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Figure della memoria e dell’inconscio

Fin dall'antichità, si sono prodotte metafore e allegorie della memoria. Più recenti sono immagini simboliche riferite all'inconscio, dove la memoria individuale o collettiva ripesca non di rado i suoi ricordi. Qui si tratta per lo più di vere e proprie figure, da Mnemosine dea della reminiscenza a Gradiva, Musa del Surrealismo e ancor prima della psicoanalisi. Se esse si adattano alla memoria del passato, non coprono però tutta la complessità dell'inconscio. Ve ne sono altre, quali l'“Angelus” di Millet e di Dalí o l'“Angelus Novus” di Klee e di Benjamin, che meglio ne esprimono una componente fatta di annunciazione o di prefigurazione, ma anche di aspettative e di delusioni...

Mnemòsine: In conclusione, tu non sei contento. Esiodo: Ti dico che, se penso a una cosa passata, alle stagioni già concluse, mi pare di esserlo stato. Ma nei giorni è diverso... Cesare Pavese, da “Le Muse”, in Dialoghi con Leucò Pino Blasone Figure della memoria, immagini dell’inconscio 1 – Rara immagine di Mnemosine nell’antichità, particolare di mosaico con scena di banchetto funebre: la dea impone la destra sulla nuca della defunta – o dell’iniziata? –, per ridestare in lei la coscienza del proprio vero sé e della sua origine divina; II-III sec. d. C., Museo Archeologico di Antakya, da necropoli dell’antica Antiochia, Turchia Il regno di Mnemosine “Figurati nelle nostre anime un blocco più o meno grande, di cera più o meno pura e più o meno dura, o di giusta consistenza a secondo degli individui. [...] Si può considerarlo un dono di Mnemosine, madre delle Muse. Tutto quanto desideriamo tenere a mente di ciò che udiamo, vediamo o pensiamo, si imprime come il sigillo di un anello in questa cera che noi sottoponiamo alle sensazioni o alle riflessioni. Di tutto ciò serbiamo ricordo e coscienza, finché ne permanga l’immagine...”: quando il filosofo greco Platone, nel dialogo Teeteto (191b-d), si riferiva in questi termini alla dea della memoria Mnemosine, almeno in parte egli aveva alle spalle una tradizione di pensiero specifica più antica. Nella sua versione orfico-pitagorica, essa non era priva di risvolti misterici ed escatologici, che in qualche modo influenzeranno la paradossale ma fertile teoria platonica dell’apprendimento, in 1 quanto reminiscenza di un mondo ideale e originario. Né suona del tutto convenzionale l’allusione alla mitica maternità di Menemosine rispetto alle Muse, divinità della poesia e più tardi delle arti. Malgrado certe riserve di Platone verso poeti e artisti, è in tali ambiti che la funzione della memoria intesa come rimembranza profonda assume rilevanza intuitiva. Più semplicemente che una imperfetta proiezione del platonico “mondo delle idee”, o più realisticamente che un elitario e soterico aldilà pure immaginato dagli iniziati orfici, il “regno di Mnemosine” era lo spazio immateriale ma vitale della memoria, opposto a quello letale dell’oblio.1 È nelle Confessioni di Sant’Agostino che una metafora della memoria in quanto territorio – o “antro” – prevale su quella del blocco di cera, adottata anche da Aristotele, in cui si fisserebbero i ricordi simili a impronte di tanti sigilli: “Eccomi nei campi e negli ampi quartieri della memoria. Lì stanno i tesori delle innumerevoli immagini di ogni sorta di cose, apportate dalle sensazioni. Ivi è celata qualsiasi cosa pensiamo, amplificando o riducendo o comunque variando i dati dei sensi, e quant’altro messo da parte e affidato in custodia, sempre che l’oblio non l’abbia già inghiottito o sepolto. Una volta là, chiedo che si presenti qualunque cosa voglio. Alcune cose si offrono subito. Altre si attardano lasciandosi desiderare, quasi estratte da ripostigli più intimi. Ce ne sono poi che irrompono a schiera, mentre io ne cerco e desidero altre, saltando nel mezzo come per dire: ʻForse siamo noi, per caso?ʼ Ma io le allontano con la mano dello spirito dallo schermo dei ricordi, e finalmente ciò che pretendo si fa strada dai recessi tra la nebbia davanti al mio sguardo” (X, 8.12). È interessante notare come, maggiormente presso Platone che per Agostino, l’operazione rammemorante sia intenzionale. Mentre il primo riferisce l’intenzionalità del ricordante all’acquisizione dei ricordi, per il secondo essa riguarda la loro estrazione dal deposito della memoria, benché alcuni si ripresentino spontaneamente alla coscienza, rischiando di offuscare quelli desiderati e richiesti. Al contrario, altri oppongono resistenza o sono minacciati dalla dimenticanza. Insomma, l’analisi di Agostino appare più dinamica e perfino conflittuale, in qualche misura anticipando la scoperta dell’esistenza di un inconscio. Dovrà passare molto tempo, prima che tale scoperta diventi effettiva e operativa. Se già la metafora spaziale di Agostino possiede non solo una sua estensione ma anche uno spessore o profondità, ai primi del Novecento il padre della psicoanalisi e scopritore dell’inconscio personale Sigmund Freud ne adotterà una analoga ma somigliante a un palinsesto, risultante dal sovrapporsi e confondersi di più strati di tracce mnestiche. Di queste ultime, quelle originariamente residenti negli strati più bassi e antichi vanno sottoposte a un procedimento di sottrazione all’oblio – o, non di rado, alla rimozione –, di distinzione e di restauro, questa volta da parte non tanto del ricordante quanto di un analista a scopi terapeutici. Non sorprende che tale visione sia stata appellata “archeologia della mente”. Più o 1 Cfr. l’iscrizione su laminetta aurea di Vibo Valentia, sec. V-IV a. C.: “Questo è il regno di Mnemosine. Qualora tu venga a morire, andrai alle case ben fatte di Ade: a destra c’è una fonte; accanto ad essa sta un bianco cipresso. Venendo laggiù le anime dei morti trovano refrigerio. A questa fonte non ti avvicinare affatto! Ma più avanti troverai la fresca acqua che scorre nel lago di Mnemosine...” (edizione e traduzione di G. Pugliese Carratelli in “Un sepolcro di Hipponion e un nuovo testo orfico”, in Parola del Passato n. 154-55, 1974; pp. 91-96. L’espressione “regno di Mnemosine” è una felice interpretazione dell’illustre studioso). Ovviamente la prima sorgente qui menzionata è quella del fiume Lete, acqua della dimenticanza e dell’oblio di sé. Il culto era ancora vivo nel II sec. d. C. a Roma, dov’è stata ritrovata un’iscrizione in cui una certa Cecilia Secondina ringrazia Mnemosine per il suo “dono”, la memoria di sé dopo la morte, e ad Antiochia nell’odierna Turchia, dove un mosaico tombale ritrae la dea che assiste una defunta. All’incirca allo stesso periodo risalgono gli Inni Orfici, di cui il n. 76 è dedicato alla stessa dea. 2 meno implicitamente, Freud stesso ha avvalorato definizioni del genere, a più riprese nel corso della sua opera. Basti citare Il disagio della civiltà, del 1929, dove la metafora spaziale si fa topografica, tingendosi di “reminiscenza archeologica”: “Prendiamo come esempio l’evoluzione della Città Eterna. Gli storici ci insegnano che la Roma più antica fu la Roma quadrata, un insediamento cintato sul Palatino. Seguì la fase del Septimontium [...] Non vogliamo considerare ulteriormente le trasformazioni dell’Urbe; domandiamoci che cosa possa ancora trovare nella Roma odierna, di tali stadi precedenti, un visitatore che supponiamo dotato di vastissime conoscenze storiche e topografiche [...] Salvo poche interruzioni, potrà trovare tratti delle mura aureliane. In alcuni luoghi potrà trovare tratti delle mura serviane portate alla luce dagli scavi. [...] Non c’è bisogno di ricordare che tutti questi resti dell’antica Roma sono disseminati nell’intrico di una grande città sorta negli ultimi secoli, dal Rinascimento in poi. [...] Facciamo ora l’ipotesi fantastica che Roma non sia un abitato umano, ma un’entità psichica dal passato similmente lungo e ricco, un’entità, dunque, in cui nulla di ciò che un tempo ha acquistato esistenza è scomparso, in cui accanto alla più recente fase di sviluppo continuano a sussistere tutte le fasi precedenti”. 2 Piuttosto che a un inconscio individuale, questa conclusione provvisoria di Freud sembra rimandare a uno collettivo, a una tacita memoria filogeneticamente tramandata di generazione in generazione e che può tornare a manifestarsi in maniera problematica quando condizioni o circostanze lo richiedano. Nel caso drammatico di una crisi della civiltà europea, ad esempio, quale quella che l’autore e la sua generazione dovettero affrontare tra le due guerre mondiali del secolo scorso. Torniamo però sul terreno delle metafore e delle allegorie. Magari, ci si può chiedere che fine abbia fatto la figura di Mnemosine, dea di una veritiera “non-dimenticanza” (cfr. alētheia, in greco) evocata da Platone, comprensibilmente rimossa da Agostino e apparentemente dimenticata da Freud. Neppure lei è completamente scomparsa. La ritroviamo in alcune opere di pensatori del Novecento. Eminentemente letteraria è l’interpretazione che ne dà Walter Benjamin, nel saggio critico Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, capitolo 13. La “rammentatrice” fa sì che il ricordo fondi “la catena della tradizione che tramanda l’accaduto di generazione in generazione”. Ma altresì, e più modernamente, che la reminiscenza o ricordo interiore, come “elemento musale” del romanzo, si affianchi “alla memoria, elemento musale del racconto, una volta scissa, nella dissoluzione dell’epos, l’unità della loro origine nel ricordo”.3 2 S. Freud, Opere in trad. it., vol. X, Bollati Boringhieri, Torino 1978 (or. Das Ungluck in der Kultur o Das Unbehagen in der Kultur, 1929); pp. 561-64, in particolare 562. Nell’originale, il discorso pertinente è assai più esteso e dettagliato, rispetto ai passi qui riportati, a conferma dell’interesse non proprio secondario di Freud per l’archeologia. Altrove tuttavia, egli riprende e aggiorna la metafora platonico-aristotelica del blocco di cera – o piuttosto della tavoletta spalmata di cera, usata dagli antichi come materiale di scrittura: si legga Nota sul “notes magico”, 1924, nello stesso vol. X delle Opere (cfr. J. Derrida, “Freud e la scena della scrittura”, in La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971: in particolare, p. 266). 3 W. Benjamin, “Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov”, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, trad. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1995 (or. Der Erzähler. Nikolaj Leskov, 1936 ); pp. 262-63. La concezione di Benjamin è un tentativo di superare quella di G. W. F. Hegel, che nella figura di Mnemosine – appellata la “Musa assoluta” in un suo appunto (D. P. Verene, Hegel’s Recollection: A Study of Images in the Phenomenology of Spirit, State University of New York Press, Albany 1985; p. 36) – aveva visto adombrato il fondamento della narrazione mitologica ed epica ancor prima che storiografica, in quanto sviluppo progressivo di un principio razionale di storicità. Meno idealistico, più romantico, altro precedente è l’allegoria 3 Un po’ meno letteraria è l’interpretazione di Gilles Deleuze, che nel 1968 in Differenza e ripetizione si rifà a Marcel Proust, ma anche a Henri Bergson – e a Freud. Pressoché inedita, la correlazione da lui stabilita fra Mnemosine ed Eros, tra memoria e desiderio evocatore e selettivo dei ricordi dall’oblio dell’inconscio: “Ogni reminiscenza è erotica, si tratti di una città o di una donna. In ogni caso è l’Eros, il noumeno, a farci penetrare nel passato puro in sé, nella ripetizione verginale, Mnemosine. Eros è il compagno, il promesso di Mnemosine”.4 Commentando la lirica Mnemosine, l’ultimo incompiuto inno di Friedrich Hölderlin, nel 1954 era stato Martin Heidegger a polemizzare con una interpretazione meramente psicologica della rimembranza. Difficilmente il discusso filosofo, che lamentava l’“oblio dell’Essere” e soffriva di “nostalgia dell’Essere”, avrebbe potuto pensarla altrimenti: “È chiaro che questa parola [Mnemosine] indica qualcosa di diverso dalla semplice facoltà, di cui parla la psicologia, di conservare la rappresentazione del passato. [...] Memoria è il raccoglimento del pensiero volto all’indietro. [...] Il pensiero volto all’indietro è volto verso ciò che va pensato ed è il terreno da cui sgorga la poiesis”.5 di Moneta/Mnemosyne nel poema incompiuto Hyperion/The Fall of Hyperion di John Keats. 4 G. Deleuze, Differenza e ripetizione, trad. it. di G. Guglielmi, Raffaello Cortina Editore, Milano 1997 (or. Différence et répétition, 1968); pp. 114-15 e segg. 5 M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, trad. it. di U. Ugazio e G. Vattimo, SugarCo, Milano 1978 (or. Was heisst Denken?,1954); pp. 44-45. Se si esclude che nel secondo caso la rammemorazione pensante è riferita al Dio personale e rivelato anziché a un Essere impersonale, tale concezione heideggeriana può stranamente ricordare quella espressa nell’antichità dal medio-platonico Filone Ebreo in opere quali Legum allegoriae, e soprattutto De vita contemplativa o perfino De somniis (cfr. Gabriele Boccaccini, “Il concetto di memoria in Filone Alessandrino”, Annali dell’Istituto di Filosofia dell’Università di Firenze, VI 1984; pp. 1-19). 4 2 – Dante G. Rossetti, Mnemosine o La Ricordanza, con “lampada della memoria” e “calice dell’anima”, da iscrizione sulla cornice, 1876, Delaware Art Museum, Wilmington, U.S.A; e figura detta della “Gradiva”, dal rilievo marmoreo delle Aglauridi, prima metà II sec. d. C., Musei Vaticani, Roma L’Angelus di Millet e di Dalí La poiésis grecamente nominata da Heidegger coinvolge non solo la poesia e la letteratura, ancor prima del pensiero critico, bensì anche le arti. D’altronde l’“elemento musale” di Benjamin – cioè riferito alle mitiche Muse – va a braccetto con l’Eros “noumenicamente” definito da Deleuze, e promesso sposo di Mnemosine: connubio più o meno felice secondo i casi, che ricorre nella rammemorazione stessa. Siamo infatti al cospetto di un Eros che si dà a conoscere solamente nell’oggetto di desiderio – o di timore – del ricordo, una volta che esso riaffiori nella psiche e sia acquisito dalla mente, eventualmente descritto o narrato, raffigurato o trasfigurato, divenendo così soggetto di ripresentazione e rappresentazione. Proprio perché rappresentazione insieme, nondimeno questa ri-presentazione non è sempre una “ripetizione verginale”, come pretende Deleuze. Spesso, essa comporta una differenza o perfino una deformazione del ricordato, tant’è che può verificarsi sia spontaneamente nel sogno sia nella veglia cosciente. Quando sia un poeta o artista a farsene mediatore e artefice, non di rado tale differenza diventa creativa. In proposito, rammentiamo per inciso il motto dello storico dell’arte Aby Warburg, nella prima metà del ’900 ideatore dell’Atlante delle immagini Mnemosyne: “La parola all’immagine”, troppo a lungo sottovalutata in una civiltà basilarmente logocentrica quale la nostra. 5 La Memoria – o Mnemosine –, ossessiva allegoria statuaria di una memoria personale ferita e insanguinata, ricorre nella pittura del surrealista René Magritte fra gli anni Trenta e Cinquanta. Ma un esempio particolarmente significativo, là dove una ripetizione impura si converte in pura differenza, è il dipinto Reminiscenza archeologica dell’Angelus di Millet di Salvador Dalí, del 1933-35 (Salvador Dalí Museum, St. Petersburg, Florida). Qui il ricordato è rappresentato da un noto quadro di Jean-François Millet, intitolato Angelus e risalente al 1857-59 (Musée d’Orsay, Parigi). Vi sono raffigurati un contadino e una contadina in un campo dopo il lavoro della giornata, in piedi e in raccoglimento all’ora della preghiera detta dell’Angelus verso il tramonto. Sebbene la scena sia assai semplice, tradizionale e naturalistica, l’opera esercitò una forte suggestione su pittori successivi innovatori, quali Vincent van Gogh e appunto Dalí. Quest’ultimo si ispirò più volte a tale modello e nel 1933 redasse perfino un libro intitolato Il mito tragico dell’Angelus di Millet, in cui egli ricostruisce la genesi della sua ispirazione e delle opere che ne sono derivate. 6 “Nel giugno 1932 – ivi scrive il pittore surrealista – si presenta d’improvviso al mio spirito, senza che alcun ricordo recente né associazione cosciente possa darne un’immediata spiegazione, l’immagine dell’‘Angelus’ di Millet. Tale immagine costituisce una rappresentazione visiva nettissima e a colori. È pressoché istantanea e non dà seguito ad altre immagini. Ne sono grandemente impressionato, grandemente turbato, poiché, sebbene nella mia visione tutto ‘corrisponda’ esattamente alle riproduzioni del quadro da me conosciute, essa ‘mi appare’ nondimeno assolutamente modificata e carica di una tale intenzionalità latente che l’‘Angelus’ di Millet diventa ‘d’improvviso’ per me l’opera pittorica più inquietante, più enigmatica, più densa, più ricca di pensieri inconsci che sia mai esistita. [...] L’interpretazione dell’‘Angelus’ che in seguito doveva prendere corpo, o piuttosto, il mio futuro tentativo di interpretazione era già per intero presente ed evidente al mio spirito al momento del fenomeno delirante iniziale; era già tutta e lucidamente contenuta in questo”. Nonostante qualche enfasi auto-celebrativa, o qualche azzardo critico a sfondo psicoanalitico, il resoconto è attendibile. Esso tradisce l’influsso della psicoanalisi sul movimento surrealista. Dalí stesso si recò a visitare Freud e abbozzò un suo ritratto nel 1938, benché il padre della psicoanalisi non ricambiasse molto l’entusiasmo dei surrealisti. Ma veniamo al dipinto qui in questione. L’operazione di riprendere o citare un’altra opera d’arte, innovandola, non era rara nella pittura allora recente. Basti pensare a Il buon Samaritano di Van Gogh, rispetto al modello di quello di Delacroix. Tuttavia, Dalí sostiene di essersi inizialmente rifatto a una immagine memorizzata in base a delle riproduzioni anziché all’originale, il cui studio approfondito – e comparativo – sarebbe semmai intervenuto in seguito, a lavoro già iniziato o eseguito. In effetti, il suo quadro si differenzia dal modello assai più di quanto avesse fatto Van Gogh nei confronti dell’opera di Delacroix, non soltanto per la forma ma anche nei contenuti della composizione. I contadini oranti di Dalí sono pietrificati, rocciosi e ingigantiti, e si stagliano in mezzo a un paesaggio di rovine, desolato e semidesertico. Particolare di totale invenzione dell’autore, due minuscoli visitatori procedono dal basso della scena onirica verso il gruppo monumentale. Essi sono un bambino tenuto per mano da un adulto, che con l’altra mano indica l’inquietante monumento, esso stesso in uno stato di avanzata rovina. Il tutto è completato da un cielo corrusco solcato da scuri volatili, da lunghe ombre e da qualche cipresso alla Böcklin. 6 S. Dalí, Il mito tragico dell’Angelus di Millet, Abscondita, Milano 2000 e 2010: trad. it. di T. Trini da Le mythe tragique de l’Angélus de Millet, interprétation “paranoiaque-critique”, Société nouvelle des éditions Pauvert; Parigi 1963, 1965 e 1978. 6 Le avanguardie artistiche del primo Novecento avevano prodotto una cesura tale, in rapporto alla tradizione pittorica e figurativa, da far risultare quasi “archeologica” la pittura di un Millet o di Delacroix. Ma, più ancora e ben prima di Millet, la Reminiscenza archeologica di Dalí può ricordare certi fatiscenti e surreali paesaggi del secentista François de Nomé, detto Monsù Desiderio, rivalutato e apprezzato proprio dai surrealisti. A ogni modo, qui interessa rilevare che in quest’opera di Dalí l’elemento freudiano non è tanto qualche preteso risvolto erotico né quello “delirante”, comune alla maggior parte della produzione dell’autore, quanto quello del “capriccio” archeologico introiettato nella rappresentazione. Effettivamente, si tratta di un paesaggio fantastico con rovine, ma che ha poco di convenzionalmente romantico o nostalgico. Piuttosto, la scena ritrae una archeologia della memoria e lo sforzo disperato di estrarre dall’inconscio reperti significanti, o di preservarne e restaurarne un significato. Lungi dall’essere un mero titolo a effetto, come altri di Dalí, la prima parte del titolo aderisce ai contenuti simbolici espressi. La seconda, dell’Angelus di Millet, suona didascalica se non superflua, a meno che non vi si voglia scorgere una sfumatura religiosa che è problematico cogliere nell’opera in sé. La dissoluzione delle forme è comunque riflesso e conseguenza di una crisi dei contenuti. Ed è l’attività della memoria che li tramanda o rigenera a dare loro una forma, per quanto mutevole. Ciò vale sia per la storia delle arti figurative, là dove in anteprima la scoperta di una inconsistenza delle forme equivale a Il mito tragico dell’Angelus di Millet, sia intuibilmente più in generale. Né sembra del tutto fortuito che nel mito ellenico le Muse erano sì figlie di Mnemosine – e di Zeus re degli dei, più che di Eros, come nella variante immaginata da Deleuze –, ma pure il seguito di Apollo, dio addetto alla preservazione delle forme mentre Dioniso presiedeva alla loro drammatica dissoluzione. Secondo una interpretazione di ascendenza nietzscheana, che non sarebbe probabilmente dispiaciuta a Freud, il secondo titolo adottato da Dalí potrebbe quindi anche leggersi “Il mito dionisiaco dell’Angelus di Millet”. Con una sovrapposizione suggerita dall’iconografica cristiana – già presente in Millet –, si può infine insinuare che qui l’“Angelus” non annuncia tanto una buona novella epocale, quanto la “morte della Storia”. L’angelo in filigrana di Dalí somiglia infatti a quello apocalittico di Paul Klee e Walter Benjamin, più che a quello evangelico. 7 7 Cfr. W. Benjamin, “Tesi di filosofia della storia”, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, op. cit.; p. 80. Più fedelmente, il titolo originale tedesco dello scritto Über den Begriff der Geschichte andrebbe tradotto “Sul concetto di Storia”. 7 3 – André Masson, Metamorfosi di Gradiva, 1939, Musée National d’Art Moderne, Parigi Gradiva, Musa del Surrealismo Siamo abituati a concepire il pensiero come un’attività razionale e cosciente. Ma, per dirla con Carl Gustav Jung, sussistono “due forme del pensare”. 8 Quando Dalí parla di inquietante o enigmatica intensità e ricchezza dei suoi “pensieri inconsci”, evidentemente egli allude a una logica immaginativa dell’inconscio, prossima a e intrisa di un substrato emotivo. La sua creazione artistica scaturisce da una specie di corto circuito fra questo sottofondo personale e un decifrabile e identificabile contesto culturale, che funziona quale un a priori kantiano, salvo successive revisioni o tentativi di razionalizzazione. La rete o catena delle “associazioni mentali” originarie e inconsce esula, così, dall’ambito strettamente individuale, per irradiarsi in un orizzonte sovrapersonale. In ogni caso, mentre l’Angelus di Millet e di Dalí compete per lo più alla storia dell’arte, o l’Angelus Novus di Klee e di Benjamin in qualche misura a quella sacra, l’altro esempio che ci accingiamo a considerare nasce sul terreno artistico-archeologico – questa volta, in senso letterale –, ma attraversa quello letterario-narrativo e approda alla riflessione psicoanalitica. Si tratta della celebre Gradiva “protagonista” di un racconto gotico omonimo pubblicato nel 1903 da 8 Titolo del secondo capitolo di “Trasformazioni e simboli della Libido” (or. Wandlungen und Symbole der Libido, 1912). Benché tutta rivolta al passato, è interessante l’interpretazione all’incirca dello stesso concetto, che subito dopo dà Sabina Spielrein nel problematico saggio “La distruzione come causa della nascita” (trad. it. di N. Paoli in Giornale Storico di Psicologia Dinamica vol. I, n. 1, 1977; or. Die Destruktion als Ursache des Werders, in Jb. Psychoanal. Psycopath. Forsch. vol. IV, pp. 465-503): “La nostra psiche custodisce nella sua profondità idee che non corrispondono più alla nostra attuale pensabilità cosciente e che non riusciamo a comprendere direttamente; noi troviamo però tali rappresentazioni nella coscienza dei nostri avi, e ciò possiamo dedurlo dai prodotti spirituali mitologici e di altro genere. Perciò il modo di pensare del nostro inconscio corrisponde al modo di pensare cosciente dei nostri antenati”. 8 Wilhelm Jensen, e di una conseguente analisi di Sigmund Freud datata 1907. 9 Tranne che per il fatto di averla ambientata nell’area degli scavi archeologici di Pompei, non entriamo qui nel merito della storia a lieto fine di Jensen, né di quanto è specialistico nell’interpretazione tendenzialmente feticistica di Freud. Ci limitiamo a notare che entrambe si rifanno, direttamente o indirettamente, a un rilievo marmoreo di epoca romana conservato nei Musei Vaticani a Roma. Esso ritrae una ragazza a figura intera e di profilo, mentre incede pensosa a piedi nudi, tenendo con la mano sinistra appena sollevata la lunga veste in modo da facilitare l’andatura altrimenti impacciata. Il nome fittizio Gradiva deriva da questa particolarità, e dal verbo latino gradior, che vuol dire avanzare passo passo. L’aver proiettato tale figura in ambiente pompeiano significa averla caricata di una portata simbolica, come per un ricordo cancellato – o, meglio, pietrificato – da un evento catastrofico, e che pure insiste a voler sfuggire all’oblio verso la nostra coscienza, vincendo la fatale resistenza di ogni dimenticanza o rimozione che possa averlo seppellito o sommerso. Va da sé, questa immagine archetipica – con una definizione junghiana 10 – è in realtà tutta moderna, coinvolgendo il valore e il fascino che l’intera archeologia ha assunto ed esercita sulla modernità, in quanto altra faccia nascosta ma condizionante di sé stessa. Ecco allora che Freud è indotto a una osservazione sulla scienza archeologica che lui stesso avrebbe attendibilmente definito “meta-psicologica”, ma che noi possiamo ritenere di tenore filosofico tout court: “Ciò che questa insegnava era una fredda concezione archeologica, ciò che parlava era un morto linguaggio filologico. Essi non aiutavano per nulla a capire qualche cosa con l’anima, lo spirito, il cuore, o come si voglia dire; e chi di questo avesse sentito in se stesso il bisogno, doveva da solo, soltanto come individuo vivente, venire qui nel caldo silenzio del mezzogiorno fra i monumenti del passato, per guardare e per ascoltare non con gli occhi e con le orecchie del corpo...” 11 In altre parole, grazie magari alla mediazione dell’arte e della letteratura, la critica psicoanalitica può contribuire a far sì che l’archeologia raggiunga certi scopi che vanno al di là di quelli documentari, ma corrispondono ai bisogni inconsci che l’hanno suscitata e messa all’opera. Il commento di Freud ne integra uno di Jensen, riferito al giovane archeologo protagonista della sua narrazione: “Che l’archeologia fosse di per sé una strana scienza o che la sua combinazione col carattere di Norbert Hanold avesse dato luogo a un singolare miscuglio, fatto sta che essa non esercitava una particolare attrazione sugli altri e impediva a lui stesso di assaporare quei piaceri della vita cui si è soliti ambire da giovani. Tuttavia la natura [...] 9 W. Jensen, Gradiva. Fantasia pompeiana (or. Gradiva: Ein pompejanisches Phantasiestuck, 1903), in La casa gotica e Gradiva, trad. it. di A. Dal Collo Lucioni, SugarCo, Milano 1990; e S. Freud, Il delirio e i sogni della “Gradiva” di Wilhelm Jensen, in Opere, cit., vol. V. 10 In effetti, fu C. G. Jung ad apprezzare per primo lo studio di Freud sulla novella di Jensen, e a discuterne con Freud nel loro epistolario, prima dello storico dissenso intervenuto tra i due fondatori della psicoanalisi. Nello stesso 1907, Freud si recò ad ammirare la scultura originale ai Musei Vaticani, databile alla prima metà del II sec. d. C. Di essa, egli riportò un calco in gesso. La stessa mostra poco di enigmatico in verità, specialmente qualora non venga isolata dal suo frammentario contesto, raffigurante una processione delle Aglauridi (tre mitiche sorelle ateniesi, una delle quali andò incontro al tragico destino di essere tramutata in pietra dal dio Hermes). 11 S. Freud, Il delirio e i sogni nella “Gradiva” di Wilhelm Jensen, op. cit. (or. Der Wahn und die Träume in W. Jensens “Gradiva”, 1907); p. 271. L’ambiguità stessa del concetto freudiano di meta-psicologia sta a suggerire che la filosofia, per così dire estromessa dalla porta, rientra dalla finestra, ciò che sarà facilmente obiettato da psicologi e pensatori quali Karl Jaspers o Ludwig Binswanger, peraltro volenteroso mediatore tra Freud e Jung dopo il loro dissenso. 9 gli aveva aggiunto un correttivo che non aveva nulla di scientifico [...]: una fantasia estremamente viva che spesso si esprimeva, oltre che nel sogno, anche nella veglia...” 12 Insomma, una valutazione partecipe ma assai ambivalente. Lui stesso collezionista di piccoli reperti archeologici, dal canto suo Freud non si ferma qui. Leggiamo più avanti una sua annotazione un po’ più indulgente, sebbene alquanto generica: “Rimaniamo alla superficie fin tanto che ci occupiamo solo di ricordi e di rappresentazioni. Ciò che veramente conta nella vita psichica sono i sentimenti, e tutte le forze psichiche sono importanti solo per la loro capacità di risvegliare sentimenti. Le rappresentazioni sono rimosse soltanto perché sono collegate allo sprigionamento di sentimenti che non dovrebbe verificarsi. Sarebbe più giusto dire che la rimozione colpisce i sentimenti, ma che questi non possono essere da noi colti che nel loro collegamento con rappresentazioni”. 13 Per la verità, Freud qui torna a privilegiare l’inconscio e quindi la dimenticanza individuali. Invece le rappresentazioni fornite dall’archeologia sono state rimosse da una memoria collettiva, a causa di fattori accidentali o ideologici quali conversioni religiose di massa, che le hanno sostituite con altre, o semplicemente hanno generato movimenti iconoclasti. Come per la Gradiva di Jensen, è la loro ricomparsa o apparizione a destare sentimenti contrastanti. Più pertinente, benché – a ben vedere – tradizionale, è l’opinione espressa da Aby M. Warburg in una conferenza intitolata Mnemosyne e tenuta nel 1929 presso la Blioteca Hertziana a Roma. Nella civiltà europea moderna a partire dal Rinascimento, sosteneva il critico d’arte e storico della cultura, specialmente la riviviscenza di antiche immagini di divinità apportata dall’archeologia è coincisa con e ha favorito un parziale ritorno del paganesimo e del suo importante retaggio culturale, soggetto a brusca rimozione col primo avvento del cristianesimo e a un lungo oblio nel corso del Medioevo. 14 Se quella di Freud resta essenzialmente una “archeologia della mente” e quella di Warburg è comunque una archeologia della rappresentazione, in opere quali Le parole e le cose e Archeologia del sapere sarà Michel Foucault a dare una versione estensiva e attualizzata del concetto. Nella prefazione a Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, il filosofo così conclude e imposta il suo discorso: “L’analisi archeologica accoglie l’intero sapere classico, o piuttosto ciò che ci separa dal pensiero classico e costituisce la nostra modernità. Su tale soglia apparve per la prima volta la strana figura del sapere chiamata uomo, schiudendo uno spazio proprio alle scienze umane. Tentando di riportare alla luce questo profondo dislivello della cultura occidentale, non facciamo altro che restituire al nostro suolo silenzioso e illusoriamente immobile le sue rotture, la sua instabilità, le sue imperfezioni...” 15 Torniamo però ora sulle tracce della snella eroina, effimero mito della prima metà del ’900 legato alla scoperta dell’inconscio personale. Ella avanzerebbe fuori dall’inconscio individuale, attraversando con successo il territorio comunicante di quello collettivo, o – meglio – culturale. Anche perciò, ella divenne la Musa del Surrealismo. Negli anni Trenta, Salvador Dalí le dedicò disegni e dipinti. Ma il più straordinario è forse un olio su tela di 12 W. Jensen, La casa gotica e Gradiva, op. cit.; p. 109. 13 S. Freud, Il delirio e i sogni nella “Gradiva” di Wilhelm Jensen, op. cit.; p. 297. 14 Cfr. A. Warburg, La rinascita del paganesimo antico. Contributi alla storia della cultura, scritti scelti in trad. it. di E. Cantimori, La Nuova Italia, Firenze 1996; Mnemosyne. L’atlante delle immagini, trad. it. di M. Ghelardi e B. Müller, Aragno, Genova 2002; Der Bilderatlas Mnemosyne, a cura di C. Brink e M. Warnke, Akademie Verlag, Berlino 2000. 15 M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, trad. it. di E. Panaitescu, Rizzoli, Milano 1996 (or. Les Mots et les Choses. Une archéologie des sciences humaines, 1966); p. 14. 10 André Masson del 1939, nel Musée National d’Art Moderne a Parigi.16 Questa Gradiva non è più in posizione eretta. Svenuta o a occhi chiusi per non vedere la catastrofe in atto, ella siede a gambe oscenamente divaricate su un pericolante piedistallo, con la testa reclinata da un lato e stretta fra le braccia obliquamente contratte, quasi colta da una mortale stanchezza durante il suo cammino o accovacciata in un infantile tentativo di ripararsi dalla rovina. Intanto, un nuovo conflitto mondiale tinge ormai lo sfondo di un pompeiano rosso sangue, facendo impallidire non solo ogni naturale cataclisma del passato ma pure ogni possibile conflitto psichico originario. Il visibile pessimismo di Masson, che era rimasto gravemente ferito nella prima guerra mondiale, infrange il mito in maniera assai più immediata di quello manifestato da Freud in trattati già revisionistici quali Al di là del principio del piacere e Il disagio della civiltà. Perfino la psicoanalisi si rivela essere “l’avvenire di un’illusione”.17 4 – René Magritte, La Memoria o Mnemosine, Museo Magritte, Bruxelles (1948: una delle varie versioni dello stesso soggetto, eseguite dall’autore). A destra: Mnemosyne, scultura in legno di Chad 16 Cfr. Whitney Chadwick, “Masson’s Gradiva: The Metamorphosis of a Surrealist Myth”, in The Art Bulletin vol. 52, n. 4 (dicembre 1970); pp. 415-422. Il titolo completo del quadro è proprio Metamorfosi di Gradiva. Riferimenti alla Gradiva si trovano anche presso André Breton e Paul Éluard. Ma è pur vero che vi furono altre cosiddette “Muse del Surrealismo”, e queste in carne e ossa, da non confondersi col personaggio di Jensen analizzato da Freud. A quest’ultimo, si sono invece interessati critici, studiosi e pensatori della seconda metà del ’900, quali Roland Barthes, Jean Bellemin-Noël e Jacques Derrida. 17 Altro titolo di un noto trattato di Freud del 1927. La strana posa della Gradiva di Masson è attendibilmente in parte ispirata alle varie Arianne dormienti dell’arte antica, ma anche ai calchi in gesso delle vittime di Pompei ricavati dagli archeologi: ancor più che delle persone, in particolare a quello non meno impressionante del cosiddetto “cane della Casa di Orfeo”. Alcuni particolari del quadro rimandano direttamente alla novella di Jensen più che all’analisi di Freud, ma il sesso della Gradiva trasformato in conchiglia è da ritenersi invenzione dell’artista, bollato come “degenerato” dagli occupanti nazisti e costretto a fuggire dalla Francia nel 1941. 11 Awalt; cfr. sito Web http://www.chadawalt.com/pics/display/2377_Mnemosyne-Lind.html. In entrambi i casi gli occhi chiusi, ferite alla testa o lacune nel corpo, stanno a segnalare l’incompletezza della memoria e le offese a volte arrecate dai ricordi invano rimossi L’Angelus Novus di Klee e Benjamin Come per la Gradiva di Jensen e di Freud e dei Surrealisti, anche in questo caso l’immagine originaria è poco più di un pretesto che letteratura o arte e pensiero rielaborano, fino a farne una figura allegorica. Stavolta però non si tratta di una immagine archeologica ellenistica, bensì di una produzione della pittura allora contemporanea, che ha i suoi antecedenti nella narrazione biblica e nell’arte sacra a essa ispirata. Durante la seconda guerra mondiale e poco prima di perire mentre fuggiva dalla persecuzione nazi-fascista, scrive nel 1940 Walter Benjamin in un passo della sua nona Tesi di filosofia della storia: “C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, e le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine cresce davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”. 18 Il riferimento di Benjamin è a un acquerello di Paul Klee datato 1920, da lui acquistato a Monaco nel ’21 e tenuto con sé fino al momento del forzoso suicidio. Oggi esso è esposto all’Israel Museum di Gerusalemme. Tra le fonti ispiratrici, ci sono pure pochi versi dell’amico Gerhard Scholem, Il saluto dell’angelo, che Benjamin riporta in esergo al suo scritto del 1940: “La mia ala è pronta al volo,/ ritorno volentieri indietro,/ poiché, restassi pur tempo vitale,/ avrei poca fortuna”. Ed è Benjamin stesso, in un appunto narrativo del 1933 intitolato Agesilaus Santander, anagramma di Der Angelus Satanas, ad associare l’Angelus Novus a una singolare leggenda cabalistico-talmudica.19 La trasposizione concettuale del disegno di Klee è pertanto frutto di una lunga rielaborazione con una componente inconscia, similmente a quanto riferito da Dalí in Il mito tragico dell’Angelus di Millet, riguardo alla sua trasfigurazione dell’Angelus di Jean-François Millet, specialmente nel dipinto Reminiscenza archeologica dell’Angelus di Millet. Con una differenza: nel suo caso, il pittore surrealista sostenne essersi trattato di una illuminazione improvvisa, completa e dettagliata, quasi il risultato di una sintesi a priori a livello onirico. L’immediatezza era uno dei principi base della poetica surrealista, e la pretesa folgorazione di Salvador Dalí è probabilmente iperbolica. Fra questa e la realizzazione dell’opera in questione passarono peraltro più di un anno, e alcuni tentativi o sostanziali varianti. Ancor più che la genesi di una figura simbolica “forte”, di un moderno archetipo 18 W. Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, op. cit.; p. 80. 19 W. Benjamin, Opere complete, vol. V, trad. it. a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino 2003; pp. 500-503. Gershom G. Scholem dedicherà all’amico tragicamente scomparso un libro intitolato Walter Benjamin e il suo angelo, trad. it. di M. T. Mandalari, Adelphi, Milano 1978 (or. Walter Benjamin und sein Engel, 1972; vi si trova pure tradotto il racconto Agesilaus Santander). 12 culturale capace di interagire con la storia del pensiero, interessa la sua effettiva portata, quanto di complesso essa vuole rappresentare o viene a significare. Nel caso dell’Angelus Novus di Benjamin, non sarà sfuggita all’attenzione la sua natura composita biblicoevangelica, con riferimenti sia alla religiosità e all’immaginario ebraici sia a quelli cristiani dai primi in buona misura derivati. Il carattere comune più rilevante è il ruolo annunciante e messianico dell’angelo. Ma quello disilluso di Klee, quale interpretato da Benjamin, non ha più nulla di progressivo – o di rivoluzionario – da annunciare e assume quindi una funzione apocalittica, nella migliore delle ipotesi epifanica e catartica, pure essa ereditata dalla tradizione ebraico-cristiana. Inoltre, si noterà un’apparente consonanza col “pensiero volto all’indietro” di Heidegger qui sopra citato, paradossale tanto più quanto questo essere volti all’indietro mantiene per il reazionario Heidegger un senso positivo a oltranza. In realtà, il tratto negativo dell’Angelus Novus non è tanto il suo essere volto indietro, quanto il suo volgere le spalle al futuro, il suo dover sconfessare “il progresso” quale equivocato dalla modernità, fino a sentirsi corresponsabile dello stravolgimento del suo stesso annuncio. In altri termini e almeno in parte, in un tale angelo ribelle, caduto e perciò “satanico”, è da intravedere Benjamin stesso, in quanto pensatore progressista che finisce con l’essere vittima inerme di un congegno storico impazzito, in cui egli aveva riposto più di qualche illuministica fiducia e romantica speranza. Né era egli davvero un certo tipo di intellettuale, cui il progressismo impedisse di tenere in alta considerazione il passato culturale palese o recondito, quale fondamento del presente e dell’avvenire. Valga in merito questo giudizio, riferito a Benjamin da Hannah Arendt, con lui imparentata: “Come un pescatore di perle che si cala sul fondo del mare [...] per liberare quel che in esso c’è di ricco ed inconsueto, le perle e il corallo degli abissi, e ricondurlo in superficie, questo pensiero scava nei recessi del passato, ma non allo scopo di resuscitarlo a ciò che era e di contribuire al rinnovamento di epoche estinte. Ciò che guida questo pensiero è la convinzione che, benché i viventi siano soggetti alla rovina del tempo, il processo di decadimento è contemporaneamente un processo di cristallizzazione; che sul fondo degli abissi, ove affonda e si dissolve ciò che un tempo era vivo, certe cose subiscono un ʻsortilegio del mare’ e sopravvivono in nuove forme cristallizzate immuni agli elementi, come se aspettassero solo il pescatore di perle che un giorno scenderà da loro per ricondurle al mondo dei vivi – quali ʻframmenti di pensiero’, cose ʻricche e strane’ e forse, addirittura, eterni Urphänomene”.20 Che cosa era dunque accaduto, perché venisse meno in Benjamin non solo la fiducia nel presente, ma anche la speranza nel futuro e l’interesse per un passato che fungesse da memoria fondante per un avvenire migliore? Abbiamo per cenni, e parzialmente, cercato di storicizzare le cause. Nel saggio L’angelo malinconico, “capitolo” del libro L’uomo senza contenuto, è Giorgio Agamben a illustrare gli effetti, in maniera il meno individuale e contingente possibile: “La cultura accumulata ha perso il suo significato vivente e incombe sull’uomo come una minaccia in cui egli non può in alcun modo riconoscersi. Sospeso nel vuoto fra vecchio e nuovo, passato e futuro, l’uomo è gettato nel tempo come in qualcosa di estraneo che incessantemente gli sfugge e tuttavia lo trascina in avanti senza che egli possa mai trovare in esso il proprio punto di consistenza. In una delle Tesi sulla filosofia della Storia, Benjamin ha descritto in un’immagine particolarmente felice questa situazione dell’uomo che ha smarrito il legame col proprio passato e non riesce a ritrovare se stesso 20 H. Arendt, Il pescatore di perle. Walter Benjamin 1892-1940, trad. it. di A. Carosso, A. Mondadori, Milano 1993; pp. 91-92 (or. Walter Benjamin: 1892-1940, 1968; in tedesco, Urphänomene è espressione estetica goethiana, che sta per puri “fenomeni originari”). 13 nella storia...”21 Quest’immagine è l’Angelus Novus, che Agamben interpreta non tanto quale “angelo della storia” quanto “dell’arte”. Inutile aggiungere che, calato in quel frangente storico, egli era comunque in grado di garantire una ben magra redenzione. 5 – S. Dalí, Reminiscenza archeologica dell’Angelus di Millet, particolare, 1933-35, Salvador Dalí Museum, St. Petersburg, Florida La Madonna di Raffaello e di Bloch Salvo possibili smentite, degli autori qui citati Walter Benjamin resta l’unico presso cui compaiono sia l’archetipo ellenico di Mnemosine sia l’epifania giudaico-cristiana dell’Angelus, rispettivamente in Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov del 1936 e nelle cosiddette Tesi sulla filosofia della Storia del 1940. Comparse a non grande distanza di tempo l’una dall’altra, entrambe le figure hanno a che fare con la trasmissione dei ricordi nella memoria collettiva, ma sembrano potersi disporre in maniera diacronica. Come la prima presiedette alla “dissoluzione dell’epos”, così il secondo annuncerebbe una fine della Storia, almeno quale concepita dalla modernità. Cambiano le modalità di rappresentare i ricordi. La pretesa di tramandarli come saperi acquisiti alla coscienza da 21 G. Agamben, L’uomo senza contenuto, Quodlibet, Macerata 1994; p. 163. Più formalmente freudiana, sebbene in maniera trasversale e occasionale, è l’interpretazione dell’Angelus Novus di Klee e di Benjamin data da Slavoj Žižek, in La violenza invisibile (trad. it. di C. Capararo e A. Zucchetti, Rizzoli, Milano 2007), in un capitolo ironicamente dedicato alla “violenza divina”. 14 parte della storiografia politica, in una logica se non hegelianamente razionale “catena di eventi”, non è più criticamente sostenibile né eticamente accettabile. Soprattutto a seguito della supposizione di un’attività storica dell’inconscio, nessun fine appare ormai in grado di giustificare i mezzi impiegati per raggiungerlo, cavalli di battaglia di tutti i totalitarismi. Per il bene o per il male, a livello individuale o di massa, istinti e pulsioni irrazionali possono concorrere inconsapevolmente al divenire storico. Questa constatazione non sempre era stata e sarà accompagnata da una percezione prevalentemente negativa. In particolare la concezione dell’inconscio di Ernst Bloch, da Spirito dell’utopia a Il principio speranza, le sue opere filosofiche maggiori, si manterrà malgrado tutto improntata a un messianico e laico ottimismo, che va sotto la paradossale definizione “memoria del futuro”. Per il discusso pensatore del ’900, nell’inconscio umano una naturale virtù prefiguratrice può dar luogo a una coscienza anticipante, la quale spazi dalla sfera estetica a quelle della cultura e della politica, ma è soggetta a frequenti repressioni, restrizioni e fraintendimenti. Popolare è la metafora adottata in Contestuale allo “Spirito dell’utopia”, intervista rilasciata nel 1974: “Ai piedi del faro non c’è luce” ma una zona d’ombra dove possono approdare nuovissimi messaggi, mentre il nostro sguardo in attesa è concentrato sull’orizzonte illuminato. “Il sogno diurno”, aggiunge Bloch, chiamando in causa i sogni a occhi aperti, “non è il preludio del sogno notturno, come dice Freud, ma si riferisce a una regione tutta particolare: non al ʻNon-più’ come l’inconscio di Freud, ma al Non-ancora, che tuttavia ha anche un essere; posso infatti parlare di un Non-essere-ancora”. 22 La critica all’inconscio secondo Freud è contenuta specialmente nei capitoli di Spirito dell’utopia intitolati “Il non-più-conscio” e “Il sapere non ancora conscio e lo stupore più profondo”, a parere di chi qui scrive due tra i brani più densi della speculazione filosofica del secolo scorso. Il taglio qui divulgativo non consente che di citare il passo più retorico e vagamente nietzscheano, ma efficace, dell’argomentazione di Bloch: “Quanto la vita ci promise, vogliamo innalzarlo alla vita: ed è assolutamente impossibile che questo ʻinconscio’ del tutto diverso, questa vita diretta verso l’avanti, questo sperare, questo presentire, questo tendere dal tenebroso al luminoso, quest’essenza non ancora cosciente, si riducano all’ʻinconscio’ del lato opposto situato nell’eccelso paesaggio lunare di ciò che è stato, dove il sogno normale o ctonico e i suoi contenuti ci circondano formando un morto anello creaturale e meccanico in cui dominano il passato e il mito del destino”. 23 Ulteriore paradosso possibile, il Freud di Il delirio e i sogni nella “Gradiva” di Wilhelm Jensen avrebbe forse in parte condiviso e sottoscritto quest’accorata critica al proprio pensiero. Per lo più quello di Bloch è un inconscio filosofico, là dove quello freudiano rimane psicologico, tutt’al più “meta-psicologico” per dirla con Freud stesso. Ma è pur vero che il primo è maggiormente orientato al futuro sociale, mentre il secondo al passato individuale. Quelli che per Freud restano latenti ricordi, per Bloch sono soprattutto presentimenti, aspettative o apprensioni. Nonostante che Bloch sembri negarne il valore, trascinato dalla polemica, il momento dell’anamnesi o reminiscenza permane importante, sebbene ne muti il senso ed essa recuperi – ennesimo e complesso paradosso – qualche suggestione platonica. C’è poi un concetto blochiano, in Spirito dell’utopia solo accennato per la verità, che avvicina la percezione dell’inconscio di Bloch a quella del grande dissidente della psicoanalisi Carl G. Jung, più ancora che a quella di Sigmund Freud. In tedesco, è il 22 E. Bloch, Spirito dell’utopia, trad. it. di V. Bertolino e F. Coppellotti dalla seconda stesura del 1923 (or. Geist der Utopie), Sansoni, Milano 2004; pp. XXVII e XXVI. 23 E. Bloch, ibidem, p. 246. 15 concetto di Ursymbolintetion, di una “possente intenzione simbolica originaria, assolutamente vicina e tuttavia profondamente interiore”. 24 Vale a dire, una predisposizione dell’inconscio a tradurre in simboli e immagini archetipiche le proprie intuizioni, ancor prima che esse indossino una veste consapevole, scadendo talora in sfalsanti stereotipi. 25 Non meraviglia che la critica d’arte, e della cultura in generale, assurge a un ruolo primario nel processo storico-interpretativo rivolto all’avvenire. Oltre che filosofica, la versione blochiana dell’inconscio, e conseguentemente della coscienza collettiva, è squisitamente culturale. Meglio che reminiscenza, essa richiede rimembranza, nel senso di reperire, integrare e ricomporre tracce e frammenti in una visione dinamica d’insieme, anche se questa si presuppone riflessa in ogni singolo frammento. Non a caso, nel panorama dell’arte a lui contemporanea il filosofo predilesse Espressionismo e Surrealismo. Nel suo Studio su Ernst Bloch, Micaela Latini commenta e spiega tale preferenza: “Al centro del surrealismo è quell’universo onirico che Bloch guarda con estremo interesse, proprio in ragione della sua stretta connessione con il principio della necessità interiore, che qui è soprattutto la sfera pulsionale. Rispetto allo stato di veglia, il ʻsogno ad occhi aperti’ attinge al serbatoio dell’immaginario. [...] Il movimento surrealista utilizza dei procedimenti capaci di sollecitare le ardite impalcature dell’immaginazione, e far emergere connessioni simboliche inaspettate. [...] Ciò che grazie a queste tecniche affiora in superficie è il contenuto sedimentato dell’inconscio, immagini utopiche in continua elaborazione”. 26 Magari ci si aspetterebbe una predilezione artistico-figurativa di Bloch per Gradiva, la “Musa del Surrealismo”, o per l’Angelus di Dalí e l’Angelus Novus di Klee, al limite per Mnemosine quale immaginata e ritratta dal preraffaellita Dante G. Rossetti nel 1876. Niente di tutto questo. Una figura ricorrente negli scritti di Bloch è quella rinascimentale della Madonna Sistina, dipinta da Raffaello Sanzio nel 1513-14 circa e ospitata nella Gemäldegalerie di Dresda.27 Un precedente di tale singolare affezione mariana del 24 E. Bloch, ibidem, p. 250. 25 Cfr. Sandro Mancini, L’orizzonte del senso. Verità e mondo in Bloch, Merleau-Ponty, Paci, Mimesis, Milano 2005, p. 49; e Micaela Latini, “Le tracce dell’utopia: archetipi, allegorie, simboli”, in Il possibile e il marginale. Studio su Ernst Bloch, Mimesis 2005, pp. 175-77 (dove il pensiero blochiano è altresì accostato a quello di amici o colleghi, quali W. Benjamin e T. W. Adorno). Per un confronto tra le concezioni della memoria in Bloch e Benjamin, entrambe recepite quali diversamente anticipatrici, si legga invece Remo Bodei, “Le malattie della tradizione. Dimensioni e paradossi del tempo in Walter Benjamin”, in Walter Benjamin: tempo, storia, linguaggio, Editori Riuniti, Roma 1982; pp. 211-234. Sulla portata “futuribile” degli archetipi, da non perdersi è infine l’eccentrico “Mito e archetipo nella fantascienza”, in Ursula K. Le Guin, Il linguaggio della notte, trad. it. di A. Scacchi, Editori Riuniti 1986; pp. 64-72. 26 M. Latini, ibidem, p. 140. 27 Cfr. M. Latini, “La Madonna del Paradosso utopico. Appunti sparsi di Ernst Bloch sulla Sistina”, in Studi di estetica n. 37, 2008, pp. 75-80. Per inciso, la stessa opera di Raffaello compare nel noto caso di una paziente di Freud, la quale “davanti alla Sistina era rimasta due ore in estatica ammirazione. Quando le domandai che cosa le fosse tanto piaciuto in quel quadro, dapprima non seppe dirmi nulla di preciso, alla fine rispose: ʻLa Madonnaʼ” (da Frammento di un’analisi di isteria (caso clinico di Dora), 1905; in Opere, cit., vol. IV). Si legga anche una singolare – a dir poco – lettera alla futura moglie Martha Bernays, del 20/12/1883, in cui Freud stesso aveva manifestato la sua quasi “estatica ammirazione” per il capolavoro di Raffaello. Né questʼultimo mancherà di attirare en passant lʼattenzione di W. Benjamin, e specialmente di M. Heidegger: si veda Über die Sixtina (“Sulla Madonna Sistina”), in Aus der Erfahrung des Denkens 1910-1976, vol. XIII della Gesamtausgabe, Klostermann, Francoforte sul Meno 1983; pp. 119-21. 16 pensatore, ebreo e ateo dichiarato, è già in Spirito dell’utopia, dove egli cita una “sottile cristianissima intuizione di [Meister] Eckhart: ʻCiò che il cielo dei cieli non circoscrisse, ora riposa nel grembo di Maria’”.28 Nella tela di Raffaello quanto colpisce il filosofo, oltre che il critico d’arte, è la profondità spaziale e la proiezione scenica, l’illusione prospettica che “la Madonna sale mentre sta scendendo e scende mentre sta ascendendo; il suo spazio è quello di chi è rapito, ma anche quello di chi ritorna a casa”. 29 Heimlich e unheimlich, familiare e spaesante o perturbante a un tempo, direbbero sia Freud sia Heidegger, benché da punti di vista diversi (in tedesco heim, “casa”, ha il senso dell’inglese home). Forse, ciò che turbava e commuoveva Bloch è come la piccola visionaria annunziata da un angelo avesse potuto diventare un’icona del sacro, più che un simbolo dell’inconscio o archetipo della psiche, spiazzando ed eclissando le grandi dee dell’antichità a cominciare dalla stessa Mnemosine. 6 – Paul Klee, Angelus Novus, 1920, Israel Museum, Gerusalemme Reminiscenza e annunciazione In Differenza e ripetizione, Gilles Deleuze metteva in risalto “tutta l’ambiguità di Mnemosine, la quale appunto, dall’alto del suo passato puro, sovrasta e domina il mondo della rappresentazione: è fondamento, in-sé, noumeno, Idea, ma resta ancora relativa alla 28 E. Bloch, Spirito dell’utopia, op. cit., p. 254. 29 E. Bloch, Il principio speranza, trad. it. di E. De Angelis e T. Cavallo a cura di R. Bodei, Garzanti, Milano 1994, 3 voll. (or. Das Prinzip Hoffnung, 1938-47); p. 967. 17 rappresentazione che fonda”. Il problema generale affrontato da Deleuze era “sotto quale forma la reminiscenza introduca il tempo”, ossia la nostra percezione e nozione di esso. 30 Più modestamente e dato che non possiamo basarci se non su rappresentazioni, qui e ora noi proviamo a mettere un ordine significante tra le figure o immagini che abbiamo su descritto in sequenza provvisoria, ovvero a ricapitolarne le interpretazioni che abbiamo letto, e a ricomporle in una plausibile visione d’insieme. Prima di tentare ciò, selezioniamo nella storia dell’arte un’ultima coppia di rappresentazioni-raffigurazioni. Si tratta di un quadro famoso e di una sua parziale replica: Persistenza della memoria – anche detto “Gli orologi molli” – e Disintegrazione della persistenza della memoria, surreali paesaggi dipinti entrambi da Salvador Dalí rispettivamente nel 1931 e nel 1952-54, conservati al Museum of Modern Art di New York e nel Salvador Dalí Museum a St. Petersburg in Florida. Alcuni quadri di Dalí possono apparire illustrazioni dei lunghi titoli loro assegnati, anziché viceversa. Persistenza della memoria implica una critica del tempo inteso in mero senso cronologico, oltre a comprendere una “natura morta” allegorica della memoria stessa, la quale attinge i suoi ricordi a un altro tempo che è quello dell’inconscio personale. La più tarda Disintegrazione della persistenza della memoria meglio mantiene ciò che il titolo promette, in un duplice senso: di obliterazione dell’opera precedente, da parte di un autore prolifico che ormai cita e imita egregiamente se stesso; di desolata panoramica di un oblio nullificante, che minaccia non solo la memoria consapevole ma perfino l’inconscio che essa sottende. Abbiamo già visto nel mito greco di Mnemosine tale timore rappresentato con la fonte del Lete, e lo stagno che compare sullo sfondo del dipinto di Dalí è probabilmente da ricollegarsi a questo particolare mitico. Abbiamo pure letto evocato, nelle Confessioni di Sant’Agostino, lo spettro di un oblio capace di “inghiottire o seppellire” i ricordi. È vero, nel mito di Mnemosine era affabulato anche un “lago di Mnemosine”, cui affluiva un’acqua della rimembranza, ma questa era riservata agli iniziati misterici una volta defunti. Colei che nel ’900 impersonerà la sottrazione a tale minaccia e timore è la Gradiva di Jensen e di Freud. Modellata su un’antica scultura romana nonché sulle istanze terapeutiche della giovane psicoanalisi, ovviamente ella prometteva la liberazione non dal timore dell’oblio in un aldilà, ma dalle minacce distruttive insite nell’inconscio su questa terra. Tuttavia, le circostanze storiche hanno presto corroso pure questo mito moderno. Nella Gradiva ritratta dal surrealista Masson, il particolare della porta aperta sullo sfondo, attraverso cui si scorge l’eruzione vulcanica che distrusse l’antica città di Pompei, rimanda a ben più recenti e meno naturali catastrofi. A maggior ragione, l’Angelus Novus di Klee e soprattutto di Benjamin riflette la stessa drammatica situazione. Ma esso rientra in un ordine di simboli diverso, radicato in una tradizione messianica di origine religiosa, che investe di sé la concezione della memoria storica e la percezione dell’inconscio collettivo. In qualche modo, questi fattori emotivi e culturali hanno orientato la reminiscenza del passato non meno di un “effetto erotico della memoria”, sostenuto da Deleuze sulla scorta di Freud. 31 Da sempre, la paura di una perdita della memoria entra in contrasto con l’istinto di auto-conservazione, e tale tensione concorre alla coesione di un’identità individuale o collettiva.32 Se la reminiscenza è sufficiente a giustificare l’idea che si ha della memoria, meno lo è per farsene una dell’inconscio, che può anche coincidere con la dimenticanza o la 30 G. Deleuze, Differenza e ripetizione, op. cit.; p. 118. 31 G. Deleuze, ibidem, pp. 118 e 114. Notoriamente, l’autore prenderà radicalmente le distanze dalla psicoanalisi di ascendenza freudiana a partire da L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, redatto nei primi anni Settanta del ’900 insieme a Félix Guattari. 18 rimozione ma contiene qualcosa di più dei semplici ricordi. È un po’ come per il distopico Angelus Novus di Benjamin, con lo sguardo rivolto al passato e le ali impigliate nel futuro. O, meglio ancora, come per la Madonna Sistina vista da Bloch. Ella scende terrenamente verso il basso ma ascende pure verso l’alto, nell’illusione ottico-pittorica di una trionfale oscillazione, mentre reca in braccio “ciò che il cielo dei cieli non circoscrisse”. Se si rammenta che questo ciò, nel racconto evangelico, era l’oggetto principale dell’annuncio dell’angelo a Maria, ci si renderà meglio conto di come la percezione dell’inconscio in Bloch oscilli tra reminiscenza e annunciazione, ma è sbilanciata verso quest’ultima. E quest’ultima è quanto Ernst Bloch chiama “l’originario spirito messianico nella nostra più vera profondità”, che viene pertanto a costituire il fondamento di ogni Spirito dell’utopia.33 Non si può fare a meno di notare che in nuce questa percezione, se si discosta dalla concezione freudiana, somiglia abbastanza a quella di Jung dopo la sua rottura con Freud, di un subconscio non “formato soltanto da materiale rimosso e represso”: “L’inconscio racchiude in sé anche le oscure fonti dell’istinto e dell’intuizione. Contiene tutte quelle forze che la semplice ragionevolezza, il decoro e il corso ordinato della vita borghese mai avrebbero potuto ridestare, tutte quelle energie creative che portano l’uomo in alto verso nuovi sviluppi, nuove forme, nuove mete”. Né sembra fortuito che Jung affronti tale questione, partendo da una riflessione sui simboli nell’arte e sullʼattività simbolica dellʼinconscio: “Lʼartista deve possedere il segreto della via di mezzo. Ma la mia esperienza personale mi ha condotto a dubitarne. Sono dell’avviso che l’unione della verità razionale e di quella irrazionale si deve trovare non tanto nell’arte quanto nel ʻsimboloʼ in sé. Infatti è lʼessenza del simbolo che contiene sia il razionale che lʼirrazionale. Il simbolo sempre esprime lʼuno attraverso lʼaltro e li comprende entrambi senza essere né lʼuno né lʼaltro”. 34 In effetti, ad esempio la Madonna Sistina interpretata da Bloch può ricordare la 32 Ciò vale un po’ meno per i soggetti collettivi, qualora invasioni e occupazioni, conversioni religiose o rivoluzioni politiche comportino un disconoscimento del proprio passato, con conseguenti cesure nella storia identitaria: quasi una dissociazione diacronica della personalità collettiva; si tratta pur sempre di eventi eccezionali, non del tutto irrevocabili in seguito. Più preoccupante quando, per indifferenza e disimpegno o riflusso nel privato, il presente stesso diventi immemoriale “lacuna tra passato e futuro” (H. Arendt, in Tra passato e futuro, 1954-61). Proprio lì e allora possono scattare “trappole identitarie”, a rischio di un identitario squilibrio. 33 E. Bloch, Spirito dell’utopia, op. cit.; p. 246: nasce la teoria blochiana di un “surplus di utopia”, che ha radici inconsce ma si sviluppa in campo artistico, culturale e politico. Cfr. Athanasios Marvakis, “The Utopian Surplus in Human Agency: Using Ernst Blochʼs Philosophy for Psychology”, in Vasi van Daventer e altri (a cura di), Citizen City: Between Constructing Agent and Constructed Agency, Captus Press, Concord, California 2007; pp. 278-88. Sia pure basati sull’esperienza psico-terapeutica, né il concetto freudiano di “sublimazione” né quello junghiano di “compensazione” paiono d’altronde adeguati a spiegare una tale eccedenza di senso. 34 C. G. Jung, L’inconscio, in La psicologia dell’inconscio, trad. di C. Balducci, Newton Compton, Roma 1997 (or. Über das Unbewusste, 1918); pp. 150-51. Introducendo i Collected Papers on Analytical Psychology, già nel 1916 Jung aveva sostenuto un principio finalistico nella psiche: “La finalità psichica si fonda su un senso ʻpreesistenteʼ che diventa problematico solo in seguito, quando si tratta di un arrangiamento inconscio. In questo caso infatti bisogna supporre una specie di ʻsapereʼ anteriore ad ogni coscienza” (citato dall’autore nel 1952 in La sincronicità, trad. it. di S. Daniele, Bollati Boringhieri, Torino 2000; p. 34, nota 32). Posta in tali termini, per la verità, specialmente la percezione di un inconscio collettivo finisce per somigliare a quella di una “grande memoria” naturale che si esprima tramite simboli: concezione, questʼultima, abbozzata dal poeta W. B. Yeats nel saggio “Magic” della raccolta Ideas of Good and Evil, edita nel 1903. 19 “Shekhinà, autentica gloria di Dio”35 allegorizzata dai cabalisti ebrei, non meno del capolavoro di Raffaello o della Maria di Meister Eckhart. Ciononostante o forse proprio per questo, lʼarte mantiene un compito mediatore privilegiato nel ripescare o enucleare le rappresentazioni dalla memoria e dallʼinconscio, proiettandole sullʼinterfaccia della cultura. Con qualche cognizione di causa in più, possiamo infine tornare a considerare lʼAngelus di Millet, e la sua trasfigurazione di Dalí in Reminiscenza archeologica dell’Angelus di Millet. In entrambi i dipinti, traspare lo schema compositivo di tante Annunciazioni della tradizione pittorica. Nelle figure del contadino e della contadina, sono rispettivamente adombrati lʼangelo e Maria. I personaggi ritratti da Millet sono assorti nell’orazione serale detta dell’Angelus, poiché essa riecheggia lʼannuncio evangelico alla Madonna. 36 Nella versione di Millet, il fascino altrimenti poco spiegabile esercitato da questa composita immagine sta appunto nel suo coniugare reminiscenza e annunciazione, al termine di una dura giornata di lavoro nei campi, in un contesto che non è più sacro in senso stretto ma vagamente sociale. Nellʼopera di Dalí, la scena diventa piuttosto metafora onirica dell’inconscio, là dove la reminiscenza si muta in nostalgia del sacro e l’annunciazione in incertezza del futuro. 35 E. Bloch, Spirito dell’utopia, op. cit.; p. 359. Per quanto concerne la figura della Madonna, riferendosi alla sua presenza nella Divina Commedia di Dante Alighieri, è di nuovo Jung a commentare “la mistica figura della Madre di Dio, una figura che, essendosi liberata dall’oggetto [che la ha suscitata], è diventata la personificazione di uno stato puramente psicologico, cioè la personificazione dell’inconscio, che io definisco anima” (in Tipi psicologici, trad it. di S. Bonarelli da Psychologische Typen [1921], Newton Compton, Roma 2004; pp. 179-80). Il concetto verrà generalizzato da Jung in Die Psychologie der Übertragung (“La psicologia del Transfert”, 1946). Va da sé, gli archetipi junghiani di Animus e Anima sono entrambi adombrati nelle scene raffiguranti l’Annunciazione, dove l’angelo sta per il primo e Maria per la seconda. 36 Variante a due voci dell’Ave Maria, che inizia con Angelus Domini nuntiavit Mariae (“L’angelo del Signore portò l’annuncio a Maria”) e contiene fra l’altro l’invocazione Gratiam tuam quaesumus, Domine, mentibus nostris infunde (“Ti preghiamo, Signore, di infondere la tua grazia nelle nostre menti”). L’allusione alle menti umane si può anche leggere come desiderio di far affiorare alla coscienza la parte migliore, se non necessariamente progressiva, dell’inconscio. 20 7 – Raffaello Sanzio, Madonna Sistina, particolare, ca. 1513-14, Gemäldegalerie, Dresda Telesforo, o il piccolo sé In appendice, vale la pena di soffermarci su una figura mediatrice fra coscienza e inconscio almeno apparentemente minore, per la verità piuttosto sincretica e insieme tipicamente junghiana. Lʼimmagine venne scolpita in rilievo dallo psicologo svizzero nel 1950 – in età avanzata – al centro di una sorta di mandala, su una pietra squadrata tuttora nel giardino della sua residenza di Bollingen in Svizzera. Nelle sue memorie, edite postume nel 1962 a cura di Aniela Jaffé e intitolate Erinnerungen, Träume, Gedanken, (“Ricordi, sogni, riflessioni”), lo stesso Jung dichiarava in proposito: “Cominciai a vedere sul lato frontale, nella struttura naturale della pietra, un piccolo cerchio, quasi un occhio che mi fissava. Allora incisi lo stesso, con al centro la figura di un homunculus. Ciò corrisponde alla pupilla che si può scorgere in occhi altrui, e a una specie di Cabiro, o al Telesforo di Asclepio. Antiche statue lo mostrano vestito di un mantello con cappuccio e mentre porta una lanterna. Allo stesso tempo, egli è un indicatore della via. Gli dedicai poche parole, che mi vennero in mente mentre stavo lavorando. L’iscrizione è in greco, e questa è la traduzione: ʻIl tempo è un fanciullo, che gioca a muovere pedine su un tavoliere; di un fanciullo è il regno. Questi è Telesforo, che vaga attraverso le oscure regioni del cosmo e brilla come una stella dalle sue profondità. Egli indica la via verso le porte del sole e il paese dei sogniʼ”.37 37 C. G. Jung, Erinnerungen, Träume, Gedanken von C. G. Jung. Aufgezeichnet und herausgegeben von Aniela Jaffé, Walter Verlag, Zurigo e Düsseldorf 1984; p. 231. La scritta 21 Per mettere meglio a fuoco lʼoggetto di un’attenzione qui iconologica, conviene spogliarlo di speculazioni ermetiche, astrologiche o alchemiche, e perfino di interpretazioni psicoanalitiche “ortodosse” ma che possono indurre qualche confusione. Chi è il misterioso personaggio, cui lʼestemporaneo scultore allude? Più che di uno dei Cabiri, altra antica deità greca plurale con cui il nostro può presentare qualche analogia 38, si tratta in prima istanza di Aiōn (proprio nel 1951, Jung pubblicò il libro intitolato Aion. Ricerche sul simbolismo del sé). In particolare, si tratta della prima rappresentazione – verbale – che di quel dio del tempo ci è giunta, in un frammento del poema Sulla Natura composto nel VI-V secolo a. C. dal Eraclito di Efeso: Αἰὼν παῖς ἐστι παίζων πεσσεύων· παιδὸς ἡ βασιληίη (DK B52). La versione adottata da Jung è in pratica quasi identica: Ὁ Αἰὼν παῖς ἐστι παίζων, πεττεύων· παιδὸς ἡ βασιληίη. E la traduzione può variare, ma di poco: “Eternità [Aiōn] è un fanciullo, che gioca a muovere pedine su un tavoliere; di un fanciullo è il regno”. Più che alla Dama o agli Scacchi, probabilmente tale gioco somigliava al Backgammon o Tavola Reale. Al calcolo delle mosse delle pedine, si alternava l’alea di lanci di dadi. In un’attendibile sfida col chronos, in quanto tempo mortale, il vitale ed eterno giocatore così dosava causalità e casualità. Comunque, nella traduzione si riconoscerà la prima parte dell’iscrizione di Jung. Nella seconda parte, viene però a sovrapporsi il personaggio di Telesforo: in greco Τελεσφόρος/Telesphoros, “colui che porta a compimento” o “conduce a buon fine”. Circa la mitica identità di quest’ultimo, è di nuovo Jung a informarci sommariamente, in un altro passo delle sue memorie: Das Männchen war ein kleiner verhüllter Gott der Antike, ein Telesphoros, der auf manchen alten Darstellungen bei Aesculap steht und ihm aus einer Buchrolle vorliest (“La figurina maschile era un piccolo dio incappucciato dell’antichità: un Telesforo, quale nei monumenti a Esculapio sta accanto a lui e gli legge da un volume srotolato”).39 A conoscenza di chi qui scrive, sussistono più sculture del dio della medicina Esculapio/Asclepio, accompagnato da Telesforo incappucciato, quasi un suo assistente e anche figlio, ma una sola corrisponde alla descrizione di Jung. In realtà, essa è un dittico romano in avorio eseguito nel 400-410 d. C., oggi nel Museo di Merseyside a Liverpool. In uno dei pannelli è incisa appunto la figura di Esculapio insieme al piccolo Telesforo, in piedi al suo fianco mentre legge un rotolo di pergamena o papiro. Il secondo pannello rappresenta invece Igea, altra figlia di Esculapio, in compagnia di un Cupido bambino. originale completa, cui lʼautore si riferisce, è: Ὁ Αἰὼν παῖς ἐστι παίζων, πεττεύων· παιδὸς ἡ βασιληίη· Τελεσφόρος διελαύνων τοὺς σκοτεινοὺς τοῦ κόσμου τόπους, καὶ ὡς ἀστὴρ ἀναλάμπων ἐκ τοῦ βάθους, ὁδηγεῖ παρ' Ἠελίοιο πύλας καὶ δῆμον Ὀνείρων. 38 Un interesse per i Cabiri si trova già in Wandlungen und Symbole der Libido, op. cit. Nella trad. it. di I. Majore, La libido, simboli e trasformazioni (Newton Compton, Roma 1993), si vedano le pp. 108-113. Ivi Jung stabilisce un ardito parallelo col “piccolo sé” della Śvetāśvatara Upaniṣad e della Kaṭha Upaniṣad, antichi testi in sanscrito della tradizione sapienziale indiana. 39 C. G. Jung, Erinnerungen, Träume, Gedanken..., op. cit.; p. 29 (cfr. la trad. it. di G. Russo, Ricordi, sogni, riflessioni. Raccolti ed editi da Aniela Jaffé, Rizzoli, Milano 1978 e 1998). Su Telesforo, si hanno più studi: Károly Kerényi, “Telesphoros. Zum Verständnis etruskischer, griechischer und keltisch-germanischen Dämonengestalten”, in Egyetemes Philologiai Kozlony, LVII, 1933, pp. 156-164; Waldemar Deonna, De Télesphore au “moine bourru”. Dieux, génies et démons encapuchonnés, Latomus, Bruxelles 1955; Warwick W. Wroth, Telesphoros (1882; ristampa), Kessinger Publishing Company, Whitefish, Montana 2010. Una prima interpretazione psicoanalitica, in senso freudiano, si trova in Internationale Zeitschrift für Psychoanalyse, XVI, 1930: Géza Róheim, “Zur Deutung der Zwergsagen”; pp. 95 e segg., in particolare 103-104. 22 Dato il contesto, è facile supporlo: benché qualche studioso lo abbia collegato con la telesphoria o iniziazione ai misteri, in questo caso ciò che legge Telesforo sono istruzioni terapeutiche anziché formule magiche. Effettivamente, ciò che egli era delegato a portare a termine è la cura delle malattie. A volte il genio con cappuccio appariva in sogno ai pazienti, quale preannuncio di un felice esito della convalescenza. Purtroppo, non sempre poteva essere così. Ecco allora che la personificazione di Telesforo assunse un senso alternativo, in parte antifrastico. Ce lo attestano ritrovamenti di sue statuette, in tali casi ritratto da solo e con atteggiamento pensoso, in ambienti funerari. 40 Etimologicamente coerente, egli diventa simbolo di una vita ben spesa e quindi condotta a buon fine, ma pure auspicio di un viaggio nell’aldilà, di cui questo dio in formato ridotto viene eletto a guida. Mentre Aiōn era custode di un ordine cosmico, in cui si equilibrassero necessità causale e accidentale casualità – se si preferisce, destino e libero arbitrio –, la metamorfosi pur sempre teleologica di Telesforo ne fa un garante di finalità nel caos del mondo. Si aggiunga una possibile interpretazione “ironica”, della morte in quanto estrema guarigione dai mali dell’esistenza. Proprio per questo motivo, nel Fedone platonico Socrate morente aveva raccomandato ai suoi discepoli di sacrificare un gallo ad Asclepio, genitore di Telesforo. Sta di fatto che anche il Telesforo raffigurato da Carl G. Jung, al centro della faccia pertinente della pietra di Bollingen, è isolato. Esso rientra nell’ultimo tipo cui si è accennato, molto somigliando alle statuette per lo più ritrovate in necropoli dell’area europea e mediterranea e risalenti ai primi secoli dell’era cristiana, evidentemente prese a modello. Fa eccezione il particolare della lanterna, pure mutuato da alcune statuette con frequente funzione funeraria, e tuttavia di un tipo abbastanza diverso, di epoca romana imperiale ma sicuramente derivate da esemplari ellenistici. È il genere del cosiddetto, in latino, lanternarius ovvero “portatore di lanterna”: uno schiavo bambino, di solito vestito di un mantello con cappuccio come un Telesforo, ma addetto a rischiarare la via davanti al suo padrone nottetempo, e ad aspettarlo in strada durante le sue visite in case altrui. Il piccolo servo è generalmente ritratto in solitaria attesa, seduto o rannicchiato e addormentato presso la sua lanterna. Va da sé, in un ambito funerario la scena compassionevole acquista ben altro significato. Questa volta, il padrone ha varcato la soglia tenebrosa della morte. Paradossale nemesi e inversione dei ruoli, una surreale speranza del defunto è che il dormiente, una volta destatosi, possa e voglia illuminargli la via “verso le porte del sole e il paese dei sogni”.41 Aiōn, Telesforo o servus lanternarius, nella sua iconica semplicità la figura concepita da Jung è di una pregnante complessità. Da un lato, essa rimanda all’archetipo del puer aeternus o “eterno fanciullo”.42 D’altro canto, specialmente in quanto Telesforo o “portatore di lanterna”, ha a che vedere con una tappa conclusiva del processo di individuazione nella 40 Fa eccezione una terracotta del I sec. a. C. circa, nel Museo di Stobi in Macedonia, proveniente da una necropoli locale (cfr. Hilde Rühfel, “Statuengruppe des Telesphoros mit Kind”, in Archäologischer Anzeiger, 1994; pp. 62-67). Telesforo vi tiene per mano un bambino, il che denota un nesso col mondo dell’infanzia, o richiama certi tratti infantili del personaggio. Tale associazione fu del resto rimarcata da Marino di Samaria nella biografia del neoplatonico Proclo, nel 485 d. C., in quello che è un raro accenno letterario antico alla figura del demone o semidio. 41 Quest’ultima frase, che chiude l’iscrizione di Jung a Bollingen, nell’originale παρ' Ἠελίοιο πύλας καὶ δῆμον Ὀνείρων, è ripresa da Omero. Nell’Odissea, XXIV 12, essa per la verità si riferisce al dio Hermes psicopompo, che guida le anime dei defunti nell’aldilà “per bui sentieri”. 42 Cfr. Ovidio, Metamorfosi, IV 17-18: tibi enim inconsumpta iuventa est,/ tu puer aeternus (“Incorruttibile è la tua gioventù,/ o eterno fanciullo”); qui il poeta latino si riferisce al dio Bacco/Dioniso, ma certi attributi espressi rendono l’assimilazione con Aiōn più che probabile. 23 psicologia del profondo, quella che precede il ritorno-dissoluzione dell’io – realizzato o meno che sia – a una presunta universalità del sé. Si obietterà che, delle figure su esaminate, questa è la più rivolta al passato, tutta composta com’è di ingredienti attinti alla memoria culturale archeologica. Eppure, l’inconscio cui essa punta – o, meglio, di cui è espressione – è prefigurazione di un ipotetico futuro al di là dei limiti dell’esistenza individuale, ammirevole sforzo di razionalizzazione e ricontestualizzazione delle istanze religiose di sopravvivenza delle anime (o di “resurrezione dei corpi”). Qui per l’ultima volta, piace citare Ernst Bloch in Spirito dell’utopia: “L’anima piange in noi e si strugge dal desiderio di andare oltre, pone Dio e il sogno; e dall’anima, e solo da essa, nasce ciò che respinge la tenebra della notte come Orfeo le ombre e ha per meta solo questa intimissima Euridice”. 43 8 – Statuette di Telesforo, con espressione sorridente o triste, secondo la funzione votiva e di buon augurio oppure funeraria: bronzetto, collezione privata; di lato, terracotta, Museo Ostiense, dalla Necropoli di Porta Romana, Ostia Antica. Immagini del primo tipo furono frequenti anche sulle monete dello stesso periodo: secc. II-III d. C. Altri saggi dello stesso autore, in italiano, agli indirizzi Web: http://www.scribd.com/doc/2078222/Tempo-spazio-e-narrazione http://www.scribd.com/doc/2181646/Il-Labirinto-e-il-Mandala http://www.scribd.com/doc/2257952/Sillogistica-figurata http://www.scribd.com/doc/2297024/I-cigni-e-la-luna-Archeologia-dellEssere http://www.scribd.com/doc/2531989/Nonostante-Raffaello-Altre-Annunciazioni http://www.scribd.com/doc/2533685/Zoom-su-Ernst-Bloch http://www.scribd.com/doc/3458860/Il-canto-delle-Sirene-o-le-voci-di-dentro http://www.scribd.com/doc/3461604/Alcesti-la-donna-che-visse-due-volte 43 E. Bloch, Spirito dell’utopia, op. cit.; pp. 208-209. 24 http://www.scribd.com/doc/38852748/Immagini-del-pensiero http://www.scribd.com/doc/43856778/Stupor-Mundi-la-meraviglia-filosofica http://www.scribd.com/doc/48276061/Orientalismo-stereotipi-e-archetipi http://www.scribd.com/doc/54208474/Cinque-ritratti-di-donne-a-Palermo http://www.scribd.com/doc/54997194/Locri-divinita-al-femminile http://www.scribd.com/doc/57710691/Morgantina-le-dee-ricomponibili http://www.scribd.com/doc/59895725/Antigone-e-la-Sfinge http://www.scribd.com/doc/64657971/L-Aquila-Madonne-rosoni-e-chiostri http://www.scribd.com/doc/75902652/Il-Se-attraverso-l-Altro-nel-pensiero-arabo http://www.scribd.com/doc/78041708/Archeologia-mariana http://www.scribd.com/doc/81697121/Malinconia-nell-arte-e-in-letteratura http://www.scribd.com/doc/104551299/Resurrezione-e-oltre http://www.scribd.com/doc/112007180/Allegorie-del-tempo-archeologia-del-se 9 – Statuetta marmorea di puer lanternarius: Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano, Roma (I-II sec. d. C.: foto d’archivio; purtroppo, oggi manca il braccio che sostiene il capo del bimbo assopito). Due sculture simili, nell’Altes Museum a Berlino e nel Museo di Antichità della Biblioteca di Alessandria d’Egitto, si rifanno a uno stesso prototipo ellenistico. A fianco, particolare della “Pietra di Bollingen” scolpita da C. G. Jung nel 1950, lato frontale con al centro l’immagine di un piccolo Telesforo portatore di lanterna Copyright pinoblasone@yahoo.com 2011 25