Parte prima: I Veneti antichi
LE GRANDI MIGRAZIONI
Circa nel 1250 a.C., epoca della guerra di Troia, ci fu nel Baltico una colossale
battaglia al confine tra le attuali Polonia e Germania. A Tollense si scontrarono ben quattromila uomini che possiamo ipotizzare schierati tra protoveneti
a est e protogermani a occidente. Questi protoveneti si possono identificare
nei commercianti d’ambra della cultura di Lusazia, distinguibile entro la
vasta cultura dei Campi di urne in quanto la
prima rappresenterebbe la variante venetica
mentre le altre genti dei Campi di urne nascerebbero dalla fusione con le popolazioni
locali; entrambe le culture avevano in comune l’usanza di bruciare i morti sulla pira
e di raccoglierne le ceneri in urne che venivano seppellite in ampi cimiteri. Anche se
sconfitti a Tollense, i protoveneti avrebbero
avuto una tale carica esplosiva, dovuta alla
Campo di battaglia di Tollense:
un contenitore da indossarsi alla spinta demografica e allo spirito missionario
cintura, con decorazione solare della nuova religione, che – trovando a occicome fu poi usanza nella cintura dente la strada sbarrata – sarebbero scesi sia
delle sacerdotesse dell’Adriatico. nella penisola italiana sia in quella balcanica.
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L’impatto di questa vertiginosa espansione avrebbe avuto un “effetto domino”
sulle tribù italiche e balcaniche spostandole dalle loro sedi.
Un paio di decenni dopo la battaglia di Tollense, sul finire dell’età del
Bronzo, nel Mediterraneo ci fu uno scenario d’agitazione generale associato
all’arrivo improvviso di un’alleanza di popoli che disintegrarono l’Impero ittita in una serie di città-stato indipendenti, distrussero molti degli stati sirocananei e si spinsero ad attaccare perfino l’Egitto. Dai testi egiziani risultano
due ondate di invasione da parte dei misteriosi Popoli del mare. All’epoca del
faraone Merenptah (circa 1230 a.C.) alcuni gruppi di origine mediterranea
(Lukka, Shekelesh, Teresh, Ekwesh e Shardana) si unirono all’invasione dei
libici nel Delta occidentale del Nilo. In seguito, sotto Ramses III (1190 a.C.)
un più consistente complesso di invasori (Danuna, Peleset, Zeker, Weshesh,
Shekelesh) arrivò alle soglie del Delta orientale dopo aver travolto in Anatolia la capitale ittita Ḫattuša, il regno di Arzawa nell’area di Troia, il regno
di Qode in Cilicia, oltre alla Siria e a Cipro. Le navi dei Popoli del mare
raggiunsero l’Egitto dall’Egeo costeggiando le rive meridionali dell’Anatolia,
il Libano e la Palestina. Il loro esercito terrestre invece invase prima Arzawa
nell’Anatolia nord-occidentale e poi scese in Siria a Ugarit.
Questo insieme di tribù e clan costituiva forse una sorta di coalizione con
a capo una élite che potremmo cercare di identificare nelle genti baltiche della civiltà di Lusazia o, più propriamente, della cultura dei Campi di urne, in
quanto già mescolate con le popolazioni sottomesse nel continente europeo.
Una spada lusaziana marcata con un cartiglio del faraone Seti I fu trovata
in Europa. Inoltre, osservando le raffigurazioni egiziane delle imbarcazioni
adottate dai Popoli del mare, non può passare inosservata la presenza dell’emblema delle genti dei Campi di urne a prua e a poppa delle navi, cioè il
simbolo della barca solare con l’effige del volatile acquatico ai due estremi.
Wolfgang Kimmig fu il primo a proporre un confronto tra l’emblema sulle
navi dei Popoli del mare (dipinte nel rilievo egiziano della battaglia navale
del Delta del Nilo con alti e angolari montanti di prua e poppa sormontati
da teste di uccelli acquatici) e
la barca solare del canone religioso tipico dell’Europa centrale presso i Campi di urne
della tarda età del Bronzo.
L’evidenza iconografica del
rilievo conservato nel tempio
di Medinet Habu con le galee a doppia testa di uccello
Tipica nave dei Popoli del mare.
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si rafforza a motivo degli equipaggi che indossano il tipico copricapo piumato dei Popoli del mare. Tale convergenza di fogge favorisce l’idea che la
“federazione” dei Popoli del mare fosse stata istituita, promossa e guidata da
una leadership di genti nordiche. L’élite in questione si potrebbe forse individuare nei Danai (o Danuna). La vedica Danu era la dea delle acque, come
pure Dana presso gli Slavi. Nel bacino della Vistola, in area baltica, numerosi
sono i nomi di fiumi che possiedono la radice *dn: Dunaj, Dunajec, Biala
Dunajcowa, Stare Dunajczysko, Dunajka, oltre alla palude Dunajki e ai laghi Dunaj e Dunajek. La via fluviale ponto-baltica, che univa l’Anatolia al
Baltico tramite i larghi corsi d’acqua dell’Ucraina, era nota agli Argonauti e
nel bacino del fume Dnepr abbiamo quattro tributari di nome Dunaec, due
Dunajčik, oltre a Dunajka e Suxy Dunaec. Contiene all’interno la radice *dn
il gran fiume dei primi Veneti dell’Adriatico: l’Eridano, cioè il Po. Invece la
radice indoeuropea *ap [acqua in sanscrito], ove Aponus era il dio veneto delle acque termali, è presente in Anatolia settentrionale presso la lingua palaica
parlata in Paflagonia dal popolo dei Pala, ove hapna significa fiume.
Danai, Achei e Argivi nell’Iliade di Omero sono sinonimo degli assedianti
di Troia. I Danai appartenevano alla stirpe di Danao, in relazione al quale
rimarrebbe un vago ricordo delle spedizioni dei Popoli del mare poiché si
tramanda che fosse re di Libia e fratello gemello di Egitto, il re dell’Egitto:
«Dopo varie vicissitudini Danao fuggì il fratello verso occidente, approdando in
Grecia ad Argo». Quindi il cerchio potrebbe chiudersi con gli Achei di Argo,
cioè i Danai, partecipi della guerra di Troia (che Eratostene pone tra 1194
e 1184 a.C.). Omero risulta, a proposito dei Popoli del mare, una fonte
letteraria importante perché nell’Iliade e nell’Odissea sono presenti sei delle
nove tribù indicate dallo stesso etnonimo nelle fonti egiziane, cipro-minoiche e ugaritiche. Mountjoy suggerisce che a Troia lo strato VIIa non sia stato
distrutto dai Micenei ma piuttosto dai Popoli del mare. Si ribadisce – come
già espresso nel precedente saggio L’alba dei Veneti – che “Achei” non è affatto sinonimo di “Micenei di Micene”, i cui palazzi collassarono proprio con
l’arrivo dei Popoli del mare e con le genti da nord. Gli Achei di Argo praticavano l’incinerazione dei morti e nell’Iliade questo è l’unico rituale funebre
descritto. Nel mito di Oreste, il figlio di Agamennone cerca di ingannare la
propria madre Clitennestra fingendosi uno straniero ed esibendo un’urna
con le false ceneri di se stesso. I Micenei al contrario – come risulta dai reperti archeologici – inumavano i morti, cioè li seppellivano. D’altronde studiosi come Bernhard Hänsel, Frank Kolb e Harald Hauptmann negano che
gli scavi eseguiti sulla Troia anatolica possano evidenziare le caratteristiche
proprie di una città. In accordo con la tesi di Felice Vinci sull’ambientazione
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Possibili itinerari dei Popoli del mare e interazioni con genti dei Campi d’urne (in rosso).
baltica della guerra di Troia, un’identificazione dei Danuna / Danai con gli
Achei e con le popolazioni della civiltà di Lusazia spiegherebbe bene se non
altro il costante mescolarsi di leggende nordiche nell’Iliade. Ecco quindi affacciarsi nella storia della guerra di Troia nuovi protagonisti e cioè i Popoli
del mare guidati dalle genti di Lusazia: certamente ipotesi insolita che urta
con i preconcetti scolastici dei poemi omerici quali espressione di “grecità”.
Frederik Christiaan Woudhuizen (2006) sostiene che la causa più importante degli sconvolgimenti dei Popoli del mare sia stata la migrazione
dei portatori della cultura dei Campi d’urne centroeuropea verso la penisola
italiana intorno al 1200 a.C.. Alcune spade di tipo Naue II nel Levante e nel
Mediterraneo orientale sono produzioni italiane. I Shardana, i re delle isole
dell’Occidente, vengono spesso collegati con la Sardegna non solo per l’assonanza del nome ma anche per i reperti egiziani nelle tombe a camera dell’isola.
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L’etnonimo Šrdn (Shardan) della Stele di Nora comparve però in Sardegna
solo in epoca più tarda, tra IX e VIII secolo a.C.. Shekelesh, secondo alcuni, era invece una popolazione dell’Italia meridionale e centro-meridionale
(Abruzzo e Lazio – esclusa Viterbo – verso sud) mentre i Teresa / Tursha erano forse i Sabini e corrispondevano agli abitanti dell’Italia centrale e centromeridionale (Viterbo, Toscana, Marche, Emilia Romagna, La Spezia). I Teresh
sono stati avvicinati ai Taruisha delle fonti ittite e ai Tyrsenoi, dai quali verrebbero gli Etruschi. In origine gli Etruschi sarebbero quindi provenienti dalla
lontana Lidia (situata al centro della costa anatolica occidentale), così come
gli Shekelesh. Erodoto narra così l’origine delle popolazioni della Toscana:
«In tutta la Lidia ci fu una tremenda carestia al tempo di Atys, figlio del re Mane.
Il re divise in due gruppi tutti i Lidi e mise a sorteggio il loro destino: a quelli cui
toccò di restare in Lidia mise a capo se stesso, agli altri che dovevano migrare pose
a capo suo figlio Tirreno. Coloro che ebbero in sorte di partire scesero a Smirne per
costruire le navi e, caricato tutto ciò che era necessario, presero il largo alla ricerca
di mezzi di sostentamento e di una terra d’approdo; finché – oltrepassati molti
popoli – giunsero al paese degli Umbri, ove costruirono città e abitano tuttora.
In luogo di Lidi essi mutarono il nome in Tirreni, prendendolo dal figlio del re».
Taluni collegano il popolo Shardana – pure portatore della radice *dn –
con la città lidia di Sardi (fondata negli ultimi secoli del II millennio a.C.
e capitale del regno solo nel VII secolo a.C.). In Lidia la città di Tantalis
peraltro fu così chiamata in onore al famoso Tantalo, il padre di Pelope, e
venne altresì identificata con Atlantide dallo storico britannico Peter James.
Platone scrive: «Gli Atlantidei indossavano le più belle vesti azzurre e sedevano
in terra presso le ceneri del sacrificio. Un ippodromo era lasciato alla gara dei
cavalli». Per inciso, Felice Vinci identifica Atlantide con la Groenlandia,
mentre lo storico greco Dimitri Michalopoulos coglie nella Groenlandia
l’isola di Thule descritta da Pitea. Marco Bulloni, ingegnere nucleare e
cultore di archeomitologia, pone invece Atlantide nell’estremo nord del Mar
Bianco, in un’isola a 164 chilometri dal circolo polare artico e nei pressi della
Carelia (Russia). A cavallo del 1300 a.C., secondo Bulloni, un maremoto
o un cataclisma naturale associato a un clima sempre più rigido (la piccola
era glaciale) avrebbe causato l’esodo degli Atlantidei e la loro discesa fino al
Mediterraneo insieme ai Popoli del mare.
Molto interessanti sono le connessioni tra il regno di Ahhiyawa, in Lidia,
e la dinastia achea dei Pelopidi. Forrer propose per primo la corrispondenza
Ahhiyawa-Achei. Non avendo la lettera w, i Greci la omettono nella scrittura, sicché Ahhiyawa diventa Ahhiya: l’Achaea del popolo degli Achei e cioè
il più importante regno dell’età del Bronzo nell’Anatolia occidentale durante
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l’ultima parte del XIII secolo a.C.. Il regno era chiamato anche Ekwesh, che
ricorda il termine indoeuropeo per il cavallo *ekwo- (in lingua venetica ekvo).
Le cronache narrano che Madduwatta, re di una città-stato della vicina Licia (regione del popolo Lukka nel sud-ovest dell’Anatolia), fu sconfitto da
un condottiero acheo venuto dal mare di nome Attarsiya (Atreo), che era
nientemeno che il figlio di Pelope e padre di Agamennone. Atreo si sostituì
al trono di questa città-stato e costrinse Madduwatta all’esilio. Presso il re
ittita Tudhaliya, Madduwatta fu fatto governatore della zona montuosa della
Lidia, famosa per il monte Sipilo. Alcuni anni dopo Atreo tornò ad attaccare Madduwatta con cento carri e conquistò il monte Sipilo, mentre Madduwatta fuggì di nuovo ad Hattusa. L’ittita Tudhaliya inviò allora l’esercito
e sconfisse Atreo, che però apparentemente conservò la corona e poco dopo
riapparve nell’altra sponda dell’Egeo come il mitico re di Argo.
È noto che Ilo, re di Troia, aveva bandito oltre a Tantalo anche suo figlio
Pelope, che – dopo essere stato cacciato dalla Paflagonia dai barbari – si era
ritirato sul monte Sipilo nella sua patria ancestrale: la Lidia. Tra le prime
attestazioni storiche dei Veneti, dopo Tito Livio viene riportata quella di
Marco Giuniano Giustino (II-III secolo d.C.), la cui opera ebbe larghissima
diffusione nella tarda romanità. La sua descrizione è interpretata nel significato di provenienza dalla Lidia sia degli Etruschi sia dei Veneti: «Namque
Tuscorum populi, qui oram Inferi maris possident, a Lydia venerunt, et Venetos».
Risale al XII secolo a.C. l’insediamento di popolazione in Lidia e per gli Eneti di Pelope le sue coste erano un logico punto di partenza in nave, perché
lo stretto del Bosforo all’epoca era impraticabile a causa delle forti correnti.
Al tempo, secondo Eugene N. Borza, i Frigi / Brigi sarebbero stati membri
della civiltà di Lusazia migrati una parte nei Balcani e un’altra in Anatolia:
«Ciò che può essere stabilito, nonostante una documentazione archeologica
estremamente inconsistente (specialmente lungo i pendii del monte Vermion), è
che due flussi di popoli della Lusazia mossero a sud nella tarda età del Bronzo, uno
per stabilirsi nella Frigia ellespontina, l’altro per occupare parte della Macedonia
occidentale e centrale (sarebbero partiti dall’area tra la Transilvania occidentale,
la Slovacchia orientale e l’Ungheria orientale a est del Danubio, N.d.A.)».
Anche i Dori, forse genti dei Campi d’urne del medio corso del Danubio,
penetrarono in Grecia da nord e contribuirono alla distruzione della civiltà
micenea espandendosi poi principalmente nel Peloponneso e a Creta.
Secondo Erodoto infatti, tribù della Macedonia settentrionale marciarono a
tappe forzate in direzione del Peloponneso, ove soggiogarono le popolazioni
locali e vi si stabilirono. La tradizione descrive come, una sessantina d’anni
dopo la guerra di Troia, ebbe luogo la migrazione dei nordici Dori che alla fine
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Peleset
portò alla nascita della Sparta classica e
alla rifondazione delle città achee. Gli
Spartani cercarono di mantenere vivo
il ricordo delle loro origini esaltando
il culto dei vari personaggi omerici:
all’interno della polis possiamo infatti
trovare un santuario di Elena e, in
Laconia, un tempio di Menelao e
due santuari di Achille. Il culto di
Orthía fu stabilito dagli invasori Dori
e non ha relazioni con precedenti
culti elladici perché gli altari furono
importati dai Dori nel Peloponneso
assieme all’usanza di offerte di carne
combusta agli dèi. In quanto dea della
barca solare e delle nascite, Orthía è
affine alla Reitia dei Veneti antichi e
ha una certa assonanza con Noreia, la La dea Ortia nel santuario di Sparta
dedicato ad Artemide (660 a.C.).
dea del Noricum (in palaico, Anatolia
settentrionale, tiyaz è il nome del sole). Nel santuario sono stati rinvenuti
una quarantina di oggetti votivi in osso e avorio che rappresentano uccelli
acquatici. Potnia theròn [Signora degli animali] è un termine usato per la
prima volta da Omero nell’Iliade come attributo di Artemide. Nell’isola sacra
di Delo (Ortigia) Apollo ereditò il simbolismo dei cigni dalla precedente dea
Potnia theròn, che nell’età del Bronzo presiedeva il lago dell’isola. Le genti
doriche sarebbero pertanto l’ultima ondata delle tribù che da nord e da est
invasero la penisola e le isole greche. Questa migrazione è rappresentata dalla
leggenda del ritorno degli Eraclidi. Il nucleo del racconto ebbe la sua prima
formazione ad Argo e infatti l’antico eroe argivo Temeno in origine non aveva
alcun rapporto con Eracle e solo in seguito entrò a far parte della leggenda degli
Eraclidi, quale segno di contatto fra i re di Argo e i discendenti dori di Eracle.
I Peleset infine, che la Bibbia cita come nemici degli
Ebrei, erano insediati nella Cananea meridionale e diedero nome alla Palestina (Philistia). I siti di Beth Shean
e Deir el-Balah in Palestina hanno restituito sarcofagi
antropoidi in argilla che sono tipici dei Peleset e che
potrebbero essere datati al XIII secolo a.C.. I Filistei furono una popolazione molto antica, geneticamente di origine indoeuropea, che si stanziò tra il
1200 e l’800 a.C. nella regione storica della Palestina; ricerche archeologiche
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indicherebbero che la loro popolazione nel secolo XII a.C. ammontò a venticinquemila persone. Archeologicamente i Filistei potrebbero essere identificati appunto con il popolo dei Peleset (i Pelasgi?) citato nelle iscrizioni egiziane di Medinet Habu tra i Popoli del mare che attaccarono l’Egitto durante
il regno del faraone Ramses III. Indizi dell’origine egea di questi sarebbe
l’elmo piumato e le armi di tipo acheo da loro indossate nelle raffigurazioni.
Sulla costa settentrionale della Palestina, a Dor, il Racconto di Wen-Amun
(1050 a.C.) segnala infine la presenza del Popolo del mare degli Zeker.
Il 1200 a.C. rappresenta dunque una delle date simboliche della civiltà umana.
Il suo particolare significato sta nell’associazione con un periodo di cambiamento epocale, di catastrofica distruzione e incertezza per la gente del tempo.
Studiando in Israele le “impronte digitali” delle piante, ovvero campioni di
polline prelevati da strati di sedimenti depositati sul fondo del lago di Tiberiade, gli scienziati hanno notato intorno al 1250 a.C. un netto calo della
presenza di querce, pini e carrubi – cioè la tradizionale flora del Mediterraneo
durante l’età del Bronzo – e un aumento delle piante che si trovano di solito
in regioni semiaride. Si presentava anche una grossa diminuzione degli ulivi,
segno di una crisi dell’agricoltura. Tutto insomma fa pensare che all’epoca la
regione fosse afflitta da siccità gravi e prolungate.
A fronte della siccità del Mediterraneo, viceversa il Nord Europa avrebbe
beneficiato di un clima mite che favoriva l’aumento di popolazione, la cui
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Sprockhoff IIa.
età media era all’epoca intorno
ai 30-35 anni. Gli autori antichi descrivono gli Iperborei
che, assai numerosi, vivevano
in una terra di pascoli dove il
clima era sempre primaverile.
Sicuramente la nuova micidiale spada fu la più grande
innovazione introdotta nell’Egeo dalla cultura dei Campi
di urne. Nel XIII secolo a.C. Spada e scudo presso i Popoli del mare nella bati suoi fabbri avevano perfezio- taglia navale del Delta del Nilo.
nato il mestiere creando una
spada letale da taglio e squarcio lunga in media sessanta centimetri, con
l’elsa “a coda di pesce” e la lama fuse insieme in un unico pezzo (la famosa
spada chiamata Sprockhoff IIa). La sua diffusione coprì un vasto corridoio che
scendeva dalla Danimarca e Germania nord-orientale fino in Cadore, Grecia,
Egitto e Cipro, dove sarebbe giunta in coincidenza con i catastrofici eventi
legati ai Popoli del mare. Nell’Egeo con l’XI secolo a.C. diventò quasi la sola
spada in uso e nei Balcani rimase di prima scelta fino al VII secolo a.C.. Anche
lo scudo rotondo da combattimento giunse con le genti della cultura dei Campi
di urne intorno al 1200 a.C., permettendo la mobilità e agilità necessarie per
maneggiare la spada a corto raggio (a differenza dei grandi scudi dei Micenei,
adatti alle lance e ai giavellotti). L’alto copricapo piumato dei Popoli del mare
– prototipo delle creste sugli elmi veneti e romani – è raffigurato non solo
nel bassorilievo di Medinet Habu della battaglia contro Ramses III ma anche
in altre sedi, come a Cipro e nella città cananea di Ascalona, presso i Filistei.
Originaria dei Balcani, la ceramica lucidata con brunitura indica l’invasione di un nuovo popolo e risulta presente sulla rotta che da Cefalonia
(Mar Ionio) prosegue verso Argo e la vicina Tirinto; in quest’ultima città
sono state trovate un’immagine della barca solare su frammento di cratere,
spade Sprockhoff IIa e ruote d’oro con perline d’ambra sui raggi. A Cipro,
base ideale per lanciarsi all’attacco della città di Ugarit (Siria), un vaso di
ceramica lucidata dei Balcani presenta sulla spalla la classica riga a “impronte
di dito”. La cultura continentale dei Campi di urne apparentemente non sarebbe stata in possesso di una tradizione navale (salvo le canoe scavate in un
tronco con cui in Europa centrale si navigavano i piccoli corsi d’acqua); non
bisogna però dimenticare le abilità e conoscenze dei protoveneti, popolo dei
grandi fiumi e delle paludi esperto delle vie fluviali a lunga distanza.
Kastanas, in greco moderno Toumba, è un sito dell’età del Bronzo e del Ferro
ubicato sulla riva sinistra del fiume Axios in Macedonia (Grecia settentrionale). La ceramica scanalata lavorata a mano, come compare a Kastanas e in
insediamenti simultanei in Macedonia, non è riconducibile a predecessori
locali, né ha analogie in regioni immediatamente adiacenti. Specialmente le
ceramiche lavorate rivelano chiare somiglianze con i vasi dei gruppi culturali
della tarda età del Bronzo della regione danubiano-carpatica. Gruppi locali
– il cui habitus ceramico rende probabile uno scambio culturale tra la regione
del Danubio e la regione dell’Egeo settentrionale – possono essere identificati nell’area di transito della valle del fiume Axios / Vardar e della lunga valle
della Grande Morava, che nasce dalla confluenza della Morava occidentale
e della Morava meridionale. Già negli anni Ottanta, Bernhard Hänsel e Jan
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Bouzek sottolineavano in particolare la generale ma ovvia corrispondenza
tipologica tra le ceramiche scanalate di Kastanas e le ceramiche lucidate di
nero delle genti dei Campi di urne, tra cui il gruppo Gáva [Gávavencsellő]
nel bacino orientale dei Carpazi (Ungheria a est del Danubio, Transilvania e
Slovacchia orientale) o il gruppo Beliš II nella regione del Medio Danubio.
Inoltre, sia Kastanas sia la maggior parte dei gruppi orientali dei Campi di
urne possedevano le cosiddette ciotole dall’orlo “a turbante” (vedi fig. a lato).
Kastanas mostra evidenze di un profondo sconvolgimento culturale per
quanto riguarda la struttura dell’insediamento, lo stile di vita, la produzione
tessile, l’artigianato e il lavoro domestico. Il ripopolamento del sito pertanto
può essere solo associato all’insediamento di un gruppo straniero. Nel 1928
V.G. Childe già ipotizzava che i portatori della cultura lusaziana avessero invaso l’Egeo. In accordo, W.A. Heurtley nel suo studio sulla Macedonia preistorica fa riferimento ai reperti ceramici e allo strato bruciato di Vardaroftsa
(Axiochorion) e postula un’invasione di popolazioni lusaziane dalla valle
dell’Axios alla Macedonia. Nel riprendere l’uso dell’espressione “invasione
lusaziana”, Bernhard Hänsel suggerisce un’intrusione di popolazioni nordiche nella Grecia settentrionale (Macedonia centrale), oltre che sulla base dei
cambiamenti nello stile ceramico, per l’architettura stessa dell’insediamento
di Kastanas. Gli studi recenti sui reperti di Kastanas hanno poi mostrato che
i movimenti di popolazione dal corso inferiore dell’Axios erano già iniziati
nel 1190-1050 a.C.. Sebbene Milojčić tenda a escludere un’immigrazione di
gruppi di popolazione da regioni così remote come dalla cultura di Lusazia,
egli considera comunque plausibile la tesi di un’immigrazione di genti dei
Campi di urne dalla regione danubiano-carpatica.
Gli effetti collaterali della crisi a più livelli del 1200 a.C. furono i conflitti
armati, il declino della civiltà minoica, il commercio a lunga distanza e le
migrazioni. A partire dagli anni Sessanta alcuni autori hanno privilegiato i
fattori climatici, in particolare la siccità, come fattore scatenante del declino
della società palaziale micenea. Secondo Frank Falkenstein, si possono identificare due diversi fenomeni climatici per la fine del XIII e inizio XII secolo
a.C.. Da un lato, si trattò di un graduale raffreddamento a lungo termine
dell’emisfero settentrionale dopo una fase climatica eccezionalmente calda
e dall’altro di un drastico evento climatico, il cui picco con datazione dendrocronologica sugli alberi risale agli anni 1159- 1141 a.C.. Il risultato fu il
collasso della coltivazione del grano e l’improvvisa decimazione della popolazione animale domestica, di conseguenza al culmine dell’anomalia climatica
si verificarono l’immigrazione e l’insediamento di un gruppo di popolazione
dalla regione del Danubio.
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I vasi “a costolature” comparvero in Friuli nella fase iniziale dei Campi d’urne. Poi, nel
1200 a.C., un nucleo di portatori della spada Naue II dall’angolo tra Austria, Ungheria e Slovacchia passò per il Friuli e la diffuse nella penisola e oltre, in Grecia, ad Argo.
I CAMPI DI URNE La cultura di Lusazia e la cultura dei Campi di urne
erano civiltà perfettamente confinanti e contigue, con uno sperone della
prima che penetrava nella seconda tramite la Slovacchia. Generalmente per
l’inizio di entrambe viene posto il 1350-1300 a.C., ma la cultura di Lusazia
acquista maggiore profondità e antichità se si considerano i tratti prelusaziani della cultura di Trzciniec (1700-1300 a.C.), che copriva la metà orientale
della Polonia fino alla foce della Vistola e a est raggiungeva l’Ucraina occidentale. Il centro geografico dell’Europa cade in Polonia ed esattamente
nella città di Suchowola, non lontano dalla foresta primordiale di Białowieża
– il cuore verde dell’Europa. Nella contestualizzazione dei Campi di urne
comunque si intende per Centro Europa l’area medio-danubiana, poiché
da lì si diramò il movimento centrifugo: una prima espansione raggiunse da
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oriente il Friuli dall’area della Croazia (Virovitica), in seguito da nord una
migrazione si propagò in Italia e nei Balcani fino in Grecia, con una veloce
reazione a catena in cui una tribù spostava l’altra. All’epoca le comunità
dell’area danubiana erano piccole e ospitavano non più di cento individui;
più a nord la battaglia di Tollense indica invece lo spostamento di grandi
masse di individui. Effettivamente è ben documentato che il tipo di spada
Naue II presentò nell’area di Tollense gli esemplari più antichi, mentre nel
1200 a.C. un gruppo medio-danubiano (Baierdorf-Velatice) – nell’angolo tra
Moravia, Slovacchia, Ungheria e Austria – deviò in Friuli aprendo la strada
alla diffusione della spada Naue II in tutta la penisola e oltre il mare in Grecia, ad Argo, nelle tombe achee. Ecco che una semplice spada potrebbe spiegare la complessa cronologia dell’espansione dei Campi di urne nella penisola e la comparsa dal 1175 a.C. della cultura Protovillanoviana in tutta Italia,
a cominciare dal Nord-Est. Infatti, l’ampia presenza di elementi stilistici
propri della fase antica dei Campi d’urne medio-danubiani spesso si associa
in Friuli, come per esempio a Codroipo, a materiali stilisticamente caratteristici delle ultime fasi del Bronzo recente del Veneto. Nel pedemonte veneto,
come a San Giorgio di Angarano (Bassano del Grappa), pure si configura un
aspetto socio-rituale vicino ai Campi di urne dell’Europa centro-orientale.
La caratteristica principale della cultura dei Campi di urne consiste nell’introduzione del rito funerario della cremazione e della sepoltura in urne dei
resti cremati. Nell’età del Bronzo recente “non avanzato” (1300-1250 a.C.)
in Friuli comparve l’influsso dell’aspetto ceramico tipico della fase iniziale
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Urna,Vitovitica.
dei Campi di urne dell’area medio-danubiana riferibile al gruppo di Virovitica (città croata al confine con l’Ungheria, indicante la facies estesa nella pianura tra i fiumi Sava e Drava, a settentrione in Pannonia fino al lago Balaton,
a ovest nella Slovenia centro-orientale e nelle Alpi sud-orientali). Pertanto gli
sporadici esempi di decorazione “a costolature oblique” – come il vaso di Sequals Colliselli nel Pordenonese (vedi p. 26) – divennero sempre più comuni
sulla spalla di tazze e di scodelle procedendo verso la fase avanzata del Bronzo
recente (1250-1200 a.C.). Nel Friuli occidentale nell’arco del Bronzo recente
risultano decisamente più numerose rispetto a prima le tracce degli abitati
pedemontani, mentre venne a poco a poco abbandonata l’alta pianura arida.
In quest’epoca nella pianura pordenonese comparve a Montereale Valcellina
il culto delle acque, testimoniato dai bronzi rinvenuti nell’alveo ghiaioso del
Cellina. Le armi più antiche delle offerte votive ritrovate sono una spada a
codolo, tipo Arco, e una spada a lingua da presa tipo Allerona (variante C
della Naue II), entrambe del XIII secolo a.C.. L’uso di offrire le spade a fiumi
o laghi è attestato in Europa almeno dal XVII secolo a.C. e fino al Medioevo
(si ricordi a proposito il mito della spada Excalibur ove Malory scrive che re
Artù, dopo la rottura della sua, ricevette una spada invincibile dalla Dama
del Lago). Nel caso del Cellina l’offerta presso entrambe le sponde di asce e
punte di lancia, oltre alle spade, è da porre in relazione al controllo dei guadi,
essenziali per le comunicazioni e per la difesa del territorio.
Anche il Friuli orientale mostra di appartenere all’ultimo distretto occidentale della vasta area di circolazione di culti, modelli e tradizioni artigianali
della fase più antica dei Campi di urne, che attingeva elementi da un patrimonio comune collegato all’area medio-danubiana del gruppo di Virovitica.
Lo stesso concetto vale per la pianura costiera veneto-friulana, compresa l’area
Canale Anfora / Ca’ Baredi presso Aquileia, e vale infine per il Friuli centrale
con l’abitato arginato presso Rividischia (località Cjamps dai Cjastilirs, posta
a sud di Codroipo e al margine della fascia a praterie umide delle risorgive),
ove pure compaiono gli elementi condivisi con l’area medio-danubiana durante la prima fase del gruppo di Virovitica. Da segnalare la presenza di elementi
tipologici connessi con la seconda fase del gruppo di Virovitica, la cui diffusione nella regione caratterizzò il periodo più avanzato del Bronzo recente.
Infatti, al passaggio tra fase iniziale e fase
intermedia dei Campi d’urne, tra XIII
e XII secolo a.C., si affacciò in Friuli
il rinnovamento stilistico e decorativo
della seconda fase di Virovitica.
28
Dopo la colossale battaglia della valle di Tollense – fondamentale per
la comprensione della transizione dalla cultura di Lusazia all’espansione dei Campi di urne dall’Europa centrale – l’ultima fase dell’età del
Bronzo conobbe anche in Friuli gli sconvolgimenti epocali degli insediamenti. Infatti, poco prima della fine del Bronzo recente, si assisté al
collasso di gran parte degli insediamenti della bassa pianura friulana.
Invece nella fascia delle risorgive (i pozzi artesiani tra Codroipo e Palmanova), nella pedemontana occidentale e nell’area perilagunare di
Caorle si assistette intorno al 1200 a.C. a una fase di fioritura degli
insediamenti, laddove i dati più recenti mostrano un ingresso massiccio di elementi medio-danubiani del gruppo Baierdorf-Velatice, che
– insieme alla seconda fase di Virovitica – interessarono Montereale
Valcellina, Castions di Strada e il castelliere di Gradiscje di Codroipo.
Agli inizi del Bronzo finale (1200 a.C.), epoca dell’arrivo dei protoveneti, risale una capanna di Montereale Valcellina realizzata con pareti di legno
poggianti su muretti di pietra a secco e all’interno divisa in più vani da graticci
intonacati con limo. Nella stessa epoca Castions di Strada, in località Cjastelir,
assunse importanza sia perché rappresentò la tangibile manifestazione in
Friuli di alcune sepolture a cremazione (riferibili appunto agli apporti della cultura centroeuropea dei Campi d’urne), sia perché una delle sepolture
conteneva oggetti nello stile del Delta del Po – cioè due fibule ad arco di
violino asimmetrico e un pettine in osso tipo Frattesina – che, se pur reperti
isolati, indicano anche in Friuli contatti con la facies di tipo protovenetico.
Si tratta però di un esempio unico di incinerazione in Friuli poiché altri siti
con cimiteri a cremazione non sono stati trovati in regione. Dopo il periodo
di regresso e di stagnazione della fine del Bronzo recente, nel Nord-Est ebbe
dunque inizio un nuovo ciclo di sviluppo che portò, nel corso del Bronzo finale (1200-1000 a.C.), allo sconvolgimento dei precedenti equilibri e
a una radicale mutazione della facies. In Friuli un repertorio ceramico del
tutto rinnovato testimonia la profonda trasformazione della cultura materiale (cioè di tutti gli aspetti visibili di una popolazione) e coincide con il
nuovo assetto territoriale di questa ondata migratoria da nord. A fronte della
scomparsa degli insediamenti nella pianura della Bassa friulana, comparvero
nuovi abitati a oriente dell’Aussa Corno. Il circondario della futura colonia
romana di Aquileia divenne zona cruciale per i commerci con l’alta pianura
udinese, nella quale si registrò un recupero delle costruzioni e l’ampliamento
degli abitati. Interessò massicciamente il Nord-Est, dal Veneto all’Istria, una
fase protoveneta caratterizzata da una straordinaria mobilità e da un’intensa
circolazione di genti, di merci e di idee.
29
Nella precedente cultura delle Terramare le case erano costruite su piattaforme rialzate sostenute da palificazioni piantate sul terreno e i villaggi erano
delimitati da un fossato in cui scorreva l’acqua derivata da un vicino fiume o
canale. Complice l’abnorme siccità, il quadro della scomparsa delle Terramare
portò a uno spostamento dell’asse economico dall’Emilia all’area veneta del
Delta del Po, con l’emergere di Frattesina di Fratta Polesine – che fu importante tramite tra Europa centrale e Mediterraneo orientale.
Il periodo seguente, cioè l’XI secolo avanzato, pare caratterizzato da nuove modifiche nell’insediamento e nella cultura materiale: siti precedentemente prosperi vennero abbandonati e dove c’era continuità i siti subirono
radicali cambiamenti o dislocazioni. Sopravvissero invece i siti delle risorgive
e dell’area pedemontana e rimase attivo il sito di Montereale Valcellina. Da
sottolineare a Montereale, nei grossi vasi, il lungo perpetrarsi delle tipiche decorazioni con impronte di dito (in stile lusaziano) su cordoni che si ripetono
a collana su tutto il vaso, forse stilizzazione di collane d’ambra se si considera il ritrovamento di vaghi d’ambra anche a Montereale. In questo periodo
acquisirono importanza itinerari come quello che univa lungo le risorgive
Santa Ruffina di Palse, San Giovanni di Casarsa e Colle Castelir; mentre il
santuario di Sevegliano, a nord di Aquileia, indicava il passaggio di un’antica
via sulla traccia preromana della Postumia.
Una migrazione in Istria dal territorio della Croazia nord-occidentale avvenne tra il XII e l’XI secolo a.C. da parte di popolazioni provenienti dalla
valle del Basso Danubio alle quali si erano uniti gruppi discesi dalle Alpi
sud-orientali e dalla fascia settentrionale dei Balcani: agli Istri si deve l’estinzione di molte tipiche alture fortificate dell’età del Bronzo (castellieri) e l’introduzione della pratica dell’incinerazione,
il che permette di ricondurre questo popolo – o più correttamente mescolanza di popoli – alla cultura dei Campi di urne, le cui
pratiche funerarie restarono poi immutate
in Istria per tutto il millennio successivo.
Una fase di grande prosperità in Istria, ma
anche nell’area tra Sile e Tagliamento, si affacciò a partire dal X secolo, innescata dai
traffici commerciali di Frattesina di Fratta.
Con la prima età del Ferro, nel IX secolo, Oderzo assunse un ruolo di primo piano
Esempio di ceramica di Este simile quale centro di scambio tra costa e interno.
Infine, a Este la fase più antica della città
alle urne della civiltà di Lusazia.
30
è testimoniata nello stesso secolo da un paio di tombe che consentono di
stabilire una corrispondenza con la tarda età dei Campi di urne in Slovenia.
Tipica a Este la fibula ad arco spesso, mentre l’arco sottile a tutto sesto fu
comune anche a Bologna e San Canziano (Slovenia). Da sottolineare le profonde radici della cultura atestina in quella dei Campi di urne, della quale
fu a tutti gli effetti una continuazione, in cui il rituale funerario sopravvisse
identico. È artificioso usare il IX secolo come discriminante tra Campi di
urne prima e Veneti antichi poi, in quanto siamo di fronte alla continuità
e allo sviluppo di una stessa tradizione, quella dei “Lusaziani per sempre”.
Fibula,
Alle soglie della svolta protourbana l’area della cultura dei Campi di urne
Slovenia.
era oramai alquanto vasta: a sud arrivava a Bologna, mentre a est interessava
in Slovenia Lubiana, Križna Gora (Postumia) e, sul Timavo, San Canziano.
Queste necropoli slovene sono il naturale punto d’incontro tra i sepolcreti
del Nord-Est e quelli a nord delle Alpi: il gruppo medio-danubiano di Ruše,
insediato lungo la Drava e le colline del Kozjak (Maribor), è infatti frutto della
discesa a sud del gruppo di Baierdorf-Velatice. A Lubiana gli oggetti metallici usciti indenni dal rogo venivano spezzati ritualmente e i vasi, contenenti
cibi e bevande, venivano forati nel desiderio di renderli non più utilizzabili.
Generalmente queste necropoli slovene erano tutte a incinerazione, come per
esempio presso San Canziano quella di Brežec, ove la deposizione dei resti
cremati avveniva direttamente nella terra, senza ossuario.
Dunque a sud e a nord delle Alpi nella tarda età dei Campi di urne c’era l’assoluta predominanza della pratica incineratoria, mentre l’inumazione veniva
ignorata. Si presumono delle credenze religiose connesse alla sfera celeste, data
l’associazione con numerosi reperti ornitomorfi – tipo alari fittili, bicchieri,
coperchi e carri con uccello. Il rituale dello spargimento delle ceneri si rinviene a nord delle Alpi nelle necropoli bavaresi e austriache. L’uso di aspergere le
ceneri dopo la cremazione è un costume attestato anche nel mondo omerico
e peraltro la consuetudine dei Campi d’urne di deporre il defunto sulla pira,
abbigliato secondo il ruolo esercitato in vita, ricorda l’episodio di Eracle che
sale armato sulla pira per rinascere immortale in un’eterna giovinezza.
Gli abitati austriaci, per esempio Hadersdorf o Sankt Andrä (Tulln), in
quanto tramite con i Campi di urne del Nord Europa erano di grande importanza per le relazioni con il Veneto e con il Friuli. Il territorio austriaco
era, tra quelli della regione circumalpina orientale, uno dei più ricchi relativamente alla tarda età dei Campi di urne. Si distinguono ben cinque gruppi
austriaci, cioè il gruppo Linz-St. Peter nel Salisburghese, lo Stillfried in Bassa
Austria e in Burgenland, il gruppo del Tirolo settentrionale, quello del Voralber e infine quello della Stiria e Carinzia, legato al gruppo sloveno di Ruše.
31
Distribuzione dei castellieri.
I CASTELLIERI
Un castelliere (disegno di Alessandro Varini).
L’origine degli abitati stabili del Caput Adriae, cioè del comprensorio dell’Alto
Adriatico che va della pianura veneta orientale all’Istria, è ricondotta ai
castellieri. La nascita di questo fenomeno – con gli esempi di Sedegliano in
Friuli, Castellazzo di Doberdò nell’Isontino, Slivia e Rupinpiccolo sul Carso,
Moncodogno ed Elleri in Istria – è datata tra la fine del Bronzo antico e gli
inizi della media età del Bronzo, ossia tra circa il 1800 a.C. e il 1600 a.C., per
concludersi poi nel III-II secolo a.C.. Numerosissimi in Istria e nel Carso,
i villaggi di capanne rotonde in pietra dei castellieri erano edificati sulle alture
e cintati con mura a secco, larghe fino a cinque metri e alte anche sette.
In Friuli in modo sempre più marcato si affiancarono ai cjastelîr (gradiscje
in slavo) gli aspetti iniziali della cultura dei Campi d’urne centroeuropei.
Dopo l’abbandono della bassa pianura (vedi abitati non arginati, in giallo,
a p. 33), comparvero infatti in diversi siti a metà Friuli, a partire dalla fascia
delle risorgive, elementi formali e stilistici dei Campi di urne centroeuropei
mutuati prima da oriente dall’espansione della cultura di Virovitica, con la
tipica decorazione a costolature oblique “a onde” sulla spalla di scodelle a
orlo rientrante o di tazze lenticolari a collo distinto, e successivamente da
nord dalla migrazione del gruppo Baierdorf-Velatice, associata con la ceramica che presenta gli aspetti lusaziani delle punte sporgenti sul profilo tra corpo
e collo. La tipologia centroeuropea si diffuse anche nel Friuli occidentale fino
a Montereale Valcellina, insieme alle tazze con spalla decorata “a turbante”,
che rappresentano modelli comuni con i reperti della Pannonia (Ungheria).
32
Il Friuli meridionale e occidentale durante l’età del Bronzo recente (1340-1200 a.C.).
Gli abitati non arginati della Bassa Friulana intorno alla Laguna di Marano e nel
Pordenonese, mentre nella fascia appena più a nord nella pianura si notano i castellieri.
Cosa accadde ai castellieri istriani quando parte dell’Europa nel 1200 a.C.
fu in preda a sconvolgimenti epocali? Ricordiamo dall’odierna Croazia la
migrazione degli Istri, popolazione originaria della valle del Basso Danubio
e portatrice della cultura dei Campi d’urne, che “si sovrappose” proprio tra il
XII e l’XI secolo a.C.: ciò comportò l’estinzione di molti castellieri e l’introduzione dell’incinerazione, per cui le necropoli dell’età del Ferro furono poi
tutte a cremazione; i resti dei cremati venivano deposti entro buche scavate
nel terreno e più spesso entro urne di terracotta. Le genti che avevano sede
nei castellieri preistorici (castricoli) subirono assai poco l’influenza celtica,
specie in Istria; molto più frequenti appaiono invece gli indizi dei rapporti
avuti dai castricoli con i Veneti di Este. Nei materiali ceramici dell’area di
Trieste (Cattinara) si può percepire, dalla metà dell’VIII secolo a.C., l’influsso culturale veneto, particolarmente evidente in gran parte del territorio
triestino tra VI-V secolo e la metà del IV – epoca a cui risalirebbe la fine di
molti castellieri, tranne quelli di Duino e Cattinara.
33
«Superiormente ai Veneti stavano i Carni», scrive Strabone nella sua Geografia.
In Friuli, il castelliere di Sedegliano fu considerato dai primi studiosi un
villaggio fortificato abitato dai Veneti del IV secolo a.C. a difesa dai celti Carni
appena insediati poco più a nord. In realtà recenti indagini archeologiche
hanno fissato il primo impianto del villaggio fortificato al XIX secolo a.C.,
quando fu innalzata una struttura difensiva di limo argilloso larga sei metri e
alta uno, munita di un fossato interno e di uno esterno. L’abitato protostorico
di Sedegliano rappresenta uno degli esempi di villaggio fortificato friulano
il cui terrapieno ha meglio conservato la sua struttura perimetrale difensiva.
L’argine rettangolare, alto circa quattro metri con angoli smussati disposti
in direzione dei punti cardinali, circonda quasi interamente una superficie
di due ettari. Circa sette chilometri a sud sorgeva il castelliere di Gradiscje
di Codroipo, modesto rilievo di forma quadrangolare con lati di circa cento
metri, in posizione chiave al centro della pianura friulana presso l’attuale
Parco delle Risorgive. Fu popolato dal XIV fino al X secolo a.C. e gli scavi
hanno dimostrato nella frequentazione risalente all’età del Bronzo il passaggio
dal rito dell’inumazione all’incinerazione. La documentazione di Gradiscje
di Codroipo – frammenti ceramici cronologicamente significativi posti in
relazione stratigrafica – ha evidenziato interessanti correlazioni tra indicatori
ceramici veneti, tipo Peschiera, ed elementi del repertorio dei Campi d’urne
medio-danubiani (seconda fase di Virovitica e gruppo Baierdorf-Velatice).
34
Tra gli abitati più antichi del Friuli
risale al 1700 a.C. il castelliere di
Udine, che era tre volte più grande
rispetto alla media dei castellieri.
Fu rinvenuto grazie agli scavi sotto
palazzo Mantica (sede della Società
Filologica Friulana) e oggi i giardini
Ricasoli della piazza Patriarcato ne
tradiscono i resti del terrapieno che
proteggeva l’abitato a quel tempo.
Il castelliere udinese chiudeva il suo
perimetro proprio all’altezza dell’atIl castelliere di Udine (1700 a.C.), disegno
tuale entrata della galleria Bardelli
di Serena Vitri.
– inglobando via Piave, via Gorghi,
via Crispi, piazza Garibaldi e via del Gelso. Via Rialto coincide con il vallo
ai piedi della salita del castello di Udine e già all’epoca il colle svolgeva la sua
naturale funzione difensiva. I due laghetti piovani situati nelle odierne piazza
Primo Maggio e piazza Garibaldi garantivano l’approvvigionamento per lo
spegnimento degli incendi e fornivano l’acqua per il vallo difensivo che correva lungo il perimetro del castelliere. Il sistema insediativo udinese, oltre a
esercitare il controllo sul territorio e sulle sue risorse, poteva rappresentare uno
snodo per quella via di percorrenza dell’alta pianura friulana già ipotizzata
anche per le fasi della media età del Bronzo in base all’analisi della distribuzione dei cosiddetti tumuli (monticelli di terra su sepoltura per inumazione
del corpo dei defunti). Nell’età del Bronzo recente il castelliere di Udine, con
i suoi venticinque ettari di ampiezza, sembra essere stato il centro principale
dell’alta pianura udinese; attorno al grande abitato si organizzarono su rilievi
naturali sia castellieri sia siti non fortificati di dimensioni minori. La popolazione locale aveva compreso l’importanza strategica del colle di Udine rispetto l’antica arteria commerciale dell’ambra, che costeggiava il fiume Torre
e giungeva fino al Delta del Po. Udine si può quindi annoverare tra gli abitati
di lunga durata del Friuli protostorico analogamente a Pozzuolo, Palse di Porcia, Montereale Valcellina, Redipuglia, San Polo-Gradiscata. Con la matura
età del Ferro anche Udine, come altri abitati fortificati del Friuli centrale,
sembra aver attraversato una profonda crisi, con la quasi completa assenza di
testimonianze archeologiche fino all’età romana tardo-repubblicana.
Un autentico castelliere sorgeva nell’Altopiano di Asiago presso il Monte Corgnon, come pure in Lessinia a Purga di Velo e nel promontorio alle
pendici del massiccio del Cansiglio, ove pare fosse dedicato alla dea Vetusa.
35
I VENETI ANTICHI
Nell’età del Bronzo finale a Frattesina di Fratta Polesine si manifestò un radicale cambiamento nel rapporto tra abitati e fiumi. Se prima i grandi insediamenti erano sorti in aree palustri e vicino corsi d’acqua minori, a partire
dal 1200 a.C. vennero privilegiate le grandi arterie fluviali – come appunto
il Po di Adria, ramo dell’antico delta. Frattesina è uno degli insediamenti più
precoci degli antichi Veneti, caratterizzato dalla presenza di ingenti quantità
di ambra baltica (che veniva qui lavorata) e dal rito dell’incinerazione presso
le quasi novecento tombe della necropoli che il fiume divideva dal villaggio.
Barca solare a Frattesina.
Oggetto del culto solare
trovato a Frattesina.
Simbolo solare presso la
cultura di Przeworsk, in
Polonia. Viene riferito al
dio celeste Svarog.
Sorprende la constatazione che tra le urne di Frattesina e quelle della civiltà
di Lusazia non vi sia solo un isolato elemento comune (che potrebbe anche
essere casuale) ma più elementi presenti in entrambe le culture. Per esempio
nell’urna a sinistra, che proviene dagli scavi della necropoli di Narde (XII-IX
secolo a.C.), notiamo sia al collo le impronte di dito lusaziane sia le gobbe
visibili anche nel profilo dell’urna lusaziana di destra (XII-XI secolo a.C.).
36
Urne lusaziane.
Le punte che emergono tra corpo e collo dell’urna, circondate da onde
concentriche, sono decorazioni tipicamente lusaziane (documentate anche nella cultura prelusaziana orientale di Trzciniec) e ricordano la punta
di prua e di poppa di un’imbarcazione che traccia le onde sull’acqua; nel
contempo la forma allargata a losanga del corpo sembra la carena di una
Trzciniec.
nave, quasi l’urna dovesse galleggiare. È ipotizzabile un simbolismo legato
a credenze di una “navigazione” dell’urna nel mare o nel fiume dell’aldilà.
Un mito citato da Platone narra di Er, guerriero della Panfilia (Anatolia):
«Quando il suo corpo stava per essere arso sul rogo secondo l’usanza, Er si ridestò
dal sonno mortale e raccontò ciò che aveva visto nell’aldilà. Le anime dei morti
s’incamminavano lungo la pianura deserta e, fermatesi per riposare sulle sponde
del fiume Lete, tutte tranne Er furono obbligate a bere l’acqua che dà l’oblio».
L’attraversamento delle acque da parte dei morti è una credenza molto antica
che compare nell’Iliade: «Venne a lui l’anima del misero Patroclo, / gli somigliava in
tutto, grandezza, occhi belli, / voce, e vesti uguali vestiva sul corpo; / gli stette sopra
la testa e gli disse: / “Tu dormi, Achille, e ti scordi di me: / mai vivo mi trascuravi,
ma mi trascuri morto. / Dammi in fretta sepoltura, e io passerò le porte dell’Ade.
/ Lontano mi tengono le anime, fantasmi dei morti, / non vogliono che tra loro mi
mescoli al di là del fiume, / e dammi la mano, te ne scongiuro piangendo; mai più
/ io verrò fuori dall’Ade, quando del fuoco mi avrete fatto partecipe”».
L’Isola Bianca sulla foce del Danubio ricevette le ceneri di Achille e si narra
che là l’eroe continuasse a vivere in forma misteriosa – insieme con Patroclo,
Antiloco e la sposa Ifigenia. Nell’isola del bianco splendore approdò anche
Elena, colei che nel biancore ebbe origine allorché la schiuma marina da
cui nasceva Afrodite si rapprese nel candido guscio d’un uovo di cigno. Nel
Mahâbhârata della tradizione induista l’isola di Çvetadvîpa è l’Isola Bianca,
da taluni equiparata alla settentrionale terra iperborea. In essa uomini bianchi adoravano Nārāyaṇa (Viṣṇu), il cui nome deriva da nārā [le acque].
La citazione dei Veneti in rapporto all’ambra appare con Plinio: «Veneti
quos Enetos Graeci vocavere» (Plinio tradusse il termine “Enetoi” dalla fonte
greca a cui aveva attinto). Nel Bronzo finale il valico delle Alpi Carniche divenne il percorso principale della via dell’ambra che arrivava a Frattesina. La
città ebbe un ruolo di primo piano nei traffici dal Baltico fino a Cipro non soltanto come “interporto” dell’ambra tra l’Europa e il mondo mediterraneo ma
anche principalmente come centro manifatturiero di metalli, ceramica, osso
e corna per prodotti da destinare all’esportazione; vi si trasformava il vetro in
prestigiose collane e lungo le vie aperte dai Popoli del mare si importavano da
sud-est materie prime di lusso, quali l’avorio di elefante o l’uovo di struzzo.
37
Il più antico nome etnico di cui le fonti
sull’Italia nord-orientale ci abbiano conservato il ricordo è quello degli Euganei.
Se i Veneti per occupare la loro sede definitiva dovettero scacciare gli Euganei «qui
inter mare Alpesque incolebant» (Tito Livio,
I secolo a.C.), significa dunque che i Veneti non erano autoctoni ma giunti dall’esterno. Almeno dal IV secolo a.C. si era
diffusa l’opinione degli autori classici che
Troia, urna in stile lusaziano.
i Veneti fossero giunti nell’Alto Adriatico
partendo, all’epoca della guerra di Troia, dalla sede in Paflagonia (Anatolia
settentrionale). La città di Enete fu nominata quale città della Paflagonia dal
primo storico greco, Ecateo di Mileto, ben nel VI sec. a.C. e, se diamo credito alle memorie mitologiche, è più antica della guerra di Troia perché era
la reggia di Pelope, il nonno di Agamennone. Il troiano Antenore avrebbe
guidato i Veneti fino alla fondazione di Padova e in età imperiale gli Antenoridi erano venerati ad Aquileia (Pindaro li presenta come eroi cavalieri). Pur
con tutte le riserve circa la realtà o meno della leggenda di Antenore, l’epoca
di Troia coincise di fatto con un aumento di popolazione nel Veneto. Infatti,
l’istogramma del popolamento nel Veneto occidentale rapidamente si
quadruplica in corrispondenza del Bronzo recente (circa metà XIIImetà XII secolo a.C. circa) rispetto all’epoca precedente. Pare che gli
Euganei si estendessero originariamente dalle coste adriatiche fino
alla Val Camonica e che fossero sopravvissuti solo in quest’ultima,
angolo più remoto e più riparato del loro antico dominio. Infatti la
cultura Camuna mostra continuità dal tardo Neolitico (inizio del II
millennio) fino all’età romana. Nel commento di Servio all’Eneide
compare il nome Velesus per l’ultimo re degli Euganei prima dell’invasione veneta; tale nome pare appartenere
a substrato italico, essendo comune a
Sabini e Volsci.
In concomitanza con il declino finale
di Frattesina (metà del IX secolo a.C.),
si spostò verso la zona dei Colli Euganei il centro gravitazionale dei Veneti
e l’area padano-veneta andò incontro a
un radicale riassetto del suo territorio. Urna, Borgo Canevedo, XI secolo a.C..
38
Este raccolse l’ampia eredità culturale di Frattesina e di Montagnana sulla via del fiume che sostituì il Po come nuovo asse
portante, e cioè l’Adige. Già nel Bronzo finale (1200-1000 a.C.)
e nella primissima età del Ferro (1000 a.C.) esisteva presso l’area Canevedo di Este un primo insediamento di notevole importanza riferibile a protoveneti dediti alla lavorazione in loco
dell’ambra. L’abitato di Canevedo occupò un’ampia terrazza
posta all’interno della valle fluviale dell’Adige e delimitata dalle
scarpate. Tra i reperti, un’urna biconcava con gobbe lusaziane a
punta di nave e la spada con elsa “a coda di pesce” Naue II tipo C,
molto comune in Italia (dove viene chiamata Allerona) e presente
con borchie d’oro nel corredo funebre della mobile élite di Frattesina. L’abbandono graduale della località di Canevedo e lo spostamento in un areale più elevato, all’inizio dell’VIII secolo a.C.,
fu forse causato da fattori ambientali relativi al mutato regime
idrico del fiume. Nel contempo si assisté al concludersi della facies
archeologica dei protoveneti e all’inizio di quella propriamente
veneta, durante la quale il centro di Este dominò il territorio della
Bassa Padovana per la prima parte dell’età del Ferro (classicamente la civiltà atestina o paleoveneta coprì l’arco tra 900 e 182 a.C.).
A Frattesina le sepolture dei capi del lignaggio erano arricchite dalla presenza della spada e lo stesso rituale comparve a
Este per i capi dei diversi gruppi gentilizi dell’VIII secolo a.C..
Este viene citata per prima nell’elenco delle città venete redatto
da Plinio; il suo nome Ateste deriva dal fiume Adige, che all’epoca riceveva un ramo settentrionale del Po prima di andare a
confondersi nell’Adriatico. Lo sbocco della comune foce rappresentava il principale punto di attrazione per coloro che giungevano in Adriatico alla ricerca dell’ambra. L’influenza di Este
si estendeva fino ad Adria e alle sponde settentrionali del Po –
confine con gli Etruschi di Felsina (Bologna) – e verso occidente
la città controllava Saletto di Montagnana, Baldaria di Cologna
Veneta, Lovaria di Villa Bartolomea, Gazzo e Oppeano. Nel V
secolo a.C. i celti Cenomani si sostituirono ai Veneti a Verona
provocando la crisi di Este e il sorgere dell’egemonia di Padova,
come formidabile baluardo armato contro il pericolo celtico e
poi contro gli Spartani di Cleonimo. Este, con i suoi quattro
santuari e quale maggior fonte di iscrizioni venetiche, mantenne Naue II
comunque il suo primato di capitale religiosa del popolo veneto. di tipo C.
39
IL PRIMO POPOLO DEL FRIULI A partire dall’VIII secolo a.C., epoca
dell’introduzione della metallurgia del ferro, è possibile delimitare una vasta
area in cui i motivi decorativi ceramici “a cordicella” erano uniformemente
distribuiti dal Veneto orientale alla fascia tra Livenza e Tagliamento, con
influenze che raggiungevano i principali siti della pianura udinese (Pozzuolo,
Castions di Strada) e in un momento più avanzato finirono per coprire
un’area ancora più vasta estesa da Este ad Aquileia. I vasi ossuari tipicamente
atestini della necropoli di San Vito al Tagliamento sono indicatori della
effettiva presenza dei Veneti nella Destra Tagliamento, come pure gli spilloni
bronzei con testa a globetti multipli o le tazze con decorazioni “a borchiette”.
Le evidenti somiglianze tra le facies ceramiche dei diversi insediamenti
distribuiti tra Sile e Tagliamento non si limitano a indicare l’influenza veneta
in quelle aree: denotano anche un importante ruolo di mediazione con i siti
del Friuli centrale e tra questi Pozzuolo, che pare ricoprire un ruolo di primo piano. Circa dieci chilometri a sud di Udine, uno dei due castellieri di
Pozzuolo era la sede del villaggio antico: una modesta altura sopraelevata di Ascia,
una decina di metri rispetto alla pianura e denominata in friulano i Cjastiei S.Vito.
(i Castelli). Nel periodo in cui la regione fu coinvolta in una rete di commerci a lunga distanza, tra l’ultimo Bronzo finale e l’inizio dell’età del Ferro,
il ripiano venne munito di una cinta continua con poderose fortificazioni a
terrapieno (ancora oggi visibili) – mentre da un lato era difeso dalle sponde
del torrente Cormor. In una seconda fase, oltre alle attività di filatura e tessitura, si svilupparono gli impianti produttivi artigianali rilevati dal ritrova40
A sinistra: decorazioni “a cordicella” tra Veneto orientale e Tagliamento. A destra: tazza di Pozzuolo decorata
“a cordicella”, simile a tazza di Este dell’VIII sec. a.C..
mento di una considerevole quantità di piccoli attrezzi e di materiale grezzo
riferibile all’attività di bronzisti e intagliatori di oggetti in corno. Seguì un
incendio con lo smantellamento delle officine e botteghe e con la ricostruzione della struttura terrazzata. Nel corso di una serie di scavi sono state
riconosciute quattro necropoli a incinerazione ai piedi dei Cjastiei (località
Braida Roggia, Selve, Fontane, Braida dell’Istituto) e sono state portate alla
luce oltre centottanta tombe databili tra l’VIII e il V secolo a.C.. La ceramica trova maggiori analogie con i reperti di Montagnana (Padova) dell’VIII
secolo a.C., mentre talvolta si denota una tendenza a reinterpretare in loco
decorazioni di tipo veneto di forma alpina orientale. A differenza di molti altri castellieri, Pozzuolo non fu coinvolto nella crisi che investì il Friuli alla fine
dell’VIII secolo a.C. e, anzi, nell’evoluta età del Ferro (V-IV sec. a.C.) si ebbe
la quarta e ultima ristrutturazione del villaggio e la sua massima espansione.
Secondo Giovanni Candido (1450-1528) il nome Udine deriva da Atina
o Utina (da cui l’aggettivo Utinense), città dei Veneti antichi citata da Plinio
il Vecchio nella Naturalis Historia: «ex Venetis Atina et Caelina» [dai Veneti
Udine e Cellina]. Nel 1776 il dotto Jacopo Filiasi, frequentatore del salotto
di Giustina Renier, riprese questa etimologia di Udine e identificò Caelina
nel torrente Cellina. La prima attestazione scritta della città risale al 983
con il diploma di Ottone II di Sassonia che assegna il castello di Udine al
patriarca Rodoaldo: presenta la grafia «Udene», che durò almeno fino al Rinascimento. Non è infrequente la trasposizione delle consonanti nei nomi
antichi, per cui Udene potrebbe in teoria anche avere una forma più antica:
U(e)nede, cioè V(e)nede. Il suggerimento di questa etimologia troverebbe una
qualche assonanza nel nome tedesco antico di Udine, cioé Weiden.
Riguardo a Trieste, è probabile che prima della fondazione della colonia
romana di Tergeste (in età cesariana e poco prima dell’incursione giapidica
del 52 a.C.) vi fosse già un nucleo abitato con funzione emporiale. Il nome
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della città deriva infatti da
terg [mercato] e oggidì sia
Tergeste sia Aquileia sono
riconosciuti come nomi
venetici di antichi empori preromani, sviluppatisi
all’intersezione delle rotte
costiere della Venetia orientale con gli sbocchi al mare
degli antichi percorsi transalpini della via dell’ambra.
I due porti raccolsero l’eredità mercantile delle popolazioni venetiche che, nella
I tipici vasi veneti a fasce rosse e nere. A Pozzuolo, a
fase di massima espansione
Tricesimo e a Paularo compaiono i vasi interi, menverso oriente, controllavatre negli altri centri in rosso solo dei frammenti.
no i traffici in tutto l’angolo nord-orientale della penisola italiana: area di frontiera e di scambio con le
popolazioni celtiche e illiriche d’Oltralpe (per esempio i Carni, i Giapidi e
specialmente gli Istri), divennero poi centri di smistamento del commercio
romano in transito da e per i mercati d’Oltralpe. L’idronimo venetico Formio
– appartenente al fiume Risano di Capodistria – sembra attestare che, per un
certo periodo, i Veneti abitarono anche un buon tratto della costa a oriente
del Timavo, da cui in seguito si sarebbero ritirati sotto la pressione degli Istri.
Il territorio friulano tra i fiumi Tagliamento e Torre nell’inoltrata età del
Ferro comprendeva alcune aree fortemente legate al mondo veneto. I vasi
situliformi con piede distinto, decorati a fasce rosse e nere, erano i recipienti
ceramici più caratteristici della cultura veneta e nell’area comparvero tra la
fine del VII e il V secolo a.C.. Si può anche ipotizzare un’importazione dal
Veneto nell’area lagunare di Carlino e Palazzolo, nella zona montuosa del
Friuli settentrionale (Paularo) e nella pianura friulana centrale a Udine e Tricesimo; in ogni caso per Pozzuolo – ove oltretutto non mancano le iscrizioni
venetiche – la notevole quantità di esemplari documentati fa propendere per
una produzione locale e quindi per un vero insediamento di artigiani veneti.
In Slovenia il vaso di tipo cordonato a fasce rosse e nere su piede è attestato
a Santa Lucia di Tolmino fino al VI secolo a.C.. Tra gli esemplari più antichi
i più numerosi sono quelli rinvenuti a Magdalenska Gora, sito nei pressi di
Lubiana. Sarebbero di produzione locale anche le situle su piede che compaiono, soprattutto in contesti funebri, nella Slovenia centrale.
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Il fiume Temavus, divinizzato nelle aree di Montereale Valcellina e di
Gemona, è toponimo venetico proprio come il Timavo del Carso triestino.
Il torrente Cellina percorre nel Pordenonese la selvaggia Valcellina e all’uscita
le sue acque si infiltrano in un ampio ghiaione convergente più a valle in un
altro letto ghiaioso, che inghiotte il fiume Meduna; le acque dei due torrenti
riappaiono in superficie nelle risorgive di Cordenons, per poi scendere a
confluire nel fiume Livenza. Tra VIII e VII secolo a.C. si spostò verso la
pedemontana la via del traffico commerciale che connetteva le città venete
con i territori d’Oltralpe, inducendo un periodo di prosperità a Montereale
Valcellina. Nel tardo VI e il V secolo a.C. si accentuò e si ampliò la presenza
veneta nella futura città di Caelina, in espansione per gli scambi con le
zone metallifere delle Alpi orientali. Nell’età del Ferro il rame proveniva da
giacimenti nelle Alpi austriache o slovene, mentre in epoca romana il ferro
arrivava dalle miniere di Stiria e Carinzia attraverso il Canal del Ferro –
che separa le Alpi Carniche dalle Alpi Giulie. Plinio nell’Historia Naturalis
descrive l’abilità degli abitanti del Norico (in Austria) non solo nell’estrarre il
minerale ma anche nel lavorare i metalli. In generale, le miniere propriamente
friulane verranno sfruttate solo in epoca romana (tipo quella del monte
Cucco, in Val Canale). A Montereale si svolsero direttamente attività di
lavorazione e riciclaggio dei metalli, tra cui – oltre al bronzo e al ferro –
anche il piombo. Nei pressi del sito, la necropoli del Dominu era un piccolo
cimitero a incinerazione della prima età del Ferro (tra fine dell’VIII e VII
secolo a.C.) ove trovarono sepoltura una trentina di individui. Quest’area
funeraria molto probabilmente non era collegata con il villaggio protostorico
principale di Montereale, ma con un abitato che pare occupasse le pendici
della soprastante collina di Plans. Gli oggetti d’ornamento con perline di
vetro o d’ambra e l’abbigliamento rinvenuti sono di tipo veneto, come pure
le urne con “impronte di dito” sulla spalla.
In quest’epoca, e anche in seguito, il Friuli appare dunque legato culturalmente soprattutto al Veneto euganeo e in particolare a Este. Nel tempo in
cui i centri veneti prosperavano, molti abitati della pianura friulana furono
abbandonati dopo l’VIII secolo a.C. e solo alcuni tra quelli di antica fondazione – tra cui Pozzuolo e Udine, oltre a Novacco – rimasero attivi fino al V
secolo a.C.. Il castelliere di Novacco (Aiello), in particolare, sorgeva all’estremità orientale della linea delle risorgive alla confluenza di Àussa e Gorizzizza,
in posizione strategica nella mediazione dello scambio di merci tra Veneto ed
Europa centrale. Nuovi centri sorsero vicino alla costa tra l’VIII e il VII secolo a.C., mentre materiale specificamente veneto è più tardi attestato (II-I secolo a.C.) nella necropoli di Idria della Baccia, non lontano da Santa Lucia.
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Veneti antichi, scene quotidiane di attività rurali e pesca (disegni di Paolo Fio Miante).
Attività artigianali nel centro urbano: fusione dei metalli e tessitura.
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Il sacerdote celebra la libagione e una donna lega all’albero un’offerta votiva.
Oltre il fiume, la cerimonia funebre dell’incinerazione sulla pira.
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I VENETI E I FIUMI
Il fiume Vistola (a sinistra) e il Venedicus sinus nella geografia Tolemaica del I secolo a.C..
La rotta navigabile fluviale metteva in comunicazione i Veneti della Vistola e
quelli dell’Ucraina tramite la vasta palude creata al centro dalle cinque confluenze del fiume Pripyat (nella regione della Polesia a cavallo tra Ucraina e
Polonia). La via ponto-baltica fu infatti una delle più antiche vie dell’ambra
attraverso le paludi del Pripyat e il corso del Dnepr (Borysthenes) fino al Mar
Nero. L’espansione più orientale della civiltà di Lusazia, in base alle indicazioni della ceramica, si può peraltro tracciare nell’odierna Volhynia (Ucraina
nord-occidentale) e fino ai tributari superiori del fiume Pripyat. Quello che
si può affermare con certezza tramite i dati del radiocarbonio (14C) è che nel
650-510 a.C. ancora esistevano contatti tra le popolazioni delle foreste e delle steppe dell’area pontica del Mar Nero e le genti lusaziane in fase di declino.
Nel II secolo lo storico e geografo greco Flavio Arriano, fonte così autorevole da essere stimato come “il nuovo Senofonte”, affermava che i Veneti
furono scacciati dalle loro sedi anatoliche del Ponto Eusino (Mar Nero) dagli
spietati pastori guerrieri Assiri, il cui impero dal IX al VII secolo a.C. dominò
sulla Mezzaluna fertile, l’Egitto e gran parte dell’Anatolia. Tra le più antiche
citazioni dei Veneti dell’Europa orientale, Eforo di Cuma (IV secolo a.C.)
collocò i Veneti a nord del Mar Nero nell’area abitata dagli Sciti – avendo
suddiviso il mondo nelle quattro parti di Scizia, Celtica, Etiopia e India. Con
un versetto ambiguo il poeta romano Sesto Aurelio Properzio (I secolo a.C.)
mostra di conoscere la posizione dei Veneti presso il fiume Hypanis, cioè il Bug
meridionale, che nasceva dalla grande palude del Pripyat detta Mater Hypanis
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e scorreva nell’Ucraina occidentale toccando l’odierna città di Vinnycja: «Tam
multa illa meo diuisa est milia lecto, quantum Hypanis Veneto dissidet Eridano [...]».
Prima dell’invasione dei Sarmati (I secolo d.C.) l’altopiano volino-podolico del
corso superiore del Bug meridionale coincideva infatti con i circa cinquecento
siti dei Veneti della cultura di Zarubintsy, villaggio a metà strada tra Kiev e
Vinnycja. Poco distante, nell’angolo nord-occidentale dell’Ucraina (Galizia),
nasce il Bug occidentale che attraversando la Bielorussia giunge fino in Polonia
e presso Varsavia sfocia nel Narew per convogliare le acque subito nella Vistola.
In realtà, il corso d’acqua misurato dalle sorgenti del Bug occidentale fino
alla foce della Vistola è più lungo della Vistola presa da sola (1213 chilometri
contro 1047) e in base alla lunghezza risulterebbe che la Vistola e il Narew
sono affluenti del Bug. Storicamente però la Vistola è stata sempre considerata
il fiume principale perché la sua portata è nettamente superiore. Nel I secolo
d.C. Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia pone i Veneti in Sarmazia
nell’area che si estende dall’Ucraina alla Polonia fino a raggiungere la Vistola:
«Quidam haec habitari ad Vistulam usque fluvium a Sarmatis, Venedis [...] tradunt».
Lo storico bizantino Giordane (Jordanes), che nacque a Cividale del Friuli
circa nel 550, distingue gli Sclaveni a nord tra Dnester e Vistola (Viscla) e gli
Anti a sud tra Dnester e Don: «La numerosissima tribù dei Veneti (Venethae),
la cui denominazione va cambiando ai nostri giorni a causa delle diverse genti
che la compongono e delle diverse regioni che queste vanno ad abitare, si divide
primariamente in Sclaveni e Anti; paludi e foreste circondano le sue città».
Curiosamente nella più antica cronaca russa, la Cronaca di Nestore, risulta
che nell’anno 882 il principe Oleg di Kiev impose dei tributi agli Sloveni:
non si trattava degli abitanti della Slovenia (Slovèncy) o di quelli della Slovacchia (Slovakì) e nemmeno degli Slavi in generale (Slavjàne), ma di una precisa tribù stanziata poco lontano da Kiev dato che il principe Oleg si recava di
persona a riscuotere i tributi. Sloveni è anche un nome comune, in Polabia,
a diverse tribù del Baltico che dal VI al XII secolo abitavano l’area intorno
ai fiumi Oder ed Elba (Łobjo in sorabo), tribù note come Wenden dalle fonti
tedesche e soprannominate «Veneti dagli occhi azzurri» nella Chronica Sclavorum di Helmold di Bosau (XII secolo).
In Slovenia centro-occidentale, sia nel letto del fiume che scorre a Lubiana
(Ljubljanica) sia nella zona paludosa a sud della città (Ljubljansko barje di
Brezovica), una serie di ritrovamenti archeologici inerenti abbigliamento e
strumenti rituali sono paragonabili a quelli dei siti classici dei Veneti di Este
e Padova, come pure di alcuni luoghi di deposizione rituale della pianura
friulana e della regione della Notranjska (oggi cuore verde della Slovenia
meridionale e sede di un parco naturale).
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