EDOARDO
BORIA
DENTRO
Esaltata in epoca moderna dal pensiero razionalista, la coppia oppositiva ‘dentro ‒ fuori’ è stata
centrale nella nostra cultura sia come principio di organizzazione della convivenza che come
dispositivo concettuale per cogliere la complessità della realtà. Se un individuo è ‘dentro’ lo
spazio di uno Stato ne è un cittadino, se ‘fuori’ uno straniero. Come l’ubicazione di ogni persona
ne determina diritti e doveri così quella di ogni oggetto tende a individuarne alcuni caratteri.
Ma è ancora utile ragionare secondo una siffatta logica binaria oggi che si moltiplicano gli
oggetti che non sono ‘dentro o fuori’ ma, allo stesso tempo, ‘sia dentro che fuori’?
T
FUORI
rattare la coppia oppositiva ‘dentro – fuori’ già solo dal punto
di vista tecnico-grammaticale come semplici avverbi e preposizioni porterebbe via molte pagine. Figuriamoci come categorie del pensiero. Si giungerebbe inevitabilmente a un
voluminoso trattato. Anche perché non si può evitare di affrontare ciò che sta in mezzo e li divide rendendo evidente la loro differenza: il
limite. La sua vaghezza ontologica rende filosofica l’opposizione dentro –
fuori: dove finisce il ‘dentro’ e dove inizia il ‘fuori’? In che modo si possono
determinare i loro limiti? Ma poi, a quale fine farlo? Su queste questioni
Umberto Eco (I limiti dell’interpretazione, 1990) polemizzava con Jacques Derrida
(Marges de la philosophie, 1972) ma, visto che il tema tocca tutte le scienze,
posso permettermi di affrontarlo dalla mia specifica prospettiva disciplinare: quella del geografo politico. Anche perché mi confronto preventivamente con il problema vincolante di stare dentro lo spazio concessomi e non
andare fuori dalle mie competenze che, d’altra parte, investono frontalmente
queste categorie: come bello – brutto per l’Estetica, bene – male per l’Etica,
vero – falso per la Logica, la coppia dentro – fuori è d’ufficio un’antinomia
fondamentale su cui si arrovella da sempre (anche) la Geografia.
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EDOARDO BORIA
DENTRO – FUORI
TRA IL DENTRO E IL FUORI C ’ È IL LIMITE
Per semplicità conviene partire da ciò che sta in mezzo tra il dentro e il fuori,
cioè il limite, e guardare al caso più noto: il confine di Stato. La sua presenza
è fondamentale per quell’organismo politico. Senza dei confini chiari, riconosciuti e demarcati l’esistenza di uno Stato è pericolosamente messa in
discussione. La progressiva compartimentazione dello spazio politico attraverso dei confini è un processo che ha accompagnato l’emergere dello Stato
in epoca moderna quando la sovranità ha cominciato a riferirsi a un preciso
territorio. Precedentemente, nel Medioevo, la sovranità si rivolgeva invece
agli individui. Il sovrano non concepiva il proprio regno in termini geografici
ma demografici. Ciò comportava, ad esempio, che il sistema fiscale non
guardava, come oggi, alle proprietà fondiarie bensì alle categorie di persone:
una certa imposta ai mercanti, un’altra ai cavalieri e così via. Ne consegue
che il territorio non necessitava di precisi confini e la forma geografica delle
organizzazioni politiche assumeva frequentemente una configurazione a
‘macchia di leopardo’, con territori separati tra loro ma uniti dalla comune
fedeltà a un regnante. Invece la sovranità in epoca moderna si definisce,
come detto, in forma territoriale. Il territorio si carica allora di significato
politico perché «la nozione di territorio è in primo luogo e soprattutto di natura giuridico-politica: è un’area controllata da uno specifico tipo di potere»1.
Con la fissazione del confine, la posizione geografica diviene il principale
parametro per stabilire diritti e doveri. Non più l’appartenenza di ceto o di
sangue o di credo religioso professato: conta dove si sta. Se dentro o fuori
il perimetro di quell’organizzazione politica che ci riconosce come suoi cittadini. Tanta rilevanza comporta la necessità di rendere visibile questa differenza demarcando fisicamente il confine sul terreno e procedendo alla
stessa operazione ogni qual volta il confine si sposta.
Ma c’è di più, perché la stessa coscienza dell’identità nazionale troverà nel
territorio un proprio riferimento simbolico primario: gli italiani si identificheranno con il ‘loro’ stivale, i francesi con il ‘loro’ esagono e, in generale,
ogni comunità nazionale svilupperà un particolare senso di attaccamento a
un territorio. In questa prospettiva il confine tenderà, dunque, a essere considerato un elemento di separazione non solo di sovranità ma anche di culture differenti. «La sovranità territoriale è un attributo indispensabile delle
nazioni indipendenti; il territorio è la base fondamentale sulla quale riposa
l’esistenza nazionale, il “sacro suolo” per la cui difesa i veri cittadini saranno
spinti a dare le loro vite»2.
1. PAASI 1996, p. 17
2. GOTTMANN 1973, p. 15.
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Si sviluppa dunque in età moderna quella distinzione fondamentale dello
spazio politico in un dentro e in un fuori che opera tanto a livello pratico definendo giurisdizioni differenti quanto a livello simbolico alimentando identità nazionali che prendono forza dalla logica oppositiva con l’altro che si trova
all’esterno dei confini. Dentro – fuori corrisponde quindi a cittadino – immigrato e compatriota – straniero3. In una visione conflittuale, anche ad amico
– nemico4. Il confine viene a materializzare tali distinzioni, che interessano
sia il livello individuale sia quello collettivo. Rappresenta una struttura spaziale con funzione di discontinuità non solo giuridico-politica ma anche simbolico-psicologica.
PERCHÉ DIVIDERE ? LA RAGIONE PRATICA E QUELLA COGNITIVA
Emergono dunque le due ragioni fondamentali per le quali l’uomo divide il
territorio: la prima è di ordine pratico e deriva dal fatto che la sovranità deve
trovare concretezza come esercizio di un potere effettivo che può svolgersi
solo quando si confronta con la realtà territoriale. Possiamo ancora richiamare Carl Schmitt e il suo interesse per la dimensione concreta del diritto:
non solo il presupposto della formazione di ogni comunità politica è quell’atto originario di appropriazione costituito dall’occupazione della terra, ma
l’ordinamento e l’organizzazione della convivenza tra gli individui sono inscindibilmente radicati nello spazio. Quello di ordine è, per lui, un concetto
intrinsecamente spaziale: dentro i confini abbiamo sicurezza e regole, fuori
caos e minacce5.
In quest’ottica il concetto di limite riguarda soprattutto l’efficienza del sistema: a scala nazionale, ridurre la vastità dell’insieme territoriale in unità
più ridotte ne facilita il governo e il controllo; a scala internazionale, la divisione secondo la logica interstatuale sancita con il Trattato di Westfalia (1648),
che ha affermato il riconoscimento reciproco delle sovranità territoriali degli
Stati, ha imposto il principio di territorialità come principio regolare dei rapporti internazionali. I confini fungono quindi da agenti di organizzazione del
sistema e criterio ordinativo di una particolare configurazione politica6.
3. ELDEN 2013.
4. SCHMITT 2013.
5. «All’inizio della storia dell’insediamento di ogni popolo, di ogni comunità e di ogni impero sta
sempre in una qualche forma il processo costitutivo di un’occupazione di terra. Ciò vale anche
per ogni inizio di epoca storica. L’occupazione di terra precede l’ordinamento che deriva da essa
non solo logicamente, ma anche storicamente. Essa contiene in sé l’ordinamento iniziale dello
spazio, l’origine di ogni ulteriore ordinamento concreto e di ogni ulteriore diritto. Essa è il ‘mettere
radici’ nel regno di senso della storia» (SCHMITT 1991, p. 27).
6. GALLI 2010.
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Lo specifico disegno a cui questa interpretazione del confine dà luogo si traduce in un mondo composto da tanti soggetti politici sovrani quanti sono
gli Stati, ognuno avente piena ed esclusiva sovranità su un territorio specifico e definito da ben precisi confini lineari. Quello di confine rigido è, pertanto, un concetto fondamentale per produrre la narrazione di un mondo
normalizzato, regolato, perfettamente disciplinato, dove il dentro è il regno
dell’organizzazione mentre il fuori è quello del disordine. Kosmos versus kaos.
Inoltre, nella concezione moderna della sovranità il confine svolge la propria
funzione solo quando si riduce a una linea finissima, che implica una divisione netta tra un dentro e un fuori. Ogni altra soluzione confinaria, ad esempio attraverso delle fasce prive di sovranità esclusiva ma regolate da una
cooperazione comune, è bandita. Questa specifica modalità di divisione del
territorio attraverso delle linee si è estesa dal campo della politica a ogni
fenomeno della società. Così le carte geografiche usano separare con limiti
lineari non solo gli Stati ma anche fenomeni sociali (ad esempio, quartieri
ricchi e quartieri poveri sono divisi da precise arterie urbane), culturali (le
carte delle religioni e delle lingue individuano precise aree del mondo), economici (le aree dove si produce una certa coltura agricola o un certo prodotto industriale occupano un’area precisamente delimitata).
La differenziazione in aree discrete e la saturazione completa dello spazio
rappresentano due delle prassi concettuali sullo spazio più longeve e radicate dell’intero pensiero occidentale. Visto che non sono limitate alla dimensione politica, si può allora immaginare che abbiano costituito la
modalità dominante di concettualizzare lo spazio sociale, nel senso che
l’uomo moderno si è abituato a comprendere il mondo dividendolo attraverso membrane di separazione rigide.
Ecco allora la seconda ragione per la quale l’uomo divide lo spazio, ed è di
tipo cognitivo: questo esercizio di razionalizzazione consente la comprensione e l’intelligibilità del mondo. «Un universo comincia a esistere quando
il suo spazio viene distinto dal resto». Ispirati da questa intuizione del matematico inglese George Spencer-Brown7, le scienze cognitive hanno elaborato l’idea che quando un fenomeno è troppo complesso per essere
interpretato, gli individui tentano di afferrarlo semplificandolo in parti.
La prima forma di semplificazione è infatti questo «atto originale di distinzione», che consiste nel porre dei limiti, classificare, organizzare tassonomicamente. In altre parole, tracciare dei limiti produce differenze, fa
emergere le singole parti che, distinguendosi, acquistano significati coerenti,
chiari, comprensibili. Dare un ordine alla realtà è il requisito basilare per
coglierla cognitivamente.
7. SPENCER-BROWN 1972, p. 39.
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DENTRO – FUORI
È quanto fa, ad esempio, lo storico quando dà limiti al tempo per distinguere i periodi e le ere. L’età moderna nasce nel 1492 con la scoperta dell’America e finisce nel 1789 con la Rivoluzione francese oppure, per altre
scuole, nel 1815 con il Congresso di Vienna. Ma non è la disputa storiografica il punto. Il punto è che, in ogni caso, non si scappa dalla periodizzazione: c’è sempre un lasso di tempo (il dentro) e ci sono sempre due
estremi che lo racchiudono per distinguerlo da altri periodi (il fuori).
I periodi storici fanno con il tempo quello che le aree geografiche fanno con
lo spazio. Lo storico periodizza esattamente per lo stesso motivo per il quale
il geografo circoscrive: facilitare la comprensione individuando aggregati
coerenti separati da linee di frattura che sono, appunto, i limiti. Infatti, se
la storia è complessa lo è certamente anche la geografia: il mondo è un
grande spazio senza inizio e senza fine. Tendiamo dunque, in un riflesso
condizionato, a semplificarlo. Uno strumento emblematico di tale operazione istintiva consiste nel tracciare dei limiti geografici perché analizzare
le singole parti del tutto è più agevole che analizzare l’insieme. Emergono
allora aree ragionevolmente omogenee al loro interno, (supposte come) dotate di senso, di un significato coerente, chiaro e comprensibile: ad esempio
i continenti, aree omogenee attorno a masse terrestri; oppure gli emisferi,
anch’essi dotati di discontinuità naturale con l’esterno; o, ancora, gli Stati,
cioè territori dove l’unitarietà fisica tende a coincidere con quella politica e
con quella culturale. Sono le convenzioni geografiche, note a ogni persona
di media cultura che però le accetta come categorie naturali, cioè date in
natura, e non costruzioni culturali come invece sono in realtà. Dunque categorie artificiali e per nulla scontate. Il problema si acuisce ulteriormente
pensando che il sapere geografico ha fornito queste categorie ad altri saperi
per organizzare il proprio quadro spaziale di riferimento. Si pensi allo statocentrismo delle scienze politiche8 o all’eurocentrismo degli studi storici,
almeno fino all’avvento della cosiddetta global history9.
Le «trappole della spazialità» sono già state argutamente intuite in passato
da studiosi evidentemente meno abbagliati dagli schemi del pensiero geografico: ad esempio Georg Simmel, che notava il carattere arbitrario di ogni
articolazione spaziale (Sociologia, 1908) o Algirdas Greimas quando affermava che ogni spazio acquisisce valore solo grazie al contrasto con un altro
spazio a lui opposto (Pour une sémiotique topologique, 1973).
L’osservazione della dialettica spaziale di Greimas è illuminante per cogliere i meccanismi di funzionamento dei processi cognitivi. Ogni topia
ha la propria eterotopia e può implicare una gerarchia tra i due: lo spazio della civiltà superiore a quello della barbarie, quello del sacro contro
quello del profano, del privato e del pubblico, del maschile e del femminile, del divieto e della trasgressione.
Si può aggiungere che la stessa opposizione topologica fondamentale,
quella tra terra e mare, è stata di enorme importanza all’uomo per appropriarsi cognitivamente del proprio ambiente di vita. Da essa è dipesa
la ripartizione basilare del mondo in continenti, termine la cui radice
etimologica è significativamente la stessa di «contenitore» che, nel distinguere il contenuto (il dentro) da quello che non lo è (il fuori) rivela
implicitamente il proprio valore identitario e politico10. Dall’idea di Europa e di Africa sono nate ideologie (paneuropeismo e panafricanismo)
che hanno ispirato progetti politici poi concretamente istituzionalizzati
(l’Unione europea e l’Unione africana). In questi casi il limite diventa
un fattore fondamentale sia per uniformare all’interno (culture, strutture organizzative, assetti di potere dei Paesi dell’area), sia per accentuare la percezione delle differenze con chi è – per convenzione – al di
fuori dell’area. Gli europei sanno perfettamente di essere molto diversi
tra loro, ma sanno ancora meglio che sono ancora più diversi dagli africani. La costruzione politica dell’Europa, dovendo individuare a fondamento del proprio progetto un’identità culturale comune che superasse
le – oggettivamente deboli – affinità culturali (lingue diverse, religioni
diverse, percorsi storici diversi), ha utilizzato il classico schema della
contrapposizione con l’altro: «sono europeo perché non sono africano»,
«sono europeo perché non sono asiatico».
La convenzione geografica assegna dunque una certificazione di civiltà.
Così facendo descrive metaforicamente una polarizzazione concettuale,
un’antitesi, esalta un’opposizione e ne fa percepire l’irriducibilità.
La logica binaria del confine lineare naturalizza la visione di un mondo
separato, oggettivizza delle aree politico-culturali come fossero prodotti
scontati della storia del mondo. La dialettica dentro – fuori consente
una serie di opposizioni che risultano fondamentali per dare ordine all’universo culturale di una società.
8. AGNEW 1994.
9. CONRAD 2015; MERIGGI 2017: in quest’ultima opera è significativa, ai fini del ragionamento,
l’affermazione: «globale significa soprattutto transregionale, intendendo per regione uno spazio che congloba società diverse e che non si lascia definire dalle linee di confine tracciate
dal sistema degli Stati e delle nazioni» (p. 6).
10. LEWIS – WIGEN 1997.
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DENTRO – FUORI
ALTRI SPAZI : FRONTIERE E RETI
Il confine lineare rigido impostosi in epoca moderna è solo un particolare tipo di confine, non certo l’unico che le organizzazioni politiche
hanno adottato nel corso della storia. Gli antichi imperi classici, ad
esempio, concepivano gradienti spaziali della sovranità in cui la capacità di esercitare il potere, l’influenza e il controllo sul territorio era
diversificata: al centro, nel luogo che fungeva da sede (se c’era) dell’autorità imperiale e nei suoi dintorni, essa era forte; più ci si allontanava dal centro e più si perdeva la presa sul territorio, fino a
diradarsi alle sue estremità. Conseguentemente anche il confine assumeva il significato meno rigido di frontiera. Nella sua ampia casistica troviamo le zone-tampone (buffer o border zones) e le marche di
frontiera, aree finalizzate non a separare bensì a proteggere dall’attacco e a facilitare nuove conquiste. Se il confine è una barriera politica di natura fissa che stabilisce un cambio di regime sovrano e
assume un’accezione di chiusura in funzione di delimitazione rigida
tra sovranità, la frontiera è l’intera regione di confine, l’area dove si
riverberano gli effetti del confine, la fascia ibrida dove si mescolano
elementi. Essa ha natura mobile e fluida, non richiama la chiusura
ma l’apertura agli scambi e alla conquista (si pensi alla frontiera del
West americano o della Siberia russa). La frontiera non marca un passaggio netto tra due sovranità ma è uno spazio di confronto, sia nella
sua declinazione pacifica di incontro che in quella conflittuale di
scontro. La diversa accezione rimanda a universi lessicali diversi se
non opposti: la frontiera richiama il «mettersi di fronte», «confrontarsi» e «affrontarsi», mentre il confine già nella sua radice latina di
«cum – finis» indica la fine di un territorio, il suo limite estremo. Il
divario tra i due concetti è costitutivo: dalla verticalità del confine all’orizzontalità della frontiera; dalle valutazioni quantitative del primo,
basate sulle misurazioni, alle valutazioni qualitative del secondo, basate sulle osservazioni; soprattutto, dalla chiusura all’apertura.
Il paesaggio di frontiera (borderscape) spicca per la sua eterogeneità.
Proprio per il suo carattere di spazio di transizione, non ha un canone
da rispettare. È dunque uno spazio libero, fluido, tendenzialmente
auto-organizzato, restio all’istituzionalizzazione e definito dalle pratiche del «popolo della frontiera». Predispone a un cambiamento
prospettando l’uscita da una realtà e l’entrata in un’altra, ma non è
nessuna delle due. Gli studi sulle frontiere si sono moltiplicati negli
ultimi anni. Tuttavia, hanno spesso indugiato sui suoi caratteri folkloristici senza riuscire a rimuoverne la concezione di dispositivo spa-
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ziale analogo al confine, se non nella forma almeno nelle funzioni, che rimangono fondamentalmente quella militare, quella commerciale e quella
giuridica. Pur sociologicamente più ricca del confine – e per questo più interessante da studiare – la frontiera è rimasta però, come questo, pensata come
una membrana che evidenzia l’esistenza dei due aggregati distinti e separati
presenti ai suoi due lati.
La discussione sui confini contemporanei e la loro presunta crisi ha prodotto
una ricca letteratura11 ma esula dal focus di questo scritto, a cui si chiede
invece di indagare la coppia dentro – fuori. Ma proprio a questo fine vale la
pena chiedersi se ciò che meriterebbe più attenzione non siano, invece degli
spazi ai due lati della divisione, proprio quegli spazi al suo interno. Se, cioè,
per capire meglio i nostri tempi non sia più produttivo studiare non il dentro
e il fuori ma ciò che sta in mezzo, che non è nell’uno né l’altro. Oppure è entrambi allo stesso tempo. Quegli spazi, cioè, che sfuggono alla topografia
manichea del confine, limitata a due sole possibili fattispecie: lo spazio interno opposto a quello esterno.
Negli ultimi tempi, insieme con la retorica della globalizzazione, si è diffusa
la concettualizzazione di una topografia alternativa, per usare l’espressione
di Dario Gentili12: quella dello spazio reticolare, che indurrebbe a ragionare
in termini di space of flows invece che di space of places13. La sua dimensione costitutiva sarebbe la connessione. Una logica di organizzazione spaziale che
muta la natura stessa dell’esercizio del potere, concepito in termini di controllo dei flussi più che di controllo del territorio.
Però anche lo space of flows, come il confine tradizionale, ha natura discreta
conoscendo due soli spazi: quello appartenente alla rete e quello esterno a
essa14. Anche qui la distinzione è dunque manichea: da una parte i buoni,
cioè i luoghi della rete, il dentro, dall’altra i cattivi, cioè quelli sconnessi, il
fuori. Si tratta, in ogni caso, di semplificazioni che negano l’esistenza di dimensioni spaziali altre, miste, ibride.
SUPERARE LA LOGICA DICOTOMICA
Perpetuare impostazioni fondate sulle distinzioni spaziali molto rigide del
tipo dentro – fuori non sembra più molto soddisfacente oggi se applicato
come uno schema fisso alla comprensione dei fenomeni sociali. Le distorsioni date da una lettura della realtà basata sulla distinzione tra due categorie
11. Tra i lavori dedicati al tema si ricorda BADIE 1996 e MEZZADRA – NEILSON 2013.
12. GENTILI 2009.
13. CASTELLS 1996.
14. KHANNA 2016.
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oppositive sono state già efficacemente evidenziate15. Di conseguenza, l’inadeguatezza di spazialità rigide nella definizione di categorie concettuali suggerisce operazioni di revisione ermeneutica.
Si prenda il concetto di popolo elaborato nel discorso ufficiale delle
scienze giuridiche e politiche moderne. Esso è visto, alternativamente, attraverso una serie di opposizioni secche: come una parte o
come il tutto della società, come il suo interno (i cittadini) o come il
suo esterno (gli stranieri), come l’alto (soggetto governante) o come
il basso (i governati). Queste distinzioni spaziali appaiono oggi riduttive, oscurando la visibilità di soggetti altri che non si collocano con
nettezza in una categoria o nell’altra. Studiare questi soggetti «devianti» fornisce indizi sui cambiamenti in atto, sulle trasformazioni
che hanno iniziato a prendere forma, su alterazioni del sistema magari
ancora piccole ma presagi di grandi mutamenti a venire. Essi sono,
certamente, ancora incompiuti, incerti e a rischio di non realizzarsi
mai, ma i soggetti che li esemplificano rivestono potenzialmente un
alto significato e sono meritevoli di essere indagati attentamente.
Data la mia appartenenza disciplinare al settore geografico non mi
avventuro a valutare quello che si dice in altre discipline dello schema
di ragionamento dicotomico. Suppongo però che, per quelle la cui
tradizione di pensiero è fortemente radicata nella modernità, sia più
difficile superarlo a causa del peso di quella tradizione. Così è stato,
per lo meno, per la geografia, a lungo ostaggio della logica binaria
anche per colpa della propria traduzione grafica, cioè la cartografia,
che ha pagato il dono della sintesi con la semplificazione localizzativa. Su una carta ogni luogo è una cosa e non può essere un’altra: se
è in Francia non può essere in Italia, se in montagna non al mare, se
in città non in campagna, se cristiano non musulmano. Su una carta
delle religioni non è ammesso dalla rigida logica razionalista della
cartografia moderna un luogo con due comunità religiose differenti.
Questo riduzionismo ha contagiato per secoli la geografia, ridotta a
nozionismo classificatorio. Non è più così, fortunatamente. La disciplina fa oggi dell’interrelazione tra luoghi un focus rilevante e ciò la
sta spingendo a problematizzare i vecchi schemi classificatori. Anche
rimanendo strettamente alla geografia fisica si riconosce che non esistono discontinuità, nel senso che i fenomeni naturali non conoscono
confini netti. Nel passaggio di Stato tra due punti contigui della superficie terrestre c’è sempre una gradualità.
15. SAID 1978.
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La stessa dicotomia già citata e vissuta come la più ovvia, quella tra terra e
mare, non ha limiti precisi: dove finisce, esattamente, la terra e dove inizia il
mare? A chi attribuire la fascia litoranea costituita dalla spiaggia, a volte
anche piuttosto ampia e variabile per effetto delle maree? Di chi è la battigia?
E come regolarsi nelle zone lagunari e paludose?
Questo approccio presenta un indubbio vantaggio euristico: stimola a osservare le differenze nello spazio piuttosto che le similarità, come invece era abituata a fare l’accreditata tradizione della geografia regionale. Ma ciò avviene
nella piena consapevolezza degli incessanti cambiamenti che lo spazio produce. Infatti la geografia contemporanea, rispetto a quella del passato, apprezza le differenze ma si ribella a una visione essenzialista dei caratteri degli
spazi. Nel caso dei caratteri culturali, ad esempio, questi non vengono deterministicamente considerati pre-esistenti e pre-costituiti, come se fosse il
luogo in sé a possedere le proprie specificità. Al contrario, la geografia tende
oggi a ritenere che queste specificità si definiscano in base alle interazioni e
alle connessioni con altri luoghi. Da qui il loro incessante mutamento e l’attenzione verso il concetto di «spazio relazionale».
Questo modo di fare geografia mette al centro della riflessione non il confine
ma la relazione; come sostiene Doreen Massey a indicare che è nello spazio
che le persone e le idee si confrontano, se il tempo è la dimensione del cambiamento, lo spazio è la dimensione del sociale16. Non per abbracciare un’ottica ottusamente strutturalista perché, in quella struttura pur unitaria che è il
mondo, le traiettorie possibili non sono meccanicamente già date ma sono
potenzialmente infinite. In questa nuova prospettiva anti-essenzialista e relazionale della vita politica e sociale, lo spazio è svincolato dalla costellazione
di concetti in cui la modernità lo ha immerso (staticità, chiusura, rappresentazione) per situarsi in un altro contesto di idee (dinamismo, apertura, pratiche). In questo spazio eterogeneo e relazionale il dentro e il fuori non esistono.
LA GEOPOLITICA , SENZA UN DENTRO NÉ UN FUORI
Un campo di studi che consente di verificare i limiti di un ragionamento per
spazi discreti, dunque un ragionamento tutto giocato proprio sull’esistenza
di un dentro e di un fuori, lo offre la geopolitica, qui intesa come forma di
pensiero sul mondo e non come azione di governo. La sua concezione dello
spazio si distacca sia da quella lineare della tradizione giuridico-politica sia
da quella reticolare dell’economia. Tutto nasce dalla realtà empirica e da ciò
che essa suggerisce. La geopolitica è infatti attenta all’esercizio effettivo del
17. DIODATO 2010.
16. MASSEY 2009.
88
potere e dunque tende a concentrarsi sulla realtà di fatto e non di
diritto. In quest’ottica, a fini di comprensione delle dinamiche politiche, ha agevolmente abbandonato le demarcazioni spaziali rigide,
passando dal focus sulle strutture formali delle istituzioni a quello
sui flussi reali di potere, dalle applicazioni rigide del diritto alle più
flessibili pratiche di governo.
In significativa divergenza con la disciplina delle relazioni internazionali, che le è affine per temi ma non per estrazione disciplinare in
quanto di derivazione politologica invece che geografica, la geopolitica non conosce la netta separazione tra politica interna e politica
estera. Per la geopolitica non c’è, o almeno non è netta, la differenza
tra un dentro e un fuori dello Stato perché il teatro degli eventi è
considerato nella sua unitarietà: le connessioni tra la politica interna
ed estera sono tanto forti che distinguerle non avrebbe molto valore
euristico. Stati e altri attori geopolitici competono nella stessa arena
e la vocazione globalista della geopolitica17 esclude divisioni precise.
La considerazione che si è fatta largo in geopolitica è che sia del tutto
artificiale e semplificata l’idea che la realtà sia composta da una molteplicità di parti distinte tra loro e irriducibilmente diverse. La realtà
è, al contrario, concepita come una rete di relazioni tra elementi interdipendenti che non ha senso studiare isolatamente in quanto assumono valore solo in relazione alla situazione complessiva. Ne è
prova quanto sta avvenendo ai grandi teatri del confronto geopolitico:
terra, mare, spazio aereo, spazio extra-atmosferico, cyberspazio. Ripercorrendo la storia delle loro apparizioni si riscontra, infatti, la progressiva perdita di significato dei confini che dovrebbero dividerli: se
il primo, la terraferma, era l’ambito di più agevole confinazione, già il
mare produceva le prime difficoltà perché privo di insediamenti permanenti e quindi di possibili rivendicazioni etniche, linguistiche o
storiche. L’avvento dello spazio aereo a inizio Novecento ha presentato difficoltà notevoli di compartimentazione, sia fisica che giuridica,
che sono divenute ancora più acute per lo spazio extra-atmosferico.
Infine, lo spazio più recente è anche quello per definizione meno segmentato: il cyberspazio. Non a caso sono tutti, a eccezione della terra,
dei global commons, cioè spazi condivisi e non sottoposti a una proprietà o a un controllo esclusivo.
Se in apparenza i confini tra questi teatri sembrano agevoli da identificare (la terra si distingue dal mare e questi a loro volta dal cielo
e così via), in realtà vi sono molti elementi che li mettono in comu-
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DENTRO – FUORI
nicazione e che dunque appartengono a più di un teatro contemporaneamente: i porti e i loro centri di ricognizione (fari, postazioni di avvistamento) sono terra e sono mare; analogamente, gli aeroporti e le loro
torri di controllo oppure le basi missilistiche sono strutture ubicate
sullo spazio terrestre ma intervengono in quello aereo, al contrario dei
droni, oggetti volanti adoperati per l’osservazione della superficie terrestre; e un dispositivo per navigare in Rete, di qualsiasi tipo esso sia
(dal grande elaboratore al semplice smartphone), pertiene allo spazio
da cui origina il collegamento ma anche al cyberspazio. Si tratta di elementi che sono, allo stesso tempo, dentro più teatri ma anche un po’
fuori. Termini che diventano qui non più separati da un trattino ma uniti
da una congiunzione: al ‘dentro – fuori’ si sostituisce il ‘dentro e fuori’.
A ogni nuovo teatro apparso si sono fatte sempre più frequenti le occasioni di connessione e sempre più diffusi gli apparati che svolgono
questo compito di collegamento. Nel corso della storia, i due grandi
teatri classici di terra e mare venivano connessi solo in occasione di assedi navali. L’entrata del Commodoro Perry con il suo squadrone nelle
acque della baia di Edo (1853) segnò la fine dell’isolazionismo giapponese e confermò la lunga tradizione di minacce provenienti alla terra
dal mare. Ma queste minacce erano destinate a moltiplicarsi grazie all’avvento del volo e delle portaerei che congiungevano terra, mare e
spazio aereo. I satelliti, con le loro osservazioni a distanza del pianeta
Terra, aggiungevano anche lo spazio extra-atmosferico. Fino ad arrivare
al trionfo della connessione tra una pluralità di spazi che viviamo oggi.
Internet connette tutti i grandi ambienti di vita dell’uomo congiungendo lo spazio virtuale dei flussi con tutti gli altri spazi reali. Il traffico
si svolge in rete ma gli operatori e le loro società operano in sedi fisiche.
Il mondo della finanza, emblema delle comunicazioni a distanza con i
collegamenti istantanei tra le borse del mondo, interagisce con il
mondo reale della produzione e del lavoro. Milioni di smartphone e
personal computer saldano il mondo concreto con quello virtuale18.
La proliferazione di apparati che mettono in contatto tutti questi diversi
spazi rende sempre più incerta l’individuazione dei loro confini. Quindi
dei loro dentro e fuori. Non è solo che i caratteri dell’uno si trasmettono
all’altro attenuando le loro individualità. In realtà pare di assistere alla
creazione di territori nuovi, paesaggi nuovi, nuove dimensioni spaziali
che si aggiungono ai cinque teatri classici della geopolitica. Considerarle ibride intercapedini sembra riduttivo. Più giusto, forse, vederle
come originali soggetti spaziali dove le relazioni si coagulano.
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Inoltre, è chiaro che il dentro e il fuori hanno un senso nella misura in cui sono in grado
di individuare ambiti ben distinti e connotati. Ma se questi ambiti divengono sempre
più indistinguibili appare inutile verificare cosa ricada dentro e cosa fuori. I caratteri
dell’ente che sta dentro o che sta fuori non saranno determinati dalla sua posizione ma
da altro. I diritti di una persona o le tasse da pagare su una merce non dipenderanno
da dove si trova, da dove proviene o da dove è diretto, perché non saranno queste localizzazioni a stabilirle. In un mondo dove anche le separazioni tra grandi aggregati culturali sono sempre meno nette e chiare, dove questi aggregati non si incontrano solo
ai bordi delle loro aree originarie ma oggi sempre di più al loro interno per via della
compresenza di una molteplicità di culture nello stesso luogo (ad esempio i quartieri
etnici delle città), una delle grandi sfide che abbiamo di fronte sta nel riflettere se sia
ancora utile ragionare in termini contrastivi di ‘dentro o fuori’ oppure non sia ora di cominciare a considerare più seriamente ciò che è, allo stesso tempo e proprio nello stesso
luogo, ‘dentro e fuori’. Non è solo questione di congiunzioni
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RIVISTA ITALIANA DI INTELLIGENCE
GNOSIS 3/2019
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