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I doni di Medea. Tra reciprocità e vendetta

2018, Dionysus ex machina

What is the role of gifts in Medea’s story, and what do they convey? By the means of her gifts, Medea seems able to build relationships and, conversely, to take revenge upon her enemies. Moreover, on the basis of the gifts, she interprets offences and revenge as the reversals of the positive reciprocity mechanisms in which she is involved. So, starting from the assumption that Medea is, above all, a “female giver”, the paper explores the most relevant representations of her mythic tale, in the light of the category of gift. Therefore, in the first part (“the gifts for Jason”), we will pay particular attention to Pindar’s, Apollonius Rhodius’, Ovid’s and Valerius Flaccus’ portrayals of Medea’s gifts, without overlooking the most important mythographic sources (Apollodorus and Diodorus Siculus); in the second part (“the gifts against Jason”) we will examine Euripides’ and Seneca’s tragedies, in comparison with Dracontius’ Medea, in order to highlight the way by which Greek and Roman authors rewrite her myth in relation to the dynamics of positive reciprocity and their violations.

Lavinia Scolari I doni di Medea. Tra reciprocità e vendetta Abstract What is the role of gifts in Medea’s story, and what do they convey? By the means of her gifts, Medea seems able to build relationships and, conversely, to take revenge upon her enemies. Moreover, on the basis of the gifts, she interprets offences and revenge as the reversals of the positive reciprocity mechanisms in which she is involved. So, starting from the assumption that Medea is, above all, a “female giver”, the paper explores the most relevant representations of her mythic tale, in the light of the category of gift. Therefore, in the first part (“the gifts for Jason”), we will pay particular attention to Pindar’s, Apollonius Rhodius’, Ovid’s and Valerius Flaccus’ portrayals of Medea’s gifts, without overlooking the most important mythographic sources (Apollodorus and Diodorus Siculus); in the second part (“the gifts against Jason”) we will examine Euripides’ and Seneca’s tragedies, in comparison with Dracontius’ Medea, in order to highlight the way by which Greek and Roman authors rewrite her myth in relation to the dynamics of positive reciprocity and their violations. Qual è la funzione dei doni nella storia di Medea, e che cosa ci comunicano? Attraverso di essi Medea sembra in grado di costruire relazioni e, all’opposto, di vendicarsi sui suoi nemici. È sulla base dei doni che interpreta offese e vendetta come inversioni dei meccanismi di reciprocità positiva in cui è calata. Partendo dunque dall’assunto che Medea sia, innanzitutto, una “donatrice al femminile”, il contributo esamina le più rilevanti rappresentazioni della sua storia mitica alla luce della categoria del dono. Pertanto, nella prima parte (“i doni per Giasone”) si presterà particolare attenzione alle “Medee” di Pindaro, Apollonio Rodio, Ovidio e Valerio Flacco, senza tralasciare le più importanti fonti mitografiche (Apollodoro e Diodoro Siculo); nella seconda parte, si esamineranno le tragedie di Euripide e Seneca, confrontandole con la Medea di Draconzio, al fine di evidenziare il modo in cui gli autori greci e romani ne riscrivano il mito in rapporto alle dinamiche di reciprocità positiva e alle loro infrazioni. 1. I doni per Giasone 1.1. Una benefattrice straniera: Medea e il dono dei Il mito di Medea non è solo la storia di una madre infanticida: è anche e soprattutto la storia di una donna che dona1, una figura che, nel mondo antico, era spesso pensata Sono molto grata agli studiosi, studenti, docenti e “appassionati” intervenuti al Ciclo di seminari di studio I volti di Medea, organizzato nel quadro del Progetto Segesta, per l’occasione di dialogo e di confronto offertaci. In particolare, mi preme ringraziare Giusto Picone, Rosa Rita Marchese, Nuccia Placenza, Salvatore Tedesco e Agata Villa. Sono inoltre riconoscente alla redazione di DeM per i preziosi suggerimenti proffertimi. Dionysus ex machina IX (2018) 192-228 192 I doni di Medea. Tra reciprocità e vendetta Lavinia Scolari come altamente sovversiva, perché in grado di ribaltare natura e funzioni della donna, per lo più considerata come un “oggetto di scambio”, e non come un “soggetto” attivo e donante2. La prima volta che Medea offre un dono, lo fa per amore. Secondo Pindaro, infatti, ! " #$ , «Medea, contro il volere del padre, dispose le proprie nozze e fu salvatrice della nave Argo e dell’equipaggio» (Pind. Ol. XIII 52-54)3 e fu Cipride a insegnare (% & ) al prudente figlio di Esone ( ' () ), primo fra gli uomini, come far sì che la fanciulla dimenticasse il rispetto che doveva al padre suo (Pind. Pyth. IV 216-18). Pindaro presenta quindi l’aiuto di Medea all’eroe come conseguenza diretta dell’intervento della dea dell’amore. Già Esiodo, del resto, ci dice %* '+ ,,, & " . + / !' & , «Medea dalle belle che caviglie fu domata grazie all’aurea Aufrodite» (Hes. Th. 961s.). Secondo la tradizione, è quest’ultima a suscitare l’innamoramento per Giasone, rappresentato, nell’ode di Pindaro, come la capacità dell’eroe (instillata per l’appunto dalla dea) di “affascinare” $ 1% Medea attraverso parole e formule suadenti ( 0 % & ' () , Pind. Pyth. IV 217). E così che Medea diede/donò 2 3 + 2 ) con ( 0 ) a Giasone un ‘antidoto contro il forte dolore’ ( , Pind. cui ungersi il corpo, che aveva dotato di un potere curativo (' 4 Pyth. IV 420-22) . Di un dono frutto d’amore parla anche lo Pseudo-Apollodoro, il quale racconta che, quando Giasone raggiunse la Colchide, dove era custodito il vello d’oro, re Eeta promise di consegnarglielo a patto che aggiogasse i tori dagli zoccoli di bronzo e seminasse i denti del drago (Apollod. I 9, 23). Così, mentre Giasone rifletteva su come riuscire nell’impresa, la figlia del re Eeta e della regina Idyia, Medea, si innamorava di lui5. L’autore della Bibliotheca precisa subito che la fanciulla non era solo la figlia del re, ma era anche una ' : una ‘maga’, o meglio, una donna esperta di ' (‘veleni’, ‘filtri magici’) e in grado di sfruttarne le proprietà. La giovane offrì quindi il suo aiuto a Giasone, ma gli chiese di giurare di sposarla e portarla via con sé. Giasone 4 ) per accettò. E dopo ch’ebbe giurato, Medea «gli diede un filtro» (' 1 Mi sono già occupata di questo aspetto in SCOLARI (2013-2014) e l’ho approfondito in SCOLARI (2018b, 145ss.). 2 LYONS (2012, 8) evidenzia come la “donna che dona” o “che scambia” sia assimilata alla “donna che tradisce”, nella misura in cui «her involvement in the circulation of objects is tied to the potential for the illicit circulation of her own person». 3 MAEHLER (19715, ad loc.). Sulla questione della fuga più o meno consensuale, cf. Pucci in BETTINI – PUCCI (2017, 34s.). Tutte le traduzioni dei testi greci e latini sono a cura dell’autrice del presente contributo. 4 Sulla magia benefica di Medea in Pindaro, cf. Pucci in BETTINI – PUCCI (2017, 37). 5 Medea è figlia di Eeta e di Idyia anche in Hes. Th. 958-62. Dionysus ex machina IX (2018) 192-228 193 I doni di Medea. Tra reciprocità e vendetta Lavinia Scolari proteggerlo dal fuoco dei tori mostruosi e gli rivelò come sconfiggere i guerrieri che sarebbero nati dai denti del drago (Apollod. I 9, 23 e 28)6. Ecco, dunque, in che cosa , consiste il primo dono di Medea: in alcune prescrizioni sapienziali e in un un unguento dalle proprietà magiche, qualcosa, cioè, che proviene dal suo specifico ambito del sapere, e che ha chiaramente a che fare con la sua “identità” di ' . Benché sui generis, si tratta di un dono “positivo”, che si cala, cioè, all’interno di una dinamica di scambio che aderisce ai princìpi della reciprocità positiva 7 ; la giovane, infatti, lo offre allo scopo di aiutare Giasone nella sua impresa, e in cambio, secondo gli accordi, si appresta a ricevere da lui l’oggetto del suo desiderio: una promessa nuziale. Questo aspetto è tematizzato anche da Ovidio nella XII Eroide, in cui il dono dei medicamina – e più in generale, i merita di Medea – sono rappresentati, nelle parole dello stesso Giasone, come il prezzo con cui la fanciulla ‘acquista’ e fa suo l’uomo di cui si è innamorata (Her. XII 82): effice me meritis tempus in omne tuum, «coi tuoi benifici, rendimi tuo per sempre»8. Uno scambio, questo, di cui la Medea dell’epistula si ricorderà (Her. XII 197): te peto, quem merui, quem nobis ipse dedisti, «io chiedo te, che ho meritato, te, che tu stesso mi hai donato». Quello del filtro magico, però, non è universalmente considerato il “primo dono” di Medea. Nella tradizione mitica seguita da Diodoro Siculo (IV 46), l’eroina, prima ancora del fatale incontro col figlio di Esone, ha già dato prova di essere una donatrice esemplare. Diodoro, infatti, la presenta come una figura estremamente positiva, tormentata dall’appartenenza a una famiglia crudele e delittuosa. In questa versione del mito, Eeta è un tiranno sanguinario, sposo di una donna ancora più spietata di lui di nome Ecate, come la dea dei crocicchi e degli incantesimi, comunemente accostata alla figura di Medea. Così, a causa della sua indole crudele e dei suggerimenti della moglie, Eeta introduce in Colchide l’usanza di uccidere gli stranieri9, alla quale una giovane Medea cerca di opporsi. L’eroina di Diodoro, pertanto, non è semplicemente una “donna che dona”, ma è una “donna che salva”: una vergine che tenta in ogni modo di 6 Sul giuramento di Giasone, cf. anche Diod. IV 46, 4; IV 54, 4; Eur. Med. 20-23; 158-65; 495; Ov. Her. XII 90 et passim; Zenobio (IV 92) e Valerio Flacco (VII 271-91), e Sen. Med. 7s.; 840. 7 Come vedremo, i doni positivi di Medea a Giasone si qualificano quasi sempre come doni nocivi per altri: qui, per Eeta e per i Colchi, nel caso della morte di Pelia, per lui stesso e per le figlie. Sulla reciprocità positiva, vd. GARAVAGLIA (1980, 688s.) e GODBOUT (1992, 121). VAN WEES (1998, 15) definisce la reciprocità come una particolare forma di scambio che consiste nel dare e ricambiare doni e favori. Sulla distinzione tra «reciprocità generalizzata» e «reciprocità simmetrica», cf. SAHLINS (1972, 197ss.). Utile, inoltre, l’ampia trattazione di BECKER (1986). 8 Sui filtri magici tematizzati come dono, si noti l’uso del verbo dare: Aesonio iuveni ... damus, v. 66; ipsa ego, quae dederam medicamina, v. 97; dedi, v. 108. 9 Diod. IV 46, 1: () & 5 6 ) 7 # & 1 / + 8 & 9 / 9 # , «infatti Eeta, sia per la sua personale crudeltà, sia per i consigli della moglie Ecate, accolse favorevolmente l’usanza di uccidere gli stranieri». Dionysus ex machina IX (2018) 192-228 194 I doni di Medea. Tra reciprocità e vendetta Lavinia Scolari impetrare la dei marinai stranieri sbarcati nel regno10. Diodoro ne segnala più volte la «benevolenza verso i forestieri» ( 6 : 9 + ; , Diod. IV 46, 4), un atteggiamento di apertura verso l’altro a causa del quale Eeta la mette sotto custodia. Ma la fanciulla riesce a scappare e si rifugia nel tempio del Sole, dove incontra per la prima volta Giasone, appena approdato. A lui e ai suoi compagni Medea racconta i soprusi paterni e quelli, di contro, le confidano il motivo del loro viaggio: conquistare il vello d’oro 11 . A questo punto, Medea promette di ‘lavorare insieme a loro’ ( + ), di aiutarli per il raggiungimento del loro obiettivo. E Giasone, per parte sua, attraverso solenni giuramenti, promette di sposarla e le dà la sua parola ( < ): le fornisce, cioè, garanzia verbale di fedeltà agli accordi pattuiti12. Ma come può una vergine essere d’aiuto a un intero equipaggio di uomini? Diodoro, in realtà, lo ha già spiegato poco prima13: anche qui, ciò che consente a Medea di intrecciare con Giasone una relazione di reciprocità positiva è la sua conoscenza dei ' e delle loro + , che ha appreso dalla madre Ecate e dalla sorella Circe, entrambe descritte da Diodoro come donne crudeli e feroci, assassine venefiche dei rispettivi mariti (Diod. IV 45). Ma Medea non è come loro: è solo una vittima che si libera del giogo parentale grazie a un eroe venuto da lontano. Una salvatrice che viene a sua volta salvata, insomma, e che, almeno nella rappresentazione di Diodoro Siculo, tradisce il padre e la patria a buon diritto. È nel seno di questo “tradimento eroico” che Medea compie in favore di Giasone la sua prima prestazione benefica: gli permette la conquista del vello d’oro addormentando con dei filtri magici l’insonne drago della piana di Ares, loro custode, e in seguito cura le ferite riportate dall’eroe e dai suoi compagni con un impacco di erbe e radici (Diod. IV 48). La versione più estesa di questo racconto, ce la offre Apollonio Rodio. Qui, dietro le preghiere della sorella Calciope, sposa di Frisso (colui che avrebbe donato il vello 10 Diod. IV 46, 1: $" : $ 0 9 4 %9 + & % 0 * 4 5 5 < ) " . 6 0 $$# 4 #$$+ 4 & 5 1 6 % / '+$ / ' " " / 0 +. * 4 ' $ , «[Medea] trascorreva infatti il suo tempo a tirare fuori dai pericoli gli stranieri che approdavano lì, e ora chiedeva al padre, con suppliche e per grazia, la salvezza di quelli che stavano per morire, ora, dopo averli sottratti alla prigionia, provvedeva alla sicurezza di quegli sventurati». 11 Sul vello come «motore primo di tutta la vicenda» cf. Pucci in BETTINI – PUCCI (2017, 26) e PISANO (2014, 166ss). 12 Diod. IV 46, 4: 6 5 % $ + " . = + $ 4 > $ 1? 0 @ 4 < @ 6 A9 * ; B < C/ . # , «Medea promise che li avrebbe aiutati fino al compimento dell’impresa che si proponevano, e dal canto suo Giasone con giuramenti le diede la sua parola che l’avrebbe sposata e che avrebbe passato tutto il tempo della sua vita con lei». 13 Diod. IV 46, 1: 6 5 D < " / & / $'/ E 0 ' 4 + 1% 4 F . / , «si racconta che Medea apprese dalla madre e dalla sorella tutte le proprietà dei filtri magici, sebbene li adoperasse secondo scelte completamente diverse». Dionysus ex machina IX (2018) 192-228 195 I doni di Medea. Tra reciprocità e vendetta Lavinia Scolari d’oro a Eeta in cambio della mano di lei) e madre di alcuni compagni di Giasone (Argo fra tutti, che viene a chiedere il suo aiuto), Medea accetta di preparare un «filtro che ammansisca il toro»: $ ' * 4 (Ap.Rh. III 738). Così, Giasone incontra in gran segreto Medea nel tempio di Ecate, la dea degli incantesimi e della notte – e non in quello del Sole – e non esita a ricordarle che lei ha già promesso a ) i filtri (' ) che lui desidera (Ap.Rh. III 984). E Calciope di donargli ( quando Eeta negherà a Giasone il vello d’oro, benché l’eroe abbia portato a termine le prove imposte dal re, sarà Medea a procurarglielo, a patto di poter fuggire dal regno tradìto con lui. Apollonio tematizza questo passaggio come una donazione, facendo 4 5 esclamare alla sua Medea (Ap.Rh. IV 87): «sarò io a donarvi il vello d’oro» ( . * % G ). È infatti Medea ad addormentare il drago e a permettere a Giasone di ottenere l’agognata pelle dell’ariete. 1.2. I doni per Apsirto: un punto di non ritorno Nella “cronologia” del mito, il primo episodio in cui Medea fa ricorso a dei doni come strumento di inganno è ai danni del fratello Apsirto, o almeno è così nella variante offertaci da Apollonio Rodio (Ap.Rh. IV 415ss.) 14 . Se nella versione più famosa, Apsirto, ancora bambino, è rapito da Medea, che lo fa a pezzi e ne butta i resti in mare per ritardare le navi di Eeta15, negli Argonautica, quando Medea fugge con Giasone dopo averlo aiutato a ottenere il vello d’oro, re Eeta manda al loro inseguimento un Apsirto già adulto. Così, giunti in un’isola sacra sul Danubio, Medea propone un #$ , IV 421): suggerisce a Giasone di attirare il fratello in ‘grande inganno’ ( trappola offrendoli splendidi doni (' " ,,, , v. 416). Tra questi ‘oggetti , v. 428), ad Apsirto viene inviato il peplo tessuto dalle dee Cariti preziosi’ ( $ per Dioniso, il quale lo donò al figlio Toante, che a sua volta lo lasciò a Ipsipile. Un manufatto straordinario, che quest’ultima offrì a Giasone come dono ospitale di bella 5 9 , ibid.). fattura ( Il piano di Medea si basa quindi sulla forza di persuasione dei doni, lo strumento più efficace per “blandire” qualunque nemico (cf. l’uso di $ 94, v. 416). Ai vv. 422 e 428, Apollonio li chiama “doni ospitali” (9 0 ): proporli come tali serve a Medea per ribaltare natura e posizione di Giasone, da nemico (connotazione negativa 14 Cf. Pucci in BETTINI – PUCCI (2017, 92s.). Cf. Ferec. FGrHist 3 F 32 a-b, e Apollod. I 9 24. Euripide sembra seguire sia questa versione, sia quella cui si rifece anche Sofocle nelle Donne di Colchide (cf. fr. 343 R.), secondo la quale Medea avrebbe ucciso il fratello prima ancora di scappare con Giasone, nello stesso focolare paterno. Del fratello di Medea, Diodoro Siculo non dice molto: si limita a citarlo, e col nome di Egialeo (IV 45, 3). Ancora sull’uccisione di Apsirto, vd. BREMMER (1997). 15 Dionysus ex machina IX (2018) 192-228 196 I doni di Medea. Tra reciprocità e vendetta Lavinia Scolari dello straniero) a ospite (connotazione positiva)16. Apsirto si convince proprio perché sa che il vincolo ospitale è sacro, e crede, sbagliandosi, che Giasone e sua sorella non oseranno violarlo17. L’espediente degli 9 0 , pertanto, manipola la natura degli interagenti e la prassi di reciprocità in cui quelli si inseriscono (da negativa a positiva), colmando la distanza che si frappone tra loro. Ma, come sapeva bene Archiloco, ai ) risultano funesti ($+ H)18. E Apsirto, ormai, agli occhi di nemici i doni ospitali (9 Medea, è diventato proprio questo: un nemico. Un nemico da attirare nella rete con dei 0 speciali, che non sono affatto doni qualsiasi. " ), sulla bella Nel testo di Apollonio, si insiste molto sullo splendore (cf. ' 5 ), e sulla pregiata ricercatezza (cf. $ ) di questi oggetti. Uno in fattura (cf. particolare è di incomparabile valore: appartenuto a Dioniso e opera immortale delle Cariti, che Giasone ebbe da Ipsipile, nipote del dio, prima di abbandonarla 19 . Un oggetto, dunque, di natura divina, fabbricato da dee e – in origine – destinato a un dio; un oggetto straordinario e incantatore, che non potrebbe mai riuscire sgradito. In esso, la traccia di Dioniso, primo possessore, è profonda e indelebile; vi rimane ancora il suo & 3 6, v. 430), che lo rende esclusivo e seducente, in profumo d’ambrosia ( ; grado di suscitare in chi lo riceva un desiderio inestinguibile (vv. 428s.): I , «non avresti potuto saziare / ' 4 I ) #4 $+ : J % $ 20 il dolce desiderio di guardarlo o toccarlo») . Il peplo di Ipsipile sembra quindi dotato di un fascinum divino che la Medea di Apollonio decide di sfruttare. In effetti, il piano va a segno. Apsirto, credendo di essere stato convocato dalla sorella in gran segreto, si reca all’abboccamento e viene sorpreso da Giasone, che lo uccide. E benché Medea distolga lo sguardo, il fratello, colpito a morte, le imbratta la veste del suo sangue, indicando così il primo vero delitto di Medea: il suo punto di non ritorno (vv. 464-76). A Roma, la versione dei doni ospitali inviati ad Apsirto da Medea perché si fidi delle sue intenzioni non pare attecchiare21. Gli autori latini sembrano in genere preferire la variante del racconto in cui Apsirto è solo un bambino che Medea rapisce e fa a 16 Cf. BENVENISTE (1969, I, 273ss.). Sulla possibilità di ingaggiare con l’hostis un rapporto di amicizia oppure di rivalità, cf. BETTINI – BORGHINI (1983, 305-307). 17 Giasone, del resto, ha già evidenziato la necessità di mostrare rispetto nei riguardi di Zeus come protettore degli ospiti in Ap.Rh. III 193 e 986. Sulla figura dello straniero come ospite, vd. COZZO (2014, 11-32, spec. 27), CURI (2010, 57 ss.) e BENVENISTE (1969, I, 73 e 262ss.). 18 Arch. fr. 6, 1 West2: 9 + $+ . C# , «offrendo ai nemici funesti doni ospitali». 19 Cf. GREEN (1997, ad IV 423s., p. 311), che segnala come, di questi doni, non si faccia mai menzione nel primo libro. 20 Sul potere di attrazione del profumo, ad es. quello della pantera, consacrata a Dioniso, cf. PELLIZER (1979, n. 39, 75s.); DETIENNE (1977, 66ss.) e HORN (1972, 109s.). KREVANS (2002-2003, 179ss.) nota come il mantello di Ipsipile, di forte valenza erotica, paragonabile ai doni profumati di Calipso a Odisseo (Od. V 264) e allo stesso vello d’oro, sia una prefigurazione dell’abbandono di Medea da parte di Giasone. 21 Sulla figura di Apsirto, specialmente nel teatro latino arcaico, vd. almeno FALCONE (2016, 19). Dionysus ex machina IX (2018) 192-228 197 I doni di Medea. Tra reciprocità e vendetta Lavinia Scolari pezzi, come fa ad esempio Valerio Flacco negli Argonautica (Val. Fl. V 457). Ciò non toglie che il delitto ai suoi danni giochi un ruolo essenziale nelle riscritture mitiche e drammaturghiche: è un ricordo martellante per la Medea di Seneca, che però non cita mai i doni usati per ingannarlo. Anche Igino (Fab. 23, 4) li tace, pur riportando l’assassinio del giovane da parte di Giasone e Medea, come tra gli altri, fa anche Ovidio (Tr. III 9, 6ss.), che in Her. (VI 29ss.) si limita a riferire la versione del suo smembramento. Quel che è certo è che il furto del vello d’oro e il conseguente assassinio del fratello trasformano pienamente Medea in una nemica per i suoi cari, e soprattutto, in un’empia traditrice. Il dono positivo a Giasone, infatti, se guardato dal punto di vista di Eeta e dei Colchi, è un “dono al nemico”, definizione più o meno letterale di come i Greci pensano e rappresentano il tradimento. La , nella cultura greca, e in particolare nell’Atene del V secolo, è un’infrazione del codice relazionale vigente tra individui legati da vincoli di cittadinanza o di ' $ , vale a dire di parentela, matrimonio, ospitalità e di ogni altro legame di benevolenza reciproca22: # & ) significava aver donato o ceduto al nemico qualcosa (o essere un traditore ( qualcuno) afferente alla propria comunità di partenza, proprio come fa due volte Medea quando “dona” o procura a Giasone il vello d’oro, e cede all’eroe la vita del fratello, , in altre parole, in quanto “dono al nemico” e offesa sacrificandola per lui. La verso il proprio gruppo d’origine, è un meccanismo costruito sulla base del ribaltamento della prassi positiva e nei termini di una inattesa e scandalosa inversione di ruolo23. 1.3. Donare a Iolco: i doni simmetrici per Esone e Pelia24 Anche a Iolco, Medea conferma il suo ruolo di donatrice, o almeno è così che Ovidio tematizza due episodi mitici che la vedano protagonista: il ringiovanimento di Esone, e l’inganno ai danni delle figlie di Pelia. Se nella versione seguita da Diodoro Siculo (IV 50) e da Apollodoro (I 9, 27) Esone, istigato da Pelia, beve del sangue di toro durante dei riti sacrificali e ne muore, nel racconto di Ovidio il padre di Giasone è ancora vivo al ritorno del figlio, ma iam propior leto fessusque senilibus annis, «ormai troppo vicino alla morte e spossato dalla vecchiaia» (Ov. Met. VII 163)25. 22 Sulla ' $ come «a kind of mutual well-doing», cf. COOPER (1998, 312-14), secondo il quale la violazione della giustizia è più seria quando è un amico a commetterla (Id., 334). Sulla massima dirompenza dell’offesa nel rapporto tra philoi, cf. GASTALDI (1990, 20). Più in generale, si veda anche BELFIORE (1998, 144). 23 A tale proposito, cf. QUEYREL BOTTINEAU (2010, spec. 11-14), che fornisce un corposo esame della categoria della , specialmente in rapporto alla rappresentazione di cui abbiamo testimonianza per l’Atene del V sec. a.C. 24 Su questo stesso tema, mi permetto di rimandare a SCOLARI (2018b, 148-56). 25 Sulla tradizione intorno a Esone, vd. GALASSO (2000, 1090s.). Dionysus ex machina IX (2018) 192-228 198 I doni di Medea. Tra reciprocità e vendetta Lavinia Scolari Per salvarlo, Giasone è disposto a cedergli alcuni anni della sua vita. Chiede dunque a Medea di “trasferirli” al padre, consapevole del grande potere dei suoi carmina (Ov. Met. VII 167s.). Quest’ultima, però, si rifiuta di operare un simile scambio, che giudica come uno scelus (v. 172). L’eroina sembrerebbe aderire al modello del buon benefattore che Seneca postulerà secoli dopo (evidentemente, già presente in nuce nel codice culturale romano), secondo il quale non si dovrebbe mai accordare un dono che possa rivelarsi nociturum a chi lo chiede26. In alternativa, Medea offre a Giasone la possibilità di un maius munus: un dono di salvezza per Esone che non comporti alcun sacrificio per l’eroe da lei tanto amato27. A questa altezza, la Medea di Ovidio si è già meritata il titolo di muneris auctor per aver permesso a Giasone di impossessarsi del celebre vello, ‘aureo bottino’ (spolium aureum), pur essendo lei stessa diventata a sua volta ‘bottino di guerra’ (spolia altera)28. I versi mettono chiaramente in risalto, attraverso il poliptoto, la condizione paradassole in cui Medea si trova: da un lato è un soggetto attivo, una donatrice, dall’altro è un oggetto, una preda che Giasone victor (v. 158) porta via con sé; una conquista assimilabile al vello d’oro. Ma l’espressione con cui Ovidio indica il ruolo di donatrice aggiunge qualche dettaglio in più: muneris auctor è una qualifica al maschile, che, oltre a rilevare una non trascurabile potenzialità attoriale, segnala anche l’attitudine, specifica di Medea, a invertire ruoli e prerogative di genere29. Medea, pertanto, non si sottrae alla richiesta dell’amato e, col favore di Ecate, fa in modo che renovata senectus / in florem redeat primosque recolligat annos, «la vecchiaia, restaurata nell’età, ritorni in boccio e che Esone recuperi i primi anni» (Met. 26 Cf. Sen. Ben. II 14, 2: Vt frigidam aegris negamus et lugentibus ac sibi iratis ferrum, ut amentibus, quidquid contra se usurus ardor petit, sic omnium, quae nocitura sunt, inpense ac submisse, non numquam etiam miserabiliter rogantibus perseverabimus non dare, «come neghiamo l’acqua fredda agli ammalati e una spada a chi è in lutto o è irato con se stesso, o come neghiamo a quelli che sono fuori di sé qualunque cosa il loro furore potrà usare contro di loro, così, fra tutte, persevereremo nel non dare quelle cose che potranno nuocere, mai, neppure se ce le chiedessero con insistenza o umiltà, o in modo da suscitare la nostra compassione». Per il testo latino si segue l’edizione di HOSIUS (1914). 27 Cf. Met. VII 175: sed isto / quod petis, experiar maius dare munus, Iason, «ma cercherò / di darti un dono più grande di questo che chiedi, Giasone». La clausola torna con variatio in Met. VII 276: propositum instruxit mortali barbara maius, in cui BALDINI MOSCADI (1996) legge munus al posto di maius, dimostrando con argomenti intertestuali e filologici la validità della sua interpretazione. Per un commento al passo, si veda MASSELLI (2009, 94). 28 Ov. Met. VII 155-57: ... et auro / heros Aesonius potitur spolioque superbus / muneris auctorem secum, spolia altera, portans / victor Iolciacos tetigit cum coniuge portus, «e l’eroe figlio di Esone si impadronisce dell’oro e, fiero di quel bottino, vincitore raggiunge con la sposa il porto di Iolco, portando con sé l’autrice del dono, una seconda preda». Al riguardo, cf. MASSELLI (2009, 94). 29 Il sintagma muneris auctor è frequente nelle Metamorfosi. Sono così chiamati il Sole (II 88), Triptolemo (V 657), Procri (VII 686), Meleagro (VIII 430; 436), Bacco (XI 125; XIII 670) e Venere (X 673). Va comunque notato che in latino la forma femminile auctrix è assai rara e di uso post-classico. Le prime occorrenze risalgono al IV sec. d.C. (cf. OLD 204-206, s.v. auctor). Dionysus ex machina IX (2018) 192-228 199 I doni di Medea. Tra reciprocità e vendetta Lavinia Scolari VII 215s.) 30 . E lo fa, preparando dei suci: un liquido con cui riempire le vene prosciugate dopo aver fatto fuoriuscire il sangue vecchio 31 . La senectus di Esone è quindi chiamata a tornare allo stato primigenio, in un riavvolgimento del nastro vitale32, operato secondo una prestazione magico-benefica. Siamo di fronte a un celebre topos mitico-favolistico, quello del «dono della vita»33. Ma se questo a Esone è un dono tutto ‘positivo’, quello alle figlie di Pelia è esattamente il suo opposto. Ovidio lo presenta come un dolus (Met. VII 297) utile a vendicarsi dello zio usurpatore34. Nelle fonti mitografiche, l’elemento del dono fallace, assente in Apollodoro (I 9, 27), si trova in nuce nel racconti di Diodoro Siculo (IV 50s.), secondo il quale Medea, travestita da sacerdotessa di Artemide, racconta alle figlie di Pelia che la dea le avrebbe ordinato di ringiovanire il vecchio re coi suoi poteri e di IV 51, 5) una vita felice, gradita alla divinità che lo sta ‘donargli’ (cf beneficando. Nelle Metamorfosi di Ovidio, i termini dell’inganno sono diversi. Medea finge infatti una falsa avversione nei confronti del marito (odium cum coniuge falsum, v. 297) e si rifugia come supplice dal re di Iolco. Alle figlie di quest’ultimo promette di operare lo stesso rito con cui è stata capace di ringiovanire Esone, e non esita a chiamare questa prestazione benefica munus (v. 310). Segue la prova del montone tramutato in agnello, indispensabile perché la fiducia delle figlie di Pelia nel suo dono sia maior (vv. 309-11). L’assicurazione di lealtà offerta da Medea funziona e le due donne si lasciano convincere a eseguire un rito magico sul padre (Met. VII 339s.): his, ut quaeque pia est, hortatibus inpia prima est et, ne sit scelerata, facit scelus … A quegli incitamenti, come è naturale, la più devota è la prima a essere empia, e, per non essere scellerata, compie un delitto. Le forme della narrazione mettono bene in luce il rovesciamento che il munus malefico di Medea implica: la pietas delle figlie di Pelia si trasforma in impietas, e la loro preoccupazione a non trasformarsi in sceleratae le spinge a compiere un terribile scelus: l’ultimo vero dono di Medea a Giasone. 30 Su questo tema, si rimanda ancora allo studio di MASSELLI (2009, spec. 20ss.). Cf. Met. VII 286s. Ovidio aggiunge che Bacco vide dall’alto i tanti miracula monstri (Met. VII 294), con cui avrebbe potuto restituire gli anni trascorsi alle sue nutrici. E così «prese dalla donna di Colchide questo munus» (v. 296). Il dio, in altre parole, acquisisce una competenza pratica da Medea, apprende questo arcanum e lo fa suo. In questo caso, dunque, munus, ha il senso più largo di «facoltà o capacità di fare, dare o produrre qualcosa», per il quale cf. PEREIRA-MENAUT (2004, 172). 32 Cf. renovata, v. 215; redeat e re-colligat, v. 216. Sul ringiovanimento di Esone, cf. almeno FALCONE (2016, 4ss.). 33 Cf. DANESI MARIONI (1993, 221s.) e BALDINI MOSCADI (1996, 234). 34 Sui delitti di Pelia, che provoca il suicidio dei genitori di Giasone e ne uccide il fratello ancora in fasce, Promaco, cf. Apollod. I 9, 27 e Diod. IV 50. 31 Dionysus ex machina IX (2018) 192-228 200 I doni di Medea. Tra reciprocità e vendetta Lavinia Scolari 2. I doni contro Giasone 2.1 La salvatrice e il traditore: forme della reciprocità nella Medea di Euripide In seguito all’assassinio di Pelia, Medea e Giasone, esiliati da Iolco, si dirigono a Corinto, dove trovano ospitalità. Quando però Creonte offre all’eroe sua figlia Glauce in sposa, a dispetto del fatto che quello sia già unito a Medea, le cose precipitano35. In Euripide, in particolare, Giasone prospetta a Medea un declassamento sociale 36 , l’opportunità di vivere con lui sotto lo stesso tetto, nonostante le nuove nozze con la principessa corinzia. Euripide, in altre parole, applica alla riscrittura tragica di Medea le leggi vigenti nell’Atene del V sec. a.C., secondo le quali a un uomo sposato e con prole legittima era consentito di tenere con sé una concubina straniera, priva della cittadinanza, e provvedere apertamente a lei e ai figli avuti da lei37. Dunque, se Creonte non si fosse opposto, Medea sarebbe stata relegata al rango di concubina, e, dal suo punto di vista, senza una ragione plausibile. Giasone, infatti, non è K , ‘senza 38 figli’ ; ha già una discendenza. Il bisogno di garantire continuità alla stirpe avrebbe reso meno grave l’abbandono, ma l’assenza di questo tipo di motivazioni – che in Grecia rendevano legittimo il ripudio – acuisce l’ira di Medea. Giasone la oltraggia39. ) e come La sua offesa è rappresentata nel dramma come un ‘torto che disonora’ ( 40 41 un’ingiustizia ( ) , ma soprattutto come un tradimento ( ) . Giasone, infatti, sposando Glauce, infrange le promesse fatte a Medea e sigillate da sacri giuramenti42. Questo fa dell’eroe, agli occhi di Medea stessa e del coro (un coro di # + ' , v. 206), ma anche, implicitamente, un donne sposate), un ‘cattivo sposo’ ( 35 A questo proposito, si vedano almeno GUASTELLA (2001, 111ss.) e GILL (1996, 161ss.). La questione è particolarmente complessa, soprattutto per la natura anomala di questa unione, se paragonata alla prassi nuziale vigente in Grecia (o almeno nell’Atene di Euripide), dove non sarebbe bastata la fuga dell’eroina con Giasone e la presenza dei figli a sancire la regolarità di un rapporto matrimoniale tra i due. Al riguardo, MUELLER (2001, 486) parla di un «declassamento dell’unione», in cui ravvisa la motivazione principale della vendetta di Medea. 37 MCDERMOTT (1989, 44s.). Sul ruolo vincolante dei figli, cf. BELFIORE (1998, 145). 38 Cf. Eur. Med. 488-91: «e nonostante tu abbia ricevuto da me queste cose, tu, o peggiore degli uomini, / ci hai tradito e ti sei procurato un nuovo letto, / pur avendo dei figli: se infatti fossi stato ancora senza eredi (K ), / ti si sarebbe potuto perdonare il tuo desiderio di questo nuovo letto». 39 Eur. Med. 18s. Cf. anche Med. 256s.: -; C # . 40 Cf. L &, v. 20; , v. 33; K < , «ho sofferto ingiustizie», v. 207; M 1L & &, «sente di essere stata ingiustamente offesa dal suo uomo», v. 26; % 6 L & &, «essendo stata offesa riguardo al letto nuziale», v. 268. 41 Cf. Eur. Med. 27; 206; 603-606. Al riguardo, vd. BURNETT (1973, 10). 42 Cf. nn. 6 e 12. Sulla violazione del giuramento nella Medea di Euripide come oltraggio agli dèi, cf. BURNETT (1973, 13). 36 Dionysus ex machina IX (2018) 192-228 201 Lavinia Scolari I doni di Medea. Tra reciprocità e vendetta ingrato, anzi, peggio: qualcuno che, in risposta ai meriti della sua benefattrice, offre un cattivo contraccambio43. Ora, nel dramma di Euripide, il tema della benemerenza di Medea nei riguardi di Giasone è presente, seppur non preponderante. La protagonista, infatti, rinfaccia all’eroe mal riposta (Med. 506-508): i suoi benefici, espressione della . N. %. 2 O 4P " 5 &.1 R . ' + Q 1 '$ %. / 0 $ + N.4, Le cose stanno così: per quelli della mia casa che mi erano cari sono diventata odiosa, e quelli ai quali non avrei dovuto far del male, li ho resi nemici per fare un favore a te. Le dinamiche relazionali che la tragedia di Euripide mette in scena attraversano una complessa serie di inversioni di cui Medea è il punto focale: il legame di ' $ che la legava ai suoi congiunti e alla patria, a causa dello straniero, è rovesciato in inimicizia , trasformando quelli che erano i e Medea passa da ' $& per i suoi congiunti a %. 44 , veri e propri ‘nemici esterni’ . Medea si trova così a far del male suoi cari in $ 0 2 ) a quelli che dovrebbe tutelare, e a esserne conseguentemente odiata ( piuttosto che amata45; ma soprattutto, si trova nella condizione di aver prestato aiuto a 0 2 (v. 470) di cui lei stessa si è macchiata nei chi la ricambia con lo stesso confronti del padre, del fratello e di tutta la sua casa46. Medea, che è continuamente rappresentata nell’immaginario dei Corinzi, della nutrice e degli stessi Creonte e Giasone come ‘sapiente’ ( ' ), sa di essere stata # + 2$$ S '4 , «più 47 accondiscendente che saggia» (vv. 483-85) a causa della buona disposizione nei riguardi di Giasone. L’amore per lui le ha precluso il suo tratto pertinente, 43 Cf. Eur. Med. 22s.: «e chiama a testimoni gli dèi di quale contraccambio ( J ;/ ) riceve da Giasone». Su questo tema, cf. LYONS (2012, 82); ALLAN (2007, 116) e GILL (1996, 158). 44 Al riguardo, Pucci, in BETTINI – PUCCI (2017, 41-46), ha definito quella di Medea come la «tragedia della philía», in cui è possibile rintracciare l’istanza dell’eroina a sacrificare «l’affetto per i phíloi al codice eroico tipicamente virile» (p. 43). Sull’eroismo di Medea in rapporto alla sua “gelosia”, vd. SISSA (2015, 8s., 19 et passim). Sul carattere nocivo dei benefici di Medea a Giasone, che le procurono solo nemici, cf. GILL (1996, 158s.). 45 Cf. BELFIORE (1998, 139s.), che individua come elemento centrale delle tragedie attiche la violazione della e il rovesciamento della normale prassi di reciprocità positiva. 46 Cf. Eur. Med. 483-85; Eur. Med. 31-33: 6 - 6 1 9& ' $ " Q + 1 R < 1 ' 1 @ ' < N. , «fra sé e sé rimpiange il caro padre, la sua terra e la casa, che ha tradito andandosene con un uomo che adesso le rivolge disonore»; Eur. Med. 502s.: < " 4 T # # + R < ' # & T, «adesso dove potrei andare? Alla casa paterna e in patria, che ho tradito e abbandonato per te?». Sul contraccambio disfunzionale per i suoi meriti, consistenti anche nei delitti contro i consanguinei, cf. ALLAN (2007, 116); su questo meccanismo di tradimenti reciproci, cf. QUEYREL BOTTINEAU (2010, 55). 47 Cf. Sulla ' di Medea, si vedano i vv. 285; 303; 404-409; 539. Dionysus ex machina IX (2018) 192-228 202 Lavinia Scolari I doni di Medea. Tra reciprocità e vendetta sovvertendone l’identità: la sapiente per eccellenza ha cessato di essere tale e non si è resa conto dei pericoli di una condotta ciecamente benevola. Medea, infatti, si definisce più volte nel dramma euripideo come la salvatrice di Giasone e della sua intera spedizione48. L’eroe, però, le nega quel ruolo (Eur. Med. 526-28): % G 1 % U* 6 $ + " . C4 / % / + $& V 0 4 # & , Ma io, poiché anche troppo esalti la tua benevolenza, ritengo piuttosto che sia Cipride la salvatrice della mia spedizione, l’unica, fra gli dèi e gli uomini. Se per Pindaro la salvatrice dell’equipaggio di Argo e dell’intera spedizione è Medea49, il Giasone di Euripide, sulla scia di Esiodo50, attribuisce ad Afrodite il titolo di , e così, assegnando alla dea il merito del successo della sua impresa, rinnega il debito di riconoscenza nei riguardi dell’eroina e anzi, tenta di capovolgerlo, segnalando come Medea abbia ricevuto da lui più di quanto abbia concesso51. Per Giasone, infatti, + < l’esaltazione che Medea compie dei suoi stessi benefici è eccessiva ($ , v. 526). Al coro, però, non sfugge l’ingratitudine dell’eroe, alla quale . chiaramente si riferiscono i vv. 660-63: . W$ 1 @ 4 6'$ + 2 2 9 $/ ' 0 P % 5 '$ I 1N E vada alla malora l’ingrato, che si permette di non onorare i suoi cari, dopo aver schiuso le porte del loro cuore: mai costui mi sarà amico. 48 Cf. v. 476: N 4 , «io ti ho salvato»; v. 482: 1 . ' 4 , «uccidendo il drago, sollevai per te la fiaccola della salvezza». 49 Cf. n. 3. Una rappresentazione di Medea come salvatrice, e del suo aiuto come dono, è offerta anche da Ovidio, in Met. VII 93s.: «ti salverai (servabere) grazie al mio dono (munere nostro), / e una volta che ti sarai salvato, mi darai quello che hai promesso (promissa dato)»; e in Her. XII 173: quos ego servavi, paelex amplectitur artus, «chi ho salvato, adesso lo stringe tra le braccia una rivale». Lo stesso Giasone, chiedendole aiuto, la prospetta come sua futura salvatrice: ius tibi et arbitrium nostrae fortuna salutis / tradidit, inque tua est vitaque morsque manu, «la sorte ti ha affidato il diritto e l’arbitro della mia salvezza, e la mia vita e la mia morte sono in mano tua» (Her. XII 73s.); sed tibi servatus gloria maior ero, «ma avrai gloria più grande, se mi salverai» (Her. XII 76). E ancora vd. Her. XII 203: dos mea tu sospes, «la mia dote sei tu sano e salvo». 50 Vd. supra nn. 4 e 5. 51 Cf. Eur. Med. 534. Sul ruolo di Cipride, cf. GILL (1996, 162); GRAF (1997, 28s.), ALLAN (2007, 119) e SISSA (2015, 36). MOREAU (1994, 183 e n. 27 p. 190) osserva che il cinismo del personaggio di Euripide si ritroverà anche nel Giasone di Ennio (Med. 286 Warmington / fr. 107 Jocelyn), che non avverte alcun sentimento di debito e lascia intendere che Medea l’abbia aiutato a causa di Cupido. Dionysus ex machina IX (2018) 192-228 203 I doni di Medea. Tra reciprocità e vendetta Lavinia Scolari Giasone ha dunque spostato la dinamica di relazione dal piano di reciprocità positiva a quello di reciprocità negativa inserendo l’elemento perturbante dell’offesa, presentata come tradimento, mancanza di rispetto e, seppur in minor grado, ingratitudine. È a tutto questo che Medea si prepara a rispondere, calandosi perfettamente nella nuova dinamica: la vendetta. 2.2 La benefattrice e l’ingrato: forme e sovversioni della reciprocità nella Medea di Seneca In Seneca, il problema della frattura relazionale fra Medea e Giasone si presenta in termini di dissoluzione del legame nuziale e non di mero declassamento della protagonista al rango di concubina. Diversamente da Euripide, infatti, nel dramma latino si parla esplicitamente di repudium (Med. 52s.), in seguito al quale Medea è costretta a lasciare lo sposo, abbandonare la sua casa e subire il doloroso bando (cf. virum linques, Med. 53; scelere linquenda est domus, Med. 55). L’ingiustizia che patisce è quindi in primo luogo riferibile all’identità di coniunx che le viene improvvisamente negata senza un valido motivo (o almeno senza un motivo che lei riconosca come tale), anzi, a dispetto dei suoi stessi meriti. L’offesa del repudium è dunque percepita da Medea come una reazione discordante rispetto al tenore della dinamica di scambio attiva fino a quel momento52. Essa determina un gap relazionale tra la prestazione benevola fornita da uno dei due interagenti e il contraccambio negativo dell’altro attore, che si sottrae al “dovere” di riconoscenza e risponde con un atto oltraggioso, in grado di invertire la polarità segnica dell’intera relazione, traghettandola da una prassi benefica e positiva a un meccanismo di offesa (Sen. Med. 118-22): MED. hoc facere Iason potuit, erepto patre patria atque regno sedibus solam exteris deserere durus? merita contempsit mea qui scelere flammas viderat vinci et mare? adeone credit omne consumptum nefas? MED. Questo ha potuto compiere Giasone, dopo avermi strappato il padre, la patria e il regno, abbandonarmi – spietato! – in regioni straniere da sola? Ha disprezzato i miei meriti, proprio lui che aveva pur visto le fiamme e il mare essere vinti con i miei delitti? Crede forse che a questo punto ogni empietà sia stata consumata? 52 Cf. CIPRIANI (2005, 19s.). Dionysus ex machina IX (2018) 192-228 204 I doni di Medea. Tra reciprocità e vendetta Lavinia Scolari L’offesa di Giasone è presentata innanzitutto come un atto di sottrazione violenta (cf. l’uso di eripere, v. 118)53, con cui ha strappato alla sua benefattrice i simboli più pregnanti della sua identità: il padre, la patria e il potere che la dignità regale le conferiva per diritto di nascita54. Se in Euripide (Med. 255-58) l’eroina trasforma la sua fuga alla stregua di un ratto e si descrive come rapita al pari di un bottino (cf. $ $F &, Med. 256)55, in Seneca, la rappresentazione dell’isolamento di Medea, che è stata svincolata dalla sua rete di legami parentali e dalla sua terra, subisce una modifica che riguarda l’oggetto della sottrazione: non è più Medea a essere stata portata via, ma sono il padre e la patria che le sono stati sottratti. L’eroina è la vittima dell’eripere, non l’oggetto del “saccheggio”56. L’aiuto che Medea ha fornito a Giasone per il conseguimento della sua impresa le ha fatto terra bruciata intorno. Il suo bene facere ha operato un rovesciamento tale da divenire damnum nei suoi stessi confronti57. Davvero ogni via spianata per Giasone è stata un ostacolo alzato contro se stessa, tale da provocare la frattura di ogni legame con i congiunti e da renderla nemica di molti. Ciononostante, Giasone ha disprezzato i merita della sua prima sposa, arrecandole “l’offesa del disprezzo”, un’offesa che ha in sé i tratti del contemnere e quelli dell’inosservanza del debito di gratitudine, e che fa dell’eroe, agli occhi di lei, un ingratum caput (v. 465)58. 53 La descrizione della condotta di Giasone come sottrazione è in linea con l’idea senecana dell’iniuria come deminutio e detrimentum (Const. sap. 5, 4), un danneggiamento procurato da un atto di privazione che toglie qualcosa alla sua vittima, lede la sua dignità, il suo corpo, o le res che si trovano fuori di lei e che la riguardano: omnis iniuria deminutio eius est in quem incurrit, nec potest quisquam iniuriam accipere sine aliquo detrimento vel dignitatis vel corporis vel rerum extra nos positarum [...], «ogni offesa toglie qualcosa a colui contro il quale si indirizza, né alcuno può ricevere un’ingiuria senza qualche deterioramento o della dignità o del corpo e delle cose che si trovano fuori di noi». 54 Nella Medea di Euripide è Creonte a marcare l’oltraggio subìto dall’eroina in termini di “privazione”, nella misura in cui il rancore di lei viene rapportato al suo essere stata «privata del letto del suo uomo» (Eur. Med. 286): $ 4 % & &. 55 GUASTELLA (2001, 114) individua nell’espressione del v. 256 l’indizio di un mutamento di status di Medea, che di certo, all’inizio del rapporto con Giasone, non può dirsi al pari di una preda di guerra, e che invece, in seguito al matrimonio dell’eroe con Glauce, subisce un riqualificazione identitaria. È pur vero che, come nota ALLAN (2007, 115-17), Medea tenda spesso a inasprire la rappresentazione del comportamento di Giasone; le sue affermazioni sono di frequente votate alla presentazione di una realtà alterata che cooperi ad argomentare la condotta disdicevole dell’eroe e a dimostrarne la natura malvagia e spergiura. 56 Al riguardo, cf. anche Ov. Her. XII 105ss. 57 GUASTELLA (2001, 141s.) sottolinea la strategia retorica di Medea emergente dalla presentazione dei suoi merita come perdite a causa dell’intervento del fattore dell’ingratitudine: «Contrariamente a quanto avviene nelle precedenti versioni letterarie di questo mito, in altri termini, i merita vengono evocati qui da Medea non solo come una prestazione offerta vanamente a un ingrato, ma anche come danni che lei stessa ha dovuto patire, e che andranno risarciti in qualche modo». 58 Med. 120: merita contempsit mea. Già Ovidio (Her. XII, specie v. 21, v. 124 e vv. 192-206; Met. VII 43) identifica il comportamento disfunzionale e oltraggioso di Giasone come aderente all’ingratitudine, e Seneca, che certamente conosceva il testo ovidiano, ne recupera la composizione, sviluppandola. Sulla riscrittura di Giasone come ingratum caput (mi permetto di rimandare a SCOLARI (2018a, 263ss.). Dionysus ex machina IX (2018) 192-228 205 I doni di Medea. Tra reciprocità e vendetta Lavinia Scolari Ai vv. 465-77, Medea riporta all’attenzione dell’interlocutore tutta la parabola mitica delle prestazioni benefiche operate a vantaggio di Giasone, dal furto dell’ariete all’uccisione di Apsirto e di Pelia, tutti gli scelera in cui è concentrata una molteplicità di crimini e violazioni compiuti a favore di uno solo e a discapito di tutti gli altri, perfino della stessa donatrice. Di contro, le scelte dei cari di un tempo, ormai nemici (Giasone su tutti), benché presentate come doni, sono chiaramente, agli occhi di Medea, terribili castighi. È il caso dell’esilio, che Giasone presenta come un’opportunità di salvezza e di cui, invece, Medea disvela la natura punitiva: poenam putabam: munus, ut video, est fuga, «lo ritenevo una pena: invece è un dono, a quanto vedo, l’esilio» (v. 492)59. A questo punto Medea non ha scelta. Ha solo una via da percorrere. La sua ultio farà quello che i benefici non hanno potuto (vv. 140-42): si potest, vivat meus, ut fuit, Iason; si minus, vivat tamen memorque nostri muneri parcat meo. Se è possibile, Giasone continui a vivere mio come un tempo; altrimenti, viva lo stesso, si ricordi di me e impari ad aver rispetto del mio dono. Il meccanismo di restituzione dell’offesa viene riconfigurato come un munus che riuscirà ad assicurarsi l’attenzione mnemonica di Giasone e il suo riguardo come i munera amoris di Medea non sono mai stati in grado di fare60. L’uso del termine munus in rapporto ai servigi che Medea ha fornito a Giasone spinta dal sentimento amoroso segnala il legame di reciprocità che tali prestazioni avrebbero dovuto attivare. In questo contesto, il lemma munus appare carico della forza semantica che la composizione ovidiana gli ha attribuito (cf. Ov. Met. VII 276; Her. XII 71), dove è adoperato per indicare i “doni” e le prestazioni che Medea ha fornito a Giasone, salvandogli la vita e favorendo il successo della spedizione della nave Argo e dei suoi marinai61. Ma se i merita di Medea non hanno impedito i molti affronti e la condanna all’esilio, una persistenza maggiore nella memoria avrà il delitto che la protagonista si accinge a compiere, preda di un furor vorticoso e insaziabile che lei stessa, in linea con 59 In Ovidio (Her. XII 110) è Medea stessa che ammette di aver accolto l’esilio dalla patria come un munus di fronte alla possibilità di seguire l’amato. A questo proposito, cf. Pucci in BETTINI – PUCCI (2017, 99s.). 60 Con munus, secondo HINE (2000, 133 ad 140-42), ci si riferisce qui al “dono della vita” che Medea ha fatto a Giasone, salvandolo sia da Eeta sia da Pelia (cf. Ov. Her. XII 203-206). Ma nel munus di cui parla Medea rientrano più propriamente tutti i benefici della donna all’eroe e ai suoi cari. Al riguardo, vd. ancora BALDINI MOSCADI (1996, 236s.). 61 Cf. BALDINI MOSCADI (1998, 10s.). Dionysus ex machina IX (2018) 192-228 206 Lavinia Scolari I doni di Medea. Tra reciprocità e vendetta la drammaturgia senecana, ha lucidamente assunto dentro di sé62. Giasone non potrà più trascurare il dono di Medea, mai più potrà liberarsene: excidimus tibi? numquam excidemus, «ti siamo sfuggiti di mente? Mai più ci dimenticherai» (Med. 561s.)63. 2.3 I doni a Glauce: ' e oggetti scenici Nella tragedia greca, le modalità della vendetta di Medea sono innanzitutto individuate e nella , ‘inganno’ e ‘silenzio’ 64 . Ma sono entrambi difficili da nel #$ : «tutti i Greci perseguire. Medea, infatti, come sappiamo, è nota a tutti per la sua si sono accorti che sei sapiente ( ' ) e hai questa fama», le dirà Giasone al v. 539. E prima di lui, Creonte la definisce faccia a faccia «sapiente ( ' ) e conoscitrice di molti 0 $$0 Q , v. 285)», caratteristiche da cui sente di doversi guardare. La mali ( stessa Medea non nega di esserlo: «poiché sono sapiente ( '6), ad alcuni risulto odiosa»65. Dunque, se Sofocle nei Rhizotomoi (fr. 492 Radt) ne fa verosimilmente una maga esperta di erbe e rimedi, Euripide la rappresenta non solo come una conoscitrice – che in Apollodoro le vale il titolo di ' (I 9, 23) – ma anche e di ' 66 soprattutto come una donna “che sa” . nel dramma attico? In primo Ma in che modo Medea adopera questa sua luogo, per invertire la sua posizione agli occhi di Giasone, convincendolo a fare quello che vuole; in secondo luogo, applicandola nella confezione dei doni per Glauce. L’eroina ne parla la prima volta al coro ai vv. 783-89: $$1 X #$ " ; $4 Y4 : 0 1 N. % Z * '& ' 6' * $ # $ $# . + K $ ; < # ' / . 0 3$ " 2 1] = F # " . 4' 4 4, . " . # [ $ P \ & ^ , 62 Sul furor come forza cui Medea non sa resistere, cf. Sen. Med. 123s.; 392; 850s.; 953 e l’analisi di NUSSBAUM (1997, 231). I personaggi del teatro senecano, tuttavia, mostrano una vera e propria lucidità progettuale nell’orchestrazione dei loro delitti, fin dal momento della scelta consapevole di accogliere il furor dentro di loro attraverso forme infere di invocazione, come accade per Atreo in Thyestes. 63 Cf. anche Ov. Her. XII 71. 64 Eur. Med. 393; 783. 65 Eur. Med. 303; cf. anche i vv. 298s.: " 5 ' 4 ' #9 . " ' '+ , «se offri agli sciocchi un nuovo sapere, sembrerai folle, non certo sapiente». In Apollonio, invece, come nota Pucci in BETTINI – PUCCI (2017, 95), la caratteristica della giovane Medea innamorata è, al contrario, quella di essere «améchanos», con cui si indica «sia ‘chi non sa trovare rimedio’, sia ‘qualcuno contro cui non c’è rimedio’. 66 Del resto, Medea, nella tradizione mitica che fa capo a Esiodo (Th. 958-62), è già figlia di Idyia, il cui nome significa ‘colei che sa’ o ‘che conosce’. Per la trasmissione femminile del sapere intorno ai cf. PELLIZER (1979, 74). Dionysus ex machina IX (2018) 192-228 207 Lavinia Scolari I doni di Medea. Tra reciprocità e vendetta [...] ho intenzione di uccidere la figlia del re con l’inganno. Infatti, invierò [i bambini] a portare con le loro stesse mani i doni [alla sposa, chiedendole che non li bandisca da questa terra], un peplo leggero e un diadema d’oro battuto; non appena, preso l’ornamento, lo avrà indossato a contatto con la pelle, morirà malamente, la fanciulla e chiunque la tocchi: con veleni di tale potere ungerò i doni. In Euripide, i doni per Glauce sono due: un peplo ‘leggero’, ‘delicato’ ($ # . + $ ). In particolare, sembra che Medea $ ) e un diadema d’oro ( $# concentri su quest’ultimo la forza letale dei suoi filtri velenosi che agiranno nei termini della magia per contatto 67. Ma è nel successivo dialogo con Giasone che Medea ne 1 . _ $$ + ,,, & & # @ esplicita la natura: 1 `$ 6 4 % # a , « [Glauce] sarà ben felice non una volta, ma innumerevoli volte, [...] di possedere un ornamento che un tempo il Sole, padre di mio padre, donò ai suoi discendenti» (vv. 952; 954s.). Un ornamento che adesso Medea è intenzionata a offrire come dono di nozze (' H ), per chiedere alla principessa di non bandire i suoi figli da Corinto (Eur. Med. 956-58): $ C+ ' ' / + 4 P I 0 " % . * '& # 9 , Prendete in mano, bambini, questi doni nuziali, e portateli in dono alla fortunata sposa regale: certamente non riceverà doni biasimevoli. Sono due dunque gli aspetti specifici di questi doni: il fatto di essere degli “oggetti di famiglia”68 che chiamano in causa la potenza divina del Sole, e il fatto di . Partiamo da questo secondo aspetto. Nella cultura greca, il sistema essere delle ' dei doni di nozze è molto complesso, come dimostra chiaramente la questione (ancora non pacifica) intorno alle ' , con cui per lo più si indica la ‘dote’, ‘ciò che è portato dalla sposa’ o, più in generale, come qui, ‘i doni nuziali’ per lei69. Ora, la dote, in greco, 9 70 . soprattutto nel suo valore giuridico riconosciuto, è detta più comunemente Rispetto a quest’ultima, la ' pare avere un’origine rituale più marcata: sembra consistesse originariamente in un apporto generico, un contributo o una prestazione obbligatoria alle celebrazioni festive, da cui, secondo Louis Gernet, si sarebbe sviluppata l’idea di «prestazione rituale o matrimoniale», e quindi di dote come segno 67 Cf. BIEDERMANN (1989, 154s.). Del tema antropologico degli “oggetti di famiglia” mi sono già occupata in SCOLARI (2013-2014, 117), SCOLARI (2018a, 15 e 102s.) e, più approfonditamente in SCOLARI (2018b, 164ss.). 69 Cf. LSJ9 p. 1922, s.v. 70 Cf. DELG, p. 1188 s.v. ' . 68 Dionysus ex machina IX (2018) 192-228 208 I doni di Medea. Tra reciprocità e vendetta Lavinia Scolari del prestigio (e della ricchezza) del gruppo familiare o di appartenenza della sposa (e soprattutto di chi la dà in moglie)71. In tempi più recenti, studiando le disposizioni di , Wagner Hasel ha proposto un’interpretazione che mette in Solone intorno alla ' fosse nello specifico un dono femminile (per lo più della sposa) evidenza come la ' offerto per contraccambiare i doni maschili (dello sposo); un dono, inoltre, costituito in genere da oggetti tessili, tipici della “ricchezza femminile”, o di quello che le donne erano chiamate a produrre e, quindi, a donare allo sposo72. Che i doni tessili siano gli oggetti più adeguati del “dono al femminile”, è un’opinione diffusa nel mondo antico. Nell’Eneide, ad esempio, Andromaca ricopre di doni tessili (textilibus … donis) il piccolo Ascanio, cui regala delle vesti ricamate d’oro e una clamide frigia, non meno onorevole 73 . Servio commenterà così questo dono: «doni tessili: cioè a lei adeguati: infatti, che cosa mai sarebbe stato più appropriato che una donna donasse?»74. Dunque, seguendo le intepretazioni di Gernet e di Wagner Hasel, potremmo concludere che le siano dei doni rituali femminili (e spesso tessili), per lo più della sposa, con cui quest’ultima mostra il prestigio della sua casa, e che fungono da contraccambio ai doni dello sposo. Mi sembra che questa definizione spieghi bene perché Medea usi questo termine quando parla dei doni che ha deciso di inviare a Glauce: si tratta infatti di doni di “contraccambio” di una sposa abbandonata allo sposo (nella fattispecie, Giasone), dei doni al femminile con cui Medea è intenzionata a rispondere non al dono, bensì all’offesa che Giasone le ha rivolto. Mi pare che sia questo il senso reale del contraccambio che l’eroina offre, e non ciò che che in modo ingannevole viene prospettato a Giasone, e cioè il tentativo di una supplice di ottenere che i suoi figli possano restare a Corinto. Non serve, dunque, per spiegare questo passo di Euripide, dal piano semantico della dote a quello dei più spostare il significato della ' generici ‘doni nuziali per la sposa’. I doni di Medea sono sì doni nuziali per Glauce, ma sono anche, soprattutto, l’ultima, funesta ‘dote’ di Medea per Giasone, quel controdono nuziale che l’eroe, tradendola, ha “acquisito” insieme alla sua inimicizia. Ma la Medea di Euripide è un testo da rappresentare – e lo fu la prima volta, com’è noto, nel 431 a.C. I doni di Medea, dunque, con ogni probabilità, venivano portati in scena, in primo luogo da un’ancella, come segnalano chiaramente le didascalie interne al testo75. La messa in scena antica, in altre parole, come quelle moderne, sfruttava un 71 Cf. GERNET (1928, 342), cit. in DELG, p. 1188 s.v. ' e GERNET (1937, 398); cf. anche VERNANT (1981, 62); MOSSÉ 1985. 72 WAGNER-HASEL (2013, 163). 73 Aen. III 483-91. 74 Serv. ad Aen. III 485: TEXTILIBVS sibi congruis: quid enim magis conveniebat donare mulierem? 75 Eur. Med. 950s.: «ma al più presto serve / che un’ancella porti qui l’ornamento», $$1 @ . . G # C < #$4 . Dionysus ex machina IX (2018) 192-228 209 I doni di Medea. Tra reciprocità e vendetta Lavinia Scolari codice importante del «testo spettacolare»76: quello visivo. La visione da parte degli spettatori dell’oggetto che la tragedia evocava permetteva, in casi come questo, di “definire e sostanziare” il ruolo dell’oggetto stesso, ma anche e soprattutto del personaggio cui era legato. Nel caso poi di oggetti come doni, pegni e cimeli di famiglia, la funzione scenica e spettacolare è ancora più importante, perché questi oggetti non solo convogliano una serie di significati, ma si fanno anche, come ha evidenziato Oliver Taplin, «miniature repositories of huge associations», lo strumento scenico attraverso il quale il drammaturgo rende tangibile e palese i messaggi e i significati che intende convogliare77. È evidente che non tutti gli oggetti di cui ipotizziamo la presenza in scena attraverso gli indizi testuali avevano lo stesso ruolo drammaturgico78. I doni di Medea, certamente, svolgevano una duplice funzione. In primo luogo, identitaria: mostravano l’identità di Medea, la sua appartenenza alla stirpe del Sole (su cui torneremo) e le potenzialità funeste che quell’appartenenza le trasmetteva, qualificandosi pienamente come metonimia del donatore, in grado, per altro, nello spazio extra-scenico evocato nella diegesi del nunzio, di svolgere una vera e propria funzione attiva, forse perfino “attoriale” 79 . In secondo luogo, i doni hanno una funzione mimico-evocatrice: dal momento che gli spettatori non avrebbero assistito alla cruenta scena della morte di Creusa e Creonte, mostrare i doni di Medea significava aprire loro una finestra visiva sull’evento specifico al centro del racconto del messaggero, aiutarli in qualche modo a visualizzare mentalmente la scena narrata, anche in loro assenza. Ma l’oggetto ci dice qualcosa anche su una serie di associazioni e rimandi più profondi. Al riguardo, Taplin si sofferma su un importantissimo oggetto scenico della drammaturgia attica: la veste (e il tappeto rosso) dell’Agamennone di Eschilo80, che può fungere da cartina di tornasole per comprendere, in qualche modo, anche il senso e il sistema di associazioni e “rimandi semantici” del peplo che Medea offre a Creusa. Come osserva Taplin, il fatto che la veste sia rappresentata in quel dramma come un oggetto deperibile, ma anche estremamente prezioso, ci dice qualcosa sul destinatario del dono, nello specifico, sulla caducità della condizione umana e sulla fugacità di ogni ricchezza; per dirla con Taplin 76 Su questa definizione, e per la distinzione tra testo drammaturgico e testo spettacolare, si veda DE MARINIS (1983). 77 TAPLIN (2012, 56). 78 Sul tema, la bibliografia è ampia. Per un posizionamento critico, si vedano almeno LE GUEN – MILANEZI (2013) e WILES (1997). Inoltre, tra gli utili contributi confluiti in COPPOLA – BARONE – SALVADORI (2016), in questa sede rimando al lavoro di PUCCIO (2016, 75s.), il quale, studiando i testi drammaturgici della scena teatrale ateniese, distingue tra oggetti di scena impiegati verosimilmente dagli attori antichi, oggetti soltanto evocati, oggetti usati in scena e dotati di una funzione drammaturgica, e infine oggetti scenografici. 79 Sui doni di Medea come sostituti e metonimie della donatrice, al cui riguardo devo molto ai suggerimenti di Maurizio Bettini, cf. SCOLARI (2013-2014, 113). 80 TAPLIN (2012, 58ss.). Dionysus ex machina IX (2018) 192-228 210 I doni di Medea. Tra reciprocità e vendetta Lavinia Scolari «the wastage of the precious cloth is a sign of the vulnerability of the prosperity of Agamemnon»81. Ma anche il mantello che Medea offre a Glauce, un mantello ‘delicato’ $ , v. 786) – come debole e delicata si mostrerà la donataria – avverte ($ # sulla vulnerabilità della fortuna regale di Glauce, come ci lasciano supporre le parole stesse di Medea: «lei è fortunata, adesso un dio la esalta»82. “Adesso” dice Medea. Ed è come se, implicitamente, intendesse: “ma non per sempre”. 2.4. I doni a Creusa: il pignus generis e il ruolo del Sole Se nella Medea di Euripide la descrizione dei doni che Medea sceglie di inviare a Glauce è fornita piuttosto brevemente dalla stessa eroina (vv. 785; 954s.) 83 e dal messaggero (vv. 1159-60), nella tragedia di Seneca i doni per Creusa assumono spazi e funzioni di maggior rilievo. Innanzitutto, non si tratta più di un mantello e un diadema, come in Euripide e (ad esempio) in Valerio Flacco, ma di tre oggetti: un mantello, una collana e una corona84. In particolare, il mantello non è un oggetto qualunque (Sen. Med. 570-74): est palla nobis, munus aetheriae domus decusque regni, pignus Aeetae datum a Sole generis, est et auro textili monile fulgens quodque gemmarum nitor distinguit aurum, quo solent cingi comae. Ho un mantello, dono della dimora celeste, decoro del regno, dato a Eeta dal Sole come pegno della stirpe, e anche una collana che splende di maglie d’oro e un diadema che spicca per il luccichio delle gemme, di quelli con cui si è soliti cingere i capelli. Come in Euripide, anche in Seneca Medea sceglie come doni per Creusa munera appartenuti a un dio, il Sole, e alla sua dimensione ultraterrena (cf. munus aetheriae domus): dunque, dei pignora generis (il mantello, in particolare), simboli concreti della garanzia di appartenenza alla stirpe che il Sole ha fornito a Eeta e, per discendenza, anche a Medea. Pertanto, nella tragedia senecana gli oggetti che l’eroina ha individuato come adeguati a svolgere la funzione di doni di vendetta non sono soltanto “oggetti di 81 TAPLIN (2012, 58). Eur. Med. 965. 83 Cf. supra, par. 2.3. Al riguardo, cf. BAGGIO (2016, 168ss.). 84 Valerio Flacco (V 447) annovera un mantello (pallam) e una corona tempestata di gemme; Igino (Fab. 25) e Ovidio (Ibis, 605) solo la corona, mentre Apollodoro (I 9, 28), pur parafrasando Euripide, cita il solo mantello. A questo proposito, cf. COSTA (1973, p. 120, ad 572-74), MARTINA (1990, 143ss.) e HINE (2000, pp. 166s. ad 570-74). 82 Dionysus ex machina IX (2018) 192-228 211 Lavinia Scolari I doni di Medea. Tra reciprocità e vendetta famiglia”; di più, sono pegni di famiglia85, atti a siglare l’afferenza di Medea al genus del Sole. La discendenza dal dio è un tema piuttosto marcato nel mito: se già nel dramma di Euripide, Medea ricordava di incarnare due stirpi, quella del Sole (v. 406) e quella delle donne, insuperabili e sapientissime artefici di ogni male (v. 409), nella Medea di Seneca (vv. 28s.) l’eroina fa riferimento al dio come nostri sator / Sol generis, e lo designa come l’ avus (v. 210) da cui discende il suo clarum genus, meravigliandosi che questi, pur assistendo a ogni cosa, non abbia invertito il suo corso, o non accenni a concederle di guidare con le redini ardenti (flagrantibus / loris) il carro latore di fuoco (ignifera ... iuga) e incenerire così, con le sue fiamme (cremata flammis), l’istmo di Corinto (vv. 2836)86. Nella rappresentazione di Euripide, il Sole pare evocato in rapporto alla natura divina dei doni (ciò che li rende desiderabili agli occhi di Glauce). Il coro di donne corinzie, infatti, non esita a individuare nella «divina lucentezza» dei doni l’elemento in grado di “sedurre” la principessa, spingendola ad accettarli (Eur. Med. 978-88): CORO. 9 * ' . + 4 9 * K ^ 9 1 ' # b # . " , . ; # # 1 . + # + # c d ' 1M & + ' " ) A " " + * PK . - ' *9 , 2 $ P , 1 CORO. La sposa accetterà il diadema d’oro, accetterà il funesto flagello: intorno alla fulva chioma porrà l’ornamento di Ade, lei stessa, con le sue mani. La grazia e una divina lucentezza la convinceranno a indossare il peplo la corona lavorata d’oro. E ormai tra i morti, si adornerà come sposa. Cadrà in questa rete, sventurato destino di morte; alla fatale rovina non riuscirà a scappare. 85 Sul munus del Sole come «mantello di famiglia», si esprime già ARCELLASCHI (1990, 373s.). Sul tema del Sole (e del fuoco) cf. Diodoro Siculo (IV 54), che fornisce, accanto a quella dei doni avvelenati, un’altra versione del mito: ) 5 ; $ + ) $ " $$ " ' 6 - / WY 6 ) -' Y e C # " - & 5 - U & / $'/ * 1 N. % %9 ' f + ; , K' 4 5 '$ 4 0 ; $ 4 5 ? .4 % & / 6 5 g$ * & U < + $ ;# ' / , «Intanto Medea, avendo mutato forma grazie a dei filtri magici, si introdusse di notte nella reggia e vi appiccò il fuoco con una piccola radice, che era stata trovata da Circe, sua sorella, e che aveva il potere di non spegnersi facilmente una volta infiammata. Subito il palazzo fu avvolto dalle fiamme. Giasone riuscì a scappare, ma Glauce e Creonte furono consumati dal fuoco». 86 Dionysus ex machina IX (2018) 192-228 212 I doni di Medea. Tra reciprocità e vendetta Lavinia Scolari In Euripide, pertanto, il legame tra il Sole e il suo ‘cimelio’ è espresso dal «raggio di luce immortale» ( ; # # 1 H) che il peplo del dio possiede, con cui il tragediografo allude probabilmente anche alla tragica fine di Creusa, che finirà per bruciare avvolta nella “luce” delle fiamme87. Ora, se in Euripide Medea si limita a dichiarare che ungerà i doni di filtri velenosi (. 4 ' 4 , v. 789), la Medea senecana avverte la necessità di intervenire sugli oggetti del dono, di imbastire dei sacra letifica (v. 577) per “avvelenarli”88. Medea chiama dunque a raccolta ogni creatura della terra e degli inferi, ogni monstrum (v. 684) da cui possa attingere venenum esiziale89. E così, spremendo la sanies da ogni genere di serpente evocato (cf. omne serpentum genus, v. 705) e dalle erbe mortifere (vv. 731s.), vi mescola (miscet, v. 732) ogni atrocità, rivelandosi a pieno titolo scelerum artifex (v. 734)90. I sacra letifica rappresentano pertanto un’inversione infera e smodata dell’ordo rerum, una prefigurazione del nefas inusitato, di cui Medea è strumento e principale esecutrice. La lunga preghiera alle divinità infere e contaminatrici (vv. 740-839) porterà a compimento il rito, gettando le basi su cui fondare il rovesciamento dell’ordine di cui la vendetta di Medea sarà il coronamento. In particolare, è a Ecate Trivia, divinità dei crocicchi e dei malefici, che Medea chiede aiuto per intingere le vesti destinate a Creusa di venena malefici (Sen. Med. 817-24). tu nunc vestes tinge Creusae, quas cum primum sumpserit, imas urat serpens flamma medullas. ignis fulvo elusus in auro latet obscurus, quem mihi caeli qui furta luit viscere feto dedit et docuit condere vires arte, Prometheus. 87 Al riguardo, negli Argonautica (V 446-51), Valerio Flacco descrive i venena con i quali Medea corromperà i doni esiziali come rutila (v. 450), cioè ‘fulvi’, ‘aureo-rosseggianti’, come il fuoco, ma anche come il sole. Rutilus, del resto, è il rosso che tende all’oro, colore specifico di questo metallo, del sangue e, per l’appunto, delle fiamme. 88 I sacra letifica sono riti magici e pratiche di stregoneria con cui si invocava la morte per qualcuno. Al riguardo, cf. HUMMEL (2008, 48ss.). 89 LANDOLFI (2004, 267), come fa anche Pucci in BETTINI – PUCCI (2017, 101), segnala la connotazione di Medea come barbara ... venefica in rapporto all’identità di noverca, che l’eroina acquisirà solo in una fase successiva del mito. Sulla rappresentazione mitico-letteraria di Medea come strega (raramente benefica, il più delle volte malefica), spesso messa in rapporto alla Tessaglia, terra delle streghe per eccellenza, cf. MOREAU (1994-1995, 180). 90 Sulla “ricetta culinaria” del veleno con cui Medea ungerà i doni, cf. ARCELLASCHI (1990, 366s.). Dionysus ex machina IX (2018) 192-228 213 I doni di Medea. Tra reciprocità e vendetta Lavinia Scolari Adesso tu intingi le vesti di Creusa, cosicché, quando lei le indosserà, una fiamma serpeggiando la bruci fin nelle midolla. Si nasconde, protetto dal fulvo oro, un fuoco oscuro, che a me diede colui che espia il furto commesso contro il cielo, dalle viscere che sempre ricrescono, e che mi insegnò come nascondere ad arte gli assalti, Prometeo. Il veleno di cui le vesti sono imbevute è un ignis obscurus, dono di Prometeo, magister di Medea nell’arte di condere vires veneni. Fu lui, del resto, a mostrare ai mortali come conservare in perpetuo il fuoco, portandolo sulla terra racchiuso in una ferula (cf. ad es. Hyg. Fab. 144, 2). Il fuoco oscuro che si nasconde nell’oro, pertanto, è anch’esso un dono, frutto di un insegnamento (docuit) legato all’abilità di conservare e nascondere, e dunque alla simulazione di cui Prometeo, modello dell’ingannatore mitico, è insigne rappresentante. La fraus ai danni della principessa chiama in causa una sintesi mitologica di divinità e creature mostruose che hanno donato a Medea strumenti “occulti” ed esiziali legati al fuoco e al veleno (cf. vv. 824-39): Vulcano le donò (dedit et tenui, v. 824) fuochi rivestiti di zolfo; da Fetonte, suo cognatus, Medea ricevette folgori di fiamma viva (vivacis fulgura flammae, vv. 826s.), e della “parte di mezzo” della Chimera possiede i dona: il suo fuoco mortale (v. 828)91; alle fiamme ricavate dalla gola bruciata del toro, Medea mescola il veleno di Medusa, con cui costringe il fuoco a servare malum; e infine a Ecate affida il compito di stimolare i venena reperiti e di mantenere intatta la forza occulta delle fiamme nei suoi dona (vv. 832-34)92. È evidente, fin qui, che il ruolo degli “oggetti del dono” e della divinità del Sole, in rapporto con essi, è centrale nella riscrittura tragica senecana. Sono oggetti che non solo appartengono a Medea, ma parlano di lei. Quando, nella seconda metà del V sec. d.C., Draconzio compone il suo epillio Medea (in Romulea X) riscrivendo la “fase corinzia” del mito, i doni che l’eroina offre a Creusa non sono più un pegno del Sole, ma sono oggetti che Medea fabbrica con le sue mani. Continua dunque a prevalere la rappresentazione di questi oggetti del dono come “tutti di Medea”, legati all’identità dell’eroina, benché non più sulla base del pignus generis, ma da lei “creati”, grazie alle sue arti malefiche. Infatti, mentre le Furie infestano la reggia di Creonte (vv. 480-83), la figlia di Eeta fabbrica una corona (Drac. Med. 484-93): Interea Medea novam formare coronam 91 La chimera è un mostro mitologico che nella descrizione omerica (Il. VI 181s.) presenta l’unione di tre parti “ferine”: nella parte anteriore è leone, in quella posteriore serpente e in quella di mezzo è una capra da cui si sprigionano delle fiamme; così la intende Seneca e, prima di lui, anche Ovidio (Met. IX 647s.); in Esiodo (Th. 319-22) è rappresentata come un mostro a tre teste. Al riguardo, cf. HINE (2000, p. 194 ad 828). 92 Sulla rappresentazione del fuoco, spec. nella Medea di Seneca, cf. ARCELLASCHI (1990, 366s.) e SEGURADO E CAMPOS (1972). Dionysus ex machina IX (2018) 192-228 214 I doni di Medea. Tra reciprocità e vendetta Lavinia Scolari coeperat et niveis miscebat sulphura ceris, pix et stuppa ligat, species dat quattuor artis mascula tura cremans, sterili suffire cypresso cura fuit cyproque ligat, quod naufraga puppis perdiderat; cristata manus sancire iubetur: lambere caeruleis permisit serta cerastis. Exitiale repit mox praemia taetra venenum, atque aurum mentita nocens radiare corona creditur et gemmas flores imitantur iniqui. Intanto, Medea aveva iniziato a foggiare una corona nuova di zecca, mai vista; mescolava zolfo a nivea cera, e poi li lega con pece e stoppa, aggiunge all’impasto quattro tipi di droghe bruciando incensi maschi, bada ad affumicare il tutto con legno sterile di cipresso e lo lega col metallo di Cipro [il rame] che una nave, facendo naufragio, aveva perduto; e al manipolo dei crestati ingiunge di dare l’inviolabile l’assenso: ai cerulei cerasti 93 lascia il serto da leccare. L’esiziale veleno subito s’insinua negli orridi doni, e la nociva corona pare che irradi luci simulando lo splendore dell’oro, e fiori velenosi somigliano a gemme. La corona che Medea realizza (cf. formare) è nova, mai vista, fabbricata tutta dalla maga94, ed è nocens (v. 492) a causa dell’exitiale venenum che i serpenti insinuano in essa, quasi personificata e capace, essa stessa, in sostituzione della sua padrona, di essere ostile e pericolosa. Essa, però, non è eredità del Sole. Eppure, sembra imitare lo splendore dell’oro irradiando luci (aurum mentita ... radiare ... creditur). Il verbo non pare scelto a caso: radians, infatti, nell’epillio, è un epiteto del Sole95. Dunque, la divina lucentezza dell’oggetto funesto e il suo rapporto col Titano permangono. Di più, il Sole assurge a ruolo centrale nell’epillio di Draconzio, sostituendosi a quello che in Seneca è il ruolo di Ecate96. Appare anche qui fin dal prologo (vv. 1-7), in cui Draconzio dichiara di voler mostrare come anche gli dei siano prigionieri (captivos) di una malefica vergine e di come le costellazioni della volta celeste e il corso di Febo siano asserviti al volere di una donna (arbitrio muleris), e il Sole stesso «attenda quale nefas Medea gli ordini di compiere, dove gli comandi di appiccare le fiamme celesti»97 . Ed è ancora il dio a essere adorato e invocato da Medea perché la vendetta vada a buon fine (Drac. Med. 494-509): Dum funus Medea parat haec munera Glaucae, processit roseis sol mundum amplexus habenis. At maga sulphuream ponens ad busta coronam 93 Un tipo di serpenti dotati di corna. Cf. GASTI (2016, 155). 95 Cf. Drac. Med. 402; 518; 540. 96 Sul modello che la Medea di Seneca rappresenta per la Medea di Draconzio, cf. BISANTI (2017, 653). 97 Drac. Med. 5-7: pendere Tonantem, / quod iubeat Medea nefas, ubi mittere flammas / imperet aethereas. 94 Dionysus ex machina IX (2018) 192-228 215 I doni di Medea. Tra reciprocità e vendetta Lavinia Scolari haec ait: “O mundi facies pulcherrima, Titan, naturam fervore tenens, elementa coartans, ne dispersa fluant aut mundi machina mergat, stelligeri iubar omne poli, quem sphaera polorum sustinet et prohibet rutilam plus ire per aethram, dum contra rapis axe rotas et colligis ignes; ipse pias animas mittis et claudis in aevum orbe tuo: miserere tuae, deus optime, nepti. insidant haec serta comis et virginis ora digna corona premat: sint, inquam, regis in aula munera nostra rogi, dent praemia tanta sepulchrum, ignea mors rapiat sponsum cum paelice busta”. Sic effata minax Solis mox numen adorat. Mentre Medea prepara la morte di Glauce con questi doni, il Sole apparve abbracciando il mondo con le sue rosee briglie. E Medea, ponendo la corona sulfurea in direzione dei sepolcri, disse così: «O Titano, bellissimo sguardo del mondo, Titano, che reggi la natura col tuo ardore, che costringi insieme gli elementi, affinché non fluiscano via disperdendosi o collassi il meccanismo del mondo, o raggio dell’intera volta stellata del cielo, che la sfera celeste sostiene e ti impedisce di andar oltre per l’etere rutilante, quando trascini le ruote sull’asse della terra e convogli in senso opposto il fuoco; proprio tu che liberi le anime devote e le racchiudi per sempre nella tua orbita: abbi pietà, dio ottimo, di tua nipote. Fa’ aderire questo serto sulla chioma della vergine e fissa sul suo capo l’adeguata corona. I miei doni, così dico, appicchino un rogo funebre nel palazzo reale, un così grande omaggio sia il loro sepolcro, e una morte di fuoco rapisca lo sposo insieme al corpo riarso della rivale»! Così disse, minacciosa, e adora la divina potenza del Sole. La corona fabbricata da Medea è consacrata alla potenza del Sole, che sorveglia e manda a compimento le minacce di lei, conservando quel ruolo che nella tradizione il dio svolgeva come donatore divino degli oggetti funesti della vendetta contro Giasone. Se in Euripide e Seneca sono i bambini a portare i doni a Creusa, nell’epillio di Draconzio è Medea stessa a offrire il dono (oblata sponsae dat serta puellae, v. 512); di più, è lei a porre sul capo della principessa il diadema funesto (capiti, ... / fera serta locat, vv. 515s.). La fine è nota: Medea, che qui viene perfino ringraziata (laudata, v. 516), se ne va. Ed è allora che i doni agiscono (Drac. Med. 517-21): ... et infaustas vomuerunt munera flammas: has radians nam Phoebus alit. Iam creverat ignis: uritur ingratus usta cum virgine nauta; cum genero nataeque parat succurrere rector, uritur ipse Creon; rogus est mox aula tyranni. [...] I doni vomitarono infauste fiamme. Infatti, Febo, irradiandole, le alimenta. Ormai il fuoco divampava: brucia l’ingrato marinaio con la vergine bruciata viva. Dionysus ex machina IX (2018) 192-228 216 I doni di Medea. Tra reciprocità e vendetta Lavinia Scolari E brucia lo stesso Creonte, il sovrano, nel tentativo di soccorrere la figlia e suo genero; in breve il palazzo del re è un rogo funebre. In Draconzio, è il Sole ad alimentare (cf. alit) le fiamme nei munera di Medea. È lui che accompagna il divampare dell’incendio nell’intero palazzo, e che coopera alla distruzione dell’ingratus nauta, già chiamato perfidus nauta al v. 294, quando Diana, scagliando la sua maledizione, lo renderà capace di contemnere una sposa fuori dall’ordinario98. Nell’epillio, però, non è solo Giasone a essere definito ingratus, ma anche i bambini, che, agli occhi di Medea, partecipano dell’identità disfunzionale paterna: nihil ipsa dolebo / si ingrata maneat nullus de gente superstes, «non proverò alcun dolore / se di questa stirpe ingrata non rimane alcun superstite» (vv. 545s.)99. Ed è ancora al Sole raggiante che la donna offre le loro vite (accipe, Sol radians, animas, v. 540), benché Draconzio, a chiusura del componimento, dopo averlo configurato come perfetto complice di Medea, ne dichiara la distanza: l’avus Febo arrossisce (rubuisset) di fronte al delitto della nipote (de crimine neptis, v. 568), e il rubor, si sa, è sintomo di vergogna, o meglio, della presa di coscienza dell’imbarazzante contraddizione tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere100. Nel momento di massima distanza, quindi, Draconzio non esita a sottolineare il legame parentale tra l’avus e la neptis. Il Sole arrosisce, ma il crimen di Medea è anche suo. 3. La vendetta di una donatrice: alcune conclusioni La storia di Medea, come si è fin qui cercato di mostrare, è segnata costantemente dai suoi doni straordinari e dalle dinamiche di relazione e di reciprocità che essi attivano. Esaminare le varie rappresentazioni di questi meccanismi di scambio, degli oggetti e delle modalità scelti per realizzarli è utile per far emergere il modo (o i modi) in cui gli autori greci e romani pensavano e rappresentavano questa figura dell’alterità e del perturbante: una donna straniera e pericolosa, dotata di una sophia peculiare che la rende in grado di sfruttare la forza calamitante dei doni, tutto il loro potere persuasivo101. Nello sviluppo della trama mitica, il primo dono di Medea a Giasone è , come evidenziano Diodoro, Apollodoro e Apollonio Rodio, un quello dei ' 98 Perfidus egregiam contemnat nauta iugalem. È chiaro che qui Draconzio segue Seneca (merita contempsit mea, Med. 120). Sull’uso di perfidus qui, e per designare Paride nel De raptu, cf. BISANTI (2017, 654). 99 Sull’ingratitudine come tratto caratterizzante della stirpe, cf. GASTI (2016, 161). 100 Cf. THOMAS (2012, 23; 31). Su pudor e vergogna, vd. anche KASTER (2005, 15) e MARCHESE (2016, 24-26). Si noti che, all’inizio dell’epillio, è Diana ad arrossire (erubuit, v. 290), sdegnata dall’unione tra Giasone e Medea. 101 Cf. GERNET (1948, 88). Sul tema, vd. anche LYONS (2012, 30). Dionysus ex machina IX (2018) 192-228 217 I doni di Medea. Tra reciprocità e vendetta Lavinia Scolari dono per il quale Pindaro la elegge a “salvatrice” degli Argonauti, e che la Medea delle Heroides non esiterà a ricordare (XII 97). La conoscenza sapienziale di erbe e filtri è dunque il cuore della prima prestazione benefica di Medea, una conoscenza che le deriva, secondo Diodoro, dalla linea femminile della sua casa (la madre Ecate e la sorella Circe), e che le consente di offrire all’amato il secondo dono, quello più importate: il vello d’oro, di cui Medea si dichiara “donatrice” anche in Ap.Rh. IV 87. Ma ogni beneficio a Giasone mostra una sua duplicità: è un dono al nemico, e quindi, nella cultura greca e in quella romana, un tradimento del gruppo di appartenenza. Il momento in cui questo tradimento si macchia di sangue è l’uccisione di Apsirto, che Apollonio Rodio descrive come il primo episodio in cui Medea si serve di oggetti preziosi, di natura divina, per irretire l’interagente, mostrandogli falsa benevolenza. Apollonio lo presenta come un grande inganno, in grado di manipolare Apsirto e di ribaltare natura e funzioni di una categoria del “dono positivo”, quello “ospitale”. Ora, le rappresentazioni dei racconti greci, anche quella di Apollonio (che a Roma non sembra avere seguito), sono utili per mettere in luce le forme della riscrittura romana di questa figura e della sua “attitudine” al dono pericoloso. Tra gli autori latini, è Ovidio la massima autorità in merito ai racconti su Medea prima del tradimento di Giasone. Nelle Metamorfosi Medea è riscritta come muneris auctor, dotata di agency e di grande efficacia autoriale; in grado di offrire a Giasone un dono tutto positivo, quella della vita (il dono per Esone), e il suo rovesciamento segnico (quello della morte), con cui colpisce Pelia. Quest’ultimo dono viene rappresentato da Ovidio attraverso il modulo dell’inversione: è per mezzo di esso che le figlie del vecchio re, preoccupate di non essere sceleratae, commettono uno scelus e finiscono per diventare empie per un eccesso di pietas. Ma soprattutto è nei doni di vendetta contro Giasone che Medea mette in campo tutta se stessa. In Euripide sono due, il peplo e i diadema, e sono “oggetti di famiglia” , doni al femminile che servono a ricambiare quelli che l’eroina presenta come ' maschili. Non si tratta solo di “doni di nozze per la nuova sposa”, ma anche, come visto, dell’ultimo dono di Medea, la vecchia sposa, per Giasone: un contraccambio all’oltraggio patito. Nella tragedia senecana, invece, gli oggetti sono tre (un mantello, una collana e una corona) e sono dei pignora. La loro rappresentazione come “oggetti che vincolano” Medea alla sua stirpe divina è certamente più marcata. Non solo: il rituale infero con cui l’eroina li “confeziona”, assente in Euripide, sottolinea della figlia di Eeta la sua natura perturbante e malefica, la sua identità non solo e non tanto di “sapiente”, quanto di maga, di donna venefica, sulla scia del modello ovidiano. Le rappresentazioni dei doni di Medea, inoltre, mettono in luce da un lato la singolarità della loro natura (si tratta di oggetti di origine e fattura divina), dall’altro lo stretto legame che essi detengono con la donatrice. Questo è ancora più vero nel caso Dionysus ex machina IX (2018) 192-228 218 I doni di Medea. Tra reciprocità e vendetta Lavinia Scolari del dono avvelenato preparato per la rivale, un dono di vendetta che è metonimia di Medea, e che può sostituirla proprio perché ne riproduce e racchiude i tratti identitari: la forza del fuoco, l’appartenenza al genus del Sole di cui quegli oggetti straordinari sono ora eredità (come in Euripide) ora pegni (come in Seneca); il loro essere simbolicamente legati alla maternità (come nel caso del mantello 102 ) e alla regalità (come in quello della corona). Al riguardo, rispetto ai suoi predecessori, Draconzio fa un passo ulteriore: li rappresenta come oggetti “nuovi”, “fabbricati” da Medea, tutti suoi, e solo in seguito “consacrati” al Sole, che svolge un ruolo di primo piano nell’epillio. Ma la più forte congiunzione tra i doni per Giasone e quelli contro di lui emerge in Seneca. Per mezzo dei doni avvelenati, infatti, la Medea senecana (che molto deve a quelle di Ovidio) non fa altro che mettere in atto quanto ha imparato come donatrice, rovesciando la prassi di reciprocità positiva nel suo contrario: se in Euripide la vendetta è presentata da Medea (e dal coro) come il giusto contraccambio al traditore (Eur. Med. 1360), che la oltraggia e disonora; in Seneca essa è dichiaratamente la risposta adeguata all’offesa dell’ingratitudine, ma anche l’atto imprescindibile del recupero identitario. Con la sua ultio, Medea intende riavere indietro tutto ciò che ha perduto donando: la patria, il padre, il fratello, la sua stessa verginità, laddove la maternità è ormai intesa come un beneficio a favore di uno che non lo merita103 (Sen. Med. 982-84): MED. Iam iam recepi sceptra germanum patrem, spoliumque Colchi pecudis auratae tenent; rediere regna, rapta virginitas redit. Ormai, ormai ho ricevuto indietro lo scettro, il fratello, il padre; le spoglie dell’ariete dorato, le tengono i Colchi; è ritornato il regno, la verginità rubatami mi è ritornata. Tutto quello che a Medea è stato portato via, tramite la dinamica sovvertita del dono e dell’infanticidio, pare ritornarle indietro (cf. il poliptoto di redire in incipit ed explicit di verso, Sen. Med. 984). Il lemma verbale con cui la donna indica il recupero dei beni donati a Giasone è recipere (Med. 982), termine tecnico della prassi del beneficium, volto a indicare l’accipere di ritorno, tipico di chi riceve un contraccambio o ottiene una restituzione. Una restituzione coartiva: Medea ritiene ormai di aver recuperato ciò che aveva perduto, imponendosi come autrice attiva del recipere. Tuttavia, la rappresentazione senecana della vendetta non si configura come un mero recupero o riassetto dell’ordine infranto, ma come un “contraccambio” empio e 102 Cf. WEINER (1992, 50s.). Sen. Med. 170s.: {Nut.} Mater es. {Med.} Cui sim vide. {Nut.} «Sei madre. {Med.} Guarda a vantaggio di chi». 103 Dionysus ex machina IX (2018) 192-228 219 I doni di Medea. Tra reciprocità e vendetta Lavinia Scolari smisurato sulla scia del nefas. Se in Euripide, e più in generale nella rappresentazione greca, Medea sottrae all’antico sposo tutto quello che aveva contribuito a fargli ottenere, in una dinamica di reciprocità dove il contraccambio compensatore è cambiato di segno e si è inserito nella prassi vendicativa 104 , in Seneca la ultio diventa una rincorsa all’eccesso e al superamento delle offese ricevute; un modello agonale negativo, efficace soltanto se aderente alla contaminazione e al nefas: vindicta levis est quam ferunt purae manus, «è lieve la vendetta compiuta da mani pure» (Med. 901). Attraverso il modulo dell’inversione105, che ribalta le categorie positive del dono e della reciprocità, Medea rappresenta la sua vittoria come una riappropriazione di tutto quello che ha donato, principalmente se stessa. I tratti specifici che in lei sopravvivono, legati allo scelus e alla propensione all’inganno, la conducono, lungo un percorso di agnitio106, alla ridefinizione della sua stessa identità. E così che può infine esclamare: Medea nunc sum, «adesso sono Medea» (Med. 910). 104 Cf. MUELLER (2001, 500). Su cui, rimando a PICONE (1986-1987). 106 Cf. tripodas agnosco meos, Sen. Med. 785; ultimum agnosco scelus, Med. 923; coniugem agnoscis tuam?, Med. 1021. Al riguardo, vd. GALIMBERTI BIFFINO (2000, 90). 105 Dionysus ex machina IX (2018) 192-228 220 I doni di Medea. Tra reciprocità e vendetta Lavinia Scolari riferimenti bibliografici ALLAN 2007 A. Allan, Masters of Manipulation: Euripides’ (and Medea’s) Use of Oaths in Medea, in A.H. Sommerstein – J. Fletcher (eds.), Horkos. 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