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I VENETI IN FRIULI - Parte prima: la Preistoria.

2021, I veneti in Friuli

I VENETI IN FRIULI – Dall’antichità alla Serenissima , 2021 Crocevia di culture, centro di circolazione di idee e commerci, la regione friulana già dall’800 a.C. manifestava interessanti collegamenti dei Veneti locali con il Centro Europa. Ancora prima, nel 1200 a. C., popolazioni appartenenti alla cultura di Baierdorf-Velatice scendevano dal Centro-Europa nella fascia delle risorgive del Friuli, portando con sé elementi che anticipavano la cultura venetica.

Parte prima: I Veneti antichi LE GRANDI MIGRAZIONI Circa nel 1250 a.C., epoca della guerra di Troia, ci fu nel Baltico una colossale battaglia al confine tra le attuali Polonia e Germania. A Tollense si scontrarono ben quattromila uomini che possiamo ipotizzare schierati tra protoveneti a est e protogermani a occidente. Questi protoveneti si possono identificare nei commercianti d’ambra della cultura di Lusazia, distinguibile entro la vasta cultura dei Campi di urne in quanto la prima rappresenterebbe la variante venetica mentre le altre genti dei Campi di urne nascerebbero dalla fusione con le popolazioni locali; entrambe le culture avevano in comune l’usanza di bruciare i morti sulla pira e di raccoglierne le ceneri in urne che venivano seppellite in ampi cimiteri. Anche se sconfitti a Tollense, i protoveneti avrebbero avuto una tale carica esplosiva, dovuta alla Campo di battaglia di Tollense: un contenitore da indossarsi alla spinta demografica e allo spirito missionario cintura, con decorazione solare della nuova religione, che – trovando a occicome fu poi usanza nella cintura dente la strada sbarrata – sarebbero scesi sia delle sacerdotesse dell’Adriatico. nella penisola italiana sia in quella balcanica. 15 L’impatto di questa vertiginosa espansione avrebbe avuto un “effetto domino” sulle tribù italiche e balcaniche spostandole dalle loro sedi. Un paio di decenni dopo la battaglia di Tollense, sul finire dell’età del Bronzo, nel Mediterraneo ci fu uno scenario d’agitazione generale associato all’arrivo improvviso di un’alleanza di popoli che disintegrarono l’Impero ittita in una serie di città-stato indipendenti, distrussero molti degli stati sirocananei e si spinsero ad attaccare perfino l’Egitto. Dai testi egiziani risultano due ondate di invasione da parte dei misteriosi Popoli del mare. All’epoca del faraone Merenptah (circa 1230 a.C.) alcuni gruppi di origine mediterranea (Lukka, Shekelesh, Teresh, Ekwesh e Shardana) si unirono all’invasione dei libici nel Delta occidentale del Nilo. In seguito, sotto Ramses III (1190 a.C.) un più consistente complesso di invasori (Danuna, Peleset, Zeker, Weshesh, Shekelesh) arrivò alle soglie del Delta orientale dopo aver travolto in Anatolia la capitale ittita Ḫattuša, il regno di Arzawa nell’area di Troia, il regno di Qode in Cilicia, oltre alla Siria e a Cipro. Le navi dei Popoli del mare raggiunsero l’Egitto dall’Egeo costeggiando le rive meridionali dell’Anatolia, il Libano e la Palestina. Il loro esercito terrestre invece invase prima Arzawa nell’Anatolia nord-occidentale e poi scese in Siria a Ugarit. Questo insieme di tribù e clan costituiva forse una sorta di coalizione con a capo una élite che potremmo cercare di identificare nelle genti baltiche della civiltà di Lusazia o, più propriamente, della cultura dei Campi di urne, in quanto già mescolate con le popolazioni sottomesse nel continente europeo. Una spada lusaziana marcata con un cartiglio del faraone Seti I fu trovata in Europa. Inoltre, osservando le raffigurazioni egiziane delle imbarcazioni adottate dai Popoli del mare, non può passare inosservata la presenza dell’emblema delle genti dei Campi di urne a prua e a poppa delle navi, cioè il simbolo della barca solare con l’effige del volatile acquatico ai due estremi. Wolfgang Kimmig fu il primo a proporre un confronto tra l’emblema sulle navi dei Popoli del mare (dipinte nel rilievo egiziano della battaglia navale del Delta del Nilo con alti e angolari montanti di prua e poppa sormontati da teste di uccelli acquatici) e la barca solare del canone religioso tipico dell’Europa centrale presso i Campi di urne della tarda età del Bronzo. L’evidenza iconografica del rilievo conservato nel tempio di Medinet Habu con le galee a doppia testa di uccello Tipica nave dei Popoli del mare. 16 si rafforza a motivo degli equipaggi che indossano il tipico copricapo piumato dei Popoli del mare. Tale convergenza di fogge favorisce l’idea che la “federazione” dei Popoli del mare fosse stata istituita, promossa e guidata da una leadership di genti nordiche. L’élite in questione si potrebbe forse individuare nei Danai (o Danuna). La vedica Danu era la dea delle acque, come pure Dana presso gli Slavi. Nel bacino della Vistola, in area baltica, numerosi sono i nomi di fiumi che possiedono la radice *dn: Dunaj, Dunajec, Biala Dunajcowa, Stare Dunajczysko, Dunajka, oltre alla palude Dunajki e ai laghi Dunaj e Dunajek. La via fluviale ponto-baltica, che univa l’Anatolia al Baltico tramite i larghi corsi d’acqua dell’Ucraina, era nota agli Argonauti e nel bacino del fume Dnepr abbiamo quattro tributari di nome Dunaec, due Dunajčik, oltre a Dunajka e Suxy Dunaec. Contiene all’interno la radice *dn il gran fiume dei primi Veneti dell’Adriatico: l’Eridano, cioè il Po. Invece la radice indoeuropea *ap [acqua in sanscrito], ove Aponus era il dio veneto delle acque termali, è presente in Anatolia settentrionale presso la lingua palaica parlata in Paflagonia dal popolo dei Pala, ove hapna significa fiume. Danai, Achei e Argivi nell’Iliade di Omero sono sinonimo degli assedianti di Troia. I Danai appartenevano alla stirpe di Danao, in relazione al quale rimarrebbe un vago ricordo delle spedizioni dei Popoli del mare poiché si tramanda che fosse re di Libia e fratello gemello di Egitto, il re dell’Egitto: «Dopo varie vicissitudini Danao fuggì il fratello verso occidente, approdando in Grecia ad Argo». Quindi il cerchio potrebbe chiudersi con gli Achei di Argo, cioè i Danai, partecipi della guerra di Troia (che Eratostene pone tra 1194 e 1184 a.C.). Omero risulta, a proposito dei Popoli del mare, una fonte letteraria importante perché nell’Iliade e nell’Odissea sono presenti sei delle nove tribù indicate dallo stesso etnonimo nelle fonti egiziane, cipro-minoiche e ugaritiche. Mountjoy suggerisce che a Troia lo strato VIIa non sia stato distrutto dai Micenei ma piuttosto dai Popoli del mare. Si ribadisce – come già espresso nel precedente saggio L’alba dei Veneti – che “Achei” non è affatto sinonimo di “Micenei di Micene”, i cui palazzi collassarono proprio con l’arrivo dei Popoli del mare e con le genti da nord. Gli Achei di Argo praticavano l’incinerazione dei morti e nell’Iliade questo è l’unico rituale funebre descritto. Nel mito di Oreste, il figlio di Agamennone cerca di ingannare la propria madre Clitennestra fingendosi uno straniero ed esibendo un’urna con le false ceneri di se stesso. I Micenei al contrario – come risulta dai reperti archeologici – inumavano i morti, cioè li seppellivano. D’altronde studiosi come Bernhard Hänsel, Frank Kolb e Harald Hauptmann negano che gli scavi eseguiti sulla Troia anatolica possano evidenziare le caratteristiche proprie di una città. In accordo con la tesi di Felice Vinci sull’ambientazione 17 Possibili itinerari dei Popoli del mare e interazioni con genti dei Campi d’urne (in rosso). baltica della guerra di Troia, un’identificazione dei Danuna / Danai con gli Achei e con le popolazioni della civiltà di Lusazia spiegherebbe bene se non altro il costante mescolarsi di leggende nordiche nell’Iliade. Ecco quindi affacciarsi nella storia della guerra di Troia nuovi protagonisti e cioè i Popoli del mare guidati dalle genti di Lusazia: certamente ipotesi insolita che urta con i preconcetti scolastici dei poemi omerici quali espressione di “grecità”. Frederik Christiaan Woudhuizen (2006) sostiene che la causa più importante degli sconvolgimenti dei Popoli del mare sia stata la migrazione dei portatori della cultura dei Campi d’urne centroeuropea verso la penisola italiana intorno al 1200 a.C.. Alcune spade di tipo Naue II nel Levante e nel Mediterraneo orientale sono produzioni italiane. I Shardana, i re delle isole dell’Occidente, vengono spesso collegati con la Sardegna non solo per l’assonanza del nome ma anche per i reperti egiziani nelle tombe a camera dell’isola. 18 L’etnonimo Šrdn (Shardan) della Stele di Nora comparve però in Sardegna solo in epoca più tarda, tra IX e VIII secolo a.C.. Shekelesh, secondo alcuni, era invece una popolazione dell’Italia meridionale e centro-meridionale (Abruzzo e Lazio – esclusa Viterbo – verso sud) mentre i Teresa / Tursha erano forse i Sabini e corrispondevano agli abitanti dell’Italia centrale e centromeridionale (Viterbo, Toscana, Marche, Emilia Romagna, La Spezia). I Teresh sono stati avvicinati ai Taruisha delle fonti ittite e ai Tyrsenoi, dai quali verrebbero gli Etruschi. In origine gli Etruschi sarebbero quindi provenienti dalla lontana Lidia (situata al centro della costa anatolica occidentale), così come gli Shekelesh. Erodoto narra così l’origine delle popolazioni della Toscana: «In tutta la Lidia ci fu una tremenda carestia al tempo di Atys, figlio del re Mane. Il re divise in due gruppi tutti i Lidi e mise a sorteggio il loro destino: a quelli cui toccò di restare in Lidia mise a capo se stesso, agli altri che dovevano migrare pose a capo suo figlio Tirreno. Coloro che ebbero in sorte di partire scesero a Smirne per costruire le navi e, caricato tutto ciò che era necessario, presero il largo alla ricerca di mezzi di sostentamento e di una terra d’approdo; finché – oltrepassati molti popoli – giunsero al paese degli Umbri, ove costruirono città e abitano tuttora. In luogo di Lidi essi mutarono il nome in Tirreni, prendendolo dal figlio del re». Taluni collegano il popolo Shardana – pure portatore della radice *dn – con la città lidia di Sardi (fondata negli ultimi secoli del II millennio a.C. e capitale del regno solo nel VII secolo a.C.). In Lidia la città di Tantalis peraltro fu così chiamata in onore al famoso Tantalo, il padre di Pelope, e venne altresì identificata con Atlantide dallo storico britannico Peter James. Platone scrive: «Gli Atlantidei indossavano le più belle vesti azzurre e sedevano in terra presso le ceneri del sacrificio. Un ippodromo era lasciato alla gara dei cavalli». Per inciso, Felice Vinci identifica Atlantide con la Groenlandia, mentre lo storico greco Dimitri Michalopoulos coglie nella Groenlandia l’isola di Thule descritta da Pitea. Marco Bulloni, ingegnere nucleare e cultore di archeomitologia, pone invece Atlantide nell’estremo nord del Mar Bianco, in un’isola a 164 chilometri dal circolo polare artico e nei pressi della Carelia (Russia). A cavallo del 1300 a.C., secondo Bulloni, un maremoto o un cataclisma naturale associato a un clima sempre più rigido (la piccola era glaciale) avrebbe causato l’esodo degli Atlantidei e la loro discesa fino al Mediterraneo insieme ai Popoli del mare. Molto interessanti sono le connessioni tra il regno di Ahhiyawa, in Lidia, e la dinastia achea dei Pelopidi. Forrer propose per primo la corrispondenza Ahhiyawa-Achei. Non avendo la lettera w, i Greci la omettono nella scrittura, sicché Ahhiyawa diventa Ahhiya: l’Achaea del popolo degli Achei e cioè il più importante regno dell’età del Bronzo nell’Anatolia occidentale durante 19 l’ultima parte del XIII secolo a.C.. Il regno era chiamato anche Ekwesh, che ricorda il termine indoeuropeo per il cavallo *ekwo- (in lingua venetica ekvo). Le cronache narrano che Madduwatta, re di una città-stato della vicina Licia (regione del popolo Lukka nel sud-ovest dell’Anatolia), fu sconfitto da un condottiero acheo venuto dal mare di nome Attarsiya (Atreo), che era nientemeno che il figlio di Pelope e padre di Agamennone. Atreo si sostituì al trono di questa città-stato e costrinse Madduwatta all’esilio. Presso il re ittita Tudhaliya, Madduwatta fu fatto governatore della zona montuosa della Lidia, famosa per il monte Sipilo. Alcuni anni dopo Atreo tornò ad attaccare Madduwatta con cento carri e conquistò il monte Sipilo, mentre Madduwatta fuggì di nuovo ad Hattusa. L’ittita Tudhaliya inviò allora l’esercito e sconfisse Atreo, che però apparentemente conservò la corona e poco dopo riapparve nell’altra sponda dell’Egeo come il mitico re di Argo. È noto che Ilo, re di Troia, aveva bandito oltre a Tantalo anche suo figlio Pelope, che – dopo essere stato cacciato dalla Paflagonia dai barbari – si era ritirato sul monte Sipilo nella sua patria ancestrale: la Lidia. Tra le prime attestazioni storiche dei Veneti, dopo Tito Livio viene riportata quella di Marco Giuniano Giustino (II-III secolo d.C.), la cui opera ebbe larghissima diffusione nella tarda romanità. La sua descrizione è interpretata nel significato di provenienza dalla Lidia sia degli Etruschi sia dei Veneti: «Namque Tuscorum populi, qui oram Inferi maris possident, a Lydia venerunt, et Venetos». Risale al XII secolo a.C. l’insediamento di popolazione in Lidia e per gli Eneti di Pelope le sue coste erano un logico punto di partenza in nave, perché lo stretto del Bosforo all’epoca era impraticabile a causa delle forti correnti. Al tempo, secondo Eugene N. Borza, i Frigi / Brigi sarebbero stati membri della civiltà di Lusazia migrati una parte nei Balcani e un’altra in Anatolia: «Ciò che può essere stabilito, nonostante una documentazione archeologica estremamente inconsistente (specialmente lungo i pendii del monte Vermion), è che due flussi di popoli della Lusazia mossero a sud nella tarda età del Bronzo, uno per stabilirsi nella Frigia ellespontina, l’altro per occupare parte della Macedonia occidentale e centrale (sarebbero partiti dall’area tra la Transilvania occidentale, la Slovacchia orientale e l’Ungheria orientale a est del Danubio, N.d.A.)». Anche i Dori, forse genti dei Campi d’urne del medio corso del Danubio, penetrarono in Grecia da nord e contribuirono alla distruzione della civiltà micenea espandendosi poi principalmente nel Peloponneso e a Creta. Secondo Erodoto infatti, tribù della Macedonia settentrionale marciarono a tappe forzate in direzione del Peloponneso, ove soggiogarono le popolazioni locali e vi si stabilirono. La tradizione descrive come, una sessantina d’anni dopo la guerra di Troia, ebbe luogo la migrazione dei nordici Dori che alla fine 20 Peleset portò alla nascita della Sparta classica e alla rifondazione delle città achee. Gli Spartani cercarono di mantenere vivo il ricordo delle loro origini esaltando il culto dei vari personaggi omerici: all’interno della polis possiamo infatti trovare un santuario di Elena e, in Laconia, un tempio di Menelao e due santuari di Achille. Il culto di Orthía fu stabilito dagli invasori Dori e non ha relazioni con precedenti culti elladici perché gli altari furono importati dai Dori nel Peloponneso assieme all’usanza di offerte di carne combusta agli dèi. In quanto dea della barca solare e delle nascite, Orthía è affine alla Reitia dei Veneti antichi e ha una certa assonanza con Noreia, la La dea Ortia nel santuario di Sparta dedicato ad Artemide (660 a.C.). dea del Noricum (in palaico, Anatolia settentrionale, tiyaz è il nome del sole). Nel santuario sono stati rinvenuti una quarantina di oggetti votivi in osso e avorio che rappresentano uccelli acquatici. Potnia theròn [Signora degli animali] è un termine usato per la prima volta da Omero nell’Iliade come attributo di Artemide. Nell’isola sacra di Delo (Ortigia) Apollo ereditò il simbolismo dei cigni dalla precedente dea Potnia theròn, che nell’età del Bronzo presiedeva il lago dell’isola. Le genti doriche sarebbero pertanto l’ultima ondata delle tribù che da nord e da est invasero la penisola e le isole greche. Questa migrazione è rappresentata dalla leggenda del ritorno degli Eraclidi. Il nucleo del racconto ebbe la sua prima formazione ad Argo e infatti l’antico eroe argivo Temeno in origine non aveva alcun rapporto con Eracle e solo in seguito entrò a far parte della leggenda degli Eraclidi, quale segno di contatto fra i re di Argo e i discendenti dori di Eracle. I Peleset infine, che la Bibbia cita come nemici degli Ebrei, erano insediati nella Cananea meridionale e diedero nome alla Palestina (Philistia). I siti di Beth Shean e Deir el-Balah in Palestina hanno restituito sarcofagi antropoidi in argilla che sono tipici dei Peleset e che potrebbero essere datati al XIII secolo a.C.. I Filistei furono una popolazione molto antica, geneticamente di origine indoeuropea, che si stanziò tra il 1200 e l’800 a.C. nella regione storica della Palestina; ricerche archeologiche 21 indicherebbero che la loro popolazione nel secolo XII a.C. ammontò a venticinquemila persone. Archeologicamente i Filistei potrebbero essere identificati appunto con il popolo dei Peleset (i Pelasgi?) citato nelle iscrizioni egiziane di Medinet Habu tra i Popoli del mare che attaccarono l’Egitto durante il regno del faraone Ramses III. Indizi dell’origine egea di questi sarebbe l’elmo piumato e le armi di tipo acheo da loro indossate nelle raffigurazioni. Sulla costa settentrionale della Palestina, a Dor, il Racconto di Wen-Amun (1050 a.C.) segnala infine la presenza del Popolo del mare degli Zeker. Il 1200 a.C. rappresenta dunque una delle date simboliche della civiltà umana. Il suo particolare significato sta nell’associazione con un periodo di cambiamento epocale, di catastrofica distruzione e incertezza per la gente del tempo. Studiando in Israele le “impronte digitali” delle piante, ovvero campioni di polline prelevati da strati di sedimenti depositati sul fondo del lago di Tiberiade, gli scienziati hanno notato intorno al 1250 a.C. un netto calo della presenza di querce, pini e carrubi – cioè la tradizionale flora del Mediterraneo durante l’età del Bronzo – e un aumento delle piante che si trovano di solito in regioni semiaride. Si presentava anche una grossa diminuzione degli ulivi, segno di una crisi dell’agricoltura. Tutto insomma fa pensare che all’epoca la regione fosse afflitta da siccità gravi e prolungate. A fronte della siccità del Mediterraneo, viceversa il Nord Europa avrebbe beneficiato di un clima mite che favoriva l’aumento di popolazione, la cui 22 23 Sprockhoff IIa. età media era all’epoca intorno ai 30-35 anni. Gli autori antichi descrivono gli Iperborei che, assai numerosi, vivevano in una terra di pascoli dove il clima era sempre primaverile. Sicuramente la nuova micidiale spada fu la più grande innovazione introdotta nell’Egeo dalla cultura dei Campi di urne. Nel XIII secolo a.C. Spada e scudo presso i Popoli del mare nella bati suoi fabbri avevano perfezio- taglia navale del Delta del Nilo. nato il mestiere creando una spada letale da taglio e squarcio lunga in media sessanta centimetri, con l’elsa “a coda di pesce” e la lama fuse insieme in un unico pezzo (la famosa spada chiamata Sprockhoff IIa). La sua diffusione coprì un vasto corridoio che scendeva dalla Danimarca e Germania nord-orientale fino in Cadore, Grecia, Egitto e Cipro, dove sarebbe giunta in coincidenza con i catastrofici eventi legati ai Popoli del mare. Nell’Egeo con l’XI secolo a.C. diventò quasi la sola spada in uso e nei Balcani rimase di prima scelta fino al VII secolo a.C.. Anche lo scudo rotondo da combattimento giunse con le genti della cultura dei Campi di urne intorno al 1200 a.C., permettendo la mobilità e agilità necessarie per maneggiare la spada a corto raggio (a differenza dei grandi scudi dei Micenei, adatti alle lance e ai giavellotti). L’alto copricapo piumato dei Popoli del mare – prototipo delle creste sugli elmi veneti e romani – è raffigurato non solo nel bassorilievo di Medinet Habu della battaglia contro Ramses III ma anche in altre sedi, come a Cipro e nella città cananea di Ascalona, presso i Filistei. Originaria dei Balcani, la ceramica lucidata con brunitura indica l’invasione di un nuovo popolo e risulta presente sulla rotta che da Cefalonia (Mar Ionio) prosegue verso Argo e la vicina Tirinto; in quest’ultima città sono state trovate un’immagine della barca solare su frammento di cratere, spade Sprockhoff IIa e ruote d’oro con perline d’ambra sui raggi. A Cipro, base ideale per lanciarsi all’attacco della città di Ugarit (Siria), un vaso di ceramica lucidata dei Balcani presenta sulla spalla la classica riga a “impronte di dito”. La cultura continentale dei Campi di urne apparentemente non sarebbe stata in possesso di una tradizione navale (salvo le canoe scavate in un tronco con cui in Europa centrale si navigavano i piccoli corsi d’acqua); non bisogna però dimenticare le abilità e conoscenze dei protoveneti, popolo dei grandi fiumi e delle paludi esperto delle vie fluviali a lunga distanza. Kastanas, in greco moderno Toumba, è un sito dell’età del Bronzo e del Ferro ubicato sulla riva sinistra del fiume Axios in Macedonia (Grecia settentrionale). La ceramica scanalata lavorata a mano, come compare a Kastanas e in insediamenti simultanei in Macedonia, non è riconducibile a predecessori locali, né ha analogie in regioni immediatamente adiacenti. Specialmente le ceramiche lavorate rivelano chiare somiglianze con i vasi dei gruppi culturali della tarda età del Bronzo della regione danubiano-carpatica. Gruppi locali – il cui habitus ceramico rende probabile uno scambio culturale tra la regione del Danubio e la regione dell’Egeo settentrionale – possono essere identificati nell’area di transito della valle del fiume Axios / Vardar e della lunga valle della Grande Morava, che nasce dalla confluenza della Morava occidentale e della Morava meridionale. Già negli anni Ottanta, Bernhard Hänsel e Jan 24 Bouzek sottolineavano in particolare la generale ma ovvia corrispondenza tipologica tra le ceramiche scanalate di Kastanas e le ceramiche lucidate di nero delle genti dei Campi di urne, tra cui il gruppo Gáva [Gávavencsellő] nel bacino orientale dei Carpazi (Ungheria a est del Danubio, Transilvania e Slovacchia orientale) o il gruppo Beliš II nella regione del Medio Danubio. Inoltre, sia Kastanas sia la maggior parte dei gruppi orientali dei Campi di urne possedevano le cosiddette ciotole dall’orlo “a turbante” (vedi fig. a lato). Kastanas mostra evidenze di un profondo sconvolgimento culturale per quanto riguarda la struttura dell’insediamento, lo stile di vita, la produzione tessile, l’artigianato e il lavoro domestico. Il ripopolamento del sito pertanto può essere solo associato all’insediamento di un gruppo straniero. Nel 1928 V.G. Childe già ipotizzava che i portatori della cultura lusaziana avessero invaso l’Egeo. In accordo, W.A. Heurtley nel suo studio sulla Macedonia preistorica fa riferimento ai reperti ceramici e allo strato bruciato di Vardaroftsa (Axiochorion) e postula un’invasione di popolazioni lusaziane dalla valle dell’Axios alla Macedonia. Nel riprendere l’uso dell’espressione “invasione lusaziana”, Bernhard Hänsel suggerisce un’intrusione di popolazioni nordiche nella Grecia settentrionale (Macedonia centrale), oltre che sulla base dei cambiamenti nello stile ceramico, per l’architettura stessa dell’insediamento di Kastanas. Gli studi recenti sui reperti di Kastanas hanno poi mostrato che i movimenti di popolazione dal corso inferiore dell’Axios erano già iniziati nel 1190-1050 a.C.. Sebbene Milojčić tenda a escludere un’immigrazione di gruppi di popolazione da regioni così remote come dalla cultura di Lusazia, egli considera comunque plausibile la tesi di un’immigrazione di genti dei Campi di urne dalla regione danubiano-carpatica. Gli effetti collaterali della crisi a più livelli del 1200 a.C. furono i conflitti armati, il declino della civiltà minoica, il commercio a lunga distanza e le migrazioni. A partire dagli anni Sessanta alcuni autori hanno privilegiato i fattori climatici, in particolare la siccità, come fattore scatenante del declino della società palaziale micenea. Secondo Frank Falkenstein, si possono identificare due diversi fenomeni climatici per la fine del XIII e inizio XII secolo a.C.. Da un lato, si trattò di un graduale raffreddamento a lungo termine dell’emisfero settentrionale dopo una fase climatica eccezionalmente calda e dall’altro di un drastico evento climatico, il cui picco con datazione dendrocronologica sugli alberi risale agli anni 1159- 1141 a.C.. Il risultato fu il collasso della coltivazione del grano e l’improvvisa decimazione della popolazione animale domestica, di conseguenza al culmine dell’anomalia climatica si verificarono l’immigrazione e l’insediamento di un gruppo di popolazione dalla regione del Danubio. 25 I vasi “a costolature” comparvero in Friuli nella fase iniziale dei Campi d’urne. Poi, nel 1200 a.C., un nucleo di portatori della spada Naue II dall’angolo tra Austria, Ungheria e Slovacchia passò per il Friuli e la diffuse nella penisola e oltre, in Grecia, ad Argo. I CAMPI DI URNE La cultura di Lusazia e la cultura dei Campi di urne erano civiltà perfettamente confinanti e contigue, con uno sperone della prima che penetrava nella seconda tramite la Slovacchia. Generalmente per l’inizio di entrambe viene posto il 1350-1300 a.C., ma la cultura di Lusazia acquista maggiore profondità e antichità se si considerano i tratti prelusaziani della cultura di Trzciniec (1700-1300 a.C.), che copriva la metà orientale della Polonia fino alla foce della Vistola e a est raggiungeva l’Ucraina occidentale. Il centro geografico dell’Europa cade in Polonia ed esattamente nella città di Suchowola, non lontano dalla foresta primordiale di Białowieża – il cuore verde dell’Europa. Nella contestualizzazione dei Campi di urne comunque si intende per Centro Europa l’area medio-danubiana, poiché da lì si diramò il movimento centrifugo: una prima espansione raggiunse da 26 oriente il Friuli dall’area della Croazia (Virovitica), in seguito da nord una migrazione si propagò in Italia e nei Balcani fino in Grecia, con una veloce reazione a catena in cui una tribù spostava l’altra. All’epoca le comunità dell’area danubiana erano piccole e ospitavano non più di cento individui; più a nord la battaglia di Tollense indica invece lo spostamento di grandi masse di individui. Effettivamente è ben documentato che il tipo di spada Naue II presentò nell’area di Tollense gli esemplari più antichi, mentre nel 1200 a.C. un gruppo medio-danubiano (Baierdorf-Velatice) – nell’angolo tra Moravia, Slovacchia, Ungheria e Austria – deviò in Friuli aprendo la strada alla diffusione della spada Naue II in tutta la penisola e oltre il mare in Grecia, ad Argo, nelle tombe achee. Ecco che una semplice spada potrebbe spiegare la complessa cronologia dell’espansione dei Campi di urne nella penisola e la comparsa dal 1175 a.C. della cultura Protovillanoviana in tutta Italia, a cominciare dal Nord-Est. Infatti, l’ampia presenza di elementi stilistici propri della fase antica dei Campi d’urne medio-danubiani spesso si associa in Friuli, come per esempio a Codroipo, a materiali stilisticamente caratteristici delle ultime fasi del Bronzo recente del Veneto. Nel pedemonte veneto, come a San Giorgio di Angarano (Bassano del Grappa), pure si configura un aspetto socio-rituale vicino ai Campi di urne dell’Europa centro-orientale. La caratteristica principale della cultura dei Campi di urne consiste nell’introduzione del rito funerario della cremazione e della sepoltura in urne dei resti cremati. Nell’età del Bronzo recente “non avanzato” (1300-1250 a.C.) in Friuli comparve l’influsso dell’aspetto ceramico tipico della fase iniziale 27 Urna,Vitovitica. dei Campi di urne dell’area medio-danubiana riferibile al gruppo di Virovitica (città croata al confine con l’Ungheria, indicante la facies estesa nella pianura tra i fiumi Sava e Drava, a settentrione in Pannonia fino al lago Balaton, a ovest nella Slovenia centro-orientale e nelle Alpi sud-orientali). Pertanto gli sporadici esempi di decorazione “a costolature oblique” – come il vaso di Sequals Colliselli nel Pordenonese (vedi p. 26) – divennero sempre più comuni sulla spalla di tazze e di scodelle procedendo verso la fase avanzata del Bronzo recente (1250-1200 a.C.). Nel Friuli occidentale nell’arco del Bronzo recente risultano decisamente più numerose rispetto a prima le tracce degli abitati pedemontani, mentre venne a poco a poco abbandonata l’alta pianura arida. In quest’epoca nella pianura pordenonese comparve a Montereale Valcellina il culto delle acque, testimoniato dai bronzi rinvenuti nell’alveo ghiaioso del Cellina. Le armi più antiche delle offerte votive ritrovate sono una spada a codolo, tipo Arco, e una spada a lingua da presa tipo Allerona (variante C della Naue II), entrambe del XIII secolo a.C.. L’uso di offrire le spade a fiumi o laghi è attestato in Europa almeno dal XVII secolo a.C. e fino al Medioevo (si ricordi a proposito il mito della spada Excalibur ove Malory scrive che re Artù, dopo la rottura della sua, ricevette una spada invincibile dalla Dama del Lago). Nel caso del Cellina l’offerta presso entrambe le sponde di asce e punte di lancia, oltre alle spade, è da porre in relazione al controllo dei guadi, essenziali per le comunicazioni e per la difesa del territorio. Anche il Friuli orientale mostra di appartenere all’ultimo distretto occidentale della vasta area di circolazione di culti, modelli e tradizioni artigianali della fase più antica dei Campi di urne, che attingeva elementi da un patrimonio comune collegato all’area medio-danubiana del gruppo di Virovitica. Lo stesso concetto vale per la pianura costiera veneto-friulana, compresa l’area Canale Anfora / Ca’ Baredi presso Aquileia, e vale infine per il Friuli centrale con l’abitato arginato presso Rividischia (località Cjamps dai Cjastilirs, posta a sud di Codroipo e al margine della fascia a praterie umide delle risorgive), ove pure compaiono gli elementi condivisi con l’area medio-danubiana durante la prima fase del gruppo di Virovitica. Da segnalare la presenza di elementi tipologici connessi con la seconda fase del gruppo di Virovitica, la cui diffusione nella regione caratterizzò il periodo più avanzato del Bronzo recente. Infatti, al passaggio tra fase iniziale e fase intermedia dei Campi d’urne, tra XIII e XII secolo a.C., si affacciò in Friuli il rinnovamento stilistico e decorativo della seconda fase di Virovitica. 28 Dopo la colossale battaglia della valle di Tollense – fondamentale per la comprensione della transizione dalla cultura di Lusazia all’espansione dei Campi di urne dall’Europa centrale – l’ultima fase dell’età del Bronzo conobbe anche in Friuli gli sconvolgimenti epocali degli insediamenti. Infatti, poco prima della fine del Bronzo recente, si assisté al collasso di gran parte degli insediamenti della bassa pianura friulana. Invece nella fascia delle risorgive (i pozzi artesiani tra Codroipo e Palmanova), nella pedemontana occidentale e nell’area perilagunare di Caorle si assistette intorno al 1200 a.C. a una fase di fioritura degli insediamenti, laddove i dati più recenti mostrano un ingresso massiccio di elementi medio-danubiani del gruppo Baierdorf-Velatice, che – insieme alla seconda fase di Virovitica – interessarono Montereale Valcellina, Castions di Strada e il castelliere di Gradiscje di Codroipo. Agli inizi del Bronzo finale (1200 a.C.), epoca dell’arrivo dei protoveneti, risale una capanna di Montereale Valcellina realizzata con pareti di legno poggianti su muretti di pietra a secco e all’interno divisa in più vani da graticci intonacati con limo. Nella stessa epoca Castions di Strada, in località Cjastelir, assunse importanza sia perché rappresentò la tangibile manifestazione in Friuli di alcune sepolture a cremazione (riferibili appunto agli apporti della cultura centroeuropea dei Campi d’urne), sia perché una delle sepolture conteneva oggetti nello stile del Delta del Po – cioè due fibule ad arco di violino asimmetrico e un pettine in osso tipo Frattesina – che, se pur reperti isolati, indicano anche in Friuli contatti con la facies di tipo protovenetico. Si tratta però di un esempio unico di incinerazione in Friuli poiché altri siti con cimiteri a cremazione non sono stati trovati in regione. Dopo il periodo di regresso e di stagnazione della fine del Bronzo recente, nel Nord-Est ebbe dunque inizio un nuovo ciclo di sviluppo che portò, nel corso del Bronzo finale (1200-1000 a.C.), allo sconvolgimento dei precedenti equilibri e a una radicale mutazione della facies. In Friuli un repertorio ceramico del tutto rinnovato testimonia la profonda trasformazione della cultura materiale (cioè di tutti gli aspetti visibili di una popolazione) e coincide con il nuovo assetto territoriale di questa ondata migratoria da nord. A fronte della scomparsa degli insediamenti nella pianura della Bassa friulana, comparvero nuovi abitati a oriente dell’Aussa Corno. Il circondario della futura colonia romana di Aquileia divenne zona cruciale per i commerci con l’alta pianura udinese, nella quale si registrò un recupero delle costruzioni e l’ampliamento degli abitati. Interessò massicciamente il Nord-Est, dal Veneto all’Istria, una fase protoveneta caratterizzata da una straordinaria mobilità e da un’intensa circolazione di genti, di merci e di idee. 29 Nella precedente cultura delle Terramare le case erano costruite su piattaforme rialzate sostenute da palificazioni piantate sul terreno e i villaggi erano delimitati da un fossato in cui scorreva l’acqua derivata da un vicino fiume o canale. Complice l’abnorme siccità, il quadro della scomparsa delle Terramare portò a uno spostamento dell’asse economico dall’Emilia all’area veneta del Delta del Po, con l’emergere di Frattesina di Fratta Polesine – che fu importante tramite tra Europa centrale e Mediterraneo orientale. Il periodo seguente, cioè l’XI secolo avanzato, pare caratterizzato da nuove modifiche nell’insediamento e nella cultura materiale: siti precedentemente prosperi vennero abbandonati e dove c’era continuità i siti subirono radicali cambiamenti o dislocazioni. Sopravvissero invece i siti delle risorgive e dell’area pedemontana e rimase attivo il sito di Montereale Valcellina. Da sottolineare a Montereale, nei grossi vasi, il lungo perpetrarsi delle tipiche decorazioni con impronte di dito (in stile lusaziano) su cordoni che si ripetono a collana su tutto il vaso, forse stilizzazione di collane d’ambra se si considera il ritrovamento di vaghi d’ambra anche a Montereale. In questo periodo acquisirono importanza itinerari come quello che univa lungo le risorgive Santa Ruffina di Palse, San Giovanni di Casarsa e Colle Castelir; mentre il santuario di Sevegliano, a nord di Aquileia, indicava il passaggio di un’antica via sulla traccia preromana della Postumia. Una migrazione in Istria dal territorio della Croazia nord-occidentale avvenne tra il XII e l’XI secolo a.C. da parte di popolazioni provenienti dalla valle del Basso Danubio alle quali si erano uniti gruppi discesi dalle Alpi sud-orientali e dalla fascia settentrionale dei Balcani: agli Istri si deve l’estinzione di molte tipiche alture fortificate dell’età del Bronzo (castellieri) e l’introduzione della pratica dell’incinerazione, il che permette di ricondurre questo popolo – o più correttamente mescolanza di popoli – alla cultura dei Campi di urne, le cui pratiche funerarie restarono poi immutate in Istria per tutto il millennio successivo. Una fase di grande prosperità in Istria, ma anche nell’area tra Sile e Tagliamento, si affacciò a partire dal X secolo, innescata dai traffici commerciali di Frattesina di Fratta. Con la prima età del Ferro, nel IX secolo, Oderzo assunse un ruolo di primo piano Esempio di ceramica di Este simile quale centro di scambio tra costa e interno. Infine, a Este la fase più antica della città alle urne della civiltà di Lusazia. 30 è testimoniata nello stesso secolo da un paio di tombe che consentono di stabilire una corrispondenza con la tarda età dei Campi di urne in Slovenia. Tipica a Este la fibula ad arco spesso, mentre l’arco sottile a tutto sesto fu comune anche a Bologna e San Canziano (Slovenia). Da sottolineare le profonde radici della cultura atestina in quella dei Campi di urne, della quale fu a tutti gli effetti una continuazione, in cui il rituale funerario sopravvisse identico. È artificioso usare il IX secolo come discriminante tra Campi di urne prima e Veneti antichi poi, in quanto siamo di fronte alla continuità e allo sviluppo di una stessa tradizione, quella dei “Lusaziani per sempre”. Fibula, Alle soglie della svolta protourbana l’area della cultura dei Campi di urne Slovenia. era oramai alquanto vasta: a sud arrivava a Bologna, mentre a est interessava in Slovenia Lubiana, Križna Gora (Postumia) e, sul Timavo, San Canziano. Queste necropoli slovene sono il naturale punto d’incontro tra i sepolcreti del Nord-Est e quelli a nord delle Alpi: il gruppo medio-danubiano di Ruše, insediato lungo la Drava e le colline del Kozjak (Maribor), è infatti frutto della discesa a sud del gruppo di Baierdorf-Velatice. A Lubiana gli oggetti metallici usciti indenni dal rogo venivano spezzati ritualmente e i vasi, contenenti cibi e bevande, venivano forati nel desiderio di renderli non più utilizzabili. Generalmente queste necropoli slovene erano tutte a incinerazione, come per esempio presso San Canziano quella di Brežec, ove la deposizione dei resti cremati avveniva direttamente nella terra, senza ossuario. Dunque a sud e a nord delle Alpi nella tarda età dei Campi di urne c’era l’assoluta predominanza della pratica incineratoria, mentre l’inumazione veniva ignorata. Si presumono delle credenze religiose connesse alla sfera celeste, data l’associazione con numerosi reperti ornitomorfi – tipo alari fittili, bicchieri, coperchi e carri con uccello. Il rituale dello spargimento delle ceneri si rinviene a nord delle Alpi nelle necropoli bavaresi e austriache. L’uso di aspergere le ceneri dopo la cremazione è un costume attestato anche nel mondo omerico e peraltro la consuetudine dei Campi d’urne di deporre il defunto sulla pira, abbigliato secondo il ruolo esercitato in vita, ricorda l’episodio di Eracle che sale armato sulla pira per rinascere immortale in un’eterna giovinezza. Gli abitati austriaci, per esempio Hadersdorf o Sankt Andrä (Tulln), in quanto tramite con i Campi di urne del Nord Europa erano di grande importanza per le relazioni con il Veneto e con il Friuli. Il territorio austriaco era, tra quelli della regione circumalpina orientale, uno dei più ricchi relativamente alla tarda età dei Campi di urne. Si distinguono ben cinque gruppi austriaci, cioè il gruppo Linz-St. Peter nel Salisburghese, lo Stillfried in Bassa Austria e in Burgenland, il gruppo del Tirolo settentrionale, quello del Voralber e infine quello della Stiria e Carinzia, legato al gruppo sloveno di Ruše. 31 Distribuzione dei castellieri. I CASTELLIERI Un castelliere (disegno di Alessandro Varini). L’origine degli abitati stabili del Caput Adriae, cioè del comprensorio dell’Alto Adriatico che va della pianura veneta orientale all’Istria, è ricondotta ai castellieri. La nascita di questo fenomeno – con gli esempi di Sedegliano in Friuli, Castellazzo di Doberdò nell’Isontino, Slivia e Rupinpiccolo sul Carso, Moncodogno ed Elleri in Istria – è datata tra la fine del Bronzo antico e gli inizi della media età del Bronzo, ossia tra circa il 1800 a.C. e il 1600 a.C., per concludersi poi nel III-II secolo a.C.. Numerosissimi in Istria e nel Carso, i villaggi di capanne rotonde in pietra dei castellieri erano edificati sulle alture e cintati con mura a secco, larghe fino a cinque metri e alte anche sette. In Friuli in modo sempre più marcato si affiancarono ai cjastelîr (gradiscje in slavo) gli aspetti iniziali della cultura dei Campi d’urne centroeuropei. Dopo l’abbandono della bassa pianura (vedi abitati non arginati, in giallo, a p. 33), comparvero infatti in diversi siti a metà Friuli, a partire dalla fascia delle risorgive, elementi formali e stilistici dei Campi di urne centroeuropei mutuati prima da oriente dall’espansione della cultura di Virovitica, con la tipica decorazione a costolature oblique “a onde” sulla spalla di scodelle a orlo rientrante o di tazze lenticolari a collo distinto, e successivamente da nord dalla migrazione del gruppo Baierdorf-Velatice, associata con la ceramica che presenta gli aspetti lusaziani delle punte sporgenti sul profilo tra corpo e collo. La tipologia centroeuropea si diffuse anche nel Friuli occidentale fino a Montereale Valcellina, insieme alle tazze con spalla decorata “a turbante”, che rappresentano modelli comuni con i reperti della Pannonia (Ungheria). 32 Il Friuli meridionale e occidentale durante l’età del Bronzo recente (1340-1200 a.C.). Gli abitati non arginati della Bassa Friulana intorno alla Laguna di Marano e nel Pordenonese, mentre nella fascia appena più a nord nella pianura si notano i castellieri. Cosa accadde ai castellieri istriani quando parte dell’Europa nel 1200 a.C. fu in preda a sconvolgimenti epocali? Ricordiamo dall’odierna Croazia la migrazione degli Istri, popolazione originaria della valle del Basso Danubio e portatrice della cultura dei Campi d’urne, che “si sovrappose” proprio tra il XII e l’XI secolo a.C.: ciò comportò l’estinzione di molti castellieri e l’introduzione dell’incinerazione, per cui le necropoli dell’età del Ferro furono poi tutte a cremazione; i resti dei cremati venivano deposti entro buche scavate nel terreno e più spesso entro urne di terracotta. Le genti che avevano sede nei castellieri preistorici (castricoli) subirono assai poco l’influenza celtica, specie in Istria; molto più frequenti appaiono invece gli indizi dei rapporti avuti dai castricoli con i Veneti di Este. Nei materiali ceramici dell’area di Trieste (Cattinara) si può percepire, dalla metà dell’VIII secolo a.C., l’influsso culturale veneto, particolarmente evidente in gran parte del territorio triestino tra VI-V secolo e la metà del IV – epoca a cui risalirebbe la fine di molti castellieri, tranne quelli di Duino e Cattinara. 33 «Superiormente ai Veneti stavano i Carni», scrive Strabone nella sua Geografia. In Friuli, il castelliere di Sedegliano fu considerato dai primi studiosi un villaggio fortificato abitato dai Veneti del IV secolo a.C. a difesa dai celti Carni appena insediati poco più a nord. In realtà recenti indagini archeologiche hanno fissato il primo impianto del villaggio fortificato al XIX secolo a.C., quando fu innalzata una struttura difensiva di limo argilloso larga sei metri e alta uno, munita di un fossato interno e di uno esterno. L’abitato protostorico di Sedegliano rappresenta uno degli esempi di villaggio fortificato friulano il cui terrapieno ha meglio conservato la sua struttura perimetrale difensiva. L’argine rettangolare, alto circa quattro metri con angoli smussati disposti in direzione dei punti cardinali, circonda quasi interamente una superficie di due ettari. Circa sette chilometri a sud sorgeva il castelliere di Gradiscje di Codroipo, modesto rilievo di forma quadrangolare con lati di circa cento metri, in posizione chiave al centro della pianura friulana presso l’attuale Parco delle Risorgive. Fu popolato dal XIV fino al X secolo a.C. e gli scavi hanno dimostrato nella frequentazione risalente all’età del Bronzo il passaggio dal rito dell’inumazione all’incinerazione. La documentazione di Gradiscje di Codroipo – frammenti ceramici cronologicamente significativi posti in relazione stratigrafica – ha evidenziato interessanti correlazioni tra indicatori ceramici veneti, tipo Peschiera, ed elementi del repertorio dei Campi d’urne medio-danubiani (seconda fase di Virovitica e gruppo Baierdorf-Velatice). 34 Tra gli abitati più antichi del Friuli risale al 1700 a.C. il castelliere di Udine, che era tre volte più grande rispetto alla media dei castellieri. Fu rinvenuto grazie agli scavi sotto palazzo Mantica (sede della Società Filologica Friulana) e oggi i giardini Ricasoli della piazza Patriarcato ne tradiscono i resti del terrapieno che proteggeva l’abitato a quel tempo. Il castelliere udinese chiudeva il suo perimetro proprio all’altezza dell’atIl castelliere di Udine (1700 a.C.), disegno tuale entrata della galleria Bardelli di Serena Vitri. – inglobando via Piave, via Gorghi, via Crispi, piazza Garibaldi e via del Gelso. Via Rialto coincide con il vallo ai piedi della salita del castello di Udine e già all’epoca il colle svolgeva la sua naturale funzione difensiva. I due laghetti piovani situati nelle odierne piazza Primo Maggio e piazza Garibaldi garantivano l’approvvigionamento per lo spegnimento degli incendi e fornivano l’acqua per il vallo difensivo che correva lungo il perimetro del castelliere. Il sistema insediativo udinese, oltre a esercitare il controllo sul territorio e sulle sue risorse, poteva rappresentare uno snodo per quella via di percorrenza dell’alta pianura friulana già ipotizzata anche per le fasi della media età del Bronzo in base all’analisi della distribuzione dei cosiddetti tumuli (monticelli di terra su sepoltura per inumazione del corpo dei defunti). Nell’età del Bronzo recente il castelliere di Udine, con i suoi venticinque ettari di ampiezza, sembra essere stato il centro principale dell’alta pianura udinese; attorno al grande abitato si organizzarono su rilievi naturali sia castellieri sia siti non fortificati di dimensioni minori. La popolazione locale aveva compreso l’importanza strategica del colle di Udine rispetto l’antica arteria commerciale dell’ambra, che costeggiava il fiume Torre e giungeva fino al Delta del Po. Udine si può quindi annoverare tra gli abitati di lunga durata del Friuli protostorico analogamente a Pozzuolo, Palse di Porcia, Montereale Valcellina, Redipuglia, San Polo-Gradiscata. Con la matura età del Ferro anche Udine, come altri abitati fortificati del Friuli centrale, sembra aver attraversato una profonda crisi, con la quasi completa assenza di testimonianze archeologiche fino all’età romana tardo-repubblicana. Un autentico castelliere sorgeva nell’Altopiano di Asiago presso il Monte Corgnon, come pure in Lessinia a Purga di Velo e nel promontorio alle pendici del massiccio del Cansiglio, ove pare fosse dedicato alla dea Vetusa. 35 I VENETI ANTICHI Nell’età del Bronzo finale a Frattesina di Fratta Polesine si manifestò un radicale cambiamento nel rapporto tra abitati e fiumi. Se prima i grandi insediamenti erano sorti in aree palustri e vicino corsi d’acqua minori, a partire dal 1200 a.C. vennero privilegiate le grandi arterie fluviali – come appunto il Po di Adria, ramo dell’antico delta. Frattesina è uno degli insediamenti più precoci degli antichi Veneti, caratterizzato dalla presenza di ingenti quantità di ambra baltica (che veniva qui lavorata) e dal rito dell’incinerazione presso le quasi novecento tombe della necropoli che il fiume divideva dal villaggio. Barca solare a Frattesina. Oggetto del culto solare trovato a Frattesina. Simbolo solare presso la cultura di Przeworsk, in Polonia. Viene riferito al dio celeste Svarog. Sorprende la constatazione che tra le urne di Frattesina e quelle della civiltà di Lusazia non vi sia solo un isolato elemento comune (che potrebbe anche essere casuale) ma più elementi presenti in entrambe le culture. Per esempio nell’urna a sinistra, che proviene dagli scavi della necropoli di Narde (XII-IX secolo a.C.), notiamo sia al collo le impronte di dito lusaziane sia le gobbe visibili anche nel profilo dell’urna lusaziana di destra (XII-XI secolo a.C.). 36 Urne lusaziane. Le punte che emergono tra corpo e collo dell’urna, circondate da onde concentriche, sono decorazioni tipicamente lusaziane (documentate anche nella cultura prelusaziana orientale di Trzciniec) e ricordano la punta di prua e di poppa di un’imbarcazione che traccia le onde sull’acqua; nel contempo la forma allargata a losanga del corpo sembra la carena di una Trzciniec. nave, quasi l’urna dovesse galleggiare. È ipotizzabile un simbolismo legato a credenze di una “navigazione” dell’urna nel mare o nel fiume dell’aldilà. Un mito citato da Platone narra di Er, guerriero della Panfilia (Anatolia): «Quando il suo corpo stava per essere arso sul rogo secondo l’usanza, Er si ridestò dal sonno mortale e raccontò ciò che aveva visto nell’aldilà. Le anime dei morti s’incamminavano lungo la pianura deserta e, fermatesi per riposare sulle sponde del fiume Lete, tutte tranne Er furono obbligate a bere l’acqua che dà l’oblio». L’attraversamento delle acque da parte dei morti è una credenza molto antica che compare nell’Iliade: «Venne a lui l’anima del misero Patroclo, / gli somigliava in tutto, grandezza, occhi belli, / voce, e vesti uguali vestiva sul corpo; / gli stette sopra la testa e gli disse: / “Tu dormi, Achille, e ti scordi di me: / mai vivo mi trascuravi, ma mi trascuri morto. / Dammi in fretta sepoltura, e io passerò le porte dell’Ade. / Lontano mi tengono le anime, fantasmi dei morti, / non vogliono che tra loro mi mescoli al di là del fiume, / e dammi la mano, te ne scongiuro piangendo; mai più / io verrò fuori dall’Ade, quando del fuoco mi avrete fatto partecipe”». L’Isola Bianca sulla foce del Danubio ricevette le ceneri di Achille e si narra che là l’eroe continuasse a vivere in forma misteriosa – insieme con Patroclo, Antiloco e la sposa Ifigenia. Nell’isola del bianco splendore approdò anche Elena, colei che nel biancore ebbe origine allorché la schiuma marina da cui nasceva Afrodite si rapprese nel candido guscio d’un uovo di cigno. Nel Mahâbhârata della tradizione induista l’isola di Çvetadvîpa è l’Isola Bianca, da taluni equiparata alla settentrionale terra iperborea. In essa uomini bianchi adoravano Nārāyaṇa (Viṣṇu), il cui nome deriva da nārā [le acque]. La citazione dei Veneti in rapporto all’ambra appare con Plinio: «Veneti quos Enetos Graeci vocavere» (Plinio tradusse il termine “Enetoi” dalla fonte greca a cui aveva attinto). Nel Bronzo finale il valico delle Alpi Carniche divenne il percorso principale della via dell’ambra che arrivava a Frattesina. La città ebbe un ruolo di primo piano nei traffici dal Baltico fino a Cipro non soltanto come “interporto” dell’ambra tra l’Europa e il mondo mediterraneo ma anche principalmente come centro manifatturiero di metalli, ceramica, osso e corna per prodotti da destinare all’esportazione; vi si trasformava il vetro in prestigiose collane e lungo le vie aperte dai Popoli del mare si importavano da sud-est materie prime di lusso, quali l’avorio di elefante o l’uovo di struzzo. 37 Il più antico nome etnico di cui le fonti sull’Italia nord-orientale ci abbiano conservato il ricordo è quello degli Euganei. Se i Veneti per occupare la loro sede definitiva dovettero scacciare gli Euganei «qui inter mare Alpesque incolebant» (Tito Livio, I secolo a.C.), significa dunque che i Veneti non erano autoctoni ma giunti dall’esterno. Almeno dal IV secolo a.C. si era diffusa l’opinione degli autori classici che Troia, urna in stile lusaziano. i Veneti fossero giunti nell’Alto Adriatico partendo, all’epoca della guerra di Troia, dalla sede in Paflagonia (Anatolia settentrionale). La città di Enete fu nominata quale città della Paflagonia dal primo storico greco, Ecateo di Mileto, ben nel VI sec. a.C. e, se diamo credito alle memorie mitologiche, è più antica della guerra di Troia perché era la reggia di Pelope, il nonno di Agamennone. Il troiano Antenore avrebbe guidato i Veneti fino alla fondazione di Padova e in età imperiale gli Antenoridi erano venerati ad Aquileia (Pindaro li presenta come eroi cavalieri). Pur con tutte le riserve circa la realtà o meno della leggenda di Antenore, l’epoca di Troia coincise di fatto con un aumento di popolazione nel Veneto. Infatti, l’istogramma del popolamento nel Veneto occidentale rapidamente si quadruplica in corrispondenza del Bronzo recente (circa metà XIIImetà XII secolo a.C. circa) rispetto all’epoca precedente. Pare che gli Euganei si estendessero originariamente dalle coste adriatiche fino alla Val Camonica e che fossero sopravvissuti solo in quest’ultima, angolo più remoto e più riparato del loro antico dominio. Infatti la cultura Camuna mostra continuità dal tardo Neolitico (inizio del II millennio) fino all’età romana. Nel commento di Servio all’Eneide compare il nome Velesus per l’ultimo re degli Euganei prima dell’invasione veneta; tale nome pare appartenere a substrato italico, essendo comune a Sabini e Volsci. In concomitanza con il declino finale di Frattesina (metà del IX secolo a.C.), si spostò verso la zona dei Colli Euganei il centro gravitazionale dei Veneti e l’area padano-veneta andò incontro a un radicale riassetto del suo territorio. Urna, Borgo Canevedo, XI secolo a.C.. 38 Este raccolse l’ampia eredità culturale di Frattesina e di Montagnana sulla via del fiume che sostituì il Po come nuovo asse portante, e cioè l’Adige. Già nel Bronzo finale (1200-1000 a.C.) e nella primissima età del Ferro (1000 a.C.) esisteva presso l’area Canevedo di Este un primo insediamento di notevole importanza riferibile a protoveneti dediti alla lavorazione in loco dell’ambra. L’abitato di Canevedo occupò un’ampia terrazza posta all’interno della valle fluviale dell’Adige e delimitata dalle scarpate. Tra i reperti, un’urna biconcava con gobbe lusaziane a punta di nave e la spada con elsa “a coda di pesce” Naue II tipo C, molto comune in Italia (dove viene chiamata Allerona) e presente con borchie d’oro nel corredo funebre della mobile élite di Frattesina. L’abbandono graduale della località di Canevedo e lo spostamento in un areale più elevato, all’inizio dell’VIII secolo a.C., fu forse causato da fattori ambientali relativi al mutato regime idrico del fiume. Nel contempo si assisté al concludersi della facies archeologica dei protoveneti e all’inizio di quella propriamente veneta, durante la quale il centro di Este dominò il territorio della Bassa Padovana per la prima parte dell’età del Ferro (classicamente la civiltà atestina o paleoveneta coprì l’arco tra 900 e 182 a.C.). A Frattesina le sepolture dei capi del lignaggio erano arricchite dalla presenza della spada e lo stesso rituale comparve a Este per i capi dei diversi gruppi gentilizi dell’VIII secolo a.C.. Este viene citata per prima nell’elenco delle città venete redatto da Plinio; il suo nome Ateste deriva dal fiume Adige, che all’epoca riceveva un ramo settentrionale del Po prima di andare a confondersi nell’Adriatico. Lo sbocco della comune foce rappresentava il principale punto di attrazione per coloro che giungevano in Adriatico alla ricerca dell’ambra. L’influenza di Este si estendeva fino ad Adria e alle sponde settentrionali del Po – confine con gli Etruschi di Felsina (Bologna) – e verso occidente la città controllava Saletto di Montagnana, Baldaria di Cologna Veneta, Lovaria di Villa Bartolomea, Gazzo e Oppeano. Nel V secolo a.C. i celti Cenomani si sostituirono ai Veneti a Verona provocando la crisi di Este e il sorgere dell’egemonia di Padova, come formidabile baluardo armato contro il pericolo celtico e poi contro gli Spartani di Cleonimo. Este, con i suoi quattro santuari e quale maggior fonte di iscrizioni venetiche, mantenne Naue II comunque il suo primato di capitale religiosa del popolo veneto. di tipo C. 39 IL PRIMO POPOLO DEL FRIULI A partire dall’VIII secolo a.C., epoca dell’introduzione della metallurgia del ferro, è possibile delimitare una vasta area in cui i motivi decorativi ceramici “a cordicella” erano uniformemente distribuiti dal Veneto orientale alla fascia tra Livenza e Tagliamento, con influenze che raggiungevano i principali siti della pianura udinese (Pozzuolo, Castions di Strada) e in un momento più avanzato finirono per coprire un’area ancora più vasta estesa da Este ad Aquileia. I vasi ossuari tipicamente atestini della necropoli di San Vito al Tagliamento sono indicatori della effettiva presenza dei Veneti nella Destra Tagliamento, come pure gli spilloni bronzei con testa a globetti multipli o le tazze con decorazioni “a borchiette”. Le evidenti somiglianze tra le facies ceramiche dei diversi insediamenti distribuiti tra Sile e Tagliamento non si limitano a indicare l’influenza veneta in quelle aree: denotano anche un importante ruolo di mediazione con i siti del Friuli centrale e tra questi Pozzuolo, che pare ricoprire un ruolo di primo piano. Circa dieci chilometri a sud di Udine, uno dei due castellieri di Pozzuolo era la sede del villaggio antico: una modesta altura sopraelevata di Ascia, una decina di metri rispetto alla pianura e denominata in friulano i Cjastiei S.Vito. (i Castelli). Nel periodo in cui la regione fu coinvolta in una rete di commerci a lunga distanza, tra l’ultimo Bronzo finale e l’inizio dell’età del Ferro, il ripiano venne munito di una cinta continua con poderose fortificazioni a terrapieno (ancora oggi visibili) – mentre da un lato era difeso dalle sponde del torrente Cormor. In una seconda fase, oltre alle attività di filatura e tessitura, si svilupparono gli impianti produttivi artigianali rilevati dal ritrova40 A sinistra: decorazioni “a cordicella” tra Veneto orientale e Tagliamento. A destra: tazza di Pozzuolo decorata “a cordicella”, simile a tazza di Este dell’VIII sec. a.C.. mento di una considerevole quantità di piccoli attrezzi e di materiale grezzo riferibile all’attività di bronzisti e intagliatori di oggetti in corno. Seguì un incendio con lo smantellamento delle officine e botteghe e con la ricostruzione della struttura terrazzata. Nel corso di una serie di scavi sono state riconosciute quattro necropoli a incinerazione ai piedi dei Cjastiei (località Braida Roggia, Selve, Fontane, Braida dell’Istituto) e sono state portate alla luce oltre centottanta tombe databili tra l’VIII e il V secolo a.C.. La ceramica trova maggiori analogie con i reperti di Montagnana (Padova) dell’VIII secolo a.C., mentre talvolta si denota una tendenza a reinterpretare in loco decorazioni di tipo veneto di forma alpina orientale. A differenza di molti altri castellieri, Pozzuolo non fu coinvolto nella crisi che investì il Friuli alla fine dell’VIII secolo a.C. e, anzi, nell’evoluta età del Ferro (V-IV sec. a.C.) si ebbe la quarta e ultima ristrutturazione del villaggio e la sua massima espansione. Secondo Giovanni Candido (1450-1528) il nome Udine deriva da Atina o Utina (da cui l’aggettivo Utinense), città dei Veneti antichi citata da Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia: «ex Venetis Atina et Caelina» [dai Veneti Udine e Cellina]. Nel 1776 il dotto Jacopo Filiasi, frequentatore del salotto di Giustina Renier, riprese questa etimologia di Udine e identificò Caelina nel torrente Cellina. La prima attestazione scritta della città risale al 983 con il diploma di Ottone II di Sassonia che assegna il castello di Udine al patriarca Rodoaldo: presenta la grafia «Udene», che durò almeno fino al Rinascimento. Non è infrequente la trasposizione delle consonanti nei nomi antichi, per cui Udene potrebbe in teoria anche avere una forma più antica: U(e)nede, cioè V(e)nede. Il suggerimento di questa etimologia troverebbe una qualche assonanza nel nome tedesco antico di Udine, cioé Weiden. Riguardo a Trieste, è probabile che prima della fondazione della colonia romana di Tergeste (in età cesariana e poco prima dell’incursione giapidica del 52 a.C.) vi fosse già un nucleo abitato con funzione emporiale. Il nome 41 della città deriva infatti da terg [mercato] e oggidì sia Tergeste sia Aquileia sono riconosciuti come nomi venetici di antichi empori preromani, sviluppatisi all’intersezione delle rotte costiere della Venetia orientale con gli sbocchi al mare degli antichi percorsi transalpini della via dell’ambra. I due porti raccolsero l’eredità mercantile delle popolazioni venetiche che, nella I tipici vasi veneti a fasce rosse e nere. A Pozzuolo, a fase di massima espansione Tricesimo e a Paularo compaiono i vasi interi, menverso oriente, controllavatre negli altri centri in rosso solo dei frammenti. no i traffici in tutto l’angolo nord-orientale della penisola italiana: area di frontiera e di scambio con le popolazioni celtiche e illiriche d’Oltralpe (per esempio i Carni, i Giapidi e specialmente gli Istri), divennero poi centri di smistamento del commercio romano in transito da e per i mercati d’Oltralpe. L’idronimo venetico Formio – appartenente al fiume Risano di Capodistria – sembra attestare che, per un certo periodo, i Veneti abitarono anche un buon tratto della costa a oriente del Timavo, da cui in seguito si sarebbero ritirati sotto la pressione degli Istri. Il territorio friulano tra i fiumi Tagliamento e Torre nell’inoltrata età del Ferro comprendeva alcune aree fortemente legate al mondo veneto. I vasi situliformi con piede distinto, decorati a fasce rosse e nere, erano i recipienti ceramici più caratteristici della cultura veneta e nell’area comparvero tra la fine del VII e il V secolo a.C.. Si può anche ipotizzare un’importazione dal Veneto nell’area lagunare di Carlino e Palazzolo, nella zona montuosa del Friuli settentrionale (Paularo) e nella pianura friulana centrale a Udine e Tricesimo; in ogni caso per Pozzuolo – ove oltretutto non mancano le iscrizioni venetiche – la notevole quantità di esemplari documentati fa propendere per una produzione locale e quindi per un vero insediamento di artigiani veneti. In Slovenia il vaso di tipo cordonato a fasce rosse e nere su piede è attestato a Santa Lucia di Tolmino fino al VI secolo a.C.. Tra gli esemplari più antichi i più numerosi sono quelli rinvenuti a Magdalenska Gora, sito nei pressi di Lubiana. Sarebbero di produzione locale anche le situle su piede che compaiono, soprattutto in contesti funebri, nella Slovenia centrale. 42 Il fiume Temavus, divinizzato nelle aree di Montereale Valcellina e di Gemona, è toponimo venetico proprio come il Timavo del Carso triestino. Il torrente Cellina percorre nel Pordenonese la selvaggia Valcellina e all’uscita le sue acque si infiltrano in un ampio ghiaione convergente più a valle in un altro letto ghiaioso, che inghiotte il fiume Meduna; le acque dei due torrenti riappaiono in superficie nelle risorgive di Cordenons, per poi scendere a confluire nel fiume Livenza. Tra VIII e VII secolo a.C. si spostò verso la pedemontana la via del traffico commerciale che connetteva le città venete con i territori d’Oltralpe, inducendo un periodo di prosperità a Montereale Valcellina. Nel tardo VI e il V secolo a.C. si accentuò e si ampliò la presenza veneta nella futura città di Caelina, in espansione per gli scambi con le zone metallifere delle Alpi orientali. Nell’età del Ferro il rame proveniva da giacimenti nelle Alpi austriache o slovene, mentre in epoca romana il ferro arrivava dalle miniere di Stiria e Carinzia attraverso il Canal del Ferro – che separa le Alpi Carniche dalle Alpi Giulie. Plinio nell’Historia Naturalis descrive l’abilità degli abitanti del Norico (in Austria) non solo nell’estrarre il minerale ma anche nel lavorare i metalli. In generale, le miniere propriamente friulane verranno sfruttate solo in epoca romana (tipo quella del monte Cucco, in Val Canale). A Montereale si svolsero direttamente attività di lavorazione e riciclaggio dei metalli, tra cui – oltre al bronzo e al ferro – anche il piombo. Nei pressi del sito, la necropoli del Dominu era un piccolo cimitero a incinerazione della prima età del Ferro (tra fine dell’VIII e VII secolo a.C.) ove trovarono sepoltura una trentina di individui. Quest’area funeraria molto probabilmente non era collegata con il villaggio protostorico principale di Montereale, ma con un abitato che pare occupasse le pendici della soprastante collina di Plans. Gli oggetti d’ornamento con perline di vetro o d’ambra e l’abbigliamento rinvenuti sono di tipo veneto, come pure le urne con “impronte di dito” sulla spalla. In quest’epoca, e anche in seguito, il Friuli appare dunque legato culturalmente soprattutto al Veneto euganeo e in particolare a Este. Nel tempo in cui i centri veneti prosperavano, molti abitati della pianura friulana furono abbandonati dopo l’VIII secolo a.C. e solo alcuni tra quelli di antica fondazione – tra cui Pozzuolo e Udine, oltre a Novacco – rimasero attivi fino al V secolo a.C.. Il castelliere di Novacco (Aiello), in particolare, sorgeva all’estremità orientale della linea delle risorgive alla confluenza di Àussa e Gorizzizza, in posizione strategica nella mediazione dello scambio di merci tra Veneto ed Europa centrale. Nuovi centri sorsero vicino alla costa tra l’VIII e il VII secolo a.C., mentre materiale specificamente veneto è più tardi attestato (II-I secolo a.C.) nella necropoli di Idria della Baccia, non lontano da Santa Lucia. 43 Veneti antichi, scene quotidiane di attività rurali e pesca (disegni di Paolo Fio Miante). Attività artigianali nel centro urbano: fusione dei metalli e tessitura. 44 Il sacerdote celebra la libagione e una donna lega all’albero un’offerta votiva. Oltre il fiume, la cerimonia funebre dell’incinerazione sulla pira. 45 I VENETI E I FIUMI Il fiume Vistola (a sinistra) e il Venedicus sinus nella geografia Tolemaica del I secolo a.C.. La rotta navigabile fluviale metteva in comunicazione i Veneti della Vistola e quelli dell’Ucraina tramite la vasta palude creata al centro dalle cinque confluenze del fiume Pripyat (nella regione della Polesia a cavallo tra Ucraina e Polonia). La via ponto-baltica fu infatti una delle più antiche vie dell’ambra attraverso le paludi del Pripyat e il corso del Dnepr (Borysthenes) fino al Mar Nero. L’espansione più orientale della civiltà di Lusazia, in base alle indicazioni della ceramica, si può peraltro tracciare nell’odierna Volhynia (Ucraina nord-occidentale) e fino ai tributari superiori del fiume Pripyat. Quello che si può affermare con certezza tramite i dati del radiocarbonio (14C) è che nel 650-510 a.C. ancora esistevano contatti tra le popolazioni delle foreste e delle steppe dell’area pontica del Mar Nero e le genti lusaziane in fase di declino. Nel II secolo lo storico e geografo greco Flavio Arriano, fonte così autorevole da essere stimato come “il nuovo Senofonte”, affermava che i Veneti furono scacciati dalle loro sedi anatoliche del Ponto Eusino (Mar Nero) dagli spietati pastori guerrieri Assiri, il cui impero dal IX al VII secolo a.C. dominò sulla Mezzaluna fertile, l’Egitto e gran parte dell’Anatolia. Tra le più antiche citazioni dei Veneti dell’Europa orientale, Eforo di Cuma (IV secolo a.C.) collocò i Veneti a nord del Mar Nero nell’area abitata dagli Sciti – avendo suddiviso il mondo nelle quattro parti di Scizia, Celtica, Etiopia e India. Con un versetto ambiguo il poeta romano Sesto Aurelio Properzio (I secolo a.C.) mostra di conoscere la posizione dei Veneti presso il fiume Hypanis, cioè il Bug meridionale, che nasceva dalla grande palude del Pripyat detta Mater Hypanis 46 e scorreva nell’Ucraina occidentale toccando l’odierna città di Vinnycja: «Tam multa illa meo diuisa est milia lecto, quantum Hypanis Veneto dissidet Eridano [...]». Prima dell’invasione dei Sarmati (I secolo d.C.) l’altopiano volino-podolico del corso superiore del Bug meridionale coincideva infatti con i circa cinquecento siti dei Veneti della cultura di Zarubintsy, villaggio a metà strada tra Kiev e Vinnycja. Poco distante, nell’angolo nord-occidentale dell’Ucraina (Galizia), nasce il Bug occidentale che attraversando la Bielorussia giunge fino in Polonia e presso Varsavia sfocia nel Narew per convogliare le acque subito nella Vistola. In realtà, il corso d’acqua misurato dalle sorgenti del Bug occidentale fino alla foce della Vistola è più lungo della Vistola presa da sola (1213 chilometri contro 1047) e in base alla lunghezza risulterebbe che la Vistola e il Narew sono affluenti del Bug. Storicamente però la Vistola è stata sempre considerata il fiume principale perché la sua portata è nettamente superiore. Nel I secolo d.C. Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia pone i Veneti in Sarmazia nell’area che si estende dall’Ucraina alla Polonia fino a raggiungere la Vistola: «Quidam haec habitari ad Vistulam usque fluvium a Sarmatis, Venedis [...] tradunt». Lo storico bizantino Giordane (Jordanes), che nacque a Cividale del Friuli circa nel 550, distingue gli Sclaveni a nord tra Dnester e Vistola (Viscla) e gli Anti a sud tra Dnester e Don: «La numerosissima tribù dei Veneti (Venethae), la cui denominazione va cambiando ai nostri giorni a causa delle diverse genti che la compongono e delle diverse regioni che queste vanno ad abitare, si divide primariamente in Sclaveni e Anti; paludi e foreste circondano le sue città». Curiosamente nella più antica cronaca russa, la Cronaca di Nestore, risulta che nell’anno 882 il principe Oleg di Kiev impose dei tributi agli Sloveni: non si trattava degli abitanti della Slovenia (Slovèncy) o di quelli della Slovacchia (Slovakì) e nemmeno degli Slavi in generale (Slavjàne), ma di una precisa tribù stanziata poco lontano da Kiev dato che il principe Oleg si recava di persona a riscuotere i tributi. Sloveni è anche un nome comune, in Polabia, a diverse tribù del Baltico che dal VI al XII secolo abitavano l’area intorno ai fiumi Oder ed Elba (Łobjo in sorabo), tribù note come Wenden dalle fonti tedesche e soprannominate «Veneti dagli occhi azzurri» nella Chronica Sclavorum di Helmold di Bosau (XII secolo). In Slovenia centro-occidentale, sia nel letto del fiume che scorre a Lubiana (Ljubljanica) sia nella zona paludosa a sud della città (Ljubljansko barje di Brezovica), una serie di ritrovamenti archeologici inerenti abbigliamento e strumenti rituali sono paragonabili a quelli dei siti classici dei Veneti di Este e Padova, come pure di alcuni luoghi di deposizione rituale della pianura friulana e della regione della Notranjska (oggi cuore verde della Slovenia meridionale e sede di un parco naturale). 47