quali si è raggiunto un certo accordo, primo fra tutti il carattere distribuito della coscienza: lungi dall’esservi una sede o area specifica che «realizza» la coscienza o in cui si produce la sintesi (binding) delle in54 FIGURA 2.2. (A) Il metodo del visual backward masking permette di confrontare nello stesso soggetto l’attività fMRI per l’elaborazione inconscia e conscia di parole presentate visivamente. (B) Un altro studio fMRI condotto su stimoli uditivi, circa la metà dei quali sono stati rilevati al livello cosciente (S. Sadaghiani, G. Hesselmann e A. Kleinschmidt, Distributed and antagonistic contributions of ongoing activity fluctuations to auditory stimulus detection, in «Journal of Neuroscience», 29, 2009, pp. 13410-17). Le aree uditive bilaterali hanno esibito un’attivazione inconscia, che è stata amplificata e diffusa alle aree parietale inferiore, prefrontale e cingolata. Fonte: S. Dehaene e J.-P. Changeux, Experimental and Theoretical Approaches to Conscious Processing, in «Neuron», 70, 2011, pp. 200-27. formazioni provenienti dai diversi sottosistemi sensoriali – ad esempio la combinazione in un percetto visivo unitario e coerente delle informazioni relative al colore, al contorno, al movimento ecc. –, la coscienza è distribuita nel cervello, nei circuiti dedicati alle varie funzioni cognitive, somatosensoriali e motorie; in questo senso essa non è una funzione che si sovraimpone in modo gerarchico alle altre attività cognitive, ma le interseca «orizzontalmente». Altrimenti detto, essa emerge in forza dell’ampiezza di «circolazione» delle informazioni nel cervello. 55 Nondimeno i fan della lacuna esplicativa, come Chalmers, sostengono che, quali che siano i suoi pregi nel dare conto degli aspetti psicologici della coscienza, il modello di Baars non dà conto dell’aspetto fenomenico, perché non spiega in che modo insorge l’esperienza in prima persona16. Del grado di cogenza di questo tipo di critica abbiamo già discusso. Più interessante per i nostri scopi è evidenziare come si possa istituire un nesso tra il modello di Baars e Dehaene e un certo punto di vista sulla natura della relazione tra coscienza e intenzionalità, appena abbozzata all’inizio di questo paragrafo. In base al concetto di coscienza sommariamente introdotto, la coscienza d’oggetto è una relazione tra un soggetto e un oggetto o proprietà dell’ambiente. Ciò consente di istituire una connessione sistematica tra uno stato di coscienza e uno stato intenzionale: essere coscienti di qualcosa è, o almeno implica, avere una rappresentazione di quella cosa. Secondo le cosiddette teorie rappresentazionali (o intenzionaliste) della coscienza tutte le proprietà fenomeniche della coscienza sopravvengono a proprietà rappresentazionali: a ogni differenza fenomenica fa riscontro una differenza di contenuto rappresentazionale. Questa tesi viene talora espressa dicendo che le proprietà fenomeniche non sono nient’altro che i modi in cui certe proprietà del mondo ci sono date; la rossezza di un pomodoro, ad esempio, è una proprietà non dell’esperienza bensì del mondo (specificamente, del pomodoro), (rap)presentata in un certo modo. Le teorie rappresentazionali si distinguono tuttavia in teorie del primo ordine e teorie del secondo ordine (o di ordine superiore). I sostenitori delle teorie del primo ordine17 affermano che per essere coscienti di qualcosa è necessario e sufficiente avere una rappresentazione di quella cosa. In base a una teoria di ordine superiore, invece, questo non basta: per avere coscienza di qualcosa è altresì necessario essere coscienti dello stato in cui ci si trova, cioè avere un secondo stato o rappresentazione (di «ordine superiore») che ha per oggetto lo stato rappresentazionale di primo ordine18. Ebbene, secondo Peter Carruthers19 il modello di Baars e Dehaene offre una conferma della sua «teoria disposizionalista di secondo ordine». In base a questa teoria lo stato di secondo ordine non è necessariamente uno stato attuale: è sufficiente che il contenuto informativo dallo stato di primo ordine sia «visibile» a processi cognitivi di alto livello, abbia appunto la disposizione ad essere elaborato da questi ultimi. Pertanto la teoria non richiede che il soggetto si trovi in uno stato mentale di ordine superiore, bensì che abbia la mera possibilità di intrattenerlo. Le condizioni di questa disponibilità corrisponderebbero all’appartenenza allo spazio di lavoro globale di Baars e Dehaene. In questo senso per Carruthers il carattere fenomenico dell’esperienza dipenderebbe proprio dal fatto che un contenuto è «entrato» nello spazio di lavoro globale. La natura ricca e integrata dell’esperienza si spiega così col fatto che i suoi contenuti sono simultaneamente disponibili a processi di ordine superiore, grazie alla «trasmissione globale» (global broadcast) delle rappresentazioni percettive. Il modello di Baars-Dehaene sembra tuttavia essere compatibile anche con le teorie del primo ordine, in quanto non è affatto chiaro che l’attivazione delle aree di cui si parla nel modello debba dare luogo a uno stato (attuale o meramente disposizionale) di secondo ordine. Ed è per le teorie del primo ordine che abbiamo una maggiore inclinazione, poiché queste danno conto della nostra supposizione che anche animali e bambini piccoli siano coscienti. Non si può tuttavia nascondere che anche le teorie del primo ordine devono far fronte ad almeno una seria difficoltà: l’incapacità di specificare delle condizioni chiare alle quali uno stato o rappresentazione è cosciente. Sappiamo bene che ci sono stati mentali coscienti e stati mentali non coscienti, ma non è chiaro in base a quali criteri un rappresentazionalista del primo ordine può discriminare i due casi (cfr. supra, la discussione del caso della persona addormentata col mal di testa). Avremo modo di tornare su questo problema da un’angolatura un po’ differente nel par. 3.2. D’altra parte, la nostra posizione non può essere semplicemente assimilata a una teoria rappresentazionale, perché queste teorie presuppongono a) che la nozione di coscienza fenomenica (e la correlata distinzione tra coscienza fenomenica e Chalmers, The Conscious Mind cit., cap. 3. Cfr. ad es. F. Dretske, Naturalizing the Mind, MIT Press, Cambridge (MA) 1995; M. Tye, Consciousness, Color and Content, MIT Press, Cambridge (MA) 2000; T. Crane, Intentionalism, in A. Beckermann, B. McLaughlin e S. Walter (a cura di), The Oxford Handbook to the Philosophy of Mind, Oxford UP, Oxford 2009, cap. 28. 18 Ci sono diverse versioni delle teorie di ordine superiore: cfr. W.G. Lycan, Consciousness and Experience, MIT Press, Cambridge (MA) 1996; P. Carruthers, Consciousness: Essays from a Higher-Order Perspective, Oxford UP, Oxford 2005; D. Rosenthal, Consciousness and Mind, Oxford UP, Oxford 2005. 19 P. Carruthers, Higher-Order theories of consciousness, in E.N. Zalta (a cura di), The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Fall 2011 Edition), URL = <http:// plato.stanford.edu/archives/fall2011/entries/consciousness-higher/>, par. 5. 56 57 16 17 coscienza d’accesso) sia del tutto perspicua e b) che l’attribuzione di uno stato mentale cosciente sia una questione tutto/niente, due tesi che, come abbiamo visto, non siamo disposti a sottoscrivere. Delle teorie rappresentazionali condividiamo l’assunto (comune alle teorie del primo e del secondo ordine) che i contenuti di coscienza abbiano da un lato natura percettiva e dall’altro natura non concettuale. Il primo aspetto consiste nella tesi che ciò che è dato alla coscienza ci si presenta sempre in una modalità percettiva o simil-percettiva – si noti a questo proposito che anche il pensiero può esserci dato in modalità percettiva, ad esempio quando pensiamo per immagini; e che il pensiero linguistico ci è dato in modalità acustica, nella forma di immagini acustiche di enunciati. Il secondo aspetto consiste nella tesi secondo cui per avere coscienza di qualcosa non è necessario avere il concetto di quella cosa (cfr. infra, par. 3.2). Queste caratteristiche si sposano bene con la strategia dal basso di ricostruzione della nozione di io. Alla quale è giunto il tempo di dedicarsi. 2. L’Io e la coscienza tra dissoluzione e ricostruzione Al concetto di coscienza è strettamente legato il concetto di io. L’io è il soggetto delle nostre azioni, il portatore degli stati mentali (la «cosa» che pensa, prova emozioni e sensazioni, percepisce oggetti e proprietà dell’ambiente), il responsabile morale e giuridico delle azioni svolte. Non siamo in grado di parlare della nostra vita quotidiana senza usare, declinato in un modo o nell’altro, il pronome di prima persona. Tutti noi diamo per scontato di essere degli io (o di avere un io, cfr. infra); e diamo altrettanto per scontato che solo gli esseri umani abbiano questa prerogativa. Altrimenti detto, condizione necessaria e (presumibilmente) sufficiente affinché qualcosa sia un io è che esso abbia una rappresentazione di se stesso, cioè che esso abbia un io. Più precisamente, avere un io equivale ad avere una rappresentazione di se stessi in quanto si è un io, ovvero ad autopensarsi come il tipo di entità, sommariamente descritta sopra, che agisce nell’ambiente naturale e sociale20. Il fatto che avere un io consista nell’avere un modello o rappresentazione di sé stessi solleva diverse questioni. Innanzitutto, che cosa vuole dire avere una rappresentazione di sé stessi? Ci sono diversi modi o diversi livelli di rappresentazione: si possono cogliere parti del proprio corpo, si può cogliere il proprio corpo o organismo come un tutto, o, infine, si possono cogliere i propri stati mentali; e – ma forse è solo un’illusione – si può cogliere l’insieme di tutto questo, considerato come un’unità che persiste nel tempo. L’io, l’autocoscienza per antonomasia, arriva con l’ultima di queste capacità, che tuttavia è «preparata» dalle precedenti. In secondo luogo, l’affermazione secondo cui per avere un io è necessario autorappresentarsi sembra sdoppiare la nozione di io: da un lato c’è l’io come soggetto della rappresentazione, dall’altro c’è il contenuto di tale rappresentazione. Se il secondo è una rappresentazione, qual è esattamente la natura del primo? E quanto siamo giustificati nel ritenere che vi sia una corrispondenza adeguata tra i due? Una risposta a queste domande è il punto di arrivo della nostra ricerca; per arrivarci dovremo intraprendere un non breve cammino a partire dalla nozione, già abbozzata, di semplice coscienza, che è un prerequisito irrinunciabile per la costruzione di forme superiori di soggettività, e da quello che le scienze cognitive hanno cominciato a insegnarci al riguardo. Cominciamo col far vedere come una delle possibili interpretazioni dei dati di cui disponiamo sia una sorta di eliminativismo riguardo alla coscienza (e quindi all’io), una tesi che annovera peraltro alcuni illustri precursori. Di Francesco e Marraffa, Introduzione. Il soggetto e l’ordine del mondo, in Idd., Il soggetto cit., p. 2. Il fatto più volte messo in luce che la mente è in larghissima parte subpersonale alimenta il sospetto che tutte le funzioni mentali potrebbero essere svolte senza intervento alcuno della coscienza; ovverosia che la coscienza non svolga nessun ruolo causale, che sia cioè, come si dice nel gergo filosofico, «epifenomenica». Tuttavia l’idea che la coscienza sia epifenomenica è sconcertante perché si scontra con l’evidenza inoppugnabile della centralità che rivestono per noi le idee di identità personale, autocoscienza, soggettività; insomma l’idea di io. E non si tratta, si direbbe, soltanto di una centralità desunta da una riflessione teorica, bensì da un’evidenza interiore, anche se è difficile caratterizzare in modo compiuto in che cosa essa consista. La presunta natura epifenomenica della coscienza, quindi mediatamente dell’io, sferra un duro colpo alla solidità del concetto di identità personale; non resta che un piccolo passo da fare per concludere che l’io è una mera illusione. Beninteso, l’io potrebbe essere epifenomenico e nondimeno reale; e tuttavia un io che non avesse 58 59 20 alcun ruolo da svolgere, irrilevante sotto ogni aspetto, sarebbe qualcosa di così drammaticamente diverso dall’io quale crediamo esso sia, che, in particolar modo sotto l’aspetto delle conseguenze etiche e giuridiche, epifenomenicità e irrealtà sarebbero due tesi pressoché equivalenti. Il passo dall’epifenomenismo all’illusorietà è stato di recente compiuto da taluni autorevoli studiosi che difendono appunto una tesi «eliminativista» nei riguardi dell’io e della coscienza. Un rappresentante esemplare di questa posizione è Daniel C. Dennett, secondo il quale l’idea che ci sia un io unitario che organizza in un’unità coerente le esperienze e controlla il comportamento è completamente smentita dalle ricerche della scienza cognitiva. Queste hanno messo in luce come la mente sia articolata in una collezione di «agenzie cognitive subpersonali», implementate in circuiti cerebrali specializzati, che elaborano informazioni in parallelo senza la supervisione di alcun controllore centrale. L’idea di un io soggetto e spettatore delle proprie esperienze, descritta in modo un po’ irrisorio da Dennett con l’espressione «teatro cartesiano», è del tutto priva di fondamento e l’impressione stessa che ci sia un io è un effetto, mediato dal linguaggio, del lavorio di queste agenzie, come si evince da questo assai citato passaggio: nel nostro cervello c’è una collezione abborracciata di circuiti cerebrali specializzati, che, in virtù di una famiglia di abitudini inculcate in parte dalla cultura e in parte dall’autoesplorazione individuale, cospirano insieme per produrre una macchina virtuale più o meno ordinata, più o meno efficiente, più o meno ben progettata, la macchina joyceana. [...Q]uesta macchina virtuale, questo software del cervello [...] crea un comandante virtuale dell’equipaggio21. In altri termini, l’idea di avere un io – «il comandante virtuale» – è una sorta di artefatto narrativo che i cervelli umani hanno elaborato relativamente tardi nella storia evolutiva, in seguito alla comparsa del linguaggio e allo sviluppo di una vita sociale. Parliamo di artefatto narrativo in quanto in questo quadro il cosiddetto comandante virtuale non fa letteralmente nulla: sono i circuiti cerebrali a essere responsabili del funzionamento cognitivo dei soggetti, non il presunto comandante virtuale, anche se l’idea di io non è del tutto inutile: 21 cata). Dennett, Consciousness Explained cit., p. 228 (trad. it. pp. 255-56 modifi- 60 serve a dare un senso compiuto al flusso dell’esperienza e costruire interpretazioni razionalizzanti del comportamento nostro e altrui22; e ancora a renderci più solidi – a proteggerci meglio – nelle sfide quotidiane con l’ambiente naturale e soprattutto sociale. Ciò non toglie che la sequenza lineare di eventi che costituisce il cosiddetto flusso di coscienza, lungi dall’essere una prova dell’esistenza di un io che osserva gli eventi all’interno del teatro cartesiano, sia una mera apparenza. In una formula, l’io è un’utile finzione. La scintillante retorica di Dennett, che si nutre prevalentemente di metafore, rende talora difficile farsi un’immagine del tutto perspicua della proposta eliminativista. In particolare, non è del tutto chiaro perché la tesi secondo cui l’io è una sorta di narrazione o confabulazione debba comportare che i contenuti del flusso di coscienza siano mere illusioni. L’illusorietà per Dennett consiste nel fatto che c’è uno scarto più o meno ampio tra i diversi «contenuti» che il nostro cervello elabora in un certo istante e ciò che noi crediamo di aver esperito in quell’istante. I contenuti del cosiddetto flusso di coscienza sono infatti sempre il risultato di una mediazione linguistico-concettuale tutt’altro che innocente: l’impressione di una coscienza unitaria è un fenomeno che si produce e riproduce in conseguenza del fatto che una piccola coalizione di «fissazioni di contenuto» (ovvero le elaborazioni di informazioni a carico dei diversi circuiti cerebrali specializzati) ha temporaneamente avuto la meglio su altre coalizioni nella contesa per il controllo di attività cognitive basate sul linguaggio, come monitorare o riferire su se stessi. I contenuti che di volta in volta emergono al livello della coscienza sono quelli elaborati dal microagente (o coalizione di microagenti) «vincitore della competizione». Vincere la competizione, tuttavia, non dipende dall’accedere a un presunto centro della coscienza o dallo svolgere una determinata funzione, né dall’arbitrato di un sistema supervisore che decide chi deve prendere il controllo. L’esito della competizione dipende bensì dalla dinamica caotica stessa dei processi, dalla forza delle «coalizioni» che si costituiscono23. Non 22 Queste funzioni sono tipicamente esercitate tramite l’attribuzione di stati mentali (il cosiddetto «atteggiamento intenzionale»), che è una capacità strettamente legata al manifestarsi di un io autocosciente. Vedi più avanti in questo stesso paragrafo. 23 Cfr. anche: «Nel cervello non esiste un Re, uno Spettatore Ufficiale del Programma della Televisione di Stato, un Teatro Cartesiano; e però esistono in gran 61 c’è bisogno di ancorare le esperienze a un soggetto in senso proprio, anche se si è portati a considerare questi fenomeni transitori come qualcosa di più di quello che sono, vuoi perché ciascuno di essi costituisce un io momentaneo, vuoi perché la memoria autobiografica collega questi fenomeni a precedenti io transitori24. Su una linea non dissimile Thomas Metzinger afferma che l’io non esiste, nel senso che esso non è altro che il contenuto di un particolare modello costruito dal cervello, il cosiddetto «modello fenomenico di sé» (phenomenal self-model)25. Questo è come dire che l’io è un particolare tipo di rappresentazione. Dovrebbe essere chiaro in che senso anche questa è una lettura anti-realista, o eliminativista, dell’io: lungi dall’essere un ente materiale o spirituale, l’io è un prodotto del nostro cervello. Si potrebbe obiettare che questa è, dopotutto, una concezione sostanzialistica dell’io, in quanto quest’ultimo è identificato con un processo o struttura cerebrale, ma non è così: la tesi secondo cui l’io è una rappresentazione nel senso di Metzinger non può essere considerata come una forma di realismo riguardo all’io, da un lato perché la nostra nozione di io impone che esso sia il portatore delle rappresentazioni, dall’altro perché per il filosofo tedesco la rappresentazione in questione è vuota: non c’è un oggetto indipendentemente esistente di cui la rappresentazione è rappresentazione. D’altra parte, come e più di Dennett, anche Metzinger attribuisce a questo io pallido, esangue, una funzione di natura evoluzionistica: il modello cosciente dell’io proprio degli esseri umani è la migliore invenzione di Madre Natura. È una finestra bidirezionale meravigliosamente efficace che consente a un organismo di concepire se stesso come un tutto numero differenze assai nette nel potere politico esercitato dai contenuti nel corso del tempo. Quello che una teoria della coscienza deve spiegare è come un numero relativamente piccolo di contenuti viene innalzato a questo potere politico, mentre la maggior parte degli altri, dopo aver profuso le loro umili gesta nei progetti in corso del cervello, svaniscono nell’oblio» (D. Dennett, Sweet Dreams, MIT Press, Cambridge (MA) 2005, p. 161; trad. it. Sweet Dreams. Illusioni filosofiche sulla coscienza, Cortina, Milano 2006, p. 153 modificata). 24 Cfr. A. Brook e P. Raymont, The unity of consciousness, in E.N. Zalta (a cura di), The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Fall 2010 Edition), par. 7. URL = <http://plato.stanford.edu/archives/fall2010/entries/consciousness-unity/>. 25 T. Metzinger, Being No One, MIT Press, Cambridge (MA) 2003, cap. 1; cfr. anche Id., The Ego Tunnel, Basic Books, New York 2009 (trad. it. Il tunnel dell’io, Cortina, Milano 2010). 62 e in tal modo di interagire con il suo ambiente interno ed esterno in un modo completamente nuovo, integrato e intelligente26. Rispetto a Dennett, Metzinger enfatizza l’aspetto bio-psicologico – invece di quello socioculturale –, insistendo nondimeno sul fatto che non c’è nessun io. Vedremo come, proprio partendo dalla centralità dell’aspetto bio-psicologico, si possa delineare una concezione più realista, di natura funzionalista, dell’io. A una migliore comprensione e valutazione della posizione eliminativista gioverà un (sommario) confronto con un suo illustre antenato filosofico: David Hume. Alcune pagine della quarta sezione del primo libro del Trattato sulla Natura Umana sono infatti all’origine di tutte quelle teorie che, pur nelle differenze, sono accomunate dall’idea che non ci sia alcun possessore degli stati mentali, o da quella, più radicale ancora, che nulla nel mondo corrisponde al concetto di io. Il celebre argomento di Hume muove dalla premessa che non si dà né una sostanza della mente, né un luogo definito dove le esperienze trovino una unità che le ricomprenda. Ciò che noi chiamiamo «mente» è un fascio di cose diverse e separate, un flusso discontinuo ed eterogeneo di percezioni: La mente è una specie di teatro, dove percezioni diverse fanno successivamente la loro comparsa; passano, ripassano, scivolano via, si mescolano in una varietà infinita di atteggiamenti e situazioni. Non vi è in questo né semplicità in un dato tempo, né identità in tempi differenti, qualunque sia l’inclinazione naturale che abbiamo ad immaginare quella semplicità e identità. Il paragone col teatro non deve fuorviarci: a costituire la mente non ci sono altro che le percezioni successive; né abbiamo la più vaga idea del luogo dove queste scene vengono rappresentate, o dei materiali di cui [la mente] è composta27. Poiché tutto ciò di cui abbiamo esperienza sono percezioni slegate le une dalle altre, non abbiamo alcuna impressione (percezione, Metzinger, Being No One cit., p. 1. D. Hume, A Treatise of Human Nature (1739-1740), edizione a cura di L.A. Selby-Bigge, riveduta da P.H. Nidditch, Oxford UP, Oxford 1978, libro I, parte IV, sez. 6, p. 253 (trad. it. Opere filosofiche, Laterza, Roma-Bari 20109, vol. 1, pp. 264-65, modificata). 26 27 63 esperienza) di un io possessore di stati mentali: «quando penetro più intimamente in ciò che chiamo me stesso, inciampo sempre in qualche particolare percezione [...]. In ogni momento non riesco mai a cogliere me stesso senza una percezione, e non riesco mai a osservare null’altro che la percezione»28. E se non abbiamo esperienza di un io, non possiamo, nella prospettiva empirista di Hume, nemmeno avere un’idea di io. Poiché le percezioni non presuppongono altro che se stesse, possono sussistere senza appartenere ad alcun io, ovvero l’io non è altro che un fascio di percezioni irrelate29. Dunque, nella lettura usuale, la posizione humeana nega un assunto dato comunemente per scontato, quello secondo cui una percezione deve necessariamente avere un proprietario. L’idea che le percezioni siano «entità» che possono «fluttuare libere» nel mondo è intuitivamente molto difficile da accettare. È per questa ragione che, anche ammesso che l’io sia una mera illusione, la posizione di Hume e le sue eredi hanno l’onere di spiegare da dove sorge l’idea di un io unitario. L’unità dell’io potrebbe essere un’ipotesi priva di fondamento, ma l’apparenza dell’unità dell’io non può essere messa in discussione. Hume è ben consapevole del problema. Infatti, se, da un lato, egli esprime un certo scetticismo riguardo al fatto che vi sia esperienza di un io, come testimonia l’affermazione sopra riportata secondo cui non si riesce «mai a osservare null’altro che la percezione», dall’altro in altri passi egli suggerisce che noi attribuiamo un’identità soggiacente alle diverse percezioni sulla mera base del fatto che percepiamo la loro successione. Per spiegare questo pur pallido senso di unità Hume propone che esso sorga dalla somiglianza delle percezioni e dall’esistenza di relazioni causali tra le percezioni. Il fatto che, ad esempio, la nostra percezione odierna di un gatto assomiglia alla percezione che ne abbiamo avuto ieri suggerirebbe l’esistenza di una continuità dell’esperienza attraverso il tempo. Il passaggio dalla somiglianza tra le percezioni al senso di unità non ha tuttavia alcuna forza deduttiva, per tacere del fatto che il riconoscimento della somiglianza richiede la memoria, e questa a sua volta rischia di presupporre l’io unitario. L’idea che sussistano nessi causali tra percezioni darebbe indubbia- mente una forza maggiore all’idea di continuità dell’esperienza, ma, sfortunatamente, è falso che ci sia una relazione causale tra la percezione di un gatto ieri e la percezione di un gatto oggi. Pertanto Hume non è in grado di far fronte al problema di spiegare come insorge l’idea di io, per quanto illusoria questa possa essere30. Ci troviamo, si direbbe, in mezzo a un guado: da un lato, la posizione di Hume si espone ad una seria difficoltà; ma dall’altro non siamo in grado di dare alcun fondamento solido alla nozione di io. Prima di esaminare come un altro grande del passato, Kant, ha affrontato il problema, dobbiamo tuttavia chiederci se la posizione neohumeana di Dennett è in grado di far fronte in modo più efficace al problema di spiegare l’apparenza dell’io. L’analogia più evidente tra Hume e Dennett risiede nella comune convinzione che la mente sia costituita da una molteplicità caotica di processi (variamente descritti come percezioni, esperienze, discriminazioni di contenuto) che non trovano, se non nella nostra illusione, unità. C’è tuttavia una differenza importante: la molteplicità delle agenzie cognitive dennettiane è collocata fondamentalmente nel cervello, nel senso che Dennett individua direttamente nelle elaborazioni dei circuiti cerebrali specializzati le percezioni causalmente rilevanti per il comportamento dell’organismo. Se pure tale elaborazioni sono descritte nel vocabolario della psicologia computazionale (cfr. supra, cap. 1, par. 1), esse restano, per così dire, metafisicamente a carico del sistema nervoso centrale. In questo senso Dennett probabilmente non ha bisogno di negare che le percezioni abbiano, dopotutto, un possessore: il «soggetto» delle percezioni è il cervello, o eventualmente l’organismo nella sua interezza, considerato come un sistema fisico. Gli animali non umani hanno esperienze, o almeno hanno una certa forma di esperienza, senza avere un io. Dunque i requisiti che tipicamente imponiamo sulla nozione di io non hanno bisogno di essere soddisfatti per ancorare le percezioni a un percipiente31. Certo, ancorare le percezioni a un mero organismo, in quanto opposto a un soggetto in senso forte, è molto meno di ciò che le nostre intuizioni cartesiane pretenderebbero. Ma, soprattutto, si deve considerare che all’obiezione secondo cui la scomparsa dell’io Ivi, p. 252 (trad. it. p. 264, modificata). Beninteso, questa è una interpretazione che, sebbene relativamente standard, presta il fianco ad alcune obiezioni; ma, lungi dall’essere qui interessati a un’esegesi di Hume, ci interessa mettere in evidenza quegli aspetti che sono suscettibili, a torto o a ragione, di essere considerati le radici dell’eliminativismo odierno. 30 Cfr. Di Francesco, L’io e i suoi sé cit., pp. 169-70; B. Stroud, Hume, Routledge, London 1977, cap. 6. 31 Come vedremo nel par. 3, l’ancoraggio delle percezioni a un organismo è tuttavia un passo nella prospettiva di costruzione di una nozione di io. 64 65 28 29 lascerebbe gli stati mentali senza un padrone Dennett replicherebbe che gli stati mentali stessi sono delle finzioni teoriche. In base alla sua teoria dell’«atteggiamento intenzionale» gli stati mentali sono attribuiti piuttosto che posseduti32. Credenze, desideri e intenzioni sono infatti schemi interpretativi del comportamento elaborati allo scopo di razionalizzare, prevedere, dare senso al comportamento nostro e altrui. Non c’è nessun bisogno di supporre che a tali strutture concettuali corrispondano entità reali nella testa delle persone. Si noti come Dennett attribuisca un valore evoluzionistico all’attribuzione di stati mentali, una strategia o metodo che «si è evoluta perché funziona, e funziona perché si è evoluta»33. In questo senso la sua teoria dell’intenzionalità e la sua teoria della coscienza sono in piena sintonia: tanto l’intenzionalità quanto la coscienza sono costruzioni teoriche che hanno conferito un vantaggio evolutivo e che trovano la loro giustificazione proprio in tale valore evoluzionistico. Si potrebbe tuttavia obiettare che questo strumentalismo – come è stato definito da alcuni critici di Dennett – riguardo agli stati mentali non è facilmente applicabile al caso delle esperienze percettive, che sono in prima istanza vissute piuttosto che attribuite. In questo senso, anche se l’eliminativismo odierno dispone di qualche arma più raffinata per giustificare la tesi della scomparsa del soggetto, la spiegazione che esso offre della nostra illusione di avere un io continua, ci sembra, a non essere del tutto soddisfacente. La (non solo) nostra insistenza su questa richiesta è motivata dal fatto che ciò che chiamiamo «io» non è soltanto un senso vago che accompagna la nostra vita mentale; anche i nostri modi di parlare e le nostre pratiche epistemiche, per non parlare del diritto e della morale, sembrano presupporre l’esistenza di qualcosa come un io. Su questo punto Dennett ha delle risposte, crediamo, solo parzialmente soddisfacenti. Egli accorda, come abbiamo già accennato, un valore evoluzionistico all’io narrativo-confabulatorio: riprendendo un’efficace espressione di Di Francesco, l’essere umano è come «un vascello che sotto stimolo di pressioni evolutive ha imparato ad agire ‘come se’ contenesse un pilota in realtà assente»34. Altrimenti detto, ipotizzare l’esistenza dell’io è vantaggioso a fini biologici e (soprat- tutto) sociali. Questo giustifica le pratiche epistemiche basate sull’io ma, come spiegazione dell’emergenza dell’apparenza dell’io, è un po’ vaga per una familiare ragione epistemologica: spiegare perché c’è qualcosa – quand’anche si trattasse solo di un’apparenza – non è spiegare come quel qualcosa è venuto ad essere. Dennett fornisce una risposta, soddisfacente nei limiti che spesso caratterizzano gli appelli alla teoria dell’evoluzione, al perché è emerso l’io, ma non alla domanda di come l’impressione di qualcosa di unitario emerga da una molteplicità di processi caotici. Beninteso, sarebbe ingiusto pretendere allo stato attuale un resoconto esauriente del fenomeno in questione; e tuttavia quando si tratta di abbandonare un frammento di metafisica del senso comune che occupa una posizione particolarmente centrale nella nostra immagine del mondo, e che svolge un ruolo di rilievo nel nostro schema concettuale, richiedere una spiegazione più solida non sembra essere una pretesa eccessiva. Torniamo indietro di un paio di secoli (abbondanti). Si accennava sopra a come Kant avesse proposto una soluzione ai problemi sollevati dalla posizione di Hume. Si trattava di sfuggire a un dilemma, non molto diverso da quello tra dualismo ed eliminativismo a cui ci troviamo di fronte oggi: da un lato evitare la concezione sostanzialistica dell’io difesa da Cartesio; dall’altro evitare la pura e semplice dissoluzione dell’io. La soluzione kantiana, come è noto, consiste nel considerare l’unità del soggetto come una condizione necessaria – nel linguaggio kantiano, una condizione trascendentale35 – dell’attività di sintesi operata dall’intelletto, ovvero della capacità di formare giudizi di categorizzazione, i giudizi della forma «questo è un C». Senza l’unità dell’io non sarebbe possibile la categorizzazione, quindi, nella prospettiva kantiana, non sarebbe nemmeno possibile l’esperienza, poiché in Kant non si dà esperienza senza un atto di sintesi: avere un’esperienza è – consiste nel – percepire o riconoscere qualcosa come una data cosa36. Affinché il coacervo dei dati sensoriali, ovvero la molteplicità delle rappresentazioni sensibili, possa trovare una sintesi coerente, diventando così un mondo, il mondo della nostra esperienza, è necessario che ogni singola rappresentazione sia unita in una sola coscienza. 32 D.C. Dennett, The Intentional Stance, MIT Press, Cambridge (MA) 1987 (trad. it., L’atteggiamento intenzionale, il Mulino, Bologna 1993). 33 Ivi, p. 75. 34 Di Francesco, L’io e i suoi sé cit., p. 183, corsivi nostri. 35 Ricordiamo che «trascendentale» si dice di qualcosa che precede ogni esperienza e ne costituisce una condizione di possibilità: cfr. infra. 36 Come vedremo nel par. 3.2, questo è un punto di Kant che non condividiamo. 66 67 Dunque ogni esperienza è necessariamente accompagnata da quella che Kant chiamava «appercezione trascendentale» o «io penso», cioè, semplificando un po’, dalla rappresentazione di quell’esperienza come mia. Il punto cruciale è che l’appercezione è, appunto, trascendentale, ovvero non è un oggetto di esperienza, bensì è la condizione di possibilità dell’esperienza. Altrimenti detto, l’autocoscienza che deve accompagnare ogni rappresentazione non è una coscienza di sé come oggetto: l’unità dell’esperienza è una condizione necessaria (trascendentale) dell’esperienza, ma non si esperisce in quanto tale. Poiché questo punto è tutt’altro che ovvio, bisogna comprendere bene su quali basi Kant fa questa affermazione. Si deve tenere ben presente che Kant vuole evitare di ricadere nel sostanzialismo cartesiano, ovvero nella tesi secondo cui l’io è una sostanza immateriale o spirituale. Se l’appercezione trascendentale ci fornisse un oggetto, pensa Kant, esso dovrebbe essere necessariamente immateriale; ma allora l’io non può essere un oggetto37. L’inclinazione di Kant a seguire Hume nel ritenere che non esista un’esperienza dell’io deriva quindi dal timore sempre incombente dello spettro del sostanzialismo cartesiano. L’io come soggetto pensante non può essere un oggetto di esperienza e in questo senso non fa parte del mondo. Ora, un tratto caratteristico della filosofia kantiana in generale, ciò che egli chiamava «rivoluzione copernicana», è che se il fondamento di qualcosa non può essere trovato nella realtà stessa, allora deve dipendere, in un modo o nell’altro, dalla testa delle persone, dal funzionamento della mente. Dunque l’appercezione trascendentale è la «creazione» operata da una facoltà psichica: l’unità dell’esperienza non è «nelle cose», ma nella mente dei soggetti. In quanto tale, potrebbe anche essere un’illusione, ma è un’illusione alla quale non possiamo sottrarci. Esattamente come ci è impossibile percepire un oggetto fuori dallo spazio, in virtù di come è fatta la nostra mente, analogamente non possiamo non «percepire» le nostre esperienze come nostre, e non possiamo perché la nostra mente è fatta così. Tuttavia, come ha persuasivamente sostenuto Peter Strawson38, in quel «perché la mente è fatta così» si annida una tensione, se non 37 Si noti come qui Kant dia indebitamente per scontato che l’io non possa essere un ente materiale (cfr. Di Francesco, L’io e i suoi sé cit., p. 216). 38 P.F. Strawson, The Bounds of Sense, Methuen, London 1966 (trad. it. Saggio sulla Critica della ragion pura, Laterza, Roma-Bari 1985). Sir Peter Strawson è il padre del Galen Strawson citato nel primo capitolo. 68 una vera e propria incoerenza. Come abbiamo visto, per Kant questo modo di essere della mente che determina l’unità della coscienza è un principio trascendentale e formale; ma, d’altra parte, nel momento in cui viene caratterizzato come una modalità del funzionamento psichico, si deve concedere che esso è un fatto empirico tra gli altri: anche la nostra mente è un pezzo della natura. Così, da un lato Kant sottrae la mente dal mondo empirico, perché di quest’ultimo la mente è condizione di possibilità, ma nello stesso tempo egli è consapevole del fatto che le operazioni del meccanismo percettivo umano, i modi in cui la nostra esperienza dipende causalmente da tali operazioni, sono materia per l’indagine empirica, o scientifica, e non filosofica. Kant [...] sapeva benissimo che tale indagine empirica era di un genere affatto diverso rispetto all’indagine da lui proposta sulla struttura fondamentale delle idee in base alle quali soltanto possiamo rendere intelligibile a noi stessi l’idea dell’esperienza del mondo. E tuttavia, a dispetto di questa consapevolezza, concepiva la seconda indagine in base a una sorta di forzata analogia con la prima. Ogni qual volta trovava caratteristiche generali dell’esperienza necessarie e limitanti, dichiarava che la loro origine risiedeva nella nostra costituzione cognitiva; e considerava questa dottrina indispensabile come spiegazione della possibilità della conoscenza della struttura necessaria dell’esperienza39. Insomma è come se per Kant la relazione tra l’unità dell’esperienza e la struttura della mente fosse contemporaneamente di natura causale e razionale; fattuale da un lato e normativa dall’altro. D’altra parte, in questo genere di difficoltà siamo avviluppati ancora oggi. Se è vero che le odierne scienze cognitive ci hanno dischiuso conoscenze un tempo impensabili sulla struttura della mente, i concetti di stato mentale e di io continuano a recalcitrare a una pacifica inclusione nel mondo della natura. Oggi le facoltà psichiche sono un oggetto di studio empirico come un altro ed è in questo senso impensabile trattare l’unità dell’esperienza come un principio trascendentale; ma questo non significa che il problema di Kant sia stato risolto. La nostra ipotesi è che l’unità dell’esperienza abbia un fondamento empirico, non ultimo perché (come vedremo) si può sostenere, a differenza di Hume e di Kant, che qualcosa come un «senso dell’io», 39 Ivi, pp. 15-16. 69 o almeno certi caratteri fondamentali della soggettività, come quello di essere proprietari delle esperienze, sono percepiti: l’io non è solo un’idea perché alcuni suoi tratti sono un oggetto di esperienza. Nella misura in cui l’io viene trattato, come ipotesi di lavoro, come una funzione psichica studiabile empiricamente, ciò che stiamo proponendo è una lettura funzionalista della posizione kantiana: l’io non è una sostanza ma potrebbe essere una funzione della sostanza, cioè dell’organismo. Da un certo punto di vista, si potrebbe descrivere la nostra proposta come la ricerca di un correlato naturalistico di quella nozione normativa che è l’io penso. Beninteso, non stiamo parlando di un singolo meccanismo o struttura cerebrale (abbiamo visto come questa ipotesi sia empiricamente assai implausibile), bensì di un’ipotesi empirica di alto livello, quale è, appunto, il concetto di funzione psichica. In ciò consiste la lettura funzionalista: una funzione è una nozione astratta e di alto livello che si basa tuttavia su una collezione eventualmente molto complessa di meccanismi subpersonali soggiacenti. Questo sviluppo della posizione kantiana trova sotto certi aspetti un autorevole sostegno nella ricerca di Strawson, secondo il quale la possibilità di autoattribuzione di esperienza da parte di un soggetto richiede «criteri di identità empiricamente applicabili per i soggetti di esperienza»40, il che è reso possibile, inter alia, dal fatto che «ognuno di noi è un oggetto corporeo fra oggetti corporei»41. Il corpo è una chiave: è indispensabile agganciare quella funzione psichica che (forse) è l’io a un corpo determinato, altrimenti gli io diventano costruzioni logiche evanescenti. L’idea deve essere (molto alla grossa) che quelle rappresentazioni che costituiscono nel loro insieme l’(idea di) io sono rappresentazioni costruite da un cervello determinato dentro un corpo determinato. Una rappresentazione simile costruita da un altro cervello (o, eventualmente, da un sofisticato sistema in silicio) è un altro io. Si noti tuttavia che Strawson mantiene un’impostazione di matrice trascendentalista nel momento in cui considera, oltre ai corpi materiali, anche le persone come elementi costitutivi dell’arredo fondamentale del mondo. Come per le categorie kantiane, le persone sono condizioni di possibilità dell’esperienza. In questo senso la cosiddetta 40 41 metafisica descrittiva di Strawson42, cioè la descrizione dei modi in cui di fatto pensiamo il mondo, si oppone alla metafisica implicita nei modelli neohumeani, che, espungendo le persone dal mondo, può essere qualificata come revisionista. Ad esempio, l’idea humeana dell’io come mero fascio di percezioni potrebbe essere fondata su una metafisica nella quale gli elementi fondamentali non sono gli oggetti (sono esclusi quindi anche i corpi materiali) ma gli eventi percettivi, concepiti come flussi di informazione/energia (è solo un esempio, e non c’è bisogno di arrivare a tanto nella posizione eliminativista). Noi non siamo né conservatori né revisionisti, nel senso che non diamo per scontata l’inclusione delle persone nell’arredo fondamentale del mondo, ma siamo in linea di principio aperti alla possibilità di correggere lo schema concettuale del senso comune, a fronte di prove empiriche sufficientemente solide. Tiriamo le fila del nostro discorso. Nella posizione eliminativista, vi è, a nostro giudizio, un nucleo importante di verità, consistente nella congiunzione di due tesi: 1) non esiste un centro della coscienza, ovverosia, non esiste in una zona specifica del cervello qualcosa che possa essere descritto come la realizzazione neurobiologica di una struttura funzionale corrispondente a ciò che il senso comune definisce «io» – l’entità che, per dirla con Dennett, assiste allo spettacolo rappresentato nel «teatro cartesiano». Su questa tesi vi è una convergenza significativa da parte di diversi neuroscienziati, giustificata da una serie di osservazioni empiriche. Come abbiamo visto sopra, esaminando il modello Baars-Dehaene, affinché un fenomeno emerga al livello della coscienza devono essere simultaneamente attive molte aree cerebrali: una delle differenze più evidenti tra le elaborazioni inconsce e quelle consce è proprio il fatto che le prime sono locali mentre le seconde tendono ad essere globali; 2) l’attendibilità dei giudizi che formuliamo sugli stati mentali è assai scarsa – l’io, se c’è, non è come crediamo che sia43. Questa tesi sarà ampiamente documentata nel terzo e quarto capitolo di questo studio. 42 P.F. Strawson, Individuals, Methuen, London 1959 (trad. it. Individui, Mimesis, Milano 2008). 43 Contro la tesi cartesiana dell’infallibilità della conoscenza in prima persona dei propri stati mentali. Ivi, p. 102. Ibid. 70 71 Ora, una volta riconosciuto il nucleo di verità catturato dalle tesi 1 e 2, ciò che a noi non pare condivisibile nella posizione di Dennett è il passaggio dal modello del capitano virtuale alla pura e semplice eliminazione dell’io: anche se l’io della nostra fenomenologia è in realtà il risultato dell’operare di una miriade di processi cerebrali distribuiti e disaggregati, ciò non lo rende tout court illusorio, né è obbligatorio concludere che l’io non è altro che l’insieme di tali processi cerebrali. Contro l’inferenza che deduce l’illusorietà dell’esperienza in prima persona dalla frammentazione delle cosiddette agenzie cognitive militano un paio di argomenti. Il primo è che tale inferenza assume una premessa che non è affatto obbligatorio condividere: il primato ontologico ed epistemologico del cervello. Il fatto che il cervello non ospiti alcun io non è una ragione sufficiente per pensare che l’io non esista, non più di quanto il fatto che a livello microscopico non esistano gli oggetti della nostra esperienza ci autorizzi a supporre che tali oggetti non esistano affatto (cfr. anche infra, n. 45). Il secondo argomento è che la natura illusoria ovvero meramente (auto)narrativa dell’io trascura la rilevanza del corpo e della rappresentazione cerebrale del corpo nella costituzione dell’io: quand’anche fosse sotto diversi aspetti illusoria (cfr. infra), se l’autonarrazione affonda le sue radici nella corporeità, non è qualcosa che può essere fatta e disfatta a piacimento (cfr. infra, cap. 4, par. 1). Altrimenti detto, prima di essere parlanti di un linguaggio e attori in un palcoscenico sociale, gli esseri umani sono organismi, sistemi fisici sofisticati: la prima fonte della soggettività è la separazione fisica tra l’organismo e l’ambiente, o almeno questa è un’ipotesi meritevole di essere esplorata. Insomma, l’io va cercato in prima istanza al livello dell’organismo come un tutto, non nel solo cervello. Dennett riconosce questo punto44, ma non sembra attribuirvi l’importanza che merita, forse in base all’assunto che (rozzi) meccanismi di discriminazione tra organismo e ambiente sono posseduti anche dagli organismi unicellulari. In altri termini Dennett tende a non istituire un nesso significativo tra questo genere di meccanismi e l’io narrativo. Beninteso, non intendiamo usare questi due argomenti come prove per l’esistenza dell’io – sarebbero prove inconsistenti; più modestamente, come ragioni per non assumere fin dal principio la 44 Consciousness Explained cit., cap. 13. 72 completa illusorietà dell’io, qualcosa che potrà essere stabilito semmai alla fine della ricerca, non all’inizio. Anche nel nostro modello l’io risulterà alla fine godere di salute precaria, ma in un senso affatto diverso da quello dennettiano. L’idea è, come vedremo, che l’io del senso comune è l’esito di un processo di autorappresentazione da parte di una «macchina psicobiologica», e che tale autorappresentazione è parzialmente erronea, in quanto attribuisce al soggetto certe qualità che in realtà non gli appartengono; senza con ciò essere destituita di realtà. Così l’io del senso comune è una costruzione «illusoria» solo nel senso che l’autorappresentazione del sistema psicobiologico contiene delle qualità in più rispetto a quelle possedute dal sistema stesso. Intendiamo quindi rivendicare lo spessore, la consistenza, l’indispensabilità, l’efficacia causale dell’io fenomenologico in quanto costruzione illusoria; nonché il fatto che esso è, come si è detto, il prodotto di un insieme di funzioni psicobiologiche: una nozione di io come funzione psichica45. Pertanto, una strada promettente potrebbe essere quella di accettare la teoria dennettiana della genesi del cosiddetto comandante virtuale senza tuttavia trarne le conseguenze ontologiche eliminativistiche. C’è lo spazio per riconoscere un grado di legittimità più robusto alla nozione di io, collocata al suo proprio livello di descrizione. O almeno questa sarà la nostra ipotesi di lavoro: senza assumere quale premessa la tesi eliminativista dell’illusorietà dell’io e quella correlata del carattere epifenomenico della coscienza, proveremo a costruire un quadro teorico coerente con i dati empirici di cui attualmente disponiamo nel quale la coscienza abbia un ruolo adattivo (altrimenti sarebbe difficile giustificare la sua comparsa su scala evolutiva). L’ipotesi di lavoro è che l’io sia in prima istanza una funzione psichica, recuperando in tal modo un’intuizione già lockiana e poi, declinata proprio in chiave anti-humeana, kantiana. Tale funzione La nozione di io come funzione psichica (e con essa il contenuto della sua autorappresentazione, l’io fenomenico) si colloca evidentemente non al livello dell’hardware cerebrale, bensì a livello «software». Non per questo essa è meno reale: una ricognizione obiettiva dello stato attuale della ricerca in scienza cognitiva fa propendere per un modello pluralistico della spiegazione, che rifiuta l’assunto riduzionista dell’esistenza di un livello fondamentale di spiegazione, rivendicando la rilevanza causale ed esplicativa delle entità non fondamentali e delle ipotesi teoriche «di alto livello». Cfr. M. Marraffa, A. Paternoster, Funzioni, livelli e meccanismi. La spiegazione in scienza cognitiva e i suoi problemi, in Idd. (a cura di), Scienze cognitive. Un’introduzione filosofica cit., p. 34 e passim. 45 73 psichica è una «macchina psicobiologica» capace di autorappresentarsi; ma resta da spiegare e da inquadrare appropriatamente l’io della fenomenologia, il vissuto cui dà luogo, o che accompagna, questa autorappresentazione. Per riassumere, la nostra ipotesi di lavoro è che l’io abbia delle basi biologiche. Pertanto il prossimo passo della nostra indagine consisterà nel ricostruire le nozioni di coscienza e di io partendo dai processi subpersonali individuati dalle scienze cognitive. La scelta di questo procedimento è giustificata da almeno tre ragioni. La prima ragione è concettuale: non pensiamo che, in una prospettiva scientificamente rispettabile, si possa davvero spiegare l’io presupponendolo – o presupponendo concetti analoghi – nella spiegazione. La seconda ragione nasce dalla volontà di rispettare un requisito di ordine evoluzionistico: qualunque cosa sia esattamente l’io, è chiaro che esso è comparso relativamente tardi sul piano filogenetico e compare non prima dei tre-quattro anni di vita sul piano ontogenetico; dunque è ragionevole andare a cercare le condizioni che ne determinano questa emergenza tardiva. Altrimenti detto, è chiaro che l’io presuppone strutture cognitive sofisticate. La terza ragione è che, come si chiarirà strada facendo, l’io è una costruzione complessa, la cui comprensione richiede di individuare i diversi aspetti che la costituiscono. Come anticipato nel primo paragrafo, chiamiamo «strategia bottom-up» il metodo suesposto consistente nel cercare di spiegare l’io «dal basso», cioè a partire da funzioni e strutture più elementari e specificamente subpersonali. Questa prospettiva di ricerca potrebbe essere vista come una correzione darwiniana del pensiero freudiano. Le funzioni psicologiche alla base dell’autocoscienza caratteristica dell’adulto evolvono, presumibilmente, a partire da funzioni più elementari; lo studio della coscienza e dell’autocoscienza ripercorre questo cammino evolutivo. Nella prospettiva bottom-up diventa possibile distinguere forme diverse di coscienza, che spaziano dalle forme più elementari di controllo di parametri significativi dell’ambiente fino alle sofisticate forme di introspezione riflessiva. Si badi tuttavia che indagare quelle che abbiamo chiamate «basi biologiche» della coscienza non significa credere nell’eventualità che la coscienza umana sia essenzialmente un fenomeno biologico. Nella misura in cui l’autocoscienza è un (o il) tratto caratteristico della coscienza umana, un tratto che mette in gioco aspetti (linguistici e 74 sociali) presumibilmente non analizzabili, almeno non direttamente né semplicemente, in termini biologici, la coscienza peculiarmente umana non può essere considerata un fenomeno biologico46. Ciò emergerà con chiarezza nel seguito di questo lavoro. Il resto di questo capitolo avrà la seguente impostazione. Nel paragrafo successivo daremo un contenuto un po’ più specifico alla strategia bottom-up, avanzando la tesi secondo cui l’io richiede delle basi materiali, cioè una coscienza nucleare d’oggetto47. Tale coscienza nucleare è preriflessiva o preconcettuale, e difenderemo questa tesi da alcune obiezioni. Nel par. 4 verrà presa in considerazione l’ipotesi dell’esistenza di un’autocoscienza preriflessiva (che accompagnerebbe sistematicamente la coscienza d’oggetto preriflessiva). Sosterremo che, a dispetto di talune attrattive, questa ipotesi si scontra con certi assunti irrinunciabili del nostro quadro teorico. Seguirà (par. 5) un breve riepilogo delle tesi portanti sostenute. 3. La strategia bottom-up 3.1. La coscienza nucleare e il proto-io Avevamo aperto il paragrafo precedente istituendo una sommaria identificazione dell’io con l’autocoscienza; e abbiamo sostenuto che prima dell’autocoscienza viene la semplice coscienza. L’autocoscienza è una proprietà da un lato più sofisticata e dall’altro più specifica della coscienza: è più specifica in quanto è un caso particolare di coscienza – è coscienza rivolta a un tipo particolare di oggetto, noi stessi –; ed è più sofisticata in quanto richiede certe capacità cognitive, come il linguaggio, che non sono necessarie per la coscienza e si sviluppano infatti dopo di questa48. Un’impostazione sotto certi aspetti analoga si trova nei lavori del neuroscienziato Antonio Damasio49, a cui facciamo riferimento in quanto illustra esemplarmente quel radicamento dell’autocoscienza 46 Cfr. M. Di Francesco, È possibile una scienza della coscienza?, in «Sistemi Intelligenti», 20(3), 2008, p. 371. 47 La «coscienza d’oggetto» non si oppone all’autocoscienza, almeno se si pensa che l’autocoscienza sia un caso speciale di coscienza d’oggetto. 48 Secondo alcuni autori, tuttavia, una forma rudimentale di autocoscienza accompagna sempre gli stati di coscienza. Ne discuteremo nel par. 4. 49 A. Damasio, The Feeling of What Happens, Harcourt Brace, New York 1999 (trad. it. Emozioni e coscienza, Adelphi, Milano 2001); Id., Self Comes to Mind, Pantheon, New York 2010 (trad. it. L’io viene alla mente, Adelphi, Milano 2012). 75 nella rappresentazione corporea che costituisce il fulcro della strategia bottom-up – la ricostruzione «darwiniana» dal basso dell’io – che intendiamo perseguire. Si badi tuttavia che ci sono alcune differenze importanti tra la nostra posizione e quella di Damasio, la cui discussione non sarà meno istruttiva per i nostri scopi. In The Feeling of What Happens Damasio introduce la distinzione tra coscienza nucleare e coscienza estesa (o autobiografica). La prima è l’esperienza irriflessa, non mediata razionalmente, della realtà ambientale e corporea presente. Il suo ambito è cioè «il qui e ora». La seconda copre passato e futuro, è riflessiva, consente al soggetto di «esplorare», sottoporre a scrutinio eventi e fasi della propria vita. La coscienza nucleare è un fenomeno biologico stabile nel corso della vita di un organismo, comune agli esseri umani e a molti animali; non dipende dalla memoria, dalle capacità di ragionamento, né dal linguaggio. Tutte queste facoltà sono invece necessarie per la coscienza estesa, prerogativa esclusiva degli esseri umani: la coscienza estesa equivale all’io autobiografico, all’io autocosciente, insomma all’io quale si intende comunemente; benché instabile e mutevole, essa occupa il posto d’onore, è «il tipo di coscienza illustrata nelle opere letterarie, cinematografiche e musicali, la coscienza celebrata dalla riflessione filosofica»50. La distinzione, abbastanza intuitiva, trova una conferma empirica nella dissociabilità delle due coscienze, che si produce nei pazienti che hanno danni devastanti alla memoria a lungo termine. È il caso di un paziente di Damasio, David, il quale ha un comportamento del tutto appropriato in molte singole circostanze, per esempio è in grado di sostenere una normale conversazione rispettando tutte le norme linguistiche e comunicative, ma, potremmo dire, non sa più chi è: egli infatti non ricorda nulla della sua vita passata e non sa come si chiama, così come non riconosce nessuna delle persone che lo circondano, tanto meno quelle più care. David non ha più una storia, un’autobiografia; quindi non ha o non è più un io, pur avendo, limitatamente all’istante presente, una vita sensorialmente ed emotivamente ricca. Le sue esperienze sono tutte poco più che istantanee: svaniscono nello stesso tempo di decadimento di una traccia nella memoria a breve termine (una quarantina di secondi). La coppia oppositiva costituita da coscienza nucleare e coscienza 50 Damasio, Self Comes to the Mind cit., p. 168 (trad. it. p. 215). 76 estesa presenta diverse analogie con quella costituita dai nostri concetti di semplice coscienza, o coscienza primaria, e di autocoscienza; ma allo stesso tempo ci sono delle differenze non trascurabili, in particolare tra la coscienza nucleare di Damasio e la nostra coscienza primaria, che avremo cura di mettere in evidenza. La coscienza nucleare potrebbe essere definita come la sensazione istantanea o quasi istantanea di ciò che accade: è il prodursi di quelle «immagini» mentali che costituiscono i nostri contenuti di esperienza grezza: una superficie colorata, un suono, una sensazione tattile, una sensazione di benessere. Le immagini sono pattern neuronali sentiti in un certo modo dall’organismo come un tutto. A differenza di Damasio, tuttavia, noi pensiamo che trovarsi in questi stati di coscienza sia un sentire senza sentirsi; un sentire che implica una forma di soggettività immediata che però non è esperita in quanto tale. In questi stati gli organismi costruiscono rappresentazioni del mondo che sono unificate solo nel senso minimale di venir costruite dal medesimo sistema cognitivo, che è munito di sottosistemi di integrazione (dunque il principio di unificazione delle esperienze qui non è l’io-penso, e neppure «l’io-sento»!). Vi è invece piena sintonia sul fatto che la coscienza nucleare è fondamentalmente una coscienza d’oggetto, è cioè sempre una coscienza di qualche cosa. In uno stato di mera coscienza nucleare, l’organismo è consapevole di un oggetto senza essere consapevole di trovarsi in un certo stato mentale (almeno in una certa interpretazione, cfr. infra). La coscienza nucleare è insomma una successione di frammenti di esperienza, che possono essere vissuti anche dai neonati e da (presumibilmente molti) animali non umani. Spiegare la coscienza nucleare equivale a dar conto di che cosa ha luogo nel nostro organismo quando interagiamo percettivamente con un oggetto, dove per interazione percettiva si intende qui anche la relazione con un «oggetto» interno, ad esempio un danno a una parte del corpo. In primo luogo il cervello, «informato» della presenza dell’oggetto dai recettori pertinenti, costruisce una mappa o rappresentazione di tale oggetto. Normalmente la costruzione della mappa dà luogo a un rendimento fenomenico, si accompagna cioè all’esperienza in prima persona di un’immagine (visiva, acustica, tattile, enterocettiva ecc.): percezioni, dolori, ricordi, pensieri, sono tutti immagini nel senso di Damasio. La storia, tuttavia, non finisce qui. Oltre a costruire mappe degli oggetti percepiti, infatti, il cervello 77 mantiene costantemente aggiornata una mappa dello stato del corpo. Questa rappresentazione corporea interagisce con la rappresentazione dell’oggetto, dando luogo a una modificazione dello stato dell’organismo. Ne consegue che, in secondo luogo, il cervello costruisce anche una mappa di questa modificazione. Altrimenti detto, la rappresentazione sensomotoria dell’oggetto (mappa del primo ordine) determina una modificazione della rappresentazione dell’organismo (anche questa rappresentazione è una mappa del primo ordine) e tale modificazione viene a sua volta rappresentata, dando luogo a una mappa del secondo ordine della relazione tra l’organismo e l’oggetto. Damasio parla di «film nel cervello» per riferirsi alla controparte fenomenica delle rappresentazioni del primo ordine e di «senso che il film ci appartiene» in riferimento alla controparte fenomenica delle rappresentazioni di secondo ordine: «la neurobiologia della coscienza [...] affronta quantomeno due problemi: come si genera il ‘film nel cervello’ e come il cervello genera anche la sensazione [feeling] che vi è un proprietario e un osservatore di quel film»51. I due problemi sono collegati intimamente, perché, si potrebbe dire, la sensazione del film è a sua volta un film, ma è metodologicamente opportuno separarli. Parlare di primo ordine vs. secondo ordine potrebbe indurre a ritenere che Damasio stia difendendo una versione della teoria rappresentazionale di ordine superiore (cfr. supra, p. 56), la teoria secondo la quale avere coscienza comporta necessariamente una relazione con una rappresentazione di uno stato mentale, cioè una metarappresentazione: essere coscienti, ad esempio, di un suono equivale non semplicemente a percepire il suono, bensì a percepire o pensare di star percependo il suono. Che sia questa l’interpretazione corretta, tuttavia, non è affatto scontato: l’espressione «secondo ordine» in Damasio potrebbe meramente alludere al fatto che la rappresentazione in questione – quella della modificazione della rappresentazione corporea – è generata a partire dalle rappresentazioni dell’oggetto e dell’organismo52. In questo caso la coscienza nucleare non sarebbe una relazione con uno stato interno, bensì una rappre- sentazione dell’organismo-in-relazione-con l’ambiente. Il fatto che a tali rappresentazioni si accompagni «un vissuto soggettivo», cioè un certo tipo di sensazioni, si spiegherebbe secondo Damasio col fatto che è coinvolta la rappresentazione corporea. Non sembrano esservi dubbi, invece, su come interpretare l’idea del secondo «film», cioè l’idea che vi sia una rappresentazione non solo dell’oggetto ma anche dell’organismo in relazione all’oggetto: essa comporta l’esistenza di una sorta di autocoscienza primordiale, preriflessiva, congiunta alla coscienza nucleare. Non è casuale che nell’ultimo lavoro di Damasio, Self Comes to Mind, si parli quasi esclusivamente di io o sé nucleare [core self] invece che di coscienza nucleare. Il sé nucleare è l’insieme delle due rappresentazioni, dei due «film». In un atto percettivo, ma lo stesso vale, lo ripetiamo, per la percezione «interna», quella relativa a stati corporei, prendono forma nello stesso tempo, senza bisogno alcuno di pensiero o riflessione, oggetto e soggetto: nel prendere coscienza di qualcosa – nel «conoscere», ama dire un po’ ambiguamente Damasio – comincia a emergere un io: «Anche nella sua forma più esile e vaga, l’io [the self] è una presenza necessaria nella mente»53. Su questo punto, come vedremo meglio nel par. 4, la nostra posizione è diversa, in quanto per avere (semplice) coscienza d’oggetto non ci sembra necessario scomodare il senso che il film ci appartiene. Inoltre, parlare di sé nucleare per riferirsi alla rappresentazione di parti del proprio corpo è in qualche misura fuorviante. Infatti rappresentare una parte del corpo, almeno nei primi mesi di vita, non è differente dal rappresentare un oggetto esterno: non è per il fatto che l’oggetto rappresentato è una parte del proprio corpo che la natura della rappresentazione coinvolge un senso di soggettività. Questo spostamento di enfasi dalla coscienza oggettuale a quella componente soggettiva ad essa intrinseca che è il sé nucleare è ulteriormente corroborato, in Self Comes to Mind, dal fatto che Damasio sposta ancora più indietro le basi biologiche fondamentali dell’io, individuando un livello di coscienza antecedente a quella nucleare. Alcuni processi strettamente legati alla rappresentazione corporea Damasio, The Feeling of What Happens cit., p. 11 (trad. it. p. 24, modificata). Questa interpretazione trova conforto nel fatto che la terminologia «primo vs. secondo ordine» è abbandonata in Damasio, Self comes to Mind cit. La lettura della posizione di Damasio come teoria del secondo ordine è stata proposta da Block in una recensione di Self Comes to Mind (nella Sunday Review del «New York Times», 28/11/2010). Damasio, Self Comes to Mind cit., p. 170 (trad. it. p. 218, lievemente modificata). 78 79 51 52 53 costituiscono infatti ciò che Damasio chiama il «proto-io», le vere e proprie radici profonde della soggettività. Il proto-io origina dalle strutture del tronco encefalico deputate alla trasmissione e ricezione di segnali dal corpo. Un gran numero di segnali viene scambiato con continuità fra tronco e corpo. Secondo Damasio già a questo livello abbiamo effetti in prima persona: le cosiddette «sensazioni primordiali», perlopiù esperienze vaghe e indistinte di benessere/malessere. Le sensazioni primordiali sono riflessi spontanei dello stato del corpo; sono prodotte dal corpo e solo dal corpo e precedono qualsiasi interazione tra il macchinario della regolazione della vita e gli oggetti (esterni)54. Sono l’effetto di operazioni dei nuclei del tronco encefalico superiore e sono i primitivi che costituiscono ogni altra sensazione. Quando il proto-io interagisce con le rappresentazioni generate dai processi percettivi si crea l’io nucleare. Dunque anche una lucertola ha un io nucleare, perché ha un proto-io che interagisce con stimoli percettivi55. Mentre l’io nucleare, in quanto legato alla relazione con un oggetto (e alle modificazioni che esso induce sulla rappresentazione corporea), descrive una struttura dinamica, il proto-io è «una descrizione neuronale di aspetti relativamente stabili dell’organismo»56, cioè è la rappresentazione corporea invariante; l’io nucleare è una creazione dinamica e istantanea (assai limitata nel tempo) che si produce quando «il proto-io è modificato da un’interazione tra l’organismo e l’ambiente»57. Pertanto, mentre il protoio non è nient’altro che la rappresentazione corporea, l’io nucleare emerge quando il proto-io viene modificato da un’interazione con l’ambiente. Altrimenti detto, l’io nucleare corrisponde alla coscienza d’oggetto, perché solo nell’incontro con un oggetto l’io si costituisce; tuttavia già a livello di proto-io ci sono sensazioni grezze. è come di qui si produce la coscienza estesa. Detto che si tratta di un passaggio assai complesso che richiede diversi ingredienti, a cominciare dal linguaggio, accenniamo brevemente a come Damasio inquadra in termini neurobiologici tale passaggio. Nei capitoli 3 e 4 svilupperemo un’analisi approfondita, in una prospettiva principalmente psicologica, dei modi in cui emergono le diverse forme di autocoscienza. L’idea guida di Damasio è che svariate tracce biografiche vengono raggruppate insieme in modo da poter essere trattate come un singolo «oggetto». Ciascuno di questi oggetti è in grado di modificare il proto-io, allo stesso modo di un oggetto esterno, dando così luogo a una serie di io nucleari, con le proprietà tipiche a questi associate: sensazione di conoscenza, salienza dell’oggetto ecc. Costruire l’io autobiografico richiede un apparato neuronale capace di ottenere impulsi multipli di io nucleari all’interno di una finestra temporale breve e mantenendo insieme i risultati. L’io autobiografico richiede pertanto una notevole coordinazione fra tronco encefalico e corteccia, ovvero tra proto-io e rappresentazioni recuperate dalla memoria, coordinazione che invece non è necessaria per l’io nucleare. In una formula: io autobiografico = serie di io nucleari + meccanismi di coordinazione Ivi, p. 101 (trad. it. p. 133). Il nostro tronco encefalico è strutturalmente analogo a quello dei rettili. È il «pezzo» di sistema nervoso centrale che condividiamo con loro. 56 Ivi, p. 181 (trad. it. p. 231). 57 Ibid. Ovviamente i meccanismi di coordinazione non sono «capitani virtuali», omuncoli o centri di coscienza e simili; sono meccanismi «ciechi» ed automatici di organizzazione di certi processi. Il risultato della loro attività non è una «costruzione» ulteriore, interna ai meccanismi stessi, bensì si manifesta nelle strutture e processi di generazione delle immagini. I meccanismi di coordinazione sono probabilmente localizzati nel talamo, nelle aree associative (o «regioni di convergenza-divergenza») situate nelle cortecce temporali mediali e polari, nelle cortecce prefrontali mediali, nelle giunzioni parieto-temporali, nelle cortecce posteromediali e in altre regioni ancora (fig. 2.3). Riassumendo, l’idea che l’io abbia una base materiale o biologica è fondata sulla nozione di coscienza nucleare, in quanto una condizione costitutiva cruciale della coscienza nucleare è la rappresentazione corporea, cioè la rappresentazione che l’organismo ha di sé stesso (in quanto corpo). Sebbene la coscienza nucleare sia, come si è detto, una coscienza d’oggetto, ovverosia sempre rivolta a un ogget- 80 81 Pur con qualche dubbio interpretativo, dovremmo avere un’idea abbastanza chiara della nozione di coscienza nucleare e in generale di quelle che potremmo chiamare le basi materiali (o corporee) della soggettività autocosciente. A questo punto la domanda da porsi 54 55 za è in qualche modo illusorio, Damasio non pensa che la narrazione sia una finzione, proprio in quanto è anch’essa un prodotto dal cervello. Inoltre, egli accorda un ruolo funzionale molto più netto a queste «narrazioni»: tipicamente le immagini selezionate sono quelle che hanno maggior rilievo ai fini della produzione di comportamenti adattivi. Questo punto di vista è rafforzato dalla considerazione che i processi inconsci interagiscono con quelli coscienti, dai quali ultimi sono «educati» o addestrati. FIGURA 2.3. Le regioni di convergenza-divergenza. La localizzazione approssimativa delle principali fra queste regioni è indicata in figura dalle aree ombreggiate più scure: cortecce temporali mediali e polari, cortecce prefrontali mediali, giunzioni parieto-temporali, cortecce posteromediali. Fonte: A. Damasio, Self Comes to Mind, Pantheon, New York 2010. Altre teorie, oltre a quella di Damasio, esemplificano bene la strategia bottom-up nella spiegazione della soggettività58. Tuttavia ci siamo basati principalmente sulla teoria di Damasio perché essa evidenzia con particolare efficacia la tesi, difesa da molti filosofi, secondo cui è possibile avere esperienze coscienti di qualcosa in modo preintellettuale o preriflessivo. Altrimenti detto, è possibile avere rappresentazioni percettive di un certo oggetto senza avere il concetto di quell’oggetto. Un conto è avere un’esperienza, un altro è concettualizzare quell’esperienza. Si tratta della tesi secondo cui l’esperienza ha contenuto non concettuale59. Questa tesi ha un’indubbia plausibilità intuitiva se applicata ai casi, ad esempio, di un cane o di un bambino (molto) piccolo, che provano sensazioni senza farne oggetto di riflessione. Può tuttavia risultare meno credibile nel caso degli esseri umani adulti, che tipicamente possiedono i concetti corrispondenti al contenuto di una data esperienza. Ciò non toglie che, se i sostenitori del contenuto non concettuale sono nel giusto, ci sia un livello di elaborazione percettiva pre-concettuale anche negli esseri umani adulti. Con le parole di Damasio: to o contenuto specifico, nondimeno per Damasio avere coscienza d’oggetto è già avere un io (in senso materiale, biologico). Infatti la coscienza nucleare non è separabile dall’io nucleare, che, beninteso, ha ancora assai poco in comune con l’io quale è comunemente inteso. L’io nucleare è infatti un’entità che si ricrea continuamente ad ogni esperienza, cioè ogni volta che il cervello interagisce con un oggetto. La coscienza di questi io nucleari assume la forma di impulsi transitori di esperienza, rinnovati di momento in momento. La manifestazione fenomenologica, cioè l’effetto «in prima persona» degli io nucleari, ha intensità variabile ma è tipicamente assai tenue, descrivibile, più o meno, come la sensazione della presenza di un oggetto. Insomma, come Dennett anche Damasio pensa che il cervello produca un flusso continuo di rappresentazioni che emergono alla coscienza (diventando immagini) solo sporadicamente, e che il cervello operi una sorta di montaggio, nel senso che tende a costruire narrazioni coerenti con alcune immagini selezionate. Ma, a differenza di Dennett, per il quale il carattere ordinato del flusso di esperien- 58 Cfr. ad es. Metzinger, Being No One cit.; Edelman, Bright Air, Brilliant Fire cit.; cfr. anche G. Edelman e G. Tononi, A Universe of Consciousness, Basic Books, New York 2000 (trad. it. Un universo di coscienza. Come la materia diventa immaginazione, Einaudi, Torino 2000). 59 Cfr. A. Paternoster, Il filosofo e i sensi, Carocci, Roma 2007, cap. 3. Per un panorama più ampio si rinvia il lettore ai saggi contenuti in Y. Gunther, Essays on nonconcepual content, MIT Press, Cambridge (MA) 2003, in particolare quelli di Cussins e di Bermúdez. 82 83 gli individui come noi, dotati di grande memoria e di intelligenza, possono manipolare fatti logicamente [...] e produrre inferenze da questi fatti. Ma sto proponendo che la coscienza nucleare possa essere distinta dalle inferenze che facciamo riguardo ai suoi contenuti. Possiamo inferire che i pensieri nella nostra mente siano creati nella nostra prospettiva individuale; che ne siamo proprietari, che possiamo agire su di essi; che il protagonista evidente della relazione con gli oggetti è il nostro organismo. A mio giudizio, tuttavia, la coscienza nucleare precede queste inferenze: è l’evidenza stessa, il senso grezzo del nostro organismo individuale nell’atto di conoscere60. La natura preriflessiva e preconcettuale dell’esperienza, ovvero l’esistenza di un livello di coscienza nucleare, ed anzi di un livello di coscienza che precede la coscienza nucleare, suggerisce che la formazione dell’io presupponga questo tipo di esperienza preconcettuale61. Infatti, se non vi è capacità di discriminare il proprio corpo dall’ambiente, manca il principale presupposto per autopensarsi, per oggettivizzare la propria soggettività. Gli stati di coscienza nucleare sopra descritti sono strettamente legati alla percezione del proprio corpo; e si può sostenere che c’è un primordiale senso dell’io (l’io «nucleare»), che deriva dalle capacità del cervello di codificare informazioni relative nello stesso tempo al mondo esterno e al proprio corpo. Questo genere di coscienza primordiale è una condizione necessaria per lo sviluppo dell’autocoscienza propriamente detta (che richiede linguaggio e interazione sociale). Insomma è la biologia stessa che ci porta a sviluppare rudimentali forme di io. Sebbene l’esperienza in questa accezione non si accompagni a stati di (auto)coscienza riflessiva e concettuale, essa può nondimeno essere detta «cosciente» ed essere spiegata, secondo una prospettiva alla grossa riduzionistica, in un vocabolario completamente interno alle scienze della natura (ivi inclusa una psicologia scientifica). In questo senso il precursore biologico del senso dell’io è la rappresentazione corporea, rappresentazione codificata in aree dedicate del cervello. Possiamo descrivere questo precursore come un proto-io. Al di là delle differenze segnalate, e su cui torneremo ancora nel par. 4, la discussione della teoria di Damasio ci ha consentito di dare un’idea chiara di una delle tesi fondamentali che proponiamo in questo libro: l’io e la coscienza originano nella rappresentazione del mondo esterno nonché di quello viscerale interno, racchiuso nei confini del corpo. La capacità del cervello di codificare informazioni relative al corpo e all’ambiente è l’«essenza» della coscienza e la condizione necessaria per lo sviluppo dell’autocoscienza. 3.2. L’obiezione intellettualistica: si può avere coscienza senza concetti? Abbiamo così delineato una cornice teorica nella quale alcune strutture cerebrali, coinvolte principalmente nella rappresentazione corporea, realizzano un livello di coscienza necessario per la costruzione dell’autocoscienza o io in senso proprio. Prima di esaminare il passaggio dal livello di coscienza primario all’autocoscienza, dobbiamo tuttavia esaminare un’obiezione di un certo peso, che, se fondata, minerebbe alla base la nostra strategia di costruzione delle funzioni coscienti. L’obiezione attacca l’idea che si possa avere una coscienza totalmente preriflessiva, ovvero un’esperienza preconcettuale. Il riferimento classico di questa obiezione è lo slogan kantiano «le intuizioni senza concetti sono cieche», una delle affermazioni di Kant più celebrate e discusse. Il suo significato è che avere un’esperienza di un oggetto comporta necessariamente di categorizzare o riconoscere quell’oggetto; infatti il contenuto dell’esperienza ci è dato immediatamente come organizzato in determinati oggetti, proprietà e relazioni. L’idea è che questo carattere strutturato non può che derivare dall’applicazione di categorie a priori, appunto i concetti. In anni recenti questa posizione è stata ripresa, specialmente da John McDowell62, nel contesto di un dibattito tra concettualisti e anticoncettualisti riguardo al contenuto della percezione. Al contrario di quanto pensano i primi, per i secondi è possibile avere un’esperienza percettiva senza disporre dei concetti che sarebbero necessari per specificarne il contenuto. Ad esempio, è possibile per un agente vedere un libro sul tavolo di fronte a lui anche se non dispone del concetto di libro. Seguendo Kant, per McDowell l’esperienza è sia spontanea sia ricettiva, tanto attiva quanto passiva. È ricettiva in quanto è esperienza di un mondo, esistente indipendentemente da noi, che pone vincoli sul nostro modo di pensarlo e sull’esperienza medesima; ed è spontanea in quanto nell’esercizio della facoltà percettiva sono all’opera meccanismi 60 Damasio, The Feeling of What Happens cit., pp. 124-25 (trad. it. p. 155 modificata). Nell’ultima frase traduciamo con «grezzo» l’espressione «unvarnished», letteralmente «non verniciato». 61 Anche il modello fenomenico di sé di Metzinger (cfr. supra) è una rappresentazione a contenuto non concettuale. J. McDowell, Mind and World, Harvard UP, Cambridge (MA) 1994 (trad. it. Mente e mondo, Einaudi, Torino 1999). 84 85 62 di organizzazione che dipendono da concetti63. Nel paragrafo precedente abbiamo visto che per Kant il contenuto della percezione ha una forma analoga a quella di un giudizio di categorizzazione («questo è un F»), almeno nel senso che nell’esperienza percettiva un oggetto è già dato sotto un certo concetto, è categorizzato in un certo modo; non dissimilmente, McDowell sostiene che il contenuto dell’esperienza percettiva è proposizionale, è cioè un nesso di oggetti e concetti. Si deve sottolineare che l’argomento di McDowell per la natura concettuale dell’esperienza è di carattere epistemologico e completamente a priori. L’argomento, in buona misura desunto da Wilfrid Sellars, è infatti che l’esperienza può giustificare le nostre credenze soltanto se un contenuto di esperienza è confrontabile con il contenuto di un giudizio, ovvero se tra i due contenuti sussiste una sorta di isomorfismo strutturale. Se, come la tradizione empirista è incline a pensare, il contenuto dell’esperienza consistesse meramente di un insieme di sensazioni «grezze», come macchie di colore, frammenti di superfici, ombre ecc., fosse insomma un coacervo inarticolato di elementi sensoriali, non potrebbe offrire una base per la fissazione di una credenza empirica. Non possiamo giudicare che quello che abbiamo sotto gli occhi è un libro sulla mera base della sensazione di una forma colorata, anche se tale sensazione svolge un ruolo causale nella formazione dell’esperienza del libro. Sellars64 aveva notoriamente espresso questa idea accusando l’empirismo di essere compromesso con il cosiddetto mito del dato, l’idea che la conoscenza si costruisce tramite processi inferenziali a partire da sensazioni elementari che sono per noi indubitabili (perché ne abbiamo, come diceva Russell, acquaintance, conoscenza intima e immediata). Altrimenti detto, per Sellars non ha senso distinguere tra ciò che è dato alla mente e ciò che la mente vi aggiunge, un’affermazione che certo sarebbe stata congeniale a Kant65. L’esperienza non è un macchinario che alimenta la ragione «dall’esterno», fornendole ingredienti genuini per farle cucinare giudizi impeccabili, bensì risponde essa stessa al tribunale della ragione. L’uso che McDowell fa della critica al mito del dato va tuttavia in una direzione diversa dagli scopi di Sellars: mentre l’intento di quest’ultimo era quello di screditare il fondazionalismo epistemologico, ovverosia la tesi secondo cui l’oggettività della conoscenza poggia sull’infallibilità della pura esperienza sensibile, McDowell si serve dell’argomentazione epistemologica per dedurre conseguenze metafisiche, relative alla natura dell’esperienza, e in qualche misura anche psicologiche, relative alla struttura e funzione del sistema percettivo. La conclusione dell’argomento ha un’indubbia plausibilità intuitiva: se aprite gli occhi quello che vedete immediatamente sono libri, penne, tavoli, non macchie di colore o frammenti di superfici; e nel vedere tali oggetti li riconoscete come gli oggetti che sono. Vedere un libro come libro implica, anzi, non è altro che applicare il concetto di libro a ciò che ho sotto gli occhi. Nondimeno tale conclusione si scontra con alcuni dati di psicologia empirica. Degno di nota è il fatto che questi dati sono comuni a paradigmi di ricerca differenti e anche per questo hanno una certa aria di solidità. Secondo la psicologia della Gestalt66 e la percettologia fenomenologica ad essa ispirata67, percezione e pensiero sono due sistemi ben distinti – in larga misura separati – che funzionano sulla base di principi diversi; in particolare, come evidenziato dai numerosi casi di illusione percettiva, il contenuto fenomenico di un atto percettivo, il cosiddetto percetto, è prodotto dal sistema percettivo in modo del tutto indipendente dai processi di pensiero, non inferenzialmente; né le nostre conoscenze o aspettative sono in grado di modificare ciò che percepiamo. Si prendano ad esempio le ben note illusioni di Ponzo e di Müller-Lyer (vedi fig. 2.4): sebbene siamo perfettamente consapevoli del fatto che i segmenti interni alle frecce e le traversine hanno la medesima lunghezza, non possiamo impedirci di vederli come aventi lunghezza differente; la percezione è impenetrabile alle nostre credenze68. Ivi, p. 41. W. Sellars, Empiricism and the Philosophy of Mind (ed. or. 1956), a cura di R. Brandom, Harvard UP, Cambridge (MA) 1997 (trad. it. Empirismo e filosofia della mente, Einaudi, Torino 2004). 65 R. Rorty, Introduction to Sellars, Empiricism and the Philosophy of Mind cit., p. X. 66 Cfr. per es. W. Köhler, Gestalt Psychology: An Introduction to New Concepts in Modern Psychology, Liveright Publishing Corporation, New York 1947 (trad. it. La Psicologia della Gestalt, Feltrinelli, Milano 1967). 67 Cfr. per es. G. Kanizsa, Grammatica del vedere, il Mulino, Bologna 1980; P. Bozzi, Fenomenologia sperimentale, il Mulino, Bologna 1989; M. Massironi, Fenomenologia della percezione visiva, il Mulino, Bologna 1998. 68 Questo ancora non dimostra che l’esperienza percettiva non sfrutta concetti; questo passo ulteriore può tuttavia essere fatto sotto l’ulteriore assunto, che condividiamo con gli autori citati e con i computazionalisti (vedi poco sotto), secondo cui le «conoscenze» o principi usati dal sistema percettivo non hanno natura concettuale, essendo inconsci e innatamente built-in, «cablati» nel sistema. 86 87 63 64 FIGURA 2.4. Le illusioni di Ponzo (a sinistra) e di Müller-Lyer (a destra). A conclusioni analoghe è pervenuta la teoria computazionale della percezione visiva, secondo la quale il sistema percettivo è in grado di costruire in modo puramente bottom-up, cioè senza il concorso di aspettative e conoscenze esplicite, la rappresentazione della forma geometrica di un oggetto. Altrimenti detto, siamo in grado di vedere un oggetto tridimensionale, senza doverlo categorizzare come questo o quell’oggetto, sulla sola base di meccanismi «ciechi» e di principi «cablati» nei circuiti percettivi (tesi della modularità della visione primaria)69. Nella nostra visione metafilosofica l’esistenza di un conflitto tra i dati di psicologia empirica e l’argomento a priori costruito «in poltrona» dovrebbe quantomeno far riflettere sulla cogenza dell’argomento; e ci azzardiamo a ipotizzare che il problema dell’argomento Sellars-McDowell risieda nella vaghezza della nozione di confrontabilità tra contenuto dell’esperienza e contenuto di credenza di cui l’argomento fa uso, sebbene si debba ammettere che la nostra conoscenza empirica della relazione tra processi percettivi e processi di categorizzazione concettuale sia pressoché nulla: non sappiamo se e come venga realizzato un confronto del genere. Peraltro, se è vero, come sostiene José Luis Bermúdez, che «il pensiero non concettuale deve essere strutturato in modo tale da consentire il riconoscimento di somiglianze parziali e forme primitive di inferenza»70, la confron- tabilità tra contenuti di esperienza e pensiero potrebbe essere garantita anche nel caso del contenuto non concettuale, disarmando l’uso dell’argomento di Sellars a favore del concettualismo. Si deve comunque sottolineare che la tesi della natura non concettuale dell’esperienza percettiva può essere difesa, oltre che sulla base di dati di psicologia empirica, da alcuni argomenti di natura più strettamente filosofica. Ci limitiamo a menzionarne due, rinviando a studi specifici per un quadro esauriente dei numerosi argomenti per la natura non concettuale del contenuto percettivo71. Il primo argomento è incentrato su una considerazione semplice ma assolutamente cruciale: se per percepire un oggetto fosse necessario disporre del concetto corrispondente, allora gli animali e i bambini di pochi mesi non sarebbero in grado di percepire alcun oggetto, una conclusione intuitivamente inaccettabile e smentita da diversi esperimenti72. Per sgombrare il campo da possibili equivoci riguardanti il senso preciso da attribuire alle espressioni «percezione» e «concetto», è opportuno precisare che la conclusione dell’argomento vale sotto le ipotesi che a) animali e bambini piccoli abbiano stati mentali dotati di contenuto rappresentazionale e b) possedere un concetto implichi afferrarne il ruolo nelle inferenze (= essere in grado di sfruttare quel concetto in processi di pensiero). Chi volesse negare la cogenza dell’argomento dovrebbe pertanto negare a o b. Il secondo argomento, originariamente dovuto a Gareth Evans73, deduce il carattere non concettuale dell’esperienza dalla differenza di risoluzione – o «finezza di grana» – tra il contenuto percettivo e il contenuto concettuale: il primo presenta il mondo con una ricchezza di dettagli e sfumature che vanno smarriti nel secondo. Come sostiene ad esempio Fred Dretske74, la concettualizzazione è proprio il processo di fare astrazione da molti dettagli per focalizzarsi su ciò 69 L’unica influenza top-down sulla percezione è data dall’attenzione (cfr. Z. Pylyshyn, Seeing and Visualizing, MIT Press, Cambridge MA 2003). Per un’illustrazione della teoria computazionale della visione il lettore può consultare A. Paternoster, La percezione, in Marraffa e Paternoster (a cura di), Scienze cognitive cit., cap. 2; oppure il cap. 2 di Idd., Persone, menti, cervelli cit. 70 J.L. Bermúdez, The Paradox of Self-Consciousness, MIT Press, Cambridge (MA) 1998, p. 93. 71 Per una rassegna: Paternoster, Il filosofo e i sensi cit., cap. 3; A. Coliva, In difesa del contenuto non concettuale della percezione, in P. Parrini (a cura di), Conoscenza e cognizione, Guerini, Milano 2002, pp. 147-61. Cfr. anche C. Calabi, Filosofia della percezione, Laterza, Roma-Bari 2009, cap. 2. 72 Cfr. per es. E. Spelke, Principles of object perception, in «Cognition», 14, 1990, pp. 29-56; R. Baillargeon, Object permanence in 3.5 and 4.5 month-old infants, in «Developmental Psychology», 23, 1987, pp. 655-64. 73 G. Evans, The Varieties of Reference, Clarendon Press, Oxford 1982, cap. 6. 74 F. Dretske, Knowledge and the Flow of Information, Blackwell, Oxford 1981; Id., Seeing, believing and knowing, in D. Osherson et al. (a cura di), Visual Cognition and Action, MIT Press, Cambridge (MA) 1990, pp. 129-48. 88 89 che è epistemologicamente rilevante: concettualizzare è applicare delle soglie al continuum informativo veicolato dall’esperienza. I concettualisti hanno grandi difficoltà a replicare a questi due argomenti. Essi infatti tendono a condividere con i loro avversari la convinzione che il possesso di un concetto implica almeno la capacità di sfruttare quel concetto nelle inferenze (secondo McDowell avere concetti implica altresì possedere capacità linguistiche); ma questo assunto è incompatibile con l’unica strategia di confutazione della posizione anticoncettualista che appare in linea di principio percorribile: sostenere che ci sono diversi tipi di concetto e che quelli sfruttati nell’esperienza percettiva sono strutture «elementari» parzialmente destituite di quelle proprietà di generalità e astrazione che caratterizzano la nozione standard di concetto75. Altrimenti detto: o si pensa che i concetti siano strutture mentali pre-razionali di carattere analogico, cosicché anche l’esperienza può avere un contenuto concettuale, oppure si ritiene che i concetti richiedano capacità inferenziali, linguaggio, razionalità, e allora il prezzo da pagare per difendere la tesi della natura concettuale del contenuto di esperienza è che molti esseri viventi, inclusi i bambini piccoli, non hanno esperienze. Ma non si possono avere tutte e due le cose. In breve, la posizione concettualista esprime una forma di intellettualismo riguardo alle capacità percettive che appare del tutto implausibile almeno nel caso dei bambini piccoli e degli animali. Certo, la mente è molto precocemente «spontanea» nel senso che, ad eccezione della primissima fase del processo percettivo, che comprende la cattura di informazione da parte dei recettori e la trasmissione di segnali alle aree sensoriali della corteccia, la percezione è attiva: vi è elaborazione dell’informazione percettiva a uno stadio precoce del processo percettivo. Ma nulla in questa spontaneità mette in gioco quegli aspetti di generalità e integrazione inferenziale (o persino, secondo alcuni, normatività semantica), che tutti, concettualisti e non concettualisti, associano al possesso di un concetto. Se possiamo essere d’accordo con McDowell sul fatto che la percezione sfrutta dei meccanismi di organizzazione, cosicché i contenuti della nostra esperienza si presentano come già strutturati, non siamo d’accordo nel ritenere che i principi di organizzazione consistano fondamentalmente nell’applicazione di concetti o categorie. La percezione sfrutta meccanismi suoi propri, indipendenti dal pensiero, come è stato evidenziato in psicologia empirica. Il fatto che l’esperienza si presenti come già organizzata non implica quindi che essa sia anche già concettualizzata. Potremmo dire, in una terminologia kantiana, che nella percezione vi è esercizio di spontaneità anche se non vi è sfruttamento di concetti: non è obbligatorio caratterizzare la spontaneità in termini di applicazione di categorie. Il sistema percettivo «si fabbrica da sé» i propri primitivi (ad esempio, le forme degli oggetti) senza fare ricorso a conoscenza «proposizionale» disponibile in modo esplicito ai soggetti. Se, come speriamo, il lettore è convinto da queste considerazioni, possiamo concludere che l’esperienza percettiva risulta avere contenuto non concettuale, dunque che si può essere coscienti – nel senso della semplice coscienza d’oggetto – in modo preriflessivo. Certo, l’esperienza ordinaria di un essere umano adulto si presenta in molti casi come un giudizio – non riusciamo bene a distinguere tra vedere una mela e credere che quella sia una mela; nondimeno, dal punto di vista fenomenologico, c’è un livello di esperienza della mela che ci accomuna agli animali e ai bambini di pochi mesi. Il punto è particolarmente importante, dal punto di vista di una teoria della soggettività autocosciente, perché l’esercizio di forme superiori di coscienza, e specificamente dell’autocoscienza, poggia su forme «inferiori» di coscienza che non richiedono soggettività cosciente o più in generale pensiero concettuale. Ma c’è ancora un problema. Dennett, che pure «gioca» nel nostro stesso campo della filosofia innervata dalla scienza, avversa l’idea di un’esperienza preriflessiva, sulla base dei dati empirici tratti dai cosiddetti esperimenti sulle «cecità da disattenzione» e «cecità al cambiamento»76, nei quali si evidenzia come, se impegnati in un compito che ne assorbe le risorse attentive, i soggetti non sembrano registrare percettivamente – perlomeno non in modo consapevole – la presenza di stimoli anche particolarmente salienti. Celebre l’esempio del gorilla che fa irruzione durante una partita di basket senza essere visto dai soggetti impegnati a contare i passaggi eseguiti da una delle due squadre!77 75 Nel caso dell’argomento degli animali e degli infanti, il concettualista ha ancora l’opzione di negare il sopracitato assunto a, ma questa mossa viene comprensibilmente perseguita con molta riluttanza, perché i dati sperimentali militano a favore dell’assunto in questione. 76 Cfr. per es. D.C. Dennett, Seeing is believing, or is it?, in K. Akins (a cura di), Perception, Oxford UP, Oxford 1996 pp. 158-72. 77 D.J. Simons e C.F. Chabris, Gorillas in our midst: Sustained inattentional blindness for dynamic events, in «Perception», 28, 1999, pp. 1059-74. 90 91 Come si fa, osserva Dennett, a determinare se abbiamo avuto un’esperienza e quale esperienza se non crediamo di averla avuta?78 Se supponiamo di poter avere esperienze senza credere di averle avute (perché le abbiamo dimenticate o perché non vi abbiamo prestato sufficiente attenzione), come facciamo a discriminare il caso dell’esperienza senza credenza dal caso in cui non abbiamo avuto alcuna esperienza? L’obiezione è spinosa. Vediamo come si potrebbe cercare di sfuggire all’argomento di stile verificazionista di Dennett. Secondo Dretske79 la cecità al cambiamento è un deficit di conoscenza o di pensiero, non di visione: è un caso in cui vediamo qualcosa senza notarlo. Dunque possiamo avere esperienze visive (coscienti) autentiche anche quando crediamo e riferiamo di non vedere. Si consideri la familiare circostanza in cui non troviamo un oggetto, per esempio un mazzo di chiavi80, e dopo un po’ ci rendiamo conto che l’avevamo sotto gli occhi, che era proprio lì dove guardavamo, ma non l’avevamo visto – così verosimilmente ci esprimeremmo. Per Dretske, invece, l’avevamo visto, ma questa esperienza visiva è come svanita senza dare luogo a uno stato epistemico, senza diventare una credenza. Saremmo quindi coscienti di qualcosa senza sapere di esserlo. La difficoltà della tesi di Dretske è che non sembra esserci alcun rendimento fenomenico nella nostra «visione» del mazzo di chiavi, e ciò ci induce ad affermare che non ne abbiamo affatto avuto coscienza. Si noti che il punto in discussione non è l’essere coscienti di avere avuto un’esperienza – siamo del tutto d’accordo con questo brillante filosofo statunitense nel sostenere che avere coscienza di qualcosa non richiede di avere uno stato mentale di secondo ordine che ha per oggetto tale stato di coscienza –; la questione è come giustificare la tesi secondo cui siamo coscienti del mazzo di chiavi in assenza apparente di rendimento fenomenico. Secondo Dretske, a dispetto delle apparenze tale rendimento fenomenico c’è. La nostra inclinazione a negarlo è dovuta al fatto che l’attenzione è completamente allocata altrove. Il caso in discussione sarebbe cioè assimilabile a quelli che Ned Block qualifica come esempi di coscienza fenomenica senza coscienza d’accesso, come quando ci accorgiamo improvvisamente di un rumore al quale prima non facevamo caso e quindi, almeno in un certo senso (epistemico, direbbe Dretske), non sentivamo81. Tuttavia, quando giungiamo a percepire distintamente il rumore, prendendone piena coscienza, ci rendiamo conto che lo sentivamo già prima. A rigore, non si tratta esattamente dello stesso caso, perché nell’esempio di Block ma non in quello del mazzo di chiavi disponiamo di un resoconto del soggetto; la differenza tuttavia è sottile, imputabile a spostamenti molto piccoli del focus dell’attenzione. Noi non stiamo né con Dretske né con Dennett: se, da un lato, parlare di coscienza nel caso in esame, cioè in manifesta assenza di rendimento fenomenico, ci pare assai azzardato, dall’altro – ed è questo ciò che conta ai fini della tesi del carattere preriflessivo della coscienza – si deve sottolineare come la tesi dennettiana che fa collassare la coscienza sulla credenza non abbia validità generale. Come mostra il celebre esperimento di Sperling82, vi sono infatti casi in cui siamo in grado di vedere stimoli a cui non rivolgiamo l’attenzione, dunque di esserne preriflessivamente coscienti. In questo esperimento una matrice di dodici lettere (4x3) veniva mostrata ai soggetti per cinquanta millisecondi e successivamente veniva loro richiesto di riferire quali lettere avevano visto. I soggetti erano mediamente in grado di riferire correttamente quattro lettere, pur affermando di averne viste assai di più – tutte o quasi. Se tuttavia, prima di mostrare la matrice, veniva detto ai soggetti di concentrarsi su una sola delle sue righe (quale riga veniva determinato da un suono, alto, basso o intermedio), i soggetti erano in grado di riferire correttamente tutte le lettere della riga in questione. La spiegazione di questi risultati è che i dettagli della scena vengono memorizzati in una memoria di lavoro (il «buffer visivo») che ha tuttavia tempi di decadenza molto rapidi. Pertanto, in mancanza di focalizzazione dell’attenzione, queste informazioni non entrano in altri processi cognitivi e ce ne dimentichiamo. Ma non vi è dubbio, come dimostrano le testimonianze dei soggetti, che i dettagli in questione siano stati esperiti. Dennett, Sweet Dreams cit., p. 41. 79 F. Dretske, What change blindness teaches about consciousness, in «Philosophical Perspectives», 21, 2007, pp. 215-30. 80 L’esempio è ripreso da Calabi, Filosofia della percezione cit., p. 85. Block, On a confusion about a function of consciousness cit., p. 234. G. Sperling, The information that is available in brief visual presentations, in «Psychological Monographs», 74(11), 1960, pp. 1-29. Per una discussione recente si veda M. Tye, Consciousness Revisited, MIT Press, Cambridge MA 2009, cap. 7. La nostra posizione è simile a quella di Tye. 92 93 81 78 82 La morale che si può trarre da questo esperimento è che è possibile vedere oggetti, esserne coscienti, anche senza prestarvi attenzione. Questo non ci autorizza, evidentemente, ad assimilare tutti i casi all’esperimento di Sperling. Torniamo all’esempio del mazzo di chiavi. Quando, pur avendolo sotto il naso, non lo «vediamo», nondimeno abbiamo, in un certo senso, un’esperienza visiva di quell’oggetto: poiché l’attenzione non è focalizzata nel punto «giusto», tutto ciò che vediamo sono certe superfici, ombre e sfumature di colore che, pur occupando, per così dire, esattamente il posto del mazzo di chiavi, non diventano un mazzo di chiavi per noi, non lo riconosciamo come tale. Non ci spingiamo a dire, come fa Dretske, che siamo coscienti del mazzo di chiavi, ma, come abbiamo visto, è possibile allestire condizioni sperimentali nelle quali il soggetto riesce ad accedere a queste informazioni, evidenziando il fatto che, dopotutto, ne era cosciente: non si può quindi affermare che è vero in generale che la coscienza richiede l’attenzione. Né, tantomeno, che è necessario riconoscere un oggetto per esserne coscienti: possiamo trovarci di fronte a oggetti sconosciuti, di cui siamo visivamente del tutto coscienti, senza riconoscerli come questo o quell’oggetto. E si potrebbe anche concedere, come fa ad esempio Calabi83, che per avere un’esperienza visiva (cosciente) di un oggetto, ci vuole un po’ di attenzione. Infatti ciò ancora non richiederebbe alcuna capacità riflessiva: non c’è bisogno di concetti per vedere un oggetto perché non bisogna pensare all’attenzione come a una facoltà cognitiva sofisticata; anche l’animale non umano e il bambino piccolo sono in grado di focalizzare l’attenzione su uno stimolo. Pertanto, per difendere la tesi del carattere non concettuale della coscienza, non c’è bisogno di seguire Dretske fino in fondo84, abusando oltre misura del senso comune. In conclusione, riteniamo che l’esame degli argomenti e dei dati di cui disponiamo accrediti l’affermazione secondo cui esiste una coscienza preriflessiva, ovvero un livello di esperienza con contenuto non concettuale. Certo, vi sono dei casi dubbi, nei quali non sappiamo bene se attribuire coscienza o meno. Questo, d’altra parte, non è sorprendente, perché la coscienza non è una questione tutto/niente. Quando il focus dell’attenzione non è rivolto all’oggetto presunto di coscienza, il rendimento fenomenico tende a svanire. Questo però – riteniamo di aver mostrato – non basta per confutare la tesi del carattere preriflessivo della coscienza percettiva. Ancora una volta, ricordiamo che negare questa tesi equivale a negare che i bambini o gli animali abbiano esperienze coscienti, ad esempio, provino dolore. 4. Si può essere coscienti senza essere (preriflessivamente) autocoscienti? Abbiamo visto nel par. 3 come in Damasio uno stato di coscienza nucleare sia sistematicamente accompagnato da un sé nucleare. Sebbene Damasio non sia del tutto esplicito al riguardo, è verosimile supporre che questo sé compaia a uno stadio molto precoce e che esso sia, come il proto-sé, una funzione che caratterizza anche molti animali non umani. La proposta di Damasio sembra così collocarsi nell’ambito di quelle posizioni che difendono la tesi secondo cui essere coscienti implica essere preriflessivamente autocoscienti, in quanto non si dà l’una condizione senza l’altra. Recentemente la nozione di autocoscienza preriflessiva è stata avanzata tanto da autori di orientamento fenomenologico85 quanto da autori di area analitica86. In questo paragrafo discuteremo la cogenza di tale nozione e spiegheremo perché, a dispetto di alcuni vantaggi teorici che cercheremo di ottenere per altra via, la nozione di autocoscienza preriflessiva debba in definitiva essere respinta, almeno se usata come un requisito necessario della coscienza, come ritengono questi autori. Calabi, Filosofia della percezione cit., p. 122. Né a sostenere, come fa Block, che la coscienza percettiva è sistematicamente più ricca dell’accesso cognitivo, nel senso che quando si osserva una scena siamo coscienti di molti più dettagli di quanti siamo in grado di riferire. È questo il cosiddetto overflow argument, su cui cfr. N. Block, Perceptual consciousness overflows cognitive access, in «Trends in Cognitive Sciences», 15(12), 2011, pp. 567-75; e anche N. Block, Consciousness, accessibility, and the mesh between psychology and neuroscience, in «Behavioral and Brain Sciences», 30(5-6), 2007, pp. 481-98. 85 S. Gallagher e D. Zahavi, The Phenomenological Mind, Routledge, London 2008 (trad. it. La mente fenomenologica, Cortina, Milano 2010); Idd., Phenomenological approaches to self-consciousness, in E.N. Zalta (a cura di), The Stanford Encyclopedia of Philosophy, URL = <http://plato.stanford.edu/archives/win2010/ entries/self-consciousness-phenomenological/>. 86 S. Hurley, Consciousness in Action, Harvard UP, Cambridge (MA) 1998; Bermúdez, The Paradox of Self-Consciousness cit.; cfr. anche Id., Nonconceptual Self-Consciousness and Cognitive Science, in «Synthese», 129, 2001, pp. 129-49. 94 95 83 84 Cominciamo col caratterizzare la nozione. L’idea guida è che agli stati di coscienza d’oggetto non concettuali è sistematicamente associata una caratteristica, elusiva ma ben presente, che potremmo qualificare come un senso di proprietà dell’esperienza. Questo senso di appartenenza dell’esperienza al soggetto, variamente connotato come «mietà» (mineness o myness) o «proprietà» (ownership), non va tuttavia caratterizzato come una relazione tra il soggetto e l’esperienza stessa: la caratteristica in questione è già dentro l’esperienza, non qualcosa che si aggiunge. La seguente citazione da Gallagher e Zahavi coglie efficacemente il punto che si vuole mettere in evidenza: l’autocoscienza debole implicata dalla coscienza fenomenica non è strutturata intenzionalmente: non coinvolge una relazione soggetto-oggetto. Il punto non è tanto che l’autocoscienza differisce dalla coscienza oggettuale ordinaria, quanto piuttosto che non è affatto una coscienza oggettuale87. Dunque per Gallagher e Zahavi una forma minima di autocoscienza, lungi dall’essere uno stato mentale di secondo ordine che ha per oggetto l’esperienza (= lo stato di primo ordine), è una caratteristica strutturale dell’esperienza stessa; e non si tratta di una «autocoscienza tematica, frutto di attenzione [...]; al contrario è tacita, [...] completamente non osservativa; e non è neppure oggettivante, cioè non trasforma la mia esperienza in un oggetto percepito o osservato»88. Poiché l’autocoscienza preriflessiva è «agganciata» alla semplice coscienza d’oggetto, almeno in linea di principio essa dovrebbe caratterizzare anche gli stati di coscienza di bambini di pochi mesi e di animali, e questo sarebbe chiaramente inaccettabile se pensassimo all’autocoscienza come a uno stato di secondo ordine, una metarappresentazione (cfr. infra, cap. 3). Proprio per questa ragione, Gallagher e Zahavi sottolineano come l’autocoscienza preriflessiva sia intrinseca allo stato di esperienza di primo ordine, sia cioè un modo o proprietà di tale esperienza e non uno stato ulteriore che si aggiunge allo stato di primo ordine: nella medesima relazione oggettuale di primo livello che sussiste tra un organismo e uno stimolo percettivo è presente un elemento di soggettività «in prima persona», che rende quell’esperienza l’esperienza di quel soggetto (nel senso che appartiene al soggetto), senza renderla ancora l’esperienza che il soggetto 87 88 Gallagher e Zahavi, The Phenomenological Mind cit., pp. 84-85. Ivi, p. 70. 96 ha di sé stesso (che sarebbe una oggettivazione del soggetto) né tantomeno un’esperienza dell’esperienza. Così concepita, la nozione di autocoscienza preriflessiva presenta due vantaggi di rilievo: il primo è che dà conto dell’aspetto fenomenico «in prima persona» che anche noi riteniamo di dover accordare alla coscienza nucleare d’oggetto: la fenomenicità dell’esperienza consisterebbe esattamente in questo carattere intrinseco di soggettività, ovvero di, se ci passate il gioco di parole, riflessività preriflessiva. Il secondo vantaggio è che rende possibile una spiegazione bottom-up dell’autocoscienza: l’autocoscienza propriamente detta, concettuale e più specificamente metarappresentazionale, si costruisce a partire da questo suo precursore preriflessivo o non concettuale. Sembrerebbe quindi che, sotto più di un aspetto, la nozione di autocoscienza preriflessiva vada a nozze con la nostra prospettiva. Ci consentirebbe di ottenere quello che volevamo invocando esclusivamente stati preconcettuali e di primo ordine. Ma c’è un rovescio della medaglia. Il guaio è che non c’è nessuna prova empirica dell’esistenza di questo tipo di autocoscienza. Studi di etologia cognitiva e di psicologia dello sviluppo hanno infatti evidenziato che tanto gli animali quanto i bambini di età inferiore a un anno sono coscienti soltanto nel senso di essere capaci di formare rappresentazioni di oggetti e piani operazionali di azione con un rendimento fenomenico di intensità variabile da caso a caso; e questa è la coscienza nucleare o primaria allo stato puro: coscienza d’oggetto. Nell’interagire con le cose e le persone, non sono coscienti di se stessi se non come oggetti tra gli altri 89. Quali sono, dunque, gli argomenti evocati a sostegno dell’autocoscienza preriflessiva precoce? Gallagher e Zahavi da un lato si richiamano alla tradizione fenomenologica, specificamente a Husserl, Sartre e Heidegger90, dall’altro citano l’interpretazione di due tipici casi di coscienza senza at89 In quest’ottica, l’attribuzione al bambino di età inferiore a un anno di forme di autocoscienza è effetto di una spontanea proiezione, un errore adultocentrico estremamente comune che ha inficiato molti scritti di psicologia dello sviluppo. Cfr. per es. J.D. Lichtenberg, Psychoanalysis and Infant Research, The Analytic Press, Hillsdale (NJ) 1983; P. Battistelli, La rappresentazione della soggettività: origini e sviluppo, Angeli, Milano 1992, in particolare le pp. 221-22; G. Jervis, Il «sé» e la nascita della coscienza introspettiva, in Id., Il mito dell’interiorità cit., in particolare le pp. 67-85. 90 Per esempio, Sartre scrive che la «conscience de soi» è «le seul mode d’existence qui soit possible pour une conscience de quelque chose» (L’être et le néant, Gallimard, Paris 1943, p. 20, corsivo nell’originale). 97 tenzione, il caso dell’autista distratto e quello del rumore di cui ci accorgiamo solo dopo un po’, quando «stacchiamo» l’attenzione dal compito in cui siamo assorti. Questi esempi sono intesi avvalorare la loro tesi in quanto, prendendo ad esempio il caso dell’autista distratto, a dispetto dell’impressione di aver percorso molti chilometri senza accorgersi di diversi dettagli strettamente pertinenti per il compito in questione (automobili sorpassate, cartelli, svincoli ecc.), l’autista ne è in una certa misura e in un certo qual modo cosciente. Essi sono infatti disponibili, sotto certe condizioni, all’elaborazione cosciente, senza che l’esperienza di tali stimoli divenga a sua volta oggetto di riflessione – uno stato del secondo ordine91. Che le cose stiano così è dimostrato dal fatto che se chiedessero all’autista che cosa ha appena visto in vari momenti del viaggio, egli sarebbe in grado di dare delle risposte, di riferire dei dettagli almeno sommari. Sembra chiaro, tuttavia, che questi esempi avvalorano soltanto l’esistenza di una coscienza d’oggetto, non di una componente autocosciente che l’accompagna92. La presenza dell’elemento autocosciente è assunta e non dimostrata. D’altra parte il frequente riferimento alla fenomenologia husserliana introduce una evidente piega trascendentalista nell’argomentazione, poiché tipicamente in questo autore il nesso tra coscienza e autocoscienza è considerato autoevidente e necessario, nel solco dell’intuizione kantiana dell’io penso (cfr. supra, par. 1). Così, nel complesso, è difficile sottrarsi all’impressione di essere ancora alla prese con un (cripto)trascendentalismo, se non, persino, di star correndo il rischio di scivolare in una deriva idealistica che fonda l’intera attività mentale su una «ipseità» intesa come dato primario93 – non a caso Gallagher e Zahavi parlano spesso, sulla scorta degli autori di riferimento della tradizione fenomenologica, di «datità immediata» dell’esperienza. Detto questo, non tutto è da buttar via nell’idea di autocoscienza preriflessiva. Come vedremo, non è tanto la nozione in quanto tale a essere scorretta, quanto il considerarla un requisito necessario per la coscienza. Si tratta di evitare due errori interdipendenti: i) trattare l’autocoscienza preriflessiva come una sorta di dato a priori; ii) retrodatare la presenza dell’autocoscienza preriflessiva a stadi molto precoci sul piano ontogenetico e filogenetico. Certamente esistono forme di rappresentazione che, nel loro insieme, costituiscono un senso primordiale del sé corporeo, ovvero qualcosa che si potrebbe chiamare «autocoscienza preriflessiva», se proprio vogliamo usare (un po’ enfaticamente) questa espressione: il senso di proprietà di parti del proprio corpo e del corpo nella sua totalità (ownership o mineness) e il senso di controllo o padronanza dei propri movimenti e azioni (agency, agentività); ma queste forme di rappresentazione si sviluppano gradualmente a partire dai 12 mesi94. Dunque l’autocoscienza preriflessiva, intesa come il possesso di questo genere di «sensi parziali» del sé corporeo, si sviluppa gradualmente ma (molto) più tardi della semplice coscienza d’oggetto. Essa richiede il consolidamento di certi schemi rappresentazionali i cui livelli fondamentali consistono di processi sensomotori. Lo sviluppo di questi schemi corporei e il correlato riconoscimento dell’esistenza di un precursore preriflessivo dell’autocoscienza sono sufficienti a salvaguardare la prospettiva bottom-up e gradualista che informa la nostra proposta. Quanto al carattere fenomenico (come si suol dire un po’ impropriamente, «in prima persona») della coscienza d’oggetto, abbiamo visto nel primo paragrafo che allo stato attuale della ricerca empirica non disponiamo di una spiegazione. Abbiamo alcuni indicatori di rendimento fenomenico, ad esempio, la disponibilità globale (cfr. supra il modello di BaarsDehaene), da tarare con la considerazione che la nozione stessa di 91 Su una linea non dissimile Dennett (Consciousness Explained cit., p. 158) li considera come esempi di «coscienza che rotola», con rapida perdita di memoria. 92 L’esempio dell’autista distratto era stato introdotto e interpretato da David Armstrong (A Materialist Theory of Mind, Routledge, London 1968) come una prova in favore delle teorie rappresentazionali della coscienza di ordine superiore, secondo le quali la coscienza richiede metarappresentazione (cfr. supra, par. 1). 93 Si consideri, ad esempio, questo passo in cui G. Stanghellini introduce la nozione di coscienza di sé preriflessiva: «Questa dimensione della coscienza di sé primordiale è detta ‘ipseità’. [...] Senza ipseità nessun Sé è possibile. [...] L’ipseità [...] è la condizione di possibilità di ogni incontro intenzionale con l’ambiente...» (Coscienza (2), in Psiche. Dizionario storico di psicologia, psichiatria, psicoanalisi, neuroscienze, Einaudi, Torino 2006, p. 273). Cfr. infra, cap. 3. Alcuni comportamenti di bambini di pochi mesi sono stati interpretati come manifestazione di un senso primordiale di agentività: ci riferiamo alle reazioni di contentezza manifestate dai piccoli a cui sono state legate le gambe a un mobile, in modo tale che il movimento della gamba provoca il movimento del gioco (C.K. Rovee e D.T. Rovee, Conjugate reinforcement of infant exploratory behavior, in «Journal of Experimental Child Psychology», 8, 1969, pp. 33-39). Insomma i piccoli «sperimenterebbero» la propria responsabilità causale. Non è chiarissimo che cosa esattamente prova l’esperimento, ma non ci sembra che si possa parlare di un vero e proprio senso di agency, e non è questo quello che si proponevano di dimostrare Rovee e Rovee, che erano interessate a testare capacità di memoria. 98 99 94 rendimento fenomenico è vaga. D’altra parte, non si trova in una posizione migliore chi fa appello a una sedicente spiegazione di carattere cripto-trascendentalista. Il presunto vantaggio conferito dall’idea che l’autocoscienza preriflessiva spiega l’aspetto fenomenico della coscienza svanisce se si pone attenzione al fatto che non c’è nessuna spiegazione empirica chiara di che cosa costituisce la proverbiale datità dell’esperienza. Né sembra ragionevole sostenere che del carattere fenomenico dell’esperienza cosciente si può rendere conto con una spiegazione completamente a priori, di natura concettuale. Siamo invece in sintonia con gli autori che teorizzano un’autocoscienza preriflessiva quando accordano un ruolo molto importante alla rappresentazione corporea nella graduale formazione del senso dell’io. Per chiarire questo punto sarà utile un sommario confronto con la ricerca di José Luis Bermúdez, un autore che, pur simpatizzando con la nozione di coscienza preriflessiva, è sotto diversi aspetti più vicino al nostro approccio e, sembrerebbe, meno legato alla prospettiva trascendentalista di derivazione kantiana. Bermúdez difende la nozione di autocoscienza preriflessiva combinando un argomento a priori con una cospicua mole di dati empirici. L’argomento a priori, molto sinteticamente, è il seguente. Posto che l’autocoscienza consiste nella capacità di nutrire io-pensieri (pensieri esprimibili nella forma «io P», dove P è un predicato qualsiasi), questa capacità non può richiedere il concetto di io, perché, in caso contrario, si cadrebbe in una circolarità esplicativa. Infatti possedere il concetto di io richiede la padronanza del pronome di prima persona, e questa a sua volta richiede la capacità di formare io-pensieri. Dunque ci deve essere un’autocoscienza non concettuale: con le parole dell’autore, l’idea guida è che «tanto per spiegare che cos’è la padronanza del pronome di prima persona che per dar conto del modo in cui tale padronanza può essere acquisita nel normale corso dello sviluppo umano, possiamo fare appello a pensieri in prima persona non concettuali»95. A questo punto entrano in gioco i dati empirici, volti a far vedere che ci sono, appunto, contenuti non concettuali in prima persona, ovvero rappresentazioni di sé di natura prelinguistica e preconcettuale. Queste rappresentazioni sono in prima istanza di natura percettiva e propriocettiva. La propriocezione somatica, la funzione che veicola informazioni sul corpo, è del resto considerata da Bermúdez come una forma particolare di percezione. Nella percezione sono in generale presenti degli indicatori di soggettività, informazioni, come si esprime l’autore, «sé-specificanti» (self-specifying). Molti dei dati empirici citati da Bermúdez sono desunti dalla psicologia della visione di J.J. Gibson. Senza esporre questi dati in modo dettagliato, diamo un’idea del genere di osservazioni di cui si tratta. Bermúdez comincia col richiamare l’osservazione di Gibson secondo cui, sebbene l’occhio non possa vedere il campo visivo (considerata come una buona analogia dell’impossibilità da parte del soggetto di percepire se stesso), il sé è nondimeno «percepibile» come ciò che specifica il limite del campo percettivo: «il sé appare nella percezione come limite del campo visivo, una frontiera spostabile a discrezione della volontà»96. In questo quadro, c’è una differenza importante tra gli oggetti esterni e le parti del corpo: la variabilità dell’assetto ottico che essi inducono è molto maggiore nel caso degli oggetti esterni. Ciò conduce Gibson a sostenere che «l’esperienza di un sé centrale nella testa e di un sé periferico nel corpo [...] ha una base nell’informazione ottica», in quanto l’informazione ottica specifica la distanza soggettiva delle parti del corpo dal punto di osservazione. L’idea è dunque che, anche se nei contenuti di esperienza non c’è nessun sé in senso proprio, il soggetto, cioè l’organismo percipiente, è in qualche modo colto implicitamente come vincolo, come limite dell’esperienza. Nell’esperienza percettiva ci sono tre classi di informazioni sé-specificanti: gli invarianti corporei che limitano il campo visivo; quelle basate sulla cinestesi visiva relativa al movimento del soggetto, ad esempio fenomeni come la parallasse di movimento97; quelle relative alle affordances, cioè alle possibilità di azione che un oggetto consente. Essendo intrinseche al funzionamento del sistema visivo, tali informazioni sono presenti molto precocemente. 95 J. Bermúdez, The Paradox of Self-Consciousness, MIT Press, Cambridge (MA) 1998, p. 45. Qualcuno potrebbe scorgere un’eco di trascendentalismo in questa argomentazione, ma questo rilievo ci sembra eccessivo, a meno di voler trasformare ogni argomento a priori in un argomento trascendentale. Se non c’è un chiaro riferimento alle condizioni di possibilità di qualcosa – ad esempio, dell’esperienza – non siamo in presenza di un argomento trascendentale. Ivi, p. 106. È il modo in cui il campo visivo dell’osservatore fluisce via via che l’osservatore si muove verso un punto fisso davanti a lui: gli oggetti più vicini scorrono più rapidamente di quelli più lontani. 100 101 96 97 Dunque per Bermúdez nella struttura stessa del sistema sensomotorio (il sistema percezione/azione) c’è una forma di autocoscienza primitiva, un sé «ecologico»98 o «incarnato». Inoltre, come si accennava, molte altre informazioni pertinenti per l’autocoscienza sono fornite dal sistema propriocettivo o somatico: la propriocezione somatica è una forma di esperienza con contenuti non concettuali in prima persona [...]. Essi sono i mattoni fondamentali costitutivi per il processo di bootstrapping che darà infine luogo alla padronanza del concetti di prima persona e al possesso di una piena autocoscienza99. Sul fatto che la propriocezione somatica sia importante per l’autocoscienza ci sono pochi dubbi. Ma Bermúdez va ben oltre, suggerendo che la propriocezione somatica sia una forma di autocoscienza, una tesi difesa anche da Shaun Gallagher e Philippe Rochat100. L’assunto cruciale alla base di questa tesi sembra essere che la propriocezione è una forma di percezione «speciale», che determina una specifica modalità esperienziale «soggettiva»; insomma, l’esperienza corporea si presenta fin da subito come diversa dall’esperienza del mondo esterno. Ma è difficile vedere come questo possa essere sufficiente per concludere che l’esperienza del neonato è pervasa da una soggettività autocosciente; si può sostenere che esiste una mera soggettività «organismica», nel senso che certamente un organismo di un certo tipo è un soggetto di esperienza, ma questo non significa che le rappresentazioni di stimoli a parti dell’organismo costituiscano un sé (dell’organismo medesimo), perché fenomenologicamente esse sono date all’organismo nello stesso modo di qualsiasi altro stimolo: sono date oggettualmente, senza alcun senso di soggettività. Se chiamiamo «autocoscienza» (per quanto preriflessiva) la mera capa- U. Neisser, Five kinds of self-knowledge, in «Philosophical Psychology», 1, 1988, pp. 35-29. 99 Bermúdez, The Paradox of Self-Consciousness cit., p. 132. 100 S. Gallagher, How the Body Shapes the Mind, Oxford UP, Oxford 2005; P. Rochat, The Infant’s World, Harvard UP, Cambridge (MA) 2001. Rochat ha fatto vedere che nel neonato di 24 ore il cosiddetto riflesso di cercamento (il neonato volge la testa verso lo stimolo e apre la bocca) è tre volte più frequente quando lo stimolo è corporeo (una pressione all’angolo della bocca) rispetto a uno stimolo esterno. Secondo Rochat ciò dimostra che il neonato distingue tra il proprio corpo e il mondo esterno, cioè tra sé e non-sé. 98 102 cità di rappresentare stimoli corporei discriminandoli tacitamente da quelli non corporei, allora dobbiamo attribuire autocoscienza a una pletora di esseri viventi. Altrimenti detto, il punto cruciale che ci separa da Bermúdez è che per lui le rappresentazioni sopra citate veicolano contenuti in prima persona. Ma che cosa vuol dire «in prima persona»? Se vuole dire che questi contenuti riguardano l’organismo, siamo del tutto d’accordo, ma il punto è che questi contenuti non sono esperiti in prima persona, ovvero non sono esperiti come relativi al sé. Solo in questo secondo caso sembrerebbe sensato parlare di autocoscienza. Per Bermúdez le proprietà corporee sono proprietà del sé101. Egli usa l’espressione «sé» come se fosse sinonimo di «organismo», cosicché un organismo che possiede un sistema cognitivo capace di codificare informazioni sull’organismo medesimo è ipso facto un sé. Ma, ripetiamo, un conto è dire che un organismo è (de facto) un soggetto, un altro che percepisce se stesso come soggetto; ed è la seconda cosa a segnare l’ingresso nel territorio dell’autocoscienza. I prerequisiti empirici per il costituirsi dell’autocoscienza non dovrebbero essere scambiati con l’autocoscienza stessa, per quanto in forma primordiale. Pensiamo di aver chiarito a sufficienza entro quali limiti siamo disposti ad accettare la nozione di autocoscienza preriflessiva e quale uso farne. In sintesi, la nozione di autocoscienza preriflessiva può essere cogente, ma a condizione di riconoscere che il bambino non nasce dotato di tale forma di autocoscienza, bensì la sviluppa a partire dai 12 mesi circa, quando gradualmente compaiono schemi rappresentazionali che gli conferiscono un senso di «mietà» o «proprietà» e di «agentività». Nondimeno l’esperienza che un neonato ha del mondo e di sé stesso come corpo è autenticamente esperienza, nel senso che è fin da subito cosciente (nel senso della coscienza d’oggetto). La nostra inclinazione a dire che quell’esperienza è soggettivamente vissuta, in quanto all’organismo fa un certo effetto averla, ci porta irresistibilmente a ritenere che la coscienza richieda necessariamente (una certa forma di) autocoscienza – che la coscienza comprenda sempre l’autocoscienza. Questa intuizione (quasi) irresistibile è stata variamente declinata, nel corso della storia della filosofia, come io 101 Bermúdez, The Paradox of Self-Consciousness cit., cap. 6. 103 penso (o appercezione trascendentale), soggettività trascendentale, soggettività intrinseca ecc. Confidiamo di essere riusciti a far vedere che si può e si deve resistere a questa intuizione. 5. Sinossi Poiché l’articolazione argomentativa di questo capitolo è stata piuttosto complessa, ci sembra utile ricordarne le tesi fondamentali: 1) È opportuno distinguere la coscienza (d’oggetto) dall’autocoscienza. La prima è una funzione psichica assai basilare, che condividiamo con gli animali, e ontogeneticamente molto precoce (è presente già alla nascita). La seconda è una funzione psichica piuttosto sofisticata, caratteristica (nella sua forma più evoluta, ossia come autocoscienza introspettiva) dei soli esseri umani e ontogeneticamente relativamente tarda. 2) L’autocoscienza è una particolare forma di coscienza d’oggetto, quella che prende a oggetto il soggetto medesimo in quanto sé (io). 3) La coscienza d’oggetto è fondamentalmente preriflessiva (preconcettuale). 4) L’autocoscienza richiede la coscienza (d’oggetto). Per poter sviluppare forme superiori di autocoscienza è necessario avere quel tipo di coscienza (ed eventualmente autocoscienza) non concettuale avente per oggetto tanto il mondo esterno quanto il proprio corpo. 5) L’autocoscienza non può essere assunta come un dato primario in senso trascendentale (nel solco di Kant). 6) Vi sono forme (o prodromi) di autocoscienza preriflessiva, che si sviluppano a partire dai 12 mesi circa. Nell’insieme queste tesi consentono di delineare una spiegazione bottom-up e gradualista dell’io. Come è stato efficacemente fatto osservare: Se, almeno da un punto di vista naturalistico, il sé è inteso nel modo migliore come il sistema rappresentazionale cognitivo, biologico, oggettivo con capacità autorappresentazionali speciali e caratteristiche, il modello di sé è la rappresentazione soggettiva di se stessi costruita dal proprio sistema autorappresentazionale sulla base delle proprie percezioni, emozioni, credenze, e così via. Ai livelli di descrizione funzionale e rappresentazionale, le rappresentazioni di sé (per esempio, un modello di sé) 104 non sono costruite da un’entità monolitica e omogenea – come parrebbe sul piano fenomenologico –, bensì da differenti moduli che operano a differenti livelli di complessità funzionale e rappresentazionale102. Questa citazione esprime efficacemente due punti che sottoscriviamo in toto: 1) il soggetto è un organismo dotato di certe capacità cognitive; gradualmente questo soggetto costruisce certe rappresentazioni di sé e questa capacità lo rende un sé; 2) non c’è una entità che presiede alla costruzione del sé; il modello del sé è bensì il risultato dell’interazione di diverse funzioni rappresentazionali. Nell’insieme risulta così delineato un quadro concettuale nel quale le radici dell’io sono individuate in alcune funzioni psichiche basilari, strettamente legate alla rappresentazione corporea. Questo radicamento dell’io nelle funzioni corporee può legittimamente essere visto, da un lato, come un passo verso una nozione sostanzialistica dell’io (niente io senza corpo), che tuttavia non mette capo a una vera e propria teoria sostanzialistica (materialistica invece che spiritualistica) dell’io. Non può mettere capo a tale nozione perché l’io non è riducibile a tali basi materiali, che sono condizioni necessarie ma lungi dall’essere sufficienti per la comparsa dell’io autocosciente. Con questi soli «materiali» naturalistici l’io non può essere costruito. Ma questo non implica in modo puro e semplice che l’io non esiste. Per ritrovarlo dobbiamo «uscire» dall’io, cioè far entrare in gioco le relazioni interpersonali, con tutti i limiti che ne conseguono per la solidità della nozione. È di questo che ci occuperemo nei prossimi due capitoli. 102 M. Synofzik, G. Vosgerau e A. Newen, Beyond the comparator model: A multifactorial two-step account of agency, in «Consciousness and Cognition», 17(1), 2008, p. 412. Capitolo 3 La consapevolezza di sé nell’introspezione Le philosophe formé à l’école de Descartes sait que les choses sont douteuses, qu’elles ne sont pas telles qu’elles apparaissent; mais il ne doute pas que la conscience ne soit telle qu’elle apparaît à elle-même [...]; depuis Marx, Nietzsche et Freud nous en doutons. Après le doute sur la chose, nous sommes entrés dans le doute sur la conscience. Paul Ricoeur, De l’interprétation corpo, uno scimpanzé è cosciente anche del proprio corpo, e un bambino di 3-4 anni può cominciare a essere cosciente anche del proprio mondo interiore, cioè può iniziare a prendere per oggetto quelle rappresentazioni che già un macaco o un babbuino hanno ma non sanno di avere. La consapevolezza della propria interiorità prende gradualmente la forma dell’identità soggettiva: il che vuol dire che intorno ai 4-5 anni il bambino comincia a esperire se stesso come persona, a definirsi come persona di un certo tipo, e rintracciare una propria continuativa identità di persona attraverso il tempo e lo spazio. Questa dimensione diacronica dell’autocoscienza – la possibilità di identificare nel proprio universo interiore un’unità che persiste nel tempo – richiede che il soggetto possieda la competenza linguistico-narrativa di organizzare le proprie esperienze in una storia personale: è questo il self autobiografico di cui ci parla Damasio, e che altri definiscono «identità narrativa»1. In questo capitolo indagheremo il processo attraverso cui, a partire dalla coscienza del corpo in quanto rappresentazione di una globalità corporea come corpo «proprio», l’autocoscienza si costituisce come consapevolezza dell’esistenza dello spazio virtuale della mente; e di questa consapevolezza introspettiva di sé studieremo la natura e vaglieremo l’attendibilità epistemica. Al capitolo successivo sarà affidato, invece, il compito di esaminare l’identità soggettiva e il suo carattere difensivo. Queste forme progredite di autocoscienza sono rese possibili da una serie di funzioni psicologiche che ci sforzeremo di chiarire nelle prossime pagine: ne risulterà un fitto intreccio di componenti neurocognitive e psicosociali. Completato l’esame delle forme primitive di autocoscienza, siamo ora in condizione di prendere in esame l’autocoscienza psicologica, introspettiva. Saliamo cioè di complessità: dal livello (relativamente) più semplice in cui l’autocoscienza è coscienza di sé in quanto rappresentazione consapevole dell’unità del proprio corpo, ci portiamo al livello, massimamente evoluto, in cui l’autocoscienza è riconoscimento introspettivo della presenza dello spazio «interiore» virtuale della mente; il sapere che si stanno considerando, oggettivamente, i vari aspetti della propria stessa soggettività. La distinzione fra autocoscienza corporea e autocoscienza introspettiva è il risultato di una sinergia fra chiarimenti concettuali e dati sperimentali: i primi legati in particolar modo ad alcuni aspetti della filosofia fenomenologica e alla riflessione teorica di Jean Piaget; i secondi prodotti soprattutto dalla tradizione di ricerca che ha avuto inizio negli anni settanta, con gli studi di Gordon Gallup sulla coscienza di sé negli scimpanzé. Forti di tutto ciò, siamo oggi in condizione di affermare che una scimmia non antropomorfa (un macaco o un babbuino) è cosciente del mondo ma non del proprio 1 Cfr. per es. D.P. McAdams e B.D. Olson, Personality development: Continuity and change over the life course, in «Annual Review of Psychology», 61, 2010, pp. 526-29. 106 107 1. Dall’autocoscienza corporea all’autocoscienza introspettiva Solo negli esseri umani e in pochissimi altri animali si arriva a essere autocoscienti in quanto capaci di istituire una separazione netta fra il proprio corpo e il mondo ambiente. Ciò richiede la capacità di costruire una rappresentazione di se stessi in quanto unità fisica agente. Sentirsi esistere significa qui percepire un’identità fisica. Da oltre quarant’anni il «test della macchia» è considerato un indicatore attendibile della presenza o meno della coscienza di sé in quanto autocoscienza corporea. Il viso di un animale è, a sua insaputa, macchiato con un colore. Dopodiché l’animale è posto di fronte a uno specchio: se tocca la macchia, è segno che riconosce la corrispondenza fra il proprio viso e quello riflesso nello specchio. Tra le scimmie antropomorfe supera certamente il test lo scimpanzé, che non solo posto di fronte allo specchio tocca immediatamente la macchia sul proprio viso, ma anche usa lo specchio per fare delle smorfie o per esplorare parti nascoste del corpo. Al di fuori del gruppo delle grandi scimmie l’autoriconoscimento allo specchio è senz’altro assente oppure materia di dibattito (è il caso di elefanti e delfini)2. Il bambino diviene cosciente di sé in quanto cosciente di avere un corpo proprio (da lui riconoscibile come proprio) nel secondo anno di età3. Prima di allora egli può costruire rappresentazioni di parti del corpo separate, come le mani o i piedi o il sommo della testa, ma non è affatto in grado di coglierle come parti di uno spazio corporeo globale. In quel periodo, infatti, se posto davanti a uno specchio, vi scorge solo un altro bambino, e vedendosi riflesso non tocca mai la parte del corpo (il naso, la fronte, la guancia, una gamba) su cui è stata apposta la macchia di colore. La situazione muta radicalmente intorno alla metà del secondo anno: il bambino supera il test della macchia essendo ora in grado di costruire un’immagine corporea di sé come oggetto (intero) considerando al tempo stesso questa immagine come soggetto, cioè come fonte attiva della rappresentazione di sé. Ma si noti: il bambino di 18-24 mesi si è impadronito dello spazio soggettivo-oggettivo del corpo ma non ancora dello spazio virtuale della mente; ovvero egli non riesce a oggettivare la propria soggettività, sapendo che è la propria soggettività, così come intorno a un anno e mezzo aveva oggettivato il proprio corpo, sapendo che era il proprio corpo4. Il bambino, ad esempio, non riesce ancora a «collocare» i sogni: li considera o eventi reali, o visioni «mandate da fuori», che hanno popolato la sua stanza da letto5. E tuttavia l’acquisita coscienza del corpo in quanto corpo proprio è la premessa basilare necessaria per dotarsi di quella scoperta di sé, o se vogliamo di quella elementare riflessività, che ci fa sapere di esistere. L’autocoscienza corporea è lo scoprire che fra tutti gli oggetti possibili esiste un oggetto particolare che è il proprio corpo. Si può supporre che, in una prima fase, l’autocoscienza corporea del bambino, al pari di quella dello scimpanzé, sia strutturata da una rappresentazione di sé a carattere analogico e non-verbale; ma ben presto essa inizia ad essere mediata dallo scambio verbale con l’adulto, con il caregiver. In altre parole, l’autocoscienza puramente corporea, stile scimpanzé, nella nostra specie è quasi subito sopravanzata e inglobata da una forma di autocoscienza descrittiva strettamente legata agli strumenti linguistici e ai meccanismi della cognizione sociale. In ragione di ciò, intorno al terzo e quarto anno di vita avviene qualcosa che è dato osservare solamente nella specie umana: il bambino scopre di avere una «interiorità», ossia diviene in grado di identificare e oggettivizzare la propria soggettività. Qui l’esperienza soggettiva vissuta prende a oggetto non solo il mondo esterno (come avviene in tutti gli animali), non solo il mondo del corpo (come avviene nello scimpanzé o nel bambino di 15-18 mesi), ma anche se medesima per quella parte che è accessibile all’introspezione (in quale misura accessibile lo si dirà più avanti). È questo il fondamento della coscienza umana nel senso più tradizionale del termine: l’autocoscienza in quanto identità di persona. Per chiarirne la natura sono ancor oggi indispensabili – riteniamo – le riflessioni che su di essa hanno condotto John Locke e William James. 2 G.G. Gallup, Chimpanzees: Self-recognition, in «Science», 167, 1970, pp. 86-87; D.J. Povinelli, G.G. Gallup, T.J. Eddy e D.T. Bierschwale, Chimpanzees recognize themselves in mirrors, in «Animal Behaviour», 53, 1997, pp. 1083-88; J.R. Anderson e G.G. Gallup, Which primates recognize themselves in mirrors?, in «PLoS Biology», 9(3), 2011, e1001024. 3 B. Amsterdam, Mirror self-image reactions before age two, in «Developmental Psychobiology», 5, 1972, pp. 297-305; M. Lewis e J. Brooks-Gunn, Social Cognition and the Acquisition of the Self, Plenum Press, New York 1979; J.R. Anderson, The development of self-recognition. A review, in «Developmental Psychobiology», 17, 1984, pp. 35-49; M. Nielsen, T. Suddendorf e V. Slaughter, Mirror self-recognition beyond the face, in «Child Development», 77, 2006, pp. 176-85. Cfr. D.J. Povinelli, The unduplicated self, in P. Rochat (a cura di), The Self in Infancy, Elsevier, Amsterdam 1995, pp. 161-92. Questo autore critica in modo assai convincente tutti quegli studiosi che legano l’autoriconoscimento allo specchio a dimensioni psicologiche e temporali del self. Cfr. per es. J.P. Keenan, The Face in the Mirror: The Search for the Origins of Consciousness, Ecco, New York 2003, cap. 4. 5 Cfr. Jervis, Il «sé» e la nascita della coscienza, in Id., Il mito dell’interiorità cit., pp. 79-80, che rinvia a J. Piaget, La représentation du monde chez l’enfant, Alcan, Paris 1926, cap. 3 (trad. it. La rappresentazione del mondo nel fanciullo, Bollati Boringhieri, Torino 1966). 108 109 4 Locke intende il concetto di persona non già come un’essenza ma come un attributo psicosociale che si assegna a quei soggetti che possiedono un particolare insieme di capacità psicologiche. Ciò è congruente con il linguaggio giuridico, in cui la persona è un soggetto agente che è pienamente capace di compiere atti come comprare un immobile, fare una donazione o un testamento, o pagare le tasse. Qui il soggetto agente è persona proprio in quanto è da ritenersi (eticamente prima che giuridicamente) responsabile di ciò che fa. Esso è quindi anche imputabile: se ha commesso un reato, sapeva pur bene ciò che faceva. Il concetto di persona è quindi fondato su quello di responsabilità personale; ed è facile vedere, anche intuitivamente, che il concetto di responsabilità si basa sul concetto di autocoscienza intesa precisamente come consapevolezza dei propri atti, e quindi come appropriazione critica dei propri progetti, delle proprie azioni, dei propri ricordi. Un individuo può fare testamento solo se è persona, e infatti un bambino non può fare testamento, né un anziano afflitto da arteriosclerosi e demenza; essi non sono sufficientemente responsabili in quanto non sufficientemente coscienti del significato, della portata, delle conseguenze delle loro azioni. Persona in senso lockiano è dunque chi possiede alcune capacità psicologiche. Soprattutto, è quell’individuo che è in grado di cogliere se stesso non soltanto come agente materiale nei propri atti presenti, passati e futuri in quanto eventi «pubblici», ma anche come un’entità che possiede un’interiorità, ovvero uno spazio virtuale interno in cui sono collocate rappresentazioni come eventi «privati». Solo chi ha un sufficiente accesso alla propria interiorità (a se stesso in quanto oggettivato nella coscienza introspettiva di sé) può «far proprie le azioni e la loro valutazione»6. Questo spazio interno, separato sia dallo spazio materiale somatico sia dallo spazio esterno al corpo, ci appare come un campo psichico autoreferente; ossia, osserva James, il soggetto (tanto l’individuo comune che il filosofo «spiritualista») è portato spontaneamente a ipotizzare che nello spazio fenomenologico vi sia un centro intimo, che è il punto di partenza della volontà, «l’elemento attivo in ogni coscienza», e che designiamo col pronome «io». James lo definisce «io puro» (pure Ego), e fa osservare che le interpretazioni che ne hanno dato i filosofi si situano lungo uno spettro che, a un estremo, pretendono che si tratti di «una sostanza semplice e attiva, l’anima», garanzia metafisica della presenza dell’io al mondo; e all’estremo opposto, adottano una prospettiva «humeana», giudicandolo «una semplice finzione, l’essere immaginario designato col pronome io»7. In questa controversia il filosofo americano è tutto per Hume e contro «gli spiritualisti». E al pari di Hume, anche James cerca vanamente di scorgere il proprio io nel flusso degli eventi psichici. Egli si domanda: che cosa denota il pronome «io»? Nella frase «io prendo il bicchiere sul tavolo», «io» designa me stesso in quanto soggetto agente globale che si contrappone a un oggetto esterno. E tuttavia si noti: il bicchiere è un oggetto che è totalmente esterno, ma che dire di una gamba o di un braccio? Essi non sono totalmente esterni, e ancor meno lo sono gli occhi e la testa, per non parlare di cose paradigmaticamente «interne» come un odore o un ricordo, e così via. Scopro allora che non vi è modo di arrestare questa emorragia dell’io: nel sondare la mia coscienza introspettiva, continuo a prendere a oggetto ogni cosa che essa contiene, distaccandola così da me stesso. Ma l’io, in quanto scaturigine di tutto questo processo, non lo trovo mai. Alla fine, dice James, l’io finisce con l’essere una sorta di punto senza dimensioni – o, più angosciosamente, il bestandloses Gespenst che Schopenhauer evoca in un celebre passo8. Dissoltosi l’io puro in «una soggettività astratta e senza spessore»9, il soggetto riguadagna il sentimento di esistere nell’atto di esperire 6 «Persona», scrive Locke, «è un termine giuridico, che indica il far proprie le azioni e la loro valutazione (appropriating Actions and their Merit); e quindi riguarda soltanto soggetti intelligenti capaci di esprimere la legge, la felicità e la disperazione»: J. Locke, An Essay Concerning Human Understanding (1694), Clarendon Press, Oxford 1975, p. 346. 7 W. James, The Principles of Psychology (1890), Dover, New York 1950, vol. 1, pp. 297-98. 8 Quando guardiamo dentro noi stessi, scrive il filosofo tedesco, «ci perdiamo in un vuoto senza fondo, come se fossimo in una sfera cava di vetro, dal vuoto della quale parli una voce di cui non sia possibile trovar la causa entro la sfera; mentre cerchiamo di afferrare noi stessi, non stringiamo, con raccapriccio, che uno spettro inconsistente»: A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione (1819), trad. it. di N. Palanga riveduta da A. Vigliani, Mondadori, Milano 1989, par. 54, p. 397. 9 «È questa», scrive Jervis a proposito di queste osservazioni jamesiane, «la teoria dell’evanescenza dell’io. L’io (io agente e osservante) è una soggettività astratta e senza spessore; questa soggettività è, in ultima analisi, una convenzione; non è in alcun modo localizzabile. Il soggetto, portato al suo limite, non esiste» (Evanescenza e riabilitazione dell’io, in Id., Il mito dell’interiorità cit., p. 162; cfr. anche Fondamenti di psicologia dinamica cit., pp. 193-95). 110 111 se stesso come «me». Il «me» è per James l’empirical self, ovvero il modo in cui l’individuo si presenta a se stesso, oggettivandosi nella coscienza introspettiva di sé. Questa autopresentazione è una descrizione di identità, ed è declinata in tre forme: gli aspetti fisici, materiali del self (il «sé materiale») legati alla soggettività corporea; l’identità sociale del soggetto (il «sé sociale»); e infine «l’essere interno e soggettivo di un uomo» – l’identità psicologica colta nell’interiorità, ossia nella complessità dell’introspezione di ciascuno – che il filosofo chiama «sé spirituale»10. La psicologia che si occupa di tutta questa materia è per James una «psicologia senza un’anima», che risale a Hume, John Stuart Mill, Alexander Bain e Johann Friedrich Herbart, e permette di considerare l’io dell’individuo non già «la sorgente preesistente delle rappresentazioni», bensì «il loro frutto finale e più complesso»11. La natura e la genesi dello spazio introspettivo e del «sé spirituale» (che noi denomineremo «identità soggettiva») sono i temi che ci accompagneranno fino al termine del libro. La coscienza del corpo in quanto corpo proprio è premessa necessaria per il formarsi ulteriore dell’autocoscienza introspettiva. Ma come si è già accennato, nella specie umana il riconoscimento del corpo proprio è quasi subito inglobato in una forma di coscienza di sé che fa leva sul linguaggio e la cognizione sociale per arrivare ad essere descrizione narrativa. Più precisamente, nella costruzione di questa autocoscienza descrittiva gli strumenti linguistici operano congiuntamente con un insieme di capacità mentalistiche che sono essenziali ai fini dell’interazione e del coordinamento sociali. Sono queste capacità che consentono a ognuno di noi, nell’ambito dell’interazione sociale, di indossare i panni dello «psicologo ingenuo»; il che, basilarmente, significa due cose: essere in grado di attribuire agli altri agenti stati e processi psicologici inosservabili e, su questo fondamento, di prevedere e spiegare il loro comportamento (per cui, paradigmaticamente, noi diciamo che il tale ha fatto una certa cosa «perché aveva il desiderio di...» oppure «perché credeva che...»). Ne parleremo più avanti, per poi aderire alla tesi secondo cui il bambino costruisce il proprio mondo interno volgendo su se stesso la capacità di «lettura» delle menti altrui (in inglese: mindreading). James, The Principles of Psychology cit., p. 296. Ivi, p. 57. Vale la pena di precisare che la filosofia della psicologia di James «aveva salde radici nell’empirismo inglese, ma andò sempre più divergendo dalla tradizione associazionistica di Hume, John Stuart Mill, Alexander Bain, grazie al confronto critico con la psicologia di Johann Friedrich Herbart e con la psicofisica di Hermann von Helmholtz, Wilhelm Wundt, Theodor Fechner» (P. Casini, James, Freud e il determinismo della psiche, in «Rivista di filosofia», 1, 2002, p. 67). Nel prendere le mosse dai dati dell’etologia cognitiva e della psicologia dello sviluppo, che ci dicono che l’autocoscienza introspettiva è assente in tutti gli animali e nel bambino prima dei tre anni, ci siamo ancora una volta attenuti ai dettami dell’approccio «dal basso» che, come sappiamo, prescrive di portare avanti lo studio della coscienza a partire dalle funzioni psicologiche più elementari (indagabili appunto nell’animale e nel neonato) per guadagnare poi quelle funzioni psicologiche più complesse che rendono possibile la mente autocosciente adulta. E così la consapevolezza di sé, un fenomeno tradizionalmente considerato primario, semplice, dato, si rivela un fenomeno costruito; il prodotto dell’interazione di una pluralità di sottosistemi cognitivi che svolgono funzioni legate al linguaggio, alla socializzazione, alla memoria. Ma la costruzione dell’autocoscienza è un processo di competenza non solo psicobiologica ma anche psicosociale e culturale. Lo si evince chiaramente prendendo in esame alcuni dati della psicologia culturale e dell’etnopsichiatria, che attestano il prevalere in molti esseri umani adulti di un’autocoscienza di tipo fisico e sociale piuttosto che psicologico. Si riscontra infatti, in soggetti adulti analfabeti, semianalfabeti e illetterati appartenenti a culture preindustriali, una grave difficoltà a rappresentarsi uno spazio interno. In questa situazione psicologico-culturale, i sogni (in modo simile a quanto accade al bambino prima dei tre anni) vengono considerati come visioni notturne collocate nello spazio esterno al corpo; le emozioni e le passioni sono oggettivate come eventi fisici che colpiscono il soggetto nei visceri o negli arti; il pensare viene confuso col parlare («io penso» significa qui essenzialmente «io dico» o «io mi dico»); e anche i propri progetti e le proprie fantasie vengono oggettivati solo parzialmente e quindi presi in esame con difficoltà. Questi eventi sono comunque sempre discontinui, cioè non legati fra loro, in quanto non integrati causalmente in uno spazio fenomenologico unitario; e l’individuo se ne sente solo molto parzialmente responsabile. I primi dati sulla difficoltà dei soggetti illetterati nel cogliere l’esperienza psichica furono raccolti da Aleksandr Lurija nel contesto 112 113 10 11 di due spedizioni in Usbechistan, nel 1931 e nel 193212. La prospettiva di Lurija era quella della «scuola storico-culturale», espressione con cui si designa un insieme variegato di teorizzazioni il cui referente principale è l’opera di Lev Vygotskij13. In questo quadro teorico, la costruzione della coscienza introspettiva di sé richiede che ai meccanismi neurocognitivi propri della nostra specie si accompagnino una serie di strumenti concettuali, e inscindibilmente lessicali, di tipo astratto. Dove questi sono carenti, come accade appunto nelle culture preindustriali, si rileva una grande difficoltà a rappresentarsi riflessivamente e oggettivamente un universo interiore a carattere virtuale. Tra i fattori all’origine di tale carenza vi è certamente il predominio in questi contesti sociali di un’intelligenza «pratica» piuttosto che «analitica» e «creativa»14. Il ricorso esclusivo a un’intelligenza di tipo pratico produce allora una sfera soggettiva che alimenta concezioni somatico-pragmatiche, e non già psicologiche, dell’individuo. Con la conseguenza che il soggetto si concepisce essenzialmente come identità fisica; ed è l’identità fisica a strutturare l’identità sociale. L’individuo si considera allora responsabile in quanto è socialmente ritenuto responsabile per le sue azioni, siano esse passate, presenti o future. Per contrasto, egli non è mai bene in grado di riappropriarsi (responsabilmente e autocriticamente) dei prodotti della propria mente, data la sua difficoltà a costruire lo spazio esperienziale interno. Insomma, nell’idioma di James, questi soggetti possiedono un sé materiale e un sé sociale ma sono privi di un sé spirituale15. Gli atti (compresi quelli linguistici) vengono bensì «prodotti», e l’individuo se ne ritiene proprietario, poiché il corpo ne identifica con chiarezza l’origine e la continuità; e tuttavia sogni, fantasie, progetti, passioni, ansie, furori, tristezze, 12 A.R. Lurija, Psychological Expedition to Central Asia, in «Science», 74(1920), 1931, pp. 383-84; Id., Storia sociale dei processi cognitivi (1974), Giunti, Firenze 1976. Su questa ricerca di Lurija, cfr. V. Nell, Luria in Uzbekistan: The vicissitudes of crosscultural neuropsychology, in «Neuropsychology Review», 9(1), 1999, pp. 45-52. 13 Cfr. soprattutto L.S. Vygotskij, Storia dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori (1929), Giunti Barbera, Firenze 1974. 14 Nel senso di R.J. Sternberg, The Triarchic Mind: A New Theory of Human Intelligence, Penguin, London 1988. L’intelligenza pratica riguarda compiti ripetitivi e il semplice «saper fare» empirico; l’intelligenza analitica e quella creativa si legano invece alla possibilità di astrarre e di usare modelli mentali. Cfr. infra, cap. 4, par. 1. 15 Cfr. Jervis, Presenza e identità cit., p. 174; Fondamenti di psicologia dinamica cit., pp. 214-16. 114 sono difficilmente identificabili e concettualizzabili, perché ne è oscura l’origine e la sede fenomenologica. Manca quindi anche una concettualizzazione piena dell’intenzionalità, quale essa si è espressa non solo in emozioni, ma anche in fantasie e progetti. In questi casi, pertanto, le fantasie (intese come scenari compensativi e irrealistici derivanti da esigenze emotive) e i progetti (intesi come modelli derivanti da esami realistici delle proprie possibilità) vengono sempre confusi fra loro, dato che non ne può mai venir rintracciata l’origine rispettiva. Da tutto ciò discendono una serie di importanti e gravi limitazioni sia nella pianificazione delle attività future del soggetto, sia nella valutazione di quelle passate. In questa situazione psicologico-culturale è del tutto conseguente che questi individui siano inclini alla scissione isterica. Il soggetto si «disappropria» dell’azione (che consiste nel muoversi o nel paralizzarsi del corpo); e lo stato psichico, essendo vissuto come un evento oggettivo e non soggettivo (cioè una cosa che non è prodotta dalla mente ma che «capita»), è imputato ad accidenti causali del corpo: È esperienza comune osservare che nei contadini analfabeti esiste una notevole difficoltà a esprimere e descrivere sintomi psichici come ansia, depressione, preoccupazione, nevrastenia con termini appropriati, specie se astratti: al contrario esiste una netta tendenza a somatizzare questi disturbi (soprattutto l’ansia) in psichestesie complesse o disfunzioni isteriche di qualche parte del corpo. Questi disturbi possono comprendere comuni cefalee nevrotiche come boli isterici, «dolori» e fastidi gastrici, ma anche lamentele immaginarie come «blocco degli intestini» [...], «vermi» nella testa o nello stomaco, e così via. Tutti questi disturbi vengono oggettivati in qualche parte dell’organismo, e quindi [...] quasi proiettati fuori della personalità del soggetto e in ogni caso espulsi dalla sfera del controllo volontario: il disturbo psichico assume una «rappresentazione» corporea spesso simbolica e non di rado contrastante con la logica, viene vissuto nel corpo, agito all’esterno, e mimato in una irrequietezza vistosa o in una immobilità impotente senza apparente giustificazione16. 16 G. Jervis, Il tarantismo pugliese, in «Il lavoro neuropsichiatrico», 30(3), 1962, pp. 348-49 (le pagine 333-354 sono state ristampate, con il titolo Psicopatologia della crisi di possessione, in Jervis, Il mito dell’interiorità cit., pp. 94-122). Jervis fece queste osservazioni nel contesto di uno studio sul tarantismo pugliese condotto insieme a Ernesto de Martino alla fine degli anni cinquanta. Cfr. E. de Martino, La terra del rimorso, Il Saggiatore, Milano 1961. 115 In altri casi gli stati di sofferenza psicologica reificati sono percepiti come effetti di possessione da parte di qualche forza o entità che viene dall’esterno: La possessione come manifestazione isterica è una sindrome che prende a prestito dal bagaglio ideologico-culturale dell’ambiente determinati elementi tradizionali (demoni, spiriti, santi, tarante) per dar corpo a una serie di manifestazioni caratterizzate sempre dal fatto che la causa di esse viene oggettivata all’esterno liberando in modo pressoché totale il soggetto (l’isterico) dalla responsabilità per le proprie azioni: il soggetto, scindendo da se stesso una parte della responsabilità per i propri atti e proiettando questa parte in una entità dotata di attributi di comodo, compie al tempo stesso un processo tipico di dissociazione isterica (per cui trova il modo di non sapere ciò che sta facendo) e un processo altrettanto tipico di oggettivazione magica17. Nell’esaminare questa materia viene spontaneo rifarsi ai celebri studi di Eric R. Dodds sulla concezione dell’individuo nella Grecia arcaica18. Per i greci del periodo arcaico l’esperienza delle passioni costituiva un evento misterioso e inquietante, in cui l’individuo avvertiva una forza che era dentro di lui ma che non possedeva, e anzi lo possedeva. Per esempio, nei poemi omerici l’ate (la «tentazione» o «infatuazione» divina) è una forza esterna e oggettiva che si impadronisce della mente, annebbia la coscienza e rende temporaneamente folli19. Per spiegare questa tendenza a rappresentare gli eventi psichici come entità provenienti dall’esterno, Dodds introduce il concetto di «cultura della vergogna». La società omerica si imperniava sul valore della timē, ovvero la «stima pubblica»; ciò faceva sì che gli agenti provassero un senso di vergogna per quegli aspetti della propria condotta che suscitavano il biasimo della comunità. 17 Jervis, Il tarantismo pugliese cit., p. 346, p. 112 della ristampa. Cfr. anche Jervis, Contributo allo studio dell’isteria: psicopatologia della crisi di possessione, in «Il lavoro neuropsichiatrico», 37(3), 1969, pp. 555-72. 18 E.R. Dodds, The Greeks and the Irrational, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1951. Cfr. Jervis, Fondamenti di psicologia dinamica cit., p. 216, n. 46. 19 «Non io», dichiara Agamennone, «non io fui la causa di questa azione, bensì Zeus e la Moira e l’Erinni che si muove nell’ombra: furono loro che durante l’assemblea misero nel mio intelletto una feroce ate, quel giorno in cui tolsi ad Achille il suo premio, arbitrariamente. Ma che potevo fare? È il dio che compie ogni cosa» (Iliade, XIX, 86 sgg.; cit. in Dodds, The Greeks and the Irrational cit., p. 3). 116 In questo ambiente socio-culturale, dunque, l’individuo aveva una forte esigenza di scaricare su agenti esterni (dei o entità impersonali) la responsabilità di condotte ritenute inaccettabili. Con le sue indagini Dodds ha perciò fornito la ricostruzione di una fase culturale e storica intermedia, caratterizzata dalla oggettivazione e autonomizzazione delle passioni rispetto al vissuto corporeo, ma senza ancora una piena concettualizzazione dello spazio della mente. Si ha qui l’esempio di una fase significativa di passaggio culturale fra la difficoltà primitiva a concepire la dimensione soggettiva, o dello spazio interno, e la concezione moderna della coscienza e dell’interiorità. La dimensione storico-culturale entra dunque a pieno diritto nella definizione dell’autocoscienza umana. E del resto, abbandonando il vecchio stereotipo nature versus culture, oggi siamo interessati non tanto a chiederci quale sia il peso rispettivo dei condizionamenti biologici in contrapposizione alle influenze storico-ambientali, quanto piuttosto a esaminare le loro interazioni, cioè la sintesi continua di natura e cultura. Abbiamo dunque visto che l’universo sociale in cui i membri delle culture preindustriali si trovano a vivere promuove un’intelligenza di tipo eminentemente pratico, priva delle risorse necessarie per realizzare il passaggio da un’autocoscienza di tipo fisico a una di tipo psicologico: l’autocoscienza introspettiva di noi soggetti «colti» appartenenti a una cultura urbana e industriale. Ma questa separazione fra il «primitivo» (incapace di introspezione) e il «civilizzato» (in grado di compiere questa operazione) è assai meno netta di quel che può apparire. Non è inconsueto infatti che, di fronte alla responsabilità di aver compiuto un atto grave in piena lucidità, anche l’individuo «istruito» si rifugi in meccanismi di scissione: La formulazione banale «non ero in me» (come si dice ubbidendo a un certo tipo di retorica, «non ero in me perché accecato dall’ira», o «dalla passione») trapassa con facilità in un «non ero io» e addirittura in un: «qualcosa agiva in me». Di qui all’isteria il passo non è lungo20. Inoltre, anche nella nostra cultura è pervasiva la tendenza a considerare Jervis, La conquista dell’identità, Feltrinelli, Milano 1997, p. 91. Cfr. anche Jervis, Sopravvivere al millennio, Feltrinelli, Milano 1995, pp. 74-75. 20 117 i sogni come una modalità di accesso a un mondo che non è affatto intrapsichico e individuale, cioè prodotto dal soggetto, ma impersonale o transindividuale. Per molti, i simboli del sogno «sono già là», depositati in una dimensione arcana a cui il soggetto attinge durante il sonno21. D’altra parte fra «primitivo» e «civilizzato» non è possibile tracciare una distinzione netta soprattutto perché le nostre capacità generali di introspezione sono assai minori di quanto siamo abitualmente portati a credere; e anche – va sottolineato – di quanto i filosofi hanno tradizionalmente creduto. Molta parte della psicologia filosofica classica, di orientamento sia razionalista che empirista, partiva «dall’alto», assumendo come dato di partenza non negoziabile la coscienza introspettiva del filosofo; ed era pervasa da un ottimismo epistemologico che oggi facciamo fatica a comprendere. Si riteneva infatti che la propria mente, diversamente dalla mente altrui, si prestasse a un accesso diretto esaustivo. La mente era cioè trasparente a se stessa; e ciò in virtù di una facoltà introspettiva in grado di garantire la coestensività della coscienza di sé con la struttura dell’interiorità. Sotto la spinta della psicoanalisi e delle scienze cognitive la maggior parte dei filosofi ha fatto un radicale passo indietro rispetto alla tesi dell’autotrasparenza della mente. Oggi l’inaccessibilità di una moltitudine di eventi psichici è saggezza comune; e come già era avvenuto per la coscienza, si è fatto strada l’interrogativo se, ed eventualmente in che misura, si dia un accesso introspettivo22. L’odierno dibattito filosofico-cognitivo sull’introspezione vede contrapporsi essenzialmente due posizioni. Da un lato vi sono teorie che conservano poco o nulla di ciò che i filosofi hanno tradizionalmente attribuito all’introspezione. Per esempio, alcuni studiosi sostengono che «introspezione» è la denominazione impropria per un processo interpretativo che si avvale di informazioni concernenti stati di cose esterni alla mente (essenzialmente il comportamento manifesto dell’agente e/o la situazione in cui tale comportamento ha luogo) al fine di teorizzare sull’eziologia causale del comportamento sia altrui che proprio23. Da un altro lato vi sono invece coloro che continuano a ritenere che l’accesso ad almeno alcuni eventi mentali (per esempio, alcuni dei propri pensieri) sia qualitativamente diverso dall’accesso agli eventi mentali altrui. La tesi è che quando un agente si attribuisce questi eventi mentali, non sta mettendo in atto un’attività interpretativa, come invece accade quando attribuisce eventi mentali ad altri agenti in base al loro comportamento e/o alle circostanze in cui esso si verifica. Almeno in alcuni casi, dunque, l’accesso alla propria interiorità sarebbe diretto e non interpretativo; conclusione che spesso si traduce nella messa a punto di una qualche variante della teoria del «senso interno»24. Il terreno su cui questi differenti approcci all’introspezione si sono confrontati è stato soprattutto il settore delle scienze cognitive che indaga la natura, l’ontogenesi e la filogenesi delle nostre capacità mentalistiche: la cosiddetta «Theory of Mind». Infatti, se è pur vero che la maggior parte del lavoro in questo settore si è occupato dei meccanismi che sono alla base della lettura della mente altrui, è anche vero che nell’ultimo decennio un numero crescente di psicologi e filosofi ha proposto teorie dei meccanismi soggiacenti la lettura della propria mente. Ciò ha richiesto una sinergia con altre tradizioni di ricerca, prime fra tutte le indagini sulla dissonanza cognitiva e l’attribuzione causale in psicologia sociale, nonché gli studi neuropsicologici sulla confabulazione. 2. Demistificare l’introspezione I: la confabulazione delle cause del comportamento Come si è anticipato nel primo capitolo, un aspetto ancora pienamente attuale della teoria dell’inconscio di Freud è l’idea, elaborata in relazione a temi di patologia della vita quotidiana, di una nostra inclinazione all’autoinganno, di una tendenza cioè a fabbricare spiega- Jervis, Fondamenti di psicologia dinamica cit., p. 216. Cfr. per es. W. Lyons, The Disappearance of Introspection, MIT Press, Cambridge (MA) 1986 (trad. it. La scomparsa dell’introspezione, il Mulino, Bologna 1993). 23 Questa è la teoria della conoscenza di sé che stabilisce «una parità fra sé e l’altro» (Self/Other Parity): cfr. E. Schwitzgebel, Introspection, in E.N. Zalta (ed.), The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Fall 2010 Edition), URL = <http://plato. stanford.edu/archives/fall2010/entries/introspection/>, par. 2.1. 24 Il filosofo che per primo ha formulato chiaramente una teoria del senso interno è Locke: «L’altra fonte [...] delle idee è la percezione delle operazioni delle nostre menti dentro di noi [...]; e sebbene essa non sia un senso, poiché non ha niente a che fare con gli oggetti esterni, è molto simile ad esso, e può essere denominata abbastanza appropriatamente ‘senso interno’» (An Essay concerning Human Understanding cit., p. 105, corsivo dell’autore). 118 119 21 22 zioni «di comodo» delle nostre condotte. Esiste infatti, ormai da vari decenni, una psicologia sperimentale dell’inconscio che porta avanti uno studio sistematico dei meccanismi di autoinganno. Ciò è stato realizzato mettendo a punto disegni sperimentali che fanno sì che i soggetti non abbiano alcun accesso introspettivo alle motivazioni reali (ossia alle vere cause) della loro condotta nell’esperimento; ignari di tali motivazioni, essi tuttavia confezionano, in perfetta buona fede, storie causali che poco o nulla hanno a che fare con i reali fattori motivazionali – un’operazione che si può considerare una forma non clinica di confabulazione. Qui i meccanismi quotidiani inconsapevoli di autoinganno si sono rivelati più pervasivi, articolati, vari e profondi di quanto pensasse il grande viennese. Sotto questo aspetto, l’odierna psicologia dell’inconscio è molto più freudiana di Freud. Lo studio sperimentale dell’inconscio affonda le sue radici nelle prime osservazioni circa le suggestioni post-ipnotiche, che ebbero la loro parte nella nascita della psicoanalisi; negli studi di stimolazione elettrica di aree cerebrali condotti da Wilder Penfield; e nelle indagini sugli effetti degli stimoli subliminali e di quelli «soppressi» nel corso di esperimenti di attenzione selettiva (come quelli condotti con la tecnica dell’ascolto dicotico)25. Ma è soprattutto in due ambiti che il tema è stato oggetto di investigazioni sistematiche. In primo luogo, nei casi clinico-sperimentali di pazienti con «cervello diviso». In secondo luogo, nelle ricerche sulla dissonanza cognitiva e l’attribuzione causale nella psicologia sociale e dei gruppi. Quelli che seguono sono alcuni esemplari di queste tradizioni di ricerca. La disconnessione interemisferica e l’interprete La sindrome da cervello diviso è la conseguenza di lesioni al corpo calloso, un imponente fascio di fibre nervose che connette i due emisferi cerebrali. È molto raro che patologie neurologiche come tumori o ictus diano luogo a una completa disconnessione dei due emisferi, che tuttavia si produce in seguito alla rimozione chirurgica del corpo calloso, intervento talora attuato in casi di patologie devastanti per la vita dei pazienti, ad esempio epilessie molto gravi e resistenti ai trattamen- ti farmacologici. Per quanto possa sembrare strano, l’ablazione del corpo calloso non provoca problemi neurologici evidenti; pertanto, per osservare le conseguenze della sindrome da cervello diviso bisogna allestire particolari situazioni sperimentali, nelle quali si impedisce l’accesso di un emisfero alle informazioni sensoriali. In questo modo i due emisferi si trovano in una situazione differente: uno dei due «sa» qualcosa che l’altro «non sa», e non può comunicarglielo a causa della rescissione delle vie di comunicazione interemisferiche. In questa situazione si producono fenomeni sorprendenti. Ecco un classico esempio. A ogni emisfero cerebrale giungono gli stimoli relativi al mondo controlaterale: così, in ognuno di noi l’emisfero destro riceve le immagini del campo visivo di sinistra, e viceversa. In virtù di ciò, il paziente callosotomizzato P.S. poteva osservare su uno schermo due diverse immagini, una presentata tachistoscopicamente al solo emisfero sinistro (una zampa di gallina), l’altra solo al destro (un paesaggio innevato). Gli veniva poi mostrata una serie di figure fra le quali doveva scegliere tutte quelle che a suo giudizio si associavano alle due immagini che gli erano state trasmesse unilateralmente – fra le varie altre figure messe davanti a lui quelle associativamente corrette erano due, una gallina e una pala per la neve (fig. 3.1a). Con la mano destra (controllata dall’emisfero sinistro) P.S. ha indicato la gallina; con la mano sinistra (comandata dall’emisfero destro), ha indicato la pala. E quando gli è stato chiesto cosa c’entrasse la pala, P.S. ha confabulato (col suo emisfero sinistro, che era completamente all’oscuro del paesaggio con la neve): «Ah, è semplice. La zampa di gallina va con la gallina e ci vuole una pala per pulire il pollaio»26. Per spiegare questo tipo di discorso confabulatorio il neuropsicologo Michael Gazzaniga ha proposto l’ipotesi dell’interprete27. Intorno alla risposta dell’emisfero destro all’immagine-stimolo (la scelta da parte della mano sinistra dell’immagine della pala) la «macchina delle spiegazioni» (l’interprete, appunto), situata nell’emisfero sinistro, imbastisce una storia esplicativa (una ricontestualizzazione dell’immagine della pala) priva di qualsiasi relazione con l’immagine del paesaggio innevato. (In fig. 3.1b,c sono presentati altri due casi di discorsi confabulatori prodotti dall’emisfero sinistro.) 25 Cfr. M. Conte e A. Gennaro (a cura di), Inconscio e processi cognitivi, il Mulino, Bologna 1989; R.R. Hassin, J.S. Uleman e J.A. Bargh (a cura di), The New Unconscious, Oxford UP, Oxford 2005; J.F. Kihlstrom, Cognition, unconscious, in T. Bayne, A. Cleeremans e P. Wilken (a cura di), Oxford Companion to Consciousness, Oxford UP, Oxford 2009, pp. 136-39. M.S. Gazzaniga, The Social Brain, Basic Books, New York 1985, p. 72. Cfr. per es. M.E. Roser e M.S. Gazzaniga, The interpreter in human psychology, in T.M. Preuss e J.H. Kaas (a cura di), The Evolution of Primate Nervous Systems, Elsevier, Oxford 2006, vol. IV, pp. 503-508. 120 121 26 27 FIGURA 3.1. (A) L’emisfero destro del paziente P.S. elabora informazioni nel campo visivo sinistro (scena con paesaggio innevato); il suo emisfero sinistro elabora informazioni nel campo visivo destro (zampa di gallina). Con la mano destra P.S. indica una gallina; con la mano sinistra una pala, coerente con la scena con paesaggio innevato presentata all’emisfero destro. (B) In un altro studio, l’emisfero destro della paziente V.P. era in grado di proferire solo singole parole, mentre il suo emisfero sinistro poteva parlare fluentemente. Perciò, quando il suo emisfero sinistro percepiva un’immagine, V.P. poteva descriverla a lungo e accuratamente. Per esempio, dopo aver percepito l’immagine di un ostacolista, l’emisfero sinistro di V.P. fornì la seguente descrizione: «Non so se fosse un atleta ma era un uomo impegnato in una corsa a ostacoli; indossava dei pantaloncini da ginnastica, non sono certa che indossasse anche una maglietta sportiva – sì, penso di sì; e anche scarpe da tennis, scarpe da corridore». Più tardi, la stessa immagine fu presentata all’emisfero destro e V.P. pronunciò una sola parola: «atleta». Dopo averla udita, l’emisfero sinistro prese a descrivere qualcosa che non aveva visto: «Un atleta – un giocatore di basket? Indossava una divisa sportiva; mi dava la schiena ed era posto di traverso; pareva camminare e stava per fare un altro passo perché un piede era più avanti dell’altro». Fonte: M.S. Gazzaniga, Cerebral specialization and interhemispheric communication: Does the corpus callosum enable the human condition?, in «Brain», 123, 2000, pp. 1293-1326. In neuropsicologia e in psichiatria la produzione di discorsi confabulatori è un fenomeno che compare in associazione sia con disturbi della percezione (oltre che nella sindrome da cervello diviso, anche nella sindrome di Anton, nell’anosognosia per l’emiplegia e nei disturbi da identificazione erronea), sia con disturbi della memoria (come nella sindrome di Korsakoff, in cui l’inconsapevolezza dell’amnesia si coniuga con la produzione verbale di episodi fittizi 122 (C) Alcuni pazienti callosotomizzati (fra cui P.S. e V.P.) sono stati capaci di eseguire ordini presentati alla metà destra dei loro cervelli. Se sulla sinistra dello schermo compariva per una frazione di secondo il verbo «ridi», la paziente rideva; se compariva la parola «strofina», si grattava la mano. Dopodiché l’emisfero sinistro ha generato un’interpretazione della risposta dell’emisfero destro al comando verbale («voi ragazzi siete davvero forti»; «avevo prurito»). Sebbene falsa, l’interpretazione è stata esperita dalla paziente come una descrizione accurata dell’evento. Fonte: M.S. Gazzaniga, Right hemisphere language following brain bisection. A 20-year perspective, in «American Psychologist», 38(5), 1983, pp. 525-37. che il paziente ritiene di aver vissuto). Ma – come ora vedremo – si può parlare di confabulazione anche al di fuori dell’ambito clinico28. L’effetto posizione Consideriamo la celebre rassegna della letteratura sulla dissonanza cognitiva e l’attribuzione causale pubblicata da Richard Nisbett e Timothy Wilson nel 197729. In un esperimento da loro stessi allestito in un centro commerciale, a 52 passanti furono mostrati quelli che, a loro insaputa, erano quattro paia di collant identici, collocati l’uno accanto all’altro. Alla richiesta di indicare il collant di migliore qualità, l’80% dei soggetti esibì un chiaro effetto di posizione da sinistra verso destra, ossia manifestò la tendenza, in 28 Cfr. W. Hirstein, Brain Fiction. Self-Deception and the Riddle of Confabulation, MIT Press, Cambridge (MA) 2006; Id. (a cura di), Confabulation. Views from Neuroscience, Psychiatry, Psychology, and Philosophy, Oxford UP, Oxford 2009. 29 R.E. Nisbett e T.D. Wilson, Telling more than we can know: Verbal reports on mental processes, in «Psychological Review», 84, 1977, pp. 231-59. 123 Il paradigma attore/osservatore In un altro esperimento realizzato da Nisbett insieme a Nancy Bellows, a un primo gruppo di soggetti «attori» fu chiesto di valutare Jill, una candidata a un posto di consulente in un centro di pronto intervento30. Il disegno sperimentale prevedeva la manipolazione di cinque fattori. Metà degli attori apprese dalla domanda di assunzione di Jill (tre pagine di informazioni concernenti la vita, le qualifiche e un colloquio sostenuto in precedenza) che (A) era fisicamente attraente; (B) aveva conseguito titoli accademici di prim’ordine; (C) aveva rovesciato il caffè durante il colloquio; (D) era stata recentemente coinvolta in un grave incidente automobilistico; infine (E) al soggetto veniva detto che avrebbe successivamente fatto la conoscenza di Jill. L’altra metà degli attori non trovò traccia di (A)-(D) nella domanda di Jill e per quanto concerne (E), si diceva al soggetto che avrebbe incontrato un altro candidato. Subito dopo aver letto la domanda di assunzione, gli attori giudicarono la candidata in base a quattro criteri: (1) gradevolezza (quanto pensi ti piacerebbe?); (2) intelligenza (quanto ritieni sia intelligente?); (3) empatia (quanto sarebbe in sintonia con i sentimenti dell’utente?); (4) flessibilità (quanto sarebbe flessibile nel risolvere i problemi dell’utente?). Infine, agli attori fu chiesto di fornire un resoconto introspettivo del modo in cui ciascuno dei cinque fattori aveva influenzato i giudizi (1)-(4). A un secondo gruppo di soggetti «osservatori» fu detto invece che gli sperimentatori erano interessati al modo in cui le persone formulano giudizi sociali in base a particolari tipi di informazione. Gli osservatori non leggevano alcuna domanda di assunzione; erano semplicemente invitati a immaginare di aver accesso a informazioni concernenti un individuo della loro stessa età e sesso ricavate da un colloquio di lavoro, e a prevedere il modo in cui queste informazioni (che poi erano i fattori A-E descritti in modo estremamente conciso31) avrebbero influenzato quattro tipi di giudizi su questa persona (ovvero i giudizi 1-4). I risultati sono riassunti in fig. 3.2. Dal confronto tra i resoconti «introspettivi» dell’influenza dei fattori sui giudizi di gradimento, empatia e flessibilità, e l’effetto che i fattori hanno realmente esercitato, si evince che le correlazioni si approssimano a zero. Per esempio, i soggetti dichiararono che il coinvolgimento di Jill in un incidente automobilistico aveva avuto l’effetto più forte sui giudizi di empatia; e che i titoli accademici avevano avuto l’effetto più marcato sui giudizi di gradimento. In realtà, credere che si sarebbe fatta la conoscenza di Jill aveva avuto l’effetto di gran lunga più forte sui giudizi di empatia (come anche su quelli di flessibilità); e sapere che Jill aveva rovesciato il caffè durante il colloquio aveva avuto l’effetto più marcato sui giudizi di gradimento. Inoltre, le previsioni degli osservatori si rivelarono statisticamente identiche ai resoconti degli attori, e quindi altrettanto remote dagli effetti reali. Nell’unico caso in cui il resoconto degli attori risultò accurato, vale a dire quello relativo all’effetto che il fattore «titoli accademici» aveva esercitato sui giudizi di intelligenza, lo fu anche la previsione degli osservatori. Possiamo allora dire che i partecipanti non hanno formulato i loro giudizi sociali in base ai motivi da loro riferiti. Gli attori, non potendo accedere introspettivamente al modo in cui i fattori avevano influenzato i giudizi, hanno teorizzato sugli effetti dei fattori; allo stesso modo gli osservatori hanno teorizzato sui fattori che avrebbero influenzato i giudizi. In ambedue i casi le teorie causali erano false. 30 R.E. Nisbett e N. Bellows, Verbal reports about causal influences on social judgments: Private access versus public theories, in «Journal of Personality and Social Psychology», 35, 1977, pp. 613-24. Per esempio, «immagina di sapere che una persona è molto attraente fisicamente; quanto ti piacerebbe quella persona?». 124 125 un rapporto di quasi quattro a uno, a scegliere il collant collocato più a destra come quello di qualità superiore. Quando ai soggetti fu chiesta la ragione della scelta compiuta, nessuno menzionò mai spontaneamente la posizione dell’articolo di abbigliamento nella serie. Quando poi fu chiesto loro, in modo diretto, se ritenevano che la posizione dell’articolo avesse potuto esercitare un qualche effetto, lo negarono praticamente tutti, di norma rivolgendo un’occhiata preoccupata allo sperimentatore, quasi avessero la sensazione di aver frainteso la domanda o di avere a che fare con un tipo un po’ eccentrico. I soggetti offrivano ragioni alternative per giustificare le loro scelte: un tessuto migliore, una stoffa più soffice, un colore più attraente, e così via. Dunque, i soggetti erano del tutto ignari di ciò che aveva causato la loro scelta (una tendenza sistematica a rivolgere l’attenzione al lato destro); s’impegnavano però in un’attività di confabulazione, giustificando le loro scelte con ragioni ricavate da teorie esplicative socialmente condivise oppure da una teorizzazione idiosincratica. 31 L’unico caso in cui la teorizzazione si è rivelata accurata, quello dei giudizi sull’intelligenza, è spiegabile alla luce del fatto che la cultura specifica quali tipi di fattori devono influenzare un giudizio sull’intelligenza (e in che modo devono farlo) assai più chiaramente di quanto non faccia con i giudizi concernenti il gradimento, l’empatia o la flessibilità. Questi dati sperimentali (che potrebbero essere moltiplicati a piacere) mostrano che i comportamenti umani possono rispondere a fattori motivazionali non disponibili per l’introspezione e l’esplicitazione dichiarativa – sono prove di cognizione sociale inconscia. Ma ancora più importante ai fini del nostro ragionamento è il rilievo che i partecipanti alle ricerche appena esaminate, una volta invitati a esprimersi in merito alle cause delle loro azioni, non hanno esitato a dichiarare, e in assoluta buona fede, quelli che erano stati i loro motivi coscienti e razionali. Insomma, i soggetti sperimentali non hanno fornito ricostruzioni di processi mentali reali, basate su una consapevolezza introspettiva diretta; si sono impegnati piuttosto in un’attività razionalizzante o confabulatoria: hanno cioè fabbricato, in base a teorie esplicative socialmente condivise, o a una teorizzazione idiosincratica, spiegazioni ragionevoli ma immaginarie della propria condotta. Con le parole di Nisbett e Wilson: La precisione di ciò che viene riferito soggettivamente è così scarsa da permetterci di supporre che quel poco di introspezione realmente presente non basti a darci delle relazioni sufficientemente corrette e attendibili. [...] Ciò che viene riferito dal soggetto sulle sue operazioni mentali superiori è talora corretto, ma anche i casi di descrizioni pertinenti non sono dovuti a una consapevolezza introspettiva diretta. Al contrario, sono dovuti a un uso casualmente pertinente di teorie esplicative precostituite32. FIGURA 3.2. Risultati dell’esperimento di Nisbett e Bellows. Nella figura sono riportati: (a) la media dei resoconti «introspettivi» dei fattori su ognuno dei giudizi (basata sulle risposte di 64 soggetti che sono stati esposti a ciascuno dei 5 fattori); (b) la media degli effetti previsti (basata sulle risposte di 34 osservatori); (c) la media degli effetti reali dei fattori (ricavata dalla media dei giudizi formulati dai 64 soggetti esposti a un particolare fattore meno la media dei giudizi formulati dai 64 soggetti non esposti al fattore stesso). Le prime due misure sono basate sulle medie di una scala a 7 punti; la terza si fonda sulla sottrazione di due medie su una scala a 17 punti. Fonte: R.E. Nisbett e N. Bellows, Verbal reports about causal influences on social judgments: Private access versus public theories, in «Journal of Personality and Social Psychology», 35, 1977, pp. 613-24. 126 È questo un modo scettico e dissacrante di guardare alle azioni umane, che si situa alla confluenza di varie tradizioni di pensiero: da un lato, una tradizione di pensiero critico che rimanda al concetto freudiano di razionalizzazione e a quello marxiano di ideologia; dall’altro lato, le obiezioni rivolte al mentalismo ingenuo tanto dagli psicologi comportamentisti che da Wittgenstein e Ryle. In questo Nisbett e Wilson, Telling more than we can know cit., p. 233 (la traduzione è in Jervis, Presenza e identità cit., p. 180, n. 1). 32 127 quadro, il presupposto mentalistico ingenuo, per cui deve sempre esistere un evento mentale (un’intenzione) che precede e determina la singola azione del soggetto, si rivela la radice di un’ideologia, che Ryle ha definito «la leggenda intellettualistica». Il comportamento intelligente, sostiene il filosofo, pur essendo il prodotto di un repertorio di «sapere come» non descrivibili, viene trattato correntemente come se fosse costruito sulla base di un sapere «intellettuale», e come tale descrivibile33. Ma questa descrivibilità (il «saper spiegare i motivi», il «saper dire perché») è, aggiunge Ryle, sempre a posteriori, ovvero non ha carattere progettuale bensì giustificativo. A questo modo «intellettualistico» di guardare alle azioni umane possiamo contrapporre un’immagine alternativa. L’agente umano non è un organismo che si trova primariamente in uno stato di quiete, e che «poi» si muove, ogni volta per un dato scopo; è invece una struttura primariamente semovente. Pertanto, è improprio domandarsi quando abbiamo dato inizio a un’azione; o anche quando si è formato in noi un piano di comportamento rivolto a un fine. Si deve dire piuttosto che l’agente è da sempre immerso in un sistema di schemi cognitivo-motori (saper camminare, sapere una lingua, saper riconoscere facce ed espressioni, e così via) e di saper fare sociali (scripts), che ininterrottamente sono modificati e riproposti a seconda delle circostanze34. Da sempre siamo in moto verso qualcosa: in questo flusso non esiste – in un certo senso – nessuna iniziativa veramente nuova, perché ogni brano della nostra vita, oltre ad aver luogo sulla spinta e nella fluidità di una corrente complessa di interazioni, riutilizza, riadattandole, strutture già messe a punto in qualche momento del passato. E immersi in questo flusso di azioni, ricorriamo al sapere dichiarativo o descrittivo per dire, o meglio raccontare a noi stessi: «‘questa è proprio la cosa che voglio fare’, oppure ‘quella che ho fatto è la cosa che davvero volevo fare’, ‘questo pensiero è proprio ciò che mi va di pensare’»35. Insomma, qualifichiamo un nostro comportamento come deliberato e volontario tutte le volte 33 Secondo la leggenda intellettualistica, scrive Ryle, «qualsiasi tipo di attività eredita il suo diritto a essere considerata un’operazione intelligente da un’operazione interna antecedente, la quale consiste nel pianificare il da farsi»: G. Ryle, The Concept of Mind (1949), Routledge, London 2009, p. 20 (trad. it. Il concetto di mente, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 26-27). 34 Jervis, Fondamenti di psicologia dinamica cit., p. 257. Cfr. anche Id., Prime lezioni di psicologia, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 88-96. 35 Jervis, Fondamenti di psicologia dinamica cit., p. 259. 128 che riusciamo a descriverlo nell’ambito di una razionalizzazione coerente e socialmente accettabile. (Ma talvolta si può fallire: questo è il caso, ad esempio, delle condotte discrasiche.) In conclusione, l’introspezione, nella misura in cui è intesa come una fonte di conoscenza delle cause dei nostri giudizi, decisioni e comportamenti, è un’illusione. Al suo posto, vi è un meccanismo di riappropriazione descrittiva a posteriori dei prodotti delle nostre elaborazioni cognitive inconsce: «la capacità di rimotivare ex post le proprie azioni, ovvero la capacità di ‘approvare’ di continuo ciò che si sta facendo»36. 3. Parità io/altro o senso interno? Nel quadro teorico e sperimentale sin qui esaminato il soggetto non gode più di un accesso privilegiato alla propria interiorità. È piuttosto impegnato in un’attività interpretativa basata su meccanismi informati da teorie esplicative che si applicano in egual misura a lui stesso e agli altri; l’input di tali meccanismi è l’osservazione di stati di cose esterni, ossia il comportamento del soggetto e la situazione in cui esso agisce; informazioni, dunque, nei cui riguardi il soggetto non gode di alcuna particolare autorità epistemica. È questa una teoria della conoscenza di sé che stabilisce «una parità fra l’io e l’altro» (vedi sopra la n. 23). Con le parole di Ryle: Il tipo di cose che posso scoprire su me stesso è lo stesso tipo di cose che posso scoprire sulle altre persone, e i metodi per scoprirle sono gli stessi [...]. [I]n linea di principio, anche se non in pratica, i modi in cui Mario Rossi scopre cose su Mario Rossi sono gli stessi modi in cui Mario Rossi scopre cose su Giovanni Bianchi37. In psicologia sociale Daryl Bem è stato il primo a concepire la conoscenza di sé in termini di parità io/altro. Riferendosi all’orientamento metodologico di Skinner ma con una posizione che presenta affinità anche con l’interazionismo simbolico, la sua teoria dell’autopercezione asserisce che gli agenti conoscono i propri stati interni in virtù di un processo del tutto analogo a quello che ha luo- 36 37 Jervis, La rivincita dell’inconscio, in Id., Il mito dell’interiorità cit., p. 33. Ryle, The Concept of Mind cit., p. 138; trad. it. p. 152 modificata. 129 go quando si conoscono gli stati interni altrui, «in parte inferendoli dalle osservazioni del proprio comportamento esplicito e/o dalle circostanze in cui questo si verifica»38. All’impostazione di Bem, Nisbett e Wilson aggiungono l’idea che i dati comportamentali e contestuali sono gli input di meccanismi che utilizzano teorie che si applicano in egual misura a noi stessi e agli altri. Ciò si evince nel modo più chiaro nell’esperimento basato sul paradigma attore-osservatore. Il lettore ricorderà che le previsioni del gruppo degli osservatori sono risultate statisticamente indistinguibili dai resoconti «introspettivi» degli attori; dal che si può arguire che i due gruppi hanno prodotto le risposte nel medesimo modo, ovvero «generando o applicando teorie causali simili»39. In questa formulazione, la teoria della parità io/altro ha trovato consenso presso quegli psicologi che spiegano l’ontogenesi delle capacità mentalistiche in base alla cosiddetta «teoria della teoria»40. Alison Gopnik, ad esempio, sostiene che la lettura della propria mente è resa possibile dalla medesima teoria psicologica ingenua su cui si basa la lettura della mente altrui; e ciò le consente di fare la seguente previsione: qualora la teoria non abbia ancora raggiunto il grado di sviluppo richiesto ai fini dello svolgimento di un compito di mentalizzazione in terza persona, essa non consentirà neppure l’espletamento del corrispondente compito in prima persona41. Tale previsione è stata messa alla prova – fra l’altro – impiegando una variante del celebre test della credenza erronea, nota come «compito degli Smarties»42. Al bambino veniva mostrato un tubetto di caramelle Smarties e gli si chiedeva che cosa pensava contenesse: la risposta era «Smarties» (o «caramelle»). Si apriva quindi la scatola e si mostrava che invece conteneva una matita. Si ricollocava la matita nella scatola che veniva nuovamente chiusa; e al bambino si rammentava che fuori della stanza c’era un amico in attesa di entrare. A quel punto era posta la domanda test in terza persona: «Quando mostrerò al tuo amico la scatola, che cosa penserà che contiene?»; e subito dopo la stessa domanda era posta in prima persona: «Quando la prima volta ti ho fatto vedere la scatola, prima che venisse aperta, che cosa pensavi ci fosse dentro?». I risultati attestano una correlazione significativa fra la capacità del bambino di rispondere alla domanda concernente se stesso e la capacità di rispondere alla domanda riguardante l’altro bambino. Sembrerebbe un chiaro caso di prestazione parallela in un compito in prima persona e in un compito in terza persona, così come è previsto dalla teoria della parità io/altro. A ciò va aggiunto sia che una meta-analisi ha indicato che nello sviluppo tipico la prestazione nei compiti di credenza erronea in prima e in terza persona è praticamente identica a tutte le età (fig. 3.3); sia che alcuni esperimenti hanno documentato che bambini con disturbi dello spettro autistico (notoriamente in grave difficoltà con compiti mentalistici) manifestano il medesimo ritardo nell’esecuzione delle due versioni del compito degli Smarties43. I pazienti con disturbi dello spettro autistico hanno fornito altri dati a sostegno di una simmetria funzionale fra la mentalizzazione in prima e in terza persona. Uno studio ha indagato la capacità introspettiva di tre adulti affetti da sindrome di Asperger. La loro abilità mentalistica differiva: Robert era in grado di svolgere tutti i compiti di teoria della mente del secondo ordine; Nelson riusciva a eseguirne solo alcuni; Peter superava soltanto i compiti del primo ordine44. Le 38 D.J. Bem, Self-Perception Theory, in L. Berkowitz (a cura di), Advances in Experimental Social Psychology, Academic Press, New York 1972, vol. 6, p. 222, corsivo dell’autore. 39 Telling more than we can know cit., pp. 250-51. Cfr. anche R.E. Nisbett e L. Ross, Human Inference: Strategies and Shortcomings of Social Judgment, PrenticeHall, Englewood Cliffs 1980 (trad. it. L’inferenza umana. Strategie e lacune del giudizio sociale, il Mulino, Bologna 1989). 40 Secondo la teoria della teoria, siamo in grado di fare psicologia ingenua perché possediamo una teoria spontanea, o primaria, della mente, ovvero un corpus di conoscenze integrate e coerenti relative al dominio dei fenomeni psicologici. Cfr. C. Meini, Psicologia ingenua e intelligenza sociale, in Marraffa e Paternoster (a cura di), Scienze cognitive cit., p. 150. 41 A. Gopnik, How we know our minds: The illusion of first-person knowledge of intentionality, in «Behavioral and Brain Sciences», 16, 1993, pp. 1-14. 42 A. Gopnik e J.W. Astington, Children’s understanding of representational change and its relation to the understanding of false belief and the appearance-reality distinction, in «Child Development», 59, 1988, pp. 26-37. 43 Cfr. per es. N. Fisher, F. Happé e J. Dunn, The relationship between vocabulary, grammar, and false belief task performance in children with autistic spectrum disorders and children with moderate learning difficulties, in «Journal of Child Psychology and Psychiatry», 46, 2005, pp. 409-19. 44 R.T. Hurlburt, F. Happé e U. Frith, Sampling the form of inner experience in three adults with Asperger syndrome, in «Psychological Medicine», 24, 1994, pp. 38595. Per superare un test di teoria della mente del primo ordine si deve comprendere che un determinato agente ha una credenza erronea sul mondo; per superare un test del secondo ordine si deve capire che un agente A ha una credenza erronea sulla credenza di un altro agente B (questi compiti sono svolti a partire dai 7 anni di età). 130 131 campione, l’esperimento è stato citato a sostegno dell’ipotesi che gli Asperger abbiano gravi difficoltà ad accedere ai loro eventi mentali; il che confermerebbe che in questi soggetti il deficit a carico della teoria psicologica ingenua interessa tanto la lettura delle menti altrui che la mentalizzazione in prima persona47. FIGURA 3.3. Analisi di 235 condizioni (117 condizioni «sé» confrontate con 118 condizioni «altro») da cui non emerge alcuna differenza fra le risposte corrette dei bambini a domande concernenti credenze erronee in prima e in terza persona. Fonte: H. Wellman, D. Cross e J. Watson, Meta-analysis of theory-of-mind development: The truth about false belief, in «Child Development», 72, 2001, pp. 655-84. relazioni introspettive di questi soggetti sono state analizzate con la tecnica detta del «campionamento dell’esperienza»: i partecipanti sono muniti di un dispositivo che, a intervalli di tempo prefissati, emette un bip; in quell’istante essi devono cercare di «congelare» la loro esperienza mentale e annotarla in un quaderno45. I soggetti normali riportano esperienze interne riconducibili a quattro categorie: verbalizzazione interna, immagini visive, pensieri non simbolizzati (ossia pensieri senza parole o immagini) e sensazioni (localizzate nel corpo). I contenuti dei resoconti introspettivi dei tre Asperger si sono rivelati molto diversi: dopo il segnale acustico, Robert e Nelson descrissero soltanto immagini visive e sensazioni; Peter non fu in grado di riferire alcun evento mentale interno46. Malgrado l’esiguità del Si noti, però, che nessuna delle teorie della parità io/altro fin qui menzionate è in grado di dar conto esaustivamente della conoscenza di sé; sempre viene lasciato un margine per una forma di conoscenza della propria mente qualitativamente diversa dalla conoscenza delle menti altrui48. Per esempio, Bem riconosce che la parità vale solamente «nella misura in cui gli indizi (cues) interni sono deboli, ambigui o non interpretabili»49; il che lo porta ad ammettere che la conoscenza che abbiamo di noi stessi è solo «parzialmente» fondata su indizi esterni. Dal canto loro, Nisbett e Wilson tracciano una netta distinzione fra i processi causali soggiacenti i giudizi, le decisioni, le emozioni e le sensazioni e il «contenuto mentale», ovvero i giudizi, le decisioni, le emozioni e le sensazioni stesse. A questo contenuto il soggetto ha «accesso diretto», e ciò gli consente di conoscerlo con certezza pressoché totale; ai processi che plasmano il comportamento, invece, non si ha alcun accesso50. Infine, Gopnik ammette che abbiamo «un accesso autenticamente diretto e speciale a certi tipi di evidenza in prima persona, [che] può spiegare il fatto che siamo in grado di ragionare sui nostri stati psicologici quando siamo assolutamente immobili e in silenzio», anche se poi è possibile «ignorare tali evidenze con estrema facilità»51. Ma poiché tutti questi studiosi non 45 Cfr. R.T. Hurlburt e E. Schwitzgebel, Describing Inner Experience? Proponent Meets Skeptic, MIT Press, Cambridge (MA) 2007. 46 Anche se, chiariscono U. Frith e F. Happé, «fu possibile discutere con [Pe- ter] l’esperienza interna che stava vivendo durante alcuni colloqui»: Theory of mind and self-consciousness: What is it like to be autistic?, in «Mind & Language», 14(1), 1999, p. 14. Anche in questo caso, però, le esperienze avevano un carattere prevalentemente visivo. 47 P. Carruthers, Autism as mind-blindness: An elaboration and partial defence, in P. Carruthers e P. K. Smith (a cura di), Theories of Theories of Mind, Cambridge UP, Cambridge 1996, p. 261; Frith e Happé, Theory of mind and self-consciousness cit., p. 14. 48 Schwitzgebel, Introspection cit., par. 2.1.3. 49 Bem, Self-Perception Theory cit., p. 5. 50 Telling more than we can know cit., p. 255. Questo punto è ribadito da T. Wilson, Strangers to Ourselves, Harvard UP, Cambridge (MA) 2002, pp. 17-18. Tuttavia Nisbett e Ross sembrano escludere la possibilità di accedere introspettivamente tanto alle cause degli stati interni che agli stati stessi: cfr. Human Inference cit., pp. 200-202. 51 Gopnik, How we know our minds cit., pp. 11-12. 132 133 formulano ipotesi circa questa presunta conoscenza diretta di sé, la loro teoria risulta gravemente incompleta. Al fine di offrire una teoria di quella parte della conoscenza di sé che parrebbe non avere natura interpretativa, alcuni studiosi hanno compiuto, con maggiore o minore radicalità, un ritorno a posizioni più tradizionali, intendendo l’introspezione come un processo che consente di accedere in modo relativamente diretto e non interpretativo ad almeno alcuni eventi mentali. Secondo queste teorie del «senso interno», l’introspezione non consiste nella consultazione di un repertorio teorico al fine di interpretare informazioni extra-mentali (dati comportamentali e contestuali); è piuttosto un’operazione che si avvale di meccanismi che ricevono informazioni concernenti il mondo interiore attraverso un canale relativamente diretto52. Il tentativo di conferire plausibilità psicologica alla concezione del senso interno si declina in varie forme. Secondo la versione funzionalista e/o rappresentazionalista, l’autoattribuzione mentalistica è realizzata da meccanismi che elaborano informazioni concernenti il profilo funzionale o il contenuto rappresentazionale degli stati mentali, o ambedue i tipi di informazione53. Quest’ultimo è il caso della teoria dell’introspezione proposta da Shaun Nichols e Stephen Stich54. I due studiosi distinguono fra il riconoscimento (la semplice attribuzione) di uno stato mentale e il ragionamento che su tale stato si può condurre, sottolineando poi come entrambe queste operazioni possano essere effettuate in prima e in terza persona. Ora, mentre il riconoscimento in terza persona e il ragionamento in prima e terza persona poggiano sulla medesima teoria psicologica ingenua (da questi autori intesa come un corpus di informazioni concernenti la sfera del mentale), i meccanismi deputati a rilevare i propri stati mentali sono autonomi dai meccanismi che si occupano degli stati mentali altrui. Più precisamente, Nichols e Stich ipotizzano l’esistenza di due (o più) meccanismi di automonitoraggio, uno (almeno) per monitorare e fornire conoscenza dei propri stati percettivi, e un altro per monitorare e fornire conoscenza dei propri atteggiamenti proposizionali55. Dunque, ad esempio, se S crede che p, e si attiva l’appropriato meccanismo di automonitoraggio, questo «copia» la rappresentazione p contenuta nella «scatola» delle credenze di S, «incolla» questa copia in uno schema rappresentazionale della forma «io credo che», e ricolloca questa rappresentazione di secondo ordine nella scatola delle credenze di S. L’ipotesi dei meccanismi di automonitoraggio riguarda esclusivamente l’autoattribuzione di stati mentali. Per quanto riguarda l’eteroattribuzione di stati mentali e il ragionamento mentalistico sia in prima che in terza persona, Nichols e Stich riconoscono la validità della teoria della teoria. Ciò consente loro di delimitare la portata degli esperimenti che attestano effetti di confabulazione: gli errori compiuti dai partecipanti a questi esperimenti riguardano non già l’autoattribuzione di stati mentali ma il ragionamento mentalistico in prima persona. Ossia: comprendere le cause del proprio comportamento richiede di ragionare sugli stati mentali, e questo è senz’altro un processo carico di teoria. Pertanto, se questa teoria (la teoria psicologica ingenua) non ha le risorse necessarie per dar conto di una determinata condotta, il soggetto commetterà errori inferenziali in relazione tanto agli stati mentali altrui che a quelli propri. In altre parole, la conoscenza di sé può contare su due metodi: è vero, in talune circostanze il soggetto interpreta in base a una teoria (il che può dar luogo a discorsi confabulatori); ma è altresì vero che in altre occasioni egli gode di un accesso alla propria mente che è diretto e non interpretativo56. Dal momento che la teoria dei meccanismi di automonitoraggio asserisce che l’autoattribuzione mentalistica non si fonda sulla teoria psicologica ingenua, essa prevede la dissociabilità (diacronica e sincronica) fra le capacità di mentalizzare in prima e in terza persona. A conforto di ciò Nichols e Stich sostengono – contro Gopnik – che in relazione a taluni compiti sperimentali, in luogo del parallelismo 52 Qui l’aggettivo «interno» non significa necessariamente «non inferenziale». Il canale di informazioni fra il ricevente (il meccanismo introspettivo) e la fonte (la propria mente) è relativamente diretto nel senso che non si avvale di alcuna «informazione esterna»; ma l’inferenza può nondimeno essere richiesta. Cfr. P. Robbins, The ins and outs of introspection, in «Philosophy Compass», 1(6), 2006, p. 618. 53 Ivi, pp. 618-19. Più avanti prenderemo in esame un’altra versione della concezione del senso interno, quella simulazionista proposta da Alvin Goldman. 54 S. Nichols e S. Stich, Mindreading: An Integrated Account of Pretence, SelfAwareness, and Understanding Other Minds, Oxford UP, Oxford 2003, cap. 4. 55 L’idea di un monitor interno risale almeno a D. Armstrong, A Materialist Theory of the Mind, Routledge, London 1968; ed è stata elaborata, fra gli altri, da W. Lycan in Consciousness, MIT Press, Cambridge (MA) 1987. Tuttavia, mentre questi due studiosi dichiarano di voler utilizzare questa idea per costruire una teoria della coscienza fenomenica, Nichols e Stich se ne avvalgono per elaborare una teoria della conoscenza di sé. 56 Cfr. Goldman, Simulating Minds: The Philosophy, Psychology, and Neuroscience of Mindreading, Oxford UP, Oxford 2006, p. 232. 134 135 previsto dalla teoria della parità io/altro, si riscontrano all’opposto asincronie evolutive. Un esempio, a parere dei due studiosi, è lo studio di H. Wimmer, G. Hogrefe e J. Perner57. Alcuni bambini guardavano/non guardavano dentro una scatola; dopodiché veniva loro chiesto: «sai/non sai che cosa c’è dentro la scatola?». Questa era la versione in prima persona del compito; nella versione in terza persona i bambini osservavano un altro bambino che guardava/non guardava dentro la scatola; e quindi veniva posta la domanda: «Quel bambino sa/non sa che cosa c’è dentro la scatola?». Malgrado la somiglianza fra le due versioni del compito, i bambini riuscivano meglio nella versione in prima persona58. Inoltre, essi citano dati concernenti lo svolgimento del compito degli Smarties da parte di soggetti portatori di disturbi dello spettro autistico che, in antitesi con quanto asserito sopra (cfr. lo studio citato in n. 43), documenterebbero una prestazione significativamente migliore con la domanda in prima persona59. Nei pazienti autistici, dunque, la consapevolezza di sé potrebbe essere relativamente risparmiata; una congettura questa che i due studiosi sviluppano nell’ipotesi di una doppia dissociazione fra schizofrenia e autismo. Nei soggetti afflitti da disturbi autistici la capacità di riconoscere i propri stati mentali sarebbe intatta a dispetto del deficit che interessa la teoria psicologica ingenua; l’inverso si osserverebbe in pazienti schizofrenici con esperienze di passività (deliri di controllo, inserimento o sottrazione o trasmissione di pensieri). Per sostenere questa tesi Nichols e Stich negano che lo studio sopracitato, che ha indagato l’introspezione di tre Asperger col metodo di campionamento dell’esperienza, possa essere interpretato come prova in favore della teoria della parità io/altro. Il fatto che da questa ricerca emerga una marcata differenza fra lo spazio interno di un Asperger, prevalentemente popolato da immagini visive e sensazioni corporee, e quello di un soggetto normale, è pienamente congruente con la tesi che in questi soggetti i meccanismi basati sulla teoria psicologica ingenua sono compromessi, mentre i meccanismi di automonitoraggio continuano a operare a livelli normali. Infatti, a giudizio di Nichols e Stich, le anomalie riscontrate nelle relazioni introspettive dei tre Asperger si spiegano alla luce del ruolo assai limitato che gli eventi mentali ricoprono nella vita di questi soggetti in conseguenza dell’insufficiente comprensione delle menti altrui60. Nel caso di pazienti schizofrenici con esperienze di passività si osserverebbe invece la dissociazione opposta a quella appena discussa: la compromissione interesserebbe cioè i meccanismi di automonitoraggio ma non quelli guidati dalla teoria psicologica ingenua. A tale proposito, Nichols e Stich citano uno studio condotto su quattro pazienti schizofrenici, di nuovo con il metodo di campionamento dell’esperienza61. Due pazienti riferirono esperienze e pensieri strani o «abborracciati»; un terzo paziente, sintomatico per tutto il campionamento, si rivelò incapace di svolgere il compito; un quarto paziente fu in grado di svolgere il compito ma solo fino al momento in cui divenne sintomatico. Sembra dunque che in fase sintomatica gli ultimi due soggetti non avessero alcun accesso alla loro esperienza interna. Se a questo si aggiunge che alcuni studi hanno documentato che pazienti con sintomi di passività sono stati in grado di svolgere compiti che misurano la capacità di mentalizzare in terza persona62, ecco che la tesi di una doppia dissociazione prende corpo. Nichols e Stich si sforzano, dunque, di resuscitare la tradizionale visione dell’introspezione come di uno speciale accesso al proprio mondo interno. Ma la loro teoria si avvolge in varie difficoltà. Una è questa: la teoria non ci dice come i meccanismi di automonitoraggio farebbero a sussumere un certo evento mentale sotto un determina- 57 Children’s understanding of informational access as a source of knowledge, in «Child Development», 59(2), 1988, pp. 386-96. 58 Si veda però P. Carruthers, Simulation and the first person, in «Philosophical Studies», 144, 2009, p. 471, in cui è revocata in dubbio la confrontabilità dei due compiti. Infatti, per rispondere alla domanda in terza persona il bambino deve ragionare in base alla generalizzazione «vedere conduce a sapere»; ma per rispondere alla domanda in prima persona, egli può limitarsi ad accedere (o meno) alla sua conoscenza del contenuto della scatola. Ossia egli può sostituire la domanda del secondo ordine posta dallo sperimentatore con la domanda del primo ordine «che cosa c’è nella scatola?», rispondendo «sì» (che sa che cosa c’è nella scatola) se una risposta gli viene in mente, «no» in caso contrario. 59 Cfr. per es. J. Perner, U. Frith, A. Leslie e S. Leekam, Explorations of the autistic child’s theory of mind: Knowledge, belief, and communication, in «Child Development», 60, 1989, pp. 689-700. Nichols e Stich, Mindreading cit., p. 186. R.T. Hurlburt, Sampling normal and schizophrenic inner experience, Plenum Press, New York 1990. 62 R. Corcoran, G. Mercer e C.D. Frith, Schizophrenia, symptomatology and social inference: Investigating “theory of mind” in people with schizophrenia, in «Schizophrenia Research», 17(1), 1995, pp. 5-13; C. Frith e R. Corcoran, Exploring ‘theory of mind’ in people with schizophrenia, in «Psychological Medicine», 26, 1996, pp. 521-30. 136 137 60 61 to tipo di atteggiamento proposizionale o di percetto63. Si potrebbe rispondere arricchendo la teoria con l’ipotesi della presenza di uno specifico meccanismo di automonitoraggio per ciascun tipo di atteggiamento proposizionale e per ciascuna modalità percettiva. Ma questa congettura mette capo a previsioni astruse. Dal momento che ogni meccanismo di automonitoraggio è suscettibile di compromissione selettiva, l’ipotesi conduce alla previsione di una moltitudine di dissociazioni – per esempio, soggetti che sono in grado di attribuirsi credenze ma non desideri, o esperienze visive ma non uditive, e così via. Di una dissociabilità così imponente non vi è però la minima traccia64. Una differente versione della teoria del senso interno è quella che Alvin Goldman ha proposto entro la cornice della teoria della simulazione mentale. Qui la capacità di leggere le menti altrui si basa non tanto su una forma di teorizzazione implicita, quanto piuttosto sulla rappresentazione degli stati e dei processi psicologici altrui attraverso un processo di simulazione interna, ossia un processo di generazione nella propria mente di stati e processi quanto più possibile simili a quelli dell’agente simulato. In tal modo, le medesime risorse che sono utilizzate nei nostri stati e processi psicologici vengono «riciclate» per fornire una comprensione degli stati e dei processi psicologici altrui. Questo processo di «riciclaggio» immaginativo richiede vari meccanismi di elaborazione di informazione. Un simulatore S simula l’eziologia psicologica delle azioni del bersaglio B essenzialmente in due passi. Primo, S genera stati ipotetici o immaginari nella propria mente, i quali devono corrispondere (almeno parzialmente) agli stati di B. Secondo, S immette gli stati immaginari in un opportuno meccanismo cognitivo (per esempio il sistema esecutivo) che è messo offline, ossia disimpegnato dai sistemi di controllo motorio. Se il sistema esecutivo di S è simile a quello di B, e gli stati mentali ipotetici che S introduce nel sistema esecutivo corrispondono (almeno parzialmente) a quelli di B, l’output del sistema esecutivo di S potrà essere attendibilmente attribuito a B. In questa prospettiva, afferma Goldman, la lettura della propria mente precede (nell’ontogenesi) la lettura delle menti altrui, e ne costituisce il fondamento65. Il simulatore deve infatti accedere introspetti- vamente ai propri prodotti simulativi non in linea prima di poterli proiettare sull’agente bersaglio; e questa è una forma di accesso diretto. In un primo momento tale accesso è stato inteso in termini fenomenologici: l’introspezione è un processo di rilevamento e classificazione dei propri stati psicologici occorrenti che non dipende affatto da conoscenze teoriche, ma ha luogo invece in virtù di informazioni che vertono sulle proprietà fenomeniche di tali stati66. Successivamente, però, accogliendo alcune obiezioni, Goldman ha drasticamente ridimensionato il ruolo della componente qualitativa ai fini del riconoscimento degli stati psicologici, affermando la centralità delle proprietà neuronali67. I meccanismi introspettivi rilevano e classificano gli stati psicologici sulla base delle loro proprietà neuronali, in modo analogo ai meccanismi enterocettivi, come il dolore e la fame, che rilevano gli stati corporei sulla base delle loro proprietà fisiche. Pertanto il filosofo ora sostiene che l’introspezione è un processo simile alla percezione, il quale si fonda su un meccanismo di trasduzione che riceve in ingresso le proprietà neuronali degli stati mentali e produce in uscita rappresentazioni in un «codice introspettivo»68. Tale codice rappresenta tipi di categorie mentali e, in base ad essi, classifica gli eventi mentali. Dunque, l’approccio neuronale di Goldman propone una soluzione al problema dell’identificazione del tipo di atteggiamento o del tipo di percetto che abbiamo constatato essere assai problematico per l’approccio funzionalista e rappresentazionalista di Nichols e Stich. E tuttavia è presumibile che differenti tipi di percetto o di atteggiamento proposizionale siano realizzati in aree cerebrali differenti; dal che discende che ogni tipo di percetto o di atteggiamento dipenderà da uno specifico canale informativo capace di alimentare il meccanismo introspettivo. Ma se così è, anche la teoria di Goldman è vulnerabile all’obiezione della dissociabilità massiva sollevata contro la teoria dei meccanismi di automonitoraggio69. Cfr. Goldman, Simulating Minds cit., pp. 238-39. Cfr. M. Engelbert e P. Carruthers, Introspection, in «Wiley Interdisciplinary Reviews: Cognitive Science», 1, 2010, p. 246. 65 A. Goldman, Simulating Minds cit., cap. 9. La stessa posizione si trova in A. Meltzoff e R. Brooks, Self-experience as a mechanism for learning about others, in «Developmental Psychology», 44, 2008, pp. 1257-65. 66 Goldman, The psychology of folk psychology, in «Behavioral and Brain Sciences», 16, 1993, pp. 15-28. 67 Goldman, Simulating Minds cit., cap. 9. 68 Su questo punto il filosofo si basa sulla teoria dell’enterocezione di A.D. Craig (How do you feel? Interoception: The sense of the physiological condition of the body, in «Nature Reviews Neuroscience», 3, 2002, pp. 655-66) e sui modelli computazionali del riconoscimento visivo di oggetti proposti da David Marr e Irving Biederman. 69 Cfr. Engelbert e Carruthers, Introspection cit., p. 247. 138 139 63 64 4. Demistificare l’introspezione II: la confabulazione dei pensieri Alle critiche or ora esposte nei riguardi delle teorie cognitive del senso interno si deve aggiungere quella di Peter Carruthers70. Questo studioso ha sostenuto che, se pure l’accesso agli eventi percettivi è (relativamente) diretto e immediato, l’autoattribuzione degli atteggiamenti proposizionali (giudizi, credenze, decisioni, intenzioni, e così via; d’ora in poi semplicemente «pensieri») ha invece sempre carattere interpretativo, in accordo con quanto sostenuto dalla teoria della parità io/altro. Il risultato è un modello della conoscenza di sé che postula sia un accesso sensoriale sia un’attività interpretativa: l’Interpretive Sensory-Access (ISA) Theory of Self-Knowledge. Per dar conto dell’accesso agli eventi percettivi il modello ISA si struttura intorno alla teoria dello spazio di lavoro globale neuronale. Come abbiamo visto nel secondo capitolo, questa teoria postula una serie di sistemi percettivi che rendono disponibili i loro output – dati sensoriali provenienti dall’ambiente, dati relativi a eventi interni come le immagini mentali e il monologo interiore, dati somatosensoriali e propriocettivi – a una serie di sistemi concettuali «consumatori» (fig. 3.4). Fra questi compaiono sistemi che utilizzano l’output percettivo per formulare giudizi o per prendere decisioni; e fra i sistemi che generano giudizi vi è il sistema (multicomponenziale) deputato alla lettura della mente che, guidato dal quadro teorico della psicologia ingenua, genera credenze di ordine superiore sugli stati mentali altrui e propri. Il sistema di mindreading riceve in ingresso gli stati percettivi trasmessi globalmente, ed è dunque in grado di riconoscere questi percetti e di produrre autoattribuzioni della forma «vedo qualcosa di rosso», «ho sete», «avverto dei brividi», e così via. Si noti che la disponibilità dei dati percettivi al sistema di mindreading è ciò che è legittimo attendersi alla luce dell’ipotesi (assai accreditata) secondo cui la mentalizzazione si è evoluta come capacità di leggere le menti altrui in modo da garantire un vantaggio adattivo nel perseguimento di finalità sociali: anticipare (e talvolta manipola- FIGURA 3.4. Il sistema di mindreading in un’architettura ipersemplificata. I sistemi percettivi rendono disponibili i loro output a una serie di sistemi concettuali consumatori. Alcuni di questi sistemi utilizzano l’output percettivo per generare nuove credenze; altri lo utilizzano per generare decisioni. Tra i sistemi deputati alla formazione dei giudizi che consumano l’output percettivo vi è un sistema di mindreading che genera credenze di ordine superiore circa gli stati mentali propri e altrui. Ogni sistema che genera giudizi può dar luogo a credenze immagazzinate concernenti gli elementi del proprio dominio; e può talvolta accedere a tali credenze ai fini del ragionamento o di altre elaborazioni cognitive. Allo stesso modo, i sistemi decisionali possono produrre non solo intenzioni per il qui-e-ora, ma anche intenzioni immagazzinate (per fare qualcosa in un secondo momento oppure quando si presenteranno specifiche circostanze). Fonte: P. Carruthers, The Opacity of Mind: The Cognitive Science of Self-Knowledge, Oxford UP, Oxford 2011. re) il comportamento di conspecifici71; migliorare il coordinamento di attività cooperative72. Evidentemente, per poter interpretare le azioni altrui i meccanismi di mentalizzazione devono poter accedere alla loro rappresentazione percettiva. 70 P. Carruthers, How we know our own minds: The relationship between mindreading and metacognition, in «Behavioral and Brain Sciences», 32, 2009, pp. 12138; Id., Introspection: divided and partly eliminated, in «Philosophy and Phenomenological Research», 80, 2010, pp. 76-111; Id., The Opacity of Mind: The Cognitive Science of Self-Knowledge, Oxford UP, Oxford 2011. 71 Come è asserito (oramai da più di vent’anni) dai sostenitori della cosiddetta «ipotesi dell’intelligenza machiavellica». Cfr. R. Byrne e A. Whiten (a cura di), Machiavellian Intelligence: Social Expertise and the Evolution of Intellect in Monkeys, Apes, and Humans, Oxford UP, Oxford 1988; A. Whiten e R.W. Byrne (a cura di), Machiavellian Intelligence. Vol. 2, Evaluations and Extensions, Cambridge UP, Cambridge 1997. 72 P. Richerson e R. Boyd, Not By Genes Alone, University of Chicago Press, Chicago 2005; S. Hrdy, Mothers and Others, Harvard UP, Cambridge (MA) 2009. 140 141 Il sistema di mindreading, allora, può accedere a una gran massa di informazioni percettive ma non può attribuirsi direttamente pensieri come giudizi o decisioni: questi infatti non sono trasmessi globalmente; sono invece il prodotto di sistemi consumatori dai cui però il sistema di mindreading non è alimentato direttamente. (Nota in fig. 3.4 l’assenza di frecce di ritorno – vie causali – dagli output dei sistemi deputati alla formazione di giudizi e alla produzione di decisioni al sistema di mindreading, vie che sarebbero invece necessarie per consentire l’accesso introspettivo ai propri giudizi e decisioni.) Il sistema di mindreading deve perciò utilizzare i dati percettivi di cui dispone per inferire quali sono i pensieri dell’agente, esattamente come avviene nel caso della lettura delle menti altrui. Di qui una delle previsioni fondamentali del modello ISA: quando un agente si attribuisce un pensiero ciò avviene sempre in virtù di un’inferenza interpretativa istantanea e inconscia, fondata sulla consapevolezza sensoriale di dati concernenti il proprio comportamento, dati contestuali e/o elementi sensoriali contenuti nella memoria di lavoro (per esempio, un’immagine visiva o una frase nel linguaggio interno). Carruthers offre un gran numero di argomenti in favore del modello ISA. Qui ne considereremo tre: considerazioni relative alla funzione evoluzionistica del mindreading e la letteratura sulla metacognizione; dati tratti dalla letteratura sulla confabulazione che estendono la parità io/altro ai pensieri; dati psicopatologici che confutano l’ipotesi di una doppia dissociazione fra auto- ed etero-attribuzione mentalistica. 4.1. Evoluzione, introspezione e metacognizione Una virtù del modello ISA risiede nella sua parsimonia sul piano della spiegazione evoluzionistica: esso postula infatti un unico percorso filogenetico per la mentalizzazione sia in prima che in terza persona. Se, come vuole questo modello, l’introspezione (o lettura della propria mente) si struttura nell’atto di volgere su se stessi la capacità di lettura della mente altrui, la comparsa della prima capacità costituirà un sottoprodotto dell’evoluzione della seconda73. Al contrario, per le teorie del senso interno vi è un onere esplicativo. Dal momento che postulano meccanismi neurocognitivi deputati alla lettura delle menti altrui e altrettanti dedicati all’introspezione, queste teorie sono tenute a fornire una spiegazione evoluzionistica per la comparsa di ognuno di questi meccanismi. Goldman, ad esempio, ha proposto che l’introspezione sarebbe stata selezionata per prima; solo in un secondo momento la sua integrazione con processi immaginativi e inferenziali a carattere simulativo avrebbe dato luogo a forme di intelligenza sociale. Ma quali pressioni evolutive potrebbero aver portato all’avvento della capacità introspettiva? Una risposta (probabilmente l’unica che fino a oggi è stata proposta) è che l’introspezione si è evoluta per adempiere a un ruolo di supervisione nei riguardi di processi cognitivi di primo ordine: intervenendo in quei processi in caso di difficoltà, avviando nuove strategie, verificando che i compiti venissero svolti secondo le aspettative, e così via. Insomma, essa si sarebbe evoluta per svolgere quell’insieme di compiti cognitivi che è consueto definire «metacognizione»74. Ma quanto è plausibile questa tesi? A parere di Carruthers, assai poco. Secondo il modello canonico dei processi metacognitivi, un metalivello monitora, rappresenta e controlla i processi dei sistemi cognitivi del livello oggetto75. Il metalivello conterrebbe allora un metamodello del livello oggetto, ossia costruirebbe metarappresentazioni dei processi e degli eventi del livello oggetto. La difficoltà qui è che molti processi metacognivi non hanno carattere metarappresentazionale. Un esempio è l’impiego di modelli anticipatori nel controllo dell’azione. Quando un comando motorio è inviato dal centro alla periferia per dar luogo a un’azione, viene creata una copia efferente delle istruzioni motorie, da cui si origina un modello che predice le conseguenze sensoriali del movimento (ossia una rappresentazione dell’esito previsto). Questo modello predittivo è inviato a un sistema comparatore, il quale riceve anche feedback sensoriali dall’azione in corso di svolgimento (fig. 3.5). Quando il sistema identifica discrepanze fra l’esito previsto e quello che di fatto si sta delineando, attiva un algoritmo che consente di apportare rapide correzioni alle istruzioni motorie (e, conseguente- 73 È importante notare, però, che questo fatto non esclude che in una fase successiva la lettura della propria mente sia stata sottoposta a una selezione secondaria; e si può ipotizzare che ciò sia avvenuto in virtù delle sue funzioni difensive: cfr. Wilson, Strangers to Ourselves cit.; Id., Knowing when to ask: Introspection and the adaptive unconscious, in «Journal of Consciousness Studies», 10, 2003, pp. 131-40. Questo è un tema su cui torneremo diffusamente nel quarto capitolo. 74 Cfr. J. Couchman, M. Coutinho, M. Beran e D. Smith, Metacognition is prior, in «Behavioral and Brain Sciences», 32, 2009, p. 142. 75 Cfr. T. Nelson e L. Narens, Metamemory: A theoretical framework and new findings, in G. Bower (a cura di), The Psychology of Learning and Information, Academic Press, New York 1990, pp. 125-73. 142 143 FIGURA 3.5. Il sistema comparatore. Quando il cervello esegue un piano motorio, una «copia efferente» di ogni insieme di istruzioni motorie è trasformata da uno o più sistemi emulatori del corpo e utilizzata per costruire un «modello anticipatorio» delle conseguenze sensoriali attese dell’azione. Tale modello può essere poi confrontato sia con l’intenzione motoria stessa sia con i dati sensoriali in ingresso, rendendo così possibile una rapida correzione dell’azione mentre questa si dispiega. Fonte: M. Synofzik, G. Vosgerau e A. Newen, I move, therefore I am: A new theoretical framework to investigate agency and ownership, in «Consciousness and Cognition», 17, 2008, pp. 411-24. mente, alle contrazioni dei muscoli in periferia) in modo da ottenere una corrispondenza più stretta. Si noti che questo tipo di monitoraggio dell’azione è del primo ordine: non richiede la rappresentazione dell’intenzione motoria, e neppure delle esperienze derivanti dall’azione. E ancor meno richiede un accesso introspettivo a intenzioni o esperienze; tanto più che la velocità con cui opera il processo di monitoraggio lascia ben poco margine per l’introspezione. Dunque, quando i processi metacognitivi non sono metarappresentazionali, il loro ruolo di supervisione non richiede una capacità introspettiva distinta dalla capacità di mentalizzazione in terza persona. Vi sono però processi che, indubitabilmente, sono metacognitivi nel senso di essere metarappresentazionali76. E tuttavia, anche in que- sto caso si può dubitare che l’introspezione si sia evoluta per svolgere i processi metacognitivi in questione. A ben guardare, infatti, questi processi sono sì metarappresentazionali, ma è anche vero che operano senza poter intervenire direttamente sugli stati e i processi rappresentati. Consideriamo le capacità di metamemoria: nella maggior parte dei casi tali capacità si limitano ad avviare un comportamento oppure a intervenire su di esso. Per esempio, un bambino può preferire un compito di memorizzazione a un altro in base al fatto che il primo contiene un numero minore di elementi: ciò richiede una conoscenza della memoria ma non la capacità di intervenire sul processo mnestico stesso. In modo simile, un soggetto che deve memorizzare alcuni numeri può «ripassarli» nel linguaggio interno: in tal modo egli non interviene direttamente sulla memoria; piuttosto esercita su di essa un’influenza comportamentale indiretta. Tuttavia, non è questo che ci aspetteremmo se la metamemoria fosse una capacità introspettiva che si è evoluta ai fini del controllo esecutivo, consentendo ai soggetti di intervenire direttamente sui processi mnestici. In conclusione, possiamo dire che l’ipotesi secondo la quale la capacità introspettiva si sarebbe evoluta al fine di svolgere compiti metacognitivi non è confermata dai dati. Un esame della letteratura sulla metacognizione rivela che in molti casi il suo ruolo di supervisione non è tale da richiedere una capacità introspettiva separata dalla capacità di lettura delle menti altrui; e rivela altresì che gli interventi metacognitivi non esercitano quell’influenza diretta sull’elaborazione cognitiva che la metacognizione dovrebbe invece esercitare se davvero si fosse evoluta a tale scopo. Cfr. per es. J. Metcalfe e A. Shimamura (a cura di), Metacognition: Knowing about Knowing, MIT Press, Cambridge (MA) 1994. 4.2. Dati sulla confabulazione Oltre a queste considerazioni filogenetiche, Carruthers recluta in favore del modello ISA una serie di dati sulla confabulazione (clinica e non). Questi dati mostrano che l’agente piuttosto che avere un accesso diretto ai propri pensieri, interpreta il proprio comportamento, attribuendo pensieri a se stesso nella stessa maniera in cui potrebbe attribuirli a un altro agente. Dunque, la macchina interpretativa è all’opera non solo quando l’agente riferisce le cause dei propri pensieri ma anche quando riferisce i pensieri stessi. Il modello ISA predice la confabulazione dei pensieri; e questa è la sua previsione più importante giacché lo distingue sotto il profilo empirico dalle teorie del senso interno. Queste ultime, infatti, possono anche spiegare la confabulazione dei pensieri, ma solo postulando un duplice accesso ad essi, introspettivo e anche interpretativo, 144 145 76 rendendo così più involuto l’apparato concettuale. Lo verificheremo subito, esaminando alcuni casi di confabulazione di decisioni e giudizi discussi da Carruthers. Confabulazione di decisioni In uno studio di Joaquim Brasil-Neto e collaboratori77, ai partecipanti veniva chiesto di decidere se muovere il dito indice destro o sinistro allorché udivano un clic. All’insaputa dei partecipanti, il clic era provocato dall’accensione del magnete di un apparato di stimolazione magnetica transcranica, utilizzato per stimolare la corteccia motoria dell’emisfero destro o sinistro, che in tal modo causava il movimento del dito. Sebbene il movimento fosse indotto direttamente dalla stimolazione magnetica, e dunque aggirando il processo decisionale, i soggetti hanno rivendicato la paternità dell’atto, dichiarando di aver consapevolmente deciso di muovere il dito. In un’altra ricerca, condotta da Daniel Wegner e Thalia Wheatley, due soggetti (un partecipante e un complice) appoggiavano le dita su una tavoletta montata sul mouse di un computer, muovendo un cursore su uno schermo dove comparivano una cinquantina di piccoli oggetti (fig. 3.6)78. I soggetti udivano in cuffia delle parole e dovevano continuare a muovere il mouse finché non giungeva il segnale di stop (ogni 30 secondi circa). Il partecipante veniva indotto a credere erroneamente di essere stato lui a prendere la decisione di interrompere il movimento del cursore; ciò si otteneva facendogli ascoltare il nome di uno degli oggetti che comparivano sullo schermo poco prima che il complice bloccasse il cursore accanto all’immagine dell’oggetto nominato. Si può allora ipotizzare quanto segue: il sistema di mindreading del partecipante, disponendo dell’informazione che quest’ultimo stava pensando all’oggetto pertinente poco prima che il cursore gli si bloccasse accanto, ha fatto un’inferenza alla migliore spiegazione e concluso che la decisione di posizionare il cursore accanto all’oggetto era stata presa dal partecipante stesso79. 77 J. Brasil-Neto, A. Pascual-Leone, J. Valls-Solé, L. Cohen e M. Hallett, Focal transcranial magnetic stimulation and response bias in a forced choice task, in «Journal of Neurology, Neurosurgery, and Psychiatry», 55, 1992, pp. 964-66. 78 D. Wegner e T. Wheatley, Apparent mental causation: Sources of the experience of the will, in «American Psychologist», 54, 1999, pp. 480-91. 79 Una condizione di controllo ha escluso la possibilità che udire la parola semanticamente rilevante avesse causato un’effettiva decisione di posizionare il cursore accanto all’oggetto nominato. FIGURA 3.6. In alto, due soggetti (un partecipante e un complice) appoggiano le dita su una tavoletta (ispirata alla tavola Ouija) montata sul mouse di un computer, e muovono il cursore su uno schermo dove compare una foto raffigurante una cinquantina di piccoli oggetti. In basso, fluttuazioni nella percezione di intenzionalità a seconda del momento in cui viene udita la parola: se il partecipante ha udito il nome dell’oggetto 5 secondi o 1 secondo prima che il cursore si blocchi accanto all’immagine dell’oggetto nominato, giudica la propria intenzione di bloccare il cursore più elevata rispetto a quando sente il nome 30 secondi prima o 1 secondo dopo lo stop. Fonte: D.M. Wegner, The Illusion of Conscious Will, MIT Press, Cambridge (MA) 2002. 146 147 Si noti: nei due esperimenti appena esaminati non è stata presa alcuna decisione; è stato invece causato un comportamento che ha portato il partecipante a credere di aver preso una decisione. Ma allora un teorico del senso interno potrebbe obiettare: non si può introspettare quello che non c’è! È solo nei casi in cui non c’è una decisione (e di qui generalizzando: in cui non si è formato alcun pensiero) che il soggetto interpreta se stesso; invece, ogni volta che una decisione c’è, è possibile prenderla a oggetto di introspezione. Si tratta però di un’obiezione fragile. Supponiamo pure che vi siano due metodi distinti con cui attribuiamo decisioni a noi stessi (uno introspettivo e l’altro interpretativo – cfr. supra, p. 135). Ma non è strano che il metodo interpretativo debba sempre prevalere nei casi in cui non viene presa alcuna decisione? Un meccanismo introspettivo non dovrebbe avere difficoltà a rilevare un’assenza; e se tale meccanismo segnala che non è stata presa alcuna decisione, mentre nel contempo il sistema di mindreading dà luogo all’autoattribuzione di una decisione, non si capisce perché dovrebbe essere il secondo ad avere sempre la meglio sul primo, dando luogo a risposte confabulate alle domande dello sperimentatore. Insomma, l’introspezione di per sé non ha alcuna proprietà che possa far ipotizzare che la macchina interpretativa prenda il sopravvento tutte le volte che il meccanismo introspettivo segnala che nessuna decisione è stata presa. Una simile ipotesi potrebbe aggiungersi alla teoria che postula l’impiego di due metodi per autoattribuirsi le decisioni solo come un principio ausiliare puramente ad hoc. Confabulazione di giudizi Si ricorderà che nello studio sull’effetto posizione Nisbett e Wilson interpretano i risultati come un caso di confabulazione delle cause della scelta. Per tale motivo questo studio è stato spesso giudicato irrilevante da coloro che ritengono possibile l’introspezione dei giudizi80. Per Carruthers, invece, si tratta di un caso in cui vi è anche confabulazione di giudizio: il partecipante che riferisce il giudizio «questo collant appare più soffice» per giustificare la scelta del collant situato più a destra, erra non soltanto nel teorizzare la causa della sua scelta ma anche nell’attribuirsi il giudizio che il collant era più soffice. Per sostanziare questa interpretazione il filosofo attinge soprattutto alle ricerche sulla gestione della dissonanza cognitiva, inaugurate da Leon Festinger, e a quelle condotte nel quadro della teoria dell’autopercezione di Bem (cfr. supra, par. 3). Consideriamo lo studio di Gary Wells e Richard Petty, condotto nel quadro della teoria dell’autopercezione81. Un gruppo di partecipanti fu indotto ad annuire col capo mentre ascoltava una trasmissione radiofonica simulata (ufficialmente il compito dei soggetti era quello di vagliare la comodità e la resistenza delle cuffie indossate). Ne è risultato che essi giudicavano i contenuti della trasmissione più convincenti rispetto a quanto dichiarato da quei partecipanti che nell’ascoltarlo erano stati indotti a scuotere il capo. Pare dunque che essi abbiano interpretato se stessi come avrebbero interpretato un altro soggetto che si cimenta nel medesimo compito: banalmente, se si osserva un’altra persona annuire mentre ascolta un messaggio, si suppone che sia d’accordo; se invece la si osserva scuotere la testa, si suppone che sia in disaccordo. Insomma, i partecipanti avrebbero ragionato: «poiché sto annuendo/scuotendo la testa, questa è una prova che io credo/non credo la tesi asserita». Si potrebbe però obiettare che l’atto di annuire potrebbe aver causato pensieri maggiormente positivi intorno al messaggio, dando così origine a un giudizio più favorevole che è stato poi fatto oggetto di introspezione. Per escludere questa interpretazione Briñol e Petty hanno replicato l’esperimento sia manipolando la persuasività del messaggio, sia chiedendo ai partecipanti di rievocare e riferire ciò che aveva attraversato la loro mente mentre ascoltavano il messaggio (per esempio, ciò che avevano detto a loro stessi)82. Alcuni partecipanti udirono argomenti relativamente convincenti in favore di una certa tesi (un editoriale che sosteneva che gli studenti dovevano circolare nel campus muniti di una tessera di riconoscimento); altri partecipanti udirono argomenti fiacchi e irrilevanti in merito alla stessa tesi. Nella condizione «persuasiva» i risultati sono stati gli stessi osservati da Wells e Petty. Ma nella condizione «non persuasiva» lo schema si è capovolto: i partecipanti che scuotevano il capo esprime- Cfr. per es. G. Rey, (Even higher-order) intentionality without consciousness, in «Revue Internationale de Philosophie», 62, 2008, pp. 51-78. 81 G. Wells e R. Petty, The effects of overt head movements on persuasion: Compatibility and incompatibility of responses, in «Basic and Applied Social Psychology», 1, 1980, pp. 219-30. 82 P. Briñol e R. Petty, Overt head movements and persuasion: A self-validation analysis, in «Journal of Neurology, Neurosurgery, and Psychiatry», 84, 2003, pp. 1123-39. 148 149 80 vano un grado di convincimento più elevato rispetto ai partecipanti che annuivano (fig. 3.7). Ciò confligge con l’ipotesi secondo cui l’atto di annuire avrebbe prodotto pensieri positivi intorno al messaggio, dando quindi luogo a un giudizio più favorevole. La spiegazione corretta emerge una volta preso in esame ciò che aveva attraversato la mente dei partecipanti mentre ascoltavano il messaggio. Quando il messaggio era convincente, i partecipanti tendevano a formulare commenti interni positivi (per esempio, mormorando a se stessi nel linguaggio interno «sarebbe davvero una bella cosa!»); quando invece il messaggio non era convincente, essi tendevano a formulare commenti negativi (per esempio, «che idiozia!»). È plausibile supporre allora che i partecipanti abbiano interpretato l’annuire o lo scuotere la testa come espressione, rispettivamente, dell’accordo o del disaccordo con le reazioni avute inizialmente nei riguardi del messaggio. Di conseguenza, in caso di commenti positivi, l’annuire aumentava il grado di credenza mentre lo scuotere la testa lo riduceva; in caso di commenti negativi, lo schema si invertiva. Questi dati sono pienamente congruenti con il modello ISA: in assenza di un accesso immediato ai giudizi, i partecipanti hanno formulato i loro resoconti verbali utilizzando tutta l’informazione a loro disposizione; e una fonte di tale informazione è stata la facoltà di mindreading, guidata in parte da indizi comportamentali. Si noti infine come la tesi che il sistema di mindreading è guidato da una teoria psicologica ingenua offra una spiegazione unitaria dei risultati dei due esperimenti sulla confabulazione di giudizi sopra esaminati. In tutti e due i casi i soggetti hanno interpretato se stessi in base a teorie inadeguate: la teoria ignorava i fattori causali reali (l’effetto posizione); oppure era una teoria generalmente vera ma non applicabile alla situazione specifica (la credenza secondo cui una persona che annuisce col capo sta segnalando il proprio accordo). FIGURA 3.7. Mutamento di atteggiamento in funzione della qualità (debole o forte) dell’argomentazione e dei movimenti (orizzontale o verticale) della testa. Fonte: P. Briñol e R.E. Petty, Persuasion: Insights from the Self-Validation Hypothesis, in M.P. Zanna (a cura di), Advances in Experimental Social Psychology, Academic Press, Burlington 2009, vol. 41, pp. 69-118. la letteratura documenta una stretta associazione fra schizofrenia e deficit della capacità di leggere la mente altrui83. Inoltre, uno studio fMRI ha mostrato che alcuni pazienti schizofrenici con esperienze di passività sono effettivamente riusciti a svolgere semplici compiti di mentalizzazione in terza persona, ma ciò è avvenuto mobilitando una rete di aree cerebrali diversa da quella utilizzata dal gruppo di controllo composto da soggetti normali84. Si può pertanto affermare che questi pazienti non possiedono un sistema di mentalizzazione normale, anche se poi riescono in vari modi a compensare (parzialmente) l’anomalia. Un altro argomento contrario alla tesi di Nichols e Stich consiste nel far rilevare che la compromissione di un sistema deputato alla 4.3. Dati sulla schizofrenia e l’autismo Abbiamo visto che la teoria dei meccanismi di automonitoraggio prevede una dissociazione fra introspezione e lettura della mente altrui; previsione che Nichols e Stich ritengono confermata da dati relativi all’autismo e alla schizofrenia. Il modello ISA, invece, riconducendo ambedue le forme di mentalizzazione a un’unica facoltà, nega la possibilità di una simile dissociazione. Consideriamo innanzitutto i pazienti schizofrenici con esperienze di passività. Al contrario di quanto sostengono Nichols e Stich, 83 Si veda l’accurata rassegna della letteratura di M. Brüne, “Theory of mind” in schizophrenia: A review of the literature, in «Schizophrenia Bulletin», 31, 2005, pp. 21-42. Nella stessa direzione punta una meta-analisi condotta su 29 studi che hanno coinvolto più di 1500 pazienti: M. Sprong, P. Schothorst, E. Vos, J. Hox e H. van Engeland, Theory of mind in schizophrenia: Meta-analysis, in «British Journal of Psychiatry», 191, 2007, pp. 5-13. 84 M. Brüne, S. Lissek, N. Fuchs, H. Witthaus, S. Peters, V. Nicolas, G. Juckel e M. Tegenthoff, An fMRI study of theory of mind in schizophrenic patients with “passivity” symptoms, in «Neuropsychologia», 46, 2008, pp. 1992-2001. 150 151 mentalizzazione in prima persona non è certo il modo migliore per spiegare le esperienze di passività. Un’ipotesi più accreditata è stata proposta da Christopher Frith e chiama in causa la compromissione del già citato sistema comparatore (cfr. supra, fig. 3.5)85. Uno degli effetti normali del sistema comparatore è quello di «attutire» l’esperienza di tutte quelle informazioni percettive in ingresso che corrispondono alle previsioni del modello anticipatorio. Il che è ragionevole: se tutto procede secondo le attese, non occorre che vi si faccia attenzione. Di norma, allora, l’esperienza sensoriale che facciamo dei nostri movimenti è fortemente attenuata – e questo spiega perché in condizioni normali è impossibile farsi il solletico da soli! Ma se non viene creato alcun modello anticipatorio, le percezioni derivanti dall’azione saranno esperite senza alcun filtro, come se i movimenti fossero stati prodotti da un’altra persona. Pertanto lo schizofrenico con esperienze di passività ha la sensazione che le sue azioni siano causate da un altro agente perché è proprio questa l’esperienza che ne ha. Veniamo ora ai pazienti con disturbi dello spettro autistico. Tornando allo studio che ha indagato l’introspezione di tre Asperger col metodo di campionamento dell’esperienza, si può innanzitutto osservare che i risultati attestano una stretta correlazione fra la capacità di eseguire i compiti di mentalizzazione in terza persona e la capacità introspettiva (cfr. supra, pp. 131-32). Questo è un dato problematico per la tesi che nei pazienti autistici l’introspezione è preservata mentre la lettura della menti altrui è compromessa. Inoltre, il modello ISA prevede che questi pazienti saranno perfettamente in grado di riferire percezioni, immagini e sensazioni corporee: questi eventi sono infatti trasmessi globalmente e quindi resi direttamente accessibili alle capacità mentalistiche dei pazienti autistici, che, sebbene danneggiate, sono ancora parzialmente operative. A conferma di tale previsione, si può osservare che i resoconti introspettivi di Robert e di Nelson contenevano soprattutto immagini visive e sensazioni fisiche, mentre le descrizioni dei pensieri tendevano a essere estremamente generiche («stavo pensando...» piuttosto che «stavo decidendo...»). Peter invece non è stato in grado di riferire alcun pensiero. Ma andando oltre la ricerca sui tre Asperger, studi più recenti hanno fornito prove robuste di una difficoltà da parte dei bambini autistici sia nell’etero- che nell’auto-attribuzione di pensieri. Consideriamo, ad esempio, lo studio di David Williams e Francesca Happé sulla capacità di attribuire le intenzioni a se stessi e agli altri in bambini con disturbi dello spettro autistico e controlli dallo sviluppo tipico e atipico86. I partecipanti erano invitati a completare un disegno su un trasparente (per esempio, un ragazzo che canta in un coro ed è privo di un orecchio). All’insaputa del bambino, un secondo trasparente su cui compariva un altro disegno incompleto (per esempio, una tazzina da caffè priva del manico) era stato sovrapposto in cima al primo trasparente. In tal modo, i partecipanti finivano inintenzionalmente col completare il disegno nella parte superiore del trasparente, ossia il manico della tazzina, piuttosto che il disegno nella parte inferiore, ovvero l’orecchio del ragazzo. Una volta rivelato lo stratagemma, al bambino veniva posta la domanda test: «che cosa avevi intenzione di disegnare?». In una fase successiva, i bambini guardarono un video in cui lo stesso compito era eseguito da un altro bambino; e la stessa domanda test gli fu posta in terza persona. Ebbene, in relazione alla capacità di identificare le intenzioni proprie e altrui i bambini autistici hanno fornito una prestazione significativamente peggiore rispetto ai bambini dallo sviluppo atipico (ma «associati» per abilità) (fig. 3.8). E in entrambi i gruppi il successo è risultato fortemente correlato col successo in un certo numero di compiti della credenza erronea. Da questi dati pare legittimo arguire che nei bambini autistici la capacità di attribuire intenzioni è deficitaria tanto in prima che in terza persona, e che entrambi i deficit discendono dalle difficoltà che questi bambini hanno con la mentalizzazione in generale. Williams e Happé hanno anche riesaminato la questione della prestazione dei bambini autistici nel compito degli Smarties, che sopra (p. 136) abbiamo visto essere controversa. I due studiosi hanno ragionato che siccome nel compito degli Smarties viene chiesto al partecipante di dire che cosa pensava fosse contenuto nel tubetto prima della sua apertura, non si può escludere l’eventualità che egli esegua il compito rammentando quanto detto in precedenza, e non già rievocando 85 C. Frith, S.-J. Blakemore e D. Wolpert, Explaining the symptoms of schizophrenia: Abnormalities in the awareness of action, in «Brain Research Reviews», 31, 2000, pp. 357-63; C. Frith, Explaining delusions of control: The comparator model 20 years on, in «Consciousness and Cognition», 21(1), 2012, pp. 52-54. D. Williams e F. Happé, Representing intentions in self and other: Studies of autism and typical development, in «Developmental Science», 13, 2010, pp. 307-19. 152 153 86 Tanto basta per accantonare l’ipotesi di una doppia dissociazione fra autismo e schizofrenia. 5. Quel che resta dell’introspezione 87 D. Williams e F. Happé, “What did I say?” versus “What did I think?”: Attributing false beliefs to self amongst children with and without autism, in «Journal of Autism and Developmental Disorders», 39, 2009, pp. 865-73. Siamo ora in condizione di compiere un bilancio circa la natura dell’autocoscienza introspettiva. Innanzitutto, abbiamo esaminato una tradizione di ricerche che propone la tesi secondo cui l’appropriazione introspettiva della mente non è tanto autodescrittiva quanto convenzionale, e anzi, spesso, «verbosamente» convenzionale. Quando un soggetto compie un’azione banale egli può anche essere in grado di spiegare in qualche misura perché (a suo sincero parere) l’ha compiuta: ma non dice necessariamente la verità. Il fatto che sia in grado di pronunziare, a questo riguardo, enunciati ragionevoli e socialmente accettati non significa che egli sia in grado di identificare veridicamente i fattori motivazionali che hanno prodotto quell’azione. Quando si deve dire perché si fa una certa cosa o perché si è deciso di farla, non di introspezione si tratta, almeno nella misura in cui con questa nozione si vuole indicare l’accesso diretto all’interiorità; si tratta piuttosto della capacità di rimotivare a posteriori le proprie azioni in base a teorie psicologiche intuitive. Tuttavia si può sottoscrivere la tesi della natura teorica (e dunque non introspettiva) della conoscenza in prima persona delle cause di giudizi, decisioni e comportamenti, e ciò malgrado cercare di confermare altri aspetti del modello filosofico tradizionale. Un esempio di questa strategia è la teoria dell’introspezione di Nichols e Stich, che ipotizza meccanismi che consentono al soggetto di identificare i propri stati percettivi e i propri pensieri in base a informazioni concernenti il loro profilo funzionale e contenuto rappresentazionale. Ma la loro posizione si espone alle potenti obiezioni che Carruthers rivolge all’idea di un accesso diretto ai pensieri. Interpretando i dati di confabulazione e di dissociazione all’interno di una visione complessiva dell’architettura cognitiva, questo filosofo ci offre una sofisticata teoria della conoscenza dei propri pensieri in termini di parità io/altro. Nel modello ISA la conoscenza degli stati percettivi è l’esito di un processo di riconoscimento, mentre la conoscenza tanto delle cause di pensieri e comportamenti che dei pensieri stessi è il frutto di un’attività di autointerpretazione. Contro la teoria dei meccanismi di automonitoraggio, il filosofo 154 155 FIGURA 3.8. A sinistra, due trasparenti utilizzati nell’esperimento di Williams e Happé. A destra, percentuale (e numero) di bambini con ASD (disturbi dello spettro autistico), DD (con ritardo evolutivo) e TD (con sviluppo tipico) che hanno risposto correttamente a due domande test: (i) «Che cosa intendevi disegnare?» (Mean); (ii) «Quando stavi disegnando, che cosa pensavi di star disegnando?» (Think). Nella condizione in prima persona (Self) i partecipanti ASD hanno offerto una prestazione significativamente inferiore a quella dei partecipanti DD in relazione alla domanda «Mean» ma non a quella «Think». Nella condizione in terza persona (Other) gli ASD hanno fornito una prestazione significativamente inferiore a quella dei DD sia in relazione alla domanda «Mean» sia alla domanda «Think». Fonte: D. Williams e F. Happé, Representing intentions in self and other: Studies of autism and typical development, in «Developmental Science», 13, 2010, pp. 307-19. la sua precedente credenza87. È stata perciò approntata una versione del compito in grado di suscitare la credenza spontaneamente, senza ricorrere all’espressione verbale. All’inizio del colloquio lo sperimentatore fingeva di essersi ferito un dito e chiedeva al soggetto di prendergli un cerotto in un ambiente in cui differenti tipi di contenitore erano ben visibili ma fuori della portata dello sperimentatore. Quando il bambino apriva la scatola dei cerotti, scopriva che conteneva matite colorate. Furono quindi poste le consuete domande in prima e in terza persona; e si constatò che i bambini autistici fornivano in entrambe le versioni del compito una prestazione peggiore di quella dei controlli. britannico ipotizza l’esistenza di un unico sistema di mentalizzazione multicomponenziale che, guidato dalla teoria ingenua della mente, genera credenze sugli stati mentali propri e altrui. Inoltre, la sua teoria spiega ciò che le precedenti versioni della teoria della parità io/altro non riuscivano a spiegare, ossia perché l’autoattribuzione mentalistica può avvenire anche in assenza di dati comportamentali e contestuali, e perché riusciamo a leggere la nostra mente meglio di quella altrui. In questo momento, anche se mi trovo seduto nella mia stanza, immobile e a occhi chiusi, non ho difficoltà nell’attribuire a me stesso stati mentali perché posso ancora contare su moltissime informazioni riguardanti la situazione in cui mi trovo, nella forma di dati sensoriali, immaginativi e somatosensoriali. In conclusione, non vi è dubbio che i filoni di ricerca che abbiamo fin qui esaminato abbiano drasticamente ridimensionato l’introspezione filosofica e con ciò sollevato un dubbio radicale sulla concezione ordinaria di noi stessi in quanto agenti coscienti. Fatta eccezione per i dati sensoriali, immaginativi e somatosensoriali, non si danno stati mentali coscienti: non esistono né giudizi, né intenzioni, né decisioni coscienti88. Non si dà una fenomenologia degli atteggiamenti proposizionali; la nostra interiorità è caratterizzata da una ricca messe di dati percettivi che incessantemente alimenta una macchina delle interpretazioni guidata da un apparato teorico incompleto, parziale e spesso gravemente difettoso. E dunque, là dove Descartes vedeva qualcosa di dato e garantito (la coscienza-sostanza trasparente a sé stessa), ora troviamo un luogo immaginario (il «teatro» humeano), in cui in ogni istante fanno la loro comparsa oggetti che prima non esistevano, e che siamo irresistibilmente portati a credere di aver liberamente creato, ma che in realtà sono i prodotti finali di elaborazioni cognitive totalmente inconsce. Ci rendiamo conto allora che l’inconscio, al pari della vecchia talpa di shakespeariana memoria, ha scavato talmente tanto da regnare oramai incontrastato su tutta la nostra vita interiore89. Capitolo 4 L’io e le sue difese Un homme qui dort, tient en cercle autour de lui le fil des heures, l’ordre des années et des mondes. Il les consulte d’instinct en s’éveillant et y lit en une seconde le point de la terre qu’il occupe, le temps qui s’est écoulé jusqu’à son réveil; mais leurs rangs peuvent se mêler, se rompre. M. Proust, À la recherche du temps perdu 88 Vi possono essere, però, giudizi percettivi coscienti. Secondo S. Kosslyn (Image and Brain, MIT Press, Cambridge, MA, 1994) e altri, gli output iniziali del sistema visivo interagiscono con svariati sistemi concettuali che impiegano e manipolano sagome percettive, tentando di ottenere il «migliore appaiamento» con i dati in ingresso. Ciò conseguito, il risultato è trasmesso globalmente come parte dello stato percettivo stesso: pertanto noi vediamo un oggetto come, ad esempio, un cane. Dal momento che questo evento può dar immediatamente luogo a una credenza immagazzinata, lo si può considerare un giudizio percettivo. 89 Cfr. Jervis, La rivincita dell’inconscio, in Id., Il mito dell’interiorità cit., p. 34. Nel capitolo precedente abbiamo esaminato la natura e la genesi dell’autocoscienza come coscienza dell’esistenza dello spazio virtuale della mente. Ora ci occuperemo dell’autocoscienza in quanto identità soggettiva (e narrativa): l’io «autobiografico». In particolare, ne indagheremo la natura difensiva. Torniamo dunque al secondo capitolo, e in particolare alle posizioni di Dennett e Metzinger. In quella sede abbiamo visto questi due filosofi avvalersi di teorie e dati delle scienze cognitive per portare a compimento quel processo di disgregazione della concezione classica del soggetto – il soggetto come entità spirituale unitaria caratterizzata dal primato dell’autoconsapevolezza razionale – che si era avviato con la filosofia scettica di Hume. Qui ci interessa prendere in esame il posto occupato da Freud in questa tradizione di pensiero critico. Innanzitutto, nel pensiero di Freud l’eredità humeana si coniuga con l’ipotesi avanzata da Nietzsche, e prima ancora da Schopenhauer, che quella soggettività che noi chiamiamo «io» non sia primaria ma piuttosto l’effetto di qualcos’altro. In Nietzsche la sfera della corporeità domina l’uomo e determina il suo io in quanto illusione 156 157 di essere individuo intero, autolegittimato e autodeterminato1. In modo assai simile, il soggetto di Freud è agito e giocato da dinamiche che hanno le loro radici in bisogni istintuali-pulsionali. La soggettività autocosciente diviene così un teatro in cui vengono continuamente generate illusioni cognitive e forme di falsa coscienza. La più radicale finzione che viene messa in scena in questo teatro è quella che ha come protagonista ciò che Freud chiama «das Ich». Nell’immaginosa, quasi letteraria descrizione della seconda topica, l’Io (in italiano per convenzione con la maiuscola) è la parte strutturata dell’Es; esso è una macchina (un apparato funzionale diremmo noi oggi) che ha il compito di mettere ordine nella mente, conferendo agli eventi psichici, mediante una serie di meccanismi di difesa, struttura, comprensibilità, familiarità, e infine gestibilità pragmatica. Così facendo, afferma Freud in uno dei passi più drammatici della sua opera, l’Io funge da «facciata» per l’Es2. Nel «sentimento dell’io» (Ichgefühl) l’Io si presenta alla coscienza unitario, autonomo e contrapposto ad ogni altra cosa; in realtà, esso è eterogeneo, eteronomo e secondario. L’Io è dunque la macchina che allestisce l’autoinganno più originario, dando luogo alla certezza dell’esistenza di un’interiorità intesa come entità unitaria, coerente, compatta, autogiustificata e in qualche modo «nobile». Una certezza che non è però l’io pallido ed esangue degli eliminativisti, bensì una struttura di autoinganno indispensabile al vivere, che consente all’essere umano di viversi come persona. Freud imprime pertanto una curvatura assai particolare alla critica humeana del soggetto, ponendo in rilievo la natura essenzialmente autodifensiva dei modi in cui l’Io si presenta alla coscienza; e anzi, si può dire che l’Io è il sistema di difese3. Il soggetto è espropriato da se stesso, essendo agito e giocato dalle proprie esigenze istintualipulsionali; ma ha un interesse a celarlo a se stesso, a non voler sapere. 1 L’io, scrive Nietzsche, non è qualcosa che è dato, ma è qualcosa che è fatto: «‘Io’, tu dici, e sei orgoglioso di questa parola. Ma la cosa ancora più grande – a cui tu non vuoi prestar fede – è il tuo corpo e la sua grande ragione: essa non dice ‘io’, ma fa ‘io’»: Così parlò Zarathustra (1883), trad. it. di M.F. Occhipinti, Mondadori, Milano 2008, p. 62. 2 S. Freud, Il disagio della civiltà (1929), in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1989, vol. 10, p. 559. 3 «[Freud] ci ha suggerito che i nostri meccanismi di difesa, più che tutelarne la tranquillità, rappresentano la struttura stessa della nostra mente, o meglio di quella parte che è (parzialmente) auto-organizzata. Essi costituiscono l’Io. (E forzando un po’ le cose, si potrebbe perfino dire che l’Io stesso, secondo Freud, ‘è una difesa’.)» (Jervis, Psicologia dinamica cit., pp. 154-55). 158 La soggettività autocosciente di cui ci parla Freud (l’Ichgefühl) è insomma il prodotto di un insieme di manovre difensive che operano al fine di occultarne le determinazioni reali – il suo essere, in realtà, la facciata dell’Es. La dimensione difensiva della soggettività autocosciente su cui Freud ha richiamato l’attenzione è stata pressoché ignorata dai filosofi che hanno attinto alle scienze cognitive per proporre una nuova teoria del soggetto. E tuttavia noi riteniamo che sia proprio questa dimensione a costituire la chiave di volta di un’antropologia filosofica congruente con l’ontologia delle scienze della mente e del cervello. Questa antropologia emerge chiaramente una volta che la psicologia dinamica, presa nel suo aspetto di studio sistematico della difensività primaria dell’individuo, sia stata integrata nelle scienze cognitive. A tal fine, in questo capitolo l’intuizione freudiana che l’Io funge da facciata all’Es prenderà infine questa forma: l’autocoscienza in quanto io autobiografico è un’attività di riappropriazione narrativa dei prodotti finali della macchina computazionale inconscia; e questa attività ha un carattere essenzialmente autodifensivo, essendo retta dall’esigenza primaria e universale di costruire e proteggere un’identità soggettiva la cui solidità e chiarezza è il fondamento degli equilibri intrapersonale e interpersonale dell’organismo umano. 1. L’identità soggettiva L’identità soggettiva è il sentirsi esistere come individuo diverso dagli altri; è il modo in cui ognuno di noi esperisce se stesso come persona, definendosi come persona di un certo tipo e ricostruendo una propria continuativa identità di persona attraverso il tempo e lo spazio. L’identità soggettiva è, insomma, un ritrovarsi fra le intermittenze della coscienza: «Chiunque di noi destandosi dice: ecco di nuovo il mio vecchio me stesso, al modo in cui dice: ecco il mio vecchio letto, la stessa vecchia stanza, lo stesso vecchio mondo»4. Di nuovo, il nesso che qui stabiliamo fra autocoscienza (psicologica) e identità si pone in polemica con la pretesa, propria delle filosofie del soggetto, di collocare la coscienza in una posizione fon4 James, The Principles of Psychology cit., p. 334. Cfr. anche Jervis: «La mia identità [...] è ciò che mi fa dichiarare, con variabili sentimenti di soddisfazione o insoddisfazione: rieccomi» (La conquista dell’identità, Feltrinelli, Milano 1997, p. 14). 159 dante. Kant concedeva a Hume l’impossibilità del soggetto di essere oggetto a se stesso; e tuttavia riteneva che fosse possibile passare dal piano dell’esperienza psicologica a quello dell’analisi trascendentale, e in questa sede cogliere il soggetto, per così dire, allo stato puro: «Io non sono cosciente di me come apparisco a me, né come sono in me stesso, bensì ho coscienza soltanto che io sono», scrive nella prima Critica5; e poco più avanti egli separa nettamente la coscienza (Bewußtsein) di sé dalla conoscenza (Erkenntnis) di sé, distingue cioè la coscienza di esistere dalla coscienza di esistere in un certo modo6. L’io penso kantiano è quindi qualcosa di indeterminato e vuoto che, non diversamente dall’«io sono» cartesiano, pretende di essere un dato primario (cfr. infra, par. 4). Ma alle filosofie che partono dal primato della coscienza di sé noi abbiamo opposto, fin dal secondo capitolo, un certo modo di interpretare la teoria dell’intenzionalità di Brentano, sostenendo che da essa è possibile ricavare una definizione dell’autocoscienza che ne demolisce ogni pretesa datità. Non si è coscienti in astratto ma lo si è di qualcosa; e fra tutte le rappresentazioni d’oggetto, esiste una rappresentazione che riguarda il soggetto stesso, o meglio l’immagine oggettivata del soggetto: questa è la coscienza di sé. In questo quadro, l’autocoscienza non è una ipseità idealistica, una consapevolezza di sé primaria, elementare e semplice, antecedente a qualunque altra forma di «sapere»; è invece una relazione, una variante del rapporto col mondo. Con ciò Brentano riprende un tema di Schopenhauer, il quale aveva affermato, e proprio in polemica con Kant, che l’autocoscienza è «un guardarsi, un cercarsi, ed è dunque fin dall’inizio un sapere di esserci in un certo modo»7. Questo modo di concepire l’autocoscienza costituisce l’essenziale presupposto del ragionamento che svolgeremo nelle prossime pagine. Non esiste coscienza di sé senza conoscenza di sé: io so di esistere in quanto so di esistere «in un certo modo», come identità descrivibile, costante attraverso i mutamenti. La costruzione dell’autocoscienza coincide insomma con la costruzione dell’identità. 1.1. La dimensione interpersonale dell’autocoscienza Nella sua forma più semplice, la descrizione di sé è descrizione di un’identità fisica. Ossia il bambino accede all’idea di esistere nel momento in cui si riconosce in un corpo distinguibile dagli altri; nel momento in cui sa di essere un individuo portatore di certe caratteristiche fisiche, fisiognomiche, corporee. Ma la consapevolezza di sé in quanto identità fisica è condizione necessaria ma non sufficiente dello sviluppo della consapevolezza di sé in quanto identità psicologica. Ne è prova, fra l’altro, il dato, preso in esame nel capitolo precedente (par. 1), di un’incompleta transizione da un’autocoscienza di tipo fisico a una di tipo psicologico nei membri di culture preindustriali. Dunque, questa riconoscibilità di sé in quanto descrivibilità di un corpo avviene dapprima in termini analogici e non verbali8. Ma è solo con lo sviluppo della cognizione sociale e della competenza linguistico-narrativa che la descrizione di sé corporea, fisica, diviene anche psicologica, introspettiva. Questa descrizione mentalistica di sé si costituisce nell’atto di volgere su se stessi la capacità di lettura della mente altrui. Questo atto – si noti – avviene in un contesto interpersonale, ovvero nel rapporto col caregiver; il «costruirsi» del bambino è, fin dall’inizio, contestuale e interattivo9. Più in particolare, si può ipotizzare che tra i fattori all’origine del mondo interiore vi sia una componente del sistema di mindreading che sistematicamente legge i comportamenti altrui come azioni guidate da obbiettivi, fini, intenzioni (intenzioni modulate secondo la dicotomia «intenzione buona-intenzione minacciosa»)10. La domanda «cosa vuole fare quello» (dove il «quello» può essere la mamma ma anche il gatto di casa) è precoce e primaria. E allora, sulla base 5 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft (ed. or. 1781), Felix Meiner, Hamburg 1956, B157 (trad. it. Critica della ragion pura, a cura di G. Colli, Adelphi, Milano 1995, p. 193). 6 «La coscienza di sé è quindi ben lungi dall’essere una conoscenza di sé» (ivi, p. 195 della trad. it.). 7 Jervis, Il «sé» e la nascita della coscienza introspettiva, in Id., Il mito dell’interiorità cit., p. 71. 8 Va peraltro precisato che i dati di cui disponiamo non ci autorizzano a postulare un singolo sistema specializzato nella rappresentazione dell’identità fisica. Cfr. S.J. Gillihan e M.J. Farah, Is self special? A critical review of evidence from experimental psychology and cognitive neuroscience, in «Psychological Bulletin», 131, 2005, pp. 76-97. 9 Lewis e Brooks-Gunn, Social Cognition and the Acquisition of the Self cit.; M. Tomasello, On the interpersonal origins of the self, in U. Neisser (a cura di), The Perceived Self, Cambridge UP, Cambridge 1993, pp. 174-84; Id., The Cultural Origins of Human Cognition, Harvard UP, Cambridge (MA) 1999; S. Harter, The Cognitive and Social Construction of the Developing Self, Guilford Press, New York 20122. 10 Tale meccanismo è all’origine dell’animismo ingenuo studiato da Piaget nei bambini di 3-5 anni; e nella psicologia adulta si traduce in una tendenza «schizoparanoide»: se è successo qualcosa ci deve essere un’intenzione, e allora dove si nasconde l’intenzione? 160 161 di questa problematica, il bambino comincia a chiedersi anche quali sono le proprie intenzioni e quale è il proprio stato interiore. Questa appropriazione di una tematica che inizialmente riguardava solo la lettura dei comportamenti degli altri è mediata prevalentemente da un apprendimento educativo, e dunque culturale. Si può supporre cioè che gran parte delle più semplici introspezioni siano forme di apprendimento che emergono dagli stereotipi verbali e le retoriche con cui gli adulti ribattezzano le intenzioni altrui. Un bambino di due anni, forse perché spaventato dal gatto della nonna, forse per sfida, gli dà un calcio, ed ecco i giudizi ricostruttivi, da parte degli adulti, di questo evento, che egli è invitato a interiorizzare: «cattivo! Non ti voleva mica graffiare!», oppure «ti aveva spaventato, ma forse quel micio aveva più paura di te». E così il piccolo impara piano piano, e sempre interiorizzando i nomi (ipotetici) che gli adulti donano ai suoi stati d’animo, che dentro di lui ci sono spaventi, cattiverie e così via. Capisce che queste sono espressioni sociali contingenti, parte di mediazioni sociali, ma anche coglie cosa significa «informazioni su se stessi». Si noti lo stretto legame fra la costruzione dell’interiorità e l’etica, su cui già Locke aveva richiamato l’attenzione. La morale re-inventa ex novo l’interiorità: essere cattivi e essere buoni, avere intenzioni cattive e avere intenzioni buone, appaiono, al bambino, la premessa per l’imputabilità, prima ancora che per la responsabilità. Ciò consente di spiegare perché, malgrado gli stereotipi verbali e le retoriche sopracitate contengano effettivamente un appello alla responsabilizzazione, nella nostra cultura il senso di appropriazione responsabile dei propri atti (per cui io so, eventualmente, di poter essere oggettivamente e legalmente responsabile di un incidente automobilistico anche se mi sarebbe impossibile identificare in me una intenzione a provocarlo) viene correntemente sostituito da un sentimento più oscuro e sterile, il senso di colpa. Il senso di colpa è infatti riconducibile proprio a quella interpretazione istintivo-primitiva delle azioni umane, che le lega, sempre e necessariamente, a una intenzionalità consapevole, buona o cattiva, e rende difficile accettare e capire la presenza di comportamenti involontari, casuali, distratti o inconsapevoli11. Pertanto, l’autocoscienza introspettiva nasce nel bambino nel suo rapporto con il caregiver, e questo è un rapporto fatto di parole, di descrizioni, di designazioni, di valutazioni di persona. Attraverso il dialogo col caregiver (e successivamente con gli altri partner sociali) il bambino di 3-4 anni fabbrica se stesso costruendo la propria identità, sia oggettiva (ossia per gli altri) che soggettiva (ossia per sé). E seguendo la lezione del costruttivismo sociale, diremo che l’identità per sé discende in larga misura dall’identità per gli altri; ossia l’individuo vede e definisce se stesso anzitutto interiorizzando i modi in cui lo vedono e lo definiscono gli altri12. Ma qui dobbiamo stare attenti. L’approccio interpersonale alla genesi dell’identità soggettiva appena delineato contrae un forte debito nei confronti della concezione costruttivista-sociale del self che trae origine dall’opera di Georg H. Mead. Ma tale concezione va maneggiata con cura, prendendo nettamente le distanze dalle interpretazioni più radicali, che conducono al dissolvimento della nozione di identità soggettiva. Se ciò si verifica, resta solo l’identità sociale, con conseguente perdita di quella dimensione «elaborante» dell’agente che abbiamo posto al centro del nostro libro. Questo sociocostruzionismo antimentalista ignora del tutto le scienze cognitive; oppure cerca di rimpiazzarle con una «psicologia della superficie», relazionale e linguistica. Dunque, niente meccanismi di elaborazione dell’informazione, addirittura niente stati e processi mentali: queste cose sono opache e sterili; valgono solo relazioni e linguaggio. Rom Harré, ad esempio, ha sostenuto che i fenomeni psicologici sono prodotti nell’interazione sociale e soprattutto nell’ambito della «conversazione», oltre la quale non si dà alcun tipo di processo mentale; le interazioni conversazionali sono i processi mentali13. Di qui il passo è breve a considerare l’individuo non già attore o agente dei discorsi quanto piuttosto il prodotto delle pratiche discorsive stesse14. Noi concediamo senz’altro che il soggetto costruisca se stesso (anche) nell’interazione sociale e conversazionale; ma, convinti asserto- 11 Il tema del fondamento naturalistico dell’«etica dell’intenzione» è stato approfondito da Jervis in Individualismo e cooperazione. Psicologia della politica, Laterza, Roma-Bari 20032, cap. 2. Cfr. anche il suo Retoriche dell’interiorità, in Id., Il mito dell’interiorità cit., pp. 199-200. 12 G.H. Mead, Mind, Self, and Society, a cura di C.W. Morris, University of Chicago, Chicago 1934 (trad. it. Mente, sé e società, Giunti, Firenze 2010). 13 R. Harré, Social Being, Blackwell, Oxford 1993, II ed., p. 135. 14 R. Harré, The social construction of selves, in K. Yardley e T. Honess (a cura di), Self and Identity: Psychological Perspectives, Wiley, New York 1987, pp. 4152. Per alcuni rilievi critici al costruzionismo linguistico di Harré, cfr. P. Amerio, Possiamo occuparci di libertà, di dignità, di giustizia?, in «Giornale Italiano di Psicologia», 23(3), 1996, pp. 357-74; e Jervis, La conquista dell’identità cit., pp. 121 e 159 n. 13. 162 163 ri dell’approccio esplicativo bottom-up, riteniamo che né le strutture sociali né gli schemi linguistici e conversativi possano essere trattati come Minerva uscita dalla testa di Giove. Queste sono cose da spiegare prima ancora di essere cose con cui spiegare. Un solo esempio: l’acquisizione lessicale chiama in causa i meccanismi della mentalizzazione; l’apprendimento del significato delle parole sarebbe impossibile se il bambino non comprendesse le intenzioni referenziali del parlante15. 1.2. L’io diacronico Forti di questo chiarimento, torniamo al bambino di 3-4 anni impegnato nella costruzione della propria identità. Come abbiamo detto, egli si rivolge agli altri «significativi» per farsi dire come è e chi è; e quindi vorrà sapere che cosa significa per lui essere un maschio o una femmina, qual è il suo ruolo e il suo rango nella famiglia e fra i coetanei, se e in che senso è buono o cattivo, e così via. Via via prende corpo l’aspetto narrativo dell’identità; e con esso acquistano importanza i racconti biografici e le fiabe, in quanto teatro di identificazioni che servono a costruire sentimenti di identità. Si noti la complessità della fase evolutiva che stiamo descrivendo. In primo luogo, il bambino deve acquisire la capacità di percepire la propria identità in quanto situata nella memoria, il che vuol dire portarsi oltre l’esperienza del qui e ora e «viaggiare» mentalmente nel tempo soggettivo (la sua coscienza deve farsi «estesa»). In secondo luogo, egli deve arrivare a percepire la propria identità in quanto razionalizzata come autobiografia (costruire un «io autobiografico»). Come subito vedremo, l’acquisizione di queste capacità si compie in un arco temporale che dal termine dell’età prescolare abbraccia l’intera adolescenza. Assumere una prospettiva soggettiva sul passato Per poter percepire la propria identità in quanto situata nella memoria, il bambino deve essere in grado di ricostruire un evento del passato rappresentandolo non soltanto come qualcosa che è situabile in uno specifico contesto spazio-temporale (come un ricordo episodico) ma anche come qualcosa che è accaduto a lui. Ossia: egli dev’essere capace di rappresentarsi non solo il «che cosa», il «dove» e il «quando» di un evento passato, ma anche se stesso in quanto soggetto che ha esperito quell’evento. Per usare la terminologia coniata dallo psicologo Endel Tulving, alla memoria episodica si deve accompagnare una «consapevolezza autonoetica»16. Gli scambi conversazionali fra il bambino e il caregiver sono il contesto entro cui evolve la dimensione autonoetica del ricordare episodico17. Dapprima, il bambino concepisce il ricordo come una copia della realtà: ciò che è ricordato è oggettivamente accaduto. La concezione del ricordo come rappresentazione piuttosto che come copia si guadagna in virtù di un’interazione sociale mediata dal linguaggio: le conversazioni sugli eventi passati fra la madre e il bambino18. La madre è una «buona narratrice» nella misura in cui è capace di restituire al bambino gli episodi vissuti sotto forma di storia, e lo sollecita in questa operazione instaurando nello stile educativo l’abitudine a ripensare e rievocare insieme eventi specifici. In queste conversazioni guidate dalla madre la rievocazione verte spesso sugli stati mentali interni, ponendo così in rilievo che individui differenti possono avere prospettive soggettive diverse sullo stesso evento oggettivo: «siamo andati allo zoo, e io mi ricordo della giraffa ma tu no; io ricordo che il leone mi ha spaventato, mentre tu l’hai trovato buffo, e così via»19. Istituire un nesso fra l’io passato e l’io presente Il bambino deve anche comprendere che l’io che ha esperito gli eventi nel passato è lo stesso io che esperisce gli eventi nel presente (e sarà lo stesso io nel futuro). Ma ciò non si verifica prima dei 4-5 anni di età; prima di allora il bambino non riesce a integrare le esperienze vissute personalmente in un’organizzazione causale e temporale coerente, incardinata su un concetto di sé esteso nel tempo. È questo concetto che ci consente di dichiarare: «io sono lo stesso me stesso di ieri»20. Per indagare questa traiettoria evolutiva il primatologo Daniel Povinelli ha elaborato una variante del test dell’autoriconoscimento allo specchio. Mentre alcuni bambini di 2, 3 e 4 anni erano intenti a 15 P. Bloom, How Children Learn the Meaning of Words, MIT Press, Cambridge (MA) 2002. Cfr. anche la critica dell’«idealismo linguistico» di Dennett da parte di E. Cosentino e F. Ferretti, Linguaggio, tempo e soggettività, in Di Francesco e Marraffa, Il soggetto cit., pp. 119-45. E. Tulving e A.S.N. Kim, Autonoetic consciousness, in T. Bayne, A. Cleeremans e P. Wilken (a cura di), The Oxford Companion to Consciousness, Oxford UP, Oxford 2009, pp. 96-98. 17 Cfr. K. Nelson, Young Minds, Social Worlds: Experience, Meaning, and Memory, Harvard UP, Cambridge (MA) 2007. 18 R. Fivush e K. Nelson, Parent-child reminiscing locates the self in the past, in «British Journal of Developmental Psychology», 24, 2006, pp. 235-51. 19 R. Fivush, The development of autobiographical memory, in «Annual Review of Psychology», 62, 2011, pp. 570-71. 20 James, Principles of Psychology cit., p. 332. 164 165 16 giocare, lo sperimentatore applicava loro sulla testa, senza che se ne accorgessero, un adesivo colorato21. La scena veniva videoregistrata e tre minuti dopo ogni bambino la rivedeva in video. Nessuno dei bambini di 2 anni e solo il 25% dei bambini di 3 anni portò la mano alla testa per rimuovere l’adesivo; ciò malgrado, quando al video si sostituì uno specchio, essi si sbarazzarono immediatamente dell’adesivo. Il 75% dei bambini di 4 anni, invece, se lo tolse subito dopo aver visto il video differito: non ebbero cioè difficoltà a integrare la rappresentazione di sé passata con quella presente. In uno studio di follow-up, 88 bambini di 3, 4 e 5 anni furono invitati a recarsi nel laboratorio di Povinelli due volte, a distanza di una settimana l’una dall’altra22. La prima volta ai bambini intenti a giocare fu applicato un adesivo sul capo, proprio come era avvenuto nello studio precedente. Tuttavia, una volta terminato il gioco, il bambino non rivedeva la scena videoregistrata; invece lo sperimentatore, senza farsi accorgere, gli toglieva l’adesivo dalla testa. La seconda volta il bambino si cimentava con un nuovo gioco, in una stanza differente, e lo sperimentatore gli collocava nuovamente l’adesivo sul capo. A questo punto a metà dei bambini fu mostrata la videoregistrazione di ciò che era accaduto 3 minuti prima, mentre all’altra metà fu mostrato il video che mostrava la scena di una settimana prima. I bambini di 4 e 5 anni hanno compreso la differenza fra le due videoregistrazioni: coloro che guardavano il video con «ritardo breve» si portarono la mano alla testa alla ricerca dell’adesivo, mentre non altrettanto fecero coloro che osservavano il video con «ritardo lungo». Ciò fa supporre che questi ultimi fossero in grado di valutare che gli eventi di una settimana prima non potevano esercitare un’influenza causale sulla loro condizione attuale. I bambini di 3 anni, invece, si sono portati la mano al capo in una percentuale che è pari a meno della metà della percentuale dei bambini più grandi; e non solo: lo hanno fatto con eguale frequenza indipendentemente dalla lunghezza del ritardo (fig. 4.1). Se ne può concludere, perciò, che i bambini più piccoli non sono stati in grado di cogliere la rilevanza delle immagini differite per il loro stato nel presente; e anche quelli, fra loro, che si sono portati FIGURA 4.1. Percentuale dei bambini che hanno messo in atto un comportamento volto a rimuovere l’adesivo in risposta a immagini di se stessi dopo 3 minuti o dopo una settimana. Ogni gruppo di età era diviso a metà per creare i gruppi di trattamento con ritardo breve oppure lungo (n = 16 per i gruppi dei bambini di 3 e 4 anni; n = 12 per il gruppo dei bambini di 5 anni). Fonte: D.J. Povinelli, The Self: Elevated in consciousness and extended in time, in C. Moore e K. Lemmon (a cura di), The Self in Time: Developmental Perspectives, Cambridge University Press, Cambridge 2001, pp. 73-94. la mano al capo, non l’hanno fatto in virtù della comprensione del significato causale e temporale degli eventi riprodotti nel video. L’interpretazione che Povinelli ha proposto di questi dati procede dall’ipotesi di un mutamento generale per dominio delle capacità rappresentazionali del bambino. Intorno alla metà del secondo anno il bambino è in grado di costruire una rappresentazione di sé esplicita che rispecchia la sua capacità di costruire una singola rappresentazione (o modello del mondo) che può essere posta a confronto con uno stato di cose percepito qui e ora23. Ciò gli consente di riconoscersi allo specchio: un unico modello di sé (in quanto concetto di sé a carattere prevalentemente cinestesico) è posto a confronto con l’immagine speculare. A questa età, tuttavia, il bambino non è ancora 21 D.J. Povinelli, K.R. Landau e H.K. Perilloux, Self-recognition in young children using delayed versus live feedback: Evidence of a developmental asynchrony, in «Child Development», 67, 1996, pp. 1540-54. 22 D.J. Povinelli e B.B. Simon, Young children’s reactions to briefly versus extremely delayed images of the self: Emergence of the autobiographical stance, in «Developmental Psychology», 43, 1998, pp. 188-94. 23 Qui Povinelli rinvia a J. Perner, Understanding the Representational Mind, MIT Press, Cambridge (MA) 1991; e D.R. Olson e R. Campbell, Constructing representations, in C. Pratt e A.F. Garton (a cura di), System of representation in children: Development and use, Wiley, New York 1993, pp. 11-26. 166 167 in grado di costruire un concetto di sé di ordine superiore che gli consentirebbe di collocare gli stati di sé passati in una relazione temporale e causale con lo stato di sé presente. È solo intorno ai 4 anni, allorché il bambino diviene capace di prendere simultaneamente in esame una pluralità di rappresentazioni contraddittorie dello stesso stato di cose, che i meccanismi deputati alla rappresentazione di sé possono iniziare a integrare i ricordi concernenti gli stati di sé (fino ad allora irrelati) in una organizzazione temporale e causale coerente, imperniata su un concetto di sé diacronico. La disponibilità di un concetto di sé esteso nel tempo consente al bambino di 4-5 anni di valutare l’impatto causale dei propri stati passati sul suo stato presente, e quindi di fare la seguente inferenza causale: «se pochi minuti fa un adesivo era collocato sulla mia testa (come mostra il video), è probabile che il mio stato attuale sia influenzato da quell’evento passato; è perciò probabile che l’adesivo sia ancora sulla mia testa». Il difetto di questa ipotesi di Povinelli è che viene proposta come una tesi sullo sviluppo di un’identità psicologica continuativa nel tempo. Se il compito dell’autoriconoscimento differito fosse una misura valida della comprensione di sé in quanto self psicologico, dovrebbe risultare impervio per i soggetti portatori di disturbi autistici. Ciò però non accade: i bambini con disturbi dello spettro autistico si riconoscono nell’immagine differita al pari dei bambini di 4-5 anni dallo sviluppo tipico24. Ciò fa supporre che il riconoscimento di sé nel video differito sia sì indice della capacità di stabilire nessi causali e temporali fra uno stato di sé passato e uno stato di sé presente, ma che il self in questione sia quello fisico, e non già quello psicologico. Ossia: dal momento che l’autocoscienza corporea poggia su meccanismi diversi da quelli che sottostanno all’autocoscienza introspettiva, e poiché in un paziente autistico il problema è circoscritto ai meccanismi della mentalizzazione, nulla osta alla costruzione del tipo di metarappresentazione necessario per cogliere se stessi come identità corporea continuativa nel tempo25. Dunque, il test dell’autoriconoscimento differito misura non già il possesso di un’identità psicologica continuativa nel tempo bensì la capacità di comprendere i nessi causali fra i propri stati fisici passati e quelli nel presente26. Tale comprensione è una condizione necessaria dello strutturarsi di un io autobiografico, ma solo se incardinata nell’intergioco fra le capacità mentalistiche e le competenze linguistico-narrative: come sappiamo, la descrizione di sé corporea diviene anche psicologica allorché il bambino volge su se stesso la capacità di lettura delle menti altrui nel contesto degli scambi conversazionali col caregiver. È in questo contesto che il bambino diviene capace di comprendere il nesso causale fra gli stati psicologici passati e le azioni compiute nel presente; un’acquisizione che è stata indagata in alcuni studi di Kristin Lagattuta e Henry Wellman27. Per fissare un riferimento (baseline) i due ricercatori hanno domandato a bambini di età compresa fra i 3 e i 7 anni di prevedere come un altro bambino si sarebbe comportato in una certa situazione – per esempio, la reazione che avrebbe avuto di fronte a un cane incontrato nel parco. Hanno poi presentato ai partecipanti una serie di disegni che narravano le esperienze pregresse di alcuni bambini – per esempio, un bambino aveva paura dei cani; a un altro il cane era morto. Infine, hanno chiesto ai partecipanti di associare a queste narrazioni una previsione del modo in cui il protagonista della storia si sarebbe comportato nel presente. Sotto i 5 anni i bambini si sono trovati in grande difficoltà: ignoravano completamente i disegni che raccontavano le esperienze passate dei protagonisti delle storie, e prevedevano che questi ultimi si sarebbero avvicinati al cane con entusiasmo – che era poi la previsione che avevano fatto all’inizio dell’esperimento. Intorno ai 5 anni i partecipanti hanno cominciato a collegare il passato al presente, formulando la S.E. Lind e D.M. Bowler, Delayed self-recognition in children with autism spectrum disorder, in «Journal of Autism and Developmental Disorders», 39, 2009, pp. 643-50; C. Dissanayake, J. Shembrey e T. Suddendorf, Delayed video self-recognition in children with high functioning autism and Asperger’s disorder, in «Autism», 14(5), 2010, pp. 495-508; S. Dunphy-Lelii e H.M. Wellman, Delayed self-recognition in autism: A unique difficulty?, in «Research in Autism Spectrum Disorders», 6, 2012, pp. 212-23. 25 Con le parole di David Williams, «contrariamente alla [...] teoria secondo cui la consapevolezza dell’identità fisica e la consapevolezza dell’identità psicologica poggiano sul medesimo sistema rappresentazionale, questi dati inducono a ritenere che ciascun tipo di consapevolezza sia basato sul proprio sistema specializzato, e che soltanto uno di questi sistemi sia compromesso nell’autismo. Il paziente autistico sembra possedere una rappresentazione coerente del proprio corpo (anche attraverso il tempo), benché non riesca a cogliere dimensioni della propria identità psicologica» (Theory of own mind in autism: Evidence of a specific deficit in selfawareness?, in «Autism», 14, 2010, p. 486). 26 Cfr. E. Reese, Social factors in the development of autobiographical memory: The state of the art, in «Social Development», 11(1), pp. 129-30. 27 K.H. Lagattuta e H.M. Wellman, Thinking about the past: Early knowledge about links between prior experience, thinking and emotion, in «Child Development», 72, 2001, pp. 82-102; K.H. Lagattuta e H.M. Wellman, Differences in early parent-child conversations about negative versus positive emotions: implications for the development of psychological understanding, in «Developmental Psychology», 38, 2002, pp. 564-80. 168 169 24 previsione che il bambino avrebbe avuto paura del cane o sarebbe stato molto triste nell’incontrarlo. Inoltre, sono stati in grado di spiegare le loro previsioni istituendo un nesso fra le esperienze passate e il presente in virtù di stati mentali persistenti nel tempo. Dunque, la fine del periodo prescolare è il terminus a quo anche della capacità di comprendere che gli stati mentali persistono nel tempo e possono esercitare un’influenza causale sul comportamento nel presente. Costruire un’identità narrativa Intorno ai 4-5 anni il bambino inizia dunque a capire che un evento verificatosi nel passato è accaduto a lui; e quindi a capire che l’io che ha esperito quell’evento è lo stesso io che lo ricorda nel presente. Il soggetto ne ottiene un senso di continuità fenomenologica. Il passo successivo è quello di guadagnare anche un senso di continuità narrativa, costruendo una «storia di vita» capace di conferire alla congerie di ricordi autobiografici una qualche parvenza di unità, fine e significato28. È questa una ricostruzione narrativa del proprio passato autobiografico (composta da capitoli, scene chiave, personaggi principali e trame che si intersecano), che attinge non soltanto alla memoria episodica personale ma anche (e soprattutto) alla memoria semantica personale29. Le capacità psicologiche che rendono possibile l’identità narrativa continuano a evolvere per tutta l’adolescenza. Uno studio condotto da Tilmann Habermas e Cybèle de Silveira ha analizzato con metodi quantitativi le storie di vita narrate da 102 soggetti di età compresa fra gli 8 e i 20 anni30. Prima di impegnarsi nella narrazione della loro storia di vita, i partecipanti erano invitati a scrivere sette ricordi giu- FIGURA 4.2. Incremento fra gli 8 e i 20 anni dei valori medi di tre aspetti della coerenza globale della storia di vita. Coerenza temporale: la misura in cui la storia ha fornito all’ascoltatore/lettore un orientamento temporale tale da consentire di collocare gli eventi nel contesto della vita del narratore. Coerenza tematica: il grado di plausibilità delle transizioni da un evento all’altro nella storia narrata. Coerenza causale: la misura in cui gli eventi sono stati integrati con altri eventi e con l’identità del narratore in modo da spiegarne le conseguenze per il suo sviluppo. Fonte: T. Habermas e C. de Silveira, The development of global coherence in life narratives across adolescence: Temporal, causal and thematic aspects, in «Developmental Psychology», 44, 2008, pp. 707-21. 28 Cfr. D.P. McAdams, Personal narratives and the life story, in O.P. John, R.W. Robins e L.A. Pervin (a cura di), Handbook of Personality: Theory and Research, Guilford, New York 2008, pp. 241-61; K.C. McLean, M. Pasupathi e J.L. Pals, Selves creating stories creating selves: A process model of self-development, in «Personality and Social Psychology Review», 11, 2007, pp. 262-78. 29 Cfr. D.R. Addis e L.J. Tippett, The contributions of autobiographical memory to the content and continuity of self: A social-cognitive neuroscience approach, in F. Sani (a cura di), Self-Continuity: Individual and Collective Perspectives, Psychology Press, New York 2008, pp. 72-73 e 78-79. La memoria semantica personale è un repertorio di conoscenze concettuali e astratte concernenti noi stessi e la nostra vita (per es. la scuola che ho frequentato o i nomi dei miei amici). Cfr. M.A. Conway e C.W. Pleydell-Pearce, The construction of autobiographical memories in the self memory system, in «Psychological Review», 107, 2000, pp. 261-88. 30 T. Habermas e C. de Silveira, The development of global coherence in life narratives across adolescence: Temporal, causal and thematic aspects, in «Developmental Psychology», 44, 2008, pp. 707-21. 31 Risultati analoghi sono stati ottenuti da P.J. Bauer, M.M. Burch, S.E. Scholin e O.E. Güler, Using cue words to inform the distribution of autobiographical memories in childhood, in «Psychological Science», 18, 2007, pp. 910-16. 170 171 dicati i più importanti sul piano personale; questi ricordi dovevano poi essere integrati nella storia narrata. Ebbene, i partecipanti di 8 anni hanno svolto questo compito fornendo una prestazione al di sopra del caso; ma è stato solo a partire dai 12 anni che i partecipanti sono stati in grado di riunire i singoli eventi in una trama causale; e il ragionamento causale e biografico di cui si sono avvalsi è risultato più complesso e coerente all’aumentare dell’età (fig. 4.2)31. 1.3. La dimensione difensiva dell’autocoscienza L’identità soggettiva in quanto io autobiografico è la capacità di adottare una prospettiva soggettiva su eventi specifici, esperiti in momenti particolari e collegati insieme in una storia di vita. E abbiamo visto che essa comincia a prendere corpo al termine del periodo prescolare, consolidandosi però pienamente soltanto nella tarda adolescenza. C’è in tutto questo processo un fondamentale aspetto psicodinamico. La psicologia dinamica e la psicologia dello sviluppo ci dicono che la crescita affettiva e la costruzione dell’identità non sono separabili: la descrizione narrativa di sé che il bambino ricerca febbrilmente è una «descrizione accettante», ovvero una descrizione che è cognitiva (in quanto è definizione di sé) ma anche, inscindibilmente, emotiva-affettiva (in quanto è accettazione di sé). Il bambino insomma necessita di un’autodescrivibilità chiara e coerente, pienamente legittimata dal genitore e socialmente valida. Ciò, del resto, continuerà a valere per l’intero ciclo di vita: la costruzione della vita affettiva sarà sempre intimamente connessa alla costruzione di una identità ben definita e interpersonalmente valida32. Siamo così giunti al cuore del capitolo. Non si può dare concretezza e solidità alla propria autocoscienza se quest’ultima non ha come centro, e come essenza, una descrizione-consapevolezza di identità che deve essere chiara e, inscindibilmente, «buona» in quanto degna di essere amata. Il nostro equilibrio psichico poggia su questo sentimento di esistere solidamente come «io», che pertanto emerge come ciò che più di ogni altra cosa il soggetto deve difendere. Questa difensività non è però alienazione, non è illusione, non è sovrastruttura, ma fa parte dei meccanismi universali che ci permettono di credere, almeno un poco, in noi stessi e nel nostro diritto di essere amati. 2. Bacone contro Cartesio La teoria delle difese o dei meccanismi di difesa fu elaborata da Freud soprattutto in Inibizione, sintomo e angoscia, e in seguito sviluppata da Anna Freud e Melanie Klein33. In prima approssimazione, possiamo definire tali meccanismi come tutti quegli espedienti che l’individuo inconsapevolmente mette in atto per proteggersi dall’ansia, dalla depressione e dai rischi psicologici in generale. È bene chiarire subito, però, che il modo in cui oggi la psicologia dinamica conduce lo studio delle difese non è più quello della psicoanalisi freudiana. La teoria freudiana dell’inconscio sconta un’insufficiente emancipazione dal modello cartesiano della mente e del rapporto fra ragione e passioni. Privo del concetto di soggettività o esperienzialità, Freud tende a tradurre la dimensione soggettiva in termini oggettivi, come un insieme di meccanismi ed energie. Però questi meccanismi ed energie, se vogliono spiegare molti aspetti della vita affettiva ed emotiva, non pretendono di spiegare la coscienza. La coscienza-autocoscienza adulta freudiana è, malgrado le pulsioni e l’inconscio, ancora una volta, «assunta» o «data». Di qui il persistere di una parziale adesione al modello intellettualistico cartesiano, dove la tematica delle passioni era già vista come di origine corporea, e in quanto tale direttamente capace di influenzare la mente, ma dove tuttavia era rigidamente salvaguardato l’assunto di un principio primario della consapevolezza razionale umana. La concezione cartesiana del rapporto fra ragione e passioni ha una conseguenza epistemologica generale: la coscienza razionale non può, di per sé, sbagliare, così che l’errore non nasce al suo interno bensì dall’influenza sulla mente da parte della sfera legata al corpo – emozionale, viscerale, impulsivo-istintuale, «animale». La fiducia cartesiana nella ragione come produttrice di verità, l’idea che ciò che è chiaro e distinto non possa essere errato e che gli errori della condotta e del giudizio siano una sorta di deragliamento dovuto a les passions de l’âme, è implicita anche nel sistema di pensiero di Freud. Ma si può osservare che la concezione cartesiana dell’errore aveva già trovato una confutazione implicita nell’orientamento espresso da Francis Bacon nel Novum Organum. Diversamente da Descartes, Bacon non pensa che gli errori della condotta e del giudizio siano imputabili alle influenze delle passioni sulla coscienza razionale; ritiene piuttosto che quest’ultima sia naturalmente produttrice di errori. L’intelletto umano, scrive il filosofo, «è come uno specchio 32 Cfr. Jervis, Fondamenti di psicologia dinamica cit., pp. 317-18; La conquista dell’identità cit., p. 140; Psicologia dinamica cit., p. 131. A tale proposito, va rilevato che negli ultimi anni si è assistito a un consolidarsi dell’ipotesi secondo cui autoattribuzioni disfunzionali, irrealisticamente negative, si costituirebbero nello sforzo da parte del bambino di razionalizzare condotte gravemente negligenti, quando non addirittura abusive, messe in atto dalla figura di attaccamento. Cfr. infra, p. 187 e i testi citati nelle note 58 e 59. S. Freud, Inibizione, sintomo e angoscia (1927), in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 2003, vol. 10. 172 173 33 ineguale rispetto ai raggi delle cose; esso mescola la propria natura con quella delle cose, che deforma e trasfigura»34. Per dirlo con le parole della odierna psicologia, Bacon ritiene che gli errori, le illusioni e gli autoinganni della mente siano connaturati ai meccanismi cognitivo-affettivi ordinari. I celebri idola, fattori costanti di inganno, configurano, in questo filosofo, il modo «naturale» di procedere della conoscenza umana. È su questa base che Bacon propone la necessità di fondare un terreno di indagine metodologicamente più certo di quello naturale dell’osservazione (sia pure spassionata) e della ragione (sia pure logicamente rigorosa). Egli propone cioè un sistema di verifiche, dove la tendenza spontanea a errare sia «stanata» e corretta dal metodo della ricerca, sulla base di un principio metodologico di tipo rigorosamente empiristico. Questa concezione fonda il modo di procedere della scienza moderna35. La tesi baconiana secondo cui la coscienza razionale è naturalmente produttrice di errori oggi informa la psicologia scientifica. Nelle prossime pagine ne esamineremo le importanti ricadute in vari ambiti di indagine – lo studio delle emozioni, la psicologia del pensiero, le ricerche sulle dinamiche interpersonali e sociali – per ricavarne infine una morale per la psicodinamica delle difese. 2.1. L’eterogeneità delle emozioni La psicologia moderna ha mostrato che non esiste alcuna sfera psicologica non razionale, fatta di passioni, istinti, emozioni, nettamente demarcabile dalle operazioni dell’autocoscienza razionale; non esiste, cioè, un sistema di determinanti della condotta che si opponga alla razionalità. Del resto, lo stesso concetto ordinario di emozione è problematico dal momento che raccoglie sotto un’etichetta convenzionale fenomeni disparati che, contrariamente all’ideologia delle passioni, fanno parte dell’universo più ampio di tutti gli eventi psicologici. Consideriamo, ad esempio, l’approccio psicoevoluzionista alle emozioni di Paul Ekman. Questo cerca di fornire una spiegazione unitaria di sei emozioni (sorpresa, gioia, tristezza, paura, rabbia, disgusto), caratterizzandole come «programmi emozionali» (affect programs), ovvero risposte complesse, coordinate e automatiche a eventi ambientali: complesse perché coinvolgono elementi di vario genere (variazioni della mimica facciale, risposte scheletriche e muscolari, variazioni del timbro di voce, modificazioni del sistema endocrino, attivazione del sistema nervoso autonomo); coordinate perché tali elementi ricorrono secondo schemi o sequenze riconoscibili; automatiche perché hanno luogo in modo coordinato senza richiedere il controllo cosciente. La psicologia computazionale di queste emozioni «primarie» presenta varie caratteristiche di modularità: sono rapide risposte stereotipate, simili a riflessi, controllate da sottosistemi che sono attivati da una gamma estremamente ristretta di input percettivi, attingono esclusivamente a una base di dati limitata e operano indipendentemente dai processi soggiacenti la pianificazione dell’azione36. In condizioni di emergenza, di fronte a gravi pericoli, le caratteristiche modulari consentono all’emozione primaria di operare come un sistema «ad azione rapida», di fornire cioè una soluzione allorché, disponendo di un tempo molto limitato, è importante fare subito la cosa giusta, anche a costo di basarsi su conoscenze esigue e sommarie – come ha detto una volta Jerry Fodor, l’eventualità di un gran numero di falsi positivi è senz’altro preferibile a quella di finire divorati da un predatore! Al pari dei riflessi o degli input percettivi, le emozioni primarie esibiscono il carattere della passività: sembrano cioè accadere all’agente piuttosto che essere frutto di pianificazione e azione. Il carattere passivo ma anche rapido e obbligato di questi eventi psicologici li candida a referenti di alcuni aspetti del concetto ordinario di emozione. Ma questo concetto rinvia anche ad altri stati psicologici, affatto privi del carattere modulare delle emozioni primarie. Consideriamo, ad esempio, emozioni cognitive di alto livello quali la colpa, l’invidia, la vergogna, la gelosia, la fedeltà. Alcuni psicologi evoluzionisti hanno cercato di assimilarle alle emozioni primarie. Per esempio, David Buss ha postulato un modulo della gelosia sessuale che sarebbe attivato da semplici stimoli percettivi come profumi inconsueti, mutamento del comportamento sessuale, contatto oculare 34 Bacone, Novum Organum (1620), a cura di E. De Mas, Mondadori, Milano 2010, lib. I, par. 41, p. 57. 35 Per questa interpretazione delle teorie dell’errore di Descartes e Bacon, cfr. Jervis, Presenza e identità cit., cap. 3; P. Rossi, Francesco Bacone: dalla magia alla scienza, il Mulino, Bologna 2004 (nuova edizione). 36 Qui seguiamo l’esposizione che della teoria di Ekman ha dato Paul Griffiths nel suo What Emotions Really Are: The Problem of Psychological Categories, University of Chicago Press, Chicago 1997. Cfr. anche A. Scarantino e P. Griffiths, Don’t give up on basic emotions, in «Emotion Review», 3(4), 2011, pp. 444-53. 174 175 eccessivo e violazione delle regole che governano lo spazio personale. Trattandosi di un meccanismo modulare, esso impiegherebbe algoritmi specifici per dominio e, al pari delle emozioni primarie, opererebbe come un sistema a reazione rapida37. Se considerata dal punto di vista dell’input, un’emozione cognitiva come la gelosia è però sensibile a una gamma di informazioni ben più ampia di quella disponibile alle emozioni primarie incapsulate. Di conseguenza il meccanismo alla base della gelosia non può essere attivato come sarebbe legittimo attendersi se operasse come un’emozione primaria38. Inoltre, dal punto di vista dell’output, la gelosia è una risposta di maggior durata rispetto alle reazioni delle emozioni primarie; non esibisce il repertorio stereotipato di effetti fisiologici che caratterizza queste ultime; e appare assai più integrata nell’attività cognitiva deputata alla pianificazione dell’azione39. Dunque, con buona pace degli psicologi evoluzionisti, le emozioni cognitive superiori si basano su meccanismi psicologici diversi da quelli responsabili delle emozioni primarie. Consideriamo infine la teoria di James R. Averill, che definisce un’emozione come «un ruolo sociale transitorio (una sindrome costituita socialmente), che include la valutazione da parte di un individuo della situazione, ed è interpretata come una passione piuttosto che come un’azione»40. Un ruolo sociale è uno schema comportamentale tipico, osservabile in un certo contesto sociale. Si pensi, ad esempio, al ruolo sociale che un individuo assume dopo essere stato eletto in Parlamento: un deputato entra in una rete di pratiche sociali entro cui svolge un ruolo particolare. Il ruolo che ricopre è relativamente duraturo e manifesto, nel senso che tutti concordano 37 D.M. Buss, The Dangerous Passion: Why Jealousy is as Essential as Love and Sex, Simon and Schuster, New York 2000. 38 «Se la gelosia sessuale di Otello fosse stata un programma emozionale [...], egli avrebbe dovuto sorprendere Desdemona a letto con Cassio, o quanto meno aver visto il fazzoletto, perché la gelosia potesse prender corpo» (Griffiths, What Emotions Really Are cit., p. 117). 39 R.H. Frank (nel suo Passions within Reason, W.W. Norton, New York 1988) ha sostenuto che le emozioni cognitive superiori sono risposte irrazionali a breve termine volte a garantire la razionalità dell’agente a lungo termine. Per esempio, la fedeltà conduce spesso alla cooperazione a lungo termine piuttosto che alla defezione a breve termine in interazioni sociali che hanno la struttura di un dilemma del prigioniero iterato. 40 J.R. Averill, The acquisition of emotions during adulthood, in R. Harré (a cura di), The Social Construction of Emotions, Blackwell, Oxford 1986, p. 312. 176 sul fatto che l’essere un deputato significa essere trattato in una certa maniera. Invece, nel caso di stati emozionali costruiti socialmente è necessario parlare di ruoli sociali transitori e dissimulati. Questi ruoli sono transitori perché un individuo li svolge esclusivamente in situazioni di breve durata e stressanti. Essi autorizzano condotte altrimenti inaccettabili: in questi casi, cioè, si sfrutta il carattere passivo normalmente attribuito alle forti emozioni e alle passioni improvvise, amorose o aggressive, al fine di sottrarsi alla responsabilità per l’azione compiuta (cfr. supra, cap. 3, par. 1). Inoltre, tali ruoli sono dissimulati nel senso che si strutturano solo in quanto la società non riconosce né la loro funzione, né le pratiche sociali in cui questi ruoli sono inclusi. Un esempio di sindrome costruita socialmente è la condizione di «uomo selvatico», uno stato affine all’isteria osservato presso i Gururumba, una tribù della Nuova Guinea41. In tale condizione il soggetto si aggira furibondo per il villaggio, facendo man bassa di oggetti di poco valore e aggredendo gli astanti. Tale stato di frenesia è concepito dalla comunità come una malattia, e alla condotta antisociale è riservato un atteggiamento tollerante. Ora, la condizione di uomo selvatico è limitata per lo più a soggetti maschi fra i 25 e i 35 anni, un’età, vale a dire, in cui è probabile che essi si vengano a trovare sotto una notevole pressione finanziaria a seguito dell’acquisizione di una moglie. Il comportamento drammatico e violento associato alla condizione si manifesta allorché l’individuo non è in grado di far fronte ai suoi obblighi finanziari. Una volta messo in atto tale comportamento, si ottiene un atteggiamento indulgente nei confronti delle proprie inadempienze. Si può pertanto supporre che la condizione di uomo selvatico sia un espediente grazie al quale un individuo si sottrae ai normali obblighi sociali senza contestarne la legittimità. La sua è un’azione, ma non è riconosciuta come tale né da lui né dalla comunità: il carattere involontario delle condotte da uomo selvatico è parte integrante di questo ruolo sociale. Le emozioni di ruolo sociale, dunque, si differenziano dalle altre emozioni non soltanto in virtù della loro specificità culturale, ma anche per la loro psicologia. Esse sono tentativi inconsci di sfruttare lo status particolare che viene comunemente accordato alle emozio- Cfr. P.L. Newman, ‘Wild man’ behavior in a New Guinea Highlands community, in «American Anthropologist», 66(1), 1964, pp. 1-19. 41 177 ni in ragione della loro passività. Ciò significa che la loro eziologia include i meccanismi della cognizione sociale, e non già i meccanismi percettivi delle emozioni primarie o i meccanismi concettuali delle emozioni di alto livello. Di conseguenza, le emozioni di ruolo sociale non sono esplicabili sulla falsariga degli altri due tipi di emozione: sono un tipo di stato autonomo, che tuttavia «parassita» il repertorio emotivo universale, prodotto dall’evoluzione. Riassumendo, il concetto ordinario di emozione si presenta come un aggregato di almeno tre categorie eterogenee. Le emozioni primarie sono stati psicologici caratterizzati da un’organizzazione modulare, con basi neurofisiologiche e origini filogenetiche antiche. Le emozioni cognitive di ordine superiore sono invece aspetti della cognizione di alto livello e si distinguono dai programmi emozionali sotto l’aspetto della filogenesi, della funzione adattiva, delle basi neurofisiologiche e del ruolo svolto nella psicologia umana. Costruire una categoria teorica basata sulle somiglianze fra queste ultime due classi di fenomeni mentali non troverebbe giustificazione in alcun progetto esplicativo promettente. Infine, le emozioni di ruolo sociale sono delle finzioni, e quindi non possono essere collocate in un’unica categoria insieme alle altre emozioni: sarebbe come includere la sindrome di possessione nella categoria delle malattie causate da parassiti42. Di qui la morale anticipata all’inizio del paragrafo: il concetto ordinario di emozione raccoglie sotto un’etichetta convenzionale fenomeni affatto disparati. Ed è bene notare che tutti questi fenomeni non possono più essere relegati, come voleva l’ideologia delle passioni, in una sfera psichica «bassa» e «primitiva», che insidia la nobiltà della «cosa che pensa»; essi appartengono a pieno diritto al più ampio universo di tutti gli eventi psichici. 2.2. La frammentazione della ragione La psicologia scientifica ha rivelato l’eterogeneità non solo delle emozioni ma anche di ciò che si è inteso tradizionalmente designare con il termine «ragione». La mente, anche nei suoi aspetti più razionali, è in realtà un insieme appunto eterogeneo di strumenti analitico-operativi imperfetti che, in talune circostanze, producono spontaneamente l’errore. Per confermare questa affermazione sarà sufficiente rivolgere un breve sguardo ad alcune idee in tema di razionalità e ragionamento proposte in scienza cognitiva. 42 Griffiths, What Emotions Really Are cit., p. 245. 178 Da almeno quarant’anni le ricerche della psicologia del pensiero dimostrano che, in circostanze del tutto ordinarie, gli individui ragionano, giudicano o prendono decisioni in modo del tutto contronormativo. Fulcro di queste indagini è stato l’oramai celebre programma delle euristiche e biases di Daniel Kahneman e Amos Tversky43. Per questi due studiosi, le prestazioni inferenziali umane sono guidate non tanto dai principi normativi della razionalità stabiliti dalla logica deduttiva, dalla statistica matematica e dalla teoria dell’utilità attesa, quanto piuttosto da euristiche, ovvero strategie di risoluzione di problemi economiche ed efficaci ma non sistematiche. Che un’euristica non è sistematica vuol dire che la sua applicazione può condurre alla risoluzione di problemi, ma non garantisce il conseguimento costante di tale esito; talvolta, infatti, la stessa euristica può dar luogo a prestazioni che si discostano da quelle ottenibili attraverso l’applicazione dei principi normativi. Pertanto gli errori sistematici (biases) che possono derivare dall’attivazione di una o più euristiche misurano lo scarto tra la prestazione reale e quella normativamente corretta. Ciò ha indotto alcuni studiosi al pessimismo: la mente umana non dispone dei «programmi corretti per svolgere molti compiti di giudizio importanti»; l’essere umano non ha avuto «l’opportunità di evolvere un intelletto capace di gestire concettualmente l’incertezza»44. Gli unici strumenti cognitivi disponibili agli individui che non hanno ricevuto un’istruzione formale sono euristiche normativamente problematiche. A questo pessimismo si può però obiettare che è sbagliato valutare le euristiche in base ai canoni della razionalità normativa. Il programma delle euristiche e biases, ha sostenuto lo psicologo Gerd Gigerenzer, ha un punto di forza e uno di debolezza45. Il punto di forza consiste nell’aver fatto propria la prospettiva della razionalità limitata delineata da Herbert Simon, per cui l’agente reale, a causa D. Kahneman, P. Slovic e A. Tversky (a cura di), Judgment Under Uncertainty: Heuristics and Biases, Cambridge UP, Cambridge 1982. 44 P. Slovic, B. Fischhoff e S. Lichtenstein, Cognitive processes and societal risk taking, in J.S. Carol e J.W. Payne (a cura di), Cognition and Social Behavior, Erlbaum, Hillsdale (NJ) 1976, p. 174. Vedi anche S.J. Gould: «Le nostre menti non sono costruite [...] per lavorare con le regole della probabilità» (Bully for Brontosaurus. Further Reflections in Natural History, Penguin, London 1992, p. 469). 45 G. Gigerenzer, Rationality for Mortals: How People Cope with Uncertainty, Oxford UP, Oxford 2008; G. Gigerenzer, R. Hertwig e T. Pachur (a cura di), Heuristics: The Foundations of Adaptive Behavior, Oxford UP, Oxford 2011. 43 179 dei limiti della capacità computazionale, non è un ottimizzatore ma piuttosto un satisficer. Ma trova invece il suo limite nella focalizzazione unilaterale sugli aspetti negativi delle euristiche. Al contrario, Gigerenzer ne sottolinea le virtù: i nostri antenati ci hanno lasciato in eredità «una cassetta degli attrezzi adattativa», che contiene un repertorio di euristiche di ragionamento «veloci e frugali», ben adattate a taluni ambienti (fisici e sociali) ma non ad altri. In ragione di tale adattamento, esse impiegano il minimo tempo e poche conoscenze per fare inferenze e prendere decisioni secondo una razionalità «ecologica» che prende le distanze dalla visione pessimistica dell’uomo come animale irrazionale. La teoria delle euristiche veloci e frugali deve però difendersi dai rilievi che le sono stati mossi dai sostenitori delle teorie «dei due sistemi»46. Stando a questa famiglia di teorie, il sistema cognitivo umano è composto da almeno due sottosistemi. Il Sistema 1 (S1) opera in modo inconscio e rapido, producendo risposte intuitivamente cogenti a problemi di apprendimento e ragionamento. Il Sistema 2 (S2) opera invece in modo cosciente e lento, entrando in azione solo quando il soggetto è indotto a svolgere un compito inferenziale in modo riflessivo. S1 è generalmente considerato immodificabile nelle sue operazioni fondamentali, universale e condiviso con altre specie animali; non sarebbe influenzabile direttamente dall’istruzione verbale e opererebbe indipendentemente dalle credenze esplicite del soggetto; infine, le sue operazioni sarebbero di natura associativa e/o euristica. S2 è visto invece come propriamente umano, flessibile e variabile tra individui e culture; sarebbe influenzabile dall’istruzione verbale e potrebbe essere, almeno in parte, guidato dalle credenze del soggetto; infine, esso possiederebbe un qualche tipo di competenza corretta sotto il profilo normativo (almeno in una certa misura, e presumibilmente in seguito a un processo formativo adeguato). In quest’ottica, il principale limite della teoria delle euristiche veloci e frugali risiederebbe nell’esclusiva focalizzazione sui processi automatici e inconsci di S1, che porterebbe a trascurare l’attività dei processi di tipo superiore propri di S2. Una spiegazione globale del funzionamento della mente umana e della sua razionalità, sostengono i sostenitori del modello dei due sistemi, richiede un’a- nalisi approfondita di ambedue i sistemi, nonché delle loro modalità di interazione, sia in termini conflittuali che cooperativi. Da ciò si potrebbe ricavare l’impressione che la teoria dei due sistemi abbia finito per ripristinare quello spartiacque fra piani bassi e alti della psiche istituito dal modello cartesiano del rapporto fra ragione e passioni. Ma così non è. Innanzitutto, l’immagine di due sistemi neurocognitivi che esistono l’uno accanto all’altro e competono per il controllo del comportamento dell’agente ha scarsa plausibilità evoluzionistica: perché mai l’evoluzione invece di modificare, estendere o integrare l’architettura del preesistente S1, avrebbe ricominciato tutto da capo con S2? Tale obiezione ha condotto Keith Frankish a formulare l’ipotesi secondo cui i processi di S2 sarebbero realizzati in quelli di S147. Ossia non avremmo a che fare con due sistemi distinti, bensì con due livelli o strati di processi cognitivi, l’uno dipendente dalle operazioni dell’altro. In quest’ottica, non occorre supporre che l’evoluzione abbia fortemente arricchito l’architettura di S1 per far nascere S2; basta immaginare che i sottosistemi di S1 siano stati orchestrati e utilizzati in modi nuovi. In secondo luogo, si può senz’altro riconoscere la realtà della distinzione fra processi di ragionamento intuitivi e riflessivi; e seguendo Frankish, si può anche accogliere la congettura che il ragionamento riflessivo sia in larga misura realizzato dalle operazioni cicliche di processi intuitivi inconsci (fra cui i sottosistemi normalmente assegnati a S1)48. Ma ciò non equivale a una conferma dell’ipotesi dei due sistemi; e questo perché la distinzione fra S1 e S2 non coincide con la distinzione fra ragionamento intuitivo e ragionamento riflessivo! Prendiamo il ragionamento riflessivo: è facile mostrare che in taluni contesti la riflessione compromette piuttosto che migliorare la prestazione; che lo svolgimento di alcuni compiti è facilitato dal ricorso al ragionamento intuitivo; e che talvolta anche il ragionamento riflessivo si avvale di euristiche. Per quanto riguarda invece i processi intuitivi, alcuni possono essere lenti, altri controllati; alcuni possono conformarsi agli standard normativi, al- Cfr. J. Evans e K. Frankish, In Two Minds. Dual Processes and Beyond, Oxford UP, Oxford 2009. 47 Cfr. K. Frankish, Systems and levels: Dual-system theories and the personalsubpersonal distinction, in Evans e Frankish, In Two Minds cit., pp. 89-107. 48 Cfr. P. Carruthers, An architecture for dual reasoning, in Evans e Frankish, In Two Minds cit., pp. 109-127. 180 181 46 2.3. Difese e costruzione della vita quotidiana Abbiamo dunque visto che tanto la psicologia delle emozioni quanto la psicologia del pensiero offrono gli strumenti per decostruire l’ideologia della ragione e delle passioni da cui Freud non è riuscito a emanciparsi. Nella logica baconiana l’origine delle debolezze e degli errori umani non è più il campo delle emozioni e degli affetti inteso come un sistema di determinanti della condotta estraneo alla sfera razionale; i fattori di errore sono al contrario intrinseci alla razionalità, o meglio immanenti a quel repertorio eterogeneo di meccanismi analitico-operativi in cui si scompone la nostra razionalità (limitata). Ciò consente di intendere in modo radicalmente nuovo la tesi freudiana secondo cui l’autocoscienza è una costruzione intrisa di autoinganni e malafede. In una prospettiva baconiana, infatti, gli aspetti di ambiguità e di autoinganno della vita umana non possono più essere considerati come gran parte della tradizione filosofica li ha concepiti, ovvero come la crisi di un soggetto essenzialmente razionale ma temporaneamente sopraffatto dall’influenza perturbatrice dei sentimenti e degli affetti. Questi aspetti vanno visti ora come dimensioni globalmente costitutive della mente e della condotta. Con ciò si determina un «rovesciamento rafforzativo» dell’interrogativo psicodinamico sulle difese: ciò che ci dobbiamo chiedere non è come e perché esistano taluni meccanismi difensivi, ma se per caso tutte le strutture di conoscenza e di azione intorno a cui si imbastisce la vita quotidiana non svolgano funzioni difensive50. Entro questa cornice teorica, la psicologia dinamica si salda con la psicologia interpersonale e sociale. La difesa dell’immagine di sé (strettamente legata all’uso autodifensivo delle attribuzioni causali), gli atteggiamenti sociali in generale e gli stereotipi e i pregiudizi in particolare, la gestione razionalizzante della dissonanza cognitiva sono i blocchi da costruzione di una realtà interpersonale e sociale impastata di errori sistematici o, come avrebbe detto Freud, di autoinganni interessati. E tutte queste strutture di autoinganno sono costruzioni difensive che nascono da operazioni mentali in cui l’aspetto cognitivo-operativo non è separabile da quello emozionaleaffettivo. Per chiarire questo punto, sarà sufficiente soffermarsi brevemente sul pregiudizio. Nel capitolo precedente abbiamo proposto l’ipotesi secondo cui la quasi totalità del comportamento umano è un «sapere performativo» (o «saper fare», o «sapere come»). In questa prospettiva, in cui la conoscenza ordinaria è in larga misura una conoscenza operativa, l’attribuzione di senso a un oggetto equivale a inserirlo in un contesto pragmatico: con questo oggetto ho fatto qualcosa in passato e posso farci qualcosa in futuro. Ora, gli usi di un oggetto (ovvero gli schemi comportamentali) si dispongono in un ordinamento gerarchico stabilito dagli interessi (o «valori») che l’agente assegna a quello che lo circonda: per esempio, nelle specie animali interessi quali la ricerca di cibo o la difesa dai predatori o la ricerca di un rango sociale vantaggioso stabiliscono la priorità fra gli schemi comportamentali – priorità che è perfino possibile misurare con l’ausilio della teoria dei giochi51. L’ordine del vivere quotidiano è perciò istituito da gradienti di interesse o gerarchie di importanza. Il mondo si suddivide in aree più «prossime» (quelle che ci interessano di più) e in aree più «distanti» (quelle che ci interessano meno). Il criterio della distanza si articola poi in base a due dicotomie, le più tipiche ed elementari della vita psichica: «interno-esterno» e (rispettivamente) «buono-cattivo». E dunque abbiamo da un lato ciò «che è ‘interno’ a un mondo sociale limitato, ‘do- 49 Cfr. P. Carruthers, The fragmentation of reasoning, in P. Quintanilla (a cura di), La coevolución de mente y lenguaje: Ontogénesis y filogénesis, Fondo Editorial de la Pontificia Universidad Católica del Perú, Lima 2012. Cfr. Jervis, Fondamenti di psicologia dinamica cit., p. 301. Cfr. J. Maynard-Smith, Evolution and the Theory of Games, Cambridge UP, Cambridge 1982. 182 183 tri no. Insomma, la distinzione fra S1 e S2 non ha realtà psicologica e va abbandonata49. In conclusione, l’indagine psicologica sulla razionalità e il ragionamento ci dice che anche in questo caso, come in quello delle emozioni, manca una sfera cognitiva unitaria. Esiste invece un repertorio (un toolkit, per dirla con Gigerenzer) di meccanismi analitico-operativi, che è eterogeneo e disperso, e quindi privo di quella struttura gerarchica, culminante nella razionalità autocosciente, che era postulata dal modello cartesiano. A nostro parere, la morale da ricavarne non è né pessimistica né ottimistica: dal punto di vista della razionalità normativa, gli strumenti con cui ragioniamo presentano tanto aspetti razionali che aspetti irrazionali, o poco razionali (questi ultimi meglio descritti, in taluni casi, come ecologicamente razionali); ma tutti questi aspetti sono sempre, come Bacone aveva visto, intrinseci al nostro stesso modo di pensare. 50 51 mestico’, perciò ‘buono’ e rassicurante, e dove esiste, per così dire, un panorama prossimale di valori garantiti»; dall’altro lato tutto ciò che «è ‘esterno’, ‘estraneo’, che ci interessa meno e il cui valore garantito è minore, e dove gli oggetti e gli eventi possono caricarsi di toni negativi»52. Ciò si osserva non solo nell’adulto ma già nel bambino, per il quale ciò che è interno allo spazio domestico (al mondo buono e rassicurante) è delimitato dalla presenza della figura primaria di attaccamento. La sistematizzazione spontanea del reale (o anche la sistemazione domestica degli oggetti d’uso) avviene dunque in virtù di gerarchie e categorizzazioni di valori. Questa è certamente un’operazione cognitiva, ma una che si lega, inscindibilmente, all’attribuzione di connotazioni emotivo-valutative secondo i cosiddetti «affects primari» – vale a dire, secondo un’alternativa di base nel nostro orientamento disposizionale verso la realtà che separa nettamente il gradevole e lo sgradevole, l’amico e il nemico; e con ciò l’avvicinarsi e l’allontanarsi, l’accettare e il rifiutare, l’incamerare e l’espellere53. Le dinamiche psicologiche del pregiudizio fanno parte di questo modo di organizzare la realtà; esse sono cioè parte integrante dei modi in cui il soggetto sistematizza spontaneamente la realtà materiale o sociale secondo categorie di importanza e gradienti di approvazione e disapprovazione. La particolarità del pregiudizio consiste nel fatto che, laddove nella maggior parte dei nostri atteggiamenti elementari (di simpatia, di curiosità, di immedesimazione, di desiderio, di disposizione al legame ecc.) è presente una tendenza («positiva») all’avvicinamento all’oggetto, nel pregiudizio si riscontra la tendenza opposta a rifiutare l’oggetto, che si traduce in un rifiuto di conoscerlo. Ora, come sappiamo da parecchio tempo, la dinamica del sentirsi membri dell’ingroup è strettamente legata al denunciare come infidi e diversi i membri dell’outgroup54. Di conseguenza, l’enunciato che esprime il pregiudizio (ovvero lo stereotipo) nel momento stesso in cui squalifica «gli altri», assolve la funzione difensiva 52 Cfr. Jervis, Fondamenti di psicologia dinamica cit., p. 331. Cfr. anche la sua voce Pregiudizio, in G. Bedeschi (a cura di), Enciclopedia delle Scienze Sociali, Istituto dell’Enciclopedia italiana, Roma 1996, vol. 9, pp. 771-76. 53 Cfr. J.A. Russell, A circumplex model of affect, in «Journal of Personality and Social Psychology», 39, 1980, pp. 1161-78. 54 William G. Sumner è stato il primo studioso a ipotizzare che la coesione del gruppo può dipendere dalla coscienza della presenza di un nemico esterno. Cfr. il suo Folkways. A Study of the Sociological Importance of Usages, Manners, Customs, Mores, and Morals, Ginn, Boston 1906. 184 (autoapologetica) di potenziare la nostra immagine, dotandoci di una identità collettiva (un sentimento comunitario) che è anche una patente di nobiltà, e di cui però «gli altri» sarebbero sforniti. Il sentirsi confortevolmente parte di una comunità «valida» fa sì che noi siamo convinti di una nostra validità interiore. 3. La fragilità del soggetto come tema clinico Nell’ottica baconiana la psicologia dinamica prende la forma di uno studio sistematico dei meccanismi di autoinganno della soggettività autocosciente. Questi – come abbiamo appena visto – sono meccanismi cognitivo-affettivi a cui è connaturata una dimensione difensiva. Quello che ci proponiamo di fare qui e nel prossimo paragrafo è di identificare la radice ultima delle difese psicologiche. Il tema che ci accingiamo ad affrontare è quello della fragilità primaria del soggetto. Una volta sottoposta a rovesciamento rafforzativo, l’idea di difesa (come peraltro quella di inconscio) non è più volta, come accade in Freud, a ridimensionare una visione idealistica del soggetto quale entità dotata di una identità e di una forza primarie: con ben altra radicalità, essa certifica l’inesistenza di una simile entità. Il soggetto umano reale è caratterizzato dall’assenza di un’identità e di una forza che lo garantiscano; e dunque, ciò che dobbiamo cercare di capire è come, a dispetto di questa fragilità primaria, esso riesca a costruirsi: La psicologia scientifica di oggi vuole capire in che modo il soggetto umano giunga a esistere e a sopravvivere, e a essere cosciente, e a creare cultura, malgrado la fragilità delle premesse biologiche da cui parte. Si potrebbe dire che il problema non è più di sapere come l’essere umano possa «scendere», rispetto al livello di nobiltà a cui era stato collocato, ma al contrario come possa «salire» fino all’autocoscienza e alla cultura malgrado l’assenza di un’identità e di una forza che lo garantiscano: malgrado, dunque, la sua ontologica inconsistenza, e anzi, ancor più radicalmente, una sorta di suo «non-essere» originario55. È effettivamente questa la concezione del soggetto umano che ci consegnano le scienze cognitive. Questo soggetto è un sistema psicobiologico che fabbrica se stesso; e il suo io è un campo di effetti, 55 Jervis, Fondamenti di psicologia dinamica cit., p. 301. 185 l’esito del presentarsi alla coscienza di un insieme di funzioni che, come sappiamo, sono elaborazioni di informazione realizzate negli eventi biochimici del cervello. Vale la pena di sottolineare l’importanza di questa visione della mente. Il mentalismo funzional-computazionale è certamente stato uno di quei rari progressi di cui qualche volta anche la filosofia è capace: esso ha costituito una via di uscita dalle secche in cui da secoli era incagliato il dibattito sul problema mente-corpo56. Ma in questo quadro, in cui il soggetto è visto «dal basso», a partire cioè dalle disparate funzioni della mente, la soggettività autocosciente si rivela una costruzione priva di garanzia metafisica, e proprio per questo stretta fra precarietà e malafede. L’io è qualcosa di primariamente inautentico in quanto è la «facciata» dell’inconscio computazionale. Questo inconscio è cioè, al pari dell’Io freudiano, un apparato che ha fra i suoi molti compiti quello di allestire un complesso autoinganno, ovvero la rappresentazione di sé come una (immaginaria) entità primaria, unitaria, libera, razionale, padrona della persona. La difensività è dunque immanente a questo io-costruito nella misura in cui la sua essenza risiede precisamente nel negare la propria «inconsistenza ontologica»; nel mettere in campo misure autoprotettive contro la minaccia costituita dal suo «non-essere originario». È importante però chiarire che qui, ancora una volta, stiamo andando oltre Freud, dal momento che per lui il tema della fragilità del soggetto non può essere veramente centrale. Nella teoria freudiana del disagio mentale, infatti, il carattere non unitario della mente è ricondotto non già a una sua fragilità primaria bensì all’onnipresenza del conflitto intrapsichico57. Già a partire dagli anni trenta, tuttavia, la psicoanalisi ha cominciato a spostare l’asse teorico dalla tematica affettiva tipica del bambino fra i tre e i sei anni alla tematica affettiva del primo anno di vita, e quindi dalla tematica dei conflitti nascenti dal triangolo delle rivalità edipiche alla tematica più precoce di una debolezza, o fragilità, o scarsa coesione, o non sufficiente integrazione di quelle strutture della mente che Freud denomina «Io». Questa condizione strutturale di fragilità si traduce sul piano soggettivo in un sentimento cronico di insicurezza. E secondo quanto ipotizzato da psicoanalisti come Michael Balint, Donald Winnicott e John Bowlby, l’origine di questa condizione (che Balint definisce «difetto primario»58) andrebbe rintracciata soprattutto in insufficienze precoci di rapporto fra il bambino e la figura primaria di attaccamento. Tali insufficienze possono essere il risultato di esperienze avverse nei primi anni di vita come una prolungata esperienza di abbandono (separazione o lutto), un clima famigliare di violenza, o carenze croniche di adeguate attenzioni affettive da parte dei genitori59. Quali che siano le cause di un Io fragile e non integrato, questa metafora freudiana identifica una condizione che predispone a una patologia ampia e variegata. A un estremo dello spettro c’è il paziente a rischio di disgregazione psicotica. Qui è in corso la destrutturazione delle funzioni psichiche primarie (le funzioni dell’Io, per l’appunto), con conseguente perdita da parte del paziente della capacità di elaborare in modo adeguato le informazioni che gli provengono dalla realtà, e quindi di distinguere con chiarezza i confini fra i tre spazi esperienziali primari (interno, corporeo ed extracorporeo). Ciò che si osserva allora è la messa a punto da parte del soggetto di misure difensive abnormi, volte a sbarrare il caos esperienziale che si sta originando dal processo disgregativo. Ma l’insufficiente solidità dell’Io (o, equivalentemente, il sentimento cronico di insicurezza) si manifesta drammaticamente anche in pazienti portatori di disturbi di personalità. In questi casi, i meccanismi difensivi quotidiani vengono percepiti come un argine indispensabile nei confronti di un mondo esterno e di un mondo interno vissuti ambedue come minacciosi. Consideriamo il caso delle personalità narcisistiche60. Una quota di difese narcisistiche è normale nella costruzione della propria identità; la patologia entra in gioco quando il narcisismo serve al soggetto per compensare una condizione che è, appunto, di insicurezza e di insufficiente 56 Cfr. M. Marraffa, Jervis e la genealogia nascosta della coscienza umana, in Jervis, Il mito dell’interiorità cit., pp. XXXII-XXXIII. 57 Cfr. Jervis, Fondamenti di psicologia dinamica cit., pp. 304-305. M. Balint, The Basic Fault, Tavistock, London 1968. Cfr. P. Fonagy, G. Gergely, E.L. Jurist e M. Target, Affect regulation, mentalization and the development of the self, Other Press, New York 2002 (trad. it. Regolazione affettiva, mentalizzazione e sviluppo del sé, Cortina, Milano 2005); F. Ortu, C. Pazzagli e R. Williams, La psicologia contemporanea e la teoria dell’attaccamento, Carocci, Roma 2005; e la terza parte di R. Williams (a cura di), Trauma e relazioni, Cortina, Milano 2009. 60 Nella quarta edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-IV) il disturbo narcisistico è classificato nel gruppo B dei disturbi di personalità, insieme ai disturbi borderline, istrionico e antisociale. 186 187 58 59 autostima. Il tema è stato esplorato soprattutto dallo psicoanalista americano Heinz Kohut, nella cui opera la metafora freudiana della solidità dell’Io viene riproposta in termini di coesione e autolegittimazione dell’identità. Una difesa narcisistica consiste non soltanto nella salvaguardia più o meno ansiosa dell’immagine che vogliamo avere di noi stessi, ma anche in un certo tipo di rapporto col mondo esterno: si parla allora di «relazione d’oggetto di tipo narcisistico», ovvero di un legame con situazioni, cose o persone che funzionano come simboli che servono a rassicurarsi circa la propria identità. In taluni casi il sentimento di identità è talmente precario (il self è così poco «coeso», direbbe Kohut) che l’individuo fatica a sentirsi esistere e teme di perdere del tutto il contatto con se stesso qualora venga privato di queste rassicurazioni. Fra queste figurano ciò che lo psicoanalista chiama «oggetti-sé» (self-objects), ossia oggetti di tipo narcisistico che sono vissuti come né interni né esterni rispetto ai confini dell’identità di persona. Scrive Kohut a proposito di un paziente, il signor W.: Era in questi momenti, quando il suo sé infantile privo di sostegno cominciava ad apparirgli spaventosamente strano e iniziava a sgretolarsi, che si circondava dei suoi beni – lo faceva sedendosi sul pavimento, guardandoli, controllando che fossero lì: i suoi giocattoli e i suoi vestiti. E aveva a quell’epoca un particolare cassetto che conteneva le sue cose, un cassetto a cui pensava talvolta la notte quando non riusciva a dormire, per rassicurarsi61. In una fascia di casi clinici meno gravi dei disturbi di personalità, l’insufficienza del senso di identità fa sì che l’individuo, pur non essendo costretto ad adottare uno stile difensivo che sconfina in problematiche patologiche, riesce a condurre una vita normale solo ponendosi all’interno di una situazione di dipendenza, e quindi rifuggendo posizioni affilianti e di responsabilità. In tutti questi soggetti, insomma, il problema principale è un pervasivo sentimento (o vissuto) di insicurezza (o di mancanza di autostima, di fiducia in se stessi, di solidità dell’Io, di coesione del self – tutti termini sostanzialmente sinonimi), che non è in alcun modo riconducibile a tematiche nevrotiche conflittuali. Ronald Laing ha descritto questa condizione meglio di chiunque altro, definendola «insicurezza ontologica primaria»62. Il paziente che ne è afflitto può arrivare a sentirsi più irreale che reale; in senso letterale, più morto che vivo; solo precariamente distinto dal resto del mondo, così che la sua identità e autonomia sono perennemente in discussione. Gli fa difetto l’esperienza della continuità nel tempo. Può mancare di un senso primario di coerenza e coesione personale. Si può sentire più inconsistente che consistente, e incapace di giudicare genuina, buona e di valore la sostanza di cui è fatto63. A questo tipo di vissuti, aggiunge lo psichiatra inglese, il paziente proverà a porre argine escogitando modi con cui cercare di essere reale, di mantenere in vita se stesso e gli altri, di preservare la sua identità, nello sforzo, come spesso egli dirà, di impedirsi di smarrire se stesso. [...] Quelli che per la maggior parte delle persone sono accadimenti ordinari [...] possono divenire profondamente significativi nella misura in cui contribuiscono al sostegno dell’essere dell’individuo o lo minacciano col non-essere64. 4. Dalla clinica all’antropologia filosofica Nel paragrafo precedente si è discusso il tema della fragilità del soggetto nella sua dimensione clinica. Ora si cercherà di dilatare il tema, in modo da tracciare un primo schizzo di un’antropologia filosofica congruente con l’ontologia delle scienze cognitive. A tal fine, ci confronteremo con alcuni aspetti del pensiero di Ernesto de Martino, filosofo ed etnologo che più di chiunque altro ha posto al centro 61 Cfr. per es. H. Kohut, The Restoration of the Self, International Universities Press, New York 1977, pp. 167-68 (trad. it. La guarigione del sé, Bollati Boringhieri, Torino 1980, p. 154 modificata). Cit. in Jervis, La conquista dell’identità cit., p. 29. Oggi Laing è per lo più ricordato come uno dei mostri sacri della controcultura degli anni sessanta; vale dunque la pena osservare che i suoi libri segnano una tappa della psichiatria moderna. In particolare, Laing ha apportato un contributo teorico importante alla comprensione della schizofrenia. Il suo approccio combina fra loro in modo originale i contributi dei fenomenologi, gli studi di H.S. Sullivan sulle distorsioni comunicative, la psicoanalisi moderna e le ricerche sui sistemi di comunicazione interpersonale. 63 R. Laing, The Divided Self, Tavistock, London 1960, p. 42 (trad. it. L’io diviso, Einaudi, Torino 1969, p. 34 modificata). 64 Ivi, pp. 42-43 (trad. it. p. 35 modificata). 188 189 62 della sua riflessione i temi del carattere precario dell’autocostruzione del soggetto e della conseguente natura difensiva dell’autocoscienza. Chiavi di volta del pensiero di de Martino sono il concetto di presenza e quello, complementare, di crisi della presenza. In estrema sintesi, la presenza è il sentirsi esistere, ovvero l’autocoscienza intesa come il ritrovarsi di ogni individuo al centro di un mondo soggettivo ordinato e dotato di senso, e quindi al centro di un ambiente storicoculturale al quale sente di appartenere. Questo sentimento della presenza di sé a se stessi è però un’acquisizione precaria, continuamente costruita dal soggetto e costantemente esposta al rischio della crisi. Questa concezione del soggetto si situa entro una cornice teorica in cui, a partire da un lavoro (mai terminato) di revisione della filosofia crociana, de Martino ripensa in modo radicale alcuni temi della fenomenologia e dell’esistenzialismo, innestandovi un forte interesse per la psicologia e la psicopatologia. Nel Mondo magico de Martino è impegnato nel progetto di rifondare l’etnologia come una scienza storica. La realizzazione di tale progetto presuppone tuttavia che si prenda atto di un limite della coscienza occidentale: per quest’ultima la presenza – «l’esserci unitario della persona» o, nell’idioma kantiano, «l’unità trascendentale dell’autocoscienza» – appare come data. Ma a questa pretesa di datità il filosofo obietta che la presenza «include in sé l’opposizione» nella forma del «rischio» della disgregazione: anche il supremo principio dell’unità trascendentale dell’autocoscienza comporta un supremo rischio per la persona, e cioè, appunto, il rischio per essa di perdere il supremo principio che la costituisce e la fonda. Questo rischio insorge allorquando la persona, in luogo di serbare la propria autonomia rispetto ai contenuti, abdica al suo compito, lasciando che i contenuti si facciano valere fuori della sintesi, come elementi non padroneggiati, come dati in senso assoluto65. In un passo dell’Analitica dei concetti Kant aveva contemplato la possibilità della perdita della presenza (ovvero l’unità sintetica originaria dell’appercezione). Tale eventualità era presa in considerazione però non già come rischio reale, ma solo come conseguenza assurda del mancato riconoscimento di tale unità – in tal caso, scrive il filosofo tedesco, «io avrei tante variopinte e differenti personalità, quante sono le rappresentazioni, di cui ho coscienza»66. Ma in Morte e pianto rituale de Martino commenta questo atteggiamento nei confronti della possibilità di un «me variopinto», affermando che «la tesi che forma il nerbo del secondo capitolo del Mondo magico interpreta come reale rischio esistenziale ciò che nella critica kantiana sta solo come argomento polemico»67. In breve, de Martino assume l’appercezione kantiana come esempio di una soggettività che non muta con i suoi contenuti, come un dato immediato, privo di storia; dell’appercezione egli vuole invece mostrare la genesi, la storicità: «non esiste affatto una presenza, un empirico esserci, che sia un dato, una immediatezza originaria al riparo da qualsiasi rischio, e incapace nella sua propria sfera di qualsiasi dramma e di qualsiasi sviluppo: cioè, di una storia»68. La presenza, dunque, è non già un dato ma un compito, il «compito umano di esserci»; e ciò richiede che si oltrepassi «ciò che passa facendolo passare in forme di coerenza culturale»69. Immerso nello studio del magismo e della religiosità, de Martino concepiva questi fenomeni come parti integranti di uno sforzo collettivo di fare cultura, il che voleva dire per lui dare valore alla vita, cercare di dare significato ai momenti di crisi dell’esistenza, trascendere le miserie materiali della vita quotidiana. La presenza era insomma, per lui, «dinamismo culturale»: La presenza è movimento che trascende la situazione nel valore. Per questo movimento essa si stacca dalla situazione, emerge da essa, la fonda come situazione di un mondo «operabile» e si apre alla universalizzazione dei valori, alle forme di coerenza culturale. La presenza è ethos primordiale umano, volontà di storia che ininterrottamente si dispiega70. Ma se la presenza è movimento, la crisi è inattività, stasi dell’attività valorizzatrice. I «momenti critici del divenire» sono precisamente quelle situazioni in cui l’inerzia della presenza, che equivale alla 65 E. de Martino, Il mondo magico (1948), Bollati Boringhieri, Torino 1973, pp. 188-89. Su questo punto, cfr. M. Mustè, La filosofia dell’idealismo italiano, Carocci, Roma 2008, pp. 194-95. Kant, Kritik der reinen Vernunft cit., pp. 158-59 della trad. it. de Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico (ed. or. 1958), Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 21. 68 de Martino, Il mondo magico cit., p. 189. 69 de Martino, Storia e metastoria, Argo, Lecce 1995, p. 101. 70 Ivi, p. 103. 190 191 66 67 sua perdita, diviene una minaccia incombente. Ciò si può verificare al cospetto della morte, in casi di dissociazione psicologica (in psicopatologia, ma anche nella forma attivamente perseguita dallo sciamano), di alienazione (soprattutto nel senso hegeliano, ma anche in quello marxiano) e di perdita della soggettività, ovvero della propria capacità di agire sul mondo piuttosto che essere un oggetto passivo di azione71. In tutti questi momenti, la storicità sporge, il ritmo del divenire si manifesta con particolare evidenza, il compito umano di «esserci» è direttamente e irrevocabilmente chiamato in causa, qualche cosa di decisivo accade o sta per accadere, costringendo la stessa presenza ad accadere, a sporgere a se stessa, a impegnarsi a scegliere: il carattere critico di tali momenti sta nel fatto che in essi il rischio di non esserci è più intenso, e quindi più urgente il riscatto culturale72. Questi momenti di crisi sono segnalati da una «reazione totale» che è l’angoscia. L’angoscia è, per de Martino, la condizione dell’individuo che avverte la paralisi che affligge la presenza che non sa oltrepassare una particolare situazione (ovvero sente di potersi perdere innanzi ad essa): «Ciò di cui l’esserci si angoscia è di non poter esserci-nel-mondo, di non potersi dare un mondo culturalmente possibile, di non emergere dalla situazione, di non trascenderla nel valore, di perdere la presenza e il mondo»73. A volte un frammento di questa angoscia può annidarsi nelle pieghe del quotidiano, per esempio nello smarrimento che ognuno di noi può avvertire al risveglio. Nella Recherche Proust descrive come gli sia accaduto di svegliarsi nel cuore della notte senza sapere dove si trovasse e nemmeno chi fosse, sprofondato in un abisso esistenziale in cui si avvertiva «più privo di tutto dell’uomo delle caverne». Ma la crisi non tarda a ricomporsi: il ricordo – non ancora del luogo dove mi trovavo, ma di alcuni dei luoghi dove avevo abitato e avrei potuto essere – veniva a me come un soccorso dall’alto per strapparmi dal nulla al quale da solo non sarei riuscito a sfuggire: risalivo in un istante secoli di civiltà e le immagini, confusamente intraviste, di qualche lampada a petrolio, poi di alcune camice col collo piegato, ricomponevano a poco a poco i tratti originali del mio io74. Il percorso che Proust finemente descrive – dalla vertigine del disorientamento totale alla ripresa di sé e del mondo – si svolge con segno opposto nel vissuto delirante di mutamento che annuncia l’accadere psicotico, giacché in questo caso lo sfondo di domesticità si destruttura contro ogni tentativo di ripresa: Una penosa inversione di segno viene in tal modo guadagnando gli ambiti percettivi più ovvi e familiari, che ora sembrano strani, bizzarri, artificiali, teatrali, irreali, meccanici, fuori quadro, assurdi: e questa inversione di segno, questo moto eccentrico che coinvolge lo sfondo dell’operabile e rende vacillante qualsiasi punto di appoggio per mantenersi come reale centro operativo, riflettono la caduta dell’energia presentificante su tutto il fronte della possibile valorizzazione75. Nella crisi psicopatologica l’angoscia esprime la resistenza che la presenza oppone al suo annientamento, ovvero alla regressione nel «vitale biologico», il quale, in opposizione alla cultura, è caos, disordine, follia76. Nell’avvertire il rischio estremo del «risommergersi nella natura nel completo naufragio dell’umano», il malato tenta di esercitare su tale rischio un controllo sospendendo in sé il divenire; si sforza cioè di mettere in atto «una evasione totale dalla storicità dell’esistere». Questa «destorificazione» si riscontra, per esempio, nella reazione stuporosa: 71 Cfr. G.R. Saunders, “Critical Ethnocentrism” and the Ethnology of Ernesto De Martino, in «American Anthropologist», 95(4), 1993, p. 882. 72 de Martino Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto, in «Studi e materiali di storia delle religioni», 24-25, 1953-54, pp. 18-19. 73 de Martino, Storia e metastoria cit., p. 110. Il concetto demartiniano di angoscia è il frutto di una radicale reinterpretazione – alla luce tanto dell’impostazione storicistica che degli apporti della psicologia e della psichiatria – del concetto di Angst che Heidegger definisce nel par. 40 di Essere e tempo. Su questo punto, cfr. G. Sasso, Ernesto de Martino. Fra religione e filosofia, Bibliopolis, Napoli 2001, p. 296. 74 M. Proust, À la recherche du temps perdu, Gallimard, Paris 1987 (trad. it. Alla ricerca del tempo perduto, Mondadori, Milano 2006, vol. 1, p. 8) La traduzione è stata lievemente modificata alla luce di quella di de Martino in Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche (1964), Argo, Lecce 1997, p. 142. 75 de Martino, Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche cit., p. 143. Il concetto di «vissuti deliranti primari» (primäre Wahnerlebnisse) è stato introdotto da K. Jaspers in Allgemeine Psychopathologie (1913), Springer, Berlin 1959 (trad. it. Psicopatologia generale, Il pensiero scientifico, Roma 1964). 76 de Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali (1977), Einaudi, Torino 2002, p. 657. Sul concetto di vitale in de Martino, cfr. S.F. Berardini, Sulla vitalità e l’utile. Ernesto De Martino e la riforma della dialettica crociana, in «Paradigmi», 2, 2013. 192 193 Uno schizofrenico [...] si rendeva conto, con crescente ansietà, che insormontabili difficoltà si opponevano alla sua azione: ogni movimento che si apprestava a compiere gli si configurava come rischiosa possibilità di compiere un atto nocivo o inefficace, e pertanto questo malato, dominato dall’angoscia, preferiva non mangiare, non vestirsi, non lavarsi, per ridursi infine all’immobilità assoluta dello stupore catatonico77. E tuttavia questa ricerca dell’assenza totale è una strategia improduttiva in quanto non in grado di operare il riscatto della presenza, ovvero di reintegrarla nella realtà storica. La condizione psicopatologica si propone così come un «dramma individuale», «meramente privato», di evasione dalla storia, che spezza il filo della tradizione senza poter edificare forme ulteriori di civiltà. Alla destorificazione psicopatologica («irrelativa») si contrappone la destorificazione posta in essere sotto il controllo culturale. Ai fini della risoluzione dei momenti critici del divenire solo la cultura è in grado di offrire «un sistema organico di tecniche vitali di difesa», le quali sono tutte forme particolari della fondamentale tecnica della destorificazione «istituzionale», ovvero la sospensione del divenire nella pura ripetizione del mito e del rito. Si prenda, ad esempio, lo sgomento dinanzi all’evento luttuoso. Quando l’individuo si trova di fronte a una simile realtà angosciosa che non riesce a padroneggiare, la cultura gli offre un percorso in cui il lutto è vissuto ma al tempo stesso viene superato, cioè in cui c’è la crisi (la «crisi del cordoglio») ma anche il riscatto della crisi. Questa è la destorificazione mitico-rituale: un descensus ad inferos sapendo che poi se ne uscirà; un itinerario che si snoda in un mondo che non è più il mondo storico (il mondo delle incertezze quotidiane e delle grandi crisi dell’esistenza) ma il mondo atemporale del mito e della sua ripetizione rituale; un mondo in cui c’è la morte ma c’è anche la risurrezione, e in cui si ricerca il racconto della morte e della resurrezione perché questo racconto permette di dire a se stessi che ogni volta la morte può essere superata. Tutta questa tematica è sottoposta a un rovesciamento naturalistico negli scritti di Jervis, che alla fine degli anni cinquanta collaborò come psichiatra alle ricerche di de Martino sul tarantismo pugliese (cfr. supra, cap. 3, n. 16). Jervis si è occupato soprattutto dei fondamenti teorici e metodologici della psicologia (in particolare delle teorie psicodinamiche) e degli aspetti psicologici dei problemi 77 de Martino, Morte e pianto rituale cit., pp. 32-33. 194 sociali e politici; si tratta di una riflessione all’apparenza eterogenea ma che in realtà trova unitarietà proprio nel ripensamento, a contatto con le scienze biologiche e psicologiche, delle ipotesi demartiniane sulla condizione esistenziale dell’uomo78. Il ripensamento naturalistico di alcuni aspetti della filosofia di de Martino potrà apparire un’operazione a rischio di anacronistiche forzature; non è però un’operazione arbitraria, giacché nel pensiero demartiniano è effettivamente presente una tensione prodotta dal suo sforzo (caratteristico) di unificare prospettive di per sé eterogenee. Da un lato c’era una scuola storicista e fortemente umanistica come quella crociana, in cui egli si era formato e che negli anni cinquanta cercò di fondere col marxismo: ciò lo impegnava a una negazione culturalista dell’esistenza di strutture psichiche universali. Dall’altro lato, però, la prospettiva fenomenologico-ontologica lo spingeva alla ricerca delle strutture psicologiche invarianti con cui gli individui si difendono dall’angoscia: ciò si rivela nel modo più chiaro nell’interesse per la psicopatologia e l’antropologia strutturalista79. Insomma, specialmente negli ultimi anni della sua vita de Martino oscillò fra il ritenere che l’essere umano dipenda integralmente dalla sua storia e il pensare invece che, in qualche misura, la storia dell’essere umano dipenda da come l’uomo è fatto, ossia dai meccanismi universali della nostra specie80. 78 Nel 1986 Jervis osservava, a proposito delle intuizioni psicologiche di de Martino, che la loro «potenziale fecondità [...] ci fa misurare quanto sia stata grave la perdita prematura di uno studioso, che aveva forse quasi finito di elaborare le premesse per fondare alcune più comprensive e sintetiche ipotesi sulla condizione esistenziale dell’uomo, come di un essere che si trova costretto a viversi nello spazio minacciato e angusto fra la ripetizione e la cultura, fra lo spaesamento e un universo di precarie rassicurazioni» (Jervis, Alcune intuizioni psicologiche di Ernesto de Martino, in «Ricerca folklorica», 13, 1986, p. 67; rist. in Il mito dell’interiorità cit., p. 93). Per una visione d’insieme sull’opera di Jervis il lettore può consultare il fascicolo di «Medicina nei secoli», 24(1), 2012, che raccoglie gli atti del Convegno «Contro il ‘sentito dire’. Omaggio alla memoria di Giovanni Jervis». 79 Vittorio Lanternari e Alberto M. Cirese hanno caratterizzato questa oscillazione come una tensione fra «storicismo concretizzante» e «ontologismo generalizzante»: cfr. P. Solinas, Storicismo, marxismo, strutturalismo, in P. Clemente e altri, Antropologia italiana, un secolo di storia, Laterza, Roma-Bari 1985, pp. 205-65. 80 Jervis si spinge fino al punto di ipotizzare che «se de Martino fosse vissuto negli anni settanta e ottanta, si sarebbe reso conto che era in corso proprio in quegli anni un’ulteriore revisione, un’ulteriore innovazione, che andava nella direzione in senso lato dello strutturalismo, cioè una ripresa degli studi darwiniani, e quindi della importanza delle strutture universali della mente come caratteristica della specie umana» (Il «Mondo magico» di Ernesto de Martino, Rai 3, «Damasco», puntata del 16 novembre 2005). 195 Allora, saldamente radicato nel quadro naturalistico delle scienze biologiche e psicologiche, Jervis valorizza quegli spunti dell’opera di de Martino che hanno precorso le odierne ricerche sull’identità e il self: Nella psicologia generale come nella psicopatologia, nella psicologia sociale come nella psicoanalisi moderna, e anche nello studio dell’infanzia, emerge infine la centralità della tematica di cui de Martino era stato precursore. Questa tematica riguarda non solo e non tanto le classiche declinazioni esistenzialiste dell’«esserci», quanto più precisamente l’argomento complesso, e oggi anche più strettamente psicologico, dell’identità e del self 81. In questa prospettiva, tutto il pensiero demartiniano viene a incardinarsi sull’idea che siamo andati articolando in questo capitolo: la nozione di identità soggettiva quale sentimento primario dell’esserci in quanto esserci in un certo modo, ovvero con caratteristiche determinate, come identità descrivibile. La tesi centrale di de Martino è allora questa: il sentirsi esistere, cioè il sentimento primario della presenza di sé a se stessi, o se si vuole il sentimento dell’unità dell’Io, o anche l’autocoscienza come certezza piena su cui si fondano l’esperienza e l’ordine del vivere quotidiano, non sono una facoltà psicologica garantita una volta per sempre, ma sono un’acquisizione precaria, ogni giorno faticosamente costruita dalla cultura. In termini più concreti, non si sa che si è, senza sapere chi si è; e non si sa chi si è senza un sistema di riferimenti – in parte simbolici e rituali – che danno orizzonte al vivere, domesticità e senso al proprio essere-nel-mondo82. Si ripropone così, ma questa volta come tema antropologico, la tesi della fragilità del soggetto. Non esiste autocoscienza senza che vi sia una qualche descrizione di sé, e quindi senza che vi sia una qualche descrizione di identità. Se per qualche motivo questa descrizione di sé diviene incerta, il soggetto sente presto dissolversi la sensazione di esistere. Questo può essere l’esito di un processo psicopatologi- co, ed infatti l’indagine clinica documenta «che se la coerenza della rappresentazione di sé è invalidata, o resa internamente contraddittoria, anche il sentimento primario di sé entra in crisi. Chi non sa più descriversi sente presto dissolversi la sensazione di esistere»83. Ma un esito analogo può essere provocato da un improvviso crollo dell’autostima, o in occasione di improvvise tempeste emozionali, o dal venir meno della continuità del tessuto della nostra socialità: Se veniamo materialmente spogliati dei nostri abiti, dei nostri averi e della nostra rispettabilità sociale, come ci può accadere se siamo stati scaraventati in un campo di concentramento, la nostra stessa coscienza di esserci si assottiglia e vacilla; ci attacchiamo allora ai ricordi (ma persino questi ultimi possono esser posti in dubbio da carcerieri oculati), al senso di una nostra dignità progettuale (nel caso che ne abbiamo una) o alla sicurezza segreta di una appartenenza (come può accadere a un rivoluzionario sicuro della propria fede e della propria organizzazione): ma se tutto questo ci manca, allora ci accorgiamo che la nostra mente si svuota, e non soltanto non sappiamo più chi siamo ma anche, letteralmente, perdiamo la sensazione di esser presenti84. Pertanto, innestando la psicologia fenomenologica dell’identità di de Martino sul corpo di una psicologia dinamica rifondata alla luce delle scienze cognitive, Jervis ravvisa la radice ultima della difensività primaria del soggetto in quanto macchina che costruisce se stessa nella precarietà dell’autocoscienza in quanto descrizione di identità, ovvero nel rischio esistenziale primario, e universale, della perdita della presenza. Priva di ogni garanzia metafisica, la soggettività autocosciente si costituisce grazie a un insieme di manovre psicologiche composite, di attività volte a esorcizzare la sua inconsistenza ontologica, il suo non essere originario. In breve, la mente ottiene «la propria unità – o apparenza di unità – nell’atto di mobilitare espedienti contro la propria disgregazione»85. 81 Jervis, Ricordo di Ernesto de Martino, in C. Gallini e M. Massenzio (a cura di), Ernesto de Martino nella cultura europea, Liguori, Napoli 1998, pp. 318-19. 82 Jervis, Alcune intuizioni psicologiche di Ernesto de Martino cit., p. 67 (rist. p. 93). Jervis, Presenza e identità cit., p. 50. Jervis, La costruzione dell’identità, in Id., Il mito dell’interiorità cit., pp. 13132. A tale riguardo, l’autore rimanda a tre celebri testi: P. Levi, Se questo è un uomo (1947), Einaudi, Torino 2005; B. Bettelheim, The Informed Heart. Autonomy in a Mass Age, Free Press, Glencoe (Illinois) 1960 (trad. it. Il cuore vigile, Adelphi, Milano 1988); E. Goffman, Asylums: Essays on the Social Situation of Mental Patients and other Inmates, Anchor Books, New York 1961 (trad. it. Asylums, Einaudi, Torino 1968). 85 Jervis, Fondamenti di psicologia dinamica cit., p. 298. 196 197 83 84 Si perviene così a un’ipotesi sulla natura umana: La nostra vita non risponde solo a quei bisogni biologici elementari, sopravvivere e riprodursi, che sono evidenti a tutti: né le nostre spinte interiori possono esser riferite soltanto alle forme universali della competizione sociale, quali le vediamo anche nelle rivalità fra gli animali. Invece, la nostra vita quotidiana è condizionata anche da una esigenza che, almeno nella specie umana, è altrettanto fondamentale: l’esigenza, cioè, di costruire e difendere un’immagine di sé dotata almeno di una solidità minimale, e cioè, in pratica, abbastanza solida da confermarci che esistiamo senza dissolverci86. Nelle mani di Jervis, perciò, l’indagine demartiniana sui meccanismi sociali (e in particolare i meccanismi rituali) con cui le comunità e gli individui si difendono dall’angoscia al cospetto dei momenti critici del divenire, cerca l’integrazione con una psicologia dinamica che utilizza gli strumenti delle scienze neurocognitive per indagare le incertezze che concernono l’autocoscienza: incertezze che possono essere di volta in volta insicurezze di immagine, oppure di accettabilità di noi stessi «così come siamo»; oppure, le più angosciose, di consistenza, ossia di solidità interiore87. La psicologia dinamica così rifondata si occupa allora del tema della presenza e della sua crisi come di una materia certamente storica, ma ancor più biologica e psicologica: Questa nostra vita non astratta ma reale, la nostra vita, non è soltanto biografia sociale, e costruzione di cultura, e mondo di idee: bensì in primo luogo, e anzi in modo assai più forte, è storia di un corpo [...]. Il corpo determina il nostro esserci, domina la nostra vita, precede la nostra coscienza di esistere, influenza le nostre esperienze mentali, si impone con le sue esigenze e i suoi limiti, resiste a tutti i tentativi di sublimarlo: in sintesi, mantiene il suo carattere primario88. Jervis, La conquista dell’identità cit., p. 33. Ibidem. 88 Jervis, La conquista dell’identità cit., p. 129. Su questo punto, cfr. R. Williams, Illness, body and relationship. Giovanni Jervis and the field of clinical psychology, in «Medicina nei secoli», 23(2), 2011, pp. 135-54; e i testi di L. Cavallaro, Darwin versus Marx? Note in margine a un libro di Giovanni Jervis; G. Corbellini, Jervis e i pregiudizi «di sinistra» contro la biologia; M. Marraffa, Jervis sul naturalismo darwiniano, la psicologia dinamica e i giochi di ultimatum, in «Psicoterapia e scienze umane», 44(3), 2010, pp. 315-44. 86 87 198 Qui, allora, non è più solo la comunità che, nel vivere nella storia e fare cultura, plasma le tecniche di protezione della presenza. La psiche individuale, ben lungi dall’essere vista come il luogo di elaborazione di una sterile «destorificazione irrelativa», è ora la sfera delle difese intrapsichiche e delle manovre relazionali a cui l’individuo ricorre, nel rapporto con gli altri e col proprio ambiente, per difendere la propria autodescrivibilità e, inscindibilmente, la consistenza del proprio sentirsi esistere. In quest’ottica, le strutture difensive collettive sono il prolungamento di quelle individuali – il che lega inestricabilmente la psicologia dinamica alla psicologia sociale e culturale (cfr. supra, par. 2.3). Ebbene, tutte queste strutture difensive (individuali e collettive), tutti questi «sistemi della presenza», producono equilibri funzionali, cioè adattamenti. E ogni equilibrio psicologico intrapersonale e interpersonale è precario, fluttuante, modificabile, e in definitiva sempre carente e insoddisfacente per l’individuo. Su questo punto, val la pena di osservare, è ancora una volta a Freud che dobbiamo rivolgerci: il grande pensatore viennese aveva infatti le idee ben chiare al riguardo giacché «non credeva in una conciliazione sintetica definitiva delle lacerazioni dell’animo umano», ma piuttosto «nella ricerca – interminabile – di equilibri sempre migliori, eppure mai del tutto armonici»89. 5. Apologia dell’identità Siamo così giunti al termine del nostro intento di tracciare i contorni di un’antropologia filosofica congruente con le scienze cognitive. Noi riteniamo che sia un proposito importante dal momento che nella cultura filosofica regna ancora una notevole incomprensione nei riguardi del modo in cui la «questione del soggetto» può essere affrontata alla luce degli apporti della scienza. Spesso si sente ripetere che tale questione oltrepassa l’orizzonte naturalistico ed è di esclusiva competenza di filosofie a-scientifiche, se non addirittura orientate in senso anti-scientifico. E tuttavia con questo libro speriamo di aver mostrato come siano proprio le scienze biologiche e psicologiche a fornirci gli strumenti per allestire una critica all’immagine idealistica della persona e pervenire a una più profonda comprensione della natura della soggettività autocosciente. 89 Jervis, Il sintomo in psicoanalisi, in «Psicobiettivo», 1, 1988, p. 27. 199 Ciò detto, è bene scongiurare ogni possibile fraintendimento in merito a un punto assai delicato: le scienze cognitive revocano in dubbio i modi tradizionali dell’autolegittimazione del soggetto, ma non lo sopprimono. L’identità di persona che le funzioni psicobiologiche costruiscono non può destrutturarsi se non nel tragico collasso della psicosi. Ciò ci consente di diffidare di quella manovra, riconducibile all’ideologia romantica, che consiste nello smontare la credibilità classica del soggetto, per poi predicare e raccomandare «una molteplicità del sé, un decentramento dell’io, un polimorfismo delle identità, e in sintesi la fine di un’immagine coesiva della mente»90. Questo progetto di indebolimento dell’io, o ancor più radicalmente di frantumazione dell’identità, caratterizza un filone di pensiero che, dopo essere stato in incubazione nelle avanguardie artistiche, ha raggiunto il suo culmine nella cultura parigina degli anni settanta. I filosofi Gilles Deleuze e Félix Guattari ne hanno dato la formulazione più radicale ne L’Anti-Œdipe91. I due autori si spingono fino al punto di celebrare la frammentazione, la molteplicità e la discontinuità dell’io nella psicosi; la schizofrenia è per loro rivoluzionaria, tanto sul piano sociale che su quello individuale. Non varrebbe la pena di ricordare una simile operazione intellettuale, che oggi resiste solo come curiosità di un’epoca di follie e di sconfinate presunzioni, se non fosse per il fatto che, a partire dagli anni novanta, idee non troppo distanti alimentano la riflessione postmodernista e socio-costruttivista sull’identità. Per lo psicologo sociale Kenneth Gergen, ad esempio, l’identità postmodernista è multipla, frammentata, priva di ogni altra realtà se non quella socialmente costruita momento per momento nel corso delle interazioni quotidiane. E a suo parere va benissimo così: la molteplicità del sé (che egli descrive come «condizione multifrenica») va anzi accentuata in modo da permettere al soggetto di espandersi in diverse direzioni, di evolversi e di creare sempre nuove opportunità di crescita personale92. Ma nulla potrebbe stridere di più con la concezione del soggetto umano che abbiamo visto emergere dall’esplorazione cognitivista 90 Jervis, Osservazioni sull’io debole, in «La società degli individui», 1(1), 1998, p. 74 (rist. con il titolo Il mito dell’io debole, in Il mito dell’interiorità cit., p. 174). 91 G. Deleuze e F. Guattari, L’Anti-Œdipe. Capitalisme et schizophrénie, Minuit, Paris 1972 (trad. it. L’anti-Edipo, Einaudi, Torino 1975). 92 K. Gergen, The Saturated Self, Basic Books, New York 1991. 200 della mente, un soggetto per il quale la costruzione di un’identità il più possibile valida è qualcosa di radicato nel bisogno primario di consistere soggettivamente, e dunque di esistere solidamente come «io». Se si accoglie questa visione del soggetto, come noi abbiamo fatto in questo libro, ogni progetto di indebolimento dell’io, o peggio di frantumazione dell’identità, si presenta nella sua vera luce, ovvero come apologia della sofferenza mentale, come misconoscimento della dimensione tragica della psicosi93. 93 Cfr. Jervis, Osservazioni sull’io debole cit., p. 76 (rist. p. 177); J. Glass, Shattered Selves: Multiple Personality in a Postmodern World, Cornell UP, Ithaca (NY) 1993. Gli autori Massimo Marraffa (Roma, 1961) è professore associato di Logica e Filosofia della scienza presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università Roma Tre, dove insegna Filosofia della psicologia e Filosofia della mente. Per i tipi della Laterza ha pubblicato due monografie: Filosofia della psicologia (2003) e, insieme a Cristina Meini, La mente sociale (2005); inoltre ha curato il testo di A. Abrahamsen, W. Bechtel e G. Graham, Menti, cervelli e calcolatori (2004). Il suo lavoro più recente è la monografia Persone, menti, cervelli (Milano 2012), scritta insieme ad Alfredo Paternoster. Alfredo Paternoster (Torino, 1960) è professore associato di Filosofia e Teoria dei linguaggi nel Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Bergamo e membro del collegio dei docenti del dottorato in Filosofia dell’Università di Torino. Ha insegnato anche nelle Università di Sassari, Torino e del Piemonte orientale. È autore, tra l’altro, di Linguaggio e visione (Pisa 2001), Il filosofo e i sensi (Roma 2007; trad. francese Grenoble 2009), Introduzione alla filosofia della mente (Roma-Bari 2010) e, con Massimo Marraffa, di Persone, menti, cervelli (Milano 2012). Sempre con Massimo Marraffa ha curato Scienze cognitive. Un’introduzione filosofica (Roma 2011). Indici Indice analitico 207 Indice 1. Premessa V La mente inconscia 3 1. Mente e scienze cognitive, p. 3 - 2. L’inconscio cognitivo e l’inconscio freudiano, p. 15 - 3. L’inconscio della scienza cognitiva: una discussione critica, p. 22 2. Corpo e coscienza 42 1. La coscienza: un imbarazzante residuo?, p. 42 - 2. L’Io e la coscienza tra dissoluzione e ricostruzione, p. 58 - 3. La strategia bottom-up, p. 75 - 4. Si può essere coscienti senza essere (preriflessivamente) autocoscienti?, p. 95 - 5. Sinossi, p. 104 3. La consapevolezza di sé nell’introspezione 106 1. Dall’autocoscienza corporea all’autocoscienza introspettiva, p. 107 - 2. Demistificare l’introspezione I: la confabulazione delle cause del comportamento, p. 119 - 3. Parità io/ altro o senso interno?, p. 129 - 4. Demistificare l’introspezione II: la confabulazione dei pensieri, p. 140 - 5. Quel che resta dell’introspezione, p. 155 4. L’io e le sue difese 157 1. L’identità soggettiva, p. 159 - 2. Bacone contro Cartesio, p. 172 - 3. La fragilità del soggetto come tema clinico, p. 185 - 4. Dalla clinica all’antropologia filosofica, p. 189 - 5. Apologia dell’identità, p. 199 Gli autori 208 203