Ed ecco la confessione di una mia amica, Medea, che sta pure lei all’inferno.
Kathy Acker, da In Memoriam to Identity, 1990
Teseo non poteva saperlo: sull’altro versante del labirinto c’era l’altro labirinto, quello del
tempo; e da qualche parte, in un luogo preordinato, c’era pure lei: Medea.
Jorge Luis Borges, da “El hilo de la fábula”, in Los Conjurados
Mare che vide molti amori e grosse sventure. È necessario fare i nomi di Ariadne, Fedra,
Andromaca, Elle, Scilla, Io, Cassandra, Medea? Tutte lo traversarono, e più d’una ci rimase. Vien
da pensare che sia tutto intriso di sperma e di lacrime.
Cesare Pavese, in “Schiuma d’onda”, in Dialoghi con Leucò
Pino Blasone
L’una e l’altra Medea
1 – Medea e le Peliadi ovvero Medea che inganna le figlie di Pelia,
copie romane di rilievo greco non pervenutoci, rispettivamente
nell’Altes Museum/Pergamonmuseum di Berlino e nel Museo
Gregoriano Profano a Roma (Musei Vaticani; si noti il coltello in
mano a una delle ragazze, poi trasformato in ramoscello d’ulivo)
Un antagonismo radicale
A ragione o a torto, sia Medea sia Antigone sono state spesso considerate espressioni
di un antagonismo radicale. Tra il rivendicare di Antigone e il meditare vendetta di Medea,
c’è però una palese differenza. A costo della propria vita, l’eroina dell’omonima tragedia di
1
Sofocle rivendica il diritto a seppellire il fratello Polinice, dichiarato nemico e traditore della
patria comune. Ciò è da lei reclamato appellandosi a una legge ideale non scritta, naturale o
divina, comunque superiore a quella decretata dagli uomini e perfino meno disumana di
essa, specialmente se voluta e applicata da un despota privo di pietà e di discernimento
adeguato alle circostanze. Forse non del tutto a caso, sia il re di Tebe in questione sia quello
di Corinto – personaggio del dramma Medea di Euripide – si chiamano entrambi Creonte.
Questo nome dovette suonare sinonimo di tirannide agli orecchi degli spettatori greci,
evocando un potere politico autocratico ormai inviso soprattutto alla democrazia ateniese.
Ma il Creonte euripideo risulta più ambiguo e meschino, rispetto al suo omonimo di
Sofocle. Quest’ultimo è convinto di rappresentare una “ragion di Stato”, s’intende di uno
“Stato etico” baluardo del bene collettivo, tant’è che egli riuscirà simpatico a G. W. F.
Hegel. Il primo invece neppure dissimula un interesse privato, giustificandosi con
l’argomento di anteporre i suoi figli all’amor di patria e per giunta vantandosi di
magnanimità. Sua maggior preoccupazione è la propria famiglia, casata, dinastia: il plurale
greco δόμους – si veda più avanti – ben esprime il concetto. Se sul secondo incombe la
nemesi dell’esito della follia, il primo andrà incontro a una morte atroce, causata dalla
vendetta multipla messa in atto da Medea. Nella tragedia di Euripide, se il personaggio di
Giasone resta il principale antagonista della protagonista, Creonte non è da meno. E i gesti
estremi di lei sembrano provocati dai comportamenti di Creonte quasi quanto da quelli
dell’Argonauta, eroe decaduto ma pur sempre eroe, diversamente dal suo aspirante suocero.
“Tu non mi stai certo a cuore più della mia famiglia” (φιλῶ γὰρ οὐ σὲ μᾶλλον ἢ
δόμους ἐμούς): così recita eufemisticamente il re di Corinto a Medea al verso 327 dell’opera
euripidea, dopo averle comunicato un’ingiunzione di espulsione immediata di lei dalla città,
preventiva di ogni danno che ella possa arrecare – in quanto notoria maga se non famigerata
strega – alle persone del monarca e dei suoi familiari. Sarà fatale una breve dilazione
invocata da Medea e concessa da Creonte, in vena di mostrarsi generoso a buon prezzo. In
realtà, la presenza della principessa immigrata dalla remota Colchide è diventata scomoda,
da quando suo marito nonché padre dei suoi figli ha deciso di passare a nuove nozze con la
figlia di Creonte, che questa si chiami Glauce ovvero Creusa: il secondo nome sarà preferito
dagli autori latini, ai quali piacerà cimentarsi con lo stesso mito, tra cui Lucio A. Seneca.
Più che antagonista, Glauce/Creusa è per Medea la figura di una rivale, lasciata per lo
più in ombra dai classici. 1 Nella tragedia di Euripide non ne compare neanche il nome.
Nominata più volte in quella di Seneca, non le è accordato un ruolo né voce in scena.
Quanto la riguarda o le accade è riportato da altri, compresa Medea stessa. Ciononostante, la
giovane e bella figlia di Creonte rimarrà vittima insieme al padre della furia vendicativa, o
1 Parziale eccezione in tal senso è l’epillio Medea, del poeta tardo latino Draconzio. Lì Creusa
recupera il nome Glauce e acquista una visibilità non proprio lusinghiera, suggerita forse da una
morale ormai cristiana dell’autore, che non vedeva di buon occhio le ulteriori nozze di Giasone,
e di conseguenza il ruolo di Glauce quale seconda – o terza, stando a Ovidio – moglie. Anche la
morte dei figli di Medea vi assume un’aura sacrificale di pagana, equivoca religiosità. Nella
barocca Médée di Corneille, Creusa conquista un suo spazio anche verbale. Ma solo nella
romantica Medea di Grillparzer, ella guadagna rilievo psicologico. Infine nelle Medee di Alvaro
e di Pasolini, la ragazza si suicida, caricata di complessi di colpa nei confronti di Medea e dei
suoi figli. Nel film del 1969, del resto Medea stessa è vittima di un conflitto fra naturalistica
religiosità arcaica e dissacrante mentalità laica: cfr. Duarte Mimoso-Buiz, “Figures du miroir:
confrontation de la Creusa de Corrado Alvaro (Lunga notte di Medea) et de Glauce dans Medea
de Pier Paolo Pasolini”, in Revue des études italiennes 27, Parigi 1981; pp. 214-232.
2
della lucida vendetta di Medea, in maniera più direttamente letale di quanto avverrà nei
confronti di Giasone. Le modalità sono note: la maga tornata a essere tale invierà doni alla
novella sposa; fra essi, una veste intrisa di una sostanza auto-combustibile prenderà fuoco,
appena indossata dall’ingenua e sfortunata fanciulla. Accorso invano a soccorrerla, anche il
re di Corinto perirà nel rogo stregato. Agli occhi di Medea, Giasone, Creonte e Glauce,
partecipano a vario titolo di una congiura a lei ostile, che suscita o resuscita una sua istintiva
barbarie. Quella, che era una velata accusa altrui nei suoi riguardi, viene da lei adottata
come un vessillo. Quasi un eccesso di difesa, quello di Medea è un antagonismo per antitesi,
incentrato su una scissione e culminante in un’amputazione della propria personalità.
Torniamo a confrontare l’Antigone di Sofocle con la Medea di Euripide e di Seneca. È
giocoforza notare che il sistema familistico in difesa del quale si batte a oltranza la prima
non differisce poi molto da quello che opprime la seconda, scacciandola dal proprio seno in
base a una sua pretesa estraneità e pericolosità, o piuttosto per motivi di bieco opportunismo
dinastico. L’eroina di Sofocle si sente in dovere di restaurare quell’ordine involontariamente
violato dal padre/fratellastro Edipo – l’incestuoso “Edipo re”, appunto –, sfidando lo zio
materno Creonte considerato un usurpatore. Quasi una faida interna, sebbene nobilitata e
riscattata dall’idealità di Antigone, che rinuncia perfino a generare (come suggerisce il suo
nome) immolando la propria vita per un eccesso di fedeltà sentimentale ai valori familiari e
alla sua “vera” stirpe. Non per odio bensì per amore, lei ci tiene a specificare, ma dell’amore
esistono varie accezioni. Quello della figlia/sorellastra di Edipo resta un labirinto domestico,
ai cui margini in fin dei conti la polis di Tebe riveste un ruolo di partecipe spettatrice.
Quella di Medea è una trappola tesa per ferirla, umiliarla ed estrometterla sia dal suo
orizzonte domestico sia dalla città di adozione, ospitante se non proprio ospitale. Di
conseguenza, l’antagonismo di lei appare viscerale, anziché radicale in senso politico. Ma
Medea non è veramente tale, finché non tocca il fondo del nichilismo, pagando un caro
prezzo di autolesionismo materno. Qui entrano in scena i suoi bambini, quegli stessi figli di
cui Antigone si preclude ogni possibile parto, ponendo paradossalmente fine alla propria
stirpe. Ed è Seneca a far pronunciare queste parole alla “madre snaturata”, ormai in procinto
di sopprimere i figli generati con Giasone: “Ora sì sono Medea, la mia indole è maturata nel
male” (Medea nunc sum; crevit ingenium malis; v. 910). Quello di Medea è una specie di
suicidio parziale o omicidio vicario.2 Ulteriore paradosso, gli effetti del suicidio di Antigone
non sono meno deleteri, innescando una catena di altri suicidi o di cadute nella follia. Quale
atteggiamento sia più antagonista, se dell’una o dell’altra, rimane una questione aperta.
2 Cfr. Euripide, Medea, vv. 96-97: “Me sventurata, misera in mezzo a tante pene!/ Ahimè, come io
desidero perire!” (ἰώ͵ δύστανος ἐγὼ μελέα τε πόνων͵/ ἰώ μοί μοι͵ πῶς ἂν ὀλοίμαν;). E la stessa
così si esprime nelle Diatribe di Epitteto, II 17, in quella considerata dal filosofo l’aberrante cifra
del personaggio: “Uccido i miei figli, ma così punirò anche me stessa” (ἀποκτείνω μὲν τὰ τέκνα.
ἀλλὰ καὶ ἐμα υτὴν τιμωρήσομαι). Un héautontimorouménos al femminile, insomma; vengono in
mente i versi di una lirica con questo titolo di C. Baudelaire: “Io sono il sinistro specchio/ in cui
si rimira la strega:// coltello e ferita,/ schiaffo e guancia,/ membra e ruota,/ vittima e carnefice”.
3
2 – Medea che medita di sopprimere i figli, affresco pompeiano
proveniente dalla Casa dei Dioscuri, forse copia di un dipinto del
greco Timomaco (a lato, particolare: Museo Archeologico Nazionale,
Napoli; prima del 79 d. C.). Fra l’altro, vi si ispira una Medea narrata
dal francese Pascal Quignard, Bordeaux: Ritournelles, 2011
L’archetipo del rifugiato3
Più o meno nei termini di cui sopra e nella scia dello psicoanalista neo-freudiano
Jacques Lacan, la questione è stata posta e attualizzata da Slavoj Žižek. Il filosofo sloveno
3 Per quanto concerne il concetto stesso del rifugiato, è notevole un intervento attualmente in fase
di elaborazione: Between Homeland and Exile: Witnessing the Homo Sacer at the Heart of Hotel
Medea, specialmente là dove l’autrice Julia Boll si rifà al pensiero contemporaneo di Giorgio
Agamben (si veda al sito Web http://www.firt2013barcelona.org/participants-inf/?pdb=904).
Altro saggio tematicamente analogo ancora in corso di stampa è di Ioanna Karamanou,
“Otherness and Exile: Euripides’ Production of 431 BC”, in D. Stuttard (a cura di), Looking at
Medea, Londra: Bloomsbury Press, presumibilmente 2014.
4
non ha celato una predilezione per la figura di Medea, rivalutandola anzi come una “antiAntigone”. In nota a un articolo del 2004, egli così riassume la sua posizione: “Antigone si
può ancora leggere come paladina delle radici familiari particolari, contro un’universalità
dello spazio pubblico del potere statale; al contrario, Medea dis-universalizza quel potere
universalizzante in sé e per sé”.4 In effetti, in un’ottica moderna e sia pure in maniera
occasionale, Antigone è stata più volte avvertita come una contestatrice dall’interno del
sistema. Ciò, almeno a partire dalla riscrittura teatrale del mito di Jean Anouilh nel 1941-43,
in sfida alla censura collaborazionista durante l’occupazione nazista della Francia. 5
Medea è piuttosto una sabotatrice accidentale calata dall’esterno, rispetto al contesto
socio-politico-culturale in cui è venuta a trovarsi. In quest’ambiente ha cercato di integrarsi,
guadagnandosi ad esempio comprensione e solidarietà – non connivenza e complicità –
delle donne di Corinto rappresentate nel coro della tragedia di Euripide. Esse recitano il
ruolo di una sorta di Super-io freudiano al femminile, talora in contrasto con una mentalità
della protagonista, che ha potuto avvalorare una fama di misoginia dell’autore. 6 È stata la
scoperta a sue spese che la civile società greca, anche perciò promotrice di una politica
coloniale “argonautica”, non è retta da principi tanto meno patriarcali della nativa Colchide,
a risospingerla verso una sostanziale estraneità e avversità, o al tentativo di recuperare
un’identità ormai deformata e aberrante. Nell’ovidiana lettera di “Medea a Giasone”, già si
legge di una Medea, la quale proclama di se stessa: “Io sono quella, che per te infine è
diventata una barbara” (Illa ego, quae tibi sum nunc denique barbara facta; v. 105).
Per la verità, non mancano precedenti nella mitica storia personale di Medea:
addirittura omicidi in ambito familiare e non, commessi da lei trascinata dalla passione per
Giasone e che le impediscono un ritorno in patria o un possibile asilo altrove, con la
diplomatica eccezione di Atene che vedremo in seguito. Nella versione di Euripide, peraltro
4 S. Žižek, “Death’s Merciless Love”, al sito Web Lacan.com, http:lacan.com/zizek-love.htm; nota
25 (nostra traduzione). Si veda anche Žižek, Interrogating the Real, a cura di R. Butler e S.
Stephens (Continuum, 2006), pp. 358-359 e 363. E si legga R. Butler, “Antigone and Medea”, in
Slavoj Žižek: Live Theory, Londra e New York: Continuum, 2005; pp. 99-109. Il tema non
ricorre solo nelle opere di Žižek; pure riferito a Lacan, si ritrova presso un’altra pensatrice
slovena: Renata Saleci, Sexuation, Durham, U.S.A.: Duke University Press, 2000; pp. 17-20.
5 Nel 1946 Anouilh compose pure il dramma Médée, dove sullo sfondo socio-politico si inserisce
il quadro esistenziale di una crisi di coppia e dei rancori che la travagliano. La circostanza che
questa Medea sia non solo straniera, ma anche nomade, ne esaspera la solitudine e contribuisce
all’epilogo, che comprende il suo suicidio. Almeno da Anouilh in poi, sta di fatto che non c’è
quasi situazione di crisi, sociale o politica ed esistenziale, che non abbia espresso la sua artistica
Medea, in un raggio internazionale. Cfr. Diantha Joanne Pinner, Scheler’s Theory of the Tragic
Phenomenon: Euripides’ The Medea and Jean Anouilh’s Médée, University of North Carolina at
Chapel Hill, U.S.A. 1980 (dissertazione).
6 In particolare, si vedano i vv. 407-409: “Per giunta la natura/ ha reso noi donne non proprio
versate nelle buone azioni,/ ma artefici assai sapienti di tutte quelle cattive” (πρὸς δὲ καὶ
πεφύκαμεν/ γυναῖκες͵ ἐς μὲν ἔσθλ’ ἀμηχανώταται͵/ κακῶν δὲ πάντων τέκτονες σοφώταται). Si
può ben leggere questi versi in un’accezione ironica, non diversamente dal v. 928, dove Medea,
abile simulatrice, gioca con un altro stereotipo: si sa, “La donna è debole e facile al pianto”.
5
Creonte le impone di portare con sé i figli nel nuovo esilio, anche se una revoca successiva
viene ingannevolmente richiesta e quasi ottenuta dalla stessa Medea. È quanto in quella di
Seneca le viene negato, così che i bambini le verrebbero sottratti e affidati a Giasone e
Creusa perché li allevino, beffa aggravante il danno della perdita per la madre. Tutti questi
elementi hanno fatto sì che, in epoca a noi contemporanea, al motivo di un irriducibile
antagonismo si affiancasse lo schema interpretativo di quello che può definirsi “archetipo
del rifugiato”. Esso già emerge con forza in un altro rifacimento drammatico, la Lunga notte
di Medea, composto nel 1949 e influenzato dal latino Ovidio oltre che da Euripide. 7
Vale la pena di rileggere le parole dell’autore Corrado Alvaro, per il quale gli orrori
della seconda guerra mondiale erano ricordi recenti, e tuttavia il suo commento suona
preveggente e ancora attuale: “Studiando le origini del mito, trovavo un appiglio ben
moderno, che è poi il senso di questo fatto terrificante alle sue origini. Medea mi è apparsa
un’antenata di tante donne che hanno subito una persecuzione razziale e di tante che,
respinte dalla loro patria, vagano senza passaporto da nazione a nazione, popolano i campi
di concentramento e i campi profughi. Secondo me, ella uccide i figli per non esporli alla
tragedia del vagabondaggio, della persecuzione, della fame: estingue il seme di una
maledizione sociale e di razza, li uccide in qualche modo per salvarli, in uno slancio di
disperato amore materno” (nell’articolo “La Paplova e Medea”, su Il Mondo, 11/3/1950). In
effetti, la Medea di Alvaro uccide i figli, per sottrarli al linciaggio di una folla inferocita.
Alvaro era consapevole delle obiezioni, cui il suo giustificazionismo etico-umanitario
lo avrebbe esposto, ma che rientrano in una dialettica culturale ancor prima che civile. Va
comunque notato, all’interno dell’“archetipo del rifugiato” che egli contribuisce a rifondare
in senso laico (non si dimentichi una ricca tradizione cristiana, relativa alla fuga della Sacra
Famiglia in Egitto), sono enucleate componenti sociali e razziali, le quali possono agire per
loro conto. Non necessariamente la condizione di profugo coincide con fenomeni di disagiodegrado sociale o di persecuzione razziale, politica o religiosa, benché questi ultimi di
frequente accompagnino l’esule oppure l’immigrato e infieriscano su lui, più facilmente su
lei (“la straniera”, di Alvaro). In merito, piace rammentare un paio di antecedenti, il primo
dei quali assume la forma letteraria di un romanzo popolare ispirato a fatti di cronaca,
mentre l’altro è un episodio storico, che in seguito ispirerà opere d’arte o di letteratura e
un’opera lirica. Il primo è ambientato a Napoli; il secondo, negli Stati Uniti d’America.
Pubblicato nel 1882 da Francesco Mastriani, La Medea di Porta Medina narra di
Coletta Esposito, abbandonata da piccola in orfanotrofio. A diciotto anni, viene fatta sposare
con un quarantenne. Ma lei si sottrae a ogni rapporto e alla convivenza con l’estraneo.
Innamorata di un impiegato nell’istituto in cui è cresciuta, ne diviene l’amante, andando a
7 Si legga Marinella Lizza Venuti, “Ovidio modello di Lunga notte di Medea di Corrado Alvaro”,
in Carte Italiane vol. 2, 2007, Los Angeles: UCLA, UC, Department of Italian; pp. 59-68
(http://www.escholarship.org/uc/item/85w7f642). In particolare, vi si esamina l’influenza delle
Heroides di Ovidio sull’opera di Alvaro. Suona qui pertinente una frase pronunciata da Medea,
nell’ovidiana lettera XII, di “Medea a Giasone”: “Se mi disprezzi, volgi lo sguardo ai nostri nati:/
una crudele matrigna infierirà contro chi ho partorito,/ e che fin troppo ti somiglia...” (Si tibi sum
vilis, communis respice natos:/ saeviet in partus dira noverca meos./ Et nimium similes tibi
sunt...; vv, 187-189). Non diversamente da Euripide prima, e poi da Seneca, il poeta latino fu
pure autore di una tragedia intitolata Medea, che però non ci è giunta. Specialmente per Ovidio,
altra fonte greca possono ben essere stati i canti III e IV del poema Le Argonautiche di Apollonio
Rodio, tradotto in latino da Publio Terenzio Varrone Atacino (né mancherà una riscrittura latina
incompleta, gli Argonautica del poeta epico di età imperiale flavia Gaio Valerio Flacco).
6
vivere nel “basso” di Porta Medina e mettendo al mondo una bambina, che si affeziona al
padre. Nonostante ciò e lo scioglimento del matrimonio di Coletta, il giovane sposa un’altra
ragazza. Folle di gelosia, la protagonista strangola la figlia, perché non debba vivere una
vita come la sua, e accoltella la rivale. Verrà poi condannata e giustiziata. Meno romantica
ma reale è la vicenda dell’afro-americana Margaret Garner, dove prevale l’elemento della
discriminazione razziale, anzi della schiavitù. Schiava fuggitiva, nel 1856 sarà catturata e
ucciderà la figlia di due anni, tentando di farlo con gli altri figli per impedire che tornassero
a essere schiavizzati. Sottratta al suicidio e sottoposta a processo, non fu condannata per
l’infanticidio bensì restituita al suo padrone, malgrado le proteste degli abolizionisti. 8
3 – Medea in procinto di uccidere i suoi figli, gruppo scultoreo galloromano, particolare del viso di Medea e veduta d’insieme (Musée de
l’Arles et de la Provence antiques; sec. II-III d. C.)
La sindrome di Medea
In via sottilmente retorica, dalla parte di Medea si schiera pure una riflessione del
greco Epitteto, nelle Diatribe: “Dunque, perché vi indignate con l’infelice donna, che si
ingannò su questioni di fondo, a tal punto da agire da vipera anziché da essere umano?
8 La Medea di Porta Medina conoscerà una versione televisiva del 1981 e una teatrale del 1991, di
produzione italiana. Ma già nel 1901 ne fu tratto e rappresentato, al Teatro S. Ferdinando di
Napoli, un “dramma napoletano” in ben sette atti. È da notare come lo stereotipo della donna
meridionale istintiva di Mastriani sia differente da quello della “straniera” elaborato da Alvaro,
nonostante che entrambi gli autori competano alla stessa cultura mediterranea profonda. Fra le
opere d’arte e di letteratura invece ispirate all’episodio di M. Garner vanno ricordati almeno un
quadro dipinto da Thomas Satterwhite Noble nel 1867, The Modern Medea, e il romanzo
Beloved scritto da Toni Morrison nel 1987 (sul romanzo, non senza rievocare la Medea classica,
si sofferma S. Žižek nella sua lacaniana “The Superego and the Act”, conferenza del 1999
riportata al sito Web http://www.egs.edu/faculty/slavoj-zizek/articles/the-superego-and-the-act/).
7
Abbiatene pietà, come di un cieco o di uno storpio...” (I 28). Va da sé, la cecità o deformità
fisica, cui allude il filosofo claudicante ed ex-schiavo, è metafora per una malattia morale o
sopraggiunta insania. Gli stoici Seneca ed Epitteto erano comunque avversi a una
passionalità, la quale sfugga a ogni controllo razionale. D’altro canto, per inciso Aristotele
nella Poetica aveva affermato: “Agli antichi era usuale rappresentare personaggi del tutto
consapevoli, come pure ha fatto Euripide con Medea, mentre uccide i propri figli” (1453 b).
L’eroina filicida avrebbe quindi agito nel pieno possesso delle facoltà mentali, il che
escluderebbe un eventuale raptus incontrollabile. E il discorso dello stesso Epitteto parte da
una citazione dalla Medea di Euripide, non esente da ambiguità: “Ben so quali misfatti sto
per commettere,/ ma mi urge nel petto un sentimento più forte della volontà” (καὶ μανθάνω
μὲν οἷα δρᾶν μέλλω κακά͵/ θυμὸς δὲ κρείσσων τῶν ἐμῶν βουλευμάτων – vv. 1078-1079; si
confronti con l’analogo verso 20 nelle Metamorfosi di Ovidio, libro VII: “Vedo e approvo le
cose migliori, eppure seguo le peggiori ”, Video meliora proboque, deteriora sequor).
Su quale sia tale sentimento, o risentimento, se ce ne fosse bisogno può illuminarci il
finale dell’ovidiana lettera di “Giasone a Medea” su citata: “Andrò dove mi conduce l’ira, e
di questo forse mi pentirò/ così come mi pento delle cure avute per un uomo infido./ Su tutto
ciò vegli quel dio, che ora mi sconvolge il cuore,/ poiché non so quale enormità la mia
mente sta certo meditando!” (Quo feret ira, sequar! Facti fortasse pigebit –/ et piget infido
consuluisse viro./ Viderit ista deus, qui nunc mea pectora versat!/ Nescio quid certe mens
mea maius agit!; vv. 209-212). Ancor più che di ira, si tratta di amore-odio. 9 Ma occorre
tenere in conto un particolare: la missiva immaginata da Ovidio termina prima dei tragici
eventi che rendono Medea un’autentica Medea, per dirla con Seneca. In ogni caso la
dicotomia fra mente e animo, tra ragione e volontà, su cui gli autori qui considerati
concordano, rasenta una dissociazione della personalità. 10 Ancor prima di esprimere un
antagonismo diretto all’esterno, è la stessa dialettica interna al personaggio a diventare
antagonistica. E il suo sentirsi davvero Medea, solo quando la peggiore delle componenti in
gioco abbia prevalso in maniera irreversibile, somiglia a un’esaltazione di tipo maniacale.
Da un’angolatura filosofica, assistiamo a una specie di drammatica traduzione della
9 Cfr. L. A. Seneca, Medea, vv. 397-398: “Vuoi sapere, o misera, un limite da porre all’odio?/
All’incirca, lo stesso che al tuo amore” (Si quaeris odio, misera, quem statuas modum,/ imitare
amorem). Quanto al dio cui accenna Ovidio, sembrerebbe Eros, ma la sua ambiguità lo rende un
Eros dionisiaco, se non Dioniso stesso; esso compare pure in un frammento della perduta
tragedia ovidiana Medea: “Vengo trascinata di qua e di là, guai a me, invasata dal dio” (Feror
huc illuc, vae, plena deo). Cfr. Antonio Martina, “La Medea di Seneca e la XII delle Heroides di
Ovidio”, in Il potere e il furore. Giornate di studio sulla tragedia di Seneca, a cura di Roberto
Gazich, Milano: Vita e Pensiero, 2000; pp. 3-29.
10 Prima che in Seneca il contrasto si trova espresso in Euripide, ad esempio nella tragedia Ippolito
ai vv. 313-315, dove il personaggio convenzionale della nutrice apostrofa Fedra futura suicida:
“Vedi, tu sai ragionare saggiamente, eppure non vuoi/ giovare ai tuoi figli e salvare la tua stessa
vita”. E Fedra replica: “Amo i miei figli, ma altro destino mi travolge”. Equiparare tale dissidio a
quello moderno fra coscienza e inconscio sarebbe azzardato. Benché in misura diversa, tuttavia
su entrambe le mitiche “straniere”, Fedra e Medea, gravano trascorsi familiari in grado di
suscitare sensi di colpa e relative rimozioni o sostituzioni. Nemmeno un’altra eroina di Euripide,
la virtuosa Alcesti, ne è del tutto esente, non essendo riuscita a impedire che proprio Medea
approfittasse delle sorelle per far loro uccidere il padre Pelia, antagonista di Giasone nella città di
Iolco (su questo antefatto, nel 455 Euripide fece rappresentare le Peliadi, dramma andato perso).
8
potenza in atto. Si tratta però di intendersi sul carattere, patologico o meno, di questa
potenzialità e di tale processo. Da un punto di vista psicologico, il gesto che Medea sta per
compiere si configura come l’atto rivelatore culminante, modernamente teorizzato da J.
Lacan. Probabilmente, grazie a un’analisi sintomatica e terapeutica esso potrebbe essere
intuito e prevenuto, nel soggetto che sia affetto da una sindrome del genere, in gran parte
masochistica. Oltre che punire, la maga oriunda del Caucaso intende punirsi, come pure
argomentato dall’antico Epitteto per primo nelle sue Diatribe (si veda qui la nota 2). Nello
specifico, nondimeno l’agire di lei mira a demolire l’antagonista principale, l’ex partner
verso cui prova gelosia e rancore. Ammesso che ciò sia fattibile, disarticolare il nuovo
contesto sociale di lui appare insufficiente. In una certa misura, è una tattica per isolare e
meglio centrare l’obiettivo strategico di decostruire la soggettività dell’altro, anche a rischio
della propria. L’intima connessione fra i due soggetti si ricostituisce così illusoriamente,
tramite non la scoperta di un valore aggiunto, bensì una radicale traumatica privazione.
Il nocciolo morboso sta nel “dettaglio” che l’oggetto di privazione, controverso o
conteso che sia e sostitutivo a un tempo, sono i figli della coppia (anziché meno innocenti
lettere d’amore, come in uno scritto di Lacan qui appresso citato). Quegli stessi figli che, se
non altro a causa della loro età, hanno scarsa o nulla voce in capitolo. I loro nomi Mermero
e Ferete ci sono tramandati dal mitografo latino Igino. Nel finale del dramma di Euripide
essi emettono brevi e vane invocazioni di aiuto, meglio comunicando con lo sguardo e il
sorriso, non abbastanza però da convincere la madre a risparmiarli: “Ahi, perché mi
guardate con quegli occhi, figli,/ e perché mai voi sorridete con l’ultimo sorriso? (φεῦ φεῦ·
τί προσδέρκεσθέ μ’ ὄμμασιν, τέκνα;/ τί προσγελᾶτε τὸν πανύστατον γέλων; – vv. 10401041). Un’eccezione un po’ più eloquente è nella solita missiva di “Medea a Giasone”,
lettera del disamore più che d’amore, dodicesima delle Eroidi di Ovidio: “Madre, accorri:
mio padre Giasone vestito d’oro/ sprona cavalli al traino in testa a un corteo [nuziale]!”
(Huc modo, mater, adi! Pompam pater, inquit, Iason/ ducit et adiunctos aureus urget
equos!; vv. 151-152). Pronunciando queste semplici frasi, di sicuro il figlio più piccolo di
Medea non può sapere di stare anticipando la sentenza di morte propria e del fratellino. 11
In “Giovinezza di Gide o la lettera e il desiderio”, articolo apparso sul n. 131 della
rivista Critique nel 1958, Lacan citò la Medea di Euripide e si soffermò sul personaggio,
definendolo “una vera donna”. Lo fece in maniera non solamente trasversale ma ambigua,
tanto da procurarsi travisamenti e polemiche, non esclusa qualche resistenza femminile a
riconoscersi in un simile modello. Forse egli meglio avrebbe fatto a parlare di “vera Medea”
11 Non vale la pena di riportare le scontate frasi lamentose di uno dei figli di Medea, nella Medea di
Osidio Geta. Altre sono le particolarità notevoli di questo centone virgiliano in latino, su cui
avremo occasione di tornare qui in seguito. Cfr. O. Geta, Medea, a cura di Giovanni Salanitro,
Roma: Edizioni dell’Ateneo, 1981; Paola Francesca Moretti, “La Medea di Osidio Geta, una
tragedia in miniatura...”, in Aevum. Rassegna di scienze storiche linguistiche e filologiche, vol.
84, n. 1, 2010 , Milano: UCSC, pp. 269-284; Anke Rondhol, The Versatile Needle: Hosidius
Geta’s Cento “Medea” and Its Tradition, Berlino: Walter de Gruyter, 2012; Martha Malamud,
“Double, Double: Two African Medeas”, in A. J. Boyle (a cura di) Roman Medea, Melbourne,
Australia: La Trobe University, 2012 (Ramus, 41:1/2), pp. 161-189.
9
sulla scorta di Seneca, secondo quanto ironizza Martha C. Nussbaum in Terapia del
desiderio: teoria e pratica nell’etica ellenistica: “Seneca era uno psicologo più grande di
Lacan, e tutto quel che c’è da dire sulla sua opera teatrale può essere detto benissimo
parlando dell’opera stessa”. La battuta della pensatrice classicista fa il paio con un retorico
interrogativo posto dalla studiosa pure statunitense Ruth Morse: “[Medea] è sempre stata un
modello per ciò che i maschi temono?”.12 Conviene quindi spolverare e adoperare in breve
gli arnesi convenzionali dell’analisi freudiana, anche se qui ci si muove nell’ambito di una
meta-psicologia o filosofia della psicoanalisi, non certamente della psicologia applicata.
Nella Poetica, non aveva tutti i torti Aristotele quando criticava che nelle tragedie di
Euripide il coro non recita come un vero e proprio personaggio. Nella Medea euripidea, esso
è qualcosa di più, non solo numericamente parlando. Sebbene siano importanti interlocutori
minori, la nutrice e il pedagogo, sono le donne corinzie a interpretare il Super-io, sia pure
acquisito, della “straniera”. Al contrario del coro della Medea di Seneca, formato da Corinzi
che le mostrano iniziale ostilità, esse si immedesimano in lei fino a un limite che, se varcato,
muta la ragione in torto. E rendono il dissidio interno al personaggio, tra il suo Ego e il
proprio Es, una dialettica proiettata all’esterno, o viceversa. Meglio diremmo che l’io di lei è
conteso fra quel Super-io e il proprio Es. Fallendo in un compromesso tra i primi due,
Medea finisce per lasciare il suo io in balìa dell’Es, in quella che è una fatale regressione.
Lacan sbagliava, assegnando a questo “lato oscuro” dell’inconscio un’esclusiva etichetta
femminile. Pur non essendo asessuato, per definizione un Id o Es tende alla neutralità. Ci
sono stati padri che hanno ucciso figli o stavano per farlo, come Abramo messo alla prova
dal Dio biblico. Essi hanno suscitato minor scandalo, perché non incarnavano lo stereotipo
della madre dedita alla prole. È pur vero, la Medea secondo Ovidio premeditava di uccidere
i figli, anche per sottrarli alle sevizie inflitte dallo stereotipo di un’eventuale matrigna... 13
12 M. C. Nussbaum, “Serpenti nell’anima: una lettura della Medea di Seneca”, in op. cit., trad. it. di
Nicoletta Scotti Muth, Milano: Vita e Pensiero, 1998; p. 502, nota 13. E, nell’originale, R.
Morse, The Medieval Medea, Woodbridge, Suffolk UK: Boydell & Brewer, 1996; p. 239 (Has
she always been a model for what men fear?).
13 Si veda la nota 7. Nella Medea di Seneca, v. 847, l’epiteto noverca, “matrigna”, è ironicamente
abbinato al titolo domina, “signora, padrona”, e riferito alla nuova moglie di Giasone, Creusa, da
parte di Medea rivolta in maniera subdola ai figli. Nella Phaedra pure di Seneca, il luogo
comune risuona in un’invettiva misogina di Ippolito: “e non parlo delle matrigne; più miti sono
le belve./ …/ Ti invidio, padre:/ costei è anche peggio della tua matrigna della Colchide” (taceo
novercas: mitius nil est feris./ …/ genitor, invideo tibi:/ Colchide noverca maius hoc, maius
malum est; vv. 558 e 696-697). Si tenga presente che Fedra è mitica matrigna di Ippolito, ma
quella di suo padre Teseo era stata Medea, nel testo nominata altrove esplicitamente. L’antitesi
madre-matrigna sarà un tema sviluppato specialmente nella Medea minore di Draconzio.
10
4 – Giovanni Benedetto Castiglione detto Il Grechetto, Medea
(collezione privata W. Worsley, Regno Unito; fra il 1630 e il 1664)
In un’ottica femminile
Nella sua tragedia Fedra, versi 563-564, Seneca mette in bocca al personaggio di
Ippolito queste parole: Sileantur aliae: sola coniunx Aegei,/ Medea, reddet feminas dirum
genus, il che si può liberamente tradurre: “Per tacere delle altre, il solo esempio della moglie
di Egeo,/ Medea, getta un’ombra di perversità sul genere femminile”. Stando al mito nella
versione adottata da Euripide, Ippolito aveva qualche motivo di risentimento familiare, nel
formulare un’opinione del genere, visto che Egeo era il suo nonno paterno. A differenza di
quella di Seneca, la Medea euripidea è come se non si concludesse con la strage dei figli da
parte della protagonista e la sua fuga per gli spazi celesti su un carro volante (trainato da
draghi alati). Successivi sviluppi possono intravedersi nel terzo episodio, narrante l’incontro
fra Medea e il re Egeo in trasferta, attraverso una finestra la quale sembra aperta più per
compiacere i concittadini di Euripide che per soddisfare una curiosità generale. Giunta più o
meno miracolosamente ad Atene, Medea vi verrà accolta da Egeo, il quale la sposerà per
averne un erede al trono, in quanto timoroso di una infertilità che la maga poteva curare.
Altre fonti specificano che a un certo punto ricompare un figlio adulto, Teseo, il quale
il re ateniese pensava di aver perso e che stenta a riconoscere. Già madre di un figlio appena
avuto con Egeo, Medea insinua che Teseo sia un impostore e istiga il maturo marito a
disfarsene per mezzo di un veleno da lei preparato. 14 Prima che ciò possa accadere, si ha il
14 Narrato nella tragedia perduta Egeo, composta da Euripide intorno al 440 a. C. (Medea aveva
esordito in scena ad Atene nel 431), l’episodio è grossomodo ricostruibile attraverso fonti greche
quali Diodoro Siculo, Pausania, Plutarco, lo Pseudo-Apollodoro, ma anche riferimenti latini
quali nelle Fabulae di Igino o nel frammento 149 di Ennio, probabile superstite di una Medea
11
riconoscimento di Teseo da parte del padre, in base a un segno inoppugnabile. Così Medea
deve abbandonare di nuovo il campo e riprende la via dell’esilio, questa volta pare senza
l’ausilio di un carro a disposizione, prestato da Elio dio del sole. La commistione tra vicende
fin troppo umane e interventi sovrannaturali, non sempre edificanti, non doveva disturbare
gran che il pubblico dell’epoca. A ogni buon conto, nel suo finale Seneca fa proferire una
scettica invettiva a Giasone, primo marito di Medea: “Vattene dunque per gli spazi più alti
del cielo,/ a riprova che, ovunque arrivi, non esistono dei” (Per alta vade spatia sublimi
aetheris,/ testare nullos esse, qua veheris, deos; vv. 1026-1027. Gli farà eco la Medea di
Pasolini: “Niente è più possibile ormai”, dove “niente” può anche intendersi “il niente”).
Il poco fortunato soggiorno ateniese di Medea, che sancisce una sua incompatibilità e
definitivo distacco dalla società greca antica in via di evoluzione, sarà un tema riproposto
soprattutto nel melodramma barocco fra Seicento e Settecento, con abbondanza di licenze
poetiche e titoli variabili: da Medea in Atene a Teseo in Atene, o semplicemente Teseo.15
Meno ci si aspetterebbe che esso venisse rielaborato in età vittoriana, nell’Inghilterra
preraffaellita della seconda metà dell’Ottocento, e finalmente da un’autrice. 16 La poetessa
Augusta Davies Webster pubblicò nel 1868 una sua traduzione inglese della Medea di
Euripide, e nel 1870 una raccolta di poemetti intitolata Portraits, “Ritratti”, fra cui “Medea
ad Atene”. Quest’ultimo è in realtà un soliloquio, che chiaramente emula il famoso
monologo di Medea in Euripide ai versi 1019-1080, o la su più volte citata lettera ovidiana
di “Medea a Giasone”; diversa è la collocazione ambientale e temporale: se la ancor giovane
Medea di Ovidio è nostalgica dei bei tempi, quella della Webster ambisce all’oblìo. 17
exul: evidentemente, il tema dell’esilio non è una sovrapposizione moderna, se già il poeta
immigrato a Roma dalla Magna Grecia aveva intitolato così una sua tragedia. Quanto al figlio di
Medea ed Egeo, egli si chiamava Medo, e una leggenda storico-politicamente orientata lo volle
progenitore o eponimo dei Medi e dei Persiani, nemici dei Greci nelle cosiddette guerre persiane.
L’ostilità di Medea si sarebbe così perpetuata e amplificata, attraverso la sua discendenza. Una
tragedia del drammaturgo latino Marco Pacuvio (ca. 220-130 a. C.), di cui restano pochi
frammenti, fu appunto dedicata a Medus, basandosi su un precedente greco a noi ignoto.
15 La fortuna di Medea nel melodramma culminò in quello musicato da Luigi Cherubini, del 1797.
In un ambito strettamente teatrale, vanno menzionati almeno la barocca Médée di Pierre
Corneille, del 1635; i due preromantici Medeadramen di Friedrich Maximilian von Klinger, nel
1786 e nel 1790; la Medea romantica di F. Grillparzer, del 1821 (si legga qui più avanti). In
particolare, una lettura psicoanalizzante della tragedia di Corneille è il capitolo “Mythifying
Matrix: Corneille’s Médée and the Birth of Tragedy”, in Mitchell Greenberg, Corneille,
Classicism and the Ruses of Symmetry, New York: Cambridge University Press, 1986; pp. 16-36.
16 Per la verità, nella pittura preraffaellita Medea fu un soggetto frequente. Almeno due donne la
dipinsero: Valentine Cameron Prinsep ed Evelyn De Morgan. Nel primo caso l’eroina è munita
della solita spada (Southwark Art Collection; 1880); nel secondo, di un’ampolla contenente
attendibilmente un filtro magico (Williamson Art Gallery, Birkenhead; 1889). Ma il quadro più
eccentrico è di Frederick Sandys, opera su cui avremo modo di tornare qui più avanti.
17 Più che monologo, un dialogo con un coro di donne paesane, scritto in un italiano con caratteri
dialettali, sarà il recitativo “Medea”, in Tutta casa, letto e chiesa. Monologhi satirici sulla
condizione della donna di Franca Rame e Dario Fo, Verona: Bertani, 1977. In Italia, va pure
segnalata una saggistica di studiose, su vari aspetti della tematica: Silvana Rocca, Giasone e
Medea: Epos ed Eros, Genova: Tilgher, 1979; Margherita Rubino e Chiara Degregori, Medea
12
Questa Medea in prima persona fa un mesto consuntivo della sua vita e del suo essere
diventata “veramente Medea”, a oltranza rivolta a Giasone in occasione della notizia della
sua morte. Ancor più che un’eco della trascorsa passione amorosa, vi si avverte lo sfondo
pregresso di due inscindibili benché separate e parallele solitudini. Paradossalmente, il venir
meno dell’antagonista crea un vuoto nell’animo di lei, in cui precipitano tutti i peggiori
ricordi senza potersi cancellare ma acquistando un’evidenza allucinatoria. Invano e fino
all’ultimo Medea cerca di convincersi di aver dimenticato, senza persuadere il lettore,
poiché la grande simulatrice non è più in grado di simulare con se stessa. È il crollo
psicologico della “vera Medea”, che riduce pure lei simile a un fantasma, né c’è un’“altra
Medea” pronta a sostituirla. Un po’ come nel finale del Don Chisciotte di Cervantes, a causa
di un trauma improvviso il doppio di sé si dissolve, ma anche l’io perde ogni sostegno.
In un fittizio dialogo col fantasma di Giasone, nel momento della verità, la Medea
visionaria della Webster fa fatica a rivangare vecchi sarcasmi. Ella diventa però autoironica, se allude al matrimonio con Egeo, alla sua artificiosa e arrischiata condizione: “Io,
una moglie invidiata [...] Forse, non sono una moglie felice?” (I an envied wife [...] Am I no
happy wife?; vv. 161 e 252). Tremenda è l’accusa, rivolta al suo ex-compagno: “anima dei
miei crimini,/ come potrei perdonarti, per ciò che sono?” (soul of my crimes,/ how shall I
pardon thee for what I am?; vv. 218-219). All’amarezza, si accompagna tuttavia un
impossibile rimpianto, quando la presa di coscienza della realtà fa tornare Medea alla terza
persona, riferita all’eroe defunto: “L’amore ci avrebbe mantenuto vicini, se egli fosse morto/
ai bei tempi? Sì, anch’io avrei dovuto morire allora:/ ce ne saremmo andati insieme, mano
nella mano,/ rendendo il fosco Ade glorioso l’uno per l’altra” (Would love have kept us near
if he had died/ In the good days? Tush, I should have died too:/ We should have gone
together, hand in hand,/ And made dark Hades glorious each to each; vv. 173-176).
Se comunque la Webster, in Medea in Athens, non assolve Medea per il filicidio, una
scrittrice recente addirittura lo nega. Non senza qualche fondamento filologico, la tedesca
Christa Wolf ha sostenuto che, nel mito arcaico, furono gli abitanti di Corinto a trucidare i
figli di Medea, e che questa verità mitica sarebbe stata alterata da Euripide o da chi lo aveva
preceduto in tal senso. È più probabile che essa sia solo una variante del mito “originario”. 18
contemporanea: Lars von Trier, Christa Wolf, scrittori balcanici, Genova: D.Ar.Fi.Cl.Et., 2000;
Giovanna Petrone, “Medea, le Medee”, in Scienza, cultura, morale in Seneca. Atti del convegno
di Monte Sant’Angelo, Santo Spirito, Bari: Edipuglia, 2001 (pp. 115-129); Angela Votrico, La
giustizia di Medea e il doppio volto del materno, Roma: Aracne, 2004; Paola Pedrazzini, Medea
fra tipo e arche-tipo. La ferita dell’amore fatale nelle diagnosi del teatro, Roma: Carocci, 2007.
18 Il riscatto di Medea da parte della Wolf ha un suo precedente presso la veneziana Christine de
Pizan, nel Livre de la Cité des Dames, scritto in Francia tra il 1404 e il 1405. Nel dibattito
accademico ed erudito, si è anche sostenuto che l’invenzione del filicidio da parte di Medea non
fosse di Euripide, bensì del tragediografo a lui contemporaneo Neofrone di Sicione. Entrambi
potevano però rifarsi a qualche tradizione a noi ignota. Comunque, a favore di Euripide depone
l’elemento del simile mito ateniese di Procne, cui egli potrebbe essersi ispirato. Cfr. Fabio
Caruso, “Medea senza Euripide. Un frammento attico da Siracusa e la questione della Medea di
Neofrone”, in R. Gigli (a cura di), MEGALAI NESOI. Studi in onore di Giovanni Rizza per il suo
ottantesimo compleanno, Catania 2005; pp. 341-354 (reperibile anche al sito Web
http://www.academia.edu/1311345/Medea_senza_Euripide_un_frammento_attico_da_Siracusa_
e_la_questione_della_Medea_di_Neofrone).
13
Ciò nulla toglie alla verità poetica dell’opera di Euripide, come aveva ben intuito Seneca a
proposito della “vera Medea”. Ma è anche quanto ha consentito alla Wolf di costruire il
personaggio di un’“altra Medea”, vittima strumentale di cinici pregiudizi, nello straordinario
romanzo del 1996 intitolato Medea. Stimmen, “Medea. Voci”. Non è facile sottrarsi alla
tentazione di scorgervi in filigrana la vicenda esistenziale dell’autrice, nel frangente storico
in cui la “sua” Germania Est è stata riunificata a quella Ovest. Oltre che geopolitici, la
Colchide e l’Ellade sono luoghi della mente. Può accadere di essere contesi fra l’una e
l’altra, senza sentirsi di appartenere a nessuna delle due. È la più scomoda delle libertà.
5 – Paulus Bor, Medea disillusa oppure
L’incantatrice (Metropolitan Museum of Art, New
York; ca. 1640)
Calderone e coltello
In letteratura, di solito l’una e l’altra Medea convivono, a volte scambiandosi i ruoli.
Tuttavia, la più vera è pur sempre l’altra: sia ella considerata una plebea traviata ed “empia”,
come quella “di Porta Medina” di Francesco Mastriani, o un’aristocratica dissoluta come
quella “del Palatino” nell’orazione di Cicerone in difesa di Marco Celio, contro la vituperata
14
– e forse amata – avversaria Clodia.19 O, ancora, la Medea zingaresca ritratta dal pittore
preraffaellita Frederick Sandys nel 1868. Queste Medee sono sempre state lì, a due passi da
chi le detesta, le ama o ne ha pietà. Nel dramma di Euripide invece, un Giasone sprezzante e
didascalico così rinfaccia a Medea la sua alienità geografica e culturale: “In primo luogo sei
venuta ad abitare in Grecia/ anziché in terra barbara. Perciò, non ignori la giustizia/ e ti
giovi delle leggi, senza bisogno di violenza./ Inoltre, tutti i Greci sono venuti a conoscenza
di una tua fama/ di sapiente. Se te ne fossi rimasta ai confini/ del mondo, nessuno parlerebbe
di te” (vv. 536-541). Ma, poi, quel mondo era davvero tanto vasto e in sé diverso?
Qualche secolo dopo, nel 61-62 d. C., differisce il parere attribuito al coro della Medea
di Seneca: “Ormai rimosso ogni limite,/ in lande sconosciute/ si levano mura di città,/ muta
di sede ogni cosa/ e il mondo è tutto una via:/ …/ in secoli a venire, sorgerà un giorno/ in cui
l’Oceano liberi le cose/ dai loro vincoli. Ecco allora offrirsi/ agli occhi la terra sconfinata”
(Terminus omnis motus et urbes/ muros terra posuere nova,/ nil qua fuerat sede reliquit/
pervius orbis:/ .../ venient annis saecula seris,/ quibus Oceanus vincula rerum/ laxet et
ingens pateat tellus; vv. 369-377). La progettualità ellenistica e romana era subentrata a
quella greca, ampliando gli orizzonti del mondo conosciuto e gestibile. La memoria delle
prime scoperte e conquiste era appunto trasfigurata dal mito degli Argonauti e della loro
“sacrilega nave”, in un’età precedente quella riflessa nell’epica omerica. Questa prospettiva
non riguardava solo lo spazio, ma anche il tempo. Era nata l’idea di un futuro in progressivo
movimento, supportata e pur temuta dal filosofo-letterato, per il quale la vicenda stessa di
Medea segnala i risvolti negativi di quell’aurorale “globalizzazione” (duplice atteggiamento,
che trova riscontro nelle Questioni naturali, opera scientifico-filosofica di Seneca). Intanto,
letteratura e arte rivestirono importanza strategica, veicoli di una cultura unificante ed
esportatrici di miti rifondanti. Non vi fu centro greco-romano, dove mancasse un teatro.
In quei teatri il mito di Medea dovette essere uno dei più rappresentati e meglio
recepiti, tanto per le emozioni contrastanti destate quanto per un sostrato psichico universale
in cui andava a pescare e affondava radici. Seguì l’arte figurativa. Quest’ultima non era
nuova al soggetto. Nelle raffigurazioni arcaiche e della prima classicità Medea fu ritratta
come maga e guaritrice, esperta in erbe medicinali e veleni, tutt’al più istigatrice di delitti,
spesso a fianco di un lebete o calderone suo strumento favorito. 20 Ciò, quasi che in effetti si
19 Nella Pro Caelio, l’oratore cita l’esordio di una versione della tragedia di Euripide redatta dal
latino Ennio, e pronuncia un’invettiva contro Clodia, paragonandola tendenziosamente a Medea.
Ma un’insinuazione di Plutarco nella Vita di Cicerone, XXIX, e l’epistolario di quest’ultimo
paiono attestare una sua vecchia conoscenza o amicizia con la matrona romana. Cfr. Julia Dyson
Hejduk, “Ox-Eyes’ Bugle and Tullia’s Fane: The Power of Clodia in Cicero’s Letters”
(CAMWS Southern Section Biennial Meeting, November 2008; reperibile al sito Web
http://www.camws.org/southernsection/meeting2008/abstracts/7B1.Hejduk.pdf).
20 Cfr. Cornelia Isler-Kerényi, “Immagini di Medea”, in AA. VV., Medea nella letteratura e
nell’arte, a cura di Bruno Gentili e Franca Perusino, Venezia: Marsilio, 2000; e Saverio Scerra,
“Dall’iconografia del mito all’iconografia del pathos. Medea e il suo ʻviaggio per immaginiʼ
dalla Grecia a Roma”, in Chronos n. 28, atti del convegno I volti di Medea, Ragusa 2009 (si veda
al sito Web http://www.liceoclassicoragusa.it/file/chronos28intero.pdf).
15
ignorasse il filicidio o lo si ritenesse elemento portante di una tradizione minore. Dopo la
diffusione della tragedia di Euripide, si affermò la tipologia iconografica di Medea che
medita di uccidere i figli o in procinto di farlo, con in mano una spada, un pugnale o
coltello. Se ne riscontrano esempi archeologici nella scultura e nella pittura, da Vetulonia a
Pompei ed Ercolano, dalla Magna Grecia ad Arles e Treviri, dalla Macedonia al territorio
dell’odierna Ungheria. Su sarcofagi scolpiti e vasi dipinti, compaiono anche altre scene del
mito; non di rado, Medea è abbigliata con sgargianti vesti orientali. Qualche moderna
perplessità suscita l’utilizzo del mito nell’arte funeraria, con possibile funzione catartica.
Alcune opere ci sono giunte lacunose, come gli etrusco-ellenistici altorilievi in
terracotta nella Casa di Medea a Vetulonia. Ce n’è almeno una che brilla ancora di luce
riflessa, quando l’originale è andato perso. Quest’ultimo doveva essere un rilievo marmoreo
del quinto secolo a. C., parte di quattro che probabilmente decoravano l’Altare dei Dodici
Dei nell’agorà ateniese. Esso rappresentava Medea e le Peliadi, le figlie del re Pelia di Iolco
ingannate e istigate da Medea a uccidere il padre, prima degli infausti soggiorni della maga
a Corinto e ad Atene.21 Ne sono rimaste un paio di copie romane in marmo, rispettivamente
al Pergamonmuseum di Berlino e nel Museo Gregoriano Profano a Roma. La prima è
integra. Vi figurano Medea vestita alla foggia medo-persiana, che porta una scatola con i
suoi ingredienti magici, e due giovani Peliadi: una china sul calderone al centro; l’altra in
piedi di lato accosta a una guancia un ramoscello votivo, con atteggiamento perplesso. Se
osserviamo l’analoga lastra in Vaticano, più corrosa, ci accorgiamo che quel pacifico
ramoscello era in origine un cruento coltello o pugnale. L’immagine della sprovveduta
fanciulla già prefigura quella della Medea filicida, mentre lì si anticipa un parricidio.
Fin troppo scontato, in termini psicoanalitici, interpretare il calderone come ventre
materno e il coltello come un inquietante simbolo fallico. Inoltre, lasciamo ad altri
l’incombenza di spiegare quale poetico scrupolo abbia trasformato un coltellaccio da cucina
in ramoscello d’ulivo. Basti qui rilevare una latente conflittualità fra principi femminile e
maschile, colta alla sua acme e crudamente resa da Seneca quando scrive per Medea questa
battuta, diretta a Giasone con riferimento ai loro figli: “Se la mia mano potesse saziarsi d’un
sol crimine,/ non avrebbe neppure iniziato. Anche se li uccido entrambi,/ non è abbastanza
per la mia sofferenza./ E, se fosse in esso celato qualche seme di nuova vita,/ frugherei il
mio grembo con la spada per estirparlo” (Si posset una caede satiari manus,/ nullam
petisset. Ut duos perimam, tamen/ nimium est dolori numerus angustus meo./ In matre si
quod pignus etiamnunc latet,/ scrutabor ense viscera et ferro extraham; vv. 1009-1013).
Può sorprendere il termine dolor impiegato dall’autore psicologo, lodato dalla Nussbaum.22
21 Si veda la nota 10. Nel favoloso racconto macabro, tramandato specialmente da Ovidio in
Metamorfosi VII 297–349, Medea convinse le figlie di Pelia a fare a pezzi il padre e a bollirli in
un calderone con magici ingredienti, per far sì che egli ne uscisse rigenerato e ringiovanito. Allo
scopo, la maga si esibì in una dimostrazione promozionale con un caprone. Un bel frammento di
bassorilievo originariamente con la stessa scena si trova anche al Metropolitan Museum of Art di
New York. Vi è raffigurata la testa di Medea di profilo, pressoché identica a quella della Medea
scolpita nei rilievi qui presi in considerazione. Circa una diversa possibile attribuzione di essi
alla scultura neo-attica del I sec. d. C., cfr. Peter E. Nulton, “The Three-Figured Reliefs: Copies
or Neoattic Creations?”, in D. B. Counts e A. S. Tuck (a cura di), KOINE: Mediterranean
Studies in Honor of R. Ross Holloway, Oxford: Oxbow Books, 2009; pp. 30–34. Sul potere
ringiovanente di Medea giocherà pure André Gide, nel suo moderno dramma Thésée.
22 Lo stesso termine risuona in un’altra frase pronunciata della Medea di Seneca, appellandosi
16
Passiamo a un affresco del primo secolo d. C., già nella pompeiana Casa dei Dioscuri e
oggi al Museo Archeologico di Napoli, probabile copia di un esemplare tardo-ellenistico. Il
pedagogo vi è affacciato alla porta di una stanza, sulla sinistra di chi guarda, da cui entra la
luce. All’interno, i due bambini seminudi giocano ignari con gli astragali. Nell’angolo più in
ombra sulla destra, in piedi e volta verso una parete per nascondere il suo gesto, Medea già
pone mano a una spada, girando lentamente la testa verso la scena serena alle sue spalle. Se
non fosse per il volto effettivamente scavato da una sofferenza morale, la sua figura
somiglierebbe non poco a quella della Peliade con coltello di cui sopra. Ogni traccia di
classico equilibrio scompare invece nella cosiddetta Medea di Arles, nel Museo di Arles e
della Provenza Antiche. Il gruppo statuario in calcare risale al II-III secolo d. C. ed è
espressione di un’arte gallo-romana, che in questo caso può far pensare a una preistoria
della scultura romanico-gotica. Páthos allo stato puro, i figlioletti stanno aggrappati alla
veste materna, mentre Medea estrae la spada da una guaina. Il suo sguardo perso nel vuoto
segnala un’assenza da sé. La collocazione cimiteriale originale dell’opera sembra voler
insinuare: contro o secondo natura, c’è qualcosa più assurdo di una morte così precoce?
6 – Affresco attribuito a Ludovico Carracci, Gli incanti di Medea
(Palazzo Fava, Bologna; ca. 1584)
Una Medea con gli attributi
invano a se stessa: “l’ira mette in fuga la pietà,/ la pietà mette in fuga l’ira – cedi alla pietà, o mia
sofferenza” (ira pietatem fugat/ iramque pietas – cede pietati, dolor; vv. 943-944). Giustamente,
in Terapia del desiderio: teoria e pratica nell’etica ellenistica (op. cit., p. 471), la Nussbaum
polemizza con chi traduce dolor come “collera”. Cede pietati, dolor è pure il titolo di una
composizione musicale di Silvia Colasanti del 2007, ispirata alla Medea senecana. Inoltre, la
celebre espressione è centrale in una riflessione filosofica di Remo Bodei in Geometria delle
passioni..., Milano: Feltrinelli, 2003; p. 229 e segg. Ma già F. Mastriani, in La Medea di Porta
Medina, faceva comparire la scritta “Empia” sul petto della sua protagonista sentenziata senza
attenuanti a morte, con criptica allusione alla mancanza di pietà prevalsa nella Medea di Seneca.
17
Già nell’arte antica, di per sé l’attributo del coltello, del pugnale o della spada, era
giunto a essere distintivo del personaggio. In un affresco di Ercolano, attualmente nel
Museo Archeologico Nazionale di Napoli, Medea figura da sola in piedi mentre medita il
delitto, non diversamente che nel dipinto proveniente dalla Casa dei Dioscuri. Per la verità,
non è facile stabilire se il dipinto asportato da Ercolano fosse parte di una composizione più
ampia, o un particolare imitato da un modello comune scomparso e da alcuni attribuito al
pittore greco Timomaco.23 Non ci sono però dubbi sull’analogo affresco raffigurante Medea,
proveniente da Villa Arianna a Stabia nello stesso museo napoletano. La figura isolata è ed
era sicuramente autonoma. La spada, che l’imminente filicida reca con sé, è sufficiente a
identificarla in quanto tale anche a prescindere da una rappresentazione del contesto,
specialmente se associata a un’espressione del volto tristemente pensosa ma ormai
determinata. In epoca moderna, quest’immediata e fatidica identificazione verrà ripresa da
artisti classicisti o neoclassici, come lo scultore statunitense William W. Story nella sua
suggestiva statua Medea nel Metropolitan Museum of Art a New York, eseguita nel 1868.
Ciò non toglie che altri artisti continuino a raffigurare Medea almeno con i due figli,
secondo uno schema meglio sperimentato, pur mantenendo ben in vista l’arma nelle sue
mani. La furia di Medea del pittore romantico Eugéne Delacroix, tela del 1838 al Museo
delle Belle Arti di Lilla, ne è un esempio che all’epoca fece scalpore sia per l’inedita nudità
del soggetto, sia perché la madre è colta nell’attimo in ci afferra i bambini e sta per colpirli.
Il francese tornò più volte sul soggetto, e fu anche imitato in un quadro di Paul Cézanne. Ma
facciamo qualche passo indietro all’età manieristica e barocca, quando l’eroina cominciò a
recuperare una sua melodrammatica attualità. Un’immagine enigmatica, Medea disillusa,
dipinta dall’olandese Paulus Bor nel 1640 circa, si trova al Metropolitan Museum of Art di
New York. La maga vi è rappresentata quale devota di Diana, anzi di Ecate, seduta da sola
nel suo sinistro tempio. Ella regge non una spada ma una bacchetta magica in una mano,
mentre con l’altra sorregge la propria testa. L’espressione disillusa del viso contrasta con
quello inespressivo della statua della dea alle sue spalle, quasi a conferma di quanto
sostenuto da Giasone nella tragedia di Seneca, che dove arriva Medea non sussistono dei.
Una barocca Medea fu dipinta anche da Giovanni Benedetto Castiglione detto Il
Grechetto, in una data non meglio precisabile fra il 1630 e il 1664 (collezione privata W.
Worsley, Regno Unito). Pure lì la donna è ritratta sola e seduta, vestita all’orientale e in
atteggiamento pensoso, sostenendo con una mano la testa mentre l’altra impugna ancora una
lunga spada sguainata. Ai suoi piedi, il corpo esanime di un bimbo. E una quantità di cimeli
ricordano una sua trascorsa dimensione epica, compresa un’armatura presumibilmente
appartenuta a Giasone. Si tratta di un quadro del genere Vanitas allora di moda, allusivo al
fallimento di Medea ma anche alla biblica vanità del tutto, con particolare riferimento alla
gloria umana. Qui, la bacchetta magica è tornata a essere una letale arma da taglio. Non c’è
favolosa magia o partecipazione a epica impresa, che abbia potuto salvare Medea da un
destino di abbandono e solitudine. E non c’è Storia con l’iniziale maiuscola, che non sia
anche violenta. Alla fine, questa vana violenza si ritorce contro una parte essenziale di sé.
Nell’opera di Castiglione tuttavia, sullo sfondo e all’aperto ritroviamo il calderone
23 Cfr. Antologia Palatina, XVI, epigramma 135 (a proposito di Timomaco); e Callistrato,
Ekphraseis ovvero Statuarum descriptiones, cap. 13: “Su una statua di Medea”. In entrambi i
testi è posta enfasi sul particolare cruento della spada, ma è rimarcata anche la duplicità
contraddittoria di Medea, combattuta tra furore vendicativo e pietà per i suoi figli, atteggiamento
– secondo gli autori – riflesso magistralmente nelle opere d’arte perdute in questione.
18
fumante, altro attributo distintivo di Medea specialmente in quanto maga. Lo stesso
particolare si scorge ben al centro di un affresco del 1584 intitolato Gli incanti di Medea, nel
Palazzo Fava a Bologna. Questo poco noto capolavoro è unico nel suo genere. La scena è
surreale, quasi onirica. Medea è ritratta da giovane, nuda e seduta sulla riva di un ruscello in
cui immerge un piede e le punte delle dita di una mano, osservando assorta il suo sembiante
– o il proprio futuro? – riflesso nell’acqua appena smossa. Alle sue spalle, un paesaggio
rischiarato dalla luna piena e abitato da apparizioni rimanda a una Colchide fantastica, paese
di una magia naturale ancora incontaminato, dimensione edenica al di qua della coscienza
del bene e del male. È chiaro come l’artista Ludovico Carracci abbia voluto creare una sua
versione in positivo di quella che abbiamo chiamato “altra Medea” oppure “vera Medea”,
scegliendo nella lezione dei classici quanto di più funzionale alla personale ispirazione. 24
Il calderone illustrato da Carracci è oggi leggibile come emblema di una diversa
percezione dell’inconscio, prima che la spada del “disagio della civiltà” penetrasse in esso,
recidendo il cordone ombelicale con un sapere ancestrale e femminile, di cui la maga
sarebbe stata depositaria. Ciò ci consente di tornare al controverso articolo di Lacan, per
intenderci quello di Medea come vraie femme. Solamente adesso ci accorgiamo, si fa per
dire, di una citazione dalla Medea di Euripide in esergo allo scritto. È più che attendibile un
nesso, fra la contestata definizione dello psicoanalista e questi pochi versi: “Vai a svelare
verità insolite agli ignari./ Anziché sapiente, finirai per apparire inutile./ Se poi tu figurassi
meglio di quanti hanno una fama/ di vario sapere, allora daresti fastidio alla città” (σκαιοῖσι
μὲν γὰρ καινὰ προσφέρων σοφὰ/ δόξεις ἀχρεῖος κοὐ σοφὸς πεφυκέναι·/ τῶν δ΄ αὖ
δοκούντων εἰδέναι τι ποικίλον/ κρείσσων νομισθεὶς ἐν πόλει λυπρὸς φανῇ – vv. 298-301).
Neanche tanto sotto, il pensatore neo-freudiano doveva sottintendere un parallelo con
la sorte precaria della moderna psicoanalisi, benché questa avesse francamente poco di
femminile. Con i debiti distinguo, all’epoca sofistica di Euripide da lui proiettata nel
passato, quel tipo di sapere, nella sua accezione empirico-intuitiva, era in crisi tanto da
risultare estraneo e inutile o da venir considerato con fastidio e apprensione. Con i pro e i
contro, la visione del mondo stava mutando. Medea rischiava di vedersi declassata al rango
di fattucchiera. Del resto, ai versi 539-541, abbiamo udito Giasone motteggiare sulla nomea
di sapiente da lei conseguita in Grecia e dintorni, grazie anche al beneficio di averlo seguito
o di esservi stata da lui condotta. Al suo sarcasmo fa da contrappunto l’ironia di Medea ai
versi 407-409, su citati in nota: “Per giunta la natura/ ha reso noi donne non versate nelle
buone azioni,/ ma artefici assai sapienti di tutte quelle cattive”. Nelle parole di questa
Medea “civilizzata” prima per spontaneo amore e poi per forzosa convenienza, c’è
l’acquisita consapevolezza di una connotazione negativa ormai assunta da quell’esoterica
sapienza, nonché in nuce l’infelice tentativo di farne una bandiera di parte e arma di offesa.
24 Gli affreschi di Palazzo Fava furono opera collettiva dei Carracci, imparentati fra loro. Perciò
quello in questione è solo attribuito a Ludovico. Esso precorre una sensibilità preromantica,
ancor più che barocca, salvo restando un accentuato naturalismo di ascendenza rinascimentale.
Oltre che a quelle di Apollonio Rodio e di Ovidio, l’artista potrebbe essersi ispirato alla Medea
malinconica di G. V. Flacco, in particolare nel libro VIII del suo poema. Versione romantica del
soggetto è la tela Vision of Medea di Joseph M. W. Turner, ma qui il mondo incantato della maga
è convertito in una dimensione allucinatoria, dopo i suoi delitti (Tate Britain, Londra; 1828). In
entrambi i casi, abbiamo due fra i rari “paesaggi con Medea”, che la storia dell’arte ci ha lasciato.
19
7 – Due immagini ottocentesche di Medea, dipinta rispettivamente
come maga, ma armata di spada, e in quanto filicida: Valentine C.
Prinsep, Medea the Sorceress (Southwark Art Collection; 1880); ed
E. Delacroix, Médée furieuse (Palais des Beaux-Arts de Lille; 1838).
Non è forse un caso che entrambi gli artisti ebbero anche una
produzione orientalistica, nel cui ambito il soggetto classico-esotico in
questione poteva in qualche modo rientrare, sia pure alla lontana
Medea, “eroina della differenza”?
Il dualismo caratteriale e archetipico di Medea non si limita al personaggio in sé. Esso
si riverbera sull’ambientazione della storia; anzi, in buona parte è condizionato dai diversi
ambienti che lei attraversa o abita. Tuttavia, non sempre e ovunque funziona il congegno
narrativo-concettuale originario, di una Medea che procede da una cultura “barbarica” verso
una “civilizzata” e in senso lato moderna – oppure, se si preferisce, da Oriente verso
Occidente, da qualche Sud a un Nord del mondo –, finendo per scontrarsi rovinosamente
con la seconda (si tenga presente che quest’ultima non era ancora egemone ai tempi di
Euripide, mentre la prima aveva costituito una recente minaccia per la grecità, in occasione
delle “guerre persiane”; semmai, la situazione era cambiata all’epoca greco-romana della
Medea di Seneca). Almeno in un caso lo schema, che sarà eminentemente attualizzato da
Pasolini nella sua filmica Medea del 1969, risulta provocatoriamente rovesciato e addirittura
capovolto. Per dirla in gergo pittorico, assistiamo a una inversione di prospettiva.
Se sussistono una ciceroniana “Medea del Palatino” o una statuaria “Medea di Arles” e
una partenopea “Medea di Porta Medina”, ce n’è perfino una “di Baghdad” a noi
contemporanea. Medea of Baghdad è il titolo di un monologo firmato dall’iraniano Ali
Alizadeh, precocemente immigrato al seguito della sua famiglia e cresciuto in Australia.
Con la regia di Tanja Beer e interpretata da Miranda Nation, la pièce è andata in scena al La
Mama Theatre di Melbourne nel 2011. La protagonista confessa in pubblico la sua vicenda
20
esistenziale di ex-studentessa della borghesia-bene australiana, la quale si è innamorata di
un rifugiato iracheno e decide di seguirlo all’atto del suo ritorno in patria insieme ai figli
avuti in comune. Il devastato scenario di guerra civile del dopo-Saddam Husayn, in cui lei e
il suo compagno vengono a trovarsi, nonché l’impatto con una mentalità familiare islamica
conservatrice ed estranea, determinano la crisi della coppia e l’isolamento della giovane
madre, fino al suo esaurimento nervoso e all’epilogo della follia infanticida. Quest’ultimo è
solo presupposto nel delirante soliloquio, in cui il tradizionale antagonismo di Medea
diventa parossistico, contraddittorio al limite della schizofrenia e tragicamente attuale.
Incidentalmente, il monologo teatrale si colloca nella scia di quelli poetici di Ovidio
nell’antichità, o di Augusta Webster nella modernità. Ciononostante, fa uno strano effetto
vedere l’antica favolosa Colchide rimpiazzata con l’odierna Australia... “Scontro fra civiltà”
e depressione psichica al femminile sono rispettivamente sfondo e primo piano di questa
versione aggiornata del duttile mito, spesso riadattato a realtà storiche e locali, anche
distanti o assai differenti da quello che si suppone essere stato il centro d’irradiazione
primario. E nulla lascia presagire che qui si tratti dell’ultimo adattamento in assoluto. A
ogni modo, ciò depone a favore di un forte riscontro nella psiche personale, in ogni tempo e
luogo. Se non è tale in sé, la leggenda ha certo a che vedere – e a che fare – con gli archetipi
psicologici, vale a dire con la struttura profonda dell’inconscio collettivo e individuale. In
particolare, in ogni donna c’è un po’ di Medea: è quanto sostenne la coreografa statunitense
Martha Graham, la quale si misurò con lo stesso mito nel balletto Cave of the Heart del
1946, ben prima che se ne occupasse en passant lo psicoanalista francese Jacques Lacan.
Se quella di Medea è la storia di una differenza culturale, lo è anche della differenza
tra maschile e femminile, allorché queste differenze diventano inconciliabili, ovvero quando
esse vengano represse a rischio di essere annullate a tutto vantaggio di una delle polarità in
causa. La reazione può essere tanto più vistosamente violenta, quanto maggiormente la
violenza più o meno camuffata e “legalizzata” dell’antagonista si avvicina alla differenza
essenziale e costitutiva del soggetto reattivo, intaccandone le radici identitarie e mettendo a
repentaglio la sua stessa esistenza. La rappresaglia drammaticamente smisurata di Medea
assume allora la valenza di un gesto di resistenza, autolesionistico e irrazionale quanto si
vuole eppure parzialmente e inconsapevolmente simbolico, non troppo diversamente da non
pochi suicidi terroristici che hanno traumatizzato la nostra età di forzosa globalizzazione.
Vengono in mente le parole di Pasolini, in un’intervista rilasciata dopo l’uscita del suo film
a un giornalista francese. Se è datata la terminologia impiegata dal regista, poeta e scrittore,
il contenuto del suo discorso suona lungimirante: “[Quella di Medea] potrebbe essere
benissimo la storia di un popolo del Terzo Mondo, di un popolo africano, ad esempio, che
vivesse la stessa catastrofe venendo a contatto con la civiltà occidentale materialistica”. 25
Medea, quale superstite di un “genocidio culturale”, concetto più tardi approfondito
dallo stesso Pasolini?26 Si è già chiarito qui all’inizio come da parte del personaggio
25 Jean Duflot (a cura di), “Pier Paolo Pasolini. Il sogno del centauro”, in Nico Naldini, Pasolini,
una vita, Torino: Einaudi, 1989; p. 81 (trad. it. da J. Duflot, Entretiens avec Pier Paolo Pasolini,
1970, intervista accresciuta con titolo Pier Paolo Pasolini. Les dernières paroles d’un impie,
1981. Poi in Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, Milano: A. Mondadori, 1999; p. 1505).
26 Cfr. P. P. Pasolini, “Verso il genocidio”, in Alberto Cadioli (a cura di), Dialogo con Pasolini.
Scritti 1957-1984, Roma: Editrice “l’Unità”, 1985; pp. 127-132 (anche in Scritti Corsari,
Milano: Garzanti, 1975; inizialmente, intervento alla Festa dell’Unità di Milano, 1974,
pubblicato sulla rivista politico-culturale Rinascita il 27 settembre 1974).
21
originale vi sia una viscerale e individuale vendetta, ma non lucida e generalizzante
rivendicazione, al contrario che nell’Antigone di Sofocle. Medea è spinta da un amore
esclusivo, convertito in orgoglioso odio. Invece, Antigone proclama di agire in nome
dell’amore nella sua accezione più ampia, e perciò anche vaga. L’amore-odio di Medea ha
sempre un oggetto, è sentimento o passione verso qualcuno o qualcosa – fosse pure un
nostalgico ricordo –, laddove perfino l’affetto di Antigone per il fratello da seppellire può
apparire un pretesto astratto o questione di principio. Pertanto, si ripropone un interrogativo:
a chi delle due meglio si addice il titolo di paladina, per così dire, di una differenza al
femminile? Dovremmo altrimenti concludere che pure la femminilità si presenta sotto un
duplice aspetto, o che si articoli su livelli sfalsati: quello dell’inconscio, per Medea, e uno
coscienziale, in Antigone. Insomma, ci aggiriamo in un dedalo di tenaci luoghi comuni.
Né si può fare a meno di rammentare che Medea è “barbara” mentre Antigone è greca,
ricadendo quindi in un circolo vizioso: l’una, irrazionale poiché “orientale”; l’altra,
razionale a oltranza in quanto “occidentale”. Che piaccia o no, la verità è che Medea può
ambire a un poco invidiabile primato di “eroina della differenza”, per il solo fatto che in lei
quelle differenze si sommano, o – meglio – che alla differenza si aggiunge una diversità,
innescando un corto circuito esplosivo. Comunque si pongano le cose, e perlomeno così
come la lezione dei classici ce l’ha tramandata, Medea è irrimediabilmente duale. Anzi, la
sua doppia differenza si traduce nel fardello di un’insopportabile diversità. Tale è la
complessa dinamica, a suo tempo escogitata o messa a punto dal genio di Euripide. Ma
nemmeno l’australiana “Medea di Baghdad” si sottrae a un simile destino, dal canto suo
suggerisce Alizadeh cambiando le carte in tavola, dal momento che la diversità di lei
consiste nell’essere una “civilizzata” calata in un contesto imbarbarito. Chi o che cosa abbia
concorso a imbarbarire quel contesto, è poi un quesito che l’autore esule lascia in sospeso,
demandando la risposta a un’auspicabile riflessione politica da parte di noi spettatori.
8 – “L’una e l’altra Medea”, ovvero due espressioni del volto del
personaggio, superlativamente interpretato in veste di attrice dal
soprano greco Maria Callas, nei particolari di due fotogrammi del film
Medea di P. P. Pasolini (fotomontaggio; si veda qui la nota 1)
Il Vello d’Oro e la “carne mortale”
22
Dal punto di vista mitologico, quello di Giasone e Medea spartisce un altro
mitologema con altri miti, in particolare con quello di Teseo e Arianna. È l’eroina, straniera
e innamorata, che aiuta l’eroe a conquistare un ambito trofeo o a sconfiggere un temuto
mostro: nel primo caso, la conquista del “vello d’oro”; nel secondo, l’uccisione del
Minotauro. In entrambi i casi, una fatale nemesi vuole che l’eroina – sedotta o seduttrice che
sia – venga poi abbandonata dall’eroe, punita per aver tradito la propria gente o famiglia.
Arianna non vorrà o potrà vendicarsi di lui in prima persona, al contrario di Medea. Alla
soglia della modernità, è precoce la tentazione letteraria di giustificare o scagionare la figura
di Giasone da una disonorevole macchia. Nel romanzo Histoire de Jason di Raoul Lefèvre
(o Le Fèvre), del 1460 circa, è ancor viva l’aspirazione “cortese” ad assimilare gli antichi
Argonauti, di cui Giasone era stato condottiero, alla cavalleria medievale col suo codice
d’onore: anzi, a farne un prototipo ideale (implicito, un parallelo fra la conquista del “vello
d’oro” e la ricerca del Santo Graal). Nel prologo, il francese fa che l’eroe così gli parli:
“Io sono Giasone, quello che conquistò il vello d’oro in Colco e che ora versa in una
profonda tristezza a causa del disonore con cui alcuni offendono la mia fama, imputandomi
di non aver mantenuto la promessa nei confronti di Medea, ciò su cui tu hai invece letto la
verità. Perciò ti prego che tu scriva un libro, grazie al quale coloro che cercano di sminuire
la mia gloria possano rendersi conto del loro ingiusto giudizio” (Je suis Jason, cellui qui le
veaurre d’or conquesta en Colcos et qui journellement laboure en douleur, enrachiné en
tristesse pour le deshonneur dont aucuns frapent ma gloire, moy imposans non avoir tenu
ma promesse envers Medee, ce dont tu as leu la verité. Si te prie que tu faces un livre ou
ceulz qui ma gloire quierent flappir puissent congnoistre leur indiscret jugement).27 Va da
sé, la promessa cui allude l’autore è un giuramento d’amore e fedeltà a suo tempo
pronunciato da Giasone, rivolto a Medea. Ancor prima che Ovidio, fonte privilegiata di
Lefèvre, ce ne fa fede Apollonio Rodio, nelle sue Argonautiche: “Niente potrà interporsi fra
noi, nel nostro amore, finché non ci avvolga un destino di morte” (libro III, verso 1128).
Poco interessano le scusanti addotte a discolpa di Giasone dal narratore, cappellano di
corte di Filippo il Buono duca di Borgogna. Sebbene più retoriche, esse non sono meno
letterarie della rilettura-riscrittura di Medea in funzione di una riabilitazione del
personaggio, che farà Christa Wolf nel suo romanzo Medea. Stimmen. Più importante è che
Lefèvre ridà voce a Giasone, a distanza di tempo dalla traumatica rottura fra i due amanti,
così come altrimenti immaginerà di fare la poetessa Augusta Webster con Medea in Athens.
Fenomenologicamente parlando, ridare voce a un personaggio significa riattivarlo, anche
dopo – o prima – di un lungo periodo di letargo. E il personaggio cresce, quando incontra un
autore che si immedesimi in lui. Al Giasone di Lefévre ben si adatta un saggio di Silvana
Rocca del 1979, intitolato Giasone e Medea: Epos ed Eros e citato qui in nota. Quel
Giasone è effettiva espressione di una dimensione epica, là dove Medea lo è di una erotica a
suo modo, ossia di un potenziale distruttivo dell’érōs, tale da sconfinare in pulsione di morte
nell’accezione psicoanalitica freudiana. Due dimensioni, destinate a collidere nel conflitto
esistenziale. In merito, valga l’atto finale della Medea di Franz Grillparzer: al “classico”
infanticidio, consumato dietro le quinte, si sovrappone la figura di lei ammantata nel
maledetto Vello d’oro, titolo dell’intera trilogia pertinente del drammaturgo romantico.
“In realtà”, Giasone non ha mai smesso di ambire a quel simulacro, perfino quando ha
presunto di averlo conquistato. E Medea, maestra in ogni sortilegio, ha sempre saputo che
27 R. Lefèvre, L’“Histoire de Jason”, ein Roman aus dem fünfzehnten Jahrhundert, edizione critica
a cura di Gert Pinkernell, Francoforte sul Meno: Athenäum Verlag, 1971; p. 125.
23
esso non aveva niente di miracoloso, malgrado la sua carica di suggestione più o meno
occulta.28 Troppo tardi l’eroe se ne accorge, e questi è lo “Iasone” di Cesare Pavese nel suo
dialogo “Gli Argonauti”, in Dialoghi con Leucò del 1947. Nella memoria del navigatore, il
vello è diventato solo una confusa “nube d’oro” che “sfavillava nella selva”. Nonostante che
egli sia finalmente diventato re, secondo i suoi frustrati desideri giovanili ma al prezzo della
propria solitudine, accade che gli abitanti di Corinto ormai sorridano dei suoi racconti
numinosi. All’epopea pionieristica delle prime esplorazioni geografiche, è subentrata una
diffusa prosa mercantile. Tuttavia, resiste una morbosa curiosità, proprio per ciò su cui il
monarca è solito tacere. Un giorno Mélita, ierodula nel tempio di Afrodite, gli confida: “Noi
si parla della maga, re Iasone, di quella donna che qualcuno ha conosciuto. Oh dimmi
com’era”. Dapprima elusivo, Giasone finisce per accontentare la giovane interlocutrice:
“Iasone: […] qualcuno ora è vecchio – e ti parla – che vide i suoi figli sacrificati dalla
madre furente [che fuggì da Corinto – l’assassina dei figli – la maga]. Mélita: Dicono che
non è morta, signore, che i suoi incanti hanno vinto la morte. Iasone: È il suo destino, e non
l’invidio. Respirava la morte e la spargeva. Forse è tornata alle sue case. Mélita: Ma come
ha potuto toccare i suoi figli? Deve aver pianto molto... Iasone: Non l’ho mai vista piangere.
Medea non piangeva. E sorrise soltanto quel giorno quando disse che mi avrebbe seguito.
Mélita: Eppure ti ha seguita, re Iasone, ha lasciato la patria e le case, e accettato la sorte.
Fosti crudele come un giovane, anche tu. Iasone: Ero giovane, Mélita. E a quei tempi
nessuno rideva di me. Ma ancora non sapevo che la saggezza è la vostra, quella del tempio,
e chiedevo alla dea le cose impossibili. E cos’era impossibile per noi, distruttori del drago,
signori della nuvola d’oro? Si fa il male per essere grandi, per essere dèi”.29
Rivisitato dallo scrittore in chiave ironicamente nicciana, alla base della mania di
grandezza di Giasone c’è dunque un sottofondo metafisico, una sfida da semidei lanciata
contro la condizione – anzi, la povera “carne” – mortale. È la sua tragica hýbris, celebre
concetto della Poetica aristotelica. Ma, a questo punto, Mélita osa protestare: “E perché
vostra vittima è sempre una donna?”. Formulata in maniera imbarazzata e contorta, la
risposta che Pavese ascrive al superuomo disilluso è delle più sconcertanti. Così amara e
28 E non solo Medea, “per la verità”. Esplicita, in merito, quella di Christa Wolf in Medea. Voci
(trad. di Anita Raja, Roma: Edizioni e/o, 2003; p. 37): “Che cos’era per me quel vello, che gli
uomini dell’ʻArgo’ chiamarono ʻVello d’oro’ solo più tardi, quando lo ebbero osservato meglio:
quella pelliccia, come le pellicce di tanti arieti della Colchide, era stata usata per estrarre l’oro,
essendo stata messa in primavera in una delle acque montane che precipitavano a valle per
raccogliere la polvere d’oro dilavata via dal seno dei monti. Gli argonauti mi hanno interrogata
con la massima pignoleria su quel metodo, che a me pareva del tutto usuale e che invece metteva
loro in grande agitazione: nella Colchide c’era l’oro. Vero oro”.
29 C. Pavese, Dialoghi con Leucò, Torino: Einaudi, 1997; pp. 135 e 136. Nello “Iasone” di Pavese
c’è una sorta di nostalgica predilezione per le sacerdotesse o officianti della divinità al
femminile, sia essa la dea dell’amore come per Mélita o perfino la temibile Ecate come per
Medea. È anzi evidente che la simpatia per la ierodula, o prostituta sacra, è in buona parte indotta
dal ricordo dell’amore-odio per Medea, indimenticabile a oltranza come la stessa Mélita rimarca
in una battuta del suo irriverente dialogo con Giasone. A ogni modo, il personaggio inventato
dall’autore può rammentare la Medea giovane ritratta da L. Carracci nell’affresco di Palazzo
Fava a Bologna (si vedano la figura 6 e la nota 24), contrastando con quello classico di
Glauce/Creusa o con quello di Ipsipile nelle Heroides di Ovidio, altre donne nella vita
dell’Argonauta, perennemente combattuto o indeciso fra due modelli femminili.
24
questa volta sincera, che qui si preferisce affidare al lettore o lettrice l’incarico di scoprirne
il contenuto e sondarne il senso. Basti annotare che, nella produzione dell’autore, una volta
di più ricorre una costante bipolare: quella dell’identificazione del maschile con la
trascendenza, del femminile con l’immanenza. Nella poetica pavesiana, i due piani psichici
si intersecano senza mai coincidere, così come divergono Storia e Natura. Recuperata la loro
centralità, le Medee sia di Alvaro sia di Pasolini si sviluppano nella scia di tale intuizione,
anche se Alvaro amplia l’orizzonte attuale del personaggio e nonostante che Pasolini fosse
orgogliosamente restìo ad ammettere qualche debito morale nei confronti di Pavese...
9 – La tedesca C. Wolf e la russa L. Ulickaja, fotografate in pose
curiosamente simili. Le due romanziere si sono diversamente e
originalmente misurate con lo stesso mito: la prima in Medea. Voci
(su citato), e la seconda in Medea (Медея и ее дети, 1996; trad. it. di
Giulia Gigante, Torino: Einaudi, 2000). In maniera tacita per quella
della Wolf o patente per quella della Ulickaja, entrambe le Medee
hanno a che fare con una Storia ingombrante e invasiva, anche
quando mascherata da accattivante utopia. Si legga anche C. Wolf,
L’altra Medea. Premesse a un romanzo, Roma: E/O, 1999
Un’altra Medea: anzi, alternativa
Ovviamente per modo di dire, siamo qui a cercare di riparare un torto fenomenologico.
Se è vero che in un certo senso e misura Medea è una “anti-Antigone”, stando a Slavoj
Žižek, è pur vero che Antigone si è giovata di una ricca riflessione filosofica. In
proporzione, Medea appare un po’ trascurata, quasi che un’inerzia o imbarazzo filosofico
abbia preferito un personaggio più facilmente “edificante” a uno non meno problematico ma
più scomodo. In ogni caso, è difficile obiettare che il personaggio letterario rifondato da
Euripide abbia meno da esprimere di quello concepito da Sofocle. Quanto fin qui esposto e
25
commentato in breve attesta semmai il contrario. Forse una spiegazione accettabile è che
alla fin fine Antigone rappresenta pur sempre il medesimo, cioè la civiltà occidentale
riconoscibile da non pochi dei suoi pregi e difetti in nuce, mentre Medea è irriducibile
spettro dell’altro, al punto da poter risultare aliena. E, per “altro”, non s’intende solo una
connotazione geografica o di genere, ma anche una psicologica su cui pende la spada di
Damocle di un giudizio etico. In altre parole, Antigone riflette una dialettica estensibile ad
altri, ma che nasce come interna a una determinata tradizione culturale. Medea rispecchia
una dialettica con l’esterno o con una profondità, che restano da definire volta per volta.
Con tutta l’ammirazione per Sofocle e per Antigone, è come se quest’ultima sia una
figura a due dimensioni, ovvero con una terza dimensione simulata su un piano prospettico a
focale fissa. Viceversa, Medea è un soggetto tridimensionale, la cui terza dimensione vada
continuamente aggiustata per una messa a fuoco attendibile dell’immagine. Anche
l’inquadratura e lo sfondo su cui essa si staglia possono variare, ancor più che nelle tante
trasposizioni o adattamenti dell’Antigone. Un esempio eclatante è il romanzo Medea e i suoi
figli/Медея и ее дети, pubblicato nel 1996 dalla scrittrice ebrea russa Ljudmila Ulickaja.
L’inquadratura di questa Medea di Crimea è composita, commista di ebraismo e grecità,
componenti di una diversità non solo fra loro ma pure rispetto al quadro fondamentale slavo.
Lo sfondo geografico e memoriale della vicenda individuale e della saga familiare è in
movimento o in evoluzione, del resto un po’ come quello della Medea classica: fra Grecia e
Russia, tra Uzbekistan e Lituania, con puntate anche altrove; dai pogrom contro gli ebrei
alle guerre del ’900, dalla Rivoluzione Russa alla deportazione dei Tatari e oltre, troppo
spesso alle prese con una Storia indifferente alle storie, anzi a queste non di rado ostile.
Va dato atto a Epitteto di una delle prime e rare messe in discussione filosofiche del
personaggio. Nei primi due libri delle sue Diatribe, Medea non è un exemplum marginale,
bensì una figura di contrasto ai fini della speculazione morale. L’ex schiavo azzoppato era
originario della Cappadocia, in senso lato di quello stesso altrove decentrato rispetto al
modello culturale dominante, e dislocato a oriente – o, più riduttivamente, “a est” –, da cui
oggi provengono o in cui risiedono la Ulickaja, Žižek e in un recente passato Christa Wolf.
Malgrado la distanza di tempo che intercorre fra il primo e gli altri, una loro pur vaga e varia
contiguità spaziale può aver contribuito a far sì che il loro angolo visuale si differenzi più o
meno da quello convenzionale euro-centrico, o “greco-romano-centrico” per quanto
concerne evidentemente Epitteto. Fatto sta che, nell’atteggiamento di questi verso il
personaggio di Medea, c’è qualcosa di più di una simpatia. Salva restando la netta condanna
dei suoi eccessi, c’è una dolente empatia, come di chi avesse subito umiliazioni o
discriminazioni simili a quelle di lei narrate. Il che arriva a coinvolgere il concetto stesso di
compassione, diversificando il pensiero del nostro dal resto di quello stoico precedente. 30
Nonostante la sua esiguità e che per giunta sia in parte allusiva, la sovente citata
interpretazione psicoanalitica di Jacques Lacan ha avuto da un lato il merito di aver
stimolato la percezione odierna di Medea in quanto controversa eroina di una “differenza al
femminile”, argomento su cui ci si è soffermati abbastanza qui in precedenza. D’altro canto,
30 Circa un’attenzione moralistica ma una scarsa comprensione di fondo o un uso strumentale del
personaggio, da parte dei primi pensatori stoici, si legga in particolare Christopher Gill, “Did
Chrysippus understand Medea?”, in Phronesis: A Journal for Ancient Philosophy vol. 28, n. 2,
Leida: Brill, 1983; pp. 136-149.
26
essa ha funto da quasi-pretesto per una rilettura filosofico-politica della stessa Medea come
espressione di un antagonismo radicale, modello ancor oggi – anzi, secondo Žižek, oggi più
che mai – riproponibile e attualizzabile. Più ancora che un’“altra Medea”, quale quella tutto
sommato vittimistica romanzata da Christa Wolf o quella anti-storica gettata a oltranza nella
Storia di Ljudmila Ulickaja, questa teorizzata da Žižek è una Medea alternativa, che si
interroga su quale Storia e prende la nostra Storia di petto. Senza dubbio su questa linea si
colloca una delle ultime Medee andate in scena, né è espressamente fortuito che si tratti di
una Medea russo-caucasica, un parziale ritorno alle origini geografiche del personaggio.
A un livello artistico impegnato, in effetti una tale radicalizzazione del personaggio è
stata efficacemente resa in Medea. Episodes/Медея.Эпизоды. Composta in russo da Alexey
Nikonov, diretta da Giuliano Di Capua e con musiche di Andrey Sisintzev, la performance è
stata rappresentata per la prima volta nel 2010 al Centro d’Arte Moderna Sergey Kuryokhin
di San Pietroburgo. In un commento del regista di origine italiana, è esplicito un riferimento
di recente attualità, alle travagliate vicende del giovane Stato di Georgia, in buona parte
corrispondente all’antica Colchide: “La Storia si ripete: Colchide verso antica Grecia;
Georgia verso Russia”. Dalla versione inglese eseguita da Di Capua per l’Edinburgh
Festival Fringe del 2012, traduciamo pochi versi, pensati per essere declamati dalla
protagonista: “Dannata Afrodite, dannato Giasone./ Dannazione a te, Ellade, che meni/ gran
vanto dei tuoi eroi, imprese e re./ Maledetto sia un mondo, in cui/ il mio amore è stato
svenduto/ in cambio di pettegolezzi e ambizione./ Alla malora pure tutti voi,/ che accettaste
di essere servi/ in patria e andate dando lezioni/ di libertà ad altri, razza di ipocriti!”. 31
A conferma della tendenza in atto, anche in altre aree del mondo non mancano
spettacoli teatrali su Medee alternative, quali la Medea diretta da Carole Abboud su testi
soprattutto di Heiner Müller e andata in scena nel 2012 al teatro Babel di Hamra, a Beirut in
Libano; o la trilogia sperimentale Hotel Medea pure rappresentata all’Edinburgh Festival
Fringe nel 2011, produzione anglo-brasiliana che si avvale degli autori Persis Jade Maravala
e Jorge Lopes Ramos (si veda qui la nota 3). Ciò non toglie che la Medea classica, sia essa
di Euripide o di Seneca, o le sue rivisitazioni barocche, romantiche e più moderne,
operistiche oppure filmiche, seguitino a essere replicate. Le une e le altre si rincorrono e
confrontano, talora perfino scontrandosi fra loro, così come denuncia il contenuto di una
mail di Giuliano Di Capua indirizzata a chi qui scrive: “La mia Medea è estratta dal mito.
Euripide le è nemico, come le sono nemici i 2500 anni seguenti: ʻUsate pure la storia della
mia vita quando vi fa comodo; vi regola i vostri affari, le vostre politiche. Io non ci sto...’”.
31 Si veda al sito Web http://www.teatrodicapua.com/en/projects-3/medea-the-episodes/ È peraltro
interessante notare come nella Georgia vera e propria sia da tempo in atto una riappropriazione
identitaria nazionale della figura di Medea, naturalmente e tendenzialmente in positivo. Ne fanno
fede monumenti quali una sua statua che regge nella mano destra il favoloso “vello d’oro”,
realizzata nel 2007 da Davit Khmaladze a Batumi, e la Medea in bronzo di Merab Berdzenishvili
(1967-1970) a Pitsunda, già colonia greca di Pitiunte sul Mar Nero. In questo caso si tratta in
realtà di un gruppo scultoreo, in quanto l’eroina vi è raffigurata insieme ai suoi due figli, nella
scia di una iconografia statuaria o pittorica consolidata fin dall’epoca greco-romana.
27
10 – Due primi piani di Medea, uno da giovane e l’altro da più
matura: Dana Mikhail in Medea, con la regia di C. Abboud nel 2012
al teatro Babel di Beirut; e M. Callas in un altro fotogramma del film
Medea di Pasolini (fotomontaggio; in entrambe le inquadrature, si
noti il mare sullo sfondo, che può ricordare i vv. 940- 943 di Seneca:
“Come quando venti rapaci in aspra guerra/ e la discordia dei flutti
sconvolgono/ un mare, che ondeggia conteso, così/ è il mio cuore”)
L’Ellade e la Colchide
Chi qui scrive ritiene che, comunque, il problema era già latente in Euripide. Medea è
eroina di una differenza tout court, non solo al femminile come alla maniera lumeggiata da
Lacan, ma anche etnica e culturale o politica alla stregua perorata da Žižek. Oggi, la
tragedia euripidea può perfino essere letta come parabola sulla fragilità della democrazia.
Inoltre, si può aver comprensione e pietà, come invita a fare Epitteto, di chi non vuol essere
compatito tanto da non averne di sé? Se davvero la differenza di Medea è “ontologica”,
buffo termine filosofico, a che titolo si può considerarla una patologia dell’essere? Si deve,
insiste Epitteto, nella misura in cui quella patologia è anzitutto nostra. Per dirla con
metafore evangeliche, la “pagliuzza” nell’animo di Medea è ombra di una “trave” confitta
nel nostro, probabile sintomo di qualcosa che non va nel nostro modo di essere, di giudicare
e di porci. Epitteto conosceva bene l’Impero Romano. Più che alla senecana “Menade
cruenta”, la sua Medea somiglia a quella gallo-romana effigiata nella statua di Arles. Noi
conosciamo la storia del Novecento quel tanto, da sapere come la barbarie dell’“inciviltà”
sia almeno visibile. Più insidiosa, quella della “civiltà” “viene a giorno con estrema
lentezza” (non Sigmund Freud, bensì Martin Heidegger!) o esplode con inaudita violenza.
Né c’è più dialettica hegeliana che regga. A suo tempo, Euripide/Giasone dovette accorgersi
di una verità: al fine di esorcizzare la mitica Medea, neppure valse fare figli in comune.
In una rassegna di pareri filosofici su Medea, non può mancarne uno femminile. Se si
eccettua un saggio di Isabelle Stengers pure uscito nel 1993, Souviens-toi que je suis
Médée: Medea nunc sum, allo stato attuale esso è eminentemente quello di Martha
Nussbaum. Si è già accennato al capitolo di un’opera più ampia, intitolato “Serpenti
nell’anima: una lettura della Medea di Seneca”, in inglese apparso inizialmente come saggio
autonomo.32 Ivi, la riflessione della pensatrice americana è in prevalenza improntata a una
32 “Serpents in the Soul: A Reading of Seneca’s Medea”, in Pursuits of Reason: Essays in Honor
28
rivalutazione della tragedia senecana, non di rado messa in ombra dall’antecedente di
Euripide. Eppure, l’autrice afferma: “da nessuna parte come qui, in questo dramma, il vero
pericolo causato alla filosofia dalla letteratura è forse più evidente” (p. 471). Il pericolo, ma
anche uno stimolo, è che letteratura e arte sanno rappresentare le passioni, il cui ruolo
nell’agire umano la filosofia in quanto aspirazione alla razionalità non sa spiegare fino in
fondo. Da filosofo-letterato, Seneca ne era consapevole. Il suo teatro è espressione di tale
contraddizione. A lungo considerato un difetto, è invece il pregio di quella produzione. La
sua Medea è anche il dramma di chi cerca di applicare precetti stoici al personaggio e alla
sua storia, senza riuscirci se non sdoppiandosi, ciò che Epitteto farà in forma filosofica.
Euripide sta alla Sofistica, come Seneca ed Epitteto al tardo Stoicismo, o la Nussbaum
alla poetica e all’etica aristoteliche, da lei apprezzate in un suo primo periodo. Nel corso
dell’evoluzione del loro pensiero o arte, essi revisionano e modificano dall’interno le
dottrine di adesione, o per cui hanno simpatizzato. La Medea analizzata dalla Nussbaum
finisce così per affiancarsi e quasi sovrapporsi a quella predicata da Žižek, anche se la prima
è animata da una passione soprattutto erotica mentre la seconda è mossa da un sentimento
oggettivamente politico. In ambedue i casi la carica emozionale e simbolica è dirompente, a
un livello non solo esistenziale ma pure sociale. Una domanda “logica” è fino a che punto si
possa contare su un antagonismo sì alternativo, ma tutt’altro che progettuale e di sentore
francamente nietzscheano. Pur dando voce a posizioni diverse o estreme, sia la studiosa
statunitense sia lo psicanalista sloveno sono organici a un ambiente accademico esteso,
usufruendo degli stessi mezzi e filtri di risonanza. Premesso ciò, una risposta può essere che,
esaurita la propria progettualità, questa civiltà sia in cerca di un potenziale alternativo alle
sue radici, tale da ravvivare una dialettica da cui scaturisca qualche progetto inedito. Se non
mediatrici, le loro sono delle Medee “mediatiche”, nell’ambito di un sistema condiviso.
Paradossalmente, in un sistema che ha fatto della dialettica storica il suo motore, in
momenti di crisi perfino l’antagonismo può essere una risorsa, purché quest’ultimo – interno
o esterno che sia – non serva a mascherare più vere contraddizioni. Si obietterà che
l’orizzonte della Nussbaum è precipuamente esistenziale. Pertanto, il nostro accostamento al
pensiero di Žižek può suonare arbitrario. L’antagonismo della sua Medea è così “reale”, da
porsi al di là di ogni “minore” contraddizione e possibile mediazione, non soltanto
simbolica ma anche etico-politica.33 Non dimentichiamo però che Žižek prende pur sempre
le mosse dalla filosofia psicoanalitica di Lacan, e che influssi lacaniani non sono assenti nel
pensiero della Nussbaum. Sebbene si riferisca al poeta latino Lucrezio anziché alla Medea
of Stanley Cavell, a cura di T. Cohen, P. Guyer e H. Putnam, Lubbock: Texas Tech University
Press, 1993; pp. 307-344. Poi, in James J. Clauss e Sarah I. Johnston (a cura di), Medea: Essays
on Medea in Myth, Literature, Philosophy, and Art, Princeton University Press, 1997; pp. 219249 (versione ridotta dall’autrice). Qui traduciamo da M. C. Nussbaum, The Therapy of Desire:
Theory and Practice in Hellenistic Ethics, Princeton University Press, 2013 ; pp. 439-483 (si
veda qui la nota 12, per quanto riguarda una traduzione italiana integrale).
33 Si vedano i riferimenti bibliografici, alla nota 4. Si tenga presente che il concetto di una
“contraddizione antagonista” è di ascendenza marxiana, o rientra in una tradizione marxista di
indirizzo maoista. Circa il problematico recupero di un senso di prossimità, paradossalmente in
quest’era che si compiace di definirsi della “globalizzazione”, si legga invece sulla nozione di
Neighbour nel secondo capitolo di S. Žižek, Violence, Londra: Profile Books, 2009.
29
di Seneca, è lei stessa a sostenere nella stessa opera: “Lucrezio vede qualcosa che solo di
recente è stato riscoperto nel pensiero politico occidentale: il personale – la vita delle
emozioni e delle intime associazioni in ciascuno di noi, incluse quelle a carattere erotico – è
politico, formato dalla società” (Lucretius sees something that has only recently been
rediscovered in Western political thought: that the personal – the life of the emotions and
one’s own intimate associations, including erotic associations – is political, formed by
society; p. 504). In Medea, si è già detto, quel sociale Super-io non ce la fa ad aver ragione
delle sue emozioni. Lei è un’anomalia che viene da lontano, ovvero da un intimo altrove.
Per lo più, una radicata convenzione vuole che l’inconscio personale corrisponda al sé.
Medea suggerisce che esso può essere l’altro, proprio in quanto sconosciuto o addirittura
ignoto. Lacan potè insinuare che l’handicap cui reagisce Medea è una privazione dell’érōs.
Ma questa, nel caso specifico, non è che una privazione dell’altro cosciente, il quale può
essere rimpiazzato da un sostituto remoto/rimosso, e più o meno tenebroso. Nella mitologia
assistiamo a qualcosa di simile, quando nell’animo di Arianna abbandonata a Teseo
subentrò il dio Dioniso, simulacro che alcuni hanno fatto coincidere col suicidio dell’eroina.
Inoltre, a quale società allude la Nussbaum? A una conosciuta, anzi familiare. Dissimulata
da mitica “età dell’oro” sulla scorta di Seneca, quella che lei ci fa intravedere somiglia alla
società nord-americana odierna o a una del benessere analoga: “L’età è d’oro perché la
gente ha ogni bene a casa con sé, ma sono beni usualmente esteriori” (The age is golden
because people have all good things at home with them – but the good things are the usual
externals; p. 467). La carenza di alterità assume qui una valenza alternativa fra materialismo
e spiritualità, che altrove può essere quella più scandalosa tra consumismo e indigenza.
Žižek sembra più sensibile a questa seconda implicita istanza, senza che perciò la sua
Medea diventi automaticamente paladina allegorica di diseredati o oppressi. Se non altro, i
suoi punti di riferimento mentali spaziano “più altrove”, rispetto alla Nussbaum. Tra alterità
e alienità, fra contraddizione e antagonismo, essi sottendono un’area di prossimità che è
conoscenza reciproca, mutuo riconoscimento, premessa all’accettazione dell’altrui diversità.
In ultima analisi, le loro discrepanti visioni di Medea sono proiezioni complementari di una
diffusa insoddisfazione o comune inquietudine. In effetti, tanto non ha impedito ai due di
dissertare in simultanea in un film documentario a sfondo filosofico intitolato Examined
Life e girato nel 2008 da Astra Taylor, rispettivamente in un’estemporanea New York
idillica e in un’oscena discarica suburbana. Iniziata in realtà prima della Medea di Seneca, la
spettacolarizzazione della filosofia conosce così un sussulto di attualità, salva qualche
tardiva perplessità manifestata dalla Nussbaum. Oltre che a differenti discorsi, questa volta
il contrasto è affidato alle ambientazioni e a una tacita inversione di ruoli: il Central Park al
posto dell’Ellade, la discarica quale novella Colchide. L’una non può sussistere, senza
l’altra? Ne conseguono, a ogni modo, quasi un Giasone/Nussbaum e una Medea/Žižek! 34
34 Si veda al sito Web http://www.partiallyexaminedlife.com/2012/10/30/film-review-examinedlife/. Alla messa in scena, partecipano anche altri filosofi. Intuibilmente, tutto nostro è il
tendenzioso accostamento Central Park/Ellade, e Colchide/discarica urbana. Ma, già presso
l’apologista cristiano latino Tertulliano, l’area intorno al Mar Nero era exemplum di ogni morale
sozzura (Adversus Marcionem, I 1). Quanto poi a un sottofondo filosofico nella tragedia di
Seneca, si legga Eckard Lefèvre, “La Medea di Seneca. Negazione del ʻsapiente’ stoico?”, al sito
Web http://www.freidok.uni-freiburg.de/volltexte/4785/pdf/Lefevre_La_Medea_di_Seneca.pdf
(da Seneca e il suo tempo: atti del Convegno internazionale di Roma-Cassino, [...] 1998, Roma:
Salerno, 2000; pp. 395-416).
30
11 – Due Medee caucasiche, in accordo con l’origine mitica
dell’eroina: in alto, Medea col “vello d’oro”, particolare di statua di
D. Khmaladze nella piazza principale di Batumi in Georgia; in basso,
Ilona Markarova in Medea Episodes, al Centro d’Arte Moderna S.
Kuryokhin di San Pietroburgo nel 2010
Personaggio, persona, personalità
Fa sorridere l’idea bizzarra, di una Medea impersonata dal barbuto Žižek. Può esserci
mai qualcosa di mascolino, in colei che Lacan magnificò quale vraie femme? Eppure, non
sono mancate parodie sdrammatizzanti il mito, interpretate da irridenti drag queens. Scherzi
filosofici a parte, ci concediamo qualche sommaria osservazione personale. La differenza
può suscitare curiosità e interesse, attrazione o avversione, ma può anche naufragare
nell’indifferenza. Per un personaggio, è il peggiore dei sentimenti, anzi un non-sentimento
31
che ne mette a repentaglio la sussistenza. I pirandelliani Sei personaggi in cerca di autore
compiranno questa ricerca, pure per sfuggire a un tale rischio. Un’altra eroina di Euripide,
Alcesti, nel dramma omonimo sta per sacrificarsi offrendosi di morire al posto di altri,
quando un farsesco Eracle affronta il demone della morte e la sottrae alla morte stessa. 35
Paradossalmente Alcesti vuole morire sì per altruismo, ma anche per esserci di più, almeno
nella memoria dei propri cari, compresi i due figli (un parallelismo inverso con quelli di
Medea può ben essere stato un piccolo, criptico, colpo di genio dell’autore). Un demone
contro cui lotta Medea, a costo della propria abiezione, è l’indifferenza altrui verso l’altro.
Parafrasando Alvaro, la “lunga notte di Medea” è fatta di gradini scivolosi: abbandono,
indifferenza, abiezione. Se l’abbandono è il non essere più amata, l’indifferenza comporta il
non sentirsi neppure considerata. Abiezione è il ciglio, oltre il quale si spalanca il baratro
della non-esistenza in quanto Medea, o – se si preferisce – dell’annullamento della propria
differenza caratterizzante e costitutiva del personaggio. L’alternativa è di tornare a essere
Medea a tutti i costi, appunto il personaggio che gli altri le hanno cucito addosso, e che
adesso temono che ella sia, anche se non abbastanza da crederci fino in fondo o da trarne le
estreme conseguenze. Prigioniera di quel personaggio, il suo essere Medea è un non poter
essere altrimenti. Ma perfino questo essere se stessa è frutto di un sofferto rifiuto, stando a
Seneca, di essere per assurdo l’altra che sarebbe stata acconsentendo all’imperativo
categorico cede pietati, dolor. Medea sceglie di essere abietta in senso attivo piuttosto che
passivo, di non subire l’abiezione come ricatto, ma di farne un’arma micidiale e spiazzante
contro ogni ipocrisia. Gelosia e vendetta agiscono in concomitanza, quasi sicari ancor più
che veri e propri moventi. Tanto fa ritenere di trovarci di fronte a uno dei personaggi più
complessi partoriti dalla tragedia antica, dall’immaginazione di Euripide innanzitutto.
Fatto sta che, già in Euripide, la differenza originaria di Medea non è solo caratteriale;
è di genere, etnica e culturale. Quando non si traduca in aperta avversione, la nonconsiderazione altrui si estende a questi aspetti della personalità, che una volta avevano
potuto concorrere a una sua attrattiva. Fascino dell’esotico e fobia dell’estraneo possono
essere manifestazioni alterne o ricorrenti degenerazioni di un’ambivalenza di fondo, che
denota incomprensione verso l’altro, tanto più da parte di una cultura che si reputi superiore
o più civile. Da tale congegno narrativo dipende in buona parte la “prosopopea” del
personaggio, il suo costituirsi e proporsi a successive interpretazioni o moderne
rielaborazioni. È pur vero, più che a lucido antagonismo, la reazione di Medea sembra
improntata a un risentimento refrattario a ogni razionalizzazione. Ma su una percezione
negativa del “risentimento” pesano prima le critiche degli Stoici, poi una comprensibile
riserva cristiana, infine la pregiudiziale di Nietzsche. Così come formulata negli scritti di
quest’ultimo, non dimentichiamo che quella pregiudiziale si prestò a divenire un pretesto a
fondamento dell’antisemitismo, finendo per coinvolgere Cristianesimo e Socialismo. La
tesi, che un certo pensiero nietzscheano abbia contribuito all’insorgere del razzismo fascista,
in quegli improvvidi passi trova purtroppo un argomento a sostegno benché indiziario. 36
35 Cfr. Seneca, Medea, vv. 662-663: “a costo del sacrificio della vita,/ la sposa dell’eroe di Fere lo
riscatterà dalla morte” (coniugis fatum redimens Pheraei/ uxor impendes animam marito). Re di
Fere e figlio di Ferete, Admeto marito di Alcesti era stato uno dei mitici seguaci e compagni di
Giasone nell’impresa degli Argonauti sulla nave Argo, alla conquista del “vello d’oro”.
36 Cfr. Friedrich Nietzsche, in Umano, troppo umano, vol. II, parte I, e Genealogia della morale,
saggio I. Vale la pena di annotare come al ressentiment, nella sua versione attribuita all’invidia
32
Diversamente dalle persone, accidentalmente calate in un determinato spazio-tempo,
un personaggio è sì vincolato a un luogo e tempo originari, ma risente anche di quelli in cui
venga replicato o nuovamente rappresentato, potendo al limite adattarsi a essi. Medea è uno
dei personaggi che sa meglio sfruttare una tale ubiquità D’altro canto, nella psicologia
antica c’è la posizione di Epitteto. Egli obietterebbe che il personaggio è pur sempre limitato
nelle sue opzioni, mentre la persona che si trovi in situazioni analoghe mantiene un margine
di scelta, in cui l’insegnamento fornito dal personaggio di Medea può essere utile soprattutto
per antitesi. A prescindere dalle soluzioni rinunciatarie prospettate dal pensatore stoico, e
che rientrano in quella storicizzata morale, si apre così – attendibilmente, per la prima volta
– uno spazio fra personaggio e persona, che precorre la moderna personalità. Il salto di
qualità non sarebbe stato probabilmente concepibile, senza un lunga propedeutica teatrale, a
partire dalla tragedia greca e in particolare da Euripide. La Medea di quest’ultimo, nella sua
esasperata contraddittorietà, era l’esempio che meglio si prestava. In termini aggiornati,
grazie alla mediazione mitopoietica e alla sublimazione artistica il personaggio emerge
dall’inconscio collettivo, confrontandosi con un Super-io imposto dal tempo e dal luogo
dell’autore. Ma quello simula pure, per quanto con sé compatibile, la libertà della persona.
Mediante questa dialettica, esso consegue una personalità, che riferendosi a Medea sempre
Epitteto definisce comunque “di grande temperamento” (μεγαλοφυῶς; Diatribe, II 17, 19).
Quest’avverbio di non facile traduzione potrebbe anche rendersi come “con un sentire
non comune”, e suggerisce di per sé una spiegazione del successo del personaggio.
Nell’etimologia della parola greca, occhieggia la radice verbale di phýsis (φύσις, “natura”).
Provocatorio paradosso, se si pensa al cliché di Medea assassina dei suoi figli, è la stessa
radice del verbo φύω, “genero” in forma attiva e “nasco” in forma intransitiva. Chiaramente
qui si allude alla natura umana, a quel tanto di sconcertante che la differenzia e caratterizza
sia nel bene sia – nel caso in questione – nel male. Ed è ciò che già Sofocle qualificava
come “quanto di più terribile” (δεινότερον, deinóteron), per bocca del coro tragico nel
primo stasimo dell’Antigone. La terribilità di Medea rompe gli schemi, fa del personaggio
una personalità in cui non pochi possono in parte rispecchiarsi, arrivando a temere di se
stessi in circostanze impreviste dell’esistenza. Se davvero le persone sono uniche e
irripetibili, e se per personalità s’intende qualcosa di non strettamente individuale ma esteso,
di cui tutti possiamo partecipare, chi più chi meno a secondo del proprio “tipo psicologico”,
allora il personaggio diventa un tramite fra personalità e persona. È questo, esattamente, il
ruolo interpretato da Medea, attrice di sé medesima in quanto natura umana controversa.
Se Medea potesse smettere di recitare, finirebbe per somigliare troppo a una persona,
schiacciata dal carico del personaggio che le è stato assegnato o le è toccato in sorte.
Nemmeno la rimozione potrebbe essere di sollievo. Dimenticare Giasone, dimenticare
Corinto, dimenticare l’Ellade. Ignorare pure tutti noi, che stiamo lì a giudicarla da circa
duemilacinquecento anni. Ma è quanto un personaggio non può fare, specialmente uno così
personalizzato come il suo, infine lacerato fra coazione a ripetere e rimorso. Intuibilmente,
c’è qualcuno in particolare che Medea non riesce a scordare. Nel finale del suo monologodialogo col fantasma di Giasone, ce lo dice quella di Augusta Webster, in cui personaggio e
sociale, socialismo e capitalismo abbiano proposto razionalizzazioni o compensazioni diverse: la
rivendicazione nel primo caso, la competizione nel secondo. Nel suo “piccolo”, Medea né
concepisce di rivendicare né è più nella condizione di poter competere, ma neppure accetta per
questo di venir liquidata o “esodata”, tanto per usare un triste neologismo oggi in voga. Solo in
tal senso, effettivamente, si potrebbe considerarla un’eroina alquanto nicciana ante litteram...
33
persona entrano in collisione schizofrenica, anche per effetto di una percezione ormai tardoromantica della personalità: “Sì, è stato meglio così. Figli miei, adesso siamo vendicati./ Ma
tu, non prendermi in giro! Che fa, se nei miei sogni malati/ io li vedo evitarmi, volando via
impauriti?/ Quando mai potrei saziare questa bocca affamata di baci?/ Che fa, se gemo e mi
agito arsa dalla febbre,/ piangendo per chi non avrò più?/ Né qui né fra i morti, mai più
nessuno,/ né qui né fra i morti, nessuno mi sorriderà/ con labbra infantili balbettando
ʻMadre, cara madre’./ Che fa, se mi sento male quando le altre passano/ conducendo i loro
figli, e io non posso soffrire quei visi di bambini?/ Che fa, se…/ Vattene, dunque, va’. Il tuo
spettro mi ricorda i miei figli,/ ed è allora che ti odio di più. Tornatene alla tua tomba!”.37
12 – I filosofi Martha Nussbaum e Slavoj Žižek, in Examined
Life, documentario di Astra Taylor del 2008
Il terzo interlocutore
Il ritorno di attenzione per la tragedia di Seneca assume la valenza di una piccola
37 A. Webster, “Medea in Athens”, in Portraits, Londra: Macmillan and Co., 1870 e 1893; anche in
A. W., Portraits and Other Poems, a cura di Christine Sutphin, Peterborough, ON, Canada:
Broadview Press, 2000, pp. 169-177 (vv. 269-282, nostra traduzione). Nella raccolta, il poemetto
è associato a un altro dedicato a Circe, l’omerica maga seduttrice imparentata con Medea
secondo il mito. Cautamente “riscoperta” da una critica femminista, la Medea della Webster non
ha ancora ricevuto tutta l’attenzione generale che merita. Cfr. Melissa Valiska Gregory,
“Augusta Webster Writing Motherhood in the Dramatic Monologue and the Sonnet Sequence”,
in Victorian Poetry vol. 49, n. 1, 2011, West Virginia University Press; pp. 27-51.
34
rinascita senecana, non solamente sotto l’aspetto letterario. I tempi di crisi che attraversiamo
presentano qualche vaga analogia, con quelli avvertiti dall’antico pensatore e politico quali
premonitori di una decadenza dell’Impero Romano. Né è la sola Nussbaum, ad aver avviato
una rivalutazione critica della Medea di Seneca. In Medea, le Medee, intervento del 1999 al
convegno di Monte Sant’Angelo “Scienza, cultura, morale in Seneca” (qui citato alla nota
17), Giovanna Petrone ripercorreva le Medee della letteratura latina, per mettere meglio a
fuoco quella senecana. Particolare oggetto di analisi era il coro di quest’ultima, composto di
uomini invece che di donne di Corinto come in Euripide. La variazione permise all’autore di
spaziare dalla sfera privata del personaggio a quella pubblica, con lui larvatamente coeva.
Sollecitata in merito da chi qui scrive, in una mail la stessa studiosa palermitana ribadisce e
attualizza in breve la sua posizione di allora: “Il mito di Medea ha sicuramente molto da
dire. Anche riguardo all’odierna ʻglobalizzazione’. Per quanto riguarda Seneca, secondo me,
la condanna della navigazione argonautica, cui Medea è strettamente legata, significa una
tendenza ideologica (tradizionale nella mentalità romana conservatrice) che in termini
moderni, con qualche forzatura, potremmo definire ʻantiglobale’. I cori senecani raccontano
degli argonauti caduti ad uno ad uno per aver commesso l’empietà di solcare il mare”.
Il riferimento è ai cori secondo e terzo della Medea di Seneca, i quali più che quelli
della Medea di Euripide possono ricordare il celebre primo stasimo dell’Antigone di Sofocle
(a quest’ultimo e alla seconda ode corale della tragedia senecana, si è accennato qui in
precedenza). La “navigazione argonautica” sta per una dilatazione artificiosa e strumentale
degli orizzonti umani, che per il filosofo stoico – fautore della scienza, ma diffidente verso
la tecnica – poteva comportare più danni che vantaggi, specialmente se attuata in deroga dal
precetto di una vita secondo natura e in violazione addirittura di un equilibrio cosmico.
Inoltre, ciò che suona “conservatore” se rapportato all’epoca di Seneca può almeno in parte
risultare progressista al giorno d’oggi, in condizioni storiche profondamente mutate ma
perfino peggiorate da quel punto di vista specifico. Non per la prima volta, filologia classica
e filosofia contemporanea si tendono la mano, così come conoscenza e coscienza non
potevano essere dissociate secondo Seneca. La riflessione della Petrone e quella della
Nussbaum si collocano sulla stessa linea, pur senza trarre le conclusioni estreme di Žižek.
Quasi altrettanto interessante, ci sentiamo di aggiungere, è la funzione corale nelle
Medee classiche, siano esse di Euripide, di Seneca o – perché no? – del poco conosciuto e
meno apprezzato Osidio Geta. Questi cori non sono meri portavoce degli autori. C’è una
loro conseguente metamorfosi o dislocazione, in ordine ai tempi e luoghi delle singole
composizioni. Tempi successivi, fra loro più o meno distanziati, che una generica nozione di
antichità rischia di appiattire. Si è già detto, il coro è una specie di meta-personaggio, che si
fa espressione di un Super-io mutevole sia in relazione all’autore, sia in quanto applicato al
personaggio della protagonista. Insistendo nel comodo prestito di una terminologia
freudiana, la drammatizzazione essenziale non si svolge solo tra l’Ego e l’Id di Medea, fra
un io scenico e il sé tragico, ma anche con l’interlocutore del coro/Super-io. I cori di
Euripide e di Seneca sono rispettivamente formati da Corinzie e Corinzi. Quello di Geta
torna a essere femminile. Né è una differenza da poco, questa volta le coriste interpretano
immigrate dalla Colchide, si presume al seguito di Medea. In “buona” o “cattiva” misura, i
cori sono interiorizzazioni/esternazioni di Medea. Se quello di Geta prevale, all’opposto
quello di Seneca è una componente ellenizzante e maschile, rigettata da Medea stessa.
Chiunque egli fosse, e non è facile stabilirlo, Hosidius Geta non doveva essere del
tutto un dilettante, disponendo di una buona formazione culturale e retorica. Se la sua opera
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è un “centone” di versi virgiliani, esercizio per noi scolastico e alquanto astruso, suo
modello contenutistico dovette essere Seneca. Dalla struttura di quella senecana, la sua
Medea combinatoria si discosta per almeno due caratteristiche. Di una si è appena scritto, a
proposito del coro. L’altra è la messa in scena del fantasma di Apsirto, fratello di Medea
trucidato da Giasone e da Medea o con la sua complicità, durante la loro fuga dalla Colchide
dopo la furtiva conquista del “vello d’oro”. Nella tragedia senecana, penultima scena, quello
spettro è evocato nelle parole di Medea, mentre nel dramma di Geta esso diventa una
presenza recitante, anche se per ben poche battute. Non nuovo nella letteratura latina, per
quanto concerne Medea l’espediente inaugura una spettrale rappresentazione dell’inconscio,
che ritroveremo nello pseudo-dialogo della Webster, nelle vesti del fantasma di Giasone.
Caratteristica complessiva di Osidio Geta – forse un grammatico nord-africano, dato
peraltro che la sua opera ci è giunta nell’Anthologia Latina – sarebbe una velleità di apparire
più senecano di Seneca, nonostante che non manchino influssi di Ovidio e di Apollonio
Rodio. Ma ammettiamo e non concediamo che il non meglio identificato drammaturgo sia
quello Gneo Osidio Geta, generale e senatore romano del primo secolo d. C. documentato
specialmente dallo storico Cassio Dione. Gneo fu pressoché coetaneo di Seneca. Allora, si
porrebbe un problema di priorità fra i due, con riguardo alla composizione delle rispettive
Medee. Sta di fatto che la moda dei centoni virgiliani, di cui Geta potrebbe essere stato
iniziatore o precursore, è assai più tarda. Soprattutto, resta altamente improbabile un Seneca
che si ispirasse al modesto modello offerto dal centonista, per svilupparne e ampliarne
alcuni motivi, modificandoli secondo il proprio genio. Salvo possibili smentite filologiche,
rimane quindi valida una datazione dell’autore virgiliano-senecano a cavallo tra secondo e
terzo secolo, in base a una menzione con sufficienza di lui e della sua Medea, da parte
dell’apologista cristiano Tertulliano nella sua Prescrizione contro gli eretici (cap. 39).
Tuttavia, modestia letteraria non vuol dire per forza carenza di sensibilità artistica.
L’originalità del coro di questo dramma in formato ridotto, che ne facciano parte donne
caucasiche anziché di una città greca, fa sì che in qualche modo esso esprima un’istanza
identitaria alternativa, ipotizzabile in un autore che abitasse la periferia dell’Impero o che
ben la conoscesse giocoforza come Gneo Osidio Geta, impegnato ad ampliarne i confini.
Altra conseguenza, le fiere “coriste” sono più inclini ad assecondare la protagonista, nel suo
equivoco intento di tornare a essere la Medea di una volta, “vera” che fosse stando a Seneca
o acquisita e subita secondo la Webster. Dall’originale, traduciamo i versi 44-51, rivolti dal
coro a lei in difficoltà: “Ancora non sai, o donna perduta,/ quale follia ti ha preso/ di esporre
il tuo capo ai pericoli?/ Son queste le supreme mete che ci attendevano,/ ciò che riservavano
a noi le fiaccole e gli altari?/ Accetta dunque il nostro consiglio:/ estrai la spada dal fodero/
e col ferro estirpa la sofferenza!” (Nescis, heu perdita, necdum/ quae te dementia cepit,/
caput obiectare periclis?/ Haec nos suprema manebant,/ hoc ignes araeque parabant?/
Nostra nunc accipe mentem/ vaginaque eripe ferrum/ ferroque averte dolorem!).38
38 Testo latino a cura di Rosa Lamacchia in Hosidii Getae Medea: Cento Vergilianus, Lipsia:
Teubner, 1981 (per altri cenni bibliografici, si veda la nota 11). Nella formulazione di Virgilio
riadattata da Osidio, per la verità gli ultimi versi si riferivano al suicidio di Didone nell’Eneide.
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13 – Epitteto, particolare del frontespizio della
traduzione latina di Edward Ivie, del Manuale del
filosofo (Oxford, 1715); sotto, la poetessa Augusta D.
Webster in due stampe tratte da fotoritratti eseguiti dal
fotografo romano Ferrando, nel 1882 circa
Cento maschere, un “karma”
Abbiamo incontrato una Medea della Colchide e altre di Arles, di Napoli, di Baghdad,
della Crimea... Tante maschere, per un personaggio o un volto. Sussiste anche una Medea
nipponica? Negli anni Ottanta e Novanta del ’900, ha riscosso successo in Giappone la
Medea portata in scena dal regista Yukio Ninagawa, basata su quella di Euripide ma adattata
alla cultura e ai costumi locali. Oggi, Yayoi Hirano e Peter Hall hanno curato una MedeaRokujo di prossima rappresentazione all’Orpheum Annex Theatre di Vancouver, in Canada,
che vuol essere una contaminazione fra due tradizioni letterarie. A detta della Hirano,
interprete e innovatrice del teatro Nō, mimo nonché artefice di maschere teatrali, c’è infatti
nella letteratura giapponese un personaggio femminile assai simile a Medea: la maga
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Rokujo nel Genji Monogatari, scritto mille anni fa dalla narratrice Murasaki Shikibu, e che
riappare nel dramma Nō Aoi no Uye, “La nobile Aoi”, di Zenchiku Ujinobu (1414-1499).39
Probabilmente questi revisionò un canovaccio pre-esistente, di autore incerto. Altri
attribuiscono tale revisione a Zeami Motokiyo (1363-1443). Chiunque fosse questo revisore,
è altrettanto probabile che si debba a lui se la vicenda rappresentata si discosta da quella di
Rokujo no Miyasudokoro narrata nel “Racconto di Genji”, avvicinandosi alla Medea
euripidea tanto da far sospettare che il drammaturgo conoscesse perlomeno un resoconto
della tragedia greca. Rispetto al romanzo, l’atmosfera è più surreale, quasi onirica.
Per la verità, fra i misfatti ascritti a Rokujo per amore e gelosia del principe Genji – un
po’ il suo Giasone – non rientra il filicidio, principale elemento caratterizzante la Medea di
Euripide. Ma qui meno interessano le somiglianze tra i due personaggi, e se esse siano
coincidenze oppure no. Piuttosto, coinvolge la ricerca del possibile riscontro di un sostrato
psicologico archetipico, comune a culture così diverse e distanti fra loro. Ancor più che con
la Medea euripidea, qualche analogia può rinvenirsi fra il palese contesto buddhista della
Rokujo di Ujinobu e quello della Medea di Epitteto. A chi venisse a trovarsi in un travaglio
paragonabile a quello di Medea, quando lei è ancora indecisa se commettere i suoi efferati
delitti, il pensatore stoico proponeva i seguenti opinabili rimedi: “Non desiderare l’uomo, e
niente di ciò che desideri mancherà di avverarsi. Non ostinarti a desiderare che egli viva con
te. Non desiderare di rimanere a Corinto. In poche parole, non desiderare niente che dio non
voglia. Allora, chi ti opporrà impedimenti? Chi mai ti obbligherà? Nessun mortale potrà
costringerti più di quanto possa farlo con Zeus stesso. Quando tu avessi una tal guida, e i
tuoi auspici e desideri fossero pari ai suoi, non temeresti delusioni” (libro II, diatriba 17).
In maniera ben più “apatica”, dal canto suo la Rokujo di Ujinobu esclama: “In questo
mondo delle apparenze, dove i giorni lampeggiano come fulmini,/ niente e nessuno è
meritevole di odio oppure di pietà:/ ecco ciò che ho appreso. Quando, dunque, la follia si è
impadronita di me?”.40 Oggettivamente, lo Stoicismo condivise col Buddhismo l’idea che il
desiderio – o qualsiasi altro sentimento degenerabile in passione egocentrica – sia la radice
del male e della sofferenza, dando origine a illusioni le quali a loro volta generano
39 Si veda John E. Greenaway, East meets West in Medea (Rokujo): In Conversation with Yayoi
Hirano, al sito Web http://jccabulletin-geppo.ca/featured/east-meets-west-in-medea-rokujo/.
L’accostamento con Medea non è comunque nuovo; basti leggere Carol Sorgenfrei, Medea: A
Noh Cycle Based on the Greek Myth, New York: Samuel French, 1975. Cfr. anche Mae
Smethurst, “The Japanese Presence in Ninagawa’s Medea”, in Medea in Performance 15002000, a cura di Edith Hall, Fiona Macintosh e Oliver Taplin, Oxford: Legenda, 2000.
40 Cfr. Arthur Waley (a cura di), “Aoi no Uye”, in The Nō Plays of Japan, New York: Alfred A.
Knopf, 1922; pp. 143-152, in particolare p. 147. Interessante sotto l’aspetto psicologico ma
filologicamente contestata è una precedente traduzione-interpretazione del poeta statunitense
Ezra Pound, in Ernest Fenollosa ed E. Pound, “Noh” or Accomplishment: A Study of the
Classical Stage in Japan, Londra: MacMillan, 1916; pp. 193-205. Traduzioni italiane sono
reperibili in Leo Magnino (a cura di), Teatro No e Kabuki, Milano: Nuova Accademia, 1965;
Gian Pietro Calasso e Tsugako Hayashi, “La principessa Aoi (Aoi No Ue). Un testo attribuito a
Zeami”, Sipario: rassegna mensile dello spettacolo n. 294, 1970, pp. 18-21; Gian Carlo Calza (a
cura di), L’incanto sottile del dramma Nō, Milano: Scheiwiller, 1975. Ad Aoi no Uye si ispirò
pure il poeta irlandese William B. Yeats, nella pièce del 1922 The Only Jealousy of Emer.
Soprattutto, si ricorda un rifacimento-adattamento teatrale moderno di Yukio Mishima, del 1954.
38
disillusione e frustrazione.41 Ne deriva un ideale ascetico di vita o quasi, il quale sarebbe
arduo immaginare applicato a Medea. Più di quest’ultima, Rokujo è contesa fra possibile
pentimento e repressa coazione a ripetere, fino a sdoppiarsi in uno spirito malvagio, ruolo in
cui compare nella spettacolarizzazione succinta di Ujinobu. Vi sono inoltre presenti il coro e
le maschere, interfacce tra personaggi e persone come già nella tragedia greca e latina.
Spetta al coro richiamare la religiosità buddhista, alternando al giapponese citazioni in
sanscrito, antica lingua indiana imparentata alla lontana con greco e latino, e che per un
giapponese non solo buddhista doveva suonare all’incirca classica e sacrale a un tempo.
Quella di Ujinobu, o di chi per lui sulla scorta del romanzo di Murasaki Shikibu, è una
drammatizzazione della cattiva coscienza ovvero di un kārman gravato da sensi di colpa,
per dirla con un’espressione sanscrita buddhista. Il desiderio omicida di Rokujo nei
confronti delle sue rivali in amore si sarebbe “magicamente” tradotto e attuato nella realtà.
L’incontrollabile sdoppiamento di lei nell’alter ego autore dei suoi crimini è in effetti un
fenomeno, che può ricordare la dissociazione della personalità latente nel personaggio di
Medea, quasi di un Dottor Jekyll e un Mister Hyde al femminile. In un certo senso e misura,
Rokujo è ignara mandante del male. Benché pure lei affetta da condizionamenti inconsci,
Medea ne è un’esecutrice cosciente. Nondimeno, anche in questo caso è assai ridotta la
capacità di intervento del cosiddetto “sé normativo”, nell’edificazione di un sé soggettivo
rispetto all’urgenza di uno oggettivo. Un sottile discrimine corre tra libertà decisionale della
coscienza, costitutiva del soggetto responsabile di Epitteto, e una “karmica” predestinazione
al male e alla sofferenza, difficilmente estinguibile nell’ambito di una singola esistenza.
Questa seconda concezione è chiaramente inquadrabile nella credenza buddhista nella
reincarnazione. Condanna dello “spirito” di Rokujo è di continuare a sdoppiarsi sempre,
tanto in vita quanto dopo la morte della persona, salvo una sua liberatoria ed esemplare
conversione prevista nel finale del dramma. Non per nulla, era prescritto un cambiamento di
maschera dal primo al secondo atto, dal leggiadro aspetto di una dama di corte – semicelato
da un velo – a un sembiante diabolico. Un po’ meno ingenuamente, da parte nostra
possiamo tornare a trasferire una tale abilità e costrizione metamorfica dallo “spirito” di
Rokujo a Medea. Se si addice a un personaggio un “karma”, e non c’è motivo plausibile per
negarlo, allora quello di Medea è attendibilmente la vocazione a calarsi in tempi e a
scindersi in luoghi differenti, a rivestire tante maschere quante ne rendano riconoscibile il
volto, pur senza che venga mai completamente allo scoperto. Eccezionalmente, ella può
adottare nomi diversi dal suo. Ciò non impedirà a lungo che venga identificata in quanto
Medea, a rischio di qualche azzardo o arbitrio che scandalizzerà il critico o il filologo.
Un personaggio come il suo è destinato a trasmigrare da personaggio a personaggio, a
riflettersi di persona in persona, ovunque vi sia un tanto di personalità da poter condividere.
E quella personalità può ben essere collettiva. Alla base del successo di Medea c’è un trucco
di una genialità “assoluta”, tutta euripidea: usare l’altro, addirittura l’alieno, per designare il
41 Benché applicate al solo Stoicismo di Seneca – e, possiamo aggiungere, di Epitteto –, a
conclusioni analoghe se non più radicali perviene Alessandro Schiesaro in “Seneca e la
negazione del sé” (“Seneca and the Denial of the Self”, in Seneca and the Self, a cura di S.
Bartsch e D. Wray, Cambridge University Press, 2009; pp.221-235). Ciò, analizzando alcuni
personaggi tragici senecani, fra cui Medea. Centrale nella dottrina duddhista, la negazione
antitetica del sé personale assume il nome sanscrito anātman, là dove ātman sta per “sé”. È poi
abbastanza scontata un’affinità o somiglianza tra il concetto greco di némesis e quello
originariamente indiano di kārman, comune a Induismo e Buddhismo.
39
medesimo. Né è affatto scontato che questo medesimo intuibile ma inconoscibile sia la
civiltà greca o occidentale, come quando sulla scena incede Antigone, o la barbarie come
quando sulla stessa irrompe Medea. In ciò la Medea di Euripide può rammentare le sue
Troiane, semmai I Persiani di Eschilo, più che l’Antigone di Sofocle. Anche quella civiltà o
barbarie è una maschera, relativa a un inconscio onnicomprensivo eppure dialettico, in cui i
ruoli diventano al limite intercambiabili. Quella della Medea è una rappresentazione al
limite. Esagerava pure Aristotele nel criticare che il finale sa di deus ex machina, perché il
carro del Sole su cui s’invola Medea sta lì a suggerire che non c’è niente di davvero alieno
sotto il sole, nonostante l’infinita varietà delle forme che la Natura o la Storia assumono.
14 – M. Nation in una scena della Medea of Baghdad di A. Alizadeh,
rappresentata nel 2011 al La Mama Theatre di Melbourne, nel vecchio
quartiere caratteristico degli immigrati italiani: Carlton
In viaggio con Medea
Proprio perché le rappresentazioni di Medea chiamano spesso in causa l’inconscio
individuale o collettivo, non c’è dubbio che esse siano una delle prime, più durevoli e
ricorrenti drammatizzazioni della coscienza personale nel suo complesso. Fin dall’esordio
euripideo, raramente questa drammatizzazione resiste alla tentazione del monologo, con
tutti i suoi interlocutori fittizi o simulati fantasmi, proiezioni di se stessa ed ectoplasmi della
memoria. Che il referente sia reale o immaginario, che il monologo sia rivolto ad altri o un
soliloquio esternato per il pubblico, Medea resta il personaggio monologante per eccellenza.
Sono i suoi monologhi a farne l’attrice di un Ta eis heautón o di Confessiones al femminile,
quasi anticipatrice di una “Coscienza di Medea” anziché di una Coscienza di Zeno. Se li
disponessimo in ordine cronologico, in relazione all’esistenza dell’eroina, ne otterremmo
una specie di biografia interiore intermittente, e l’impressione che il personaggio cresca
indipendentemente dagli autori, da Euripide fino ad Augusta Webster e oltre. O, in qualche
modo e misura, che prenda loro la mano lo sfuggente personaggio, così versatile e insieme
unitario da far credere che non si sovrappongano più Medee nel tempo bensì sia una sola.
Comunque, sulla Medea più matura si è qui scritto abbastanza. Limitiamoci alla prima
40
giovinezza nella Colchide e dintorni, che è poi quella che abbiamo meno esplorato. Certo,
non possiamo saperlo fino in fondo. Tuttavia, vedremo come non vengano fuori elementi
per cui si possa affermare che la ragazza avesse avuto un’infanzia difficile o un’adolescenza
segnata da traumi psichici, ciò che sovente si sostiene per madri le quali per lo più
inconsapevolmente riversino sui propri figli maltrattamenti subiti in più o meno tenera età
da loro stesse. Tutt’al più, nel terzo libro delle Argonautiche di Apollonio Rodio abbiamo
un monologo dove Medea, divenuta conscia del suo innamoramento per Giasone, contempla
il suo eventuale e scandaloso abbandono-tradimento dell’ambiente patrio e familire in cui è
cresciuta, alternando vergogna e apprensione a una potenziale nostalgia. A tal punto, da
meditare il suicidio o desiderare la morte, assalita da tetri presentimenti: “Sussurrando il
mio nome di bocca in bocca, le donne della Colchide mi sviliranno come colei che cedette a
un’insana passione, presa dall’amore per uno straniero tanto da morirne, disonore per la sua
casa e i genitori. Quale peggiore disgrazia? Al diavolo, la mia infatuazione! Meglio sarebbe
questa notte nella mia camera essere privata della vita, sottratta a ogni riprovazione da un
arcano destino, prima che possa portare a compimento quest’infamia” (vv. 793-801). 42
Sempre nel terzo libro delle Argonautiche, abbiamo più monologhi della giovane maga
(vv. 464-470, 636-644, 772-801). Ma il più strano e implicito pseudo-dialogo lo troviamo
nel quarto libro, quando nell’immaginazione di Medea, finalmente decisa a fuggire con
Giasone, a lei si rivolge una personificata e fiabesca luna dal cielo. L’allusione è al mito
della dea lunare Selene, innamoratasi del pastore Endmione condannato a dormire un sonno
a tempo indeterminato, in un anfratto del monte Latmo: “Ecco, non più sola vado errando in
cerca della caverna sul Latmo, né me sola arde l’amore per il bell’Endimione. Quante volte i
tuoi incantesimi scaltri e insolenti mi hanno distolta dai miei pensieri amorosi, affinché nel
buio della notte con più comodo tu potessi concentrarti sulle arti a te care! Adesso anche a
te, posseduta da una passione simile alla mia, un demone impietoso ha assegnato Giasone
come motivo di affanni. Va’, dunque, percorri pure la tua via. Per saggia che tu sia, prepara
bene il tuo cuore a sperimentare un carico di pene condite di molti sospiri” (vv. 57-65).
Per l’apprendista strega, la magia ha smesso di essere un gioco rituale, soppiantata o
dirottata dalla passione amorosa insinuata dal numinoso Eros, con tutte le sue lusinghe,
inconvenienti e incognite. I monologhi di Apollonio Rodio fungeranno da modelli per quelli
di Medea, presso i latini Ovidio – specialmente nelle Metamorfosi – e Valerio Flacco. Negli
Argonautica di quest’ultimo ci imbattiamo in un breve discorso di commiato, idealmente
rivolto al padre, in cui quanto di familiare sta per lasciarsi alle spalle non pare, sia pure di
riflesso, affatto inviso a Medea: “O Eeta, potessi tu abbracciarmi un’ultima volta prima del
mio esilio, e vedere le mie lacrime! E non credere, padre, che colui che sto seguendo mi sia
più caro di te. Potessi anzi, io con lui, sprofondare fra i turgidi flutti! Prego che a lungo, in
pace e al sicuro, tu continui a regnare nella vecchiaia, e che i miei fratelli abbiano per te una
migliore riuscita” (O mihi si profugae genitor nunc ille supremos/ amplexus, Aeeta, dares
fletusque videres/ ecce meos. Ne crede, pater, non carior ille est,/ quem sequimur; tumidis
utinam simul obruar undis./ Tu, precor, haec longa placidus mox sceptra senecta/ tuta
geras, meliorque tibi sit cetera proles; libro VIII, vv. 10-15). Quasi si direbbe che l’eroina si
stia sacrificando per il padre e per la patria, per allontanare da essi verosimili pericoli.
42 Cfr. Thalia Papadopoulou, “The Presentation of the Inner Self: Euripides’ Medea 1021-55 and
Apollonius Rhodius’ Argonautica 3, 772-801”, in Mnemosyne vol. 50, fasc. 6, 1997; pp. 641664. In questi due esempi specifici, la grecista individua la nascita e un primo sviluppo del
monologo interiore, come forma o tecnica espressiva letteraria.
41
Meno banale se non originale, sicuramente più suggestiva, è un’altra immagine che il
poeta dell’età flavia ci restituisce ai versi 202-216: quella di Medea piangente, fuggitiva e
incinta, seduta sulla poppa della nave Argo mentre costeggia nel Ponto Eusino/Mar Nero. È
la scena che la latinista Caterina Lazzarini, in uno studio dedicato appunto all’ottavo libro
degli Argonautica, definisce quasi un monologo silenzioso, paragonabile al celebre “addio
ai monti” di Lucia Mondella nel romanzo I promessi sposi di Alessandro Manzoni.43 Qui
abbiamo invece un soggetto che prima o poi si travierà in una sorta di “monaca di Monza”,
altro famoso personaggio manzoniano. Ma, almeno “per ora”, ben poco lascia prevedere una
sua trasformazione in negativo. Anzi, il tacito monologo è un piccolo gioiello di accorata
malinconia, proiettata in un futuro esule e incerto, rotti ormai i ponti col recente passato. In
particolare la frase conclusiva “e tante volte fra i gemiti, in errore, si leva in piedi a veder
sorgere la montuosa Emonia”, totiensque gementem/ fallit ad Haemonios hortatus surgere
montes, potrebbe far pensare che Manzoni abbia voluto ispirarsi proprio a questo passo di
Valerio Flacco, se non fosse che tali monti immaginati sono quelli della Tessaglia, patria del
pioniere Giasone e meta ultima del suo lungo viaggio di ritorno, tormentato e contorto.
Viceversa, quello di Medea è un viaggio di sola andata, dritto in una vertigine di assoluto.
Da quest’anamnesi approssimativa del personaggio sembra poter emergere che,
effettivamente, la prima incrinatura nella psiche di Medea sia stata un brusco cambiamento
ambientale, a seguito del distacco dal luogo di origine. Nei brani sopra considerati sia
Apollonio Rodio sia Gaio Valerio Flacco si sforzano di dipingerla come una “gran brava
ragazza”, al massimo con un debole eccessivo per l’hobby della magia, del resto neanche
tanto stravagante o sospetto nella religiosità e cultura di estrazione. Evidentemente entrambi
gli autori intendono ridurla a una figura di contrasto con la Medea di Euripide o di Seneca,
cioè con quella che è un rispettivo antecedente letterario ma che pure, nell’ordine
esistenziale degli eventi, deriverà da un più grave trauma successivo: il totale crollo delle
proprie aspettative. I sensi di colpa iniziali nei confronti della sua famiglia e della sua gente
sono piuttosto scontati e verranno, questi sì, facilmente sacrificati: si pensi alla complicità
nell’assassinio di Apsirto. Qual è, allora, il complesso psichico originario, ammesso e non
concesso che ve ne sia uno? Quando la sua zōḗ prende a entrare in attrito col suo bíos?44
Proprio un poeta non di rado reputato “minore”, quale Valerio Flacco, può fornirci un
indizio utile, anche se non risolutivo. Si tratta di un fatidico monito pronunciato dalla madre
di Medea al momento della sua partenza, nel disperato tentativo di trattenerla o farla
rinsavire: “Che credi di poter fare, tu da sola, nelle terre degli Achei? Qual posto pensi di
poter occupare, tu barbara, in mezzo a donne native della Grecia?” (Quid terris solam te
credis Achaeis?/ Quis locus Inachias inter tibi, barbara, natas?; VIII 147-148). Ciò che
43 Si legga C. Lazzarini, L’addio di Medea. Valerio Flacco, Argonautiche 8, 1-287, Pisa: ETS,
2012. Si veda anche, e si ascolti, lo straordinario video “documentario” Medea: Made in the
Black Sea diretto da Vincent Moon nel 2011; benché poco abbia a che spartire col mito originale,
esso sottintende o presuppone una Medea figura non solo dell’altro, ma anche dell’altrove.
44 La dinamica bíos-zōḗ, fra esistenza individuale e flusso vitale, rientra in una linea di pensiero
interpretativo di ascendenza aristotelica, che va da Hannah Arendt a Michel Foucault e a G.
Agamben, in maniera sempre più critica. Sebbene non esaurientemente, essa può applicarsi al
personaggio della Medea filicida e a casi personali consimili, rendendo conto di un insanabile
conflitto interiore e pervenendo all’ipotesi che un bíos privato dei diritti elementari o leso nei
bisogni espressivi primari possa arrivare a sopprimere la propria zōḗ in quanto partecipe di un
“patrimonio” comune, come segnale di allarme sociale più che forma di rappresaglia privata.
42
questa signora sta inoculando, o finendo di inculcare, nell’animo della figlia pronta a
spiccare il volo in cerca di una identità autonoma, è un pesante complesso di inferiorità.
Parafrasando il titolo di un noto saggio di Julia Kristeva, Medea rischia di sentirsi “straniera
a se stessa”. Quali che siano le loro intenzioni, le donne malignanti della Colchide e la luna
matrigna stizzosa di Apollonio Rodio congiurano ai danni di lei, insieme alla madre
possessiva evocata da Valerio Flacco. Non a torto si obietterà che tanto il poeta greco
quanto quello latino ingentiliscono punti di vista maschili, oltre che dell’imperialismo prima
ellenistico e poi romano, affetti da complessi di indulgente superiorità. Ma è pur vero, la
Medea classica nella sua totalità è il prodotto di una immaginazione maschile. In quanto
tale, nemmeno la si può pretendere esente da qualche sfumatura di trasversale misoginia...
15 – Una Medea in stile nipponico, adattamento di Y. Hirano e P.
Hall, imminente nella programmazione dell’Orpheum Annex Theatre
di Vancouver (particolare fotografico del poster dello spettacolo; sul
volto della protagonista si noti una ricomparsa della maschera, nella
versione del teatro giapponese Nō). Attualmente, di prossima uscita è
anche l’ultimo romanzo incentrato sulla storia di Medea: Bright Air
Black di David Vann, statunitense dell’Alasca
Dislocazione e spaesamento
Che l’antitesi venga avvertita fra coscienza e inconscio, tra personaggio e persona o
addirittura fra bíos e zōḗ, cambiano la terminologia critica e i punti di vista teorici; permane
un contrasto di fondo, a contraddistinguere e animare il personaggio. Da parte sua
quest’ultimo, quale scaturisce dalle “testimonianze” letterarie e artistiche su esaminate, è
straordinariamente composito eppure coerente. Ancor più che di dualità si tratta di
complessità, sfuggente a ogni tentativo di definizione esaustiva del personaggio. Non c’è
una Medea una volta per tutte, perché già quella “preistorica” del mito o “storicizzata” da
Euripide intendeva esserlo solo a certi patti. Né c’è in lei la determinazione univoca di
43
un’altra eroina tragica al negativo, come Elettra. Il Medea nunc sum, l’essere “ora sì Medea”
di Seneca è imposizione scenica di un io attore sulle potenzialità del sé, esemplare finzione
catartica del personaggio affinché la persona dello spettatore fosse più consapevole e libera
di scegliere altrimenti, secondo quanto diverrà didascalico presso Epitteto. Se c’è una
vocazione che Medea mantiene, è quella a essere perturbante e inquietante o sconcertante.
In una parola presa in prestito dal tedesco, il concetto di Unheimlich le compete meglio di
quanto il filosofo Martin Heidegger applicasse lo stesso aggettivo alla protagonista
dell’Antigone di Sofocle. Medea è straniante, poiché a sua volta frutto di uno spaesamento.
A proposito di Medea in particolare, e di altre mitiche eroine come Arianna, si è potuto
parlare di un’“antropologia dello Unheimlich”, nell’accezione specifica di “non familiare”. 45
Né mancano Medee moderne, le quali drammatizzano una loro diversità razziale. 46 Tra le
molteplici sfumature di senso che il termine è venuto a suggerire, scegliamo tuttavia quella
che meglio può alludere a un letterale spaesamento. Storicamente, l’ellenismo prima e la
romanità poi arrivarono a concepire un ecumenismo politico-culturale sia pure in formato
ridotto, che trovò una sua espressione organica nell’ideale cosmopolitico degli Stoici. Tale
tendenza di pensiero influenzò un lento processo giuridico-amministrativo, che raggiunse il
suo coronamento nella Constitutio Antoniniana del 212 d. C. Questa estese il diritto di
cittadinanza, nonché i connessi oneri fiscali, praticamente a tutti gli abitanti liberi
dell’Impero Romano. Si aggiungano i flussi migratori, specialmente dalla periferia verso il
centro, che portarono a una concentrazione e rimescolamento della popolazione nelle aree
urbane, con l’effetto iniziale di una problematica convivenza ma reciproca conoscenza tra
differenti culture. La composizione della Medea senecana si colloca in questa prima fase.
Sebbene socialmente privilegiato, Seneca fu un romano acquisito. La sua famiglia
proveniva dalla provincia iberica. Lui stesso sperimentò l’esilio, sotto l’imperatore Claudio.
Nella sua Medea c’è qualcosa di se stesso, benché trasfigurato al punto da riuscire a stento
percettibile. Per sapere quanto del cosmopolitismo stoico riecheggi nel suo pensiero critico,
conviene riferirsi a un’altra opera meno letteraria e più filosofica: la “Consolazione alla
madre Elvia”. Ivi Seneca tratteggia lo sfondo dell’Impero, che abbiamo appena riassunto.
Egli altresì dichiara: “Niente, che sia in questo mondo, è estraneo all’essere umano” (Nihil
45 Eleni Karasavvidou, “From Ariadne to Medea: The Anthropology of the Unheimlich
(Unfamiliar)”, in HELDA: The Digital Repository of University of Helsinki – ISSEI, 2010;
all’URL https://helda.helsinki.fi/handle/10138/15241. Quanto al concetto di Unheimlich,
sebbene inteso in maniera intuibilmente diversa, cfr. S. Freud, “Das Unheimliche”, in
Gesammelte Schriften vol. 10 (“Il perturbante”, 1919); e M. Heidegger, “Hölderlins Hymne Der
Ister”, in Gesamtausgabe vol. 53 (“L’inno Der Ister di Hölderlin”, 1942).
46 La connotazione razziale assume sfumature morbose in Medea del tedesco Hans Henny Jahnn
(1926); e, con minore ambiguità, in Asie di Henri-René Lenormand (1931), riambientazione
moderna del dramma, dove la Francia coloniale prende il posto dell’antica Ellade e l’Indocina
colonizzata della Colchide, inclusa una versione indocinese del personaggio di Medea.
44
enim quod intra mundum est alienum homini est). La massima formulata dal pensatore in
esilio rimanda a un’altra, già stoicheggiante, del latino Publio Terenzio Afro, nella
commedia Heautontimorumenos (“Il punitore di se stesso”): “Sono un uomo, nulla di
umano ritengo a me estraneo” (Homo sum, humani nihil a me alienum puto). Come segnala
il suo cognome, anche l’ex schiavo era stato uno straniero a Roma. Nella stessa Consolatio
ad Helviam matrem, capitolo ottavo, il pensatore stoico manifesta poi l’opinione che l’esilio
sia un “cambiamento di luogo tollerabile” (commutatio loci tolerabilis), poiché ovunque ci
seguono una “natura comune” (natura communis) e una “propria virtù” (propria virtus).47
Non è questo palesemente il caso di Medea, tanto meno di quella di Seneca, a meno
che non si voglia conferire a detta “virtù” una connotazione negativa. Il che lascia dedurre
che la tollerabilità della condizione di esule fosse dall’autore circoscritta alla figura del
saggio, o, più realisticamente, che fosse una forzatura consolatoria rivolta ad altri:
nominalmente alla madre, in pena per la lontananza coatta e per i disagi sopportati dal figlio.
Benché retoricamente sconfessato, già nella “Consolazione” si avverte uno spaesamento,
altra faccia di un ecumenismo, quello della Romana pax, di cui Seneca stesso fu sfortunato
ideologo (si veda De providentia, IV 14). In omaggio a una “ragion di Stato”, specialmente
sotto Nerone egli potè rendersi connivente in crimini ben altri, ma neppure tanto, da quelli
commessi da Medea. Nella tragedia omonima, affiorerà con forza il dissidio fra quel
sentimento spaesante e un ideale cosmopolita. Il progressismo giovanile – una spinta alla
dislocazione sarebbe connaturata nell’umanità, non senza finalità positive – si muterà in
pessimistico conservatorismo, trasparente nei cori di cui si è fatta qui precedente menzione.
Tragicamente, Medea impersona tale tensione fra dislocazione e spaesamento, che
torna attuale, mutatis mutandis, nella nostra epoca di globalizzazione. Probabilmente, questo
è il maggior motivo del recente ritorno di interesse per l’opera di Seneca, in particolare per
la sua Medea. Né è ultimo tra gli elementi di attrattiva del personaggio in generale, alla luce
di non pochi rifacimenti o adattamenti odierni. 48 Se natura communis e propria virtus non
47 Per un’analisi mirata e approfondita del testo, si veda Mario Citroni, “Attis a Roma e altri
spaesamenti: Catullo, Cicerone, Seneca e l’esilio da se stessi”, nella rivista elettronica Dictynna.
Revue de poétique latine n. 8, Lilla: Université Charles de Gaulle, 2011, pp. 2-14; consultabile
all’URL http://dictynna.revues.org/729.
48 Ovunque la problematica in questione in qualche modo si è posta o si pone, “prima o poi”
facilmente e per intuibili motivi il personaggio Medea fa la sua ricomparsa, a costo di una sua
inedita trasfigurazione. Ad esempio, cfr. Min Tian, The Poetics of Difference and Displacement:
Twentieth-Century Chinese-Western Intercultural Theatre, Hong Kong University Press, 2008; e
Margaret R. Mezzabotta, Ancient Greek Drama in the New South Africa, testo di conferenza del
1999 all’URL http://www2.open.ac.uk/ClassicalStudies/GreekPlays/Conf99/mezza.htm#[ty]. O
anche, più in generale, Michèle Dancourt, Prénom: Médée, Parigi: Éditions des femmes, 2010.
45
erano espressioni nuove, comparendo già presso l’eclettico Cicerone, nella sua Consolatio
Seneca proiettava la commutatio loci nell’orizzonte di un cosmo in movimento, opposto a
ogni “cielo delle stelle fisse” di concezione aristotelica. Natura communis non è quindi da
intendersi solamente come “natura comune”, ma anche in quanto “comune con la natura”,
che a questo punto non è soltanto umana. Lo spaesamento che si intravede nella Medea
senecana è invece prettamente umano, tale da far rimpiangere una più o meno mitica “età
dell’oro”, in cui gli effetti della dislocazione fossero di là da venire. Viene meno la fiducia
in qualche provvidenza razionale, caratteristica di una divinità stoica immanente e diffusa.
In confronto, la “provvidenza” attribuita al libero mercato, ovvero la razionalità di un
mercato globale, con cui si troverebbe a misurarsi una Medea immigrata, profuga o
internamente “esodata” dei giorni nostri, è figlia di un dio minore. Anziché riflettersi in
esso, lo spaesamento sembra principiare nel linguaggio, il quale si fa parodia eufemistica di
termini che avevano altro senso in passato. Stando a Seneca, ciò che rese tollerabile il suo
esilio era la tolleranza reciproca confortata dal riscontro di una natura comune, ancor prima
che la virtù individuale. Ma è pur vero, nella sua Medea tollerabilità e tolleranza già non
collimano più, a dispetto dell’etimo condiviso. In un tempo assai più vicino a noi, nei
Quaderni dal carcere Antonio Gramsci individuava in un rapporto di subordinazione fra
metropoli e cosmopoli l’ordine strutturale delle società pre-moderne imperialistiche e poi
colonialistiche, aggiungendo che l’“eresia nazionale” aveva e avrebbe segnato un progresso
a oltranza sulla via dell’emancipazione moderna. Insomma, cosmopolitismo ed ecumenismo
sarebbero stati un utopistico inganno. Ci sentiremmo di dargli ragione, se non fosse che i
nazionalismi e i fascismi del ’900 remarono contro anche questa sua generosa asserzione.
16 – Una perturbante “madre-matrigna”, borghese e nord-americana,
ritratta con i figli in Medea di B. Safran (Calgary, Canada: Bernard
Safran Estate; 1964); a lato, Medea da anziana immaginata e
raffigurata nel 2012 da Leonardo Poscia, al sito Web http://leonardoposcia.artistwebsites.com/featured/medea-leonardo-poscia.htm (si
confronti con i versi di Medea in Athens di A. Webster, sopra tradotti)
46
Estraniamento e autocoscienza
Ancor più che complesso, il personaggio di Medea è refrattario a ogni semplificazione.
Non c’è dubbio che il suo spaesamento si accompagni o coesista con un fenomeno di
estraniamento da se stessa. Pertanto, il senecano Medea nunc sum può suonare mezza
menzogna di fronte alla propria coscienza, oppure esaltata constatazione di essere stata
infine raggiunta da quel sé da cui lei è in fuga, essendo da sempre in cerca di un’altra se
stessa. Un’amara sconfitta psicologica, mascherata da precario trionfo. Ciò concorderebbe
con la percezione freudiana dell’alienazione, in quanto estraniazione da sé, provocata da una
scissione fra la dimensione conscia e quella inconscia del soggetto. Fatto sta che questa
negatività racchiude un nocciolo di positività, anche più spiazzante proprio perché perdente,
già presente nell’originale di Euripide e ben riassunto dalla massima ovidiana Video
meliora proboque, deteriora sequor. Nell’accezione positiva data da Hegel, alienazione è
pure un estraniarsi della coscienza da se stessa e la sua oggettivante reificazione, fase di un
processo che consente al soggetto di progredire verso il traguardo dell’autocoscienza. Di
quest’ultima, tuttavia Epitteto nega la pienezza, o in pratica la accusa di essere la falsa
coscienza di Medea. In altre parole, la sedicente “vera Medea” sarebbe tutt’altro che tale.
A ogni modo, nel personaggio interagiscono alienità e alienazione. Il suo essere “la
straniera” – ricordiamo la rivisitazione di Alvaro –, e il suo estraniamento da se stessa, si
influenzano e potenziano a vicenda. Quanto qui si è cercato di mostrare è che, nonostante
tutto, le versioni moderne aggiungono poco di essenziale al quadro e alla cornice antichi.
Pur non riferendosi lì a Medea, nella Consolatio ad Helviam Seneca si sforza di
argomentare come una naturale predisposizione verso l’alterità contenga elementi positivi,
perfino in condizioni di esilio o di forzosa emigrazione. Per “altro da sé”, possiamo
intendere sia l’altro in senso stretto sia una nuova dimensione del proprio io, talora
estensibile a un’identità collettiva. In Raccontare il postmoderno, riferito a sé stesso Remo
Cesarani alludeva non a una dislocazione bensì a una cesura epocale nel corso dell’esistenza
di un individuo: “L’esperienza dell’estraniamento da noi stessi può apparire davvero
perturbante” (Torino: Bollati Boringhieri, 1997; p. 10). Ora, non si può negare che la Medea
matura di Euripide e di Seneca fugga dal proprio sé, in cerca di un’“altra Medea” che non
riesce a conseguire. Ma è anche vero, quella giovane di Apollonio Rodio e di Valerio Flacco
era partita alla ricerca di se stessa, senza lasciarsi appariscenti traumi dietro le spalle.
Il mutamento intervenuto nell’esistenza di Medea è tanto spaziale quanto temporale.
La modernità è un concetto relativo. Seguendo l’amore per Giasone ma cogliendo altresì
quest’occasione, l’eroina si trova a migrare da una società “arretrata” a una “avanzata”, per
uscirne in ultima istanza doppiamente delusa. È come se ci fosse stato un salto nel tempo,
oltre che un viaggio nello spazio, il che per inciso potrebbe accadere ai giorni nostri in
situazioni analoghe. In conseguenza di tale disillusione, il ricorso a un preteso sé arcaico è
un ripiegamento, o un espediente confezionato riciclando altrui pregiudizi nei confronti di
47
lei (la si rammenti nelle Heroides di Ovidio, rivolta a Giasone: Illa ego, quae tibi sum nunc
denique barbara facta). Altro è l’interessamento per Medea, da parte di Epitteto nelle
Diatribe. Ivi il proto-teorico dell’autocoscienza utilizza metafore moralizzatrici, quali quelle
del portiere di notte e del cambiavalute. A entrambe spetta vigilare e vagliare, affinché
cattivi impulsi o false rappresentazioni non accedano alla retta coscienza, per insediarsi
abusivamente in essa. A colpo sicuro il pensatore stoico individua in Medea una pioniera in
questo campo, ma non una brava guardiana né tanto meno colei in grado di dare una buona
valutazione e di operare una scelta conforme. Ovviamente, l’exemplum resta negativo.
Tutto ciò presuppone un inconscio personale, da cui quelle pulsioni o rappresentazioni
scaturiscano. In Tecnologie del sé, contributo a un seminario del 1982, Michel Foucault
affermava che il metodo di Epitteto precorre – per approssimazione, ma di gran lunga –
quello impiegato da Freud.49 Qui interessa piuttosto confrontarlo, molto limitatamente, con
la hegeliana Fenomenologia dello Spirito. Rispetto a Hegel, presso Epitteto il rapporto fra
coscienza e autocoscienza è invertito, in quanto la prima segue la seconda anziché
precederla. L’autocoscienza – a sua volta, erede del “Conosci te stesso” socratico – è
propedeutica alla coscienza, poiché per il moralista quest’ultima è soltanto retta coscienza,
epurata di ogni irrazionale negatività da un’autocoscienza che si erge a giudice. Il resto è
cattiva o falsa coscienza. L’aspetto cognitivo e quello etico coincidono. Su questo piano, il
personaggio di Medea impersona la contraddizione. Ella si scinde sì fra autocoscienza e
coscienza, tra io e sé, acquisendo “ragion veduta” del suo bene e del suo male. Ma finisce
con l’optare per il secondo, pur di nuocere anche ad altri. Dal punto di vista di Epitteto, ne
deriva che pure quella consapevolezza riflessa non poteva che essere imperfetta o illusoria.
È evidente una sottovalutazione del potenziale autonomo dell’inconscio, di quello che
per Epitteto – e per Seneca – era il sostrato passionale della personalità razionale, quasi che
un attento “esame di coscienza” e un’opera volontaristica di censura fossero sufficienti a
reprimerne ogni nefasto influsso. Tuttavia la Medea di Seneca, sulla scorta di quella di
Euripide, non riesce più a credere nell’efficacia di tale morale eroica. Troppi esempi ne
avevano decretato il fallimento, nella realtà vissuta dall’autore. Proprio sul piano etico, ecco
allora, dal rimedio poi riproposto da Epitteto, discostarsi quello suggerito nella tragedia
senecana, tramite l’imperativo categorico benché inascoltato, che Medea rivolge a se stessa:
cede pietati, dolor. Alla soppressione o rinuncia ai desideri egocentrici, si invita ad
affiancare un sentimento altruistico in qualche modo assimilabile alla carità, ivi compresa
qualche compassione per se stessi. È ciò che i Cristiani colti non mancheranno di apprezzare
nel pensiero di Seneca. Va però annotato che altrove, da Stoico ortodosso, il filosofo
oriundo di Cordova insiste a considerare la pietà una debolezza, o perfino un vizio minore.
Per quanto flessibili e dinamici, i limiti di tale moralismo normativo non sfuggono
all’analista Foucault: “Per Seneca il problema è non già scoprire la verità nel soggetto, bensì
ricordare la verità, cioè recuperare una verità che è stata dimenticata. In secondo luogo,
quello che il soggetto ha dimenticato non è ʻse stesso’, o la propria natura, la propria
origine, oppure la propria discendenza sopannaturale, ma sono le regole di condotta, ovvero
quello che avrebbe dovuto fare”.50 Va da sé, nel caso di Medea si tratta soprattutto di ciò che
49 M. Foucault, “Tecnologie del sé”, in AA. VV., Un seminario con Michel Foucault. Tecnologie
del sé, Torino: Bollati Boringhieri, 1992 (trad. it. di Saverio Marchignoli); pp. 34-35.
50 M. Foucault, ibidem, in op. cit.; p. 30. I testi di Seneca espressamente citati dal filosofo francese
sono i trattati De ira e De tranquillitate animi, ma in questo passo egli sembra alludere proprio
48
lei non avrebbe dovuto o non dovrebbe fare. Malgrado il parere generico di Foucault, la
scelta soggettiva del personaggio, di attenersi a una sua “verità” oggettiva, è obbligata. Ben
più che per le persone, la discrezionalità di un personaggio è ridotta. Nondimeno, assistiamo
a una sorta di sacrificio apotropaico, per lasciar spazio alle libere scelte degli spettatori
come vuole Epitteto, nonché alla speranza dell’autore che esse fossero alternative e non
emulative. Così, la rigida etica stoica si ridimensiona e stempera nella morale sottintesa
della fabula scenica, quasi che Medea dicesse: “Non fate come me, non ne vale la pena”.
Frutto di poetica immaginazione, questa pena o dolor è tanto smisurata da poter muovere a
pietà; non abbastanza, da non potersi verificare nel reale. Che questa umana realtà fosse solo
quella contemporanea a Euripide o a Seneca ed Epitteto, è poi intuibilmente improbabile.
17 – È sempre la stessa Medea? Due interpretazioni, diverse eppure
simili: la prima, dell’attrice Sojourner Zenobia Wright in Medea with
Child di Janet Burroway, rappresentata al La Costa Theatre di
Chicago nel 2010; la seconda, dello scultore William Wetmore Story
al Metropolitan Museum of Art di New York (particolare, statua del
1868; ne esistono più versioni, pressoché identiche fra loro)
Ambiguità del sacro
Fin dalla quarta Pitica, composta da Pindaro nel 462 a. C., la figura di Medea viene
presentata come esponente di una diversità culturale, alfiera di una cultura orientale e
comunque altra rispetto a quella greca del poeta. Non vi compare ancora il filicidio, come
poi nella tragedia di Euripide. Già vi si associa una connotazione negativa, là dove la
potente e “sapiente” maga è additata quale responsabile dell’omicidio di Pelia (τὰν Πελίαο
φόνον [οὖσαν]; v. 250). Sebbene funzionale a una finalità celebrativa dell’ode, è la prima
alla Medea, tutte le caratteristiche menzionate potendo riferirsi puntualmente al personaggio.
49
presentazione abbastanza organica che abbiamo del personaggio. Di quelle intermedie ed
essenziali, si è qui trattato a sufficienza. Possiamo quindi prendere in considerazione una
delle rappresentazioni antiche, che si colloca all’estremo epocale opposto rispetto a quella
pindarica, pur riecheggiandone poche forme e contenuti in una forzatura di ritorno alle
radici del mito. È il poema “Argonautiche orfiche”, Ὀρφέως Ἀργοναυτικά, di autore ignoto
della fine del V secolo d. C., ma che si finge cantato da Orfeo, “a suo tempo” partecipe alla
spedizione degli Argonauti, anzi imbarcato sulla nave Argo. In greco, e in veste ben più
modesta, l’opera è analoga alle Argonautiche di Apollonio Rodio e di Valerio Flacco.51
Così come nel componimento di Pindaro, Medea vi appare soprattutto come esotica
maga. Ma, questa volta, lo stesso Orfeo viene coinvolto con lei in riti, il cui carattere
macabro denota un gusto stregonesco da “basso Impero”. Quanto al livello dell’invenzione
poetica, il poema del volontario anonimo non si discosta molto da produzioni minori latine
quali l’epillio Medea del coevo Draconzio, o il centone virgiliano omonimo di Osidio Geta e
di datazione incerta qui su citati. Perfino nell’ispirazione di un poeta mediocre, attratto da
pretesi messaggi esoterici più che dalla qualità letteraria, possono però balenare immagini
felici o altrimenti rivelatrici, quale quella contenuta nei versi 1334-1336: “Allora a Medea
approntarono il letto nuziale,/ un tondo giaciglio stendendo sull’alta poppa [della nave],/ e
sopra fu adagiato il vello d’oro” (Δὴ τότε Μηδείῃ θαλάμων πορσύνετο λέκτρον/ πρύμνῃ ἐπ᾽
ἀκροτάτῃ, περὶ δ᾽ ἐστορέσαντο χαμεύνην/ ἀμφ᾽ αὐτῇ χρύσειον ἐϕαπλώσαντες ἄωτον). Da
ambito trofeo o bottino di saccheggio, ecco il vello tramutarsi in corredo nuziale e preziosa
dote di Medea. Quasi soggiacendo a una “mistica unione” tra l’eroe greco e la sacerdotessa
caucasica, esso recupera la portata simbolica di un significante aperto a più significati.
Ciò non impedisce al mitico cantore, subito dopo, di appellare la officiante della dea
Ecate colei “dalle infauste nozze” e il suo un imeneo “di luttuosa fama” (αἰνόγαμος Μήδεια
δυσαινήτοις ὑμεναίοις; v. 1340). Né si tratta solo di un facile presentimento letterario. Oltre
ad aver tradito suo padre e disertato la sua gente, Medea si era già macchiata di complicità
nell’uccisione di suo fratello Apsirto. Sia Giasone sia Medea non sono che strumenti,
nell’ambito di un misterioso disegno del destino, che l’autore chiama femminilmente “la
Moira” (τάδε Μοῖρα; v. 1311). Pur di portare a termine questa missione di cui sono per lo
più inconsapevoli, essi sembrano autorizzati a violare la morale comune, non senza pagare
un “giusto” prezzo per le colpe commesse in itinere. Pertanto, il “vello d’oro” è un’epifania
del sacro, tanto quanto il simbolo di un sacrilegio e della sua maledizione. Suggestioni neopitagoriche e neo-platoniche fecero sì che l’antichità al tramonto si volgesse indietro verso
la sua aurora, in cerca di uno smarrito senso del sacro. Un viaggio a ritroso nell’inconscio
collettivo, immaginato come un Oriente barbarico, ma un mondo incontaminato e alla
lontana originario. Strada facendo, ci si imbattè in un territorio demoniaco da attraversare.
Recuperare il meglio di se stessi significava accollarsi pure il peggio, quel polo
negativo senza cui il positivo quasi non potesse sussistere né sprigionare nuova energia. A
volte, per modo di dire, poteva capitare che il “fare di necessità virtù” divenisse un fare di
necessità una colpa. Ciononostante, l’importante era che le nozze mistiche – o anche
misteriche – fra quell’Oriente reminiscente e un Occidente dimentico di se stesso venissero
consumate o replicate. Il “vello d’oro” era la coltre ideale, su cui o sotto cui si svolgesse un
51 Cfr. Luciano Migotto (a cura di), Argonautiche orfiche, Pordenone: Edizioni Studio Tesi, 1994.
Il poema ci è giunto insieme agli Inni orfici e ad altri inni di autore noto e non, fra cui Proclo e
Callimaco. Ma è evidente che l’abbinamento con gli Inni orfici doveva essere privilegiato, quasi
che si trattasse di una trasmissione iniziatica di opere scelte del mitico vate e musico.
50
tale amplesso. In fin dei conti la pena da scontare, per i loro “necessari” misfatti, riguardava
solamente i personaggi di Medea e Giasone. Bisognerà attendere l’acuta sensibilità del
Romanticismo, e la sua fascinazione per l’irrazionale, perché un simile pregnante interesse
si coagulasse nuovamente intorno all’ambivalente oggetto. “Il vello d’oro”, Das goldene
Vließ, è intitolata un’intera trilogia del tragediografo austriaco Franz Grillparzer, composta
da L’ospite, Gli Argonauti e Medea, e rappresentata per la prima volta nel 1821 a Vienna.
All’inizio dell’ultimo dramma, Medea fa sotterrare il vello e altri magici orpelli come
ormai inutili relitti del passato, in omaggio alla grecità e alla razionalità, che almeno per il
momento per lei sono tutt’uno, vale a dire il suo presente a Corinto. Se gli errori di gioventù
sono legati a quei ricordi, gli orrori del futuro sono incombenti, ma ancora imprevisti e di là
da venire. Paradossalmente, più tardi non sarà Medea né Giasone a scatenarli, bensì il re
Creonte. Venuto a conoscenza dell’esistenza della cassa in cui è racchiuso il vello, una volta
disseppellita egli la farà aprire, per impossessarsi di quel contenuto al quale era stato
attribuito tanto valore (nella fantasia di Grillparzer, la metafora dello scavo rimpiazza quella
del viaggio). Là dove si insinua la cupidigia, tra le peggiori passioni, ogni razionalità viene
meno o getta la maschera. Da lì avrà origine di nuovo il maleficio, di cui Medea torna a
essere fatale esecutrice. Non diversamente che nelle antiche Argonautiche orfiche, il
precipitare degli eventi ubbidisce a forze apparentemente impersonali, la cui sede – se
vogliamo razionalizzare – è nel profondo inconscio anziché in qualche infernale sottosuolo.
Così modificato in senso fiabesco, il congegno narrativo rientra in una poetica antiilluministica diffusa all’epoca di Grillparzer (si pensi ai racconti di E. T. A. Hoffmann). Ma
non è tutto. Un supplemento di significato si svela nel finale, in cui l’autore riesuma mitici
antefatti della saga degli Argonauti, in una presunta versione arcaica. È il commiato di
Medea da Giasone: “Andrò a Delfi. Deporrò il vello sull’altare da dove un tempo Frisso lo
aveva portato via, restituendo così al dio oscuro ciò che è suo, quel vello che nemmeno le
fiamme hanno offeso. […] Riconosci quest’insegna per la quale hai tanto lottato? E che per
te era la fama e la felicità? Ma cos’è la felicità sulla terra? Un’ombra. E la fama è un
sogno”.52 Si noti che il “dio oscuro” cui Medea allude non è il tragico Dioniso, come ci si
potrebbe aspettare, bensì Febo/Apollo. Deità luminosa e solare, una sua oscurità risiedeva
nei responsi oracolari rilasciati presso il famoso santuario a lui dedicato. Soprattutto, nel
motto delfico prima che socratico “Conosci te stesso”, Γνῶθι σεαυτόν. Oscurità dell’animo
umano ovvero della psiche, quale non di rado affiora anche nei nostri sogni a occhi aperti.
52 Trad. it. di Claudio Magris in Maria Grazia Ciani (a cura di), Medea. Variazioni sul mito,
Venezia: Marsilio, 2004; con testi di Euripide, Seneca, Grillparzer, Alvaro: p. 185. L’incendio è
quello della reggia di Creonte, provocato da Medea, in cui è perita la sua rivale e figlia di lui
Creusa. D’altro canto, la cassa in cui era stato rinchiuso il “vello d’oro” è un mitologema, che
può ricordare il mitico vaso di Pandora o la scatola di Psiche, nella favola narrata da Apuleio.
51
18 – William Russell Flint, Medea aiuta Giasone a impadronirsi del
“vello d’oro”, ammansendo il drago o serpente che ne è custode;
anche Orfeo con la sua lira è visibile sul lato destro dell’illustrazione
(in Charles Kingsley, The Heroes; or, Greek Fairy Tales for My
Children, 1912; Gloucester, U.K.: Dodo Press, ristampa 2007)
Una “scuola del rispetto”
I Romantici come Grillparzer, o i Preromantici come Von Klinger, non furono i primi
a rivalutare sentimenti e passioni, per perniciose che fossero, nella figura e nella storia di
Medea. Dei tanti versi a lei dedicati, i più singolari sono quelli in latino di Pierre Corneille,
in una lettera indirizzata il 6 marzo 1649 a Constantijn Huygens, signore di Zuylichem in
Olanda. Ne traduciamo alcuni, particolarmente significativi: “Se ci è consentito far caso alle
imperfezioni degli antichi,/ questa [donna] fu consegnata tremante da Euripide agli Elleni,/ e
con indegne preghiere supplicante Creonte;/ Anneo [Seneca] la rese ai Latini malvagia e
tremenda,/ fin troppo nei confronti di Giasone e di Creusa” (Hanc, si fas veterum videre
naevos,/ Graiis Euripides dedit trementem,/ Nec digna prece supplicem Creonti;/ Annaeus
Latio, malam et tremendam/ Iasoni nimis, et nimis Creusae). Corneille prosegue lasciando
intendere di aver mediato fra i due modelli, nel confezionare la sua Mèdée per i Francesi,
ma non in misura equanime. Iperbolicamente, infatti egli dichiara di non dover nulla a
Euripide ma molto a Seneca, specialmente per quanto concerne le sensazioni forti che
commuovono e fanno presa sul pubblico: meglio una Medea tremendam, che trementem.
Fra l’altro, nell’opera in oggetto, è ciò che non apprezzerà un Illuminista come Voltaire. 53
Pubblicata dall’autore nel 1639, dopo la prima rappresentazione della sua tragedia nel
53 De briefwisseling van Constantijn Huygens 1608-1687, a cura di J. A. Worp, parte 4: 1644-1649,
L’Aia: Martinus Nijhoff, 1915; lettera n. 4919, p. 513. Per quanto qui segue, si veda Théâtre de
P. Corneille, avec les commentaires de Voltaire, tomo 2, Parigi: P. Didot l’Aîné, 1795; pp. 341347 e 349-351 (precedenti edizioni della stessa opera erano uscite nel 1764 e nel 1776).
52
1635, un’altra lettera di Corneille è una vera e propria dedica a un non meglio identificato
“Monsieur P. T. N. G.”. Siccome già Voltaire si interrogherà invano circa la sua identità, più
di un secolo appresso, può darsi che l’illustre dedicatario fosse fittizio. Scopo patente di
Corneille è difendere la sua opera, che per la verità non aveva riscosso immediato successo,
da certe critiche le quali dovevano però discostarsi da quelle di Voltaire. Per lo più, queste
ultime riguarderanno il rappresentare magie e superstizioni, poco credibili in un’epoca
razionalistica. Altro, lo scrupolo del tragediografo barocco, non meno modernamente
preoccupato di rivendicare un’autonomia estetica dalla morale corrente. Non è compito del
poeta o dell’artista giudicare la condotta dei personaggi, bensì rifletterne al meglio la verità
psicologica, anche quando esse volgano al peggio: a maggior ragione, nel caso di un autore
tragico. Tale, pure il suo criterio di verosimiglianza. Per Corneille in quanto drammaturgo, il
problema del contrasto fra predestinazione e libero arbitrio, tra fatalità e colpevolezza – in
pratica, se scagionare o meno Medea o altri dalle loro colpe – quindi neppure si porrebbe.
Ciò non toglie che possano e debbano porselo gli spettatori. Da un lato, Corneille
puntualizza che non è sua incombenza escogitare “ragioni le quali possano convincere gli
spettatori che qualcosa sia gradevole, quando questa loro dispiaccia” (des raisons qui
puissent persuader aux spectateurs qu’une chose soit agréable quand elle leur déplaît).
D’altronde, egli ironizza: “Non c’è qui bisogno di avvertire il pubblico che [le azioni] in
questa tragedia non sono da imitare, essendo esse così scopertamente tali, da non indurre
invidia [emulatrice] in nessuno” (Il n’est pas besoin d’avertir ici le public que celles de
cette tragédie ne sont pas à imiter: elles paraissent assez à découvert pour n’en faire envie
à personne). Alla fin fine la storia di una “strega”, la Médée era riservata a un pubblico
maturo, capace di valutare secondo coscienza senza altrui tutele o censure. In tempi di Santa
Inquisizione, e di caccia alle streghe, questo “mettere le mani avanti” non era fuori luogo.
Anziché avventurarsi in disquisizioni su un’eventuale diffusa predisposizione al male e sulle
sue radici, il buon senso di Corneille si appellava direttamente al senso comune.
Attendibilmente, “Monsieur P. T. N. G.” sta per la persona qualunque, che si trovava a
muoversi nella cornice di una modernita adolescente, e di una sua rischiosa ambiguità.
Nonostante Voltaire, in realtà la Médée secentista di Corneille – e, altrimenti, quella
novecentesca di Alvaro – sono tra le più consapevolmente moderne. Benché collocate
rispettivamente agli esordi e al crepuscolo della modernità, esse si levano a interloquire alla
pari con quelle di Euripide e di Seneca. Del resto, un simile scarto temporale separa quelle
di Euripide e di Seneca, e quelle di Corneille e di Alvaro. Antichità e modernità a confronto,
con Medea nel ruolo di interprete e mediatrice. 54 C’è però antichità e antichità, modernità e
modernità. Mutate le condizioni storiche e il clima culturale, ogni qualunquismo sia pure in
positivo verrà scartato da un autore neorealista come Corrado Alvaro, nella Lunga notte di
Medea. In uno dei suoi frequenti monologhi nella storia della letteratura, questa Medea
54 Un’interpretazione della vicenda del personaggio come confronto-scontro tra culture epocali,
oltre che attualmente interculturale, è stata messa in scena a cura dell’Act Theatre Project nello
spettacolo di danza Medea e il suo Doppio, a Roma presso il Teatro Volturno nel 2011 e la Casa
dei Popoli nel 2012, concepito da Loredana Piacentino e realizzato con Francesca Orazi.
53
punta al sodo di quella che è la questione fondamentale o radicale – parafrasando
Heidegger, la grundfrage – e lo fa all’interno dell’opera, pregando una divinità senza nome:
“Fiamma onnipotente, io non ti chiedo più cose tremende. Ti chiedo una patria lontana dagli
uomini, dalle contese dei re, dalle gelosie delle città, dall’invidia degli uomini. Una casa in
cui io sia padrona di me e dei miei figli, e accanto un fiumicello per confine. [...] Dammi un
focolare. È poco. Non ti ho mai chiesto tanto poco. Non rispondi più a Medea. Non puoi, tu
dici. Questo può farlo solo l’uomo, dici. Gli Dei hanno lasciato questo all’uomo. Gli Dei
rispettano l’uomo. Sta a lui rispettarsi dello stesso rispetto degli Dei” (tempo I, scena 3).
Nuovamente per bocca di Medea, la Lunga notte di Medea si conclude con una battuta
enigmatica, strettamente connessa con la questione precedente: “Solo gli Dei sanno chi per
primo ha fatto il male”. In effetti, un chiarimento è leggibile nell’intero svolgimento del
dramma, che non ha necessità di venir ambientato ai giorni nostri per risultare attuale.
Basterebbe il linguaggio per renderlo moderno, ad esempio quando Medea definisce se
stessa “vagabonda, zingara”. Per quanto influenti, né un ipotetico fato o la sorte avversa, né
l’inconscio profondo o qualche tara ereditaria possono umiliare l’umana responsabilità. Ma,
per Alvaro, questa non è solo individuale come per l’antico Epitteto. Accantonata ogni
facile genealogia del male, quella responsabilità è anzitutto sociale e politica, fatta di una
mentalità o di una cultura che condizionano e a volte determinano i comportamenti
individuali. Quella, che poteva essere considerata una corresponsabilità, diventa prioritaria.
Per dirla in termini freudiani, il Super-io rivendica i suoi diritti su ogni io conteso con l’Es.
Più che qualche ideologia del ’900, la posizione dell’autore rispecchia convinzioni ed
esperienze personali, rientrando comunque in una “scuola del rispetto” radicata nel pensiero
occidentale, dalla filantropia di Epitteto fino allo spirito di tolleranza di Voltaire e oltre.
Sovente al di là delle colpe palesi, talora di indotti complessi di colpa, si configura una
colpevolezza diluita e rimossa, tanto più colpevole quanto messa in opera in sordina, senza
assunzione apparente di responsabilità. Né sempre tale colpevolezza assume la forma di una
omissione. Non di rado essa si manifesta in maniera attiva, preferibilmente anonima. Nella
tragedia di Alvaro, compaiono personaggi che a stento possono dirsi tali, quali “due donne
ammantellate”, una “voce da fuori”, o anche “voci della folla” durante l’assalto alla casa di
Medea che innesca l’eccidio preventivo dei figli da parte della madre. Eppure, quei nonpersonaggi concorrono a determinare l’esito non meno di quelli regolari e identificabili. Essi
esprimono un background popolare, neanche tanto di sfondo, senza il cui consenso o
sostegno i personaggi in primo piano sarebbero meno “liberi” di agire ai danni di chi si trovi
in uno stato di minorità e di svantaggio. Un accostamento con i fascismi europei, che
l’autore aveva conosciuto e subito, non è arbitrario; è un’associazione mentale doverosa. In
una società odierna, permeata da una manipolabile comunicazione di massa, perfino il “non
sanno quel che fanno”, di evangelica memoria, suonerebbe poi una dubbia giustificazione.
54
19 – Due Medee in concitato movimento: L. Hertault, Médée, statua
bronzea presso Galerie Louis Hertault, Parigi 2012 (si noti il
tradizionale attributo iconografico della spada, ma anche il “vello
d’oro” che le cinge i fianchi); George Romney, Lady Emma Hamilton
come Medea, Pasadena, California: Norton Simon Museum; ca. 1786
Il patriarca e l’eroina
È celebre il confronto di Søren Kierkegaard in Timore e tremore, fra i sacrifici di
Isacco da parte di Abramo, nell’Antico Testamento, e di Ifigenia da parte di Agamennone, in
Ifigenia in Aulide di Euripide: “cavaliere della fede”, il patriarca ebraico; “eroe tragico”, il
duce greco. Il filosofo danese tralascia un possibile paragone con l ’eroina tragica Medea,
evidentemente non ritenedola mossa da fede religiosa né da una superstiziosa motivazione
etica, che in qualche modo nobilitassero se non giustificassero il filicidio. O, forse, perché
nel suo caso nessuna deità o chi per lei interviene, sostituendo un montone o una cerva come
nei casi rispettivi di Abramo e Agamennone. Eppure, questo passo del terzo capitolo di
Frygt og Bæven potrebbe addirsi a Medea, contesa fra sentimento materno e vendicativa
passione amorosa o costrizione di un ambiente ostile, tanto quanto all’angoscia di
Agamennone, combattuto tra affetto paterno e presunti doveri nei confronti dell’esercito da
lui guidato: “Se l’azione dell’eroe tragico si svolge in un tempo determinato, per il resto del
tempo egli compie un’impresa non meno importante. Visita colui la cui anima è assediata
dalla sofferenza, il cui petto respira a mala pena soffocato dai singulti, sul quale gravano
pensieri bagnati di lacrime. Egli appare esorcizzando il maleficio, ne dissolve i lacci
asciugando il pianto. Attraverso le sofferenze dell’eroe, il sofferente dimentica le proprie”.
Con qualche enfasi da melodramma, le poche frasi ben rendono un modo romantico di
recepire il concetto aristotelico di catarsi. Quella cui il pensatore teologo allude è la
sofferenza morale in assoluto, smarrimento senza nome né necessario motivo apparente,
anziché un dolore occasionale e comunque scatenante. Nondimeno, alla sua teologica
omissione e alle considerazioni sulla funzione dell’eroe tragico possiamo muovere alcune
laiche obiezioni. A più riprese, abbiamo visto Medea non mancare di religiosità o senso del
sacro, sebbene magico anziché pagano come per Agamennone, o ipoteticamente pre55
cristiano come per Abramo. Tratta da Lunga notte di Medea di Alvaro, da ultimo abbiamo
letto la preghiera da lei elevata a una divinità naturale, venata di monoteismo ma con tracce
di politeismo. Della performance di Loredana Piacentino Medea e il suo Doppio, qui citata
in nota, riportiamo un paio di note di presentazione, che possono risultare altresì pertinenti:
“Medea è a tutt’oggi un personaggio mitologico che continua ad affascinare ed ispirare, nel
ruolo di ponte che unisce o diga che separa fino alla rottura, il mondo arcaico e quello
moderno; una donna detentrice di un sapere antico e guaritrice o perfida maga, un richiamo
al fiuto sincero degli istinti o alla logica della ragione spietata”. D’altro canto: “La diversità
può diventare una forza, il conflitto nella sua accezione positiva è fonte di nuove possibilità
e motore di vita. La dualità come alternarsi e compenetrarsi di opposti, si contrappone ad
una visione bene/male che divide, nasconde, impoverisce la mente e l’anima”.
Tutto questo e altro lasciano intuire che Kierkegaard privilegia la concezione di una
divinità trascendente connessa per convenzione con una mentalità patriarcale, rispetto a una
immanente e antropologicamente riconducibile a una visione matriarcale del mondo. Anche
da qui, la sua esclusione di Medea dal gioco dei paragoni. Ma le cose sono più complesse,
dal momento che la divinità evocata dalla Medea di Alvaro – benché impersonale e
“onnipotente” – è “personalmente” rispettosa della libertà umana. Alvaro non è teologo, ma
traspare una sua percezione della divinità – alla ricerca di una plausibile sintesi attuale 55 –
influenzata dalle teologie delle religioni monoteistiche, in un senso specifico e per così dire
cruciale: che una divinità impersonale può farsi personale, non tanto né necessariamente
incarnandosi come il Gesù cristiano, quanto per l’atto prioritario di auto-limitarsi lasciando
spazio alla personalità umana. Virtualmente, il “trasumanar” dantesco-pasoliniano è alle
porte, quasi che quel divino impersonarsi e umanizzarsi richieda la contropartita di un tale
sforzo da parte dell’umanità, la quale del resto a sua volta si presuppone “fatta a immagine e
somiglianza di Dio”. Alla Medea di Alvaro, basterebbe molto meno di questo circolo
virtuoso: laddove “tutto crede di essere eterno”, “vivere umanamente, può soltanto l’uomo”.
S’intende, sul piano dell’esercizio dialettico, un’altra obiezione da potersi rivolgere a
Kierkegaard ha un carattere più etico in senso stretto. Che la fede religiosa possa trascendere
la morale umana, al punto da poter entrare in contraddizione con se stessa, è un paradosso il
quale lascia perplessi oltre che propedeuticamente disorientati o “scandalizzati”. Al di là di
una troppo netta o stereotipata divisione tra bene e male, intuizione che verrà ripresa e
discutibilmente sviluppata da Nietzsche, occorre pur calarsi nei panni delle vittime,
potenziali o effettive che siano: Isacco nel caso di Abramo, Ifigenia nel caso di
Agamennone, i due figli innocenti in quello di Medea. Se attendibilmente non c’è un “primo
[che] ha fatto il male”, nella concatenazione degli eventi quasi sempre c’è un ultimo a
subirlo, senza facoltà di appello. Sotto questo aspetto, l’esempio adottato da Kierkegaard fa
eccezione. Probabilmente, l’ultima tragedia composta da Euripide non potè essere riveduta
né ultimata dall’autore. Già Aristotele criticava un brusco mutamento di atteggiamento della
protagonista, dalla resistenza a un rassegnato sacrificio di se stessa. Tuttavia Ifigenia vi ha
voce in capitolo, mentre i giovanissimi figli di Medea non avevano potuto averla. Come
anticipa il titolo, più che la tragedia di Agamennone Ifigenia in Aulide lo è di Ifigenia, figura
cui il drammaturgo aveva peraltro dedicato Ifigenia in Tauride, seguito della stessa storia.
In un’economia del male, Ifigenia è la vittima designata. È lei a parlare anche per
conto dei bambini di Medea, o – perché no? – di Isacco figlio adolescente di Abramo.
55 Tale ricerca può ricordare quella degli Stoici, a loro tempo indulgenti verso il politeismo:
abbiamo sopra letto di Epitteto, il quale evocava Zeus in un discorso di tenore filosofico.
56
Patriarcale o matriarcale che sia, qualsiasi siano le attenuanti e anche se esso fosse l’ultimo
approdo di altri dispotismi, quel potere è dispotico. Siano esse il Padre vetero-testamentario
di Abramo o le dee matrigne di Agamennone, e a suo tempo celebrate da Medea, quelle
deità abusivamente chiamate in causa sono proiezioni di un dispotismo genitoriale, oltre che
di uno statale nel caso di Agamennone come sottintende una polemica anti-hegeliana di
Kierkegaard. È sufficiente ascoltare l’esordio della supplice Ifigenia, invano diretta al padre:
“Avessi la facilità di parola di Orfeo, o padre,/ tale da persuadere col canto, in modo che/ le
pietre mi seguissero! Se potessi intenerire/ gli animi con le mie parole, a quest’arte/ io farei
ricorso. Soltanto ciò di cui son capace/ posso offrirti, e queste sono le mie lacrime./ Ai tuoi
piedi questo corpo,/ che fu partorito dalla tua sposa, depongo come/ un ramo d’ulivo recato
dalle supplici, affinché/ tu non mi uccida prima del mio tempo. Infatti è caro/ vedere la luce.
Proprio tu non obbligarmi/ a scoprire quanto di oscuro è sotterra...” (vv. 1211 e segg.).56
La successiva sottomissione di Ifigenia, in obbedienza al padre e per il preteso bene
della patria, ha il sapore di una manipolazione non all’altezza del genio di Euripide, o di un
ricatto morale subito dalla ragazza. Accortasi dell ’inganno, in Ifigenia in Tauride la
sopravvissuta arriverà a reclamare: “L’Ellade intera mi ha uccisa”. Similmente, Medea non
ha più motivi affettivi, per essere legata a una patria determinata. Intenzionale o obbligato
che sia, il suo sradicamento nomadico fa sì che gliene basti una purché sia, la quale coincida
con un focolare qualsiasi. La preghiera di Medea secondo Alvaro, e la supplica di Ifigenia,
stando a Euripide, hanno a oltranza in comune una disperata voglia di vivere, frustrata da
circostanze avverse o piuttosto dalle aberrazioni umane, le quali finiscono per subordinarla a
una risorgiva e debordante pulsione di morte. Nonostante Kierkegaard, almeno in ciò l ’“eroe
tragico” Agamennone non è migliore di Giasone o di Creonte, e tanto meno del “cavaliere
della fede” Abramo. L’onore di Agamennone, l’ambizione di Giasone, perfino la fede di
Abramo, ne fanno personaggi meschini sotto una maschera di grandezza. Dietro la maschera
terribile, Medea possiede invece una sua grandezza, fosse pure solamente quella del male e
della vertigine che lo accompagna; per giunta, la sua non è mai una sofferenza gratuita.
56 Il motivo poetico iperbolico di arrivare a far muovere le pietre con la propria arte non fu riferito
solamente a Orfeo, bensì pure a Medea; in questo secondo caso, non per merito della melodia,
bensì per mezzo delle sue formule magiche: “e sommuovo i sassi, [come se fossero] vivi”
(vivaque saxa [...] moveo; Ovidio, Metamorphoseon libri, VII 204-205).
57
20 – Anselm Feuerbach, Ifigenia, (Darmstadt: Hessisches
Landesmuseum; 1862); a lato, Medea con la daga (Mannheim:
Kunsthalle; 1871: presumibilmente lasciata cadere a terra dopo il
delitto, l’arma sguainata è appena visibile sotto un sandalo di lei)
“Riciclare Medea”?
Forse ancor più che con Antigone di Sofocle, in sede critica può essere stimolante un
confronto di Medea col personaggio di Ifigenia dello stesso Euripide. Ancor meglio che con
Ifigenia in Aulide, proprio con Ifigenia in Tauride. A prima vista, le due mitiche figure sono
antitetiche: pluriomicida familiare, la prima; vittima per antonomasia, la seconda. Almeno
in parte, esse finiscono per venire accomunate da un tragico destino, a rischio di una
contaminazione dei rispettivi ruoli. Da vittima, Ifigenia corre il pericolo di mutarsi in
carnefice. Grazie all’intervento “provvidenziale” di Artemide, ella era stata salvata in
extremis dal sacrificio di lei decretato da suo padre Agamennone, al fine di placare una
“divina” avversità e consentire così di salpare per la guerra di Troia alla flotta degli Achei,
impedita da una carenza di venti. Ma il salvataggio della ragazza non comporta una sua
liberazione. Miracolosamente trasportata nella Tauride, sulle coste del Mar Nero, Ifigenia è
addetta al servizio sacerdotale in un tempio della dea, e a sacrificarle i malcapitati i quali
approdassero in quella terra selvaggia. Il caso vuole che vi sbarchi anche suo fratello Oreste,
in fuga dalla Grecia. Inconsapevolmente, poco manca che Ifigenia sia costretta a ucciderlo.
Le affinità/diversità con Medea sono più d’una. Nell’immaginario greco, Tauride e
Colchide erano lande equivalenti e remote (il tòpos non sfuggirà all’apologista cristiano
latino Tertulliano: si veda qui la nota 34). Mentre Medea viaggia dalla Colchide all’Ellade,
Ifigenia compie un percorso inverso, dalla “civiltà” verso la “barbarie” anziché viceversa.
Se la prima stenta a “incivilirsi”, Ifigenia corre un rischio di “imbarbarirsi”. Entrambe sono
tagliate fuori dalla cultura di origine, condannate ad avere a che fare con una incombente
58
solitudine o incomprensione. Ambedue sono state o diventano officianti di una deità
femminile oscura, Artemide o Ecate che sia. Se Medea era stata complice nell’omicidio del
fratello Apsirto, Ifigenia stava per incorrere nel fratricidio. Si obietterà che l’ingrediente
della volontà, presente nelle scelte di Medea, difetta nelle vicende di Ifigenia. Queste ultime
sono solo sventure, mentre quella della prima sa di eufemistica avventura. Inoltre, la
dismisura delle reazioni di Medea poco ha da spartire col ritegno di Ifigenia. Ma in qualcosa
esse concordano: un acquisito, fondato sospetto al riguardo della sedicente civiltà, che a
questo punto attendibilmente riflette un sofistico scetticismo da parte dello stesso autore.
Beninteso, il sospetto nei confronti di una civiltà può essere progressista o di maniera.
Benché lungimirante, non abbiamo sufficienti elementi per poter giudicare quanto fosse
fondato quello precoce dell’Ifigenia o della Medea di Euripide, o quanto rispecchiasse un
temperamento soggettivo. La satira anti-intellettualistica e conservatrice che di lui fece il più
giovane Aristofane, reiterata nelle sue commedie, è troppo populistica e “concittadina” per
essere presa sul serio. Qualche elemento di giudizio in più abbiamo per un’età più vicina
alla nostra, quella tardo-romantica. La seconda metà dell’Ottocento non vide scemare
l’interesse per Medea, che aveva nutrito il primo Romanticismo. Se per la letteratura
abbiamo su citato gli esempi dell’inglese Augusta Webster e dell’italiano Francesco
Mastriani, assai diversi tra loro, per le arti figurative conviene riprendere il pure citato
preraffaellita inglese Frederick Sandys, per poi paragonarlo al classicista tedesco Anselm
Feuerbach. In un quadro alquanto oleografico del primo, conservato nella City Art Gallery
di Birmingham, nel 1868 Medea è ritratta come maga, vestita alla zingaresca e intenta a
preparare una pozione. Un dato biografico alquanto scandaloso all’epoca è che il pittore –
quasi novello Giasone – per questa e per altre opere utilizzò una modella di dichiarata
origine zingara, Keomi Gray, la quale fu anche sua amante per un periodo della sua vita.
Nella modernità, l’artista che sfida le convenzioni sociali è un’eccezione generalmente
tollerata e complementare, tutt’al più funzionale a una crescita graduale di quella società
anziché al mantenimento dello status quo. Per quanto irregolare e di solito transitorio, in ciò
non c’è gran che di antagonistico, tanto meno di rivoluzionario. Simile a quello di Sandys è
il caso di Feuerbach, con una sfumatura di maggiore raffinatezza psicologico-estetica.
Appassionato alla classicità, egli non fu alla ricerca di un elemento esotico nello spazio, sia
pure comodamente a portata di mano, bensì in una simulazione di passato. Da qui, un
prolungato soggiorno a Roma come per altri classicisti. Rispetto a loro, egli cercò di fare un
po’ di più. L’una dopo l’altra, scelse due belle modelle popolane, che fossero “romane di
Roma”: Anna Risi e Lucia Brunacci. Almeno la prima di esse fu anche la sua amante (ed era
già stata modella per il pittore inglese Frederic Leighton). In maniera quasi ossessiva e con
risultati notevoli, più volte Feuerbach ritrasse entrambe nei panni sia di Medea sia di
Ifigenia, come se le due eroine antiche rappresentassero facce della stessa medaglia del suo
ideale di donna. Va da sé, quest’alternanza raffigurata su tela era difficilmente sostenibile in
pratica. Così come per la zingara Keomi Gray di Sandys, pure per la trasteverina “Nanna”
Risi il ruolo di Musa ispiratrice non durò troppo a lungo, prima di tornare all’anonimato.
Se simili pettegolezzi eruditi valgono a smitizzare la terribilità di Medea, è pur vero
che la sua presunta o pretesa capacità di veicolare un sospetto nei riguardi della civiltà
egemone ne esce sminuita, se non ridicolizzata. Volendo verificare ulteriormente l’ipotesi
formulata da S. Žižek, di una Medea antagonista radicale, è meglio mettere da parte quelle
anglo-zingaresche o popolari romanesche, magari per porci un ennesimo quesito: possibile
che l’eroina non sia tornata a visitare la Grecia, pur sempre sua patria di adozione? E, se lo
59
ha fatto, in quale nuova veste si è proposta? Una risposta viene da un recente film, la cui
protagonista mostra di saper recuperare il suo smalto drammatico, simbolico e realistico a
un tempo. Basta dargliene le occasioni, che non mancano; a nostra insaputa, noi stessi
possiamo contribuire ad alimentarle. A dispetto delle edulcorazioni romantiche, il suo
Medea nunc sum riecheggia ancora. Né dimentichiamo che la moderna Medea di Alvaro
invocava sì una “fiamma portentosa”, ma contemplava anche una potenza distruttiva insita
nella Natura, la natura umana non esclusa.57 La crisi sociale e politica che la Grecia di oggi
attraversa e subisce è umiliante anzitutto per la cultura europea, tenuto peraltro conto dei
secoli di retorica su una sua grecità originaria. Di questa estesa cultura la Grecia è una
componente strutturale, tutt’altro che qualche sperduta Colchide o Tauride dei giorni nostri.
Presentata nel 2013 al Teatro Badminton di Atene, la pellicola in questione ha un titolo
singolare: Recycling Medea. Essa si avvale della regia di Asteris Kutulas, della coreografia
di Renato Zanella, della musica di Mikis Theodorakis. Il tentativo di sintesi sta nel
mescolare narrazione, danza e musica. In realtà, nasce prima la composizione musicale,
inizialmente concepita come opera lirica; poi, il balletto a essa ispirato; infine, l’adattamento
cinematrografico. Né quest’ultimo è una mera trasposizione. Le modifiche e aggiornamenti
del modello euripideo ne fanno un “riciclaggio”, il cui sfondo è appunto la crisi odierna.
Ciò, con il consenso e la collaborazione di Theodorakis. In un articolo sul giornale greco
Elefteros Typos del 7 giugno 2013, l’illustre compositore si lasciava andare a un amaro
commento. Più che l’ombra di un sospetto, una pesante accusa; paragonabile a Medea, la
Grecia stessa si sentirebbe tradita dalla civiltà che ha concorso a fondare: “Malgrado la
tragedia che è stata costretta ad affrontare da un sistema economico internazionale
criminale, la Grecia è ancora in piedi, gravemente ferita. Qui interpretate dalla ballerina
Maria Kousouni e dalla cantante Emilia Titarenko, le urla lanciate dalla Medea euripidea
scaturiscono dal tradimento, che la induce al più terribile dei crimini immaginabili: l’eccidio
brutale dei suoi figli. Diventate collettive, sono le grida che udiamo di nuovo nelle strade e
nelle piazze greche. Bersaglio di cinici attacchi dall’interno e dall’esterno, questa Grecia si
trova a essere spinta al delitto più tremendo: la soppressione del futuro dei propri figli”.
57 In un senso metaforico molto lato, cfr. Peter Ward, The Medea Hypothesis: Is Life on Earth
Ultimately Self-Destructive?, Princeton, New Jersey, U.S.A.: Princeton University Press, 2009.
60
21 – Graffito senza titolo dell’“artista di strada” greco Kostas Louzis
“Skitsofrenis” (lungo la via per l’antica Sparta: sul Monte Taigeto,
Messenia; 2010). A lato, locandina della prima del film Recycling
Medea, nel 2013 al Teatro Badminton di Atene (regia di A. Kutulas,
coreografia di R. Zanella, musica di M. Theodorakis; prima ballerina:
Maria Kousouni; voce di soprano: Emilia Titarenko)
Una matrice mediterranea
Nell’ormai lontano 1972, Gilles Deleuze e Félix Guattari pubblicavano L’anti-Edipo.
Capitalismo e schizofrenia, che resta un’incisiva critica al familismo borghese dominante
nella psicoanalisi. Fra l’altro, gli autori vi lanciavano quasi uno slogan: “Riversare il teatro
della rappresentazione nell’ordine della produzione desiderante”.58 Francamente, non
sapremmo valutare se l’inconscio somigli più a un palcoscenico o a un’“officina”, come
volevano il pensatore e lo psichiatra francesi. Si tratta pur sempre di metafore, le quali
divulgano punti di vista differenti ma anche momenti diversi del rapporto fra inconscio e
coscienza, ammesso e non concesso che questo sia di meccanico causa-effetto, senza
sostanziali interferenze da parte della realtà esistenziale o storica contingente. Se la metafora
dell’officina può riguardare la fase della trasformazione dei contenuti inconsci nelle
rappresentazioni coscienziali, quella della messa in scena teatrale ne seguita a ben esprimere
l’effettiva rappresentazione ed eventuale ulteriore trasfigurazione sulla scena – chiamiamola
così, appunto – della coscienza. Se non c’è dubbio che le nostre pulsioni inconsce o desideri
coscienti animino o influenzino l’intero processo, non necessariamente un “produttivo”
rinnovarsi dell’immaginazione recide ogni legame con una matrice archetipica di fondo.
Non di rado e in varia misura, un personaggio che si rispetti è una specie di deus ex
machina. Alle spalle dell’autore demiurgo o genitore adottivo, si presuppone l’“industria” di
un inconscio-immaginario collettivo che abbia prodotto tale mitico personaggio, e in certi
casi un vero e proprio prototipo-archetipo che insista a interagire con esso, conformandolo e
58 G. Deleuze e F. Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, trad. it. di Alessandro
Fontana da L’Anti-Œdipe, Torino: Einaudi, 1975; p. 310.
61
condizionandolo ma a sua volta lasciandosi illuminare sotto nuovi aspetti. È all’incirca così
che a poco a poco Medea diventa il simbolo personale di un dissidio tra natura e cultura, o
l’immagine individuale di una coscienza in rovinoso – e schizoide? – conflitto col proprio
inconscio. Più in generale, Medea è esemplare di una persistenza della rappresentazione, sia
pure tutt’altro che univoca e anzi al limite del proteiforme. Parafrasando un pessimista come
Arthur Schopenhauer, quasi si direbbe che la sua inestinguibile volontà-bisogno di
rappresentazione coincida con un incessante, senecano, dolor per non potersene liberare, se
non attraverso il replicante e illusorio spazio della spettacolarizzazione. Una fatica di Sisifo,
condanna e pena infernale, nonostante i generosi tentativi di assolverla o scagionarla, quale
quello eminentemente romanzato da Christa Wolf in Medea. Stimmen, “Medea. Voci”. La
ricerca di una soluzione è destinata a tradursi in un allarmante miraggio e monito, almeno
finché le contraddizioni fra natura e cultura, ovvero tra “vero” inconscio e “falsa” coscienza,
talora contrabbandati come contrasti fra barbarie e civiltà, continuino a coinvolgere un
pubblico di spettatori. Manco a dirlo, ciò garantisce lunga e sofferta vita al personaggio.
Nella storia mitologica, teatrale e letteraria, di Medea, sussiste una calzante metafora,
che stia specificamente per l’inconscio o che a questo si possa adattare? Abbiamo accennato
allo scritto anti-eretico Contro Marcione di Tertulliano, e al suo riferirsi già in antico
all’area costiera del Mar Nero, con una moralizzante prevenzione: “Là non vige che ferocia,
tant’è che essa diede alle scene i miti dei sacrifici della Tauride e degli amori della Colchide
[...] niente c’è di tanto barbaro e triste presso il Ponto...” (nihil illic nisi feritas calet, illa
scilicet quae fabulas scenis dedit de sacrificiis Taurorum et amoribus Colchorum […] nihil
tam barbarum ac triste apud Pontum...; I 1). Chiare, le allusioni alla tragedia Ifigenia in
Tauride di Euripide e all’innamoramento di Giasone e Medea, con particolare riguardo alla
terra natale di lei. Tuttavia, dalla Tauride e dalla Colchide o dal Caucaso prometeico, lo
sguardo si estende all’intero Ponto Eusino, prima che prevalesse il nome moderno Mar
Nero. Non solo per Medea da giovane, resta tale l’“oscuro” e tempestoso sfondo di
provenienza, di tanto in tanto dilagante con “feroce e barbarica tristezza” (fra le Medee
moderne, la tematica sarà ripresa ma contestata specialmente in quella di F. Grillparzer).
Per il retore latino e apologeta cristiano del Nord-Africa, la negatività di quel
paesaggio fisico e ambiente antropico era dovuta soprattutto a fattori geografici e climatici,
tali da condizionare l’indole psichica degli abitanti. Demandiamo volentieri agli
psicoanalisti il compito di indagare le ragioni di un frequente ricorso a immagini e figure
negative, per evocare una dimensione istintiva dell’esistenza – o ciò che va sotto il nome
freudiano di Es –, quasi che questo inconscio profondo sia un luogo estraneo alla coscienza.
Per i primi navigatori greci che vi si erano avventurati, compresi i leggendari Argonauti,
quel mare aveva rappresentato l’ignoto ancor più che il Mediterraneo, forse perché non
parzialmente rivierasco come il secondo né di facile accesso. All’estremo opposto e al di là,
c’era solo un “Oceano” ancor meno accessibile e definito. Sebbene non esente da pericoli
esso stesso, l’orizzonte mediterraneo rappresentò piuttosto una coscienza aurorale o,
possiamo aggiungere noi, il versante luminoso dell’inconscio. Ne fanno fede le immagini, in
genere meno oscure, dell’Odissea omerica. Notoriamente, il Mediterraneo è un mare non
chiuso ma interno, e il Mar Nero, con esso comunicante, lo è anche di più. Una curiosa
testimonianza ne è la denominazione, che subì variazioni di pari passo con la sua scoperta e
colonizzazione, riflettendo un faticoso percorso di conversione dall’alienità all’alterità.
Nella su citata quarta Pitica di Pindaro, al verso 203, il Mar Nero è ancora connotato
come Áxeinos, “Inospitale”. Infatti, degli Argonauti ivi si narra che “spinti dai soffi del
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[vento] Noto, giunsero all’imboccatura del [mare] Inospitale” (σὺν Νότου δ᾽ αὔραις ἐπ᾽
Ἀξείνου στόμα πεμπόμενοι/ ἤλυθον). Ma è pur vero che, nella quarta ode Nemea dello
stesso poeta, al verso 49, il medesimo mare viene detto Éuxeinos pélagos, “mare Ospitale”
(“nel mare Ospitale”, ἐν δ᾽ Εὐξείνῳ πελάγει). Probabilmente, la doppia denominazione già
riecheggia una transizione dall’aggettivo sostantivato primitivo “inospitale” al successivo
“ospitale”, per motivi di tenore apotropaico ed eufemistico, o semplicemente per una
maggiore familiarità acquisita con l’area geografica in questione. Il nome antico definitivo
sarà Ponto Eusino (Πόντος Εὔξεινος in greco, Pontus Euxinus in latino), là dove póntos sta
per alto mare o mare aperto. Eppure, confinato a Tomi/Costanza sul Mar Nero, nel primo
secolo dopo Cristo il latino Ovidio così si lamenterà della sua sorte: “Qui mi trattengono i
freddi lidi del Ponto Eusino,/ quello che gli antichi appellarono Axenus” (Frigida me
cohibent Euxini litora Ponti:/ dictus ab antiquis Axenus ille fuit; Tristia, IV 4, vv. 55-56).
Né è un caso che, nell’Ifigenia in Tauride, Euripide avesse preferito il vecchio nome
Áxeinos. Lo stesso arcaismo verrà adottato da Apollonio Rodio, nelle sue Argonautiche.59
Insomma, una memorabile fama di inospitalità accompagnò a lungo la nozione
estensiva dell’ambiente in cui Medea era nata e cresciuta. In senso traslato, ciò comportò un
pregiudizio sulla sensibilità e mentalità dei suoi autoctoni o oriundi, acquistando valenza
simbolica. Ma non va dimenticato che il Mar Nero è parte integrante del Mediterraneo, a
suo tempo “culla” della civiltà moderna. “Oscura” o “inospitale” che fosse, è l’altra faccia
della medaglia, di una topica che non è meno mentale per aver intanto perso la sua
geopolitica centralità. Assai più di recente, è stato il poeta siro-libanese ʽAli Ahmad Saʽid
“Adonis” a rovesciare quella medaglia, per mostrare che può resistere un punto di vista
alternativo. Vale a dire di un altro che può essere sì il medesimo, ma in una prospettiva così
ampia e lungimirante da non essere omologante, tanto meno mortificante per alcuna delle
parti in causa. L’originalità di una matrice mediterranea risiede nella tensione dialettica
insita in un inconscio colletivo, e in un immaginario comunicante, che ha potuto generare
alchimie e mediazioni culturali altrove impensabili: “Secondo la tradizione mediterranea, la
vita è un vasto campo per la conoscenza umana. Questo campo fertile contiene tutti i germi
del progresso: così come li vediamo espressi nell’epopea di Gilgamesh e nell’Odissea di
Omero (ma Sindbad è davvero altra cosa dal Gilgamesh sumerico o da un Ulisse greco
affabulato in arabo?). [...] Questa civiltà è quella che sorse nell’Oriente mediterraneo”. 60
59 Sulla dibattuta questione se la denominazione corrispondente a “Mar Nero” sia precedente o
meno rispetto a quella di “Mare Inospitale/Ospitale”, a causa di un presunta fraintesa assonanza
nella lingua greca antica, si legga Alessandro Baccarin, “Il ʻMare Ospitale’: l’arcaica concezione
greca del Ponto Eusino nelle stratificazione delle tradizioni antiche”, in Dialogues d’Histoire
Ancienne, I.S.T.A., Université de Franche-Comté, vol. 23, 1997; pp. 89-118. Sulla relazione
inversa, specificamente di Medea con una mancata ospitalità o precaria accoglienza in Grecia,
cfr. Manfred Schmeling, “La femme étrangère ou l’hospitalité refusée. Le mythe de Médée”, in
Alain Montandon (a cura di), L’hospitalité au théâtre, Clermont-Ferrand: Presses Universitaires
Blaise Pascal, 2003; pp. 61-74. Ibidem: Bertrand Westphal, “De l’hospitalité en Colchide. Das
goldene Vließ (Franz Grillparzer)”; pp. 47-59.
60 Adonis, “Le poète arabe contemporain et sa tradition”, in Jacques Berque e Jean-Paul Charnay (a
cura di), Normes et valeurs dans l’Islam contemporain, Parigi: Payot, 1966; p. 297.
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22 – Frederick Sandys, Medea (Birmingham Museum & Art Gallery;
1868); particolare di Medea di Henri Klagmann (Musée des BeauxArts de Nancy; 1868). Un paesaggio marino costiero, con la nave
Argo, è stilizzato alle spalle della Medea maga di Sandys; invece, uno
sfondo scuro caravaggesco fa risaltare la “nuda” intimità di quella
travagliata di Klagmann, prossima a commettere il filicidio
Altri saggi dello stesso autore, in italiano, ai siti Web:
http://www.scribd.com/doc/2078222/Tempo-spazio-e-narrazione
http://www.scribd.com/doc/2181646/Il-Labirinto-e-il-Mandala
http://www.scribd.com/doc/2257952/Sillogistica-figurata
http://www.scribd.com/doc/2297024/I-cigni-e-la-luna-Archeologia-dellEssere
http://www.scribd.com/doc/2531989/Nonostante-Raffaello-Altre-Annunciazioni
http://www.scribd.com/doc/2533685/Zoom-su-Ernst-Bloch
http://www.scribd.com/doc/3458860/Il-canto-delle-Sirene-o-le-voci-di-dentro
http://www.scribd.com/doc/3461604/Alcesti-la-donna-che-visse-due-volte
http://www.scribd.com/doc/38852748/Immagini-del-pensiero
http://www.scribd.com/doc/43856778/Stupor-Mundi-la-meraviglia-filosofica
http://www.scribd.com/doc/48276061/Orientalismo-stereotipi-e-archetipi
http://www.scribd.com/doc/54208474/Cinque-ritratti-di-donne-a-Palermo
http://www.scribd.com/doc/54997194/Locri-divinita-al-femminile
http://www.scribd.com/doc/57710691/Morgantina-le-dee-ricomponibili
http://www.scribd.com/doc/59895725/Antigone-e-la-Sfinge
http://www.scribd.com/doc/64657971/L-Aquila-Madonne-rosoni-e-chiostri
http://www.scribd.com/doc/69349228/Figure-della-memoria-e-dell'inconscio
http://www.scribd.com/doc/75902652/Il-Se-attraverso-l-Altro-nel-pensiero-arabo
http://www.scribd.com/doc/78041708/Archeologia-mariana
http://www.scribd.com/doc/81697121/Malinconia-nell-arte-e-in-letteratura
http://www.scribd.com/doc/104551299/Resurrezione-e-oltre
http://www.scribd.com/doc/112007180/Allegorie-del-tempo-archeologia-del-se
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http://www.scribd.com/doc/131486608/Lessico-accessorio-di-archeologia-politica
http://www.scribd.com/doc/142824623/Il-sacro-sullo-sfondo
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