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L'una e l'altra Medea

La dualità o complessità caratteriale di Medea non risiede solo nell'antica tragedia omonima di Euripide. Essa possiede una sua irriducibile psicologia archetipica, che in parte già si intravede nel mito originario e si riverbera in quasi tutti i rifacimenti o opere ispirate al personaggio e alla sua storia, fino all'epoca moderna e contemporanea. Nel saggio presente si cerca di analizzare la natura di tale vario dualismo, attraverso la produzione letteraria e artistica o filosofica pertinente, dall'antichità ai giorni nostri.

Ed ecco la confessione di una mia amica, Medea, che sta pure lei all’inferno. Kathy Acker, da In Memoriam to Identity, 1990 Teseo non poteva saperlo: sull’altro versante del labirinto c’era l’altro labirinto, quello del tempo; e da qualche parte, in un luogo preordinato, c’era pure lei: Medea. Jorge Luis Borges, da “El hilo de la fábula”, in Los Conjurados Mare che vide molti amori e grosse sventure. È necessario fare i nomi di Ariadne, Fedra, Andromaca, Elle, Scilla, Io, Cassandra, Medea? Tutte lo traversarono, e più d’una ci rimase. Vien da pensare che sia tutto intriso di sperma e di lacrime. Cesare Pavese, in “Schiuma d’onda”, in Dialoghi con Leucò Pino Blasone L’una e l’altra Medea 1 – Medea e le Peliadi ovvero Medea che inganna le figlie di Pelia, copie romane di rilievo greco non pervenutoci, rispettivamente nell’Altes Museum/Pergamonmuseum di Berlino e nel Museo Gregoriano Profano a Roma (Musei Vaticani; si noti il coltello in mano a una delle ragazze, poi trasformato in ramoscello d’ulivo) Un antagonismo radicale A ragione o a torto, sia Medea sia Antigone sono state spesso considerate espressioni di un antagonismo radicale. Tra il rivendicare di Antigone e il meditare vendetta di Medea, c’è però una palese differenza. A costo della propria vita, l’eroina dell’omonima tragedia di 1 Sofocle rivendica il diritto a seppellire il fratello Polinice, dichiarato nemico e traditore della patria comune. Ciò è da lei reclamato appellandosi a una legge ideale non scritta, naturale o divina, comunque superiore a quella decretata dagli uomini e perfino meno disumana di essa, specialmente se voluta e applicata da un despota privo di pietà e di discernimento adeguato alle circostanze. Forse non del tutto a caso, sia il re di Tebe in questione sia quello di Corinto – personaggio del dramma Medea di Euripide – si chiamano entrambi Creonte. Questo nome dovette suonare sinonimo di tirannide agli orecchi degli spettatori greci, evocando un potere politico autocratico ormai inviso soprattutto alla democrazia ateniese. Ma il Creonte euripideo risulta più ambiguo e meschino, rispetto al suo omonimo di Sofocle. Quest’ultimo è convinto di rappresentare una “ragion di Stato”, s’intende di uno “Stato etico” baluardo del bene collettivo, tant’è che egli riuscirà simpatico a G. W. F. Hegel. Il primo invece neppure dissimula un interesse privato, giustificandosi con l’argomento di anteporre i suoi figli all’amor di patria e per giunta vantandosi di magnanimità. Sua maggior preoccupazione è la propria famiglia, casata, dinastia: il plurale greco δόμους – si veda più avanti – ben esprime il concetto. Se sul secondo incombe la nemesi dell’esito della follia, il primo andrà incontro a una morte atroce, causata dalla vendetta multipla messa in atto da Medea. Nella tragedia di Euripide, se il personaggio di Giasone resta il principale antagonista della protagonista, Creonte non è da meno. E i gesti estremi di lei sembrano provocati dai comportamenti di Creonte quasi quanto da quelli dell’Argonauta, eroe decaduto ma pur sempre eroe, diversamente dal suo aspirante suocero. “Tu non mi stai certo a cuore più della mia famiglia” (φιλῶ γὰρ οὐ σὲ μᾶλλον ἢ δόμους ἐμούς): così recita eufemisticamente il re di Corinto a Medea al verso 327 dell’opera euripidea, dopo averle comunicato un’ingiunzione di espulsione immediata di lei dalla città, preventiva di ogni danno che ella possa arrecare – in quanto notoria maga se non famigerata strega – alle persone del monarca e dei suoi familiari. Sarà fatale una breve dilazione invocata da Medea e concessa da Creonte, in vena di mostrarsi generoso a buon prezzo. In realtà, la presenza della principessa immigrata dalla remota Colchide è diventata scomoda, da quando suo marito nonché padre dei suoi figli ha deciso di passare a nuove nozze con la figlia di Creonte, che questa si chiami Glauce ovvero Creusa: il secondo nome sarà preferito dagli autori latini, ai quali piacerà cimentarsi con lo stesso mito, tra cui Lucio A. Seneca. Più che antagonista, Glauce/Creusa è per Medea la figura di una rivale, lasciata per lo più in ombra dai classici. 1 Nella tragedia di Euripide non ne compare neanche il nome. Nominata più volte in quella di Seneca, non le è accordato un ruolo né voce in scena. Quanto la riguarda o le accade è riportato da altri, compresa Medea stessa. Ciononostante, la giovane e bella figlia di Creonte rimarrà vittima insieme al padre della furia vendicativa, o 1 Parziale eccezione in tal senso è l’epillio Medea, del poeta tardo latino Draconzio. Lì Creusa recupera il nome Glauce e acquista una visibilità non proprio lusinghiera, suggerita forse da una morale ormai cristiana dell’autore, che non vedeva di buon occhio le ulteriori nozze di Giasone, e di conseguenza il ruolo di Glauce quale seconda – o terza, stando a Ovidio – moglie. Anche la morte dei figli di Medea vi assume un’aura sacrificale di pagana, equivoca religiosità. Nella barocca Médée di Corneille, Creusa conquista un suo spazio anche verbale. Ma solo nella romantica Medea di Grillparzer, ella guadagna rilievo psicologico. Infine nelle Medee di Alvaro e di Pasolini, la ragazza si suicida, caricata di complessi di colpa nei confronti di Medea e dei suoi figli. Nel film del 1969, del resto Medea stessa è vittima di un conflitto fra naturalistica religiosità arcaica e dissacrante mentalità laica: cfr. Duarte Mimoso-Buiz, “Figures du miroir: confrontation de la Creusa de Corrado Alvaro (Lunga notte di Medea) et de Glauce dans Medea de Pier Paolo Pasolini”, in Revue des études italiennes 27, Parigi 1981; pp. 214-232. 2 della lucida vendetta di Medea, in maniera più direttamente letale di quanto avverrà nei confronti di Giasone. Le modalità sono note: la maga tornata a essere tale invierà doni alla novella sposa; fra essi, una veste intrisa di una sostanza auto-combustibile prenderà fuoco, appena indossata dall’ingenua e sfortunata fanciulla. Accorso invano a soccorrerla, anche il re di Corinto perirà nel rogo stregato. Agli occhi di Medea, Giasone, Creonte e Glauce, partecipano a vario titolo di una congiura a lei ostile, che suscita o resuscita una sua istintiva barbarie. Quella, che era una velata accusa altrui nei suoi riguardi, viene da lei adottata come un vessillo. Quasi un eccesso di difesa, quello di Medea è un antagonismo per antitesi, incentrato su una scissione e culminante in un’amputazione della propria personalità. Torniamo a confrontare l’Antigone di Sofocle con la Medea di Euripide e di Seneca. È giocoforza notare che il sistema familistico in difesa del quale si batte a oltranza la prima non differisce poi molto da quello che opprime la seconda, scacciandola dal proprio seno in base a una sua pretesa estraneità e pericolosità, o piuttosto per motivi di bieco opportunismo dinastico. L’eroina di Sofocle si sente in dovere di restaurare quell’ordine involontariamente violato dal padre/fratellastro Edipo – l’incestuoso “Edipo re”, appunto –, sfidando lo zio materno Creonte considerato un usurpatore. Quasi una faida interna, sebbene nobilitata e riscattata dall’idealità di Antigone, che rinuncia perfino a generare (come suggerisce il suo nome) immolando la propria vita per un eccesso di fedeltà sentimentale ai valori familiari e alla sua “vera” stirpe. Non per odio bensì per amore, lei ci tiene a specificare, ma dell’amore esistono varie accezioni. Quello della figlia/sorellastra di Edipo resta un labirinto domestico, ai cui margini in fin dei conti la polis di Tebe riveste un ruolo di partecipe spettatrice. Quella di Medea è una trappola tesa per ferirla, umiliarla ed estrometterla sia dal suo orizzonte domestico sia dalla città di adozione, ospitante se non proprio ospitale. Di conseguenza, l’antagonismo di lei appare viscerale, anziché radicale in senso politico. Ma Medea non è veramente tale, finché non tocca il fondo del nichilismo, pagando un caro prezzo di autolesionismo materno. Qui entrano in scena i suoi bambini, quegli stessi figli di cui Antigone si preclude ogni possibile parto, ponendo paradossalmente fine alla propria stirpe. Ed è Seneca a far pronunciare queste parole alla “madre snaturata”, ormai in procinto di sopprimere i figli generati con Giasone: “Ora sì sono Medea, la mia indole è maturata nel male” (Medea nunc sum; crevit ingenium malis; v. 910). Quello di Medea è una specie di suicidio parziale o omicidio vicario.2 Ulteriore paradosso, gli effetti del suicidio di Antigone non sono meno deleteri, innescando una catena di altri suicidi o di cadute nella follia. Quale atteggiamento sia più antagonista, se dell’una o dell’altra, rimane una questione aperta. 2 Cfr. Euripide, Medea, vv. 96-97: “Me sventurata, misera in mezzo a tante pene!/ Ahimè, come io desidero perire!” (ἰώ͵ δύστανος ἐγὼ μελέα τε πόνων͵/ ἰώ μοί μοι͵ πῶς ἂν ὀλοίμαν;). E la stessa così si esprime nelle Diatribe di Epitteto, II 17, in quella considerata dal filosofo l’aberrante cifra del personaggio: “Uccido i miei figli, ma così punirò anche me stessa” (ἀποκτείνω μὲν τὰ τέκνα. ἀλλὰ καὶ ἐμα υτὴν τιμωρήσομαι). Un héautontimorouménos al femminile, insomma; vengono in mente i versi di una lirica con questo titolo di C. Baudelaire: “Io sono il sinistro specchio/ in cui si rimira la strega:// coltello e ferita,/ schiaffo e guancia,/ membra e ruota,/ vittima e carnefice”. 3 2 – Medea che medita di sopprimere i figli, affresco pompeiano proveniente dalla Casa dei Dioscuri, forse copia di un dipinto del greco Timomaco (a lato, particolare: Museo Archeologico Nazionale, Napoli; prima del 79 d. C.). Fra l’altro, vi si ispira una Medea narrata dal francese Pascal Quignard, Bordeaux: Ritournelles, 2011 L’archetipo del rifugiato3 Più o meno nei termini di cui sopra e nella scia dello psicoanalista neo-freudiano Jacques Lacan, la questione è stata posta e attualizzata da Slavoj Žižek. Il filosofo sloveno 3 Per quanto concerne il concetto stesso del rifugiato, è notevole un intervento attualmente in fase di elaborazione: Between Homeland and Exile: Witnessing the Homo Sacer at the Heart of Hotel Medea, specialmente là dove l’autrice Julia Boll si rifà al pensiero contemporaneo di Giorgio Agamben (si veda al sito Web http://www.firt2013barcelona.org/participants-inf/?pdb=904). Altro saggio tematicamente analogo ancora in corso di stampa è di Ioanna Karamanou, “Otherness and Exile: Euripides’ Production of 431 BC”, in D. Stuttard (a cura di), Looking at Medea, Londra: Bloomsbury Press, presumibilmente 2014. 4 non ha celato una predilezione per la figura di Medea, rivalutandola anzi come una “antiAntigone”. In nota a un articolo del 2004, egli così riassume la sua posizione: “Antigone si può ancora leggere come paladina delle radici familiari particolari, contro un’universalità dello spazio pubblico del potere statale; al contrario, Medea dis-universalizza quel potere universalizzante in sé e per sé”.4 In effetti, in un’ottica moderna e sia pure in maniera occasionale, Antigone è stata più volte avvertita come una contestatrice dall’interno del sistema. Ciò, almeno a partire dalla riscrittura teatrale del mito di Jean Anouilh nel 1941-43, in sfida alla censura collaborazionista durante l’occupazione nazista della Francia. 5 Medea è piuttosto una sabotatrice accidentale calata dall’esterno, rispetto al contesto socio-politico-culturale in cui è venuta a trovarsi. In quest’ambiente ha cercato di integrarsi, guadagnandosi ad esempio comprensione e solidarietà – non connivenza e complicità – delle donne di Corinto rappresentate nel coro della tragedia di Euripide. Esse recitano il ruolo di una sorta di Super-io freudiano al femminile, talora in contrasto con una mentalità della protagonista, che ha potuto avvalorare una fama di misoginia dell’autore. 6 È stata la scoperta a sue spese che la civile società greca, anche perciò promotrice di una politica coloniale “argonautica”, non è retta da principi tanto meno patriarcali della nativa Colchide, a risospingerla verso una sostanziale estraneità e avversità, o al tentativo di recuperare un’identità ormai deformata e aberrante. Nell’ovidiana lettera di “Medea a Giasone”, già si legge di una Medea, la quale proclama di se stessa: “Io sono quella, che per te infine è diventata una barbara” (Illa ego, quae tibi sum nunc denique barbara facta; v. 105). Per la verità, non mancano precedenti nella mitica storia personale di Medea: addirittura omicidi in ambito familiare e non, commessi da lei trascinata dalla passione per Giasone e che le impediscono un ritorno in patria o un possibile asilo altrove, con la diplomatica eccezione di Atene che vedremo in seguito. Nella versione di Euripide, peraltro 4 S. Žižek, “Death’s Merciless Love”, al sito Web Lacan.com, http:lacan.com/zizek-love.htm; nota 25 (nostra traduzione). Si veda anche Žižek, Interrogating the Real, a cura di R. Butler e S. Stephens (Continuum, 2006), pp. 358-359 e 363. E si legga R. Butler, “Antigone and Medea”, in Slavoj Žižek: Live Theory, Londra e New York: Continuum, 2005; pp. 99-109. Il tema non ricorre solo nelle opere di Žižek; pure riferito a Lacan, si ritrova presso un’altra pensatrice slovena: Renata Saleci, Sexuation, Durham, U.S.A.: Duke University Press, 2000; pp. 17-20. 5 Nel 1946 Anouilh compose pure il dramma Médée, dove sullo sfondo socio-politico si inserisce il quadro esistenziale di una crisi di coppia e dei rancori che la travagliano. La circostanza che questa Medea sia non solo straniera, ma anche nomade, ne esaspera la solitudine e contribuisce all’epilogo, che comprende il suo suicidio. Almeno da Anouilh in poi, sta di fatto che non c’è quasi situazione di crisi, sociale o politica ed esistenziale, che non abbia espresso la sua artistica Medea, in un raggio internazionale. Cfr. Diantha Joanne Pinner, Scheler’s Theory of the Tragic Phenomenon: Euripides’ The Medea and Jean Anouilh’s Médée, University of North Carolina at Chapel Hill, U.S.A. 1980 (dissertazione). 6 In particolare, si vedano i vv. 407-409: “Per giunta la natura/ ha reso noi donne non proprio versate nelle buone azioni,/ ma artefici assai sapienti di tutte quelle cattive” (πρὸς δὲ καὶ πεφύκαμεν/ γυναῖκες͵ ἐς μὲν ἔσθλ’ ἀμηχανώταται͵/ κακῶν δὲ πάντων τέκτονες σοφώταται). Si può ben leggere questi versi in un’accezione ironica, non diversamente dal v. 928, dove Medea, abile simulatrice, gioca con un altro stereotipo: si sa, “La donna è debole e facile al pianto”. 5 Creonte le impone di portare con sé i figli nel nuovo esilio, anche se una revoca successiva viene ingannevolmente richiesta e quasi ottenuta dalla stessa Medea. È quanto in quella di Seneca le viene negato, così che i bambini le verrebbero sottratti e affidati a Giasone e Creusa perché li allevino, beffa aggravante il danno della perdita per la madre. Tutti questi elementi hanno fatto sì che, in epoca a noi contemporanea, al motivo di un irriducibile antagonismo si affiancasse lo schema interpretativo di quello che può definirsi “archetipo del rifugiato”. Esso già emerge con forza in un altro rifacimento drammatico, la Lunga notte di Medea, composto nel 1949 e influenzato dal latino Ovidio oltre che da Euripide. 7 Vale la pena di rileggere le parole dell’autore Corrado Alvaro, per il quale gli orrori della seconda guerra mondiale erano ricordi recenti, e tuttavia il suo commento suona preveggente e ancora attuale: “Studiando le origini del mito, trovavo un appiglio ben moderno, che è poi il senso di questo fatto terrificante alle sue origini. Medea mi è apparsa un’antenata di tante donne che hanno subito una persecuzione razziale e di tante che, respinte dalla loro patria, vagano senza passaporto da nazione a nazione, popolano i campi di concentramento e i campi profughi. Secondo me, ella uccide i figli per non esporli alla tragedia del vagabondaggio, della persecuzione, della fame: estingue il seme di una maledizione sociale e di razza, li uccide in qualche modo per salvarli, in uno slancio di disperato amore materno” (nell’articolo “La Paplova e Medea”, su Il Mondo, 11/3/1950). In effetti, la Medea di Alvaro uccide i figli, per sottrarli al linciaggio di una folla inferocita. Alvaro era consapevole delle obiezioni, cui il suo giustificazionismo etico-umanitario lo avrebbe esposto, ma che rientrano in una dialettica culturale ancor prima che civile. Va comunque notato, all’interno dell’“archetipo del rifugiato” che egli contribuisce a rifondare in senso laico (non si dimentichi una ricca tradizione cristiana, relativa alla fuga della Sacra Famiglia in Egitto), sono enucleate componenti sociali e razziali, le quali possono agire per loro conto. Non necessariamente la condizione di profugo coincide con fenomeni di disagiodegrado sociale o di persecuzione razziale, politica o religiosa, benché questi ultimi di frequente accompagnino l’esule oppure l’immigrato e infieriscano su lui, più facilmente su lei (“la straniera”, di Alvaro). In merito, piace rammentare un paio di antecedenti, il primo dei quali assume la forma letteraria di un romanzo popolare ispirato a fatti di cronaca, mentre l’altro è un episodio storico, che in seguito ispirerà opere d’arte o di letteratura e un’opera lirica. Il primo è ambientato a Napoli; il secondo, negli Stati Uniti d’America. Pubblicato nel 1882 da Francesco Mastriani, La Medea di Porta Medina narra di Coletta Esposito, abbandonata da piccola in orfanotrofio. A diciotto anni, viene fatta sposare con un quarantenne. Ma lei si sottrae a ogni rapporto e alla convivenza con l’estraneo. Innamorata di un impiegato nell’istituto in cui è cresciuta, ne diviene l’amante, andando a 7 Si legga Marinella Lizza Venuti, “Ovidio modello di Lunga notte di Medea di Corrado Alvaro”, in Carte Italiane vol. 2, 2007, Los Angeles: UCLA, UC, Department of Italian; pp. 59-68 (http://www.escholarship.org/uc/item/85w7f642). In particolare, vi si esamina l’influenza delle Heroides di Ovidio sull’opera di Alvaro. Suona qui pertinente una frase pronunciata da Medea, nell’ovidiana lettera XII, di “Medea a Giasone”: “Se mi disprezzi, volgi lo sguardo ai nostri nati:/ una crudele matrigna infierirà contro chi ho partorito,/ e che fin troppo ti somiglia...” (Si tibi sum vilis, communis respice natos:/ saeviet in partus dira noverca meos./ Et nimium similes tibi sunt...; vv, 187-189). Non diversamente da Euripide prima, e poi da Seneca, il poeta latino fu pure autore di una tragedia intitolata Medea, che però non ci è giunta. Specialmente per Ovidio, altra fonte greca possono ben essere stati i canti III e IV del poema Le Argonautiche di Apollonio Rodio, tradotto in latino da Publio Terenzio Varrone Atacino (né mancherà una riscrittura latina incompleta, gli Argonautica del poeta epico di età imperiale flavia Gaio Valerio Flacco). 6 vivere nel “basso” di Porta Medina e mettendo al mondo una bambina, che si affeziona al padre. Nonostante ciò e lo scioglimento del matrimonio di Coletta, il giovane sposa un’altra ragazza. Folle di gelosia, la protagonista strangola la figlia, perché non debba vivere una vita come la sua, e accoltella la rivale. Verrà poi condannata e giustiziata. Meno romantica ma reale è la vicenda dell’afro-americana Margaret Garner, dove prevale l’elemento della discriminazione razziale, anzi della schiavitù. Schiava fuggitiva, nel 1856 sarà catturata e ucciderà la figlia di due anni, tentando di farlo con gli altri figli per impedire che tornassero a essere schiavizzati. Sottratta al suicidio e sottoposta a processo, non fu condannata per l’infanticidio bensì restituita al suo padrone, malgrado le proteste degli abolizionisti. 8 3 – Medea in procinto di uccidere i suoi figli, gruppo scultoreo galloromano, particolare del viso di Medea e veduta d’insieme (Musée de l’Arles et de la Provence antiques; sec. II-III d. C.) La sindrome di Medea In via sottilmente retorica, dalla parte di Medea si schiera pure una riflessione del greco Epitteto, nelle Diatribe: “Dunque, perché vi indignate con l’infelice donna, che si ingannò su questioni di fondo, a tal punto da agire da vipera anziché da essere umano? 8 La Medea di Porta Medina conoscerà una versione televisiva del 1981 e una teatrale del 1991, di produzione italiana. Ma già nel 1901 ne fu tratto e rappresentato, al Teatro S. Ferdinando di Napoli, un “dramma napoletano” in ben sette atti. È da notare come lo stereotipo della donna meridionale istintiva di Mastriani sia differente da quello della “straniera” elaborato da Alvaro, nonostante che entrambi gli autori competano alla stessa cultura mediterranea profonda. Fra le opere d’arte e di letteratura invece ispirate all’episodio di M. Garner vanno ricordati almeno un quadro dipinto da Thomas Satterwhite Noble nel 1867, The Modern Medea, e il romanzo Beloved scritto da Toni Morrison nel 1987 (sul romanzo, non senza rievocare la Medea classica, si sofferma S. Žižek nella sua lacaniana “The Superego and the Act”, conferenza del 1999 riportata al sito Web http://www.egs.edu/faculty/slavoj-zizek/articles/the-superego-and-the-act/). 7 Abbiatene pietà, come di un cieco o di uno storpio...” (I 28). Va da sé, la cecità o deformità fisica, cui allude il filosofo claudicante ed ex-schiavo, è metafora per una malattia morale o sopraggiunta insania. Gli stoici Seneca ed Epitteto erano comunque avversi a una passionalità, la quale sfugga a ogni controllo razionale. D’altro canto, per inciso Aristotele nella Poetica aveva affermato: “Agli antichi era usuale rappresentare personaggi del tutto consapevoli, come pure ha fatto Euripide con Medea, mentre uccide i propri figli” (1453 b). L’eroina filicida avrebbe quindi agito nel pieno possesso delle facoltà mentali, il che escluderebbe un eventuale raptus incontrollabile. E il discorso dello stesso Epitteto parte da una citazione dalla Medea di Euripide, non esente da ambiguità: “Ben so quali misfatti sto per commettere,/ ma mi urge nel petto un sentimento più forte della volontà” (καὶ μανθάνω μὲν οἷα δρᾶν μέλλω κακά͵/ θυμὸς δὲ κρείσσων τῶν ἐμῶν βουλευμάτων – vv. 1078-1079; si confronti con l’analogo verso 20 nelle Metamorfosi di Ovidio, libro VII: “Vedo e approvo le cose migliori, eppure seguo le peggiori ”, Video meliora proboque, deteriora sequor). Su quale sia tale sentimento, o risentimento, se ce ne fosse bisogno può illuminarci il finale dell’ovidiana lettera di “Giasone a Medea” su citata: “Andrò dove mi conduce l’ira, e di questo forse mi pentirò/ così come mi pento delle cure avute per un uomo infido./ Su tutto ciò vegli quel dio, che ora mi sconvolge il cuore,/ poiché non so quale enormità la mia mente sta certo meditando!” (Quo feret ira, sequar! Facti fortasse pigebit –/ et piget infido consuluisse viro./ Viderit ista deus, qui nunc mea pectora versat!/ Nescio quid certe mens mea maius agit!; vv. 209-212). Ancor più che di ira, si tratta di amore-odio. 9 Ma occorre tenere in conto un particolare: la missiva immaginata da Ovidio termina prima dei tragici eventi che rendono Medea un’autentica Medea, per dirla con Seneca. In ogni caso la dicotomia fra mente e animo, tra ragione e volontà, su cui gli autori qui considerati concordano, rasenta una dissociazione della personalità. 10 Ancor prima di esprimere un antagonismo diretto all’esterno, è la stessa dialettica interna al personaggio a diventare antagonistica. E il suo sentirsi davvero Medea, solo quando la peggiore delle componenti in gioco abbia prevalso in maniera irreversibile, somiglia a un’esaltazione di tipo maniacale. Da un’angolatura filosofica, assistiamo a una specie di drammatica traduzione della 9 Cfr. L. A. Seneca, Medea, vv. 397-398: “Vuoi sapere, o misera, un limite da porre all’odio?/ All’incirca, lo stesso che al tuo amore” (Si quaeris odio, misera, quem statuas modum,/ imitare amorem). Quanto al dio cui accenna Ovidio, sembrerebbe Eros, ma la sua ambiguità lo rende un Eros dionisiaco, se non Dioniso stesso; esso compare pure in un frammento della perduta tragedia ovidiana Medea: “Vengo trascinata di qua e di là, guai a me, invasata dal dio” (Feror huc illuc, vae, plena deo). Cfr. Antonio Martina, “La Medea di Seneca e la XII delle Heroides di Ovidio”, in Il potere e il furore. Giornate di studio sulla tragedia di Seneca, a cura di Roberto Gazich, Milano: Vita e Pensiero, 2000; pp. 3-29. 10 Prima che in Seneca il contrasto si trova espresso in Euripide, ad esempio nella tragedia Ippolito ai vv. 313-315, dove il personaggio convenzionale della nutrice apostrofa Fedra futura suicida: “Vedi, tu sai ragionare saggiamente, eppure non vuoi/ giovare ai tuoi figli e salvare la tua stessa vita”. E Fedra replica: “Amo i miei figli, ma altro destino mi travolge”. Equiparare tale dissidio a quello moderno fra coscienza e inconscio sarebbe azzardato. Benché in misura diversa, tuttavia su entrambe le mitiche “straniere”, Fedra e Medea, gravano trascorsi familiari in grado di suscitare sensi di colpa e relative rimozioni o sostituzioni. Nemmeno un’altra eroina di Euripide, la virtuosa Alcesti, ne è del tutto esente, non essendo riuscita a impedire che proprio Medea approfittasse delle sorelle per far loro uccidere il padre Pelia, antagonista di Giasone nella città di Iolco (su questo antefatto, nel 455 Euripide fece rappresentare le Peliadi, dramma andato perso). 8 potenza in atto. Si tratta però di intendersi sul carattere, patologico o meno, di questa potenzialità e di tale processo. Da un punto di vista psicologico, il gesto che Medea sta per compiere si configura come l’atto rivelatore culminante, modernamente teorizzato da J. Lacan. Probabilmente, grazie a un’analisi sintomatica e terapeutica esso potrebbe essere intuito e prevenuto, nel soggetto che sia affetto da una sindrome del genere, in gran parte masochistica. Oltre che punire, la maga oriunda del Caucaso intende punirsi, come pure argomentato dall’antico Epitteto per primo nelle sue Diatribe (si veda qui la nota 2). Nello specifico, nondimeno l’agire di lei mira a demolire l’antagonista principale, l’ex partner verso cui prova gelosia e rancore. Ammesso che ciò sia fattibile, disarticolare il nuovo contesto sociale di lui appare insufficiente. In una certa misura, è una tattica per isolare e meglio centrare l’obiettivo strategico di decostruire la soggettività dell’altro, anche a rischio della propria. L’intima connessione fra i due soggetti si ricostituisce così illusoriamente, tramite non la scoperta di un valore aggiunto, bensì una radicale traumatica privazione. Il nocciolo morboso sta nel “dettaglio” che l’oggetto di privazione, controverso o conteso che sia e sostitutivo a un tempo, sono i figli della coppia (anziché meno innocenti lettere d’amore, come in uno scritto di Lacan qui appresso citato). Quegli stessi figli che, se non altro a causa della loro età, hanno scarsa o nulla voce in capitolo. I loro nomi Mermero e Ferete ci sono tramandati dal mitografo latino Igino. Nel finale del dramma di Euripide essi emettono brevi e vane invocazioni di aiuto, meglio comunicando con lo sguardo e il sorriso, non abbastanza però da convincere la madre a risparmiarli: “Ahi, perché mi guardate con quegli occhi, figli,/ e perché mai voi sorridete con l’ultimo sorriso? (φεῦ φεῦ· τί προσδέρκεσθέ μ’ ὄμμασιν, τέκνα;/ τί προσγελᾶτε τὸν πανύστατον γέλων; – vv. 10401041). Un’eccezione un po’ più eloquente è nella solita missiva di “Medea a Giasone”, lettera del disamore più che d’amore, dodicesima delle Eroidi di Ovidio: “Madre, accorri: mio padre Giasone vestito d’oro/ sprona cavalli al traino in testa a un corteo [nuziale]!” (Huc modo, mater, adi! Pompam pater, inquit, Iason/ ducit et adiunctos aureus urget equos!; vv. 151-152). Pronunciando queste semplici frasi, di sicuro il figlio più piccolo di Medea non può sapere di stare anticipando la sentenza di morte propria e del fratellino. 11 In “Giovinezza di Gide o la lettera e il desiderio”, articolo apparso sul n. 131 della rivista Critique nel 1958, Lacan citò la Medea di Euripide e si soffermò sul personaggio, definendolo “una vera donna”. Lo fece in maniera non solamente trasversale ma ambigua, tanto da procurarsi travisamenti e polemiche, non esclusa qualche resistenza femminile a riconoscersi in un simile modello. Forse egli meglio avrebbe fatto a parlare di “vera Medea” 11 Non vale la pena di riportare le scontate frasi lamentose di uno dei figli di Medea, nella Medea di Osidio Geta. Altre sono le particolarità notevoli di questo centone virgiliano in latino, su cui avremo occasione di tornare qui in seguito. Cfr. O. Geta, Medea, a cura di Giovanni Salanitro, Roma: Edizioni dell’Ateneo, 1981; Paola Francesca Moretti, “La Medea di Osidio Geta, una tragedia in miniatura...”, in Aevum. Rassegna di scienze storiche linguistiche e filologiche, vol. 84, n. 1, 2010 , Milano: UCSC, pp. 269-284; Anke Rondhol, The Versatile Needle: Hosidius Geta’s Cento “Medea” and Its Tradition, Berlino: Walter de Gruyter, 2012; Martha Malamud, “Double, Double: Two African Medeas”, in A. J. Boyle (a cura di) Roman Medea, Melbourne, Australia: La Trobe University, 2012 (Ramus, 41:1/2), pp. 161-189. 9 sulla scorta di Seneca, secondo quanto ironizza Martha C. Nussbaum in Terapia del desiderio: teoria e pratica nell’etica ellenistica: “Seneca era uno psicologo più grande di Lacan, e tutto quel che c’è da dire sulla sua opera teatrale può essere detto benissimo parlando dell’opera stessa”. La battuta della pensatrice classicista fa il paio con un retorico interrogativo posto dalla studiosa pure statunitense Ruth Morse: “[Medea] è sempre stata un modello per ciò che i maschi temono?”.12 Conviene quindi spolverare e adoperare in breve gli arnesi convenzionali dell’analisi freudiana, anche se qui ci si muove nell’ambito di una meta-psicologia o filosofia della psicoanalisi, non certamente della psicologia applicata. Nella Poetica, non aveva tutti i torti Aristotele quando criticava che nelle tragedie di Euripide il coro non recita come un vero e proprio personaggio. Nella Medea euripidea, esso è qualcosa di più, non solo numericamente parlando. Sebbene siano importanti interlocutori minori, la nutrice e il pedagogo, sono le donne corinzie a interpretare il Super-io, sia pure acquisito, della “straniera”. Al contrario del coro della Medea di Seneca, formato da Corinzi che le mostrano iniziale ostilità, esse si immedesimano in lei fino a un limite che, se varcato, muta la ragione in torto. E rendono il dissidio interno al personaggio, tra il suo Ego e il proprio Es, una dialettica proiettata all’esterno, o viceversa. Meglio diremmo che l’io di lei è conteso fra quel Super-io e il proprio Es. Fallendo in un compromesso tra i primi due, Medea finisce per lasciare il suo io in balìa dell’Es, in quella che è una fatale regressione. Lacan sbagliava, assegnando a questo “lato oscuro” dell’inconscio un’esclusiva etichetta femminile. Pur non essendo asessuato, per definizione un Id o Es tende alla neutralità. Ci sono stati padri che hanno ucciso figli o stavano per farlo, come Abramo messo alla prova dal Dio biblico. Essi hanno suscitato minor scandalo, perché non incarnavano lo stereotipo della madre dedita alla prole. È pur vero, la Medea secondo Ovidio premeditava di uccidere i figli, anche per sottrarli alle sevizie inflitte dallo stereotipo di un’eventuale matrigna... 13 12 M. C. Nussbaum, “Serpenti nell’anima: una lettura della Medea di Seneca”, in op. cit., trad. it. di Nicoletta Scotti Muth, Milano: Vita e Pensiero, 1998; p. 502, nota 13. E, nell’originale, R. Morse, The Medieval Medea, Woodbridge, Suffolk UK: Boydell & Brewer, 1996; p. 239 (Has she always been a model for what men fear?). 13 Si veda la nota 7. Nella Medea di Seneca, v. 847, l’epiteto noverca, “matrigna”, è ironicamente abbinato al titolo domina, “signora, padrona”, e riferito alla nuova moglie di Giasone, Creusa, da parte di Medea rivolta in maniera subdola ai figli. Nella Phaedra pure di Seneca, il luogo comune risuona in un’invettiva misogina di Ippolito: “e non parlo delle matrigne; più miti sono le belve./ …/ Ti invidio, padre:/ costei è anche peggio della tua matrigna della Colchide” (taceo novercas: mitius nil est feris./ …/ genitor, invideo tibi:/ Colchide noverca maius hoc, maius malum est; vv. 558 e 696-697). Si tenga presente che Fedra è mitica matrigna di Ippolito, ma quella di suo padre Teseo era stata Medea, nel testo nominata altrove esplicitamente. L’antitesi madre-matrigna sarà un tema sviluppato specialmente nella Medea minore di Draconzio. 10 4 – Giovanni Benedetto Castiglione detto Il Grechetto, Medea (collezione privata W. Worsley, Regno Unito; fra il 1630 e il 1664) In un’ottica femminile Nella sua tragedia Fedra, versi 563-564, Seneca mette in bocca al personaggio di Ippolito queste parole: Sileantur aliae: sola coniunx Aegei,/ Medea, reddet feminas dirum genus, il che si può liberamente tradurre: “Per tacere delle altre, il solo esempio della moglie di Egeo,/ Medea, getta un’ombra di perversità sul genere femminile”. Stando al mito nella versione adottata da Euripide, Ippolito aveva qualche motivo di risentimento familiare, nel formulare un’opinione del genere, visto che Egeo era il suo nonno paterno. A differenza di quella di Seneca, la Medea euripidea è come se non si concludesse con la strage dei figli da parte della protagonista e la sua fuga per gli spazi celesti su un carro volante (trainato da draghi alati). Successivi sviluppi possono intravedersi nel terzo episodio, narrante l’incontro fra Medea e il re Egeo in trasferta, attraverso una finestra la quale sembra aperta più per compiacere i concittadini di Euripide che per soddisfare una curiosità generale. Giunta più o meno miracolosamente ad Atene, Medea vi verrà accolta da Egeo, il quale la sposerà per averne un erede al trono, in quanto timoroso di una infertilità che la maga poteva curare. Altre fonti specificano che a un certo punto ricompare un figlio adulto, Teseo, il quale il re ateniese pensava di aver perso e che stenta a riconoscere. Già madre di un figlio appena avuto con Egeo, Medea insinua che Teseo sia un impostore e istiga il maturo marito a disfarsene per mezzo di un veleno da lei preparato. 14 Prima che ciò possa accadere, si ha il 14 Narrato nella tragedia perduta Egeo, composta da Euripide intorno al 440 a. C. (Medea aveva esordito in scena ad Atene nel 431), l’episodio è grossomodo ricostruibile attraverso fonti greche quali Diodoro Siculo, Pausania, Plutarco, lo Pseudo-Apollodoro, ma anche riferimenti latini quali nelle Fabulae di Igino o nel frammento 149 di Ennio, probabile superstite di una Medea 11 riconoscimento di Teseo da parte del padre, in base a un segno inoppugnabile. Così Medea deve abbandonare di nuovo il campo e riprende la via dell’esilio, questa volta pare senza l’ausilio di un carro a disposizione, prestato da Elio dio del sole. La commistione tra vicende fin troppo umane e interventi sovrannaturali, non sempre edificanti, non doveva disturbare gran che il pubblico dell’epoca. A ogni buon conto, nel suo finale Seneca fa proferire una scettica invettiva a Giasone, primo marito di Medea: “Vattene dunque per gli spazi più alti del cielo,/ a riprova che, ovunque arrivi, non esistono dei” (Per alta vade spatia sublimi aetheris,/ testare nullos esse, qua veheris, deos; vv. 1026-1027. Gli farà eco la Medea di Pasolini: “Niente è più possibile ormai”, dove “niente” può anche intendersi “il niente”). Il poco fortunato soggiorno ateniese di Medea, che sancisce una sua incompatibilità e definitivo distacco dalla società greca antica in via di evoluzione, sarà un tema riproposto soprattutto nel melodramma barocco fra Seicento e Settecento, con abbondanza di licenze poetiche e titoli variabili: da Medea in Atene a Teseo in Atene, o semplicemente Teseo.15 Meno ci si aspetterebbe che esso venisse rielaborato in età vittoriana, nell’Inghilterra preraffaellita della seconda metà dell’Ottocento, e finalmente da un’autrice. 16 La poetessa Augusta Davies Webster pubblicò nel 1868 una sua traduzione inglese della Medea di Euripide, e nel 1870 una raccolta di poemetti intitolata Portraits, “Ritratti”, fra cui “Medea ad Atene”. Quest’ultimo è in realtà un soliloquio, che chiaramente emula il famoso monologo di Medea in Euripide ai versi 1019-1080, o la su più volte citata lettera ovidiana di “Medea a Giasone”; diversa è la collocazione ambientale e temporale: se la ancor giovane Medea di Ovidio è nostalgica dei bei tempi, quella della Webster ambisce all’oblìo. 17 exul: evidentemente, il tema dell’esilio non è una sovrapposizione moderna, se già il poeta immigrato a Roma dalla Magna Grecia aveva intitolato così una sua tragedia. Quanto al figlio di Medea ed Egeo, egli si chiamava Medo, e una leggenda storico-politicamente orientata lo volle progenitore o eponimo dei Medi e dei Persiani, nemici dei Greci nelle cosiddette guerre persiane. L’ostilità di Medea si sarebbe così perpetuata e amplificata, attraverso la sua discendenza. Una tragedia del drammaturgo latino Marco Pacuvio (ca. 220-130 a. C.), di cui restano pochi frammenti, fu appunto dedicata a Medus, basandosi su un precedente greco a noi ignoto. 15 La fortuna di Medea nel melodramma culminò in quello musicato da Luigi Cherubini, del 1797. In un ambito strettamente teatrale, vanno menzionati almeno la barocca Médée di Pierre Corneille, del 1635; i due preromantici Medeadramen di Friedrich Maximilian von Klinger, nel 1786 e nel 1790; la Medea romantica di F. Grillparzer, del 1821 (si legga qui più avanti). In particolare, una lettura psicoanalizzante della tragedia di Corneille è il capitolo “Mythifying Matrix: Corneille’s Médée and the Birth of Tragedy”, in Mitchell Greenberg, Corneille, Classicism and the Ruses of Symmetry, New York: Cambridge University Press, 1986; pp. 16-36. 16 Per la verità, nella pittura preraffaellita Medea fu un soggetto frequente. Almeno due donne la dipinsero: Valentine Cameron Prinsep ed Evelyn De Morgan. Nel primo caso l’eroina è munita della solita spada (Southwark Art Collection; 1880); nel secondo, di un’ampolla contenente attendibilmente un filtro magico (Williamson Art Gallery, Birkenhead; 1889). Ma il quadro più eccentrico è di Frederick Sandys, opera su cui avremo modo di tornare qui più avanti. 17 Più che monologo, un dialogo con un coro di donne paesane, scritto in un italiano con caratteri dialettali, sarà il recitativo “Medea”, in Tutta casa, letto e chiesa. Monologhi satirici sulla condizione della donna di Franca Rame e Dario Fo, Verona: Bertani, 1977. In Italia, va pure segnalata una saggistica di studiose, su vari aspetti della tematica: Silvana Rocca, Giasone e Medea: Epos ed Eros, Genova: Tilgher, 1979; Margherita Rubino e Chiara Degregori, Medea 12 Questa Medea in prima persona fa un mesto consuntivo della sua vita e del suo essere diventata “veramente Medea”, a oltranza rivolta a Giasone in occasione della notizia della sua morte. Ancor più che un’eco della trascorsa passione amorosa, vi si avverte lo sfondo pregresso di due inscindibili benché separate e parallele solitudini. Paradossalmente, il venir meno dell’antagonista crea un vuoto nell’animo di lei, in cui precipitano tutti i peggiori ricordi senza potersi cancellare ma acquistando un’evidenza allucinatoria. Invano e fino all’ultimo Medea cerca di convincersi di aver dimenticato, senza persuadere il lettore, poiché la grande simulatrice non è più in grado di simulare con se stessa. È il crollo psicologico della “vera Medea”, che riduce pure lei simile a un fantasma, né c’è un’“altra Medea” pronta a sostituirla. Un po’ come nel finale del Don Chisciotte di Cervantes, a causa di un trauma improvviso il doppio di sé si dissolve, ma anche l’io perde ogni sostegno. In un fittizio dialogo col fantasma di Giasone, nel momento della verità, la Medea visionaria della Webster fa fatica a rivangare vecchi sarcasmi. Ella diventa però autoironica, se allude al matrimonio con Egeo, alla sua artificiosa e arrischiata condizione: “Io, una moglie invidiata [...] Forse, non sono una moglie felice?” (I an envied wife [...] Am I no happy wife?; vv. 161 e 252). Tremenda è l’accusa, rivolta al suo ex-compagno: “anima dei miei crimini,/ come potrei perdonarti, per ciò che sono?” (soul of my crimes,/ how shall I pardon thee for what I am?; vv. 218-219). All’amarezza, si accompagna tuttavia un impossibile rimpianto, quando la presa di coscienza della realtà fa tornare Medea alla terza persona, riferita all’eroe defunto: “L’amore ci avrebbe mantenuto vicini, se egli fosse morto/ ai bei tempi? Sì, anch’io avrei dovuto morire allora:/ ce ne saremmo andati insieme, mano nella mano,/ rendendo il fosco Ade glorioso l’uno per l’altra” (Would love have kept us near if he had died/ In the good days? Tush, I should have died too:/ We should have gone together, hand in hand,/ And made dark Hades glorious each to each; vv. 173-176). Se comunque la Webster, in Medea in Athens, non assolve Medea per il filicidio, una scrittrice recente addirittura lo nega. Non senza qualche fondamento filologico, la tedesca Christa Wolf ha sostenuto che, nel mito arcaico, furono gli abitanti di Corinto a trucidare i figli di Medea, e che questa verità mitica sarebbe stata alterata da Euripide o da chi lo aveva preceduto in tal senso. È più probabile che essa sia solo una variante del mito “originario”. 18 contemporanea: Lars von Trier, Christa Wolf, scrittori balcanici, Genova: D.Ar.Fi.Cl.Et., 2000; Giovanna Petrone, “Medea, le Medee”, in Scienza, cultura, morale in Seneca. Atti del convegno di Monte Sant’Angelo, Santo Spirito, Bari: Edipuglia, 2001 (pp. 115-129); Angela Votrico, La giustizia di Medea e il doppio volto del materno, Roma: Aracne, 2004; Paola Pedrazzini, Medea fra tipo e arche-tipo. La ferita dell’amore fatale nelle diagnosi del teatro, Roma: Carocci, 2007. 18 Il riscatto di Medea da parte della Wolf ha un suo precedente presso la veneziana Christine de Pizan, nel Livre de la Cité des Dames, scritto in Francia tra il 1404 e il 1405. Nel dibattito accademico ed erudito, si è anche sostenuto che l’invenzione del filicidio da parte di Medea non fosse di Euripide, bensì del tragediografo a lui contemporaneo Neofrone di Sicione. Entrambi potevano però rifarsi a qualche tradizione a noi ignota. Comunque, a favore di Euripide depone l’elemento del simile mito ateniese di Procne, cui egli potrebbe essersi ispirato. Cfr. Fabio Caruso, “Medea senza Euripide. Un frammento attico da Siracusa e la questione della Medea di Neofrone”, in R. Gigli (a cura di), MEGALAI NESOI. Studi in onore di Giovanni Rizza per il suo ottantesimo compleanno, Catania 2005; pp. 341-354 (reperibile anche al sito Web http://www.academia.edu/1311345/Medea_senza_Euripide_un_frammento_attico_da_Siracusa_ e_la_questione_della_Medea_di_Neofrone). 13 Ciò nulla toglie alla verità poetica dell’opera di Euripide, come aveva ben intuito Seneca a proposito della “vera Medea”. Ma è anche quanto ha consentito alla Wolf di costruire il personaggio di un’“altra Medea”, vittima strumentale di cinici pregiudizi, nello straordinario romanzo del 1996 intitolato Medea. Stimmen, “Medea. Voci”. Non è facile sottrarsi alla tentazione di scorgervi in filigrana la vicenda esistenziale dell’autrice, nel frangente storico in cui la “sua” Germania Est è stata riunificata a quella Ovest. Oltre che geopolitici, la Colchide e l’Ellade sono luoghi della mente. Può accadere di essere contesi fra l’una e l’altra, senza sentirsi di appartenere a nessuna delle due. È la più scomoda delle libertà. 5 – Paulus Bor, Medea disillusa oppure L’incantatrice (Metropolitan Museum of Art, New York; ca. 1640) Calderone e coltello In letteratura, di solito l’una e l’altra Medea convivono, a volte scambiandosi i ruoli. Tuttavia, la più vera è pur sempre l’altra: sia ella considerata una plebea traviata ed “empia”, come quella “di Porta Medina” di Francesco Mastriani, o un’aristocratica dissoluta come quella “del Palatino” nell’orazione di Cicerone in difesa di Marco Celio, contro la vituperata 14 – e forse amata – avversaria Clodia.19 O, ancora, la Medea zingaresca ritratta dal pittore preraffaellita Frederick Sandys nel 1868. Queste Medee sono sempre state lì, a due passi da chi le detesta, le ama o ne ha pietà. Nel dramma di Euripide invece, un Giasone sprezzante e didascalico così rinfaccia a Medea la sua alienità geografica e culturale: “In primo luogo sei venuta ad abitare in Grecia/ anziché in terra barbara. Perciò, non ignori la giustizia/ e ti giovi delle leggi, senza bisogno di violenza./ Inoltre, tutti i Greci sono venuti a conoscenza di una tua fama/ di sapiente. Se te ne fossi rimasta ai confini/ del mondo, nessuno parlerebbe di te” (vv. 536-541). Ma, poi, quel mondo era davvero tanto vasto e in sé diverso? Qualche secolo dopo, nel 61-62 d. C., differisce il parere attribuito al coro della Medea di Seneca: “Ormai rimosso ogni limite,/ in lande sconosciute/ si levano mura di città,/ muta di sede ogni cosa/ e il mondo è tutto una via:/ …/ in secoli a venire, sorgerà un giorno/ in cui l’Oceano liberi le cose/ dai loro vincoli. Ecco allora offrirsi/ agli occhi la terra sconfinata” (Terminus omnis motus et urbes/ muros terra posuere nova,/ nil qua fuerat sede reliquit/ pervius orbis:/ .../ venient annis saecula seris,/ quibus Oceanus vincula rerum/ laxet et ingens pateat tellus; vv. 369-377). La progettualità ellenistica e romana era subentrata a quella greca, ampliando gli orizzonti del mondo conosciuto e gestibile. La memoria delle prime scoperte e conquiste era appunto trasfigurata dal mito degli Argonauti e della loro “sacrilega nave”, in un’età precedente quella riflessa nell’epica omerica. Questa prospettiva non riguardava solo lo spazio, ma anche il tempo. Era nata l’idea di un futuro in progressivo movimento, supportata e pur temuta dal filosofo-letterato, per il quale la vicenda stessa di Medea segnala i risvolti negativi di quell’aurorale “globalizzazione” (duplice atteggiamento, che trova riscontro nelle Questioni naturali, opera scientifico-filosofica di Seneca). Intanto, letteratura e arte rivestirono importanza strategica, veicoli di una cultura unificante ed esportatrici di miti rifondanti. Non vi fu centro greco-romano, dove mancasse un teatro. In quei teatri il mito di Medea dovette essere uno dei più rappresentati e meglio recepiti, tanto per le emozioni contrastanti destate quanto per un sostrato psichico universale in cui andava a pescare e affondava radici. Seguì l’arte figurativa. Quest’ultima non era nuova al soggetto. Nelle raffigurazioni arcaiche e della prima classicità Medea fu ritratta come maga e guaritrice, esperta in erbe medicinali e veleni, tutt’al più istigatrice di delitti, spesso a fianco di un lebete o calderone suo strumento favorito. 20 Ciò, quasi che in effetti si 19 Nella Pro Caelio, l’oratore cita l’esordio di una versione della tragedia di Euripide redatta dal latino Ennio, e pronuncia un’invettiva contro Clodia, paragonandola tendenziosamente a Medea. Ma un’insinuazione di Plutarco nella Vita di Cicerone, XXIX, e l’epistolario di quest’ultimo paiono attestare una sua vecchia conoscenza o amicizia con la matrona romana. Cfr. Julia Dyson Hejduk, “Ox-Eyes’ Bugle and Tullia’s Fane: The Power of Clodia in Cicero’s Letters” (CAMWS Southern Section Biennial Meeting, November 2008; reperibile al sito Web http://www.camws.org/southernsection/meeting2008/abstracts/7B1.Hejduk.pdf). 20 Cfr. Cornelia Isler-Kerényi, “Immagini di Medea”, in AA. VV., Medea nella letteratura e nell’arte, a cura di Bruno Gentili e Franca Perusino, Venezia: Marsilio, 2000; e Saverio Scerra, “Dall’iconografia del mito all’iconografia del pathos. Medea e il suo ʻviaggio per immaginiʼ dalla Grecia a Roma”, in Chronos n. 28, atti del convegno I volti di Medea, Ragusa 2009 (si veda al sito Web http://www.liceoclassicoragusa.it/file/chronos28intero.pdf). 15 ignorasse il filicidio o lo si ritenesse elemento portante di una tradizione minore. Dopo la diffusione della tragedia di Euripide, si affermò la tipologia iconografica di Medea che medita di uccidere i figli o in procinto di farlo, con in mano una spada, un pugnale o coltello. Se ne riscontrano esempi archeologici nella scultura e nella pittura, da Vetulonia a Pompei ed Ercolano, dalla Magna Grecia ad Arles e Treviri, dalla Macedonia al territorio dell’odierna Ungheria. Su sarcofagi scolpiti e vasi dipinti, compaiono anche altre scene del mito; non di rado, Medea è abbigliata con sgargianti vesti orientali. Qualche moderna perplessità suscita l’utilizzo del mito nell’arte funeraria, con possibile funzione catartica. Alcune opere ci sono giunte lacunose, come gli etrusco-ellenistici altorilievi in terracotta nella Casa di Medea a Vetulonia. Ce n’è almeno una che brilla ancora di luce riflessa, quando l’originale è andato perso. Quest’ultimo doveva essere un rilievo marmoreo del quinto secolo a. C., parte di quattro che probabilmente decoravano l’Altare dei Dodici Dei nell’agorà ateniese. Esso rappresentava Medea e le Peliadi, le figlie del re Pelia di Iolco ingannate e istigate da Medea a uccidere il padre, prima degli infausti soggiorni della maga a Corinto e ad Atene.21 Ne sono rimaste un paio di copie romane in marmo, rispettivamente al Pergamonmuseum di Berlino e nel Museo Gregoriano Profano a Roma. La prima è integra. Vi figurano Medea vestita alla foggia medo-persiana, che porta una scatola con i suoi ingredienti magici, e due giovani Peliadi: una china sul calderone al centro; l’altra in piedi di lato accosta a una guancia un ramoscello votivo, con atteggiamento perplesso. Se osserviamo l’analoga lastra in Vaticano, più corrosa, ci accorgiamo che quel pacifico ramoscello era in origine un cruento coltello o pugnale. L’immagine della sprovveduta fanciulla già prefigura quella della Medea filicida, mentre lì si anticipa un parricidio. Fin troppo scontato, in termini psicoanalitici, interpretare il calderone come ventre materno e il coltello come un inquietante simbolo fallico. Inoltre, lasciamo ad altri l’incombenza di spiegare quale poetico scrupolo abbia trasformato un coltellaccio da cucina in ramoscello d’ulivo. Basti qui rilevare una latente conflittualità fra principi femminile e maschile, colta alla sua acme e crudamente resa da Seneca quando scrive per Medea questa battuta, diretta a Giasone con riferimento ai loro figli: “Se la mia mano potesse saziarsi d’un sol crimine,/ non avrebbe neppure iniziato. Anche se li uccido entrambi,/ non è abbastanza per la mia sofferenza./ E, se fosse in esso celato qualche seme di nuova vita,/ frugherei il mio grembo con la spada per estirparlo” (Si posset una caede satiari manus,/ nullam petisset. Ut duos perimam, tamen/ nimium est dolori numerus angustus meo./ In matre si quod pignus etiamnunc latet,/ scrutabor ense viscera et ferro extraham; vv. 1009-1013). Può sorprendere il termine dolor impiegato dall’autore psicologo, lodato dalla Nussbaum.22 21 Si veda la nota 10. Nel favoloso racconto macabro, tramandato specialmente da Ovidio in Metamorfosi VII 297–349, Medea convinse le figlie di Pelia a fare a pezzi il padre e a bollirli in un calderone con magici ingredienti, per far sì che egli ne uscisse rigenerato e ringiovanito. Allo scopo, la maga si esibì in una dimostrazione promozionale con un caprone. Un bel frammento di bassorilievo originariamente con la stessa scena si trova anche al Metropolitan Museum of Art di New York. Vi è raffigurata la testa di Medea di profilo, pressoché identica a quella della Medea scolpita nei rilievi qui presi in considerazione. Circa una diversa possibile attribuzione di essi alla scultura neo-attica del I sec. d. C., cfr. Peter E. Nulton, “The Three-Figured Reliefs: Copies or Neoattic Creations?”, in D. B. Counts e A. S. Tuck (a cura di), KOINE: Mediterranean Studies in Honor of R. Ross Holloway, Oxford: Oxbow Books, 2009; pp. 30–34. Sul potere ringiovanente di Medea giocherà pure André Gide, nel suo moderno dramma Thésée. 22 Lo stesso termine risuona in un’altra frase pronunciata della Medea di Seneca, appellandosi 16 Passiamo a un affresco del primo secolo d. C., già nella pompeiana Casa dei Dioscuri e oggi al Museo Archeologico di Napoli, probabile copia di un esemplare tardo-ellenistico. Il pedagogo vi è affacciato alla porta di una stanza, sulla sinistra di chi guarda, da cui entra la luce. All’interno, i due bambini seminudi giocano ignari con gli astragali. Nell’angolo più in ombra sulla destra, in piedi e volta verso una parete per nascondere il suo gesto, Medea già pone mano a una spada, girando lentamente la testa verso la scena serena alle sue spalle. Se non fosse per il volto effettivamente scavato da una sofferenza morale, la sua figura somiglierebbe non poco a quella della Peliade con coltello di cui sopra. Ogni traccia di classico equilibrio scompare invece nella cosiddetta Medea di Arles, nel Museo di Arles e della Provenza Antiche. Il gruppo statuario in calcare risale al II-III secolo d. C. ed è espressione di un’arte gallo-romana, che in questo caso può far pensare a una preistoria della scultura romanico-gotica. Páthos allo stato puro, i figlioletti stanno aggrappati alla veste materna, mentre Medea estrae la spada da una guaina. Il suo sguardo perso nel vuoto segnala un’assenza da sé. La collocazione cimiteriale originale dell’opera sembra voler insinuare: contro o secondo natura, c’è qualcosa più assurdo di una morte così precoce? 6 – Affresco attribuito a Ludovico Carracci, Gli incanti di Medea (Palazzo Fava, Bologna; ca. 1584) Una Medea con gli attributi invano a se stessa: “l’ira mette in fuga la pietà,/ la pietà mette in fuga l’ira – cedi alla pietà, o mia sofferenza” (ira pietatem fugat/ iramque pietas – cede pietati, dolor; vv. 943-944). Giustamente, in Terapia del desiderio: teoria e pratica nell’etica ellenistica (op. cit., p. 471), la Nussbaum polemizza con chi traduce dolor come “collera”. Cede pietati, dolor è pure il titolo di una composizione musicale di Silvia Colasanti del 2007, ispirata alla Medea senecana. Inoltre, la celebre espressione è centrale in una riflessione filosofica di Remo Bodei in Geometria delle passioni..., Milano: Feltrinelli, 2003; p. 229 e segg. Ma già F. Mastriani, in La Medea di Porta Medina, faceva comparire la scritta “Empia” sul petto della sua protagonista sentenziata senza attenuanti a morte, con criptica allusione alla mancanza di pietà prevalsa nella Medea di Seneca. 17 Già nell’arte antica, di per sé l’attributo del coltello, del pugnale o della spada, era giunto a essere distintivo del personaggio. In un affresco di Ercolano, attualmente nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli, Medea figura da sola in piedi mentre medita il delitto, non diversamente che nel dipinto proveniente dalla Casa dei Dioscuri. Per la verità, non è facile stabilire se il dipinto asportato da Ercolano fosse parte di una composizione più ampia, o un particolare imitato da un modello comune scomparso e da alcuni attribuito al pittore greco Timomaco.23 Non ci sono però dubbi sull’analogo affresco raffigurante Medea, proveniente da Villa Arianna a Stabia nello stesso museo napoletano. La figura isolata è ed era sicuramente autonoma. La spada, che l’imminente filicida reca con sé, è sufficiente a identificarla in quanto tale anche a prescindere da una rappresentazione del contesto, specialmente se associata a un’espressione del volto tristemente pensosa ma ormai determinata. In epoca moderna, quest’immediata e fatidica identificazione verrà ripresa da artisti classicisti o neoclassici, come lo scultore statunitense William W. Story nella sua suggestiva statua Medea nel Metropolitan Museum of Art a New York, eseguita nel 1868. Ciò non toglie che altri artisti continuino a raffigurare Medea almeno con i due figli, secondo uno schema meglio sperimentato, pur mantenendo ben in vista l’arma nelle sue mani. La furia di Medea del pittore romantico Eugéne Delacroix, tela del 1838 al Museo delle Belle Arti di Lilla, ne è un esempio che all’epoca fece scalpore sia per l’inedita nudità del soggetto, sia perché la madre è colta nell’attimo in ci afferra i bambini e sta per colpirli. Il francese tornò più volte sul soggetto, e fu anche imitato in un quadro di Paul Cézanne. Ma facciamo qualche passo indietro all’età manieristica e barocca, quando l’eroina cominciò a recuperare una sua melodrammatica attualità. Un’immagine enigmatica, Medea disillusa, dipinta dall’olandese Paulus Bor nel 1640 circa, si trova al Metropolitan Museum of Art di New York. La maga vi è rappresentata quale devota di Diana, anzi di Ecate, seduta da sola nel suo sinistro tempio. Ella regge non una spada ma una bacchetta magica in una mano, mentre con l’altra sorregge la propria testa. L’espressione disillusa del viso contrasta con quello inespressivo della statua della dea alle sue spalle, quasi a conferma di quanto sostenuto da Giasone nella tragedia di Seneca, che dove arriva Medea non sussistono dei. Una barocca Medea fu dipinta anche da Giovanni Benedetto Castiglione detto Il Grechetto, in una data non meglio precisabile fra il 1630 e il 1664 (collezione privata W. Worsley, Regno Unito). Pure lì la donna è ritratta sola e seduta, vestita all’orientale e in atteggiamento pensoso, sostenendo con una mano la testa mentre l’altra impugna ancora una lunga spada sguainata. Ai suoi piedi, il corpo esanime di un bimbo. E una quantità di cimeli ricordano una sua trascorsa dimensione epica, compresa un’armatura presumibilmente appartenuta a Giasone. Si tratta di un quadro del genere Vanitas allora di moda, allusivo al fallimento di Medea ma anche alla biblica vanità del tutto, con particolare riferimento alla gloria umana. Qui, la bacchetta magica è tornata a essere una letale arma da taglio. Non c’è favolosa magia o partecipazione a epica impresa, che abbia potuto salvare Medea da un destino di abbandono e solitudine. E non c’è Storia con l’iniziale maiuscola, che non sia anche violenta. Alla fine, questa vana violenza si ritorce contro una parte essenziale di sé. Nell’opera di Castiglione tuttavia, sullo sfondo e all’aperto ritroviamo il calderone 23 Cfr. Antologia Palatina, XVI, epigramma 135 (a proposito di Timomaco); e Callistrato, Ekphraseis ovvero Statuarum descriptiones, cap. 13: “Su una statua di Medea”. In entrambi i testi è posta enfasi sul particolare cruento della spada, ma è rimarcata anche la duplicità contraddittoria di Medea, combattuta tra furore vendicativo e pietà per i suoi figli, atteggiamento – secondo gli autori – riflesso magistralmente nelle opere d’arte perdute in questione. 18 fumante, altro attributo distintivo di Medea specialmente in quanto maga. Lo stesso particolare si scorge ben al centro di un affresco del 1584 intitolato Gli incanti di Medea, nel Palazzo Fava a Bologna. Questo poco noto capolavoro è unico nel suo genere. La scena è surreale, quasi onirica. Medea è ritratta da giovane, nuda e seduta sulla riva di un ruscello in cui immerge un piede e le punte delle dita di una mano, osservando assorta il suo sembiante – o il proprio futuro? – riflesso nell’acqua appena smossa. Alle sue spalle, un paesaggio rischiarato dalla luna piena e abitato da apparizioni rimanda a una Colchide fantastica, paese di una magia naturale ancora incontaminato, dimensione edenica al di qua della coscienza del bene e del male. È chiaro come l’artista Ludovico Carracci abbia voluto creare una sua versione in positivo di quella che abbiamo chiamato “altra Medea” oppure “vera Medea”, scegliendo nella lezione dei classici quanto di più funzionale alla personale ispirazione. 24 Il calderone illustrato da Carracci è oggi leggibile come emblema di una diversa percezione dell’inconscio, prima che la spada del “disagio della civiltà” penetrasse in esso, recidendo il cordone ombelicale con un sapere ancestrale e femminile, di cui la maga sarebbe stata depositaria. Ciò ci consente di tornare al controverso articolo di Lacan, per intenderci quello di Medea come vraie femme. Solamente adesso ci accorgiamo, si fa per dire, di una citazione dalla Medea di Euripide in esergo allo scritto. È più che attendibile un nesso, fra la contestata definizione dello psicoanalista e questi pochi versi: “Vai a svelare verità insolite agli ignari./ Anziché sapiente, finirai per apparire inutile./ Se poi tu figurassi meglio di quanti hanno una fama/ di vario sapere, allora daresti fastidio alla città” (σκαιοῖσι μὲν γὰρ καινὰ προσφέρων σοφὰ/ δόξεις ἀχρεῖος κοὐ σοφὸς πεφυκέναι·/ τῶν δ΄ αὖ δοκούντων εἰδέναι τι ποικίλον/ κρείσσων νομισθεὶς ἐν πόλει λυπρὸς φανῇ – vv. 298-301). Neanche tanto sotto, il pensatore neo-freudiano doveva sottintendere un parallelo con la sorte precaria della moderna psicoanalisi, benché questa avesse francamente poco di femminile. Con i debiti distinguo, all’epoca sofistica di Euripide da lui proiettata nel passato, quel tipo di sapere, nella sua accezione empirico-intuitiva, era in crisi tanto da risultare estraneo e inutile o da venir considerato con fastidio e apprensione. Con i pro e i contro, la visione del mondo stava mutando. Medea rischiava di vedersi declassata al rango di fattucchiera. Del resto, ai versi 539-541, abbiamo udito Giasone motteggiare sulla nomea di sapiente da lei conseguita in Grecia e dintorni, grazie anche al beneficio di averlo seguito o di esservi stata da lui condotta. Al suo sarcasmo fa da contrappunto l’ironia di Medea ai versi 407-409, su citati in nota: “Per giunta la natura/ ha reso noi donne non versate nelle buone azioni,/ ma artefici assai sapienti di tutte quelle cattive”. Nelle parole di questa Medea “civilizzata” prima per spontaneo amore e poi per forzosa convenienza, c’è l’acquisita consapevolezza di una connotazione negativa ormai assunta da quell’esoterica sapienza, nonché in nuce l’infelice tentativo di farne una bandiera di parte e arma di offesa. 24 Gli affreschi di Palazzo Fava furono opera collettiva dei Carracci, imparentati fra loro. Perciò quello in questione è solo attribuito a Ludovico. Esso precorre una sensibilità preromantica, ancor più che barocca, salvo restando un accentuato naturalismo di ascendenza rinascimentale. Oltre che a quelle di Apollonio Rodio e di Ovidio, l’artista potrebbe essersi ispirato alla Medea malinconica di G. V. Flacco, in particolare nel libro VIII del suo poema. Versione romantica del soggetto è la tela Vision of Medea di Joseph M. W. Turner, ma qui il mondo incantato della maga è convertito in una dimensione allucinatoria, dopo i suoi delitti (Tate Britain, Londra; 1828). In entrambi i casi, abbiamo due fra i rari “paesaggi con Medea”, che la storia dell’arte ci ha lasciato. 19 7 – Due immagini ottocentesche di Medea, dipinta rispettivamente come maga, ma armata di spada, e in quanto filicida: Valentine C. Prinsep, Medea the Sorceress (Southwark Art Collection; 1880); ed E. Delacroix, Médée furieuse (Palais des Beaux-Arts de Lille; 1838). Non è forse un caso che entrambi gli artisti ebbero anche una produzione orientalistica, nel cui ambito il soggetto classico-esotico in questione poteva in qualche modo rientrare, sia pure alla lontana Medea, “eroina della differenza”? Il dualismo caratteriale e archetipico di Medea non si limita al personaggio in sé. Esso si riverbera sull’ambientazione della storia; anzi, in buona parte è condizionato dai diversi ambienti che lei attraversa o abita. Tuttavia, non sempre e ovunque funziona il congegno narrativo-concettuale originario, di una Medea che procede da una cultura “barbarica” verso una “civilizzata” e in senso lato moderna – oppure, se si preferisce, da Oriente verso Occidente, da qualche Sud a un Nord del mondo –, finendo per scontrarsi rovinosamente con la seconda (si tenga presente che quest’ultima non era ancora egemone ai tempi di Euripide, mentre la prima aveva costituito una recente minaccia per la grecità, in occasione delle “guerre persiane”; semmai, la situazione era cambiata all’epoca greco-romana della Medea di Seneca). Almeno in un caso lo schema, che sarà eminentemente attualizzato da Pasolini nella sua filmica Medea del 1969, risulta provocatoriamente rovesciato e addirittura capovolto. Per dirla in gergo pittorico, assistiamo a una inversione di prospettiva. Se sussistono una ciceroniana “Medea del Palatino” o una statuaria “Medea di Arles” e una partenopea “Medea di Porta Medina”, ce n’è perfino una “di Baghdad” a noi contemporanea. Medea of Baghdad è il titolo di un monologo firmato dall’iraniano Ali Alizadeh, precocemente immigrato al seguito della sua famiglia e cresciuto in Australia. Con la regia di Tanja Beer e interpretata da Miranda Nation, la pièce è andata in scena al La Mama Theatre di Melbourne nel 2011. La protagonista confessa in pubblico la sua vicenda 20 esistenziale di ex-studentessa della borghesia-bene australiana, la quale si è innamorata di un rifugiato iracheno e decide di seguirlo all’atto del suo ritorno in patria insieme ai figli avuti in comune. Il devastato scenario di guerra civile del dopo-Saddam Husayn, in cui lei e il suo compagno vengono a trovarsi, nonché l’impatto con una mentalità familiare islamica conservatrice ed estranea, determinano la crisi della coppia e l’isolamento della giovane madre, fino al suo esaurimento nervoso e all’epilogo della follia infanticida. Quest’ultimo è solo presupposto nel delirante soliloquio, in cui il tradizionale antagonismo di Medea diventa parossistico, contraddittorio al limite della schizofrenia e tragicamente attuale. Incidentalmente, il monologo teatrale si colloca nella scia di quelli poetici di Ovidio nell’antichità, o di Augusta Webster nella modernità. Ciononostante, fa uno strano effetto vedere l’antica favolosa Colchide rimpiazzata con l’odierna Australia... “Scontro fra civiltà” e depressione psichica al femminile sono rispettivamente sfondo e primo piano di questa versione aggiornata del duttile mito, spesso riadattato a realtà storiche e locali, anche distanti o assai differenti da quello che si suppone essere stato il centro d’irradiazione primario. E nulla lascia presagire che qui si tratti dell’ultimo adattamento in assoluto. A ogni modo, ciò depone a favore di un forte riscontro nella psiche personale, in ogni tempo e luogo. Se non è tale in sé, la leggenda ha certo a che vedere – e a che fare – con gli archetipi psicologici, vale a dire con la struttura profonda dell’inconscio collettivo e individuale. In particolare, in ogni donna c’è un po’ di Medea: è quanto sostenne la coreografa statunitense Martha Graham, la quale si misurò con lo stesso mito nel balletto Cave of the Heart del 1946, ben prima che se ne occupasse en passant lo psicoanalista francese Jacques Lacan. Se quella di Medea è la storia di una differenza culturale, lo è anche della differenza tra maschile e femminile, allorché queste differenze diventano inconciliabili, ovvero quando esse vengano represse a rischio di essere annullate a tutto vantaggio di una delle polarità in causa. La reazione può essere tanto più vistosamente violenta, quanto maggiormente la violenza più o meno camuffata e “legalizzata” dell’antagonista si avvicina alla differenza essenziale e costitutiva del soggetto reattivo, intaccandone le radici identitarie e mettendo a repentaglio la sua stessa esistenza. La rappresaglia drammaticamente smisurata di Medea assume allora la valenza di un gesto di resistenza, autolesionistico e irrazionale quanto si vuole eppure parzialmente e inconsapevolmente simbolico, non troppo diversamente da non pochi suicidi terroristici che hanno traumatizzato la nostra età di forzosa globalizzazione. Vengono in mente le parole di Pasolini, in un’intervista rilasciata dopo l’uscita del suo film a un giornalista francese. Se è datata la terminologia impiegata dal regista, poeta e scrittore, il contenuto del suo discorso suona lungimirante: “[Quella di Medea] potrebbe essere benissimo la storia di un popolo del Terzo Mondo, di un popolo africano, ad esempio, che vivesse la stessa catastrofe venendo a contatto con la civiltà occidentale materialistica”. 25 Medea, quale superstite di un “genocidio culturale”, concetto più tardi approfondito dallo stesso Pasolini?26 Si è già chiarito qui all’inizio come da parte del personaggio 25 Jean Duflot (a cura di), “Pier Paolo Pasolini. Il sogno del centauro”, in Nico Naldini, Pasolini, una vita, Torino: Einaudi, 1989; p. 81 (trad. it. da J. Duflot, Entretiens avec Pier Paolo Pasolini, 1970, intervista accresciuta con titolo Pier Paolo Pasolini. Les dernières paroles d’un impie, 1981. Poi in Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, Milano: A. Mondadori, 1999; p. 1505). 26 Cfr. P. P. Pasolini, “Verso il genocidio”, in Alberto Cadioli (a cura di), Dialogo con Pasolini. Scritti 1957-1984, Roma: Editrice “l’Unità”, 1985; pp. 127-132 (anche in Scritti Corsari, Milano: Garzanti, 1975; inizialmente, intervento alla Festa dell’Unità di Milano, 1974, pubblicato sulla rivista politico-culturale Rinascita il 27 settembre 1974). 21 originale vi sia una viscerale e individuale vendetta, ma non lucida e generalizzante rivendicazione, al contrario che nell’Antigone di Sofocle. Medea è spinta da un amore esclusivo, convertito in orgoglioso odio. Invece, Antigone proclama di agire in nome dell’amore nella sua accezione più ampia, e perciò anche vaga. L’amore-odio di Medea ha sempre un oggetto, è sentimento o passione verso qualcuno o qualcosa – fosse pure un nostalgico ricordo –, laddove perfino l’affetto di Antigone per il fratello da seppellire può apparire un pretesto astratto o questione di principio. Pertanto, si ripropone un interrogativo: a chi delle due meglio si addice il titolo di paladina, per così dire, di una differenza al femminile? Dovremmo altrimenti concludere che pure la femminilità si presenta sotto un duplice aspetto, o che si articoli su livelli sfalsati: quello dell’inconscio, per Medea, e uno coscienziale, in Antigone. Insomma, ci aggiriamo in un dedalo di tenaci luoghi comuni. Né si può fare a meno di rammentare che Medea è “barbara” mentre Antigone è greca, ricadendo quindi in un circolo vizioso: l’una, irrazionale poiché “orientale”; l’altra, razionale a oltranza in quanto “occidentale”. Che piaccia o no, la verità è che Medea può ambire a un poco invidiabile primato di “eroina della differenza”, per il solo fatto che in lei quelle differenze si sommano, o – meglio – che alla differenza si aggiunge una diversità, innescando un corto circuito esplosivo. Comunque si pongano le cose, e perlomeno così come la lezione dei classici ce l’ha tramandata, Medea è irrimediabilmente duale. Anzi, la sua doppia differenza si traduce nel fardello di un’insopportabile diversità. Tale è la complessa dinamica, a suo tempo escogitata o messa a punto dal genio di Euripide. Ma nemmeno l’australiana “Medea di Baghdad” si sottrae a un simile destino, dal canto suo suggerisce Alizadeh cambiando le carte in tavola, dal momento che la diversità di lei consiste nell’essere una “civilizzata” calata in un contesto imbarbarito. Chi o che cosa abbia concorso a imbarbarire quel contesto, è poi un quesito che l’autore esule lascia in sospeso, demandando la risposta a un’auspicabile riflessione politica da parte di noi spettatori. 8 – “L’una e l’altra Medea”, ovvero due espressioni del volto del personaggio, superlativamente interpretato in veste di attrice dal soprano greco Maria Callas, nei particolari di due fotogrammi del film Medea di P. P. Pasolini (fotomontaggio; si veda qui la nota 1) Il Vello d’Oro e la “carne mortale” 22 Dal punto di vista mitologico, quello di Giasone e Medea spartisce un altro mitologema con altri miti, in particolare con quello di Teseo e Arianna. È l’eroina, straniera e innamorata, che aiuta l’eroe a conquistare un ambito trofeo o a sconfiggere un temuto mostro: nel primo caso, la conquista del “vello d’oro”; nel secondo, l’uccisione del Minotauro. In entrambi i casi, una fatale nemesi vuole che l’eroina – sedotta o seduttrice che sia – venga poi abbandonata dall’eroe, punita per aver tradito la propria gente o famiglia. Arianna non vorrà o potrà vendicarsi di lui in prima persona, al contrario di Medea. Alla soglia della modernità, è precoce la tentazione letteraria di giustificare o scagionare la figura di Giasone da una disonorevole macchia. Nel romanzo Histoire de Jason di Raoul Lefèvre (o Le Fèvre), del 1460 circa, è ancor viva l’aspirazione “cortese” ad assimilare gli antichi Argonauti, di cui Giasone era stato condottiero, alla cavalleria medievale col suo codice d’onore: anzi, a farne un prototipo ideale (implicito, un parallelo fra la conquista del “vello d’oro” e la ricerca del Santo Graal). Nel prologo, il francese fa che l’eroe così gli parli: “Io sono Giasone, quello che conquistò il vello d’oro in Colco e che ora versa in una profonda tristezza a causa del disonore con cui alcuni offendono la mia fama, imputandomi di non aver mantenuto la promessa nei confronti di Medea, ciò su cui tu hai invece letto la verità. Perciò ti prego che tu scriva un libro, grazie al quale coloro che cercano di sminuire la mia gloria possano rendersi conto del loro ingiusto giudizio” (Je suis Jason, cellui qui le veaurre d’or conquesta en Colcos et qui journellement laboure en douleur, enrachiné en tristesse pour le deshonneur dont aucuns frapent ma gloire, moy imposans non avoir tenu ma promesse envers Medee, ce dont tu as leu la verité. Si te prie que tu faces un livre ou ceulz qui ma gloire quierent flappir puissent congnoistre leur indiscret jugement).27 Va da sé, la promessa cui allude l’autore è un giuramento d’amore e fedeltà a suo tempo pronunciato da Giasone, rivolto a Medea. Ancor prima che Ovidio, fonte privilegiata di Lefèvre, ce ne fa fede Apollonio Rodio, nelle sue Argonautiche: “Niente potrà interporsi fra noi, nel nostro amore, finché non ci avvolga un destino di morte” (libro III, verso 1128). Poco interessano le scusanti addotte a discolpa di Giasone dal narratore, cappellano di corte di Filippo il Buono duca di Borgogna. Sebbene più retoriche, esse non sono meno letterarie della rilettura-riscrittura di Medea in funzione di una riabilitazione del personaggio, che farà Christa Wolf nel suo romanzo Medea. Stimmen. Più importante è che Lefèvre ridà voce a Giasone, a distanza di tempo dalla traumatica rottura fra i due amanti, così come altrimenti immaginerà di fare la poetessa Augusta Webster con Medea in Athens. Fenomenologicamente parlando, ridare voce a un personaggio significa riattivarlo, anche dopo – o prima – di un lungo periodo di letargo. E il personaggio cresce, quando incontra un autore che si immedesimi in lui. Al Giasone di Lefévre ben si adatta un saggio di Silvana Rocca del 1979, intitolato Giasone e Medea: Epos ed Eros e citato qui in nota. Quel Giasone è effettiva espressione di una dimensione epica, là dove Medea lo è di una erotica a suo modo, ossia di un potenziale distruttivo dell’érōs, tale da sconfinare in pulsione di morte nell’accezione psicoanalitica freudiana. Due dimensioni, destinate a collidere nel conflitto esistenziale. In merito, valga l’atto finale della Medea di Franz Grillparzer: al “classico” infanticidio, consumato dietro le quinte, si sovrappone la figura di lei ammantata nel maledetto Vello d’oro, titolo dell’intera trilogia pertinente del drammaturgo romantico. “In realtà”, Giasone non ha mai smesso di ambire a quel simulacro, perfino quando ha presunto di averlo conquistato. E Medea, maestra in ogni sortilegio, ha sempre saputo che 27 R. Lefèvre, L’“Histoire de Jason”, ein Roman aus dem fünfzehnten Jahrhundert, edizione critica a cura di Gert Pinkernell, Francoforte sul Meno: Athenäum Verlag, 1971; p. 125. 23 esso non aveva niente di miracoloso, malgrado la sua carica di suggestione più o meno occulta.28 Troppo tardi l’eroe se ne accorge, e questi è lo “Iasone” di Cesare Pavese nel suo dialogo “Gli Argonauti”, in Dialoghi con Leucò del 1947. Nella memoria del navigatore, il vello è diventato solo una confusa “nube d’oro” che “sfavillava nella selva”. Nonostante che egli sia finalmente diventato re, secondo i suoi frustrati desideri giovanili ma al prezzo della propria solitudine, accade che gli abitanti di Corinto ormai sorridano dei suoi racconti numinosi. All’epopea pionieristica delle prime esplorazioni geografiche, è subentrata una diffusa prosa mercantile. Tuttavia, resiste una morbosa curiosità, proprio per ciò su cui il monarca è solito tacere. Un giorno Mélita, ierodula nel tempio di Afrodite, gli confida: “Noi si parla della maga, re Iasone, di quella donna che qualcuno ha conosciuto. Oh dimmi com’era”. Dapprima elusivo, Giasone finisce per accontentare la giovane interlocutrice: “Iasone: […] qualcuno ora è vecchio – e ti parla – che vide i suoi figli sacrificati dalla madre furente [che fuggì da Corinto – l’assassina dei figli – la maga]. Mélita: Dicono che non è morta, signore, che i suoi incanti hanno vinto la morte. Iasone: È il suo destino, e non l’invidio. Respirava la morte e la spargeva. Forse è tornata alle sue case. Mélita: Ma come ha potuto toccare i suoi figli? Deve aver pianto molto... Iasone: Non l’ho mai vista piangere. Medea non piangeva. E sorrise soltanto quel giorno quando disse che mi avrebbe seguito. Mélita: Eppure ti ha seguita, re Iasone, ha lasciato la patria e le case, e accettato la sorte. Fosti crudele come un giovane, anche tu. Iasone: Ero giovane, Mélita. E a quei tempi nessuno rideva di me. Ma ancora non sapevo che la saggezza è la vostra, quella del tempio, e chiedevo alla dea le cose impossibili. E cos’era impossibile per noi, distruttori del drago, signori della nuvola d’oro? Si fa il male per essere grandi, per essere dèi”.29 Rivisitato dallo scrittore in chiave ironicamente nicciana, alla base della mania di grandezza di Giasone c’è dunque un sottofondo metafisico, una sfida da semidei lanciata contro la condizione – anzi, la povera “carne” – mortale. È la sua tragica hýbris, celebre concetto della Poetica aristotelica. Ma, a questo punto, Mélita osa protestare: “E perché vostra vittima è sempre una donna?”. Formulata in maniera imbarazzata e contorta, la risposta che Pavese ascrive al superuomo disilluso è delle più sconcertanti. Così amara e 28 E non solo Medea, “per la verità”. Esplicita, in merito, quella di Christa Wolf in Medea. Voci (trad. di Anita Raja, Roma: Edizioni e/o, 2003; p. 37): “Che cos’era per me quel vello, che gli uomini dell’ʻArgo’ chiamarono ʻVello d’oro’ solo più tardi, quando lo ebbero osservato meglio: quella pelliccia, come le pellicce di tanti arieti della Colchide, era stata usata per estrarre l’oro, essendo stata messa in primavera in una delle acque montane che precipitavano a valle per raccogliere la polvere d’oro dilavata via dal seno dei monti. Gli argonauti mi hanno interrogata con la massima pignoleria su quel metodo, che a me pareva del tutto usuale e che invece metteva loro in grande agitazione: nella Colchide c’era l’oro. Vero oro”. 29 C. Pavese, Dialoghi con Leucò, Torino: Einaudi, 1997; pp. 135 e 136. Nello “Iasone” di Pavese c’è una sorta di nostalgica predilezione per le sacerdotesse o officianti della divinità al femminile, sia essa la dea dell’amore come per Mélita o perfino la temibile Ecate come per Medea. È anzi evidente che la simpatia per la ierodula, o prostituta sacra, è in buona parte indotta dal ricordo dell’amore-odio per Medea, indimenticabile a oltranza come la stessa Mélita rimarca in una battuta del suo irriverente dialogo con Giasone. A ogni modo, il personaggio inventato dall’autore può rammentare la Medea giovane ritratta da L. Carracci nell’affresco di Palazzo Fava a Bologna (si vedano la figura 6 e la nota 24), contrastando con quello classico di Glauce/Creusa o con quello di Ipsipile nelle Heroides di Ovidio, altre donne nella vita dell’Argonauta, perennemente combattuto o indeciso fra due modelli femminili. 24 questa volta sincera, che qui si preferisce affidare al lettore o lettrice l’incarico di scoprirne il contenuto e sondarne il senso. Basti annotare che, nella produzione dell’autore, una volta di più ricorre una costante bipolare: quella dell’identificazione del maschile con la trascendenza, del femminile con l’immanenza. Nella poetica pavesiana, i due piani psichici si intersecano senza mai coincidere, così come divergono Storia e Natura. Recuperata la loro centralità, le Medee sia di Alvaro sia di Pasolini si sviluppano nella scia di tale intuizione, anche se Alvaro amplia l’orizzonte attuale del personaggio e nonostante che Pasolini fosse orgogliosamente restìo ad ammettere qualche debito morale nei confronti di Pavese... 9 – La tedesca C. Wolf e la russa L. Ulickaja, fotografate in pose curiosamente simili. Le due romanziere si sono diversamente e originalmente misurate con lo stesso mito: la prima in Medea. Voci (su citato), e la seconda in Medea (Медея и ее дети, 1996; trad. it. di Giulia Gigante, Torino: Einaudi, 2000). In maniera tacita per quella della Wolf o patente per quella della Ulickaja, entrambe le Medee hanno a che fare con una Storia ingombrante e invasiva, anche quando mascherata da accattivante utopia. Si legga anche C. Wolf, L’altra Medea. Premesse a un romanzo, Roma: E/O, 1999 Un’altra Medea: anzi, alternativa Ovviamente per modo di dire, siamo qui a cercare di riparare un torto fenomenologico. Se è vero che in un certo senso e misura Medea è una “anti-Antigone”, stando a Slavoj Žižek, è pur vero che Antigone si è giovata di una ricca riflessione filosofica. In proporzione, Medea appare un po’ trascurata, quasi che un’inerzia o imbarazzo filosofico abbia preferito un personaggio più facilmente “edificante” a uno non meno problematico ma più scomodo. In ogni caso, è difficile obiettare che il personaggio letterario rifondato da Euripide abbia meno da esprimere di quello concepito da Sofocle. Quanto fin qui esposto e 25 commentato in breve attesta semmai il contrario. Forse una spiegazione accettabile è che alla fin fine Antigone rappresenta pur sempre il medesimo, cioè la civiltà occidentale riconoscibile da non pochi dei suoi pregi e difetti in nuce, mentre Medea è irriducibile spettro dell’altro, al punto da poter risultare aliena. E, per “altro”, non s’intende solo una connotazione geografica o di genere, ma anche una psicologica su cui pende la spada di Damocle di un giudizio etico. In altre parole, Antigone riflette una dialettica estensibile ad altri, ma che nasce come interna a una determinata tradizione culturale. Medea rispecchia una dialettica con l’esterno o con una profondità, che restano da definire volta per volta. Con tutta l’ammirazione per Sofocle e per Antigone, è come se quest’ultima sia una figura a due dimensioni, ovvero con una terza dimensione simulata su un piano prospettico a focale fissa. Viceversa, Medea è un soggetto tridimensionale, la cui terza dimensione vada continuamente aggiustata per una messa a fuoco attendibile dell’immagine. Anche l’inquadratura e lo sfondo su cui essa si staglia possono variare, ancor più che nelle tante trasposizioni o adattamenti dell’Antigone. Un esempio eclatante è il romanzo Medea e i suoi figli/Медея и ее дети, pubblicato nel 1996 dalla scrittrice ebrea russa Ljudmila Ulickaja. L’inquadratura di questa Medea di Crimea è composita, commista di ebraismo e grecità, componenti di una diversità non solo fra loro ma pure rispetto al quadro fondamentale slavo. Lo sfondo geografico e memoriale della vicenda individuale e della saga familiare è in movimento o in evoluzione, del resto un po’ come quello della Medea classica: fra Grecia e Russia, tra Uzbekistan e Lituania, con puntate anche altrove; dai pogrom contro gli ebrei alle guerre del ’900, dalla Rivoluzione Russa alla deportazione dei Tatari e oltre, troppo spesso alle prese con una Storia indifferente alle storie, anzi a queste non di rado ostile. Va dato atto a Epitteto di una delle prime e rare messe in discussione filosofiche del personaggio. Nei primi due libri delle sue Diatribe, Medea non è un exemplum marginale, bensì una figura di contrasto ai fini della speculazione morale. L’ex schiavo azzoppato era originario della Cappadocia, in senso lato di quello stesso altrove decentrato rispetto al modello culturale dominante, e dislocato a oriente – o, più riduttivamente, “a est” –, da cui oggi provengono o in cui risiedono la Ulickaja, Žižek e in un recente passato Christa Wolf. Malgrado la distanza di tempo che intercorre fra il primo e gli altri, una loro pur vaga e varia contiguità spaziale può aver contribuito a far sì che il loro angolo visuale si differenzi più o meno da quello convenzionale euro-centrico, o “greco-romano-centrico” per quanto concerne evidentemente Epitteto. Fatto sta che, nell’atteggiamento di questi verso il personaggio di Medea, c’è qualcosa di più di una simpatia. Salva restando la netta condanna dei suoi eccessi, c’è una dolente empatia, come di chi avesse subito umiliazioni o discriminazioni simili a quelle di lei narrate. Il che arriva a coinvolgere il concetto stesso di compassione, diversificando il pensiero del nostro dal resto di quello stoico precedente. 30 Nonostante la sua esiguità e che per giunta sia in parte allusiva, la sovente citata interpretazione psicoanalitica di Jacques Lacan ha avuto da un lato il merito di aver stimolato la percezione odierna di Medea in quanto controversa eroina di una “differenza al femminile”, argomento su cui ci si è soffermati abbastanza qui in precedenza. D’altro canto, 30 Circa un’attenzione moralistica ma una scarsa comprensione di fondo o un uso strumentale del personaggio, da parte dei primi pensatori stoici, si legga in particolare Christopher Gill, “Did Chrysippus understand Medea?”, in Phronesis: A Journal for Ancient Philosophy vol. 28, n. 2, Leida: Brill, 1983; pp. 136-149. 26 essa ha funto da quasi-pretesto per una rilettura filosofico-politica della stessa Medea come espressione di un antagonismo radicale, modello ancor oggi – anzi, secondo Žižek, oggi più che mai – riproponibile e attualizzabile. Più ancora che un’“altra Medea”, quale quella tutto sommato vittimistica romanzata da Christa Wolf o quella anti-storica gettata a oltranza nella Storia di Ljudmila Ulickaja, questa teorizzata da Žižek è una Medea alternativa, che si interroga su quale Storia e prende la nostra Storia di petto. Senza dubbio su questa linea si colloca una delle ultime Medee andate in scena, né è espressamente fortuito che si tratti di una Medea russo-caucasica, un parziale ritorno alle origini geografiche del personaggio. A un livello artistico impegnato, in effetti una tale radicalizzazione del personaggio è stata efficacemente resa in Medea. Episodes/Медея.Эпизоды. Composta in russo da Alexey Nikonov, diretta da Giuliano Di Capua e con musiche di Andrey Sisintzev, la performance è stata rappresentata per la prima volta nel 2010 al Centro d’Arte Moderna Sergey Kuryokhin di San Pietroburgo. In un commento del regista di origine italiana, è esplicito un riferimento di recente attualità, alle travagliate vicende del giovane Stato di Georgia, in buona parte corrispondente all’antica Colchide: “La Storia si ripete: Colchide verso antica Grecia; Georgia verso Russia”. Dalla versione inglese eseguita da Di Capua per l’Edinburgh Festival Fringe del 2012, traduciamo pochi versi, pensati per essere declamati dalla protagonista: “Dannata Afrodite, dannato Giasone./ Dannazione a te, Ellade, che meni/ gran vanto dei tuoi eroi, imprese e re./ Maledetto sia un mondo, in cui/ il mio amore è stato svenduto/ in cambio di pettegolezzi e ambizione./ Alla malora pure tutti voi,/ che accettaste di essere servi/ in patria e andate dando lezioni/ di libertà ad altri, razza di ipocriti!”. 31 A conferma della tendenza in atto, anche in altre aree del mondo non mancano spettacoli teatrali su Medee alternative, quali la Medea diretta da Carole Abboud su testi soprattutto di Heiner Müller e andata in scena nel 2012 al teatro Babel di Hamra, a Beirut in Libano; o la trilogia sperimentale Hotel Medea pure rappresentata all’Edinburgh Festival Fringe nel 2011, produzione anglo-brasiliana che si avvale degli autori Persis Jade Maravala e Jorge Lopes Ramos (si veda qui la nota 3). Ciò non toglie che la Medea classica, sia essa di Euripide o di Seneca, o le sue rivisitazioni barocche, romantiche e più moderne, operistiche oppure filmiche, seguitino a essere replicate. Le une e le altre si rincorrono e confrontano, talora perfino scontrandosi fra loro, così come denuncia il contenuto di una mail di Giuliano Di Capua indirizzata a chi qui scrive: “La mia Medea è estratta dal mito. Euripide le è nemico, come le sono nemici i 2500 anni seguenti: ʻUsate pure la storia della mia vita quando vi fa comodo; vi regola i vostri affari, le vostre politiche. Io non ci sto...’”. 31 Si veda al sito Web http://www.teatrodicapua.com/en/projects-3/medea-the-episodes/ È peraltro interessante notare come nella Georgia vera e propria sia da tempo in atto una riappropriazione identitaria nazionale della figura di Medea, naturalmente e tendenzialmente in positivo. Ne fanno fede monumenti quali una sua statua che regge nella mano destra il favoloso “vello d’oro”, realizzata nel 2007 da Davit Khmaladze a Batumi, e la Medea in bronzo di Merab Berdzenishvili (1967-1970) a Pitsunda, già colonia greca di Pitiunte sul Mar Nero. In questo caso si tratta in realtà di un gruppo scultoreo, in quanto l’eroina vi è raffigurata insieme ai suoi due figli, nella scia di una iconografia statuaria o pittorica consolidata fin dall’epoca greco-romana. 27 10 – Due primi piani di Medea, uno da giovane e l’altro da più matura: Dana Mikhail in Medea, con la regia di C. Abboud nel 2012 al teatro Babel di Beirut; e M. Callas in un altro fotogramma del film Medea di Pasolini (fotomontaggio; in entrambe le inquadrature, si noti il mare sullo sfondo, che può ricordare i vv. 940- 943 di Seneca: “Come quando venti rapaci in aspra guerra/ e la discordia dei flutti sconvolgono/ un mare, che ondeggia conteso, così/ è il mio cuore”) L’Ellade e la Colchide Chi qui scrive ritiene che, comunque, il problema era già latente in Euripide. Medea è eroina di una differenza tout court, non solo al femminile come alla maniera lumeggiata da Lacan, ma anche etnica e culturale o politica alla stregua perorata da Žižek. Oggi, la tragedia euripidea può perfino essere letta come parabola sulla fragilità della democrazia. Inoltre, si può aver comprensione e pietà, come invita a fare Epitteto, di chi non vuol essere compatito tanto da non averne di sé? Se davvero la differenza di Medea è “ontologica”, buffo termine filosofico, a che titolo si può considerarla una patologia dell’essere? Si deve, insiste Epitteto, nella misura in cui quella patologia è anzitutto nostra. Per dirla con metafore evangeliche, la “pagliuzza” nell’animo di Medea è ombra di una “trave” confitta nel nostro, probabile sintomo di qualcosa che non va nel nostro modo di essere, di giudicare e di porci. Epitteto conosceva bene l’Impero Romano. Più che alla senecana “Menade cruenta”, la sua Medea somiglia a quella gallo-romana effigiata nella statua di Arles. Noi conosciamo la storia del Novecento quel tanto, da sapere come la barbarie dell’“inciviltà” sia almeno visibile. Più insidiosa, quella della “civiltà” “viene a giorno con estrema lentezza” (non Sigmund Freud, bensì Martin Heidegger!) o esplode con inaudita violenza. Né c’è più dialettica hegeliana che regga. A suo tempo, Euripide/Giasone dovette accorgersi di una verità: al fine di esorcizzare la mitica Medea, neppure valse fare figli in comune. In una rassegna di pareri filosofici su Medea, non può mancarne uno femminile. Se si eccettua un saggio di Isabelle Stengers pure uscito nel 1993, Souviens-toi que je suis Médée: Medea nunc sum, allo stato attuale esso è eminentemente quello di Martha Nussbaum. Si è già accennato al capitolo di un’opera più ampia, intitolato “Serpenti nell’anima: una lettura della Medea di Seneca”, in inglese apparso inizialmente come saggio autonomo.32 Ivi, la riflessione della pensatrice americana è in prevalenza improntata a una 32 “Serpents in the Soul: A Reading of Seneca’s Medea”, in Pursuits of Reason: Essays in Honor 28 rivalutazione della tragedia senecana, non di rado messa in ombra dall’antecedente di Euripide. Eppure, l’autrice afferma: “da nessuna parte come qui, in questo dramma, il vero pericolo causato alla filosofia dalla letteratura è forse più evidente” (p. 471). Il pericolo, ma anche uno stimolo, è che letteratura e arte sanno rappresentare le passioni, il cui ruolo nell’agire umano la filosofia in quanto aspirazione alla razionalità non sa spiegare fino in fondo. Da filosofo-letterato, Seneca ne era consapevole. Il suo teatro è espressione di tale contraddizione. A lungo considerato un difetto, è invece il pregio di quella produzione. La sua Medea è anche il dramma di chi cerca di applicare precetti stoici al personaggio e alla sua storia, senza riuscirci se non sdoppiandosi, ciò che Epitteto farà in forma filosofica. Euripide sta alla Sofistica, come Seneca ed Epitteto al tardo Stoicismo, o la Nussbaum alla poetica e all’etica aristoteliche, da lei apprezzate in un suo primo periodo. Nel corso dell’evoluzione del loro pensiero o arte, essi revisionano e modificano dall’interno le dottrine di adesione, o per cui hanno simpatizzato. La Medea analizzata dalla Nussbaum finisce così per affiancarsi e quasi sovrapporsi a quella predicata da Žižek, anche se la prima è animata da una passione soprattutto erotica mentre la seconda è mossa da un sentimento oggettivamente politico. In ambedue i casi la carica emozionale e simbolica è dirompente, a un livello non solo esistenziale ma pure sociale. Una domanda “logica” è fino a che punto si possa contare su un antagonismo sì alternativo, ma tutt’altro che progettuale e di sentore francamente nietzscheano. Pur dando voce a posizioni diverse o estreme, sia la studiosa statunitense sia lo psicanalista sloveno sono organici a un ambiente accademico esteso, usufruendo degli stessi mezzi e filtri di risonanza. Premesso ciò, una risposta può essere che, esaurita la propria progettualità, questa civiltà sia in cerca di un potenziale alternativo alle sue radici, tale da ravvivare una dialettica da cui scaturisca qualche progetto inedito. Se non mediatrici, le loro sono delle Medee “mediatiche”, nell’ambito di un sistema condiviso. Paradossalmente, in un sistema che ha fatto della dialettica storica il suo motore, in momenti di crisi perfino l’antagonismo può essere una risorsa, purché quest’ultimo – interno o esterno che sia – non serva a mascherare più vere contraddizioni. Si obietterà che l’orizzonte della Nussbaum è precipuamente esistenziale. Pertanto, il nostro accostamento al pensiero di Žižek può suonare arbitrario. L’antagonismo della sua Medea è così “reale”, da porsi al di là di ogni “minore” contraddizione e possibile mediazione, non soltanto simbolica ma anche etico-politica.33 Non dimentichiamo però che Žižek prende pur sempre le mosse dalla filosofia psicoanalitica di Lacan, e che influssi lacaniani non sono assenti nel pensiero della Nussbaum. Sebbene si riferisca al poeta latino Lucrezio anziché alla Medea of Stanley Cavell, a cura di T. Cohen, P. Guyer e H. Putnam, Lubbock: Texas Tech University Press, 1993; pp. 307-344. Poi, in James J. Clauss e Sarah I. Johnston (a cura di), Medea: Essays on Medea in Myth, Literature, Philosophy, and Art, Princeton University Press, 1997; pp. 219249 (versione ridotta dall’autrice). Qui traduciamo da M. C. Nussbaum, The Therapy of Desire: Theory and Practice in Hellenistic Ethics, Princeton University Press, 2013 ; pp. 439-483 (si veda qui la nota 12, per quanto riguarda una traduzione italiana integrale). 33 Si vedano i riferimenti bibliografici, alla nota 4. Si tenga presente che il concetto di una “contraddizione antagonista” è di ascendenza marxiana, o rientra in una tradizione marxista di indirizzo maoista. Circa il problematico recupero di un senso di prossimità, paradossalmente in quest’era che si compiace di definirsi della “globalizzazione”, si legga invece sulla nozione di Neighbour nel secondo capitolo di S. Žižek, Violence, Londra: Profile Books, 2009. 29 di Seneca, è lei stessa a sostenere nella stessa opera: “Lucrezio vede qualcosa che solo di recente è stato riscoperto nel pensiero politico occidentale: il personale – la vita delle emozioni e delle intime associazioni in ciascuno di noi, incluse quelle a carattere erotico – è politico, formato dalla società” (Lucretius sees something that has only recently been rediscovered in Western political thought: that the personal – the life of the emotions and one’s own intimate associations, including erotic associations – is political, formed by society; p. 504). In Medea, si è già detto, quel sociale Super-io non ce la fa ad aver ragione delle sue emozioni. Lei è un’anomalia che viene da lontano, ovvero da un intimo altrove. Per lo più, una radicata convenzione vuole che l’inconscio personale corrisponda al sé. Medea suggerisce che esso può essere l’altro, proprio in quanto sconosciuto o addirittura ignoto. Lacan potè insinuare che l’handicap cui reagisce Medea è una privazione dell’érōs. Ma questa, nel caso specifico, non è che una privazione dell’altro cosciente, il quale può essere rimpiazzato da un sostituto remoto/rimosso, e più o meno tenebroso. Nella mitologia assistiamo a qualcosa di simile, quando nell’animo di Arianna abbandonata a Teseo subentrò il dio Dioniso, simulacro che alcuni hanno fatto coincidere col suicidio dell’eroina. Inoltre, a quale società allude la Nussbaum? A una conosciuta, anzi familiare. Dissimulata da mitica “età dell’oro” sulla scorta di Seneca, quella che lei ci fa intravedere somiglia alla società nord-americana odierna o a una del benessere analoga: “L’età è d’oro perché la gente ha ogni bene a casa con sé, ma sono beni usualmente esteriori” (The age is golden because people have all good things at home with them – but the good things are the usual externals; p. 467). La carenza di alterità assume qui una valenza alternativa fra materialismo e spiritualità, che altrove può essere quella più scandalosa tra consumismo e indigenza. Žižek sembra più sensibile a questa seconda implicita istanza, senza che perciò la sua Medea diventi automaticamente paladina allegorica di diseredati o oppressi. Se non altro, i suoi punti di riferimento mentali spaziano “più altrove”, rispetto alla Nussbaum. Tra alterità e alienità, fra contraddizione e antagonismo, essi sottendono un’area di prossimità che è conoscenza reciproca, mutuo riconoscimento, premessa all’accettazione dell’altrui diversità. In ultima analisi, le loro discrepanti visioni di Medea sono proiezioni complementari di una diffusa insoddisfazione o comune inquietudine. In effetti, tanto non ha impedito ai due di dissertare in simultanea in un film documentario a sfondo filosofico intitolato Examined Life e girato nel 2008 da Astra Taylor, rispettivamente in un’estemporanea New York idillica e in un’oscena discarica suburbana. Iniziata in realtà prima della Medea di Seneca, la spettacolarizzazione della filosofia conosce così un sussulto di attualità, salva qualche tardiva perplessità manifestata dalla Nussbaum. Oltre che a differenti discorsi, questa volta il contrasto è affidato alle ambientazioni e a una tacita inversione di ruoli: il Central Park al posto dell’Ellade, la discarica quale novella Colchide. L’una non può sussistere, senza l’altra? Ne conseguono, a ogni modo, quasi un Giasone/Nussbaum e una Medea/Žižek! 34 34 Si veda al sito Web http://www.partiallyexaminedlife.com/2012/10/30/film-review-examinedlife/. Alla messa in scena, partecipano anche altri filosofi. Intuibilmente, tutto nostro è il tendenzioso accostamento Central Park/Ellade, e Colchide/discarica urbana. Ma, già presso l’apologista cristiano latino Tertulliano, l’area intorno al Mar Nero era exemplum di ogni morale sozzura (Adversus Marcionem, I 1). Quanto poi a un sottofondo filosofico nella tragedia di Seneca, si legga Eckard Lefèvre, “La Medea di Seneca. Negazione del ʻsapiente’ stoico?”, al sito Web http://www.freidok.uni-freiburg.de/volltexte/4785/pdf/Lefevre_La_Medea_di_Seneca.pdf (da Seneca e il suo tempo: atti del Convegno internazionale di Roma-Cassino, [...] 1998, Roma: Salerno, 2000; pp. 395-416). 30 11 – Due Medee caucasiche, in accordo con l’origine mitica dell’eroina: in alto, Medea col “vello d’oro”, particolare di statua di D. Khmaladze nella piazza principale di Batumi in Georgia; in basso, Ilona Markarova in Medea Episodes, al Centro d’Arte Moderna S. Kuryokhin di San Pietroburgo nel 2010 Personaggio, persona, personalità Fa sorridere l’idea bizzarra, di una Medea impersonata dal barbuto Žižek. Può esserci mai qualcosa di mascolino, in colei che Lacan magnificò quale vraie femme? Eppure, non sono mancate parodie sdrammatizzanti il mito, interpretate da irridenti drag queens. Scherzi filosofici a parte, ci concediamo qualche sommaria osservazione personale. La differenza può suscitare curiosità e interesse, attrazione o avversione, ma può anche naufragare nell’indifferenza. Per un personaggio, è il peggiore dei sentimenti, anzi un non-sentimento 31 che ne mette a repentaglio la sussistenza. I pirandelliani Sei personaggi in cerca di autore compiranno questa ricerca, pure per sfuggire a un tale rischio. Un’altra eroina di Euripide, Alcesti, nel dramma omonimo sta per sacrificarsi offrendosi di morire al posto di altri, quando un farsesco Eracle affronta il demone della morte e la sottrae alla morte stessa. 35 Paradossalmente Alcesti vuole morire sì per altruismo, ma anche per esserci di più, almeno nella memoria dei propri cari, compresi i due figli (un parallelismo inverso con quelli di Medea può ben essere stato un piccolo, criptico, colpo di genio dell’autore). Un demone contro cui lotta Medea, a costo della propria abiezione, è l’indifferenza altrui verso l’altro. Parafrasando Alvaro, la “lunga notte di Medea” è fatta di gradini scivolosi: abbandono, indifferenza, abiezione. Se l’abbandono è il non essere più amata, l’indifferenza comporta il non sentirsi neppure considerata. Abiezione è il ciglio, oltre il quale si spalanca il baratro della non-esistenza in quanto Medea, o – se si preferisce – dell’annullamento della propria differenza caratterizzante e costitutiva del personaggio. L’alternativa è di tornare a essere Medea a tutti i costi, appunto il personaggio che gli altri le hanno cucito addosso, e che adesso temono che ella sia, anche se non abbastanza da crederci fino in fondo o da trarne le estreme conseguenze. Prigioniera di quel personaggio, il suo essere Medea è un non poter essere altrimenti. Ma perfino questo essere se stessa è frutto di un sofferto rifiuto, stando a Seneca, di essere per assurdo l’altra che sarebbe stata acconsentendo all’imperativo categorico cede pietati, dolor. Medea sceglie di essere abietta in senso attivo piuttosto che passivo, di non subire l’abiezione come ricatto, ma di farne un’arma micidiale e spiazzante contro ogni ipocrisia. Gelosia e vendetta agiscono in concomitanza, quasi sicari ancor più che veri e propri moventi. Tanto fa ritenere di trovarci di fronte a uno dei personaggi più complessi partoriti dalla tragedia antica, dall’immaginazione di Euripide innanzitutto. Fatto sta che, già in Euripide, la differenza originaria di Medea non è solo caratteriale; è di genere, etnica e culturale. Quando non si traduca in aperta avversione, la nonconsiderazione altrui si estende a questi aspetti della personalità, che una volta avevano potuto concorrere a una sua attrattiva. Fascino dell’esotico e fobia dell’estraneo possono essere manifestazioni alterne o ricorrenti degenerazioni di un’ambivalenza di fondo, che denota incomprensione verso l’altro, tanto più da parte di una cultura che si reputi superiore o più civile. Da tale congegno narrativo dipende in buona parte la “prosopopea” del personaggio, il suo costituirsi e proporsi a successive interpretazioni o moderne rielaborazioni. È pur vero, più che a lucido antagonismo, la reazione di Medea sembra improntata a un risentimento refrattario a ogni razionalizzazione. Ma su una percezione negativa del “risentimento” pesano prima le critiche degli Stoici, poi una comprensibile riserva cristiana, infine la pregiudiziale di Nietzsche. Così come formulata negli scritti di quest’ultimo, non dimentichiamo che quella pregiudiziale si prestò a divenire un pretesto a fondamento dell’antisemitismo, finendo per coinvolgere Cristianesimo e Socialismo. La tesi, che un certo pensiero nietzscheano abbia contribuito all’insorgere del razzismo fascista, in quegli improvvidi passi trova purtroppo un argomento a sostegno benché indiziario. 36 35 Cfr. Seneca, Medea, vv. 662-663: “a costo del sacrificio della vita,/ la sposa dell’eroe di Fere lo riscatterà dalla morte” (coniugis fatum redimens Pheraei/ uxor impendes animam marito). Re di Fere e figlio di Ferete, Admeto marito di Alcesti era stato uno dei mitici seguaci e compagni di Giasone nell’impresa degli Argonauti sulla nave Argo, alla conquista del “vello d’oro”. 36 Cfr. Friedrich Nietzsche, in Umano, troppo umano, vol. II, parte I, e Genealogia della morale, saggio I. Vale la pena di annotare come al ressentiment, nella sua versione attribuita all’invidia 32 Diversamente dalle persone, accidentalmente calate in un determinato spazio-tempo, un personaggio è sì vincolato a un luogo e tempo originari, ma risente anche di quelli in cui venga replicato o nuovamente rappresentato, potendo al limite adattarsi a essi. Medea è uno dei personaggi che sa meglio sfruttare una tale ubiquità D’altro canto, nella psicologia antica c’è la posizione di Epitteto. Egli obietterebbe che il personaggio è pur sempre limitato nelle sue opzioni, mentre la persona che si trovi in situazioni analoghe mantiene un margine di scelta, in cui l’insegnamento fornito dal personaggio di Medea può essere utile soprattutto per antitesi. A prescindere dalle soluzioni rinunciatarie prospettate dal pensatore stoico, e che rientrano in quella storicizzata morale, si apre così – attendibilmente, per la prima volta – uno spazio fra personaggio e persona, che precorre la moderna personalità. Il salto di qualità non sarebbe stato probabilmente concepibile, senza un lunga propedeutica teatrale, a partire dalla tragedia greca e in particolare da Euripide. La Medea di quest’ultimo, nella sua esasperata contraddittorietà, era l’esempio che meglio si prestava. In termini aggiornati, grazie alla mediazione mitopoietica e alla sublimazione artistica il personaggio emerge dall’inconscio collettivo, confrontandosi con un Super-io imposto dal tempo e dal luogo dell’autore. Ma quello simula pure, per quanto con sé compatibile, la libertà della persona. Mediante questa dialettica, esso consegue una personalità, che riferendosi a Medea sempre Epitteto definisce comunque “di grande temperamento” (μεγαλοφυῶς; Diatribe, II 17, 19). Quest’avverbio di non facile traduzione potrebbe anche rendersi come “con un sentire non comune”, e suggerisce di per sé una spiegazione del successo del personaggio. Nell’etimologia della parola greca, occhieggia la radice verbale di phýsis (φύσις, “natura”). Provocatorio paradosso, se si pensa al cliché di Medea assassina dei suoi figli, è la stessa radice del verbo φύω, “genero” in forma attiva e “nasco” in forma intransitiva. Chiaramente qui si allude alla natura umana, a quel tanto di sconcertante che la differenzia e caratterizza sia nel bene sia – nel caso in questione – nel male. Ed è ciò che già Sofocle qualificava come “quanto di più terribile” (δεινότερον, deinóteron), per bocca del coro tragico nel primo stasimo dell’Antigone. La terribilità di Medea rompe gli schemi, fa del personaggio una personalità in cui non pochi possono in parte rispecchiarsi, arrivando a temere di se stessi in circostanze impreviste dell’esistenza. Se davvero le persone sono uniche e irripetibili, e se per personalità s’intende qualcosa di non strettamente individuale ma esteso, di cui tutti possiamo partecipare, chi più chi meno a secondo del proprio “tipo psicologico”, allora il personaggio diventa un tramite fra personalità e persona. È questo, esattamente, il ruolo interpretato da Medea, attrice di sé medesima in quanto natura umana controversa. Se Medea potesse smettere di recitare, finirebbe per somigliare troppo a una persona, schiacciata dal carico del personaggio che le è stato assegnato o le è toccato in sorte. Nemmeno la rimozione potrebbe essere di sollievo. Dimenticare Giasone, dimenticare Corinto, dimenticare l’Ellade. Ignorare pure tutti noi, che stiamo lì a giudicarla da circa duemilacinquecento anni. Ma è quanto un personaggio non può fare, specialmente uno così personalizzato come il suo, infine lacerato fra coazione a ripetere e rimorso. Intuibilmente, c’è qualcuno in particolare che Medea non riesce a scordare. Nel finale del suo monologodialogo col fantasma di Giasone, ce lo dice quella di Augusta Webster, in cui personaggio e sociale, socialismo e capitalismo abbiano proposto razionalizzazioni o compensazioni diverse: la rivendicazione nel primo caso, la competizione nel secondo. Nel suo “piccolo”, Medea né concepisce di rivendicare né è più nella condizione di poter competere, ma neppure accetta per questo di venir liquidata o “esodata”, tanto per usare un triste neologismo oggi in voga. Solo in tal senso, effettivamente, si potrebbe considerarla un’eroina alquanto nicciana ante litteram... 33 persona entrano in collisione schizofrenica, anche per effetto di una percezione ormai tardoromantica della personalità: “Sì, è stato meglio così. Figli miei, adesso siamo vendicati./ Ma tu, non prendermi in giro! Che fa, se nei miei sogni malati/ io li vedo evitarmi, volando via impauriti?/ Quando mai potrei saziare questa bocca affamata di baci?/ Che fa, se gemo e mi agito arsa dalla febbre,/ piangendo per chi non avrò più?/ Né qui né fra i morti, mai più nessuno,/ né qui né fra i morti, nessuno mi sorriderà/ con labbra infantili balbettando ʻMadre, cara madre’./ Che fa, se mi sento male quando le altre passano/ conducendo i loro figli, e io non posso soffrire quei visi di bambini?/ Che fa, se…/ Vattene, dunque, va’. Il tuo spettro mi ricorda i miei figli,/ ed è allora che ti odio di più. Tornatene alla tua tomba!”.37 12 – I filosofi Martha Nussbaum e Slavoj Žižek, in Examined Life, documentario di Astra Taylor del 2008 Il terzo interlocutore Il ritorno di attenzione per la tragedia di Seneca assume la valenza di una piccola 37 A. Webster, “Medea in Athens”, in Portraits, Londra: Macmillan and Co., 1870 e 1893; anche in A. W., Portraits and Other Poems, a cura di Christine Sutphin, Peterborough, ON, Canada: Broadview Press, 2000, pp. 169-177 (vv. 269-282, nostra traduzione). Nella raccolta, il poemetto è associato a un altro dedicato a Circe, l’omerica maga seduttrice imparentata con Medea secondo il mito. Cautamente “riscoperta” da una critica femminista, la Medea della Webster non ha ancora ricevuto tutta l’attenzione generale che merita. Cfr. Melissa Valiska Gregory, “Augusta Webster Writing Motherhood in the Dramatic Monologue and the Sonnet Sequence”, in Victorian Poetry vol. 49, n. 1, 2011, West Virginia University Press; pp. 27-51. 34 rinascita senecana, non solamente sotto l’aspetto letterario. I tempi di crisi che attraversiamo presentano qualche vaga analogia, con quelli avvertiti dall’antico pensatore e politico quali premonitori di una decadenza dell’Impero Romano. Né è la sola Nussbaum, ad aver avviato una rivalutazione critica della Medea di Seneca. In Medea, le Medee, intervento del 1999 al convegno di Monte Sant’Angelo “Scienza, cultura, morale in Seneca” (qui citato alla nota 17), Giovanna Petrone ripercorreva le Medee della letteratura latina, per mettere meglio a fuoco quella senecana. Particolare oggetto di analisi era il coro di quest’ultima, composto di uomini invece che di donne di Corinto come in Euripide. La variazione permise all’autore di spaziare dalla sfera privata del personaggio a quella pubblica, con lui larvatamente coeva. Sollecitata in merito da chi qui scrive, in una mail la stessa studiosa palermitana ribadisce e attualizza in breve la sua posizione di allora: “Il mito di Medea ha sicuramente molto da dire. Anche riguardo all’odierna ʻglobalizzazione’. Per quanto riguarda Seneca, secondo me, la condanna della navigazione argonautica, cui Medea è strettamente legata, significa una tendenza ideologica (tradizionale nella mentalità romana conservatrice) che in termini moderni, con qualche forzatura, potremmo definire ʻantiglobale’. I cori senecani raccontano degli argonauti caduti ad uno ad uno per aver commesso l’empietà di solcare il mare”. Il riferimento è ai cori secondo e terzo della Medea di Seneca, i quali più che quelli della Medea di Euripide possono ricordare il celebre primo stasimo dell’Antigone di Sofocle (a quest’ultimo e alla seconda ode corale della tragedia senecana, si è accennato qui in precedenza). La “navigazione argonautica” sta per una dilatazione artificiosa e strumentale degli orizzonti umani, che per il filosofo stoico – fautore della scienza, ma diffidente verso la tecnica – poteva comportare più danni che vantaggi, specialmente se attuata in deroga dal precetto di una vita secondo natura e in violazione addirittura di un equilibrio cosmico. Inoltre, ciò che suona “conservatore” se rapportato all’epoca di Seneca può almeno in parte risultare progressista al giorno d’oggi, in condizioni storiche profondamente mutate ma perfino peggiorate da quel punto di vista specifico. Non per la prima volta, filologia classica e filosofia contemporanea si tendono la mano, così come conoscenza e coscienza non potevano essere dissociate secondo Seneca. La riflessione della Petrone e quella della Nussbaum si collocano sulla stessa linea, pur senza trarre le conclusioni estreme di Žižek. Quasi altrettanto interessante, ci sentiamo di aggiungere, è la funzione corale nelle Medee classiche, siano esse di Euripide, di Seneca o – perché no? – del poco conosciuto e meno apprezzato Osidio Geta. Questi cori non sono meri portavoce degli autori. C’è una loro conseguente metamorfosi o dislocazione, in ordine ai tempi e luoghi delle singole composizioni. Tempi successivi, fra loro più o meno distanziati, che una generica nozione di antichità rischia di appiattire. Si è già detto, il coro è una specie di meta-personaggio, che si fa espressione di un Super-io mutevole sia in relazione all’autore, sia in quanto applicato al personaggio della protagonista. Insistendo nel comodo prestito di una terminologia freudiana, la drammatizzazione essenziale non si svolge solo tra l’Ego e l’Id di Medea, fra un io scenico e il sé tragico, ma anche con l’interlocutore del coro/Super-io. I cori di Euripide e di Seneca sono rispettivamente formati da Corinzie e Corinzi. Quello di Geta torna a essere femminile. Né è una differenza da poco, questa volta le coriste interpretano immigrate dalla Colchide, si presume al seguito di Medea. In “buona” o “cattiva” misura, i cori sono interiorizzazioni/esternazioni di Medea. Se quello di Geta prevale, all’opposto quello di Seneca è una componente ellenizzante e maschile, rigettata da Medea stessa. Chiunque egli fosse, e non è facile stabilirlo, Hosidius Geta non doveva essere del tutto un dilettante, disponendo di una buona formazione culturale e retorica. Se la sua opera 35 è un “centone” di versi virgiliani, esercizio per noi scolastico e alquanto astruso, suo modello contenutistico dovette essere Seneca. Dalla struttura di quella senecana, la sua Medea combinatoria si discosta per almeno due caratteristiche. Di una si è appena scritto, a proposito del coro. L’altra è la messa in scena del fantasma di Apsirto, fratello di Medea trucidato da Giasone e da Medea o con la sua complicità, durante la loro fuga dalla Colchide dopo la furtiva conquista del “vello d’oro”. Nella tragedia senecana, penultima scena, quello spettro è evocato nelle parole di Medea, mentre nel dramma di Geta esso diventa una presenza recitante, anche se per ben poche battute. Non nuovo nella letteratura latina, per quanto concerne Medea l’espediente inaugura una spettrale rappresentazione dell’inconscio, che ritroveremo nello pseudo-dialogo della Webster, nelle vesti del fantasma di Giasone. Caratteristica complessiva di Osidio Geta – forse un grammatico nord-africano, dato peraltro che la sua opera ci è giunta nell’Anthologia Latina – sarebbe una velleità di apparire più senecano di Seneca, nonostante che non manchino influssi di Ovidio e di Apollonio Rodio. Ma ammettiamo e non concediamo che il non meglio identificato drammaturgo sia quello Gneo Osidio Geta, generale e senatore romano del primo secolo d. C. documentato specialmente dallo storico Cassio Dione. Gneo fu pressoché coetaneo di Seneca. Allora, si porrebbe un problema di priorità fra i due, con riguardo alla composizione delle rispettive Medee. Sta di fatto che la moda dei centoni virgiliani, di cui Geta potrebbe essere stato iniziatore o precursore, è assai più tarda. Soprattutto, resta altamente improbabile un Seneca che si ispirasse al modesto modello offerto dal centonista, per svilupparne e ampliarne alcuni motivi, modificandoli secondo il proprio genio. Salvo possibili smentite filologiche, rimane quindi valida una datazione dell’autore virgiliano-senecano a cavallo tra secondo e terzo secolo, in base a una menzione con sufficienza di lui e della sua Medea, da parte dell’apologista cristiano Tertulliano nella sua Prescrizione contro gli eretici (cap. 39). Tuttavia, modestia letteraria non vuol dire per forza carenza di sensibilità artistica. L’originalità del coro di questo dramma in formato ridotto, che ne facciano parte donne caucasiche anziché di una città greca, fa sì che in qualche modo esso esprima un’istanza identitaria alternativa, ipotizzabile in un autore che abitasse la periferia dell’Impero o che ben la conoscesse giocoforza come Gneo Osidio Geta, impegnato ad ampliarne i confini. Altra conseguenza, le fiere “coriste” sono più inclini ad assecondare la protagonista, nel suo equivoco intento di tornare a essere la Medea di una volta, “vera” che fosse stando a Seneca o acquisita e subita secondo la Webster. Dall’originale, traduciamo i versi 44-51, rivolti dal coro a lei in difficoltà: “Ancora non sai, o donna perduta,/ quale follia ti ha preso/ di esporre il tuo capo ai pericoli?/ Son queste le supreme mete che ci attendevano,/ ciò che riservavano a noi le fiaccole e gli altari?/ Accetta dunque il nostro consiglio:/ estrai la spada dal fodero/ e col ferro estirpa la sofferenza!” (Nescis, heu perdita, necdum/ quae te dementia cepit,/ caput obiectare periclis?/ Haec nos suprema manebant,/ hoc ignes araeque parabant?/ Nostra nunc accipe mentem/ vaginaque eripe ferrum/ ferroque averte dolorem!).38 38 Testo latino a cura di Rosa Lamacchia in Hosidii Getae Medea: Cento Vergilianus, Lipsia: Teubner, 1981 (per altri cenni bibliografici, si veda la nota 11). Nella formulazione di Virgilio riadattata da Osidio, per la verità gli ultimi versi si riferivano al suicidio di Didone nell’Eneide. 36 13 – Epitteto, particolare del frontespizio della traduzione latina di Edward Ivie, del Manuale del filosofo (Oxford, 1715); sotto, la poetessa Augusta D. Webster in due stampe tratte da fotoritratti eseguiti dal fotografo romano Ferrando, nel 1882 circa Cento maschere, un “karma” Abbiamo incontrato una Medea della Colchide e altre di Arles, di Napoli, di Baghdad, della Crimea... Tante maschere, per un personaggio o un volto. Sussiste anche una Medea nipponica? Negli anni Ottanta e Novanta del ’900, ha riscosso successo in Giappone la Medea portata in scena dal regista Yukio Ninagawa, basata su quella di Euripide ma adattata alla cultura e ai costumi locali. Oggi, Yayoi Hirano e Peter Hall hanno curato una MedeaRokujo di prossima rappresentazione all’Orpheum Annex Theatre di Vancouver, in Canada, che vuol essere una contaminazione fra due tradizioni letterarie. A detta della Hirano, interprete e innovatrice del teatro Nō, mimo nonché artefice di maschere teatrali, c’è infatti nella letteratura giapponese un personaggio femminile assai simile a Medea: la maga 37 Rokujo nel Genji Monogatari, scritto mille anni fa dalla narratrice Murasaki Shikibu, e che riappare nel dramma Nō Aoi no Uye, “La nobile Aoi”, di Zenchiku Ujinobu (1414-1499).39 Probabilmente questi revisionò un canovaccio pre-esistente, di autore incerto. Altri attribuiscono tale revisione a Zeami Motokiyo (1363-1443). Chiunque fosse questo revisore, è altrettanto probabile che si debba a lui se la vicenda rappresentata si discosta da quella di Rokujo no Miyasudokoro narrata nel “Racconto di Genji”, avvicinandosi alla Medea euripidea tanto da far sospettare che il drammaturgo conoscesse perlomeno un resoconto della tragedia greca. Rispetto al romanzo, l’atmosfera è più surreale, quasi onirica. Per la verità, fra i misfatti ascritti a Rokujo per amore e gelosia del principe Genji – un po’ il suo Giasone – non rientra il filicidio, principale elemento caratterizzante la Medea di Euripide. Ma qui meno interessano le somiglianze tra i due personaggi, e se esse siano coincidenze oppure no. Piuttosto, coinvolge la ricerca del possibile riscontro di un sostrato psicologico archetipico, comune a culture così diverse e distanti fra loro. Ancor più che con la Medea euripidea, qualche analogia può rinvenirsi fra il palese contesto buddhista della Rokujo di Ujinobu e quello della Medea di Epitteto. A chi venisse a trovarsi in un travaglio paragonabile a quello di Medea, quando lei è ancora indecisa se commettere i suoi efferati delitti, il pensatore stoico proponeva i seguenti opinabili rimedi: “Non desiderare l’uomo, e niente di ciò che desideri mancherà di avverarsi. Non ostinarti a desiderare che egli viva con te. Non desiderare di rimanere a Corinto. In poche parole, non desiderare niente che dio non voglia. Allora, chi ti opporrà impedimenti? Chi mai ti obbligherà? Nessun mortale potrà costringerti più di quanto possa farlo con Zeus stesso. Quando tu avessi una tal guida, e i tuoi auspici e desideri fossero pari ai suoi, non temeresti delusioni” (libro II, diatriba 17). In maniera ben più “apatica”, dal canto suo la Rokujo di Ujinobu esclama: “In questo mondo delle apparenze, dove i giorni lampeggiano come fulmini,/ niente e nessuno è meritevole di odio oppure di pietà:/ ecco ciò che ho appreso. Quando, dunque, la follia si è impadronita di me?”.40 Oggettivamente, lo Stoicismo condivise col Buddhismo l’idea che il desiderio – o qualsiasi altro sentimento degenerabile in passione egocentrica – sia la radice del male e della sofferenza, dando origine a illusioni le quali a loro volta generano 39 Si veda John E. Greenaway, East meets West in Medea (Rokujo): In Conversation with Yayoi Hirano, al sito Web http://jccabulletin-geppo.ca/featured/east-meets-west-in-medea-rokujo/. L’accostamento con Medea non è comunque nuovo; basti leggere Carol Sorgenfrei, Medea: A Noh Cycle Based on the Greek Myth, New York: Samuel French, 1975. Cfr. anche Mae Smethurst, “The Japanese Presence in Ninagawa’s Medea”, in Medea in Performance 15002000, a cura di Edith Hall, Fiona Macintosh e Oliver Taplin, Oxford: Legenda, 2000. 40 Cfr. Arthur Waley (a cura di), “Aoi no Uye”, in The Nō Plays of Japan, New York: Alfred A. Knopf, 1922; pp. 143-152, in particolare p. 147. Interessante sotto l’aspetto psicologico ma filologicamente contestata è una precedente traduzione-interpretazione del poeta statunitense Ezra Pound, in Ernest Fenollosa ed E. Pound, “Noh” or Accomplishment: A Study of the Classical Stage in Japan, Londra: MacMillan, 1916; pp. 193-205. Traduzioni italiane sono reperibili in Leo Magnino (a cura di), Teatro No e Kabuki, Milano: Nuova Accademia, 1965; Gian Pietro Calasso e Tsugako Hayashi, “La principessa Aoi (Aoi No Ue). Un testo attribuito a Zeami”, Sipario: rassegna mensile dello spettacolo n. 294, 1970, pp. 18-21; Gian Carlo Calza (a cura di), L’incanto sottile del dramma Nō, Milano: Scheiwiller, 1975. Ad Aoi no Uye si ispirò pure il poeta irlandese William B. Yeats, nella pièce del 1922 The Only Jealousy of Emer. Soprattutto, si ricorda un rifacimento-adattamento teatrale moderno di Yukio Mishima, del 1954. 38 disillusione e frustrazione.41 Ne deriva un ideale ascetico di vita o quasi, il quale sarebbe arduo immaginare applicato a Medea. Più di quest’ultima, Rokujo è contesa fra possibile pentimento e repressa coazione a ripetere, fino a sdoppiarsi in uno spirito malvagio, ruolo in cui compare nella spettacolarizzazione succinta di Ujinobu. Vi sono inoltre presenti il coro e le maschere, interfacce tra personaggi e persone come già nella tragedia greca e latina. Spetta al coro richiamare la religiosità buddhista, alternando al giapponese citazioni in sanscrito, antica lingua indiana imparentata alla lontana con greco e latino, e che per un giapponese non solo buddhista doveva suonare all’incirca classica e sacrale a un tempo. Quella di Ujinobu, o di chi per lui sulla scorta del romanzo di Murasaki Shikibu, è una drammatizzazione della cattiva coscienza ovvero di un kārman gravato da sensi di colpa, per dirla con un’espressione sanscrita buddhista. Il desiderio omicida di Rokujo nei confronti delle sue rivali in amore si sarebbe “magicamente” tradotto e attuato nella realtà. L’incontrollabile sdoppiamento di lei nell’alter ego autore dei suoi crimini è in effetti un fenomeno, che può ricordare la dissociazione della personalità latente nel personaggio di Medea, quasi di un Dottor Jekyll e un Mister Hyde al femminile. In un certo senso e misura, Rokujo è ignara mandante del male. Benché pure lei affetta da condizionamenti inconsci, Medea ne è un’esecutrice cosciente. Nondimeno, anche in questo caso è assai ridotta la capacità di intervento del cosiddetto “sé normativo”, nell’edificazione di un sé soggettivo rispetto all’urgenza di uno oggettivo. Un sottile discrimine corre tra libertà decisionale della coscienza, costitutiva del soggetto responsabile di Epitteto, e una “karmica” predestinazione al male e alla sofferenza, difficilmente estinguibile nell’ambito di una singola esistenza. Questa seconda concezione è chiaramente inquadrabile nella credenza buddhista nella reincarnazione. Condanna dello “spirito” di Rokujo è di continuare a sdoppiarsi sempre, tanto in vita quanto dopo la morte della persona, salvo una sua liberatoria ed esemplare conversione prevista nel finale del dramma. Non per nulla, era prescritto un cambiamento di maschera dal primo al secondo atto, dal leggiadro aspetto di una dama di corte – semicelato da un velo – a un sembiante diabolico. Un po’ meno ingenuamente, da parte nostra possiamo tornare a trasferire una tale abilità e costrizione metamorfica dallo “spirito” di Rokujo a Medea. Se si addice a un personaggio un “karma”, e non c’è motivo plausibile per negarlo, allora quello di Medea è attendibilmente la vocazione a calarsi in tempi e a scindersi in luoghi differenti, a rivestire tante maschere quante ne rendano riconoscibile il volto, pur senza che venga mai completamente allo scoperto. Eccezionalmente, ella può adottare nomi diversi dal suo. Ciò non impedirà a lungo che venga identificata in quanto Medea, a rischio di qualche azzardo o arbitrio che scandalizzerà il critico o il filologo. Un personaggio come il suo è destinato a trasmigrare da personaggio a personaggio, a riflettersi di persona in persona, ovunque vi sia un tanto di personalità da poter condividere. E quella personalità può ben essere collettiva. Alla base del successo di Medea c’è un trucco di una genialità “assoluta”, tutta euripidea: usare l’altro, addirittura l’alieno, per designare il 41 Benché applicate al solo Stoicismo di Seneca – e, possiamo aggiungere, di Epitteto –, a conclusioni analoghe se non più radicali perviene Alessandro Schiesaro in “Seneca e la negazione del sé” (“Seneca and the Denial of the Self”, in Seneca and the Self, a cura di S. Bartsch e D. Wray, Cambridge University Press, 2009; pp.221-235). Ciò, analizzando alcuni personaggi tragici senecani, fra cui Medea. Centrale nella dottrina duddhista, la negazione antitetica del sé personale assume il nome sanscrito anātman, là dove ātman sta per “sé”. È poi abbastanza scontata un’affinità o somiglianza tra il concetto greco di némesis e quello originariamente indiano di kārman, comune a Induismo e Buddhismo. 39 medesimo. Né è affatto scontato che questo medesimo intuibile ma inconoscibile sia la civiltà greca o occidentale, come quando sulla scena incede Antigone, o la barbarie come quando sulla stessa irrompe Medea. In ciò la Medea di Euripide può rammentare le sue Troiane, semmai I Persiani di Eschilo, più che l’Antigone di Sofocle. Anche quella civiltà o barbarie è una maschera, relativa a un inconscio onnicomprensivo eppure dialettico, in cui i ruoli diventano al limite intercambiabili. Quella della Medea è una rappresentazione al limite. Esagerava pure Aristotele nel criticare che il finale sa di deus ex machina, perché il carro del Sole su cui s’invola Medea sta lì a suggerire che non c’è niente di davvero alieno sotto il sole, nonostante l’infinita varietà delle forme che la Natura o la Storia assumono. 14 – M. Nation in una scena della Medea of Baghdad di A. Alizadeh, rappresentata nel 2011 al La Mama Theatre di Melbourne, nel vecchio quartiere caratteristico degli immigrati italiani: Carlton In viaggio con Medea Proprio perché le rappresentazioni di Medea chiamano spesso in causa l’inconscio individuale o collettivo, non c’è dubbio che esse siano una delle prime, più durevoli e ricorrenti drammatizzazioni della coscienza personale nel suo complesso. Fin dall’esordio euripideo, raramente questa drammatizzazione resiste alla tentazione del monologo, con tutti i suoi interlocutori fittizi o simulati fantasmi, proiezioni di se stessa ed ectoplasmi della memoria. Che il referente sia reale o immaginario, che il monologo sia rivolto ad altri o un soliloquio esternato per il pubblico, Medea resta il personaggio monologante per eccellenza. Sono i suoi monologhi a farne l’attrice di un Ta eis heautón o di Confessiones al femminile, quasi anticipatrice di una “Coscienza di Medea” anziché di una Coscienza di Zeno. Se li disponessimo in ordine cronologico, in relazione all’esistenza dell’eroina, ne otterremmo una specie di biografia interiore intermittente, e l’impressione che il personaggio cresca indipendentemente dagli autori, da Euripide fino ad Augusta Webster e oltre. O, in qualche modo e misura, che prenda loro la mano lo sfuggente personaggio, così versatile e insieme unitario da far credere che non si sovrappongano più Medee nel tempo bensì sia una sola. Comunque, sulla Medea più matura si è qui scritto abbastanza. Limitiamoci alla prima 40 giovinezza nella Colchide e dintorni, che è poi quella che abbiamo meno esplorato. Certo, non possiamo saperlo fino in fondo. Tuttavia, vedremo come non vengano fuori elementi per cui si possa affermare che la ragazza avesse avuto un’infanzia difficile o un’adolescenza segnata da traumi psichici, ciò che sovente si sostiene per madri le quali per lo più inconsapevolmente riversino sui propri figli maltrattamenti subiti in più o meno tenera età da loro stesse. Tutt’al più, nel terzo libro delle Argonautiche di Apollonio Rodio abbiamo un monologo dove Medea, divenuta conscia del suo innamoramento per Giasone, contempla il suo eventuale e scandaloso abbandono-tradimento dell’ambiente patrio e familire in cui è cresciuta, alternando vergogna e apprensione a una potenziale nostalgia. A tal punto, da meditare il suicidio o desiderare la morte, assalita da tetri presentimenti: “Sussurrando il mio nome di bocca in bocca, le donne della Colchide mi sviliranno come colei che cedette a un’insana passione, presa dall’amore per uno straniero tanto da morirne, disonore per la sua casa e i genitori. Quale peggiore disgrazia? Al diavolo, la mia infatuazione! Meglio sarebbe questa notte nella mia camera essere privata della vita, sottratta a ogni riprovazione da un arcano destino, prima che possa portare a compimento quest’infamia” (vv. 793-801). 42 Sempre nel terzo libro delle Argonautiche, abbiamo più monologhi della giovane maga (vv. 464-470, 636-644, 772-801). Ma il più strano e implicito pseudo-dialogo lo troviamo nel quarto libro, quando nell’immaginazione di Medea, finalmente decisa a fuggire con Giasone, a lei si rivolge una personificata e fiabesca luna dal cielo. L’allusione è al mito della dea lunare Selene, innamoratasi del pastore Endmione condannato a dormire un sonno a tempo indeterminato, in un anfratto del monte Latmo: “Ecco, non più sola vado errando in cerca della caverna sul Latmo, né me sola arde l’amore per il bell’Endimione. Quante volte i tuoi incantesimi scaltri e insolenti mi hanno distolta dai miei pensieri amorosi, affinché nel buio della notte con più comodo tu potessi concentrarti sulle arti a te care! Adesso anche a te, posseduta da una passione simile alla mia, un demone impietoso ha assegnato Giasone come motivo di affanni. Va’, dunque, percorri pure la tua via. Per saggia che tu sia, prepara bene il tuo cuore a sperimentare un carico di pene condite di molti sospiri” (vv. 57-65). Per l’apprendista strega, la magia ha smesso di essere un gioco rituale, soppiantata o dirottata dalla passione amorosa insinuata dal numinoso Eros, con tutte le sue lusinghe, inconvenienti e incognite. I monologhi di Apollonio Rodio fungeranno da modelli per quelli di Medea, presso i latini Ovidio – specialmente nelle Metamorfosi – e Valerio Flacco. Negli Argonautica di quest’ultimo ci imbattiamo in un breve discorso di commiato, idealmente rivolto al padre, in cui quanto di familiare sta per lasciarsi alle spalle non pare, sia pure di riflesso, affatto inviso a Medea: “O Eeta, potessi tu abbracciarmi un’ultima volta prima del mio esilio, e vedere le mie lacrime! E non credere, padre, che colui che sto seguendo mi sia più caro di te. Potessi anzi, io con lui, sprofondare fra i turgidi flutti! Prego che a lungo, in pace e al sicuro, tu continui a regnare nella vecchiaia, e che i miei fratelli abbiano per te una migliore riuscita” (O mihi si profugae genitor nunc ille supremos/ amplexus, Aeeta, dares fletusque videres/ ecce meos. Ne crede, pater, non carior ille est,/ quem sequimur; tumidis utinam simul obruar undis./ Tu, precor, haec longa placidus mox sceptra senecta/ tuta geras, meliorque tibi sit cetera proles; libro VIII, vv. 10-15). Quasi si direbbe che l’eroina si stia sacrificando per il padre e per la patria, per allontanare da essi verosimili pericoli. 42 Cfr. Thalia Papadopoulou, “The Presentation of the Inner Self: Euripides’ Medea 1021-55 and Apollonius Rhodius’ Argonautica 3, 772-801”, in Mnemosyne vol. 50, fasc. 6, 1997; pp. 641664. In questi due esempi specifici, la grecista individua la nascita e un primo sviluppo del monologo interiore, come forma o tecnica espressiva letteraria. 41 Meno banale se non originale, sicuramente più suggestiva, è un’altra immagine che il poeta dell’età flavia ci restituisce ai versi 202-216: quella di Medea piangente, fuggitiva e incinta, seduta sulla poppa della nave Argo mentre costeggia nel Ponto Eusino/Mar Nero. È la scena che la latinista Caterina Lazzarini, in uno studio dedicato appunto all’ottavo libro degli Argonautica, definisce quasi un monologo silenzioso, paragonabile al celebre “addio ai monti” di Lucia Mondella nel romanzo I promessi sposi di Alessandro Manzoni.43 Qui abbiamo invece un soggetto che prima o poi si travierà in una sorta di “monaca di Monza”, altro famoso personaggio manzoniano. Ma, almeno “per ora”, ben poco lascia prevedere una sua trasformazione in negativo. Anzi, il tacito monologo è un piccolo gioiello di accorata malinconia, proiettata in un futuro esule e incerto, rotti ormai i ponti col recente passato. In particolare la frase conclusiva “e tante volte fra i gemiti, in errore, si leva in piedi a veder sorgere la montuosa Emonia”, totiensque gementem/ fallit ad Haemonios hortatus surgere montes, potrebbe far pensare che Manzoni abbia voluto ispirarsi proprio a questo passo di Valerio Flacco, se non fosse che tali monti immaginati sono quelli della Tessaglia, patria del pioniere Giasone e meta ultima del suo lungo viaggio di ritorno, tormentato e contorto. Viceversa, quello di Medea è un viaggio di sola andata, dritto in una vertigine di assoluto. Da quest’anamnesi approssimativa del personaggio sembra poter emergere che, effettivamente, la prima incrinatura nella psiche di Medea sia stata un brusco cambiamento ambientale, a seguito del distacco dal luogo di origine. Nei brani sopra considerati sia Apollonio Rodio sia Gaio Valerio Flacco si sforzano di dipingerla come una “gran brava ragazza”, al massimo con un debole eccessivo per l’hobby della magia, del resto neanche tanto stravagante o sospetto nella religiosità e cultura di estrazione. Evidentemente entrambi gli autori intendono ridurla a una figura di contrasto con la Medea di Euripide o di Seneca, cioè con quella che è un rispettivo antecedente letterario ma che pure, nell’ordine esistenziale degli eventi, deriverà da un più grave trauma successivo: il totale crollo delle proprie aspettative. I sensi di colpa iniziali nei confronti della sua famiglia e della sua gente sono piuttosto scontati e verranno, questi sì, facilmente sacrificati: si pensi alla complicità nell’assassinio di Apsirto. Qual è, allora, il complesso psichico originario, ammesso e non concesso che ve ne sia uno? Quando la sua zōḗ prende a entrare in attrito col suo bíos?44 Proprio un poeta non di rado reputato “minore”, quale Valerio Flacco, può fornirci un indizio utile, anche se non risolutivo. Si tratta di un fatidico monito pronunciato dalla madre di Medea al momento della sua partenza, nel disperato tentativo di trattenerla o farla rinsavire: “Che credi di poter fare, tu da sola, nelle terre degli Achei? Qual posto pensi di poter occupare, tu barbara, in mezzo a donne native della Grecia?” (Quid terris solam te credis Achaeis?/ Quis locus Inachias inter tibi, barbara, natas?; VIII 147-148). Ciò che 43 Si legga C. Lazzarini, L’addio di Medea. Valerio Flacco, Argonautiche 8, 1-287, Pisa: ETS, 2012. Si veda anche, e si ascolti, lo straordinario video “documentario” Medea: Made in the Black Sea diretto da Vincent Moon nel 2011; benché poco abbia a che spartire col mito originale, esso sottintende o presuppone una Medea figura non solo dell’altro, ma anche dell’altrove. 44 La dinamica bíos-zōḗ, fra esistenza individuale e flusso vitale, rientra in una linea di pensiero interpretativo di ascendenza aristotelica, che va da Hannah Arendt a Michel Foucault e a G. Agamben, in maniera sempre più critica. Sebbene non esaurientemente, essa può applicarsi al personaggio della Medea filicida e a casi personali consimili, rendendo conto di un insanabile conflitto interiore e pervenendo all’ipotesi che un bíos privato dei diritti elementari o leso nei bisogni espressivi primari possa arrivare a sopprimere la propria zōḗ in quanto partecipe di un “patrimonio” comune, come segnale di allarme sociale più che forma di rappresaglia privata. 42 questa signora sta inoculando, o finendo di inculcare, nell’animo della figlia pronta a spiccare il volo in cerca di una identità autonoma, è un pesante complesso di inferiorità. Parafrasando il titolo di un noto saggio di Julia Kristeva, Medea rischia di sentirsi “straniera a se stessa”. Quali che siano le loro intenzioni, le donne malignanti della Colchide e la luna matrigna stizzosa di Apollonio Rodio congiurano ai danni di lei, insieme alla madre possessiva evocata da Valerio Flacco. Non a torto si obietterà che tanto il poeta greco quanto quello latino ingentiliscono punti di vista maschili, oltre che dell’imperialismo prima ellenistico e poi romano, affetti da complessi di indulgente superiorità. Ma è pur vero, la Medea classica nella sua totalità è il prodotto di una immaginazione maschile. In quanto tale, nemmeno la si può pretendere esente da qualche sfumatura di trasversale misoginia... 15 – Una Medea in stile nipponico, adattamento di Y. Hirano e P. Hall, imminente nella programmazione dell’Orpheum Annex Theatre di Vancouver (particolare fotografico del poster dello spettacolo; sul volto della protagonista si noti una ricomparsa della maschera, nella versione del teatro giapponese Nō). Attualmente, di prossima uscita è anche l’ultimo romanzo incentrato sulla storia di Medea: Bright Air Black di David Vann, statunitense dell’Alasca Dislocazione e spaesamento Che l’antitesi venga avvertita fra coscienza e inconscio, tra personaggio e persona o addirittura fra bíos e zōḗ, cambiano la terminologia critica e i punti di vista teorici; permane un contrasto di fondo, a contraddistinguere e animare il personaggio. Da parte sua quest’ultimo, quale scaturisce dalle “testimonianze” letterarie e artistiche su esaminate, è straordinariamente composito eppure coerente. Ancor più che di dualità si tratta di complessità, sfuggente a ogni tentativo di definizione esaustiva del personaggio. Non c’è una Medea una volta per tutte, perché già quella “preistorica” del mito o “storicizzata” da Euripide intendeva esserlo solo a certi patti. Né c’è in lei la determinazione univoca di 43 un’altra eroina tragica al negativo, come Elettra. Il Medea nunc sum, l’essere “ora sì Medea” di Seneca è imposizione scenica di un io attore sulle potenzialità del sé, esemplare finzione catartica del personaggio affinché la persona dello spettatore fosse più consapevole e libera di scegliere altrimenti, secondo quanto diverrà didascalico presso Epitteto. Se c’è una vocazione che Medea mantiene, è quella a essere perturbante e inquietante o sconcertante. In una parola presa in prestito dal tedesco, il concetto di Unheimlich le compete meglio di quanto il filosofo Martin Heidegger applicasse lo stesso aggettivo alla protagonista dell’Antigone di Sofocle. Medea è straniante, poiché a sua volta frutto di uno spaesamento. A proposito di Medea in particolare, e di altre mitiche eroine come Arianna, si è potuto parlare di un’“antropologia dello Unheimlich”, nell’accezione specifica di “non familiare”. 45 Né mancano Medee moderne, le quali drammatizzano una loro diversità razziale. 46 Tra le molteplici sfumature di senso che il termine è venuto a suggerire, scegliamo tuttavia quella che meglio può alludere a un letterale spaesamento. Storicamente, l’ellenismo prima e la romanità poi arrivarono a concepire un ecumenismo politico-culturale sia pure in formato ridotto, che trovò una sua espressione organica nell’ideale cosmopolitico degli Stoici. Tale tendenza di pensiero influenzò un lento processo giuridico-amministrativo, che raggiunse il suo coronamento nella Constitutio Antoniniana del 212 d. C. Questa estese il diritto di cittadinanza, nonché i connessi oneri fiscali, praticamente a tutti gli abitanti liberi dell’Impero Romano. Si aggiungano i flussi migratori, specialmente dalla periferia verso il centro, che portarono a una concentrazione e rimescolamento della popolazione nelle aree urbane, con l’effetto iniziale di una problematica convivenza ma reciproca conoscenza tra differenti culture. La composizione della Medea senecana si colloca in questa prima fase. Sebbene socialmente privilegiato, Seneca fu un romano acquisito. La sua famiglia proveniva dalla provincia iberica. Lui stesso sperimentò l’esilio, sotto l’imperatore Claudio. Nella sua Medea c’è qualcosa di se stesso, benché trasfigurato al punto da riuscire a stento percettibile. Per sapere quanto del cosmopolitismo stoico riecheggi nel suo pensiero critico, conviene riferirsi a un’altra opera meno letteraria e più filosofica: la “Consolazione alla madre Elvia”. Ivi Seneca tratteggia lo sfondo dell’Impero, che abbiamo appena riassunto. Egli altresì dichiara: “Niente, che sia in questo mondo, è estraneo all’essere umano” (Nihil 45 Eleni Karasavvidou, “From Ariadne to Medea: The Anthropology of the Unheimlich (Unfamiliar)”, in HELDA: The Digital Repository of University of Helsinki – ISSEI, 2010; all’URL https://helda.helsinki.fi/handle/10138/15241. Quanto al concetto di Unheimlich, sebbene inteso in maniera intuibilmente diversa, cfr. S. Freud, “Das Unheimliche”, in Gesammelte Schriften vol. 10 (“Il perturbante”, 1919); e M. Heidegger, “Hölderlins Hymne Der Ister”, in Gesamtausgabe vol. 53 (“L’inno Der Ister di Hölderlin”, 1942). 46 La connotazione razziale assume sfumature morbose in Medea del tedesco Hans Henny Jahnn (1926); e, con minore ambiguità, in Asie di Henri-René Lenormand (1931), riambientazione moderna del dramma, dove la Francia coloniale prende il posto dell’antica Ellade e l’Indocina colonizzata della Colchide, inclusa una versione indocinese del personaggio di Medea. 44 enim quod intra mundum est alienum homini est). La massima formulata dal pensatore in esilio rimanda a un’altra, già stoicheggiante, del latino Publio Terenzio Afro, nella commedia Heautontimorumenos (“Il punitore di se stesso”): “Sono un uomo, nulla di umano ritengo a me estraneo” (Homo sum, humani nihil a me alienum puto). Come segnala il suo cognome, anche l’ex schiavo era stato uno straniero a Roma. Nella stessa Consolatio ad Helviam matrem, capitolo ottavo, il pensatore stoico manifesta poi l’opinione che l’esilio sia un “cambiamento di luogo tollerabile” (commutatio loci tolerabilis), poiché ovunque ci seguono una “natura comune” (natura communis) e una “propria virtù” (propria virtus).47 Non è questo palesemente il caso di Medea, tanto meno di quella di Seneca, a meno che non si voglia conferire a detta “virtù” una connotazione negativa. Il che lascia dedurre che la tollerabilità della condizione di esule fosse dall’autore circoscritta alla figura del saggio, o, più realisticamente, che fosse una forzatura consolatoria rivolta ad altri: nominalmente alla madre, in pena per la lontananza coatta e per i disagi sopportati dal figlio. Benché retoricamente sconfessato, già nella “Consolazione” si avverte uno spaesamento, altra faccia di un ecumenismo, quello della Romana pax, di cui Seneca stesso fu sfortunato ideologo (si veda De providentia, IV 14). In omaggio a una “ragion di Stato”, specialmente sotto Nerone egli potè rendersi connivente in crimini ben altri, ma neppure tanto, da quelli commessi da Medea. Nella tragedia omonima, affiorerà con forza il dissidio fra quel sentimento spaesante e un ideale cosmopolita. Il progressismo giovanile – una spinta alla dislocazione sarebbe connaturata nell’umanità, non senza finalità positive – si muterà in pessimistico conservatorismo, trasparente nei cori di cui si è fatta qui precedente menzione. Tragicamente, Medea impersona tale tensione fra dislocazione e spaesamento, che torna attuale, mutatis mutandis, nella nostra epoca di globalizzazione. Probabilmente, questo è il maggior motivo del recente ritorno di interesse per l’opera di Seneca, in particolare per la sua Medea. Né è ultimo tra gli elementi di attrattiva del personaggio in generale, alla luce di non pochi rifacimenti o adattamenti odierni. 48 Se natura communis e propria virtus non 47 Per un’analisi mirata e approfondita del testo, si veda Mario Citroni, “Attis a Roma e altri spaesamenti: Catullo, Cicerone, Seneca e l’esilio da se stessi”, nella rivista elettronica Dictynna. Revue de poétique latine n. 8, Lilla: Université Charles de Gaulle, 2011, pp. 2-14; consultabile all’URL http://dictynna.revues.org/729. 48 Ovunque la problematica in questione in qualche modo si è posta o si pone, “prima o poi” facilmente e per intuibili motivi il personaggio Medea fa la sua ricomparsa, a costo di una sua inedita trasfigurazione. Ad esempio, cfr. Min Tian, The Poetics of Difference and Displacement: Twentieth-Century Chinese-Western Intercultural Theatre, Hong Kong University Press, 2008; e Margaret R. Mezzabotta, Ancient Greek Drama in the New South Africa, testo di conferenza del 1999 all’URL http://www2.open.ac.uk/ClassicalStudies/GreekPlays/Conf99/mezza.htm#[ty]. O anche, più in generale, Michèle Dancourt, Prénom: Médée, Parigi: Éditions des femmes, 2010. 45 erano espressioni nuove, comparendo già presso l’eclettico Cicerone, nella sua Consolatio Seneca proiettava la commutatio loci nell’orizzonte di un cosmo in movimento, opposto a ogni “cielo delle stelle fisse” di concezione aristotelica. Natura communis non è quindi da intendersi solamente come “natura comune”, ma anche in quanto “comune con la natura”, che a questo punto non è soltanto umana. Lo spaesamento che si intravede nella Medea senecana è invece prettamente umano, tale da far rimpiangere una più o meno mitica “età dell’oro”, in cui gli effetti della dislocazione fossero di là da venire. Viene meno la fiducia in qualche provvidenza razionale, caratteristica di una divinità stoica immanente e diffusa. In confronto, la “provvidenza” attribuita al libero mercato, ovvero la razionalità di un mercato globale, con cui si troverebbe a misurarsi una Medea immigrata, profuga o internamente “esodata” dei giorni nostri, è figlia di un dio minore. Anziché riflettersi in esso, lo spaesamento sembra principiare nel linguaggio, il quale si fa parodia eufemistica di termini che avevano altro senso in passato. Stando a Seneca, ciò che rese tollerabile il suo esilio era la tolleranza reciproca confortata dal riscontro di una natura comune, ancor prima che la virtù individuale. Ma è pur vero, nella sua Medea tollerabilità e tolleranza già non collimano più, a dispetto dell’etimo condiviso. In un tempo assai più vicino a noi, nei Quaderni dal carcere Antonio Gramsci individuava in un rapporto di subordinazione fra metropoli e cosmopoli l’ordine strutturale delle società pre-moderne imperialistiche e poi colonialistiche, aggiungendo che l’“eresia nazionale” aveva e avrebbe segnato un progresso a oltranza sulla via dell’emancipazione moderna. Insomma, cosmopolitismo ed ecumenismo sarebbero stati un utopistico inganno. Ci sentiremmo di dargli ragione, se non fosse che i nazionalismi e i fascismi del ’900 remarono contro anche questa sua generosa asserzione. 16 – Una perturbante “madre-matrigna”, borghese e nord-americana, ritratta con i figli in Medea di B. Safran (Calgary, Canada: Bernard Safran Estate; 1964); a lato, Medea da anziana immaginata e raffigurata nel 2012 da Leonardo Poscia, al sito Web http://leonardoposcia.artistwebsites.com/featured/medea-leonardo-poscia.htm (si confronti con i versi di Medea in Athens di A. Webster, sopra tradotti) 46 Estraniamento e autocoscienza Ancor più che complesso, il personaggio di Medea è refrattario a ogni semplificazione. Non c’è dubbio che il suo spaesamento si accompagni o coesista con un fenomeno di estraniamento da se stessa. Pertanto, il senecano Medea nunc sum può suonare mezza menzogna di fronte alla propria coscienza, oppure esaltata constatazione di essere stata infine raggiunta da quel sé da cui lei è in fuga, essendo da sempre in cerca di un’altra se stessa. Un’amara sconfitta psicologica, mascherata da precario trionfo. Ciò concorderebbe con la percezione freudiana dell’alienazione, in quanto estraniazione da sé, provocata da una scissione fra la dimensione conscia e quella inconscia del soggetto. Fatto sta che questa negatività racchiude un nocciolo di positività, anche più spiazzante proprio perché perdente, già presente nell’originale di Euripide e ben riassunto dalla massima ovidiana Video meliora proboque, deteriora sequor. Nell’accezione positiva data da Hegel, alienazione è pure un estraniarsi della coscienza da se stessa e la sua oggettivante reificazione, fase di un processo che consente al soggetto di progredire verso il traguardo dell’autocoscienza. Di quest’ultima, tuttavia Epitteto nega la pienezza, o in pratica la accusa di essere la falsa coscienza di Medea. In altre parole, la sedicente “vera Medea” sarebbe tutt’altro che tale. A ogni modo, nel personaggio interagiscono alienità e alienazione. Il suo essere “la straniera” – ricordiamo la rivisitazione di Alvaro –, e il suo estraniamento da se stessa, si influenzano e potenziano a vicenda. Quanto qui si è cercato di mostrare è che, nonostante tutto, le versioni moderne aggiungono poco di essenziale al quadro e alla cornice antichi. Pur non riferendosi lì a Medea, nella Consolatio ad Helviam Seneca si sforza di argomentare come una naturale predisposizione verso l’alterità contenga elementi positivi, perfino in condizioni di esilio o di forzosa emigrazione. Per “altro da sé”, possiamo intendere sia l’altro in senso stretto sia una nuova dimensione del proprio io, talora estensibile a un’identità collettiva. In Raccontare il postmoderno, riferito a sé stesso Remo Cesarani alludeva non a una dislocazione bensì a una cesura epocale nel corso dell’esistenza di un individuo: “L’esperienza dell’estraniamento da noi stessi può apparire davvero perturbante” (Torino: Bollati Boringhieri, 1997; p. 10). Ora, non si può negare che la Medea matura di Euripide e di Seneca fugga dal proprio sé, in cerca di un’“altra Medea” che non riesce a conseguire. Ma è anche vero, quella giovane di Apollonio Rodio e di Valerio Flacco era partita alla ricerca di se stessa, senza lasciarsi appariscenti traumi dietro le spalle. Il mutamento intervenuto nell’esistenza di Medea è tanto spaziale quanto temporale. La modernità è un concetto relativo. Seguendo l’amore per Giasone ma cogliendo altresì quest’occasione, l’eroina si trova a migrare da una società “arretrata” a una “avanzata”, per uscirne in ultima istanza doppiamente delusa. È come se ci fosse stato un salto nel tempo, oltre che un viaggio nello spazio, il che per inciso potrebbe accadere ai giorni nostri in situazioni analoghe. In conseguenza di tale disillusione, il ricorso a un preteso sé arcaico è un ripiegamento, o un espediente confezionato riciclando altrui pregiudizi nei confronti di 47 lei (la si rammenti nelle Heroides di Ovidio, rivolta a Giasone: Illa ego, quae tibi sum nunc denique barbara facta). Altro è l’interessamento per Medea, da parte di Epitteto nelle Diatribe. Ivi il proto-teorico dell’autocoscienza utilizza metafore moralizzatrici, quali quelle del portiere di notte e del cambiavalute. A entrambe spetta vigilare e vagliare, affinché cattivi impulsi o false rappresentazioni non accedano alla retta coscienza, per insediarsi abusivamente in essa. A colpo sicuro il pensatore stoico individua in Medea una pioniera in questo campo, ma non una brava guardiana né tanto meno colei in grado di dare una buona valutazione e di operare una scelta conforme. Ovviamente, l’exemplum resta negativo. Tutto ciò presuppone un inconscio personale, da cui quelle pulsioni o rappresentazioni scaturiscano. In Tecnologie del sé, contributo a un seminario del 1982, Michel Foucault affermava che il metodo di Epitteto precorre – per approssimazione, ma di gran lunga – quello impiegato da Freud.49 Qui interessa piuttosto confrontarlo, molto limitatamente, con la hegeliana Fenomenologia dello Spirito. Rispetto a Hegel, presso Epitteto il rapporto fra coscienza e autocoscienza è invertito, in quanto la prima segue la seconda anziché precederla. L’autocoscienza – a sua volta, erede del “Conosci te stesso” socratico – è propedeutica alla coscienza, poiché per il moralista quest’ultima è soltanto retta coscienza, epurata di ogni irrazionale negatività da un’autocoscienza che si erge a giudice. Il resto è cattiva o falsa coscienza. L’aspetto cognitivo e quello etico coincidono. Su questo piano, il personaggio di Medea impersona la contraddizione. Ella si scinde sì fra autocoscienza e coscienza, tra io e sé, acquisendo “ragion veduta” del suo bene e del suo male. Ma finisce con l’optare per il secondo, pur di nuocere anche ad altri. Dal punto di vista di Epitteto, ne deriva che pure quella consapevolezza riflessa non poteva che essere imperfetta o illusoria. È evidente una sottovalutazione del potenziale autonomo dell’inconscio, di quello che per Epitteto – e per Seneca – era il sostrato passionale della personalità razionale, quasi che un attento “esame di coscienza” e un’opera volontaristica di censura fossero sufficienti a reprimerne ogni nefasto influsso. Tuttavia la Medea di Seneca, sulla scorta di quella di Euripide, non riesce più a credere nell’efficacia di tale morale eroica. Troppi esempi ne avevano decretato il fallimento, nella realtà vissuta dall’autore. Proprio sul piano etico, ecco allora, dal rimedio poi riproposto da Epitteto, discostarsi quello suggerito nella tragedia senecana, tramite l’imperativo categorico benché inascoltato, che Medea rivolge a se stessa: cede pietati, dolor. Alla soppressione o rinuncia ai desideri egocentrici, si invita ad affiancare un sentimento altruistico in qualche modo assimilabile alla carità, ivi compresa qualche compassione per se stessi. È ciò che i Cristiani colti non mancheranno di apprezzare nel pensiero di Seneca. Va però annotato che altrove, da Stoico ortodosso, il filosofo oriundo di Cordova insiste a considerare la pietà una debolezza, o perfino un vizio minore. Per quanto flessibili e dinamici, i limiti di tale moralismo normativo non sfuggono all’analista Foucault: “Per Seneca il problema è non già scoprire la verità nel soggetto, bensì ricordare la verità, cioè recuperare una verità che è stata dimenticata. In secondo luogo, quello che il soggetto ha dimenticato non è ʻse stesso’, o la propria natura, la propria origine, oppure la propria discendenza sopannaturale, ma sono le regole di condotta, ovvero quello che avrebbe dovuto fare”.50 Va da sé, nel caso di Medea si tratta soprattutto di ciò che 49 M. Foucault, “Tecnologie del sé”, in AA. VV., Un seminario con Michel Foucault. Tecnologie del sé, Torino: Bollati Boringhieri, 1992 (trad. it. di Saverio Marchignoli); pp. 34-35. 50 M. Foucault, ibidem, in op. cit.; p. 30. I testi di Seneca espressamente citati dal filosofo francese sono i trattati De ira e De tranquillitate animi, ma in questo passo egli sembra alludere proprio 48 lei non avrebbe dovuto o non dovrebbe fare. Malgrado il parere generico di Foucault, la scelta soggettiva del personaggio, di attenersi a una sua “verità” oggettiva, è obbligata. Ben più che per le persone, la discrezionalità di un personaggio è ridotta. Nondimeno, assistiamo a una sorta di sacrificio apotropaico, per lasciar spazio alle libere scelte degli spettatori come vuole Epitteto, nonché alla speranza dell’autore che esse fossero alternative e non emulative. Così, la rigida etica stoica si ridimensiona e stempera nella morale sottintesa della fabula scenica, quasi che Medea dicesse: “Non fate come me, non ne vale la pena”. Frutto di poetica immaginazione, questa pena o dolor è tanto smisurata da poter muovere a pietà; non abbastanza, da non potersi verificare nel reale. Che questa umana realtà fosse solo quella contemporanea a Euripide o a Seneca ed Epitteto, è poi intuibilmente improbabile. 17 – È sempre la stessa Medea? Due interpretazioni, diverse eppure simili: la prima, dell’attrice Sojourner Zenobia Wright in Medea with Child di Janet Burroway, rappresentata al La Costa Theatre di Chicago nel 2010; la seconda, dello scultore William Wetmore Story al Metropolitan Museum of Art di New York (particolare, statua del 1868; ne esistono più versioni, pressoché identiche fra loro) Ambiguità del sacro Fin dalla quarta Pitica, composta da Pindaro nel 462 a. C., la figura di Medea viene presentata come esponente di una diversità culturale, alfiera di una cultura orientale e comunque altra rispetto a quella greca del poeta. Non vi compare ancora il filicidio, come poi nella tragedia di Euripide. Già vi si associa una connotazione negativa, là dove la potente e “sapiente” maga è additata quale responsabile dell’omicidio di Pelia (τὰν Πελίαο φόνον [οὖσαν]; v. 250). Sebbene funzionale a una finalità celebrativa dell’ode, è la prima alla Medea, tutte le caratteristiche menzionate potendo riferirsi puntualmente al personaggio. 49 presentazione abbastanza organica che abbiamo del personaggio. Di quelle intermedie ed essenziali, si è qui trattato a sufficienza. Possiamo quindi prendere in considerazione una delle rappresentazioni antiche, che si colloca all’estremo epocale opposto rispetto a quella pindarica, pur riecheggiandone poche forme e contenuti in una forzatura di ritorno alle radici del mito. È il poema “Argonautiche orfiche”, Ὀρφέως Ἀργοναυτικά, di autore ignoto della fine del V secolo d. C., ma che si finge cantato da Orfeo, “a suo tempo” partecipe alla spedizione degli Argonauti, anzi imbarcato sulla nave Argo. In greco, e in veste ben più modesta, l’opera è analoga alle Argonautiche di Apollonio Rodio e di Valerio Flacco.51 Così come nel componimento di Pindaro, Medea vi appare soprattutto come esotica maga. Ma, questa volta, lo stesso Orfeo viene coinvolto con lei in riti, il cui carattere macabro denota un gusto stregonesco da “basso Impero”. Quanto al livello dell’invenzione poetica, il poema del volontario anonimo non si discosta molto da produzioni minori latine quali l’epillio Medea del coevo Draconzio, o il centone virgiliano omonimo di Osidio Geta e di datazione incerta qui su citati. Perfino nell’ispirazione di un poeta mediocre, attratto da pretesi messaggi esoterici più che dalla qualità letteraria, possono però balenare immagini felici o altrimenti rivelatrici, quale quella contenuta nei versi 1334-1336: “Allora a Medea approntarono il letto nuziale,/ un tondo giaciglio stendendo sull’alta poppa [della nave],/ e sopra fu adagiato il vello d’oro” (Δὴ τότε Μηδείῃ θαλάμων πορσύνετο λέκτρον/ πρύμνῃ ἐπ᾽ ἀκροτάτῃ, περὶ δ᾽ ἐστορέσαντο χαμεύνην/ ἀμφ᾽ αὐτῇ χρύσειον ἐϕαπλώσαντες ἄωτον). Da ambito trofeo o bottino di saccheggio, ecco il vello tramutarsi in corredo nuziale e preziosa dote di Medea. Quasi soggiacendo a una “mistica unione” tra l’eroe greco e la sacerdotessa caucasica, esso recupera la portata simbolica di un significante aperto a più significati. Ciò non impedisce al mitico cantore, subito dopo, di appellare la officiante della dea Ecate colei “dalle infauste nozze” e il suo un imeneo “di luttuosa fama” (αἰνόγαμος Μήδεια δυσαινήτοις ὑμεναίοις; v. 1340). Né si tratta solo di un facile presentimento letterario. Oltre ad aver tradito suo padre e disertato la sua gente, Medea si era già macchiata di complicità nell’uccisione di suo fratello Apsirto. Sia Giasone sia Medea non sono che strumenti, nell’ambito di un misterioso disegno del destino, che l’autore chiama femminilmente “la Moira” (τάδε Μοῖρα; v. 1311). Pur di portare a termine questa missione di cui sono per lo più inconsapevoli, essi sembrano autorizzati a violare la morale comune, non senza pagare un “giusto” prezzo per le colpe commesse in itinere. Pertanto, il “vello d’oro” è un’epifania del sacro, tanto quanto il simbolo di un sacrilegio e della sua maledizione. Suggestioni neopitagoriche e neo-platoniche fecero sì che l’antichità al tramonto si volgesse indietro verso la sua aurora, in cerca di uno smarrito senso del sacro. Un viaggio a ritroso nell’inconscio collettivo, immaginato come un Oriente barbarico, ma un mondo incontaminato e alla lontana originario. Strada facendo, ci si imbattè in un territorio demoniaco da attraversare. Recuperare il meglio di se stessi significava accollarsi pure il peggio, quel polo negativo senza cui il positivo quasi non potesse sussistere né sprigionare nuova energia. A volte, per modo di dire, poteva capitare che il “fare di necessità virtù” divenisse un fare di necessità una colpa. Ciononostante, l’importante era che le nozze mistiche – o anche misteriche – fra quell’Oriente reminiscente e un Occidente dimentico di se stesso venissero consumate o replicate. Il “vello d’oro” era la coltre ideale, su cui o sotto cui si svolgesse un 51 Cfr. Luciano Migotto (a cura di), Argonautiche orfiche, Pordenone: Edizioni Studio Tesi, 1994. Il poema ci è giunto insieme agli Inni orfici e ad altri inni di autore noto e non, fra cui Proclo e Callimaco. Ma è evidente che l’abbinamento con gli Inni orfici doveva essere privilegiato, quasi che si trattasse di una trasmissione iniziatica di opere scelte del mitico vate e musico. 50 tale amplesso. In fin dei conti la pena da scontare, per i loro “necessari” misfatti, riguardava solamente i personaggi di Medea e Giasone. Bisognerà attendere l’acuta sensibilità del Romanticismo, e la sua fascinazione per l’irrazionale, perché un simile pregnante interesse si coagulasse nuovamente intorno all’ambivalente oggetto. “Il vello d’oro”, Das goldene Vließ, è intitolata un’intera trilogia del tragediografo austriaco Franz Grillparzer, composta da L’ospite, Gli Argonauti e Medea, e rappresentata per la prima volta nel 1821 a Vienna. All’inizio dell’ultimo dramma, Medea fa sotterrare il vello e altri magici orpelli come ormai inutili relitti del passato, in omaggio alla grecità e alla razionalità, che almeno per il momento per lei sono tutt’uno, vale a dire il suo presente a Corinto. Se gli errori di gioventù sono legati a quei ricordi, gli orrori del futuro sono incombenti, ma ancora imprevisti e di là da venire. Paradossalmente, più tardi non sarà Medea né Giasone a scatenarli, bensì il re Creonte. Venuto a conoscenza dell’esistenza della cassa in cui è racchiuso il vello, una volta disseppellita egli la farà aprire, per impossessarsi di quel contenuto al quale era stato attribuito tanto valore (nella fantasia di Grillparzer, la metafora dello scavo rimpiazza quella del viaggio). Là dove si insinua la cupidigia, tra le peggiori passioni, ogni razionalità viene meno o getta la maschera. Da lì avrà origine di nuovo il maleficio, di cui Medea torna a essere fatale esecutrice. Non diversamente che nelle antiche Argonautiche orfiche, il precipitare degli eventi ubbidisce a forze apparentemente impersonali, la cui sede – se vogliamo razionalizzare – è nel profondo inconscio anziché in qualche infernale sottosuolo. Così modificato in senso fiabesco, il congegno narrativo rientra in una poetica antiilluministica diffusa all’epoca di Grillparzer (si pensi ai racconti di E. T. A. Hoffmann). Ma non è tutto. Un supplemento di significato si svela nel finale, in cui l’autore riesuma mitici antefatti della saga degli Argonauti, in una presunta versione arcaica. È il commiato di Medea da Giasone: “Andrò a Delfi. Deporrò il vello sull’altare da dove un tempo Frisso lo aveva portato via, restituendo così al dio oscuro ciò che è suo, quel vello che nemmeno le fiamme hanno offeso. […] Riconosci quest’insegna per la quale hai tanto lottato? E che per te era la fama e la felicità? Ma cos’è la felicità sulla terra? Un’ombra. E la fama è un sogno”.52 Si noti che il “dio oscuro” cui Medea allude non è il tragico Dioniso, come ci si potrebbe aspettare, bensì Febo/Apollo. Deità luminosa e solare, una sua oscurità risiedeva nei responsi oracolari rilasciati presso il famoso santuario a lui dedicato. Soprattutto, nel motto delfico prima che socratico “Conosci te stesso”, Γνῶθι σεαυτόν. Oscurità dell’animo umano ovvero della psiche, quale non di rado affiora anche nei nostri sogni a occhi aperti. 52 Trad. it. di Claudio Magris in Maria Grazia Ciani (a cura di), Medea. Variazioni sul mito, Venezia: Marsilio, 2004; con testi di Euripide, Seneca, Grillparzer, Alvaro: p. 185. L’incendio è quello della reggia di Creonte, provocato da Medea, in cui è perita la sua rivale e figlia di lui Creusa. D’altro canto, la cassa in cui era stato rinchiuso il “vello d’oro” è un mitologema, che può ricordare il mitico vaso di Pandora o la scatola di Psiche, nella favola narrata da Apuleio. 51 18 – William Russell Flint, Medea aiuta Giasone a impadronirsi del “vello d’oro”, ammansendo il drago o serpente che ne è custode; anche Orfeo con la sua lira è visibile sul lato destro dell’illustrazione (in Charles Kingsley, The Heroes; or, Greek Fairy Tales for My Children, 1912; Gloucester, U.K.: Dodo Press, ristampa 2007) Una “scuola del rispetto” I Romantici come Grillparzer, o i Preromantici come Von Klinger, non furono i primi a rivalutare sentimenti e passioni, per perniciose che fossero, nella figura e nella storia di Medea. Dei tanti versi a lei dedicati, i più singolari sono quelli in latino di Pierre Corneille, in una lettera indirizzata il 6 marzo 1649 a Constantijn Huygens, signore di Zuylichem in Olanda. Ne traduciamo alcuni, particolarmente significativi: “Se ci è consentito far caso alle imperfezioni degli antichi,/ questa [donna] fu consegnata tremante da Euripide agli Elleni,/ e con indegne preghiere supplicante Creonte;/ Anneo [Seneca] la rese ai Latini malvagia e tremenda,/ fin troppo nei confronti di Giasone e di Creusa” (Hanc, si fas veterum videre naevos,/ Graiis Euripides dedit trementem,/ Nec digna prece supplicem Creonti;/ Annaeus Latio, malam et tremendam/ Iasoni nimis, et nimis Creusae). Corneille prosegue lasciando intendere di aver mediato fra i due modelli, nel confezionare la sua Mèdée per i Francesi, ma non in misura equanime. Iperbolicamente, infatti egli dichiara di non dover nulla a Euripide ma molto a Seneca, specialmente per quanto concerne le sensazioni forti che commuovono e fanno presa sul pubblico: meglio una Medea tremendam, che trementem. Fra l’altro, nell’opera in oggetto, è ciò che non apprezzerà un Illuminista come Voltaire. 53 Pubblicata dall’autore nel 1639, dopo la prima rappresentazione della sua tragedia nel 53 De briefwisseling van Constantijn Huygens 1608-1687, a cura di J. A. Worp, parte 4: 1644-1649, L’Aia: Martinus Nijhoff, 1915; lettera n. 4919, p. 513. Per quanto qui segue, si veda Théâtre de P. Corneille, avec les commentaires de Voltaire, tomo 2, Parigi: P. Didot l’Aîné, 1795; pp. 341347 e 349-351 (precedenti edizioni della stessa opera erano uscite nel 1764 e nel 1776). 52 1635, un’altra lettera di Corneille è una vera e propria dedica a un non meglio identificato “Monsieur P. T. N. G.”. Siccome già Voltaire si interrogherà invano circa la sua identità, più di un secolo appresso, può darsi che l’illustre dedicatario fosse fittizio. Scopo patente di Corneille è difendere la sua opera, che per la verità non aveva riscosso immediato successo, da certe critiche le quali dovevano però discostarsi da quelle di Voltaire. Per lo più, queste ultime riguarderanno il rappresentare magie e superstizioni, poco credibili in un’epoca razionalistica. Altro, lo scrupolo del tragediografo barocco, non meno modernamente preoccupato di rivendicare un’autonomia estetica dalla morale corrente. Non è compito del poeta o dell’artista giudicare la condotta dei personaggi, bensì rifletterne al meglio la verità psicologica, anche quando esse volgano al peggio: a maggior ragione, nel caso di un autore tragico. Tale, pure il suo criterio di verosimiglianza. Per Corneille in quanto drammaturgo, il problema del contrasto fra predestinazione e libero arbitrio, tra fatalità e colpevolezza – in pratica, se scagionare o meno Medea o altri dalle loro colpe – quindi neppure si porrebbe. Ciò non toglie che possano e debbano porselo gli spettatori. Da un lato, Corneille puntualizza che non è sua incombenza escogitare “ragioni le quali possano convincere gli spettatori che qualcosa sia gradevole, quando questa loro dispiaccia” (des raisons qui puissent persuader aux spectateurs qu’une chose soit agréable quand elle leur déplaît). D’altronde, egli ironizza: “Non c’è qui bisogno di avvertire il pubblico che [le azioni] in questa tragedia non sono da imitare, essendo esse così scopertamente tali, da non indurre invidia [emulatrice] in nessuno” (Il n’est pas besoin d’avertir ici le public que celles de cette tragédie ne sont pas à imiter: elles paraissent assez à découvert pour n’en faire envie à personne). Alla fin fine la storia di una “strega”, la Médée era riservata a un pubblico maturo, capace di valutare secondo coscienza senza altrui tutele o censure. In tempi di Santa Inquisizione, e di caccia alle streghe, questo “mettere le mani avanti” non era fuori luogo. Anziché avventurarsi in disquisizioni su un’eventuale diffusa predisposizione al male e sulle sue radici, il buon senso di Corneille si appellava direttamente al senso comune. Attendibilmente, “Monsieur P. T. N. G.” sta per la persona qualunque, che si trovava a muoversi nella cornice di una modernita adolescente, e di una sua rischiosa ambiguità. Nonostante Voltaire, in realtà la Médée secentista di Corneille – e, altrimenti, quella novecentesca di Alvaro – sono tra le più consapevolmente moderne. Benché collocate rispettivamente agli esordi e al crepuscolo della modernità, esse si levano a interloquire alla pari con quelle di Euripide e di Seneca. Del resto, un simile scarto temporale separa quelle di Euripide e di Seneca, e quelle di Corneille e di Alvaro. Antichità e modernità a confronto, con Medea nel ruolo di interprete e mediatrice. 54 C’è però antichità e antichità, modernità e modernità. Mutate le condizioni storiche e il clima culturale, ogni qualunquismo sia pure in positivo verrà scartato da un autore neorealista come Corrado Alvaro, nella Lunga notte di Medea. In uno dei suoi frequenti monologhi nella storia della letteratura, questa Medea 54 Un’interpretazione della vicenda del personaggio come confronto-scontro tra culture epocali, oltre che attualmente interculturale, è stata messa in scena a cura dell’Act Theatre Project nello spettacolo di danza Medea e il suo Doppio, a Roma presso il Teatro Volturno nel 2011 e la Casa dei Popoli nel 2012, concepito da Loredana Piacentino e realizzato con Francesca Orazi. 53 punta al sodo di quella che è la questione fondamentale o radicale – parafrasando Heidegger, la grundfrage – e lo fa all’interno dell’opera, pregando una divinità senza nome: “Fiamma onnipotente, io non ti chiedo più cose tremende. Ti chiedo una patria lontana dagli uomini, dalle contese dei re, dalle gelosie delle città, dall’invidia degli uomini. Una casa in cui io sia padrona di me e dei miei figli, e accanto un fiumicello per confine. [...] Dammi un focolare. È poco. Non ti ho mai chiesto tanto poco. Non rispondi più a Medea. Non puoi, tu dici. Questo può farlo solo l’uomo, dici. Gli Dei hanno lasciato questo all’uomo. Gli Dei rispettano l’uomo. Sta a lui rispettarsi dello stesso rispetto degli Dei” (tempo I, scena 3). Nuovamente per bocca di Medea, la Lunga notte di Medea si conclude con una battuta enigmatica, strettamente connessa con la questione precedente: “Solo gli Dei sanno chi per primo ha fatto il male”. In effetti, un chiarimento è leggibile nell’intero svolgimento del dramma, che non ha necessità di venir ambientato ai giorni nostri per risultare attuale. Basterebbe il linguaggio per renderlo moderno, ad esempio quando Medea definisce se stessa “vagabonda, zingara”. Per quanto influenti, né un ipotetico fato o la sorte avversa, né l’inconscio profondo o qualche tara ereditaria possono umiliare l’umana responsabilità. Ma, per Alvaro, questa non è solo individuale come per l’antico Epitteto. Accantonata ogni facile genealogia del male, quella responsabilità è anzitutto sociale e politica, fatta di una mentalità o di una cultura che condizionano e a volte determinano i comportamenti individuali. Quella, che poteva essere considerata una corresponsabilità, diventa prioritaria. Per dirla in termini freudiani, il Super-io rivendica i suoi diritti su ogni io conteso con l’Es. Più che qualche ideologia del ’900, la posizione dell’autore rispecchia convinzioni ed esperienze personali, rientrando comunque in una “scuola del rispetto” radicata nel pensiero occidentale, dalla filantropia di Epitteto fino allo spirito di tolleranza di Voltaire e oltre. Sovente al di là delle colpe palesi, talora di indotti complessi di colpa, si configura una colpevolezza diluita e rimossa, tanto più colpevole quanto messa in opera in sordina, senza assunzione apparente di responsabilità. Né sempre tale colpevolezza assume la forma di una omissione. Non di rado essa si manifesta in maniera attiva, preferibilmente anonima. Nella tragedia di Alvaro, compaiono personaggi che a stento possono dirsi tali, quali “due donne ammantellate”, una “voce da fuori”, o anche “voci della folla” durante l’assalto alla casa di Medea che innesca l’eccidio preventivo dei figli da parte della madre. Eppure, quei nonpersonaggi concorrono a determinare l’esito non meno di quelli regolari e identificabili. Essi esprimono un background popolare, neanche tanto di sfondo, senza il cui consenso o sostegno i personaggi in primo piano sarebbero meno “liberi” di agire ai danni di chi si trovi in uno stato di minorità e di svantaggio. Un accostamento con i fascismi europei, che l’autore aveva conosciuto e subito, non è arbitrario; è un’associazione mentale doverosa. In una società odierna, permeata da una manipolabile comunicazione di massa, perfino il “non sanno quel che fanno”, di evangelica memoria, suonerebbe poi una dubbia giustificazione. 54 19 – Due Medee in concitato movimento: L. Hertault, Médée, statua bronzea presso Galerie Louis Hertault, Parigi 2012 (si noti il tradizionale attributo iconografico della spada, ma anche il “vello d’oro” che le cinge i fianchi); George Romney, Lady Emma Hamilton come Medea, Pasadena, California: Norton Simon Museum; ca. 1786 Il patriarca e l’eroina È celebre il confronto di Søren Kierkegaard in Timore e tremore, fra i sacrifici di Isacco da parte di Abramo, nell’Antico Testamento, e di Ifigenia da parte di Agamennone, in Ifigenia in Aulide di Euripide: “cavaliere della fede”, il patriarca ebraico; “eroe tragico”, il duce greco. Il filosofo danese tralascia un possibile paragone con l ’eroina tragica Medea, evidentemente non ritenedola mossa da fede religiosa né da una superstiziosa motivazione etica, che in qualche modo nobilitassero se non giustificassero il filicidio. O, forse, perché nel suo caso nessuna deità o chi per lei interviene, sostituendo un montone o una cerva come nei casi rispettivi di Abramo e Agamennone. Eppure, questo passo del terzo capitolo di Frygt og Bæven potrebbe addirsi a Medea, contesa fra sentimento materno e vendicativa passione amorosa o costrizione di un ambiente ostile, tanto quanto all’angoscia di Agamennone, combattuto tra affetto paterno e presunti doveri nei confronti dell’esercito da lui guidato: “Se l’azione dell’eroe tragico si svolge in un tempo determinato, per il resto del tempo egli compie un’impresa non meno importante. Visita colui la cui anima è assediata dalla sofferenza, il cui petto respira a mala pena soffocato dai singulti, sul quale gravano pensieri bagnati di lacrime. Egli appare esorcizzando il maleficio, ne dissolve i lacci asciugando il pianto. Attraverso le sofferenze dell’eroe, il sofferente dimentica le proprie”. Con qualche enfasi da melodramma, le poche frasi ben rendono un modo romantico di recepire il concetto aristotelico di catarsi. Quella cui il pensatore teologo allude è la sofferenza morale in assoluto, smarrimento senza nome né necessario motivo apparente, anziché un dolore occasionale e comunque scatenante. Nondimeno, alla sua teologica omissione e alle considerazioni sulla funzione dell’eroe tragico possiamo muovere alcune laiche obiezioni. A più riprese, abbiamo visto Medea non mancare di religiosità o senso del sacro, sebbene magico anziché pagano come per Agamennone, o ipoteticamente pre55 cristiano come per Abramo. Tratta da Lunga notte di Medea di Alvaro, da ultimo abbiamo letto la preghiera da lei elevata a una divinità naturale, venata di monoteismo ma con tracce di politeismo. Della performance di Loredana Piacentino Medea e il suo Doppio, qui citata in nota, riportiamo un paio di note di presentazione, che possono risultare altresì pertinenti: “Medea è a tutt’oggi un personaggio mitologico che continua ad affascinare ed ispirare, nel ruolo di ponte che unisce o diga che separa fino alla rottura, il mondo arcaico e quello moderno; una donna detentrice di un sapere antico e guaritrice o perfida maga, un richiamo al fiuto sincero degli istinti o alla logica della ragione spietata”. D’altro canto: “La diversità può diventare una forza, il conflitto nella sua accezione positiva è fonte di nuove possibilità e motore di vita. La dualità come alternarsi e compenetrarsi di opposti, si contrappone ad una visione bene/male che divide, nasconde, impoverisce la mente e l’anima”. Tutto questo e altro lasciano intuire che Kierkegaard privilegia la concezione di una divinità trascendente connessa per convenzione con una mentalità patriarcale, rispetto a una immanente e antropologicamente riconducibile a una visione matriarcale del mondo. Anche da qui, la sua esclusione di Medea dal gioco dei paragoni. Ma le cose sono più complesse, dal momento che la divinità evocata dalla Medea di Alvaro – benché impersonale e “onnipotente” – è “personalmente” rispettosa della libertà umana. Alvaro non è teologo, ma traspare una sua percezione della divinità – alla ricerca di una plausibile sintesi attuale 55 – influenzata dalle teologie delle religioni monoteistiche, in un senso specifico e per così dire cruciale: che una divinità impersonale può farsi personale, non tanto né necessariamente incarnandosi come il Gesù cristiano, quanto per l’atto prioritario di auto-limitarsi lasciando spazio alla personalità umana. Virtualmente, il “trasumanar” dantesco-pasoliniano è alle porte, quasi che quel divino impersonarsi e umanizzarsi richieda la contropartita di un tale sforzo da parte dell’umanità, la quale del resto a sua volta si presuppone “fatta a immagine e somiglianza di Dio”. Alla Medea di Alvaro, basterebbe molto meno di questo circolo virtuoso: laddove “tutto crede di essere eterno”, “vivere umanamente, può soltanto l’uomo”. S’intende, sul piano dell’esercizio dialettico, un’altra obiezione da potersi rivolgere a Kierkegaard ha un carattere più etico in senso stretto. Che la fede religiosa possa trascendere la morale umana, al punto da poter entrare in contraddizione con se stessa, è un paradosso il quale lascia perplessi oltre che propedeuticamente disorientati o “scandalizzati”. Al di là di una troppo netta o stereotipata divisione tra bene e male, intuizione che verrà ripresa e discutibilmente sviluppata da Nietzsche, occorre pur calarsi nei panni delle vittime, potenziali o effettive che siano: Isacco nel caso di Abramo, Ifigenia nel caso di Agamennone, i due figli innocenti in quello di Medea. Se attendibilmente non c’è un “primo [che] ha fatto il male”, nella concatenazione degli eventi quasi sempre c’è un ultimo a subirlo, senza facoltà di appello. Sotto questo aspetto, l’esempio adottato da Kierkegaard fa eccezione. Probabilmente, l’ultima tragedia composta da Euripide non potè essere riveduta né ultimata dall’autore. Già Aristotele criticava un brusco mutamento di atteggiamento della protagonista, dalla resistenza a un rassegnato sacrificio di se stessa. Tuttavia Ifigenia vi ha voce in capitolo, mentre i giovanissimi figli di Medea non avevano potuto averla. Come anticipa il titolo, più che la tragedia di Agamennone Ifigenia in Aulide lo è di Ifigenia, figura cui il drammaturgo aveva peraltro dedicato Ifigenia in Tauride, seguito della stessa storia. In un’economia del male, Ifigenia è la vittima designata. È lei a parlare anche per conto dei bambini di Medea, o – perché no? – di Isacco figlio adolescente di Abramo. 55 Tale ricerca può ricordare quella degli Stoici, a loro tempo indulgenti verso il politeismo: abbiamo sopra letto di Epitteto, il quale evocava Zeus in un discorso di tenore filosofico. 56 Patriarcale o matriarcale che sia, qualsiasi siano le attenuanti e anche se esso fosse l’ultimo approdo di altri dispotismi, quel potere è dispotico. Siano esse il Padre vetero-testamentario di Abramo o le dee matrigne di Agamennone, e a suo tempo celebrate da Medea, quelle deità abusivamente chiamate in causa sono proiezioni di un dispotismo genitoriale, oltre che di uno statale nel caso di Agamennone come sottintende una polemica anti-hegeliana di Kierkegaard. È sufficiente ascoltare l’esordio della supplice Ifigenia, invano diretta al padre: “Avessi la facilità di parola di Orfeo, o padre,/ tale da persuadere col canto, in modo che/ le pietre mi seguissero! Se potessi intenerire/ gli animi con le mie parole, a quest’arte/ io farei ricorso. Soltanto ciò di cui son capace/ posso offrirti, e queste sono le mie lacrime./ Ai tuoi piedi questo corpo,/ che fu partorito dalla tua sposa, depongo come/ un ramo d’ulivo recato dalle supplici, affinché/ tu non mi uccida prima del mio tempo. Infatti è caro/ vedere la luce. Proprio tu non obbligarmi/ a scoprire quanto di oscuro è sotterra...” (vv. 1211 e segg.).56 La successiva sottomissione di Ifigenia, in obbedienza al padre e per il preteso bene della patria, ha il sapore di una manipolazione non all’altezza del genio di Euripide, o di un ricatto morale subito dalla ragazza. Accortasi dell ’inganno, in Ifigenia in Tauride la sopravvissuta arriverà a reclamare: “L’Ellade intera mi ha uccisa”. Similmente, Medea non ha più motivi affettivi, per essere legata a una patria determinata. Intenzionale o obbligato che sia, il suo sradicamento nomadico fa sì che gliene basti una purché sia, la quale coincida con un focolare qualsiasi. La preghiera di Medea secondo Alvaro, e la supplica di Ifigenia, stando a Euripide, hanno a oltranza in comune una disperata voglia di vivere, frustrata da circostanze avverse o piuttosto dalle aberrazioni umane, le quali finiscono per subordinarla a una risorgiva e debordante pulsione di morte. Nonostante Kierkegaard, almeno in ciò l ’“eroe tragico” Agamennone non è migliore di Giasone o di Creonte, e tanto meno del “cavaliere della fede” Abramo. L’onore di Agamennone, l’ambizione di Giasone, perfino la fede di Abramo, ne fanno personaggi meschini sotto una maschera di grandezza. Dietro la maschera terribile, Medea possiede invece una sua grandezza, fosse pure solamente quella del male e della vertigine che lo accompagna; per giunta, la sua non è mai una sofferenza gratuita. 56 Il motivo poetico iperbolico di arrivare a far muovere le pietre con la propria arte non fu riferito solamente a Orfeo, bensì pure a Medea; in questo secondo caso, non per merito della melodia, bensì per mezzo delle sue formule magiche: “e sommuovo i sassi, [come se fossero] vivi” (vivaque saxa [...] moveo; Ovidio, Metamorphoseon libri, VII 204-205). 57 20 – Anselm Feuerbach, Ifigenia, (Darmstadt: Hessisches Landesmuseum; 1862); a lato, Medea con la daga (Mannheim: Kunsthalle; 1871: presumibilmente lasciata cadere a terra dopo il delitto, l’arma sguainata è appena visibile sotto un sandalo di lei) “Riciclare Medea”? Forse ancor più che con Antigone di Sofocle, in sede critica può essere stimolante un confronto di Medea col personaggio di Ifigenia dello stesso Euripide. Ancor meglio che con Ifigenia in Aulide, proprio con Ifigenia in Tauride. A prima vista, le due mitiche figure sono antitetiche: pluriomicida familiare, la prima; vittima per antonomasia, la seconda. Almeno in parte, esse finiscono per venire accomunate da un tragico destino, a rischio di una contaminazione dei rispettivi ruoli. Da vittima, Ifigenia corre il pericolo di mutarsi in carnefice. Grazie all’intervento “provvidenziale” di Artemide, ella era stata salvata in extremis dal sacrificio di lei decretato da suo padre Agamennone, al fine di placare una “divina” avversità e consentire così di salpare per la guerra di Troia alla flotta degli Achei, impedita da una carenza di venti. Ma il salvataggio della ragazza non comporta una sua liberazione. Miracolosamente trasportata nella Tauride, sulle coste del Mar Nero, Ifigenia è addetta al servizio sacerdotale in un tempio della dea, e a sacrificarle i malcapitati i quali approdassero in quella terra selvaggia. Il caso vuole che vi sbarchi anche suo fratello Oreste, in fuga dalla Grecia. Inconsapevolmente, poco manca che Ifigenia sia costretta a ucciderlo. Le affinità/diversità con Medea sono più d’una. Nell’immaginario greco, Tauride e Colchide erano lande equivalenti e remote (il tòpos non sfuggirà all’apologista cristiano latino Tertulliano: si veda qui la nota 34). Mentre Medea viaggia dalla Colchide all’Ellade, Ifigenia compie un percorso inverso, dalla “civiltà” verso la “barbarie” anziché viceversa. Se la prima stenta a “incivilirsi”, Ifigenia corre un rischio di “imbarbarirsi”. Entrambe sono tagliate fuori dalla cultura di origine, condannate ad avere a che fare con una incombente 58 solitudine o incomprensione. Ambedue sono state o diventano officianti di una deità femminile oscura, Artemide o Ecate che sia. Se Medea era stata complice nell’omicidio del fratello Apsirto, Ifigenia stava per incorrere nel fratricidio. Si obietterà che l’ingrediente della volontà, presente nelle scelte di Medea, difetta nelle vicende di Ifigenia. Queste ultime sono solo sventure, mentre quella della prima sa di eufemistica avventura. Inoltre, la dismisura delle reazioni di Medea poco ha da spartire col ritegno di Ifigenia. Ma in qualcosa esse concordano: un acquisito, fondato sospetto al riguardo della sedicente civiltà, che a questo punto attendibilmente riflette un sofistico scetticismo da parte dello stesso autore. Beninteso, il sospetto nei confronti di una civiltà può essere progressista o di maniera. Benché lungimirante, non abbiamo sufficienti elementi per poter giudicare quanto fosse fondato quello precoce dell’Ifigenia o della Medea di Euripide, o quanto rispecchiasse un temperamento soggettivo. La satira anti-intellettualistica e conservatrice che di lui fece il più giovane Aristofane, reiterata nelle sue commedie, è troppo populistica e “concittadina” per essere presa sul serio. Qualche elemento di giudizio in più abbiamo per un’età più vicina alla nostra, quella tardo-romantica. La seconda metà dell’Ottocento non vide scemare l’interesse per Medea, che aveva nutrito il primo Romanticismo. Se per la letteratura abbiamo su citato gli esempi dell’inglese Augusta Webster e dell’italiano Francesco Mastriani, assai diversi tra loro, per le arti figurative conviene riprendere il pure citato preraffaellita inglese Frederick Sandys, per poi paragonarlo al classicista tedesco Anselm Feuerbach. In un quadro alquanto oleografico del primo, conservato nella City Art Gallery di Birmingham, nel 1868 Medea è ritratta come maga, vestita alla zingaresca e intenta a preparare una pozione. Un dato biografico alquanto scandaloso all’epoca è che il pittore – quasi novello Giasone – per questa e per altre opere utilizzò una modella di dichiarata origine zingara, Keomi Gray, la quale fu anche sua amante per un periodo della sua vita. Nella modernità, l’artista che sfida le convenzioni sociali è un’eccezione generalmente tollerata e complementare, tutt’al più funzionale a una crescita graduale di quella società anziché al mantenimento dello status quo. Per quanto irregolare e di solito transitorio, in ciò non c’è gran che di antagonistico, tanto meno di rivoluzionario. Simile a quello di Sandys è il caso di Feuerbach, con una sfumatura di maggiore raffinatezza psicologico-estetica. Appassionato alla classicità, egli non fu alla ricerca di un elemento esotico nello spazio, sia pure comodamente a portata di mano, bensì in una simulazione di passato. Da qui, un prolungato soggiorno a Roma come per altri classicisti. Rispetto a loro, egli cercò di fare un po’ di più. L’una dopo l’altra, scelse due belle modelle popolane, che fossero “romane di Roma”: Anna Risi e Lucia Brunacci. Almeno la prima di esse fu anche la sua amante (ed era già stata modella per il pittore inglese Frederic Leighton). In maniera quasi ossessiva e con risultati notevoli, più volte Feuerbach ritrasse entrambe nei panni sia di Medea sia di Ifigenia, come se le due eroine antiche rappresentassero facce della stessa medaglia del suo ideale di donna. Va da sé, quest’alternanza raffigurata su tela era difficilmente sostenibile in pratica. Così come per la zingara Keomi Gray di Sandys, pure per la trasteverina “Nanna” Risi il ruolo di Musa ispiratrice non durò troppo a lungo, prima di tornare all’anonimato. Se simili pettegolezzi eruditi valgono a smitizzare la terribilità di Medea, è pur vero che la sua presunta o pretesa capacità di veicolare un sospetto nei riguardi della civiltà egemone ne esce sminuita, se non ridicolizzata. Volendo verificare ulteriormente l’ipotesi formulata da S. Žižek, di una Medea antagonista radicale, è meglio mettere da parte quelle anglo-zingaresche o popolari romanesche, magari per porci un ennesimo quesito: possibile che l’eroina non sia tornata a visitare la Grecia, pur sempre sua patria di adozione? E, se lo 59 ha fatto, in quale nuova veste si è proposta? Una risposta viene da un recente film, la cui protagonista mostra di saper recuperare il suo smalto drammatico, simbolico e realistico a un tempo. Basta dargliene le occasioni, che non mancano; a nostra insaputa, noi stessi possiamo contribuire ad alimentarle. A dispetto delle edulcorazioni romantiche, il suo Medea nunc sum riecheggia ancora. Né dimentichiamo che la moderna Medea di Alvaro invocava sì una “fiamma portentosa”, ma contemplava anche una potenza distruttiva insita nella Natura, la natura umana non esclusa.57 La crisi sociale e politica che la Grecia di oggi attraversa e subisce è umiliante anzitutto per la cultura europea, tenuto peraltro conto dei secoli di retorica su una sua grecità originaria. Di questa estesa cultura la Grecia è una componente strutturale, tutt’altro che qualche sperduta Colchide o Tauride dei giorni nostri. Presentata nel 2013 al Teatro Badminton di Atene, la pellicola in questione ha un titolo singolare: Recycling Medea. Essa si avvale della regia di Asteris Kutulas, della coreografia di Renato Zanella, della musica di Mikis Theodorakis. Il tentativo di sintesi sta nel mescolare narrazione, danza e musica. In realtà, nasce prima la composizione musicale, inizialmente concepita come opera lirica; poi, il balletto a essa ispirato; infine, l’adattamento cinematrografico. Né quest’ultimo è una mera trasposizione. Le modifiche e aggiornamenti del modello euripideo ne fanno un “riciclaggio”, il cui sfondo è appunto la crisi odierna. Ciò, con il consenso e la collaborazione di Theodorakis. In un articolo sul giornale greco Elefteros Typos del 7 giugno 2013, l’illustre compositore si lasciava andare a un amaro commento. Più che l’ombra di un sospetto, una pesante accusa; paragonabile a Medea, la Grecia stessa si sentirebbe tradita dalla civiltà che ha concorso a fondare: “Malgrado la tragedia che è stata costretta ad affrontare da un sistema economico internazionale criminale, la Grecia è ancora in piedi, gravemente ferita. Qui interpretate dalla ballerina Maria Kousouni e dalla cantante Emilia Titarenko, le urla lanciate dalla Medea euripidea scaturiscono dal tradimento, che la induce al più terribile dei crimini immaginabili: l’eccidio brutale dei suoi figli. Diventate collettive, sono le grida che udiamo di nuovo nelle strade e nelle piazze greche. Bersaglio di cinici attacchi dall’interno e dall’esterno, questa Grecia si trova a essere spinta al delitto più tremendo: la soppressione del futuro dei propri figli”. 57 In un senso metaforico molto lato, cfr. Peter Ward, The Medea Hypothesis: Is Life on Earth Ultimately Self-Destructive?, Princeton, New Jersey, U.S.A.: Princeton University Press, 2009. 60 21 – Graffito senza titolo dell’“artista di strada” greco Kostas Louzis “Skitsofrenis” (lungo la via per l’antica Sparta: sul Monte Taigeto, Messenia; 2010). A lato, locandina della prima del film Recycling Medea, nel 2013 al Teatro Badminton di Atene (regia di A. Kutulas, coreografia di R. Zanella, musica di M. Theodorakis; prima ballerina: Maria Kousouni; voce di soprano: Emilia Titarenko) Una matrice mediterranea Nell’ormai lontano 1972, Gilles Deleuze e Félix Guattari pubblicavano L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, che resta un’incisiva critica al familismo borghese dominante nella psicoanalisi. Fra l’altro, gli autori vi lanciavano quasi uno slogan: “Riversare il teatro della rappresentazione nell’ordine della produzione desiderante”.58 Francamente, non sapremmo valutare se l’inconscio somigli più a un palcoscenico o a un’“officina”, come volevano il pensatore e lo psichiatra francesi. Si tratta pur sempre di metafore, le quali divulgano punti di vista differenti ma anche momenti diversi del rapporto fra inconscio e coscienza, ammesso e non concesso che questo sia di meccanico causa-effetto, senza sostanziali interferenze da parte della realtà esistenziale o storica contingente. Se la metafora dell’officina può riguardare la fase della trasformazione dei contenuti inconsci nelle rappresentazioni coscienziali, quella della messa in scena teatrale ne seguita a ben esprimere l’effettiva rappresentazione ed eventuale ulteriore trasfigurazione sulla scena – chiamiamola così, appunto – della coscienza. Se non c’è dubbio che le nostre pulsioni inconsce o desideri coscienti animino o influenzino l’intero processo, non necessariamente un “produttivo” rinnovarsi dell’immaginazione recide ogni legame con una matrice archetipica di fondo. Non di rado e in varia misura, un personaggio che si rispetti è una specie di deus ex machina. Alle spalle dell’autore demiurgo o genitore adottivo, si presuppone l’“industria” di un inconscio-immaginario collettivo che abbia prodotto tale mitico personaggio, e in certi casi un vero e proprio prototipo-archetipo che insista a interagire con esso, conformandolo e 58 G. Deleuze e F. Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, trad. it. di Alessandro Fontana da L’Anti-Œdipe, Torino: Einaudi, 1975; p. 310. 61 condizionandolo ma a sua volta lasciandosi illuminare sotto nuovi aspetti. È all’incirca così che a poco a poco Medea diventa il simbolo personale di un dissidio tra natura e cultura, o l’immagine individuale di una coscienza in rovinoso – e schizoide? – conflitto col proprio inconscio. Più in generale, Medea è esemplare di una persistenza della rappresentazione, sia pure tutt’altro che univoca e anzi al limite del proteiforme. Parafrasando un pessimista come Arthur Schopenhauer, quasi si direbbe che la sua inestinguibile volontà-bisogno di rappresentazione coincida con un incessante, senecano, dolor per non potersene liberare, se non attraverso il replicante e illusorio spazio della spettacolarizzazione. Una fatica di Sisifo, condanna e pena infernale, nonostante i generosi tentativi di assolverla o scagionarla, quale quello eminentemente romanzato da Christa Wolf in Medea. Stimmen, “Medea. Voci”. La ricerca di una soluzione è destinata a tradursi in un allarmante miraggio e monito, almeno finché le contraddizioni fra natura e cultura, ovvero tra “vero” inconscio e “falsa” coscienza, talora contrabbandati come contrasti fra barbarie e civiltà, continuino a coinvolgere un pubblico di spettatori. Manco a dirlo, ciò garantisce lunga e sofferta vita al personaggio. Nella storia mitologica, teatrale e letteraria, di Medea, sussiste una calzante metafora, che stia specificamente per l’inconscio o che a questo si possa adattare? Abbiamo accennato allo scritto anti-eretico Contro Marcione di Tertulliano, e al suo riferirsi già in antico all’area costiera del Mar Nero, con una moralizzante prevenzione: “Là non vige che ferocia, tant’è che essa diede alle scene i miti dei sacrifici della Tauride e degli amori della Colchide [...] niente c’è di tanto barbaro e triste presso il Ponto...” (nihil illic nisi feritas calet, illa scilicet quae fabulas scenis dedit de sacrificiis Taurorum et amoribus Colchorum […] nihil tam barbarum ac triste apud Pontum...; I 1). Chiare, le allusioni alla tragedia Ifigenia in Tauride di Euripide e all’innamoramento di Giasone e Medea, con particolare riguardo alla terra natale di lei. Tuttavia, dalla Tauride e dalla Colchide o dal Caucaso prometeico, lo sguardo si estende all’intero Ponto Eusino, prima che prevalesse il nome moderno Mar Nero. Non solo per Medea da giovane, resta tale l’“oscuro” e tempestoso sfondo di provenienza, di tanto in tanto dilagante con “feroce e barbarica tristezza” (fra le Medee moderne, la tematica sarà ripresa ma contestata specialmente in quella di F. Grillparzer). Per il retore latino e apologeta cristiano del Nord-Africa, la negatività di quel paesaggio fisico e ambiente antropico era dovuta soprattutto a fattori geografici e climatici, tali da condizionare l’indole psichica degli abitanti. Demandiamo volentieri agli psicoanalisti il compito di indagare le ragioni di un frequente ricorso a immagini e figure negative, per evocare una dimensione istintiva dell’esistenza – o ciò che va sotto il nome freudiano di Es –, quasi che questo inconscio profondo sia un luogo estraneo alla coscienza. Per i primi navigatori greci che vi si erano avventurati, compresi i leggendari Argonauti, quel mare aveva rappresentato l’ignoto ancor più che il Mediterraneo, forse perché non parzialmente rivierasco come il secondo né di facile accesso. All’estremo opposto e al di là, c’era solo un “Oceano” ancor meno accessibile e definito. Sebbene non esente da pericoli esso stesso, l’orizzonte mediterraneo rappresentò piuttosto una coscienza aurorale o, possiamo aggiungere noi, il versante luminoso dell’inconscio. Ne fanno fede le immagini, in genere meno oscure, dell’Odissea omerica. Notoriamente, il Mediterraneo è un mare non chiuso ma interno, e il Mar Nero, con esso comunicante, lo è anche di più. Una curiosa testimonianza ne è la denominazione, che subì variazioni di pari passo con la sua scoperta e colonizzazione, riflettendo un faticoso percorso di conversione dall’alienità all’alterità. Nella su citata quarta Pitica di Pindaro, al verso 203, il Mar Nero è ancora connotato come Áxeinos, “Inospitale”. Infatti, degli Argonauti ivi si narra che “spinti dai soffi del 62 [vento] Noto, giunsero all’imboccatura del [mare] Inospitale” (σὺν Νότου δ᾽ αὔραις ἐπ᾽ Ἀξείνου στόμα πεμπόμενοι/ ἤλυθον). Ma è pur vero che, nella quarta ode Nemea dello stesso poeta, al verso 49, il medesimo mare viene detto Éuxeinos pélagos, “mare Ospitale” (“nel mare Ospitale”, ἐν δ᾽ Εὐξείνῳ πελάγει). Probabilmente, la doppia denominazione già riecheggia una transizione dall’aggettivo sostantivato primitivo “inospitale” al successivo “ospitale”, per motivi di tenore apotropaico ed eufemistico, o semplicemente per una maggiore familiarità acquisita con l’area geografica in questione. Il nome antico definitivo sarà Ponto Eusino (Πόντος Εὔξεινος in greco, Pontus Euxinus in latino), là dove póntos sta per alto mare o mare aperto. Eppure, confinato a Tomi/Costanza sul Mar Nero, nel primo secolo dopo Cristo il latino Ovidio così si lamenterà della sua sorte: “Qui mi trattengono i freddi lidi del Ponto Eusino,/ quello che gli antichi appellarono Axenus” (Frigida me cohibent Euxini litora Ponti:/ dictus ab antiquis Axenus ille fuit; Tristia, IV 4, vv. 55-56). Né è un caso che, nell’Ifigenia in Tauride, Euripide avesse preferito il vecchio nome Áxeinos. Lo stesso arcaismo verrà adottato da Apollonio Rodio, nelle sue Argonautiche.59 Insomma, una memorabile fama di inospitalità accompagnò a lungo la nozione estensiva dell’ambiente in cui Medea era nata e cresciuta. In senso traslato, ciò comportò un pregiudizio sulla sensibilità e mentalità dei suoi autoctoni o oriundi, acquistando valenza simbolica. Ma non va dimenticato che il Mar Nero è parte integrante del Mediterraneo, a suo tempo “culla” della civiltà moderna. “Oscura” o “inospitale” che fosse, è l’altra faccia della medaglia, di una topica che non è meno mentale per aver intanto perso la sua geopolitica centralità. Assai più di recente, è stato il poeta siro-libanese ʽAli Ahmad Saʽid “Adonis” a rovesciare quella medaglia, per mostrare che può resistere un punto di vista alternativo. Vale a dire di un altro che può essere sì il medesimo, ma in una prospettiva così ampia e lungimirante da non essere omologante, tanto meno mortificante per alcuna delle parti in causa. L’originalità di una matrice mediterranea risiede nella tensione dialettica insita in un inconscio colletivo, e in un immaginario comunicante, che ha potuto generare alchimie e mediazioni culturali altrove impensabili: “Secondo la tradizione mediterranea, la vita è un vasto campo per la conoscenza umana. Questo campo fertile contiene tutti i germi del progresso: così come li vediamo espressi nell’epopea di Gilgamesh e nell’Odissea di Omero (ma Sindbad è davvero altra cosa dal Gilgamesh sumerico o da un Ulisse greco affabulato in arabo?). [...] Questa civiltà è quella che sorse nell’Oriente mediterraneo”. 60 59 Sulla dibattuta questione se la denominazione corrispondente a “Mar Nero” sia precedente o meno rispetto a quella di “Mare Inospitale/Ospitale”, a causa di un presunta fraintesa assonanza nella lingua greca antica, si legga Alessandro Baccarin, “Il ʻMare Ospitale’: l’arcaica concezione greca del Ponto Eusino nelle stratificazione delle tradizioni antiche”, in Dialogues d’Histoire Ancienne, I.S.T.A., Université de Franche-Comté, vol. 23, 1997; pp. 89-118. Sulla relazione inversa, specificamente di Medea con una mancata ospitalità o precaria accoglienza in Grecia, cfr. Manfred Schmeling, “La femme étrangère ou l’hospitalité refusée. Le mythe de Médée”, in Alain Montandon (a cura di), L’hospitalité au théâtre, Clermont-Ferrand: Presses Universitaires Blaise Pascal, 2003; pp. 61-74. Ibidem: Bertrand Westphal, “De l’hospitalité en Colchide. Das goldene Vließ (Franz Grillparzer)”; pp. 47-59. 60 Adonis, “Le poète arabe contemporain et sa tradition”, in Jacques Berque e Jean-Paul Charnay (a cura di), Normes et valeurs dans l’Islam contemporain, Parigi: Payot, 1966; p. 297. 63 22 – Frederick Sandys, Medea (Birmingham Museum & Art Gallery; 1868); particolare di Medea di Henri Klagmann (Musée des BeauxArts de Nancy; 1868). Un paesaggio marino costiero, con la nave Argo, è stilizzato alle spalle della Medea maga di Sandys; invece, uno sfondo scuro caravaggesco fa risaltare la “nuda” intimità di quella travagliata di Klagmann, prossima a commettere il filicidio Altri saggi dello stesso autore, in italiano, ai siti Web: http://www.scribd.com/doc/2078222/Tempo-spazio-e-narrazione http://www.scribd.com/doc/2181646/Il-Labirinto-e-il-Mandala http://www.scribd.com/doc/2257952/Sillogistica-figurata http://www.scribd.com/doc/2297024/I-cigni-e-la-luna-Archeologia-dellEssere http://www.scribd.com/doc/2531989/Nonostante-Raffaello-Altre-Annunciazioni http://www.scribd.com/doc/2533685/Zoom-su-Ernst-Bloch http://www.scribd.com/doc/3458860/Il-canto-delle-Sirene-o-le-voci-di-dentro http://www.scribd.com/doc/3461604/Alcesti-la-donna-che-visse-due-volte http://www.scribd.com/doc/38852748/Immagini-del-pensiero http://www.scribd.com/doc/43856778/Stupor-Mundi-la-meraviglia-filosofica http://www.scribd.com/doc/48276061/Orientalismo-stereotipi-e-archetipi http://www.scribd.com/doc/54208474/Cinque-ritratti-di-donne-a-Palermo http://www.scribd.com/doc/54997194/Locri-divinita-al-femminile http://www.scribd.com/doc/57710691/Morgantina-le-dee-ricomponibili http://www.scribd.com/doc/59895725/Antigone-e-la-Sfinge http://www.scribd.com/doc/64657971/L-Aquila-Madonne-rosoni-e-chiostri http://www.scribd.com/doc/69349228/Figure-della-memoria-e-dell'inconscio http://www.scribd.com/doc/75902652/Il-Se-attraverso-l-Altro-nel-pensiero-arabo http://www.scribd.com/doc/78041708/Archeologia-mariana http://www.scribd.com/doc/81697121/Malinconia-nell-arte-e-in-letteratura http://www.scribd.com/doc/104551299/Resurrezione-e-oltre http://www.scribd.com/doc/112007180/Allegorie-del-tempo-archeologia-del-se 64 http://www.scribd.com/doc/131486608/Lessico-accessorio-di-archeologia-politica http://www.scribd.com/doc/142824623/Il-sacro-sullo-sfondo Copyright pinoblasone@yahoo.com 2013 65