SALVATORE COSENTINO
POTERE E AUTORITÀ NELL’ESARCATO
IN ETÀ POST-BIZANTINA
Le nozioni di potere come capacità di coazione e di autorità come esercizio legittimo della coazione erano state un binomio inscindibile nell’Italia
bizantina fino agli inizi dell’VIII secolo. Esse erano attributi degli appartenenti alla gerarchia imperiale, attraverso la quale si trasmetteva una delega
all’esercizio del comando che proveniva direttamente dalla volontà dell’imperatore. Forza e diritto erano prerogative dei dignitari imperiali e ne
distinguevano la legittimità all’uso della violenza rispetto a tutti gli altri
poteri di fatto che non rientravano nella sfera costituzionale dell’impero
romano-orientale. La subordinazione esistente nella scala delle funzioni
impediva, almeno teoricamente, che un subalterno disobbedisse agli ordini
di un suo superiore, sicché si può affermare che gli interventi militari di
Bisanzio nella penisola venissero disposti in una sostanziale coordinazione
tra le direttive del centro e gli alti ufficiali presenti sul territorio italico. Ma
a partire dall’età dell’imperatore Leone III (717-741), l’azione di governo
dell’esarco non soltanto si restrinse all’area ravennate ma fu connotata da
una tale debolezza militare da rendere la sua forza di costrizione del tutto
inefficace. Parallelamente le autorità ducali a Roma, Rimini, Perugia e nelle
Venezie accentuarono la vocazione al dominio territoriale in forme e modi
anarchici o scarsamente coordinati con il governo costantinopolitano1. Solo
in Sardegna, a Napoli, in Calabria e in Sicilia l’autocrazia apparve in grado
in questo periodo di imporre la propria linea di azione con una certa efficacia; ma altrove l’espansionismo longobardo, ripreso con forza sotto Liutprando (711-741), condusse ad un’accentuata frammentazione
dell’apparato difensivo bizantino sul territorio. Non si trattò, come in
passato, di applicazioni regionali diverse di un medesimo indirizzo di
governo; ora furono le stesse strategie politiche dei nuclei militari bizantini
dell’Italia del centro-nord a seguire finalità differenti le une dalle altre. Nel
corso della prima metà dell’VIII secolo si può pertanto affermare che il
potere imperiale in Italia non fu più in grado di imporre una linea politica
efficace tanto nelle sue reali capacità di costrizione quanto nell’acquisizione
del consenso da parte delle aristocrazie delle regioni centro-settentrionali di
tradizione romea.
Ma i contenuti delle nozioni di potere ed autorità subivano, nello
1
Per una valutazione di sintesi sul potere degli esarchi e la nascita dell’autonomismo
ducale cfr. S. Cosentino, Storia dell’Italia bizantina (VI-XI secolo). Da Giustiniano ai Normanni,
Bologna, 2008, p. 135-141.
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SALVATORE COSENTINO
stesso periodo, delle trasformazioni di un certo rilievo non solo nell’ambito
delle società regionali di cultura bizantina. Nel prologo delle leggi emanate
da Astolfo nel 750 la sua sovranità era rivendicata con una formula inusitata per la cancelleria longobarda : «re dei Longobardi in nome di Gesù
Cristo, essendo stato a noi assegnato da Dio il popolo dei Romani» 2. La
legittimità al governo del nuovo sovrano era così fatta discendere direttamente dalla scelta divina, con un contenuto ideologico simile al principio
cardine della regalità sacra di matrice romano-orientale. Se questa posizione non era nuova nella strumentazione concettuale della regalità longobarda, trovandosi già espressa nel Carmen de synodo Ticinensi (698 ca.) e, più
chiaramente, nella legislazione di Liutprando 3, originale era invece il riferimento al populus Romanorum sul quale Astolfo rivendicava il proprio
dominio. Esso sembrava esprimere la volontà, da parte del sovrano longobardo, di rivendicare la propria autorità su tutti gli Italici, tanto su quelli
abitanti nei territori di tradizione longobarda, quanto su quelli abitanti nei
territori di tradizione romea. È certo comunque che tra l’estate del 749 e
l’estate del 751 lo stesso Astolfo diede un contenuto concreto alla propria
piattaforma politica attaccando l’Esarcato ed entrando, in circostanze difficili da definire, nella sua stessa capitale, Ravenna 4. Qui, come è noto, il 4
luglio del 751, emanò un diploma di conferma di precedenti concessioni
fatte dal fu duca di Spoleto, Lupo, a favore del monastero di Farfa 5. La residenza dell’esarco, luogo simbolo nel panorama urbano ravennate delle
2
Sed modo auxiliante domino nostro Iesu Christo Aistolfus, in ipsius nomine rex gentis Langobardorum, traditum nobis a Domino populum Romanorum : MGH, Leges IV, Hannoverae, 1868,
p. 195. Su questo passo cfr. F. Crosara, Traditum nobis a Domino populum Romanorum, in Atti
del I Congresso internazionale di studi sull’Alto Medioevo, Spoleto, 1952, p. 235-245 e
P. Delogu, Il regno longobardo, in P. Delogu, A. Guillou e G. Ortalli (a cura di), Longobardi e
Bizantini, Torino, 1980 (Storia d’Italia diretta da G. Galasso, I), p. 169.
3
Carmen de synodo Ticinensi (in MGH, SS. rer. Lang et Ital.., Hannoverae, 1878, p. 189191) : fu commissionato da re Cuniperto ad un certo monaco Stefano per propagandare i
risultati religiosi conseguiti dalla dinastia; esso fu composto subito dopo il sinodo di Aquileia del 698, convocato dallo stesso Cuniperto, che pose fine allo scisma dei Tre Capitoli.
Circa la legislazione di Liutprando appare inequivocabile il contenuto dei prologhi delle
leggi del 1o, 12o e 16o anno di regno ove l’emanazione della legge è giustificata per ispirazione divina (prologo 1o anno, a. 711), pro gentis nostrae salvatione aut pauperum fatigatione
(prologo 12o e 16o anno, a. 724, 728) : Liutpr. Leges in MGH, Leges IV, p. 107, 128, 146. Su
questi sviluppi si veda la penetrante analisi di P. Delogu, La regalità e la costruzione del corpo
politico longobardo, in Id., Le origini del medioevo. Studi sul settimo secolo, Roma, 2010 (già
pubblicato in inglese con il titolo Kingship and the shaping of the Lombard body politic, in
G. Ausenda, P. Delogu e C. Wickham [a cura di], The Langobards Before the Frankish
Conquest. An Ethnographic Perspective, Woodbridge, 2009 [Studies in historical archaeoethnology, 8], p. 251-275), p. 173-210, part. p. 195-200. Sulla regalità longobarda, cfr. anche le
considerazioni di S. Gasparri, La regalità longobarda, in J. Arce e P. Delogu (a cura di), Visigoti e Longobardi. Atti del Seminario, Roma, 28-29 aprile 1997, Firenze, 2001, p. 305-327.
4
Sugli eventi cfr. O. Bertolini, Roma di fronte a Bisanzio e ai Longobardi, Bologna, 1941
(Storia di Roma dell’Istituto di studi romani, IX), p. 496-499; P. Delogu, Il regno longobardo...cit. a n. 2, p. 163-175; G. Ravegnani, I Bizantini in Italia, Bologna, 2004,
p. 135-139.
5
Cfr. Codice diplomatico longobardo, III/1, a cura di C. Brühl, Roma, 1970 (Fonti per la
storia d’Italia, 65), n. 23, p. 111 ss.
POTERE E AUTORITÀ NELL’ESARCATO IN ETÀ POST-BIZANTINA
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strutture dell’autorità, venne equiparata al palazzo regio di Pavia; nella
monetazione il re longobardo assunse vesti e attributi del basileus. Nel 752
Astolfo rivolse le proprie attenzioni in direzione del ducato romano : chiese
un pesante tributo alla città e il riconoscimento della propria sovranità politica 6.
Mentre Astolfo estendeva la sua egemonia sulla Romagna e sul ducato
di Spoleto, manovrava affinché a Benevento, nel 751, fosse eletto un duca
a lui favorevole e stringeva in una morsa il ducato romano, nel palazzo del
Laterano si cercava disperatamente di fare fronte alla situazione. Il successore di papa Zaccaria, Stefano II (752-756), inviò ambasciatori nella città
sul Bosforo, implorando un intervento militare di Costantino V; contattò
più volte lo stesso Astolfo per allontanare la sua minaccia da Roma; infine –
ma la trama degli eventi è nota e non vi è bisogno di entrare nei dettagli – si
decise a guardare in direzione del regno dei Franchi, recandosi Oltralpe. Il
14 aprile del 754, a Quierzy, Pipino assicurava protezione armata al Patrimonium beati Petri, promettendo la restituzione allo stesso pontefice dei
territori ex-imperiali conquistati dai Longobardi. In quello stesso mese
Stefano II impartiva solennemente l’unzione regia a Pipino e ai suoi figli,
Carlo e Carlomanno, nel monastero di Saint-Denis 7.
Sulla base di quali argomentazioni Stefano II rivendicò l’autorità della
Chiesa romana all’esercizio del potere sull’Esarcato, sulla Pentapoli e sul
ducato romano? Il biografo della Vita Stephani del Liber Pontificalis, scritta
indubbiamente a ridosso degli avvenimenti, esprime queste ragioni attraverso una serie di locuzioni su cui vale la pena soffermarsi 8. Il papa, prima
di recarsi a Pavia da Astolfo (ottobre 753) «pregava per le greggi che Dio gli
aveva affidato e per le pecore smarrite, cioè l’intero Esarcato di Ravenna e il
popolo di tutta quanta questa provincia d’Italia» 9, mentre il sovrano longobardo attraverso i suoi ambasciatori «gli faceva solennemente sapere che,
per nessuna ragione, doveva osare chiedergli di restituire la città di
Ravenna e il territorio esarcale ad essa pertinente o le altre località della res
publica che lui stesso e i suoi predecessori avevano conquistato»10. Nono-
P. Delogu, Il regno longobardo... cit. n. 2, p. 171.
Sugli eventi O. Bertolini, Roma di fronte a Bisanzio... cit. n. 4, p. 515-544; P. Delogu,
Il regno longobardo... cit. n. 2, p. 172-178; G. Arnaldi, Le origini del Patrimonio di S. Pietro, in
Comuni e signorie nell’Italia nordorientale e centrale : Lazio, Umbria e Marche, Lucca, Torino,
1987 (Storia d’Italia diretta da G. Galasso, VII, 2), p. 112-134.
8
La Vita di Stefano II del Liber Pontificalis (cfr. Le Liber Pontificalis. Texte, introduction et
commentaire par L. Duchesne, I-II, Paris, 1886-1892; un 3o vol. di integrazioni è comparso
nel 1957 a cura di C. Vogel; da ora abbreviato LP) assume un rilievo centrale, sotto il
profilo ideologico, nella ricostruzione dell’apparato propagandistico con il quale i papi
giustificarono la costituzione del Patrimonium beati Petri come entità politica autonoma;
non a caso ad essa è dedicato ampio spazio in L. Capo, Il Liber Pontificalis, i Longobardi e la
nascita del dominio territoriale della chiesa romana, Spoleto, 2009 (Istituzioni e società, 12),
soprattutto p. 199-211, cui rimando per la bibliografia precedente.
9
Deprecaretur pro gregibus sibi a Deo commissis et perditis ovibus, scilicet pro universo exarchato Ravennae atque cunctae istius Italia provinciae populo : LP I, p. 444, 3-4.
10
Obtestans eum nulla penitus ratione audere verbum illi dicere petendi Ravennantium civitatem et exarchatum ei pertinentem, vel de reliquis reipublicae locis quae ipse vel eius praedecessores
Langobardorum reges invaserant : LP I, p. 446, 3-4.
6
7
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SALVATORE COSENTINO
stante ciò, giunto di fronte ad Astolfo, Stefano II gli «domandò che
rendesse le pecore appartenenti al Signore e che restituisse il proprio ai
legittimi proprietari»11. Incontrato Pipino nella villa regia di Pons Ugonis
(Ponticone nel Liber, cioè Ponthion), il 6 gennaio 754, il papa lo pregò
«affinché attraverso trattati di pace regolasse la causa del beato Pietro e della repubblica dei Romani»12, ciò che il sovrano franco accettò di fare decidendo «di restituire con tutti i modi l’Esarcato di Ravenna e i diritti e le
località della repubblica»13. Ma il nefando Astolfo, per impedire ciò, inviò
come proprio messo presso Pipino lo stesso fratello di questi, Carlomanno,
che era monaco a Montecassino, al fine di avversare «la causa della liberazione della santa Chiesa di Dio della repubblica dei Romani»14. Tuttavia
Pipino non si lasciò fuorviare e inviò più volte ad Astolfo suoi rappresentanti per addivenire a patti e per la restituzione «dei diritti di proprietà alla
repubblica della santa Chiesa di Dio»15 cercando di ottenere pacificamente
che «il proprio fosse restituito a chi appartiene»16. Di fronte al rifiuto di
11
Eum petit ut dominicas quas abstulerat redderet oves et propria propriis restituere : LP I,
p. 446, 7-8. L’incontro si svolse a Pavia tra la metà di ottobre e la metà di novembre del
753.
12
Beatissimus papa praefatum christianissimum regem lacrimabiliter deprecatus est ut per
pacis foedera causam beati Petri et reipublice Romanorum disponeret : LP I, p. 447-448. Siamo
nell’inverno del 753-754.
13
Et ut illi placitum fuerit exarchatum Ravennae et reipublicae iura seu loca reddere modis
omnibus : LP I, p. 448, 2-3.
14
Ad obiciendum atque adversandum causae redemptionis sanctae Dei ecclesiae reipublicae
Romanorum : LP I, p. 448, 15-16. Secondo P. Delogu, The Papacy, Rome and the Wider World
in the Seventh and Eighth Centuries, in J. M. H. Smith (a cura di), Early Medieval Rome and the
Christian West. Essays in Honour of Donald A. Bullough, Leida-Boston-Cologna, 2000,
p. 197-220, part. p. 214-216, il concetto di respublica Romanorum era audace e implicava, da
parte del biografo papale, una sorta di riappropriazione del passato romano da contrapporre (questo avverrà decisamente con Paolo I) alla «grecità» dell’impero bizantino. Il
linguaggio delle Vite di Stefano II e Paolo I circa il contenuto costituzionale della «Chiesa
di Dio della repubblica dei Romani» a me pare semplicemente ambiguo, volto a giocare
semanticamente sul significato tradizionale di respublica Romanorum (nel senso comune
allora dato all’espressione, cioè impero dei Romani d’Oriente) e quello di una comunità
politica dei Romani dei territori italici – da contrapporre a quelli longobardi –, cui
Stefano II si pone come guida. Ma una simile ambiguità terminologica non poteva avere
una lunga esistenza nel dibattito politico della seconda metà dell’VIII secolo; tanto è vero
che, come riconosce lo stesso Delogu (ibid., p. 217), a partire dal pontificato di Adriano I la
definizione venne abbandonata e la sovranità papale sui territori ex-bizantini fu ascritta
semplicemente a san Pietro. Secondo G. Arnaldi, Le origini del patrimonio di S. Pietro... cit.
n. 7, p. 126, la respublica Romanorum è da intendere come un «impero dei Romani» limitato agli abitanti delle ex-province bizantine di cui il papato si assume la rappresentanza;
su questa espressione cf. anche l’analisi di D. H. Miller, The Roman Revolution of the Eighth
Century : A Study of the Ideological Background of the Papal Separation from Byzantium and
Alliance with the Franks, in Medieval Studies, 36, 1974, p. 79-133, part. p. 122-124, secondo
cui essa designa la nozione di uno Stato ecclesiastico nell’Italia centrale sui resti dell’impero cristiano.
15
Propter pacis foedera et proprietatis sancte Dei ecclesie reipublice restituenda iura : LP I,
p. 449, 7-8.
16
Eum deprecatus est et plura ei pollicitus est munera ut tantummodo pacifice propria restitueret propriis : LP I, p. 449, 9-10.
POTERE E AUTORITÀ NELL’ESARCATO IN ETÀ POST-BIZANTINA
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Astolfo, Pipino deliberò allora una spedizione militare (motio) contro di lui,
ma anche dopo questa decisione, pur di evitare uno spargimento di sangue,
il papa cercò di convincere il Longobardo a «restituire il proprio a chi
appartiene»17 e non una, ma due volte, inviò messi supplicandolo di
rendere pacificamente «ciò che apparteneva alla santa Chiesa di Dio della
repubblica dei Romani»18. Dopo la vittoria dei Franchi – siamo nella primavera / estate del 755 – voluta da Cristo19, si stabilì un patto scritto tra
Romani, Franchi e Longobardi, in base al quale il sovrano longobardo si
sarebbe impegnato a restituire subito Ravenna e le altre città 20. Ma Astolfo,
macchiandosi nuovamente del reato di spergiuro, non solo non ottemperò
ai patti, ma strinse d’assedio la stessa Roma, costringendo una seconda
volta Pipino a scendere in Italia. Il re franco – sempre seguendo il filo del
racconto del Liber Pontificalis – fu raggiunto poco prima di Pavia dal protoasecretis Giorgio, messo di Costantino V, che lo pregò di «concedere la città di
Ravenna e gli altri centri del medesimo Esarcato attribuendoli alla giurisdizione imperiale», promettendo che gli sarebbero stati concessi molti doni
da parte del basileus 21. Ma Pipino, mitissimo re seguace di Dio, gli rispose
che «per nessuna ragione avrebbe potuto in alcun modo alienare quelle
stesse città dal potere del beato Pietro e dal diritto della Chiesa romana e del
vescovo della sede apostolica» 22 ; sicché, stretto in Pavia dalle forze di
Pipino, Astolfo confermò il patto precedente, aggiungendo alle città da
restituire anche il castrum di Comacchio 23. Lo stesso Pipino mise altresì per
iscritto la propria disposizione in una donazione che il biografo assicura
fosse conservata fino ad allora nell’archivio della Chiesa di Roma 24.
Le espressioni che abbiamo appena passato in rassegna costituirono,
come molti ricorderanno, l’oggetto di un influente saggio di Ottorino Bertolini del 1948 25. In esso si sosteneva che la rivendicazione al Patrimonium beati Petri delle terre ex-esarcali fosse stata fondata dai papi
17
Propria propriis saluberrime suaderet reddere absque humani effusione sanguinis : LP I,
p. 449, 14-15.
18
Ut pacifice, sine ulla sanguinis effusione, propria sanctae Dei ecclesiae reipublice Romanorum reddidisse : LP I, p. 449, 19. Sul concetto di «santa Chiesa di Dio della repubblica dei
Romani», cfr. supra, n. 14.
19
Iustus iudex dominus Deus et salvator noster Iesus Christus victoriam paucissimis illis tribuit
Francis : LP I, p. 450, 8.
20
In eodem pacti foedere per scriptam paginam adfirmavit se ilico redditurum civitatem
Ravennantium cum diversis civitatibus : LP I, p. 451, 4-5.
21
Et nimis eum deprecans atque plura spondens tribui imperialia munera ut Ravennantium
urbem vel cetera eiusdem exarcatus civitates et castra imperiali tribuens concederet ditioni : LP I,
p 453, 1-2.
22
Asserens isdem Dei cultor mitissimus rex nulla penitus ratione easdem civitates a potestate
beati Petri et iure ecclesie Romanae vel pontifici apostolice sedis quoquo modo alienari : LP I,
p. 453, 5-6.
23
LP I, p. 453, 14-15.
24
LP I, p. 453, 15-17.
25
Cfr. O. Bertolini, Il problema delle origini del potere temporale dei papi nei suoi presupposti teoretici iniziali : il concetto di «restitutio» nelle prime cessioni territoriali della Chiesa di
Roma, in Id., Scritti scelti di storia medievale a cura di O. Banti, II, Livorno, 1968, p. 487-547
(pubblicato originariamente in Miscellanea Pio Paschini. Studi di storia ecclesiastica, I, Roma,
1949, p. 103-171).
284
SALVATORE COSENTINO
paragonando le genti che le abitavano al popolo eletto d’Israele la cui
salvezza era stata affidata da Dio al Cristo Buon Pastore, e da Lui, attraverso
il magistero dell’apostolo Pietro, al vescovo di Roma 26. Una rivendicazione
di potere fondata dunque sull’autorità delle Scritture aveva potuto sfidare il
legittimo diritto di Bisanzio su quei territori, sostituendo la politologia con
l’ecclesiologia. La res publica da ecumene civile governata dall’imperatore
scelto da Dio, nella penna del biografo di Stefano II, era diventata l’ambito
geografico più circoscritto su cui risiedevano le greggi proprie dell’autorità
pastorale del vescovo di Roma e, pertanto, la sua Chiesa poteva essere detta
la «santa Chiesa di Dio della repubblica dei Romani» 27. Sebbene i chierici
romani che elaborarono tale pensiero fossero figli di una tradizione che,
almeno dall’età dell’imperatore Anastasio (419-518), aveva ammesso i
vescovi all’esercizio di funzioni temporali, anche per questi pensatori
l’ideologia del popolo peculiare a san Pietro – usata non in chiave dottrinaria o ecclesiologica, ma in chiave schiettamente politica – doveva
sembrare assai provocatoria. Elaborazione provocatoria sì, ma non per
l’applicazione nella pratica di governo di un concetto scritturistico, ma per
la persona cui essa era riferita : un vescovo, non un imperatore. Meno di
quindici anni prima di Ponthion, Leone III e Costantino V, nel proemio
dell’Eklogē 28 avevano utilizzato per sé stessi la metafora del Buon Pastore :
«Poiché dunque Dio affidandoci il potere imperiale, come Gli è piaciuto, ci
ha dato prova del nostro amore per Lui, e ci ha ordinato, giusta l’esempio di
Pietro, vetta più alta degli Apostoli, di pascere il gregge dei fedeli» 29. La
posizione assunta dunque dal biografo di Stefano II era, in un certo senso,
speculare e contraria a quella che aveva rivendicato, verso il 728, l’imperatore Leone III, affermando di essere allo stesso tempo basileus e sacerdote 30.
Se questo capovolgimento fosse chiaro a Stefano II e ai suoi consiglieri è
incerto, anche se appare molto probabile. In ogni caso, come è stato sottolineato, i papi e i loro apparati tra Zaccaria (741-752) e Adriano (772-795)
paiono navigare a vista di fronte alla rottura dell’equilibrio politico dell’Italia alla metà dell’VIII secolo 31. Testimonianze di area franca, più o meno
contemporanee all’azione di Stefano II, come il continuatore di Fredegario,
non accennano minimamente alle motivazioni che, nel Liber Pontificalis, il
Ibid., p. 490-496.
V. supra, n. 14.
28
Essa venne probabilmente promulgata nel marzo del 741 : cfr. Ecloga. Das Gesetzbuch Leons III. und Konstantinos’ V., a cura di L. Burgmann, Francoforte sul Meno, 1983
(Forschungen zur byzantinischen Rechtsgeschichte, 10), p. 12.
29
«Epeıù oy®n toù kra¥tov th̃v basileı¥av eßgxeirı¥sav hΩmı̃n, wΩv hyßdo¥khse, deı̃gma toỹto
th̃v eßn fo¥bw∞ proùv ayßtoùn aßgaph¥sewv hΩmw̃n eßpoih¥sato kataù Pe¥tron, thùn koryfaiota¥thn
tw̃n aßposto¥lwn aßkro¥thta, poimaı¥nein hΩmãv keley¥sav toù pisto¥taton poı¥mnion» : Ekloga,
proem., ll. 21-24 (a cura di L. Burgmann, p. 161).
30
La posizione dell’imperatore Leone III è nota da due lettere di papa Gregorio II di
discussa autenticità, giunteci quasi certamente in una redazione interpolata : cfr. J. Gouillard, Aux origines de l’iconoclasme : le témoignage de Grégoire II?, in Travaux et Mémoires, 3,
1968, p. 234-307; H. Grotz, Beobachtungen zu den zwei Briefen Papst Gregors II. an Kaiser
Leo III., in Archivum Historiae Pontificiae, 18, 1980, p. 14-20.
31
Cfr. C. Azzara, L’ideologia del potere regio nel papato altomedievale (secoli VI-VIII),
Spoleto, 1997 (Testi, studi, strumenti, 12), p. 230.
26
27
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285
papa aveva avanzato per avocare al Patrimonio di San Pietro i territori
ex-imperiali 32 ; né vi fanno esplicito cenno le lettere del Codex Carolinus 33. La
Vita di Stefano II è dunque chiaramente un tentativo intenzionale di
pubblicizzare una linea interpretativa che non guarda alla storia, ma alla
propaganda 34. Ma a chi era rivolta questa propaganda? Quali interlocutori
essa doveva persuadére della giustezza con la quale a Roma, negli ambienti
del patriarchio lateranense, si teorizzava l’esercizio di un potere fondato su
un’autorità altra rispetto all’imperatore? Difficile pensare che i principali
interlocutori fossero lo stesso basileus e l’opinione pubblica della penisola
rimasta solidale con lui. In questo caso il linguaggio giuridico più efficace
sarebbe stato quello del Constitutum Constantini, che avrebbe potuto giustificare la nuova situazione dietro il prestigio venerando di Costantino 35.
Come è noto, è opinione diffusa tra gli studiosi che questo famoso falso sia
stato confezionato negli anni del pontificato di Paolo I (756-767) da un
anonimo chierico, forse appartenente alla basilica di San Salvatore al Laterano 36. F. Hartmann, propende per retrodatarlo all’età di Adriano I (772795), sebbene lo assegni sempre ad ambiente romano 37. Più di recente,
invece, J. Fried ne ha proposto un’interpretazione completamente diversa :
non solo la pseudo donazione di Costantino a papa Silvestro non impliche-
32
Cfr. Chronicarum quae dicuntur Fredegarii scolastici continuationes, a cura di B. Krusch,
in MGH, SS. rer. Mer., II, Hannoverae, 1888, 36-39, p. 183-186.
33
Cfr. Codex Carolinus, a cura di W. Gundlach, in MGH, Epp. III, Berolini, 1892,
p. 469-657; su di esso cfr. lo studio esemplare di A. Th. Hack, Codex Carolinus. Päpstliche
Epistolographie im 8. Jahrhundert, I-II, Stoccarda, 2006-2007 (Päpste und Papsttum, 35, 1-2).
34
Cfr. L. Capo, Il Liber Pontificalis... cit. n. 8, p. 206-207.
35
Das Constitutum Constantini (Konstantinische Schenkung), a cura di H. Fuhrmann, in
MGH, Leges, 8, Hannover, 1968 (Fontes Iuris Germanici Antiqui in usum scholarum separatim
editi, 10). Ciò vale a maggior ragione se, come supposto da R.-J. Loenertz, Constitutum
Constantini. Destination, destinataires, auteur, date, in Aevum, 48, 1974, p. 199-245, part.
p. 244, l’autore del Constitutum era un greco che scriveva per i grecofoni rifugiati a Roma
fedeli alla Chiesa romana. Su questo punto cfr. anche F. Burgarella, Presenze greche a Roma :
aspetti culturali e religiosi, in Roma fra Oriente e Occidente, II, Spoleto, 2002 (Settimane CISAM,
49), p. 943-992, part. p. 980-981.
36
La bibliografia concernente il Constitutum è molto vasta; su questa posizione mi
limito a citare H. Fuhrmann, Das frühmittelalterliche Papsttum und die Konstantinische Schenkung. Meditationen über ein Unausgeführtes Thema in I problemi dell’Occidente nel secolo VIII,
Spoleto, 1973 (Settimane CISAM, 20), p. 257-329; R.-J. Loenertz, Constitutum Constantini...
cit. n. 35; Id., Le Constitutum Constantini et la basilique du Latran, in Byzantinische Zeitschrift,
69, 1976, p. 406-410; N. Huyghebaert, La donation de Constantin ramenée à ses véritables
dimensions. À propos de deux publications récentes, in Revue d’histoire ecclésiastique, 71, 1-2,
1976, p. 45-69; G. Arnaldi, Il papato e l’ideologia del potere imperiale, in Nascita dell’Europa ed
Europa carolingia : un’equazione da verificare, I, Spoleto, 1981 (Settimane CISAM, 27),
p. 341-407, part. p. 346-350, 356-358; Id., Alle origini del potere temporale dei papi : riferimenti dottrinari, contesti ideologi e pratiche politiche, in La Chiesa e il potere politico dal Medioevo
all’età contemporanea, a cura di G. Chittolini e G. Miccoli, in Storia d’Italia. Annali, 9, Torino,
1986, p. 45-71, part. p. 55-57, 64-65; Id., Le origini del Patrimonio di S. Pietro... cit. n. 7,
p. 141-147. Cfr. anche il lavoro di Hartmann, citato alla nota successiva.
37
F. Hartmann, Hadrian I (772-795). Frühmittelalterliches Adelspapsttum und die Lösung
Roms vom byzantinischen Kaiser, Stoccarda, 2006 (Päpste und Papsttum, 34), p. 182-193 (con
bibliografia a p. 182, n. 119).
286
SALVATORE COSENTINO
rebbe alcuna cessione di poteri temporali, bensì una subordinazione ecclesiastica dell’Italia e dell’Occidente alla sede romana, ma l’atto stesso sarebbe
stato fabbricato nel monastero di Corbie o in quello di Saint-Denis nei
circoli del dissenso contro Ludovico il Pio (e la sua politica di divisione dell’impero e di controllo del ceto episcopale) guidati dagli abati Wala e
Ilduino 38. Esso sarebbe stato redatto attorno all’830/833, nello stesso lasso
di tempo in cui vennero confezionate le decretali pseudo-isidoriane, espressione del medesimo «milieu» culturale 39. Come che sia, il Constitutum non
entrò a fare parte del dibattito politico romano dell’VIII e del IX secolo 40.
Nella sua parte, per noi oggi più celebre – cessione delle insegne imperiali,
di Roma e l’Occidente a papa Silvestro da parte di Costantino – cominciò a
circolare solo dall’età di papa Leone IX (1049-1054) 41. Ugualmente difficile
mi sembra pensare che la Vita Stephani fosse rivolta a sovrani come Astolfo,
i quali, dopo essersi guadagnati i territori esarcali per diritto di conquista,
non avevano ragione di delegarne il governo al vescovo di Roma. La
conclusione più probabile, sia per la tipologia letteraria del Liber Pontificalis,
sia per le argomentazioni contenutevi riguardo al dominio temporale dei
papi, è che le Vite da Stefano II a Stefano III fossero rivolte innanzitutto ad
influenzare quei settori del ceto dirigente romano, soprattutto ecclesiastico,
che non erano convinti, o erano ancora dubbiosi, circa la linea d’azione
scelta da chi aveva stipulato l’accordo a Ponthion. L’elezione dell’arcidiacono Teofilatto – forse un grecofono, possibile esponente di una
famiglia dell’apparato burocratico papale contraddistinta dalle sue inclinazioni filo-bizantine – dopo la morte di Stefano II, in competizione proprio
38
J. Fried, Donation of Constantine and Constitutum Constantini. The Misinterpretation of a
Fiction and its Original Meaning (with a contribution of W. Brandes, «The Satraps of Constantine»), Berlino-New York, 2007 (Millennium Studien, 3), specialmente p. 44, 48, 58, 69, 87,
99, 106, 108, 111-114.
39
J. Fried, Donation of Constantine... cit. n. 38, p. 108.
40
Secondo alcuni studiosi (cfr. da ultimi F. Hartmann, Hadrian I... cit. n. 37,
p. 185-186 e L. Capo, Il Liber Pontificalis... cit. n. 7, p. 101, n. 117) in una lettera inviata
da Adriano I a Carlo Magno nel 778, cfr. Cod. Car. n. 60 (p. 587, l. 9-19) si troverebbe un
accenno al Constitutum Constantini; il passo in questione è il seguente : Et sicut temporis beati
Silvestri Romani pontificis a sanctae recordationis piissimo Constantino, magno imperatore, per eius
largitatem sancta Dei catholica et apostolica Romana ecclesia elevata atque exaltata est et potestatem
in his Hesperiae partibus largiri dignatus, ita et in his vestris felicissimis temporibus atque nostris
sancta Dei ecclesia, id est beati Petri apostoli, geminet atque exultet et amplius quam amplius exaltata permaneat, ut omnes gentes, quae haec audierint, edicere valeant : «Domine, salvum fac regem,
et exaudi nos in die, in qua invocaverimus te; quia ecce novus christianissumus Dei Constantinus
imperator his temporibus surrexit, per quem omnia Deus sanctae suae ecclesiae beati apostolorum
principis Petri largiri dignatus est» (l. 9-18). Come si vede, qui papa Adriano opera un paragone tra i meriti guadagnati da Costantino verso la Chiesa di Roma, ottenuti grazie alla sua
munificenza verso la stessa, e quelli che Carlo potrà acquisire se assegnerà al Patrimonio di
san Pietro i territori ex-esarcali già promessi, al punto che, se così farà, potrà essere chiamato «nuovo Costantino». Il fatto è che Costantino operò davvero cospicue donazioni a
favore della Chiesa di Roma (cfr. LP I, p. 74.81) sicché è difficile stabilire se il brano in
questione si riferisca cripticamente al Constitutum oppure, come personalmente ritengo,
all’effettivo operato storico dell’imperatore Costantino. In ogni caso, J. Fried, Donation of
Constantine... cit. n. 38, sembra minimizzare il problema.
41
J. Fried, Donation of Constantine... cit. n. 38, p. 16.
POTERE E AUTORITÀ NELL’ESARCATO IN ETÀ POST-BIZANTINA
287
con il fratello di questi, Paolo, dimostra che non tutto il ceto dirigente
romano approvava la linea intrapresa del papa defunto 42. Un altro settore
verso il quale doveva essere indirizzata la propaganda contenuta nel Liber
Pontificalis era rappresentato dall’episcopato italico, soprattutto quello
attivo nelle regioni abitate dalle dominicae oves di cui il successore di Pietro
tanto si preoccupava. Qui il discorso impone di guardare a ciò che stava
accadendo in quel momento nell’altra grande sede ecclesiastica colpita
dall’indebolimento dell’impero romano-orientale nell’Italia del centronord.
Infatti, l’incertezza attorno alle nozioni di potere e di autorità, diffusasi
alla metà dell’VIII secolo nella penisola, era vissuta con preoccupazione
anche a Ravenna. Fino alla disputa iconoclastica il suo arcivescovo aveva
rappresentato il portavoce più fedele delle istanze imperiali nella provincia
Italiae a partire dai tempi di Massimiano. Anche lui, come il vescovo di
Roma, era stato coinvolto nel governo temporale secondo modalità
pratiche e presupposti teorici di matrice tardoantica. Per il prestigio che gli
derivava nel risiedere nella sede esarcale, per la potenza economica e per
l’intimità con gli uomini del potere, la sua influenza sull’opinione pubblica
dell’Italia centro-settentrionale era seconda solo al patriarca dell’antica
Roma. Le premesse teoriche circa il governo temporale dei papi avanzate
nella Vita Stephani facevano però fatica a convincere presuli come quello
ravennate, ma non perché essi non conoscessero la contiguità politica delle
metafore scritturistiche del Buon Pastore. Nel privilegio di autocefalia
concesso da Costante II alla sede ravennate, nel 666, l’imperatore
rammenta le responsabilità che ricadevano sul vescovo ravennate per la
cura del suo gregge 43. In tale testo, però, la cornice ideologica in cui il
dovere pastorale viene collocato è affatto differente rispetto alle elaborazioni che saranno proposte, un po’ meno di un secolo dopo, dal biografo di
Stefano II : «poiché è necessaria la cura di un buon pastore per l’ovile che
gli è stato affidato, verso il quale agisca con una disposizione favorevole alla
salvezza della nostra provincia Italia, amata da Dio, ordinammo con il
nostro pio ordine al nostro esarco Gregorio e esortiamo la vostra santità ad
assistersi reciprocamente in ogni cosa per il nostro servizio» 44. La liminarità
42
L’episodio della contestata elezione di Paolo I è narrato ancora una volta da LP I,
p. 463. Sugli orientamenti del ceto dirigente romano in questo periodo cfr. F. Marazzi,
Aristocrazia e società (secoli VI-XI), in A. Vauchez (a cura di), Roma medievale, Roma-Bari,
2001, p. 41-69, part. p. 47-49.
43
Il testo del privilegio ci è giunto mutilo, forse da una copia dell’originale perduto
dall’arcivescovo Giorgio nella battaglia di Fontenoy (841); esso è stato trascritto da Holder
Egger nelle note alla sua edizione di Agnello (dopo la versione fornitane da Bacchini agli
inizi del ’700, cfr. Agnelli qui et Andreas Liber Pontificalis sive vitae pontificum Ravennatum,
D. Benedictus Bacchinius O.S.B. ex bibliotheca Estensi eruit, dissertationibus et observationibus nec
non appendice monumentorum illustravit et auxit, I-II, Mutinae, 1708, II, p. 285-287 [testo],
287-292 [commentario]) in MGH, SS rer. Lang. et Ital., Hannoverae, 1878, p. 350-351, n. 8.
Per un’analisi del privilegio mi permetto di rimandare a S. Cosentino, Constans II,
Ravenna’s autocephaly and the panel of privileges in St. Apollinare in Classe : A reappraisal, in
Essays presented in honour of Evanghelos Chrysos, Atene, 2011, in corso di stampa.
44
Et ideo boni pastoris pro commisso ovili curam gerentis opus est, pro quo et cungruam dispositionem pro salute nostre Christo dilecte Italie provincie agendam, precepimus per nostram piam
288
SALVATORE COSENTINO
tra impegno pastorale e azione politica è qui espressa nel quadro tradizionale dell’aiuto reciproco tra potere civile e potere ecclesiastico, delineato
chiaramente già nel proemio della novella VI di Giustiniano (a. 535) – ove
la piena ortodossia è definita dalla cooperazione «tra la basileia, che
presiede alle cose umane, e il sacerdozio, che presiede alle cose divine» 45.
La ricostruzione propagandistica del Liber Pontificalis circa l’azione dei papi
alla metà dell’VIII secolo era comprensibilissima in ambiente ravennate,
ma non accettabile. Infatti, il punto di massima forza nelle argomentazioni
romane coincideva con quello di massima debolezza dei successori di Apollinare. Ravenna non era Chiesa apostolica, né aveva alle proprie origini
una figura santorale prestigiosa del cristianesimo primitivo. La Vita Apollinaris, come è noto, fu composta solo nella seconda metà del VII secolo
proprio per dare forza alla concessione dell’autocefalia da parte di
Costante II 46. L’ecclesiologia del primato petrino e le conseguenze temporali che essa cominciò ad implicare a partire dal papato di Stefano II non
potevano in alcun modo essere contestate dottrinariamente dal presule
ravennate 47 ; però non potevano nemmeno essere accettate, perché tale
accettazione avrebbe implicato un’automatica subordinazione politica – e
non solo ecclesiastica – della Chiesa ravennate a quella romana. Fu questa
circostanza ad orientare i successori di Apollinare nel contesto della rottura
degli equilibri politici che si verificò in Italia alla metà dell’VIII secolo. Nella
ridefinizione delle nozioni di potere e autorità che avvenne in quel periodo
la linea ravennate fu quella della continuità con le elaborazioni del passato
bizantino. Essa rimase aderente al principio di un’ecclesiologia di matrice
politica e non apostolica 48 che aveva fatto sì che la cattedra del suo presule,
avendo operato in una città sede di imperatori e di esarchi, e forte, inoltre,
di un patrimonio fondiario ragguardevole, potesse legittimamente invocare
un prestigio in grado di reggere alla competizione con i successori di Pietro.
Ma occorre aggiungere che la Chiesa di Ravenna, non diversamente da
quella di Roma, mostrò un uso politico assai spregiudicato sia della comune
memoria della tradizione romano-orientale, sia delle nozioni dottrinarie di
origine scritturistica. L’obiettivo di entrambe fu, all’indomani del tracollo di
iussionem Gregorio exarcho nostro et hortamur sanctitatem vestram in omnibus pro nostro servicio
cuncursum habere : Agn. ed. Holder Egger (cit. a n. 43), p. 351.
45
Cfr. Iust. Nov. VI proem. ediderunt R. Schoell e G. Kroll, Dublino-Zurigo, 19689
(Corpus Iuris Civilis, III).
46
La Passio di sant’Apollinare si legge in AASS, Iulii V, p. 344-350 (BHL I, 632). Per la
sua datazione al VII secolo cfr. G. Zattoni, La data della «Passio S. Apollinaris» di Ravenna
(Nota), in Atti dell’Accademia delle scienze di Torino. Classe di scienze morali, storiche e filologiche,
39, 1904, p. 364-378.
47
Il linguaggio della Vita di Stefano II è sapientemente ambiguo e sfumato su questo
punto; infatti, da un lato, attraverso la metafora del Buon Pastore, sembra fare riferimento
ad un’ecclesiologia episcopale paritaria in cui il ruolo pastorale del vescovo è immaginato
dottrinariamente come unico in tutta l’ecclesia; dall’altro, in taluni punti (cfr. p. es. LP I,
p. 453, l. 6) le civitates rivendicate dal papa sono esplicitamente poste sotto la potestas di san
Pietro e dei diritti della Chiesa romana.
48
Su questi due principi ecclesiologici si veda il classico studio di F. Dvornik, The Idea
of Apostolicity in Byzantium and the Legend of the Apostle Andrew, Cambridge (Mass.), 1958
(Dumbarton Oaks Studies, 4).
POTERE E AUTORITÀ NELL’ESARCATO IN ETÀ POST-BIZANTINA
289
Bisanzio nel centro-nord, quello di assicurarsi una signoria territoriale
abbastanza vasta da non essere risucchiate dall’espansionismo longobardo
né, in seguito, da quello franco. Nei confronti dell’impero bizantino l’atteggiamento invece fu differente : i successori di Apollinare mantennero
attendismo, cautela e ambiguità di comportamento fino agli anni ’20 del
IX secolo, laddove Roma a partire dal pontificato di Stefano II imboccò
decisamente la strada del non ritorno nella rottura dell’obbedienza agli
imperatori sul Bosforo.
Sulla base di un passo del Chronicon Salernitanum, in cui si dice esplicitamente che «Eutychius, patrizio dei Romani, si consegnò ad Astolfo» 49,
Ottorino Bertolini ipotizzò che l’ingresso dei Longobardi nella capitale dell’Esarcato fosse avvenuto dietro un accordo con gli Imperiali, dunque in
maniera non conflittuale 50. Se le cose andarono davvero così, il vescovo
Sergio (748ca.-769ca.) dovette essere parte attiva di questo accordo. Nella
sua Vita scritta da Agnello una serie di annotazioni, che qui non occorre
precisare, fanno in effetti pensare che tra il 750 e il 755 vi sia stata una
certa sintonia tra Astolfo e Sergio 51. È inutile e pericoloso affaticarsi in
ipotesi volte a precisare quali fossero le reali finalità dell’uno e dell’altro.
Credo sia sufficiente affermare che sia il re longobardo, sia l’arcivescovo di
Ravenna avevano ragioni, se non per sostenersi reciprocamente, almeno
per fare fronte comune contro Roma e Spoleto 52. Questo accordo, se mai vi
fu, dovette infrangersi nel 756, all’atto della seconda campagna di Pipino in
Italia. A seguito di essa il re franco non solo richiese ostaggi, sequestrò un
terzo del tesoro regio e impose un tributo ai Longobardi, ma lasciò in Italia
il suo fiduciario Fulradus, abate di St-Denis, con il compito di prendere
possesso delle città promesse al papa 53. Credo sia stata questa l’occasione in
cui Sergio, accusato di essere asceso all’episcopato in maniera anti-canonica
in quanto laico, venne portato a Roma per essere sottoposto al giudizio di
un sinodo. Liberato dal successore di Stefano II, Paolo I (757-767), rientrò
a Ravenna tra il 758 e il 759 54, dove, secondo la celebre affermazione di
Agnello «dai confini di Persiceto e per tutta la Pentapoli fino alla Tuscia e al
Po di Volano, come un esarco, governava ogni cosa, così come erano soliti
fare i Romani» 55. È verosimile che proprio mentre Sergio si trovava prigio-
49
Chronicon Salernitanum, 2, a cura di U. Westerbergh, Stoccolma, 1956 (Acta Universitatis Stockholmiensis, 3), p. 4.
50
Cfr. O. Bertolini, Ordinamenti militari e strutture sociali dei Longobardi in Italia, in
Ordinamenti militari in Occidente nell’alto medioevo, Spoleto, 1968 (Settimane CISAM, 15),
p. 429-607, part. p. 502-507.
51
Per la Vita di Sergius, cfr. Agnellus 154-159 (a cura di Holder Egger p. 377-381).
52
Su questo punto cfr. O. Bertolini, Sergio arcivescovo di Ravenna (744-769) e i papi del
suo tempo in Id., Scritti scelti di storia medievale (cit. a n. 25, già pubblicato in Studi Romagnoli,
1, 1950, p. 43-88), II, p. 551-591, part. p. 565-569. La posizione degli arcivescovi di
Ravenna di fronte alla costituzione del Patrimonio di san Pietro è stata oggetto dell’articolo
di P. G. Wickberg, The Eighth Century Archbishops of Ravenna : An Ineffectual Alternative to
Papalism, in Studies in Medieval Culture, 12, 1978, p. 25-33.
53
L’episodio è narrato in LP I, p. 454, 1-6.
54
O. Bertolini, Sergio arcivescovo di Ravenna... cit. n. 52, p. 574.
55
Agnellus, 159 (a cura di Holder-Egger, p. 380).
290
SALVATORE COSENTINO
niero a Roma, Stefano II avesse inviato nella ex capitale esarcale il dux
Eustachius insieme al diaconus Philippus perché prendessero il controllo della
situazione 56. Ma si ha l’impressione che il ritorno di Sergio a Ravenna
rendesse pressoché nulla la giurisdizione papale sull’Esarcato; sembra che
tra lui e Paolo I fosse stato raggiunto un compromesso all’insegna di una
Realpolitik, che conveniva tanto al primo quanto al secondo. Forse Sergio
riconobbe la teorica giurisdizione della Chiesa di Roma sull’Esarcato e sulla
Pentapoli in cambio della possibilità di amministrare lui stesso, di fatto, i
menzionati territori 57. Questo patto si dovette rompere alla morte di Sergio
(verso il 769), giacché esso era lesivo degli interessi dell’impero romanoorientale nella regione, un impero che aveva ancora sostenitori tra i ceti
dirigenti di essa. Dopo il concreto affacciarsi di Pipino sul teatro italico, con
la spedizione contro Pavia del 755, l’intesa longobardo-bizantina riprese
fiato. È difficile tratteggiare con precisione il quadro delle alleanze. Il
lealismo filo-imperiale, dopo la conquista longobarda di Ravenna, sembra
sia stato particolarmente forte a Rimini, il cui duca – come quello delle
Venezie – doveva obbedire ancora formalmente al governo di Costantinopoli. Fu proprio il dux di Rimini, Mauricius gloriosus magister militum, che
rappresentava probabilmente l’aristocrazia militare legata a Bisanzio, in
quel momento pro-longobarda e anti-franca, ad imporre sulla cattedra
episcopale ravennate lo scriniarius Michaelius, sebbene questi fosse un
laico 58. Il rovesciamento di Michaelius e la successiva elezione dell’arcidiacono Leone furono attuati dagli stessi Ravennati, sicuramente con
il concorso del papato e forse dietro diretta pressione degli ambasciatori
franchi in Italia 59. Ma il nuovo arcivescovo ravennate non si dimostrò
affatto arrendevole verso papa Stefano III. Egli gestì direttamente il
processo e la condanna del superista romano Paolo Afiarta, avvenuti a
Ravenna verso il 772 60 ; inoltre, da talune lettere del Codex Carolinus, scritte
da papa Adriano I a Carlo tra il 774 e il 775, apprendiamo che Leone aveva
sotto il suo effettivo controllo Ravenna, Faenza, Forlimpopoli, Forlì,
Cesena, Comacchio, Ferrara, Imola e Bologna, e impediva al personale
pontificio di svolgere la propria attività in quelle località 61.
Sappiamo che l’arcivescovo Leone andava dicendo che Ravenna e
l’Esarcato gli erano stati affidati da Carlo Magno assieme alla Pentapoli 62. È
O. Bertolini, Sergio arcivescovo di Ravenna... cit. n. 52, p. 569.
Questa, almeno, è l’ipotesi avanzata da O. Bertolini, Sergio arcivescovo di
Ravenna... cit. n. 52, p. 578, che, in effetti, appare plausibile.
58
LP I, p. 477, 12-16. Sull’episodio cfr. R. Savigni, I papi e Ravenna. Dalla caduta dell’esarcato alla fine del secolo X in A. Carile (a cura di), Storia di Ravenna, II.2, Dall’età bizantina
all’età ottoniana. Ecclesiologia, cultura e arte, Venezia, 1992, p. 331-368 : p. 336; Id., La Chiesa
di Rimini nella tarda antichità e nell’alto medioevo, in Storia della Chiesa riminese, I, Dalle origini
all’anno mille, a cura di R. Savigni, Rimini, 2010, p. 29-67 : p. 50.
59
LP I, p. 478, 1-6.
60
LP I, p. 490-491.
61
Cfr. Cod. Car., n. 49, 53, 54, 55.
62
Cfr. Cod. Car. n. 49 (ca. a. 774) : Pervenit ad nos, eo quod protervus et nimis arrogans Leo
archiepiscopus Ravennantium civitatis suos ad vestram excellentissimam benignitatem ad contrarietatem nostram, falsa suggerendo, direxit missos (...) assserens quod a vestra excellentia ipse civitates
una cum universe Pentapoli illi fuissent concessae.
56
57
POTERE E AUTORITÀ NELL’ESARCATO IN ETÀ POST-BIZANTINA
291
forse più probabile che il prelato facesse poggiare questo diritto sullo stato
delle cose, più che su un formale atto di concessione, sebbene è da ritenere
che Carlo gli avesse fatto intendere di essere d’accordo. L’azione politica
degli arcivescovi ravennati correva in margini che erano stretti tanto
quanto quelli in cui si muovevano i papi di Roma, con la differenza che i
primi dovevano barcamenarsi tra i Franchi e i Romani d’Oriente. L’impero
bizantino, nella seconda metà dell’VIII secolo, era debole militarmente in
alto Adriatico; ma ai tempi dell’arcivescovo Leone (770 ca-777 ca) nessuno
poteva escludere che, come poi sarebbe accaduto agli inizi del IX secolo, il
basileus avesse potuto inviare la propria flotta ad incrociare nelle acque
dell’Adriatico 63. Lo stratego di Sicilia era attivissimo in Italia meridionale tra
Napoli, Benevento e la Calabria nel sostenere un possibile rientro dei
Longobardi sulla scena italiana (come poi avvenne nella sfortunata spedizione di Adelchi del 787) 64. L’arcivescovo Leone doveva dunque accostarsi
con cautela al potere carolingio perché un ritorno di Bisanzio nella regione
era sempre possibile. D’altra parte egli non poteva voltare le spalle alla
tradizione che gli consentiva storicamente di rivendicare il dominio nell’Esarcato di fronte a Roma. Secondo lo storico ravennate Girolamo Rossi
(Rubeus) egli – Leone – nei suoi atti assunse la stessa titolatura utilizzata
dai vescovi di Roma – servus servorum Dei – e si fregiò, forse come il suo
predecessore, del titolo di exarchus 65. L’eredità romano-orientale, inoltre,
costitutiva ancora una memoria freschissima del passato della città – i suoi
monumenti, chiese, palazzi prestigiosi, marmi, statue – di cui lo stesso
Carlo, attorno al 787, volle appropriarsi asportando parte delle ricchezze
architettoniche del centro adriatico per destinarle ad Aquisgrana 66. Sembra
che prendesse la via della capitale del nord anche una statua equestre di
Teoderico, che Carlo fece collocare nel proprio palazzo 67. Inoltre, la
prospettiva con cui gli arcivescovi ravennati tendevano a coniugare la politica con l’autorità derivante dal loro magistero pastorale continuava a
muoversi nel solco della cooperazione tra potere temporale e potere spirituale tipica della cultura bizantina. Tale prospettiva era molto più vicina ai
modi con i quali Carlo e i suoi successori intesero il rapporto con l’episcopato di quanto non fosse l’ideologia del primato petrino.
63
A questo proposito si veda l’articolo di V. Prigent, Notes sur l’évolution de l’administration byzantine en Adriatique (VIIIe-IXe siècle), in Mélanges de l’Ecole française de Rome, Moyen
Âge, 120, 2, 2008, p. 393-417, part. p. 399-400.
64
Cfr. V. von Falkenhausen, I Longobardi meridionali, in Il Mezzogiorno dai Bizantini a
Federico II, Torino, 1983 (Storia d’Italia diretta da G. Galasso, III), p. 258-259.
65
La testimonianza di Rubeus (Hist. Rav. V, p. 228) è citata da R. Savigni, I papi e
Ravenna... cit. n. 58, p. 336.
66
Cfr. Cod. Car., n. 81, forse del 787 (nella quale Carlo chiede a papa Adriano I che gli
venga concesso di prendere musiva et marmora da Ravenna, così riconoscendo formalmente al papa il potere sulla città). Cfr. anche A. Th. Hack, Codex Carolinus... cit. n. 33), II,
p. 839-843.
67
Eginar. Vita Kar. 26, a cura di G. H. Pertz, in MGH, SS rer. Germ. in usum scholarum
separatim editi, Hannoverae, 1829). Cfr. D. Mauskopf Deliyannis, Ravenna in Late Antiquity,
Cambridge, 2010, p. 298-299.
292
SALVATORE COSENTINO
La linea seguita dagli arcivescovi ravennati da Leone a Giorgio, tra gli
anni ’70 dell’VIII secolo e gli anni ’40 del IX secolo, sembra connotata da
un’apertura tanto verso Occidente quanto verso Oriente. Mancano, sfortunatamente, documenti per definire concretamente quali furono in questo
periodo i rapporti con i basileis. A Ravenna, nell’807, fu stipulato un armistizio tra i Franchi di Pipino, re d’Italia, e i Bizantini 68, giacché probabilmente la città andava bene tanto agli uni quanto agli altri. I Carolingi,
comunque, non assecondarono un approccio rude nei confronti della sede
ravennate, cosi come reclamavano i papi. Essi lasciarono sostanzialmente
che i successori di Apollinare gestissero il potere tra Emilia occidentale,
Romagna e Marche settentrionali. In cambio i presuli ravennati sembrano
disposti a sostenere il nuovo regime nella penisola, ma senza fughe in
avanti. Non è privo di significato il fatto che nel testamento di Carlo, riportato da Eginardo nella Vita Karoli, Ravenna figurasse come seconda sede
metropolitica dell’impero carolingio, dopo Roma 69. Un certo avventurismo
connotò invece l’azione dell’arcivescovo Giorgio (835-846), che prese parte
attiva alle lotte di successione avvenute in seguito alla scomparsa di Ludovico il Pio, sostenendo Lotario contro i suoi fratelli. Forse l’obiettivo di
Giorgio mirava al conseguimento dell’autocefalia, una concessione che la
sconfitta militare di Lotario non rese possibile 70. Il miraggio dell’autocefalia
riapparve ai tempi turbinosi del papato di Niccolò I (858-867) e di
Giovanni VIII (872-882), ma, almeno stando ad una lettera di Fozio inviata
ai prelati delle Chiese occidentali, il vescovo di Ravenna in quell’occasione
fu accusato di mantenere un atteggiamento troppo esitante 71.
La cessazione del governo dell’esarco e la sua non sostituzione da parte
di rappresentanti istituzionali del regno franco consentì all’arcivescovo
ravennate di ergersi a figura di primo piano nella regione. La base per
l’esercizio di poteri temporali fu comunque rappresentata per la sede
ravennate, come per il papato, dal suo patrimonio fondiario che si estendeva in Romagna, Istria, Veneto, Marche, Umbria, Calabria e Sicilia. La
prassi di gestione delle strutture di tale patrimonio continuò a proiettare
una patina tardoantica e bizantina a diversi aspetti del suo funzionamento.
Nel campo della circolazione monetaria, per esempio, è forse possibile che
la notevole quantità di monete d’oro presente nella regione nord-adriatica
tra la seconda metà dell’VIII e la prima metà del IX secolo fosse alimentata
dalle rendite in nomismata che il vescovo di Ravenna continuava ad estrarre
68
Cfr. R. Savigni, I papi e Ravenna... cit. n. 58, p. 341, che basa l’affermazione sulla
testimonianza di Girolamo Rossi (Hist. Rav., V, p. 235).
69
Eginar. Vita Karoli, 33; nel testamento di Carlo, riportatoci da Eginardo, la Chiesa di
Ravenna è elencata come seconda (dopo Roma) tra le sedi metropolitiche destinatarie della munificenza imperiale; inoltre, alla Chiesa di Ravenna venne destinata una mensa di
forma rotonda su cui era raffigurata l’immagine della città di Roma.
70
R. Savigni, I papi e Ravenna... cit. n. 58, p. 344.
71
Sulla lettera cfr. V. Grumel, Les regestes des actes du patriarcat de Constantinople, I, fasc.
II-III : Les Regestes de 715 à 1206, 2e édition revue et corr. par J. Darrouzès, Parigi, 1989,
n. 514, p. 102-103. Su di essa cfr. anche F. Lanzoni, Una epistola del patriarca Fozio a
Giovanni arcivescovo di Ravenna, in Atti e memorie della deputazione di storia patria per le
Romagne, IV s. 9, 1919, p. 137-141.
POTERE E AUTORITÀ NELL’ESARCATO IN ETÀ POST-BIZANTINA
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dalle proprietenute in Sicilia 72. Se la fiscalità scomparve nella sua componente legata alla capitazione, trasformandosi in rendita fondiaria, tutta la
riscossione della tassazione indiretta – l’imposta sulla circolazione commerciale, sugli ormeggi, sull’ingresso nelle città – fu probabilmente percepita in
massima parte dall’arcivescovo, non fosse altro perché egli era il dominus
che possedeva il maggior numero di terre e approdi tra la Romagna e le
Marche. Il controllo delle terre ex-esarcali e pentapolitane fu esercitato dal
presule ravennate insieme ad un ceto aristocratico che, come lui, doveva
molto del proprio potere e del proprio assetto patrimoniale al passato
regime. Tale aristocrazia, infatti, in larghissima parte proveniva dai ranghi
dell’alta ufficialità bizantina dislocata sul territorio che, al momento della
cessazione del governo costantinopolitano, si trovò ad ereditare una posizione di comando che si sforzò di perpetuare 73. Nel suo patrimonio
fondiario essa incamerò terre di origine pubblica che, in età bizantina,
avevano costituito le pertinenze fondiarie di castelli o erano caratterizzate
da determinate servitù fiscali. Ma la sua base economica, accanto alla
proprietà allodiale, si irrobustì anche per l’acquisizione di terre in enfiteusi
da parte della Chiesa ravennate. Tra la seconda metà dell’VIII e la prima
metà del IX secolo, questo legame fece sì che molti dei suoi esponenti
diventassero una clientela armata dell’arcivescovo. Pochissimo, però, è
noto della loro attività militare. È probabile che essa si esplicasse soprattutto nel controllo di assi viari strategici o di centri fortificati, attuato per
conto dell’arcivescovo prima e degli imperatori sassoni in seguito 74.
Se dunque nelle scelte politiche, nella tradizione culturale e nelle
convenienze economiche esisteva una forte contiguità di interessi tra i
presuli ravennati e l’aristocrazia esarcale-pentapolitana, va aggiunto, però,
che i segni distintivi di quest’ultima originavano non dagli arcivescovi, ma
si ricollegavano direttamente al regime bizantino. Titoli di funzione e
dignità bizantine (magister militum, dux, tribunus, consul) furono tramandati
72
S. Cosentino, Ricchezza ed investimento della chiesa di Ravenna tra la tarda antichità e
l’alto medioevo, in S. Gelichi e di R. Hodges (a cura di), Da un mare all’altro. Luoghi di
scambio nell’alto medioevo europeo e mediterraneo, Comacchio, 2012, in corso di stampa.
73
Su questo aspetto Antonio Carile ha scritto articoli molto penetranti ed influenti;
tra di essi si vedano almeno : Continuità e mutamento nei ceti dirigenti dell’Esarcato fra VII e IX
secolo, in Istituzioni e società nell’alto medioevo marchigiano, Ancona, 1983, p. 115-145 (rist. in
Id., Materiali di storia bizantina, Bologna, 1994, p. 245-262); Terre militari, funzioni e titoli
bizantini nel «Breviarium», in Ricerche e studi sul «Breviarium Ecclesiae Ravennatis» (Codice
Bavaro), Roma, 1985 (Studi storici, 148-149), p. 81-94; La società ravennate dall’Esarcato agli
Ottoni, in Storia di Ravenna II.2... cit. n. 58, p. 379-404; Costantinopoli nuova Roma, Ravenna
e l’Occidente, in Ravenna da capitale imperiale a capitale esarcale, I, Spoleto, 2005 (Atti dei
Congressi del CISAM, 17), p. 41-61.
74
Cfr. G. Vespignani, La Romania dall’Esarcato al Patrimonium. Il Codex Parisinus (BNP,
N.A.L., 2573) testimone della formazione di società locali nei secoli IX e X, Spoleto, 2001
(Quaderni della Rivista di bizantinistica, 3), p. 91-99; Id., Ceti dirigenti e patrimonio fondiario nel
Riminese. Dalla fine dell’età bizantina all’età ottoniana (secc. VIII-X), in Storia della Chiesa riminese... cit. n. 58, p. 356. Si veda anche R. Bernacchia, L’incastellamento e i distretti rurali
nella Marca medievale (secoli X-XIII), Spoleto, 2005 (Quaderni di bizantinistica, 5), p. 115-143.
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SALVATORE COSENTINO
da questa «élite» in forma gelosa ed esclusiva tra l’VIII e la prima metà del
X secolo. Essi rappresentavano i simulacri di un potere che, sebbene non
avesse più una reale presa sulla regione, continuava per così dire a funzionare per l’autorevolezza del proprio passato. Su questo repertorio di segni
di distinzione sociale i successori di Apollinare non furono in grado di intervenire; non si ebbe a Ravenna la nascita di un ceto dirigente caratterizzato
da appellativi derivanti dal palazzo episcopale, come in parte si ebbe a
Roma – per esempio negli appellativi di superista, di vestararius o di nomenclator 75. Il potere dell’arcivescovo e quello dell’aristocrazia esarcale erano,
infatti, il riflesso di una medesima immagine d’autorità che attingeva le
proprie radici all’ideologia romano-orientale. Né l’uno né l’altra trovarono
una altrettanto persuasiva semantica politica in grado di esprimere con
migliore efficacia alle popolazioni della regione l’origine della propria posizione di comando.
La disarticolazione delle nozioni di potere e autorità avvenuta nell’Esarcato alla metà dell’VIII secolo fu dunque ricomposta tanto dagli arcivescovi quanto dall’aristocrazia conservando una memoria tenace, nella
pratica sociale e nell’autorappresentazione culturale, della loro discendenza
dalla tradizione bizantina. Questa memoria non si nutrì tanto di grecismi o
di diretti contatti con Costantinopoli, ma trasmise alle «élites» post-esarcali
una peculiare visione della gerarchizzazione sociale forgiata su un modello
romano-orientale. Essa continuò ad improntare i loro quadri mentali anche
quando, a partire dalla seconda metà del IX secolo, alcuni suoi membri si
imparentarono con eminenti famiglie della tradizione carolingia. È questo
il caso del matrimonio tra il dux Martinus (figlio del dux ravennate Gregorius e nipote dell’arcivescovo Giovanni VII) e la comitissa Ingelrada o Angelrada (figlia del comes palatii e signifer Hucpoldus, forse figlio di Hucpaldus,
conte di Verona tra l’809 e l’820), avvenuto tra l’870 e l’889 76. Tale unione
portò alla formazione di un patrimonio signorile vasto, che aveva possessi
sparsi nel Ferrarese, nel Comacchiese, nel Ravennate, nel Riminese, nel
Faentino, nel Forlivese 77 e sanzionò un processo di osmosi tra maggiorenti
di tradizione bizantina e di tradizione franca nell’Esarcato tra la fine del IX
e la prima metà del X secolo 78. Tuttavia, gli apparentamenti non arrivarono
mai ad uno scambio di titolature, giacché esse esprimevano l’originario
contenuto pubblico dell’egemonia sociale dei membri delle due componenti aristocratiche, un contenuto al quale né l’una, né l’altra vollero
rinunciare. Per quanto riguarda gli arcivescovi, la nozione secondo la quale
75
Cfr. T. F. X. Noble, La Repubblica di S. Pietro. Nascita dello stato pontificio (680-825),
trad. it. Genova, 1998 (ed. orig. Philadelphia, 1984), p. 203-237.
76
Su questi due gruppi famigliari cfr. lo studio di R. Rinaldi, Le origini dei Guidi nelle
terre di Romagna (secoli IX-X), in Formazione e strutture dei ceti dominanti nel medioevo :
marchesi, conti e visconti nel regno italico (secc. IX-XII), Roma, 1996 (Nuovi studi storici, 39),
p. 211-240.
77
Ibid., p. 228.
78
Per un’analisi di questo processo riflesso nelle testimonianze dell’ononomastica cfr.
S. Cosentino, Antroponomia, politica e società nell’Esarcato in età bizantina e post-bizantina,
p. 173-185 di questo volume.
POTERE E AUTORITÀ NELL’ESARCATO IN ETÀ POST-BIZANTINA
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la sfera delle loro funzioni pastorali poteva trovare un legittimo impiego in
ambito politico solo nel raccordo e nella concertazione con il potere temporale rappresentò un orientamento di lunga durata. Da Bisanzio ai Carolingi,
dai Sassoni ai Franconi essi restarono sempre al fianco degli imperatori.
Ancora tra il 1156 e il 1158, quando l’egemonia politica degli arcivescovi
ravennati sulla Romagna era avviata al tramonto, uno di loro riesumò il
titolo di exarchus per esprimere la pienezza della propria autorità 79.
Salvatore COSENTINO
79
Cfr. R. Savigni, Memoria urbis : l’immagine di Ravenna nella storiografia di età carolingia-ottoniana, in Ravenna da capitale imperiale a capitale esarcale... cit. n. 73, II, p. 653-654,
n. 130 (si tratta dell’arcivescovo Anselmo).