Le miniature romane di Marie Luise Kaschnitz
Giuliano LOZZI
Le miniature romane di Marie Luise Kaschnitz
Miniaturas romanas de Marie Luise Kaschnitz
Giuliano Lozzi
Microtextualidades
Revista Internacional de
microrrelato y minificción
Directora
Ana Calvo Revilla
Editor adjunto
Ángel Arias Urrutia
Artículo recibido:
Septiembre 2017
Università degli Studi della Tuscia, Viterbo
giulianolozzi@gmail.com
ID ORCID: orcid.org/0000-0003-4643-2776
SOMMARIO
RESUMEN
Partendo dalla predilezione di Marie Luise
Kaschnitz per il racconto breve (Das dicke
Kind, 1952), il contributo si propone di
analizzare, su un piano formale, alcuni
estratti dalla raccolta di riflessioni romane
che la scrittrice intitola Engelsbrücke.
Römische Betrachtungen (1955). Nei suoi
“sguardi su Roma” Kaschnitz unisce la
topografia di Roma a delle immagini
narrative che, per brevità e intensità,
rimandano al racconto breve piuttosto che
alla narrativa di viaggio. Dalla fusione tra
narrazione e immagine topografica nascono
delle brevi forme prosastiche inedite, che
definiremo “miniature”, nelle quali
Kaschnitz mostra la propria abilità di
narratrice e di poetessa.
A partir de la predilección de Marie Luise
Kaschnitz por el relato breve (Das dicke
Kind, 1952), este trabajo se propone llevar
a cabo un análisis formal de algunos pasos
de la colección de reflexiones romanas que
la escritora titula Engelsbrücke. Römische
Betrachtungen (1955). En sus "miradas
sobre Roma", Kaschnitz junta la topografía
de Roma con unas imágenes narrativas que,
por su brevedad e intensidad, remiten al
relato breve. De la fusión entre narración e
imagen topográfica nacen unas inéditas
formas breves en prosa que definiremos
"miniaturas" en las cuales Kaschnitz
demuestra su habilidad de narradora y
poeta.
PAROLE CIAVE: Marie Luise
Kaschnitz, miniature, Roma, racconto
breve.
PALABRAS CLAVE: Marie Luise
Kaschnitz, miniaturas, Roma, cuento.
Artículo aceptado:
Marzo 2018
Número 3 pp. 120-127
DOI:
https://doi.org/10.31921/
microtextualidades.n3a9
ISSN: 2530-8297
@ 2018 Microtextualidades
120 ~ Microtextualidades. Revista Internacional de microrrelato y minificción. N. 3, pp.120-27. I.S.S.N: 2530-8297.
Le miniature romane di Marie Luise Kaschnitz
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Nella storia della letteratura tedesca del Novecento, il 1945 ha segnato, com’è noto, una
cesura sostanziale. La necessità di fare piazza pulita, di depurare il linguaggio dalla
retorica nazista, di fare i conti con un vero e proprio “disboscamento” sono delle priorità
culturali e storicamente significative per i paesi di lingua tedesca (Calzoni 2013, 191). Il
Gruppo 47, con la sua tendenza anti ideologica – come ebbe a dire Ladislao Mittner
(Mittner 1971, 1578) – e la sua volontà di ritorno alla concretezza, rappresenta il primo,
vero punto di ricongiungimento dei giovani scrittori del Dopoguerra tedesco. L’esigenza
di ricominciare da una Stunde Null, da un’ora zero e da un cambiamento stilistico ammette
e, anzi, privilegia delle forme brevi, uno stile ridotto, dei componimenti stringati.
Su questa tendenza specificatamente tedesca alla revisione stilistica riflette anche
Marie Luise Kaschnitz nella raccolta di dodici saggi intitolata Menschen und Dinge 1945.
Saggi in cui l’autrice s’interroga sul tema della colpa, sulla difficoltà di chi scrive in
tedesco, sulla trasformazione che coinvolge l’intellettuale e l’essere umano in generale
all’indomani della Seconda guerra mondiale, sulla possibilità o meno di fare poesia dopo
Auschwitz – per riprendere un noto saggio di Adorno che di Kaschnitz era amico
(Cusatelli 1992, X). Pur seguendone gli sviluppi, Kaschnitz non entra mai a far parte del
Gruppo 47 (Pulver 1984, 11): alla fine della guerra mondiale ha 45 anni e ha scritto e
pubblicato già alcune raccolte di poesie e diversi romanzi. Da molti colleghi più giovani
viene vista come una “signora” della tradizione letteraria, appartenente a una
“geschwätzigeren Generation”1 (Bienek 1984, 289), come da lei stessa definita in
un’intervista rilasciata a Horst Bienek. Kaschnitz non si è mai riconosciuta nel ruolo di
“große Dame der deutschen Literatur” perché il suo percorso letterario, che ha inizio alla
fine degli anni Venti e procede senza grandi interruzioni fino al 1974, l’anno della sua
morte, conosce un processo di continuo cambiamento con uno sguardo costante
all’attualità: si pensi all’impegno politico degli anni Sessanta a favore di Willy Brandt,
alle tematiche d’attualità proposte nei racconti di Steht doch dahin (1970) e nelle pagine
di diario di Tage, Tage, Jahre (1968).
Kaschnitz è stata poetessa, saggista, narratrice, romanziera, autrice di
radiodrammi. Sfugge agli inquadramenti storico-letterari perché è una delle poche
scrittrici della sua generazione che ha saputo mettere in discussione la propria modalità
espressiva e, dagli anni Cinquanta in poi, rendere la brevità il sale della scrittura poetica,
della narrativa e della produzione saggistica. Nella Kurzgeschichte (il racconto breve),
genere al quale si dedica, in linea con altri scrittori della sua generazione, a partire da Das
dicke Kind (La bambina grassa) del 1952 fino agli anni Settanta, la scrittrice trova la
dimensione letteraria più congeniale. Vi convergono elemento autobiografico, testo
narrativo e, appunto, sintesi. D’altronde è lei stessa a dichiarare la propria predilezione
per la forma breve nella stessa intervista:
Die kleine Form der kurzen Erzählung reizt mich sehr. Obwohl man auch hier alles von
seinen Gestalten wissen muss (auch ihre ganze Vorgeschichte und Nachgeschichte) über
den Rahmen der Erzählung hinaus, braucht man doch nicht alles sagen und kann immer
vom selben Blickpunkt ausgehen. Im Roman müsste man eigentlich eine Fülle von
Blickpunkten haben, und das ist etwas, was ich nicht beherrsche und was mich verwirrt.
1
“generazione di chiacchieroni”.
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(Bienek 1984, 292)2
Nel racconto breve Das dicke Kind, forse uno dei più noti dell’autrice ma con
un’unica e ormai datata traduzione in italiano (Filice 1960), Kaschnitz approfondisce un
tema ricorrente nella sua produzione: quello dell’infanzia. In poche pagine racconta la
trasformazione di una bambina complessata, scorbutica e poco simpatica vista dagli occhi
di un adulto. In un’azione narrativa lineare si racconta la storia di una trasformazione
individuale: una bambina apparentemente svogliata riesce, con la forza della
disperazione, a superare le proprie paure, come quella di pattinare sul ghiaccio, a
dimostrarsi all’altezza di una sorella più grande e più “dotata”: “Und das war ein langer
Kampf, ein schreckliches Ringen um Befreiung und Verwandlung, wie das Aufbrechen
einer Schale oder eines Gespinstes, dem ich da zusah, und jetzt hätte ich dem Kinde wohl
helfen mögen, aber ich wußte, ich brauchte ihm nicht mehr zu helfen – ich hatte es
erkannt”. (Kaschnitz 2002, 78-79)3 Una bambina, dunque, nella quale l’autrice si
identifica alla fine della narrazione e della quale mette in luce l’elemento di crescita.
Partendo proprio da questa propensione per il racconto breve, qui solo brevemente
delineata, vorrei soffermarmi su alcuni aspetti di un’opera apparentemente lontana da
questa tipologia di testo narrativo che, pur tuttavia, pone delle interessanti questioni legate
alla forma, all’importanza della brevità e all’uso della finzione4. Parliamo di
Engelsbrücke. Römische Betrachtungen.
Pubblicata nel 1955, Engelsbrücke è l’opera grazie alla quale Kaschnitz riceve
l’ambito premio Büchner nello stesso anno. Qui si rende tangibile il ruolo che Roma, città
nella quale ha vissuto molti anni e a più riprese, ha ricoperto nella vita della scrittrice sia
in quanto città d’elezione sia come serbatoio di immagini mitiche, liriche e narrative. Tali
immagini hanno contribuito, com’è accaduto ad altre scrittrici di lingua tedesca vissute a
Roma come Ingeborg Bachmann, Luise Rinser, Christa Reinig, alla costruzione di
un’“estetica dello sguardo” (Arzeni 2001, 123):
Rom hat mich gewiß auch künstlerisches beeinflußt. Man lernt dort Geschichte und lernt,
sich gegen die Geschichte zu wehren. Ich glaube, daß man vor allem sehen lernt. Man hat
viele Impulse durch Augenfreuden, und weil das Leben sich zum großen Teil draußen,
nicht in den Häusern abspielt, erfährt man auch viel von den Menschen, viel mehr als hier
[...]. Rom hat in meinen Arbeiten immer eine große Rolle gespielt. (Bienek 1984, 284)5
La prosa romana di Engelsbrücke non appartiene a un genere facilmente
“La forma del racconto breve mi stimola molto. Anche se si deve conoscere tutto dei propri personaggi
(per esempio ciò che succede loro, sia prima sia dopo) andando oltre la cornice del racconto, non è
necessario dire tutto e si può partire sempre dallo stesso punto di vista. Nel romanzo bisognerebbe tenere
sempre presenti una buona quantità di punti di vista, questa è una cosa che non domino e che anzi mi manda
in confusione” (trad. di chi scrive).
3
“È stata una lunga battaglia, una lotta terribile per la liberazione e per la trasformazione, come l’apertura
di un bozzolo o di un guscio alla quale stavo assistendo. E a quel punto avrei voluto fermamente aiutare la
bambina, ma sapevo che non ce n’era più bisogno – l’avevo riconosciuta” (trad. di chi scrive).
4
Per l’analisi formale faccio riferimento ad alcune teorie di autori tedeschi sul saggio e sulle forme brevi
(Theodor Adorno, Max Bense, Robert Musil) che mi sembra incrocino, negli scritti romani di Kaschnitz,
l’elemento “del vedere” caro, da Goethe in poi, agli scrittori tedeschi che vivono nella città eterna.
5
“Certamente Roma mi ha influenzato anche da un punto di vista artistico. A Roma s’impara la storia e
s’impara a difendersi dalla storia. Credo che vi s’impari soprattutto a guardare. Si hanno molti impulsi visivi
per la gioia degli occhi e, dato che si vive più all’aperto che in casa, si conosce meglio l’essere umano,
molto di più che da noi […]. Nei miei lavori Roma ha giocato sempre un ruolo centrale” (trad. di chi scrive).
2
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definibile, il che la rende, da un punto di vista formale, estremamente interessante.
Secondo la critica si tratta di una raccolta di saggi su Roma, mentre Marie Luise Kaschnitz
preferisce parlare di un diario, di un Tagebuch.
Mi sembra che le pagine di Engelsbrücke siano, in parte, entrambe le cose, ma
sono sostanzialmente anche altro. Rappresentano anzitutto la prova della versatilità
stilistica e letteraria di una scrittrice tedesca ancora troppo poco nota in Italia malgrado il
suo rapporto fecondo con la cultura italiana. Si tratta, in secondo luogo, di una raccolta di
170 “osservazioni” – il sottotitolo recita Römische Betrachtungen, che potrebbe essere
tradotto anche con “riflessioni” o “considerazioni” romane accettando di perdere la
invece importante componente del “vedere” – in cui Kaschnitz, in una configurazione
apparentemente disarticolata, restituisce una Roma sopravvissuta alla guerra, vittima di
una modernizzazione e di un’urbanizzazione eccessivamente rapide, caratterizzata da
innumerevoli contraddizioni, animata da esseri umani dai tratti spesso grotteschi e
caricaturali.
Se il piano di realtà si intreccia alla topografia romana, spesso in contrasto con
l’immagine della città eterna evocata dalla Reise nach Italien, l’elemento narrativo si
sviluppa in modo quasi impercettibile. In Kaschnitz, come nota Michele Cometa, si rileva
una “topografia spirituale […], sempre pronta a riconoscere nei luoghi contemplati, pure
svariati e diversissimi, una sorta di “invisibile testo” che ne modifica radicalmente la
percezione e il significato” (Cometa 2004, 62).
Le riflessioni romane di Marie Luise Kaschnitz non sono, dunque, solamente delle
“cartoline” da Roma né le passeggiate di una flâneuse, ma delle “Ansichten, die das
Oberflächenaussehen eines Ortes durchdringen; es sind Fundstücke aus tieferen
Schichten”6 (Kiechlechner 1984, 44). Questo “invisibile testo” prende spesso la forma di
un’impressione narrativa in bilico tra realtà e immaginazione. Sullo sfondo si profila la
Roma degli anni Cinquanta, vibrante, insolita, con i suoi luoghi sì, ma anche con i suoi
miti antichi e la sua tradizione. Dal dialogo tra immagine e scrittura nascono delle
miniature, come è stato giustamente già notato (Ortheil 1984, 30). Questo mi sembra, a
ben vedere, il termine formalmente più adeguato perché fonde l’elemento narrativo a
quello topografico, creando così uno “spazio bio-topografico che racchiude e intreccia la
dimensione temporale con quella spaziale” (Perrone Capano 2012, 231). Questo termine
rispecchia, inoltre, quella brevità formale che sta a cuore a Kaschnitz.
Aristokraten der Gosse (Aristocratici del fango) è una delle miniature alle quali
vorrei fare riferimento per illustrare come in Kaschnitz la Roma popolare rappresenti
proprio quello “spazio bio-topografico” più adatto a raccontare minuziosamente l’essere
umano. Orgogliosa e piena di dignità è la protagonista, un’anziana senzatetto italiana che,
per salvaguardare la propria libertà, decide di vivere per strada, in un cortile di Via del
Corso piuttosto che venire ospitata in centri di accoglienza dove trova solo sporcizia e
compagnia sgradevole. Kaschnitz ce la fa osservare nei gesti più autentici:
Da verbirgt eine Alte das ganze Jahr hindurch ihre Nächte in der mit allerlei antiken Resten
ausgestatten Säulenvorhalle eines Palazzos am Corso, und die Bewohner des
Erdgeschosses beobachten, wie sie dort jeden Abend ihre Oberkleider ablegt, sie sorgfältig
faltet und über ein marmores Gebälkstück breitet, wie sie zur Unterbringung ihrer kleinen
Habseligkeiten die Basis eine Statue benützt und sich endlich auf den Steinboden
“Sguardi che penetrano il livello superficiale di un luogo. Sono reperti di un mondo sotterraneo” (trad.
di chi scrive).
6
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niederläßt, nicht ohne eine Abendgebet zu verrichten. (Kaschnitz 1988, 258)7
Dalla storia di un’anziana donna che vive per strada, al confine tra finzione e
realtà, Kaschnitz estrapola una sorta di figura magica. Questa “aristocratica del fango”
ricorda una donna della Roma di Pasolini: se ne narrano i gesti e se ne osservano le
abitudini in una sorta di fermo immagine.
Analogamente, nel testo intitolato Würde der Armen (Dignità dei poveri), la
scrittrice parla di “Äußerste Bedürftigkeit, ein wenig Märchenglanz und große Würde der
Armen”8 (Kaschnitz 1988, 272) e racconta la vicenda di due famiglie del Sud, entrambe
costrette a vivere in condizioni di estremo disagio sociale nella periferia romana:
Auch hier war der Wohnraum eine langgestreckte lichtlose Höhle mit graubraunen
abgebröckelten Wänden, der Wandschmuck bestand aus grellbunten Reklamebildern, in
einem Glasschrank prangten ein paar goldgeränte Tassen, auf der Kommode stand die
Porzellanfigur eines Mädchens, mit süßlichen Farben bemalt. Um den Tisch mit der
schmutzig-gelben Fransendecke saßen hier die Frauen, die Mutter und zwei Töchter, der
kleine alte Vater kauerte abseits auf einer Wandbank und schwieg. (Kaschnitz 1988, 273274)9
Orgogliosi e cordiali, silenziosi e sicuri di sé, dignitosi: così vengono delineati con
grande forza descrittiva i protagonisti di Würde der Armen, miniatura affine ad
Aristokratin der Gosse, sebbene nella vicenda della senzatetto affiori una dimensione
onirica peculiare del mondo di Kaschnitz.
La critica ha parlato, a tal proposito, di “realismo magico” (Richter 1992, 154),
per cui la dimensione reale sfuma dietro quella dell’immaginario, e viceversa. In
Kaschnitz, in effetti, il piano di realtà diviene un pretesto per fare spazio a una narrazione
dai tratti ora immaginari, ora onirici, ora mitici, inclusa in una forma breve. Una figura
mitica è l’impiegato che di notte si trasforma in uomo con il sacco e va in giro per le
strade di Roma a dare sostentamento ai poveri. Un uomo della notte che ricorda il giovane
ragazzo evocato da Ingeborg Bachmann – collega e amica di Kaschnitz – in un passo
della sua prosa romana Was ich in Rom sah und hörte dove compare una Fontana di Trevi
dai tratti cinematografici:
Da sammelt ein nicht mehr junger und wenig bemittelter Angestellter in seinen freien
Stunden Lebensmittel und getragene Kleider, steckt das jeweils Zusammengebrachte in
einen Sack und wandert, diesen Sack auf dem Rücken, in der Nacht durch die Stadt, zu den
Obdachlosen, die hier noch in großer Zahl unter den Brücken, auf Kirchentreppen und in
“Lì dietro, nello spazio ricavato dagli antichi resti romani davanti a un palazzo del Corso, trascorre le sue
notti, tutto l’anno, un’anziana signora. Quelli che vivono al piano terra la guardano togliersi gli abiti ogni
sera, piegarli attentamente e stenderli su un ripiano di marmo, la guardano usare la base di una statua come
sistemazione delle sue piccole quisquilie e stendersi finalmente sul pavimento di pietra, non prima di aver
recitato una preghiera notturna” (trad. di chi scrive).
8
“Straordinaria indigenza, un po’ di splendore fiabesco e grande dignità dei poveri” (trad. di chi scrive).
9
“Anche qui l’abitazione era una grotta priva di luce con delle pareti grigio-marroni che si sbriciolavano.
Sulla parete c’erano immagini pubblicitarie coloratissime, in una credenza spiccavano una coppia di tazze
dai bordi dorati, sul comodino c’era la statua di porcellana di una fanciulla dipinta con colori dolciastri.
Intorno al tavolo con una tovaglia a frange giallo sporca sedevano le donne, la madre e le due figlie, mentre
il padre anziano se ne stava seduto su una panchina, masticando in silenzio” (trad. di chi scrive).
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den Säulenvorhallen der alten Paläste schlafen. (Kaschnitz 1988, 256)10
Wer ein Geldstück in die Fontana di Trevi wirft, um wiederzukommen, fürchtet,
es könnte nicht angenommen werden. Aber er kann getrost sein. Nachts setzt sich ein
Junge auf den Brunnenrand und pfeift, lockt die anderen hervor. Wenn alle sich
versammelt haben, legt der Junge die Kleider ab und steigt lässig ins Wasser. Mond
belichtet die Szene, während er sich fröstelnd bückt und die Münzen einsammelt. Am
Ende pfeift er wieder, und in seinen Händen verschmelzen alle Währungen zu Silber. Die
Beute ist unteilbar unter dem Mond, denn der Junge hat das Aussehen eines Gottes
gegenüber den andern, die ihre Gestalten billigen Anzügen verdanken. (Bachmann 1978,
33)11
Dai ritratti della povera gente, di donne e di uomini colti nella loro concreta
umanità ma dotati anche di un accento magico, Kaschnitz torna al mondo dell’infanzia. I
bambini del parco di Piazza Vittorio Emanuele sono i protagonisti di una microstoria
dedicata al rapporto, così diverso dalla Germania, tra le madri italiane e i loro figli. In
Römische Kinder (Bambini romani) compaiono dei bambini apparentemente ingenui, ma
che aspettano il momento del gioco per rivelarsi dei piccoli demoni: li vediamo gettarsi a
terra, bagnarsi nelle pozze, mettersi in bocca la terra dei vasi, sfidarsi in imprese
spericolate. Il loro è un mondo nascosto che Kaschnitz racconta con uno spirito empatico
e restituisce con un ritmo scandito:
Man muß zu den Oleanderkübeln hinüberlaufen, ein wenig Erde in die Hand
nehmen und sich diese Erde in den Mund stopfen, rasch, fest, bis man beinahe
erstickt. Man muß sich mit beiden Füßen in die Pfütze stellen und spüren, wie die
eiskalte Feuchtigkeit durch die Sohle dringt und die Söckchen hinaufsteigt bis zum
nackten Bein [...]. Einiges davon muß man allein tun, bei anderem wieder sich
gegenseitig anfeuern und stärken. (Kaschnitz 1988, 120)12
Attraverso questo rapido sguardo al “mosaico frammentario” (Arzeni 2001, 121)
di Marie Luise Kaschnitz si è cercato di rilevare alcuni aspetti formali e snodi tematici
che, nella ricerca della sintesi e nella tensione alla brevità, hanno giocato un ruolo centrale
nella poetica della scrittrice tedesca. In Engelsbrücke la Kürze si evidenzia nella natura
“Un impiegato non più giovane e non particolarmente benestante raccoglie nelle sue ore libere alimenti
e indumenti, li nasconde in un sacco e con il sacco sulle spalle, di notte, attraversa la città e va dai senzatetto
che in grandi gruppi dormono ancora sotto i ponti, sulle scale delle chiese e nei cortili dei palazzi antichi”
(trad. di chi scrive).
11
“Chi getta una moneta nella fontana di Trevi per poter tornare, teme che possa essere accettata. Ma può
stare tranquillo. Di notte un giovane si siede sul bordo della fontana e fischia, fa venire fuori gli altri.
Quando si sono radunati tutti, il giovane si toglie i vestiti ed entra disinvoltamente nell’acqua. La luna
illumina la scena, mentre lui si china rabbrividendo e raccoglie le monete. Alla fine fischia di nuovo, e nella
sue mani tutte le monete si fondono in argento. Il bottino è indivisibile sotto la luna, perché il giovane ha
l’aspetto di un dio al confronto con gli altri, che devono le loro figure a vestiti a buon mercato” (Raja 2002,
123).
12
“Corriamo verso i cespugli d’oleandro, prendiamo un po’ di terra e ce la mettiamo in bocca, veloci, decisi,
quasi fino a soffocare. Dobbiamo buttarci con tutti e due piedi nella pozzanghera fino a sentire la gelida
umidità penetrare le solette delle scarpe, salire nei calzini fino alla gamba nuda […]. Alcune cose vanno
fatte da soli, in altre ci incitiamo l’uno con l’altro e ci facciamo forza” (trad. di chi scrive).
10
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miniaturistica delle pagine romane dando vita a una originale combinazione di immagine
letteraria e racconto mitico-onirico.
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