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Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
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Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
Edizione Luglio 2022 – N. 5
Rivista universitaria torinese di Storia Militare
I progressi di Arma VirumQue
Redazione
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Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
Arma VirumQue. Rivista universitaria torinese di Storia Militare.
Edizione di Luglio 2022, Numero 5, 15 luglio 2022.
Redazione composta da
Francesco Biasi, Vittorio Cisnetti, Luca Di Pietrantonio, Davide Montesion, Han Pedazzini,
Fabio Saksida, Flavio D. Utzeri.
Diretta e fondata da: Francesco Biasi (a cura di)
Contatti: arma.virumque.to@gmail.com
Sito web: https://armavirumqueto.altervista.org/
Periodico web ex Art.3 bis, comma 1, L.103/2012.
In copertina:
« Les armées mongoles durant la Prise de Bagdad par l'armée d'Hulagu», Le Devisement du
monde, MS 5219, f. 21v., 1520-1530, Paris, Bibliothèque Nationale de France – Arsenal, Maître
des Entrées parisiennes.
Unión popular Cristera, fotografia, 1928, Museo Nacional Cristero.
Testa di Amasi, ca. 550 a.C., rinvenuta a Sais, Berlino, Ägyptisches Museum und
Papyrussammlung, Altes Museum.
Hyacinthe DE LA PEIGNE, La resa di Asti, Palazzo Reale di Torino (particolare).
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
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SOMMARIO
Arma VirumQue A.P.S.: pubblicazioni,
conferenze e convegni.
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Redazione
Attività e impegni di Arma VirumQue.
Delazione, collaborazione e tradizione.
La trasmissione dell’informazione navale egiziana
alla Persia e i suoi canali
Vittorio Cisnetti
La trasmissione delle conoscenze e competenze marittime
dell’Egitto saitico alla Persia achemenide, sullo sfondo della
campagna di Cambise del 525 a.C.: presunte delazioni ed
episodi di reale collaborazione, tra interpretazioni greche e
fonti locali.
Dal cesarato alla battaglia di Argentoratum.
La prima fase della campagna gallica del cesare
Giuliano Giulio Vescia
26
Attraverso l’analisi delle fonti principali, si cerca di
descrivere la prima fase della campagna gallica di
Giuliano, pianificata per far fronte alle pressioni sul
Reno da parte degli Alamanni nel IV secolo, fino alla
battaglia di Argentoratum.
Arma VirumQue A.P.S.: nascita di un’associazione.
Redazione
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Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
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Castra e Castella bizantini in Calabria tra storia,
archeologia e memoria. [Parte II]
Francesco Biasi
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Analisi e studio delle fortificazioni bizantine in Calabria,
con una particolare attenzione al loro impiego nei secoli
successivi alla dominazione costantinopolitana e alla
sopravvivenza della loro memoria in età moderna.
“Il saggio che ascolta diventerà più saggio”.
Alcuni suggerimenti dei primi Frati
Mendicanti in Estremo Oriente su come
affrontare i Mongoli in guerra –
81
Giovanni Di Bella
Dopo il 1240, la sede apostolica inviò diversi frati
tra i Mongoli, alcuni dei quali, nei loro resoconti,
diedero dei suggerimenti su come i Latini
avrebbero dovuto affrontarli in guerra.
Il Regno di Sardegna (ed il suo esercito)
nella Guerra di Successione austriaca: la
nascita di una Savoy way of war?
Marco Cencio
La preparazione, la conduzione e lo sviluppo della
dottrina, dei piani tattici ed operativi dell’esercito
sabaudo durante la Guerra di Successione Austriaca
(1740-1748), sono esemplificativi della Savoy way of
war e sono la base dell’Italian way of war.
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Von Moltke: lo stratega della grande Prussia
Enzo Bosco
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L’unificazione tedesca non fu creazione del solo
Bismarck. La guerra fu alla base della nascita della
Germania, grazie anche a von Moltke. Attraverso
l’analisi di tre battaglie si descriverà la sua strategia che
portò alla nascita del secondo Reich.
Tra cristeros e federales. Il conflitto religioso
messicano negli anni Venti e Trenta
Federico Sesia
Dall'indipendenza agli anni Trenta il Messico ha vissuto
una stagione di conflittualità tra Stato e Chiesa, che è
ciclicamente sfociata in conflitti armati che per certi
aspetti ricordano le guerre di Vandea. Il momento più
emblematico di tale dinamica è la guerra dei cristeros del
1926 - 1929.
«L’eroico colpo da maestro»: l’assedio di
Torino e la battaglia di Ramillies.
Francesco Biasi, Luca Di Pietrantonio, Davide Pafumi
182
Continua la traduzione de «L’eroico colpo da maestro»,
pamphlet tedesco del Settecento. In questo capitolo si
iniziano le operazioni d’assedio. Ci sarà poi un
approfondimento su un importante scontro avvenuto
contemporaneamente: la battaglia di Ramillies.
Arma VirumQue A.P.S.: nascita di un’associazione.
Redazione
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Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
Arma VirumQue A.P.S.: pubblicazioni, conferenze e convegni.
Redazione
Dall’edizione del IV numero, Arma VirumQue ha continuato ad essere una realtà molto
dinamica, soprattutto sul territorio torinese. Grazie alla collaborazione con l’Associazione di
Storia Contemporanea di Macerata abbiamo partecipato all’ultima edizione del Salone del
Libro di Torino. Ma siamo soprattutto molto orgogliosi del nostro lavoro a favore delle
circoscrizioni di Torino. Abbiamo infatti proposto nelle Circoscrizioni 2 e 3 dei laboratori
scolastici per gli Istituti Scolastici di primo e secondo grado, volti all’insegnamento
dell’Educazione Civica. All’interno dei progetti, saranno sottoposte delle fonti agli studenti
al fine di favorire il pensiero critico storico. Al termine, questi documenti – che andranno a
formare un piccolo fascicolo – si scopriranno essere le basi di alcuni nostri valori e istituzioni
repubblicani.
Siamo molto contenti, inoltre, di aver potuto fornire il nostro apporto agli eventi per la
festività del patrono di Torino San Giovanni. Abbiamo infatti potuto illustrare le nostre
attività all’interno dell’evento “Circoscrizioni in mostra”, allestito all’interno del Borgo
Medievale del Valentino. Si ringraziano per questa splendida occasione la Giunta della
Circoscrizione 3, in particolare il coordinatore della V Commissione Emanuele Busconi.
Per la presentazione in conferenza di questo V volume si vuole ringraziare il Club Scherma
Torino di Villa Glicini per averci ospitato all’interno dei suoi meravigliosi spazi. È inoltre
doveroso un ringraziamento alla Giunta della Circoscrizione 8, nella persona del suo
presidente Massimiliano Miano, per averci concesso il patrocinio. Si ringraziano per la
concessione del patrocinio anche il gen. Franco Cravarezza per il Museo Pietro Micca e della
Città di Torino 1706, e Virgilio Ilari per la Società Italiana di Storia Militare.
Grazie all’interesse suscitato nelle nostre pubblicazioni, Arma VirumQue è stata invitata nella
partecipazione e organizzazione di un convegno che si terrà in Calabria il 24 luglio presso
Motta Filocastro (VV). Si tratta per noi di un impegno che riteniamo molto importante, in
quanto dimostra nuovamente quanto il nostro lavoro venga apprezzato e riconosciuto anche
al di fuori dei confini della regione Piemonte e in realtà molto differenziate. Il titolo
dell’incontro sarà: “Motta Filocastro: Storia e Memorie di un paese di Calabria”.
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Si ringrazia per questa splendida occasione l’Associazione Culturale Il Tocco rappresentata
dal suo presidente Graziano Cencio, promotrice e organizzatrice dell’iniziativa, volta alla
divulgazione storica del territorio calabrese.
Arma VirumQue A.P.S.: pubblicazioni, conferenze e convegni.
Redazione
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Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
Questo numero si aprirà con l’intervento di Vittorio Cisnetti sullo spionaggio persiano
seguirà poi l’articolo di Giulio Vescia sulle campagne del cesare Giuliano. Per la storia
Medievale proseguirà Francesco Biasi sulla seconda parte sulle fortificazioni della Calabria
Bizantina. Inoltre, Giovanni Di Bella ci parlerà dei suggerimenti dei frati in Estremo Oriente
su come combattere i mongoli. Saremo poi trasportati nel pieno dell’età moderna da Marco
Cencio che tratterà sulle forze armate sarde durante la guerra di Successione Austriaca. Enzo
Bosco analizzerà le strategie militari di Von Moltke che porteranno all’unificazione tedesca.
Infine, Federico Sesia ci parlerà degli scontri religiosi in Messico tra anni Venti e Trenta.
Infine, riprende la trascrizione e traduzione del manoscritto satirico tedesco sull’assedio di
Torino da parte di Davide Pafumi. Anche in questa edizione sarà presente un apparato
prosopografico elaborato da Luca Di Pietrantonio e un approfondimento di Francesco Biasi
sulla battaglia di Ramillies e le sue conseguenze nell’assedio torinese.
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Delazione, collaborazione, tradizione.
La trasmissione dell’informazione navale egiziana alla Persia e
i suoi canali
Vittorio Cisnetti
La rapida irruzione delle armate persiane nei quadranti più occidentali dell’Asia, a partire dalla
metà del VI secolo a.C.1, rappresentò il più importante e radicale mutamento degli equilibri
geopolitici che da alcuni secoli, pur con rivolgimenti reciproci ma non sostanziali,
sussistevano nelle vastissime regioni dell’Asia Minore e del Levante2. Con la sconfitta di
Creso e del regno di Lidia attorno al 547/6 e la caduta di Babilonia nel 539, le truppe di Ciro
il Grande erano giunte a controllare de facto l’intero arco costiero compreso tra gli affacci egei
della Ionia e le propaggini meridionali della Palestina3. Ultimo baluardo del più antico ordine
di quello scacchiere cruciale era rimasto il regno egiziano, allora dominato dai faraoni della
XXVI dinastia, detta di Sais o saitica. La minaccia latente che tale entità rivolgeva al fianco
occidentale della nuova arche dei Persiani – unita alla allettante prospettiva delle ricchezze
della Valle del Nilo - portò ben presto le autorità achemenidi a concepire la necessità di
eliminare il potenziale egiziano. In quest’ottica, sin dal momento del suo accesso al trono nel
530/29 il nuovo Gran Re Cambise fu impegnato nell’elaborazione di un progetto di
invasione del regno dei faraoni: esso si concretizzò nella campagna terrestre della primavera
del 525, la quale fu accompagnata da un’appendice di supporto navale dalle forme piuttosto
ridotte ed elementari4.
1
Salvo ove altrimenti indicato, tutte le date segnalate nel presente articolo sono da intendersi a.C.
I cui perni, essenzialmente, erano costituiti dalle potenze dominanti sull’area anatolica, dunque a partire dallo
VIII secolo ca. la Lidia (ma, se si vuole risalire più indietro nel tempo nel II millennio, un ruolo analogo, e anzi
ben più ampio, può essere assegnato al regno ittita), e, nel Levante, dai ricorrenti avvicendamenti del dominio
egiziano con quello delle grandi entità ‘imperiali’ mesopotamiche. In quest’ultimo caso, il passaggio di consegne
tra gli Assiri e il regno neo-babilonese avvenuto al termine del VII secolo non rappresentò nei fatti un
cambiamento di proporzioni dirimenti in rapporto a tale schema di massima.
3 Sebbene non sussistano fonti che siano in grado di collocare con esattezza cronologica il momento
dell’effettiva sottomissione delle città fenicie e della costa levantina ai Persiani, è del tutto ragionevole ritenere
che essa fosse avvenuta, in maniera concertata (cfr. del resto Hdt. III 19, 3), nel periodo immediatamente
successivo al 538: vd. Michal HABAJ, «The Territorial Gains Made by Cambyses in the Eastern Mediterranean»,
Graeco-Latina Brunensia, 20, 1 (2015), 41-44.
4 Per la spedizione di Cambise in Egitto, cfr. il resoconto di Hdt. III 1-16 (il frammento di Ctes. F13 §10 è fin
troppo scarno e chiaramente impostato secondo schemi narrativi topici, sebbene da esso si possano ricavare
alcuni dettagli importanti ai fini della presente indagine, vd. infra). Erodoto si concentra pressoché
esclusivamente sulle operazioni terrestri della campagna e sui loro preparativi, sebbene in 19, 2-3 riferisca della
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Delazione, collaborazione, tradizione.
Vittorio Cisnetti
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La conquista persiana dell’Egitto costituì dunque un importante punto di svolta per la
stabilizzazione della presenza persiana sul Mediterraneo orientale, in quanto con la fine del
dominio indipendente della dinastia saitica – e insieme ad esso delle sue mire levantine – la
potenza achemenide si ritrovò di fatto senza rivali imminenti o degni di nota in quel settore5.
Questa situazione fornì pertanto lo spazio ideale per
l’avvio di una serie di processi che potesse consentire
al braccio navale armato posto agli ordini del Gran Re
di svilupparsi, a partire da basi e criteri più solidi
rispetto a quanto era avvenuto per la spedizione di
Cambise - la cui componente marittima era stata
ricavata in maniera piuttosto elementare, cioè
mediante la concentrazione delle disponibilità di
alcuni settori del litorale asiatico, in primis del Levante.
Inoltre, tale prospettiva fu indubbiamente incentivata
Particolare della teoria dei popoli soggetti al
potere del Gran Re raffigurata ai lati del
piedistallo della statua di Dario I rinvenuta a
Susa, ma prodotta in Egitto e secondo il gusto
egiziano (DSab). In questo cartiglio è
rappresentato il suddito dell’Egitto, nell’atto di
innalzare le mani verso la figura soprastante del
sovrano achemenide. Il testo cuneiforme inciso
sulla pietra riporta: “Questa è la statua di pietra
che il Re Dario ordinò fosse fatta in Egitto, così
che chiunque la veda nel tempo a venire sappia
che il Persiano tiene l’Egitto” (DSab, §2).
dalla lunga tradizione accumulata nel regno saitico in
materia di navigazione e produzione navale: fin dal
tempo del faraone Necao II, tra la fine del VII e l’inizio
del VI secolo, essa era stata fortemente incentivata e si
era tradotta in una vasta gamma di conoscenze,
tecniche ed esperienze6 che avrebbero ora potuto
essere sfruttate a proprio vantaggio dai nuovi
dominatori.
presenza – in un secondo momento rispetto alla conquista, ma in evidente connessione con essa – di un nautikos
stratos che sarebbe stato del tutto “dipendente dai Fenici” (πᾶς ἐκ Φοινίκων ἤρτητο ὁ ναυτικὸς στρατός), e di
cui verosimilmente facevano parte anche i Ciprioti. In 13 e 14,5, inoltre, lo storico riporta dell’uso da parte
persiana di una “nave mitilenese”, dunque greca, per il trasporto di un ambasciatore a Menfi: dovette però ad
ogni modo trattarsi di un caso isolato, in quanto non necessariamente la menzione di “Ioni ed Eoli” (1,1)
condotti dal Gran Re in Egitto deve tradursi con assolutezza in un loro impiego nel campo navale. Per tali
motivi, e per l’assenza di una reale esperienza persiana del mare a quell’altezza cronologica, si ritiene qui che le
dimensioni del braccio navale di Cambise dovessero essere state relativamente ridotte, e che esso fosse stato
assemblato facendo perno sulle sole risorse del litorale.
5 Vd. a questo proposito Herman T. WALLINGA, «The Ancient Persian Navy and Its Predecessors», in H.
Sancisi-Weerdenburg (ed.), Achaemenid History I. Sources, Structures and Synthesis, Leiden 1987, 66-68; sulla
tradizionale politica (anche navale) egiziana verso il Levante, ibid. 55 sgg.
6 Per le attività di Necao nell’ambito navale cfr. Hdt. II 158-159 (tentativo di scavo di un canale collegante il
corso del Nilo al Mar Rosso e costruzione di due flotte di “triremi” destinate al Mediterraneo e alle rotte
meridionali); IV 42 (invio di una spedizione esplorativa di marinai fenici attorno all’intera Africa); vd. Alan B.
LLOYD, «Triremes and the Saïte Navy», The Journal of Egyptian Archaeology, 58 (1972), 268-279, WALLINGA Persian
Navy cit., 55-66; id., Ships and Sea-Power before the Great Persian War. The Ancestry of the Ancient Trireme, Brill, Leiden
– New York - Köln 1993, 114-118.
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Il composto di questa episteme dai tratti molto diversificati, e polifunzionale in senso lato, si
rivelò, tuttavia, di estrema importanza per i comandi militari persiani ancor prima
dell’invasione stessa, la quale aveva necessitato di una particolare cura nella propria
programmazione, in primis per quanto concerneva la logistica dell’ingresso nell’Egitto
propriamente detto7. La peculiare asprezza dei territori che, attraverso il Sinai, collegavano la
bassa Palestina e il Levante alla Valle del Nilo, rendeva infatti indispensabile un’attenta
preparazione per qualsivoglia movimento li interessasse. Sebbene ciò chiaramente non
intaccasse in maniera diretta i collegamenti marittimi, tali approntamenti sulla via di terra
incidevano anche sulla gestione dei movimenti navali nel corrispondente settore, dal
momento che esso risultava pressoché privo di porti nell’ultimo tratto di navigazione a
oriente di Pelusio8. In termini pratici, cioè, qualora una flotta si trovasse a dover navigare alla
volta dell’Egitto, occorreva sincerarsi della possibilità di rifornirla con adeguato anticipo dei
viveri necessari per compiere in autonomia questa parte della traversata9.
Ben si comprende, allora, come l’attività di sondaggio dei territori del saliente egiziano10, e
di apertura dei contatti con le popolazioni che li abitavano, avesse costituito una ineliminabile
precondizione per Cambise nel periodo precedente all’invasione. Nonostante l’attenzione dei
resoconti si soffermi in questo senso solamente sui tentativi compiuti da parte persiana per
assicurare il transito dell’armata attraverso il deserto del Sinai e il Delta11, l’attività ricognitiva
Gli aspetti logistici connessi alle campagne condotte in antichità tra il VII e il IV secolo contro l’Egitto sono
presentati e analizzati da Dan’el KAHN – Oded TAMMUZ, «Egypt Is Difficult to Enter: Invading Egypt – A
Game Plan (seventh – fourth centuries BCE)», The Journal of the Society for the Study of Egyptian Antiquities, 35
(2008), 37-58, con un elenco dei principali casi di studio per il suddetto periodo in appendice. La chiosa generale
al commento è offerta da Strab. XVII 1,21: ταύτῃ δὲ καὶ δυσείσβολός ἐστιν ἡ Αἴγυπτος (“l’Egitto è difficile
a entrarvi”).
8 Cfr. Hdt. III 5, ove è affermato come, muovendo da oriente, prima di giungere al ramo Pelusiaco del Nilo
fosse necessario attraversare un vasto territorio del tutto privo di acqua (quindi anche di insediamenti, e perciò
ugualmente di luoghi adatti all’approdo dal mare) corrispondente a “circa tre giorni di marcia”. Cfr. anche
l’attestazione, certo ben più esagerata, del fatto che “da Paretonio in Libia a Giaffa in Celesiria non è possibile
trovare un porto sicuro, eccetto Faro [Alessandria]” in Diod. I 31,2; vd. Stephen RUZICKA, Trouble in the West.
Egypt and the Persian Empire 525-332 BCE, Oxford University Press, Oxford 2012, 14-16.
9 Sfruttando cioè i pochi approdi disponibili, come i τὰ ἐμπόρια τὰ ἐπὶ θαλάσσης posseduti dagli Arabi lungo
la fascia costiera tra le città di Cadytis (presumibilmente Gaza) e Ienysos (Sinai settentrionale), menzionati in
Hdt. III 5,2.
10 Sulle attività di “ricognizione” promosse dai sovrani achemenidi in diverse occasioni sulla scia dell’espansione
persiana, vd. i riferimenti e l’indagine in Victor MARTIN, «La politique des Achéménides. L’exploration prélude
de la conquête», Museum Helveticum, 22, 1 (1965), 38-48; per il ruolo del ‘saliente’ egiziano e delle infrastrutture
ivi fatte realizzare dai Persiani, si pensi per es. al canale di Dario I tra il Nilo e il Mar Rosso: vd. Christopher
TUPLIN, «Darius’ Suez Canal and Persian Imperialism», in H. Sancisi-Weerdenburg – A. Kuhrt (eds.),
Achaemenid History VI. Asia Minor and Egypt: Old Cultures in a New Empire, Leiden 1991, 237-283.
11 Sul deserto, cfr. Hdt. III 4,3-9; i “ponti” (γεφύρας) di cui si parla in Ctes. F13 §10 devono riferirsi ai passanti
di legno o su barche che erano utilizzati per attraversare i canali naturali ed artificiali che costellavano l’area del
Delta fino alle sue propaggini più orientali (vd. Hermann KEES, Ancient Egypt: A Cultural Topography, University
of Chicago Press, Chicago 1977, 117: “From the frontier near Sile the Egyptian canal system was available for
further transport”).
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Delazione, collaborazione, tradizione.
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e diplomatica messa in atto dai comandi achemenidi si rivelò certamente utile anche per
sostenere il parallelo fronte marittimo delle operazioni. La rete di intelligence - se si può passare
il termine12 - imbastita dai Persiani a questo scopo fu tuttavia incentivata, non prima però del
concepimento stesso di un disegno di conquista in Egitto13, dagli apporti delle informazioni
di carattere strategico fornite in merito alle condizioni del territorio (e, presumibilmente,
anche della situazione politica e militare14) egiziano da alcuni personaggi che in origine erano
essi stessi sudditi del faraone. Se la fornitura di dati sensibili circa un determinato
schieramento a quello avversario da parte di transfughi, o la loro offerta in cambio di favori
in prospettiva dell’imminente cambiamento di regime, rappresenta a tutti gli effetti un vero
e proprio topos ricorrente nella storiografia greca15, tuttavia il caso delle delucidazioni giunte
in questo modo alle autorità militari achemenidi rappresentò a tutti gli effetti un fattore
dirimente – non solo per l’immediata conseguenza della conquista persiana dell’intero Egitto,
ma anche e soprattutto per ciò che essa comportò in seguito nel più vasto panorama
mediterraneo.
12
KAHN-TAMMUZ Egypt is Difficult cit., 44-45, inseriscono la necessità della creazione di una rete di intelligence
(sic) tra le “preliminary moves on the invader’s side” da compiersi nei tentativi di invasione dell’Egitto, sulla
base dei pattern desumibili dai diversi casi storici nell’antichità.
13 Sebbene in Hdt. I 153,4 si affermi come già Ciro avesse “avuto in animo” di condurre una spedizione militare
contro gli Egiziani, in quanto essi rientravano tra quei popoli che costituivano un “impedimento, ostacolo”
(ἐμπόδιος, lett. “tra i piedi”) per il dominio che egli andava costruendo in Asia (e chiaramente senza considerare
le notizie della Ciropedia senofontea circa una sottomissione dell’Egitto sotto lo stesso Ciro, cfr. VIII 6,21; 8,1),
l’avvio di un’effettiva prospezione degli Achemenidi verso la Valle del Nilo va fatta risalire al tempo di Cambise
(vd. WALLINGA Persian Navy cit., 66-68). A fronte delle “difficoltà” incontrate dal nuovo sovrano nella ricerca
di una via per l’attraversamento delle terre aride e prive di acqua del Sinai settentrionale (cfr. Hdt. III 4,3:
Καμβύσῃ ἐπ᾽Αἴγυπτον ἀπορέοντι τὴν ἔλασιν), le informazioni che giunsero fortunosamente dallo stesso
schieramento egiziano furono in grado di risolvere lo stallo e aprire una nuova fase di ricognizione e preparativi
per l’invasione, entrambe iniziative de facto arenatesi prima di quanto raccontato da Erodoto in III 4.
14 La fine del lungo regno di Amasi (penultimo faraone, e forse il più noto, della XXVI dinastia, regnante tra il
570 e il 526/5) avvenne quando già Cambise era in marcia contro l’Egitto (cfr. Hdt. III 10), e l’insediamento
del successore Psammetico III si ebbe dunque in un momento di estrema difficoltà per l’Egitto, anche sul piano
militare e, soprattutto, navale (vd. WALLINGA Persian Navy cit., 65-66).
15 Il caso più eclatante e noto è certamente quello del ‘tradimento’ compiuto da Efialte di Euridemo, il Greco
di Trachis nella Malide che avrebbe rivelato a Serse l’esistenza di un sentiero (la cd. via Anopea, lungo le pendici
orientali dell’Eta) con cui aggirare lo sbarramento degli Spartani di Leonida e degli alleati alle Termopili nel 480,
secondo Hdt. VII 213-217. Il resoconto dello storico presenta uno schema che, non a caso, è del tutto
assimilabile a quello dei preparativi per la spedizione egiziana del 525. Come Cambise, anche Serse si sarebbe
ritrovato in una situazione di stallo dovuta a un ostacolo naturale: a questo punto, sarebbe intervenuto, come
una sorta di deus ex machina, il suggerimento di un ‘disertore’ dal fronte nemico (qui Efialte – il quale in realtà
non fu propriamente un transfuga, ma come tale venne inteso in quanto causa della “rovina” dei Greci delle
Termopili -; nel 525, invece, il Fanete di cui parla Erodoto o il Combaphis di Ctesia, vd. infra), il quale avrebbe
agito “credendo di riportare un qualche premio da parte de Re” (e l’immagine della polydoria achemenide era
ben diffusa presso i Greci). Da questo confronto è possibile intravedere come, con buona dose di probabilità,
tale paradigma narrativo rispondesse da parte greca all’esigenza di sminuire in certo modo le stesse capacità
strategiche dei Gran Re, obbligati ad attendere il fortunoso arrivo di informazioni in grado di rivoltare gli
equilibri degli schieramenti senza poter far conto su dotazioni effettivamente in loro controllo. Ciò è chiaro per
il caso delle Termopili, in cui infatti furono coinvolti anche Greci, mentre un’interpretazione di questo tipo
appare più sbiadita nel contesto egiziano del 525.
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Pur essendo la Valle del Nilo un contesto ampiamente connesso al mondo levantino e in
generale vicino-orientale, dotato di un vasto retroterra storico di relazioni con le realtà
politiche di quel bacino e perciò abbastanza noto alle popolazioni che vi abitavano 16, alcuni
settori del regno egiziano apparivano meno conosciuti all’esterno, ivi comprese le vie di
accesso terrestri da oriente e quelle marittime agli imbocchi del grande fiume17. Inoltre, altri
aspetti relativi ad affari (pragmata, nel Greco stesso un termine volutamente ambiguo18) di
importanza strategica dovevano essere certamente conservati con cura e celati a chi fosse
non autorizzato, cioè straniero. Di conseguenza, l’approccio all’Egitto poteva rivelarsi
un’impresa non facile o quantomeno non immediata, specie poi per un apparato, come quello
achemenide, che ancora era impegnato nell’assestamento del controllo sulle regioni che
fornivano l’unica possibile base di partenza per una tale conquista19.
La menzione, all’interno di due fonti greche diverse per contesto culturale d’origine e
obiettivi comunicativi, della trasmissione a Cambise di “segreti” e suggerimenti di natura
strategica da parte di ‘disertori’ dello schieramento saitico non costituisce una casualità, bensì
è una valida testimonianza - per quanto rielaborata in entrambi i casi - dell’apporto offerto
da personale ‘egiziano’ alla causa achemenide in quel frangente.
Il contesto è quello della ricerca, da parte dei comandi militari persiani, di una soluzione
all’ostacolo delle barriere naturali poste alle porte del regno dei faraoni. Erodoto riferisce di
un importante capo mercenario greco assoldato da Amasi, Fanete di Alicarnasso, il quale,
entrato a detta dello storico in contrasto con il faraone, si sarebbe sottratto al suo servizio
fuggendo via mare per recarsi da Cambise, venendo inseguito da una trireme (il testo riporta
esplicitamente trierei20) affidata da Amasi al più fedele tra i suoi eunuchi di corte. Quest’ultimo
16
WALLINGA Persian Navy cit., 66 nota come Cambise avrebbe avuto eccellenti opportunità per informarsi in
maniera approfondita sulla Valle del Nilo in virtù dei suoi prolungati soggiorni a Babilonia, ove i funzionari
locali avrebbero potuto renderlo edotto delle conoscenze accumulate nel corso dei secoli sull’Egitto in
Mesopotamia. L’affermazione di MARTIN L’exploration cit., 44, secondo cui “L’invasion de l'Egypte ne
nécessitait aucune démarche diplomatique préalable, et pas davantage une reconnaissance des lieux, le pays
étant connu”, estende troppo e non tiene in considerazione quanto narrato dalle stesse fonti, scostandosi dal
resto dell’altrimenti ben argomentato contributo.
17 Vd. KAHN-TAMMUZ Egypt is Difficult cit., 41-43; sugli accessi marittimi dal Delta, cfr. ad es. Diod. XVI 43,2.
18 Cfr. Hdt. III 4,2, ove il termine è direttamente sottinteso (τὰ περὶ Αἴγυπτον); Ctes. F13 §10 (τἄλλα τῶν
Αἰγυπτίων πράγματα).
19 Per una datazione della soggezione (volontaria: cfr. Hdt. III 19,3) al Persiano dell’intero Levante, delle città
fenicie, di Cipro e addirittura della Cilicia e di alcune “East Greek cities” solo nell’immediato antecedente
dell’attacco all’Egitto (“between early 526 and spring 525”), vd. Henry J. WATKIN, «The Cypriote Surrender to
Persia», The Journal of Hellenic Studies, 107 (1987), 158-161. Proprio la necessità di organizzare il minimo
indispensabile per la marcia di Cambise, tuttavia, muove del tutto a sfavore di questa ipotesi (vd. anche HABAJ
Territorial Gains cit.).
20 Hdt. III 4,2: τῶν εὐνούχων τὸν πιστότατον [Amasi] ἀποστείλας τριήρεϊ κατ᾽αὐτόν. Il passaggio rappresenta
una delle prime menzioni esplicite di una “trireme” nel testo erodoteo, accompagnata poco oltre, sempre in
occasione della campagna del 525 ma nel fronte persiano, dal racconto sulla tragica fine dell’equipaggio di 200
Delazione, collaborazione, tradizione.
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dato in particolare, al di là dei dettagli topici del racconto21, ben evidenzia la premura del
faraone nei confronti delle informazioni che secondo Erodoto tale Fanete avrebbe
posseduto22, avendo egli presumibilmente avuto in precedenza contatti continuativi con gli
alti livelli dell’amministrazione militare del regno saitico. Insieme a essa, si sarebbe
inevitabilmente accompagnato il timore, rivelatosi poi fondato, che il mercenario devolvesse
le proprie conoscenze sull’Egitto al Gran Re. Raggiunto infatti Cambise, nel momento in cui
questi già si stava apprestando a marciare contro l’Egitto, Fanete avrebbe fornito ai Persiani
suggerimenti vitali per ovviare al problema dell’attraversamento delle zone desertiche prive
di acqua, consigliando di aprire canali di contatto con le tribù arabe in situ e, di fatto,
divenendo l’artefice del transito dell’intera armata23. Pur non essendo il mercenario
propriamente un Egiziano, il resoconto erodoteo va inscritto, tralasciando i motivi favolistici
che lo contornano (il dissidio col faraone, la fuga, l’inseguimento, il raggiro dell’eunuco), in
un comprensibile tentativo di raccolta di dati sensibili sulla situazione locale avviato dai
servizi militari achemenidi, il quale poté procedere anche attraverso l’infiltrazione nelle reti
di comando saitiche o con l’avvicinamento (o la corruzione24) di membri del loro personale.
uomini di una “nave mitilenese” (13,1-3; 14,5). Al di là delle problematiche della trireme question, i due dati
combinati sembrano evidenziare la disponibilità in entrambi gli schieramenti navali di unità in forma della
trireme (vd. WALLINGA, Ships cit., 117).
21 Tra i quali, oltre al topos dell’informatore straniero di cui si è detto, WALLINGA Ships cit., 117 n.30, riconosce
anche il fatto che, secondo Erodoto (III 4,2), Fanete sarebbe stato raggiunto dall’eunuco di Amasi “in Licia”:
tuttavia, nota l’autore, non si comprende il motivo per cui, essendo intenzionato a raggiungere Cambise, il
mercenario avrebbe voluto recarsi in Licia. Pertanto, a suo dire tale anomalia dimostrerebbe l’incongruenza
dell’intero racconto in sé.
22 Hdt. III 4,2: οἷα δὲ ἐόντα αὐτὸν [Fanete] ἐν τοῖσι ἐπικούροισι λόγου οὐ σμικροῦ ἐπιστάμενόν τε τὰ περὶ
Αἴγυπτον ἀτρεκέστατα, μεταδιώκει ὁ Ἄμασις σπουδὴν ποιεύμενος ἑλεῖν. Il fatto che Fanete conoscesse
“con massima esattezza” (ἀτρεκέστατα, cfr. V 54,1, τὸ ἀτρεκέστερον) i “segreti” strategico-militari dell’Egitto
saitico dimostra come egli facesse parte dei circoli delle massime autorità in questo campo, a stretto contatto
con la corte del faraone e presumibilmente a capo di tutti i (o di una buona parte dei) reparti mercenari greci
assoldati da Amasi (la cui politica favorevole nei confronti dell’elemento greco in Egitto gli valse il titolo di
φιλέλλην, cfr. II 178,1; in generale sui mercenari “ioni e cari” dei faraoni saitici cfr. 152-154). Naturalmente
questa supposizione dipende da quanto affermato nel testo erodoteo, non confermato da altra documentazione
e corollato da particolari non troppo verosimili; tuttavia, se lo si accetta nella sua intelaiatura e lo si confronta
con la storia del mercenariato greco in Egitto, essa ha un suo motivo.
23 Cfr. Hdt. III 6-7; 9. WALLINGA Persian Navy cit., 67 n.65, sostiene che la defezione del generale mercenario
Fanete di Alicarnasso dal servizio egiziano, proprio in questo frangente, avrebbe potuto rappresentare un vero
e proprio “colpo di fortuna” per Cambise, poiché Fanete avrebbe potuto informarlo della collaborazione navale
tra Amasi e Policrate. Tuttavia, su questo punto pare opportuno chiedersi se davvero l’intervento di Fanete
avrebbe potuto rivelarsi effettivamente dirimente per i comandi persiani: infatti i contatti tra Amasi e Policrate
dovevano essere avviati già da tempo - e anzi, lo scioglimento dell’alleanza sarebbe proprio stato un atto del
tiranno samio in seguito alla comprensione dei mutati equilibri di forze nel Mediterraneo orientale. Vd. Herman
T. WALLINGA, «Polycrates and Egypt: The Testimony of the Samaina», in H. Sancisi-Weerdenburg – A. Kuhrt
(eds.), Achaemenid History VI. Asia Minor and Egypt: Old Cultures in a New Empire, Leiden 1991, 193. Certamente
notizia di essi non doveva essere sfuggita alla intelligence persiana, come del resto testimonia la stessa nomina di
Orete a un potere molto espanso in Asia Minore in funzione antipolicratea (cfr. Hdt. III 120-128). Vd. WATKIN
Cypriote Surrender cit., 159, che definisce Fanete la “chiave” per la conquista dell’Egitto.
24 In questo senso, il fatto che Fanete, una volta entrato in contrasto con Amasi, avesse optato immediatamente
(almeno così pare dal racconto di Erodoto) per recarsi a parlamentare presso Cambise (Hdt. III 4,2: βουλόμενος
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Il dato fondamentale di questo episodio, vale a dire la comunicazione e l’aiuto provenienti
dal campo avversario, si ripresenta anche in un frammento di Ctesia di Cnido, ove il
protagonista, quasi in una estrapolazione rovesciata della versione erodotea (e del resto
collimante con l’atmosfera dello harem orientale che permea i Persika), è un influente eunuco
della corte del faraone Amirteo (evidente confusione per Amasi25), Combaphis. Questi
avrebbe infatti agito in virtù di un interesse personale, avendo stretto legami con lo stesso
Cambise e ricevendone la promessa di una nomina a “governatore” (hyparchos) dell’Egitto
stesso26: cosa che, secondo l’autore, Combaphis avrebbe ottenuto, dopo aver consegnato
proditoriamente (il verbo greco utilizzato per indicare quest’azione contiene infatti la radice
di prodosia) ai Persiani informazioni sui “ponti” – i passanti con cui poter attraversare la fitta
rete di canali e bracci fluviali che sorgeva attorno al Delta27 – e “tutti gli altri segreti
dell’Egitto”28.
Tolte le variazioni di stampo sensazionalistico, la dinamica presentata da Ctesia è pressoché
la medesima di quella descritta da Erodoto per il caso di Fanete, ed evidentemente ricalca un
fenomeno che dovette avere parte importante per lo svolgimento dei fatti del 525. L’apporto,
cioè, delle informazioni strategico-militari fornite da personaggi di rango elevato nello
schieramento saitico si rivelò assai pratico per la logistica della spedizione di Cambise, e
Καμβύσῃ ἐλθεῖν ἐς λόγους) è probabile indice di un abboccamento antecedente tra la Persia e il mercenario al
servizio dei Saiti (o l’ambiente di cui faceva parte), ed è plausibile ritenere che non si fosse trattato di un caso
unico nel periodo precedente il 525. D’altra parte, è ben noto come “l’oro del Re” abbia costituito a lungo il
perno degli equilibri politici e bellici anche altrove, in particolare nella complicata fase degli eventi intercorsi in
Grecia tra la fine del V e la prima metà del IV secolo.
25 Nel resto del frammento (Ctes. F13 §10) viene infatti menzionato Cambise, e non è noto un contemporaneo
faraone della dinastia saitica al potere con quel nome, dal momento che il periodo compreso tra il 526 e il 525
vide il passaggio dinastico tra Amasi e il figlio Psammetico (III). Amirteo fu comunque un nome diffuso fra i
dinasti dell’area deltizia: con esso è conosciuto il “re nelle paludi” (del Delta: Ἀμυρταίου τοῦ ἐν τοῖς ἕλεσι
βασιλέως) che, discendente della dinastia saitica, dopo la repressione persiana della rivolta di Inaro alla metà
del V secolo, proseguì la resistenza nell’area facilmente difendibile e isolabile delle bocche del Nilo, ricevendo
peraltro l’aiuto di parte degli Ateniesi impegnati a Cipro nel 450/49 (cfr. Thuc. I 110,2; 112,3). Amirteo è inoltre
il nome con cui è conosciuto nelle liste dei faraoni l’unico esponente della XXVIII dinastia, ovvero l’artefice
della separazione dell’Egitto dall’orbita achemenide fra il 404 e il 401.
26 Ctesia dà come assodata la notizia di un’effettiva assunzione da parte di questo Combaphis di un
governatorato sull’Egitto: sebbene siano noti casi di cooptazione di ufficiali locali egiziani nel nuovo sistema di
amministrazione achemenide - vd. John D. RAY, «Egypt 525–404 B.C.», in J. Boardman – N.G.L. Hammond
– D.M. Lewis – M. Ostwald (eds.), The Cambridge Ancient History, vol. IV, Cambridge 1988, 270 -, non vi è però
menzione alcuna di un funzionario di tale titolo con questo nome (il primo è Ariande, persiano: cfr. Hdt. IV
166,1).
27 Pontili montati su barche, o comunque in legno, erano presenti nelle città che sorgevano alle diverse
imboccature del Nilo, per collegare le sponde opposte degli insediamenti e dei territori limitrofi; essi erano
inoltre accompagnati in età classica (IV secolo) da strutture di protezione come torri di avvistamento e,
presumibilmente, moli, che garantivano la difesa dell’accesso all’Egitto tramite il Delta, di per sé comunque non
facile (cfr. Diod. I 33,8; XV,42,2: πύργους μεγάλους…καὶ ξυλίνην γέφυραν).
28 Ctes. F13 §10: Κομβάφεως τοῦ εὐνούχου, ὃς ἦν μέγα δυνάμενος παρὰ τῷ Αἰγυπτίων βασιλεῖ,
καταπροδόντος τάς τε γεφύρας καὶ τἄλλα τῶν Αἰγυπτίων πράγματα, ἐφ’ᾦ γενέσθαι ὕπαρχος Αἰγύπτου.
Delazione, collaborazione, tradizione.
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consentì de facto di concretizzare tutto l’insieme dei preparativi bellici e diplomatici disposti a
tale scopo dal Gran Re, aggirando con l’astuzia (e col denaro o altre proposte allettanti) le
barriere naturali e carpendo i ‘segreti’ militari dell’avversario.
Se tale metodo rispecchia un modus operandi tipico anche in seguito dei comandi persiani, il
fatto che i resoconti citati riferiscano di una comunicazione di dati propedeutici al passaggio
dell’armata terrestre attraverso il saliente delle porte dell’Egitto non deve portare a escludere,
in maniera dicotomica29, che simili indirizzamenti avessero comportato validi risvolti anche
nel campo della programmazione dei movimenti navali della campagna di Cambise - per
quanto di essi non vi sia di fatto traccia alcuna e vadano perciò ipotizzati. La conoscenza, ad
esempio, della topografia di un’area come quella deltizia, il cui accesso dal mare era reso
estremamente difficile dalla mutevole e frammentata idrografia delle bocche del Nilo,
costituiva per l’Egitto intero un fattore strategico di alto grado, che imponeva una copertura
tale da preservarne al massimo la segretezza. Non è un caso, infatti, che in una situazione
come quella della rivolta di Sidone iniziata nel 351/0 il ribelle fenicio Tennes, una volta
compresa l’impossibilità di resistere al Gran Re Artaserse III, si fosse proposto di collaborare
con quest’ultimo offrendogli la propria conoscenza di quelle aree, sperando con ciò di
ottenere maggiore potere contrattuale30. Stante il fatto che, tuttavia, le tecniche di navigazione
del cabotaggio prevedevano, per la rotta egiziana, un avvicinamento graduale che faceva
perno sulla ‘catena’ di approdi consecutivi del litorale levantino31, la stabilizzazione del suo
29
E va ricordato come, nei fatti, una tale dicotomia tra operazioni terrestri e navali non fosse contemplata nella
prassi strategica persiana delle mobilitazioni su larga scala: cfr. Hdt. VII 236,2.
30 Cfr. Diod. XVI 43,2: “Così, nascostamente dal popolo di Sidone, [Tennes] inviò ad Artaserse il più fidato dei
suoi sottoposti, Tettalione, con la promessa di consegnargli Sidone, che lo avrebbe aiutato a sconfiggere l’Egitto,
e che gli avrebbe reso grandi favori dal momento che aveva familiarità coi luoghi dell’Egitto e conosceva bene
gli approdi lungo il Nilo (ἔμπειρον ὄντα τῶν κατὰ τὴν Αἴγυπτον τόπων καὶ τὰς κατὰ τὸν Νεῖλον ἀποβάσεις
ἀκριβῶς εἰδότα)”. Anche qui il suggerimento strategico è fornito al Gran Re da un esponente dello
schieramento nemico, per quanto in realtà un proprio doulos ribelle (Tennes era infatti il sovrano di Sidone, città
fenicia sottoposta al dominio persiano), nel tentativo di ottenere il perdono reale facendo leva sulla necessità
per i Persiani della riconquista dell’Egitto (e a fronte dell’esasperazione che doveva regnare tra i comandi
achemenidi in seguito al fallimento dei numerosi tentativi susseguitisi in tal senso nella prima metà del IV
secolo); vd. Josef WIESEHÖFER, «Fourth Century Revolts against Persia: The Test Case of Sidon (348-345
BCE)», in T. Howe – L.L. Brice (eds.), Brill’s Companion to Insurgency and Terrorism in the Ancient Mediterranean,
Leiden - Boston 2016, 104-108. Sulla campagna anfibia di Artaserse III contro l’ultimo dinasta egiziano
indipendente, Nectanebo II (col quale, peraltro, lo stesso Tennes aveva stretto contatti), vd. KAHN-TAMMUZ
Egypt is Difficult cit., 64-65.
31 Sulla rete di points d’appui del Levante, vd. Gil GAMBASH, «En Route to Egypt: Akko in the Persian Period»,
The Journal of Near Eastern Studies, 73, 2 (2014), 273-282. In particolare, il sito costiero di Akko (Acri) nella Fenicia
meridionale è stato da alcuni studiosi proposto come luogo di ammassamento già delle forze terrestri e navali
di Cambise nel 525; tuttavia, una simile visione è da considerare poco praticabile, in virtù dell’assenza di
testimonianze archeologiche esplicite e della specificità (Diod. XV 41,3, anno 374) o ambiguità (Strab. XVI
2,25-27) di alcuni passaggi della storiografia successiva. Ad ogni modo, alla catena di approdi levantina
corrispondeva il tracciato terrestre della cd. via maris (cfr. Mt. 4:15); nel suo tratto prossimo alle frontiere
dell’Egitto, esso era noto come la “strada di Horus”.
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ultimo
tratto
–
quello
della
15
costa
settentrionale del Sinai, abitata da tribù
arabe – poté rivelarsi di estrema importanza
anche per il supporto del braccio armato
navale già nel 525. Come detto, l’assenza
pressoché totale nell’area in questione di
porti “sicuri”, ma soprattutto dotati di un
retroterra in grado di supplire alle esigenze
Riproduzione dello stampo di un sigillo rinvenuto negli
archivi persepolitani, raffigurante un Gran Re persiano
nell’atto di sottomettere un Egiziano, anch’egli di rango regale
(come dimostra la foggia del copricapo, presumibilmente la
doppia corona detta pschent). Sebbene non certo, è ragionevole
ricollegare tale presentazione simbolica agli eventi del 525, e
identificare il Re persiano con Cambise, e il faraone con
Psammetico III (cfr. del resto Hdt. III 14-15).
di una flotta (o anche solo di una flottiglia),
dovette
invero
anch’essa
suscitare
le
premure dei comandi persiani; pertanto, le
informazioni recapitate tramite personaggi
dell’estrazione di un Fanete o di un
Combaphis dovettero rivelarsi incisive anche per il ramo marittimo della spedizione. Nel
concreto, esse fornirono allora un valido appoggio alla ‘avventura’ navale achemenide, che
proprio con Cambise ebbe i suoi esordi.
Il contributo delle notizie fuoriuscite dal campo egiziano non si arrestò, tuttavia, alla fase
degli immediati preparativi della campagna o del suo svolgimento, in quanto la possibilità
apertasi ai Persiani di attingere al bagaglio secolare di conoscenze di cui disponeva l’Egitto
fornì all’apparato achemenide una risorsa immensa, per certi aspetti ancor più preziosa
rispetto a quelle naturali e umane della nuova provincia. Questo bacino di competenza
accumulata nei più svariati campi costituì, come è comprensibile, uno dei nuclei principali
dell’interesse achemenide per la regione, e indusse lo stesso Cambise – oltre che per chiare
convenienze di natura gestionale e amministrativa32 – a incentivare la collaborazione dei
Come del resto era già avvenuto nei precedenti stadi dell’espansione achemenide in diversi luoghi del dominio
del Re: l’ingresso a Babilonia di Ciro il Grande era stato accompagnato da una professione di adesione alle
tradizioni locali, quali il rispetto delle norme religiose e degli obblighi cultuali che viene largamente enfatizzato
nei toni celebrativi del Cilindro di Ciro, su cui vd. Amélie KUHRT, «The Cyrus Cylinder and Achaemenid Imperial
Policy», The Journal for the Study of the Old Testament, 25 (1983), 83-97. Proprio in quell’occasione, peraltro, il testo
della cd. Cronaca di Nabonedo riporta delle azioni compiute nel campo persiano da Gubaru (Ugbaru), capo dei
Gutei e de facto il comandante in seconda di Ciro, cui questi affidò il compito di prendere Babilonia stessa mentre
egli era impegnato a Sippar, e che vi morì poi poco dopo la conquista (cfr. III 22, inizio novembre 539: vd.
Amélie KUHRT, The Persian Empire. A Corpus of Sources from the Achaemenid Period, Routledge, London – New
York 2007, 50-53). Questi, secondo alcune ricostruzioni, avrebbe in realtà offerto i propri servigi a Ciro dopo
aver abbandonato l’opposto schieramento babilonese: vd. Theodore CUYLER YOUNG, «The Early History of
the Medes and the Persians and the Achaemenid Empire to the Death of Cambyses», in J. Boardman – N.G.L.
Hammond – D.M. Lewis – M. Ostwald (eds.), The Cambridge Ancient History, vol. IV, Cambridge 1988, 39 sgg.:
“Ugbaru may very possibly have been a Babylonian deserter”. Sebbene la descrizione degli eventi fornita in
questa fonte sia chiaramente parziale e non corrisponda agli altri resoconti disponibili (in Erodoto, trascurando
poi la Ciropedia di Senofonte), è da notare come, se valida, tale proposta ricalchi il tema del transfuga apportatore
32
Delazione, collaborazione, tradizione.
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vincitori con le élite e la intellighenzia saitiche33. Tra i vari ambiti
in cui tale cooperazione poté rivelarsi significativa per i Persiani
vi fu certamente anche quello delle attività marittime e navali.
In questo senso, un indizio del reimpiego della vasta esperienza
maturata nell’Egitto saitico anche circa la pratica del
Mediterraneo è offerto – caso di estrema rarità – da una fonte
locale, risalente ai primi anni del regno di Dario I34. Essa consiste
in un’iscrizione geroglifica incisa su una statua acefala in pietra
locale, la cui collocazione originaria doveva essere a Sais,
Il cd. Naoforo Vaticano, statua
acefala in pietra dura locale verde,
in origine posta presumibilmente a
Sais e oggi conservata ai Musei
Vaticani. Fattura e iscrizioni
geroglifiche risalenti alla fine del VI
– inizio V secolo a.C.
nell’area del Delta, centro di origine dei faraoni della XXVI
dinastia, e attualmente si trova custodita presso i Musei
Vaticani35. Raffigurante un individuo nell’atto di offrire in ex voto
una cella votiva (naos) contenente un’icona di Osiride, la scultura
è per questo motivo nota come il Naoforo Vaticano36. Il suo committente fu un alto funzionario
che operò con diversi titoli nell’amministrazione del regno saitico, per poi proseguire la
propria carriera dopo il 525 a stretto contatto coi nuovi dominatori persiani, in primis con gli
di notizie e aiuti militari ai Persiani, analizzata nei possibili casi del 525. Per un altro esempio di collaborazione,
più avanzato nel tempo e in un’altra area del regno, si veda ad es. il caso di Neemia, inviato di etnia ebraica di
Artaserse I in Giudea.
33 Il processo di assimilazione incentivato da Cambise (al di là del resoconto erodoteo) e Dario I – testimoniato
da una serie di fonti locali, vd. KUHRT Persian Empire cit., 117-127 – comportò anche la cooptazione nelle maglie
della nuova gestione persiana di membri del personale dirigente attivi sotto gli ultimi faraoni saitici. Oltre al
caso di Udjahorresnet (su cui vd. infra), iscrizioni e documenti egiziani testimoniano delle attività e della
titolatura militare ricoperte nel primo periodo persiano da personaggi come Ahmosi (Amasi: un Egiziano,
appunto, da non confondere con l’omonimo comandante della fanteria nominato da Ariande al tempo della
spedizione contro Barce secondo Hdt. IV 167,1, il quale era invece un Persiano del genos dei Marafi: cfr. I 125,3),
un generale proveniente dalla ‘casta’ dei Machimoi (cfr. Hdt. II 165-166); oppure l’architetto Khnemibrē, noto
come direttore delle cave reali negli ultimi anni di Amasi e ancora attivo nel 496-492 (vd. RAY Egypt 525-404
cit., 270).
34 Probabilmente al terzo anno di regno di Dario, ca. 519, secondo Alan B. LLOYD, «The Inscription of
Udjahorresnet: A Collaborator’s Testament», The Journal of Egyptian Archaeology, 68 (1982), 166. La testimonianza
in questione (non esplicitamente datata) è stata spesso utilizzata nel tentativo di rinvenire un appiglio
cronologico per la ricostruzione dei confusi eventi che dovettero interessare l’Egitto nel periodo di transizione
tra il regno di Cambise e quello di Dario (cfr. DB §21 II 7), associandola con la raccolta delle leggi egiziane
ordinata da Dario secondo quanto riferito nel testo papiraceo della cd. Cronaca Demotica (Pap. Bibliothèque
Nationale de Paris 215, D, 1-17). Tuttavia, nota TUPLIN Darius’ Canal cit., 265, entrambe le suddette fonti
potrebbero dare indizio di un periodo di agitazioni in Egitto, ma di contro non apportano alcuna prova di una
ribellione su vasta scala.
35 Confluita nelle collezioni vaticane nel XVIII secolo d.C., la statua, alta 70 cm, è ritenuta aver fatto parte della
collezione allestita coi materiali più disparati dall’imperatore Adriano nella sua grandiosa Villa di Tivoli, nel II
secolo d.C. Per una descrizione dell’opera e un disegno, vd. KUHRT Persian Empire cit., 121, fig. 4.2.
36 Museo Vaticano n.158. Questo genere di scultura si era particolarmente sviluppato nell’arte funeraria egiziana
durante il periodo della dinastia saitica, e in sé coniugava le forme e le funzioni dei più comuni ex voto funebri
con la comunicazione offerta dalla scrittura epigrafica estesa, la quale solitamente (come nel caso qui in esame)
ripercorreva le attività del defunto, alla stregua di una più consueta stele funeraria. Vd. LLOYD The Inscription
cit., 167-168.
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stessi Cambise e Dario: di nome Udjahorresnet, proprio per via dei suoi numerosi incarichi
dovette essere una figura assai nota nell’Egitto del suo tempo e dei secoli successivi, come
dimostra la presenza a Menfi, più di centocinquant’anni dopo, di una sorta di culto dedicato
alla memoria della sua persona37.
L’opera fornisce un significativo esempio di
concretizzazione artistica delle dinamiche di
apertura e mutuo interesse che furono obiettivo
primario della politica achemenide nei confronti
dell’Egitto per la fase immediatamente successiva
all’assoggettamento.
Il
fenomeno
della
collaborazione – o, se osservato nell’ottica del
pur sempre latente astio egiziano nei confronti
dei conquistatori, del collaborazionismo38 – tra
esponenti dei ceti dirigenti autoctoni e il governo
achemenide si inferisce invero già a colpo
d’occhio dalla foggia, evidentemente persiana,
dei monili che il soggetto porta alle braccia, e
Dettaglio delle braccia di Udjahorresnet nella statua del
Naoforo Vaticano. Notare la foggia tipicamente persiana
del bracciale al di sopra del polso, unita al gusto
squisitamente egiziano della fattura complessiva, della
celletta votiva con Osiride, e, naturalmente, della
scrittura.
questo dettaglio non è che un riverbero di quanto viene più estesamente presentato
nell’epigrafe. Questa contiene un lungo elenco delle attività compiute da Udjahorresnet
all’interno della delicata fase del passaggio dal dominio indipendente dei faraoni saitici a
quello di incorporazione al conglomerato ‘universale’ achemenide: ciascuna di esse è scandita
da una specifica titolatura, i cui rimandi pressoché esclusivamente locali mostrano appunto
37
In una statuetta menfitica di IV secolo (che peraltro doveva raffigurare lo stesso Udjahorresnet) è infatti
presente una dedica di un sacerdote, Minirdis, che avrebbe riparato l’icona dell’alto funzionario (cioè,
probabilmente, lo stesso Naoforo Vaticano) “177 anni” dopo l’attività di Udjahorresnet, del quale viene ripresa
la titolatura già presente nel Naoforo. Sui problemi della datazione e dei rimandi, vd. Edda BRESCIANI,
«Ugiahorresnet a Menfi», Egitto e Vicino Oriente, 8 (1985), 1-6.
38 Molti studiosi moderni parlano apertamente di ‘collaborazionismo’ per il caso di Udjahorresnet,
presumibilmente basandosi sull’osservazione per cui, in effetti, in un passaggio dell’iscrizione il personaggio
riferisce dell’invasione persiana inizialmente come di una vera e propria “calamità” abbattutasi sul regno
d’Egitto (sez. h-i; il termine utilizzato è nšn, lett. “collera, tempesta”; sulle implicazioni del termine nella
cosmologia egiziana vd. LLOYD The Inscription cit., 176-178). In realtà, questa affermazione va ricompresa nel
più ampio contesto dell’intera ‘biografia’ del personaggio, in cui egli è descritto cooperare coi nuovi sovrani
achemenidi nel compimento di un disegno più ampio, quello cioè di una continuità delle antiche istituzioni:
non a caso, la sua attività culmina e si concretizza nell’assunzione da parte di Cambise di un nome dinastico
secondo la tipica prassi dei faraoni, della quale nel testo (dagli evidenti intenti celebrativi) è detto essere stato
artefice lo stesso Udjahorresnet (sez. c; LLOYD The Inscription cit., 177 nota come “We are not confronted here
with contradiction, but rather with transmutation”). Di conseguenza, poiché l’attività di questo funzionario
avvenne nel più preciso rispetto della tradizione, senza tradursi in mero servilismo (così almeno per quanto si
evince nel resoconto), pare più opportuno parlare di semplice ‘collaborazione’, tralasciando le sfumature del
tutto negative insite nel concetto di ‘collaborazionismo’.
Delazione, collaborazione, tradizione.
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la continuità tanto della carriera funzionariale del personaggio, quanto in generale delle
istituzioni amministrative, cortigiane e cultuali dell’antico regno egiziano. Tra le cariche che
il notabile ricoprì – sulla base, va ricordato, del resoconto che egli stesso ne offre nel suo
monumento dedicatorio, in cui gli intenti celebrativi naturalmente si sprecano -, assume
particolare rilievo una funzione connessa all’attività marittima, la quale ragionevolmente poté
avere un qualche influsso sui successivi sviluppi innescati dall’arrivo dei Persiani nella Valle
del Nilo.
Trattasi cioè di un titolo relativamente nuovo all’interno della nomenclatura ufficiale
egiziana39, di cui non risulta possibile fornire una traduzione univoca e per cui è necessario
ricorrere a perifrasi. Queste, in ogni caso, fanno riferimento a una funzione di tipo militare
nel campo navale40: Udjahorresnet avrebbe infatti detenuto i requisiti di “comandante dei
vascelli da guerra reali”, espressione che, sebbene non indichi di per sé in maniera esplicita il
comando supremo delle forze marittime saitiche, appare comunque riferirsi a un grado
elevato nella loro amministrazione, confacente del resto a quello degli altri ruoli citati
nell’iscrizione. Essi comprendono tutta una serie di mansioni legate alla sfera della corte e
del culto, buona parte delle quali mantenute dal funzionario anche a seguito del cambio di
regime: sotto gli ultimi faraoni Udjahorresnet fu coinvolto negli affari del palazzo in qualità
di “amico” e consigliere del re, custode del sigillo reale, capo degli scribi e ispettore della
reggia; ma la “amicizia” col sovrano rimase uno dei titoli sfoggiati dal notabile anche in
39
LLOYD Saïte Navy cit., 272 nota come esso non presenti occorrenze nel periodo precedente a quello saitico,
e che nei tempi precedenti (ad es. durante il Nuovo Regno) esistevano in Egitto altre titolature che, tuttavia,
facevano riferimento a tipologie di navi diverse.
40 La dizione egiziana è imy-r kbnt, e contiene al suo interno il lemma kbnt (kbnwt), utilizzato nei testi a partire
dall’età saitica e persiana come apposizione per indicare un determinato tipo di imbarcazione, in contesti che
provano che si tratta di una nave da guerra, secondo LLOYD Saïte Navy cit., 272. Questo studioso accosta le
navi kbnt delle fonti egiziane a “vascelli da guerra di tipo greco”, ritenendo che la costruzione di unità avanzate,
come la stessa trireme, in età saitica fosse stata influenzata da modelli originatisi in area egea, in virtù di
un’interpretazione essenzialmente basata su una lettura assimilatrice del complicato, ma centrale, passaggio
tucidideo sull’origine della ναυπηγία nel mondo greco (Thuc. I 13,2-3). Nel caso della marina di cui avrebbe a
vario titolo detenuto un comando Udjahorresnet, è verosimile che le navi da guerra in sua dotazione fossero
almeno in parte triremi (cfr. d’altronde Hdt. II 159,1; III 4,2; e le 40 unità di questo tipo in esercizio presso
Policrate in III 44,2, che WALLINGA Polycrates cit.; Ships cit., 84-102 ricollega direttamente al supporto
economico e tecnico di Amasi), e che quindi il termine kbnt (lett. “di Biblo, proveniente da Biblo”) fosse di
norma utilizzato in senso generico per indicare la tipologia di nave da guerra più prestante in un dato periodo
(ecco spiegato il motivo dell’uso retrospettivo di τριήρεες da parte di Erodoto per indicare le navi ‘di prima
categoria’ fatte costruire da Necao II all’inizio del VI secolo, secondo WALLINGA Ships cit., 104-105). Per quanto
concerne il titolo del funzionario qui in esame, esso è tradotto variamente dai diversi accademici, con una
maggiore o minore enfasi sull’ampiezza del grado di comando: ad es., “Admiral of the Royal kbnt-ships” o
“Admiral of the Fleet” (LLOYD); “capo della flotta del re” (BRESCIANI); “chief of the Egyptian marine”
(WALLINGA); “effectively commander of Psammetichus III’s navy” (RAY). La resa più cautelare, e forse più
adeguata, sembra però quella di KUHRT Persian Empire cit., 117: “overseer of the royal kbnwt vessels” (il ruolo
di “supervisore” non coincide necessariamente con quello di “comandante supremo” o “ammiraglio”, dal
momento che potrebbe far riferimento a una carica impegnata anche solo nella gestione burocratica dell’armata
navale, senza quindi un reale risvolto sul piano propriamente tattico-militare).
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relazione ai nuovi dominatori achemenidi41, che egli avrebbe contribuito, nella figura di
Cambise, a far acclimatare nel difficile e ritroso milieu egiziano42. Sotto il Persiano egli avrebbe
poi conservato la funzione di amministratore del palazzo e fu nominato archiatra, vale a dire
capo dei medici di corte43, impegnandosi inoltre per il ristabilimento delle condizioni
ancestrali di un importante santuario di Sais, già fulcro della vita politico-religiosa del regno
al tempo della dinastia ora decaduta44. In questo insieme, il succitato comando navale sembra
pertanto costituire un unicum, apparentemente sciolto dal resto degli incarichi che tale
personaggio rivestì, per la sua stessa natura (non consisteva in una carica aulica, almeno
primariamente) e per la cronologia, dal momento che l’iscrizione esplicita come esso fosse
stato una competenza di Udjahorresnet esclusivamente sotto Amasi e Psammetico (III).
Se infatti non è da escludere, si ritiene (considerata la tipologia delle altre cariche), che
quest’ultimo impiego avesse avuto un carattere anche solo semplicemente onorifico45 – e
dunque non di effettiva partecipazione a un ‘ruolo combattente’ -, tuttavia la menzione di un
ufficio legato alla flotta tra le suddette altre nomine di elevato calibro ne sancisce
indirettamente l’importanza, e sottolinea come le attività legate al controllo militare del mare
avessero rappresentato un settore importante delle politiche intraprese dalla XXVI dinastia.
Questo è dunque il fattore che occorre considerare innanzitutto nella valutazione
dell’esperienza di cui Udjahorresnet fu protagonista: la direzione e la regolamentazione del
naviglio egiziano, ovverosia del frutto dell’applicazione delle conoscenze che si erano
proficuamente sviluppate nell’ambito navale nel secolo e mezzo di dominio saitico, costituiva
un compito particolarmente delicato, e vitale per la tutela e la sicurezza stessa dell’intero
Notare l’analogia col Greco philoi per indicare i “membri del seguito” del Gran Re.
Tale complessa dinamica è ben evidenziata da LLOYD The Inscription cit. Il fatto che a Cambise sia data nel
testo, insolitamente, una tale centralità deve costituire una parte significativa del punto, o dei punti, che
Udjahorresnet si preoccupava di voler ribadire e comunicare (171). Una disamina di tale processo è offerta
anche da Pierre BRIANT, Histoire de l’Empire Perse. De Cyrus à Alexandre, Fayard, Paris 1996, 68-70.
43 Il ricorso alle conoscenze e competenze mediche di comunità particolarmente avanzate in questo campo, in
cui del resto l’eccellenza egiziana era ben nota (cfr. ad es. già Hom. Od. IV 227-232; Hdt. II 84 ἡ ἰητρικὴ),
costituiva una prassi tipica dei Gran Re persiani, che la fonte ‘autoctona’ e al contempo ‘imperiale’ di
Udjahorresnet non può che corroborare. Oltre che a dottori o specialisti provenienti dall’Egitto (cfr. Hdt. III
1,1; 129,2), i sovrani achemenidi si affidarono spesso per le proprie cure anche a medici greci, come nel caso
del crotoniate Democede (Hdt. III 129,3-134,1) o di Ctesia di Cnido, medico di corte di Parisatide (la madre di
Artaserse II) a Babilonia tra ca. il 409 e il 392.
44 Per la titolatura di Udjahorresnet nelle diverse fasi della sua carriera, cfr. sez. b-c; per le attività cultuali, d-g.
45 Il “comando/supervisione delle navi kbnt” poteva cioè essere stato assegnato nominalmente a Udjahorresnet
per esaltarne i meriti (una sorta di ‘premio’ simbolico o di conferimento honoris causa, la cui funzione veniva in
realtà esercitata sul campo da personale militare esperto); oppure tale carica poteva limitarsi a oneri di carattere
logistico-burocratico per la gestione del naviglio, più che di impiego in combattimento. LLOYD The Inscription
cit., 169, sembra aprire a questa considerazione, ma preferisce pensare a una vera e propria carica militare per
via del fatto che, presentandosi Udjahorresnet come un “principe” del nomòs saitico, egli avrebbe fatto parte del
gruppo dei Machimoi (cfr. Hdt. II 165-166).
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Egitto. Perciò, è del tutto plausibile che un simile onore e onere fosse posto al medesimo
livello di altre importanti mansioni legate alla corte e al servizio stretto del faraone. Tale
centralità strategica pare inoltre manifestarsi nel fatto stesso che Udjahorresnet non fosse
stato riconfermato in questa carica da Cambise (unica eccezione), e che gli Achemenidi
avessero in seguito affidato sistematicamente il comando delle squadre navali egiziane a
personale di fiducia tratto dagli alti ranghi della nobiltà persiana46. Esercitare, infatti,
un’autorità diretta su una risorsa strategica quale la ‘pratica del mare’ egiziana, in tutte le sue
declinazioni, fu senza dubbio un’esigenza di prim’ordine per i Persiani dopo la conquista, di
cui oltretutto aveva determinato la spinta47; di più, essa costituì una prima, fondamentale
tappa nel processo successivo di allestimento della flotta del Re.
La marina dell’Egitto saitico, in altre parole, avrebbe potuto costituire un valido avversario
per l’avanzata di Cambise: al di là del ruolo non pervenuto delle forze navali di Psammetico
III48, le sue strutture si rivelarono una fonte preziosa per il nuovo regime, come del resto
avvenne anche per altri ambiti dell’eccellenza egiziana, in primis quello economico-produttivo.
Per farne uno strumento servibile, Cambise si impegnò durante il suo lungo soggiorno a
Menfi49 a imbastire un programma di cooperazione con le élite locali nella maniera il più
possibile ampia, ed è in questo senso che va correttamente intesa la vicenda di Udjahorresnet:
il ‘tradimento’ che l’interpretazione più diffusa gli attribuisce (deducendo dal suo ruolo di
comando nello schieramento saitico che egli avesse disertato a favore del Gran Re,
consegnandogli preziose informazioni o addirittura la flotta50) perde significato e
motivazione se si colloca adeguatamente il suo operato all’interno di questa dinamica. La
46 Vd. LLOYD Saïte Navy cit., 272: “their policy of keeping the highest military commands in Persian and Median
hands”, la quale era valida tanto per le armate di terra quanto per quelle navali. Esempi di affidamento delle
sezioni della flotta regia stanziate in Egitto a notabili persiani in servizio nell’area si rinvengono durante il regno
di Dario: attorno al 513, ad es., il satrapo Ariande avrebbe incaricato Badre, del genos dei Pasargadi (“i più nobili”
dei Persiani, secondo Hdt. I 125,3) di comandare il nautikon inviato contro i Greci di Barce in Libia (IV 167,1);
nel 480 il ‘contingente’ egiziano sarebbe stato agli ordini di Achemene, fratello di sangue dello stesso Serse e da
egli nominato governatore della sesta satrapia (VII 7; 97). Vd. anche, su questo, RAY Egypt 525-404 cit., 270,
secondo cui il controllo generale delle sezioni della marina in Egitto era nelle mani del satrapo, il quale assunse
de facto i poteri dei “masters of shipping” saitici.
47 Da rinvenirsi, secondo WALLINGA Persian Navy cit., 63-68, nella minaccia indiretta avvertita dai Persiani dalla
presenza saitica nel bacino del Mediterraneo orientale (nell’Egeo, con l’alleanza di Amasi con Policrate, e nel
Levante con la sottomissione egiziana di Cipro, cfr. Hdt. II 182,2), nonché dall’avanzamento della loro techne
navale.
48 WALLINGA Ships cit., 122 n.46, suggerisce un collegamento tra l’apparente crisi della marineria saitica nel 525
e l’abbandono dell’alleanza egiziana da parte di Policrate: un conflitto relativo all’uso della forza navale avrebbe
cioè paralizzato i comandi navali saitici, e simili screzi avrebbero potuto presentarsi circa la gestione dei rapporti
con Samo, ad es. in merito al numero di navi da consegnare a Policrate (cfr. Hdt. III 44,2).
49 Cambise rimase in Egitto fino alla fine del suo regno, quando trovò la morte lungo la strada del ritorno verso
la Mesopotamia (cfr. Hdt. III 61,1; 62,1).
50 Sebbene questa visione appaia suggerita da molti e per certi aspetti intrigante, essa non è supportata da alcuna
fonte.
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conservazione delle cariche e dei titoli detenuti nel precedente corso politico altro non è,
cioè, che un indice della ricerca, da parte dell’apparato achemenide, di mezzi e quadri in grado
di gestire in maniera funzionale la nuova acquisizione. Tutto questo, però, non poteva
naturalmente includere il settore della difesa (anche, e forse soprattutto, marittima), devoluto
integralmente alle autorità persiane51 – motivo per cui il ‘comando’ navale di Udjahorresnet
non venne rinnovato.
Tale progetto cooperativo, parzialmente riuscito almeno in una prima fase, ebbe di fatto i
suoi avviamenti nel corso dei preparativi per la spedizione stessa, allorquando effettivamente
l’azione informativa di alcuni personaggi fuoriusciti dagli alti ranghi dell’amministrazione
militare egiziana poté rivelarsi decisiva allo scopo di Cambise. La trasmissione di conoscenze
operata da figure come quelle registrate variamente dalle fonti greche (che fossero il
mercenario Fanete di Alicarnasso, o l’eunuco Combaphis, o altre con altro nome non è il
punto della questione) determinò comprensibilmente una maggiore cognizione da parte
persiana dell’importanza della polytechnia egiziana come risorsa strategica. I nuovi
conquistatori, pertanto, intesero conservarla adeguandola alle proprie esigenze, e al
contempo cercando loro stessi di adeguarsi nei limiti del possibile e del conveniente al
contesto locale. Ciò valse anche, almeno nel primo senso, per le nozioni di carattere militare,
tra le quali con buona dose di probabilità, come detto, furono rese disponibili anche dottrine
(ovvero un effettivo know-how) nel settore navale. Se i transfughi egiziani poterono contribuire
attivamente in questo senso, è possibile che, negli anni successivi alla conquista, anche
ufficiali di alto grado come Udjahorresnet avessero fornito dettagli o indirizzamenti utili alle
attività marittime dei Persiani52.
Nel caso del controllo delle risorse navali, l’esclusività della competenza persiana su questo punto, almeno
nei settori più alti delle gerarchie militari, rappresentò un principio cardine non altrimenti aggirabile dell’attività
marittima achemenide. D’altra parte, una simile risoluzione è riscontrabile anche nell’ambito della gestione delle
armate terrestri, dal momento che, di fatto, anche gli eventuali “comandanti epicorici” (cfr. Hdt. VII 81; 96; 9899) erano in realtà douloi sottoposti a superiori persiani. Nella flotta, ciò fu valido già fin dai primi tempi
dell’impegno navale dei Gran Re, come mostrano i comandi navali ricoperti dagli stessi sovrani o da satrapi:
cfr. ad es. Hdt. III 141; IV 87,1; 167,1; Ctes. F13 §20.
52 Tralasciando l’ipotesi per cui Udjahorresnet, tradito il fronte saitico e passato a quello persiano poco prima
o durante l’invasione, avrebbe fornito indicazioni utili all’avanzata di Cambise (alla stregua di Fanete o
Combaphis), è cioè ipotizzabile che egli, in seguito, durante il servizio svolto presso la corte di Cambise in
Egitto e, pare, di Dario in Persia (a Susa? cfr. Naoforo Vaticano, sez. j, vd. KUHRT Persian Empire cit., 119-120
n.15), avesse offerto un contributo alle autorità militari achemenidi con le proprie conoscenze (se non
effettivamente tecniche, quantomeno nel campo della gestione complessiva o ‘burocratica’) nel settore navale.
È chiaro, però, come in realtà a questa trasmissione dovettero partecipare i vari livelli del personale impiegato
nella marina saitica, ivi compresa la bassa manovalanza (e forse in maniera ancora più incisiva dello stesso
Udjahorresnet, qualora il suo titolo di comando avesse avuto funzione puramente onorifica). In ogni caso, non
è opportuno estrapolare eccessivamente, data la stessa natura celebrativa della fonte di riferimento, come invece
sembra fare WALLINGA Ships cit., 125 n.52, quando giunge a far dipendere il mantenimento dell’intera titolatura
aulica del personaggio dal suo “contributo navale”, in quella che pare un’oggettiva esagerazione.
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Pur non essendovi le prove di un effettivo coinvolgimento di Udjahorresnet in qualità di
‘consigliere militare della flotta’ sotto Cambise e Dario o di un suo precedente ‘tradimento’,
il suo caso si presenta comunque diverso, ma per certi aspetti complementare a quello dei
fuoriusciti di cui si ha menzione nella tradizione greca. Esso rientra pienamente in un
processo di acquisizione di competenze che ebbe ripercussioni fondamentali sugli apparati
achemenidi, e in buona misura anche sugli sviluppi del nautikon persiano. Delatori
autopresentatisi e collaboratori incentivati dai Persiani stessi furono, dunque, due categorie
di esponenti di un unico fenomeno, quello dei preziosissimi apporti dell’informazione
egiziana: posta al servizio del Gran Re, questa forza concorse a sostanziare ulteriormente il
suo potere, ivi compreso il suo braccio marittimo e con ciò la ‘avventura’ navale achemenide.
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Contestualizzazione geografica
Mappa del quadrante del Mediterraneo sud-orientale interessato dai movimenti dei Persiani in direzione
dell’Egitto nel 525, con indicazione del percorso terrestre delle armate di Cambise attraverso la Cilicia, la Siria
e la Palestina, e della rotta di cabotaggio seguita dal naviglio persiano lungo il litorale levantino. Progetto e
indicazioni elaborati dall’autore, base geografica realizzata con il programma Open Street Maps – Datawrapper.
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Elenco delle Illustrazioni
Particolare della teoria dei popoli soggetti al potere del Gran Re raffigurata ai lati del
piedistallo della statua di Dario I rinvenuta a Susa, ma prodotta in Egitto e secondo il gusto
egiziano (DSab).
Riproduzione dello stampo di un sigillo rinvenuto negli archivi persepolitani, raffigurante un
Gran Re persiano nell’atto di sottomettere un Egiziano, anch’egli di rango regale.
Il cd. Naoforo Vaticano, statua acefala in pietra dura locale verde, in origine posta
presumibilmente a Sais e oggi conservata ai Musei Vaticani. Fattura e iscrizioni geroglifiche
risalenti alla fine del VI – inizio V secolo a.C.
Dettaglio delle braccia di Udjahorresnet nella statua del Naoforo Vaticano.
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Dal cesarato alla battaglia di Argentoratum.
La prima fase della campagna gallica del cesare Giuliano.
Giulio Vescia
La situazione della Gallia all’arrivo del cesare
La figura di Giuliano, cesare in Gallia dal 355 al 361,
successivamente imperatore dal 361 al 363, risulta essere,
tra i governanti presenti in Gallia nel IV secolo, quella
maggiormente trattata dalle fonti: di riflesso, quindi, è
possibile approfondire, attraverso le stesse fonti, gli aspetti
militari e sociali vissuti in Gallia durante gli anni del suo
cesarato, caratterizzati da un’intensa e costante attività
bellica sul confine renano. La fonte di maggior
autorevolezza è indubbiamente Ammiano Marcellino, il
Maiorina di bronzo, Recto, gr. 7,86;
Flavio Claudio Giuliano. Iscrizione:
D/ DN FL CL IVLIANVS PF
AVG, ritrovata e conservata ad
Arles.
quale, tramite la sua conoscenza militare e dei luoghi, ci
fornisce una dettagliata panoramica della situazione militare e amministrativa delle province
galliche1. Non bisogna commettere l’errore di considerare imparziali le parole di Ammiano
nei confronti di Giuliano: costui è infatti l’ultimo campione del paganesimo, per questo
motivo diventa inevitabilmente il “beniamino” delle fonti pagane o comunque avverse in
qualche modo al cristianesimo dilagante2.
Un’altra testimonianza di primo piano è fornita dal panegirico XI del 362, scritto in onore di
Giuliano da Claudio Mamertino, che risulta essere il primo discorso encomiastico pervenuto
1
Il libro XV delle Storie comprende la descrizione sia storica che geografica delle province della Gallia.
Probabilmente, nella sua attività militare, Ammiano Marcellino servì proprio in questi territori così
minuziosamente descritti.
2
Sebbene nell’opera di Ammiano non traspaia odio nei confronti del Cristianesimo, ma una ricerca di dialogo
e di parità di diritti tra il paganesimo ed il nuovo culto, che si appresta a diventare religione di stato e unico
credo. Cfr. E. D. HUNT, <Christians and Christianity in Ammianus Marcellinus>, The Classical Quarterly,
35(1985), pp. 186 – 200.
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in seguito a quello in onore di Costantino del 3213. È proprio il suddetto panegirico che più
di ogni altra fonte mostra una visione allarmante, che si potrebbe definire esageratamente
“apocalittica”, della Gallia all’arrivo del cesare. Mamertino descrive le città occupate e
danneggiate dai barbari (in particolare il caso di Colonia, catturata dai Franchi poco prima
dell’arrivo di Giuliano), le élites galliche assoggettate agli occupanti, mentre le città più lontane
dalla frontiera venivano amministrate rapacemente dai governatori4.
La corretta amministrazione delle province e della giustizia durante la carica di Giuliano è in
effetti una tematica ricorsiva nelle fonti, fino a diventare quasi motivo di “propaganda
politica”. D’altra parte, nonostante le presunte esagerazioni dei documenti, non si può non
considerare un fondo di veridicità nelle parole di uno storico come Ammiano, e infatti le
circostanze interne ed esterne a cui dovette far fronte Giuliano non furono delle più rosee.
Vitantonio Sirago ha utilizzato il passo citato del panegirico XI per ipotizzare il fallimento
della politica agricola ed amministrativa della tetrarchia5. In realtà, la condizione disastrosa in
cui versava la Gallia è conseguenza dell’usurpazione di Magnenzio, a cui fecero seguito dal
352 al 355 le incursioni barbariche e la seconda, breve, usurpazione di Silvano.
Va detto che la Gallia, a partire dal III secolo, presenta una persistente tendenza
all’usurpazione, a spinte autonomiste: le cause di ciò sono trattate nell’expositio totius mundi,
un’opera anonima della metà del IV secolo, testimonianza quindi di grande interesse poiché
contemporanea alle usurpazioni degli anni 50 del secolo. Secondo l’anonimo, la Gallia è un
territorio così vasto (e, aggiungerei, delicato dal punto di vista militare per la vicinanza con il
mondo germanico) che necessita della presenza dell’autorità imperiale, e se tale presenza
viene a mancare, ne sorge una come usurpazione6. Se la presenza imperiale non rimane
3
La distanza cronologica tra i due encomi riflette sia una mancanza di fonti, in particolare riguardanti il mondo
gallo-romano, nell’età dei successori di Costantino sia il rilievo che ebbe per i contemporanei la figura di
Giuliano e la campagna da lui condotta in Gallia. Cfr. J. F. DRINKWATER, The Alamanni and Rome. 213-496
(Caracalla to Clovis), Oxford University Press, Oxford, 2007, p. 217.
4
Pan. XI.4.1-2: “Florentissimas quondam antiquissimasque urbes barbari possidebant; Gallorum illa celebrata nobilitas aut
ferro occiderat aut immitibus addicta dominis serviebat. Porro aliae quas a vastitate barbarica terrarum intervalla distulerant
iudicum nomine a nefariis latronibus obtinebantur. Obciebantur ingenua indignis cruciatibus corpora; nemo ab iniuria liber, nemo
inactus a contumelia, nisi qui crudelitatem praedonis pretio mitigasset, ut iam barbari desiderarentur, ut praepoptaretur a miseris
fortuna captorum”. La drammaticità della situazione è ripresa, oltre che in Ammiano, dalle stesse parole di
Giuliano, nell’ Epistola agli Ateniesi 279A. cfr. Amm. Marc. XV.5.2: “Cum diuturna incuria Galliae caedes acerbas
rapinasque et incendia, barbaris licenter grassantibus, nullo iuvante perferrent, Silvanus pedestris militae rector, ut efficax ad haec
corrigenda, principis iussu perrexit”; C.f.r. T. GNOLI, Le guerre di Giuliano imperatore, il Mulino, Bologna, 2015, p.
32.
5
V. A. SIRAGO, <L’agricoltura gallica sotto la tetrarchia>, Latomus, 102 (1969), pp. 687-699.
6
Expositio totius mundi, 78b: “Geographi Latini minores, Post Pannoniam Galliam provinciam, quae cum maxima sit, et
imperatorem semper eget: hunc ex se habet. Sed propter maioris praesentiam omnia in multitudine abundat, sed plurimi pretii.
Civitatem autem maximam dicunt habere, quae vocatur Triveris, ubi et habitare dominus dicitur; et est mediterranea. Similiter
autem habet alteram civitatem in omnibus ei adiuvantem, quae est super mare, quam dicunt Arelatum, quae ab omni mundo
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stanziata in questi territori, quindi, il bisogno di difesa si manifesta in personalità come
Magnenzio. Di fatto, l’expositio definisce proprio ciò che era stato intuito con la tetrarchia, e
a cui la divisione dell’Impero tra quattro autorità imperiali aveva tentato di porre freno.
Nel 337 l’Impero viene diviso non senza turbolenze tra i rimanenti figli del defunto
Costantino, secondo l’idea di principio dinastico che l’imperatore aveva partorito forse già
durante la permanenza in Gallia, e perseguito negli anni di regno7. Costanzo II ottenne le
province orientali, Costante l’Illirico, mentre Costantino II, primogenito in seguito alla morte
di Crispo, ottenne i territori occidentali, comprese le Gallie. Quest’ultimo, aderendo alla
politica del padre e del nonno, sembra aver condotto una campagna contro gli Alamanni8.
Non si conosce la portata né la funzionalità di tale scontro, tuttavia si può ipotizzare, sulla
base delle precedenti campagne condotte agli inizi del secolo, che tale operazione fosse
contenuta, e che Costantino II se ne servì per accrescere la propria leadership.
Il regno di quest’ultimo non ebbe lunga durata: nel 339 entrò in conflitto col fratello
Costante, e l’anno seguente trovò la morte in battaglia presso Aquileia. È già stato visto come
Costante, che ottenne i territori occidentali del fratello, venne a conflitto con alcune tribù di
Franchi Salii, e sanzionò il loro stanziamento in Toxiandria9. Nonostante la campagna contro
i Franchi del 342, l’imperatore Costante concentrò la sua attività politica nei Balcani e in
Italia, facendo affidamento nel territorio gallico sul prefetto del pretorio Fabio Tiziano, già
console sotto il regno di Costantino. Se negli anni del suo regno la frontiera renana rimane
sicura, tuttavia, le poche fonti pervenuteci attestano una cattiva gestione finanziaria ed
amministrativa del territorio gallico10ed un difficile rapporto con l’esercito. Furono forse
questi i motivi che spinsero il generale Magnenzio, supportato da Tiziano, ad escogitare una
negotia accipiens praedictae civitati emittit. Omnis autem regio viros habet fortes et nobiles in bello: itaque plurimum exercitum et
fortia Gallorum esse dicuntur, et est in omnibus provincia admirabilis. Et habet adiacentem gentem barbaram Gothorum.
7
G. BRIZZI, Roma: potere e identità dalle origini alla nascita dell’impero cristiano, Patron, Bologna, 2012, p. 386. In
seguito alla morte di Costantino si consumò a Costantinopoli l’eccidio dei membri maschi della dinastia, a cui
sopravvissero i figli Costantino II, Costante e Costanzo II, imputato da Zosimo II.40 come mandante
dell’eccidio, e i nipoti Costanzo Gallo e Giuliano. Per quanto riguarda Crispo, fu il primogenito di Costantino
e cesare in Gallia dal 320 al 326, anno della sua morte, voluta per mano del padre, a causa del presunto adulterio
con la madre Fausta. Questo episodio, sempre nelle parole di Zosimo, II.29, avvicinò Costantino al
cristianesimo. La veridicità dell’episodio dell’adulterio è ancora oggi dubbia e dibattuta. Cfr. A. Barbero,
Costantino il vincitore, Salerno editrice, Roma, 2016, pp. 746-747.
8
P. MARAVAL, I figli di Costantino, 21 editore, Palermo, 2015, p. 48, riporta l’iscrizione CIL 3.12483, in cui
Costantino II ottenne la titolatura di Alamannicus Maximus.
9
C.f.r. J. F. DRINKWATER, The Alamanni and Rome cit, pp. 199-200.
10
Difficoltà finanziarie sono attestate nell’orazione I.34ab di Giuliano, il quale riferisce, non senza esagerazioni,
che Magnenzio dovette imporre una pesante tassazione e vendere proprietà imperiali. J. HARRIES, Imperial Rome
AD 284 to 363. The New Empire, Edinburgh University Press, Edinburgh 2012, p. 194, riporta inoltre che le
emissioni monetarie dell’usurpatore presentano un’inferiore quantità di oro e argento, sinonimo quindi di crisi
economica.
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
congiura, proclamandosi poi cesare presso Augustodunum11. Tuttavia, Magnenzio, di origini
germaniche, appena esposto, non venne accettato come imperatore né a Roma, che tentò di
occupare in seguito alla congiura, né forse dalle élites gallo-romane, in seguito alle incursioni
franche e alamanne iniziate nel 35212. Si ritrovano in questo i tratti tipici dei soldatenkaiser del
III secolo, acclamati con l’appoggio dell’esercito per motivi di necessità militare e per
l’assenza dell’imperatore.
Una situazione analoga avvenne con il breve colpo di stato di Silvano del 355. Claudio
Silvano, magister peditum per Gallias di origini franche, venne inviato in Gallia settentrionale
dall’imperatore Costanzo II nell’ottica di arginare la minaccia germanica. La strategia
dell’imperatore prevedeva, infatti, l’impegno di Silvano contro i Franchi, mentre lui in
persona si sarebbe occupato degli Alamanni lungo il corso dell’alto Reno. Come visto, la
politica dell’imperatore sembra essere favorevole ad accordi ed alleanze con i capi germani
piuttosto che ad uno scontro diretto13. È interessante notare come il tentativo di usurpazione
del franco Silvano, se effettivamente si verificò, ebbe origine a Colonia, città in cui, vista la
vicinanza con il confine, la popolazione dovette essere composta da un buon numero di
barbari. Di fatto pochi mesi dopo la stessa città venne occupata dai soldati Franchi: è
plausibile, quindi, come in un territorio di frontiera un generale romano-barbarico potesse
aspirare al potere. L’usurpazione di Silvano ebbe breve durata, e dopo ventotto giorni venne
deposto dal generale Ursicino14.
La necessità della nomina a cesare di Giuliano, avvenuta il 6 novembre 355 presso la corte di
Milano fu dettata quindi dalla grave situazione in cui imperversava la Gallia, sia dal punto di
Eutr. X.9.3: “Constantis imperium strenuum aliquamdiu et iustum fuit. Mox, cum et valetudine improspera et amicis
pravioribus uteretur, ad gravia vitia conversus, cum intolerabilis provincialibus, militi iniucundus esset, factione Magnentii occisus
est”.
12
Sebbene la rivolta di Magnenzio scaturì dalla cattiva gestione di Costante, a nulla valsero gli sforzi del generale
di presentarsi come alternativa rispetto ai sovrani costantinidi. Le critiche più aspre al governo di Costanzo
sono riferite per bocca dello stesso Magnenzo in Zos.II.47.3. Cfr. M. RAIMONDI, <Modello costantiniano e
regionalismo gallico nell'usurpazione di Magnenzio>, Mediterraneo antico, 9 (2006), pp. 267-292.; I. DIDU,
<Magno Magnenzio: Problemi cronologici ed ampiezza della sua usurpazione. I dati epigrafici>, Critica Storica,
14 (1977), pp. 11-56.
13
Amm. Marc. XIV.10.14: “Quam ut cunctator et cautus utiliumque monitor, si vestra voluntas adest, tribui debere censeo
multa contemplans. Primo ut Martis ambigua declinentur, dein ut auxiliatores pro adversariis adsciscamus quod pollicentur tum
autem ut incruenti mitigemus ferociae flatus perniciosos saepe provinciis, postremo id reputantes quod non ille hostis vincitur solus,
qui cadit in acie pondere armorum oppressus et virium, sed multo tutius etiam tuba tacente sub iugum mittitur voluntarius qui
sentit expertus nec fortitudinem in rebellis nec lenitatem in supplices animos abesse Romanis”.
14
Amm. Marc. XV.5.31: “Firmato itaque negotio per sequestres quosdam gregarios obscuritate ipsa ad id patrandum idoneos,
praemiorum exspectatione accensos solis ortu iam rutilo subitus armatorum globus erupit atque, ut solet in dubiis rebus audentior,
caesis custodibus regia penetrata Silvanum extractum aedicula, quo exanimatus confugerat, ad conventiculum ritus Christiani
tendentem densis gladiorum ictibus trucidarunt”. È stato ipotizzato che l’usurpazione di Silvano sia un’invenzione
letteraria da parte di Ammiano, per redimere il suo comandante Ursicino dalle accuse di assassinio. Cfr. D.
HUNT, <The Outsider Inside: Ammianus on the Rebellion of Silvanus>, J. Drijvers, J. Willem, D. Hunt (cur.) The Late
Roman World and its Historian, London 1999.
11
Dal cesarato alla battaglia di Argentoratum.
Giulio Vescia
29
30
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
vista amministrativo e finanziario che bellico, a cui il solo imperatore non poteva porre
rimedio15. A ciò si deve aggiungere la crisi demografica che caratterizzava i territori di
frontiera, carenza di popolazione che si ripercuote anche nel numero degli effettivi
dell’esercito. È esemplificativo di questa problematica il passo XVII.2.1 di Ammiano, in cui
viene riferito che un “fortissimo gruppo” di appena 600 Franchi tenne sotto scacco le truppe
romane per due mesi, prima che l’arrivo di Giuliano li costringesse alla resa16. Questo passo
risulta a mio avviso di notevole importanza poiché testimonia quanto fosse limitato il numero
di romani schierati a controllo dei territori del limes per non riuscire a contrastare un ristretto
numero di Franchi. Ammiano mostra nelle pagine dedicate alla campagna gallica di Giuliano
tutta la sua conoscenza militare, grazie alla quale è possibile conoscere minuziosamente,
almeno fino alla battaglia di Strasburgo, la quantità e i corpi che componevano l’esercito
guidato dal cesare17. Si vedrà quindi come 25.000 soldati giungeranno dall’Italia nell’estate del
357 sotto il comando del magister peditum Barbazione, tra cui le legioni palatine Herculiani
seniores e Ioviani seniores, che in seguito seguiranno Giuliano nella spedizione in Mesopotamia,
mentre nella prima fase delle operazioni militari, che si riducono per lo più a scaramucce ed
imboscate, il numero dei soldati impiegati dovette essere decisamente più esiguo18.
Le prime fasi della campagna gallica
La grande campagna gallica del 355-360, intrapresa da Giuliano, va necessariamente suddivisa
in due fasi distinte: una prima fase, che comprende le prime azioni militari, fino alla battaglia
di Argentoratum, e una seconda, in cui le principali attività consistono nel consolidamento
Costanzo II negli ultimi anni di regno fu impegnato in campagne belliche lungo il Danubio. L’imperatore
capì che le recenti usurpazioni in Gallia erano segno di squilibri interni nella regione: per questo motivo decise
cautamente di elevare a rango di cesare il giovane cugino. Cfr. P. MARAVAL, I figli cit.
16
Amm. Marc. XVII.2.1: “Quibus ut in tali re conpositis firmiter, ad sedes revertens hibernas sudorum reliquias repperit tales.
Remos Severus magister equitum per Agrippinam petens et Iuliacum Francorum validissimos cuneos in sexcentis velitibus, ut
postea claruit, vacua praesidiis loca vastantes offendit: hac opportunitate in scelus audaciam erigente, quod Caesare in
Alamannorum secessibus occupato nulloque vetante expleri se posse praedarum opimitate sunt arbitrati. sed metu iam reversi
exercitus, munimentis duobus, quae olim exinanita sunt, occupatis se quoad fieri poterat tuebantur”.
17
Nella narrazione degli eventi successivi al 357 la descrizione militare risulta meno minuziosa. Cfr. T. GNOLI,
Le guerre cit, p. 63. S. TOUGHER, Julian the apostate, Edinburgh University Press, Edinburgh, 2007, p. 31, sottolinea
come la descrizione delle attività di Giuliano occupino la maggioranza della narrazione di Ammiano degli anni
dal 356 al 361, mentre viene lasciato meno spazio alla figura di Costanzo II. Ciò ha portato lo storico britannico
ad attribuire all’opera di Ammiano il sottotitolo di “vita di Giuliano”.
18
Sebbene un buon numero di legioni enumerate da Ammiano sia costituito da etnonimi tipici della Gallia e
Germania, come le legioni palatine di Divitenses seniores e Tungrecani seniores, la prima originaria del castrum di
Divitia, mentre la seconda deriva dalla tribù germanica dei tungri.
15
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
del controllo dell’esercito imperiale, nonché del rafforzamento del potere politico dello stesso
Giuliano. In questo lavoro, ci concentreremo esclusivamente sulla prima fase della campagna.
In tal senso, la netta suddivisione temporale è suggerita dalle stesse parole scritte dal cesare
nell’Epistola agli Ateniesi: nel testo notiamo come nei primi anni del soggiorno in Gallia
Giuliano lamenta scarsa autonomia e capacità decisionale in ambito bellico. Viene infatti
scortato da Milano a Vienne da una schola palatina di circa 400 uomini19, e giunto nella città
gallica non gli venne conferito alcun comando militare. Bisogna considerare tuttavia che la
suddetta lettera pecca di imparzialità, essendo un’accusa rivolta contro il cugino e imperatore
Costanzo, redatta per giustificare la futura usurpazione di Giuliano20: in questo testo Giuliano
lamenta la subordinazione rispetto ai magistri militum inviati dall’imperatore per vegliare sul
cugino, in particolare di Marcello.
La mossa di Costanzo II di avvicinare generali esperti al cesare risulta in realtà sensata, poiché
Giuliano prima dell’arrivo in Gallia non venne mai istruito nelle arti militari, incarnando la
figura del sovrano filosofo in maniera affine a Marco Aurelio. Risulta chiaro, quindi, come
non fosse saggio affidare ad un comandante inesperto la guida di una regione martoriata e di
un esercito che non si sarebbe sicuramente affidato ciecamente a lui. Tommaso Gnoli
sottolinea, inoltre, come nel progetto politico di Costanzo la figura del cesare costituisse un
vicario dello stesso imperatore, che curasse gli animi della popolazione e dell’esercito nei
territori più lontani dal fronte con la presenza di un esponente della famiglia imperiale21.
Inoltre, le avversità che Costanzo dovette affrontare prima con il cesare Costanzo Gallo, poi
con gli usurpatori, avrebbero potuto renderlo incline alla cautela, se non alla diffidenza, nei
confronti del cugino22.
Non bisogna nemmeno considerare veritiera la critica che Giuliano muove a Costanzo,
secondo cui quest’ultimo concesse al cesare il comando della scorta di scutarii: in realtà questi
dovettero fungere da guardia personale, mentre una parte cospicua dell’esercito dovette
19
Amm. Marc. 15.8.18 non fornisce un numero, ma concorda con il cesare descrivendo la scorta “comitatu parvo
suscepto”.
20
I. LABRIOLA, Giuliano, autobiografia: messaggio agli Ateniesi, La Nuova Italia Editrice, Firenze, 1975, pp. 547-560.
21
Cfr. T. GNOLI, Le guerre cit, p. 56. Tale progetto politico è confermato dalle parole dello stesso Giuliano, che
in Epistola agli Ateniesi 278d riporta che “non si diede un imperatore ai Galli, ma una persona che ne avrebbe
portato l’immagine”.
22
Costanzo Gallo, fratello maggiore di Giuliano, fu cesare in Oriente dal 351 al 354, anno della morte, avvenuta
a Pola, per ordine di Costanzo II. È anche per la morte del fratello che Giuliano provò un profondo
risentimento nei confronti di Costanzo II. L’attività politica di Costanzo Gallo nelle province orientali viene
tendenzialmente giudicata in maniera negativa dagli storici.
Dal cesarato alla battaglia di Argentoratum.
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32
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essere già stanziata in Gallia23. Il comportamento di Costanzo non sembra celare secondi fini
nemmeno nella narrazione dello stesso Giuliano. L’imperatore infatti rimuove dall’incarico il
magister equitum Marcello, reo di non essere accorso in soccorso di Giuliano assediato a Sens.
Marcello in questo frangente segue alla lettera gli ordini dell’imperatore, che ha preparato per
il 356 una tattica a tenaglia tra nord e sud similare a quella del 35424. La partecipazione attiva
di Giuliano nell’ottica della tattica a tenaglia è stata vista da Bowersock come un’effettiva
partecipazione al potere imperiale, contra le critiche infondate del cesare presenti nell’epistola
agli Ateniesi25.
Le azioni militari iniziate nel 356 furono condotte prevalentemente contro gli Alamanni, che
dovevano essere più numerosi ed aggressivi dei Franchi, limitati al nord della valle del Reno.
Si nota comunque una differenza di atteggiamento tra le due confederazioni germaniche:
mentre i Franchi, data la vicinanza e l’affinità culturale con la popolazione cittadina,
occuparono Colonia, gli Alamanni si dedicano prevalentemente a saccheggi e razzie a scopo
di bottino, evitando, a detta di Ammiano i pericoli delle città26. Sempre da Ammiano si
intuisce però come questi non ignorassero le nozioni di poliorcetica durante l’azione contro
Augustodunum27. Proprio in questa città è indirizzata la prima azione militare condotta da
Giuliano: lo storico non riferisce se si verificò uno scontro in città o se i barbari fossero già
ritirati, comunque sembra che i primi contatti fossero in realtà azioni di breve durata contro
gruppi armati sparsi e disorganizzati.
È singolare come l’azione bellica di Giuliano, diretta al soccorso di Tricasae (Troyes) venne
condotta con un’unità di clibanarii e una di ballistarii. Se un’unità di cavalleria corazzata come
i clibanarii non risulta fuori luogo, ma comunque meno adatta alle veloci incursioni e ritirate
23
Cfr. S. TOUGHER, Julian cit, p. 32; T. GNOLI, Le guerre cit, p. 54. Secondo Gnoli il numero di 360 uomini
fornito da Giuliano risulta verosimile, in quanto una schola era mediamente composta da 500 unità, ma non tutti
i soldati accompagnavano l’imperatore/cesare in battaglia o negli spostamenti: ad alcuni venivano
verosimilmente affidati incarichi amministrativi, per questo motivo il numero indicato da Giuliano può
corrispondere ad un’intera unità.
24
Y. LE BOHEC, Armi e guerrieri di Roma antica. Da Diocleziano alla caduta dell’impero, Carocci, Roma, 2008, p. 64,
critica questa scelta definendola banale. In effetti gli sforzi del 354 risultarono vani, e il solito Ammiano in
XV.4.8 testimonia le prime controffensive degli Alamanni. In seguito alla vicenda di Silvano i pochi risultati
ottenuti dalla campagna vennero cancellati da nuove incursioni germaniche.
25
G. W. BOWERSOCK, Julian the apostate, Harvard University Press, 1978, p. 38; S. TOUGHER, Julian cit, p. 32.
26
Amm. Marc. XVI.2.12: “Audiens itaque Argentoratum, Brotomagum, Tabernas, Salisonem, Nemetas et Vangionas et
Mogontiacum civitates barbaros possidentes territoria earum habitare nam ipsa oppida ut circumdata retiis busta declinant primam
omnium Brotomagum occupavit eique iam adventanti Germanorum manus pugnam intentans occurrit”. Questo passo denota
quanto la situazione fosse tragica nel 356. Le razzie nei territori limitrofi alle città aveva comportato la perdita
totale del controllo del Reno da parte dei romani. Cfr. T. GNOLI, Le guerre cit, p. 35.
27
Amm. Marc. XVI.2.1: “Agens itaque negotiosam hiemem apud oppidum ante dictum inter rumores, qui volitabant adsidui,
conperit Augustuduni civitatis antiquae muros spatiosi quidem ambitus sed carie vetustatis invalidos barbarorum impetu repentino
insessos, torpente praesentium militum manu veteranos concursatione pervigili defendisse, ut solet abrupta saepe discrimina salutis
ultima desperatio propulsare”.
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
rispetto alla cavalleria leggera, l’unità di ballistarii sembra avulsa dal contesto. È impensabile
che venissero impiegate macchine di artiglieria pesante in un’azione militare rapida, ma
soprattutto non contro un esercito schierato e numeroso, a cui avrebbero potuto infliggere
danni cospicui, ma a gruppi di guerrieri sparsi nel territorio 28. È realistico pensare che
Giuliano si servisse di tali unità poiché erano le uniche disponibili in questa prima fase di
campagna, e che venissero utilizzate come fanteria leggera, abbandonando le mansioni di
artiglieria29. Ammiano non nomina inoltre in questo frangente la schola che scortò il cesare in
Gallia, che potrebbe essere rimasta acquartierata a Vienne.
Questo piccolo esercito radunato per necessità indica ulteriormente l’esiguità delle truppe
romane in Gallia, che comunque riescono a riportare delle vittorie, seppur non decisive, che
permettono di liberare il territorio oppresso dalle incursioni barbariche. Questa zona è
strettamente collegata, vista la vicinanza, a Lutetia Parisiorum, l’odierna Parigi: è questa la città
che, contro la tradizione politica precedente, diventerà il quartier generale di Giuliano in
Gallia, soppiantando Treviri, che durante la dinastia costantiniana aveva assunto il ruolo di
“quadrilatero” dell’occidente30. Questo cambiamento porta con sé una funzionalità logistica
e di controllo del territorio gallico dovuta allo stato di belligeranza. Si può ipotizzare che il
territorio di Lutetia sia tra i primi ad essere liberati dalla minaccia barbara, mentre Treviri, più
vicina al Reno, può essere in questo momento storico maggiormente soggetta ad attacchi
barbari. In condizioni di pace, la città sulla Mosella, grande e dotata delle giuste strutture di
potere, sarebbe stata sicuramente più idonea ad ospitare il cesare31.
A tal proposito Ammiano Marcellino testimonia l’efficacia di queste macchine, che in età tardoantica
guadagnarono mobilità a discapito della stazza, come l’esempio della manubalista. L’efficacia e la precisione di
tali macchine di artiglieria è discussa da E. W. MARSDEN, Greek and Roman Artillery Tactical Treatises, Oxford
University Press, Oxford 1969, pp. 234-254. Cfr. G. CASCARINO, C. SANSILVESTRI, L’esercito romano. Armamento
e organizzazione. Vol. III: Dal II secolo alla fine dell’Impero d’Occidente, Il Cerchio, Rimini, 2009, pp. 162-164; Y. LE
BOHEC, Armi e guerrieri cit, pp. 170-171.
29
Lo stesso Ammiano esprime perplessità sull’efficienza militare di questa composizione di unità in XVI.2.5:
“Et nequa interveniat mora, adhibitis cataphractariis solis et ballistariis parum ad tuendum rectorem idoneis percurso eodem itinere
Autosiodorum pervenit”. L’efficacia di queste scaramucce del 365 deve essere attribuita quindi ai clibanarii corazzati
che riuscirono a sbaragliare i barbari, senza poterli tuttavia inseguire a causa dell’equipaggiamento, mentre la
fanteria sembra avere un ruolo di difesa e copertura dei fianchi. Cfr. Amm. Marc. XVI.2.6: “Ubi brevi, sicut solebat,
otio cum milite recreatus ad Tricasinos tendebat et barbaros in se catervatim ruentes partim, cum timeret ut ampliores, confertis
lateribus observabat, alios occupatis habilibus locis decursu facili proterens, non nullos pavore traditos cepit, residuos in curam
celeritatis omne quod poterant conferentes, quia sequi non valebat gravitate praepeditus armorum, innocuos abire perpessus est”; T.
Gnoli, Le guerre cit, pp. 57-58.
30
La città tornerà al centro del mondo occidentale sotto la dinastia dei valentiniani, per qualche anno in maniera
preponderante rispetto all’esperienza costantiniana. Cfr. P. BROWN, Per la cruna di un ago. La ricchezza, la caduta
di Roma e lo sviluppo del cristianesimo, 350-550 d. C, Einaudi, Torino, 2014, p. 259.
31
Non bisogna tuttavia sottostimare la componente emotiva del soggiorno di Giuliano a Lutetia, che descriverà
i suoi soggiorni invernali a partire dal 358 con toni idilliaci. Per il rapporto tra Giuliano e Lutetia si veda A.
MARCONE, Giuliano. L’imperatore filosofo e sacerdote che tentò la restaurazione del paganesimo, Salerno editrice, Roma,
2019, pp. 89-91.
28
Dal cesarato alla battaglia di Argentoratum.
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34
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In seguito a queste azioni avviene il primo consiglio di guerra a Reims, in cui Giuliano si
ricongiunge al resto dell’esercito, guidato non più da Ursicino, ma da Marcello. Il comando
guidato dal cesare subisce anche un’imboscata nella via verso Decem Pagi, agevolata
sembrerebbe dalle condizioni metereologiche, nonché forse dall’inesperienza giustificata del
cesare32. Nel periodo seguente Giuliano riesce con uno scontro armato a pacificare il
territorio di Brocomagus, il quale era stato oggetto di razzie che avevano interessato anche
Mogontiacum e Argentoratus tra le città più influenti, causando la momentanea perdita della valle
del Reno. Il numero di nemici appare esiguo se l’esercito di Giuliano riesce ad applicare una
manovra a tenaglia stringendoli dai lati33. La vittoria inoltre apre la strada verso la riconquista
di una Colonia sguarnita dai Franchi. Non si tratta in questo caso di azioni militari: vengono
invece stipulati accordi con i re Franchi, cosa che sembra effettivamente convenire ad
entrambe le compagini34.
La stagione militare del 356 si conclude quindi con un parziale successo per Giuliano, il quale
si appresta a svernare, passando da Treviri, “apud Senonas”, su cui oggi la storiografia è divisa:
infatti, alcuni tendono ad identificare la città non con Sens, non troppo lontana da Parigi, ma
con Senon, molto più vicina al limes renano35. Qui alcuni gruppi di Alamanni, approfittando
dell’inferiorità numerica del cesare, portarono l’assedio per mesi, per poi essere sconfitti dagli
uomini di Giuliano. Per contro Marcello lasciò isolato il cesare, alimentando in Ammiano
l’idea di un accordo con Costanzo, che sembra essere comunque infondato. L’ignavia di
Marcello viene infatti punita dall’imperatore, che lo sostituisce nei mesi successivi con il
magister militum Severo. È stato collocato in autunno del 356 l’intervento di Costanzo in Rezia,
nei confini sud del territorio degli Alamanni, incontrando una resistenza pressoché nulla. In
questa spedizione, narrata da Ammiano a posteriori durante i paragrafi relativi alla battaglia
Amm. Marc. XVI.2.10-11: “Et quia dies umectus et decolor vel contiguum eripiebat aspectum, iuvante locorum gnaritate
hostes tramite obliquo discurso post Caesaris terga legiones duas arma cogentes adorti paene delessent, ni subito concitus clamor
sociorum auxilia coegisset. Hinc [et] deinde nec itinera nec flumina transire posse sine insidiis putans erat providus et cunctator,
quod praecipuum bonum in magnis ductoribus opem ferre solet exercitibus et salutem”. Ammiano allude alla cautela nella
marcia seguita da Giuliano in seguito all’imboscata: ciò potrebbe essere indice di disattenzione durante la prima
fase della marcia.
33
Amm. Marc. XVI.2.13: “Cumque in bicornem figuram acie divisa conlato pede res agi coepisset exitioque hostes urgerentur
ancipiti, captis non nullis, aliis in ipso proelii fervore truncatis residui discessere celeritatis praesidio tecti”.
34
Amm. Marc. XVI.3.1-2. Cfr. J. F. DRINKWATER, The Alamanni and Rome cit, p. 220.
35
T. GNOLI, Le guerre cit, p. 35, la identifica con Sens. La deviazione verso Treviri per tornare da dove si era
venuti potrebbe essere dettata dalla necessità di evitare imboscate. Cfr. J. F. DRINKWATER, The Alamanni and
Rome cit, p. 221.
32
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di Strasburgo, si intuisce come Costanzo tenti di perseguire la via dell’accordo diplomatico
al posto dello scontro bellico, in continuum con l’esperienza del 35436.
La battaglia
Disposizione delle truppe romane e alamanne nella battaglia di Strasburgo.
Il 357 corrisponde, se non all’atto conclusivo, sicuramente al momento di svolta della
campagna. Dal punto di vista militare si assiste all’unica grande battaglia campale combattuta
nella spedizione, narrata con estrema precisione da Ammiano37. Oltre a ciò, ritroviamo
l’esercito romano avanzato ed operante lungo il Reno, cosa che non era avvenuta l’anno
precedente. A partire da questo momento Giuliano non è più coordinato direttamente da
Costanzo, il quale, impegnato sul Danubio, non effettua alcuna campagna contro gli
Alamanni. Il comando delle truppe provenienti dall’Italia viene assunto dal magister militum
Barbazione, che ne fa le veci nell’ottica della tattica a tenaglia nord-sud. Sicuramente a partire
dal 357 Giuliano acquisisce autonomia tattica e strategica. Analizzando i comandi stanziati in
36
Amm. Marc. XVI.12.15; cfr. S. Lorenz, <Missionierung, Krisen und Reformen. Die Christianisierung von
der Spatantike bis in karolingsche Zeit>, Alamannen, (1997), p.37; T. S. Burns, Rome and the barbarians, 100 b.C.A.D.400, Johns Hopkins University Press, Baltimore, 2003, p. 322.
37
Nonché l’unica battaglia campale gallica narrata, per assenza di fonti primarie come Ammiano Marcellino,
tra quelle avvenute in territorio gallico dall’età tetrarchica.
Dal cesarato alla battaglia di Argentoratum.
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35
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Italia nella descrizione della Notitia Dignitatum si evince come la maggioranza delle unità
fossero truppe palatine, quindi d’élite38.
L’avvicinamento dei due eserciti romani viene stravolto però da non ben definiti laeti che
arrivano a minacciare Lione39. Non è chiara l’identità degli incursori. Ammiano li descrive
come barbari, non specificando se provenissero dai territori oltre il Reno, quindi una “libera”
tribù germanica, oppure se facessero parte di una di quelle comunità letiche insediatesi in
territorio romano, in questo caso in atto di ostilità contro l’Impero40. Non sembrano
comunque gruppi armati organizzati dal momento in cui Giuliano sembra risolvere la
minaccia affidandosi solamente alla veloce cavalleria leggera. Questo contrattempo agevolò
la ritirata dei gruppi germanici, che minacciati dai due eserciti romani cercano riparo in un
territorio insulare del Reno.
È in estate che l’esercito di Giuliano, dopo aver messo in sicurezza Tres Tabernae, oggi
Saverne, ad ovest del Reno, portò l’attacco agli Alamanni. Per le operazioni fluviali vennero
utilizzati gli ausiliari palatini dei Cornuti guidati dal tribuno Bainobaude. Questa unità adottò
una tattica similare a quelle impiegate dagli odierni reparti di fanteria anfibia41, sfruttando la
velocità delle incursioni e ripulendo le sponde del Reno e le sue isole, non senza esagerazione
nella narrazione di Ammiano42. Mentre gli uomini di Giuliano compivano tali imprese
l’esercito di Barbazione, non molto utile fino a quel momento, viene messo in fuga da alcuni
gruppi di alamanni, lasciando di fatto nuovamente isolato il cesare. Andava così in frantumi
la tattica della tenaglia perseguita ora da Giuliano. Dal canto suo Barbazione, forse non un
38
Tra cui anche Ioviani seniores e Herculiani seniores, di cui si sarebbe servito Giuliano in seguito. Cfr. T. GNOLI,
Le guerre cit, p. 60; M. KULIKOWSKI, <Barbarians in Gaul, Usurpers in Britain>, Britannia, 31 (2000), pp. 358377.
39
Amm. Marc. XVI.11.4: “Dum haec tamen rite disposita celerantur, Laeti barbari ad tempestiva furta sollertes inter utriusque
exercitus castra occulte transgressi invasere Lugdunum incautam, eamque populatam vi subita concremassent, ni clausis aditibus
repercussi quicquid extra oppidum potuit inveniri vastassent”.
40
Cfr. A. BARBERO, Barbari. Immigrati, profughi, deportati nell’impero romano, Laterza, Bari, 2006, p. 185; Y. LE
BOHEC, Armi e guerrieri cit, p. 65; T. GNOLI, Le guerre cit, pp. 37-38.
41
L’esempio più calzante nella storia “recente” può essere individuato con le truppe d’assalto anfibio americane
che nel 1968 tentarono di ripulire le sacche di resistenza vietnamite sul Mekong.
42
Doctus denique exploratorum delatione recens captorum aestate iam torrida fluvium vado posse transiri, hortatus auxiliares
velites cum Bainobaude Cornutorum tribuno misit, facinus memorabile si iuvisset fors patraturos, qui nunc incedendo per brevia
aliquotiens scutis in modum alveorum subpositis nando ad insulam venere propinquam egressique promiscue virile et muliebre secus
sine aetatis ullo discrimine trucidabant ut pecudes, nanctique vacuas lintres per eas licet vacillantes evecti huius modi loca plurima
perruperunt et, ubi caedendi satietas cepit, opimitate praedarum onusti, cuius partem vi fluminis amiserunt, rediere omnes
incolumes”. Questo passo, pur esagerato, è interessante per comprendere come si svolgessero le battaglie in
terreno lagunare, altrimenti scarsamente attestate nell’antichità. Desta stupore a mio avviso l’immagine dei
Cornuti che utilizzano gli scudi come strumenti di navigazione, e compiono incursioni veloci e silenziose per
sorprendere gli ignari nemici asserragliati entro le barriere naturali del fiume.
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
abilissimo generale, si atteneva a moderate operazioni di controllo, contro la volontà del
cesare di portare una guerra aggressiva43.
D’altra parte in seguito a questo episodio sembrò opportuno agli Alamanni tentare di
riprendersi il controllo della zona in seguito alla riorganizzazione di Tres Tabernae, L’esercito
degli Alamanni, composto secondo Ammiano Marcellino da 35.000 uomini, numero che oggi
viene reputato esageratamente gonfiato44, e guidato dai re Cnodomario, Serapione, Ursicino,
Urio, Suomario, Ortario e Vestralpo45, si presentò nei pressi di Argentoratum/Strasburgo,
vantando l’occupazione di quelle zone come un diritto dovuto dalla forza militare46.
Nell’approssimarsi dello scontro si nota dalle parole di Ammiano l’inesperienza del cesare,
restio a combattere il giorno stesso della marcia e propenso ad aspettare il giorno successivo.
Consigliato dal prefetto del pretorio Fiorenzo, sicuramente più esperto, e dall’esortazione dei
soldati, si decise a schierare l’esercito. La giustificazione di Fiorenzo è puramente tattica: i
nemici appena arrivati erano ancora troppo raggruppati e non completamente schierati,
sarebbe stato quindi più semplice colpirli. L’accampamento romano inoltre era situato in
posizione rialzata, sopra una collina, detenendo quindi il vantaggio di posizione.
Occorre specificare che Ammiano, esaustivo nella narrazione della battaglia, non fu presente,
e fornisce poche indicazioni sulle unità che ne presero parte, utilizzando nomenclature per
lo più generiche per la cavalleria47. Lo storico descrive una disposizione su due linee
dell’esercito: viene riportato che il fianco destro di entrambe le linee fosse occupato da
un'unità di auxilia, mentre al centro della linea di riserva c'era la legione ripenses dei Primani,
unità di età pre-dioclezianea48. Goldsworthy, da questo, ritiene che le due linee fossero
43
Potrebbero essere infondate e corrispondere a mera propaganda politica le accuse rivolte a Barbazione da
parte di Ammiano Marcellino in XVI.11.15: “Et ille tamquam expeditione eventu prospero terminata milite disperso per
stationes hibernas ad comitatum imperatoris revertit crimen conpositurus in Caesarem ut solebat”. Di fatto, il magister militum
seguiva le indicazioni di prudenza di Costanzo. Cfr. T. GNOLI, Le guerre cit, p. 39; S. TOUGHER, Julian cit, p. 34.
44
Drinkwater sostiene che l’esercito alamanno fosse speculare a quello romano, e contasse circa 15.000 uomini.
Questo calcolo viene effettuato basandosi sul numero di re, capi dei pagi, presenti nello schieramento, e della
base di 800 uomini per ogni banda alamanna. Effettivamente all’interno dell’opera storica di Ammiano vi sono
molteplici riferimenti a gruppi barbari di 800 unità, come i Franchi che occuparono il territorio romano nel 358.
D’altra parte, basandosi sui numeri di altri eserciti Alamanni del IV secolo, Elton ritiene il riferimento di
Ammiano veritiero. Cfr. J. F. DRINKWATER, The Alamanni and Rome cit, p. 239; H. ELTON, Roman warfare A.D.
350-425, Oxford University Press, Oxford, 1996, p. 73.
45
Di questa lista solamente i primi due sembrano essere i veri comandanti dell’esercito, mentre gli altri “re”
potrebbero essere i comandanti di singoli pagi. Cfr. J. F. DRINKWATER, The Alamanni and Rome cit, p. 227.
46
Amm. Marc. XVI.12.3.
47
Cfr. A. H. M. JONES, The Later Roman Empire, 284-602: A Social, Economic, and Administrative Survey: Volume 1
and 2, Johns Hopkins University Press, Baltimore, 1964, p. 97.
48
T. GNOLI, Le guerre cit, p. 62.
Dal cesarato alla battaglia di Argentoratum.
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numericamente uguali, teoria che non può essere comunque dimostrata dalle fonti49. Invece,
Libanio afferma che le legioni erano disposte al centro della linea, e tale informazione
coincide con la posizione dei Primani data da Ammiano.
Si può ipotizzare, sulla base delle poche informazioni storiografiche, nonché sull’elenco delle
restanti unità che presero parte alla campagna gallica, che in prima linea si trovassero tre
legiones palatinae al centro, due auxilia, i Cornuti e i Brachiati citati, sul fianco destro, in seconda
linea la legio dei Primani al centro, altre tre auxilia, tra cui i Reges e i Batavi, a destra. Una
vexillatio di unità di fanteria leggera, forse di frombolieri e arcieri, guidata forse da Severo
sarebbe stata posizionata sul fianco sinistro, mentre la cavalleria leggera, i clibanarii e una schola
scutariorum, non riportata, che avrebbe accompagnato Giuliano si sarebbe posta sulla destra50.
L’esercito romano poteva contare su circa 13.000 uomini secondo Ammiano, mentre Libanio
ne riporta 15.00051. È indubbio che l’esercito di Giuliano, se inferiore di numero, potesse
contare su uomini decisamente disciplinati, addestrati e dotati di armamenti migliori rispetto
al nemico, che da canto suo si schierò a cuneo, ponendo la cavalleria sullo stesso lato di quella
romana, pronta all’imboscata52.
In seguito all’incoraggiamento di Giuliano, le ostilità iniziarono con il lancio di proiettili da
parte dei frombolieri. L’inizio dello scontro vede in difficoltà i romani, con la cavalleria
pesante che si ritira al tentativo di aggiramento nemico: solo la presenza del cesare riesce a
serrare i ranghi e a rilanciare i clibanarii in battaglia53. È la fanteria, “reine des batailles”54 a tenere
49
Cfr. A. GOLDSWORTHY, J. KEEGAN, Roman Warfare, Harper Collins, London, 2003, p. 176.
Per lo schieramento si veda Y. LE BOHEC, Armi e guerrieri cit, p. 66.
51
Amm. Marc. XVI.12.2: “Erexit autem confidentiam caput altius adtollentem Scutarius perfuga, qui commissi criminis
metuens poenam transgressus ad eos post ducis fugati discessum armatorum tredecim milia tantum remansisse cum Iuliano docebat
is enim numerus eum sequebatur barbara feritate certaminum rabiem undique concitante”. Il numero maggiore riportato da
Libanio potrebbe comprendere la fanteria leggera guidata da Severo.
52
Amm. Marc. XVI.12.43: “Sed postquam comminus ventum est, pugnabatur paribus diu momentis. Cornuti enim et
Bracchiati usu proeliorum diuturno firmati eos iam gestu terrentes barritum ciere vel maximum: qui clamor ipso fervore certaminum
a tenui susurro exoriens paulatimque adulescens ritu extollitur fluctuum cautibus inlisorum: iaculorum deinde stridentium crebritate
hinc indeque convolante pulvis aequali motu adsurgens et prospectum eripiens arma armis corporaque corporibus obtrudebat”. Cfr.
H. ELTON, Roman warfare cit, pp. 148-151; per la disposizione degli Alamanni si veda H. ELTON, Roman warfare
cit, p. 71.
53
Amm. Marc. XVI.12.37-39: “Equites nostri cornu tenentes dextrum, praeter spem incondite discesserunt, dumque primi
fugientium postremos inpediunt, gremio legionum protecti fixerunt integrato proelio gradum. Hoc autem exinde acciderat, quod dum
ordinum restituitur series, cataphracti equites viso rectore suo leviter vulnerato et consorte quodam per cervicem equi labentis pondere
armorum oppresso dilapsi qua quisque poterat peditesque calcando cuncta turbassent, ni conferti illi sibique vicissim innixi stetissent
immobiles. Igitur cum equites nihil praeter fugae circumspectantes praesidia vidisset longius Caesar, concito equo eos velut repagulum
quoddam cohibuit. Quo agnito per purpureum signum draconis, summitati hastae longioris aptatum velut senectutis pendentis
exuvias, stetit unius turmae tribunus et pallore timoreque perculsus ad aciem integrandam recurrit”. La reazione dell’esercito
coincide con la teoria di Brizzi secondo cui l’importanza della fanteria risulta determinante ancora in età
tardoantica. Cfr. G. BRIZZI, Il guerriero, l’oplita, il legionario. Gli eserciti nel mondo classico, Il Mulino, Bologna, 2008,
p. 205.
54
Y. LE BOHEC, Armi e guerrieri cit, p. 90.
50
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in vita le speranze romane senza retrocedere dagli attacchi Alamanni, tramite l’utilizzo della
testuggine, che, come visto, doveva corrispondere ad un sistema difensivo falangitico
piuttosto che alla testudo altoimperiale55. Interessante come Ammiano riporti il “barritus”
ovvero il grido di guerra delle truppe romane non attestato in altre opere storiografiche.
Partendo da questa considerazione, Barbero suppone che esso corrisponda ad un grido di
battaglia germanico, quindi, che Giuliano avesse già iniziato la campagna di arruolamenti
extra limes atta a sopperire alla mancanza di uomini56. La pressione della fanteria unita al
ritorno della cavalleria è fondamentale: l’esercito alamanno prima retrocede, poi si dà alla
fuga.
Le fonti vicine a Giuliano descrivono la battaglia come un incredibile successo. In particolare,
Mamertino riferisce che solo con questa battaglia il cesare seppe liberare la Gallia
dall’oppressione barbara57. Si tratta ovviamente di esagerazioni. Il computo dei caduti di
Ammiano, verosimile, riporta seimila morti barbari ed un numero, forse troppo contenuto,
di morti romane, tra cui il già citato tribuno Bainobaude58. La sconfitta degli Alamanni rimane
comunque inconfutabile: lo stesso re Cnodomario viene fatto prigioniero e inviato presso la
corte di Costanzo, mentre Giuliano si trova nella scomoda situazione di essere acclamato
augusto dall’esercito, rifiutando repentinamente per evitare ogni possibile invidia
dell’imperatore.
Conclusioni
Il successo della campagna del 357, che termina con la pacificazione del territorio dell’attuale
Alsazia, si deve in gran parte prima all’occupazione di Tres Tabernae, e alla ricostruzione del
forte, grazie al quale le truppe imperiali riottengono il controllo strategico di parte della vallata
del Reno, obbligando in qualche modo gli Alamanni a muovere battaglia. In seguito,
inseguendo i gruppi Alamanni oltre il Reno, il cesare decide di ristrutturare un imprecisato
Amm. Marc. XVI.12.44: “Sed violentia iraque inconpositi barbari in modum exarsere flammarum nexamque scutorum
conpagem, quae nostros in modum testudinis tuebatur, scindebant ictibus gladiorum adsiduis”. La tattica descritta sembra in
effetti corrispondere ad un sistema di falange. Cfr. Y. LE BOHEC, Armi e guerrieri cit, p. 67.
56
Amm. Marc.XVI.12.36; A. BARBERO, Barbari cit, p. 192.
57
Pan. XI.4.3: “In hoc statu imperator noster Gallias nactus minimum habuit adversus hostem laboris atque discriminis: una
acie Germania universa deleta est, uno proelio debellatum”. Come riporta Lassandro, le spedizioni perdurarono fino al
360. La visione di Mamertino non è quindi veritiera.
58
Amm. Marc. XVI.12.36; A. MARCONE, Giuliano cit, p. 85.
55
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forte di età traianea sul versante germanico del fiume, potendo contare, di fatto, del controllo
strategico di tutta l’area. In questo senso, la vittoria è netta.
Come accennato, comunque, il piano iniziale che prevedeva un’azione combinata di Giuliano
e Barbazione fu un fallimento. Rimane un’incognita il comportamento di quest’ultimo. È
stato ipotizzato a partire dalle parole di Libanio di un possibile tentativo da parte dell’esercito
del magister militum di costruire un ponte sul Reno, così da permettere ai due eserciti imperiali
di unirsi. Tale ponte, poi verosimilmente distrutto dagli Alamanni prima di un effettivo
utilizzo, è stato collocato generalmente a nord di Strasburgo59. La costruzione di un ponte
finalizzato all’unione delle armate potrebbe essere indice di un passaggio di Barbazione sulla
sponda destra del Reno, forse agevolato dagli accordi stretti nelle campagne precedenti tra
l’Impero ed i pagi dei fratelli Gundomado e Vadomario, schierati nei pressi di Kaiseraugst,
non troppo lontana dall’odierna Strasburgo60.
Sulla ritirata di Barbazione può aver influito la morte di Gundomado e lo scioglimento dei
patti del fratello. Ci fornisce questa testimonianza Ammiano attestando la presenza delle loro
compagini nello schieramento alamanno61. Più scettico riguardo la presunta costruzione del
ponte è David Woods, il quale reputa poco funzionale ed irrealistica la costruzione di
suddetto ponte. A tal proposito, Woods tenta di spiegare razionalmente la distruzione delle
navi da parte di Barbazione: non attribuendo alle navi una funzione di “ponte”, ma di
supporto dell’esercito, esse potrebbero essere state distrutte, vista la difficoltà nel risalire la
corrente del fiume in un viaggio di ritorno62.
Inverificabile invece l’accusa che Ammiano muove al magister militum, che si sarebbe
appropriato degli approvvigionamenti destinati al cesare, il quale per sopperire all’assenza di
59
Libanio, Orat. 18.51, parla di tronchi tagliati galleggianti sul Reno, che gli Alamanni avrebbero immesso nel
fiume per distruggere il ponte. Riguardo l’operato di Barbazione, Ammiano Marcellino è più parco di notizie.
Per l’ipotesi del ponte sul Reno si veda O. HOCKMANN, <Römische Schiffsverbände auf dem Ober- und
Mittelrhein und die Verteidigung der Rheingrenze in der Spätantike>, Jahrbuch des Römisch- Germanischen
Zentralmuseums 33 (1986), pp. 385-387; T. BECHERT, <Asciburgium und Dispargum. Das Ruhrmundungsgebiet
zwischen Spatantike und Fruhmittelalter>, in C. Grunewald, S. Leiben (cur.), Kontinuität und Diskontinuität.
Germania inferior am Beginn und am Ende der römischen Herrschaft, De Gruyter, Berlin, 2003, pp. 1-11; J. F.
Drinkwater, The Alamanni and Rome cit, pp. 115-123.
60
Amm. Marc. XVIII.2.16; J. F. DRINKWATER, The Alamanni and Rome cit, p. 233.
61
Amm. Marc.XVI.12.17: “Alio itidem modo res est adgravata Romana ex negotio tali. Regii duo fratres vinculo pacis
adstricti, quam anno praeterito impetraverant a Constantio, nec tumultuare nec commoveri sunt ausi. Sed paulo postea uno ex his
Gundomado, qui potior erat fideique firmioris, per insidias interempto omnis eius populus cum nostris hostibus conspiravit et
confestim Vadomarii plebs ipso invito, ut adserebat agminibus bella cientium barbarorum sese coniunxit”.
62
Cfr. D. WOODS, <Ammianus versus Libanius on Barbatio’s Alleged Bridge Across the Rhine>, Mnemosyne,
66 (2010), pp. 110-116.
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rifornimenti è obbligato a saccheggiare il territorio di Tres Tabernae63. Sicuramente non
mancarono problematiche organizzative alla doppia campagna, causate sia da eventi casuali,
come l’episodio dei laeti, sia dalla diversa predisposizione militare dei due comandanti.
Barbazione, che non si distingue certamente per intraprendenza nella campagna, potrebbe
aver seguito i comandi di Costanzo II di non esporre le truppe in combattimento senza
necessità mantenendo un atteggiamento conservativo, senza cercare lo scontro su grande
scala64. D’altra parte, Giuliano fu agevolato dal mancato congiungimento dei due eserciti: se
ciò fosse avvenuto, il comando generale delle operazioni sarebbe spettato al più anziano ed
esperto, sulla carta, Barbazione, ed il cesare non avrebbe potuto perseguire l’obbiettivo di
attacco già mostrato nelle battaglie lagunari delle isole. Ritrovandosi l’unico comandante
durante la battaglia campale di Argentoratum, Giuliano incrementò indubbiamente la sua
autorità in ambito bellico e la sua leadership.
63
64
T. GNOLI, Le guerre cit, p. 39.
Cfr. A. MARCONE, Giuliano cit, p. 288.
Dal cesarato alla battaglia di Argentoratum.
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Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
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Elenco delle Illustrazioni
Maiorina di bronzo, Recto, gr. 7,86; Flavio Claudio Giuliano. Iscrizione: D/ DN FL CL
IVLIANVS PF AVG, ritrovata e conservata ad Arles.
Dal cesarato alla battaglia di Argentoratum.
Giulio Vescia
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Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
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Castra e Castella bizantini in Calabria
tra storia, archeologia e memoria.
Parte II
Francesco Biasi
Questa seconda parte del lavoro già iniziato nel precedente numero è dedicata allo studio e
approfondimento delle fortezze di cui siamo in possesso di dati soddisfacenti. Vagliando le
singole fortificazioni vedremo se saremo in grado di comprendere il modus operandi della
edilizia bizantina e, se vi siano, dei princìpi alla base dell’erezione delle fortificazioni. Inoltre,
andremo a vedere se queste fortezze rientreranno nei sistemi difensivi delle dominazioni
successive, se si trasformeranno in città, cambiando quindi la loro funzione originaria, o se,
addirittura, scompariranno anche dalla memoria degli storici. Per quest’ultima fase, si
prenderà in esame il volume Della Calabria Illustrata del 1691 di Giovanni Fiore, ecclesiastico
e storico calabrese, che nel suo compendio ha descritto tutte le città e i villaggi calabresi con
la loro storia. L’assenza delle fortezze bizantine in quest’opera può andare a dimostrare lo
stato di abbandono di questi insediamenti o di perdita della memoria storica1.
REGGIO CALABRIA
Il primo insediamento da analizzare dev’essere senza dubbio Reggio Calabria. La città di
Reggio, infatti, è sia a livello strategico che religioso, risiedendo in essa la cattedra vescovile
metropolita, il più importante centro della regione. La prima difficoltà per la ricerca storica e
archeologica con la quale bisogna fare i conti è la planimetria urbana del capoluogo calabrese.
Dal 1783, a causa dei vari sismi, Reggio Calabria ha cambiato infatti aspetto per ben tre volte2.
1
Ovviamente il compendio non verrà preso in considerazione quale una veritiera fonte storica in relazione alla
descrizione delle città e delle fortezze, ma può rappresentare un buon punto di partenza per comprendere che
cosa sia rimasto nel XVII secolo nella memoria di uno storico di quelli che noi già sappiamo essere stati degli
insediamenti presente nell’età bizantina.
2 F. MARTORANO, Carta archeologica georeferenziata di Reggio Calabria, Iiriti Editore, Reggio Calabria, 2008, p. 45.
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
Del periodo bizantino, relativamente alle difese della città ritroviamo: dei resti di mura, una
torre chiamata Dascola3 ed il castello.
Dalle fonti letterarie si evince chiaramente che prima dell’entrata in città di Belisario, essa
non fosse provvista di alcuna difesa. Procopio di Cesarea nella Guerra gotica scrive che:
Belisario, lasciata guarnigione in Siracusa e in Palermo, col resto dell’esercito passò da
Messina a Reggio (là dove i poeti favoleggiano essere state Scilla e Cariddi); e le genti di
quel paese giornalmente accostavansi a lui, perché essendo quel luogo da tempo antico
sprovvisto di mura, non avean modo di custodirlo, ed anche soprattutto per l’odio dei
Goti; poiché giustamente quel governo grave riusciva loro.4
La città venne poi successivamente racchiusa all’interno di una cinta muraria. Di questa cinta
abbiamo dei ritrovamenti archeologici in corso Garibaldi dove è emerso un grosso muro
spesso 2 m reputato d’essere di fattura bizantina. Sul limite settentrionale della città doveva
trovarsi anche la torre Dascola, imponente costruzione di 7,50 m. di altezza, costruita con
tecnica inequivocabile per l’abbondante riuso di materiali, tra cui anche mattoni con bolli
greci. Secondo le cartografie settecentesche, Reggio mantenne il limite settentrionale della
città segnato da questi due ritrovamenti. Più interrogativi vi sono sul limite meridionale: il
ritrovamento di alcuni contrafforti ha lasciato immaginare ad alcuni studiosi che vi si potesse
essere una torre, del tutto simmetrica alla Dascola, posta lungo la cinta. Ma, come Francesca
Martorano spiega nelle sue ricostruzioni, potrebbe trattarsi per esempio dei resti di un edificio
pubblico, i cui contrafforti reggevano una scala e un ballatoio. Inoltre, resterebbero fuori da
questa presunta cinta muraria le strutture scoperte nell’area di casa Gulli, realizzate con ampio
reimpiego di pezzi architettonici, presso cui furono scoperte monete bizantine5.
Un’altra grossa problematica relativa alla ricerca di reperti di età bizantina, è che la città, oltre
ad aver subito numerosi sismi, è stata ampliata e potenziata durante il susseguirsi dei secoli e
dei governi. La sua posizione strategica, infatti, la rese senza dubbio un centro molto
importante da dover proteggere da ogni possibile invasore. I primi a modificare l’assetto
urbanistico bizantino furono i Normanni, incrementando il nucleo difensivo preesistente.
Ma il forte ampliamento si ebbe con la dominazione aragonese dove per volere di Ferdinando
d’Aragona vennero eretti un bastione e le due torri cilindriche che tutt’ora possiamo
3
Purtroppo, come anche la maggior parte dei reperti di età medioevale, venne abbattuta nel Novecento per far
emerge le mura di età ellenistica (MARTORANO, Carta archeologica cit., p. 36).
4 PROCOPIO, Guerra gotica cit., pp. 54-55.
5 MARTORANO, Carta archeologica cit., pp. 383-384.
Castra e Castella bizantini in Calabria
Francesco Biasi
45
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
46
ammirare. Secondo le fonti, anche la cinta muraria, in tutta la sua lunghezza di 2500 m si
deve all’opera di ammodernamento di questa dinastia.
Cosa rimane quindi dell’insediamento militare bizantino?
Quello che si può affermare con abbastanza sicurezza è che il complesso edificato dai
normanni inglobava probabilmente l’elemento principale del kastron bizantino, documentato
nel Brebion6 e contro cui avevano combattuto nel 1060 gli stessi Ruggiero e Roberto
d’Altavilla. Inoltre, la presenza di un tratto di muro e di una porta7 posti in modo tale da
lasciare la Cattedrale latina fondata dai normanni al di fuori della città, può lasciare suppore
che questi due elementi facessero parte del complesso difensivo orientale8.
Nella Calabria Illustrata, Fiore insolitamente non si sofferma sulla descrizione specifica degli
edifici e delle strade9. L’unico indizio che ci fa comprendere di fatto l’attestazione di strutture
militari all’interno di Reggio è l’asserzione riportata dall’ Atlas Novus di Willem e Joan Blaeu
del 166510.
Potentissima haec olim fuit Urbs, vali dissimumque contra Siculos. Turribus castellisque
munitum propugnaculum, multarum Mater Coloniarum11
Ma l’evoluzione delle fortificazioni di Reggio, la città senza dubbio più importante della
Calabria, sede vescovile metropolitana e sede della zecca, importante snodo commerciale e
al centro di una regione produttiva fondamentale, è da vedere alla luce della sua storia,
influenzata dalle incursioni e conquiste arabe.
Nel 901, l’esercito musulmano investì con forza Reggio, conquistandola. Il bottino riportato
in Africa, in oro e schiavi, secondo le fonti, fu straordinariamente grande. Anche se le
conquiste di Abd Allàh si interruppero presto, con la sua morte a Cosenza, la data del 901 è
una di quelle fatali nella storia di reggina. Il governo imperiale comprese, in quell’occasione,
6
Si tratta di un elenco dettagliato dei possedimenti della metropoli di Reggio, il cui testo è stato pubblicato
integralmente nel 1974 – con il titolo Le Brebion de la metropole byzantine de Region vers 1050 – dalla Biblioteca
Apostolica Vaticana, e curato dal bizantinista francese André Guillou
7 Menza Porta.
8 F. ARILLOTTA, «Ipotesi sulla topografia di Reggio Calabria tra il XI e XII secolo» in Calabria bizantina. Istituzioni
civili e topografia storica, Gangemi editore, Roma, 1986, pp. 209-213.
9 G. FIORE, Della Calabria Illustrata. In cui, non solo regolamente si descrive con perfetta Corografia la Situazione, Promontorj,
Porti,Seni di Mare, Città, Castella, Fortezze, Nomi delle medesime, e lor Origine, mà anche con esatta Cronologia si registrano i
Dominanti, l’antiche Repubbliche, e fatti di Armi in esse accaduti, dagli anni del Mondo 306. sin al corrente di Cristo 1690,
Napoli, 1691, pp. 152-159.
10 Il titolo completo in origine doveva essere Theatrum Orbis Terrarum, sive Atlas Novus in quo Tabulæ et Descriptiones
Omnium Regionum. All’interno del volume di Fiore viene citata spesso la sezione De Calabria.
11 Ibid, cit. p. 159.
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
che non poteva essere difesa con successo, e che era un rischio altissimo lasciarvi una zecca
operativa. La città mantenne il suo status di capitale, ma si provvide a creare una seconda sede
per lo stratego e per il prezioso archivio del thema, scegliendo l’inespugnabile fortezza di Santa
Severina, nel Marchesato crotonese, che da poco era stata riconquistata dalle mani dei
Saraceni. Il kastron di Santa Severina, riportato alla luce grazie a recenti scavi, doveva garantire
l’invulnerabilità dello stratego e del praitorion. La difesa di Reggio dovette essere riorganizzata
su nuove basi. Alle spalle della città fu costruita tutta una serie di fortezze a mezza costa sui
rilievi dell’Aspromonte, che spesso riutilizzavano siti di fortificazioni reggine di epoca
ellenistica. Il concetto, efficace, era quello di permettere la temporanea conquista di Reggio,
mantenendo una impenetrabile difesa subito a monte della città, per poi bloccare tutti gli
accessi alle ricche vallate. Il sistema di fortezze, poi ridotto di numero e rivisitato dai
Normanni, con la loro trasformazione in Motte per la difesa dei Conti e delle loro famiglie,
si snodava sull’intera costa ionica reggina. Punti di forza sembrano essere stati le fortezze più
vicine a Reggio, quali Calanna, Anomeri di Ortì, Rossa di Gallico, San Cirillo di Terreti, San
Niceto, San Giovanni. Inoltre, sappiamo, da ricerche ancora parzialmente inedite, di tutta
una serie di fortificazioni nell’Aspromonte, quasi una seconda linea di difesa, spesso affidate
a contingenti di Slavi o di Armeni, come nel caso di Rocca Armena12.
Troviamo quindi per Reggio una difesa contenitiva dislocata sulle alture dell’Aspromonte,
che non avrebbe permesso agli invasori di espandersi con facilità verso Nord.
In conclusione, a causa di eventi naturali, del progresso degli stadi evolutivi della città e degli
scavi archeologici volti a ricercare reperti riferibili all’età ellenistica, ritrovare elementi
fortificatori del periodo bizantino a Reggio Calabria non è un’operazione semplice. Il sito di
assoluta importanza strategica ha infatti richiesto durante i secoli un periodico
rimodernamento delle strutture difensive che si è mosso in parallelo con le vicende politiche
del territorio, ma anche con l’evoluzione e il progresso dell’arte ossidionale, mostrandoci oggi
una fortezza che, avendo il suo primo nucleo nel kastron bizantino, si erge secondo i canoni
fortificatori del Quattrocento.
12
D. CASTRIZIO, «Emissioni monetali in oro e bronzo della zecca di Reggio sotto Basilio i e Leone VI», in
Mélanges Cécile Morrisson. Travaux et mémoires, Association des Amis du Centre d’Histoire et Civilisation de
Byzance, Paris, 2010, cit. pp. 159-160.
Castra e Castella bizantini in Calabria
Francesco Biasi
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Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
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SAN NICETO
La rocca di San Niceto ci viene consegnata alla storia per la prima volta da un diploma del
periodo angioino del 1268. Pur non essendoci stata un’analisi stratigrafica soddisfacente,
attraverso lo studio delle strutture superficiali rimaste si può affermare che il complesso
fortificatorio sia precedente a tale periodo. All’interno dell’insediamento si possono
distinguere due fasi e tecniche edilizie: una bizantina ed una normanna.
La fortezza, situata su una collina a 670 m. sopra il livello del mare, sovrasta la città di Reggio,
e rappresenta uno snodo strategico per il suo controllo, nonché un sito di avvistamento della
costa. Il contesto storico in cui probabilmente viene costruita rientra in quel processo di
trasformazione dei chorìa in castellia avvenuto durante il IX-X secolo, causato, probabilmente,
dall’inizio delle incursioni musulmane. L’edificazione del castellion rientra quindi nella
necessità di proteggere e fornire un ricovero alle comunità rurali site nella zona13. Il suo ruolo
strategico è anche quello di contenere le invasioni arabe insieme agli altri castra eretti tutti
intorno a Reggio. Gli elementi che emergono dal terreno sono: la cinta muraria, porte e torri,
mastio-cisterna e il palazzo centrale. La cinta muraria percorre tutto il perimetro delineato
dalla sommità della collina. La ripidità del terreno pone la difesa in una posizione di assoluta
superiorità rispetto agli attaccanti, potendo quindi ottenere il massimo risultato con il minimo
sforzo. Non sono presenti, infatti, fossati od altre opere difensive passive. Lo spessore delle
mura è costante ed è di 102 cm tranne in alcuni tratti a causa della grezza lavorazione dei
materiali consistenti in spezzoni di selce sommariamente squadrati. L’esiguità dello spessore
delle mura è dovuta al fatto che, diversamente da altre fortificazioni di pianura, questi tipi di
costruzioni non avrebbero dovuto affrontare l’impatto di grossi macchinari bellici. Il
passaggio delle ronde era inoltre permesso tramite l’apporto di strutture lignee. Un muro di
sbarramento trasversale divide la fortificazione al suo interno in due sezioni.
Lungo il corso della cortina, escludendo l’ingresso, emergono unicamente due torri, poste
probabilmente quali punti di vedetta. L’unica torre presente all’interno della fortezza è posta
lungo la cortina trasversale. La sua forma trapezoidale mette bene in evidenza quanto le
strutture militari montane si allontanino dagli esempi bizantini pianeggianti e dai paradigmi
di Procopio e dell’anonimo del De re strategica, i quali prediligevano forme rettangolari o
13
Lo stesso Brebion attesta la presenza nei territori limitrofi di diversi fondi di proprietà dei monasteri di S.
Giovanni Teologo e dei Santi Quaranta.
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
circolari. Questo allontanamento da questi princìpi è dovuto soprattutto alle caratteristiche
del terreno e alla sua forma irregolare.
La rocca di San Niceto rappresenta un esempio importante di fortificazione montana; infatti,
le sue caratteristiche rispecchiano tranquillamente i parametri di altri complessi militari: la
presenza di cinte di sbarramento trasversale, sia per garantire una resistenza ulteriore, qualora
la cinta esterna venisse espugnata14, sia per proteggere la cittadella con edifici per il presidio.
L’accesso alla fortezza avviene tramite un’unica porta controllata da due torri quadrate.
Queste sono impiantate direttamente sulla roccia, che costituisce il piano fondale delle
strutture. La porta, larga 2,30 m e alta 3,18 m, presenta un arco a tutto sesto che la chiude
superiormente. L’esilità della larghezza delle mura ha reso necessario il potenziamento
all’altezza delle porte con un contromuro di 1,30 m di spessore, per meglio assorbire i traumi
degli attaccanti. I due muri, infatti, appartengono a due fasi di costruzione differenti, sia
perché la tecnica costruttiva è diversa, sia perché il primo mostra tracce di intonaco sulla
faccia rivolta verso l’interno della cinta; oggi, invece, quasi completamente oscurata a causa
della presenza del secondo muro. La porta sul lato interno, attualmente, si presenta con un
arco semicircolare, impiantato direttamente sul terreno e privo di piedritti, largo 4,14 m ed
alto 2,80 m. ottenuto utilizzando conci squadrati di calcare. Nonostante i secoli, le guerre ed
i sismi, è possibile ancora ricostruire sia la planimetria, che l’elevato delle torri, grazie ad un
residuo tratto di merlatura.
Le due torri laterali sono simili, nonostante piccole variazioni dimensionali e tipologiche.
Infatti, la torre di destra è dotata anche di un ingresso al piano terreno, mentre l’altra ne è
priva. Questa porta permette di accedere in un piccolo ambiente che costituisce l’interno
della torre. Le tracce di fori di incasso nel muro sud, indicano l’esistenza di un pavimento
ligneo, oggi scomparso, che divideva la torre in due piani. Nell’altra torre si accedeva invece
tramite una piccola scala in muratura (oggi composta da tre gradini) con la quale si entrava
direttamente al piano superiore.
La merlatura, che doveva esistere a protezione del camminamento tra le due torri, è
totalmente scomparsa. Al piano superiore, la percorribilità tra di esse, il mesopirgo e la cortina
della cinta è completa.
Ricorda un po’ la Sezione Reale della cittadella di Torino, eretta appositamente per dividere la fortificazione in
due spazi in occasione dell’assedio del 1706.
14
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Al centro del muro di sbarramento, che divide la cinta fortificata in due zone, si erge un
torrione quadrangolare largo 13,50 m per 13,10 m alla base, e 6,90 m per 7,10 a 6,00 m di
altezza dalla superficie attuale di calpestio del terreno. Osservando l’intonaco, si può intuire
che la scarpa fosse sicuramente un’aggiunta successiva. L’assenza della merlatura può far
immaginare che il mastio potesse essere anche più elevato. Sopra la scarpa è ricavata una
cisterna idrica per la raccolta dell’acqua piovana a pianta circolare di 3,53 m di diametro ed
alta 3,80 m.
A ridosso del versante nord della cinta esterna, insistono i resti delle mura perimetrali di un
ambiente trapezoidale di notevoli dimensioni. A fianco di questa struttura troviamo anche
una torre a pianta trapezoidale di 2-2,85 m di profondità per 2,67-72 m di larghezza
(anch’essa a due piani, divisi da un pavimento ligneo). Il palazzo e la sua torre sono collegati
da una porta di comunicazione larga 1,25 m ed alta 2,90 m. Alla torre si poteva però accedere
anche dall’esterno. L’ubicazione di questo palazzo, connesso ad una torre ed accostata ad
una parte della cinta muraria fanno pensare che esso potesse essere destinato agli alloggi della
guarnigione. Ciò non vieta tuttavia che gli spazi potessero essere usati come deposito o
cantina per le derrate.
Al centro dell’area racchiusa dalla seconda cinta muraria, nel tratto più elevato della collina,
è ubicato un palazzo centrale. L’osservazione delle strutture superstiti indica con chiarezza
che l’edificio, così come appare, non è una costruzione omogenea, ma frutto di interventi
edificatori successivi. Esso è a pianta rettangolare lievemente irregolare e misura all’esterno,
nei lati corti, 6,99 m e 7,14, nei lati lunghi 11,78 m e 12,12 m. L’ingresso originario era situato
nel lato Sud ed immetteva direttamente dall’esterno al primo piano del palazzo (a causa del
forte dislivello pari a 3,30 m).
L’esame della struttura muraria delle pareti e degli elementi lapidei del palazzo, nonché dal
muro che lo collega al mastio cisterna, porta a proporre una sequenza di fasi costruttive. Al
primo appartiene la parte bassa del palazzo, fino a 5,00 m, in cui si riscontra una tecnica
costruttiva simile a quella utilizzata nella cinta muraria esterna, nelle torri d’ingresso e nel
palazzo addossato alle mura, ovvero materiale disposto secondo piani di posa regolari con
listature distanti 40 cm circa, e con ammorsatura agli angoli in blocchi di pietra squadrata. Va
osservato però che nelle rinzeppature dei blocchetti di selce si riscontra un maggior uso di
frammenti di laterizi e coppi, ciò che induce a ritenere il palazzo successivo alla prima fase
edificatoria di tutto il complesso fortilizio. Il muro di collegamento con il mastio-cisterna
sembra coevo alla seconda fase del palazzo, in quanto è utilizzata la medesima tecnica, e cioè
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
una muratura totalmente priva di piani di posa e di listature e con numerosi fori per le
impalcature.
Quindi l’esame della struttura muraria della cinta e degli edifici rivela l’uso di tecniche
differenziate: ciò indica la molteplicità degli interventi succedutesi nei secoli. Il materiale
usato prevalentemente consiste in spezzoni di selce sommariamente squadrati, o ridotti a
lastrelle, mentre solo negli angoli delle torri e degli edifici, e negli stipiti di alcune porte o
finestre, la selce viene impiegata in blocchi differenti tra loro nelle dimensioni, ma
accuratamente squadrati. La malta, compatta e resistente alla percussione, è difficilmente
sgretolabile. La qualità impiegata come legante delle murature non è rilevante, ma si riduce
addirittura ad un velo nelle ammorsature degli angoli. La selce, abbondantemente presente
nella zona, costituiva per i costruttori il materiale più economico e facilmente reperibile. I
laterizi impiegati, merce più rara e costosa, sono scarsi e di dimensioni ridotte. Ma non sono
i materiali a poterci indicare le diverse fasi e tecniche di costruzione, ma bensì il metodo in
cui vengono impiegati. La fase più antica di costruzione è senza dubbio quella relativa alle
mura di cinta, alle torri, al mastio e al palazzo addossato alle mura. Questa tecnica consiste
in una struttura listata, la quale rappresenta un dato estremamente interessante per la
datazione del castellion. Essa non trova riferimento né in opere del primo periodo bizantino,
né di epoca normanna. Questa tecnica compare in numerosi edifici arabi eretti nella provincia
di Messina tra la seconda metà del X e i primi dell’XI secolo. Ciò porta a supporre per S.
Niceto o la presenza di maestranze arabe tra i costruttori, o comunque la conoscenza e
l’assimilazione delle tecniche costruttive arabe da parte dei bizantini. Si ricordi che Reggio fu
conquistata dai musulmani nel 952 e rimase in loro possesso anche dal 1001 al 1021. Inoltre,
è presente nella toponomastica del territorio intorno alla fortezza una contrada dal nome di
Saracinello, segno che probabilmente una colonia araba si fosse inserita in quegli spazi.
La mancanza di studi riguardanti le tecniche costruttive medioevali in Calabria partendo dal
dato archeologico, rende difficile poter sviluppare dei confronti e produrre degli elaborati
completi. Quello che emerge però è che questa struttura listata è presente anche nella cinta
fortificata di Calanna, a pochi chilometri da Reggio sul versante tirrenico. Questo ci può
mettere in luce quanto in realtà la Reggio bizantina non fosse completamente chiusa al
mondo arabo, ma che con esso stringe rapporti economici e culturali.
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Un’altra tecnica costruttiva che si ritrova nel palazzo centrale lascia presuppore che esso sia
databile tra la fine del XII e la prima metà del XIII15.
In conclusione, vediamo come le tecniche edilizie bizantine risentano anche dell’influenze
culturali arabe. San Niceto rappresenta un modello di fortezza del IX secolo eretta su un
promontorio con lo scopo sia di difendere i vari chorìa e popolazioni circostanti sia per la
difesa contenitiva di Reggio Calabria. La sua costruzione va letta, come in molti casi in
Calabria, come la risposta alle incursioni arabe iniziate in questo secolo.
Fiore nella Calabria illustrata non cita mai la presenza di questa fortificazione, nonostante essa
sia di notevoli dimensioni.
Ancora presente nel Giustizierato della Calabria del 1276 col nome di Sanctus Nicetus16, la sua
scomparsa è da inquadrare all’interno della perdita di importanza delle fortificazioni della
regione di Reggio intorno alla fine del XV secolo e alla politica feudale dei sovrani aragonesi.
È evidente però l’ascesa della vicina Motta S. Giovanni a svantaggio di S. Niceto 17. Infatti,
Motta S. Giovanni diviene baronia nel 1601 ed è presente nel volume di Fiore.
Fotografie di San Niceto
15
F. MARTORANO, Chiese e castelli medioevali in Calabria, Rubbettino, 1996, pp. 73-121.
G. CARIDI, La Calabria nella storia del Mezzogiorno. Secoli XI-XIX, testi e documenti, Città del Sole Edizione, Reggio
Calabria, 2003, pp. 119-120.
17 Ibid., cit. p. 116.
16
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CALANNA
Come per San Niceto, anche la nascita di Calanna può essere inserita all’interno del progetto
di difesa contenitiva di Reggio Calabria. Questo insediamento ha visto diverse campagne di
scavo nel 2009 e 2010, le quali erano un seguito a quelle svolte nel 1991 e 1993 dalla
Soprintendenza per i Beni archeologici della Calabria.
Il castello di Calanna, collocato su di un ampio terrazzo di pietra calcarea che domina l’abitato
e l’intero Stretto di Messina, occupa strategicamente la confluenza tra le fiumare Gallico e
Catona, antiche vie di penetrazione verso l’Aspromonte e le sue ricche risorse boschive e
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minerarie. La prima attestazione del castrum si ha in età sveva, nel 1239, con il ricordo del
castellano Marino, ma l’insediamento è stato considerato da molti studiosi di origine più
antica. Per Martorano, infatti, la tipologia della fortificazione e le modalità costruttive
rimandano alla prima metà dell’XI secolo18. Altri riferimenti documentari si hanno per l’età
angioina: nel 1266 è ricordato il custode del castello, un certo Ricaldo de Maleriis, un’altra
menzione si ha nel 1275, mentre è del 1276 la descrizione della fortificazione con le
indicazioni delle riparazioni che si erano rese necessarie.
Per l’età più antiche sono molte le testimonianze e i ritrovamenti che mettono in luce una
significativa frequentazione dell’area. Nella zona infatti sono emerse diverse sepolture ed un
ripostiglio nel quale sono state ritrovate 94 monete di bronzo, di cui due sono riferibili alla
dominazione di Basilio I e Leone VI (quindi dal 867 al 912).
Purtroppo, della fortificazione si conserva circa la metà dell’intera struttura: dall’orografia del
territorio e dalle strutture superstiti appare evidente quanto l’intero settore occidentale sia
oggi del tutto scomparso.
Sono ancora visibili un lungo tratto della cortina muraria di circa 30 metri, alcune torri ed
ambienti interni al recinto. Nella parte centrale del pianoro emergono alcuni edifici, quasi
sezioni, lungo i limiti di frane ed avvallamenti. Sono però distinguibili due grosse cisterne,
identificabili in tal senso per la presenza di una estesa porzione di un piano di malta idraulica.
Entrambe le vasche sono prossime al collasso essendo poste al limite della linea di frana.
L’intonaco di una delle due cisterne però è diffusamente inciso da graffiti tra cui si
distinguono chiaramente immagini di imbarcazioni. Le campagne di scavo hanno messo in
luce la presenza di due ingressi.
Inoltre, è possibile osservare che la tecnica costruttiva impiegata per la realizzazione delle
torri superstiti e della cortina muraria, caratterizzata dall’impiego di laterizi e coppi disposti
seguendo filari rettilinei e in alternanza regolare a blocchi di calcare appena sbozzati, rimanda
ad analoghe esperienze costruttive attestate in altre fortificazioni dell’area dello Stretto e della
provincia reggina19. Solo in casi limitati, come ad esempio nella torre est, è possibile
riscontrare la presenza di elementi lapidei oggetto di maggiori rifiniture; in un altro settore,
invece, la maggiore raffinatezza costruttiva è data dalla presenza di elementi realizzati con
18
MARTORANO, Chiese e castelli cit., pp. 66-67.
Il che avvalora la tesi per cui tutte queste fortificazioni erette intorno a Reggio si sono resi indispensabili nella
riprogettazione della città dopo le invasioni arabe di inizio X secolo; come abbiamo detto precedentemente per
San Niceto.
19
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una la nera pietra lavica. Questa esperienza costruttiva permette di fare utili comparazioni
con quanto registrato, ad esempio, nei vicini centri di Amendolea e Sant’Agata. La sua
fondazione è legata senza dubbio alla messa in sicurezza dello Stretto, in un più ampio
disegno di difesa contenitiva della città di Reggio. È però da considerare che le importanti
strutture emerse nella sovrastante località di Imperio, e dell’area circostante, suggeriscono la
presenza di insediamenti dinamici ed articolati. In questo senso, la sua costruzione potrebbe
essere stata anche funzionale alla difesa della popolazione rurale e di questi insediamenti20.
Per la collocazione cronologica di questa fortezza, Cuteri ci illustra delle problematiche.
Infatti, L’analisi dei reperti mobili recuperati durante l’attività di ricognizione ha permesso di
certificare una frequentazione stabile dell’area a partire dall’età greca fino ad almeno all’ età
moderna. Se per ora mancano indizi certi relativi ad una fase medio-bizantina del castello, è
a partire dall’età normanna che le testimonianze diventano eloquenti, evidenziando altresì,
tra XI e XII secolo, l’integrazione con i canali culturali e commerciali siciliani e probabilmente
nordafricani. Egli ipotizza anche la possibilità che il primo insediamento bizantino fosse
posto proprio ad Imperio, mentre l’attuale nucleo che compone il castello di Calanna
potrebbe essere riferito all’età normanna. Queste problematiche sono anche legate ai continui
lavori di ristrutturazione che questo genere di complessi fortificatori richiedono. In questo
caso, la strutturazione è documentata dalle fonti scritte ed attestata al 1276, quindi all’età
angioina21.
In ogni caso, dai dati archeologici e storici emerge che l’area sia stata fortemente antropizzata
nel periodo della dominazione bizantina, come ci mostrano i diversi insediamenti nel
circondario, e soprattutto dalla presenza di tre monasteri di rito greco che sopravviveranno
fino almeno al 1324, in base all’elenco delle decime con il nome di: S. Fenronìa, S. Martino e
S. Angelo22.
20
F.A. CUTERI, G. HYERACI, «Nuovi dati sulla frequentazione del castello di Calanna (RC)», in Studi Calabresi,
V-VI, 6/7 (2005-2006) (ed. 2012), pp. 39-43.
21 Ibid., pp. 43-45.
22 Ibid., p. 41.
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Fotografie di Calanna
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NICEFORA – ROCCA DIRUTA – ROCCA ANGITOLA – VALLELONGA
Il territorio presso la foce del fiume Angitola è particolarmente interessante per lo studio
della sua evoluzione. In questo spazio infatti non troviamo un unico insediamento, ma diversi
borghi anche fortificati che rappresentavano sia una difesa militare, inizialmente
all’espansione longobarda, sia quali luoghi di rifugio per le comunità rurali, ma anche come
fondamentale sito di controllo delle principali vie di comunicazione, dell’istmo di Catanzaro
e del Golfo di Lamezia23.
L’erezione di quella che oggi si chiama rocca Angitola, ma che in realtà in età altomedioevale
prendeva il nome di Rocca di Niceforo24 è da collocare cronologicamente nella seconda
espansione longobarda: essa infatti ne doveva difendere il nuovo limes. Non nasce quindi né
come un luogo di rifugio per gli insediamenti rurali, né quale fortificazione di una qualche
sede di potere, come poteva essere rappresentata da una cattedra vescovile: il suo scopo
iniziale è puramente militare.
La sua funzione probabilmente muta nel corso del periodo altomedioevale dopo la
riconquista delle città calabresi da parte di Niceforo Foca del IX secolo. Infatti, nella valle
dell’Angitola venne eretta una città fortificata a nome di Niceforo. La sua nascita ha portato
ad un cambiamento nel panorama territoriale che ha visto l’evolversi di diversi piccoli
insediamenti. Da qui Fiore, nella sua Calabria Illustrata, ci descrive la presenza di un centro
che prende il nome di Nicefora, e, nei pressi, alla località di Vallelonga viene attribuito in
antichità il nome stesso di Nicefora. Nel Giustizierato già nel 1276 troviamo una Rocca
Nichifori25 e una Vallis Longa26, sintomo che le due località, abbiano già nel XIII secolo avuto
un percorso differente e slegato. Ancora oggi è possibile trovare nella toponomastica e microtoponomastica la presenza di questi piccoli villaggi legati ad un centro urbano più consistente.
Tutti questi centri nascono in relazione alla presenza della città fortificata di Niceforo, e
parallelamente, ne subiscono l’evoluzione27. Vallelonga rappresenta sicuramente uno di
questi insediamenti che nella tradizione e nella memoria comune è rimasta legata alla città di
23
F. A. CUTERI, «Motte e villaggi abbandonati in Calabria, ricerche archeologiche a Motta San Demetrio, Rocca
Angitola e Mileto vecchia», in Ricerche archeologiche e storiche in Calabria. Modelli e prospettive, a cura di G. LENA,
Progetto 2000, Cosenza, 2008, cit. pp. 199-200.
24 kastron, quod Nicefora dicitur.
25 CARIDI, La Calabria cit., pp. 119-120.
26 Ibid., cit. pp. 120.
27 F. A. CUTERI, C. LA SERRA, «Motte e villaggi medievali nel territorio di Vibo Valentia (Calabria – Italia).
Ricerche archeologiche a Motta S. Demetrio e Rocca Angitola» in P. GALETTI (a cura di), Paesaggi, Comunità,
Villaggi Medievali, Atti del Convegno internazionale di studio, Bologna, 14-16 gennaio 2010, p. 759.
Castra e Castella bizantini in Calabria
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Niceforo, fino al punto che nel XVII secolo un autore come Fiore ritenga che essa stessa si
chiamasse come la città eretta dal generale bizantino.
Rocca Angitola, così come Rocca Diruta, si sono trasformate in luoghi di rifugio per le zone
rurali del territorio, i chorìa, ma anche a difesa di due fondazioni monastiche italo-greche: una
dedicata a Sant’Elia e situata presso il villaggio di Capistrano, ed una a Santa Maria. Nell’XI
secolo comincia il frazionamento di ciò che un tempo era stato il distretto territoriale della
Rocca di Niceforo in favore della creazione di nuove circoscrizioni e grandi latifondi feudali
ed ecclesiastici, soprattutto come territori di pertinenza dei membri di spicco della famiglia
Altavilla e come pie donazioni alle grandi fondazioni monastiche benedettine. Nicefora
venne così a trovarsi inserita in un vero e proprio sistema feudale e di controllo territoriale
fatto di castelli e motte in un nuovo progetto di controllo e difesa del territorio neoconquistato da parte dei Normanni. La ricerca archeologica conferma sostanzialmente questo
dato, essendo stata rinvenuta durante lo scavo la monumentale Turris Magna fatta costruire
da Ruggero I alla fine dell’XI secolo sul vertice orientale del kastron, divenuto così porta
d’accesso ai territori ruggeriani e baluardo difensivo settentrionale a protezione del centro
scelto dal Granconte quale sede principale: Mileto28.
fotografia di Nicefora –
Rocca Diruta – Rocca
Angitola – Vallelonga
28
Ibid., pp. 759-760.
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
CASTEL MAINARDI
Il sito, posto ad oriente dell’attuale Filadelfia (Cz), prende il nome dal cognome del suo primo
feudatario: Mainardus, il quale venne investito del beneficium nel 1096. Nonostante in questa
data si attesti per la prima volta la sua esistenza, possiamo ricavare delle prove del suo passato
bizantino da: la situazione orografica pregressa ed attuale; dalle ricerche archeologiche; dalla
denominazione dei luoghi; dalle devozioni religiose; dal dialetto grecanico; dalle terminologie
agricole. Tutti questi indizi fanno presuppore un passato antecedente all’incastellamento
normanno e alla diffusione dei culti cristiano latini nella regione29.
L’erezione di questo castrum è dovuto probabilmente sia per la protezione di varie proprietà
agricole riunite in corti, masse, casali e ville (tutt’ora fortemente presenti nel gergo popolare
della zona), ma anche per la presenza di una numerosa comunità di monaci basiliani. Essi si
scavarono una celletta di S. Giovanni l’Evangelista e di S. Giacomo nella contrada di
Bragaddà30. Nelle vicinanze venne eretta anche una piccola abbazia di campagna dedicata a
S. Teodoro d’Amasea31. Le ricerche archeologiche hanno ritrovato i suoi ruderi a circa 300
m in linea d’aria dal castello. Sono inoltre presenti anche i resti di una parrocchia dedicata a
S. Barbara di Nicomedia, quindi certamente anch’essa di culto greco. Il sito senza dubbio
antecedente all’invasione normanna venne da essi ampliato e concesso in beneficio a detto
Mainardus32.
Fiore di questo insediamento ci restituisce unicamente delle lodi per la posizione e la
successione dei signori che lo hanno governato, iniziando dai signori Ruffo di Catanzaro
nell’anno 1290, nonostante la sua presenza sia già attestata nel Giustizierato del 1276 come
castrum Mainardi33. Nel XVII è ancora presente e popolato con i suoi 270 fuochi34.
Oggi del castello restano alcuni tratti murari di grosso spessore (2 m circa), un vano quasi
rettangolare, coperto con una volta a botte, appartenente quasi certamente alle parti interrate
della Rocca, e tracce di altri vani, posti a fianco e superiormente a quello citato. Lungo la
spianata della Rocca sono rintracciabili anche due strutture murarie ben distinte: una
costituita da blocchi di pietra calcarea, non squadrati, cementati con malta biancastra molto
29
G. BARONE, «Castel Mainardi e le sue origini bizantine», in Calabria bizantina. Istituzioni civili e topografia storica,
Gangemi editore, Roma, 1986, p. 233.
30 Particolare nome dovuto alla presenza di una comunità musulmana, infatti esso deriva da barak allah, ovvero
benedizione di Dio.
31 Santo protettore dell’Impero bizantino.
32 Ibid., pp. 233-236.
33 CARIDI, La Calabria cit., pp. 118-119.
34 FIORE, Della Calabria cit., pp. 128-129.
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degradata; una più interna, posta ad una distanza variabile tra i 50 e 60 cm dalla prima,
composta da blocchi, ben squadrati, pure di pietra calcarea. Questi due tratti di muro paralleli
fanno capo ad una muratura unica molto consistente. I resti individuati del castello
medioevale, non consentono di ricostruirne la pianta, nemmeno nella sua forma generale, ma
solo di dedurre che quanto ci resta è ben poca cosa di ciò che un tempo poteva essere la
Rocca di Castelmonardo. Le ricognizioni effettuate nel 1971 il cui scopo era di raccogliere
reperti ed elementi sufficienti per l’elaborazione di una planimetria del luogo, su cui indicare
i principali parametri archeologici di superficie hanno portato ad alcuni risultati:
-
Sono rilevate numerose grotte artificiali, molto probabilmente di età medioevale.
Molte di esse sono isolate, mentre alcune sono associate a strutture architettoniche
quali abitazioni e magazzini. È da notare che in queste grotte non è stato effettuato
alcuno scavo, ma che le ricognizioni hanno messo in evidenzia una certa
differenziazione dei reperti recuperati in prossimità delle stesse: materiali atipici di
epoca recente, medioevale e premedioevale.
-
Resti di grosse mura, riscontrate sulle pendici della prima e della seconda altura, fanno
pensare che dalla Rocca si dipartisse una cinta muraria atta a difendere l’abitato.
-
È risultato un’evidente differenza dell’impianto urbanistico negli abitati. Tra la zona
a nord della Rocca e quella sud-ovest della stessa, i ruderi presentano un tessuto
urbano molto chiuso, altimetricamente mosso a causa del pendio del terreno, da
ricollegare al borgo culminante nel castello, tipico del medioevo. Mentre il centro
abitato situato sull’altura adiacente al castello è organizzato secondo una maglia
urbana più regolare, ampia, con manufatti edilizi più consistenti e complessi
volumetricamente, denotando così la loro appartenenza ad un’espansione
rinascimentale-barocca del centro in oggetto.35
GERACE
La presenza di un castrum presso Gerace, a differenza delle altre strutture architettoniche, è
abbastanza documentata. Essa compare nelle cronache normanne quale castrum munito di un
35
D. MAESTRI, M. MAESTRI DE LUCA, Castel Monardo. Archeologia medioevale e ricerca interdisciplinare, Diego
Maestri, Roma, 1978, cit. pp. 40-43.
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
castellum, ovvero di una cinta muraria, ma ancora prima fa la sua apparizione nelle fonti arabe.
La fortezza è presa d’assalto dalle incursioni musulmane nel 951, 952 e 986.
Comandatogli da ‘Al Mansur di riassaltare la Calabria, passò di nuovo lo Stretto; si volse
a Gerace, e incontrati i Rum con il loro stratego, li ruppe e ritornò da questa fazione
carico di preda: il che avvenne il giorno di festa di ‘Arafah dell’anno 350 (5 maggio 952).
Continuando la massa sopra Geraci ‘Al Hasan strinse d’assedio questa città, finché
Costantino non mandò a stipulare la tregua. 36
Le fonti bizantine, come anche quelle normanne, nominano Gerace quale castrum. Le
cronache di Malaterra però mettono in evidenza la presenza di una fortificazione che lui
definisce castellum.37
Vi sono però delle evidenti difficolta nell’analisi cronologica dell’area fortificata. Infatti,
l’esame della tipologia fortificatoria e delle tecniche costruttive ci permette di circoscriverle
in un ambito cronologico, però occorre tenere conto che l’osservazione è limitata alle
strutture affioranti sul terreno in quanto non sono stati condotti scavi stratigrafici. Nel 1990
sono stati eseguiti dei sondaggi nell’area del castello, da cui però non è emerso nessun
materiale datante. Data la carenza di fonti dirette come iscrizioni, graffiti o stemmi,
l’oscillazione cronologica probabile è piuttosto ampia. A differenza di San Niceto, Gerace
presenta una fortificazione, un castrum, a protezione di un centro urbano e non di nuclei
abitati sparsi e rustici come i chorìa. È da considerare anche che non ci troviamo in un
semplice centro urbano di poca importanza, ma di fronte ad una sede episcopale. La necessità
della difesa anche della città è legata alla presenza di un luogo di potere e di controllo
fondamentale nell’organizzazione del territorio e della provincia bizantina.
Anche la città presenta quindi una cinta muraria, mentre la fortificazione principale è
sviluppata al di fuori di essa, se pur facilmente raggiungibile. La cinta, ormai praticamente
distrutta, è visibile per alcuni brevi tratti, mentre le porte cittadine hanno subìto delle evidenti
trasformazioni nel corso dei secoli successivi.
Il castello è eretto su una rupe separata dal centro urbano da una profonda frattura, in parte
artificiale, il cui collegamento era assicurato da un ponte. Le mura, di spessore esiguo, sono
36
M. AMARI, Biblioteca Arabo-Sicula, Torino, 1880, anast. Loescher 1982, II, p. 195.
Le fonti bizantine che definiscono Gerace quale kastron si trovano nella Vita S. Eliae iunioris e nel Brebion di
Reggio Calabria. Malaterra riporta invece «Rogerum fratrem cum recentis militibus versus castrum, quod
Geracium dicitur, in predam dirigit» (MALATERRA, De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae comitis et Robertii
Guiscardi Ducis fratris eius, ed. E. Pontieri, in R.I.S., V. I, Bologna, 1928, I, 21, p. 19.
37
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61
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larghe circa 1 m (come a San Niceto) e ad andamento segmentato che asseconda l’orografia
del terreno. Data l’accentuata pendenza e la vista mozzafiato su tutto il promontorio che si
gode da quell’altura, le mura presentano un’altezza ridotta e non sono presenti torri. L’unica
torre doveva essere posta dove oggi si trova il torrione aragonese circolare, dalle cui
fondamenta si potrebbe intuire la presenza antecedente di una struttura di età bizantina a
pianta quadrangolare, posta a difesa dell’ingresso.
La merlatura delle mura è quasi completamente scomparsa e se ne scorge la presenza
solamene in un brandello del tratto nord della cinta, presso l’ingresso.
Esattamente come per San Niceto, un muro trasversale di sbarramento divide la collina in
due zone. La tecnica costruttiva è la medesima dei muri esterni, mentre l’accesso delle due
zone è probabilmente da collocarsi a fasi di ampliamento successive data la presenza di
blocchi di calcare squadrati e modanati con volte a sesto acuto.
Il rifornimento idrico della fortezza era garantito da cisterne rifornite da acqua piovana,
mentre non si scorge sul terreno alcuna traccia di abitazioni, costruite probabilmente in
materiale deperibile. Non vi è nemmeno traccia di strutture residenziali per il presidio ad
eccezione di alcuni ruderi monumentali di due grandi ambienti voltati a botte, costruiti in
muratura a sacco con ammorsature in blocchi squadrati siti nella prima zona della collina.
Questi ruderi nella tradizione popolare vengono definiti palazzo di Mileto. Effettivamente, il
notevole spessore murario delle strutture, il tipo di copertura, induce a confermare che si
tratterebbero, probabilmente, di ambienti di donjon normanni.
Il castello di Gerace posto nel punto più elevato della collina sulla quale si erge la città e
separata da essa da una frattura, rappresenta un esempio chiave dell’evoluzioni e delle
trasformazioni che queste fortificazioni hanno vissuto nei secoli. All’interno del suo
complesso troviamo una struttura muraria che per la natura del territorio non è stata
necessario aggiornare, mentre invece troviamo delle strutture interne aggiuntive del periodo
normanno, il tipico donjon38. La presenza del torrione circolare aragonese, frutto della
rivoluzione militare avvenuta tra Quattrocento e Cinquecento, ci dimostra che in questi secoli
la posizione di Gerace rappresenta ancora uno snodo strategico del litorale ionico. Un
complesso che quindi presenta almeno tre fasi di costruzione e di ammodernamento, ma che
38
CUTERI, Chiese e castelli, cit. pp. 55-59.
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probabilmente ha ancora molto da dirci e che meriterebbe uno studio di ricerca archeologica
più approfondita.
Nella Calabria illustrata, Fiore fa risalire addirittura la fondazione di Gerace all’operato di
alcuni principi troiani, egli mette in relazione la fondazione di questa città con quella di Locri,
e ne scrive una storia unica, enunciando che poi il nome pagano di Locri, si fosse lentamente
trasformato – per non si sa quale motivo – nel nome cristiano di Gerace grazie alla
predicazione di Paolo. La cattedra del vescovo sarebbe stata infatti fondata dall’apostolo S.
Paolo, vantando quindi per questa città una successione apostolica. Per quanto riguarda invece
gli assedi, l’autore ci riferisce che la città
provò il rumore dell'armi nemiche, delle quali Io faccio raccordo negl'anni novecento
ottanta sei, mille sessantadue, mille duecentonovanta, mille duecento novantasette, e
millecinquecentotre39.
L’importanza strategica del forte però non dev’essersi completamente ecclissata nel XVII
secolo, in quanto il Fiore lo riporta nella lista dei nomi delle fortezze ancora operanti40.
La vista panoramica di cui gode la fortificazione, le bellezze architettoniche, artistiche e
culturali legate alle varie strutture ecclesiastiche della città, ma anche i suoi borghi e le sue vie,
farebbero di Gerace un centro di notevole flusso turistico e di divulgazione culturale: un fiore
all’occhiello della regione Calabria. Purtroppo, le bellezze storico-naturali non vengono
sfruttate come dovrebbero, inaridendo la consapevolezza del patrimonio storico-culturale di
questa bellissima regione.
Fotografie di Gerace
39
40
FIORE, Della Calabria, cit. pp. 165-173.
Ibidem., cit. p. 27.
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STILO
Dal punto di vista delle fonti, Stilo è meno documentata di Gerace. Le cronache arabe, ad
esempio, tacciono su questa fortificazione, nonostante nei pressi del suo territorio si
dev’essere svolta la battaglia tra le truppe di Ottone II e le forze alleate arabo-bizantine nel
98241. Le fonti bizantine e normanne, identificano Stilo quale castrum. La cronaca di Malaterra
è in questo caso molto interessante; egli narra l’allontanamento da Stilo dello stratega Costa
Peloga, sottolineando che il castrum fosse dotato anche di una cinta muraria.
Così come per Gerace, anche a Stilo non vi sono stati condotti degli esami stratigrafici. La
fortificazione vera e propria del castron insiste sulle pendici del monte Consolino.
Parzialmente danneggiata nel Seicento, il maggior numero di ruderi si conservano sulla sua
sommità, dove vi è una concentrazione delle strutture murarie. Una cinta con sei torri
rotonde delimita un solo lato dello stretto pianoro, quello in direzione del mare, non
richiedendo l’altro lato la necessità di alcuna opera fortificatoria grazie al ripidissimo pendio
di 500 m di salto di quota. Tale cinta è chiusa a Sud da una porta, di cui oggi ne restano le
tracce, mentre a Nord l’accesso avveniva attraverso una grande torre quadrata. L’esilità della
cortina e delle torri, oscillano anche qui sul metro di spessore, l’altezza delle torri cilindriche
e prive di scarpa, oggi completamene interrate, la tessitura muraria che utilizza blocchetti
A causa della scarsità delle fonti, questa interpretazione dell’evento, dell’alleanza tra Bisanzio e gli arabi, ma
anche il luogo stesso della battaglia, non mette d’accordo tutti gli studiosi.
41
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rozzamente squadrati, posti in opera con rinzeppature con scagliette più piccole non fanno
dubitare sull’origine altomedioevale della fortificazione. Più tarde appaiono le strutture
residenziali vere e proprie, il cui stato di conservazione è ancora notevole. Si trovano accanto
alla grande torre quadrata, e constano di più ambienti, cui si accede tramite una porta difesa
da due torrioni circolari con scarpa. Questi torrioni sembrano più addossati però agli
ambienti retrostanti, che di conseguenza sarebbero da attribuire ad una fase antecedente di
costruzione. Due cisterne per l’acqua piovana garantivano l’approvvigionamento idrico:
alcuni tratti di canalizzazioni in terracotta, invetriata all’interno, destinati a rifornirle, sono
tutt’ora esistenti incassati nei muri. Era probabilmente presente anche una piccola cappella
con affreschi, le cui tracce sono quasi del tutto sparite. Presente nel Giustizierato di Calabria
del 1276, Fiore non fa alcuna menzione del suo passato bizantino e bellico.
Stà adornata con bell'Edifici, di Palaggi, di Chiese, cinta di forti mura, con ben disposte
porte, decorata di considerabili privileggi, conservata sotto il Real Demanio sin dal
tempo del Conte Roggiero chiamadola sua42.
Fotografie di Stilo
42
FIORE, Della Calabria, cit. pp. 184.
Castra e Castella bizantini in Calabria
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SIMERI
La nascita di questo kastron è da collocarsi nell’ambito dell’incastellamento del IX secolo,
causato dalle incursioni saracene. La simultanea nascita di altri insediamenti collinari e
pedemontani intorno a Simeri, ovvero Squillace, Tiriolo, Taverna e forse anche Sellia, ai quali
in seguito si sarebbero aggiunti Catanzaro e Cropani, inserivano quest'ultima in un sistema
difensivo nuovo, imperniato su questa rete di kastra tra loro comunicanti attraverso torri
magari, che diventavano interdipendenti tra loro e che forse, all’occorrenza, univano le forze
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per ricacciare da uno o più insediamenti gli eserciti arabi che periodicamente si avventuravano
all'interno.
La pianta della cittadella fortificata, posta sulla sommità del pianoro, suggerisce una forma
triangolare con doppia cinta interna, una grande torre circolare posta al vertice di questo
triangolo guarda direttamente sulla strada di accesso all’abitato. Nella cinta interna si trova
una grande struttura quadrangolare da identificare come palacium e un’ampia cisterna per la
raccolta delle acque. L'intero pianoro poi era cinto da muratura perimetrale, di cui ancora si
conserva traccia, intervallata da torri che aveva il suo vertice nella torre circolare prima
individuata. Le porte erano due, ovvero la “Porta Grande” demolita negli anni 50', alla quale
si accedeva da una rampa che costeggiava le mura (dalla parte sinistra rispetto alla torre
centrale) e di cui rimangono alcune testimonianze orali e architettoniche, e la “Porta Piccola”
che collegava l'abitato con il quartiere Grecìa. L'immagine della fortificazione, nonostante i
terremoti e l'opera di saccheggio dei materiali lapidei avvenuti negli ultimi due secoli, appare
ancora imponente e maestosa all'osservatore, concludendo che nell'epoca di splendore della
stessa sarebbe stato arduo conquistare una tale roccaforte armata di una buona guarnigione.
Come abbiamo accennato, la posizione di Simeri è, dal punto di vista strategico, molto
vantaggiosa, trovandosi al centro del Golfo di Squillace e ancora oggi, salendo sulla torre
centrale, si ha un diretto contatto visivo non solo con la costa e il mar jonio, ma anche con
Squillace, Catanzaro, Tiriolo e Punta Le Castella. Altresì, un probabile sistema di torri lungo
il crinale del fiume Simeri passando per Sellia, avrebbe potuto mettere in contatto Simeri con
Taverna43. Esso subì enormi danni a causa del terremoto del 178344. Di Fiore non menziona
alcun passato bizantino all’interno di Simeri, mentre è presente nel Giustizierato con il nome
di Symerium.
43 L.A. CHIRICÒ, Simeri bizantina. Il kastron di Simeri, relatore F. Burgarella, Tesi di Laurea, Università della
Calabria, Anno Accademico 2013-2014, cit. pp. 15-26.
44 A. CALDERAZZI, R. CARAFA (a cura di), La Calabria fortificata. Ricognizione e schedatura del territorio, Vibo Valentia,
1999.
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Fotografie di Simeri
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Fonti scritte: tra la Calabria Illustrata e le cronache normanne
Questo capitolo sarà dedicato allo studio delle fonti scritte. Verranno confrontati i luoghi che
oggi noi sappiamo con certezza che abbiano vissuto la dominazione bizantina con fonti
successive. Vedremo quindi se e come i castra e i castella siano sopravvissuti alla memoria nei
secoli. Prenderemo in considerazione il Giustizierato della Calabria del 1276, Della Calabria
illustrata di Giovanni Fiore e le cronache della conquista normanna di Amato da
Montecassino, Guglielmo Apulo e Goffredo Malaterra. Quest’ultimi autori saranno
fondamentali per vedere quali fortificazioni e castra i normanni abbiano dovuto affrontare
per la conquista del regno. È necessario comunque fare delle premesse relative all’uso di
queste fonti. I cronisti normanni dimostrano ad esempio di non elencare tutte le fortificazioni
bizantine calabresi, bensì solamente quelle assediate durante le campagne degli Altavilla. Ma
la fonte senza dubbio da utilizzare con maggior cautela è quello dello storico ed ecclesiastico
Fiore.
Egli, infatti, nella sua descrizione dei luoghi concede senza dubbio maggiore importanza ad
alcune tematiche narrative, religiose e storiche. Essendo la sua un’opera sulla Calabria dal
diluvio universale agli anni suoi contemporanei, predilige il racconto della storia delle città
calabresi più antiche. Si tratta di una narrazione puramente teleologica, il cui fine è
probabilmente quello di formare una sorta di legittimità e preminenza delle città calabresi e
della regione fondata soprattutto sulla religione e sulla fede cristiana. Egli riconduce la
fondazione dei centri abitanti a diversi filoni elencati qui per importanza:
-
direttamente a personaggi biblici dell’Antico Testamento come i nipoti di Abramo o
di Noè;
-
Alla narrazione omerica della guerra di Troia e alla fuga dei principi troiani;
-
Alla colonizzazione greca;
-
All’Impero Romano;
-
Alla storia ecclesiastica, ovvero di uomini che si uniscono in comunità per la
predicazione di un santo o per la venerazione di miracolose reliquie;
Sono rari i casi di fondazioni che possiamo definire puramente bizantini. Tra tutti i centri che
sappiamo abbiano avuto un ruolo fondamentale nella storia della dominazione bizantina o
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che siano stati eretti nel periodo dell’incastellamento del IX-X secolo troviamo unicamente:
Catanzaro e Taverna45.
Dai racconti dei cronisti sulla guerra normanna compaiono quali centri di potere fortificati
romani le città di: Reggio, Scilla, Nicotera, Tropea, Vibona, Stilo, Gerace, Squillace, Arena,
Maida, Rocca Fallucca, Martirano, Nicastro, Sant’Eufemia, Catanzaro, S. Severina, Aiello,
Cosenza, San Marco, Scalea, Scribla, Amantea.
Mentre invece vengono propriamente indicati come castra46: Oppido, San Martino, Mesiano,
Mileto, Oriolo, Squillace, Rocca Fallucca, Nicefora, Catanzaro, Nicastro, Martirano, Aiello,
Rogliano, Cerenzia, Bisignano, Tarsia, San Marco, Castrovilla, Scribla, Scalea 47. A questi
vanno aggiunti alcuni insediamenti noti dalle nostre ricerche quali Taverna, Castroregio,
Motta San Demetrio, Rocca Angitola, Sant’Agata, San Niceto, Simeri, Castelmonardo,
Nocera, Calanna, Ortì, Gallico, Terreti, San Giovanni. Ricercando gli insediamenti di queste
liste all’interno del volume di Fiore, vediamo come siano pochi i centri di cui egli conosce il
passato costantinopolitano. La fondazione di castelli viene fatta spesso risalire al periodo
normanno come nei casi di: Vibona (Monteleone), Rocca Fallucca, Scilla, Squillace48. Mentre
le città e castra di cui riporta o almeno cita un passato bizantino sono: Amantea, Aiello,
Castrovillari, Catanzaro, Cosenza, Nicotera, Nocera, Oppido, Santa Severina, Taverna,
Tropea, Vibona49.
Un ruolo fondamentale nella storia di questi centri è rappresentato dalle incursioni saracene.
Seguono quindi i frammenti delle descrizioni delle città50 dove viene menzionato il loro
passato bizantino, quando esso appare unicamente in relazione alla storia delle incursioni
musulmane.
Secondo l’autore entrambe nate a causa della distruzione da parte dei Saraceni del porto di Trischine.
Alcuni vengono indicati sia come centri cittadini fortificati sia come castra.
47 E. ZINZI, «Dati sull'insediamento in Calabria dalla conquista al regnum. Da fonti normanne ed arabe» in
Mélanges de l'École française de Rome. Moyen-Age, tome 110, n°1. 1998, cit. pp. 279-298.
48 «Divenuto poi Cristiano, ch'accadde nel primo secolo, divenne cotanto illustre nel la nuova Religione, che ne
fu ordinato sedia Vescovale; sì che divenuta più che mai famosa richiamò a risedervi molti Officiali de' Greci
Costantinopolitani; quindi de' Romani Imperadori, e finalmente i medesimi Principi Normanni, Guglielmo
detto Ferrabac, con Guaimaro Principe di Salerno, che vi fabricarono quel forte Castello l'anno mille
quarantatrè, per detto di Protospata, soscritto dall'Inveges, e Rogiero Conte, qual più di tutti vi si fermò, vi si
trasse dal Rito Greco al Latino, l'ordine Ecclesiastico» (Fiore, Della Calabria, cit. p. 189). Nel caso di Squillace
è forte il passato bizantino, nel quale si collocano anche soggiorni e dimore di imperatori romani, ma la
fondazione di un forte castello viene attribuita unicamente ai Normanni.
49 Di Vibo Valentia non si cita espressamente il passato bizantino, ma il suo sacco saraceno del 950, con la
rifondazione della città in un nuovo sito ad opera di Ruggiero d’Altavilla.
50 Si ricorda che si tratta tutti di insediamenti già fortificati e presenti nel momento dell’arrivo dei normanni.
45
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Amantea – Le spesse scorrerie de Barbari dalla Sicilia, quali passati di quà, occuparono la Città, la
vuotarono di Popolo, e quantunque ritolta alle lor mani da Niceforo, mandato dall'Imperador Basilio,
l'anno 89051.
Aiello – Il raccordato d'Orso52, lo vuol ancora rovinato da Saraceni, l'anno 981. Con la qual'
occasione, Io stimo, che cambiato si fosse di nome53.
Castrovillari – divenne poi quanto più popolata, tanto più nobile, accogliendo nel suo seno il
meglio, e suo, e delle Città distrutte. Onde in alcuno di questi accrescimenti, Io conghietturo, che
lasciato l'antico nome d'Aprusto, avesse preso quello di Castrovillari, detto in latino Castri Villarium,
dalle molte Ville, che teneva nel suo circuito, che per fuggire i saccheggiamenti ebbero ricorso in
questa Città, la quale aveva un forte Castello, ove oggi è la Chiesa di S. Maria del Castello. […] Vi
sono molti antichi Monasteri destrutti, come San Giorgio, detto San Iorio; s. Gio: Capod'acqua, S.
Pietro de Frascinito, S.Benedetto, detto Canal greco, ed erano Monasteri di Greci.54 Vi mancano nel
Territorio di Castrovillare molte Città, e Ville, che teneva sotto il suo dominio, ed adesso sono
destrutte, come la Città Lagaria, la Citta di Grumento, la Città Xifea, il Caſtello della Rocchetta, detto
volgarmente la Riccetta, S. Domenica, S.Lorenzo, S. Maria dell'Itria, San Gio. de Fabriche, S. Maria
Cervenice, il Casale chiamato Mastromeo, ed altre Ville, che stan sepolte nell'oblio55.
Catanzaro – Questo era lo stato di questa parte di Calabria, da che era ſalito al Trono di
Costantinopoli, l'anno novecentosessant'uno, Niceforo Foca. Hor egli tosto ch'intese le già recate
rovine da Saraceni a queste sue Provincie, trattone da compassione, e da zelo, risolse di riordinarle;
onde vi spedì un suo principal Ministro per nome Flagizio, altri lo chiamono Gargolano, con
mandamento di rimettere le Citta non tanto cadute, e di trapportare in sito più securo, le totalmente
rovinate. Venuto addunque l'Imperial Ministro, e ritrovando per di quà, e per di là spersa in piccole
coloniette la gente Trischinese, sopravanzata al furore Saracenico, e non istimando à proposito, nè
lasciarla à quella maniera seminata; nè raccorla ove prima; perche i Saraceni erano ancor potenti nella
Sicilia; onde spesso ripassavano ad infettar la Calabria; risolse, come gia fe , di rimetterla in un sol
51
FIORE, Della Calabria, cit. p. 115.
Luzio d’Orso, uno degli autori al quale Fiore si rifà per la ricostruzione storica di alcuni centri.
53 Ibid., cit. p. 116.
54 Tutte queste informazioni arrivate allo storico calabrese ci possono far intuire l’importanza del centro.
Innanzitutto, la sua posizione geografica è al centro di uno snodo commerciale importante: si trova infatti sul
passaggio della via Popilia, ed è quasi alla stessa distanza dal mar Ionio a quello tirrenico (cosa che nota anche
Fiore); la presenza di molte ville ci fa pensare ad un territorio quindi molto popolato con uno stato abitativo
avanzato, la presenza di diversi monasteri e centri religiosi greci, nel Seicento ovviamente in disuso, ci mostra
anche un certo livello culturale della zona. Il tutto naturalmente protetto da un castello, un forte castrum a
protezione sia della via commerciale, che dei centri abitati e religiosi.
55 Ibid. cit. pp. 243-244.
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corpo di Città, sul del Monte, ove oggidì è Catanzaro, chiamandola dal nome del Regnante
Imperadore, Rocca di Nicifero, che poi dalla qualità del sito erto, ed eminente, prese a dirsi Catacio,
e poi Catanzaro56. […]
Per intendimento di che converrà qui raccordare il sentimento commune de' Scrittori, intorno al
primo Fondatore di lei, che fu Flagizio Stratigò della Calabria, e Procurator dell'Imperator Niceforo;
[…] Ora tre furono, che col nome di Niceforo sederono in Costantinopoli, il Logoteta negl'anni
ottocento due; il Foca nel novecento sessant'uno; ed il Bottriate nel millesettantotto. Questo
Niceforo, sotto di cui Flagizio fabrico Catanzaro, certo ch'egli non fù l'ultimo, perche di quei tempi
la Calabria tolta agl'Imperatori di Costantinopoli, ubidiva à Normanni; Mà nè pure il primo, perche
non ancora entrati i Saraceni nella Calabria, che poi vi passarono venti anni appresso, ed al quanto
più, per le rovine de' quali rovinata, i Trischinesi, sorse Catanzaro57. Resta addunque ch'ei stato fosse
il secondo, cioè Foca, qual Imperò dal novecentosessant'uno, al novecentosettant'uno, da che anche
ne viene in filo la falsità del tempo del millequarantadue, dovendosi riporre il frammezzo del
novecentosessant'uno, al nove centosettant'uno, tempo qual fil del Foca.58 Così fondata, e cresciuta
la Città, ed in tanto occupata la Calabria da Normanni un secolo appresso, Roberto la soggiogò con
la forza, e la si scelse per sua Ducalresidenza, fabricandovi un forte Castello59.60
Cosenza – Provò ancora i danni delle scorrerie de Saraceni, singolarmente nel novecento sotto la
condotta del lor Re Abraamo61, a cui avendo ucciso un Figliuolo, nel mentre l'inferocito Padre da
dentro la Chieſa, ò di S. Pancrazio, o di S. Michel'Arcangelo, machinava alla Città sanguinosa la
stragge, restò morto, o dal Cielo con un fulmine, o dall'Apostolo San Pietro, con un colpo di mano62.
56
Qua troviamo una prima fondazione di una rocca, chiamata Nicefora e sulla quale, probabilmente, venne
eretta quella normanna. È interessante vedere come troviamo almeno altre due località che riportano il nome
di Nicefora, o Rocca Nicefora. Dalle ricerche archeologiche è emersa infatti nella località di Stefaconi (VV)
quella che venne chiamata nei secoli successivi Rocca Angitola, ma il cui nome originale era appunto Nicefora.
Altra località indicata dal Fiore questa volta il cui antico nome è Nicefora, è Vallelonga. La presenza di un centro
urbano in queste valli è già stata discussa nel capitolo precedente.
57 La città di Catanzaro, come le altre fondazioni, nasce qui dalla conseguenza delle incursioni saracene, le quali
distruggono le città e disperdono le popolazioni. Ed emerge quindi quanto l’incastellamento del IX secolo sia
una conseguenza di queste incursioni, con il relativo spostamento dei centri insediativi dalle coste ai rilievi più
elevati. È interessante notare come, mentre durante la guerra greco-gotica, le città maggiormente difese dai
bizantini fossero appunto quelle marittime, grazie l’uso e la superiorità netta della flotta imperiale, adesso, nel
IX secolo le condizioni si siano completamente invertite. La flotta imperiale non riesce più a mantenere i livelli
di quella musulmana, nonostante le popolazioni arabe non fossero fino a quel momento abituate a spostarsi su
rotte marittime ne avessero mai avuto delle potenti flotte.
58 Il Fiore fa un ragionamento sulla successione degli imperatori costantinopolitani per attestare il periodo della
fondazione di Catanzaro. La scelta ricade naturalmente su Niceforo Foca, essendo gli altri candidati in periodi
troppo successivi o anteriori.
59 Qui emerge la politica di controllo normanno: lo sfruttamento dei centri già fortificati dai bizantini con un
ampliamento ed un ammodernamento secondo i loro canoni dei castelli già presenti (accompagnato
naturalmente da nuove fondazioni determinanti per lo stabilimento e la legittimazione di un nuovo tipo di
potere: quello signorile feudale).
60 Ibid., cit. pp. 197-200.
61 Abū Ishāq Ibrāhīm II.
62 Ibid., cit. p. 108.
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
Nicotera – Quanto poi al suo primo sito, pensarono alcuni, riferiti, e ripruovati da Barrio, e
Marafioti, che stato fosse nel lido del mare, ingannati forse da alcune rotte mura, e come aggiòge
Barrio, una, ò due volte rovinata; una, o due volte si rifabricò nel luogo medesimo. Mà il vero è, che
dapprima venne piantata nel mezzo del monte, trà l'oggidì, & il Sagro Monasterio de PP.
dell'osservanza (così Marafioti), e poi per securezza maggiore si ritirò alquanto più sopra, ove
oggigiorno si vede. Fin da primi tèmpi si rese Vassalla del Crocefisso; onde ne meritò una Sedia
Vescovale delle più antiche della Calabria. Così tra per questo, e trà per la qualità del sito, esposto al
mare, e contiguo alla Sicilia, allo spesso fù battuta da Saraceni, singolarmente nel mille settantaquattro,
a vent'otto di Giugno, con la presa non pur della robba; mà di molta gente, e con più sanguinosa
strage nel mille ottantaquattro, restandovi quasi smantellata da fondamenti. Ed all'ora, è la
conghiettura, che mutata si fosse di sito, e datosi principio a suoi Villaggi, che sono Comercone,
Prichitone, Califate, Caronite, e l'Abbazia63.
Nocera – Il suo totale eccidio, qual'Io rapporto nel novecento cinquanta in circa; quando i Saraceni
scorrendo le riviere della Calabria Mediterranea, discesero Lamezia, oggi Sant'Eufemia, ed Ajello:
Ritrovandosi Terina nel mezzo di queste due abitazioni, in vicinanza al Mare, ricevè la medesima
strage, sortì l'istessa fortuna. Demolita da Saraceni Terina, le sopravanzate reliquie (come scrive
Marafioti) si ritirarono un miglio picciolo nella parte Superiore della Montagna, in un luogo ameno,
dove era la caccia de' Terinesi. Ivi fabricarono un Forte, cinto di alte Mura con la Torre di Guardia,
e Baloardi, col Ponte, e ritirata, come di presente si vede, e la chiamarono Nocera, cioè nuova
Abitazione64.
Oppido – com'Io conghietturo, che per la fortezza del sito: ed avvenne all'ora, che fattesi sentire in
queste parti le scorrerie de Saraceni, con la rovina di molti luoghi, la gente fugitiva; singolarmente di
quell'Abitazione, qual Marafioti, disegna non lungi da Santa Christina, e della quale pur oggigiorno
vedonsi i rovinati vestigij, quivi ricovroſſi, dando alla Città il nome d'Opedo, e poi corrottoſi in
Oppido: Onde con ragione il raccordato Marasioti, non lo stima di troppo alta origine; poiche in
conformità ai fin qui tenuto discorso, egli non oltrepassa l’ottavo secolo della grazia.
Santa Severina – Ed intanto senza pur pensarvi siamo oltre passati da Siberena Idolatra a Siberena
Cristiana, anzi a Santa Severina. Nel che si vuol notare, che in quel passaggio Ella prese notabile
meglioramento, divenuta da prima Sedia Arcivescovale, e Metropolitana di molte Chiese dell'una, e
dell'altra Calabria. Patì le sue traversie, occupata da Saraceni, fin al novecento, sottrattane poi dal valor
63
64
Ibid., cit. p. 137.
Ibid., cit. p. 121.
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Francesco Biasi
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di Foca. E di nuovo due Secoli appresso soggiogata dal Duca Roberto, con altri movimenti di guerra,
rapportati negl'anni mille duecentonovantasette, e mille quattrocentosessanta due65.
Taverna – Suppongo Io qui, quanto nel poco di anzi tenuto discorso, per la Città di Catanzaro, ed
altrove in luogo più proprio scrivo dell'antica Trischine. Dunque succeduta la sua rovina, nel mentre
altri si raccolsero a fondar Catanzaro; altri s'unirono a fabricar Taverna, là ove oggi giorno si dice, la
Vecchia; ma all'ora, ed oggidì Montana. E pertanto convien dire, che Catanzaro, e, Taverna la Vecchia,
fussero state due Città sorelle nate nella morte della commune madre, Trischine, uguali, come di
nobiltà, essendo dalla medesima gente, così di tempo, cioè dal novecento sessant'uno, al novecento
settant'uno. […] Ora mentre la novella Città respirava alla quiete, tosto cominciò ad avanzarsi di
popolo, parte cresciuto dal medesimo, e parte venuto da fuori: e tutto che dal sito naturalmente difesa,
pur si munì all'intorno con forti muraglie, e con porte chiuse a ferro66.
Tropea – Altri volte sogiacque al commando de Saraceni, che poi l'anno 890 Niceforo Capitano
dell'Imperador Basilio, la ricolse dalle mani di quelli. Ed in queste rivolte di Saraceni, Io conghietturo
la fondazione de molti Villaggi, quali fiancheggiano il sito67.
Monteleone (Vibona) - Così addunque pompeggiando alle glorie, cadde finalmente da quelle alle
rovine sotto la tirannide de Saraceni in più volte, quali ribattonò li novecento cinquanta; rimanendovi
disfatto il suo Vescovado con altri molti della Calabria, ed al corpo tutto della Città, la memoria
d'essere altre volte stata. Sopravenuti in tanto i Normanni, il Conte Rogiero discorrendo, ch'una Città,
altre volte si rinomata, giacesse al fondo delle miserie, pensò di ristorarla; come con effetto la ristorò
invitandovi la gente con molte famiglie a riabitarla; fabricandovi per sicurezza maggiore, l’anno mille
novantatre, nella forma qualoggidì li vede, il meraviglioso Castello. Qual prima l'abitarono solo
Uomini di Campagna per la coltura dei campi.
Finche finalmente si accrebbe in qualità di nobile Cittadinanza, circondata di mura, e distinta in più
ordini d'abitanti, con piccola mutazione di sito, e con total cambiamento di nome, chiamandosi
Montelione; e ne fù il motivo, ch'essendo l'insegne antiche de Normanni trè Leoni: soggiogata la
Sicilia, che in trè Promontori si riparte; non più trè Leoni; mà tre monti con sopravi un Leone sedente
alzarono poi per insegne: e così le scolpivano le Città di lor dominio; però la novella Città, non pur
65
Ibid., cit. p. 221.
Ibid., cit. p. 203. Taverna, esattamente come Catanzaro, per di Fiore nasce dalle rovine dell’antica città di
Trischine, distrutta da un’incursione saracena.
67 Ibid., cit. pp. 135.
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l'arme Normanne, così riformate presero; mà il nome ancora delle medesime, facendosi chiamare
Montelione68.
In conclusione, possiamo certamente affermare che uno storico ecclesiastico come Fiore nel
XVII secolo non sia a conoscenza del passato bizantino della Calabria, ma probabilmente
non è neanche interessato ad una ricostruzione fedele delle fondazioni delle città. È evidente
che esaltare il passato biblico o cristiano, latino, sia decisamente più prestigioso. Molte
fondazioni vengono riportate alla predicazione di apostoli oppure a passati decisamente più
antichi: la distruzione di Troia e la fuga dei principi troiani. Quest’ultima probabilmente per
creare un collegamento, una legittimazione con Roma stessa e il suo impero. Il passato
bizantino è del tutto oscurato dai Normanni e dai Saraceni. Bisogna ricordarsi che nel 1691,
anno di edizione de’ Della Calabria illustra, l’Impero Ottomano pochi anni prima era giunto
ad assediare la cristianissima città di Vienna, sede di quello che dovrebbe essere la
continuazione dell’Impero Romano. Quindi la narrazione del X-XI secolo viene eseguita in
relazione dei rapporti conflittuali con la religione musulmana che negli anni di Fiore è
all’apice del proprio potere69 e minaccia direttamente i regni europei della Cristianità.
Ibid., cit. pp. 132-134. Non c’è alcun accenno alle fortificazioni bizantine preesistenti, o alla loro dominazione.
L’accento è tutto rivolto alla sede episcopale e all’arrivo dei Normanni. Le popolazioni dell’antica città bizantina,
Vibona, vengono spostate e ricollocate da Ruggiero, motivo del quale il nome viene cambiato. Nel Giustizierato
del 1276 troviamo sia la città di Mons Leonus che di Bibona, probabilmente da relazione con la frazione di Bivona.
69 In una visione ovviamente molto semplicistica che vede l’Impero Ottomano assimilato, e quindi in continutà,
agli emirati arabi del X-XI secolo.
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Indice dei Luoghi
Centri di potere fortificati
1. Reggio Calabria 2. Cosenza 3. Catanzaro 4. Scilla 5. Nicotera 6. Tropea 7. Stilo 8. Gerace
9. Maida 10. Rocca Fallucca 11. Martirano 12. Nicastro 13. Santa Eufemia Lamezia 14. Aiello
Calabro 15. Santa Severina 16. Scalea 17. Scribla 18. San Marco Argentano 19. Squillace 20.
Arena 21. Vibo Valentia
Castra
1. Oppido Mamertina 2. San Martino 3. Mesiano 4. Mileto 5. Oriolo 6. Rogliano 7. Cerenzia
8. Bisignano 9. Tarsia 10. Castrovillari 11. Filocastro
Fortificazioni assenti nelle cronache normanne:
1. Taverna 2. Castroregio 3. Simeri 4. Castelmonardo 5. Nocera
Nicefora
1. Rocca Angitola Maierato 2. Vallelong
Difesa di Reggio Calabria
1. Calanna 2. Motta Sant'Agata 3. Ortì 5. Gallico 6. Terreti 7. Castello di Santo Niceto 8. San
Giovanni di Sambatello
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FRANCESCO BIASI (Carta a cura dell’autore), Castra e fortificazioni bizantine documentabili nel XI secolo; le strade sono riportate
grazie alla seguente pubblicazione: MC CORMICK, M et al. 2013, “Roman Road Network (version 2008)”, DARMC
Scholarly Data Series, Data Contribution Series #2013-5, DARMC, Center for Geographic Analysis, Harvard
University, Cambridge MA 02138.
Castra e Castella bizantini in Calabria
Francesco Biasi
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Carta georeferenziata della Calabria con l’indicazione dei siti fortificati in età normanna (F. LICO, «Castra e castella: un
contributo alla ricostruzione del sistema fortificato di età normanna in Calabria», in SAMI VIII, 2018, vol. 2, pp. 242-245)
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
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e prospettive, a cura di G. LENA, Progetto 2000, Cosenza, 2008.
G. FIORE, Della Calabria Illustrata. In cui, non solo regolamente si descrive con perfetta Corografia la
Situazione, Promontorj, Porti,Seni di Mare, Città, Castella, Fortezze, Nomi delle medesime, e lor Origine,
mà anche con esatta Cronologia si registrano i Dominanti, l’antiche Repubbliche, e fatti di Armi in esse
accaduti, dagli anni del Mondo 306. sin al corrente di Cristo 1690, Napoli, 1691.
A. GUILLOU, Le Brebion de la metropole byzantine de Region vers 1050, Biblioteca Apostolica
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Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
“Il saggio che ascolta diventerà più saggio”.
Alcuni suggerimenti dei primi Frati Mendicanti in Estremo
Oriente su come affrontare i Mongoli in guerra
Giovanni Di Bella*
Un popolo di guerrieri in marcia verso l’Europa
La frase con la quale viene introdotto il titolo di questo lavoro è tratta dal I capitolo del
Libro dei Proverbi ove è detto: «Ascolti il saggio e aumenterà il sapere e l’uomo accorto
acquisterà il dono del consiglio»1. La stessa espressione è utilizzata da Giovanni di Pian del
Carpine nell’Historia Mongalorum a conclusione dell’VIII capitolo, in cui inserisce le sue
osservazioni su come affrontare militarmente i Mongoli2. La locuzione utilizzata dal frate
minore è un invito rivolto ai Latini a recepire le informazioni e le osservazioni che lui
proponeva come potenziale rimedio difensivo alla violenza mongola. Ma perché tale invito?
E, soprattutto, perché fra Giovanni si interessa delle capacità militari dei Mongoli?
L’interesse del frate minore era una reazione a un lungo e complesso processo
sociopolitico che, durante i primi quattro decenni del XIII secolo, aveva animato l’Asia
centrale. Tale regione in questo periodo era occupata da clan nomadi militarmente forti e ben
strutturati, alla guida dei quali spesso veniva posto un uomo saggio e di abili capacità militari3.
All’interno di questa società, intorno al 1167, nacque Temüjin che passò alla storia con il
nome di Gengis khān. Nel giro di poco tempo, questi assurse a capo di una grande unione
tribale che riuniva tutti i clan della steppa, raccogliendone usi, costumi e usanze militari4. Alla
*
Ph.D. student, Doctorate of Humanities, University of Messina, giovanni.dibella@unime.it.
Il libro dei Proverbi I, 5, in La Bibbia di Gerusalemme, Francesco VATTIONI (cur.), Edizioni Dehoniane Bologna,
Bologna 1974, p. 1291. Sull’utilizzo di questa postilla biblica da parte di frate Giovanni vd. le osservazioni di
Denis SINOR, «John of Plano Carpini’s Return from the Mongols: New Light from a Luxemburg Manuscript»,
Journal of Royal Asiatic Society, ¾ (1957), pp. 193-206, in part. pp. 202-206.
2 GIOVANNI DI PIAN DI CARPINE, Storia dei Mongoli, Enrico MENESTÒ (cur.), Fondazione Centro Italiano di
Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 20062, p. 302. Per altri riferimenti bibliografici su questo personaggio e la sua
opera vd. infra.
3 Sulle comunità nomadi stanziata nell’Asia centrale prima della fondazione dell’Impero mongolo vd. l’analisi di
Denis SINOR, «Riflessioni sulla storia e la storiografia degli imperi nomadi dell'Eurasia centrale», Acta orientalia
Academiae Scientiarum Hungaricae, 58 (2005), pp. 3-14; Caroline HUMPHREY-Altanhuu HÜRELBAATAR, «Regret as a
Political Intervention: an essay in the Historical Anthropology of the Early Mongols», Past & Present, 186 (2005),
pp. 3-45; René GROUSSET, L’empire des Steppes. Attila, Gengis Khan, Tamerlan, Le Grand Livre du Mois, Paris 19892.
4 La letteratura storiografica su questo personaggio è molto vasta, tuttavia vd. i più recenti studi di Jack
WEATHERFORD, Gengis Khan. La nascita del mondo moderno, Bus, Gorizia 2015; René GROUSSET, Il conquistatore del
mondo. Vita di Gengis Khan. Adelphi Edizioni, Milano 20113; Vito BIANCHI, Gengis Khan. Il principe dei nomadi,
Edizioni Laterza, Bari 2005; Mario BUSSAGLI, Gengis Khan. Il conquistatore del mondo, Giunti Editore, Firenze 1988.
1
“Il saggio che ascolta diventerà più saggio”.
Giovanni Di Bella
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base della nuova organizzazione “gengiscanide” venne posto il jasaq, un codice che raccoglieva
le usanze militari mongole e che prevedeva sia la composizione di un esercito su base decimale
sia un corpo di guardia imperiale composto da pochi uomini ben selezionati e sottoposti a una
ferrea disciplina militare5. Con queste forze Gengis khān iniziò a espandere i suoi domini: prima
si diresse verso i Jurcen della Cina, con i quali si scontrò tra il 1213 e il 12156, e i domini di
Küčlük; successivamente, invece, intorno agli anni Venti del Duecento, indirizzò le sue armate
verso la Russia e la Comania, affrontando i loro eserciti il 31 maggio del 1223 sul fiume Kalka7.
Su questa prima fase dell’espansione mongola, Luciano Petech osserva che in tale occasione i
Mongoli acquisirono maggiore esperienza nelle loro tecniche militari e di assedio, che gli
permicse di progettare un piano espansionistico che guardasse a regioni più lontane, compresa
l’Europa8.
Tuttavia, dopo una prima fase di allargamento dei confini, le armate mongole arrestarono
la loro avanzata e nulla si seppe di loro per oltre un decennio. In questo frangente di silenzio
bellico, Gengis khān morì9 e nel quriltai del 1229 gli succedette il terzo genito Ögödei. Questi
sin da subito riprese il progetto espansionistico del padre: intorno al 1234 organizzò una
campagna militare contro la Cina centro-settentrionale e subito dopo condusse una
spedizione verso le regioni più a meridione10. Inoltre, nello stesso periodo un corpo d’armata
5
Sul jasaq e sulle tematiche in esso inserite vd. il recente studio di Denise AIGLE, «Le grand jasaq de Gengis-khan,
l’empire, la culture mongole et la shari’a», Journal of the Economic and Social History of the Orient, 47 (2004), pp. 31-79.
Ancora utili, seppur datati, sono gli studi di Paul RATCHNEVSKY, «Die Yasa (Jasaq) Ginggis Khans und ihre
Problematik», in George HAZAI-Peter ZIEME (Hg.), Sprache, Geschichte und Kultur der altaischen Völker: Protokollband
der XII. Tagung der Permanent International Altaistic Conference 1969 in Berlin, Akademie-Verlag, Berlin 1974, pp. 471484; David AYALON, «The great Yāsa of Chingiz Khan: a re-examination», Studia Islamica, 38 (1973), pp. 107-156;
ivi, 36 (1973), pp. 113-158; ivi, 34 (1971), pp. 151-180; ivi, 33 (1971), pp. 97-140; George VERNADSKY, The Mongols
and Russia, Yale University Press, New Haven-London 1953, in part. pp. 99-109; ID., «The scope and content of
Chingis Khan’s Yasa», Harvard Journal of Asiatic Studies, 3 (1938), pp. 337-360.
6 Per i riferimenti bibliografici sulla conquista mongola della Cina vd. infra.
7 Sulle vicende della conquista mongola vd. lo studio di John Joseph SAUNDERS, The History of the Mongol Conquest,
University of Pennsylvania Press, Philadelphia 2001.
8 Luciano PETECH, «Introduzione», in GIOVANNI DI PIAN DI CARPINE, Storia dei Mongoli, cit., p. 11.
9 Questi morì il 18 agosto del 1227, probabilmente in seguito a una caduta da cavallo. In proposito, interessante
è il mistero che avvolge il luogo di sepoltura di Gengis khān, sul quale vd. Elisabetta INTINI, «Dove si nasconde
la tomba di Gengis Khan», Focus, 7 (2017).
10 In proposito vd. Stephen HAW, «The Mongol conquest of Tibet», Journal of the Royal Asiatic Society, 24 (2014), 3749; Thomas ALLSEN, «The rise of the Mongolian Empire and Mongolian Rule in North China», in Herbert
FRANKE-Denis TWITCHETT (edd.), The Cambridge History of China, Cambridge University Press, Cambridge 1994,
pp. 321-513; ID., «The Yüan dynasty and the Uighurs of Turfan in the Thirteenth Century», in Morris ROSSABI
(ed.), China Among Equals: The Middle Kingdom and its Neighbors, 10th–14th Centuries, University of California Press,
Berkeley 1983, pp. 243-253; John DARDESS, «From mongol empire to Yüan dynasty: changing forms of imperial
rule in Mongolia and Central Asia», Monumenta Serica, 30 (1972), 117-165; Edward Denison ROSS, «The Mongols
in China», Journal of the Royal Society of Arts, 84 (1936), pp. 465-475.
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
guidato dal generale Čormaghan venne inviato prima in Iran11 e successivamente, nel 1236,
nel Regno di Georgia e della Grande Armenia12.
Nel giro di poco tempo l’esercito mongolo era pronto a invadere l’Europa. E così fu. I
primi a subire le devastazioni furono la Grande Ungheria e la Grande Bulgaria, poi fu la volta
dei principati russi e in particolare vennero toccate le città di Suzdal’, Vladimis e Mosca che
furono saccheggiate e distrutte. Il 6 dicembre 1240 la stessa sorte toccò alla metropoli
religiosa del mondo russo, Kiev. Nel febbraio del 1241 l’esercito mongolo si divise in due
corpi d’armata: il primo si diresse verso i ducati polacchi, i quali vennero definitivamente
sconfitti il 9 aprile 1241, nella battaglia di Wahlstadt presso Legnica; invece, un secondo
corpo d’armata guidato da Batu e da Sübötei andò verso il Regno di Ungheria. Ad aspettarli
vi era un esercito composto frettolosamente da Bela IV che, seppur inizialmente sembrava
stesse frenando l’avanzata mongola, l’11 aprile 1241 venne distrutto e i Mongoli penetrarono
in Austria prendendo Spalato e incendiando Cattaro. Tutt’un tratto, però, l’incombente
minaccia svanì: l’esercito mongolo si era ritirato, probabilmente a causa della morte del gran
khān Ögödei13.
Durante l’escalation di Batu e Sübötei in Occidente iniziò a circolare un corpus di racconti
che tentavano di documentare la forza sterminatrice delle orde mongole. Tra i molti
documenti spicca una lettera dal titolo Ad flagellum; questa, composta probabilmente già negli
anni Venti del Duecento, divenne molto famosa soprattutto nel 1236, quando le armate
mongole si avvicinarono per la prima volta agli avamposti europei e nuovamente dopo il
1241 quando le truppe guidate da Batu e Sübötei stavano ormai marcando i confini
dell’Europa orientale, pronti a dirigersi verso il cuore della Cristianità. La lettera racconta di
alcune «tribù barbare […] sorte nelle più lontane regioni della terra»14 che stavano muovendo
verso Occidente. Durante il loro cammino «versavano copiosamente il sangue dei chierici e dei
11 Denise AIGLE, Persia under Mongol domination. The effectiveness and failings of a dual administrative system, Institut
Français du Proche-Orient, Beirut 2006, in part. pp. 54-78. ID., L’Iran face à la domination mongole, Institut Français
de Recherche en Iran, Therān 1997. In proposito vd. anche il testo denominato Le atrocità mongole di Izz al-Din
Abu al-Hasan ‘Ali ibn Mohammad: l’unica versione reperibile è edita da Chantal LEMERCIER QUELQEAY, La
pace mongola, Mursia, Parigi 1970, pp. 81-82.
12 In proposito vd. lo studio di Bayrsaikhan DASHDONDOG, The Mongols and the Armenians (1220-1335), Brill’s
Inner Asian Library, Boston 2011.
13 Sull’invasione mongola vd. almeno József LASZLOVSZKY-S. POW, «Contextualizing the Mongol Invasion of Hungary
in 1241-42: Short and Long Term Perspectives», Hungarian Historical Review, 7 (2018), pp. 419-50; Michael RYWKIN,
«Russian Colonial Expansion before Ivan the Dread: A Survey of Basic Trends», The Russian Review, 32 (1973), pp.
286–293; Boleslaw SZCZESNIAK, «A note on the Character of the tartar impact upon the Russian state and
Church», Etudes Slaves et Est-Europeanness, 17 (1972), pp. 92-98; Harold CHESHIRE, «The Grate Tartar Invasion of
Europe», The Slavonic Review, 5 (1926), pp. 89-105. Per un quadro più generale su questo argomento vd. anche Peter
JACKSON, The Mongols and the West 1221-1410, Routledge, New York 20182, 63-165.
14 Il testo è edito da Byalasdair GRANT, «The mongol invasions between epistolography and prophecy the case
of the letter Ad flagellum», Traditio, 73 (2018), pp. 117-177, in part. p. 169.
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religiosi»15, in quanto queste tribù «avevano rigettato i santi sacramenti e dicevano che la
[religione cristiana] non doveva essere sostenuta»16. Il testo della lettera si concludeva con una
preoccupante annotazione che recitava: «A causa di ciò, temiamo che presto ci venga inflitta
una piaga troppo grande su di noi, dato che sono distanti da noi solo venti gironi di viaggio e
hanno già sfondato i nostri confini e fatto una straordinaria strage di pagani e minacciano anche
i cristiani»17. In proposito, Roman Hautala, ha affermato che la diffusione di questo testo ha
confutato la speranza, seppur ancora flebile, che i Mongoli fossero cristiani e interessati al
recupero della Terra Santa18; di fatto, la lettera Ad flagellum smentiva quanto un altro testo
nell’ultimo ventennio del XII secolo, la Lettera del Prete Gianni, aveva riferito a proposito di un
potente sovrano asiatico che presto sarebbe accorso con le sue potenti armate ad aiutare la
Cristianità e a liberare Gerusalemme19. L’avanzata delle orde mongole da una parte confermava
la potenza delle armate asiatiche, dall’altra, invece, dimostrava che tale mito era ormai una vera
minaccia contri i Cristiani di ogni dove.
Tuttavia, la lettera Ad flagellum non era l’unico documento sull’invasione mongola che
circolava in Occidente in quegli anni; per esempio, intorno al 1239 si diffuse un testo
denominato la Visione di Tripoli, in cui si raccontava che presto i Franchi sarebbero stati chiusi
in una morsa a tenaglia: a sud dai Mamelucchi d’Egitto e a nord-est dalle armate
dell’Anticristo. E ancora, molto popolare era la Profezia di Merlino, la quale raccontava che il
re di Francia avrebbe vinto i Saraceni, inseguito sarebbe stato sconfitto dalle armate
dell’Anticristo20. Tematiche simili, inoltre, sono riscontrabili in una serie di lettere raccolte da
Matteo Paris nella Cronica Major, le quali documentavano con profonda drammaticità la
violenta e brutale potenza delle orde mongole. Tra queste una venne inviata da un anonimo
frate al guardiano di Colonia in cui si raccontava che le armate mongole erano composte da
«donne armate e a cavallo che ovunque passavano facevano perire tutti»21; queste, inoltre,
avevano già «devastato l’India maggiore e minore, il Regno di Persia e ora si stavano dirigendo
15
Ibidem.
Ibidem.
17 Ivi, cit., p. 175.
18 Roman HAUTALA, «‘Latin Sources’ Information about the Mongols Related to Their Re-Conquest of
Transcaucasia», Golde Horde Review, 3 (2015), pp. 6-21, in part. p. 9-10.
19 Sulla diffusione di questa notizia vd. lo studio di Giovanni DI BELLA, «Il contributo di Jacques de Vitry alla
conoscenza delle Nationes orientali e alle relazioni con l’Impero mongolo», Peloro: rivista del dottorato in scienze
umanistiche, 5 (2020), pp. 5-48. Sulla diffusione de La lettera del Prete Gianni, invece, vd. Jacqueline PIRENNE, La
leggenda del Prete Gianni, Editrice Marietti, Genova 20172; Jean RICHARD, «L’Extrême-Orient légendaire au Moyen
Âge. Roi David et Prêtre Jean», Annales d’Éthiopie, 2 (1957), pp. 225-244, in part. pp. 227-229.
20 GRANT, «The mongol invasions», cit., pp. 161-167.
21 MATTHAEI PARISIENSIS Chronica Majora, in Rerum Britannicarum Medii Ævi Scriptores, H.R. LUARD (ed.), Lonman
& Co, London 1872-1883 (rist. 2012), v. LVII/6, pp. 83-84.
16
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verso l’Ungheria, la Polonia e gli altri popoli vicini»22. Il 10 aprile del 1242, il vescovo di Parigi,
Guglielmo d’Alvernia, ricevette una lettera dal primate d’Ungheria, il quale lo informava
sull’avanzata dell’esercito mongolo; nel rescritto, il prelato ungherese raccomandava di prestare
molta attenzione sull’arrivo di forestieri, in quanto i Mongoli, prima di scagliare il loro numeroso
e potente esercito contro le città occidentali, inviavano delle spie per raccogliere informazioni23.
Un’altra lettera scritta congiuntamente dai Frati Minori e Predicatori che avevano assistito
all’invasione mongola, riportava che le armate mongole penetrate nelle loro terre erano composte
da «molti uomini robusti, violenti e ben armati»24 che fin ora nessun esercito occidentale era
riuscito a fermare. Nella primavera del 1242, Enrico Raspe scriveva ai duchi di Turingia e di
Sassonia che l’esercito mongolo era capace di marciare per «venti gironi in longitudine e quindici
in latitudine senza mai fermarsi»25; inoltre, aggiungeva che i componenti delle armate avevano
«un corpo spaventoso, un volto furioso, degli occhi iracondi, della mani rapaci, dei denti inzuppati
di sangue che avevano la forza di mangiare ogni tipo di carne umana»26. E ancora, lo stesso anno
l’abate del monastero di santa Maria in Ungheria scriveva ai confratelli dell’Ordine di san
Benedetto e ai conventi dell’Ordine dei Minori e Predicatori che le orde mongole stavano
avanzando contro i principi occidentali con «bestiale crudeltà»27 e il loro arrivo annunciava
«l’avvento dell’Anticristo»28, il quale quanto prima, sarebbe uscito dalle regioni asiatiche per
manifestarsi ai Latini. Un’altra testimonianza sulla drammaticità dell’invasione mongola è
l’Epistola super destructione Regni Hungariae facta composta dal Maestro Ruggero delle Puglie, in cui
si raccontava della potenza delle armate mongole e della loro implacabile violenza nei confronti
dei prigionieri29.
Un dato urgente e necessario
Questi dati non potevano che generare paura e preoccupazione, tanto che negli Annales
Wormatienses si racconta che nel 1241, mentre i Mongoli devastavano l’Ungheria con
innumerevoli e potenti armate, in tutta la provincia di Magonza si facevano processioni con
22
Ibidem.
Ivi, cit., pp. 75-76.
24 Ivi, cit., pp. 81-83.
25 Ivi, cit., pp. 76-78.
26 Ibidem.
27 Ivi, cit., pp. 78-80.
28 Ibidem.
29 ROGERII Miserabile Carmen super destructione Hungariae, Lothar DE HEINEMANN (Hg.), in Monumenta Germaniae
Historica. Scriptores in Folio, Bibliopolii Hahniani, Hannoverae 1892, v. XXIX, pp. 558-559.
23
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reliquie e si celebravano messe affinché Dio fermasse il violento esercito30. E ancora, nella
Continuatio Sancrucensis si narra che in Germania vi era una diffusa paura verso i Mongoli, dei
quali si diceva che avevano un esercito potentissimo e imbattibile31. Quest’ultima
preoccupazione, raccontano gli Annales Sancti Pantaleonis, si poteva riscontrare anche in
Borgogna e in Spagna dove si temeva che la potenza devastatrice delle armate mongole si
sarebbe spinta fino a lì32.
Inizialmente l’avanzata delle orde asiatiche venne recepita, soprattutto nelle sfere più
spiritualistiche e gioachimite, come l’avvento dell’Anticristo e lo stesso Gregorio IX la interpretò in
chiave penitenziale, leggendo le atroci sofferenze dei Cristiani stanziati nell’Europa orientale come
una punizione divina per espiare i peccati commessi33. Tuttavia, già durante gli ultimi anni del
pontificato di Gregorio e ancora di più durante quello di Innocenzo IV, la Chiesa Latina iniziò a
reagire all’avanzata delle armate mongole, comprendendo che non era più sufficiente una lettura
escatologica e penitenziale, ma che il pericolo era concreto e da un momento all’altro avrebbe
potuto distruggere l’intera Europa. Tra l’altro, a partire dal 1241 in Occidente giungevano richieste
di un aiuto concreto e urgente, come quelle di Bela IV d’Ungheria34.
La prima reazione della sede apostolica fu la convocazione di sinodi locali per esortare i
principi e i sovrani a formare una grande alleanza armata e fronteggiare gli invasori35. Così,
una prima dieta si tenne il 22 aprile 1241 a Merseburg, allo scopo di constatare i danni
30 Annales Wormatienses, in Monumenta Germaniae Historica. Scriptores in Folio, Georgius Henricus PERTZ (Hg.),
Bibliopolii Hahniani, Hannoverae 1861, v. XVII, p. 46.
31 Continuatio Sancrucensis, in Monumenta Germaniae Historica. Scriptores in Folio, Georgius Henricus PERTZ (Hg.),
Bibliopolii Hahniani, Hannoverae 1851, v. IX, p. 640.
32 SANCTI PANTALEONIS COLONIENSIS Annales, in Monumenta Germaniae Historica. Scriptores in Folio, Georgius
Henricus PERTZ (Hg.), Bibliopolii Hahniani, Hannoverae 1872, v. XXII, pp. 535-536.
33 È questo, secondo Davide BIGALLI, I Tartari e l’Apocalisse. Ricerche sull’escatologia in Adamo di Marsh e Ruggero Bacone,
La nuova Italia editrice, Firenze 1971, p. 34, l’atteggiamento che inizialmente assunse Gregorio IX nei confronti
dell’invasione mongola. Tale interpretazione è documentata in una lettera scritta dallo stesso pontefice, in cui
l’invasione mongola viene considerata come la fase più dura del piano provvidenziale che Dio ha progettato per i
suoi figli: un buio momento della historia salutis che serve a rigenerare l’uomo occidentale alla vita nuova,
purificandolo dalla corruzione politica e materiale (Ex Gregorii IX Registro, Monumenta Germaniae Historica. Epistolae
sec. XIII, Carolus RODENBERG (Hg.), Bibliopolii Hahniani, Hannoverae 1883, v. I, p. 273). In proposito vd. anche
le testimonianze di MATTHAEI PARISIENSIS Chronica Majora, cit., v. LVII/III, pp. 590-591, di Ex Thomae Historia
Pontificium Salonitanorum et Spalatinorum, Lothar DE HEINEMANN (Hg.), in Monumenta Germaniae Historica. Scriptores
in Folio, Bibliopolii Hahniani, Hannoverae 1892, v. XXIX, pp. 590-592 e GUILLAUME DE NANGIS, Vie de Saint
Louis, in Recueil des Historiens des Gaules de la France, Martin BOUQUET (dir.), Imprimerie Royale, Paris 1840, v. XX,
p. 342. Oltre allo studio di Bigalli, utili anche le osservazioni di Augustin FLICHE, Défense et organisation de la chrétienté,
Blound et Gay, Paris 1950, p. 250.
34 Già LEMERCIER QUELQEAY, La pace mongola, cit., p. 33. In proposito Paul PELLIOT, «Les Mongols et la
Papauté», in: Revue de l’Oriente chrétien, 24 (1924), pp. 225–335, in part. p. 238, sottolinea che già intorno al 1220
l’Occidente ricevette simili richieste di aiuto; in tale occasione dal quartier generale degli Ordini degli Assassini
partirono alcuni messi per chiedere un aiuto militare contro l’invasione mongola.
35 Vd. in proposito la Epistola Gregori IX P.P. edita da Costantin D’OHSSON, Histoire des Mongols, Frederik Muller,
Amsterdam 1852, v. II, p. 165. Utili anche le osservazioni di Giuseppe SORANZO, Il papato, l’Europa cristiana e i
Tartari. Un secolo di penetrazione in Asia, Società editrice Vita e Pensiero, Milano 1930, p. 67.
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dell’invasione e prendere delle decisioni su come reagire; si concluse che il primate di
Germania, Sigfrido di Magonza, avrebbe dovuto indire una crociata contro i Mongoli 36.
Anche l’imperatore Federico II si prodigò per organizzare una spedizione militare,
coinvolgendo i sovrani d’Inghilterra e Francia, i principi di Germania, i Cavalieri Teutonici e
i Cavalieri di Portospada37. Inoltre, da alcune fonti si apprende che pure Corradino,
secondogenito di Federico, organizzò un’impresa contro i Mongoli38. Tuttavia, questi
tentativi pare non si siano mai concretizzati e la crociata contro il popolo della steppa non si
svolse mai; non è da escludere, infatti, che le diverse proposte armate introdotte dal papa e
dall’imperatore non erano principalmente rivolte alla risoluzione del problema mongolo, ma
piuttosto a evidenziare nello scacchiere politico europeo il primato dell’uno nei confronti
dell’altro e viceversa.
All’inconsistente risultato dei sinodi locali e della preparazione di una spedizione armata
si aggiungeva la diffusa consapevolezza dell’impossibilità di fronteggiare le armate asiatiche;
per esempio, un contemporaneo dell’invasione mongola, Roberto di Spoleto, riferiva che
non vi era nessun popolo al mondo che sapesse come fronteggiare i Mongoli in campo aperto
e invitava i sovrani latini e la sede apostolica a istallare barriere protettive e a raccogliere il
maggior numero di dati perché si potesse organizzare una concreta azione difensiva39. Cosa
fece l’Occidente in tal senso? Quali iniziative mise in atto? L’insufficiente documentazione
su Roberto da Spoleto non permette di stabile con certezza se il suo consiglio arrivò presso
la curia papale, ma a partire dal 1245 la sede apostolica si mosse nelle due direzioni da lui
indicate.
Nella Pasqua del 1245, Innocenzo IV annunciò la celebrazione di un concilio generale che
si sarebbe tenuto a Lione all’inizio dell’estate40. In questa circostanza il papa, consapevole
dell’impossibilità di affrontare il problema in maniera unitaria e compatta, si limitò a dare delle
indicazioni generali di carattere difensivo. Queste erano raccolte nella costituzione conciliare
Sulla crociata contro i Mongoli l’unico studio organico è a oggi quello di Peter Jackson, «The crusade against
the Mongol (1241)», Journal of Ecclesiastical History, 42 (1991), pp. 1-18. Tuttavia, vd. anche SORANZO, Il papato,
l’Europa cristiana e i Tartari, cit., p. 68.
37 Historia Diplomatica Friederici Secundi, Excudebant Plon Fratres, Jean-Louis-Alphonse HUILLARD BRÉHOLLES
(ed.), Plon fratres, Paris 1852, v. V, pp. 1214-1215.
38 In proposito vd. SORANZO, Il papato, l’Europa cristiana e i Tartari, cit., p. 70.
39 Questa testimonianza è riportata da Martin DESMOND, «The Mongol Army», The Journal of the Royal Asiatic
Society of Great Britain and Ireland, 1 (1943), pp. 46-85, in part. p. 46.
40 Per la raccolta dei documenti canonici emanati o trattati durante questo concilio vd. Concilium Lugdunense I, in
Conciliorum Oecumenicorum Decreta, Giuseppe ALBERIGO-Giuseppe DOSSETTI-Perikles JOANNOU-Claudio LEONARDIPaolo PRODI (cur.), Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 2013, pp. 273-301. Inoltre, vd. gli studi di Edward
LUNT, «The Sources for the First Council of Lyons, 1245», English Historical Review, 33 (1918), pp. 72-78; Hans
WEBER, Der Kampf zwischen Papst Innocenz IV. und Kaiser Friedrich II. bis zur Flucht des Papstes nanch Lyon, Verlag
Dr. Emil Ebering, Berlin 1910.
36
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De Tartaris, con la quale la sede apostolica invitava i sovrani occidentali, soprattutto coloro che
abitavano nelle prossimità delle regioni asiatiche, a resistere con tutti i mezzi necessari alla
violenza dei Mongoli e aggiungeva: «vi ammoniamo, vi preghiamo, vi esortiamo tutti e vi
comandiamo che, dopo aver individuato con molta cura la via e i passaggi attraverso i quali
quel popolo può entrare nelle nostre terre, voi li rinforziate con fossati, mura e altre costruzioni
o opere di difesa, come vi sembrerà meglio, per impedire che [l’esercito mongolo] abbia un
facile accesso alle vostre terre»41.
Innocenzo IV non si limitò soltanto alle esortazioni conciliari, ma inviò in Estremo Oriente
alcuni frati dell’Ordine dei Minori e dei Predicatori per trattare con le autorità mongole e
raccogliere informazioni su di loro, le quali vennero inserite in dei resoconti scritti42. In ordine
cronologico, il primo a partire fu il frate predicatore Ascelino da Cremona il quale, però, non
compose personalmente alcun resoconto di viaggio, ma l’unico documento sulla sua legazione è
l’Histoire des Tartares redatta dal compagno Simon de Saint-Quentin43. Poco dopo, invece, fu la
volta dei frati minori Lorenzo di Portogallo44, Giovanni di Pian del Carpine, che redasse la Historia
Mongalorum45, e del suo compagno di viaggio Benedetto di Polonia, il quale compose una breve
41
Concilium Lugdunense I, cit., p. 297.
Sui primi viaggiatori in Estremo Oriente tra la vasta bibliografia vd. almeno contributi di Thomas TANASE,
‘Jusqu’aux limites du monde’. La papauté et la mission franciscaine de l’Asie de Marco Polo à l’Amerique de Christophe Colomb,
École Français de Rome, Rome 2013, in part. 179-265; Jean RICHARD, La papauté et les missions d’Orient au Moyen
Age (XIIIe - XVe siècles), École française de Rome, Rome 1977, in part. 65-73; Gregory GUZMAN, «Simon of SaintQuentin and the Dominican Mission to the Mongol Baiju: A Reappraisa», Speculum, 46 (1971), pp. 232-249. Utili
anche i lavori, seppur datati, di Edwards MARSH, «Dominicans in the Mongol Empire», Blackfriars, 18 (1937), pp.
599-605 e il già citato studio di SORANZO, Il papato, l’Europa cristiana e i Tartari, cit., pp. 77-125.
43 Presumibilmente prima della Pasqua del 1245, ma il suo viaggio non ebbe grande fortuna. L’unica
testimonianza della sua missione è inserita nello Speculum maius del contemporaneo Vincent Beauvais (SIMON
DE SAINT-QUENTIN, Histoire des Tartares, Jean RICHARD (dir.), Librarie Orientaliste Paul Geuthner, Paris 1965)
e successivamente da Giovanni Battista Ramusio (Viaggi di Giovanni da Pian del Carpine e Simone di San Quintino
Tra i Mongoli, in GIOVANNI BATTISTA RAMUSIO, Navigazioni e Viaggi, Marica Milanesi (cur.), Einaudi, Torino
1983, vol. IV, [on line]). Su questo personaggio la bibliografia non ha dato molti risultati, ma vd. le osservazioni
e la documentazione raccolta da RICHARD, La papauté et les missions d’Orient, cit., pp. 55-59 e 70-79 e anche quelle,
seppur datate, di Paul PELLIOT, «Les mongols et la papauté: Ascelin», Revue de l'Orient Chrétien, 24 (1924), pp. 262335 e Bertold VON ALTANER, Die Dominikanermissionen des 13. Jahrhunderts. Forschungen zur Geschchte der kirchlichen
Unionen und der Mohammedaner und Heidenmission des Mittelalters, Habelschwerdt, Frankes 1924. Utile pure la voce di
Luciano PETECH, «Ascelino», in Dizion. biogr. degli Italiani, Roma 1962, vol. IV (on line).
44 Questi probabilmente partì o poco prima del 1245 o nella Pasqua di questo anno con Giovanni di Pan del
Carpine, imboccando, però, un cammino diverso. Su questo personaggio la letteratura storiografica non ha
ancora dato molti risultati; tuttavia, oltre agli studi complessivi (vd. supra), si fa riferimento alla ricerca condotta
da Martiniano RONCAGLIA, «Frère Laurent de Portugal OFM et sa légation en Orient (1245–1248)», Bolletino
della Badia greca di Grottaferrata, 7 (1953), pp. 33-44.
45 Questi rimase in Asia fino al 1247. La storiografia ha prodotto su questo personaggio una vasta letteratura; in
proposito vd. gli studi di Philippe MÉNARD, «La guerre en Mongolie et en Chine vue par un missionnaire, Jean du
Plan Carpin, et un voyageur, Marco Polo», Journal asiatique, 305 (2017), pp. 81-91; Stephen BENNET, «The Report of
Friar John of Plano Carpini: Analysis of an Intelligence Gathering Mission Conducted on Behalf of the Papacy in the
Mid-thirteenth Century», History Studies: University of Limerick History Society Journal, 12 (2011), pp. 1-14; Pietro MESSA,
«Un francescano alla corte dei mongoli: fra Giovanni di Pian del Carpine», in Pietro MESSA (cur.), I Francescani e la
Cina 800 anni di storia. Atti della giornata di studio in preparazione alla Canonizzazione dei Martiri cinesi. Santa Maria
degli Angeli - Assisi, 9 settembre 2000, pp. 1-40. Interessante prospettiva per la ricostruzione della biografia di frate
42
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Relatio sull’esperienza in Asia46. Pochi anni dopo una nuova spedizione esplorativa venne
organizzata da Luigi IX, il quale inviò prima André de Longjumeau47 e, successivamente,
Guglielmo di Rubruck che compose l’Itinerarium48.
Prospettiva storiografica
All’interno di questi testi, i viaggiatori annotarono numerose informazioni sulle tattiche
militari dei Mongoli e sulla loro concezione della guerra: su tali aspetti la letteratura
storiografica moderna ha prodotto indagini approfondite che hanno permesso, grazie alla
collaborazione con altre discipline, di avere un quadro quasi completo e dettagliato riguardo
alle strategie militari e agli armamenti utilizzati dai Mongoli durante la loro fase di
espansione49. Ma i viaggiatori si limitarono soltanto a riportare quanto osservato o fornirono
anche osservazioni e suggerimenti su come confrontarsi militarmente con i Mongoli? In
effetti, un’attenta analisi della letteratura odeporica permette di cogliere una serie di consigli
e proposte militari che gli inviati latini vollero fornire ai propri lettori: in cosa consistono
Giovanni è lo studio di F. VIATOR, «Le Premier Apotre Franciscain de la Tartarie. Frère Jean de Plan-Carpin, disciple
de Saint François (1182-1252)», Études Franciscaines, 5 (1901), pp. 505-520. Utile anche la voce di Raimondo MICHETTI,
«Giovanni da Pian del Carpine», in Dizion. biogr. degli Italiani, Roma 2001, vol. LVI (on line).
46 Sulla vicenda di questo personaggio vd. quanto emerge dalla sua opera: BENEDICTI POLONI Relatio, in Sinica
Franciscana. Itinera et Raltiones Fratrum Minorum Saeculi XIII et XIV, Anastasius VAN DEN WYNGAERT (Hg.),
Collegium S. Bonanventurae, Firenze 1929, vol I, pp. LXI e 135-143.
47 Questi compì due viaggi: uno per mandato della sede apostolica intorno al 1245 e uno nel 1252 per volontà
di Luigi IX. Sulle vicende di questo personaggio l’unico studio aggiornato è quello di Pierre-Vincent CLAVERIE,
«Deux lettres inédites de la première mission en Orient d’André de Longjumeau (1246)», Bibliothèque de l’École des
chartes, 158 (2000), pp. 283-92.
48 Il quale partì per l’Asia nel 1253 dalla Terra Santa, ove si trovava con Luigi IX e fece ritorno nel 1255. Il suo
diario di viaggio è edito in una recente versione critica: GUGLIELMO DI RUBRUK, Viaggio in Mongolia, Paolo
CHIESA (cur.), Arnoldo Mondadori, Cles 2011. Su questo personaggio e il suo viaggio, tra la vasta bibliografia,
vd. i più recenti studi di William Woodville ROCKHILL, The Journey of William of Rubruck in the Eastern Parts of World
1253 - 1255, with two Accounts of the Earlier Journey of John of Carpine, Hakluyt Society, London 20122; David MORGAN,
The Mission of Friar William of Rubruck: His Journey to the Court of the Great Khan Mongke 1253 - 1255, Hackett Pub Co
Inc, London 20093.
49 La letteratura storiografica su questo tema è molto vasta; tuttavia, qui si citano solo i lavori consultanti per questo
saggio: Timothy MAY, The Mongol Art of war. Chinggis Khan and the Mongol Military System, Yardley, Westholme 2007;
Witold ŚWIĘTOSŁAWSKI, «The organization of the Mongols’ war expeditions in the Twelfth and Thirteenth
centuries», Fasciculi Archaeologiae Historicae, 15 (2002), pp. 33-38; Jan Frans VERBRUGGEN, The art of warfare in Western
Europe during the Middle ages: from the Eight century to 1340, The Boydell press, Woodbridge 1997; Sophia KASZUBA,
«Wounds In Medieval Mongol Warfare: Their Nature and Treatment in The “Secret History”, with some notes
on Mongolian Military Medicine and Hygiene», Mongolian Studies, 19 (1996), pp. 59-67; Robert REID, «Mongolian
Weaponry in “The Secret History of the Mongols”», Mongolian Studies,15 (1992), pp. 85-95; Jean RICHARD, «Les
causes des victoires mongoles d’après les histoiriens occidentaux du XIIe siècle», Central Asiatic Journal, 23 (1979),
pp. 104-117; Denis SINOR, «Mongol and Turkic Words in the Latin Version of John Plano Carpini Journey to the
Mongols (1245-1247)», in Louis LIGETI (ed.), Mongolian Studies, Grüner, Amsterdam 1970, pp. 537-553; Larry V.
CLARK, «The Turkic and Mongol Words in William of Rubruck's Journey (1253-1255)», Journal of the American
Oriental Society, 93 (1973), pp. 181-189. Vd. anche il già citato studio di DESMOND, «The Mongol Army», cit.
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queste indicazioni? A quale scopo vengono date? E, soprattutto, per quale motivo i Frati
Mendicanti annotarono consigli militari che avrebbero dovuto incoraggiare una reazione
armata contro i Mongoli?
Di questa sfaccettatura della letteratura odeporica si è occupato alla fine del secolo scorso
Paolo Evangelisti in un suo studio sui testi duecenteschi che trattano il tema del rapporto tra
crociata e attività missionaria. Lo studioso ha sottolineato che i frati giunti in Estremo
Oriente furono «capaci di analizzare e proporre precise strategie politico-diplomatiche e
militari in grado di dispiegare un’ampia gamma di opzioni utili»50. Accanto a queste riflessioni,
Evangelisti sottolineò che i frati, tramite i loro resoconti di viaggio, fecero dei Mongoli non
solo un nemico da combattere o moralmente da condannare, ma in prospettiva militare
divennero un modello ideale da imitare, apprezzandone la loro determinazione e abilità51.
Tuttavia, le osservazioni di Paolo Evangelisti sono inserite all’interno di un discorso
propedeutico che mira ad analizzare la figura e l’opera di Fidenzio da Padova, il che non gli
ha permesso di approfondire i diversi consigli presenti nei resoconti dei primi viaggiatori in
Asia. Ecco, allora, che il presente studio si propone di continuare il lavoro di ricerca tracciato
da Evangelisti, concentrando l’analisi sulla letteratura odeporica composta da Simon de SaintQuentin, Giovanni di Pian del Carpine, Benedetto di Polonia e Guglielmo di Rubruck.
50
Paolo EVANGELISTI, Fidenzio da Padova e la letteratura crociato-missionaria minoritica. Strategie e modelli francescani per
il dominio (XIII-XIV sec.), Società editrice il Mulino, Napoli 1998, p. 221.
51 Ivi., cit., pp. 204-205.
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
Figura 1: «Les armées mongoles durant la Prise de Bagdad par l'armée d'Hulagu», Le Devisement du monde,
MS 5219, f. 21v., 1520-1530, Paris, Bibliothèque Nationale de France – Arsenal, Maître des Entrées
parisiennes.
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Alcune proposte su come affrontare i Mongoli
Per i Frati Mendicanti che visitarono le regioni asiatiche nella prima metà del XIII secolo,
le proposte militari su come affrontare i Mongoli in guerra non erano semplicemente dei dati
per soddisfare la curiosità del lettore, ma avevano un fine e un interesse preciso: far sì che,
leggendo quanto da essi riportato, i Latini potessero raggiungere lo stesso livello militare dei
Mongoli, adottandone le armi, la disciplina e la tattica. Tale interesse era fortemente
stimolato, non a torto, del resto, dalla paura delle travolgenti e violente vittorie che l’esercito
mongolo aveva ottenuto nel primo quarantennio del Duecento e dalla diffusa credenza che
fosse impossibile batterlo52. Per esempio, Simon de Saint-Quentin sottolinea che lo scopo
principale del viaggio di Ascelino da Cremona era quello di raccogliere informazioni per poter
«fronteggiare le barbare genti che avevano seminato tanta crudeltà tra gli uomini cristiani […]
in Polonia e Russia»53. Benedetto di Polonia, compagno di viaggio di Giovanni di Pian del
Carpine, all’inizio della Relatio sottolinea che egli era stato inviato tra i Mongoli da Corrado
duca di Polonia per indagare su di loro54. Anche per Guglielmo di Rubruck, seppur questi
partì con propositi e obiettivi distanti dagli interessi bellici, le pratiche militari meritavano
particolare attenzione; egli, però, non ebbe la stessa possibilità dei suoi predecessori per
osservare questo aspetto del popolo della steppa e nell’Itinerarium annota, con dispiacere, che
avrebbe voluto presentare un quadro molto più strutturato e approfondito, ma una serie di
vicissitudini inficiarono quasi del tutto il suo interesse. Guglielmo, infatti, solo alla fine della
permanenza tra i Mongoli, quando questi gli affidarono una scorta per attraversare il
territorio degli Alani, ebbe la possibilità di osservare le loro pratiche militari e annota: «Fui
molto contento della cosa, perché speravo di vederli armati, […] per quanto fossi stato
attento [...] non avevo mai potuto vedere le loro armature»55. Tuttavia, è soprattutto Giovanni
di Pian del Carpine nell’Historia Mongalorum a dare il maggior numero di informazioni su
questo argomento, sostenendo che «dopo aver parlato dei territori […], bisogna aggiungere
in che modo [i Mongoli] si debbano affrontare in guerra»56. Per questo scopo i Frati
Mendicanti che visitarono le regioni dell’Impero mongolo prestarono attenzione ad ogni
minimo particolare delle armate asiatiche e puntuali annotarono ogni aspetto che potesse
servire a reagire contro di loro. Benedetto di Polonia, per esempio, mentre partecipava al
52
Già RICHARD, «Les causes des victoires mongoles», cit., pp. 110-114.
Viaggi di Giovanni da Pian del Carpine e Simone di San Quintino Tra i Mongoli, cit., (on line).
54 BENEDICTI POLONI Relatio, cit., p. 135.
55 GUGLIELMO DI RUBRUK, Viaggio in Mongolia, cit., p. 297.
56 GIOVANNI DI PIAN DI CARPINE, Storia dei Mongoli, cit., pp. 362-363.
53
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
pomposo rituale d’incoronazione del gran khān, tra i molti dettagli dei quali si sarebbe potuto
accorgere, si concentrò sulle armi che i componenti del corteo portavano sotto il mantello57.
Tuttavia, bisogna precisare che l’intento principale dei Frati Mendicanti non era né di fare
acute riflessioni tattico-militari né di proporre una soluzione chiara e definitiva ai sovrani
latini: essi, piuttosto, si prodigarono nell’ampliare il quadro conoscitivo delle corti europee
affinché «chi è pratico e istruito in questa materia, [possa] escogitare ed eseguire non poche
cose migliori e più utili»58 per affrontare i Mongoli in guerra.
Il primo aspetto importante dell’ars militaris dei Mongoli che la letteratura odeporica
prende in esame per proporlo come modello ai Latini è la struttura delle armate mongole.
Queste erano divise in padiglioni e a ogni dieci uomini di qualsiasi grado vi era posto un
uomo che «svolgeva la funzione di comando e organizzazione rispetto agli altri» 59. Secondo
Giovanni di Pian del Carpine, gli schieramenti militari latini, che avrebbero affrontato
l’avanzata del popolo della steppa, sarebbero dovute «essere ordinate come loro»60, ovvero
per «per chiliarchi, centurioni, decurioni e comandanti»61. Quest’ultimi, come fanno i generali
mongoli, non dovevano mai partecipare agli scontri, ma piuttosto osservare l’avanzata delle
truppe a distanza e da qui ordinare i vari spostamenti62. Non è casuale che l’ordinamento
dell’esercito sia il primo consiglio su cui il frate minore focalizza la sua attenzione; del resto,
l’organizzazione strutturale delle componenti belliche che sarebbero dovute scendere in
battaglia era un elemento molto utilizzato dalla letteratura cronistica dell’XII e XIII secolo.
In questo arco di tempo, infatti, si avvertì la necessità di organizzare gli eserciti in schiere che
riflettevano la nazionalità dei presenti63: ciò avrebbe favorito, sostiene lo storico Aldo Settia,
la solidarietà di gruppo e conferito alle singole formazioni la massima solidità ed efficienza
in combattimento64. Certo, il frate minore non fa alcun riferimento alle diverse nazionalità
che avrebbero dovuto formare l’esercito, ma non è da escludere che il consiglio di frate
57
BENEDICTI POLONI Relatio, cit., pp. 139-140.
GIOVANNI DI PIAN DI CARPINE, Storia dei Mongoli, cit., p. 379.
59 Ivi, cit., p. 363.
60 Ivi, cit., p. 376.
61 Ivi, cit., p. 376. Oltre a questi ruoli, Giovanni di Pain del Carpine affida ai comandanti diversi e più delicati
compiti interni all’esercito: per esempio, questi «devono essere sempre pronti, se è necessario, a mandare aiuti
a quelli che sono in battaglia» (ivi, cit., p. 377) e «devono anche provvedere a vigilare sull’esercito notte e giorno
perché il nemico non piombi su di esso repentinamente e all’improvviso» (ibidem).
62 Ibidem.
63 In proposito vd. le recenti pubblicazioni di Paolo GRILLO-Aldo A. SETTIA-Aldo ANGELO (cur.), Guerre ed
eserciti nel Medioevo, Il mulino, Bologna 2018 e Aldo A. SETTIA, Tecniche e spazi della guerra medievale, Viella, Roma
2006.
64 Aldo A. SETTIA, Battaglie Medievali, Società editrice il Mulino, Bologna 2020, pp. 100-110, in part. 109-110.
58
“Il saggio che ascolta diventerà più saggio”.
Giovanni Di Bella
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Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
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Giovanni di dividere in più settori gli schieramenti bellici avesse come obbiettivo di creare
tra i partecipanti alla guerra contro i Mongoli una maggiore sicurezza e cooperazione.
Un altro aspetto interessante che traspare dalla letteratura odeporica è quello riguardante
gli armamenti dei Mongoli. In particolare, i viaggiatori si soffermarono sia sugli strumenti
utilizzati durante le battaglie sia su quelli adoperati per il semplice picchetto di guardia al gran
khān. La fabbricazione delle armi era un aspetto importante nella società dell’Impero
mongolo, tanto che «dal piccolo al grande erano tutti buoni arcieri e subito […] cominciavano
a cavalcare, a guidare i cavalli e a correre con essi»65. La predisposizione all’utilizzo di questi
strumenti sin dalla giovane età, faceva dei Mongoli un popolo «molto agile, coraggioso e
superiore per forza a qualsiasi esercito»66. Pertanto, era necessario che i Latini intenzionati ad
andare in guerra contro i Mongoli, si costruissero o acquistassero archi ben fatti e solide
balestre, una robusta ascia di buon ferro oppure una scure con lungo manico e numerose
frecce temperate in acqua mista a sale quando sono calde, «così da essere tanto forti da
penetrare nelle loro armature»67. Per tale motivo era opportuno devolvere un’ingente somma
di denaro per l’arricchimento dell’armamentario latino, il quale doveva essere munito di molti
coltelli e corazze doppie «perché le frecce [dei Mongoli] non le penetrino facilmente»68 e da
robusti elmi, armature e altre armi «per proteggere il corpo e il cavallo da […] armi e frecce»69
dei nemici: tale investimento avrebbe permesso, secondo Giovanni di Pian del Carpine, di
affrontare i Mongoli con più veemenza. Tuttavia, il frate minore sa bene che quanto da lui
annotato era molto difficile da concretizzare e, pertanto, suggerisce che sarebbe stato
sufficiente anche solo far credere ai Mongoli di avere un ricco arsenale: questi, infatti,
«avevano molta paura»70, in quanto nonostante fossero in possesso di un cospicuo numero
di armi, esse erano «molto fragili, scomode e dotate di scadenti rivestimenti»71. Anche
secondo Simon de Saint-Quentin i Latini avrebbero dovuto prestare molta cura alle armi,
ma, oltre a ciò, secondo il cronista era necessario munirsi di cavalli, in quanto i Mongoli ne
avevano molti e li utilizzavano per muovere in guerra72. Guglielmo di Rubruck, invece,
annota che il punto debole dei Mongoli non era tanto la qualità delle armi, ma piuttosto la
quantità; secondo l’inviato di Luigi IX, essi davano una falsa illusione ai loro avversari,
65
GIOVANNI DI PIAN DI CARPINE, Storia dei Mongoli, cit., pp. 350-351.
Ivi, cit., p. 368.
67 Ivi, cit., p. 375.
68 Ibidem.
69 Ibidem.
70 Ivi, cit., p. 365.
71 Ivi, cit., pp. 365-366.
72 Viaggi di Giovanni da Pian del Carpine e Simone di San Quintino Tra i Mongoli, cit., (on line).
66
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
facendo credere di avere molte armi, ma in realtà ne possedevano «ben poche, oltre ad archi,
frecce e protezioni di pelle»73. Le armi, tuttavia, avevano il loro costo e non era per nulla
facile affrontare una simile spesa. In proposito, allora, Giovanni di Pian del Carpine annota
che il primo passo per affrontare gli avversari asiatici in battaglia era evitare spese eccessive
«affinché [gli eserciti latini] non siano costretti a tornare indietro per mancanza di soldi» e di
utilizzare il «denaro risparmiato»74 per munirsi di armi a sufficienza: tale accortezza avrebbe
salvato «le anime, il corpo, la libertà» di molti Cristiani.
L’azione militare mongola più temuta dai Latini, però, era l’assedio. A questa tattica bellica
Giovanni di Pian del Carpine prestò particolare attenzione, tentando di raccogliere quante
più notizie sugli assedi compiuti dalle orde asiatiche durante l’invasione degli anni Quaranta
e interrogando i diretti testimoni che avevano vissuto o assistito alla distruzione delle città.
Ogni informazione raccolta su questo argomento gli avrebbe permesso di valutare non solo
la forza bellica dei Mongoli, ma anche la capacità di resistenza dei Latini: assediare o essere
assediati era, infatti, – riprendendo le parole utilizzate da Duccio Balestracci – un
elettrocardiogramma sotto sforzo75. Nella prima metà del Duecento, però, la tempra delle
città non raggiungeva la soglia consentita per far fronte a uno stato di assedio e ciò,
probabilmente, spinse il frate minore a fare precise puntualizzazioni su questo aspetto. Lungo
il tragitto, frate Giovanni apprese che la tattica dell’assedio era uno degli atti militari più
violenti e agonizzanti che i Mongoli potessero applicare a un popolo, in quanto gli assediati
erano soggetti ad un lungo ed estenuante periodo di prova, tanto da essere portati allo stremo
delle loro forze. I Mongoli, infatti, erano particolarmente esperti in questa tattica e
adoperavano sistemi molto diversi da quelli conosciuti in Occidente; per esempio, durante
l’assedio di una città stanziata nel territorio dei Kytai, le armate mongole «scavarono un
grande cunicolo sotterraneo dall’accampamento fino al centro della città, balzarono fuori in
mezzo a loro e combatterono con gli assediati»76. Inoltre, il popolo soggetto all’assedio non
aveva la possibilità né di «entrare [né di] uscire»77. I Mongoli, insomma, una volta accerchiate
le città spingevano i suoi abitanti allo sfinimento di ogni risorsa fisica e materiale e nessuna
strategia difensiva avrebbe potuto evitare la penetrazione dell’esercito nemico. Per di più, le
73
GUGLIELMO DI RUBRUK, Viaggio in Mongolia, cit., p. 297.
Ibidem.
75 Duccio BALESTRACCI, Stato d’assedio. Assedianti e assediati dal Medioevo all’età moderna, Società editrice il Mulino,
Bologna 2021, p. 11, il quale riprende un concetto espresso già da John FRANCE, Victory in the East. A Military
History of the First Crusade, Cambridge University Press, Cambridge 1994 e da Marco MESCHINI, Assedi medievali,
Il Giornale-Biblioteca Storica, Milano 2006.
76 GIOVANNI DI PIAN DI CARPINE, Storia dei Mongoli, cit., p. 355.
77 Ivi, cit., p. 367.
74
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armate mongole erano capaci di arrivare anche a soluzioni estreme come, per esempio,
lanciare «il fuoco greco, anzi qualche volta utilizzavano il grasso degli uomini che uccidevano
e, dopo averlo sciolto, lo gettavano sugli edifici»78 dando fuoco all’intera città. L’unico
rimedio a questo tipo di attacco, annota frate Giovanni, è spegnerlo «versandoci sopra vino
o birra, [mentre] se cade sul corpo può essere spento frizionandolo con il palmo della
mano»79.
Le informazioni raccolte su questo argomento erano davvero raccapriccianti, tanto che
fra Giovanni propone all’uditorio latino importanti consigli: evitare a tutti i costi che i
Mongoli si avvicinassero alle città e di mettere sentinelle in ogni fortezza, affinché ci si possa
accorgere per tempo dell’avvicinamento dei nemici80. Oltre a ciò, suggerisce di rinforzare
ogni sistema difensivo dei centri urbani secondo i dettami papali81. Tale compito era affidato
ai sovrani, i quali avevano il dovere di valutare la fattibilità o meno di una fortificazione, di
constatare le potenzialità difensive e di inaccessibilità del sito ove sorgeva la città. Questa,
poi, doveva essere difficilmente raggiungibile da macchine militari e da dardi, doveva avere
almeno due uscite sempre controllate da militari e non doveva essere costruita sui fiumi per
evitare che i Mongoli la allagassero, facendo affogare gli abitanti82. Per di più, ogni comunità
che si preparava ad affrontare una simile situazione, soprattutto quelle più vicine al confine
orientale, dovevano avere vettovaglie sufficienti e molto cibo da servire con moderazione
«perché non sanno per quanto tempo dovranno restare chiusi nelle fortificazioni»83. Inoltre,
frate Giovanni, probabilmente consapevole dell’impossibilità di frenare tale operazione
mongola, dà ancora consigli più precisi: preparare segreti depositi sotterranei, «in cui riporre
il raccolto e altre cose»84, ma nel caso in cui gli assedianti avessero sfondato le mura,
suggerisce di bruciare il centro abitato e in particolar modo i fienili e le stalle, così da
ostacolare il sostentamento degli avversari85. Invece, per le città che non avevano mura di
cinta, il consiglio è di «costruire fossati profondi [e] di munirsi di archi e di frecce»86. Inoltre,
per sottolineare l’importanza di tale avvertenza, fra Giovanni propone al lettore latino un
78
Ibidem.
Ibidem.
80 Ivi, cit., p. 376.
81 Ivi, cit., p. 376. Sulle disposizioni papali vd. supra.
82 GIOVANNI DI PIAN DI CARPINE, Storia dei Mongoli, cit., p. 378. In proposito, quest’ultimo racconta che i
Mongoli avevano escogitato un piano per ostruire i corsi d’acqua e far defluire i fiumi verso i centri abitati,
allagandoli (ivi, cit., p. 367).
83 Ivi, cit., p. 378.
84 Ivi, cit., p. 377.
85 Ibidem.
86 Ivi, cit., p. 378.
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esempio concreto: racconta l’esperienza fatta da un misterioso popolo canino87, il quale si
difese dall’assedio mongolo seguendo tre fasi: la fuga al di là del fiume, la realizzazione di
corazze di ghiaccio resistibili alle armi dei nemici e l’attacco contro le armate mongole: con
questa strategia, annota il frate minore, il popolo canino «cacciò [i Mongoli] dal loro
territorio»88.
Frate Giovanni di Pian del Carpine avverte che i Mongoli «preferiscono che gli uomini si
chiudano nella città e nelle fortificazioni, piuttosto che combattere in campo aperto»89 e per
tale motivo suggerisce o di evitare che le armate mongole inizino l’assedio, o di frenare
l’avvicinamento delle macchine nemiche, «scagliando contro di esse frecce»90, oppure di
anticipare l’azione bellica dei Mongoli, decidendo il luogo in cui si doveva svolgere la
battaglia91. Il frate minore, infatti, ritiene che lo scontro militare dovesse essere anticipato da
una fase diplomatica, durante la quale i Latini avrebbero dovuto spingere i Mongoli a
combattere in un «campo […] spianato [dove] la vista fosse libera da ogni parte»92 e vicino a
un bosco, in modo tale che «i nemici non potessero insinuarsi tra loro e quello»93. Lo stesso
consiglio viene dato da Simon de Saint-Quentin, il quale ritiene che il luogo di battaglia debba
essere piano e con una buona vista94. Inoltre, sul campo dove sarebbe avvenuto lo scontro, i
Latini non si sarebbero dovuti raccogliere tutti insieme, ma piuttosto, afferma frate Giovanni,
«in molte schiere separate»95 e inviarne una alla volta contro i Mongoli. Se poi quest’ultimi,
continua il frate minore, dovessero simulare una ritirata, i soldati latini «non devono inseguirli
se non fino a quando possono ancora vederli»96, in quanto i Mongoli «combattono più con
gli inganni che con il valore»97.
Un altro dato che emerge dalla letteratura odeporica è la presenza di prigionieri tra le
armate mongole. Giovanni di Pian del Carpine è molto attento a questo particolare e
87
Su questo popolo vd. le osservazioni di Paolo DAFFINÀ, «Note», in GIOVANNI DI PIAN DI CARPINE, Storia
dei Mongoli, cit., pp. 438-439. Vd. in part. gli studi di Andreina ALBANESE, Tra mito e realtà: Nü-kuo, regni di donne
nella tradizione cinese, Tip. Compositori, Bologna 1983, in part. p. 40 e Hugh George RAWLINSON, Intercourse
between India and the Western World, Octagon books, Cambridge 19262, in part. 66.
88 GIOVANNI DI PIAN DI CARPINE, Storia dei Mongoli, cit., p. 355.
89 E consideravano i Latini chiusi nelle città come «maiali chiusi nel porcile» (ivi, cit., p. 378).
90 Ibidem.
91 Ivi, cit., p. 363.
92 Ivi, cit., p. 376.
93 Ibidem.
94 Viaggi di Giovanni da Pian del Carpine e Simone di San Quintino Tra i Mongoli, cit., (on line).
95 GIOVANNI DI PIAN DI CARPINE, Storia dei Mongoli, cit., p. 376.
96 Ibidem.
97 Ivi, cit., pp. 376-377. Su questo aspetto, nello stesso capitolo, Giovanni di Pian del Carpine torna più volte,
aggiungendo maggiori particolari e precisi consigli sul come evitare di farsi ingannare in guerra dai Mongoli: per
es. avverte l’uditorio latino che se i Mongoli «si ritirano, i nostri non devono retrocedere, o tantomeno separarsi
gli uni dagli altri, perché quelli fingono, al fine di dividere l’esercito e per poter così entrare liberamente e
saccheggiare il territorio» (ivi, cit., p. 377).
“Il saggio che ascolta diventerà più saggio”.
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nell’Historia Mongalorum riferisce che i Mongoli erano sleali e crudeli con i prigionieri, in
quanto prima «parlavano con [loro] e facevano molte promesse allo scopo di farli uscire»98,
ma dopo che lasciavano la fortezza per consegnarsi ai nemici, questi gli chiedevano chi
fossero fra loro i più abili nel lavoro e in battaglia per risparmiarli, mentre gli altri venivano
decapitati99. Tale selezione sarebbe servita ai Mongoli per creare un avamposto militare da
utilizzare in battaglia: essi, infatti, aprivano la loro avanzata con una schiera di prigionieri e
di stranieri che vivevano presso di loro, così da far credere erroneamente ai Latini di
scontrarsi con il principale e più numeroso contingente mongolo, per coglierli
successivamente di sorpresa100. Tale strategia era stata ideata da Gengis khān, il quale, durante
la conquista dei popoli asiatici, era solito «mandare sempre avanti per primi i Tartari da lui
sottomessi»101. Il frate minore Benedetto di Polonia sottolinea che tra i prigionieri utilizzati
dai Mongoli per muovere in guerra vi erano soprattutto Cristiani della Chiesa Georgiana, in
quanto, differentemente dagli altri, erano «abili guerrieri»102. La constatazione di questo dato
spinge Giovanni di Pian del Carpine a suggerire ai Latini che si sarebbero scontrati con i
Mongoli, di tralasciare le prime file dell’esercito avversario e di concentrarsi sui fronti laterali
dove erano schierati i veri contingenti mongoli, più numerosi e forti103. Tuttavia, frate
Giovanni consiglia ai comandanti occidentali di fare anche loro prigionieri e utilizzarli come
“moneta di scambio” con i Mongoli «per avere pace […] o per ottenere in cambio un’ingente
somma di denaro»104.
Osservazioni di etica militare
I viaggiatori notarono che, oltre all’ottima ed efficiente formazione in campo, a rendere
davvero forte l’esercito mongolo era l’unità ideale che lo animava; non a caso Giovanni di
Pian del Carpine più volte sottolinea che tutte le armate obbedivano a un solo capo supremo,
Gengis khān o ai sovrani che gli succedettero, e ciò le rendeva più forti e imbattibili105.
98
Ibidem.
Ivi, cit., p. 368.
100 Ivi, cit., pp. 366-367.
101 Tanto che, afferma fra Guglielmo, «questi sono stati quasi completamente distrutti» (GUGLIELMO DI
RUBRUK, Viaggio in Mongolia, cit., p. 87).
102 BENEDICTI POLONI Relatio, cit., p. 140.
103 GIOVANNI DI PIAN DI CARPINE, Storia dei Mongoli, cit., p. 376.
104 Tra l’altro, annota frate Giovanni, i Mongoli erano disposti a tutto per i loro compagni fatti prigionieri, in
quanto «si amano molto l’un l’altro» (ivi, cit., pp. 378-379).
105 Ivi, cit., pp. 351-368.
99
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Benedetto di Polonia, invece, restò stupido dal fatto che i Mongoli avessero «un solo esercito
idealmente compatto»106 con il quale riuscivano ad avanzare senza freni, a differenza dei
Latini che, pur avendo molte risorse militari, non ottenevano alcun risultato. Anche
Guglielmo di Rubruck evidenzia tale aspetto, riconoscendo che l’origine della potenza
mongola stava proprio nell’unità militare che tutti ritrovavano nel gran khān; secondo un
racconto udito dal frate minore presso il campo di Coiac, fu lo stesso Gengis khān a «riunire
in segreto un esercito»107 e si pose al suo vertice come capo supremo per evitare che i vicini
popoli frenassero la sua avanzata. La presenza di tale elemento in tutte le fonti odeporiche a
cui si fa riferimento in questo lavoro, sottolinea l’importanza che esso aveva durante il XIII
secolo. Aldo Settia, in proposito, riprendendo gli studi di psicologia militare, ha sottolineato
quanto l’unità del gruppo militare, auspicata da molti cronisti medievali, determinava la
sopravvivenza e l’andamento degli eserciti: l’anima collettiva, il cui epicentro era la figura del
sovrano, induceva ad una maggiore solidarietà corporativa che rendeva l’esercito più forte e
controllabile108. Ciò spiegherebbe l’interesse dei viaggiatori mendicanti verso questo aspetto, il
quale doveva essere proposto ai contingenti bellici occidentali, sempre più lacerati e in contrasto
tra di essi.
E ancora, un altro aspetto importante delle armate mongole era l’assenza di disertori. Tale
infrazione, infatti, era considerata dai Mongoli un’azione immorale e «chiunque abbandonava
il compagno mentre muoveva in battaglia o mentre combatteva e chiunque fuggiva [veniva]
punito»109 o, addirittura, «ucciso»110. Ciò nonostante, Giovanni di Pian del Carpine constata
che tra le armate mongole vi erano «uomini che […] da ogni parte dell’esercito […]
verrebbero a combattere contro di loro e farebbero loro molto più danno di quelli che sono
loro nemici dichiarati»111. Si tratta del primo punto debole che il frate minore individua
all’interno dell’imbattibile esercito mongolo e che ora utilizza come monito per le armate
occidentali. Ai responsabili di quest’ultime e ai loro sovrani, frate Giovanni consiglia non
solo di tenere saldo il principio di unità tra i combattenti, ma anche di convincerli della giusta
causa della guerra. Oltre a ciò, il frate minore suggerisce ai superiori delle forze militari
occidentali di punire «chiunque abbandoni il compagno mentre muove in battaglia o mentre
106
BENEDICTI POLONI Relatio, cit., p. 136.
GUGLIELMO DI RUBRUK, Viaggio in Mongolia, cit., p. 85.
108 SETTIA, Battaglie Medievali, pp. 132-138, in part. p. 133. Su questo tema vd. le osservazioni di Hannelore ZUG
TUCCI, «Fattori di coesione dell’esercito tra medioevo ed età moderna», in AA.VV. Braccio da Montone. Le
compagnie di ventura nell’Italia del XV secolo. Atti del convegno internazionale di studi (Montone, 23-25 marzo 1990), Centro
Studi Storici Narni, Narni 1993, pp. 157-177.
109 GIOVANNI DI PIAN DI CARPINE, Storia dei Mongoli, cit., p. 363.
110 Ibidem.
111 Ivi, cit., p. 379.
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combatte»112. Tale atteggiamento va considerato nell’ottica con cui la società medievale
percepiva la fuga dalla battaglia o l’allontanamento dall’esercito, ovvero un atto ordinario che
doveva essere giudicato negativamente e con riprovazione113. Inoltre, secondo frate
Giovanni, bisognava evitare che i soldati latini facessero «bottino prima che l’esercito degli
avversari fosse sconfitto definitivamente»114: tale gesto non solo avrebbe favorito l’idea di
fuga, ma gettava cattiva fama sulle armate occidentali.
Alle riflessioni sulla morale dei soldati, seguono quelle sull’etica del governo politico. È
ancora una volta Giovanni di Pian del Carpine a riflettere su questo aspetto, il quale sostiene
che per far fronte alla potenza mongola, era necessario improntare tra i regni occidentali una
politica militare di reciproco soccorso in modo tale che, se i Mongoli dovessero attaccare
uno di loro o se uno degli eserciti latini dovesse trovarsi in difficolta, il regno più vicino può
andare in soccorso dell’altro ed evitare sia che quello venga devastato sia che i Mongoli
facciano prigionieri e ingrandiscano il loro esercito. Pertanto, egli suggerisce che «si uniscano
insieme re, principi, baroni e reggenti dei territori e mandino di comune accordo un esercito
a combattere contro [i Mongoli]»115, altrimenti «nessun regno può resistere da solo alla
violenza dei Mongoli, a meno che Dio voglia combattere per esso»116. Dello stesso pare è
anche Simon de Saint-Quentin, il quale annota che «nessuna provincia può credere di farcela
da sola a resistere»117 contro la forza dei Mongoli, ma è necessario che «tutti i Cristiani si
radunino insieme, facciano comune consiglio e passino alla resistenza»118.
Perché fare la guerra contro i Mongoli?
Le molte informazioni sulle tattiche militari dei Mongoli e i molti consigli su come
affrontarli in battaglia contenuti nella letteratura odeporica erano sostenuti da una serie di
fattori che giustificavano la guerra contro il popolo della steppa. Il primo era di carattere
cautelativo, in quanto, afferma Giovanni di Pian del Carpine, i Mongoli avevano ancora
112
Ivi, cit., p. 376.
SETTIA, Battaglie Medievali, pp. 145-148. Lo stesso autore, però sottolinea che vi erano anche dei casi in cui la
diserzione o la fuga dei soldati era ammessa, come per. es. quando il nemico veniva valutato ragionevolmente
più forte o dopo aver constato l’elevato rischio di essere sconfitti (ivi, cit., pp. 146 e 148-154).
114 GIOVANNI DI PIAN DI CARPINE, Storia dei Mongoli, cit., p. 376.
115 Ivi, cit., pp. 374-375, in part. p. 375.
116 Ibidem.
117 Viaggi di Giovanni da Pian del Carpine e Simone di San Quintino Tra i Mongoli, cit., (on line).
118 Ibidem.
113
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l’intenzione «di sottomettere tutto il mondo»119. Per di più, secondo il frate minore, tale
obiettivo era incentivato dall’elezione del nuovo gran khān, Güyük120, che sin dalla sua
elezione, aveva innalzato dinanzi a tutto il popolo il vessillo di guerra contro «la Chiesa di
Dio, il Romano Impero e tutti i regni cristiani»121. Ma a preoccupare fortemente il frate
minore, però, non era tanto il progetto dell’Impero mongolo di condurre una nuova guerra
contro i Latini, ma piuttosto il carattere celestiale che i Mongoli davano a questa impresa:
frate Giovanni, infatti, riferisce che questi ritenevano di avere ricevuto tale mandato prima
da Dio e dopo da Gengis khān122. Ciò implicava che Dio sarebbe stato dalla parte dei Mongoli
e li avrebbe accompagnati nella loro impresa. In questo caso sembrerebbe che Giovanni
proietti nel mondo militare mongolo aspetti culturali tipici dell’Occidente del XIII secolo,
ove tale credenza era molto diffusa. In proposito, Aldo Settia ritiene che in questo periodo
in Europa fossero molto diffusi «autentici riti, insieme con aspetti devozionali, preparatori
alle battaglie, che avevano conseguenze psicologiche e pratiche»123 sul buon andamento della
guerra, rendendo le armate più forti ed entusiaste di affrontare il proprio nemico. Tuttavia, il
frate minore non sa con precisione quando questi si sarebbero mossi contro l’Occidente, «se
subito dopo il terzo inverno oppure se, per arrivare più all’improvviso, indugeranno ancora
un po’»124, ma sostiene che l’avanzata mongola sarebbe durata diciotto anni per poi
nuovamente arrestarsi125. Tuttavia, per frate Giovanni poco importava conoscere il tempo in
cui tutto ciò sarebbe accaduto, ma piuttosto era necessario tenersi pronti perché quanto
progettato dai Mongoli «non deve assolutamente accadere»126.
A questa preoccupazione si aggiungeva l’impossibilità di dialogare e di trovare un accordo
con i Mongoli, in quanto essi «non fanno la pace con nessun popolo se non con quelli che si
119
GIOVANNI DI PIAN DI CARPINE, Storia dei Mongoli, cit., p. 373.
Ibidem.
121 Ibidem.
122 Ibidem.
123 SETTIA, pp. 72-77, in part. p. 75. Sulla sacralità della guerra e i riti a essa connessi vd. Antonio RIGON, Gente
d’arme e uomini di Chiesa. I Carraresi tra Stato pontificio e regno di Napoli (XIV-XV sec.), Istituto Storio Italiano per il
Medioevo, Roma 2017 e Michel MCCORMICK, «Liturgie et guerre des Carolingiens à la première croisade», in
AA.VV., ‘Militia Christi’ e crociata nei secoli XI-XIII, Atti dell’undicesima settimana internazionale di studio (Mendola, 28
agosto-1 settembre 1989), Vita e Pensiero, Milano 1992, pp. 209-240.
124 GIOVANNI DI PIAN DI CARPINE, Storia dei Mongoli, cit., p. 374.
125 Ibidem. In questo passo, il frate minore riprende una profezia sull’avanzata delle orde mongole più volte
utilizzata all’interno del testo e probabilmente pronunciata dallo stesso Gengis khān durante le prime operazioni
di conquista. Profezia simile è menzionata, seppur con diverse sfumature, da Guglielmo di Rubruck, il quale
nel suo diario di viaggio riporta che era venuto a conoscenza di una leggenda in cui si raccontava che i Mongoli,
popolo di arcieri molto potenti, avrebbero conquistato Gerusalemme e l’intera Terra Santa per poi
definitivamente ritirarsi dalla scena per lasciare spazio ai Franchi, i quali avrebbero ottenuto grande guadagno
dall’avvento di questo popolo (GUGLIELMO DI RUBRUK, Viaggio in Mongolia, cit., pp. 305-307)
126 GIOVANNI DI PIAN DI CARPINE, Storia dei Mongoli, cit., p. 373.
120
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consegnano nelle loro mani»127. L’impossibilità di comunicare con i Mongoli determinava un
senso di sfiducia nei loro confronti e in qualsiasi tipo di relazione che si volesse istaurare con
essi. È questo il secondo motivo che giustifica la guerra contro i Mongoli. Frate Giovanni, in
proposito, annota che tra di essi «non c’è buona fede e nessuno può confidare nelle loro
parole, poiché qualunque cosa promettono non la mantengono»128 e i loro capi non avevano
avuto alcun rispetto nei confronti dei nobili, dei cavalieri e dei maggiorenti della terra che
vivevano in Occidente129.
Infine, il terzo motivo era dettato dall’orgoglio: sarebbe indegno, afferma ancora Giovanni
di Pian del Carpine, «che i cristiani […] finissero loro sudditi, anche perché il culto divino si
ridurrebbe a nulla, le anime si perderebbero, i corpi andrebbero incontro a sofferenze
molteplici, più di quanto non si possa credere». Tutto ciò era intollerabile e per questo era
«necessario affrontare [i Mongoli] in guerra»130. Sentimento condiviso anche dagli altri
viaggiatori, tanto che Guglielmo di Rubruck dichiara che «se avesse potuto avrebbe predicato
a tutto il mondo la guerra contro di loro»131.
Conclusioni
Per trarre alcune considerazioni conclusive dall’indagine fin qui svolta, è necessario
ritornare alla citazione biblica con cui Giovanni di Pian del Carpine ha aperto il capitolo sulle
tecniche militari per affrontare i Mongoli e con cui anche questo lavoro è stato avviato: «Il
saggio che ascolta diventerà più saggio»132. Cosa vuol dire l’espressione “il saggio che
ascolta”? Alla luce dell’analisi fin qui condotta il “saggio” sarebbe l’intero Occidente, ovvero
la pars del mondo che avrebbe dovuto reagire all’invasione mongola. Ma cosa doveva
“ascoltare”? La letteratura odeporica presa in esame ha evidenziato che i Latini avrebbero
dovuto ascoltare i consigli dati dai Frati Mendicanti che viaggiarono in Asia, assumere come
esempi le loro considerazioni nate da una profonda e attenta osservazione compiuta sul
campo e prendere come modello i modi di fare del popolo asiatico. L’ascolto e la messa in
127
Ibidem.
Ivi, cit., pp. 373-374.
129 Ibidem.
130 Ibidem.
131 GUGLIELMO DI RUBRUK, Viaggio in Mongolia, cit., p. 147.
132 Vd. supra.
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pratica degli esempi proposti nella letteratura odeporica avrebbero portato i Latini a diventare
“più saggi” su come rapportarsi o affrontare i Mongoli in guerra.
Ma cosa vuol dire “diventerà più saggio”? Più saggio riguardo a cosa? Sulle tecniche
militari e il loro utilizzo? Sulle strategie belliche da adottare? Non solo. Il presente lavoro ha
evidenziato che la saggezza a cui l’Occidente doveva mirare era anche, o forse soprattutto,
di carattere morale. È, per esempio, l’unità delle armate mongole a cui fanno riferimento
Giovanni di Pian del Carpine, Benedetto di Polonia e Guglielmo di Rubruk il più alto
esempio a cui dovevano mirare le armate latine. E ancora, l’equa distribuzione delle risorse
nelle comunità cittadine, il ripudio della diserzione, il giusto peso al denaro. Per i primi
viaggiatori in Estremo Oriente, dunque, guardare verso l’Impero mongolo significava
specchiarsi in quel lembo di terra, accrescendo sia l’esperienza tecnico-militare sia quella
morale. In quest’ultimo caso, infatti, i Frati Mendicanti, soprattutto Giovanni di Pian del
Carpine, chiedono ai sovrani europei di imitare non solo le tattiche dei Mongoli, ma
soprattutto l’unità ideale che animava le loro armate, di strutturare una politica militare
unitaria e di reciproco aiuto come quella adottata da Gengis khān e di dare maggiore
importanza al denaro, il quale non doveva essere speso per attività personali o oggettistica
futile, ma piuttosto per sostenere cause giuste e necessarie. I Mongoli, pertanto, divennero per
l’Occidente un’occasione non solo di riscatto bellico, ma anche morale: se qualche anno prima
Gregorio IX accusava i sudditi di Bela IV di immoralità e giustificava l’invasione mongola come
una reazione divina a tale atteggiamento, ora pare che la Chiesa stessa vuole fornire ai Cristiani
d’Occidente gli strumenti necessari per reagire alla violenza “penitenziale” e riscattarsi dalla
loro inerme miseria.
L’analisi qui proposta, infine, ha permesso di tracciare una prospettiva valutativa sui primi
contatti tra Occidente ed Estremo Oriente diversa e ancora poco approfondita; la
storiografia, infatti, nel vivace dibattitto su questo tema ha spesso considerato i viaggi in Asia
dei Frati Mendicanti come tentativi relazionali di carattere diplomatico o missionario.
All’interno di questi due filoni di ricerca più volte si è accennato al concetto di “esplorazione”
e di “esplorazione militare”, senza però che tale aspetto venisse approfondito in maniera
sistematica: per esempio, chiedersi cosa dovessero esplorare i viaggiatori, quali erano i loro
interessi e che dati, in questo senso, emergono dai resoconti giunti fino a oggi133. Il presente
lavoro ha tentato di dimostrare che accanto agli interessi diplomatici e missionari dei Frati
133
Per un accenno a tale prospettiva vd., tuttavia, le osservazioni di MÉNARD, «La guerre en Mongolie et en
Chine», cit., pp. 81-86.
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Mendicanti, vi era l’obiettivo di compiere una ricognizione, necessaria e urgente, sulle
capacità belliche dei Mongoli che avrebbe portato ad ampliare il bagaglio conoscitivo e
morale dei Latini. Certo, quanto evidenziato non è probabilmente esaustivo per compendiare
in maniera integrale un tema così vasto, ma ci si augura possa aprire a nuove critiche e
riflessioni per il futuro.
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Di seguito sono riportate solo le fonti e gli studi principali. Per altri riferimenti vd. l’apparato bibliografico
redatto in nota al corpo del lavoro.
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Il Regno di Sardegna (ed il suo esercito) nella Guerra di
Successione austriaca: la nascita di una Savoy way of war?
Marco Cencio
Figura 2 – Hyacinthe DE LA PEIGNE, La resa di Asti, Palazzo Reale di Torino (particolare). In questo dettaglio sono
raffigurati tre membri del Reggimento Guardie intenti a custodire le bandiere francesi conquistate
Contesto storico
Tra le dinastie più antiche d’Europa si annovera Casa Savoia. Originaria della Borgogna, con
il passare del tempo trasferì il proprio potere (e la sua storia) prima nella Savoia e poi in
Piemonte, Divenendone una delle realtà principali, la unificò, assumendo il titolo di Casa
regnante. Tale storico presenta alla propria origine due elementi tra loro connessi: l’elevata
frammentazione politica della Penisola italiana ed il conseguente interesse di attori
internazionali (come Francia, Spagna ed Austria) nell’espandere la propria sfera di influenza
nel territorio italiano. L’importanza della Penisola ed il contemporaneo posizionamento
piemontese, schiacciato tra due potenze europee, rimarranno centrali per tutta la Storia
Il Regno di Sardegna (ed il suo esercito) nella guerra di Successione Austriaca.
Marco Cencio
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Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
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moderna permettendo appunto l’affermazione dei Savoia. Durante la riorganizzazione del
Ducato nel Settecento, dopo l’estenuante Guerra di Successione Spagnola1 (1701-1714) – in
particolare il duro Assedio di Torino (1706) –, l’Italia cominciò a perdere la sua centralità nei
principali conflitti europei e divenne un teatro di scontro regionale tra gli Stati più importanti
(Regno di Francia, Regno di Spagna, l’arciducato d’Austria – e gli altri possedimenti asburgici
– e Regno d’Inghilterra).
Figura 3 - Earle DOW, «Europe in 1715 after the Treaties of Utrecht», in Atlas of European History, Rastatt and Baden,
1907, tavola 21.
Si può provare ad indicare come periodo terminale di tale perdita di centralità del suolo
italiano la Guerra di Successione Austriaca (1741-1748) la quale causò: l’esclusione dei
franco-spagnoli a discapito dell’aumento dell’influenza austriaca; l’emergere di due corone
locali principali, Casa Savoia e la Casa dei Borbone di Napoli, e l’inizio di un lungo periodo
di neutralità sulla Penisola, durato fino allo scoppio della Rivoluzione Francese (1789).
Nonostante ciò, i principali attori internazionali europei ebbero sempre la necessità di avere
una delle due corone (o entrambe) alleate o, al peggio, neutrali. Tale affermazione si può
1
La Guerra di Successione Spagnola fu provocata dalla morte di Carlo II, re di Spagna (1° nov. 1700), il quale
morì senza lasciare eredi. Durante questo conflitto il ducato di Savoia, nel 1703, lasciò la Francia (ed i suoi
alleati, in particolare la Spagna, la Baviera, diversi principati tedeschi) e passò dalla parte degli Asburgo, dei Paesi
Bassi e dell’Inghilterra.
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
riferire in particolare maniera riguardo i Savoia, i quali sfruttarono tale necessità per
permettere al Regno di Sardegna2 di emergere come alleato locale da corteggiare.
A riprova di quanto appena affermato si può evidenziare come Casa Savoia, per aumentare
la propria influenza ed il proprio status, partecipò prima alla Guerra di Successione Spagnola
(1701-1712) combattendo con gli Asburcgo e l’Inghilterra e riuscì ad inglobare alcuni
marchesati, contee e vallate potenziando e costruendo, allo stesso tempo, nuovi forti e piazze
difensive, così da creare un dispositivo di sicurezza dalla Valle d’Aosta alla Liguria ed al
Nizzardo, dove vi era Villefranche. Nel successivo teatro bellico europeo infatti, la guerra di
successione polacca (1733-1738), Carlo Emanuele III, mancando una similare protezione
fisica e psicologica ad Est come le Alpi, cambiò alleanza e cercò, con l'aiuto francese, di
espandersi in Lombardia, salvo poi ottenere solo alcune territori (Novara, Tortona, Millesimo
e Loano), fatto che lo legò nuovamente all’area imperiale del lombardo-veneto, mentre il sud
Italia rimarrà in mano franco-spagnola fino al 1748. Come è possibile osservare in Figura 3,
infatti, per emergere come potenza regionale, ai Piemontesi era necessario assicurarsi ancora
il controllo della Liguria, di Livorno, della Lombardia e se possibile anche Modena, al fine di
avere sia difese naturali che zone da fortificare3.
2
Nel 1720, con la cessione della corona del Regno di Sardegna dai Borbone ai Savoia, venne formata una
federazione tra tutti i possedimenti detenuti da Casa Savoia: il Ducato di Savoia, il Principato del Piemonte, la
contea di Nizza ed il Regno di Sardegna. Quest’ultimo, data l'importanza del titolo, diede il nome all'intera
federazione, la quale ebbe termine il 3 dicembre 1847 quando, per effetto della fusione perfetta, gli stati federati
furono riuniti sotto un unico regno.
3 Di interesse potrebbe essere il sottolineare come, parte di tali obiettivi di ampio respiro, fossero alla base della
Prima e Seconda Guerra di Indipendenza.
Il Regno di Sardegna (ed il suo esercito) nella guerra di Successione Austriaca.
Marco Cencio
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Figura 4 – «La crescita dei Savoia 1418-1748», (particolare) in William R. SHEPHERD, Historical Atlas, ed. 1926, p.130
(particolare), disponibile qui: https://maps.lib.utexas.edu/maps/historical/history_shepherd_1923.html
Con questi obiettivi finali, infatti, il Regno di Sardegna effettuò con una nuova evoluzione
diplomatica piemontese e si avvicinò nuovamente a Maria Teresa e, in tale alleanza
(arciducato d’Austria, Inghilterra, Regno di Sardegna, Regno delle Sette Province Unite ed
altri principati tedeschi) combatté l’ultimo grande conflitto che interessò il suolo italiano, la
Guerra di Successione Austriaca (1740-1748). La preparazione, la conduzione e ciò che
accadde in seguito alla guerra saranno il focus di questo scritto in quanto può essere
considerato come punto di svolta nella dottrina militare sabaudo e con interessanti (e nefasti)
ramificazione nel futuro Regio Esercito Italiano.
Nelle prossime pagine, si proverà, infatti, a fornire una panoramica dell’esercito del regno di
Sardegna, come questo abbia iniziato la Guerra di interesse, come abbia modificato la strategic
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culture4 e la propria way of war5, e quali impatti possono essere intravisti nel periodo postbellico.
L’esercito del Regno di Sardegna
Poco prima della Guerra di Successione Austriaca, è possibile stabilire come i Savoia
potessero contare su 30.524 uomini così suddivisi, 39 battaglioni di fanteria e 32 squadroni
di cavalleria. La fanteria si configura pertanto come l’elemento centrale nelle forze belliche
sabaude in quanto non era possibile, date le risorse faunistiche ed economiche, avere a
disposizione un elevato numero di cavalli e quindi di reparti di cavalleria numerosi. Allo
scoppio delle ostilità, nel 1740, è possibile raggruppare i battaglioni sabaudi così come segue:
8 reggimenti di fanteria d’Ordinanza Nazionale, 2 reggimenti di fanteria Alemanna, 1
reggimento di fanteria svizzera, 2 reggimenti di fanteria italiana e 1 di fanteria estera (mista).
Più nel dettaglio, la ripartizione, ricavabile dagli archivi storici6, è la seguente:
•
Fanteria d'Ordinanza Nazionale:
o Reggimento (abbreviato Rgt.) Guardie, formato da 2 Brigate (abbreviato btg);
o Rgt. Savoia, formato da 2 btg;
o Rgt. Monferrato, formato da 2 btg;
o Rgt. Piemonte, formato da 2 btg;
o Rgt. Saluzzo, formato da 2 btg;
o Rgt. Fucilieri, formato da 2 btg;
4
Questo concetto ha trovato terreno fertile nel campo delle relazioni internazionali a partire dalla seconda metà
del Novecento ma, da allora, non è stato possibile stabilire una definizione univoca di tale termine. Per
approfondimenti si rimanda a: Marco CENCIO, Guerra, Strategia, Cultura. Dalle small Wars ai giorni nostri, Tesi di
laurea, Università degli Studi di Torino, a.a. 2019-2020, relatore Marco DI GIOVANNI. Per un
approfondimento maggiore si consiglia la lettura, tra i molteplici autori di: Alastair Iain JOHNSTON, Thinking
about Strategic Culture, International Security, vol. 19, Number 4, Spring 1995, The MIT Press, pp. 32-64, doi:
https://doi.org/10.2307/2539119; Rashed UZ ZAMAN, Strategic Culture: a “Cultural understanding of War,
Comparative Strategy, 28:1, 68-88, doi: https://doi.org/10.1080/01495930802679785; Colin S. GRAY, Strategic
Culture as Context: The First Generation of Theory Strikes Back, International Affairs, vol. 25, no. 1, 1999, pp. 49–69;
Kerry LONGHURST, On strategic culture, doi: https://10.7765/9781526137401.00005.
5 Per way of war non esiste una definizione scientifica ed univoca del concetto, ma esso può essere invece
racchiuso nella ricerca ed individuazione di un particolare stile di pianificazione e combattimento e di come
viene intesa una guerra o una battaglia sia sul piano strategico che su quello tattico. Pertanto esso potrebbe
essere sinteticamente tradotto con “l’approccio al conflitto”.
6 Suddivisione presente in: Giovanni CERINO BADONE, Gli eserciti sabaudo e francese durante la Guerra di
Successione Austriaca. L’impiego in campo, pp. 187-226, in Roberto SCONFIENZA (a cura di), La campagna gallispana
del 1744. Storia e Archeologia Militare di un anno di guerra fra Piemonte e Delfinato, Notebooks on Military Archaeology
and Architecture edited by Roberto Sconfienza No 7, BAR International Series 2350, Oxford, 2012 ed in
Virgilio ILARI, Giancarlo BOERI, Ciro PAOLETTI., La corona di Lombardia. Guerra ed eserciti nell’Italia del Medio
Settecento (1733-1763), Ancona, 1997, pp. 86-97.
Il Regno di Sardegna (ed il suo esercito) nella guerra di Successione Austriaca.
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Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
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o Rgt. La Marina, formato da 1 btg.;
o Rgt. Regina, formato da 1 btg.
•
Fanteria d’Ordinanza Provinciale:
o Rgt. Chablais, formato da 1 btg;
o Rgt. Tarantasia, formato da 1 btg;
o Rgt. Aosta, formato da 1 btg;
o Rgt. Nizza, formato da 1 btg;
o Rgt. Torino, formato da 1 btg;
o Rgt. Mondovì, formato da 1 btg;
o Rgt. Vercelli, formato da 1 btg;
o Rgt. Asti, formato da 1 btg;
o Rgt. Pinerolo, formato da 1 btg;
o Rgt. Casale, formato da 1 btg.
•
Fanteria Alemanna:
o Rgt. Schoulembourg, formato da 2 btg,
o Rgt. Rehbinder, formato da 2 btg.
•
Fanteria svizzere:
o Rgt. Rietmann, formato da 2 btg.
•
Fanteria italiana:
o Rgt. Sicilia, formato da 1 btg;
o Rgt. Lombardia, formato da 1 btg.;
•
Fanteria Estera:
o Rgt. Audibert, formato da 2 btg.
L’estrazione sociale di queste unità risulta essere fondamentale per cominciare a
comprendere come l’esercito sabaudo combattesse. Infatti, data la conformazione e la
distribuzione della popolazione dell’epoca, i principali centri di reclutamento militari
fornivano reclute provenienti dalle città (come Ivrea, Bra, Moncalieri, Saluzzo, Vercelli etc.)
con un’età media di inferiore ai trent’anni - per quanto riguarda la truppa -7. La fanteria
sabauda, quindi, sarebbe stata composta principalmente da uomini giovani e di estrazione
Giovanni CERINO BADONE, Gli eserciti sabaudo e francese durante la Guerra di Successione Austriaca. L’impiego in
campo, pp. 187-226, in Roberto SCONFIENZA (a cura di), La campagna gallispana del 1744. Storia e Archeologia
Militare di un anno di guerra fra Piemonte e Delfinato, Notebooks on Military Archaeology and Architecture di
Roberto Sconfienza, n.7, BAR International Series 2350, Oxford, 2012.
7
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
principalmente urbana, evidentemente più adatti a combattere in territori pianeggianti e
collinari poiché pochi di loro devono aver avuto familiarità con il territorio montano8.
Le valli alpine vennero pertanto protette e rinforzate da una catena di fortezze e piazzeforti
atte ad intercettare, fermare o rallentare un’eventuale penetrazione nemica dal fronte ovest.
Tale schermo difensivo fu ideato e pianificato da Vittorio Amedeo II ed Antonio Bertola e
seguì il concetto della doppia linea difensiva del pré carré ideato da Vauban tra il Regno di
Francia ed i Paesi Bassi spagnoli9, dove una fortezza di media valle era abbinata una piazza
pedemontana nelle retrovie. Nella pagina seguente si mostra una cartina dove è stata
ricostruito il dispositivo difensivo (alpino e non solo) con i relativi passi di accesso.
Indice dei luoghi
Passi alpini (che permettono il transito dell’artiglieria pesante)
A. Piccolo San Bernardo B. Colle del Moncenisio C. Colle del Monginevro D. Colle
dell’Agnello E. Colle della Maddalena F. Colle di Tenda
Fortezze principali
1. Torino: Corte Reale, Piazza d’armi e quartier generale 2. Forte di Fenestrelle 3. Brunetta
di Susa 4. Cittadella di Alessandria 5. Cuneo
Fortezze secondarie
6. Forte di Demonte 7. Forte di Exilles 8. Forte di Bard 9. Ivrea 10. Villefranche
Fortezze “minori”
11. Saorgio 12. Mondovì 13. Ceva 14. Cherasco 15. Pinerolo (poi dismessa) 16. Tortona 17.
Valenza
8
Per quanto riguarda un giudizio fortemente realistico sulle capacità belliche sabaude in montagne, si consiglia
di visionare: Bernard THOLOSAN, Memorie storiche sui fatti d’arme occorsi nella valle di Varaita nella guerra del 1742,
(a cura di) Elena GARELLIS, Cuneo, 2001. Il documento è conservato presso B.R.To.; Manoscritto Saluzzo
227, Memorie storiche sui fatti d’arme occorsi nella valle di Varaita nella guerra del 1742 di Bernard Tholosan.
9 Per approfondimenti sul sistema di fortificazioni francese, si suggerisce la lettura di Giovanni CERINO
BADONE, Vauban, la guerra e la strategia della Francia nel XVIII secolo, in Vauban e il Piemonte. Nuove ricerche, Bruno
SIGNORELLI e Pietro USCELLO (a cura di), Società Torinese di Archeologia e Belle arti, Torino, 2011.
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Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
Figura 5 - Henry S. TANNER, «Regno di Sardegna. (with Island of Sardinia)», in World Atlas, Philadelphia, 1836
(particolare). L’immagine raffigura il Regno di Sardegna negli anni ’30 dell’Ottocento. Nonostante la differenza
cronologica la disposizione dei principali forti e di quelli di interesse non è variata.
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
Carlo Emanuele III, figlio di Vittorio Amedeo II, in
preparazione dello scontro contro la Francia e la Spagna nel
conflitto di interesse, Fu così in grado di adottare una
strategia difensiva che divise l’esercito in cinque corpi di
differente composizione numerica per controllare tutte le
valli di accesso al Piemonte. Il più numeroso fu quello in
Val Varaita10, il quale doveva intervenire ad affrontare la
minaccia avversaria che, nel frattempo veniva rallentata
dalle forze e dai forti locali11.
Il pregio di questa idea strategica consiste nella flessibilità
del sistema difensivo e nel controllo di ogni via d’accesso
ma, dall’altro lato, suddivideva un esercito numeroso sulla
carta in corpi più piccoli e, pertanto, in constante inferiorità numerica rispetto ad un
Figura 6 - Giovanni PANEALBO
(attribuito), Ritratto di Carlo Emanuele III,
Re di Sardegna (1730-1773), Olio su tela,
Venaria Reale.
eventuale avversario. L’importanza delle fortezze e delle
unità adatte al contesto alpino acquisirono, con il progredire
del conflitto, una centralità sempre maggiore e così accadde
che il combattimento sulle Alpi (e non solo) venne concepito come una difesa statica con
opere permanenti, con il risultato che, quando queste difese venivano a mancare, le capacità
belliche delle unità e dei comandanti subivano forti mancanze in termini di capacità
combattiva, tattica e strategica12.
A riprova di quanto appena affermato si segnala come le azioni militari più riuscite a livello
tattico e strategico furono la campagna padana del 1742 e l’offensiva condotta nel 1746.
10
La Val Varaita si presenterà come la valle più sguarnita nel complesso sistema difensivo (come mostrato in
figura...) e pertanto essa ebbe sempre il maggior numero di effettivi.
11 Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie Militari, Imprese, Mazzo 3 d’addizione; Piano per la Campagna
nell’anno 1744 in difesa del Piemonte contro li Gallispani; Memoire, et Projet du General major Audibert, 30 juin 1744;
Guibert, Memoire et Project, li 30 juin 1744.
12 Giuseppe Maria GALLEANI, Memorie storiche sulla Guerra del Piemonte (1741-1747), Torino, 1840.
Il Regno di Sardegna (ed il suo esercito) nella guerra di Successione Austriaca.
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Questi piani sono da associare alle figure di Ignazio Bertola13, Giovanni Battista Lorenzo
Bogino14 ed il Generale Karl Sigmund Friedrick Wilhelm Leutrum15.
Ulteriori elementi di interesse, nell’analisi della fanteria sabauda, sono da segnalarsi anche in
altri due aspetti. Il primo risiede nella presenza di un forte contingente di unità estere (che
crebbe ancora durante il conflitto), le quali dimostrano una più alta military effectiveness e
maggiormente performanti rispetto a quelle italiane16. Anche la loro paga era diversa, ovvero
Ignazio Giuseppe Bertola Roveda (Tortona 1676 – Torino 22 maggio 1755), fu conte di Exilles. Nel 1695 il
padre adottivo, Antonio Bertola, era una persona di spicco della corte del duca di Savoia: Dottore in Leggi,
Maestro di Aritmetica dei Paggi Reali dal 3 marzo 1679, Maestro di Blasone delle Principesse Reali, Maestro di
Aritmetica e Fortificazioni dei Principi Reali, matematico dell’Accademia Reale di Torino dal 1684, Ingegnere
del Duca di Savoia dal 1685, architetto e direttore della fabbrica della Cappella del Santo Sudario nel Duomo
di Torino dal 1694, Regio Blasonatore e Segretario di Stato del Duca di Savoia 28 aprile 1695. Sempre con il
padre adottivo partecipò alla Guerra di Successione Spagnola. In particolare fu al suo fianco durante il grandi
lavori di fortificazione alla cittadella di Torino negli anni 1704-1705 e con lui escogitò ed imparò a costruire
fortificazioni militari sia durante il conflitto che in seguito. Nel 1719 Ignazio divenne il successore ideale del
padre defunto e continuò i lavori non ancora portati a termine ed iniziò la costruzione del forte di Exilles e nel
contempo progettò la piazzaforte di Fenestrelle. Divenuto nel 1725 Maestro di Fortificazioni dei Principi Reali
e Regio Blasonatore ristrutturò la fortezza di Demonte, nella Valle Stura di Demonte. Nel 1728 ebbe l’incarico
di progettare la cittadella di Alessandria, e questa fortificazione divenne il fulcro delle difese orientali del regno,
nel 1745. Combatté nella Guerra di Successione Polacca, in cui diresse l’assedio del castello Sforzesco di Milano
(16 dicembre 1733 – 2 gennaio 1734). Fenestrelle, Alessandria ed Exilles furono completate nelle loro linee
generali poco prima della Guerra di Successione Austriaca. Nel 1739 aprì all’interno delle caserme dell’Arsenale
la nuova Regia Scuola Teorica e Pratica d’Artiglieria e Fortificazione della quale lui fu il primo Direttore. A
Torino lavorò anche come ingegnere civile. Nel 1744 ebbe l’incarico di pianificare la difesa delle valli Varaita e
Maira ma la fortificazione di Demonte non resistette e dovette essere difeso dal Re e dal ministro della guerra,
Giovambattista Bogino. Con il ministro della guerra Bogino, Ignazio Bertola pianificò la controffensiva che
all’inizio del 1746 respinse o costrinse alla resa tutte le guarnigioni franco-spagnole presenti in Piemonte. Nel
1746 partecipò alla sua ultima azione di guerra. Il 25 maggio 1747 venne nominato Cavaliere di Gran Croce
dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro con la Commenda della Torre di San Secondo di Asti. Dopo la fine
della guerra, entrò nel Corpo degli Ingegneri di S.M., con il grado di colonnello di fanteria. Il 3 maggio 1754 fu
promosso al grado di Maggior Generale.
14 Ministro della Guerra del Regno di Sardegna. Durante la guerra di interesse si comportò sia come ministro
che come un Capo di Stato Maggiore della Difesa.
15 Karl Sigmund Friedrick Wilhelm Leutrum (Karlhausen, 27 giugno 1692 – Cuneo, 16 maggio 1755). Di
religione protestante, nacque a Karlhausen, nel Baden, arrivò in Piemonte all’età di quattordici anni, insieme al
fratellastro, facendo parte della scorta del Principe Eugenio di Savoia ed in quella occasione decise di entrare a
far parte dell’esercito sabaudo. Fu promosso capitano di fanteria nel 1706 nel Reggimento di Fanteria Alemanna
Schoulembourg, partecipando attivamente alla campagna alpina del 1708. Nel 1725 divenne luogotenente
colonnello del Reggimento di Fanteria Alemanna Rehbinder, e il 5 maggio 1732 diveniva colonnello
comandante del reparto, combattendo alla testa di esso durante la Guerra di Successione Polacca. Venne
promosso Brigadier Generale nel 1735. Allo scoppio della Guerra di Successione d’Austria, Leutrum fu inviato
a combattere nella Pianura Padana assieme al suo reparto, il Reggimento Rehebinder, il quale prese parte alla
Battaglia di Camposanto (8 febbraio 1743). Ricevette il 29 gennaio 1744 la promozione di Maggior Generale e
venne trasferito sul fronte occidentale. Nell’estate fu posto a comando dello scacchiere delle Valli Susa e
Chisone per poi venir trasferito all’Armata Regia schierata in Val Varaita in tempo per assistere ai combattimenti
di Pietralunga (19 luglio 1744). Leutrum fu scelto da Carlo Emanuele III come Governatore della piazzaforte
di Cuneo ed egli fu in grado di mantenere efficienti i reparti a sua disposizione per la difesa della città. Grazie
alla riuscita della difesa della città piemontese fu promosso Tenente Generale nel 1745 e con tale carica ottenne
le uniche vittorie piemontesi durante la campagna del 1745-1746, durante la poderosa offensiva franco-spagnola
lungo le Alpi Marittime, divenendo de facto comandante in capo dell’esercito sardo. Stabilizzato il fronte tra il
1745 ed il 1746, in quest’anno lanciò l’offensiva per riconquistare i territori perduti, riprendendo e liberando
Asti e Alessandria, conquistando poi Valenza. Nel 1747, Leutrum fu incaricato della difesa del fronte del
ponente ligure. Alla fine della guerra fu riconfermato Governatore di Cuneo.
16 A.S.To., Corte, Museo Storico, Rélation de l’affaire de l’Assiette faite par Mr le Compte de Priouque, 19 Juillet 1747.
13
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
più alta17. Il secondo punto, invece, riguarda le milizie Locali, in particolare quelle valdesi,
che erano in grado di manovrare efficacemente in azioni offensive, di ricognizione e/o di
copertura. In particolare, durante il conflitto di interesse emerse il corpo di 2.000 miliziani
valdesi, comandati dal capitano Jean Baptiste Rouzier18.
A supporto della fanteria e della cavalleria, che come anticipatamente affermato non fu mai
un elemento rilevante nelle armate sabaude pre-unitarie, è da segnalarsi lo sviluppo
dell’artiglieria, derivata dal sistema Vallière francese19. Nel 1739 un Battaglione d’Artiglieria
contava dodici compagnie mentre, nel corso del conflitto – il 23 maggio del 1743 –, il
Battaglione d’Artiglieria vide il proprio organico aumentato di 300 uomini, 28 per compagnia,
e divenne quindi Reggimento. I ranghi del reggimento vennero accresciuti nuovamente nel
1747 a 1.400 uomini, suddivisi in due battaglioni di 8 compagnie ciascuno. Elemento
principale (e negativo) consisteva nel peso dei cannoni in quanto, a titolo esemplificativo, il
cannone da 4 libbre, il più leggero dei pezzi da campagna, aveva una canna del peso di 553,2
kg20. A causa di questo eccessivo peso, l’artiglieria veniva spesso protetta da fortificazioni
campali e non veniva spostata durante la battaglia e, nel caso in cui fosse necessario muoverla,
i comandanti dovevano spendere molte energie e risorse per permetterne i movimenti21.
L’elevato peso dei cannoni e delle spingarde, inoltre, compromise la disponibilità piemontese,
fino al 1743, ad avere a disposizione materiali di artiglieria adatti al combattimento in quota,
mentre in seguito, l‘esperienza maturata permise di creare un parco artiglierie importante ed
Sabina LORIGA., Soldati. L’istituzione militare nel Piemonte del Settecento, Venezia, 1992.
Jean Baptiste Rouzier (Sourniers, 1708 – Cuneo, 22 agosto 1773). Protestante. Nato in Linguadoca, nel 1733
fu in forza al Reggimento di Fanteria estera Desportes col grado di Enseigne. L’anno seguente divenne
Luogotenente, e poi ancora fu promosso capitano il 14 luglio 1741. Rouzier, già conosciuto per le sue capacità
organizzative, fu incaricato nella Guerra di Successione Austriaca di comandare un corpo di ben 2.000 miliziani
valdesi sul fronte delle Alpi Occidentali. Grande conoscitore del teatro alpino, in particolare della Val Varaita e
Val di Susa, operò nel 1742, 1743 e 1744 in questi settori sia in teatri bellici regolari sia in attività di guerriglia
nelle retrovie franco-spagnoli. Partecipò all’offensiva di Leutrum del 1746, alle conquista di Asti e alla rottura
del blocco di Alessandria. Nelle fasi iniziali dell’offensiva francese del 1747, Jean Baptiste Rouzier e i suoi
miliziani servirono come forza esplorante e schermo protettivo per le truppe sabaudo-imperiali che stavano
affluendo al campo trincerato dell’Assietta e permisero di rendere quasi inutili le ricognizioni francesi nella
campagna del 1747. Data la sua profonda conoscenza del fronte alpino fu incaricato, al termine del conflitto,
di descrivere gli itinerari percorribili nella fascia montuosa ai confini con il Regno di Francia, dal titolo Descripion
des passages qui se trouvent dans les Alpes qui séparent le Piémont de la France, divise en deux traittés, dont le premier renferme
le sols par lesquels on va en France et le second contient les passages par lesquels les vallés de Piémont communiquent entr’elles et
avec la Provence et le Dauphiné, 1749. Nel 1764 fu promosso Maggiore, nel 1769 fu elevato al grado di Tenente
Colonnello, e poi Colonnello nel 1771. Morì a Cuneo il 22 agosto 1773 e venne sepolto nel tempio della frazione
Coppieri di Torre Pellice.
19 Per “sistema Vallière” ci si riferisce alla standardizzazione dei calibri delle artiglierie francesi (e più in generale
alla riorganizzazione dei reparti) avviata dal tenente generale dell’artiglieria Jean-Florent de Vallière.
20 Alessandro PAPACINO D’ANTONI, Dell’uso delle Armi da Fuoco per le Regie Scuole d’artiglieria e fortificazione del
Commendatore Alessandro Vittorio Papacino d’Antonj, Maggiore generale di Fanteria, Aiutante generale dell’Armata, e
Direttore generale delle suddette Scuole di Teorica e di Pratica, Torino, 1780.
21 Biagio GHO, L’Agro alessandrino durante le guerre delle Prammatica Sanzione, Alessandria, 1931.
17
18
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impiegabile in ogni scenario bellico22. Proprio la Guerra di Successione Austriaca vide
l’esercito di Carlo Emanuele III, nel 1744, schierare tre nuovi modelli d’artiglieria da
montagna: i pezzi da 4 libbre e gli obici da 6 del Modello Gioannini, i cannoni disgiunti da 4
libbre di Ignazio Bertola, ed il cannone rigato a retrocarica da 16 once di Francesco Jenner23.
Le tattiche
Con l’assedio di Torino del 1706, i Savoia capirono in anticipo che le formazioni di fanteria
in grado di sprigionare un’elevata potenza di fuoco24 erano oramai lo strumento principale
che poteva vincere le battaglie, annientando conseguentemente le formazioni avversarie. Nel
maggio del 1709, infatti, Vittorio Amedeo II stabiliva un Reglement25 per la sua fanteria,
basando la propria forza sul concetto della “potenza di fuoco” come cardine per la
sopravvivenza delle armate. In base alle indicazioni ricavabili dai testi ancora presenti negli
archivi militari26, è stato possibile stabile come i battaglioni, 600 uomini in tempo di pace27,
furono suddivisi a loro volta in 13 plotoni (12 di fucilieri ed 1 di granatieri), seguendo così
un modello detto “all’olandese”28. Il battaglione poteva disporsi, in combattimento, su tre o
quattro file – in base alle esigenze tattiche – con i suoi tredici plotoni in linea, occupando
così un’area di circa 380 metri ed in centro trovavano posto il gruppo bandiere ed il capitano.
Il tiro veniva effettuato dalle tre linee contemporaneamente (la prima si poneva in ginocchio),
alternando i plotoni dell’ala destra e sinistra, convergendo verso il plotone centrale,
permettendo così di mantenere un fuoco continuo su tutto il fronte di battaglione, saturando
l’area frontale della formazione con i propri proiettili, per una profondità di 150 metri circa29.
Assieme a questa modalità, detta “fuoco per plotone”, venne mantenuto anche il fuoco per
Per la Battaglia dell’Assietta, l’artiglieria arriverà dopo una settimana dai combattimenti.
Giovanni CERINO BADONE., Gli eserciti sabaudo cit.
24 Se si desidera approfondire la tematica della potenza di fuoco e della conseguenza rivoluzione militare si
consiglia la lettura di Giovanni CERINO BADONE, Potenza di fuoco. Eserciti, tattica e tecnologia nelle guerre europee
dal Rinascimento all’età della Ragione, Milano, 2013.
25 B.R.To., Fondo Saluzzo; Saluzzo n.488. Reglement d’Exercice et de Manouvres. A’ Coni le 20 Mai 1749. Maniere de
tirer de pied ferme contre l’Infanterie, donnée le 15e Mai 1709.
26 B.R.To., Fondo Saluzzo, Fondo Saluzzo; Saluzzo 256, Etude de l’infanterie au recherche des regles propres au service
de SMS, composée de Troupes Nationales & Etrangerés, à Alexandrie MDCCLII; Saluzzo n.488, ibidem.
27 Durante la Guerra di Successione Austriaca l’organico fu portato a 700 uomini e nel 1747 arrivò ad 800.
Informazione tratta da B.R.To., Manoscritto militare 155; Memorie Politiche per Rapporto all’Interno, Storia
della Real Casa, mazzi 21-22; Minutoli, Relations des Campagnes faites au service de S.M. le Roy de Sardaigne Duc de
Savoie pendant la guerre d'Italie de l'année 1742 et 1748.
28 Christopher DUFFY, Instrument of War, Vol. I, Rosemont, 2000, pp. 401-402.
29 Gittata utile di una palla di fucile. Oltre i 150 metri non diminuisce la letalità/efficacia del tiro quanto la
qualità del colpo sparato.
22
23
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
rango ed altre disposizioni di tiro che si rivelarono vetuste30. L’avanzata, infatti, veniva
effettuata in colonna oppure in lineaed in quest’ultima modalità si escogitò il fuoco detto a
sbalzo31, ovvero aprivano il fuoco prima i plotoni esterni delle ali, si avanzava,
successivamente il tiro di fucileria veniva effettuato dai plotoni centrali delle ali ed infine,
dopo un ulteriore tratto percorso in avanzamento i plotoni restanti aprivano il fuoco. Tale
idea operativa si dimostrerà poco efficace in attacco, non permettendo di sfruttare eventuali
vantaggi operativi sul campo a causa della lentezza e prevedibilità delle manovre. Se tuttavia
in attacco l’efficacia fosse bassa, in difesa il fuoco per plotoni si rivelò spesso determinante
per arrestare attacchi avversari riuscendo, a livello teorico, a sparare più di duemila colpi al
minuto32.
Equipaggiamento
Allo scoppio della Guerra di Successione Austriaca, la fanteria sabauda poteva contare su tre
tipologie di armi33:
-
Fucili Mod. 1730, il primo fucile regolamentare sabaudo, indicato nel Regio Viglietto
del 28 giugno 173034, che venne presto modificato (la variante fu denominata Mod.
1730/45) al fine di renderlo maggiormente leggero e maneggiabile;
-
Fucili Mod. 1728, di fabbricazione francese ed acquistato nel 1736.
Tuttavia, se già l’esercito si presentò con tre differenti modelli di fucili da distribuire e da
sostituire, durante il conflitto l’armamento individuale divenne eterogeneo, in quanto furono
distribuiti alle truppe altri modelli di armi, ovvero:
- fucili spagnoli catturati o acquistati da disertori;
- fucili francesi Mod. 1728 catturati;
30
B.R.To., Fondo Manoscritti Militari, manoscritto militare n.234, Recoeuil de plusieurs plans des defferentes manouvres
que la toupe de Sa Maiesté le Roy de Sardaigne doit faire, tel qu’il l’ordonne d’exeuter dans le reglement qu’il donné l’an 1755.
31 Giovanni CERINO BADONE, Gli eserciti sabaudo cit.
32 Per quanto la quantità di fuoco possa sorprendere, la stima può essere realistica, considerando diversi studi
che trattano le prestazioni teoriche (ovvero le esercitazioni svolte in Piazza d’armi) dei battaglioni nei primi
decenni del Settecento. Si veda in particolare: Basil Perronet HUGHES, Firepower: Weapon Effectiveness on the
battlefield, 1630-1850, Londra, 1997; Giovanni CERINO BADONE, Potenza di fuoco cit.
33 Giovanni CERINO BADONE, Gli eserciti sabaudi cit.; Francesco STERRANTINO, Le armi da fuoco del vecchio
Piemonte 1683-1799, Torino, 2002.
34 A.S.To., Sezioni riunite, Azienda Generale d’Artiglieria, Regi Viglietti e Dispacci, vol. III, 1730-1746
Il Regno di Sardegna (ed il suo esercito) nella guerra di Successione Austriaca.
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124
- fucili austriaci;
- fucili del ducato di Modena;
- fucili da caccia requisiti.
La conseguente mancanza di omogeneità creò presto non pochi problemi di distribuzione di
pezzi di ricambio e munizioni, in quanto le forniture variavano da reparto a reparto oppure
all’interno di una stessa unità. La situazione degenerò a tal punto che, nel 1747, l’esercito di
Carlo Emanuele III rischiò di non poter più combattere per mancanza di armi35 in quanto
erano disponibili poco più di 8.000 fucili da fanteria. In cinque anni di guerra ben 50.000
armi erano andate perdute, e lo sforzo produttivo fu consistente ed elevato per il piccolo
regno di Sardegna, obbligando anche la requisizione di più armi da fuoco private possibili.
L’economia ed i costi della macchina bellica
Lo sforzo della macchina produttiva sabauda, comprendente in particolar modo artigiani,
fabbri e mastri armaioli, consente di approfondire l’aspetto economico della guerra nel
Settecento. Nel triennio 1738-1741, si stima che l’esercito di Carlo Emanuele III avesse un
bilancio ordinario di 7,5 milioni di lire, ai quali si aggiungevano altre 500.000 lire per il
presidio in Sardegna e un milione di lire per la necessaria fornitura dei sacchi di grano atti a
nutrire le forze, le quali ammontavano, come anticipato in precedenza, a 39 battaglioni di
fanteria e 32 squadroni di cavalleria, poco più di 30.000 uomini36.
Con lo scoppio delle ostilità, l’Inghilterra versò nelle casse di Torino un sussidio annuo di 5
milioni di lire italiane ma, a causa del continuo logorio dei materiali ed al prezzo di vite umane
da pagare, il regno di Sardegna si vide costretto a:
1) Vendere nuovi feudi e cariche pubbliche (26 settembre 1741) ed immettere moneta
(27 novembre 1741);
35
Il 22 giugno del 1747 il marchese Radicati, governatore della Piazza di Saluzzo, congedò quattro compagnie
di milizia per mancanza di armamento da distribuire loro. Fatto documentato nell’A.S.To., Sezioni Riunite, Regi
Viglietti e Dispacci, vol. IV, 1742-1747.
36 Per lo studio dell’economia sabauda si veda: Christopher STORRS, The Savoyard Fiscal-Military State in the Long
Eighteenth Century, in The Fiscal-Military State in Eighteenth-Century Europe. Essay on honour of P.G.M. Dickson,
Farnham, 2009 e Paolo NORSA, La finanza sabauda dal 1700 all’Unità d’Italia, 11 volumi, 1957.
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
2) Emettere tre trance di debito pubblico per 6 milioni di lire al tasso del 4% (4
dicembre, 3 febbraio e 24 novembre 1742);
3) Varare un’imposta straordinaria di 1,8 milioni di lire sulle rendite feudali (9 maggio
1742), aumentare imposte di bollo (16 maggio 1742) e di registro (4 giugno 1742)37.
Queste misure consentirono di reclutare nuove leve e portare la forza totale dell’esercito a
43.000 uomini (48 battaglioni e 26 squadroni) ed in seguito, nel 1747, gli effettivi furono
levati fino a 55.641 uomini, i quali furono così suddivisi38:
❖ 32 squadroni di cavalleria (4.231 uomini);
❖ 57 battaglioni, di cui:
o 15 di Ordinanza Nazionale;
o 29 esteri;
o 10 provinciali;
o 2 d’artiglieria;
o 2 d’Invalidi;
❖ 10 compagnie provinciali di riserva39;
❖ 4 compagnie di Marina;
❖ 4 di Dragoni di Sardegna.
Nonostante gli sforzi economici e fiscali compiuti, nel 1747, il passivo messo a bilancio fu di
11.599.764 lire e, nello stesso anno, si dovette ricorrere a: prestiti di guerra, per un totale di
2.000.000 di lire40; richiedere a papa Benedetto XIV di autorizzare un’imposta straordinaria
sui beni ecclesiastici41 e varare nuove imposte per un totale di altre 2.306.000 lire.
L’indebitamento fu, in media, di circa 8.000.000 di lire ogni anno42. Il piccolo regno di
Sardegna, dopo 7 lunghi anni di guerra, era esausto. Infatti, Carlo Emanuele III, appresa
37
Le cifre sono tratte da: Virgilio ILARI, Giancarlo BOERI, Ciro PAOLETTI, op. cit., pp. 86-87; Paolo
NORSA, op. cit.
38 L’elenco è presente in Giovanni CERINO BADONE, Gli eserciti sabaudo e francese cit., a sua volta ricavato da
Virgilio ILARI, Giancarlo BOERI, Ciro PAOLETTI op. cit.
39 Le compagnie provinciali servivano da eventuale riserva per le perdite subite dalle compagnie di fanteria
ordinaria. La composizione venne codificata nel Regio Viglietto del 5 maggio 1742. I riferimenti si trovano in
Giovanni CERINO BADONE, Gli eserciti cit.
40 Paolo NORSA., op. cit.
41 Domenico CARUTTI, Storia del Regno di Carlo Emanuele III, vol. I, Torino, 1859, pg. 67
42 Paolo NORSA, op. cit.
Il Regno di Sardegna (ed il suo esercito) nella guerra di Successione Austriaca.
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l’apertura delle prime trattative di pace, ordinava unilateralmente la sospensione delle ostilità
sul fronte piemontese (11 maggio 1748)43.
Considerazioni finali
Al fine di unire alcune considerazioni svolte in precedenza, si vogliono di seguito tracciare e
rendere maggiormente evidenti alcune conseguenze ed alcune evoluzioni dottrinali avvenute
prima, durante e dopo la Guerra di Successione Austriaca, con l’obiettivo di rimarcarne la
centralità per il futuro militare del regno di Sardegna.
Un elemento “di costo” di un’armata riguarda le perdite subite nel corso di un conflitto e la
capacità rimpiazzare i vuoti. Quelle subite dai Savoia, fino al 1745, furono di circa 21.000
uomini44 e, per comprenderne l’impatto si evidenzia come un c.d. “Corpo di osservazione”,
ovvero le unità su cui gravavano le manovre belliche principali, poteva essere, in media, di
circa 20.000 uomini, e pertanto, tra il 1745 ed il 1746 il morale dei Piemontesi cominciò a
vacillare45. Quando i franco-spagnoli espugnarono il castello di Gabiano46, infatti, lo stesso
Carlo Emanuele III indicò alla propria diplomazia di agire per avviare una pace o un cambio
di alleanze. A permettere ai Savoia di non crollare furono: la tenuta di parte del cordone
difensivo alpino e la conseguente riorganizzazione delle forze, avvenuta per linee interne; il
conseguente supporto militare austriaco e quello navale ed economico britannico che
indirizzò gli sforzi verso il Piemonte e la Liguria, consentendo il mantenimento del fronte.
Nel 1746, pertanto, si assistette ad una nuova offensiva austro-piemontese che riequilibrò il
conflitto.
È proprio durante la Guerra di Successione Austriaca che, a causa delle perdite che non
consentivano più manovre offensive ed alle sempre più risicate risorse economiche, venne
codificata ed esaltata, nello Stato Maggiore piemontese, una filosofia di comando e controllo
molto legata al rispetto quasi pedissequo degli ordini e delle esigenze politico-economiche da
seguire47. La conduzione di una guerra in parallelo all’Impero non fu più possibile e, dal 1746,
43
Al fine di fornire un quadro economico generale, si vuole qui accennare al fatto che tutti i principali
contendenti (Regno di Francia, Spagna ed Impero Asburgico su tutti) si ritrovarono al limite delle loro capacità
economiche e di supporto del proprio sforzo bellico.
44 Virgilio ILARI, Giancarlo BOERI, Ciro PAOLETTI, op.cit.
45 Per dovere di completezza si evidenzia come, nel conteggio appena fornito, non siano indicati i feriti, i dispersi
ed i disertori.
46 Pietro SAVIO, Asti occupata e liberata (1745-1746), Asti, 1927, p. 81.
47 Questa filosofia prende il nome di “Tattica di missione”.
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
l'esercito di Carlo Emanuele III si limitò ad operare solo congiuntamente alle forze imperiali
ed in attività di carattere ossidionale e difensivo che da un lato permisero di limitare le perdite
- nel biennio 1746-1747, infatti essere furono di 2.500 a discapito di quelle inflitte, circa
12.500 - e, dall’altro, diedero impulso e sviluppo all’impostazione alle tattiche difensive al fine
di frenare o arrestare un’offensiva avversaria, sempre più forte a livello numerico dei
difensori. Proprio grazie a questi elementi, esigenza della difesa, protezione delle proprie
forze e necessità di sprigionare un’elevata potenza di fuoco per sopravvivere allo scontro, le
difese ed i trinceramenti subirono un notevole impulso e migliorie continue, e tra i modelli
adottati in particolare si evidenziano i seguenti:
❖ “Difese a ridotte staccate”. Trinceramenti caratterizzati dalla presenza di diverse linee
successive di catene di fortificazioni e trinceramenti collocate in zone collinari e
montane, i quali non cooperavano tra loro ma si strutturarono più come dei corridoi
fortificati che si coprivano a vicenda ma presentavano il proprio punto deboli ai lati
dello schieramento difensivo, obbligando l’avversario ad avviare diverse manovre di
aggiramento, evitando così scontri diretti che si sarebbero rivelati molto sanguinosi
per gli attaccanti. Un esempio di tale modello è rintracciabile nella c.d. “Linea
Leutrum” nel ponente ligure durante il biennio 1746-1747, durante la all out offensive
austro-piemontese e la precedente perdita di Genova.
❖ “Campo trincerato a compartimenti stagni”. Osservati i punti deboli delle ridotte
staccate, la successiva evoluzione fu quello di collegare tali difese tra loro, ampliando
la portata della difesa e permettendo la difesa a 360°. La presenza di differenti
compartimenti autonomi tra loro consentiva l’eventuale perdita di una porzione delle
difesa senza pregiudicare la difesa dell’intero sistema. Tale disegno tattico fu applicato
sulle Alpi, in particolare modo durante la Battaglia dell’Assietta dove si assistette ad
una vittoria tattica piemontese, anche se essa fu inutile a fini strategici e venne favorita
dagli errori di pianificazione e di ingaggio delle maggiori forzi francesi.
Il Regno di Sardegna (ed il suo esercito) nella guerra di Successione Austriaca.
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Figura 7 - La disposizione tattiva austro-sarda il 19 Luglio 1747, giorno della Battaglia dell'Assietta. Immagine presente in
Giovanni CERINO BADONE e Eugenio GAROGLIO, La battaglia dell’Assietta e la campagna militare alpina del 1747, Edizioni
del Capricorno, Torino, 2021, p. 253.
Figura 8 – Particolare che raffigura, con diverse inesattezze ed aggiunte “poetiche ed artistiche”, i trinceramenti de la “Butta
dell’Assietta” e la morte del comandante francese, Louis-Charles-Armand Foquet, cavaliere di Belle-Isle, ritratto in
Hyacinthe DE LA PEIGNE, La Battaglia dell'Assietta, Palazzo Reale di Torino, Torino, 1751.
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
L’evoluzione di questa particolare way of war, ovvero: combattere solo su terreni selezionati e
disporre le unità dietro solide protezioni e trinceramenti, portarono il Regno di Sardegna a
concepire un embrionale Army in being48 e, come si è cercato di mostrare in questo testo, tale
idea tattica fu implementata proprio durante la Guerra di Successione Austriaca49. Infatti,
l’esercito, nonostante le sconfitte subite in precedenza, possedeva, nel 1747, una forza
numerica teorica, come accennato in precedenza, di 55.641 uomini, rappresentando quindi
un credibile avversario da affrontare e complesso da sconfiggere. Per annientarlo si sarebbe
dovuto superare un consistente numero di fortificazioni e di attacchi frontali a forze ben
protette e trincerate. Il Regno di Sardegna – e come accennato all’inizio del presente scritto
in seguito anche il Regno d’Italia – si strutturò come una forza che si doveva considerare o
come alleata o come neutrale al fine di avere un vantaggio in un ipotetico scenario bellico
italiano o europeo.
Nel successivo Dopoguerra, la battaglia dell’Assietta – e più in generale l’ultimo biennio di
guerra – divenne un cardine del Savoy way of war e le successive riforme militari riguardarono
in via principale la fanteria, trascurando di rinnovare ed innovare il parco artiglierie, che non
subirà più modifiche o migliorie. La fanteria invece continuò, come anticipato nella sezione
della Dottrina, a prevedere l’annientamento dell’avversario tramite il fuoco diretto (di
fucileria ed artiglieria) dietro a fortificazioni e trinceramenti che proteggessero e
risparmiassero le forze messe in campo, anche a discapito di uno studio di fattibilità di tale
tattica su un terreno differente di quello alpino50. Come anticipato in premessa, una siffatta
strategia risultava essere centrale nel quadro di alleanze per un’eventuale guerra in Italia, ma
presto il regno di Sardegna divenne ininfluente a livello europeo, come descrisse lo storico
prussiano Archenholtz nel 178051.
In terminologia militare, un’army/fleet in being è una forza che estende la propria influenza strategica senza mai
lasciare il proprio territorio/porto ed obbligando il nemico a disporre continuamente forze per monitorarla o
ad allearsi ad essa, cosa che di volta in volta fecero Francesi ed Asburgici ed i Savoia perseguirono al fine si
ampliare il proprio territori verso la Lombardia e l’Emilia.
49 Oltre all’Assietta, ed a riprova di quanto affermato, presso il Polo Reale di Torino è possibile visionare il
quadro di Jan Peeter Verdussen sulla prima battaglia di Casteldelfino (7-10 Ottobre 1743). Nel quadro è
possibile vedere diversi battaglioni sabaudi dietro a solide fortificazioni.
50 Si veda Giovanni CERINO BADONE, Sulla strada di Fiandra. Storia della Cittadella di Alessandria (1559-1859),
Alessandria, 2014
51 «Io penso che l’armata del Re di Sardegna, per quanto ben organizzata, non sia al momento pronta per la guerra, e che sotto
molti aspetti non sia militarmente efficiente. […] Nonostante il suo piccolo esercito, egli non è facile da sconfiggere, a causa del
grande numero di fortezze presenti nel suo territorio, che spesso frustrarono i vantaggi che un esercito all’offensiva ha guadagnato in
campo aperto. È in queste fortezze che il Re di Sardegna risulta il più formidabile principe in Italia, ma questo non è nulla sulla
bilancia dell’Europa». Citazione tratta da J.W. Archenholtz, A Picture of Italy, vol. I, Londra, 1791, pp. 114-115,
presente in Giovanni CERINO BADONE e Eugenio GAROGLIO, La battaglia dell’Assietta e la campagna militare
alpina del 1747, Edizioni del Capricorno, Torino, 2021.
48
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La permanenza di un tale pensiero strategico e tattico potrebbe fondarsi, in via principale,
sugli studi elaborati dai grandi ufficiali e comandanti sopravvissuti alla guerra e che pertanto
sembrano in qualche modo imporre il loro pensiero strategico sul mondo militare sabaudo,
favorito dalle successive difficoltà economiche post belliche e la lenta riorganizzazione delle
forze. Nuovamente nel 1815, con la Restaurazione dello Stato sardo, tornò in auge la tattica
dell’Army in being nata dalla battaglia dell’Assietta anche nelle successive campagne belliche
come la Seconda Guerra di Indipendenza (1859), strutturata proprio con le formazioni
sabaude in difesa in attesa dei rinforzi francesi. In alcuni casi i comandanti italiani provarono
ad uscire da tali schemi difensivi, senza però avere un esercito strutturato per offensive di
largo respiro e con conseguenti grandi sconfitte come quelle avvenute nella Prima Guerra di
Indipendenza (1848-1849), nella Terza Guerra di Indipendenza (1866), le successive guerre
coloniali per non parlare della pianificazione della Seconda Guerra Mondiale 52. Anche nel
Novecento il ricordo dell’Assietta era ancora presente nella memoria e negli studi degli
Ufficiali del Regio Esercito53 e la nascita della XXVI brigata di fanteria che divenne la XXVI
“Divisione militare dell’Assietta”54.
Figura 9 - Hyacinthe DE LA PEIGNE, La Battaglia dell'Assietta, Palazzo Reale di Torino, Torino, 1751.
52
In tale circostanza, in aggiunta ad una mancata innovazione dottrinale e di pensiero militare, si unirono altre
carenze di natura industriale, materiale, economico, politico.
53 Si vedano, ad esempio, le memorie di Paolo Caccia Dominioni, cfr. in Paolo CACCIA DOMINIONI, 19151919. Diario di guerra, Milano, 1993, pp. 36-37.
54 Si veda: http://www.regioesercito.it/reparti/fanteria/rediv26.htm .
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
Le c.d. lessons learned dalla Guerra di Successione Austriaca, il rendimento e la (lenta e
lentissima) riorganizzazione delle armate sabaude, l’evoluzione tecnologica dell’artiglieria e
più in generale del modo di combattere, le evoluzioni dei rapporti diplomatici e politici tra
gli attori europei, aprirebbero un capitolo nuovo e di più ampio respiro che nelle righe
precedenti ha avuto un embrionale presentazione ma che sarà trattato nel prossimo futuro.
Il Regno di Sardegna (ed il suo esercito) nella guerra di Successione Austriaca.
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Bibliografia
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o Museo Storico, Rélation de l’affaire de l’Assiette faite par Mr le Compte de Priouque,
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- Sezioni riunite, Azienda Generale d’Artiglieria, Regi Viglietti e Dispacci, voll. III e IV.
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SMS, composée de Troupes Nationales & Etrangerés, à Alexandrie MDCCLII; Saluzzo
n.488. Reglement d’Exercice et de Manouvres. A’ Coni le 20 Mai 1749. Maniere de tirer de pied
ferme contre l’Infanterie, donnée le 15e Mai 1709.
- Fondo Manoscritto militare, manoscritto militare n.155; Memorie Politiche per
Rapporto all’Interno, Storia della Real Casa, mazzi 21-22; Minutoli, Relations des
Campagnes faites au service de S.M. le Roy de Sardaigne Duc de Savoie pendant la guerre d'Italie
de l'année 1742 et 1748; manoscritto militare n.234, Recoeuil de plusieurs plans des defferentes
manouvres que la toupe de Sa Maiesté le Roy de Sardaigne doit faire, tel qu’il l’ordonne d’exeuter
dans le reglement qu’il donné l’an 1755.
Paolo CACCIA DOMINIONI, 1915-1919. Diario di guerra, Milano, 1993.
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Il Regno di Sardegna (ed il suo esercito) nella guerra di Successione Austriaca.
Marco Cencio
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Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
Rashed UZ ZAMAN, Strategic Culture: a “Cultural understanding of War, Comparative Strategy,
28:1, 68-88, doi: https://doi.org/10.1080/01495930802679785.
Sitografia
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https://maps.lib.utexas.edu/maps/historical/history_shepherd_1923.html
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Hyacinthe DE LA PEIGNE, La Battaglia dell’Assietta, Palazzo Reale di Torino, Torino, 1751.
Hyacinthe DE LA PEIGNE, La resa di Asti, Palazzo Reale di Torino (particolare).
Earle DOW, «Europe in 1715 after the Treaties of Utrecht», in Atlas of European History,
Rastatt and Baden, 1907, tavola 21.
«La crescita dei Savoia 1418-1748», (particolare) in William R. SHEPHERD, Historical Atlas,
ed. 1926, p. 130.
Giovanni PANEALBO (attribuito), Ritratto di Carlo Emanuele III, Re di Sardegna (1730-1773),
Olio su tela, Venaria Reale.
H
enry S. TANNER, «Regno di Sardegna. (with Island of Sardinia)», in World Atlas, Philadelphia,
1836.
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
Von Moltke: lo stratega della grande Prussia
Enzo Bosco
Introduzione
The tactical result of an engagement forms the base
for new strategic decisions because victory or defeat
in a battle changes the situation to such a degree
that no human acumen is able to see beyond the first battle1.
Helmuth von Moltke
Dopo l'avanzamento al grado di colonnello nel 1851, Helmuth von Moltke divenne aiutante
personale del Principe Federico, uomo che nel 1888 salì al trono imperiale sotto il nome di
Federico III. La leadership dello stato prussiano promosse Moltke a Capo di Stato Maggiore
nel 1857, dove iniziò subito ad applicare riforme per l'organizzazione e la strategia all'esercito
regio. La posizione non era il grado più alto dell'esercito, ma gli venne richiesto di utilizzare
le capacità di gestione che lo distinguevano dagli altri ufficiali. Da tale posizione portò le
truppe prussiane a varie vittorie che condussero alla riunificazione della grande Germania.
Raggiunse il grado più alto dell’esercito, quello di Feldmaresciallo, nel 1871, dopo
l’unificazione tedesca e la riorganizzazione dell’esercito. Morì nel 18912.
Notoriamente, la Storia ha una duplice prospettiva: quella generale dei grandi eventi e quella
singolare dei protagonisti, grandi o piccoli che siano. Anche ogni guerra e qualunque battaglia
può essere studiata da questa duplice angolazione.
Le campagne militari di Von Moltke per la rinascita tedesca
Nella storia militare europea assume grande rilevanza il generale Von Moltke 'Senior’. Dopo
aver svolto ruoli secondari nell’esercito prussiano e ottomano, e come aiutante del principe
1
Daniel J. HUGHES e Harry BELL, Moltke on the Art of War: Selected Writings, Presidio Press, New York, 1993, p.
92.
2 Eric WISKOCIL, Helmuth von Moltke the Elder’s Memorandum on the Effect of Improvements in Firearms on Battlefield
Tactics (1861), GHDI, Washington, 2015, p.1.
Von Moltke: lo stratega della grande Prussia
Enzo Bosco
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ereditario Federico Guglielmo, futuro Federico III, nel 1857 divenne Capo di Stato maggiore
generale prussiano. Quando Helmuth von Moltke assunse tale carica l'esercito prussiano, e la
Prussia, erano fuori dal contesto principale europeo: l'ultima battaglia internazionale a cui
parteciparono risaliva infatti alle campagne antinapoleoniche, più di quarant'anni prima.
Tuttavia, nel giro di un decennio e mezzo portò l’arma tedesca ad essere la più forte
d'Europa3. Grazie a tale carica poté avviare un’opera di modernizzazione tattica, strategica e
dell'addestramento, nonché dei mezzi di comunicazione. Dai suoi numi tutelari ideali,
Scharnhorst e Gneisenau, Moltke si distingueva per un tratto nuovo, che sarà determinante
anche per le future generazioni di ufficiali che, a loro volta, a lui si ispiravano. Scharnhorst e
Gneisenau erano stati, infatti, generali e politici allo stesso tempo, anche se con differenze
notevoli tra l’uno e l’altro. La loro idea di riforma militare era strettamente connessa ad una
riforma del sistema politico generale della Prussia. Per entrambi, politica e strategia erano
facce della stessa medaglia, inscindibili. Moltke, al contrario, pur riconoscendo la stretta
connessione tra queste virtù, si astenne sempre dal farsi coinvolgere dalla politica, anche se
questa lo interessò continuamente, essendo il suo lavoro strettamente connesso ad essa.
Tant’è che odiernamente la storiografia è convinta che l’unificazione tedesca sia stata un
successo grazie ai connubi guerra-politica e Moltke-Bismarck4 . Questa convinzione del
generale di assoluta neutralità dei militari rispetto alla politica, strettamente praticata in
seguito dalla Reichswehr e dalla Wehrmacht, porterà a gravissime conseguenze per la Germania.
Grande studioso (in particolar modo di discipline affiliate alla strategia militare: storia e
geografia) Moltke svolse la sua carriera militare principalmente come ufficiale di stato
maggiore e non come comandante di reparti. Ciononostante, allorché si confrontò con
l’impiego sul campo delle forze, la sua lucidità e visione d’insieme portarono alla vittoria le
armate prussiane e tedesche rispettivamente a Sadowa nel 1866 contro gli austriaci e a Sedan
nel 1870 contro i francesi. Von Moltke teorizzò la strategia come «l'arte pratica di adattare i
mezzi ai fini»5. Niente viene fatto casualmente: tutto è prodotto grazie a regole e ad artifici
calcolati. Anche l’operazione più semplice è abbreviata da qualche astuto processo; non
siamo ancora dentro il concetto di guerra lampo, ma l’idea inizia ad essere quella di portare a
termine il conflitto bellico. La premeditazione accompagnata dalla preparazione era la chiave
per arrivare preparati allo scontro, almeno della fase iniziale poiché gli imprevisti potevano
cambiare le cose sullo sfondo bellico:
3
Quintin BARRY, Moltke and his Generals: A Study in Leadership, Helion & Co Ltd, Warwick, 2015, p. 10.
Arkadij Samsonovic ERUSALIMSKIJ, Bismarck. Diplomazia e militarismo, Res Gestae 2018, p. 32-33.
5 Helmuth Karl Bernhard von MOLTKE, Militärische Werk, Hansebooks, Norderstedt, 2017, p.78.
4
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
Strategy is a system of expedients. It is more than a discipline; it is the transfer of
knowledge to practical life, the continued development of the original leading thought
in accordance with the constantly changing circumstances. It is the art of acting under
the pressure of the most difficult conditions6.
Le antiche modalità di disciplina sono screditate, messe da parte; cosa che lo storico Carlyle
scrisse già nel 1829 applicandolo all'industria7; non vi sono testimonianze che Moltke lesse i
saggi dell’inglese. Con l'avanzamento della rivoluzione industriale l'efficienza degli armamenti
aumentò radicalmente, gli attacchi frontali iniziarono a risultare inapplicabili o quantomeno
inutili se condotti isolamente; cosa verificatasi già in Crimea come testimoniano Lev Tolstoj8
ed Ettore Viale Bertolè9. Per tale motivo, il generale prussiano dedusse che attaccare
aggirando il nemico fosse la tattica più conveniente ed efficace. Riuscì ad intuire quale grande
influenza avevano le armi da fuoco in ottica difensiva, nonostante fu un tipico esponente
della strategia offensiva, secondo la quale si risolvevano anche i problemi relativi alla
copertura. Effettuò studi sulle battaglie napoleoniche, come Waterloo e Bautzen, e sugli
scontri a lui contemporanei come la battaglia di Solferino. Allo scontro del 24 giugno 1859 il
generale assistette in prima persona, ed è facile intuire che dal conflitto trasse «parecchi spunti
per progettare la sua creatura, la macchina bellica che nel decennio seguente avrebbe battuto
sia gli austriaci e l’ardore un po’ guascone dei francesi sarebbero diventati obsoleti a
confronto dell’efficienza dello stato maggiore prussiano, capace di pianificare e organizzare
intere campagne in maniera quasi scientifica»10. Nella quale teorizzò l'accerchiamento.
Durante il conflitto tra Napoleone e l’alleanza tra l’impero zarista e prussiani, per sferrare
l'assalto decisivo agli alleati l'imperatore decise di tenere occupato l'esercito nemico con un
assalto frontale, ma di inviare i 45.000 soldati francesi guidati dal maresciallo Ney, che si
divisero dall'arma centrale, e accerchiare le truppe di Wittgenstein, la quale si sarebbe quindi
ritrovata accerchiata11. L’accerchiamento sarà una delle soluzioni preferite da Moltke come
vedremo. Per la battaglia di Waterloo si affidò agli inglesi. Wellington elargì una strategia che
prevedeva l'offensiva combinata dei suoi soldati, supportati dal feldmaresciallo Blücher, dal
principe Schwarzenberg e dall'armata russa12. L'insegnamento che trasse maggiormente da
6
BARRY, Moltke and his Generals, p. 47.
Thomas CARLYLE, Segni dei tempi, EDIFIR, Firenze, 2019.
8 Lev TOLSTOJ, I racconti di Sebastopoli, Garzanti, Milano, 2004.
9 Ettore Viale BERTOLÈ, Lettere dalla Crimea 1855-1856, Carocci, Roma, 2006.
10 Marco SCARDIGLI, Le grandi battaglie del Risorgimento, Bur Rizzoli, Padova, 2020, p.297-298.
11 Andrea FREDIANI, Le grandi battaglie di Napoleone, Newton Compton Editori, Roma, 2011, p. 206.
12 Alessandro BARBERO, La battaglia. Storia di Waterloo, Laterza, Roma-Bari, 2012.
cfr. Henry HOUSSAYE, Waterloo 1815, Christian Debarthelat editeur, Parigi, 1987.
7
Von Moltke: lo stratega della grande Prussia
Enzo Bosco
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Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
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tale scontro fu la separazione negli spostamenti: l'essenza della strategia di Moltke sta nel
tenere distanti i corpi d'armata durante i movimenti e nel concentrarli il più velocemente
possibile nel momento dello scontro13. Tale idea è favorita dalla scoperta della ferrovia come
mezzo militare14; la guerra si evolve e non è più necessario depredare i contadini e le città al
passaggio per il rifornimento degli eserciti, per poi raggiungere le rispettive posizioni di
battaglia. Con un efficiente sistema ferroviario il trasporto di viveri, gli spostamenti lunghi e
anche il rientro in Patria dei feriti, rende in un certo senso lo scontro più umano; anche se
l’innovazione tecnologica rende micidiale il conflitto armato, elevando come non mai, nella
storia dell’umanità, il numero di morti, feriti e dispersi. La filosofia militare di Moltke è stata
ormai analizzata da Daniel Huges15 e Quintin Barry16: è tramite l’ausilio di questi due testi, a
cui si aggiunge Gravelotte-St-Privat 1870: End of the Second Empire di Philipp ElliotWright17, che è stato possibile scrivere tale articolo. Prenderemo in considerazione tre delle
più grandi e importanti battaglie in cui la strategia del generale prussiano è stata fondamentale
per la vittoria: Sadowa, Gravelotte e Sedan.
Helmuth Karl Bernhard von Moltke, Kunstverlag
der Photographischen Gesellschaft Berlin
13
MOLTKE, Militärische Werk cit., p. 38-40.
Ibid, p. 53.
15 HUGES, Moltke on the Art of War.
16 BARRY, Moltke and his Generals.
17 Philipp ELLIOT-WRIGHT, Gravelotte-St-Privat 1870: End of the Second Empire, Osprey Publishing, Oxford, 1993.
14
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
Sadowa
Carta della battaglia di Sadowa, presente presso il sito: https://warfarehistorynetwork.com/the-artof-victory-koniggratz-1866/
La battaglia di Sadowa è il grande evento conclusivo della guerra austro-prussiana del 1866.
Le ragioni del conflitto sono molteplici, la preponderante è la supremazia nella
confederazione tedesca e il possesso dei territori dello Schleswig e dell’Holstein. Le prime
regioni in cui negli anni ’20 e ’30 del Novecento inizierà a espandersi il fenomeno del
nazionalsocialismo. Al conflitto prese parte anche il neonato regno d’Italia per la conquista
del Veneto, ma separatamente per la gran parte del conflitto dal fronte tedesco; infatti, a
Sadowa non ci furono reggimenti col tricolore. La guerra nel suo complesso stava pendendo
dalla parte dei prussiani, nonostante la convinzione imperiale di avere un esercito più
preparato; convinzione dovuta al reclutamento austriaco secondo il tradizionale criterio della
«qualità», cioè attraverso il reclutamento di una parte soltanto dei giovani in età di leva, che
restano nell’arma per un lungo periodo di ferma (otto anni), dando loro una maggiore
Von Moltke: lo stratega della grande Prussia
Enzo Bosco
139
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Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
esperienza e una migliore preparazione18. All’inizio del conflitto l’esercito prussiano era diviso
in tre armate: la Prima Armata comandata dal principe Federico Carlo, stanziata tra la
Sassonia e Brandeburgo, la Seconda Armata guidata dal principe ereditario Federico, ferma
in Slesia, e l’Armata dell’Elba agli ordini del generale von Bittenfeld. Gli austriaci erano riuniti
in un’unica armata sotto il controllo di von Benedek, che attendeva in posizione difensiva tra
le colline nella zona del Bistritz e dell’Elba19. 60.000 uomini e 320 cannoni erano fermi tra
Sendrasitz e l’Elba, cioè un terzo delle truppe, perché con queste formazioni Benedek aveva
l’intenzione di condurre il suo contrattacco nel momento in cui i prussiani si fossero arenati
sulla posizione difensiva avanzata austriaca20. Tale scelta non fu casuale, le forze austriache
avevano già connotato la supremazia degli armamenti prussiani in diverse occasioni, per cui
Benedek sperava che la fortezza di Königgrätz dietro la loro postazione potesse essere un
ottimo luogo da cui coprire l’esercito per la ritirata, con la speranza che se tutto andasse per
il verso sbagliato la fanteria in posizione sostenuta dall’artiglieria potesse fermare l’avanzata
del nemico21. Il generale austriaco aveva acquisito una nota fame grazie alle campagne in Italia
nel 1848 prima, e nel 1859 successivamente. Inizialmente aveva rifiutato l’incarico di
Comandante in Capo dell’esercito del nord austriaco, sia per l’età avanzata di 61 anni, sia per
le condizioni di guerra in territorio boemo che gli era sconosciuto; solo la pressione
dell’Imperatore Francesco Giuseppe lo convinse22. La prima mossa fu l’avanzata in Sassionia
di Bittenfeld, dove trovò una stregua resistenza di 25.000 uomini, per poi unirsi alle truppe
del principe Federico Carlo. Il piano di guerra di Moltke seguiva il suo pensiero: «Marciare
separatamente […] colpire insieme»23, cioè uno schieramento delle truppe completamente
avverso alla strategia classica sulle ‘linee esterne’ e non sulle linee interne con il pro di
distanziamenti brevi e un facile supporto tra le divisioni. Le settimane successive della
campagna militare, dal 15 al 30 giugno, videro l’avanzata delle forze prussiane in Boemia24.
L’arrivo ci viene raccontato da un osservatore primario:
«Un casello con una barriera nera e gialla segnava il confine tra Sassonia e Boemia. Qui
il Principe si fermò. Gli ulani, che costituivano la guardia avanzata, attraversarono per
primi il confine; poi venne la fanteria. Ogni volta che i ranghi avanzati di un battaglione
18 Alberto Mario BANTI, L’età contemporanea. Dalle rivoluzioni settecentesche all’imperialismo, Laterza, Roma-Bari, 2009,
p. 301.
19
BARRY, Moltke and his Generals cit., p. 243-248.
20 Ibid, p. 250.
21 Ibid, p. 251.
22 Ivi;
23 MOLTKE, Militärische Werk cit., p.34.
24
BARRY, Moltke and his Generals cit., p. 258.
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
raggiungevano la barriera e vedevano i colori austriaci, sollevavano un grido di gioia,
che veniva ripreso dai ranghi posteriori e ripetuto più volte, fino a quando le truppe
raggiungevano il casello e vedevano il loro "principe soldato" in piedi accanto al
marcatore di confine. Alla sua vista gli urli si trasformarono in un ruggito di giubilo, che
cessò solo quando fu sostituito dal suono di un canto di guerra che fu ripreso e ripetuto
da ogni battaglione al passaggio in terra boema. Il comandante se ne stava tranquillo
sull'autostrada, osservando i reggimenti che passavano con silenzioso orgoglio. E
avrebbe potuto sentirsi così, perché mai un esercito aveva attraversato un confine
straniero meglio armato, meglio rifornito e ispirato da un sentimento più elevato di
quello che passò dalla Sassonia alla Boemia»25.
Benedek, nel mentre, iniziò a ritirare le truppe verso Vienna, arrivando a riparare fino a
Josefstadt, un distretto della capitale imperiale26. Moltke, da stratega, capì la futura intenzione
di Benedek: bloccare i prussiani fino a che non avesse potuto ritirarsi al di là dell'Elba e creare
un conflitto a fuoco, ma a distanza, in modo da recuperare tempo, uomini e rifornimenti,
impedendo l’avanzata prussiana27. Il 2 luglio le forze prussiane di Federico Carlo avvistarono
l’esercito imperiale in posizione difensiva tra Sadová e Hradec Králové (Königgrätz in
tedesco; infatti nel mondo tedesco e anglosassone è conosciuta come Battaglia di
Königgrätz). L’idea del principe era di attaccare la mattina del 3 luglio28. Moltke tentò di
velocizzare la manovra facendo avanzare immediatamente l’armata, ma il telegrafo saltò per
cui dovette inviare un dispaccio da parte di due suoi ufficiali a cavallo29. La notizia arrivò solo
alle 4 del mattino del giorno successivo: la battaglia poteva iniziare30. I prussiani misero in
campo circa 220.000 uomini (inizialmente con 39 mila nell’Armata dell’Elba e 85 mila nella
Prima, poi rinforzati dai 100 mila della seconda armata), tra le forze austriache ci sono delle
incertezze, i numeri vanno dai 184.000 ai 238.00031. Il conflitto iniziò all’alba del 3 luglio con
il possesso da parte prussiana delle zone vicino al fiume Bystrice. Verso le 7:53, la 7a divisione
prussiana, al comando di Fransecky avanzò nel bosco dello Swiep, ma trovò due gruppi
austriaci. Il futuro Guglielmo I ordinò all’armata di Federico Carlo di supportare la divisione.
L’artiglieria austriaca fece fuoco sui prussiani rallentandoli nel passaggio al di là del fiume.
L’esercito prussiano bloccò l’attacco alle ore 11 del mattino, Benedeck pensò di far partire
25
Theodor FONTANE, Der Deutsche Krieg von 1866, Diederichs Eugen, Düsseldorf, 1986, p. 139.
BARRY, Moltke and his Generals cit., p. 262.
27 MOLTKE, Militärische Werk cit., p. 130.
28 Ibid, 134;
29 Ibid, p. 144;
30 Ibid, p. 145;
31 Ibid, p. 150.
26
Von Moltke: lo stratega della grande Prussia
Enzo Bosco
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Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
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una controffensiva della cavalleria, con la quale probabilmente avrebbe intaccato con molte
perdite la Prima Armata, ma cambiò subito idea, pensando alla difesa. I prussiani erano allo
sbaraglio, l’esito del conflitto era incerto32; alle 14:28 trionfalmente arrivò il principe
ereditario, futuro Federico III, con circa 100.000 soldati ai suoi ordini33. Le truppe del
principe colpirono al fianco destro l’esercito di Benedeck e nel frattempo gli uomini
dell’Armata dell’Elba completarono la tenaglia da sinistra, distruggendo l’esercito austriaco.
L’accerchiamento si concluse con un attacco frontale che fu schiacciante34. L’esercito
prussiano, inoltre, aveva in dote il fucile Dreyse35, arma che entrò in servizio pochi anni
prima, prodotta dalle fabbriche statali di Spandau, Danzica, Saarn ed Erfurt sin dal 1853.
Mentre gli austriaci con i loro obsoleti fucili ad avancarica Lorenz dovevano levarsi in piedi
dopo ciascuno sparo per ricaricare, mentre i loro avversari potevano ricaricare e sparare senza
rialzarsi, aumentando il fuoco sino ad 8 colpi al minuto circa36. L'avanzata prussiana fu così
rapida che Benedek ordinò una serie di contro cariche di cavalleria per appoggiare l'artiglieria
e coprire la ritirata generale che chiamò alle 15 in punto. Questi attacchi riuscirono a coprire
le retrovie austriache, a tenere aperti i ponti sull'Elba per i soldati austriaci in ritirata e a
impedire l'inseguimento, ma a un costo terribile: 2.000 uomini e quasi altrettanti cavalli
furono uccisi, feriti o catturati nell’azione37. Benedeck stesso attraversò l'Elba verso le 18:00
e alcune ore dopo informò l'imperatore che la catastrofe che temeva si era effettivamente
verificata. La battaglia si concluse con pesanti perdite per gli austriaci. I prussiani ebbero circa
9.000 uomini tra uccisi, feriti o dispersi. Gli austriaci persero più di 44.000 uomini tra uccisi,
feriti o dispersi, di cui 22.170 catturati38. Ad aggravare le perdite austriache fu il precedente
rifiuto dell'Austria di firmare la Prima Convenzione di Ginevra39. Di conseguenza, il
personale medico austriaco fu considerato un combattente e si ritirò dal campo con il grosso
delle forze, lasciando i feriti a morire sul campo. Allo scontro, tra le fila prussiane, partecipò
anche un giovane von Hindenburg futuro presidente della Repubblica di Weimar. Dopo
Sadowa, i prussiani e gli austriaci ebbero ancora qualche contrasto bellico minore, fino al 23
agosto quando venne firmata la Pace di Praga40 che concluse definitivamente il conflitto.
32
MOLTKE, Militärische Werk cit., p.153.
HUGES, Moltke on the Art of War cit., p. 121.
34 MOLTKE, Militärische Werk cit., p.143.
35
Ibid, p. 34.
36 Ibid, p.43.
37
Ibid, p. 165-168.
38 HUGES, Moltke on the Art of War cit., p. 137.
39
Ibid, p. 139;
40 Ibid, p. 140;
33
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
Moltke, inoltre, tra le critiche dei conservatori come Friedrich von Wrangel che reputavano
disonorevole evitare il corpo a corpo, usò le caratteristiche dei fucili prussiani per superare
l’assalto alla baionetta e fare esclusivo affidamento su spari rapidi, rinunciando quindi alle
formazioni solide e strette in favore di unità più piccole e libere nei movimenti. Proprio la
battaglia di Sadowa premiò le sue
intuizioni. Dei vari e numerosi
aneddoti che si sono conservati su
questo memorabile scontro tra
Prussia e Austria, si ritrova sempre
il detto «I prussiani non sparano
così velocemente!»41 oppure si
narra della fuga dei soldati austriaci
verso la sera che urlavano «i
prussiani
sparano
Václav SOCHOR, La batteria dei morti, olio su tela, 509 x 809 cm, Museo
di storia militare di Vienna.
troppo
velocemente»; allusione al fatto che i prussiani sparassero con i fucili ad ago, il che diede loro
un grande vantaggio. Non è della stessa opinione Paul von Hindenburg, che prese parte alla
battaglia nel grado di sottotenente come già ricordato precedentemente, descrisse in seguito
l’effetto dei fucili ad ago come «terribile». Nel Museo di Storia Militare di Vienna
(Heeresgeschichtliches Museum), la battaglia di Königgrätz è documentata in dettaglio con una
varietà di oggetti. Per esempio,
diversi fucili ad ago di Johann
Nikolaus von Dreyse sono
esposti accanto ai fucili austriaci
Lorenz. Un cannone da campo
M
1863
rappresenta
superiorità
la
dell’artiglieria
austriaca negli anni 1864-1866 in
termini di precisione di tiro e
mobilità.
Il
monumentale
Otto von OTTENFELD EIN RUHMESBLATT der österreichischen Artillerie, olio
su tela, 194 × 289 cm, 1897, Museo di Storia Militare, Vienna.
dipinto di Václav Sochor mostra la fine di una batteria d’artiglieria che coprì la ritirata dello
sconfitto esercito austriaco di Benedek attraverso l’Elba e si sacrificò nel processo42. Questo
41
42
Sebastian HAFFNER, Preußen ohne Legende, Siedler, Güterloh, 1998, p. 326;
BARRY, Moltke and his Generals cit., p. 288.
Von Moltke: lo stratega della grande Prussia
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Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
144
atto sacrificale fu anche il soggetto del dipinto di Rudolf Otto von Ottenfeld Ein
Ruhmesblatt der österreichischen Artillerie. Pare che l’Imperatore Francesco Giuseppe abbia
promesso: «Finchè vivrò l’Austria non farà più guerre»43. Purtroppo non mantenne la parola.
Gravelotte
In Francia, nonostante l'esito della guerra del 1866, vi sono numerosi politici e militari che
sottovalutano ancora la forza dell'esercito prussiano di Moltke44. Napoleone III, per amor
del vero, sembra molto meno sicuro di loro al riguardo45. Bismarck, invece, è
determinatissimo a far precipitare le relazioni diplomatiche con i vicini francesi, per scatenare
in fretta una guerra che egli è certo di poter vincere. Nel luglio del 1870 l'occasione si presenta
al diplomatico: Bismarck manipola un telegramma da Ems che il re Guglielmo I gli ha inviato
in merito alla questione spagnola, in modo da mostrare che il sovrano prussiano abbia
sostanzialmente voluto sfidare la Francia, e poi lo comunica alla stampa.
Sua Maestà mi scrive: «il Conte Benedetti mi ha sorpreso insidiosamente alla passeggiata
chiedendo in modo molto insistente l'autorizzazione di telegrafar subito che per
l'avvenire non avrei dato mai più il mio consenso, qualora gli Hohenzollem fossero
ritornati alla loro candidatura. Ho finito per congedarlo un po' severamente, poiché né
si devono né si possono prendere tali impegni a tout jamais. Gli ho detto naturalmente
che non avevo ricevuto ancor nulla, e che avendo egli prima di me le informazioni di
Parigi e di Madrid, vedeva bene che il mio governo era di nuovo fuori questione». Di
poi sua Maestà ha ricevuto una lettera del Principe. Siccome Sua Maestà aveva detto al
conte Benedetti che aspettava notizia del Principe, così, tenuto conto della pretesa di
lui, la stessa Maestà [...] ha deciso di non ricevere più il conte Benedetti, ma di fargli dire
da un aiutante di aver ora ricevuto dal Principe la conferma della notizia che Benedetti
già aveva avuto da Parigi, e di non aver più nulla da dire all'ambasciatore. Sua Maestà
lascia all'arbitrio dell'Eccellenza Vostra se non si debba comunicare subito, sia ai nostri
ambasciatori, sia alla stampa, la nuova pretesa del Benedetti ed il rifiuto ad essa opposto.
Dopo che le notizie della rinuncia del Principe ereditario di Hohenzollern sono state
comunicate al Governo imperiale francese da quello reale spagnolo, l'ambasciatore
43
HUGES, Moltke on the Art of War cit., p. 164.
ELLIOT-WRIGHT, Gravelotte-St-Privat 1870 cit., p. 33.
45 Ibid, p. 233.
44
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
francese in Ems ha richiesto ancora Sua Maestà il Re di autorizzarlo a telegrafare a Parigi
che Sua Maestà il Re si impegnava per tutto il tempo avvenire a non dare giammai il suo
consenso, qualora gli Hohenzollern ritornassero alla loro candidatura. Sua Maestà il Re
ha ricusato di ricevere ancora l'ambasciatore francese e ha fatto dire per mezzo del suo
aiutante che non aveva nulla da comunicare all'ambasciatore46.
In seguito alla pubblicazione della versione abbreviata del telegramma di Ems, sia in Francia
che in Germania vi sono manifestazioni nazionaliste, favorevoli ad una guerra47. Dopo
qualche esitazione, Napoleone III decide di rompere gli schemi e il 19 luglio 1870 fa
notificare una dichiarazione di guerra alla Prussia: inizia la guerra franco-prussiana48.
Bismarck aveva cambiato le carte in tavola: da paese aggressore, la Prussia, con quel
messaggio divenne paese aggredito, cosa che gli diede molti più sostenitori nell’opinione
pubblica internazionale49. Napoleone III dal canto suo, rivisse gli eventi del 1859 ma in una
situazione ribaltata: dopo Plombieres aveva sottoposto l'aiuto militare francese al Regno di
Sardegna alla condizione che fosse l'Austria ad apparire come la potenza che aggrediva e la
Francia come la potenza che difendeva il piccolo Regno sardo. Ora lo stesso trucco si ritorce
contro di lui: non vorrebbe la guerra, ma si trova a rivestire i panni di capo della potenza che
aggredisce50. Con la Prussia si schierarono la Baviera, la Sassonia e il Württemberg. L’alleanza
il 1° agosto conta ben 800.000 uomini, guidati dal generale Moltke e già mobilitati;
arriveranno ad 1.200.000 i soldati prussiani durante la guerra51. La Francia, priva del sostegno
dei suoi alleati per l'inefficienza dei servizi logistici, riunì solo 300.000 uomini, alle dipendenze
dei marescialli MacMahon e Bazaine; in totale saranno 900.000 gli uomini francesi a
combattere52.
46
Otto von BISMARCK, Pensieri e ricordi, Treves, Milano, 1922, vol. II, p. 87-88.
cfr. Arno MAYER, The Persistence of the Old Regime, Verso, Londra, 2010 (disponibile anche in versione
italiana, Il potere dell'Ancien Régime fino alla prima guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari, 1999). Mayer
sostiene che tutta la storia dell'Europa ottocentesca è stata caratterizzata da una tenace «persistenza dell'antico
regime», di cui sarebbero prova il predominio delle economie agricole, la forza economica e sociale (anche se
non più giuridica) delle nobiltà terriere, la natura delle istituzioni politiche, quasi dovunque ancora monarchiche,
e soprattutto la fragilità culturale e psichica delle classi borghesi.
47 Michael HOWARD, The Franco-Prussian War, Routledge, Londra, 2001, p. 87.
48 HUGES, Moltke on the Art of War cit., p. 249-259.
49 ELLIOT-WRIGHT, Gravelotte-St-Privat 1870 cit., p. 18.
50 Ibid, p. 237.
51 HUGES, Moltke on the Art of War cit., p. 256.
52 Ibid, p. 265.
Von Moltke: lo stratega della grande Prussia
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146
Per far fronte a tutte le possibili eventualità, il
generale Moltke aveva, nei piani delle prime
operazioni redatti fin dai tempi di pace, stabilito di
concentrare le forze nel Palatinato, fra Reno e
Mosella, un punto in cui gli alti ranghi francesi non
pensavano di poter essere assediati. Da questa
posizione avrebbe minacciato il fianco destro dei
Francesi se questi avessero violato il Belgio. Il loro
fianco sinistro se avessero invaso il sud della
Germania attraverso il Reno. Infine, da quella
posizione avrebbe potuto puntare contro le linee
della Lauter e della Sarre (Saar) se i Francesi
fossero rimasti sulla difensiva53. Fu quest'ultimo
caso che si presentò all'atto pratico. Lo Stato
Jean-Adolphe BEAUCE, Achille-Francois Bazaine,
Marechal de France (1811-1888), Musée de
l’Histoire de France.
maggiore francese, senza reali prove, era convinto
di porre l'esercito pronto a entrare in campagna
prima dei prussiani. L’idea di Napoleone III era
quella di prendere l'offensiva oltre il Reno e, seguendo la valle del Meno, separare gli stati del
sud della Germania, ritenuti avversi alla Prussia, dagli stati del nord54. Tale strategia si ispirava
probabilmente al piano combinato con l'Austria e l'Italia durante le trattative, sopra
accennate, per un'alleanza militare55. Era infatti stata esaminata dai tre Stati maggiori la
convenienza di raccogliere in Baviera tre armate, una per ciascuno stato, di 100.000 uomini
l’una; e, operata la riunione, di puntare contro la Prussia56. Questa prima massa di uomini si
sarebbe poi unita dalle armate francesi, approntate in un secondo tempo57. Rimasto privo di
supporto militare, ma non avendo ancora perduto interamente la speranza del concorso di
un’altra potenza europea tra Italia e Austria, l'imperatore e i gerarchi francesi pensarono di
dar corso ugualmente a tale disegno, sperando che un primo successo potesse indurre Vienna
o Firenze a schierarsi dalla parte della Francia58. In più, un corpo d'armata agli ordini del
principe Napoleone Girolamo, protetto da tutte le forze della flotta francese, avrebbe tentato
53
MOLTKE, Militärische Werk cit., p.123.
HUGES, Moltke on the Art of War cit., p. 270.
55 Ibid, p. 271.
56 Ibid, p. 270.
57
ELLIOT-WRIGHT, Gravelotte-St-Privat 1870 cit., p. 22.
58
HOWARD, The Franco-Prussian War cit., p. 96.
54
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
uno sbarco rischiosissimo sulle coste prussiane59. In apertura del conflitto, le armate tedesche,
sotto il comando del generale Moltke, conseguirono immediatamente una serie di vittorie,
Woerth, Forbach-Spicheren, tra le più importanti60. Nell'agosto del 1870, l'esercito francese
si ritrovò diviso in due corpi principali: l'armata di Patrice de MacMahon, concentrata a
Châlons-en-Champagne, presso la quale si era trasferito lo stesso Napoleone III, e l'armata
del Reno guidata dal maresciallo François Achille Bazaine61. Quest’ultimo aveva ricevuto
l’ordine di allontanarsi dalla piazzaforte di Metz e di ricongiungersi a Châlons, passando per
Verdun. Tale ricongiungimento era fondamentale per le forze francesi, poiché avevano
sventato pochi giorni prima un tentativo di accerchiamento da parte delle armate di von
Moltke e avevano saputo respingere i prussiani. Si aveva il timore di un nuovo attacco.
Bazaine agì, tuttavia, con una certa lentezza62. Le due battaglie combattute attorno a Metz il
14 e il 16 agosto tra Borny e Vionville-mars-la-tour avevano notevolmente peggiorato la
situazione strategica delle truppe francesi di Lorena, le quali, per di più, subivano anche il
contraccolpo morale dovuto allo stupore che aveva colto il governo di Parigi e l'imperatrice
reggente all'annuncio delle prime sconfitte sulla linea di confine63. Come già detto, l’opinione
pubblica e l’élite francesi avevano un’idea prima dell’inizio del conflitto bellico molto diversa
rispetto all’andamento effettivo mostratosi fin ora. Tale malcontento si riversò contro lo
stesso imperatore, forse uno dei pochi a non volere la guerra64. Il 13 agosto il governo
consigliò a Napoleone III di cedere la suprema direzione della guerra all'idolo popolare,
Bazaine. Questa fu un'indiretta, ma pur chiara, confessione di gravi errori commessi nella
condotta della campagna. Tale crisi di comando arrivò nel momento meno opportuno, e cioè
mentre erano in corso operazioni di estrema delicatezza miranti a sottrarre i corpi di Lorena
al contatto nemico per ricostituire più indietro, vicino alla Mosa o alla Marna, un'unica armata
con i corpi reduci dall'Alsazia e comandati dal maresciallo MacMahon. La battaglia del 14
agosto a oriente di Metz, tra Borny e Colombey Nouilly, aveva ritardato il passaggio della
Mosella, operazione che ai Francesi avrebbe permesso di affrettare il ricongiungimento. La
battaglia del 16 agosto a occidente di Metz, Vionville-Mars-la-Tour, aveva ostacolato il
deflusso dell'armata francese verso Verdun, dove secondo gli accordi presi il mattino di quella
stessa giornata fra Napoleone III e il generale Bazaine le truppe di Lorena avrebbero dovuto
59
BARRY, Moltke and his Generals cit., p. 294.
HUGES, Moltke on the Art of War cit., p. 275-278.
61 Ibid, p. 278.
62
ELLIOT-WRIGHT, Gravelotte-St-Privat 1870 cit., p. 24.
63 BARRY, Moltke and his Generals cit., p. 299.
64 Ibid, p. 300.
60
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Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
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dirigersi di fretta. Questa seconda battaglia seppur minore, effettivamente, rimase
tatticamente incerta, ma aveva chiaramente rivelato una decisa inferiorità francese nella
tecnica e nello spirito del comando. Infatti, i corpi francesi seppur numericamente superiori,
e che logicamente avrebbero dovuto tendere, come si è detto, con la massima energia a
sfuggire verso occidente, si erano fatti agganciare da poche unità avversarie molto audaci, e
avevano finito con il rimanere paralizzati di fronte a loro65. Non vedendo un contrattacco
avversario, il giorno seguente il 17 agosto, come essi si attendevano, i prussiani avevano
approfittato della sosta per raccogliere i corpi disponibili delle due armate I e II sulla riva
occidentale della Mosella, fino ad arrivare ad un numero di combattenti pari a 188.332 con
l'aggiunta di 732 cannoni66. Il generale francese, Bazaine, approfittò della sosta per dirigersi
verso l'interno. Schierò le proprie forze, formate da 112,800 uomini e 520 cannoni, sulle
alture che sono alle spalle del campo di battaglia del 16 agosto, e perciò più prossime a Metz,
con tutta l'ala sinistra appoggiata alla Mosella presso Moulins; mentre l'ala destra (Canrobert)
dapprima a Verneville, poi alcuni chilometri più a nord fra Saint-Privat e Roncourt67. Da
queste località l’estesa linea francese si svolgeva per Amanvillers, La Folie, Moscou, fino alla
Mosella. La riserva, costituita dal corpo della Guardia, fu collocata fra Lessy e il forte SaintQuentin, ossia, erroneamente, dietro l'ala meglio appoggiata, mentre le truppe di Canrobert,
che non aveva possibilità di aggrapparsi solidamente al terreno, venne a mancare di un
sostegno sufficientemente vicino. Il 18 agosto le truppe di Moltke ripresero l'offensiva:
avevano constatato che non vi era traccia di movimento lungo la rotabile Conflans-Verdun.
Rimaneva incertezza sui movimenti del nemico Bazaine, se avvese ripiegato su Metz o se
cercasse di spostarsi verso l'interno della Francia passando più a nord per la strada di Briey.
Nel primo caso i prussiani avrebbero attaccato frontalmente, dopo aver fatto un’iniziale
manovra verso est. Nel secondo caso avrebbero attaccato il fianco sinistro dei Francesi
durante lo spostamento, procedendo direttamente da sud a nord. Moltke, da stratega, preparò
ugualmente i soldati ad affrontare l'una o l'altra eventualità68. Le teste dei corpi d'armata
avanzanti formarono una linea obliqua con il ramo di sinistra più avanzato. Alle ore 10 si
poteva escludere che i Francesi fossero in marcia e poco dopo arrivò la notizia, infatti, che
fossero fermi intorno a Metz69. L'avanzata degli uomini di Moltke prese forma definitiva per
un attacco in direzione est con l’intenzione di avvolgere la destra francese. Bazaine si era
65
Ibid, p. 301-310.
HUGES, Moltke on the Art of War, p. 283;
67 Ibid, p. 285;
68 Ibid, p. 284-286;
69 Ibid, p. 288;
66
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
auto-condannato ad una battaglia di contenimento. L'obiettivo minimo prussiano divenne la
neutralizzazione o l'immobilizzazione, circostanza che si avvererà con l'irreversibile
imbottigliamento nella capitale lorenese, dell'armata del Reno70. In modo da poter
raggiungere il reparto ormai isolato di Mac-Mahon, il quale rimarrà anch'egli vittima di
avvolgimenti e manovre a tenaglia71. Meglio ancora, nelle speranze dello stato maggiore
tedesco, se tale neutralizzazione si fosse tradotta in una definitiva eliminazione72. Il 18 agosto,
l'armata francese del Reno era addossata ai forti di San Quintino e di Plappeville, fra i villaggi
di Rozérieulles e Saint-Privat (dal quale prende il nome la battaglia nella tradizione francese).
Il capo di Stato Maggiore prussiano, Helmuth von Moltke, comandò alla battaglia la prima
armata di von Steinmetz e la seconda armata del principe Federico Carlo, che era stata battuta
dal Bazaine due giorni prima presso Mars-la-Tour. Presero inoltre parte allo scontro Augusto
di Württemberg alla testa della Guardia prussiana e il XII corpo sassone al comando del
principe Alberto di Sassonia73. Alle 8 in punto i prussiani iniziarono l'avanzata verso le
posizioni francesi. Alle 12.00 il generale Manstein e il IX corpo assiano, il più vicino alle linee
nemiche, incominciò a far fuoco tra Gravelotte e Verneville esplodendo i primi colpi
d'artiglieria74. Le truppe prussiane continuarono l'avanzata fino a quando vennero contrastati
dalle prime formazioni francesi, mentre più a sud, nei pressi di Gravelotte, affrontavano i
soldati di Frossard. Nelle fasi che precedettero l'inizio della battaglia le truppe di Moltke
erano disposte nella seguente posizione: il Principe Augusto si trovava con la Guardia a
Doncourt, Alberto di Sassonia era situato presso Jarny, il generale Voights-Rhetz a Ville sur
Yron al comando del X corpo, Alvensleben alla guida del III corpo poco fuori da Mars-laTour, Goeben e l'VIII corpo a Rezonville e il generale Zastrow con il VII corpo in prossimità
di Vaux vicino alle posizioni di Bazaine75. I francesi invece si trovavano raccolti all'interno di
una lunga cintura difensiva tra Saint-Privat a nord e la piccola cittadina di Sainte-Ruffine a
sud. A Plappeville, tra l'omonimo forte e San Quintino si trovava il quartier generale francese,
la Guardia Imperiale di Bourbaki in posizione arretrata, costituiva la riserva. In un primo
tempo si credette dai reggimenti più avanzati che l'ala settentrionale dell'armata del Bazaine
non oltrepassasse Amanvillers. Tale analisi portò come conseguenza che il corpo della
Guardia prussiana incaricato dell'avvolgimento, si trovasse, invece, a combattere
70
Ibid, p. 288-289;
ELLIOT-WRIGHT, Gravelotte-St-Privat 1870, p. 26;
72 BARRY, Moltke and his Generals, p. 301;
73 Ibid, p. 303.
74 ELLIOT-WRIGHT, Gravelotte-St-Privat 1870 cit., p. 27.
75
HOWARD, The Franco-Prussian War cit., p. 107.
71
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Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
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frontalmente proprio in quel villaggio; sicché il compito dell'avvolgimento dovette essere
assolto dal Corpo sassone, che era stato tenuto, in un primo tempo, in riserva76. Alla notizia,
gli venne ordinato di avanzare lungo la riva dell'Orne verso Roncourt. Per dar tempo a questo
lungo movimento di compiersi senza rischio di contrattacchi. La Guardia, applicando un
sano criterio di cooperazione, rinnovò sanguinosi attacchi contro le posizioni di Saint-Privat
e di Amanvillers. I sassoni si apprestavano a prender posizione sulla loro sinistra presso
Sainte-Marie-aux-Chênes, dove si collocarono alle ore 15.3077. I sassoni e la Guardia
assemblarono insieme il loro potenziale di artiglieria composto da 180 cannoni. L'impatto di
questa forza fu devastante. Mentre il corpo sassone si mosse verso Roncourt, dove colpì il
fianco delle truppe di Canrobert, che tentò di resistere con un’eroica difesa, 270 cannoni
iniziarono a colpire pesantemente Saint-Privat e Amanvillers e circa 20.000 proiettili
deflagrarono sulle posizioni francesi durante tutto il pomeriggio fino a sera78. Alla fine della
battaglia si calcolerà una percentuale intorno al 70% di vittime causate dalle bocche da fuoco
prussiane; parallelamente i famigerati Chassepot francesi mieterono la stessa percentuale di
morti tra i prussiani. Crollò allora l’ala destra francese compromettendo anche il reparto
centrale. Sul resto del fronte, i corpi francesi avevano respinto un assalto frontale verso SaintPrivat condotto dalla Guardia prussiana di Augusto di Württemberg. I prussiani subirono
gravi perdite: a sera si conteranno 8000 morti e feriti tra la guardia, con una consistenza di
caduti vicina a quella disastrosa dei sudisti nel terzo giorno della battaglia di Gettysburg.
L'attacco, sferrato in modo abbastanza precipitoso, forse per anticipare l'arrivo dei sassoni e
assicurare gli allori della vittoria alla Guardia, fu frammentario e inadeguato perché operato
a scaglioni e condotto con uno schieramento troppo serrato: Saint-Privat si tramutò nella
«tomba della Guardia prussiana». Le difese francesi, nonostante questo, apparvero ormai in
difficoltà. In più, il maresciallo Bazaine non inviò alcuna riserva a Canrobert, ignorandone le
richieste di supporto, soprattutto sul lato destro a Saint-Privat, il punto di maggiore
debolezza79. Nel campo francese, il generalissimo era rimasto quasi estraneo alla tormenta.
Non aveva dato risposte alle richieste di rinforzi che gli venivano dai comandanti dell'ala
destra, né si era curato di controllare di persona il luogo incriminato. Aveva tenuto fino
all'ultimo la Guardia imperiale inoperosa, mentre un tempestivo contrattacco di queste
truppe scelte e fresche nella zona di Sainte-Marie-aux-Chenes avrebbe potuto forse salvare
76
Ibid, p. 107-111.
BARRY, Moltke and his Generals cit., p. 308.
78 Ibid, p. 310.
79 HUGES, Moltke on the Art of War cit., p. 294.
77
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la giornata, e tenere ancora aperta la via di ritirata per Briey. La condotta di Bazaine nel corso
della battaglia era apparsa disastrosa agli occhi dei suoi ufficiali. Quando questi gli chiedevano
istruzioni, Bazaine si limitava a invitarli a difendere posizioni che, a suo dire, risultavano
molto forti. Verso le 17.00, mentre infuriava la battaglia a Gravelotte e la Guardia prussiana
lanciava i suoi ostinati e sanguinosi assalti su Saint-Privat, Bazaine spediva messaggi
autocelebrativi al ministro degli interni a Parigi80. Nelle ore decisive della battaglia il
comandante dell'armata del Reno era addirittura intento a discutere con l'imperatore sugli
approvvigionamenti destinati a Verdun81. La decisione di Bourbaki di non prendere parte alla
battaglia in modo attivo, ed anzi di arretrare anch'egli insieme al resto dell'esercito francese,
aveva posto la parola fine sulla vittoria prussiana82. La Guardia imperiale guidata del Bourbaki
non sapeva se, e dove, fornire supporto ai reparti che avevano iniziato a cedere le loro
posizioni ai prussiani. Il comandante della riserva era disorientato e ricevette vaghe
indicazioni da Bazaine83. Inviò anche un messaggero, il capitano Louis de Beaumont, per
chiedere al maresciallo se sul fianco sinistro la condizione dell'armata fosse a rischio, di modo
che, qualora Bazaine lo avesse rassicurato sulla solidità di quel settore, egli avrebbe potuto
inviare la riserva ad Amanvillers e Saint-Privat. Bazaine comunicò che non c'era alcun rischio
su quel fronte84. Alla fine, Bourbaki inviò una divisione a Ladmirault, ma i rinforzi apparvero
tardivi e insufficienti. Egli con 30.000 uomini e 120 cannoni poté fare poco o nulla per i
restanti corpi bisognosi di rinforzi85. Verso le 18.45 Bourbaki, che aveva iniziato la marcia
verso i luoghi dei combattimenti, uscito da una zona boscosa e osservato lo scenario di fronte
a lui, poté considerare realizzati i suoi peggiori timori: un numero imprecisato di soldati
francesi fuggiva dalla posizione in preda al panico verso di lui86. Per la loro consistenza i
fuggiaschi intralciarono il cammino degli uomini del comandante della Guardia, il quale,
sconvolto per il coinvolgimento del suo corpo nella ritirata disordinata, decise
definitivamente di scappare con le sue forze dalla battaglia. Le truppe di Ladmirault e
Canrobert, nel frattempo, iniziarono a cedere di fronte all'inarrestabile avanzata dei prussiani,
proveniente dal centro e dalla destra. Verso sera, il XII corpo sassone eseguì finalmente la
prevista manovra aggirante sulla destra francese e finì per sbaragliare lo schieramento nemico
nel settore, costringendo al ripiegamento il VI corpo francese, seguito dal IV: il IV corpo fu
80
Ibid, p. 295-299.
HOWARD, The Franco-Prussian War cit., p. 120.
82 Ibid, p. 122.
83 Ibid, p. 301.
84 Ibid, p. 128.
85 Ibid, p. 129.
86 HUGES, Moltke on the Art of War cit., p. 298.
81
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favorito
nella
ritirata
dall'oscurità, mentre il VI
corpo con tutta la massa di
uomini, carri e cavalli fu
costretto ad intraprendere
Fucile Chassepot prodotto a Mutzig nel 1869, conservato con baionetta presso
Musée de l'Armée, Paris
la strada in direzione di
Woippy e Metz87. Dopo
una
lunga
serie
di
sanguinosi scontri corpo a
corpo, Saint-Privat venne
infine
conquistata
dalla
Guardia prussiana. Alcuni
combattimenti infuriarono
all'interno del villaggio e nel
Carl RÖCHLING, Tod des Majors von Halden, Philipps-Universität Marburg
cimitero (conquistato all'arma bianca dal 4º reggimento a piedi della Guardia) della città.
Verso le 21.30 con il re Guglielmo e il suo seguito che procedevano per Rezonville, i
combattimenti cessarono per il calare della notte. Re Guglielmo e Moltke, che avevano
assistito alla battaglia da un'altura presso Gravelotte, la sera, ignorando il successo del centro
e dell'ala sinistra, ebbero l'impressione di un insuccesso88. Dal punto di vista tattico, i metodi
adottati dalle fanterie tedesche, e soprattutto dalla Guardia prussiana, si rivelarono
particolarmente inadatti e inefficaci a superare le difese francesi, a causa anche della solidità
delle posizioni fortificate e della superiorità dei fucili Chassepot e delle mitragliatrici. Le perdite
furono elevate e la grandezza di esse impose una revisione delle tattiche: la Guardia prussiana
apprese dai suoi errori e a Sedan, come soprattutto alla battaglia di Le Bourget, adotterà
schieramenti molto meno serrati, ricorrendo all'impiego dell'ordine sparso, allo sfruttamento
della copertura reciproca e all'utilizzo delle irregolarità del terreno89. Il giorno dopo lo
scontro, Bazaine si ritirò su Metz, rinunciando a difendere la linea tenuta la mattina
precedente. Ciò permise ai prussiani di completare l'accerchiamento della roccaforte il 20
agosto. L'armata del Reno, ormai priva di ogni via di fuga, irrevocabilmente tagliata fuori
rispetto al resto delle forze francesi, fu circondata e assediata a Metz. Con questa battaglia, i
tedeschi raggiunsero il loro scopo strategico, interponendo la massa principale delle loro
87
BARRY, Moltke and his Generals cit., p. 310.
Ibid, p. 319.
89 HUGES, Moltke on the Art of War cit., p. 300.
88
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
forze fra l'armata del Bazaine e Parigi, limitando inoltre la libertà di movimento delle truppe
francesi di Lorena, tanto da rendere assai ardua la riunione fra le due masse del Bazaine e del
Mac-Mahon. A causa delle interrotte comunicazioni, l’imperatore francese e il MacMahon
appresero con ritardo la situazione critica dell'armata di Lorena e le pavide decisioni del suo
capo. L'incertezza in cui rimasero gli alti ufficiali dell'impero francese, nel frattempo, sarà una
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delle tante ragioni che porterà al disastro di Sedan, come nel corso dell'intero conflitto francoprussiano90.
George Hooper, The Campaign of Sedan: the downfall of the Second Empire. August-September, 1870, G. Bell,
London, 1887, p. 387
90
Ibid, p. 304-312.
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Sedan
È la prima battaglia nella storia della guerra moderna secondo varie interpretazioni 91. I
francesi sono ridotti alla disperazione a causa del fuoco incontrastato dei cannoni prussiani.
Circa 20.000 furono i soldati caduti, 100.000 riuscirono a rimanere in vita ma vennero
catturati e dichiarati prigionieri. I Prussiani, dopo il riuscito accerchiamento intorno alla
fortezza di Metz, avevano proseguito l’avanzata verso il cuore del territorio francese,
marciando in direzione della Marna e di Parigi92. Erano divisi in due masse separate: a sud,
lungo la Mosa a Commercy, la III armata del principe reale di Prussia, comprendente I e II
corpo bavarese, dal V corpo prussiano e dal XI corpo assiano; più a nord la Maasarmee,
armata della Mosa del principe di Sassonia, il IV corpo prussiano, il XII corpo sassone e la
Guardia reale prussiana, ancora fresca delle pesanti perdite subite a Gravelotte, sempre sotto
il principe Augusto di Württemberg. I due gruppi erano composti circa da 240.000 soldati e
700 cannoni. Le armate erano precedute dalla cavalleria posizionata come avanguardia con
lo scopo di agganciare il nemico qualora fuggisse, che si pensava fosse schierato a difesa di
Parigi93. Von Moltke diramò ordini dettagliati per riorganizzare l'esercito e farlo marciare in
direzione della Marna. La manovra sarebbe dovuta iniziare il 23 agosto94. La situazione
rimaneva ancora incerta e pericolosa, poiché Bazaine era saldamente schierato intorno a Metz
con i suoi uomini e teneva impegnate cospicue forze prussiane. I movimenti di MacMahon
rimanevano oscuri ai prussiani. Fino al 25 agosto Moltke fece avanzare con cautela verso
ovest il suo schieramento, mentre la cavalleria più avanti, dava notizie sugli spostamenti
francesi verso la città di Reims95. Arrivarono, però, cattive notizie riguardanti la strategia
francese. Le intenzioni di MacMahon erano chiare: ricongiungersi con Bazaine per creare
un’unica grande armata francese. Moltke, pur non fidandosi a pieno di tali fonti giornalistiche,
prese la decisione nella notte del 25 agosto di convergere tutte le forze impegnate in direzione
della Marna verso nord. La Maasarmee avrebbe passato le Argonne, mentre il grosso della III
armata avrebbe mantenuto un contatto con il fianco sinistro dell'Armata della Mosa. La
cavalleria non ebbe sconvolgimenti dei piani: doveva marciare in avanti per agganciare il
nemico, che si supponeva fosse situato a Vouziers. Il cambio di direzione, per quanto
complesso, ebbe successo nonostante le condizioni atmosferiche avverse; anche se non
91
James Q. WHITMAN, The verdict of battle: The Law of Victory and the Making of Modern War, Harvard University
Press, Harvard, 2014.
92 BARRY, Moltke and his Generals cit., p. 322-323.
93 HOWARD Michael, The Franco-Prussian War cit., p. 202.
94 MOLTKE, Militärische Werk cit., p. 180.
95 Ibid, p. 188.
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mancarono episodi di confusione e disordine96. Le armate riuscirono a concentrarsi e a
puntare verso nord. Il 26 agosto la cavalleria del XII corpo sassone ebbe un primo contatto
con i francesi tra Vouziers e Grandpré. Il 30 agosto ci fu una battaglia a Beaumont, in cui i
francesi subirono una sconfitta senza gravi perdite. L’armata francese, benché scoraggiata
dopo Beaumont e provata dai pochissimi rifornimenti, riuscì a ripiegare in discreto ordine
sino a Sedan, totalmente all'oscuro dell’assedio che Bazaine stava subendo a Metz97. La
mattina del 31 agosto l'intera armata era schierata intorno alla città delle Ardenne. Il
maresciallo MacMahon, con un esercito duramente provato e stanco, decise di sostare e di
rinviare l'inizio della marcia verso nord. È difficile affermare le ragioni di questa pericolosa
fermata. Il maresciallo disponeva di scarse e inesatte notizie sulle forze e i movimenti del
nemico, in particolare, calcolò lo schieramento di fronte a lui in circa 70.000 uomini, inferiori
alla sua armata. Non era a conoscenza della marcia nemica a nord della Mosa che metteva in
pericolo la via di ritirata verso Mezieres. In un primo tempo Napoleone III, che aveva voluto
seguire l'esercito a Sedan, voleva ripiegare immediatamente verso nord, ma l'imperatore era
ormai malato, depresso e deteneva solo formalmente i poteri reali: non impose la sua
decisione, preferendo delegare tutta l'autorità al maresciallo98. È probabile che a deporre a
favore della sosta a Sedan, fosse anche la prospettiva di un facile ripiegamento sulla
vicinissima frontiera belga in caso di peggioramento della situazione tattica99. È da tenere in
conto, oltretutto, lo stato di scoramento e di stanchezza generale dell'armata e dei suoi
comandanti100. Lo stesso MacMahon, in un celebre ordine del giorno rivolto alle truppe alla
sera del 31 agosto, dispose, evidentemente rassicurato sulla forza e la posizione del nemico,
per il 1º settembre una giornata di riposo e ristoro generale101. Il maresciallo era ben lontano
dall'immaginare gli sviluppi catastrofici che si sarebbero verificati il giorno dopo. Non
vennero nemmeno predisposte adeguate misure difensive, e non venne curato con sufficiente
attenzione l'ordine di distruggere i ponti sulla Mosa fra Sedan e Mézières, tappa obbligata per
raggiungere la capitale, al fine di rendere sicura la strada della ritirata. Il ponte di Donchery
rimase intatto. Il maresciallo MacMahon non provvide nemmeno a difendere adeguatamente
i molti guadi sulla Mosa, spalancando così ampi varchi al passaggio delle forze prussiane 102.
L’esercito francese cercò respiro a Sedan, nel nord del Paese. Tuttavia, le forze tedesche li
96
HUGES, Moltke on the Art of War cit., p. 311.
ELLIOT-WRIGHT, Gravelotte-St-Privat 1870 cit., p. 34-45.
98 Ibid, p. 46.
99 HOWARD, The Franco-Prussian War cit., p. 210.
100 Ibid, p. 211.
101 Ibid, p. 213.
102 Ibid, p. 214-218.
97
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accerchiarono da ogni lato. Francia e Prussia sono separati solo dal fiume Mosa103. Tra il 31
agosto e 1° settembre, Moltke organizza i preparativi per un attacco su larga scala. Non c'è
tempo da perdere: durante la notte, aiutati dal buio, i soldati del genio tedesco costruiscono
un ponte galleggiante sulla Mosa. Alle 3.00 le truppe vengono svegliate e attraversano il ponte
e i falò alimentati per non far capire ai francesi di aver abbandonato lo stazionamento. Alle
4.30 avviene il primo scontro a Bazeilles, a sud di Sedan104. L’attraversamento della Mosa non
era passato inosservato, i francesi si erano preparati all’arrivo prussiano e si nascosero nelle
case del villaggio. All’arrivo, i prussiani trovarono un luogo deserto, morto. I soldati capirono
da subito che tale quiete era sospetta. Bazeilles era presenziata dalle migliori truppe francesi:
i franchi tiratori105 comandati da Sériot. I suoi uomini hanno ordini precisi: mantenere il
villaggio a qualsiasi costo106. Da tiratore scelto, Sériot, usava un’arma a retrocarica che gli
permetteva di nascondersi107. Nasce la figura del cecchino. A causa del cambiamento delle
tattiche militari, a Bazeilles viene combattuta la prima battaglia casa per casa108. I bavaresi
sono in trappola. In pochi minuti metà delle truppe viene fucilata. A Bazeilles i civili si
unirono all’esercito regolare: i contadini imbracciarono i propri fucili per sparare all’invasore
prussiano, quest’ultimi rispondevano con fucilazioni. Si parla di 31 civili uccisi durante
l’assalto.
Il tutto viene ricostruito dalla testimonianza diretta di un soldato:
La vista del campo di battaglia, con tutti i suoi orrori è impressa fortemente nella mia
anima di soldato. Quei giorni in battaglia non potranno mai essere dimenticati, mi
accompagneranno per tutta la vita. Solo chi l’ha vissuta può capire. Carpentiere in un
villaggio della baviera109 .
103
HUGES, Moltke on the Art of War cit., p. 312.
Ibid, p. 314-316
105 I franchi tiratori rimasero per tutto il conflitto la vera spina nel fianco dei prussiani. Dal ’68 divennero parte
regolare dell’esercito, ma dovevano armarsi e vestirsi a loro spese. L’alto comando tedesco considerava il loro
modo di combattere illegittimo. Von Moltke emesse una direttiva il 27 settembre: ogni franco tiratore va
considerato alla stregua di un criminale. Dovrà subire immediatamente il giudizio di una corte marziale, ed
eventualmente condannarlo alla pena capitale. Qualora un tiratore scelto non identificato aprirà il fuoco sui
soldati tedeschi presenti in un villaggio, l’intero villaggio dovrà risponderne.
106 ELLIOT-WRIGHT, Gravelotte-St-Privat 1870 cit., p. 50.
107 In francia non esiste l’arruolamento obbligatorio, ci sono professionisti a combattere: sanno quello che li
attende in guerra. Se prima del conflitto i prussiani sono entusiasti dell’imminente scontro, il tenente Sériot
nelle sue memorie parla di questa mancanza di emozione nell’esercito francese, anzi si sentiva una diabolica
premonizione. Se anche Napoleone III temeva la guerra, i soldati prussiani accolgono con orgoglio il conflitto
stretti da un’ondata di fervore nazionalistico. La guerra è vista ancora come un’avventura.
108 ELLIOT-WRIGHT, Gravelotte-St-Privat 1870 cit., p. 109.
109 Florian KÜHNHAUSER, 1870-71. Kriegserinnerungen eines Soldaten des königlich bayerischen Infanterie-Leibregiments,
Liliom, Novara, 2002, p. 28.
104
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Per gli standard del XIX si considera un
crimine di guerra110. Le case di Bazeilles oggi
sono diventate un museo del Ministero della
Difesa francese. I bavaresi costrinsero alla
resa la resistenza francese, i sopravvissuti
vengono cacciati dalle loro case e il villaggio
viene
dato
alle
fiamme.
Il
villaggio
rappresenta quindi uno dei primi esempi di
guerriglia partigiana. Con la definitiva caduta
e distruzione di Bazeilles, le forze prussiane
chiudono il cerchio intorno alla città di
Sedan111. Ha inizio la seconda fase della
battaglia. Le unità francesi sono strette in una
CARL RÖCHLING, «Duri scontri in Bazeilles», in T.H.
LINDNER, Krieg gegen Frankreich 70/71
piccola porzione di spazio, mentre le truppe
tedesche circondano la città e si posizionano
su luoghi sopraelevati. Alle ore 14, la maggior parte delle truppe tedescofone erano disposte
a sud112. Lo schieramento francese forte di 100-120.000 si trovava in forte inferiorità
numerica, dovendo fronteggiare un esercito tedesco di oltre 200.000 effettivi. Le artigliere
prussiane potevano inoltre vantare una superiorità tecnologica con una maggiore potenza di
fuoco113. Sedan viene infatti assalita da oltre 400 cannoni da tutti i fronti. Le munizioni
tedesche dispongono di detonatori a impatto: esplodendo solo quando si infrangono contro
un ostacolo114. La fanteria francese completamente esposta alla vista del nemico, fuori dalle
mura di Sedan viene falciata dal tiro delle artiglierie115. L’esercito francese comincia quindi a
disgregarsi, i soldati vorrebbero rifugiarsi nelle mura della città, ma coloro che ci provano
finiscono sulla linea di tiro tedesca116. L’unico punto di accesso alla città è un ponte levatoio
molto angusto nella zona nord-occidentale. I soldati che fuggono dalla battaglia si accalcano
lì, fino alla morte117. Sedan è ormai il cuore dello scontro. La città è dotata di troppo antiquate
fortificazioni assolutamente inadeguate e l’artiglieria tedesca non era placabile con così
110
Ibid, p. 104.
BARRY, Moltke and his Generals cit., p. 329.
112 HUGES, Moltke on the Art of War cit., p. 315.
113 Ibid, p. 321.
114 BARRY, Moltke and his Generals cit., p. 333.
115 ELLIOT-WRIGHT Philipp, Gravelotte-St-Privat 1870 cit., p. 110.
116 Ibid, p. 110-130.
117 Ibid, p. 127.
111
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
poco118. Tra le mura della città scoppiò il panico, circa 100.000 soldati cercarono riparo in
una cittadella che ne ospitava poco meno di 20.000119. L’obiettivo era sopravvivere.
Napoleone III è consapevole del disastro a cui è andato in contro. Secondo alcune leggende,
da solo in sella al suo cavallo ha cercato la morte durante la battaglia. Alle 16:30 ordina di
issare bandiera bianca, e con una lettera al re di Prussia chiede di fermare la battaglia. «Non
avendo potuto morire in mezzo alle mie truppe, non mi rimane altro che consegnare la mia
spada nelle mani di Vostra Maestà. Sono il buon fratello di Vostra Maestà. Napoleone» 120.
Alle 17 cala il silenzio, i cannoni prussiani cessarono il fuoco. Dopo più di 10 ore di
combattimenti si fermò lo scontro. Non solo i francesi erano in condizioni disastrose, ma
anche tra le fila prussiane ci fu confusione e timore. La battaglia lasciò la Francia priva di un
esercito. I contenuti della resa vennero negoziati personalmente durante la notte, a Donchery,
dai generali Wimpffen (che inizialmente aveva cercato di evitare il penoso incarico) e de
Castelneau, assieme a Moltke e allo stato maggiore prussiano, alla presenza anche di
Bismarck. Di fronte alla situazione francese, l’ultimatum di Moltke fu durissimo. Anche un
ultimo tentativo dell'imperatore francese di ottenere qualche vantaggio durante un colloquio
privato con Bismarck non ottenne risultati121. Infine, il 2 settembre alle ore 11.00 i termini
della capitolazione furono accettati da Wimpffen: essi prevedevano la resa senza condizioni,
la consegna di tutto il materiale e la prigionia dell'intero esercito accerchiato a Sedan122.
Napoleone si consegnò a von Moltke con gli 83.000 uomini superstiti e ben 419 cannoni;
solo alcuni reparti di cavalleria erano riusciti in precedenza a sfuggire alla trappola e trovare
rifugio oltre il confine belga. La Prussia fece del giorno 2 settembre la festa nazionale del
neonato Secondo Reich: Sedantag. La sconfitta a Sedan fu uno degli eventi decisivi della guerra
e segnò le sorti delle potenze europee fino al 1918, provocando il declino francese e l’ascesa
della nuova Germania riunificata nella potenza più importante dell’Europa di fine Ottocento.
I fucili a retrocarica prussiani sono stati fondamentali, ma la tecnologia determinante è stata
la ferrovia: il treno. In guerra nella storia si vince attaccando nel punto migliore e con più
uomini. Questo significa muovere molti uomini e in modo veloce. Napoleone vinceva le
battaglie già quando pianificava gli spostamenti sulla rete stradale, ma nel 1870 l’Europa è
completamente coperta dalla rete ferroviaria, i prussiani sono riusciti a spostare 500.000
uomini in treno verso la frontiera francese. I combattimenti che ne seguirono furono una
118
Ibid, p. 129.
Ibid, p. 129-131.
120 BARRY, Moltke and his Generals cit., p. 340-342.
121
ELLIOT-WRIGHT, Gravelotte-St-Privat 1870 cit., p. 134.
122
Ibid, p. 137.
119
Von Moltke: lo stratega della grande Prussia
Enzo Bosco
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conseguenza. La convinzione nello stato maggiore prussiano divenne questa: vince la guerra
moderna chi attacca e mobilita le truppe più velocemente. Ciò nel 1914 degenererà in un
conflitto di portata senza precedenti.
Carta rappresentante l’accerchiamento dell’esercito francese a Sedan.
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
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Von Moltke: lo stratega della grande Prussia
Enzo Bosco
161
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Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
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Carta della battaglia di Sadowa, presente presso il sito: https://warfarehistorynetwork.com/theart-of-victory-koniggratz-1866/ .
Fucile Chassepot prodotto a Mutzig nel 1869, conservato con baionetta presso Musée de
l'Armée, Paris.
Helmuth Karl Bernhard von Moltke, Kunstverlag der Photographischen Gesellschaft Berlin
George HOOPER, The Campaign of Sedan: the downfall of the Second Empire. August-September, 1870,
G. Bell, London, 1887, p. 387.
Otto von OTTENFELD EIN RUHMESBLATT der österreichischen Artillerie, olio su tela, 194 × 289
cm, 1897, Museo di Storia Militare, Vienna.
CARL RÖCHLING, «Duri scontri in Bazeilles», in T.H. LINDNER, Krieg gegen Frankreich 70/71
Carl RÖCHLING, Tod des Majors von Halden, Philipps-Universität Marburg.
Václav SOCHOR, La batteria dei morti, olio su tela, 509 x 809 cm, Museo di storia militare di
Vienna.
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
Tra cristeros e federales. Il conflitto religioso messicano negli
anni Venti e Trenta
Federico Sesia
Il conflitto religioso del Messico
Le relazioni tra potere civile ed ecclesiastico hanno vissuto una lunga stagione di
conflittualità in Messico1. Iniziato nella prima metà del XIX secolo, il conflitto religioso è
stato innescato dopo l’indipendenza del paese (1811) dalle divergenze interpretative sul
Patronato regio2, arrivando in alcuni casi allo scontro armato già nell’Ottocento: è questo il
caso della Guerra de Reforma3 (1858 – 1861) e della ribellione dei religioneros4 (1873 – 1876).
Quest’ultimo episodio è piuttosto significativo, in quanto portatore di dinamiche che si
ripresenteranno ciclicamente nel paese fino ai giorni nostri:
Ulteriori ricerche saranno necessarie per valutare le connessioni con la Rivoluzione e la
guerra dei cristeros agli inizi del ventesimo secolo. Gli eventi del Michoacán nel nostro
Riccardo CANNELLI, Nazione cattolica e stato laico. Il conflitto politico e religioso in Messico dall’indipendenza alla
rivoluzione (1821-1914), Guerini e Associati, 2002, Emilio MARTÍNEZ ALBESA, La Constitución de 1857. Catolicismo
y liberalismo en México, 3 voll., Editorial Porrúa, 2007, Massimo DE GIUSEPPE, Messico 1900 – 1930. Stato, Chiesa,
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llamar acuerdos...Crónica del conflicto religioso en México, 1928-1938, Cide, 2021.
2 Michael P. COSTELOE, Church and State in independent Mexico. A Study of the Patronage Debate 1821 – 1857, London
Royal Historical Society, 1978, pp. 1-14, MARTÍNEZ ALBESA, La Constitución de 1857. Tomo II, pp. 716-810.
3 Guerra civile tra liberali e conservatori casusata dall’opposizione ad alcuni articoli della Costituzione del 1857,
ritenuti anticlericali. Vinsero i liberali di Benito Juárez (1806 – 1872), il quale dovette affrontare pochi anni
dopo l’intervento francese (1861 – 1867) in sostegno di Massimiliano d’Asburgo (1832 – 1867), appoggiato dai
conservatori e dalla Chiesa. Anche in quest’occasione i liberali ne uscirono vincitori.
4 Conflitto scoppiato nelle aree rurali del Messico centro-occidentale (Bajío), in particolare nel Michoacán, in
seguito alla decisione di inserire nella Costituzione del 1857 le leyes de reforma (insieme di leggi anticlericali
emanate da Juárez), emendamento deciso dal presidente Sebastián Lerdo de Tejada (1823 – 1889). Parte della
popolazione delle zone citate insorse al grido di viva la religión, da lì il nome di religioneros. A porre fine alla guerra
fu il generale Porfirio Díaz (1830 – 1915), che all’indomani del suo colpo di Stato sospese le misure del
predecessore. Brian A. STAUFFER, Victory on Earth or in Heaven. Mexico's Religionero Rebellion, University of New
Mexico Press, 2019.
1
Tra cristeros e federales. Il conflitto religioso messicano negli anni Venti e Trenta.
Federico Sesia
163
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
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disordinato secolo offrono parallaeli con gli anni settanta dell’Ottocento e suggeriscono
che strutture culturali durevoli sono al lavoro nell’apparentemente eterno ciclo di
conflitti dello Stato.5
Queste vicissitudini fanno emergere una dinamica che è costante nella storia messicana:
la resistenza, talvolta pacifica e talvolta armata, di parte del settore rurale e del mondo
cattolico ai programmi di modernizzazione dei governi liberali, ritenuti una minaccia al
proprio modo di vivere. Un quadro che esploderà in tutta la sua gravità negli anni Venti con
la guerra dei cristeros, e che mostra alcune affinità con le guerre di Vandea (1793 – 1799) e le
insorgenze italiane (1796 – 1814).
Dopo il congelamento negli anni del porfiriato6 (1876 – 1910), il conflitto è riesploso con
la Rivoluzione messicana (1910 – 1920): l’incauto sostegno di parte della Chiesa al regime
controrivoluzionario di Victoriano Huerta (1854 – 1916) esacerbò l’anticlericalismo di quelle
fazioni rivoluzionarie che alla fine prevalsero, ponendo delle limitazioni all’operato delle
istituzioni religiose nella Costituzione di Querétaro (1917), che all’art. 130 negava la
personalità giuridica alla Chiesa e dava allo Stato la facoltà di limitare il numero di sacerdoti
autorizzati ad esercitare il loro ministero, che dovevano essere messicani e che venivano
privati del diritto di voto7.
Tra il 1920 e il 1924 la presidenza di Álvaro Obregón (1880 – 1928) vide una stagione di
alti e bassi nei rapporti con la Chiesa, caratterizzati da diffidenze e ostilità pur senza arrivare
alla rottura. La situazione era destinata a peggiorare durante il mandato (1924 – 1928) del suo
successore Plutarco Elías Calles (1877 – 1945), la cui presidenza proseguì il consolidamento
dello Stato postrivoluzionario. Calles godeva del sostegno dell’esercito, riformato dal
ministro della guerra Joaquín Amaro (1889 – 1952)8, del sindacato CROM (Confederación
Regional Obrera Méxicana) di Luis Napoleón Morones (1890 – 1964) e degli agraristas9. Le prime
tensioni con la Chiesa risalgono al 1924 di fronte alla laicizzazione dell’istruzione primaria
(riuscita solo in alcuni Stati), e si esacerbarono l’anno successivo quando la CROM
sponsorizzò un progetto scismatico insediando nella chiesa di Soledad della capitale il
5
STAUFFER, cit., p. 249.
Regime di Porfirio Díaz ispirato alla filosofia del positivismo europeo, in particolare ad Auguste Comte (1798
– 1857).
7 Carmen José ALEJOS GRAU, Una historia olvidada e inolvidable. Carranza, Constitución e Iglesia católica en México
(1914-1919), Instituto de Investigaciones Jurídicas de la UNAM, 2018.
8 Martha Beatriz LOYO CAMACHO, Joaquín Amaro y el proceso de institucionalización del Ejército Mexicano, 1917 –
1931, Fondo de Cultura Económica, 2003, pp. 121-150, Martha Beatriz LOYO, La reorganización militar durante
los años veinte, AA. VV., Historia de los ejércitos mexicanos, Inehrm, 2015, pp. 367-383.
9 Milizie contadine favorevoli alla riforma agraria.
6
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
sacerdote sospeso a divinis José Joaquín Pérez (1851 – 1931), che si proclamò patriarca della
Chiesa Cattolica Apostolica Messicana10. Lo scisma di Soledad ottenne pochissimo seguito,
ma ciò nonostante ebbe importanti conseguenze: dato il sostegno della CROM l’operato di
Pérez toccava i nervi scoperti della memoria storica dell’episcopato, dato che non era la prima
volta che un governo anticlericale patrocinava un gruppo scismatico.
La reazione del laicato non tardò a venire, e lo stesso anno vide i suoi natali la Liga
Nacional Defensora de la Libertad Religiosa (Liga), tra i cui membri più importanti figurava il
jalisciense Anacleto González Flores11 (1888 – 1927). Altri importanti esponenti furono Miguel
Palomar y Vizcarra (1880 – 1968), René Capistrán Garza (1898 – 1974) e Rafael Ceniceros y
Villarreal (1855 – 1933). Con come richiesta principale l’abolizione degli articoli anticlericali
della Costituzione12, la neonata associazione aveva tra i suoi organismi fondatori diverse realtà
cattoliche, come ad esempio l’Acción Católica de la Juventud Mexicana (ACJM). Se inizialmente
le attività della Liga furono del tutto pacifiche, con lo scoppio della Cristiada questa deciderà
di aderire al movimento armato per assumerne la guida13.
L’incendio: la Cristiada (1926 – 1929)
Nel luglio del 1926 venne promulgata una riforma del codice penale (ley Calles) che
riguardò l’applicazione dell’art. 130 della Costituzione. La ley fissò il numero massimo di
sacerdoti per abitanti, la totale laicizzazione dell’istruzione e soprattutto stabilì
l’obbligatorietà di una licenza per esercitare il ministero sacerdotale e della registrazione
presso il proprio municipio. Dietro alle norme l’episcopato vide l’ombra di un tentativo
scismatico, dato che era possibile che il governo autorizzasse solo sacerdoti legati allo scisma
di Soledad, recuperando i progetti di una Chiesa nazionale dei liberali ottocenteschi. I
tentativi di emendare la ley Calles per via diplomatica fallirono, e un Comitato episcopale si
riunì per decidere una linea d’azione in un contesto sempre più teso. A far saltare i precari
equilibri ci pensò una controversa decisione del Comitato: la sospensione del culto pubblico
in tutto il paese, dovuta al rischio che si registrassero prelati scismatici. Si trattava di una
10
Mario RAMÍREZ RANCAÑO, El patriarca Pérez: la iglesia católica apostólica mexicana, Universidad Nacional
Autónoma de México, Instituto de Investigaciones Sociales, 2006.
11 Tra i ligueros si mostrò sempre contrario alla difesa armata, aderendovi in extremis senza particolare
convinzione. Per le sue vicende cfr. Jean MEYER, Anacleto González Flores, El hombre que quiso ser el Gandhi
mexicano, Secretaría de Cultura del Gobierno del Estado de Jalisco, 2004.
12 Moisés GONZÁLEZ NAVARRO, Cristeros y agraristas en Jalisco, Vol. II, El Colegio de México, 2001, p. 324,
PUENTE LUTTEROTH, cit., pp. 57-58.
13 PUENTE LUTTEROTH, cit., p. 59.
Tra cristeros e federales. Il conflitto religioso messicano negli anni Venti e Trenta.
Federico Sesia
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misura radicale a cui la maggior parte dei vescovi era restia a ricorrere, ma ciò nonostante in
seguito alle manovre di una minoranza intransigente il Vaticano ricevette un telegramma che
riportava come l’episcopato fosse in massima parte favorevole alla misura, e Pio XI (1857 –
1939) vi diede il suo beneplacito. Fu così che, nonostante le perplessità, il 31 luglio 1926 il
culto cattolico venne sospeso in tutto il Messico14.
Di fronte alla sospensione Calles alzò i toni dello scontro ordinando di inventariare e
sequestrare le chiese. Gli inventari diedero fuoco alle polveri, provocando insurrezioni di
diversa entità nelle aree rurali del Bajío in difesa degli edifici di culto, e il grido di battaglia
Viva Cristo Rey portò ben presto a riferirsi ai ribelli con l’appellativo di cristeros15. Dopo i primi
mesi di scontri la Liga decise di mettersi alla guida del movimento armato creando un
comitato diretto da Capistrán Garza, il quale nel gennaio del 1927 diramò un ordine di
insurrezione generale che diede qualche risultato nel Bajío, mentre fallì nel nord. Di una certa
importanza il dato geografico: nel Bajío l’ordine della Liga si sovrappose al movimento cristero,
già da tempo attivo e che rispondeva ad altre dinamiche, mentre nel nord, in cui il fenomeno
era assente, le sollevazioni furono minime. E non è casuale la sua diffusione in queste zone:
Proprio nelle regioni della cristiada, dove si professava un tipo di cattolicesimo
sacramentale tradizionale e di forte influenza spagnola, il cura era divenuto, più che
altrove, parte integrante della comunità. A differenza del Messico meridionale, dove
invece l’eredità dell’evangelizzazione francescana e domenicana e l’influsso di un
sincretismo difensivo, espresso attraverso solide mayordomías indigene, aveva dato
frutti diversi, qui il sacerdote era insieme il referente culturale della comunità rurale
mestiza, difensore della tradizione e dei misteri divini da un lato, agente modernizzatore
(a fianco delle confraternite e nel solco dell’associazionismo cattolico) dall’altro. Se si
aggiunge che in Jalisco e Colima anche buona parte dei maestri rurali erano cattolici, per
tradizione familiare, il quadro si compone più chiaramente. Questo era il “ventre molle”
del progetto di Calles; il sacerdote spesso era risultato decisivo nell’atteggiamento
14
VALVO, op. cit., pp. 229-230.
Jean MEYER, La Cristiada, 3 voll., Siglo Veintiuno Editores, 2006, Jean MEYER, The Cristero Rebellion. The
Mexican People between Church and State 1926 – 1929, Cambridge University Press, 2008, David C. BAILEY, Viva
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Cristo Rey. Aspectos de la Cristiada, Instituto de Investigaciones Social-Universidad Nacional Autónoma de
México, 2001, Matthew BUTLER, Popular Piety and Political Identity in Mexico's Cristero Rebellion. Michoacán 1927 –
29, Oxford University Press, 2004, Matthew BUTLER (eds.), Faith and Impiety in Revolutionary Mexico, Palgrave,
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Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
assunto dai capi villaggio verso le politiche incorporative, di fronte alla crisi religiosa e
all’opzione della resistenza e della lotta armata. Ed è proprio in queste zone che si
registrò la più alta adesione da parte del basso clero alla scelta di continuare il proprio
ministero, proseguendo a celebrare il culto in forma clandestina, dando attuazione a un
progetto non scritto di nuova resistenza passiva e, in certi casi, attiva.16
Infatti
Il sostegno popolare per i ribelli era marcatamente più forte nelle aree in cui forme
ortodosse di cattolicesimo erano inseparabili da un senso di identità della comunità,
dove l’influenza dei sacerdoti era maggiore, e dove le riforme dei rivoluzionari hanno
fatto meno presa che quelle dei cattolici. [...] In questi luoghi, la Chiesa era socialmente
militante, se non dominante politicamente nelle istituzioni locali. La ribellione dei
cristeros ha conseguentemente esibito alcune delle caratteristiche dello sforzo difensivo
dei serranos di fronte alla Rivoluzione, che ha attratto sostenitori dalle diverse classi ed
era diretto contro i rappresentanti di uno Stato intrusivo, minaccioso e centralizzatore.17
Le prime insurrezioni furono iniziative spontanee e prive di coordinamento, ma già in
questa fase iniziale della Cristiada emersero uomini che diventeranno parte dei quadri ribelli:
i fratelli Valente e Aurelio Acevedo (1900 – 1968) e Pedro Quintanar (1860 – 1930) insorsero
nello Zacatecas, il liguero Luis Navarro Origel (1897 – 1928) nel Guanajuato, Trinidad Mora
nel Durango, Victoriano “El Catorce” Ramírez (1892 – 1929) con i sacerdoti José Reyes
Vega (… – 1929) e Aristeo Pedroza (1900 – 1929) nello Jalisco. Nell’estate del 1927 i cristeros
erano circa 20.000, nonostante le contromisure prese dai federales e i limiti
16
17
DE GIUSEPPE, cit., p. 382.
BUTLER, Popular, p. 217.
Tra cristeros e federales. Il conflitto religioso messicano negli anni Venti e Trenta.
Federico Sesia
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nell’equipaggiamento e nella logistica18. In questa prima fase della guerra spicca inoltre
l’assenza di un leader di spessore tra i cristeros. Unica eccezione è quella del generale Rodolfo
Gallegos, convinto dalla Liga con promesse di uomini e mezzi largamente disattese che lo
condussero alla rovina. Episodi del genere testimoniano l’assenza semi totale di preparazione
militare da parte dei ligueros, che condannò all’improvvisazione il movimento armato ai suoi
esordi19.
La svolta avvenne con l’arruolamento del generale Enrique Gorostieta (1890 – 1929),
probabilmente unica mossa realmente efficace della Liga, che consentì ai cristeros di ottenere
notevole organizzazione bellica e strutturale:
A metà del 1927 la guerra sembrava sul punto di esaurirsi, ma il fallimento dei contatti
diplomatici e l’azione riorganizzativa di Gorostieta l’avrebbero fatta entrare in una
seconda fase che si sarebbe protratta fino a metà del 1929. Una guerra che stava
diventando più lunga e costosa di qualsiasi previsione, cogliendo di sopresa tutte le parti
in causa. Una guerra che non mancò di registrare eccessi su entrambi i fronti: violenze,
distruzioni, saccheggi, omicidi, spogliazioni di chiese e incendi di villaggi, riproponendo
la faccia violenta di un Messico che rischiava di precipitare nuovamente nel caos
rivoluzionario.20
Il 1927 vide anche l’arruolamento di Jesús Degollado Guízar (1892 – 1957), medico
michoacano destinato a succedere a Gorostieta dopo la morte di quest’ultimo21.
18
Endemica era tra i cristeros la carenza di munizioni, e fino a metà del 1927 mancava un comando centralizzato
che potesse coordinare i loro sforzi.
19 MEYER, La Cristiada. Tomo II, p. 144.
20 DE GIUSEPPE, Messico, p. 386.
21 Luis Alfonso OROZCO, Jesús Degollado Guízar, l’ultimo generale cristero, Nova Historica. Rivista internazionale
di storia, VII, 25, 2008, pp. 56-74, Jesús DEGOLLADO GUÍZAR, Memorias de Jesús Degollado Guízar. Ultimo general
en jefe del ejército cristero, Jus, 1957.
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
General Enrique Gorostieta y Velarde de Cristero, fotografia, 1928, Archivo General de la Nación.
Nel 1928 le riforme di Gorostieta consentirono ai cristeros di superare la fase della guerriglia
e di coinvolgere i federales in vere e proprie battaglie campali, senza però essere in grado di
conquistare le città più importanti per carenza di equipaggiamento e logistica. Nel maggio del
1928 Degollado tentò di far fare il salto di qualità ai cristeros con la conquista della città
portuale di Manzanillo, ritenuta obiettivo facile per l’esiguità della sua guarnigione. Dopo una
preparazione di settimane e l’impiego di 1.600 uomini l’attacco ebbe inizialmente un esito
favorevole, nonostante la non prevista presenza della cannoniera Progreso nel porto, ma la
mancata distruzione delle linee ferroviarie costrinse i cristeros ad abbandonare la città con
l’arrivo delle truppe del generale Heliodoro Charis (1896 – 1964), numericamente superiori.
Questo aspetto segnala una scarsa coordinazione tra i quadri ribelli, che non riuscirono ad
impedire una pur prevedibile controffensiva dei federales. Se da un lato l’assalto a Manzanillo
dimostrò la capacità organizzativa dei cristeros dall’altro ne evidenziò anche i limiti nella tattica
e nell’equipaggiamento22, infatti
La sconfitta militare e psicologica ricordò a Jesús Degollado Guízar che era impossibile
per una guerriglia – a cui partecipavano uomini con infiniti interessi rivali – abbandonata
al suo destino vincere una guerra contro uno Stato come quello messicano, che contava
su un esercito superiore di numero, tecnologia e organizzazione delle milizie cristere.23
22
BAILEY, cit., pp. 231-232, Servando ORTOLL, El general cristero Jesús Degollado Guízar y la toma de
Manzanillo en 1928, Signos Históricos, 14, 2005, pp. 8-41.
23 ORTOLL, cit., pp. 40-41.
Tra cristeros e federales. Il conflitto religioso messicano negli anni Venti e Trenta.
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A Manzanillo emersero insomma quei limiti che hanno interessato i cristeros per tutta la
durata del conflitto: l’impossibilità di sottrarre ai federales il controllo di centri abitati
importanti e quindi di poter rovesciare Calles manu militari. Dall’altro lato l’esercito non si è
dimostrato capace di reprimere la rivolta, ma ciò nonostante era riuscito a contenerla nelle
aree rurali con il massiccio impiego di truppe, armi moderne e tattiche di controinsorgenza
che non lesinavano il pugno di ferro. Se il conflitto si fosse prolungato, la Cristiada sarebbe
probabilmente finita per asfissia.
Nel 1929 i cristeros cercarono un accordo con il generale José Gonzalo Escobar (1892 –
1969), che aveva tentato una sfortunata ribellione, mentre le tattiche dell’esercito vennero
abilmente riorganizzate dal generale Saturnino Cedillo (1890 – 1939), che riportò diversi
successi24. Anche in assenza di sconfitte definitive a danno dei cristeros era evidente come col
passare del tempo le sorti del conflitto stessero volgendo un po’ alla volta in favore del
governo. Inoltre nel giugno del 1929 Gorostieta trovò la morte grazie ad un’operazione di
intelligence dei federales, che riuscirono a individuarne la posizione. Nonostante le fortune
alterne al 1929 i cristeros erano circa 50.000, costringendo i federales ad impiegare 100.000
uomini tra soldati e ausiliari, il cui mantenimento assorbiva il 30% delle risorse pubbliche.
Ad ogni modo, a porre fine alla guerra non furono le armi ma la diplomazia: il lavorio
diplomatico dei vescovi Pascual Díaz (1876 – 1936) e Leopoldo Ruiz y Flores (1865 – 1941)25,
iniziato da anni, stava portando i suoi frutti, e nel giugno del 1929 i due prelati si incontrarono
con il presidente ad interim Emilio Portes Gil26 (1890 – 1978) scambiandosi quelle
dichiarazioni unilaterali che passarono alla storia come gli arreglos27. Il governo si impegnava
ad attuare la ley Calles in una modalità ritenuta accettabile dalla Chiesa, ottenendo quindi
l’assenso dei due vescovi al ripristino del culto. Il presidente promise anche un’amnistia per
i cristeros e la restituzione delle chiese28.
La strategia di Cedillo consisteva nell’adottare delle tattiche analoghe a quelle cristere dividendo le sue divisioni
in piccoli gruppi che potessero coordinarsi in operazioni di rastrellamento. Le ridotte dimensioni delle unità
permise loro di entrare in territori fino ad allora difficilmente penetrabili.
25 A questo si sommi anche la mediazione diplomatica del Cile e degli Stati Uniti.
26 Scaduto il mandato di Calles era stato eletto Obregón (1928), il quale venne però assassinato poco dopo in
circostanze ancora controverse dal cattolico José de León Toral (1900 – 1929).
27 Paolo VALVO, Pio XI e la Cristiada. Fede, guerra e diplomazia in Messico (1926 – 1929), Morcelliana, 2016, José
Luís SOBERANES FERNÁNDEZ, Oscar CRUZ BARNEY (eds.), Los arreglos del presidente Portes Gil y el fin de la guerra
cristera. Aspectos juridicos e historicos, Universidad Nacional Autónoma de México, 2015, Andrea MUTOLO, Gli
arreglos tra l’episcopato e il governo nel conflitto religioso del Messico (agosto 1929). Come risultano dagli archivi messicani,
Editrice Pontificia Università Gregoriana, 2003.
28 MUTOLO, cit., pp. 96-100.
24
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Unión popular Cristera, fotografia, 1928, Museo Nacional Cristero
Pur amareggiati i cristeros smobilitarono non appena il culto venne ripristinato, anche se il
governo spesso disattese le amnistie teoricamente garantite e numerosi furono gli omicidi di
vecchi combattenti che deposero le armi. Secondo René De La Pedraja la fine della Cristiada
coincide con l’ultimo capitolo della Rivoluzione messicana:
Quando i cristeros si arresero nel 1929 e ritornarono alla vita civile, probabilmente non
avevano realizzato che stavano chiudendo il capitolo finale della Rivoluzione messicana.
L’appello di Francisco Madero a ribellarsi a Porfirio Díaz il 20 novembre 1910 ha
scatenato circa vent’anni di guerra selvaggia, caotico disordine, e brutale distruzione.
Dal 1929 un nuovo sistema politico era emerso ed era più solido e considerevolmente
più oppressivo dell’originaria struttura porfiriana. La Rivoluzione era tornata alle sue
origini autoritarie. I messicani erano intenzionati a pagare qualsiasi prezzo per restaurare
pace e stabilità. Libertà e democrazia, le parole d’ordine contro Porfirio Díaz, erano
state perse per strada.29
Inoltre la Cristiada pose la parola fine al confronto diretto della Chiesa con le istituzioni.
Dopo essere stato sconfitto nella Guerra de Reforma, nella Guerra de intervención francesa, aver
pagato il prezzo del sostegno a Huerta e aver visto con i cristeros l’impossibilità di vincere
militarmente lo Stato postrivoluzionario l’episcopato modifica la sua strategia:
La sconfitta della ribellione cristera [...] ha reso evidente alla gerarchia la necessità di
confrontarsi con lo Stato con mezzi pacifici. La strategia della Chiesa si ridefinisce:
invece della lotta con mezzi violenti, che in molte occasioni la Chiesa giustifica
teologicamente, l’episcopato preferisce uno spazio di libertà, si chiede informalmente al
governo una non applicazione delle leggi persecutrici [...]. Dagli arreglos in poi, la Chiesa
29
René DE LA PEDRAJA, Wars of Latin America, 1899-1941, McFarland & Company, 2006, p. 307.
Tra cristeros e federales. Il conflitto religioso messicano negli anni Venti e Trenta.
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non cerca l’abolizione di questi articoli, ma un riconoscimento del governo che le
permetta una certa libertà di azione.30
Le braci: la Segunda (1934 – 1941)
Durante i mandati dei successori di Portes Gil la situazione variava a seconda dello Stato,
in alcuni casi (come in Tabasco e Veracruz) l’anticlericalismo era ripreso a tamburo battente,
mentre in altri veniva lasciata alla Chiesa una relativa libertà di azione in campo pastorale.
Complessivamente la situazione nei primi anni Trenta non era delle migliori, complice il
controllo indiretto della vita politica che Calles continuava a esercitare (il c.d. Maximato). Nel
1934 divenne presidente il generale Lázaro Cárdenas (1895 – 1970), con un gabinetto di
fedelissimi di Calles. Gli inizi del suo mandato coincisero con il varo di una riforma educativa
nota come educación socialista, che suscitò l’opposizione dei vescovi e del laicato, in un contesto
di difficili rapporti con le istituzioni ecclesiastiche.
Mentre l’episcopato era impegnato in una difficile riorganizzazione interna e nel tentativo
di stabilire un modus vivendi la situazione rischiò di sfuggirgli nuovamente di mano: le politiche
religiose ed educative del governo portarono alcune frange del laicato a riprendere le armi
nel 1934, guidate da vecchi quadri dei cristeros. Si trattò di rivolte localizzate nelle aree più
remote del Bajío e in zone limitrofe, in particolare in Jalisco, Durango, Oaxaca, Guerrero,
Aguascalientes, Guanajuato, Colima e Michoacán, coinvolgendo al loro zenit circa 7.500
persone in un movimento noto come La Segunda:
La seconda parte della Cristiada […] consistette nella reazione dei contadini al progetto
di ‘educazione socialista’, alla persecuzione religiosa (nel Veracruz e nel Chiapas), e a
certi aspetti della riforma agraria (il problema delle ejido, o terre comuni, e delle milizie).
A Morelos, Puebla, e Veracruz, lungo la crescente linea dei vulcani, fu come l’ultimo
barlume del movimento di Zapata; il movimento fu più forte di come lo fu nel 1926’29 a Sonora, Oaxaca, Puebla e Morelos, regioni che erano meno coinvolte, e di
conseguenza meno devastate, durante la prima guerra e immediatamente dopo. Il
[Messico] centro occidentale partecipò ad una estensione molto minore, e lo Jalisco, che
fu un bastione del movimento nel 1926, difficilmente del tutto. Questa seconda fase fu
Andrea MUTOLO, La Iglesia mexicana después de los arreglos entre Estado e Iglesia (1929 – 1931), SAVARINO,
MUTOLO (eds.), Del conflicto, pp. 43-44.
30
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caratterizzata da ribellioni disperate (in particolare contro la Chiesa, che condannò e
scomunicò i cristeros) e violenze. Il terrorismo, che era sconosciuto tra il 1926 e il 1929,
fu sguinzagliato contro i leader del regime, i maestri rurali e le autorità agrarie. 31
Si tratta di un conflitto di dimensioni minori di quello del 1926 – 1929, limitazione dovuta
in massima parte alla condanna che i vescovi inflissero ai ribelli, colpiti ipso facto dalla
scomunica. I traumi più o meno recenti dell’episcopato avevano suscitato una totale ostilità
nei confronti di un movimento guidato da laici al di fuori del loro diretto controllo, e la
memoria storica aveva imposto un’amara lezione: tentare di rovesciare lo status quo ne
provocava l’inasprimento. Se era stato così con la Guerra de Reforma, con Massimiliano e con
Huerta non poteva andare diversamente coi cristeros, occorreva quindi smarcarsi dalla Segunda
condannandone i partecipanti. Il contenimento del malcontento laicale era diventato una
questione di somma importanza per le gerarchie, che a tal fine approvarono più o meno
tacitamente la formazione di diversi movimenti, alcuni segreti e altri pubblici, che
incanalassero in progetti pacifici lo scontento diffuso:
Oltre ad un bombardamento di note, proteste, e condanne, lavorò discretamente
attraverso il Secretariado Social, l’ACM [Acción Católica Mexicana] e tutte le
organizzazioni da lei controllata, in particolare quelle femminili e la rinnovata UNPF32;
nella UNAM e nelle università di provincia con la nuova Unión Nacional de Estudiantes
Católicos (UNEC); come se non bastasse, tollerò e incoraggiò società segrete, sempre
che fossero controllate dalla gerarchia e/o dai gesuiti. Senza contare con una rinnovata
attività religiosa […]. Tutto questo per evitare la crescita della disobbedienza di molti
cattolici e della “Segunda” (Cristiada), e allo stesso tempo per contrastare l’offensiva del
governo. Per Roma e i prelati più fedeli alla nuova linea “la scienza di vincere perdendo”
non era segno di debolezza né di concessioni allo Stato anticlericale, ma l’unico modo
per salvare l’istituzione e il suo futuro. Tra il 1932 e il 1938 era difficile sostenere questa
tesi ma sul lungo periodo vinse la scommessa.33
Particolarmente efficace nel convogliare le proteste fu l’Unión Nacional Sinarquista (UNS),
movimento di estrema destra religiosa che si radicò nelle stesse aree di irradiazione dei
cristeros. Il sinarquismo era nato da alcune società segrete cattoliche controllate dai gesuiti, e la
31
MEYER, The Cristero Rebellion, pp. 215-216.
Unión Nacional de Padres de Familia, associazione sorta nel 1917.
33 MEYER, La Iglesia, p. 13.
32
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sua dirigenza segreta aveva forti legami con l’episcopato che lo rendevano uno strumento
utile per fornire un’alternativa alla lotta armata34.
Anche la reazione dell’esercito fu piuttosto efficace, soprattutto grazie alla
riorganizzazione portata avanti da Amaro nella prima metà degli anni Trenta che rese i
federales capaci di reprimere in modo incisivo fenomeni di guerriglia: il ripristino della
coscrizione obbligatoria, l’ampiamento della rete stradale e soprattutto il potenziamento della
cavalleria diedero filo da torcere ai cristeros, ormai incapaci di far fronte al nemico come negli
anni Venti. I numeri del resto parlano chiaro: al 1936 il numero di ribelli in armi era ridotto
ad appena 2.000 tra defezioni e caduti. Restavano a combattere solo gli irriducibili nelle sierras
più remote del paese, senza nessuna possibilità di vittoria:
E fu così che tra le montagne riprese una sanguinosa guerra, decimando maestri e
dirigenti dei comitati agrari, accompagnata da pericolosi colpi di mano contro i federales.
In un paese come questo, maltrattato e ostinato, senza pacificazione alcuna, vittima […]
di una terribile crisi economica, questi ribelli rappresentano un fermento pericoloso.
Qualche migliaio di uomini, 7.500 nel 1935, 2.000 nel 1939, si mantengono irriducibili
nelle loro sierras e dichiarano che non si sottometteranno mai fino a che il governo non
avrà abbandonato del tutto la persecuzione contro la Chiesa35
Altro fattore che remò contro i cristeros è l’assenza di buona parte dei vecchi comandanti,
o perché morti durante (o dopo) la precedente guerra o perché non parteciparono alla
Segunda. Ripresero invece le armi quadri intermedi nella catena di comando della Cristiada,
con capacità di mobilitazione decisamente minori rispetto a quelle dei loro superiori. Tra di
essi si ricordino per importanza Aurelio Acevedo, il segretario di Gorostieta Lauro Rocha
(1908 – 1936) e i comandanti del Durango Federico Vázquez, Trinidad Mora e Florencio
Estrada. Delle vicende di quest’ultimo abbiamo un resoconto romanzato scritto dal figlio
Antonio Estrada36, che ha avuto anche una trasposizione cinematografica37.
A differenza della guerra degli anni Venti, in cui le motivazioni di carattere religioso sono
preponderanti, nella Segunda le ragioni dei combattenti risultano estremamente variabili, con
Hector HERNÁNDEZ, The Sinarquista Movement. With Special Reference to the Period 1934 – 1944, Minerva, 1999,
Jean MEYER, El sinarquismo, el cardenismo y la Iglesia. 1937 – 1947, Tusquets, 2003, Rodrigo RUIZ VELASCO BARBA,
Salvador Abascal. El mexicano que desafió a la Revolución, Rosa Ma Porrúa, 2014.
35 MEYER, La Cristiada. Tomo I, p. 368.
36 Antonio ESTRADA MUÑOZ, Rescoldo, Jus, 2011.
37 Si tratta del lungometraggio Los ultimos cristeros (2011), diretto dal figlio di Jean Meyer Matías Meyer. E non è
l’unica volta che i cristeros sono comparsi sul grande schermo: nel 2012 Dean Wright ha diretto For Greater Glory.
The True Story of Cristiada.
34
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notevoli diversità a seconda dello Stato di riferimento38. Per quanto vi fossero aspetti di
reazione all’anticlericalismo e al mancato rispetto dell’amnistia, si possono rilevare anche
rivendicazioni di carattere sociale ed economico estranee al conflitto religioso e legate
piuttosto alla riforma agraria del governo. Simili motivazioni sono preponderanti in alcuni
casi come ad esempio quello del Durango, in cui gli indios tepehuanes, ancora pagani, si
unirono ai cristeros per opporsi alle politiche di disboscamento che minacciavano i loro centri
rituali.
Pur con le diverse dinamiche regionali, diverse sono le affinità in quanto a modus operandi,
dato che si trattò nella stragrande maggioranza dei casi di una guerra di imboscate che
tendenzialmente evitava le battaglie campali, con sporadici atti di terrorismo contro i maestri
rurali, a cui sovente si tagliavano le orecchie, gli agraristas e i rappresentanti del governo.
Qualche eccezione all’assenza di scontri diretti coi federales c’è stata, come la battaglia del
Cerro de Chachamole (1935) in cui i cristeros del Durango guidati da Vázquez ebbero la
meglio. Si è trattato dell’episodio bellico più rilevante negli anni di Cárdenas, in cui persero
la vita 400 federales. Nemmeno la ribellione di Saturnino Cedillo (1938) ebbe un prezzo così
alto.
Le ceneri
Parallelamente a questi eventi i rapporti tra Cárdenas e la Chiesa miglioravano sempre di
più. L’abbandono progressivo dell’anticlericalismo da parte governativa, che si intersecava
con le crescenti ostilità tra il presidente e Calles culminate con la sconfitta e l’esilio di
quest’ultimo (1936), condussero alla progressiva affermazione del modus vivendi. Emblematico
esempio del cambio di clima è una serie di manifestazioni pacifiche e spontanee dei cattolici
che, a partire dal Veracruz, si diffusero a macchia d’olio in tutto il paese portando alla
riapertura degli edifici di culto. In quasi tutti i casi le autorità non si opposero. Ad accelerare
la riconciliazione fu la nomina a primate del Messico (1937) di Luis María Martínez (1881 –
1956), che vantava un ottimo rapporto con il presidente. Per un modus vivendi effettivo si
attese fino al 1938, anno in cui Cárdenas decretò l’esproprio dei giacimenti petroliferi in mano
alle compagnie statunitensi incassando il sostegno dell’episcopato. Da lì in poi le leggi
38
Antonio AVITIA HERNÁNDEZ, El Caudillo Sagrado. Historia de las Rebeliones Cristeras en el Estado de Durango,
Edición del Autor, 2006, Enrique GUERRA MANZO, El fuego sagrado. La Segunda cristiada y el caso de
Michoacán (1931-1938), Historia Méxicana, vol. 55, N. 2, (2005), pp. 557-558, Ben FALLAW, Religion and State
Formation in Postrevolutionary Mexico, Duke Univesity Press, 2013, pp. 101-157.
Tra cristeros e federales. Il conflitto religioso messicano negli anni Venti e Trenta.
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anticlericali, pur formalmente ancora vigenti, vennero del tutto disattese nella prassi. Nel
1940 divenne presidente Manuel Ávila Camacho (1897 – 1955), che si era dichiarato cattolico
durante la campagna elettorale e che durante il suo governo consolidò definitivamente il
modus vivendi. Il conflitto religioso poteva dirsi concluso, anche se per una riforma degli articoli
della Costituzione si dovette attendere fino al 1992.
Gli ultimi sparuti gruppi di cristeros abbandonarono la loro lotta solo nel 1941. Si trattava
dei miliziani del Durango guidati da Federico Vázquez, che a fronte di un’amnistia e di
determinate garanzie del governatore Elpidio G. Velázquez (1892 – 1977) deposero le armi.
Gli ultimi guerriglieri di Cristo Re erano tornati alla vita civile, e a voler dare un quadro
complessivo della Segunda
La seconda ribellione cristera iniziò i suoi combattimenti alla fine del 1934 e ebbe il suo
apogeo con 7.500 ribelli nel 1935. La durata, il numero di insorti e l’intensità della guerra
furono molto diversi a seconda delle caratteristiche regionali e dei motivi degli stessi
combattenti. Nello Jalisco, Nayarit e Zacatecas, si concluse nel 1937, mentre nel
Michoacán e nell’Aguascalientes perdurò fino al 1938. Nello Stato di Morelos ci furono
cristeros fino al 1939. Nei Cerros Agustinos del Guanajuato, i soldati di Cristo
combatterono fino all’anno 1940. La lotta degli ultimi cristeros risulta comprensibile
solo come forma di conflitto per la sopravvivenza delle comunità agrarie tradizionali
degli indigeni e della religione sincretica, senza grandi azioni guerriere, eccetto la
battaglia del Cerro del Chachamole. […] Finalmente, nel 1941, gli unici cristeros che
rimanevano attivi nel paese, erano gli ostinati, irredenti e pertinaci militanti, meticci e
indigeni non cattolici e scomunicati dell’Ejército Libertador Cristero del Estado de
Durango, ELCED, che era stato comandato agli inizi da Trinidad Mora e, alla morte di
questi, dal 1936 da Federico Vázquez: un esercito che non contava più che qualche
piccolo gruppo di affamati, pezzenti, esausti, demoralizzati e umiliati guerrieri, quasi
vinti dal Governo e dai suoi alleati agraristi ausiliari irregolari. Paradossalmente, al
momento della sua amnistia, che ha avuto luogo il 25 febbraio del 1941, nella caserma
della Decima Zona Militare della città di Durango, già nel periodo presidenziale di
Manuel Ávila Camacho, colui che dall’inizio del suo mandato si era dichiarato credente,
la guerra iniziata contro la persecuzione religiosa, per la difesa dei templi e sacerdoti
cattolici cittadini, terminò con la soddisfazione di domande ed esigenze che non
avevano nessuna connessione con la religione cattolica o con la destra conservatrice
cittadina. Oltre al rispetto della vita e dei beni comunali dei combattenti, una delle
principali condizioni dell’amnistia degli ultimi cristeros di Federico Vázquez, fu quella
del rispetto totale del centro cerimoniale religioso tradizionale tepehuán di Taxicaringa,
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ubicato nel municipio di Mezquital, Durango. Nulla a che vedere con il Vaticano, con
l’episcopato messicano, l’Arcidiocesi di Durango, l’ACJM, il Partido Acción Nacional o
l’Unión Nacional Sinarquista.39
Resta aperto un interrogativo inerente alla natura della Segunda: la si può considerare parte
della Cristiada o piuttosto un conflitto con altre dinamiche? A riguardo ci sono diverse
interpretazioni, e se da un lato non mancano gli elementi di continuità come gli uomini che
ripresero le armi e alle motivazioni di carattere religioso, dall’altro però sono forti anche i
distinguo quali la condanna delle autorità ecclesiastiche, l’assenza di un coordinamento
nazionale, la presenza di altre ragioni oltre alla difesa della Chiesa, che come abbiamo visto
in alcuni casi è perfino assente. La difficoltà aumenta se si considera che la Segunda presenta
caratteristiche diverse a seconda dello Stato di riferimento, rendendola un fenomeno molto
più sfaccettato della guerra del 1926 – 1929. Simili circostanze hanno portato Meyer ad
esprimersi in senso contrario all’inclusione della Segunda nel novero della Cristiada:
Tentarono di ripetere la sollevazione del 1927, ma la storia non si ripete e la “Segunda”
non fu “la Cristiada”, così che per lo storico c’è solo una Cristiada, la prima.40
Infatti
La lotta degli ultimi cristeros risulta comprensibile solo come forma di sopravvivenza e
per l’agrarismo comunitario tradizionale indigeno, e per la religione sincretica, senza
grandi azioni guerriere e senza apparenti motivi politici, dopo che i decreti
dell’educazione socialista e sessuale sono stati abbandonati dalla pratica docente e che il
culto era ripreso nelle chiese, alla Chiesa importava di più la sua relazione paziente con
lo Stato della vita dei cristeros. La croce ecclesiastica non poteva sopportare il peso della
croce cristera, mentre allo Stato cardenista disturbava, nella sua egemonia e legittimità,
l’esistenza di gruppi di cristeros isolati.41
Complessivamente si può ritenere la Cristiada l’ultimo capitolo della resistenza armata dei
cattolici e di parte del mondo rurale alle riforme dei governi messicani, oltre che l’ultimo
colpo di coda della stagione rivoluzionaria iniziata nel 1910. Terminato il fenomeno dei
cristeros sul declinare degli anni Trenta, Stato e Chiesa si trovarono uniti in un modus vivendi
39
Antonio AVITIA HERNÁNDEZ, Elogiada y desdeñada narrativa de los últimos e incomodos cristeros, in ESTRADA, cit.,
pp. 15-16.
40 Jean MEYER, De una Revolución a la otra: México en la historia. Antología de textos, Colegio de México, 2013, p. 398.
41 Antonio AVITIA HERNÁNDEZ, La narrativa de las Cristiadas. Novela, cuento, teatro, cine y corrido de las Rebeliones
Cristeras, Universidad Autónoma Metropolitana. Unidad Iztapalapa. División de Ciencias Sociales y
Humanidades, 2006, p. 142.
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paradossale data l’ufficiale (anche se puramente formale) adesione all’anticlericalismo sancita
dalla Costituzione, dal quale però entrambe le parti in causa si sono sempre ben guardate dal
fare marcia indietro. A riguardo è emblematico che in occasione delle controverse elezioni
statali del Chihuahua del 1986, vinte dal candidato del PRI42, l’arcivescovo della diocesi
Adalberto Almeida y Merino (1916 – 2008) decise di sospendere per protesta le messe
domenicali del 20 luglio, ma venne convinto dal Vaticano a non attuare i suoi propositi. In
quel frangente
L’allora segretario del governo, Manuel Bartlett, prese la minaccia di Almeida in modo
molto serio, ricordando come 60 anni prima, sotto il presidente fortemente anticattolico Plutarco Elías Calles, […] [vennero] sospese tutte le messe, contribuendo alla
violenza civile e alla ribellione dei cristeros.43
42
Partido Revolucionario Institucional, organismo politico fondato dai vincitori della Rivoluzione che ha governato
il Messico in un regime monopartitico dal 1929 al 2000.
43 Roderic AI CAMP, Crossing Swords: Politics and Religion in Mexico, Oxford University Press, 1997, p. 64.
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Federico Sesia
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Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
«L’eroico colpo da maestro»: l’assedio di Torino e la battaglia
di Ramillies
Francesco Biasi, Luca Di Pietrantonio, Davide Pafumi
Introduzione generale
Questa sezione della rivista nasce dal tentativo di offrire al pubblico di lettori e studiosi la
possibilità di interrogarsi e riflettere sull’analisi di documenti di prima mano, poco scontati,
spesso anche difficili da trovare. Il testo, presentato qui in parte, ma nei prossimi numeri
analizzato nella sua completezza, viene suggerito principalmente per due motivi: la sua
collocazione geografica/linguistica, ed i suoi contenuti. Esso è reperibile gratuitamente sia
alla relativa pagina di Google Books, ma anche sul sito della Biblioteca Nazionale di Monaco
di Baviera nella quale si trova. Pamphlet, probabilmente satirico in lingua tedesca, tratta di
un tema molto caro alla realtà torinese: l’assedio del 1706. L’intervento scritto da più autori
si comporrà di tre parti: l’introduzione e la traduzione del testo (Davide Pafumi), un apparato
prosopografico dei protagonisti citati (Luca di Pietrantonio, il quale si è occupato anche dei
riferimenti biografici a piè di pagina nell’articolo) e, infine, una contestualizzazione storica
degli eventi (Francesco Biasi). Per un ottima contestualizzazione di questo intervento si
consiglia la lettura dei precedenti numeri di Arma VirumQue, in particolare il primo, secondo
e terzo.
Nelle scorse edizioni di questo apparato, la contestualizzazione veniva inserita solitamente
all’inizio dell’elaborato. In questo caso si è scelto di inserirla alla fine, essendo che è un
approfondimento che si sviluppa parallelamente all’assedio di Torino, e in cui alcuni
protagonisti vengono direttamente citati nell’apparato prosopografico.
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
Nota traduttiva
Davide Pafumi
Il presente articolo è dedicato alla formulazione di una proposta di traduzione riguardante le
pp. 9-11 di un testo tedesco anonimo del primo decennio del sec. XVIII. Il volume è
intitolato – si dirà per brevità – «Der Heldenmütige Meister-Streich», tradotto, “L’eroico
colpo da maestro” e come si apprende dal frontespizio viene pubblicato, nel 1706 tra Lipsia
e Francoforte, dagli eredi dello stampatore Johan Johnathan Felßecker (o Felsecker), oriundo
norimberghese. Riguardo la versione usata per la traduzione, essa è, ad oggi, conservata alla
Bayerische Staatsbibliothek (BSB) di Monaco, con segnatura Res/4 Eur. 391,22 BSB, nonché
accessibile nella sua completezza attraverso le risorse online presenti sul sito della già
menzionata biblioteca1. A metà tra uno scritto di propaganda e un pamphlet satirico, viene
definita per stessa ammissione del suo misterioso autore quale «Belagerungs-Bericht» (lett.
“rapporto d’assedio”) e prima ancora «Bescheid» (“trattato”), arrogando a sé una qualche
scientificità.
Le scelte operate in questo ambito sono estremamente libere, volte solo a rendere il testo in
uno stile ricercato – equivalente a quello impiegato –, talora rinunciando alla completa
aderenza documentale. Cionondimeno, anche a chi avesse competenze di tedesco, e volesse
conseguentemente cimentarsi nell’esplorazione della fonte, non sarebbe pregiudicata questa
possibilità. Lo scopo ultimo, come si sarà a questo punto intuire è, dunque, non solo di
rendere la fonte accessibile ad un più vasto pubblico, ma risvegliare un qualche interesse
scientifico (storiografico e non solo) che vada verso tale direzione.
La traduzione, dunque, viene sviluppata in linea con le considerazioni stilistiche circa il tono
adottato dall’anonimo autore. Ciononostante, la ricerca della resa più corretta dei lemmi
documentati è stata corroborata dalla consultazione di numerosi dizionari, grazie ai quali è
stato possibile incrociare più entrate contemporaneamente. Tutto il materiale impiegato per
la traduzione è stato riportato in nota nelle pagine seguenti, seppur nella loro forma “ridotta”
– mediante una sigla – e per esteso solamente in bibliografia.
1
Cfr. ANONIMO, Der Heldenmütige Meister-Streich, Frankfurt/Leipzig, Verlag Felsecker, 1706, in Bayerische
https://reader.digitaleStaatsbibliothek
digital,
<
sammlungen.de/de/fs1/object/goToPage/bsb10892944.html?pageNo=1>, ultimo accesso: 04/07/2022.
«L’eroico colpo da maestro»: l’assedio di Torino e la battaglia di Ramillies
Francesco Biasi, Luca Di Pietrantonio, Davide Pafumi
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Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
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TRASCRIZIONE
[S. 11]
Nun aber fing man das man es im Lager für eine verdrießliche Fatalität zu halten an / daß
man die Lauf-Gräben vor Turin / eben an dem Tag / geöffnet /
[S. 12]
An welchem in den Spanischen Niederlanden / die grausame Niedermetzlung brutale
Vergiessung des delicaten Französischen Bluts den Tag des 23. May / bey der Nachwelt /
stinckend gemacht hat. Und es verdriest die Franzosen noch / daß sie dem Herzog von
Marleburg die Entheiligung des Sabaths / ja so gar des hochheiligen ersten Pfingst-Festes
nicht mit mehr Rachtruck2 vorwerfen können: weil man gleich mit dem 23. Tag Maji / der
auch vor Turin so sehr profanirt worden / retorquiren3 zurück. Ja man will sagen: die
Franzosen hätten sich ein Gewissen gemacht den Pfingst-Tag so sehr zu entheiligen / wann
sie den 22. Maji schon / was bey Ramelies in Brabant geschehen würde / hatten vorher sehen
können. Und wahrhafftig diese Andacht würde ihnen viel eingetragen, und
unaussprechlichen Verlust an Ehre / Volck / Munition / Proviant und Zeit abgewendet
haben.
TRADUZIONE
[p. 11]
Ora, però, nel campo si cominciava a considerare come una fastidiosa fatalità il fatto che le
trincee di fronte a Torino fossero aperte
[p. 12]
proprio nel giorno in cui, nei Paesi Bassi spagnoli, il crudele massacro e il brutale spargimento
del raffinato sangue francese avevano impestato la giornata del 23 maggio agli occhi della
posterità. Così i francesi sono ancora irritati dal fatto di non poter punire con maggior impeto
vendicatore il duca di Marlborough4 per aver profanato il sabato e la sacra festa della
Pentecoste: ragion per cui rispondono subito con i fatti del giorno 23 di maggio, che dinnanzi
alle mura di Torino è stato tanto dissacrato. Certo – viene da dire – francesi si sarebbero fatti
qualche scrupolo a commettere sacrilegio proprio il giorno di Pentecoste, se avessero potuto
ben prevedere ciò che sarebbe accaduto a Ramillies nel Brabante il 22 maggio. E davvero
questo atto di devozione avrebbe risparmiato loro molte sventure, evitando indicibili perdite
di onore, uomini, munizioni, provviste e tempo.
2
Qui interpretato come Druck von Rach.
Per il Deutschen Rechtswörterbuch (DRW), vol. XI, col. 953, il termine significa «erwidern, mit Gleichem
vergelten» (“ricambiare, ripagare con la stessa moneta”).
4 L’autore si riferisce a John Churchill, I duca di Marlborough (1650-1722) vittorioso a Ramillies (23 maggio
1706) sui franco-bavaresi del duca François de Neufville de Villeroy (1644-1730).
3
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Allein die Welt ist offt / zu ihrem eigenen Nachtheil / eigensinnig. Und weil die Stadt Turin
nicht nachgeben will / so soll es nun die gute Citadella entgelten. Dann nachdem der Herzog
von Feuillade am 14. Junii mit 16. Bataillons und 40. Esquadrons über den Po gegangen /
und der Stadt Turin auch von der andern Seite / einen Ring um die Nase gelegt / so wurde
der Herzog von Savojen gezwungen / nach Cherasco / welches auch Chieras / heist zu
flüchten. Die Princessinen zurück die Flehe in Coni halten. Den 18. Dieses besagten Monats
/ fieng der Feind an die Citadelle zu beschiessen. Darzu bediente man sich 85. Der
schwersten Canonen und 20. Mörsner. So viel Feuerzeug hat zwar viel Zorn der Belägerer
von sich gespien / und mit Einäscherung vieler Gebäuegewiesen5 / wie gefährlich der König
in Franckreich den Schweher Vatter seines Enkels anblase; aber von der Festung ist nichts
gemindert worden.
Ma il mondo è spesso ostinato a suo discapito. E poiché la città di Torino non vuole
arrendersi, a pagare è ora la buona cittadella. Questa, dopo che il 14 giugno il duca de la
Feuillade aveva attraversato il Po con 16 battaglioni e 40 squadroni, mettendo anche un anello
attorno al naso della città di Torino6, dalla parte avversa il duca di Savoia fu costretto7 a
fuggire a Cherasco, anche detta Chieras. Le principesse8 rivolgono le loro suppliche a Cuneo.
Il 18 dello stesso mese il nemico iniziò a bombardare la cittadella e per far ciò vennero
impiegati 85 cannoni tra i più pesanti e 20 mortai. Le fiamme ne scaturirono dimostravano
quanta ira stessero sputando allora gli assedianti i quali, con l'incenerimento di molti edifici,
dimostrarono quanto il re di Francia fosse pericoloso per il suocero di suo nipote; e,
nonostante ciò, nulla della fortezza fu danneggiato9.
5
Sono state interpretate come due parole separate vale a dire Gebäude e gewiesen.
Qui si sta giocando su una arditissima metafora bovina: l’anello attorno al naso del toro, simbolo della città di
Torino, starebbe ad indicare come il generale francese fosse riuscito a metterla in difficoltà cingendola d’assedio.
7 Per quanto sussistano dei dubbi, il termine impiegato dovrebbe essere heißen ossia “chiamare”, in questo caso
interpretato come “costringere”.
6
Non si è certi a quali principesse l’autore alluda. È probabile che egli si riferisca alla duchessa madre Maria Giovanna
Battista di Savoia-Nemours (1644-1720), alla moglie di Vittorio Amedeo Anna Maria di Borbone-Orléans (1669-1728) e
alla principessa di Carignano Angela Maria Caterina d’Este (1656-1722). Vi sono notizie, infatti, che le suddette principesse
si fossero rifugiate, insieme ai figli del duca sabaudo e a suo cugino Emanuele Filiberto (1628-1709), presso Cherasco
insieme alla Sacra Sindone. Era disegno di Vittorio Amedeo, infatti, recarsi entro i territori della Repubblica di Genova
salvando così la famiglia ducale in caso di occupazione francese. Cfr. MARIANO BARGELLINI, Storia popolare di Genova dalla
sua origine fino ai nostri tempi, vol. II, Genova, Monni, 1857, pp. 363-364. Sebbene il Bargellini non menzioni la sosta della
famiglia ducale con la Sindone a Cherasco, l’evento non solo è riportato da Pierluigi Baima Bollone ma pure testimoniato
da una lapide a Palazzo Salmatoris recante l’evento inaspettato in quanto il Sacro telo venne mostrato alla cittadinanza per
l’occasione. Cfr. PIERLUIGI BAIMA BOLLONE, Sindone o no, Torino, SEI, 1990.
8
9
Letteralmente gemindert in tedesco significa “ridotto”, per esteso “in rovina” ossia “distrutto”.
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Francesco Biasi, Luca Di Pietrantonio, Davide Pafumi
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Dieses kam daher / weil der Commandant in der Stadt Herr General und Grav von
Thaun / mit dem Commandanten in der Citadelle de la Roche Dannery, der ein Savojer ist
/ sich in treuer Sorgfalt zum beten ihrer Principalen wohl verstanden. Wann man nun noch
dar zu setzt / daß sie beyde / für die Citadelle bey 7000. Mann gute Soldaten und 6000.
Mann Land-Volck / dabey 150. Canonirer und Lebens-Mittel samt Gelds genug / darinn
gehabt haben: So wird man uns für keine Herenmeister10 halten wann denen Franzosen /
wie sie hier einen Blosen schlagen11 werden / schon damals voraus geweissaget. Wir sagten
damals / welches viel unserer Freunde bezeugen: Franckreich lässt sich hier die Rache gegen
Turin verleiten / und wird die Haubt-Sach in Spanien verliehren. Id quod factum!
Allein wann einen das Unglück recht beym Ermel erwischen will / so begünstigt es
ihn erstlich auf alle Weise. Die Franzosen nahmen Mondovi und Asti weg. Dieses sind Plätze
/ welche die Belägerung der Residenz um ein gutes sicherer machten.
Questo grazie al fatto che il comandante della città, il generale e conte von Daun, e il
comandante della Cittadella, de la Roche d’Allery12, – il quale era un savoiardo – andavano
d'accordo nel rispettare fedelmente i comandi dei loro superiori. A ciò si aggiunge che
entrambi avevano abbastanza valorosi soldati per la difesa della cittadella; con 7.000 soldati
e 6.000 coscritti, oltre a 150 artiglieri e abbastanza scorte di cibo e denaro. Eppure, non ci
riterranno dei veri comandanti, quando i francesi sferreranno qui un sol colpo che si
preannunciava già da tempo. Dicemmo allora ciò che molti nostri confidenti poi
testimoniarono13, ovvero che la Francia, tentata di vendicarsi su Torino, perderà così la
disputa principale in Spagna. E così accadde!
Ma anche quando la sfortuna vuole prendere un uomo per la collottola, questi viene
favorito con ogni mezzo. I francesi hanno portato via Mondovì e Asti. Questi sono luoghi
che avevano contribuito a rendere più sicura la Capitale assediata.
In Adelung (vol. 2, col. 1136) lemma è attestato come Heermeister (it. “comandante dell’esercito”).
I termini saranno qui interpretati come bloßen e Schlagen, ipotizzando un errore degli stampatori.
12 Si tratta di Pierre Lucas de la Roche d’Allery (?-1714), governatore della cittadella di Torino. Savoiardo, iniziò
la carriera sotto le armi francesi per poi servire gli Asburgo contro il pericolo turco: fu proprio contro gli
ottomani che il d’Allery ricevette i primi successi venendo lodato ed onorato da Leopoldo I con il titolo di
conte del Sacro Romano Impero in virtù del valore dimostrato durante la difesa di Vienna nel 1683. Rientrato
in patria, il d’Allery di mise al servizio di Vittorio Amedeo II ottenendo il comando delle cittadelle di Verrua e
Torino durante la guerra contro Luigi XIV. Abile difensore, durante il lungo assedio di Torino optò per un
comportamento aggressivo nei confronti degli assedianti proponendo diverse sortite, tutte a vantaggio degli
assediati, nell’agosto del 1706. Grazie al suo impeccabile comportamento nella gestione della difesa della
cittadella e anche grazie allo spirito collaborativo intrattenuto con il maresciallo imperiale Wirich Philipp von
Daun (1669-1741) durante la difesa della capitale sabauda, il duca Vittorio Amedeo gli concesse non solo il
grado di luogotenente maresciallo ma pure il collare dell’Ordine dell’Annunziata, la massima onorificenza
sabauda. Rimase governatore della cittadella torinese anche dopo la guerra sino alla sua morte. Cfr. MARIANO
GABRIELE, Pierre Lucas de la Roche d’Allery in Dizionario biografico degli italiani, vol. 2, Roma, Treccani, 1960, ad
vocem.
13 Ripristinando la consecutio tra il verbum dicendi tedesco sagen al preterito “dire” e bezeugen “testimoniare”.
10
11
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Bibliografia
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«L’eroico colpo da maestro»: l’assedio di Torino e la battaglia di Ramillies
Francesco Biasi, Luca Di Pietrantonio, Davide Pafumi
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Apparato prosopografico
Luca Di Pietrantonio
von DAUN, Wirich Philipp, conte di Daun
e principe di Teano
(Vienna, 19 ottobre 1669 – Vienna, 30 luglio 1741)
Figlio del conte e maresciallo imperiale Wilhelm
Johann Anton von Daun (1621-1706), il quale
partecipò alla difesa di Praga nel 1683, Wirich
inaugurò la sua carriera militare entrando nel
reggimento paterno prendendo parte alla campagna in
Ungheria del 1696 contro i turchi, combattendo,
inoltre, alla vittoriosa battaglia di Zenta (1697).
Allo scoppio della guerra di successione spagnola il
Daun venne dislocato in alta Italia al fianco del
ANONIMO, Ritratto di Wirich Philipp von Daun
(1669–1741), olio su tela, XVIII secolo,
Heeresgeschichtliches Museum, Vienna.
principe Eugenio e lì assunse il comando supremo
nella difesa di Torino (1706) coordinata con il comandante della cittadella savoiardo Pierre
Lucas de la Roche d’Allery e con il governatore della città il marchese Angelo Carlo Isnardi
De Castello di Caraglio (1650-1723)14. Se il Muratori, che pure una tantum esprime qualche
breve giudizio di valore sui personaggi citati, non fornisce un ritratto né caratteriale né
comportamentale del conte von Daun, un affresco certcamente retorico e celebrativo del
generale imperiale ci è offerto da Antonio Francesco Tarizzo, prelato torinese che nel 1707
diede alle stampe il Ragguaglio istorico dell’assedio, difesa e liberazione della città di Torino. L’autore
lo presenta nel momento in cui Vittorio Amedeo lascia la città – assediata dai franco-spagnoli
– per mettere al sicuro la sua famiglia entro in confini genovesi. Il Daun è apprezzato non
14 EKKEHART VON DER DECKEN, Wirich Philipp Graf von Daun in Allgemeine deutsche Biographie, vol. 5, Lipsia,
Duncker & Humblot, 1877, p.115, ad vocem. Sul marchese di Caraglio cfr. ANGELA DILLON BUSSI, Angelo
Carlo Maurizio Isnardi De Castello marchese di Caraglio in Dizionario biografico degli italiani, vol. 19, Roma, Treccani,
1976, ad vocem.
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
solo per la sua abilità militare ma pure per la sua moderazione nel trattare la popolazione,
virtù, queste, riconosciutegli pure dai nemici.
Lasciò dunque S.A.R. col carattere d’una autorità plenaria si nella Città che nella
Cittadella il Conte Virrico (sic) di Daun Imperiale, che colla sua moderazione, colla Pietà
unita all’esattezza della Giustizia, col valore, e col senno non solo si è guadagnato il
cuore de’ Torinesi, ma insieme l’ammirazione de’ Nemici, che comendavano (sic
commentavano), come senza esempio la sua condotta e il suo gentilissimo governo15.
Il generale diede inoltre prova anche del suo rispetto per i religiosi, sempre il Tarizzo, che era
prete, sottolinea infatti che «non ha mai voluto il Gen. Daun dar loro [ai religiosi degli spedali]
alcun’ordine di prendere l’armi e di far la guardia: privilegio che non si è goduto altrove negli
assedi men lunghi e meno tormentati di questo»16. Il rispetto per i religiosi – e dunque per la
Chiesa – non era dovuto ad una cieca obbedienza ai dettami ecclesiastici e ciò lo si può
cogliere grazie ad un’informazione pervenutaci dal Carutti il quale nella sua Storia del regno di
Vittorio Amedeo II asserisce che, dopo alcuni scontri avvenuti il 27 agosto 1706, giacevano
numerosi cadaveri di entrambe le parti nei fossati delle fortificazioni: il generale Daun decise
di accatastare i corpi e «temendo infezione dai putrefatti corpi, con legna e fuochi artifiziati
gli incenerì la notte seguente»17. Questa risoluzione, che può parere oggi ovvia, al tempo non
lo era specie considerando che la cremazione dei corpi era vietata dalla Chiesa:
l’atteggiamento del Daun fu dunque quello di un abile generale che essendo edotto di fatti
bellici era ben conscio che lasciare i corpi alla mercé dei corvi non poteva che danneggiare
gli stessi difensori. È bene ricordare che mentre il Tarizzo fu un autore coevo ai fatti il Carutti,
invece, scrisse più di un secolo dopo e sicuramente trasse questa informazione da un autore
a lui precedente senza, dunque, sapere se effettivamente ciò che egli narrò accadde
veramente. Per principio d’autorità si ritiene vero ma il ragionevole dubbio permane tuttora.
A seguito della cacciata dei francesi dall’Italia come stabilito dalla convenzione del 13 marzo
1707, il Daun venne inviato verso il Napoletano il quale riuscì ad espugnare la fortezza di
Gaeta (30 settembre): grazie a questi numerosi successi venne premiato dall’arciduca – e
futuro imperatore con il nome di Carlo VI – Carlo d’Asburgo (1685-1740) – il quale era
formalmente re di Spagna in luogo di Filippo V di Borbone con il nome di Carlo III, da non
confondere dunque con il Carlo III di Borbone re di Spagna dal 1759 al 1788 – con la carica
FRANCESCO ANTONIO TARIZZO, Ragguaglio istorico dell’assedio, difesa e liberazione della città di Torino, Torino,
Zappata, 1707, p. 26.
16 F. A. TARIZZO, Ragguaglio istorico dell’assedio.cit., p. 86.
17 DOMENICO CARUTTI DI CANTOGNO, Storia del regno di Vittorio Amedeo II, Torino, Paravia, 1856, p. 267.
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di feldmaresciallo delle truppe imperiali in Italia senza tuttavia riceverne l’assenso imperiale.
Questa rivalità fra i due Asburgo – cioè fra l’arciduca Carlo e il fratello imperatore Giuseppe
(1678-1711) – si rifletté pure sul rapporto fra il Daun e il viceré nominato da Giuseppe,
Georg Adam von Martinitz (1645-1714): l’eroe di Torino succedette al Martinitz quale viceré
e in tale carica avviò l’operazione di invasione della Sardegna culminata con la resa di Cagliari
nel 1708. Tornato nel continente occupò pure le legazioni pontificie del nord costringendo
papa Clemente XI alla pace in quanto questi si era mantenuto fedele all’alleanza francospagnola18.
Il Daun venne onorato del titolo di Grande di Spagna, divenne principe di Teano e
nuovamente ottenne un mandato come viceré di Napoli conquistandosi l’amore del popolo19.
Creato cavaliere del Toson d’Oro tornò in Austria dove assunse il comando della città di
Vienna (1719). Dopo un suo incarico nelle Fiandre austriache gli venne assegnato il
governatorato del ducato di Milano (1728).
Oramai settantenne dovette fronteggiare l’avanzata franco-piemontese del maresciallo
Claude de Villars (1671-1734) e del re Carlo Emanuele III di Savoia che entrarono a Milano
nello stesso anno. Al principio della guerra – cioè quando ancora Vienna non immaginava
un’alleanza fra Piemonte e Francia – non appena il Daun seppe del raduno di armate francesi
al confine alpino con il regno di Sardegna immaginò che Luigi XV si stesse preparando ad
una nuova guerra contro i sabaudi e decise di offrire a Carlo Emanuele persino un ausilio di
truppe imperiali (circa 12.000 uomini) per proteggerlo dalla minaccia transalpina: il re
piemontese, ovviamente, rinunciò in quanto quelle truppe francesi non erano pronte ad
invadere il Piemonte bensì approntate a marciare con i sabaudi in Lombardia contro il Daun
stesso20. Questi, sospettoso della rinunzia del sovrano, decise di organizzare una difesa
tentando di coinvolgere anche la Repubblica di Venezia la quale optò per la proverbiale
neutralità armata. Il 30 ottobre 1733 Carlo Emanuele varcò il Ticino ricevendo subito le
chiavi della città di Milano; frattanto il Daun lasciava Pavia dirigendo quel poco di truppe che
non aveva dislocato nelle piazzeforti lombarde (Novara, Tortona, Mantova, Pizzighettone e
Milano) oltre il Mincio. Milano, strenuamente difesa dal settantaquattrenne conte Annibale
Visconti di Saliceto (1660-1750ca), capitolò il 2 gennaio 1734. Probabilmente accusato di non
aver saputo gestire l’offensiva nemica, a Vienna si decise di richiamare il Daun e di sostituirlo
18
HEINRICH BENEDIKT, Wirich Philipp Graf von Daun in Neue Deutsche Biographie vol. 3, Berlino, Duncker &
Humblot, 1957, pp. 529-530, ad vocem.
19 E. VON DER DECKEN, Wirich Philipp Graf von Daun in Allgemeine deutsche Biographie op. cit.
20 D. CARUTTI, Storia del regno di Carlo Emanuele III, vol. I, Torino, Botta, 1859, p. 53.
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
con il principe Carlo Alessandro del Württemberg (1684-1737) e con il generale Karl Franz
Wachtendomk (1695-1741)21.
Assolto da ogni sua responsabilità nel fallimento dell’occupazione franco-sabauda del ducato
di Milano, si ritirò a vita privata morendo a Vienna il 30 luglio del 174122.
21
VIRGILIO ILARI (et alii), La corona di Lombardia: guerre ed eserciti nell'Italia del medio Settecento (1733-1763),
Ancona, Lithos, 1997, pp. 18-19; ANTONIO SCHMIDT-BRENTANO, Kaiserliche und k.k. Generale (1618-1815),
Monaco, Österreichisches Staatsarchiv, 2006, p. 107.
22 E. VON DER DECKEN, Wirich Philipp Graf von Daun in Allgemeine deutsche Biographie op. cit.
«L’eroico colpo da maestro»: l’assedio di Torino e la battaglia di Ramillies
Francesco Biasi, Luca Di Pietrantonio, Davide Pafumi
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Bibliografia
HEINRICH BENEDIKT, Wirich Philipp Graf von Daun in Neue Deutsche Biographie vol. 3, Berlino,
Duncker & Humblot, 1957.
ANGELA DILLON BUSSI, Angelo Carlo Maurizio Isnardi De Castello marchese di Caraglio in
Dizionario biografico degli italiani, vol. 19, Roma, Treccani, 1976.
DOMENICO CARUTTI DI CANTOGNO, Storia del regno di Vittorio Amedeo II, Torino, Paravia,
1856.
IDEM, Storia del regno di Carlo Emanuele III, vol. I, Torino, Botta, 1859.
VIRGILIO ILARI (et alii), La corona di Lombardia: guerre ed eserciti nell'Italia del medio Settecento (17331763), Ancona, Lithos, 1997.
FRANCESCO ANTONIO TARIZZO, Ragguaglio istorico dell’assedio, difesa e liberazione della città di
Torino, Torino, Zappata, 1707.
ANTONIO SCHMIDT-BRENTANO, Kaiserliche und k.k. Generale (1618-1815), Monaco,
Österreichisches Staatsarchiv, 2006.
EKKEHART VON DER DECKEN, Wirich Philipp Graf von Daun in Allgemeine deutsche Biographie,
vol. 5, Lipsia, Duncker & Humblot, 1877.
ANONIMO, Ritratto di Wirich Philipp von Daun (1669–1741), olio su tela, XVIII secolo,
Heeresgeschichtliches Museum, Vienna.
Elenco delle Illustrazioni
ANONIMO, Ritratto di Wirich Philipp von Daun (1669–1741), olio su tela, XVIII secolo,
Heeresgeschichtliches Museum, Vienna.
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
La battaglia di Ramillies: tra storia, fonti e cronache torinesi.
Francesco Biasi
All’interno della traduzione si legge di un importante vittoria delle forze alleate contro le
forze franco ispane: la battaglia di Ramillies. L’esito di questo scontro infatti condizionò
l’intero scenario bellico della guerra di Successione spagnola. In questa piccola
contestualizzazione verranno analizzate la battaglia, il suo racconto mediante alcune fonti,
una di stampo francese e una olandese, infine l’effetto che questa pesante vittoria riportò
sull’assedio di Torino.
Le forze in campo e la battaglia.
Le truppe alleate erano composte da «74 Bataillons et 123 Escadrons»23, circa 62.000 tra
inglesi, olandesi e danesi guidati da John Churchill I duca di Marlborough. Mentre «L’Armée
des Ennemis consistoit en 76. Bataillons et 132 Escadrons, y compris la Maison du Roy»24
ed era guidata dal François de Neufville de Villeroy e comprendeva circa 60.000 soldati.
L’esercito alleato scoprì la posizione delle truppe francesi nella notte del 22 maggio attraverso
l’invio di un’avanguardia di 600 cavalieri. Ritrovata l’armata avversaria, marciò disposto su
otto colonne per giungere in assetto da battaglia la mattina seguente. Per meglio illustrare il
complesso movimento delle forze in campo, utilizzeremo la carta della relazione alleata della
battaglia. Come si può notare, queste carte mostrano l’intero scontro, appiattendo tutte le
fasi della battaglia in un’unica rappresentazione: noi ora la suddivideremo per mettere bene
in luce invece la successione degli eventi.
Eugène Henry FRICX, Relation de la bataille de Ramillies donnée par l’Armée des Alliés, Bruxelles, 1706, carte, 48 x
49,5 cm, Bibliothèque Nationale de France, Département Cartes et plans, GE DD-2987 (4289).
24 Si noti come prendendo una fonte olandese sulla relazione della battaglia, l’armata francese sia appellata come
“nemica”.
23
«L’eroico colpo da maestro»: l’assedio di Torino e la battaglia di Ramillies
Francesco Biasi, Luca Di Pietrantonio, Davide Pafumi
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Le carte che seguono saranno tutte riferite a: Eugène Henry FRICX, Relation de la bataille de Ramillies donnée par l’Armée des
Alliés, Bruxelles, 1706, carte, 48 x 49,5 cm, Bibliothèque Nationale de France, Département Cartes et plans, GE DD2987 (4289).
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
Innanzitutto, si può notare molto bene il
percorso di arrivo dell’esercito di Marlborough
e il suo dispiegamento su due linee, su un
fronte di circa quattro miglia.
In realtà, nella fase iniziale dello scontro, l’ala
sinistra era prevalentemente composta dalle
cavallerie olandesi e danesi. In particolare,
l’unità contrassegnata con la lettera “D” –
messa in risalto dal colore verde – era disposta
inizialmente sul fianco destro, vedremo come
questo spostamento sarà efficace a decidere le
sorti della battaglia.
Per comprendere meglio il dispiegamento dei due schieramenti un’attenzione particolare
dev’essere data al terreno dello scontro.
«L’eroico colpo da maestro»: l’assedio di Torino e la battaglia di Ramillies
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A
Francesi
B
C
Alleati
(Inglesi, Olandesi
e Danesi)
Si può dividere facilmente il campo in tre settori:
Il primo si estende dall’estrema sinistra dello schieramento di Marlborough dai due centri
cittadini di Franquenay e Taviers fino a Ramillies. Si tratta di una zona pianeggiante dove si
concentreranno le cariche di cavalleria (A)
Il secondo è sostanzialmente il centro tra Ramillies e Offus (B); il terzo l’estrema destra.
Questa porzione in realtà è molto insidiosa a causa del passaggio del fiume Geet (in azzurro),
ma soprattutto per la presenza di un zona paludosa (in verde) che non avrebbe consentito
facilmente l’attraversamento ai reparti di cavalleria (C).
Nonostante l’impossibilità di muovere le cavallerie sull’ala destra, il duca di Marlborough
dispose ugualmente il suo schieramento in maniera abbastanza equilibrata, ponendo 39
squadroni sul fianco destro, 15 al centro e 69 sull’estrema sinistra.
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
La carta purtroppo non ci mostra precisamente la disposizione corretta, in quanto non
distingue tra squadroni e battaglioni di fanteria, faremo quindi ricorso alle carte edite dal
Department of History della United States Military Academy.
C
B
A
Franquenay
THE DEPARTMENT OF HISTORY, UNITED STATES MILITARY ACADEMY, Battle of Ramillies, 23 May 1707 - Initial
dispositions, (Le carte del Dipartimento di Storia in realtà recano la data sbagliata: la battaglia si è tenuta nel 1706
e non nel 1707).
Per i non addetti ai lavori, sostanzialmente i quadri pieni rappresentano le fanterie, mentre
quelli bianchi con linea trasversale le cavallerie. Per non disorientare i lettori ho poi riportato
i settori precedentemente enunciati.
Nonostante alcuni vistosi errori di questa carta – la data errata e il mancato inserimento del
centro di Franquenay (la cui presenza è evidenziata da un indicazione da me inserita)25 – si
può facilmente notare come le cavallerie siano distribuite su tutto il fronte, anche se il loro
unico terreno di scontro avrebbe potuto essere il settore A, motivo per il quale in quella
porzione è comunque presente il più elevato numero di squadroni in percentuale. Il Villeroy
25
In realtà, in questa fase iniziale, i due corpi non sono ancora in contatto, e la fanteria alleata che si vede nei
pressi di Franquenay anticipa la cavalleria di circa un miglio.
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disporrà infatti sulla sua destra il 62% degli squadroni totali, incluso il famoso corpo della
“Maison du Roy”, il fiore all’occhiello della cavalleria francese.
Ad una prima vista, l’esercito del re Sole ha sicuramente una posizione di vantaggio.
Innanzitutto, ha dalla sua parte la difesa e messa in sicurezza di alcuni centri abitati che
scandiscono bene i settori dello scontro. Alla sua estrema sinistra (C), ha il fianco coperto da
Autre-Eglise, ma soprattutto la presenza del fiume Geet e dell’acquitrino inerente, rende
davvero molto difficoltoso il passaggio delle cavallerie, impossibilitando quindi un rapido
aggiramento in quel settore. Il centro è ben stretto e difeso dai due centri di Ramillies e di
Offus. Infine, il fianco destro (A), unico tratto in cui è reso possibile lo scontro tra cavallerie
è ben presidiato con i corpi d’élite dell’esercito francese. Inoltre, anche in questo caso, l’ala è
stretta tra i villaggi strategici di Franquenay e Taviers e Ramillies.
Nonostante ciò, il duca di Marlborough è deciso nell’occasione di attaccare e annientare
l’esercito avversario.
Lo scontro iniziò poco dopo l’una con il bombardamento da parte delle artiglierie. Ad avviare
le operazioni fu lo schieramento alleato attraverso l’avanzata di alcuni battaglioni olandesi
con alcuni pezzi di artiglieria al fine di conquistare il villaggio di Franquenay (settore C, in
una zona molto distante dalle linee francesi). Seguì poco dopo l’avanzata della cavalleria in
supporto. Contemporaneamente le linee alleate forti di 40.000 uomini degli altri due settori
cominciarono il proprio avanzamento tra Ramillies e Autre-Eglise. In particolare, le due linee
del settore C di fronte ad Autre-Eglise avanzarono più velocemente e con la partecipazione
di alcuni squadroni di cavalleria con briglie alla mano. Questa grande concentrazione di
uomini mise quindi il Villeroy in allarme, il quale decise di indebolire la sua ala destra per
rafforzare il settore dove presumeva potesse avvenire l’attacco principale. Presupponendo di
poter contare sulla superiorità del terreno, avrebbe potuto facilmente avere ragione sullo
schieramento inglese, ma così non fu. L’azione nei piani del duca di Marlborough, infatti, era
soltanto diversiva per consentire alle sue cavallerie di poter battere in superiorità numerica
sul fianco sinistro (settore A). Preludio di questo diversivo doveva però essere la conquista
dei villaggi dell’estrema destra francese: Tavers e Franquenay. Alle tre e un quarto, proprio
mentre le azioni sul fronte C preoccupavano il generale francese, i due centri vennero
conquistati da 4 battaglioni della guardia olandese, sostenuti da alcuni pezzi di artiglieria.
Iniziò poi il poderoso scontro tra la Maison du Roy e la cavalleria olandese e danese. A quel
punto, le ostilità erano iniziate su tutta la linea da Tavers a Autre-Eglise. Il duca allora diede
Rivista Arma VirumQue – Luglio 2022, N. 5
ordine calle linee dei fronti B e C di disimpegnarsi e di spostare l’intera cavalleria di questi
settori presso l’ala sinistra.
Inizialmente arrivarono i 18 squadroni dell’ala destra e infine anche gli altri 21. L’arrivo del
duca nel settore A fu provvidenziale. La Maison du Roy aveva infatti sfondato la destra della
cavalleria olandese con la possibilità di piombare ora sulle linee di fanteria del settore B. Il
duca con il suo stato maggiore e raccolti alcuni squadroni olandesi si gettò personalmente
nella mischia nell’attesa dell’arrivo del restante contingente di cavalleria. In questo momento
in circa un miglio e mezzo, vi erano quasi 25.000 cavalieri che si affrontavano in cariche e
controcariche, dando vita ad uno dei più grandi scontri di cavalleria della guerra di
Successione spagnola26.
C
B
A
THE DEPARTMENT
Maneuvers.
OF
HISTORY, UNITED STATES MILITARY ACADEMY, Battle of Ramillies, 23 May 1707 –
Nonostante qualche difficoltà sul fronte C, dovuta alla lentezza del disimpegno, una volta
annientata totalmente la cavalleria francese, lo schieramento alleato era pronto
all’aggiramento e alla distruzione totale del fronte avversario. Il duca prima di dare l’ordine
26
W. S. CHURCHILL, Marlborough. La vita e i tempi del «duca di ferro», Arnoldo Mondadori, Milano, 1973, pp..551552.
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di attacco generale a tutte le sue fanterie, attese che la cavalleria avesse completato di buon
ordine il suo dispiegamento ad angolo retto.
A
B
C
C
In rosso gli alleati e in blu i francesi.
Si noti cil dispiegamento ad angolo retto della cavalleria alleata. Ad essa venne contrapposta
la restante cavalleria francese forte di 50 squadroni freschi, ripresi dagli altri settori. Sulla carta
non è indicata la loro presenza, in quanto una volta iniziata l’avvicinamento dei loro avversari,
essi andarono in rotta. Questa ritirata fu dovuta probabilmente all’impatto psicologico e
morale che doveva essere l’osservare la fuga e l’annientamento della Maison du Roy.
Contemporaneamente, l’attacco delle fanterie su Ramillies e Offuz, provocò la ritirata dello
schieramento francese, ormai vicino all’aggiramento completo. La rotta dell’intero
contingente del Villaroy iniziò poco dopo, quando fu evidente anche ai soldati che la battaglia
era persa.
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I racconti francesi: il Saint-Simon e Voltaire
Per quanto riguarda la vita alla corte di Luigi XIV, le memorie del duca di Saint-Simon
rappresentano un’ottima fonte per capire il peso di questa sconfitta agli occhi del re, come
fosse stata metabolizzata e quali notizie fossero giunte a Versailles.
Già la scelta del Villeroy di volersi impegnare sul campo a Ramillies viene fortemente criticata
dal duca:
Sur l'avis de la marche et de l'approche de Marlborough, il fit un mouvement pour
l’attendre, puis, le 24 au matin, jour de la Pentecôte, un second pour se poster dans un
terrain où feu M. de Luxembourg n'avoit jamais voulu s'exposer à combattre. Lui même en avoit été témoin, mais son sort et celui de la France étoit qu'il l’oubliat27.
Emerge quindi in retrospettiva, dovuta sicuramente alla sconfitta, di come già la decisione
del generale francese di incontrare l’esercito alleato a Ramillies fosse un errore. Il riferimento
è naturalmente ad uno dei grandi militari di Francia invitto: François Henri de MontmorencyBouteville, Duca di Piney-Luxembourg.
Villeroy mit donc la maison du roi et deux brigades de cavalerie de suite entre les villages
de Taviers et de Ramillies. Taviers couvroit le flanc de la maison du roi. Sa situation
étoit sur un penchant près de la Méhaigne qui formoit un marais derrière, et dans ce
village il mit le comte de La Mothe avec six bataillons de l'électeur et trois régiments de
dragons. Il établit dans celui de Ramillies vingt -quatre pièces de canon soutenues de
vingt bataillons, qui le furent ensuite d'un plus grand corps d'infanterie . Il en prit le
surplus pour occuper le terrain qui s'étendoit vers le village de Neuféglise, laissa la droite
de sa seconde ligne dans son ordre naturel , et porta son aile gauche devant un marais
très-difficile qui s'étendoit au delà de cette aile, laquelle se trouvoit à peu près en ligne
avec la droite. Comme il ache voit ses dispositions, l'électeur à peine averti arriva au
grand galop de Bruxelles28.
Il breve estratto ci racconta la disposizione dello schieramento francese; naturalmente sin
dall’inizio si mette in evidenza la grande problematica del terreno, che sarà poi determinante
nell’esito della battaglia, già conosciuta all’autore nel momento nel quale scrive.
Ils marchérent ensuite à Taviers avec du canon. Ils y trouvèrent moins de résistance qu'à
leur droite, ils s'en rendirent maîtres. Dès ce moment, ils firent marcher leur cavalerie.
27
Louis de ROUVROY duc de Saint-Simon, Mémoires complets et authentiques du duc de Saint-Simon sur le siècle de Louis
XIV et la régence, vol. 5, Hachette, Paris, 1856, p. 172.
28 Ibid., pp. 172-173.
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Ils s'étoient aperçus fort à temps que le marais qui couvroit notre gauche empêcheroit
les deux ailes des deux armées de se pouvoir joindre. Ils avoient fait couler toute la leur
derrière leur centre, en avoient formé plusieurs lignes les unes sur les autres, mais sans
confusion, derrière leur gauche, eurent ainsi toute la cavalerie de leur armée vis - à - vis
notre droite et en état de s'en servir, tandis que toute la moitié de la nôtre demeura
inutile dans un poste où elle ne pouvoit rien faire.
La narrazione è in realtà molto poco dettagliata rispetto agli avvenimenti che realmente si
sono susseguiti29. Vengono evidenziati due momenti fondamentali: la presa di Tavers e lo
spostamento della cavalleria alleata dal fianco sinistro a quello destro. Non viene però citata
l’azione diversiva della fanteria sull’ala sinistra, né lo spostamento di alcuni squadroni francesi
da destra a questo settore (dal settore A al C). Si porta però l’accento sulle cariche di cavalleria
della Maison du Roy:
La maison du roi et la première ligne de la cavalerie de cette aile fit une charge
vigoureuse. Les escadrons rouges de la maison du roi per cèrent trois lignes de cavalerie
qui s'ouvrirent, tandis que leur droite emporta la première ligne30.
Dopo il racconto di diverse cariche di cavalleria, fallite per la superiorità numerica alleata, il
Saint Simon non si sofferma sulle vicende che hanno portato alla totale sconfitta e con un
espediente letterario, così scrive:
Toute notre gauche resta inutile, le nez dans ce marais, et personne vis - à - vis d’elle,
sans branler de ce poste; notre droite, tout à fait rompue, le centre enfoncé, et l'infanterie
qui avoit presque toute combattu, rebutée31 .
Conclude poi con la ritirata dele forze:
La retraite commença dans un grand ordre ; mais bientôt la nuit survint qui mit la
confusion . La cavalerie de la gauche rompit l'infanterie , en pressant trop sa marche qui
dura toute la nuit . Le défilé de Judoigne se trouva tellement engorgé des gros bagages
et de quelques menus , et de ce qu'on avoit pu retirer d'artillerie , que tout y fut pris .
Enfin l'armée arriva à Louvain ; mais on ne se crut en sûreté qu'après avoir passé le
canal de Wilworde , sans néanmoins que les ennemis eussent suivi de trop près32
29
Si ricordi che il duca non fu presente in prima persona alla battaglia.
Ibid., p. 174.
31 Ibid., p. 175.
32 Ibid.
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Oltre al racconto della battaglia, è davvero molto interessante entrare nella memoria diretta
del duca di come questa sconfitta venne vissuta dalla corte di Versailles.
Le roi n'apprit ce désastre que le mercredic, 26 mai, à son réveil. On admira la platitude
du maréchal de Villeroy, qui, par le même courrier, écrivit à Dangeau merveilles de son
fils, et que sa blessure à la tête d'un coup de sabre ne seroit rien. Il oublia tout le reste.
J'étois à Versailles; jamais on ne vit un tel trouble ni une pareille consternation. Ce qui
y mit le comble fut que, ne sachant rien qu'en gros, on fut six jours sans courrier. La
poste même fut arrêtée. Les jours sembloient des années dans l'ignorance du détail et
des suites d'une si malheureuse bataille, et dans l'inquiétude de chacun pour ses proches
et pour ses amis33.
Attraverso l’arrivo del corriere possiamo vedere in quanto tempo la regia posta francese
riuscisse ad informare la corte degli avvenimenti all’estero, ma soprattutto notiamo la
grandissima impazienza e preoccupazione a causa dell’assenza di nuove informazioni.
Emerge poi in maniera davvero eccezionale l’umanità dei cortigiani di fronte all’evento
bellico: tutti sono preoccupati dalla sorte dei propri cari inquadrati probabilmente
nell’annientata Maison du Roy. Questi particolari squadroni rappresentavano il fiore
dell’aristocrazia francese. I sovrani do Francia hanno sempre avuto sin da Enrico III una
Maison du Roy comprendente di tutto il personale militare, civile, domestico e religioso del
re. Fu proprio Luigi XIV a voler fondare un corpo d’élite operante effettivamente sui campi
di battaglia: la Maison Militaire du Roy. Il contingente inquadrava al suo interno però non
soltanto reparti di cavalleria, ma anche di fanteria, con a capo un Secrétaire d'État à la Maison
du Roi. Questo “esercito nell’esercito”, tra l’altro dedito alla protezione personale del re, aveva
anche una funzione politica e sociale. Luigi XIV infatti era solito distribuire i gradi di queste
forze per evidenziare maggiormente il suo favore nei confronti dei cortigiani in un’ottica
meritocratica di fedeltà alla monarchia. In questo modo, l’asservimento dell’aristocrazia
francese e il suo appiattimento al volere del sovrano erano completi34. A tal punto che la
Maison aveva formalmente una quantità sproporzionata di ufficiali in rapporto alla sua
consistenza numerica, molti dei quali erano però naturalmente simbolici: il Saint Simon, ad
33
Ibid., p. 176.
Herve DRÉVILLON, Olivier WIEVIORKA (a cura di), Histoire militaire de la France, vol. 1, Perrin. Ministère des
Armées, Paris, 2018, pp. 328-333.
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esempio, divenne comandante di un reggimento di cavalleria a 20 anni; il figlio del maresciallo
Boufflers divenne colonello di fanteria a 12 anni35.
Le testimonianze dell’epoca, compresa quella del Saint-Simon raccontano della bellezza delle uniformi scarlatte della
Maison du Roy. In realtà, il corpo di cavalleria poteva vestire diverse divise asseconda del loro inquadramento. Il colore
rosso è però probabilmente quello dei Gendarmes de la Garde e della cavalleria leggera.
Entrambi i figurini sono tratti da: Charles EISEN, Nouveau recueil des troupes qui forment la Garde et la Maison du Roy. Avec
la date de leur création, le nombre d'hommes dont chaque corps est composé, leur uniforme et leurs armes, Paris, 1756.
Passando alla Storia del secolo di Luigi XIV di Voltaire edita nel 1752, possiamo utilizzare
questo testo per analizzare e vedere che cosa fosse rimasto della memoria di questa battaglia:
Villeroi commandait en Flandre une armée de quatre - vingt - mille home; & il se flattait
de réparer contre Marleborough, le malheur qu'il avait essuié en combattant le prince
Eugéne . Son trop de confiance en ses propres lumiere, fut plus que jamais funeste à la
France. Près de la Méhaigne & vers les ſources de la petite Ghette, le maréchal de
Villeroi avait campé son aree. Le centre etait à Ramillies, village devenu aussi fameux
qu'Hochstet36. Villeroi eût pu éviter la bataille. Les officiers généraux lui conseillaient ce
parti; mais le désir aveugle de la gloire l'emporta. Il fit, à ce qu'on prétend, la disposition,
de maniére qu'il n'y avait pas un homme d’expérience, qui ne prévît le mauvais succès.
Des troupes de recruë, ni disciplinées, ni complettes, étaient au centre: il laissa les
bagages entre les lignes de son armée ; il posta sa gauche derriére un marais, comme s'il
35
36
Ibid.
Riferimento alla battaglia di Blenheim, 13 agosto 1704.
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eût voulu l’empécher d'aller à l'ennemi . Marleborough, qui remarquait toutes ces fautes,
arrange son armée pour en profiter. Il voit que la gauche de l'armée Française ne peut
aller attaquer sa droite: il degarnit aussitôt cette droite, pour fondre vers Ramillies avec
un nombre supérieur37.
È molto interessante notare come gli elementi fondamentali dello scontro siano tutti presenti:
il terreno insidioso e lo spostamento delle cavallerie. Infine, la sconfitta francese paragonata
alla battaglia di Blenheim di qualche anno prima:
On s'était battu près de huit heures à Hochftet, & on avait tué près de huit - mille
hommes aux vainqueurs; mais à la journée de Ramillies , on ne leur en tua pas deux mille - cinq - cent : ce fut une déroute to tale ; les Français y perdirent vingt - mille
hommes , & la gloire de la nation, & l'espérance de reprendre l'avantage . La Baviére,
Cologne, avaient été perduës par la bataille d’Hochſtet: toute la Flandre Espagnole le
fut par celle de Ramillies. Marleborough entra victorieux dans anvers, dans Bruxelles: il
prit oftende: Menin se rendit à lui . Le maréchal de Villeroi, au déseſpoir , n'oſait écrire
au roi cette défaite . Il reſta cinq jours fans envoier de couriers. Enfin il écri vit la
confirmation de cette nouvelle, qui conſternait déja la cour de France. Et quand il
reparut devant le roi; ce monarque , an lieu de lui faire des reproches , lui dit : Monseur
le maréchal , on n'est pas beureux à notre áge . Le roi tire aussitôt le duc de Vendôme
d’Italie, où il ne le croiait pas néceſſaire, pour l'envoier en Flandre réparer, s'il est
possible, ce malheur. Il espérait du moins avec apparence de raison, que la prise de Turin
le consolerait de tant de pertes38.
Qui emergono due dati fondamentali nel contesto del fronte italiano e dell’assedio di Torino:
la totale sicurezza di Luigi XIV sull’imminente resa della Cittadella sabauda e lo spostamento
del duca di Vendôme sul fronte delle Fiandre. Anche il duca di Saint Simon ci racconta
ugualmente di quanto questa scelta sia stata voluta a causa della sconfitta di Ramillies e della
necessità di trasferire uno dei migliori comandanti da un fronte ritenuto ormai sicuro ad uno
critico, le Fiandre appunto39.
37VOLTAIRE,
Le siècle de Louis XIV, Tome I, De Francheville, London, 1752, p. 193.
Ibid., p. 194.
39 ROUVROY, Mémoires complets cit., pp. 181-182.
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La relazione olandese
La carta sin qui utilizzata presenta una relazione sugli eventi della battaglia al fondo. Il lettore
aveva quindi la possibilità di osservare gli spostamenti delle armate attraverso la mappa, ma
anche leggere della successione degli eventi.
Sin dall’inizio vengono descritte le modalità di agganciamento tra i due schieramento e la loro
disposizione sul campo:
Les Ennemis, à proportion qu’ils avancerent, se rangerent en Bataille avec leur droite à
Tombe d’Ottomont sur la Mehaigne, s’étendant avec leur gauche jusques à Autr’Eglise,
ayant Franquenies devant leur droite, où ils avoient jetté plusieurs Batalions d’Infanterie,
e 14. Escadrons de Dragons, qui avoient mis a pied à terre pour les soutenir. Ils avoient
mis beaucoup d’Infanterie e d’Artillerie dans le Village de Ramillies, qui estoit devant la
droite de leur Corps de Bataille, comme aussi dans le Village d’Offuz qui estoit devant
la gauche de leur Infanterie, e dans le Village d’Autr’-Eglise tout-à-fait à leur gauche.
Le front entre le Village de Ramillies e Autr’-Eglise estoit couvert d’un petit coulant
d’eau, lequel rendoit les prairies en quelques endroits marecageuses, comme aussi de
plusieurs chemins couverts de hayes; lesquelles difficultés empechoient nostre Cavalerie
de l’Aile droite de pouvoir venir en action avec les Ennemis.
Si noti come la narrazione dello scontro sia in realtà molto rapida e poco approfondita:
Nostre Artillerie commença à cannoner les Ennemis à une heure après midi; environ
les deux heures on commença l’attaque par le poste de Franquenies, où notre Infanterie
eut le bonheur de chaffer les Ennemis hors des hayes où ils estoient postés fort
avantageusement, et en meme temps toute la Cavalerie de nostre gauche avança pour
attaquer celle de la droite de l’Ennemi; peu de temps après tout estoit en action: Et
pendant que la Cavalerie estoit aux mains, on attaqua aussi le Village de Ramillies, qui
fu parcillement forcé aprés une vigoureuse resistance.
Le combat dura environ deux heures, e fut assez opiniatre; mais dès que nostre Cavalerie
eut gagné assez de terrain pour attaquer les Ennemis en flanc, ils commencerent à plier;
en meme temps tout leur Infanterie fut aussi mise en desordre, de forte que tout se
retira en grande confusion. La Cavalerie de leur gauche se forma un peu sur la hautear
entre Offuz et Mont S. André, pour favoriser leur retraite; mais après que nostre
Infanterie e la Cavalerie de la droite eurent débouché entre le fond du Village de Rmillies
et Offuz, toute l’Armée marcha en plusieurs Colonnes pour attaquer derechef les
Ennemis; mais ils plierent avant qu’on put les joindre, e se retirerent en grande
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confusion, une partie vers le défilé de l’Abbaye de la Ramée et vers Dongelberge, une
partie vers Judogne, et une autre partie vers Hougarde.
L’assedio di Torino e la battaglia di Ramillies
Come abbiamo visto i due episodi bellici sono in realtà abbastanza connessi tra loro. Il loro
legame non è favorito unicamente dallo svolgersi all’interno del medesimo conflitto, anche
se su un fronte differente, ma hanno anche conseguenze comuni.
È interessante studiare ed analizzare se e come questa “grande vittoria” del duca di
Marlborough venga riportata all’interno di Torino assediata e raccontata.
L’autore del nostro manoscritto è anch’egli ben a conoscenza di quanto accaduto nelle
Fiandre spagnole e non si limita a criticare la sconfitta francese. Dalla lettura però si evince
quasi come se la notizia della battaglia fosse arrivata a Torino il giorno stesso della disfatta
del Villaroy. Naturalmente, non è assolutamente possibile e possiamo ipotizzare la data
dell’arrivo dell’informazione proprio attraverso le cronache cittadine. Citando il Journal
Historique de Siege de la Villa de Turin del conte Solaro della Margherita40 in data 7-8 luglio:
Le Comte Daun dit que S. A. R. lui man. de de Şalusse qu'il est determiné à bien recevoir
les ennemis, s’il leur prend envie d'aller à lui: à cette ocasion ce General publie une lettre
écrite de la Haye à S. A. R. par Milord Malbouroug , qui lui donne part des progrez
toûjours plus considerables, qu'il fait dans la Flandres, & dans le Brabant , aprés la
signalée victoire, qu'il a remportée à Ramillie. Il assûre entre autres choses que les
ennemis sont obligez de détacherdes troupes du haut Rhin pour les envoyer en Flandres;
que pour peu que les Impériaux veuillent agir contre eux ils seront obligez de faire venir
à leur secours des troupes d’Italie, ce qui pourroit bien faire évanoüir leur dessein sur la
Ville de Turin41.
Si tratta però di una narrazione altamente contradditoria. Il conte aveva redatto infatti un
primo manoscritto, che però si interrompeva nel mese di agosto. Pubblicherà poi questa sua
opera in maniera completa, più dettagliata e anche linguisticamente più complessa
successivamente nel 1708 ad Amsterdam. Il luogo di pubblicazione potrebbe non essere un
Luogotenente Generale dell’Artiglieria durante l’assedio.
G. M. SOLARO DELLA MARGARITA, Journal historique du siége de la ville et de la citadelle de Turin 1706, Pierre
Mortier, Amsterdam, 1708, pp. 58-59.
40
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fatto secondario in quanto nella copia originale non è presente alcun riferimento alla battaglia
di Ramillies:
Essa inviò allo stesso tempo al Sig. Conte di Daun la qui unita lettera di Millord
Marlebrouc che essa aveva ricevuto in ultimo luogo si seppe nel medesimo tempo che
il Sig. de la Feuillade aveva lasciato i dintorni di Savigliano dopo aver lasciato il comando
delle truppe al Sig.d’Haubeterre e si era reso all’armata d’assedio per vedervi Mons. il
Duca d’Orléans, che ha il comando generale di tutte le truppe di Francia, che sono in
Italia42.
Come si può notare, è stata citata la presenza di una lettera del duca di Marlborough, ma con
contenuti molto differenti. Bisogna anche sottolineare che tale corrispondenza non è emersa
dalle varie ricerche d’archivio43. Nell’edizione olandese pare addirittura che la missiva fosse
stata pubblicamente letta dal Daun per aumentare il morale della difesa torinese e nella
speranza di una rapida chiusura del conflitto. In una ristampa del 1838 – e solo in questa
edizione – della medesima opera, viene riportato che:
(Le 22 juin) On apprit que S. A. R. avait reçu, par un Colonel Anglais, la confirmation
de la victoire que Milord Malboroug a remportée sur l'armée du Roi de France en
Flandre44.
In realtà, la battaglia di Ramillies non viene citata spesso all’interno delle cronache dell’assedio
torinese. Gli unici a riportare la notizia sono il testo edito dal Solaro nel 1708 e l’opera
dell’abate Antonio Maria Metelli45. In quest’ultimo particolare racconto però emergono
enormi criticità e incoerenze. Infatti, l’arrivo in città della medesima notizia viene narrata ben
due volte in diverse date. La prima, inserita in data 7 giugno:
Fù in tanto sparsa in Città la notizia c vittoria riportata in Fiandra dal Duca di
Marlborough, con la disfatta totale dell’Armata delle due Corone, commandata dal
Maresciallo di Villaroy. Per tale successo si lusingavano alcuni, che non averebbero
persistito i Francesi nell’ intrapresa di quest’Assedio46.
42
Si riporta qui la trascrizione italiana edita cura di C. PAOLETTI, Journal Historique du siège de la villa et de la citadelle
de Turin l’année 1706. Traduzione del manoscritto originale e confronto con l’edizione del 1708, Omega Edizioni, Torino,
2006, p. 77.
43 Ibid.
44 G. M. SOLARO DELLA MARGARITA, Journal historique du siége de la ville et de la citadelle de Turin en 1706avec le
rapport officiel des opérations de l'artillerie, Imprimerie royale, Turin, 1838, p. 33.
45 In realtà, il nostro autore tedesco non inserisce la battaglia all’interno della cronaca dell’assedio, ma ne riporta
la vittoria contestualmente al periodo di cui sta narrando: il mese di maggio del 1706.
46 A. M. METELLI, Torino assediato e soccorso l’anno 1706, Monti, Parma, 1711, p. 38.
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Mentre la seconda, riporta al 9 di luglio:
A 9. Ondeggiando dunque tra simili agitazioni l’Assedio, non me meno ondeggiava fra
l'incertezza della riuscita l’animo dei Difensori, e pervenuti in Città con espresso i
progressi considerabili che nelle Fiandre, e nel Brabante facevano l'Armi de Collégati
doppo la segnalata vittoria ottenuta sopra 1’Armata delle due Corone a Ramellie dal
Duca di Marlbourough rifiorirono da tali prosperità le speranze in alcuni, che potesse
sturbarsi quest' intrapresa , ma in fatti non furono rallentati d'un passo gli Attacchi47.
Non è da sottovalutare la possibilità che il Metelli nello strutturare la sua opera si sia
direttamente ispirato a narrazioni e testi già pubblicati, come in questo secondo caso,
probabilmente, al Solaro.
È da considerare però che lo scontro non è citato né nella cronaca cittadina di Francesco
Antonio Tarizzo48 né nel diario di Francesco Ludovico Soleri49 e neanche nella ricostruzione
ottocentesca dei documenti inerenti l’assedio di Torino di Antonio Manno. Non si può
quindi con certezza assoluta teorizzare delle reazioni festanti da parte della cittadinanza
torinese sulla notizia della vittoria di Ramillies, in quanto attualmente i dati sono troppo
lacunosi e scarsi. Sicuramente l’annuncio, se giunto, avrebbe riportato un forte seguito
nell’opinione pubblica, eventi simili si erano già verificati. Ci si riferisce in modo particolare
al Te Deum del 30 maggio, intonato per la liberazione di Barcellona dalle truppe gallo ispane50.
Diventa quindi molto difficile sciogliere la matassa. È ipotizzabile però che questa lettera del
duca Vittorio Amedeo II al conte Daun nella quale viene raccontata anche la vittoria del
Marlborough sia effettivamente esistita. Se si prende come ipotesi che la cittadinanza torinese
abbia avuto notizia di questa battaglia soltanto a luglio, è facile comprendere il motivo per
cui potrebbe non aver avuto una forte rilevanza e da non essere inserita nelle cronache
cittadine: lo scontro è avvenuto più di quattro settimane prima e l’assedio francese era in quel
momento nel vivo delle sue operazioni, al punto che nulla avrebbe potuto far intuire un
abbandono del fronte italiano da parte degli eserciti di Luigi XIV.
47
Ibid., pp. 101-102.
F. A. TARIZZO, Ragguaglio istorico dell’assedio, difesa, e liberazione della città di Torino, Zappata, Torino,
1707.
49 D. REBAUDENGO, Torino racconta, Altieri, Torino, 1969.
50 TARIZZO, Ragguaglio istorico cit., p. 3; A. MANNO, Relazione e documenti sull'assedio di Torino nel 1706, Stamperia
Reale, Torino, 1878, p. 127.
48
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È anche ipotizzabile che la notizia della vittoria fosse stata appresa soprattutto e
maggiormente apprezzata dai comandi militari delle forze sabaude; infatti, l’unico a
restituircene un ragguaglio è proprio il Solaro.
Nonostante la sua rilevanza o meno nelle cronache torinesi, la battaglia di Ramillies comportò
importanti conseguenze nello scenario bellico internazionale e soprattutto sul fronte italiano.
La necessità di Luigi XIV di andare a riprendere le Fiandre, lo costrinse a traferire un generale
di elevatissimo calibro e capacità come il duca di Vandôme dall’assedio di Torino alle armate
dell’alto Reno.
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Bibliografia
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carte, 48 x 49,5 cm, Bibliothèque Nationale de France, Département Cartes et plans, GE
DD-2987 (4289).
THE DEPARTMENT OF HISTORY, UNITED STATES MILITARY ACADEMY, Battle of Ramillies, 23
May 1707 – Maneuvers.
THE DEPARTMENT OF HISTORY, UNITED STATES MILITARY ACADEMY, Battle of Ramillies, 23
May 1707 - Initial dispositions.
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Hanno collaborato a questo numero:
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Interventi
Arma VirumQue: nascita di un’associazione
4
Redazione
Delazione, collaborazione, tradizione.
La trasmissione dell’informazione navale egiziana
alla Persia e i suoi canali
7
Vittorio Cisnetti
Dal cesarato alla battaglia di Argentoratum.
La prima fase della campagna gallica del cesare Giuliano
26
Giulio Vescia
Castra e Castella bizantini in Calabria
tra storia, archeologia e memoria [Parte II]
44
Francesco Biasi
Il saggio che ascolta diventerà più saggio”.
Alcuni suggerimenti […] su come affrontare i Mongoli in guerra
81
Giovanni Di Bella
Il Regno di Sardegna (ed il suo esercito) nella
Guerra di Successione austriaca: la nascita di una Savoy way of war?
111
Marco Cencio
Von Moltke: lo stratega della grande Prussia
135
Enzo Bosco
Tra cristeros e federales. Il conflitto religioso messicano
negli anni Venti e Trenta
Federico Sesia
«L’eroico colpo da maestro»: l’assedio di Torino e la battaglia di Ramillies
Francesco Biasi, Luca Di Pietrantonio, Davide Pafumi
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«L’eroico colpo da maestro»:
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Francesco Biasi, Luca Di Pietrantonio, Davide Pafumi
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ARMA VIRUMQUE, NUMERO V
PUBBLICATO ONLINE NEL MESE DI LUGLIO 2022
A CURA DI FRANCESCO BIASI
«L’eroico colpo da maestro»: l’assedio di Torino e la battaglia di Ramillies
Francesco Biasi, Luca Di Pietrantonio, Davide Pafumi
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Arma VirumQue è un progetto che si propone di dare spazio a
spunti di riflessione sull’analisi della Storia Militare. Composta
prevalentemente da studenti dell’Università di Torino, persegue
lo scopo di creare un network per lo studio autogestito della storia
militare tra studenti, laureandi, dottorandi e professori italiani e
stranieri, per stimolare dibattiti ed incontri su questa amplissima
materia.
In questo quinto numero della Rivista si spazierà dallo spionaggio
persiano, sino alla guerra dei cristeros messicani, passando per la
battaglia di Argentoratum del 357 d.C., le fortificazioni bizantine
in Calabria, i consigli su come sconfiggere i Mongoli, l’esercito
sardo nella guerra di Successione Austriaca e le strategie militari
di von Moltke.
Infine, prosegue la traduzione del pamphlet satirico tedesco che
ci porterà ora ai piedi della Cittadella di Torino, con un rapido
approfondimento sulla battaglia di Ramillies del 1706.