Humanities

My report focus the link between migrations, colonization and Italian migration policies. I will take in account the overlapping issues of returned Italians from former African colonies and of refugees from the Istrian peninsula, which was annexed to Yugoslavia after the defeat of Italy in WWII.

La storia dell'emigrazione italiana e quella dei movimenti di popolazione sono due campi di ricerca dai risultati potenzialmente interscambiabili, ma scarsamente messi in relazione dalla storiografia. Non soltanto le colonie furono presentate fin dall'Ottocento (in forma retorica o promuovendo progetti reali) come un'alternativa alla ricerca di impiego nei tradizionali paesi di immigrazione (Argentina, Stati Uniti, Francia...), ma gli stessi "coloni" italiani (300.000 persone nel 1939), dopo la fine dei sogni imperiali italiani furono, assieme agli istriani, i primi candidati all'emigrazione assistita del dopoguerra. La relazione vuole indagare alcune possibili piste di ricerca storica sulla colonizzazione demografica della Libia e dell'Africa Orientale Italiana, e sui successivi percorsi di vita dei coloni-migranti.

Nel corso dell'intervento verranno presentati alcuni dei risultati di una ricerca più ampia tuttora in corso che si inserisce in un filone di studio internazionale focalizzato sulla mediazione politico - istituzionale di migrazioni e rientri da parte dei paesi di partenza. Carattere distintivo della mia ricerca è l'analisi condotta su un livello subnazionale di governo: la Regione Autonoma Friuli - Venezia Giulia, nata nel 1964. Tanto la storiografia italiana (Michele Colucci, Matteo Sanfilippo, Roberto Sala) che quella internazionale (Fernando Devoto, Donna Gabaccia, Robert Harney, Reiner Baubök) hanno indicato l'importanza delle Regioni in materia di interazione con le comunità espatriate e l'importanza dell'associazionismo su base territoriale nel Secondo dopoguerra ma, finora, il tema non è mai stato studiato in modo sistematico od attraverso un case study. 

A partire dal 1945, le catene migratorie dell’Italia funzionarono su base provinciale o regionale piuttosto che "paesana" o "nazionale". Tale fenomeno è rilevabile non solo nell'emigrazione libera ma anche in quella assistita ed in una serie di modalità intermedie di espatrio che finora hanno trovato scarsa considerazione da parte dei ricercatori. Nella prima parte della comunicazione saranno illustrate le modalità e le ragioni del delinearsi dei flussi migratori su tale scala, attraverso un percorso inedito di lettura dei documenti del Ministero del Lavoro. 
Nella seconda parte dell’intervento si analizzerà il parallelo riorganizzarsi dei lavoratori espatriati attraverso i nuovi club, sodalizi e circoli culturali, ricreativi, sportivi regionali o subregionali che in parte sostituirono le vecchie associazioni "campanilistiche" tipiche del periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento, e quelle "nazionali" protagoniste invece del periodo successivo al 1918. Si utilizzeranno a tal proposito, tra gli altri, i fondi d’archivio dell’Ente Friuli nel Mondo (Efm), dell’Unione Emigrati Sloveni del Friuli-Venezia Giulia e dell’Associazione Giuliani nel Mondo, ma anche dei documenti istituzionali prodotti dall’Ente Regione. 
Nella parte conclusiva dell’intervento cercherò infine di analizzare il ruolo avuto dagli enti locali e dai segretariati di diretta emanazione nel ridefinire identità, pratiche transnazionali, modalità associative e nel veicolare all'estero una nuova immagine dell'Italia. L'Efm, primo “moderno” segretariato regionale di emigrazione in Italia, fu fondato nel 1952 dalle Provincie di Udine e Gorizia e da un centinaio di comuni. Fin dagli anni Cinquanta, attraverso l’Efm furono costruite delle identità ed espresse delle retoriche e poi realizzati dei progetti che saranno presi come modello dagli altri segretariati nati nel "caldo" biennio '68-'69, e, successivamente, dalla Regione Friuli-Venezia Giulia, da altre Regioni italiane e dalla stessa Repubblica.

Fin dal periodo asburgico, il rapporto tra Trieste, il suo entroterra e le zone limitrofe fu rappresentato attraverso un punto di vista ed una retorica che Claudio Magris definì "presbite", facendo specifico riferimento all'atteggiamento ed agli interessi dello scrittore Scipio Slataper, ma che senza fatica è possibile estendere ad una parte considerevole della società triestina e della sua classe dirigente. Con questa espressione, lo sguardo presbite, indichiamo la tendenza della città a valorizzare, per motivi diversi, chi proveniva da lontano (la cosiddetta "elite cosmopolita") ed a sottovalutare o disprezzare gli immigrati sloveni o friulani. A sua volta lo storico Elio Apih ha indicato, come principale risultato di tale tipo di rappresentazione spesso portata avanti con stilemi razzizzanti, il rafforzamento del senso di insularità della città, che tuttavia, lungi dal rappresentare un pericolo, era funzionale alla preservazione dei suoi privilegi politici ed economici, della sua classe dirigente, e del suo "mito fondatore": il "melting pot" borghese, nelle sue versioni cosmopolita, mitteleuropea o italianizzante.
In questa relazione cercheremo di capire come i movimenti di popolazione che dalla fine dell'800 hanno interessato la città, in entrata, attraversandola, o in uscita, siano stati percepiti e quindi selezionati, rielaborati e deformati in sede pubblicistica, storiografica e nella memoria collettiva attraverso gli stessi modelli. Possiamo anzi dire che proprio in riferimento alle migrazioni ed alla storia demografica di Trieste, lo sguardo presbite ed il senso di insularità, due canoni descrittivi che si implicano a vicenda, si sono rafforzati ed hanno fondato buona parte del proprio successo.
In conclusione cercheremo di capire come alcune categorie interpretative sviluppate recentemente dagli storici dell'emigrazione italiana possano contribuire a sfumare e correggere un canone storiografico costruito su una così forte "identità immaginata".

In the past fifteen years, the fatal accident of 1956 in the Marcinelle mine has played a key role in the development of the public history and memories of Italian migrations. Promoted by the Italian government, the anniversary of August 8 became a national "patriotic" commemoration. The old mine became a memorial dedicated to Italian immigration in Belgium, to national manufacturing history and to occupational safety issues. Both the memorial and the hall specifically devoted to the tragedy of August 8 face the complexity and the contradictions of the related collective memories, affected by mass media representations, political activism and more in general the relationship between past and present.

DESCRIZIONE: Alessio Marzi incontra gli emigrati italiani in Belgio e presenta il lavoro di ricerca con cui ha conseguito il Phd in Storia presso l'Università di Trieste, attualmente in attesa di pubblicazione. Nel suo studio egli ha analizzato le originali forme di socializzazione, produzione culturale e comunicazione pubblica "a lunga distanza" che nel recente passato hanno coinvolto tre soggetti: gli emigrati friulani e giuliani; le associazioni di/per emigrati con sede all'estero o in Italia; la Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia.
La ricerca rappresenta anche un importante capitolo di storia
istituzionale, essendo stata la Regione FVG parte attiva e referente di un vero e proprio network globale, modello per le iniziative di altre Regioni italiane e, successivamente, per la stessa amministrazione centrale.

The essay appraises a relevant topic developed by the Ancient Greek historians, strictly linked to the structure of the historical knowledge as a whole: the ingenious employ of fakes and simulations, thought otherwise than merely mystifications, mistakes or lapses. The subject is connected to the problem of the sources control and selection, especially when the oral sources and the cultural, collective and individual memories are brought to write the History. The essay will suggest that Hecataeus, Herodotus and Thucydides, everyone looking for what Thomas Kuhn called a “paradigm shift”, built the historical knowledge as a critical science. The result is that the logical, moral and ontological identification and exploitation of fake data is more relevant than the advancement of the truth itself.

Nell’Europa dell’Ottocento e del Novecento, i confini nazionali, a contrario della “frontiera” americana di Turner, rappresentarono più un vincolo che un’opportunità per le popolazioni. Tuttavia, anche i confini europei controllati dagli Stati e in misura minore dalle popolazioni residenti in loro prossimità, possono essere considerati al pari della frontiera statunitense un “mito” funzionale alla promozione degli obiettivi nazionali, un costrutto culturale, un discorso ideologico in grado di produrre particolari effetti psicologici, economici, culturali ed identitari.
Al centro del presente contributo stanno coloro per i quali,  a prescindere dal mito dei "sacri" confini, attraversare frequentemente le frontiere ha rappresentato un’ordinaria pratica legata al lavoro; parallelamente ci si occupa di coloro che sono stati “attraversati”, assieme alla loro quotidianità dai confini stessi, cioè chi è rimasto nel proprio luogo di nascita ogni qual volta le frontiere sono state ridefinite o chi ha continuato a muoversi per brevi distanze all’interno di un’area precedentemente libera.
Si analizzeranno innanzi tutto alcuni risultati ottenuti dalla storiografia del confine orientale e dei suoi movimenti di popolazione; si proveranno quindi ad abbozzare delle linee di ricerca, analizzando il funzionamento di alcuni sistemi migratori "frontalieri" di medio o lungo periodo, anche sfruttando alcuni materiali finora indagati in modo marginale relativi all’emigrazione friulana in Austria-Ungheria tra Ottocento e Novecento ed agli spostamenti di popolazione a corto raggio che hanno investito la città di Trieste prima e dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Tra gli anni Cinquanta e gli anni Novanta del secolo scorso le amministrazioni locali italiane intervennero nel settore dell’emigrazione e dei rientri costruendo un vero e proprio emigration state parallelo, complementare ed a tratti alternativo a quello dello Stato. In particolare, nei decenni centrali del periodo considerato, le Regioni raccolsero le ampie aspettative che a partire dagli anni immediatamente successivi la fine della Seconda guerra mondiale erano state riversate sulla politica dai lavoratori italiani emigrati, e soprattutto da coloro che aspiravano ad espatriare per motivi professionali o a rientrare per motivi familiari.
Con l’avvio dell’emigrazione assistita e con altre iniziative, la questione del lavoro italiano all’estero era infatti diventata, in teoria, una delle priorità dell’agenda politica italiana: lo Stato democratico guidato dalla Dc si era impegnato, al di sopra delle sue possibilità, a gestire il fenomeno migratorio, ad indirizzare i flussi, a garantire soddisfacenti sbocchi migratori per gli operai italiani attraverso il reclutamento negli Uffici del Lavoro in attuazione dei trattati bilaterali firmati con i paesi di immigrazione. L’“euforia migratoria” aveva coinvolto tutto e tutti, ma la fiducia nei confronti dell’amministrazione centrale scemò ben presto a causa degli scarsi risultati ottenuti dalla politica italiana, dell’inadeguata assistenza diplomatica che l’emigrato riceveva una volta varcato il confine, dell’assenza di qualsiasi tutela sociale una volta che esso rientrava in patria. In altre parole, nonostante le ambiziose premesse, il Ministero degli Esteri ed il Ministero del Lavoro si erano limitati a «far partire dall’Italia il più rapidamente possibile il maggior numero di persone» .
Quando le Regioni iniziarono a legiferare in materia, sfruttando per quanto possibile le “pieghe” del blando decentramento amministrativo italiano attuato con molto ritardo, trovarono tuttavia a disposizione una serie di strumenti operativi, network informativi, istituzioni ed idee-guida definite e sviluppate “dal basso” negli anni precedenti ad opera degli stessi emigrati, talvolta con il supporto di altri enti locali, in alternativa (e spesso in polemica) con lo Stato italiano e le sue rappresentanze consolari. Gli italiani all’estero scaricarono quindi sugli enti intermedi la domanda di partecipazione democratica e di tutela sociale e culturale che l’amministrazione centrale non aveva saputo o voluto raccogliere e sviluppare, ma che aveva paradossalmente contribuito a far nascere e crescere; alla ricerca di una legittimazione in quanto istituzioni, le Regioni a loro volta raccolsero e sfruttarono l’articolato sistema di legami informali e formali che gli emigrati avevano prodotto nelle città e nelle nazioni di immigrazione, nonché i contraddittori idiomi politici “regionalisti” usati dagli italiani all’estero fin dagli anni Trenta. I risultati ottenuti dalle Regioni negli anni Settanta furono solo in parte soddisfacenti, ma sufficienti a colmare almeno formalmente alcuni dei vuoti della politica italiana ed a mobilitare i corregionali all’estero con una serie di iniziative che si sarebbero ulteriormente sviluppate negli anni successivi.
Si esporranno in questo estratto alcuni dei risultati di una ricerca nata dalla volontà di studiare da un punto di vista storico e con una metodologia adeguata tale fenomeno contemporaneamente politico, sociale e culturale. Si è lavorato prevalentemente su due livelli: da una parte si è cercato di capire perché e come le Regioni siano state individuate dai migranti italiani come un importante interlocutore politico-istituzionale ed i motivi del successo della costruzione culturale che intrecciava l’idea di “regione” alla altrettanto complessa identità etnica degli italiani espatriati. L’analisi sinottica degli indirizzi generali della politica internazionale e transnazionale di Stato e Regioni è servita inoltre a formulare delle ipotesi che, in seconda battuta, sono state verificate e riformulate attraverso il case study della Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia. Tale amministrazione è quindi emersa come una laboratorio, un modello ed un’“apripista” non solo per le altre Regioni ma anche per lo stesso Stato italiano quando, a partire dagli anni Novanta, i ministeri ed i governi nazionali hanno cercato di intervenire ulteriormente in materia di emigrazioni, rientri, seconde generazioni, “italiani nel mondo”. Ad Udine iniziò ad operare nel 1953 il primo moderno “segretariato” regionale di emigrazione italiano, cioè l’Ente Friuli nel Mondo (ad esso sarebbe seguita nel 1957 l'Associazione Trentini nel Mondo, mentre la Bellunesi nel Mondo fu fondata solo nel 1966). Quando nel 1970 la Regione Fvg emanò la prima Legge Regionale italiana per la tutela di emigrati e rimpatriati erano quindi operativi all’estero più di un centinaio di associazioni di corregionali che intendevano collaborare per l’applicazione della legge, autonomamente o attraverso uno dei sei segretariati di emigrazione allora operativi tra Trieste ed Udine. Anche lo strumento delle assemblee “plenarie” di emigrati ed associazioni, sperimentata per la prima volta ad Udine nel 1969 e riproposta alla vigilia di ogni importante scadenza istituzionale, sarebbe stata utilizzata prima dalle altre Regioni, poi dall’amministrazione centrale.

This essay explores the several questions raised by the growing political and administrative presence of the British in India in the second half of the eighteenth century. It tries to connect them to the general context of the debates on European colonialism, its forms and its consequences, not only in the specific perspective of British politics with regard to India but also in terms of some of the basic problems faced by Enlightenment culture with reference to themes like empire, conquest, colonial dominion. The essay tries to elucidate the ideas emerging in the British and European debates out of the necessity of dealing not just with theoretical issues but with practical duties of government and administration in cultural settings entirely different from the European ones. The contributions elaborated in particular in Great Britain and France from the 1770s onwards delineate an approach revealing the sensibility to what can be termed the 'rule of difference'. This expression is used here not in the polemical sense given to it by postcolonial historical, political and social analysis (the idea of difference or of 'otherness' as a convenient shield for negating rights and liberties to dominated, colonial countries), but in order to point out the perception of the complexity of ruling a colonial empire, between modernisation and respect for local traditions.

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